Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto. Lineamenti fondamentali della dottrina della grazia 8839903674, 9788839903679

Il libro di Ganoczy svolge i lineamenti fondamentali della dottrina della grazia orientandosi alle grandi questioni impl

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Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto. Lineamenti fondamentali della dottrina della grazia
 8839903674, 9788839903679

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tema centrale della fede cristiana.

ma insieme anche un libro di lettura e di riflessione su un

ne ne fanno un testo nato dalla scuola e destinato alla scuola,

La comprensibilità del dettato e la completezza della trattazio­

111. Dottrina sistematica della grazia.

Il. La tradizione teologica e magisteriale;

l. La Rivelazione biblica;

La trattazione si svolge in tre parti:

mondo.

te nell'esperienza che l'uomo contemporaneo ha di sé e del

Il libro di Ganoczy svolge i lineamenti fondamentali della dottrina della grazia orientandosi alle grandi questioni implica­

.. ..

••

Alexandre Ganoczy, nato a Budapest nel

1 92 8, è professore

.e

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Dottrina della creazione (Gdt 156);- Dio: grazia per il mondo (Manuale di teologia 8). Ha anche collaborato alla Enciclope­ dia teologica; e al Lessico di teologia sistematica.

Tra le sue opere, in traduzione italiana presso la Queriniana:

di WOrzburg in Germania.

@- di dogmatica alla Facoltà di teologia cattolica dell'Università

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Alexandre Ganoczy

Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto Lineamenti fondamentali della dottrina della grazia

QUERINIANA ·BRESCIA

Dedicato a Rudolf Schnackenburg nel suo 75° compleanno con amicizia e riconoscenza

Titolo originale Aus seiner Fii/le haben wir alle empfangen. Grundri{S © 1989 by Patmos Verlag, Diisseldorf © 199 1 by Editrice Queriniana, Brescia

via Piamarta, 6 - 25 187 Brescia

ISBN 88-399-0367-4 Traduzione dal tedesco di CARLO DANNA Edizione italiana a cura di ANGELO MAFFEIS Stampato dalla Tipolitografia Queriniana - Brescia

der Gnadenlehre

INTRODUZIONE

' Grazia' non è oggi un termine corrente del linguaggio quotidiano. Nei nostri contemporanei essa provoca spesso associazioni con altri termini co­ me condiscendenza, perdono, privilegio, cortesia desueta, o richiama atti giuridici come la domanda di grazia e la concessione della grazia a un con­ dannato a morte . Un alone di potere e sovranità idealizzata accompagna simili rappresentazioni: i cittadini di una democrazia secolarizzata hanno pochi motivi di adoperare il termine spesso e in senso segnatamente positi­ vo . Di conseguenza anche il linguaggio teologico, che parla della grazia di Dio, va incontro a difficoltà linguistiche e contestuali (cf. Parte III, I. l ) . l . T ali barriere della comunicazione non devono naturalmente indurre il teologo, il predicatore e l'insegnante di religione cristiano a tacere que­ sto tema, perché la 'grazia' fa parte del tesoro originario della maggior par­ te delle religioni del mondo e, soprattutto, perché essa, quale grazia di Dio per gli uomini divenuta tangibile in Gesù Cristo, è una realtà essenziale e costitutiva della fede cristiana. Il teologo dogmatico cattolico deve per­ tanto prefiggersi di rinnovare e aggiornare la dottrina tradizionale della gra­ tia Dei e di renderla a tutti comprensibile . Questo volume vorrebbe contri­ buire a una simile ermeneutica della grazia. 2. La «controversia della grazia» del tempo della riforma protestante con­ tinua tutt' oggi a dividere le confessioni, per cui alla finalità ermeneutico­ dogmatica se ne affianca una ecumenica . Dobbiamo parlare di Lutero, Cal­ vino, dei pietisti, dei teologi del periodo dell'illuminismo, di K . Barth e della teologia protestante odierna, perché solo così possiamo vedere come i lineamenti di un consenso interconfessionale sulla grazia e sulla giustifi­ cazione , che va delineandosi in maniera sempre più chiara, siano fondati. Una buona base in questo senso ci viene offerta dal documento Lehroerur­ teilungen - kirchentrennend? [ Le condanne dottrinali dividono le Chie­ se?] , elaborato dal «Gruppo di lavoro di teologi protestanti e cattolici» 3 . La dottrina della grazia non costituisce semplicemente un trattato della dogmatica accanto ad altri, ma può essere considerata come una sintesi di =

6

Introduzione

tutti. Essa comincia con la dottrina di Dio, in quanto la 'grazia' è concepi­ ta come l' atteggiamento fondamentale del Dio che si rivolge agli uomini in virtù del suo essere agape eterna, di conseguenza come l' apertura della Trinità verso la storia del genere umano . Essa sta alla base della dottrina sul Creatore, a condizione che teniamo presente fin dall'inizio la sua vo­ lontà di redimere e portare a compimento l' uomo . Per questo mi sono per­ messo di rimandare qualche volta al mio volume Dottrina della creazione (Queriniana, Brescia 1 985) . Quanto alla cristologia, la dottrina della gra­ zia può essere vista come il suo fondamento, perché Gesù Cristo, con il suo messaggio della basiléia e nella sua qualità di Crocifisso risorto, può essere concepito come la «grazia in persona». Dato però che, nella storia della salvezza ancora imperfetta e ancora dolorosamente futura, il conte­ nuto della cristologia è formulabile solo in termini pneumatologici, ne vie­ ne che anche la dottrina della grazia assume una dimensione corrisponden­ te . Poiché la grazia di Cristo, sempre attualizzata dallo Spirito S anto nel nostro mondo, non cessa di edificare il popolo di Dio e di utilizzare i suoi sacramenti, malgrado le deformazioni del peccato e dell'alienazione, la dot­ trina della grazia permea anche l'ecclesiologia e la dottrina dei sacramenti, come il Vaticano II - e lo vedremo - ha sottolineato in modo particola­ re. Infine il discorso della grazia costituisce un principio di comprensione dell'escatologia, cioè di quella teologia della storia che - riassumendo le dimensioni personali, sociali e politiche dell'umanità - tematizza la spe­ ranza in un perfezionamento donato da Dio; essa fa ciò non da ultimo guar­ dando a Maria quale simbolo reale della creatura umana completamente vicina a Dio e quindi compiuta. L' onnipresenza della tematica della grazia in tutta la dogmatica fa sì che essa svolga una funzione sintetica. 4. Il metodo dei tre passi di una dogmatica 'ermeneutica' e, più precisa­ mente, 'responsoriale' , metodo da me volentieri seguito (cf. A. GANOCZY, Ein/iihrung in die Dogmatik, Darmstadt 1983 , 143- 1 64 =Introduzione alla dogmatica) , viene applicato in maniera piuttosto implicita in questo volu­ me . In altre parole, ( l ) la problematica enucleata mediante una analisi del­ la situazione, (2) l'indagine retrospettiva della tradizione della fede e (3) le risposte sistematiche non si presentano sotto forma di tre parti successi­ ve, ma come le tre dimensioni del discorso teologico normative per tutte le parti . L' argomento è stato materialmente suddiviso in tre parti al fine di trat­ tarlo su basi rigorosamente bibliche, partendo cioè dal fondamento della ri­ velazione, testimoniata in maniera normativa nella Scrittura, di esporne successivamente gli sviluppi in seno alla tradizione patristica, teologica e magisteriale e di presentarlo infine nell'orizzonte delle domande che oggi

Introduzione

7

ci poniamo . Di conseguenza abbiamo adottato la seguente suddivisione: Parte I : La rivelazione biblica; Parte II: Tradizione teologica e magisteria­ le; Parte III: Riflessioni sistematiche, concluse con una tesi riassuntiva: la grazia è la libera e gratuita autocomunicazione del Dio trino in Gesù Cristo per mezzo dello Spirito Santo, autocomunicazione che rende possibile, sorreg­ ge e completa, mediante la trascendenza storica e nonostante l'alienazione e il peccato, il giungere a se stesso dell'uomo come persona e come essere sociale. Le icone della Trinità illustrano in maniera pertinente sia la prima parte di questa tesi, sia il titolo del libro . Infatti la 'pienezza' , da cui tutti gli uomini trasformati dalla grazia hanno 'ricevuto' , è la pienezza della comu­ nione agapica divina. Essa è un processo eterno, fatto di relazioni e di scambi fra i Tre Distinti nell'ugtiaglianza dell'essenza, processo che si apre alla crea­ zione - rappresentata da una donna e da un uomo, che ricevono il pane eucaristico - e la arricchisce continuamente . Il significato di questo sim­ bolismo sarà compreso dal lettore solo alla fine della lettura, in particolare della terza parte sistematica. 5. Alla qualità dell'informazione biblica che offriamo ha contribuito in maniera determinante il mio venerato collega e amico Rudolf Schnacken­ burg, cosa di cui gli sono immensamente grato anche a nome delle mie let­ trici e dei miei lettori. Ringrazio il signor Thomas Franke e il dr. Johannes Schmid, che hanno esaminato il mio manoscritto verificandone la corret­ tezza terminologica e dogmatica, la signora Elsa Rohrich, per il suo impe­ gno generoso e oltremodo competente nella preparazione del testo da dare alla stampa, nonché gli studenti della Cattedra di Dogmatica I per l' aiuto prestatomi nella verifica delle citazioni e nella correzione delle bozze . Alexandre Ganoczy Wiirzburg, ottobre 1988

parte prima

La Rivelazione biblica

La teologia cristiana parla di quella grazia di Dio, che è divenuta speri­ mentabile in Gesù Cristo. Nel Nuovo Testamento essa è indicata con di­ versi termini greci, tra cui emerge, sotto il profilo numerico e contenutisti­ co, il termine chtiris, adoperato soprattutto negli scritti paolini. In secondo luogo dobbiamo menzionare éleos e poi tutta una serie di termini affini: dikaiosyne, agape, oiktirm6s . Io li adopero dapprima senza tradurli: solo la chiarificazione dei contesti, in cui essi vengono via via adoperati, rivelerà il loro significato teologico preciso . A questo scopo è opportuno comincia­ re con i termini ebraici veterotestamentari corrispondenti, che i Settanta (LXX) hanno il più delle volte tradotto con i termini greci menzionati.

CAPITOLO PRIMO

L'ANTICO TESTAMENTO

1.

pen/ch8ris

L'Antico Testamento greco rende abitualmente con charis il termine ebrai­ co l;en, che corrisponde grosso modo al nostro 'grazia' . La sua forma ver­ bale è /;nn, 'essere benevolo' , 'concedere, fare un favore' , 'graziare' ; la sua forma aggettivale è l;annun, 'benevolo' , 'propizio' , 'grazioso' . ( l ) Nella maggior parte dei casi (52 su 69) il sostantivo l;en ha un signi­ ficato profano. Un vasto campo esperienziale interumano offre qui una ana­ logia teologica tenue, ma non per questo insignificante . Il termine ricorre sempre al singolare. La formula frequente: «Trovare favore (o grazia) agli occhi di . . . » lascia capire che l;en non indica tanto singole manifestazioni concrete di favore quanto piuttosto un atteggiamento di fondo, da cui tali atti possono scaturire (cf. STOEBE, l, 588; trad. it . , 5 10) . L'uomo, ai cui occhi un altro trova grazia, è sempre un superiore, per es. il re (1 Sam 16,22; 2 7 , 5 ; 2 Sam 14,22; Est 5 , 2 . 8) . «Probabilmente la formula è propria dello stile di corte, ma in seguito a un processo di democratizzazione può essere usata anche per un uomo qualsiasi che, in quanto superiore, sta di fronte a un inferiore» (ivi, 589; trad. it . , 5 10) , può essere usata, per esempio, nei confronti del fratello più forte (Gn 32,6) . Chi ha trovato grazia presso qual­ cuno gli rivolge volentieri le sue suppliche (Gn 1 8 , 3 ; 1 Sam 20,29) . A loro volta le richieste esaudite permettono di concludere che il donatore è in fondo ben disposto (2 Sam 14,22; Rt 2 , 13). A volte egli manifesta il suo favore in maniera del tutto spontanea e indebita, a volte è indotto a farlo dalle qualità o azioni che riconosce e apprezza nel ricettore (Gn 39,4 1 ; 1 Sam 16,22; 25,8; cf. Dt 24, 1 ) . La gamma dei significati si estende quindi al di là di quello del favore spontaneamente concesso e abbraccia anche quello di manifestazioni di propensione e di riconoscimento della dignità o addirittura del merito. Solo in testi tardivi l;en perde la sua dinamica re­ lazionale e viene o oggettivato come possesso del ricettore (Prov 13, 15; 17,8; Sa/ 84, 12) o usato nel senso di 'leggiadria' , 'amabilità' , 'forma graziosa'

