Dall'altra parte. L'odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici 8807170078


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Dall'altra parte. L'odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici
 8807170078

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Prospero Gallinari Linda Santilli

L’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici

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Prospero Gallinari Linda Santilli Dall'altra parte L'odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici

Prefazione di Piera Degli Esposti

Feltrinelli

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione in “Serie Bianca” settembre 1995 ISBN

88-07-17007-8

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Prefazione

Ero in tournée, stavo entrando in teatro, quando mi si avvi-

cina l'amministratore con il telefonino e dice: “Ti hanno chiamato da Lione”. Dopo poco richiamano, ma, con l’infernale apparecchietto, non si sente bene. L'amministratore azzarda: “No, non è da Lione, è uno che si chiama Lionari”. Altro squillo. “Ah no! Non è Lionari, è Gallinari!” “Prospero?” E lui: “Perché, lo conosci?” “No, ma conosco

Renato Curcio. Ho fatto la prefazione di un suo libro e in seguito ci siamo scritti.” Stupore: “Ah, sì?” “Sì, gli piaceva leggere i miei copioni e come costruivo i personaggi,” dico, riportando tutto in ambito teatrale. Risuona il telefonino e questa volta l'amministratore me lo passa perché risponda io, mentre rimane in attesa con uno sguardo indecifrabile. “Pronto?”, dice una voce vagamente familiare forse per via delle vocali larghe, “Sono Prospero Gallinari, non so se ti ricordi, ho fatto parte di...”

“Be’, veramente sì.” “Ecco vorrei chiederti di fare la prefazione a un libro sul quale sto lavorando assieme a una compagna che raccoglie testimonianze di donne che hanno avuto un parente in carcere...” Pausa. Chiedo all’amministratore pensieroso di lasciarmi il telefono per un po’. Chiudo la porta del camerino, continuo la conversazione, prendo un appuntamento, saluto. Guardo l’orologio. C'è ancora tempo per l’inizio dello spettacolo.

Ho una

certa tensione

quasi euforica, che mi

sembra ingiustificata. L'argomento del libro è estremamente drammatico e non sono affatto certa di voler fare la prefazione. In più, non avendo mai avuto rapporti con il carcere, con i

detenuti politici e le loro ideologie, mi troverei a presentare per la seconda volta un libro scritto da loro. Scendo giù in palcoscenico. Non c’è ancora nessuno. È quasi buio tra le quinte.

Mi calmo subito. Quello è il mio posto, dove sto bene e dove ho deciso, tanto tempo fa, di passare buona parte della mia vita. Non credo di averlo deciso per narcisismo, né per denaro, ma. per poter urlare, da lì, le sofferenze che abbiamo dentro, le nostre malattie, le nostre indignazioni. Tutto qua.

La visita al mio “Tempio” è stata breve, ma mi ha fatto bene. Ora so il perché della tensione euforica e credo di avere capito che il mio modo di esprimermi in teatro è legato alle richieste che mi vengono fatte. So anche che farò la prefazione. Forse perché mi è stato chiesto, anche questa volta, pur se in modo diverso, di aiutare a fare uscire delle Voci dai luoghi di pena. E in questo libro quelle Voci, chiuse là dentro, ci dicono, attraverso un Coro di madri, in che modo insostenibile stanno

scontando la loro pena. La condanna che è stata emessa parla di reclusione,

cioè, nonostante

tutto, una condanna

di vita,

non di morte. “Mio figlio

è morto

per una detenzione

inverosimile [...].

Quando lo portarono al centro clinico del carcere di Napoli era ridotto a una larva. Contorto sul letto non parlava, non reagiva a nessuno stimolo, aveva un viso spiritato, era magris-

simo, diceva poche frasi senza senso. Non riusciva a vivere. Avrebbe voluto vivere ma non ci riusciva più per tutto quello che gli avevano fatto.” Ed è contro questa Morte, Interna, Te-

nuta Nascosta, che il Coro di madri è entrato per la prima volta nelle università. “Ma chi era mai entrata entro un'università! Fermavo gli studenti, davo i volantini, parlavo con loro, gli spiegavo che cosa erano le torture [...]. C'eravamo appesi al collo dei cartelloni con scritte di protesta e avevamo esposto dei pannelli con le foto di un ragazzo e di una ragazza torturati in carcere. Si vedevano benissimo le bruciature di sigaretta sul corpo di lui e le ferite che avevano fatto le guardie ai capezzoli della ragazza...”

“La cosà che mi ha fatto impazzire dal dolore è stato quando mi hanno iniettato o poggiato (non riesco a distinguerlo a distanza di tempo) in vagina e nell’ano delle sostanze calde accompagnate da calci, sempre in vagina, come pizzichi, simili a

piccole scosse, lungo la spina dorsale, terminando poi dandomi delle botte alla nuca, questo si è ripetuto più volte. Mi passavano anche come un qualcosa di non ben definito sui peli della pube, tirandomeli. La cosa più dolorosa di tutte è stato quando si sono accaniti sul capezzolo, stringendolo, tirandolo, stritolandomelo...” ..Allora ogni madre parlò. “Andammo addirittura a Roma a bloccare la stampa estera 10

per far sapere al mondo intero dei pestaggi e delle torture nelle carceri italiane...” In questo libro le Voci urlano per farsi sentire, si sovrappongono le une alle altre e se parlo di Madri è perché anche le sorelle, le mogli, e le figlie soprattutto, attraverso queste testi-

monianze, mi sembrano divenute le madri dei loro padri. E forse anche perché ripenso alle madri dei desaparecidos che ho conosciuto quando eravamo a Buenos Aires con Dacia Maraini e che ci portarono a vedere le loro Case dove si riunivano

e dove cucinavano sempre, come se, tornando all’improvviso, quei figli trovassero tutto pronto. E così continuavano a farse-

li vivere. “Cucino la mattina stessa prima di andare al colloquio...” “Per fare entrare le vongole le frullava in modo da renderle confondibili con il sugo e tutte facevamo così.” E il lungo convoglio carico di cibo e di indumenti improfumati sì mette in marcia. “Erano viaggi fatti all’alba o di notte...” “Venivamo da parti diverse dell’Italia...” “Ci incontravamo strada facendo sul treno...” Sono diverse per cultura, classe sociale, alcune di loro so-

no analfabete. “To non sapevo neanche leggere, ho imparato sui treni...” “To non avevo mai preso dei treni da sola...” “Non avevo mai viaggiato...” Quando arrivano a destinazione,

in quei luoghi, sono un

esercito che si prepara alla lotta, che si dà degli ordini. Si dicono: “Non apparire impaurite...” “Farci vedere compatte...” “Opporsi alle visite vaginali...” Si mettono

in opera astuzie: ‘Lei sveniva, nel momento

di

tensione, di scontro anche fisico con le guardie, lei sveniva per

bloccarli, si buttava per terra...” E il Coro sce a farsi capire anche contro il Muro di tanti nella stessa stanza ognuno per farsi oltre il vetro, urlava il più possibile”. Non gli, non sentono la loro voce, e molte volte ché sono stati trasferiti o perché gli viene

urla, gesticola, rieVetro: ‘Eravamo in sentire da chi stava li toccano questi finon li vedono o perimpedito. E quando

li vedono in molti casi sono stati torturati, sono fasciati, gonfi,

ridotti a pezzi. Non hanno ricevuto il cibo che gli hanno fatto avere, o perché viene respinto, o perché viene mangiato dalle guardie, o come “all’Asinara le guardie dentro il cibo ci facevano la pipì”. “Le intimidazioni nei confronti delle donne diventano insopportabili.” 11

Il direttore di quel carcere impedisce i colloqui, arrivando a dire che se vogliono andarli a trovare fin là, devono avere il

brevetto di nuotatore, poiché, lungo il tragitto in mare, da Porto Torres all’Asinara potrebbero affogare, e lui non vuole responsabilità. Loro rispondono facendo quella traversata, anche con un mare in tempesta, salendo su qualsiasi tipo di imbarcazione, pericolosamente stipate le une alle altre, fra cui

“donne anziane che non ce la facevano a stare in piedi”. Quante di queste sorelle, mogli, madri, e figlie di detenuti politici hanno capito la loro scelta? Alcune durante questo cammino. Altre non se lo chiedono. “Seguo il sangue del mio sangue.” Né gli chiedono di pentirsi, nonostante minacce affinché lì convincano a “fare la spia”. Chiedono invece il loro diritto al colloquio. Chiedono di potergli essere vicine, ricevendo all’in-

terno del carcere un trattamento più umano, senza dover sottostare a violenze, non solo psicologiche di ogni tipo, che qui nel libro sono ampiamente illustrate e dettagliate. Chiedono che i loro cari scontino la condanna di reclusione, senza che vi

si aggiungano arbitrariamente altre condanne. E che quando questo non venga rispettato, qualcuno (magistrati, politici, giornalisti), le ascolti e le aiuti. Si chiedono infine “come esse-

re una presenza?” “come far sentire la nostra voce?” Dopo essere state in silenzio, alcune di loro per paura, altre per tradizione, si sono mobilitate, sono uscite dalle loro ca-

se, dai loro paesi, sono presenti ai processi. “Ricordo quando al processo arrivò, dalla Sardegna, la mamma di Màsala con delle sue sorelle, erano vestite di nero e portavano il tradizionale fazzoletto nero in testa.” E rivedo il fazzoletto bianco delle madri di Plaza de Mayo: vennero a teatro quando recitai per la seconda volta a Buenos Aires, erano sedute tutte vicine, e con quel copricapo bianco in testa che è il loro segno di lutto tutti le riconoscevano, e le ammiravano. Come avevano fatto — in un regime militare così ferreo — a farsi sentire in tutto il mondo? Quanto tempo ci era voluto prima che quei loro figli desaparecidos ci fossero drammaticamente noti? Spero che le Voci che escono dalle testimonianze di questo libro suscitino l’indignazione e l’interesse che devono e anche il nostro esercito di madri ci divenga caro e familiare. Piera Degli Esposti

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Introduzione

Uno spiazzo largo, ghiaioso, pieno di tavoli, sedie. Un giardinetto, una fontana al centro, alcuni ombrelloni.

Un centinaio di persone sparse a grappoli sotto un sole accecante: chi sta seduto sull’erba, chi passeggia a braccetto, bambini che saltellano allegramente, fanno chiasso, un po’ di musica.

Potrebbe quasi sembrare una vasca in un giorno di festa o una fiera estiva nella piazzetta del paese. Molte donne, alcuni bambini, pochi uomini che non siano i carcerati stessi. No, non è una piazza e non è neppure una fiera, è solo l’in-

terno di un carcere. “Area verde”, così viene definita nel linguaggio per addetti, anche se il colore che domina, nonostante lo sforzo di chi ha allestito la coreografia per l’evento, resta il grigio prepotente della muraglia di Rebibbia che circonda il tutto. I presenti sono prigionieri che stanno per poche ore assieme ai loro familiari: un tavolo imbandito, bevande analcoliche, alcuni dolci e tanti ricordi.

Ricordi di donne che si ritrovano sedute attorno a quel tavolo; si sono frequentate, perse, ritrovate negli anni trascorsi

mentre seguivano i loro figli, fratelli, mariti, o i loro compagni in giro per le carceri d’Italia. Alcune erano ragazze quando lo hanno cominciato a fare. Altre, madri di una certa età già a

quei tempi, era il 1972, 1979, 1980, e anche per loro il tempo è trascorso. Alcune sono emozionate; è un carcere, non c’è dub-

bio, e questo già lo conoscono bene, ma è anche uno spazio all’aperto differente dalle gabbiette e dai vetri blindati a cui per troppo tempo sono state costrette. Uno spazio nel quale per la

prima volta, dopo una quantità enorme di anni, quando era 13

già molto il riuscire a toccarsi le mani, riescono finalmente ad abbracciare per intero la persona cara. Rivedersi lì stimola il bisogno di parlare, di riosservarsi in-sieme e, seppur senza volerlo, di trarre un bilancio del proprio vissuto.

Un vissuto trascorso a seguire quella persona cara, non risparmiando nulla di se stesse, misurandosi con tante difficoltà per un tempo senza fine. E nel caso della carcerazione politica i tempi si dilatano a dismisura fino a divenire irreali: cento, duecento, cinquecento anni. Una, due, cinque vite.

“L'ho seguito dal primo giorno senza fare domande, come una madre segue il sangue del suo sangue.” Di certo lo slancio iniziale che ha portato tutte a misurarsi con il mondo del carcere è stato uno slancio affettivo molto forte, semplice, cioè privo di tentennamenti e di domande. All’inizio del viaggio loro sono lì e basta, non potrebbe essere altrimenti. Con il cuore, senza domande, appunto. Ma questo che intraprendono è un viaggio molto particolare, di cui non conoscono gli esiti, né gli incontri, né tutte le disavventure dei suoi percorsi, né quanto durerà. Un viaggio dentro lo spaccato delle lotte politiche e della repressione degli anni settanta, ottanta.

Il viaggio comincia dall’arresto, da quel giorno in cui il solito telegiornale pronuncia il nome del figlio o della figlia o del marito con tanto di foto segnaletiche. Il mostro in prima pagina! Il telegiornale, o il campanello della porta, o un mitra spia-

nato con spintonata e la casa sottosopra, l’effetto è lo stesso. È stato un errore! Che si fa in questi casi? Si va in un carcere qualsiasi? Si va alla questura più vicina? Si telefona a qualche avvocato? Qual è la meta? Con la disperazione, partono.

Da luoghi assai diversi e da abitudini di vita altrettanto diverse, operaie o donne di famiglia, acculturate o analfabete, si incontrano. Si incontrano sui treni, ed è proprio sui treni, nei lunghi tragitti che attraversano l’Italia, da Cuneo a Nuoro a Pianosa, a Voghera a Trani all’Asinara, che incomincia l’intreccio di re-

lazioni tra queste donne, una trasmissione di esperienze e di forza che riescono a scambiarsi con i loro linguaggi tanto diversi.

Il filo della memoria va avanti e indietro. Sono anni e sono luoghi, gli stessi presenti in ognuna di loro, attraverso il periodo duro delle carceri speciali, dell'articolo 90, delle perquisi-

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zioni vaginali, dei colloqui con i vetri che impedivano ogni contatto fisico, delle denunce subite. : Dentro questo “mamma Clara” scopre il mondo;

lei, una

donna anziana che era vissuta sempre tra pentole e fornelli, ad accudire figli e marito, che non conosceva altro, esce per la prima volta di casa. Si trova a organizzare volantinaggi e sit-in contro la tortura, entra in una università, parla agli studenti di quello che i suoi occhi stanno vedendo, segue telegiornali, prepara le rassegne stampa, affronta giudici, guardie, e tutto il mondo che ruota attorno alle violenze delle istituzioni statali. Anche Maria, che diventa una figura di riferimento per tutte le altre, non è spettatrice passiva dello scontro in atto nella società di quegli anni. Partendo dall'esperienza di una repressione subita per il solo fatto di essere madre di un detenuto politico, impara a leggere e a scrivere. Con le sue forze e sostenuta dalle altre donne, si appropria di tutti quegli strumenti di conoscenza politica e culturale per difendersi da sola, per non dipendere da nessuno. “Ero cresciuta nel sud, educata in una famiglia cattolica dove la donna portava il fazzoletto nero in testa e faticava in silenzio. [...] Ero analfabeta, ho imparato da sola dopo che

lo hanno arrestato perché ho dovuto capire quello che dicevano i giornali... Non ho solo imparato a leggere e a scrivere, a uscire di casa, a conoscere tantissime donne, ma ho imparato

a non accettare più le imposizioni di mio marito che mi voleva in casa. [...] Non ero più la donna di una volta, non servivo più, avevo altre cose, e iniziai a ribellarmi. A fare cose che non ave-

vo fatte mai. A capire.” Il ruolo assegnatole dal padre, dal marito, e da tutta una mentalità patriarcale viene messo in discussione nel momento in cui non accetta più ordini da nessuno, vuole essere libera di stare fuori casa, di parlare in una assemblea, di dormire dentro un sacco a pelo. Lei insieme a tante altre entrano in questa sorta di labirin-

to sconosciuto che è costituito non solo dal carcere e da ciò che vi ruota intorno, ma soprattutto dalla natura politica della detenzione dei loro cari, labirinto nel quale la percezione che avevano avuto fino a quel momento degli avvenimenti, del

contesto in cui vivevano, dello stato, muta, come mutano i rapporti, le opinioni, lo sguardo sul mondo. Ed è proprio attorno a questo universo chiuso, caratteriz-

zato dall’assoluta assenza di libertà, che tante donne riescono a costruire un percorso autonomo ricchissimo di esperienze reali, concrete, quotidiane, trasformando le singole vicende 15

individuali in una esperienza collettiva, sviluppando di fatto una pratica di libertà femminile. Un filo solido e resistente le unisce: è il linguaggio di una solidarietà tra donne che per molte significa presa di coscienza di sé, della condizione soggettiva vissuta nella società e nella famiglia. Se all’inizio c'era solo il cuore, l’istintività del sentimento, nel corso del viaggio incominciano le domande, la ricerca di

risposte al perché sono lì dal primo giorno: “Tra di noi abbiamo riflettuto [...] sul perché le donne si mettono di fronte alle

grosse sfide della vita senza tirarsi indietro. Abbiamo dedotto che siamo più forti degli uomini, ce lo siamo detto anche chiaramente, perché nei nostri viaggi così lunghi ci portavamo dietro la bottiglietta del caffè, un po’ di vino, si metteva insieme tutto quello che portavamo, e aveva-

mo tempo, si parlava: ‘Ragazze, vi rendete conto che davanti ai carceri siamo solo donne? O qui son tutti orfani di padre e di fratelli, [...] oppure questi uomini non ci sono, non accettano, non vengono, non se la sentono”.

A tante domande ognuna trova la propria risposta, tante altre restano aperte. Aperte restano le contraddizioni di chi, giovanissima, dopo l'arresto del padre si trova a vivere un’età superiore alla sua, tra adulti, senza poter confrontare o addirittura vivere i problemi che vivono normalmente le adolescenti: ‘Quando uscivo [da scuola] correvo di corsa a casa per fare i compiti, appena finivo andavo al comitato dei familiari, un giorno a settimana c'era il comitato di quartiere, incontravo compagni tanto più grandi. È stato giusto tutto questo per me?”.

Dentro questo percorso faticoso c'è il bisogno di misurarsi con scelte riuove, con la necessità imposta di imparare a cono-

scere non.solo una realtà traumatica che impone tempi, che regola la manifestazione dei sentimenti, che misura movimenti e parole, ma c’è anche la necessità di ri/conoscersi, o di cono-

scersi per la prima volta a partire da un contesto che non è stato da loro determinato neanche in minima parte, ma nel quale si disegnano una strada propria. Fuori dall'anonimato familiare infatti, incominciano dei percorsi che si intrecciano tra loro di mobilitazione e di lotta,

che si incontrano attraverso la formazione di associazioni in tutta Italia di svariati comitati di familiari di detenuti con un obiettivo di denuncia rispetto alla prigionia politica. Esperienza questa, prepotentemente criminalizzata e repressa, o, 16

peggio, spesso annullata nella categoria dell’affetto, del “dovere” filiale e amorevole della donna in quanto madre. Di fronte alle carceri, dopo i pestaggi ripetuti e le rivolte, queste donne diventano protagoniste di veri e propri scontri con la polizia. Esporsi significava perdere il lavoro, essere pedinate, convivere quotidianamente con i controlli spregiudicati della Digos e dei carabinieri, spesso motivati solo da finalità intimidatorie. Il conflitto si espande a macchia d'olio. Si trovano dall’altra parte del muro, del vetro, della gabbia, e poi del giudice, della guardia, delle istituzioni, e poi del marito, del prete, della casa.

Questa loro esperienza fa paura. Fa paura nel pubblico e fa paura nel privato. Un percorso assai più articolato, di presa di coscienza e di trasformazione di se stesse si mette inevitabilmente in moto facendo esplodere conflitti anche nella sfera privata. Molte rompono con quella dimensione familiaristica, ‘[...] da orticello familiare [...]. Sapevo che dovevo voler bene solo a mio marito, alla famiglia dove avrei vissuto, voler bene ai fi-

gli, accudirli, dargli tutto quello che era possibile dargli; e così basta, essere onesta, essere disponibile con chi aveva biso-

gno, se questo non urtava gli interessi della famiglia. Invece io la mia disponibilità l’ho sperimentata con più gioia in un ambito tutto mio, indipendente, di affetti miei. [...]

la solidarietà nei confronti anche di estranei l’ho imparata in questa situazione, in questo frangente collettivo”. Nessuna si limita a seguire esclusivamente la persona cara, al contrario arriva un momento in cui chiunque subisca un

pestaggio, detenuto o detenuta che sia, figlio, marito o perfetto sconosciuto, diviene un problema su cui intervenire, un fat-

to da denunciare. “Non era più il fratello che io andavo a trovare, erano tanti

fratelli, erano compagni che è qualcosa di più, che ha un senso diverso. Era una lotta nostra ormai.” Una lotta che ognuna ha portato avanti facendo affidamento solo sulle altre donne, e mettendo in campo tutto il proprio inventario di esperienza, di affetto e di ironia. Nell’incontro queste donne portano le loro diversità generazionali oltre che la specificità della natura dell’affetto che le lega alla persona reclusa. Queste diversità danno, di uno stesso evento o del medesimo luogo, angolature particolari. L'as‘senza del contatto fisico dovuta alla presenza del vetro nei col-

loqui viene vissuta diversamente da una madre e da una mo17

glie o compagna di vita. Così come è differente l’esperienza di vivere una relazione filtrata dal carcere da parte di chi vi è stata precedentemente reclusa. Diverso è il rapporto filiale da. quello amicale o “di sorellanza” tra due donne: diverse sono le lettere, le attese, le domande, i silenzi. La ragione che ci ha fatto scegliere di raccogliere queste testimonianze è nata dal desiderio di fare uscire dall'anonimato, quindi di trasmettere, un bagaglio di esperienze di vita e di valorì femminili così forti. Ogni racconto è in qualche modo un pezzo per ricomporre la memoria di quel periodo storico nel quale queste donne hanno vissuto non da spettatrici. Il percorso dei racconti infatti unisce tra loro situazioni ed esperienze di vita soggettive ad avvenimenti, lotte, scontri sociali e politici che hanno caratterizzato fortemente gli anni settanta e l’inizio degli annì ottanta, con tutto ciò che quel periodo ha signiticato in generale per il nostro paese. Avvenimenti dì cui sì sono perse le tracce e che le nuove generazioni non conoscono affatto. Certamente le storie che abbiamo raccolto non sono sufficienti a ricostruire in modo approfondito quella realtà storico politica, obiettivo che d'altra parte non è di questo nostro lavoro. Abbiamo però utilizzato le note cercando in qualche modo dì chiarire alcunì degli avvenimenti e dei contesti a cui si fa di volta in volta riferimento. Abbiamo scelto di non specificare il nome e il cognome delle singole donne, a meno che questi non vengano citati nelle testimonianze stesse, perché se è vero che ogni donna racconta

la sua esperienza personale, è altrettanto vero che esse testimoniano di un vissuto in quegli anni comune a moltissime altre. Sono centinaia le donne che hanno parlato lo stesso linguaggio, subîto le medesime violenze, fatto lo stesso viaggio. Gli Autori Roma, 2 febbraio 1995

Mi

ES

Non avevo mai visto un carcere in vita mia...

...«Ce ne hanno fatte di tutti i colori! Sono entrati a casa con i mitra. Mi hanno dato una spinta e mi hanno mandata per terra. Ho aperto la porta, credevo che era mia figlia. Sono entrati tanti poliziotti alti grossi e mi hanno detto: “Seduta, stia buona”. Quando l’hanno preso io non sapevo nulla. Non sapevo che stava nella politica fino a quel punto. Noi non siamo mai stati comunisti,

né io né mio marito.

Dentro questa casa non si era mai parlato di politica, sarà perché noi abbiamo subìto il fascismo, e la politica ci aveva nau-

seato. Ho scoperto che Bruno faceva politica casualmente, parlo di venticinque anni fa. Allora il sabato sera c’era il mercato rionale all’aperto, andai a fare la spesa. C’era una marea di gente che manifestava, e Bruno era alla testa del corteo. Quando rientri a casa mi ti mangio, pensai! Lui aveva sedici anni. Quella sera quando rientrò a casa l’ho menato io, gli ha menato il padre e il fratello più grande. Non volevamo che stava in mezzo a certe cose, poi noi non eravamo comunisti, non eravamo di niente.

A dire il vero io del comunismo non è che avevo paura, era solo che non volevo che si impicciasse di politica. Ecco come ho saputo che era comunista mio figlio. Poi una signora che abitava di fronte a casa, che lo aveva visto nascere, mi disse: “...a Cla’, lo sai dove l’ho visto tuo figlio? a occupare le

case per la povera gente”. Aiutava i poveracci così.

Lavorava, non aveva voluto studiare.

Da bambino diceva che facevamo troppi sacrifici, che aspettavamo sempre la mesata con l’acqua alla gola. “Ma noi abbiamo vissuto sempre così, figlio mio!” gli rispondevo, “questa è la vita nostra. Chi è signore è signore, i poveracci sono sempre poveracci. Noi abbiamo tirato avanti onestamente, vi ho fatto grandi; ho sposato tuo fratello e quell’altro edè già tanto”. È vero, ogni volta che ci chiedeva qualcosa noi non potevamo permettercela. Aveva dieci anni e mi chiese la bicicletta, come quella che il signor Mario - un vicino di casa - aveva comprato al figlio, ma come potevamo con il solo stipendio di mio marito? Dovevamo camparci in sei, noi due e i nostri quattro figli. Ogni volta che gli regalavamo qualcosa dovevamo fare tanti sacrifici, e Bruno ne soffriva. Come è arrivato a fare certe scelte estreme non lo so e non

l'ho mai saputo. Io penso che se non eravamo venuti a vivere qui a Centocelle che è un quartiere popolare dove vive molta gente che deve tirare la cinghia, Bruno non sarebbe mai entrato nelle Brigate Rosse, perché da Piazza Navona, dove abitavamo trent'anni fa, non è uscito nessun brigatista, qui invece ne sono usciti tanti,

qui c’era proprio il “covo”.

Dopo l’episodio del corteo mi aveva detto che non avrebbe più partecipato a iniziative politiche, e io ci credetti. Rientrava presto a casa, cenavamo insieme, andava a letto subito dopo. Verso i ventisette anni mi fece conoscere Laura. Laura era una ragazzina simpatica, era sola, non aveva i ge-

nitori e io in un certo senso l’adottai. Mi piaceva e loro due si volevano bene: Bruno decise di andare a vivere con lei. Mi disse che non se la sentiva più di stare a casa nostra; in effetti

fratelli

si erano sposati e lui ora doveva dormire con la sorella, mentre prima almeno dormivano tutti e quattro nella stessa stanza. Io ero preoccupata solo della sua felicità perciò non mi opposi. Ero tranquilla, lo sentivo e lo vedevo spesso. La domenica venivano a pranzo. Dopo un po’ non l’ho visto più. Ho rivisto mio figlio al carcere di Napoli, aveva trent'anni.

La mattina stessa in cui l'hanno preso a Napoli, iv l'ho saputo dalle guardie. 20

Era il 19 maggio dell’80. Alle nove di mattina hanno bussato alla porta, sono entrati con una tale violenza che mi hanno sbattuta per terra. Mio marito non capì subito quello che era successo perché stava fuori al balcone. Perquisirono tutta la casa fino a mezzanotte. Non era la prima volta che venivano. Le guardie già erano venute durante il sequestro Moro in cerca di mio figlio. Non capivo il perché allora; loro mi spiegarono che quando uno va alle manifestazioni viene segnalato in questura come sovversivo. Già da lì iniziano a controllarli in un modo particolare. Dopo quell'episodio capii che Bruno aveva continuato e continuava a fare politica, ma non che era un brigatista.

In quel periodo lui era clandestino. Non sapevo nulla di questo e neppure che da tanto tempo degli agenti in borghese mi seguivano. Solo dopo l’avvenuto arresto, la gente del palazzo mi disse che avevano notato dei signori ben vestiti che in continuazione chiedevano dove abitava Seghetti. Bloccarono tutti gli ingressi del palazzo. C'erano guardie nel cortile, su ogni pianerottolo, dappertutto. È stato terribile, è stato un colpo. Io ero fuori di me comple-

tamente. Quando sono entrate le guardie non ho reagito, non avevo forza, non riuscivo a dire niente. La sera mia figlia coprì la televisione per non farmi vedere

le immagini di Bruno al telegiornale. Quando le guardie mi hanno detto che lo avevano arrestato io non capivo, non immaginavo nulla di quello che poi è stato, né pensavo alle Brigate Rosse, anzi a mala pena sapevo chi fossero perché mio marito mi diceva di non leggere i giornali, i giornali fanno venire solo il sangue amaro, diceva.

Mio marito e i figli partirono subito per Napoli. Bruno stava in ospedale perché quando lo arrestarono fu ferito con tre pallottole. Non andai conloro, non volevano che lo vedessi ferito.

Sono restata sola. Non avevo mai visto un carcere in vita mia, né ci avevo mai

pensato. Non sapevo neppure come era. Trenta anni fa sentivo dire che stavano costruendo Rebibbia, ma non sapevo neanche che era un carcere.! ! Casa Circondariale dotata di reparti maschile e femminile. Vi si trovano sezioni di “massima sicurezza” nelle quali furono ristretti i detenuti politici nel corso dello svolgimento dei processi celebrati a loro carico presso il tribu‘© nale di Roma. Accanto al carcere è stata costruita un’‘aula bunker” nella quale si sono svolti diversi dei procedimenti per lotta armata. 21

Dopo una settimana, quando lo trasferirono lo andai a trovare a Napoli. Siamo stati abbracciati tutto il tempo, non gli chiesi nulla, non potevo chiedergli niente. Gli dissi solo queste parole: “’Sta cosa me la potevi evitare figlio mio”. Lui non ha detto niente, io non ho più parlato. Quando lo vidi là dentro non ho pensato a nulla, non potevo pensare, che cosa avrei dovuto pensare? Piangevo e basta. Per me contava solo che era vivo.

Dopo un bel po’ di tempo, quando era iniziato il pentitismo, gli dissi questo: “Prima di fare la spia impiccati, sarebbe la cosa più giusta”. Il primo incontro con il carcere è stato traumatico. Il carcere di Napoli è vecchio, orribile. C'erano un'infinità di cancelli di ferro che mi si chiudevano alle spalle lungo un corridoio buio che portava al sotterraneo. Lì mi hanno spogliata completamente, mi hanno fatto togliere perfino il reggiseno e le mutande. Io piangevo, mentre mi spogliavo piangevo. Mi sono rivestita, la guardiana mi accompagnò e finalmente l'ho visto. Ma questo assaggio del carcere prima di incontrare mio figlio, mi condizionò per tutta la giornata, per tutto il tragitto di ritorno. Quel giorno cominciarono i viaggi. Non sono riuscita ad aprire bocca per tutto il viaggio di ritorno. Quel giorno erano cominciate pure le umiliazioni. Dopo un paio di settimane Bruno fu trasferito a Palmi.? I soldi erano pochi così facemmo a meno di tante cose per seguirlo da un trasferimento all’altro. Quando poi. i fratelli hanno cominciato a guadagnare un po’ di più ci aiutarono. ? “Carceri di massima sicurezza” vennero messi in funzione nel luglio 1977 in esecuzione di un decreto interministeriale firmato dai ministri Bonifacio, Lattanzio e Cossiga. Operazione che venne affidata per la sua attuazione e per il controllo successivo dall'esterno all'arma dei carabinieri comandati dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Palmi, isola dell'Asinara, isola di Pianosa, della Favignana, Nuoro - Badu ’e Carros, Fossombrone, Trani, Cuneo, Novara, Ascoli Piceno ecc, per il maschile; Messina, Voghera, Latina ecc, alcune delle più note carceri nelle quali furono ristretti i detenuti politici e quei detenuti “comuni” che si erano messi in mostra nel corso di lotte o evasioni. Vennero assieme a queste aperte “sezioni speciali” nelle varie carceri d’Italia (Napoli, Roma, Genova, Milano, Torino...) per restringervi i detenuti provenienti da questo circuito nei periodi nei quali venivano a loro carico svolti processi in quelle città. 22

Non abbiamo mai parlato di politica, non ho mai chiesto a mio figlio di darmi spiegazioni sulle sue scelte, io ho capito che continuerà sempre a fare politica anche se in modo diverso. L'ho sempre rispettato, ho rispettato le sue idee pur pensandola diversamente. In fondo è lui che sta pagando, noi sia-

mo liberi, Bruno è in carcere da quattordici anni.

Le persone che ho avuto più vicino sono stati i parenti di Laura.

Degli altri amici di mio figlio non conoscevo ancora nessuno, ma con l’andare del tempo tra noi familiari si è sviluppata una solidarietà molto forte. Stavamo spesso insieme, e ancora oggi ci teniamo in contatto.

Ma allora era tutta un’altra cosa, erano tempi diversi e noi

eravamo preoccupate. Allora ci organizzammo, era all'incirca

l’80. Cd Creammo un'associazione di familiari dei detenuti.3 Ci in-

contravamo moglie di un mo dei soldi vano pagarsi

ogni giovedì in una sede che affittò Gabriella, la compagno anch'esso in carcere. Spesso lasciavaper quelli che non avevano niente e che non potele spese dei viaggi.

* Diverse sono le Associazioni e i Comitati che i familiari dei detenuti politici creeranno in quegli anni nelle varie città d’Italia per mettersi in grado di affrontare in forma collettiva le condizioni durissime nelle quali venivano a trovarsi sia loro, che i congiunti in carcere. “La necessità di organizzarci è na-

ta dai continui disagi che ogni giorno incontriamo (colloquio con i vetri, lontananza dai nostri cari, blocco della corrispondenza ecc). È nata inoltre, dalla

constatazione che all’interno dei carceri, e specialmente dei carceri speciali, la situazione per i detenuti si sta facendo sempre più insostenibile (isolamento in cubicoli, ore d’aria limitate, socialità interna ridotta)”. (Dal comunicato

stampa divulgato in occasione della fondazione del “Comitato familiari proletari prigionieri”, Roma - maggio 1981). Questi Comitati oltre a essere organi-

smi di solidarietà tra i familiari, diverranno man mano punti importantissimi di denuncia, di lotta, e mobilitazione contro le carceri speciali, la applicazione dell'art. 90, la segregazione dei detenuti nei “braccetti”, i pestaggi effettuati contro di loro ecc. La volontà di impedirne ogni attività sarà costante da parte dei diversi apparati repressivi dello stato, anche attraverso la criminalizzazione delle persone che ne fanno parte. “Mercoledì 6 si terrà presso il palazzo

di giustizia di Milano Corte di Assise di Appello, primo piano, il processo contro le compagne Rossella Simone, Heidi Ruth Peush per decidere per l’applicazione della misura di sicurezza consistente nel confino. I luoghi di destinazione scelti dalla Digos sono Troina e Agira in provincia di Enna. Per la compagna Heidi l'accusa principale è quella di continuare a frequentare Piero Morlacchi, che guarda caso non è altri che suo marito; [...]. Altra accusa, rilevante per la Digos, è quella di frequentare presunti brigatisti. È noto che le compagne fanno parte dell’associazione familiari detenuti comunisti, ed è evidentemente questo tipo di attività democratica che si è voluto colpire.” (Da Moglie, cioè fiancheggiatrice. Al confino!, “Lotta Continua”, 6 settembre 1978).

23

Questo è andato avanti per diversi anni, fino alla fine del “processo Moro”. Con il pentitismo poi e con le divisioni tra i detenuti la nostra organizzazione andò pian piano morendo. Allora eravamo uniti, oggi lo siamo molto meno.

Organizzammo diverse manifestazioni, al cinema di Garbatella e all'università. Protestavamo contro le torture che subivano i nostri figli in carcere. Eravamo quasi tutte persone anziane, io, mio mari-

to, la mamma

di Francone, il papà di Mara, e tanti altri. Ricor-

do le giornate intere di volantinaggio alla Sapienza. Una facoltà di Roma. E chi c’era mai entrata dentro una università! C’eravamo appesi al collo dei cartelloni con scritte di protesta e avevamo esposto dei pannelli con le foto di un ragazzo e di una ragazza torturati in carcere. Si vedevano benissimo le bruciature di sigaretta sul corpo di lui e le ferite che avevano fatto le guardie ai capezzoli della ragazza. Gli studenti che passavano guardavano senza commentare, ma si capiva che erano colpiti perché non pensavano che in Italia succedevano certe cose. Molti ragazzi li torturavano facendogli ingoiare acqua e sale per farli parlare. Quando li catturavano li portavano in posti isolati, in case sconosciute e lì li picchiavano. Quelli presi a

Roma arrivarono in ospedale che erano a pezzi. Allora le torture ai detenuti politici erano una cosa frequente, anche se i telegiornali non ne parlavano.*

4A Padova a seguito della “operazione Dozier” vennero spiccati mandati di cattura contro agenti di polizia che avevano partecipato alle indagini con l'accusa: “[...] Per aver in concorso fra loro e con altri con più azioni esecutive

di un medesimo disegno criminoso mediante violenza, consistita in percosse in diverse parti del corpo, e minaccia, consistita nell’esplosione di un colpo di arma da fuocoe successivamente mediante violenza, consistita nel legarlo su un tavolo, sul quale era stato steso, facendogli inghiottire del sale grosso, di cui gli era stata riempita la bocca e permanendo lo stato di costrizione sul tavolo, venendogli inoltre impedito di respirare con il naso, facendogli ingoiare

una grande quantità d’acqua che veniva in continuazione versata nella sua bocca, compiuti atti idonei in modo non equivoco a costringere Di Lenardo Cesare a rendere dichiarazioni sui reati da lui commessi, senza però che tale

evento si verificasse.” (Ordinanza di arresto emessa dal tribunale di Padova nei confronti di alcuni agenti che diressero le indagini, da: AA.vv., Il proleta-

riato non si è pentito, p. 144 Giuseppe May Editore, Milano 1984). Il processo di primo grado si concluderà con la condanna degli indagati. “Concluso a Padova il processo per le sevizie ai terroristi che rapirono il generale Dozier. CONDANNATI GLI AGENTI DEI Nocs. Inflitte pene inferiori a quelle richiesta dal Pm e concessa la condizionale.” (‘Corriere della Sera”, 16 luglio 1983). Ridotte in appello le condanne verranno cancellate in Cassazione. Denunce alla magi-

24

Questo soprattutto quando liberarono Dozier, tanti ragazzi

in quella occasione furono torturati a sangue.5 Andammo a diffondere comunicati stampa al ‘Messaggero” e al “manifesto”, andammo pure al Campidoglio.

90.

di periodo peggiore in carcere è stato quello dell’articolo

stratura e ai mezzi di informazione su sevizie e torture subite al momento dell'arresto ne vennero inoltrate in quegli anni a decine da persone accusate di

aver praticato o fiancheggiato la lotta armata di sinistra. Da una lettera inviata all'avvocato da Paola Maturi nel febbraio 1982: ‘Caro avvocato [...]. Sono stata arrestata il primo febbraio 1982 all'ora di pranzo, circa le 14-14,30 sul

posto di lavoro [...]. Mi trovavo in assemblea [...]. Il fatto più importante di cui vorrei metterla a conoscenza è ciò che mi è successo la notte tra il 3 e 4 febbraio. Mi trovavo in cella di massima sicurezza, sempre in questura [...]. Mi hanno ordinato di alzarmi, mi hanno legato le mani dietro la schiena, bendata

incappucciata. Così conciata, dove ad ogni mio cedimento mi tiravano su per i capelli, mi hanno introdotta in pulmino. [...] Mi hanno comunicato di essere in

stato di illegalità, ero insomma sequestrata, o dicevo dove avevo curato Alimonti o trovavano un cadavere: il mio appunto. Siamo partiti e da subito sono iniziate le prime torture: mi hanno tolti gli indumenti superiori lasciandomi a torso nudo, e hanno iniziato a darmi botte sui fianchi, pugni allo stomaco e al-

le cosce iniziando a palparmi e tirarmi il seno ed il capezzolo. [...] La cosa che

mi ha fatto impazzire dal dolore è stato quando mi hanno iniettato o poggiato (non riesco a distinguerlo a distanza di tempo) in vagina e nell’ano delie sostanze calde accompagnate da calci, sempre in vagina, come pizzichi, simili a piccole scosse, lungo la spina dorsale, terminando poi dandomi delle botte alla nuca, questo si è ripetuto più volte. Mi passavano anche come un qualcosa di non ben definito sui peli della pube, tirandomeli. La cosa più dolorosa di tutte è stato quando si sono accaniti sul capezzolo, stringendolo, tirandolo, stritolandomelo. Un dolore da impazzire [...]" (AA.vv., op. cit., p. 169). 5 James

L. Dozier, generale americano della Nato sequestrato a Verona

dalle Brigate Rosse il 17 dicembre 1981, liberato dai Nocs con irruzione in una casa di Pidmonte a Padova dove era rinchiuso. Irruzione avvenuta il 29 gennaio 1982 a seguito di confessioni susseguenti di Galati e Volinia, persone coinvolte nell'operazione e fermate dalle forze di polizia che stavano conducendo l’inchiesta. 6 L'applicazione dell’art. 90 della legge sull'ordinamento penitenziario riforma n° 354 del 26.7.1975 - è avvenuta in diverse carceri, a partire dal 1980. Applicazione attuata con una certa “gradualità”. Prima una sezione di massimo isolamento sperimentale nel carcere di Foggia, nella quale venivano trasferiti coloro ai quali il 90 veniva applicato ad personam per un periodo di uno o due mesi. Successivamente applicato per alcuni mesi a intere carceri come Fossombrone e all’isola di Pianosa... per poi divenire il provvedimento costante in tutte le carceri a “maggior indice di sicurezza”. Conosciute abitualmente come carceri speciali. Dal testo ufficiale del provvedimento: Decreto Ministeriale 22.12.1982. “Ritenuto che nelle sezioni a maggior indice di sicurezza, degli istituti penitenziari di Cuneo, Fossombrone, Novara,

Ascoli Piceno, Pianosa,

Trani, Palmi, Nuoro,

Milano, Torino, Genova,

Firenze, Roma-Re-

bibbia - nuovo complesso, Napoli, Messina (sezione femminile), Roma-Rebibbia (sezione femminile speciale) sono ristretti soggetti ad elevato indice di pericolosità [...] decreta: dal 1 gennaio 1983 e sino al 30 aprile 1983 è sospesa [...]

l'applicazione dei seguenti istituti e regole di trattamento...” (AA.vv., op. cit., 25

Non potevo portargli cibo né niente, solo poca biancheria intima.

I colloqui si facevano con un vetro che ci separava. Parlavamo a distanza e non si riusciva a sentire bene la vo- ce, così mi aiutavo con i gesti. Quando eravamo in tanti nella stessa stanza non si capiva niente perché ognuno per farsi sentire da chi stava oltre il vetro urlava il più possibile. Per due anni non l’abbiamo toccati i nostri figli. È stato un tempo terribile, che non finiva mai. È stato il tempo del “processo Moro”. Ovunque, anche per strada, ci sentivamo controllati, pressati. Si respirava una brutta aria. In carcere erano ore e ore di attesa. Ci buttavano come le bestie dentro una stanza, dalle nove di mattino fino all’una, al-

le due, in attesa di poter fare un colloquio. Tutte noi venivamo da parti diverse dell’Italia e avevamo viaggiato tutta la notte. Penso che lo facevano apposta, per cattiveria, per punire anche noi familiari. Perché non ce li facevano toccare con le mani, neanche una

carezza e questo non poteva avere senso. Non potevamo portare neanche un biscotto.

È durato cinque anni. Mi ricordo che io e la sorella di Salvatore decidemmo di tentare lo stesso, di portargli un pacco. A Cuneo erano rigidissimi, ma noi facemmo finta di non sapere che non poteva entrare niente. A Cuneo quel giorno eravamo solo noi.

Pensammo, se proprio non lo fanno passare, il cibo, erano i carciofi con le animelle, ce lo mangiamo noi.

E infatti fu proprio così: lasciammo i pacchi sotto lo sportello dove si consegnavano i documenti ed entrammo a fare il colloquio. All'uscita ritrovammo il pacco là. Le guardie ci ripetevano che.con l’articolo 90 non poteva entrare niente. Mangiammo quel cibo sul treno. Facemmo tante denunce, tanti reclami contro l’articolo 90,

pp. 264-265). Il provvedimento verrà reiterato volta per volta per anni e consi-

sterà per i detenuti nella limitazione della corrispondenza e nella totale proibizione che essa avvenisse tra prigionieri, anche se parenti; concessione di

un'ora d’aria giornaliera, poi portata a due da trascorrere in piccoli gruppi; la

limitazione e in molti casi — a discrezione della direzione dell’istituto — la proibizione di ricevere libri e riviste; la proibizione di ricevere indumenti personali che non fossero quelli intimi; in diverse carceri la proibizione a cucinare da parte dei detenuti; in tutte, il divieto assoluto di effettuare colloqui senza vetri divisori con i propri familiari. 26

contro la tortura, ma allora la magistratura era dalla parte del governo. Occupammo anche la sede a Roma della stampa internazionale.’ Tutte le leggi d'emergenza che ha fatto Cossiga, i magistrati le hanno applicate senza battere ciglio, alla lettera. Se un carabiniere ti ammazzava era condannato, per esempio, a quindici anni di carcere, e non se li faceva neppure; se un carabiniere veniva ammazzato per motivi politici, gli anni

diventavano il triplo. Solo per gli affari suoi allora, solo per regalare ergastoli, lo stato riconosceva che mio figlio era un politico. Nei viaggi il più delle volte si partiva insieme ad altre madri e mogli. Capitava di andare in macchina da Roma o di incontrarsi strada facendo sul treno. Tante volte sono partita da sola, ho viaggiato di notte per arrivare al mattino in tempo per il colloquio. Se riuscivo a prendere le varie coincidenze ripartivo subito e rientravo la notte a Roma, praticamente viaggiavo in una

giornata venti ore, l’intera giornata escluse le ore del colloquio. Era massacrante. Soldi per fermarsi la notte o per mangiare a una trattoria o a un bar non ce n’erano. Ogni tanto ho trovato ospitalità a casa di familiari di ragazzi detenuti.

A Torino mi sono fermata spesso a casa di Adriana

Ponti. Era una grande dimostrazione di solidarietà e di af-

fetto. Le spese del viaggio erano ogni volta un grande sacrificio per noi.

Ma penso che oltre ai problemi economici, se non mi trattenevo, se non me la prendevo con calma, questo dipendeva pure dal fatto che non avevo lo stato d’animo adatto per farlo. Il ritorno era sempre troppo triste. ? “La sala stampa estera di via della Mercede è stata occupata ieri mattina da alcune centinaia di persone che fanno capo al ‘Coordinamento nazionale dei comitati dei familiari contro la repressione’ ovvero i parenti di molti degli arrestati per fatti di terrorismo negli ultimi anni (circa 4000). L'occupazione

si è resa necessaria secondo quello che i familiari hanno dichiarato nel corso di una conferenza stampa svoltasi nel pomeriggio, perché sui problemi delle ristrettezze cui sono sottoposti i detenuti nelle carceri c’è stato il silenzio to-

tale degli organi di informazione. [...] In particolare i familiari dei detenuti per eversione denunciano la costante applicazione dell’art. 90 della riforma carceraria del 1975 in tutti gli istituti di pena.” (‘Il Messaggero”, 26 aprile 1982). Zali

Ero stanca ed ero triste. Mondovì,

Savona,

Genova,

La

Spezia,

Pisa,

Grosseto...

quelle ore in treno non passavano mai. L’andata invece era piena di attesa, di gioia perché l’avrei visto. La prima volta che andai a Cuneo partii la domenica e ritornai il martedì. Non avevo mai visto in vita mia tanta neve! Rimasi bloccata sul treno, dormii alla stazione, arrivai al colloquio distrutta, bagnata e congelata. Sia per andare a Cuneo che per andare a Trani si viaggiava con il patema d’animo perché per un minuto si rischiava di

perdere una coincidenza e di passare ore e ore alla stazione, a metà strada. Se era il ritorno non mi importava niente, ma all'andata si rischiava di perdere il colloquio. Quello di Trani è stato il periodo più triste e più pesante. Eral’81. Fu il periodo della rivolta e poi della repressione. Mi telefonò l’avvocatessa Giovanna Lombardi tutta allarmata e mi disse di correre subito a Trani: ‘Hanno fatto una rivolta e gli hanno menato, suo figlio è nudo completamente co-

me lei l’ha fatto, gli hanno bruciato tutto”. Presero in ostaggio diciotto guardie. Dopo li pestarono di botte, erano tanti, erano di Roma, di Firenze, di Torino.

Solo Bruno si salvò. Francone - altro brigatista assieme a lui lì detenuto - rideva, diceva: “Lui per fortuna è piccolo, io invece ce l’ho prese di santa ragione!”. Francone è un gigante di ragazzo, le guardie fecero come un tunnel e loro dovevano passare là sotto e le guardie gli da-

vano addosso con i manganelli. Dato che Bruno è piccoletto passò senza tarsi male, chi invece era grosso se l’è prese tutte. Dopo larivolta lo trasferirono a Cuneo, mentre gli altri,

quelli che erano stati malmenati li mandarono a Pianosa. Gli avevano rotto le dita, le braccia, le costole, fecero un macello!

Quando mi telefonò la Lombardi partimmo subito, insieme alla moglie di Salvatore e alla mamma di Francone. Lì a Trani incontrammo familiari che venivano da tutte le parti d’Italia. Tutti a digiuno. Per la maggioranza donne.8 Maria, una cara signora, la mamma

di Jovine. Aveva tanti

* “La tradotta di Trani ferma a Barletta. Per Trani si cambia. Sul marciapiede, alle sette di mattina si riversano i ‘familiari’. Peilopiù sono donne, ma28

figli, quella donna è stata una vittima, l’hanno maltrattata in tutti i carceri, ebbe pure una causa. Una cosa è sicura, è stata dri, compagne, sorelle. Nei venti minuti d’attesa prima che arrivi il Roma-Bari che bisognerà prendere al volo, di corsa dal giornalaio a raccattare quotidiani, di corsa al gabinetto, di corsa al bar a buttar giù un caffè; poi dieci minuti ancora, questa volta in piedi contro gli sportelli del treno, e giù di nuovo su un altro marciapiede, quello della stazione di Trani. Qui il nio non avrebbe ragione di esistere. Le donne dei prigionieri sono forti, gestiscono le loro azioni con autorevolezza, a tratti perfino con allegria. Di fronte al procuratore capo De Marinis, ogni sabato, da quando c’è stata la rivolta, la dignità la chiarezza la determinazione sono loro. [...]Il primo sabato: le visite e i pacchi sono sospesi. Il secondo, ancora niente visite e niente pacchi. Le donne si organizzano, attuano il blocco dei cancelli, aspettano dieci ore, circondate dai carabinieri minacciosi, e commettono un peccato d’onestà: credono all’uf-

ficiale che promette un colloquio con il direttore se il blocco viene tolto. Naturalmente l’ufficiale non rispetta la parola. Però i pacchi passano. Il terzo sabato, ancora visite distanziate, ancora il ritrovarsi davanti al secondo cancel-

lo. Per ogni nome chiamato

passa un'ora. I colloqui dovranno essere con i ve-

tri. No, prigionieri e donne a no. [...] Si decide di nuovo il blocco dei cancelli. [...] Da tutte le parti piovono autoblindo, e carabinieri, a nugoli come le

mosche. Arriva anche un funzionario in borghese, forse Digos. Dice che le manifestazioni sono proibite, dice che bisogna sgombrare se no ci pensa lui, e infatti ci pensa. I carabinieri si schierano a pochi

passi dalle donne, faccia a fac-

cia. Rigidi e neri che sembrano lì come per un

film. Comparse che non cono-

scono tutta la trama, ma solo il povero ruolo che le riguarda. E caricano duro.

Piovono le botte e gli spintoni, ma il funzionario capisce che la loro è solo forza fisica. [...] Le notizie che filtrano dall’interno sono come sassi in faccia e perdono ordine e priorità, trasformandosi in una sorta d’onda d’urto che

spinge le donne ad agire. Guardie incappucciate, da Ku Klux Klan, chiamano er nome i detenuti,

e a mano a mano che

uno viene crocifisso dalla luce dei

ari, giù botte. Quindici prigionieri vengono trascinati sul tetto: le guardie che li tengono chiedono alle altre, in basso, se ci sono morti o feriti tra i loro colle-

ghi. Sono pronte, a una risposta affermativa, a buttar giù i detenuti. Il policlinico di Bari si lascia portar via dai carabinieri i feriti gravi. Ma questo è avvenuto subito dopo la rivolta. Le donne si sono già battute per organizzare una fitta rete di controinformazione, ma tranne le trasmissioni di

poche radio li-

bere e qualche straccio di notizia censurata dagli stessi giornalisti che la pas-

sano, all'opinione pubblica non arriva niente. Altre notizie, altri sassi in fac-

cia. I prigionieri sono ammassati in cameroni e come unica forma di protesta possibile attuano la ‘guerra batteriologica’, buttano escrementi e immondizie nei corridoi e dalle finestre. I feriti curati alla bell'e meglio subito dopo la ri-

volta peggiorano. I punti vanno in suppurazione, alcuni hanno la febbre alta e non si reggono in piedi, altri hanno le ossa rotte, le mani le caviglie, le costole. Falco il medico della prigione, che nome meglio di così non poteva avere, non si fa vivo. Neanche il Giudice di sorveglianza. [...] Quando vengono concessi i colloqui, le donne e i prigionieri li rifiutano: si vorrebbe ancora farli parlare attraverso vetri e citofoni. Si accettano solo pochi minuti per passare in fretta

le notizie, poi i detenuti rompono i citofoni. Vengono pestati e trascinati all’isolamento, ma non si illudano i carcerieri che questo possa spingere i detenuti o i loro familiari alla rinuncia della propria dignità umana. Le donne stendono una denuncia. La firmano nominalmente, la portano alla procura, la presentano come legge vuole, anche se si immaginano che finirà in un cassetto. Trasmettono altri comunicati attraverso l’Ansa, ma anche su questi cala la nebbia. Notte e nebbia. [...] Nacht und Nebel sulle carceri speciali. Notte e neb-

bia sulle coscienze. Nel paese delle interrogazioni parlamentari non si alza una sola voce, fosse anche semplicemente per chiedere. Ma di quello che acca-

- de o che potrebbe accadere nei lager di questa repubblica qualcuno dovrà pur rispondere.” (Laura Grimaldi, “il manifesto”, 29 gennaio 1981). 29)

una donna che non si è fatta passare la mosca sotto al naso. A Nuoro in carcere le rubarono persino la roba che aveva lasciato nella cassetta. Aprì una causa per oltraggio. Era una donna coraggiosissima.

Anch'io ho polemizzato tante volte con le guardie. A Cuneo mi attaccai con una guardiana perché prima del colloquio voleva perquisirmi con i guanti già usati, io le dissi: “Lei vuole che io mi levo le scarpe, il reggiseno e la giacca? Allora levati i guanti sporchi e mettiti quelli puliti tanto per cominciare... e poi non mi tocchi, il reggiseno so togliermelo da sola”. Non mi sono mai fatta toccare, le discussioni nascevano su questo. A Rebibbia una guardiana provò a toccarmi. Le tolsi le mani di dosso e lei mi accusò di averla sgraffiata a posta. Se c'è il metal detector a che serve toccare? Le dissi che se suonava il metal detector sarei andata al camerino e mi sarei spogliata con le mie mani. Palmi è stata un’altra parentesi piena di difficoltà. Lì potevamo fare i colloqui solo la domenica e non c’era neppure un bar aperto dove poter prendere un bicchiere d’acqua. Io e mio marito passammo il giorno di ferragosto completamente a digiuno, con una bottiglia d’acqua che mi ero portata da Roma. Per garantire a Bruno almeno un colloquio ogni quindici giorni, una volta al mese andavamo io e mio marito, una volta

ci andavano i fratelli. Siamo sempre stata una famiglia unita. Le umiliazioni più pesanti le ho subite a Napoli durante le perquisizioni. i A Napoli e a Pianosa, dove ci spogliavano completamente e ci toccavano dappertutto. Tra i carceri peggiori ricordo quello di Genova. Ci portavano sotto terra, in degli scantinati per fare i colloqui. Dovevamo attraversare un cunicolo, era buio, triste, disu-

mano. Partii da sola per Torino, dove mi incontrai con altre donne. Andammo a Genova perché ci dissero che ce li avrebbero fatti toccare. Allora c’era ancora l’articolo 90. Ci dissero che potevano passare solo le donne che avevano dei bambini in braccio, così io mi feci prestare la pupa di Francesca. 30

Ce li fecero abbracciare solo per un attimo. Erano anni che non lo toccavo mio figlio. Ci abbracciammo circondati da tantissime guardie. Durante i viaggi parlavamo di cose nostre, parlavamo di loro. Leggevamo i verbali dei processi ancora in corso. Conservo tutti gli articoli sui processi e ho fatto sempre la rassegna stampa. Dopo i processi correvamo

a casa per seguire i telegior-

nali. i Ho sempre seguito le trasmissioni in cui si parla della storia degli anni settanta. Dicono che dietro di loro c’erano i servizi segreti o chissà che cosa. Lo dicono solo per fare confusione o per motivi loro, perché non si capisce come

mai questi ragazzi si sono fatti

tanti anni di carcere. Se dietro le Br c’era qualcuno, se loro erano alleati con qualcuno, se c'avevano le spalle coperte - come qualcuno a volte vorrebbe dire — certo non si facevano né dieci, né venti

anni di prigione. E a quanto pare sono gli unici a essersene fatti tanti in Italia.

A Laura mi sono affezionata moltissimo. Quando l'hanno arrestata io ero disperata perché quella ragazzina non c’'aveva nessuno, né madre né padre. Ho sempre cercato di esserle vicina, mi chiamava mamma Clara.

Per lei sono andata a Voghera, non ho fatto né più né meno di quello che ho fatto per i miei figli. Le facevo il pacco regolarmente, quando potevo mandavo soprattutto biancheria intima. Anche lei era carina con me, mi mandava ogni tanto un libro e quello che poteva. In questi tredici anni l’ho seguita come una figlia. Andavo a trovarla ogni mese anche quando non stava a Rebibbia. Non ci andava nessuno, solo io e mio marito. Al novembre scorso, finalmente l’ho vista fuori, era uscita

con un permesso di alcuni giorni. Le ho cucinato le vongole, ma non tritate come dovevo fare in carcere, vongole intere ’sta volta. Poi sono diventata mamma Clara per tanti altri ragazzi, mi sono fatta carico anche di altri. Mi dispiaceva veramente vederli vivere in carcere, in quelle condizioni, così giovani. Mica solo a Laura ho fatto pacchi! E tante volte ho cercato di rendermi utile lavando la loro biancheria. Prospero andai a trovarlo in ospedale per portargli un po’ 31

d’acqua, qualche giornale, le fasce pulite per la gamba. Questi figli ho cercato di aiutarli, di essere uguale con tutti e non disponibile solo con mio figlio. Tutta l'economia della famiglia da tredici anni è quindi rivolta non solo a Bruno, ma a tutti gli altri. È vero però che un debole l’ho sempre avuto per Laura e per il Gallo. Non ho saltato un colloquio né con i figli, né con Laura, perché loro aspettavano, loro soffrivano.

A Voghera Laura ha sofferto, ne ha passate tante. Era isolata, non parlava con nessuno, la torturavano, non la facevano

dormire: la svegliavano continuamente di notte. A Bruno ora che sta a Roma a Rebibbia faccio il pacco ogni settimana, ogni giovedì.

Cucino la mattina stessa prima di andare al colloquio. Lo faccio con tanto amore, è l’unica cosa che mi è rimasta

per dimostrargli il bene: stirargli le camicie, lavargli bene i panni, improfumarglieli. Solo questo mi è rimasto. I pacchi non sono importanti solo per chi sta in carcere, ma anche per chi li prepara. Io penso a mio figlio... Ieri gli ho portato i fagiolini con il pesce spada, le alici e la frutta. Appena lo arrestarono io camminavo a testa bassa. Mia figlia mi rimproverò “mica è un delinquente!” mi disse.

È stata una scelta sua. All’inizio provavo vergogna per quello che poteva pensare la gente, anche se a dire il vero mai nessuno si è permesso di dirmi qualcosa di offensivo. I primi tempi dopo l’arresto non volevo uscire. Mia figlia mi ha aiutata veramente. Mi convinse a uscire, mi disse che se non uscivo sarebbe stato sempre più difficile farlo. Da allora non ho più messo il rossetto. I nipotini, i figli di mio figlio più grande, andavano a scuola dalle suore. Quando a scuola gli chiesero se quello sul giornale era loro zio, risposero di no.

