Da Clementi a Pollini. Duecento anni con i grandi pianisti
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GUIDE ALLA MUSICA

PIERO RATTALINO

DÀ CLEMENTI À POLLINI DUECENTO ANNI CON I GRANDI PIANISTI

RICORDI /GIUNTI MARTELLO

PIERO RATTALINO

DA CLEMENTI A POLLINI

DUECENTO ANNI CON I GRANDI PIANISTI

RICORDI/GIUNTI MARTELLO

PREMESSA E GIUSTIFICAZIONE

I grandi pianisti: da Clementi a Pollini è stato scritto nel primo semestre del 1981 e ritoccato nel 1982 per incarico dell’editore, ma più di metà del materiale che vi è contenuto risaliva ad anni precedenti ed era stato pubblicato in riviste, note a programmi di sala, presentazioni e recensioni di dischi. Ho scritto saggi sui pia­ nisti e recensioni di dischi all’incirca dal 1960 e sulla storia dell’e­ secuzione pianistica ho cominciato a riflettere da ragazzo, quando il mio maestro di composizione Luigi Perrachio mi parlava di Ro­ senthal o di d’Albert o di Busoni. A cinquant’anni, avendo l’occa­ sione di riunire in un volume organico le mie idee dopo aver speso gran parte della mia vita di musicista intorno al pianoforte, avrei desiderato di stendere una vera e propria storia dei pianisti. Mi sono presto accorto che ciò non era possibile. Ho pensato allora di raccogliere i miei saggi, ma mi son reso conto che in questo modo avrei soprattutto raccontato la frastagliata storia dei miei studi e delle mie ricerche. Ho scelto allora una strada intermedia: ho ripreso la parte, che considero ancor valida, di ciò che ho scritto in circa vent’anni ed intorno a questo nucleo ho costruito ed amalga­ mato i collegamenti ed i completamenti necessari, lasciando che emergessero qua e là le originarie impostazioni saggistiche. Non è una storia, come dicevo. Può esserci storia quando molti documenti sono stati pubblicati, quando sono state scritte biografie critiche dei principali protagonisti, quando sono disponibili gli epistolari. Il materiale di cui potevo disporre, in questo senso, era troppo ridotto. E così ho composto un collage che è un po’ storia, un po’ ipotesi storica, un po’ racconto, un po’ reminiscenza. Il pericolo, e me ne rendevo ben conto, era di fare un miscuglio da cui

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Premessa

sarebbe uscita la mitologia dei pianisti. Ho cercato di evitare la trappola e può darsi invece che ci sia caduto dentro. Ma credo che un libro come questo non sia in ogni caso inutile: è, per lo meno, il risultato di una lunga riflessione su un argomento che viene spesso trattato in modo agiografico e che solo mólto di recente, specie con gli studi di Joachim Kaiser, sta decisamente uscendo dal tunnel della impostazione giornalistica ed aneddotica. Il numero di pianisti dei quali parlo sembra elevato. In realtà è ridottissimo, e mi spiace di non aver potuto trattare o per lo meno accennare a taluni artisti dei quali avrei detto volentieri: cito qui, per limitarmi agli italiani, Ernesto Consolo, Gino Tagliapietra, Pietro Scarpini, Gino Gorini, Aldo Ciccolini, Maria Tipo, Bruno Canino. I limiti di spazio, del resto owii, mi hanno posto nella condizione o di dover trascurare alcuni artisti o di dover eliminare alcune analisi. La seconda strada avrebbe reso forse più scorrevole e piacevole il libro, ma mi avrebbe riportato di più verso il racconto; la prima strada, che ho scelto, rende talvolta non agevole la lettura, ma mi permette di far capire anche al non esperto quale comples­ sità presentino certi problemi. Due saggi dedicati ad artisti italiani, che pubblico in appendice, dimostrano quale ampiezza avrebbe potuto assumere il volume se avessi inteso approfondire tutti gli aspetti della materia che tratto. Ringrazio con la cordialità più viva gli amici che mi hanno segnalato o che hanno messo a mia disposizione libri, dischi, rulli di pianola, registrazioni rare: in particolare il maestro Paolo Bordoni di Milano, il dottor Renato Caccamo di Milano, il dottor Antonio Latanza di Roma, il maestro Alberto Mozzati di Milano, il signor Edward Neill di Genova, il maestro Riccardo Risaliti di Firenze. Ringrazio inoltre il dottor Angelo Coralli, che ha pazientemente letto il dattiloscritto, facendomi utili osservazioni. Dedico il libro senza avergliene chiesto il permesso — e perciò metto la dedica qui invece che nel frontespizio — a Sergiu Celibi­ dache, che non condividerebbe nemmeno una delle mie tesi ma che mi ha indirettamente aiutato, con il suo rigore intransigente e con le sue analisi paradossali ed acutissime, a formularle e a matu­ rarle.

Prima parte

IL SUONO SILENTE

COMPOSITORI AL PIANOFORTE

«... in Augusta incontrava io il Signor Maestro di Cappella Volfgango Amadeo Mozart salisburghese, da ambi Noi già conosciuto e con grandissimo diletto ascoltato ne la nostra bella Città di Rovereto il dì dopo del Santo Natale, che sono ott’anni, ne la ospitalissima magione delTlllustrissimo Signor Barone Todeschi. Esser non potetti a la grande Academia che il Signor Maestro Mozart tenne addì ventisette di ottobre e ne la quale si esibì in uno Concerto suo di Fortepiano et in uno strepitoso Concerto, parimente di sua Compositione, per tre Fortepiani. Intesi tuttavia suonar il Signor Maestro Mozart nella casa del fattore di Fortepiani Signor Andrea Stein, eseguendovi Egli una sua Suonata in fa di cui lasciommi maravi­ gliato assai, benché molto assuefatto io sia, com’Ella ben sa, con la Musica di Cimbalo et Organo anco Todesca, uno Adagio di espres­ sione per così dir parlante e di quasi struggente affetto. Un picciol frammento vienvi sonato nel Soprano, ripetuto indi nel Contralto una quarta più basso, ripetuto indi nel Tenore una ottava più basso del Soprano. Artifizi che ne la Musica di Cimbalo comunemente usansi e che stupor non dovarebbero arrecare a persona di Gusto esperto! Stupimmi invece la novità non già di Inventione, sì di Esecutione, imperciocché la Parte Principale sempre si trovava in grandissima Evidentia, come se ciascuna de le Voci in pria avanzasse e poscia retrocedesse. Così fatto è il Fortepiano, spiegommi il Signor Maestro Mozart, che possibil diventa porre quasi in Proscenio, con variata pressione delle Mani e delle T)ita, qualsivoglia Voce! «Mirabile Virtù del novo Strumento, come mirabil si fu l’Effetta Ritmico ottenuto dal Signor Maestro Mozart nel Presto finale dell’istessa Suonata. Essendo cotesto Presto notato nella misura di tre

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ottavi deve ordinariamente l’Esecutore aver Vaccorteza di alquanto prolungare e come sostenere alcuni Suoni a ciò ben si comprenda il Ritmo. Il Signor Maestro Mozart non prolungò invece alcun suono, anche ne li tratti di più che inaudita rapidità, ma ne batté certuni con una tale Maggior Forza, così che ne risultarono note accentate e note non accentate, et il Ritmo fu chiarissimo e come Sol sfolgorante! Usò inoltre spesso il Signor Maestro Mozart il Mechanismo che con ginocchiera comandasi, che tutti gli Spegnitoi osia Smorzato] solleva e che di sì grato effetto, quasimente di suono Nuvola, molce l’Orecchi...».

Potrebbe essere la lettera di un roveretano che, dopo aver ascoltato Mozart al clavicembalo il 26 dicembre 1769, lo ritrovò e lo ascoltò eseguire al pianoforte la Sonata K 280 nell’ottobre del 1777, ad Augusta. Potrebbe; non è. È il rifacimento di un pasticcio che scrissi alcuni anni or sono quando, dovendo parlare di Mozart pianista in una nota di limitata estensione e per un pubblico di non specialisti, non trovai altra soluzione ragionevole se non il falso. Sapevo il che, non il come. Sapevo che Mozart usava il pedale di risonanza, ma non sapevo come lo usasse. Sapevo che i pianoforti del tempo di Mozart consentivano di differenziare il tocco e di mettere in evidenza una parte o l’altra del tessuto musicale, ma non sapevo a qual grado di sviluppo fosse pervenuta la tecnica mozar­ tiana. Sapevo che i pianoforti del Settecento permettevano di pas­ sare dalla esecuzione basata sulla ritmica quantitativa, comune nel clavicembalo e nell’organo, alla esecuzione secondo la ritmica accentuativa, ma non sapevo con sicurezza se Mozart suonasse ancora da clavicembalista o se avesse sviluppato l’accentuazione. Ciò che i contemporanei dicono sul modo di suonare di Mozart, ciò che dice lui stesso qua e là nelle lettere alla famiglia, ciò che dicono i trattatisti del tempo permette a chi studia i documenti di formarsi delle opinioni e di fare delle supposizioni. Ma così come tutti i ricordi, tutte le lettere, tutti i ritratti pur amorevolmente studiati non consentono di ritrovare con certezza la voce di Mozart, la cadenza del suo parlare e la sua mimica, tutto il materiale docu­ mentaristico non può ridare a noi il suono di Mozart pianista ed il suo stile di esecutore. Suono e stile che io immagino, beninteso, ma senza alcuna garanzia di corrispondenza tra la mia immaginazione

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ed una realtà perduta. E allora, falso per falso, meglio il falso dichiarato, meglio la lettera inventata che svela il trucco più di qualsiasi distinguo. Così conclusi alcuni anni or sono, e così ho concluso oggi. Ed ho riscritto la lettera dell’ipotetico roveretano. Il lettore si tranquillizzi: non lo affliggerò con altri scherzetti, non inventerò, per spiegare le mie supposizioni, una lettera di Giulietta Guicciardi che riferisce su Beethoven alle prese con il Chiarodiluna o di Cristina di Belgiojoso che spiega il tocco magico di Chopin o di Liszt. Preferisco di non parlare di come suonassero Mozart, Beet­ hoven, Chopin, perché dovrei parlare in realtà, per essere concreto senza accumulare montagne di materiale di incerta interpretazione, di come scrivessero per pianoforte: tema che ho trattato altrove e che questa volta non rientra nei miei fini. Qui dirò invece cosa suonas­ sero in pubblico Mozart, Beethoven, Chopin, e perché lo suonas­ sero, cioè cercherò di fare una storia del concertismo pianistico che nella parte iniziale resterà astratta dallo stile di esecuzione e che comincerà a trattare di stile dal momento in cui potrò basarmi su documenti sonori: rulli di cera, poi rulli di pianoforte meccanico e dischi, infine registrazioni e film. Che cosa suonava dunque Mozart, che cosa suonò ad Augusta il 27 ottobre 1777? In privato, per i suoi allievi e familiari e presso i nobili amici-protettori che frequentava, Mozart suonava tutto quello che veniva pubblicato, leggendo al pianoforte pagine per pianoforte o per complessi da camera o per orchestra, all’incirca come il lettore che comunica agli utenti del telegiornale le notizie del mondo. In pubblico, quando organizzava concerti — si chia­ mavano allora accademie — per spettatori paganti, Mozart suonava esclusivamente musiche sue. Così, ad Augusta, eseguì il Concerto K 238 e, con l’organista J.M. Demmler al primo pianoforte e con il fabbricante J.A. Stein al terzo, il Concerto K 242 per tre pianofor­ ti. A Monaco, il 4 ottobre, aveva eseguito i Concerti K 238, K 246 e K 271, ed a Mannheim, nel febbraio del 1778, avrebbe eseguito il Concerto K 175. Monaco, Augusta, Mannheim erano tappe di avvicinamento a Parigi, città-miraggio verso cui Mozart si stava dirigendo. Non si trattava semplicemente del viaggio di un concertista di pianoforte: era il viaggio di un musicista che a ventun anni, dopo aver percorso da fanciullo mezza Europa in compagnia e sotto la ferula del padre,

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si avviava da uomo (in compagnia della mamma) a cacciare una fortuna che sentiva dovuta e che non si sarebbe lasciata afferrare mai. Un viaggio di liberazione e di speranza, in cui maturava uno dei più grandi spiriti che l’umanità abbia conosciuto. Il pianoforte, in questa avventura, era un accessorio, uno strumento di lavoro di cui Mozart si serviva, ma in cui non identificava le sue aspirazioni. E, del resto, il concertista itinerante di pianoforte come lo cono­ sciamo noi e come lo conobbe l’Ottocento, nel 1777 non esisteva ancora. Dieci anni prima Charles Dibdin aveva scelto il pianoforte — «a new instrument called the Piano Forte» — per accompagnare al Covent Garden di Londra un’aria della ]udith di Arne cantata da una miss Brikler. Il 2 giugno 1768 Johann Christian Bach aveva eseguito in pubblico a Londra, sul pianoforte, un solo (probabil­ mente una sonata). Anche a Parigi, poco più tardi, era stato scelto il pianoforte per esecuzioni in pubblico, il Bach londinese si era ancora spesso servito del pianoforte, a Londra era comparso nel 1772 un pianista molto amato dal pubblico, Johann Samuel Schroeter, e dal 1774 aveva lavorato a Londra il primo musici­ sta, Muzio Clementi, che assommando in sé le qualifiche di esecu­ tore - compositore - didatta - trattatista - editore - costruttore commerciante si sarebbe veramente identificato con il pianoforte. Neppure Clementi, unanimemente considerato pianista grandissi­ mo, fu però concertista nel senso che intendiamo oggi: in pubblico suonò molto poco — solo a Londra, e con regolarità soltanto dal 1786 al 1790 — ed eseguì un repertorio limitato a poche delle sue Sonate e, nel 1790, ad alcuni Concerti1. Nemmeno il famoso incontro-scontro di Vienna, che il 24 dicembre 1781 vide di fronte Mozart e Clementi, fu un confronto in cui il pubblico fosse chia-1 1 Al suo esordio a Londra, il 3 aprile 1775, Clementi eseguì al clavicembalo un Concerto (non si sa se di sua composizione); nel 1790, dicono i giornali del tempo, presentò alcuni Concerti negli intervalli tra una parte e l’altra degli Oratori di Hàndel che venivano eseguiti al Covent Garden. Nessuno dei Concerti di Clementi è pervenuto a noi. Parrebbe, ma non è certo, che alcune delle sue Sonate siano riduzioni da Concerti; il Concerto in do maggiore, che ci è pervenuto in un manoscritto di Johann Baptist Schenk, è a parer mio una trascrizione per pianoforte e orchestra, dello stesso Schenk, dalla Sonata op. 32 n. 3 di Clementi.

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mato a decidere. Il «pubblico» erano semplicemente l’imperatore Giuseppe II ed alcuni dei suoi cortigiani, che ammirarono i due campioni e ne discussero competentemente, come competente­ mente avrebbero discusso di due filosofi o di due medici alla moda. Clementi, che era già stato a Parigi, a Strasburgo e a Monaco, non aveva suonato in pubblico in nessuna città, né avrebbe suonato in pubblico a Vienna e nelle successive tappe del suo primo viaggio artistico in Europa (se non, forse, a Lione il 29 agosto 1782): il suo lungo peregrinaggio doveva servire a conoscere ambienti culturali diversi e a farvi conoscere le musiche e i pianoforti inglesi attraverso la frequentazione di potenti salotti aristocratici ed intellettuali, non attraverso l’incontro con un pubblico eterogeneo ed anonimo. Dopo esser tornato a Londra, e dopo aver partecipato frequente­ mente a serate di vario genere tra il 1784 e il 1790 senza tuttavia azzardare mai un programma tutto accentrato su di lui, Clementi concluse la sua carriera di esecutore pubblico il 31 maggio 1790 o al più tardi nel 17962. Il secondo viaggio di Clementi nel continente, dal 1802 al 1810, fu ancor più del primo il viaggio di un uomo di affari. E così Clementi, il «padre del pianoforte», contribuì diret­ tamente al sorgere del concertismo pianistico in misura molto minore di Mozart, che considerò il pianoforte come un aggeggio utile per sopravvivere nell’attesa che il teatro, sede ideale del suo paradiso, gli aprisse le porte. H viaggio iniziato nel 1777 servì a Mozart per scoprire i piano­ forti di Johann Andreas Stein, che lo riempirono di entusiasmo, e per capire che il clavicembalo era giunto alla fine del suo ciclo storico. A Parigi non tenne concerti, non tenne concerti nel viaggio di ritorno, né a Salisburgo dal 1779 al 1780, né a Monaco quando vi si recò per la creazione AeWldomeneo. Come tutti sanno, a Vienna, raggiunta per ordine del padrone dopo il successo AeWldomeneo a Monaco, il giovane scapestrato, che si licenziò dall’impiego e la cui liquidazione consistette in un non metaforico calcio nel sedere, vide nel pianoforte la tavola salvavita: «In questo momento non ho che una sola allieva, la contessa Rumbeck, cugina di Cobenzl. A 2 Solo un memorialista parla di un concerto di Clementi nel 1791, di uno nel 1793 e di uno nel 1796, non documentati né confermati da altre fonti (mani­ festi, giornali, ecc.).

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dire il vero potrei averne di più, se acconsentissi a ribassare i prezzi...; ma non appena si fa così si perde il credito. Il mio prezzo è di sei ducati per dodici lezioni, e faccio loro credere che lo fo per compiacerli... Preferisco aver a che fare con tre allievi che mi pagano bene piuttosto che con sei che mi pagano male... Con quest’unica allieva posso sostenermi, e mi basta, nell’attesa». Così scrisse baldanzosamente Mozart, il 16 giugno 1781, ad un padre completamente annientato in cospetto di una tanto colossale idio­ zia. Aveva ragione papà Leopoldo. La storia della didattica dimostra che, salvo casi rari, le lezioni private possono essere e sono lucro­ sissime soprattutto quando tengono sotto pressione allievi sostan­ zialmente negati ai fini che vogliono raggiungere. E Mozart non aveva questo speciale genio. Individuò nel concerto pubblico il mezzo di propaganda efficace per acquisire una clientela, e l’ac­ quistò con facilità. Con la stessa facilità la perdette. Se la storia della didattica rende esplicito quell’edificante teorema di cui or ora dicevo, la storia del concertismo dimostra che l’esecutore o il di­ rettore d’orchestra, non meno dell’attore, può riproporsi intensi­ vamente allo stesso pubblico solo se vive al riparo di una istituzione che gli assicuri prestigio sociale. Il libero professionista deve invece misurare col contagocce le sue apparizioni concertistiche presso lo stesso pubblico o deve abbandonare la clientela delle lezioni pri­ vate e diventare concertista itinerante, concertista di giro. In meno di sei anni, dall’aprile del 1781 al dicembre del 1786, Mozart scaraventò sul pubblico di Vienna ben diciotto dei suoi ventisette Concerti per pianoforte e orchestra: anche se gli spensierati sudditi di Giuseppe II fossero stati meno frivoli di quanto il buon Dio aveva loro concesso non avrebbero potuto assorbire una tal massa di composizioni ed una evoluzione creativa che passava dall’accat­ tivante Concerto K 175 al K 503, denso da morire di prodigiosi succhi musicali. Le successive, sporadiche apparizioni concertistiche di Mozart a Dresda, a Berlino, a Lipsia, a Francoforte sul Meno e a Vienna non modificarono i termini di un insuccesso già consu­ mato, e consumato perché — buon per noi — Mozart aveva considerato il pianoforte come un mezzo di sussistenza per chi, nell’ultimo anno di vita, doveva scrivere il Flauto magico, la Cle­ menza di Tito, il Requiem.

Concertisti Biedermeier

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Mentre Mozart liquidava il pianoforte come salvavita, e mentre Clementi lo organizzava industrialmente nel ciclo produzioneconsumo, comparivano i primi veri concertisti itineranti: il boemo Jan Ladislav Dussek, il tedesco-inglese Johann Baptist Cramer (allievo di Clementi), l’ungaro-austriaco Johann Nepomuk Hum­ mel (allievo e di Mozart e di Clementi), i tedeschi Daniel Steibelt, August Eberhardt Muller e Johann Wilhelm H’àssler, l’irlandese John Field (allievo prediletto di Clementi). Tutti questi musicisti erano pianisti-compositori, tutti eseguivano preferibilmente musi­ che di loro composizione, e tutti — tranne Field — usavano improvvisare in pubblico su temi proposti dagli ascoltatori. L’im­ provvisazione era una dimostrazione di prontezza e di bravura a cui non si erano sottratti Clementi e Mozart nella sfida in presenza di Giuseppe II (avevano improvvisato a due pianoforti su un tema tratto da una Sonata di Paisiello) e che Mozart aveva spesso prati­ cato anche in pubblico: si potrebbe dire anzi che in un certo senso, per i pianisti-compositori, l’improvvisazione era una specie di... singolare interpretazione della musica altrui: ad esempio, le Varia­ zioni K 398 e K 455 di Mozart, che prima di esser scritte furono improvvisate a Vienna il 23 marzo 1783, possono essere guardate come sviluppo interpretativo di caratteri impliciti nei temi, rispet­ tivamente, di Paisiello e di Gluck. Questo tipo di rapporto tra compositore ed esecutore non rientra nel concetto di interpreta­ zione quale si è formato ed affermato negli ultimi centocinquant’anni circa, e perciò non vi insisterò. L’improvvisazione fu co­ munque uno dei «numeri» più graditi dal pubblico, e rimase in uso fin verso la metà dell’ottocento, sopravvivendo poi solo sporadi­ camente 3. L’improvvisazione era l’aspetto estemporaneo, e non necessa­ riamente meccanico o truccato, di una ricerca sullo strumento che impegnava i pianisti-compositori e che si estrinsecava soprattutto nel concerto per pianoforte e orchestra. Il secondo errore di valu­ tazione di Mozart fu di badare solo secondariamente alla scoperta 3 Qualche pianista, come Ferruccio Busoni, ma anche, più tardi, come Wilhelm Kempff e Rudolf Firkusny, improvvisò in pubblico all’inizio della carriera. Qualche compositore, come Saint-Saèns, Albeniz, Granados, tenne improvvisazioni non vincolate a temi scelti dal pubblico.

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di potenzialità sonore del pianoforte e del rapporto mano-tastiera, e le sue celebri invettive contro Clementi rivelano del resto, al di là dei personali malumori e risentimenti, l’opposizione e il fastidio di chi si sente prima di tutto creatore di fronte a chi si rivela come, se il lettore mi perdona l’espressione, collaudatoré di una nuova macchina. Dussek, Cramer, Hummel, Steibelt sono tutti collaudatori della macchina prima che scopritori di valori musicali, e sono anche inventori di forme di rapporto con un pubblico considerato già come collettivo indistinto, non più come somma di individualità. La strada verso la sublimazione di Paganini, che nella seduzione di un pubblico non tradizionalmente e socialmente votato alla cono­ scenza della musica strumentale troverà il suo imperativo categori­ co, inizia con i concertisti itineranti di pianoforte della fine del Settecento. E già fin da qui si rivelano le componenti tra spettaco­ lari e ciarlatanesche che si possono agevolmente ritrovare nella psicologia di Paganini: dalla geniale trovata di Dussek il bello, che a quanto pare espose per primo al pubblico la parte destra del viso invece della nuca, come facevano prima di lui i pianisti o come oggi fanno solo i direttori d’orchestra, alla cinica saggezza di Steibelt, che aggiunse alle virtù sonore del pianoforte le virtù ottiche della sua splendida moglie inglese, bravissima e ammiratissima quando, in fantasioso costume di Baccante, agitava il tamburello basco mentre il consorte eseguiva con fuoco certi pezzi intitolati appunto Baccanali. Il cerimoniale, il rito accademia venne fissato molto presto: il concertista entrava in scena con guanti e tricorno, faceva tre inchini.(verso il centro e verso i due lati della sala), posava il cappello, cavava i guanti, dava il segnale all’orchestra. Alla fine godeva appieno l’applauso degli uomini (le donne agitavano il ventaglio o il fazzolettino) e si ritirava definitivamente, perché il ritorno per una seconda dose di mirallegri non era comune. La musica, aggiungo, veniva letta, non suonata a memoria come in genere avviene oggi. Il concertismo itinerante non ebbe uno sviluppo rapido perché le guerre rivoluzionarie e poi le campagne napoleoniche non favori­ rono, tra l’ultimo decennio del Settecento e il primo dell’Ottocento, i movimenti e i viaggi degli artisti in Europa. I giri di concerti furono quindi organizzati in modo non costante, ed una intensa

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vita concertistica pubblica si sviluppò solo a Londra, dove si pro­ dussero ripetutamente tutti i maggiori virtuosi. I pianisti erano inoltre interessati anche alla didattica e all’editoria (Cramer), alla direzione d’orchestra (Hummel), al teatro (Steibelt), e tendevano a non rimanere chiusi in una specializzazione che sarebbe stata vista come limite, sia artistico che sociale. In tutto questo periodo la storia del concertismo si fonde quindi con la storia della composizione e della didattica. Ma nella ricca e tumultuosa vita del cosmo pianistico a cavallo tra Sette e Ottocento si può individuare benissimo la primitiva distinzione tra composi­ tore e interprete, che avrebbe poi dato origine al concertismo quale dura ancora ai nostri giorni. La prima distinzione tra compositore ed esecutore avvenne in una classe di pianisti che per evidenti ragioni anagrafiche non erano in genere creatori: i fanciulli. La precocità non s’addice ai creatori, ma s’addice a chi, avendo mu­ scoli elastici e sciolte giunture, possa acquisire i riflessi condizionati che servono a dominare un sistema di leve leggero e ben articolato come la meccanica del pianoforte settecentesco. Un biografo di Clementi, Leon Plantinga, nota che «la processione di nuovi pia­ nisti che apparvero nella vita concertistica di Londra durante que­ sta decade [1780-90] comprendeva William Crotch, Miss Guest, Miss Parke, Miss Barthelemon, J.B. Cramer, Miss Reynolds, ma­ demoiselle Vinet e mademoiselle Paradis, nessuno dei quali, al suo esordio, denunciava più di quattordici anni». E prosegue: «A Pa­ rigi l’esecuzione pubblica al pianoforte sembrò essere ancor più esclusivamente riservata a precoci fanciulle; ad esempio, sette pia­ nisti solisti suonarono al Concert Spiritaci nel 1783-84 e tatti erano giovani donne». Questi concertisti in erba suonavano musiche del loro maestro o pezzi che si erano procurati da musicisti amici: Maria Theresia von Paradis, ad esempio, chiese un Concerto a Mozart (forse è il K 456) e a Parigi suonò i Concerti del suo maestro Kozeluh e di Haydn. Ma poi le ragazze, dopo essersi esibite come pic­ coli prodigi, raramente sceglievano la professione di musicista, ed i ragazzi, scelta la professione, diventavano pianisti-compositori4. 4 Anche Chopin e Liszt esordirono da ragazzi con concerti di autori in voga: Chopin, nel 1818, con un Concerto di Gyrowetz, Liszt, nel 1820, con un Concerto di Ries.

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Tuttavia, anche i pianisti-compositori, i veri dinosauri del perio­ do classico, divennero sporadicamente pianisti-interpreti; e si deve dire, ad onor loro, che i primi lavori da essi ritenuti degni di attenzione furono i Concerti di Mozart. Hummel, uscito dalla tutela del maestro-padre Mozart, al quale lustrava le scarpe e con cui giocava a bigliardo, esordì il 10 marzo 1789 a Dresda con un Concerto mozartiano, molto probabilmente il K 503, e con un Concerto di Mozart esordì nella difficilissima piazza di Londra il 5 maggio 1792: nel 1789 Hummel aveva undici anni, e quattordici ne contava nel 1792, ma non lasciò cadere Mozart dal suo reper­ torio neppur quando rivelò una sbalorditiva fecondità di composi­ tore. Cramer fu celebrato per la sua espressione cantabile nei tempi lenti dei Concerti di Mozart, Mùller eseguì i Concerti di Mozart a mano a mano che venivano pubblicati, Hàssler (nel 1790, a qua­ rantatre anni) suonò Mozart a Londra e persino il più grande compositore dell’epoca, Beethoven, scelse il concerto K 466 di Mozart nell’unica occasione in cui eseguì in pubblico una compo­ sizione non sua5. Resterebbe da vedere come venissero eseguiti allora i Concerti di Mozart. Le edizioni di alcuni Concerti curate da Cramer e da Hummel, una pubblicazione di Mùller (1796) ed una di Karl Philipp Hoffmann (1803) ci dicono che il testo di Mozart veniva «attualizzato» per renderlo conforme all’evoluzione del gusto. Operazione che fu del resto considerata legittima e necessa­ ria fin quasi alla fine dell’ottocento6 e che venne criticata alla radice soltanto nel Zur Wiederbelebung der Mozartischen Klavierkonzerte di Carl Reinecke (1891), trattateli© che ha per noi il significato e il valore di una denuncia e di una svolta di storica importanza. Qualche pianista, più giovane di quelli che abbiamo fin qui

5 L’attività concertistica pubblica di Beethoven è limitata alle esecuzioni a Vienna dei Concerti n. 1, 2, 3, 4, della Fantasia e di alcune composizioni da camera con pianoforte, e a due viaggi a Praga. A Berlino, dove si recò nel 1796, Beethoven suonò per il re di Prussia, ma molto probabilmente non apparve in concerti pubblici. 6 Quando eseguì a Parigi, nel 1833, il Concerto K 491 di Mozart, Ferdinand Hiller si vide rimproverare dal critico del periodico Le Pianiste per non aver «riscaldato l’ultima parte con qualche ornamento di buon gusto».

Moscheles

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visto, studiò anche i Concerti di Beethoven: la prima esecuzione del Concerto n. 5 (Lipsia, 28 novembre 1811) fu dovuta a Friedrich Schneider, Carl Czerny eseguì Concerti di Beethoven verso il 1810, Philip Hambly Cyprian Potter presentò al pubblico di Londra, negli anni 20, i Concerti n. 1,3 e 4, e Charles Neate il Concerto n. 5. Fin verso il 1830 la scena concertistica fu comunque dominata dai pianisti-compositori già citati e da alcuni altri più giovani, come Ferdinand Ries, Friedrich Kalkbrenner, Peter Pixis, Henry Herz, e soprattutto Ignaz Moscheles. Su Moscheles, figura-chiave nella storia del concertismo, bisogna soffermarsi un momento. Nato a Praga nel 1794, Moscheles studiò il pianoforte con Dionys Weber, progredendo rapidamente7. Avendo ammirato fin da ragazzo Beethoven, e in particolare la Sonata Patetica, Moscheles cercò ogni occasione per frequentare il Maestro da quando, nel 1808, si stabilì a Vienna. La sua carriera ebbe tuttavia inizio nel solco della tradizione del pianista-compo­ sitore: si può anzi dire che con Moscheles il pianista-compositore diventava la figura dominante del mondo concertistico, specie dopo che l’esecuzione delle spettacolose Variazioni sulla marcia di Alessandro per pianoforte e orchestra ebbe reso il suo nome celebre di colpo in tutta Europa. Alessandro era lo zar, la marcia era quella del reggimento che dell’autocrate russo portava il nome. La prima esecuzione ebbe luogo al Teatro di Porta Carinzia di Vienna 1’8 febbraio 1815, mercoledì delle ceneri, in un concerto di benefi­ cenza patrocinato dalla contessa Hardegg. L’occasione non poteva essere migliore, perché col mercoledì delle ceneri iniziava la so­ spensione dell’attività teatrale che sarebbe durata per tutta la qua­ resima: Moscheles, complici il mercoledì delle ceneri, la contessa Hardegg e il Congresso di Vienna allora in pieno svolgimento, ebbe in sala l’aristocrazia di tutta Europa, e il suo trionfo fu noto ovun­ que. Nello stesso anno Hummel inaugurava a Vienna i cicli di con­ certi pubblici a pagamento di musica da camera, avendo come compagni fissi il violinista Joseph Mayseder e il chitarrista Mauro Giuliani, ed invitando di volta in volta altri collaboratori; nel 1816 7 Fonte preziosa di notizie sulla carriera di Moscheles, ed a cui mi atterrò, sono i taccuini, ordinati e parzialmente pubblicati dalla moglie.

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il Settimino op. 74 di Hummel per pianoforte, flauto, oboe, corno, viola, violoncello e contrabbasso lanciava il virtuosismo nella mu­ sica da camera ed otteneva un successo delirante. Moscheles sosti­ tuì Hummel quando questi assunse Fincarico di maestro di cap­ pella a Stoccarda, poi, essendo finito il Congresso ed essendosi Vienna svuotata di tutto il bel mondo internazionale, prese il volo per visitare nei quattro angoli dell’Europa il pubblico che lo aveva laureato nel Teatro di Porta Carinzia. I concerti pubblici non comprendevano, di norma, composizioni per pianoforte solo, né erano sostenuti da un solo esecutore: l’ese­ cutore su cui si concentrava il massimo dell’attesa eseguiva un Concerto (e perciò venne denominato concertista) o un grande pezzo per pianoforte e orchestra, eseguiva talvolta un brano di musica da camera, ed improvvisava; altri esecutori e l’orchestra gli facevano corona, accrescendo la varietà del menù ed attirando i loro personali ammiratori. L’8 ottobre 1816 Moscheles iniziava al Gewandhaus di Lipsia la sua prima tournée: il mattino alle nove aveva luogo l’unica prova con l’orchestra, nel primo pomeriggio Moscheles controllava che il pianoforte fosse stato ben accordato, alle 18,30, sorbita una tazza di tè con un goccio di rhum, entrava in sala ed iniziava il concerto dirigendo la sua ouverture Die Portraits. Applausi. Il secondo numero era un coro di un certo Schicht. Il terzo numero, che chiudeva la prima parte del programma, era il finale del Concerto n. 2 op. 56 di Moscheles. Applausi e prime congratulazioni in camerino. La seconda parte iniziava con un Capriccio per violino e orchestra di Andreas Romberg, eseguito dal primo violino Matthài. Poi le Variazioni sulla marcia di Alessandro, accolte con entusiasmo, un pezzo per canto di Mozart, l’improvvi­ sazione. Un secondo concerto, in cui Moscheles improvvisò su Das klinget so herrlich del Flauto magico, ebbe luogo il 14 ottobre. Mo­ scheles passò poi a Dresda, si ammalò, dovette combattere gli oscuri intrallazzi di qualche invidioso: il 20 dicembre riuscì a suo­ nare a corte (mentre la corte divorava il pranzo) e il 28 suonò in pubblico. Tra il 1818 e il 1820 suonò a Monaco e ad Augusta, tenne quattro concerti ad Amsterdam ed uno all’Aja, suonò a Bruxelles. Il 29 dicembre 1820 era a Parigi. L’esordio parigino, preparato da assidua frequentazione di mu-

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sicisti, strumentisti, editori, costruttori di pianoforti, giornalisti, nonché delle immancabili contesse e baronesse faccendone, ebbe luogo il 25 febbraio; seguirono cinque concerti insieme con il violinista Lafont. Il 23 maggio Moscheles lasciò Parigi, arrivò il 28 a Londra, conobbe un mucchio di pianisti importanti (tra cui Cle­ menti, Cramer, Kalkbrenner), esordì 1’11 giugno con il Concerto n. 2 e le immancabili Variazioni, ribadì il successo il 4 luglio con il Concerto n. 2, le nuove Variazioni sull'aria «Au clairde la lune» e un’improvvisazione sulla canzone My lodging is on the cold ground. Trascorse le vacanze estive a Chateau Pralin vicino a Boulogne, ospite di Kalkbrenner, Moscheles tornò a Parigi in autunno. Nei primi mesi del 1822 uscivano le Sonate op. 109 e 110 di Beethoven: Moscheles le studiò e le fece conoscere nei salotti, ma non s’azzardò ad eseguirle in pubblico. Nel primo concerto-monstre con Lafont, con il soprano Cinti Damoureau, con il tenore Nourrit e con il clarinettista Ivan Mùller tentò di far passare la Fantasia op. 80 di Beethoven: trionfo per tutto il resto, assoluto disastro per Beetho­ ven. In maggio Moscheles era a Londra per presentare il suo Concerto n. 3. Nel 1823 suonava a Londra e a Vienna (dove Beethoven gli imprestava il suo pianoforte Broadwood), a Spa, a Francoforte sul Meno e in altri centri minori, nel 1824 rinunciava per malattia ai concerti di Londra, passava a Praga, a Lipsia, in molte piccole città, concludeva l’anno a Berlino. E così via, un anno dopo l’altro. I lentissimi spostamenti di Moscheles ci danno l’idea di che cosa significasse allora muoversi da un centro all’altro e preparare e sfruttare il successo. Il concerto pubblico non era che il momento culminante di una serie di contatti e di rapporti con la società della città in cui il pianista-compositore si fermava, e le esecuzioni presso privati, le lezioni, la composizione e la pubblicazione di musiche consumavano più dei concerti il tempo del concertista. Mentre era a Lipsia nel 1824, ad esempio, Moscheles concluse con Probst la cessione delle sue opere 62 e 63 per 35 ducati, e con Mechetti di Vienna la vendita del Concerto n. 3 per 40 ducati; a Berlino diede alcune lezioni al quindicenne Mendelssohn. Ma i tempi cominciavano a cambiare. Nel marzo del 1826 Mo­ scheles ascoltava a Londra un concerto diretto da Cari Maria von Weber in cui il giovane pianista tedesco Ludwig Schunke eseguiva

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un mostruoso pasticcio formato dal primo tempo del Concerto in do minore di Ferdinand Ries, dal secondo tempo del Concerto n. 5 di Beethoven e dal Rondò ungherese di Pixis. Mostruoso pasticcio, dico io, considerando la cultura con le lenti di oggi. Forse l’autorità di Weber dovrebbe suggerirmi maggior cautela. È vero che Schunke, avendo solo sedici anni, si comportava un po’ come i soliti fanciulli che esordivano con musiche di altri per poi passare, a tempo debito, alle musiche proprie. Non potrei però escludere che il pubblico cominciasse ad esser stanco dei pezzi per pianoforte e orchestra dei pianisti-compositori-collaudatori, e che quindi il co­ stume appena affermatosi fosse già entrato in crisi: le esecuzioni dei Concerti di Beethoven a Londra, con Cyprian Potter e Neate, stava probabilmente creando le premesse per una svolta, e i giovani non potevano semplicemente subentrare, con lo stesso tipo di reperto­ rio, ai pianisti affermati come Hummel e Moscheles. Lo verificò a sue spese Chopin, che vivendo in provincia e non potendo quindi fiutare per tempo le mode si era coscienziosamente costruito il tipico repertorio del concertista di tradizione: due Concerti e tre pezzi brillanti per pianoforte e orchestra (le Varia­ zioni op. 2, la Fantasia op. 13, il Krakowiak op. 14), con un pianoforte tuttofare ed un’orchestra pochissimo impegnata. Quando pieno di entusiasmo uscì dalla Polonia, Chopin dovette presto accorgersi che il corredo preparato con tanta cura non era più smerciabile. Liszt, che aveva scrutato il mondo da un osserva­ torio privilegiato come Parigi e che nel 1828 aveva tenuto la prima esecuzione a Parigi del Concerto n. 5 di Beethoven, nel 1829 aveva sospeso una carriera concertistica felicemente iniziata, e l’avrebbe ripresa solo dopo aver trovato nuove motivazioni culturali all’ese­ cuzione pubblica. Mendelssohn, educato nella civilissima Berlino che stava riscoprendo Bach, nel 1829 non partì di casa con il repertorio del pianista-compositore alla Hummel, ma del pianistainterprete, proponendo quindi precocemente quella svolta nella storia dell’esecuzione che sarebbe stata attuata negli anni trenta, come vedremo, da Moscheles e da Liszt. Pur eseguendo il suo Capriccio brillante op. 22 e poi il Concerto op. 25, Mendelssohn presentò infatti in pubblico il Concerto K 466 e, con Moscheles, il Concerto per due pianoforti di Mozart, i Concerti n. 4 e 5 di Beethoven, il Concertstùck di Weber.

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La scelta di repertorio del ventenne Mendelssohn indica la sen­ sibilità ad una evoluzione del gusto che era del resto inevitabile, dopo il sorgere di regolari stagioni di concerti sinfonici e dopo l’ampliamento della cultura iniziatosi negli ultimi decenni del Set­ tecento con l’interesse per la musica barocca. In una prospettiva più artistica che spettacolare, com’è ovvio, all’esecutore-compositore puro si sarebbe dovuto necessariamente affiancare l’esecutore in possesso non solo di dita d’acciaio ma di competenza e di magistero musicali tali da permettere l’esposizione pubblica di testi di valore altissimo. Il processo di trasformazione durò una ventina d’anni. H problema più spinoso era quello di acquisire alla vita culturale le pagine per pianoforte solo, molto più numerose delle grandi pagine per pianoforte e orchestra, e legate fino a circa il 1830 all’esecuzione privata o semiprivata. Moscheles poteva sì far cono­ scere al coltissimo banchiere parigino Augusto Léo le Sonate op. 109 e 110 appena pubblicate, ma undici anni dopo, facendo ascoltare a Londra le Sonate op. 109 e op. Ili in uno dei meetings che Thomas Alsager programmava per piccoli gruppi di appassio­ nati radunati nella Queen Square Select Society8, trovò «profonda devozione» ed anche perplessità, tanto che, per riequilibrare gli spiriti, tirò fuori la più passionale Sonata op. 31 n. 2. Il problema culturale, che veniva sentito da Moscheles e da altri, venne a maturazione più tardi perché un altro problema fu prima affrontato, il problema economico-organizzativo. I concertisti gira­ vano, la curiosità cominciava a circondarli e la fama a precederli, ma il pubblico dei teatri non era in grado di affrontare la musica da camera: la presenza dell’orchestra era ancora considerata necessa­ ria, almeno nei grandi centri, e così la presenza di più esecutori. Il ruolo del concertista venne però esaltato e all’improvvisazione si affiancò il grande pezzo per pianoforte solo, la fantasia pluritematica su temi di popolarissimi melodrammi. La accresciuta richiesta del pubblico fece alzare i compensi dei concertisti e la necessità di 8 Thomas Massa Alsager (1779-1846) fondò a Londra, verso il 1830, la Queen Square Select Society e più tardi la Beethoven Society che promosse la prima esecuzione integrale (Londra, aprile-giugno 1845) dei Quartetti di Beethoven.

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aumentare e spettatori e incassi rese sempre più frequente la scelta di grandi teatri. Fu di conseguenza necessario moltiplicare le po­ tenzialità sonore del pianoforte — tra il ’20 e il "30 vennero adottate staffe metalliche per aumentare la tensione delle corde, si ingrossarono i martelletti e si cominciò a rivestirli con uno spesso strato di feltro invece che con un sottile strato di pelle — e per intanto... si suonò più forte. Un conto è avere strumenti più potenti, un conto è suonar più forte. Molte voci lamentose scorrono fino a noi per dirci che verso il 1830 la apollinea tecnica classica cominciò a mutare e che la com­ postezza antica andò spesso a farsi benedire. Per non cascare nella esposizione delle mie impressioni ricorrerò di nuovo al falso di­ chiarato: non mio, questa volta. Credo che il lettore scorrerà con piacere un Dialogo dei morti pubblicato nel 1833 nella rivista Le Pianiste, che si stampava a Parigi; in quell’anno i partecipanti al concorso finale del Conservatorio avevano eseguito, senza orche­ stra, il Concertstùck di Weber, e l’anonimo estensore del divertente pezzo giornalistico (probabilmente il pianista-compositore Char­ les-Martin Chaulieu) non si lasciò scappare l’occasione di mettere umoristicamente in rilievo il superamento della tradizione: Clementi. Oh, Caronte! avanti con la barca. Caronte. Eccomi, signor morto; ma permetta che aspetti un momentino quella giovane ombra che corre laggiù. Weber. Caronte, Caronte! Caronte. Non si scalmani. L’aspetto. Weber. Uffa! Non ne posso proprio più. Clementi. Mio caro Carlo, ma che cosa può attirarLa colaggiù, debole com’è... Weber. Ah! Mio caro, vado a sentirmi; mi si suona, oggi... Clementi. In guardia, potrebbe essere... suonato! Ma ci vado anch’io; si dicon cose meravigliose di tutti questi giovani pianisti, si dice che son forti, forti... e voglio accertarmi del progresso.

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Weber. Mi fu raccontato, lo scorso inverno, che un ispirato giovine aveva suonato il mio Concertstùck con tal fuoco ed energia da elettrizzare l’assemblea9. Peccato ch’io non ci fossi! ma non mancherò questa volta, e noi faremo la strada insieme. Addio Caronte, tieni. Caronte. Signor Clementi, Ella oblia l’obolo... Clementi. Ah, è vero!... eccoti l’obolo, Caronte maledetto; quando ci farai dunque passar gratis? Caronte. Quando sarà generoso... Clementi. Ah! cavolo! ma moderiamoci, perché non possiamo passare senza di lui. Sa, Carlo carissimo, che i pianisti devono aver fatto un bel po’ di progressi dopo la mia partenza. Tra Lei e Beethoven li avete comandati a bacchetta; il mio timore è che, se l’arte musicale ci ha guadagnato, il pianoforte ci ha perduto! ai miei tempi... Weber. Perché mai, venerabile decano, perché si dovrebbe restringere questo bel strumento a semplice fattore di note? non può rendere tutti gli effetti che gli si vogliono imporre, ma tuttavia... Clementi. Là, là, là, piano! sono ben lungi dal condividere il Suo parere; perché la delicatezza del tocco, la finezza del tatto si perdono nei grandi effetti; e se mi sopprimete queste due qualità lo strumento sparisce, soffocato sotto il peso delle vostre trombe e dei vostri timpani, ed io non conosco dita che possano sostenere una simile lotta... Ne convenga, ai miei tempi... Weber. Certo, certo, ma se devo credere a quel che si dice Lei dovrà cambiare opinione. Clementi. Io! mai! la mia esperienza, mi permetterà di dirlo, può contare qualcosa, e ai miei tempi... Weber. Andiamo, non si scaldi: ascoltiamo, e poi giudicheremo. Clementi. E sia; mettiamoci dietro questa tenda per non essere distratti: ascolteremo meglio.

9 Probabile allusione a Mendelssohn.

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Weber. Come! senza orchestra, il Concertstùck senza orchestra: che profanazione! In che trappola sono caduto! Clementi. Carlo, si calmi; ecco un giovane che fa bene le ottave. Weber. Sì, ottave, sempre ottave, forse che il mio pezzo è uno studio d’ottave? Ma ascolti, è cambiato, è tagliato: profanazione! profanazione! Clementi. {a parte) Questi autori sono proprio sempre gli stessi. Weber. Ma sembra che il pianoforte non abbia smorzatori! Clementi. Lo credo bene, non molla mai il pedale: che rumore! ai miei tempi... Weber. Ma dica, che caos! ah!... Che c’è? non sento quasi più, che sono questi suonuzzi... Clementi. Eh! mi han parlato di ciò, è il pedale una corda, adesso capisco gli effetti di moda: si alzano gli smorzatori per suonare più forte possibile, e poi... Weber. Sì, intendo; ciarlatani, ciarlatani! Credo proprio che ai Suoi tempi... Clementi. Ha perfettamente ragione, caro il mio Carlo, ai miei tempi si sarebbe arrossiti, a cacciar degli effetti così dozzinali... Weber. E senza orchestra! ma perché non hanno scelto una delle mie belle Sonate? Clementi. (a parte) Crede che le sue Sonate siano adatte al pianoforte! (ad alta voce) Ma perché non ne hanno scelta una delle mie? Weber. (a parte) Crede che le sue Sonate siano difficili! (ad alta voce) Ma suonare senza orchestra una composizione in cui ho voluto rivaleggiare con Beet­ hoven! Andiamocene. Clementi. Sì, andiamocene, io non riconosco più il mio diletto pianoforte; ai miei tempi... Weber. È la mia orchestra che rimpiango, io; viaggio funesto! però una cosa mi stupisce, ed è la forza della loro esecuzione. Clementi. Dica la forza dei loro polsi, perché quanto alle dita...

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Weber. Parrebbero giganti! Clementi. E questo pianoforte dev’essere mostruoso: che solidità! Weber. Penso che forse erano in due a suonare. Clementi. Ha proprio ragione, mi han detto che a volte ci si mettono a venti insieme . Oh, Caronte! Caronte. Come, signore, già qui? Clementi. Sì, rientriamo, e per non ripartir più; ah! ai miei tempi...

La dinamica fragorosa, che Clementi censura nel dialoghetto, mise fuori gioco i pianisti di età avanzata e tutti coloro che non seppero o non vollero adeguarsi al nuovo corso: Cramer diede il suo concerto d’addio a Londra nel 1835 (eseguendo il Concerto in re minore di Mozart), Field, riapparso a Parigi negli anni 30 dopo decenni trascorsi in Russia, col suo tocco delicato e carezzoso sembrò uomo di un altro mondo, Kalkbrenner suonò quasi più soltanto a Parigi, Chopin, di gran lunga il maggior pianista-com­ positore degli anni 30, fece la figura di un... neofieldiano. E Mo­ scheles, dopo aver tentato una rivoluzionaria iniziativa, di cui diremo più avanti, nell’estate del 1839 decise di non suonare più in pubblico, e sebbene rompesse poi qualche volta il giuramento scomparve in pratica dalla vita concertistica nei trent’anni che ancora gli restavano da vivere. Le motivazioni di Moscheles sono interessanti: si sentiva musi­ calmente maturo, ma superato dal gusto nuovo e troppo in anticipo sul gusto a venire. Sentiva che forse era tramontata la figura stessa del pianista-compositore: «Finora ho fatto conoscere le mie opere al pubblico per mezzo delle mie esecuzioni al pianoforte: conti-

10 Probabile allusione al sistema didattico di John Baptist Logier, che aveva scritto esercizi da eseguire a più pianoforti.

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nuerà il mondo musicale ad avere per esse interesse quando mi ritirerò? Vedremo». Già nel 1860, dieci anni prima di morire, avrebbe dovuto constatare con dignitosa amarezza che la sua mu­ sica era sparita dalle sale di concerto. La destrezza unita alla forza fu verso il 1830 la bibbia del pianista. Ma la forza, se basta a far sentire uno strumento in un grande ambiente, non basta a far percepire eventi musicali com­ plessi. Mentre Berlioz selezionava timbri e combinazioni di timbri per rendere audibili le sue polifonie babilonesi anche in arene sterminate, i pianisti cercavano di toccare il pianoforte in modi diversificati, che ne variassero timbricamente la risposta11. Francois Fétis, che scriveva nel 1837, già faceva una interessante riflessione sulla storia del suono pianistico: «Il suono legato, eguale e lindo della scuola di Clementi, e di quella di Kalkbrenner, è da lodare per la somma esattezza del suo meccanismo, e per l’elegante sua facilità. Tutto è bello, nitido, regolare nei modelli di tali scuole. E in esse assolutamente escluso ciò che io appellerei trattamento della produzione DE’ suoni: trattamento che io veggo nella scuola di Hummel, e ben più in quella di Moscheles. Quest’ultimo ha molte diverse maniere d’attaccar la nota, secondo l’effetto ch’ei vuol produrre; ed ognuno concede ed afferma che con assai buon esito ei fa uso di tali risorse d’un’arte particolare; e che il suo suono è altresì distinto sì per la varietà che pel brillante. Stawi un particolar trattamento puranco nel suono di Liszt, però di tutt’altra natura; compiacendosi quasi farlo consistere nella deviazione la più compiuta che immaginarsi mai possa dalla scuola di Hummel. La delicatezza del tocco non è in verun conto l’oggetto precipuo della sua fantasia: le sue mire ad altro non tendono che ad accrescer la forza del Piano-forte, procurando a tutto potere di approssimarsi11 11 Stiamo parlando di timbro come concetto statistico. In senso assoluto il timbro è il suono concreto, e una variazione della dinamica comporta perciò una variazione del timbro. In senso statistico, invece, si può rilevare la presenza di caratteri fisici (armoniche) simili in suoni di dinamica (ampiezza) diversa. In altre parole, tra un suono piano e un suono forte del flauto c’è anche una piccola differenza di timbro, nettamente inferiore, però, alla differenza di timbro tra un suono di flauto e un suono di violoncello. Così, nel pianoforte, si usa parlare di varietà di timbro in relazione con la varietà di modi di attacco del tasto.

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cotal forza, per quanto è possibile, a quella d’un’orchestra. Conse­ guenze di ciò sono alcune combinazioni, tutte sue proprie, nell’uso frequente dei pedali, con singolari maniere d’investir i tasti: com­ binazioni d’un grand’effetto, sì, ma che però esigono uno studio lungo e profondo dell’istromento, non meno che una non comune forza di nervi». La testimonianza di Fétis ed osservazioni sparse di altri ci dicono che verso il 1830, oltre all’aumento del volume di suono, ancora verificabile sui pianoforti d’epoca, si cercò di differenziare i timbri molto più di quanto non si fosse usato in precedenza. Moscheles notò nel 1836 che gli «effetti d’arpa» ottenuti da Thalberg sul pianoforte «erano molto originali», e Liszt, entusiastico e fantasio­ so come sempre, scrisse nel 1837: «Noi possiamo suonare gli ac­ cordi come un’arpa, cantare come strumenti a fiato, staccare, lega­ re, eseguire sullo stesso pianoforte migliaia e migliaia di passi diversissimi che prima non erano possibili che su molti differenti strumenti»; Carl Czerny, pedagogo riflessivo ed acuto osservatore, associò la novità di timbri, essenzialmente, all’uso del pedale di risonanza 12, attribuendo a Thalberg l’iniziativa di «effetti nuovis­ simi, in prima giammai ambiti». Sul fatto non possono dunque sussistere dubbi, e per spiegare la concezione dei rapporti di più piani di sonorità basta analizzare le musiche di Thalberg o di Liszt composte tra il ’30 e il ’40. Ma sul suono concreto, sul timbro quale lo ascoltarono gli spettatori che affollavano i teatri in cui Thalberg e Liszt si producevano, non possiamo dir niente di sicuro: cioè, possiamo dire come quelle composizioni vengono oggi suo­ nate da pianisti la cui tecnica non ignora però Debussy, Ravel, Scriabin. «La raffinatezza dei cibi raggiunse valore d’arte», fa dire Diderot ad un suo personaggio che rievoca il regno di Kanoglù, cioè di Luigi XIV (Les bijoux indiscrets)\ gli possiamo credere, ma a noi restano solo le ricette, così come del Thalberg che faceva impazzire la gente restano solo le note stampate, che in quanto tali non ci fanno 12 «Crediamo di aver dimostrato che l’odierna esecuzione del pianoforte consiste in una bravura pressoché già salita al più alto grado, in una mólto raffinata espressione, ma in ispecie negli effetti che vengono prodotti mediante l’uso del pedale».

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impazzire: oggi possiamo riprendere la ricetta, ma il cuoco non è più quello. Czerny cita sette pianisti eminenti, i suoi sette savi, analizzando alcuni degli effetti più tipici da essi creati: Sigismondo Thalberg, Theodor Dohler, Adolph Henselt, Fryderyk Chopin, Wilhelm Taubert, Rudolf Willmers, Franz Liszt. Il primo è la base, l’ultimo il culmine, gli altri i gradi intermedi. Il maggior creatore di musica, tra i sette, è però l’unico su cui il buon Czerny, nell’ottica in cui si pone, debba fare qualche riserva: «Le composizioni di Chopin non sono sì ricche di brillanti effetti come quelle dei compositori di cui abbiamo già parlato, tuttoché siano notabilmente difficili a stu­ diarsi». Chopin non fu infatti un concertista di successo. Cominciò come pianista-compositore al modo tradizionale, e in quanto tale non andò lontano, non partecipò direttamente all’evoluzione del co­ stume che verso il ’30 lanciò una nuova generazione di virtuosi, e dopo il 1835 si limitò a rarissime apparizioni in piccole sale. Ma qual’era l’evoluzione del costume, a cui accennavo? Il pezzo centrale del concerto pubblico diventava la fantasia su temi di opere teatrali, vasta composizione pluritematica in cui il virtuoso dava fondo a tutte le sue invenzioni di suono. Un programma di Liszt tra i meno impegnati culturalmente (vedremo poi quale fosse la novità dei programmi lisztiani dopo il 1839), al quale collaborarono quattro grandi cantanti, fu eseguito a Trieste il 5 novembre 1839. Comprendeva: Lickl: Sinfonia per orchestra. Bellini-Liszt: Variazioni di bravura su un tema dei Puritani [Hexameron]. Lillo: Romanza per tenore. Liszt: Galop Cromatico, Auber: La festa da ballo, ouverture per orchestra. Donizetti: Lucia di Lammermoor, adagio [Sestetto trascritto da Liszt]. Rossini: Due ariette per soprano. Bellini: I puritani, quartetto per soprano, tenore, baritono e basso. Liszt: Fantasia sul tema «I tuoi frequenti palpiti» [Fan­ tasia sulla Niobe di Pacini]. I motivi che portavano il pubblico a gradire la fantasia dram­ matica sono evidenti: le melodie popolarissime, che tutti avevano sentito intonare dai grandi divi dell’ugola, rappresentavano l’ele­ mento noto su cui si fondava la comprensione, mentre l’ornamen­ tazione e la trasformazione rappresentavano l’elemento di novità

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su cui si basava la comparazione. Per un pubblico abituato non solo al melodramma, ma alle abitudini di ascolto del melodramma (sala illuminata, via vai tra i palchi, conversazioni, attenzione intermit­ tente a ciò che avveniva sul palcoscenico), una Sonata di Beethoven avrebbe significato un impegno intellettuale inusitato e gravoso. E non solo perché il pubblico dei teatri fosse poco colto, ma perché le Sonate di Beethoven erano state pensate per un pubblico che in senso lato possiamo’ definire di lettori, non di ascoltatori. La diffe­ renza tra lettori e ascoltatori cominciò ad attenuarsi, come vedre­ mo, verso il 1840, ed è oggi completamente scomparsa. Ma Bach scriveva il Clavicembalo ben temperato unicamente per lo studente o per la persona colta che l’avrebbe eseguito per sé, non per un pubblico di trecento o seicento persone (per il quale Bach scriveva le Cantate), e Haydn e Mozart componevano le loro sonate per il piacere dei dilettanti, che le facevano ascoltare tutt’al più in un ambito familiare, per un pubblico di invitati. Alcune Sonate di Clementi, nelle quali si afferma il concetto di bravura, cioè di professionalità 13, furono eseguite a Londra, ma solo fino a quando le scoperte tecniche clementine non divennero patrimonio comu­ ne. Beethoven non eseguì mai in pubblico una sua Sonata per pianoforte solo, e durante la sua vita, per quanto è noto, solo due delle sue Sonate ebbero l’onore dell’esecuzione pubblica: il dilet­ tante Stainer von Feldsburg eseguì nel febbraio del 1816 a Vienna l’op. 90 o l’op. 101, la pianista Sophia Hewitt eseguì l’op. 26 a Boston il 27 febbraio 1819. Hoffmann, forse con un po’ troppo ottimismo quanto alla tecnica, ma con straordinaria acutezza in­ tellettuale, scriveva già all’inizio del secolo: «Per quel che riguarda la semplice abilità delle dita, le composizioni pianistiche del mae­ 13 II già citato Leon Plantinga ha scovato un dizionario, ABC Dario Musico, pubblicato a Bath nel 1780, che alla voce «Clementi» dice: «Italiano. Ha composto alcune raccolte di lessons, in cui abbondano passaggi così particolari e difficili da dover esser stati studiati per anni prima della pubblicazione. Alludiamo in particolare alle successioni di ottave con cui egli ha infarcito le sue lessons. Il signor Clementi le suona straordinariamente bene, ed è un esecutore brillantissimo». Anche Mozart mette in luce lo studio meccanico su cui si fonda l’eccellenza di Clementi: «Ciò che fa veramente bene sono i suoi passaggi in terze. Ma a Londra ha dovuto sudarci sopra giorno e notte» (lettera del 7 giugno 1783).

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stro non presentano difficoltà particolari, perché le poche scalette, terzine, ecc. rientrano nel campo di ciò che ogni buon pianista deve saper fare; e tuttavia eseguire queste composizioni è veramente difficile. Parecchi dei cosiddetti virtuosi disapprovano i pezzi pia­ nistici beethoveniani, perché trovano che, oltre ad essere molto difficili, sono anche molto ingrati. Quanto alla difficoltà, non è piccola, dato che per un’esecuzione esatta e sciolta delle composi­ zioni di Beethoven è necessario comprenderlo, penetrare profon­ damente nella sua essenza, e con la coscienza della propria inizia­ zione osare di entrare arditamente nel cerchio delle magiche appa­ rizioni evocate dal suo potente incantesimo. Chi non sente in sé questa iniziazione, chi considera la sacra musica solo come un giochetto, come un passatempo per le ore d’ozio, come momenta­ nea eccitazione per orecchi ottusi o come mezzo per mettersi in mostra, se ne tenga lontano». Il problema culturale era di portare a conoscenza di un pubblico nuovo e diverso, a un pubblico di ascoltatori che considerava la musica come «passatempo per le ore d’ozio», il patrimonio musi­ cale destinato in origine ad un pubblico di lettori: in altre parole, leggere per estranei, non per sé e per gli intimi. Molti anni più tardi Erik Satie avrebbe acutamente analizzato l’essenza di questo pro­ blema, sia pur parlando della lettura di testi non musicali: «Ci sono diverse maniere di leggere:... per sé, per gli altri — o, perlomeno, per un altro. La lettura [per se stessi] è interiore, tutto quel che c’è di più interiore; mentre la lettura [per gli altri] — o per un altro — che (di solito) si effettua ad alta voce, è esteriore — quel che ci può essere di più esteriore. Leggere per se stessi è un gioco: nessun’arte vi va prodigata. Com’è difficile, invece, la lettura ad alta voce». E più avanti, mettendo a fuoco attraverso il paradosso una verità lapalissiana: «Consiglierei di non leggere ad alta voce un testo redatto in una lingua ignota all’ascoltatore. Non è di buon gusto e l’effetto è nullo». Eseguire in un teatro una Sonata di Beethoven sarebbe stato nel 1830 come declamare «un testo redatto in una lingua ignota all’a­ scoltatore». La fantasia drammatica, basata sull’idioma melodram­ matico a tutti noto, rappresentò dunque a parer mio il tramite tra il concerto con orchestra, già calcolato dagli autori per l’esecuzione pubblica, e la trasformazione sociologica della sonata, pensata dagli

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autori per l’esecuzione privata o semiprivata. Trasformazione che comportò una metamorfosi: l’esecuzione divenne interpretazione. Ho già detto poc’anzi che già la variazione tardosettecentesca su temi noti può essere considerata come una forma particolare di interpretazione; la fantasia drammatica sviluppa in alto grado questa tendenza, postulando la distinzione tra esecutore e creatore, cioè scindendo il binomio pianista-compositore, perché a nessuno sarebbe venuto in mente di non distinguere, nella lodatissima, osannata Fantasia sul Mose, l’opera creativa di Thalberg dall’opera creativa di Rossini. Nei confronti del pubblico la figura dell’interprete assume la sua prima fisionomia come volto della seduzione. È stato David H. Lawrence a dire che «nell’istante stesso in cui tocca il lato collettivo degli uomini ogni santo diventa diabolico» {Apocalypse). Si po­ trebbe dire che il lettore-santo, che ha meditato nel chiuso della sua cella e in modo dialettico i sacri testi diventa interprete-diavolo quando li espone alla folla in modo apodittico. Il rapporto tra un uomo sul podio, armato di uno strumento, ed una folla di mille o duemila persone nella quale si è perduto il vincolo intellettuale del dialogo, è in verità un rapporto di seduzione, che con Paganini viene affermato in modo inequivocabile, assumendo anche aspetti grotteschi, ma che resterà fondamentale nella figura dell’interprete. Ed è nella scia di Paganini, apparso sulla scena europea nel 1828, che tramontano Hummel e compagni mentre si affermano Thal­ berg e compagni. La componente magico-demoniaca dell’esecuzione pianistica comporta il fascino sensuale della sonorità in quanto tale, in quanto materia sonora, e comporta una gesticolazione che inchiodi sull’e­ secutore l’attenzione dell’ascoltatore. Le caricature ci permettono di farci un’idea di una mimica che tendeva a mettere in evidenza due aspetti contrapposti della musica eseguita: l’espressione canta­ bile e affettiva portava l’esecutore a piegarsi sullo strumento quasi abbracciandolo, il momento bravuristico era sottolineato dal busto eretto e da movimenti ampi delle braccia sopra la tastiera: atteg­ giamenti, rispettivamente, materno-consolatore e paterno-dominatore. Il massimo del movimento e dell’espressione mimica, sembra, fu raggiunto da Liszt che, al contrario degli altri, non manteneva neppur più la posizione costantemente al centro della tastiera: «Il

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Compositori al pianoforte

signor Liszt, la cui guida è un istantaneo sentimento, e che possiede una gran franchezza di esecuzione, si è il solo Pianista che non ha fissa posizione, ed il quale, a norma della natura del pezzo che ha fra le mani, si adatta ora più verso la destra, or più verso la sinistra; prescindendo che il suo corpo è sempre in una perpetua agitazio­ ne» (Fétis). Ci fu però anche chi comprese subito che, se la mobilità estrema eccitava il pubblico a capire fisicamente i due aspetti contrapposti della collaborazione e della lotta del pianista con lo strumento, Timmobilità avrebbe conseguito un effetto di divino distacco, di possesso senza sforzo della materia. Thalberg, al contrario di Liszt, restava pressoché immobile, con le labbra serrate, la giacca abbot­ tonata. Moscheles dice anzi che Thalberg gli confessò «di aver raggiunto questo atteggiamento di selfcontrol fumando una pipa turca mentre studiava gli esercizi; la lunghezza del cannello era calcolata in modo da tenerla eretta ed immobile». E il pubblico sapeva che Thalberg, al contrario di quasi tutti i musicisti, non era di umili origini: era figlio, sia pure illegittimo, di un principe e di una baronessa. Ragione di più di adorazione feticistica, per la nuova borghesia che prendeva il potere verso il 1830...

INTERPRETI AL PIANOFORTE

Il problema culturale, sentito da Mendelssohn, dai pianisti inglesi e da altri, fu risolto da Moscheles in modo illuministico, senza tener conto di quella componente fondamentale dell’interpretazione che è a parer mio la seduzione del pubblico. Il 18 febbraio 1837 Moscheles presentava a Londra questo programma:

Weber: Sonata op. 24. Purcell: Mad Bess. Bach: Preludi e fughe in do diesis maggiore, do diesis minore e re maggiore [probabilmente dal primo libro del Clavicembalo ben temperato}. Canzone tedesca «Laprima viola». Beethoven: Sonata op. 31 n. 2. Scarlatti: «Scelta di pezzi dalle Suites of Lessons (compresa la celebre Fuga del gatto) nella versione originale per clavicembalo ed eseguiti, a richiesta, su questo strumento». Hàndel: Il fabbro armonioso. Mozart: Duetto da Così fan tutte. Beethoven: Sonata op. 8 la. Jackson: «Va, debole tiranno». Moscheles: Scelta dei Nuovi Studi [op. 95]. Moscheles impostava il suo programma su un secolo intero di storia, selezionava le musiche in base al loro valore metastorico, senza nessuna concessione alla moda, e poneva anche l’esigenza del recupero dello strumento, oltre che della musica barocca. Altri due concerti dello stesso tipo seguirono nella stessa stagione: Moscheles eseguì al clavicembalo anche il Concerto in re minore di Bach con quartetto d’archi e ripete l’esperimento, sempre con successo, il 22 gennaio 1838, eseguendo un programma con quattro pezzi di canto, l’Appassionata di Beethoven, la Sonata n. 4 di Weber e qualcosa come venti composizioni di Scarlatti, J.S. Bach (Toccata in re minore), Wilhelm Friedemann Bach, Cari Philipp Emanuel Bach, Johann Christoph Bach, Johann Christian Bach, Hàndel, Wblfl, Dussek, Steibelt, Clementi, Field, Cramer, Hummel, Herz,

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Interpreti al pianoforte

Potter, Chopin, Thalberg, Moscheles, Mendelssohn (si noti però l’assenza di Mozart e di Haydn). Poi, come abbiamo già visto, nell’estate del 1839 decise di abbandonare la carriera concertistica per «coltivare la musica secondo il mio gusto e le mie convinzio­ ni»... Nell’estate del 1839 Franz Liszt passava tranquille vacanze a San Rossore con la sua compagna ed i tre figli. In ottobre si metteva in cammino per Vienna dove lo attendeva una serie di sei concerti, esauriti in prevendita, con seicento persone che non avevano tro­ vato posto e trecento che si erano già prenotate per altre eventuali serate. I concerti di Vienna sarebbero diventati l’inizio di una inebriante avventura, che avrebbe portato Liszt a percorrere da trionfatore tutta l’Europa e farlo classificare come iniziatore del concertismo moderno. I programmi di quei sei concerti definivano — a livello di grande pubblico anonimo, a livello, se vogliamo usare una definizione un po’ pericolosa, di cultura di massa — il primis­ simo passaggio dal pianista-compositore al pianista-interprete, dal compositore che metteva in scena i suoi lavori al regista. Liszt non rinunciava di certo a porre se stesso anche come protagonista nella storia della creazione, né rinunciava alle fantasie su temi di opere teatrali, che in quel momento rappresentavano ancora il più sicuro aggancio con un vasto pubblico, ma nello stesso tempo cominciava, seppur embrionalmente, a portare l’attenzione anche su altri com­ positori. Questo il repertorio presentato nei concerti di Vienna: Beethoven: Sonata op. 31 n. 2, Trio op. 97. Chopin: Mazurche. Liszt: Studi trascendentali n. 4, 7 e 9, Valse di bravura, Al lago di Wallenstadt, Frammento da Dante [prima versione della Fantasia quasi Sonata dopo una lettura di Dante], Hexameron, Reminiscenze dei Puritani, Reminiscenze della Lucia di Lammermoor, Fantasia sulla Sonnambula, Melodie unghe­ resi, L'orgia e Tarantella napoletana (da Rossini), Lieder da Schubert (Ave Maria, Die Stadt, Das Fischermadchen, Aufenthalt, Der Atlas, Die Taubenpost, Frlk'ònig}, Scherzo, Tempesta e Finale dalla Sinfonia pastorale di Beethoven. Il successo dei concerti viennesi elevò Liszt in una dimensione di fanatismo che in precedenza era stata toccata solo da alcuni divi dell’ugola e da Paganini. Tra il 1840 e il 1847 Liszt suonò — si

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ricordi lo stato delle comunicazioni: erano appena i tempi dei primi tronchi della rete ferroviaria — in quasi tutti i paesi d’Europa ed arrivò fino ad Istanbul. Con l’esclusione degli Stati Uniti, tutto il mondo musicale che gravitava intorno alla dominante cultura te­ desca ebbe modo di ascoltare Liszt, di spettegolare sui suoi amori con la ballerina Lola Montez o con l’attrice Charlotte Hagn o con la dama delle camelie Marie Duplessis o Marguerite Gauthier o Vio­ letta Valery che dir si voglia; le ricche ed opulente dame rinserrate nei busti potevano svenire ascoltandolo e collezionare i mozziconi dei suoi sigari ed altri cimeli su cui la storia, casta custode di sante memorie, virtuosamente tace. Il lettore interessato al Liszt perso­ naggio potrà trovare di ciò ampi ragguagli in una qualsiasi biogra­ fia, anche non romanzata. Qui ci interessa vedere come Liszt, figura che oggi definiremmo «da rotocalco», trasformasse il costu­ me del concerto pubblico. Il repertorio completo presentato da Liszt dal 1838 al 1848, redatto da August Conradi, è stato pubbli­ cato nel Liszts Leben di Peter Raabe; lo elenco qui in un ordine diverso da quello orginale (che è per generi): Bach: Concerto per tre pianoforti [in re minore], Fughe per organo, Preludio e fuga in la minore dal Clavicembalo ben temperato [Il libro?], Variazioni di Goldberg. Beethoven: Concerti n. 3 e 5, Fantasia op. 80, Quintetto op. 16, Sonate op. 26, 27 n. 1 e 2, 31 n. 2, 37, 90, 101, 106, 109, 110, 111, Variazioni, Sonate per violino e pianoforte, Sonate per violoncello e pianoforte, Trii. Chopin: Concerti n. 1 e 2, Variazioni op. 2, Studi, Valzer, Polacche, Mazurche, Ballate, Notturni, Improvvisi, Scherzi, Preludi. Czerny: Sonata n. 1, Sonata a quattro mani, Fantasia, Variazioni op. 14 su «Gott erhalte Franz den Kaiser». Dóhler: Studi, Melodie russe. H’àndel: Suites, Variazioni. Henselt: Concerto op. 16, Air bohémien. Hiller: Studi. Hummel: Concerti in la min. e si min., Sonata op. 81, Fantasia op. 18, Sonata a quattro mani, Settimino op. 74, Trii. Kessler: Studi, Toccata. Kroll: Variations mignonnes. Liszt: Studi, Studi da Paganini, Hexameron, Marcia eroica \in stile ungherese], Harmonies poétiques et religieuses, Tre Sonetti del Petrarca, Feuille morte, Gaudeamus igitur, Valse mélancolique, Valse de bravoure, Caprice-valse, Galop chromatique, Fantasie su motivi di opere di Auber, Bellini, Donizetti, Halévy, Kullak, Meyerbeer, Mozart, Pacini, Parafrasi su

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temi di Bulhakov e Conradi, Fantasie e Parafrasi su temi popolari inglesi, italiani, spagnoli, svedesi, svizzeri, ungheresi, Trascrizioni di Lieder e romanze di Beethoven (Adelaide), Dessauer, Donizetti, Liszt, Mendels­ sohn, Meyerbeer, Mercadante, Rossini, Schubert (50 pezzi), Schumann, Weber, Wielhorsky, Trascrizioni di marce di Beethoven, Giuseppe Doni­ zetti, Glinka, Schubert, Vollweiler, Trascrizioni di ouvertures di Beetho­ ven (Egmont), Berlioz (Carnevale romano), Mozart (Flauto magico), Ros­ sini (Guglielmo Tell), Weber (Freischutz, Jubelouverture, Oberon) e di sinfonie di Beethoven (n. 5, 6, 7) e Berlioz (Sinfonia fantastica). Louis Ferdinand, principe di Prussia: Quartetto. Mayseder: Trii. Mendelssohn: Concerti n. 1 e 2, Variations sérieuses, Fughe, Scherzi, Trii. Moscheles: Concerti n. 2, 3, 4, Studi, Variazioni sulla marcia di Ales­ sandro, Sonata a quattro mani. Nicolai: Tre Studi melodici. Pixis: Variazioni su un tema del Barbiere di Siviglia, Trii. Scarlatti: Fuga del gatto. Schachner: Ombres et rayons. Schubert: Fantasia op. 15, Trii. Schubert [Karl]: Sonata. Schumann: Carnaval op. 9, Sonata op. 11, Fantasia op. 17. Weber: Concertstùck, Sonate n. 1, 2, 3, 4, Polonaise, Momento capric­ cioso, Invito alla danza 1. Malgrado le approssimazioni — quali Variazioni di Beethoven? quali Studi, quali Ballate di Chopin? e così via — la concezione che balza imperiosa dal repertorio è evidente: il pianoforte comincia con Beethoven, o diventa adulto con Beethoven,... con il Beetho­ ven delTop. 26, e culmina nel Liszt trascrittore che riesce a portare sul pianoforte grandi pagine dell’orchestra contemporanea. Liszt recupera inoltre al pianoforte — Moscheles lo aveva recuperato sul clavicembalo — il clavicembalo «adulto» di Bach, di Hàndel, di Scarlatti, delineando quindi implicitamente una storia del piano­ forte intesa all’incirca così: c’era una volta l’impeto del clavicem­ balo che, dopo aver toccato un culmine di potenza, decadde e fu vinto da un giovane barbaro, il pianoforte; un grande imperatore, 1 II Raabe cita un'altra dozzina di pezzi che non figurano nel catalogo del Conradi e della cui esecuzione si ha notizia da giornali: l’unica omissione importante rilevata dal Raabe è tuttavia quella della Sonata op. 53 di Beetho­ ven.

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Beethoven, organizzò il nuovo impero, i suoi successori lo fanno più potente, guidandolo fino alla vittoria sugli imperi rivali del­ l’orchestra e del melodramma. Liszt non eseguiva quindi né un Concerto né un pezzo di Mo­ zart, e riconosceva la grandezza di musicista di Mozart, ma non di pianista, includendo nel suo repertorio le fantasie sul Don Gio­ vanni e sulle Nozze di Figaro e l’ouverture del Flauto magico. Escluso Mozart restavano esclusi Haydn, Clementi, Cari Philipp Emanuel Bach, e in genere tutta la seconda metà del Settecento, periodo in cui il pianoforte era bambino. Moscheles, dal suo os­ servatorio illuministico, aveva considerato la storia in altro modo: «Ho nuovamente scavato fra i tesori inceneriti della Pompei musi­ cale e portato alla luce parecchie grandezze. Beethoven è grande, e chi potrei nominare più grande di lui? Ma poiché il pubblico ascolta non soltanto lui, ma anche i moderni pezzi d’effetto, voglio che conosca i compositori dalle cui spalle Beethoven spiccò il volo dell’aquila. Non si deve dimenticare il passato della propria arte, quando si vuole rendere omaggio al presente. Perciò ho cominciato con gli antichi maestri, e voglio guidare i miei ascoltatori un po’ alla volta fino a quelli dei nostri giorni; alla fine essi potranno fare confronti e concludere» (Diario, 1838). Tuttavia, Moscheles usciva sconfitto, Liszt vinceva, e la sua impostazione storico-critica, come avremo occasione di vedere, sarebbe stata approfondita ma non corretta dai suoi successori e sarebbe durata, come disegno teorico dominante, fino a oltre la fine dell’ottocento. Ciò non significa che i programmi di Liszt fossero impostati nel modo che sarebbe prevalso nella seconda metà del secolo. Già durante il periodo della sua attività concertistica il recital poteva in verità avere una struttura che, mutatis mutandis, si ritrova tale e quale nella vita concertistica di oggi. Ad esempio, nel primo recital pianistico tenuto al Gewandhaus di Lipsia, il 15 settembre 1844, il pianista Louis Rakemann eseguiva questo pro­ gramma: Bach: Toccata in fa diesis minore. Heller: Scherzo op. 24 e Capriccio sopra «Die Forelle» di Schubert. Mendelssohn: Capriccio in mi maggiore [probabilmente op. 16 n. 2]. Beethoven: Sonata op. 81a. Chopin: Ballata op. 47. Il Rakemann, al contrario di Liszt, non era però in grado di riempire un teatro e di far conoscere le musiche di Beethoven o di Chopin a chi, di Beethoven e di Chopin, orec­

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chiava appena il nome. La struttura del recital di Liszt si pone invece in diretta concorrenza, in concorrenza mimetica con quella del concerto misto — orchestra, solista, cantanti — che già negli anni trenta aveva raccolto il pieno consenso del pubblico. Abbiamo già visto il programma del concerto tenuto a Trieste nel 1839. Il paragone con il programma di un altro concerto, tenuto a Marsiglia il 24 luglio 1844, dimostra che Liszt non annullava, ma sostituiva la partecipazione dell’orchestra, puntando sul fatto sen­ sazionale della sfida alle abitudini del pubblico, dell’affermazione orgogliosa dell’artista solitario in grado di non far rimpiangere la varietà dei normali concerti: 1. Beethoven: Sinfonia n. 5 [probabilmente il primo o il secondo tem­ po]; 2. Rossini: Ouverture del Guglielmo Teli; 3. Romanza dell’Ebrea di Halévy, cantata dalla signora Marquand-Cegatta; 4. Beethoven: Scherzo e Marcia (terzo tempo e finale della Sinfonia n. 5); 5. Liszt: Fantasia sul «Roberto ilDiavolo»; 6. Weber: Ouverture dell’Oberon; 7. Liszt: Fantasia sulla «Lucia di Lammermoor»; 8. Donizetti: Aria della Favorita, cantata dalla signora Marquand-Cegatta; 9. Chopin: Mazurca, e Polacca dai Pu­ ritani [forse l’Hexameron, variazioni, di cui una di Chopin, sulla Marcia dei Puritani]; 10. Rossini: Romanza del Guglielmo Teli, cantata dalla signora Marquand-Cegatta; 11. Liszt: Galop cromatico. L’inclusione in programma di pagine trascritte dall’orchestra fu talvolta rimproverata a Liszt. Schumann, recensendo con ammira­ zione sconfinata i concerti tenuti a Lipsia nel 1840 scrisse anche: «Cominciò con lo Scherzo e col Finale della Sinfonia pastorale di Beethoven. La scelta era abbastanza bizzarra e non felice per molte ragioni. In una stanza, a quattr’occhi, questa trascrizione, del resto estremamente accurata, può far dimenticare l’orchestra; ma in una sala più grande, nello stesso luogo dove abbiamo udito la Sinfonia così sovente e così compiutamente eseguita dall’orchestra, la de­ bolezza dello strumento appariva tanto più sensibile, quanto più la trascrizione cercava di rendere le masse nella loro forza; una ridu­ zione più semplice, uno schizzo avrebbe fatto maggior effetto». Parole ragionevoli, s’intende. Ma non si può dimenticare il fatto che Liszt doveva vincere il pregiudizio di un pubblico abituato a imbandigioni variate; e, del resto, l’esecuzione delle Sinfonie di Beethoven o di brani di Weber o di Berlioz, almeno in piccoli centri che non disponevano di orchestre sinfoniche, rispondeva all’inso-

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stituibile compito di propagare la musica contemporanea d’avan­ guardia (anche se allora il termine «avanguardia» non era ancora in uso). Talvolta i programmi di Liszt erano meno dimostrativi delle sue preclare virtù di uomo-orchestra, pur restando sempre altamenti virtuosistici. A Kiev, ad esempio, il 2 febbraio 1847, Liszt eseguì: Liszt: Hexameron. Weber: Concertstùck [in versione per pianoforte solo]. Schubert-Liszt: La trota. Chopin: Studio. WeberLiszt: Invito alla danza. Improvvisazione su temi proposti dal pubblico. Talvolta, avendo occhio attento alle aspettative del pub­ blico, Liszt limitava ad un minimo le musiche originali per piano­ forte, arrivando fino al punto di eseguire tempi staccati di Sonate di Beethoven, ma le sue intenzioni culturali, seppur ottenute attra­ verso lo spettacolo, traspaiono sempre. Resta da chiedersi come Liszt eseguisse il suo sterminato reper­ torio. Le testimonianze sul fascino delle sue esecuzioni sono nu­ merose, ed alcune — di Berlioz o di Anton Rubinstein, ad esempio — assolutamente insospettabili. Ma sulla sua sonorità e sul suo fraseggio sappiamo ben poco di preciso. Sappiamo qualcosa di più sui ritocchi che Liszt apportava a composizioni nelle quali il rap­ porto tra interesse musicale e difficoltà virtuosistica non era, a parer suo, sufficientemente equilibrato. Le edizioni lisztiane della Fan­ tasia cromatica e fuga di Bach o delle Sonate di Beethoven sono sostanzialmente corrette, e la sua edizione della Sonata op. 39 di Weber non ha nulla a che vedere con il completo rifacimento virtuosistico di un celebre pianista, Adolph Henselt, di soli due anni più giovane di Liszt. Non sappiamo però se Liszt, nelle sue esecuzioni, avesse seguito le sue edizioni, che avevano finalità didattiche, non concertistiche. Se osserviamo le versioni alternative che Liszt, nella sua edizione riveduta, propone per una pagina come l’improvviso op. 90 n. 2 di Schubert, comprendiamo quale grado di trascendentale difficoltà venisse ritenuto necessario perché una pagina affrontabile dai dilettanti diventasse degna di esecuzione pubblica. Al di là di quanto risulta da alcune revisioni e al di là dell’auto­ critica di Liszt stesso, che già negli anni 30 si accusava di aver parafrasato le pagine dei grandi maestri per renderle più appetibili a un pubblico incolto, non sappiamo però nulla di preciso, e saremmo disonesti se pensassimo di poter ricostruire indiretta­

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mente qualcosa di non fantastico, di non puramente ipotetico. Potremmo usare forse come grimaldello i rulli di pianoforte mec­ canico incisi da Bernhard Stavenhagen all'inizio del nostro secolo? Lo Stavenhagen, che era stato allievo di Liszt, dichiarava di ese­ guire le due Leggende e la Rapsodia ungherese n. 12 «secondo ricordi personali di Franz Liszt ». Apriti cielo! A parte il fatto che Stavenhagen aveva studiato con Liszt molto tardi, negli anni 80, se Liszt suonava in quel modo persino le sue musiche c'è da ringra­ ziare Thomas Alva Edison e l’ingegner Welte per aver inventato troppo tardi il fonografo e il pianoforte automatico! Io amo credere che Liszt non suonasse affatto così, neppure da vecchio,... e nessuno può smentirmi. Le carte dicono che Liszt al pianoforte era un incantatore, la storia dice che, dopo aver inven­ tato il recital, provvide a difenderlo istituendo un ordine di cava­ lieri senza macchia e senza paura cresciuti alla sua scuola. Un solo grande concertista della seconda metà dell’ottocento non gravitò nella sua orbita e, anzi, gli si oppose con feroce violenza. E fu una donna: Clara Wieck in Schumann. Allevata da un padre autoritario che la fece esordire nel 1827, a otto anni, con il Concerto K 449 di Mozart, Clara era negli anni 30 un pianista-compositore che oscil­ lava da Thalberg a Beethoven. Passata definitivamente sotto l'in­ fluenza di Schumann, Clara divenne sempre più paladina di Beet­ hoven e di tutto ciò che a questa scelta conseguiva. Il suo repertorio beethoveniano, iniziato nel 1835 con la Sonata op. 57, comprese poi anche le op. 7, 27 n. 1 e 2, 28, 31 n. 2, 53, 81, 101, 106, 109. Di Schumann, ovviamente, Clara eseguì molti lavori, ma met­ tendoli a repertorio con lentezza molto maggiore di quanto non ci aspetteremmo. Ecco la progressione delle sue esecuzioni delle maggiori opere per pianoforte solo di Schumann: op. 7 (1834), op. 11 (1837), op. 10 (1844), op. 12 (1844), op. 13 (1853), op. 9 (1856), op. 16 (1856), op. 26 (1860), op. 6 (1860), op. Ili (1862), op. 20 (1866), op. 17 (1866), op. 5 (1866), op. 15 (1868), op. 23 (1868), op. 82 (1869), op. 22 (1871), op. 2 (1871). Il repertorio di Clara comprendeva anche del Bach inconsueto (la Partita n. 5 in sol maggiore), Hàndel e Domenico Scarlatti, una Sonata di Haydn (ma nessuna di Mozart), la Sonata op. 40 n. 2 di Clementi, 3 Sonate (la minore, sol maggiore, si bemolle maggiore) di Schubert, parecchie cose di Mendelssohn e di Chopin, lo Scherzo op. 4, i tempi inter­

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medi delle Sonate op. 1 e op. 5, due delle Ballate op. 10, i Valzer op. 39, il Capriccio op. 76 n. 2, l’intermezzo op. 76 n. 6, la Rapsodia op. 79 n. 2, il Concerto op. 15, alcune Danze ungheresi e le Variazioni su un tema di Hàndel di Brahms, moltissima musica da camera; il compositore più moderno del suo repertorio fu Bernhard Scholz, di cui eseguì il Concerto nel 1875. Anche Brahms restò accuratamente discosto da Liszt; ma Brahms fu pianista-interprete — pianista-interprete d’avanguardia, che non lasciava gustare al suo pubblico nessun bon-bon — solo per poco tempo, e poi proseguì la carriera come pianista-composi­ tore. Altri pianisti, e anche meritevoli di essere ricordati, non seguirono le direttive tracciate da Liszt: ad esempio, l’inglese Charles Hallé fu il primo che nel 1861 eseguì a Londra il ciclo completo delle trentadue Sonate di Beethoven, Camille Saint-Saèns eseguì negli anni 60, a Parigi, sedici Concerti di Mozart in quattro serate, Cari Wolfsohn tenne negli Stati Uniti cicli di concerti chopiniani e schumanniani, Joseph Rubinstein — non imparentato con Anton — andò incontro a un disastro quando, nel 1880, eseguì a Berlino i due libri del Clavicembalo ben temperato, I grandi concertisti, coloro che potevano far chiudere il botte­ ghino di un teatro prima ancora di arrivare sulla piazza, coloro che potevano vendere la loro firma pubblicitariamente e patrocinare marche di pianoforti, erano o allievi di Liszt o suoi devoti. Alfredo Jaell, triestino, allievo di Czerny a Vienna, celebrato per la bellezza di un suono cantabile che veniva comunemente attribuito alle morbide virtù della sua grassezza, eseguì per primo a Parigi il Concerto di Schumann ed eseguì musiche di Brahms, ma fu anche tra i primi, se non il primo, a far conoscere il Concerto in mi bemolle maggiore di Liszt. Un interessante epistolario Liszt-Jaèll ci dice dell’ammirazione di Liszt per il giovane campione di una composizione che i critici tedeschi seppellivano sotto il più pesante disprezzo. Jaell fece anche conoscere vari pezzi delle opere di Wagner, da lui stesso trascritti, e con la moglie Marie Trautmann formò più tardi un duo per cui Saint-Saèns scrisse le Variazioni su un tema di Beethoven. Un altro grande concertista, che non essendo allievo di Liszt ne fu amico, era il russo Anton Rubinstein, del quale parleremo in seguito. Tutti gli altri studiarono con Liszt a Weimar: Hans von

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Biìlow, Hans Bronsart von Schellendorf, Sophie Menter, Karl Klindworth, e la stella di tutte le stelle, il polacco Tausig. Karl Tausig, che morì a trentanni, nel 1871, era dotato di capacità virtuosistiche tali da stupire non solo tutti coloro che lo ascoltarono, ma persino Liszt. Come virtuoso-creatore diede inizio a due importanti filoni del repertorio concertistico di fine Otto­ cento: la trascrizione virtuosistico-coloristica da Bach, la parafrasi sui valzer di Johann Strauss. Ma in Tausig, per lo meno nel Tausig degli ultimi anni, si doveva avvertire la sazietà e il superamento del virtuosismo. Un suo programma, eseguito a Berlino all’inizio del 1870, può essere considerato quasi esemplare anche dal punto di vista di oggi:

Beethoven: Sonata op. 53. Bach: Bourrée. Mendelssohn; Presto scher­ zando. Chopin: Barcarola op. 60, Ballata op. 47, due Mazurche dalTop. 59 e dalTop. 33. Weber: Invito alla danza. Schumann: Kreisleriana op. 16. Schubert-Liszt: Serenata da Shakespeare., Liszt: Rapsodia ungherese. La pianista americana Amy Fay, che studiava con Tausig, com­ menta così l’esecuzione in una lettera ai familiari: «Le ottave di Tausig sono le più straordinarie che ho mai ascoltato. L’ultimo pezzo del suo programma, di grande effetto, era la Rapsodia di Liszt con una variazione d’ottave2. Dapprima l’ha suonata così pianissimo che appena si sentiva, poi ha ripreso la variazione con vigore, straordinariamente forte. Era colossale! Le sue scale supe­ rano quelle di Clara Schumann; sembra che le suoni con dita di velluto, tanto è dolce il suo tocco. Ha eseguito la grande Sonata in do maggiore di Beethoven, pezzo favorito di Moscheles, come sapete. Non l’ha resa in modo così brillante come mi aspettavo, ma in una maniera calma e sognante; ha attaccato molto piano il primo tempo, in cui è stato ammirevole, ma non sono stata del tutto soddisfatta dell’ultimo perché supponevo che arrivasse a produrre un grande effetto con i bei trilli appassionati, il che non è stato. Suona Chopin divinamente, e quella piccola Bourrée di Bach, che avevo l’abitudine di provare sovente, era magica: l’ha suonata come 2 Potrebbe darsi che si trattasse della Rapsodia ungherese n. 6, ma non è da escludere che si trattasse della Rapsodia n. 2, con Tultima pagina in ottave alternate.

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un lampo e l’ha resa del tutto incantevole. È un granduomo ma, come Rubinstein, non ti commuove quanto Clara Schumann, che si mette subito in rapporto con te. Mi pare dunque che Clara Schu­ mann sia la più grande interprete, benché i tedeschi non siano d’accordo, penso, con me. Tausig ha una mano così piccola che mi chiedo come abbia potuto acquisire il suo immenso virtuosismo. Non ha che trentanni ed è quindi molto più giovane di Rubinstein e di Bùlow». La Fay, che come pianista doveva essere all’incirca un’oca, ma che sembra un’acuta osservatrice e che dopo esser passata sotto le grinfie di Tausig (maestro-orco che distruggeva gli allievi), emigrò tra Kullak, Liszt, Deppe, paragona con acume i quattro maggiori pianisti degli anni 70. «Vi dico prima di tutto le mie impressioni su Clara Schumann. Ha molto fuoco, il suo stile è grandioso, perfettamente coerente e solido, e piace: è un’artista che è bene ascoltare, ma che non ha, nel suo genere, nulla di analitico al modo di Balzac o di Hawthorne, nessuna finezza o poesia di esecuzione. Suona alla perfezione Bach e quel che le ho sentito eseguire meglio sono le Variazioni in do minore di Beethoven, molto difficili; le ha rese, a mio avviso, meglio di Bùlow, che è tuttavia un grande specialista beethoveniano. La Schumann ripete spesso gli stessi pezzi, probabilmente perché trova molto faticosa la moda attuale di suonare a memoria. L’ho sentita insorgere contro quest’abitudine, e credo che sia una follia pretendere una tal cosa da una così grande artista come Clara Schumann. Se si volesse soltanto permetterci di suonare a modo nostro, secondo le nostre disposizioni! «Bùlow ha un modo di suonare notevole, soprattutto per il suo grande vigore; egli spiega un’energia illimitata, e più lo si ascolta, più l’interesse aumenta. Dei quattro è lui che preferisco. Suona Chopin bene come Beethoven e come Schumann; è un pianista di talento superiore, sebbene non sia ben sicuro della sua esecuzione. L’ho visto in grave imbarazzo. Credo che abbia troppa fiducia nella sua memoria, perché suona tutto a memoria; e che programmi! Tocca sempre col pollice dalla parte dell’unghia e possiede una forza tale! I suoi accordi ti rapiscono. Bisogna ascoltarlo all’inizio del finale della Sonata Chiaro di luna, quando suona gli arpeggi della mano destra salendo leggermente e pianissimo, articolando

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delicatamente ogni nota, e termina con il “fracasso” dei due ac­ cordi acuti! E com’è divertente quando suona le gavotte, le gighe ecc. nelle Suites inglesi di Bach! Con un’aria sorniona che gli appare sul viso imprime loro un’originalità indescrivibile! Senti che vede così bene il suo fine che tu l’indovini; forse posso riassumere ciò che penso della suà grande superiorità dicendo che impressiona perché usa il pianoforte unicamente per esprimere delle idee. Ti fa di­ menticare lo strumento facendoti piombare nella passione. Rubin­ stein, che avete ascoltato, è collocato sul piano di Liszt da molte persone, ed io mi stupisco che l’abbiate trovato freddo, perché è celebrato per l’ardore della sua esecuzione e la spontaneità della sua immaginazione. Credo che Bùlow e Clara Schumann sappiano già prima come interpreteranno il tale o talaltro pezzo, ma che Rubinstein Pignori, che suoni senza piani preventivi, secondo l’i­ spirazione del momento. Nel pomeriggio in cui l’avete ascoltato non era probabilmente in vena. Come compositore supera di molto gli altri. «Tausig era quello che si avvicinava di più alla sottigliezza di Liszt e, di conseguenza, era quello che, dopo il Maestro, interpre­ tava meglio Chopin. Non dimenticherò mai la sua esecuzione della grande Ballata in sol minore di Chopin la prima volta che l’ho ascoltato in concerto. Questa Ballata è una composizione divina, e lui la rendeva non solo con calore e fervore, ma con una poesia che gettò un incantesimo sul pubblico e gli impedì per uno o due minuti, prigioniero e silenzioso, di applaudire. Era come un sogno di bellezza che ti si stendeva davanti e che non volevi turbare! «A Tausig piaceva molto Chopin e sempre si rammaricava di non averlo potuto conoscere. Credo che avesse più virtuosismo e ancor più delicatezza di sentimento di Bùlow e di Rubinstein. La sua finitezza, la sua perfezione e soprattutto il suo tocco erano al di sopra di tutto. Esecutore appassionatissimo a scuola, era freddo davanti al pubblico, tranne quando interpretava Chopin. Era il prediletto di Liszt, che diceva: “Sarà il mio erede”. Ma dubito che sarebbe stato così, perché nell’inverno che precedette la sua morte Kullak mi fece notare che il suo modo di suonare diveniva di anno in anno più secco; forse era a causa della sua avversione morbosa agli “spettacoli”, come chiamava le sedute pubbliche in cui Liszt, all’opposto, liberava tutte le sue emozioni».

Tausig

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Sembra che Tausig, stanco, come diceva la Fay, degli spettacoli, stesse progettando programmi monografici e programmi con mu­ siche antiche, forse seguendo l’esempio di Ernst Pauer, che negli anni 60 teneva a Londra cicli di concerti sulla letteratura cembalo­ pianistica del Settecento. Non sappiamo immaginare come Tausig si sarebbe evoluto se fosse vissuto più a lungo, e non possiamo neanche sapere come suonasse in realtà, per quanto suggestive siano le immagini della Fay. La Fay ci dice anche che nel Concerto in mi minore di Chopin Tausig eseguiva «in ottave, invece che in note semplici, il passaggio alla fine, lungo due pagine, che è scritto per due mani all’unisono». E aggiungeva: «Gigantesco!». Se an­ diamo a vedere la versione di Tausig, e se l’ascoltiamo nell’esecu­ zione di Moritz von Rosenthal, che ci è restata in disco, troviamo in realtà una banale modificazione del testo originale, molto incisiva e sonora ma tecnicamente mollo più facile:

Le parole, le lodi, le estasi, come al solito, diventano sospette — il che non significa che siano sempre menzognere — quando non siamo in grado di sottoporle ad un minimo di verifica. È davvero difficile parlare dei pianisti e della loro arte quando non si possiede

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più traccia del loro suono. E questa situazione disperante si protrae fino ad un imprecisato giorno di novembre del 1889, fino al giorno in cui un grosso gentiluomo tedesco-viennese di cinquantasei anni berciò dentro un imbuto, con una voce di tenore comprimario resa più stridula dall’emozione: «Grùsse an Herrn Doktor Edison. I am Brahms... Johannes Brahms». Dopodiché il Doktor Brahms pestò sul pianoforte un’abbreviatissima versione della Danza ungherese n. 1 in sol minore di Johannes Brahms. Mentiremmo sfacciatamente se dicessimo che da quel cilindro di cera, rigato dalle berciate e dalle pestate di Brahms, si può valutare Brahms pianista. Ma qualcosina — il tempo, ad esempio, e l’ac­ centuazione — si capisce. E si può persino fare un paragone tra Brahms e due suoi fedeli interpreti, da lui ammirati: Joachim, che incise la Danza ungherese n. 1, in versione per violino e pianoforte, nel 1905, e Arthur Nikisch, che nello stesso anno la eseguì su un pianoforte meccanico. Tra il tramonto del vecchio e l’alba di un nuovo secolo nasceva la possibilità di una storia dell’interpretazio­ ne pianistica che non fosse un pendant della geografia da tavolino. Per allora, in verità, non molto: qualche incunabolo, più emozio­ nante che utile. Ma fra cilindri di cera, dischi, rulli di pianoforte meccanico, una traccia del suono di Brahms, di Saint-Saéns, di Grieg, di Fauré, e di Leschetitzki, di Planté, di Diémer, di Pachmann, di Pugno, di Grùnfeld, della Essipova, della Carreno ci è restata. La generazione degli ultimi romantici e la seconda genera­ zione degli interpreti che fecero la storia del concertismo solistico, cioè la generazione 1830-60 non è dunque del tutto muta per noi, anche se, disgraziatamente, abbiamo mancato proprio d’un pelo i due colossi del secondo Ottocento, Anton Rubinstein e Hans von Bùlow, scomparsi entrambi nel 1894, e la prima grande pianista, Clara Schumann, scomparsa nel 1896. È probabile che Anton Rubinstein abbia registrato qualche ci­ lindro di cera, perché nel suo volumetto Die Musik und ihre Meister egli dice, a proposito di Liszt: «Le parole sono troppo pallide per esprimere quel che era il suo modo di suonare: era la perfezione stessa, che toccava i limiti estremi dell’esecuzione. Quanto è da deplorare che negli anni 40-50 non esistesse ancora il fonografo, tanto da trasmettere alle generazioni future, che non possono averne alcuna idea, cos’era allora una vera esecuzione pianistica!