12

La Rivelazione biblica

esteriormente constatabile di un uomo (Prov 1 , 9; 3 ,22; 4,9; 1 1 , 1 6; Sal 45 ,3). L'uso teologico relativamente raro di ben non è perciò di piccola impor­ tanza. Esso indica la sublimità e l' alterità incommensurabile di Dio, in vir­ tù delle quali egli benefica gli uomini con sovrana libertà. Si tratta qui del suo amore, sotto diversi aspetti senza limite . Per questo Noè trova grazia agli occhi di Jahvè (Gn 6,8), per questo Lot, dopo esser stato salvato, si vede talmente beneficato da non indugiare a rivolgere al suo salvatore al­ tre richieste ( Gn 1 9 , 1 9) , per questo una libera manifestazione di benevo­ lenza da parte di Dio nei confronti di Davide suscita la fiducia in altre ma­ nifestazioni concrete del favore divino (2 Sam 1 5 ,25s . ) . L'illu strazione più ricca del contenuto teologico del termine la troviamo in Es 3 3 , 1 1 -22, che ci parla di un Dio il quale si rivolge all'uomo in virtù della sua stessa divi­ nità, del Signore che promette, comunica e fa sperimentare se stesso . La scena è costituita dal rinnovamento dell' alleanza. Mosè è nella tenda della rivelazione, e Jahvè e lui parlano «faccia a faccia» come altrimenti fanno solo uomini amici (v. 1 1) . Mosè ricorda incontri passati: «Eppure hai det­ to: ti ho conosciuto per nome, anzi hai trovato grazia ai miei occhi. Ora, se davvero ho trovato grazia ai tuoi occhi, indicami la tua via» (v. 12s. ) . Mosè confida cioè che Dio continuerà a «camminare con» loro (v. 15) e a guidare il suo popolo eletto in maniera tale che lui, il suo servo, «e» il popolo troveranno sempre la sua grazia (cf. v. 16) . ll Signore risponde pro­ mettendogli che continuerà a camminare con loro: «lo camminerò con voi e ti darò riposo» (v. 14), e conclude il dialogo spiegando la sua libertà e sovranità incondizionata: «Farò grazia a chi vorrò far grazia e avrò miseri­ cordia di chi vorrò aver misericordia» (v. 1 9) . È molto probabile che Ger 3 1 ,2s. alluda a questo passo dell'Esodo, fondamentale per la comprensione del significato teologico di ben, e spieghi quella grande manifestazione con­ creta di favore con queste parole rivolte da Dio al popolo: «Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà». (2) Il verbo bnn, diversamente dal sostantivo ben, non ricorre con mol­ ta frequenza nel linguaggio profano (STOEBE, l, 592; trad . it . , 5 1 3 ) . Si ha l'impressione che l' atto della «manifestazione concreta del favore a qual­ cuno» e dell' «essere benigno» convenga in maniera vera e propria solo a Dio o equivalga addirittura a una esplicitazione del nome di Jahvè (cf. Es 3 3 , 1 9 ; 2 Re 1 3 ,23; Is 30, 1 8s.) e che tale modo di agire sia un distintivo quasi esclusivo del Creatore (cf. Is 2 7 , 1 1) . In ogni caso la 'benignità' di Dio viene supplicata e implorata in molte invocazioni: «Pietà di me» (bon­ neni) (Sal 4,2; 6,3; 9, 14; 27,7; 30, 1 1 ; 4 1 ,5 . 1 1 ; 5 1 , 3s. ; 86, 16) . In modo par­ ticolare l' orante, che si trova nel bisogno o si sente debole, solo e op-

L 'Antico Testamento

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presso, si attende di trovare grazia, al fine di essere perdonato e così guari­ to, liberato e rinvigorito . Seguendo un Creatore così invocato, che è pron­ to a redimere i suoi, anche il credente deve agire allo stesso modo verso il proprio prossimo, in primo luogo verso i bisognosi: «Chi opprime il po­ vero offende il suo creatore, chi ha pietà (bonen) del misero lo onora» (Prov 14, 3 1 ; cf. 28,8) . (3) L'aggettivo bannun viene adoperato ancor meno del verbo bnn in sen­ so profano e sembra essere completamente un predicato di Dio (STOEBE, I, 592; trad. it. , 5 1 3 ) . Esso indica il Dio benigno e nelle formule liturgiche è accompagnato in maniera stereotipa dall'aggettivo 'misericordioso' (rabum) (Es 34,6; 2 Cron 30,9; Neem 9, 1 7 . 3 1 ; Sa/ 86, 1 5 ; 103 ,8; 1 1 1 ,4; 1 12,4; 145,8; Gioe 2, 13; Giona 4,2) . Dove ricorre questa formula, lo sguardo si indirizza contemporaneamente alla sublimità e alla promessa, alla sovra­ nità e alla paternità di J ahvè. Essa riassume la dipendenza dell'uomo, in primo luogo del peccatore, da Dio e l'amore misericordioso del Creatore per gli uomini.

2.

/11iesseJjéleos

Il sostantivo baesaed ricorre molto spesso nell'Antico Testamento (245 volte ! ) , mentre il corrispondente aggettivo basfd ricorre relativamente di rado (32 volte) . L' ampio significato del termine risulta già dal fatto che, a seconda del contesto (e della pre-comprensione del traduttore !), esso vie­ ne reso in maniere molto diverse: il sostantivo con «bontà, indulgenza, be­ nevolenza, amicizia, amore, grazia», l'aggettivo con «buono, fedele, pio» (nei LXX: h6sios) . ( l ) Fondamentalmente baesaed indica una entità complessa, che si rende percepibile in molte singole manifestazioni, sicché il termine ricorre a vol­ te al plurale. Ciò non significa però una frammentazione dell'entità fonda­ mentale, bensì momenti intensi di un lungo processo. In corrispondenza il termine indica ora un atteggiamento di fondo del soggetto, che «in» tale atteggiamento o «conformemente» ad esso o «per amore di esso» agisce co­ me agisce (1 Re 20,3 1 ; Prov 1 1 , 1 7) , ora il suo corrispondente modo di agi­ re (Gn 19, 19; 24, 12-14.49; Gios 2 , 12; 2 Sam 2,5s.; 9, 1-7; Giob 10, 12, ecc.). In maniera simile a una virtù, che è diventata la «seconda natura» del sog­ getto e si esterna in atti virtuosi, così l' baesaed quale atteggiamento di fon­ do si comporta verso l' baesaed come azione . Che qui si tratti di una bontà

14

La Rivelazione biblica

davvero radicale, manifestantesi in buone azioni, risulta già dal fatto che il nostro termine viene a volte rafforzato e completato con tub, 'bontà' , o tob 'buono' (cf. Sal 1 1 8 , 1-4) . Altre sfumature di significato vengono espresse mediante il suo collega­ mento con altri due termini: 'aemaet, 'fedeltà' , e ral;amfm, 'compassione' ; in questi casi l;aesaed va interpretato il più delle volte come ciò che rende possibile e sta alla base di tali due ulteriori atteggiamenti. (2) In maniera simile a l;en anche l;aesaed ha un ricco significato profa­ no. Specie nei testi più antichi questo è addirittura predominante, pur senza escludere il significato teologico . Il nostro termine caratterizza determina­ te relazioni interumane, di cui sottolinea la singolarità, la non ovvietà. Si tratta più precisamente di una bontà o amicizia, che va al di là dell' abitual­ mente dovuto . Essa nasce in maniera spontanea e non come adempimento di qualche dovere . Non si lascia inquadrare nel meccanismo del do ut des. Di conseguenza le manifestazioni di l;aesaed sorprendono spesso coloro che ne sono oggetto . Così viene sentito il comportamento di quei «re clemen­ ti», che risparmiano la vita al nemico vinto e gli offrono poi addirittura di stringere un patto (1 Re 20,3 1 ) . Gli uomini buoni, che disdegnano il pericolo per dare sepoltura al cadavere di Saul, compiono un gesto che va al di là della pietà usuale, e Dio intende ricompensare tale loro benevolen­ za (2 Sam 2,5s . ) . Le persone animate da l;aesaed fanno credito della loro amicizia ad altri e sono pronte a beneficarli gratuitamente e generosamen­ te al di là del dovuto (cf. Gn 40, 14; 47 ,29; l Sam 15,6; 2 Sam 3,8; l Re 2, 7) . È nella natura di una simile benevolenza suscitare nei beneficati un uguale comportamento. Nasce tra di loro responsorialmente un l;aesaed recipro­ co, senza che la relazione perda qualcosa della sua gratuità e diventi in qual­ che modo coatta (cf. Gn 2 1 ,2 3 ; Gios 2 , 12; l Sam 20,8; 2 Sam 10,2) . Quel­ lo che va qui delineandosi a grandi linee è senza dubbio il quadro di un comportamento sociale ideale . È perciò comprensibile che il libro dei Pro­ verbi voglia inculcare una cosa del genere a tutti e dica ad esempio che la donna ideale ha sulle labbra la dottrina dell ' l;aesaed (Prov 3 1 ,26) . D' altro lato spesso viene anche espressa la convinzione che questo insegnamento proviene da Dio, il quale può addirittura ispirare una simile bontà verso gli altri a un carceriere (Gn 39,2 1 ) . Dove essa regna, lì regna in maniera permanente, per cui la coppia di termini l;tiesaed- 'aemaet, cioè 'bontà-fedeltà' , risulta estremamente adeguata già per quanto riguarda la comunità umana (Prov 3 , 3 ; 14,22; 16,6) . Secondo N . Glueck l;aesaed «non significa una benevolenza spontanea e in sostanza immotivata, ma un atteggiamento che deriva da una relazio­ ne comportante diritti e doveri (marito-moglie; genitori-figli; sovrano-suddi-

L 'Antico Testamento

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ti)» (STOEBE, II, 603 ; trad. it. , I, 523). Ciò servirebbe poi da modello per formulare l' alleanza esistente fra J ahvè e Israele. Pure qui impererebbe la legge del do ut des. La maggior parte dei ricercatori odierni prendono le distanze da questa tesi. H .J. Stoebe nega perciò che il dato biblico nel suo insieme permetta una simile trasposizione di alcuni aspetti della concezio­ ne interumana dell' baesaed, peraltro incontestabili, sul piano teologico (ivi, 604; trad. it . , 524) . D' altro lato egli dimostra in maniera convincente come proprio l'baesaed gratuito di Dio, che nella stipulazione dell' alleanza trova solo una delle sue grandi manifestazioni, diventi in molti modi la condizio­ ne della possibilità della proesistenza e comunione umana, dimostra cioè come solo questa bontà gratuita fondamentale e creatrice di Dio sia la base di un'esistenza umana vissuta gli uni per gli altri (cf. ivi, 6 1 1 ; trad. it. , 53 1) . (3) Il significato propriamente teologico del nostro termine ricorre già nelle tradizioni più antiche, .per esempio nello Jahvista, che con esso carat­ terizza, in maniera ancora molto antropomorfica, l' atteggiamento fonda­ mentale di Dio verso gli uomini. Da allora in poi il discorso dell' baesaed di Jahvè, quale caratterizzazione sia delle sue azioni (Gn 32, 1 1 ; Sal 1 7 , 7; 25 ,6; Is 63 , 7), sia della norma che sta alla loro base (Sal 25, 7; 5 1 ,3), rima­ ne una costante della teologia veterotestamentaria. In modo particolare la coppia di termini baesaed- 'aemaet entra già a far parte dell' autodescrizione di Jahvè, così come essa è testimoniata in Es 34,6: >. Molina espose le sue tesi nel 1588 nell'opera Concordia liberi arbitrii cum gratiae donis, opera che incon­ trò però la netta opposizione della maggior parte dei domenicani che inse­ gnavano a Salamanca, soprattutto quella di Bdiiez, il quale considerava la «grazia attuale» come un influsso infallibile esercitato da Dio sull'uomo bi­ sognoso di redenzione e sulle azioni da lui compiute dopo la giustificazio­ ne (cf. PESCH, in PP, 2 1 5). Pertanto ogni libera adesione della volontà di­ pende da una grazia sovranamente operante, anzi può essere libera solo grazie a un simile auxilium . Forti di questa argomentazione i domenicani denunciarono Molina e i suoi seguaci all'Inquisizione spagnola e portoghe­ se e ciò provocò alla fine l'intervento di Roma. I due partiti si accusarono reciprocamente davanti alle commissioni romane . Bdiiez fu sospettato di calvinismo, Molina incriminato di semipelagianesimo e di aver falsificato la dottrina tridentina della conversione . Paolo V si rifiutò di pronunciare condanne, rimandò i litiganti a casa e proibl loro di colpirsi a vicenda con delle censure (vedi la pontificia Fomzula pro finiendis disputationibus de au­ xiliis del 1607; DS 1 997) . Risultati più soddisfacenti e costruttivi ebbe l'interpretazione del Tri­ dentino data da un altro gesuita spagnolo, Francisco de Sudrez (t 1 6 1 9), la cui dottrina della grazia fu appoggiata e difesa da Paolo V contro gli at­ tacchi dell' Inquisizione spagnola e fu vista con simpatia anche da pensato­ ri come Bellarmino, Bossuet e Leibniz, proprio a motivo del suo carattere volontaristico (ELORDUY, 1 1 3 1 ) . Suarez e la sua scuola, il cosiddetto sua­ rezianismo, riuscirono a sviluppare in maniera sistematica due dimensioni della teologia della grazia su cui sino ad allora si era riflettutto in misura insufficiente, vale a dire la dimensione missionaria e quella sociale . Non senza un pizzico di ottimismo barocco si prese qui in considerazione la que­ stione della salvezza dei pagani nel contesto delle missioni. In maniera si­ mile ad alcuni teologi della Chiesa antica, che in molti non cristiani del­ l' antichità scorsero elementi di verità e santità, anche Suarez vide gli in­ diani dell'America appena scoperta come circondati da una «grazia este­ riore» dell'unico Dio . Taie grazia operante al di fuori della Chiesa in ordi­ ne alla Chiesa edifica su tradizioni religiose e morali, che «per loro natura» sono buone e gradite a Dio, doni della creazione che non contrastano con la fede cristiana e rappresentano una potentia oboedientialis, una potenzia­ lità finalizzata ad aderire alla rivelazione di Cristo . La grazia comunicata attraverso la missione non incontra perciò uomini del tutto privi di grazia. Essa purifica ciò che è già stato donato e gli permette di pervenire a se stesso in forma cristiana. Lo Stato dei gesuiti del Paraguay, ch'ebbe vita breve, va certamente visto in questo contesto . Più a lungo visse purtroppo