Allora io capii. Gli spiegai che lo zio non era un delinquente e che non dovevano vergognarsi. Io oggi cammino a testa alta. Quando qualcuno mi chiede il perché Bruno sta in carcere, io rispondo “perché è brigatista”. Mica mi vergogno! Poi con tutto quello che sta uscendo fuori negli ultimi tem-

pi, con tutti questi ladri che ci hanno governato e rubato, ci mancherebbe altro! Dai giornali Bruno veniva chiamato assassino. To che non avevo mai seguito nulla, cominciai a leggere i giornali e a sentire i telegiornali. Prima

sapevo

solo cucinare,

lavare, spolverare, cucire e

non facevo altro. Questa storia di mio figlio mi ha fatto interessare alla politica, mi ha fatto parlare di politica con le altre madri, mi ha fatto conoscere tante persone, mi ha fatto uscire di casa. Se

fossi più giovane farei politica, non posso solo per l’età. Anche altre madri e mogli hanno fatto questo passo dopo l’arresto del figlio o del marito. Altre ci sono arrivate prima di me, perché erano più a contatto con quello che facevano i figli. La maggioranza però sapeva che il figlio partecipava alle manifestazioni operaie, che era dalla parte degli sfruttati, ma non che stava nella lotta armata. Solo alla fine, con l’arresto, abbiamo capito, abbiamo

ri-

collegato tanti particolari. Forse c’avevano ragione loro, forse dovrebbero uscire loro ed entrare tutti questi politici ladri. Il primo “processo Moro” è stato terribile, era una discussione continua, perché ogni giorno cambiavano regolamento,

le guardie erano scorbutiche e cattive. Non ti mandavano neanche al bagno. Ma noi familiari che cosa c’entravamo? Stavo lì tutti i giorni, ho seguito ogni processo. Non ci facevano avvicinare alle gabbie e potevamo vederli

solo in lontananza. Vederlo nella gabbia mio figlio, mi faceva un brutto effetto. La prima volta che lo vidi in gabbia era stato a Napoli. Non erano tanto le sbarre a farmi male, quanto gli schiavettoni che portavano ai polsi, quelle catene pesanti e rumorose. Cose che non avevo mai visto prima d’allora. Quella scena non me l’aspettavo: erano in quattro, incatenati insieme, come le bestie.

Ultimamente si parla di questo genere di barbarie solo perché stanno colpendo i politici e i potenti in Italia, solo perché si tratta di persone importanti. Ma i figli nostri non sono figli di madri come loro? Questa esperienza difficile mi ha dato forza. 33

Io non avevo mai preso dei treni da sola, non avevo mai viaggiato da sola, avevo fatto la casalinga e basta. Mi sono aggiornata su tutto. Ma chi era mai entrata dentro un’università! Fermavo gli.

studenti, davo i volantini, parlavo con loro, gli spiegavo che cosa erano le torture. Ho fatto tante cose e non l’avrei mai pensato. Per mio figlio io l’ho fatto. Eravamo sempre le stesse a girare, tante di noi pensionate, almeno quando si organizzavano iniziative al mattino, quando le altre lavoravano.

Che ne sapevo io della politica! Sono vecchia e non mi ero mai interessata. Ci sono cascata dentro così, mi sono trovata

dentro un ingranaggio che però alla fine mi ha dato forza per andare avanti. Ho preso coscienza di quali erano le ragioni delle scelte di Bruno. Non l’aveva fatto per soldi, l’aveva fatto per un ideale, sennò non l’avrebbe fatto. Poi è stata la volta di Giancarlo, l’altro figlio. Ma è stata

un’altra cosa.

È stata un’altra storia. Giancarlo era diverso da Bruno, leggeva a mala pena i giornali e non si era mai interessato di politica... Lui non aveva fatto nessuna scelta, ci si era trovato in mezzo per ingenuità. Astarita, un pentito, fece il suo nome.

Dopo il fatto di Bruno aveva conosciuto alcuni suoi amici, tutto qui.

Io glielo dicevo, non li incontrare! Invece tutti passavano al suo negozietto. Non li fare venire, gli dicevo, perché tu a tuo fratello servi fuori, non in prigione! L’hanno arrestato e da allora ha perso tutto. Da allora è finito.

L’hanno arrestato nel 1987. Vennexsua moglie a casa ad avvisarmi. Pianti, strilli, stavo a pezzi.

L’avevano accusato di omicidio... figurati che lui era stato venti anni chiuso in quel suo negozietto! Questa esperienza l’ha pagata cara, gli è cascata in testa improvvisamente. Dalla mattina alla sera si è trovato un omicidio sulle spalle e non ce l’ha fatta a reagire. Non è più il Carlo di una volta. Ovviamente l’hanno scagionato. Ma nel frattempo lo hanno distrutto! Per prenderne uno ne arrestavano mille ma le conseguenze chi le paga?

34

Gli hanno rovinato la vita. Oggi non riesce a venire a trovare Bruno in carcere, non può sopportare i cancelli che si chiudono alle spalle, non sopporta quel rumore di chiavi e di ferri che sbattono. Carlo ci ha messo a terra più di Bruno. La vita è cambiata, è cambiata tanto.

Stavo così bene con tutti i figli a casa! Pure se non avevamo una lira... con mille lire in tasca ma

con i figli con me ero felice. Quando hanno dato gli ergastoli eravamo tutte in aula. Il momento della sentenza è stato terribile. Eravamo disperate. Il giudice ha pronunciato quella parola... ho provato panico. ERGASTOLO: Bruno sarebbe morto là. Mi sono ripresa da un paio di anni.

Ero arrivata a pesare settanta chili! Eravamo diventate tutte degli stracci. La notte non dormivo, prendevo le pasticche, ma a un certo punto non mi hanno fatto più effetto. Con gli occhi aperti a piangere. Eppure io sono una donna forte, piena di energia e di coraggio. Che cosa mi era successo? Passavo vanti.

le notti a pensare,

a ricordare,

a vedermelo

da-

Marini mi diceva: “Dai Seghè, proprio tu che sei la più forte di tutti ti metti a piagne? Vedrai che escono pure loro, non ti preoccupare!”. Sto meglio perché oggi penso che tra non molti anni uscirà anche Bruno. In fondo è cambiato tutto, non è più il tempo della lotta armata. E poi che senso hanno loro là dentro? Tra qualche Natale ce l’avremo a casa. È crollato il comunismo,

sono finiti i politici che ci hanno

governato per quaranta anni, e loro dovrebbero rimanere in carcere? Perché? La gente vuole andare al mare d'estate. Alla gente che loro stanno in galera non gli è mai fregato niente, perché sennò sarebbe stata un’altra cosa, probabil‘mente sarebbe andata diversamente per loro e per tutti. 35

Ho detto una volta a mio figlio: “Se mettevi tanto esplosivo sotto Montecitorio,

quando

stavano

tutti insieme, quello sì

che l'avrei approvato”. Mio marito non ha mai condiviso le scelte di Bruno.

Andavo in chiesa. La mia educazione è cattolica. Dopo quello che è successo a Bruno non ci sono andata più perché mi sono sentita un senso di colpa dentro, come se le ac-

cuse fatte a Bruno le avessero fatte a me. Come se io fossi colpevole di aver commesso qualche reato. Ma le mie preghiere le dico sempre, la sera. Prego ogni sera per lui, perché esca il sole anche per lui. Se muoio non mi importa, ma prima lo voglio vedere fuori. Ogni ora del giorno io penso a lui, qualsiasi cosa faccio,è il primo e l’ultimo pensiero. Quando lo arrestarono io mi dimenticai di tutto quello che ero stata, di tutto quello che avevo fatto prima, mi dimenticai della casa, delle pulizie, di rifare i materassi. Facevo

mente,

non

solo movimenti

vedevo

meccanici,

spolveravo meccanica-

quello che c’era da fare veramente,

mi

muovevo come un automa. Per non pensare pulivo, ma in realtà non pulivo. Mi muovevo per casa in modo insensato, levavo le tendine e le rimettevo, spostavo gli oggetti, i pensili, isoprammobili. Dopo tanti anni un giorno mi sono guardata attorno e mi sono resa conto che avevo abbandonato ogni cosa, che non curavo né la casa, né me stessa. Per me esisteva solo mio figlio.

A gennaio ho fatte le nozze d’oro. Dopo l’arresto di Bruno litigavo in continuazione con mio marito. Allora stavo troppo male. Uscivano le scintille in casa, i

nervi erano tanti. Erano éambiati completamentei nostri rapporti e non avevamo più neanche rapporti sessuali. Avevo la mente occupata da altri problemi.

I primi anni è stata dura per tutti noi, non si mangiava più, io non mangiavo più. In casa evitavo di far venire i nipotini perché non volevo che casomai si incontravano con qualche poliziotto. Il Natale soprattutto è molto triste. I primi anni lo abbiamo passato con il fratello di Laura. Speravo che Bruno si sposasse come hanno fatto i fratelli,

per questo ero contenta che si era messo con Laura. 36

Ero contenta,

ma

non sapevo che stavano insieme perché

erano dello stesso partito, dello stesso gruppo politico. Lei veniva sempre a pranzo da noi la domenica. Facevo gli asparagi e lei era contenta, ho cucinato cose buone per loro. Venne con un fazzoletto in testa quel giorno. “Che c’hai i pidocchi?” le chiesi. Mi disse che se l'era messo perché sudava. Invece solo dopo seppi che venivano da una manifestazione e che i poliziotti le avevano dato una manganellata in testa. Queste cose, tante tante cose, le ho ricostruite con il tem-

po, dopo che seppi quello che facevano. I primi anni di carcerazione di Bruno li ho passati a pensare, a ricostruire, a collegare tutto questo.

Ogni volta che ho perso un figlio, fatalità, ho avuto un nipotino.

Dopo un dolore, una grandissima gioia! Però quando nacque la bimba a mia figlia, dopo Giancarlo - il secondo - io ero talmente stravolta lei che mi diceva, uscita dalla sala parto: ‘Mamma, perché pensi solo a Giancarlo?”. Ero assente con il cervello. Mi confidavo con una signora vicina di casa, e

l’arresto di che ricordo guarda me,

lei come gli

altri che abitano qui intorno, sono stati tanto cari con noi.

Dicevano che non ci stavo più con la testa, che ripetevo sempre le stesse frasi e che dicevo in continuazione le stesse parole. Quali parole erano non lo so. Loro però ci avevano fatto caso. Allora non vedevo vie d’uscita, vedevo per mio figlio ogni strada chiusa. Ora invece qualche spiraglio sembra aprirsi. Tanti stanno uscendo con i primi permessi.

Mio marito c'ha le sue idee e non condivide quelle del figlio. Io forse mi sono fatta condizionare, ma in realtà ho preso coscienza e sono cresciuta rispetto a cose che prima ignoravo. Io lo dico sempre, se si farà una rivoluzione sarò la prima a scendere in piazza. Mio marito no. Ho capito da quale gente siamo governati.

Mio marito dice che sono una mammona e che quello che dice mio figlio per me è legge, invece il discorso è un altro. Ho visto da che genere di politici siamo governati, e allora certo che sono arrivata alla conclusione che le idee di Bruno non erano poi tanto sbagliate. 37

Sai quante volte ho litigato con le guardie? Pure loro stavano sempre con il più forte, stavano dalla parte di questi politici che oggi sono inquisiti. Adesso si sono calmate, controllano di meno, tranne qual-.

cuna, tranne qualche caprone. Prima ci provocavano molto di più, ci facevano aspettare

tante ore e lo facevano apposta. Ai processi, quando ci davano il permesso di avvicinarci alle gabbie, anzi alle transenne di fronte alle gabbie, le guardie

si mettevano in mezzo per non farci parlare, facevano come un cordone e se ci spostavamo a destra si spostavano a destra, se ci spostavamo sulla sinistra si spostavano a sinistra e ci si mettevano davanti per non permetterci neppure di vederci. Sento che a mio marito un po’ dispiace che io sia diventata mamma

Clara, come se lui non avesse fatto niente, e invece mi

ha sempre assecondata in questi anni, da Laura è venuto pure lui. Il fatto è che si è naturalmente creato un circuito di donne,

madri, mogli e compagne che hanno girato tutta l’Italia per seguirli coloro che si trovano in carcere, che hanno cercato di assicurare loro l’affetto, la biancheria, il cibo che mangiavano

fuori... Siamo ancora abbastanza unite tra di noi. Non avevo mai avuto dei rapporti così intensi. È stata una

grande esperienza di solidarietà. La mamma di Francone, di Renato, la moglie di Salvatore, la moglie di Remo e tante altre che vivono fuori Roma con cui ci siamo scambiate ospitalità, sono persone che io non dimenticherò mai. Erano tante... Quelle di Napoli e di Torino non le ho viste più, ma le ricordo sempre. Tutte buone persone. Mio figlio maggiore dice che a Natale prossimo Bruno starà a casa.



Non so quello che mi succederà! Non so che cosa farò! Non riesco a immaginare! Con le altre abbiamo detto che faremo una grande festa. Quando usciranno sarà per loro un trauma in tutti i sensi.

Hanno lasciato un mondo che non è questo. Troveranno

un’altra

città,

una

vita

diversa,

tanto

più

egoismo.

Per loro non sarà tutto bellissimo. Il padre di un ragazzo che è uscito dopo tanti anni di carcere con un permesso di quattro giorni mi ha raccontato che il 38

figlio voleva rientrare in carcere, non sopportava i rumori, era stordito e confuso dal traffico. A Bruno per esempio dà fastidio quando le guardie sbattono con forza i cancelli di ferro, non sopporta quel rumore, è abituato al silenzio. Dovrà abituarsi piano piano alla vita normale. Sono contenta che si stanno dando da fare per assicurarsi

il lavoro fuori. Hanno fatto una cooperativa di computer.

Questo figlio mio l’ho visto sempre a mezzo busto, che non so più immaginarmelo tutto intero, in giro per casa. La mia preoccupazione è quale sarà la reazione che avrà quando tornerà a casa. Devo buttare il vecchio divano dove dormiva e fargliene uno nuovo, più comodo, a due posti.

...Ma è meglio non andare troppo di fretta.

39

da

Chi ha deciso che non posso più toccare le mani di mio figlio?

Napoli, Milano, Sulmona,

Volterra, Sardegna, Trani, Cu-

neo e altri luoghi che non ricordo. Ho conosciutol’Italia attraverso le carceri. Ero un’insegnante, oltre che del lavoro mi occupavo della casa, della famiglia, ma facevo anche una vita di società, nel

senso che andavo spesso a teatro con mio marito, frequentavamo famiglie amiche, non andavamo a ballare, però alle feste ci

riunivamo con gli amici e siccome eravamo molto legati ai ragazzi qualunque cosa la facevamo insieme. Poi è arrivato il momento in cui Alberto dopo aver preso il

diploma del liceo scientifico si è iscritto all'università. Mio marito spronava i figli perché studiassero e lavorassero allo stesso tempo, - famiglia, studio, lavoro - questo era il motto di mio

marito. Paola infatti lavorava e studiava insieme, Alberto invece si dedicò alla politica, cominciò con Lotta Continua. Ricordo che andava ancora a scuola, una mattina mi chiese se poteva an-

dare prima a Roma a consegnare dei giornali per il suo gruppo politico, e poi sarebbe tornato per la scuola. Mi aveva messo al corrente di quello che faceva, si interessa-

va di giorriali e non potevo certo immaginare che ci fosse dell’altro. Mio figlio è morto per una detenzione inverosimile per cui io sento il dovere di parlare di questa storia. Il dovere, l'angoscia e la gioia, perché Alberto era soprattutto una gioia per me, era un ragazzo vivo in tuttii sensi. Ho ritrovato un nastro registrato in occasione di una festa

fatta in famiglia in cui lui recita delle poesie con una vocina così limpida e dolce che fa piacere ascoltare. Aveva un modo di parlare così chiaro e spontaneo che avrebbe potuto fare del teatro. Io vivo di questi ricordi con serenità. 40

Fu arrestato nel '75, appresi la notizia da mia cugina che l’aveva letta sul giornale. Rimasi di stucco. La prima reazione fu di angoscia, ma in un certo senso anche di superficialità perché non pensavo che quell'episodio avrebbe condotto alla sua morte. La presi con una buona dose di calma, senza una eccessiva apprensione. Non ricordo se la perquisizione dei carabinieri in casa ci fu appena dopo l'arresto oppure il giorno successivo, però ricordo che furono minacciosi soprattutto nei confronti di mia figlia, le fecero capire che prima poi sarebbe finita in carcere anchellei. Mio marito e Paola andarono in questura, non vollero che andassi pure io. Ugo era infuriato, solo dopo si rese conto che mentre erano lì in questura, Alberto veniva torturato.! Mio figlio viveva per conto suo, quindi non è che me lo vidi strappare da casa. Ero serena, pensavo che non aveva fatto nulla di male, di

molto grave, cosa avrebbero dovuto contestargli? Come tanti altri ragazzi avrebbe sicuramente superato quelle difficoltà. Il giudice a latere diceva di non preoccuparmi perché Alberto era una figura secondaria. Fu lo stesso giudice che poi chiese quindici anni. Quando andai al carcere non me lo fecero vedere, dissero

! “Nei giorni{...]9, 10, 11, 12, 13, 14, 15, 16 ottobre il difensore del Buonoconto, avvocato Senese, vedeva costantemente

respinta la richiesta di colloquio

con il suo assistito, fino a che il giorno 17 ottobre (dieci giorni dopo l’arresto)gli pervenne una denuncia autografa del giovane: ‘nella stanza dove mi hanno condotto ho trovato una decina di poliziotti, tutti in borghese. [...] Mi hanno fatto prima sedere normalmente su una sedia, poi mentre mi schiaffeggiavano abbondantemente mi chiedevano se conoscevo i due che erano con me sulla macchina, mi tiravano cazzotti e mi chiedevano quale ‘azione’ ero in procinto di fare, mi tiravano la barba e mi strappavano i capelli per sapere dove avevo dormito la notte. Mi hanno tirato i nervi del collo, spremuto il naso, colpito violentemente con i tagli delle mani sul collo, sulle spalle e sulla schiena, stringendo anche le manette. [...]Mi hanno storto le dita, le braccia, i gomiti, i polsi [...]. Poi mi

prendono e mi stendono su una sedia. Uno di loro mi afferra con una mano il piede e con l’altra la coscia destra e fa leva col suo ginocchio, e col peso del suo corpo fa perno sul mio ginocchio teso. Un altro mi prende la gamba sinistra e comincia a martellare con cazzotti sul muscolo della coscia e del ginocchio. Non riuscivo più a tenere la testa alta, allora il sangue saliva e vedevo da questa posizione la dentiera di Fabbri (funzionario della squadra politica di Napoli, n.d.a) che si apriva in larghi sorrisi di compiacimento per i suoi assistenti che mi tiravano calci sotto la testa per farmela tenere sollevata da terra. [...] Hanno comin-

ciato poi a tirarmi cazzotti nello stomaco, colpi di punto sul fegato, e continuavano in quella posizione distesa a tirarmi i capelli e a schiaffeggiarmi.’” (Comu. nicato emesso dalla lega per i diritti civili dei detenuti, in Franca Rame, Non

parlarmi degli archi parlami delle tue galere, p.7, F.R. Edizioni, Cremona 1984). 41

che bisognava aspettare che arrivasse il giudice di sorveglianza. Fu l’avvocato Bisogni a dirmi che Alberto era stato torturato, che era ferito e che per questo non mi permettevano di incontrarlo. Quando lo vidi, dopo più di una settimana, mi rasserenò, non dovevo preoccuparmi, lui stava bene. Io la presi alla leggera, gli portavo il pacco, il cibo, come tutte, ed ero tranquilla.

Dopo il primo processo, quando lo condannarono a quindici anni ho capito che le cose non erano più logiche. Qualche giorno prima, spinta da un certo sentore che potesse succedere il peggio, telefonaia Terracinielo andai a trovare. Le carte cheriguardano questo episodio ce l’ho conservate. Nella lettera e nel discorso che feci non parlai di mio figlio in particolare, ma di tutti, come ho sempre fatto.

Ero andata da lui perché lo ritenevo una delle persone meno corrotte dell'ambiente politico. Fui molto spontanea e dissi quello che pensavo. Terracini aveva fatto diciotto anni di carcere.? Gli chiesi se in un processo di assise i giurati dovevano essere sempre gli stessi o potevano cambiare. Mi confermò che dovevano essere gli stessi. Lo invitai a venire a Napoli dove c’era un teatrino di giurati che andavano e venivano, ogni giorno cambiavano, non se la sentivano di condannare questi ragazzi e si ritiravano.

Io ho sempre avuto la mania di scrivere tutto quello che mi capitava. Così anche durante il processo prendevo appunti, gli avvocati pensavano che fossi una giornalista e si rivolgevano a me per avere informazioni precise sui vari capi di imputazione, e quando mi chiesero che cosa aveva fatto Alberto io risposi che ero la madre e che proprio non sapevo che cosa aveva fatto. Mi trovai in questa situazione paradossale. Dopo qualche tempo la situazione cominciò a cambiare. Da quando tentarono l’evasione e iniziò il periodo dei trasferimenti,

dell'isolamento,

degli speciali, da allora Alberto

perse il suo equilibrio.5 ? Umberto Terracini (Genova 1895 - Roma

1983) fu tra i fondatori del Pci;

incarcerato dal fascismo (1926-1943). Tra il 1947 e il 1948 presiedette l’assemblea costituente. 3 “[...] Le condizioni del carcere di Poggioreale (Napoli, n.d.a.) come in molte altre carceri sono disastrose: sovraffollamento,

repressione, isolamento,

letto di contenzione, botte a volontà. Il 5 marzo (1976) c'è una rivolta con tentativo d’evasione. Per ripararsi le spalle i detenuti sequestrano una guardia. La rivolta è sedata in poche ore.” (Franca Rame, op. cit., p. 24). 42

Arrivò dunque la notizia eclatante che avevano tentato l’evasione. Mi venne da sorridere nonostante fosse una cosa grave: Alberto ci raccontò

che furono

scoperti per puro caso

quando uno di loro, dopo che avevano segato le sbarre, si affacciò dalla finestra. Loro per primi la presero alla leggera. Li trasferirono a Salerno dove furono picchiati violentemente, infatti Aldo, un cugino che stava con Alberto fu ferito gravemente a un occhio, da allora iniziò il continuo girare per le carceri italiane, il periodo tremendo in cui Alberto prese a scendersene. Da subito sono stata parte attiva, non mi sono rassegnata

neanche per un attimo e quando vidi Alberto a Milano, al carcere di San Vittore, con i capelli dritti, senza cintura ai pantaloni, smagrito nel viso, con gli occhi spiritati, capii che non reggeva l’isolamento, da allora fu un continuo correre, contattare questo o quel parlamentare, aprire rapporti con la stampa, intervenire in tutte le occasioni pubbliche. Era un ragazzo molto corretto, pulito, è un fatto di caratte-

re, ci sta il carattere aggressivo e ribelle, e quello che subisce, e Alberto pare che sia stato quello che ha subìto più degli altri. Credo che fu per questo che lo presero di mira. Un detenuto ricevette la famiglia, era Pellecchia, le guardie si rifiutavano di fargli offrire il caffè ai cari, allora lui fece

finta di bere e improvvisamente lo gettò in faccia alla guardia. In questi casi per esempio, pure se la pena saliva e le punizioni erano pesanti, il detenuto almeno aveva reagito, si era ribellato, si era scaricato. Invece Alberto teneva tutto dentro, era sempre corretto, subiva e basta.

Una volta a Trani per il solo fatto di aver riso quando un suo compagno gettò in faccia alla guardia un uovo, venne processato. La reazione della guardia fu di dare la colpa ad Alberto che era il più passivo, non rideva mai.

Allora stava già male. Il direttore del carcere di Trani che pure era conosciuto come uno dei più duri, mi chiamò per dirmi che Alberto non poteva farcela e che sarebbe morto se fosse restato ancora per poco in carcere. Mi disse: “Voi che siete i genitori dovete fare qualcosa”. Andai all'Ufficio III del Ministero di grazia e giustizia di Roma accompagnata dall'avvocato Siniscalchi, lì trovai Altavista che grazie a dio è morto: lui si permise di dirmi che io non sapevo chi fosse mio figlio: “Come non so chi è mio figlio? ‘ Lo conosco bene, basta dire che è mio figlio”. 43

Mi mise al corrente di comportamenti

scorretti avuti in

carcere, di processi subiti per reati commessi in carcere.

Mio figlio stava male, che comportamenti poteva avere? Non ce la faceva neanche ad alzarsi dal letto! Mi riferì di quando rise in faccia alla guardia, fu uno dei tanti episodi deprimenti, di quando incontri persone pessime che hanno in mano la vita delle persone. Per un periodo, quando Alberto tornò al carcere di Napoli, ottenni il permesso di andarlo a visitare tutti i giorni. Era crollato dopo il primo processo, quella sentenza inaspettata l'aveva buttato giù, volevo stargli vicino, dargli forza. Già non mangiava quasi nulla, così gli portavo le bottiglie di pomodoro fresco che a lui piaceva tanto. Lo invogliavo a berlo per nutrirsi in qualche modo. Tutte queste attenzioni furono uno sbaglio che commisi. Queste premure lo infastidirono, non voleva essere tratta-

to come fosse un bambino protetto dalla dolce mammina. Mi resi conto che non dovevo comportarmi in quel modo. Non volle più vedermi, io andavo al colloquio e lui non scendeva. L'unica cosa che mi restava era scrivergli, lettere a cui ormai solo raramente rispondeva. Dopo l’arresto di Alberto la mia vita cambia completamente perché io pur continuando a lavorare a scuola, che non ho mai lasciato tranne che in alcuni momenti per seguire mio figlio, non ho fatto altro che cucinare la notte per il giorno per tre, quattro, dieci persone, a seconda di dove andavo, mi comprai le borse termiche, le riempivo e con la mia altezza che non è favolosa, sono alta 1 e 55, andavo a scuola con questa

borsa a quadretti celesti e da lì mi muovevo con gli autobus, molto spesso con l’autostop, per raggiungere il carcere il più presto possibile, questo quando stavo a Napoli. Quando invece dovevo andare fuori, come per esempio al-

l’Asinara, andavo a Civitavecchia, sull'autostrada, poi sempre facendo l’autostop mi avvicinavo alla città dove dovevo arrivare. Non mi È andata mai male, sono stata fortunata, sulla stra-

da ho incontrato delle persone simpatiche e gentili, mi sono trovata bene, non ho nascosto le ragioni per cui mi spostavo, parlavo di mio figlio, del carcere, ho sempre detto perché viag-

giavo con questa borsa piena di roba da mangiare. Come ho fatto questi viaggi non lo so neanche io. Per andare a Volterra dovevo passare per Cecina, prendere un autobus e poi ancora un altro autobus e poi ancora un altro. Erano viaggi fatti all’alba, o di notte. Il supercarcere di Cuneo era uno speciale, anche lì c'erano

44

ventitré ore su ventiquattro di isolamento, i gabinetti avevano

degli “spioncini” di vetro dai quali osservarli mentre si recavano al bagno, non c’era un attimo di intimità.

Una follia. Per andare a Cuneo da Napoli ci volevano quindici ore. La prima volta, dopo quindici ore di viaggio mi sono chiesta se dovevo andare prima dal giudice di sorveglianza per avere il permesso di entrare in carcere o se dovevo andare direttamente in carcere per non rischiare di arrivare alla chiusura. Il permesso del giudice doveva giacere già negli uffici del carcere, per cui andai. Nel momento in cui io potevo entrare al colloquio il direttore mi fa bloccare e mi fa portare in direzione; con una faccia disgustevole, ciondolando sulla sedia girevole e con aria indifferente, mi dice: “Signora Buonoconto perché è venuta?”. “Lo sa meglio di me,” rispondo. Mi avverte che io non so chi è mio figlio, che io non lo conosco abbastanza. Anche lui dice queste parole.

“Se è mio figlio lo so bene chi è. È mio figlio e questa risposta dovrebbe bastare.” Comincia a ricattarmi, a minacciarmi. “Ma lei lo sa che io

non glielo faccio vedere?” “E perché?” gli domando. Mi sono sentita offesa di fronte a quella violenza insensata.

“Come si permette, per quale motivo non me lo fa vedere, lo sa che è per legge che i genitori devono incontrare i figli, specialmente la madre?” Insisteva che non me lo avrebbe fatto vedere. Gli risposi male. “Lei non è né un padre né un uomo.” “E io la faccio arrestare.”

Mi cacciò via dalla stanza in malo modo. Me ne andai arrabbiatissima senza vedere mio figlio. Di viaggi a vuoto ne abbiamo fatti tanti, era quasi un rischio a cui si era abituati. Era a Cuneo la prima volta che vidi Alberto attraverso il vetro, come un pesce nell'acquario. Chi ha deciso che non posso più toccare le mani di mio figlio? Avevano applicato l'articolo 90. Queste poche semplicissime parole significavano una cosa così inverosimile che nella mia vita non avrei mai pensato di dover vivere. C'era una gran confusione nella sala, si poteva parlare solo 45

con il telefonino ma non si capiva niente di quello che dicevamo. Trovare i nostri figli dietro i vetri, non poterli toccare, che

cosa orribile, chi ha inventato queste torture? Pesci in un acquario. Alberto stava male, male, fu un colloquio straziante, me ne

andai angosciata e distrutta. Lungo il viaggio di ritorno ripensai a quando a un colloquio fatto a Napoli, Alberto mi prese la mano e mi disse: “Mamma perché hai queste mani ruvide, non c’ hai una cameriera? Perché ti stanchi così?”. Era molto bello, era molto affettuoso. Ho trovato una sua lettera scritta dal carcere a un avvocato, un amico, in cui dice parole molto belle per me.4 Ci siamo molto amati, lui sapeva che io capivo ogni cosa

delle sue scelte, che non doveva spiegare nulla. Capivo quando stava male e si sforzava a non farmi percepire le sue condizioni di salute. Capivo che aveva voglia di vivere ma che non ce la faceva più.

Me ne andai da Cuneo disperata come non mai.

Avremmo voluto fare colloqui tranquilli e invece era impossibile riuscire ad avere un minuto, un piccolissimo spazio di intimità per parlare anche di stupidaggini. Le guardie erano sempre lì, presenti, addosso.

Dovevo mantenere la calma e non far trapelare il mio disagio per non turbare Alberto. Se avessi potuto avrei urlato, ma poi che sarebbe successo? Io me ne sarei andata a casa mentre lui sarebbe restato solo nelle loro mani, avrebbero potuto minacciarlo, ricattarlo, picchiarlo a ogni momento.

L’abitudine di appuntare le notizie che riguardavano i miei figli, da quando Alberto fu arrestato si accentuò.

4 “[...] Ti dico subito una cosa in cui credo tu possa riuscire in questo momento per l'affetto che ti lega a mia madre, meglio di me. Ossia farle capire,

a me non riuscirebbe in una lettera, tantomeno in un

colloquio, tutto il bene che le voglio che è tanto, e non solo come persona con la quale discutere, scambiarsi idee, esperienze, ma ora come madre. Ossia co-

me quella presenza, anche silenziosa, che solo lei mi sa dare e che io sento molto. [...] Ti basti il fatto che scrivendo a lei sarei riuscito solo a parlarle del

carcere, di altre più o meno merdate del genere. In effetti non meritano né lei, né papà, né Paola, né tutti quelli che mi sono stati amici, che io faccia loro pesare il disagio (vorrei fosse pochissimo), di questa situazione di privazione. Ti abbraccio Alberto.” (Da una lettera di Alberto a un amico di famiglia, l’avvocato Torcia, febbraio 1976, in Franca Rame, op. cit., p. 23). 46

Il suo arresto per me non fu una cosa tragica, o meglio, proprio perché poi ha avuto un esito così tragico e impensato,

con il senno di poi mi pare di averla presa un po’ superficialmente.

Forse era l’unico modo per riuscire ad affrontare la cosa con forza e senza perdermi d’animo. Forse non avrei potuto resistere così se non avessi avuto

questa capacità di lottare, di vedere le cose con molto equilibrio. Io non sono mai stata una persona superficiale, quindi la parola superficiale non è quella giusta. È difficile spiegare questo mio modo di reagire. Ho fatto tutto quello che potevo, però continuando a lottare, questa lotta quotidiana mi caricava, gli dicevo di reagire, gli scrivevo lettere che lo scuotessero, gli dicevo di avere coraggio, di non avvilire gli altri compagni. Gli dicevo, tu vivi in un posto ristretto dove siete in cinque, sei, dieci, undici persone, e se non reagisci, se ti avvilisci, danneggi anche gli altri e loro hanno bisogno di vivere e di avere il loro spazio. Gli ripetevo che noi eravamo con lui e non lo avremmo mai abbandonato. Questo incitare lui mi spronava a reagire e a tenermi su. Se fossi caduta pure io che cosa sarebbe successo? Quando lo portarono al centro clinico del carcere di Napoli era ridotto a una larva. Contorto sul letto non parlava, non reagiva a nessuno stimolo, aveva un viso spiritato, era magrissimo, diceva poche frasi senza senso. Non riusciva a vivere. Avrebbe voluto vivere ma non ci riusciva più per tutto quello che gli avevano fatto. Che scempio, io non potevo più assistere a quello scempio.

Uscii di corsa dal carcere e andai al bar di fronte. Telefonai al giudice di sorveglianza, gli dissi che Alberto stava morendo

sotto i nostri occhi, gli chiesi che cosa stava aspettando, se voleva vedere uscire mio figlio dal portone del carcere con i piedi davanti. Mi tranquillizzò, anche Terracini aveva dato ordine di cac-

ciarlo da quel posto e presto sarebbe uscito. Tante volte mi scopro a piangere, però le lacrime le ingoio perché io vivo con mio marito e se mi facessi vedere così depressa sarebbe la fine per lui. Come per Paola che, pur non vivendo con me, si accorge di un benché minimo cambiamento di umore e subito mi domanda cosa c’è che non va, con un sen-

timento che va ben oltre l’amore filiale nel sapermi afflitta. O per rispetto verso la mia nipotina Alberta che spesso è a casa 47

mia e alla quale non ho diritto di fare pesare la mia situazione... umorale. Mio marito poi ha attraversato dei momenti tragici, faceva cose strane, aveva reazioni strane alla vita in genere, io ho cer-

cato sempre di essere molto presente a me stessa anche per lui, per aiutarlo a riprendere a vivere. Ho pensato che lasciarsi andare non avrebbe risolto niente. Mi riconosco una certa forza nel carattere, mi sono assunta delle grosse responsabilità e in un certo senso sono riuscita a dare serenità sia a mio figlio che a mio marito. Quando seppi del trasferimento all’Asinara pensai a quell’isola meravigliosa, al mare trasparente in cui si vedono i pesci, al cielo quasi sempre azzurro, in tutto quel pulito Alberto sarebbe stato bene. Magari potrà fare perfino i bagni dentro un’acqua tanto bella. L’incontro con l’isola mi portò però in tutt'altra realtà.5 La prima volta che sono andata all’Asinara, durante la not-

te il mare si ingrossò perciò fui costretta a fermarmi a Porto Torres per tre giorni con un gran dolore nel cuore, passando intere ore della notte a occhi aperti. Quella volta con me c’era pure mio marito. Passando per Sassari trovammo un teatro aperto sulla piazza, fuori c’era un cartellone del Partito radicale che stavano promuovendo una iniziativa. Entrammo, ci venne incontro una signora che capì che non eravamo abitanti dell’isola. Questa signora che poi mi fu molto vicina, mi chiese la ra° “All’Asinara si arriva con un battello da Porto Torres: parte alle 11 e riparte alle 15. Non ci sono altri mezzi, e ci possono arrivare solo gli addetti al carcere, i militari, o i parenti che hanno avuto un permesso. [...] È un’isola pic-

cola, rocciosa, con pochi arbusti, un piccolissimo gruppo di case e poi varie concentrazioni abitate, dove vivono i detenuti. [...] La parte per i politici è [...]

la più nuova, di costruzione recente, ed è questo - per me - il moderno campo di concentramento. Un'esperienza assolutamente allucinante, spaventosa. C'è

un recinto, un muro bianco. Si entra e si incontra un altro muro, bianco, di

quattro metri, poi le celle con le finestre lontane. Sono di quattro metri per 2,60; ci sono due letti a castello e una terza branda, un cesso scoperto, un tavolinetto e due sedie, una finestra piccola. Se ti affacci vedi il muro bianco di

fronte. Se uno vuole camminare bisogna che gli altri due stiano sui letti. Lì ci devi stare ventidue ore al giorno, hai due ore d’aria, al mattino e a mezzogior-

no. E questo deve essere il momento più tremendo. Si esce a gruppi di due celle per volta e si va in un cortiletto sul retro, grande come una grossa stanza, circondato da muri bianchi, alti. Una scatola senza il coperchio. [...] Voglio di-

re che questo posto mi è sembrato un laboratorio scientifico per uccidere le personalità, per portare alla pazzia, per distruggere gli uomini.” (Dichiarazione dell'onorevole Mimmo

Pinto nell’articolo L’Asinara, laboratorio della tor-

tura di tipo nuovo, “Lotta Continua”, 22 luglio 1977). 48

gione per cui eravamo lì. Io le raccontai, le dissi che nostro fi-

glio era rinchiuso nel carcere dell'Asinara. Rimase sconcertata, non si aspettava che le dicessi papale papale le cose come stavano. Mi offrì la possibilità di andare sul palco e di prendere la parola. Non ci pensai due volte e andai. Spiegai che mio figlio era dei Nap e che come tanti altri ragazzi era stato condannato solo su indizi, a quindici anni di carcere come fossero noccioline. A quel tempo parlavo sostenuta dalla fiducia e dalla speranza che non sarebbero stati quindici anni veri e propri da scontare, chissà poi sulla base di quali elementi pensavo una cosa simile, fatto sta che ero ottimista. In ogni denuncia che facevo ero sorretta da una certezza cieca, che le cose si sareb-

bero messe per il meglio. Nella sala ci fu un momento di silenzio, tante persone mi vennero vicino dimostrandosi disposte a darci una mano. Non avevo bisogno di niente, chiesi soltanto una cosa, che mettessero a disposizione una casa per i familiari dei detenuti che provenivano dalle zone più disparate del paese, l’avremmo pagata a rotazione. Si creò un collegamento molto forte tra i familiari,

e non

solo tra le madri e le mogli ma anche tra i padri, alcuni dei quali furono affettuosi e si mobilitarono in tutti i modi. Tutti con lo stesso atteggiamento, di non piangere per la situazione che si era creata, ma di reagire energicamente e con la massima serenità possibile alle difficoltà che ci trovavamo a vivere. La volta successiva intanto accettai di essere ospite a casa

di quella signora. Era una famiglia agiata economicamente, vivevano in una bella villa. Non solo mi dettero l'opportunità di essere loro ospite, ma mi misero a disposizione le lenzuola che Alberto aveva chiesto, mi fecero cucinare per preparare il pacco, mi regalarono delle forme di formaggio fatto in casa. Mi ricoprirono di mille premure e gentilezze. Sua madre, una signora anziana e molto energica, mi volle accompagnare in macchina prima dal giudice di sorveglianza,

poi a Porto Torres, fino al traghetto che portava all’Asinara. Il giudice intanto mi aveva aperto gli occhi, mi disse chiaramente che pure se i ragazzi non esternavano il loro malessere, soffrivano per le condizioni terribili di detenzione. Mi spiegò che non potevano neppure bere l’acqua del rubinetto che conteneva alghe, e che spesso non era facile averne di altro ti-

| po perché non sempre era disponibile nei circuiti di vendita interni al carcere. Le celle erano piccolissime, dentro non ci

49

stavano due persone in piedi, con i letti a castello. La loro vita lì era impossibile. Altro che bagni nel mare. Dopo queste notizie cominciai a capire meglio. “Datevi da fare per farli trasferire,” così il giudice mi incitò prima di salutarmi. L’Asinara doveva essere un’isola bellissima, un paradiso,

ma io cominciavo a vederci solo l'inferno. Mio figlio era là, trattato come un cane dentro carceri che fermano il cuore solo a vederle, come potevo godermi tutto quel mare? E poi... anche lì c'erano i vetri. Non potere toccare mio figlio... La signora mi accompagnò di corsa a Porto Torres. Mentre ci stavamo salutando, io già sul traghetto, lei da terra, venne il comandante della nave avvertendomi di una telefonata urgente per me dal carcere.

Scesi di corsa mentre intanto il traghetto partiva. Al telefono non c’era nessuno, e io per quel giorno non vidi mio figlio. Fu una provocazione.

L'iniziativa a non farla passare liscia fu in verità della mia nuova

amica,

la quale mi mise in contatto con suo genero,

un'autorità, una persona assai conosciuta nell'isola. Si indignò a tal punto che per il giorno seguente organizzò un raduno al porto: tanta gente del paese si mobilitò, vennero in massa alla partenza del traghetto e finché non fu partito con me a bordo non se ne andarono. Era assai curioso scoprire come le persone che incontravo di volta in volta sulla strada rimanessero sconcertate nel sentire quello che stava capitando a noi familiari, per loro era una scoperta, ‘significava entrare in un mondo che ignoravano completamente. Mi viene in mente una lettera che dopo anni, cioè dopo la morte di Alberto, ho ricevuto. A scrivermi era una donna che dopo aver letto il mio diario, decise di scrivermi e scrisse parole bellissime. Un pugno nello stomaco, e una finestra spalancata su molte verità di cui non era a conoscenza, il risveglio

bruschissimo di una coscienza addormentata, questo era stato l’effetto che si era prodotto in lei nel leggere la nostra storia. Ma io dov’ero? si chiedeva nella lettera, rimproverando se

stessa per la sua cecità, e sentendosi per la prima volta un prodotto in serie della società che l’aveva nutrita, chiusa nel suo guscio. 50

Fu quasi una lettera di scuse e insieme di gratitudine. Maria è giovane, ha trentasei anni ed è legata a una sedia a rotelle. Siamo diventate care amiche, quando posso vado a trovarla con grande piacere. Come lei molte donne mi sono state vicine dimostrando sensibilità e intelligenza. Avevo perduto il pullman e feci l’autostop. A Sassari mi presero in macchina due insegnanti che erano dirette proprio all’Asinara dove lavoravano. Insegnavano ai figli delle guardie carcerarie.

Facemmo

tutto

il tragitto assieme,

mi tennero

compagnia anche sul traghetto. Lì facevo sempre tanti incontri, conobbi molte persone e

queste due insegnanti mi furono simpatiche per la loro disponibilità. Era un percorso che facevano tutti i giorni, per questo le incontrai di nuovo. Le incontrai la volta successiva, ma il loro atteggiamento nei miei confronti era mutato. Mi dissero che non potevo andare con loro perché avevano avuto un richiamo dal ministero per aver dato un passaggio alla madre di un detenuto politico. Fu un episodio spiacevole come tanti altri a cui dovetti abituarmi. Io sono una persona espansiva, così in questi viaggi estenuanti trovavo come unica opportunità quella di conoscere

persone. Sul traghetto incontrai una signora, pensavo che fosse la madre di un detenuto. Quando scendemmo dal traghetto lei mi si avvicinò e mi chiese di seguirla in bagno. Non capivo proprio che cosa volesse. Mi disse che doveva sottopormi a una visita per controllare se portavo oggetti pericolosi. Questa donna era la moglie di una guardia carceraria e arbitrariamente mi fece una perquisizione a tutti gli effetti, mi fece spogliare completamente nuda e io come una cretina subii una cosa di questo genere, una cosa assolutamente illegale di cui non mi resi subito conto. La mia mente era talmente presa dall’ansia di vedere mio figlio che tutto ciò che mi capitava non aveva peso. Dopo ci

pensai sopra e capii l’abuso di cui ero stata vittima. Il mio errore fu di non denunciare il fatto. Di storie simili ne capitavano ogni giorno.

Una signora di cui non faccio il nome subì una cosa ben più grave: al carcere di Cuneo dove era detenuto il figlio, mentre al marito che l’accompagnava, generale dell’esercito, facevaS1

no gli onori militari, lei veniva sottoposta a visita ginecologica. Ma neppure lei denunciò l'accaduto. Il capitolo dell'Asinara è stato tra i più difficili,

e non solo

perché lì Alberto già aveva cominciato a star male, ma in generale per tutto quello che significava raggiungere quel posto, i suoi giorni di viaggio, di attesa, di fatica, le tante umiliazioni a cui eri sottoposto in continuazione. L'essere costretti ad avere

a che fare con persone

grette,

misere e perciò tanto violente, come era un po’ tutto il personale carcerario. Le guardie carcerarie non sono più uomini, diventano animali, devono solo colpire. Quando vedo in televisione i manganelli che i signori in divisa menano sulla testa dei ragazzi nelle manifestazioni, penso che tra quei giovani potrebbe esserci un figlio loro. Ma non guardano in faccia nessuno, colpiscono e basta. Ricordo un episodio per certi versi addirittura divertente: una guardia alle prese con il nostro dolce di mandorle. Avevamo comperato questa torta che ad Alberto piaceva moltissimo, era la sua preferita. Arrivati ai controlli del carce-

re, la guardia la mise su un piatto che fungeva da metal detector, cioè che suonava in presenza di oggetti metallici. Con un coltello cominciò a tagliarla in varie direzioni per essere ancora più zelante. Ovviamente in presenza della lama del coltello il piatto suonava, e più suonava, più la guardia continuava a

sventrare il dolce in mille pezzi. Come si poteva non ridere?

Mio marito lo intimorì sul serio dicendogli di stare attento che quella bomba poteva scoppiare da un momento all’altro... Fu una delle tante volte in cui Alberto non ricevette il pacco, 0 forse chissà, ricevette solo le briciole.

Il direttore del carcere di Trani mi fece sapere che Alberto stava

malissimo,

non

camminava

più, bisognava

accompa-

gnarlo sotto.braccio, aveva una passività psichica e fisica, si

trascinava. I genitori di un ragazzo che stava con lui, quando lo videro in quello stato scoppiarono a piangere, quella cosa io non l’ho mai fatta, lui non doveva vederci tristi.

Il pianto non risolve, io mi sono graffiata, mi sono fatta male, con le mani mi tormentavo, però lui non doveva vedermi angosciata perché sarebbe stata la fine. Non so se sono mai crollata veramente da allora. Per tre anni dopo la sua fine non sono uscita, non mi inte-

ressavo neanche della spesa per la casa. Sì, credo che per un periodo era finita la vita. A un certo momento però qualcosa ha ricominciato a muo52

versi, è stato grazie alla bambina di mia figlia Paola. È rinato l'interesse per la vita e io mi sono dedicata tanto ad Alberta. Ha vissuto con me per tre anni, poi mi pareva giusto che tornasse a stare con i suoi genitori. I bambini sono la gioia della famiglia. È importante che dormano con loro per svegliarsi con il sorriso o magari con il broncio del padre e della madre. Quando la bambina se n’è andata io non sapevo più che cosa fare, finché ho deciso di riprendere gli studi. Mi sono iscritta all'università della terza età, alla facoltà di medicina, e que-

sto stimolo mi ha aiutato a tirarmi su. In certi momenti sento una rabbia repressa dentro e tanta tristezza ma poi mi dico, a che serve? Mi arrabbio nel vedere quello che succede, tutta questa corruzione, mi fa venire la vo-

glia di distruggere tutto. C'è stato un momento in cui io avrei voluto fare la torcia vivente, è stato quando ho scoperto tutte

le magagne di Andreotti, De Lorenzo, Craxi..., che con le leggi hanno potuto fare ed essere ciò che volevano provocando la morte a molte persone. Troppa gente oggi non si può curare e

muore negli ospedali, gente che sopravvive con una pensione da fame, trecentomilalire al mese. È vita che si può condurre? Mi domando se è possibile che si sa che Andreotti ha fatto quello che ha fatto, che De Lorenzo ha fatto quello che ha fatto, che Poggiolini ha addirittura fatto una strage di stato e le cose passano così. Ma come è possibile che da parte dei giovani non c’è reazione? Perché non si muovono? Io queste cose le

ho gridate quando ho partecipato a una delle tante assemblee all'università in cui vengo invitata dagli studenti. La morte di Alberto mi ha colpito nel profondo. Sono stata io a decidere di abbandonare Napoli. Continuare a vivere lì senza poter più stare con mio figlio non aveva senso. Quando è morto io non sono andata al cimitero, ci sono an-

data solo dopo molti anni, la sua tomba non mi dice niente. Da quando è morto me lo vivo dentro nel ricordo e nel cuore, non ho bisogno di andare al cimitero né ho bisogno di sognarlo, è un fatto strano che non lo sogno mai. Perché questo non lo so. So che non ho più fede in Dio. Dopo la morte di Alberto c'è stato un episodio che per me ha rappresentato la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Da quel momento ho perduto la fede in Dio. È stato quando degli agenti della Digos vennero a fare una perquisizione a casa durante il rapimento di Cirillo. Non li feci entrare, mi opposi. Io non volevo più vedere S3

quelle facce, mi avevano portato via Alberto, che altro volevano da me? : Si creò un certo subbuglio, io dissi che sarebbero dovuti passare sul mio corpo per entrare in casa, Ugo cercava di calmarmi e di farmi capire che loro avevano un regolare mandato di perquisizione. Fatto sta che in casa mia non entrarono né quella volta né mai più. Quella mattina a scuola avevo in programma di leggere una preghiera in occasione della festa del patrono. Non ci riuscii, strappai le preghiere e smisi di credere. Da allora al momento della preghiera i miei studenti mi videro sempre con la bocca chiusa. Ho perduto la fede ma non ho perduto la fiducia nella gente, non ho più alcuna diffidenza e paura se qualcuno bussa alla porta, perché dovrebbero farmi del male? Gli anni del carcere sono stati anni di grossa mobilitazione, di crescita politica nel senso di solidarietà e di iniziativa fitta contro le illegalità a cui erano sottoposti i nostri ragazzi e noi. Io non sono una politica, anzi la politica non la capisco, non capisco come è possibile che dei servizi segreti facciano delle stragi, che senso può avere. Non arrivo ad afferrare tante cose di quel mondo, ad avere un’ottica chiara. Non capisco il perché per esempio Poggiolini ha fatto tante mascalzonate per avere soldi su soldi, come se lui non dovesse morire mai.

Andrà pure lui all'altro mondo, e a chi lascerà tutti questi soldi? Ma la politica di cui parlo, la politica di allora, quella di noi familiari, era una cosa diversa, spontanea, naturale. Tra di noi eravamo legatissimi, riuscivamo a organizzarci su tutto il

territorio ed era difficile che qualcuno si tirasse indietro. Poi il pentitismo ele leggi dell'emergenza, ie leggi premiali hanno

rotto questa solidarietà anche se non completamente. Oggi ci muoviamo più a livello individuale, come per esempio ho fatto io con lo sciopero della fame, anzi con i vari scioperi della fame che ho lanciato perché venissero liberati dei detenuti ammalati, partendo da me stessa e attorno a cui ho raccolto adesioni. Cerco di impegnarmi nel concreto, giornalmente per aiutare i detenuti politici che sono ancora in carcere. Intervengo alle trasmissioni radiofoniche e televisive ogni volta che posso. Esco allo scoperto e rientro, intervengo e rientro, un po’ come una lumaca che caccia le antenne quando viene toccata. 54

Sono andata a parlare con Conso insieme ad altre donne, per capire le sue intenzioni sulla legge di indulto. Capii che sarebbe stato disposto ad appoggiare una soluzione politica solo se gli ex Br avessero detto la verità. Mi sono alterata. Ma che volete sapere ancora, loro l’hanno detto da

sempre che hanno ammazzato Moro. Io invece come cittadina ho il diritto o no di sapere le verità di Andreotti? Le verità che la gente vuol conoscere sono altre. Con questa scusa della verità delle Br intanto centinaia di persone sono in carcere da molti anni. Tanti giudici sono stati affettuosi con me, Cappelli addirit-

tura dedicò un suo libro a me e a Ugo.9 La maggioranza di loro per non dire tutti erano d’accordo alla immediata scarcerazione di Alberto, così come i direttori dei carceri. Che cosa stava succedendo? Perché tutto precipitava così insensatamente? Non si è fatto in tempo a salvarlo e mio figlio è morto. Si era creato un ingranaggio tale, per cui mentre si dava l'ordine di liberarlo, per una serie di complicazioni anche casuali, stranissime, accidentali, credo non volute, lui continua-

va a stare chiuso e a morire. Anche quando è tornato a casa per un anno quello stesso ingranaggio non ci ha lasciati vivere, equivoci su equivoci che portarono agli arresti di Alberto a Roma, quando lui si riparò in una macchina e lo riarrestarono per vagabondaggio e per tentato furto. Poi altri episodi assurdi e vicende a cui non è riuscito a sopravvivere. Il mio diario era sempre lì, nei momenti più diversi, in qualsiasi luogo trovavo sempre un foglietto a portata di mano su cui scrivere brevi pensieri, frasi, riflessioni su quello che

vedevo e che mi capitava. Era anche un modo per distrarmi, nelle lunghe attese. In macchina,

mentre

stavo andando

a trovare Alberto al

carcere di Poggio Reale, scrissi una poesia, chissà perché in francese, dal titolo La vie en rose: La vie seraiten rose

car elle est si belle quand on réflechiit sur les choses qui lui nous donnent 6 Gino Cappelli, Gli avanzi della giustizia. Diario del giudice di sorveglianza, Editori Riuniti, Roma 1988.

55

clarté transparence douceur amour... Mais l'homme est si méchant qu'il fait de tant son mieux pour la rendre malheureuse méme aux enfants si tendres, si jolis, si gentils,

c'est lui toujours le coupable, l'homme qui veut tout vaincre avec

son egoisme et ses lois...? Ora il diario non lo scrivo più.

? La vita sarebbe rosa / Essa è così bella / quando si riflette sulle / cose che ci donano / chiarezza trasparenza dolcezza / amore... Ma l’uomo è così cattivo / che fa del suo meglio / per renderla infelice anche / ai bambini teneri / graziosi gentili / è lui, il colpevole, / l’uomo che vuole / tutto vincere con / il suo egoismo e le sue leggi...

56

3:

Hai una faccia d’angelo ma sei come tuo padre

Quel giorno stavo cercando lavoro; ancora andavo a scuo-

la, avevo diciassette anni e volevo guadagnarmi qualcosa nelle ore libere. Trovai uno di quei lavoretti di promozione di prodotti dentro i negozi, e quando telefonai a casa per dare la notizia sentii mamma

che piangeva; era successo qualcosa, ma non capivo .

cosa. Rientrai di corsa e mi dissero che papà era stato arrestato. Lì per lì non mi resi conto. Non sentivo dentro di me quello che era accaduto. Fu a casa di uno dei miei zii che capii. Lì mi incontrai con

una situazione assurda. C’erano i fratelli di mio padre che cominciarono a incalzare mamma di domande, a urlarle alle orecchie, volevano delle spiegazioni da lei, insinuavano delle

sue responsabilità, ma più di ogni altra cosa erano preoccupati di quello che avrebbe pensato la gente: ‘Che dobbiamo dire? Come ci difenderemo? Che diremo ai nostri figli ?”. Era tutto assurdo, quelle domande,

il fatto che volessero

una risposta da lei, che le chiedessero di assumersi anche la responsabilità della loro vergogna. Dentro questo io misi a fuoco, capii quello che era successo, e forse fu per difendermi da un contesto folle, in cui quello

che stavamo vivendo noi e quello che nello stesso istante vivevano loro era totalmente distante, che ebbi un vuoto, la testa

si liberò di tutto e si riempì solo di un grande vuoto nero. Lui mancava da casa da due anni, se ne andò dicendo che sarebbe stato via per un po’ di tempo. La cosa pose sicuramen-

te problemi a mia madre, ma a me e a mio fratello non più di tanto. Io avevo quindici anni, mio fratello ne aveva tredici. SY]

Il distacco non era stato brusco, lui ci telefonava ogni tanto e anche quando uscì la notizia sul giornale che era un latitante delle Brigate Rosse io e mio fratello non capimmo fino in fondo quello che significava, per noi c’era solo la sua assenza temporanea. Non era una situazione ben definita e soprattutto non c’erano ostacoli visibili tra di noi. Il periodo precedente all'arresto ci ha condizionato nella misura in cui ha condizionato la vita di mamma. Da quando uscì la notizia che era ricercato cominciò a stare male. Da quel momento cambiò la vita anche per noi, ma solo perché lei stava male, sveniva in continuazione, non dormiva, e ogni vol-

ta che rientravo a casa non sapevo quello che trovavo. Le fecero la cura del sonno e il suo esaurimento nervoso cominciò a preoccuparci. Avevamo paura di rientrare a casa. Mettevo la chiave nella

serratura con il terrore di non trovarla viva. Anche se non ne parlavamo esplicitamente, sia io che mio fratello temevamo il suicidio. Dopo aver saputo dell’arresto con mamma andai a via Inselci, alla caserma dei carabinieri, sperando che ce lo facessero vedere. Ci presero i documenti e ci tennero là per ore inutilmente fino a tarda sera; quando tornarono da noi dissero che si trovava a Rebibbia. Ma era falso, mio padre stava nella stessa caserma e mentre noi aspettavamo, i carabinieri gli portarono i

nostri documenti simulando che fossimo in pericolo nelle loro mani. Ricattandolo speravano di estorcergli delle informazioni. Facevano sempre così e se non venne torturato fu solo perché fortunatamente c’era in corso il processo Moro in cui lui era imputato.

Lo rivedevo dopo due anni nella gabbia del Foro Italico. Entrai di straforo con mamma

perché non si resero conto

che ero minérenne. 1 Era tanta la felicità per quell’incontro che non mi soffermai sul contesto, le sbarre, le guardie, i giudici.

Siccome era in isolamento e ci erano proibiti i colloqui, in aula ci potemmo avvicinare abbastanza da riuscire a parlargli. Lui era frastornato, aveva il viso gonfio, ma la cosa che mi colpì maggiormente e che mi fece anche sorridere furono i suoi vestiti che io già conoscevo dalla descrizione minuziosa e precisa che ne avevano fatto i giornali sottolineandone la buona fattura: dalla maglietta a strisce di ciniglia fino alla cintura dei pantaloni. Fu lui che parlò per primo, si rivolse a me vietandomi di 58

piangere, penso per una questione di dignità sua, perché il nostro dolore poteva essere un modo attraverso cui l'avrebbero colpito. Piangere significava prestare il fianco al nemico. Da quel momento tutto è stato falsato, c'era il massimo au-

tocontrollo sui sentimenti, sulle parole, su ogni gesto. Restò lo spazio solo per qualche frase banale. Meglio dire stupidaggini piuttosto che restare zitti entrambi. I momenti di silenzio erano davvero i più critici. Nel corso di tutti questi anni non gli ho mai fatto domande sulla sua scelta e su quello che ha comportato a lui e a noi. Mio fratello a un certo punto, dopo tanto tempo che si era rifiutato di andarlo a trovare in carcere, ha deciso di rompere questo

silenzio; ha dovuto farlo per ricostruire un rapporto. Io no. Io non l’ho mai giudicato. Crescendo ho cominciato a chiedermi se lui si fosse mai posto il problema nostro e di mamma, se avesse mai riflettuto su quello che avrebbe significato la sua scelta anche per noi e alla fine ho trovato delle risposte. Non l’ho colpevolizzato e in un certo senso è stato facile, perché avevo abbastanza assimilato l'educazione che ci aveva dato. Papà era critico sul concetto tradizionale di famiglia come nucleo chiuso. Diceva sempre che la famiglia diviene luogo di ricatti affettivi, di legami che tolgono la libertà, una catena

di doveri in cui il diritto di scegliere viene annullato. Per questo non ho mai ritenuto che ci avesse abbandonato. Sapevo che ciò che aveva fatto l’aveva fatto anche per noi. Si trattava solo di accettare il senso che lui aveva dato a quella scelta, capirne il significato. Ero ragazzina quando mi spingeva a leggere i libri del Che. Capivo che quello che voleva trasmettermi era superare l’individualismo, vedere anche le relazioni della vita con uno sguardo più ampio e profondo. Vedere al di là dell’apparenza e dei luoghi comuni. Mi ricordo di un film con Alberto Sordi, un film comico in

cui si parlava della vendita di armi al terzo mondo. Io e mio fratello ridevamo e basta, lui allora ci pose il problema di ragionare su quello che ci veniva proposto, di capire se non altro il significato di quella cosa, di non essere mai superficiali, di mettere in discussione. Io incameravo, e mi sono ritrovata ad avere un mio patrimonio culturale che mi ha dato la capacità

di affrontare tante situazioni difficili. L’io doveva sempre rapportarsi al noi. Doveva esistere una

dimensione collettiva nella quale gli individui trovano un sen59

so e un valore. Per me questo ha significato fare i conti con gli altri sempre e comunque. Non avevo da porre domande quindi, ho accettato la sua scelta come giusta per lui, e non ho mai pensato a quali erano stati i lati negativi, non ho mai fatto bilanci sulle gioie o le sofferenze mie. La vita è cambiata. Per molti anni sono andata a trovarlo tutte le settimane. Un giorno a settimana mi assentavo da scuola. Quando era latitante non lo vedevo ma non sapevo neppure dove si trovava. Ora invece avevo di fronte l'ostacolo del carcere. Era un impedimento oggettivo, visibile, concreto. C’erano i vetri, non potevo più toccarlo. La gabbia che nell'aula del tribunale non avevo visto, l’ho messa a fuoco solo quando sono entrata in carcere. Al processo, la prima volta, per me c’era solo lui, in carcere invece ho sentito i vetri, le guardie, i controlli, i microfoni, la

gabbia. Ho dovuto continuare sempre a trattenere le emozioni, ri-

spettando la richiesta di mio padre: controllare la parte emotiva. Non potevamo toccarci. Io mi sentivo distante, non riuscivo a dirgli nulla di personale: erano quegli oggetti, dal banco-

ne all’impalcatura delle sale del carcere, che io sentivo come

un impedimento al nostro rapporto. Non solo il vetro, ma ognuno di quegli oggetti. Non siamo mai riusciti a parlarci più di tanto nei colloqui. Per comunicare usavamo la scrittura; quando mi scriveva io lo sentivo vicinissimo, come se stesse lì accanto a me, cosa

che al colloquio non sarebbe mai stata possibile. Anch'io gli mandavo delle lunghe lettere. Erano lettere in cui mettevo tutta me stessa. Non raccontavo mai dei problemi pratici, quasi sempre delle.mie sensazioni verso di lui. A un certo punto dopo averle scritte ho cominciato a strapparle perché il senso delle emozioni che volevo trasmettergli si sarebbe perduto dentro il tempo che avrebbe impiegato la lettera a raggiungerlo. Più gli scrivevo di sensazioni personali e più non aveva senso che lui avrebbe sentito quello che io provavo in un momento tanto diverso dal mio. Il tempo del carcere falsava la verità dei miei sentimenti. Io e lui avevamo sempre avuto un rapporto fisico molto intenso. Giocavamo con il corpo, ci abbracciavamo tantissimo. Con il fatto che c'erano i vetri ho potuto riabbracciarlo so60

lo dopo tanto tempo, durante un processo, ma in una condizione del tutto anomala perché eravamo completamente circondati dai carabinieri. Anche a Venezia, sempre durante un processo, ci dettero la possibilità di abbracciarci, ma lì fu ancora più pesante perché gli lasciarono le manette e la catena che lo legava a un altro detenuto. Questo essere sempre controllati impediva qualsiasi parola vera e allo stesso tempo alimentava l’odio verso le guardie e le istituzioni in genere. Era un odio viscerale, non ragionato

ma istintivo. C'era il carabiniere che trascinava mio padre con la catena, era quel carabiniere in carne e ossa e io ce l’avevo

TOSCA C'era poco da riflettere, io l’odiavo di un odio senza ine.