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Bisogna aver ascoltato Chopin, Liszt, Thalberg e Henselt per sa­ pere che cosa significasse veramente suonare il pianoforte». Sem­ bra lecito dunque supporre che Rubinstein ritenesse la sua arte di pianista, al contrario di quella di Liszt, non del tutto perduta per i posteri. Ma nessuna sua incisione è nota o è stata finora ritrovata. Per parlare dei due sovrani, dominatori della scena internazionale all’inizio del periodo che comincia ad essere documentato col suo­ no, dobbiamo consultare quindi non il suono ma le carte. E le carte ci portano prima di tutto i programmi dei sette concerti «storici» che Rubinstein eseguì in varie capitali a partire dall’ottobre del 1885 3: Primo concerto

Byrd: The Carman's Whistle. Bull: The Kings Hunting Jigg. Couperin: La Ténébreuse, La Favorite, La Fleurie, Le Bavolet flottant, La Bandoline, Le Réveil-matin. Rameau: Le Rappel des oiseaux, La Poule, Gavotte et variations. D. Scarlatti: Fuga in sol minore (Fuga del gatto), Sonata in la maggiore. J.S. Bach: Fantasia cromatica e fuga, Giga (dalla prima Partita), Sarabanda e Gavotta (dalla terza Suite inglese), Preludi e fughe in do minore e re maggiore dal Clavicembalo ben temperato, Preludi in mi bemolle minore, mi bemolle maggiore, si bemolle minore dal Clavicembalo ben temperato [probabilmente dal primo libro]. Hàndel: Aria e variazioni Il fabbro armonioso, Fuga dalla Suite in mi minore, Sarabanda e Passaca­ glia dalla Suite in sol minore, Giga dalla Suite in la maggiore, Aria con variazioni in re minore. C. Ph. E. Bach: Rondò in si minore, La Xénophone, Sibylle, LesLangueurs tendres, La complaisante. Haydn: Variazioni in fa minore. Mozart: Fantasia K 475, Giga K 574, Rondò K 511, Rondò alla turca dalla Sonata K 331. Secondo concerto Beethoven: Sonate op. 27 n. 2, op. 31 n. 2, op. 53, op. 57, op. 90, op. 101, op. 109, op. 111.

3 Rubinstein apportò piccole modificazioni ai programmi, nelle varie sedi in cui li eseguì; ho riportato qui la redazione più completa, che è contenuta nella biografia dei fratelli Rubinstein della Drinker Bowen.

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Terzo concerto

Schubert: Fantasia op. 15, Sei Momenti musicali op. 94, Minuetto dalla Sonata op. 78, Improvvisi op. 90 n. 1 e 2. Weber: Sonata op. 39, Momento capriccioso op. 12, Invito alla danza op. 65, Polacca brillante op. 72. Mendelssohn: Variations sérieuses op. 54, Capriccio op. 16 n. 2, Romanze senza parole op. 19 n. 1, op. 19 n. 2, op. 30 n. 6, op. 62 n. 6, op. 38 n. 1, op. 67 n. 5, op. 67 n. 6, op. 53 n. 1, op. 53 n. 2, op. 53 n. 4, op. 53 n. 5, Presto a capriccio. Quarto concerto

Schumann: Fantasia op. 17, Kreisleriana op. 16, Studi sinfonici op. 13, Sonata op. 11, Pezzi fantastici op. 12 n. 1, 5, 7, 3, L'uccello profeta op. 82 n. 7, Romanza op. 32 n. 3, Carnaval op. 9. Quinto concerto

Clementi: Sonata in si bemolle maggiore [op. 47 n. 2?]. Field: Notturno in mi bemolle maggiore, Notturno in la maggiore, Notturno in si bemolle maggiore. Hummel: Rondò in si minore op. 109. Moscheles: Studi carat­ teristici op. 95 n. 2, 4, 5. Henselt: Poeme d'amour op. 3, Rerceuse. Liebeslied op. 5 n. 11, La Fontaine op. 6 n. 1, Schmerz im Glùck op. 6 n. 2, Si oiseau j’étais op. 2 n. 6. Thalberg: Thème originai et étude op. 45, Grande fantaisie et Variations-Don Juan op. 14. Liszt; Etude de concert n. 3 [Un sospiro], Valse-caprice, Consolation n. 3, Consolation n. 2, Au bord d’une source, Rapsodie ungheresi n. 6 e 12, Soirees musicales de Rossini n. 4,2,10, 9, Auf dem Wasser zu singen (Schubert), St'dndchen von Shakespeare (Schubert), Erlkónig (Schubert), Soirée de Vienne in la maggiore (Schu­ bert), Réminiscenses de Robert le Diable de Meyerbeer.

Sesto concerto

Chopin: Fantasia op. 49, Preludi op. 28 n. 4, 7,17, 6,15,24, Mazurche in si minore, fa diesis minore, do maggiore, si bemolle minore, Ballate op. 23,38,47,52, Improvvisi op. 36 e op. 51, Notturni op. 27 n. 2,37 n. 2 e 48 n. 1, Barcarola op. 60, Valzer in la bemolle maggiore, la minore e la bemolle maggiore, Scherzo op. 20, Sonata op. 35, Berceuse op. 57, Polac­ che op. 44, 40 n. 2 e 53. Settimo concerto

Chopin: 11 Studi (la bemolle maggiore, fa minore, mi maggiore, do minore, mi bemolle minore, mi bemolle maggiore, si minore, la bemolle maggiore, la minore, do diesis minore, do minore). Glinka: Tarantella in la

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minore, Barcarola, Souvenir d’une mazurka. Balakirev: Scherzo in si mi­ nore, Mazurca in la maggiore, Islamey. Cui: Quasi scherzo op. 22 n. 4, Polonaise op. 22 n. 1. Rimski Korsakov: Studio, Novelletta, Valzer Ljadov: Studio in la bemolle maggiore, Intermezzo in re maggiore. Ciaikovsky: Chant sans paroles op. 2 n. 3, Valse Scherzo op. 7, Romance op. 5, Scherzo à la russe op. 1 n. 1. A. Rubinstein: Sonata op. 41, Tema e variazioni della Sonata op. 20, Scherzo dalla Sonata op. 100. N. Rubin­ stein: Feuillet d’albumy Valse op. 16.

Oggi ci colpisce subito la durata dei programmi, assolutamente spropositata rispetto alle nostre abitudini. Anche ai tempi di Ru­ binstein si osservò che le sue serate erano più lunghe del solito (sebbene il «solito», allora, fosse di misura assai maggiore di oggi). Rubinstein eseguiva però i suoi mostruosi programmi con lena inesausta, aggiungendovi bis altrettanto mostruosi, e ripetendo magari e programma e bis il mattino dopo, gratuitamente, per studenti di musica. Le serate di Rubinstein dovevano essere come affreschi immensi e ciclopici, nei quali si potevano anche osservare sbavature di colore e nasi storti. Nel 1884 Ferruccio Busoni, gio­ vane e moralista, aveva sentito a Vienna Rubinstein e, scrivendone aWIndipendente di Trieste, fra tante meraviglie aveva notato anche che nello Studio op. 25 n. 11 di Chopin «fummo costretti a deplo­ rare la mancanza di chiarezza, ed il dover udire impasticciare i passi». Arthur Friedheim racconta quel che avvenne nel 1889 a S. Pietroburgo: «Aveva l’abitudine di commentare brevemente ogni pezzo prima di eseguirlo. Quella [che ascoltai] era una serataChopin e il primo numero era ITmprovviso in fa diesis maggiore. “Avevo nove anni — disse — quando ascoltai Chopin suonare questo pezzo. Ogni sua nota è impressa nella mia memoria a lettere d’oro” e molto altro ancora dello stesso tenore. Poi, la sua esecu­ zione fu un disastro». Della magnificenza e degli infortuni di Rubinstein esecutore non possiamo più farci un’idea diretta. Possiamo invece analizzare l’impostazione culturale dei sette programmi «storici», che rap­ presentano la summa quintessenziata di una concezione della let­ teratura pianistica dominante alla fine dello scorso secolo. Rubinstein vede nel Romanticismo, e specialmente in Chopin e in Schumann, il culmine di tutta la storia del pianoforte, a tal punto da orientare in senso preromantico persino il programma dedicato

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a Beethoven. Viene infatti escluso tutto il Beethoven ante 1800, che ben difficilmente avrebbe potuto apparire preromantico, per partire dal Beethoven dell’op. 27 n. 2, la Sonata più amata durante il Romanticismo. Vengono poi esclusi il Beethoven umoristico della Sonata op. 31 n. 3 e il Beethoven problematico, manieristico dell’op. 31 n. le dell’op. 54; vengono invece incluse la Sonata op. 90 (una Sonata «piccola», di tipo, specie nel secondo tempo, net­ tamente preromantico) e la Sonata op. 101 prediletta da Schu­ mann. La figura di Beethoven, quale emerge dal programma di Rubinstein, è dunque quella del primo romantico: posizione critica che, nel 1885, suonava ormai anacronistica! Non sappiamo tuttavia — al solito — come Rubinstein interpretasse in concreto Beetho­ ven; potrebbe anche darsi, e lo vedremo in seguito, che egli col­ locasse Beethoven in un ambito stilistico diverso da quello di un pur sommo precursore di Schumann e di Chopin. Se il culmine storico è per Rubinstein il Romanticismo, il suo primo programma, coerentemente, delinea una specie di preistoria da cui emergono correnti di pensiero che anticipano l’intimismo romantico: Johann Sebastian Bach è maestro di grazia e di espres­ sività, non di rigore costruttivo, Haydn e Mozart non sono consi­ derati come sonatisti ma in aspetti che, al di là della bellezza delle composizioni scelte, sono in essi limitati e secondari. Il programma n. 5 illustra i «tecnici», coloro che fanno progredire la scrittura strumentale senza essere grandi creatori; e tra di essi viene anche incluso Liszt. Il programma più sorprendente è il settimo, che tocca gli ultimi trent’anni di storia della letteratura. Due esclusioni appaiono cla­ morose: il Liszt della Sonata e delle Variazioni su un tema di Bach, e Brahms, il Brahms delle Sonate e delle Variazioni. Rubinstein, con un coraggio in cui non si sa se ammirare l’orgoglio o compatire la vanagloria, presenta se stesso come l’ultimo compositore, stori­ camente significativo, di sonate e di variazioni. Accanto a sé rac­ coglie sette compositori russi contemporanei, e Chopin, primo compositore slavo affacciatosi alla storia. La tesi di Rubinstein è evidente: la civiltà pianistica, dopo il Romanticismo, si trasferisce nei paesi slavi. Tesi tendenziosa, ma forse non del tutto bislacca, se Rubinstein avesse lasciato fuori dal programma un po’ di Anton Rubinstein, tutto Nicola] Rubinstein e tutto Cui, e avesse fatto il

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posto per i Quadri di una esposizione di Mussorgski, che nel 1885 non erano ancora pubblicati né eseguiti, ma di cui i circoli intellet­ tuali moscoviti avevano notizia e che Rubinstein, volendo, avrebbe potuto leggere. Forse, però, solo Liszt avrebbe capito i Quadri, se fosse vissuto abbastanza a lungo da poterli scoprire nella redazione di Rimski Korsakov e Stassov... I programmi «storici» rappresentarono il culmine di una carriera che era iniziata nel 1839 e che aveva preso veramente quota verso il 1860. Rubinstein, seguendo l’esempio di Henry Herz, di de Meyer, di Jaell e di Thalberg, nel 1872 si era recato persino negli Stati Uniti per una colossale tournée — duecentoquindici concerti in duecentotrentanove giorni — patrocinata dalla Steinway & Sons. Nel 1875 arrivava negli Stati Uniti il rivale di Rubinstein, Hans von Billow, per una tournée patrocinata dalla Chickering, rivale della Steinway. Billow si segnalava subito per il suo fiuto, che gli aveva fatto scegliere per gli Stati Uniti il Concerto n. 1 di Ciaikovsky, a lui dedicato, da lui eseguito per la prima volta a Boston il 25 ottobre 1875 e destinato a diventare in breve un pezzo preferito del re­ pertorio. Oltre al grosso colpo del Concerto di Ciaikovsky, Billow predispose per gli Stati Uniti programmi qualitativamente più compatti di quelli di Rubinstein: ad esempio, uno dei suoi recitals, pantagruelico come i tempi richiedevano, comprendeva le ultime cinque Sonate di Beethoven. William Mason riferisce a questo proposito una conversazione con Rubinstein in cui il grande mae­ stro russo non fa una gran bella figura: «Disse che era una cosa straordinaria, ma aggiunse che, come musicista, non poteva ap­ provarla. Era un’iniziativa di impronta scientifica, ma certamente non congeniale ad una vera natura musicale che richiede varietà. Un pranzo che consiste soltanto di piatti pesanti, senza alternanza di contorni, vegetali e torte per stuzzicare e smuovere l’appetito sarebbe sgradevole e fatale per la digestione. I pezzi scelti per un festino musicale devono esser disposti con arte, e come le varie portate di un pranzo». Rubinstein si prese poi la rivincita su Bùlow con i programmi «storici». Ma che Bùlow avesse l’olfatto più fino, nel sentire dove andava la storia, è fuor di dubbio: egli aveva eseguito per primo la Sonata di Liszt, era tra i più autorevoli interpreti di Brahms, ed aveva preso in considerazione, rifiutandola solo perché scritta per

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mani molto grandi, persino la Burlesca di Strauss. Il suo repertorio beethoveniano era più ampio di quello di Rubinstein, di Chopin eseguiva anche le musiche, come lo Scherzo n. 4, le Variazioni op. 12, VAllegro da concerto op. 46, che gli altri lasciavano in disparte, e le sue esecuzioni non erano affreschi ma grandi quadri, con un disegno rifinito fino alla pedanteria. Se le sfumature erano diverse, il soggetto era però lo stesso, ed era ancora quello tracciato da Liszt intorno al 1840: il Settecento come una fetta di paesaggio visto da una finestra, tre monarchi al centro della sala, alcuni cavalieri e alcuni guerrieri di lato. Con questo mito storico, e con i due massimi pittori, Rubinstein e Bùlow, che lo avevano interpretato, doveva fare i conti chiunque, negli anni 80, volesse conquistarsi un posto al sole.

Seconda parte

IL SUONO CATTURATO

PROFETI MINORI

Nella seconda metà dell’ottocento non mancarono i pianisti che tenevano in grande considerazione Mozart e Schubert; ma nessuno di loro — né Charles Hallé, né Carl Reinecke, né Camille SaintSaèns, né Julius Epstein, né Carlyle Petersilea — era concertista popolare, nessuno di loro era un big che potesse girare per gli Stati Uniti per patrocinare una marca di pianoforti o chiedere a Bechstein di mandargli al seguito due grancoda. Chi voleva emergere doveva passare sotto le forche caudine delle Waldstein e delle Appassionate, delle Wanderer e degli Studi sinfonici, delle Quarte Ballate, delle Reminiscenze del Don Giovanni, delle VariazioniH'àndel e di altrettali cose. Un’unica persona, come ho detto, poteva sottrarsi al confronto rimanendo grande: Clara Schumann. Invece Teresa Carreno, nata in Venezuela nel 1852, bella focosa fiera creatura, era venuta nel 1866 in Europa per bere alla fonte del successo, Rubinstein. Forte di molti consigli e di qualche brusca parola di Rubinstein aveva iniziato la carriera, era tornata nel Nuovo Mondo e, venuta di nuovo in Europa dopo due disgraziati matrimoni e molte avven­ ture artistiche, aveva felicemente esordito a Berlino il 18 novembre 1889 eseguendo il Concerto di Grieg, gli Studi sinfonici di Schu­ mann e la Polacca brillante di Weber-Liszt. Subito affiancatasi alla già affermata Sophie Menter, allieva di Liszt, negli anni 90 la Carreno conquistava uno dopo l’altro i paesi della vecchia Europa, sposava d’Albert, divorziava, e restava sulla cresta dell’onda fino alla morte, donando brandelli di inesausta tenerezza materna a cinque figli di tre mariti e vivendo beata con il quarto sposo, fratello minore del secondo.

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Della Carreno non è rimasto nulla in disco, poco in rulli. Una certa idea del suo modo di suonare, tuttavia, ce la possiamo fare. E qui dobbiamo constatare come, a distanza di quasi un secolo, ciò che le nostre orecchie intendono non corrisponda a ciò che avevano lasciato scritto i nostri avoli. Ascoltando la Carreno nelle Ballate n. 1 e 3 di Chopin e nella Waldstein di Beethoven (rulli incisi nel 1906) ci aspetteremmo uno Chopin pregevole e un Beethoven abominevole. Accade invece quasi il contrario. È una grande sor­ presa, ed è la dimostrazione indiretta della effettiva impossibilità di capire che cosa fossero in realtà la grandiosità di Rubinstein scon­ finante talvolta nella perdita di controllo e il magistero di Bùlow sconfinante nella pedanteria. La Carreno non riesce a cogliere in Chopin né la logica formale né la continuità della tensione emotiva, e ci dà un’esecuzione rapsodica e rapsodicamente passionale: la banalissima immagine di Chopin sognatore impenitente e debole architetto viene da lei delineata in modo perfetto, carico di tutte le posizioni reazionarie della critica chopiniana del tempo. Ma in Beethoven la Carreno si guarda bene dal sognare nel secondo tema del primo tempo e negli episodi notturni del finale, non punta sul virtuosismo ma sulTincalzare di una pulsazione ritmica strettamente controllata, trova un tempo elettrizzante nel passo in ottave del Prestissimo finale, e sebbene perda qua e là la misura e affondi un po’ troppo nella Tiefe, nella «profondità» tedesca della Intro­ duzione al Rondò, si consegna alla storia come interprete beethoveniana che, per quanto risulta dai rulli, suscita un interesse infi­ nitamente maggiore di quello suscitato da interpreti più celebra­ ti come Lamond o d’Albert. Queste, ed altre sue incisioni su rul­ lo (Notturno op. 48 n. 1 di Chopin, Soirée de Vienne n. 6 di Schubert-Liszt), ci dicono anche che cercava una sonorità molto espressiva, non dominava più del tutto la tecnica tradizionale ed era approssimativa nell’agilità (detto in gergo, non aveva delle grandi dita, e suppliva probabilmente con la rotazione dell’avam­ braccio). Non abbiamo nulla, né in dischi né in rulli, dell’altra celebre virago, Sophie Menter; abbiamo qualcosa della terza tra le gran dame di fine secolo, la russa Annetta Essipova, e quel qualcosa non ci dice molto. L’intelligenza musicale della Essipova sembra note­ vole, i suoi mezzi tecnici non sembrano trascendentali, e non ci

Pachmann

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pare ch’ella potesse veramente competere, nel repertorio tradizio­ nale che eseguiva abitualmente, con i maggiori pianisti. Neppure Vladimir von Pachmann, anche lui russo, avrebbe potuto competere con Anton Rubinstein e con Bùlow. E perciò, essendo astuto come un cobra, non competeva affatto ed aspirava non alla grandezza ma alla popolarità. Le bizzarrie e le esibizioni quasi clownesche di Pachmann — che usava commentare le sue esecuzioni con la parola e con la mimica — sono troppo note perché si debba qui raccontarle per l’ennesima volta. Alcune sue esecuzioni, incise in disco tra il 1907 e il 1912, ci danno un’idea del suo modo di suonare: pomposo anche nella miniatura (che è il suo regno), vanitoso fino al più sfrontato esibizionismo del bel suono, sempre attento a dare segnali per gli applausi modificando, se necessario, il testo, Pachmann interessa più come esponente del Kitsch che come interprete. Un suo programma (a Roma, il 6 gennaio 1920, quando il neoclassicismo bussava ormai alle porte), basta a dirci quale fosse il pubblico — aristocraticamente incolto e presuntuoso — a cui si rivolgeva: Scarlatti: Sonata in la maggiore. Mozart: Fantasia K 475. Weber-Henselt; Perpetuum mobile [finale della Sonata op. 24]. Chopin: Ballata op. 23, Notturno op. 27 n. 2, Improvviso op. 29, Mazurca op. 41 n. 1, Pre­ ludio op. 28 n. 11, Preludio op. 28 n. 6, Studio op. 10 n. 5. Liszt: Sogno d’amore n. 3. Mendelssohn: Rondò capriccioso. Godowsky: Walzermasken n. 1 e 8.

Non mancano però in Pachmann momenti di autentica gran­ dezza: la sua esecuzione del Notturno op. 55 n. 1 si fa ricordare e la Marcia funebre di Chopin suona sotto le sue dita, inaspettatamen­ te, in modo austeramente e compostamente tragico. Che fosse guastato dal pubblico e dalle cattive abitudini del pubblico? Le esecuzioni incise in disco e in rullo dal boemo Alfred Grunfeld, dal francese Raoul Pugno, dal polacco-tedesco Franz Xaver Scharwenka (che, vedremo, piaceva tanto ad Amy Fay) e dal polacco Alexander Michalowski testimoniano un’arte miniaturistica squisita ed una tecnica di agilità brillantissima. La tecnica del suono di questi artisti ci fa però capire il senso delle polemiche di Breithaupt contro la tradizione dell’ottocento: tecnica di tipo

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Profeti minori

Czerny-Kalkbrenner, che domina perfettamente le altissime velo­ cità e il tocco perlaceo, ma che manca di varietà di suono e che diventa facilmente «sporca» in passi di forza. La tradizione con­ servava una tecnica nata sui pianoforti con telaio solo parzialmente metallico e non sapeva sfruttare le risorse dei pianoforti con telaio metallico fuso in un blocco, rinserrandosi in una concezione di «bel suono» che appariva antiquata e limitata. Anche Camille SaintSaèns, tecnico sopraffino, ha limiti di suono evidenti, che traspaio­ no da un unico cilindro di cera, da alcuni dischi, da alcuni rulli. La sua esecuzione dell’improvviso op. 36 di Chopin acquista nell’ul­ tima parte, quando Saint-Saèns può sgranare un jeu perle fantasti­ co, un rilievo che nelle prime tre parti non aveva. Le sue ottave in una cadenza improvvisata su temi della sua Afrique sono rapidis­ sime e nettissime; ma sono ottave di polso alla Kalkbrenner, che certamente avrebbero avuto un mediocre esito in Liszt o in Ciaikovsky. In Raoul Pugno, più giovane di Saint-Saèns di diciassette anni, notiamo però una concezione del suono già un po’ diversa e più evoluta. L’agilità rapida di Pugno è ancora maggiore di quella, pur molto cospicua, di Saint-Saèns, e le sue esecuzioni della Valse folle di Massenet o dello Scherzo-Valse di Chabrier non sono inferiori a certi scoppi pirotecnici di Horowitz. Pugno ha anche nel suo arsenale una seconda qualità di suono, molto nitida e compatta, di cui si serve {Gavotta variata di H’àndel) per rendere percepibile la scrittura a due voci. Sembra, da quanto s’ascolta in Pugno, che i pianisti francesi fossero riusciti a risolvere i problemi di suono posti dalla musica clavicembalistica e protopianistica, di cui si erano occupati fin dalla metà del secolo, e spiace che Saint-Saèns abbia inciso le sue Valse nonchalante e Valse mignonne piuttosto che Mozart. Fino a qui Pugno non esce dalla tradizione francese. Ma quando affronta il cantabile cerca una qualità di suono più espres­ siva, allargando considerevolmente i tempi, forse — suppongo — per dominare meglio una tecnica non tradizionale e non appresa fin da ragazzo. La sua interpretazione del Notturno op. 15 n. 2 di Chopin potrebbe benissimo esser firmata da Paderewski, tanto risponde ad uno stile di cui parlerò poi. Pugno era di otto anni più anziano di Paderewski, e sarebbe ovvio concludere che Paderewski gli fosse debitore di qualcosa. Troppo ovvio! Pugno incise il Not-

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turno nel 1903, quando Paderewski era celeberrimo da più di dieci anni, e potrebbe invece darsi il caso inverso: che l’apparizione e il successo favoloso di Paderewski avessero provocato qualche ri­ pensamento e qualche evoluzione in pianisti di lui più anziani. Il cantabile di Pugno, la sua sonorità napolitaine è comunque diversa dal cantabile di Saint-Saèns o di Diémer o di Scharwenka, e si accosta piuttosto al cantabile di Leschetitzki. Allievo a Vienna di Czerny, ma vissuto per molti anni a S. Pietroburgo, vicino a Ru­ binstein, e rimasto poi legato a Rubinstein da fraterna amicizia, Leschetitzki non era un grande pianista ma un grande insegnante, e le composizioni da lui incise in rullo non ci danno modo di valutare fino a che punto la sua tecnica del suono fosse «moderna», cioè sfruttasse in pieno le potenzialità del pianoforte da concerto. Pos­ siamo tuttavia notare che, avendo conservato la Fingerfertigkeit, la scioltezza di dita appresa alla scuola di Czerny (certi passi in terze della sua Barcarola op. 39 n. 1 sono eseguiti in maniera strepitosa), Leschetitzki otteneva un cantabile di un tipo che incontriamo in genere in pianisti molto più giovani di lui. Tenendo conto delle lodi che il suono di Rubinstein aveva sempre riscosso, tenendo conto di ciò che riscontriamo in Leschetitzki e anche nella Carreno, e te­ nendo infine conto della dedica alla Carreno del grande trattato del Breithaupt possiamo ragionevolmente concludere che Rubinstein fosse il fondatore del nuovo Klangideal, del suono considerato ottimo sul pianoforte messo a punto dalla tecnologia industriale verso il 1870. Se non vado errato — e l’errore è sempre incombente, in una materia così scarsamente documentata — mi sembra di poter dire che Rubinstein risolveva il problema di creare una tecnica nuova in grado di ripristinare sul pianoforte moderno la gamma di so­ norità che sul pianoforte romantico veniva ottenuta con un’altra tecnica. La tecnica romantica, mantenuta inalterata, sul pianoforte mo­ derno provocava un impoverimento della sonorità; la tecnica nuo­ va ricreava, con uno strumento modificato e in sale più grandi, le tradizionali condizioni di percezione del tessuto sonoro. L’opera­ zione di Rubinstein, e dei teorici che cercarono di analizzare razio­ nalmente e di tradurre didatticamente le sue esperienze, significò a parer mio il tentativo di rifondare la tradizione romantica sia,

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Profeti minori

tecnicamente, ripristinandone la sonorità, sia, criticamente, facen­ do culminare nel Romanticismo la storia dello strumento. H problema che la nuova generazione, quella nata intorno al 1860, doveva affrontare, era duplice: ampliare e sviluppare le posizioni critiche dominanti, ampliare e sviluppare il dominante Klangideal.

NIPOTI E SUCCESSORI DI CHOPIN

Il più celebre tra i nuovi interpreti, il polacco Ignacy Paderewski, tendeva in verità a restringere, più che a sviluppare. Il repertorio completo di Paderewski non è pubblicato, ma da quanto ho potuto riscontrare direi che, eccettuati alcuni «moderni», Paderewski non eseguisse nemmeno un pezzo che non fosse già stato eseguito da Rubinstein... e che nell’insieme ne eseguisse un numero molto inferiore. I «moderni» furono, per Paderewski, il Brahms delle Variazioni su un tema di Paganini, il Saint-Saèns del Concerto n. 4, Paderewski, Stojowsky, Schelling, Debussy. L’interpretazione di Reflets dans Peau ci dice però chiaramente che Paderewski vedeva Debussy come appendice del Liszt di Weimar, non come creatore di una nuova arte del colore sonoro. L’interpretazione di Minstrels è francamente grottesca, ma non perché Paderewski colga il grot­ tesco della pagina: grottesco — il lettore scusi il gioco di parole — è il capovolgimento serioso di una pagina grottesca, grottesco è che il sentimentalismo caricaturale di Debussy diventi sentimento eroico romantico, grottesco è che il tamburo del music-hall diventi tam­ buro sul campo di battaglia. Ma Paderewski è artista anche quando una sua interpretazione non sta né in cielo né in terra, e il suo Minstrels, pur assurdo, ci dice anche che egli, se con così completa e persino coinvolgente convinzione sapeva collocare questo De­ bussy nell’ambito del Romanticismo eroico, doveva essere vera­ mente epico quando eseguiva la Waldstein o l’Appassionata o il Carnaval o le Sonate di Chopin. E questa fu probabilmente la ragione che permise ad uno strumentista dotato di una tecnica molto limitata di diventare il più popolare pianista nei decenni a cavallo dei due secoli.

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Nipoti e successori di Chopin

Epico,... e polacco. Non soltanto la povera contessa Olga della Fedora di Giordano era pronta a cadere in trance di fronte a un Boleslao Lazinski «nipote e successore di Chopin ». La nostra deli­ ziosa Amy Fay non aveva timore di confessare che Franz Xaver Scharwenka, un bruno olivastro dal baffo assassino, colpiva la sua fantasia per una ragione irresistibile: «Un polacco risveglia vera­ mente Videa di un qualcosa di interessante e di romanzesco: fa pensare a rivoluzioni, cospirazioni, sanguinose esecuzioni, balli mascherati, e nello stesso tempo a grazia, spirito, bellezza! Schar­ wenka tiene alte, quanto all’ultimo punto, le tradizioni della razza. Non gli ho mai parlato, non avendo mai avuto occasione di ricevere il suo saluto, e così ignoro quali siano le sue idee, ma quando lo guardo dico a me stessa senza saper perché, con una certa soddisfazione: “È un polacco”, e mi sento fiera di conoscere un polacco». Polacco, roseo di colorito, fulvi la chioma ed i mustacchi, cuore nutrito di Chopin: Paderewski poteva permettersi di non avere una gran tecnica. Sulla tecnica di Paderewski si è scritto qualcosa e si è, soprattutto, molto scherzato. «Suona bene, ma non è Paderewski», disse Rosenthal quando lo udì, intendendo significare che il Pade­ rewski reale non corrispondeva al Paderewski mitico. Artur Ru­ binstein, che fu ospite di Paderewski senza diventare suo allievo, e che lo udì studiare, parla della tecnica di Paderewski in un modo che ci sembra rivelatore: «Studiava le Variazioni su un tema di Hàndel di Brahms, ripetendo lentamente, un centinaio di volte, certi passaggi difficili. Notai che la sua esecuzione era fortemente limitata da certi difetti tecnici, soprattutto nell’articolazione delle dita; cosa che squilibrava il suo senso del ritmo». Quel che appunto si riscontra subito nei dischi di Paderewski è la debolezza delle dita. Non abbiamo testimonianze sonore di quelli che furono probabilmente i suoi anni migliori, il decennio 1890-1900, e lasciamo da parte le incisioni del 1930-40, le incisioni del vegliardo che si reggeva solo più sulla fama. Le incisioni del 1911-28 ci dicono qualcosa di valutabile su Paderewski pianista e interprete. Purtroppo Paderewski non ebbe modo allora di inci­ dere né in rullo né in disco alcun lavoro di vaste proporzioni (i pezzi più complessi sono le Ballate n. 1 e n. 3 di Chopin e la Sonata op. 27 n. 2 di Beethoven, che rappresentano le sole eccezioni in un mare

Paderewski

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di pezzettini). Siamo però in grado di riconoscere una qualità di suono di una bellezza fisica inaudita, che raggiunge il massimo dello splendore non nel registro centro-acuto ma nel registro so­ pracuto. Una specie di obelisco dorato sulla cui cima battono i raggi di un sole mattutino, o qualcosa di simile. Il lettore può del resto procurarsi agevolmente un qualche disco di Paderewski e verificare con le sue orecchie, ma l’immagine dell’obelisco mi sembra non impropria perché la sonorità di Paderewski è monolitica, è sempre bella, è variata quasi esclusivamente nella dinamica e non nella timbrica. Artur Rubinstein, come abbiamo visto, notò che Paderewski studiava con grande lentezza e ripetendo i passi all’infinito; ascol­ tando i dischi si può concludere che Paderewski non impiegava la percussione con movimento accentuato delle dita sopra la tastiera, ma afferrava e accompagnava il tasto durante la discesa, ritenendo assolutamente primaria la qualità, quella sua qualità del suono. La sua posizione alla tastiera — sedeva molto basso — gli precludeva del resto la possibilità di far lavorare le dita al di sotto del palmo e favoriva invece il tocco con costante impiego di peso. Paderewski respingeva dunque, insieme, la sonorità secca e la sicurezza nell’a­ gilità che è data dalla tecnica Czerny-Kalkbrenner, ma non posse­ deva però — al contrario di Lhevinne, di Horowitz, di Gilels, di Benedetti Michelangeli — un apparato neuromuscolare che gli consentisse il perfetto controllo della discesa del tasto, con una tecnica diversa, anche ad altissime velocità. Di qui i suoi tempi sempre molto moderati, i suoi macchinosi spostamenti, la sua fallosità; di qui la scarsa considerazione, o addirittura l’ilarità che certe sue esecuzioni di pagine virtuosistiche (come le Rapsodie ungheresi n. 2 e n. 10 e la Campanella di Liszt o il valzer Si vive una volta sola di Strauss-Tausig) suscitavano e suscitano ancora fra gli addetti ai lavori. Ma Paderewski era indubbiamente un artista (già l’ho detto), e un artista che studiava, scopriva, trovava idee interpretative, ren­ deva estremamente personali le sue esecuzioni. La monocronia timbrica lo portava a giocare solo sulle luci e sulle ombre (non sui colori), a trattare luce e ombra con una vibratile delicatezza, a far convergere sempre l’attenzione percettiva dell’ascoltatore su un solo punto, che veniva valorizzato all’estremo. Il famigerato scam-

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panamento, le mani che non cadono mai assieme, gli accordi brodolosi sono in realtà i caratteri stilistici fondamentali di una conce­ zione dell’esecuzione che vede nella melodia l’essenza della musica è dell’esecuzione, e che dal discorso musicale non vuole concomi­ tanza di eventi sonori ma rafforzamento espressivo della nota me­ lodicamente significante. Paderewski può anche eseguire perfetta­ mente a piombo gli accordi, quando non c’è più una melodia da sostenere, come nelle ultime due battute della Berceuse di Chopin; ma basta un minimo significato melodico per indurlo ad enfatizzare il discorso col solito tremolio dei contorni, come un ritratto in cui è fermo solo lo sguardo. Si tratta di una concezione dell’esecuzione o addirittura di una poetica che compare per eccezione nei romantici, e che nei roman­ tici trova un preciso riscontro nella grafia: si considerino il Canto di primavera di Mendelssohn, con le sue armonie sempre arpeggiate, o la parte centrale di In der Nacht di Schumann, con il suo basso costantemente anticipato. L’arpeggiamento e l’anticipazione del basso sono del resto tratti (o trucchi) stilistici che si trovano in tutti i pianisti dell’inizio del nostro secolo e anche dei giorni nostri (eccettuato, tra i maggiori, il solo Artur Rubinstein). Ma in Pade­ rewski colpisce la sistematicità del procedimento, sistematicità che rivela una poetica monolitica di iperespressività e di costante feca­ lizzazione dell’espressione. La dizione di Paderewski è sempre quella di un vate, di un profeta, le cui parole cadono lente, sem­ plificatrici, definitive, circondate da un alone carismatico, sottratte alla dialettica della storia, della tradizione, della professione. Si spiega così la popolarità di Paderewski, una popolarità che andava ben oltre la cerchia dei frequentatori dei concerti e che non fu minimamente scalfita dalle pertinenti osservazioni dei tecnici e dalle frecciate impietose — si chiama Paderewski o Paperewskiì — dei concorrenti.

Moritz von Rosenthal, anche lui polacco, di due anni più giova­ ne di Paderewski, riuscì là dove Paderewski non era riuscito,... senza conquistare la popolarità dell’altro. Rosenthal era il fanatico degli esercizi fisici, l’adepto del bastone ginnastico Jàger, il nuota­ tore intrepido che una notte si tuffò nel lago a Como, avendo

Rosenthal

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saputo che Anton Rubinstein soggiornava in una villa di Cernobbio, e riemerse dalle acque proprio di fronte alla terrazza in cui il grande maestro russo stava finendo di pranzare. Era anche laureato in filosofia, Rosenthal, ma prima di tutto lo soggiogavano i misteri della fisiologia. Scriveva Busoni alla moglie, da Budapest, il 2 marzo 1898: «Finalmente ho incontrato ieri per la strada Rosent­ hal, è venuto su da me per un quarto d’ora e ha cominciato subito a parlare di tecnica. Del resto è quello di prima — non ho mai trovato qualcuno di meno cambiato dopo un intervallo di 15 anni». Orbene, questo Rosenthal che ruminava sempre la tecnica po­ teva ottenere, come Paderewski, un suono da violoncello nel Pre­ ludio in si minore di Chopin, ma poteva ottenere un suono altret­ tanto bello ed espressivo nello Studio op. 10 n. 1. Poteva fraseg­ giare superbamente la Mazurca op. 63 n. 3, ma poteva fraseggiare con altrettanta sottigliezza, alla velocità di un trillo, lo Studio op. 25 n. 6. E poteva far sentire, ciò che a Paderewski non sarebbe mai riuscito, un caleidoscopio di sovrapposizioni politematiche nel suo Carnevale di Vienna su temi di Johann Strauss. In Rosenthal la tecnica portentosa non lascia alcun spazio all’ironia, ma serve a realizzare una concezione iperbolica dell’interpretazione, comple­ tamente calata nel momento esistenziale e condotta — senza atle­ tismi, si badi! — fino a culmini di dinamica e di velocità prossimi al limite delle possibilità dell’uomo e dello strumento. Ciò che in Paderewski è frutto di lavoro e di fatica, entrambi evidenti e che non conseguono mai la realizzazione impeccabile, sembra in Ro­ senthal frutto di improvvisazione, dell’ispirazione del momento, dell’entusiasmo di una scoperta ingenua. Si potrebbe forse parlare di gravità sacerdotale in Paderewski, di sentimento panico in Rosenthal. Di Rosenthal ci è però restato molto poco: le sue incisioni del Concerto in mi minore e della Sonata in si minore di Chopin, le uniche di grandi lavori ch’egli effettuò, sono molto tarde e testimoniano, la prima, di un auto­ controllo e di una limitazione nell’uso del pedale che dovrebbero dipendere da esigenze tecniche dell’incisione e, la seconda, degli annaspamenti di un esecutore ormai non più nel colmo delle sue antiche capacità. Le incisioni del Rosenthal cinquantenne sono invece molto significative, ma purtroppo riguardano pezzi brevi, mentre Rosenthal era il pianista degli Studi sinfonici di Schumann,

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Nipoti e successori di Chopin

della Sonata e della Fantasia sul Don Giovanni di Liszt, delle Variazioni su un tema di Paganini di Brahms e così via. La figura di Rosenthal non può essere valutata esattamente: egli non fu mai considerato interprete di grande originalità, e del resto il suo re­ pertorio non si scostava da quello tradizionale di Anton Rubin­ stein, ma quel che si intravvede da alcuni dischi ci fa pensare che forse, in sede storica, l’opinione dei contemporanei avrebbe potuto essere riveduta. Un altro polacco, Leopold Godowsky, nato nel 1870, fu cele­ brato per le sue qualità di virtuoso e per la sonorità. Dopo alcuni anni di attività concertistica in centri o in sedi secondarie, Go­ dowsky ottenne un trionfo a Berlino nel 1900, con i Concerti n. 1 di Ciaikovsky e n. 2 di Brahms e con un gruppo di pezzi a solo. Ma non suonò mai volentieri in pubblico, non incise molto e si dedicò invece con passione all’insegnamento nell’Accademia di Vienna. Quando si leggono gli Studi sopra gli Studi di Chopin di Godowsky, quando si scorre ciò che di lui dice un testimone non sospetto come Heinrich Neuhaus, quando si getta un occhio sulle vecchie cronache si è impazienti di ascoltare i suoi dischi. Audizio­ ne deludente, purtroppo. I dischi sono quasi tutti degli anni tra le due guerre e non si può sapere come Godowsky suonasse nei primi anni del secolo, ma il suo virtuosismo non sembra affatto sorpren­ dente in una pagina tipicamente «da virtuoso» come la Marcia militare di Schubert-Tausig (incisa nel 1927) e il suo cantabile non pare affatto memorabile in una pagina dimostrativa come la Melo­ dia in fa maggiore di Rubinstein (incisa verso il 1925). Godowsky dimostra invece già nel 1913 (Notturno op. 9 n. 2 di Chopin) e nel 1916 (Studio op. 25 n. 2 di Chopin) un orientamento neoclassico nettamente in anticipo sui tempi. Questo atteggiamento non portò però Godowsky né al mutamento del repertorio né alla profondità dell’analisi strutturale che sono tipiche del neoclassicismo, cosicché la sua figura, almeno per quanto risulta dai dischi, non si inquadra nettamente in senso storico. Forse Godowsky, dopo aver toccato all’inizio del secolo un culmine, non solo personale ma assoluto di virtuosismo, propose per primo la svolta neoclassica che si sarebbe sviluppata tra le due guerre. Ma questa non può essere che una ipotesi.

L’ULTIMA COVATA DEL MAGO MERLINO

Tra i pianisti slavi nati fra il 1860 e il 1870 si distinguono i tre polacchi — Paderewski, Rosenthal, Godowsky ■— che ho ora citato, mentre i migliori tra i russi — Siloti e Sapelnikov — non conquistano una fama internazionale altrettanto solida. Nessun francese si fa notare nello stesso periodo e gli antagonisti dei polacchi sono i tedeschi ed un italiano, Ferruccio Busoni. Studiano con Liszt a Weimar — negli anni in cui Edward BurneJones lo raffigura come Mago Merlino — Conrad Ansorge, Emil von Sauer, Bernhard Stavenhagen, Alfred Reisenauer, il russo ger­ manizzato Arthur Friedheim, gli scozzesi germanizzati Frédéric Lamond ed Eugen d’Albert. Di Ansorge — «un amico delle Muse e di Bacco», come elegantemente lo definisce Edith StargardtWolff, figlia dell’impresario — e di Reisenauer — di cui lo Schon­ berg dice che «poteva far fuori una bottiglia di champagne ad ogni lezione, e dava molte lezioni» — c’è restato pochissimo. I rulli di Stavenhagen, come già mi è accaduto di dire, sono valutabili ne­ gativamente, come testimonianza di un interprete che, interve­ nendo spregiudicatamente sul testo, mira alla più invereconda spettacolarità. Lamond incise molti dischi, che per la maggior parte non sono stati ripubblicati, negli anni venti, ed all’inizio del secolo incise molti rulli. Di Friedheim si conoscono vari rulli e dischi. Lamond era soprattutto ammirato come interprete di Beethoven, Friedheim come interprete di Liszt, ma da quanto si riesce a capire dalle loro incisioni né l’uno né l’altro sembrano esser stati musicisti di statura storica. Un’esecuzione della Sonata op. 27 n. 2 di Bee­ thoven incisa da Lamond è opera di un rispettabile professionista, ma la sua esecuzione di Feux follets di Liszt è di un livello tecnico

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dilettantesco. Friedheim presentava programmi impegnativi ed eseguiva abitualmente, oltre ai maggiori lavori di Liszt, la Hammerklavier e le Variazioni su un valzer di Diabelli di Beethoven. La sua concezione di un’opera strutturalmente e culturalmente così complessa come le Variazioni non sembra però andar oltre la ghirlanda di pezzettini graziosi, se consideriamo i titoli da lui aggiunti e che riporto qui per curiosità:

Tema. 1. Marcia. 2. Laendler. 3. Duetto. 4. Terzetto. 5. Quartetto. 6. Variazione canonica sul trillo. 7. Capriccio. 8. Cantabile. 9. Danza guerriera. 10. Presto giocoso. 11. Contemplazione. 12. Attività. 13. Eco. 14. Processione. 15. Scherzino. 16. Studio per la mano sinistra. 17. Studio per la mano destra. 18. Idillio. 19. Scherzo canonico. 20. Visione. 21. Contrasti. 22. Alla «Leporello». 23. Scoppio. 24. Fughetta. 25. Danza di fate. 26. Farfalle. 27. Umoresca. 28. Carnevale. 29. Afflizione. 30. La­ mento. 31. Elegia. 32. Fuga grande - Cadenza. 33. Tempo di minuetto e coda. Anche i rulli e i pochissimi dischi di d’Albert non rispondono alla grande fama di un interprete ammiratissimo da musicisti come Bruno Walter, Bartók, Artur Rubinstein, Wilhelm Kempff, non facili all’entusiasmo immotivato. Liszt riteneva che d’Albert fosse un secondo Tausig e in una lettera alla moglie Bùlow lo collocava al suo livello già nel 1884: «Così siamo, alla fin fine, tre: Anton [Rubinstein] (Antonius), io (Lepidus), Eugen [d’Albert] (Oktavian)». A ventidue anni, nel 1886, d’Albert eseguiva a Vienna il Con­ certo n. 2 di Brahms e diventava l’interprete brahmsiano prediletto e «ufficiale», tanto da partecipare come solista a molte serate — l’ultima il 10 gennaio 1896 — in cui Brahms dirigeva X Ouverture tragica e i due Concerti per pianoforte. Dopo la morte di Rubin­ stein e di Bùlow, Paderewski, d’Albert e Busoni diventavano i pianisti più famosi ed ammirati. Paderewski, amatissimo dalle folle, non era preso in grande considerazione dai critici, d’Albert e Bu­ soni ottenevano successi meno deliranti ma venivano discussi come i due leaders di una cultura in evoluzione. Nel nuovo secolo, mentre Busoni, come vedremo, operava una svolta radicale nella tradizione, d’Albert rimaneva però fermo, forse pago dei successi come operista e desideroso solo di ammini­ strare, come pianista, il capitale di celebrità accumulato nella prima

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parte della sua carriera. Ci restano alcuni documenti per capire oggi che cosa fosse il pianista d’Albert: incisioni per pianoforte mecca­ nico, dischi, revisioni dei classici, impressioni e giudizi di ascolta­ tori. Converrà, per ragioni che diverranno poi evidenti, partire da questi ultimi. Ho già riferito l’opinione di Liszt e di Bùlow. Ag­ giungo una felicissima immagine di Bruno Walter: «Non potrò mai dimenticare la titanica potenza con cui rendeva il Concerto in mi bemolle maggiore di Beethoven. Sono quasi tentato di dire che non lo suonava: lo impersonava». Preziosi sono i ricordi di grandi pianisti, che conobbero l’evoluzione del gusto dai tempi di d’Albert ai nostri giorni. Scrive Artur Rubinstein, riferendosi ai primi anni del secolo: «Ascoltai Eugen d’Albert eseguire il Quarto Concerto di Beethoven con una nobiltà ed una tenerezza che restano nel mio spirito come il modello d’interpretazione di questa composizione»; e: «Suonò in modo meraviglioso, soprattutto la Toccata in fa di Bach, da lui trascritta, e l’Appassionata». E Wilhelm Kempff, i cui ricordi risalgono a circa il 1905: «C’era allora un solo virtuoso, forse, che fosse capace di far cadere dalle mani le penne tagliate accuratamente per le annotazioni critiche, quando, unico nel suo genere, s’apprestava a costruire la cadenza d’apertura che segue subito la fanfara in mi bemolle maggiore dell’ultimo Concerto di Beethoven. Ci alzavamo tutti involontariamente per ascoltare questa declamazione del possente preludio, perché non era un pianoforte che suonava: sembrava di vedere l’opera di un creatore venuto ad edificare un mondo nuovo, un mondo di suoni. Certi “confratelli” potevano trattarlo da “incantatore di sorci”, di cui piacevano anche le note sbagliate: era però evidente che nel finale del Concerto dei concerti si svolgeva un fenomeno alla cui possanza nessuno poteva sfuggire. È vero che era stato alla scuola del mago Liszt, ma non c’era stato solo lui! Comunque, per intere settimane io fui ossessionato dal ricordo di questa apparizione. Dovunque andassi, dovunque mi trovassi avevo davanti agli occhi l’immagine dello stregone all’opera, della straordinaria figura dal cranio di leone, un cranio che non finiva mai d’incurvarsi e che sotto il suo peso annientava un corpo ridicolmente piccolo. Ma non ammiravo solo la sua forza. Il mio stupore raggiunse il colmo quando, dopo molti fuori programma, il leone ritirò gli artigli e fece rinascere come per incanto un Notturno [op. 15 n. 2] di Chopin. Nel­

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l’ebrezza generale noi c’eravamo già messi in moto verso le poltro­ ne dei primi posti, quando un’ultima ondata di delirio ci portò improvvisamente sulla pedana. Come ho detto, il leone aveva ritirato gli artigli e si mise ad accarezzare con zampe di velluto il mostro nero tanto teneramente amato, che aveva malmenato per tutta la serata e il cui pelo sembrò brillare dal piacere. Credetti persino di vederne sprizzare delle faville verdi, quando l’incanta­ tore, al momento in cui spirava la corona, filò il suono in un modo tale da darci l’illusione perfetta del vibrato di una voce umana. Temevo persino di riascoltare questo strano passaggio, tant’ero convinto che un momento fuggevole non si ripete. Ed ecco che il Maestro arrivò di nuovo a quel la diesis spirante; e di nuovo la sua mano, come la mano di Dio sulle acque il giorno della creazione, si posò sul tasto nero che brillava di un sì misterioso luccicore. Dav­ vero, quest’uomo non si ripeteva! Perché questa volta il suono, che appena pronunciato era destinato ad una dolce morte e, spirando, ne avrebbe spenti mille altri, non parve più provenire da una voce umana. Fu come il compianto seduttore delle Oreadi o delle Sirene, che turbano col loro richiamo il sonno degli uomini, fino a che, nella notte piena di fantasmi, si lasciano attrarre dal canto e s’uni­ scono, morendo, a loro». Ricordi personali, riferitimi da Luigi Perrachio, da Angelo Kessissoglù, da Cesare Nordio, insistevano su questa atmosfera di incantamento così hoffmannianamente rievocata da Kempff. Ma se dal ricordo e dal piacere del ricordo tentiamo di passare ad una definizione dello stile di d’Albert incontriamo molte difficoltà. Le revisioni del Quarto e del Quinto Concerto di Beethoven, assai più accurate e personali di quelle dei primi tre, ci dicono che d’Albert cambiava spesso e in modo molto ampio la velocità di base (nel primo tempo del Quarto si va da un minimo di 84 a un massimo di 116 di metronomo, nel primo tempo del Quinto da 104 a 168), cercando evidentemente una forte caratterizzazione dei singoli te­ mi ed episodi, e badando quindi ad un’estrema varietà di caratteri espressivi, secondo un modulo stilistico che può essere definito t come esposizione magniloquente e retorica (sia pur nel senso posi­ tivo del termine). Le revisioni dei primi tre Concerti di Beethoven ci dicono anche che la ricerca della evidenza plastica portava d’Al­ bert a modificare talvolta la scrittura, ispessendola in un modo che

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oggi ci appare assolutamente indebito. Anche le Cadenze che d’Albert scrisse per il Quarto, specie quella per il primo tempo, sono ripensamenti dei temi beethoveniani in termini di tecnica postlisztiana. È probabile che d’Albert, tutto intento ad esporre al pubblico la letteratura pianistica secondo la categoria della monumentalità, non si ponesse problemi di profonda differenziazione stilistica e stringesse sotto un comune denominatore il Bach orga­ nistico e Beethoven, Chopin, Schumann, Liszt, Brahms. Ed è pro­ babile che sotto quel comune denominatore cadessero anche le piccole pagine: il suono come gesto sonoro, come evento che mima il sorgere di un’architettura, il suono come fatto scenografico do­ veva valere anche in un Notturno di Chopin, anche in un Improv­ viso di Schubert, anche in un Rondò di Mozart. Valeva anche in Debussy? Non saprei dirlo. Valeva nel Bach non organistico, quello che d’Albert non eseguiva in pubblico? Sarei tentato di dir di no, perché nella Prefazione alla revisione del Clavicembalo ben tempe­ rato, scritta nel 1906, si trovano, tra vari giudizi che non si possono più condividere, alcune annotazioni interessanti: «L’accumulo di dettagli minutamente indicati conduce ad un modo di suonare non artistico, manierato»; e: «Io consiglio di suonare molte delle fughe con la stessa, uniforme quantità di suono, e sono convinto che, così facendo, metto in evidenza le intenzioni e le idee del compositore meglio che facendo altrimenti». Ma si può solo immaginare quale fosse in concreto il tipo, la qualità del suono impiegata da d’Albert. D’Albert ci appare dunque come uno dei tramiti che portano dal pianismo romantico al pianismo neoclassico, e in questo senso dovremmo dire che Schnabel ed Edwin Fischer rappresentano il superamento di d’Albert. Questa supposizione, per probabile che sia, resta tuttavia una supposizione, perché non abbiamo docu­ menti sonori sui quali basare la conoscenza del pianismo romantico ed abbiamo pochi, contraddittori documenti sonori per la cono­ scenza del pianismo di d’Albert (e di Busoni). I pochi dischi di d’Albert, incisi dopo la guerra, sono molto deludenti e confermano quel che scriveva nel 1934 il critico inglese Sacheverell Sitwell: «Fino a che le incertezze della sua salute non intaccarono la sua memoria e la sua tecnica d’Albert dovette essere, con ogni eviden­ za, uno dei più sbalorditivi pianisti che mai siano apparsi. Sfortu­ natamente, per le ragioni che sono state dette, durante gli ultimi

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trentanni della sua vita fu quasi impossibile formarsi una corretta opinione di ciò che le sue capacità dovettero essere durante la sua maturità». Più recentemente notava Joachim Kaiser: «La quasi incalcola­ bile influenza che d’Albert esercitò sulla sua generazione [...] non può, neppur con la migliore buona volontà del mondo, esser divi­ nata dalle incisioni che d’Albert ci ha lasciato. Pare verosimile che egli non fosse più al sommo delle sue capacità quando fece le incisioni e che forse non si curasse di un mezzo che era allora assai poco importante. In ogni modo, solo un orecchio molto esercitato e benevolo può capire da esecuzioni così grossolane e ritmicamente difettose quale grande artista sia al lavoro, un artista che è stato descritto in termini di riverente rispetto da tutti coloro che l’ascol­ tarono». Non molto maggiori elementi di valutazione critica ci sono of­ ferti dai rulli di pianoforte meccanico, registrati da d’Albert per la Welte Mignon tra il 1905 e il 1913 (e che comprendono pagine delle dimensioni della Sonata op. 2 n. 3 di Beethoven e della Sonata di Liszt). I rulli ci dicono semmai qualcosa di non positivo: ad esempio, nel finale della Polacca op. 53 di Chopin d’Albert adotta una modificazione platealmente virtuosistica e nell’improvviso op. 90 n. 3 di Schubert modifica la ripresa, adottando la vecchia variante di Liszt. Sono segni di una ricerca dell’effetto sicuro, sono segni di un’attenzione sempre rivolta al tipo di ascoltatore che vanta il diritto all’entusiasmo e che viene servito a dovere. Ma ci sono anche le testimonianze — nello stesso Improvviso di Schu­ bert, nel Sogno d*amore, nella Valse-Impromptu e nella Sonata di Liszt — di un fraseggio nobile e puro; c’è, nello Scherzo op. 16 n. 2 di d’Albert, il segno di un virtuosismo brillante. Tutte cose, per la verità, che sapevamo benissimo, sol che avessimo prestato cieca­ mente fede a chi ascoltò d’Albert nei suoi anni migliori. I rulli, per così dire, ci tranquillizzano. Eravamo alla ricerca di una dea, che ci avevano descritto bellissima, e riusciamo a vederla solo attraverso un vetro opalescente: quel poco che vediamo ci convince che quella vantata bellezza è bellezza vera, non ubriacamento della vista di chi, con i suoi racconti, ci aveva mossi a cercare la dea.

Le testimonianze sonore dell’arte di Sauer non sono invece

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poche: i due Concerti di Liszt, il Concerto e il Carnaval di Schu­ mann, molti pezzi brevi. Quando incise i concerti Sauer aveva però passato i settantanni e la sua calma olimpica, la sua posatezza, la lentezza dei suoi tempi erano probabilmente dovute all’età. Pro­ babilmente, dico; ma ho qualche dubbio, perché anche un altro allievo di Liszt, il belga Arthur de Greef, che incise il Concerto in mi bemolle maggiore di Liszt a sessant’anni, staccava tempi assai moderati. Nel Carnaval, inciso a sessantun anni, Sauer camminava più spedito,... senza andar troppo lontano come interprete e senza dare dimostrazione di un grande magistero tecnico. Da giovane Sauer doveva invece esser stato un virtuoso, che piaceva alle si­ gnore, come racconta Bartók in una lettera alla madre del 21 gennaio 1900: «Ho sentito e visto Sauer. Chi dei due suoni meglio, lui o d’Albert, ora non posso dirlo davvero. Perché ciò che più piace in d’Albert, vale a dire Bach e Beethoven, non era in programma. Quello che ha suonato, l’ha eseguito in modo mirabile. Come non sentire un pianoforte, tanto strano era qualche volta l’effetto dei suoi timbri. Schumann, Chopin, Liszt, tutte esecuzioni entusia­ smanti, mentre le Melodie ungheresi di Tausig mi sono piaciute molto meno del resto. Sauer da parte sua ha completamente in­ cantato il pubblico femminile: le donne dicono tutte che egli suona cento volte meglio di d’Albert. È piaciuto anche al professor Thomàn, ma non tanto (è gran nemico di Sauer). Alla fine del concerto il pubblico si è comportato nella solita maniera: volevano sentire ad ogni costo l’ouverture del Tannhauser, ma Sauer era sfinito e non li ha accontentati. «Interessante anche la scena che fa: alza le mani a volte all’al­ tezza di un metro, muove la testa qua e là, volge gli occhi al cielo, poi come se all’improvviso gli venisse in mente ciò che deve suo­ nare, comincia. Alla fine di ogni pezzo alza ancora le mani al cielo e se le fa cadere in grembo. (Forse sono proprio queste le cose che piacciono alle donne)». Ho sentito e visto. A noi manca quasi del tutto la possibilità di ascoltare questi pianisti degli anni tra i due secoli, i loro anni d’oro, e ci manca del tutto la possibilità di vederli in azione. E anche quando riusciamo a farli resuscitare tra i fruscii galattici dei vecchi dischi e tra lo scorrere a piccoli scatti dei rulli dobbiamo tener

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L "ultima covata del mago Merlino

sempre ben presente il fatto ch’essi non lavoravano per noi, ma per il loro pubblico, e che del suono e del gesto si valevano per esporre un’antologia di testi che consideravano i maggiori della letteratura pianistica. «La musica è formata dall’intenzione e dalla gestualità almeno quanto dal suono», dice Charles Rosen, esprimendo un parere che potrà anche scandalizzare, ma che a me sembra dettato dal buon senso del Pachmann, del tecnico che la musica la fa, prima di discuterla. Noi, oggi, non siamo più in grado di capire che cosa rappresentassero, per la conoscenza della letteratura in un periodo in cui non esisteva ancora o era appena agli inizi la riproduzione meccanica del suono, i pianisti attivi alla fine dell’ottocento e nel primo decennio del Novecento. Possiamo analizzare il loro repertorio per vedere fino a che punto essi andassero oltre la tradizione Liszt-Rubinstein-Bulow, e se così facciamo ci sembra di capire che la generazione nata verso il 1860 operò ancora entro i confini del repertorio consolidato, di cui si approfondirono certi aspetti senza riprendere in esame le moti­ vazioni sulle quali era nato. Il passaggio dalla storia antologica dell’arte alla storia della cultura sarà opera della «generazione dell’ottanta». La «generazione del sessanta» aggiunge al repertorio, che aveva ricevuto in eredità, un solo capitolo, in verità tutt’altro che privo di interesse: la trascrizione di opere di Bach. La Fantasia e fuga in sol minore e il Preludio e fuga in la minore trascritti da Liszt e la Toccata in re minore trascritta da Tausig diventano verso il 1880 opere di repertorio, a cui si aggiungono negli anni 90 le trascrizioni di d’Albert (Preludio e fuga in re maggiore, Passacaglia, Toccata in fa maggiore) e di Busoni (Preludi e fuga in re maggiore e mi bemolle maggiore, Toccate in do maggiore e re minore, Ciac­ cona). Viene così superata la concezione del Bach preromantico e si comincia a intrawedere il Bach monumentale e barocco, sia pur assimilato al pianoforte e ad un pianoforte che s’ispira all’organo romantico. Oltre al Bach trascritto entra nel repertorio anche qualche brano di Debussy: poco, in verità, ma quanto basta a far capire al pubblico che la letteratura pianistica continua ancora dopo Brahms.

IL GUASTATORE

L’unico pianista di questa generazione nel cui repertorio e nelle cui teorie sull’interpretazione, più che nei rulli e nei dischi, si possano trovare le premonizioni di una crisi è Ferruccio Busoni. Le poche facciate di dischi acustici, incise a Londra nel 1922, ci dicono qualcosa sulla sonorità e sullo stile di Busoni. Il suono cantabile può raggiungere in lui vertici di bellezza non inferiori a quelli di Paderewski, ma la sua tavolozza timbrica, al contrario di quella di Paderewski, è molto varia: se si paragona il Notturno op. 15 n. 2 di Chopin inciso da Busoni e da Paderewski si nota subito il fortissimo contrasto di sonorità che Busoni crea tra la prima e la seconda parte, mentre Paderewski gioca sulla dinamica senza uscir mai dal suo concetto di bel suono espressivo. La Rapsodia ungherese n. 13 di Liszt, eseguita da Busoni, ci mostra l’uso di un suono piatto e «inespressivo», quasi da silofono, e nel Preludio e fuga in do maggiore del primo libro del Clavicembalo ben temperato troviamo sonorità argentee, da organo antico. I rulli di pianoforte meccanico non corrispondono ai dischi, ed è un peccato, perché nei rulli troviamo le più ampie composizioni incise da Busoni (alcune pa­ rafrasi e la Polacca n. 2 di Liszt, la sua Ciaccona da Bach). La timbrica sottilmente sfaccettata che si nota nei dischi e che è testimoniata da molti contemporanei non poteva probabilmente essere fedelmente captata dal pianoforte meccanico, e altri guasti devono essere avvenuti nel trasferimento del rullo dal pianoforte usato da Busoni ad altri pianoforti. Da alcuni rulli — Feux follets degli Studi trascendentali, La caccia degli Studi da Paganini — si capiscono soprattutto quelle qualità di suono fluidissimo, quasiglissando, di cui ci parlano parecchi attenti critici che ascoltarono

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Busoni. I dischi, per la verità, lasciano supporre anche i limiti della tecnica del suono di Busoni, perché l’indipendenza delle parti, il contrappunto di timbri del Preludio-corale Rallegratevi, cristiani diletti di Bach-Busoni non è in Busoni così netta, così incredibil­ mente spaziata come in Horowitz. I dischi bastano tuttavia a far capire che la concezione dell’ese­ cuzione era in Busoni polifonica: contemporaneità di eventi sonori correlati sì, ma indipendenti. Non per amore di schematismi, ma perché, sia pure in modo un po’ semplificatorio, ciò risponde alla realtà, si possono rilevare in Paderewski e in Busoni le due posi­ zioni estreme della «generazione del sessanta»: la monodia accom­ pagnata in Paderewski, la polifonia in Busoni, la monocronia tim­ brica in Paderewski, la policromia in Busoni. Dai dischi e dai rulli si capiscono inoltre, per certe modificazioni della scrittura e per certe amplificazioni, le ragioni di talune riserve e di talune polemiche che le esecuzioni di Busoni suscitarono. Ma, mancando le opere mo­ numentali che più impegnarono Busoni interprete — le Variazioni di Goldberg di Bach, l’op. 106 e le Variazioni su un valzer di Diabelli di Beethoven, la Sonata di Liszt, le Variazioni su un tema di Paganini di Brahms, la Fantasia contrappuntistica di Busoni — manca in pratica la possibilità di paragonare le sue posizioni teori­ che, che ora esporrò, con le realizzazioni pratiche. Nel 1902, al colmo della maturità, Busoni aprì una polemica con il critico Marcel Rémy in una lettera aperta, nella quale veniva sintetizzato il suo credo di interprete: «Lei parte da false premesse se pensa che sia mia intenzione di “modernizzare” le opere [che eseguo]. Al contrario, ripulendole dalla polvere della tradizione, io tento di restaurare la loro giovinezza, di presentarle come suona­ vano per il pubblico al momento in cui per la prima volta sprizza­ rono dalla mente e dalla penna nel compositore. La Patetica era una sonata quasi rivoluzionaria ai suoi giorni, e deve suonare rivoluzionaria. Non si mette mai abbastanza passione nell’Appas­ sionata, che fu nella sua epoca il culmine dell’espressione della passione. Quando suono Beethoven tento di raggiungere la libertà, l’energia nervosa e l’umanità, che sono i segni peculiari delle sue composizioni, in contrasto con quelle dei predecessori. Rifacendo­ mi al carattere dell’uomo Beethoven e a ciò che si dice del suo modo di suonare mi sono costruito un ideale che è stato a torto

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definito “moderno” e che in realtà non è altro che “vita”. Faccio lo stesso con Liszt; e, stranamente, molti mi approvano in questo caso, mentre mi condannano nell’altro». Il reale significato di posizioni critiche così ricche di implicazioni e di problemi diversi, mancando, come dicevo, le esecuzioni, non può più essere compreso. È tuttavia evidente che l’ideale di Busoni non è storicistico ma mistico: ritrovare il significato originario e trascendente ed eterno dell’opera, senza ricostruire filologicamente il suono di origine e senza partire dalla tradizione, cioè dalla fortu­ na storica dell’opera. La percezione dell’opera, organizzata da Bu­ soni per l’ascoltatore attraverso la sua raffinatissima tecnica del timbro, diventava dunque, nelle intenzioni dell’interprete, rivela­ zione del significato metastorico. Posizione che non poteva non suonare polemica e inattuale in tempi nei quali lo storicismo mirava alla rilettura filologica dei testi e alla ricostruzione dell’Urton, del suono originario. L’inizio del secolo è infatti il periodo della batta­ glia culturale per gli strumenti antichi, sia pure con tutti i limiti e con tutte le ambiguità dell’azione che, a livello divulgativo, venne svolta da Wanda Landowska. La concezione di Busoni era perciò perdente allora, né sarebbe stata radicalmente ripresa poi. Vincente era invece la sua azione quando indirettamente si legava a temi dello storicismo. Nel 1902, pur avendo già concluso il capitolo «Bach organistico», Busoni continuava a vedere in Beethoven il punto di partenza della lette­ ratura pianistica, e restava quindi ancora entro i limiti tracciati da Rubinstein. Fino al 1900 egli aveva infatti eseguito il repertorio tradizionale, dando nel 1898 la replica a Rubinstein con un ciclo di quattro programmi dedicati alla storia del concerto per pianoforte e orchestra, da lui eseguiti a Berlino.

I. Bach: Concerto in re minore. Mozart: Concerto K 488. Beethoven: Concerto op. 58. Hummel: Concerto in si minore. IL Beethoven: Concerto op. 73. Weber: Concertstùck. Schubert-Liszt: Wanderer-Fantaisie. Chopin: Concerto op. 11. III. Mendelssohn: Concerto op. 25. Schumann: Concerto op. 54. Henselt: Concerto op. 16. IV. Rubinstein: Concerto op. 94. Brahms: Concerto op. 15. Liszt: Concerto in la maggiore.

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Per quanto eccezionale fosse l’impresa, affrontata per di più da un pianista di soli trentadue anni, la tesi storica di Rubinstein non veniva da Busoni contraddetta, ma semplicemente estesa al con­ certo. È persino strano che Busoni, il quale aveva eseguito da bambino il Concerto in do minore K 491 di Mozart, scegliesse il K 488 piuttosto che il K 466 oilK491 oilK 503; è strano che prendesse in considerazione la Wanderer-Fantaisie di SchubertLiszt piuttosto che il Concerto n. 3 di Beethoven; ed è strano — ma qui giocava forse la sua personale antipatia per Fautore — che non includesse nel ciclo il concerto conclusivo del Romanticismo, il Concerto n. 2 di Brahms. Mi sembra quindi che il ciclo del 1898 non aggiungesse nulla di sostanzialmente nuovo alle conclusioni critiche a cui era pervenuto Rubinstein. Nel 1901, invece, Busoni comincia a pensare in modo diverso perché cerca di rivalutare, con l’esecuzione di ben otto importanti pezzi (presentati al pubblico tra il 1901 e il 1903), la figura miste­ riosa ed esoterica di Charles Valentin Alkan, non riconosciuto da Rubinstein come maestro di virtuosismo trascendentale. Nel 1904 compie il passo definitivo puntando su Liszt come su uno dei grandi protagonisti della storia della musica, non solo della storia del virtuosismo: nel dicembre del 1904 egli presenta infatti a Ber­ lino tre programmi di musiche di Liszt, che lasciano atterriti i critici. La battaglia per Liszt, condotta da Busoni anche con le collabora­ zioni alle edizioni critiche lisztiane promosse dal duca di Weimar, culmina nei sei concerti tenuti a Berlino tra il 31 ottobre e il 12 dicembre 1911, nel centenario della nascita del Maestro: 1. 12 Studi trascendentali, Fantasia su due motivi delle «Nozze di Figaro» (completamento di Busoni). 2. Années de Pèlerinage (Première Année, Suisse), Due Leggende, trascri­ zione dell’Adelaide di Beethoven, Reminiscenze del «Don Giovanni». 3. Années de Pèlerinage (Deuxième Année, Italie), trascrizioni di Con­ dotterà, Serenata e Tarantella di Rossini, Miserere del «Trovatore», Valse a capriccio su due motivi di Lucia e Parisina, Reminiscenze della «Norma». 4. Années de Pèlerinage (Troisième Année, Italie), Ballata n. 2, Bénédiction de Dieu dans la solitude, Valse oubliée, Die Zelle in Nonnenwerth, Polacca in do minore, Galop chromatique. 5. Variazioni su un tema di Bach, Sonata in si minore, trascrizioni di Erlkónig, Die Forelle e Marcia ungherese di Schubert, Rapsodie ungheresi, n. 5, 13 e 12.

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6. 6 Studi da Paganini, Fantasia e fuga su «Ad nos, ad salutarem undam» (trascrizione di Busoni), Mephisto-Walzer n. 1 (versione di Busoni), Po­ lacca in mi maggiore.

Contemporaneamente, Busoni riprendeva su basi diverse il di­ scorso su Bach. Già alla fine dell’ottocento aveva affrontato il Bach dei Preludi-corali, cercando uno «stile da camera» diverso dal precedente «stile da concerto»; questa neoesperienza bachiana veniva proseguita con trascrizioni e parafrasi che culminavano nella Fantasia contrappuntistica (1910) e nelle Variazioni di Goldberg (1914). Nel dopoguerra Busoni cominciava a saldare Beethoven a Bach eseguendo otto Concerti per pianoforte e orchestra di Mo­ zart. Iniziativa non nuova, s’intende: Saint-Saèns aveva eseguito sedici Concerti di Mozart a Parigi mezzo secolo prima e Reinecke non aveva mancato occasione di far conoscere i Concerti di Mozart a Lipsia. Ma, appunto, Saint-Saèns e Reinecke non erano concerti­ sti che potessero indirizzare il gusto del pubblico internazionale, mentre le iniziative di Busoni rappresentavano reali svolte nella storia della cultura di massa. Busoni era dunque il protagonista di tre momenti cruciali nella storia del concertismo: la scoperta di Liszt musicista, la piena riscoperta di Bach, il recupero di un Mozart posto sullo stesso piano di Beethoven. E con ciò Busoni si staccava dagli altri grandi pianisti della sua generazione, anche se le sue trascrizioni ed elaborazioni da Bach erano criticabili e criticate, anche se le sue esecuzioni mozartiane suscitavano proteste fierissi­ me,... forse non ingiustificate.

NELLA SCIA DI RUBINSTEIN?

Le provocazioni e le spallate di Busoni non restarono senza effetto sui pianisti nati tra il 1870 e il 1880, e soprattutto sui pianisti nati tra il 1880 e il 1895. Tutti questi interpreti esordirono prima della Grande Guerra, ma ben pochi di essi raggiunsero posizioni di preminenza nella vita concertistica prima del 1920. Rachmaninov svolse attività di pianista-compositore anche prima della guerra, ma solo dal momento dell’espatrio decise di diventare soprattutto interprete, Cortot cominciò a farsi veramente notare poco prima del 1914, Schnabel, Artur Rubinstein, Fischer si imposero dopo il 1920. Alcuni giovani, molto dotati ma anche molto legati alla tradizione (come Josef Pembauer, Erno von Dohnànyi, Ossip Gabrilovic, Mark Hambourg, Ignaz Friedmann, Benno Moisewitsch) erano ben inseriti nella vita concertistica internazionale già nel primo quindicennio del secolo; le loro esecuzioni incise in disco o in rullo, talvolta molto ben riuscite, non stimolano però la nostra curiosità critica e valgono al più come esempi di probabili deriva­ zioni dall’insegnamento di grandi didatti (soprattutto di Lesche­ titzki). Toccano invece traguardi di .rilevanza storica, già agli inizi del secolo, il russo Joseph Lhevinne, il polacco Josef Hofmann, il francese Edouard Risler, nonché il tedesco Wilhelm Backhaus, del quale parleremo più avanti. Il critico francese Pierre Lalo ci dice di aver ascoltato Risler verso la fine del secolo e di esserne rimasto profondamente impressiona­ to: «Edouard Risler mi apparve subito come il solo pianista che avessi ascoltato con piacere dopo la morte di Rubinstein, il solo che me lo ricordasse, il solo che potesse essere paragonato al suo illustre predecessore senza che il paragone fosse rovinoso». È la prima di

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una serie di testimonianze che ci incuriosiscono molto. Risler, molto ammirato da Cortot, da Poulenc, da Kempff, da Proust, e di cui lo storico Oscar Bie parla come di colui che «ha scoperto quelle ultime delicate sfumature che stanno precisamente tra il suono e il silenzio» e i cui suoni «sembrano non iniziare e non finire», all’i­ nizio del secolo doveva essere un pianista sorprendente. Viene subito in mente il famoso «suonare direttamente sulle corde» di cui tanto si parlò a proposito di Debussy; forse Risler aveva sviluppato gli aspetti innovativi del suo stile — non gli mancavano d’altra parte una grande pienezza e forza di sonorità — partendo dall’esperienza del simbolismo francese (era stato il primo interprete della Sonata e delle Variazioni su un tema di Rameau di Dukas e di molti lavori francesi contemporanei) e si valeva poi di una timbrica inconsueta anche nei romantici, in Beethoven, in Mozart. I programmi di Risler non sono intessuti con tutti i ninnoli che piacevano tanto a Pachmann o Paderewski o Sauer; egli eseguì le trentadue Sonate di Beethoven, e tutta l’opera di Chopin, tenne cicli di programmi storici al modo di Rubinstein e programmi monografici, eseguì composizioni contemporanee molto impegna­ tive, rivelò ai berlinesi il Concerto in do minore di Mozart. Più tardi, a detta di Pierre Lalo, la morte della moglie e della figlia lo allontanarono dalla vita concertistica, e alla ripresa «non c’era più il cuore». Artur Rubinstein, che ritrovò Risler a Buenos Aires nel dopo­ guerra e che suonò con lui a due pianoforti, ne parla però con incondizionata ammirazione,... sia pure per contrapporlo a Schna­ bel: «Ascoltai tre concerti di Risler. Suonava Sonate [di Beethoven] della giovinezza e l’Appassionata, gli Addii, la Hammerklavier. A tutt’oggi io non ho sentito nessuno suonarle con altrettanta emo­ zionante bellezza. Le suonava con tutta naturalezza, rivelando la natura profondamente romantica di questi capolavori. Non mi sono mai lasciato convincere dalla concezione intellettualizzata e quasi pedante di Artur Schnabel, che viene di solito riconosciuto come specialista di queste opere. [Schnabel] mi faceva l’effetto di un corso scolastico, mentre l’adagio della Hammerklavier, l’Assenza degli Addii, la Tempesta, eseguite da Risler mi strappavano le lacrime. Sembra si dimentichi che, tra tutti i compositori, Beetho­ ven è il primo che si sia potuto chiamare «romantico», il che vuol

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dire semplicemente che il suo genio creatore gli serviva a esprimere nella sua musica la sua disperazione, le sue gioie...». Lodi forse un po' sospette, ma che vorremmo comunque poter controllare e magari discutere. Purtroppo, quel che ci resta di Risler è invece poco più di ciò che abbiamo di Ferruccio Busoni, cioè una miseria: di un artista che fu salutato ovunque come grande inter­ prete di Beethoven è rimasto in tutto e per tutto, in disco, il finale della Sonata op. 26, di un artista che eseguì V opera omnia di Chopin sono rimasti in disco lo Studio op. 10 n. 5, il Notturno op. 15 n. 2, la Mazurca op. 17 n. 4 e il Valzer op. 64 n. 2. È un niente, anche se qualche cosina sembra di poterla capire. In Beethoven — e non lo dico per il piacere sciocco di contraddire Rubinstein — la sonorità trasparente e il gusto per i frequenti cambiamenti di tem­ po fanno pensare a Schnabel, anche se il modo di porgere è in appa­ renza più capriccioso, più «francese», diverso dalla grinta dell’in­ tellettuale che, avendo tutto macinato per conto suo, mette a tacere qualsiasi obbiezione. Una differenza di superficie che non nascon­ de una comune matrice, una comune svolta stilistica,... almeno qui. Quel che facesse Risler negli altri tempi della Sonata op. 26 o nell’op. 2 n. 1 o nell’op. Ili non possiamo nemmeno immaginarlo! Le interpretazioni del Notturno e della Mazurca di Chopin — quest’ultima veramente stupenda, tra le migliori ch’io conosca dell’enigmatico pezzo — lasciano trasparire una sorta di impassi­ bile disperazione esistenziale, di gelido ipocondriaco pessimismo, che potrebbero esser stati impressionanti nella Sonata op. 35 o in altri grandi lavori. Ma anche qui siamo molto lontani da un minimo di documentazione su cui basare un giudizio sulla posizione critica, che parrebbe di avanguardia, di Risler, mentre il Valzer op. 64 n. 2 mostra all’opposto aspetti interpretativi più tradizionali e scontati, anche se la ripresa è di una drammaticità che ricorda Rachmaninov. Ciò che invece si capisce bene, dai pochissimi dischi rimastici, è la qualità finissima del gusto di Risler in brani come VInvito alla danza di Weber, Vldylle di Chabrier, la Danza spagnola in sol maggiore di Granados, ed è la sua tecnica in brani come lo stesso Invito alla danza e lo Studio di Chopin. La tecnica è quella francese classica, ma senza i vertici di virtuosismo digitale di Saint-Saèns o di Diémer o di Pugno e con un maggior volume di suono. Risler non raggiunge la potenza degli allievi di Liszt o del suo coetaneo

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Rachmaninov, ma ha capacità di accentuazione che aumentano di molto le possibilità di profondità prospettica, tanto più in quanto il suono è sempre limpidissimo e possiede, in alcuni tipi di attacco, una costanza di dinamica che ricorda di nuovo Schnabel. Non si riscontrano dai dischi i pianissimi impercettibili che entusiasmava­ no Oscar Bie. Può darsi che Risler dovesse rinunciare a certi livelli minimi perché il disco non li avrebbe captati, come può darsi che il Bie si fosse fatto impressionare da alcuni giochi di note tenute e da effetti bellissimi di risonanza, che si ascoltano nella prima parte della Rapsodia ungherese n. 11 di Liszt. Se metto insieme tutto quello che ho letto su Risler e tutto quello che di lui ho ascoltato mi sembra certo che si trattasse non solo di un grande pianista, ma di una grande personalità di interprete: la limitatezza delle testimonianze dirette e la mancanza di studi critici dei contemporanei ci privano però di elementi di valutazione sto­ rica che probabilmente sarebbero stati essenziali per capire il pas­ saggio dall’epoca Bùlow-Rubinstein al dopo-Rubinstein, tema fondamentale nel nostro discorso, e su cui dovremo invece proce­ dere spesso per congetture.

Lhevinne non fu, nella maturità, un concertista internazionale di giro perché si dedicò soprattutto all’insegnamento nella Julliard School di New York. Certe sue esecuzioni incise in disco nel periodo tra le due guerre (alcuni Studi e la Polacca op. 53 di Chopin, la Toccata di Schumann, la parafrasi sul Bel Danubio blu di Schulz Evler) sono tanto straordinarie quanto famose, ma non presentano caratteri stilistici diversi da quelli dell’inizio del secolo, che sono perciò storicamente più importanti. I rulli incisi da Lhe­ vinne nel 1906, a trentadue anni, sono la dimostrazione di una tecnica virtuosistica sorprendente, sbalorditiva, divertente come un gioco di prestigio: basta ascoltare lo Studio op. 740 n. 33 di Czerny o il Lindenbaum di Schubert-Liszt per stentare a credere alle pro­ prie orecchie! Tuttavia, quello che ci appare più sbalorditiva è l’organizzazione dei piani di sonorità. L’esecuzione del Notturno per la mano sinistra sola di Scriabin è, in questo senso, un esempio di dominio tecnico che ha pochi eguali nella storia dell’incisione. La composizione è in realtà un pezzo da salotto di media difficoltà, di quelli che il buon

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dilettante poteva eseguire per il piacere degli ospiti, con sfoggio di cantabilità vocalistica e con un fraseggio alla Pachmann o alla Paderewski. Ma il fraseggio strappalacrime non è affidato da Scriabin al gusto dell’esecutore: è scritto, è diventato struttura, perché Scriabin impiega solo la mano sinistra, che si sposta forsen­ natamente a toccare alternativamente una melodia e un accompa­ gnamento o un centro appassionato e un basso minaccioso, e che fa da sola, con inevitabili piccole imprecisioni ritmiche, le cadenzine che il dilettante dalle dita di burro avrebbe eseguito con la rota­ zione degli avambracci e a mani alternate. Ora, Lhevinne è genialissimo nella definizione stilistica del pez­ zo, ma la definizione stilistica nasce da una tecnica che per la prima volta si dimostra capace di dominare razionalmente, e non più con lo strapotere vitalistico di Rosenthal, la gamma delle intensità nell’ambito di un timbro sempre cantabile, sempre dolcemente espressivo, sempre bello e godibile. La concezione di Lhevinne non è quella coloristica di Busoni, ma quella emotiva di Paderewski. Solo che Lhevinne domina la tastiera in un modo sconosciuto a Paderewski, ed il suo fraseggio può così diventare molto più sobrio, meno indugiante, più allusivo. Nei suoi Basic Principles of Piano Playing Lhevinne cita conti­ nuamente Anton Rubinstein come maestro e modello di perfezione ineguagliata. Sarebbe da vedere se Lhevinne idealizzasse Rubin­ stein avendone in realtà scelto solo alcuni aspetti di stile, o se la sua lezione rappresentasse, oltre che una correzione di Paderewski, anche un autentico ritorno a Rubinstein. L’ipotesi più probabile, mi sembra, è che in Lhevinne si debba parlare non di superamento ma di restaurazione, e in questo senso si spiegherebbero la sua non-modernità nel dopoguerra e il suo distacco dalla vita concerti­ stica.

Non siamo in realtà in grado di rispondere alla domanda, e non ci aiutano neppure le incisioni di Josef Hofmann, allievo per due anni di Rubinstein, che parla anch’egli del suo maestro in termini poco diversi da quelli di Lhevinne. Lo Hofmann che meglio cono­ sciamo, quello del 1920-40, presenta aspetti sconcertanti, e anche nei suoi momenti più convincenti conserva una dose di ironia, di autoironia, di distacco che non rispondono affatto alle descrizioni e

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alle testimonianze sulla «ingenuità», sulla sublime ingenuità di Rubinstein. Hofmann fa semmai pensare a quel che si scrisse su Liszt,... ma questi discorsi sono in verità basati su impressioni incontrollabili. Nelle incisioni del 1906-17, le prime che di lui ci siano rimaste, lo stile di Hofmann è meno ironico di quanto non sia spesso più tardi, è più vicino allo stile di Lhevinne e risponde benissimo al giudizio di Stravinsky, riferito al primo decennio del secolo: «Per quanto la vita scolastica me lo permetteva, frequentavo i concerti sinfonici e i concerti di celebri pianisti russi e stranieri. Ebbi così modo di sentir suonare Josef Hofmann, il cui pianismo era di una serietà, di una precisione, di una compiutezza che mi entusiasma­ vano a tal punto da far raddoppiare il mio zelo nello studio del pianoforte». La sonorità di Hofmann è meno ampia di quella di Lhevinne, ma le proporzioni dei piani sonori sono raffinatissime e la trasparenza del tessuto è pressoché perfetta. In Hofmann la partecipazione attiva del dito doveva essere maggiore che in Lhe­ vinne e la meccanica classica delle dita doveva essere da lui prefe­ rita: la sua esecuzione delle note ribattute nel Capriccio spagnolo di Moszkowsky, registrata in pubblico, è veramente fenomenale,... e si sa che non si sgranano le note ribattute se non si hanno dita d’acciaio. Hofmann, in Piano playing with piano questions answe­ red, raccomanda di «suonare sempre con le dita» e di «toccare i tasti nel loro centro e con la punta delle dita», mentre Lhevinne, pur basando la tecnica sull’impiego muscolare e non sul peso, consiglia la articolazione che mantenga la curva del dito in riposo invece del «martelletto». Se si paragona la parte centrale del Pre­ ludio op. 23 n. 5 di Rachmaninov, incisa da Lhevinne e da Hof­ mann dopo il 1920, si può constatare una superiorità di Lhevinne nelle «mezze voci» iperespressive. Qui ci interessa tuttavia di più la ricerca di una possibile derivazione di Lhevinne e di Hofmann da Anton Rubinstein. Soprattutto importante è a questo proposito l’esecuzione della Sonata op. 31 n. 3 di Beethoven. Paragonata alle esecuzioni beethoveniane di pianisti tedeschi come Scharwenka (Sonate op. 57 e op. 90), di d’Albert (Sonata op. 2 n. 3), di Lamond (Sonata op. Ili), di Max Pauer (Andante favori), l’esecuzione di Hofmann dimostra che la sentimentalizzazione e la romanticizzazione di

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Beethoven riguardavano la cultura tedesca più che non la cultura slava. Alcune più tarde incisioni beethoveniane di Hofmann (So­ nate op. 2 n. 3 e op. 27 n. 2) confermano del resto questa impres­ sione, che in verità è però in parte contraddetta dall’esecuzione che Lhevinne ci ha lasciato della Sonata op. 27 n. 2 e dalla registrazio­ ne, di Hofmann stesso, dell’op. 53, ripresa in un concerto pubblico. Sembrerebbe tuttavia che gli slavi avessero alFinizio del secolo elaborato una distinzione di «classico» e «romantico» e che non vedessero più in Beethoven il primo romantico. Lo avevano fatto superando Rubinstein o sviluppandone indicazioni che non tra­ sparivano dalle sue posizioni teoriche? Le esecuzioni di Hofmann e l’esecuzione beethoveniana della Carreno, epigona di Rubinstein, che ho prima citato, ci dice che la seconda ipotesi è possibile. Una casuale annotazione di Busoni ci permette di dire che probabilmente la posizione di Hofmann, nel primo decennio del secolo, era di aggiornata e «intelligente» conservazione della tra­ dizione di Rubinstein. Nel 1912 Busoni tenne infatti a S. Pietro­ burgo e a Mosca dei concerti che ottennero un successo enorme e sollevarono vivaci discussioni; Busoni scrisse alla moglie, il 15 novembre: «Il giornale di S. Pietroburgo contiene oggi una nota critica su Hofmann, piena di colpi bassi per tuo marito. Qui si presenta il fenomeno insolito che egli (il più giovane) è definito “limpido”, io, il più anziano, rivoluzionario». Orbene, sedici anni prima Busoni aveva citato alla moglie, con compiacimento, un giudizio di Hanslick: «Oggi leggo sulla Presse ciò che Hanslick scrive di me: “Busoni, straordinario, incantevole pianista, il solo che ricorda pienamente Rubinstein” ». Possibile che a S. Pietroburgo non riconoscessero in Busoni il prosecutore della lezione di Rubinstein e gli contrapponessero, come più «limpido», Hofmann? Tra il 1896 e il 1912 doveva esser successo qualcosa. In realtà, Busoni rimase probabilmente legato a Rubinstein fino a quando non co­ minciò a studiare Alkan, e poi, su nuove basi, Liszt e Bach. Nel 1912 egli doveva ormai rappresentare l’avanguardia, un’avanguar­ dia scandalosa per i conservatori e per i tradizionalisti, mentre Hofmann doveva essere ancora collocabile nell’ambito della lezio­ ne di Rubinstein. Se un pianista aveva avuto modo non solo di imitare Rubinstein, ma di penetrare a fondo la sua concezione dell’interpretazione,

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questi era Hofmann. Nato a Podgorze il 20 gennaio 1876, Hof­ mann era stato ascoltato nel 1883 da Rubinstein, che lo aveva segnalato all’impresario Hermann Wolff dell’agenzia Wolff e Sachs di Berlino. Wolff aveva fatto esordire il ragazzo nel 1885, facen­ dogli quindi girare l’Europa e procurandogli persino una parteci­ pazione ad una serata dei Filarmonici di Berlino diretti da Hans von Bùlow, addirittura con il Concerto n. 3 di Beethoven. Forte di tanto viatico, Hofmann era passato nel 1887 a New York, vi aveva esordito il 29 novembre con il Concerto n. 1 di Beethoven, la Polacca brillante di Weber-Liszt ed alcuni pezzi a solo, ed aveva iniziato, ben guidato dall’impresario Henry Abbey, la... conquista del Nuovo Mondo. Una campagna di stampa provocata dalla So­ cietà per la prevenzione della crudeltà verso i fanciulli faceva però interrompere la tournée felicemente avviata e un mecenate garan­ tiva una somma annua da impiegare per l’educazione del ragazzo, che doveva impegnarsi a non suonare più in pubblico fino a diciott’anni. Rientrato in Europa con la famiglia, Hofmann studiava a Berlino con Moritz Moszkowsky, e finalmente, dal 1892, comin­ ciava a recarsi settimanalmente a Dresda, dove Rubinstein aveva fissato la sua residenza. Hofmann racconta in modo sintetico ma molto preciso ed acuto la storia delle sue lezioni con Rubinstein, che durarono fino all’in­ verno del 1894. I principi didattici di Rubinstein erano molto curiosi, ma certamente adatti ad un allievo tanto dotato: nessun pezzo doveva essere portato a lezione più di una volta, e il Maestro non esemplificava mai nulla al pianoforte: «Egli spiegava, analiz­ zava, delucidava tutto ciò che voleva io sapessi; ma, fatto ciò, mi lasciava alla mia propria capacità di giudizio perché solo così, spiegava, il mio raggiungimento sarebbe diventato mia sola e in­ contestabile proprietà. Imparai da Rubinstein, in questo modo, la importante verità che la concezione del quadro sonoro ottenuta attraverso l’esecuzione di un altro ci dà soltanto impressioni tran­ sitorie, che vengono e vanno, mentre la concezione creata da noi dura e rimane nostra». Rubinstein fece esordire Hofmann ad Amburgo il 14 marzo 1894, sotto la sua direzione e nel suo Concerto in re minore, Concerto che aveva peraltro sempre rifiutato di ascoltare dall’al­ lievo. Il successo della serata rilanciò Hofmann, che fino alla

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Grande Guerra, come risulta anche dai suoi rulli e dai primi dischi, fu interprete che ad una tecnica strepitosa, univa quelle doti lodate da Stravinsky e riassunte con il termine «limpido» dal critico citato da Busoni. Il repertorio fu mantenuto entro i limiti tracciati da Rubinstein, ivi compresa l’esclusione di Brahms (con l’eccezione della Variazioni su un tema di Hàndel), con pochissimi «aggiorna­ menti»: il Concerto, la Sonata n. 3 e poche altre cose di Scriabin, poche cose di Rachmaninov (senza il Concerto n. 3, dedicato a Hofmann), pezzettini di Schytte, Woods, Stojowsky, Hofmann stesso sotto lo pseudonimo di Michael Dvorsky. Le incisioni del dopoguerra rivelano momenti di incertezza spi­ rituale che, come già accennavo, giungono talora fino ad aspetti veramente sconcertanti: accanto ad esecuzioni chopiniane di clas­ sica sobrietà (come la Sonata n. 2) e di espressività ardente ma controllatissima (come il primo tempo della Sonata n. 3 o come il Notturno op. 27 n. 2), troviamo esecuzioni che riducono Chopin al rango di un virtuoso da circo equestre (il Valzer op. 64 n. 1, la Berceuse, FAndante spianato e Polacca brillante)', accanto ad una esecuzione beethoveniana dell’op. 27 n. 2 che potrebbe essere fir­ mata da uno Schnabel o da un Gieseking e ad un’esecuzione dell’op. 2 n. 3 tanto poco esteriormente virtuosistica quanto quella di un Kempff troviamo un’esecuzione dell’op. 53 che nel finale frantuma l’arco formale in una miriade di particolari; accanto ad una incantata poesia checoviana, nostalgica e come sospesa in una realtà fuori del tempo, troviamo brutali appelli all’applauso del pubblico. Rachmaninov scriveva nel 1936 ad un amico, che gli chiedeva di citargli il miglior pianista vivente: «Hofmann, dopo tutto, è ancora senza dubbio il miglior pianista, ma a una condizione: che sia ben “disposto”; altrimenti non potresti riconoscere lo Hofmann di un tempo». Stravinsky ^Expositions and developments) ci offre una spiegazione dei mutamenti d’umore di Hofmann: «Facemmo in­ sieme un viaggio verso gli Stati Uniti, sul Rex, nel 1935. Scoprii allóra che aveva un carattere bisbetico e che beveva molto, e ciò era il guaio peggiore». E Artur Rubinstein, che spesso non nasconde la sua antipatia per Hofmann, incidentalmente non manca neppur lui di attirare l’attenzione sull’argomento, quando parla di un’esecu­ zione di In der Nacht di Schumann nel salotto della principessa di

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Polignac: «Preso fuori dal contesto questo pezzo, tanto difficile, può apparir bizzarro, e qualche bicchiere in più che [Hofmann] aveva bevuto lo faceva apparire più bizzarro ancora». Non credo che Hofmann suonasse bene o male a seconda se aveva o no trovato la misura esatta dell’alcool. Non credo nemme­ no che suoni male, anche quando i suoi dischi mi irritano. Credo invece che la sua evoluzione di interprete non avesse avuto uno sviluppo costante nel dopoguerra, ma che invece, dopo la Rivolu­ zione russa e dopo il suo definitivo trasferimento negli Stati Uniti, giocassero in lui fortissime spinte regressive e forse, come in Tausig, il disgusto della professione. Già in Paderewski la Berceuse di Chopin assume aspetti inquietanti e viene sentita come potenzial­ mente ostile al Romanticismo. Un critico reazionario, Ippolito Valletta, diceva nel 1909 che con la Berceuse «non siamo sul terreno della grande musica, piuttosto ci troviamo vicini al regno dell’illusione musicale», e Paderewski, che di norma andava lento e cantava ogni nota, nel 1922 eseguiva la Berceuse a un tempo insolitamente veloce e in modo decorativistico. Hofmann esegue nel 1937 la Berceuse ad una velocità altissima e riportandone la sonorità alla misura dell’Arte di rendere agili le dita di Czerny. La paura di Paderewski e di Hofmann, mi pare, è di trovare già in Chopin la radice dell’impressionismo, del disordine, della perdita di significati dell’arte del Novecento. La nostalgia trova in Hofmann momenti di abbandono, di con­ fessione disarmata veramente inobliabili (si ascolti il secondo tema del primo tempo nella Sonata op. 58 di Chopin), che vengono in genere sottolineati da una sonorità cantabile, con il pedale «una corda», di cui non ricordo l’uguale. Ma persino nella cantilena chopiniana la coloratura viene eseguita come un improvviso lampo di virtuosismo che sembra denunciare il solipsismo, l’incomunica­ bilità dell’espressione sentimentale; ed il virtuosismo è in questo caso la risorsa estrema, la frusta che Hofmann agita quando rivela se stesso, come un tiranno invecchiato che non può più essere uomo. Il lirismo si beffa di se stesso o diventa teatro, talvolta con effetti che possono persino essere rivelatori: nel primo tempo dell’op, 53 di Beethoven il secondo tema, il tema cantabile ed espressivo, viene esposto come un corale in lontananza, dietro le quinte, arcano e

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non emotivamente coinvolgente. Nel Rondò dell’op. 53 la teatra­ lizzazione non trova invece la misura e si trasforma in delirio in cui la coerenza stilistica dell’interpretazione si frantuma e soluzioni contrastanti o addirittura opposte vengono arbitrariamente acco­ state. Se Lhevinne, nell’op. 27 n. 2, porta Beethoven in un clima di inquietudine morbosa che non sarebbe fuor di luogo in Ciaikovsky, nel Rondò dell’op. 53 eseguito da Hofmann viene evitata la tea­ tralizzazione del tema principale, che avrebbe portato Beethoven alle soglie dell’impressionismo, e la messa in scena riprende in modo ormai retorico i concetti di «classico» e «romantico», facen­ doli convivere e scontrare. E non parliamo neppure della Kreisleriana di Schumann, i cui fantasmi demoniaci vengono esorcizzati con la vecchia e sicura Fingerfertigkeit di Czerny. I ricordi degli allievi che studiarono con Hofmann nel Curtis Institute, da lui organizzato e poi diretto dal 1927 al 1938, non ci dicono nulla del tormento interiore che le esecuzioni denunciano e le esecuzioni sono troppo poche per consentirci una ricostruzione analitica del cammino percorso da Hofmann. Lhevinne e Hofmann spiegano comunque Rachmaninov, che tra le due guerre fu l’esponente maggiore della cultura russa emigrata e sradicata, e che alla realtà guardò con la forza morale di chi, senza arrendersi, oltre e attra­ verso la storia vede il disegno di un male metafisico. Lhevinne e Hofmann, a parer mio, non varcarono mai quel confine.