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La tradizione teologica e magisteriale

il colonialismo brutale dei conquistadores; destino tragico di una dottrina della grazia come dottrina sociale abbracciante tutte le culture, non dive­ nuta patrimonio universale ! Nella sua Defensio /idei Smirez ha comunque enunciato principi impor­ tanti in questo senso. Egli elaborò una vera e propria dottrina dello Stato utilizzando principi di una corrispondente dottrina della grazia e della Chiesa e ponendosi in questo modo come il corrispettivo cattolico di C alvino. In questa opera vengono discusse questioni riguardanti la guerra giusta e in­ giusta e la giustizia sociale, questioni che l' autore cerca di risolvere parten­ do da un effetto della grazia, che risulta «sufficiente» a sollecitare la volon­ tà umana, affinché adotti un comportamento sociale cristiano e operi ge­ nerosamente in tal senso .

b. Agostinismo in Baio e Giansenio I sostenitori di un agostinismo rinnovato cercarono di corrispondere al­ la grazia di Dio non tanto con un impegno missionario verso il mondo, quan­ to piuttosto con un approfondimento dell'interiorità. Miche! de Bay detto Baio (Bajus) (t 1589) , docente all'università di Lovanio, elaborò in questo contesto una teoria dell' amore cristiano. Decisivo è vedere a quale amore l'uomo cede: se a quello concupiscente e libidinoso, che insegue la felicità terrena, come fanno i pagani, le cui «virtÙ» sono perciò vizi mascherati, o se a quella charitas che viene infusa nel cristiano dallo Spirito Santo per la giustificazione . Il cristiano porta sicuramente in sé una parte pagana, che in lui lotta incessantemente con quella influenzata dallo Spirito di Dio (cf. FRANSEN, 748ss . ; trad. it . , 1 94ss . , a proposito dell'opera principale di Baio, De charitate, iustitia et iustificatione, libri tres) . In virtù della grazia egli può però seguire questa seconda, compiere le corrispondenti opere di amor di Dio e progredire così passo dopo passo sulla via della perfezione. Chi ama nella maniera voluta da Dio è un uomo libero, liberato da ogni sorta di vincoli e coazioni . Chi preferisce l' amor di Dio all' amore del mon­ do è un giustificato, sta nella grazia di Dio (cf. SMULDERS, 1 1 98s.) . Di fronte all'immagine ottimistica dell'uomo, diffusa per esempio fra i gesuiti, Baio ritenne urgentemente necessario mettere con vigore in risalto il contrasto fra natura e grazia, fra stato di peccato e stato di grazia, rifa­ cendosi in questo agli scritti antipelagiani di Agostino. Dello «Stato origi­ nario» prima della caduta nel peccato egli aveva un'immagine molto idea­ le . L'uomo, elevato a «partecipare alla natura divina» (cf. 2 Pt 1 ,4), sareb­ be stato per natura sua integro, immortale e di conseguenza non biso-

Nell'epoca moderna e contemporanea

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gnoso di alcun aiuto particolare della grazia (cf. le proposizioni a lui attri­ buite e condannate nel 1567 da Pio V: DS 1 92 1 , 1 95 5 , 1 978) . Completa­ mente diversa invece la sua situazione dopo la caduta nel peccato: la no­ stra natura sarebbe completamente assoggettata alla potenza del peccato, che la dominerebbe senza riserve mediante la concupiscenza, la bramosia, che sarebbe in se stessa peccato . Questo dominio farebbe anche sì che va­ sti settori dell'umanità attuale vivano senza alcuna fede in Cristo, uno sta­ to questo che nessuna ignoranza del vangelo scuserebbe. I singoli peccati attuali, commessi da non cristiani o cristiani, non andrebbero affatto con­ siderati come «veniali», ma piuttosto come mortali e come motivo di eter­ na dannazione (cf. ivi, DS 1920 , 1 967s . , 1 974) . La volontà dell'uomo sarebbe sì libera nella misura in cui non sta sotto la costrizione di una forza esterio­ re. Ma nell'uomo caduto essa sarebbe continuamente indotta da un impul­ so interiore a peccare (cf. FRANSEN, 750s . ; trad . it . , 200s.), per cui non po­ trebbe evitare il peccato (cf. ivi, DS 1 928, 1939, 1 94 1 , 1966) . Solo il puro amore di Dio, che è riversato nei nostri cuori dallo Spirito Santo (cf. Rom 5 ,5) , supererebbe questo abisso fra ciò che noi siamo e ciò che dovremmo essere . Solo questo amore vincerebbe la concupiscenza che ci rende schia­ vi (cf. ivi, DS 1 9 16, 1 934, 1 938). Comelius ]ansen, detto Giansenio (Jansenius) (t 1638), sostenne, sem­ pre a Lovanio, una dottrina simile, richiamandosi in maniera ancora più esplicita ad Agostino, col cui nome intitolò la sua opera principale . Pure per lui la grazia consiste in primo luogo in un aiuto sanante (auxilium) . Con esso Dio avrebbe inizialmente aiutato l'uomo nello stato originario renden­ dogli possibile la salvezza, poi, dopo la caduta nel peccato, realizzando di­ rettamente in lui la salvezza. Egli realizzerebbe la salvezza dell'uomo su­ scitando nello schiavo del peccato il gusto dell'amore di Dio, la delectatio victrix, e superando la concupiscenza, la cupiditas (cf. FRANSEN, 756s.; trad. it . , 206s . ) . Un amore vince l' altro . Quello, in cui l' uomo era stato origina­ riamente creato, recupera colui che era per così dire uscito dalla sua sfera. Giansenio afferma che «in sé e per sé l'uomo potrebbe resistere a questa grazia, ma la grazia fa appunto sì che egli non voglia opporre resistenza» (ivi, 757; trad. it . , 208) . n redento, mentre gode dell' aiuto della grazia, si libera dall'egoismo, che è fonte di cecità morale . D'ora in poi egli può amare nel modo giusto . Pure Giansenio fu censurato, perlomeno indirettamente, da Roma. Una serie di proposizioni, che così come suonano non si trovano a dir il vero nel suo Augustinus (ivi, 760 ; trad . it. , 2 1 1 s . ) , ma che potrebbero essere lo­ gicamente dedotte dalla sua dottrina, fu condannata da Innocenzo X nel 1653 , vale a dire dopo la morte del nostro teologo (DS 200 1-2005). Una

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attenzione particolare merita la condanna di una proposizione che mette­ va in dubbio la volontà salvifica universale di Dio, posizione che ricorre già nell'ultimo Agostino . Qui diventa chiaro come il magistero non abbia re­ cepito in tutto il più grande dei Padri occidentali, ma abbia assunto su al­ cuni punti un atteggiamento critico verso di lui. Per quanto riguarda la dot­ trina, la morale e la spiritualità del cosiddetto giansenismo, la ricerca mo­ derna invita ad apprezzare di più gli elementi autenticamente cristiani che in esso si trovano e a non rigettarlo in blocco . Tra i seguaci di questa cor­ rente vi furono fedeli che prendevano sul serio l' aiuto della grazia di Dio: si pensi solo a Blaise Pascal (t 1662) e alla comunità di Port Royal, una élite mistica francese, che con la sua condotta morale rigorosa si oppose all'ondata di lassismo, che quale prodotto collaterale dell'ottimismo mis­ sionario nei confronti della natura, sostenuto dai gesuiti, e dell'umanesi­ mo di quei tempi minacciava di allontanare da valori specificamente cristiani.

2. Correnti protestanti

Parallelamente alle correnti appena delineate della concezione cattolica della grazia vanno evolvendosi anche correnti specificamente protestanti. In campo protestante esse si concentrano, per motivi comprensibili, più sul concetto di «giustificazione» che su quello di «grazia». Sommariamente schematizzando potremmo dire: dopo Trento la discussione intracattolica si concentrò attorno alla grazia di Dio e ai corrispondenti aiuti da essa con­ cessi alla volontà libera, mentre in campo luterano e riformato (calvinista) ci si occupò in maniere diverse della imputazione «per grazia» della «giu­ stizia aliena» di Cristo ai peccatori bisognosi di giustificazione: ciò avven­ ne nell'ortodossia, nel pietismo e da parte dei teologi influenzati dall'illu­ minismo (cf. PETERS, in PP, 222-264) .

a.

La dottrina della giustificazione nel/H ortodossia '

Criterio della giusta fede, della ortodossia luterana e riformata, quale fu perseguita per esempio al seguito di Melantone e di Teodoro Beza, di­ scepolo e successore di Calvino a Ginevra, fu la fedeltà alla proposizione di Lutero, secondo la quale la giustificazione del peccatore avviene «solo per grazia» e mediante la fede. Ora però, rispetto al teocentrismo e cristocen-

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trismo protestante originario, balzò in primo piano un interesse pronun­ ciatamente antropologico, in termini più precisi salvifico-personalistico: Che cosa avviene nel giustificato? Concretamente in che consiste il suo diveni­ re giusto e essere giusto? In che modo possiamo concepire questo processo salvifico, spiegarlo speculativamente e fino a che punto esso può divenire oggetto di una esperienza eticamente e spiritualmente rilevante? Teologi, che si è soliti annoverare fra gli 'ortodossi' , cercarono di siste­ matizzare questa dottrina fondamentale e, cqstruendo su di essa, di siste­ matizzare tutta la dogmatica con l' aiuto della concettualità e del metodo aristotelico . In tal modo essi introdussero la dottrina dell'essere, l'ontolo­ gia, nella descrizione di una conoscenza della fede, che in Lutero era anco­ ra concepita in maniera molto aderente all'esperienza e con categorie rela­ zionali. Tale astrazione si dimostrò indispensabile, se non si voleva che il difficile equilibrio fra componente soggettiva e componente oggettiva nel­ l' evento della giustificazione andasse in pezzi. Era necessario distinguere nella maniera più netta possibile fra la certezza soggettiva della salvezza e la qualità oggettiva dell'essere, che distingue il giustificato dal non giustifi­ cato . I due aspetti infatti non possono essere confusi, altrimenti l'opera dell'uomo e l'opera di Dio verrebbero ancora una volta scambiate fra di loro e si ripresenterebbero di nuovo gli spettri di una salvezza. solo imma­ ginata o di uno stato di grazia cosificato. Qui limitiamoci a ricordare una distinzione, che sia nell'ultimo Melan­ tone che nell'ultima Institutio di C alvino fu fatta tra giustificazione e san­ tificazione, tra giustificazione forense e rinnovamento effettivo del credente. Secondo Melantone dapprima si ha l' atto giuridico, con cui Dio imputa al peccatore (anche a quello macchiato del solo 'peccato ereditario' come il neonato) la «giustizia aliena» di Cristo; quindi seguono tutta la storia e la vita del credente, nel corso delle quali egli è veramente «rinnovato» e trasformato anche nella profondità del suo essere e nella sua azione dallo Spirito Santo, come egli può poi percepire anche psicologicamente (cf. PE­ TERS, in PP, 223 s . ) . Pure C alvino ascrive quest'opera d'una santificazio­ ne progressiva del giustificato allo Spirito di Dio, che in tal modo attualiz­ za qui e ora l'azione benefica del Cristo glorificato (cf. sopra 1 73 s . ) . I rappresentanti dell'ortodossia luterana trovarono nel battesimo dei bam­ bini il paradigma più adatto per illustrare questo processo . Già per motivi puramente psicologici nel momento del battesimo al lattante può essere im­ putata solo una giustizia estranea, immeritata, donata per grazia, il che non significa naturalmente che con ciò il suo processo salvifico sia concluso . Egli ha piuttosto davanti a sé tutta una vita, nel corso della quale deve essere reso giusto e nel corso della quale lo Spirito Santo vuole vedere sboc-

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ciare la sua fede personale e i relativi frutti, cioè le opere dell' amore. I rap­ presentanti dell'ortodossia calvinista sottolineano in modo particolarmen­ te forte l'importanza salvifica di tali opere, che lo Spirito suscita di conti­ nuo nel «cuore» dei credenti conformando così sempre più la loro «coscienza» a Cristo. Taie elaborazione pneumatologica della dottrina della giustificazione non rimase una semplice teoria in quei teologi, che all a loro scolastica per forza di cose arida seppero unire anche una 'mistica' - o per utilizzare un ter­ mine meno sospetto nel protestantesimo - una spiritualità corrisponden­ te, spesso dal sapore trinitario (cf. PETERS, in PP, 225 s . ) .