Quando arrestarono me avevo appena compiuto diciotto anni. Stavo con mia madre verso via Nazionale e commentavamo un articolo che era apparso sul giornale, non ricordo bene

quale fosse il particolare contro cui ci stavamo accalorando, ma in quel momento ci passò a fianco una macchina dei carabinieri. Questi sentirono che ce l'avevamo in qualche modo anche con loro e inchiodarono vicino ai miei piedi. Uno di loro scese e tentò di alzarmi le mani addosso. Mia madre a quel punto si intromise; una parola tirò l’altra finché decisero di portarla alla centrale di piazza Venezia. Volli andare anch’io per vedere che cosa succedeva. Non c’era stato nessun oltraggio, ma appena accertarono dagli schedari che eravamo la figlia e la moglie di un brigatista, fecero scattare l’arresto anche per me, che fino a quel mo-

mento ero lì solo in veste di accompagnatrice. Una macchina ci portò a Rebibbia. Lì ci presero le impronte, ci fotografarono, ci perquisirono, poi ci portarono in due

celle singole, l’una di fronte all’altra. Ricordo che una guardia cominciò a provocarmi: “Hai una faccia d'angelo ma sei come tuo padre”. Non risposi nulla. Sapevo che stavo lì solo perché figlia di un prigioniero politico; fu anche per questo che il sentimento

più forte in quei momenti era la rabbia. Paura poca e tanto odio verso le guardie e la struttura. Mi sentivo nel giusto, loro stavano nel torto. Poi mi ritrovai in questo cubicolo dell'isolamento e la pri- ma cosa che feci fu scrivere a mio fratello. Una lettera che alla fine strappai: erano cose intime quelle che volevo trasmetter61

gli e non potevo lette. Oggi ridiamo creare: il povero la famiglia tutta

accettare che qualcuno in censura le avrebbe di quella situazione estrema che si venne a_ fratellino piccolo da solo a casa e il resto dela Rebibbia. Ma allora ero preoccupata, per il

lavoro di mia madre, se lo avesse perso sarebbe stata una tragedia; inoltre mio fratello aveva solo quindici anni ed era ri-

masto da solo sul serio. Negli ultimi tempi il nostro legame si era rafforzato moltissimo, e io con quella lettera volevo dirgli di stare tranquillo, che gli volevamo bene, che presto saremmo uscite.

Non fu un'esperienza drammatica anche perché durò solo pochi giorni. Ci fu un momento molto bello, e fu quando alcune detenute

politiche che stavano nella sezione del piano di sopra ci mandarono il tè, un fornellino e altre piccole suppellettili. Le secondine

mi trattavano

gentili e permisero

come

una

bambina,

furono

a mamma di farmi visita ogni tanto, di pas-

seggiare all’aria con me. Non ho avuto panico, se fossi stata da

sola sarebbe stato diverso, ma la sua presenza mi rassicurava. Eppure mi scattò il senso protettivo verso di lei; dovevo essere forte, come sempre.

Non ho mai pensato di essere io la persona più fragile in tutta questa storia; dovevo interessarmi più di mamma che non di me, cercare di stare calma, di darle coraggio, o almeno

di non farmi vedere preoccupata. Ho dovuto falsare quello che sentivo. Non mi sono mai potuta permettere di lasciarmi andare. Oggi sono così in tutto e non so capire se sia stata questa vicenda del carcere, di mio padre, di mia madre che dovevo sostenere, a darmi un auto-

controllo assoluto, o se ho saputo affrontare le situazioni più difficili anche grazie a questo non lasciarmi andare che era già mio.

Ho sempre un controllo esagerato sulle situazioni e la componente emotiva è l’ultima che deve venire fuori; non è una qualità, soprattutto quando questa autodifesa non ha ragioni oggettive per esistere.

Tornando indietro con la memoria forse posso dire che mi è stato insegnato da mio padre sin da piccola a tirare fuori la dignità a qualunque stessi prima di tutti.

costo, a non umiliarsi, a rispettare se

Una morale a oltranza che oggi definisco quasi bigotta. Il carcere è un attacco pesante alla dignità umana e ti costringe a rafforzare il lato più razionale, parlo anche di noi che andavamo dall’esterno e che dovevamo contrastare tutti 62

gli infiniti modi con cui volevano demolirci. Il carcere giocava sulla componente affettiva, intima, umana. C'era sempre qualcuno che tentava di passarti addosso, di spogliarti, di umiliarti partendo dal corpo e giocando sul ricatto degli affetti. Dovevi far vedere che eri sempre padrona della situazione e tirare fuori tutta la tua aggressività. Ecco, io credo che questa capacità a non farmi umiliare e a sviluppare una parte di me stessa, me la portavo dentro grazie a mio padre, con iutto quello che di positivo e di negativo ha comportato. Vedevo in lui da sempre una dignità irreprensibile che nel carcere si è rafforzata: una figura inattaccabile che a un certo punto per me era diventata quasi un mito. E io c'ho fatto i conti tentando

di imitarlo,

cercando

innanzitutto

di non

delu-

derlo. Questo quasi affannarmi per essere all’altezza mi è costato fatica, mi ha condizionato la vita, ma mi ha anche fatto fare

passi in avanti e mi ha rafforzata. A posteriori penso che me l'abbia condizionata positivamente. Nella vita in generale ho imparato ad affrontare situazioni diverse, mi sono misurata con difficoltà enormi ma senza mai

perdermi d’animo.

Non sento di aver avuto carenze affettive, mio padre io l'ho sentito sempre vicinissimo. Amici che solo dopo tanto tempo sono venuti a conoscenza del fatto che lui non vivesse a casa, mi hanno detto che io ne avevo sempre parlato come di una presenza costante, reale nella mia vita. Non viveva in casa, è vero, però c’era nelle mie

scelte e in quello che facevo. è A parte questa sfera affettiva che credo sia rimasta abbastanza inalterata, tutta la vicenda però mi cambia la vita.

Vivevo un’età superiore alla mia. Ho saltato alcune tappe di cui sento indubbiamente la mancanza. Non mi sono mai potuta, né voluta permettere, i colpi di testa delle ragazzine come me, sempre per questo controllo esagerato della mente su tutto il resto, per un’autoresponsabilizzazione

dettata ovvia-

mente dai problemi che avevo di fronte. Io mi rapportavo al carcere e questo significava non solo che soffrivo perché c’era mio padre lì dentro, non solo che tutta la nostra vita era ormai regolata nei suoi aspetti pratici dai tempi del carcere: i colloqui, i viaggi, il comitato tre volte alla . settimana, le riunioni per organizzare la colletta. Non solo questo. 63

C'era il fatto che ero dentro una dimensione non più familiaristica, intendo dire da orticello familiare. Una cosa mi sconcertava: la vita di tante persone attorno a_ me scorreva in modo quieto, senza mai riflettere su nulla che non fossero gli interessi personali. Vedevo che tanta gente credeva che la vita fosse tutta lì, solo quella, così come la conoscevano loro. Pochi si ponevano problemi, riflettevano oltre la propria individuale esperienza, oltre la propria strettissima quotidianità.

E invece per me c’era il carcere, e tanta gente che viveva lì dentro, e le cose in cui credeva mio padre, e il fatto che lui come altri non aveva scelto per interesse personale.

Lo so che sembra banale questo ragionamento, ma è stato così. Vivevo una contraddizione forte con le mie coetanee, che

non vedevano quello che vedevo io. Non era questione di dolore. Era che la condizione in cui vivevamo io da una parte e loro dall'altra, segnava una differenza di scala di valori. Le nostre

giornate erano diverse nel profondo. Il mio mondo era un altro. Non avevo amiche della mia età, i compagni di classe li vedevo solo nelle ore della scuola. Quando uscivo correvo di corsa a casa per fare i compiti, appena finivo andavo al comitato dei familiari, un giorno a settimana c’era il comitato di quartiere, incontravo compagni tanto più grandi.

È stato giusto tutto questo per me? Non sono arrivata alla maturità in modo spontaneo e libero, e questo sicuramente non è stato giusto. Non è mai giusto crescere in fretta per poter affrontare dei problemi più grandi di te. Ma nelle difficoltà di questa esperienza io mi ritengo fortunata per un motivo molto semplice, che ho imparato a vivere, a differenza di tante altre persone che invece sopravvivono. Una volta un compagno, che aveva vissuto il carcere e l’esilio politico, mi disse delle parole in cui io mi ritrovai perfettamente, mi disse che tutto quello che stavamo soffrendo ci insegnava ad apprezzare la vita. E questo è qualcosa di cui sono sempre più convinta. Il radicalizzarsi di certi valori che si danno alla vita, come per esempio il valore della libertà, può costarti un prezzo, ma sicuramente ti fa superare il semplice vivere quotidiano come uno stare al mondo passivo, e ti porta

a osservare con altri occhi anche cose bellissime che normalmente sfuggono. Questi anni mi hanno dato la gioia di essere 64

viva, il rispetto per la vita, che non avrei avuto se non mi fossi fermata a riflettere tanto. Non ho mai saputo sprecare una giornata, aspettando che scorresse senza darle un suo valore. Questo credo per il carcere, che è un mondo fermo rispetto al quale io mi sono sentita sempre impotente.

Per la prima volta io e mia madre ci siamo trovate a dover affrontare tanti problemi anche di ordine pratico non secondari. La mia è una famiglia proletaria, e allora improvvisamente ci trovammo a vivere con uno stipendio in meno, quello di papà. Le spese erano tante: i soldi da mandare a lui, quelli per affrontare ogni settimana viaggi lunghissimi per andarlo a trovare a Cuneo o a Pianosa

o a Trani. Erano ore e ore, intere

giornate di viaggio per arrivare a rubare pochi minuti di colloquio. Se non stavamo attente a controllare l’orario finiva che ci riducevano il tempo.

Affrontare il carcere voleva dire anche conoscere tutta una serie di questioni di ordine pratico che chi aveva più esperienza in quel campo trasmetteva: avremmo dovuto opporci alle visite vaginali, imparare in generale a non farci mettere i piedi addosso, a non apparire impaurite, a farci vedere compatte. Il comitato familiari serviva anche a questo, a non sentirsi sole, a sapere come comportarsi in certi casi. C'erano anche piccole cose. C'era molta fantasia da parte

delle donne anziane. La mamma di Bruno per fare entrare le vongole le frullava in modo da renderle confondibili nel sugo, e tutte facevano COSÌ.

Io ero la più giovane e soprattutto ero l’unica figlia. Non che non ci fossero altri detenuti che avevano dei figli, ma io ero l’unica abbastanza grande da partecipare alle iniziative del comitato. Non ero una bambina, ma non ero neppure un’adulta, eppure mi sono trovata a vivere quei problemi solo tra gli adulti. Finite le medie mi iscrissi al Liceo Scientifico xxm in via Cave. Organizzammo occupazioni a catena, scioperi, concerti, partecipai a molte manifestazioni, cominciai a fare politica.

Si viveva un clima di grande euforia, la politica era anche un modo per divertirsi. Era protesta, socializzazione e anche gioia. Restare a fare

l'occupazione di notte a quattordici anni sembrava il massi65

mo, e sapere che l’edificio era circondato dalla polizia rendeva tutto più entusiasmante.

Non avevamo idea di che cosa fosse lo scontro con le istitu-. zioni. Dopo poco invece ho conosciuto un altro aspetto del fare

politica, non più la politica quasi per gioco, ma quella dell’arrivare a giocarsi tutto per un’idea, di morire o dell’andare a finire in carcere anche per tutta la vita.

Nei primi anni c’era una presenza di un movimento anco-

ra molto forte, e di conseguenza anche il problema della detenzione politica era sentito. Ci sono state manifestazioni

umane di solidarietà che ho raccolto. Ho incontrato compagni disposti a darmi una mano a tutti i livelli per ciò che rappresentava mio padre. Gli unici ambienti che frequentavo erano quelli dei compagni, di un certo tipo di compagni, di quelli che direttamente o indirettamente vivevano il mio stesso problema. Era un’altra generazione la loro, io ero molto

più piccola. La mia viveva solo gli strascichi delle anni precedenti, eravamo già i giovani del scoteca, iniziava il disimpegno. Vivevo questa situazione anomala di unica sponda la generazione precedente, quegli anni fece scelte politiche estreme.

lotte di massa degli riflusso: c’era la diaver trovato come di cui una parte in

Io stavo in mezzo, non ero dentro alla mia generazione, ma

non potevo essere dentro neanche a quella dei compagni che frequentavo. Eppure scelsi quest’ultima come se fosse la mia, come se i miei diciotto anni fossero trenta o quaranta. Quanto ero libera di fare ufia scelta diversa da quella? Non fu.una scelta di vita stare dentro quel mondo, a distan-

za di anni credo di poterlo dire, ma la condizione oggettiva era che mio padre era un prigioniero politico e io questo lo sentivo tantissimo, perciò non avrei potuto fare diversamente. Diversamente come invece fece mio fratello. Era inevitabile che mi mancasse una mia dimensione, che

sentissi il bisogno di uscire da quel clima per fare le mie scelte. Avevo bisogno di capire chi ero e che cosa volevo. Non ero cresciuta gradualmente: dalle mimose dell’8 marzo, dal con-

certo a scuola, il passo era stato più lungo della gamba. C'era una sorta di austerità, di linguaggi, di modi di essere 66

che io avevo accettato, e che non sapevo se erano effettivamente i miei. E se avessi voluto andare in discoteca? Se avessi voluto essere frivola, tacchi e minigonna, come tante della mia età?

Nel momento in cui ho rotto, sono stata in grado di capire che se sceglievo di non andare in discoteca non era perché vivevo dentro un contesto che aveva sperimentato delle strade, che aveva acquisito comportamenti, atteggiamenti, modi di vivere, ma perché ero io e soltanto io che decidevo. Ovviamente

la discoteca

non

c'entrava

nulla, come

non

c’'entravano nulla i tacchi a spillo, era un bisogno di relativizzare quell’esperienza per fare delle scelte di vita tutte mie. Mentre io cercavo la mia strada, di fatto si sciolgono un po’ alla volta le aggregazioni politiche di movimento attorno a cui avevo ruotato. Si sciolgono i comitati e scompaiono tutti i vecchi punti di ritrovo dove venivano affrontati i problemi della

detenzione politica. Sicuramente negli ultimi anni ci si è alleggeriti anche della cappa pesante dei controlli, dell'emergenza. Ho iniziato a vivere questa situazione in modo diverso, con meno emotività e tensione, da “fuori”, ho cominciato a non sentirmici affogare

dentro. Per la prima volta da questo momento

sono riuscita ad

analizzare freddamente anche le scelte di mio padre, non quel-

le che lo avevano portato in carcere, ma i passi che stava facendo da detenuto, il suo rigore, il suo ostinarsi a non chiede-

re nulla. Mi sfuggiva il senso di quella difesa estrema della sua dignità pagata con il prezzo della galera, mentre fuori nessuno sapeva chi era. La maggioranza ignorava perfino che in Italia ci fossero detenuti politici. Quando la componente emotiva ha allentato la presa ho guardato con un altro sguardo restituendo la giusta dimensione alle cose. Il fatto che lui è ancora in carcere è qualcosa che però oggi riesco ad accettare meno di ieri, non riesco più a capirne le ragioni. Il mondo va da una parte e loro restano fermi lì. Frequento

un ambiente

universitario

in cui in generale

non porto quasi mai questa parte della mia vita. A parte alcuni rapporti di amicizia, sono sempre discorsi, interessi, ma più

di tutto sguardi sul mondo, da cui io mi sento distante. Non è ‘solo il carcere o mio padre, perché mi rendo conto che la parola detenuto, meno che mai detenuto politico, non fa parte pro67

prio del vocabolario della maggioranza dei miei coetanei, tutt'al più esiste il termine terrorismo, ma avulso da qualsiasi

contesto, si potrebbe parlare di qualsiasi altra cosa, andare a . fondo su un problema sociale o su un altro, che mi rendo conto di una diversità totale. Questo mi fa rabbia, è come sprecare la vita. Forse per quello che ho vissuto io vedo cose che gli altri non vedono, e questo mi fa sentire fortunata. Fortunata, può sembrare una presunzione o una autodifesa, ma io sento di es-

serlo. Sento di esserlo, sempre anche con un pizzico di rabbia.

68

4. Io non sapevo neanche leggere...

Quando andai a trovarlo al primo colloquio lui mi disse: “Mammà, io non sono più Mimmo di una volta”. “A me non mi interessa, tu sei sempre mio figlio” risposi.

La presi malissimo, non contro mio figlio che mi spiegò tutto, ma per il fatto in sé, perché l’avevano arrestato. Non sapevo che faceva politica. Ero una mamma di cinque figli, che se ne ritrovava uno in prigione e che non sa neanche che cosa vuol dire la politica. Una madre che questo figlio non lo ha mai giudicato e mai abbandonato. Avevo accettato qualunque sua scelta, e da quel momento. sono andata avanti. Mimmo era uno dei sessantuno licenziati della Fiat.!

Agnelli gli voleva dare ventiquattro milioni per fargli ritirare la denuncia. Lavorava in fabbrica, alla Lancia. Lo misero alla vernice con tre anni di contratto.

Gli fecero fare il delegato in squadra, praticamente se sul lavoro non andava qualche cosa gli operai si rivolgevano a lui e gli dicevano: “Mi sento male, il capo reparto non mi vuole mandare in infermeria”. Allora Mimmo andava dal capo reparto e gli diceva: “Perché

! “La Fiat auto ha (aveva!) 140.000 dipendenti, disturbati sistematicamente, nell'esercizio del proprio dovere, da alcune centinaia di professionisti del.l'intimidazione. Di questi, 61 sono stati individuati e allontanati, per riporta-

re in fabbrica un minimo di governabilità...” (Dall’ intervista di Eugenio Scalfari a Umberto Agnelli, “la Repubblica”, 20 dicembre 1979). 69

non vuoi mandare Tizio all’infermeria?” e lui rispondeva: “Per la produzione”. “Se succede qualcosa tu ti prendi tutte le responsabilità,” dopodiché l’operaio andava in infermeria. Logicamente dava fastidio questo suo impegno a favore degli operai. Incominciarono gli scioperi, intanto c’era la mobilità interno-esterno che il sindacato aveva accettato senza prima sentire il parere degli operai. Il 27 di giugno il sindacato accettò la mobilità per ventimila lire di aumento. Gli scioperi finirono quando la Lancia andò in ferie, il trenta di luglio. Con il rientro dalle ferie sessantuno operai si ritrovarono licenziati, e chi erano? Erano tutti quelli che facevano casino e

che organizzavano gli scioperi. Il sindacato prima di far riassumere gli operai accettò che firmassero una carta di buona condotta, di non assenteismo, e

la maggioranza di loro per il posto di lavoro cascò nel tranello. Quello fu un doppio gioco perché solarono tredici operai.

Quando arrivò la domenica, le persone che avevano avuto l'assunzione ricevettero il telegramma che diceva che non si dovevano presentare in fabbrica. Avevano fatto la scaletta di queste persone in base all’offerta di denaro, in base agli anni che avevano lavorato, e pro-

ponevano soldi per rimandarli a casa. Gli operai si presero quei pochi milioni, firmarono, e con la bocca chiusa se ne andarono via. Intanto c’era il processo a Torino per i tredici operai rimasti. Gli avvocati di Agnelli non si presentavano mai. Il 27 di dicembre misero l’articolo che chi si ribellava in fabbrica era considerato un terrorista.? Dal 9 di ottobre giorno nel quale erano stati licenziati, fino a dicembre, mio figlio andava sempre su e giù per Torino con la speranza che gli avvocati risolvessero qualche cosa, invece ? “[...] La FIm [...] formando un collegio di difesa con avvocati del sindaca-

to, pose come discriminante per la difesa stessa la firma di un documento di condanna del terrorismo e di ogni forma di sopraffazione e intimidazione, fra-

se quest’ultima che indica chiaramente il tentativo inequivocabilmente uguale a quello di Agnelli, di associare e criminalizzare tutte le forme di lotta autonome della classe. [...] Dieci dei 61 non accettarono questo ricatto e formarono un collegio di difesa alternativo. È stata questa una delle prime prese di posizione del sindacato tesa a differenziare e a far dissociare una delle aree più combattive del movimento operaio dalle pratiche della propria autonomia di classe...” (AA.vv., Il proletariato..., cit., p.483).

70

loro non potevano fare niente perché quelli di Agnelli non si presentavano. Praticamente stavamo aspettando il motivo per cui li avevano licenziati, ma la verità era che chi si ribellava un po’ e voleva i diritti nella fabbrica veniva segnato sul libro nero. Per questo erano stati licenziati.

Erano gli anni dell’inizio della ristrutturazione, gli anni in cui cominciarono a mettere i robot in fabbrica per pressare gli operai. Gli anni dei ventiquattro mila messi in cassa integrazione che non sono più rientrati.

Io so solo che la scelta di Mimmo è partita dal fatto dei licenziamenti e dei diritti dei lavoratori che nessuno riusciva o voleva far rispettare, compresoil sindacato. A un certo punto Agnelli gli fece la proposta di avere ventiquattro milioni in cambio del ritiro della denuncia. “No no, questi milioni non li prendo finché non vengono riammessi tutti quanti a lavorare,” rispose mio figlio. Quando vide che non se ne faceva niente neanche con i collegi alternativi e soprattutto dopo che uscì la legge che chi si ribellava in fabbrica era chiamato terrorista, se ne andò.

Mi lasciò un biglietto dove scriveva che andava fuori per lavoro, che se ne andava all’estero. Non ho avuto più sue notizie finché dopo due mesi sentii dal telegiornale che avevano fatto degli arresti a Biella. C’erano Jovine Domenico, Bianchi Giuseppina, Falcone Giuseppe.

Per me fu una cosa tremenda. Era proprio la mattina di Pasqua.

Girai per tutte le caserme e nessuno mi diceva dove si tro-

vava. Andai a Biella dal giudice di sorveglianza che mi insultò dicendo che mio figlio l'avevano trovato con le armi. Io mi ribellai, mio figlio le armi non le conosceva neppure! Cominciai a urlare: “Lei mi deve fare il permesso, lei mi deve fare il permesso per andare a trovare Mimmo e poi vediamo quale è la verità. Io non credo a lei, credo solo a mio fi-

glio!”. Da

quel permesso,

da quel momento

cominciò

la via

crucis.

Mimmo si trovava in una caserma di un paese fuori Biella. Gli portai un po’ di biancheria e feci la spesa. 71

Gli sbirri mi fanno: ‘Oggi andiamo bene, andiamo proprio bene". Il pacco se lo presero loro e fecero banchetto. Fu una cosa tremenda, la prima umiliazione, la prima arroganza subita dentro quel mondo, solo perché ero la madre di un prigioniero politico. Si erano rubati anche gli asciugamani nuovi; feci la denuncia e quando ci fu il processo a Biella, in caserma mi fecero ritrovare gli asciugamani che si erano persi. Ma il banchetto con quello che avevo portato intanto l’avevano fatto.

Tornai il giorno dopo e incrociai un furgone pieno di poliziotti con mio figlio dentro. Lo stavano trasferendo a Novara. Era l’80 e lì restò solo qualche giorno, dopo poco lo portarono a Cuneo.

Quello che mi stupì tanto a Cuneo fu il maresciallo che voleva fare il pentimento, voleva comprare le mamme per convincere i figli a pentirsi. Diceva, voi siete brave persone, ditelo ai vostri figli, ai vostri mariti che vanno al colloquio, di risolvere la cosa con la spia. Questo fatto del maresciallo che voleva convincermi a tutti i costi mi fece tanto male. A parte i maltrattamenti dentro, faceva anche il doppio gioco fuori con i familiari: “Se non li convincete a pentirsi li mandiamo tutti all’Asinara,” diceva. L’Asinara era un ricatto, una minaccia, la peggiore.

Passarono pochi giorni e arrivò la sorpresa, andai e non lo trovai, me l'avevano mandato a Fossombrone, fu una risposta

perché io dissi che non gli avrei chiesto di pentirsi. Della scelta di mio figlio non mi è mai importato e non ho interferito; l’ho sempre seguito solo da mamma. Dopo dieci giorni ci fu il processo per direttissima a Biella. Mimmo, per scagionare gli altri, lesse un documento politico in cui si accusava delle armi, ma fu inutile perché per le testimonianze degli sbirri dettero otto anni ai due e tredici anni a lui, che si è fatti sani sani.

Nel documento si era dichiarato un comunista combattente, perciò gli dettero tutti quegli anni, anche se non aveva commesso reati.

Poi quello che ha detto Peci non mi interessa perché sono tutte bugie. Io ancora credo a mio figlio. 192

A Fossombrone portavo le mie valigette e le mie cose, settimana su settimana. Viaggiavo da sola o con chi capitava, prendevo i permessi dal lavoro e partivo. Facevo le pulizie all’Olivetti. Per andare ai colloqui usavo le ferie. Da Crescentino dove vivevo, andavo a Ivrea per lavorare e poi da lì direttamente al

carcere. E così, avanti per tredici anni, senza mai saltare un collo-

quio. Facevo casa e lavoro, lavoro e casa e viaggi senza fine. Non avevo mai viaggiato, avevo fatto solo due cose, lavorare in fabbrica e lavorare in casa. Facevo le otto ore di lavoro fuori casa e allo stesso tempo allevavo cinque figli. Quando si è trattato di far uscire il tempo per seguire Mimmo ho dovuto cambiare tutta la mia vita: viaggi e lavoro, riunioni, manifestazioni e tanto carcere, senza più posto per la

casa.

Lo spazio per la casalinga non c’era più.

Io non sapevo neanche leggere. Ho imparato sui treni. Ero analfabeta, ho imparato da sola dopo che lo hanno arrestato perché ho dovuto capire quello che dicevano i giornali. Durante i viaggi per andare al colloquio prendevo il giornale e leggevo e scrivevo i miei articoli per denunciare quello che succedeva. Facevo gli articoli con la mia testa: prima la bozza in brutta copia, poi le donne dell’associazione mi aiutavano a fare la

bella. Le lettere alfabetiche un po’ già le conoscevo quindi piano piano ho imparato. Non avevo mai seguito un telegiornale, né mi ero mai interessata di questioni generali, invece ora la prima cosa che vedevo in televisione era il telegiornale e capivo tutto, certo non lo sapevo spiegare bene, raccontare ad altri, però capivo tutte le cose che dicevano. Il sacrificio e la sofferenza non sono state le uniche cose vissute seguendo Mimmo, cioè molte cose sono cambiate in peggio, ma tante in meglio. Non ho solo imparato a leggere e a scrivere, a uscire di ca-

sa, a conoscere tantissime donne, ma ho imparato a non accettare più le imposizioni di mio marito che mi voleva in casa. Ero cresciuta nel sud, educata in una famiglia cattolica do-

‘ ve la donna portava il fazzoletto nero in testa e faticava in silenzio. E poi c'erano gli uomini che decidevano, così le ragazze 73

che si sposavano dovevano stendere le lenzuola dopo la prima notte per dimostrare al marito e al padre che erano vergini.

Fu trasferito a Trani dove ci fu la rivolta dei detenuti per far chiudere l’Asinara. Era il 27 di dicembre. L’Asinara era un lager, lì ai compagni le guardie davano addirittura il cibo con la pipì dentro. A chi desiderava una bottiglia d’acqua non gliela davano. L’Asinara, era una cosa tremenda. Ne sentivo parlare dalle

altre donne come una maledizione, ma solo quando vidi mi resi conto.

Lo mandarono in Sardegna. L'esperienza più dura. I marescialli più fetenti stavano là. Ti ci mandavano proprio per far pentire le persone e pure per solare i congiunti. Quello che ho passato non lo so dire. Prima cosa mi volevano bloccare i colloqui e non ci sono riusciti. Andavo per prima a fare il colloquio mi chiamavano per ultima. Per farmi perdere la nave mi facevano cose tremende perché non volevano che la mamma Jovine andava ogni settimana. Dava fastidio che facevamo il possibile per far uscire la verità. Quando c'erano i pestaggi andavamo come associazione

dei familiari ai giornali e questo dava fastidio. Questo il direttore proprio non lo voleva, infatti mi odiava e ha tentato tutto per ostacolarmi. Bocchino per me resta il peggiore direttore del mondo, anche se era un napoletano come me. In Sardegna c’era una grande festa per i turisti che venivano da tutto ‘il mondo. Lì organizzammo una manifestazione. Eravamo quasi tutte mamme. La porcheria che ci stava in Italia non la volevano far sapere, perciò il clima divenne pesante, il servizio d’ordine era tanto, era minaccioso ed era arrabbiatissimo; ci attaccammo con

la polizia, ci furono gli scontri duri corpo a corpo. Le donne lì furono coraggiose. Le donne hanno sempre fatto il possibile per far conoscere la realtà dei carceri speciali di quegli anni non solo qui in Italia. Andammo addirittura a Roma a bloccare la stampa estera per far sapere al mondo intero dei pestaggi e delle torture nelle carceri italiane, ma non mettevano niente alla luce e quello

che succedeva lo sapevamo solo noi. 74

Il rapporto con mio marito al principio è stato tranquillo, lui mi seguiva abbastanza insieme a mio figlio piccolo di quattordici anni. Al principio infatti non era cambiato niente e tutti mi seguivano, poi a lungo andare il primo ad avere fastidio fu proprio lui. Questo fatto che io ho imparato a leggere e scrivere, a viaggiare da sola, a fare le manifestazioni ha cominciato a cambiare le cose dentro casa. Lui voleva che io andavo solo una volta al mese ai colloqui e casomai in albergo. Io invece me ne fregavo e anche se mangiavo un panino freddo per strada dovevo andare a vedere mio figlio settimana su settimana. Mio marito non voleva fare i sacrifici che facevo io, voleva

andare in albergo, al ristorante, e andarci ogni tanto. Io dissi no. Dissi no a tante cose, per la prima volta.

Quando viaggiavo mi portavo i panini che compravo alla mensa dell’Olivetti e che mi duravano cinque o sei giorni, ma si spendeva troppo lo stesso. Nel treno raccontavo alle altre mamme la mia storia e a lui questo dava fastidio, mi sentivo meglio quando andavo per conto mio, con le altre. Mi piaceva la solidarietà che c’era tra le donne nei viaggi e davanti al carcere. Un’unione bella che tutti hanno temuto, non solo i mariti, ma lo stato, i direttori dei carceri che tentavano di metterci le

une contro le altre, anche contro le donne dei detenuti comuni. Noi politici avevamo

l'articolo 90, i maltrattamenti

e le

umiliazioni. C'erano invece le mamme dei comuni che vivevano diversamente la cosa. Queste facevano i colloqui, portavano quello che volevano e non avevano i vetri; noi no, per noi era tutto diverso, ma il carcere lo faceva apposta per creare le spaccature tra i fami-

liari per non farli organizzare tutti insieme. Per noi i vetri erano antiproiettili, non si capiva niente, c’e-

rano i citofoni e quello che dicevamo veniva registrato. I vetri erano la cosa peggiore che si può immaginare e io contro que-

sti colloqui ho lottato con tutte le mie forze. Di casino ne ho fatto tanto! Il direttore del carcere c’aveva una televisione nel suo ufficio e vedeva tutti i colloqui dei politici. Lo so perché sono andata a parlargli nella sua stanza e ho visto questa televisione che mandava i colloqui con le voci, si sentiva tutto. 75

I registratori aperti non facevano capire niente, davano fastidio perché facevano rumore, era una cosa troppo insopportabile. Facevamo tanti chilometri per vedere i nostri figli, per . vedere il nostro sangue, e poi non ce li potevamo neanche abbracciare. Proprio per sbloccare l'articolo 90 abbiamo fatto tante manifestazioni, ci sono voluti quattro, cinque anni per togliere i vetri e per vedere scritto qualche cosa sui giornali. Allora eravamo veramente unite. Poi i tempi sono cambiati. Tolsero l’articolo 90, ma cominciarono a fare le scalette; dicevano: “A te, se ti comporti bene, ti diamo la semilibertà, ti

facciamo uscire un giorno al mese”. Ecco, allora ha iniziato a rompersi tutta la solidarietà che c’era tra di noi e tra gli stessi detenuti. Una familiare che faceva tutto quello che diceva il direttore aveva un trattamento, quella che si comportava diversamente, che la lecca culo non la faceva, era schiacciata e pure

condannata. La stato ha fatto di tutto per dividerci, anche attraverso la differenziazione, che portò a una diversità di trattamento dei

detenuti e di comportamento tra i familiari. Per esempio, quando noi organizzavamo le lotte, i familiari dei detenuti dei carceri normali non ci appoggiavano perché per loro non c’era l'articolo 90. Il problema di lottare loro se lo posero solo quando si trovarono a essere uniformati alle carceri speciali. Ho avuto un processo. Siamo andati in Sardegna

in centocinquanta

per questo

mio processo. Mi avevano accusato di aver portato nell’armadietto del carcere roba esplosiva. La verità è questa. Mi avevano sequestrato dalla borsa che

avevo chiuso nell’armadietto le fotografie di una manifestazione contro l’articolo 90, e il volantino di Mimmo del processo di Biella. Me lo portavo sempre dietro perché a chi mi chiedeva, rispondevo: “Mio figlio si trova in galera per questo motivo”. Mi sequestrarono tutto, ma non gli servì a niente perché

Mimmo per quel volantino stava scontando i suoi tredici anni. Quel volantino era già famoso. Quando mi accorsi che la borsa era tutta in disordine e che mancavano queste cose non feci niente: se andavo a fare la denuncia mica credevano a me! Era già capitato che avevo scritto degli articoli sui pestaggi che avevano fatto in carcere e loro smentivano e facevano peggio ancora. 76

La settimana dopo però, quando andai al colloquio mi portai un lucchetto personale con la chiavetta, tolsi il lucchetto del carcere, lo nascosi e chiusi l’armadietto con il mio. Se ne accorsero perché si vede che mi volevano perquisire nuovamente la borsa, ma non riuscirono ad aprire. Quando uscii mi cominciarono a insultare, a urlare che ero solo una criminale, che ero solo una vacca, una puttana.

Tante volte loro ci dicevano proprio così, loro ci dicevano puttana. “Lei è più delinquente di suo figlio.” “Per quale motivo mio figlio sarebbe un delinquente?” gli chiesi. La mia roba non deve essere toccata, dicevo io, e gli spiegai che il documento me lo portavo dietro per fare capire alla gente chi erano questi brigatisti, che questi brigatisti erano operai che si difendevano la pagnotta di pane, che mio figlio lavorava in fabbrica. Quello gli volevo fare capire ai familiari dei comuni con il documento di Biella. Raccontai a mio figlio questa cosa e gli indicai le guardie, così lui aggredì le guardie che mi avevano detto vacca e puttana. Scattò prima la denuncia a lui per oltraggio e violenza e poi a me per la storia del lucchetto e dell’esplosivo che secondo loro stava nella borsa. Mi dettero l’articolo 421.3 Questo fatto che andavo tutte le settimane gli dava proprio fastidio. Quella mattina, prima di entrare e prima della storia dell’esplosivo, la guardia di custodia mi voleva perquisire con la mano incorporata all’interno, con la mano nella natura, allora

gli dissi: “Prima di farmi questa visita dammi il regolamento carcerario per vedere se è ammesso dalla legge”. “Noi facciamo quello che vogliamo sennò i colloqui non li fai.” Mentre mi ribellavo e urlavamo ad alta voce arrivarono il brigadiere, il vice brigadiere e tutte queste guardie di alto grado che cominciarono a spintonarmi fuori.

3 “Art. 421 - Pubblica intimidazione. Chiunque minaccia di commettere delitti contro la pubblica incolumità, ovvero fatti di devastazione o di sac-

. cheggio, in modo da incutere pubblico timore, è punito con la reclusione fino a un anno.” (Il nuovo Codice di procedura penale, Delitti contro l'ordine pubblico, p. 173, La Tribuna, Piacenza 1993?).

dali

“Non me ne vado finché non faccio il colloquio con mio figlio” dissi. Mi chiamavano sempre da sola per i colloqui proprio per farmi le provocazioni, ma quella volta mentre mi davano le spinte arrivarono dei familiari di comuni e assistettero a tutto.

Loro mi spingevano e io con i piedi puntati sul portone non mi facevo buttare fuori, questa scena la videro tutti e testimoniarono a mio favore. Il fratello di Vocaturo neanche lo conoscevo e si mise dalla parte mia insieme a Severina di Bologna. C'erano le volte che sopportavo ma c'erano le volte che non li sopportavo e rispondevo, infatti mi accusarono di oltraggio. Non mi fecero fare il colloquio, uscii e assieme ad altre donne andammo a denunciare il fatto su un giornale sardo che si era interessato altre volte delle carceri. Era un giornale dove si potevano scrivere tutte le cose che non si sapevano fuori, che nessuno diceva e che il giorno dopo venivano sempre

smentite dal direttore del carcere. Facemmo una conferenza stampa perché dicevano che noi familiari portavamo gli esplosivi in carcere, allora ogni mamma parlò dicendo la sua. Io dissi: “Ah, sì, con i vetri così alti, con i citofoni che non ci

fanno capire niente, non ci possiamo abbracciare i nostri figli, figuriamoci se adesso ci portiamo pure la roba esplosiva in carcere! Non siete forse voi che mettete la roba in carcere e poi accusate noi per toglierci il colloquio?”. 4“Clamorosa protesta di cinque familiari di detenuti a Badu ’e Carros che ieri mattina hanno simbolicamente occupato l'ufficio del giudice di sorveglianza, nel palazzaccio di Nuoro, per protestare contro i ritardi con i quali si concedono i visti per i colloqui. La manifestazione era capeggiata dalla moglie del brigatista rosso Pasquale Abatangelo. La donna nel pomeriggio è venuta alla redazione nuorese della ‘Nuova’ per esporre la situazione. [...] ‘Ieri, dopo aver ottenuto tutti i permessi possibili, dopo aver lottato per trovare un posto sui traghetti, sono giunta al supercarcere e le guardie mi hanno sbattuto il portone in faccia. Allora assieme ad altri familiari ho deciso di rivolgermi al giudice di sorveglianza e ho scoperto che a Nuoro non c'è un magistrato che svolge questo compito’. In effetti è un giudice cagliaritano, la dottoressa Marinelli, che a scavalco si interessa dei problemi dei carcerati di Badu ’e

Carros. ‘Il magistrato,’ ha detto la donna ‘è stato rintracciato dopo ore di ricerche da parte della polizia. E così abbiamo ottenuto un permesso, ma non l'autorizzazione di incontrare mio marito. Potevo entrare in carcere ma non avere il colloquio’. La protesta dei familiari dei detenuti forse avrà un seguito ‘giudiziario’, ieri, infatti all'uscita dalla nostra redazione sono stati bloccati sul cancello dalla polizia che li ha identificati. [...J”. (‘La Nuova Sardegna”, 20 agosto 1982).

78

Se non mi difendevo mi avrebbero accusato di aver portato l’esplosivo, invece venni accusata solo di oltraggio, ma tanti altri genitori si presero accuse pesanti.

Alla conferenza stampa dissi che durante il processo di Torino era uscito sulla “Stampa” che le donne avevano fatto entrare esplosivo e che avevano condannato Angela Vai e altre, e che dopo aver fatto quello che volevano dei compagni ora cominciavano con i familiari. Fu una conferenza molto bella dove io dissi quello che al-

meno per me era. Quando videro i centocinquanta familiari presenti ebbero paura, lo rinviarono. Il processo lo fecero dopo circa sette mesi, e cioè quando mio figlio non stava più in Sardegna ma a Palmi e senza nean-

che chiamarmi, dandomi quattro mesi di condanna con la condizionale. Fecero tutto da soli, io non c'ero. I familiari erano già spaccati, tanti non seguivano più, c’e-

ra chi si era dissociato. Quattro mesi di condizionale praticamente significava che mi avevano bloccato, che non mi potevo ribellare più. Non trovarono niente per condannarmi ma mi solarono

con la condizionale perché la loro parola era creduta più della mia. Fecero il processo anche a mio figlio. Dicevano che aveva pestato le guardie di custodia. Lui nel processo non si difese anche se gli avevano spaccato la testa e il braccio, anzi lesse un altro documento contro i

pestaggi che facevano a Pianosa. Quando lo vidi in quelle condizioni... “Figlio mio, che t'hanno fatto, la devono pagare cara!” pensai. Dal certificato che avevano in mano loro non risultava nul-

la di rotto. Andai all'ospedale a prendere il certificato medico originale e le lastre che gli dovevano aver fatto appena ricoverato. Il direttore in un primo momento non mi volle ricevere. La radiografia che avevano in carcere era diversa da quella che ero riuscita a trovare io, e non si vedevano le fratture. Evidentemente tra il carcere e l'ospedale c'erano dei collegamenti, degli accordi, altrimenti non si poteva capire perché in quella lastra che mi era stata data risultava la rottura, in quella che esibiva il carcere invece no. Al processo gli avvocati portarono il certificato originale, ma siccome mio figlio non si difese per il suo ideale, non servì a niente. 19

Quando il direttore vide che io c'avevo quella originale voleva sapere chi me l'aveva data, ma non glielo dissi. Ci provò allora... Mi ricevette facendo il volto buono con. l'obiettivo di incastrarmi. Il direttore Bocchino aveva questo metodo di trattarti, pri-

ma mi prendeva con le buone: “Signora ma lei è napoletana, anch'io sono napoletano”. “E che cosa volete?” “Ma lei così brava, perché suo figlio s’è buttato nelle Brigate Rosse? Anche lei conosce qualcuno delle Brigate Rosse, magari qualche napoletano?” Capii dove voleva arrivare e risposi: ‘Signor Bocchino, a me non mi interessa della politica, io non conosco nessuno della politica, io sono solo una mamma che segue il sangue del suo sangue. Se lui ha fatto la sua scelta sono fatti suoi, io sono

una mamma che segue il figlio ovunque va”. Ho aperto la porta e me ne sono uscita.

Quella volia sì mi volevano proprio incastrare, avessi detto qualcosa, avessi fatto qualche nome, in quel caso sì che avrei fatto allora i colloqui più spesso e più liberamente... Quando sono andata la settimana dopo, durante il proces-

so, il direttore Bocchino si mise sul portone d’entrata. Mi fecero fare solo mezz'ora di colloquio. Non mi faceva fare mai un'ora intera. Io accettavo anche mezz'ora. Accettavo lo stesso. Mi fa: “Signora Iovine, ma lei è dimagrita. Perché non rimane ancora tre o quattro giorni in Sardegna? potrebbe fare i colloqui tutti i giorni”. Rispondo: “Signor Bocchino io ho fatta la cura dimagrante per stare in forma, per seguire Mimmo da un carcere all’altro; grazie della.vostra gentilezza, i colloqui mi toccano mezz'ora la settimana, neanche un'ora perché lei mi fa fare mezz'ora la

settimana. Grazie della sua bontà”. E me ne andai. Quando parlavo con lui finiva sempre che litigavo. Con me non l’ha mai potuta spuntare, non dicevo più di una parola, ma intanto dopo tre giorni Mimmo lo trasferirono di nuovo, in Calabria.

Viaggi e lavoro. Non seguivo più gli altri figli. Ero sempre stata una mamma premurosa. Quando mio marito si faceva il bagno mi ordinava: “Prendimi l’asciugamano, prendimi i calzini” e in queste cose non l’ho seguito più. 80

Non ero più la donna di una volta, non servivo più, avevo altre cose, e iniziai a ribellarmi. A fare cose che non avevo fatte mai. A capire.

Ho letto tutto il libro La madre di Gorkij. Lei era un grande esempio. Leggevo e le lacrime mie scendevano. Piangevo tanto.

È una madre proletariata che ha il figlio rivoluzionario e che non smette di amarlo mai. Lei è coraggiosa, non ha paura, sfida il mondo, diventa più grande di tutto il resto. Mi immedesimavo nella sua storia un po’ simile alla mia e la prendevo ad esempio. Organizzammo una conferenza. Un convegno a Milano. C’erano migliaia e migliaia di persone e ancora più poliziotti. Intervenni con un documento. Parlai anche della realtà della fabbrica, della rivoluzione e della borghesia. Anche quelle cose lì cercai di spiegare. Le spiegai a modo mio: “In carcere ci deve andare il generale Dalla Chiesa con tutti i suoi soldatini di legno”. Lo dissi in pubblico. C'erano poliziotti dappertutto. Il documento lo scrissi io. Avevo fatta la bozza e me l’ero fatta battere a macchina. Le denunce finirono su “Panorama?” e su “l'Espresso”. Ero nel comitato dei familiari a Torino; partecipavo anche al comitato delle madri del Leoncavallo a Milano. Ero dentro l'associazione delle madri proletarie dei prigionieri politici. Non ero però una... capobanda,

ma una cosa è certa, ero

tra quelle che le guardie conoscevano meglio e che temevano di più. Con loro diventavo ribelle, mi indisponevano e io rispondevo a muso duro. Ero diversa da come ero con Mimmo. A lui volevo bene.

Il rapporto con mio figlio in carcere è stato bello, è stato molto bello. Ho pianto pochissimo, solo i primi giorni a Novara. Ho trovata una signora con la pelliccia addosso, che mi fa:

“Signora, suo figlio è politico?”. Ho detto: “Sì, s'è dichiarato prigioniero politico sin dai primi giorni”. E lei mi fa: “Signora lei si deve fare coraggio, perché io so‘ no quattro anni che seguo mio figlio”. Gli ho detto: “...cosa!? quattro anni...?!”. 81

Perché io all’inizio credevo che mio figlio sarebbe uscito subito. Lei mi disse: “Signora, i nostri figli, chi lo sa se li vediamo . ancora fuori!...”. AI che, le chiesi: “Signora, ma scusi, lei chi è?”. “Io sono la padrona della In-

vernizzi.” La fabbrica Invernizzi. Andai da mio figlio e gli raccontai che avevo conosciuto Îa mamma

madre Io mano rebbe si che

di Invernizzi. Mi disse: “‘Mammà, hai parlato con la

di un fascista!”. non sapevo neppure che fosse un fascista. Poi mano a ho incominciato a capire le cose. Ho capito che non sauscito subito e che con quel suo ideale politico, può darsarebbe stato dentro per sempre insieme a tutti gli altri

compagni. Questa esperienza mi ha lasciato stanchezza, mi è rimasto un vuoto, un vuoto dentro. Mio figlio si è fatti tredici anni di galera...

Se tornassi indietro, non è che non seguirei mio figlio come l'ho seguito, però direi: “Figlio mio... fatti soltanto i cazzi tuoi”. Ci aiutavamo tra donne. Mi dicevano che ero una che dava coraggio. Se incontravo delle madri che da tre quattro mesi non potevano andare dai figli, dicevo: “No, tu pane e cipolla, però al colloquio ci devi andare perché sennò praticamente fai il gioco dello stato, che vuole che noi abbandoniamo i nostri figli”. Ci siamo aiutate, soprattutto tra donne proletarie, perché

se devo essere sincera donne in pelliccia in questi lunghi viaggi o a dormire nei nostri sacchi a pelo non ne ho viste tante. Ho voluto bene anche ad altri compagni che erano dentro. Se uno aveva bisogno di una maglia, di altre cose, mi sono da-

ta da fare. C’è stato chi durante le lotte ha subìto pestaggi, è dovuto arrivare a rimettere denti, senza i soldi per poterlo fare. Andavamo al comitato familiari, facevamo una colletta, un po’ per uno.

Seguivo anche Severino. Per lui andammo dalla Franca Rame che ci dette dei soldi per fargli rimettere i denti che gli avevano spaccato in un pestaggio. Poi seguii anche Silvana e Giuseppina... mi dettero i permessi. Andavo a trovarle al carcere femminile di Messina. 82

Pure lì era sempre un casino, tenere.

eio la bocca chiusa non mela so

Il permesso che mi dette il giudice Caselli di Torino era a posto, andai al carcere ma non mi fecero fare il colloquio. Furono telefonate su telefonate al giudice che continuava a dirmi che lui il permesso l’aveva dato, anche se solo per quella volta, e che ora dipendeva solo dalla direzione del carcere. Intanto per allora il colloquio saltò, e con tutti i soldi spesi in telefonate einviaggi, dissi a Caselli: “Tutti i miei sacrifici a qualcosa almeno erano serviti, e cioè ad arricchire un po’ le tasche dello stato”. Volevo andare a trovare queste due donne, perché non ave-

vano familiari. Erano sole. Al carcere femminile, in paragone con quello maschile, si viveva meglio, almeno fino a un certo periodo. Il periodo di Messina ad esempio, già era diverso dal periodo di Rovigo. Rovigo era bruttissimo, ma Voghera è stato il peggiore.

Rovigo e poi Voghera vengono dopo dell'evasione di due compagne, proprio quando anche al femminile entrano i vetri.5 Ai femminili feci un paio d’anni. Voghera. Un vero speciale. Come Nuoro. A Voghera organizzammo una manifestazione fuori dal carcere. 6 5 Evasione realizzata dal carcere di Pozzuoli (Na) nel mese di gennaio 1977 da due militanti dei Nuclei Armati Proletari, Franca Salerno e Maria Pia Vianale attraverso il taglio delle sbarre nella finestra della cella nella quale si trovavanoassieme ristrette. $ “Alla popolazione di Voghera: ringraziamo tutti quei vogheresi che hanno espresso solidarietà nei nostri confronti durante la giornata di mobilitazione del9 luglio, indetta a livello nazionale per chiedere l'immediata chiusura del suercarcere femminile di Voghera. Molti di noi sono stati aiutati durante le vioente e ripetute cariche poliziesche, sottratti alla caccia all'uomo e ai pestaggi grazie soprattutto all'intervento dei più anziani fra voi.[...]Centinaia sonostatii compagni fermati, di cui tre tratti in arresto. [...] Nonostante il provocatorio divieto, più di mille compagni erano infatti già riusciti a confluire in P.zza Meardi nel primo pomeriggio, mentre centinaia di altri provenienti da tutta Italia venivano bloccati con la forza alla stazione ferroviaria e ai caselli autostradali. Una parte di questi è però riuscita a manifestare lostesso a Pavia, dando vita anumerose delegazioni di massa nelle sedi dei giornali locali. [...] L'unico episodio davvero triste della giornata è stato la morte dei tre nostri compagni Stefano (Latrella), Eleonora (Gianmarino)e Valeria (Scialabba)-quest’'ultimaera la sorella di un altro nostro compagno assassinato dai fascisti nel "78 - che sono rimasti carbonizzati nella loro auto in un incidente sull'autostrada, mentre cercavano

di giungere qui a Vogheral[...]. Nel ricordare e onorare questi compagni, ribadiamo la nostra volontà di proseguire con la mobilitazione di massa insieme a quanti vorranno esprimersi decisamente per la chiusura definitiva del lager di ‘Voghera e contro la linea di politica carceraria dello stato” (Comunicato stampa diramato dai comitati organizzatori della manifestazione dopo l'iniziativa, da AA.VV.,0p. cit.,pp.251-252). 83

Una manifestazione bellissima, collegata con le detenute: loro protestavano dentro, noi fuori. Facevano i pestaggi a Voghera. Una esagerazione! i La polizia era un mare, caricò duecento persone. Arrivarono ai lacrimogeni. Fecero una cosa tremenda, scorreva il sangue per terra. Cercavo di aiutare le donne cadute a terra. Davanti al comando di polizia mi presero a bastonate per allontanarmi, ma io urlavo: “Non mi muovo”. La manifestazione fu pesante. Avremmo dovuto, dalla stazione, arrivare davanti al carcere. I celerini ci seguivano, c’era-

no moltissimi blindati. Avevano i manganelli. Loro davanti e noi dietro, specialmente noi familiari, tutti dietro. Quando abbiamo cominciato a lanciare slogan, alzare cartelloni, urlare

“Libertà per le comuniste,” proprio in mezzo alla strada centrale, la polizia ha attaccato. Chi fuggiva veniva arrestato, chi rimaneva prendeva solo manganellate, e io stavo proprio in mezzo alle botte. E ci stava anche la madre di Grimaldi insieme a me. Stava proprio lì. Abbiamo salvato gente da terra con il sangue che scorreva. Presi in braccio due tre persone e le misi nella macchina di mio marito... col sangue che scendeva. Abbiamo anche fatte manifestazioni forti in quel periodo. Era una lotta dura contro il carcere in quel momento. Contro l’articolo 90, contro i regolamenti repressivi, contro i colloqui coni vetri. Nei femminili c'erano le stesse violenze dei maschili peggiorate dall’isolamento maggiore. Questo almeno negli speciali come Voghera. Ma a Voghera chi è che ci mandavano? Tutte le donne comuniste, quelle che si rivendicavano la loro lotta. Quelle che invece si avviavano a dissociarsi le mandavano nelle carceri normali. Anche questo gioco c’è stato: chi era più debole lo mandavano nei carcefi normali, coni tavolini. Facevano i colloqui più comodi, prendevano il caffè. Quando c’è stata questa spaccatura tra pentiti e non, ho detto a mio figlio: “Figlio mio, oramai non siamo più tutti uniti”. “Mammà, non me ne frega, io mantengo i miei ideali, mi fac-

cio tutti i tredici anni, ma esco conla testa alta. Quando esco da qua, non devo dire grazie a nessuno.”

E io sono sempre stata d’accordo conlui. A casanonriuscivo a starci mai. Oltre al lavoro, viaggiavo sempre. Iniziavo alle quattro e mezzo del mattino, e rientravo di sera alle sette. Questo quando non viaggiavo. Poi, quando viaggiavo il fine settimana non rientravo a casa, mi portavo la valigetta persino sul lavoro. Per an-

84

dare in Sardegna prendevo il treno alle 10,15 da Ivrea, a Torino

quello delle 2 e 05, che arrivava a Civitavecchia alle 9,30 e la nave ce l’avevo alle 11 di sera. Poi c’era il pullman che portava a Nuoro, due ore di pullman. A Nuoro trovavo sempre pestaggi. Lavoravo nove ore al giorno per fare mezza giornata il venerdì, e partire per le carceri. Facevo il sabato e la domenica in

giro. Il lunedì rieniravo a Torino. Arrivavo sempre alle sette e mezzo del mattino. Se avevo subito la coincidenza, andavo a la-

vorare alle dieci e poi alla sera smontavo più tardi. Invece di smontare alle quattro smontavo alle sei e mezzo. Se non trovavo la coincidenza per tornare a Crescentino dormivo sotto allo scantinato della scala che pulivo, su una sdraia. Praticamente l’Olivetti lavora sempre, e durante il periodo delle ferie facevano lavorare tutte quelle persone che avevano bisogno delle ferie durante l’anno. Una di quelle persone sono stata io, che mi prendevo le ferie un po’ alla volta per queste circostanze.

Adesso che potrei essere libera mi sono licenziata perché in fabbrica non si può più stare. Adesso anche l’Olivetti è uno schifo. Ho fatto le battaglie sul posto di lavoro per fare capire agli operai quello che non volevano capire, come sono le condizioni in fabbricaoin carcere, queste cose...

Chi voleva capire capiva, ma con il passare degli anni sono stati semprein meno. Adesso sarebbe il momento di fare le lotte, però chi è che le

fa? Una volta gli operai dicevano: “Ah, i brigatisti sono dei delinquenti!”.

Adesso che ci stanno mettendo le mani dentro e stanno vedendo la distruzione delle fabbriche, come diceva il documento

di mio figlio, adesso mi farei solo una risata e mi verrebbe da dire, sono caspiti vostri.

Mio figlio s'è fatto tredici anni di galera per difendere gli operai.

Combattiva sul lavoro lo sono stata sempre. Avevo un padre comunista, e una volta il comunista era com-

battivo. Eravamo una famiglia proletaria. Quando esisteva, il fascismo prendeva la frusta contro i proletari, oggi invece si usa la

- cartaela penna. Io al tempo della schiavitù c’ho vissuto. Sono stata educata da una mamma proletaria che mi ha insegnato a difendermi. Si 85

andava in chiesa per un buono, per avere un buono per un po’ di pasta, un po’ di pane: mi alzavo alle cinque di mattina ed ero la prima adarrivare là. Andavo da questo parroco, sentivo la messa, mi facevo la comunione e tutto, perché così ci avevano insegnato i nostri familiari, e invece così è sbagliato, è sbagliato.

Adesso non sono più credente. La fede in Dio ce l'ho, ma se devo credere al parroco, adesso non ci credo più. E non mi faccio neanche la comunione. Però credo a Dio, credo ancora a Dio.

Allora quando andavo in chiesa faceva freddo: quando faceva freddo, faceva freddo per davvero, ed ero bambina, avevo so-

lo sette-otto anni, gnotta. Mia madre “Mi volete fare Se quel giorno

andavo in sacrestia per farmi dare una paera vedova. un buono?” il parroco era di luna buona mi dava la pasta e

il pane, se c'aveva la vena a male diceva: “Non c’ho niente, non

c'ho niente!” e mi mandava a casa fredda... La fede in Dio però c’era perché se non c’era la fede in Dio non si poteva lottare così, in quelle condizioni di vita.

“Mamnmà, c’'hai’na faccia tanto brutta.”. “Non mi sento tanto bene” risposi, “ma nonè niente”.

Non gli dicevo mai non mi sento bene, ma quel giorno stavo malissimo. C'era anche il padre, uscimmo dal carcere e mi incitò a mangiare e a bere una bibita: “Prendi un po’ di aranciata, prendi un po’ di aranciata”. Quel poco di aranciata fu il mio veleno. In treno stetti tanto male, rimisi tutto, era l’ernia che non an-

dava, che s’era sforzata troppo. Fui operata d’urgenza. Una volta non si portavano i busti, non ci si curava.

Io ero urfa donna che aveva partorito alla sera e al mattino già era allavatoio a faticare. La prima causa è stata questa fatica, poi però anche i viaggi

lunghi che ho fatto, erano pesanti. Troppi viaggi, troppi pacchi, perché non è che portavo la roba solo per miofiglio, io portavo a tutti gli altri. In carcere è così, mangiano tutti assieme. Quando non si poteva portare la roba si portavano i soldi, una volta cento, un’altra duecento. E loro compravano da dentro. Poi in carcere c’era la camorra su queste cose. Una cosa che

costava cento da fuori, dentro te la facevano pagare duecento.

Gli ultimi anni Mimmo se l’è fatti ad Ascoli Piceno. Era il periodo della dissociazione. Alle iniziative i familiari non partecipavano più: chi si avviò alla dissociazione, chi si allontanò, si 86

dtA

ruppe la solidarietà che c’era tra di noi e la cosa diventò pesante. Di mia iniziativa nell'87, dopola rivolta di Trani, feci una domanda al papa, ad Amato, a Cossiga. Chiesi la grazia per miofiglio. La risposta non arrivò a me, ma a lui, per vedere se la firmava. Nonla firmò. Feci la richiesta della grazia perché non me la sentivo più di viaggiare, e poi mio figlio in fondo che aveva fatto? Quando andai a trovarlo mi fa: “Mammà, perché hai fatto la domanda per la grazia? Hai sbagliato. Ma secondo te gli altri compagni quando vedono che Jovine Domenico ha avuto la grazia si possono immaginare se la

grazia l’hai chiesta tuo l’ho chiesta io?”. Aveva ragione, ma tanto la risposta fu comunque negativa, infatti la mia richiesta fu respinta perché mio figlio era considerato un pericoloso.