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Anche Rachmaninov aveva in repertorio Top. 53 di Beethoven, ma non la incise in disco, e noi non possiamo paragonare la sua esecuzione con quella di Hofmann; né Rachmaninov né Hofmann incisero Top. 57, l’Appassionata, che ci avrebbe potuto dire parec­ chio sulle loro nature di interpreti. Non facciamo però fatica ad immaginare quanto solennemente tragica dovesse suonare Top. 53 sotto le dita di Rachmaninov, quando ascoltiamo la sua esecuzione di Si vive una volta sola di Strauss-Tausig. La bonaria battuta di Strauss, rivolta ad una città che coglieva con gioia ogni occasione di frivolezza, diventa in Rachmaninov il monito sarcastico di un pro­ feta ipocondriaco, un qualcosa come «la vita è una malattia da cui fortunatamente si guarisce con la morte». Si vive una volta sola lo può dire Lorenzo de’ Medici e lo può dire Girolamo Savonarola: Rachmaninov non lo dice di certo nel senso di Lorenzo. Se dal valzer caro alla grassa borghesia viennese passiamo ai Valzer di Chopin, cari all’aristocrazia parigina e a tutte le fanciulline che strimpellavano il pianoforte, il panorama non migliora. Rachmaninov incise in disco ben nove Valzer di Chopin: se li mettiamo uno in fila all’altro abbiamo una serie di stampe che potremmo intitolare «scene della stoltezza umana» o alcunché di simile. Il Valzer op. 64 n. 2 può diventare quest’ansimante allucinazione che Rachmaninov ci presenta? Che cos’è quel basso stra­ lunato, beffardo come il ghigno di un controfagotto, all’inizio di un Valzer così innocente come l’op. 64 n. 3? E il Liebesleid e il Liebesfreud, la pena d'amore e la gioia d'amore che Rachmaninov tra­ scrisse per pianoforte solo dall’originale per violino e pianoforte del suo amicone Fritz Kreisler? Passi per la pena. Ma se questa è la

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gioia d'amore c’è persino da sentire imbarazzo per il nome dell’au­ tore, Fritz, che suona intollerabilmente frivolo in un quadro di barbarica violenza! Rachmaninov è uno dei pianisti più famosi ed è forse l’interprete più personale, più egocentrico, più impressionante che esista. Ep­ pure la sua carriera fu breve (circa venticinque anni contro i cin­ quanta e più di Anton Rubinstein, di Paderewski, di Hofmann) ed il suo repertorio fu limitato e anacronistico. Niente Brahms, per intanto, di Debussy solo il Children's corner, di Ravel solo la Toccata del Tombeau de Couperin, la Toccata di Poulenc, pezzetti di Paderewski, Medtner, Dohnànyi; l’unico autore postlsztiano che Rachmaninov onorò della sua attenzione, oltre a Rachmaninov stesso, fu Scriabin: ma lo Scriabin del Concerto, della Sonata n. 2, di alcuni pezzi brevi e giovanili, e non mai lo Scriabin della maturità. Infine, come Hofmann e come Rubinstein, Rachmaninov cancel­ lava dalla storia i Quadri di Mussorgski e gettava appena uno sguardo sul Settecento e sul Beethoven settecentesco. Un perfetto reazionario, dunque. Non dovrei, secondo logica, portare l’atten­ zione del lettore su di lui, ma semmai sul suo coetaneo Harold Bauer, che si batté per Brahms, scoprì i Quadri, si meritò la dedica di Ondine di Ravel. Invece parlo di Rachmaninov. Perché nel suo irragionevole credo c’è una carica di disperazione, una furia contro il mondo che mettono paura. H taglio antiquato del repertorio, si disse talvolta, poteva essere causato dalla tardiva vocazione di concertista. Rachmaninov, cre­ sciuto pianisticamente insieme con Scriabin e con Lhevinne e di­ plomatosi nel 1892, aveva presto optato per la carriera di pianistacompositore, specialità che alla fine del secolo era ancora rappre­ sentata da Brahms, Saint-Saéns, Eduard Schutt, Ignaz Bruii, Moritz Moszkowsky ed altri. Pur con tutte le sue crisi di nervi e pur con tutte le sue incertezze per una scelta definitiva di vita — composi­ tore? direttore d’orchestra? pianista? — fino allo scoppio della guerra Rachmaninov era riuscito a far ascoltare le sue musiche in Europa e negli Stati Uniti, diventando una firma ovunque colloca­ bile. Già durante la guerra, prima ancora di espatriare, egli si stava però orientando verso la carriera di pianista-interprete. Nel 1915 teneva infatti concerti in memoria di Scriabin (che in vita lo aveva snobbato al punto da definire «prosciutto bollito» la sua sonorità),

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nel 1916 eseguiva il Concerto n. 1 di Liszt e il Concerto n. 1 di Ciaikovsky e alla fine del 1917 partiva per una tournée in Scandinavia. Uscito con la famiglia dalla Russia, Rachmaninov accendeva un cero di grazie, si recava negli Stati Uniti, rifiutava posti di direttore d’orchestra alla Boston Symphony e alla Cincinnati Symphony e si preparava per l’esordio: 1’8 dicembre 1918 faceva un assaggio a Providence, il 15 dicembre esordiva a Boston, con un programma che iniziava addirittura con la trascrizione di The Star Spangled Banner, il 21 dicembre era a New York. Non c’era bisogno d’altro. Hofmann aveva mobilitato tutto ciò che il suo enorme prestigio gli permetteva di mobilitare e il successo fece il resto. Così Rachma­ ninov, trovatosi presto in cima alla montagna, ampliò lentamente un repertorio appena abbozzato, a cui mancavano i dieci o quindici anni di gavetta che formano di solito il grande concertista di giro. Il nucleo essenziale del repertorio di Rachmaninov divenne Chopin, circondato da non molte cose di Liszt e di Schumann, da otto Sonate (l’op. 10 n. 3, l’op. 27 n. 2, l’op. 31 n. 2, l’op. 53, l’op. 57, l’op. 78, l’op. 81, l’op. 90) di Beethoven, da trascrizioni e pezzi virtuosistici, piccoli pezzi da salotto, con l’appendice delle Varia­ zioni in fa minore di Haydn, di una sola Sonata di Mozart (in la maggiore K 331), di una Suite inglese di Bach studiata a scuola e fatta ascoltare ad Anton Rubinstein nel 1885. Il programma del­ l’ultimo concerto di Rachmaninov, tenuto a Knoxville il 17 feb­ braio 1943, è indicativo delle sue predilezioni

Bach: Suite inglese [in la minore]. Schumann: Papillons op. 2. Chopin: Sonata op. 35. Rachmaninov: 2 Etudes-Tableaux op. 39, in si minore e in la minore. Chopin: Due Studi, op. 10 n. 3 e op. 25 n. 5. Wagner-Brassin: Incantesimo del fuoco. Wagner-Liszt: Coro delle filatrici. Liszt: Due Studi (Un sospiro, Danza di gnomi). 1 Rachmaninov parla dei suoi programmi in una lettera all’amico Vilshau del 15 aprile 1936: «Ho eseguito programmi numerosi e variati. La mia preferenza va a un concerto in due parti: Chopin nella prima e Liszt nell’altra. Con un programma come questo non ho bisogno di aggiungere nulla di mio. Ma è un programma speciale che non si può proporre spesso. I miei compor­ tano in genere una scelta di opere celebri di Bach, Beethoven, Chopin, e Liszt per finire. Non suono le opere dei compositori moderni».

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Le circostanze della carriera spiegano certamente la ristrettezza del repertorio; ma la scelta del tipo di repertorio non è sicuramente casuale. Il repertorio è all’incirca, assai più in piccolo, quello di Anton Rubinstein, quello centrato su Chopin e Schumann, ma viene investito con la fredda rabbia di chi si chiede: ebbene, questo Beethoven che voleva cambiare il mondo, questo Chopin le cui musiche, a detta di Schumann, erano «cannoni sepolti sotto i fiori», questo Schumann che aveva fondato la Lega dei Compagni di Davide, che hanno ottenuto alla fine? Che il mondo, scosso nelle sue fondamenta, diventasse peggiore. Tutto il repertorio di Rach­ maninov ruota attorno alla sua apocalittica interpretazione della Sonata op. 35 di Chopin e del Carnaval di Schumann, e tutto diventa preda di quella rivisitazione del Romanticismo su cui si era esercitata tra il 1890 e il 1916 l’opera creativa di Rachmaninov. La distinzione di classico e romantico viene spazzata via e ciò che trionfa è l’ipocondria di chi vede ovunque follia e morte: si ascolti da Rachmaninov, nonché i Valzer di Chopin, una pagina all’acqua di rose come la Pastorale di Scada tti-Tausig, e si avrà un’idea di come Rachmaninov vede l’Arcadia, quel Settecento felice che per­ sino Ciaikovsky mitizzava! Alla fine della carriera Rachmaninov andò a mettere il naso nel giovane Beethoven, scegliendo il Concerto n. 1 che i grandi virtuosi dell’ottocento avevano lasciato ai ragazzi-prodigio. Era una scelta sorprendente, ma anche logica, perché gli specialisti beethoveniani avevano già rivalutato il primo Beethoven e il neoclassicismo stava trionfando: forse non convinto di come il primo Beethoven fosse stato rivalutato, Rachmaninov fece la sua verifica. Alla prima prova con l’orchestra disse con fredda calma: «Signori, non essendo io uno specialista di Beethoven suonerò questo pezzo al tempo e con l’espressione giusta». E suonò come...; purtroppo non lo so, come, perché l’esecuzione non è stata conservata2. Ma Nikita Magaloff, che l’ascoltò, mi disse una volta che persino il finale suonava fiero ed intrepido. Fiero ed intrepido, mi immagino, come la carica di un reggi­ mento di ussari votato alla morte. Non conosco interpretazione di 2 Pare che negli archivi del Festival di Lucerna sia rimasta la registrazione, che non è stata finora pubblicata, di una esecuzione del 1939.

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Rachmaninov in cui non soffi almeno per un momento l’ala della morte, in cui non venga ripercorsa un’epopea tragica, in cui non venga avvertito il peso intollerabile della vita. Ho già parlato inci­ dentalmente di due interpretazioni del Preludio op. 23 n. 5 di Rachmaninov, quelle di Lhevinne e di Hofmann. Il pezzo è come una novella pseudostorica da giornale femminile, con una marcia guerriera, un colloquio amoroso, la ripresa della marcia. Potremmo benissimo farne la musica di un cartone animato: arrivo al castello, la sera, di un gruppetto di crociati in marcia verso la Terra Santa, colloquio al chiaro di luna del bel comandante crociato e della dolce castellana, partenza, al mattino, dei crociati. Secondo Lhe­ vinne la cavalcata è baldanzosa, il colloquio è casto, e il tutto ha un che di spensierato e di giovanile: nel nostro cartone animato lo ambienteremmo forse in Boemia, ed i crociati sarebbero cavalieri polacchi o lituani. Secondo Hofmann la cavalcata è guerresca e il colloquio non nasconde una crescente tensione erotica tra una donna trepida ed un uomo dalla voce insinuante: lo ambienterem­ mo forse in Spagna ed i crociati sarebbero francesi. Con Rachma­ ninov non avremmo dubbi: l’ambientazione la troveremmo nei paesaggi crudeli di Leopold von Sacher-Masoch. Aggiungo che il pezzo dura 3’07” con Lhevinne, 3’19” con Hofmann, 3’26” con Rachmaninov3. Il repertorio di Rachmaninov non fu inciso, in studio, se non in parte; nessuna registrazione privata di sue esecuzioni pubbliche fu possibile, al contrario di quanto avvenne negli anni 30 con molti artisti, per la semplice ragione che Rachmaninov non accettava la radiodiffusione. Oltre ai suoi Concerti e alla Rapsodia su un tema di Paganini per pianoforte e orchestra, e oltre alla Sonata op. 35 di Chopin e al Carnaval di Schumann non abbiamo incisioni di com­ posizioni di vasta architettura. Mancano le esecuzioni del Concerto di Schumann, del Totentanz e della Sonata dopo una lettura di Dante di Liszt, della Fantasia e dei Preludi di Chopin, delle Sonate di Beethoven, della Sonata n. 2 di Scriabin. Così, invece di fare una ragionata e completa analisi critica, io ho finito per parlare di 3 Hofmann ha lasciato due registrazioni del Preludio; ho preso come esem­ pio la seconda, del 1937; la prima, del 1923, dura di più, ma solo perché Hofmann fa un grande rallentando alla fine.

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Rachmaninov in termini non tanto diversi da quelli di coloro che scrivevano di Liszt dopo averlo ascoltato una volta sola: ho cercato di rendere un barlume della sorpresa e dell’emozione che le esecu­ zioni di Rachmaninov provocano sempre in me. Avrei potuto parlare della sua tecnica virtuosistica, che è impressionante: basti ascoltare Si vive una volta sola di Strauss-Tausig o lo Scherzo della Sonata op. 35 di Chopin, ma più ancora lo Studio di Henselt Si oiseau jetais o la Danza di gnomi di Liszt. Avrei potuto parlare della sua sonorità, densa e oscura come l’orchestra di Ciaikovsky, fascinosa e terribile come una voce corale dalle misteriose infles­ sioni, che esercita una fortissima pressione psicologica sull’ascolta­ tore: non voce umana, ma voce divina che soffia dal roveto ar­ dente. E avrei potuto parlare del suo stile, fortemente architettonico, con plastiche delineature della forma e calcoli esattissimi di tensio­ ni-distensioni ordinate verso un punto culminante. Ma ciò che mi ha sempre impressionato in Rachmaninov è soprattutto questa atmosfera di tragedia che si sta consumando, di fatalità, di nemesi storica incombente. E credo di non cadere nel paradosso se vedo in Rachmaninov la fine simbolica di un delitto consumato da An­ ton Rubinstein, che pesa sulla cultura russa tra Ottocento e Nove­ cento. Rubinstein poneva i russi, e soprattutto se stesso, a successori della cultura tedesca e francese, accantonando Liszt e spodestando Brahms. Né Hofmann, suo allievo, aveva preso in considerazione Brahms e, nei nuovi tempi, i simbolisti francesi, né Rachmaninov aveva saputo far di meglio che sostituire se stesso a Rubinstein; nessuno dei tre aveva scoperto in Mussorgski l’eroe nazionale da contrapporre a Brahms, e né Hofmann né Rachmaninov avevano seguito Scriabin quando questi si era messo ad uscire dal seminato, come se fosse un visionario. Era una posizione suicida fin dall’ini­ zio, e non era stata corretta. Ad ascoltare Hofmann nei momenti di aperta confessione sembra di sentire il monologo di Macbeth, «Pietà, rispetto, amore»; ad ascoltare Rachmaninov sembra di sentire l’orgogliosa reazione di Macbeth, «La vita che importa», all’annunzio della morte della regina. Il disegno storico di Anton Rubinstein muore con Hofmann e con Rachmaninov quando già Schnabel, lo vedremo, ha ritrovato

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l’arco completo della civiltà viennese, quando Gieseking ha già portato i simbolisti francesi a protagonisti primi del nuovo secolo. La cultura russa non avrà altri disegni da opporre fino a quando Sofronitzki prima, Richter poi, non faranno convergere su Scriabin la storia della letteratura pianistica.

Terza parte

IL SUONO IMPRIGIONATO

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Nato il 26 settembre 1877 a Nyon, da padre francese e madre svizzera, Alfred Denis Cortot cresce in un ambiente familiare cor­ diale ed operoso, di possibilità economiche molto modeste e di grandi capacità lavorative. I genitori — non più giovani quando nasce Alfred: il padre, Denis, ha quarantadue anni, la madre, Marie-Anne-Faustine, quarantatre — sognano per il piccolo una carriera di compositore e di virtuoso e lo affidano alle sorelle — Léa e Annette, quattordici e dodici anni quando Alfred viene al mondo — perché gli insegnino il pianoforte e il solfeggio. Cortot dirà più tardi di aver lavorato molto duramente, sotto la guida della sorella Léa, per costruirsi una mano da pianista, visto che la mano dona­ tagli da madre natura era «muscolarmente insufficiente, con pic­ cola divaricazione tra le dita e dita deboli». Al contrario di quella che è pressoché una norma per i grandi pianisti, nessuna precocità; anzi, nessuna predisposizione per la tastiera. Nel 1882 la famiglia Cortot si trasferisce a Ginevra; nel 1886, giudicando troppo modesto il conservatorio locale, i Cortot vanno a Parigi e presentano Alfred all’esame di ammissione di quel cele­ bre istituto musicale. Risultato: non ammesso. Si consideri che molto spesso i ragazzini di talento venivano ammessi nel conservatorio di Parigi a nove o dieci anni e ne uscivano a undici o dodici con il loro bravo Premier Prix: Planté aveva vinto il Prix a undici anni, Diémer a tredici, Pugno a quattordici, ed erano diventati poi i più celebri pianisti francesi della seconda metà dell’ottocento. Si consideri ciò, dico, per misurare la delusione di quell’onestà fami­ glia Cortot, calata dalle sponde del Lemano con sogni di gloria e con anni di sacrifici sulle spalle: il padre piccolo impiegato, piccolo

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impiegato il figlio maggiore Oscar (ventanni più di Alfred), Léa insegnante privata di pianoforte, Annette commessa. Alfred non supera Tesarne! Ma entra ugualmente in conservatorio, in uno strano e provvidenziale, seppur poco glorioso modo. Émile Decombes, insegnante delle classi preparatorie, lo prende con sé come uditore. L’anno dopo, l’esame di ammissione ha esito positi­ vo e Cortot diventa allievo regolare... nella classe preparatoria. Con Decombes, che nel 1887 ha cinquantotto anni e che da giovane aveva avvicinato Chopin, Cortot studia per cinque anni, avendo come condiscepoli, tra gli altri, Ravel e Reynaldo Hahn. Descombes si fa aiutare da Edouard Risler, e con Risler Cortot si lega in amicizia fraterna. Gli studi di Cortot continuano dal 1892 con il più insigne maestro di pianoforte del conservatorio, Louis Diémer, nato nel 1843, esecutore di favolosa correttezza, uomo di solidissima cultu­ ra, che verso il 1860 si era preparata una versione pianistica delXArte della fuga di Bach, che aveva frequentato a lungo il salotto di Rossini, che aveva eseguito per primo le Variazioni sinfoniche di Franck e molti altri lavori di compositori francesi contemporanei, e che nel 1888 aveva ripreso a suonare sul clavicembalo le musiche degli antichi claviccmbalisti francesi. Con questi titoli Diémer pas­ serà alla storia, ma anche con la fama di uomo freddo e scostante. Tale, almeno, lo dipingerà il suo allievo Alfredo Casella, e tale sembra apparisse anche a Cortot. Con Diémer, Cortot rimane tuttavia per quattro anni. Il concorso del 1894 gli vale una segnala­ zione; si ripresenta nel 1895, ma non ottiene niente; anzi, il diret­ tore del conservatorio Théodore Dubois scrive nel suo registro: «Nessuna ricompensa. Picchia esageratamente, troppo duro, secco. Coloriti esagerati». La corsa al Premier Prix si conclude nel 1896: Cortot passa bene il primo esame interno, il 22 gennaio, con la Sonata op. 111 di Beethoven; passa bene il secondo esame interno, il 17 giugno, con la Fantasia e fuga in sol minore di Bach-Liszt e la Leggenda di San Francesco da Paola che cammina sulle acque (nota di Dubois: «Bella sonorità, troppo pedale»). Nella prova pubblica, il 23 luglio, chiude la partita con l’esecuzione della Ballata in fa minore di Chopin, esecuzione che gli vale il Premier Prix con speciale menzione, un grancoda Pleyel (la marca prediletta da Chopin), recensioni su trentacinque giornali, l’invito a suonare

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come solista nelle stagioni di concerti sinfonici di Lamoureux e di Colonne. Un Premier Prix, un grancoda, trentacinque pezzi di carta stampata e la garanzia di un esordio a Parigi sono molto? Sono niente più di una bella soddisfazione. Nel 1896, scomparsi da poco Anton Rubinstein e Hans von Bùlow, i pianisti sulla cresta del­ l’onda erano Busoni, d’Albert, Sauer, Rosenthal, Reisenauer, con Paderewski, ben s’intende, torreggiante come un mito vivente. Tra i giovani della generazione di Cortot si erano già ben segnalati Lamond, Godowsky, Lhevinne, Hofmann. Un solo pianista fran­ cese era inserito nel giro internazionale: Raoul Pugno. Il più noto fra i pianisti francesi della seconda metà del secolo, Francis Piante, aveva cinquantasette anni, ma da tempo viveva appartato e suo­ nava pochissimo. Louis Diémer, schizzinoso di suo e ricco per parte di moglie, schivava le fatiche delle massacranti tournées e il venti­ treenne Risler si era appena affacciato sulla scena internazionale. Dopo il Premier Prix, invece di partire verso il mondo, baciato dalla gloria, Cortot andò a Bayreuth dove l’amico Risler lavorava come maestro collaboratore. Sarebbe molto interessante sapere come avvenisse la formazione culturale di Cortot, quali fossero le sue scelte e i suoi interessi nella Parigi di Seurat, di Toulouse-Lautrec, di Rodin, di Mallarmé, di Bergson, quali fossero i suoi indirizzi ideologici nella Francia delVaffaire Dreyfus. Né Cortot, né il suo biografo ufficiale Bernard Gavoty ci dicono nulla di tutto ciò. Quel che sappiamo è che Cortot, a diciannove anni, era wagneriano per la pelle, e che tale sarebbe rimasto per due lustri. R wagnerismo è fenomeno molto importante, nella cultura francese di fine secolo. Dopo lo scandalo del Tannhauser (1861), dopo le polemiche e i programmi nazionalistici del 1870, la cultura francese capisce di non poter chiudere sciovinisticamente gli occhi di fronte a Wagner e alla cultura tedesca. Nel tardivo recupero wagneriano, che segna in realtà un ritorno della cultura francese su posizioni europee, si può distinguere un wagnerismo dei composi­ tori, un wagnerismo degli intellettuali, un wagnerismo degli inter­ preti. I compositori — Vincent d’Indy, Chabrier, Duparc, Debussy — studiano Wagner, anche compiendo i sacramentali pellegrinaggi estivi a Bayreuth. I circoli intellettuali, riprendendo le fila di un

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discorso che era iniziato con Baudelaire, si infatuano di Wagner, ed il musicologo e romanziere Theodor de Wyzewa fonda nel 1885 quella Revue wagnérienne che inserisce il nibelungo nel circolo della cultura non specializzata. Gli interpreti si pongono il proble­ ma di diffondere a livello di massa, o per lo meno di piccola e media borghesia, la musica di Wagner. Il problema non riguarda tanto il Lohengrin, che verso il 1890 entra facilmente in vari teatri france­ si, quanto il Tristano, la Tetralogia, il Parsifal. In questo lavo­ ro si distinguono particolarmente i direttori d’orchestra Charles Lamoureux ed Edouard Colonne, organizzatori potenti del­ la vita musicale, ed il nostro giovane cavaliere dell’ideale, Alfred Cortot. Alcune estati passate a Bayreuth, una certa familiarità con Cosima Wagner, la conoscenza dei maggiori interpreti wagneriani mettono Risler e Cortot in condizioni di condurre una loro batta­ glia wagneriana. La loro prima iniziativa consiste nell’eseguire in saloni privati, con volonterosi cantanti e con la parte orchestrale ridotta da Risler a due pianoforti, il Tristano e la Tetralogia. Poi Cortot riesce a raccogliere fondi per un grosso avvenimento: il 15 maggio 1902 dirige al Théàtre du Chateau d’Eau la «prima» fran­ cese del Crepuscolo degli dei. L’esecuzione è stata programmata dalla Société des Festivals Lyriques fondata da Cortot, che si è posta sotto il patrocinio della Société des Grandes Auditions Mu­ sicales de France* fondata e finanziariamente sostenuta dalla con­ tessa Greffhule, nata Elisabeth de Caraman-Chimay e discendente di Napoleone I e di madame Tallien, che ha promosso o promuo­ vei, per citare solo i suoi capolavori, le prime esecuzioni in Francia del Boris di Mussorgski, della Salome di Strauss, della Sinfonia n. 2 di Mahler. Cortot e la contessa Greffhule non badano a spese, scritturano la grande Félia Litvinne e una compagnia di lusso, spendono centonovantamila franchi invece dei centocinquantami­ la preventivati, e il 15 maggio hanno in sala tutta la Parigi che conta. Il 1° giugno Cortot dirige il Tristano, ancora con la Litvinne protagonista, ed alterna poi Crepuscolo e Tristano. Il Crepuscolo, finanziariamente, è... molto peggio di un occaso: è un disastro che prosciuga tutti i fondi e che viene coperto dalla Litvinne, da amici vari, dallo stesso Cortot, che s’impegna a saldare i debiti. Nel 1903 l’indistruttibile Cortot presenta in prima esecu-

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zione a Parigi il Parsifal, in forma di concerto, nel 1904 fonda F Association des Grandes Auditions Chorales e F Association des Concerts Alfred Cortot, dirige in «prima» a Parigi la Missa solemnis di Beethoven e il Requiem tedesco di Brahms ed in prima esecu­ zione assoluta lavori di Chausson, d’Indy, Magnard, Roussel ed altri. Fonda anche FAssociation des Concerts Populaires de Lille e facendo la spola tra Parigi e Lilla mette al suo attivo una imponente attività di propagatore della cultura. Compone: una Suite per or­ chestra, eseguita e stroncata dal famoso critico Pierre Lalo, e frammenti di due opere su testo suo, Velléda e L "Irreparable, che non saranno mai compiute. A ventott’anni sembra ricalcare le orme di Lamoureux e di Colonne, che nella Francia del Secondo Impero avevano portato una ventata di rinnovamento. Cortot non dimentica però di essere pianista. Ha suonato il Concerto n. 3 di Beethoven nelle stagioni di Lamoureux e di Colonne, ha suonato a Berlino a due pianoforti con Risler e da solo (le Sonate op. 81 e op. 101 di Beethoven e il Preludio, Corale e Fuga di Franck), ha accompagnato il violinista Jules Boucherit, Félia Litvinne e altri cantanti, ha suonato in duo anche con Diémer, con Planté e con Saint-Saèns. Ma non ha mai ottenuto successi tali da incoraggiarlo ad impegnarsi in una carriera di concertista. Nel 1905 fonda un trio, con Thibaud e Pablo Casals. Ed è il voltafaccia: in quel momento muore definitivamente il composito­ re Cortot, e il direttore d’orchestra Cortot rinuncia un po’ alla volta alle sue ambizioni. In compenso nasce, a. ventott’anni, il pianista Cortot. A trent’anni, nel 1907, nasce il Cortot didatta, che occupa in conservatorio la cattedra lasciata libera da Antonin Marmontel. Il trio Cortot-Thibaud-Casals si afferma rapidamente. Il docente Cortot fa qualche apparizione in conservatorio, portando tra l’altro alla conquista del Premier Prix una scontrosa ragazzina rumena dagli immensi occhi luminosi, Clara Haskil, che lo trova antipatico e altezzoso. Il pianista Alfred Cortot comincia a farsi faticosamente largo in un mondo in cui, presenti ancora sulla breccia i maggiori pianisti del 1896, si sono già fatti un gran nome Godowsky, Hof­ mann, Risler, e dove si sono già affacciati Schnabel, Fischer, Backhaus. Qualche tournée con i violinisti Hayot ed Enescu gli dà modo di suonare anche pezzi da solo, un’esecuzione del Concerto di Schumann al Gewandhaus di Lipsia, sotto la direzione di Arthur

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Nikisch, lo mette in luce, e i giri in Europa cominciano a rendere familiare il suo nome. La guerra interrompe l’ascesa di Cortot... e gli fa riprendere le sue iniziative di organizzatore. Fonda successivamente l’Atelier du Blessé, centro di rieducazione psicologica, l’Oeuvre Fraternelle des Artistes, il Service d’Action Artistique à l’étranger, l’Association des Anciens Élèves du Conservatoire. Nel 1918 il Comité FranceAmérique combina una tournée negli Stati Uniti della Socièté des Concerts du Conservatoire. I direttori d’orchestra sono Messager e Gaubert. Il pianista a cui spetterebbe di diritto di rappresentare la Francia sarebbe Edouard Risler. Risler, malato, rinuncia, ed il presidente del consiglio dei ministri, il «tigre» Clemenceau, come dice Gavoty, «designa d’autorità Cortot». Cortot, garibaldina­ mente, obbedisce. Negli Stati Uniti esordisce il 20 ottobre (Con­ certo n. 4 di Saint-Saèns), partecipa a trenta concerti con orchestra, sostiene quattro recitals, incide dischi e rulli di pianola: fino al 1926 tornerà negli Stati Uniti sei volte. La Grande Guerra segna il tramonto di tante cose della vecchia Europa, e anche della generazione di pianisti che aveva dominato la scena dal 1894 al 1914.1 maggiori pianisti del periodo tra le due guerre saranno Schnabel, Fischer, Rachmaninov, Cortot; ad essi si aggiungeranno negli anni 30 Gieseking e Horowitz. Cortot non diventerà però mai il concertista puro, il viaggiatore che batte i continenti e sfrutta treno, nave ed aereo per coprire il maggior numero possibile di piazze. Dopo aver dato nel 1917 le dimissioni dal conservatorio, fonda nel 1919 l’École Normale de Musique, occupandosi anche dell’organizzazione e tornandovi ogni anno per quei Corsi di interpretazione che richiamano folle di allievi e di uditori. Scrive saggi, tiene conferenze, pubblica un metodo per pianoforte, prepara edizioni commentate dei classici (prima Cho­ pin, poi Schumann, più tardi Schubert, Liszt, Weber, Mendels­ sohn, Franck, Brahms), colleziona manoscritti, edizioni rare, qua­ dri, schizzi. Fondatore incallito, si tiene in allenamento inventando i Concerts privés de l’École Normale, la Orchestre de chambre de l’École e, con Ernest Ansermet e Louis Fourestier, la Orchestre Symphonique de Paris. Continua a suonare in duo e in trio, qual­ che volta riprende in mano la vecchia bacchetta. Il 25 luglio 1934 il ministro degli esteri Louis Bartho gli consegna le insegne di com-

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mendatore della legion d’onore e gli dice: «Cortot, Lei è un mira­ colo vivente». Quando scoppia la guerra il miracolo vivente viene ripreso dalla frenesia dell’organizzazione, scoprendo nella repubblica di Vichy — giudichi il lettore con quanto discernimento — lo strumento adatto per metter ordine nella professione del musicista. Una tournée di dodici concerti in Germania, nel 1942, lo segnala ai francesi, a torto o a ragione, come collaborazionista. Nel 1942 è consigliere tecnico per la musica al ministero dell’educazione na­ zionale e nel 1943 fa promulgare la legge che fonda il Comité Professione! de l’Art Musical et de l’Enseignement Libre. Nel 1941 aveva ottenuto che tutti i componenti l’Orchestre National, tra­ sferita a Marsiglia, si sottoponessero ad un esame attitudinale, ed aveva presieduto la giuria. Sempre nel ’41 aveva scritto un saggio su Berlioz, da pubblicare in un volume ideato da Sacha Guitry, dice candidamente il Gavoty, per la «gioire de la France»: De Jeanne d'Arc a Philippe Pétain. Non commette nessun delitto, si capisce, e potrà dimostrarlo facilmente quando sarà arrestato, interrogato, giudicato da un Comitato d'epurazione. Gli verrà soltanto vietato, come a Furtwangler e a Gieseking, di presentarsi in pubblico per alcuni mesi. Riprende a suonare il 23 aprile 1946 e continua senza incidenti, salvo quando riappare a Parigi, nel gennaio del 1947. Lo spunto per la bagarre è molto curioso: nel 1906 Cortot era stato cofonda­ tore del Syndacat des Musiciens de Paris (questa fondazione mi era restata nella penna: me ne scuso), sindacato da cui era stato presto espulso per aver scritturato orchestrali non appartenenti all’orga­ nizzazione. Nel gennaio del 1947 il Syndacat va a ripescare l’e­ spulsione e vieta ai professori della Société des Concerts du Con­ servatoire di suonare con Cortot! Il quale, impavido, suona da solo, si prende fischi e applausi, intenta al Syndacat una causa che, tra un ricorso e l’altro, vincerà definitivamente nel 1954. Superato il rientro a Parigi, nell’ultima parte della sua carriera Cortot suona ripetutamente in tutti i paesi dell’Europa occidentale, va in Sudamerica e in Giappone, suona anche con vari cantanti, a quattro mani con Kempff e con la Tagliaferro, con George Enescu e, nel concerto d’addio, con il vecchio compagno Pablo Casals con il quale si è riconciliato dopo che gli avvenimenti della seconda

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Guerra Mondiale avevano scavato tra di loro un solco profondissi­ mo. La sua carriera di concertista termina a Prades il 10 luglio 1958, a quasi ottantun anni. Tra il 1946 e il 1958, dice il Gavoty, ha sostenuto novecentosettantadue concerti, con una punta massima di centotrentacinque nel 1952. La sua attività di pubblicista e di maestro continua fino alla morte: nel 1949 esce il volume Aspetti di Chópin, escono regolarmente le edizioni commentate dei classici, si susseguono i corsi di interpretazione all’École Normale, all’Acca­ demia Chigiana di Siena, a Losanna. Nella primavera del 1962 viene ricoverato nell’ospedale Nestlé di Losanna: vi muore il 15 giugno. Se torno con la memoria ai concerti di Cortot nell’ultimo dopo­ guerra non posso non riprovare il senso di pena e di fastidio che davano le esibizioni di una cariatide, di un rudere d’uomo la cui memoria passava da un black out all’altro e le cui mani andavano in tilt ad ogni momento. A settantotto anni Horowitz conserva la lucidità di un trentenne, a ottantanni Backhaus sembrava ancora il frassino del mondo, a ottantacinque anni Artur Rubinstein poteva suonare in modo più limpido che a cinquanta. Cortot, a settan­ tanni, si buttava ancora con la foga del ventenne sui ventiquattro Studi e sui ventiquattro Preludi di Chopin o sul Concerto di Schumann, ma facendo la figura del dilettante. Il pubblico, che vedeva il miraggio e non s’accorgeva del deserto, applaudiva for­ sennatamente, e Cortot ritornava ogni anno, sempre con quelli che erano stati i suoi cavalli di battaglia. Quando cambiava cavallo, del resto, andava anche peggio. Se ricordo una sua esecuzione radio­ fonica del primo tempo del Concerto n. 1 di Beethoven — con buchi di memoria continui, senza un tratto di agilità che non fosse un totale disastro, con le terzine del basso raddoppiate in ottava, alla d’Albert, e sbrodolate in un modo incredibile, senza Cadenza, con il pianoforte che terminava insieme con l’orchestra — non risveglio neppure un ricordo penoso. No. Ridevo in continuazione, irrefrenabilmente, come se a suonare fosse stato Buster Keaton. E alla fine del primo tempo, con vergogna, spensi la radio. Era questo, Alfred Cortot? Era, come ritenevano alcuni, il bluff che alla fine della carriera si rivelava palesemente per ciò che era sempre stato? Tra i grandi pianisti idolatrati dal pubblico solo Paderewski ha suscitato altrettante riserve e altrettanti sospetti.

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Cortot, come Paderewski, non possedeva una tecnica trascenden­ tale pari a quella di Busoni o di Hofmann. Ma neppure Schnabel o Fischer avevano una gran tecnica. Anzi! Eppure, a nessuno sarebbe venuto in mente di sospettare il bluff in Schnabel o in Fischer. Fatto è che né Schnabel, né Fischer si presentavano come virtuosi: nel repertorio che eseguivano di preferenza, e nel loro modo di eseguirlo, i valori musicali prevalevano sempre nettamente sull’in­ teresse strumentale. Cortot, come Paderewski, includeva invece nel suo repertorio molti pezzi virtuosistici e li affrontava virtuoslstica­ mente senza risolverli, sul piano del virtuosismo, in modo trascen­ dentale. Di qui il sospetto del bluff. Se ascoltiamo la Polacca op. 22 di Chopin, registrata verso il 1920 su rullo di pianola, troviamo un’esecuzione brillante sì, ma che non possiamo di certo considerare memorabile. Cortot era allora sui quarantacinque anni, e cioè nell’età di cui, di solito, la raggiunta maturità s’unisce ad una freschezza tecnica ancora intat­ ta. Se nella Polacca op. 22 ascoltiamo lo Horowitz del 1945, lo Horowitz quarantunenne, ci rendiamo conto di ciò che può fare con quel pezzo un vero virtuoso nel momento del suo massimo fulgore. Cortot, al confronto, sembra uno slalomista dell’ultimo gruppo. Perché mai andava ad impelagarsi con l’op. 22 di Chopin o, peggio, con certi Studi di Chopin, con Islamey di Balakirev, con Petruska di Stravinsky, con il Concerto n. 3 di Rachmaninov? Perché incise i Davidsbùndlert'ànze di Schumann o certi Valzer di Chopin senza averli mai veramente studiati? Di idee, s’intende, ne aveva anche in questi pezzi. Ma un grande pianista non dovrebbe sentire il dovere di avere dita, oltre che idee? Non si creda che Cortot sbagliasse oltre ogni ragionevole previ­ sione solo in tarda età. Chi lo ascoltò, ed anche i dischi ci dicono che gli incidenti spesseggiavano nelle esecuzioni del Cortot cinquan­ tenne, sebbene — è evidente — non nella misura toccata più tardi. Prendiamo gli Studi di Chopin, incisi per la prima volta nel 1933-34, e paragoniamoli con le incisioni di Backhaus, del 1928, e di Raoul Koczalski, del 1936. I dischi a 78 giri, si sa, erano impie­ tosi, perché non ammettevano correzioni. Koczalski, tecnico limi­ tato e timidissimo, cammina prudente, punta sulla rotondità del suono, su un fraseggio studiatissimo, sulla «poesia» di Chopin, e se la cava dignitosamente. Backhaus, tecnico eccellente, prende gli

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Studi per quel che sono innanzitutto, e cioè per saggi di tecnica sperimentale: tocca qualche nota falsa, ma con la tranquillità di chi sa bene come sia statisticamente certo che in ogni esecuzione scappino delle macchioline, e in conclusione dimostra una esatta rispondenza tra intenzioni e realtà del suono. Cortot non vede negli Studi la tecnica sperimentale, ma la tecnica di bravura, la tecnica che comporta sempre dei rischi terribili. E si butta. Ed è eccitante, ma anche un po’ irritante negli Studi più difficili, dove la corsa vertiginosa non avviene senza le inevitabili sbandate. Per ripren­ dere il paragone con lo slalomista — non inefficace, mi sembra, perché Cortot ama il rischio e si slancia con un entusiasmo spinto fino all’incoscienza — si può dire che uno sciatore che piomba come un falchette giù dal pendio è sempre molto eccitante,... a patto che infili poi la porta. Cortot, spesso, piomba come un falchetto ma la porta non la infila o la prende di sghimbescio. Per avere una realizzazione adeguata delle splendide idee bravuristiche di Cortot bisogna di nuovo far ricorso a Horowitz, che nel 1932 incideva lo Studio op. 10 n. 8 con un controllo da orafo come Cortot manco se lo sognava. Anche in uno Studio che gli riesce meglio, l’op. 10 n. 4, Cortot resta distante da Horowitz (incisione del 1935). E ci si chiede perché mai Cortot dovesse scegliere di eseguire tutti i ventiquattro Studi, e non solo alcuni; perché do­ vesse imitare in ciò Busoni, che era un tecnico straordinario, invece di misurare le sue forze e rinunciare alla serie completa o, per lo meno, salvarsi alla Koczalski. Un po’ di megalomania giocava certamente nelle scelte di Cortot. Il Gavoty gli chiese una volta che cosa pensasse di Horowitz, da lui diretto nel Concerto n. 5 di Beethoven e nel Concerto n. 3 di Rachmaninov. La risposta è sorprendente: «Una grande noia. Un suonare piccolo, striminzito. Mi avevano parlato di un albatro: cercavo [invano] le sue ali — pur vedendo perfettamente ciò che faceva di Horowitz un pianista di altissimo bordo». Non ci sono state conservate le esecuzioni di Cortot del Concerto di Beethoven e del Concerto di Rachmaninov; abbiamo quelle, anteguerra, di Horowitz. Per quanto immaturo fosse Horowitz, e per quanto Cortot potesse uscire miracolato dai trabocchetti del Concerto di Rachmaninov, non riusciamo proprio a capire dall’alto di quale pulpito Cortot potesse definire petit, étriqué il jeu di Horowitz.

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Fatto è che un concertista così poco concertista — un grande dilettante, in senso strettamente professionale — era però un in­ cantatore. E per far l’incantatore non basta l’intelligenza, non basta fondare associazioni, non basta sostenersi con la psicopubblicistica. L’originalità di Cortot si misura in realtà anche sulle sue manche­ volezze: anche sulle manchevolezze della tecnica. Non si può capire Cortot se non si riconsiderano le sue origini, il suo wagnerismo, il suo lavoro di direttore d’orchestra, e poi la molteplicità dei suoi interessi. «Come poteva trovare il tempo per tenere in ordine le dita?», si chiede Harold Schonberg. E continua: «La risposta è semplice: non poteva». Risposta ragionevole. Ma neppure Artur Rubinstein badava a tener in ordine le dita, eppure era sempre, incontestabilmente, un virtuoso. Cortot, forse, da una parte non tenne sufficientemente esercitata una mano che, non dimentichiamolo, non era per natura portata a dominare la tastiera. La non-precocità di Cortot potrebbe esser dovuta alla mancanza di istintiva capacità di discriminazione e di coordinamento muscolare, e la fallosità della sua tecnica potrebbe esserne la conseguenza. Ma, d’altra parte, non si può non notare che la tecnica di Cortot rappresenta un tentativo di superamento della cultura in cui Cortot si era formato. I pianisti francesi dell’ottocento, da Planté a SaintSa'éns a Diémer, erano famosi per la chiarezza, la leggerezza, l’agi­ lità, l’impeccabilità: qualità che risultano del resto dalle poche incisioni discografiche che di loro ci restano, e di cui abbiamo in parte già parlato. Quel che le incisioni non ci dicono, o che ci dicono in modo non del tutto sicuro, riguarda il volume di suono e la varietà timbrica. Ora, a me sembra che in Cortot il volume di suono e la varietà timbrica siano molto maggiori che nei suoi predecessori. Ma volume maggiore e varietà timbrica si ottengono con una diversa tecnica. Si può supporre che Cortot, vincitore nel 1896 del Premier Prix, suonasse benissimo «alla francese», e che poi, eseguendo Wagner a due pianoforti e ritornando al pianoforte dopo aver studiato e diretto le partiture di Wagner, ripartisse da concezioni del suono del tutto diverse da quelle della tradizione francese. Quando rimane nel solco della tradizione francese — ad esempio, nello Studio op. 10 n. 5 di Chopin o nello Studio in forma di valzer di Saint-Saèns, probabilmente imparato con Diémer — Cortot suona con sorprendente scioltezza virtuosistica. Quando ne

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esce — ad esempio, nella Rapsodia ungherese n. 2 di Liszt — lo slancio virtuosistico non trova dita pari alle intenzioni e alle idee. Cortot incarna probabilmente il momento storico in cui una solidissima tradizione viene messa in crisi, cioè il momento della riapertura delle frontiere, il momento in cui la cultura francese scopre non soltanto Wagner, ma anche le teorie sulla tecnica pianistica che si andavano discutendo in Germania. La rivalità tra Cortot e Marguerite Long (nata nel 1874), rivalità che, secondo Gavoty, raggiunse nella Long punte di autentica malignità, po­ trebbe rappresentare la contrapposizione tra un iconoclasta ed una vestale della tradizione francese. I pochi dischi di Raoul Pugno ci dicono che, forse, il rinnova­ mento era già cominciato con la «sonorité napolitaine» (Gavoty) di questo oriundo italiano. Cortot stesso parla anche, molto margi­ nalmente, della varietà timbrica di Pugno, quando commenta l’e­ secuzione del secondo tema del Concerto di Grieg: «Le risposte pianissimo devono isolarsi, perché, lungi dall’essere la continua­ zione del tema, esse se ne separano fino al punto di esigere un altro timbro. Là, Pugno era ineguagliabile. La sua sonorità era così bella, nella spontaneità di un’espressione, che dava la sensazione del­ l’entrata di uno strumento differente». La tecnica di Risler non è del tutto documentata dal disco, ma la sua incisione della Rapsodia ungherese n. 11 di Liszt, come dice lo Schonberg, «suggerisce una grande forza. Alcuni accenti sono esplosivi». Se l’influenza di musicista e di stilista di Risler su Cortot sembra fuor di dubbio, non si può dire fino a che punto i mezzi tecnici di Risler, corpulento e robusto, potessero essere esemplati da Cortot, minuto e nervoso. E se Pierre Lalo, che paragona la sonorità di Risler con quella di Anton Rubinstein, non si lascia trascinare da un confronto suggestivo, è probabile che Cortot non derivasse da Risler la sua sonorità, ma procedesse in modo perso­ nale. Mi sembra tuttavia che Risler e Cortot dovessero restar colpiti dalla varietà timbrica degli ultimi allievi di Liszt e di Busoni, e che cercassero di adeguarsi al nuovo corso. Il metodo di Cortot, pubblicato nel 1928 e intitolato Principes rationelles de la technique pianistique, dovrebbe darci qualche indicazione sugli aspetti tecnici dell’arte di Cortot. I Principes rationelles sono il frutto finale di un lavoro iniziato nel 1914, con il

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commento agli Studi op. 10 di Chopin. Nel 1914 erano già stati pubblicati i grandi lavori teorici del Breithaupt, del Matthay e di Marie Jaèll-Trautmann, nel 1928 stava per uscire il Phisiological Mechanics of Piano Technique di Otto Ortmann. Siamo dunque nella fase più intensa di una indagine sulla tecnica, che era iniziata in Germania verso la fine dell’ottocento e che si stava concludendo verso il 1930. Come si colloca, in questo contesto, il nostro? Il principio basilare della sua metodologia consiste nel «travailler, non seulement le passage difficile, mais la difficulté mème qui s’y trouve contenue, en lui restituant son caractère élémentaire» (stu­ diare non soltanto il passaggio difficile, ma la difficoltà stessa che vi è contenuta, riducendola ai suoi caratteri elementari), massima che figura in testa a tutte le edizioni commentate dei classici. Per Cortot, la difficoltà insuperabile nasce da un errore di valu­ tazione che induce l’esecutore ad affrontare il passo senza averlo prima capito. Al momento tradizionale della esecuzione ripetuta a scopo di studio Cortot fa dunque precedere il momento dell’anali­ si, con la conseguente scelta dei mezzi atti a superare la difficoltà. Mi sembra evidente la reazione alla metodologia di Diémer, il quale asserisce Casella, «quando un pezzo non andava bene [...] non sapeva mai spiegare il perché, e si limitava a dire di studiarlo nuovamente e di fare molti esercizi ed altrettante scale». Cortot, al contrario, cercava un principio razionale di lavoro; ma non si può non notare come, sia nelle edizioni commentate che nel metodo, si incontrino contraddizioni ed involuzioni, dovute il più delle volte alla fiducia nello smembramento del passo secondo un disegno geometrico. Per fare un esempio su un punto marginale basta osservare che il principio della ripetizione giornaliera in progres­ sione semitonale degli esercizi tecnici non è applicato in modo razionale ma geometrico, in quanto, razionalmente, non si vede perché gli esercizi sulle cinque note debbano essere praticati anche nelle tonalità di sol, la bemolle e la, che sulla tastiera, per quanto concerne la disposizione dei tasti, sono identiche alle tonalità di do, re bemolle e re. L’allievo, dopo i suoi dodici giorni di trasposizioni, ha in realtà esercitato non dodici posizioni diverse, ma una volta ciascuna sei posizioni e due volte ciascuna tre posizioni. Se questo è un principio razionale...! Quel che manca, soprattutto, è però l’analisi del tocco, cioè del

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punto su cui erano fissate le ricerche della moderna didattica. Cortot si limita a consigli sulla posizione del corpo, consigli che nella loro bonaria genericità sembrano quelli di un didatta del principio dell’ottocento: «Le braccia devono flettersi secondo una curva naturale, in maniera da non provocare quelle angolosità fastidiose che paralizzano il movimento dei muscoli dell’avam­ braccio e della mano. Di regola generale il polso dev’essere tenuto più basso della mano. La posizione naturale arrotondata dell’indice sul tasto fisserà la posizione delle altre dita, che dovranno, nei limiti della loro ineguale lunghezza, e senza contrazioni dannose, per­ cuotere i tasti sullo stesso piano e nello stesso punto. Si eviterà, così, tanto la esagerata articolazione, quanto la rigidità nefasta. Il con­ tatto col tasto sarà naturalmente stabilito dalla superficie più larga possibile della falange». E a proposito della tecnica polifonica: «Indipendentemente da quello che può essere un principio di sonorità — ricerca di un timbro distinto per ciascuna voce — il cui studio non potrebbe trovar posto in un’opera di ginnastica piani­ stica, le difficoltà...», ecc. ecc. Ma non era proprio il «principio di sonorità», il tocco magico, meraviglioso, la caratteristica prima del pianista Cortot? non è qui che egli potrebbe dirci qualcosa di personale? E questa distinzione di «ginnastica pianistica» e di «principio di sonorità» non è poi il tallone d’Achille che porta alla perpetua insicurezza della tecnica virtuosistica? Il tocco, la sonorità è ciò che faceva e fa dimenticare il dilettan­ tismo di Cortot, la sua arroganza, la sua sicumera, la sua mania di far tutto e di tutto. Ciò che colpisce è prima di tutto il suono del cantabile: il suono di Cortot non ha nulla della rotondità e della pastosità del suono, ad esempio, di Rosenthal o, per citare un interprete più giovane, di Artur Rubinstein, né ha, nel cantabile, quelle qualità di leggerezza carezzevole dei miniaturisti tardoromantici come Pugno o Pachmann, famosi per il loro «velluto». Si può supporre che in Cortot, il quale doveva aver ampliato la dinamica rispetto alla tradizione francese, ma che non possedeva la potenza della scuola russa e di certi allievi di Liszt, la particolarità del suono cantabile dipendesse dalla necessità di rapportarsi agli ambienti più vasti, alle grandi sale da concerto che, soprattutto in America, si andavano costruendo già agli inizi del secolo. In rap­ porto con ambienti più vasti il suono di Cortot si modella però, e

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questo è un fatto storico importantissimo, sul pianoforte di fine Ottocento, il pianoforte con telaio interamente metallico. Il pia­ noforte con telaio metallico, e con corde grosse e in grande tensio­ ne, tende a perdere la qualità del suono di corda vibrante, che si riscontra invece nei pianoforti di Beethoven o di Schumann, e ad acquistare la qualità del suono di lamina vibrante. Cortot sfrutta appunto a fondo il suono di lamina, la cui qualità eminentemente percussiva, combinata con il pedale di risonanza, lo fa «correre» quasi come il suono del vibrafono o delle campane. Si può supporre che già Liszt avesse studiato le specifiche possi­ bilità del pianoforte moderno. Amy Fay racconta di aver ascoltato Liszt che nel 1873 (i primi pianoforti con telaio interamente me­ tallico sono del 1870) dava ad un allievo una lezione di tocco: «A un certo punto [l’allievo] suonò troppo debolmente un passaggio e Liszt prese il suo posto, dicendo: “Quando suono io, suono sempre per le persone che sono nelle gallerie, affinché anche quelli che non pagano il posto che pochi centesimi possano sentire qualcosa”. (Parlando della galleria Liszt faceva allusione al loggione, dove il popolo va e dove i posti non costano quasi niente). Poi cominciò a suonare, e vorrei che l’aveste inteso! I suoni non erano molto forti, ma molto penetranti, di lunga portata. Quando finì, e alzò una mano per aria, ci sembrò di veder apparire, come in una visione, la gente della “galleria” inebriata dalla melodia». Le descrizioni non suffragate da documenti possono sempre essere ingannevoli, ed io non insisto troppo su ciò che dice la Fay; ma non è illogico supporre che le novità di costruzione del pianoforte dessero origine a speri­ mentazioni sulle nuove possibilità timbriche dello strumento: in Cortot, mi sembra, troviamo l’applicazione più conseguente e completa di ciò che da altri, forse a cominciare da Liszt, era stato ricercato. Se ascoltiamo l’inizio di una delle più famose interpretazioni di Cortot, le Kinderszenen di Schumann, ci rendiamo subito conto di un impianto architettonico dalla sonorità assolutamente inconfon­ dibile. Il problema tecnico, come spesso nella musica romantica, è quello di trovare tre tipi di sonorità che permettano di rendere audibili all’ascoltatore, e in un ordine di priorità, tre eventi sonori che, pur mirando ad uno scopo comune, posseggono una loro autonomia: la melodia, il basso, le parti di mezzo. Sul pianoforte del

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1840 il problema si pone in misura incomparabilmente minore perché la sonorità dello strumento non è omogenea: sul pianoforte della fine dell’ottocento, con registri omogenei, spetta all’esecuto­ re scegliere tra un’infinità di possibili soluzioni. Non si può analiz­ zare la soluzione di Cortot: bisognerebbe paragonarla a quella di altri grandissimi interpreti schumanniani — Nat, Gieseking, Kempff, Arrau, Horowitz — per avere un’idea di come ciascuno non assomigli che a se stesso e di come ciascuno sappia nello stesso tempo rendere udibili, con timbri diversi, i tre eventi sonori. Lo Studio op. 25 n. 7 di Chopin, che presenta una variante più complessa dello stesso problema, è esemplare della concezione della sonorità in Cortot. Jeux d'eau di Ravel, in cui i diversi eventi sonori si intersecano anche nella stessa zona della tastiera, ci dà un ultimo esempio della magia timbrica di Cortot, qui al limite del­ l’illusionismo sonoro: si ascolti, per convincersene, l’ultima pagina, in cui il suono è spazializzato fino a dar l’impressione di una grande distanza, di un primo piano della melodia e di un lontanissimo secondo piano degli arpeggi. H primo numero delle Kinderszenen ci dà anche modo di am­ mirare quelle che potremmo definire le «note bellissime» di Cortot. Così come i cantanti di bella voce posseggono in genere alcuni suoni più ammalianti degli altri, anche gli strumentisti di bella sonorità raggiungono spesso il massimo della piacevolezza in alcu­ ne note. Per Cortot la zona migliore della sonorità, nel cantabile, è all’incirca l’ottava la bemolle 3 - la bemolle 4. Si può essere sicuri che quando un tema o una melodia viene esposta in quella zona della tastiera, l’esposizione di Cortot si farà ricordare già per la semplice bellezza della sonorità. Così nel primo brano delle Kin­ derszenen come nel Preludio in fa diesis maggiore di Chopin come nel primo tema della Ballata n. 4 di Chopin ecc. ecc. In altre zone della tastiera la cantabilità di Cortot è meno memorabile: si ascolti la prima parte dello Studio op. 10 n. 3 di Chopin, la cui prima strofa è «bassa» per Cortot, e si sentirà come la qualità fisica della sonorità si illumini, come faccia frissoner l’ascoltatore nella seconda strofa, che si sposta verso la zona preferita. Si ascolti il primo tema della Ballata n. 3, tema popolaresco che Chopin, per evitare l’ec­ cesso di naìveté, fraziona su tre registri del pianoforte: per trovare un’esecuzione «bella» ed intensamente cantabile di questo tema in

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tutti i registri non bisogna rivolgersi a Cortot (e neppure, per la verità, a Paderewski o a Rachmaninov o a Rubinstein o a Horo­ witz), ma a Malcuzynski o a Katchen. In Cortot non è però solo da segnalare la qualità personale del suono e dei rapporti timbrici tra le parti, ma la «dizione», il modo personalissimo di declamare. La declamazione di una melodia, in Cortot, è sempre scultoria, incisiva, fatta di interiezioni e di so­ spensioni, di suoni autoritari più che di eloquio fluente. E la dizione di Cortot non è da studiare soltanto nella successione dei suoni, ma anche nei rapporti tra le parti. La prima e la terza battuta (identiche) del primo brano delle Kinderszenen di Schumann sono un esempio del modo con cui Cortot, dopo aver reso audibili i tre eventi sonori, sposta, per così dire, le luci su certi particolari più significanti di essi: nella prima battuta la melodia è intonata con un senso vocalistico dell’intervallo si-sol (il sol è più sentito e lieve­ mente ritardato, al modo dei cantanti che preparano e «appoggiano» quando intonano un intervallo ascendente con cambiamento di registro); ma alla ripetizione (terza battuta), è più appoggiato il si e il sol è intonato, per così dire, in falsettone, mentre nel basso, dopo il primo sol intonato con lievità, il do diesis è molto marcato e anticipato rispetto al sol della melodia: Cortot mette qui in rilievo la tensione dell’intervallo di tritono discendente del basso (sol-do diesis), quasi come se vi gettasse sopra un fascio di luce; la parte di mezzo, a sua volta, non fluisce placidamente, ma nella prima terzina vengono abbreviate le prime due note, e nella seconda le ultime due, tanto che la scansione del ritmo perde qualsiasi par­ venza di meccanicità:

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La descrizione che sto facendo — e che riguarda solo due battute — è verbosa e imprecisa. Bisognerebbe preparare un grafico per mostrare il rapporto tra la grafia di Schumann e la realizzazione di Cortot, e per mostrare come la dinamica piano di Schumann, che Cortot d’altronde rispetta, sia la risultante di rapporti dinamici assai complessi. E non parliamo poi del timbro, cioè della perso­ nalizzazione del suono, che del resto è prerogativa essenziale di ogni interprete! Un grafico sarebbe però preciso sì, ma ingom­ brante e di difficile lettura per chi non conosca bene la notazione musicale. La verifica auditiva è invece sempre possibile e non difficile. Provi il lettore ad ascoltare più volte Cortot ed a parago­ narlo con un interprete molto contenuto come Arrau o, per restare tra i francesi, con un interprete in genere piuttosto acceso come Yves Nat, e si accorgerà di quanto personale, di quanto egocentri­ co, di quanto aggressivo sia il modo di interpretare di Cortot. C’è in Cortot una tendenza al frammentismo, alla illuminazione dei particolari, allo spostamento continuo dell’angolazione e della prospettiva. Per ragionare in termini di oggi si potrebbe dire che Cortot non lavora come regista teatrale, su un campo immutabile, ma come regista televisivo, che piazza le sue sei o sette telecamere con angolazioni diverse e sceglie poi l’immagine che più gli con­ viene per attirare sul particolare l’attenzione dello spettatore. Per ragionare in termini storici si potrebbe dire che Cortot scompone l’oggetto sonoro, che lo analizza e lo ricompone secondo concezioni antitradizionali, e si potrebbe paragonare questa sua scelta stilistica a quella dei cubisti. L’osservazione non è mia, ma di Ferdinando Ballo, che parlava della sensibilità cubista di Cortot. Mi pare che si tratti di un’intui­ zione critica fondamentale, ed è del resto facile capire come Cortot, arrivando dopo cinquant’anni di interpretazione dei romantici, potesse essere novatore solo attraverso l’analisi e solo attraverso un’estetica nuova, partecipe delle più avanzate correnti dell’arte francese del suo tempo. Il Cortot romantico, il Cortot che discende per li rami da Chopin in persona (attraverso Decombes, suo mae­ stro, e attraverso i suoi consiglieri e mentori, allievi di Chopin, George Mathias e Camille O’Meara Dubois) è solo un’immagine pubblicitaria, che Cortot stesso si fece del resto premura di diffon­ dere. Discutere se Cortot abbia o no scavalcato la più recente

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tradizione per riallacciarsi al vero Chopin è questione non verificabile, che ci porterebbe a discutere cose su cui la penna salatissima di Vincenzo Vitale già si è crudamente divertita parlando dei corsi di interpretazione alla École Normale: «Surtout Chopin e Debussy, che si asserisce di solito, per via di certi transfert e di altre opera­ zioni medianiche, si erano installati nell’inconscio del famoso pia­ nista. Chopin pare che abbia a poco a poco prestato anche il volto, se si paragona il dagherrotipo famoso di quel Grande con le foto­ grafie di Cortot che, a quinze francsy si potevano acquistare chez le Secretariat dell’ÉcoZe Normale. E dietro le quali il famoso concerti­ sta apponeva, poi, la sua firma con dedica: “A M.lle Georgette Dubois en sincère sympathie” oppure “A M.lle Julietted‘Artois bien sympathiquement”. Una riserva di simpatie a 15 franchi la copia che davvero lascia stupefatti e confusi». Se le annotazioni del Vitale dovessero esser prese per analisi critiche e non piuttosto, come intendono essere, per frecciate smi­ tizzanti, dovremmo riproporci il dilemma: miracolo o bluff? Mi sembra invece che a questo punto sia già chiaro come per Cortot non si debba parlare né di miracolo né di bluff, ma di originalità, e non di originalità immotivata, ma di partecipazione e di sviluppo, nel campo particolare dell’interpretazione pianistica, di una grande esperienza culturale nata nella Parigi degli inizi del secolo. Il problema che a questo punto dobbiamo porci è di vedere come Cortot sia diventato il massimo esponente — possiamo dire? — del cubismo nell’interpretazione musicale. Della formazione culturale generale di Cortot, come ho già detto, non sappiamo quasi nulla. Il punto di partenza deve dunque essere il suo wagnerismo e, aggiungo ora, il suo beethovenismo. L’identificazione Cortot-Chopin e Cortot-Schumann è molto tar­ diva: risale agli anni 30, quando Cortot aveva passato i cinquan­ tanni. Agli inizi e ben avanti nella carriera Cortot fu invece notato come interprete beethoveniano: ai concerti Lamoureux e Colonne esordì con il Concerto in do minore, e a Berlino, nel 1898, con due Sonate di Beethoven. Ancora nel primo dopoguerra era interprete beethoveniano apprezzato, tanto che negli Stati Uniti, nel 1920, portò i cinque Concerti, e nella serie di dieci programmi storici che presentò a Parigi, nel 1924, eseguì sei Sonate, tra cui l’op. 106. Purtroppo, di Cortot interprete di Beethoven ci resta oggi pochis­

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simo: la Sonata op. 109 e lo Scherzo della Sonata op. 106 in rulli di pianola, il Trio op. 97 con Thibaud e Casals, la Sonata op. 47 con Thibaud, le Variazioni su «Bei Mànnern, welche Liebe Fùhlen» con Casals. Nella Sonata op. 109 e nello Scherzo delTop. 106, fatte salve le riserve che il rullo di pianola suscita sempre, si può scorgere uno stile di interpretazione che risente probabilmente dell’esempio di d’Albert, e forse di Risler, che con d’Albert aveva studiato per qualche tempo. Un discorso critico sicuro su queste interpretazioni non si può però fare, perché le uniche basi di confronto sarebbero la revisione di d’Albert delle Sonate di Beethoven e pochi rulli beethoveniani di d’Albert (ma non delle Sonate op. 106 e op. 109), mentre mancherebbero le esecuzioni delle op. 106 e 109 di d’Al­ bert, di Risler, di Busoni, cioè dei maggiori interpreti beethove­ niani che Cortot ebbe occasione di ascoltare in gioventù. I pezzi di musica da camera forniscono una più sicura documentazione, ma qui la personalità di Cortot si rapporta necessariamente a quella dei suoi partners. Certo che nella Sonata op. 47 e nel Trio op. 97 Cortot non è quello che ci è più familiare: la diversità dello stile è dovuta all’influenza di chi suonava con lui, alla necessità della musica d’insieme, ad una sua volontà di differenziare stilisticamente Beet­ hoven? Non potrei rispondere se non per supposizioni. Il repertorio beethoveniano di Cortot e le sue interpretazioni dell’op. 47 e dell’op. 97 ci fanno comunque supporre che egli intendesse inserire Beethoven nel campo del romanticismo e del­ l’eroismo romantico, secondo le concezioni critiche del wagneriano de Wyzewa o di Romain Rolland (di cui, sia detto per inciso, Cortot sposò in prime nozze, nel 1902, la moglie divorziata Clotilde Bréal). Possiamo anche supporre che lo studio di Beethoven ser­ visse a Cortot per esaminare criticamente la cultura nella quale si era formato e le tradizioni di quella cultura. La base della forma­ zione culturale di Cortot resta però, indubbiamente, il manierismo francese. Già ho detto per inciso che la lettura dello Studio in forma di valzer di Saint-Saèns è veramente esemplare e che la realizzazione di ]eux d'eau di Ravel è un pezzo da antologia. Altrettanto esem­ plari sono le interpretazioni dei due grandi trittici e delle Varia­ zioni sinfoniche di Franck, della Sonatina e del Concerto per la

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mano sinistra di Ravel, del Concerto n. 4 di Saint-Saens. Non abbiamo, purtroppo, le incisioni del Tema con variazioni, della Ballata e della Fantasia di Fauré (quest’ultima dedicata a Cortot), della Symphonic Cévenole di d’Indy, della Fantasia di Debussy, del Concerto di Germaine Tailleferre, delle musiche di Chabrier (salvo un rullo di pianola con Idylle), delle musiche di Dukas, Pierné, Samazeuilh e altri minori: non abbiamo quindi una visione com­ plessiva di ciò che Cortot, tra il 1905 e il 1930 circa, rappresentò per la musica francese, ma siamo sicuri, per l’ampiezza del repertorio e per i consensi ricevuti, che la sua identificazione con la cultura pianistica francese a cavallo tra i due secoli fu completa. Tra le esecuzioni che ci restano la più impressionante è quella del Concerto n. 4 di Saint-Saéns, proprio in ragione del non assoluto valore della composizione. Nei suoi saggi sulla musica francese Cortot non è molto tenero con Saint-Saéns, alle cui opere per pianoforte solo rimprovera di essere «per la maggior parte animate da una verve impassibile e come indifferente al suo oggetto», aggiungendo poi: «Le impressioni descrittive sono rare ed il carat­ tere emozionale è escluso. È questione di note, pare, più che di musica. Una frequente assenza di discriminazione nella scelta dei temi dà una spiacevole preponderanza ai soli artifici della fattura e dello sviluppo». Lo soddisfano di più i Concerti: approva il Primo e ammira il Secondo, ma il Terzo — opera manieristica per eccel­ lenza — lo lascia molto perplesso per la sua mistura di nobiltà e di banalità. Del Quarto apprezza soprattutto l’invenzione formale: «Essa s’appoggia sull’applicazione di un principio ciclico che non ha niente in comune con quello di Franck e in cui i temi generatori non sono impiegati al modo di leitmotive carichi di significati e di conseguenze, ma trattati come elementi di architettura musicale, pretesti per trasformazioni più che per sviluppi». Nel Concerto n. 4 Cortot vede però anche il superamento dei limiti da lui attribuiti a Saint-Saéns: «La sola preoccupazione della sfumatura indicata, la sola correttezza tecnica, fosse pur essa di qualità trascendentale, non bastano più, qui, a rendere appieno il pensiero di Saint-Saéns. Bisogna, seguendo il suo consiglio, “eseguire la parte solistica come un ruolo”, ispirarsi al senso drammatico, caloroso o sognante di ciascun movimento». La fantasia di Cortot pianista supera, nel momento dell’inter-

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prelazione, le sue concezioni critiche e la sua incomprensione delle componenti manieristiche dell’arte di Saint-Saèns. Ispirandosi al senso drammatico, caloroso o sognante del Concerto, e aiutato dalla fantastica direzione di Charles Munch, Cortot, in realtà, ne mette superbamente in evidenza il romanticismo in negativo, cioè l’uso del sentimento come oggetto. Basta ascoltare la prima varia­ zione del tema, il modo in cui Cortot realizza l’espressivo di SaintSaèns per avere l’idea del distacco tra l’autore e la materia, il gesto eroico di cui si serve senza esserne intimamente partecipe, il senso dello spettacolo e della rappresentazione che viene data al pubblico senza coinvolgimento sentimentale. L’interpretazione di Cortot è una vera lezione di analisi critica, e sia pure, come al solito, con un numero di approssimazioni tecniche assai più elevato di quello che sarebbe lecito attendersi da un grande pianista. Forse Cortot non era interamente cosciente della sua posizione culturale e della sua modernità. Così come c’è uno iato tra la sua concezione del suono, modernissima, ed il tradizionalismo delle sue riflessioni di teorico, così c’è un solco tra il suo stile di interprete e le sue concezioni estetiche (la ricerca dell’«arrière pensée» in Chopin, le riserve su Saint-Saèns, sull’estetica di Stravinsky, sui Six). Par­ tendo da una concezione romantica dell’arte, Cortot arriva ad essere, forse suo malgrado, cubista. Il confine che non valica mai, e di cui ha orrore, è l’astrattismo. Le sue interpretazioni di Debussy sono, sotto questo aspetto, molto interessanti. Il Children's Corner non può darci la misura della concezione interpretativa della musica di Debussy, ma il primo libro dei Preludi, sebbene l’incisione sia molto tardiva e tecnicamente scorrettissima, può essere in alcuni momenti rivela­ tore. E evidente che Cortot colloca Debussy nell’impressionismo, e che i titoli sono per lui evocatori di atmosfere naturalistiche (i colpi di vento in Voiles), che non sfumano ambiguamente nel simboli­ smo e non aprono quindi la strada all’astrattismo degli Studi. Sembrerebbe, ed è, una collocazione criticamente quasi reaziona­ ria. Ci sono però almeno due Preludi in cui Cortot riesce veramente ad evocare un mondo che mai ci si aspetterebbe di trovare in Debussy. Si ascolti Les sons et lesparfums toument dans l’air du soir: i molli arpeggiamenti delle armonie, il sentimentalismo sdolcinato con cui

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vengono enunciati i frammenti melodici, gli indugi ritmici riporta­ no Debussy al tardoromanticismo salottiero; ma, nello stesso tem­ po, i soffocati, nebbiosi suoni del basso e la stanca routine dell’e­ spressione evocano, più che una musica en plein air, una fumosa taverna in cui poveri ubriaconi bevono assenzio mentre un tapeurà gages suonacchia un valzer lento, ed in cui, alla fine, la lontana suoneria del corno di un lattaio annuncia il giorno. Si ascolti Despas sur la neige, e si vedrà sorgere un’immagine di desolazione da Quai des brumes. Il Debussy ben accasato con la signora Emma Bardac e ben inserito nel mondo intellettuale parigino sparisce per lasciar posto al Debussy bohemien, che convive con Gaby e frequenta i bistrots! Cortot riesce a trovare in Debussy la degradazione estrema dell’intimismo romantico, divenuto sentimentaHzzazione borghese nella Valse romantique e nel Nocturne e musica da bassifondi nei due Preludi. Posizione critica reazionaria, in partenza, che però scopre qualcosa di inedito, sfiorando in questo caso l’espressioni­ smo. È opportuno notare, a questo proposito, che la definitiva affer­ mazione di Debussy e di Ravel tra i grandi della letteratura piani­ stica non fu opera di Cortot, ma di Gieseking. Mentre Gieseking, tra il 1930 e il 1940, diventava l’interprete per eccellenza di De­ bussy e Ravel, letti in una chiave neoclassica che nello stile piani­ stico legava i due francesi al Settecento (sia pure al Settecento non francese, ma di Bach e Scarlatti), Cortot non sviluppava né gli aspetti manieristici dell’arte di Ravel, né le sue intuizioni dissa­ cranti su Debussy, e rileggeva invece Chopin, Schumann e Liszt sotto prospettive, come ho detto, cubiste. Non si può, s’intende, fare il processo alla storia. Si può però constatare come Cortot, cresciuto nel manierismo francese, diven­ tasse negli anni 30 il più originale interprete di Chopin (e, in minor misura, di Schumann), e come Gieseking rileggesse invece il ma­ nierismo francese in chiave neoclassica. Il successo che entrambi ottennero in altissima misura e in ogni paese dimostra che entrambi sceglievano le chiavi di lettura più adatte, nei rispettivi autori preferiti, ai loro tempi. La ricerca originale di Cortot si esaurisce comunque, mi sembra, con la seconda Guerra Mondiale. Mentre Backhaus, verso i settant’anni, riprendeva Chopin e rileggeva poi Beethoven in modo nuovo, mentre Rubinstein scopriva veramente

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Chopin a settantacinque anni, mentre Gieseking volgeva l’atten­ zione alla civiltà viennese, il Cortot del dopoguerra, «incartapcco­ rito e allucinante» (Vitale), portava in giro non solo una memoria vacillante e dita che non funzionavano più, ma anche la sopravvi­ venza di uno stile che era spiritualmente al tramonto. Di qui veniva prima di tutto la delusione. Per chi, come me, ascoltò più volte Cortot negli ultimi dieci anni della sua carriera, c’è un fantasma di Cortot che dev’essere innanzitutto esorcizzato. L’avvio di questo capitolo è stato faticoso ed ho dovuto lentamente superare i ricordi spiacevoli. Ne chiedo scusa al lettore giovane; ma la critica è anche testimonianza di generazioni, e per la mia gene­ razione la necessaria operazione preliminare per capire la grandez­ za di Cortot è di chiedersi, e non retoricamente, se egli fu o no un bluff. Sono arrivato a concludere che Cortot fu un grande, originale interprete, un grande, originale uomo di cultura, un pianista origi­ nale. Fu anche un grande pianista? La sua originalità, grandissima, contrastava con l’esattezza tecnica: scopriva il suono, e perdeva le note, aveva idee vertiginose, e cannava con le dita. Se fosse o no un grande pianista lascio decidere al lettore: è, certamente, un suona­ tore di pianoforte che si fa ascoltare, anche quando ha il dono non commendevole di diventare irritante.

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Wilhelm Backhaus è, in molti aspetti, l’opposto di Cortot: precoce pianista quanto l’altro fu tardivo, professionista roccioso quanto l’altro fu dilettante spensierato, chiuso nel mondo del pianoforte quanto l’altro fu aperto a tutte le esperienze, Backhaus era un uomo gentile, riservato, impenetrabile, e un artista che, una volta scostato il velo della fama e della bravura, dà molto filo da torcere al critico. Ho ascoltato Backhaus per la prima volta, in disco, nel 1945 nel Concerto in la minore di Grieg, e per la prima volta, in sala, nel 1946 in un programma di Sonate di Beethoven. Ricordo benissimo quel concerto: le opere 10 n. 2, 31 n. 2, 78, 81a e 111 sfilarono davanti ai miei occhi stupefatti con la forza delle verità incontro­ vertibili, e da allora ammirai Backhaus senza riserve. Ma solo nel 1980, ristudiandolo, mi accorsi che questo mite e limpido Backhaus era in realtà una sfinge, e solo allora mi posi veramente il problema della sua collocazione critica. Forse ho visto una soluzione, forse brancolo ancora; ma, almeno, ora ho capito che ci devo pensare. Nato a Lipsia il 26 marzo 1884, Wilhelm Backhaus apparteneva a quella ferrigna «generazione dell’ottanta» che può vantare, per limitarci a pochissimi nomi, Bartók e Stravinsky, Picasso e Braque, Le Corbusier e Gropius, Joyce e Kafka. I maggiori pianisti nati negli anni 80 sono senza dubbio, con Backhaus, Artur Schnabel (1882), Edwin Fischer (1886), Artur Rubinstein (1886): un quar­ tetto di moschettieri che succede alla generazione dei Paderewski, dei d’Albert, dei Busoni, che si trova a fianco gli Hofmann, i Rachmaninov, i Cortot, e che quindi è storicamente collocato in una posizione tutt’altro che comoda, vicino a personaggi con i quali è impossibile vincerla ed arduo impattarla. Oggi i nomi di Schna-

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bel, di Backhaus, di Fischer e di Rubinstein sono quelli che spic­ cano sopra tutti e che segnano l’epoca. Ma non direi così se, invece di scrivere oggi, scrivessi putacaso nel 1930, perché la maturazione dei quattro campioni non fu parallela. Fischer venne riconosciuto tra i maggiori pianisti verso il 1925, quando si rivelò geniale inter­ prete, soprattutto, di Bach e di Mozart; Schnabel divenne molto noto all’inizio degli anni 30, con Beethoven e con Schubert; Ru­ binstein cominciò a segnalarsi veramente, specie con Chopin, alla fine degli anni 30, e divenne uno dei massimi concertisti all’incirca dal 1955 al 1970. E Backhaus? Backhaus vinse a ventun’anni, a Parigi, l’importantissimo Concorso Rubinstein, e fino ad una setti­ mana prima della morte -— 15 luglio 1969 — girò regolarmente le sale di concerto di tutto il mondo ed incise dischi. Ma nella sua carriera possiamo fissare tre distinti e diversi momenti: il fenomeno Backhaus del 1905-1918, l’onesto Backhaus degli anni fra le due guerre, il grande Backhaus del dopoguerra. Quattro carriere parallele, ma le cui rispettive esplosioni sem­ brano distanziate da un timer occulto e infallibile: Fischer è grande a quarant’anni, Schnabel a cinquanta, Backhaus a sessanta, Ru­ binstein a settanta. Altri caratteri accoppiano invece da una parte Schnabel-Fischer e dall’altra Backhaus-Rubinstein: Schnabel e Fi­ scher furono grandi insegnanti, Bachkaus e Rubinstein insegnaro­ no pochissimo o niente, i primi pubblicarono importanti revisioni critiche di testi classici e i secondi non pubblicarono nulla, i primi furono membri di complessi stabili da camera e i secondi suonaro­ no musica da camera solo occasionalmente. C*è una spiegazione, per le differenze e per le analogie nelle differenze? Secondo me c’è, e palmare: la tecnica. La maturazione artistica, nei quattro, avviene in ragione inversa al possesso della tecnica: il più naturalmente dotato di mezzi virtuosistici, Rubin­ stein, si mette a studiare sul serio quando il fisico comincia a non reggere bene gli sforzi; il più ansioso e pasticcione, Fischer, è il primo che deve giustificare con l’originalità dell’interpretazione le stecche a cui malauguratamente è soggetto. Fischer, per conqui­ stare il pubblico, reinventa Bach e Mozart, Schnabel reinventa Beethoven ed inventa Schubert; per molti anni Backhaus e Ru­ binstein possono invece anche non essere interpreti convincenti, ma sono concertisti di classe internazionale semplicemente in

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quanto strumentisti: il primo per l’esattezza di ogni particolare, il secondo per il superiore virtuosismo. E così, distribuendo con una misteriosa razionalità le forze che la storia le ha donato, la «gene­ razione dell’ottanta» riesce a dominare la scena per quasi cin­ quantanni: dal 1925 al 1970. Il Backhaus del 1905-1918, dicevo, è il fenomeno Backhaus. Dopo aver ricevuto da Aloys Reckendorf la solida educazione accademica che veniva impartita nel conservatorio di Lipsia tenuto in pugno dal terribile Carl Reinecke, Backhaus aveva bussato alla porta di Eugen d’Albert. Quattordici anni aveva Backhaus, trentaquattro d’Albert: venticinque lezioni con d’Albert correggono forse lo scolasticismo del ragazzo e gli danno un indirizzo di gusto, un modello. Ma il «forse» non è retorico: come dirò poi, il primo Backhaus di cui ci sia rimasta testimonianza in disco, il Backhaus ventiquattrenne, non è un d’albertiano\ è una personalità incon­ fondibile, sulla cui formazione sappiamo in realtà molto poco. Nel 1900 Backhaus, sedicenne, esordisce a Londra, nel 1901 suona a Lipsia sotto la direzione di Nikisch, nel 1902 suona a Manchester il Quarto Concerto di Beethoven sotto la direzione di un altro dei massimi direttori del momento, Hans Richter, e ancora con Richter suona nel 1903 il Secondo di Brahms, nel 1904 diventa professore nel Royal Manchester College of Music. La vittoria nel Concorso Rubinstein gli fa presto abbandonare l’insegnamento e gli spalanca la grande carriera internazionale. Uno dei battuti al Concorso Rubinstein era Béla Bartók, che concorreva inoltre al premio di composizione e che fu trombato pure in quello (del che, come vedremo, giustamente si dolse). Nella satira veemente che indirizzò ai giudici del Concorso, Bartók ac­ cennava anche alla gara pianistica: «Il premio per il pianoforte poi sarà assegnato a N.N. Se lo merita perché suona le fughe di Bach col metronomo», troviamo scritto nella stesura in prosa e, nella stesura in versi: «Il premio pianistico invece è assegnato / A uno sconosciuto che con il metronomo Bach ha strimpellato». Ragioni di gusto — Bach metronomico — opponevano evidentemente Bartók a Backhaus, anche se Bartók non mancava di dire, in una lettera alla famiglia: «Nella categoria dei pianisti ha vinto l’inglese [sic!] Backhaus, il quale suona effettivamente molto bene». In sintesi, c’è tutto. Il riconoscimento di capacità che gli permettevano

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di dominare come pochi la tastiera, insieme con fortissime riserve sul suo stile di interprete, continuarono infatti ad accompagnare Backhaus, il fenomeno Backhaus, per molti anni: ad esempio, Atti­ lio Brugnoli contrapponeva alla tecnica animatrice e creatrice di Busoni la tecnica accademica di Backhaus; Rudolf Maria Breithaupt parlava di «tranquilla, sobria natura, di grandi e robuste capacità, ma di tecnica e temperamento freddi», e l’autorevolissimo ed acutissimo Walter Niemann notava, in uno studio impegnato e non dettato da antipatia: «L’intelletto, che abbonda di questi doni preziosi ricevuti dalla natura, trascura l’anima, che farebbe del suono l’eco di un’interiorità mossa in modo ricco ed immaginativo. Backhaus è e rimane il tecnico accademico. Il suo senso dello stile e l’arte della caratterizzazione individuale sono in lui poco sviluppa­ te. Così egli suona, non solo quanto a sonorità ma anche spiritualmente, Bach come Liszt, Brahms come Rubinstein, Schumann come Debussy, Beethoven come Chopin ». Lo scritto di Niemann, pubblicato nel 1919, riflette e conclude il giudizio della critica che aveva seguito Backhaus nel primo periodo della sua carriera, e sebbene sembri crudo diventa invece prezioso, in assenza di adeguate testimonianze discografiche, per capire l’o­ riginalità di Backhaus, sia pur vista in negativo. Notiamo per intanto che il giovane Backhaus non era lo specialista tedesco. Il suo repertorio comprendeva infatti sì tutti i grandi compositori tedeschi da Bach a Brahms, ma anche moltissimo Chopin e molto Liszt (comprese la Fantasia sul Don Giovanni, la Rapsodia unghe­ rese, n. 2, la Campanella, il Valzer del Faust di Gounod, di cui abbiamo la registrazione su rullo di pianola), e poi il Concerto di Grieg, il Concerto n. 1 di Ciaikovsky, i «moderni» come Strauss (Burlesca), Albeniz, Debussy, Rachmaninov, Reger, qualche omaggio a «padrini» di fine secolo (Concerto n. 4 di Rubinstein, Concerto n. 1 di Reinecke, Concerto n. 2 di d’Albert), qualche parafrasi da concerto (come la Naila-Valse di Delibes, che Back­ haus incise in disco e di cui furono vendute circa duecentocinquantamila copie). Era il normale repertorio dei concertisti tradizionali, dei d’Al­ bert, dei Sauer, degli Hofmann, presentato però in un modo in cui spiccava ed eccelleva senza discussioni solo l’aspetto tecnico del­ l’esecuzione. In verità, l’insistenza dei critici sulla tecnica stupisce

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un po’, in anni in cui vivevano virtuosi come Busoni, come Go­ dowsky, come Hofmann, perché il Backhaus «manuale», sia pur giudicato sui dischi del 1920-40, non sembra tanto sorprendente: nella serie completa degli Studi di Chopin si distinguono, tecnicamente, solo Top. 10 n. 1, Top. 10 n. 7 e Fop. 25 n. 12, e né le più difficili delle Variazioni su un tema di Paganini di Brahms, né l’ultima pagina del secondo tempo della Fantasia di Schumann si fanno ricordare per un trascendentale splendore tecnico. Si nota invece sempre, in Backhaus, l’accuratezza, la precisione del parti­ colare, la «udibilità» di ogni suono, il rifiuto di quella retorica del virtuosismo che procura benevola indulgenza per le note sbagliate; si notava, seguendo per anni i suoi concerti, Funiformità del ren­ dimento, la metodicità, il controllo, il professionismo, il suo essere sempre «in buona giornata» e mai «in giornata no». Queste sue doti sono del resto evidenti anche semplicemente dalle registrazio­ ni di certe esecuzioni pubbliche che si collocano tra il 1956 e il 1959: quanti pianisti di settantadue anni furono mai in grado di sgranare con tanta limpidezza e brillantezza le agilità del Concerto n. 4 di Beethoven? quanti pianisti di settantacinque anni poterono permettersi staccati così incisivi alla sinistra, tanto vigore e trilli di quarto e quinto dito tanto graniti, nel finale del Concerto n. 5? Pochi, pochissimi, pochissimissimi... La tecnica di Backhaus dovette dunque apparire così sorpren­ dente, verso il 1905, perché era infallibile e perché era diversa dalla tecnica impressionistica. L’impressionismo non è fenomeno che riguardi solo la creazione, all’inizio del secolo, ma che riguarda anche, a quanto si può capire oggi dalle incisioni, l’esecuzione: per dirla in due parole, il tratto rapido risultava spesso fuso, non distinto, e veniva percepito come «impressione» non solo in De­ bussy, ma in Brahms, in Chopin, in Beethoven. Basta confrontare l’inizio del Concerto n. 3 di Beethoven, eseguito da un pianista di tradizione tardo-ottocentesca come Mark Hambourg ed eseguito da Backhaus, per rendersi conto di una diversità stilistica fonda­ mentale: la scala di do minore ripetuta tre volte, che Beethoven fa precedere al tema, è per Backhaus una melodia rapidissima in cui ogni suono viene percepito ed è messo in relazione strutturale con gli altri, mentre per Hambourg è una specie di grande, titanico portamento da do e do. Non solo: Backhaus, oltre ad eseguire

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distintamente tutti i suoni, non cerca l’ispessimento del raddoppio, ma punta sulla individuazione melodica anche della mano sinistra (che raddoppia la destra all’ottava sotto). Quando poi due linee melodiche diverse si sovrappongono, Backhaus riesce non solo a renderle percepibili entrambe senza distanziarle impressionistica­ mente, ma riesce a fraseggiarle entrambe con assoluta indipenden ­ za. E ciò vale per il vecchio Backhaus come per il giovane: nella parte centrale della Fantasia-Improvviso di Chopin, incisa nel 1908, i raddoppi in ottava della melodia acquistano il significato di una riverberazione, perfettamente distinguibile, ed anche il basso uniforme della prima parte viene individuato melodicamente e fraseggiato. Si capisce che questa capillare precisione e questo panmelodismo — ammirevoli dal nostro punto di vista — potevano apparire prosaici, accademici e dispersivi all’inizio del secolo. Certamente, Breithaupt, che adorava un’ardente virago come Teresa Carreno, e Niemann, che ammirava sommamente l’allievo della Carreno Télémaque Lambrino, dovevano trovare Backhaus poverissimo di valori emotivi, arido, capace solo di pianificare tutto e di distrug­ gere il mistero dell’arte. Era tale, Backhaus? Dai pochi dischi che ci restano diremmo proprio di no, e in fondo in fondo diremmo di no anche dai giudizi negativi, di cui possiamo accettare le analisi e capovolgere le conclusioni. Il primato dell’intelletto, l’indefinito stilistico, la meticolosità della tecnica, l’esatta definizione del particolare sono tutti segni che fanno riconoscere il manierismo. Backhaus, ben lungi dal distrug­ gere il mistero, osava prender atto della sua scomparsa dal mondo contemporaneo. Si può azzardare un’ipotesi: che Backhaus non ritrovasse più, o non potesse più penetrare le motivazioni etiche o psicologiche sulle quali era sorta la musica dei classici e dei ro­ mantici, e che restasse quindi eroicamente ancorato alla superficie della musica, cioè alla musica, cioè al segno, privato del suo valore simbolico ed intenso come residuo di miti perduti. Backhaus, mi sembra, è radicale sia nel denunciare la crisi dei valori (quella che oggi chiameremmo la secolarizzazione di miti), sia nel risolverla con la scoperta che il suono è espressivo in se stesso. Toccherà a Fischer e a Schnabel ricreare i miti, indagando il segno non più direttamente, ma attraverso la ricerca storico-filologica.

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Questa è l’ipotesi sicuramente più suggestiva, invero non soste­ nuta da documenti sufficienti, né da autoanalisi o da dichiarazioni autobiografiche di Backhaus. Ci sono altre ipotesi possibili: che Backhaus si riallacciasse alla tradizione illuministica di Ignaz Mo­ scheles, molto viva a Lipsia dove Moscheles aveva insegnato dal 1846 al 1870. Leggendo i diari di Moscheles si ritrova quella calma, quell’atteggiamento riflessivo, quella diffidenza verso gli eroici fu­ rori, quello scrupolo artigianale che caratterizzano fin dall’inizio Backhaus. Ma si tratta di impressioni, e forse di suggestioni. Si può anche supporre che Backhaus fosse influenzato dall’estetica di Hanslik, che nella sua radice critica è manieristica più che formali­ sta. In realtà, diverse motivazioni culturali, oggi non più rico­ struibili con certezza, concorsero probabilmente a formare la per­ sonalità di Backhaus, che partendo da una iniziale folgorazione si maturò in un processo rettilineo e coerente, e che presentò segni di crisi ideologica, come vedremo, solo verso la fine della vita. L’arte di Backhaus, così personale e così storicamente necessaria, fu dunque considerata prima fenomenale (nel senso di un po’ mostruosa), poi onesta. Tra le due guerre — e lo dico perché ciò ripete in altri campi la sua iniziale scelta artistica — l’uomo Back­ haus dette prova della sua capacità di intuire sotto la cronaca la storia nel 1931, quando, non appena le elezioni ebbero fatto dei nazisti il secondo partito tedesco, lasciò la Germania per stabilirsi a Lugano. Il pianista Backhaus fu stimato come un alto artigiano di non alta fantasia, e non solo Fischer e Schnabel e Cortot, ma anche i più giovani Gieseking e Horowitz diventarono i veri leaders del momento. Backhaus, che ancora verso il 1930 suonava Liszt, Grieg, Ciaikovsky, Rachmaninov, conquistò i maggiori consensi con la serie completa delle Sonate di Beethoven, da lui eseguita per la prima volta nel 1929, con i Concerti di Brahms, con la Variazioni di Goldberg di Bach. E nel dopoguerra, mentre tramontavano Schnabel e Fischer, divenne finalmente per il pubblico il grande Backhaus, la moderna personificazione di Beethoven,...anche se tentava talvolta di contrabbandare un po’ di Chopin o una Soirée de Vienne di Schubert-Liszt. Backhaus, grande interprete di Beethoven: che era vero. Back­ haus, il più grande interprete di Beethoven: che era vero solo per la pubblicità spicciola. La questione della supremazia di un grande

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interprete sugli altri grandi interpreti è in realtà futile; è invece esatto dire che Backhaus, partito da posizioni di radicale manieri­ smo, partecipò poi allo sviluppo di una concezione dell’interpreta­ zione di Beethoven che sarebbe forse appropriato chiamare neo­ classica (e che per brevità si chiama classica), ed aprì infine pro­ spettive rivoluzionarie rimaste dopo di lui inesplorate. Prima di parlare di Backhaus interprete di Beethoven è tuttavia opportuno parlare di Backhaus interprete di Chopin. Nelle sue incisioni chopiniane degli anni 20 si ritrova un’evoluzione assai interessante. Le prime danno ancora l’impressione di una esube­ ranza, di una sanità fisica che riesce solo a sfiorare la complessità spirituale del mondo di Chopin. Nella serie completa degli Studi e nella Berceuse, alla fine della decade, troviamo invece uno Chopin di una grandiosità virile e piena di forza interiore che fa addirittura pensare a Bach. La semplice correttezza neoclassica si trasforma in entusiasmo pieno e schietto: entusiasmo per la logicità della forma e per la perfezione della scrittura strumentale che Backhaus ritrova lavorando innanzitutto sulla materialità del suono anziché sulla labilità dei sentimenti. Backhaus non rifiuta affatto i sentimenti, ma preferisce cercare dei rapporti formali tra i suoni, dai quali, quando li trova, il sentimento sorge spontaneamente. In questo senso le incisioni chopiniane di Backhaus rappresentano, dopo quelle di Godowsky, il miglior contributo portato dalle esigenze neoclassiche all’interpretazione di Chopin. Assai diverse le interpretazioni del 1951-54. Backhaus accetta qui, oltre alla musica, anche l’estetica musicale di Chopin e stilisti­ camente tende al recupero cosciente di due stilemi tradizionali dell’interpretazione romantica: tempo rubato e scansione ritmica indipendente delle parti. Il tempo rubato di Backhaus trae origine da una rigorosa analisi armonica del testo e non è generico, non è di maniera, ma si fa più o meno sinuoso a seconda della complessità armonica del brano. Se poi le linee melodiche sono più d’una — in Chopin ciò avviene molto spesso — Backhaus dà a ciascuna il suo proprio tempo rubato, e da ciò viene la mancanza di assoluta sincronicità delle sovrapposizioni, che anch’essa non è di maniera ma nasce da una logica formale. È ben difficile dire quale sia stata l’influenza di Backhaus sugli altri interpreti chopiniani: Backhaus eseguì di frequente molte composizioni di Chopin (le Sonate n. 2 e

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3, le Ballate n. 1 e 3, tredici Studi, alcune Mazurche e alcuni Valzer) tra il 1950 e il 1955. Egli influenzò certamente Arrau, forse Ru­ binstein e forse anche Horowitz. Ma indubbiamente egli si riac­ costò a Chopin nel momento in cui nelTinterpretazione chopiniana si stavano superando i canoni del neoclassicismo, e la riflessione su Chopin gli servì per ripensare anche Beethoven. Torniamo a Backhaus interprete di Beethoven. Alla base del classicismo, nell’interpretazione di Beethoven, stava innanzitutto una visione della personalità beethoveniana contrastante con la visione del tardoromanticismo: Beethoven come uomo kantiano, dominatore del suo destino. Questa visione metteva in crisi, natu­ ralmente, lo stile dell’interpretazione beethoveniana del tardo ro­ manticismo, e cioè il tipo di sonorità, il tipo di fraseggio, la conce­ zione della forma. Backhaus, con Schnabel ed Edwin Fischer, contribuì in misura determinante ad un’esperienza storica che ela­ borò un nuovo stile di interpretazione beethoveniana, nuovo al punto da investire tutti i parametri del suono e tutti i rapporti tra i suoni. Non si trattò, come si diceva e si dice ancora spesso, di eseguire la musica di Beethoven «com’è scritta»: chiunque sappia paragonare anche in misura minima un testo con un’incisione discografica non farà fatica ad accorgersi di quanto sottili, continue, multiformi fossero le deviazioni di Backhaus o di Schnabel o di Fischer dall’apparenza grafica della pagina. Dire che i classici ese­ guivano Beethoven «com’è scritto» significa solo aderire al gusto che li guidava o ritenere, acriticamente, che il loro stile rendesse esplicito ciò che era ed è implicito nella pagina di Beethoven. È certamente possibile ritrovare in Backhaus, ad esempio, qualcosa di ciò che dicevano gli antichi trattatisti, da Czerny a Moscheles a A.B. Marx, quando si sforzavano di spiegare le tacite convenzioni alle quali si era adeguata la grafia di Beethoven, ma sarebbe illusorio credere che i classici del nostro secolo avessero scoperto la chiave con la quale si riconquista la vera interpretazione di Beethoven. Oggi è chiaro che uno stile di interpretazione non è destinato a perpetuarsi nel tempo più di quanto non si perpetui, senza modi­ ficarsi, uno stile di composizione. L’esperienza dei classici è un’e­ sperienza storica approfondita, che non esaurisce però affatto la possibilità di altre, diverse ricognizioni sul testo di Beethoven, che partano da premesse diverse ed elaborino uno stile diverso. Del

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resto, come vedremo, lo stesso Backhaus, negli ultimi due anni di vita, si mosse in una direzione che postulava una crisi del classici­ smo. Il suono di Backhaus in Beethoven era piuttosto teso e metallico, e quasi privo di variazioni di colore timbrico; un ammorbidimento della sonorità si nota negli ultimi due anni, in certi casi ben deter­ minati, e cioè in Sonate o in momenti di espressione tenera, cosid­ detta schubertiana: si paragoni ad esempio la sonorità monolitica della Sonata op. 2 n. 1 con le screziature coloristiche della Sonata op. 2 n. 2. Il fraseggio di Backhaus era sempre assai contenuto, severo, ma non mai monocrono e non privo di libertà, talvolta vistosissime. Tipico era il caso dei passi molto rapidi, che possono dare facilmente l’impressione della precipitazione anziché della velocità: Backhaus rallentava il movimento, anche d’improvviso, anche in misura sensibilissima, pur di mantenere il dominio di ogni suono e di offrire all’ascoltatore la percezione di linee anziché di macchie sonore. Si osservino anche solo i due passi in scale folgo­ ranti del finale della Sonata op. 26, passi che, eseguiti senza ral­ lentare il movimento, vengono percepiti come insieme armonici che collegano un suono iniziale acuto ed uno finale grave; Back­ haus, invece, rallentava il movimento, sgranando e rendendo di­ stinguibile ogni singola nota, e quindi tendendo a far percepire un valore melodico. Se un effetto espressivo giustificava però l’alta o anche l’altissima velocità Backhaus sapeva muoversi come un ful­ mine, persino a ottant’anni suonati: certi brani umoristici (ad esempio, l’ultimo tempo dell’op. 10 n. 2, il primo tempo dell’op. 10 n. 3, l’ultimo tempo dell’op. 14 n. 2, l’ultima pagina dell’op. 28, la terza variazione del finale nell’op. 109) erano eseguiti da lui a velocità da primato e con una nettezza di suono che pareva lo scoppio festoso di un mortaretto. Nei confronti del testo la posizione di Backhaus era meno rigo­ rosa di quella di Schnabel. Backhaus aggiungeva talvolta, sebbene assai di rado, dei raddoppi in ottava al basso; in pochissime occa­ sioni modificava qualche segno di dinamica; modificava spesso le indicazioni per il pedale di risonanza, soprattutto nel caso dei pedali cosiddetti problematici (per esempio, nell’op. 31 n. 2 e nell’op. 53). Le modificazioni del pedale sono certamente il punto che lascia più perplesso l’ascoltatore e costituiscono un limite dello

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stile di Backhaus. Ma dipendevano, obbiettivamente, da una reale difficoltà, aggravata dalle caratteristiche del suono di Backhaus: con una sonorità così povera di variazioni cromatiche, realizzare tutte le indicazioni di pedale di Beethoven avrebbe significato creare fastidiose sovrapposizioni di armonie: fastidiose perché gre­ vi, perché, appunto, sovrapposizioni, mentre con Schnabel la va­ riazione coloristica permetteva una intersecazione di accordi an­ ziché una sovrapposizione di armonie. Del resto, a favorire la soluzione data al problema del pedale contribuì anche una scelta di prospettive storiche, che per Backhaus significava una scelta di civiltà. Il repertorio di Backhaus non varcava il limite tra Ottocento e Novecento: nel corso della sua carriera egli eseguì anche, come ho detto, musiche del nostro secolo, ma negli ultimi trentanni lasciò in disparte Debussy. Ed è evidente che un interprete, se non com­ prende Debussy tra i grandi che non si debbono mai abbandonare, guarda necessariamente con sospetto certi segni di pedale di Beet­ hoven, nettamente impressionistici, tali da postulare la macchia armonico-timbrica invece della linea. E già ho detto più volte come Backhaus tendesse sempre alla percezione lineare. L’altro aspetto di Beethoven che Backhaus finiva per non ac­ cettare, perché non rientrava nella sua concezione della personalità morale beethoveniana, era il ripiegarsi del sentimento su se stesso. Non che il classicismo di Backhaus significasse, stravinskianamente, negazione del sentimento: sia nei momenti in cui il sentimento è dolorosamente presente (come nel secondo tempo dell’op. 10 n. 3), sia quando erompe in modo persino violento (primo tempo dell’op. 57), Backhaus trovava accenti rivelatori che escludevano ogni falso pudore. Ma il sentimento elegiaco o il sentimento sognante, cioè il sentimento che non provoca reazione e superamento, il sentimento che si usa definire femmineo, Backhaus lo temeva. Talvolta, anzi, spesso egli riusciva a rendere eroico anche ciò che per molti altri interpreti eroico non è: per esempio, basta ascoltare il rubato con cui è condotto il primo tempo dell’op. 26 per accorgersi che Back­ haus sapeva proiettare in una prospettiva generale di virile eroismo un sentimento preromantico, di cui coglieva tuttavia tutte le am­ biguità e, potrei dire, tutte le tentazioni del patetismo. Talvolta, invece, neppure Backhaus riusciva a interpretare in senso positivo quei momenti che, per la sua concezione di Beethoven, erano

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momenti di narcisismo, di debolezza morale; e allora (per esempio, nel secondo tempo dell’op. 10 n. 1) affrettava la velocità e atte­ nuava i contrasti dinamici, preferendo far apparire un po’ manie­ rato e superficiale ciò che, se reso con la solita intensità espressiva, sarebbe stato imbarazzantemente sentimentale. Ma negli ultimi anni di vita Backhaus aveva gettato uno sguardo oltre Tuomo kantiano che viveva in Beethoven. La prima grande sorpresa, per chi conosceva Backhaus da molti anni, fu la nuova esecuzione della Sonata op. 22, pubblicata nel 1969 L La Sonata op. 22 è un pezzo virtuosistico e Backhaus non ne dominava più i tratti ardui con la disinvoltura di un Richter o con la capillare precisione di un Arrau. Questa era la prima impressione, ed in sostanza era esatta. Ma sarebbe stato errato concludere che Back­ haus non ce la facesse più a suonare con il rigore tecnico, artigia­ nalmente scrupoloso, che era stata una sua caratteristica essenziale anche solo dieci anni prima. Era invece evidente che di un certo tipo di precisione e di bellezza e di dominio «pianistico» non gli importava più nulla: suonava come un compositore e la sua esecu­ zione sembrava un’improvvisazione, un’improvvisazione che aveva in sé un certo che di casuale e che provocava oscillazioni del ritmo tali da far tramortire anche il più tollerante dei professori di sol­ feggio. Gli stessi fenomeni si manifestarono in altre Sonate: in modo macroscopico nel secondo tempo dell’op. 14 n. 1, nel finale dell’op. 31 n. 1 (l’enorme tensione espressiva, la fremente vitalità con cui il brano veniva condotto culminavano nella battuta 206, in cui Backhaus, in modo del tutto coerente, trasponeva all’ottava bassa i due re), nella Patetica, carica di una bruciante passionalità. Backhaus non era cambiato tutto d’un colpo; era cambiato len­ tamente dopo il 1950, quando aveva ripreso in mano Chopin. Ma negli ultimi dischi beethoveniani toccava limiti estremi, che ap­ prodavano ad una svolta, ad un salto stilistico, e che mettevano in 1 Backhaus incise tutte le Sonate di Beethoven verso il 1950, in versione monoaurale. L’incisione in versione stereofonica era iniziata nel 1960 e non era ancora terminata, alla morte del pianista, perché mancava l’op. 106. La cassetta attualmente in commercio comprende le incisioni 1960-69 ed un riadatta­ mento stereofonico della incisione monoaurale dell’op. 106. A questa pubbli­ cazione, che mostra l’evoluzione stilistica dell’ultimo Backhaus, e non alla pubblicazione degli anni cinquanta, faccio riferimento per la mia analisi.