b. Esperienza della grazia, rinascita e rinnovamento nel pietismo «La giustificazione è stata predicata sufficientemente a lungo, vogliamo finalmente vederne anche gli effetti ! » (BAUR, 109) . Questa affermazione riassume bene l'istanza dei 'pietisti' che, come Ph. ]. Spener, A . H . Franc­ ke e il conte Nikolaus von Zinzendorf, volevano tradurre la dottrina pro­ testante della giustificazione «nell'esperienza viva della fede» (PETERS, in PP, 227) . Certo, molti di essi aspiravano a sperimentare la grazia in manie­ ra sentimentale assai intensa, con una tendenza a manifestazioni entusia­ stiche; il loro scopo era però tutto sommato quello di praticare per tutta la vita una elevata moralità e di dedicarsi intensamente alla preghiera, quello di trasformare tutta l'esistenza sotto la norma della fede cristiana. Gli ef­ fetti della grazia della giustificazione dovrebbero manifestarsi nella con­ dotta dei singoli, nella loro pietà esemplare. Per questo motivo numerosi pietisti preferirono addirittura il termine «rinascita» a quello di «giustifi­ cazione». Infatti né un atto giuridico divino, né un conferimento della gra­ zia pensato antologicamente, ma in fondo posto al di là dell'esperienza, poteva comunicare loro la certezza che lo Spirito di Dio crea realmente uomini nuovi, la certezza che coloro che hanno ricevuto la grazia sono di­ venuti effettivamente «partecipi della natura divina» (cf. 2 Pt 1 , 3 s . ) . Que­ sto rimando alla seconda lettera di Pietro fa venire all a mente il cattolico Baio, che cercava similmente di individuare una tale unione dell'uomo con Dio nell' amor di Dio, mediante cui la fede diventa concreta e visibile . I pietisti concepirono in maniera processuale la creazione dell'uomo nuo­ vo in colui che è «rinato»: A.H. Francke parlò della necessità di sapere «come bisogna crescere nel cristianesimo, come i bambini devono diventare giovani e i giovani adulti» (FRANCKE, 100) . Di conseguenza si schierò a favore della prassi della confessione individuale quale mezzo di progresso spirituale .

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Una variante religiosa di quella svolta verso il soggetto, che caratterizza l'evo moderno? Ammetterlo non sarebbe sicuramente del tutto sbagliato . Infatti anche nel pietismo l'uomo cerca il proprio sé. Cerca di «divenire se stesso», come oggi noi diciamo, più ancora che di trovare se stesso. I pieti­ sti sono convinti che la grazia di Dio è un beneficio esistenziale per l'uo­ mo, un' autocomunicazione del Creatore che redime e che è veramente in­ teressato al processo di maturazione del credente . In questa direzione sem­ brano andare certe descrizioni del pietismo, che ne mettono in luce l' aspi­ razione all'esperienza di sé, l' aspirazione a sentire e soffrire se stessi, non­ ché il desiderio di non riporre più il vero sé, alla vecchia maniera luterana, anzitutto nell'extra nos, nella «giustizia aliena» di Cristo (cf. BAUR, 95- 1 10) . Zinzendorf parlò con accenti platonico-mistici del fatto che il giustifica­ to non ottiene semplicemente l'attribuzione, l' imputatio di ciò che solo in Cristo ha consistenza reale, bensì ottiene una sua propria realtà che appar­ tiene talmente al soggetto stesso come se fosse di natura fisica o meccanica (cf. BETTERMANN, 57s.) . Queste analogie richiamano altri elementi conte­ nuti nel patrimonio di idee dell'evo moderno e, in particolare, la sua lettu­ ra scientifica della natura nel senso materiale dell'espressione . In effetti qui la «grazia» sembra cadere nel contesto dell' «evoluzione». Come tutto il cosmo vivente si evolve, così si sviluppa gradualmente anche l'uomo nuovo nella grazia di Dio. Si verifica «un perfezionamento gradualmente ascen­ dente di tutta l'umanità e del singolo» (PETERS, in PP, 247) . In ciò sta l'o­ pera escatologica della grazia dello Spirito Santo, che non vuole creare so­ lo singoli uomini nuovi, ma, intorno ad essi, un mondo nuovo .

c.

Diversa interpretazione della giustificazione nell'illuminismo

È ovvio che la dottrina luterana della giustificazione non poteva rima­ nere indenne dove la filosofia kantiana della ragione critica, dell' empiri­ smo delle scienze naturali, della libertà autonoma e della moralità civile andava diffondendosi. L'uomo viene così a porsi ancora di più al centro di tutto. L'illuminismo vuole lasciarsi alle spalle anche determinate ombre della interpretazione tradizionale della grazia e tendere all' «autorealizza­ zione dell'uomo», «che sulla base delle sue possibilità e in un confronto critico con gli aiuti offerti arriva ad essere una figura in sé consolidata» (BAUR, 1 75). Pertanto l'uomo, anche quello «caduto», possiede proprie pos­ sibilità. Egli non è affatto un nulla davanti al proprio Creatore e Redento­ re. La sua ragione e la sua libertà lo autorizzano addirittura a verificare quegli aiuti, che gli vengono offerti «per grazia».

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La tradizione teologica e magisteriale

Si nega in questo modo la radicale dipendenza dell'uomo della grazia dalla giustificazione di Dio? Qui non sta in primo piano solo il soggetto capace di autodeterminarsi e addirittura di autoredimersi? La dottrina illuministi­ ca della giustificazione non si spinge sicuramente così lontano. In maniera simile a Pelagio (e seguendo il giovane Agostino) essa sembra piuttosto scor­ gere la grazia già nella creazione della natura umana e concepire la reden­ zione come riabilitazione della medesima. (Su una «prudente riabilitazio­ ne di Pelagio» cf. PETERS , in PP, 254) . La «natura» viene rivalutata sotto due aspetti. Primo, per esempio, in ]. G. Herder (t 1803) nel contesto di una teoria dell'evoluzione, in cui l'uomo è visto come «figlio di tutti gli elementi» e come «ultimo figlio prediletto» del mondo naturale, di conse­ guenza anche come «il primo liberato della creazione», che non solo cam­ mina eretto, ma può anche scegliere, indagare, valutare il bene e il male (SW, XIII, 146) . Il termine «natura», inteso così, non viene più usato per indicare qualcosa di inferiore, bensì per indicare quella forza, bontà e sa­ pienza che, in maniera quasi panteistica, coincidono con la divinità di Dio . In secondo luogo si conserva anche il senso metafisica di «natura» per in­ dicare l' «essenza», ma in maniera tale che la natura umana così intesa non è concepita come completamente «corrotta», bensì come una entità capace di compiere del bene e ricettiva nei confronti della grazia. La dignità dell'uomo capace di autodeterminarsi - quale fu illustrata non da ultimo da J .J. Spalding nella sua opera Bestimmung des Menseben ( = Destino dell'uomo) , pubblicata nel 1 748 (cf. PETERS , in PP, 249ss .) ­ fa sì che della giustificazione si possa parlare solo più nel senso di una coo­ perazione, di un rapporto cooperativo quasi paritetico fra libertà e grazia, in termini tecnici: «in maniera sinergetica». Di conseguenza cade il riserbo luterano nei confronti delle opere e della «santità delle opere». L'uomo è in grado di compiere da sé delle opere moralmente buone, in cui Dio si compiace, o - per dirla col linguaggio dell'Antico Testamento - opere che «trovano grazia» presso Dio (cf. una citazione di Spalding in questo senso, ivi, 25 1 s . ) . I teologi illuministi, nella misura i n cui pensano i n maniera sinergetica, attribuiscono all'uomo (di «peccatore» parlano ormai solo sottovoce) una partecipazione vera e propria alla propria giustificazione . E qui Cristo bal­ za in primo piano molto più come il Gesù di Nazaret, che bisogna seguire, che non come il Salvatore, la cui «giustizia aliena» viene attribuita «per grazia» al non giusto . Gesù è il modello per eccellenza del fedele che va eticamente progredendo. Alla sua sequela il giusto tende alla santità e alla fede nella grazia di Dio. E tale fede è, secondo J . H . Tieftrunk, «fiducia nella sapiente cooperazione di Dio al perfezionamento morale delle sue

Nell'epoca moderna e contemporanea

207

creature», perfezionamento nel corso del quale «noi facciamo quello che possiamo e confidiamo per il resto in Dio» (citato ivi, 253) . Dio è infatti pieno di bontà e «completa» per la nostra salvezza tutto ciò che da soli non siamo capaci di fare . In questa visuale il baricentro si sposta chiaramente dalla giustificazione alla santi/icazione, anzi quest'ultima sembra diventare la condizione della prima. Se la ragione naturale, la libertà, l' autodeterminazione sono viste in tal misura come dono della grazia del Creatore, i pagani, che ricevono solo una rivelazione naturale, non possono essere esclusi dalla salvezza. Quel che i suareziani cattolici pensavano nel contesto delle missioni, gli illuministi protestanti lo pensano sulla base di premesse filosofico-religiose, per cui affermano : «l pagani, che seguono meglio che possono la guida del lumen naturale, non si vedono negare il dono straordinario della grazia di Cristo. Nella loro illuminazione è all ' oper_a un elemento che va al di là delle possi­ bilità della natura e che va ascritto alla grazia di Cristo» (BAUR, 1 1 7) . La dottrina agostiniano-luterana del peccato originale non può essere ac­ cettata neppure per quanto riguarda i pagani. J.G. Tollner insegna chiara­ mente : «Nulla abbiamo perso in Adamo», perché non abbiamo peccato, non siamo diventati colpevoli in maniera collettiva. «Chi pecca, lo fa solo per sé e ne porta personalmente la colpa corrispondente» (citazione e com­ mento in PETERS, in PP, 254) . Il peccato appare qui di conseguenza es­ senzialmente come peccato attuale, che uno commette quando si comporta irrazionalmente e non tiene sotto controllo in misura sufficiente la concu­ piscenza e la stessa sensibilità naturale.

3. Bilancio

Innegabile è il tratto ottimistico della dottrina illuministica della giusti­ ficazione, dottrina che addirittura contraddice sotto molti aspetti l'impo­ stazione luterana. In particolare questa teologia ripudia una concezione della grazia centrata sul peccato . Ciò però viene in fondo poco incontro al dog­ ma cattolico. Qui la «giustificazione» cessa certo di essere l' articolo, con cui tutto sta o cade nel campo della salvezza, e balza in primo piano una grazia, che è già grazia della creazione e viene elevata come tale a dono della redenzione e del compimento. Essa però è troppo naturalizzata, uma­ nizzata, inserita nell'immanenza perché possa conservare la sua trascen­ denza rivelata nella Bibbia quale autocomunicazione indebita di Dio. Quan-

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do A. Peters afferma che Kant e Fichte avrebbero «attaccato il nucleo del messaggio protestante», la ragione di tale giudizio dovrebbe risultare evi­ dente in base a quanto abbiamo detto (PP, 2 8 1 ) . Posto che i due filosofi menzionati a mo' d'esempio abbiano influenzato in misura determinante e irrevocabile l'evo moderno, comprendiamo meglio perché il dibattito sulla giustificazione non sia arrivato a conclusione neppure oggi. Per quanto ri­ guarda le diverse accentuazioni, con cui esso fu portato avanti nel secolo XIX e xx, per esempio, da A. Ritschl, M. Kahler, K. Barth, P. Tillich e nei documenti di conferenze mondiali confessionali e interconfessionali, rimando alla esposizione di A. Peters (PP, 306-365 ) . Nella misura in cui tale dibattito è importante in ordine a una dottrina odierna della grazia, che tende ad essere sovraconfessionale o ecumenica, per esempio nel dialo­ go fra K. Barth e H . Kiing, verrà ripreso ancora una volta nella terza parte del libro . Per quanto riguarda la controversia cattolica de auxiliis e il dibattito sul giansenismo, i termini in cui le questioni erano poste sono completamente superati nella dottrina odierna della grazia, cosi come viene da me conce­ pita, sicché essi possono tutt ' al più essere ripresi in maniera frammentaria. Un'importanza permanente bisogna invece riconoscere alla impostazione suareziana, perché essa aiuta a tener salutarmente presenti le connessioni «grazia e missione» e «grazia in un contesto ecclesiale e sociale».