Era un periodo brutto, di divisioni; come ti muovevi sbagliavi. Nelle carceri una parte dei compagni iniziarono lo sciopero della fame e mio figlio aderì. Per me aderire significò un atto di grande coraggio. Siccome lo sciopero della fame era considerato da altri compagni un metodo di lotta debole e arrendevole, scoppiarono le polemiche. Veniva considerato il primo passo verso la dissociazione. Da allora dissi basta. Basta! Ero stanchissima, quella galera non finiva mai, era eterna. Nell’88 lo mandarono a Torino per fare gli esperimenti se lottava o se nonlottava più, per vedere se aveva ancora i collegamenti conle organizzazioni esterne. Dopo quasi un anno che lo tennero sotto osservazione, lo declassificarono e gli fecero fare i primi colloqui senza vetri una volta al mese. La via d'uscita finalmente sembrava vicina e io dentro di me a quell'evento legavo una svolta della mia vita perché avevo deciso che allora avrei lasciato mio marito. Adesso sono libera... adesso mi sento liberissima, e se potessi tornare indietro certe cose, come rompere con mio marito, le

avrei fatte prima. 87

Sento però che ormai sono vecchia, mi sento la vecchiaia addosso e non posso recuperare.

Mio marito non aveva mai sopportato la mia autonomia, il fatto che avevo imparato a muovermi da sola, a vivere anche fuori della casa, a parlare in pubblico. No, questo fatto delle cose pubbliche lui nonlo accettava. Diceva che credevo di sapere tutto, di essere capace di tutto, di non aver bisogno di lui. Non condividevo le scelte che stava facendo in fabbrica. Io avevo sempre lottato, lui invece per sei milioni se ne andò in prepensionamento.

Maa parte questo, quello che lo infastidiva era la solidarietà, ilgruppo che si era creato tra me ele altre donne. Noi ciarrangiavamo. Quando andavamo in giro con il comitato per manifestazionio per fare i colloqui, capitava che dormivamo tutte insieme. A ‘me per rispetto mi facevano dormire sempre nel letto, ma c’erano gli altri che dormivano per terra, nei sacchi a pelo. Era un at-

to di correttezza verso di me, perché ero la più anziana, avevo con me spesso mio figlio piccolo. Questo non era sufficiente per mio marito. Non riusciva a capire che potesse esserci questa

collettività, questo principio di solidarietà tra noi. E il bello è che lui si sentiva e diceva di essere un comunista! Ma era un moralista, pensava che forse non era bello che

una donna della mia età non si formalizzava.

Aspettavo la scarcerazione di Mimmo perché non volevo dargli un dolore, preferivo avere la calma di spiegargli tutto, e ai colloqui è impossibile, tutto quello che dici in breve tempo poi può essere frainteso. Prima di allora però, piano piano, già mi stavo organizzando, ma mio marito fece prima di me, mi disse, o ti comporti così o sennò questa è la strada, vai via. È successo il casino. Gli dicevo che quello non era il momento, di stare tranquillo, di aspettare che uscisse Mimmo. Ma nonera più possibile sottostare alle sue regole, dopo tutto quello che avevo passato. Non ero più la sua schiava e non accettavo di ricevere ordini o di sentirmi dire, quella è la porta, te ne puoi anche andare. Me ne vado, me ne vado. Infatti, dopo trentotto anni di matrimonio mi sono divisa.

Ho fatto questa scelta tutta mia e sono contenta così. E non mi sono mai pentita.

Nessuno pensava che alla mia età sarei stata capace di cambiare tanto. 88

Da

Non piangeva, però le lacrime scendevano e lei mangiava i suoi peperoni...

Mio figlio non era a Milano. Mi sono trovata a dover affrontare una valanga di perquisizioni il giorno e la notte. Secondo i giudici e secondo la Digos io ero al corrente e sapevo tutto ed ero complice. Era andato via, era andato in Venezuela e quando seppe degli arresti dei suoi compagni stava tornando e a Lugano venne arrestato. Io seppi la cosa dalla radio. A questo punto comincia la lunga marcia per le carceri.

Si era dichiarato prigioniero politico per cui gli interrogatori non erano esistiti. i Dall’arresto fu portato a San Vittore dove fu tenuto in isolamento per quaranta giorni durante i quali io non potei vederlo. Poi lo portarono a Volterra dove feci a tempo a fare un solo colloquio prima della rivolta e prima di un altro trasferimento di cui ancora una volta seppi solo attraverso la televisione. Lo vidi al telegiornale mentre i carabinieri lo portavano

via, per un mese non riuscii a sapere dove fosse finito. Andai al tribunale, andai perfino dal procuratore capo di Milano dicendo che mio figlio praticamente era stato rapito. Né avvocati, né io, né nessuno sapevamo dove l’avessero portato. Il procuratore mi disse di stare tranquilla perché se era successo qualcosa a mio figlio o se fosse successo qualcosa avrebbe preso provvedimenti, come dire, se lo hanno ammazzato stia tranquilla che noi perseguiremo i responsabili. L'avvocato scoprì da un altro detenuto che era stato portato a Firenze. Andai a Firenze dove ebbi il primo vero impatto con quelle che poi sarebbero state le mie normalità carcerarie. 89

Arrivata a Firenze ricordo che faceva un freddo terribile,

mi fecero entrare in una stanza gelida e mi fecero spogliare e accoccolare per vedere se usciva qualcosa dalla vagina, ebbi. una perquisizione corporale cioè una visita ginecologica. Era-

no metodi studiati per spaventarti e intimidirti, non credo che se nascondi qualcosa nella vagina, accovacciandoti possa uscire. Fu uno shock. Poi il colloquio: durò cinque minuti, lontani l’uno dall'altra seduti alle due estremità di un corridoio con le guardie dietro le spalle, e basta. Da Firenze andammo a finire a Brindisi. Seppi di questo trasferimento dopo alcune settimane. Quel colloquio me lo ricordo, un film di Costa Gavras. Anche lì un corridoio lungo e stretto, una sedia a un capo e una all’altro, da una parte c'ero io e dall’altra lui; non essendo

carceri speciali non facevamo colloqui nelle sale dove stavano altri detenuti. A quella distanza giusto il tempo di chiedere come stai, cosa fai e, niente, non potevamo parlare con tutte quelle guardie e con tutti quei metri, era un colloquio tra estranei. Fu mandato a Trani. Immediatamente dopo ci fu la rivolta. La mia storia carceraria è piena di rivolte! Dal colloquio che feci a Trani, in una regolare sala colloqui, ebbi l'impressione di un carcere albergo.

Ai colloqui eravamo tutte donne, mamme e ragazze giovani. Uomini non ce n’erano forse perché i giovani erano tutti

dentro anche loro e i padri non reggevano a quell’impatto. Lungo questa mia esperienza ho visto morire di infarto parecchi padri, almeno quattro.

Le donne hanno retto, gli uomini no, gli uomini erano più fragili rispetto alla sofferenza e non avevano il senso istintivo

della solidarietà che avevamo noi, noi cucinavamo, portavamo

i vestiti per quello, per quell’altro, partivamo tutte insieme. Questo rapporto di maternità anche da parte delle giovani, che si esprimeva attraverso cose pratiche, aiuto di ogni tipo, questo modo di essere e di reagire era sconosciuto agli uomini. Io ricordo che anche mio marito veniva una volta sì e dieci no perché i colloqui non li reggeva, non reggeva l’idea di andare a trovare il figlio in carcere.

La rivolta di Trani fu brutta. Allora si chiamavano Gip, reparti speciali di pronto intervento, che entravano dentro e li massacravano di botte. 90

Successe l’ira di dio. Noi andammo ai giornali a portare comunicati, ma nessuno ti pubblicava niente, era entrato l’ordine del silenzio totale.

Eravamo lì fuori dal carcere che vedevamo partire le ambulanze con i detenuti massacrati di botte, mentre gli altri venivano tenuti sospesi a testa in giù sul tetto con i mitra in bocca. Dall’ospedale li riportavano indietro perché mentre i medici facevano i ricoveri d'urgenza per curarli, arrivava l’ordine o dal direttore del carcere o non so da chi altro, se dalla procura dove c’era quel Marinis oggi inquisito, di riportarli in carcere senza curarli, e lì mi ricordo che ci furono un gruppo di detenuti tra cui mio figlio che rifiutarono i colloqui, non ho capito mai il perché, visto che era solo una autopunizione o

una punizione per noi che eravamo fuori ad aspettare di vederli. Quelli che fecero il colloquio ci riportarono notizie allarmanti, erano feriti e ridotti tutti molto male. Da Trani li portarono a Nuoro, a Badu ’e Carros.! Lui era lì e mia nuora a Latina. Cercavamo di far gruppo tra donne. Sia per Trani, sia per la Sardegna partivamo insieme perché avevamo paura.

Arrivavamo al mattino presto con il traghetto a Olbia, il pullman ci portava a Nuoro, venivamo continuamente fermate per strada dai carabinieri, fatte scendere dall’autobus per

essere perquisite. A Badu ‘e Carros erano ore di attesa, anche lì perquisizioni, intimidazioni fatte a posta per svilirci. Perquisizioni corporali fastidiose, insistite, ripetute.

Il primo mese non c’era ancora l’articolo 90. Con la scusa che eravamo

tante, i colloqui duravano sem-

pre meno, da un’ora furono ridotti a quarantacinque minuti e poi a mezz'ora, così tu facevi un viaggio lunghissimo, due notti in traghetto, per vederlo mezz'ora. L'articolo 90 fu immesso quando mio figlio era a Nuoro. Nelle carceri speciali non passava più niente, non passavano

neanche i libri, per avere il cambio della biancheria dovevano dimostrare che la biancheria era inservibile, allora mio figlio e altri pur di avere qualcosa di fuori, stracciavano le canottiere, le mutande, e mandavano a chiedere indumenti nuovi. Una volta arrivai insieme ad altre e non ci fecero entrare, quel giorno decisero così, ci allarmammo perché ormai aveva-

! Badu ’e Carros, in lingua sarda “il passo del carro”. 91

mo capito che quando c’era qualcosa che non andava, tipo quando c’erano stati pestaggi, la prima cosa che faceva la direzione del carcere era bloccare i colloqui. A Nuoro c’era un gruppo di giovani molto solidale con noi, sempre disponibile e pronto a collaborare, furono questi ragazzi a dirci che c’era stato un pestaggio e che molti detenuti erano stati portati in ospedale. Andammo immediatamente a parlare con i medici dai quali sapemmo che tra i quattro ricoverati c'era anche mio figlio. Ci dissero che nonostante avessero ordinato il ricovero d'urgenza, i carabinieri li avevano riportati subito in carcere. Siccome non volevano che i familiari vedessero come erano ridotti sospesero i colloqui a tutti. La radio libera locale era molto coraggiosa e ci dava ampio spazio, ci faceva parlare e una notte che ci fu lo sciopero dei traghetti dormimmo lì. No, quella notte a dire il vero io non dormii lì, andai in un

alberghetto con una ragazza e vennero i carabinieri a perquisirci. Era una specie di braccio di forza che facevano con noi

donne perché speravano di spaventarci; a loro dava fastidio non solo che andavamo in massa, ma soprattutto che denunciavamo pubblicamente quello che succedeva in carcere. Facevamo continue denunce con volantinaggi, quando arrivavamo nelle città dove c'erano i carceri speciali organizzavamo cose, esponevamo striscioni.

Mi ricordo che le più giovani erano bravissime. A Trani stracciarono le lenzuola della pensione e con i rossetti, con tutto quello che avevano, fecero grandi scritte da attaccare di fronte al carcere perché almeno le telecamere riprendessero le denunce che facevamo. Le telecamere invece tagliavano per non far comparire mai in televisione gli slogan. Eravamo molto attive, non andavamo solamente a fare il colloquio, ma facevamo riunioni, dibattiti anche pubblici, ci organizzavamo insieme a gruppi di ragazzi che vivevano sul

posto. Giovani e meno giovani, eravamo unite, anche se i problemi tra di noi non furono pochi. Al di là del rapporto di solidarietà che riuscivamo a esprimere tra di noi e nei confronti di chi era in carcere, ci furono incomprensioni forse politiche,

forse no. Le più giovani, apparentemente più politicizzate, erano in

realtà gregarie alle posizioni del detenuto, per cui se il detenuto era irriducibile loro erano irriducibili, come se vivessero di luce riflessa e subissero oltre alla sofferenza, tutta la persona-

lità del recluso. 92

Si creava un rapporto di sofferenza aumentata e duplicata rispetto a quella propria. Le ragazze erano portate a divulgare all’esterno il messaggio del detenuto, l'aspetto negativo e paradossale di questo approccio che io non ho mai condiviso era che di fronte all’indebolimento politico di chi era in carcere, l’esterna facendo sue le emozioni e le scelte del congiunto, finiva con l’indebolire il suo comportamento. Capitava quindi di trovarsi disorientate e spiazzate di fronte ad atteggiamenti che mutavano, questo almeno nel comitato dei familiari di Milano che era molto numeroso e attivo. Continuavo a dire che dovevamo lottare duramente per alleviare la situazione carceraria a chi la subiva dall’interno facendo denunce contro l’articolo 90, la tortura e tutte queste cose, non ero affatto per fare una specie di battaglia ideologica, politica militante contro le istituzioni, che avrebbe significato esporre ancora una volta i detenuti. Sostenevo la necessità di una denuncia non pietistica, senza però andare oltre certi limiti “combattenti”. Comunque

ci muovessimo

incontravamo moltissimi osta-

coli e difficoltà perché davamo fastidio. Penso che avremmo potuto lavorare meglio e incidere di più se non ci fossero state frizioni all’interno del comitato che assumevano posizioni diverse, quasi camaleontiche a seconda delle indicazioni che venivano dall’ultimo colloquio fatto. È stata una grossa fatica condurre quella battaglia e ci è voluta saggezza. Ricordo il comitato di Cuneo con cui denunciai una provocazione subita dai detenuti in carcere che vennero accusati di avere nascosto dei proiettili in una radiolina, ovviamente era

una montatura. Noi dall'esterno ci mobilitammo per rendere pubblico l'accaduto attraverso i mezzi di cui disponevamo, in quel caso di una radio libera locale. Nonostante fossero stati i detenuti stessi a chiedere di denunciare l'accaduto, il comitato familiari di Torino ci criticò perché eravamo riformisti e innocentisti.

Non so perché questi sbalzi continui di scelte e di atteggiamenti provenissero

soprattutto dalle più giovani. Le madri

erano maggiormente autonome e sicuramente non dovevano affrontare tutti i problemi che si presentarono alle ragazze. Per le donne giovani infatti il carcere fu drammatico anche per un altro motivo. Credo che per sfuggire all’oppressione del carcere alcune ‘cercavano di ricostruirsi una vita con qualcun altro. Teorizza-

vano che avevano il diritto alla sessualità, e finché lo teorizza93

vano andava bene, quando poi andavano a teorizzarlo con il detenuto che magari le vedeva con il pancione ai colloqui, lì erano drammi. Il detenuto almeno formalmente quasi sempre accettava la cosa pur di non perdere quel rapporto, ma poi quando tornava in cella sbatteva la testa al muro. Chi era in carcere non aveva possibilità di scelta e il suo amore rimaneva intatto, ma chi viveva all’esterno poteva avere rapporti, avere il diritto di cercare valvole di sicurezza per non esplodere, ma andarlo a raccontare a chi era dentro io la trovavo una crudeltà inutile perché il diritto alla sessualità i detenuti non ce l’avevano. Mentire se è per la salvezza emotiva e mentale di una persona può essere meglio della verità. Molti rapporti i detenuti li hanno subiti perciò io spesso mi trovavo più dalla loro parte che non da quella delle donne. Nello stesso periodo andavo anche a Latina a trovare mia nuora. Le donne in carcere sono state più sole degli uomini. Molti genitori non avevano neanche la forza fisica di andare in giro per l’Italia, né le possibilità economiche. O erano anziani, o erano troppo stanchi, o malati, o non avevano i soldi, per cui queste donne in realtà son rimaste sole. Latina era un carcere semispeciale.

Le dinamiche del carcere femminile erano le stesse del maschile. Infatti non esiste il carcere per le donne. Il carcere è una istituzione totale e in quanto tale è maschile. Una condizione di vita ideata da uomini per gli uomini. Modellato da regole per la semplice sopravvivenza. Ma la sopravvivenza stessa della donna ha bisogni vitali e richiede cose diverse che non vengono così contemplate in nessun modo, rendendolo alla fi-

ne per la donna che lo subisce ancor più alienante e distruttivo. Anche lì te le facevano sparire sotto gli occhi: vado a Latina e lei non c’era più, andavi e non la trovavi, non ti avvertivano

mica. Non sapevi più dov'era finita.

Quella volta era stata mandata al carcere di Voghera, un carcere terribile. Era stato aperto come carcere speciale, tipo Stammheim, sembrava un carcere tedesco. Le celle in cui erano chiuse erano piccolissime, erano in isolamento, sempre sole durante il giorno e facevano solo mezz'ora d’aria. Era un carcere rigidamente speciale dove non entrava nulla. 94

Riuscimmo, con Isotta Gaeta che è una giornalista milane-

se, a far fare un servizio al Tg3 su Voghera.? Malgrado io fossi dell'ambiente, sono una scrittrice, mi conoscevano tutti, lavoravo ancora nella Mondadori, non c’era

nulla da fare, i giornali non pubblicavano una riga su queste denunce che facevamo. C'era il blocco totale di qualunque notizia. | x Mia nuora ha fatto una carcerazione terribile e come tante altre donne è stata otto anni senza avere le mestruazioni, con tutte le conseguenze fisiche e psicologiche che la cosa comportava.

Era una reazione psicosomatica che coinvolgeva l’ipofisi, era come stare in menopausa per anni e anni quando sei giova-

ne, e molte di loro ne risentono ancora oggi. Quando andavo ai colloqui con mio figlio e con mia nuora era un incubo, quando c’era l'articolo 90 non era un colloquio,

c’era una tensione terribile. Io vedevo dall’altra parte del vetro che arrivavano con delle facce distorte, scendevano al col-

loquio carichi di rabbia e credo anche di sofferenza politica e ideologica perché discutevano molto ma all’esterno non c’era corresponsione.

Erano colloqui sofferti, addirittura da sentire il peso del tempo che ci davano e che non sapevamo riempire di parole. ? “Siamo nella pianura padana, nella più ricca e felice pianura del mondo. Non c’è fame in queste campagne, non c’è povertà. Ma cosa è quel tetro blocco di cemento isolato dal mondo, cui si arriva solo per una strada fangosa? Cosa

c'è dietro quelle reti metalliche percorse dalla corrente, dietro quegli uomini in arme, dietro quei cani feroci? La superarma capace di distruggere il pianeta? L’oro di Fort Knox? No, dietro ci sono ottanta detenute per atti o sospette di terrorismo. Pericolose? Da sorvegliare con ogni precauzione? Da trattare con la severità che è implicita nel concetto di pena? Signori della giustizia e delle carceri noi vi rispondiamo sì, ma poi vi chiediamo: da sottoporre a quotidiana tortura? Da uccidere lentamente? Perché di questo si tratta [...]: è tortura, feroce tortura, far vivere un essere umano

in una specie di stretto sotto-

scala tirato al lucido, con quattro mobiletti fissati al pavimento per cui non può neppure spostare uno sgabello se vuol prendere un raggio di sole. Isolamento totale, sempre gli stessi colori, gli stessi angustissimi spazi che come

tutti sanno portano alla perdita della sensibilità, della capacità di vedere, di sentire. Parlatori ingabbiati fra cristalli infrangibili, con posti strettissimi in modo che il colloquio con i parenti si trasformi in una pantomima da pazzi [...]. Ai direttori di quotidiani e di periodici che hanno voluto riconoscermi un

contributo al rispetto della nostra professione chiedo: perché sopportiamo in silenzio questa vergogna? Al presidente della repubblica Pertini, ai segretari dei partiti democratici, ai sindacati, agli italiani chiedo: perché dobbiamo deturpare così l’immagine della nostra repubblica? Diremo tra dieci o quindici anni a chi ce ne chiederà conto che non ce ne eravamo accorti? Che non lo sapevamo?” (Notizie da Vogherorror, da L'antitaliano di Giorgio Bocca, “L'Espresso”, 17 aprile 1983). 95

Ho visto tante donne come me provare questa sensazione di non saper più comunicare.

S’era rotto qualcosa. 1 Però quando andavo a trovare mia nuora, anche a Volterra che era una situazione indescrivibile, fra donne, non so com'è, riuscivamo perfino a ridere. Anche attraverso il vetro, nono-

stante vedessi queste ragazze pallide, con volti tesi, bene o male quando però scendevano dalle loro celle riuscivamo a comunicare, nasceva una ragione in più per cui trovavamo il modo di comunicare lo stesso, con i gesti, con gli occhi, con il sorriso. Con lei, anzi con loro, perché i colloqui diventavano molto

spesso collettivi, si riusciva a parlare anche delle stupidaggini, grazie a una forte voglia di alleggerire la tensione che c'era. Con gli uomini la situazione era più rigida.

Ci bloccavamo entrambi. Io temevo con mio figlio i momenti di silenzio. Ero terrorizzata dai vuoti di parole e di gesti, ci sono silenzi pacificatori e sono belli, questi invece erano silenzi carichi di tensione dentro cui non sapevo cosa mettere, io avevo paura di dire la cosa sbagliata, lui probabilmente non si sentiva capito o forse non gli interessava nulla di quello che potevo dire, non so con precisione che cosa fosse, so solo che temevo

questi silenzi tant'è che li riempivo di notizie stupide, inutili, non impegnative. Era questa mia voce che parlava, distaccata dal mio cervello, dalle mie emozioni.

Erano tanti ed erano silenzi lunghissimi. Sentivo in lui, e la sentivo in me, la voglia di dire, ora me ne vado, basta.

Era una sofferenza vederci. Vederli*dietro il vetro... a pensarci oggi non so come potevamo reggere tutti quanti una situazione del genere. Arrivavi al vetro dopo ore di attesa, di perquisizioni, arrivavi stremata e spossata. Lì ti trovavi di fronte all’incomunicabilità che proprio il vetro ti dava. Quando loro parlavano di annientamento psicofisico, quando dicevano che lo stato voleva arrivare al loro annullamento,

avevano ragione. Ci sono stati anche dei suicidi, pochi secondo me rispetto a quanto l’essere umano riesce a sopportare.

In Sardegna avevamo tanta solidarietà da parte della gente del posto, c'erano ragazzi che ci aspettavano, che ci aiutavano 96

in tanti modi, ci accompagnavano all’autobus. Quando ripartivamo da là perciò il ritorno era abbastanza umano. Quando uscivamo dal carcere eravamo distrutte, non parlavamo, eravamo svuotate completamente di qualunque energia. Il ritorno era così, mentre all'andata si parlava, si facevano progetti, si discuteva animatamente su come muoversi, a quale radio andare, come intervenire sulla stampa, invece quando

uscivamo eravamo vuote. Se c'era l’ambiente esterno che ci rendeva questa esperienza appena più umana, il ritorno sebbene molto triste era tollerabile, se invece attorno non vedevi nulla, né gente disponibi-

le, né sensibilità ti sentivi sola completamente. Ricordo di viaggi di ritorno in cui la tristezza infinita la vedevo sulla faccia delle altre, era l’espressione di chi si sente sconfitto. A Trani la popolazione era completamente assente, non siamo riuscite in nessun modo ad avere un minimo di solidarietà e di comprensione, eravamo isolate.

Io credo che in Sardegna la popolazione avesse un’abitudine diversa al carcere, un carcere che era una presenza massiccia, i pastori, la gente sarda aveva un rapporto con il carcere vivo, diretto.

In Puglia invece il carcere era un mondo estraneo alla popolazione, era un mondo sconosciuto. A Milano c’erano nuclei di solidarietà sparsi sul territorio ed è stato più facile muoversi, raggiungere le radio, i gruppi disponibili a lavorare con noi. A Latina non c’era niente, appena carcere e che eri parente dei politici bruciata. Così capitava anche a Cuneo, dove una radio, gli abitanti del posto erano

capivano che andavi al si faceva attorno terra

a parte alcuni ragazzi di sordi.

Cercammo contatti e organizzammo manifestazioni.

Allora scioccamente ci aspettavamo più dal Pci che non da altri, così quando ci furono i pestaggi in carcere e quando tolsero perfino il riscaldamento, cercammo l’appoggio del Pci locale ma scoprimmo che era il partito che più di altri non si metteva in mezzo a queste cose, rifiutava di affrontare questa tematica. Prima di riceverci il Pci addirittura dovette chiedere l’autorizzazione a Roma, finché ci permise di entrare. Incontrammo alcuni funzionari attorno a un tavolo enorme, cominciaro-

no con il farci una predica lunghissima contro il terrorismo, 97

dopodiché infilarono una serie di vedremo, faremo, diremo. Ce ne andammo amareggiate.

Il Psi invece si dimostrò disponibile a mandare dentro un

parlamentare per vedere cosa stava succedendo e perché ci avessero sospeso i colloqui. A] Pci di Cuneo non tornammo più, invece incontrammo un

militante della federazione che ci disse che era entrato in carcere e che era rimasto sorpreso nel vedere che nelle celle dei detenuti c'erano gli stessi libri che lui aveva nella sua libreria a casa. “Ma secondo te da dove son nati questi, dalla Dc ?” gli chiesi. Capii quanto anche loro del partito fossero lontani dalla storia dei nostri figli, tanto da non capire che provenivano dalla stessa matrice ideologica. Invece loro non accettavano neppure l’idea che fossero di sinistra. La popolazione di Cuneo ci guardava con paura e con sospetto, ci teneva isolate e ghettizzate.

Mio marito era stato un comandante partigiano, era del Pci da cui uscì su posizioni di sinistra. Io ero di sinistra ma lavoravo troppo per potermi impegna-

re politicamente. La politica l’hanno fatta solo i miei uomini, io lavoravo per tutti in casa, dirigevo delle collane di libri Mondadori, facevo la giornalista.

A modo mio sul posto di lavoro però facevo politica, poi a livello culturale ero anche abbastanza impegnata, sono stata per alcuni anni nel direttivo di Italia-Cina.

Sapevo che mio figlio faceva politica, politica extraparlamentare,

e siccome

non era mai stato in clandestinità

l’ho

sempre visto tranquillamente. Con il suo arresto la vita cambia radicalmente.

Prima di tutto devo dire questo, io ho scoperto delle virtù e delle capacità di solidarietà vera, umana in persone insospettabili. Nella Casa editrice tutti quelli che avevo considerato dei compagni, quelli del Pci, da quando mio figlio venne arrestato mi tolsero il saluto, tutti, io non ho mai capito il perché, se avevano paura di essere considerati fiancheggiatori o che cosa, fatto sta che tutti si irrigidirono da un giorno all’altro. C'era il comitato di redazione, il sindacato dei giornalisti e il consiglio di fabbrica, e quelli che erano del Pci mi tolsero il

saluto. 98

Ho dovuto quindi rivedere tutti i miei rapporti politici e sociali quando mi sono accorta che a un certo momento tutto quello che avevo pensato rispetto al legame con persone con cui avevo condiviso scelte politiche simili, come se dovesse es-

sere una specie di garanzia, di investimento di fiducia e di impegno alla solidarietà, tutto questo era una illusione, era falso, erano mie certezze preconcette che in quel momento crollarono. La realtà che mi si presentava era totalmente diversa. Quelle persone che avevo sempre guardato con un certo disprezzo perché erano reazionarie e di destra, si fecero avanti per darmi una mano, si misero a disposizione per cercare avvocati. Ho vissuto questa esperienza paradossale.

Ho perso degli amici e ne ho trovati di nuovi. Quando è uscita mia nuora, dopo quasi cinque anni, mio figlio era ancora dentro. Ho dovuto cercare di raccogliere i pezzi di lei, che era sballata anche fisicamente. È venuta ad abitare con me, insieme abbiamo cominciato ad andare ai colloqui, a girare l’Italia, ma a quel periodo ave-

vano già un po’ allentato la presa, avevano tolto l’articolo 90. Con lei mi sono sentita meno sola. Prima ero io con due dentro, ora eravamo due fuori e uno dentro. È uscita in un momento in cui ero molto stanca, da anni non saltavo un colloquio, tutte le settimane, tra mio figlio e lei

era stato molto pesante anche fisicamente. Partivo da Milano il venerdì sera e tornavo la domenica notte.

Mio figlio era tra i pochissimi che non avevano saltato mai un colloquio. Io capivo che malgrado i silenzi e le difficoltà di una situazione insostenibile, il fatto che andassi, che la guardia dicesse, ‘Grimaldi al colloquio”, e che lui dovesse scendere

dalla cella, gli creava un qualche rapporto con l'esterno anche se non goduto.

È difficile raccontare anche a me stessa quello che cambia nella vita quando un figlio ti finisce in carcere. Come ti segnano tredici anni vissuti così, non so dirlo. Ho

tanti anni in più sulle spalle di quelli che avrei. Ognuno di quegli anni è valso cinque anni. — Nonè abbastanza chiaro neanche nella mia mente quali e quante sono state le devastazioni nella testa e nei sentimenti. Do

Io credo di essere stata devastata, lo sento, lo so. Mi sono aggrappata istintivamente al fatto che non potevo e non dovevo perdere il lavoro, perché ero già divisa da mio marito e al mantenimento dei miei figli ci avevo sempre pensato io. Il lavoro mi ha mantenuto attiva, mi ha aiutato a di-

strarmi. i In casa l’aria era pesante, dovevo dividermi tra mio figlio in carcere e l’altro figlio che era tossicodipendente e che viveva insieme a me. Si sovrapponevano due storie diverse e difficili che dovevo riuscire a gestire.

Il lavoro mi ha senza dubbio aiutata. Erano molte le donne che avevano un figlio dentro per reati politici e uno fuori che era tossicodipendente. Questa esperienza mi ha lasciato un arricchimento intellettuale ed emotivo, la capacità a guardare la gente con un interesse diverso, ma mi ha tolto una parte della mia vita perché in questi anni non ho vissuto per me. Ogni cosa era finalizzata a lui e all’altro figlio.

Andai a una trasmissione di Radio Radicale e il conduttore mi chiese di dire qualcosa anche a sostegno delle guardie carcerarie e dei loro diritti. Per me era una richiesta assurda, come potevo dire cose per i miei aguzzini, visto che in quel contesto erano loro i miei aguzzini? Non puoi pensare che tutto sia amore, gli risposi. Io verso le guardie e verso i carabinieri avevo un’altezzosità, questa sì di classe, che mi poneva al di sopra di loro. Il rapporto di Maria, per esempio, una donna diversa da me per estrazione sociale, per cultura, era invece totalmente

alla pari, antagonista e allo stesso tempo alla pari. Lei ricortosceva i loro comportainenti, io no.

Soprattutto all’inizio per me questi sbirri erano veramente la metà più spregevole dell'umanità, per me erano degli antagonisti naturali, non li capivo, non capivo i loro comportamenti, mi sfuggivano i loro gesti, invece Maria, donna del popolo, del sud, proletaria, lei li capiva al volo. Lei aveva la stessa chiave di comunicazione, perciò sveniva. Nel momento di tensione, di scontro anche fisico con le

guardie, lei sveniva per bloccarli, per crear loro disagio e imbarazzo. i Si buttava per terra, quello era in quel momento il suo linguaggio. E le guardie, i carabinieri, capivano quel suo linguaggio 100

che forse era lo stesso delle loro madri. Loro la rispettavano, rivedevano in lei la madre. E successo ovunque che le donne proletarie, che erano la maggioranza tra di noi, venivano trattate meglio delle altre, con meno arroganza e violenza probabilmente perché nelle mamme proletarie riconoscevano le loro. Ricordo quando al processo arrivò dalla Sardegna la mamma di Màsala con delle sue sorelle, erano vestite di nero e portavano il tradizionale fazzoletto nero in testa. Erano anziane e portavano l’antico costume di lana sardo. I carabinieri le trattavano con molto più rispetto e considerazione di quanto non facessero con me. Incarnavano la rappresentazione che avevano della madre. Tra di noi c’era questa forza straordinaria di mettere in campo tutte le nostre capacità per disarmare l’avversario, e lo

facevamo spesse volte anche con ironia, sdrammatizzando la tensione, ridendo e facendoci gioco di loro.

Dopo, in pensione o sul treno, ridevamo come le pazze, erano risate liberatorie. Quando succedeva che Maria sveniva, o che io parlavo difficile usando i miei strumenti, parole difficilissime che le

guardie non capivano, imponendogli il peso di un’altra cultura, le altre si divertivano moltissimo, non capivano neppure loro ma andava bene così. C'era questa specie di simbiosi tra di noi, speculare a quello che volevamo ottenere. Parlavamo di tutto. Maria ci raccontava di come aveva cresciuto i figli, perché e come uno era diverso dall’altro, lei era molto acuta, molto profonda. Una donna imponente, forte, teatrale, del sud. Ci spiegava di come aveva capito che il più giovane dei figli sarebbe stato capace di studiare. Raccontava la sua vita, episodi di fronte cui io restavo incantata perché era un mondo che non conoscevo, anche se non ero cresciuta nell’infanzia in

una torre d’avorio. Ma parlavo poco della mia vita che mi sembrava molto meno interessante, avrei potuto parlare di giornalismo. Io ascoltavo, bevevo letteralmente le storie delle altre.

Essere insieme dentro questa forte intimità mi ha aiutato.

Mangiare insieme sul prato vicino al carcere il panino che non

avevano

lasciato

passare...

Ricorderò

sempre

Daniela,

una ragazza bellissima a cui ho voluto bene, una volta a Badu 'e Carros. 101

Non c’era ancora l’articolo 90, io avevo portato le zucchine ripiene, lei i peperoni tagliati a metà ripieni. Il mio pacco pas-

sa, i suoi peperoni tornano indietro. Non ci risposero neppure, buttarono là il pacco di Daniela. Ce ne tornammo giù per questa strada polverosa in discesa, dove il vento ti trascinava da una parte e dall’altra sollevando una terra gialliccia. Il carcere in alto circondato da inferriate, cancelli, protetto da recinti e recinti, dominava come una fortezza su una natura ari-

da dove non c’era altro che vento e sassi. Era una strada non asfaltata fatta di curve che facevamo all'andata e al ritorno. Daniela era molto bella, anche per questo le guardie la trattavano male. Non sopportavano l’idea che lei entrasse per incontrare un uomo che era dietro le sbarre. Su di lei le guardie come uomini non avevano nessun potere. Era così bella e loro non potevano averla, non potevano toccarla.

Le ragazze particolarmente belle suscitavano reazioni di rabbia, di antagonismo e di odio. Daniela con il suo sacchetto in mano pieno di peperoni e io scendemmo per questo viottolo verso il paese e ci sedemmo su un praticello. Daniela non piangeva, le scendevano solo dei lacrimoni lenti sul viso, aveva il volto fermo, senza espressione, e intan-

to le lacrime scendevano giù.

Le lacrime scendevano e lei mangiava i suoi peperoni. Erano reazioni animalesche per cui quando ti rifiutavano il pacco, all'uscita dal carcere quel cibo non lo riportavi mai indietro, te lo divoravi, senza avere fame.

- Restammo sedute lì in silenzio e piene di tristezza finché non finì l’ultimo peperone. Eri nelle loro mani, ti sentivi in un altro mondo, in un territorio che non controllavi e che era controllato e gestito totalmente da loro, non solo il carcere ma tutta la collina, tutta la zona circostante.

Su questa strada aspettavamo sempre ore prima che la guardia del primo cancello ci facesse entrare, che piovesse a dirotto o che ci fosse il sole in agosto, senza poterci riparare neanche sotto una tettoia. Solo dopo varie lotte fatte dai detenuti, si ottenne che venisse costruita una specie di baracchetta dove attendere la possibilità di entrare. All’andata ci facevamo la salita con i pacchi, sembrava una via crucis, una desolazione senza fine.

Quando il carcere si trovava dentro la città io mi sentivo protetta, invece lì mi sentivo un loro ostaggio. Non posso più mettere piede in Sardegna, la Sardegna la 102

odio. Le guardie sarde erano le più dure, non potrò mai dimenticare il maresciallo Cubeddu. L'esperienza peggiore che ho vissuto è stato il matrimonio di mio figlio e di Pia. Non sapevo che cosa ci saremmo potuti aspettare da quella giornata, speravo che sarebbe stata comunque differente dalle altre. Pensavo che ci sarebbe stato solo il prete con noi e che avremmo potuto festeggiare, o meglio non mi aspettavo una festa, ma di vivere una dimensione umana sì.

La madre non era in condizione di andare, perciò Pia mi aveva chiesto di portarle un bolerino di lana morbida di colore chiaro per la cerimonia. Avrebbe indossato un abito di tela bianco e voleva qualcosa di morbido da mettere su. Sono andata a cercare per tutta Nuoro finché ho trovato un maglioncino rosa pallido. Lei mi aveva detto che doveva sembrare un gattino, e questa maglia sembrava proprio un gattino peloso. Ero così contenta di aver trovato quello che cercavo. Nella mia idiozia avevo ordinato una torta. In realtà avevo prima chiesto in carcere se potevo far entrare il dolce e in quale pasticceria potevo acquistarlo, loro mi diedero il nome della pasticceria fidata da cui si servivano. Prima di entrare nella cappella dove ci stava aspettando il prete mi perquisirono, mi fecero spogliare, controllarono dentro tutti i chicchi della collana di corallo che portavo. Nella cappella c’era un’immensità di guardie, come se ci trovassimo da qualche parte da cui era possibile scappare, invece ci trovavamo esattamente dentro lo stesso carcere. Erano cose fatte apposta. C'erano due detenuti come

testimoni,

io, mio marito e il

fratello di mia nuora. Gli sposi non si vedevano da anni, si incontrarono per la prima volta lì quel giorno nella cappella. Dopo il sì, appena provarono a darsi un bacio, le guardie gli furono addosso per strapparli. Ci portarono in una cella dove c’era un tavolo con su un lenzuolo di cotone pesante giallognolo, una torta ghiacciata che non si era sgelata e che non era la mia e una bottiglia di amaro per il brindisi. Rimandarono indietro la mia torta dicendo che avevano pensato a tutto loro. 103

Questa fu la festa, cinque minuti e gli sposi che non si poterono neanche avvicinare per stringersi le mani. La torta non si tagliava, mio figlio prese in mano il coltello

e io ebbi il terrore che facesse qualche atto inconsulto. Le pareti di questa cella piccolissima erano coperte da quattro schieramenti di guardie in piedi, e al centro c'erano questi due, pallidissimi ed emozionati. Dopodiché li hanno portati via. Lei da una parte lui dall'altra, in un'atmosfera agghiacciante. E questo fu il matrimonio. Io avrei voluto abbracciarla ma non si poteva. Pia e mio figlio erano stati picchiati il giorno prima, io lo seppi solo in seguito. È andata così dall’80 al ’91, quando gli hanno dato il primo permesso di tre giorni. Ricordo quel giorno in cui uscì. Doveva incontrare la moglie, non l’aveva mai incontrata fuori, lei era più spaventata di lui. Era in carcere a Bergamo. Davanti al carcere c’era un baretto, pioveva a dirotto.

Dopo tanti anni quella mattina doveva uscire alle otto. Io e mia nuora eravamo già lì alle sei a riempirci di domande di attesa. A mezzogiorno ancora non lo vedevamo, la guardia all’ingresso non ne sapeva nulla, il direttore non era disponibile, non c’era, non ricordo, chiamammo un avvocato perché ci des-

se informazioni. Non si sapeva più quando sarebbe uscito, forse il giorno successivo. Tutta quell’attesa spasmodica per nulla, ce ne tornammo a casa. Una voîta fuori lui aveva chiesto di essere portato come prima cosa in città alta, dove era cresciuto da bambino.

Avevamo programmato di portarlo in città alta, di mangiare un boccone tutti insieme, e di lasciarlo in casa con la mo-

glie. Pia era emozionatissima,

avevamo

comprato

tante cose,

avevamo riempito il frigo. Io ho sempre avuto un rapporto bello con lei, non sono sua suocera ma la sorella maggiore. Ci chiedevamo, che reazione avrà, cosa farà, che diremo?

Quando uscì lei era più emozionata di lui che invece riusciva a controllarsi abbastanza. Per tutto il tragitto che facemmo a piedi lui non la finiva 104

mai di toccare i muri delle case, camminando toccava i muri vecchi. Non parlava. Non sapeva più riconoscere i soldi, trovava tutto molto cambiato. Abbiamo vissuto insieme questi momenti di riscoperta del mondo esterno. Quando li abbiamo lasciati sotto al portone di casa Pia era spaventata, mi guardava chiedendomi conforto, non capiva come mai lei era così emozionata e lui no. Lui era emozionatissimo, ma lo sapeva nascondere, lei no.

Era solo un permesso di pochi giorni. Ora è fuori durante il giorno e alle 21 rientra in carcere. Il bambino che ha cinque anni pensa che il padre lavora di notte. Quando crescerà bisognerà spiegargli qualcosa.

105

6.

La fantasia di una bambina è grandiosa...

I miei genitori non mi hanno mai tenuta estranea alla cosa, me l'hanno fatta vivere interamente.

Ho ancora impresse le immagini di carceri, di discussioni qua a casa, di controlli, del dramma che stavamo vivendo, di mia madre che piangeva sempre. A livello psicologico era struggente. Andarla a trovare in carcere, vederla attraverso questi vetri, era brutto.

Il fatto di non poterla toccare, una cosa semplice come può essere un abbraccio o una carezza o un bacio era vietato quindi

mi bloccavo,

stavo

lì davanti

sapendo

che c’erano

guardie che registravano o ascoltavano quello che dicevo, è ovvio che non si riusciva a comunicare, a trasmettere ciò che

si provava. L'entrata stessa in carcere mi opprimeva. I controlli, la tensione che ti trasmettevano le guardie con il loro astio, l’ambiente deprimente che trovavi dal momento stesso nel quale entravi dai primi cancelli, ti angariava nel morale. Ero

una bambina, ma lo sentivo tutto dentro di me quel clima. Quando l’hanno arrestata, Teresa, ero piccola, facevo an-

cora le elementari. Non riuscivo a parlare con nessuno di questo dolore, non avevo

amiche

con

cui confidarmi,

perché pensavo

che non

avrebbero capito. Ragazzine della mia età... avrei parlato con persone che oltre a non viverla direttamente, non potevano sapere niente di quella storia. Anche per me, del resto, non era facile. Quello che fino a quel giorno avevo raccolto come conoscenza, era che il car106

cere fosse solo un luogo quasi demonizzato... in carcere ci vanno i delinquenti. Era

perciò un

segreto

che non

potevo

condividere

con

nessuno. Questo è stato pesante perché alla fine non poterne parlare liberamente, non poter esternare questo affetto e dolore che provavo, mi è pesato, perché è rimasto tutto dentro, compresso. Se ero giù dovevo giustificarlo in qualche modo... È stato un continuo sopprimere, soffocare, tacere. Ero bambina, appunto... Inizialmente il livello politico della sua detenzione non lo capivo. Crescendo ho iniziato a pormi delle domande. Zia era una persona che mi interessava e volevo capire, darmi risposte esaurienti del perché fosse lì. I miei genitori avevano sempre raccolto i giornali dove uscivano notizie su di lei, così la prima cosa è stata andarmi a vedere la rassegna stampa. Poi è stato fondamentale il dialogo con mio padre e mia madre. Mi sono posta domande quando andavo alle scuole medie. Da un rapporto confuso è diventato un rapporto chiaro, io sapevo chi era lei, che cosa aveva fatto e scelto nella sua

vita. Non era più l’affetto che provavo prima, istintivo e basta, era un affetto più maturo.

Non ho mai parlato di politica con Teresa, però a me è stato sempre bene così, nel senso che l’ho sempre ammirata perché comunque quello che ha fatto l’ha fatto per qualcosa in cui ha creduto veramente. Per me resta il fatto che questa sua scelta ha un valore, perciò non mi sono mai permessa di giudicare. D'altronde

sta pagando tantissimo, come

potrei non ap-

poggiarla? All’inizio il mio rapporto con lei era strano. Le scrivevo lettere false, piene del timore di sbagliare argomento, di dire cose che la potessero intristire. Ero concentratissima nel trovare

argomenti

divertenti

che le facessero piacere. Non ero spontanea, mi sembrava quasi sempre di dover recitare, come se qualcuno poi mi avrebbe giudicata. Le mandavo disegni colorati, collage che Teresa conserva

ancora, e lei li mandava a me. Il suo era il rapporto che si | può avere con una bambina. Ma io ero una bambina che viveva malissimo quella con107

dizione, che aveva problemi psicologici seri e che aveva domande da porre. Mia zia mi diceva sempre di essere me stessa, di scrivere di me come ero realmente. Mi chiedeva di farle arrivare di me non solo il lato simpatico, ma anche tutto il resto, tutto il vero che c’era dentro. A essere me stessa ci sono arrivata piano piano e non è

stato facile. Quando ero piccola mi portava sempre con lei, zia è una coccolona. Per me era un esempio. La sua generosità la capivo anche se ero bambina, ha sempre avuto un cuore immenso. Era contenta di darti le sue cose. È una persona chiara, coerente, pulita, incapace di creare

attriti, e questo me lo trasmetteva. Con il tempo ho capito che alla base delle sue scelte c’è qualcosa in cui lei crede davvero, e se faccio il paragone con le persone che conosco la apprezzo enormemente. Lei ha fatto una rottura, è andata fino in fondo. Di politica non capisco molto, a livello di teoria non posso parlare, ma seguo quello che succede. Il fatto di aver vissuto direttamente questa esperienza e sentirne parlare da gente che non ne sa niente e ne parla per luoghi comuni, sinceramente mi dà fastidio. Per questo preferisco spesso non entrare in argomento. Tutto quel condannare e giudicare che ho visto attorno a mia zia non mi è piaciuto. La sensibilità che ho appreso da questa storia mi ha portato a riflettere sulla giustizia, sulle sentenze, sul senso della condanna, della pena.

Non riesco a condannare nessuno così superficialmente, mi pongo domande perché la vita ha un'importanza enorme. Ho accumulato

tanta

rabbia,

certi discorsi

forcaioli

mi

danno fastidio e non sono capace di atfrontarli normalmen-

te. Divento scorbutica e litigo. Ho sentito dire del carcere cose che non hanno nulla a che vedere con la realtà che invece ho conosciuto io avvicinandomi per forza di cose a esso. Tante persone si risentono addirittura perché in carcere si mangia gratis, i detenuti

stanno troppo bene, hanno la televisione, ci vorrebbero i lavori forzati... Discorsi folli. Ho capito che il solo fatto di essere dentro, il non avere più la libertà, vedere

come

veniva

trattata

mia zia, mi ha

portato oltre, parecchio oltre queste banalità e violenze dei ragionamenti comuni. 108

Ho seguito tutti i tentativi che faceva per staccarsi da quella realtà terribile e per sentirsi un po’ più persona, più completa e più libera, il suo lottare contro chi le imponeva cose, le ricordava che era là inchiodandole i piedi. Tu non sei fuori, sei in carcere, questo sentiva Teresa quando provava ad allontanarsi dalla sua condizione. La telecamera la seguiva ovunque, perciò quando la gente dice “cosa vogliono, li manteniamo noi” io non posso sentire, non riesco a mediare, a parlare. Divento un riccio e divento aggressiva perché non hanno visto quello che ho visto io. Ho vissuto un conflitto soprattutto con la mia generazione, c'era uno stacco enorme tra la mia condizione, il punto in cui erano le domande che mi facevo, e loro.

Non parlavo di quello che stavo vivendo non per vergogna, ma solo perché la mia era un'esperienza intensa, troppo lontana da quella dei miei compagni di scuola e loro non l’avrebbero capita. Parlavamo e io ero fino a un certo punto con loro, non sa-

pevo da dove cominciare a comunicare. Ricordo il tipo di discorsi di quando eravamo ragazzini, frasi razziste e pene di morte, come se si parlasse di un altro mondo, che per me in-

vece era il mio mondo. Ero più grande degli altri, ero cresciuta prima come valori e ideali, ero già più sensibile e ragionavo diversamente rispetto ai problemi sociali in generale. Cercavo rapporti veri, sinceri, non mi andava di avere relazioni superficiali solo per gioco come normalmente si fa a quell'età. Non trovavo ragazze e ragazzi con cui stare bene insieme, ho fatto una grande fatica a stabilire rapporti di amicizia. Forse

cercavo

troppo,

ero

troppo

esigente,

chiedevo

cose

profonde, mi accorgevo che con le amiche andavano benissimo i rapporti banali di quando ti vedi il pomeriggio per giocare insieme o per fare i compiti, non poteva essere altro e io non mi trovavo. Mi ritrovavo da sola, io e la mia testa, a creare fantasie assurde, a costruire dei mondi tutti miei.

Mi ricordo tutto. A otto anni ho incontrato il carcere. L’impatto è stato triste e violento perché in quel carcere c'era la persona a cui ero maggiormente legata, con cui avrei

voluto crescere. Era un affetto bellissimo: il fatto che avesse abitato qui da noi, che uscissimo tanto insieme e che le fossimo così at109

taccate mi ha fatto vivere il tutto come un trauma. Infatti non ricordo la sera e il momento in cui si seppe del suo arresto. Non ricordo i telegiornali, ricordo solo che ci sono stati giorni orribili e tanta confusione qui in casa. Il fatto di fare tutte le serate avanti e indietro in questura, i pomeriggi in cui uscivo prima da scuola e che passavo nelle varie sale d’attesa degli avvocati, tutti questi giri, mi hanno lasciato tanti ricordi. Le strade di Torino dove c’erano gli avvocati, le sale d’at-

tesa me le ricordo tutte, ho avuto tantissimo tempo per studiarle perché a me

non

mi facevano

entrare,

io restavo ad

aspettare fuori. Ricordo sale d’attesa, aule di processo e carceri. A Voghera era terribile. Bisognava passare sotto un cancello enorme e da lì iniziava la trafila, prima i documenti che noi passavamo alle guardie attraverso le sbarre, poi le attese infinite, poi forse ti aprivano e ti perquisivano. Una bambina sicuramente è meno torturata a livello psicologico, ma io ero attentissima a mio padre e a mia madre, vedevo l’astio, le reazioni, le provocazioni e le battute brutali

delle guardie, come se non fossero persone. Ricordo le facce che avevano e non mi sembrava giusto perché noi già andavamo là a cuor pesante e dovevamo incontrare gente rozza e ostile. Non so se con me erano gentili, io me li ricordo sgar-

bati. Queste cose le capivo, ho visto invece la reazione di mio cugino Alex, piccolino, quando è venuto a Roma con noi, l’ha

vissuta tranquillamente e in maniera un po’ superficiale perché non si rendeva conto fino in fondo e forse anche perché non aveva un rapporto con Teresa prima che entrasse in car-

cere. Riustiva quasi a viverlo come un gioco. Non lo è mai stato purtroppo per me.

Per me lei era sempre stata come se fosse una seconda mamma. A parte la quantità di tempo che passavamo insieme era bello quello che si faceva. Anche se ero una bambina mi rendevo conto che c’era un affetto speciale tra di noi.

Mi portava con lei anche quando usciva con il suo ragazzo, quando andavamo in mansarda. Non credevo che il nostro amore si sarebbe rafforzato così tanto, invece nonostante il carcere, tra i colloqui e le lettere siamo riuscite a stare insieme lo stesso. 110

Da quando mi ha lasciata che ero una bambina, ora sono adulta e i nostri discorsi negli anni sono mano a mano cambiati. Prima le chiedevo solo come stava, con chi stava, che faceva, se le facevano del male, mi interessavo solo di questo,

cercavo di capire come era quel mondo che per me era un altro pianeta. C'era l'ossessione che le facessero del male, che la picchiassero. Poi ho iniziato a vedere il complesso della situazione, a pormi anche domande di altro tipo, e le poche domande timi-

de sono un po’ alla volta diventate domande a raffica. Abbiamo parlato molto, lei mi chiedeva un rapporto sincero, voleva che le portassi i miei dubbi e tutto ciò che mi creava problemi anche rispetto a lei. Da quando mi sono sbloccata ho anche smesso di recitare, ed è successo quando sono andata al fondo delle sue scelte. A quel punto sono stata meglio. Questo suo continuo stimolarmi a capire mi crescere e a cambiare in meglio il rapporto che l’inizio. Ovviamente tutto questo mi ha attraversato l’età dell’adolescenza, quando oggettivamente si Era tanto più grande di me, ora invece siamo

ha aiutata a avevamo alproprio nel-

cresce. sorelle.

Per anni questo evento mi ha provocato un sacco di problemi psicologici, piangevo tanto, ero disperata nel pensare che avrei anche potuto non vederla mai più, che non sarebbe mai uscita. Ai colloqui era sempre tesa, aveva un viso sciupato, si ca-

piva che soffriva e questo mi era insopportabile. Quando hai un rapporto così intimo con una persona, un rapporto di complicità e di intesa, se ha il viso cupo, se soffre, tu lo capisci e quella sofferenza me la trasmetteva con l’espressione degli occhi e io non riuscivo a togliermela dallo stomaco.

A distanza di un metro vedevo soprattutto il suo viso perché altro non potevo fare, in quelle condizioni, sulle panche di lamiera, il vetro spesso che avevi di fronte, con dei telefo-

nini, dai quali era quasi impossibile parlare. A un certo punto cominciarono a togliere i vetri. C’era un varco piccolo attraverso cui potevamo parlarci.

Quel giorno Teresa riuscì a infilarsi dentro e a oltrepas.sare il bancone che ci divideva arrivando dalla parte dove stavo io. 111

Ci abbracciammo giusto il tempo di qualche secondo, prima che tutte le guardiane già le fossero addosso. ma

Nononstante questa violenza, fu una sensazione bellissivederla avvicinare e vederla tutta intera, dalla testa ai

piedi.

Ai primi colloqui ascoltavo molto. Facevamo i turni per parlarle tra noi che la andavamo a trovare. Se andavamo in tre o quattro, dividevamo il tempo per stare con lei, di fronte al buco del vetro. Quando arrivava il

momento mio non sapevo che dire, era talmente tanta l’emozione che il magone mi saliva su e mi stringeva la gola. Non riuscivo a parlare, la guardavo solamente. Però poi le cose lei riusciva a tirarmele fuori e allora si addolciva il clima. Se questa esperienza mi ha fatto crescere e capire tanto

della vita è stato solo grazie al continuo comunicare. Nella mia adolescenza è stata una presenza fondamentale. È stata una tragedia e una cosa bellissima, tutte e due le cose insieme. Una tragedia forse anche perché ero piccola e non riuscivo a capire, perché, perché, perché?... le fanno del male?.. e quando esce? e forse non uscirà più?! Io mi riempivo la testa solo di queste cose e le vivevo dentro l’ansia che c’era in casa. Ero fragilissima allora, bastava una piccola lite, una discussione, una parola che mi toccava dentro, e reagivo piangendo. La sera a letto era il momento

peggiore, avevo tanta pau-

ra, pensavo che dovevo andarla a prendere per tirarla fuori. Avevo vistò un film dove il protagonista aveva un orologio magico che riusciva a fermare il tempo e le persone e riusciva a spostare i corpi, a modificare le situazioni come voleva. Allora io sognavo di avere quell’orologio per cambiare tutto, per spostare Teresa. Era il mio chiodo fisso e la fantasia che avevo era eccezionale. I miei occhi erano macchine fotografiche che studiavano tutto quello che c’era in carcere. Ricordo nei dettagli gli ambienti in cui passavo per incontrarla, li studiavo e ci pensa-

vo su. 1.12

Raccoglievo tutto, dai film, dai discorsi, da quello che mi capitava per escogitare un piano di evasione.

La fantasia di una bambina è grandiosa. Ero convinta che qualcosa si poteva fare, bisognava solo studiarla bene. Un momento bellissimo, era quando ricevevo la posta. Arrivava una busta unica con varie lettere per tutti. Ogni lette-

ra era costellata di timbri con scritto “CENSURA”! Quella indirizzata a me la divoravo. Ero felicissima in quei momenti.

E a ogni ritardo mi veniva il patema d’animo, temevo che non volesse rispondermi perché la lettera che le avevo scritto non era giusta. Casomai era una lettera-diario in cui avevo voglia di confidarmi su problemi miei personali, in cui le ponevo dei dubbi sull'amore di mia madre nei miei confronti, cose delicate che riuscivo a dire solo a lei, cose difficili che potevano an-

che turbarla. Invece lei rispondeva sempre e io saltavo dalla gioia, era il segno che c’era e che il nostro rapporto continuava. L’ultima volta che le ho scritto è successa la stessa cosa. Dopo una mia lettera intima e complicata è passato tanto tempo e lei non mi rispondeva. Ero già in piena crisi, non capivo il perché di tanto silenzio, finché un giorno mi ha telefonato dicendomi che a giorni le avrebbero concesso il suo primo permesso. Alla mia lettera ha risposto sicuramente meglio a voce. Quando è uscita in permesso, sono andata anch’io a pren-

derla fuori Rebibbia. Era tanta l'emozione che quando è apparsa, non riuscivo a dirle nulla. Ma parlavano gli sguardi, i movimenti che ci trasmettevamo. Da Torino a Roma, avevo viaggiato con un magone dentro che è esploso non appena l’ho vista fuori dal cancello.

! “[...] La corrispondenza in partenza indirizzata a persone non detenute

(per un lungo periodo quella a persone detenute non era permessa n.d.a.) e quella proveniente dall'esterno è sempre sottoposta a visto di controllo del direttore o di persona appartenente alla amministrazione penitenziaria designata dal Direttore dell'istituto. La corrispondenza epistolare, sottoposta a visita di controllo, è inoltrata o trattenuta

su decisione del magistrato di

sorveglianza o dell’autorità giudiziaria che procede; [...]”. (Decreto ministeriale 28 aprile 1983, in aA.vv., Il proletariato..., cit. p. 266). L'avvenuta applicazione della censura viene evidenziata con timbro su ogni foglio dello scritto in questione.

113

Vederla tutta intera, senza controlli, poterci abbracciare in piedi, senza che una guardia ci urlasse o aggredisse... Sono scoppiata in un pianto, ma era di gioia

e commozione...

non sono riuscita a dirle niente, ma bastava il poterci toccare, per trasmettere tra noi.

In quei cinque giorni che è rimasta, abbiamo parlato pochissimo, è stato un continuo piangere di gioia. Abbiamo passato ore a carezzarci le mani, a baciarci... È stato meravi-

glioso. Spero sia solo l’inizio!

114

ce

Coordinate per passarci le informazioni su quello che accadeva da un carcere all’altro...

Pasquale fu arrestato il 29 ottobre del 1974. Il 30 ottobre in casa della madre c’era già la prima riunione di famiglia, a cui parteciparono il cognato maggiore e altri uomini. La cosa che mi fu detta fu: “Che cosa pensi di fare? Dove li metti i bambini, in collegio?”. Questo mi fu detto immediatamente dopo la venuta meno dell’autorità maschile in casa mia. A parlare così erano le stesse persone che avevano chiuso Pasquale nella casa d’assistenza quando era bambino. Per loro quindi era normale pensare a una soluzione analoga anche per i miei figli. Non lo facevano per cattiveria: nella loro ignoranza e nella loro difficile condizione di profughi greci, quella del collegio appariva come la soluzione meno catastrofica per tutti, figli compresi. Ovviamente io non la presi neppure in considerazione. Sarei prima dovuta morire sepolta in una bara piuttosto

che dare ascolto a quelle parole. Chiusi lì senza mai più tornare sull’argomento e prendendo le distanze dalla famiglia di mio marito. Fin dall'inizio non mi sono intesa con la suocera. Si rifiutava di tenermi i figli quando andavo a trovare Pasquale, aveva un'’ostilità nei miei confronti dovuta soprattutto al fatto che secondo lei ero io la causa della fine che aveva fatto il figlio. Ero più grande, non l'avevo controllato abbastanza, ero di indole ribelle, e lavoravo, mentre una donna che ha

due figli non può lavorare. Mi campava mio fratello che all’epoca mi passava trentamilalire a settimana. Mi arrangiavo a cucire e tiravo su qualche lira come sarta. È stata dura ma ci s'è fatta. Non so dire come.

115

Il processo di Napoli, anche rispetto al primo grado di Firenze, fece clamore,

c’era attenzione,

non si entrava

se non

quando corte e detenuti erano già tutti in aula. Specialmente i. primi giorni usarono delle tecniche di sicurezza meticolose, dal controllarci le borse alle perquisizioni personali minuziose.

Reagivamo malissimo, con rabbia, pensavamo che quelle cose fossero un'eccezione e invece divennero la normalità. Allora ancora non si specializzavano: c'erano metodi rudimentali, le gabbie non erano quelle che avrebbero inventato di lì a poco tempo. Quello che si può definire lo scontro dei familiari con le istituzioni cominciò a Napoli, nel processo dei Nap, nel ’76.! Non volevano addirittura che entrassimo in aula, poi ini-

ziarono a chiederci i documenti, a perquisirci, tutte cose a cui non eravamo abituati perché prima di allora non esistevano.

Ci furono reazioni piuttosto forti da parte nostra. In certi momenti si arrivava allo scontro vero e proprio, si arrivava a spintonarsi con gli agenti.