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crisi i postulati del classicismo. La conclusione più ovvia sarebbe stata che Backhaus, vecchio e glorioso patriarca del pianoforte, di fronte al quale era giocoforza cadere in ginocchio, non aveva più la testa del tutto a posto. Oppure si sarebbe potuto supporre un ripiegamento verso la giovinezza, verso quel mondo dei d’Albert da cui Backhaus era uscito, distinguendosene subito. Oppure si sa­ rebbe potuto parlare di neoromanticismo. Forse, dopo aver di­ sturbato Moscheles e Czerny e Marx per spiegare il classicismo si poteva scomodare Schindler per spiegare il neoromanticismo, forse il ripiegamento nostalgico nel passato, tipico dei vegliardi, c’era veramente, e forse, in un certo senso, Backhaus era via con la testa. Ma non ho mai provato in modo altrettanto netto la sensazione di un apparire concreto dell’utopia di Busoni — «restaurare la giovi­ nezza» — come quando ho ascoltato le ultime incisioni beethoveniane di Backhaus. E perciò la lezione dell’ultimo Backhaus non è a parer mio lezione, esempio, ma scoperta folgorante e perigliosa dell’abbozzo, del non-finito, del non-formato, del non-sublimato, del Beethoven del Testamento di Heiligenstadt e della Lettera alTimmortale amata\ che è, absit iniuria verbis, un Beethoven molto imbarazzantemente e disagevolmente sentimentale.

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Il Backhaus che ho ascoltato molte volte non era un mostro asso­ lutamente impeccabile, infallibile: era un pianista sempre prepara­ to, sempre padrone di sé, poco preoccupato della presenza del pubblico, che suonava tranquillamente e toccava ogni tanto, ca­ sualmente, il tasto vicino a quello giusto. Solo una volta lo sentii sbagliare assai più del solito. Al Teatro Nuovo di Milano, con una eccezionale affluenza di pubblico, misero in vendita dei posti in palcoscenico, e così io, che ero tra i ritardatari, potei seguire tutto il recital a tre metri di distanza da Backhaus. Il quale attaccò Top. 31 n. 2 di Beethoven con le dita che gli ballavano e fece, nei punti canonici di questa Sonata maledetta, tutti i pasticcetti che pun­ tualmente si riascoltano dai pianisti nervosi. Erano pasticci diversi da quelli del Backhaus di ventanni dopo, del Backhaus degli ultimi dischi: il Backhaus ottantacinquenne sbagliava perché gli importava più di afferrare fantasmi che di sbagliare, il Backhaus sessantacinquenne sbagliava venendo per un istante meno al suo leggendario professionismo, forse perché quel pubblico piegato intorno al pianoforte lo metteva a disagio. Edwin Fischer sbagliava invece quanto Cortot. Ma con una grossa diffe­ renza. Cortot aveva troppe cose da fare per tenere in ordine le dita; Fischer passava il pomeriggio a studiare come uno scolaretto che si fa le sue scale, i suoi esercizi, i suoi metodici ripassi dei passetti pericolosi. Poi, la sera, entrava in uno stato di sovreccitazione ansiosa che non sempre gli permetteva di vedere bene il bivio tra le acque limpide e le acque fangose. E se imboccava la strada delle sabbie mobili eran dolori: ricordo un suo attacco delle ottave doppie, all’inizio dello «sviluppo» nel Concerto in re minore di

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Brahms, in cui sembrava che Brahms fosse l’inventore del cluster; ricordo una sua 106 di Beethoven che era come il fungo di una esplosione atomica. Non so se Backhaus sarebbe mai arrivato, a cent’anni, a pasticciare come Fischer; ma certo è che Fischer, anche nei suoi momenti peggiori, dava l’impressione di chi ritrova sempre quella radice del sentimento che per Backhaus fu l’ultima scoperta. In una raccolta — Divagazioni musicali — di suoi brevi scritti troviamo un appunto che spiega Fischer meglio di ogni discorso: «E ora, passiamo a considerare l’esecuzione che delle opere per pianoforte di Beethoven si fa ai nostri giorni. «Sbaglierò forse, ma ho questa impressione: siamo diventati troppo raffinati, troppo colti. Abbiamo un senso così acuto dei tempi tradizionali, delle minime oscillazioni di concezione! Sap­ piamo esattamente ciò che voleva Beethoven, abbiamo edizioni che portano per ogni pagina di musica di Beethoven tre pagine di spiegazioni; sappiamo esattamente ciò che spetta a ciascun stru­ mento e non chiediamo al piano niente che non sia pianistico, conosciamo il primo Beethoven, il Beethoven della maturità, e il vecchio Beethoven. Distinguiamo le sottili differenze che corrono nella forma e nel colore delle diverse epoche: quando Beethoven sentiva ancora, e dopo che divenne sordo — sappiamo tutto que­ sto, ma i vulcani, che emergendo facevano soffrire Beethoven, i soli che lo illuminavano, le grida che gli spezzavano il cuore — non ci scuotono. E qui stanno le fonti dell’avvenire: dimenticate il piano­ forte, lo stile, l’educazione, la scienza, e vivete Beethoven, sonate l’organo, il violino, fischiate, sonate il timpano, cantate di nuovo sul pianoforte, suscitate nuovamente il mondo intero dal tenebroso regno delle note scritte per portarlo alla luce; eseguite, se vi pare, la Sonata al chiaro di luna come il singhiozzare di un morente, e orchestrate la Marcia funebre dall’op. 26 nel modo più moderno, fate sorgere oggi, come per incanto, dalla Sonata a Waldstein un idillio con la Natura, per farne domani una lotta fra voi e il mondo e il giorno appresso suonate in piena forma, la musica pura, quando vi sarete così agguerriti, da dilettarvi alle forme; c’è tutto qui, allora metterete le ali che porteranno voi e gli altri nel regno della fantasia e potrete contemplare la dimora dove stava lo spirito di Beethoven. Trarrete ancora godimento da questo magnifico pianoforte che possiede oggi tutta la gamma di colore dell’orchestra e domani

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emette suoni che provengono da altre sfere!» (trad, di Evelina Neri). Potrebbe essere un manifesto reazionario, un invito al dilettan­ tismo, al sentimentalismo, a tutto ciò che faceva inalberare Stra­ vinsky e che gli faceva scrivere la Poetica della musica. È invece il monito solenne di chi, immerso nel fiume di una cultura maestosa, invita chi sta sulla riva a scendere nelle acque per sentirsele sulla pelle invece di misurarne da fuori la velocità e la temperatura. Fischer era immerso nella cultura tedesca. Scolaro a Zurigo di Hans Huber, che era stato allievo del conservatorio di Lipsia ed era compositore di ascendenze schumanniane e brahmsiane, scolaro a Berlino di Martin Krause, che era stato allievo del conservatorio di Lipsia e amico di Liszt, aveva cominciato ad insegnare nel conser­ vatorio Stern di Berlino fin dal 1905. Come insegnasse Fischer, allora, non sappiamo. Ma il suo cosmo non poteva che essere incentrato su Brahms, che all’inizio del secolo raggiungeva il mas­ simo del prestigio nel mondo accademico tedesco. Non sappiamo neppure come suonasse: sappiamo che prima della guerra eseguì tra l’altro i due Concerti di d’Albert (il che lo qualifica come pianista «brahmsiano») e che partecipò senza gloria al Concorso Rubinstein del 1910, svoltosi a S. Pietroburgo. Fino alla guerra Fischer non fu una personalità emergente e neppure le calde lodi di Niemann — che lo considerava il pianista «tedesco» per eccellenza — ci dicono nulla sui caratteri specifici della sua arte. Anzi, se leggiamo in negativo il giudizio del Niemann, come avevamo letto in negativo il suo giudizio su Backhaus, possiamo supporre che Backhaus sollevasse opposizioni ed avesse successo perché rove­ sciava in ricerca manieristica la tradizione, diventando così origi­ nale, mentre Fischer era lodatissimo ed oscuro perché rimaneva legato alla tradizione, diventando così ripetitivo rispetto ai maestri affermati. La prima esecuzione di Fischer che ci sia restata è quella della Sonata op. 5 di Brahms, registrata su rullo di pianola verso il 1920 \ Non solo non è un’esecuzione che possa reggere il confronto con 1 Henning Smith Olsen, a cui si deve il primo e più analitico catalogo delle incisioni di Fischer, indica come termini estremi di questa registrazione il 1916 e il 1925.

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quelle di Arrau o di Curzon o di Katchen, ma non è neppure un’esecuzione da grande artista e passerebbe inosservata se non fosse firmata da Fischer. I primi effettivi «controlli» che si possano fare su Fischer riguardano così le incisioni bachiane e mozartiane degli anni 30, che ci presentano un artista già pienamente affer­ mato in Europa (Fischer non suonò negli Stati Uniti) e già stilisti­ camente maturo. La grande fama di Fischer era nata alla fine degli anni 20, soprattutto in connessione con la sua attività di direttoresolista con il Lùbeck Musikverein (1926-28) e con il Munich Bachverein (1928-32). Come pianista di recital Fischer eseguiva più o meno il repertorio tradizionale (Bach, Mozart, Beethoven, Schu­ mann, Brahms, qualcosa di Schubert e di Chopin, con l’aggiunta di poche cose di Medtner e di Scriabin), come direttore-solista af­ frontò in modo sistematico Bach e Mozart. Nel primo dopoguerra, come avevo detto, i Concerti di Mozart erano stati portati all’attenzione di un pubblico vastissimo dalle esecuzioni, che avevano destato scandalo, di Ferruccio Busoni. Lo scandalo era forse giustificato, per certi aspetti, ma la grande novità era che Busoni cacciava Mozart fuori dal recinto delle cose «cultu­ rali» riservate a un pubblico limitato e gli scrollava di dosso la maschera di «precursore di Beethoven». Anzi, scrivendo nel 1920 il breve saggio intitolato «Che cosa ci ha dato Beethoven?» Busoni aveva messo in dubbio la stessa «centralità» di Beethoven nella cultura tedesca. Fischer avanzava da generale vittorioso nella breccia aperta dal guastatore Busoni, e senza scandali, senza paradossi, ripristinando certe condizioni storiche di prassi esecutiva (piccolo complesso orchestrale, direttore-solista) immetteva nel circuito concertistico internazionale di più alto livello, quello in cui operavano i grandi divi della tastiera, il blocco dei concerti di Mozart e di Bach. Il ripristino della prassi esecutiva, s’intende, era parziale: Fischer usava pianoforti moderni e le sue orchestre suonavano strumenti moderni, ed il tipo di suono e di Fischer e delle orchestre era moderno. Fischer cercava sì una sonorità diversa da quella di Brahms, ma sugli strumenti usati da Brahms, e nelle sue esecuzioni si percepiva e si percepisce nettamente l’ideale classico filtrato attraverso la continuità della cultura tedesca. Si potrebbe forse accostare il Busoni 1922 allo Hindemith 1922 e il Fischer 1932 allo

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Hindemith 1932: sconfitto il tradizionalismo accademico, sconfitte le pigre abitudini del pubblico, riaffiorano gli interessi umanistici di cui la civiltà tedesca si era fatta portatrice e Fischer rinsalda quella cucitura Bach-Mozart-Beethoven che Busoni aveva appena imba­ stito. L’incisione completa del Clavicembalo ben temperato, che Fi­ scher effettuò tra il 1933 e il 1936, diventava l’emblema di un umanesimo che non voleva più fare distinzioni tra didattica, cul­ tura, spettacolo, e che intendeva invece dare al pubblico la totalità della musica. Il Clavicembalo ben temperato lo aveva già studiato Beethoven ragazzo, lo avevano conosciuto nella maturità Haydn e Mozart; Schumann, nei Precetti ai giovani studiosi, qn&jq scritto «Fate del Clavicembalo ben temperato di Bach il vostro pane quo­ tidiano», e tutti i maggiori didatti, da Czerny a Busoni, avevano visto nel Clavicembalo ben temperato un testo sacro per il pianista. Ma neppure Busoni aveva eseguito in concerto il Clavicembalo ben temperato 2, che restava opera da studio, opera da gente del me­ stiere. L’incisione di Fischer segnalava e metteva a disposizione del pubblico illetterato quel testo sublime e misterioso. Era l’ultimo o uno degli ultimi passi dell’indirizzo che era stato assunto verso il 1840, quando, come avevo detto, si era cominciato a trasformare in musica per ascoltatori puri la musica scritta per ascoltatori-lettori. Oggi questa esperienza storica comincia a pesare su di noi, ed il problema della passività dell’ascolto si va facendo sempre più grave. Ma ciò non toglie che il lavoro di Fischer non cogliesse negli anni 30 un momento essenziale della cultura musi­ cale di massa. Fischer interprete di Bach procede direttamente da Busoni. Non soltanto Fischer, al contrario di Backhaus o di Schnabel, tenne in repertorio alcune trascrizioni busoniane del­

2 Nel 1888, a Helsinki, nel cui conservatorio era professore, Busoni eseguì alcuni Preludi e fuga del Clavicembalo ben temperato, ma poi non li tenne in repertorio; nel 1916 eseguì a Zurigo sei Preludi (senza le Fughe rispettive). Il Clavicembalo ben temperato venne eseguito in pubblico, anche integralmente, ma non da quei pianisti che potevano modificare il gusto dominante. Ricor­ diamo tuttavia le meritorie esecuzioni di Joseph Rubinstein (molto amico di Wagner) a Berlino nel 1880, di Bianche Selva a Parigi verso il 1910, di Iso Elinson a Berlino nel 1930.

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l’organo, ma nella Fantasia cromatica e fuga, incisa nel 1931, man­ tenne il testo riveduto da Busoni e nell’esecuzione del Clavicem­ balo ben temperato trasse molti suggerimenti dalla revisione busoniana. Busoniana — a quanto si può giudicare dall’esecuzione del Preludio e fuga in do maggiore del primo libro, incisa da Busoni nel 1922 — è in Fischer la scelta di mettere in rilievo il soggetto delle fughe e di delineare con estrema chiarezza l’articolazione delle frasi, busoniani sono certi ispessimenti del basso e il modo di considerare gli abbellimenti. Le esecuzioni bachiane di Fischer non sarebbero però comprensibili senza le teorie di Ernst Kurth, di Fischer coetaneo. Il Kurth — e qui poco importa discutere il valore scientifico delle sue tesi — ritrovava nella polifonia bachiana il senso cinetico della tensione-distensione. Il passaggio da questa teoria alla prassi esecutiva avrebbe potuto portare, con gli stru­ menti antichi, alla differenziazione delle durate in ragione delle funzioni dei suoni indicati dall’autore con durate uguali, perché l’intervento dell’interprete, sul clavicembalo, articola il discorso pronunciandolo secondo una metrica quantitativa. Ma Fischer si serviva del pianoforte, strumento di grandi possibilità dinamiche: la sua metrica è accentuativa, le funzioni vengono messe in evi­ denza mediante la dinamica. I claviccmbalisti, intorno al 1950, riusciranno ad imporre la riadozione del loro strumento e di prassi esecutive che portano ad una specie di raffigurazione sonora del testo. La lettura di Fischer è invece pianistica e in quanto tale, siccome si basa sulle possibilità dinamiche dello strumento, è «espressiva». Quale «espressione», però? Il suo pianoforte non è più il piano­ forte romantico dal suono denso, non si ispira ancora al clavicem­ balo, non si ispira neppur più all’organo: con Fischer il pianoforte moderno riprende mimeticamente i timbri chiari, limpidi, dinami­ camente contenuti del pianoforte classico e procedendo da Busoni e trovando nelle teorie del Kurth la rivelazione di punti di tensione melodica e armonica, fa risuonare il Clavicembalo ben temperato e tutto Bach attraverso Mozart, riportandosi idealmente a quella Vienna 1780 nella quale il barone van Swieten promuoveva le prime esecuzioni bachiane. Il problema che Fischer affrontò come interprete di Mozart fu di chiarire il rapporto Mozart-Beethoven al di fuori del beethovenismo avanti lettera di Mozart, e in questo

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senso il suo capolavoro fu di mantenere Mozart indipendente da Beethoven nei concerti in re minore K 466 e in do minore K 491. La temperie sentimentale che Fischer coglie in questi due Concerti di Mozart è «mozartiana», non «prebeethoveniana», e persino il Concerto K 491 viene collocato in una parabola che conduce al crepuscolare Concerto K 595 di Mozart, non al Concerto n. 3 di Beethoven. Partendo dalla centralità di Mozart Fischer rileggeva poi Beethoven e forse, per quanto mi sembra di ricordare, il Ro­ manticismo: ricordo ad esempio che la sua interpretazione della Sonata op. 58 di Chopin mi fece un’impressione straordinaria, ma solo molto più tardi mi venne in mente che Fischer poteva aver scoperto i segni tangibili di quel culto per Mozart di cui parlano i biografi di Chopin. Purtroppo, la discografia di Fischer è lacunosa: non ci restano tutte le sue esecuzioni beethoveniane, ci resta po­ chissimo di Schumann e di Brahms, niente di Chopin, e sebbene si possa capire ch’egli legava a Mozart tutta la musica pianistica dell’Ottocento non è chiaro come vedesse il corso e la fine del Romanticismo. Se si dovesse giudicare dall’esecuzione del Concerto n. 2 di Brahms, registrata a Berlino nel 1942 con Wilhelm Furtwangler sul podio, si dovrebbe dire che Fischer accostava Brahms ai grandi romanzieri viennesi di fine Ottocento che presentavano e già cele­ bravano la morte della civiltà. Ma questa visione apocalittica era di Fischer o di Furtwangler? Il confronto con un’altra esecuzione, diretta da Fritz Munch, di­ mostra che Fischer aveva seguito Furtwangler, non viceversa. Il confronto tra due esecuzioni del Concerto n. 4 di Beethoven, quella diretta e suonata da Fischer, intimistica e luminosa, e quella diretta da Furtwangler e suonata da Conrad Hansen, monumen­ tale e sacrale, dimostra anche indirettamente che nel Secondo di Brahms Furtwangler fu il maggior responsabile di una concezione interpretativa da tragedia cosmica 3. Se dovessi citare il più grande 3 Anche il paragone tra due esecuzioni del Concerto n. 5 di Beethoven con Fischer al pianoforte, una diretta da Bòhm ed una diretta da Furtwangler, dimostra la duttilità di Fischer nell’adattarsi a concezioni interpretative diverse. Per parlare di Fischer interprete è dunque meglio prendere in considerazione soprattutto le composizioni per pianoforte solo o i lavori per pianoforte e orchestra in cui Fischer era direttore-solista.

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capolavoro interpretativo di Fischer io non indicherei dunque il Secondo di Brahms con Furtwangler, che pure è un pezzo da antologia, ma il Rondò in re maggiore K 382 per pianoforte e orchestra di Mozart. La piccola, umoristica e tenera pagina che Mozart offrì ai viennesi, per ingraziarseli, poco dopo aver preso dimora nella capitale dell’impero, diventa la chiave che a Fischer fece forse capire Mozart, e che a noi fa capire Fischer. La centralità di Mozart è anche la riscoperta di un mito profondo, che non è quello prometeico e rivoluzionario e non è neppur quello illumi­ nistico e riformistico. Se non temessi di apparir prosaico direi che Fischer, considerato per eccellenza tedesco dal Niemann, si rivela alla fine per svizzero, per discendente di Rousseau. Oggi, alla luce delle nostre esperienze con i clavicembali e con i pianoforti antichi, la prima impressione che abbiamo riascoltando Fischer è che egli, pur collocando Mozart al centro dei suoi interessi, in concreto «romanticizzi» e Bach e Mozart e Beethoven. Certo, scriversi da sé le Cadenze invece di adottare nei concerti le Cadenze originali di Mozart e di Beethoven è costume romantico. Certo, modificare il ritmo nella terza battuta della Sonata op. 28 di Beethoven, per render più espressiva la dissonanza, è costume romantico. Certo, nella sonorità di Fischer, specie negli ultimi anni, si respira un sottile profumo straussiano, più ancora che brahmsiano, e non si può non pensare per analogia al «mozartismo» di Strauss compo­ sitore ed interprete. Per questi aspetti della sua personalità e del suo stile, oggi più facili da cogliersi che non cinquant’anni or sono, Fischer pare romantico. Pare: non è. La genuinità incantevole dei sentimenti, insieme con la serenità e con la semplicità fanciullesca che molti notarono in lui, in Fischer uomo, erano forse un dato del carattere; nel Fischer artista erano il segno di una scoperta cultu­ rale, e quindi, in senso lato, di una scoperta decadentistica della concezione settecentesca della natura innocente. Al di sotto della tensione rivoluzionaria, della spinta prima politica e poi profetica che percorre il classicismo viennese da Mozart a Beethoven, Fischer ritrova il mito patriarcale della vita come dono, lieto e felice anche nel dolore: riconquistata la centralità di Mozart, siamo a un passo da Haydn. Il passo che Fischer non compì sebbene lo avesse preparato, e che la nostra cultura non ha del resto ancora compiuto, per lo meno nell’ambito della musica per tastiera, dovrebbe con-

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durci alla scoperta del più vecchio maestro della classicità, del buon papà Haydn tuttora sconosciuto e misterioso.

L’«uomo che inventò Beethoven», come lo definisce il celebre critico americano H.C. Schonberg, era un ebreo austriaco, nato il 17 aprile 1882 nel villaggio di Lipnik, vicino a Bielitz-Biala. Il trattato di pace del 1919 assegnò Bielitz-Biala alla Polonia, ma la cittadina era tedesca di lingua, di tradizioni, di religione (preva­ lenza di protestanti); culturalmente, data la sua appartenenza al­ l’impero austroungarico, Bielitz-Biala gravitava verso Vienna. Non appena si manifestarono nel piccolo Artur sorprendenti doti musicali la famiglia si trasferì a Vienna, e il bambino fu affidato a Hans Schmitt. Era questi un serio e severissimo professore del conservatorio, autore di un importante trattato sull’uso del pedale e di una nutritissima serie di studi. Un uomo un po’ arido, se vogliamo, ma un sicuro forgiatore di pianisti. Con lui Schnabel studiò nel 1889 e nel 1890, ricevendo quelle che un tempo si chiamavano orgogliosamente le solide basi tecniche. Nel 1891 fu notato dall’impresario Albert Gutman, che gli fece eseguire il Concerto in re minore di Mozart in un privato trattenimento e convinse quindi tre ricche famiglie a passare a papà Schnabel, che in fatto di finanze si barcamenava alla meglio, una pensione per gli studi del figlio. Né Schnabel né i suoi genitori seppero per molti anni chi fossero i loro mecenati, né questi si interessarono un gran che ai progressi del bambino, il quale aveva nel frattempo trovato un maestro più adatto a lui nel polacco Theodor Leschetitzki, già celebre in passato, ma celeberrimo dopo che, nel 1887, aveva licenziato dalla sua scuola Paderewski. Schnabel fu sentito da Leschetitzki nel 1891 ed accettato come allievo. Tuttavia il Maestro era un uomo troppo importante e indaffarato per poter dare regolarmente lezione ad un ragazzetto di nove anni, e siccome la sua scuola era una specie di rinascimentale bottega d’arte, Artur fu affidato ad Annetta Essipova, allieva, seconda moglie di Leschetitzki e pianista eccellente. La Essipova seguiva un suo metodo di insegnamento, che comprendeva anche esecuzioni a mano immobile, con una moneta d’argento, un gul­ den, sul dorso della mano: se il gulden non cadeva durante l’ese-

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cuzione, l’allievo lo intascava. Schnabel, di gulden ne intascò pa­ recchi. Purtroppo, nel 1892 la Essipova divorziò da Leschetitzki e tornò alla natia S. Pietroburgo, dove avrebbe concluso la sua carriera didattica lottando per imporre il suo metodo ad un allievo riottoso che si chiamava Sergej Prokofiev. Schnabel fu preso in consegna da un’altra assistente di Leschetitzki, la pedantissima Malwine Brée, con la quale non andò molto d’accordo. E final­ mente, nel 1893, arrivò sotto le ali del Maestro. Intanto, dopo un vano tentativo di studiare teoria con Bruckner (il quale, allarmatissimo, aveva emesso un grugnito interpretabile come noninsegnoaibambini), Schnabel prendeva lezioni da Euse­ bius Mandyczewski, gran teorico e filologo, archivista della Ge­ sellschaft der Musikfreunde, curatore Adopera omnia di Schu­ bert, amico intimo e amanuense di Brahms. Schnabel divenne così compagno delle lunghe passeggiate domenicali nei dintorni di Vienna, per le quali Brahms aveva quasi un culto, ed ascoltò una volta Brahms al pianoforte, nel suo Quartetto op. 25, ricordando poi sempre «la vitalità creativa e la stupenda franchezza con cui suonava». Non insisto sulla fanciullezza di Schnabel per amor dell’aned­ doto, ma per far capire in quale ambiente di cultura egli venisse formandosi; e ciò mi permetterà poi di spiegare le sue caratteristi­ che di interprete. La Vienna degli anni 90 era la Vienna di Brahms, di Bruckner, di Hugo Wolf, del critico Hanslik, del direttore d’orchestra Hans Richter, di Leschetitzki; giovani musicisti, come Schonberg, giovani scrittori, come Hugo von Hofmannsthal, giovani pittori, come Klimt, vi stavano preparando un avvenire che non avrebbe fatto rimpiangere il passato; Sigmund Freud vi pubblicava gli Studien ùber Hysterie. E da un ambiente così pieno dei frutti di una civiltà matura, un ingegno vivo, pronto, precoce come quello di Schnabel non poteva che ricevere un’impronta indelebile. Leschetitzki, oltre che un grande maestro, era anche un abilissi­ mo valorizzatore dei giovani talenti affidati alle sue cure. Per far esordire Schnabel scelse un concerto della liederista Camilla Landy, molto nota e ammirata dal pubblico intellettuale di Vienna. Nel gennaio del 1897 Schnabel prese quindi parte al concerto della Landy, in presenza di tre principesse reali e di alcune celebrità esotiche, tra le quali spiccava Mark Twain, che teneva corte al-

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1’Hotel Metropole e che avrebbe poi dato una figlia in moglie a Ossip Gabrilovic, compagno di studi di Schnabel alla scuola di Leschetitzki. Esito sensazionale. E il 12 febbraio, concerto tutto di Schnabel nella Bosendorfersaale, con musiche di Bach, Beethoven, Schumann, Ciaikovsky, Chopin, Rubinstein, Moszkowsky, Le­ schetitzki e Schiìtt. Esito trionfale, e brillanti prospettive di car­ riera. Intanto, Vienna aveva perduto Bruckner, morto TU ottobre 1896, e perdeva Brahms, morto il 3 aprile 1897, ma acquistava Mahler, che in maggio arrivava come direttore dell’orchestra e pochi mesi più tardi diventava direttore artistico dell’Opera di corte. Schnabel assistette solo agli inizi della rivoluzionaria gestione artistica di Mahler perché nel 1898 si stabilì a Berlino, dove vedeva maggiori possibilità di aprirsi una strada. Il trasferimento a Berlino dipese da circostanze casuali, perché a Berlino Schnabel poteva contare sull’appoggio di una famiglia amica, socialmente potente. Ma l’abbandono di Vienna, alla luce della successiva lezione di Schnabel, assume un carattere simbolico: Schnabel lasciava la Vienna presente e cominciava ad indagare la Vienna eterna. E, sia detto per inciso, neppure al culmine della carriera Schnabel avreb­ be suonato volentieri a Vienna, né vi sarebbe stato apprezzato come altrove. Gli anni che vanno dal 1898 fino all’inizio della guerra furono per lui anni di lavoro intenso, sia da solo, sia in duo con la cantante Therese Behr, da lui sposata nel 1905, sia con il violinista Cari Flesch, sia in trio con Alfred Wittenberg e Anton Hekking o con Carl Flesch e Jean Gérardy, sia in quintetto con il Quartetto Boemo. I concerti ebbero luogo a Berlino, in Germania e in Au­ stria, e molto raramente in Inghilterra, Italia, Russia, Belgio. Schnabel si fece notare soprattutto quando eseguì i Concerti di Brahms sotto la direzione di Arthur Nikisch e il Quinto di Beet­ hoven sotto la direzione di Richard Strauss. Tuttavia, la sua noto­ rietà non andava oltre i confini del mondo germanico, ed anche qui egli era considerato un pianista di alta levatura professionale e artistica, ma non un concertista di successo. La grande carriera internazionale di Schnabel ebbe inizio nel dopoguerra, e sotto il segno di Beethoven. I programmi intera­ mente beethoveniani che egli sostenne in Germania e nei paesi

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scandinavi nel 1919-20 furono l’inizio di un periodo cruciale per la sua carriera. I consensi ottenuti lo spinsero a studiare altre compo­ sizioni di Beethoven e poi ad affrontare in toto il problema del­ l’interpretazione beethoveniana. Il risultato di tutto ciò fu l’esecu­ zione dell’intero ciclo delle trentadue Sonate di Beethoven (a Ber­ lino, nel 1927, in sette serate) e la pubblicazione della revisione delle Sonate, apparsa a Berlino tra il 1924 e il 1927. Nel 1928, cadendo il centenario della morte di Schubert, Schnabel e la moglie presentarono a Berlino sei serate di musiche schubertiane per pianoforte e per pianoforte e canto. Val la pena di citare la com­ posizione dei sei programmi, veramente esemplari:

1. Sonata op. 78, 5 Lieder, Sonata op. 143, 5 Lieder. 2. Sonata in do minore opera postuma, Die schòne Mùllerin. 3. Sonata op. 120, 9 Lieder, Fantasia op. 15. 4. Sonata in si bemolle maggiore opera postuma, Die Winterreise. 5. Sonata op. 42, 9 Lieder, Sonata op. 53. 6. Momenti musicali, Schwanengesang, Sonata in la maggiore opera postuma. I programmi schubertiani non ottennero un successo pari a quello dei programmi beethoveniani e, con Schubert, Schnabel dovette dimostrare tutta la sua testardaggine e tutta la sua sicurezza di giudizio (che qualcuno scambiò per dogmatismo). Non così con Beethoven. Gli interpreti beethoveniani per eccellenza, prima della guerra, erano stati d’Albert, Lamond, Risler. Il pubblico stava cercando i nuovi leaders dell’interpretazione beethoveniana: non adottò Ernò Dohnànyi, che nel 1920 eseguì a Budapest non solo le Sonate, ma tutte le opere per pianoforte di Beethoven, e non adottò Iso Elinson, che a vent’anni, nel 1927, eseguì le trentadue Sonate a Berlino. I nuovi interpreti beethoveniani nei quali il pubblico si identificò furono Schnabel, Fischer, Backhaus. A questo punto non vai più la pena di seguire passo a passo la carriera di Schnabel: basti ricordare che egli suonò in tutti i paesi d’Europa, ma che tornò più spesso in Inghilterra, dove incise le trentadue Sonate e una larga scelta delle altre opere pianistiche di Beethoven; i suoi giri di concerti negli Stati Uniti, iniziati nel 1921, ottennero successi clamorosi a partire dal 1930. Nel 1933 Schnabel, ebreo, dovette lasciare la Germania (all’Ac-

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cademia di Berlino aveva una cattedra) e si stabilì in Inghilterra, trascorrendo i mesi estivi a Tremezzo, dove riprese privatamente l’insegnamento. Dal 1939 visse a New York e suonò soprattutto negli Stati Uniti. Riprese la carriera anche in Europa dopo la guerra, e morì ad Axenstein, vicino a Lucerna, il 15 agosto 1951. Negli ultimi trentanni della sua esistenza aveva suonato soprat­ tutto da solo, ma non aveva trascurato occasione di partecipare ad esecuzioni di musica da camera (con la moglie, con il figlio Karl Ulrich e con il condiscepolo Bruno Eisner, con Flesch, Hubermann, Szigeti, Hindemith, Primrose, Casals, Feuermann, Piatigorsky, Fournier, con il Quartetto Pro Arte, con il Quartetto di Sidney, con FAmerican String Quartet), dimostrando ancora nei fatti la sua concezione sulla funzione di propagatore della cultura, e non di divo, che l’interprete deve saper assumere. Nei primissimi anni della sua carriera di solista Schnabel suonò il repertorio tradizionale, con esclusione delle pagine più spiccatamente virtuosistiche. L’esecuzione di brani come quelli di Moszkowsky, Leschetitzki, Schùtt, che ho citato a proposito del suo primo concerto, o come quelle di Paderewski (Concerto), di Korngold (Sonata) e di altri contemporanei fu sicuramente dovuta a necessità di carriera, non a scelta personale. E infatti, non appena fu abbastanza affermato da non dover più accondiscendere alle richieste degli impresari o della parte meno evoluta del pubblico, Schnabel si limitò ad eseguire le opere degli autori da lui ritenuti i maggiori: Bach, Mozart, Beethoven, Weber, Schubert, Schumann, Chopin (solo le Sonate op. 35 e op. 58 ed i Preludi op. 28), Liszt (solo il Concerto n. 1, la Sonata ed una scelta delle Années de pèlerinage), Brahms. Dopo la guerra Liszt non apparve più nei programmi di Schnabel, Chopin e Weber rarissimamente. Di Brahms eseguì regolarmente solo i due Concerti, e di Bach il Concerto italiano4. Il nome di Schumann comparve più raramente dopo che, nel 1934, Schnabel ebbe tenuto a Londra un ciclo di sette recitals dedicati a Mozart, Schubert e Schumann. Val la pena di citare i sette programmi: 4 «Esito a suonare Bach in pubblico perché le sale sono troppo grandi per molta della sua più intima musica per pianoforte, per esempio l’incomparabile Clavicembalo ben temperato».

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1. Schubert: Sonata op. 78. Mozart: Sonata K 310, Sonata K 570. Schumann: Kreisleriana. 2. Schubert: Sonata in do minore opera postuma. Schumann; Scene infantili. Mozart: Sonata K 331. Schubert: Improvvisi op. 142. 3. Schubert: Improvvisi op. 90. Mozart: Sonata K 576. Schubert: Sonata op. 147. Schumann: Davidsbùndlert'ànze. 4. Schumann: Fantasia op. 17. Mozart: Sonata K 332. Schumann: Sonata op. 22. Schubert: Sonata in la maggiore opera postuma. 5. Schubert: Sonata op. 143. Mozart: Sonata K 330. Schubert: Sonata op. 120. Mozart: Fantasia K 475. Schumann: Pezzi fantastici op. 12. 6. Schubert: Momenti musicali, Sonata in si bemolle maggiore opera postuma. Mozart: Sonata K 309. Schumann: Carnaval. 7. Schubert: Sonata op. 42. Schumann: Papillons. Mozart: Sonata K 333. Schubert: Sonata op. 53. Dopo questo exploit, affiancato da nuove esecuzioni del ciclo delle Sonate di Beethoven, negli ultimi quindici anni circa della sua carriera Schnabel continuò a suonare con sempre maggiore con­ vinzione ed entusiasmo solo Schubert, Beethoven, Mozart, la triade viennese che con lui sostituiva la vecchia triade Haydn-MozartBeethoven. Ecco uno dei suoi più tipici programmi: Schubert: Sonata in si bemolle maggiore opera postuma. Mozart: Sonata K 332. Beethoven: Variazioni op. 120. Ciò che ho detto rivela un preciso indirizzo di gusto e di cultura, tutto volto verso l’arte tedesca in generale e viennese in particolare. Schnabel rimase sostanzialmente estraneo all’arte pianistica fran­ cese e all’arte pianistica slava: per indicare due punti emblematici, che rappresentarono due problemi cruciali per altri pianisti della sua generazione, egli non affrontò né i Quadri di una esposizione di Mussorgski né Debussy. Ciò non è affatto sorprendente, se si considera l’impegno culturale, non mondano, che caratterizza tutta la vita di Schnabel, perché è evidente che chi intende affrontare in profondità il problema dell’interpretazione non può pretendere di saltellare tra culture radicalmente diverse. Le testimonianze degli allievi, che seguirono i corsi di Schnabel a Berlino e a Tremezzo, concordano nell’affermare che il Maestro conosceva bene tutta la letteratura pianistica, compresa quella contemporanea. Schnabel era quindi documentato, ma non si azzardava che a proporre interpretazioni dei testi sui quali aveva da dire qualcosa di suo. È invece sorprendente il fatto che Schnabel non affrontasse,

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dopo Brahms, Schonberg, perché Schnabel fu anche compositore e come tale risentì profondamente l’influsso dell’arte schònberghiana. Per quanto ci si può immaginare sembrerebbe che almeno i Klavierstùcke op. Ile op. 23 si sarebbero adattati perfettamente alle caratteristiche di pianista, oltre che di interprete, di Schnabel. Invece, Schnabel prese parte solo ad una memorabile esecuzione pubblica del Pierrot lunaire (Berlino, 1923) e, a quanto mi risulta, non eseguì mai alcuna composizione di Schonberg per pianoforte solo. All’infuori di questa particolarità, l’evoluzione di Schnabel in­ terprete è tutta spiegabile alla luce della sua formazione culturale. Si spiega come nella prima parte della sua carriera egli concentrasse la sua attenzione su Brahms. Brahms era il maggior esponente della cultura viennese di fine secolo, e Schnabel, che a undici anni aveva eseguito nella classe di Leschetitzki l’op. 119 appena pubblicata, non poteva che sentirsi stimolato ad acquisire prima di tutti Brahms, a lui così vicino e così familiare. Si spiega come Schnabel si distaccasse da Brahms, cioè da una cultura sentita come contem­ poranea e non problematica, per volgersi verso Schubert, Beetho­ ven, Mozart, padri della cultura viennese. Schubert tenne occupato Schnabel per tutta la vita. Fu Leschetitzki a richiamare sulle Sonate di Schubert l’attenzione di Schnabel, allora fanciullo; e Schnabel fece ascoltare, nella sua carriera, nove Sonate (le sei con numero d’opera e le tre cosiddette «opera postuma»), la Fantasia op. 15, i Momenti musicali^ gli Improvvisi op. 90 e op. 142, i Drei Kla­ vierstùcke ed alcuni piccoli pezzi, cioè il più vasto repertorio schubertiano che un pianista di fama mondiale abbia mai eseguito in pubblico. Beethoven, come già ho detto, fu affrontato a fondo dopo il 1918. Dal 1927, concludendo il suo viaggio a ritroso alla scoperta della cultura viennese, Schnabel cominciò ad eseguire sempre più di frequente Mozart, mettendo insieme un repertorio mozartiano comprendente almeno dieci Sonate, alcuni piccoli pezzi, sedici Concerti: il più vasto repertorio mozartiano prima di quello di Guida. Avevo iniziato ricordando la definizione che lo Schonberg dà di Schnabel: «l’uomo che inventò Beethoven». In questa frase, al di là della piacevolezza giornalistica, c’è indubbiamente un qualcosa di vero. Schnabel «inventò» una sonorità, un rapporto tra diversi

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piani di sonorità, una concezione del grado di tensione reciproca degli accordi, una misura nel realizzare certi segni caratteristici {forte-piano, sforzato-piano), un modo di abbreviare o prolungare i silenzi o di introdurre brevissimi respiri, insomma, uno stile di esecuzione che fu preso a modello da moltissimi pianisti e che non fu privo di rilevanti influenze su alcuni dei maggiori interpreti del nostro secolo, da Gieseking a Richter. Schnabel, tra tutti gli inter­ preti beethoveniani (ad eccezione di Arrau), è quello più scrupo­ loso nel rispetto del testo, ed è anche l’unico che rispetti tutte le indicazioni di pedale. Sotto questo aspetto la sua incisione è una prova definitiva della possibilità di realizzare alla lettera, anche sui pianoforti moderni, certi effetti di pedale voluti da Beethoven. Clifford Curzon ha individuato esattamente il valore della soluzio­ ne di Schnabel: «Egli pedalizzava con coraggio, e tenne sempre per buoni i lunghi pedali, molto discussi, che Beethoven segnò nella sua musica. Schnabel sosteneva che non i pedali dovevano essere cambiati sul moderno pianoforte, ma la qualità del suono che noi vi produciamo» 5. E quanto dice il Curzon può essere riscontrato in modo lam­ pante nel Rondò della Sonata op. 53 (in tutto il tema principale e all’inizio del Prestissimo), dove si trovano le più problematiche indicazioni di pedale di Beethoven, sistematicamente modificate da quasi tutti gli interpreti: Schnabel riesce invece a rispettare i lun­ ghissimi pedali rendendo impalpabile e vago il suono, che in lui, di solito, è nettissimo e scintillante 6. 5 Scrive Schnabel: «In tutte le sue composizioni per pianoforte Beethoven mise solo trenta o poco più segni di pedale, in migliaia di pagine. I suoi segni per il pedale compaiono solo in luoghi in cui egli sapeva che l’esecutore “normale” l’avrebbe considerato sbagliato. Ora, io dico che a Beethoven non interessava il gioco infantile di scioccare o blandire i filistei. Semplicemente, egli creava, anche nella pedalizzazione, l’inatteso, il fantastico, l’avventuroso. L’effetto è spesso ciò che ora si definisce sonorità impressionistica. [...] I segni di Beethoven devono essere rispettati in ogni circostanza, in ogni locale o disposizione o ambiente perché sono parte inseparabile della musica a tal punto che, se non si osservano i segni di pedale, la musica cambia». 6 II suono di Schnabel, che è molto caratteristico, acquista a volte un incredibile aumento dinamico dopo l’emissione: si ascolti l’inizio delle Varia­ zioni op. 35 di Beethoven.

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Schnabel, che non si arresta di fronte ai pedali dell’op. 53, al contrario di Backhaus e di Fischer, è anche l’unico che non si arresti di fronte alle indicazioni metronomiche originali della Sonata op. 106. Beethoven indicò i tempi di metronomo solo nell’op. 106,... creando un caos inestricabile perché le sue velocità, come disse ad esempio Hans von Bùlow, nel primo tempo sembrano «in disac­ cordo con la poderosa energia del tema». Tutti i commentatori, fino a Schnabel, consigliarono di ridurre le velocità indicate da Beethoven, e tutti gli interpreti di cui ci restano documenti in dischi o in rulli seguirono il consiglio: ad esempio, Backhaus esegue a 80 il primo tempo, indicato a 138 da Beethoven, Serkin a 96, Ashkenazy a 104 e così via. È probabile che Busoni eseguisse la Sonata secondo i tempi di Beethoven; per lo meno, recensendo nel 1910 lo Studienbuch di Gottfried Galston egli non approvò il tempo più lento consigliato dal Galston per l’Adagio, dicendo: «... il metronomo segnato da lui [Beethoven] sta nel rapporto più esatto con l’incon­ sueta estensione del movimento, il cui disegno, altrimenti, non si potrebbe afferrare. Io stesso mi sono persuaso di questa verità attraverso esperimenti mal riusciti». Schnabel, «dogmatico» come sempre, e pur non essendo in possesso di una tecnica che gli permettesse qualsiasi ghiribizzo, fa uno sforzo eroico e mantiene i tempi velocissimi di Beethoven. Il problema dei tempi metronomici di Beethoven è prima di tutto un problema meccanico, che diventa insolubile se la sonorità adottata è quella praticabile nell’op. 31 n. 2 o nell’Appassionata. Schnabel, pur essendo in grado di eseguire in modo brillantissimo le virtuosistiche Variazioni op. 35, nell’op. 106 incontra difficoltà meccaniche per lui molto ardue, aggravate dal disco a 78 giri che non consente di riparare agli errori. Tuttavia, affrontando la Sonata in un modo che può parer folle e suicida, egli dimostra che la velocità altissima è un aspetto della sonorità: a quella velocità la dinamica si riduce, il timbro si schiarisce, e il significato poetico dell’opera ne esce trasformato. Non voglio risuscitare il Lenz e la teoria del «Beethoven e i suoi tre stili», ma credo che il problema dell’evoluzione creativa di Beethoven, sommariamente indicata dal Lenz in tre tappe, possa essere affrontato non soltanto dai musicologi. Per gli interpreti può esserci una differenza tra il Beethoven del 1799, che scrive la

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Patetica e usa i pianoforti Streicher o Walter, il Beethoven del 1807, che scrive l’Appassionata ed usa il pianoforte Érard, il Beet­ hoven del 1819, che scrive la Hammerklavier ed usa il Broadwood, e può esserci una differenza tra il Beethoven che sente perfetta­ mente e il Beethoven che sente imperfettamente. Questo problema è fuori dagli interessi di Schnabel. I pianisti della generazione precedente a quella di Schnabel avevano probabilmente affrontato, come ho detto, il problema di differenziare la sonorità di Beetho­ ven da quella dei romantici. Gli interpreti tedeschi della «genera­ zione dell'ottanta» basano la loro sonorità sui classici, non sui romantici, ma non affrontano il problema di una evoluzione della sonorità beethoveniana. Schnabel, nell’op. 106, trova una sonorità che si rinforza dopo l’attacco e che vibra in modo intermittente, quasi come quella di un vibrafono: una sonorità che illumina tutto il discorso in modo indiretto, una sonorità che non consente di certo di rendere la «poderosa energia del tema» perché la «pode­ rosa energia», forse, non è più nelle intenzioni di Beethoven. O forse non è mai stata. La sonorità dell’op. 106 non è in Schnabel diversa da quella delle altre Sonate, come non lo è in Backhaus, ma Schnabel rispetta nella 106 i tempi metronomici di Beethoven, mentre Backhaus li riduce. Ciò avviene, a parer mio, perché Schnabel pone al cuore della poetica di Beethoven l’op. 106 e in funzione di essa interpreta anche l’op. 2 n. 1, mentre la visione di Backhaus si fonda e si irradia dall’op. 31 n. 2 (e quella di Fischer, potrei dire, si basa sull’op. 10 n. 3). Per questa ragione né Backhaus né Fischer riscoprono lo Schubert sonatista e si limitano allo Schu­ bert della Fantasia op. 15, degli Improvvisi e dei Momenti musicali, inserendolo nell’area del romanticismo germanico. Schnabel con­ sidera invece chiusa la civiltà viennese classica, chiusa con l’ultimo Beethoven e con l’ultimo Schubert, con il Beethoven e lo Schubert vissuti nella Restaurazione e profeti di un’eterna, trasfigurata ra­ zionalità. Non sarei in verità alieno dal supporre un transfert in­ conscio dall’attualità alla storia, dalla Vienna fin de siede alla Vienna appena uscita dal Congresso: si potrebbe infatti dire, del Beethoven delineato da Schnabel, quello che Carl E. Schorske dice di tre personaggi — Schònerer, Lueger, Herzl — che dominarono la vita politica di Vienna negli anni della prima formazione spiri­ tuale di Schnabel: «Nella loro ideologia unirono il futuro al passato,

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il ricordo alla speranza, e in tal modo riuscirono ad aggirare il presente». Beethoven, con Schnabel, è visione, racconto che viene dalla profondità dei tempi e non raccoglie dal presente stimoli emozio­ nali. Non c’è altro interprete che quanto Schnabel sia in grado di rendere con tale stupefatta sospensione del tempo reale una co­ succia come la Sonata op. 49 n. 2, e solo Richter ha potuto dopo Schnabel ritrovare il senso di commento finale da parabola evan­ gelica nella coda Andante favori', non c’è insomma altro inter­ prete che riesca a proiettare su tutto Beethoven l’immagine del Beethoven ultimo e supremo. D titolo di maggior merito che si debba oggi riconoscere all’«uomo che inventò Beethoven» è però di aver tratto dall’oblio le opere di Schubert, ponendo sullo stesso piano Schubert e Beetho­ ven. Che la grandezza di Schubert sia paragonabile alla grandezza di Beethoven è tesi che sarebbe apparsa assolutamente fantascien­ tifica al pubblico del 1899, che appariva stravagante al pubblico del 1930, che appariva discutibile al pubblico del 1960 e che comincia ad apparir pacifica appena oggi. Per Schnabel, era una tesi valida già nel 1899: nel 1899, al suo secondo concerto a Berlino, includeva in un programma comprendente Bach, Brahms (op. 119) e Joa­ chim Raff, la Sonata op. 120 di Schubert, e al suo esordio a Londra, nel 1904, eseguiva Beethoven, Schumann, Brahms, e la Sonata in la maggiore opera postuma di Schubert. Ci voleva del coraggio per puntare sulle Sonate di Schubert, in tempi in cui di Schubert si eseguivano solo, di norma, la Fantasia op. 15 e gli Improvvisi; e Schnabel non era un concertista affermato, ma un giovanotto di belle speranze che si stava giocando la carriera e la sopravvivenza nella giungla del concertismo internazionale! Con lo stesso rigore filologico, con lo stesso rispetto, con la stessa umiltà Schnabel cercò di ritrovare il mondo poetico e di Beethoven e di Schubert, e di entrambi arrivò a dare una rilettura critica originale, momento fondamentale della ricerca che su di essi va ancora facendo la nostra civiltà. Schnabel agisce all’interno della cultura viennese, e non ne mette in discussione né la somma grandezza né la perenne validità. Proprio perché è radicato in una cultura che ama, egli non si preoccupa che di conoscerla a fondo e di riproporne i vari aspetti in ciò che hanno di comune, di più essenziale, di più puro: una visione

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nella quale domina l’autocoscienza e che si riporta, mi sembra, a colui che nella sua lunga vita lega ed unifica la cultura classica, a Goethe. Di qui, in Schnabel, il modo così peculiare di interpretare Schu­ bert, che egli vede sempre fermo nella classica luce della interiore ricerca conoscitiva, anche quando pare inclinare verso l’indiffe­ rentismo morale del Biedermeier o verso il pessimismo cosmico dei romantici. Schubert e Beethoven sono quindi, per Schnabel, due momenti complementari di una stessa realtà spirituale che ha la sua origine in Mozart. E non è detto che si debba accettare la sua tesi: anzi, si può propendere per la tesi opposta, che Schubert e Beet­ hoven rappresentino momenti antitetici, che Schubert sia la nega­ zione di Beethoven. Ma la scoperta che veramente torna a gloria di Schnabel è di aver visto come tra Beethoven e Schubert esista un legame, forse difficile da definire, forse interpretabile in modi contrastanti, ma reale ed essenziale, e di averlo visto quando Beet­ hoven era già considerato il maggior musicista mai esistito e Schu­ bert niente più che un grazioso e malinconico melodista.

SUONARSI

Si potrebbe impostare un dibattito sull’interpretazione partendo da due posizioni insieme assolutamente antitetiche e assolutamente identiche espresse da due grandi compositori russi, Scriabin e Stravinsky. Stravinsky vide con gioia la diffusione del pianoforte meccanico e poi del disco, come dice nelle Cronache della mia vita-. «Onde evitare, nell’avvenire, una deformazione delle mie opere da parte dei loro interpreti, avevo sempre cercato di trovar modo di porre dei limiti ad una libertà eccessiva, vizio diffuso soprattutto ai nostri giorni e che impedisce al pubblico di farsi un’idea precisa delle intenzioni dell’autore. Tale possibilità mi veniva offerta dai rulli del pianoforte meccanico. Poco più tardi, i dischi del gram­ mofono me l’avrebbero rinnovata». Per Stravinsky, quindi, la realtà vera della musica sta nell’esecuzione, non nella notazione, perché la notazione, per quanto accorto sia il compositore nel fissare tutti i particolari, è per sua natura imprecisa. Non so che cosa pensasse Scriabin del pianoforte meccanico e del disco, ma le sue esecuzioni registrate per il pianoforte meccanico testimoniano tali diversità rispetto alla pagina scritta da indurre qualche studioso a «riscrivere» la musica di Scriabin secondo l’e­ secuzione di Scriabin. Se Scriabin fosse Stravinsky ci sarebbe dun­ que da benedire il pianoforte meccanico per averci conservato almeno una scintilla del suo vero modo di concepire le durate. Ma siccome Scriabin è Scriabin bisogna tener conto di una storia rac­ contata dal pianista russo Julius Isserlis, che avendo ascoltato un Preludio dell’op. 11 eseguito da Scriabin si macerò nello studio fino a riprodurre esattamente l’esecuzione dell’autore. Poi fece sentire il brano al Maestro, il quale andò fuor dei gangheri e lo richiamò con

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indignazione al rispetto della grafia: «Lei suona a metà tempo». Isserlis si fermò e guardò Scriabin con stupore. «Quella è la mia interpretazione della musica», disse Scriabin, «ma la musica è la mia». Per Scriabin, direi, la realtà vera della musica stava quindi nella notazione, che rispecchia un ordine metafisico, non nell’ese­ cuzione, che rispecchia un momento contingente. Che cosa dobbiamo dunque pensare dei rulli e dei dischi incisi da compositori che eseguivano al pianoforte le loro musiche? Cre­ do che ciascun artista vada valutato per il mestiere che fa; e se un compositore si mette a fare l’esecutore e l’interprete, sia pur di se stesso, va valutato come esecutore ed interprete. Saint-Saèns, ad esempio, registrò su rullo ed incise in disco alcuni dei suoi pezzi per pianoforte tra i più banali, tra i più cinicamente calcolati perché piacessero al pubblico amante di frivolezze. Malissimo, dunque: quattro al grande Saint-Saèns perché scriveva delle sciocchezze! Ma il pianista Saint-Saèns suona con una precisione ed una tenuta ritmica pressoché inarrivabili, e dunque merita il massimo dei voti e la lode. Ravel suona invece musiche sue tra le più belle, ma con dita così poco audaci da farci quasi rovesciare il punteggio attribuito a Saint-Saèns: il pianista Ravel meriterebbe un quattro, ma siccome si impegna molto ed è coscienzioso gli daremo il cinque e cinquanta arrotondato a sei. Un punto di equilibrio possiamo trovarlo in Debussy. Purtrop­ po, abbiamo soltanto alcuni rulli, non dischi (di dischi, solo Mes longs cheveux del Pelléas, in cui Debussy accompagna il soprano Mary Garden), e non possiamo veramente ritrovare le qualità di sonorità che tanto colpirono i contemporanei; in qualche esecu­ zione ci sembra inoltre che Debussy sia preoccupato di non pren­ der troppe note sbagliate. Ma alcuni momenti sono lezioni di stile da non dimenticare mai. La tendenza al suono fluido, con articolazione d’attacco ridotta al minimo possibile si ritrova anche nei rulli (ad esempio, in Doctor Gradus adPamassum o in Le vent dans laplainè)\ questa sonorità o, meglio ancora, questa concezione di un suono timbricamente po­ chissimo caratterizzato, quasi «bianco», si affianca ad una conce­ zione più tradizionale, impiegata più di frequente in blocchi ac­ cordali (Danseuses de Delphe) o in gravi melodie (Jimbo’s Lullaby). Quel che abbiamo è però troppo poco, e sono inoltre da tener in

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Suonarsi

conto i soliti dubbi sulla fedeltà della riproduzione; sembra peraltro di poter riconoscere i caratteri stilistici fondamentali della sonorità, con l’appiattimento della prospettiva, della profondità, e con un gioco di bianco e nero che fa pensare allo Chopin del Preludio op. 45 e dello Studio in la bemolle maggiore per il Metodo di Fétis e Moscheles. Si capisce benissimo come Debussy prediligesse il pia­ noforte verticale con tastiera molto morbida, perché il senso psi­ cologico dell’affondamento del dito e del sollevamento della mec­ canica contro la forza di gravità è assente in queste sue esecuzioni, che postulano un modo di suonare spoglio e assai poco «profes­ sionale», sconcertante a tutta prima e affascinante alla fine. Il paragone tra Saint-Saéns pianista e Debussy pianista, non meno del paragone tra i due compositori, ci dà Videa della morte della professione — sia pure, come in Saint-Saéns, vissuta con inegua­ gliata scaltrezza manieristica — e della rinascita della poesia. Pura poesia, che nessun interprete ha saputo eguagliare, è ad esempio l’ultima pagina di Doctor Gradus ad Parnassum, che rende l’im­ pressione di una accecante liberazione o addirittura di una con­ quista della libertà. E in questo caso poco importano le manche­ volezze esecutive, mentre in Ravel è la scolasticità, è il perbenismo che fanno cascare le braccia. Forse Ravel, che già non era un concertista, si faceva per di più impressionare dal mezzo meccanico. È possibile. È possibile, perché quando si ascolta Prokofiev nel suo Concerto n. 3 si resta subito colpiti dalla sua strizza. E Prokofiev era un concertista, suonava splendidamente — dice chi lo ascoltò — mulinando due braccia lunghissime, ed aveva vinto quei premi scolastici che, asse­ gnati nella severissima sede del conservatorio di S. Pietroburgo, testimoniano la ineccepibile preparazione accademica. Del resto, in altri pezzi meno impegnativi e senza l’assillo di dover marciare con l’orchestra, Prokofiev suona molto bene anche in disco. E tuttavia sarebbe difficile sostenere che il suo arrancamento nell’ultima riga della Toccata op. 11 non sia un arrancamento ma sia il giusto modo di eseguire quel passo di bravura. Certo che, quando il compositore e l’esecutore si equivalgono, le esecuzioni degli autori acquistano una forza che non ammette discussioni. E non parlo neppure di Rachmaninov, che come pia­ nista non aveva da temere confronti. Anche parecchie esecuzioni di

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Granados, di Prokofiev, di Shostakovic, di Britten sono di valore altissimo, ed anche alcune di Stravinsky, che di tutti questi era quello pianisticamente meno dotato. Tra i compositori al pianoforte il mio favorito è di gran lunga Béla Bartók, del quale parlerò quindi distesamente e non solo nei limiti del «suonarsi», dell’interpretare se stesso. Le molte facce con cui Bartók si presenta alla storia permettono di considerare la sua figura sotto varie angolazioni. La figura prima, la figura originaria che emerge negli anni di formazione è però quella del pianista, o per meglio dire del pianista-compositore al modo dei Busoni e dei d’Albert, che dominavano a fine Ottocento la scena, o di Ernò Dohnànyi, che ne stava ripercorrendo le gesta. L’educazione pia­ nistica di Bartók si era compiuta nell’Accademia di Budapest, dal 1899 al 1903, sotto la guida dell’allievo di Liszt, Istvan Thomàn, «un uomo piccolo e d’aspetto delicato con una testa dolicocefala» (come competentemente lo descrive il medico ungherese Janós Plesch), di cui non sappiamo molto. Il Plesch ci dice ancora che «aveva mani piccole e quasi quadrate, con dita corte e tozze, in contrasto con le dita lunghe del suo amico e maestro Liszt » e aggiunge che «era più di un pianista, ma il suo più grande amore era il pianoforte». I rapporti rispettosi ed affettuosi di Bartók e Thomàn testimoniano del resto il fatto che il Maestro doveva essere una personalità musicale di rilievo, ma la mancanza di dischi o di rulli di pianola suoi non ci permette di farci almeno un’idea di come Thomàn perpetuasse l’insegnamento di Liszt. Quel che sappiamo è che sotto la guida di Thomàn Bartók studiò tra l’altro lavori come le Variazioni su un valzer di Diabelli di Beethoven, la Sonata e il Totentanz di Liszt, i due fascicoli delle Variazioni su un tema di Paganini e il Concerto n. 2 di Brahms, che al termine degli studi eseguì a Budapest il Totentanz di Liszt e a Vienna, il 4 novembre 1903, il Concerto n. 5 di Beethoven, e che nel primo suo recital importante, a Berlino il 4 dicembre 1903, presentò questo pro­ gramma: Schumann: Sonata op. 11. Dohnànyi: Passacaglia. Chopin: Notturno op. 27 n. 1, Studio op. 10 n. 12. Bartók: Scherzo, Fantasia, Studio per la mano sinistra [n. 4, 2 e 3 dei Quattro pezzt\. Liszt: Rapsodia spagnola. Il programma era impegnativo, il successo, come Bartók scrisse a

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Thomàn, fu molto buono. Tuttavia la carriera di pianista di Bartók non si sviluppò: una partecipazione ad un concerto a Manchester {Rapsodia spagnola di Liszt e Variazioni di Robert Volkmann) e un recital a Vienna il 18 febbraio 1905 {Variazioni su un tema di Bach di Liszt, Sonata op. 11 di Schumann, Ballata n. 4 di Chopin, Fantasia e Scherzo di Bartók, Funérailles e Rapsodia spagnola di Liszt) non aprirono a Bartók prospettive di lavoro né nel ricco «mercato» inglese né nella provincia austriaca, tanto che la sua decisione di partecipare ad entrambe le sezioni — pianoforte, composizione — del Concorso Rubinstein sembra più l’assolvi­ mento di un rituale che la conclusione di un tirocinio seguito con convinzione. Il Concorso Rubinstein, quinquennale e decisivo per la carriera di un giovane, nel 1905 si svolgeva a Parigi. L’8 agosto Bartók scriveva alla madre: «Cara mamma, mi dispiace di dirti che non ho avuto successo nel concorso. Che non abbia vinto tra i pianisti, niente di strano ed è cosa che non mi fa male. Ma ciò che è avvenuto attorno all’assegnazione del premio per la composizione è cosa che fa sbalordire». Tra i pianisti, come abbiamo visto, aveva vinto Backhaus, mentre nella sezione di composizione non erano stati assegnati né primo né secondo premio ed erano stati citati con «diploma d’onore», nell’ordine, Attilio Brugnoli e Bartók. «Le opere di Brugnoli sono dei componimenti raccogliticci senza alcun valore. Che la giuria non abbia visto quanto siano migliori le mie opere è cosa veramente scandalosa», scrive Bartók nella stessa lettera. Ed ha, ovviamente, ragione: basta paragonare il Concertstùck di Brugnoli e la Rapsodia op. 1 di Bartók, che vennero presentati al Concorso. L’accettazione della sconfitta nella sezione pianistica e la cocente delusione per l’esito ottenuto con la com­ posizione giustificano a parer mio la supposizione che Bartók avesse già nel suo intimo rinunciato a ripercorrere le orme di d’Albert e di Busoni e desiderasse invece diventare il concertista interprete delle proprie composizioni, il compositore-pianista qual era stato negli ultimi trent’anni della sua vita Brahms e quali erano all’inizio del Novecento Scriabin e Rachmaninov. Lo scacco nel Concorso Rubinstein precluse a Bartók anche questa strada, o la rese per lo meno così erta da percorrere ch’egli preferì rinunciarvi. Dal 1907, divenuto professore, coscienzioso professore di pia­

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noforte nell’Accademia di Budapest, il Bartók pianista trovò una sistemazione economica che gli permise di... mettere da parte Parte, diventando etnologo e praticando la composizione da compositore puro. Certune delle pagine in cui si matura il Bartók creatore (soprattutto le Bagatelle op. 6 del 1908) ci permettono di vedere come mutasse in Bartók, rispetto al 1903-1904, la concezione stessa del suono pianistico. I Quattro pezzi (1903) e la Rapsodia op. 1 (1904) rientravano nella tradizione virtuosistica lisztiana qual’era stata intesa specialmente dai russi (Scriabin escluso), tanto che lo Studio per la mano sinistra avrebbe benissimo potuto esser scritto da un fratello minore di Rachmaninov. La prima delle Bagatelle è invece da considerare come precoce esempio di scrittura neoclassi­ ca: due voci soltanto, che si muovono nella stessa zona della tastiera coprendo un’estensione complessiva di tre ottave. La percettibilità delle due linee nella stessa zona non è ottenuta con la raffinatissima timbrica dei simbolisti francesi (siamo nel 1908, Debussy ha finito l’anno prima la seconda serie delle Images e Ravel sta componendo Gaspard de la nuitf ma con il mezzo più semplice e radicale: la politonalità: la politonalità crea il dislivello che permette la perfetta percepibilità di due linee non timbricamente differenziate. Non voglio con ciò dire che la prima Bagatella di Bartók mandi nell’an­ golo del somaro e Debussy e Ravel, ma che Bartók, a ventisette anni, trova un’alternativa alle ricerche dei francesi, che avrebbero invece influenzato per un decennio quasi tutta la musica per pia­ noforte europea, e che su questa alternativa fonda la sua scrittura per pianoforte. La causa che permise a Bartók un’intuizione così fulminante è, a parer mio, la rinuncia al concertismo attivo. Le Images e Gaspard de la nuit erano grandi pezzi da concerto, destinati a supremi virtuosi del tocco che sapevano tenere col fiato sospeso duemila persone. Le Bagatelle riportavano la musica pianistica nella dimensione del dilettantismo colto,... anche se il loro linguaggio d’avanguardia teneva a rispettosa distanza i dilettanti del tempo, che erano appe­ na passati dai Pezzi lirici di Grieg alle Arabesques di Debussy. Un successo internazionale tra i dilettanti Bartók, comunque, più tardi lo ottenne: non con le Bagatelle, ma con il quinto dei Dieci pezzi facili (1908), intitolato Sera dai Szekely. Di Sera dai Szekely abbiamo una registrazione dell’esecuzione di

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Bartók, sia pure un po’ tardiva rispetto alla data di composizione (1931), ma che ci presenta Bartók nella sua piena maturità di interprete. Non si può descrivere il fascino della sonorità bartokiana, sommessa e trasparente, ma scultorea anche quand’è appena mormorata; ma soprattutto non si può descrivere — o ci vorreb­ bero pagine e grafici a iosa — la sua scansione rubata del ritmo, quello scarto infinitesimale nelle durate che crea uno scintillio delle pulsazioni ritmiche senza far perdere mai il senso di un ritmo di base di cui si postula però l’esistenza, più che coglierla. La scan­ sione del ritmo in pagine facili come Sera dai Szekely o una scelta di brani da Per fanciulli o alcuni numeri del Mikrokosmos è vera­ mente un miracolo di controllo e una testimonianza di stile esecu­ tivo tanto lontano dalle abitudini di oggi che l’allievo, se eseguisse ad un esame questo Bartók secundum Bartók, avrebbe buone pro­ babilità di non passarla liscia. Del resto Laios Hernàdi, allievo di Bartók dal 1924 al 1927 e incantato ammiratore di Bartók pianista, ragionando poi da didatta conclude che quel «suonare tagliato nella pietra» e «di una purezza ineguagliabile, di una plasticità e di una intonazione del tutto particolari», era anche «così caratteristico di Bartók e convincente solo con lui». Un po’ troppo professora­ le, forse. Ma non sciocco: Sera dai Szekely o la Danza dell’orso, per essere eseguite al modo di Bartók, richiedono un dominio as­ soluto dei fatti musicali, raro anche nei pianisti finiti, nonché negli allievi! Quel che più ci stupisce, e che ci dà la misura della grandezza di Bartók pianista è però il suo controllo del tempo in pagine molto difficili. Verso il 1929 Bartók eseguì, in una trasmissione radiofo­ nica, quattro Sonate di Scarlatti. L’esecuzione fu registrata all’in­ saputa di Bartók (che non autorizzò poi la pubblicazione) e fu pubblicata dopo la sua morte. Nella prima delle quattro Sonate, la celeberrima L 286 in sol maggiore, Bartók stacca un tempo alla Casadesus, intorno a 168 alla semiminima, con una mano sinistra che vola come una seconda mano destra; ma a metà della battuta 13 — gli accordi ribattuti — la velocità passa di colpo a 152, Il rapporto tra i due tempi è nettamente gestuale, perché gli accordi ribattuti richiedono una vibrazione dell’avambraccio che a 168 provocherebbe il blocco muscolare, mentre a 152 consente di sfruttare ancora l’elasticità, il rimbalzo del sistema di leve braccio-

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mano-dita. Il cambio della tecnica diventa cambio del tempo, con una logica tale che l’ascoltatore non avvertito neppure se ne ac­ corge. Ma qualunque pianista sa quanto sia arduo basare la scan­ sione rapidissima di un ritmo sul movimento del corpo invece che sulla griglia astratta dell’isocronia. Bartók ci riesce con disinvoltura stupefacente, e questa sua identificazione tra ritmo e movimento degli arti doveva essere visivamente affascinante. Aurelio M. Milloss mi descrisse una volta — col gesto, da quel grande danzatore e coreografo che è — l’impressione ricevuta vedendo Bartók esegui­ re il Totentanz di Liszt; forse Milloss ci metteva anche qualcosa di suo, ma il suo modo di rendere certi tratti salienti del movimento di Bartók restituiva perfettamente l’immagine di una identità di ritmo del suono e ritmo del corpo. Ascoltando Bartók nella Sonata L 286 di Scarlatti il nome che subito ricorre alla mente, naturalmente, è quello di Josef Hof­ mann; e tanto più quando, alle battute 26-29, Bartók passa a 138 per sottolineare il momento espressivo. Il paragone con Hofmann, che si impone, suscita in verità un compiacimento e un dubbio. Hofmann era uno dei maggiori virtuosi che siano mai esistiti, ma come musicista era un reazionario bell’e buono. Come potevano coesistere, in Bartók, uno stile esecutivo alla Hofmann e concezioni musicali d’avanguardia? Bisogna concludere, com’è stato detto talvolta («Bartók, dopo tutto, era un pianista della vecchia scuola», afferma lo Schonberg), che lo stile di Bartók era antiquato? Forse, più che porre la domanda in questo modo bisogna distinguere in Hofmann lo snobismo filisteo della persona dalla genialità dello strumentista, come fa Stravinsky che, come abbiamo visto, non risparmia un freddo giudizio sulle qualità umano-artistiche ma ammira l’interprete. Si può supporre che in Bartók, in Hofmann, e anche in Cortot, a cui Bartók somiglia un poco, si manifestasse la critica della tradizione nata con Liszt e proseguita con Anton Rubinstein e gli allievi di Liszt. In Hofmann e in Cortot la critica significa scomposizione dello stile tradizionale ed isolamento dei suoi elementi. In Bartók pianista, ma compositore d’avanguardia, significa probabilmente anche presa di coscienza del valore «cul­ turale» e non «naturale» dell’armonia. Il dibattito che inizia verso la fine dell’ottocento e che culmina nel Manuale di armonia di Schonberg (1911) mette in luce il carattere di insieme di regole,

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non di leggi, della teoria dell’armonia. Louis Kentner, che conobbe bene Bartók, parla delle esecuzioni bartókiane di musiche di Liszt in modo un po’ grottesco, ma per noi illuminante: «A Bartók non piaceva mettersi in mostra, ma nelle sue interpretazioni di Liszt preferiva sottolineare l’aspetto rivoluzionario delle armonie. Es­ sendo lui stesso iconoclasta faceva ciò in modo molto persuasivo». E l’unica incisione lisztiana di Bartók, il Sursum corda che chiude l’ultima Année de Pèlerinage, è una lampante dimostrazione del valore del singolo accordo e della tesi di Schonberg che «qualunque accordo può seguire qualunque altro accordo». Coerentemente con questa impostazione Bartók, nella esposizione delle melodie, tendeva sempre a collegare a due a due i suoni, portando l’atten­ zione sul più elementare rapporto — l’intervallo — dei suoni in successione. Si può dubitare che questo taglio critico, radicale (in Bartók) o temperato (in Hofmann e in Cortot) che fosse, giovasse alle opere della classicità, e infatti né Cortot né Hofmann sono ricordati come interpreti di Mozart o di Beethoven, né l’unica incisione beethoveniana di Bartók — la Sonata a Kreutzer con József Szigeti — sembra così convincente come le altre sue interpretazioni. Ma già nei romantici si possono cogliere i segni della crisi della tonalità, e certamente l’atteggiamento critico di Bartók pare a me il più fe­ condo per affrontare Bartók stesso o il tardo Liszt o Debussy, tanto da dover deplorare che non ci sia stata conservata almeno l’esecu­ zione dei ventiquattro Preludi di Debussy, che Bartók, a detta di Laios Hernàdi, presentò a Budapest verso il 1926. In Bartók avremmo certamente avuto l’interprete maggiormente in grado di rivelare le radici rivoluzionarie dell’arte di Debussy, e forse in Debussy Bartók impiegava anche una timbrica più varia di quella che risulta nella stragrande maggioranza delle sue incisioni: ad esempio, in Dall’isola di Bali del Mikrokosmos troviamo sonorità inusuali in Bartók, evidentemente ispirate al gamelan giavanese e che in Debussy avrebbero potuto diventare un tratto stilistico fondamentale. Il pathos profondo e tragico che Bartók rivela nel primo numero della sua Piccola Suite, e che non ritorna nelle altre musiche da lui incise, avrebbe potuto probabilmente esplicarsi in certe pagine di Debussy come Des pas sur la neige o la Cathédrale engloutie, o persino in Feuilles mortes o nella Ferrasse des audiences

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au clair de lune. L’unica, e molto frammentaria 1 esecuzione di musiche di Debussy che sia rimasta conservata, la suite per due pianoforti En blanc et noir, è molto interessante. Bartók, in verità, non intendeva Debussy secondo Debussy o secondo i primi interpreti francesi di Debussy ma, nettamente, secondo Bartók stesso. L’interpretazione che ci è pervenuta riguarda un lavoro che favorisce certamente questa imperiosa presa di possesso di Bartók; ma è ugualmente straordinaria la maniera con cui Bartók fa di­ ventare bartokiano En blanc et noir, fino a farne apparire il secon­ do pezzo come una delle bartokiane «musiche della notte». Pec­ cato, ripetiamo, che non ci siano state conservate le esecuzioni dei Preludi: peccato veramente! Bartók interprete di se stesso è assai meglio documentato di quanto non sia Bartók interprete di altri e le sue esecuzioni costi­ tuiscono un documento stilistico che non può essere igno­ rato, sebbene non debba diventare un modello di passiva imi­ tazione. Mancano tuttavia, ed è una mancanza gravissima, le sue esecu­ zioni non solo dei Concerti, ma della Sonata e di All’aria aperta. L’esecuzione della Sonata per due pianoforti, timpani e percussio­ ni, registrata da una trasmissione radiofonica, non è particolar­ mente felice e anche la registrazione è poco chiara. Le uniche registrazioni soddisfacenti di grandi lavori sono quelle della Sonata n. 2, con Szigeti, e di Contrasti, con Szigeti e Benny Goodman. Le case di rulli e di dischi, e quei nababbi che tenevano in salotto la macchina per captare sugli acetati le trasmissioni radiofoniche non son dunque stati generosi con Bartók pianista. Ah, se Bartók avesse avuto le qualità di public relations man di Stravinsky, che pur da pianista di seconda classe qual era riuscì a sfruttare ad abundantiam 1 Un tecnico ungherese, Istvàn Makai, incise alcune facciate di disco, da esecuzioni di Bartók alla radio, per incarico della signora Sophie Babits nata Tòròk. Abbiamo così alcuni importantissimi frammenti di esecuzioni di Bartók, tra cui si fanno notare quelli di tre brani della Partita n. 5 di Bach, delle Variazioni su un tema di Bach e del Concerto patetico (con Ernò Dohnànyi) di Liszt, della Sonata per due pianoforti (con la moglie) di Mozart, del Concerto n. 2 di Bartók.

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e rullo e disco! Di Bartók pianista c’è quanto basta per concludere che il suo talento è tra i più interessanti fra quelli di cui ci è rimasta memoria sonora; non c’è quanto occorrerebbe per definire la grandezza e per riprendere una lezione che potrebbe essere ricca di potenzialità inesplorate.

RIVOLUZIONE E DISFATTA

Il concertismo nasce come spettacolo, diventa storia dell’arte, si sviluppa come storia della cultura, e con la «generazione dell’ot­ tanta» comincia a trasformarsi in giudizio sulla civiltà. I tre inter­ preti dei quali ho da poco finito di parlare — del quarto, Rubin­ stein, parlerò molto più avanti, perché storicamente appartiene al secondo dopoguerra — scendono nel cuore della cultura tedesca, e da quei grandi spiriti che sono conducono la loro ricerca fino ad offrire soluzioni di impressionante coerenza ideologica e nello stesso tempo radicate nel mondo contemporaneo, nel mondo che tra il 1918 e il 1939 si ritrova di fronte i problemi intorno ai quali la civiltà combatte dalla fine del Settecento: Mozart per Fischer, Beethoven per Backhaus, Schubert per Schnabel diventano così essenza e simbolo dell’umano, miti sui quali si può costruire un mondo diverso. Tutti e tre concludono con Brahms la loro ricerca, ed il primo problema che la generazione successiva affronta è di muoversi cronologicamente oltre Brahms e culturalmente oltre l’area germanica. Walter Gieseking, che della nuova generazione fu a parer mio la punta di diamante, era nato a Lione, da genitori tedeschi, il 5 novembre 1895. Gieseking cominciò a suonare molto presto il pianoforte e il violino, quasi da autodidatta, leggendo e studiando tutto quello che gli capitava tra le mani. Verso il 1911, scrive,nella breve autobiografia So wurde Ich Pianisi, «conoscevo e suonavo [...] la maggior parte delle opere di Bach, quasi tutto Beethoven, tutto Schumann e tutto Chopin, qualcosa di Schubert e di Men­ delssohn, ma assolutamente niente di Brahms, pochissimo di Liszt e... niente dei moderni!» (noto per inciso che dall’elenco non

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mancano solo i moderni e Brahms: manca Mozart). Gieseking si dedicò anche prestissimo alla composizione, sempre da autodidat­ ta, scrivendo soprattutto musiche per pianoforte catalogate con tanto di numero d’opera, che eseguiva in riunioni musicali degli amici di famiglia. Da autodidatta imparò addirittura a leggere e scrivere, e studiò solo ciò che lo incuriosiva. Stabilitasi nel 1911 la madre in Germania, nel novembre Walter si iscrisse al conservatorio di Hannover, diretto dal pianista Cari Leimer. Tre mesi dopo il suo ingresso in conservatorio, il 7 febbraio 1912, prese parte ad un saggio eseguendo un programma che testimonia il grado di preparazione raggiunto dal giovanissimo autodidatta: Preludio e fuga in mi bemolle maggiore di Bach (pro­ babilmente uno dei due contenuti nel Clavicembalo ben tempera­ to), Rondò capriccioso di Mendelssohn, primo tempo del Concerto in do minore di Beethoven. Nel settembre del 1912, sempre in un saggio, Gieseking eseguì le quattro Ballate di Chopin; nel febbraio del 1913 esordì come concertista nella sala del conservatorio di Hannover, con un programma interamente chopiniano (12 Studi op. 10, Concerto op. 11, Fantasia op. 49, Polacca op. 53), seguito nell’aprile da un programma interamente schumanniano (Toccata op. 7, Studi sinfonici, Variazioni per due pianoforti, con Cari Leimer, Fantasia op. 17, Carnaval); in settembre, due serate beethoveniane (Sonate op. 13, op. 27 n. 2, op. 53, op. 57, op. Ili nella prima; Sonata op. 106 e Concerto in mi bemolle maggiore nella seconda). Il 24 ottobre ebbe luogo il primo concerto di Gieseking fuori di Hannover, a Minden in Vestfalia; seguirono serate in collaborazione con cantanti ed altri concerti a Hannover. Altre importanti esecuzioni nella primavera del 1914: Concerto in mi bemolle maggiore, Fantasia sul Don Giovanni, Sonata in si minore di Liszt, Preludi op. 28 di Chopin. Il giovane pianista era ormai maturo per un vero e proprio lancio concertistico, che avrebbe avuto luogo nella stagione 1914-15 se l’inizio della guerra non avesse bloccato la vita musicale. Riman­ date ad un momento più propizio le ambizioni di carriera, Giese­ king continuò a suonare sovente a Hannover; tra il novembre del 1915 e il febbraio del 1916 eseguì in sei serate, a memoria, trenta delle trentadue Sonate di Beethoven (rimasero escluse le due So­ nate facili op. 49). Nell’agosto del 1916 venne chiamato alle armi e

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per più di due anni la sua attività di musicista si ridusse ai servizi nella banda militare, nei caffè e nei cinematografi frequentati dai soldati. Con il 1916 si conclude quindi il periodo della formazione scolastica di Gieseking, sul quale è opportuno che ci soffermiamo per un momento. Da quanto ho detto fin qui balza evidente quale fosse la prima caratteristica del pianista Gieseking, già a ventanni: una portentosa capacità di apprendere, cioè una facilità estrema di dominare la tecnica pianistica ed una memoria eccezionalmente pronta e sicura. Il repertorio di Gieseking, a ventanni, non era completo (mancavano Bach, Mozart, Schubert, Brahms), ma la massa delle composizioni eseguite a memoria era veramente im­ pressionante. La memoria di Gieseking! La favolosa memoria di Gieseking era sì eccezionalmente rapida, ma non automatica o «fotografica»: non era la memoria del pianista ungherese Erno von Lengyel, morto giovanissimo, che poteva ricordare indifferente­ mente dieci pagine di musica o dieci pagine dell’orario ferroviario dopo averle lette poche volte, e non era la memoria di Saint-Saéns o di Joseph Hofmann, che potevano ritenere ed eseguire ciò che avevano ascoltato eseguito da altri. La memoria di Gieseking, penso, era basata sull’analisi del brano musicale. Alberto Mozzati mi raccontò di un piccolo esperimento al quale assistette: Giese­ king imparò a memoria, in mezz’ora e senza pianoforte, una pagina di musica di media difficoltà (Mozzati non ricordava più di quale composizione si trattasse). Un’impresa non facile, quindi, ma neppur tale da far gridare al miracolo. Nel Metodo rapido di perfezionamento pianistico Cari Leimer spiega il sistema per lo studio a memoria seguito dai suoi scolari, che è «basato sulla riflessione (riflessione sistematica e logica)»; ed aggiunge: «Gieseking studia e impara le composizioni senza suo­ narle al pianoforte, ma soltanto leggendole (quindi con la rifles­ sione) ». Gieseking, uomo pratico, vanta anche per altre ragioni il sistema di studio consigliato dal Leimer: «Questo modo di impa­ rare attraverso la lettura non solo è la maniera più sicura di studiare a memoria, ma anche un pratico impiego del tempo che i viaggi in ferrovia assorbono». Benissimo. Senonché, gli esempi che Leimer offre in seguito al lettore sono accurate e meccaniche descrizioni catastali piuttosto che analisi delle composizioni: in Gieseking,

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come in tutti coloro che riescono ad apprendere a memoria senza lo strumento e senza possedere d’altronde una mente «fotografica», la descrizione catastale veniva invece sostituita, probabilmente, dall’autentica analisi, cioè dalla scoperta dei rapporti strutturali che tengono insieme la composizione. Non posso entrare qui in que­ stioni riguardanti la metodologia, né posso esaminare una fondata obbiezione di Casals. Quel che mi interessava era di stabilire quale ruolo giocasse in Gieseking la memoria nella preparazione di un’e­ secuzione. Quando Gieseking decideva di «sonorizzare» una com­ posizione la sapeva almeno materialmente a memoria e, ne sono convinto, la conosceva anche nella sua struttura e quindi nella sua totalità: ritmo, inteso non come calcolo matematico ma come vi­ vente articolazione del discorso musicale, dinamica, fraseggio, for­ ma sonora. In questo secondo momento, «sonorizzazione», entrava in azione la tecnica pianistica di Gieseking, una tecnica assolutamente spontanea, non coltivata né perfezionata in astratto ma in rapporto con precisi problemi. Senza entrare anche questa volta in questioni di metodologia bisogna dire subito che la tecnica di Gieseking, vista al livello di un grande pianista, non era affatto eccezionale. Le sue uniche «spe­ cialità» tecniche che lasciassero stupefatta la gente del mestiere (ed anche il pubblico), erano certi usi del pedale e soprattutto l’agilità in passi in piano e pianissimo: basti ricordare la fluidità e la nettezza dei passi della mano destra alla fine di Reflets dans Veau e di Pagodes di Debussy; e basti ricordare il Concerto in sol maggiore di Beethoven e il Concerto in sol di Ravel, nei quali predomina l’agilità elegante e leggera, che furono per molti anni due cavalli di battaglia di Gieseking. Non so fino a che punto sia da prestar interamente fede all’au­ tobiografia di Gieseking, ma direi che, vivendo a Lione e nel mezzogiorno della Francia, egli dovesse aver imparato precoce­ mente, da qualche pianista locale, la tecnica tradizionale dei fran­ cesi: il ricordo di Pugno si affaccia spesso alla memoria, quando si ascolta l’agilità decorativa di Gieseking, nei pregi e nei limiti. Nei limiti, perché, quando l’intensità del suono supera il piano, l’agilità non è più così straordinaria. E anche quando, nel piano, la qualità del suono deve essere diversa, più incisiva, la tecnica di Gieseking non è eccezionale. Se passiamo ad altri settori della tecnica il

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discorso non cambia: la Cadenza del primo tempo e le doppie note del finale del Concerto di Schumann, il finale del Concerto in mi bemolle maggiore di Liszt, la Cadenza del Concerto di Grieg, il finale della Sonatina di Ravel, la Toccata di Pour le piano di Debussy non sono eseguiti con la superiore facilità tecnica del grande virtuoso, le due esecuzioni del Terzo Concerto di Rachma­ ninov — in registrazioni live — non sono certo un modello di pulizia tecnica, ed io ricordo benissimo l’esecuzione del Secondo Concerto di Brahms, in cui Gieseking, virtuosisticamente, era di molto inferiore a Backhaus, a Rubinstein, a Horowitz, ad Arrau, a Richter, a Gilels. Tuttavia, persino le approssimative esecuzioni del Secondo di Brahms o del Terzo di Rachmaninov erano dimostra­ zioni di fantasia nel creare e nel miscelare le sonorità, dimostrazioni così seducenti che finivano per avvincere l’ascoltatore. La creazione di una sonorità inconfondibile come estrinsecazione di un’idea interpretativa originale: era questa la caratteristica su cui si fondava la reale eccellenza dell’arte pianistica di Gieseking, e molto proba­ bilmente già agli inizi della carriera. Congedato alla fine del 1918, Gieseking iniziò la carriera con­ certistica in Germania, sia da solo che in collaborazione con can­ tanti e violinisti; nel settembre del 1921 tenne il suo primo concerto all’estero (Zurigo), in dicembre suonò per la Società del Quartetto di Milano. Nei suoi programmi, tra il 1919 e il 1921, compaiono in prevalenza nomi di contemporanei: Reger, Debussy, Ravel, Buso­ ni, Cyril Scott, Korngold, Niemann, Schonberg, Marx, Szyma­ nowski, Scriabin. Gli schemi di programmi, ai quali Gieseking si man­ terrà fedele per una decina d’anni, sono assai diversi dagli schemi seguiti preferibilmente dai grandi pianisti del tempo. Di Bach si eseguivano ancora prevalentemente le trascrizioni dall’organo di Liszt o di Busoni o di d’Albert: Gieseking, al contrario, esegue le Suites e le Partite. Raramente un programma faceva a meno di Beethoven e di Chopin: per Gieseking è eccezionale l’inclusione in programma di Beethoven e Chopin. Un programma di concerto, verso il 1920, comprendeva ancora, di norma, un gruppo di com­ positori contemporanei, ma con musiche brevi e accentuatamente virtuosistiche: Gieseking esegue anche musiche contemporanee lunghe e per niente virtuosistiche. L’unico carattere tradizionale che per alcuni anni Gieseking mantiene fermo è una Rapsodia

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ungherese di Liszt «per finire». Programmi nuovi, che inaugurano addirittura un’epoca nella storia del concertismo pianistico, e programmi eseguiti in un modo che parve, e di certo era, nuovo. Ciò che più stupisce non è però la natura dei programmi, ma l’esito conseguito. Già alcuni pianisti della generazione precedente (Ricardo Vines, Rudolf Ganz, Bian­ che Selva) avevano presentato programmi diversi dal consueto, e tra i coetanei di Gieseking c’erano Eduard Erdmann, George Co­ peland ed Eduard Steuermann che eseguivano con convinzione musiche con temporanee d’avanguardia. Ciò che lascia sbalorditi è l’eccezionale esito «mondano» della carriera: mentre gli altri inter­ preti prima citati ebbero soltanto stima e notorietà, Gieseking divenne in pochi anni un pianista celeberrimo, ammiratissimo, pagatissimo, conquistando con un repertorio inconsueto ciò che di solito si otteneva con un repertorio collaudatissimo. Tra il 1921 e il 1923 Gieseking suonò infatti ripetutamente in Svizzera, Italia, Scandinavia; nel 1923 esordì in Spagna, a Londra, in Polonia e in Ungheria, e nel 1926 negli Stati Uniti, dove tornò per altri tre anni consecutivamente; nel 1928 esordì a Parigi e a Praga. Il tipo di repertorio non muta e nuovi nomi di compositori contemporanei si incontrano nei suoi programmi: Hindemith, Falla, Pfitzner, Casella, Reutter, Wintzer, Finke, Rathaus, Erwin Schuloff, Tansman, Miaskowski. Verso il 1930 Gieseking era con­ siderato uno dei più grandi pianisti viventi e fino alla guerra svolse un’attività concertistica molto intensa in Europa e in America, anche, occasionalmente, in duo con Bronislav Hubermann o Georg Kulenkampff o József Szigeti. Le testimonianze discografiche di questi anni sono molto poche, ma sono straordinariamente significative, soprattutto su un punto assolutamente sorprendente: Gieseking era allora un grande e modernissimo interprete di Chopin. L’incisione dello Studio op. 25 n. 1 è un modello di interpretazione, di valore storico; e per chi tenesse troppo in conto le speciali caratteristiche dello Studio op. 25 n. 1 è pronto un altro modello di interpretazione chopiniana di Gieseking: il Notturno op. 15 n. 2. E non c’è Chopin più Chopin di quello del Notturno op. 15 n. 2! È dunque probabile che Gieseking lasciasse da parte Chopin non perché gli mancasse una «vocazione chopiniana», ma perché le tiepide accoglienze riservate dal pub-

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blico al suo Chopin lo indussero a rinunciarvi. Mancata fiducia, quindi, mentre fiducia ci fu per Gieseking interprete di Bach, di Scarlatti, di Schumann, di Debussy, di Ravel, di certo Beethoven, e dei moderni... cum grano salis. Tra il 1930 e il 1940 Gieseking continuò infatti ad eseguire molto di frequente musiche contemporanee (oltre agli autori citati finora anche Honegger, Trapp, Piston, Pizzetti, Petrassi). Ma il suo atteggiamento verso la musica contemporanea cominciava ad es­ sere influenzato da certe reazioni dei grandi pubblici borghesi che gremivano le sale in cui egli si produceva. Nell’autobiografia Gie­ seking fa notare lo scarso successo ottenuto dalla Sonata di Castelnuovo-Tedesco, eseguita nel 1929 a Londra e a Berlino, e le «ca­ tastrofi» di due concerti di musiche con temporanee tenuti a Berli­ no e New York, sempre nel 1929. Il suo fervore di apostolo cominciò a raffreddarsi: «Nella stagione 1936-37 avevo in reperto­ rio, nuova, l’op. 59 di Alfredo Casella: Sinfonia, Arioso e Toccata. Suonai questo pezzo, aspro ma interessante, in Italia, a Berlino e a Londra. Ma anch’esso appartiene alla musica che il pubblico non vuole ascoltare. Nell’autunno del 1937 ero di nuovo in USA e con il Concerto in do minore di Rachmaninov (con la Filarmonica di New York) ottenni un successo che impose il mio nome in Nord America in modo definitivo. I programmi dei miei recitals nel corso dell’anno furono migliori, perché avevo imparato a costruire un programma senza concessioni commerciali, che interessasse tutta­ via l’ascoltatore». Il nuovo tipo di programma è quello che Gieseking eseguì preferibilmente nel secondo decennio della sua carriera: 1) Bach e Scarlatti, o Bach e Beethoven, o Scarlatti e Beethoven; 2) Schubert o Schumann o Brahms; 3) una novità, generalmente breve e di scarso impegno; 4) Debussy o Ravel o entrambi (qualche volta Scriabin). I meriti culturali, l’importanza dell’azione culturale svolta da Gieseking tra il 1920 e il 1940 sono quindi evidenti: pochissima attenzione ai gusti del pubblico più reazionario; pre­ sentazione di un numero, per un pianista celebre, eccezionalmente elevato di novità; imposizione definitiva, al pubblico borghese, di Debussy e di Ravel. In effetti, se il pubblico considera oggi Debussy e Ravel alla stregua di «classici» del pianoforte buona parte del merito è da attribuire a Gieseking. E a questo risultato contribui­

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rono, oltre all’intrinseco valore delle opere di Debussy e di Ravel, anche la dedizione e la fede assoluta che il pianista tedesco ripo­ neva e dimostrava di riporre nei due compositori francesi. Giese­ king, coscienzioso esecutore di molti compositori contemporanei, stimava sopra tutti Debussy e Ravel perché essi soli avevano saputo a suo giudizio riprendere nei tempi moderni il rapporto con la natura (o Natura che scriver si voglia). Posizione quanto mai diffi­ cile da precisare criticamente e che oggi sa un po’ di luogo comune. Ma qui importa far notare come le convinzioni di Gieseking con­ tagiassero e trascinassero un pubblico altrettanto restio ad accettare Debussy e Ravel come ad accettare altri due bigs del pianismo del Novecento, Bartók e Prokofiev. Gieseking fu l’apostolo di Debussy e di Ravel. I nomi di Bartók e Prokofiev non compaiono invece nei suoi programmi, e questo è veramente il limite sul quale si chiude la sua azione culturale. Dico ciò, naturalmente, senza pretendere di condannare Giese­ king e neppure di sminuirne l’importanza nella storia della cultura. Faccio invece una precisazione che mi impone la ricerca di una spiegazione. Gieseking rimase estraneo a due creatori come Bartók e Prokofiev forse per circostanze fortuite di cui non sono a cono­ scenza o forse per scelta culturale e morale. Per uscire di perifrasi, il rifiuto di Bartók e Prokofiev può anche essere dipeso, in parte almeno, dai rapporti di Gieseking con il nazismo, rapporti che causarono l’allontanamento dell’artista dalle sale di concerto per due anni dopo la guerra ed una clamorosa gazzarra al suo ritorno a New York nel 1949. L’atteggiamento degli artisti verso il fascismo e il nazismo, credo, non va più oggi visto solo in termini politici, ma anche di scelta culturale. Il comportamento di Cortot, che assume cariche ufficiali nella repubblica di Vichy, e il comportamento di Rubinstein, che restituisce la commenda della Corona d’Italia, sono anche lo spec­ chio, rispettivamente, di una concezione aristocratica e di una concezione popolare dell’arte. C’è una sfumatura diversa, anche culturale, tra il tedesco Backhaus che lascia volontariamente la Germania, l’ebreo austriaco Schnabel che ne viene cacciato, lo svizzero Fischer che vi risiede fino al 1942. E c’è una radicale differenza culturale tra Bartók, che affronta a quasi sessant’anni i rischi dell’emigrazione per non vivere in un’Europa nazificata, e

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Gieseking, che fino al 1945 suona in Germania e nei paesi occupati militarmente. Gieseking racconta con intimo, cocente dolore, ma con grande dignità gli incidenti di New York, e chiunque condivide certamente il suo sdegno per i cartelli con scritto «Gieseking, l’amico di Hitler e di Gòring» o «Gieseking suona la musica funebre per sei milioni di ebrei»; ma spiace dover ricordare, e non solo per motivi politici o umanitari, che Gieseking si iscrisse al Partito Nazionalsocialista e che il suo nome potè essere utilizzato dalla propaganda hitleriana. La rinuncia o il rifiuto di fare per Bartók e Prokofiev, cioè per due artisti ideologicamente «impegnati», quel che aveva fatto e faceva per Debussy e Ravel, potrebbe essere l’indice di una dispo­ sizione d’animo che consentiva con la reazione in campo politico e che quindi era tendenzialmente incline a tollerare il nazismo: i limiti dell’azione culturale svolta e l’insensibilità politica sarebbero in tal caso le due facce di un unico fenomeno; ma tutto ciò è da prospettare in via di ipotesi perché i documenti sui quali posso basarmi non sono affatto sufficienti e l’analisi delle esecuzioni-, che farò poi e che mi porterà ad ipotesi analoghe, non è, da sola, sufficiente neppur essa. Nei primi due anni del dopoguerra, durante la proibizione di prodursi in pubblico, Gieseking fece registrazioni per la radio ed insegnò nel conservatorio di Saarbrùcken. Riprese la vita del con­ certista alla fine del 1947, ed in seguito suonò ripetutamente in tutto il mondo, anche in Sud America e in Giappone dove non era mai stato. I programmi dei concerti del dopoguerra sono quelli di un artista che si sofferma solo più sugli autori e sulle opere a lui più care: ancora Bach (specie le Partite), alcune Sonate di Scarlatti, alcune Sonate di Beethoven (specie l’op. 13, l’op. 31 n. 2, l’op. 109, l’op. 110), qualcosa di Schubert, Chopin, Liszt, Brahms, parecchi Concerti di Mozart, molto di Schumann, Debussy e Ravel. Del suo vecchio repertorio contemporaneo eseguì rarissimamente la Partita di Casella e Notti nei giardini di Spagna di Falla; non riprese più, di norma, le musiche di Scriabin; di nuove composizioni importanti eseguì solo i Quattro temperamenti di Hindemith. Gieseking ebbe un grave incidente d’auto, nel quale perì la moglie, il 2 dicembre 1955. Guarito, suonò ancora negli Stati Uniti, in Svizzera, in Ger­ mania. Nell’ottobre del 1956 era a Londra per incisioni fonografi­