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parte terza

Dottrina sistematica della grazia

CAPITOLO PRIMO

LA SITUAZIONE ODIERNA DELLA DOTTRINA DELLA GRAZIA

l . Difficoltà linguistiche e contestuali

Il termine «grazia» nel suo significato teologico compare di rado nel lin­ guaggio corrente . Anzi, fino a qualche anno fa, la dottrina della grazia non stava in primo piano neppure nella dottrina e nella ricerca dogmatica della teologia cattolica del periodo postconciliare . Essa veniva relegata nella «an­ tropologia teologica» o ridotta ad essere una appendice della soteriologia quale parte della cristologia. Che sulla grazia di Dio non si predichi quasi più dipende, almeno in parte, dall'orientamento alla prassi della predica­ zione odierna; essa pone l' accento sulle motivazioni concrete dell' azione umana individuate dalle scienze umane e procede a una selezione corrispon­ dente di testi biblici. All a base di un simile discorso omiletico c'è molto più la fiducia nella forza della libertà e autodeterminazione umana che non, ad esempio, la convinzione che ogni azione buona è necessariamente resa possibile solo dal Dio benigno . Anche il teocentrismo biblico, che per «grazia» intende il Dio benigno stesso antecedentemente a qualsiasi riferimento antropologico all'azione, ha oggi vita difficile . Esso viene spesso rimosso dal problema della teodi­ cea, che di fronte alla sofferenza dell'innocente fa apparire problematiche proprio la benevolenza, la giustizia e la potenza dell'amore di Dio. Per quanto riguarda il cristianesimo, quale rappresentante del Dio biblico fra le reli­ gioni e le Weltanschauungen, alcuni pubblicisti parlavano ancora fino a po­ co tempo fa delle sue «conseguenze deleterie» per l' ambiente naturale, ri­ scuotendo al riguardo non pochi consensi. Un' altra difficoltà dell'odierna dottrina della grazia sta nel rovescio del dialogo ecumenico fra le confessioni, dialogo per il resto necessario: è la dottrina della giustificazione dei riformatori protestanti a fornire molte volte la chiave di interpretazione della dottrina della grazia, come se la grazia di Dio fosse semplicemente identica alla giustificazione del peccatore. Quan-

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do si procede così non sempre si riesce a evitare il pericolo di incentrare l' antropologia teologica sul peccato, nonché l'idea che la grazia del giudice divino coincida con la sua risposta perdonante il peccato. Quando ci si oc­ cupa in maniera preminente della miseria interiore dell'uomo e del suo im­ meritato superamento, la divinità di Dio balza solo confusamente in luce o viene addirittura ridotta alla sua funzione redentrice. A ciò si accompa­ gna a volte una scomparsa della tematica della creazione dal campo della dottrina della grazia, come se la creazione del mondo non rappresentasse la rivelazione originaria dell'interessamento benigno dell'eterno per l'uomo. Un pericolo tipicamente 'cattolico' si manifesta ancor sempre nella dif­ fusa tendenza a parlare di «grazie» soprattutto al plurale e nel senso di aiu­ ti implorati da Dio con la preghiera di domanda nel momento del bisogno: guarigione dopo una grave malattia, esperienze consolanti nei momenti di crisi spirituali, un incontro che rimette in cammino chi s'era arenato, ispi­ razione e capacità improvvisa di pregare. Queste possono essere senza dubbio concretizzazioni autentiche dell' amicizia di Dio per l'uomo, ma non esau­ riscono affatto il concetto biblico di grazia. L' albero può esser certo rico­ nosciuto solo dai suoi frutti e gustato in essi. Ma i frutti non costituiscono tutto l' albero . Sperimento certo il donatore nei suoi doni. Ma egli non è molto di più delle sue manifestazioni di favore da me sperimentate? Un ulteriore problema di una dogmatica, che cerca coerentemente di fon­ darsi sulla Bibbia, consiste nel ritrovare, al di là di un tecnicismo neoscola­ stico, che distingue fra numerose categorie di grazie, e una teoria dei mi­ steri, che oggettiva la «grazia» e la concepisce per così dire come un «flui­ do» (cf. per esempio le affermazioni della Costituzione sulla sacra liturgia: SC 10, 2 1 , 33, 47, 6 1 ), quel che la rivelazione testimoniata nella Scrittura intendeva con questo termine e coi suoi sinonimi. Di fronte a un simile antropocentrismo, per quanto ben intenzionato, non stupisce poi che le persone non religiose e non praticanti sentano il discorso della grazia come parte di un linguaggio teologico o spirituale eso­ terico . Anche per quel che riguarda il suo contenuto esso urta in loro con­ tro un profondo scetticismo. Non suona infatti particolarmente irrealisti­ co in un mondo, in cui si procede e si deve procedere con così poca grazia e in maniera tanto spietata, se ci si vuole imporre e aver successo, superan­ do la· concorrenza di tutti contro tutti? Il teologo si vede allora tacciare di ingenuo ottimismo, di idealismo chimerico, specie se per sua sfortuna utilizza addirittura un linguaggio lirico per parlare dell'effetto salvifico delle intenzioni, della vita e dell'azione di Dio o dell'uomo .

La situazione odierna

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2. Possibili punti di aggancio

Ciò malgrado la situazione non pare sfavorevole a abbozzare sistemati­ camente un discorso nuovo e aggiornato sulla grazia di Dio . Infatti, se da un lato constatiamo realisticamente che le relazioni interumane, interses­ suali, sociali e internazionali sono per molti versi spietate, dall' altro con­ statiamo anche che va oggi aumentando il desiderio di una maggiore uma­ nità. Nel nostro tempo, segnato da tante guerre e tanti pericoli di guerra, i popoli aspirano spontaneamente alla pace. Non diversa è la situazione del­ l'individuo, che sradicato, isolato, costretto a dividersi nei suoi molti ruo­ li, vive nell'inquietudine interiore. Ove si riesce a render credibile la veri­ tà di fede che la sospirata maggior umanità può essere solo opera di Dio, il tema della «grazia di Dio» acquista un senso nuovo. Qui la «nostalgia del totalmente Altro», spesso tematizzata da filosofi non cristiani, gioca un ruolo non insignificante . Il totalmente Altro, che aiuta l'uomo a auto­ superarsi e a trovare senso, non può essere sempre, e soprattutto non per ciò che è in ultima analisi decisivo, solo una utopia, un programma, il fine di una pianificazione, un ideale . Esso deve avere tratti che solo il total­ mente Altro analogamente personale può possedere, altro che diventa spe­ rimentalmente accessibile il più delle volte nel prossimo amato o invidiato, per così dire attraverso una rappresentazione vicaria. Viene da domandar­ si: nella società secolarizzata il posto di questo totalmente altro non è forse non occupato e quindi libero per un Dio benevolo? Un altro punto di aggancio sembra essere costituito dalla inquietante espe­ rienza della distruzione della creazione . Una svolta delle società industria­ lizzate, di fronte ai problemi dello sviluppo del nostro tempo, viene sem­ pre più auspicata da spiritualità tolleranti, contemplative, meditative, che vanno diffondendosi anche in seno a civiltà altamente tecnicizzate . Al di fuori di esse ben poco induce infatti l'uomo a rispettare abitualmente la natura, anche già solo a percepirne il valore autonomo e specifico al di là della sua utilitarietà. Viene quindi spontaneo domandarsi se non si possa praticare in maniera adeguata un simile comportamento 'grazioso' verso l' ambiente tramite la fede nel Dio creatore della Bibbia, che si rivolge in maniera rispettosa verso tutte le creature . Una terza possibilità di parlare della grazia di Dio nel contesto odierno è forse racchiusa nel campo della ricerca sulla creatività (cf. Ganoczy / Schmid nella bibl. ) . Come hanno dimostrato a sufficienza le testimonianze bibli­ che, il Dio della Bibbia è caratterizzato dalla gratuità sia come creatore, sia come liberatore e perfezionatore. La sua attività mira certo sempre al tra-

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guardo finale della 'salvezza' , ma le sue singole azioni non presentano al­ cuna traccia di utilitarismo. La sua azione creatrice ha il carattere del gio­ co, dell'inventiva, della sorpresa, del dono gratuito . In questo contesto po­ tremmo senza remore permetterei di parlare di «gioco della grazia», perché questo Dio non chiama solo all'esistenza un'immensa varietà di forme, specie e culture, ma anche verso il male e le negatività della creazione dimostra un comportamento, che non ha nulla a che fare con una riproduzione mec­ canica o una reazione automatica. Tutto avviene piuttosto gratuitamente e in maniera indebita, appunto come creazione per grazia e come grazia creatrice. Le forze, che oggi si ergono numerose contro una razionalità uti­ litaristica onnipresente, potrebbero scoprire qui una analogia divina. Accanto a queste possibilità piuttosto extrateologiche di aggancio, oggi sembra che ve ne siano anche di intradogmatiche . A mo' d'esempio men­ zioniamo solo le seguenti: ripresa della riflessione sulla Trinità, che rende possibile una interpretazione teocentrica dell'amore; l'interesse per il mes­ saggio etico di Gesù, quale si può desumere anche dal suo modo pieno di grazia di comportarsi con i suoi contemporanei, in specie con i poveri, gli infermi, i piccoli e i peccatori; la riscoperta della pneumatologia unitamen­ te alla corrispondente spiritualità di tipo carismatico; infine la già menzio­ nata nuova sensibilità per la tematica della creazione e la mistica. Alla luce di questi pochi spunti sembra opportuno considerare la grazia come il concetto sintetico di tutta la relazione Dio-uomo, come il luogo teorico in cui si possono tematizzare in maniera adeguata sia il Dio rivolto verso gli uomini sia il rivolgersi dell'uomo verso Dio . In maniera analoga al doppio comandamento dell' amore, che riassume «tutta la legge e i profe­ ti», l'idea della grazia così intesa mette in relazione reciproca fra di loro il Creatore, la creatura e il prossimo, e questo nei nostri contesti contem­ poranei. Concordo pertanto con O . H . Pesch, quando afferma che la gra­ zia non è «un tema speciale della dogmatica, ma un aspetto fondamentale di tutti gli oggetti teologici» ( in PP, 76) . Di conseguenza il mio tentativo di una dottrina sistematica della grazia si articola nei temi seguenti: (a) Dio nel suo essere rivolto verso l'uomo, (b) l' uomo nel suo rivolgersi a Dio, (c) la realtà della grazia di Dio nell'uo­ mo, (d) la sua realtà nel popolo di Dio, (e) tesi conclusiva sulla grazia come autocomunicazione del Dio trino all'uomo per permettergli di divenire se stesso.

CAPITOLO SECONDO

DIO NEL SUO ESSERE RIVOLTO VERSO L'UOMO

I termini veterotestamentari, che descrivono Dio e la sua relazione con gli uomini (e che nella dottrina cattolica e protestante corrente della grazia sono ancor sempre troppo poco considerati) , derivano in larga misura dal campo profano. l:Jen è la qualità di un potente, che mostra benevolenza e favore verso uno più debole, baesaed è l' amicizia e la bontà fra uomo e uomo , 'ahabii è in ultima analisi l' amore intersessuale, rabamfm un senti­ mento di compartecipazione scaturente dal cuore e originariamente mater­ no, la �ediiqii è la fedeltà alla comunità. Tutti possono essere definiti co­ me atteggiamenti di fondo, tutti favoriscono la convivenza umana. Ado­ perati in senso teologico, essi illustrano in molteplici contesti la rivelazio­ ne di un Dio che è per sua natura rivolto verso gli uomini, che tende a legarsi a un popolo di uomini, a estendere su di loro la sua sovranità, anzi a divenire lui stesso uomo .

1 . La grazia come atteggiamento fondamentale di Dio

Il modo in cui il Nuovo Testamento ha recepito il materiale veterotesta­ mentario mi induce a sussumere, nel mio tentativo sistematico, tutti i con­ tenuti dei termini menzionati sotto l'unico termine e concetto di «grazia di Dio» e a utilizzarli per illustrare la ricchezza di questo. Poiché il dato della rivelazione nel suo complesso parla di qualcosa di radicale e fondamentale nel comportamento del Benevolente, Buono, Aman­ te, Misericordioso e Giusto fedele alla comunità, sembra che possiamo ra­ gionevolmente affermare che la grazia è un atteggiamento di fondo di Dio. Essa è cioè - per dirla in termini tomistici - una specie di habitus che, saldamente ancorato nell'essenza dell'agente, rende possibili e sorregge tutte le sue azioni, senza risolversi mai in esse, neppure nella loro somma. Ai

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nostri occhi le manifestazioni attuali della grazia di Dio potranno anche venir a mancare per breve o lungo tempo, Dio comunque rimane l'eterna­ mente «Grazioso». L'esperienza di questa benedizione potrà per un certo tempo venir concessa solo a un popolo eletto, ciò malgrado però la benevo­ lenza di Dio conserva il suo orientamento assolutamente universale. Essa è come un permanente interesse per i destini degli uomini (aspetto escluso dall'idea deistica dell'indifferenza divina) o come una disponibilità a ma­ nifestarsi continuamente come «}ahvè», cioè come l' «lo sono presente» e «lo sarò presente». Essa è presenza imperitura dell'onnipotenza proesistente, come risulta dall' affermazione teologicamente densissima di Es 34,6: «}ah­ vè è un Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fe­ deltà». Sembra oggettivamente legittimo vedere nella basiléia, nella sovranità regale di Dio fattasi «vicina», che rappresenta una buona notizia perma­ nente per gli uomini (Mc l , 15), la manifestazione specificamente neotesta­ mentaria della grazia quale atteggiamento fondamentale di Dio. Essa in­ fatti è qui e sarà presente fintanto che la storia durerà, pronta a rivolgersi a sempre nuove generazioni, a prendersi cura di loro e a agire su di esse. Se poi teniamo presente l' antica convinzione della fede cristiana che la ba­ siléia ha trovato il suo compimento escatologico nelle parole, nelle azioni, nella passione e risurrezione di Gesù, allora comprendiamo i Padri, che scor­ sero in Cristo la grazia in persona.