' “Sull'onda dei movimenti di lotta che presero avvio nel 1969 all'interno delle carceri italiane si formarono, tra i prigionieri, un certo numero di avanguardie politiche e di lotta. Alcuni gruppi della sinistra extraparlamentare s'interessarono a questo movimento con proprie commissioni. Lotta Continua, in particolare, dopo aver costituito, nel 1970, una commissione carceri, nel 1971 dedicò una parte del suo giornale quotidiano a questo problema con la rubrica ‘i dannati della terra’. Dopo la svolta del 1973, in cui Lotta Continua

rifiutò ogni prospettiva d'uscita dalla legalità, molti militanti abbandonarono quella organizzazione. È di questo periodo la formazione delle prime aggregazioni, a Firenze (nel Collettivo J. Jackson), e a Napoli, dei militanti che daranno vita ai Nuclei Armati Proletari, organizzazione particolarmente interessata ai movimenti dei soggetti sociali maggiormente emarginati: proletari pri-

gionieri, proletàriato marginale e del Sud. [...] Un'importante riflessione generale sull'impostazione politica dei Nap viene elaborata in forma di autointervista nel giugho 1975. In questo documento vengono esposti anche gli orientamenti organizzativi basilari. In particolare viene detto: ‘I Nap sono nati da precise esperienze di massa in vari settori, che hanno spinto alcuni compagni a porsi concretamente il problema della clandestinità. [...] Noi vediamo la si-

gla Nap non come una firma che caratterizza un’organizzazione con un programma complessivo, ma come una sigla che caratterizza i caratteri propri della nostra esperienza.[...] La nostra esperienza ha portato alla creazione di nuclei di compagni che agiscono in luoghi e situazioni diverse, in maniera totalmente autonoma e che conservano tra di loro un rapporto organizzativo e di confronto politico”. [...] Nel dicembre 1977, tre prigionieri dei Nap elaborano un documento di bilancio in cui, considerando esaurita la loro esperienza, motivano la loro confluenza nelle Br. Altri prigionieri, invece, scontano la pe-

na per la loro militanza senza aderire ad altre organizzazioni. [...]" (La mappa perduta, in Progetto Memoria, vol. I, pp. 65-67, Coop. editoriale Sensibili alle foglie, Roma 1994). 116

I detenuti ricusarono tutti gli avvocati e anche questo fu un

fenomeno nuovo.? . Idetenuti erano distanti dal pubblico, erano sopraelevati rispetto a dove stavamo noi. Si creò un clima teso, l’aula era stracolma di giornalisti, noi

si doveva subire mentre chi era nelle gabbie veniva maltrattato. C'era questo grosso apparato visibile e compatto contro di noi: loro da una parte e noi dall’altra. Andare tutti i giorni in aula, vedere i nostri familiari dentro le gabbie che venivano picchiati... Avevo seguito altri processi e il clima non era lo stesso, si trattava solo di tenere un contegno,

ma se veniva detto qualcosa o fatto un cenno agli imputati non succedeva nulla. A Napoli invece venimmo strattonate, portate fuori di peso. Questo quando dalle gabbie i detenuti leggevano i loro comunicati e le guardie li picchiavano trascinandoli via e allora noi reagivamo. I giornalisti la raccontavano a modo loro, così venne fuori la necessità di organizzarci per poter dire la nostra. L’Afadeco cominciò a costituirsi a Napoli e per un periodo si limitò a essere un fenomeno locale.3 Partendo da Velia, Virginia e altre si creò un minimo di coordinamento. ? Conla revoca degli avvocati di fiducia, i militanti delle Organizzazioni comuniste combattenti che in quegli anni vengono processati, intendono rifiutare il ruolo di imputati che lo svolgimento del procedimento penale intende loro assegnare. Da un comunicato letto da alcuni militanti delle Br durante lo svolgimento di un processo a loro carico presso la Corte di Assise di Torino in data 19 maggio 1976 possiamo leggere: ‘Ci proclamiamo pubblicamente militanti dell’Occ Br e come combattenti comunisti ci assumiamo collettivamente e per intero la responsabilità politica di ogni sua iniziativa passata, presente e futura. Affermato questo, viene meno qualunque presupposto legale per questo processo: gli ‘imputati’ non hanno niente da cui difendersi. [...] Per togliere ogni equivoco revochiamo perciò ai nostri avvocati il mandato per la difesa e li invitiamo, nel caso fossero nominati di ufficio, a rifiutare ogni collaborazione col potere”. (aa.vv., {lproletariato..., cit., p.196). 3 L'Associazione familiari detenuti comunisti, viene costituita nel 1978 e registrata ufficialmente come associazione presso lo studio di un notaio. Dal suo atto di fondazione, possiamo coglierne chiaramente carattere e obiettivi che alla sua costituzione si pone. Troviamo in esso scritto infatti: “La proposta di adesione a questa associazione è rivolta a tutti coloro che hanno dei familiari in carcere. L'esigenza di costituirci in associazione è sorta per affrontare tre ordini di problemi: 1) La difesa del diritto alla vita dei nostri familiari reclusi nelle carceri di stato perché abbiamo constatato come questo stato non garantisce altro che la sua volontà di annientamento fisico-psicologico-sociale nei loro confronti; 2) La difesa del nostro diritto alla vita perché proprio in quanto familiari veniamo discriminati, considerati di fatto ‘colpevoli’ e oggetto di provocazione continua; 3) L'assistenza reciproca per affrontare insieme tutti quei problemi di carattere economico che di volta in volta si porranno. [...]" (Documento

inedito. 1978). 117

Non ero ancora tra le più attive perché andavo e venivo da Firenze, però seguivo tutte le riunioni. Il punto centrale era organizzarsi per non subire. Parlavamo di tutto quello che non andava, dei colloqui limi-

tati ad alcuni giorni, dei controlli che ci facevano, dei disagi nel doverci adeguare all’assoluta mancanza di elasticità delle regolecarcerarie. All’inizio il comitato voleva essere questo. Fui tra le prime a conoscere l’Asinara. Non conoscevo la Sardegna e quel viaggio sembrò senza fine. La nave nonl’avevo mai presa prima d'allora. Per andare ogni volta ci volevano tre giorni, i figli li lasciavo dalle zie; solo d’estate e alle festività portavo Marco, il più grande. C'era anche un problema economico per cui andavo quasi sempre da sola. Ero operaia in una ditta di montaggio lampadari e lavoravo part time, di meglio non riuscii a trovare. Per un periodo la mattina facevo la commessa in un alimentari, servivo e portavo la spesa adomicilio, casa e bottega, poi la sera lavoravo inditta. Ma non ce la facevo più a reggere quel ritmo, i bambini avevano bisogno di me, non potevo dividermi, perciò decisi di lavo-

rare solo come operaia. Da quel momento non so bene come sono andata avanti. Avendo due figlioli e un lavoruccio, dei familiari io ero sicu-

ramente tra quelle che avevano meno soldi di tutti. Se c’era un'emergenza l’Afadeco interveniva a dare una mano economicamente attraverso le collette continue che si facevano. Molto spesso mi hanno pagato il viaggio per l’Asinara o per Favignana. Andavo anche da Nicola spinta non dal senso di dovere in quanto cognata, ma perché era un amico, era stato sempre in casa con noi, lo conoscevo bene. Lui non c'entrava nulla con la storia di Piazza Alberti, in appello infatti fu assolto e uscì; andò latitante ed entrò nei Nap finché non fu riarrestato nel ’76.4 4 In P.zza Alberti il 29 ottobre 1974 un nucleo dei Nap assaltò la Cassa di Risparmio di Firenze. Nel corso di quella azione di autofinanziamento avvenne un conflitto a fuoco con i carabinieri che si concluse con la morte di due militanti di quella organizzazione, Luca Mantini e Sergio Romeo, e il ferimento di altri due, Pasquale Abatangelo e Pietro Sofia, i quali vennero arrestati poco dopo ad alcuni chilometri di distanza dal luogo della rapina. Nel corso dello scontro a fuoco rimase ferito anche unagente. 118

Non c’era nessuno che andava a trovarlo così andavo io, mi

sembrava una cosa del tutto normale. A quell'epoca io e gli altri familiari eravamo convinti a non lasciare mai senza colloquio chi era in carcere, in questo sia-

mo state molto brave. i

Nei momenti di emergenza, se si sapeva che a un carcere avevano pestato qualcuno, anche se non era un nostro, andavamo tutti insieme.

C'era tanta solidarietà tra noi. Le donne in tutto questo sono state le più presenti, a parte

qualche eccezione maschile come fu per esempio Ermes Ognibene di Reggio Emilia, una bella persona. Facemmo tanti viaggi insieme. In generale però erano mamme, sorelle e mogli piuttosto che padri e fratelli ad andare e venire da un carcere all’altro. L'uomo era una presenza sporadica. La donna credo che sia più disponibile in ogni caso. C'erano questi viaggi fatti tutte insieme per andare ai colloqui, sulla nave all’Asinara. La cena con i panini portati da casa, il mangiare preparato per loro, dormire nei sacchi a pelo o in due nella cuccetta del treno per risparmiare, era un intreccio di cose anche piacevoli e ricche, di grande bene e solidarietà. Erano rapporti intensi, in certi casi vissuti in modo divertente quando la situazione lo permetteva e la tensione calava. Anche l’allegria era un aspetto di quei momenti. E tanta solidarietà. Arrivavamo all’Asinara o a Nuoro e i colloqui erano stati sospesi, oppure il mare era mosso e dovevamo restare a Porto Torres per quattro giorni.

I soldi non ce li aveva nessuna di noi, mettevamo tutto insieme e dividevamo le spese per dormire: chi aveva cento, chi aveva cinquanta, in due avevamo settantacinque. Funzionava così. Al di là dei viaggi e dei giorni che passavamo insieme, c’erano le telefonate continue che ci facevamo per tenerci costantemente in contatto, per sapere da chi era andato in carcere per ultimo se e che cosa era successo. Ci tenevamo sempre informate. Tutte avevamo i numeri di telefono di tutte, per cui ogni notizia arrivava nel giro di pochissimo. Se accadeva qualcosa di grave nel carcere partivamo subito con le denunce; bastava ‘una telefonata a testa fatta a catena perché partisse la denuncia; ne abbiamo fatte a milioni e non si è mai saputo che fine 119

hanno fatto, Solo quelle contro dì noì non sono state archivia» te; ìl processo a Maria ne è un esempio, Maria partiva dopo aver fatto nottata a fare le pulizie ìn fabbrica, A ogni no le reazioni poì erano quelle che erano, Maria, lei partiva da Ivrea con ì soldì contati, arrivava ìn carcere è sì sentiva dire, questo non passa, questo no, quest’altro no, Era pesante,

Se le banane quel giorno non le facevano passare voleva dìre che te le riportavi indietro, che riprendevì ìl treno dìstrutta dì stanchezza con le banane molli nella borsa,

Cì fu l'evasione della Vianale e della Salerno da Pozzuoli. Frano gli annì in cuì sì sparava da ambo le partì, glì annì dell'emergenza, 1 pestaggi venivano fatti a tamburo battente,

Fra anche

tobre del "793

ìl periodo delle rivolte all'Asinara, mì pare l'ot-

l detenuti vivevano in condizioni pessime, lì pestavano ìn continuazione, non avevano niente e non potevano vedere nes-

suno, Noì dovevamo fare tutto il golfo dell'Asinara per andare a

Cala d'Oliva dave attraccava il battello per ì familìari.® Bra un giro lunghissimo, Occupammo l’utticio dì sorveglianza dì Sassarì per chiede re che dalla Pelosa cì portassero direttamente a Fornellì se guendo lo stesso tragitto breve delle guardìe che era possibile tare anche con ìl mare mosso.È *La ‘battaglia del 2 ottobre* (1979) una rivalta messa in atto daì detenuti politici mel reparto Fornelli dell'isola, seguente a una serie dì ristringìmentì delle condizioni dì vita interne è dì provocazioni praticate dalla direzione del carcere nei confronti dei reclusi, a seguito del ritrovamento dì un piano dì evasione rinvenuto nelle tasche dì un militante dell'organizzazione Br al momento del suoAarresto avvenuto a Roma, Alla conclusione dì questa battaglia seguiranno nell'isola mesì, è per alcunì dei polìticì ìviì rìstrettì altre un anno, di condizioni dì detenzione inumane caratterizzate da pestaggi è vessazioni, Sì creeranno attorno a questa situazione prodottasìi momenti di mobilitazione

è dì denuncia sia interni che esterni alle carceriì, Nel dicembre 1990 le Br se questrano il magistrato Giovannì D'Urso, responsabile presso ìl MGG, del Lutticio addetto alle assegnazioni dei detenuti, lancìiando la parola d'ordine: \VChiudere l'Asìnara* Lo stato giungerà a trattare, è ì detenutì polìticì lasce ranno detinitivamente Uisola ì Rîudice D'urso verrà rilasciato ìl 15 gennaio nelle vicinanze del Ministero dì praziìa e piustizìia a Roma, S Fornelli, Cala d'Olîva, Cala Reale, Traboccato ecc. sono sezioni del car cere dell'Asinara, distanti fra loro anche alcunì chilometri, nelle qualì vengo no ristretti ì detenuti, * Pelosa, isolotto situato tra Stintino è Pisola dell'Azinara. uv

Dopo la protesta tirarono fuori una vecchia bagnarola per pescare tutta di legno e ce la misero a disposizione. Quel giorno eravamo un gruppetto di sei, sette donne. Dentro questa barcaccia che andava su un mare forza nove all’inizio si cantava, poi iniziammo ad aver paura, pensammo che ci saremmo rimaste secche. Il bello di questa barca era che il gabbiotto di legno dove avremmo dovuto viaggiare era sommerso d’acqua. Arrivammo

sull’isola bagrate fradice, da capo a piedi. Prima di salire sul gippone ci spogliammo completamente, tirammo fuori quei pochi indumenti asciutti che avevamo in borsa e ce li dividemmo. Laura mi dette una maglia lunga, dovetti togliermi perfino le mutande e feci il colloquio in quelle condizioni. Anche Pasquale era mezzo spogliato perché dopo la rivolta gliavevano bruciato praticamente tutto. La sera quando tornammo indietro sulla jeep, gli agenti cominciarono a provocarci, a dirci che la barca non sarebbe ripartita. = "Sta notte ciccia fresca, dormirete come le mucche, vac-

che,” così parlavano di noi. Avevamo il terrore perché nelle loro mani avrebbe potuto capitarci di tutto. Mettemmo i panni ad asciugare sul motore della barca e ci coprimmo con alcune coperte che eranolì. Eravamo livide dal freddo tremendo che c’era. Sembrava di essere in tempo di guerra. Quell’occupazione ce la fecero pagare così, eil terrore addosso ce lo portammo per diversi giorni. Prima, a Cala d'Oliva, i colloqui li facevamo in un posto tre-

mendo ma almeno senza vetro. A Fornelli, trenta chilometri al dilaà dell’isola, ciistallaronoi vetrieicitofoni.

È stata una cosa da non raccontare. Il non potersi toccare, il sentire questa voce distorta e metallica. Fu una delle invenzioni più cattive. In un rapporto c'è il problema dei corpi, del bisogno del contatto fisico che il carcere censura di per sé, ma il vetro fu la fine

della possibilità di toccarsi una mano, di sentirsi vicino. Fu orribile, inimmaginabile. Non potersi toccare neanche la mano è micidiale, è stata la

tortura più pesante in assoluto. Eri lì che avevi bisogno di tante cose e ti avevano tolto il benché minimo spazio. La prima volta che potemmo riabbracciarci provai una sensazione pazzesca.

AI di là di quello che avevo da raccontargli e di quello che volevo sapere di lui, la mia grande esigenza era vederlo, prendergli la mano, toccargli un dito. 121

Dopo questo inferno dei vetri ci fu un periodo brevissimo di apertura, addirittura ci portavano in una cella adibita a saletta incui simangiava tutti insieme.

Dopo un paio di colloqui ci fu la chiusura: tornarono i vetri e non riuscii più ad arrivare fino alla fine dell'ora. Da parte mia e da parte della maggioranza di noi c'è sempre stato il rifiuto delle perquisizioni vaginali. Con noi che eravamo le giovani andavano pesanti, non si limitavano a farci spostare il reggiseno, ma a denudarci come vermi. Ci costringevano a spogliarci e a fare flessioni; mentre alle perquisizioni vaginali sono riuscita a oppormi, le flessioni completamente nuda ha dovuto farle perché altrimenti non mi avrebbero fatto fare il colloquio. Per questo c’era lo scontro. La storia andava quasi sempre così: ad esempio, è stato trovato un seghetto nella cella di tizio, per cui oggi dobbiamo sottoporvi alla perquisizione, alla flessione, e se ti rifiutavi non en-

travi alcolloquio. Probabilmente fu per questo motivo che alcune ragazze smisero di seguire il compagno in carcere, per non doversi umiliare, perché non ce la facevano ad affrontare quello scontro fisico. Si partiva da Torino per l’Asinara, da Firenze per Favignana, da Ivrea per non so dove, e non sapevi se facevi il colloquio, se lui era sempre lì o l’avevano trasferito, se ti visitavano. Era un’avventura vera e propria, un andare incontro non si sa bene achecosa. ; Era ovvio che si reagisse male, che dentro lo scontro non potevamo essere passive. Andavamo alle televisioni locali, alle redazioni dei giornali, ma non usciva nulla, a parte qualche trafiletto invisibile. Nell’80icomitatiesplodonoin tutt'Italia. Aumentando il numero dei detenuti cresceva anche quello dei familiari e cresceva il bisogno di organizzarci. Mentre si moltiplicavano i comitati, le donne di Napoli continuavano a te-

nere le fila dell’Afadeco. L’Afadeco era in una fase di stanca, ci si era fermate al livello dell’informazione, della circolazione di notizie, della solida-

rietà tra i familiari. Eravamo tantissime, era il dopo Moro e c’era l’esigenza di parlare di più, di fare qualcosa. Organizzammo manifestazioni ininterrottamente. 122

Dopo Morola vivibilità nel carcere andò sempre a peggiorare, icolloqui erano solo coni vetri; le cose peggiorarono talmente tanto che ci voleva qualcosa che andasse al di là delle nostre esigenze solidaristiche, ci voleva un’organizzazione che uscisse all’esterno, nel sociale, che avesse una risonanza diversa, e che

aprisse un dibattito più politico che non coinvolgesse solo i familiari dei detenuti. Come essere una presenza, come far sentire la nostra voce? I comitati avevano un’ambizione più politica e furono in grado di organizzarsi meglio. Ogni comitato cittadino faceva le sue riunioni e proponeva iniziative, c'era poi un coordinamento nazionale che si incontrava periodicamente. Cercavamo di agire coinvolgendo le forze politiche, partiti che non ci dettero mai retta, e soprattutto gruppi di movimento. Erano i primi anni ottanta, si cominciava ad aprire il discorso della dissociazione,

c'erano i primi tentativi di chiudere

quella storia di lotta armata e si intravedeva lo spiraglio per un dibattito politico. Prima si era vissuto tutto in modo spontaneistico, per neces-

sità, per emergenza,

dovevamo

essere unite, compatte: altri

problemi non ce li eravamo mai posti. Ora avevamo bisogno di dire la nostra in quel contesto, non per entrare nel merito del dibattito specifico sulla lotta armata, che non era cosa nostra, ma per definire il modo ei termini della nostra tenuta, dei rapporti e dei riferimenti politici che intendevamo aprire. È fuori discussione che la dissociazione intervenne a spaccare anche al nostro interno e rese necessario un confronto approfondito su come muoverci di lì in poi, ora che lo stato aveva inventato un provvedimento premiale e di abiura allo stesso tempo. - La nascita dei comitati partiva dall’esigenza di tenere in piedi l’organizzazione dei familiari che in quel contesto si stava sfaldando e di pari passo i rispettivi familiari si allontanavano o venivano di fatto un po’ isolati. Non era ancora quel fenomeno dissociativo degli anni a seguire, ma si sentiva nell’aria un clima di cedimento e di sgretolamento anche tra di noi. I comitati forse avrebbero dovuto prevenire questo sgretolamento. A Firenze io e un’altra compagna andammo porta a porta per cercare di trovare adesioni per mettere in piedi il comitato. E così, in modo capillare, si è fattoin altre città. 123

Con un elenco di nomi e gli indirizzi giravamo la città suonando campanelli. Il comitato di Firenze, che era uno dei più attivi, è durato un anno e mezzo. I comitati in quegli anni hanno avuto un ruolo importante, ma credo che ci prefiggessimo troppo e questo ha segnato la fine. Eravamo familiari di comunisti e la maggioranza di noi erano comuniste, perciò se bisognava scegliere un interlocu-

tore non andavamo certo dal cardinale. C'era chi pensava, all’interno del coordinamento, di poter essere un'alternativa politica, un'organizzazione, ma questo secondo me non era compito nostro. Noi non dovevamo andare troppo oltre l'ambito del problema attorno a cui eravamo nati.

C'era il grosso dibattito all’interno delle Brigate Rosse, c'era stata la spaccatura del Partito guerriglia col Partito comunista combattente, e tutto questo noi lo recepivamo, però erano questioni che non avrebbero dovuto riguardarci più di tanto come purtroppo è successo.ì Come Anna, come compagna, potevo fare tutti i discorsi politici e le scelte che volevo nei luoghi opportuni, ma lì, nel comitato, ero la moglie di Pasquale, una familiare che in quell'ambito

doveva tenere presente in primo luogo le ragioni per cui era sorto il comitato, che erano il far sapere della realtà dei compagni nelle carceri speciali, la chiusura di queste: lottare sì, ma restando sempre nell’ambito del carcerario. Invece le cose presero un'altra svolta perché prevalse il bisogno di inserirsi in un dibattito assai più alto che andava troppo al di là delle intenzioni originarie. A questo punto la dissociazione e il pentitismo erano esploS Il sequestro del giudice D'Urso rinvia, ma non cancella, il segno della crisi politica che hanno iniziato a vivere le Br. Dopo l'uscita dalle Br della Colonna Walter Alasia di Milano, avvenuta nel novembre dell'80, nel mese di settembre del 1981 avviene la seconda rottura al loro interno. Il Fronte carceri,

una delle sottostrutture dell'organizzazione, dopo aver effettuato il sequestro dell'assessore napoletano della Dc Ciro Cirillo, e l'esecuzione di Roberto Peci,

ex militante dell'organizzzione accusato di tradimento — operazioni condotte autonomamente dal Fronte rispetto alla direzione dell’organizzazione — decide di dividersi dal resto delle Br e chiamarsi Partito della guerriglia. (Br-Pg). La restante organizzazione sceglierà di mutare da quel momento la propria sigla in Brigate Rosse per la costruzione del Partito comunista combattente (Br-Pcc). La rottura viene vissuta con particolare veemenza e partecipazione attiva nelle carceri giungendo a provocare, sia sul piano politico che su quello di vita interno, profonde lacerazioni tra i militanti detenuti.

124

si e al nostro ir:terno fu un vero disastro, c’era tra di noi chi si

domandava “Ma perché no?”, e c’era chi, appena uno in carcere si dissociava, come prima cosa isolava la madre o la moglie.

Quest’esperienza era diventata durissima e difficile da gestire, troppe tendenze differenti, troppi scontri, troppe difficoltà che hanno portato alla disgregazione del gruppo. Ognuno si fece la propria strada pagandone tutte le conseguenze. Chi non fece la scelta della dissociazione venne rinchiuso in carceri ancora più dure senza che, a differenza del passato, ci fosse una solidarietà attorno, senza che il punto di riferi-

mento dei familiari organizzati operasse sul territorio. A livello personale ho sempre avuto un grande dispiacere dentro, che Pasquale non vedesse crescere i suoi bambini. Credo che questa sia stata la cosa che mi è pesata maggior-

mente. Avrei voluto che in tutti i momenti belli che io ho vissuto con i figli ci fosse stato anche il padre, non solo per me e per loro, ma soprattutto per lui. Invece me li sono vissuti tutti da sola. I figli sono stati privati della presenza del padre, però a parte Marco che capiva di più perché era già grandino, aveva quattro anni, Andrea, che aveva un anno e mezzo, non ricorda

nulla di questo padre. Voglio dire che la grande sofferenza dell'abbandono forse quando si è così piccini è assai attenuata. Senza dubbio la figura di Pasquale gli è mancata, ma non tanto quanto loro sono mancati a lui. Chi in tutta la storia ci ha rimesso maggiormente rimane mio marito, che dei rapporti familiari veri non li ha mai vissuti, a parte il rapporto che ha avuto con me. A sei anni venne chiuso in un collegio da cui uscì che ne aveva quattordici. Non aveva mai avuto un rapporto con la madre e con il padre, non sapeva che cosa fosse una famiglia, e anche quando cominciammo a stare insieme in una casa tutta nostra, aveva solo diciotto anni: vivevamo in modo fantasioso, senza regole, senza famiglia.

Non mi sarei mai voluta sposare, ero e sono ancora oggi contro il matrimonio, ma a una serie di cose in quei primi anni

in cui stavamo insieme ho dovuto adeguarmi. C'era una casa a disposizione a fianco di mia suocera, che 125

pose il veto: se non eravamo sposati non avremmo potuto metterci piede. Avevo già Marco di un anno, che tra l’altro portava ancora il mio cognome, e non avevamo una lira. Pasquale riuscì a convincermi e diventammo marito e moglie, ma il nostro non fu

mai il rapporto tradizionale. . Per me lui resta il mio amico, il mio compagno, non mio marito.

Io non volevo una famiglia forse perché non mi era mai mancata; portavo un'infanzia molto bella dentro, un ambiente

affettuoso e unito e questo per me aveva significato tanto. Avevo vissuto cose che lui non conosceva, credo per questo mi dispiace più di ogni altra cosa che lui non abbia potuto vivere un vero rapporto con i figli. Dopo due mesi eravamo già a vivere per conto nostro. Ho sempre saputo chi era Pasquale, al di là della scelta della lotta armata e di quella mattina a Piazza Alberti. È sempre stato, come si dice, una testa calda, sempre coe-

rente, non so, forse parlo così perché ne sono innamorata. Con i figlioli c'è stata chiarezza fin dal principio, il loro padre era lì, era dei Nap prima e delle Br dopo, aveva fatto cose di cui non si era mai pentito. Discorsi chiari, di fronte cui i ragazzi non lo hanno mai accusato di essersene fregato di loro, la cosa è stata affrontata serenamente e insieme, per quanto fossero piccoli.

Non si stava sempre a lagnarsi sul babbo, insomma.

Intanto Pasquale Abatangelo ha continuato a riempire i giornali di Firenze per anni e anni. Chiunque venisse preso o sospettato per qualcosa, in cro-

naca usciva che era amico dei fratelli Abatangelo. A casa erano perquisizioni continue, ogni volta che succedeva qualcosa venivano e mi buttavano tutto sottosopra con i mitra spianmati.

Ho fatto sacrifici per fargli fare una vita uguale a quella che facevano gli altri bambini che avevano anche il padre, infatti nonostante non avessi soldi, tutte le estati li ho portati al mare, prima con mia sorella e i nipoti. E lì erano tutti uguali. Marco come tanti bambini giocava a pallone, io lo andavo a prendere, a riportare, cercavo i soldi per le scarpette, facevo quello che per gli altri bambini facevano sia il babbo che la mamma, mi arrangiavo facendomi carico di tutto per non fargli pesare quella condizione di assenza in casa. 126

I figli li avevo desiderati e sapevo che gli andava dato il massimo che era possibile anche nel caso in cui non ti danno nulla, so che senza aspettarmi qualcosa come madre devo sicuramente dare tutto quello di cui hanno bisogno. Per cui l’ho vissuta cercando di fare alla meglio e mi sembra che siano venuti su abbastanza bene. Mi sono sforzata di riuscire a mantenere in piedi il loro rapporto con il padre, facendo da filtro, senza essere pressante e senza mai costringerli a fare qualcosa per lui. Per esempio non hanno mai avuto una corrispondenza costante con Pasquale; se avevano voglia scrivevano, è stato un rapporto spontaneo, senza forzature. Andavo al colloquio quasi sempre da sola, all’inizio perché non potevano perdere la scuola o per un problema economico, quando sono diventati grandi io gli chiedevo: “Vieni anche te?”.

“No, non ci vengo.” A me dispiaceva, ma capivo che il forzarli a fare certe cose non era giusto. Tuttora quando Pasquale è uscito a dicembre per il primo permesso dopo diciannove anni, Andrea era dalla sua ragazza, l’ha visto solo gli ultimi due giorni prima che rientrasse in carcere. Secondo me vale molto di più un rapporto così, che non un

rapporto fatto di doveri e pressioni morali. Senza dubbio Pasquale i figli se l’è persi, il rapporto va ricostruito da capo quando uscirà perché i ragazzi non lo conoscono,

non

ci hanno

vissuto

insieme,

potrebbe

essere

un

estraneo.

Gli vogliono bene, non c’è dubbio, ma sono venuti su solo con me, lui non c’era, questo è chiaro, e la chiarezza è un buon

punto di partenza. Abbiamo parlato tanto, da sempre, e io credo di conoscerlo molto bene. Il nostro rapporto si è sviluppato attraverso il carcere, i colloqui. Non sono mai riuscita a scrivere oltre a poche informazioni essenziali. Per lettera non riesco ad aprirmi. Quando è uscito in questo primo permesso non mi sembrava che fossero passati tanti anni, era strano che in casa con lui

fosse di nuovo tutto così naturale, come una volta. Non è vero, non è possibile, mi ripetevo in quei giorni. Finché non l’ho visto uscire dal portone di Rebibbia non ci credevo, sapevo che avrebbero tirato fuori all'ultimo momento qualche storia. Riaverlo anche se solo per pochi giorni in casa mi è sembrata

una

cosa

irreale,

dormirci

insieme,

tantissima

emo-

zione. 27

Se mi vedo e ripenso a come ero, mi trovo invecchiata, ma Pasquale è sempre lo stesso, e me lo ricordo bene come era,

ma forse perché ho continuato a vederlo negli anni, a sentire l'odore della sua pelle, che mi sembra sempre uguale, come se non fosse cambiato. Un minimo di rapporto con il corpo, misero misero, ma l’abbiamo continuato ad avere, abbiamo continuato a conoscerci.

Nonostante questa incredulità che fosse vero averlo in casa, l'abbiamo vissuto in modo naturalissimo l’esserci ritrovati lì dove ci conoscemmo.

Pasquale infatti lo conobbi proprio qui, nella casa in cui ora Vivo.

Oltre alle manifestazioni, al sindacato e agli approfondimenti vari, andavo anche a ballare. Ci ritrovammo a questa festa. Lui era uno dei più bravi di Firenze a ballare e mi piacque subito. Da quel giorno stemmo sempre insieme.

Tornai a cucire in casa perché dovevo assistere mio padre che intanto si era ammalato di cuore, e Pasquale invece di an-

dare a lavorare come falegname veniva a farmi compagnia. Mio padre non lo poteva vedere, diceva che era greco e che i greci erano tutti delinquenti. Dopo un mese e mezzo tutto quello che avevo sopportato di mentalità assurde e di regole che vigevano in casa esplose. Ruppi con mio padre che intanto non aveva più la tessera alla Dc, da quando Moro ventilò la svolta di centro sinistra. Io e Pasquale andammo a vivere insieme e ci inventammo un nostro modo di stare insieme, uno stare insieme senza fa-

miglia.

Forse non abbiamo mai avuto un vero rapporto di coppia, non lo so, sono domande che mi pongo. Forse abbiamo sempre avuto un grande rapporto d’amicizia, ma una cosa è certa, un

gran coinvolgimento da parte di Pasquale a partire dai figli non c'è quasi mai stato. Voglio dire che il rapporto che abbiamo da più di vent'anni è il nostro rapporto, a prescindere dai figli. Non sono stati loro, di questo sono sicura, a legarci per tutto questo tempo e io non mi sono mai sentita in dovere di andare da lui, era una scelta libera, un desiderio mio di starci insieme. Più di un cer-

to numero di giorni non posso stare senza vederlo, ho bisogno di sapere che cosa fa: chissà, magari sono più io a voler sapere cosa fa lui, che non il contrario. 128

Gli ho sempre raccontato di fuori, dalla difficoltà di pagare le bollette alle mie storie personali, anche se da parte sua non c’era questo grande interesse di sapere. È una cosa strana, senza dubbio anomala.

Ho seguito Pasquale perché era Pasquale, non perché era mio marito o il padre dei miei figli. Semplicemente perché l’amavo. Ma non ho fatto Penelope alla guerra e non sono stata a piangermi addosso, mai. Mi pareva impensabile impormi una

vita di castità e non pareva giusto neanche a lui. Ho cercato di vivere. Questo non significa che ho vissuto bene o che ho avuto una vita affettiva piena, perché il mio compagno non sta qui con me da quasi vent'anni. Ho vissuto tutto il disagio della mancanza di un uomo nella vita quotidiana, avrei voluto averlo anch'io senza dubbio. Le storie che ho avuto sono state momentanee. Dall’86, cioè da quando ho subito l'operazione non ho più avuto relazioni con uomini per scelta, perché non mi interessa più averne, non so quanto c’entri in tutto questo l’intervento e

i condizionamenti che mi ha lasciato. Il fatto di andare a trovare Pasquale, di toccarlo e di provare emozione, il fatto che

sia stato per mia scelta l’unico contatto fisico che ho vissuto in tanti anni, ha un senso rispetto alla solidità dei miei sentimenti verso di lui.

Ho passato momenti terribili di cui l’ho messo a conoscenza solo alla fine, come quando ho dovuto operarmi per un tumore. Era l’86. Non sapevo come sarebbe andata a finire, se ce l'avrei fatta a superare il male, mi diedero solo qualche spe-

ranza. Feci un inventario generale e in quel momento non trovai dentro di me grossi rimpianti o grosse colpe. Capii che la scelta di Pasquale certo mi aveva cambiato la vita, ma se me l’aveva cambiata era solo perché anch'io avevo fatto una scelta precisa. Una scelta non solo umana e affettiva, ma anche politica in senso largo. Ho continuato ad averci un

rapporto per la stima che provo, per come era e per come è, perché mi ritrovo bene o male sulla sua stessa strada a tutti i livelli. Non parlo del condividere le soluzioni che ha scelto, le posizioni che ha assunto nel corso del tempo rispetto a cui sono ‘sempre stata molto critica, non di questo quindi, ma del filo

delle idee che ci ha tenuto uniti. 129

Nel dicembre ’86 quando stavo cominciando a riprendermi dall'operazione

che avevo

subìto, mi chiamarono

presso

la

questura di Firenze a seguito di una diffida che mi avevano dato nei primi anni ’70. Appena giuntavi, dopo pochi preliminari i funzionari presenti cominciarono a farmi un vero e proprio interrogatorio sui comitati dei familiari e su singole e precise persone

che loro sapevano

in quegli anni avevo conosciute.

Persone le quali, alcune almeno, nel frattempo avevano fatto scelte di vita anche differenti tra loro. A un mio rifiuto al loro gioco, risposero presto. Fui arrestata nel marzo dell’87 con l'imputazione di partecipazione a banda armata e associazione sovversiva. Un paio di pentiti mi tiravano in ballo su fatti risalenti a dieci anni prima. Per ragioni di salute mi diedero da subito gli arresti domiciliari. Ai vari interrogatori che seguirono mi fu presentato un foglio nel quale casomai dichiarare la mia dissociazione, ma non

avevo da che dissociarmi e non ho mai fatto un verbale. Fui così condannata a due anni e mezzo in primo grado e assolta poi definitivamente in appello. Ci fu comunque un seguito.

Il processo e forse anche il mio modo di comportarmi hanno fatto sì che si venisse a creare una situazione assurda. Quando Pasquale ha iniziato a chiedere i permessi per uscire in licenza —- eravamo nel ’91 - pur avendo al proposito relazioni positive dal carcere, se ne trovò una contro dalla questura di Firenze. Una relazione su di me a dire poco assurda, nella quale si parlava‘ai giudici di una mia dubbia moralità, di una inesistente condanna per banda armata e una sfilata di presunti sospetti che andavano

dai contatti con le Br, fino allo

spaccio di droga. Il risultato di tutto questo fu che, mentre sembrava intravedersi una soluzione per Pasquale perché potesse uscire almeno in licenza, tirarono in ballo me, e ci sono voluti tre anni per poter arrivare al suo primo permesso.

Non ho mai partecipato attivamente al mondo della politica, a parte l’impegno nei comitati. Però come coscienza individuale sono cresciuta, e credo di

averla messa anche nell'educazione dei figli. Ero per lasciarli liberi nel loro spazio, gli indottrinamenti non mi piacciono, e poiché a me la famiglia ne aveva fatti di tutt'altro tipo, non mi piaceva comunque l’idea di seguire il loro stesso metodo e non l’ho seguito. Ero cresciuta in una famiglia borghese cattolica. 130

Mio padre era tesserato nella Democrazia cristiana. Fra morta mia madre e il nostro negozio che gestiva soprattutto lei era fallito. Avevo ventun'anni e già sulla chiesa avevo le mie perplessità. Dal mondo della sartoria dove era tutto bello, sfilate da Pitti, profumi

e sete, andai

a lavorare

in un supermercato:

precipitai di colpo in un altro mondo. Mi ritrovai a contatto con le persone, quelle vere che fino ad allora non avevo conosciuto. Ricordo che andai a mangiare a casa di una ragazza e per la prima volta vidi una tavola in cui si mangiava solo pastasciutta. Lei e i suoi fratelli, dopo il primo, si alzarono, avevano fini-

to. Io ero abituata al primo, al secondo, al contorno e alla frutta. Questa cosa della pastasciutta e basta mi dette uno schiaffo che mi fece svegliare. Capii tante cose, cominciai

a domandarmi

se forse c’era

anche chi non mangiava neanche la pastasciutta. Dalla pastasciutta in poi andai a interessarmi di come girasse il mondo. Questo a ventun’anni. Nei due, tre anni a seguire, prima di conoscere Pasquale, avevo fatto una strada mia di riflessione, ero andata a fondo

delle cose, avevo capito che la realtà non era quella in cui ero vissuta io. Dalla pastasciutta in poi sono cambiate tante cose. Di solito non mi guardo indietro perché sono abituata ad andare sempre avanti giorno per giorno, ma se provo a girar-

mi dico, non è possibile che sono passati tanti e tanti anni, una vita.

131

8.

Dovrò fare tutto da sola

È la domenica del 3 aprile del ’77, la domenica prima di Pasqua.

Mi telefona da Firenze per dirmi che rientrerà in ritardo, deve incontrare una signora per vedere un appartamento. Studia lì architettura e al fine settimana in genere torna a Bagnacavallo; non tornerà in tempo per il pranzo. Mio marito mi lascia l’auto e va con degli amici a fare un giro, io aspetto mia sorella e andiamo in piazza giusto per non stare sempre dentro casa. Quando rientro vedo una macchina, un’Alfetta rossa, la vedo parcheggiata. Avevamo degli amici borghesi di Ravenna che avevano proprio la macchina uguale, e mi dico, che bello, è venuta a trovarci Arianna.

Metto la mia macchina nel garage ed entro in casa dove trovo mio marito: “Non preoccuparti, non allarmarti”. eChec'e?” “Sono venuti quelli della questura a fare una perquisizione.”

“Su che cosa?” “Ma”, dice, ‘riguarda Renato, io non capisco cosa è successo”. ) Con mio marito ci sono alcuni signori che cercano di tranquillizzarmi. “Non si preoccupi signora, non è niente, dobbiamo fare solo alcune domande a suo figlio.” “Mio figlio studia a Firenze, anzi mi ha telefonato che avrebbe fatto tardi perché doveva incontrare una signora che gli doveva affittare un'appartamento.” “Sì sì va bene, ha delle foto di suo figlio? non è che ha un paio di occhiali?” “Da vista li ha ma li porta lui, a volte, non li usa sempre.” “E dei berretti, delle giacche?” 132

Gli do una giacca che gli ha regalato mio fratello, una giacca di velluto blu che non gli piace per niente. Prendono questa giacca, prendono queste foto. “Non si preoccupi signora che queste non andranno perdute.” Quelle foto sono un ricordo del cugino. Niente, non trovano niente, chiedono se possono telefona-

re. Noi cerchiamo di controllare che non mettano il registratore, la cimice dentro al microfono ma ci mandano dietro allo

sgombraroba dove i miei suoceri fanno le sedie rustiche; loro facevano quel mestiere lì. Renato mi aveva lasciato il numero di telefono della sua ragazza con cui stava a Firenze. Telefono e mi risponde un'’altra ragazza: “Signora, Renato l'hanno arrestato”. “Ma come,”

dico. “L'hanno arrestato però adesso le do il numero di un avvocato che noi conosciamo, si rivolga a lui e sentirà un po’ co-

sa può fare.” Questi poliziotti non mi dissero che l’avevano arrestato,

dissero solo che stavano facendo delle indagini per gli attentati alle sedi della Dc e alla sede della Confapi a Firenze. Contatto la fidanzata ma lei non sa dirmi nulla di dove si trova Renato, è solo molto scossa.

Quel giorno, se me lo ricordo! Non ero più capace di connettere, non sapevo cosa fare, cosa dire.

Prendo gli appunti del vecchio Potere Operaio e brucio tutto nel camino, così di primo acchito mentre mi chiedevo che

cosa mai cercassero; è proprio fuori dalla mia logica pensare mio figlio in galera, in prigione per delle cose di quel tipo, non ci avrei mai pensato, anche perché in un paesino come questo dove tutti si conoscono, si sa tutto di tutti. Mio marito è molto più emotivo di me, non riesce a man-

dar giù neanche un goccio d’acqua: "Domani andiamo a Firenze”. “Aspetta, dove andiamo, chi contattiamo se non abbiamo

un punto di riferimento?” dico, cercando di mantenere la calma. Voglio aspettare per capirci qualcosa, per avere un'idea di che cosa sia successo, di quale è l'accusa. Sul giornale del giorno dopo c’è un articolo di un certo Raggi, non dimenticherò mai le cose che dice di mio figlio, c'è questa fotografia orribile dell'arresto. Mio figlio è un dinamitardo, dice che ha fatto attentati, ed è anche accusato di una

rapina alla Tecnotessile di Prato: aveva aspettato la sera... c'è 133

insomma tutta la storia dell'arresto e la foto con la giacca blu che si è portato da casa. Io non posso pensare che c'entri minimamente in tutta questa storia perché proprio non ho mai. pensato a lui in quel modo. Poi, niente, telefono all'avvocato Lionelli di Firenze e partiamo. Così inizia la storia. Tuttavia sembra tutto tranquillo,

tranquillo nel senso che Vigna, il procuratore che fa le indagini, ci riceve dicendo che questo ragazzo ha sempre dimostrato di avere degli interessi diversi. Gli spiego che noi gli abbiamo dato i soldi di cui aveva bisogno per vivere a Firenze, per studiare e che non ha mai cercato altre strade per procurarseli. Sembra semplice, sembra tutto chiarito, quasi risolto con quella chiacchierata. Tre giorni dopo finalmente ottengo il permesso per vederlo. Non faccio che piangere. Renato mi chiede di stare tranquilla perché la cosa si risolverà, insomma lui minimizza. Ma ciò che più mi sconvolge è l'impressione che a lui del carcere non importi nulla, ho la sensazione di parlare con una persona tranquilla. È l'avvocato che ha assistito all’interrogatorio del magistrato a dirmi che mio figlio appare molto determinato nelle sue scelte, affatto sconvolto.

Anche lui ha la stessa mia impressione: a mio figlio non importa niente di stare in carcere, questo mi lascia senza parole, senza parole. “Ascolta Renato, ti rendi conto di dove sei? Capisci che co-

sa comporta anche per noi?” Il suo vero dolore sembra essere solo questo: l’aver inevitabilmente coinvolto noi nella sua storia, ma intanto dice che non c’è nulla da temere e che tutto finirà al più presto. Vorrei credergli, ma dentro di me ho il timore che e'è qualcosa di più consistente dietro, che c'è una storia che non si risolverà così tranquillamente. E infatti passano i mesi...

L'impatto con il carcere è traumatico, non ho mai pensato nella mia vita di dover andare in questi luoghi anche se ho sempre saputo della loro esistenza, però un conto è sapere che c’è qualcun altro, un conto è sapere che c’è tuo figlio. Tutte le prassi, tutte le vessazioni che ti fanno, quelle non le potevo immaginare, ma alle Murate va ancora grassa, qui è un carcere normale che non prevede neanche la vigilanza all’esterno dei carabinieri. 134

. Alle Murate resta dal 3 aprile fino a quando tenta l’evasione, il 22 febbraio del ’78.!

Dell’evasione l’apprendo dalla radio. Sono in casa, ho la radio vicina mentre lavoro: impaglio le sedie. “Sgominata una tentata evasione al carcere delle Murate.” Capisco che a evadere deve esserci mio figlio e un altro. Sbattei la testa nel vuoto perché sento del poliziotto morto. Ecco, è fatta, adesso non esce più, non esce più, non esce

più. Che facciamo? Non ce la faccio ad aspettare gli interrogatori, devo vederlo subito. Mio marito non ce la fa a venire, io parto il giorno dopo, è un venerdì, vado da sola, non mi importa niente, voglio sapere dov’è mio figlio. Che cosa gli hanno fatto? Sicuramente l’avranno pestato. Mi aspetto di non trovarlo più alle Murate. Figuriamoci se non l’hanno trasferito in uno speciale. Già Carlo Alberto Dalla Chiesa ha aperto l’Asinara, all’inizio del ’78, però ancora non sono stati dati permessi per fare i colloqui, quindi si conosce poco o niente di questa fortezza.” Decido di andare direttamente al ministero per sapere se e dove l’hanno trasferito. Chiedo intanto lì al carcere dove sento ancora si trova. “Sono la madre di Bandoli Renato, vorrei sapere come sta, vorrei vederlo, dargli degli indumenti...” Il maresciallo in servizio non mi fa neppure finire di parlare... “Sta bene, sta anche troppo bene per quello che ha fatto. E dire che era un detenuto modello che qui aveva tutta la libertà, aiutava nell’ufficio matricola, è stata una cosa che ci ha la-

sciato sbalorditi.” Ma cosa ha fatto che non è neanche riuscito a scendere dalla sua cella, cosa ha fatto, mi chiedo?

! “Il 20 gennaio 1978, a Firenze, nel tentativo di favorire la fuga di alcuni detenuti, due uomini e una donna armati irrompono nell’abitazione di un ma-

resciallo degli Agenti di Custodia, adiacente all'ingresso del carcere Le Murate. Una pattuglia di polizia, arrivata casualmente sul luogo, si scontra con altri componenti del nucleo che fanno da copertura esterna. Fausto Dionisi, agente di polizia, viene ucciso nel conflitto a fuoco. Un suo collega, Dario At-

zeni, rimane invece ferito. In sede giudiziaria la responsabilità di questo fatto viene attribuita a Prima Linea.” (La mappa perduta, cit., p. 393).

2 Cfr. nota 2 capitolo 1. 135

“E adesso? Me lo fate vedere?” “Adesso stia lì, signora.”

Non me lo fanno vedere. All’Ufficio interni penitenziari riesco a sapere. È stato destinato all’Asinara. A quel punto crollo, non ho più la forza nelle gambe. All’Asinara, e chi ci va in Sardegna? Pensare di dover af-

frontare quei viaggi, quei disagi che mio marito non reggerebbe mai e poi mai, lui che ogni volta che entra in un carcere sta male la settimana prima e la settimana dopo. Si blocca, quando deve fare questi viaggi non parla, non mangia, non dorme per una settimana al solo pensiero del colloquio. Dovrò tare tutto da sola. Torno alle Murate e chiedo se prima che lo portino via posso vederlo anche solo per cinque minuti. Resto quattro ore nell’ingresso, non mi fanno neanche entrare e sedere, piove a dirotto, sono lì a piangere come una disperata. “Fatemelo vedere, fatemi sapere come sta.” “Glielo diciamo noi che sta bene, sta bene.”

È ormai sera e vedo passare un cellulare; sta a vedere che lì dentro c'è Renato! Prendo il mio treno e me ne vado. Una rabbia che spaccherei tutto, ho una forza quando sento questa rabbia qui che spaccherei il mondo. No, non mi abbatto, piango solo per sfogarmi e mi dico: “Gina devi avere il coraggio non a due ma a quattro mani perché adesso tocca a te, non c’è nessun altro che ti può aiutare, anzi sei tu che devi aiutare tuo marito e i suoi genitori che sono anziani”. Mia suocèra è una donna molto apprensiva, non posso parlare con lei.di certe cose, devo sostenerla, per fortuna c'ho una

sorella.

i

Serena è piccola, ha tredici anni, è rimasta traumatizzata

dal fatto dell'arresto. A scuola una professoressa stronza quando vado a parlare per sapere come va, dice: "Cosa vuole che faccia con un fratello terrorista?”. Mi adiro, non ci vedo più: ‘Come si permette di fare degli

apprezzamenti su mia figlia? Quello che è Renato lo sa solo lui, né lei, né io. Non si permetta di dare mai più questi giudizi e se la bambina non fa quello che deve fare me lo dica senza nominare il fratello che non c'entra proprio niente!”. 136

La prima volta che vado giù all’Asinara mi accompagna mio marito. L'avvocato mi avverte che è stato un po’ pestato, ha dei

problemi a un orecchio, però dice che non c’è da preoccuparsi perché Renato è abbastanza forte. Quella volta prendiamo l'aereo, e una volta in Sardegna un’auto a noleggio. Ancora non ho sperimentato il modo di andare in traghetto che è molto più facile nel senso molto meno dispendioso. Quando poi mi organizzo con le altre compagne che conosco in questi viaggi le cose si fanno meno faticose. Conosco Lidia al coordinamento dei familiari di Roma, la Laura, la povera Laura, quella che è stata poi ammazzata durante la rapina a Bologna.3 La Sardegna è un'isola bellissima, ma io la odio dall’inizio.

Mi rendo conto che è bellissima e dell’acqua che c’è. Andiamo a Porto Torres per l’imbarco all’Asinara. C'è questo traghetto dell’amministrazione penitenziaria, la Cantiello, dove se non hai il permesso, se non hai il modo di far vedere

che sei un parente stretto, non sali: perquisizioni prima di imbarcarci, e il mare mosso.

Il mare mi dà fastidio anche se è

calmo, e poi con quello stato d’animo... Sbarchiamo a Cala d’Oliva dove ci prendono sopra due jeep, siamo sei donne più le guardie penitenziarie. Ricordo l’Anna, moglie di Pasquale, che ho conosciuto anche lei al coordinamento dei familiari. Dopodiché arriviamo, ci troviamo a fare questi trentacinque chilometri attraverso l'isola per una strada sterrata piena di buche con delle guardie che sembrano bestie. Le guardie carcerarie secondo me sono abbrutite dallo stesso mestiere,

loro sono come dei detenuti e tra l’altro son costretti a lavorare, a venirci a prendere con la jeep, a venirci a riportare, una

3 “A Bologna, il 14 dicembre 1984, durante un tentativo di esproprio in un laboratorio di oreficeria di via Mazzini, il gioielliere reagisce sparando. Laura Bartolini, militante di una formazione autonoma, viene colpita al petto e alla

schiena da due proiettili che la uccidono. Il giorno successivo, l'evento viene ricordato dalle Br-Pcc, in una telefonata che commemora Antonio Gustini, ucciso a Roma lo stesso giorno. Un corteo pacifista percorre, il 15 dicembre

1984, le strade di Bologna e, deviando dal percorso prefissato, passa davanti all'istituto di Medicina Legale, in via Irnerio, per rendere omaggio a Laura Bartolini. Nei giorni successivi compaiono, sui muri dell’Università e su quelli di Medicina Legale, scritte: ‘Laura è con noi. Pagherete caro pagherete tut.to’. Il 15 dicembre 1984 il sostituto procuratore Alberto Candi emette, nei con-

fronti dell’orefice, una comunicazione giudiziaria per eccesso colposo di legittima difesa che tuttavia non avrà seguito.” (La mappa perduta, cit., p. 348).

137

rottura di scatole, ecco perché fanno di tutto per offenderci; ci trattano male. La prima volta lascio correre anche perché non ho voglia di far polemica davanti a mio marito così apprensivo com'è. Ci fanno la prima perquisizione sulla barca, scendiamo e ce ne fanno un’altra in uno stanzino a Cala d’Oliva. C'è da fare ancora un'ora per arrivare alla sezione speciale, Fornelli, e la strada è polverosa e piena di buche: come i corrieri del far west ricoperti da una terra rossa che è una cosa indescrivibile, noi sballottate come le bestie in balia di una guida spericolata e irritante. Arriviamo al carcere, una guardia puzza d’alcol, è mezza ubriaca, l’altra non riesce ad aprire la porta, mio marito comincia a innervosirmi,

a borbottare; si scopre che il catenac-

cio è arrugginito. Da quanto tempo sarà chiusa questa porta, ma dove siamo finiti? Finalmente riusciamo a entrare. Una porticina ci porta

nella sala colloqui: sette, otto spazi da cui non si vede chi ti sta al fianco perché è proibito sporgersi dal divisorio; solo se occupi l’ultimo posto in faccia al muro hai la visuale completa, vedi tutti perché gli passi davanti. La struttura è vecchia cadente, il solo tocco di modernità dei citofoni e dei vetri, insomma di tutta la struttura di sicu-

rezza che hanno impiantato da poco, stona come un pugno a un occhio. I citofoni li inauguriamo noi, al primo colloquio. È tremendo perché la voce arriva distorta, sembra metallica, non riconosco più Renato nelle sue manifestazioni, non

posso toccarlo, non posso dirgli due parole all'orecchio, niente. Questa cosa mi sconvolge: se lui lo lasciano qua io non so se ce la farò a reggere.

Sul pavimento della Cantiello mi fanno la perquisizione e sullo stessò pavimento tagliano il cibo di mio figlio. Non su un tavolo o su una stuoia, sul pavimento: mi fanno svestire, allargare le gambe, mi mettono le mani in mezzo e io gli dico: “Per favore no, non così”.

“Signora ci dispiace.” Se sono gentili rispondono così. “A lei non le dispiace perché mi sembra che ci goda a farlo, quindi mi fa il favore di non toccarmi; ha il metal detector,

usi quello.” Devo dire che con le mamme,

anche se si mostrano un po-

chino energiche, non insistono tanto, ma con le ragazze... Dopo SSAE venuta un paio di volte la ragazza di Renato non ce l’ha fatta. 138

Alle giovani fanno togliere il pannolino. L'Anna è in fila per le perquisizioni avanti a me; la poliziotta urla: “Ma signora, che cosa fa?”.

E Anna: “Lei non vuole vedere il pannolino? È un tampax, eccolo”. Per poco non glielo sbatte in faccia. Ci portano a un tipo di esasperazione che poi non ci controlliamo neanche più. Ho la fortuna, se è una fortuna, di parlare bene in dialetto, così non riuscivano a capirmi e io ne dicevo di tutti i co-

lori. Mi sfogavo contro di loro ma loro non riuscivano a capirmi. Le prime volte quando facevamo il colloquio con il citofono io parlavo in dialetto, viene la guardia e mi impone di parlare in italiano. “Perché? Io mi trovo meglio a parlare nella mia lingua.” “Ma che razza di lingua è?”

“È romagnolo.”

“Allora parli in italiano.” Registrano i nostri colloqui, devono controllare quello che diciamo. Ho continuato ad andarci assieme alle compagne, con Severina, con la mamma di Zuffada che veniva da Genova, da Pietraligure, ci trovavamo a fare questi viaggi insieme; ci accordavamo tramite telefono. In genere ci trovavamo al traghetto, a Genova, la sera alle 7,30. Partivo la mattina alle 9,40 da Faenza e arrivavo a Genova

alle 5,30 del pomeriggio, aspettavo l'imbarco, aspettavo le ragazze lì nella sala dei traghetti e poi salivamo insieme. Avevamo una cabina con quattro cuccette o sei cuccette a seconda di quante eravamo e sbarcavamo la mattina dopo a Porto Torres. Si aspettavano le 11 per il traghetto che portava all’Asinara. Certo l’aereo era più veloce, ma il traghetto era meno costoso e in parte meno penoso, perché nonostante il fastidio che mi dava il mare mosso, viaggiare con altre donne che avevano i miei stessi problemi era un sollievo. ‘. Potevo confrontare le differenze che c'erano tra il mio approccio al carcere e l'approccio che avevano quelle che erano più abituate di me, che erano anni che facevano questi viaggi, come la Severina che non so da quanto tempo andava ai colloqui.

39:

Ci sono state donne che hanno sostenuto tutte le altre. Ci siamo allargate sempre di più e questo è stato determinante per la forza con cui abbiamo accettato, non dico tranquillamente, ma con più spirito di adattamento certe situazioni difficili. Mi ricordo che tornavo a casa che ero distrutta. Lo stress, la paura di non fare in tempo a prendere un treno, per me che ero sempre stata abituata a muovermi con l’auto autonomamente, e che non avevo mai dovuto sottostare a degli orari precisi, anche questo all’inizio è stato difficile da accettare. I nostri viaggi quando veniva anche mio marito erano più

faticosi. Lui metteva agitazione. Se dovevamo prendere un treno si voleva assicurare oltremodo che il treno fosse quello giusto, inutile dirgli che noi c'eravamo state, di stare tranquillo, lui continuava a ripetere, sei sicura?

Mi metteva in una condizione che i viaggi diventassero pesanti, erano un disastro per questo ho preferito sempre andare con queste mie compagne e con mia figlia. Le altre donne

mi tranquillizzàvano; la loro presenza era importante: è il concetto che l’unione fa la forza, che quando eravamo più d’una era meglio. Ricordo il periodo della battaglia dell'Asinara, anche quella appresa dalla televisione. Dentro al carcere da un giorno all’altro hanno tolto tutti i privilegi, tutte quelle concessioni date dopo varie battaglie, come la socialità, i colloqui in una stanza detenuti e parenti tutti assieme,

tanto che cominciavamo

a sperare in un ulte-

riore miglioramento e in un’apertura carceraria.

Caspita! Perfino mio marito si risolleva. Alla domenica successiva prendono Prospero con il suo

piano di evasione dall’Asinara, da allora chiudono gli spazi.* Ecco, quel giorno lì, appena dopo l’arresto di Prospero, mi telefona Maria: “Hai sentito Gina cosa è successo? Che facciamo?”. Decidiamo di organizzarci in gruppo, coinvolgendo anche

gli avvocati e alcuni parlamentari, e torniamo giù in Sardegna per vedere che cosa è successo. Ci troviamo a Genova con parecchie, c'è la mamma di Bonora di Bologna, c’è il padre di Ognibene, c’è la Maria, c’è 4 Cfr. nota 5 capitolo 7. 140

La Giovanna Lombardi e anche l’avvocato Arnali, Andiamo tutte insieme dai giornalisti della ‘Nuova Sardegna”, il giornale del posto, per fare un appello per poter vedere i detenuti, visto che dopo ogni rivolta li pestano a sangue. Inoltre su alcuni giornali è uscita la notizia particolareggiata di un vero e proprio mitragliamento ad altezza d'uomo. Nel cortile ci sono delle carriole di bossoli e il muro è un colabrodo per i buchi delle mitragliatrici usate contro i detenuti. Ci concedono

di vedere i nostri detenuti; compriamo

un

sacco di roba da portare perché hanno distrutto tutto, gli indumenti, le macchine da scrivere, tutti i libri, tutto ciò che

sono le suppellettili di ogni cella. La rivolta c’è stata perché i detenuti volevano incontrare il direttore per farsi spiegare le ragioni della chiusura degli spazi e della soppressione degli oggetti vitali di ogni cella: va il primo detenuto per incontrare il direttore e non torna in sezione, va un altro per capire cosa è successo e sparisce anche lui... A quel punto anche loro sequestrano una guardia e scoppia la rivolta. Una guerra, proprio una guerra, ma loro fortunatamente riescono a ripararsi nel sottotetto.

Io trovo mio figlio completamente scorticato, sta troppo male. Penso che non ce li manderanno fuori vivi. Le guardie avevano sparato raffiche ad altezza d'uomo, dopodiché gli hanno fatto farela cosiddetta passerella, dove, 3 “Su mandato di cattura emesso dall'Ufficio Istruzione del Tribunale di Torino per ‘partecipazione a banda armata’, i carabinieri si recano in via Palestro 12, a casa dell'avvocato Edoardo Arnaldi, difensore di fiducia di diversi militanti delle Br e aderente all'associazione solidaristica Soccorso Rosso,

per eseguirne l’arresto. Ad accusarlo è Patrizio Peci, militante pentito delle Br. Durante la perquisizione, Edoardo Arnaldi si uccide con un colpo di pistola. Sua moglie, nel giugno del 1980, rende la seguente testimonianza: T...] Edoardo sapeva che un uomo malato come lui era, in carcere sarebbe stato annientato... si sarebbe dovuto umiliare e mortificare... E questo, lui non lo poteva accettare. È stato coerente. Ha voluto cadere in piedi. Certo io avrei preferito che lui morisse nel suo letto ma rispetto la sua scelta, e l'ammiro. E credo non ci sia contraddizione tra quanto ho appena detto e la responsabilità che attribuisco ai carabinieri in relazione alla sua morte. Mi spiego: un conto sono le sue scelte e un conto sono le interferenze del potere nella sua vita e nelle sue scelte. Lui ammazzandosi si è negato alla loro barbarie, alla barbarie del potere; loro, non impedendone

la morte, si sono sbarazzati di

una persona scomoda. Ecco, questi sono due punti di vista molto diversi e inconciliabili per guardare la sua morte, e io voglio che inconciliabili rimanga-

no’. Il 20 aprile, il funerale di Edoardo Arnaldi diventa occasione per una grande manifestazione non autorizzata, cui partecipano più di diecimila persone, che seguono il feretro lungo le vie di Genova per sei chilometri, fino al cimitero di Staglieno, che viene tenuto aperto oltre l’orario di chiusura per accogliere Edoardo Arnaldi.” (/bid.). 141

fancedoli passare uno per uno, da una parte le guardie e dall’altra i carabinieri, al buio, li pestavano regolarmente.