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che (voleva completare la serie delle Sonate di Beethoven). Il 23 ottobre si sentì male e fu operato. Morì il 26 ottobre. Affermandosi nel momento in cui s’affermava il neoclassicismo Gieseking fu, stilisticamente, pianista neoclassico. Neoclassicismo che significa rispetto del testo, adozione delle edizioni filologica­ mente più sicure, ripudio degli sbrigativi sistemi in uso alla fine dell’ottocento («Al Professore concertista è concesso di apportare, per la sua interpretazione, alterazioni al testo, che un fine accorgi­ mento artistico, non disgiunto da discrezione sapiente, saprà op­ portunamente suggerirgli», come diceva candidamente il nostro onestissimo Beniamino Cesi nella Prefazione del suo celeberrimo Metodo), rifiuto dei sistemi accomodanti di chi, rispettando gene­ ralmente le note, si concedeva ancora licenze con i segni di fraseg­ gio e d’espressione o introduceva piccoli ritocchi della scrittura strumentale. In questo senso, credo, va intesa la «spersonalizza­ zione» dell’interpretazione per cui Gieseking fu molto lodato, specie nel primo decennio della sua carriera: spersonalizzazione, esclusivamente, come adesione a ciò che è scritto. Adesione, e questo è un punto importante, anche nei casi in cui l’esecuzione di ciò che è scritto non esclude il rischio dell’incertezza e dell’inesattezza. Ho già detto che Gieseking non era un grande virtuoso: avrebbe potuto evitarsi qualche precipitazione, qualche «sporcizia», e probabilmente qualche patema d’animo con modi­ ficazioni della scrittura (quelle che i pianisti chiamano «trucchi» e svelano solo agli allievi fidatissimi), inavvertibili alla grande mag­ gioranza degli ascoltatori. Gieseking modifica un paio di passi nel Concerto in mi bemolle maggiore di Liszt, ed è tutto: non partecipa assolutamente all’orgia del trucco in cui si gettarono altri pianisti del suo tempo. Nella ricerca del trucco, quando non si trattava di una volgare mistificazione ai danni dell’ascoltatore, giocava soprattutto la con­ cezione estetizzante del prodotto esecutivo perfettamente levigato nella sua apparenza. In Gieseking, malgrado la cura della bella sonorità, non esistevano preoccupazioni estetizzanti. La bellezza del suono, che egli raccomanda più volte, non significava in realtà la ricerca di una sonorità che di per sé si imponesse, edonistica­ mente, all’ascoltatore; la sonorità — come si può anche vedere chiaramente nel sistema di studio di Gieseking — veniva per

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ultima, come veicolo della musica e non come punto di partenza sul quale la musica andasse adattata. Nell’unica revisione di un testo classico che Gieseking ci abbia lasciato, quella degli Improvvisi e dei Momenti musicali di Schubert, la diteggiatura suggerita è sem­ pre compostissima e tradizionale. Quando Gieseking propone una novità la propone per una ragione musicale, non per agevolare l’esecuzione. Per esempio, all’inizio dell’improvviso op. 90 n. 4 Gieseking adotta una diteggiatura insolita, ma dice: «Il revisore ritiene che l’esecuzione uguale e periata dei sedicesimi sia più facile se si evita l’impiego del pollice». Il passo, con la diteggiatura di Gieseking, non è più facile meccanicamente (anzi, è più difficile, meccanicamente}, ma è più facile in rapporto con la sonorità, per­ iata, da cavare dallo strumento. Mi sembra che questo fosse il principio di diteggiatura al quale obbediva Gieseking, che riusciva sempre a risolvere il problema tecnico-musicale della sonorità e non sempre il problema tecnico-meccanico del movimento delle dita, ma che non cercava per questo il trucco capace di mascherare una momentanea inesattezza. Le indicazioni dei testi a cui Gieseking non si adegua sempre sono quelle per il pedale di risonanza. Questa è del resto la posi­ zione culturale di tutti i pianisti della sua e della precedente gene­ razione, con l’eccezione, tra i maggiori, del solo Schnabel. L’osser­ vazione che faccio vale prima di tutto per Beethoven. Ma, mentre la questione del pedale di risonanza in Beethoven ha preoccupato e preoccupa anche i maggiori interpreti beethoveniani, stupisce il fatto che Gieseking non si sentisse vincolato dalle indicazioni di pedale di Debussy e di Ravel. Per Beethoven resta il dubbio della diversità tra pianoforte del principio dell’ottocento e pianoforte moderno; nel caso di Debussy e di Ravel, compositori che scrive­ vano per il pianoforte moderno, non dovrebbero invece sussistere dubbi ragionevoli sulle indicazioni di pedale. Ora, si ascoltino ad esempio le spezzature di pedale di Gieseking alla fine di Voiles di Debussy e di ]eux d’eau di Ravel. In questo caso il pensiero di Gieseking diventa intellettualistico: le indicazioni originali di pe­ dale non vengono rispettate in omaggio ad un’astratta chiarezza sonora che scavalca ed annulla qualsiasi volontà dell’autore. Ci troviamo cioè ancora in una posizione simile a quella degli inter­ preti dell’ottocento che correggevano certi accordi di Beethoven o

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di Chopin perché non giustificabili secondo una pretesa «scienza» dell’armonia. Il principio di chiarezza a cui Gieseking obbedisce è un qualcosa che trascende la volontà degli autori, o è un limite che neppure la volontà dell’autore può, in' nessun caso, valicare. Ciò, ovviamente, non esclude che Gieseking sapesse pedalizzare in modo mirabile, e spesso veramente geniale, in tutti i vastissimi tratti nei quali il compositore lascia l’uso del pedale alla discrezione dell’interprete. Basta ricordare, per citare musiche molto lontane tra di loro, il secondo tempo del Concerto italiano di Bach, l’Adagio della Sonata op. 2 n. 3 di Beethoven, la Berceuse di Chopin, la Vallee des cloches di Ravel. Un altro aspetto del neoclassicismo di Gieseking consiste nel ripudio delle trascrizioni di Bach e Scarlatti. Il ritorno ai testi autentici di Bach e Scarlatti non avviene però solo per amore delle musiche obliate o manomesse (il repertorio concertistico bachiano e scarlattiano di Gieseking era abbastanza ristretto). Bach e Scar­ latti sono invece, per Gieseking, una scuola in cui si possono imparare modi di creare sonorità pianistiche inusitate. A Tausig, come risulta chiaramente dalle sue trascrizioni, interessava ritrova­ re in Scarlatti quel che Mendelssohn o Chopin vi avevano scorto; a Gieseking interessava ritrovare quel che poteva avervi scorto De­ bussy. Si ascoltino le Sonate L23oL413oL 443; non più sonorità morbide e calde, non più una dolcissima cantabilità, non più flauti e viole e corni in lontananza, ma una sonorità o limpida o prurigi­ nosa, suoni di cristallo come in vecchi carillons e suoni asprigni di mandolini, una cantabilità elegante ma senza affettuosità senti­ mentale. Sono, questi, l’ambito espressivo e il mondo sonoro in cui il Debussy della Suite bergamasque rivive il Settecento e sono queste le dimensioni in cui, secondo Gieseking, si collocano i compositori settecenteschi. Naturalmente, Gieseking, rifiutando le trascrizioni da Bach e la sonorità bachiana elaborata dai pianisti dell’ottocento (cioè, im­ plicitamente, la romanticizzazione di Bach), non predilige il Bach clavicordistico ma il Bach clavicembalistico, non predilige il Bach contrappuntistico ma il Bach galante: nei suoi programmi non compaiono quindi né i Preludi e fughe né le Toccate, ma le Suites e le Partite. Per avere un’idea dello stile di esecuzione di Gieseking ascoltiamo la Partita n. 6 di Bach. Non ricordo se in pubblico

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Gieseking realizzasse o no tutti i ritornelli; nell’incisione non li realizza, e con ciò altera la forma complessiva, anche se rende all’ascoltatore tutte le note scritte da Bach. A parte i ritornelli, però, sono i tempi, in questa esecuzione di Gieseking, che sembrano sempre un poco affrettati. Si direbbe che ci sia nell’interprete un timore di annoiare il pubblico e forse il timore di rendere Bach troppo espressivo. Certo è però che, accanto alla chiarezza del discorso e alla scioltezza della ritmica (che non ha nulla della rigida secchezza scolastica tanto cara ai didatti dell’inizio del secolo), l’esposizione del contenuto musicale manca di sottolineature, di varietà di toni, di retorica, intendendo la retorica come arte del ben dire. Stranamente, assai più libero è il fraseggio della Suite in mi maggiore di Hàndel; forse, qui Gieseking non doveva temere il confronto con un’immagine tradizionale del compositore ed era quindi meno condizionato da fattori esterni. Certamente, il suo Hàndel appare meno legato ad un momento di rottura e di trapasso da una cultura tardoromantica ad una cultura neoclassica, mentre il suo Bach ha soprattutto il valore di una proposta che sconvolge la tradizione. Dove Gieseking ci appare veramente libero da ogni condizionamento è però in Scarlatti. La timbrica variegatissima, per la quale egli andava famoso, qui gli serve per mettere a fuoco, su piani prospettici diversi, le linee portanti del discorso scarlattiano, nel quale egli sente sempre, e intende far sentire, la tendenza alla spazialità delle fonti sonore. Una cantabilità che gioca sul fraseggio e non su suggestioni vocalistiche, un virtuosismo che si sfoga in gioiosa esuberanza senza diventare mai meccanico completano la lezione scarlattiana di Gieseking, evidentemente legata a filo dop­ pio alla sua concezione dei simbolisti francesi. Si paragonino le esecuzioni di Gieseking e di Lipatti della celebre Sonata in re minore L 413: Lipatti (di ventidue anni più giovane di Gieseking) indulge ancora lievemente, nostalgicamente, ad un fraseggio alla Tausig. Gieseking ha creato un fraseggio interamente nuovo. Si paragonino le esecuzioni di Gieseking e di Casadesus della Sonata in re maggiore L 424: Gieseking è brillante e virtuosistico, ma non astrattamente impeccabile, mentre Casadesus fila con la sicurezza impersonale e impassibile del prestigiatore. Lo Scarlatti e il Bach di Gieseking, pur essendo razionalistici, pittorici, a-romantici, non sono però così rigorosamente asciutti

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come quelli di altri interpreti neoclassici. Anche in Scarlatti e in Bach, in certe minime ma frequenti inflessioni del fraseggio, com­ pare quello che secondo me è il carattere fondamentale della personalità di Gieseking: la malinconia. Gieseking tende spesso a mantenere in un clima di generale malinconia anche pagine molto vaste: nella sua interpretazione del Concerto in sol maggiore di Beethoven, ad esempio, la malinconia è il tono sentimentale di fondo, dal quale l’interprete si allontana appena lievemente in qualche momento dell’ultimo tempo. A volte Gieseking riesce veramente affascinante, e sarei tentato di dire insuperabile, nell’espressione della malinconia: così nelle Varia­ zioni sinfoniche, di Franck, sia nella versione diretta da Henry Wood, che è del 1933, sia in una esecuzione del 1940 ad Amster­ dam, con Willem Mengelberg sul podio: esecuzione in cui, sia detto senza paradosso, l’inquietudine morale dei «collaborazionisti» Gieseking e Mengelberg acquista dimensioni da crepuscolo degli dei. In questi casi Gieseking non teme neppure di apparire senti­ mentale, né di adottare un fraseggio molto minuto ed una larghis­ sima elasticità nella scansione ritmica, che di solito non si concede. Gieseking riesce superbamente nelle pagine in cui si manifesta la malinconia dell’ultimo romanticismo e del decadentismo: in Franck e in Grieg (nel Concerto, ma soprattutto nei Pezzi lirici, come dirò poi), negli Intermezzi di Brahms, in alcuni Preludi di Debussy, nella Pavane pour une infante defunte e in Ondine di Ravel, in due Lieder di Richard Strauss da lui trascritti. Altrettanto memorabili sono le letture di pezzi intimisti romantici: tra le sue più alte realizzazioni sono le esecuzioni di brevi composizioni di Schu­ bert, Schumann, Chopin, e di diciassette Romanze senza parole di Mendelssohn. In Mendelssohn Gieseking cerca di scoprire che cosa si celi sotto quell’apparente serenità, sotto quella calma felice, sotto quell’olimpico dominio dei sentimenti e della materia sonora. E il Men­ delssohn rivelato da Gieseking è ben altro da ciò che di solito ci immaginiamo: è un artista nel quale lo spleen romantico si colora di tinte fosche e nel quale affiorano un pessimismo che preannuncia Chopin, un senso della sconfitta che si ricollega a Brahms, una dissoluzione della forma che si attuerà nell’ultimo Liszt. Non dico che Mendelssohn diventi improvvisamente il veggente in cui si

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rispecchia a rovescio tutto il secolo; ma Gieseking riesce a porre in evidenza il fatto, di cui molto spesso ci si dimentica, che anche Mendelssohn appartiene al Romanticismo e non al salotto Biedermeier. Se ascoltiamo in particolare le Barcarole ci rendiamo conto di quanto penetrante, di quanto storicamente acuta fosse la lettura di Gieseking. Altro che passeggiatine sulla laguna: c’è già all’oriz­ zonte lo spettro della Lugubre gondola di Liszt! L’altra insuperabile lezione Gieseking ce la dà nella scelta dei Pezzi lirici di Grieg. Dire che Gieseking interpreti perfettamente i Pezzi lirici è dire ancor troppo poco: egli li affronta con una simpatia, con un amore trepido, che non escludono però la capacità di giudizio, che non inducono a cercar trucchi per far apparire i pezzi interpretati più belli e più storicamente importanti di quanto non siano. Per esempio, un interprete di Debussy e di Ravel qual è Gieseking sa escludere in Grieg qualsiasi ricorso alla paletta tim­ brica dell’impressionismo, a meno che la musica non lo richieda; e siccome nella scelta di trentuno Pezzi lirici l’esigenza di una tim­ brica più ricca capita una volta sola, in Folletto op. 71 n. 3, Gieseking sfodera solo una volta le magie illusionistiche di cui è capace: certo che i si bemolle in lontananza di Folletto fanno sobbalzare l’ascoltatore! Altra virtù di Gieseking è di non masche­ rare il sentimentalismo di Grieg quando si presenta: si ascolti per esempio il modo sospirato e rotto con cui viene detta la melodia di Ai tuoi piedi (pezzo emblematico già nel titolo). Né Gieseking cerca di rendere meno monotoni i procedimenti compositivi più manierati (come la continua ripetizione variata delle semifrasi o l’eterna struttura tripartita). Ma la maggior raffinatezza, la maggior perfezione consiste nella voluta imperfezione tecnica dei passi ec­ cedenti la media difficoltà. Qui Gieseking coglie veramente un aspetto essenziale dell’emo­ tività di Grieg e il senso del suo rapporto con il pubblico del suo tempo. I Pezzi lirici furono tra le pagine più eseguite, nei decenni a cavallo tra i due secoli, da tutti coloro (specialmente donne) che suonavano il pianoforte per loro diletto. I dilettanti, si sa, spesso suonano benissimo, ma incontrano sempre difficoltà nei passi di agilità e nei ritmi appena appena un poco complessi, ed allora affannano e riescono a venirne fuori con esecuzioni ritmicamente approssimative, traballanti. Ora, i superstiti rulli di pianola incisi da

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Grieg in persona ci dimostrano che anche Grieg suonava come un dilettante: pianista di un gusto squisito, ma soggetto anche lui a tutti gli affanni di chi non sa muoversi con pieno dominio di sé quando procede ad alta velocità. Proprio queste caratteristiche di Grieg pianista spiegano in parte il suo enorme successo presso il pubblico dei dilettanti: l’emozione che nasce dal passo, dal mo­ mento rischioso non è «aggiunta» alla musica, non le è estranea (come accade invece se il pianista si emoziona in Chopin o in Liszt), ma fa parte della musica, fa parte del ritmo segreto che non corrisponde al ritmo scritto. Gieseking sa sempre cavar fuori il ritmo segreto, la respirazione affannosa: si ascolti con quanta im­ precisione vengano realizzate le piccole sovrapposizioni poliritmi­ che, i suoni ribattuti, gli arpeggi del celebre In primavera, o quanto sia confusa, pasticciata la parte centrale di Ritorno al paese. E tutto ciò senza ironia, ma con la tranquilla obbiettività di chi legge il passato per conoscerlo, non per esaltarlo o per distruggerlo. La testimonianza di Gieseking sulle piccole pagine dell’ottocento minore non verrà facilmente rinnovata: perché, almeno oggi, ten­ dono a prevalere nell’interprete l’ironia o il gusto ostentato del Kitsch. Le audizioni dello Schlummerlied di Schumann o della Prima­ vera di Mendelssohn bastano da sole a dar ragione di come Giese­ king impostasse la realizzazione della scrittura pianistica tipica dell’intimismo romantico e postromantico. La parte superiore, la «melodia», è cantata con un suono molto pieno e di lunga riso­ nanza; la parte inferiore (che qualche trattatista tedesco chiama, non inopportunamente, «seconda melodia») ha una sonorità di minor durata ma ancora cantabile; la parte di mezzo è molto leggera, con un suono breve, arpistico, sul quale pare addirittura non influire il pedale di risonanza (che, viceversa, è ampiamente impiegato). Ciò riguarda, in astratto, un problema fondamentale che tutti i pianisti debbono risolvere. In concreto, però, il rapporto trovato da Gieseking è quasi miracoloso: la chiarezza — la chiarezza che è il pregio sommo e il limite dello stile di Gieseking — è tale che l’audizione, sotto questo aspetto, equivale alla lettura sulla carta: tutto è perfettamente percepibile. Questo personalissimo rapporto di sonorità viene mantenuto da Gieseking anche in Debussy e in

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Ravel, dove non di rado due tipi di sonorità vengono prodotti nella stessa zona della tastiera anziché in zone diverse (c’è una variante, con un’attenuazione abbastanza sensibile del peso sonoro della melodia, che Gieseking usa specialmente in Debussy). Ciò che dico, s’intende, è una grossolana descrizione di esecu­ zioni che vanno ascoltate e nelle quali s’incontrano minute varianti nei tipi e nei rapporti di sonorità, e così mutevoli e geniali da lasciar talvolta increduli rispetto alla resa del fonografo. Ho già citato Folletto di Grieg: citerò un altro caso. Alla fine di Des pas sur la neige di Debussy Gieseking realizza un incredibile effetto di lon­ tananza, quasi di eco, che sembrerebbe dovuto ad un trucco del­ l’incisione; ci vuole l’audizione della prima versione, sul non truccabile disco a 78 giri, per convincere che l’incisione non mente. L’interpretazione di Debussy e di Ravel invita l’ascoltatore a cercare di meglio individuare la posizione spirituale di Gieseking nel mondo moderno. Gieseking, come dicevo, può esser definito interprete neoclassico, ma solo nel senso che egli accoglie le esi­ genze neoclassiche di un nuovo rapporto tra interprete e autore. Spiritualmente, invece, egli sembra non essere andato oltre il sim­ bolismo. Grande interprete delle composizioni anteriori alla Grande Guerra, Gieseking non riesce altrettanto felicemente negli Studi di Debussy o nel Tombeau de Couperin di Ravel. La predile­ zione per Debussy e Ravel e le giustificazioni critiche di questa predilezione si inseriscono in realtà chiarissimamente nelle teoriz­ zazioni dell’Art Nouveau sulla consonanza dell’artista con le forze della natura, e mi sembra che a Gieseking i due compositori fran­ cesi comincino a diventare meno congeniali là dove non sono riconducibili ad un certo ambito storico-culturale. Anche questa volta, però, non posso andare con sicurezza oltre le mie impressioni e non potrei contrapporre altro che un’analisi minuziosa — e pure non conclusiva — a chi si dichiarasse del tutto soddisfatto dell’in­ terpretazione del Tombeau. Solo altri documenti biografici, molto più numerosi di quelli per ora noti, potrebbero permettere, me­ diante una più approfondita conoscenza della formazione e del pensiero di Gieseking, di dare una precisa giustificazione a quanto mi sembra di intuire. Non si potrebbe però neppure definire Gieseking come appar­ tenente in tutto al simbolismo, così come non si può dirlo in tutto

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neoclassico. Gieseking resta sempre l’interprete dei sentimenti di­ retti, non dei sentimenti riflessi: sa cogliere, in qualunque autore la trovi, una malinconia senza angoscia, sa cogliere il senso degli affetti intimi, può persino accettare i robusti slanci di eroismo di Beethoven (Concerto in mi bemolle maggiore). Ma l’eroismo vel­ leitario, gli impossibili sogni di gloria di Brahms, ad esempio, già lo mettono a disagio: la sua interpretazione della Rapsodia op* 119 n. 4 è, per un artista della sua levatura, quasi grottesca, e la parte centrale dell’intermezzo op. 118 n. 6 è condotta con una seriosità che non sfiora neppure la vertiginosa allucinazione brahmsiana. Lo stesso discorso andrebbe fatto per l’umorismo di Beethoven e per lo spirito caricaturale di Debussy. È sorprendente, ad esempio, la tranquilla compostezza con cui Gieseking affronta il finale del Concerto in do maggiore di Beethoven, in contrasto con il mali­ zioso umorismo che il direttore von Karajan vede nella pagina e fa realizzare all’orchestra. Ed è sorprendente la rigidezza del fraseggio in brani come la Serenade interrompue o Generale Lavine-eccentric di Debussy. Semmai è l’umorismo di Schumann (nei Davidsbundlertànze, ad esempio) che viene accettato da Gieseking senza riser­ ve: l’umorismo che nasce da un profondo rapporto affettivo con il mondo circostante, l’umorismo del giovane scalmanato Schumann già votato a rientrare nell’alveo delle tradizioni e ad accettare l’ideologia borghese. C’è un fondo di spirito Biedermeier in Gie­ seking, di amore per la sana quotidianeità della vita, per l’ordine, per l’operosità; spirito Biedermeier che, frustrato nelle sue aspira­ zioni, si rovescia in malinconia, in pessimismo immanente. E qui si pone il discorso di Gieseking sul ribelle Mozart. Quando morì, Gieseking stava per completare l’incisione in disco delle Sonate di Beethoven fino a quel momento aveva inciso l’opera omnia per pianoforte solo di Debussy, Ravel, e Mozart. Delle interpretazioni mozartiane di Gieseking si discusse molto quando furono pubblicate tra il 1950 e il 1955. I dischi mozartiani non accontentarono interamente alcun critico, e non si potrebbe dire che accontentino del tutto oggi; ma c’è in essi una novità di fondo, che non fu riconosciuta nel 1955 e che appare 1 Gieseking aveva registrato nel 1949-50 tutte le Sonate di Beethoven per la Radio di Saarbriicken; la registrazione non è stata fino ad oggi pubblicata.

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invece rivoluzionaria. L’aspetto più evidente è l’atteggiamento an­ tivirtuosistico di Gieseking, l’atteggiamento antivirtuosistico che, proprio per la mancanza di finitezza tecnica, rappresentava una fondamentale svolta storica nell’interpretazione mozartiana perché recuperava un aspetto originario del pianoforte di Mozart, la de­ stinazione al pubblico dei dilettanti e dei loro colti ascoltatori. Gieseking còglieva per l’appunto questa dimensione, per tanti anni rimasta dimenticata e ignorata, dell’arte pianistica mozartiana, guidando così l’interpretazione di Mozart in una svolta decisiva. L’interpretazione delle opere per pianoforte solo di Mozart apre un discorso più ampio. Gieseking aveva intenzione di incidere tutte le Sonate di Beethoven ed aveva nei suoi progetti l’incisione delle Sonate di Schubert. La sua idea, penso, era di offrire un’interpre­ tazione globale del classicismo viennese (avrebbe poi pensato an­ che a Haydn?), forse in tacito disaccordo con l’interpretazione di Schnabel. La serie delle Sonate di Beethoven è stata comunque completata con registrazioni radiofoniche, e la collocazione dello stile di Gieseking nella storia dell’interpretazione di Beethoven riesce comprensibile; non si capisce invece bene la posizione ideo­ logica che Gieseking intendeva attribuire a Beethoven. È invece molto grave che nella discografia di Gieseking lo Schubert sonatista sia rappresentato solo dall’op. 78. Se avessimo almeno otto o nove Sonate di Schubert potremmo capire come Gieseking intendeva interpretare una civiltà: la mancanza di Schubert ci impedisce di cogliere quella sintesi che era nelle intenzioni di Gieseking, e che costituiva in realtà l’aspetto geniale della sua idea, ancora rivolu­ zionaria per i suoi tempi e non ben matura nemmeno oggi. Come ho già detto parlando di Schnabel, interpretare l’opera completa o gran parte dell’opera completa di Mozart, Beethoven e Schubert significa interpretare, attraverso un frammento di storia della letteratura pianistica, la civiltà di Vienna dall’era di Giusep­ pe II all’era di Metternich, dall’illuminismo alla restaurazione, dalla nascita alla morte di idealità che investivano la società tutta, il rapporto tra il musicista e la società, il rapporto tra il musicista e il suo operare. Questo gigantesco sforzo di sintesi storica Gieseking non potè condurlo a termine, e noi possiamo solo immaginare quali esiti avrebbe dato. Riconducendo Mozart all’ambito di un rapporto tra il composi-

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tore e il pubblico dei colti dilettanti, Gieseking schiva gli aspetti dirómpenti e demoniaci dell’arte di Mozart. Questa visio­ ne, mi pare, viene continuata e approfondita nell’interpretazione delle Sonate di Beethoven: nell’interpretazione beethoveniana di Gieseking gli aspetti più rivoluzionari non vengono messi in evi­ denza, gli aspetti drammatici non sono sottolineati ma attenuati, guardati con una misura confinante con lo scetticismo. C’è per ogni dove un senso di malinconia, di gentilezza, di rinuncia, un ripie­ garsi su di sé, quasi considerando illusoria la beethoveniana cer­ tezza che la realtà storica possa essere cambiata. E l’interpretazione delle Sonate di Schubert si sarebbe prestata a concludere logica­ mente questa parabola, questo senso della sconfitta finale che, retrospettivamente, potrebbe già incombere sulle opere eversive di Mozart. All’opposto di Schnabel, che nella Vienna classica vede il mito profetico dell’umanità nuova, Gieseking sembra vedervi la storia di una disfatta, da cui nasce, unico mondo possibile, il mondo di Mendelssohn destinato a sua volta a dissolversi. Si può supporre che dopo il 1945 Gieseking identificasse la Vienna tra i secoli XVIII e XIX con la Germania da Bismarck a Hitler e la Germania del Vormàrz con la Germania federale, e che alla base della sua inter­ pretazione, come dell’interpretazione di Schnabel, giocasse un transfert inconscio. E tuttavia ameremmo molto di poter vedere com’egli avrebbe realizzato le sue convinzioni, come avrebbe lega­ to la Sonata in la minore di Mozart all’op. 42 di Schubert, come avrebbe legato Schubert a Mendelssohn, come avrebbe magari reinterpretato, alla luce di Mendelssohn, lo stesso Bach del Clavi­ cembalo ben temperato2, È una verifica impossibile, purtroppo. Una lacunosa documen­ tazione sonora e la mancanza di una biografia critica e del­ l’epistolario ci impediscono di valutare nella sua interezza la figura di Gieseking. La logica interiore dell’arte interpretativa di Giese­ king non si delinea con la chiarezza che vorremmo trovarvi, e siamo allora indotti a distinguere un Gieseking eccelso e un Gieseking 2 Gieseking registrò il Clavicembalo ben temperato nel 1950, prima di aver riletto in modo straordinariamente nuovo la scelta delle Romanze senza parole di Mendelssohn.

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non eccelso, un interprete che illumina potentemente i testi e un interprete che li espone con abilità. Conclusione che sarebbe sba­ gliata: bisogna invece dire che Gieseking, grande ma neppure eccelso pianista, appartiene al ristrettissimo numero di coloro che, come diceva Ferruccio Busoni, non scelgono alcuni pezzi per pre­ sentare se stessi, ma presentano agli altri la letteratura musicale, e in una misura tale e con tale forza di sintesi da diventare giudici del proprio tempo. Il monito di Gieseking sembra esser quello del poema che ispirò Ondine a Ravel: mi supplicò di ricevere nel dito il suo anello per esser sposo d’una Ondina, e di visitare con lei il suo palazzo per essere re dei laghi. Ma siccome rispondevo che amavo una mortale...

O, più indietro ancora, in quell’anno 1824 in cui Beethoven terminava la Nona Sinfonia, possiamo trovare nel Dialogo di Fe­ derico Ruysch e delle sue mummie di Leopardi la verità profonda in cui Gieseking credeva. O ancora più indietro, nella Melancholie di Dùrer...

CLASSICISMO E IPERCLASSICISMO

La tradizione francese della ciarle, dell’esprit géométrique, del ri­ gore razionalistico disposto a delimitare e incanalare la realtà mul­ tiforme per meglio dominarla, vale anche per il pianoforte: i pia­ nisti francesi suonano netto, suonano frastagliato, rinunciano alle grandi masse di suono, diffidano del pedale di risonanza, detestano l’espressione troppo diretta, tendono a considerare il pianoforte, quasi in modo etimologico, come un «gravicembalo col piano, e forte». Oggi questa tradizione non è più così dominante come un tempo, perché già Cortot la mise in crisi e perché i giovani non si sentono più tanto sicuri della grandeur della déesse France e gettano occhiate golose verso la corposa brillantezza degli americani. Ma fino alla fine dell’ottocento i dettami del patriarca Antoine Francois Marmontel — il goùt distingue, gusto aristocratico, e la netteté irreprochable, irreprensibile precisione — eran leggi da cui non si sgarrava. E Robert Casadesus, nato il 7 aprile 1899, fu l’ultimo pianista francese di fama mondiale che rimanesse ferma­ mente inserito dentro una linea iniziata dal tedesco francesizzato Friedrich Kalkbrenner e proseguita da Camille Saint-Saéns, da Francis Planté, da Louis Diémer, da Raoul Pugno. Kalkbrenner aveva messo a punto una semplice macchinetta, il Guidamani, con la quale allenava i movimenti articolatori delle dita (le nocche) e della mano (il polso) con braccio immobile. «Non si deve suonare tutto di polso, come vorrebbe Kalkbrenner», scriveva Chopin negli appunti per un Metodo che non terminò mai. Furono però le regole di Kalkbrenner, non le controregole di Chopin, quelle che domi­ narono il campo della didattica e che illuminarono i laboriosi addestramenti delle schiere francesi di pianisti e di pianiste. «Pia-

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no: indispensable dans un salon», scriveva Flaubert ^Dizionario dei luoghi comuni', figuriamoci un po’ quante fanciulle appoggias­ sero vezzosi avambracci sulla barra principale del GuidamaniX fl Guidamani aveva questo di notevole: chi non era tagliato per suonare il pianoforte non se ne liberava più per tutta resistenza, e chi era nato pianista poteva gettarlo via dopo pochi mesi. In Francia l’insegnamento privato puntò forte sul Guidamani for ever, ma l’insegnamento pubblico puntò sui grandi talenti naturali, la­ vorati e licenziati a tempo di record. Alla fine del secolo il Guidamani non si usava più, ma il sistema addestrativo iniziato con il Guidamani era giunto al massimo della perfezione. Casadesus, allievo di Diémer, vinse il primo premio del conservatorio nel 1913, a quattordici anni, ed iniziò la carriera alla fine della guerra. Se fosse stato un pianista di... medio calibro avrebbe potuto farsi tranquillamente le sue piazze di provincia per arrivare a tempo debito a Parigi. Ma essendo potenzialmente un grande pianista, ed essendo un pianista di tradizione, capì subito quanto l’orizzonte francese fosse chiuso da un gigante che la tradizione l’aveva rivo­ luzionata, Alfred Cortot. Casadesus andò così, potremmo dire, a fare il pianista francese negli Stati Uniti d’America, mentre due altri grandi pianisti, Robert Lortat e Yves Nat, che restarono in Francia, finirono schiacciati dall’ombra di Cortot. La carriera di Casadesus lievitò in America e in America egli fu sempre più famoso che non in Europa, dove suonò tuttavia rego­ larmente e dove ottenne successi senza passar mai nel recinto dei mostri sacri. Attivissimo, anche in duo con la moglie Gaby e con il violinista Zino Francescatti, anche come compositore, anche come insegnante del Conservatorio Americano di Fontainebleau, Casa­ desus percorse in continuazione l’Europa e l’America prima e dopo la seconda guerra mondiale, fino alla morte, il 19 settembre 1972. Grande pianista di tradizione francese, Casadesus fu soprattutto un grandissimo interprete dei lavori in cui raccoglieva direttamente l’eredità del suo maestro Diémer: nei Concerti di Saint-Saèns, nelle Variazioni sinfoniche di Franck, nella Sinfonia su un canto mon­ tanaro francese di d’Indy, in Chabrier, nei claviccmbalisti francesi; in alcuni Concerti di Mozart, nei Concerti di Beethoven, nel Concertstùck di Weber ripropose il meglio che la tradizione francese aveva saputo scoprire interpretando la cultura tedesca. Fu anche

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interprete impegnatissimo di Debussy e di Ravel, ma qui il suo atteggiamento sostanzialmente conservatore lo portò ad una con­ cezione che a molti critici parve riduttiva; con una eccezione: il Concerto per la mano sinistra di Ravel, di cui Casadesus ci ha lasciato un’esecuzione di una trasparenza virtuosistica impressio­ nante. Per capire Casadesus, e per amarlo in ciò che ha di più personale, basta ascoltarlo in due dei suoi cavalli di battaglia, le Variazioni sinfoniche di Franck e il Concertstùck di Weber. Pochi pianisti hanno avuto dita così scattanti e sicure nel finale del Concertstùck o in certi episodi delle Variazioni sinfoniche, ma pochi hanno saputo inserire con pari equilibrio, in tutto l’insieme, i dolenti inizi di entrambi i lavori perché, in altre parole, il virtuosismo da presti­ giatore non arriva come esibizione ma come culmine di giubilazio­ ne in una progressione sentimentale rigorosamente controllata. L’estetica di Casadesus è quella del manierismo francese, è quella di Saint-Saéns: estetica certamente superata, nel nostro secolo, ma non antiquata. E le interpretazioni di Casadesus sono perciò testi­ monianza viva di un indirizzo di cui non si può non tener conto e che non si può non considerare essenzialmente nella storia della cultura.

Per Liszt, fondatore del concertismo pianistico, la letteratura rappresenta un movimento storico progressivo che, attraverso l’o­ pera ciclopica di alcuni giganti, arriva fino a Liszt stesso. Anton Rubinstein riprende la metafora spostandone il termine — con grandiosa, barbarica, delirante megalomania — in se stesso, in Anton Rubinstein. I successori tedeschi di Rubinstein spostano il termine a Brahms e Gieseking lo sposta a Ravel. Ma già Schnabel tende ad abbandonare la storia per ritrovarla come mito, e lo stesso Gieseking, autore della più vasta ricognizione sulla letteratura del primo Novecento che mai si sia vista, salva Debussy e Ravel e li allinea ai grandi dell’ottocento ma come incarnazioni moderne di un mito della cultura tedesca. H neoclassicismo, che pure rilegge il passato in edizioni filologi­ camente corrette, non è storicistico ma mitico, e non è storicistico perché in tempi in cui si vanno affermando, dopo le ricerche

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filologiche sui testi, le ricerche filologiche sugli strumenti, continua a vedere il pianoforte moderno in una luce di mistica adorazione. Mi capitò una volta di fare un’intervista a Wilhelm Kempff, che stava eseguendo a Roma — nel 1967 — il ciclo delle trentadue Sonate di Beethoven. Alla domanda «Lei ha pratica di pianoforti del tempo di Beethoven?» Kempff rispose: «Sì, nella collezione degli strumenti musicali di Berlino e di Vienna e nella Beethovenhaus di Bonn. Povero Beethoven! Ricordo ciò che disse nei riguardi di Schuppanzig: “Costui crede forse che io pensi al suo misero violino, quando lo spirito mi parla?”. Nel 1967 si potevano già trovare in disco esecuzioni di Sonate di Beethoven su strumenti appartenuti a Beethoven o coevi e Paul Mies aveva già posto criticamente il nuovo problema, quello dell’Urton (suo originale) che andava ad aggiungersi al già affrontato problema dell’Urtext (testo originale). Kempff pensava invece ancora al pianoforte come allo strumento che, evolvendosi e migliorando nel corso dell’Ottocento, aveva raggiunto nel Novecento la perfezione assoluta della costruzione, diventando il solo legittimo «sonorizzatore» della let­ teratura. Anzi, Kempff si muoveva in prospettive ancor più radi­ calmente anacronistiche perché trascriveva per pianoforte musiche di Bach e persino il Lamento di Orfeo o quella Danza degli spiriti beati di Gluck che, nella trascrizione di Sgambati e sotto il titolo di Melodia, era stata una gemma del repertorio spicciolo di tutti i pianisti di fine Ottocento. A dire il vero, legandosi allo «stile da camera» delle trascrizioni di Busoni Kempff riusciva a darci gustose versioni pianistiche sia della Danza di Gluck che di Wachet auf o del Siciliano di Bach; ma proprio la sua pertinacia nel trascrivere dava e dà la misura di una sua estraneità ai problemi della seconda metà del nostro secolo, ed il suo repertorio ed il suo modo di affrontarlo danno la misura del conservatorismo delle sue scelte. Coetaneo di Gieseking, e sopravvissuto a Gieseking per più di un quarto di secolo, Kempff non condivide le inquietudini di Giese­ king e si accontenta di ripercorrere pacatamente le tematiche di Schnabel, Backhaus e Fischer. E difficile per me parlare di Kempff, artista autentico e schietto che impone grande rispetto e che dell’arte ha una concezione severa ed austera, ma che raramente ho desiderato ascoltare e le cui interpretazioni, in genere, non mi hanno mai sorpreso e non mi

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hanno posto problemi critici. Può darsi ch’io sbagli. Tuttavia, se ci sono artisti che mi hanno sempre affascinato per le loro idee, altri che mi hanno sempre infastidito per la loro, banalità, altri sui quali ho mutato parere dopo lunghe battaglie con me stesso, con Kempff non ho avuto reazioni se non, appunto, di rispetto e di estraneità. Ciò non toglie che certe sue interpretazioni — il Concerto K 246 di Mozart, alcune Sonate e soprattutto le Bagatelle di Beethoven, alcune cose di Schubert e di Brahms, parecchie di Schumann — non mi piacciano, e molto. Non mi sembra però di trovare in Kempff una motivazione per la rilettura della civiltà pianistica tedesca così originale e così appassionata come quella che aveva mosso gli altri artisti del suo tempo. Non a caso gli artisti tedeschi della «generazione dell’ottanta» divennero riformatori del concertismo pianistico. Dagli inizi della letteratura pianistica fino a oltre la metà dell’ottocento la musica per pianoforte è, per così dire, un affare austrotedesco. Che cosa possono contrapporre l’Italia, la Francia, la Spagna e la Russia a Haydn, Mozart, Beethoven, Weber, Schubert, Mendelssohn, Schumann, Brahms? Al lettore la risposta. Solo la Polonia può vantare Chopin e l’Ungheria Liszt: il primo fatto proprio quasi subito dalla cultura tedesca, il secondo fatto proprio con maggiori difficoltà e soltanto per certi aspetti. La tradizione pianistica tede­ sca si fonda quindi su di una cultura di casa che domina il mondo, cultura nella quale si sente ben piantata e di cui si presenta come legittima interprete. Ma quando i russi cominciano a farsi vivi con Mussorgski e Ciaikovsky e i francesi con Chabrier e Franck, e quando i russi esportano Scriabin e Rachmaninov ed i francesi Debussy e Ravel, il predominio austro-tedesco vacilla violente­ mente. Tra i Pezzi op. 119 di Brahms (1893) e i Pezzi op. 11 di Schonberg (1909) la musica pianistica tedesca non può contrap­ porre altro che Max Reger a Scriabin, Rachmaninov, Debussy, Ravel. È una specie di vendetta postuma di Liszt, i cui aspetti rifiutati dalla cultura tedesca fruttificano in Russia e in Francia; la cultura tedesca non può che reagire ripiegandosi su se stessa. La prima generazione di pianisti tedeschi che s’affaccia sul no­ stro secolo, quella rappresentata da Schnabel, Backhaus e Fischer, reagisce appunto al momento storico in cui si trova ad operare con un movimento di riscoperta e di difesa di valori culturali nazionali,

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chiudendosi di fronte ad influssi esterni e rifiutandoli. Schnabel, Backhaus e Fischer riprendono e ripercorrono, ad un livello molto più profondo di quello dei loro predecessori, la letteratura austro­ tedesca. In questo grandiosissimo, superbo moto di reinvenzione e di sintesi culturale era insito il pericolo di cristallizzare la tradizione, negandole gli arricchimenti che potevano venirle da altre espe­ rienze e tagliandola fuori dal procedere della storia. Gieseking, come abbiamo visto, ed il suo coetaneo Eduard Erdmann, come vedremo, iniziano perciò come interpreti di musica contemporanea e senza quasi porre confini ai loro interessi. E poco importa che anche la conclusione di Gieseking sia in sostanza mitizzante, perché Gieseking scopre una dimensione mitica diversa da quella dei suoi predecessori. Kempff si trova invece a concludere processi storici già bene avviati da altri senza sviluppare ciò che dagli altri era stato appena abbozzato o che era stato trascurato. Tocca infatti a Kempff — ed è questo, in contrapposto con i suoi limiti, il suo maggior merito — di concludere quella rivalutazione di Schubert che ap­ proda all’equiparazione di Beethoven e Schubert: tesi avanzata da Schnabel, sviluppata da Gieseking e da Erdmann, e di cui Kempff dà la dimostrazione quando, tra il 1964 e il 1970, mette insieme la prima incisione completa delle Sonate di Beethoven e delle Sonate di Schubert dovuta ad un solo interprete, incisione nella quale Beethoven e Schubert sono visti come aspetti complementari e inscindibili della civiltà tedesca tra l’illuminismo e la restaurazio­ ne Ma a Kempff, come dicevo, manca la capacità di andare oltre a Schnabel e a Fischer. Sfuggono a Kempff, ad esempio, l’ultimo Schumann e Weber. Se Karl Schumann, autore di un saggio su Kempff interprete di Schumann, non dice cose inesatte, Kempff considera difettose, e difettose in relazione con la malattia mentale, le ultime opere di Schumann: posizione critica veramente supera­ tissima! Ma se anche l’esegeta avesse riferito impropriamente le opinioni di Kempff resta il fatto che Kempff non ha incluso nella sua scelta delle opere di Schumann pagine come le Fughette e i Gesànge der Frùhe, dimostrando quindi di non considerarle essen1 Altro non trascurabile merito di Kempff è di aver eseguito in pubblico le Sonate di Beethoven, al contrario di Schnabel e di Backhaus, in ordine crono­ logico.

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ziali a delineare compiutamente la personalità dell’autore. Quanto a Weber, stupisce veramente che in un interprete così ricco di fantasia e così originale fraseggiatore, così elegante e così caval­ leresco non si sia accorto delle Sonate. Possibile che un musicista di tale levatura abbia concluso la suà carriera discografica con inci­ sioni delle sue trascrizioni da Bach, Hàndel e Gluck e con una scelta del Clavicembalo ben temperato, e non abbia pensato piut­ tosto a Haydn? o a Weber? o a Mendelssohn? o al Reger intimi­ stico? Sono motivi di stupore, e anche di rammarico. Perché il disco ci documenta in buona misura, ma non completamente, il lavoro svolto dagli austro-tedeschi della generazione 1880-1900. E Kempff, ultimo sopravvissuto di quella generazione, avrebbe avuto la possibilità di giungere, documentandole, alle conclusioni impli­ cite nelle premesse. Possibilità che non ebbe Gieseking e che non ebbe Erdmann. Le conclusioni, mi pare, non potevano essere se non quelle di un recupero completo, sia pure in dimensioni miti­ che, di tutta la civiltà austro-tedesca. Haydn è invece rimasto nel limbo, Weber è uscito dal repertorio e la visione che il nostro tempo raccoglie dai grandi interpreti della «generazione dell’ot­ tanta» e che illumina in aspetti molteplici ed articolatissimi il periodo di storia del pianoforte più denso di avvenimenti e di conquiste non si è chiusa armoniosamente. E non dico che sia colpa di Kempff; ma Kempff, mi pare, non si gettò nei varchi che resta­ vano aperti.

Né vi si gettarono gli interpreti tedeschi della generazione suc­ cessiva. Conclusasi con la generazione dell’ottanta un’esperienza spirituale irripetibile, i nuovi interpreti trasformarono il classicismo mitico in strutturalismo. Paul Baumgartner, ad esempio, sceglieva in misura molto ampia da tutto il repertorio, compresi Weber e persino Hummel, e non solo dal repertorio tedesco, ma da Cle­ menti, da Busoni, da Scriabin. Ciò che muoveva il suo entusiasmo di artista non era però la musica come espressione o simbolo di civiltà ma come espressione o simbolo di bellezza formale. Con­ versai lungamente con lui, in un ristorante, dopo un concerto in cui aveva eseguito Sonate di Beethoven. Avevo notato raffinatezze

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incredibili nella dinamica e nel fraseggio e gliene parlai, compli­ mentandomi. Cominciai dalla parte centrale del secondo tempo della Sonata op. 27 n. 2, il Chiaro di luna. Nel basso vi si trova un forte-piano su un bicordo, un suono del quale viene poi tenuto mentre l’altro muta:

Baumgartner eseguiva forte il suono tenuto, piano l’altro, e sebbene questa realizzazione mi sembrasse rasentare un’astratta pi­ gnoleria mi avevano colpito la convinzione di cui l’esecutore dava prova e l’esattissima proporzione dinamica che riusciva ad ottene­ re, muovendo con rara indipendenza pollice e mignolo. Baum­ gartner era perfettamente consapevole della sua trovata, ne era fiero, e me ne diede la dimostrazione tecnica alzando ed abbas­ sando le due dita, sul piano della tavola, con la delicatezza di chi sta disinnescando una bomba: il pollice, sollevandosi, ruotava sul suo asse, il mignolo si fletteva come il braccio di un contorsionista! Discussi così con lui un’infinità di altri particolari, trovandolo sempre conscio di ciò che faceva e che doveva aver lungamente meditato. Poi dalla tecnica passò a parlare di musica, accalorandosi nella apologia dei Temi variati op. 107 di Beethoven e della Didone abbandonata di Clementi, e ricordò infine con un’ammirazione sconfinata Erdmann, con cui aveva studiato. Vidi che — come la Stargardt-Wolff dice di Ansorge — era «amico di Bacco e delle Muse», ma al modo di quei gentiluomini di campagna che sanno bere conversando e conversare bevendo senza che l’una cosa in­ fluisca dannosamente sull’altra. Alle quattro del mattino, quando lo accompagnai in albergo, mi trovai arricchito dalla conoscenza di un apostolo che ardeva di una passione riflessa, ricevuta dai profeti, ma che in quella passione spendeva tutta la vita.

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Non ho conosciuto Solomon, ma ascoltandolo in concerto e poi in disco ho ricevuto un’impressione simile. Solomon, inglese, nato nel 1902, venne in Italia verso il 1950, quand’era già celebre nel mondo anglosassone. Non ebbe un vero successo, ma la sua inter­ pretazione del Concerto n. 1 di Brahms diede la misura di un magistero altissimo e le sue esecuzioni del Carnaval di Schumann e delle quattro Ballate di Chopin apparvero tagliate, a me almeno, in una marmorea bellezza che le collocava in una dimensione di classicità suprema. Solomon sarebbe probabilmente diventato uno dei leaders del concertismo internazionale se non fosse stato fer­ mato nel 1956 da una paralisi. I suoi dischi, abbastanza numerosi, hanno però salvato la sua fama e testimoniano la sua arte di interprete. Bach, Mozart, Beethoven, Schubert, Schumann, Brahms, s’intende, sono gli autori di Solomon. Ma anche Chopin, Liszt, Ciaikovsky e, ai due estremi di un palazzo scandito da doriche colonne, Couperin e Debussy. Da un pianista che può muoversi con tranquilla sicurezza tra le sgomentevoli difficoltà tecniche del Concerto n. 2 di Brahms e che può, all’opposto, trovare degne di attenzione le difficoltà formali di una Sonatina di Beethoven — e Solomon era tale — ci si possono ragionevolmente aspettare esemplari esecuzioni classicistiche dei compositori tedeschi e magari del Liszt della Sonata in si minore o delle Variazioni su un tema di Bach, Quel che non ci si aspetta da Solomon, e che Solomon sa invece fare benissimo, è l’esposizione estroversa e spettacolare delle musiche di Liszt scritte apposta per bene impressionare il pubblico più disattento. La Fantasia unghe­ rese suona con lui non solo brillante e scintillante, ma anche mon­ danamente umoristica. Il tema del finale non è solo attaccato con una sonorità che luccica come una sciabola di parata, ma dopo la seconda nota della seconda battuta e dopo la seconda nota della terza battuta Solomon introduce un respiro, una luftpause zinga­ resca al modo dei virtuosi di tradizione ottocentesca:

Solomon

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Non siamo però più alla tradizione: siamo alla citazione della tradizione, tant’è che ad ogni ripetizione la luftpause si ripresenta identica, mentre in un pianista di tradizione avremmo avuto tante diverse sfumature di uno stesso modulo espositivo. L’esecuzione della Fantasia ungherese è del 1948. In uno dei primi dischi di Solomon, la Polacca op. 40 n. 1 di Chopin incisa nel dicembre del 1932, troviamo residui di tradizione tardoromantica ancora assunti acriticamente: alla ripresa della prima parte il basso viene traspor­ tato all’ottava sotto e con l’aggiunta di suoni intermedi, tanto da dar l’impressione di sordi colpi di grancassa, e nelle ultime battute il testo di Chopin viene modificato in vista di una conclusione più clamorosa e «definitiva». Queste cose le faceva Paderewski e le faceva Hambourg e le facevano altri. Le fa anche Solomon, a trent’anni. Nel Trio della stessa Polacca troviamo però già un uso del pedale che, pur essendo derivato dalla tradizione dell’Ottocento, è ripreso manieristicamente. In tutta la Polacca op. 53 di Chopin, incisa anch’essa nel dicembre del 1932, abbiamo un esempio di ripresa manieristica della tradizione senza che il testo venga toccato, e cioè lavorando sul suono e sull’analisi del fraseg­ gio. Del 1936 è l’interpretazione della Polacca op. 53, quella di Lhevinne, che più di ogni altra rispecchia in modo essenziale e severissimo ma diretto la tradizione; nell’interpretazione di Solo­ mon, del 1932, la tradizione è vista con ammirazione e con affetto, ma anche con il distacco critico che segna l’inizio di una nuova epoca. Vedremo poi come anche Artur Rubinstein e Arturo Bene­ detti Michelangeli arrivino a riprendere manieristicamente la tra­ dizione dell’ottocento (differendo in ciò da Backhaus, che rilegge manieristicamente i testi, non i testi interpretati da altri); Solomon, almeno come interprete di Chopin e di Liszt, è su questa strada fin dal 1932. E la sua interpretazione dello Studio op. 25 n. 1 ce lo dimostra ancor meglio. Gieseking, nel 1925, aveva eseguito lo Studio in modo nuovo e «moderno», differenziando i diversi piani di sonorità nel timbro e riducendo la profondità, la distanza tra gli eventi sonori; Mischa Levitzki, nel 1923, aveva eseguito lo Studio puntando ancora sulle differenze della dinamica e senza rinunciare alle seduzioni di un cantabile di incredibile commovente bellezza (bisogna ascoltare la Melodia di Gluck-Sgambati da Levitzki per trovare un suono pianistico che fa venire i lucciconi); Solomon, nel

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1932, stilisticamente non guarda al progressista Gieseking ma al conservatore Levitzki, riducendo però a più contenuta misura gli abbandoni sentimentali di quest’ultimo, tanto che lo Studio dura con lui 2’23”, mentre dura 2’52” con Levitzki. Dieci anni dopo Solomon incideva la Berceuse di Chopin. La nostra sorpresa è di scoprire uno stile che nel frattempo si era evoluto in modo inatteso. La melodia non viene più scolpita a tutto tondo ma si distacca lievemente dalle oscillazioni del basso e il pedale di risonanza è impiegato in modo da creare vibrazioni quasi impercettibili che rendono più vago e allusivo il disegno. Un uso del pedale «impressionistico», che si ritrova infatti in alcuni Preludi di Debussy e in un breve pezzo di Déodat de Séverac incisi qualche anno più tardi. Non si tratta tuttavia di una lettura impressionistica di Chopin; se nella Berceuse Solomon sembra voler mettere in luce il preimpressionismo chopiniano, allo stesso modo della Berceuse interpreta il Notturno op. 9 n. 2 e, alcuni anni dopo, la Ballata op. 52, trovando una misura che, più che impressionistica, definirei parnassiana. Questo modo di intendere Chopin era affascinante in alcune composizioni, non in tutte; ricordo che la Ballata n. 1, pur eseguita senza una sbavatura e senza un’incoerenza di costruzione sonora, non coinvolgeva emotivamente l’ascoltatore né lo affascinava con l’incanto magico del suono; la Mazurca op. 68 n. 2, incisa nel 1946, appare rigidamente inquadrata in ritmi e in sonorità scolastiche che denunciano l’insicurezza emotiva. Ma verso il 1950 Solomon era senza dubbio uno tra i più originali interpreti di Chopin. Negli anni che seguirono egli si dedicò però soprattutto a Beethoven, ese­ guendo le trentadue Sonate ed incidendone diciotto ed eseguendo e incidendo tutti i cinque Concerti. Si capisce bene come Solomon, nel momento in cui sparivano dalla scena concertistica Schnabel e Fischer, cercasse di occupare uno spazio in cui era rimasto, solo e indiscusso dominatore, il quasi settantenne Backhaus e in cui i potenziali concorrenti erano Serkin, Arrau, Baumgartner e il giovanissimo Friedrich Guida. Esigenze di carriera e di costruzione della propria immagine portarono quindi Solomon a puntare su Beethoven più che su Chopin e ad affrontare le trentadue Sonate e i cinque Concerti più che l’opera omnia chopiniana già recentemente affrontata da Magaloff. Solomon,

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come interprete beethoveniano, somiglia a Baumgartner e ad Ar­ rau e, come essi, si muove in una dimensione di ricerca strutturali­ sta intesa come istituzionalizzazione dell’opera della generazione dell’ottanta. Mi tornerà più comodo esaminare questa concezione stilistica fra poco, quando parlerò di Arrau, per la semplice ragione che il lavoro di Arrau si sviluppa in profondità e per un quarto di secolo mentre il lavoro di Solomon resta più in superficie e viene troncato dalla malattia. Nei limiti di una ricerca che era ancora in essere quando venne interotta da un evento funesto, Solomon mi sembra soprattutto interessante nella scoperta della drammaticità giovanile di Beethoven: esemplare per definire la diversità del mondo di Beethoven rispetto al mondo di Mozart è la sua inter­ pretazione della Sonata op. 2 n. 1 (con tutti i ritornelli!) ed esem­ plare è la sua interpretazione della Patetica. Altrove, ad esempio nell’op. 27 n. 2, la cura dell’edificio sonoro non si fissa a parer mio né in racconto né in rapporti consequenziali tra i suoni, e mi sembra che le tensioni dell’armonia non siano esaminate con il radicalismo che un’opera rivoluzionaria merita. Il pericolo, che Solomon cer­ tamente avverte, è di interpretare l’op. 27 n. 2 secondo il punto di vista dei romantici e di vedere in una nona di dominante ciò che vi avrebbe visto Sofronitzki. Ma, scansato questo pericolo, con Solo­ mon l’op. 27 n. 2 e le Sonate successive appaiono anche isolate nel contesto della letteratura, mentre le intuizioni e le forzature di Sofronitzki danno alla storia un senso globale. Né Solomon, iso­ lando storicamente Beethoven, affronta poi l’analisi del testo con­ siderato in sé, perché, se rispetta tutti i ritornelli, non rispetta i pedali ed accetta qualche piccolo cambiamento in relazione con l’estensione maggiore del pianoforte moderno rispetto al piano­ forte dei tempi di Beethoven. Solomon, insomma, come interprete beethoveniano resta a parer mio al di qua e non al di là di Schnabel; ma bisognerebbe vedere, come dicevo, quale sarebbe stato il suo cammino se la malattia non ne avesse troncato la carriera.

Solomon rappresenta un neoclassicismo inglese che probabil­ mente deriva ancora, alla lontana, dall’insegnamento di Clara Schumann e dai rapporti della vita accademica anglosassone con Moscheles e con il conservatorio di Lipsia. Prima di Solomon si era

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affermata Myra Hess, poco dopo si sarebbe affermato Clifford Curzon, entrambi interpreti insigni della letteratura austro-tedesca, specie di Mozart. Ma il più coerente classicista della prima genera­ zione di questo secolo non fu né un tedesco né un inglese ma un cileno, sia pure educato a Berlino: Claudio Arrau. Nato in Cile il 6 febbraio 1903 e fanciullo-prodigio, Arrau fu mandato nel 1912 a Berlino, dove per sei anni studiò con il maestro di Fischer, Martin Krause, nel conservatorio Stern. Vivevano allora a Berlino — mi limito ai pianisti — Ansorge, Lamond, Busoni, Lhevinne, Dohnànyi, Fischer, Schnabel, e non è quindi difficile immaginare quali stimoli culturali ricevesse un talento così ricettivo come quello di Arrau, che aveva avuto da natura una mente geometrica e mani pronte quanto, e forse più di quelle di Gieseking. Tra il 1918 e il 1940 Arrau, vivendo a Berlino e svolgendo già un’attività interna­ zionale, mise insieme il più vasto repertorio, da Bach a Stravinsky, che si sia mai visto: tutto Bach in dodici serate (Berlino 1935), tutte le Sonate di Beethoven, tutte le Sonate di Schubert, le quattro Sonate di Weber, molte Sonate di Mozart, quasi tutto Chopin, quasi tutto Schumann, quasi tutto Brahms, moltissimo Liszt, e Balakirev, Ciaikovsky, Debussy, Albeniz, Granados, Busoni, Ra­ vel, Stravinsky. Durante la seconda guerra mondiale, vivendo negli Stati Uniti e dovendo ricomparire più volte di fronte allo stesso pubblico perché la vita musicale internazionale era bloccata, Arrau, pare, eseguì non meno di settanta diversi programmi di recital; pare anche che il suo repertorio con orchestra comprendesse non meno di sessanta concerti. Sono restati alcuni dischi dell’Arrau venticinque-trentenne, che dimostrano sia una qualità professionale altissima che un orienta­ mento classicistico già perfettamente delineato. La tecnica è sicu­ rissima e completa, ma mancano del tutto le tensioni virtuosistiche di un Horowitz: si possono paragonare lo Studio op. 10 n. 4 di Chopin inciso da Horowitz (1935) e da Arrau (1930 circa) per avvertire nettamente la differenza tra un virtuosismo ancora con­ cepito come bravura e stupore ed un virtuosismo concepito come fatto storico. Persino in un brano recentissimo come la Danza russa del Petruska di Stravinsky Arrau non prende in considerazione la novità dell’effetto pianistico e quindi lo stupore che l’effetto può suscitare: Arrau colloca il contemporaneo Stravinsky in un olimpo

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di arte apollinea in cui le distanze cronologiche non contano e in cui la storia è un dato che condiziona il contenuto ma non la forma. Arrau intende fin da quel momento l’interpretazione come ricerca oggettiva di una verità oggettiva, e in questo senso si impegna con la fiducia e con la serietà di uno scienziato ed essendo già del tutto se stesso, anche se le sue effettive capacità di analisi e di ricerca non sono certo quelle che dimostrerà di possedere venti o trent’anni più tardi. Conclusa un’esplorazione sulla letteratura che lo metteva in condizioni di possedere — lui, nato in un paese periferico — la più completa conoscenza manuale e intellettuale della tradizione set­ te-ottocentesca, Arrau cominciò a ripensare la storia approfonden­ do ciò che gli sembrava più degno di essere approfondito. Passato il momento della metodica assimilazione arrivava il momento delle scelte e delle esclusioni. Così, dopo aver eseguito il tutto Bach, Arrau ritenne che la musica di Bach non risultasse bene sul piano­ forte e che dovesse esser lasciata ai claviccmbalisti. Non mi risulta che abbia fatto dichiarazioni su Haydn e Mozart ma, in tempi in cui Mozart stava diventando un autore amatissimo, Arrau lo lasciò da parte. Lasciò cadere anche Schubert e Weber e altri e cominciò ad analizzare, pietra dopo pietra, una catena montagnosa che iniziava da Beethoven e che attraverso Schumann, Chopin e Liszt arrivava fino a Brahms. Il grande lavoro di Arrau è lavoro sul testo. Prendiamo Beetho­ ven. Arrau non interviene in alcun modo sul testo, neppure per apportarvi le piccole modificazioni atte a reintegrare i passi di cui Beethoven aveva dovuto variare il logico sviluppo a causa dei limiti di estensione della tastiera pianistica agli inizi dell’ottocento. Su questo punto i pareri sono discordi e non è che si possa veramente fare una questione di fedeltà o infedeltà al testo se un pianista introduce qualche giustificabile modificazione (personalmente, comunque, ritengo che sia in ogni caso preferibile il criterio seguito da Arrau). Lo scrupolo filologico di Arrau, ben s’intende, non si manifesta solo in questo particolare, ma è esteso a tutti gli aspetti del testo di Beethoven: tutte le note sono rispettate, tutti i segni di dinamica sono realizzati come in un catalogo, e sono anche realiz­ zate tutte le indicazioni originali per il pedale di risonanza. Que­ st’ultimo problema è così difficile da indurre interpreti anche

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grandissimi (Fischer, Backhaus, Kempff, Nat, Gieseking) a non tener conto di alcune indicazioni di Beethoven, dando per scontato che sul pianoforte moderno sia impossibile rispettare completa­ mente il testo. Arrau è invece il secondo pianista, dopo Schnabel, che rispetti e realizzi in modo auditivamente convincente tutte le indicazioni di Beethoven per il pedale di risonanza. Schnabel si serviva di variazioni del tocco, cioè di variazioni timbriche della sonorità; Arrau, che non varia il tocco quasi mai, risolleva parzial­ mente il pedale. Indipendentemente dalla tecnica usata, che non interessa ai miei lettori, sta la realtà sonora di cui ciascuno può rendersi conto: si ascoltino da Arrau i due recitativi nel primo tempo della Sonata op. 31 n. 2, paragonandoli con un’altra qual­ siasi delle numerose esecuzioni incise (esclusa quella di Schnabel) e si sentirà la diversità enorme dell’effetto sonoro ottenuto da Arrau rispetto agli altri interpreti: le due frasi non sono più declamate, ma è come se venissero gridate da una grandissima distanza, quasi prive di accento perché echeggianti di risonanze multiple. L’im­ magine letteraria mi sembra indispensabile in questo caso per parafrasare un effetto sonoro di cui ci si può rendere conto esatta­ mente solo all’audizione: se non si usa il pedale i due recitativi sembrano detti da breve distanza, magari, se l’interprete è molto abile, con un soffio di voce languente; se si usa il pedale l’effetto è di una remota lontananza da cui arriva la voce ma da cui non si percepisce più la figura di chi grida. Gli altri punti nei quali si manifesta il classicismo filologico di Arrau consistono nella distinzione fra trilli da iniziare con la nota superiore e trilli da iniziare con la nota reale, nella esecuzione in battere delle acciaccature melodiche, nella scelta di uno staccato non secco. Un segno di estrema precisione filologica è offerto dallo sforzato di Arrau, che non è, come avviene in altri esecutori, un fortissimo improvviso, ma che è un tipo di suono ottenuto con un rapidissimo e brusco attacco del tasto; in qualche occasione Arrau realizza il caratteristico sforzato-piano lasciando tornare parzial­ mente il tasto subito dopo averlo affondato. Tutto ciò che Arrau fa lo fa in modo ragionato, dopo aver considerato le varie soluzioni adottate in diverse epoche e con la convinzione che nasce da un esame radicale di ogni problema. Di qui, talvolta, proviene una certa compiacenza, un tono didascalico, che s’avvertono soprat­

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tutto quando Arrau si discosta dalle soluzioni più comunemente adottate. La tecnica pianistica di Arrau non conosce ostacoli e non si compiace di virtuosismi inutili: la sua è un’esecuzione tecnicamente impeccabile in un rapporto che investe la meccanica delle dita, il fraseggio e l’espressione. Si consideri anche solo un piccolo particolare, la battuta 81 del primo tempo della Sonata op. Ili:

Molti pianisti perdono un mucchio di tempo ed escogitano piccoli trucchetti per superare con apparente disinvoltura la diffi­ coltà; Arrau realizza invece il trillo nel modo più elementare e più agevole (nove note — quattro più cinque — in luogo delle undici o tredici che costituiscono il punto d’onore per tanti pianisti), senza cercare di mostrarsi più bravo di quanto non sia. I modelli stilistici di Arrau sono Schnabel, Backhaus, Fischer, fors’anche Egon Petri; Arrau quasi non risente l’influenza di altri interpreti tedeschi affermatisi più tardi, quali Kempff e Gieseking, e tanto meno raccoglie suggerimenti dagli interpreti francesi e russi2. La maggior influenza è quella di Backhaus, sulla cui sonorità Arrau modella la sua sonorità: una sonorità piuttosto massiccia, vigorosissima, con un forte molto intenso e un fortissimo intenso e ricco di armonici. I contrasti timbrici sono quasi assenti, come in Backhaus, il suono resta pastoso e cantabile anche nel pianissimo ed Arrau modella il discorso basandosi soprattutto su minime

2 In un caso, l’Appassionata, parrebbe a tutta prima che Arrau abbia avuto presente l’interpretazione di Richter, ma ci si accorge poi che Arrau e Richter sono molto lontani tra di loro e che, semmai, Arrau è vicino a Luis Kentner; poiché Kentner è più giovane di Arrau è probabile che ci sia stato un modello comune per entrambi (forse Ernò Dohnànyi, la cui esecuzione dell’Appassio­ nata non ci è pervenuta).

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variazioni di intensità; l’unica variante timbrica importante consiste in una sonorità inespressiva, usata per effetti d’eco. L’influenza di Backhaus riguarda lo stile di Arrau in generale, mentre l’influenza di Schnabel o di Fischer o di Petri si manifesta invece di più in certe Sonate. Con le Sonate che, all’interno dell’esperienza culturale suddetta, hanno avuto una molteplicità di soluzioni interpretative, Arrau trova sempre il modello che fa perfettamente per lui e lo segue, ravvivandolo con invenzioni personali che investono alcuni particolari. Il punto, marginale ma niente affatto trascurabile, in cui Arrau arricchisce lo stile di interpretazione seguito consiste nel fraseggio dei movimenti veloci. È abbastanza raro che Backhaus, Schnabel, Fischer e Petri, nei movimenti rapidi, mettano in rilievo la struttura della frase rallentandone la fine o introducendo dei respiri; essi, semmai, accelerano la fine della frase e «respirano» durante la frazione di tempo guadagnata con l’accelerazione. Arrau introduce invece respiri che sospendono la regolare scansione rit­ mica e rallenta la fine della frase anche in momenti di massima concitazione (si veda, tanto per fare un esempio facile da control­ lare, un bellissimo effetto di ritenendo nell’ultima pagina dell’Ap­ passionata). Questo è il carattere stilistico più nuovo e più prossimo allo stile di interpreti più giovani che si riscontri in Arrau. In tutti gli altri aspetti delle esecuzioni Arrau ci ripropone una tradizione gloriosa, riuscendo a farla vivere, penso, per l’ultima volta. Non vedo proprio come si possa ulteriormente sviluppare, su queste basi, l’interpretazione di Beethoven: a mio giudizio Arrau chiude, magistralmente, un’epoca, mentre un’epoca nuova è già iniziata con altri interpreti di Beethoven e su tutt’altre basi ideologiche. La rigorosissima lettura analitica e l’obbiettività della realizza­ zione non significano in Arrau (come in Baumgartner) distacco, dissociazione di responsabilità tra autore e interprete ma, se così si può dire, compartecipazione al processo creativo, rifacimento di un processo creativo ripreso ed accettato per intero. Quando si acco­ glie il punto di vista di Arrau il dissenso è, se non impossibile, molto raro. Se da Beethoven passiamo a Schumann, che per Arrau è il secondo gigante del pianoforte, il discorso non cambia. Prendiamo quella che a parer mio è la più riuscita interpretazione schumanniana di Arrau: il Carnaval. Tra le numerose interpretazioni del Carnaval incise su disco due si distinguono in modo particolare:

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quella di Rachmaninov e quella di Rubinstein. La versione di Rubinstein è quella di chi crede in quel mondo sentimentale e ideologico che fa da sostrato al Carnaval: Rubinstein è anche lui un «Compagno della Lega di Davide» e marcerà con fiducia contro i Filistei. Nella versione di Rachmaninov quello stesso mondo è guardato con nostalgia, ma anche con scherno, con moti affettivi di bruciante tenerezza subito contraddetti e con forzature virtuosisti­ che che creano violente tensioni. L’interpretazione di Rachmani­ nov, bellissima e paradossale, è forse irripetibile. All’interpretazio­ ne di Rubinstein, che segue assai da vicino la corrente della tradi­ zione, s’accostano quasi tutti gli altri interpreti, e tra questi Arrau. Mentre Rubinstein, però, ha una certa visione complessiva dell’o­ pera, alla quale subordina i particolari, Arrau parte proprio dai particolari e li lavora ostinatamente per non sacrificarne neppur uno. Schumann ha messo forte nella riga in basso e non in quella in alto? Arrau fa il forte solo nella riga in basso... e così di seguito, a costo di apparire rispettoso anche degli errori di stampa. È persino commovente sentire con quale impegno un uomo così quadrato, così serio, così solido e così poco fantasioso si imponga di risolvere nel suono certe didascalie che non trovano un’istintiva rispondenza nel suo animo, come teneramente e con grazia-, persino per un precipitandosi Arrau trova una certa soluzione. Ma questo massic­ cio, tetragono lavoro di pialla non resta incatenato nel mondo vago delle buone intenzioni, perché dalle note nascono, come conse­ guenza e non come punto di partenza, gli affetti, nasce l’entusia­ smo di chi riscopre per conto suo il grande capolavoro di Schu­ mann, senza aderire ad un giudizio positivo già dato dalla storia ma rifacendolo per intero. In Arrau pianista permangono i limiti con­ sueti di fantasia nella creazione della sonorità, ma la sua esecuzione del Carnaval è così convinta da diventare più convincente ancora di quella estroversa e strascinante di Rubinstein. Tutte le interpretazioni schumanniane di Arrau, anche quelle meno interessanti (come la Fantasia op. 17), anche quelle delle piccole pagine che non fanno per lui, hanno il marchio di una plasticità e di una forza da possente bassorilievo. E così in Chopin (persino nei Valzer), così in Liszt (persino nelle Rapsodie unghere­ si). Le interpretazioni lisztiane di Arrau sono molto numerose e tutte molto interessanti. Esaminerò in breve quella più ambiziosa,

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arrivata quasi al termine della carriera di Arrau e al culmine della sua maturità: gli Studi trascendentali. La letteratura pianistica ha avuto nell’ottocento i suoi miti supremi, che stavano in cima ai sogni di ogni allievo e di ogni artista: la Sonata op. 106 di Beetho­ ven, gli Studi di Chopin, gli Studi trascendentali di Liszt, le Varia­ zioni su un tema di Paganini di Brahms, gli Studi sopra gli studi di Chopin di Godowsky. Oggi di questi miti ottocenteschi sono restati inaccessibili, chiusi nella più segreta parte del tempio, gli Studi di Godowsky: la 106, gli Studi di Chopin e le Variazioni di Brahms le affrontano molti, moltissimi pianisti, anche a quindici o a diciott’anni: non che i risultati siano sempre pari ai miti, per la verità, ma quel Beethoven, quello Chopin e quel Brahms non ispirano più sacro timor reverenziale, non fanno più paura. Gli Studi trascen­ dentali sono a mezza strada tra il mito inviolabile e il mito inviolato: fanno ancora paura, eppure qualcuno li tenta, li esplora e un po’ li... smitizza. Ad eseguirli tutt’e dodici in pubblico, uno in fila all’altro ci provò Ferruccio Busoni, come abbiamo visto, a Berlino nel 1903 e poi nel 1911. Ci riuscì splendidamente, come testimoniano crona­ che da favola. Nel 1914, a New York, David Saperton imitò Busoni. Poi, per quanto ne so io, nessuno ritentò l’impresa per molti anni. Ci riprovò in Italia, verso il 1950, Carlo Vidusso: ci riuscì bene, con dita molto sicure, con un volume di suono limitato, con uno stile controllato ed asciuttissimo. Ci riprovò Lazar Berman più tardi. Ho sentito l’esecuzione di Berman nel 1977: virtuosismo impressionante, resistenza idem, tensione idem, note false idem. Ci hanno riprovato di recente Daniel Rivera, e Jeno Jando che non ho sentito. Altri, come Borovsky, Loyonnet, Grundeis, Gutman, Ashkenazy, Ponti hanno eseguito gruppi di sei o sette Studi. Pochi pianisti, per quanto è a mia conoscenza, hanno dunque retto in pubblico all’impegno, alla fatica, al rischio che i dodici Studi trascendentali impongono. Se anche le notizie che ho fossero incomplete sarebbero sempre pochi, pochissimi, quasi un niente se si pensa alla enorme falange dei pianisti. In disco ci hanno provato un po’ di più, anche se non moltissimi: Borovsky verso il 1955, poi Cziffra, Kentner e vari altri. Il disco ci ha anche conservato alcune esecuzioni parziali, importanti stilisticamente e storicamente, di Emil von Sauer, Petri, Richter. Il panorama, come si vede, è abba-

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stanza vasto e abbastanza articolato e diversificato. Come vi si inserisce l’incisione completa di Arrau, pubblicata in occasione del settantacinquesimo compleanno dell’artista? Bisogna dire subito che Arrau, a tre quarti di secolo, dimostrò di essere non solo il cervello musicale che tutti sapevano, ma anche un esecutore dalle mani ancor prontissime e solide. Ci vollero magari molte sedute di incisione, per arrivare a mettere insieme un’esecuzione corretta dei dodici Studi, ma senza che si creasse l’impressione di un montaggio, di un lavoro di laboratorio: le esecuzioni di Arrau conservavano tutto lo slancio e tutta l’imponenza che provenivano da un magi­ stero ancora superiore ed integro. Quanto al valore dell’interpre­ tazione... Ebbene, bisogna intendersi! Alla prima audizione l’in­ terpretazione di Arrau non mi era piaciuta. Il senso del fregio e dell’ornamento, l’impressionismo, il gusto della materia in quanto tale, lo stupore in cui l’ascoltatore può essere indotto erano estranei alla mentalità di Arrau ed alla sua concezione della musica come Weltanschauung, visione del mondo. Tutto l’aspetto teatrale e tutto il demonismo dell’arte di Liszt venivano da lui messi da parte o considerati mera apparenza che bisognava raschiare e spazzar via per ritrovare il fondo genuino, che era passione per la forma bella. Ed il suo concetto del suono pianistico era in linea con la sua concezione della musica: Liszt aveva studiato con Czerny, con il quale la tecnica delle dita e del polso era giunta al massimo grado di sviluppo, ed aveva scoperto per conto suo la tecnica del braccio e dell’avambraccio e l’impiego del peso, cercando il massimo possi­ bile di varietà timbrica del suono per impiegarla in funzione colo­ ristica. Arrau proveniva invece da un’epoca, i primi vent’anni circa del secolo XX, che aveva il culto del bel suono ottenuto con il massimo possibile di rilascio di peso e con il «rilassamento» (oh!, il mito del rilassamento!). La sua sonorità, molto bella di qualità e molto ben graduata nella dinamica, come ho già detto, era quindi tendenzialmente monocroma. Alla prima audizione, dunque, l’a­ scoltatore trovava una grande solidità di costruzione, un grande pathos, una monumentalità in tutto degna dell’opera, ma restava anche colpito dalla mancanza di ironia, dalla eccessiva ingenuità, dalla dimensione di buon neoromantico tedesco, e non di beffardo spirito cosmopolitico in cui Liszt veniva inquadrato. Si rimpiangeva la violenza e la delirante tensione di Berman, che metteva in

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evidenza il demonismo di Liszt come sfida alla materia, e si rim­ piangeva anche l’eleganza, la capricciosità, l’ostentata indifferenza con cui Cziffra maneggiava le funamboliche difficoltà degli Studi. Alla seconda ed alla terza audizione si finiva per non paragonare Arrau ad altri, ma a sentirlo per ciò che voleva dire. E si concludeva che le sue convinzioni, espresse con tanta coerenza ed onestà, erano alla fine convincenti. Non erano gli Studi trascendentali più entu­ siasmanti che si potessero sentire; era certamente un’interpretazio­ ne degna di uno dei maggiori interpreti beethoveniani, schumanniani e brahmsiani del nostro secolo, e dimostrava come ed in che limiti Liszt fosse stato assimilato dalla cultura tedesca. Cultura tedesca in cui, manco a dirlo, Arrau vede piantato anche Chopin. Già negli anni 50 Arrau incideva gli Studi, i Preludi ed alcuni pezzi, tra cui la Ballata n. 1 e Io Scherzo n. 2, senza tenere in alcun conto le tradizioni slave o francesi dell’interpretazione chopiniana, ma appoggiandosi tutt’al più a Backhaus. Più avanti inci­ deva di Chopin tutta l’opera per pianoforte e orchestra ed alla fine degli anni 70 affrontava di nuovo Chopin spingendosi fino al confine per lui apparentemente, e realmente più ostico, quello dei Valzer. E bisogna dire che la grandezza magniloquente che vede ovunque, nei pochi amatissimi autori a cui si è alla fine votato, Arrau la sa ritrovare anche nei Valzer. Dal salotto parigino si passa, con Arrau, alla Germania e alla Vienna di Brahms, da lui si capisce benissimo come Brahms leggesse le opere di Chopin e come rea­ gisse a Chopin. Il lavoro che aveva fatto in grande, su tutta la letteratura, Arrau lo fa su ogni e qualsiasi composizione: all’analisi in cui si tiene conto di ogni particolare segue l’astrazione che come nella Musikwissenschaft, nella scienza della musica delle università tedesche di fine Ottocento, riorganizza i particolari nella luce di principi formali eterni. Nessuna meraviglia perciò che Arrau sia un grande interprete di Brahms. Ciò che ha lasciato invece sbalorditi è stato il ritorno di Arrau, ormai settantaseienne, su Debussy, è stata l’aggiunta di un nuovo pianeta in un sistema che sembrava chiuso e perfetto. Arrau ha riletto i Preludi con lo scrupolo dello strutturalista per il quale un piano non è solo «espressione» ma soprattutto «funzione» e per il quale la differenza tra piano, più piano, pianissimo, più pianissi­ mo non ha un significato psicologico ma architettonico. Questa

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chiave, che riduce a mere accidentalità le differenze di nazionalità e di cultura, e che riporta tutti gli autori nel grembo di una madre­ musica come luogo della verità e della bellezza, sarà anche un po’ semplicistica e un po’ troppo platonizzante, ma con Arrau funziona sempre. E il suo Debussy, che ha tutte le note, tutte le intensità, tutti i volumi al posto giusto, assomiglia sì un po’ a Schumann e un po’ a Franck, ma non cessa di essere Debussy. Arrau punta dunque sulla continuità tra Debussy e la tradizione romantica e riesce a dimostrarla benissimo. La sua intenzione non è questa, beninteso: la sua intenzione è di dimostrare che anche Debussy obbedisce a leggi di costruzione formale eterne; ma il risultato sembra essere quello che ho detto, ed è un risultato del tutto rispettabile. Reste­ rebbe da vedere se Arrau, dopo i Preludi, saprebbe risolvere gli Studi di Debussy: a ragionarci mi sembra impossibile, ma sono certo che ci riuscirebbe, perché Arrau sa che il testo ha sempre ragione e sa che chi scava il testo trova il tesoro nascosto. Il mito di Arrau, artista quanto mai smitizzante e persino prosaico, viso sor­ montato da capelli alla brillantina e tagliato da impeccabili baffetti a spazzolino, è che la verità esiste. E che è una sola: quella che il ragazzino cileno ha cominciato a cercare nella Berlino del 1912 e che gli fa cantare, da vero ispirato poeta, la perfezione della forma.

Passare da Arrau a Rudolf Serkin, anche lui nato nel 1903, è un po’ come passare dal giovane Backhaus al Backhaus degli ultimi anni, perché in Serkin quel sentimento primigenio della musica che in Backhaus fu il coronamento della ricerca rappresenta il punto di partenza. Stranamente, avendo io dedicato molti anni allo studio di pianisti grandi e piccoli, fino al 1981 non mi capitò mai di parlare di Rudolf Serkin se non per brevi, sommarie recensioni di suoi dischi. Nel 1981 ebbi invece occasione di presentare la pubblicazione in disco di una sua esecuzione dei cinque Concerti di Beethoven, programmata nel 1958 dalla RAI che, curiosamente, l’aveva divisa in due sedi diverse (Roma e Napoli: tre Concerti di qua, due di là). L’esecuzione non era affatto perfetta, tecnicamente, perché le prove dovevano esser state poche e sia Serkin che i due direttori sembravano preoccupati di non andar per aria più che dì collabo­ rare per un risultato complessivo. Anche un’esecuzione un po’

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nervosa e non tutta pulita nei «passi» non nascondeva e non turbava tuttavia un’idea interpretativa molto interessante. Sui Concerti di Beethoven c’è ormai una vetusta tesi critica, che in Italia è stata addirittura sanzionata da un documento di stato. All’esame di diploma di pianoforte si richiede da cinquant’anni che il candidato debba «dar prova di conoscere» due concerti, uno «antico» ed uno «moderno». Qualche cireneo dovette preoccu­ parsi di sapere che cosa cavolo il legislatore avesse inteso con «antico» e «moderno», e il Ministero competente, sentiti i suoi organi di informazione storico-critica-accademica, stabilì con pro­ pria circolare che il «moderno» comincia dal Concerto n. 3 di Beethoven. La tesi critica di cui dicevo recita appunto che i Con­ certi n. 1 e 2 sono «mozartiani», i Concerti n. 4 e 5 sono «beethoveniani» o «già romantici», e il Concerto n. 3 sta più di qua che di là. Nel che c’è sicuramente un fondamento di verità, come c’è un fondo di verità nella divisione dell’opera di Beethoven in più periodi o «stili». Dall’esecuzione di Serkin veniva però messa in evidenza un’altra tesi, certamente più vicina al modo di ragionare di Beethoven: il «genere» si svolge secondo una sua legge. Per Serkin la continuità tra il Concerto n. 2, scritto per primo, e il Concerto n. 5, scritto per ultimo, non consiste solo nella personalità artistica di Beethoven ma nel quindicennale rapporto tra Beetho­ ven e il «genere concerto». In altre parole, un concerto è un concerto, una sonata è una sonata, una sinfonia è una sinfonia sia per il Beethoven venticinquenne e illuministico e mozartiano che per il Beethoven trentacinquenne e rivoluzionario e beethoveniano. Posso aggiungere che ciò vale non solo per i Concerti di Beethoven e che il significato dell’opera di Serkin consiste a parer mio nella trasformazione dello storico in metastorico. Il che non vuol dire, per esporla in soldoni, che il bello è bello sempre e che basta abbandonarsi all’emozione estetica per essere interpreti, ma che il senso originario di un’opera, l’hic et nunc, non va mai perduto e può esser di nuovo messo in luce. Mentre pensavo a Serkin interprete di Beethoven andai a ri­ guardare i programmi dei recitals da lui tenuti in Italia a partire da circa il 1925 e notai qualcosa che non avevo notato altre volte o che avevo dimenticato. In gioventù Serkin, pur suonando spesso con

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un classicista come Adolf Busch — in duo e in trio — e pur presentando programmi di recital zeppi di autori e di pezzi austeri, non mancava di scivolare sornionamente sul tradizionale « Liszt per finire». Cosa che faceva anche Gieseking, come ho detto; però Gieseking arrivava fino alle Rapsodie ungheresi, mentre Serkin procedeva molto più in là nella scala delle pirotecnie: addirittura fino agli Studi da Paganini, addirittura fino alla Tarantella di bravura sopra la «Muta di Portici» di Auber. Non ho sentito Serkin allora e non conosco dischi o rulli di pianola del Serkin che suonava la Tarantella. Posso però immagi­ nare che mentre Schnabel stava trovando l’epopea della civiltà viennese e mentre Gieseking legava Debussy a Bach, Serkin ricer­ casse nella Tarantella le motivazioni metastoriche di un rapporto primigenio del virtuoso con il pubblico anonimo di una sala di concerto. Verso il 1925 erano ancora in circolazione anziani allievi di Liszt, come Frédéric Lamond, che eseguivano la Tarantella con tutta la foga vitalistica di chi sapeva far esplodere il fanatismo del pubblico con le buone vecchie cose di pessimo gusto. C’era chi la Tarantella, pezzo del tutto screditato per le teste d’uovo, non l’avrebbe toccata nemmeno col mignolo. Serkin la eseguiva, e sicuramente non al modo di Lamond. C’era dunque negli anni 20, per così dire, chi la Tarantella la faceva ancora, chi sapeva che non si doveva più farla, chi la faceva di nuovo. Che il concetto di contemporaneità, nei fatti della cultura, non sia così ovvio come può sembrare lo ha dimostrato Cari Dahlhaus. E la sorte della Tarantella ne è un piccolo esempio: è possibile che nello stesso tempo un pezzo si faccia ancora, non si debba far più, si faccia di nuovo? E possibile. Ed è il paradosso della carriera di Serkin, per altri aspetti leggibilissima. Il Serkin che interpreta la 106, i cinque Concerti di Beethoven e le Variazioni su un valzer di Diabelli di Beethoven, che espone con incontestato magistero i Concerti di Mozart e di Brahms, che contribuisce alla riscoperta di Schubert rientra nella norma del grande pianista nato all’inizio del Novecento, educato a Vienna e che non si è lasciato sfuggire nulla della lezione dei Backhaus, dei Fischer, degli Schnabel. Il Serkin che ha in repertorio il Concerto n. 1 di Bartók e il Concerto n. 4 di Prokofiev sta nel quadro del grande pianista nato all’inizio del Novecento che dà prova di non consueta intelligenza verso i fatti

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importanti del suo tempo. Ma il Serkin che continua ad insistere sui Concerti di Mendelssohn sembra già un po’ bislacco, un po’ troppo innamorato della sua strabiliante tecnica digitale, e c’è un Serkin che, con tutta la buona volontà di capirlo... Prendiamo il programma di recital che egli presentò nella sua tournée italiana del 1981. In erano i tre Intermezzi op. 117 e la Rapsodia op. 119 n. 4 di Brahms. Il resto — Concerto italiano di Bach, Rondò capriccioso di Mendelssohn, Variazioni e fuga su un tema di Bach di Reger — era out of fashion, E sarebbe stato facile concludere che Serkin, con i suoi settantotto anni, era rimasto affezionato alle cose della sua giovinezza e le faceva ancora. Reger lo avevano fatto Backhaus e Gieseking fino a circa il 1925, nel 1981 lo faceva di nuovo Aloys Kontarski. Mendelssohn lo avevano fatto Pachmann e Friedmann; nel 1981 lo faceva di nuovo Barenboim. Bach lo avevano fatto Fischer e Petri, nel 1981 lo faceva di nuovo Brendel. Tra i nonni e i nipoti c’era però stata la frattura del «non si deve far più», ma per Serkin frattura non c’era stata ed egli non faceva ancora Bach, Mendelssohn e Reger né li faceva di nuovo-, li faceva di nuovo da sessantanni. Era l’utopia di Ferruccio Busoni, di cui ho detto, quando affer­ mava non essere sua intenzione di modernizzare le opere interpre­ tate ma di toglier loro la «polvere della tradizione» e di «restaurare la loro giovinezza» per «presentarle come suonavano per il pub­ blico al momento in cui per la prima volta sprizzarono dalla mente e dalla penna del compositore». Basta vedere Serkin al pianoforte per capire che sta continuamente trovando la musica come se la musica la scoprisse in quel preciso momento: canticchia, mugola, si divincola, attorciglia un piede intorno alla gamba del seggiolino... Dopo che tutto è stato capito, dopo che tutto è stato chiosato, dopo che generazioni di interpreti hanno rivoltato il testo da ogni lato Serkin si identifica ancora con il compositore da cui la musica sprizza, in un modo che fa del pianoforte, più che uno strumento produttore di suoni, un rivelatore dell’ignoto. Pianista, insomma, come medium, e pianoforte come tavolino batticolpi. «Musica, se ci sei...», dice Serkin; e la Musica si impadronisce di Serkin ed usa le sue dita per far ticchettare il pianoforte. «La sua eloquenza consiste meno nella sonorità che nella decla­ mazione imperiosa, vasta e che tutto abbraccia», dice di lui William

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S. Mann. Ed è verissimo che in Serkin la vocazione è quella del­ l’annotazione a matita sul taccuino, non della lettera in bella copia, dell’orazione ex abundantia cordis, non del discorso col foglietto in mano. Che poi Serkin raccolga eredità illustri, che sappia tutto quel che sanno i sapienti delle università tedesche e americane, che fraseggi con la sottigliezza di un teologo è vero: ma la teologia, e la poesia, sono vive quando vengono usate come strumenti per la scoperta di realtà infinite. Serkin dà sempre l’impressione di esser l’inventore che sta scoprendo e che non riflette sulla sua scoperta perché la trova nuova e bella: «Mentre si compone sembra che tutto vada bene: se fosse diversamente non si scriverebbe mai. La riflessione viene dopo...», come diceva timidamente e saggiamente Chopin.

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«Wanda Landowska si mise a suonare il clavicembalo perché non sapeva suonare il pianoforte», disse, con l’occhio fiammeggiante d’odio inveterato, l’anziano collega che non amava le novità. La Landowska era tornata al creatore da quasi dieci anni, e più di trentanni erano trascorsi da quando il collega, allora non tanto anziano, aveva avuto la sventura di ascoltare venticinque Sonate di Scarlatti eseguite da quella infernale donnina. Non un ritornello aveva risparmiato al pubblico la Landowska, non un commento che era uno, nel suo francese venato di pronuncia slava; aveva suonato e parlato fino a mezzanotte passata, aveva tirato in ballo Spagna e Oriente, joie de vivre e amour, aveva conquistato il pubblico e spazzato via i dogmi di esecuzione scarlattiana che il Mio si era costruito in vent’anni di elucubrazioni. Per suonare come suonava la Wanda non serviva tutta la cineseria tecnica che il mio collega aveva laboriosamente ruminato e perciò, anche dopo quarant’anni, la collera di chi si vede cambiare le regole del gioco ancora gli gonfiava il petto ornitologico. Rimasi sbalordito. Wanda Landowska non sapeva suonare il pianoforte e perciò...? Possibile? Ripensai al disco che avevo udito da poco e da cui era sorta la discussione: un disco con riversamenti di rulli di pianola. Beh! in un certo senso il mio anziano collega non aveva, salvognuno, tutti i torti, perché la Landowska suonava molto diverso dai pianisti della sua generazione. La giovine Wanda aveva studiato con due oscuri maestri di Varsavia, poi era stata affidata a Jan Kleczynski ed infine all’eccellente pianista, di cui è restato qualche disco, Alexander Michalowski. Nel 1896 se ne era andata a Berlino, e lì, in un grande centro di vita concertistica,

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aveva potuto guardarsi attorno e misurarsi. Dove sarebbe arrivata lei — minuta, fragile, delicata, pressoché bidimensionale — in un mondo in cui tempestavano figure di valchirie come Annetta Essi­ pova, Julia Rivé King, Fanny Zeisler Bloomfield, nonché le due dee, la Sophie Menter che pareggiava il vigore d’un uomo e la Teresa Carreno che di uomini ne poteva pareggiare due messi assieme? La Landowska studiò composizione con l’illustre teorico Heinrich Urban e si mise a comporre. Nel 1900 si spostò a Parigi e qui, il 23 novembre 1901, riuscì a esordire in un concerto-monstre, suonando una sua Rapsodie Orientale. L’ambiente culturale pari­ gino era diverso da quello berlinese: c’era la Schola Cantorum, c’era Charles Bordes, c’erano André Pirro ed Albert Schweitzer, c’era Henry-Gustave Casadesus, e c’era Louis Diémer, che da una doz­ zina d’anni suonava musiche clavicembalistiche francesi su clavi­ cembali fornitigli dalle ditte Pleyel ed Érard. Diémer non era una figura di ricercatore isolato. Già Moscheles, come abbiamo visto, aveva suonato su un clavicembalo restaurato, già Alessandro Kraus, nella sua casa di Firenze, aveva eseguito nella seconda metà del secolo musiche antiche su antichi strumenti, già Ernst Pauer si era servito di clavicembalo e di clavicordo in concerti a Londra, già Alfred Hipkins, a Londra negli anni 90, aveva eseguito la Fantasia cromatica sul clavicordo e le Variazioni di Goldberg sul clavicem­ balo, e a Londra e in America stava lavorando Arnold Dolmetsch, esecutore, restauratore, costruttore di strumenti antichi. Wanda Landowska si accodò, diventando una pianista che usava anche il clavicembalo: figura da circoli intellettuali o da circoli femminili più che da sala da concerto, ma con possibilità di digni­ tosa carriera. Nel 1905 la Landowska era già abbastanza autorevole da venir invitata a registrare su rulli di Welte Mignon sette pezzi, indicativi del suo gusto e della fama che s’era fatta: il Divertimento in sol minore di Francesco Durante, L’Hirondelle di Daquin, i Passepied della Suite inglese in mi minore di Bach, il Balletto delle Silfidi di Berlioz-Liszt, il Valzer op. 124 n. 4 di Schumann ed i Valzer op. 64 n. 1 e op. 69 n. 2 di Chopin. Nessuna di queste registrazioni è stata riversata in microsolco, e noi non possiamo sapere come suonasse la Landowska a quel­ l’epoca. Sappiamo che studiava intensamente trattati e testi storici (nel 1909 uscì il suo volumetto Musique ancienne, poi più volte

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ristampato) e sappiamo che i clavicembali Pleyel ed Érard non la soddisfacevano. La troviamo impegnata, nel 1908, in un’accesa polemica con Richard Buchmayer, che sosteneva la predilezione di Bach per il clavicordo. La troviamo nel 1912 al Festival Bach di Breslavia con un clavicembalo Pleyel di nuova ideazione. Quel clavicembalo Pleyel fu la carta vincente e la croce postuma di Wanda Landowska. Era costruito secondo concezioni moderne e sincretiste, aveva un gran suono e un gran numero di registri comandati a pedale, possedeva inaudite possibilità coloristiche. Avrebbe spaventato Bach e Hàndel e Scarlatti, e spaventa oggi un qualsiasi discofilo per bene che, se mette sul piatto senza adeguata preparazione spirituale la Fantasia cromatica eseguita dalla Lan­ dowska, prima sobbalza sgomento, poi corre a singhiozzare tra le braccia di un Leonhardt o di un Kipnis, disposto persino, faute de mieux, a lasciarsi consolare da un Malcolm. Forse la Landowska, almeno intorno al 1912, non poteva far altro per inserire il clavicembalo nelle grandi sale di concerto. Ci voleva uno strumento in grado di lottare, o almeno di non sfigurare con il pianoforte, e la Landowska lo creò e vinse la battaglia perché, dopo un confronto diretto con Ernò Dohnànyi — tutt’e due a suonare il Concerto italiano, di qua il pianoforte, di là il clavicem­ balo, e il pubblico a giudicare — e dopo appassionate discussioni, il nuovo clavicembalo si guadagnò il diritto all’esistenza. Con la Landowska avvenne dunque un salto qualitativo nella divulgazio­ ne del clavicembalo, non nella ricerca storico-filologica. L’uomo dei tempi nuovi, in questo senso, era Arnold Dolmetsch, mentre la Landowska rappresentava una specie di conclusione paradossale delle concezioni ottocentesche: Liszt, Bùlow, Tausig, Saint-Saéns, Raff, d’Albert, Sauer, Busoni e tanti altri avevano trascritto la musica antica per il pianoforte moderno, la Landowska la trascrisse per il clavicembalo moderno e la sua opera di interprete cadde insieme con le trascrizioni. Ci vorranno ancora anni prima che le trascrizioni possano essere riprese in prospettive di recupero storico e allora, penso, anche la Landowska tornerà all’onor del mondo. In attesa che per la Landowska tornino tempi migliori prendiamo due dischi con il Concert champètre di Poulenc — dove non c’è dubbio filologico che tenga, visto che Poulenc scriveva per il clavicembalone landowskiano — e con tre interpretazioni mozartiane al pia­

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noforte: la Sonata K 332, incisa a Parigi nel 1938, il Concerto K 415, registrato in un’esecuzione pubblica il 27 ottobre 1946 con Artur Rodzinski direttore, il Concerto K 482, registrato il 2 di­ cembre 1945, sempre con Rodzinski. Siccome è possibile trovare il Concerto K 537, inciso a Londra nel 1937 con Walter Goehr direttore, e la Fantasia in re minore di Mozart incisa nel 1937, la Sonata K 576 di Mozart, la Sonata op. 26 di Beethoven, XAndante favori di Beethoven e le Valses viennoises di Lanner-Landowska registrate per il pianoforte meccanico Duo-Art nel 1923, c’è modo di capire se la Landowska sapeva o no strimpellare il pianoforte. Lo sapeva! Ascoltiamo la Sonata K 332. La prima cosa che si nota è che ci sono tutti i ritornelli (compreso il secondo del finale, spesso cancellato in edizioni a stampa). La mia sarà anche una mania, ma siccome ancor oggi mi capita di chiedermi perché il tale o talaltro pianista tagli qualche ritornello, a sentire tutti i ritornelli in un’in­ terpretazione incisa nel 1938 mi s’allarga il cuore. Seconda cosa, il suono. Per avere un termine di paragone storico si possono pren­ dere l’esecuzione di Robert Casadesus, che è degli anni di guerra, e l’esecuzione di Vladimir Horowitz, del 1947. Di fronte al suono secco, paraclavicembalistico di Casadesus, di fronte al suono liqui­ do, paraimpressionistico di Horowitz, la Landowska tira fuori il suonino chiaro che solo può reinventare chi conosce i pianoforti settecenteschi, con i loro piccoli martelletti ricoperti di cuoio invece che di feltro. Terza cosa, i tempi. Tempi piuttosto moderati (120 per quarto nel primo tempo e 100 ogni mezza battuta nel finale, di fronte al 144 e al 120 di Horowitz), che permettono alla Landow­ ska di risolvere in cantabilità, in fraseggio, in dizione anche i passi virtuosistici. Quarta cosa — è un’altra mia mania, lo so — i trilli: trilli che cominciano dalla nota superiore. Quinta cosa, qualche ornamentazione improvvisata. Possono invece stupire un po’ quelle ornamentazioni che, essendo ripetute tali e quali nei ritor­ nelli, non sono più da considerare improvvisate ma diventano modificazioni del testo. Possono stupire certi enormi rallentando in fine di periodo e, soprattutto, le modificazioni della dinamica (la Landowska, ad esempio, non realizza mai il forte-piano). Si tratta di particolari che rivelano come la Landowska sia pur coetanea di Cortot e di Hofmann, e che si innestano, in modo contraddittorio ma affascinante, su una preparazione storico-filo­

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logica alla quale non s’awicinava nessun pianista del 1938, nep­ pure Schnabel o Fischer. È chiaro che la Landowska possedeva anche una tecnica diversa. Se si osservano alcune fotografie delle sue mani sulla tastiera si notano subito le posizioni delle dita e in particolare la posizione «a cane di fucile» del medio: posizione che il grande teorico Rudolf Maria Breithaupt definiva «radicalmente sbagliata» e che è certo sbagliata radicalmente per suonare Brahms tanto quant’è radicalmente giusta per suonare Mozart. Sonorità, tempi, ritornelli, trilli, fioriture. Ce n’è abbastanza per i migliori interpreti mozartiani degli anni 80, e la Landowska è interprete mozartiana del 1938. Prendiamo, a riprova, la Fantasia in re minore, e troviamo un saggio altrettanto interessante, nel quale, semmai, si nota di più la trascuratezza della dinamica. Prendiamo infine il Concerto K 537 inciso negli stessi anni. Le qualità di interprete mozartiana della Landowska non vengono smentite nel rapporto tra solista e orchestra, e anche la dinamica appare più curata. Ciò che stupisce, e che costituisce una vera, inspiegabile stranezza, è il trasporto all’ottava alta di alcuni fram­ menti o di interi passi. Le cadenze, le fermate e le varianti della Landowska per i Concerti di Mozart sono note, in quanto pubbli­ cate dalla Broude Brothers. Ma un conto è vederle scritte, un conto sentirle da chi le ha immaginate: si pensa sempre che, magari, l’interprete ha avuto delle idee che non appaiono sulla pagina scritta. E invece no: l’intromissione del registro sopracuto, che il pianoforte di Mozart non possedeva e che, fatto ancor più impor­ tante, non possiede la sua orchestra, non appare giustificata nep­ pure nell’esecuzione della Landowska. L’intervento della Landowska appare del resto talvolta prevari­ cante anche per altri motivi. Le fioriture improvvisate, che in genere sono sobrie, almeno in un caso guastano a parer mio un’in­ tuizione rivoluzionaria di Mozart: nella parte centrale dell’ultimo tempo del Concerto K 482 viene ipotizzato un uso orchestrale anziché solistico del pianoforte, con il raddoppio all’unisono di pianoforte e archi. La Landowska aggiunge una ricca ornamenta­ zione — all’ottava alta! — e vanifica in tal modo l’idea di Mozart. Il Concerto K 415, per la sua particolare struttura, prevede varie fermate oltre alle normali cadenze: cadenze e fermate che Mozart, più tardi, scrisse egli stesso. La Landowska non adotta cadenze e

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fermate di Mozart, ma preferisce comporne di nuove; scelta certa­ mente legittima, ineccepibilmente legittima, che però urta contro una fondamentale difficoltà: la Landowska, per quanto artista di gusto, per quanto allieva di Heinrich Urban, per quanto composi­ trice della Rapsodie Orientale, non è Mozart... e questo si sente terribilmente. Comunque, e pur con tutte le riserve che suscita, la Landowska è un’interprete mozartiana affascinante, e storicamente importantis­ sima. Era altrettanto brava in altri autori? Le interpretazioni delle Sonate H 34 e H 49 e delle Variazioni in fa minore di Haydn, incise tra il 1957 e il 1959, dimostrano che la Landowska se la sbrigava altrettanto bene con Haydn. I rulli del 1923, oltre alla conferma della Sonata K 576 di Mozart danno modo di valutare la Landowska in Beethoven e in Lanner. Il test è piccolo ma significativo, soprattutto in rapporto con la carica ro­ mantico-espressionista che la Landowska dà alla Fantasia cromatica di Bach. Alla prima audizione si sarebbe tentati di dire che l’inter­ pretazione della Sonata op. 26, la sonata con la Marcia funebre sulla morte d’un Eroe, sia romanticheggiante. Nulla di più inesatto; in realtà la cultura filologico-storica funziona, qui come in Mozart, e l’agogica molto mossa e fantasiosa deve derivare sia dalla cono­ scenza del Metodo di Czerny e delle annotazioni di Anton Schindler, sia dagli studi sui trattatisti del tardo Settecento. La Marcia funebre ci rivela poi, per così dire, una concezione stoica e virile e persino gioiosa della morte, e tutta la Sonata ci apre una visione della realtà alla Jacques-Louis David. Si può preferire, ed io preferisco, la concezione tragica degli interpreti neoclassici, di Schnabel prima di tutti, ma non si può dire che la Landowska non sappia interpretare Beethoven in modo originale e, ancora una volta, affascinante. L’esecuzione dei Valzer di Lanner, infine, lascia il rammarico che la Landowska non abbia affrontato i Valzer e i L'àndler di Schubert. Insomma, tutte le qualità di sensibilità arti­ stica e di appassionato studio dei documenti, che nessuno nega alla Landowska ma che nelle sue esecuzioni clavicembalistiche si rap­ portano ad un suono «falso», nelle esecuzioni pianistiche possono estrinsecarsi splendidamente. E una domanda mi brucia alle lab­ bra: che cosa avrebbe potuto darci, in Haydn, in Mozart, in Beet­ hoven, in Schubert, e in Dussek e in Field questa donna di carat-

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tere, se non fosse stata costretta ad inventare il clavicembalo mo­ derno perché non sapeva suonare il pianoforte?