2. Dio crea nella grazia

Molte indicazioni della tradizione inducono a concepire la grazia non solo come momento dell'ordine della redenzione, bensì già come momento dell'ordine della creazione . K. Barth colse il nucleo di una tradizione risa­ lente, tra gli altri, a Ireneo, Pelagio e Agostino, quando scrisse che l'uomo sta nella grazia, nella «grazia universale dell" essere'», già in virtù della sua creazione (KD, lV/1 ,8; cf. lii/2 , 4 1 9 s . ) . Solo come azione bara di Jahvè, come atto della sua onnipotenza (cf. GA­ NOCZY, Schopfung, 26-3 1 ; trad. it . , 2 1 -26) , la creazione non potrebbe an­ cora essere detta una manifestazione della grazia nel senso vero e proprio dell'espressione . Ciò diventa possibile soltanto se, per esempio con Tom­ maso d'Aquino, ci convinciamo che Dio ha causato il mondo per amore (cf. S. th. , l/II, q. 1 1 0, a. l ad 1), esattamente come poi ha concesso la gra-

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zia all'uomo (cf. De ver. , q. 27, a. 1 ) . Più a fondo ancora va la tesi scotista, secondo la quale Dio, essendo di per sé amore che dona, ha creato gli uo­ mini per avere oggetti non divini cui dedicarsi, anzi partner creati capaci di amare. K. Rahner si esprime in maniera simile: «Dio vuoi comunicarsi, effondere il suo amore, che è egli stesso [ . . . ] . E così crea colui che egli può amare : l'uomo. Lo crea in modo che possa ricevere l' amore, che è lui stes­ so» (RAHNER, I, 336s . ; trad. it . , 64) . Al medesimo impulso divino si de­ ve, secondo Scoto, anche l'incarnazione del Figlio di Dio . Essa corrispon­ de già a un disegno eterno del Dio che ama l'uomo e non solo alla sua deci­ sione di salvare i peccatori. Il Figlio di Dio sarebbe divenuto uomo anche senza la caduta nel peccato : incarnatio e creatio procedono su un'unica e medesima strada, quella della caritas. Oltre a questa convinzione anche una analisi della �ediiqa veterotesta­ mentaria autorizza a concepire la creazione come una manifestazione di grazia. Dio, essendo il giusto per eccellenza, la cui giustizia dura in eterno e non mostra falle, vuole un mondo giusto e in esso una umanità giusta. Il documento sacerdotale va in questo senso, quando nel suo racconto del­ la creazione ripete: «Dio vide che era cosa buona» (Gn l , 4. 10. 12. 1 8 .25) e, dopo la creazione dell'uomo, aggiunge : «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gn l , 3 1) . Tommaso afferma similmente che l' amore di Dio causa la bontà di ciò che esso chiama all'esistenza (cf. S. th. , l/II, q. 1 10 , a. l , resp . ) . L a �ediiqa di Dio, origine creatrice di ogni giustizia, si crea per grazia e in maniera libera un interlocutore corrispondente ed entra con lui in co­ munione . In questo processo essa si dimostra nel medesimo tempo fedele alla comunità e, diventando propria del partner creato, lo feconda e lo prende al proprio servizio. Così prende al proprio servizio per esempio il Servo di Dio: «Ti ho formato e stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni» (Is 42 ,6) . Tale 'giustizia' tende naturalmente a rendere creativa­ mente giusto il non ancora giusto. Perciò possiamo affermare: Dio crea nella grazia; egli crea nella grazia l'essere e l'essere giusto.

3. Dio è sgspe

La riconduzione dell'interessamento benevolente di Dio per gli uomini al suo essere agape, divenuto sperimentabile in Gesù Cristo, raggiunge il suo apice nella letteratura epistolare neotestamentaria. Essa segna un pro-

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Dottrina sistematica della grazia

gresso decisivo della rivelazione . Ora non è più possibile parlare in manie­ ra indifferenziata, nel senso della equivoca 'ahabii, dell' amore di Dio e ve­ dere solo in esso la motivazione della creazione del mondo. Agape è un ter­ mine univoco . Esso indica un amore prodigo, che spinge colui che ama a autocomunicarsi e autodonarsi. Certo, l'agape può anche integrare nella pro­ pria dinamica l' éros bramoso e la philia amichevole e costituire con essi sva­ riate costellazioni. In tal caso però essa domina gli altri due e li mette per cosl dire al servizio dei fini che persegue con la propria azione . Ancora più chiara diventa l'immagine dell'agape per il fatto che essa vie­ ne attribuita all'essenza di Dio . L'agape divina si distingue da quella uma­ na già per il fatto che solo Dio può essere di per sé un amore del genere, mentre l'uomo la può solo e sempre avere, qualora l' abbia ricevuta in misu­ ra sufficiente. Altre qualità dell'essere-agape del Dio propizio, divenuto spe­ rimentabile in Cristo, saranno prese in considerazione cammin facendo. Prima però è opportuno precisare ancora una volta l'orizzonte attuale della comprensione per dire brevemente che cosa l'agape non è e che cosa l'uomo moderno non deve temere da una corrispondente teologia della grazia. L' amore qui in questione non è una condiscendenza paternalistica dell'On­ nipotente, condiscendenza che, alla maniera di quella degli uomini, non potrebbe perdere i suoi tratti autoritari . Nel caso limite la condiscendenza non andrebbe al di là di donazioni dal sapore di elemosine e non permette­ rebbe al donatore di prender parte al destino del ricettore . Oppure una simile liberalità autoritariamente motivata equivarrebbe a una umiliazione dei beneficati, perché ne metterebbe eventualmente in luce senza pietà la miseria. Un simile amore generoso non avrebbe riguardo della dignità del­ l'uomo, per esempio del povero, e potrebbe ridursi semplicemente a un' au­ toglorificazione del donatore . In maniera simile cerca la propria soddisfazione anche colui che si dedi­ ca all' altro mosso da un eros interessato . Pure questo esclude l'agape divi­ na. Essa si volge all' altro non per il misero bisogno di guadagnarlo, gustar­ lo, farne l'oggetto del proprio appagamento . Dio, che è agape, non ha bi­ sogno degli uomini nel senso di una necessità irresistibile, quasi che senza di essi egli fosse condannato alla solitudine. Egli vuole averne bisogno, perché li ha eletti a condurre con lui, quali interlocutori liberi dell' alleanza, il dia­ logo della libertà. Infine l'agape, che Dio è nella sua grazia, non è scambiabile con un amore universale indefinito. Essa non consiste affatto in una cordialità che si ir­ radia senza distinzione su tutto e ancor meno in una bonarietà e tolleranza che passa sopra a tutto . Non è semplicemente una filantropia, ma un amo­ re forte e esigente, che fa appello alla responsabilità morale di coloro che

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amano con essa e vuole che assimilino la sua propria responsabilità. Quel che ora ci rimane da dire in senso teologico positivo lo possiamo illustrare esemplificativamente mediante tre affermazioni della rivelazione neotesta­ mentaria: Dio è agape eleggente; è colui che si comunica per eccellenza; il suo amore è all'opera anche nel giudizio; e tutto ciò avviene nella grazia.

a.

L 'Eleggente

L'agape si manifesta in partenza come amore liberamente eleggente, mai quindi come pulsione cieca e irresistibile . Essa elegge il suo oggetto e non lo scambia con altri. Il momento del discernimento è in lei costitutivo, co­ sa che conferisce all' essere rivolto di Dio verso l'uomo una chiarezza insu­ perabile. L' elezione divina non ha nulla in comune con una selezione secondo leg­ gi darwiniane o altri criteri concorrenziali. Ciò è testimoniato già dalla no­ ta affermazione della tradizione deuteronomica, che suona come una lode d'Israele per la grazia di Jahvè : «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli - , ma perché il Signore vi ama» (Dt 7, 7s.), per questo ha deciso così. Di qui risulta chiaro quanto Dio scelga in maniera diversa dall'uomo preso nella sua normalità naturale . Egli sceglie ed elegge per grazia e spezza così le leggi, che altrimenti codeterminano il mondo della natura da lui creato . La sua decisione si fa gioco del principio, secon­ do cui a sopravvivere sarebbe il più capace, il più forte, il più sano e dimo­ stra come solo apparentemente esso sia valido in maniera assoluta. Quanto l'elezione gratuita di Jahvè fece sperimentare ad Israele anticipa la predile­ zione di Gesù per i poveri e i più piccoli e contribuisce a chiarire in manie­ ra decisiva l'agape divina. Israele è chiaramente un oggetto collettivo di tale amore eleggente . Es­ so abbraccia anzitutto le singole persone solo nella cornice del popolo o in ordine ad esso : in questo secondo caso il più delle volte si tratta di per­ sonalità eminenti, perché operanti su mandato di Jahvè. Solo nel Nuovo Test amento questa attività di Dio si rivela in forma sempre più personaliz­ zata, fino a culminare, per esempio, nelle parole del Gesù giovanneo, che conosce individualmente i suoi: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché [. . . ] portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 1 5 , 16) . T ali parole non vanno interpretate come una affermazione di principio del privilegio esclusivo del Maestro di chiamare i discepoli. Esse rimanda-

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no piuttosto alla grazia divina che sta dietro le sue decisioni, grazia cui spetta naturalmente l'iniziativa creatrice in ogni relazione fra Dio e l'uomo . Essa è quell'agape con cui Dio ama sempre «per primo» (cf. 1 Gv 4, 10), il prius di cui Dio non può mancare senza cessare di essere Dio . Quanto però il rapporto di amore, che ha la sua base in una tale iniziativa eleggente, non voglia rimanere unilaterale risulta dalla menzione dei frutti che, in virtù della destinazione creatrice, anche gli amati debbono portare. Il contesto mostra eloquentemente che tali frutti sono atti di amore di Dio e del pros­ simo liberamente compiuti da parte dei seguaci di Gesù . Nella medesima direzione va la lettera agli Efesini: «Siamo opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo» (E/ 2 , 10) . Certo, l'elezione di Dio presenta un aspetto determinante, anzi prede­ terminante. Anche questo è un distintivo della sua libertà assoluta, cui la storia della creazione iniziata col tempo non impone alcun limite. Ogni per­ sona cara a Dio viene eletta eternamente, cosa che l' autore della medesima lettera cerca di spiegare in un altro passo con l'espressione per forza di co­ se dal sapore antropomorfico : «Prima della creazione del mondo» (E/ 1 ,4) . In maniera simile Paolo dice che i figli di Rebecca sarebbero stati «pre­ destinati» «prima della nascita» dalla libera elezione di Dio al ruolo che avrebbero svolto nella loro vita (Rom 9, 1 1 s . ; cf. 2 Tim 1 , 9) . Tutto ciò ri­ badisce continuamente la libertà e l'eternità dell'Eleggente. Del resto po­ trebbe forse non essere così? Dio sarebbe ancora l'eterno e il libero, se la sua volontà dipendesse dalle nostre azioni temporali e condizionate? Noi moderni temiamo certo molto meno di Agostino che vengano offuscati questi aspetti della divinità di Dio, mentre temiamo molto di più che venga limi­ tata la nostra autonomia e autodeterminazione . Di conseguenza tendiamo anche a fare del tema della «predestinazione» lo spauracchio di una dottri­ na disumana della grazia, a vedere in esso l'idea che gli uomini sarebbero come marionette in mano a un burattinaio divino . Il fatto che si sia potuto arrivare a pensare così è frutto, dal punto di vista storico-culturale, della teoria della doppia predestinazione elaborata da Agostino (cf. sopra 1 2 1 ss.) e da C alvino e radicalizzata soprattutto dai calvinisti. Tuttavia già alcune proposizioni della lettera ai Romani possono aver dato adito ad essa (cf. sopra 69ss . ) . Ricordiamo solo l'essenziale di tale teoria: Dio si vede posto di fronte a una umanità peccatrice e colpevo­ le, che lo odia; la sua posizione giuridica e la corrispondente giustizia com­ mutativa legittimano una riprovazione collettiva di questa umanità; solo la sua grazia lo spinge a eleggere una parte di essa in considerazione dei meriti di Cristo . Alla ricerca odierna risulta però chiaro che una simile si-

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stematizzazione del tema dell' elezione non tiene conto di tutti i dati del Nuovo Testamento e non corrisponde ad essi. Qui l'elezione di Dio non appare come una rimozione parziale dell'offe­ sa da lui subita e quindi come un atto radicalmente arbitrario . Essa è piut­ tosto una proprietà dell'agape, che vuole la salvezza degli uomini in ogni caso, con o senza il frapporsi del peccato. Anche la «predestinazione» (un termine analogico !) ad essa corrispondente è totalmente caratterizzata dal­ l' amore indistruttibile dell'Eterno . Che esso lasci mancare in pericolo di morte l' aiuto a una massa di peccatori e faccia così regnare solo la giustizia è cosa che non risulta né dalla lettera ai Romani, presa nel suo insieme, né dalla lettera agli Efesini . L'origine di simili speculazioni va forse ricer­ cata in determinati rabbini contemporanei dell'Apostolo. Le due lettere tematizzano l'elezione e la predestinazione complessivamente in maniera positiva. Paolo formula così quanto esse intendono propriamente dire (le virgolette sono mie) : «Quelli che egli ha 'da sempre' conosciuto li ha anche 'pre' destinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo» (Rom 8,29) . E in maniera simile la lettera agli Efesini: egli ci ha «'pre' destinati ad es­ sere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia» (E/ 1 ,5). T ale «predestinazione» piena di amore non esclude però affatto che de­ terminati uomini la rifiutino, sia perché la ignorano - e questo è senza dubbio il caso più frequente, per esempio, fra gli atei -, sia per odio con­ tro il Dio biblico . Qui rientra anche il principio da tener presente sul pia­ no pastorale : Nessun uomo è costretto a salvarsi ! La grazia di Dio non vio­ lenta la libertà di decisione dell'essere spirituale finito, ma le si offre con­ tinuamente in maniera vincolante, anzi «imperiosa», perché lo fa già col comandamento dell' amore. Del resto vige in questo campo la dottrina dog­ matica della «permissione da parte di Dio» (cf. GANOCZY, LKD, 569s . ; trad. it . , 49 1 s . ) . Forse, di fronte alla tragedia della grazia rifiutata, potremmo ancora ag­ giungere quanto è stato scritto, con felice formulazione, da K. Barth: Dio elegge l'uomo, affinché l'uomo elegga lui (KD, II/2 , 1 98) . Se l'uomo non elegge Dio, o lo elegge temporaneamente, o lo respinge addirittura con una decisione definitiva, non per questo la sua elezione da parte di Dio cessa. Essa rimane piuttosto eternamente e, da un punto di vista storico, aperta verso il futuro, pronta a suscitare e sostenere ogni rinnovato sl di colui che s'è allontanato da Dio . La storia dell'elezione coincide con la storia della creazione, della redenzione e del compimento finale dei singoli e delle co­ munità, e l'agape di Dio fa sl che il tutto abbia un futuro davanti a sé.