Andiamo da questo senatore Melis a Nuoro con la dottoressa Lombardi che allora difendeva Curcio e altri. È incredibile, non può essere che sono ridotti così!

Chiediamo al senatore di fare una visita all’interno del carcere perché si renda conto che non hanno più i letti, né i saponi per lavarsi, né l’acqua per bere. Sono ridotti come le bestie. C'erano quattro elicotteri quel giorno che volteggiavano sull’isola, anzi su Fornelli precisamente, perché quella era la sezione dove era avvenuto il fatto. C'erano carabinieri con i cavalli che presidiavano la zona anche dove era difficile arrivarci con la macchina. Mi venne il panico, se quello che vedevo era l'esterno, loro dentro come saranno messi! Speravo che per il solo fatto che accettarono di farceli vedere al colloquio, significava che non erano poi così malandati, invece...

C'era qualcuno bruciato, per farli arrendere avevano lanciato i lacrimogeni e dei compagni si erano bruciati le gambe.

Il rapporto più forte l’ho avuto con la Pinuccia Zuffada che era una signora di Genova che incontrai all’Asinara e con cui andavamo

assieme anche a Palmi, finché lei si è ammalata e

ho iniziato a seguire anche suo figlio. Era una donna molto energica, molto forte, che tra l’altro

si era accollata anche i figli del figlio. Con lei e con Lidia c’era qualcosa che aveva in qualche modo in comune anche con il nostro carattere ottimista. Nei nostri interminabili viaggi si parlava di come i figli li avremmo veluti fuori, si parlava di come se fossero rimasti dentro, con le nostre età e viste le prospettive che c'erano, si

sarebbero trovati soli. All’inizio eravamo molto fiduciose nel senso che sembrava che qualcosa si dovesse muovere dentro questo pezzo di storia d’Italia, non so bene se d’Italia, ma di questi ragazzi, insomma.

Dopo mi sono resa conto che la cosa andava degenerando, dopo il sequestro Moro: se fanno fuori Moro sono finiti, pensai.

Ero giù a Palmi che avevo fatto i colloqui e c'era anche lui, un detenuto, Bonavita, che la volta successiva non trovai. 142

Sento dire che l’hanno trasferito, ma come mai? Circolano brutte voci. Si è pentito. Alcune cominciano a perdersi d’animo, non ci si trova più unite come prima, i carceri diventano tanti e i detenuti vengono dislocati, separati. Renato dopo un anno e mezzo di Palmi viene trasferito a Cuneo dove si fa dieci anni consecutivi; la

metà dei compagni di Palmi li mandano ad Ascoli Piceno, gli altri a Novara, a Trani, e così ci si è dispersi.

Con il passare del tempo anche tra noi donne diviene sempre più difficile incontrarsi, così la maggior parte dei viaggi da diversi anni me li faccio da sola. Oggi allo speciale di Trani ci vado da sola. Senza le donne che ho incontrato strada facendo sarebbe stata molto diversa la mia storia perché mi sarei trovata sola. Dico questo anche se sono sempre stata abituata a rimboccarmi le maniche e ad affrontare da sola i problemi, ma se c'è qualcuno che ti può aiutare a sfogarti, se senti che anche dall’altra parte c’è qualcuno che è come te, questo può far bene. Forse il periodo in cui mi sono sentita meno sola è stato quello delle carceri, di quel periodo particolare, perché oggi che sono diciassette anni che vado a fare i colloqui negli speciali, la situazione è diversa. Oggi si è un po’ di più tutti soli.

Ho avuto mio marito per due anni e mezzo paralizzato con un tumore al cervello, dovevo accudire lui, la suocera che do-

po tre mesi che lui è morto ha cominciato a star male anche lei. Mi son fatta cinque mesi in ospedale con lei e nel frattempo ho sempre continuato a seguire Renato. Quando mi chiudo in questa casa sono sola con tutti i miei problemi che in un modo o nell’altro devo affrontare, devo affrontare in maniera giusta per non farli neanche pesare a mia

figlia né tantomeno a mio suocero che ha novantacinque anni. Forse non faccio più affidamento sulle forze altrui. Sono arrivata a queste conclusioni anche attraverso l’esperienza. Mio marito mi ha sempre lasciato l'indipendenza di gestire il rapporto con mio figlio diversamente da come lo avrebbe voluto lui. Lui era molto più duro di me nei confronti del figlio, io in

qualche modo non è che lo scusassi o che condividessi le sue scelte, però lo accettavo. Mio marito ci ha messo nove, dieci anni per accettarla questa cosa del carcere. 143

I primi colloqui erano scontri, i loro, perché mio marito è sempre stata una persona quadrata, di quelle che una volta detto così, non si deve spostare una virgola, di quelle che una . volta fatta una scelta ci si deve pensare bene, ma si deve saper-

la portare fino in fondo senza traballare. Su questo mio figlio è come suo padre, una volta presa una decisione è ponderata, raramente torna sui suoi passi. Ecco, secondo me questo può anche essere un difetto, vuol dire essere troppo sicuri di sé, avere sempre la verità in tasca sulle cose, non rimettersi mai in discussione. Invece io in discussione mi ci sono messa molte volte, anche nei rapporti con mio marito. Lui è sempre stata una perso-

na che a suo modo mi ha voluto bene, però una persona che non te lo dava troppo a vedere, che non te io dimostrava il bene, un po’ come sono tutti gli uomini.

Il suo bene dovevo capirlo da sola e per me è stato difficile, come è stato difficile capire il bene che voleva a Renato. Ultimamente, quando è rimasto invalido, a Renato diedero

il permesso di venire a visitarlo in ospedale. Arrivò in condizioni assurde: uno spiegamento di forze che bloccava tutto Bagnocavallo. Era stato operato alla testa da poco e faceva ancora fatica a stare sulla carrozzella; il primario lo fece entrare nel suo studio e permise a Renato di tenergli la mano nonostante avesse i ferri che i carabinieri non gli avevano neanche allentati per quelle due ore che è stato possibile stare insieme. Con tutti i carabinieri e quelli della Digos fuori, con tanto di mitra spianati, insomma nonostante quelle condizioni aveva un im-

menso piacere di vedere il figlio e non gli dava fastidio neanche che gli altri sapessero. Dal giorno che arrestarono Renato smise di andare al bar, in mezzo alla gente, non voleva sentire gli apprezzamenti o i discorsi di qualcuno, per evitarli si era chiuso in casa. Aveva il suo lavoro e‘ basta. Per lui che si ignorasse pubblicamente il problema significava non averlo. Invece io l’ho presa diversamente, ho sempre parlato di mio figlio, delle sue condizioni, di come si trovava, di cosa mi diceva; certo non l’andavo a sbandierare, ma nell’ambito delle

mie amicizie non mi sono mai fatta problemi. Sarà che dal primo momento ho incontrato subito tante donne, ho cominciato a parlare di questa storia molto naturalmente, l’ho socializzata, l'ho vissuta come esperienza collettiva. Ho mantenuto tutti

i miei vecchi rapporti, ma ne ho anche acquisiti molti altri. Anzi, prima ero chiusa qui, la mia vita si riduceva ai figli, a

quando Renato tornava, a fargli trovare le cose buone da man-

144

giare, la roba pulita per il ritorno a Firenze, agli amici di mio marito, qualche volta si andava a cena da loro o nell’ambito ri-

strettissimo dei parenti. Andavo in misura sporadica a trovare delle amiche, poi, dopo questa esperienza del carcere avevo voglia di incontrarmi con alcune delle compagne anche al di fuori dei viaggi, ma ho potuto farlo solo parzialmente e da sola perché mio marito non aveva piacere, diceva che per lui era come voler ritornare a vivere cose che lo facevano soffrire e che gli davano fastidio. Diceva, io ho mio figlio in carcere però tutti questi rapporti di gente che ha figli in carcere non li voglio. Ma quando si trovava con queste persone anche per lui era un sollievo per- . ché si confrontava con gente che pur vivendo lo stesso dramma era molto più serena di lui. Fino a che non si ammalò lui la subì passivamente rifugiandosi dentro casa, rifiutandosi di venire ai colloqui. Credo che quella costrizione di stare immobile dentro un letto, di non poter parlare al figlio senza che uno schieramento di carabinieri nella sua camera ascoltasse tutto, di vedere le manette, di non poterlo abbracciare liberamente, di metter-

si a nudo davanti a loro, tutto questo gli diede una forza in più, la forza della rabbia, di quando capisci che certe misure di sicurezza, come le chiamano loro, sono solo per ferirti.

Lì, solo quando stette male, in quei pochi istanti che concessero a Renato, il rapporto con il figlio cambiò; fino ad allora lui aveva fatto lo struzzo e questa era stata la ragione principale dei nostri scontri continui. La situazione è questa, o la affrontiamo in maniera serena

per poterci aiutare a vicenda sia noi che lui e fra di noi, o sennò qui non ne caviamo nulla. Non mi attaccava, diceva: “Io ti capisco, tu sei più forte di me e sei brava se lo fai, ma io non ci riesco; non ti privo di fare

nulla, tu fai tutto quello che ti senti di fare, anche andare a lesinare tutte le settimane, non me ne importa niente se tu ci

vai, però non pretendere che io venga, io vengo quando ho voglia”. Mi ritrovai da sola, completamente da sola, e se non fosse

stato per le compagne non so come avrei retto. Non stavo male una settimana prima e una settimana dopo

come lui, no, questo no, ma solo perché non vedevo l’ora di incontrare mio figlio anche se sapevo che era solo per un collo‘quio con i vetri. Non me ne importava niente dei disagi dei viaggi. ai 145

L'ultimo viaggio all’Asinara, a raccontarlo è poco, non ci si può credere. È stato durante il sequestro D'Urso, poco prima che chiu-

dessero l’Asinara. Renato era uno degli ultimi che era rimasto lì e doveva essere trasferito a Firenze per l'appello del suo processo, era l’11 ottobre del ’79. Andiamo giù, siamo cinque donne, andiamo e non ci fanno

fare il colloquio di sabato perché la Cantiello è rotta, è in riparazione: non si può andare. Allora noi occupiamo l'ufficio del giudice di sorveglianza a Sassari.

Se ci portassero a Stintino, con una lancia dei carabinieri, in dieci minuti arriveremmo. ll mare è bruttissimo, con un temporale terribile, sembra

che il cielo venga giù tutto d’un fiato. Arrivano i giornalisti, noi non ce ne andiamo. Finalmente

ci concedono un colloquio speciale per la domenica. Ci porteranno in qualche maniera, alle 10,30 dovremo trovarci a Porto Torres. Arriviamo,

viene

giù un’acqua

indescrivibile,

il mare

è

brutto, forza 7, come ci andiamo? Io comincio a star male: affrontare quel mare con un mezzo di fortuna, non è che mi ras-

sicura molto. Arriva una bettolina a fondo piatto con quelle gomme attaccate ai bordi, i copertoni delle macchine che servono da galleggianti. Non è un gommone, è una specie di peschereccio; con questa bettolina senza neanche una panca, ma con un semplice scorrimano di legno, c’è l’oblò e io non faccio neanche dieci metri che mi sento male. Mi attacco, cerco un qualche appiglio per non cadere. Ricordo come fosse ora: le ragazze si siedono per terra, su dei copertoni, su delle cime avvolte

a delle corde. La barchetta comincia a ballare, le onde ci investono, abbiamo impiegato due ore e mezzo sotto costa e questo marinaio che continua a dire: “Chi me lo ha fatto fare, noi non ne usciamo vivi!”. Abbiamo le onde che ci scavalcano, siamo fradice d’acqua. Siamo bianche di salmastro per tutta l’acqua salata che è entrata con il vento. Arriviamo alle due del pomeriggio a Cala d'Oliva, ci fanno scendere. Anna non riesce a togliersi i jeans che si sono ristretti, nessuno che abbia una coperta per coprire questa povera disgraziata che sta collassando, è viola; tira un vento su quest’isola che spazza via il mondo, e nonostante questo tempo e tutto il tragitto che abbiamo fatto, ci fanno aspettare ancora, ore e ore, in attesa di essere sottoposte a 146

una nuova perquisizione, in questi sgabuzzini freddi e squallidi. La Laura si toglie i pantaloni, resta con uno slip, si toglie il maglione, un maglione lungo che sgocciola. Ha le scarpe clarke con due calzini rosa zuppi. Poverina, bagnata, questo maglione sopra e gli slip sotto. Dopo la perquisizione ci portano con la jeep, questa volta siamo cinque ed entriamo tutte sulla stessa jeep. Una guardia comincia a fare degli apprezzamenti pesanti: “Se queste vacche stavano a casa, oggi che è domenica a noi non ci toccava di stare qui, con queste vacche”. E conti-

nua a offenderci, e poi fa manovre di guida violentissime. Io mi ritrovo in terra, come una bestia, mi scaraventa a terra.

Sembra un carro che trasporta bestie da soma. Non ci vedo più, lo prendo per il collo, il guidatore: “Giuro,” gli dico, “se lei fa un’altra manovra del genere io la strozzo”. “Non si permetta di mettermi le mani addosso!” “Finché lei si comporta con noi come con delle bestie io mi comporto con lei nella stessa maniera, anzi, meglio, perché io non mi permetto di fare degli apprezzamenti. Noi non siamo qui perché siam volute venire, ci avete portato qua i figli, non dico che sia colpa vostra, però abbiate la pazienza, se ieri non abbiam potuto fare il colloquio, siam venute oggi, dovete avere il buon senso di trattarci come delle persone. Se i nostri figli ce li lasciate in Italia, lei la domenica potrà farsela a casa sua.” Lui non aveva nessuna autorità per trattarci in questa maniera. Io ho una memoria fotografica, non mi dimentico nessuno.

Mi ricordo che a un colloquio con Renato a Sollicciano, dove si trovava per fare la tesi di laurea, sulla porta riconosco la

guardia della jeep. Se potessi segnarmeli tutti quelli che m'hanno fatto degli sgarbi, hai voglia te! Fu l’ultimo viaggio fatto all’Asinara, tornammo al martedì, venne a trovarmi mia sorella che non mi riconosceva. Ero stravolta, se me l’ero scampata da quell’odissea non mi avrebbe fatto più paura nulla! Non ho mai avuto paura di viaggiare da sola, anche se certe volte partivi e non sapevi quello che ti aspettava. Bastava che perdevi una coincidenza per restare la notte in mezzo alla strada. Cuneo in questo senso è stata un’altra destinazione all’av‘ventura: il viaggio era pieno di coincidenze e se ne perdevo una a causa di qualche ritardo, pernottavo dove mi trovavo in

alberghi infami che mi facevano pena solo a vederli. Momenti 147

di tensione se ne sono vissuti tanti ovunque si andasse, ma tut-

to era niente di fronte ai viaggi all’Asinara: quelli sono stati i peggiori. Ai suoi processi non

sono

mai mancata,

neanche

a una

udienza. Quando mi hanno detto: trent'anni, non ho mosso un dito.

Porca puttana, quelli che l’hanno fatto veramente perché si son pentiti sono fuori. L’esecutore materiale della tentata evasione ha fatto due anni, si è pentito ed è uscito.

No, no, non mi sono disperata, assolutamente. È stato soltanto all’inizio che piangevo per la rabbia, non la paura di non farcela o che lui non ce la facesse o dell’impatto con la gente. Mi ricordo della mattina che aveva tentato l’evasione, ac-

compagnai Serena a scuola con la macchina perché pioveva a dirotto e gli sguardi delle donne che erano in un negozio, dove si svolta per andare a scuola, meravigliate di vedermi in macchina, di vedermi già fuori con mia figlia nonostante fosse successo quello che era successo. Però non mi sono mai nascosta, non mi sono mai trattenuta dall’andare in qualsiasi luogo perché mio figlio era così. Mai, non l’ho neanche ostentato, però non mi facevo problemi se qualcuno faceva apprezzamenti. Serena rimase traumatizzata. Di questo ne ha risentito per parecchio tempo. Negli stessi rapporti che ha avuto con i ragazzi è stata influenzata scegliendo sempre quelli più grandi di lei. Le è mancata la figura del fratello che era più grande di undici anni,

per cui anche adesso gli amici di Renato sono i suoi amici, si trova molto. meglio con quelli dell’età di suo fratello. Lei stessa lo dice sinceramente, la figura di Renato l’ha condizionata molto: lui’studiava architettura e anche lei era molto portata e avrebbe voluto iscriversi a Firenze. Invece noi l’abbiamo bloccata, voleva fare il liceo artistico, ma mio marito diceva che di

liceo artistico ne era bastato uno. Lui era convinto che forse Renato se avesse fatto un altro tipo di studio, se non avesse frequentato architettura a Firenze non avrebbe avuto modo di avere certe amicizie, di fare quello che ha fatto. Era un’assurdità, perché anche se avesse fatto il perito agrario come il padre, quei problemi li avrebbe affrontati comunque; non è che l’ambiente di architettura fosse malsano. Intanto resta il fatto che a Serena noi è stato permesso di fare lo studio che le sarebbe piaciuto. Ero bloccata anch'io, si148

curamente condizionata da mia suocera che mi rimproverava di aver mandato Renato a Firenze. Tutti trovavano

un capro espiatorio in ciò che era stato

permesso di fare a Renato. Se era mio figlio non andava a Firenze, diceva. Io non potevo mica prevedere! E poi ce n'erano tanti di fi-

gli di operai che avevano preso quella strada lì, è questione di coscienza non di ambiente, secondo me se uno si pone delle domande se le pone indipendentemente dal contesto in cui vive, e infatti è sempre quello che mi ha detto anche Renato. Ma vivendo qui con i suoceri, son sempre stata molto fre-

nata. ù Mio marito non ha mai voluto allontanarsi completamente dai suoi genitori così ho dovuto subire i condizionamenti di una donna energica come mia suocera. Io dovevo essere a sua disposizione. Non mi ribellavo. Solo quando ho scelto di affrontare la vicenda di mio figlio è emerso il lato che avrei voluto far emergere nella mia famiglia, proprio nel rapporto con Renato che da un certo momento in poi, cioè dal carcere, è stato parados-

salmente libero. La mia natura era quella di essere sempre disponibile con tutti e non soltanto con i miei familiari: con gli amici, con i conoscenti,

io non

riesco a tirarmi

indietro, chiunque

sia, co-

munque sia, per qualsiasi cosa sia. Avevo sempre pensato solo a cucinare. Facevo la magliaia, facevo le mie cose dentro casa.

Non avevo mai viaggiato da sola, sempre e solo con mio marito, non ero mai andata al di là di Villanova da sola, mai, andavo a Firenze a trovare Renato, andavo in treno, qualche

volta sono andata in macchina quando lui studiava. Facevo una vita tranquilla, sì, nel senso che la mia era una

famiglia che mi aveva dato sempre dei problemi non indifferenti, da parte di mio fratello, di mio padre che è stato parecchio malato, ma a traumi tanto profondi non ci avrei mai pensato e non avrei pensato di dover fare esperienza di certe cose.

In questo senso c’era una grossa differenza tra le donne mamne, e le più giovani. Ero una di quelle che era al di fuori completamente anche dal poter pensare a una riunione fatta fosse pure solo per sentire il parere delle altre, cioè il concetto di riunione per me non esisteva, mentre mio marito aveva sempre fatto politica, era consigliere comunale.

Al di fuori della mia famiglia non sono andata da nessuna 149

parte come tante altre di noi; non curavo i rapporti interpersonali con le amiche, cosa che invece a un certo punto della mia vita ho cominciato a fare. Non mi andava più di stare in casa a guardare la televisione con mio marito, così accettavo gli inviti a casa di mia cugina o di qualche amica per farci una chiacchiera o una partita a carte. A parte i primi otto mesi alle Murate sono diciassette anni che giro per le carceri speciali: l’Asinara, Palmi, Fossombrone, San Gimignano, Volterra, Trani, Cuneo e adesso di nuovo Trani.

Mi sono trovata in una esperienza che mi ha portato a dover incontrare altre realtà, altre storie anche più drammati-

che della mia, con delle situazioni familiari alle spalle peggiori della mia perché tutto sommato noi economicamente di problemi non ne abbiamo mai avuti. Tutto questo che ho vissuto alla fine mi ha aiutato a uscire di casa. Veramente, prima non esisteva che io uscissi, che andassi io a trovare qualcuno: io stavo in casa a lavorare, a fare da

mangiare e basta. Sembrava essere il massimo per me stessa, non chiedevo altro perché non mi avevano insegnato altro. Venivo da una famiglia che mi aveva tramandato il mestiere di magliaia. Mia madre faceva la magliaia, e poi ha continuato la mia matrigna,

mio padre faceva il macellaio. Mi sposai e venni in questa famiglia dove ho abitato per dodici anni. Una famiglia matriarcale dove mio suocero era un uomo buono, lavoratore, non rompiscatole, però non aveva mai contato molto, chi comandava e faceva gli affari era mia suocera,

donna decisa e coraggiosa dal carattere forte; era lei che si accollava le rogne delle tasse... lei volle costruire questa casa dove vivo, da un garage, si dette tanto da fare che ci riuscì. Aveva molta iniziativa, anche iniziativa manageriale perché i soldi se li è fatti da sola e si è sempre tolta gli sfizi che voleva. Lavorava bene, faceva le sedie rustiche, e quando io sono entrata a far parte della famiglia la aiutavo, l'’accompagnavo a prendere i contratti con i potenziali acquirenti, alle banche, la portavo in giro con la macchina. Io lavoravo al suo fianco ma mio marito dava lo stipendio alla madre, non a me.

Tra me e lei ci sono stati molti scontri per punti di vista differenti, come fu la discussione infinita sul rapporto che lei 150

vedeva tra l’iscrizione ad architettura di Renato e le sue scelte politiche. Quando io venni a vivere qui posi delle condizioni, chiarii che avrei fatto il mio dovere e anche di più, io avrei fatto le pulizie, avrei lavato, stirato per tutti, in cambio chiesi i proventi del mio lavoro di magliaia, per poi vestire me, mio marito e i miei figli con quello che guadagnavo. Non fu così, io vivevo in casa sua e tutto ciò che facevo lo avrebbe gestito lei. La nonna difese Renato con tutte le sue forze: anche di fronte agli altri non la imbarazzava parlarne, da quel lato lì aveva questo grande merito, difenderlo a spada tratta, e se qualcuno provava a criticare qualcosa del nipote lei si ribellava come neppure io avrei mai fatto. Mio suocero invece soffriva in silenzio,

è una persona che

parla poco e bisogha proprio estorcergli le parole dalla bocca, e quelle poche frasi che gli ho sentito pronunciare a bassa voce sono state queste: “Quanti ce ne sono che dovrebbero star

dentro al posto suo!”. Penso che questa coscienza sia nata insieme alle altre compagne, quando ci rifletto non posso non collegarla a loro perché è stata un’esperienza collettiva. Tutto era di tutte, e se serviva qualcosa per un compagno che non ne aveva, diventava un problema collettivo. Potrà sembrare una banalità, ma nella vita delle persone non succe-

de mai di andare tanto oltre il proprio naso, perciò prima parlavo della famiglia, di questa convinzione che debba esserci sempre qualcuno che viene prima negli affetti e che ti porta all'egoismo del pensare sempre prima alla tua famiglia. Questa convinzione me la sono fatta da sola, non me l’hanno trasmessa i miei genitori, nonostante fossero di sinistra.

Mio padre era un vecchio socialista di Nenni, morto nel ’57. Mio

marito

è sempre

stato

del Pci, sempre,

come

suo

padre. Però loro non si sono mai messi in discussione come ho fatto io.

Mio marito non avrebbe mai ammesso che io ideologicamente potevo essere più avanti di lui, che l'avevo aiutato a capire tante cose; era molto maschilista, mi spiace dirlo, povero

. caro, ma per lui le donne non capivano niente. Le donne non dovevano sapere niente. Ha sempre deciso tutto lui. Quando comprava una macchi151

na veniva a casa e diceva: “Ho comprato la macchina,” e io dicevo: “Perché non hai chiesto il mio parere?”. “Perché la macchina la devo guidare io quindi deve andare bene a me.” Ma quando vide che io avevo molto più coraggio di lui e che non mi perdevo d'animo, prendevo il treno da sola, partivo di notte, di giorno. Cominciò a dire, ma tu sei forte, tu certe cose le puoi fare

perché sei forte. Non ero più una donna che non contava niente, per fortuna

che c'ero io, questo me lo diceva, almeno questo me lo ha sempre detto: “Per fortuna che ci sei tu che sei così, sennò io non

lo so cosa farei...” Il rapporto tra me e Renato si è sviluppato ed è cambiato, attraverso le lettere e attraverso i miei comportamenti. Lui vedeva che io non andavo là per rimproverarlo. Come mai? Perché? Sei stato tu? La colpa è tua... Mai, non mi sono mai permessa perché non mi sembrava giusto, già era privo della libertà e sapeva che era solo lui l’artefice della sua condizione che non mi sembrava giusto rimar-

care questa cosa. Lui si è reso conto che io ero la persona forte della famiglia. Il rapporto si è aperto quando gli ho trasmesso la mia disponibilità in tutti i sensi, per esempio anche nei rapporti con le sue ragazze. Siamo come un libro aperto, non ci siamo mai privati di dirci niente di ciò che era il nostro più intimo pensiero, riguardo a lui, riguardo a suo padre, riguardo alle ragazze, riguardo a me; è sempre stato un rapporto molto chiaro, corretto. Ho visto delle madri essere gelose della ragazza del figlio, ecco, io questo non l’ho mai sentito con Renato e ai colloqui se mi son dovuta fare da parte l’ho fatto senza che mi venisse chiesto. ‘ La relazione che avevamo quando lui era fuori era di minore confidenza, forse perché mi conosceva meno, mi vedeva in

altro modo, non lo so. Forse anche perché a casa ci stava poco, e anche se adesso non ci sta per niente, però ci sono le lettere. All’inizio mi scriveva lettere lunghissime bellissime, quelle dall’Asinara e da Trani le ho ancora tutte, ogni tanto quando mi viene nostalgia le rileggo. Renato secondo me non pensava che io fossi così, conosceva la madre sotto un altro aspetto, come casalinga e basta. Dopo si è reso conto che su tutti i piani si intendeva solo con me, dalle cose pratiche e razionali a quelle

affettive. 152

Le donne sono state brave. Iodiuominine ho visti pochissimi. Tra di noi abbiamo riflettuto anche su questo, sul perché le donne si mettono di fronte alle grosse sfide della vita senza tirarsi indietro. Abbiamo dedotto che siamo più forti degli uomini, ce lo siamo detto anche chiaramente perché nei nostri viaggi così lunghi ci portavamo dietro la bottiglietta del caffè, un po’ di -

vino, si metteva insieme tutto quello che portavamo, e aveva-

mo tanto tempo, si parlava: “Ragazze, vi rendete conto che davanti ai carceri siamo solo donne?” O qui son tutti orfani di padre e di fratelli, ci chiedevamo, “oppure questi uomini non ci sono, non accettano, non vengono, non se la sentono”. A Trani oggi vedo qualche uomo in più, forse perché lì ci sono anche mafiosi e quelle famiglie, cioè i maschi di quelle famiglie, sono molto solidali. Non ho mai pensato come altre mamme che non sarebbe finita così se l’avessi educato diversamente. Nell’educazione dei figli mi sembrava che dovesse essere più presente il padre e solo dopo mi son resa conto che ero stata io quella che si era sempre occupata di tutto, anche del lato più personale e interiore. Io parlavo con lui anche seriamente e se certe cose non le ho mai volute approfondire era solo per la paura di scoprire delle sue verità che mi avrebbero fatto male. Non volevo sapere fino a che punto era dentro alla politica. Un giorno posò sul tavolo la borsa e un mazzo di chiavi enorme:

“Senti Renato, con tutte quelle chiavi che te ne fai?

Cosa sono?”. “Sono chiavi dell’appartamento dove vivo a Firenze.” Non volli andare oltre, ma rimuginavo.

Negli ultimi tempi vedevo che era diverso, non lo vedevo sereno, ecco. Dopo, quando è successo, ho ricollegato tutto. Quel capodanno che passammo insieme in montagna fu l’ultimo e lui era teso, parlava poco, telefonava con delle mez-

ze frasi, con delle mezze parole. Lo ascoltavo sempre se succedeva qualcosa ma rimuovevo, era tutto un lavoro che facevo dentro senza volerlo portare a livello di coscienza, infatti quando lo arrestarono io sincera-

mente non me lo aspettavo. E mi ha fatto male, soprattutto sapere che un figlio è là e 153

che può succedergli di tutto, che può ammalarsi, che possono picchiarlo senza riuscire a proteggerlo. Io nei periodi neri stavo male fisicamente a stargli lontano, sentivo il bisogno di vederlo e preferivo fare i salti mortali per andarci ogni settimana piuttosto che avere i crampi dentro. Tutta questa storia dopo tanti anni, dopo diciotto anni, è stata una grossa esperienza anche umana,

sono convinta che

mi ha arricchito moltissimo. Veramente mi ha arricchito perché non avrei mai avuto la possibilità di conoscere, di vedere, di confrontarmi con altre

donne con storie così diverse dalle mie seppure nello stesso ambito. È quello che dico spesso anche a Renato, non dovrei dire grazie a lui perché ho sofferto tanto, però grazie a lui è certo che ho imparato che la vita non è come credevo che fosse. Come me l’aveva prospettata mia madre. Mi sposai a diciannove anni, a vent'anni nacque Renato. Sapevo che dovevo voler bene solo a mio marito, alla famiglia dove avrei vissuto, voler bene ai figli, accudirli, dargli tutto quello che era possibile dargli; e così basta, essere onesta, es-

sere disponibile con chi aveva bisogno, se questo non urtava

gli interessi della famiglia. Invece io la mia disponibilità l'ho sperimentata con più gioia in un ambito tutto mio, indipendente, di affetti miei. La famiglia non può essere tutto sennò diventa limitante, se invece tu pensi di essere utile anche alle persone che non ti appartengono come parentela è molto meglio. Ma la solidarietà nei confronti anche di estranei l’ho imparata in questa situazione, in questo frangente collettivo. Mai avrei pensato che ci fossero altri modi di vivere la vita, nonostante

questo mio orizzonte sia ancora

troppo limitato

perché vivo in un paesino che non mi permette di esprimermi fino in fondo, e poi forse sono ancora legata a degli schemi di cui non mi sono liberata completamente, non so, ma è certo che se vivessi in una città farei volontariato. Darei un senso

superiore alla mia esistenza, quel qualcosa che va al di là degli interessi quotidiani e limitati.

154

DI

Non ero del Pci, ero comunista, e c'è una bella differenza...

Facevo una vita normale da casalinga. Stiracchiavamo a tirare avanti con il solo stipendio di mio

marito. Non è una novità che quelli che lavorano con una famiglia a carico e con tre figli fanno fatica ad andare avanti. Quando ero giovane, prima di sposarmi, facevo l’impiegata, ma dopo che sono nati i bambini decidemmo di curarli personalmente. Facendo dei sacrifici preferii stare con loro piuttosto che lasciarli a scuola, al doposcuola, al tempo pieno. Come tutte le mamme che allevano i bambini divenni la classica casalinga. Conoscevo l’andazzo della politica perché da giovane feci tutta la guerra del ’40, facevo parte del Cln di Milano. Mio padre era morto che avevo nove anni così vivevo sola con la mamma. Finita la scuola cominciai a lavorare così come aveva fatto mia sorella, all’età di quattordici anni. Prima come commessa, poi con un corso di specializzazione alla Lagomarsino a Milano e fui assunta come impiegata. Incontrai mio marito, allora partigiano del battaglione Modino, e ci sposammo dopo poco. Quando trovò lavoro a Bologna ci trasferimmo.

Bologna era una città per me nuova ma che trovai subito accogliente e cordiale a differenza di Milano. Qui ho tirato grandi i miei figli cercando di farli studiare il più possibile.

| _ La maggiore a quattordici anni smise di studiare, Ernesto prese il diploma da geometra, l’ultima anche lei ha voluto lavorare subito dopo le medie. 155

La mia educazione era stata tradizionalista perché mia madre era una del suo tempo, all'antica. Le donne tante cose non potevano saperle, la donna doveva stare in casa e la politica la facevano gli uomini. Io invece da giovane sono stata sempre un carattere ribelle. Lavoravo, giravo, avevo rapporti, così cominciai a farmi una mia ideologia politica, che con la guerra si è definita. Avevo uno spirito intraprendente e mi interessavo di quello che succedeva nel paese, nei posti di lavoro, fuori, ero curiosa.

Ho voluto farmi una cultura personale e studiando da sola mi sono avvicinata alla sinistra. Ho letto tanto. Un po’ con mio marito, un po’ da sola, mi sono formata una coscienza comunista.

Questo era l’ambiente in cui vivevano i miei figli. Sulle mie ideologie non ci sputo, me le sono conquistate, le mantengo e anche se nella cultura di sinistra ci sono state delle modifiche io sono tradizionalista. Non discuto che le mie idee oggi per la maggioranza dei giovani non hanno valore, ma per me restano ferme e io in fondo la mia parte l’ho fatta credendoci. La morale comunista resta, anche se oggi nessuno la pratica, questo lo sento in giro, lo vedo in televisione, è un con-

tinuo sputare sulle grandi idee di giustizia e di onestà con cui sono cresciuta. La vecchia grinta non l’ho persa nonostante ormai sono an-

ziana. Non ero del Pci, ero comunista, e c’è una bella differenza. A Milano non mi iscrissi al partito come invece fece mio marito.

A me non interessavano le tessere, mi interessavano le idee e le cose che.potevo fare. Quando nel ’74 fu arrestato Ernesto i compagni del Pci vennero a‘casa per rinnovare la tessera a mio marito,... anche se il figlio era stato accusato di terrorismo, così precisarono.

Fecero tutto un discorso che non mi piacque, dissero che la tessera gliela facevano nonostante suo figlio avesse sbagliato. Sentirmi dire dai compagni del Pci di cercarmi un altro avvocato, uno che non fosse iscritto alla

Federazione perché i lo-

ro difendevano le parti avverse, vedere come ci scaricarono, mi confermò la differenza tra l’essere del Pci e l’essere comunisti. Il Pci secondo me adoperava le ideologie marxiste solo per il proprio interesse. A differenza di quella gente il mio comunismo dice che devo portare solidarietà a tutti. 156

Mio marito non andò più in sezione ma rinnovò la tessera come sempre, io invece fui più radicale di lui, infatti mi hanno giudicata stalinista ma a me non è mai importato niente, an-

che perché, oltre tutto, per me Baffone era una bravissima persona. Ho avuto discussioni e aperture con compagni diversi con cui ho tanto parlato anche della storia della lotta armata. Le occasioni le trovavamo soprattutto nei viaggi in treno.

Tanti familiari rimasero scioccati dall’arresto dei figli senza capire il perché delle loro scelte, quelli che non capivano erano soprattutto i borghesi, brave persone, oneste, che però non arrivavano a porsi domande oltre quelle che al figlio non mancava niente, che aveva tutto quello che desiderava. Non se ne facevano una ragione, pensavano di aver sbagliato qualcosa nell’educazione e allora io cercavo nel mio piccolo di spiegare. | Quante volte durante i processi dei nostri ragazzi, perché oramai per me erano tutti uguali, tutti figli, quando loro rinunciavano alla difesa, io cercavo di far capire il senso di quella scelta ai genitori, che disperati dicevano che erano pazzi, che si rovinavano con le loro stesse mani, che avrebbero potuto far dire all'avvocato che la loro era stata solo una sbandata da ragazzi. Ma questi erano coscienti di quello che facevano, erano politicamente coerenti nelle loro azioni, quindi perché avrebbero dovuto passare per degli stupidotti? Era la loro vita che si sarebbero giocati e avevano tutto il diritto di scegliere la strada più giusta per loro. Erano discussioni lunghissime che tenevano conto delle difficoltà di questa gente anziana a capire un mondo della politica, delle scelte estreme, dei valori per cui si è disposti a pagare fino in fondo, un mondo per loro sconosciuto.

Dal ’74 mio figlio ha iniziato questa esperienza e da allora non l’ho mai abbandonato. Come tante altre mattine, anche quella mattina lì dopo essersi fatta la barba uscì di casa. Ancora non lavorava, aveva diciannove anni.

All’ora di pranzo mi telefonò un suo amico per avvisarmi che Ernesto non sarebbe rientrato a mangiare. Non me lo passò al telefono perché diceva che in quel momento era in bagno. Lungi da me il pensare a qualcosa di diverso. Verso sera, erano le 7, bussò alla porta la polizia con un mandato di perquisizione. IST

“Avete arrestato mio figlio? Ma perché cosa ha fatto?” Sono venuta giù dal pero. La televisione la seguivo, ma come ogni donna di casa a mezzogiorno e all'una ero a cucinare. Restarono a casa per aspettare mio figlio che dopo una sparatoria era scappato, pensavano che almeno telefonasse. Ero disperata, non volevo credere che avesse sparato, urlavo, non volevo sentirli ripetere quelle assurdità, mio figlio ha sparato?

Non era possibile. Ce l’avevo a morte con chiunque dicesse o credesse a quelle cose. Chi credeva a quelle cose era perché non gli voleva bene perché Ernesto non avrebbe mai potuto fare una cosa del genere. Per giorni ho continuato a ripetere che non era vero niente,

che mio figlio nessuno lo capiva. Poi cominciai a dire che era stato coinvolto e che non c’entrava, che s’era trovato in mezzo a una storia di cui non sapeva

niente.

Dicevo che era scappato perché era stato coinvolto e si era impaurito ed era fuggito via e aveva fatto bene, chiunque avrebbe fatto lo stesso. Poi me ne feci una ragione. Ci fu Lo Russo e capii che lì avrebbe potuto esserci anche mio figlio, ma è passato del tempo prima che arrivassi a questa conclusione: piuttosto che saperlo morto preferisco saperlo in galera.! Ho cominciato con le carceri speciali in Svizzera, il carcere

“La Stampa”, che era addirittura peggiore di quelli italiani. Lì non facevano entrare neppure le scarpe da ginnastica perché erano adatte alla corsa, quindi all'evasione. Abbiamo tutti imparato a nostre spese quello che si poteva e quello che non si poteva dire, fare, pensare, portare. Ero alla prima esperienza e ancora non conoscevo nessuno

! Pier Francesco Lo Russo, ventiquattro anni, studente universitario pres-

so la facoltà di medicina, militante di Lotta Continua, ucciso con un colpo di pistola l'11 marzo 1977 in via Mascarella a Bologna nel corso di una carica di polizia e carabinieri. Carica avvenuta al seguito di una chiamata fatta dal rettore e dagli aderenti a Comunione e Liberazione per una contestazione di studenti di sinistra che si stava svolgendo contro una assemblea di Cl all’interno dell'università. 158

dei suoi compagni, poi oltre a incontrare lui, cominciai a conoscere i ragazzi coinvolti nella sua stessa storia, la famosa storia di Argelato che qui a Bologna fece scalpore.? Erano i ragazzi di Via Argelato, tipo i ragazzi della via Paal. Per parecchio tempo abbiamo affrontato viaggi tremendi per poterlo andare a trovare, poi quando gli hanno dato l’estradizione ho iniziato a girare per le varie carceri italiane, cominciando da Padova. Lo spostavano

in continuazione,

Parma,

Ravenna,

Bolo-

gna, e poi le carceri speciali. Con le carceri speciali sono cominciate le angherie anche nei nostri confronti. Nacque l’Afadeco, l’associazione dei familiari, che fu subi-

to criminalizzata perché sembrava che avesse lo scopo non di aiutare i ragazzi che erano in carcere, ma di organizzare all’esterno una rivoluzione.? Invece noi ci organizzammo in un modo assai più semplice, volevamo essere presenti in caso fossero necessari soldi, indu-

2 “Il 5 dicembre 1974 alle 11,30 ad Argelato (Bo), il brigadiere Andrea Lombardini, comandante

della stazione dei carabinieri di Castel d'Argile, viene

ucciso da una raffica di mitra mentre si avvicina per un controllo ad un furgoncino Fiat 238. All’interno del furgone vi sono alcuni militanti di una formazione autonoma bolognese che si apprestano ad espropriare il portavalori dello zuccherificio sz e che vengono successivamente arrestati. Al processo alcuni di essi presenteranno due comunicati a firma Brigata Bruno Valli.” (La mappa perduta, cit., p. 377). Tra le tante iniziative di “ordine pubblico” rivolte contro le associazioni dei familiari, come

denunce,

fermi di polizia, provocazioni varie, si giunse

agli arresti di massa. “L'operazione antiterrorismo compiuta ieri mattina da

numerosi agenti della Digos a Casal Bruciato in uno stabile dove si trova anche il ‘Comitato popolare Tiburtino’. Le due sedi sono state perquisite e chiuse. Le persone dichiarate in arresto accusate di ‘partecipazione a banda armata’. Secondo il dirigente dell’ufficio politico l'indagine potrebbe avere sviluppi in campo nazionale. Ventisette persone sono state arrestate ieri mattina nella sede di ‘radio proletaria’, una emittente privata dell’ultrasinistra [...] Al

momento dell’irruzione degli agenti della Digos era in corso un convegno che aveva come argomenti ‘le carceri speciali, la lotta armata e la clandestinità’. Ventisette su ventinove presenti sono stati arrestati. La polizia li accusa di partecipazione a banda armata e concorso in detenzione di armi. Gli agenti avrebbero infatti sequestrato alcune pistole cal. 7,65 e cal. 9.” (‘Il Messaggero”, 5 febbraio 1979). L'articolo del giornale stravolge l'argomento del quale si sarebbe dovuto discutere nel corso del convegno - che era invece sulle carceri speciali e la criminalizzazione dei movimenti di lotta. Cadranno poi man mano anche tutte le accuse rivolte verso gli arrestati - prima fra tutte quella delle armi, mai trovate nel luogo nel quale erano riuniti. I “presunti terroristi” (familiari e giovani impegnati nella lotta contro le carceri speciali, l’art. 90 ecc.) verranno ben presto rilasciati.

159

menti, cibo a chi era dentro, e anche per darci una mano a vicenda tra di noi che eravamo fuori e che ci trovavamo ad affrontare una serie sterminata di difficoltà. Inoltre volevamo far conoscere la situazione carceraria, quello che stava succedendo con le carceri speciali, le torture che si facevano, i pe-

staggi e ogni genere di violenza psicologica e fisica sui detenuti.

Questo doveva dare parecchio fastidio. Tanti anni fa in televisione ricordo che fecero vedere un documentario a proposito delle carceri. Ero con mio marito che commentavo come se la cosa non mi riguardasse. Non immaginavo che un giorno mi sarei interessata eccome di tutto l'andamento carcerario. Con il carcere è cambiata la vita e sono cambiati gli interessi.

Ho imparato cose di cui ignoravo l’esistenza. Il carcere non lo conoscevo neanche lontanamente, non sapevo se davano da mangiare, se si dormiva insieme o da soli, era per me un altro pianeta. L'unica volta che avevo avuto a che fare con la giustizia era stato al tempo della guerra, quando a diciannove anni mi presero per una battuta antifascista detta ai fascisti. Dissi solo che da loro non ci si poteva aspettare che pugni in faccia. Allora era un po’ peggio di adesso. Per quelle parole mi presero e mi portarono a Milano dal federale che mi disse che mi sarei giocata la vita, che mi avrebbero mandata in Germania. Non feci il carcere solo perché dissi che il manifestino partigiano che portavo in borsa l’avevo trovato per terra, e dopo diversi interrogatori mi lasciarono andare. Se di carcere io non sapevo nulla, sapevo però come si comporta To stato quando vuole incastrarti. Il fascista mi diceva: “A me puoi dirlo chi ti ha dato il volantino, anch'io sono della tua idea”.

Dopo aver detto: “Grazie federale” mi scampai la galera, ma a me quel “Grazie” mi costò tantissimo, avrei preferito essere picchiata, perciò forse ho capito così bene Ernesto. Con il fascismo per me sarebbe finita la storia delle repressioni. Invece dopo tanti anni ho dovuto ricominciare in modo as-

sai più faticoso perché c'erano di mezzo i figli e c'era di mezzo il carcere speciale. Non mi vergognavo di lui, e quando incontravo qualcuno che evitava il discorso e che era in imbarazzo a parlare dell’ar160

gomento, io mi irritavo, mio figlio non è un ladro. Io mi sarei

vergognata se avesse scippato una poveretta, ma non posso vergognarmi perché lui è dentro per un’idea politica, lui è onesto. Così sempre ripetevo a testa alta.

Il parroco della zona venne con l’intenzione di consolarmi, mi disse di aver coraggio.

Il coraggio io ce l’ho, gli risposi, e non ho bisogno di quel signore là che anzi mi ha già rotto le scatole. A me venne a dire che dovevo credere. Figurati che io la pensavo proprio all'opposto, e poi se era vero che c’era un signore, mi aveva fregato proprio su quello che avevo di più caro. “Ma il Signore l’ha fatto perché sapeva che lei è una donna forte e ha voluto metterla alla prova.” Più ci ragionavo sopra e più non mi piaceva tutto quel discorso. Come dire: tu devi credere che io sia buona, poi appena ti giri ti schiaccio un piede, così, tanto per metterti alla prova e per vedere se sei capace di sopportare il dolore. Io di questa prova ne avrei fatto a meno tanto volentieri e non avevo bisogno di tanto per sapere che amavo mio figlio. Premi di questo tipo non ne volevamo né io né lui. Come si fa a sostenere certe teorie? Mi viene in mente uno spettacolo di Franca Rame che dedi-

cò a me, su una madre a cui portano il figlio in galera. La madre chiede di vedere il figlio almeno una volta perché dice di volerlo sgridare per quello che ha fatto. La portano da lui. Lei prende il figlio e lo ammazza davanti ai poliziotti. Voleva che a fargli fare quella fine almeno fossero le sue mani e non quelle degli sbirri.

Conobbi il pianeta carcere partendo dalle cose pratiche fino a studiare i regolamenti per non farmi prendere in giro. Molte volte le guardie ci impedivano qualcosa citando degli articoli di legge inesistenti, perciò mi misi a studiare per potermi difendere. Quante volte mi sono servita delle mie conoscenze in materia per obiettare e per vedere applicati i diritti che come madre mi spettavano. Molte madri si disperavano e mi dicevano: “Ma lei è una donna forte”. 161

Forti si diventa quando ci sono delle circostanze che ti costringono a stringere i denti e tirare avanti. A chi non viveva questa esperienza e mi diceva: “Io al tuo posto mi sarei buttata dalla finestra,” rispondevo che era un falso, primo perché il suicidio non risolve niente, e poi perché sulle cose bisogna ragionarci con calma. Dal ragionamento nasce la forza. Quando è morto mio marito tutti i familiari, invece di incoraggiarmi, mi dicevano: “Adesso come farai, sarà impossibile tirare avantida sola,” ma io non mi sono mai buttata dalla fi-

nestra né da nessuna altra parte. Ho mantenuto i piedi e la testa fermi sulle spalle e ho camminato caricandomi anche la parte che avrebbe dovuto fare lui. Le decisioni in due le avremmo valutate e discusse meglio, sarebbe stato più semplice anche perché avevamo le stesse idee, invece così è andata diversamente, potevo solo guardarmi allo specchio e parlare con me stessa, ma è andata comunque e i miei figli non si sono sentiti abbandonati mai. Ero sola. Le amicizie vere sono state tutte circoscritte nel-

l'ambito carcerario. Si era creato un giro di madri e compagne giovani con cui riuscivo a parlare e a consigliarmi perché vivevamo tutte le stesse cose. Donne soprattutto di Milano, di Reggio Emilia e di Bologna con cui mi sentivo forte. Noi bolognesi eravamo molto unite e solidali. Ci trovavamo in stazione per partire tutte insieme, per non

sentirci sole. Tante volte invece i viaggi li ho fatti da sola e mi incontravo con le altre direttamente in carcere. Quando rientravo a casa dopo questi viaggi non mi disperavo, non ne avevo il tempo o forse non volevo averlo. Io pensavo in continuazione e in positivo a quello che dovevo fare il giorno dopo, senza fermarmi, perciò dopo i colloqui mi preparavo subito per andare al lavoro, sempre di corsa, tutto di un fiato. Programmavo la settimana, devo fare questo e quest’altro, e poi devo ricordare di fare la spesa per il pacco dei figli, e poi devo comprare quella cosa per quel ragazzo e poi devo mettere da parte i soldi e fare il biglietto e non prendere la cuccetta perché costa troppo, e poi sempre così per anni.

Queste erano le mie attività settimanali e in depressione non ci sono andata, non avrei potuto permettermelo, chi mi avrebbe sostituita? Molte volte pensavo che io a differenza di altre donne ero

sola e non avevo un uomo accanto con cui sfogarmi, questo sì

mi pesava. i Con la figlia maggiore non potevo aprirmi fino in fondo perché lei ha un concetto della vita differente, è timorosa di fare cose che potrebbero danneggiarla, non si espone, non si sbilancia, di politica non si è mai interessata a differenza di tutti noi. Patrizia inizialmente era iscritta al Partito comunista, fece

addirittura la scuola di Partito alle Frattocchie.4 Quando arrestarono il fratello dopo qualche tempo riconsegnò la tessera perché i suoi compagni non erano disposti a

capire scelte diverse che a sinistra venivano fatte da altri. Se la prese un po’ come una questione personale e ci soffrì moltissimo. Dentro erano detenuti politici e venivano maltrattati come tali, all’esterno invece non si voleva ammettere questa politicità, era un vero paradosso con cui dovevamo combattere.

Ho sempre cercato di evitare di rispondere alle provocazioni che venivano fatte quando andavamo in carcere, e non ho mai subìto direttamente delle violenze fisiche, ma casi di abuso di potere sulle donne che andavano ce ne sono stati tantissimi. Le guardie, i giudici di sorveglianza, non perdevano mai occasione per fare la battutina pesante sui nostri figli, e allora dovevi scegliere se litigare o se tacere per evitare complicazioni. Avevano sempre qualcosa da ridire, non solo con le compagne, le conviventi, le amiche che chiedevano un permesso per entrare in carcere, ma anche con le madri e le sorelle.

Con le giovani erano angherie a non finire, credo che fu anche per evitare il più possibile tutto questo che molte si sposarono in carcere. Se eri una moglie era più facile che ti dessero un colloquio. Mi ricordo benissimo di Trani. Andai con la moglie di Fontana, una ragazza giovane, briosa, simpaticissima. Le guardie dicevano che era il regolamento, quando contestavi qualcosa loro avevano questa parola d’ordine: è il regolamento. 4 Comune di Roma dove si trova la sede nella quale il Pci fin dai primi anni del dopoguerra ha tenuto i corsi di formazione e aggiornamento per i qua-

‘ dri dirigenti del partito. 163

Le perquisizioni intime, le visite ginecologiche rientravano nel regolamento. Io non l’ho mai subite, ma le giovani sì, per loro il trattamento era un altro, il regolamento era flessibile e incomprensibile. l Con le donne anziane c’era più discrezione, o forse ero io che mi rifiutavo drasticamente. Guardavo in faccia la guardia e le dicevo: “Cosa vuole? Le pare che mi faccio mettere le mani addosso da lei? Ci pensi bene a quello che fa”. E mi hanno sempre lasciata andare. Più di una volta ho assistito a degli screzi tra le più giovani e le guardie, perché queste perquisizioni erano scioccanti. Era assurdo dover subire tutto quello perché una donna andava a

trovare il marito o il fratello. Delicatezze pochissime, solo violenza e volgarità. Non erano ostetriche, erano guardie, e se una donna giovane si rifiutava non le facevano fare il colloquio. Era un ricatto per distoglierci da andare a trovarli. La moglie di Fontana si rifiutò di fare la visita perché era nel periodo mestruale. Le guardie le risposero che non aveva importanza e quando la fecero spogliare, appena videro l’assorbente cominciarono ad agitarsi, come se fosse un candelotto. “Questo che cos'è, che cosa contiene?”

Lei ebbe uno scatto di nervi e glielo gettò sul tavolino. Succedevano cose eccessive di questo genere, che se si vanno a sommare allo stress che una si portava dentro per tutta la situazione generale, diventavano un vero incubo.

A Trani c’era il vetro. Sembrava di parlare con un muro. “Come stai? hai bisogno di qualcosa?” E lui: “Di niente. Hai altro da aggiungere?”. Capii cosa voleva dire e gli risposi: “No”. Allora lui strappò il filo del telefonino e ruppe la comunicazione del microfono, lo presero e lo portarono via immediatamente. A guardare quella scena non ci restai molto bene, ma mi sforzavo di capire sempre le ragioni di mio figlio. Se lo picchiavano non me lo diceva per non darmi dispiacere, così dovevo intuire, e questa fu una delle volte in cui imma-

gino che gliela fecero pagare pesantemente. Preferivo non vederlo se doveva essere a quel modo, infatti quando fu trasferito al carcere di Sollicciano dove anche lì c’era l’articolo 90, mi rifiutai di fare il colloquio con il vetro. 164

‘Oggi non facciamo il colloquio perché devono toglierci i vetri,” così decidemmo tutte quante e andammo via. Mi dispiacque moltissimo andare via, ma non era più possibile vedere ancora una volta i nostri figli così. A Palmi andai con il pacco, un po’ di indumenti e un po’ di vettovaglie. Ero solita portare dei dolci fatti in casa, perché mentre cucinavo avevo l’impressione di avere mio figlio vicino a me. Preparai una bellissima torta con ja marmellata. Quella torta non la fecero passare. Io chiesi che la tagliassero, nonostante loro usassero lo stesso coltellone con cui ta-

gliavano tutto, pesce, formaggio, frutta. Quando tagliavano era uno scempio, ma a parte questo io volevo che entrasse a tutti i costi. Mi risposero che non entrava perché c’era la marmellata, che poteva essere non marmellata ma gelatina esplosiva. Questo dà l’idea dell’ignoranza, perché perfino io che con gli esplosivi non avevo nulla a che fare, avrei saputo distinguere la gelatina esplosiva da una marmellata di frutta. Secondo lui io mi sarei fatta un viaggio da Bologna a Palmi con la torta di gelatina esplosiva. Non me la fece entrare, allora andai all'ufficio postale e la spedii. Per posta entrò la torta con la sua marmellata. Un assurdo, una cosa che non si capiva proprio e che rende

l’idea di quante cose dovevamo subire. Anche sciocchezze, che ora a distanza di anni sembrano co-

se di poco conto, ma che a quel tempo erano piccoli pezzi di un mosaico enorme in cui c’era solo violenza. Al carcere di Voghera c’era mia figlia, che venne implicata per la vicenda del fratello. Anche lì erano stesse regole, stessa trafila.

Non portavo ferro o oggetti di metallo addosso, ma quando passai sotto al metal detector incominciò a suonare. Avevo una sigaretta in mano e secondo la guardia se la

macchina aveva suonato era per la sigaretta. Un altro assurdo, visto che il metal detector reagisce solamente in presenza di oggetti metallici. “Sai che cos'è che suona per noi familiari? Sono i nostri nervi che sono d’acciaio.” Con questa battuta evitai un litigio. Bisognava solo far finta di nulla quando trovavano risposte assurde che offendevano la nostra intelligenza, perché loro avevano il potere di farti passare al colloquio o di rimandarti direttamente a casa. 165

Al femminile conobbi la Braghetti, Gioia e altre con cui le-

gai bene. Conobbi anche lì tante mamme di cui oggi, a distanza di anni, non ricordo più il nome ma ricordo il rapporto che avevamo.

Ai colloqui se io arrivavo prima di Patrizia, le sue:

compagne mi avvertivano che magari tardava a scendere perché stava mettendo i calzini o facendo una doccia, e allora mi intrattenevo a parlare con loro. Erano incontri sempre molto

affettuosi e caldi, spesso pieni di ironia. Era un modo per sopravvivere. Certo che quando presero mia figlia la prima cosa che pensai fu che bastava uno in carcere. I regolamenti erano gli stessi a Palmi, a Trani e al femminile di Voghera. Erano tutte carceri di massima sicurezza e quando ti intimavano: “No, questo no”, se non reagivi, i no diventavano sempre di più, perciò come dicevo prima, ho imparato le leggi penitenziarie. Conoscevo il regolamento di tutte le carceri speciali.

Facevo il giro d’Italia per dividermi tra il maschio e la femmina.

Dal carcere di Brindisi la trasferirono allo speciale di Vo-

ghera che era un carcere noto per il modo barbaro di trattare le detenute. Allora lavoravo, non potevo farmi mantenere

dallo stato,

io ero fuori e dovevo arrangiarmi. Facevo la governante in una casa signorile. Al fine settimana partivo per andare da un carcere all’altro, facevo Voghera e Palmi.

Le spese erano altissime per cui era questo il problema maggiore, che superava pure quello della stanchezza fisica. Viaggiavo la notte e non avendo i soldi per la cuccetta dormivo come potevo.

Mi è capitato di fare viaggi in piedi da Bologna a Brindisi soprattutté nei mesi di luglio e agosto quando c'era il tutto esaurito per i turisti.

Era una corsa, appena arrivavo dovevo sperare che non mi facessero aspettare troppo per poter riuscire a non perdere la coincidenza per tornare all'alba del lunedì. Il tempo di mettere giù le borse, di darmi una lavata veloce e di prendere l’autobus per andare a lavorare. Eravamo tante a passare i week-end in questo modo. Non potevo chiedere i permessi al lavoro ogni settimana perché sarebbe stato controproducente, soprattutto perché il mio datore di lavoro non sapeva che avevo i figli in galera. 166

Non glielo dissi solo perché non volevo né risatine, né frasi di commiserazione. Volevo evitare commenti che non avrei mai accettato. Erano datori di lavoro, non dei compagni, al di là che avessero comprato la tessera del partito. C'erano ideologie talmente contrastanti... Sentivo a volte i commenti che facevano a proposito delle notizie che leggevano sul giornale, commenti che facevano così: “Tutti al muro dovrebbero metterli questi banditi, questi delinquenti!”. Mi sentivo toccata personalmente ed evitavo di inserirmi nelle loro conversazioni, casomai precisavo solo con qualche

frase, dicevo che bisognava capire bene come stavano le cose prima di parlare. Ma mai niente di più. Quando arrivavo in ritardo per qualche disguido raccontavo sempre balle, dicevo che ero andata a trovare dei parenti

fuori Bologna, cose di questo tipo, e loro mi rispondevano: “Beata lei che va sempre in giro a visitare tanti bei posti!”. Nella zona in cui abitavo invece lo sapevano tutti. I giornali avevano fatto tanta propaganda, ma i vicini di casa hanno sempre cercato di darmi una mano, non ho avuto problemi in questo senso. Critiche direttamente a me nessuno le ha fatte. Mio figlio oggi è semilibero, quindi ancora non si è liberato del carcere, fino a due anni fa era detenuto a tempo pieno. Si è

fatto diciotto anni secchi. La ragazza invece ha fatto due anni. Il suo arresto rimane per me un mistero. Ci sono state cose

sporche dietro, perché l’unica colpa che può aver avuto è stata quella di aver conosciuto un ragazzo che era in carcere. Nessuno lo seguiva e lei ha voluto scrivergli, ha chiesto di farci i colloqui, fino a quando ha voluto sposarlo per poterlo andare a trovare più facilmente. Lui era a Trani, nello stesso carcere di mio figlio, poi è sta-

to trasferito, allora probabilmente si erano messi in testa che lei, avendo il marito e il fratello in due carceri diversi, potesse portare informazioni non so di quale tipo da una parte all’altra. Nell’82 con il suo arresto ruppero quella comunicazione, questo è ciò che ho sempre pensato pur non avendo prove in mano. Un bel giorno i carabinieri andarono nella casa che abbiamo in montagna, dove secondo loro si nascondeva qualcosa. Senza chiedere le chiavi e senza un mandato di perquisizio167

ne, sfondarono la finestra e misero tutto sotto sopra. Naturalmente nessuno assistette a questa operazione.

Dissero di aver trovato delle munizioni. Io non ce le avevo messe e mia figlia neanche, forse ce le avevano portate proprio loro. Si presentarono a casa chiedendo di Patrizia, in casa c'erano amici, la presero e senza spiegazioni la portarono via. Andai in caserma e mi dissero che in montagna avevano

trovato dei proiettili. A quel punto avrebbero potuto dirmi che avevano trovato un carrarmato e io avrei solo potuto tacere perché io non ho visto nulla. L’anno prima era morto mio marito per cui dal novembre del ’78 mi sono trovata sola a gestire la carcerazione dirmio figlio e dopo pochi mesi quella di Patrizia. La morte di mio marito era stata una batosta, un evento

improvviso che non mi aspettavo. Fu ricoverato solo per delle analisi da fare, quando andai a trovarlo lo trovai morto. Aveva avuto un’emorragia interna.