Il nome della Landowska è celebre, ma ben pochi sanno che la clavicembalista polacca fu anche una pianista storicamente inte­ ressante; e quei pochi lo sanno perché sono restate, a darne testi­ monianza, alcune registrazioni o incisioni. La conservazione delle interpretazioni consente verifiche che non erano in passato possi­ bili: da un lato permette di studiare le ragioni della fama e dall’altro di considerare l’interpretazione in prospettiva storica e magari di tentare revisioni dei giudizi e rivalutazioni postume. Certe verifiche non sono più possibili: che possiamo dire del pianista catalano Carlos Vidiella, tanto ammirato da meritarsi il busto in marmo nel Palacio de la Musica di Barcellona, ma che non ha lasciato incisio­ ni? o di Vsevolod Buyukli? o di Boleslav Kon? Ma altri nomi non sono, come questi, svaniti nella leggenda. Chi scambiava idee con i pianisti russi, negli anni 50, sentiva parlare con ammirazione inconsueta di Vladimir Vladimirovic Sofronitzki, che non era affatto conosciuto fuori dal suo paese e che anche nell’Unione Sovietica non era pianista popolare. Chi parlava con certi musicisti francesi sentiva magnificare Yves Nat, chi par­ lava con i tedeschi sentiva citare Erdmann. Erano tutti artisti restati fuori dei circuiti concertistici internazionali, che di rado e casual­ mente si aveva occasione di sentire. Dischi e registrazioni superstiti, pur se pervenutici in piccola misura, ci consentono oggi di ampliare la nostra conoscenza storica e di valutare anche chi, nell’attualità, non fu protagonista. L’indagine è spesso interessante, soprattutto quando lo stimolo alla ricerca nasce da giudizi autorevoli, ed è non di rado feconda. In questo capitolo ricorderò, dopo la Landowska, alcuni artisti che a distanza di molti anni lasciano impressioni più profonde di altri, più noti in vita e certamente non per aver usurpato la fama. Il lettore avrà del resto notato che io tendo a valutare soprattutto l’originalità della ricerca, non la saggia gestio­ ne della tradizione o gli esiti della carriera. E perciò non trovano posto nel mio discorso, se non incidentalmente, artisti dei quali, con un più ampio spazio a disposizione, avrei detto con piacere,

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come Dohnànyi, Gabrilovic, Hambourg, Friedmann, Elly Ney, Moiseiwitsch, Barer, Levitzki, Clara Haskil, ecc. Luigi Dallapiccola riteneva che Egon Petri fosse uno tra i mag­ giori pianisti del Novecento, se non il maggiore in assoluto, e le superstiti incisioni ci dicono che Petri fu effettivamente un grande pianista. Allievo della Carreno, ma violinista agli inizi della carriera, Petri fu «scoperto» come pianista da Busoni, che era amico del padre. Dal principio del secolo — era nato nel 1881 — Petri diventava il devotissimo allievo ed interprete di Busoni, di cui eseguiva i più importanti lavori, con cui suonava a due pianoforti e con cui collaborava quale coeditore delle opere di Bach. Molto ammirato come interprete di Bach, Petri tentò un ampliamento del repertorio pianistico al repertorio prebachiano: non più al modo di Anton Rubinstein, che aveva eseguito pagine dei virginalisti ingle­ si, ma trascrivendo per pianoforte musiche per organo di Bux­ tehude. Il tentativo, in cui Petri fu imitato da Prokofiev, era ana­ cronistico e non ebbe successo, ma dimostra la curiosità intellet­ tuale di Petri, che tentò anche di riportare con onore Alkan e Henselt. Le incisioni di Petri non sono numerosissime, e tuttavia, oltre ad una eccellente Fantasia contrappuntistica di Busoni, di storica im­ portanza, egli ha lasciato alcune interpretazioni brahmsiane e lisztiane da antologia: di Brahms le Variazioni su un tema di Hàndel e su un tema di Paganini, di Liszt il Concerto n. 2, la più bella Ricordanza che io abbia mai udita, ed alcune trascrizioni di Lieder di Schubert eseguite con un magistero dell'architettura sonora che deriva sicuramente da Busoni e che non fa rimpiangere il Maestro. Altro modello di interpretazione lisztiana, che potrei definire «so­ ciologica» è il Valzer del Faust, di cui scrive Daliapiccola: «Qui Egon Petri crea un'apoteosi del Salon-Stùck, evocando un’epoca e un pubblico che conosciamo indirettamente, attraverso letture o per sentito dire più che per esperienza personale. Nemmeno per un istante l’interprete cede alla tentazione di ironizzare quel mondo di ieri che la prima guerra mondiale soppresse in modo definitivo: egli ci ridà quell’epoca ormai consegnata alla storia, senza giudicarla; giuoca con la materia sonora e, nell’arditissimo giuoco, gode della propria bravura». Prosa carduccianamente aerea per un'interpre­ tazione acutamente evocativa: peccato che Daliapiccola non abbia

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scritto più spesso sui pianisti e che le case di dischi non abbiano più spesso pensato a Petri!

E peccato che non abbiano più spesso pensato a Carlo Zecchi. Nato nel 1903, Zecchi svolse attività concertistica dal 1920 al 1939, quando si ritirò in seguito ad un incidente d’auto. In un periodo, dunque, in cui molti pianisti già incidevano dischi a decine e decine, anche con orchestra, Zecchi, pur essendo concertista di larga notorietà internazionale, incise poco e, nella grandissima maggioranza, solo pezzi brevi. Le incisioni di Zecchi vennero ef­ fettuate in Russia nel 1928, a Parigi verso il 1935, a Torino nel 1937, in Brasile nel 1938, ancora a Torino nel 1942, dopo il ritiro dall’attività pubblica, e a Londra verso il 1950. Ora, una certa idea delle qualità più propriamente pianistiche di Zecchi — strumenti­ sta con il quale, a detta di un testimone non sospetto come Carlo Vidusso, anche una semplice scala era già bella solo per la sua sonorità — l’ascoltatore riesce certamente a farsela. Ma è quasi impossibile capire le caratteristiche stilistiche di quest’artista, che in disco appare come uno specialista di piccole pagine, quasi un miniaturista alla Vladimir de Pachmann, mentre in sala di concerto prediligeva programmi molto impegnativi e «moderni». Ad esem­ pio, ecco un programma del 1924: Beethoven: Sonata op. 111. Stravinsky: Tre movimenti da Petruska. Niemann: Piccola Sonata op. 88. Bajardi: Due Preludi. Ticciati: Toccata. Liszt-Busoni: Po­ lacca in mi maggiore. Ed ecco un programma tipico di Zecchi negli anni 20: Bach-Busoni: Toccata in do maggiore. Schumann: Fanta­ sia op. 17. Chopin: Le quattro Ballate. Liszt: Studi da Paganini n. 5, 2, 6. Un programma tipico degli anni 30 era: Bach: Partita n. 1. Beethoven: Sonata op. 31 n. 3. Schumann: Davidsbundlertànze op. 6. Goossens: Kaleidoscope. Liszt: La leggierezza, Studi da Paganini n. 4 e 6, Caccia selvaggia. In disco solo la Barcarola di Chopin, incisa nel 1937, può darci però il riflesso vero dell’interprete e degli interessi di interprete che i programmi lasciano supporre. Il resto, e cioè il grosso, ci tramanda un’immagine sicuramente parziale e forse distorta. Le incisioni del 1928 ci danno nitidamente l’idea di uno stile nettamente impressionistico: il suono tenue e fluidissimo, che ri­

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corda le più tipiche caratteristiche di Gieseking, e Fuso del pedale di risonanza che, ad esempio in La leggierezza di Liszt, si compiace nel lasciar scorrere tracce, scie di suoni accavallati, fanno pensare alla nitidezza di tratto unita alla vaghezza di disegno di un Monet. È evidente che Zecchi interpretava Liszt e Chopin in funzione di Debussy (e di un Debussy quale allora cominciava forse a non piacere più). Ma come interpretava la Fantasia di Schumann o le Ballate di Chopin? Questo è ciò che ci interesserebbe sapere, e che non possiamo neppur indovinare: sapere come un’impostazione stilistica centrata sull’impressionismo risolvesse i grandi lavori ro­ mantici. Le incisioni del 1935 circa sembrano denotare un momento di crisi: l’impressionismo è diventato anche formale, oltre che sonoro, la scansione del tempo è talmente variabile da far quasi perdere la percezione dell’unità di base e molte note delle parti secondarie vengono toccate con tale lievità da risultare inudibili o sono elimi­ nate per consentire una distribuzione tra le due mani diversa da quella originale. La meraviglia di certe impalpabili sonorità im­ pressionistiche — una scala in seste a due mani, alla fine dello Studio da Paganini n. 5 di Liszt, rapida come un fruscio e degna di figurare in un’antologia delle gemme pianistiche più pure — non fanno dimenticare, nella Polacca brillante op. 22 di Chopin, una cautela ed un timore (che non evitano le note prese male) del tutto insoliti in un virtuoso di questo calibro; affiorano inoltre anche, specie in Scarlatti, vezzi manieristici ormai arcaici, alla Bùlow o alla Sauer, non reinterpretati criticamente. E di nuovo sorge spontanea la domanda: rebus sic stantibus, come interpretava allora Zecchi, ad esempio, l’op. Ili di Beethoven? Le incisioni del 1937 ci offrono un’immagine molto diversa da quella precedente. Pur permanendo certe sonorità impressionisti­ che, l’agilità è più granita e lo stile non è più impressionistico: i piani sonori, calcolati in un modo millesimale che dovette avere il suo peso nella formazione stilistica di Benedetti Michelangeli, per­ mettono la netta percezione di ogni evento, il ritmo è di una logica stringente anche quando porta a soluzioni paradossali, l’eloquio ha una serrata cadenza oratoria che esercita un’immediata e fortissima presa sull’ascoltatore. Queste qualità appaiono giunte ad un culmine di maturità nella

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Barcarola di Chopin: fantastica esecuzione, culminante in una conclusione lentissima ed estatica, con le due linee melodiche emergenti in un modo che rende esattamente Videa della «miste­ riosa apoteosi» di cui parlava Ravel. Si tratta però di un capolavoro interpretativo isolato, attraverso il quale, come dicevo, si intuisco­ no le qualità di Zecchi senza che si abbia l’esatta misura della sua lezione e della sua presenza nella vita concertistica tra le due guerre. Si può capire che le grandi case tedesche, inglesi, americane e multinazionali, avendo a disposizione in un irripetibile momento storico più generazioni di pianisti, da Paderewski a Horowitz, non si curassero e non puntassero su un artista italiano neppur qua­ rantenne. Ed è probabile che durante la guerra, quando la Telefunken o la Cetra avrebbero potuto invitarlo ad incidere gran parte del suo repertorio, Zecchi non fosse più in condizione di far fronte ad un massiccio programma di lavoro. La metodologia della pre­ parazione di Zecchi, le sue quattordici o sedici ore giornaliere di studio, il suo modo di preparare con infinita pazienza, anche nel giorno stesso del concerto, i due trilli della prima entrata del pianoforte nel Concerto n. 3 di Beethoven, erano infatti leggendari ma tutt’altro che fantastici, tutt’altro che inventati. E uno stru­ mentista di questo tipo, quando lascia l’attività concertistica, perde inevitabilmente il dominio del suo repertorio. Le incisioni del 1942, per quanto ben riuscite (soprattutto la Berceuse di Chopin e Poissons d’or di Debussy), non aggiungono dunque nulla a ciò che già sapevamo, e meno ancora quelle posteriori al 1950, che appar­ tengono chiaramente a un non-concertista. Se Zecchi non si fosse ritirato nel 1939 noi avremmo conosciuto nel dopoguerra e cono­ sceremmo oggi un grande pianista in più, un protagonista della storia. Ma per un cumulo di circostanze sfavorevoli ci resta di lui troppo poco per poter giungere ad una valutazione che non sia più affettiva che largamente fondata sul documento.

H più celebre pianista francese tra quelli nati verso la fine del secolo scorso, il solo potenziale rivale che Cortot si trovasse di fronte negli anni 30 è Robert Casadesus. Ma molti musicisti erano e sono disposti a giurare che se Yves Nat non avesse abbandonato nel 1934 le ambizioni di carriera concertistica per dedicarsi all’inse­

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gnamento e alla composizione avrebbe potuto turbare i sonni di Cortot come interprete di Schumann e surclassarlo come interprete di Beethoven. Del resto, una delle più splendide immagini riservate ad un interprete — «una finestra che dà sul capolavoro» — fu ispirata a Marcel Proust proprio da Nat. L’esecuzione del Concerto di Schumann, incisa nel 1933, ci fa ascoltare Nat a quarantatre anni, in un momento in cui la lezione di Cortot è ancora per lui, evidentemente, un modello da seguire. Il grosso delle sue esecuzioni incise — tutte le Sonate di Beethoven, dodici numeri d’opera di Schumann, i Momenti musicali di Schu­ bert, la Sonata op. 35, la Fantasia e la Barcarola di Chopin, le Variazioni su un tema di Hàndel, le Rapsodie op. 79 e gli Inter­ mezzi op. 117 di Brahms — risale però agli ultimi anni, dal 1952 al 1956. Di quel tempo è anche la registrazione del Concerto per pianoforte e orchestra di Nat, presentato in «prima» assoluta dal­ l’autore. E siccome Nat aveva preferito la composizione all’ese­ cuzione il Concerto suscita almeno una certa curiosità. Bisogna proprio dire che non valeva la pena di sacrificare un grande talen­ to di interprete per arrivare alla meta con un Concerto così raveliano... Nat, come dicevo prima, era rimasto inattivo come interprete in pubblico per quasi vent’anni, e ciò non poteva non aver influito sulla sua «tenuta» tecnica e sui suoi nervi. Le sue esecuzioni incise in disco non spiccano per il dominio della tastiera e sono talvolta o poco chiare o frenate dal timore dell’errore; si dice anzi che per i dischi con le Sonate di Beethoven venisse usato soprattutto ciò che Nat aveva fatto in prova-microfoni, non in seduta, perché nel momento in cui si accendeva il segnale «silenzio, incisione» il pianista perdeva completamente la trebisonda. Vera o no che sia questa diceria sta di fatto che con Nat — come con Erdmann, di cui dirò tra poco — si ha spesso l’impressione di un maestro che suona per un pubblico di iniziati e che non si cura minimamente della pulizia tecnica,... anche quando potrebbe farlo senza grandi sforzi. Nel secondo Momento musicale di Schubert, ad esempio, tutti gli accordi re bemolle-sol-re bemolle e si bemolle-sol-si bemolle della mano destra sono «sporcati» da un sol bemolle o da un la bemolle', è evidente che Nat, avendo dita grosse, restava incastrato con l’indice e abbassava inavvertitamente i tasti neri vicini al sol\ ma, essendo i

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passi del secondo Momento musicale facili, avrebbe potuto tran­ quillamente evitare la scorrettezza se solo avesse controllato con attenzione il movimento. In questi casi la «sporcizia» dà fastidio, in altri bisogna ascoltare le interpretazioni di Nat come lezioni e non come esecuzioni. Ma al di là di ciò che è dovuto alla mancanza di esercizio psicofisico o ad una qual trascuratezza si avvertono certe contraddizioni tecniche di fondo, riscontrabili già nel Concerto di Schumann del 1933, e che sono poi le stesse contraddizioni di Cortot. Cortot, Nat, Casadesus, allievi tutti di Diémer, posseggono pienamente la grande tecnica francese tradizionale, raffinata in mezzo secolo di esperimenti e di lavoro. Mentre Casadesus si mantiene però stretto alla tradizione (ed è perciò esecutore assolu­ tamente impeccabile), Cortot e Nat ricercano una varietà ed un volume di suono che richiedono una tecnica diversa, e sia l’uno che l’altro dimostrano di non avere pienamente acquisito i mezzi messi a punto da Busoni e dai russi. Capita così che Nat, dopo aver dominato in modo superbo, per due terzi del pezzo, Fintricatissimo gioco di piani sonori nell’intermezzo op. 117 n. 2 di Brahms, vada alla catastrofe nel punto culminante perché le sue dita non reggono la spinta violenta nel peso del braccio. Mi diceva un suo allievo che Nat, per ottenere maggior potenza, lavorava di preferenza con polso altissimo e con dita quasi a perpendicolo sulla tastiera; quando questa scomoda ma sicura posizione non era praticabile non rinunciava però a cercare un grande volume di suono e la sua tecnica non era più limpida. Parlo della tecnica di Nat non perché la grandezza di un inter­ prete dipenda dalla sua tecnica: se così fosse Paderewski, Cortot, Fischer, Schnabel, Kempff non avrebbero trovato posto in questo volume. Mi sembra invece importante parlare della tecnica di Nat perché in lui, come in Cortot, i limiti testimoniano lo spirito di ricerca, l’uscita da una solida ed efficiente tradizione. Il problema maggiore affrontato da Nat — se la scarsezza dei documenti non mi porta fuor di strada — mi sembra sia consistito nell’interpretazione di Brahms, autore rimasto estraneo alla cultura francese dell’inizio del nostro secolo* Wagner per Cortot, Brahms per Nat, di tredici anni più giovane di Cortot, sono gli autori che riportano la cultura francese su problematiche europee. Ho già accennato all’inter­ mezzo op. 117 n. 2; conosco poche altre interpretazioni dell’Inter­

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mezzo op. 117 n. 1 in cui il contrasto tra la tenerezza della prima parte e l’angoscia della parte di mezzo sia altrettanto lacerante; conosco ben pochi interpreti che possano rendere una tale atmo­ sfera da incubo notturno nella parte centrale dell’intermezzo op. 117 n. 3; conosco poche interpretazioni della Rapsodia op. 79 n. 2 così gravide di un disperato senso di morte. Per contro, l’empito vitale di una riconquistata classicità percorre con una luce di gioia accecante le Variazioni su un tema di H'dndeL E questo cammino verso la classicità come luogo dell’affermazione dell’essere mi sembra traspaia dalle poche interpretazioni brahmsiane (occorre­ rebbe avere le esecuzioni della Sonata op. 5, delle Ballate op. 10 e dei due Concerti, per poter concludere con sicurezza) e si affermi nella serie delle trentadue Sonate di Beethoven. Nat interprete di Beethoven ricorda talvolta Schnabel e talvolta Backhaus, ma è di entrambi meno «moderno» e più ingenuo (e più «moderno» ma sempre ingenuo, come dirò, in un solo particolare). Non c’è forse altro pianista con cui Beethoven sia così compietamente figlio dello Sturm undDrang e di Schiller: Sturm undDrang, impeto e assalto. Beethoven è con Nat impeto e assalto, ma con la gioia, con la baldanza di un giovane Sigfrido. Persino il Beethoven delle ultime Sonate. E non dico della ciclopica op. 106, nella quale Nat è le mille miglia lontano da Schnabel, ma nell’op. 109 e nell’op. Ili: nell’op. 109 il primo tempo è tutto un inno alla primavera, il secondo tempo è una danza di esaltazione sovrumana (il polso altissimo e le dita che piombano sul tasto...) e nelle variazioni la gioia di vivere cresce fino ad un punto in cui Nat sente il bisogno di far scoppiare nel basso un tuono divino che spalanca i cieli per dare il passo alla luminosa colomba: Beethoven diventa in quel mo­ mento, veramente, il contemporaneo di William Blake e delle sue visioni bibliche. L’ascoltatore, naturalmente, sobbalza e rimette indietro il pick-up; non è un vero tuono registrato per caso e non è un colpo di tam-tam; è proprio l’estremità grave del pianoforte, che Nat ha risvegliato dal suo sonno e chiamato a raccolta per comple­ tare la festa. E l’ascoltatore scuote la testa, ma resta anche intimo­ rito da tanto ardire e non osa dissentire. E l’op. 111? Che cosa sono quei boati che all’inizio concludono le saette degli arpeggi velocis­ simi? Che cos’è quella voce mediana che si fa strada, ammonitrice, alla fine del primo tempo? E che resta dell’estasi celeste dell’Ariet­

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ta, con quest’uomo fremente di un amore per il creato che lo fa gridare? Quando sposta i suoni all’ottava bassa, nell’op. ,109 e nell’op. Ili, Nat non ha giustificazioni di nessun genere: quei suoni li aveva anche la tastiera dei tempi di Beethoven, e se Beethoven avesse voluto... Ma per Nat c’è bisogno, in certi punti culminanti, di tam-tam, grancassa e macchina del vento, c’è bisogno della «zampata del leone» dei pianisti romantici. E può permetterselo, dico, anche se mi affretto ad aggiungere: quod licet Jovi... Per contro, Nat sa cogliere certi attoniti stupori, certo ritmo ipnotico che arresta il battito del cuore così come la visione di Brunilde dormiente arresta Sigfrido: ad esempio, nel finale della Sonata op. 31 n. 2. E in un carattere tutt’altro che marginale del suo stile, la sonorità, Nat finisce per essere il più moderno interprete della sua generazione. Quel suo suono teso, un po’ metallico, un po’ stridente nell’estremità acuta ricorda più di ogni altro il suono (non il volume) dei pianoforti del tempo di Beethoven. Non credo che Nat si ponesse coscientemente il problema di un recupero dell’Urton,... ma non ne sono proprio sicuro: in fondo, Wanda Landowska, che visse in Francia fra le due guerre, aveva già modi­ ficato in Mozart la sonorità pianistica tradizionale. E Nat avrebbe potuto benissimo tenerne conto. Proprio la sonorità, che dà una straordinaria resa espositiva in Beethoven e nelle Variazioni su un tema di Hàndel di Brahms, diventa però un limite in Schumann perché non si presta ad un legato vocalistico e, con l’ampio uso del pedale di risonanza richie­ sto da Schumann, «sfora» continuamente. Una consimile tecnica del suono non danneggia minimamente le interpretazioni schumanniane di Cortot che, come abbiamo visto, sposta continuamente l’attenzione su particolari diversi dell’architettura sonora. In Nat, la cui arte è passionale ed oratoria e che si identifica emotiva­ mente con l’opera interpretata, l’attenzione percettiva dovrebbe sempre convergere su un avvenimento centrale e dominante; nelle sue interpretazioni schumanniane manca invece l’illuminazione potente di ciò che dovrebbe prevalere ed i particolari «sforano», appunto, da un’ombra che dovrebbe avvolgerli. Non capisco tut­ tavia come Nat, che come interprete di Schumann non mi sembra grandissimo, potesse poi essere così grande negli Intermezzi di

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Brahms. Per quale via arrivava a capire tanto bene un Brahms che non può certo essere considerato classico e Sturm und Drang? La risposta non l’ho trovata.

Ho ascoltato Eduard Erdmann una sola volta, alla radio, nel 1948 o 1949 che fosse. Eseguì il Concerto n. 1 di Weber e Vlntroduzione e Allegro op. 134 di Schumann e mi fece capire che il giovane Weber era un genio e che il tardo Schumann... non era un pazzo. Lessi poi dei suoi rapporti con Busoni, con Schnabel, con Gieseking; Baumgartner e Magaloff mi completarono il quadro, a cui diede il tocco finale Sergiu Celibidache. Celibidache mi rac­ contò che, mentre riceveva in camerino i complimenti entusiasti dei soliti melomani dopo uno dei suoi primi concerti a Berlino, aveva visto comparire nel vano della porta un uomo alto e sgraziato, che alzando il braccio sopra le teste dei presenti e puntandogli contro un dito minaccioso gli aveva detto con indignazione: «Lei ha un talento fantastico, ma non sa la musica». Al che Celibidache, folgorato, replicava soltanto per chiedere nome e indirizzo dello sconosciuto e per concludere: «Domattina alle nove sarò da lei». Ci era andato e, diceva, aveva trovato un pianista mediocre che co­ nosceva la musica come nessuno. Tutto mi lascia credere che il racconto hoffmanniano di Celibi­ dache corrisponda alla verità. Non che Erdmann fosse un pianista mediocre: prendeva note sbagliate in misura tale da rendere tal­ volta fastidiosa l’audizione, ma almeno prima della guerra poteva suonare in modo corretto mantenendo una tensione intellettuale altissima e tutt’altro che adatta alle esecuzioni controllate. Una sua esecuzione di Ondine di Debussy, del 1929, è un miracolo di rapporti timbrici da far invidia a Richter e crea un’atmosfera di stupefatta visione mitologica che rivela meglio di ogni saggio critico il rapporto Debussy-Mallarmé e la differenza radicale DebussyRavel. Un’interpretazione magica, che non trova paralleli né in Gieseking né in interpreti francesi coevi, e che appare tanto più miracolosa in quanto dovuta ad un pianista tedesco vissuto fin da ragazzo a Berlino. Un’altra grande interpretazione, della Bagatella op. 126 n. 3 di Beethoven, mostra l’influenza profonda di Schnabel. Influenza che

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dipese probabilmente anche dai rapporti di amicizia tra i due artisti e dall'entusiasmo di Erdmann per Schnabel compositore: Erdmann eseguì infatti, di Schnabel, il Concerto, la Suite di danze, e nel 1925, al Festival della SIMC che si svolse a Venezia, la lunghissima Sonata, tanto lunga e tanto astrusa e tanto modernista da scanda­ lizzare Toscanini, il quale se ne rammentava con orrore ancora quindici anni più tardi1. Come Gieseking, Erdmann era partito dalla musica contemporanea. Nato in una cittadina della Livonia nel 1896, era andato a Berlino a diciottenni per studiare con Ansorge; a diciannove anni aveva fatto sentire all’autore il Con­ certo di Busoni, decifrato e macinato da solo. Nel dopoguerra, oltre a Schnabel, aveva eseguito Schonberg, Berg, Hindemith, Hàba, Krenek, Carl Nielsen, aveva composto musica d’avanguardia ed era insomma diventato una personalità di spicco nella vita musicale tedesca. Sarebbe interessante poter esaminare i suoi rapporti con Schnabel, perché non è detto che solo Erdmann ricevesse da Schnabel: potrebbe darsi che nella maturazione di Schnabel, che all’inizio degli anni 20, come ho detto, affrontava a fondo l’inter­ pretazione di Beethoven e di Schubert, le idee di Erdmann avessero la loro parte. Erdmann era infatti una mente capace di portare fino all’estremo le sue intuizioni e di correre i rischi del paradosso, della perdita di controllo e del disastro per mettere in luce ciò che stava nascosto in qualche parte segreta e inesplorata dell’opera. Non mi risulta che sia conservata la sua esecuzione dell’intro­ duzione e Allegro di Schumann, da me ascoltata tanti anni addietro; ma la rivelazione dei rapporti Mendelssohn-Schumann-Brahms e del sentimento consolatorio della continuità dell’arte tedesca, che ho ritrovato pochi anni or sono nella esecuzione di Ashkenazy, mi era apparsa lucidamente già ascoltando Erdmann. Ascoltando da Maurizio Pollini, in una sola serata, le tre ultime Sonate di Schubert ho avuto la sensazione del poema supremo, della visione dantesca; l’idea di eseguire di seguito le tre Sonate è di Erdmann e risale agli anni 30, otto lustri prima che Pollini la riprendesse. Fu Erdmann il 1 Schnabel racconta: «Toscanini era presente a questa esecuzione e persino dieci anni più tardi mi disse: “È Lei veramente lo stesso Schnabel che scrisse quell’orribile musica che ascoltai dieci anni fa a Venezia?” Dovetti assicurargli che ero proprio io. Sembrò ancora soffrire al ricordo».

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primo che eseguì la Sonata in do maggiore D 840 di Schubert, incompiuta, così come Schubert l’ha lasciata, con lo Scherzo che si ferma su una riesposizione in tonalità «sbagliata» e il finale che si interrompe all’inizio dello sviluppo. Fu Erdmann che eseguì le Variazioni di Goldberg di Bach integralmente e con tutti i ritornel­ li quando veniva appena accettata la versione riduttiva di Busoni. Fu lui ad eseguire gli... incunaboli pianistici di Johann Gottfried Eckard, ignorati dai concertisti fino ad oggi. Le esecuzioni di Erdmann erano visionarie, febbrili nella ricerca esasperata di significati essenziali. E alla tensione intellettuale, non certo atta a conciliare le simpatie del pubblico, doveva aggiungersi un aspetto tra il demoniaco e il grottesco: alto e dinoccolato, con braccia da uomo-scimmia e mani da boscaiolo, Erdmann appariva in scena indossando un frack tirato fuori dallo zaino in cui l’aveva riposto evitando accuratamente di piegarlo... Anche pagine così pacifiche come gli Improvvisi op. 90 di Schubert ed i Pezzi fanta­ stici op. 12 di Schumann diventano con Erdmann visioni di inge­ gneria musicale, piani esplicativi di microstrutture di cui non si era sospettata l’esistenza. Basta osservare come Erdmann esegua l’ini­ zio di P)es Abends, il primo dei Pezzi fantastici'.

Chi sa un po’ di musica capisce che cosa volesse dire Celibidache quando asseriva che Erdmann conosceva la musica come nessuno. Erdmann bada a mettere in luce la poliritmia, che del resto tutti vedono perché Schumann l’ha suggerita chiaramente con la linea che unisce le note della melodia e con l’accento sul la bemolle della sinistra. Ma per indicare con esattezza la poliritmia come la realizza

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Erdmann bisogna scrivere il passo in un modo che richiederebbe il sestetto d’archi:

Uno strutturalista come Arrau è affascinante perché, pedante ed angelico insieme, scrupolosissimo ed umilissimo, arriva attraverso il cammino più lungo a scoprire la verità per cadere in estasi di fronte ad essa. Erdmann vede invece la verità in una improvvisa folgora­ zione che lo lascia e ci lascia stupefatti. La sua arte di interprete è una sorta di realismo magico e di rivelazione, che probabilmente aveva un’efficacia incomparabile nel momento in cui avveniva. Malgrado la loro ricchezza di contenuti, le interpretazioni dei Pezzi fantastici di Schumann, degli Improvvisi op. 90 e delle tre ultime Sonate di Schubert, dei Quadri di una esposizione di Mussorgski, registrati negli anni 50, sono infatti meno stupefacenti di Ondine o dell’intermezzo op. 117 n. 3 di Brahms, incisi nel 1929. Bisogne­ rebbe forse poter sentire i Quadri di una esposizione nell’esecuzio­ ne che Erdmann ne fece a Berlino nel 1922, quando i Quadri erano praticamente ignoti, o le sue esecuzioni delle Variazioni di Gold­ berg o delle ultime tre Sonate di Schubert, o della Sonata di Berg

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negli anni 20, per capire che cosa Erdmann rappresentò per i colleghi che lo ascoltarono e lo avvicinarono. Le esecuzioni del dopoguerra, che soffrono anche di impreci­ sioni tecniche, soffrono però soprattutto perché una certa patina di ripetitivo si è posata su di esse. Quella fortissima sensazione di un ignoto che si spalanca improvvisamente, da me provata ascoltando Erdmann in un'esecuzione pubblica, l'ho ritrovata in alcuni suoi dischi di prima della guerra. È probabile che nella cultura tedesca egli rappresentasse allora il complemento del suo amico Schnabel nell'interpretazione degli autori che questi aveva lasciato in di­ sparte: Mussorgski e Scriabin, Debussy, Schonberg e Berg. Ma Erdmann non era pianista che potesse diventare concertista popo­ lare, e quale artista sia stato possiamo solo intrawederlo e imma­ ginarlo.

Di Maria Judina, russa del governatorato di Vitebsk, ebrea, convertitasi alla religione ortodossa, nata nel 1899 e scomparsa nel 1970, si sa poco, almeno in Occidente. Di lei narra qualcosa Shostakovic nelle memorie raccolte da Solomon Volkov, qualcosa si trova nell’inserto che accompagna un suo album di quattro dischi pubblicato dalla Ariola, altre notizie potranno saltar fuori dalle lettere che la Judina scambiò verso il 1960-70 con musicisti come Stravinsky, Messiaen, Stockhausen, Boulez, Nono, e che, data la singolare personalità di quest'artista, di cui ora dirò, dovrebbero essere prima o poi pubblicate. Per ora la Judina ci appare come personaggio appartenente alla intelligencija sospetta alla burocra­ zia statale sovietica e, nello stesso tempo, come una specie di vecchia credente con forti e anacronistiche connotazioni mistiche. Il ritratto che ne traccia Shostakovic — o il Volkov — è più o me­ no quello di una testa balzana, di un'indomabile originale o, se vogliamo di una mattoide incline a gesti di gratuita ostenta­ zione: «Da giovane, amava indossare abiti neri lunghi fino a terra. Nikolaiev [il maestro di Shostakovic e della Judina] azzardava la previsione che, quando fosse stata di mezza età, sarebbe apparsa in palcoscenico coperta di diafani veli. Per fortuna dell'uditorio, la Judina smentì quella sua previsione o consiglio che fosse, e conti-

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nuò a indossare le sue sgraziate tonache nere. Avevo anzi Firnpressione che avesse portato sempre la stessa, per tutta la vita, tant’era logora e unta. Ma, nei suoi tardi anni, c’era stata un’aggiunta: scarpe da gin­ nastica, che sfoggiava estate e inverno. Quando, nel 1962, Stra­ vinsky venne nelTURSS, la Judina arrivò al ricevimento in suo onore con le solite scarpe di tela, commentando: “Che veda come vive l’avanguardia russa”». E più avanti: «Era un’ottima concerti­ sta, ma non siamo mai stati davvero amici, né avremmo potuto esserlo. Lei era una persona ammodo, gentile e servizievole, ma erano qualità intrise di isterismo: la Judina era affetta da isterismo religioso. [...] Una volta mi imbattei in lei in un cimitero: era china a terra. Mi dice: “Sei lontano da Dio, dovresti avvicinarti a Lui”. Feci un gesto stizzito e me ne andai. Vera fede, la sua? No, nuli’altro che superstizione con qualche vaga reminiscenza di reli­ giosità». Il ritratto sarà fors’anche vero, ma non è certamente veritiero. Se si ascoltano i pochi dischi della Judina si ha un’impressione ben diversa: una personalità di artista inconfondibile, e grande. Balzana solo secondo il metro con cui il pacifico borghese giudica colui che batte i sentieri tortuosi e sassosi invece delle vie maestre e spianate. Ma non è nella via maestra che si scoprono e si colgono gli aspri frutti selvatici di cui la Judina, come vedremo, andava pazza. Shostakovic ricorda che verso il 1927 la Judina eseguiva il Con­ certo di Krenek. Scelta significativa, mi sembra. La Judina ebbe in repertorio Schonberg, Stravinsky, Bartók, Berg, Prokofiev, Hin­ demith, Shostakovic, cioè quasi tutti i più importanti compositori del suo tempo, ed eseguì Bach e i classici viennesi; tra i capolavori dell’ottocento pianistico predilesse soltanto gli Intermezzi di Brahms e i Quadri di una esposizione di Mussorgski. Un*interprete, dunque, che come il suo quasi coetaneo Eduard Erdmann si senti­ va prima di tutto vicina all’arte contemporanea, che cercava i legami tra la musica del Novecento e la musica del Settecento, e che nei Quadri ritrovava l’unica isola ancora inesplorata del sec. XIX. Vediamola nei Quadri, che per lei e per la sua generazione rap^ presentarono un problema assillante. L’incisione è del 1967. La Judina adotta la versione originale pubblicata da Pavel Làmm, tranne che in alcuni punti di Limoges e

Nella pag. precedente: Ignaz Moscheles. Ferenc Liszt e Karl Tausig. A fronte: Anton Rubinstein.

Sopra: Hans von Bùlow e Jgnacy Paderewski. A fronte: Ferruccio Busoni e S. V. Rachmaninov.

Edwin Fischer e Artur Schnabel.

A fronte: Walter Gieseking con Elisabeth Schwarzkopf

Sopra: Claudio Arrau con il maestro Sonzogno. A lato: Rudolf Serkin con Isaac Stem.

Vladimir Sofronitzki e Vladimir Horowitz. A fronte: Artur Rubinstein.

Dinu Lipatti e Svjatoslav Richter. A fronte: Arturo Benedetti Michelangeli.

A fronte: Alfred Brendel.

Dino Ciani e Vladimir Ashkenazy-

Maurizio Pollini.

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di Con mortuis e in uno di La capanna su zampe di gallina, del quale dirò poi. L’inizio è impressionante, sia per l’imperiosa, metallica qualità del suono, che sembra quello di una tromba d’argento, sia perché già alla seconda battuta si resta sbalorditi da un’idea inter­ pretativa che nella sua semplicità ha dell’incredibile. Chiunque, leggendo le prime due battute, si accorge che i suoni della seconda battuta sono gli stessi della prima, sebbene in un ordine diverso:

Allegro giusto, nel modo russico, senza allegrezza,ma poco sost.

La costruzione è tutta basata sugli intervalli di seconda maggiore e di quarta giusta, con gli intervalli di terza maggiore e minore che conseguono da spostamenti, da interversioni nei tre suoni della cellula fondamentale, e l’analisi del passo è di quelle che non cessano mai di stupire e — posso dirlo? — di mettere di buonu­ more i musicisti per la genialità dei giochetti di prestigio di Mussorgski. La Judina si pone però il problema di far osservare a chi ascolta, non a chi legge, che il tema riflette se stesso, e ci riesce suonando forte la prima battuta e all’incirca mezzoforte, come un’eco, la seconda battuta. Sembra persino una sciocchezza, ma è una di quelle sciocchezze che fanno balzare sulla sedia e l’esperto e l’ine­ sperto. E di idee come questa la Judina è prodiga, anche a costo di «interpretare» il testo in modo persino arbitrario: ad esempio, nella battuta 19 di Gnomus la Judina, probabilmente per evitare ogni sospetto di patetismo nelle appoggiature, abbrevia l’appoggiatura fino a modificare in un quattro quarti il tre quarti di Mussorgski, e nei Due ebrei scandisce i ritmi con una elasticità, con un rubato che la minuziosa grafia mussorgskiana sembrerebbe escludere. Ma questi, ed altri innumerevoli particolari, che fanno impu-

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come ci sia riuscito. Sentii da lui il Konzertstùck di Weber, una prova digitale formidabile: fu perfetto!». Gli esercizi di Safonov — Nuova formula per il professore e lo studente di pianoforte (1915) — sono del resto intesi all’estremo perfezionamento della flessibi­ lità e dello scatto delle dita (e con Safonov, prima che con Rubin­ stein, aveva studiato quel formidabile tecnico che era Lhevinne). Penso dunque che la tecnica e lo stile della Judina, più che dimo­ strare l’influenza su di lei di Schnabel, potrebbero dimostrare in­ direttamente la derivazione di Schnabel dalla cultura russa rappre­ sentata da Leschetitzki e da Anton Rubinstein. In altre parole, Schnabel potrebbe aver sviluppato il suo neoclassicismo derivan­ dolo da quella divisione stilistica di classico e romantico che pare di poter notare nella cultura russa, e non nella cultura tedesca del tardo Ottocento. Ancora, si capisce, il vecchio problema della posizione storica di Anton Rubinstein, che rode come un tarlo maligno chi si dedichi allo studio dell’interpretazione pianistica, e che è in realtà insolubile... La tecnica delle dita serve prima di tutto alla Judina per la resa chiarissima della polifonia: come racconta Shostakovic2, le voci di una fuga di Bach risultano, con la Judina, con un’indipendenza di sonorità o, meglio, con dislivelli minimi ma precisissimi della dina­ mica che bastano a rendere limpidissimo, trasparente tutto il tes­ suto. Anche in Bach la Judina, s’intende, ha però da esporre idee a bizzeffe, che sono ben più della chiarezza polifonica. Ad esempio, negli arpeggi della fantasia cromatica prende come base non la realizzazione romantica di Bùlow né quella simbolista di Busoni, ma quella filologicamente più corretta; eppure i suoi interventi — aggiunta di qualche nota di passaggio, modificazioni degli anda­ menti basso-acuto e viceversa — sono tali da evitare ogni traccia e

2 «Sovente Nikolaiev mi diceva: “Va’, va’ a sentire come suona Marusja!” (Chiamava Marusja la Judina, e me Mitija); “In una fuga a quattro voci, ogni voce, quando suona lei, acquista un timbro particolare, vedrai”. Mi sembrava stupefacente; com’era possibile una cosa simile? Andavo ad ascoltare, speran­ do, com’è ovvio, che l’insegnante avesse torto, che le sue fossero semplici illusioni. E invece, c’era da restare a bocca aperta: quando la Judina suonava, effettivamente, ognuna delle quattro voci aveva un suo timbro, per incredibile che possa sembrare».

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ogni sospetto di filologismo dimostrativo e pedantesco (a cui, sia detto per inciso, non sfugge un artista del calibro di Rudolf Serkin). Così pure, una sua idea nettamente didascalica — eseguire molto marcate la prima nota del trillo e la risoluzione, leggerissime tutte le altre note — trova continue varianti per rinnovare l’interesse e la curiosità dell’ascoltatore3. Così, nella coda della Fantasia cromati­ ca, dopo aver inizialmente accettato la rigida alternanza paraclavi­ cembalistica di forte e piano, la Judina l’abbandona quando il mantenerla ancora avrebbe odorato d’accademico, e procede con fantasia e con un senso della continua creazione che la distingue nettamente da tutti gli interpreti neoclassici suoi coetanei. Ho detto prima che la tecnica delle dita della Judina è svilup­ patissima. In una pagina di Beethoven poco nota, le Variazioni su un tema russo, l’interesse dell’esecuzione e della composizione nasce con lei dal gioco digitale che supera il fatto puramente meccanico per diventare in certi momenti inafferrabile, fantastico turbinio di particelle di suono. E non solo si ammira l’esecuzione, ma si finisce col rivalutare la composizione che, a leggerla o ad ascoltarla da altri interpreti, non era mai parsa tanto stimolante, tanto poco «Beet­ hoven minore». Il bello è però che con lo stesso spirito la Judina affronta la variazione quarta nel secondo tempo della Sonata op. 111! È incredibile, ed è difficile da accettare: gli arabeschi metafisici di quella variazione, di cui molti interpreti delibano e fanno delibare ogni suono in un attonito, sacrale mormorio di preghiera, diventa­ no con la Judina puntilistiche scie, code di cometa che guizzano in cielo o, se vogliamo essere cattedratici e prosaici, puri e semplici esercizi di agilità delle dita alla Czerny4. Eppure la forza dramma­

3 La Judina esegue il trillo in Bach prendendo alla lettera certe realizzazioni delle edizioni dell’ottocento, che usavano un diverso carattere, più piccolo e meno marcato, per le note del trillo. Può darsi che così venissero effettivamente eseguiti dai classicisti dell’ottocento i trilli e che la Judina perpetuasse un costume tradizionale. 4 Per capire quanto spedita proceda la Judina nel secondo tempo dell’op. Ili basta paragonare alcune durate complessive. Christoph Eschenbach, che spesso va in deliquio e quasi vi manda l’ascoltatore, impiega 22’10”; Arrau, grande dicitore a tutto tondo, 19’42”; Pollini, Benedetti Michelangeli, Bren-

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tica del primo tempo dell’op. Ili, la personalità tutt’altro che esteriore e vana della Judina, la capacità di analisi di cui dà tante volte prova impongono la ricerca di una ragione anche per le apparenti stranezze della variazione quarta. E la ragione, a parer mio, è che la Judina non intende far varcare a Beethoven la soglia del nuovo secolo, dell’ottocento romantico e panteistico, ma che lo vede fermo nella classicità illuministica di cui il Flauto magico aveva segnato il confine ultimo. Per la Judina i due momenti essenziali della classicità sono lo Sturm und Drang e la gioiosa, infantile serenità del puramente umano. Nell’Adagio in si minore e nel Rondò in la minore di Mozart il pathos altissimo che la Judina raggiunge è schilleriano, non romantico o preromantico, non empfindsam o larmoyant, e schilleriano è il pathos del primo tempo dell’op. Ili; il secondo tempo dell’op. Ili è tutto percorso dalla serenità gioiosa, dall’empito amoroso di Papageno. Tutta la Sonata op. 101, la preromantica 101 così ricca di succhi che alimenteranno Schumann, è con la Judina gaia, spensierata, infantile e saggia come una favola del Knabenwunderhorn. E sebbene le superstiti interpretazioni mozartiane della Judina siano poche, comprendia­ mo con lei il senso vero della metafora del Mozart eterno fanciullo, divino fanciullo, che perde il suo carattere reazionario e limitativo e del, Ashkenazy e Schnabel, che tendono ad interpretazioni molto analitiche ma tuttavia scorrevoli, impiegano rispettivamente 17’13”, 17’14”, 17’20”, 17’23” e 17’55”; Guida, tra i pianisti della sua generazione notoriamente piuttosto sbrigativo, impiega 15’20”: la Judina impiega 13’39”! L’interpretazione della Judina non è tuttavia affrettata e non dà l’impressione spiacevole della corsa che offusca la comprensibilità; cosa che avviene invece a tratti con Gieseking, il cui tempo, 14’03”, è vicino a quello della Judina, ma che non trova una progressione veramente coerente e che esegue invece nervosamente alcuni tratti. Si dovrebbe però notare, se fosse qui il luogo per approfondire il problema, che c’è una tendenza ad una grande scorrevolezza di dizione nei pianisti neoclassici, eccettuato Schnabel: oltre alla Judina e a Gieseking, anche Nat ha un tempo rapido (13’58”), e gli stessi Kempff ed Edwin Fischer, solitamente piuttosto pacati, impiegano rispettivamente 15’14” e 15’20”; Backhaus, la cui interpretazione è per molti aspetti eccezionale, impiega ancor meno tempo della Judina: 13’03”. Curioso il commento di Shostakovic: «Mi colpiva soprattutto la maniera con cui la Judina eseguiva l’ultima Sonata del compositore di Bonn, l’op. 111, la cui seconda parte è di lunghezza eccezionale, e noiosissima, ma lei non sembrava sentirne affatto il peso».

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diventa sinonimo di saggezza suprema. Non solo la comprendiamo in Mozart,... ma la estendiamo a Beethoven: il che è veramente difficile da digerire! Io non credo che la Judina sia proprio interprete completa di Beethoven, e credo che la sua visione dell’arte beethoveniana, per quanto risulta dai dischi, finisca per semplificare eccessivamente la ben più ricca e complessa concezione di Schnabel. Tuttavia, come ho già detto più volte, si resta sempre soggiogati dalle idee della Judina, pur non riuscendo a condividerle: sono idee illuminanti anche quando impoveriscono la realtà, anche quando mirano troppo all’utopia, anche quando appaiono francamente parados­ sali. Ad esempio, tutta la Sonata op. 101 è eseguita dalla Judina con un empito vitale straordinario, che tiene lontana le mille miglia la reverie romantica, sempre in agguato in questa composizione; ma il fugato dell’ultimo tempo è preso ad una velocità sensibilmente più lenta ed è greve, massiccio. Perché? È ben difficile rispondere. Sembra che la Judina voglia dirci: attenzione! qui Beethoven di­ venta accademico, qui Beethoven impianta un fugato scolastico e non riesce più a spiegare le ali! O vuol dirci qualcos’altro. Ma certo qualcosa vuol dirci, e certo vuole isolare il fugato dal contesto, che esegue con tanto entusiasmo, come un mattino di primavera, come una primavera della vita. Il suo giudizio sul fugato dell’op. 101 sembra negativo. Bisognerebbe però sapere quale fosse il suo giu­ dizio sul problema più generale che con l’op. 101 si apre nell’ese­ gesi beethoveniana. In altre parole, bisognerebbe sapere se la Ju­ dina giudicasse mancato il beethoveniano inserimento della fuga nella forma della sonata o se lo giudicasse immaturo nell’op. 101, e dunque bisognerebbe avere le sue esecuzioni delle op. 106 e 110, per capire veramente la sua concezione dell’op. 101. La Judina incise la 106, ma io non ho potuto reperire il disco. Le sue interpretazioni beethoveniane che conosco bastano tuttavia a farmi capire perché la Judina affrontasse in un modo altrettanto sorprendente, all’altro estremo, lo Stravinsky neoclassico della So­ nata e della Serenata. Qui sembra di leggere il Massimo Mila degli anni 40: Stravinsky nega l’espressione, ma l’arte è espressione inconsapevole, laonde... Laonde anche Stravinsky ha la sua pie­ nezza di suono, le sue sottolineature di fraseggio, i suoi crescendo e

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stringendo e rallentando aggiunti, che incidono sulla psiche dell’a­ scoltatore, insomma il suo pathos che, schillerianamente, è pa­ thos Sturm und Drang. Il Settecento non è, per la Judina, un magazzino di mummie da cui Stravinsky possa trarre reperti stili­ stici, spezzoni e frammenti da rimontare secondo una logica di fantasia: il reperto è parte organica di un tutto, il cui disegno non si perde mai e il cui significato si ritrova anche nel più trascurabile minuzzolo. Non so se la Judina interprete di Stravinsky piacesse a Stravinsky: dovrei dire di no, assolutamente, se paragono Stravin­ sky esecutore della Serenata con la Judina, che è tutto il contrario dell’esecutore. Tra i due, è però Stravinsky che fa la figura della signorina di buona famiglia incline ad accentare sentimentalmente i tempi deboli e ad usare troppo il pedale per coprire le debolezze delle dita, mentre il tocco «virile» della Judina dà alla Serenata una durezza ed un’incisività che, con tutto il rispetto per Stravinsky, mi sembra colgano meglio la modernità della composizione (Stravin­ sky ne mette forse involontariamente in evidenza i legami con il salotto piccolo-borghese). La Judina sarebbe piaciuta a Berg? Non lo so, ma supporrei di no. Nella Sonata op. 1 di Berg la Judina ritrova prima di tutto l’intatto archetipo beethoveniano deW allegro di sonata e, sulla scorta di una forma purissimamente classica, una altrettanto catar­ tica contemplazione del dolore, un dolor hominis che diventa senza esitazioni il dolor mundi in cui l’uomo non è preda del male e del fato ma diventa partecipe di un imperscrutabile e positivo disegno divino. Altro che vecchia credente macchiettistica: una Marfa che saprebbe misticamente affrontare il rogo. Chissà come la Judina interpretava Vers la fiamme di Scriabin! Chissà come interpretava Schonberg e Bartók! Soprattutto Bartók, il Bartók 1926 della So­ nata e di All’aria aperta, che doveva essere il suo uomo anche se la tecnica lisztiana di Bartók le procurava forse qualche imbarazzo. Non abbiamo purtroppo le sue esecuzioni di Scriabin, Schonberg e Bartók. Abbiamo invece ancora una grande interpretazione, della Sonata n. 3 di Hindemith, e una superba interpretazione della Sonata n. 2 di Shostakovic, scritta nel 1943 in memoria di Leonid Nikolaiev5. 5 Sarebbe interessante poter paragonare l’interpretazione della Judina con

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Una grande artista, insomma. Un’artista che taglia la storia se­ condo una prospettiva insolita, come un regista che gira verso il pubblico il fianco della scena e fa recitare gli attori di scorcio invece che di faccia, un’artista che solleva discussioni, che trasporta nel­ l’interpretazione tesi critiche sperimentali e magari provvisorie, ma fecondissime. Non c’è che da deplorare la mancanza di carriera internazionale (un’unica tournée in Polonia nel 1954) e la posizio­ ne marginale ottenuta dalla Judina nella vita musicale del suo paese. La Judina sembra essere un esempio di quelle forze di avanguardia, vigorosissime nella Unione Sovietica leninista, che vennero messe a tacere nell’epoca staliniana e che riemersero dopo la morte di Stalin: in tempo per lasciare una testimonianza delle loro idee, troppo tardi per renderle operanti. Non troppo tardi perché oggi non si torni a considerarne la lezione, che è lezione di libertà.

Dopo la morte di Anton Rubinstein comincia in Russia una diaspora che raggiunge il culmine con la Rivoluzione, ma che non è provocata dagli avvenimenti politici. Rachmaninov, Sapelnikov, Siloti, Medtner, Pouishnov, Orlov se ne vanno dopo il 1917. Ma già Lhevinne si era stabilito a Berlino dal 1907 (dopo la guerra sarebbe andato negli Stati Uniti), già Hofmann aveva vissuto a S. Pietroburgo solo saltuariamente; Gabrilovic aveva studiato con Leschetitzki a Vienna dopo aver studiato a S. Pietroburgo con Anton Rubinstein, Hambourg, Moiseiwitsch, Barer, Ornstein, Brailovsky erano andati all’estero fin da ragazzi. Mancano in Rus­ sia, nei primi trent’anni del secolo, grandi personalità di pianisti, ed anche i più noti insegnanti non sembrano interpreti di rilievo storico. Di Constantin Igumnov, di Alexander Goldenweiser, di quella di Shostakovic, che il 15 novembre 1943 aveva presentato per primo, a Leningrado, il lavoro. L’esecuzione di Shostakovic non ci è stata conservata. L’opinione di Shostakovic sull’esecuzione della Judina è negativa: «Ne esiste una registrazione su disco, e tutti sembrano ritenere trattarsi della migliore interpretazione che mai ne sia stata data. Io ritengo invece che la Judina esegua piuttosto male le mie sonate. I tempi non sono rispettati e la lettura del testo è, diciamo, troppo libera».

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Heinrich Neuhaus, di Samuel Feinberg, che furono didatti famosi, abbiamo alcune incisioni, da cui comprendiamo benissimo le loro qualità di musicisti colti e riflessivi e che spiegano come la scuola russa potesse continuare ad un alto grado di livello accademico, ma che non rivelano fermenti di rinnovamento culturale pari a quelli della generazione dell’ottanta austrotedesca. La storia dell’esecu­ zione non è ben documentata ed è stata poco studiata; certo è che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, l’apparizione di un per­ sonaggio come Vladimir Sofronitzki, nato nel 1901, non pare in­ serita nel contesto di una cultura in fase di sviluppo. Sofronitzki non fu d’altronde artista «inserito» da nessuna parte: all’estero andò solo nel 1928 (una tournée in Francia), in patria fu popolare solo tra i musicisti, fu regolarmente ospitato solo nella sala piccola del conservatorio di Mosca e nel Museo Scriabin, non suonò con le grandi orchestre, insegnò senza successo nei conservatori di Leningrado e di Mosca. Era un uomo solitario, enigmatico; è diventato un pianista leggendario. Prima della guerra incise po­ chissimi dischi e, dopo, ne incise in misura limitatissima; sono state però pubblicate molte delle sue esecuzioni in pubblico, cosicché si può oggi studiare un materiale abbastanza vasto da dar ragione di una originalità persino sconcertante. Sconcertante doveva essere del resto anche l’uomo Sofronitzki. Vladimir Delman, suo allievo a Leningrado e a Mosca, mi raccontò che un mattino, svegliato da una lunga scampanellata, aveva trovato Sofronitzki sulla porta di casa: «Che pensi diBeria?», disse Sofronitzki. Delman, lì perii, non pensava niente e si grattava il collo. «Dimmi che pensi di Beria», insistette con calma Sofronitzki. Delman cominciava a chiedersi se doveva proprio essere svegliato per rispondere ad una simile do­ manda idiota; smise di grattarsi il collo e guardò Sofronitzki: «Lo hanno fucilato questa notte», disse con forza Sofronitzki; ed i due si fissarono a lungo, senza parlare. L’emozione di Delman era statai violentissima, beninteso, ma il modo scelto da Sofronitzki per comunicargli la notizia lo aveva sconvolto ancor di più. E il racconto di Delman mi riportava alla sensazione di profonda inquietudine che avevo spesso provato ascoltando i dischi di Sofronitzki. Una delle più grandi interpreta­ zioni di Sofronitzki, o per lo meno quella che mi ha sempre lasciato annichilito, è l’interpretazione della Mazurca op. 50 n. 3 di Chopin.

Sofronitzki

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Poema in pochi versi, la Mazurca op. 50 n. 3, costruzione com­ plessa, sintesi stilistica in cui confluiscono tutte le esperienze spiri­ tuali di Chopin, dal ricordo della terra natale fino alla scoperta del contrappunto bachiano. Tutti lo sappiamo, e tutti sappiamo che un'interpretazione della Mazurca op. 50 n. 3 può dare da sola la misura di un pianista, di un musicista. Chi si occupa di critica dell'interpretazione, ascoltandola, è dunque sempre teso a cogliere le soluzioni che l’interprete trova nel pullulare di problemi che ad ogni passo si pongono numerosi. Ma se si ascolta Sofronitzki non si capisce neppure, alla prima nota, se si tratti della Mazurca op. 50 n. 3 o di un pezzo dello Stockhausen anni 50. Quel primo sol diesis isolato, che Chopin indica mezza voce e con cui preannuncia il secondo sol diesis dal quale farà iniziare il dise­ gno melodico, suona con Sofronitzki più a lungo di quanto ci si aspetterebbe e con una forza ed una durezza di timbro da far sobbalzare qualsiasi ascoltatore, anche quello che la Mazurca op. 50 n. 3 non la conosce e non l'ha mai sentita. Sofronitzki, in altre parole, inizia in un modo che nega non solo il mezza vo­ ce, ma qualsiasi concezione stilistica tradizionale della musica di Chopin. Ed il seguito è coerente. All'episodio che inizia in la maggiore (dalla battuta 17) il forte è parossistico, certi accenti nei bassi sono come cannonate. In fondo, Sofronitzki sceglie un tipo di sonorità il cui raggio di dinamica è molto limitato, e quindi il forte sta in una proporzione non inesatta con il mezza voce. Ma il piano della battuta 45 non sta più in alcun rapporto di dinamica con il forte e con il mezza voce, né con il pianissimo che immediatamente lo precede: è un piano in un altro ordine di timbri, un piano, per così dire, nell'ambito di un timbro con sordina, e l’andamento ritmico non è più di mazurca ma di valzer. Insomma, prima di essere arrivati a un terzo del pezzo abbiamo già capito che per Sofronitzki la Mazurca op. 50 n. 3 è musica a programma, un poema sinfonico in cui lo sconvolgente appello dell’inizio, la feroce esaltazione guerresca della mazurca e l’intimismo ansioso del valzer gioche­ ranno i loro ruoli contrastanti fino al recitativo delirante (battuta 173), fino al cupo risuonare dell’accordo di do diesis minore (bat­ tuta 189), fino ai tre ultimi suoni che cadranno come la mannaia nella Marche au supplice di Berlioz.

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Potrebbe essere l’episodio di Andrej nel Taras Bul’ba di Gogol, potrebbe essere qualsiasi altra storia di tradimento, di amore, di vendetta, di morte. Ascoltando Sofronitzki, se anche non si inventa un programma letterario, si capisce benissimo come certa critica dell’ottocento si travagliasse nella ricerca di motivi ispiratori e di storie sottese alla musica di Chopin. Cortot ha un bel parlare &$£artière pensée in Chopin ed ha un bel raccontarci i poemi di Mickiewicz quando commenta le Ballate: le sue esecuzioni, poi, non suscitano immagini ma illuminano oggetti. Sofronitzki muove invece interrogativi che sembrano trovare appagamento solo in motivazioni extramusicali. Quando, dopo otto battute iniziali pas­ sabilmente tradizionali, lacera l’aria con il quadruplo la bemolle alla nona battuta della Ballata n. 3 di Chopin (Chopin ha scritto sem­ plicemente forte) l’ascoltatore si chiede con spavento che cosa avviene e che cosa debba avvenire. Perché il primo mi del Notturno op. 27 n. 1 deve arrivare come una lancia spinta perfidamente nella carne? Perché la dolce melo­ dia della parte centrale della Polacca op. 26 n. 1 dev’esser detta con tuono profetico? Il pianista si chiede anche come facesse Sofronitzki, nel Meno mosso della Polacca, a suonare con tanta forza con mignolo e anulare della destra:

Aveva forse una mano tanto grande da permettergli di suonare con la sinistra tutte le armonie e di usare per la melodia le tre dita più robuste della destra? Forse suonava così:

Sofronitzki

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Se il passo non era eseguito così ma com’è scritto, mignolo e anulare di Sofronitzki possedevano una forza mostruosa. Il che non esaurisce l’altra e primaria domanda: perché suonava con tanta forza una melodia che per tutti gli altri è un’elegia commossa? Se tutti si chiedono perché solo un superpedante potrebbe ri­ spondere: perché Sofronitzki se ne fregava delle indicazioni dina­ miche di Chopin. Anche Hofmann, anche Rachmaninov possono suonare forte dove c’è scritto piano\ anche Paderewski; e a chi glielo faceva notare sembra rispondesse: «Non si tratta di ciò che è scritto, ma dell’effetto musicale». Sofronitzki assomiglia stilisticamente a Hofmann e a Rachmaninov, e in certi casi può ricordare persino Paderewski. Ma nessuno potrebbe dire che egli fosse un pianista vieux style a cui erano rimasti attaccati, acriticamente, manierismi anacronistici. Per Sofronitzki, e chi lo ascolta se ne accorge subito, la posta è ben più alta: per Sofronitzki un forte esplode se il forte è minaccia, il piano è sussurrato se il piano è inquietudine, e la melodia è da scolpire in ciclopici massi di pietra perché la melodia non è «espressione» ma parola divina. A differenza di Rachmaninov, che sembra scoprire un male metafisico, Sofronitzki sembra scoprire l’annullamento della vo­ lontà di essere. E il suo strano Chopin è il Battista di un Salvatore che si chiama Scriabin. Sofronitzki vive ancora nel cerchio magico che Scriabin aveva creato intorno a sé. Allievo di Alexander Michalowski a Varsavia e di Leonid Nikolaiev a S. Pietroburgo6, Sofronitzki aveva poi ammirato quel Vsevolod Buyukli di cui non abbiamo incisioni o registrazioni, ma che fu il primo interprete della Sonata n. 3 di Scriabin e interprete scriabiniano e lisztiano 6 Condiscepoli di Sofronitzki presso Nikolaiev furono Maria Judina e Sho-

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quotatissimo*7. Più tardi Sofronitzki aveva sposato una figlia di Scriabin, entrando in un ambiente di memorie e di culto familiari che ne facevano non solo un interprete scriabiniano «autorizzato» ma un postumo discepolo. Le interpretazioni scriabiniane di So­ fronitzki che ci sono restate sono abbastanza numerose e vanno da alcune Mazurche dell’op. 3 e dalla Sonata n. 3 fino alla Sonata n. 10 e a Vers la fiamme op. 72. Quel modo di rendere Chopin, quel tono perentorio e minaccioso anche nelle pagine intime, che in Chopin sconcerta ed affascina, in Scriabin appare del tutto connaturato ad una concezione mistica (e fanatica) dell’arte e persino alla persona di Scriabin, alla mitomania, all’arroganza per cui Scriabin andava famoso. Sofronitzki divide nettamente l’arte di Scriabin in due mondi: un mondo di dolorosa dissoluzione del Romanticismo in cui spiccano alcune rarissime isole di luminosa serenità (lo Studio op. 8 n. 5), e un mondo di delirio solipsistico in cui le tensioni sono annullate e in cui Vers la fiamme diventa visione di un dramma cosmico. Purtroppo mancano molti «tasselli» e quindi la delineazione del cammino spirituale di Scriabin visto da Sofronitzki non è completa. Tuttavia la identificazione di Sofronitzki con Scriabin è evidente e la logica della sua interpretazione è tanto chiara da costituire una fondamentale tesi critica sull’arte scriabiniana. Sofronitzki interprete di Scriabin non ha dunque bisogno di commenti, ma semmai di analisi, che mi porterebbero però troppo lontano dai limiti di questa indagine. Penso sia invece opportuno tornare sul suo modo di interpretare Chopin, che suscita forti stakovic. Nelle memorie di Shostakovic redatte dal Volkov, sulla cui autenticità è lecito nutrir dubbi, troviamo espressioni di grandissima stima per Sofronitzki insieme con una costante insistenza sui suoi vizi, alcool e droga; la figura di Sofronitzki risulta a parer mio troppo chiaramente modellata sul cliché del­ l’artista maledetto per essere autentica (in modo ben diverso mi parlava Del­ man degli stessi problemi). 7 Troviamo un curioso riferimento a Buyukli in una lettera di Rachmaninov che, dovendo suonare a Varsavia nel 1907, scriveva ad un amico: «Ho incon­ trato qui Buyukli. Te lo ricordi. Qui sta facendo furore. Suona lui domani e il mio amico Zatajevic dice lugubremente che Buyukli farà un pienone e che il mio concerto (annunciato, non so per quale ragione, come “straordinario” nei manifesti) non lo farà».

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perplessità. Sofronitzki trova in Chopin una elementare vita della materia musicale, in un modo che fa di lui — non posso definirlo strutturalista, anche se egli scopre la pulsazione di una struttura — una specie di medioevale alchimista. Riprendiamo quel sol diesis della Mazurca op. 50 n. 3 da cui eravamo partiti: Moderato

Il tema, se fosse solo tema, dovrebbe cominciare dal secondo sol diesis, non dal primo. Ma siccome il tema diventa soggetto di un’esposizione polifonica Chopin si trova a non poter permettersi di cadenzare alla seconda battuta con un sol diesis di armonia nel contralto. La cadenza, invece, gli serve, perché Chopin è Chopin e non Bach, e così inventa il sol diesis del contralto come primo suono del soggetto e aggiunge per conseguenza un sol diesis all’attacco del soprano. Quando poi arriva alla battuta 5 prende il do diesis del soprano come primo suono di una risposta tonale di fuga invece che come ultimo suono della frase precedente. La costruzione è di una cineseria e di una ambiguità che lasciano stupefatto il lettore e mettono in agitazione l’interprete. Ma Sofronitzki si basa prima di tutto su altro, e cioè sulla cadenza dominante-tonica che regge le prime sedici battute e da cui si sprigiona una forza spasmodica elementare, che anela all’annientamento. Per Sofronitzki il fondo delle cose è una tensione-vita (domi­ nante) che va verso una distensione-morte (tonica). Tensione e distensione sono rappresentate in gradi molteplici, ma la tensione tende ad essere assoluta quando la dominante si presenta per prima; ed è questo il carattere stilistico di fondo, che a parer mio differenzia così nettamente Sofronitzki da altri interpreti chopiniani che pure basano l’interpretazione sui rapporti di tensione-di­

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Immortali in incognito

stensione dell’armonia. Anche quel quadruplo la bemolle della nona battuta della Ballata n. 3, così sorprendente, viene accentato in quel modo perché Chopin lo considera dominante di re bemolle maggiore. L’uso chopiniano del cromatismo maschera e rende estremamente ambiguo lo spostamento dall’area tonale di la be­ molle maggiore all’area di re bemolle maggiore, e tutti gli interpreti lasciano l’ascoltatore nell’incertezza di ciò che sta accadendo. Non Sofronitzki, che fa capire con violenza come stia accadendo qual­ cosa di enorme: Chopin abbandona il la bemolle maggiore e in­ troduce artatamente un re bemolle maggiore che, considerato co­ me armonia di sesta napoletana, porterà inevitabilmente al do maggiore del secondo tema! Chopin annienta le leggi della tradi­ zione classica — do maggiore invece di mi bemolle maggiore al secondo tema — e Sofronitzki esalta la trasgressione liberatoria: là dove Chopin usa i modi insinuanti del cospiratore intellettuale, Sofronitzki introduce l’accesa ostentazione del nichilista. Con al­ trettanta ferocia, al contrario, Sofronitzki «smaschera» Schumann, in cui ritrova sempre l’uomo d’ordine, il borghese tedesco: la sua interpretazione di un lavoro come la Kreisleriana tende quindi a denunciare il fondo non-rivoluzionario di un’opera in apparenza demoniaca, così come la sua interpretazione della Ballata n. 3 di Chopin tende a svelare la natura rivoluzionaria di un’opera in apparenza salottiera. Chiedo scusa al lettore non musicista se ho dovuto propinargli cenni di analisi tecnica, ma non potevo spiegare diversamente il processo psicologico innescato da Sofronitzki, per il quale la ca­ denza dominante-tonica è metafora di essere-non essere e per il quale il passaggio da una tonalità ad un’altra diventa dramma di un dolore che si rinnova e si accentua invece di spegnersi. Non so se Sofronitzki conoscesse l’analisi musicale secondo le teorie di Hein­ rich Schenker, ma mai come con lui capisco su quali intuizioni si fondasse la scienza di Schenker. Non so neppure come Sofronitzki considerasse il rapporto Scriabin-Nietzsche, ma mai come con lui capisco che in Chopin si può vedere lo scatenatore di quelle forze che Schenker trova operanti e dominate in Beethoven. In-Beetho­ ven e in Schubert, Sofronitzki sembra accettare in pieno l’inter­ pretazione mitica di Schnabel: si vedano le sue classicheggianti esecuzioni dell’Appassionata di Beethoven e della Sonata in si

Sofronitzki

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bemolle maggiore di Schubert, tanto goethianamente trasfigurate quanto quelle di Schnabel. In Chopin (e nel Liszt di Weimar) Sofronitzki coglie invece l’eruzione delle forze demoniache, nei Preludi di Ljadov l’anello che porta da Chopin a Scriabin, e in Scriabin — ma già profeticamente nel Liszt dello sconosciutissimo Mephisto-Walzer n. 2: interpretazione che fa gridare al miracolo — la dissoluzione della dialettica e della volontà e l’estasi mistica. Il rapporto consequenziale classicismo-romanticismo-barocco, visto nei termini essenziali Beethoven-Chopin-Scriabin, è a parer mio l’interpretazione della storia che traspare dalle esecuzioni superstiti di Sofronitzki. Bisognerebbe avere la registrazione dei dodici reci­ tals che Sofronitzki tenne a Leningrado nel 1937-38, dedicandoli alla musica pianistica da Bach a Scriabin, per capire se Sofronitzki vedesse o no in Scriabin il ritorno ciclico, se cioè vedesse o no in Bach quella «musica della negazione della volontà, senza il ricordo dell’ascesi» che vi vedeva Nietzsche. Verifica, come tante altre, impossibile. Nel Sofronitzki che conosciamo dalle incisioni e regi­ strazioni rimasteci colpisce prima di tutto l’arbitrio, che pare gra­ tuito; poi colpisce il senso di racconto, di musica a programma. Sono aspetti che riportano Sofronitzki, nato nel 1901, a concezioni critiche e interpretative desuete, superate. Ma la presenza vigile di un’intelligenza che si serve di strumenti ormai banalizzati per fini tutt’altro che banali rende inquietante Sofronitzki e impedisce di considerarlo uomo fuori del suo tempo. Infine, infatti, si scopre che attraverso la musica Sofronitzki rivive incessantemente un dramma cosmico e si comincia a credere con lui che l’invocazione di Scriabin — «Vi chiamo alla vita, o forze misteriose» — non sia poi tanto e soltanto letteratura.

«GIÙ IL CAPPELLO?»

Un mio conoscente, uno di quei ricchi melomani disposti a far follie pur di assistere agli avvenimenti musicali che a torto o a ragione han Faria di passare alla storia, mi raccontava di aver dovuto faticare come un ercole per procurarsi un posto a un concerto di Horowitz. Fatica doppia, perché non gli bastava il posto, ma lo voleva anche vicino al podio per osservare a tutt’agio le mani prodigiose del pianista. Ottenne il posto vicino al podio, non la posizione giusta, e Horowitz Io vide di schiena. Dapprima contra­ riato, dopo pochi minuti era in trance, affascinato da un gioco delle spalle e del dorso di cui non aveva mai sospettato l’esistenza: «Peccato che Horowitz non suonasse a torso nudo», concludeva un po’ scherzando e un po’ seriamente. Io non so se il segreto della tecnica di Horowitz risieda nei muscoli dorsali. Certo è però che una abnorme potenza e rapidità di contrazione del dorso permette di sfruttare il peso delle braccia in una misura e in un modo precluso alla stragrande maggioranza dei pianisti. Nella tecnica di Horowitz, pianista che parla con la schiena, si trovano autentici aspetti atletico-sportivi, si trovano veri e propri primati. E prima di tutto le ottave. Le segrete potenzialità delle ottave le avevano già scoperte Cle­ menti, Beethoven, Weber, ma solo con Liszt le ottave diventano la cartina di tornasole che distingue il virtuoso, che dà la misura dell’ardimento, del dominio sullo strumento, della resistenza alla fatica. Chi non ricorda l’attacco del Concerto n. 1 di Liszt? Le mani aperte, arquate, gli avambracci roteanti in quel gesto che i nostri nonni chiamavano «la zampata del leone» strappano dai visceri del pianoforte tuoni di suono pari a quelli dell’orchestra. Chi non

Horowitz

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ricorda il finale della sesta Rapsodia ungherese? H turbinio delle ottave inizia scherzevole e leggero, si anima, si eccita, si fa ossessivo, sempre più rapido, più vorticoso, più potente. Il pubblico si chiede se il pianista ce la farà ad arrivare alla fine, se avrà le forze bastanti per balzare sull'ultima scala cromatica, se non cadrà in deliquio dopo l’ultimo accordo, E quando l’ultimo accordo è esploso, e il pianista s’alza ansimante ma vincitore, il pubblico scatta in piedi sbatte le zampe, si strozza con i «bravo». Tutti i grandi virtuosi postlisztiani hanno avuto grandi ottave: Anton Rubinstein, Tausig, Busoni, Rosenthal, Lhevinne, Rachmaninov,,. «Recentemente si è fatto un gran nome Horowitz. Ha ottave colossali». Chi esprimeva quest’opinione non era il qualunque ascoltatore, entusiasta qùanto ingenuo, e neppure il giornalista mondano attento ad orecchiare i giudizi dei tecnici, ma addirittura Sergej Rachmaninov, il grande Rachmaninov dai polsi d’acciaio, che in una lettera del 15 aprile 1936 rispondeva ad alcune doman­ de rivoltegli dall’amico Vladimir Vilshau (l’abbiamo già citata, quella lettera, parlando di Hofmann). Il commento d’obbligo è uno solo: «Giù il cappello, signori!», come esclamò Schumann quando scoprì Chopin; oggi basterebbe una parola sola, che non fa ancor parte del vocabolario critico e che perciò non uso. Ma il concetto è quello. Erano proprio così colossali le ottave di Horowitz, oppure Rachmaninov, a sessantatre anni, si lasciava impressionare dalla freschezza atletica di un concorrente trentaduenne? La verifica è possibile, è a portata d’orecchio. Horowitz registrò alcuni rulli di pianoforte meccanico verso il 1928 e dal marzo dello stesso anno cominciò ad incidere dischi, tornando regolarmente in sala di inci­ sione fino al 1936. Basta ascoltare la Sonata in si minore di Liszt, incisa nel novembre del 1932, per accorgersi che quelle ottave da favola erano veramente come le giudicava Rachmaninov: un’agilità felina combinata con la esplosiva potenza di un rinoceronte. Qua­ lità che faceva di Horowitz l’interprete predestinato del Concerto ri.1 di Ciaikovsky, in cui si trovano i più rischiosi e scoperti passi d’ottave della letteratura pianistica; e infatti proprio con il Con­ cèrto di Ciaikovsky Horowitz si era fatto notare ad Amburgo nel 1926 e a New York il 12 gennaio 1928, quando aveva mandato il pubblico in delirio.

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Giù il cappello?>

Non solo le ottave erano però colossali: colossale era tutta la tecnica di Horowitz, colossale al punto da oltrepassare la capacità di muovere ad altissima velocità e con enorme potenza la mecca­ nica del pianoforte per trasformarsi in creazione di sonorità sempre completamente personalizzata. Chi sa suonare il pianoforte si sente profondamente sconcertato quando ascolta per la prima volta le incisioni del giovane Horowitz, e non solo perché Horowitz sa snocciolare tutto più presto e magari più forte di qualsiasi altro pianista, ma perché il rapporto tra velocità e qualità del suono non è quello che ci si aspetterebbe e che corrisponderebbe alla comune esperienza. Ascoltando brani come Traumeswirren di Schumann o lo Studio op. 10 n. 4 di Chopin ci si chiede che combinasse Horowitz per ottenere, a quella velocità, quella qualità timbrica della sonorità: come un atleta che fa i cento metri in dieci secondi non correndo, ma marciando. In certi casi, ad esempio nello Studio in mi bemolle maggiore di Paganini-Liszt o nel Capriccio op. 28 n. 6 di Dohnànyi, la velocità altissima e la particolarissima qualità del suono danno talora effetti paragonabili a quelli dei sintetizza­ tori elettronici. In altri casi, come all’inizio della Danza macabra di Saint-Saèns, trascritta per pianoforte da Liszt e da Horowitz ese­ guita in un suo riadattamento, viene da chiedersi se si stia vera­ mente ascoltando un pianoforte o non piuttosto uno strumento reinventato. C’è un trucco? Si era parlato dei trucchi di Paderewski, che faceva inserire nel feltro del martelletto una sottilissima lamina di piombo; si disse e si dice che Horowitz facesse accordare crescenti alcuni suoni per ottenere, con i «battimenti» conseguenti, maggior potenza e uno speciale timbro. Sarà forse vero, ma non è tutto: Horowitz, i suoi primati li otteneva con i mezzi tradizionali, ed erano primati con tutte le carte in regola. Si ascolti il Corale di Bach Rallegratevi, cristiani diletti trascritto per pianoforte da Busoni, che Horowitz incise nel 1934, e lo si paragoni con l’incisione di Busoni, del 1922. La chiarezza, l’indipendenza di movimento e di sonorità delle tre parti, l’effetto illusionistico di tre mani sono raggiunti da Horowitz in misura nettamente superiore a quella di Busoni, che pure era stato il maggior virtuoso del suo tempo. E qui non c’è accordatura che tenga: provare per credere! «Giù il cap­ pello, signori!», direbbe Schumann,... con quel che segue.

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Il limite è che Horowitz, se riesce ad eseguire molte cose con una sonorità «impossibile», altre le fa diventare impossibili anche per lui. Milstein, pare, disse una volta che Horowitz non possedeva abbastanza tecnica per eseguire tutti gli Studi di Chopin. Il che era paradossalmente vero: nello Studio op. 10 n. 1 o in altri neppure Horowitz poteva ottenere quella sonorità a cui non sapeva rinun­ ciare. E così il più grande virtuoso dopo Busoni non eseguiva, al contrario di Busoni, le serie complete degli Studi di Chopin, degli Studi trascendentali e degli Studi da Paganini di Liszt. La cultura, il virtuosismo inteso come cultura subiva dunque un arretramento, nel passaggio da Busoni a Horowitz. Le particolari ed insolite doti tecniche facevano tuttavia sì che Horowitz riuscisse ad imporsi molto rapidamente, in un mondo dominato ancora da Paderewski, Hofmann, Rachmaninov e Cortot suonando, al con­ trario di Schnabel o di Fischer o di Gieseking, un repertorio del tutto tradizionale. Nato vicino a Kiev il 1° ottobre 1904, Horowitz aveva studiato con Felix Blumenfeld, pianista, ma soprattutto di­ rettore d’orchestra e compositore, che si era trasferito in Ucraina dopo aver passato molti anni a S. Pietroburgo dopo aver diretto tra l’altro la prima esecuzione in Russia del Tristano e Isotta di Wa­ gner. Blumenfeld non era precisamente un concertista di piano­ forte, ma conosceva a fondo il virtuosismo pianistico, come dimo­ stra il suo mirabolante Studio per la mano sinistra sola (di cui esiste una altrettanto mirabolante esecuzione di Simon Barer). Capitando sotto la tutela di Blumenfeld Horowitz trovò quindi un maestro capace di svilupparne tutte le enormi potenzialità. Nel 1920, a sedici anni, Horowitz concludeva gli studi eseguendo il Concerto n. 3 di Rachmaninov, concerto di estrema difficoltà e non ancora entrato nel repertorio, anzi, poco eseguito dall’autore stesso. Negli anni successivi iniziava la carriera concertistica in patria, segnalan­ dosi particolarmente con una serie di recitals a Leningrado nel 1924. Su questo primo periodo conosco solo due dirette testimonianze. Serge Lifar mi raccontò di aver ascoltato un’esecuzione del Con­ certo n. 5 di Beethoven con Blumenfeld che accompagnava Horo­ witz ad un secondo pianoforte. Lifar era rimasto sbalordito ma, non essendo pianista, non poteva dare spiegazioni tecniche: aveva solo notato il nervosismo di Horowitz, che si trasformava progres­

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Giù il cappello?)

sivamente in violenta aggressività verso lo strumento. Heinrich Neuhaus (il maestro di Richter e di Gilels, di cui parleremo più avanti) scrive che Horowitz, «quando aveva diciassette o diciott’anni aveva l’abitudine di picchiare così spietatamente che era quasi impossibile ascoltarlo in una stanza». E poi: «Vladimir Ho­ rowitz mi disse una volta (gli avevo consigliato di suonare qualche composizione eccellente ma non molto popolare) che lui suonava in pubblico solo ciò che al pubblico più piace, e che il resto poteva suonarselo a casa. L’attività concertistica di Richter e di Horowitz mostra una certa differenza di mentalità (sto parlando della giovi­ nezza di Horowitz; più tardi egli cambiò considerevolmente). Si tratta di questo: l’uno era guidato dal pubblico, mentre l’altro guidava il pubblico, prendendo nota delle sue possibilità e del suo carattere. Lo slogan del giovane Horowitz era: “Successo soprat­ tutto”. Lo slogan di Richter: “Soprattutto, arte”». E ancora: «Quando Horowitz aveva ventidue anni mi parlò con grande enfasi del suo smisurato amore per Mozart e per Schumann e di quanto estraneo gli fosse Beethoven. Beethoven non lo scuoteva minimamente: non era un Mozart, e certamente non uno Schu­ mann, ma un qualcosa a metà strada tra i due. Si può immaginare cosa provassi ad ascoltar ciò, perché il mio amore per Mozart e Schumann non turbava il mio amore per Beethoven, ma, al con­ trario, lo esaltava. Tuttavia, suppongo che le opinioni di Horowitz siano molto cambiate da quei tempi». Horowitz vedeva forse, schematicamente, Mozart come classico e Schumann come romantico, e Beethoven non gli sembrava né carne né pesce. Ma tutto il suo amore per Mozart non faceva allora di lui, né l’avrebbe fatto in seguito, un interprete mozartiano e un propagatore della musica di Mozart. Cose che Horowitz lasciava a Schnabel e a Fischer, con i quali non avrebbe potuto competere quanto ad intelligenza stilistica, per riservarsi il Concerto n. 1 di Ciaikovsky e il Terzo di Rachmaninov, in cui Schnabel e Fischer non avrebbero mai potuto competere con lui. A parte la non celata antipatia che muove Neuhaus, il suo giudizio non è certamente dettato da malanimo. Detto delle «ot­ tave colossali» Rachmaninov prosegue infatti così: «Molti spera­ vano che dopo il suo matrimonio con la figlia di Toscanini — il miglior direttore d’orchestra — il suo modo di suonare avrebbe

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guadagnato in musicalità. Fino ad ora nessuno se ne è accorto. C’è chi si consola col dire che non è stato ancora sposato abbastanza a lungo». Sia o no effetto del matrimonio con Wanda Toscanini, noi possiamo oggi guardare a Horowitz come ad un artista che ha lasciato testimonianze di stile interpretativo tra le più alte del nostro secolo^ Non si può però dire che a trentanni Horowitz difettasse di musicalità o di poesia: anzi, nella Sonata di Liszt e in alcune pagine di Schumann e di Chopin egli scopriva una poesia segreta attraverso un esasperato virtuosismo. L’osservazione di Rachmaninov va vista complessivamente, nel rapporto tra la tec­ nica e le intenzioni musicali e nella sproporzione che spesso ne risultava. Horowitz suonava talvolta con un piglio da dandy, di­ stintissimo di aspetto quanto — nella ostentazione della sua ric­ chezza — provinciale di modi. La sua dizione iperespressiva, basata sul frammento, sulla perenne ricerca del deliquio estetico, sul tra­ scorrere di estasi in estasi ricordava allora da vicino la recitazione di una qualche primadonna di cinema muto. Le ragioni del virtuosi­ smo, l’autocompiacimento, il narcisismo prevaricavano allora — ad esempio, nello Scherzo n. 4 di Chopin, inciso nel 1936 — sulle ragioni della composizione e dell’autore. Tuttavia, se questi aspetti erano non di rado presenti e non di rado prevalenti, il «fondo», per così dire, la base stilistica del giovane Horowitz non era né reazio­ naria né demodée. Il suo virtuosismo non era semplicemente un’esplosione di cieca esuberanza, ma si arroccava su alcuni punti fermi del neoclassicismo: la estrema velocità rispettava rigorosa­ mente alcune indicazioni metronomiche, la stessa parossistica vio­ lenza di alcune sonorità si basava su indicazioni autentiche (anche in Chopin, autore che usava termini come energico, pesante, con forza, forte assai, il più forte possibile) e neoclassici erano il meti­ colosissimo, artigianale lavoro di preparazione e l’onestà di ri­ schiare la nota falsa invece di ricorrere alle astuzie del mestiere. Horowitz, che certamente è da annoverare tra i maggiori virtuosi di ogni tempo, non è stato mai esecutore impeccabile. I suoi dischi microsolco realizzati in studio, s’intende, sono «puliti», ma nei dischi a 78 giri e in certe registrazioni di esecuzioni pubbliche si trovano note sbagliate e momenti in cui il disastro non è poi tanto lontano. «L’artista non è artista se non assume dei rischi», dichia­ rava nel 1978 Horowitz al giornalista Pierre Vozlinski; e tutta la sua

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carriera dimostra che anche in senso strettamente tecnico Horo­ witz, se predica bene, non razzola male. Bisogna tuttavia distin­ guere sbaglio da sbaglio. In Horowitz il timore, la paura di sba­ gliare e il relativo nervosismo sono rarissimi: posso citare solo un vero momento di grande nervosismo e di timorosa prudenza — che non evita del resto la frittata — nel finale del secondo tempo della Fantasia di Schumann, registrata nel 1965 nella Carnegie Hall di New York. Altrimenti lo spettro dell’errore è affrontato spavalda­ mente, con la sicurezza indomabile e temeraria del pilota da gran premio che sa rischiare grosso e sa salvarsi anche in drammatiche circostanze. Persino nel Concerto n. 1 di Ciaikowsky, suo inconte­ stabile cavallo di battaglia, Horowitz poteva trovarsi a un pelo dall’uscita di strada: l’ultima volta che lo eseguì, a New York con Széll direttore, nel 1953, fece il primo grande passo di ottave in un modo che ha dell’incredibile, toccò senza la solita potenza il se­ condo, e prese il terzo con una combinazione velocità-forza ecces­ siva persino in lui, tanto da finire menando le mani invece che suonando note. Eppure, anche in questi momenti di crisi Horowitz è entusiasmante perché il suo scatenamento dionisiaco, il suo di­ sprezzo per la compostezza danno la sensazione della continua sfida all’impossibile, della volontà di ridurre a zero i margini con­ cessi all’umana fallacia. Chi lo ascoltò prima della guerra mi disse che talvolta Horowitz, dopo aver preso clamorosamente una nota sbagliata, picchiava con rabbia il tasto giusto, mettendo più in evidenza l’errore. Eppure nessuno paragonava i suoi errori con quelli di Cortot... Espatriato dalla Russia (nella quale non sarebbe più tornato), Horowitz cominciò a suonare in Germania, Svizzera, Italia. La sua carriera prese slancio dal già ricordato concerto di Amburgo; poi passò a Parigi, dove ottenne molto successo e dove suscitò in Artur Rubinstein un amore-odio ben testimoniato dalle memorie di Ru­ binstein. Il concerto a New York del gennaio 1928 fu seguito nel mese successivo dalla definitiva consacrazione: Horowitz eseguì il Terzo di Rachmaninov dopo averlo provato a due pianoforti con l’autore negli studi della Steinway & Sons. Era come se Rachma­ ninov avesse introdotto cavaliere nell’ordine degli immortali il giovane Horowitz e la psicopubblicistica seppe usare l’avvenimen­ to come si conveniva. Fino al 1936 Horowitz, conteso a suon di

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dollari, svolse un’attività intensissima negli Stati Uniti e nell’Euro­ pa occidentale, poi, complice un’operazione di appendicite che lo bloccò per alcuni mesi, si prese due anni di riposo... e cominciò a ripensare alla musica e ad allargare il suo repertorio. Tra il 1939 e il 1953 Horowitz attraversa un momento nuovo della sua evoluzione di interprete. In quegli anni egli volge lo sguardo — oh! solo uno sguardo — alla musica contemporanea: le Sonate n. 6 e n. 7 di Prokofiev, la Sonata n. 3 di Kabalevsky e la Sonata di Barber vengono allora studiate ed eseguite. Il virtuosismo raggiunge il vertice, ma il suo sviluppo viene concentrato in alcune composizioni soltanto. Horowitz può ricordare a questo proposito quei ricchissimi mercanti russi che costruivano impossibili castelli per la loro amante o che trasformavano in garsonnière un’antica abbazia: nel primo caso abbiamo la sua trascrizione di Stars and Stripes, nel secondo abbiamo la sua trascrizione dei Quadri di una esposizione di Mussorgski: nel primo caso, pur sbalorditi come siamo, ci chiediamo perché lo faccia, nel secondo rimpiangiamo amaramente che lo abbia fatto! Accanto a questi momenti di ostentazione stanno però i momenti in cui Horowitz macina per conto suo la lezione di Rachmaninov, spesso frequentato alla fine degli anni 30 e molto ammirato. Il rapporto Rachmaninov-Horo­ witz può essere verificato nel modo più limpido nella interpreta­ zione della Sonata op. 35 di Chopin, incisa da Horowitz per la prima volta nel 1950, che è da paragonarsi con la analoga incisione di Rachmaninov realizzata vent’anni prima. Horowitz cerca di staccarsi nettamente da Rachmaninov, soprattutto perché sceglie tempi sensibilmente più lenti e perché evita, nel finale, il ricorso alle grandi ondate di suono, ma nello stesso tempo cerca di recu­ perare con altri mezzi la apocalittica violenza barbarica — russa per antonomasia — che emanava dalla Sonata nell’interpretazione di Rachmaninov, ed ottiene il suo intento con un suono cantabile di lancinante struggimento e con un parossistico peso sonoro dei bassi. Horowitz non sa sfuggire alla tentazione di aumentare la forza dei bassi con trasporti d’ottava, e qui perde quasi sempre la misura, arrivando ad effetti di tam-tam in cui il confine del «bar­ barico» inteso al modo di un colossal di Hollywood non è poi tanto lontano. Nella seconda incisione della Sonata, realizzata dodici anni più tardi, spariranno quasi tutti i trasporti d’ottava e sparirà

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certa violenza sonora non giustificata dal testo. Ma nel complesso mi pare sia da preferire la prima incisione, nella quale si manifesta una volontà di sintesi e di superamento del passato, e quindi una tensione emotiva che la seconda incisione, molto più «classica» e raccolta, non possiederà più. Nel 1953 Horowitz festeggiava con un recital e con un concerto diretto da Széll il venticinquennale del suo esordio negli Stati Uniti. Poi abbandonava l’attività concertistica: per dodici anni non sa­ rebbe più comparso in un recital, per venticinque non avrebbe più suonato con orchestra. «Mi chiamavano la Greta Garbo del pia­ noforte perché sono stato a lungo rinserrato e perché non sono allegro. Non andavo ai cocktails; alla sera incontravo degli amici con i quali giocavo a carte; si parlava di libri, di musica... io sono così» (da un’intervista con Pierre Vozlinski). Fastidio degli sposta­ menti continui, desiderio di godersi una ricca biblioteca e una favolosa collezione di quadri comprendente Manet, Degas, Rouault, Picasso, esaurimento nervoso, paura dell’aereo acuita dalla morte di William Kapell, perito in un incidente di volo il 29 ottobre 1953? Forse un po’ di tutto ciò, forse la consapevolezza del fatto che, nell’epoca del disco e della registrazione, la fama e il valore di un interprete si giocano non solo più nell’attualità, ma nella storia. Dal 1953 al 1965, senza più comparire in pubblico, Horowitz continuava a lavorare, a lavorare con accanimento. Le acquisizioni stilistiche della Sonata, depurate dalle intemperanze, diventavano la base di nuove interpretazioni chopiniane, di cui era testimo­ nianza esemplare un disco uscito nel 1958. Il processo spirituale era tuttavia ben più vasto di un semplice raffinamento di ciò che già era stato conquistato. Horowitz conduceva invece una ricerca sulle origini, sulle radici di quel virtuosismo demoniaco che storicamente era esploso con l’autore a lui da sempre più congeniale, Liszt, e le ritrovava in Scarlatti, in Clementi, in Beethoven. Grande enfant gàté, impareggiabile interprete di divertenti sciocchezzuole di Moszkovsky e di altri, Horowitz aveva già trovato le radici del virtuosismo elegante nelle Variazioni sulla «Ricor­ danza» di Czerny (incise nel 1944) ed aveva concluso questa sua ricerca con una memorabile interpretazione deWAndante spianato e Polacca brillante di Chopin (incisa nel 1945). Dopo il 1953

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affrontava il problema critico del virtuosismo pianistico in modo più ampio. Horowitz non è considerato grande interprete beethoveniano, né lo è, e le sue esecuzioni di tre Sonate di Clementi possono essere censurabili per molti aspetti. Ma è in Clementi che Horowitz ritrova l’origine storica di quel rapporto dominatore e persino violento che il pianista instaura, attraverso la bravura e la tensione del virtuosismo, nei confronti del pubblico della sala di concerto. Lo stesso avviene in alcune Sonate di Beethoven, certamente non «beethoveniane» al modo di Schnabel, ma neppure semplicemente virtuosistiche. Lo stesso con Scarlatti, che non è lo Scarlatti di Gieseking, ma che non è neppure più lo Scarlatti trascritto da Tausig ed eseguito alla Hofmann, quello Scarlatti che Horowitz aveva adottato in gioventù e inciso nel 1928. Il centro degli inte­ ressi resta il Liszt del periodo di Weimar, ma Horowitz non rimane ancorato alla tradizione Liszt-Rubinstein né vi ritorna nostalgica­ mente: la sua è un’indagine sugli antecedenti di Liszt, di Liszt come fondatore e rappresentante primo del concerto pubblico. La sonorità, elemento basilare dello stile di un interprete, di­ venta rigorosamente delimitata: l’enorme raggio della dinamica viene impiegato sempre, ma viene escluso del tutto il velluto e viene fortemente limitato, in Clementi come in Beethoven come in Chopin come in Liszt, il cosiddetto jeu perlé (che a Beethoven, sia detto per inciso, piaceva poco), cioè vengono esclusi i timbri mor­ bidi, carezzosi, insinuanti. Il suono di Horowitz è fatto di diamante, fermo e scintillante e duro. L’ascoltatore ha sempre un’abbagliante percezione dell’edificio sonoro, e la ricchezza dei timbri non sfuma nell’indistinto, nell’allusivo, nell’ambiguo: neppure nel pochissimo di Debussy, neppure nel molto di Scriabin che Horowitz ha af­ frontato. Il termine della ricerca di Horowitz è Scriabin, perché egli nella piena maturità ha lasciato in disparte Prokofiev e non ha mai affrontato Bartók e tanto meno Messiaen (autore che sembrerebbe adattissimo alle sue caratteristiche di pianista e per il quale professa viva ammirazione). Si può sicuramente discutere su Horowitz in­ terprete di Scriabin, soprattutto perché il tipo di sonorità, il tipo di architettura sonora che Horowitz crea per Scriabin non differisce da quella che crea per Rachmaninov: il che significa attenuare le

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diversità di atteggiamento culturale tra Rachmaninov e Scriabin che sono invece, a parer mio e di altri, di importanza fondamentale e quindi da mettere semmai nella massima evidenza. Non si può tuttavia non riconoscere che, se due pagine emblematiche come la Sonata n. 2 di Rachmaninov (1913) e la Sonata n. 10 di Scriabin (1912-13) suonano troppo simili sotto le dita di Horowitz, le dita di Horowitz riescono a render comprensibile la trama sonora della Sonata n. 10 di Scriabin in una misura che ha dell’incredibile. Gli aspetti mistici dell’arte scriabiniana, l’indistinto che non si svela e che colpisce l’animo dell’ascoltatore con una presenza invisibile e inquietante, vengono esclusi da Horowitz, che interpreta Scriabin secondo coordinate stilistiche neoclassiche. Ma il disaccordo sul­ l’impostazione critica non può escludere il riconoscimento della coerenza e della esemplarietà di un’interpretazione che non nasce più, come in Sofronitzki, dalla continuità della tradizione e da un rapporto affettivo, ma che affronta e risolve il problema della sopravvivenza storica di un autore. Può sembrare paradossale il dirlo, ma Scriabin è per Horowitz quel che Mozart è per Fischer o Schubert per Schnabel: un artista da inserire definitivamente nel repertorio concertistico, cioè nella cultura musicale di massa. E bisogna riconoscere che dopo Horowitz e grazie a lui nessun pia­ nista può permettersi di ignorare Scriabin. Dopo dodici anni di esilio, il 9 maggio 1965 Horowitz ricompa­ riva in pubblico alla Carnegie Hall. Il recital veniva registrato e pubblicato in due dischi, il cui fascicolo di presentazione iniziava bilanciando al milligrammo il commosso lirismo e la minuziosa precisione dei particolari che si convengono ai grandi avvenimenti della storia: «Dopo un’assenza di dodici anni, il ritorno di Vladimir Horowitz nella sala di concerto era destinato ad essere una circo­ stanza straordinaria, e si mostrò come uno dei più elettrizzanti eventi musicali della decade. Il momento esatto del suo ritorno può essere registrato con precisione. Erano le 15,38, domenica, 9 mag­ gio 1965, quando il grande pianista avanzò vivacemente fuori dalle quinte sul palcoscenico della Carnegie Hall (dove per l’ultima volta aveva suonato in pubblico il 25 febbraio 1953) per essere salutato con una vibrante, acclamante ovazione da un uditorio di 2760 persone [sedute] più 100 persone in piedi». E via di questo passo, con la storia dell’altalena torna-non torna, e poi della scelta del

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pianoforte, dei bivacchi del pubblico per acquistare il biglietto, ecc. ecc. Sarà tutto vero, anzi, è vero senz’altro. Quel che non vien detto è che Horowitz, dopo avere inciso sempre per la RCA, era passato nel 1962 alla Columbia, e che un avvenimento «storico» avrebbe fatto comodo per rilanciare un grande pianista assente da troppo tempo dalle sale di concerto. Tra il 1953 e il 1965 c’erano state l’apparizione di Richter ed una prodigiosa evoluzione di Rubin­ stein, mentre di Horowitz erano usciti pochi nuovi dischi e molte ristampe delle vecchie incisioni. Chi conosceva i trucchi delle regi­ strazioni su nastro poteva sospettare, non proprio illegittimamente, che Horowitz non fosse più in grado di sostenere veramente un’e­ secuzione e che i suoi nuovi dischi venissero fabbricati in labora­ torio, manipolando frammenti di esecuzioni diverse L La riapparizione in un concerto pubblico richiamava l’attenzio­ ne su un pianista già leggendario e già quasi svanito nell’empireo dei grandi trapassati. Horowitz era ancora un grande pianista, ed aveva ancora qualcosa da dire di suo, in una sala, nella presenza pericolosa ed esaltante degli ascoltatori? Queste erano le domande che ci si poteva porre, ed alle quali il concerto e poi i dischi davano risposta. Naturalmente, invece, la montatura pubblicitaria puntò piuttosto sul fatto sensazionale: Horowitz è ancor sempre il più grande pianista del mondo? Domanda che corrisponde agli inter­ rogativi drammatici sfoderati dai cronisti sportivi quando un vec­ chio pugile ritenta la scalata al titolo mondiale: sarà ancor sempre lui il più forte di tutti? E fu proprio in quest’ordine di idee che il ritorno di Horowitz fece il giro del mondo. In una calda, ma critica recensione del concerto, Harold C. Schonberg aveva scritto nel New York Times dell’ll maggio: «Ieri pomeriggio Horowitz ha messo a tacere molti dubbi. Di fronte a un numerosissimo, distintissimo pubblico ha dimostrato che è ancora un monarca». Nella corrispondenza da New York per il Corriere della sera le parole di Schonberg subivano questo esemplare ma1 Si racconta che negli anni 50 una pianista raccomandatissima, che doveva incidere due Sonate di Beethoven e non riusciva a far tre note giuste di seguito, registrò una montagna di nastri, da cui i tecnici cavarono un’esecuzione pulita. «Bene», disse la pianista quando le fecero ascoltare il provino. E il tecnico: «Le piacerebbe, eh, suonare così».