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b. Colui che si comunica Un altro aspetto dell'agape consiste nell' autocomunicazione divina. Pao­ lo, quando afferma che l' amore di Dio «è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rom 5 ,5), pensa a ciò che accade quotidianamente a tutti i battezzati e che li riguarda sempre personalmente. Non si tratta primariamente e in linea di principio di qual­ che dono di Dio, ma del Dio che dona se stesso. O, tenendo conto del con­ testo triadico della dottrina paolina, si tratta dell'unica essenza di Dio (cf . RAI-INER, I, 362; trad. it. , 148) , dell'agape, che è detta contemporaneamente agape di Dio (Rom 8,39), agape di Cristo (8,35) ed è effusa mediante lo Spirito Santo (Rom 5 , 5) . Non una parte di questo amore è qui presente per il credente (cf. Rom 8,3 1) e gli viene comunicata, bensì la sua totalità nella sua lunghezza, ampiezza e profondità incommensurabili. Oggetto del­ l' autocomunicazione divina non è l'io sempre personale del Padre, del Fi­ glio e dello Spirito Santo, ma l'essenza loro comune, potremmo dire: il lo­ ro «sé essenziale», l'agape. D'altra parte la realtà comunicata raggiunge l'uo­ mo in virtù della mediazione personale di Gesù Cristo e dello Spirito San­ to, attraverso cui arriva al centro della persona. Paolo dice che l'agape è «riversata nei nostri cuori» e ciò richiama l'immagine di un fluire, una im­ magine la cui idoneità per indicare autocomunicazioni propriamente indi­ viduali dovrebbe apparire problematica, perlomeno a una moderna filoso­ fia della persona. Pertanto possiamo concludere: l' autocomunicazione di Dio avviene sì mediante le due persone inviate dal Padre, ma il suo ogget­ to è l'unica essenza, cioè il comune essere-agape del Dio trino . Ma già per questo tale oggetto manifesta una esemplarità antropologica particolare. Esso rappresenta un modello assoluto per le relazioni interumane : anche esse devono divenire concrete in incontri da persona a persona, ma in ma­ niera tale da impegnare contemporaneamente la profondità dell'essenza di tutti i partecipanti. La tradizione giovannea, che definisce similmente, anzi in maniera an­ cora più esplicita, Dio come agape ( 1 Gv 4 , 8 . 16b) , presenta delle accen­ tuazioni un po' diverse . Qui vale il principio dell' «immanenza reciproca» (R. Schnackenburg) : come i partner dell'agape divina sono e rimangono gli uni negli altri (Gv 14, 10s.20), così anche Cristo (Gv 14,20; 1 7 ,26) e il Pa­ dre suo (Gv 14,23) devono rimanere nei discepoli e viceversa (Gv 15 ,5s. ; 1 Gv 2,24) . Questa mutua inabitazione, questa pericoresi personale divino­ umana non è naturalmente altro che il compimento dell'agape: «Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» ( 1 Gv 4, 16) . Anche in questa concezione lo Spirito Santo compare come il rivelatore perma-

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nente di questo mistero: che Dio «dimora in noi» lo «conosciamo dallo Spirito che ci ha dato» ( l Gv 3 ,24; Gv 14,26; 15 ,26; 16,7- 15) . Infine questo indi­ cativo teologico trapassa nel corrispondente imperativo etico : «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l' amore è da Dio» ( l Gv 4, 7) . Come la circolazione fa arrivare il sangue in tutto il corpo, così l'essenza agapica di Dio, che egli comunica per grazia, permea la società umana, i cui mem­ bri credono in lui. Per spiegare questa verità Tommaso d'Aquino porta un esempio desun­ to dal mondo fisico : la presenza di Dio nel giustificato non rimane senza tracce, così come l'irradiazione del sole si riverbera sugli oggetti irradiati (cf. S. th. , III, q. 7 , a. 1 3 resp . ) . Nella descrizione dell' autocomunicazione divina i paragoni biologici e fisici vanno però adoperati con molta cautela, se non vogliamo oggettivare in maniera indebita realtà relazionali, fare della grazia un 'fluido' oppure un'energia misteriosa. Per questo motivo va salu­ tata con favore la formula di P. Galtier, che all'idea del se communicare di Dio fa immediatamente seguire quella del suo se coniungere e indica co­ me soggetto di questa azione le tre persone (GALTIER, n. 456, citato da RAHNER, I, 368; trad. it. , 1 5 7) . In effetti l'uomo riceve solo attraverso la mediazione delle persone divine l' autocomunicazione per grazia dell'essenza divina. Di qui ne segue anche che, sulla base dell'agape, vediamo una comunio­ ne non solo nel «mittente» di tale comunicazione, bensì anche nel suo «de­ stinatario». Ciò non significa necessariamente ricadere in una specie di col­ lettivismo della grazia, per il quale la condizione e la situazione personali del giustificato sarebbero insignificanti. Una simile prospettiva richiama piuttosto il fatto che il Dio trino, quale comunione insondabile dei distinti consustanziali, comunica la sua essenza comune in maniera tale che il de­ stinatario, nell' accoglierla, si senta a sua volta un essere comunitario, ri­ manga aperto ai più diversi codestinatari della grazia e accolga con gratitu­ dine il servizio che essi svolgono nella comunicazione della grazia. In que­ sto modo l' autocomunicazione dell'agape non crea solo individui perfetti, ma genuine comunioni, una comunità e una Chiesa unite da amore frater­ no , ove la multiformità non è un ostacolo per l'unità e la diversità dei sessi o delle opinioni non pregiudica, per esempio, la parità dei diritti. La gratuità assoluta dell' autocomunicazione di Dio diede spesso adito già nell'Antico Testamento a temere che l'Onnipotente potesse agire in maniera arbitraria e manifestare la sua libertà illimitata senza tenere in al­ cun conto gli sforzi dei singoli che lo cercano . Lo scandalo stigmatizzato da Giobbe : benedizione per gli empi, sofferenza per i giusti, o l'immagine del vasaio, che con l' argilla fabbrica a piacimento «vasi d'ira» e «vasi di

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misericordia» (cf. Rom 9,2 1-23), si annidano tutt'oggi nelle idee che ci fac­ ciamo di Dio . Per rispondere a questo aspetto del problema della teodicea può essere utile in qualche modo la distinzione fatta da Duns Scoto fra la potentia absoluta e la potentia ordinata dell'Onnipotente (cf. sopra 155s.) . In sé, nella sua «immanenza» eterna, la potenza di Dio è assoluta, cioè non vincolata, per cui può realizzare o lasciare irrealizzata una serie infinita di possibilità, nella misura in cui ciò non contraddice al fatto che egli è amo­ re . Nel momento però in cui egli trascende la propria eternità in direzione del tempo e della storia, frutto del suo amore, e si trascende quindi per così dire verso il basso, la sua potenza divina si impone un ordine e diventa «potenza ordinata». In altre parole : Dio, con l' atto della sua autocomuni­ cazione, si lega liberamente agli uomini. Ciò avvenne in maniera unica nel­ l'incarnazione del Figlio di Dio, incarnazione spintasi fino alla morte in croce . Là Dio, come scrisse bene K. Barth, divenne sibimetipsi /ex (KD, II/ l , 422-45 7 ; cit . da KONG, 65 ; trad. it. , 68-69) , fece di sé la legge di se stesso. In un altro passo Barth afferma che così Dio si è contemporanea­ mente assunto la responsabilità della sua creazione caduta (KD, II/2 , 18 1), e precisamente in un modo che il problema universale e teoretico della teo­ dicea può solo più ammutolire (cf. GANOCZY, LKD, 489-49 1 ; trad. it . , 679-68 1 ) . In realtà tale questione fu ripresa d a Albert Camus al cospetto del Crocifisso : ove Dio si comunica in questo modo, lì l'ordine della soffe­ renza immeritata penetra nel cielo e lo libera dalla maledizione dei soffe­ renti (cf. L 'uomo in rivolta, Milano 1 95 7) .

c.

Il giudice

A prima vista può sembrare un'impresa arrischiata motivare anche il giu­ dizio divino con l' agape. Ma proprio quello che abbiamo appena detto la­ scia aperta questa possibilità. Io la formulo provvisoriamente e a mo' di tesi così: quando il Dio Figlio prende per amore su di sé il destino di morte in favore dei colpevoli, in lui il giudice e il giudicato sono strettamente uniti e uno rappresenta per così dire vicariamente l' altro . Dobbiamo tuttavia scavare più a fondo, se vogliamo cogliere alla radice la possibilità di pensare insieme l'agape e il giudizio, nella misura in cui in questo mistero c'è qualcosa di comprensibile. Da punto di partenza ser­ ve qui di nuovo il fatto che Dio è creatore . Il mondo, da lui creato per amore, è divenuto in larga misura un mondo spietato, per cui egli non può fare a meno di pronunciare su di esso un giudizio sfavorevole . L'essenza dell'agape creatrice esclude che essa possa non condannare ciò che le si op-

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pone . Una simile indifferenza del Creatore risulta tanto più impensabile quanto più si riflette che il peccatore finisce per distruggere se stesso nel vero senso dell'espressione (cf. K. BARTI-1, KD, IV/ l , 44 1s.), anche se vi­ ve nell'illusione di autorealizzarsi. Il peccato, in quanto allontanamento da colui che ama e ha cura dell'uomo, da colui senza il quale l'uomo non esi­ sterebbe, può solo condurre a una diminuzione dell'essere di questi e, di conseguenza, anche a una diminuzione di umanità nel mondo. Esso pone il nulla al posto dell'essere . L' autore di tutto l'essere deve riprovare una cosa del genere . Se non lo facesse, la sua autocoscienza di Creatore verreb­ be svuotata, oppure egli lascerebbe via libera all'indifferenza verso la pro­ pria opera. Ma proprio a ciò si oppone il suo essere-agape. Egli ama real­ mente la sua creazione, deve per forza di cose condannare e combattere la diminuzione che essa si è inferta. A questo Paolo sembra pensare, quan­ do parla dell'«ira» di Dio (Rom 1 , 1 8) : nessun moto istintivo dell' animo, nessun cedimento a sentimenti di offesa, ma il primo passo oggettivo e so­ brio in direzione dell' aiuto, del ristabilimento, della nuova creazione e, in questo senso, primo passo che è un giudizio . Come il medico, quando fa la diagnosi di una malattia, dei suoi sintomi e delle sue cause, pronuncia propriamente un giudizio, e precisamente un giudizio in un primo momen­ to negativo e critico, cosi possiamo rappresentarci anche la reazione giudi­ cante dell'agape nei confronti del danno subito dalla creazione . Naturalmente questo giudizio colpisce direttamente il peccato e solo in­ direttamente il peccatore, nella misura in cui il peccato gli appartiene. Dio odia il peccato, ma continua ad amare instancabilmente il peccatore. Per questo, secondo Paolo, il giudizio d' ira sull' azione cattiva si trasforma nel giudizio di grazia sul malfattore (cf. Rom 3 ,24) . Entra in azione la «giusti­ zia di Dio», che consiste essenzialmente nella fedeltà alla comunità delle creature e che coincide quindi oggettivamente con l'agape. Un aspetto importante dell'azione giudiziaria di Dio va visto nel fatto che essa fa partecipare il colpevole al giudizio su se stesso . Essa permette l' autogiudizio a colui che vuole di nuovo rimettersi in cammino, perché arrivi ad essere se stesso in Dio . Paolo allude a una cosa del genere, quan­ do definisce il fedele che si accosta in modo «indegno» (l Cor 1 1 ,27: ana­ xios) alla cena del Signore, cioè senza la corrispondente agape fraterna, come uno che si attira «la propria condanna» (v. 29) , letteralmente come uno che mangia e beve il giudizio . In maniera simile si potrebbe forse interpre­ tare anche l'espressione giovannea, secondo cui chi non crede è già giudi­ cato (Gv 3 , 18) , qualora essa includa la consapevolezza dell' allontanamento da Dio nell'uomo che rifiuta di credere . Molto chiaramente una tale presa di coscienza è testimoniata nel dialogo matteano fra il giudice e i giudicati