“No, non dovevi lasciarmi proprio in questo momento,” fu la sola cosa che riuscii a dire. Da allora in avanti le storie me le sono gestite per conto mio. Ho una venerazione per i miei figli, il mio mondo sono loro. Quando arrestarono Patrizia, oltre ad andare a trovare lei e mio figlio, andavo a trovare anche mio genero. Ne avevo tre da seguire, e ognuno di loro veniva spostato in continuazione.

Era una specie di tournée, cominciavo da Patrizia che era a Voghera, poi scendevo giù a Roma dove c’era il marito, poi ancora più giù a Palmi da mio figlio. C'è stato un luglio in cui con la settimana di ferie me la presi un po’ più con calma. “Dove vai in ferie?” “A fare il giro d’Italia,” risposi.

La giacca che gli avevo visto addosso l’ultima volta era malandata allora andai a comprarne una nuova. Era proprio bella edera azzeccata per lui. Gliela portai e non vedevo l’ora di sapere se gli era piaciuta. Mi disse che l’aveva ricevuta completamente scucita, le 168

guardie avevano pensato bene che tra una cucitura e l’altra avrei potuto infilarci qualcosa. Disfavano tutti gli indumenti che gli mandavo ed era umiliante, dava rabbia a non finire. Loro non avevano la macchina da cucire, ma a parte questo, il dispiacere di non potergli far avere nulla senza che venisse manomesso dalle loro mani disgraziate. Il bavero delle giacche lo aprivano, per non parlare del cibo, che tagliavano in mille pezzi e se magari era di loro gradimento gliene portavano la metà e il resto lo mangiavano loro. Anche queste erano torture, erano cose che non controllavi. Solo al colloquio successivo sapevi se aveva ricevuto il pacco, se aveva ricevuto tutta la torta o solo quattro spicchi, ma

lo sapevi dopo, perché a saperlo prima c’avrei messo la stricnina.

Di matrimoni in carcere ne ho visti due. Ho assistito a quello di mia figlia e a quello di Vicinelli, un altro compagno di Bologna amico di mio figlio. Il giorno l’hanno fissato loro, potevo entrare io come madre, e un testimone.

Solite perquisizioni e niente di diverso dal solito. La stanza era adorna da mettere tristezza, c’era un tavolac-

cio e quattro sedie. Lì è arrivato l’incaricato del comune con la fascia tricolore che era l’unica nota vivace in quel contesto. Con le guardie alle spalle hanno firmato una carta e la festa è finita con un po’ di vino che avevo dovuto svuotare dentro un contenitore di plastica. Questo il brindisi, velocissimo,

e la festa di mia figlia era finita. Nei due anni in cui Patrizia è stata in carcere io andavo tutte le settimane, ma in generale le donne sono state più sole degli uomini. Allora l’Afadeco era già stata sciolta. Cominciammo ad avere delle noie perché temevano che noi potessimo fare dei collegamenti tra carcere e carcere, cosa di cui erano follemente terrorizzati. Non credevano che il nostro sostegno ai detenuti si limitasse a un aiuto morale, tant'è vero che a proposito di sostegno io ebbi anche un processo. Quando erano a Palmi, mio figlio e gli altri compagni, avendo pochi soldi ed essendoci tra di loro persone capaci di disegnare, fecero una specie di gioco dell’oca sul tema del mondo politico carcerario, per cui a ogni casella corrisponde169

vano situazioni diverse di detenuti che alla fine, cioè al tra-

guardo, c’era la liberazione di tutti i compagni. Io mi presi la responsabilità e l'impegno di venderlo per. mettere insieme dei soldi per sostenere chi ne aveva meno. La prefettura mi dette il permesso di stamparlo così nel giro di pochi giorni la tipografia me ne consegnò parecchie copie.

Un bel giorno mi arrivò a casa un mandato. Ero stata accusata di apologia di reato. “Quante belle figlie madama Dorè”, anche questo giochino potrebbe essere interpretato come istigazione alla prostituzione.

Ebbi il processo, per fortuna a piede libero, e fui assolta anche grazie a un avvocato radicale di Bologna che seppe difendermi bene. Ho sempre approfondito alcune cose che mi interessavano. I libri di Renato Curcio, che per me è un ragazzo degnissimo, ho voluto leggerli tutti incontrando anche tante difficoltà perché il mio livello di cultura non è come il suo, ma io mi ci sono messa sotto e ho studiato finché non ho capito quello che voleva dire. Seguendo con questa tenacia mi sono resa conto di moltissime altre cose e ho imparato davvero tanto da persone migliori di me. Se non politicamente, almeno culturalmente mi sono riconosciuta dentro l’esperienza di mio figlio. Adesso sto facendo il ciclo inverso, dalla ascesa alla discesa, ma è un problema dovuto all’età che non mi permette di ricordare le cose e di apprendere come prima. Il deterioramento fisico non c’entra nulla con tutto quello che ho accumulato dentro.

I colloqui erano troppo brevi. Sarei stata lì a parlare per ore anche di cose superficiali. I colloqui erano sempre collettivi, noi da una parte e loro dall’altra parte del vetro o del bancone, per cui si chiacchierava spesso assieme. Noi portavamo notizie da fuori, c'era sempre qualcuno che si era sposato, che aveva avuto un bambino, che aveva perso un genitore, che aveva fatto le cose che si fanno nella vita esterna. Loro ci raccontavano quello che avevano fatto nell’ultima settimana, le partite di pallone, icambiamenti interni, qualche agente che se n’era andato, febbre e raffred-

dore da curare. Questi erano i nostri colloqui più rilassati. 170

Eravamo

come

una

famiglia con tante mamme,

sorelle,

mogli e figli. Se accadeva qualcosa a uno di noi ne risentivamo tutti.

Quando è morto Pelli fu uno shock. La sorella era amica mia, viaggiavamo assieme per andarli a trovare. Morì in carcere dopo un lunghissimo periodo di sofferenza in cui la malattia, nonostante fosse senza scampo, non gli tol-

se la facoltà di scegliere di voler restare insieme ai suoi com-

pagni fino all’ultimo giorno di vita.5 La sorella lo voleva a casa, voleva che morisse a casa e vis-

se in un primo tempo una forte contraddizione perché lui invece non accettava l’idea di uscire per motivi di salute. A parte il fatto che mai nessuno gli concesse la sospensione della pena, Marilena alla fine capì la scelta del fratello di morire vicino ai compagni. Ma fu una circostanza difficile, furono momenti brutti. Capii che le loro vite non erano più legate a quello che c’era fuori ma al mondo del carcere, la loro vera famiglia era fatta

dai compagni che avevano fatto la scelta estrema. La famiglia era lì dentro. Noi eravamo i familiari, un’altra cosa. Mio figlio ha un carattere chiuso grazie al carcere. Nel periodo del carcere duro, quando neanche all’interno potevano parlare, è diventato sempre

più taciturno e riser-

vato. Me lo ricordo quel tempo. Quando andai a Novara la prima volta non volevano farmi entrare. Parlai con il direttore spiegandogli che ero la madre e che volevo vederlo. Mi rispose seccato e in senso dispregiativo che Ernesto era

appena arrivato, tutto stracciato che sembrava un barbone. Io capii che era stato maltrattato, che se era ridotto così

evidentemente aveva fatto una “traduzione” da bestie. 5 Fabrizio Pelli, militante delle Br, viene arrestato nel dicembre 1975. Nel

1977 con la apertura delle carceri speciali inizia in esse un lungo percorso, che lo farà passare per quelle di Trani, Fossombrone, l’Asinara, luogo nel quale gli verrà in ritardo riscontrato il male. Non ottiene in nessuna di queste carceri visite e cure mediche adeguate. Quando gli verrà diagnosticata la leucemia, si troverà in uno stato già avanzato e oramai incurabile della malattia.

Morirà l’8 agosto 1979 in condizioni di detenzione nell'ospedale di Niguarda a Milano. Non concessagli la sospensione della pena in prossimità della morte, il tribunale di Milano e il Ministero di grazia e giustizia risponderanno negativamente anche alla possibilità che trascorra i suoi ultimi giorni in carcere in compagnia degli altri detenuti. 171

A mio figlio appena arrivato a Novara come prima cosa tolsero gli occhiali senza i quali non riesce a vedere niente. A una persona a cui mancano sei diottrie togliergli gli occhiali equi-. vale a togliergli quello che la circonda. Arrivò al colloquio con gli occhi doloranti e con le mani legate. Scesero dalle celle legati tra loro e senza poter sollevare la testa perché altrimenti li avrebbero manganellati sul collo. Era il trattamento dello speciale di Novara. Quella volta io capii come si sentiva lui. “Me li hanno tolti perché qui non ci occorrono” mi disse senza battere ciglio, come se fosse una cosa normale. Quando sono uscita dal colloquio ero arrabbiatissima. Andai a cercare i suoi occhiali: “Lei ha il dovere di restituirmeli perché sono occhiali da vista e non può negarmeli”.

Reclamai con il delegato perché non faceva rispettare il regolamento, lo intimorii minacciandolo di fare un esposto direttamente a Roma nel caso in cui la settimana successiva non avessi visto mio figlio con i suoi occhiali. Se non eri determinata e convinta di farcela ti umiliavano fino a morire. Ormai mi conoscevano, sapevano che ero una rompiscatole e che alle cose volevo andarci fino in fondo, quindi se mi im-

puntavo ottenevo quello che mi spettava. i Andai più volte a reclamare per come li trattavano, perché subivano cose che le guardie gli imponevano quasi per dispetto: mentre loro andavano all’aria le guardie entravano nelle celle e portavano via i fiammiferi per non farli fumare e per costringerli a chiedere alla guardia: “Per piacere mi dà un fiammifero?” e per aspettare ore prima di poter avere quel fiammifero. Dover sempre chiedere: “Per piacere mi dà questo?”, con la guardia che ti risponde: “Cos’hai detto che vuoi?”. Erano tutte piccole angherie che per uno rinchiuso non facevano che accumulare la rabbia. Non era Ernesto a parlarmi di queste cose, erano le madri e le mogli di altri detenuti che si confidavano maggiormente a raccontarmi di quello che subivano dentro. Non ero dentro e capivo che solo chi subiva poteva sapere quello che significava vivere così, ma conoscevo le dinamiche del controllo e del ricatto da parte di chi ha la forza di comandare per tutti. Il direttore mi invitò gentilmente a entrare nel suo ufficio e a sedere. “Lei dice che li maltrattiamo.” 172

Chiamò una guardia e gli chiese di portare il pasto che mangiavano i detenuti. Rientrò con un piatto di pastasciutta condita con parmi-

giano. “Vede signora, questo è il mio pranzo, ed è lo stesso che

diamo ai ragazzi.” Non si capiva per quale motivo avrei dovuto credergli, risposi solo che non stava parlando con una bambina. Non riuscivo ad accettare certi soprusi e non riuscivo a stare zitta, allora incitavo le altre ad andare a reclamare in

gruppo. Andammo da Pertini in delegazione, ma non ci ricevette.

Era oberato di lavoro e non poteva perdere tempo dietro a noi, così incontrammo il suo segretario Antonio Maccanico.

Ci assicurò che avrebbe riferito al presidente quello che succedeva nelle carceri italiane e ci invitò a scrivergli una lettera personale per esporre tutti i punti che avevamo discusso con lui. Scrissi al senatore Pertini dicendogli che mi scusavo di essere andata là come madre e come Afadeco perché evidentemente per lui la nostra storia non era abbastanza interessante tanto da riceverci. Gli ricordai anche che nonostante il suo sovraccarico di lavoro, disponeva anche lui di un po’ di tempo libero, ma che aveva preferito darlo alla squadra nazionale di pallone. Era l’anno dei mondiali e Pertini era un grande tifoso degli azZurri. La prossima volta, scrissi, ci vestiremo tutte da giocatori

di pallone così forse lei ci troverà più interessanti. Quella lettera l’avrà cestinata, infatti non ho mai avuto risposta. Le angherie erano quotidiane anche al femminile di Voghera. La radio libera locale ci dette tanto spazio per denunciare i maltrattamenti alle detenute, ma tutte queste piccole cose lasciano il tempo che trovano, avevo l’impressione che delle regole brutali applicate in quegli anni se ne infischiavano di noi. Da parte mia però non ho lasciato niente di intentato pur sapendo che quasi mai avrei ottenuto l’effetto desiderato. Ricordo una manifestazione organizzata contro le carceri

speciali. Un sit in con cartelloni e striscioni

a Roma, eravamo

tante, fummo intervistate da alcune radio, ma la cosa finì lì. 173

Può darsì che tutte queste inìzìatìve ìîndìviduali e collettive, messe insieme, abbiano anch'esse contribuito a far chìudere un po’ alla volta glì specialì. Patrizia è uscìta dopo due annì con un lungo perìodo dì arrestì domiciliìariì. Era molto dimagrita perché in carcere mangiava pochìssìmo. Era spaesata.

Mio figlio invece è uscito gradualmente con ì permessì. Mì fece una sorpresa. Una sera alle nove ero da sola come al solito e sentii suonare ìl campanello, chìesì chì era e una voce mì rispose: “Sono ìo, non posso venire a casa ?”.

Quello che ho provato nel vedermelo davantì dopo tantì annì non sì può descrivere. Ho cominciato a telefonare a mezzo mondo: “Ernesto è a casa! Ernesto è a casa!”.

Stemmo a chiacchierare fino a notte fonda, non mì sembrava vero, ero frastornata e felicissima. Sono cose dì cuì non parlo maì, solo în alcune occasìoni particolarì in cuì ci troviamo tra di noì, madrì e donne che hanno vissuto la stessa cosa. Ho un bellissimo rapporto con la famiglia dì Vìcinellì e quando ci incontriamo capita dì ricordare ì momentì ìn Sìcì lia, sul traghetto, dietro ì vetri, allora tornano în mente le ìîmmagini maì dimenticate. A Favignana cì andavamo insieme, cì imbarcavamo per at-

traversare il mare con tutto ìl treno. Lascìiammo lo scomparti

mento per prendere una boccata d’aria e al ritorno non trovammo ì nostri pacchi, succedeva anche questo. Sono passati tanti annì, ce le ricordiamo come esperienze e

cì ridiamo sopra. sf

#«-

174

10.

Appena fuori dal carcere le scrivo, anche se

non c’è niente di così urgente da dire

Le decine di telefonate alla sorveglianza per riuscire a parlare col giudice, alla fine un ok per un appuntamento per far coincidere la mia possibilità di scendere a Roma e il suo turno di lavoro al sabato, la preoccupazione

di trovare l’abbiglia-

mento adatto per fare bella figura... ed essere considerata affidabile: via jeans e le scarpe da tennis e vai, vestitino e scarpe col tacco che a camminare

veloce fanno tanto male; la corsa

dopo il colloquio con Teresa per arrivare in tempo all’appuntamento, e prima di entrare, be’ sì, esageriamo, ci vuole anche

il rossetto. In questi rapporti formali l’aspetto vale molto più del contenuto. Sono al colloquio col giudice di sorveglianza, il colloquio con le istituzioni, il colloquio dal quale, magari in piccola parte, dipenderà la possibilità di Teresa di potere o meno uscire per il suo primo permesso “premio”. Premio per cosa?

Perché non ha rinnegato se stessa? O forse perché Teresa entrando in carcere è riuscita “a instaurare rapporti positivi con le sue compagne di detenzione, con gli operatori penitenziari, a mantenere rapporti affettivi

anche con i familiari all’esterno? Forse perché ha dato prova di volontà di migliorare la sua preparazione scolastica iscrivendosi e frequentando sia i corsi interni al carcere, sia scuole

esterne ecc. ecc.,” come sono certa ci sarà scritto sul suo profilo personale redatto da direttore del carcere, educatori ed assistenti sociali vari; cioè si è comportata da persona normale nonostante il carcere? Con che metro viene giudicata Teresa, mi domando? 175

Col metro morale e culturale della direttrice di Rebibbia,

persona con la quale ho avuto l’istruttiva possibilità di parlare, che dopo mie argomentazioni accalorate sull'importanza del rapporto che mi lega a questa bellissima persona, e sul fatto che per me una sola ora di colloquio dopo un viaggio da Genova è stressante e poco gratificante, che in fondo io ero ai

tempi una delle poche persone che le portasse aria da fuori, non ci ha concesso i colloqui prolungati?! Quando sono arrivata a chiederle spiegazioni su tutti i pacchi alimentari, amorevolmente

preparateli, che venivano re-

spinti alla porta, ha avuto l'arroganza di rispondermi: “Ma invece di preparare lei il pacco, le lasci soldi in più, si comprerà da sola qualcosa..., e per il colloquio di due ore, non è possibile, la legge è questa”. Ma come fa una persona, che il carcere lo dirige, che do-

vrebbe avere il compito di riabilitare il detenuto, a non sapere cosa vuol dire per il carcerato il pacco da casa? E poi tutti sanno, e le leggi lo dicono, che la durata del colloquio dipende dal volere della direzione. Il giudice, invece, tutto sommato si presenta comprensivo, almeno cerca di capire, cerca di relazionarsi quasi sullo stesso piano, non si mette, come la direttrice, sulla cattedra, da de-

tentore del potere del: “Tanto sono io che decido”. Il GdS capisce la situazione, però dice: “Vede, ci sono le leggi che io devo rispettare, e la legge Gozzini prevede il divieto di incontro fra pregiudicati. Farò fare accertamenti, in fondo lei è un caso a parte, segue Teresa da molti anni, vedremo”.

Entro in carcere nell’80, sono una delle prime a giungervi quando viene inaugurata la struttura speciale di Voghera. Sono la matricola numero tre. Teresa venne rinchiusa nella mia sezione. Erano momenti di disgregazione non solo nella società esterna, ma anche all’interno delle carceri. Momenti difficili di spaccature tra noi detenuti politici. Era l’82, cominciava la ' Negli istituti giudiziari il regolamento ordinario prevede quattro ore mensili nelle quali i familiari o coloro che sono muniti di regolare permesso rilasciato dal giudice dal quale il detenuto dipende possono effettuare collo-

quio. La direzione del carcere sulla base del “comportamento” del detenuto può aggiungere a esse due ore “premiali”. In casi “eccezionali” la stessa direzione sotto sua responsabilità può rilasciare permessi “straordinari” aggiuntivi. La durata di ciascun singolo colloquio nei quali suddividere questo tempo,

sta alla discrezionalità della direzione dell'istituto. 176

dissociazione, e in cinque rimanemmo isolate da tutte le altre che fecero quella scelta. A un certo punto iniziai a sentire di non farcela più a sop-

portare quell’isolamento, mi resi perfettamente conto di stare male e di pesare sulle altre, con tutto quello che ciò significava per me: sensi di colpa, aggressività verso me stessa e verso le compagne più vicine. Avevamo da poco vissuto di riflesso il malessere di un’altra compagna e non era stato facile. Stavo male davvero. Quando neanche riuscivo a parlare, lei era sempre accanto

ame.

Teresa ha ottenuto il suo primo permesso di cinque giorni. Telefono al giudice di sorveglianza. Dopo due giorni di accurata ricerca e dopo seimila tentativi al tribunale di Roma,

finalmente riesco a trovarlo. Mi dice poche parole, mi dice che non potrò vederla. Ho messo giù il telefono e mi è uscito il sangue dal naso. Come non posso vederla? Dopo aver parlato con l’educatore, con la direttrice del carcere, con il giudice, dopo aver scritto lettere non so a chi altro ancora per chiedere di farmela incontrare, non c’è stato

verso. Non posso vederla perché sono pregiudicata. Un'altra vera assurdità della Gozzini, che nei fatti dice, o ti

penti (e qui la cultura cattolica dello stato italiano esce tutta), o marcisci in galera. Abbiamo vissuto per anni nella stessa cella, da molto tem-

po facciamo colloqui regolarmente autorizzati dal magistrato, ma non possiamo incontrarci fuori?

Che senso ha? 2 Nell’estate del 1975, dopo una ricerca e un dibattito durato molti anni, il

parlamento varava la riforma penitenziaria (legge n° 354): un nuovo ordinamento fondato sulla prospettiva costituzionale in base alla quale le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato” (art. 27, 3° comma). Riforma

divenuta nota come “legge Gozzini” essendo stato esso il suo primo firmatario. Contiene tra i suoi vari articoli preposti al reinserimento del condannato nella società all’esterno la possibilità di concessione di permessi e licenze. Svilita in diversi suoi aspetti da provvedimenti e decreti legge emergenziali negli anni che seguiranno, parecchi dei suoi caratteri verranno man mano a orientarla sempre più marcatamente verso un ruolo di “premialità” discrezionale basata non solamente sul comportamento soggettivo del detenuto in questione ma pure sulla libera interpretazione di questo comportamento da parte dei vari organismi preposti a giudicarlo (direttore del carcere, educatore, psicologo ecc., dall'interno; organismi di ordine pubblico come prefetti, arma dei carabinieri ecc. dall'esterno). Nel caso della sua applicazione rivolta verso i

detenuti politici il binomio livello della avvenuta “rieducazione” e idee politiche del detenuto in osservazione vengono sovente a collimare. 177

E qui la memoria mi va alla mia galera, alla struttura di Voghera con tutto quello che ha significato, agli sbirri che menavano perché passando dai corridoi ci si fermava a parla-. re con le compagne all’aria in un’altra sezione. Agli stessi sbirri che, dopo aver scritto a qualche amico che ti manca il mare, riaccompagnandoti in sezione da un colloquio ti dicono beffeggiandoti: ‘Noi oggi andiamo alla spiaggia e tu stai qui”. Stupidi, la vostra libertà di andare al mare non eguaglia la mia che, seppure rinchiusa, posso pensare con la mia testa. Voi siete prigionieri di voi stessi, del modo di merda in cui svolgete il vostro lavoro di merda, della galera che avete

dentro. Voghera è piccola, la gente mormora, i giornali locali riportano dell'aumento degli incidenti stradali provocati dalla polizia penitenziaria; dalle celle sentiamo grida isteriche dai camminamenti, vediamo guardie portate via di peso. La struttura Voghera batte in testa anche a loro, non solo a noi. Il pensiero va a Teresa, quali saranno le pressioni che oggi vengono esercitate sui prigionieri, come si saranno evolute, quale altra sperimentazione sarà oggi in corso?

A colloquio lei è sempre in ordine. Anch'io, quando arrivo a Termini alle sette vado al diurno,

uno specchio per ristrutturarmi, il trucco, sono le rare occasioni in cui lo uso, via le occhiaie nere, come mi ha insegnato

Teresa prima dei colloqui con i miei genitori, quando eravamo in infermeria. Finalmente in infermeria, dopo cinque anni in cella da sola. Dovevo impazzire e tagliarmi per godere di un po’ di socialità? Per i colloqui ci preparavamo sempre tutte in ghingheri, pure chi veniva a trovarci faceva altrettanto.

Si comiricia sempre: “Come va?”. “Tutto bene” sia da una parte che dall'altra. Anche durante il periodo del 90, il periodo dei colloqui con i vetri, e forse proprio in quel periodo, la risposta era sempre: “Tutto bene” sia da una parte che dall’altra. È meglio nascondere le occhiaie, un po’ di fard per far sparire il colorito verdastro, chili di crema alle mani per mimetizzare i geloni. Cosa serve far preoccupare più del dovuto i geni-

tori costretti a chinarsi sui buchini dei banconi per parlare da una specie di citofono, a vederti attraverso un cristallo spesso 8 mm che non ti fa vedere bene a causa dei riflessi, a salutarti 178

ig. tal

appoggiando le mani al vetro freddo, al di là del quale appoggi le tue mani. “Sei dimagrita.”

“Ma no, è il vestito che mi fa sembrare così... sai, leggo tantissimo.” Anche se in cella puoi avere solo cinque libri e per cambiarli passa un sacco di tempo, non puoi tenere raccolte di giornali, non puoi avere matite colorate o quanto altro possa

essere usato per distrarsi. “Sto conoscendo un sacco di compagne nuove.” L'aria, di un'ora al giorno, si fa in cinque, con composizio-

ne determinata dalla direzione. “Sapessi che buffo! Abbiamo i cancelli delle celle, della sezione, dei cortili dell’aria con i semaforini. Quando è verde possiamo uscire e andare all’aria da sole, insomma una bella novità.”

È un tentativo di farti introiettare il carcere: dovresti essere tu a richiudere la cella al tuo rientro, aiutarli a gestirlo senza bisogno di guardie. All’uscita dalle celle tutto ok, presto in socialità all’aria, avremo altre ventitré ore per stare da sole. Al rientro ognuna di noi, appena varcato il cancello della sezione, inizia ad aprire gli spioncini delle compagne chiuse. Si comincia a chiacchierare. L'assenza di squadrette in sezione è durata il tempo di un amen. Le squadrette sono ritornate... incazzate. “Dalla finestra della cella riesco a vedere gli alberi, era tempo che non ne vedevo, mi fa tanto piacere, i colori delle fo-

glie danno il senso della stagione...” Sì, oltre la finestra, oltre le sbarre, oltre la grata, oltre al

muro di cinta... oltre, vedo la cima degli alberi. Sì, va sempre tutto bene anche all’esterno. Mia madre ha avuto un coma epatico, l’ho saputo quando è stata fuori pericolo, e poco dopo ha potuto tornare a trovarmi. Mia sorella più piccola ha subito un'operazione, l’ho saputo poco prima che finisse la sua convalescenza. Il vetro, l'impossibilità di intervenire concretamente sul problema dell'altro, al di qua o al di là del vetro. Poi la complicità con la sorella più grande. È nel comitato carceri. Mi chiede: “Raccontami delle vostre condizioni”. 3 Spioncino: finestrella di piccole dimensioni che si trova nella porta delle celle attraverso la quale avviene abitualmente il passaggio degli alimenti.

Spazio tramite cui i detenuti spesso parlano tra di loro. 179

“Alla perquisizione a nudo partecipava quella sbirra che a Marassi ci ha denunciate. Le sette compagne del processo che era in corso perché. parlavamo da dentro alle celle con la nonna Rina che era nel corridoio. Quella denuncia ci è costata due anni, due anni e

mezzo di galera per oltraggio a pubblico ufficiale con finalità di terrorismo, bah. Ci sono telecamere ovunque, anche in doccia. Le sbirre ci parlano dal loro gabbiotto in sezione attraverso un citofono. Abbiamo

un'ora d’aria al giorno; il blindato oltre il cancello

della cella è sempre chiuso, aprono solo lo spioncino per darci da mangiare. Il vitto lo consegnano le guardie, non ci sono lavoranti. Il vitto fa schifo, non possiamo prepararci nulla, non ci danno i nostri fornelli. Una domenica a cena ci hanno portato.le zucchine bollite... con i cristalli di ghiaccio. È partita la prima battitura collettiva. A proposito, vuoi ridere?! Quando sono arrivata a Voghera eravamo in quattro e ci siamo messe a parlare dalle finestre gridando. Le guardiane si sono messe a fare la battitura contro il blindato, per non farci sentire l'una con l’altra. Innovazione incredibile. Credo sia l’unica battitura della storia carceraria fatta da chi le chiavi ce l’ha in mano.”

L’insensatezza del regime carcerario mi colpisce molto più ora rispetto a quando anch'io mi ci trovavo rinchiusa. Finché ti ci trovi dentro, quelle cose assurde come il fare la domandina per avere qualsiasi cosa, il colloquio che finisce dopo un'ora, sono tutte cose date.4 È così e basta. Quello è il regolamento, e quella e solo quella può essere la tua vita finché sei lì dentro. Per resistere ventiquattro ore su ventiquattro chiusa, si

creano di fatto delle difese per cui non è che puoi pensare di scontrarti,.di litigare in continuazione per tutte le incoerenze

quotidiane con le quali devi convivere. Diviene in qualche modo legge di sopravvivenza.

Venendo invece da fuori, dove se voglio posso decidere do-

ve mettere i piedi, per me diventano incoerenze inaccettabili e senza senso. Privazioni che non hanno nessuna logica e nessuna funzio4 Fare la domandina: modulo prestampato che regola il rapporto tra la direzione dell'istituto e il detenuto per la richiesta di quello che concerne i suoi bisogni primari: spese alimentari ecc., sociali e affettivi verso l'esterno (colloqui, telefonate), oltre a quelli di conduzione della vita interna.

180

ne se si considera che dentro al carcere non viene rieducato o reinserito, come si vorrebbe far credere, proprio nessuno.

L’angheria, la sopraffazione, sono le regole che vigono attorno, a volte ancor più che dentro, al carcere.

Mi sono trovata a dover molto spesso riportare con me il pacco dei viveri che avevo preparato con passione, senza una vera ragione se non il puro abuso di potere. A decidere di cosa puoi o non puoi fare è gente veramente ignorante che ti pone ostacoli a non finire, spesso senza una ragione seria che li motivi. E ogni ostacolo significa fare trafi-

le umilianti per la tua intelligenza, andare dal giudice, non trovarlo, casomai cercarlo per settimane, partire e fare centi-

naia di chilometri per niente. Le torte di verdura non entrano, e nemmeno il pesto e nemmeno le insalate di mare, i kiwi, i peperoni aperti, le arance,

oppure le giacche, tutte cose che casomai la volta prima che c'eri stata, entravano.

“Perché il mio pacco non entra? Aprite, tagliate pure i peperoni e le arance per vedere se c’è nascosto qualcosa, semmai controllate!” Sono assurdità, sono abusi attuati per mantenere delle di-

stanze. Io non le porto più roba da mangiare, e probabilmente questa è una mia autodifesa per prevenire l’ansia. Ma mentre evito la rabbia, allo stesso tempo aumenta il limite del rapporto che posso avere con lei. Da carcerata che ha vissute quelle condizioni, so che rice-

vere il pacco da casa ha un significato affettivo molto forte. Sentivo quando lo ricevevo, che quel cibo preparato era un elemento di legame, rappresentava amore aggiunto che mi veniva trasmesso. Poi mi sono trovata a prepararlo io da portare dentro.

Ci metto amore. In quel momento dedico tempo a lei, faccio cose elaborate... non porto la bistecca, porto la pasqualina, una torta ai carciofi tipica di Genova.

È un rito. È un momento di stare insieme quando non è

possibile diversamente. Ha un valore, il pacco ha un valore per me oggi più di quanto lo sentivo ieri quando lo ricevevo.

Quando mia sorella preparava il pacco per me, il suo ragazzo faceva scenate di gelosia. Erano i momenti in cui nella casa c'erano i profumi migliori e si produceva qualcosa che non era usuale. Il locale docce è rivestito da vetro resina non lisciata, a col181

po d'occhio sembra impastato con capelli, mi ha fatto venire in mente Auschwitz. Fa freddo, tengono il riscaldamento basso, ci scaldiamo le mani sul portalampade alla testa del letto. La televisione è incastrata in alto, sopra il cancello della cella, protetta da un cristallo antiproiettile, la radio è al lato del cancello, come il

citofono. La stazione radio è scelta dalla direzione. Letto, tavolo, sgabello, scaffale, il gabinetto alla turca, la-

vandino e bidè sono murati. L'acqua è ghiacciata, si apre a pressione e viene con un getto fortissimo, non regolabile. Per lavarsi la faccia devi farlo con una mano sola, con l’altra devi

premere il pulsante. Fa freddo, abbiamo i geloni. All'arrivo mi hanno dato la divisa beige, le calze di cotone lunghe, senza elastico, le scarpe di cartone, le mutande di tela, un solo paio. Dopo alcuni giorni ci hanno consegnato i nostri indumenti... sollievo. Fa freddo. Stiamo in cella imbacuccate. Mangio in piedi, col piatto sul termosifone. Fa freddo. Parliamo dalle finestre. Fa freddo a stare chiuse da sole per ventitré ore al giorno. Fa freddo. È la manifestazione organizzata all’esterno contro le condizioni in cui vivevamo.5 È una bella mattina, così la ricordo, abbiamo preparato scritte sugli scottex con il lucido da scarpe e li abbiamo fatti passare sotto la grata della finestra. Io ero nella sezione al primo piano, il mio striscione non l’avrà visto nessuno, a parte le guardie che sono venute a toglierlo, era però un modo di essere insieme a chi era fuori in quel momento. Ricordo solo il rumore

degli elicotteri, e la sensazione che in cella ci fosse la

gente che sapevo essere fuori. Sapevo che c’erano le mie sorelle e tanti altri parenti che vedevo ai colloqui. Poi gli articoli sui giornali, icompagni morti in un incidente mentre-venivano a Voghera, i racconti ai colloqui succes-

sivi. La morte porta il gelo nel cuore, la solidarietà lo scalda. Al diurno mi trucco. Ho tanti colori addosso, la collana che

mi ha regalato Teresa, una sua maglietta che mi ha mandato. È bello avere abiti di chi ti vuole bene, mi ha scritto, scambiamoci spesso i vestiti! Va tutto bene, non sono stanca della notte passata in treno,

né della settimana di lavoro che mi sono lasciata alle spalle. 5 Cfr. nota 6, capitolo 4. 182

Non le ho mandato telex per avvertirla del mio arrivo, è raro che io lo faccia, non so mai come arrivo al venerdì sera, se

sono troppo stanca o meno per partire. Rischio solo di aspettare qualche ora in portineria se Teresa ha avuto il colloquio interno. Che le faccia piacere vedermi non ho dubbi. Non sono stanca, riesco a leggere il giornale sulla metropolitana. Non sono stanca, l’autobus dalla metropolitana a Rebibbia

è abbastanza frequente, la prima volta che sono andata in quel carcere me la sono fatta a piedi perché non sapevo dell’esistenza del bus. Non sono stanca, c’è solo un chilometro dalla fermata del

bus all’ingresso del femminile, si costeggia tutto un muro di cinta. Non sono stanca.

Chissà se erano stanchi i miei quando mi hanno seguita a Rovigo, Enna, Nuoro, Voghera per sette anni. Andava sempre

tutto bene. Non mi hanno mai detto di essere stanchi, però mia madre soffre molto

a camminare e ha un sacco di acciacchi, a mio pa-

dre sono venuti i capelli bianchi, Paola nel frattempo ha divorziato, Silvia non parla mai di quegli anni. Non erano stanchi, erano solo felici di poter passare con me una fottutissima ora di colloquio, di stringermi le mani, quando ci era concesso. Di portarmi i cibi più buoni e più elaborati. Di scrutare dentro ai miei occhi per trovarci un po’ di serenità o allegria. Non si sono neppure sentiti umiliati nel passare sotto le mani di chi li perquisiva, o mia madre, a Voghera, dopo essere passata tre volte sotto il metal detector, a togliersi il reggiseno la cui bacchetta era responsabile di tutto quel pandemonio. Sono rimasti male, questo lo so, quando dovevano riportarsi indietro il pacco viveri. Non sono stanca. Parto il venerdì sera, mi faccio tutta la notte in treno per

un’ora nella quale vederci. Arrivo lì e dobbiamo quel poco tempo. In quelle condizioni, prima di tutto bisogna cose pratiche... Ho fatto questo,.. questo,.. quest'altro, devo questo, quest’altro.. E così il primo quarto d’ora berarmi il cervello di tutto ciò che è più urgente.

fare tutto in ricordarsi le dirti questo, lo passo a liUna specie di 183

lista in cui comincio a cestinare le prime voci, che sono le più noiose e ingombranti. Una valanga di parole frettolose dette con l’ansia che sia scaduto il tempo. Stare dentro insieme era un'altra cosa. Ora rischi incomprensioni, solo perché fai scambi epistolari, nei quali scrivendo dici cose che danno per scontato che l’altra capisca. Vivevamo assieme, e il colloquio è di un’ora.

Al ritorno sono stanca sfinita, e non è solo stanchezza fisica, è il sentire che un rapporto viene leso. Quando finisco, ecco, è proprio questa sensazione di aver finito, che rende tutto angosciante e innaturale. Quel senso della fine, del tempo che è scaduto che ti lascia dentro tutto il non detto. Ognuno di questi incontri è un impatto emotivo grosso, ma

insufficiente nel tempo, nello spazio, e allora appena fuori dal carcere le scrivo, anche se non c’è niente di così urgente da di-

re. Le scrivo forse perché porto dentro di me il senso di aver lasciato in sospeso qualcosa, e quello è il solo modo che ho per restare ancora un po’ con lei.

Negli ultimi anni mi sono autoeducata a mantenere una certa distanza dalle cose che mi possono coinvolgere particolarmente, dalle emozioni troppo violente che poi mi fanno star male. Quando non avevo questa capacità non ero neanche in

grado di essere autonoma: una specie di indifferenza in cui mi proteggo quando esco mentre lei invece resta lì. È un’autodifesa indispensabile. Io mi sento impotente. Una impotenza che però non mi im-

pedisce di sognare... di sviluppare incredibili fantasie di evasione. Serie e concrete, che si sono concentrate su di lei e almeno

nella fantasia ho la possibilità di farla uscire. Pensieri e sogni che restané tali... Dopo mesi finalmente l’area verde, il nostro primo e ultimo colloquio all’area verde.9

6 Genere di colloquio “straordinario” e discrezionale da effettuarsi in cortili o giardini interni all’istituto, concesso occasionalmente dalla direzione di alcune carceri a quei detenuti che oltre ad aver tenuto un “comportamento” consono, pur essendo ristretti in istituti giudiziari risultano quasi sempre condannati a pene definitive che dovrebbero per legge scontare in istituti "penali” nei quali gli spazi di contatti verso il mondo esterno sono per regola ben superiori di quelli invece loro concessi nei giudiziari.

184

Io sono in cassa integrazione, posso telefonare più spesso

in carcere, posso muovermi più facilmente anche durante la settimana. È il santo Natale tutti sono più buoni e la direttrice ce lo ha concesso in via del tutto eccezionale, così dice.

Colloquio più rilassato. Non c'è lo stress dell’ora che finisce subito. Dopo un bel po’ del colloquio: “Come stai Teresa ?”. “Adesso meglio, ho passato un anno difficile, di profonda riflessione su tanti aspetti...” “Perché non me ne hai parlato di più?” “Le lettere le leggono e possono usare il mio malessere contro di me, i colloqui di un'ora, e così sporadici, non permettono di approfondire le cose, non sarebbe servito.” Andava tutto bene. Ma c’è voluto un colloquio di cinque ore per parlarne, parlarne, parlarne, facendo le vasche, come a Voghera. Avanti, indietro, avanti, indietro. L'ambiente è più bello c’è il verde, gli alberi, non solo il cemento come allora. Avanti, in-

dietro. Mi ritrovo a parlare forte. “Parla piano, ti comporti come un Pierino, tu di qui esci, io qui ci resto. Ne ho già tante di ritorsioni per la mia posizione politica.” “Scusa Teresa.” Mio impatto col passato. Abituarsi a scrivere sotto censura. Scrivere con “allegria proprio durante i periodi più difficili. Il potere cerca di an-

”»

nientarti politicamente e fisicamente, usa quello che scrivi. Mi ci sono voluti anni di pratica per scrivere sinceramente dei miei sentimenti,

e nel momento

in cui sono stata male, mille

delle paranoie che mi hanno assalito erano anche determinate, o portate, dal ricordo di aver scritto, detto, —- forse a voce alta? mi avranno sentito? — cose che mi potevano essere ritor-

te contro. Ma ci saranno i microfoni in cella? Mi controllano anche quando sono al cesso, questa era una

realtà, non una paranoia. Cosa farà sentire freddo a Teresa, oggi? Avrà freddo Teresa? È vero, parlo poco con lei delle sue attuali posizioni politiche, non so dire se è perché non mi interessano più di tanto, o

| perché purtroppo con esse non riesco a confrontarmi con la vita che faccio. Per relazionarsi politicamente con l’ambiente 185

in cui vivo bisogna esserci dentro. Lei non c’è, il confronto è difficile. È stato molto difficile per me capire come era cambiato il mondo durante la mia assenza, la mia carcerazione. Ai tempi la sinistra era in evoluzione.

L’ho trovata, la sinistra, total-

mente sulla difensiva. Oggi io lavoro col contratto dei metalmeccanici. Nella piccola ditta le prime assemblee si sono tenute per richiesta della direzione, quando è stato aperto il processo di cassa integrazione e mobilità. Qualcosa è cambiato rispetto agli anni settanta! Di Teresa leggo gli scritti. Con lei ci confrontiamo sui fatti di cronaca. Ci ritroviamo senza tanti discorsi. Forse l’importanza per me di vederla sta proprio nel fatto che quando ci incontriamo e parliamo di cosa succede, ne diamo una lettura molto simile, bastano solo poche parole, non

serve sprecare fiumi di discorsi con i distinguo, i sì però. I percorsi che ci hanno unite li ritroviamo in poche frasi, è tutto più facile. La frustrazione di vedere un mondo che va a rotoli, sul quale non sono in grado di incidere, si mitiga nel ritrovare qualcuno che la vede come me. Ma perché io sono fuori e lei sta dentro? Non diciamo cose diverse. Perché io sono fuori e decine di compagni, con posizioni giuridiche anche simili alle mie, stanno ancora marcendo in galera solo perché magari sono stati giudicati da un altro foro competente? E poi, comunque, le responsabilità politiche di quello che abbiamo fatto come Brigate Rosse, ce le siamo prese sempre collettivamente. Qualcosa è cambiato in questi anni. Oggi ci si difende, ci si ritrova a fare i conti con una memoria cancellata, per me irriconoscibile.'Una memoria e una morale perverse, in cui tutto

è il contrario di tutto, oppure è uguale a tutto. Bianco e nero, buono e cattivo. Vado subito a lavorare, il padrone è il PADRONE, 0 così o così. La cosa che più micolpisce parlando con la gente, con i miei colleghi, è che tutto viene considerato normale. Non c’è

nessuno che si indigna. Faccio gli scioperi, una delle poche in una ditta di ottanta persone, litigo col PADRONE, mi licenziano. Ricorro tramite avvocato, ‘Con i tempi che glio che pattuisci un po’ di soldi di buonuscita, lavoro... scordatelo,” non sono d’accordo, è un insensato, rivoglio il mio posto di lavoro. Vengo 186

corrono, è mea riottenere il

licenziamento riassunta.

Sono stata fortunata o è solo che non ho dato per scontato che aloro tutto è comunque concesso? Craxi, dalla televisione del carcere, straparla del boom economico. Escoinsemilibertà. La cosa che più mi colpisce appena uscita è la puzza degli scarichi delle macchine, non ci sono più mar-

ciapiedi agibili per i pedoni, ogni due passi incontri qualcuno che ti chiede un po’ di elemosina mentre la gente scantona indifferente, le vie sono tappezzate di ragazzi piegati in due dall’eroina, vedo persone anziane che ravattano nei bidoni della rumenta, peravere una medicina devo tirare fuori un sacco di soldi. Anni ottanta, anni veramente bui. Non riconoscola città che holasciato. Anche Genovaè stata una città da bere, si sono bevuti la sua storia, rendendo in cambio un liquame fetido di sconfit-

ta e rassegnazione. Non c’è più neanche quel sano mugugno che lacaratterizzava. 1987, esco dal carcere alle 7; alle 7,30 ho iltreno per andare a

lavorare. Rientro a Genova alle 18, incarcere alle 23. Allaccio rapporti con situazioni già esistenti, il “Coordinamento carceri”, altre situazioni disposte a discutere dei prigionieri politici, discutere della Liberazione dei Prigionieri Politici. Situazioni che molto spesso, mi rendo conto, vivono solo per se stesse, senza riuscire a collegarsi con l’esterno. Genova è una città chiusa, la sua sinistraè legata a doppia mandata alla storia del Pci, muri di gomma che ti rimpallano le parole, mia incapacità politica che mi rimpalla i muri digomma. Vadoa trovare Teresa. Vado atrovarla subito. Sento dentro di me che se non vado non ce la farò più a entrareincarcere. > Ho sentito di persone che dopo essere state in carcere da detenute, provano delle grosse angosce nel rientrarci per fare colloqui. Prende inloroilterrore di restare intrappolati. Quando abbiamo ottenuto la possibilità di incontrarci era tantissimo che non la vedevo. A parte la felicità di stare con lei, non ho avuto all'arrivo, come temevo, un impatto brutale con il

carcere. Cel’ho avutoinvece quando sono uscita. Lasciavo dentrolei e tantealtre. Si chiude il portone di Opera e mi ritrovo libera.” ? Hinterland di Milano. Viene costruito nei primi anni ottanta un istituto penitenziario dotato di reparti sia maschili che femminili con l’obiettivo iniziale di sostituire quello oramai fatiscente di San Vittore, diverrà invece negli anni il

secondo carcere sovraffollato della città. 187

Libera? È la prima domanda. Libera di farmi succhiare le energie sul lavoro, e poi? Erano altre le tensioni che mi animavano, che ci animavano. Sono io inadatta alla situazione, o è la situazione inadatta

al vivere umano? E i compagni che restano dentro, perché? Dopo un anno di semilibertà vado con le mie gambe in ospedale. Mi sento la testa poco controllabile, come quando sono stata male in carcere. Ho paura della mia testa, e se stavolta riuscissi davvero a uccidermi? Ho paura.

Ho la mia famiglia che mi segue, il mio compagno che mi aiuta a leggere la nuova realtà delle cose. Teresa, le altre compagne dal carcere che mi sono vicine. “Riposati, vedrai tutto andrà bene, non avere la tua solita

fretta, ci vuole tempo per tutto. Riposati. Pensa a star bene, solo stando bene puoi ritrovare te stessa.” Vecchi amici ritrovati che mi sono vicini. Sono stata fortunata. “Tieni le distanze, non ti far coinvolgere.”

Come è difficile accettare che occorre tenere le distanze per non impazzire, in un mondo in cui la maggioranza delle persone tiene talmente tanto le distanze dal prossimo da diventare indifferente a tutto. E se divento così? Come è difficile accettare di aver fiducia in una strizza cervelli dopo sette anni di galera in cui hanno cercato in tutti i modi di manipolarti il cervello. Vuole farlo anche lei? Ma mi rendo conto di avere bisogno di aiuto, da sola non ce la faccio a ritrovare me stessa, il controllo della mia testa.

Sono stata fortunata. Sono entrata in carcere in un momento in cui tutto era discutibile, in cui tutto poteva entrare nella sfera del collettivo,

ne esco trovando un mondo estraneo, ma stesso. Sono stata fortunata. Ci son compagni che usciti dalla galera sono uccisi. O hanno tentato di farlo. Ci usciti dalla galera sono diventati l’ombra

non solo a me, a se non hanno retto. Si sono compagni che di loro stessi. Non

salutano quando ti incontrano per paura di compromettersi,

eppure ci siamo scritti fino agli ultimi giorni di carcerazione... ma ci sono i divieti di incontro con i pregiudicati. Sono stata fortunata. Ho nel cuore la speranza che tutti i compagni ancora car188

CSA

cerati abbiano la mia stessa fortuna. Prima di tutto quella di poter uscire.

Di fortuna si tratta, non di giustizia. Non della giustizia di stato. Quella, con la giustizia, come la intendo io, non ha nulla

a che spartire. Chissà se quando usciranno faranno la stessa fatica che ho fatto io per capire la nuova realtà con la quale dovranno confrontarsi? Ho il cuore piccolo quando sento queste cose, ho il cuore piccolo pensando a queste compagne, pensando a Teresa. Io in galera sono impazzita non solo per la struttura carceraria, anche per le battaglie politiche che ho vissuto, per l’isolamento nel quale mi sono trovata, per non essere più salutata da quelle persone con le quali fino al giorno prima mangiavo insieme, per ritrovarmi, in una sezione di venticinque persone, a poter parlare, discutere, giocare, solo con cinque compagne. Teresa da anni comunica solamente con Geraldina una compagna con la quale continua a condividere un percorso politico e affettivo; in quella sezione sono di fatto isolate. Qui non si tratta più di freddo, qui il gelo entra nelle ossa, fino al midollo. Che freddo che fa, che gelo deve attanagliare Teresa adesso!

Meno male che in infermeria a Voghera avevo vicino compagne come lei che mi imponevano di parlare invece che scrivere. Era enorme la paura, nella mia mente folle, che qualsiasi

cosa potessi dire e LORO potessero sentire, sarebbe stata usata contro di me, contro di noi.

Meno male che in infermeria a Voghera avevo Teresa e le altre che controllavano le medicine che prendevo, che mi face-

vano i massaggi shiatsu per farmi addormentare più serena. Meno male che ho avuto accanto compagne che mi hanno aiutato a credere nuovamente nella possibilità di esprimere opinioni senza esserne schiacciata. Meno male. Sono stata fortunata. Teresa sentirà il bisogno di avere qualcuno così accanto? Fa freddo. Non abbiamo più il momento dell’impacco dei capelli e del massaggio alla schiena e della partita a carte. Ci vedevamo all’aria e nella socialità. Le chiacchierate passeggiando assieme, quelle da una cella 189

all'altra anche solo attraverso lo spioncino della porta, in cui ti racconti una vita, ti racconti della lettera che non arriva, di

quel qualcosa che avresti voglia di mangiare e che non hai. Tutte quelle cose serie e meno sefie oggi mancano.

Manca il rapporto normale e rilassato di dirci certe cose che non facciamo in tempo a dirci perché sono lì per lì poco importanti o le reputi tali. Ci sono dei buchi. Il tempo scandito dall’ora del colloquio non ti fa essere rilassata, non ti fa dire le cose importanti che invece diresti in una qualsiasi conversazione quotidiana che si può fare tra amiche. A un colloquio non ti verrebbe mai in mente di parlare della pastasciutta o del mal di gambe o dei sogni che hai fatto la notte. “Come stai Teresa?” “Sto bene.” “Sei troppo magra.” “È un’impressione, sarà il vestito. Sai, solo qualche pensiero, sai come succede.”

Qualche frase accennata, qualcuna approfondita per quanto si può fare in un'ora dovendosi ricordare di dire tutto il resto, rincorrendo tutte le notizie essenziali, cosa che ti fa arrivare ad avere il fiatone, uno stato di ansia, di insoddisfazione.

“Hai le mani fredde.” “Il poco moto.” Esco, io libera la lascio dentro, mi resta dentro.

Chissà oggi cosa farà sentire freddo a Teresa. Ricordo i piccoli specchi di Voghera, attaccati alti sopra i lavandini, male illuminati, poco riflettenti. Non ricordo quan-

do mi sono accorta dei tanti capelli bianchi in più che avevo in testa. Ricordo però nitida una sensazione, di essermi resa con-

to che i fianchi mi si erano allargati, che il mio corpo aveva assunto un nuovo aspetto, ero cresciuta. Ricordo anche un altro pensiero, cristallino nella memoria: il mio corpo cambia e non

se ne accorge nessuno, sto cambiando (invecchio?!!) senza il mio uomo accanto; senza poter conoscere le sensazioni che può dare un corpo che cambia, che mi diventa estraneo, un corpo che si ribella all’isolamento fisico. Il seno gonfio che fa sempre più male a ogni ciclo ormonale, la gastrite sempre più forte, i torcicollo e i blocchi alla schiena che mi immobilizza-

no per settimane. Chissà quando e come riuscirò a riprendere confidenza con questo corpo contratto. Ricordo le maschere di bellezza al viso e ai capelli, i mas190

saggi alla schiena che ci facevamo reciprocamente, le manicure, lo studiare trucchi diversi per lo stesso viso. A posteriori, ripensandoci, erano tutti modi per mantenere

viva una femminilità repressa, un rapporto col proprio corpo che non potevamo avere. Le vasche all’aria fatte tenendosi per mano, o abbracciate, un modo per comunicarsi affetto anche fisicamente, in un contesto dove la fisicità dell’affetto è inibi-

ta e repressa.

Una volta a Badu ’e Carros, ero in cella con tre comuni ed

era consuetudine farci i massaggi alla schiena. Ricordo di una ragazzina che era lì per non so quale condanna, ricordo solo che era molto giovane, molto sola. Si era “fatta un amore di penna” con un compagno al maschile.8 Avevano incominciato le pratiche per avere i colloqui interni quando... lo hanno trasferito in altro carcere. Alla sera, quando erano già spente tutte le luci, l’ho sentita piangere a singhiozzi. Mi sono alzata e sono andata nel suo letto, l’ho tenuta abbracciata fino a quando non si è calmata, senza dire nulla, poi son tornata nel mio

letto. Dormire con le mie sorelle per me è sempre stato normale, mi addormentavo subito, anche da grande, abbracciando mia madre nel lettone, durante un pisolino pomeridiano. Andare nel letto di quella ragazzina angosciata è stato per me normale, ma, a posteriori, ho avuto paura che potesse interpretare male il mio gesto.

Le storie stereotipate dei rapporti omosessuali nelle carceri sono all’ordine del giorno, dentro e fuori le galere. Ti ritrovi a fare i conti con le etichette che ti mettono addosso, a volte ti fai sopraffare dalle etichette stesse. Avere contatti umani è un bisogno umano, accontentarsi di

camminare all’aria tenendosi abbracciate, farsi i massaggi reciprocamente è una accettazione di questo bisogno. Ogni tanto mi vedevo, ci vedevo, come le scimmiette che si spulciano reciprocamente, un modo per manifestare affetto parlando anche col corpo, in un modo socialmente accettato. C'erano

compagne che non accettavano questa forma di contatto fisico. Ci sono compagne e compagni ai quali, anche usciti dalla galera, dà fastidio il contatto fisico, anche solo un abbraccio. Ricordo una sensazione che ho avuto durante il mio delirio in carcere, mentre mi portavano sanguinante fuori dalla cella, 8 Rapporto affettivo costruito tramite corrispondenza da carcere a carcere, quando questa veniva consentita.

191

mentre cercavano di curarmi in infermeria, mentre mi ricucivano in ospedale, sentivo su di me mani finte, mani guantate, mani di gesso, non sentivo più (o non volevo sentire?) il calore umano. Ricordo di aver risentito mani non finte, quelle di mia sorella Paola: mi massaggiava la mano e il braccio liberi dalla flebo, mi parlava piano, non ricordo cosa dicesse, ricordo però che fu allora che decisi che volevo continuare a vivere. Dal carcere il saluto che mettevo sulle lettere per i miei era “con amore”. Uscita, ho continuato a fare altrettanto sulle lettere e sulle

dediche dei libri che mandavo a Teresa. I libri regalati in carcere girano, e Teresa deve avere avuto qualche problema in merito, me lo ha accennato, così ho cambiato il saluto in ‘con tanto bene”. Questo è socialmente accettato.

È brutto dover spiegare che si può amare una persona senza per questo averci o averci avuto una relazione sessuale. Teresa ha coniato un termine per il nostro rapporto: sorellanza. Nella sorellanza/amicizia c’è qualcosa di diverso, non so dire se è di più o che cosa, che nella sorellanza di sangue. La nostra sorellanza/amicizia comporta quel qualcosa di diverso che è determinato da una scelta cosciente, non dal trovarsi perché

si è nati nella stessa famiglia, ma nel cercarsi perché si sta bene insieme.

192

EI

Mara... è il segno della vita che continua...

Sono una delle vecchie del ’71. Le carceri speciali le ho viste nascere. Furono i primi arresti di un certo tipo, non si era abituati ad azioni così, non erano cose conosciute. La gente pensava che agissero per avventurismo o per soldi, c'è voluto il processo e soprattutto la fede di molti compagni per cambiare le cose. All’inizio

avvocati

non

se ne

trovavano,

almeno

fino a

quando non si sono cominciate a capire le motivazioni politiche che li avevano spinti a prendere le armi. Nel ’71 noi non eravamo nessuno, non eravamo i familiari

dei detenuti politici perché loro non erano visti come compagni. Delinquente, fascista, provocatore, questo era mio fratello

a quel tempo per i giornali e per la gente. Lui dichiarò che l’aveva fatto per soldi, lo sentii in televisione ma non gli credetti. Non era Mario che parlava, non ebbi mai un solo dubbio

che stava mentendo ma non capii subito il perché. Lo conoscevo troppo bene e non era un ladro. Dicevo a mia madre di non credere a certe cose, anche se

era lui in prima persona a fare quelle dichiarazioni. Mia madre pensava sempre che i giornali dicessero la verità quindi restò male. Non poteva capire che il figlio mentiva per coprire il suo gruppo. .

Le mie figlie a scuola non le volevano, le mamme

non vole-

vano che sedessero vicino alle loro bambine. Purtroppo in questa storia di Mario c’era il fattorino mor193

to: i giornali fecero una montatura terribile e vergognosa come se fossero criminali comuni.! La pietà non la volevo. Portavo le bambine a scuola come sempre, mi truccavo come sempre e rientravo di corsa a casa

per leggere i giornali e sentire radio e telegiornali. Ogni giorno usciva una notizia sensazionale.

Non trovavo più lavoro perché ero la sorella di Rossi. Dovetti cominciare alavorare con il nomedi mio marito. Quel processo, il primo, non lo dimenticherò mai, chi è venu-

to può dire che fu una cosa schifosa: tutte quelle perquisizioni, il venire schedati; chiunque entrava veniva schedato, veniva iden-

tificata anchela mosca. Poi c'erano le ripercussioni e tutti quelli che erano andati al processo subivano perquisizioni e minacce. Era una cosa allucinante, una caccia alle streghe. Avvocati non c’erala possibilità di metterne. La prima cosa che feci dopo l'arresto fu prendere l’elenco telefonico. Chiamai Monteverde, l’avvocato che a Genova difende i ricchi, rifiutò; non poteva certo difendere mio fratello! L’unico avvocato che ha accettato la difesa di mio fratello, dopo mille tentativi, è stato un avvocato di Chiavari, Emilio Fur-

nò, un uomo di un’umanità straordinaria, che pur non pensandola politicamente come lui fu l’unico a capire, forse perché a quei tempi difendeva i partigiani.

Mario fu il primo a essere arrestato, poi arrivarono a valanga Battaglia e tutti gli altri che erano dodici. La cosiddetta “XXII Ottobre”, nome che venne dato alla banda dai giornali.? ! “Il 26 marzo 1971, a Genova, due militanti del Gruppo XXII Ottobre com-

piono un esproprio ai danni dell’Istituto Autonomo Case Popolari (Iacp), di cui Alessandro Floris è dipendente, in qualità di fattorino portavalori. Alessandro Floris reagiste e viene ucciso. Nel corso della fuga, la Lambretta di cui si erano serviti i due militanti viene raggiunta da occasionali inseguitori e uno dei due viene cattufato, mentre il secondo riesce ad allontanarsi. Successivamente un

fotografo amatoriale consegna alla polizia alcune istantanee scattate al momento della sparatoria. Queste portano a individuare il guidatore della Lambretta che verrà arrestato nel 1972 a Milano in un appartamento dei Gap (Gruppidi Azione Partigiana)." (La mappa perduta, cit., p.374). ? “Il ‘Circolo XXII Ottobre’ si forma a Genova, il 22 ottobre 1969, per iniziati-

va di alcuni militanti di formazione marxista-leninista. Iprimi militanti genovesi sono tutti proletari della Val Bisagno, la loro vita si svolge intorno a Piazzale Adriatico, uno dei quartieri più popolari di Genova. Nel messaggio letto in una interferenza televisiva essi collocano la nascita della loro formazione nel quadro delle lotte per i contratti e le riforme del 1969 e del 1970, della resistenza di

massa all'offensiva padronale e fascista’, e dall’iniziativa ‘contro il giogo dell'imperialismo straniero’. Il modello organizzativo al quale questo gruppo fa esplicito riferimento è quello della lotta partigiana. Proponendosi come ‘avanguardia partigiana’, esso con le sue iniziative intede ‘scatenare la guerra partigiana rivoluzionaria’.[...]' (La mappa perduta, cit., p.41). 194

Questa cosa ci è caduta come una bomba addosso. La noti-

zia la appresi per radio ma lì per lì non capii perché Mario Rossi è un nome comunissimo che usano anche nelle barzellette.

Fu all'edizione delle 14 che capii. Pensavamo che lavorasse ancora nel museo a Milano. Eravamo tranquilli, sapevamo che era un attivista di sini-

stra ma non a quei livelli. Era

tesserato

da

sempre

nel

Pci, faceva

distribuzione

dell’‘Unità”, lavorava nel quartiere per il partito: chi avrebbe pensato a qualcosa di più grosso? Mai più si pensava che potesse avere una doppia vita. Quando abbiamo sentito la notizia del suo arresto è stata

proprio una bomba.

Mio padre era ferroviere, un proletario. Eravamo tutte famiglie operaie, gente che i soldi non li rubava, che faceva sacrifici senza fine. Il negozietto da parrucchiera l’ho dovuto chiudere dopo il suo arresto perché non veniva più nessuno. Lì vicino c’era la

fabbrica della concia della pelle e le mie clienti erano tutte operaie. Mi piaceva lavorare così, ma era diventato troppo umilian-

te aspettare quelle donne che non arrivavano. Mi sono chiesta il perché, e penso che la gente avesse un imbarazzo nel vedere la nostra sofferenza. Non sapevano più come comportarsi con noi, non sapevano cosa pensare, perché il Pci cominciò a diffamare, a mettere in giro delle voci assurde, come se si fosse trattato di un’azione criminale fine a se

stessa. Con il cognome di mio marito trovavo lavoretti nelle famiglie, nelle mense, qualsiasi occasione non me la lasciavo sfuggire. Non ero conosciuta di faccia perché avevo la fortuna di

non essere apparsa sui giornali. Ed era curioso e fastidioso quando nelle famiglie dove andavo a servizio sentivo certi commenti, come se parlassero di un film, erano lontanissimi

da quello che vivevo io. A un certo punto non ce l’ho fatta più a nascondermi, a non

dire chi ero, a vivere da clandestina. Se qualcuno parla con me -deve sapere chi sono, questa fu la mia scelta, per dignità e orgoglio. Lavorare da una persona che sa chi sei avrebbe significato 195

cambiare atteggiamento come dal giorno alla notte, per me sa-

rebbe stata una liberazione.