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Giu il cappello?*

quillage: «L’ovazione tumultuosa e frenetica che [...] Finterà sala in piedi gli ha tributato è stata l’espressione di un entusiasmo com­ mosso, sfuggito ormai ad ogni controllo: il riconoscimento ammi­ rato che l’intervallo silenzioso di dodici anni non solo non ha intaccato in nulla il talento di Horowitz, ma ha confermato che egli rimane tuttora il più grande pianista contemporaneo, colui che il New York Times stamane definisce il “monarca” della tastiera». La non imprevedibile reazione a questo genere di lodi fece sì che più tardi, quando apparvero i dischi, molti rimanessero profonda­ mente delusi. E non a torto, in un certo senso. Chi si aspettasse di essere rapito a inconcepibili altezze cimmerie farà bene anche oggi a girare al largo da questi dischi. Ma per colpa sua. Che non esista e che non sia mai esistito il più grande pianista del mondo è un fatto oggi documentabile con ciò che i più grandi pianisti del secolo ci hanno lasciato. In questa prospettiva, e in una considerazione delle grandi interpretazioni che non sfugge più nel mito ma resta nella dimensione delle cose soggette alla critica, il concerto alla Carnegie Hall conferma la maturazione che i dischi del 1953-65 avevano mostrato e fa scoprire, quasi inatteso, un grandissimo interprete di Schumann. Come ho già detto, il secondo tempo della Fantasia interpretata in pubblico soffre un po’ di un’insolita paura, ma i paragoni possibili con il primo tempo di Horowitz, se la memoria non mi inganna, sono ridotti ad uno solo: quello di Richter. E ben pochi paragoni sono possibili per parecchie delle altre interpreta­ zioni affidate da Horowitz al disco dal 1965: la parola che sostitui­ sce l’esclamazione di Schumann ci sta di nuovo bene. La vecchiaia di Horowitz non è tuttavia paragonabile, nel suo complesso, alla vecchiaia di Backhaus o di Artur Rubinstein (per non parlare di Liszt o di Verdi). Dal 1965 Horowitz ha suonato in pubblico non spesso e solo nell’America del Nord, ed il suo reper­ torio non si è molto arricchito: molto importanti, dopo la Fantasia, sono le sue interpretazioni della Kreisleriana e della Sonata op. 14 di Schumann, della Sonata n. 2 di Rachmaninov (incisa due volte in versioni leggermente diverse), di varie pagine di Scriabin e di Chopin2. È certamente molto, ma non è quello che si era sperato nel 1965. 2 Talvolta, riproponendo pagine che non fanno parte del repertorio cor-

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E negli ultimi anni si è notato, accanto ad una maestria della meccanica e del suono ancora strepitosa, una, come dire?, incapa­ cità di invecchiare. Le nuove incisioni della Sonata di Liszt e del Concerto n. 3 di Rachmaninov non valgono a parer mio le vecchie, l’incisione dell’Umoresca di Schumann è costretta in un abito di prudenza un tempo insolito, l’ultimo dei Nachtstucke di Schumann sembra una serenatella di un compositore da salotto della seconda metà dell’ottocento. Nel Mephisto-Walzer n. 1 di Liszt Horowitz fa anche di peggio che andar cauto e in superficie: non solo procede come se camminasse su un campo minato, ma cerca di far apparire difficili le poche cose facili, dando botte terribili dove sa per certo che la mina non scoppierà; e verso la fine, uscito dal campo, aggiunge di suo alcune battute non pericolose e chiassosissime, tanto per eccitare l’entusiasmo del pubblico. È proprio indispensabile che un artista così grande ricorra a simili trucchetti? Horowitz, potendo ancora dominare la tastiera in modo superbo, non cerca sistematicamente un repertorio da sco­ prire e da valorizzare e, soprattutto, non abbandona un abito di superomismo. Non siamo sicuramente nei limiti di senescenza di Alfred Cortot. Ma in fondo son da preferire i disastri totali del Cortot settanta­ cinquenne: disastri non mascherati, disastri onesti. Le ultime inci­ sioni di Horowitz non aggiungono a parer mio quasi nulla alla sua figura storica e tutt’al più fanno rispuntare un po’ pateticamente quell’antico Horowitz — «Successo, soprattutto» — di cui parlava Neuhaus. Piccole cose, in fondo, che scottano per chi ha sempre ammirato Horowitz e la sua capacità di progredire, di diventare

rente, e quindi contribuendo lodevolmente ad attirare l’attenzione del pub­ blico su musiche che meritano di essere considerate, Horowitz non resiste alla tentazione di praticare qualche piccolo taglio: così nella Sonata op. 14 di Schumann e nel Rondò op. 16 di Chopin. Della Sonata n. 2 di Rachmaninov Horowitz non sceglie una delle versioni dell’autore, ma fa lui da tagliatore e ricucitore. L’anacronismo delle sue concezioni risulta in modo palmare quando si paragona il suo modo di operare con l’integrità morale di interpreti più anziani (come Schnabel) o più giovani (come Richter), che sanno riproporre senza sopprimere una battuta pagine ben più «pericolose» per l’interprete che le voglia trarre dall’oblio.

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«Giù il cappello?»

molto di più di ciò che già era, splendidamente, a trentanni. Piccole cose che, se scrivessi fra un cinque lustri, mi resterebbero tranquillamente nella penna, e che dico oggi con un po’ di magone e forse, chissà!, con un po’ di dispetto. Ma per una volta il cappello me lo tengo ben piantato al suo posto.

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La breve carriera di Dinu Lipatti si svolse sotto il segno di Lucina, rappresentata da cinque dame che incarnarono per lui l’eterno femminino, che si incaricarono di spianargli la dura strada del mondo, che da autentiche pie donne furono devote alla causa di questo artista ascetico e introverso: la madre, Anna, l’insegnante di pianoforte, Florica Musicescu, l’insegnante di composizione, Nadia Boulanger, la mecenate, principessa di Polignac, la moglie, Made­ leine. Cinque donne sagaci e volitive, tutte — non è offensivo supporlo — in diversa misura bramose di legare il loro nome all’affermazione, alla gloria di un musicista in cui credevano. La prima delle cinque, Anna Racoviceanu, cominciò col metterlo al mondo il 19 marzo 1917, a Bucarest. Anna, pianista dilettante, era la seconda moglie di un ex-diplomatico, ottimo dilettante di violino (aveva studiato anche un po’ con Flesch e un po’ con Sarasate), che passava il tempo amministrando le sue numerose proprietà e forse, se le fotografie che ce lo mostrano sempre elegantissimo e blasé non ci traggono in inganno, dedicandosi anche ad altre, meno gravi attività. L’ambiente familiare di Lipatti era dunque quello della ricca borghesia di Bucarest, di quella borghesia che amava la mu­ sica e che aveva costruito, con una sottoscrizione nella quale ve­ nivano contati i mattoni, la magnifica sala liberty della Filarmo­ nica. La vita musicale di Bucarest era assai sviluppata, ed i musicisti romeni affermatisi in campo internazionale non mancavano: tra i pianisti si possono ricordare Theophil Demetriescu (di cui è rimasta una bellissima esecuzione della Vierte Ballet-Szene di Busoni), Cella Dellavrancea, Muza Germani, e Clara Haskil, che quando nacque

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Dinu Lipatti aveva ventidue anni e stava iniziando, tra gravissime difficoltà, la sua carriera. Il maggior musicista romeno del mo­ mento era George Enescu, violinista e compositore di consolidata fama internazionale, che naturalmente conosceva il violinista di­ lettante Theodor Lipatti: Enescu compare accanto a Dinu come padrino di un battesimo che ebbe luogo quando il bambino tocca­ va i quattro anni; vi sarebbe poi ricomparso spesso in seguito, come vedremo. La fotografia del battesimo ci mostra Dinu accanto al padrino, entrambi col violino in mano. Il bimbo, figlio di un violinista dilettante, aveva già cominciato a grattare il violino; ma era anche figlio di una pianista dilettante, ed aveva perciò cominciato a toucher du piano. La prima, decisiva scelta della sua carriera era cominciata quando la mamma gli aveva insegnato il «preludio di Bach che suonavo tutte le mattine come introduzione all’Ave Ma­ ria di Gounod, che mio marito amava eseguire in guisa di preghiera prima di uscire di casa» (A. Lipatti). Il padre ne fu deliziato, e quando Enescu arrivò per il battesimo trovò un figlioccio che teneva il violino in mano, ma che sul pianoforte suonava già, ed egregiamente, un Minuetto di Mozart. Di studi violinistici si con­ tinuò a parlare in famiglia, ma in realtà Anna aveva fatto la prima delle sue numerose mosse vincenti. A cinque anni Dinu... esordì, in una località balneare del Mar Nero, partecipando ad un concerto di beneficenza in cui suonava pezzi suoi, accompagnava il padre, annunciava le musiche in pro­ gramma. Poi cominciò a studiare sul serio il pianoforte e la teoria con il compositore e direttore d’orchestra Mihail Jora. Al momento giusto entrò nella classe di Florica Musicescu al conservatorio di Bucarest, continuando con lo Jora gli studi di composizione. Flo­ rica Musicescu era un’insegnante seria ed abile, che «rimase per lui una guida fedele, affettuosamente tirannica, da cui gli piaceva prender consigli anche quando era già nella piena espansione della sua arte» (A. Lipatti). Nel 1930, a tredici anni, Lipatti suonò il Concerto di Grieg, nel 1932 vinse un premio di composizione intitolato a Enescu, ed assegnato da una giuria presieduta da Ene­ scu stesso. Nello stesso anno si diplomò in pianoforte. Nel 1933 suonò più volte a Bucarest, nel 1934 si iscrisse al difficile Concorso di Vienna, che avrebbe avuto luogo in marzo.

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Qui conviene fermarsi un momento. La madre presenta la par­ tecipazione al Concorso di Vienna come un’idea dell’ultima ora, un po’ avventata: dice infatti di aver letto per caso in un giornale che era stato bandito il Concorso, di avervi iscritto il figlio di sua iniziativa, in disaccordo con il marito. Mi permetto di dubitare di questa versione, e suppongo che la mossa fosse stata dibattuta con la Musicescu, Jora ed Enescu, valutandone a fondo gli aspetti positivi e negativi, il grado di maturità di Dinu, le probabilità di affermazione. Né mi sembra assurdo supporre che mamma Lipatti, andando a Vienna col figlio e la Musicescu, non si fosse procurata lettere di presentazione di Enescu o non avesse fatto segnalare da Enescu, a qualche componente la giuria, il talento del ragazzo. Non ci sarebbe nulla di male, s’intende, in tutto ciò, ma solo un’altra delle tante mosse giuste di Anna Lipatti. Dinu Lipatti non vinse il Concorso: vinse il secondo premio. Il primo fu assegnato al polacco Boleslav Kon, di ventotto anni, allievo di Igumnov e di Drzewiecki. Sia la madre che la moglie raccontano che a detta di Cortot, membro della giuria, Lipatti avrebbe di gran lunga meritato il primo premio. Pare che Cortot abbandonasse la sala, in segno di protesta, al momento della pre­ miazione. Noi non sappiamo come potesse suonare il Kon, che morì suicida nel 1936 e non lasciò dischi, ma Zbigniew Drzewiecki, attentissimo critico dei pianisti polacchi, inizia a parlare del Kon definendolo «fenomenale talento interpretativo» e conclude dicendo: «... era il più grande talento interpretativo del periodo precedente la guerra, ordinariamente pieno di fantasia e di spirito, molto coscienzioso nel suo lavoro e profondamente sensibile alla musica che eseguiva». Mi permetto quindi di supporre che l’atteggiamento di Cortot fosse almeno un po’ eccessivo. Ma evidentemente il figlioccio di Enescu, vecchia conoscenza di Cortot, era molto piaciuto al grande pianista francese, che consigliò ad Anna Lipatti di portare a Parigi il ragazzo e di iscriverlo all’École Normale de Musique. Ho già detto, parlando di Cortot, della fondazione dell’École. Era un’istituzione privata, in cui validi muratori costruivano allievi ai quali, per qualche settimana all’anno, maestri illustri imprime­ vano il loro sigillo accreditato in tutto l’orbe. E i maestri, quando non erano a Parigi, sapevano benissimo come alimentare il flusso

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dei ragazzi di talento e non di talento che scorreva da tutti gli angoli della terra verso l’École. Nell’autunno del 1934 Lipatti si stabilì a Parigi con mamma e fratellino (papà restava a Bucarest) per seguire i corsi delTÉcole Normale de Musique. Sarebbe rimasto a Parigi fino al 1939. Cin­ que anni di studi pianistici con Cortot, preparato dall’assistente di questi, Yvonne Lefébure, di direzione d’orchestra con Diran Alexanian e Charles Munch, di composizione con Paul Dukas e Nadia Boulanger; nell’inverno del 1935-36 potè seguire un corso di ana­ lisi, tenuto all’École da Stravinsky. Il rapporto più profondo, tra tutti i suoi insegnanti di Parigi, Lipatti lo stabilì con Nadia Bou­ langer, famosa docente di composizione, compositrice, pianista, direttore d’orchestra, grande autorità, in fatto di musica, in quello che era ancora uno dei principali centri musicali del mondo. At­ traverso la Boulanger conobbe la principessa di Polignac. Winnareta di Polignac era nata dalla costola delle macchine da cucire Singer, s’era sposata una prima volta con un aristocratico d’altissi­ mo rango, con cui non andava d’accordo e di cui le cronache non ci tramandano quindi il nome, e una seconda volta con il principe Edmond de Polignac, già molto anziano, che era morto poco dopo le nozze. Quando Lipatti la conobbe, la principessa aveva passato i sessanta: era «alta, snella, distinta, un po’ mascolina nel porta­ mento, col profilo dantesco, il passo lento» (J. Spicket). Era celebre per i suoi rapporti camerateschi e mecenateschi con molti compo­ sitori, soprattutto Ravel, Stravinsky, Falla e Poulenc, e si contor­ nava di pianisti, da Rubinstein e Horowitz a Février, alla Taglia­ ferro, alla Darré, alla Haskil. Lipatti si aggregò alla «scuderia» Polignac: frequentava il salotto della principessa ed era spesso da lei per passare con la Haskil, tenuta a palazzo come una specie di pianista di corte, molta musica per pianoforte a quattro mani. La sua carriera concertistica procedeva intanto col contagocce, secondo una preparazione lenta, paziente, graduata al millimetro, senza un colpo sbagliato: nel febbraio del 1935, prima apparizione a Parigi con la Sonata n. 1 di Enescu in un concerto sinfonico da questi diretto; nel maggio, primo recital a Parigi, a scopo benefico; nel 1936, partecipazione a due concerti a Parigi e prime incisioni; nell’autunno, concerto a Bucarest sotto la direzione di George Georgescu, con il Concerto in re minore di Bach e il Capriccio di

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Stravinsky, recital con Enescu e tournée in Ungheria, Austria e Cecoslovacchia con la Filarmonica di Bucarest, solista nel suo Concertino in stile classico', nel 1937, tre apparizioni a Parigi, ormai come professionista, e recital con la violinista Lola Bobescu, un mezzo concerto a Montreux, un concerto e un recital con Enescu a Bucarest, alcune incisioni a Parigi e Londra; nel 1938 Roma, Ac­ cademia di Santa Cecilia (Bach, Mozart, Brahms, Casella, Enescu), vari concerti a Parigi; nel 1939 ancora due concerti con orchestra e un recital a Parigi; prima delle vacanze estive un concerto nel palazzo della principessa di Polignac, che aveva scritturato per l’occasione — nientemeno! — l’orchestra della Société du Conser­ vatoire e il suo direttore Charles Munch. Fu un avvenimento mondano come sapeva combinarne la principessa. Ed ecco il pro­ gramma: Concerto brandenburghese n. 3 di Bach, Concerto in mi bemolle maggiore di Mozart (solisti la Haskil e Lipatti), LJuettino concertante per due pianoforti di Busoni, Suite classica di Lipatti (solista la Haskil), Sinfonia concertante di Lipatti (solisti la Haskil e Lipatti). Poi il rientro in Romania e lo scoppio della guerra, che mandava per aria, ma non del tutto, la sottile strategia di mamma Lipatti, di Nadia Boulanger e della principessa di Polignac. Ho descritto a lungo, e in un modo che sarà potuto apparire pignolesco e pettegolo, gli anni di apprendistato di Lipatti, perché la sua fu una carriera pilotata con eccezionale tempismo all’interno di una società aristocratica che sapeva individuare, preparare e lanciare i talenti da essa espressi. Lo sviluppo ordinario della car­ riera di un giovane pianista avrebbe dovuto vedere, di norma, una partecipazione a concorsi internazionali fino ad una vittoria che servisse di trampolino. Negli anni 30 era infatti esplosa quella mania dei concorsi che dura tuttora. Prima della Grande Guerra il solo concorso che avesse garantito un sicuro lancio internazionale era stato il Premio Rubinstein. Nel primo dopoguerra, caduto il Rubinstein, i concorsi avevano vivacchiato, cominciando a ripren­ der quota solo nel 1927, con il primo Concorso Chopin di Varsavia vinto da Oborin. Nel 1932 il secondo concorso Chopin era già stato un avvenimento seguito dalla stampa internazionale: aveva vinto Alexander Uninsky, seguito in classifica da Imre Ungar e da Bole­ slav Kon. Al Concorso di Vienna del 1934, vinto dal Kon e con Lipatti al secondo posto, si presentarono duecentocinquanta con­

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correnti, giudicati da una commissione formata da una quarantina di celebrità del mondo musicale. I concorsi divennero così un’otti­ ma carta di presentazione per la carriera, e non solo per i pianisti, ma per i violinisti, i cantanti, i compositori; ci furono concorsi provinciali, interprovinciali, regionali, interregionali, nazionali, in­ ternazionali, con premi piccoli, medi, grandi, grandissimi. In ge­ nere i grandi concorsi internazionali — durissimi, stressanti, ine­ sorabili — misero in luce i migliori giovani del tempo: il Concorso di Vienna del 1936 fu vinto da Jakov Flier, che batté Emil Gilels, il Concorso Chopin del 1937 fu vinto da Jakov Zak, Gilels vinse nel 1938 il primo Concorso Regina Elisabetta del Belgio di Bruxelles, battendo la Lympany, Flier e, tra gli altri, Benedetti Michelangeli; Arturo Benedetti Michelangeli vinse nel 1939 il primo Concorso di Ginevra. Ma per capire a quali difficoltà e a quali azzardi andasse incontro un giovane che affrontava un concorso basti pensare che nel 1938 il diciottenne Benedetti Michelangeli era finito nel grup­ po dei «segnalati» al II Concorso Premio Consolo di Firenze, vinto da un certo Dario Cagna, e che a Bruxelles era finito settimo. Mentre i suoi coetanei si scannavano nei concorsi, Lipatti co­ struiva pietra su pietra il suo lancio internazionale, nel caldo affetto protettivo delle sue impagabili turiferario. Dopo il concerto dalla principessa di Polignac la sua vera e propria carriera sarebbe pro­ babilmente esplosa nel 1940, ma la guerra, come dicevo, frenò e in parte mandò a monte il minuzioso lavoro preparatorio. Nel 1940, comunque, Lipatti suonò con successo a Vienna, a Bratislava, a Berlino, Dresda e Lipsia, in Italia (Roma, Pesaro, Trieste), dal ’40 al ’43 suonò spesso in Romania, nel 1943 suonò in Ungheria, Svezia, Finlandia, Svizzera. Nella tournée del 1940 era ancora accompa­ gnato dalla madre, nel 1943 era con lui Madeleine Cantacuzene, moglie di un principe, allieva della Musicescu e pianista di qualche merito. I due si conobbero nel 1939, partirono insieme nel 1943, in Svezia suonarono anche a due pianoforti, ed insieme arrivarono in Svizzera, con tre franchi in due. Sia Anna che Madeleine Lipatti raccontano con parole brevi, riservate, dignitose la storia dell’innamoramento — non oseremmo mai dire passione — e del matrimonio di Dinu. E noi non possiamo certo, in assenza di documenti o di testimonianze di chi conobbe la coppia, avanzare supposizioni sui rapporti che si stabilirono tra i

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due. La personalità profonda di Lipatti, del resto, ci sfugge quasi completamente, avvolta com’è da questa aureola di ragazzo sereno e modesto, di ragazzo tutto d’oro che le parole della madre, della moglie, di qualche amico affezionatissimo ci hanno trasmesso. Soltanto alcuni frammenti di lettere a Paul Sacher squarciano l’apparenza del moderno S. Luigi Gonzaga e ci fanno intrawedere una personalità che, se da un lato trova conferma nel ritratto dipintoci dall’agiografia, non manca d’aspetti più complessi e più autenticamente umani. Lasciando comunque da parte ogni discor­ so sul senso che il rapporto con la donna, e con Madeleine, ebbe per Lipatti, non mi pare però illegittimo supporre che la moglie si sostituisse alla madre per garantirgli l’affetto protettivo, la tran­ quillità domestica, l’adorante devozione che solo mirava alla gloria dell’amato. Stabilitosi a Ginevra, Lipatti tenne concerti in Svizzera durante la guerra e dal 1944 insegnò nel conservatorio. Riprese la carriera nel 1946, suonando in Italia, Francia, Olanda, Belgio, Inghilterra, ma non potè riprenderla intensamente a causa della gravissima malattia, leucemia, manifestatasi durante i primi mesi della sua permanenza in Svizzera. Incise anche molti dischi per la Columbia, casa con la quale aveva firmato, all’inizio del 1946, un contratto in esclusiva. Suonò per l’ùltima volta a Besan^on il 16 settembre 1950 e morì a Ginevra il 2 dicembre dello stesso anno. Mi sia permesso di inserire qui un ricordo personale. Il 4 dicembre Gieseking teneva un recital alla Scala. Prima dell’inizio venne alla ribalta un dirigente della Società del Quartetto per comunicare al pubblico che il concertista desiderava cominciare, in memoria di Lipatti, con la Marcia funebre di Beethoven, e che pregava di non applaudire. Ricordo bene la visibile emozione di Gieseking, e la silenziosa, tesa emozione del pubblico: non era difficile capire, in quel momento, che Lipatti era già diventato una leggenda. Lipatti è rimasto leggenda. Eppure non aveva percorso tutto il mondo ripetutamente, né aveva avuto mai successi di fanatismo. I suoi concerti non entusiasmavano la generalità del pubblico, perché piaceva molto a tutti, interessava moltissimo ai musicisti, ma non suscitava deliri. Perché questo trascorrere subito nella leggen­ da? Penso che Lipatti sia stato il primo pianista la cui carriera e la cui fama siano state condizionate dal disco e dalla radio. Oggi

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accade molto spesso che il pubblico impari a conoscere un pianista dai dischi prima di averlo mai sentito in sala di concerto. Negli anni 30 e 40 il disco arrivava invece ancora a coronare una carriera già consolidata (tranne che in qualche raro caso, in cui l’industria discografica cercava di sfruttare subito il successo clamoroso di un giovane in un concorso internazionale, come accadde con Bene­ detti Michelangeli e più tardi con Guida). Si guardi invece alle date delle prime incisioni di Lipatti: 1936 e 1937. Soltanto l’incisione di una scelta dei Valzer di Brahms, a quattro mani con Nadia Bou­ langer, fu pubblicata subito; le altre rimasero inedite (non sappia­ mo per quale ragione), ma il precoce accostamento al disco dimo­ stra la folgorante capacità di scegliere il mezzo più sicuro per far conoscere in tutto il mondo il nome di un interprete. Possiamo supporre — ne ho già fatte molte di supposizioni e me ne scuso col lettore; ma i documenti non mi assistono — che i dischi incisi a Londra nel 1937 sarebbero dovuti uscire in concomitanza con quell’esplosione della carriera che si poteva prevedere per il 1940. Non mi pare che questa fosse un’idea indegna del trio Anna-Nadia-Winnareta; anzi! Resta comunque il fatto che nel 1946 il busi­ nessman Walter Legge fece firmare in esclusiva un contratto ad un giovane di ventinove anni, di ottime speranze ma non ancora noto al grande pubblico e che si sapeva malato. E la Columbia colse tutte le occasioni per far incidere dischi a Lipatti. Racconta Walter Legge: «Negli ultimi giorni di maggio [del 1950] ricevetti una lettera privata del dottor Dubois-Ferrière di Ginevra, che mi faceva urgenza di organizzare subito una venuta a Ginevra per incidere con Dinu Lipatti. Essendo il suo medico gli aveva praticato inie­ zioni di cortisone ed il miglioramento era notevole. Sfortunata­ mente, mi spiegava, il trattamento non poteva essere continuato per più di due mesi, e siccome questa era la prima volta che era stato tentato per il male di Lipatti egli non poteva assicurare la sua durata o costante efficacia, ma mi supplicava, come amico di Lipatti, di non arrestarmi di fronte a nulla pur di rendere possibili le incisioni a Ginevra finché durava il miglioramento [...] W.S. Bar­ rell, direttore degli studi EMI, interruppe le vacanze per trovare a Ginevra uno studio di registrazione adatto. La Radio di Ginevra riaccomodò i suoi programmi in modo che gli studi potessero essere a nostra disposizione notte e giorno. Paul Jecklin, agente della

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Columbia in Svizzera, comprò da Steinway di Amburgo e mandò a Ginevra il primo dei grancoda del dopoguerra che entrasse in Svizzera, favolosamente bello, lo strumento che Lipatti aveva sempre voluto per le sue registrazioni. La nostra Compagnia fran­ cese mandò le sue nuove, superbe apparecchiature direttamente da Prades, dov’erano servite per il Festival Casals ». Lipatti desiderava certamente di fare le incisioni. Ma, al contra­ rio degli altri, egli non sospettava che il miglioramento della salute fosse temporaneo: lo si deduce da alcune lettere a Sacher, da una lettera alla Haskil e da una cartolina alla Musicescu. Non posso né voglio esprimere riprovazioni, che saprebbero di moralismo senti­ mentale, ma quel forsennato balletto intorno ad un morente che si crede risanato, quello che scrive, quello che sta all’erta, quello che compra il grancoda, quello che interrompe le vacanze mi fanno una ben trista impressione. E se mi commuove il concerto del 16 settembre a Besan$on, puntualmente registrato dalla radio francese e pubblicato dalla Columbia, con un Lipatti che non ce la fa più ad eseguire l’ultimo Valzer di Chopin in programma, non posso nep­ pure dimenticare che quel concerto fu registrato, penso, perché aveva ottime probabilità di essere l’ultimo. La leggenda di Lipatti non nasceva solo dalla sua bravura né solo dalla sua morte ag­ ghiacciante. Ritorniamo per un momento a Boleslav Kon che, dice uno dei suoi maestri, era un grande talento di interprete, e che morì suicida a trent’anni. Boleslav Kon non è diventato leggendario, sebbene la sua tragica fine si prestasse a destare una profonda commozione. Né divenne leggendario William Kapell, uno dei maggiori talenti pianistici del secolo, che morì a trentun’anni, nel 1953, in un incidente aereo; né lo divenne Noel Mewton Wood, interprete eccezionalmente maturo, suicida a trentun’anni nel 1953. Lipatti divenne leggenda anche perché era stato guidato verso fini lucidamente fissati, e la sua leggenda, cominciata negli ultimi anni di vita, si affermò subito dopo la morte. Oltre ai dischi, a formare la leggenda di Lipatti contribuirono le sue numerose, periodiche apparizioni ai concerti dell’orchestra della Suisse Romande, che venivano trasmessi in diretta da Radio Sottens. Quei concerti, seguiti in buona parte dell’Europa e se­ gnalati dai vari giornali specializzati, resero popolare il nome di Lipatti presso una larga massa di ascoltatori, diversa da quella

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tradizionale delle sale di concerto. Ricordo bene di aver ascoltato Lipatti in quasi tutto il suo repertorio con orchestra e di averne atteso con impazienza i successivi ritorni ai microfoni di Radio Sottens. Aspettavo i suoi dischi, e come me, penso, tutti i suoi ascoltatori della radio. Il duplice mezzo di diffusione — radio e disco — aveva preparato il terreno per le tournées, che non pote­ rono essere realizzate; alla morte di Lipatti era però pronta l’atmo­ sfera perché si formasse la leggenda del più perfetto dei pianisti, del più grande, dell’unico. E la presenza della leggenda ha impedito, o per lo meno non ha stimolato poi il sorgere di una letteratura critica sull’arte di Lipatti. A questa fama molto diffusa, a questa leggenda non corrispon­ devano ancora, in Lipatti, un indirizzo culturale ben preciso, né volto verso il futuro. E un discorso molto difficile, questo, e che ci porterà lontano, ma che penso di dover avviare, proprio perché un discorso critico su Lipatti non è stato mai iniziato. Vediamo prima di tutto il repertorio di Lipatti, ricostruendolo per quanto è possi­ bile. Il repertorio con orchestra comprendeva il Concerto in re minore di Bach nella versione di Busoni, il Concerto in re maggiore di Haydn, i Concerti K 466 e K 467 di Mozart, il Concerto n. 1 e VAndante spianato e Polacca brillante di Chopin, il Concerto di Schumann, i due Concerti di Liszt, il Concerto di Grieg, i due Concerti di Ravel, il Capriccio di Stravinsky, il Concerto n. 3 di Bartók, il Concertino, la Suite classica e le tre Danze rumene di Lipatti. Stava studiando, pare, la Fantasia indiana di Busoni e il Concerto n. 5 di Beethoven. Il repertorio solistico comprendeva, di Bach, la Partita in si bemolle maggiore, la Toccata in re maggiore, i Preludi e fuga in do diesis maggiore e in do diesis minore del primo e del secondo libro del Clavicembalo ben temperato, la Toccata in do maggiore e due Preludi-corali di Bach-Busoni, un Corale di Bach-Hess, la Siciliana di Bach-Kempff, la Pastorale di Bach-Lipatti, la Suite in re minore di Hàndel, sei Sonate di Scarlatti, la Sonata di Mozart in la minore, di Beethoven la Sonata op. 53, gli Improvvisi op. 90 n. 2 e 3 di Schubert, la Sonata n. 3, quattordici Valzer, gli Scherzi n. 1 e 3, la Ballata n. 4, la Barcarola, il Rondò op. 5, il Notturno op. 27 n. 2, tre Mazurche (op. 41 n. 1 e 2, op. 50 n. 3) sei Studi (tra cui l’op. 10 n. 5 e 7 e l’op. 25 n. 5, 6 e 11) e sei Preludi di Chopin, gli Studi sinfonici ed una Novelletta (in re maggiore, op.

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21 n. 2 oppure n. 5) di Schumann, la Leggerezza, la Ronda di gnomi e A Sonetto n. 104 del Petrarca di Liszt, quattro Intermezzi (op. 117 n. 1 e 2, op. 118 n. 6, forse op. 118 n. 1) di Brahms, Reflets dans l’eau, Hommage à Rameau, La soiree dans Grenade, La Cathédrale engloutie, L’isle joyeuse e tre Studi (tra cui Pour les arpèges com­ poses) di Debussy, Le tombeau de Couperin, Alborada delgracioso e La vallee des cloches di Ravel, la Suite e le Sonate n. 1 e 3 di Enescu, brevi pagine di Byrd, Falla, Dohnànyi, Casella, Poulenc, Jora, Mihalovici, Andricu, Negrea, Lazar, Constantinescu, ed infine le proprie composizioni (Sonatina, Fantasia, tre Notturni, Sonatina per la mano sinistra sola); stava studiando i Preludi di Frank Mar­ tin, a lui dedicati. Per avere un quadro più completo ricorderò, sebbene meno interessanti per una valutazione della posizione storica di Lipatti, le esecuzioni di sonate per violino e pianoforte con Enescu e con la Bobescu, di trii con la Bobescu e Janigro, di sonate per violoncello e pianoforte con Janigro, dei Valzer op. 39 e dei Liebesliederwalzer con la Boulanger, del Concerto in mi be­ molle di Mozart, delle Variazioni su un tema di Haydn di Brahms, del Duettino concertante di Busoni, della sua Suite e della Sinfonia concertante con la Haskil, delle sue Tre Danze con Smaranda Athanasof, delle Variazioni op. 5 di Enescu, delle sue Due danze in stile popolare romeno e delle Tre danze romene con Madeleine Lipatti. È un repertorio assai vasto, seppure non vastissimo, ma etero­ geneo, in cui si nota subito l’abbondanza di piccoli pezzi e la relativa scarsezza di opere di vaste dimensioni. La ristrettezza del repertorio mozartiano e beethoveniano farebbe pensare ad un interprete orientato verso il virtuosismo romantico; ma mancano poi le opere predilette dai virtuosi, dal Concerto n. 1 di Ciaikovsky al Secondo di Brahms al Terzo di Rachmaninov, dalla Sonata e dal Mephisto-Walzer di Liszt alle Variazioni su un tema di Paganini di Brahms ai Quadri di una esposizione di Mussorgski. E se non troviamo le pietre miliari del repertorio virtuosistico romantico non troviamo neppure le pietre miliari del repertorio romantico non virtuosistico (dalle Sonate di Schubert ai Davidsbiindlertanze, alla Kreisleriana, alla Fantasia di Schumann, alle Variazioni su un tema di Handel di Brahms, ai due trittici di Franck). n fatto è che, da un lato, la tecnica di Lipatti non era propria­

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mente una grande tecnica virtuosistica, e che, dall’altro, i suoi interessi di interprete non erano ancora decisamente indirizzati. Il repertorio di Lipatti riflette, a parer mio, una sua incertezza tra un riferimento alla tradizione virtuosistica, che probabilmente lo ten­ tava ma per la quale non possedeva mezzi tecnici superiori, ed una scelta di moderno indirizzo culturale (alla Schnabel o alla Giese­ king, tanto per intenderci). L’unica scelta di fondo che appaia già sicura è quella del repertorio chopiniano. Molto incerta — sor­ prendentemente, per un pianista formatosi a Parigi negli anni 30 — è la sua scelta dei contemporanei francesi: poco Debussy, non molto Ravel, poche cosette di Poulenc, il solo Capriccio di Stra­ vinsky eseguito per di più in pochissime occasioni, prima della guerra. Occasionale sembra la scelta, anch’essa abbandonata dopo la guerra, dei compositori romeni contemporanei. L’inclusione, in questo repertorio, della Toccata in re maggiore di Bach è a prima vista sorprendente, ma il pezzo faceva parte del repertorio sia di Wanda Landowska che di Edwin Fischer che di Clara Haskil, ed è quindi evidente che la sua scelta non dipendeva da una ricerca personale di Lipatti; tuttavia, l’inclusione della Toccata e di alcuni Preludi e fuga del Clavicembalo, in un contesto non ricco di opere del Settecento, è un segno di evoluzione verso un repertorio bachiano meno ovvio di quello rappresentato dalla Partita n. 1 e dalle trascrizioni. Anche la serie di quattordici Valzer di Chopin mostra un’attenzione, molto notevole, verso un indirizzo culturale nuovo, mentre il Rondò op. 5, anch’esso sorprendente a tutta prima, era già compreso nel repertorio della Haskil. È da segnalare infine l’esecuzione, purtroppo non incisa, del Concerto n. 3 di Bartók, che ricordo di aver ascoltato da Radio Sottens e che mi aveva molto colpito. Forse il Terzo di Bartók iniziava un’apertura verso quello che si presentava come un problema storico preminente della generazione di Lipatti, e cioè l’acquisizione al repertorio concerti­ stico delle opere di Scriabin, Schonberg, Stravinsky, Bartók, Pro­ kofiev? Non lo so, ma dovrò ritornare su questo argomento più avanti, a conclusione del discorso. Nel complesso, esaminando il repertorio, ho l’impressione che Lipatti non si fosse ancora maturato come uomo di cultura e che — parafraso un detto di Busoni •— scegliesse dei pezzi da lavorare in modo impeccabile, con i quali presentava se stesso, invece di see-

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gliere una letteratura da presentare in tutti i suoi aspetti. Come lavorava dunque Lipatti i pezzi che di volta in volta sceglieva, ancora, ripeto, secondo una logica da sommo artigiano della ta­ stiera più che da uomo di cultura? In una lettera ad un giovane pianista sudafricano vengono elencati alcuni concetti-chiave per una «base sana» delTinterpretazione: «Qual’è questa base di par­ tenza? Essa consiste in alcune leggi fondamentali della musica, le più importanti delle quali sono, purtroppo, le più trascurate dalla maggior parte degli interpreti, e cioè: 1) il solfeggio, specialmente il solfeggio ritmico; 2) l’appoggio sui tempi deboli (appesantirsi e sottolineare il tempo forte è in musica uno dei più gravi errori, perché il tempo forte non è che un rimbalzo verso i tempi deboli, che hanno, essi, il vero appoggio); 3) l’ignoranza di certi pianisti delle immense risorse che può portare l’indipendenza nella stessa mano tra differenti attacchi e tocchi, dunque tra differenti timbri. Ottenendo questa indipendenza l’interpretazione prende improv­ visamente un inatteso rilievo e l’esecuzione del pianista riflette la plasticità e la diversità di un’esecuzione orchestrale». Il primo punto deriva evidentemente da un atteggiamento neo­ classicistico, che considera la notazione non come un fatto di convenzione, soggetto al gusto, ma come estrinsecazione di leggi — fisiche o fisiologiche o metafisiche che siano — immutabili. Il problema dell’articolazione ritmica reale, del rapporto tra grafia del ritmo e ritmo è molto più complesso di quanto non si supponesse cinquant’anni addietro, com’è stato dimostrato da tutti gli studi sulle prassi esecutive del passato. Ma in Lipatti questo atteggia­ mento, in sé semplicistico, significa solamente reazione al gusto di fine Ottocento, adesione alle concezioni ritmiche di un Gieseking o di un Kempff, che superavano, facendo evolgere il gusto, le con­ cezioni di un Paderewski, di un Rosenthal, ed anche di un Busoni, di un Rachmaninov, di un Cortot. Il secondo punto integra subito, e corregge quanto di semplici­ stico poteva esserci nel primo punto. Anche questa seconda affer­ mazione non può esser presa in senso assoluto. Lipatti voleva evidentemente evitare il pericolo insito in un’interpretazione let­ terale del primo punto, ed evitare quindi il rischio di una ritmica pesantemente marcata, brutale, il rischio di quella esecuzione che si suole denominare «da banda». Il significato delle due affermazioni

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teoriche è dunque, secondo me, da rovesciare: da un gusto di articolazione del ritmo, formatosi in un ben determinato ambiente culturale, Lipatti deduce prescrizioni di tipo didascalico, ma il suo gusto non è affatto, né potrebbe mai essere l’estrinsecazione di «leggi fondamentali della musica». Per fare alcuni esempi concreti basterà ascoltare il Valzer op. 64 n. 2 di Chopin nell’esecuzione di Lipatti (incisione del 1950) e di Rachmaninov (incisione del 1927), e la Mazurca op. 50 n. 3 di Chopin nell’esecuzione di Lipatti (incisione del 1950) e di Horowitz (incisione del 1953). Si tratta di incisioni abbastanza vicine nel tempo, e attraverso le quali si può cogliere la progressiva evoluzione del gusto. Si noterà come in entrambi i casi l’articolazione ritmica di Lipatti sia più vicina al­ l’apparenza grafica della pagina scritta. I suoi scarti dalla grafia sono percentualmente meno ampi di quelli di Rachmaninov e di Horowitz, e tuttavia non sono meno numerosi. Ciò significa che il confronto tra l’esecuzione e l’apparenza grafica, in realtà, è ingan­ nevole; se si ascoltano invece Rachmaninov o Horowitz o Lipatti in quanto lettori non di una grafia, ma di ritmi rivestiti di suoni che stanno tra di loro in rapporti armonici, melodici, timbrici, metrici, allora si constata che la realizzazione della grafia è, per ciascuno e in modo diverso, perfetta. E si potrà risalire alle ragioni di gusto, cioè alle premesse culturali da cui deriva la particolare lettura di ciascun interprete, ma non si potrà mai dire che Rachmaninov o Horowitz siano meno vicini di Lipatti alle intenzioni, allo spirito di Chopin. Non ci stupisce che Toscanini approvasse con entusiasmo l’artico­ lazione del ritmo in Lipatti. Alfred Hoffmann riporta una signifi­ cativa frase di Toscanini, detta a Lipatti dopo le prove alla Scala del Concerto op. 11 di Chopin diretto da Votto, e da Lipatti riportata in una lettera alla Musicescu: «Ecco, alla fine, uno Chopin senza capricci, con il rubato che mi piace; e dire che la maggior parte dei musicisti vogliono essere compositori nelle composizioni degli al­ tri!». Ma proprio Toscanini affrontava la musica strumentale par­ tendo da una cultura, quella italiana, che le era estranea, e si basava quindi principalmente sulla grafia. È invece il superamento della lettura puramente grafica che permette di giungere alle ragioni del gusto, e quindi di sfuggire all’inganno delle «leggi fondamentali». Il discorso non cambia se esaminiamo interpretazioni lipattiane di composizioni molto vaste e che richiedono implicazioni di rap­

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porti ritmici enormemente più complesse. Se prendiamo il primo tempo del Concerto di Schumann nell’esecuzione di Lipatti (inci­ sione del 1948) e di Benedetti Michelangeli (incisione del 1942) possiamo subito notare — mi soffermo, a scopo esemplificativo, su un solo particolare, ma tra i più importanti — una differenza nella velocità generale e una differenza tra le reciproche velocità del primo e del secondo tema. L’inizio del Concerto è staccato da Lipatti a circa 80 di metronomo, da Benedetti Michelangeli a 60 circa. Lipatti esegue il primo tema a 58, il secondo tema a 52. Benedetti Michelangeli adotta, rispettivamente, 46 e 42. Le velo­ cità di base sono dunque diverse, le proporzioni, i rapporti sono all’incirca gli stessi. Ma il discorso si fa più complesso se conside­ riamo anche l’episodio di collegamento, staccato da Benedetti Mi­ chelangeli a 60, da Lipatti a 63. Con Lipatti abbiamo quindi 80-58-63-52, con Benedetti Michelangeli 60-46-60-42. Ora, nel testo di Schumann troviamo semplicemente, all’inizio, l’indicazio­ ne Allegro affettuoso e il tempo metronomico 84. Nessuno che conosca anche approssimativamente la storia dell’esecuzione si sognerebbe mai di prendere l’indicazione di Schumann come una prescrizione valida in assoluto. E quindi le diversità tra Lipatti e Benedetti Michelangeli, non osservando nessuno dei due il testo alla lettera, dipendono da una diversa concezione dell’arte di Schumann, non da un diverso rispetto della grafia o di leggi fon­ damentali. Benedetti Michelangeli, nel 1942, era ancora fermo ad una concezione sentimentaleggiante dell’arte di Schumann, già superata dagli studi critici di quel tempo (le successive esecuzioni di Benedetti Michelangeli saranno sensibilmente diverse) e perciò adottava tempi generalmente più lenti e, soprattutto, si soffermava sui temi, scorrendo più rapidamente l’episodio di collegamento. Lipatti, sei anni più tardi e con un direttore tedesco, von Karajan (mentre Benedetti Michelangeli aveva avuto un direttore italiano, Antonio Pedrotti), interpreta il Concerto secondo concezioni criti­ che che hanno già messo in luce l’evoluzione di Schumann verso la tradizione classica tedesca, cioè il suo neoclassicismo, e perciò attribuisce maggior importanza all’episodio di collegamento. Possiamo notare che Gieseking e Furtwangler (incisione del 1943 circa) unificano ancora di più il tempo, adottando 60-48-48-48. Ma Bruno Walter descrive un’esecuzione, che a suo

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giudizio «tende al sentimentalismo» perché non rispetta il testo, in un modo che corrisponde a pennello a quello che fanno Furt­ wangler e Gieseking. La concezione di Walter — verificabile dalla incisione da lui diretta, con Istomin al pianoforte — è ancora più severa, più classica. Dovremmo concludere che solo Walter ha ragione, forse, o metterci a cercare l’esecuzione ideale? Se anche lo facessimo sarebbe fin d’ora evidente che non l’esecuzione di Lipatti otterrebbe la palma. Si deve invece parlare di letture che testimo­ niano concezioni diverse, e che, con interpreti della statura di quelli citati, raggiungono una loro coerenza intrinseca (anche l’interpre­ tazione di Benedetti Michelangeli, che è certamente quella meno mediata attraverso una consapevolezza culturale), non rapportabile al solfeggio ed a leggi fondamentali. Facciamo ancora un piccolo calcolo sulle durate proporzionali delle prime quattro note del primo tema, come sono indicate da Schumann e come sono eseguite da Lipatti. Secondo la grafia, cioè secondo il solfeggio, posto che la prima nota abbia la durata 1, la seconda ha durata 0,75, la terza 0,25, la quarta 1,25. Nell’esecu­ zione di Lipatti, alla durata 1 della prima nota corrispondono durate di 0,54 della seconda, 0,36 della terza, 1,27 della quarta. Eppure l’esecuzione di Lipatti, zoppicante secondo il solfeggio, è musicalmente perfetta, così come musicalmente perfette potreb­ bero essere altre esecuzioni, con scarti diversi da quella di Lipatti. La conclusione, che traggo senza proseguire in una più ampia analisi teorica, è che gli interpreti del nostro secolo, che si valgono del pianoforte moderno, ripercorrono la musica del passato rileg­ gendola come mito, e che interpretano quindi il Concerto di Schumann non più soltanto come testo, così come i pittori del Rinascimento non ripensavano come avvenimenti storici ma come miti perenni l’Annunciazione o la Natività o le vite dei santi. Mi sono a lungo soffermato sui primi due punti indicati da Lipatti perché il concetto di interpretazione più fedele al testo è un pregiudizio molto diffuso e perché mi è parsa opportuna una verifica sperimentale di affermazioni di principio, sulle quali si usa discutere in astratto. Il terzo dei punti indicati da Lipatti nella lettera allo studente sudafricano è in realtà molto più interessante degli altri due. Notiamo subito che Lipatti si riferisce ad un pro­ blema tecnico specifico — la differenziazione nella stessa mano —

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trascurando di mettere a fuoco, perché lo ritiene implicito, il pro­ blema più generale della differenza di tocco tra le due mani. Precisazione lapalissiana, se vogliamo, ma che credo necessaria per il lettore non esperto di tecnica pianistica. Lipatti aderisce qui ad una tendenza individuatasi da lungo tempo nei compositori e negli esecutori, e di cui abbiamo già detto parlando di Cortot. Lipatti ha dunque ben chiaro il concetto dell’esecuzione orchestrale sul pia­ noforte, intesa non come tentativo di riprodurre i timbri dell’or­ chestra, ma di rendere percepibili le strutture dell’opera, come in orchestra, mediante l’adozione di una ricca paletta timbrica. Lipatti parla di questo problema in una delle corrispondenze inviate da Parigi alla rivista Libertatea di Bucarest: «La paletta sonora di Sauer o di Paderewski è senza discussione più ristretta di quella'di un Horowitz o di un Gieseking. A questo proposito io penso che la generazione presente abbia segnato un innegabile progresso. Non c’è dubbio che essa sia stata considerevolmente aiutata dalla perfezione meccanica raggiunta dai pianoforti mo­ derni. Me ne rendo conto dal fatto che nella prima parte della Sonata di Beethoven [op. 27 n. 2] Sauer non usi mai le demi-teintes tanto care a un Gieseking e a un Kempff e persino ad uno Schna­ bel» (marzo 1939). Possiamo facilmente verificare come Lipatti, avendo individuato con estrema chiarezza una tendenza progressi­ va nell’esecuzione pianistica, cercasse di lavorare per svilupparla ulteriormente. Già l’incisione del Liebesliederwalzer, con la Bou­ langer ed un gruppo di aristocratici cantori (tra cui la principessa di Polignac) ci rivela una timbrica ricca nei bassi. Non sappiamo se fosse Lipatti che suonava la parte dei bassi, ma possiamo supporlo, proprio in ragione della tecnica raffinatissima che certi timbri ri­ chiedono. Tra i due pianisti, quello che sta ai bassi isola di più la sonorità del pianoforte da quella dell’insieme vocale, tendendo a mettere in risalto le voci invece di sostenerle e ben sapendo, evi­ dentemente, che voci tanto sottili e prive di smalto (impagabili le due donne!) non potrebbero essere sostenute dal pianoforte. Nei Valzer op. 39 troviamo talvolta — nei due Valzer in mi maggiore, n. 2 e n. 5 — un notevole gioco di timbri. Ma notiamo soprattutto la coscienza della necessità di recuperare attraverso un uso di più timbri le antiche differenze di timbro dei tre principali registri del pianoforte. Se ascoltiamo la Sonata L 23 di Scarlatti abbiamo una

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conferma delle ricerche timbriche di Lipatti, che in questo caso restano allo stato di ricerche e di scoperte, non assimilate in uno stile completamente maturo. Si osservi l’inizio, con quel suono brillante, festoso, che dà persino l’impressione di essere crescente; e si osservi come il si 1, prima nota del registro basso che venga toccata, alla nona battuta, acquisti risonanza progressivamente. Si analizzi tutta l’esecuzione, e ci si troverà di fronte ad un’interpre­ tazione estetizzante, che resta a metà tra le due possibili soluzioni del problema rappresentato dall’esecuzione di Scarlatti al piano­ forte. Nell’esecuzione di Gieseking troviamo una prima soluzione convincente: la ricerca — non estetizzante, non preziosa — di una timbrica ricca, che servisse allo scopo di far conoscere Scarlatti ad un pubblico vasto, al quale la corretta esecuzione clavicembalistica non perveniva ancora e che era spesso fuorviato da esecuzioni di tipo ottocentesco. In Horowitz troviamo un’altra soluzione: la rinuncia allo scopo culturale, non più attuale, in favore della ricerca di un universo sonoro fantastico, non riferibile ad alcuna realtà storica. L’atteggiamento di Lipatti è ancora vicino a quello di Gieseking, senza capirne le motivazioni, ma nello stesso tempo tende a quello di Horowitz, senza raggiungerne la novità creativa. E nella sua ricerca del preziosismo estetizzante troviamo una vera e propria macchia, il mi della contro-ottava che sostituisce il mi 1 indicato da Scarlatti. Lo spostamento di ottava del basso (vari altri ne troviamo nelle esecuzioni bachiane, mozartiane, schubertiane e chopiniane) è un tratto stilistico che apparenta ancora Lipatti ai pianisti dell’Ottocento. I pianisti ottocenteschi avevano inventato e conservato questo vezzo. E anche Lipatti lo conserva. Così come conserva, nella Sonata L 421 di Scarlatti, un tipo di fraseggio che sarebbe certamente stato approvato da Czerny e da tutti i teorici viennesi, ma che oggi ci sembra estraneo al melodizzare scarlattiano. Concludiamo però il discorso sulla timbrica di Lipatti. Il capo­ lavoro di Lipatti, in fatto di differenziazione timbrica generale (tra le due mani e nella stessa mano) è certamente il Corale Jesus bleibet meine Freude di Bach-Hess, che egli prediligeva e che eseguì spes­ sissimo, dal primo recital a Parigi all’ultimo a Besangon. La tra­ scrizione di Myra Hess è molto scolastica e si affida in pratica alla bellezza della musica ed all’abilità dell’esecutore, a cui fornisce uno

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scheletro, ma non un progetto di esecuzione. Lipatti, con i suoi bassi soffocati, la voce corale fermamente intensa, i contrappunti sinuosamente cantanti (con gli appoggi sui tempi deboli!), ci dà un’esecuzione che non potremmo immaginare più bella, più espressiva, più commovente. Commozione diretta o commozione indiretta, manieristica? Sono molto incerto. Lipatti, che aveva una mano grandissima (prendeva la dodicesima), elimina gli arpeggiamenti delle decime indicati dalla Hess, che sarebbero piuttosto vieux style. Ma all’ultima entrata del corale, inaspettatamente, ar­ peggia la decima della mano sinistra. È un soprassalto, un culmine di emozione. Ed è per noi, che stiamo a spiare i sintomi di evolu­ zione di uno stile, purtroppo non evolutosi perché rimasto pietri­ ficato dalla morte, un soprassalto di interesse: forse Lipatti avrebbe potuto arrivare a riproporci, manieristicamente, uno stile di esecu­ zione tramontato. Il che è in fondo, a parer mio, la vera possibilità degli interpreti che i Bach e i Mozart e i Beethoven e i Brahms non li hanno respirati con l’aria natia e non li hanno succhiati con il latte materno. Devo ancora toccare un ultimo punto, molto importante, con­ cernente lo stile di Lipatti. Lipatti, come molti pianisti della sua generazione, che dovevano tutti affrontare, almeno in prospettiva, il problema dell’incisione di dischi, della trasmissione radiofonica e — da quando, nel 1938, Pouishnov era stato per primo «televisionato» — della trasmissione televisiva, si preoccupava della corret­ tezza, del controllo costante, ma si rendeva anche conto dei pericoli che il controllo comportava. Nella corrispondenza prima citata egli dice: «... ho toccato senza volerlo un argomento delicato e perico­ loso per ogni artista, sia esso una grande stella o un semplice principiante, specialmente ultimamente, da quando la musica meccanica (radio e incisioni) ha esigenze che talvolta distolgono l’esecutore dal vero significato della sua arte. E qual è il risultato? Un’ovvia tendenza verso l’assoluta perfezione tecnica, mancante di sensibilità, mancante di élan. C’è un altro pericolo; viviamo in un’epoca nella quale, per soddisfare e attrarre un pubblico più vasto per la musica, vengono fatte concessioni, da quelli sulla pedana, sfortunatamente, non dagli ascoltatori. Una delle conse­ guenze è la mancanza di immaginazione nel mettere insieme il programma dei concerti sinfonici, in tutto il mondo. Possiamo dire

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più veridicamente che manca il coraggio di sostenere fortemente ciò che abbisogna di essere sostenuto, e non ciò che sicuramente attrae sale ricolme. Questa è la ragione per cui abbiamo oggi un pubblico quasi del tutto non interessato alle scoperte nuove e sconosciute (il sec. XVI o l’inizio del XVII potrebbero essere fonte di insospettata bellezza). La stessa cosa accade quando c’è di mezzo un qualche artista sconosciuto». Ritornerò sulla seconda parte del ragionamento di Lipatti. La prima parte spiega come Lipatti intendesse mantenere nelle sue esecuzioni, con il più alto controllo tecnico, la sensibilità e lo slancio (élan), qualità eminentemente individuali, soggettive, esistenziali. È difficile definire che cosa si intenda per sensibilità e slancio. Ma non c’è dubbio che chiunque ascolti certe esecuzioni di Lipatti — il Concerto di Schumann, il Concerto di Grieg, la Sonata op. 58 di Chopin — non può non riconoscere con ammirazione come Lipatti sapesse dare sensibilità capillare e trascinante slancio ad esecuzioni tecnicamente impeccabili (e non rifatte, non corrette in sede di montaggio: stiamo parlando di matrici di dischi a 78 giri). Lipatti aveva dunque certamente risolto il problema di un rap­ porto con un pubblico, quello dei dischi, ignoto al concertista. Ma ho notato anche che, in sala di concerto, non suscitava fanatismi alla Horowitz o alla Benedetti Michelangeli. Osserviamo dunque le sue esecuzioni registrate in pubblico: il Concerto in re minore di Bach, il Concerto K 467 di Mozart, il Concerto di Schumann con Ansermet (non con von Karajan), il recital di Besangon. Non si notano apprezzabili differenze rispetto al modo di suonare in sala di registrazione: lo stesso dominio (qualche momento di incertezza è certamente da attribuire alla malattia), la stessa sensibilità, lo stesso slancio, lo stesso ideale colloquio con l’autore ma non, a parer mio, con il pubblico. Mi pare di scorgere anche qui, e forse sbaglio, i segni di una tendenza manieristica che sarebbe maturata col tempo. Restano da trarre alcune conclusioni sulla posizione di Lipatti nella storia della cultura. Nella corrispondenza del febbraio 1939, scritta prima di iniziare la carriera concertistica vera e propria, Lipatti dimostrava di aver coscienza dello stato dei tempi e dei compiti dell’interprete che volesse indirizzare i tempi invece di subirli. Le scelte di repertorio di Lipatti, allora, per quanto possano

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essere state casuali, corrispondevano alle sue intenzioni: i contem­ poranei romeni, Stravinsky, Byrd, Hàndel, certe composizioni di Bach... Ma nel dopoguerra, quando inizia la sua vera carriera internazionale, Lipatti abbandona da un lato tutti gli aspetti meno convenzionali del suo vecchio repertorio, e dall’altro non dimostra di saper fare una scelta sostitutiva, in linea con le affermazioni del 1939. Negli ultimi cinque anni della carriera le acquisizioni cultu­ ralmente interessanti sono due sole: il Terzo Concerto di Bartók, la serie dei Valzer di Chopin. Poco, sia pur considerando che la malattia limitò le sue possibilità. Il piano di lavoro che Lipatti aveva steso per il periodo posteriore al 1950, e di cui parla lo Hoffmann, prevedeva la Sonata op. 35, i dodici Studi op. 25 e il Concerto op. 21 di Chopin. Pare quindi probabile che Lipatti intendesse prose­ guire su quelTunica scelta di fondo già effettuata, quella del re­ pertorio chopiniano, per qualificarsi innanzitutto come nuovo in­ terprete di Chopin. Non era una scelta errata, se pensiamo che proprio dopo il 1950 l’interpretazione di Chopin avrebbe assunto indirizzi nuovi con Horowitz, Rubinstein, Arrau, Solomon, e che avrebbe stimolato persino i grandi beethoveniani come Backhaus, Fischer, Kempff. Ma si trattava di una scelta sola. Un’altra scelta interessante, accennata e non proseguita coerentemente, avrebbe potuto essere quella lisztiana. In anni in cui i Concerti di Liszt erano ancora generalmente considerati musica di second’ordine, Lipatti suonava spesso sia il Primo che il Secondo, e con una serietà, una convinzione rare. Se ben ricordo, il suo attacco del Primo Concerto dava l’impressione di una toccata di Bach rivissuta da una fantasia romantica, ed io cominciai a comprendere il senso del mito bachiano in Liszt proprio ascoltando Lipatti nel Primo Concerto. Il Secondo Concerto cominciò a non parermi pacchiano, ma fanta­ sticamente, ariostescamente eroico quando lo ascoltai da Lipatti. Ma Lipatti aveva studiato il suo repertorio lisztiano prima della guerra, e dopo non lo aveva più ampliato. Dopo la guerra, Chopin lo interessava prima di tutti. La scelta chopiniana non sarebbe però bastata a qualificare veramente un interprete giovane, sulla trenti­ na, se non fosse stata accompagnata almeno da una seconda scelta, indirizzata, ad esempio, verso Bartók (e in Bartók, grande studioso del canto popolare rumeno, Lipatti avrebbe potuto trovare un’af­ finità culturale totale). È ben difficile fare supposizioni su ciò che

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Lipatti avrebbe potuto essere. Certo è che una così lucida coscienza dei problemi dell’interprete, qual’è quella rivelata da Lipatti nel 1939, non sarebbe probabilmente rimasta a lungo soffocata dalle preoccupazioni della carriera, che forse prevalsero nel periodo 1945-50. E noi possiamo veramente rimpiangere, senza ricadere nella leggenda, che la storia dell’interpretazione nella seconda metà del nostro secolo non abbia avuto tra i suoi protagonisti Dinu Lipatti.

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Il 31 agosto 1979, nel Teatro alla Fenice di Venezia, gli consegna­ rono il premio «Una vita nella musica», gli porsero insegne e sciarpa di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica Italiana, gli offrirono una medaglia-ricordo, lo festeggiarono con un concerto. Artur Rubinstein, novantatre anni e mezzo, brandì giovanilmente la preziosa coppa in vetro del Premio, si prese tranquillamente il diluvio degli applausi, si lasciò abbracciare dal presidente del Se­ nato Amintore Fanfani (latore di insegne e sciarpa), fece un di­ scorso arguto e sornione, in un italiano spagnolizzato che diventava persino una creazione. Strana cerimonia. La sala, il tavolo, la com­ punta presenza di tanti personaggi scurovestiti ricordavano la con­ segna ad Oxford delle lauree honoris causa; il nugolo dei fotografi che oscillava come uno sciame d’api intorno all’eroe della serata, la coppa, la sciarpa ricordavano la conclusione di una tappa del giro di Francia. Mancava la miss, responsabilmente sostituita dal senatore Fanfani, peraltro assai impacciato nel far calzare la sciarpona e compassatissimo nel bacio-abbraccio. Rubinstein si rimise accura­ tamente in sesto i bianchi capelli scompaginati dal poco accorto Fanfani, fece le mosse giuste, fece il discorso giusto: giusto perché la serata non diventasse né l’inaugurazione di un monumento vivente né una festa populistica. A me sembrò che la vecchia volpe, con l’istinto che l’aveva guidata per tutta la vita, avesse trovato la misura giusta per collocarsi ancora una volta al confine tra due spazi: lo spazio da professore universitario di Backhaus, lo spazio da showman cinematografico di Iturbi. Gli italiani che vanno in Spagna credono sempre che lo spagnolo sia facilissimo da capire, salvo ad accorgersi poi di non capirlo. Ma

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quando Rubinstein disse «la mia vita è stata larga», credendo che largo, in italiano, volesse dir lungo come in spagnolo, tutti intesero che cosa volesse esprimere, e capirono che quel larga, in realtà, significava qualcosa più di lunga. La vita di Rubinstein, iniziata novantatre anni e mezzo prima, era stata e lunga e larga, di una dimensione titanica da leggenda: il 28 gennaio 1886 viveva ancora Liszt, vivevano Brahms, Ciaikovsky e tanti altri personaggi che noi vediamo oggi nella lontananza senza tempo dell’immortalità. Po­ teva uno aver tirato le prime poppate in un mondo che conteneva Franz Liszt ed esser visto a fumare un sigaro, seduto a un tavolino di piazza S. Marco? Poteva esser stato registrato all’anagrafe come suddito dell’imperatore Alessandro III ed esser cittadino della na­ zione governata da Carter? Rubinstein poteva. Rubinstein viene al mondo a Lodz, nella Polonia soggetta alla Russia, settimo nato di coniugi ebrei che credevano di aver con­ cluso il loro tributo all’accrescimento dell’umanità otto anni prima, con il sesto rampollo: «... suonai il campanello al portale della vita come un invitato in ritardo e piuttosto indesiderabile», scrive Ru­ binstein nella sua monumentale autobiografia, larga e lunga come la sua vita. Il padre, artigiano tessitore che conduceva un piccolo laboratorio, si accorse delle doti musicali del figlio e, dopo un gran consiglio di famiglia, si mise in contatto con il sommo violinista Joseph Joachim che dirigeva a Berlino la Scuola Superiore di Musica: gli portò il figlio, di tre anni e mezzo, e attese il responso. Joachim riconobbe il talento del bimbo e consigliò di fargli iniziare gli studi quando avesse avuto almeno sei anni. All’età giusta Ru­ binstein cominciò dunque a studiare a Varsavia, poi ritornò a Berlino, dove Joachim gli trovò quattro persone (lui compreso), disposte a passargli una somma mensile per permettergli di vivere nella capitale, e lo affidò alle cure del professor Heinrich Barth. Pochi anni prima, come abbiamo visto, un altro piccolo ebreo polacco ma nato nella Polonia soggetta all’Austria, Artur Schnabel, era andato a Vienna per farsi sentire da Theodor Leschetitzki, il più grande didatta del mondo. Anche Leschetitzki aveva trovato tre filantropi disposti a passare un mensile al ragazzo, lo aveva fatto studiare, lo aveva fatto esordire al momento giusto. Così si com­ portò Joachim con Rubinstein: ne seguì i progressi, e quando lo ritenne preparato lo presentò in pubblico facendogli eseguire, sotto

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la sua direzione, il Concerto in la maggiore K 488 di Mozart, ma si guardò bene dallo spingerlo verso la carriera di fanciullo-prodigio. Avendo dimostrato ai mecenati che i soldi spesi per il ragazzo erano ben spesi lo lasciò alle cure pedanti di Barth,... con poca soddisfa­ zione di Rubinstein. Quando suonò sotto la direzione di Joachim, Rubinstein aveva undici anni; sei anni dopo, il 12 febbraio 1903, si presentava nella Beethoven-Saal di Berlino con un programma «da uomo» e molto impegnativo: la Sonata op. 90 di Beethoven, il Capriccio op. 76 n. 2, l’intermezzo op. 117 n. 2 e il secondo quaderno delle Varia­ zioni su un tema di Paganini di Brahms, i Davidsbùndlertànze op. 6 di Schumann, le Mazurche op. 50 n. 1 e op. 63 n. 2 e il Notturno op. 37 n. 2 di Chopin, la Rapsodia ungherese n. 12 di Liszt. Il concerto non andò un gran che bene, ma Joachim ne trasse occa­ sione per mandare Rubinstein da Paderewski, che ascoltò bene­ volmente il giovane compatriota e lo invitò a trascorrere le vacanze in casa sua. Nell’estate del 1903 Rubinstein passò così tre mesi a Morges, nella villa di Paderewski, ascoltando il Maestro e facendosi ascoltare da lui senza averne delle vere e proprie lezioni, e nell’au­ tunno si congedò, un po’ burrascosamente, da Barth. Nel 1904 Rubinstein iniziava la carriera concertistica vera e propria eseguendo a Varsavia il Concerto in re minore di Brahms e la Fantasia del giovane compositore polacco Fryderyk Harman, che dirigeva il concerto. Fino al 1910 andò avanti con gli alti e bassi di tutti i giovani concertisti, con guadagni scarsi, senza chiare pro­ spettive, accumulando lentamente esperienze... musicali e non. Nel primo volume della sua autobiografia Rubinstein divide equa­ mente il racconto tra cose della musica e cose della vita, toccando dei suoi fervidi e frequentissimi amori con la discrezione del genti­ luomo nato nel 1886 e con la disinibizione dello scrittore che si rivolge al pubblico degli anni 1970. La natura di questo mio libro mi impone di trascurare i fatti importanti e di analizzare gli acces­ sori: mi limiterò quindi a parlare delle esperienze musicali, dicendo che Rubinstein firmò un contratto da pivello — cinquecento fran­ chi al mese, più il quaranta per cento degli onorari guadagnati attraverso l’agenzia e il sessanta per cento degli altri onorari — con l’impresario parigino Gabriel Astruc, suonò spesso in Polonia, tornò qualche volta a Berlino, ed esòrdi a Parigi e in Francia, in

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Svizzera, a Londra, negli Stati Uniti (nel 1906), in Russia, a Vienna, a Roma. Il repertorio presentato da Rubinstein in quegli anni comprendeva il Concerto in sol maggiore di Beethoven, il Concerto in fa minore di Chopin, i due Concerti di Brahms, il Secondo di Saint-Saéns, musiche di Bach-d’Albert (Toccata in fa maggiore), di Beethoven (le Sonate op. 28, op. 53, op. 90), di Mendelssohn, di Chopin (tra cui le Sonate op. 35 e op. 58, la Barcarola e la Polacca op. 53, che divenne subito il suo cavallo di battaglia), di Schumann (tra cui i Papillons, gli Studi sinfonici e il Carnaval), di Liszt (tra cui il Mephisto-Walzer n. 1 e la Morte di Isotta), di Scriabin, di Szy­ manowski (tra cui le Variazioni op. 3), di Debussy, di Dukas (le Variazioni su un tema di Rameau). Rubinstein suonò anche con vari strumentisti e cantanti, eseguendo tra l’altro, a memoria, la Salome di Strauss in quelle riunioni che precedevano allora le esecuzioni pubbliche delle nuove opere e muovevano la curiosità degli ascoltatori. Nel 1910 il giovane pianista scavezzacollo decise di partecipare al Concorso Rubinstein, che in quell’anno si sarebbe svolto a S. Pietroburgo. Concorrevano, oltre al ventiquattrenne Rubinstein e al suo coetaneo svizzero Edwin Fischer, il russo venticinquenne Leo Sirota, il tedesco ventitreenne Alfred Hoehn, i russi ventunenni Alexander Borovsky e Julius Isserlis, lo svizzero ventunenne Emil Frey, il russo diciannovenne Lev Pouishnov ed un’altra deci­ na di ragazzi che non si segnalarono poi nella vita concertistica. Rubinstein ripercorre con equilibratissimo senso critico ed auto­ critico le vicende del Concorso, che fu vinto da Alfred Hoehn tra le proteste di una parte del pubblico; Rubinstein ebbe una menzione di primo grado, Borovsky una menzione di secondo grado. Perduta l’occasione di girare il mondo come Rubinstein-Preis, titolo che lo avrebbe messo al riparo e dalla routine e dal lavoro occasionale, Rubinstein riprese la sua lenta carriera. Il 19 gennaio 1911 esordì all’Accademia di S. Cecilia (l’anno prima aveva suo­ nato soltanto nel salone del conte Skrzynski), eseguendo sotto la direzione di Bernardino Molinari il Concerto n. 4 di Beethoven e il Concerto n. 4 di Rubinstein e, da solo, la Barcarola e la Polacca op. 53 di Chopin. Sempre nel 1911, volendo dimostrare a se stesso di non essere inferiore a Hoehn, che al Concorso lo aveva battuto soprattutto con una splendida esecuzione della gigantesca op. 106

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di Beethoven, Rubinstein studiò questa Sonata, che eseguì più volte in Russia ma anche a Vienna, capitale beethoveniana. Oltre a questa importante acquisizione di repertorio sono da segnalare la prima esecuzione assoluta della Sonata n. 2 op. 21 di Szymanowski (a Varsavia, il 7 maggio 1911, poi a Berlino, Lipsia e Vienna), e la prima esecuzione a Londra della Sonata n. 5 op. 53 di Scriabin, e le collaborazioni con Casals, con Ysaye, con Thibaud, con Tertis, con il Quartetto Rosé e con il London String Quartet. Nel 1915 effet­ tuò la prima delle sue innumerevoli tournées in Spagna, nel 1917 andò per la prima volta nell’America del Sud, e nel dopoguerra riprese a suonare nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti, con­ tinuando spensieratamente un’attività nella quale il pianoforte e la musica erano solo un aspetto delle gioie che il mondo può offrire a chi le sa cogliere. Fin verso il 1932, quando sposò Aniela Mlynarski, figlia di un direttore d’orchestra polacco, Rubinstein fu un pianista enorme­ mente dotato e dissipatore, un virtuoso affascinante, e in fondo un dilettante di immenso talento, ma non un protagonista di un periodo della storia dell’interpretazione eccezionalmente denso di avvenimenti, di un periodo che vide il tramonto di Paderewski, Rosenthal, d’Albert, Busoni, il dominio di Rachmaninov, Hof­ mann, Cortot, la sicura ascesa di Backhaus, Schnabel, Fischer, la stupefacente apparizione di Horowitz, la rivoluzionaria afferma­ zione di Gieseking. Il repertorio di Rubinstein si amplia con quelle composizioni che resteranno poi nei suoi programmi fin quasi al termine della carriera (dai più celebri concerti dell’Ottocento fino al Concerto n. 2 di Rachmaninov, dal Beethoven più popolare all’Albeniz di Iberia), ma include anche molta musica contempo­ ranea: di Szymanowski la Sinfonia concertante e le Mazurche op. 50, di Falla Notti nei giardini di Spagna, la Fantasia baetica e vari piccoli pezzi, di Stravinsky i Tre movimenti da Petruska, di Villa Lobos la Prole do bebé e il Rude Poema, e pagine di Debussy, Ravel, Poulenc, Busoni, Prokofiev, Medtner, Mompou, Ireland, Shostakovic, nonché di illustri sconosciuti come Gradstein e Faicevich. Di questo Rubinstein il disco e il rullo ci hanno conservato poche testimonianze. Non conosco l’incisione della Barcarola di Chopin, pubblicata nel 1928, ma conosco il coevo rullo di pianola della stessa Barcarola, nonché i rulli della Polacca op. 44 di Chopin, di El

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Albaicin di Albeniz, della Plus que lente di Debussy e della Sugge­ stion diabolique di Prokofiev; conosco poi il Capriccio op. 76 n. 2 di Brahms e il Valzer op. 34 n. 2 di Chopin, incisi il 9 marzo 1928, l’improvviso op. 90 n. 4 di Schubert, inciso il 18 aprile 1928, ed alcune pagine incise nel 1929, tra cui Sevilla e Navarra di Albeniz e La Cattedrale engloutie di Debussy. È molto poco, ma è anche abbastanza per capire qualcosa dello stile di Rubinstein verso i quarantacinque anni e per sorprendere l’ascoltatore che, in base a quanto dicevano i critici e più tardi Rubinstein stesso, si aspetta un virtuoso incontrollato e devastante. Rubinstein è invece un pianista «moderno», tanto che si capisce subito benissimo perché Stravin­ sky, prima di trascrivere per lui Petruska, gli avesse dedicato il Piano-rag-music, e perché Falla gli avesse dedicato la Fantasia baetica*. un pianista che non anticipa mai il basso rispetto alla melodia (fatto rarissimo, specie a quei tempi), che usa un rubato molto calibrato e discreto, e che bada a rendere sempre elegante­ mente nonchalant e il virtuosismo e l’espressione. I piani sonori sono molto distanziati, con la melodia in netta evidenza e con un pianissimo che può prestarsi ad effetti spaziali di remota lontanan­ za. Un brano salottiero come Sevilla viene reso con un brio, una vivacità ed un aristocratico languore ben difficilmente eguagliabili, e l’interpretazione del Capriccio di Brahms, forse un po’ troppo coquette, non sfigura di fronte all’interpretazione di trent’anni dopo. Ma già nel Valzer di Chopin troviamo una ricerca della sorpresa e della sorpresina gratuita che contrasta troppo netta­ mente con la distaccata eleganza dei tratti cantabili. Ricerca del­ l’effetto che porta Rubinstein ad inventare, nella parte centrale dell’improvviso di Schubert, il quasi sistematico trasporto del basso un’ottava sotto o a tenere gli accordi ribattuti al limite di un pianissimo lontanissimo, quasi inudibile: effetto certamente im­ pressionante, ma che non si vede come possa rientrare in una qualsiasi concezione dell’arte di Schubert. Anche le idee giuste vengono realizzate con una certa fretta. La Cathédrale engloutie dura 6’57” nell’esecuzione di Benedetti Mi­ chelangeli, 6’24” nell’esecuzione di un interprete «classico» come Gieseking, e 6’05” nell’esecuzione di un interprete notoriamente spiccio come Guida. Nell’esecuzione del Rubinstein quaranta­ treenne il pezzo dura 4’26”! È vero che Rubinstein riprende la

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scansione ritmica di Debussy, non chiaramente espressa dalla grafia e resa chiara da una registrazione di Debussy per rullo di pianoforte meccanico le cui indicazioni non sono generalmente adottate. Ru­ binstein ha certamente ragione. Ma l’esecuzione di Debussy, che non essendo concertista si faceva prendere dall’affanno e correva un po’, dura 5’04”: nella incisione del 1961, senza cambiare l’im­ postazione di fondo, Rubinstein toccherà una durata di 5’44”, dandoci l’interpretazione della Cathédrale engloutie più logica, più proporzionata, più entusiasmante che io conosca. Analogo discorso per l’esecuzione della Plusque lente, che dura 4’39” nella incisione del 1970, 3’40” nella registrazione su rullo del 1928: e anche qui l’esecuzione del 1928 è come un affrettato schizzo per il capolavoro del 1970. H «far svelto» del Rubinstein quarantacinquenne sorvola su particolari significativi già in brani come la Cathédrale engloutie di Debussy o Navarra di Albeniz o la Polacca op. 44 o la Barcarola di Chopin, e aggrava le cose quanto più il pezzo diventa complesso: il Concerto n. 2 di Chopin, inciso nel 1931, scorre con una rapidità che non pare giustificata neppure dal timore di evidenziare troppo i sentimenti, e Rubinstein sembra avviato a diventare uno Hof­ mann in ritardo sui tempi. L’impegno di assolvere a un compito affidatogli dalla Voce del Padrone, l’incisione di raccolte complete di musiche di Chopin (Mazurche, Polacche, Scherzi, Notturni), costrinse Rubinstein ad un periodo di studio intenso, che ebbe appunto inizio dopo il suo matrimonio e si prolungò fino allo scoppio della guerra. Fu allora, nel momento in cui cominciavano a sparire di scena i pianisti di lui poco più anziani — i Rachmaninov, i Cortot, gli Hofmann — che Rubinstein non perdette l’autobus e non si lasciò soprawanzare dai pianisti di lui più giovani — i Gieseking, gli Horowitz — che stavano raggiungendo i massimi vertici delle quotazioni artistiche e di onorario. Un’esecuzione a New York del Concerto di Grieg, nel 1939, ci riporta al momento in cui Rubinstein poneva consapevolmente la sua candidatura per un... seggio nel concilio degli dei. Purtroppo abbiamo solo la registrazione del primo tempo del Concerto, che basta però a farci capire parecchie cose. Rubinstein suonava ancora con grande im­ peto, e perciò gli scappavano alcune — non molte — note sba­ gliate; questo impeto un po’ generico diventa però, nella Cadenza,

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il veicolo di una superba progressione fino al punto culminante, con una proporzione tra lo sviluppo del tema, le folate degli arpeggi e il turbinoso picchiettare del tremolo che suscitano alla mente dell’ascoltatore immagini naturalistiche: Grieg sotto le dita di Ru­ binstein si rivela come uomo di teatro, alla Bjornson. Il tempestoso romanticismo nordico che balza fuori da questa interpretazione cancella l’immagine tradizionale del poeta elegiaco, e ci lascia la curiosità di sapere come Rubinstein interpretasse il secondo tempo e come proporzionasse allora, con il primo tempo, il finale. Allora, perché l’interpretazione che più tardi consegnò al disco è certa­ mente più matura, ma anche più calma e più tradizionale. Nell’in­ terpretazione del 1939 c’è un po’ di Hollywood, un po’ di Bette Davis e Claude Rains, c’è una recitazione un po’ sopra le righe, che è comunque un raro documento dell’originalità e della maturazio­ ne di uno tra i maggiori pianisti del secolo. Le incisioni in studio, più meditate, definiscono ancor meglio la faticosa «rimonta» di Rubinstein, tutto teso a diventare protago­ nista e della vita concertistica e della storia dell’interpretazione. Se si ascoltano in successione il Concerto n. 2 di Chopin, inciso nel 1931, e il Concerto n. 1, inciso nel 1937, ci si accorge bene che qualcosa sta cambiando, che Rubinstein ha cominciato a meditare, scartare o riesprimere in modo originale tutto quello che aveva fino ad allora spensieratamente assorbito. Non si tratta affatto di un trapasso improvviso, di una caduta sulla strada di Damasco; si tratta di un cammino lentissimo, durato un buon quarto di secolo, alla conclusione del quale — chi ricorda gli stupefacenti concerti di Rubinstein alla metà degli anni 50 capirà quel che intendo dire — troviamo un interprete che ha scoperto se stesso e che ci propone una concezione totale non solo dell’arte pianistica, ma della musica e persino della vita. Ciò che verso il 1955 colpì prima di tutto la gente del mestiere fu la novità della tecnica. Rubinstein è un pianista «naturale»: una mano larga e muscolosa, che afferra o maneggia con estrema facilità i tasti e che può agevolmente cavare dal pianoforte suoni dinami­ camente molto differenziati. Con questa mano felice il giovane Rubinstein poteva tener testa, quanto ad agilità e potenza, a chiunque, poteva, in un pezzo di alta bravura come la Valse-Caprice di Anton Rubinstein, essere più eccitante persino di Josef

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Hofmann, e nelle ottave poteva rivaleggiare con un fenomeno come Horowitz (si veda la sua prima incisione del Concerto n. 1 di Ciaikovsky, quella con Barbirolli). Ma mentre Horowitz, lavoran­ do sulla tecnica con l’impegno e con la meticolosità di un atleta, manteneva intatte le sue naturali doti di acrobata, lo spensierato Rubinstein andava perdendo, col progredire dell’età, la freschezza tecnica. Di note ne aveva sempre sbagliate molte, ma sui sessan­ tanni ne sbagliava moltissime, e per di più non conservava sempre la pastosità, la piacevolezza, la estrema bellezza del suono che era stata, soprattutto negli anni 30, una sua caratteristica. La sorpresa del 1955 fu che Rubinstein utilizzava razionalmente, con un pre­ ciso rapporto di sforzo ed effetto, la forza muscolare, e che giocava non solo più sulla dinamica, ma sulla timbrica, con una raffinatezza mai prima di allora posseduta e prossima a quella dei maghi del timbro come Horowitz o Benedetti Michelangeli. Ho parlato di pianista «naturale» e sarà bene che precisi questo concetto. Quando Artur Rubinstein cominciò a suonare in pub­ blico, e cioè agli inizi del nostro secolo, i pianoforti erano molto più sonori dei pianoforti del tempo di Chopin, ma anche le dimensioni delle sale si erano fatte più vaste, e la generazione dei grandi pianisti nati intorno al 1860 aveva messo a punto una tecnica di formazione del suono che teneva conto e delle potenzialità del pianoforte e dell’ampiezza degli ambienti. Si dice spesso che Ru­ binstein fosse nato per suonare il pianoforte: era nato, in realtà, per suonare il massiccio pianoforte di due metri e ottanta di lunghezza in sale di cinquemila posti. La sua sonorità — di lui, specialista di Chopin — non era certamente «chopiniana», almeno a quanto si può ragionevolmente supporre leggendo le impressioni di con­ temporanei di Chopin, ma la sua tecnica del suono gli permetteva di far arrivare alle orecchie anche del cinquemillesimo spettatore la musica di Chopin senza alterarne le proporzioni: il pianissimo, il velluto di Chopin restava tale senza che nessuno, in sala, dovesse mai tendere le orecchie, il fortissimo, pur imponente, non diven­ tava schiacciato o inelegante. Sui settant’anni Rubinstein aveva raggiunto il massimo raffinamento della sua tecnica del suono e del suo dominio della materia musicale. Quel tanto di spensierata­ mente trascurato che aveva accompagnato i primi trent’anni della sua carriera era stato censurato e quel suo modo estroverso e

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cordiale di affrontare il pubblico era diventato il parlare semplice e supremamente comunicativo di chi tratta un argomento di cui ha sviscerato tutti i segreti. Non c’era una nota che non si sentisse con chiarezza, non c’era fraseggio che non rientrasse nella logica for­ male della costruzione sonora, non c’era insomma alcuna dicoto­ mia tra l’intenzione e la pittura sonora. Si può cogliere benissimo il magistero timbrico di Rubinstein nella sua incisione di dodici Visioni fuggitive di Prokofiev. Ma è soprattutto in Chopin che si riconosce la profonda evoluzione dello stile. Dei Notturni di Chopin esistono tre incisioni di Rubinstein: una del 1937, una della metà circa degli anni 50, una del 1965. La differenza non è grandissima in Notturni come quelli dell’op. 9 o dell’op. 55, è abissale in Notturni come l’op. 32 n. 1 o l’op. 62 n. 1. Nella terza versione dell’op. 62 n. 1 la sonorità è molto diversa, specialmente nell’ultima pagina: più ovattata, più spenta, meno «bella», e capace in compenso di condurre l’interiorizzazione poe­ tica della composizione ad un grado di malinconia cosmica che prima non era stata neppure sfiorata. Altrettanto interessante è il paragone tra le tre versioni del recitativo finale del Notturno op. 32 n. 1: tutto quel che prima era gesto oratorio di drammatica evi­ denza scompare, per lasciar affiorare una tragicità ben più profon­ da e terribile. La connessione tra lo stile pianistico e la concezione generale dell’arte di Chopin è evidente: un arricchimento ed una estrema differenziazione della sonorità sono l’aspetto stilistico di una sco­ perta: la scoperta di una emotività e di una varietà di sentimenti molto più complesse di quanto Rubinstein non avesse precedentemente supposto. Rubinstein non va così lontano, su questa strada, come Horowitz, che ritorna a considerare quegli aspetti di Chopin sui quali puntavano più volentieri gli interpreti di fine Ottocento, gli aspetti che la reazione antiromantica aveva definito non-sani, isterici, morbosi. Il Notturno op. 72 n. 1 segna indubbiamente il punto di maggior divergenza tra Rubinstein e Horowitz: il giova­ nile, capriccioso, «irrazionale» umor tetro del Notturno viene cor­ retto, viene virilmente contenuto da Rubinstein, mentre Horowitz gli si abbandona completamente, deciso a berlo fino all’ultima stilla. In questo caso, secondo me, Horowitz penetra più a fondo nel mondo poetico di Chopin, scoprendovi e accettando senza

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paura aspetti conturbanti di fronte ai quali Rubinstein si arresta. Rubinstein non può del pari accettare certi aspetti frivoli di Cho­ pin: in molti Valzer, nella Tarantella e nel Bolero, Rubinstein sente sì di trovarsi in un angolo speciale della poesia di Chopin, e affina sì la sonorità e ingentilisce la dizione, ma senza poter raggiungere il suono secco e asprigno e l’eleganza veramente frivola di Cortot. Ma non appena il dolore di Chopin tende a trasformarsi, da bruciante confessione in coscienza di un dolore universale, Rubinstein si lascia indietro Horowitz, può anche raggiungere e talvolta superare Cortot là dove alla frivolezza s’unisce l’affettuosità intima, e in certi casi può competere con un poeta visionario come Richter quanto a varietà di tinte e a sottilissima vibrazione di stati d’animo. Quando si comincia a parlare dell’interprete Rubinstein si casca dritto dritto nel binomio Chopin-Rubinstein. È inevitabile, e non tanto perché Rubinstein sia l’interprete chopiniano «definitivo», quanto perché, tra gli interpreti della sua generazione, egli ha soprattutto e più di tutti approfondito Chopin: «Vedete, si fa in questo campo [l’interpretazione] una specie di divisione del lavoro: una spartizione un po’ tacita, che si fa da sé», diceva con ragione Igor Markevitch in un’intervista. La generazione alla quale appar­ tiene Rubinstein aveva di fronte a sé il problema storico di rinno­ vare l’interpretazione uscendo dalla tradizione che si era formata con Liszt, Anton Rubinstein, Bùlow, e che si era stratificata con i loro allievi. La chiave di lettura che questa generazione trovò, dopo la rottura iconoclastica di Busoni, fu quella neoclassica, storicistica, mitica: lettura filologica dei testi e lettura storica dei loro presup­ posti culturali per arrivare alla riscoperta dei miti. Tutti i più importanti pianisti di questa generazione avevano in repertorio, in maggiore o minor misura, tutta la letteratura da Bach a Brahms; tutti videro in Brahms la conclusione di un’epoca iniziata con Bach e tutti furono, di quell’epoca, interpreti veri e profondi. Ma la «divisione del lavoro», di cui parla così acutamente Markevitch, ci fu: Schnabel fu l’interprete sommo del Mozart delle Sonate, di Beethoven e di Schubert, Backhaus fu interprete di Beethoven e di Chopin, Fischer di Bach e del Mozart dei Concerti, Rubinstein di Chopin, Petri di Liszt. Solo che Rubinstein iniziò più tardi degli altri, proseguì quando il neoclassicismo aveva esaurito la sua fun­ zione, e lo oltrepassò.

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Tra il *30 e il ’40 — riduco schematicamente, per comodità e rapidità di esposizione, una realtà molto complessa e intricata — Paderewski e Rosenthal erano i maggiori esponenti di uno stile di interpretazione chopiniana ormai storicamente superato, Cortot e Rachmaninov rappresentavano due diverse tendenze che avevano appena oltrepassato l’apogeo, Backhaus e, in minor misura, Hof­ mann e Godowsky rappresentavano la tendenza neoclassica, la più attuale e quella in via di maggior sviluppo. Rubinstein, in quel momento, era ancora un eclettico: risentiva talvolta della estrema tensione espressionistica di Rachmaninov, talvolta delle asprezze cubistiche di Cortot, talvolta del costruttivismo di Backhaus, e risentiva egualmente della magniloquenza di Rosenthal e delle forzature provocatorie di Hofmann. L’esperienza neoclassica trovò negli anni 40 il suo maggior esponente in Dinu Lipatti, con il quale si concluse. Rubinstein incise allora i Preludi e la Sonata op. 35, dimostrando di risentire nei Preludi l’influenza di Cortot, e di non avere in sostanza oltrepassato l’eclettismo. Il superamento del neoclassicismo avvenne dopo il 1950 per opera, inizialmente, di Backhaus, poi di Horowitz, ed infine di Rubinstein. Le interpretazioni chopiniane di Rubinstein hanno dunque il valore di una vasta sintesi storica, nella quale conflui­ scono esperienze di molti interpreti. Ho parlato poc’anzi dell’e­ clettismo di Rubinstein: eclettismo e non sintesi perché, secondo me, i modelli suggeriti da altri interpreti venivano da Rubinstein imitati senza trasformarli, e davano origine a forti disuguaglianze di stile. Nel Rubinstein maturo l’atteggiamento eclettico permane ancora come punto di partenza, e cioè come curiosità vivissima per tutto ciò che avviene nel mondo dell’interpretazione, e non più come punto di arrivo, perché tutto quel che prende da altri, Ru­ binstein lo fa suo, potentemente suo. Sfilano così nello stile di Rubinstein, catturati e fatti propri come le mogli di Barbablù, Rachmaninov e Cortot, Godowsky e Lhevinne, Koczalski1 e Ho1 Raoul Koczalski, polacco, di un anno più anziano di Rubinstein, allievo di Anton Rubinstein e dell’allievo di Chopin Carl Mikuli, si pose come rappre­ sentante di una tradizione autentica e fu l’unico pianista della sua generazione che tentò una ricostruzione filologica dello stile chopiniano, in polemica con la tradizione recente rappresentata dagli ultimi allievi di Liszt. Artista scrupoloso

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rowitz, persino interpreti di trentanni più giovani come Richter e Lipatti. Anche da un musicista per il quale provava una fiera antipatia personale, Josef Hofmann, Rubinstein prende qualcosa. Hofmann era un interprete chopiniano disuguale, e persino assurdo, in certi momenti. Ma la sua interpretazione della Sonata op. 35, ad esempio, è sorprendentemente spoglia dell’usuale vir­ tuosismo barocco e dell’usuale instabilità emotiva, e giunge ad un grado di interiorizzazione poetica e di essenzialità espressiva vera­ mente eccezionali. Rubinstein non si lascia sfuggire il valore storico dell’interpretazione di Hofmann e ne segue da vicino l’esempio. Hofmann era un interprete di grandissimo talento, e ciò che di lui non ci convince non dipende tanto, come abbiamo già visto, da insensibilità o da superficialità sue, quanto dalla difficilissima po­ sizione storica di musicista che inizia la sua attività quando tut­ ta un’epoca si sta concludendo e che si ribella alla tradizione senza riuscire a svincolarsene completamente perché in essa si è formato. Il Rubinstein maturo, al contrario del Rubinstein anni trenta, non si riallaccia più, genericamente, a Hofmann, ma solo agli aspetti di Hofmann che rappresentano conquiste storicamen­ te nuove. Forte di questa sua conquistata capacità di sintesi, Rubinstein può persino rifarsi allo stile di quegli interpreti tardoromantici, rimasti interamente fedeli alla tradizione contro la quale Hofmann aveva combattuto: non interessa a Rubinstein l’estrema e acritica immediatezza espressiva che, come ho detto, viene riproposta in termini moderni dal solo Horowitz; Rubinstein sa invece ripro­ porre, del tardoromanticismo, la monumentalità eroica. Il con­ fronto fra la prima e l’ultima versione della Polacca op. 53 è del massimo interesse. La prima versione, pubblicata nel 1936, è ge­ nericamente routinière: la velocità adottata, in riferimento al me­ tronomo, è di circa 116 nell’introduzione, 100-104 al tema princi­ pale, 112-116 al famoso passo d’ottave, 80 circa nell’episodio pre­ e onestissimo, Koczalski contribuì a far superare le concezioni critiche di fine Ottocento e, pur dal limitato punto di vista del filologo, propose modelli di fraseggio che vennero ripresi da altri: compreso Artur Rubinstein, il quale non manca tuttavia, nell’autobiografia, di comprendere Koczalski tra i non pochi «antipatici» a cui non risparmia botte in testa.