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al momento del giudizio universale (Mt 25,34-46) . Comunque sia, il modo benigno di procedere del giudice divino risulta chiaramente dal fatto che il giudizio si svolge ivi in maniera dialogica, che la sentenza assolutoria o di condanna non piomba improvvisa sul giudicato e che egli è piuttosto coinvolto sia negativamente che positivamente nel processo della propria nuova creazione. Il criterio del giudizio divino risiede naturalmente ancora una volta nel­ l' agape. Non solo nel doppio comandamento dell'amore, bensì nell' amore che si offre escatologicamente in maniera definitiva in Gesù Cristo . Chi sperimenta tale amore, si sente da esso obbligato, come scrisse bene Pela­ gio: «Chi è amato in maniera perfetta, si affida completamente alla volon­ tà dell' amante; niente è più imperioso dell' amore» (Cel. , 1 3 ) . Quindi per­ lomeno l'uomo, per il quale l'agape non rimane solo un amore comandato ma è sperimentata come un amore rivolto a lui, conosce con un sapere esi­ stenziale il criterio fondamentale del giudice divino. Ciò diventa possibile principalmente quando si considera il Crocifisso. Egli ci rivela il modo in cui Dio intende in ogni caso tradurre in atto la propria funzione di giudi­ ce. Non alla maniera di un giudice terreno, che pone a confronto, magari senza alcuna partecipazione interiore, il codice e l' accusato e lascia il lavo­ ro dell'accusa e della difesa alle istanze competenti. Il giudice crocifisso si identifica con l' accusatore e col difensore, ma più ancora con l' accusato e con il condannato . Egli è qui presente in maniera vicaria per lui e subi­ sce, in una proesistenza illimitata, il destino che questi ha attirato su di sé. Il modo in cui la cristologia formula questo mistero della fede sarà di­ scusso più avanti. Qui ci proponevamo solo di parlarne a grandi linee nel contesto della proposizione «Dio è agape>>.

4 . Dio salva per grazia

Come abbiamo già detto più volte, nella Bibbia la grazia si presenta come l'atteggiamento fondamentale di Dio nel suo essere rivolto verso l'uomo. Ciò significa che tutte le altre azioni da lui compiute nella storia vanno viste alla luce della grazia e in ordine ad essa, come da essa avvolte. Così anche le sue azioni salvifiche, con cui infrange la potenza del male e le strappa gli uomini, per permettere loro di unirsi di nuovo a lui. Dio, quando salva, lo fa per grazia (E/ 2 ,5 . 8 ; 1 Tim 1 ,9s . ; Tit 2 , 1 1) . E salvando egli per grazia, questa va ben al di là di una semplice reazione nei confronti del male e del peccato . Tale reazione è la parte, la grazia il tutto che la contiene.

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D' altra parte la salvezza, la soteria, non è una attività accidentale e se­ condaria di Dio. Il fatto che le lettere pastorali diano intenzionalmente il titolo di «Salvatore», sotir, sia a Dio che a Cristo (cf. sopra 73s.) sta a si­ gnificare che tale titolo qualifica l'essenza divina. È essenziale per Dio ri­ spondere al male e all'odio ostili a lui e all'uomo con una «bontà e filantro­ pia» (Tit 3 ,4) che salvano. È insito nella sua natura ridare la vita in Cristo a uomini, che a motivo dei loro peccati «erano morti», e garantire loro un «posto in cielo» (E/ 2,4-6) . Gesù il Cristo, essendo secondo le medesime fonti già da sempre, nel piano eterno di Dio, la risposta del Creatore alla follia autodistruttrice del peccato e alla miseria della morte segnata da tale peccato, merita in modo particolare il nome di «Salvatore» (2 Tim 1 , 10; Tit 1 , 4 ; 2, 1 3 ; 3 ,6; cf. 2 Pt 3 , 1 8) . Tutta la predestinazione degli uomini alla salvezza e alla salvezza per grazia, predestinazione che ha il suo centro in Cristo, è espressa in questo passo : «Egli (Dio) ci ha salvati e ci ha chiamati con una vocazione santa, non già in base alle nostre opere, ma secondo il suo proposito e la sua gra­ zia; grazia che ci è stata data in Cristo Gesù fin dall'eternità, ma è stata rivelata solo ora con l' apparizione del salvatore nostro Gesù Cristo» (2 Tim 1 , 9s . ) . Sia dall' amore universale del Creatore per gli uomini, sia dal significato salvifico universale di Cristo, del Redentore consegue che la grazia di Dio è destinata a tutti gli uomini senza eccezione . La volontà salvifica univer­ sale del Creatore redentore è già stata proclamata da Paolo alla luce del mistero di Cristo, con l' aiuto della tipologia di Adamo: «Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, cosl an­ che per l' opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giu­ stificazione che dà vita» (Rom 5 , 18) . Le lettere pastorali echeggiano fedel­ mente tale insegnamento : «Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tim 2,3s.); «è apparsa infatti la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini» (Tit 2, 1 1 ); «noi abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tut­ ti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono» (l Tim 4, 10; cf. Rom 1 , 16s . ) . E i non credenti o quanti professano un' altra fede? L a lettera dei testi neotestamentari non permette di desumere una promessa esplicita di sal­ vezza al di fuori della fede in Cristo . Da missionari impegnati del giovane cristianesimo non ci possiamo aspettare che essi indichino vie salvifiche alternative a quella da loro predicata. Tuttavia quanto Rom 2, 13s. dice a proposito dei «pagani», i quali «per natura» «agiscono secondo la legge»

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loro sconosciuta e sono quindi «giusti davanti a Dio>>, nonché i passi appe­ na citati delle lettere pastorali implicano la possibilità rivelata della salvez­ za al di fuori dei confini visibili del cristianesimo e della Chiesa. Il magi­ stero cattolico non ha dato il suo assenso all ' Agostino degli ultimi anni e ha riprovato espressamente il giansenismo (cf . sopra 200ss . ) . Il Vaticano II poi è ancora più chiaro con le sue affermazioni positive sulla grazia di Dio che chiama tutti (LG 13/4 ; cf. 2 ; 3 ; 16; DV 3) . All'odierna dogmatica della grazia crea indubbiamente dei problemi il Ì atto che molti uomini non provano alcun interesse per una redenzione di­ vina o sperano la salvezza dell'uomo e della natura unicamente dalla scien­ za e dalla tecnica. Il cristiano non deve precipitosamente respingere le teo­ rie e le prassi corrispondenti. In alcuni loro elementi egli può addirittura individuare l' azione segreta di Dio e li può utilizzare per il proprio proget­ to. L' affermazione che Dio salva per grazia lo obbliga in primo luogo a intensificare il proprio servizio alla grazia, perché Dio non vuole compiere la propria attività salvifica senza di lui. Inoltre egli lo invita ad essere certo - senza per questo autorizzarlo ad essere aggressivo verso coloro che la pensano diversamente o a sentirsi loro superiore - che i tentativi di auto­ redenzione a lungo andare sono condannati al fallimento. Attendersi che l'uomo, immerso com'è nelle sue competizioni e contese fraterne, voglia e tenda anche alla salvezza di tutti, significa attendersi una cosa che di fat­ to supera le sue forze . La grazia che salva ha però i suoi tempi, le sue sca­ denze e le sue forme segrete di rivelazione.

5. Dio realizza una storia di grazia

La grazia di Dio è orientata in senso antropocentrico e, quindi, storico e 'economico' . Essa non mira a suscitare esperienze puntuali di felicità, anche se se ne serve volentieri. L'essere rivolto di Dio verso gli uomini ha già creato il continuum dello spazio e del tempo e lo ha anche scelto ad essere parte costitutiva della propria concretizzazione . Nessun momen­ to della storia della natura e della cultura, nessun processo delle varie evo­ luzioni (cf. GANOCZY, Schopfung, 155- 177; trad . it . , 164- 187) è estraneo alla grazia. La dogmatica deve però esporre lo sviluppo storico della rela­ zione della grazia in modo tutto particolare come lo sviluppo realizzato da Cristo e dallo Spirito Santo . La dottrina della grazia è radicalmente una dottrina cristologica e pneumatologica. Che ambedue queste sue qualità

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siano importanti risulta oggi con chiarezza non da ultimo dalle affermazio­ ni del Vaticano II. a.

Gesù Cristo: la grazia in persona

Il Nuovo Testamento conosce due modi di parlare della «grazia di Cri­ sto». Il primo prende in considerazione il mistero del suo inizio temporale, il secondo il compimento della sua esistenza terrena. L'uno è il frutto di una riflessione sulla incarnazione di Cristo, l' altro di una riflessione sulla sua morte e risurrezione .

( l)

L' incarnazione

Luca, pur senza utilizzare il termine incarnazione, presenta già il Gesù terreno come un uomo che fa saltare tutti gli scherni dell' attesa profetica e messianica. Inoltre egli è l'unico evangelista a formulare questa proposi­ zione: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era con lui» (Le 2,40) . In maniera simile egli pone sulle sue labbra le parole dell'Unto di Jahvè secondo il Tritoisaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me» (Le 4 , 1 8s . ; cf. Is 6 1 , 1 s . ) . Tale 'possessione' di Gesù da par­ te del favore e della benevolenza di colui che ha a cuore gli uomini e da parte del suo Spirito creatore fa di lui un uomo, che vive in maniera esem­ plare il divino, più precisamente la signoria di Dio fattasi vicina. Nulla si oppone oggettivamente al fatto che pensiamo come strettamente unite fra di loro, per esempio, le affermazioni di Gesù : «La basiléia di Dio è (già) in mezzo a voi» (Le 1 7 ,2 1 ) , «si è avvicinata a voi la basiléia di Dio» (Le 10,9) e la presenza attiva e la vicinanza agli uomini di colui che le pronun­ cia, dal momento che la basiléia di Gesù non è altro che quella del Padre suo (cf. Le 22,29s . ) . Quanto pieno di grazia sia l' avvicinamento di questa realtà divina presente in Gesù, quanto proesistente esso sia, risulta, perlo­ meno secondo una buona esegesi patristica, dall'esempio del samaritano misericordioso . Nella misura in cui i tratti di questa figura sono senza dub­ bio gesuanici, dalla proposizione: «Egli n'ebbe compassione (sullo sfondo: ral;amfm!) e gli si fece vicino» (Le 10,33s.) possiamo desumere l' atteggia­ mento fondamentale di colui che, venuto da Dio, è diventato completa­ mente umano per i bisognosi. «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» leggiamo poi, in termini espressamente incarnatoti, nel prologo del vangelo di Giovanni (Gv 1 , 1 4) . E di conseguenza anche: egli era «pieno di grazia e di verità»

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(ivi) e «dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia» (v. 16) . Ciò può essere interpretato dogmaticamente così: dal momento che il L6gos è the6s, Dio (v. 1), la sua pienezza di grazia può essere solo identi­ ca all' amore infinito di Dio per gli uomini . Sarebbe arianesimo ritenere che la pienezza dell' Incarnato sia minore di quella dell'Eterno o ritenere che essa sia solo passeggera, concessa in misura parziale, relativa, finita. Questa riflessione induce a parlare di Gesù Cristo come della grazia in per­ sona. Ma nel contesto giovanneo bisogna tener conto anche del termine «vita», che è quasi sinonimo di «grazia» (cf. sopra 77ss . ) . Le affermazioni di Gesù, importantissime sotto il profilo cristologico : «lo sono [. . . ] la vita» (Gv 14,6), «lo sono il pane di vita» (Gv 6,48) , «lo sono la risurrezione e la vita» ( Gv 1 1 ,25) contribuiscono a concretizzare il principio dell'incarna­ zione . La grazia incarnata dona se stessa agli uomini per amore (Gv 15 , 1 3 ; cf. 3 , 16), per rendere creativamente possibile una loro vita eterna già sulla terra, ma poi anche per rianimare i morti. Secondo Giovanni il Figlio in­ carnato di Dio concretizza il benevolo essere rivolto di questi verso gli uo­ mini, al fine di cambiare completamente la loro esistenza, come risulta dal­ l'uso di immagini quali quella di «nascita dall' alto» (Gv 3,3) e «dallo Spiri­ to» (v. 5s.), di generazione da parte di Dio e dal suo «seme» (1 Gv 3 ,9) . Agostino esprime questa verità di fede con l'aiuto dell'idea platonica della partecipazione e deduce da essa la presenza mistica di Cristo, con i grandi eventi e azioni della sua vita, nell' anima del giustificato (cf. sopra 1 1 9ss.), in ciò seguito dai mistici del medioevo. Numerosi sono ancora oggi quelli che impostano in maniera incarnato­ da la dottrina della grazia. Secondo K. Rahner tutto l'ordine della grazia dipende dal Verbum incarnatum, dal momento che il L6gos è la figura ipo­ statica dell' autocomunicazione di Dio, che è la grazia (RAHNER, IV, 222s . ; trad. it. , 100s . ) . Ciò lo autorizza a chiamare legittimamente Cristo