Poi infatti ho trovato lavoro da un compagno anziano che sa tutto di me e con cui c’è anche un rapporto di stima. Dicevo a mia madre: “Tirati su, abbiamo un nome da difendere” e misi fuori la porta di casa oltre al cognome di mio marito anche il mio. Ci volle del tempo prima che noi potessimo recuperare la nostra dignità nel senso che Mario anche pubblicamente fosse riconosciuto un politico, prima che diventassero / Tupamaros della Val Bisagno. Qui a Genova ci fu addirittura un contro processo, il contro processo Rossi, organizzato da alcuni compagni in un teatro per sostenere Mario. Noi mettemmo tanti manifesti, che la notte i militanti del Pci strappavano come dei ladri.

Le carceri speciali le abbiamo viste nascere. C'era un muro, andavi dopo un anno e c’era un altro muro, poi ne facevano un altro ancora all’interno, e le carceri erano

sempre più blindate. Tutto questo anche per demoralizzarci, finché inventarono i vetri ai colloqui. Dal ’'71 all’84 ho visto tutta l'evoluzione del carcere, una co-

sa terribile perché mentre aumentavano i muri aumentavano di pari passo le umiliazioni. Con il tempo adottarono tecniche raffinate anche contro di noi, che non solo venivamo perquisite, ma che dovemmo subi-

re le visite nella vagina. Ma a questa cosa noi ci rifiutammo radicalmente da subito. Ho cominciato a conoscere tutte le compagne e ovviamente i compagni che si trovavano detenuti.

I compagni te li facevano conoscere loro, te li faceva conoscere il carcere, per cui era inevitabile che poi ci si scriveva, si

mandavano i saluti, i pacchi, i regali, qualsiasi cosa. Eravamo come fratelli, almeno io l’ho vissuta così.

Era coraggio il nostro, veramente. Ci sono state famiglie che si sono rovinate, che dopo cinque, sei, sette anni, ad andare sempre più lontano, in carceri e città sempre diverse, a un certo punto non ce l'hanno fatta. Fa-

miglie che ci hanno rimesso la salute. A volte andavi e non lo trovavi, avevi fatto centinaia di chilometri e dovevi tornare a casa senza averlo visto. Venivano trasferiti e nessuno ci avvisava, loro non poteva-

no neppure contare sul telegramma che spedivano perché il 196

carcere lo faceva partire chissà quando, dopo dieci o quindici

giorni, sempre troppo tardi.

Îo avevo un marito bravo. A casa non c'ero più, o ero dall'avvocato o ero in viaggio, i figli erano abbandonati: non c'erano più i riti del pranzo e della cena, c’era il panino. Sembrava improvvisamente di essere tornati in tempo di guerra, quando mia madre andava a letto vestita perché girava Pippo. Pippo era un aeroplano, che in quella campagna emiliana, dove vedeva la luce buttava la bomba. Non avevo tempo per le stupidaggini, il cucinare, lo stirare, lo stufato. Non c'è più stato un albero di Natale, ma i miei figli sono cresciuti bene ugualmente perché hanno avuto il dialogo vero. Ormai vivevo un’altra dimensione, non solo quando ero ai colloqui o durante i viaggi, ma a ogni momento.

Mio padre era un comunista di quelli che avevano bevuto l’olio di ricino; a casa si parlava di politica, della delusione dei partigiani, eppure lui aveva sempre avuto la speranza che i co-

munisti sarebbero prima o poi arrivati al potere. Questa delusione mio fratello l'aveva recepita diversamente e la viveva ancora più di papà. I vecchi erano delusi e basta, molti come mio padre speravano ma non facevano più niente, a parte avere la tessera del Pci che era cosa sacra. I giovani invece avevano capito che sperare non serviva a

nulla, ma quando è successo neppure noi in famiglia abbiamo capito.

La moglie dovette andarsene perché qui era una situazione invivibile, da parte della gente non c’era solidarietà, la solida-

rietà l'abbiamo trovata solo dopo, quando sono venute fuori le Brei

primi arresti.

Allora hanno cominciato a nascere i comitati e finalmente sapevi, tramite i “Bollettini” che si pubblicavano, dove si trovava questo o quel compagno, dove era stato trasferito.3 3 “Il Bollettino”, rivista uscita con il suo primo numero nel mese di gennaio 1981, come supplemento di contRroinformazione curato dal Coordinamento dei comitati contro la repressione sorti nelle varie città d’Italia in que. gli anni. Redazione a Milano presso la libreria Calusca in Corso di P.ta Ticinese. Atto di “fondazione” avvenuto nel corso del convegno del Coordinamento dei comitati contro la repressione tenutosi presso la Palazzina Liberty nel maggio 1981. Nella copertina del suo primo numero, la presentazione di ruoli 197

Fu un grande sollievo, ma le difficoltà oggettive erano aumentate. i Le barriere stavano già innalzandosi a vista d'occhio. Le minacce erano all'ordine del giorno, andavi all’Asinara e non sapevi come ti poteva andare a finire, che fine potevi fare. Con quelle guardie avvelenate d'odio, erano bestie, erano anche loro detenute in quella fortezza dove passavano la loro vita.

La Sardegna ti prendeva in ostaggio. Il mio mondo ormai era lì, non mi interessavo più di nulla se non di seguire mio fratello, di vivere con le altre donne. Ormai si viveva per andare a fare il colloquio e ritrovarci tutte insieme, io mi sentivo bene solo a stare unita con le altre. Partivo insieme ad altre da Genova per l’Asinara, c'era Maria, c'era la Dorigo, c’era la Viel che è morta senza poter avere la gioia di vedere il figlio fuori, e ci si ritrovava lì, in carcere

dove insieme ci sentivamo forti. Lì eravamo uguali. Penso che questa nostra forza guardie.

la sentivano

anche

le

Se qualcuno è scoppiato io non me la sono mai sentita di giudicare, perché quella galera era una follia. Tante volte mi sono chiesta il perché i partigiani che si erano fatta tanta galera, una volta fuori non hanno fatto nulla per cambiarla, hanno lasciato il carcere così come era negli anni del fascismo. Secondo me le lotte contro il carcere speciale e funzioni del Coordinamento per il quale opera, e i compiti del giornale stesso: “[...]Il Coordinamento [...] è una struttura di servizio, che permette ai comitati aderenti di potenziare con strutture comuni la loro attività, mantenendo ognuno completa autonomia ideologica, politica e organizzativa. [...] Attraverso il Coordinamento i comitati intendono svolgere i seguenti compiti: 1) raccolta di informazioni; 2) preparare e distribuire documentazione e propaganda generale; 3) collocare comunicati stampa e radio; 4) gestire rubriche periodiche nelle radio democratiche; 5) pubblicizzare il dibattito politico in corso nelle carceri; 6) muoversi nel giudiziario (avvocati magistrati) e gestire i necessari rapporti con la borghesia garantista; 7) organizzare convegni, assem-

blee, comizi e dimostrazioni; 8) sviluppare i contatti tra i comitati; 9) mettere a disposizione di vari comitati le attrezzature necessarie; 10) pubblicare bollettini di informazione.” All’interno del Coordinamento, la rivista ha una sua funzione specifica; “Il Bollettino”, infatti: 1) Raccoglie e pubblica interventi o resoconti di interventi in assemblee, dibattiti ecc. 2) Lavora sui materiali preparati dalla commissione informazione; 3) Fa le cronache giudiziarie dei casi più significativi; 4) Raccoglie documentazione sulle lotte nelle carceri”. ("Il Bollettino”, 1, Giuseppe May Editore, Milano gennaio 1981). 198

per primi non le hanno fatte i partigiani, ma questi compagni degli anni settanta: penso a Sante e al suo impegno nel far prendere coscienza anche al detenuto comune delle grandi battaglie di libertà che andavano fatte. A Porto Azzurro gente che aveva fatto trent'anni mi diceva: “Suo fratello oggi è un signore, e se facciamo l’aria, se non mangiamo acqua e pane e se c'è qualcuno che parla di noi, è merito soprattutto suo e dei suoi compagni”. Fuori da quel carcere c’era scritto: lasciate ogni speranza voi che entrate. Venivamo proiettate in un mondo che non conoscevamo e che non pensavamo esistesse. Quel tipo di carcere l’avevo visto solo al cinema tempi.

e mi sembrava

una cosa da film, d'altri

I penali erano i peggiori, a guardarli ti fermavano il respiro. Poi hanno cominciato a ristrutturare, a perfezionare, ma-

no a mano che aumentavano le lotte nel sociale il carcere si restringeva, aumentavano le regole.

Le donne sono state meravigliose. Molte in galera non conoscevano nessuno oltre alla persona cara che seguivano, eppure si sono date completamente a tutti i compagni, ricordo alcune che chissà cosa avrebbero fatto per fare un colloquio con un compagno. Vederli, conoscerli tutti quanti, portare solidarietà è stato un sentimento unico. Era come aver riscoperto qualcosa che era stato nascosto

dentro come un seme e che stava rinascendo. Le mamme un po’ meno, almeno la maggioranza, che erano anziane e che vivevano la cosa con un coinvolgimento emotivo diverso. Mia madre aveva sessant’anni. Per lei fu un colpo. L’unico maschio, il suo Mario era dio per lei. Da un sabato all’altro cominciava una specie di rito: mia sorella diceva, questo formaggio non si tocca che è per Mario, la carne non si tocca, e così via, si faceva una grande raccolta

in famiglia per portargli il meglio e più che potevi. Questo fino a quando misero dei limiti sul peso, tre chili,

cinque chili, e allora dovevi limitare la scelta di cosa portare. Facevamo presto ad arrivare a cinque chili, non potevamo | più fare le scorte, roba cruda non entrava, loro non potevano comprare quello che volevano, i soldi li lasciavi ma chissà se glieli mettevano sul libretto. Insomma diventava sempre più 199

difficile. Era una tortura, anche attraverso queste cose quoti diane. Ho sempre avuto l’impressione che volessero distruggere qualcosa che aveva valore. Più picchiavano e più io sapevo che avevano valore, più alzavano i muri e più significava che facevano paura. Che li temessero era evidente. Il loro comportamento in carcere non era mai stato da strafottenti, da maleducati o da delinquenti, era un comportamento da persone coscienti, pre-

parate, oneste. Perciò aumentava sempre più la rabbia delle guardie, dei direttori delle carceri. Mario ha cinque anni meno di me. In un certo senso l’ho allevato. Tra di noi era tutto un segreto e una complicità. Lui aveva la passione per la natura e per gli animali, passava il tempo a fare ricerche su ricerche. Io lo ammiravo e lo amavo. Avevamo un rapporto bello, ci si diceva tutto, come due amici che si confidano e crescono insieme. Era un rapporto tra compagni. Quando mi sono sposata ci siamo persi un po’ di vista. Si trasferì a Milano dove lavorava e dove si era sposato. Quando tornò a Genova, nel ’68, forse aveva già in testa tut-

to il suo programma, ma io non lo capii. Il nostro rapporto politico anche a quel tempo era solido, ma era un discorso quello che facevamo che a me sembrò in continuità con la nostra fede nel Pci. Mario mi spiegava i libri che leggeva e che io non avevo il tempo di leggere, erano scritti del Che, libri sul Cile e di politi-

ca internazionale.

Da piccoli andavamo al cinema a vedere Zorro. Da grandi dobbiamo fare come Zorro, mi diceva. Zorro lo mettevamo in pratica facendo delle bravate. Liberammo cinque cani da un canile e non ti dico la gioia nel vederli liberi correre sul prato. Penso che lui questo desiderio di giustizia ce l’avesse dentro fin da piccolo. Nostra madre racconta sempre una storia avvenuta durante la guerra. Eravamo nel ’43 dopo l’8 settembre. Stavamo scappando da Genova perché erano iniziati ibombardamenti. Io avevo cinque anni Mario era appena nato. Ci trovavamo su

un treno che a Voghera venne fermato dai tedeschi. Piazzarono le mitragliatrici quelle con i treppiedi alle porte dei vagoni poi ingiunsero ai passeggeri di scendere perché sul treno c’e200

rano dei partigiani e anche tanti soldati che stavano disertando dall’esercito e cercavano di mettersi in salvo. Se non fossimo scesi facendo così prendere quei giovani dicevano i tedeschi con gli altoparlanti, avrebbero ucciso tutti sui vagoni. Il treno erano strapieno, la gente ammassata. Mario, dice mamma, in fasce venne issato in alto da quegli uomini i quali per farlo scendere gli fecero attraversare il vagone passandoselo braccia braccia. Era in quel momento figlio di tutti loro. Commentando quel fatto dopo il suo arresto per spiegarsi perché fosse arrivato a fare quelle cose mamma diceva sempre: “Forse qualcosa gli è stato trasmesso dalle mani di questi ragazzi che l’hanno sollevato, ragazzi che si sono consegnati per non farlo uccidere. Me fieè ha respirato l’aria le speranze di questa povera gente che si è consegnata proprio per salvarlo”. Mario mi diceva che noi eravamo cresciuti in un ambiente in cui non c’era stata la possibilità di studiare a scuola, e che non ci eravamo potuti introdurre in un mondo che avremmo potuto combattere meglio dall’interno, questo mi ripeteva sempre. Vedevamo non solo a casa, ma nel quartiere, gli operai che rientravano a casa stanchi dal lavoro, gente che alla sera non aveva la forza di leggere, di prendere un libro in mano, i pensieri materiali e le cose da risolvere per riportare il pane ai figli erano tutto dentro le nostre case. Il sogno della sua vita era studiare, potersi dedicare alla ricerca, invece bisognava sacrificarsi un po’ tutti per portare

avanti la baracca. Eravamo una famiglia unita, mio padre era un uomo meraviglioso. Ci raccontava

dei suoi tempi, alla sera attorno al tavolo

parlava sempre di quest’olio di ricino, del fatto che si era sempre rifiutato di prendere la tessera fascista. Viveva in Emilia ed era un perseguitato del regime, aveva conosciuto la repressione e le ingiustizie dello stato. Mia madre quando lui faceva questi discorsi si contrariava, non voleva perché secondo lei eravamo già abbastanza su di giri e certi racconti ci avrebbero fatto solo male. Noi invece l’ascoltavamo come se stesse raccontando una cosa non vera, lontana, una favola, a bocca aperta. Io e Mario siamo cresciuti così, tutt'orecchie.

La donna poi si sposa, fa i figli, entra in una quotidianità schifosa. Odiavo le pentole e i piatti e tutto questo genere di cose, eppure mi ritrovai a vivere così. Avrei voluto tutta un’altra vita,

ma non ci pensai più di tanto, feci come facevano tutte e via. 201

Mario stava facendo una scelta molto più coerente, io no, io ero donna e i miei compiti dovevano essere solo quelli di una madre e di una moglie. Mio fratello mi ha aiutato a trovare la mia strada, almeno in parte, forse un po’ troppo tardi e senza volerlo. Ogni settimana avevo la polizia in casa, ero io e solo io della

famiglia ad andare a trovarlo. Il marito di mia sorella non accettava che andasse, mia ma-

dre era più di là che di qua, io invece non potevo non seguire ciò che mi dicevano il sentimento e la testa. All’inizio mio marito non si oppose perché era amico di Mario, poi quando ha visto che la donna che aveva sposato non era più la casalinga di una volta, che non trovava più i piatti puliti, che i figli doveva seguirli lui, allora sono cominciate le incomprensioni. In casa non c'ero più e non ci stavo più volentieri.

Io non tornavo indietro e ci siamo divisi. Non è stata una scelta che ha determinato Mario, il fatto è stato che io ho fatto una scelta, ho iniziato a sentirmi libera di

fare delle scelte. In quel caso se mio fratello avesse avuto bisogno di me anche all’inferno io ci sarei andata e non avrei mai accettato degli impedimenti. È stata la scoperta di me stessa, una svolta nella mia vita complessiva. Non mi interessavano i piatti e le pentole ma altre cose, questo è stato il senso. E non mi sono sentita sola perché ho scelto dentro una circostanza in cui la solidarietà era fortissima e le donne con me erano tante e tante. Non solo io, tante donne hanno rotto con i mariti. Parlava-

mo molto durante i viaggi tra un carcere e l’altro, e in quei momenti eravamo libere perché gli uomini lì non ci seguivano quasi mai. Quanta forza c'era dentro quei momenti! Andavamo verso dove? Non era più il fratello che io andavo a trovare, erano tanti fratelli, erano compagni che è qualcosa di più, che ha un senso diverso. Era una lotta nostra oramai. Le più anziane avevano più coraggio di noi. Mi chiedevo il perché, forse per la forza del rapporto madre-figlio, ma non credo. Anzi penso che non si trattasse solo di questo neanche

per loro. Era qualcosa che sentivamo tutte e che andava al di là del particolare rapporto che ciascuna aveva con chi era dentro. 202

?

Un carcere nessuna di noi l’aveva mai visto.

Rimasi impressionata dalla sporcizia, dalla maniera gretta e violenta con cui venivi trattata, come se fossi meno umana di loro.

Tutte quelle porte, non finivano mai, e poi tantissime chiavi che facevano un rumore ostile. Quando cominciano a essere dieci anni, anni che volano e pesano, quando poi comincia a esserci il mare di mezzo, il co-

raggio iniziale te lo fanno passare. Mario oltre alle varie città si è fatto tutte le isole. Un paio di anni e via, perdevi tutto ogni volta. Dalla tazza alle ciabatte dovevi rimandargli ogni cosa, rico-

minciava tutto da capo, e così s'è girato l’Italia. Sono stati vent'anni.

Dietro il vetro mio fratello mi sembrava un pesce. Cose assurde, non riesco a pensarci con tranquillità.

Ridevo perché non potevo far altro, poi si piangeva fuori. Sui treni al ritorno ci tormentavamo all’idea che quello che succedeva a noi potesse pari pari succedere a loro. E se anche loro ridono al colloquio e quando tornano in cella si buttano giù? Qualcuna diceva: “No, loro sono più forti di noi,” ed erano

parole sante che arrivavano ad alleviare il peso del ritorno. Ma una volta fuori quei cancelli mi sentivo come se mi fosse passato un camion addosso. Era tanta la tensione accumulata tra l’attesa per ottenere il permesso, poi ti venivano a chiamare

dopo ore, poi le cibarie che passavano o non passavano a seconda del regolamento dell’ultim’ora, e poi quell'ora che volava, ma dentro quell'ora di colloquio sembrava che ci fosse passato tutto il mondo, perciò quando uscivo ero a pezzi. Il luogo in cui mi rilassavo era il treno, e già lì si ricominciava a pensare alla prossima volta. Mio padre quando

sentiva un'opera piangeva,

eppure

ci

aveva insegnato che non si doveva piangere, io l'ho sempre pensata diversamente, non si deve aver vergogna di piangere. Ho pianto quando hanno dato il primo ergastolo a Mario. Quella parola non la conoscevo. La corte non disse ergastolo, citò semplicemente un articolo, un numero. Io non capivo e chiesi a un compagno vicino a me quanto gli avevano dato, lui non me lo voleva dire. Quando capii non vole-

vo crederci, dettero centinaia di anni di galera. Non piansi subito. Arrivata a casa mi chiusi dentro l’arma203

dio per non farmi sentire dai miei figli. Ero una cagna che aveva bisogno di urlare il suo dolore. Venivano condannati come delinquenti comuni, poi in carcere a seconda delle situazioni erano politici irriducibili, pericolosi contro lo stato. Tutto questo apparato, la corte, i giudici, la polizia, i direttori delle carceri, sembravano delle grandi chiocce che tenevano tutti sotto controllo. Se li covano così bene, pensavo, vuol dire che dentro le uova

c’è il pulcino. Credo che nessuna donna abbia amato quanto me tutte le altre donne e i comitati che si erano formati, perché all’inizio avevo toccato con mano la solitudine, invece ora ce ne erano

delle altre. È triste dire questo, perché significa che eravamo nel periodo dei grandi arresti e della repressione, e che più arrestavano e la repressione aumentava, più eravamo tante e unite.

Leggevi il giornale e scoprivi che gli arresti non finivano, che ce n’erano degli altri e degli altri ancora di compagni, sembrava un esercito che non dovesse mai finire, magari poi non era così, ma quello che noi recepivamo era proprio questo senso di forza dato dalla quantità dei compagni. Ci sentivamo forti specialmente quando si doveva entrare in quel portone. Quante volte abbiamo pregato che crollasse la volta, che facesse un terremoto, che venissero giù tutti i muri del carcere.

Avere i permessi, quando non erano ancora definitivi, era un tormento. Non te lo davano, dovevi prendere appuntamenti con il giudice, non le'trovavi mai, se ti accordavano il permesso andavi in carcere e ti rimandavano indietro. Quanti viaggi a vuoto ho fatto. Viaggi di venti ore per nulla. Ogni sabato questa storia. Partivo alle sei da Genova, arrivavo a Porto Torres alle otto

del mattino successivo. La neve in Sardegna l’avremo vista soltanto noi. Sotto la neve, con il mare in tempesta, su questa specie di imbarcazione, donne anziane che non ce la facevano a stare in

piedi. La mamma di Viel portava uno zaino pesante pieno di viveri per il figlio. Lei non era credente, ma quando le guardie le vietarono di vedere il figlio si mette a parlare con dio. In dialetto veneziano dice: “Sporcaccione, già lo sapevo da sola che mio 204

figlio ha del valore e tu mi impedisci di vederlo, e tu fai pure nevicare”. Non glielo fecero vedere, così lei in preda alla disperazione prende lo zaino e lo butta in mare. Le guardie si mobilitarono allarmatissime per recuperarlo pensando che contenesse chissà che cosa. "Sta gente in divisa, poco intelligente, che metteva terrore a mia madre. Mia madre era poverissima, da ragazzina durante i tempi del fascismo si nutriva di sola frutta, e per lei la divisa erano i

tedeschi.

Da Mario ho portato spesso i miei bambini. Poi mia nipote Mara che è venuta con me per cinque anni al carcere di Novara. Le ho parlato sempre francamente spiegandole ogni cosa, anche la più brutta, il perché morì quell'uomo durante la fuga e il dolore che si aveva per questa morte. Aveva sette anni, ricordo quando la perquisivano, lei allargava le braccine con una strafottenza che nessuno le aveva insegnato. “Mi devo togliere anche le scarpe?” chiedeva. La vigilatrice rimaneva male. Non voleva essere toccata, faceva tutto da sola.

Gli portavo la bambina per farlo sentire partecipe della vita che continuava fuori. Pensavo che avesse bisogno di vedere qualcosa di piccolo. Lui non si era indurito, ma proprio per questo volevo portargli dall'esterno una cosa tenera. Mario conobbe un suo nipotino a un colloquio che aveva appena tre mesi. Ricordo che cercava in tutte le maniere di non commuoversi. Vedevo che era emozionato dalla luce degli occhi, da come cambiava il colore della pelle che diventava più pallida, o dalle mani che tremavano. Dopo anni che non vedeva un bambino fu un impatto forte. Ma è possibile che è passato tanto tempo? Ma questo è il figlio della Luisa che quando mi hanno preso aveva nove anni? Addirittura Giuseppe era il terzo figlio di Luisa, l’ultimo. Si rendeva conto di dove eravamo noi fuori, delle nostre vi-

te e del fatto che anche lui seppur in quella forma era sempre in famiglia, la seguiva, sapeva e vedeva i cambiamenti nel corso degli anni. Avevo imparato a leggere dal suo volto, sempre forzatamente sorridente, la stanchezza dell’uomo chiuso che non vede

mai il cielo. 205

Mi chiedeva se fuori c’era il sole o la pioggia, e io capivo che avevano riapplicato la regola della luce accesa 24 ore su 24. Da come era fisicamente, dai segni del viso si poteva capire tutto, c'era l'isolamento, c'erano le spie sonore, i riflettori che non ti abbandonano un secondo. L’ho visto cambiare, dai suoi ventotto anni ai cinquantadue, attraverso il carcere.

Volevo dargli tutto ma non ho potuto. Volevo dargli il massimo perché anche lui stava facendo lo stesso con me, mi aveva fatto conoscere persone meravigliose, e molte di loro sono ancora dentro. Compagni che ho conosciuto ai colloqui, altri dietro al vetro con cui mi sono scambiata un semplice ciao. Amavo mio fratello, ma questo amore così forte l'ho scoperto dopo. Lo sapevo compagno, ma non così, e non ho potuto fare a meno di amarlo sempre di più. I giudici mi dicevano: “Ma noi quest’amore non lo capiamo”. Loro pensavano che ci fosse un qualche rapporto politico di organizzazioni clandestine. “Qui non è questione di fratello” mi dicevano “Qui lei scrive tutti i giorni e non ha saltato un colloquio”. Non potevano proprio capire.

Io sapevo che la galera era brutta e che non era sufficiente andare una volta ogni tanto, come faceva mia sorella per paura. Lo sapevo perché davo un valore assoluto alla libertà. Tornavo dal colloquio e dopo massimo tre giorni avevo la polizia a casa. Smontavano tutto, prendevano ciò che trovavano e se lo portavano via.

Forse pensavano che noi potessimo collaborare con chi era in carcere anche a livello politico, ma il solo fatto che tu andavi ogni settimana e che riportavi notizie all’esterno sui pestaggi che facevano, sulle torture, sugli speciali, questo non veniva

tollerato, allora i modi per dissuaderti dal continuare erano questi, perquisizioni, intimidazioni, violenze.

Le torture le hanno fatte anche a noi. Per quattro mesi riuscirono a farmi fermare. E successo al rientro a Genova da un colloguio all’Asinara quando venni violentata. Era un modo chiaro per dirmi basta. Ora sì cominciai ad avere paura di loro. 206

Debbo ancora sapere chi è stato perché ovviamente non poterono fare altro che accusare me di qualcosa, e mi hanno accusato di simulazione. . Partii come sempre, quella volta per Alghero, con la mia valigia su cui mia madre, per paura che la perdessi, scriveva Rossi Angela”. Arrivo ad Alghero e non me lo fanno vedere, nonostante avessi il permesso firmato dalla procura di Genova. Capii che c’era stato un altro pestaggio. Ero furiosa, avevo i soldi contati, i figli a casa da soli per cui

il giorno dopo dovevo rientrare per forza, e loro dentro che erano stati picchiati. Feci casino, dissi che a Genova sarei andata ai giornali a denunciare tutto. Ero fuori di me, picchiai contro il portone del carcere, c'ero solo io e l’aria che si respirava era pesante. Andai in procura ma mi dissero che dipendeva solo dal direttore del carcere. Dopo ripetute battute sul portone me lo fecero vedere per mezz'ora. Fu un vero colpo, era tutto fasciato e gonfio, lo avevano ridotto a pezzi. ’Sta volta ero decisa a non lasciarla passare così, e anche durante il colloquio dissi a Mario che sarei andata a denunciare la cosa. Registravano i colloqui. Quando rientrai a Genova le cose furono chiare, e cioè che

non potevi oltrepassare certi limiti perché loro erano più forti di te, e me lo fecero capire in questo modo. Arrivai alle 11 di sera alla stazione, presi una discesa in cer-

ca dell'autobus, la strada era buia. Ero talmente stanca che non avevo la forza di pensare a nulla. Mi chiesero l’ora e in pochi secondi mi sono trovata dentro un furgone. Lì ho visto la morte. Mi hanno tagliata dappertutto con la lametta. Non so quante ore dopo mi hanno ritrovato a Brignole dove un taxi mi ha raccolto e mi ha riportato a casa. Non ricordo quasi nulla, avevo rimosso perché probabilmente la forza per andare ancora da mio fratello non l’avrei trovata. Solo dei flash, dei volti e nient'altro. Questa è stata la loro risposta.

Io la denuncia non volevo farla perché avevo capito il senso di quella violenza, il significato di quel gesto. Quando mi hanno chiesto di identificare l’uomo, se pure l’avessi riconosciuto non l’avrei detto. Che senso avrebbe avuto andare fino in fondo per me che sapevo da dove veniva? 207

Sarebbe stato un acuire lo scontro e noi eravamo perdenti. Il primo ad andarci di mezzo sarebbe stato mio fratello, le mie figlie e io. Dovetti andare dal medico e lui non se la sentì di curarmi senza fare la denuncia. Quando la notizia andò sui giornali, figurati che bum. Ero

sulla bocca di tutti. Ebbi l'impressione che al momento della denuncia, carabinieri e questura sapessero già tutto. Sono cose che non le puoi neanche dire perché riguardano la sfera del sentire. A un certo punto mi dissero che avevo fatto finta di essere stata violentata. Mi provocarono e mi violentarono una seconda volta in questo modo. Queste cose se succedevano era perché i compagni avevano

ragione, io e le altre eravamo un ulteriore ostacolo e facevano tutto per demoralizzarci. Loro volevano che attorno a questi compagni ci fosse il vuoto, che non andasse nessuno a trovarli.

Era una consapevolezza che mi faceva intestardire, era questa la sola ragione per cui non ho mai mollato nonostante la violenza carnale subita. Ero già separata da mio marito quando accadde, e fu un periodo di grande paura. Non nascondo di averne avuta tanta, anche perché cominciarono ad arrivare telefonate anonime in cui venivo minacciata se non avessi ritirato la denuncia; questa voce mi intimoriva dicendo che l’avrebbero fatta pagare a me e alle mie figlie. Erano piccole, andavano a scuola, e chi telefona-

va sapeva tutto di loro, i tragitti giornalieri, i ragazzini che frequentavano, tutto. La denuncia non l’ho ritirata. Mi ci sof voluti mesi prima di rimettermi in moto, non solo per andare a trovare Mario, ma per riprendere la vita di tutti i

giorni, la vita con i bambini, con la famiglia che era terrorizzata. Non potevo più prendere autobus, stare in luoghi molto stretti, non potevo più vedere tanta gente perché in ogni perso-

na vedevo l’aggressore. Io credo che quando ti succedono queste cose, che qualcuno ti violenta, ti butta da qualche parte e ti toglie la possibilità di reagire, ecco, sono cose che ti mandano via di testa, non puoi

dimenticare perché resta un nonsocché dentro il corpo di terribile che non si riesce a capire razionalmente. Una cosa nera, una sensazione di morte. 208

Ci sono voluti anni e anni per superarla questa sensazione.

Hanno fatto questo a me che non facevo nulla di illegale, nulla di politicamente organizzato contro lo stato. Ero solo in contatto con i comitati, raccoglievamo fondi per i familiari, il nostro riferimento era Soccorso rosso, ma niente di più.

Figuriamoci quello che poteva significare essere nelle loro mani 24 ore su 24 per chi lottava apertamente e con ogni mezzo

contro lo stato. Credo di averlo capito molto bene dopo essere stata sotto di loro per alcuni minuti, alcune ore, non lo so. Non so quanto tempo sono restata nel furgone, devo essere svenuta. Quando ho ripreso a viaggiare ero più preparata, più guar-

dinga. Se non altro avevo la piena consapevolezza di dare fastidio, del fatto che stavo facendo cose per loro pericolose. Quello che mi capitò non fermò né me né le altre donne, anzi mi furono assai vicine dimostrando grande coraggio. Si mettevano tempi duri per tutte, questo era stato il messaggio che recepimmo. Andare in carcere a raccontare della vita fuori, uscire di lì a raccontare della vita dentro, era qualcosa che da-

va troppo fastidio al potere. Ma nessuna si tirò indietro. Un uomo non è un ferro, ha sentimenti profondi, e noi li ab-

biamo coltivati senza cedere di una virgola, a testa alta. Sapevo che avrei potuto crollare, che sarebbe stata una possibilità reale se mi fossi fatta condizionare dal fatto che avevo delle bambine, che il mio posto era a casa. Sarebbe stato un processo a catena che mi avrebbe potuto far abbandonare tutto quanto, non mio fratello, ma tutto il resto, le donne, i co-

mitati, le proteste, icompagni dentro. Invece io ormai ero da quella parte lì con l’anima e il corpo: dall’altra parte. Per me le persone che contavano erano quelle donne e nessun altro. Erano le sole che potevo frequentare perché loro capivano i miei problemi di donna e di sorella. Era un mondo nostro, il mondo in cui vivevo. Edera una rivoluzione anche nostra, delle donne.

C'è voluto amore altrimenti non ce l’avremmo fatta. Tutte le cose che cambiano includono anche un atto doloroso. Questo nostro cambiare era sofferto, ma era un andare avanti. 209

Crescere dentro, scoprire la libertà, è stato un cammino che abbiamo fatto in modo diverso, ma tutte quante, chi più chi

meno.

Le intimidazioni nei confronti delle donne all’Asinara divennero insopportabili e continue. Quelle mezze parole, quel detto e non detto fatto capire a bassa voce o con gesti volgari. Cardullo, il direttore, si atteggiava sia nei nostri confronti che dei detenuti che si trovavano lì, come il re dell’isola. Disse a mio fratello che lui era Brook, il cattivo di Sandokan. Era lui che disponeva regole e trattamenti. Disponeva interamente anche delle nostre vite, faceva e di-

sdiceva come voleva, la legge era lui. Decise che quando era il momento di andare al colloquio ci avrebbe avvisato con un telegramma. Aspettavamo il telegramma che quando arrivava era troppo tardi perché la data fissata era passata. Non potevi farci nulla, era una assurdità, le proteste per affermare un diritto elementare come fare il colloquio erano parole al vento.

A un certo punto decise pure che se volevi andare dovevi avere il brevetto di nuotatore, perché se durante il tragitto in mare da Porto Torres all’Asinara cadevi e ti affogavi lui non si sarebbe assunto nessuna responsabilità per la tua morte. Questa cosa non resse a lungo, era un’assurdità che evidentemente lo esaltava. Ci mobilitammo in tutte le città e riuscimmo a vincere. Malui continuava a dire: “Qui comando io. Io e i gabbiani”.

In Sardegna con tutte le proteste che mettemmo in piedi in quel periodo cominciammo a creare tanti problemi.4

4 Una tra le tante mobilitazioni è quella di Nuoro avvenuta il 29 di agosto 1982: “Clamorosa protesta delle mogli e dei congiunti dei ‘politici’ detenuti alle carceri di Badu ’e Carros al festival del folclore che si è svolto ieri sera all’anfiteatro di Nuoro. Poco dopo l’inizio delle finali per il concorso di balli e canti sul palco hanno fatto irruzione, con uno striscione, una ventina di persone che dopo aver sollevato il pugno chiuso davanti al pubblico hanno chiesto di avere la possibilità di leggere uno scritto di protesta contro le condizioni di detenzione dei loro familiari. [...] Le forze dell'ordine sono intervenute in forza e hanno costretto i dimostranti ad abbandonare il campo. [...] Per oltre mezz'ora si è svol-

ta ai limiti degli spalti una trattativa tra i dimostranti e le autorità.” (‘La Nuova Sardegna”, 30 agosto 1982). 210

Eravamo forti, la gente del posto si iniziò a sensibilizzare e partecipava sempre più alle iniziative di volantinaggio, alle manifestazioni contro lo speciale. La Sardegna è un'isola turistica, c'erano turisti di tutto il mondo, per cui portare in piazza quelle verità, quelle tematiche così imbarazzanti creava non pochi problemi agli amministratori locali. Arrivavamo sull’isola tutte insieme e ci fermavamo due, tre

giorni a fare propaganda. In Sardegna il problema della carcerazione in generale era sentito più che in altre regioni. Là la galera era presente nella vita della gente, era una possibilità non tanto astratta come altrove per tante famiglie. In Sicilia, in Calabria ho riscontrato la stessa sensibilità da parte dei locali, cosa assai meno frequente a Milano o in altri

posti del nord.

A un certo momento hanno pensato che fosse meglio smistare i detenuti, non più di due per ogni carcere, questo per evitare proteste dentro e mobilitazioni di familiari fuori. Erano strategie studiate a tavolino per non farci più inconprane:

Avevo una cartina geografica dell’Italia su cui segnavo di rosso tutte le città in cui era stato Mario. Era tutta punteggiata, da nord a sud, tre giorni qua, due mesi là, un anno là, tre an-

ni da un’altra parte. Carceri speciali, carceri grandi, carceretti sconosciuti, sia-

mo andati dappertutto. Il più angusto e pesante è stato Badu ’e Carros. Vedevo una bellezza naturale così selvatica e incontaminata, quel mare celestiale, e dentro questo un inferno con tanta sofferenza. Era paradossale, stonava, era insopportabile per me. Quel peso nel vedere la sofferenza me lo sono sentito sulle spalle, come se fosse anche responsabilità mia, le madri, quelle

facce stanche. La madre di Viel con il busto di ferro per l’artrosi non poteva muoversi, era molto caldo ed era uno spettacolo straziante,

con quelle borse pesanti, è una delle tante che non potrò mai dimenticare. Perché i detenuti non li tenevano in carceri più vicini alle . città di provenienza? Invece donne esauste dovevano affrontare viaggi da un confine all’altro dell’Italia come punizione per essere le madri di detenuti politici. 211

Venivano punite perché non avevano i mezzi per arrivare ai loro figli. Questa sofferenza cresceva sempre di più. Una compagna mi disse “Voi siete le vecchie,” perché erano già sette, otto anni che vivevamo in quel modo, eravamo le esperte. “Invece quelle ragazze lì sono nuove.” Si aggiungeva ogni tanto qualcuna, che doveva imparare, che solo per questa nostra esperienza ci invidiava, se così si può dire. Io le guardavo con tristezza perché loro erano agli inizi, le avrebbe attese una strada che ancora non sospettavano. Non era una strada, era proprio un’altra dimensione della vita che non puoi immaginare se non la provi.

Loro che cominciavano ora si meravigliavano di tutto, non sapevano che sarebbe passata in fretta la soggezione nei confronti delle guardie, l'imbarazzo che dà il carcere, il timore di rispondere alle provocazioni. Lì era una guerra.

Noi insegnavamo a loro come muoversi, non solo come bisognava compilare questo e quel foglio, cosa poteva entrare e no, ma quali erano i codici del carcere, cosa era bene e cosa male: era male farsi vedere deboli e intimorite, era bene entrare a

testa alta. Sapevo che sarebbe stata durissima per loro come lo era per me, ma che avrebbero anche potuto imparare delle cose. Anche questa esperienza tragica poteva offrire delle grosse opportunità per crescere. Ho cominciato ad ascoltare la gente, a dare valore alle per-

sone che incontravo. La cultura della solidarietà l'avevo respirata incasa, il senso di fratellanza che c’era tra gli operai. E poi la figura di mio padre che aveva impresso nelle nostre coscienze dei valori profondi. Era il Pci, ma erano valori forti, solidi. Era il mito partigiano di origine emiliana, erano le storie dei morti di Reggio Emilia. I partigiani li ricordo, ricordo i loro discorsi e ricordo i tedeschi. Amavo i partigiani e odiavo i tedeschi. Mio padre ci portava alle manifestazioni da bambini e ci legava al collo il fazzoletto rosso. Sono cresciuta già con questa coscienza ma attraverso mio

fratello ho fatto un salto di qualità enorme. È stata la mia esperienza, ora ero io che sceglievo veramente come muovermi, ero un soggetto che aveva la sua forza, che si metteva alla prova giorno per giorno. 242

Una crescita complessiva, anche ideologica, difficile perché è dovuta passare per una grande delusione. Il crollo di tutta la fede verso il Pci, il crollo del luogo in cui

io ero cresciuta. È stato un passaggio inevitabile che abbiamo pagato tutti a casa sulla nostra pelle. Guardavo Carosello con i miei bambini, aspettavo che rientrasse mio marito dal lavoro, e la mia vita era tutta lì, nono-

stante i bei discorsi di mio padre. Discorsi che avevo recepito ma non fino in fondo. L’emancipazione è arrivata quando sono dovuta partire con i treni e mi sono scontrata con la repressione dello stato, quando rientravo a casa e trovavo la porta buttata giù, quando mi timbrarono l’intera biblioteca, le lettere, le foto che avevo, persino le pagelle dei bambini, con una scritta “Divisione Digos”. Dopo quel timbro mi sentivo che non ero più nessuno. E non è durata un anno, questa storia è stata infinita, l’ulti-

ma volta che sono venuti è stata nel '90 quando Mario era già fuori con un permesso di lavoro. Stessi metodi, stessa arroganza: alle sei del mattino, minac-

ciandomi di avere prove in mano che io nascondevo non so che cosa, polemizzarono sul fatto che avessi i ritagli dei giornali con gli articoli e le immagini degli arresti dei compagni. Quel materiale per me aveva un valore indicibile, era anche una parte della mia vita e loro non potevano capire e non dovevano entrarci. “Chi sono questi qua?” chiesero. “Gente che mi ha fatto conoscere il potere.” Era proprio così, ogni compagno me lo avevano fatto conoscere loro nelle galere italiane. Polemizzarono perfino sul “manifesto”, che era sul tavolo,

sui libri che avevo. Ho anche gli scritti di Mussolini se può tranquillizzarvi, risposi. Di libri ne ho accumulati davvero tanti, e ne ho letti ancora

di più. Cominciai a leggere libri, a interessarmi in prima persona dei problemi della fabbrica mano a mano che mi allontanavo da casa. Avevo letto tutti i libri del Che Guevara, che la Digos mi portò via in una perquisizione. Ho letto di tutto, da Lenin a Stalin a Mao, e ho letto anche

qualcosa Lessi raccolta pagni, ai

del Duce tanto per curiosità. un libro sui condannati a morte della Resistenza, una dei messaggi che avevano lasciato alla madre, ai comfigli. 213

Loro avevano dato la vita per qualcosa e io ho capito che questo atteggiamento si è ripetuto tra i giovani che erano in galera in quegli anni. Pelli, Buonoconto, la Margherita, non sono mica morti per carriera o per denaro o per esaltazione. Sarebbe troppo facile, troppo comodo credere a una cosa del genere. Poi ho letto cose di donne, perché capivo che stavo crescendo come donna, ho preso coscienza del mio essere donna.

Mi sono staccata dai figli, nel senso che non li vedo più solo come figli miei, come una proprietà, non penso che debbono mangiare quello che voglio io, che debbono uscire con chi sta bene a me, che non debbono fare errori o che possono sbagliare come voglio io. Li vedo come persone che debbono scegliere, e io non sono più la madre, ma l’amica. Questo ho potuto capirlo solo dopo aver conosciuto certe persone e dopo che mi sono capitate le cose che mi sono capitate.

Se avessi continuato la routine casa-lavoro, lavoro-casa, non avrei potuto capire, ne sono certa. Purtroppo le mie figlie non hanno questa mentalità. Non hanno imparato queste cose nonostante io abbia cercato di trasmettergliele non a parole ma nella pratica. La delusione rispetto al Pci ho dovuto elaborarla, ci ho sofferto e l’unica cosa che mi è rimasta nel cuore è il simbolo. An-

che questo me l’ha insegnato mio padre. ° “Margherita Cagol ‘Mara’, dirigente delle Brigate Rosse, viene uccisa ad Acqui Terme (Al) presso la ‘Cascina Spiotta' il 5 giugno 1975 dove i carabinieri effettuano un controllo per ritrovare Vittorio Vallarino Gancia sequestrato il giorno prima a Genova. Dopo un contlitto a fuoco nel quale resta ferita leggermente al dorso e all’avambraccio, viene finita seduta a terra. Dice un compagno che si trovava con lei al momento dello scontro: ‘Da sopra sentivo la Mara che urlava imprecando verso il carabiniere. [...] Mi affacciai dalla buca e vidi la Mara seduta con le braccia alzate che imprecava verso il Cc. Nel vedere la Mara ancora seduta e la mia impossibilità di arrivare a tiro, decisi di sganciarmi velocemente, pensando che i rinforzi sarebbero arrivati a minuti. Corsi giù per

il pendio e quando stavo per arrivare dall'altra parte della collina vicino a un bosco sotto al castello (saranno passati cinque minuti dal momento della mia

fuga), ho sentito uno, forse due, colpi secchi, poi due raffiche di mitra. Per un attimo ho pensato che fosse stata la Mara ad adoperare il suo mitra, poi ebbi il brutto presentimento confermato dal modo in cui sparavano nei campi durante le ricerche.’ La perizia autoptica conferma quanto sostenuto nella testimonianza citata. E cioè che, dopo il conflitto a fuoco, Margherita Cagol è soltanto lievemente ferita al dorso e all’avambraccio. E che viene uccisa successivamente, da un proiettile che la colpisce nella regione sottoascellare, quando le sue braccia sono alzate. Il 6 giugno 1975, le Br diffondono un volantino di commemorazione di Margherita Cagol ‘Mara’, dirigente della Colonna Torinese.” (La mappa perduta, cit., p. 286). 214

Lui diceva: “Non dovete guardare la gente del Pci, dovete guardare il simbolo, la bandiera”.

Non metto in dubbio che all’interno del partito ci fossero compagni della base che capirono le scelte di Mario e di quelli come lui, ma non potevano parlare, il vertice era di un’altra

idea. Molti di loro erano chiamati a scendere in piazza contro i nostri compagni, ma in fondo li amavano e li ammiravano.

Nel quartiere eravamo tutti del Pci e Mario era un militante. Mise su insieme ad altri una piccola enciclopedia per i giovani del quartiere, fece tante cose, oggi invece non c’è niente,

neanche un circolo dove la gioventù si può incontrare. Quando è stato arrestato loro hanno detto che non lo avevano mai visto, che non era un loro iscritto, che non era mai stato

un compagno. Ce li avevamo da un giorno all’altro tutti contro. Questo mi lasciò sgomenta, mi crollò tutto addosso, tutte le mie idee e le

idee di mio padre. Era diventato un problema di linguaggio che non era più lo stesso, quelle persone non accettavano che altri avessero potuto scegliere altri modi del fare politica per raggiungere lo stesso obiettivo. Non accettavano neanche che si fosse potuto sbagliare, l’unica cosa che posero fu un muro di diffamazione. Li rinnegarono senza porsi troppe domande, ed è stata la cosa più facile. È facile dire che tuo figlio è un delinquente e non dipende da te, È facile rinnegare un proprio figlio e non sentire le sue ragioni, è quello che fanno sempre le famiglie reazionarie e borghesi. Mio padre per fortuna già non c’era più perché sarebbe morto di dolore. Da piccoli gli chiedevamo: “Papà ma un comunista come deve essere?”. Lui ci diceva: “Un comunista quando ha due paia di scarpe

deve darne un paio a chi non ne ha”. Noi siamo cresciuti con questa cosa del paio di scarpe, e quando tutti i compagni ci hanno voltato le spalle, hanno cancellato la solidarietà, è stata molto più che una delusione per-

ché a parte il parroco, le scarpe a quel tempo nessuno ce l’ha

date. Da allora non sono più andata a votare.

La sofferenza porta all’egoismo, a volte è stato così. Se commettevano un’ingiustizia nei confronti di un familiare, e la cosa più frequente era che senza ragione non accettassero alcuni cibi, per evitare che la tua solidarietà nei suoi con215

fronti ti si ritorcesse contro e che magari non facessero passare il pacco neanche a te, non prendevi posizione. Era il ricatto

che ti ponevano, sapendo che giocavano su un fatto, che ogni tua azione poteva danneggiare il detenuto. Se il pacco non entrava neanche a te, a non mangiare era chi stava in cella. Cercavano di metterci le une contro le altre, parente contro

parente: a uno davano il colloquio all’altro no, se tu appoggiavi l’altro lo toglievano anche a te e a chi era dentro. A volte rinunciavi a fare il colloquio per solidarietà con qualcuna a cui era stato negato, ma quante volte avresti dovuto rifiutarlo? Non avremmo fatto colloqui per anni, e loro non aspettavano altro, ma intanto avevi l'impressione di non essere completamente solidale, di pensare solo a te stessa. Questo mi mette-

vaincrisi. Cercavo di fargli arrivare i fiori, i colori, le cose più profu-

mate. Tutto quello che gli mancava in un carcere. Cose che spedivo insieme alle lettere, margherite minuscole appiccicate al toglio, o semplici disegni colorati. Le mie bambine appena sbocciavano i primi fiori li raccoglievano per lo zio, perché ne sentisse il profumo. Le compagne sono state meravigliose. Le donne hanno una fantasia speciale per far piacere attraverso piccole cose. Mandavamo fogli coloratissimi su cui spruzzavamo del profumo. Io non scrivevo solo a Mario, ma anche ad altri suoi compagni, nonostante dovessi stare attenta, perché ero sempre e co-

munque la sorella di Mario Rossi. Questo significava che potevi avere problemi perché ti accusavano di fare da tramite esterno tra i detenuti. Non ero Angela che scriveva come compagna a chi voleva, ma erola... sorella di. Scrivevo a un compagno in Sardegna e mi posero un aut aut, mi dissero o scrivi a questo o a quello, altrimenti blocchia-

mo la posta. Fu lo stesso quando feci la richiesta per incontrarlo, o i colloqui con lui o con suo fratello.

Le ripercussioni le subiva chi era dentro. Altre invece scrivevano a ruota libera, ed è stato un sollievo

non da poco per chi da dentro non vive più le tenerezze della vita. : Questi carteggi si sono intensificati soprattutto tra carcere

femminile e maschile, e le donne detenute riuscivano, pur nella loro condizione coatta al pari degli uomini, a trasmettere tanta vitalità. 216

Le donne hanno fantasia, sono colorate, dolci, hanno saputo sorridere nei momenti peggiori.

Scommetto

che avevano dei tecnici che studiavano ogni

mossa, perché altrimenti non so spiegare come ogni settimana usciva fuori una novità in grado di snervarci e di innescare meccanismi violenti. Penso a quando hanno avuto l’idea di toglierci la possibilità di avere un contatto fisico.

To come sorella avevo voglia di tenergli le mani, di mettergli a posto una ciocca di capelli, di sentire il fresco o il caldo della sua pelle. Coni vetri tutto questo non si poteva più avere. Ci perquisivano, passavamo pure sotto dei macchinari che se qualcuno aveva il mal di cuore ci moriva sotto, e poi incon-

travamo il vetro. Era una tortura pensata a tavolino, non certo per la sicurezza, perché arrivavamo al colloquio senza nulla da poter passare dall'altra parte. Ci toglievano di dosso persino gli orecchini e l'orologio. Il nostro rapporto in tutti questi vent'anni di carcere si è

rafforzato. Non solo, è proprio cambiato. Mario quando eravamo ragazzi e si parlava d'amore, di gusti: mi piace quella, mi piace quell’altra, con me non si apriva, si vergognava, era riservato. Invece

in carcere

ci siamo

raccontati

tutto, io non avevo

problemi a confidarmi anche sul rapporto che avevo con mio marito, sulla nostra crisi coniugale. Anche lui se ne usciva con delle cose che a me non avrebbe mai detto in altri tempi. Parlavamo anche del bisogno fisico che può avere una persona in carcere, del bisogno sessuale.

Purtroppo io sono stata l’unica donna che ha visto durante la sua carcerazione, una sorella che non può certo sostituire una fidanzata, una moglie. La sorella è sempre la sorella. Mi sono disperata per non avergli potuto dare tutto, pur sapendo di cosa aveva bisogno. I miei figli glieli ho portati, questa gioia ho voluto dargliela. Ho cercato di sostituire tutte le figure che a lui mancavano,

non posso esserci riuscita perché io ero la sorella e non altro. Ero una compagna, un'amica e una sorella, ma sapevo che c’e-

ra bisogno anche di altro che non potevo dargli. Il suo mondo esterno ero solo io, di questo ho sofferto moltissimo.

Ai colloqui potevi anche parlare con un detenuto, salutarlo e abbracciarlo, ma vedevi che se c’era la sua compagna lui, ca217

somai con l'occhio sinistro, ma non l’abbandonava mai, era

preso dalla sua presenza. Possono venire da te il fratello, la madre, i figli, ma quella

parte affettiva, quel tipo d'amore tra uomo e donna non può dartela nessuna di queste figure. Io l’ho capito quando sono stata detenuta. Mi son bastati sei mesi per capire che cosa significa avere un compagno che ti ama fuori, e che ti viene a trovare. Ci sono tante donne che non hanno mai abbandonato i loro

compagni per anni e anni, ed è una scelta difficile, una scelta affettiva e ideale insieme. Casomai avevano anche un’altra vita fuori, ma non impor-

ta, era giusto che fosse così. Non credo che sia stato semplice, è stato il segno tangibile della profondità di rapporti piuttosto rari che implicano una serie di cose, di testa, di cuore, di vita.

Piuttosto che andare al cinema le mie figlie volevano venire a trovare lo zio. Sicuramente questo amore gliel'ho trasmesso io. Tanti ragazzini all’età di dodici, tredici anni avendo altri in-

teressi non andavano volentieri a trovare il padre o il fratello o lo zio in carcere. Finché erano piccolissimi ne vedevi diversi, man mano che crescevano, giustamente sceglievano con la loro

testa e preferivano altre cose. Trasmettere il senso della solidarietà a un giovanetto non è semplice, ci sono valori meno impegnativi.

Le mie figlie invece erano desiderose di vedere lo zio, lo adoravano. I colloqui erano un divertimento per loro, lui parlava di animali, spiegava la differenza che c’è tra l'anatomia di una specie e di un’altra, di una razza e di un’altra. Gli raccontava favole

bellissime, arricchiva di descrizioni fantastiche delle storie vere. Eppure anche loro hanno subìto delle ripercussioni, per esempio hanno vissuto l’isolamento. Una volta andarono con degli amici a raccogliere ciliegie e ruppero dei rami, i compagnetti accusarono le mie bambine solo perché erano le nipoti di Mario Rossi. Mentre mia sorella mi accusa di aver sbagliato tutto, di essermi rovinata la vita, non capisce che io lo ritarei ancora. Vivi, muori, rinasci. È la storia, il progresso.

Il movimento senza il quale non ci sarebbe nulla. 218

C'è qualcuno e qualcosa che cade, altre cose nascono, nien-

te dura per sempre. Il grande vuoto di oggi lo vivo così. Restare ancorata al passato in un certo senso sarebbe più salutare. Così ha scelto di fare questo compagno anziano dove lavoro, immerso nei suoi libri e nelle sue nostalgie a cercare in questo sfacelo una ragione per cui non è andata come doveva andare in tutto il mondo. Ce ne sarebbero di cose da fare, tanto per cominciare la storia bisognerebbe riscriverla. Ci sono fatti che nessuno conosce perché non stanno scritti da nessuna parte. Che sono stati solo strumentalizzati dai poteri. Mara escogitava piani di evasione quasi perfetti. Passava interi pomeriggi a disegnare con la matita la map-

pa per l'evasione. La soluzione che la convinceva di più era quella dell’elicottero e dello spray. Sarebbe andata così, avremmo gettato da un elicottero lo spray per le zanzare sulle guardie e avremmo liberato lo zio con una scaletta. Nei suoi disegni le guardie apparivano come dei mostri giganteschi vestiti di nero. Se in una perquisizione avessero trovato quei fogli avrem-

mo passato i guai, così li facevo in mille pezzi e li buttavo via. Mara è la mia grande speranza. Sua madre volle sposare a tutti i costi un ragazzo calabrese. Lo conobbe a quattordici anni e da quel momento decise che doveva redimerlo, lui era tossicodipendente. C’è riuscita ma

poi ha dovuto rinunciare a quella cosa che io mi ero conquistata, la libertà.

Appena nata, aveva solo tredici giorni, decidemmo di chiamarla Mara, Margherita. “Mi raccomando questo nome è importante, usalo bene,” le

dissi. La figlia di mia figlia è vissuta più con me che con la madre. Le ho spiegato della vita tutto quello che voleva sapere. Non le ho mai mentito come si fa in genere con i bambini. Mara è il mio orgoglio. Ha appena diciassette anni, ha lasciato tutto per venire qui da me. A vivere in Calabria non ce la faceva più, con un destino già segnato da piccola, il matrimonio, la casa ei figli. Mara è una ragazza intelligente, forse perché ha visto tanto

carcere sa che cosa è la libertà e ha deciso di non perderla per sempre. Ha fatto i suoi bagagli contro la mentalità dei genitori, di 219

un padre padrone e di una madre che ha seguito il marito in quella vita chiusa, del paese, del fidanzato, di due fratelli che ama, ed è venuta a Genova.

Lei mi dice: “Se hanno stoffa a casa almeno i fratelli capiranno”.

Prima di bussare alla mia porta era andata dal giudice per i minori che è rimasto sconvolto perché chi scappa a quell'età lo fa conilragazzo o perché è incinta. Lei no, lo ha fatto perché vuole studiare, lavorare, viaggia-

re, essere libera di fare qualsiasi scelta. Se hai strumenti culturali ti fai largo nella vita con più facilità non solo per te stessa ma anche per poter aiutare gli altri; parlo io che sono arrivata alla quinta elementare e che non ho potuto aiutare sempre mio fratello perché a volte non avevo gli strumenti. Andavo a delle riunioni senza capirci nulla. Ho avuto delle grane soprattutto con il padre perché lì al paese è stato uno scandalo. Perché loro hanno perso la faccia, ma non mi importa, io Mara la adoro ed è assurdo che debba vivere dove è disonore per una ragazza andare a scuola, dove è disonore portare la minigonna o i capelli corti. Lei non se n’è andata perché in casa sua mancava il pane, ma perché lì il suo destino lo vedeva segnato. Sarebbe stato quello della madre al servizio di un marito che fa il padrone. Io l’ho cresciuta un po’ all'avventura; la mamma era troppo piccola, aveva ancora voglia di dormire e non di darle il latte. Mara quei tempi non li ha dimenticati. In un certo senso mi ha distrutta perché sono stanca e ora con lei devo ricominciare tutto da capo, io che sono stata mamma, sorella, moglie, amante, ora nonna.

Ha diciassette anni e sono responsabile della sua vita, ma non ho intenzione di limitarla nelle sue scelte. Io voglio che i suoi obiettivi se li conquisti perché solo così, giorno per giorno, potrà crescere, sbagliare, migliorare come donna. Rinasco in lei che ha avuto il coraggio che era mancato a me nel ’59, quando il massimo che riuscii a fare fu di andare via di casa per sposarmi di nascosto dai miei genitori. Era la borghesia che mi portavo dentro, pur essendo proletaria.

Era il noncapire che c'è una libertà e basta. Vedo in Mara tutto quello che poteva essere per tante donne e che non è stato, anche per tante sue coetanee. Un riscatto

per tutte quelle che non ce l’hanno fatta. Chissà, se lei è così sarà pure per il nome che porta! È nata nel ’77 ed è la ricompensa di tutto quello che abbiamo passato. È il segno della vita che continua. 220

Indice

Prefazione di Piera Degli Esposti

Pag.

Introduzione

hi Non avevo mai visto un carcere in vita mia... 7A Chi ha deciso che non posso più toccare le mani di mio figlio? \ 3. Hai una faccia d’angelo ma sei come tuo padre 4. Io non sapevo neanche leggere... di Non piangeva, però le lacrime scendevano e lei mangiava i suoi peperoni... 106

6. La fantasia di una bambina è grandiosa...

115

7. Coordinate per passarci le informazioni su quello che accadeva da un carcere all’altro...

137

8. Dovrò fare tutto da sola

155

9. Non ero del Pci, ero comunista, e c'è una bella differenza...

175

10. Appena fuori dal carcere le scrivo, anche se non c’è niente di così urgente da dire

193

11. Mara... è il segno della vita che continua...

Finito di stampare nel mese di settembre 1995 presso GRAFICA SIPIEL - Milano su carta BMF delle Cartiere Burgo

0001460 P. GALLINARI ML. SANTILLI

Prospero Gallinari Linda Santilli In copertina: foto di Luigi Veronesi.

Dall’altra parte

L’odissea quotidiana delle donne dei detenuti politici Prefazione di Piera Degli Esposti Sullo sfondo degli anni settanta, la realtà delle carceri speciali e, dal/l’altra parte, l’odissea delle donne al seguito di un parente arrestato per motivi politici. Dall’altra parte del muro, del vetro, della gabbia; dall’altra parte del giudice, della guardia, delle istituzioni; dall’altra parte del marito, del prete, della casa. Da Cuneo a Nuoro, da Pianosa a Voghera, da Trani all’Asinara; dai luoghi e modi di vita più disparati, operaie, casalinghe, professioniste, analfabete e acculturate, si incontrano, si conoscono, si scambiano informazioni. Ogni testimonianza parla una lingua propria; a tutte sono comuni paure e vessazioni — l’articolo 90, la tortura, le perquisizioni vaginali, i colloqui attraverso i vetri, le denunce — ma anche i comitati di lotta e di appoggio ai detenuti. Le vicende individuali divengono così esperienza collettiva di solidarietà, che per molte significa presa di coscienza di sé, della propria identità sociale e familiare.

elle difficoltà di questa esperienza io mi ritengo fortunata per un motivo molto semplice, che ho imparato a vivere, a differenza di molte altre persone che invece sopravvivono.” Prospero Gallinari, nato a Reggio Emilia nel 1951, si accosta giovanissimo alla politica. Dopo una formazione nell’ambito della Fgci, milita nelle Brigate Rosse fino alla loro estinzione. Arrestato per la prima vol 74 e condannato a tre ergastoli, dopo qui di detenzione perlopiù in carceri spec in libertà per motivi di salute.

ISBN 88-07-17007-8 |

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Lire 22.000 (...)

; Linda Santilli, nata a L'Aquila nel 19 sì occupa di storia contemporanea, e principalmente di questioni sociali del minoranze, delle donne, delle diversità

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