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cedente la ripresa, 116 nella coda; nell’ultima versione le velocità sono, rispettivamente, 100 circa, 80-84, 88-92, 72, 92. La riduzione della velocità è molto sensibile, ed è quindi evidente la completa rinuncia all’esibizionismo virtuosistico, perché, se a 112-116 il pas­ so d’ottave è praticabile da non molti pianisti, a 88-92 è praticabile da moltissimi, anche dagli allievi. Le velocità che Rubinstein adotta nell’ultima versione sono all’incirca quelle adottate da Paderewski in un disco del 1937: 100, 84-88, 100, 88, 88. Già qualche pianista neoclassico, come Stefan Askenase, aveva avuto il coraggio di ritornare alla antivirtuosistica velocità di Paderewski. Rubinstein, però, modifica radicalmente, oltre alla velocità, il tipo di suono, suonando anche di forza e usando di continuo il pedale di riso­ nanza. L’effetto è straordinario. Mentre con Askenase avevamo una buona esecuzione non virtuosistica, adeguata all’antiretorica del neoclassicismo, con Rubinstein abbiamo un’esecuzione che travalica oltre i canoni dell’interpretazione chopiniana elaborati dal tempo e ripropone e impone un nuovo tipo di eroicità romantica, che nel vecchio Paderewski ci faceva già un po’ sorridere e che credevamo liquidata per sempre. Il ripensamento dello stile di Paderewski si verifica anche nelle Polacche op. 26 n. 2 e op. 40 n. 1. È notevole soprattutto, perché rara in Rubinstein, l’espressione di angoscia della Polacca op. 26 n. 2; il riallacciamento a Paderewski è evidente, ma nello stesso tempo la modernità di Rubinstein si manifesta in modo inequivo­ cabile, perché la cupa, plumbea sonorità dell’inizio, che Paderew­ ski otteneva aggiungendo un raddoppio all’ottava al basso, Ru­ binstein l’ottiene col solo tocco e con il pedale, senza modificare la scrittura di Chopin. Per questo aspetto, Rubinstein ha assorbito la lezione del neoclassicismo, che vieta di manomettere i testi. Se per il rispetto del testo — assoltogli qualche peccatuzzo — Rubinstein può essere considerato un neoclassico, il suo neoclassicismo resta però sempre di superficie: manca in Rubinstein la raffinata lettura analitica, manca la sorpresa della scoperta delle microstrutture, che è invece la prerogativa delle intepretazioni chopiniane di Lipatti o di Backhaus. In Rubinstein si trovano raffinatezze di lettura vera­ mente sorprendenti solo nella realizzazione ritmica del secondo tema della Ballata op. 47 e nella realizzazione della indicazione agitato. Si tratta di eccezioni e, per esser proprio sincero, non mi

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stupirei affatto se Rubinstein avesse imitato questi particolari da qualche interprete che non conosco. I pianisti che, come s’è visto, Rubinstein ha presenti sono quasi tutti slavi. La sintesi storica che Rubinstein opera riguarda quindi la tradizione slava dell’interpretazione di Chopin più che le tradizioni occidentali (tedesca e francese). E anche all’interno della tradizione slava Rubinstein opera una scelta, che esclude certi aspetti estremi dell’arte di Chopin, messi in luce invece, per esempio, da Rach­ maninov e da Horowitz (per non parlare di un «estremista» come Sofronitzki, di cui Rubinstein non parla nell’autobiografia e che quindi, probabilmente, non conobbe). Senza dubbio c’è qualcosa di Chopin che Rubinstein non sa cogliere o che, più probabilmen­ te, non può accettare. Ma, ciò malgrado, Rubinstein resta secondo me l’interprete di Chopin più completo che sia apparso nel nostro secolo: non il più geniale, ma il più completo, sì. Completezza che, proprio perché arrivata molto tardi, non fu poi allargata da Rubinstein in altre direzioni. Purtroppo, Rubinstein abbandonò il repertorio contemporaneo senza aver inciso pagine nate praticamente sotto le sue dita, come la Sonata n. 2 di Szyma­ nowski, il Petruska di Stravinsky, il Rude Poema di Villa Lobos, non ritornò sulla Sonata op. 106 né affrontò le ultime tre Sonate di Beethoven, non ritornò sui Davidsbùndlertanze di Schumann. Le sue poche incisioni di musiche di Debussy ci dicono che avrebbe potuto essere un interprete debussiano illuminante; al lato oppo­ sto, le incisioni dei primi due Concerti di Beethoven e di alcuni Concerti di Mozart dimostrano una proprietà stilistica, rara in un pianista del suo tipo, che avrebbe potuto essere sviluppata. Nep­ pure Schubert, Schumann e Liszt furono da Rubinstein indagati a fondo, e Weber non fu da lui neppur sfiorato. Una miracolosa interpretazione del Minuetto della Sonata in sol maggiore (incisio­ ne del 1936) lascia intrawedere un sommo interprete di Schubert, che le successive incisioni della Fantasia op. 15 e della Sonata in si bemolle maggiore non confermano. Rubinstein coglie come pochi altri gli aspetti più estroversi dell’arte di Liszt (per esempio, nel Concerto n. 1, nelle Rapsodie ungheresi n. 10 e 12, nella Valse-Im­ promptu, nel Sogno d'amore, che già nel 1935 veniva da lui inciso in un’interpretazione di favolosa forza emotiva); ma il demonismo lisztiano (Mephisto-Walzer, Sonata) lo lascia indifferente. Certe sue

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interpretazioni brahmsiane (le Ballate op. 10, persino una pagina allucinata come l’intermezzo op. 118 n. 6) sono esemplari; ma la sua muscolosa e radiosa esecuzione del Concerto in si bemolle maggiore non si affaccia sugli abissi che Fischer e Backhaus, in modo opposto, sapevano vedervi. E delle sue esecuzioni schumanniane solo il Carnaval e gli Studi sinfonici si fanno ricordare tra le interpretazioni che rivelano aspetti profondi delle opere. Gli Studi sinfonici — il disco fu pubblicato nel 1980 — rappre­ sentarono una grandissima sorpresa dopo la pubblicazione, ante­ riore di qualche mese, della Fantasia. L’incisione della Fantasia risaliva al 1965 e la sua pubblicazione era stata ritardata da dubbi di Rubinstein. Dubbi fondati. Affrontando a ottant’anni la Fantasia, Rubinstein sentiva tutta la responsabilità che gli competeva e in­ dossava un abito di riflessione, di meditazione, di ricerca: atteggia­ mento che impone rispetto e che dà la misura della sua grandezza, ma che non basta a fargli raggiungere risultati di rilevanza storica pari, per limitarci ai pianisti della sua generazione, a quelli di Fischer o di Backhaus. Ciò che soprattutto si nota, in un’interpre­ tazione piena di esitazioni e di dubbi, è la generale lentezza dei tempi e, in alcuni episodi, un timbro opaco e spento. Lentezza che non sembra dovuta alla scoperta di ricchezze inesplorate, timbrica che, a parer mio, non nasce dalla scrittura di Schumann ma viene ripresa da Chopin. Perciò la Fantasia mi pare come una tra le cose meno felici di Rubinstein, e tuttavia questa sua interpretazione, proprio in ragione della sua mediocre riuscita, è una testimonianza di commovente moralità artistica, quale le incisioni degli anni 20 non avrebbero lasciato presagire. Negli Studi sinfonici, pubblicati in disco da un’esecuzione alla Carnegie Hall di New York del 16 novembre 1961, Rubinstein ritrovava invece l’essenzialità di un momento storico straordinario: il superamento della concezione classica della sonorità pianistica. E il sinfonico degli Studi diventava per lui l’occasione di ricapitolare le sue più approfondite ricerche di pianista, quelle del decennio precedente, che avrebbero segnato le sue interpretazioni chopiniane degli anni 60. Nel Carnaval, come ho già detto, Rubinstein sa riproporre in termini non più di attua­ lità ma di mito gli spiriti di battaglia dello Schumann ventitreenne e, più in generale, la fede rivoluzionaria dei protagonisti del Vorm’àrz, del periodo che precede i moti del 1848. Altrove i miti

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eroici di Rubinstein appaiono riduttivi dell’arte schumanniana ri­ spetto alla tensione di altri interpreti: la febbrile inquietudine che Horowitz trova in Traumeswirren diventa agitazione festosa in Rubinstein, l’angoscia che con Arrau pervade In der Nacht è in Rubinstein empito passionale. Un confronto tra il modo in cui Backhaus, a ottantacinque anni, e Rubinstein, a novant’anni, suo­ navano Warurn? è indicativo di un atteggiamento spirituale che, partendo da una radice comune, si diversifica profondamente in senso stilistico. Per entrambi il Warunrì (Perché?) del titolo è privo di inquietudine, sereno: un Perché che è domanda ma anche ri­ sposta. Ma, mentre Backhaus lo scandisce dolcemente, mormo­ rando, con un suono liederistico, Rubinstein lo canta a piena voce, appoggiando i suoni come un tenore d’opera e creando un plastico altorilievo là dove Backhaus delinea tutt’al più le figure. Anche i bassi sempre perfettamente a piombo di Rubinstein contribuiscono a rendere fermo e preciso l’insieme, mentre i bassi anticipati e più lievi di Backhaus tendono a dare un’immagine più sfumata e sfuggente. Si direbbe che entrambi guardino con tranquillità a un mistero che potrebbe anche essere pauroso: Rubinstein con gli occhi bene aperti, Backhaus con gli occhi socchiusi. Tra i due, Backhaus possiede, a parer mio, una forza di coinvolgimento molto maggiore. L’alternativa a questo atteggiamento sarebbe stata l’interpreta­ zione di Paderewski, sentimentalmente trepida ed esitante. Ma Rubinstein, che può accettare Paderewski là dove lo sente virile e forte, non lo segue invece là dove lo vede smarrirsi nel sentimen­ talismo. Né Rubinstein è in grado di reagire al sentimentalismo con l’ironia. Nella autobiografia dice, parlando di Berlino e degli inizi dei suoi studi con Barth: «Purtroppo, Ferruccio Busoni era assente, in tournée di concerti, e questo fu un brutto colpo per la mia carriera. Busoni era forse la sola persona che avrebbe potuto indi­ rizzare il mio talento verso una migliore direzione. Era un uomo di larghe vedute, sia sul piano artistico che culturale, ed un uomo sinceramente pieno d’umanità». Più volte, nella autobiografia e altrove, Rubinstein professa poi per Busoni una viva ammirazione. Mi pare però che Rubinstein fosse attratto verso Busoni dal fascino che esercitano le personalità opposte, e dubito che sotto la guida di Busoni la sua personalità si sarebbe sviluppata in modo diverso. Lo

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spirito di Busoni è profetico sì, ma critico e negativo rispetto alla società contemporanea; Rubinstein è invece immerso nella vita del mondo ed irradia la forza dei condottieri, non dei profeti. E se in Chopin o in Schumann o in altri non coglie qualcosa è perché, come dicevo prima, quel qualcosa non lo accetta. Nel suo discorso di Venezia disse anche: «Molti avrebbero meritato il Premio, ma sono morti». Ed aggiunse: «Non è colpa mia se sono qui», ed era evidente che qui non significava il Teatro La Fenice. Poi concluse: «Ho intenzione di restare ancora, di non arrendermi». Ed è in questa sfida alla morte che si chiarisce Parte di Rubinstein, ed è in questo aspetto del suo esser uomo che l’aver vissuto quasi cent’anni è divenuto il suo capolavoro d’artista.

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Ho citato Heinrich Neuhaus, nato nel 1888, tra quei grandi didatti russi che non spiegano Tapparizione dì un Sofronitzki, nato nel 1901. Sofronitzki, che mi pare sia il più personale tra gli interpreti russi del periodo che corre da Rachmaninov a Richter, è russo fino alle midolla, immerso completamente in quella avventura spiri­ tuale, il misticismo scriabiniano, che conclude FOttocento russo e che rappresenta la sublimazione del Romanticismo. Sofronitzki non ha in realtà seguaci e il suo fallimento come insegnante testi­ monia forse la sua mancanza di capacità pedagogiche, certamente la sua inattualità di uomo di cultura. Neuhaus è invece colui che rappresenta tra le due guerre la didattica e la cultura russe nel rapporto con F Occidente dopo la scomparsa di Anton Rubinstein e nella nuova realtà sovietica. La formazione di Neuhaus è comples­ sa: figlio di un insegnante di pianoforte tedesco che aveva studiato con Hiller e della sorella di Felix Blumenfeld (il maestro di Horo­ witz), cugino per parte di madre di Karol Szymanowski, Neuhaus si forma inizialmente nel clima della cultura russa guidata da Scria­ bin. Ma poi si reca a Berlino dove studia con Barth e, come Szymanowski, comincia a guardare con altri occhi alla cultura tedesca dalla quale proviene suo padre. La Sonata n. 2 di Szyma­ nowski rappresenta il momento del passaggio da concezioni scriabiniane ad una concezione della forma che risente della lezione di Reger. Per Neuhaus, a quanto racconta Artur Rubinstein, la Sonata n. 2 di Szymanowski fu uno choc da lasciarci quasi la pelle.... Nel gennaio del 1912 a Berlino, il giorno dopo la prima esecuzione della Sonata n. 2 — tenuta da Rubinstein — Rubinstein e Szyma­ nowski avevano appuntamento con Neuhaus, che non si fece ve­

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dere. Alla pensione dove Neuhaus abitava trovarono un biglietto in cui l’amico comunicava loro che, avendo capito di non poter mai diventare un compositore bravo quanto Szymanowski e un pianista bravo quanto Rubinstein, aveva deciso di abbandonare volon­ tariamente questa valle di lacrime. Il luogo scelto per la dipartita era la rinascimentale amatissima Firenze, verso cui Neuhaus s’av­ viava in tutta fretta. Inseguito in treno da Szymanowski e Rubin­ stein, racconta Rubinstein, Neuhaus fu da essi trovato in un lettino di un ospedale di Firenze, dov’era stato ricoverato dopo un mal riuscito (suicidariamente) tentativo di aprirsi le vene Svaporatagli la doppia disperazione di non poter attingere alle vette di Szymanowski e di Rubinstein, Neuhaus trovò il maestro che faceva per lui in Leopold Godowsky, con il quale studiò a Vienna dal 1912 al 1914. Come ho detto a suo tempo, Godowsky, dopo aver toccato un culmine senza pari di virtuosismo stava scoprendo l’ascesi neoclassica dell’analisi minuziosa e della rinuncia all’effetto plateale. Neuhaus si votò a Godowsky, di cui parla con profondissima devozione nel suo libro sulla didattica e, ritornato in Russia, cominciò ad insegnare e continuò per quasi cinquant’anni, pur svolgendo anche attività concertistica. Parrebbe che il maggior merito del Neuhaus concertista consi­ stesse nella sua opera di diffusione in Unione Sovietica delle musi­ che di Debussy. Non abbiamo le sue interpretazioni di Debussy, ma solo alcune Sonate di Beethoven, il Concerto n. 1 di Chopin, le Visions fugitives di Prokofiev ed alcune registrazioni di musiche di Chopin e di Scriabin, per ora non ancora pubblicate. Ascoltando Neuhaus in un brano tra i suoi prediletti, il Concerto n. 1 di Chopin, si avverte tutto il lavorio intellettuale dell’uomo colto, ma si sente anche un risultato fortemente frenato da limiti e da timi­ dezza tecnica. La correttezza che nasce da rinuncia al rischio è

1 Non rispondo, s’intende, della veridicità della storia. In un libro, che ho già citato parlando di Horowitz e che citerò ancora parecchie volte, Neuhaus dice di aver studiato la Sonata n. 2 di Szymanowski e di esser rimasto soddi­ sfatto della sua esecuzione: «... dovetti eseguire la Seconda Sonata di Szyma­ nowski in un concerto di sue composizioni, a Vienna nel 1913, esattamente diciannove giorni dopo aver avuto la musica, e la eseguii piuttosto bene, malgrado questa composizione sia molto difficile e complessa».

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sempre raggelante, come ben sa Horowitz, e la paura è cattiva consigliera. Ma anche il lavoro intellettuale di Neuhaus manca secondo me di coraggio perché nasce più da informazione che da intuizioni creative. Neuhaus non era quindi il didatta, alla Liszt o alla Tausig o alla Anton Rubinstein o alla Busoni, che potesse proporre se stesso come esempio di strumentista, di creatore di sonorità, e come originale espositore della storia. E quindi, così come Leschetitzld aveva avuto tra i suoi allievi due tipi opposti come Paderewski e Schnabel, tra le centinaia di allievi che furono da lui guidati Neu­ haus potè contare anche due personalità completamente opposte come Gilels e Richter. Nel volume già citato Neuhaus dice: «Quando Gilels studiava con me la Rapsodia spagnola di Liszt sempre mi capitava di pensare che non potevo eseguire le ottave così velocemente, così brillantemente e con tale forza come poteva far lui e, di conseguenza, mi domandavo se veramente doveva studiare con me o non piuttosto con un pianista (non facile a trovarsi, purtroppo!) che potesse eseguire tali cose anche meglio di lui. La mia integrità professio­ nale, il ragionevole pensiero di un esecutore e non solo di un insegnante scacciarono questi dubbi, perché a parte le ottave e un bel po’ di cose ancora (ognuno sa che cos’è “ancora”: tempera­ mento, ritmo, tremenda forza di volontà, resa intenzionale, “pe­ netrazione” e brillantezza virtuosistica, bel suono, ecc.) c’era molto che volevo dire a Gilels sull’interpretazione e sul contenuto di questa Rapsodia, e trovai giustificazioni sufficienti per continuare a lavorare con lui». Di questo Gilels che poneva al suo maestro un caso di coscienza, e che nel 1938 vinse trionfalmente il Concorso Regina Elisabetta di Bruxelles, abbiamo alcuni dischi. Il virtuosismo, in brani come la Toccata di Schumann o la Rapsodia ungherese n. 9 di Liszt è veramente impressionante per velocità, forza, controllo della so­ norità: Gilels riesce a scandire, in successioni straordinariamente rapide, suoni straordinariamente voluminosi dalle vibrazioni straordinariamente regolari. Non alto di statura, robusto, con leve corte, mosse da un sistema muscolare scattante e possente, Gilels era come un torello di esplosiva potenza e suonava con una facilità e con una spavalderia che spiegano bene l’ammirazione entusiasta,

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ad esempio, di un Rubinstein. Ma quei dischi ci dicono anche che Gilels era un interprete tradizionalista e che, o per scelta propria o guidato da Neuhaus, riproponeva un tipo di virtuoso in fase di estinzione, addirittura alla Rosenthal. La parafrasi ipervirtuosistica di Godowsky su una Giga di Lulli, che Gilels esegue del resto stupendamente, non aveva più ragione di essere negli anni 30, e la Ballata n. 1 di Chopin è affrontata con una foga travolgente ed autenticamente eroica che appare però storicamente in ritar­ do rispetto al manierismo di Solomon. L’isolamento politico dell’Unione Sovietica negli anni 30 e la rottura dei rapporti culturali con l’Occidente negli anni 40 sono probabilmente la causa di un certo anacronismo che si scorge chiaramente nelle interpretazioni di Gilels, sia in quelle del 1934-38 che in quelle del 1950-55. Esecuzioni nello stesso tempo virtuosistiche e sentimentali delle Sonate di Scarlatti, come quelle di Gilels, appartengono stilisticamente alla vecchia generazione e non alla nuova dei Gieseking e delle Haskil, e il sanguigno virtuosismo con cui Gilels rende la Sonata op. 2 n. 3 di Beethoven è provincialistico rispetto al supre­ mo dosaggio di smaltate sonorità che Benedetti Michelangeli già sapeva sfoggiare nel 1943. Nei primi venticinque anni circa della sua carriera Gilels si resse su questo suo virtuosismo un po’ datato, su queste sue ottave impressionanti (le più sensazionali che si fossero viste dopo Horo­ witz), su questa sua sana retorica che inchiodava alla poltrona l’ascoltatore. Non ci fu in quel tempo pianista che sapesse affron­ tare in modo più diretto e più travolgente certi monumentali concerti del repertorio, dal Quinto di Beethoven al Primo di Liszt al Primo di Chopin al Primo di Ciaikovsky al Perzo di Rachmani­ nov al Perzo di Prokofiev; persino il Secondo di Brahms diventava con lui un’orazione tribunizia in cui venivano spazzate via tutte le tentazioni decadentistiche e tutte le ambiguità e in cui trionfavano quelle tre cose — passione, passione, passione — che gli ingenui chiedono sempre et in primis alla musica. I suoi contributi alla storia dell’interpretazione non furono allora molti: la Sonata n. 8 di Prokofiev, affidatagli dall’autore in prima esecuzione assoluta, la Sonata op. 80 e i Pezzi op. 19 di Ciaikovsky, la Sonata n. 2 di Glazunov, la Sonata op. 38 di Medtner, qualche Preludio e fuga di Shostakovic. Quando si trattò di mandare in Occidente alcuni

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artisti russi, dopo anni di «guerra fredda», tra i pianisti non venne scelto Sofronitzki e non venne scelto Richter: venne scelto Gilels. Ed era una scelta del tutto logica, e Gilels trionfò ovunque, por­ tando in giro un’immagine delTUnione Sovietica quanto mai tra­ dizionale... in senso occidentale. Nella seconda parte della sua carriera — circa dopo il 1960 — Gilels continuò a suonare il suo vecchio repertorio ma cominciò anche ad eseguire più di frequente Mozart, Weber, Schubert, il Beethoven delle Sonate meno note, Grieg, il Brahms delle ultime raccolte di pezzi, dimostrandosi capace di ricerche di ordine squi­ sitamente musicale là dove il virtuosismo, per lo meno il virtuosi­ smo della velocità e della forza, non può vincere la partita. Non si può dire che Gilels sia diventato uno specialista di Mo­ zart, ma si può dire ad esempio che egli sappia sostenere la forma mozartiana più e meglio di quanto non sappiano fare non pochi specialisti e che riesca a definire stilisticamente i diversi periodi dell’opera di Mozart differenziando la sonorità. In Beethoven i capolavori di Gilels sono le Sonate umoristiche; se in brani come la Waldstein e l’Appassionata il nuovo Gilels tempera appena i bol­ lori giovanili e se in brani come l’op. 26 e l’op. 101 lascia che Beethoven inclini verso Schumann, nell’op. 10 n. 2 o nell’op. 31 n. 1 si accosta al testo senza mediazioni, analizzandolo con una cura degna di uno strutturalista. Non ho mai ascoltato un’interpreta­ zione dell’op. 31 n. 1 altrettanto umoristica e altrettanto ben bi­ lanciata tra affettuosa ironia e sentimento manieristico quanto quella di Gilels. Ancor più circospetta, più puntigliosa, più lavorata fin nelle fibre è l’interpretazione dell’op. 10 n. 2. L’impegno di una lettura che non prevarichi il testo e che sappia collocarlo stilisticamente è, in Gilels, totale: un uso molto parco e controllatissimo (spesso in battere anziché a sincope) del pedale di risonanza, una attenzione inflessibile nel non oltrepassare i limiti di un rubato molto discreto, una continua ricerca del suono sono i segni dello sforzo di adeguamento di una natura esuberante ad un testo pieno di trabocchetti. E Gilels riesce pienamente nelle sue intenzioni. Il suo Beethoven confina con Clementi ma non è Clementi perché la sonorità del forte non è mai né secca né troppo brillante, confina con Schubert ma non è Schubert perché gli sforzato stabiliscono un equilibrio che il suono piano tenderebbe a spostare sul Romantici­

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smo. Con l’op. 10 n. 2 siamo ad una definizione stilistica perfetta e l’analisi del testo viene spinta fino a limiti che ricordano la santis­ sima pignoleria di Baumgartner2... Nella Sonata op. 10 n. 3 viene raggiunto un miracoloso equilibrio tra l’umorismo di primo, terzo e quarto tempo e il pathos del secondo. Nelle Variazioni op. 35 l’equilibrio tra due aspetti stilistici opposti — virtuosismo e arcai­ smo — ricorda le più abbaglianti intuizioni di Schnabel. La Sonata op. 143 e i Momenti musicali di Schubert, i Nachtstùcke di Schumann, i Pezzi op. 76 di Brahms sono altrettanti momenti memorabili della navigazione di Gilels nell’arcipelago dell’intimismo romantico. Il suo capolavoro, in questo campo, è costituito da una raccolta di venti Pezzi lirici di Grieg. Gieseking, interprete stupendo dei Pezzi lirici, aveva scelto la strada della ricostruzione d’ambiente e la sua esecuzione ricordava sempre — lo abbiamo visto — quella del dilettante coltissimo, che sa leggere a fondo un autore ma non si preoccupa troppo della prontezza virtuosistica delle dita. Gilels non dimentica invece mai di essere un grande virtuoso, ed il suo magistero tecnico, pur non ostentato, anzi, pur apparentemente negato, lampeggia tuttavia nei momenti in cui la scrittura si fa più complessa e si esplica da capo a fondo in un superbo controllo della sonorità. Mentre Gieseking lasciava scorrere le dita tranquillamente, come sognando, come ritrovando nella memoria i pezzi studiati da ragazzo o ascoltati da una madre, una zia, una nonna pianiste, Gilels è concentratissimo e sorvegliatissimo, tutto teso nello scoprire quei fatti armonici e melodici singolari ed esotizzanti che fecero la fortuna di Grieg presso i 2 Si veda ad esempio come gli sforzato delle battute 10-16 e 141-146 dell’Allegretto, indicati da Beethoven a mezzo dei righi, vengano da Gilels giustamente distribuiti tra le due voci superiori. Ma altre soluzioni, meno evidenti eppure non meno intelligenti e sorprendenti sono sparse ovunque. Ed è persino divertente cogliere Gilels in fallo, laddove (battute 18, 41, 47, 67 del finale) accorcia inavvertitamente i bassi; particolare che in un altro contesto passerebbe inavvertito e che invece sfora subito, in un contesto così rigoroso. La battuta 99 del finale mostra la prontezza di riflessi di Gilels, il quale sente che il dito gli è scivolato dal si bemolle al si naturale, esita per una minima frazione di secondo e decide di continuare (in sede di montaggio, evidente­ mente, Gilels non ha poi permesso che la nota sbagliata venisse corretta, preferendo il trascurabilissimo errore alla manipolazione dei tecnici).

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contemporanei e che permangono d’altronde come il suo più per­ sonale apporto alla letteratura del pianoforte. Si consideri soltanto un piccolo particolare: eseguito da Gieseking, il Nachklànge op. 71 n. 7 dura 1’39”, eseguito da Gilels 1’54”. Non è una differenza di poco conto, in un pezzo così breve, ed indica il diverso atteggia­ mento, la diversa sottolineatura che i due grandi interpreti danno alla pagina: incantato, Gieseking, dalla vecchia valse oubliée, atto­ nito, Gilels, di fronte alle sorprese armoniche di un pezzo di aspetto così innocente. Il diverso atteggiamento di Gieseking e di Gilels può essere addirittura emblematico di un rapporto che due diverse generazioni ebbero con Grieg: per Gieseking, Grieg, morto nel 1907, era ancora un autore con temporaneo, ben presente nel gusto dei tempi in cui l’interprete aveva fatto il suo infantile tirocinio di musicista; per Gilels, nato nel 1916, Grieg è già un rappresentante di un’epoca sepolta dalla Grande Guerra, e che viene riscoperta anziché ritrovata. E se con Gieseking l’ascoltatore riassapora con gioia il gusto delle buone vecchie cose, con Gilels osserva stupito il minutissimo lavoro di miniatura, l’artigianato civilissimo di un compositore di cui si conoscono bene le pagine, in fondo, meno geniali. Ultimo in ordine di tempo, e ultimo per ora in assoluto è il ritorno di Gilels su Chopin. Non però sullo Chopin dei Notturni o delle Mazurche, come si sarebbe potuto immaginare. Riaccostan­ dosi ad uno Chopin come quello delle Polacche op. 40, della Polacca op. 53 e della sonata op. 58, cioè ad uno Chopin che ha sempre dato modo di brillare ai virtuosi, Gilels rifiuta sorprenden­ temente la concezione virtuosistica, e la rifiuta con una coerenza ed una interiore sicurezza che lasciano lo spazio a due sole valutazioni: o Gilels non è più a posto con le dita e cerca di salvarsi facendo il ragioniere, oppure propone una svolta rivoluzionaria nell’inter­ pretazione chopiniana. Sono per la seconda ipotesi, e senza voler dire che Gilels cancelli la travolgente forza emotiva di Lipatti nella Sonata o di Rubinstein nella Polacca op. 53 devo notare, magari lapalissianamente, che la Polacca viene dopo la Ballata op. 52 e la Sonata dopo la Berceuse op. 57, e che Polacca e Sonata vengono rispettivamente poco prima e poco dopo lo Scherzo op. 54. Gilels, in altre parole, rovescia la prospettiva tradizionale, che considera lo Scherzo e la Berceuse come opere eccezionali nel contesto stilistico

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dell’ultimo Chopin; per Gilels i caratteri stilistici dello Scherzo e della Berceuse diventano il perno del periodo 1842-46 e si rifletto­ no sulla Polacca e sulla Sonata, illuminandole di una luce nuova. Il lettore sarà indotto a pensare che Gilels accentui i caratteri preimpressionistici dell’ultima maniera chopiniana; al contrario, Gilels non solo non li accentua, ma li annulla. Una lettura preim­ pressionistica dell’ultimo Chopin, e lucidissima, l’avevamo avuta con Richter (nella Ballata op. 52, nello Scherzo op. 54, e specialmente nella Polacca-Fantasia op. 61). Gilels che, al contrario di Richter, non è un grande interprete di Debussy, considera Chopin sotto una luce diversa, da contemporaneo e non da postero, ve­ dendo in lui non ciò che vi avrebbero poi visto gli impressionisti ma ciò che poteva vedervi Chopin stesso. La monumentalità eroica della Polacca e della Sonata viene ricondotta nell’ambito del salotto intellettuale parigino, il suono, di volume limitato, non esercita una pressione psicologica sull’ascoltatore, e il distacco del compositore dalla sua materia e anche dalla ideologia si è già consumato. Emil Gilels — gran ex-maestro di virtuosismo dalle dita non più di acciaio — getta sul tappeto una problematica tutta da affrontare. Là affronterà lui stesso? la affronteranno altri? Gilels si sposterà su altri autori, ad esempio sul tardo Liszt? ritornerà su Weber, di cui aveva eseguito la Sonata n. 2 in modo non ancora rivelatore della grandezza weberiana? ritornerà su Mendelssohn, di cui, da giova­ ne, aveva lasciato splendenti interpretazioni del Concerto n. 1 e del Duetto? ritornerà su Cari Philipp Emanuel Bach e su Haydn? Chissà! Gilels è comunque un artista che, come Artur Rubinstein, potrebbe toccare dopo i settant’anni la pienezza della sua lunga maturità.

Tra Neuhaus e Gilels, fatta salva la diversa statura di strumenti­ sti, si avverte benissimo la continuità culturale tra il maestro e l’allievo. Richter non sembra affatto allievo di Neuhaus, tanto diverso è il suo stile, tanto diverse sono le sue concezioni di inter­ prete. Così singolare è la personalità di Richter da farmi supporre una volta che solo Sofronitzki, altrettanto singolare artista, avesse potuto rappresentare per lui un esempio, e gli feci chiedere da una comune amica che cosa pensasse in proposito. Richter scrisse: «Ho

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molto ammirato Sofronitzki ma... non fui mai sotto la sua influenza (e particolarmente nella scelta del repertorio). Sono stato [ho stu­ diato] solo sempre con Heinrich Neuhaus e, naturalmente, con mio padre (ma anche con Richard Wagner. Queste tre persone eserci­ tarono effettivamente il più grande influsso su di me)». La risposta non è così paradossale come potrebbe sembrare. Richter, allievo di suo padre e maestro collaboratore in teatro per alcuni anni, suona volentieri e melodrammi e partiture sinfoniche, affrontando la letteratura pianistica come la parte della musica che viene eseguita in pubblico sul pianoforte ma che si lega, anche strumentalmente, ad un mondo artistico più vasto. Dice Neuhaus che «quando legge a prima vista un pezzo — sia una composizione per pianoforte, un’opera, una sinfonia, una qualunque cosa — egli ne dà immediatamente una resa quasi perfetta, sia dal punto di vista del contenuto che della tecnica (che, nel suo caso, sono la stessa cosa)». Viene subito alla memoria la bella immagine di Mendelssohn quando diceva che nessuno come Liszt aveva la musica sulla punta delle dita. E con queste sue dita da rabdomante Richter può trovare la verità musicale delle Images di Debussy in una sala da concerto e subito dopo, in un salotto, del Parsifal, può ricreare in teatro l’intimismo un po’ morboso dei pezzi da salotto di Ciaikovsky e in salotto l’intimismo teatrale della Butterfly, Forse, fra venti o trent’anni, qualcuno tirerà fuori e pubblicherà esecu­ zioni dell’ex-maestro collaboratore Richter registrate alla meglio e di nascosto. E sarà per tutti una sorpresa e una gioia, perché tutto quel che Richter fa sorprende e reca con sé la contentezza della scoperta che lascia una lunga traccia operativa in chi la riceve. Prima di ascoltare Richter in sala di concerto avevo sentito parlare di lui ed avevo avuto tra le mani il suo disco con la Sonata op. 42 di Schubert. Per chi è vissuto nell’Unione Sovietica o nei paesi dell’Europa orientale la storia di Richter comincia nel 1945 con la sua vittoria (a pari merito con Victor Merzhanov) nel Con­ corso Musicale dell’URSS, con il Concerto n. 1 di Ciaikovsky. Per me, e per molti come me, la storia di Richter comincia con la Sonata op. 42 di Schubert (incisa nel 1952 ma pubblicata in Occidente nel 1959). Poi ho ascoltato registrazioni e dischi suoi degli anni prece­ denti; ma quello è il flash-back storico, mentre Schubert è la rivelazione di una poesia inimmaginabile. Avevo letto la Sonata op.

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42 fin da ragazzo e l’avevo ascoltata da Kempff e da Guida. Era per me un pezzo affascinante che sembrava non reggere l’esecuzione completa: Richter trovava invece una Stimmung, un modo di fra­ seggiare, e soprattutto un suono che gli permettevano di condurre trionfalmente in porto, senza tagliare una nota e con tutti i sacro­ santi ritornelli, una Sonata lunghissima, interminabilmente lunga: una Sonata apparentemente beethoveniana, che Richter staccava invece da Beethoven per collocarla in un mondo da scoprire. Tre anni dopo, l’audizione diretta di Richter, in concerto, suscitò reazioni contrastanti, anche perché venne accompagnata da un battage pubblicitario tambureggiante, grossolano, basato sull’e­ quivoco di una pretesa, assoluta superiorità. Richter non era supe­ riore ad alcuni altri grandi pianisti del tempo, ma era diverso. Era diverso anche nei difetti. Richter poteva suonare benissimo e po­ teva suonare malissimo: cosa che capitava a tutti i pianisti. Ma i pianisti del 1960, quando suonavano male, in genere mantenevano almeno una correttezza formale, una impeccabilità che mascherava la giornata di scarsa vena; Richter, quando suonava male, lo doveva far sapere anche all’ascoltatore più sprovveduto: vuoti di memoria e relative fermate, note false, pasticci, precipitazioni incredibili. Di qui l’indignazione scandalizzata di tanti bravi ascoltatori che, pen­ sando alla campagna pubblicitaria e al favoloso onorario del con­ certista, se ne andavano durante l’esecuzione. Alla Società del Quartetto di Milano, 1’11 ottobre 1962, non restarono in molti ad ascoltare fino al termine un programma bislacco: Hàndel: Suite n. 5. Hindemith: Sonata n. 1. Shostakovic: 3 Preludi e fughe. Prokofiev: Sonata n. 6. Quanto all’esecuzione: beh, sembrava quasi di esser tornati ai tempi del Cortot settantenne... Ma le critiche americane erano ammirate e le critiche londinesi osannanti, e dunque... Così come a Milano si era presentato con un programma poco attraente, a Londra Richter, grande interprete di concerti popolarissimi come il Concerto di Schumann, il Terzo di Beethoven, il Primo di Ciaikovsky, il Secondo di Brahms, il Secondo di Rachmaninov, si era presentato con l’ignoto Concerto di Dvorak. Concerto difficile, e pianisticamente poco redditizio. Harriet Cohen, che l’aveva eseguito a Londra nel 1941, adattan­ dolo alle sue mani, scrive: «La sola persona che io abbia mai ascoltato eseguire ogni singola nota di questo lavoro, così com’è

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scritto, è Svjatoslav Richter in una favolosa esecuzione all’Albert Hall». Favolosa esecuzione. È diventato un termine frusto, logorato da un uso dissennato. Ma bisogna rispolverarlo e rilustrarlo quando si ascolta l’esecuzione londinese di Richter, registrata dal vivo e pubblicata in disco (il programma comprendeva anche l’Andante spianato e Polacca brillante di Chopin). Richter aveva quarantacinque anni, era nel pieno della sua maturità di interprete e con una tecnica che aveva raggiunto il punto culminante. Non è qui il caso di analizzare la sua interpretazione del Concerto di Dvorak, ma si può dire che la completa scoperta di un’opera mai prima ascoltata in un’esecuzione pienamente soddisfacente si unisce al piacere di ritrovare uno dei maggiori pianisti di ogni tempo in un momento di grazia; ed è un’esperienza d’ascolto indimenticabile, che supera di gran lunga le piccole imperfezioni dell’esecuzione pubblica. Quando venne per la prima volta in Italia, questo suo grande exploit londinese era rimbalzato nel mondo musicale e aveva fatto raddrizzare le orecchie a tutti. La prima tournée italiana non fu invece straordinaria, come dicevo, e i fanatici di Benedetti Miche­ langeli gongolarono. Anche dal non felice recital alla Società del Quartetto si poteva però capire che Richter era un interprete ed uno strumentista di inconfondibile personalità. La tecnica di Rich­ ter era una delle più complete che io avessi mai osservato in un pianista e si valeva largamente di mezzi sconsigliati o ammessi con molte riserve dalla didattica tradizionale. Richter usava, a seconda delle circostanze, tutte le possibili posizioni del dito, della mano, del braccio: suonava anche con la falange ungueale inclinata verso il coperchio della tastiera, con il polso talmente alto da portare le dita a perpendicolo sul tasto, con la spalla molto inclinata verso il pianoforte; attaccava il tasto anche con un rapido movimento di spinta in avanti, preparava qualche attacco con molto anticipo, restando con i muscoli violentemente tesi durante le pause; usava spesso il pedale una corda suonando forte e fortissimo-, abbassava il pedale di risonanza anche insieme con il tasto e lo lasciava risalire anche spostando lateralmente il piede; provocava coscientemente i lievi rumori del tasto battuto e della meccanica, mossa violente­ mente e bruscamente, che modificano la timbrica del suono. Questi mezzi tecnici vengono in genere sconsigliati perché sono malsicuri o perché producono un suono «brutto» e quindi perché

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c’è il rischio che il risultato sia casuale o perché si vogliono limitare aprioristicamente le possibilità timbriche del pianoforte. Ma Rich­ ter — quando gli capitava la serata giusta, come vidi poi — era in grado di controllare preventivamente tutti i tipi di tocco che prati­ cava e del suono «brutto» si serviva in determinate circostanze: per esempio, il suono brutto era per lui il correttivo di un’emozione che si andava mutando in intenerimento sentimentale. Perciò Richter usava a volte, ad esempio nella Sonata n. 5 di Scriabin, un suono da Glockenspiel scalcinato, freddo e tagliente, tanto più quanto più le didascalie sembravano scivolare verso una morbosa sensualità {molto languido, con delizia, con voglia). Ricordando il Richter degli anni 60 — poi il suo modo di suonare è diventato un po’ meno ricco di trovate tecniche — si ripensa a ciò che N.N. Cherkass aveva scritto nel 1916 su Scriabin pianista. Il Cherkass, studioso del pianismo che allora si chiamava scientifico o naturale, ammirava infinitamente Scriabin composi­ tore, ma sullo strumentista esprimeva un drastico giudizio, bene in corsivo: «Scriabin era un cattivo pianista». Il Bowers, che ha risco­ perto la monografia del Cherkass, dice: «Egli descrive la sgra­ ziata camminata di Scriabin verso il pianoforte quando usciva sulla scena. Era chiaramente “un uomo malato, con una malattia inte­ riore che disturbava il suo intero sistema nervoso” e che rendeva “anormale la sua muscolatura”. Quando suonava teneva teso l’in­ tero corpo (perciò era tanto esausto fisicamente dopo il concerto) e cercava compensazioni muscolari che distorcevano non solo il suo aspetto ma il suo suono. In breve, le sue dita si muovevano scor­ rettamente. Ciò “attenuava e offuscava” la sua sonorità, e l’im­ propria tensione e contrazione muscolare delle mani e delle braccia impediva sia un’appropriata connessione dei suoni secondo il le­ gato che un corretto staccato. [...] Un modo di compensazione di questi difetti muscolari era l’eccessivo rubato di Scriabin. [...] Scriabin.non sapeva suonare metricamente bene neanche una sola battuta, Il suo ritmo zigzagava. [...] Quanto alla pedalizzazione di Scriabin, Cherkass è tagliente. “Toglieva il piede dal pedale solo per rimettercelo, ma in rare occasioni suonava interamente senza pedale”. Ciò a causa del suo difettoso legato. Se fosse stato capace di un corretto legato, dice, non avrebbe superusato il pedale». Non conoscevo le divertenti tirate del Cherkass quando ascoltai

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per la prima volta Richter eseguire Scriabin, ma notai certe eccen­ tricità della tecnica e del suono che contrastavano vistosamente con i canoni del bel suonare generalmente ammessi verso il 1960 e che... rendevano Scriabin molto più interessante di quanto non mi fosse mai apparso. Ho già parlato di due grandi interpreti di Scriabin, Sofronitzki e Horowitz. Il repertorio scriabiniano di Richter non è altrettanto vasto, ma su Scriabin, come dirò meglio poi, egli fa convergere tutta la letteratura pianistica e di questa sua tecnica del suono, che in Scriabin trova il più completo campo d’applicazione, si avvale anche in altri compositori. Persino nel Clavicembalo ben temperato di Bach. Il grande Bach può servire per tanti usi! Per Richter le fughe del Clavicembalo ben temperato servono ad imparare a dif­ ferenziare la sonorità di parti principali e parti secondarie. In altre parole, Richter mette sempre in rilievo il soggetto: cosa relativa­ mente facile quando il soggetto sta al soprano o al basso, cosa difficile, e spesso di trascendentale difficoltà, quando il soggetto sta al tenore o al contralto, risultando perciò continuamente diviso tra le due mani del pianista e, come diceva il buon Moscheles, «co­ perto». Il virtuosismo di Richter è in questi casi stupefacente: chi sa suonare il pianoforte ascolta con divertito sbalordimento le fughe più complesse (in re diesis minore, in la bemolle maggiore, in si bemolle minore del primo libro, in fa diesis minore, in sol minore, in si bemolle minore del secondo libro); chi non sa suonare il pianoforte sente una specie di analisi sonora e impara a non per­ dere più il soggetto, dopo la sua prima solitaria apparizione, sta­ nandolo quando si cela nei meandri della composizione e ritro­ vandolo sempre come supporto della forma. Dei preludi Richter si serve come di studi di agilità o, più spesso, come di studi di sonorità, giocando con combinazioni alchimistiche di tocco e pedali e creando talvolta timbri che appaiono parapianistici, tanto sono lontani dalla normale sonorità del pianoforte. Questa interpreta­ zione del Clavicembalo ben temperato può non aggiungere nulla o quasi nulla alla nostra conoscenza di Bach; dice moltissimo, invece, sul sommo pianista che vi è impegnato. È un po’ come una raccolta di schizzi, di disegni, di studi di un grande pittore, o come la lezione in sala-prova di un grande maestro di ballo: vi si scorge, vi si intuisce la disciplina mentale che sta alla base di altre perfette

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realizzazioni in un ambito più appropriato: in questo caso, dal Clavicembalo ben temperato si capisce meglio come Richter possa poi essere interprete di Beethoven o di Schumann o di Brahms o persino, come dicevo, di Scriabin. Da Bach Richter passa a H’àndel, scarta, stranamente, Domenico Scarlatti, Couperin, Rameau, tocca appena Mozart e Haydn 3, ed arriva a Beethoven, che rappresenta per lui un momento cruciale. Si può ben dire che in Richter convivano più interpreti beethove­ niani. C’è un Richter tradizionalista, che nel primo tempo della Sonata op. 31 n. 2 taglia via i problematici pedali di Beethoven e che si lascia persino influenzare da Horowitz. C’è, più interessante, un Richter classicista che riconosce in Schnabel un maestro, e questo si può trovarlo nelle Sonate op. 14 e nell’op. 22. Le Sonate op. 14, «piccole» e facili, si ascoltano abbastanza di rado e talvolta vengono prese a pretesto per sfoggiare i virtuosismi dell’alta scuola del tocco. Richter adotta invece qui un tipo di suono poco diffe­ renziato; il suo fraseggio è schematico e quasi scolastico, molto parco l’uso del pedale di risonanza. Ma la monocronia del suono e la semplicità del fraseggio non sono la conseguenza di una lettura superficiale: sono invece elementi di stile. Se si analizza l’esecuzione si scoprono molti particolari che rivelano uno studio minuzioso dei rapporti formali4. Le velocità adottate da Richter nei vari tempi delle Sonate sono quelle usuali, tranne due, che si discostano

3 II repertorio mozartiano di Richter è in verità molto ampio, quello haydniano è il più ampio che un pianista di fama mondiale abbia mai avuto. Dal momento in cui apparve in Occidente Richter eseguì una sola Sonata e una sola serie di variazioni di Mozart, e di Haydn eseguì soltanto, se ben ricordo, due Sonate. In realtà, dunque, come interprete di Haydn e di Mozart Richter non è veramente valutabile, per lo meno da me. 4 Si veda, per segnalare qualche esempio, nel primo tempo della prima Sonata: battuta 30 e segg., 120 e segg. (le due voci sono perfettamente distinte, pur con lo stesso tipo di suono), battuta 74 (il r/ rinforzando, non viene realizzato come sf sforzando, al contrario di quanto avviene quasi sempre); nel terzo tempo della prima Sonata: battute 70 e 74 (viene sottolineato un giro armonico che assolve un’importante funzione nell’andamento dell’episodio); nel primo tempo della seconda Sonata: battuta 47 e segg. (lievissime esitazioni ed accentuazioni che rendono il carattere «affettuoso» del tema); nel secondo tempo: lievi variazioni di velocità di base nei vari episodi.

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considerevolmente dalla tradizione: nella prima Sonata l’Allegretto è molto più lento del solito, il Rondò (Allegro comodo) è notevol­ mente più svelto. A questo proposito qualche critico parlò della capricciosa eccentricità di Richter, riferendosi, per giustificare l’as­ serzione, alle indicazioni di Beethoven. Ma se l’indicazione di tempo viene vista in rapporto con il metro la critica diventa azzar­ data: l’Allegretto della Sonata viene tradizionalmente battuto in uno, ma la misura è di tre quarti e Richter batte in tre, l’Allegro comodo viene spesso battuto in quattro, ma il metro è di tempo tagliato e Richter batte in due. L’interpretazione di Richter ha dunque una precisa giustificazione di ordine esegetico, a dimo­ strazione del fatto che le sue scelte, per quanto capricciose possano sembrare, nascono da riflessioni. Ciò non toglie che la lentezza dell’Allegretto, nella Sonata op. 14 n. 1, non appaia paradossale e persino difficile da tollerare. Anche ascoltando per la prima volta Richter nell’Appassionata si osserva facilmente che la concezione del tempo è talmente strana da dar nell’assurdo. Ma qui non c’è niente da tollerare: si subisce senza potersi ribellare, come con Sofronitzki, e bisogna mettersi a cercare le ragioni di tanta eccentricità. Nell’Appassionata, sonata di struttura formale e ritmica sche­ matica e di semplicissimi rapporti di tonalità, Richter va a scon­ volgere la tradizione proprio là dove pareva inattaccabile: negli stacchi di velocità. Le velocità metronomiche tradizionali dell’Ap­ passionata — scelgo a titolo esemplificativo l’edizione curata da Hans von Bùlow, le cui indicazioni non sono sostanzialmente contraddette dagli interpreti della generazione dell’ottanta — si avvicinano a quelle consigliate da Czerny, allievo di Beethoven; le paragono con quelle di Richter: Allegro assai Czerny: 120 Bùlow: 126 Richter: da 76 a 120

Andante con moto Czerny: 112 Bùlow: 100-108 Richter: 84

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Allegro ma non troppo Czerny: 144 Bùlow: 132-138 Richter: 160-168

Presto Czerny: 92 Bùlow: 92-96 Richter: 100.

Calcolando la densità della croma, abbiamo nell’Allegro assai, che è in tempo composto, secondo la tradizione 126 x 3 = 378 crome al minuto, e nel Presto finale, che è in tempo semplice, 9296 x 4 = 368-384 crome al minuto; neAP Andante con moto abbia­ mo 100-108 x 2 = 200-216 e nell’Allegro ma non troppo 132-138 x 2 = 264-278: la successione è 378, 200-216, 264-278, 368-384. Con Richter abbiamo 76 x 3 = 228, 84 x 2 = 168, 160-168 x 2 = 320-336, 100 x 4 = 400 : 228, 168, 320-336, 400. È evidente che secondo la tradizione la densità ritmica finale coincide all’incirca con quella iniziale, mentre Richter ha di mira un aumento finale della densità che raggiunge quasi il doppio dell’inizio. Si capisce che Richter non può spingere la sua paradossale concezione fino al punto di mantenere a 76 tutto il primo tempo perché questa velocità, se uniforme, sarebbe insopportabilmente lenta. Ma men­ tre Bùlow inizia a 126 ed oscilla poi fino a 112, Richter inizia a 76 ed oscilla fino a 120, capovolgendo la direzione dell’oscillazione ed aumentandone smisuratamente l’ampiezza. Chiedo scusa al lettore per tutti questi calcoli, che sono del resto abbastanza rozzi, ma che mi servono per far capire il distacco di Richter dalla tradizione. L’ipotesi critica di Richter è che l’Appassionata sia una sonata sommamente rivoluzionaria non perché Beethoven, poco più che trentenne, è ancora agitato da spiriti politici rivoluzionari, ma perché ha rinnegato l’evoluzione della storia europea all’inizio dell’ottocento e sposta i suoi interessi sulla sperimentazione rivoluzionaria della forma. Richter vede insomma nell’Appassionata la rottura di una tradizione classica che si era sviluppata sui rapporti di tonalità e l’introduzione nella sonata di rapporti di durate che non mimano più un dramma classico, con­ trasto e catarsi, e che spezzano una unità ancora garantita, per altri

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aspetti, dal ritorno finale della tonalità dell’inizio. Nella Sonata, l’Appassionata, che sembra raggiungere il massimo della coerenza formale — estesa alla tonalità, ai temi, alla densità ritmica — Richter riesce invece ad introdurre una sconvolgente perturbazione dell’equilibrio. Il punto immediato di confronto che provoca questa svolta è, secondo Richter, quello delle Variazioni op. 34 e op. 35 (che sono del 1802; l’Appassionata è del 1804-1805). Non si può dimenticare che Beethoven, scrivendo al suo editore per proporgli le Variazioni, aveva detto: «Tutte e due le serie sono elaborate in maniera vera­ mente nuova e ognuna in modo diverso e distinto. [...] Ciascun tema è trattato in un suo modo particolare e in una maniera diversa dalValtra. Di solito devo aspettare che siano gli altri a dirmelo quando esprimo idee nuove, perché non me ne rendo mai conto da solo. Ma, questa volta, posso io stesso assicurarLe che in tutte e due queste opere il metodo per quanto mi riguarda è interamente nuo­ vo». Beethoven, dice implicitamente Richter, trova un’organizzazio­ ne formale alternativa a quella tradizionale della sonata e la speri­ menta, dopo le Variazioni, nell’Appassionata, sonata in cui il se­ condo tema è una variante del primo e il tema principale del finale deriva dai temi del primo tempo. Il tema critico, naturalmente, è troppo complesso perché si possa esaminarlo qui. Qui mi importa di far notare come Richter veda nell’Appassionata un’opera rivo­ luzionaria per eccellenza, in senso musicale. Così, forte di questa sua scoperta o ipotesi che sia, Richter studia e approfondisce più di qualsiasi altro interprete le variazioni di Beethoven (l’op. 34, l’op. 35, l’op. 76, l’op. 120) ed anche nelle Sonate posteriori all’Appas­ sionata ottiene i più sorprendenti risultati nelle opere 109 e 111, che terminano con temi variati, mentre è meno interessante nelle opere 106 e 110, che terminano con fughe. La distruzione della forma-sonata in quanto principio di orga­ nizzazione dialettica del discorso lascia un residuo storico, un gu­ scio vuoto da riempire: lo schema della sonata. Si potrebbe dire che la tesi esposta da Thomas Mann nel Doctor Faustus — la Sonata op. Ili segna la «fine della sonata come forma d’arte» — venga retrodatata da Richter all’Appassionata e che venga fatta coincide­ re con la fine delle idealità rivoluzionarie (è al tempo dell’Appas­

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sionata che Napoleone viene nominato imperatore e che Beetho­ ven straccia la dedica dell’Eroica). Schubert diventa così non un sonatista che lavora a latere di Beethoven, ma il protagonista di un’epoca «postuma» della sonata, già iniziatasi con Beethoven. La sorpresa della Sonata op. 42, eseguita da Richter, nasceva dal senso di un dramma statico, pietrificato; la sospensione del tempo sia reale che psicologico e la scoperta di una dimensione onirica, surreale, sorgeva con Richter nell’op. 42 e in altre Sonate di Schu­ bert e culminava nella Sonata op. 22 di Schumann, nella quale il primo tempo, precipitato e rapinoso (e spesso, in pubblico, molto sporco) dava l’impressione di un istante senza dimensione tempo­ rale. Quel primo accordo della Sonata op. 22, quello strano accordo prolungato che sembra una fine, non un inizio di movimento, diventava con Richter veramente una fine da cui si sviluppava una vertigine di morte. Richter era d’altra parte coerentissimo nel seguire il cammino del nuovo principio di organizzazione del discorso: la variazione che non è più tema con variazioni ma trasformazione continua di nuclei tematici. Le esecuzioni della Wanderer-Fantaisie di Schubert, degli Studi sinfonici di Schumann e dei due Concerti di Liszt sono tra le cose più straordinarie di Richter, e negli Studi sinfonici il controllo della forma in divenire è tale da consentirgli l’inserimento, dopo la variazione n. 5, dei cinque Studi opera postuma che appartenevano ad una versione anteriore a quella definitiva. Il recupero dei bel­ lissimi cinque Studi opera postuma, com’è noto, è stato affrontato da molti interpreti e risolto in vario modo; Richter può inserire il blocco dei cinque Studi nel corpo dell’opera senza turbarne la forma complessiva proprio perché il suo senso formale non si basa sulle proporzioni e sulle simmetrie classiche e punta invece alla espansione della forma, attimo dopo attimo. E va da sé che in questa sua ricerca del principio della variazione perpetua e del farsi continuo della forma Richter trova il culmine del Romanticismo nella Polacca-Fantasia di Chopin, interpretata da lui in un modo che dà ragione all’esigenza espressa da André Gide, il quale avrebbe voluto che la musica di Chopin apparisse sempre come improvvisata. Dalle grandi alle piccole forme. Richter — e questo può essere un limite che solleva obbiezioni storiche e critiche tutt’altro che

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trascurabili, ma è anche un segno della coerenza con cui Richter guarda al complesso della letteratura pianistica — scopre nelle Bagatelle di Beethoven il sorgere della notazione lirica che non si organizza razionalmente e dell’individualismo romantico, senza considerare il legarsi del piccolo pezzo in ciclo, in polittico. In altre parole, al contrario di Schnabel, Richter non esegue integralmente alcuna raccolta delle Bagatelle di Beethoven, né i Momenti musicali né gli Improvvisi di Schubert, né i Pezzi fantastici di Schumann né i Preludi di Chopin. Là dove la miniatura tende a recuperare la grande forma attraverso l’organizzazione ciclica Richter si guarda bene dal sottolineare il principio formale che dà ordine geometrico al caso e persino delle Bagatelle op. 126, in cui Beethoven lavora sull’integrazione formale di sei piccoli pezzi attraverso una rete di rapporti tonali non classici, esegue solo i numeri 1, 4 e 6. Richter sa dunque delineare stupendamente la notazione lirica frammentaria là dov’è veramente ed inequivocabilmente tale, e cioè nei piccoli pezzi di Ciaikovsky e di Rachmaninov, in un modo dolorosamente ma non tristemente nostalgico che ricorda Giese­ king in Grieg e nel Risveglio di primavera di Sinding più che Gilels. Devo dire che Richter, per quanto ammirevole, non è in ciò il mio preferito. Preferisco Gieseking o Constantin Igumnov. Non c’è forse interpretazione e ricostruzione d’ambiente — il salotto della piccola borghesia russa — più epica di quella di Igumnov, nato nel 1873, che esegue i dodici pezzi delle Stagioni di Ciaikovsky su un pianoforte male accordato (probabilmente un verticale) e con to­ tale, indifeso, impudico abbandono al rimpianto. Richter, profon­ do e impegnato interprete di Beethoven e di Schubert, non na­ sconde un rapporto affettivo con ciò che, per lui, non può però non essere Kitsch, cattivo gusto, musica di second’ordine. Di qui il suo atteggiamento, che non è assolutamente di ironia né di condanna, ma che non può essere neppure di identificazione, né reale (Igum­ nov) né riconquistata (Gieseking). Allo stesso modo, con una non ironica sottolineatura degli aspetti Kitsch dell’esotismo piccolo borghese e del gusto per il teatro leggero Richter interpreta il Concerto n. 5 di Saint-Saéns. La riduzione della forma-sonata a schema convenzionale per improvvisazioni e la dispersione della forma complessa nella nota­ zione lirica, che Richter vede iniziare in Beethoven, porta dunque

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come conseguenza logica a Dvorak, a Ciaikovsky, a Rachmaninov, a Saint-Saèns. Porta persino, paradossalmente, a Brahms. Richter schiva con cura il tentativo di restaurazione neoclassica di Brahms, lasciando da parte le Sonate, il Concerto n. 1, finanche le Variazioni su tema di Hàndel e su tema di Paganini, che probabilmente giudica reazionarie rispetto agli Studi sinfonici. Nel Concerto n. 2 egli si getta invece con vertiginosa voluttà, considerandolo come una rapsodia di temi lirici e giocando, al solito, su una continua ricerca di varietà del suono e su enormi differenze di velocità per distruggere l’elemento unificatore rappresentato dal tempo-base. È sufficiente, a questo proposito, indicare un momento tipico dell’interpretazione di Richter: l’inizio. Brahms ha indicato Allegro non troppo e la cifra di metronomo 92. Il tempo metronomico ■— per ragioni che qui sarebbero troppo complicate da illustrare, ma che sono comunque fuori discussione — è soltanto indicativo, e del resto nessun direttore e nessun solista mantiene la stessa velocità nei quattro episodi che costituiscono una specie di introduzione prima che l’orchestra attacchi da sola la vera e propria esposizione: 1) il solo di corno con la risposta in eco del pianoforte; 2) il malinconico tema esposto dagli strumentini con intervento degli archi; 3) l’entrata irruente e drammatica del pianoforte solo; 4) la cadenza del pianoforte, in ottave e accordi, durante la quale riap­ pare l’inciso tematico già esposto dal corno. Nessuno, dicevo, mantiene la stessa velocità, ma tutti si preoccupano di non effet­ tuare uno scarto troppo ampio tra un episodio e l’altro. Ecco alcuni termini di paragone: Horowitz-Toscanini: Gilels-Reiner: Serkin-Ormandy: Richter-Leinsdorf:

80, 69, 63, 56,

92, 88, 72, 76,

100, intorno a 84. 104-108, intorno a 84. 96, intorno a 96. 112-116, da 76 a 92.

Ora, lo scarto tra il minimo e il massimo di Richter è il doppio: da 56 a 116. Ricordiamo che esiste un termine, Doppio movimento, non inconsueto, che indica uno scarto doppio di velocità e chie­ diamoci: con Richter siamo ancora entro differenze esprimibili con la didascalia di Brahms, Allegro non troppo, o non passiamo piut­ tosto da un Andante tranquillo (56) a un Allegro deciso (116)? La stessa dilatazione degli estremi avviene all’interno delle frasi, oltre

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che tra gli episodi: se presso gli altri interpreti i tempi di metrono­ mo da me indicati sono valori medi, risultanti da piccole oscillazioni in più e in meno, in Richter sono valori di base, più volte variati: ad esempio, mentre i primi tre quarti della prima battuta non sono tutti di identico valore, ma oscillano lievemente intorno a 56, con uno scarto minimo che rientra nello stile ordinario di interpreta­ zione brahmsiana dei nostri giorni, all’ultimo quarto della prima battuta (la terzina del corno) il valore metronomico è decisamente cambiato: 48. E così di seguito, da un capo all’altro del Concerto. Interpretazione straordinaria, beninteso, la cui enorme tensione emotiva gela qualsiasi rilievo basato sull’analisi testo-esecuzione, e interpretazione che colloca Brahms in compagnia di Dvorak e di Ciaikovsky e di Rachmaninov, come musicista, che prende da una cultura estranea uno schema inaridito ed esaurito e lo usa al modo di rete che tiene insieme molte melodie che potrebbero benissimo restar separate. Non c’è più Dvorak visto come un brahmsiano ceco: è Brahms che diventa uno dvoràkiano tedesco! Beethoven, distruttore della forma-sonata, è però per Richter anche colui che scopre il principio della variazione come fonte di forma autodeterminantesi. Beethoven, quindi, come distruttore del formalismo classico e come iniziatore dell’informale. Attraverso Schubert, Schumann, Chopin e Liszt la linea dell’informale arriva con Richter al Mussorgski dei Quadri di una esposizione, a Debus­ sy, a Scriabin. Arriva forse, per Richter, al Wagner del leitmotiv e della perenne reinvenzione della strumentazione; ma Wagner non è compositore per pianoforte e nella visione che Richter ha della letteratura pianistica viene sostituito da Mussorgski. I Quadri sono per Richter il nodo da cui si diparte il mondo moderno perché nei Quadri la forma comincia a fondarsi sul timbro. Di fronte a Horo­ witz, che riscrive i Quadri come se li trascrivesse per pianoforte dalla trascrizione per orchestra di Ravel, Richter dimostra che la grandezza dell’opera consiste essenzialmente nel suo essere pensata per un pianoforte che Mussorgski reinventa nel 1874. In questo senso le interpretazioni più sbalorditive di Richter, dopo i Quadri, sono quelle della seconda e della terza Valse oubliée di Liszt, e del­ la Suite hergamasque di Debussy. Nelle Valses oubliées la melo­ dia banale viene annullata come tale e ricomposta timbricamen­ te secondo un processo di astrazione attraverso il colore; nella

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I gioielli di Neuhaus

Suite bergamasque lo stesso procedimento è applicato alla forma banale. Il paragone con Mondrian si impone da solo, ed è tanto ovvio che non sto ad insistervi. Mi importa invece di far notare la conce­ zione richteriana del colore come fonte invece che come illustra­ zione della forma. Richter può così ritrovare in Debussy e in Scriabin tutti i rapporti con il Romanticismo francese e russo e con il simbolismo e il misticismo senza più sentirli come attuali ma collocandoli in una dimensione di nostalgia in cui passato e futuro remoto si identificano. Il simbolismo esotico delle Estampes di Debussy, la palingenesi mistica della Sonata n. 9 di Scriabin di­ ventano con lui proiezioni di desideri profondi, di aspirazioni eterne: miti primordiali che Beethoven aveva ritrovato come ra­ gioni di vita dopo la sconfitta della Rivoluzione. L’interpretazione che Richter dà della storia della letteratura dovrebbe dunque concludersi con l’ultimo Debussy e con l’ultimo Scriabin. Richter ha eseguito invece non solo Ravel, Szymanowski e il Prokofiev del Concerto n. 1 e della Sonata n. 2, che rientrano ancora nel quadro da lui tracciato, ma il Prokofiev neoclassico, Bartók, Hindemith, Poulenc, Shostakovic, Britten. Le sue esecu­ zioni di questi compositori mi sembrano tuttavia rientrare nel campo dei doveri morali che l’uomo di cultura sente verso il su'o tempo più che nel campo delle indagini critiche sul significato della storia. Si sarebbe potuto presumere che Richter vedesse in modo già indiretto, non più da contemporaneo, un artista come Bartók e che, specie nel secondo tempo del Concerto n. 2, rendesse la poesia e il mistero della natura e della materia. L’esecuzione di Richter è invece quella di un grande professionista che sa affrontare tutti i problemi stilistici e che sa presentare in modo appropriato e cor­ retto qualsiasi pagina scelga, ma dal punto di vista dell’interpreta­ zione non propone ipotesi che si discostino dalla tradizione diretta, rappresentata soprattutto da Geza Anda. Le interpretazioni delle Sonate n. 4, 6, 7, 8 e 9 e del Concerto n. 5 di Prokofiev o del Concerto di Britten fanno certamente testo come proposte di esplicazioni critiche secondo i concetti degli autori. Richter è in questo caso l’esegeta che vede ancora l’opera come diretta espres­ sione della personalità del creatore, con il quale ne ha discusso. Ma a me pare che Richter sia più interessante quando dalla storia estrae

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un’ideologia, quando si comporta non da storico ma da filosofo della storia. Richter è ancora relativamente giovane: mentre scrivo ha sessantasette anni. Malanni fisici ricorrenti hanno però limitato la sua attività e gli hanno fatto annullare recitals e intere tourneés già annunciate, cosicché la sua presenza nella vita musicale e nella storia dell’interpretazione si è fatta negli ultimi tempi meno incisi­ va. Nulla esclude che egli non possa nei prossimi anni tornare in pieno all’attività concertistica, e proponendo qualcosa di nuovo. La sua figura appare tuttavia già storicamente ben delineata e definita, ed è già da collocare tra le maggiori d’ogni tempo. Vedremo anzi come alcuni problemi da Richter aperti non possano essere accan­ tonati dagli interpreti che storicamente vengono dopo di lui e come condizionino il futuro dell’arte che qui ci interessa.

INTERPRETAZIONE AL QUADRATO

Sono nato nel 1931, mi sono diplomato in pianoforte nell’ottobre del 1949. Desideravo continuare lo studio e mi guardai intorno per trovare un maestro. Forse a causa della mia educazione cattolica, che mi portava a trasferire nella realtà i dogmi, credevo — non so se scrivere o no il termine con l’iniziale maiuscola, e non vorrei apparir blasfemo: non intendo dir nulla di ironico ma rendere l’immagine della mia psicologia di diciottenne — credevo in una trinità. Avrei studiato volentieri con Backhaus, il padre; ma Backhaus non ac­ cettava allievi. Avrei studiato volentieri con Lipatti, il figlio; ma Lipatti non insegnava più nel conservatorio di Ginevra, era am­ malatissimo, gli restava poco più di un anno di vita. Avrei studiato volentieri con Gieseking, la terza persona; gli scrissi: mi rispose che radunava i suoi discepoli a Saarbrùcken solo quando gli capitava qualche giorno libero. Feci allora una corsa a Parigi, ed ebbi alcune lezioni da Marguerite Long, simpatica pitonessa. Quindi andai a Milano e cominciai a studiare con Carlo Vidusso. C’erano tre celebri pianisti che insegnavano molto e con molta passione, Alfred Cortot, Edwin Fischer, Arturo Benedetti Michelangeli: non mi venne in mente di andar a studiare con loro. Studiare il pianoforte con Vidusso era allora come studiare la composizione con Cage. Detestando, come detestava, il sentimento e il colore, Vidusso studiava e faceva studiare in modo da non poter contare mai sulle seduzioni del colore e sulla banalità del senti­ mento. Ogni nota stampata doveva essere accompagnata dal nu­ mero indicante il dito da impiegare, si mandava a memoria tutta la composizione seguendo riga per riga l’impaginazione (la prima riga di tutte le pagine, l’ultima di tutte le pagine, quella di mezzo e così

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via), il montaggio delle righe arrivava in vista dell’esecuzione pub­ blica, il «ripasso» doveva sempre avvenire secondo il sistema delle righe separate. Vidusso aveva così studiato i quarantotto Preludi e fughe del Clavicembalo ben temperato^ io studiai così sei Studi e la Sonata op. 35 di Chopin, l’Appassionata di Beethoven, sei Studi trascendentali di Liszt e altre cose ancora. Raccontata a questo modo sembra una barzelletta o una follia. Era una cosa molto seria, invece: mi accorsi poi che era un tentativo di superare la crisi della musica intesa come linguaggio, rifiutan­ done la logica formale. Non studiai con Benedetti Michelangeli, ma verso il 1950 lo ascoltai molto spesso e parlai con diversi miei coetanei che con lui studiavano: mi accorsi più tardi che studiare il pianoforte con Benedetti Michelangeli sarebbe stato come studiare composizione con Stockhausen. Vidusso cancellò il concetto che avevo della musica; lo avrebbe cancellato anche Benedetti Michelangeli. Con questa differenza: che Vidusso si faceva ipnotizzare dal movimento delle dita, da una sorta di gestualità a cui il suono era quasi indifferente, mentre Benedetti Michelangeli si faceva ipnotizzare dal suono, dalla co­ struzione dell’edificio sonoro secondo un’idea di bellezza. Non mi sembra che si trattasse semplicemente di estetismo. Certo, si può parlare del narcisismo di Benedetti Michelangeli, della sua indiffe­ renza ai problemi della cultura, si può essere irritati per la sua mania di ritoccare i testi (quei maledetti raddoppi in ottava al basso, il mi bemolle alla battuta 115 del primo tempo della beet­ hoveniana Sonata op. Ili, che grida vendetta) e si può sostenere che un interprete ha anche il compito di individuare e far conoscere i valori della sua epoca: che cosa si dovrebbe dire di un pianista nato nel 1920, che ha eseguito il Concerto n. 4 di Rachmaninov, il Concerto e il Kinderkonzert di Margola, la Ballata di Frank Martin, il Concerto di Peragallo e non ha eseguito uno solo dei concerti di Bartók, Prokofiev, Stravinsky, Schonberg? che cosa si dovrebbe dire di un pianista che ha suonato Schonberg da ragazzo e che poi ha cancellato dal suo repertorio Schonberg e ci ha messo Suburbis di Mompou? che dire di un pianista venuto dopo Schnabel, dopo Kempff, dopo Serkin, dopo Richter, che ha in repertorio una Sonata sola di Schubert? perché Benedetti Michelangeli non ha eseguito il Quaderno musicale di Annalihera di Daliapiccola, che

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Interpretazione al quadrato

rispecchia il suo pianismo? perché non si è ancora accorto di Scriabin? Domande retoriche, che portano ad un’ovvia conclusione: un simile pianista non esiste nella storia della cultura. Ma basta ciò a liquidare Benedetti Michelangeli, a far dire che si tratta di un fenomeno di costume e di psicosi collettiva? Un tempo ne ero convinto, ora non più. Se penso alla figura di Benedetti Michelan­ geli come alla figura di Schnabel o di Gieseking, le sue interpreta­ zioni che ammiro e che mi piace risentire sono poche: il Preludio op. 45 di Chopin, il Totentanz di Liszt, le Ballate op. 10 di Brahms, il Concerto di Grieg, la Ciaccona di Bach-Busoni, Gaspard de la nuit e le Vaises nobles et sentimentales di Ravel, il Concerto n. 4 di Rachmaninov. Già la sua interpretazione del Concerto in sol di Ravel, che è celebre — un classico dell’esecuzione raveliana — e perfettissima, mi disturba per la totale mancanza di ironia, tanto che qui preferisco addirittura Weissenberg, pianista che di solito mi piace pochissimo. Se poi ascolto le Mazurche di Chopin benedico la musicalità facilona di Artur Rubinstein. E se ascolto da Benedetti Michelangeli i Concerti di Mozart penso che il suo fervido amore per Mozart, stampato in ogni suono, è come l’amore di Respighi per Monteverdi: l’intuizione di una grandezza incommensurabile, il fraintendimento stilistico più perfettamente coerente. Posso però ascoltare Benedetti Michelangeli non seguendo mentalmente il fluire della musica, ma fisicamente il movimento delle dita sulla tastiera. Si dice in genere che il suo sia il più bel suonare possibile, il più naturale, la più lampante incarnazione delle teorie di quel candido innamorato della Scienza che era Tobias Matthay. Secondo me, la tecnica di Benedetti Michelangeli, ben lungi dall’essere naturale, è pressoché mostruosa: quanto di più artificioso si possa immaginare. Naturale è la tecnica di Richter, nella quale ad ogni colore timbrico corrisponde un movimento differenziato del corpo; tavolozza che è tavolozza anche visiva­ mente, orchestra in cui un suono di trombone esce da un trombo­ ne, un suono di violino da un violino. Nell’orchestra di Benedetti Michelangeli il suono del violino, il suono del flauto, il suono del trombone escono dal trombone. Seduto compostamente, lui muo­ ve il dito: io, ascoltatore, non so quale timbro uscirà dalla cordiera; con Richter lo saprei, pregusterei il piacere di sentire che il suono

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dà vita alla mia immaginazione, sentirei l’acquolina nelle orecchie. Con Benedetti Michelangeli mi sento dominato: so che il prossimo suono sarà la conseguenza logica del suono appena uscito, ma non posso prevedere in che consista la logica. Per fare un paragone un po’ banale, quando ascolto il Ricercare a 6 dell’Offerta musicale trascritto da un qualsiasi esperto strumentatore so bene che se il Thema Regium inizia al corno inglese resterà al corno inglese fino all’ultima nota; se lo ascolto nella trascrizione di Webern so solo che il timbro cambierà forse ad ogni suono. E siccome ho fiducia nella logica di Webern sto anche tranquillo, ma non mi posso adagiare nella contemplazione della musica: devo attaccarmi al singolo intervallo. Faticoso ed emozionante. Ma non saran trucchi da stregone? C’è infatti il sospetto che il pianoforte di Benedetti Michelangeli sia manipolato in un qualche modo misterioso. Benedetti Michelan­ geli suona sul suo pianoforte e se lo porta in giro; una volta, si dice, se lo portò in Giappone, e il pianoforte, imbragato e sollevato dalla gru fuori dalla pancia del piroscafo, per via di una manovra di­ sgraziata, precipitò nelle acque del porto di Tokyo. Rubinstein provava il pianoforte, che vedeva per la prima volta, facendovi scorrere le dita in un arpeggio, Richter prova il pianoforte solo se di pianoforti ne trova due: li prova per poter scegliere il peggiore; per Backhaus qualsiasi pianoforte andava bene, mentre non andavano bene i seggiolini, tanto che si portava in tournée il suo: quindici chili di peso, il terrore degli uscieri che andavano a ritirarlo al bagaglio-appresso. Benedetti Michelangeli, non che del seggiolino, non si fida che del suo pianoforte, di tecnici di sua scelta, di aggeggi che misurano fin la variazione di calore nel telaio quando le lampade della sala sono accese o sono spente. La vigilia e il giorno del concerto li passa in clausura con i tecnici, a lavorare sul pianoforte come il corridore di formula uno lavora sul suo bolide assistito dai meccanici. Ci vogliono ore per preparare il pianoforte, se si vogliono eseguire Sonatas and Interludes di Cage, e ci vogliono ore per preparare il pianoforte di Benedetti Michelangeli. Il pianoforte preparato di Cage non sarà per caso un’allegoria parodistica delle preparazioni alla Benedetti Michelangeli? Forse. Potrebbe darsi. Ma anche qui sarebbe facile scivolare

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verso la barzelletta, e sarebbe sbagliato. Come nel panstrutturalismo di Stockhausen e di Boulez anni 50, tutte le qualità del suono devono essere prederminate. Benedetti Michelangeli ha deciso le proporzioni di intensità, timbri e durate dopo uno studio minu­ zioso, ha superato ogni problema di incoerenza, ha stabilito un percorso immutabile; così come gli dà fastidio la nota sbagliata (sbagliata perché il dito non ha toccato il tasto giusto), gli dà fastidio il timbro casualmente sbagliato, e in un delirio di onestà non vuole che a sbagliare sia non Benedetti Michelangeli — fal­ libile, in minima misura, come tutti i mortali — ma il pianoforte. Attilio Brugnoli, nella sua prosa umbertina, spiega eccellentemente le trafitture dell’errore: «Lo sbaglio di una nota produce negli esseri sensibili una perturbazione nervosa che, influendo sul gioco mu­ scolare, si traduce quasi sempre in irrigidimento. Negli esseri più sensibili, il non poter ottenere un dato effetto fonico produce una perturbazione analoga». Si badi: lo sbaglio del testo, la «nota accanto» di cui parla Bianche Selva è sempre imputabile al pianista; lo sbaglio di «effetto fonico» può essere dovuto al pianista come può essere dovuto al pianoforte. Benedetti Michelangeli è disposto a sbagliare in proprio, non ad esser tradito dallo strumento, e vuole il pianoforte pronto a tutto, infallibile, quasi immateriale. E lo toccherà, suscitandone un universo di timbri che scaturiscono di­ rettamente dal suo cervello, con un’assenza di gestualità che sotto­ linea l’impiego del timbro come struttura più che come colore. Nelle incisioni degli anni 40 e 50 si coglie in Benedetti Miche­ langeli la crisi della tradizione, della musica intesa come linguaggio e dell’interpretazione intesa come ricerca di significati ognora rinnovantisi. Benedetti Michelangeli, negli anni 40, venne ritenuto in Italia pianista «moderno» e in quanto tale fu difeso da Alfredo Casella contro chi lo giudicava freddo e manierato. La pretesa «modernità» di Benedetti Michelangeli nasceva in realtà da un equivoco, e cioè dalla sua estrema cura del particolare, dal suo controllo del suono e dal suo autocontrollo, dal suo ascetico di­ stacco e dalla volontà di non eccitare il pubblico. I problemi del repertorio e dello stile, che in qualsiasi momento storico definisco­ no la «modernità» di un interprete, erano invece affrontati da Benedetti Michelangeli con atteggiamento prudente e conservatore, del tutto aderente alla non certo rivoluzionaria cultura neoclas-

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sica italiana. Sul repertorio ho già detto, implicitamente, poc’anzi: Benedetti Michelangeli eseguì da ragazzo varie composizioni di Schonberg in conferenze curate da Luigi Rognoni, e poi mise da parte Schonberg non appena potè scegliere un repertorio più gra­ dito, non affrontò mai Bartók, Stravinsky e Prokofiev, cioè gli autori che per la sua generazione rappresentavano il problema storico da risolvere, non affrontò neppure Busoni, Gian Francesco Malipiero, Daliapiccola, Petrassi, si orientò piuttosto sul repertorio francese (Debussy e Ravel, ma non Messiaen) che Gieseking aveva ormai fatto accettare al pubblico più tradizionalista e più pigro, e di «moderno» portò di preferenza in giro certi pezzetti e pezzettini che facevano persino sensazione per la loro mediocrità. Anche il suo repertorio classico e il suo repertorio romantico erano fatti delle cose le più risapute, tanto che alcuni numeri insoliti — una Suite di Weiss trascritta dal liuto, una Sonata di Clementi (del resto riadat­ tata virtuoslsticamente al modo di Tausig o di Hofmann), l’Egloga di Liszt, le Ballate di Brahms — spiccavano più come dandistiche eccentricità che come indizi di una ricerca. L’unico autore sul quale Benedetti Michelangeli dimostrasse un profondo impegno cultu­ rale fu Mozart, ma anche in questo caso battendo le vie dei Con­ certi, già strabattute da Schnabel, Fischer, Gieseking, e schivando accuratamente i sentieri pressoché inesplorati delle Sonate e delle Variazioni. Benedetti Michelangeli offriva dunque al pubblico l’occasione di risentire pezzi noti fino alla nausea, ma in esecuzioni di una perfe­ zione formale quale ben di rado si era udita: si potrebbe parago­ narlo ad uno stampatore che ripubblica solo testi di sicuro smercio, in edizioni di una bellezza e di una eleganza uniche. In questo suo repertorio di pagine scelte Benedetti Michelangeli si muoveva del resto come un artista di corte: curata ogni nota, ogni accento, ogni inflessione, minuziosissimo il fraseggio, calcolatissimi i rapporti timbrici, e parco il gesto, impassibile il volto. E l’atmosfera dei suoi concerti era di attesa perenne e mai delusa, di stupore attonito, di incantamento. In questo atteggiamento da esteta del suono pianistico non mancavano però le preoccupazioni stilistiche. Si ascolti la Andaluza di Granados. Benedetti Michelangeli non esegue il pezzo con compostezza: con controllo e con distacco sì, ma non con compo­

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stezza di stile. Il sentimentalismo liberty di Andaluza viene piena­ mente accettato, ed il ritmo è perpetuamente oscillante e ansi­ mante, e la melodia sospira e geme, si inalbera e si deprime. Benedetti Michelangeli suona stilisticamente come Granados, che di Andaluza ci ha lasciato un rullo di pianoforte meccanico, e lo stesso stile lo ritroviamo nella Malaguena di Albeniz. Orbene, in Albeniz e in Granados erano assai più asciutti e più composti pianisti molto più anziani di Benedetti Michelangeli, come Rubin­ stein, Lhevinne, Cortot, mentre Benedetti Michelangeli sembra semmai più prossimo a Granados stesso o a Rosenthal o a Sauer. Di dove proveniva questa collocazione stilistica anacronistica? Mi sembra probabile che provenisse a Benedetti Michelangeli dai suoi maestri, da Paolo Chimeri (nato nel 1852) e da Giovanni Anfossi (1864), didatta, quest’ultimo, di grande valore, ma la cui posizione culturale non era certamente d’avanguardia («Anfossi ha detto a proposito della “Sonatina seconda” che io non so quel che faccio, "... creda a me”», scrive Busoni alla moglie il 28 settembre 1913). Il fatto più sorprendente è però che la collocazione stilistica di Albeniz e Granados, veramente, a suo modo, perfetta, non è quella che Benedetti Michelangeli attribuiva al liberty. Ci si accorge, ascoltandolo in Chopin e nel Concerto di Schumann inciso nel 1942, che per lui quella collocazione stilistica era quella, tout court, del romanticismo. E qui veramente si scorgono i limiti ristrettissimi della posizione culturale di Benedetti Michelangeli, limiti che nel 1940 lo ponevano più in arretrato non diciamo di uno Schnabel o di un Gieseking o di un Serkin, ma persino di altri giovani pianisti italiani, come Scarpini (1911) e Gorini (1914), certamente di lui meno dotati quanto a senso estetico e a dominio della sonorità, e insomma quanto a «classe», ma molto più aperti ad esperienze culturali nuove. Lo stile esecutivo che Benedetti Michelangeli adotta per i ro­ mantici non viene in sostanza smentito neppure nelle Variazioni su un tema di Paganini di Brahms, che in apparenza sono fraseggiate con minor sentimentalismo. La differenza proviene a parer mio dal carattere di studi della maggior parte delle variazioni; ma non appena Brahms cambia registro (si vedano la variazione X del primo libro e le variazioni V e XII del secondo), Benedetti Miche­ langeli ripiomba in pieno liberty, in pieno Granados. Singolare, e

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veramente inconcepibile negli anni 40, è poi la disinvoltura con cui viene mutato l’ordine delle variazioni, che diventa il seguente: tema, variazioni I-VIII del primo libro, variazioni X-XII del primo libro, variazioni I-II del secondo libro, variazioni V-VIII del secon­ do libro, variazioni X-XIII del secondo libro, variazioni III-IV del secondo libro, variazioni XIII del primo libro, finale del primo libro. Oltre alle mutazioni d’ordine mancano dunque le variazioni n. 9 del primo e del secondo libro, le variazioni n. 14 del primo e del secondo libro, il finale del secondo libro. Questa disinvoltura nel trasporre e sopprimere, sia essa dovuta a Benedetti Michelangeli o all’Anfossi, ci riporta indubbiamente alla problematica affrontata dalla prima generazione di interpreti che presentarono al pubblico le aspre e ardue Variazioni di Brahms e che intervennero per mitigare un testo che pareva — a Clara Schumann, ad esempio — arido ed ineseguibile nella sua interezza. Ma se questa era la posi­ zione di Heinrich Barth (nato nel 1847) o di Ignaz Bruii (1846), negli anni 40 erano operanti pianisti come Backhaus e come Petri, che le Variazioni le eseguivano integralmente. E non si capisce perché Benedetti Michelangeli, di quarantanni più giovane, non dovesse fare altrettanto. Altra sorpresa, la Ciaccona di Bach-Busoni. Viste le premesse ci si aspetterebbe una versione liberty, come quella di Busoni regi­ strata su rullo di pianoforte meccanico. E invece abbiamo una versione «classica», compostissima, così come «classica», pur nella sua dimensione accentuatamente virtuosistica, è l’esecuzione della Sonata op. 2 n. 3 di Beethoven. Della Sonata op. 2 n. 3 di Beetho­ ven, che fu uno dei grandi cavalli di battaglia di Benedetti Miche­ langeli, abbiamo tre esecuzioni: una realizzata in studio nel 1943, una registrata in pubblico ad Arezzo nel 1952 ed una in pubblico a Varsavia nel 1955. Le esecuzioni in pubblico, press’a poco, si equivalgono, ma quella di Varsavia è più «miracolosa», mentre in quella di Arezzo si trova qualche piccolissimo pasticcio in un passo del primo tempo e in un passo dell’ultimo tempo. Altri pianisti potrebbero accendere un cero per aver limitato i danni a questa insignificante misura, ma Benedetti Michelangeli, accanito perfe­ zionista, avrà passato la notte intera ad esorcizzare quelle poche note sbagliate. Detto per inciso, ed interrompendo per un momento il discorso,

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i recitals registrati negli anni 50 e 60 danno modo di constatare ad ascoltatori più giovani di me ed ai posteri il dominio incredibile che il Benedetti Michelangeli esercitava sull’esecuzione, e senza quasi — negli anni 50 — ridurre il rischio con accorgimenti prudenziali. Dominio che non era solo quello di azzeccare sempre il tasto giusto, ma anche di controllarne sempre la discesa, quei dieci millimetri di corsa all’ingiù durante la quale si gioca la qualità del suono. La precisione della nota, la precisione della qualità. Il Benedetti Mi­ chelangeli degli anni 50 possedeva questo segreto in un modo che faceva ammattire la gente del mestiere. Carlo Vidusso era arrivato a contare industriosamente le note sbagliate nei recitals di Benedetti Michelangeli: dieci, dodici, a volte due dozzine, a volte — Vidusso lo diceva con sbalordita ammirazione — nessuna. A quanto si racconta, un simile controllo dovrebbero averlo esercitato solo Liszt, Diémer, Busoni, Godowsky, Lhevinne. Io ricordo qualche recital perfetto — ma solo qualcuno — di Casadesus, di Arrau, di Lipatti, di Ashkenazy; non mi è mai capitato di constatare un così alto grado di dominio della materia esercitato con la regolarità di Benedetti Michelangeli, la regolarità di decine di recitals e di con­ certi con orchestra da me ascoltati. Per tornare alla Sonata op. 2 n. 3 di Beethoven, l’interpretazione del 1952 è un po’ diversa da quella del 1943, ma non ne contrad­ dice le scelte culturali di fondo. L’incisione del 1943 è un docu­ mento preziosissimo del modo giovanile di affrontare un testo classico di Benedetti Michelangeli, e più in generale è un docu­ mento della cultura italiana nel periodo fra le due guerre. Nelle prime incisioni di Benedetti Michelangeli si può notare, per quanto riguarda la qualità del suono, una probabile influenza di Gieseking. Ma i legami con la cultura italiana sono primari ed evidentissimi: Benedetti Michelangeli è certamente, tra i pianisti italiani, il più perfetto prodotto di un movimento di cultura sviluppatosi soprat­ tutto sotto l’azione di Alfredo Casella, e che porta il mondo musi­ cale italiano ad assumere posizioni di scrupolo filologico, di ricerca stilistica e di cautela nell’abbandono sentimentale, che capovolgo­ no le posizioni prima dominanti in Italia. In un tale clima di cultura, un pianista dotato di una vibratile sensibilità musicale, com’è Benedetti Michelangeli, riesce così ad eseguire l’Adagio della Sonata con un ascetico rigore, che non è conseguenza di interiore

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freddezza, ma che è piuttosto il punto di arrivo di una coraggiosa, inflessibile autocritica. Il fraseggio è lineare ma ricco di sfaccetta­ ture, il rubato è finissimo, il suono viene attaccato con tesa atten­ zione, tanto che in qualche momento — l’effetto è assai suggestivo — si sente un secondo colpo molto tenue, dovuto al rimbalzo del martelletto dopo la percossa. L’esecuzione dell’Adagio può essere considerata esemplare, tranne che in alcuni particolari, nei quali Benedetti Michelangeli fu condotto fuor di strada da piccole mo­ dificazioni del testo introdotte da Alfredo Casella, revisore che in genere rispettava le note ma si concedeva non poche licenze con i cosiddetti «segni di espressione». Per esempio, alla battuta 80 Casella, senza avvertire il lettore, sposta sulla prima nota il segno di sforzato che Beethoven aveva collocato sulla seconda nota: accen­ tuazione, quella di Casella, tipicamente romantica, che non ha nulla a che vedere con lo stile beethoveniano del 1795. Benedetti Michelangeli, senza sua colpa, viene indotto in errore dall’arbitrio di Casella, anche se riesce a mascherare l’errore cercando di uni­ formare tutta la frase allo spostamento di accento. Così succede anche in altri punti sia dell’Adagio che degli altri tre tempi. Ma penso che, se Casella avesse avvertito il lettore dei suoi interventi, Benedetti Michelangeli non avrebbe accettato le modificazioni, così come non accetta altre modificazioni caselliane suggerite in note a piè di pagina (anche se ne introduce qualcuna di suo, molto curiosa). Tutta l’esecuzione risente comunque dei segni di fraseggio che Casella introduce di soppiatto, inventandoli o modificando i segni di Beethoven. L’esecuzione dell’Adagio è però di grande bellezza. Negli altri tre tempi non viene invece raggiunta una completa unità di inter­ pretazione. Non mi pare che si possa biasimare, come qualcuno aveva fatto a suo tempo, l’impostazione virtuosistica dell’esecuzio­ ne o, in altre parole, le altissime velocità realizzate. La Sonata, in verità, è virtuosistica, come in genere era, alla fine del Settecento, l’ultima di una serie di tre Sonate; e Beethoven era un virtuoso, che non sdegnava affatto l’ebbrezza della bravura strumentale. Sem­ mai, il virtuosismo beethoveniano sarebbe stato da recuperare in termini storicistici (come fa oggi Ashkenazy) piuttosto che assoluti; ma questo, negli anni 40, era un discorso futuribile. Secondo me, il difetto — che ci siano delle manchevolezze è evidente a chiunque

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— proviene invece da una resa troppo letterale del testo, o meglio, da una mancanza di individuazione di elementi tematici diversi. Lo stacco iniziale del tempo viene mutato in termini ristrettissimi e non viene quasi mutata la qualità del suono, così che alcuni episodi vengono costretti come in una camicia di forza. Nella parte centrale dell'ultimo tempo, ad esempio, c'è persino, direi, l’orgogliosa de­ terminazione di non ammorbidire l'espressione e di non cedere alle lusinghe del secondo elemento, l’elemento pastorale, del terzo tema. Nel terzo tempo la velocità estrema impedisce invece l’ese­ cuzione dei caratteristici sforzato in contrattempo. Nel primo tem­ po si nota però un accenno a superare l’andamento rigidamente militaresco del terzo e del quarto tempo. L’esecuzione della Ca­ denza è perfetta, e spesso, anche nei passi di bravura, l’esecutore riesce a spezzare la geometria dell’esecuzione letterale, anche se talvolta non arriva a trovare la giusta misura e dà l’impressione di precipitazioni eccessive. Nelle esecuzioni del 1952 e del 1955 troviamo la completa maturazione, cioè una varietà di fraseggio e di suono molto mag­ giore. Troviamo anche velocità un po’ meno elevate e quindi un virtuosismo che, pur permanendo strepitoso, è stato privato di quella punta di giovanile esibizionismo che s’avvertiva nell’esecu­ zione del 1943. Esecuzioni, date le premesse, di una bellezza ab­ bagliante e suprema: in circa dieci anni Benedetti Michelangeli aveva toccato un confine invalicabile. Ma in quei dieci anni era anche finita la guerra, si erano riaperte le frontiere, si erano risentiti Schnabel e Backhaus, era stato pubblicato l’Urtext Henle, erano stati dibattuti problemi di filologia e di prassi esecutiva. Possibile che tutto ciò non dovesse mettere in crisi i fraseggi inventati di sana pianta da Alfredo Casella nel 1918? Non per Benedetti Michelan­ geli, il quale aveva continuato a limare quella Sonata, su quelle premesse, senza accorgersi che Beethoven poteva essere riscoperto e che c’era da scoprire tutto Schubert. Non è il caso che ritorni sull’argomento, ma è certo che l’ammirazione per Benedetti Mi­ chelangeli non va quasi mai disgiunta dallo sgomento per la sua tetragona solitudine di accanito individualista. Eppure proprio i limiti culturali finiscono per rovesciarsi para­ dossalmente in posizioni di avanguardia quando Benedetti Miche­ langeli, sostanzialmente straniero al suo tempo, si ancora ad un

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passato che non ripete però passivamente. La calibratura del suo­ no, la costruzione di un oggetto sonoro in cui viene cristallizzato anche il fraseggio collocano Benedetti Michelangeli in una posi­ zione che, in senso lato, può essere paragonata a quella di Stock­ hausen anni 50. La smembratura della forma e l’indifferenza al suono collocavano Carlo Vidusso in una posizione che poteva essere paragonata a quella di Cage. Intorno agli anni 50 i pezzi giusti per Benedetti Michelangeli sarebbero stati le Quatre Études de rythme di Messiaen e, per Vidusso, Music of Changes di Cage: il fatto che il secondo scegliesse invece il Concerto in sol minore di Pick-Mangiagalli e il primo Suburbis di Mompou dimostra quanto i due fossero estranei alla problematica della musica contemporanea. Eppure, nel campo dell’interpretazione, le loro posizioni erano, mi sembra, di estrema avanguardia. Se Vidusso fosse stato più... colto, se avesse conosciuto come Cage l’I-Ching avrebbe potuto — e forse il suo spirito motteggia­ tore non lo avrebbe rifiutato — trasferire nell’esecuzione la sua metodologia di studio ed offrire al pubblico i testi frammentati e ricomposti secondo successioni stabilite dal sorteggio o dal caso. La profonda contraddizione tra metodologia di studio ed esecuzione portò invece Vidusso a rinunciare al concertismo dopo aver dovuto cancellare il Gradus ad Pamassum già annunciato in quattro serate e già preparato — cento Studi cento! — a una riga per volta. Bene­ detti Michelangeli si spostò gradualmente verso l’analisi della tra­ dizione interpretativa. Ascoltare il Carnaval di Schumann o il pri­ mo libro dei Preludi di Debussy da Benedetti Michelangeli è un’esperienza irritante e rivelatrice insieme. Cura del particolare, come sempre, favolosa, realizzazione del segno scritto di una pre­ cisione che tocca non di rado la pignoleria dimostrativa. Eppure non si tratta affatto della precisione di un Arrau, disposto a seguire l’autore — il testo stampato o manoscritto, in realtà — anche a costo di apparir pazzo. C’è sempre qualcosa che Benedetti Miche­ langeli non rispetta, c’è sempre qualche aggiunta, c’è sempre qual­ che modificazione, c’è sempre — soprattutto! — un suono stilisti­ camente paradossale, c’è sempre un’interpretazione datata e pie­ trificata. Il Carnaval suo ricorda il Carnaval di Emil von Sauer o di Artur Rubinstein, il suo primo libro dei Preludi riconduce Debussy in un ambito fine-Ottocento, nell’ambito culturale in cui, penso, lo

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Interpretazione al quadrato

avrebbe collocato Giovanni Anfossi: Benedetti Michelangeli non è pittore dalla realtà, ma dalla fotografia, e interpreta la fotografia, non la realtà. Ciò non si coglie bene, a tutta prima, quando si ascolta da Benedetti Michelangeli il Carnaval. Il Carnaval dura poco meno di ventitré minuti nell’interpretazione di Rachmaninov, che taglia parecchi ritornelli; dura ventisette minuti con Kempff e poco più di ventisette con Rubinstein, che sopprimono pure loro qualche cosetta; dura ventotto minuti e mezzo con Karl Engel ed in genere sta tra i ventisette e i trenta minuti. Arrau e Weissenberg avevano portato la durata a trentuno minuti e mezzo. Benedetti Michelan­ geli arriva a sfiorare i trentasette minuti! Si ha un bel dire che il tempo musicale è relativo e che durate molto diverse possono essere ugualmente legittime, ma la sorpresa, con Benedetti Miche­ langeli, è forte. E anche il disorientamento. Eppure, nel corso di quei trentasette minuti avviene che il disorientamento iniziale si trasforma piano piano in curiosità e infine in ammirazione. Ammirazione, innanzitutto, per il valore dell’analisi paziente, minuziosa, capillare, pignola come in un saggio di filologia: i segni del testo vengono realizzati con pacata accuratezza, i particolari poco meno che ordinari sono chiosati con una speciale sottolinea­ tura, il fraseggio comporta frequenti respiri e luftpausen. Ammira­ zione, poi, per il rapporto tra l’esposizione analitica e la sonorità. I tempi generalmente assai rallentati rispetto alla tradizione diven­ tano del tutto «giusti» perché la sonorità è pienissima, densa, tonda, sempre imperiosa, sia quando romba come tuono profetico che quando sussurra come vento divino. Si potrebbe dire che questo tipo di sonorità parrebbe adatto alle Rapsodie ungheresi di Liszt più che a Schumann; ma non c’è dubbio che non sia il suono adatto a questo modo di intendere Schumann. Ammirazione, infi­ ne, per la rinuncia al virtuosismo. Già Weissenberg aveva rallen­ tato molto, rispetto alla tradizione, i movimenti lenti. Ma, con un tratto tipico del virtuoso popolare, aveva staccato a tempi incredi­ bilmente veloci certi movimenti rapidi, mettendosi così fuori della portata di eventuali competitori. I tempi di Benedetti Michelangeli, invece, potrebbero andar benissimo per allievi anche non molto dotati. Una grande interpretazione, dunque, in tutti i sensi. Non si

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tratta però, e questo fatto rappresenta il momento veramente più originale e affascinante dell’interpretazione di Benedetti Miche­ langeli, di un’interpretazione basata sul testo; si tratta invece, come già dicevo, di un’interpretazione basata sull’interpretazione tradi­ zionale, un’interpretazione che è l’analisi di un’altra interpretazio­ ne. Ci si accorge di ciò quando si segue con attenzione il rapporto tra l’interpretazione di Benedetti Michelangeli e il testo. L’estrema sottigliezza analitica, in realtà, non viene estesa a tutti i segni, perché certe soluzioni sono le stesse soluzioni compromissorie della tradizione: per esempio, il testo schumanniano presenta, alla bat­ tuta 31 di Préambule, uno strano sforzato alla mano sinistra, e alle battute 47 e 67, sempre alla mano sinistra, un problematico forte-. sia lo sforzato che i forte, per tradizione, non si realizzano. Li realizza Arrau, che rispetta veramente tutti i segni, a rischio di apparir pazzoide per chi non conosca a fondo i testi; Benedetti Michelangeli non li realizza. E lo stesso discorso varrebbe per molti altri punti. L’analisi della tradizione si spinge anche più oltre, fino ad acco­ gliere certe trasposizioni d’ottava del basso e certe aggiunte della quinta al basso, che erano tipiche dei pianisti del tardo Ottocento e che sono oggi ammissibili solo in un contesto di citazione della tradizione. Alla fine di Pierrot Benedetti Michelangeli ottiene con il pedale un effetto di lieve ribattitura del mi bemolle basso, ripren­ dendo il Bebung in cui, si dice, era maestro Karl Tausig. E, più in generale, i frequenti attacchi ritardati della melodia rispetto al basso sono di tipo nettamente tardo-ottocentesco. Resterebbe da vedere se Benedetti Michelangeli sia veramente conscio del carat­ tere della sua interpretazione. Ma, consciamente o no, Benedetti Michelangeli apre con il Carnaval una prospettiva critica che pochi interpreti di oggi hanno affrontato e che, penso, dovrebbe essere passibile di ulteriori sviluppi. L’interpretazione del primo libro dei Preludi, ultima e più tipica tra le interpretazioni di musiche di Debussy, si muove nella stessa direzione. La scelta, è ovvio, è deludente: da Gieseking in poi chi affronta i Preludi affronta entrambi i libri, non solo il primo, che è il più pacificamente accettato, il più conclusivo di un’epoca, il meno problematico. Un grande interprete debussiano di oggi tro­ verebbe ancora problemi nel secondo libro dei Preludi, ne trove-

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rebbe altri, e molti, negli Studi. Ma Benedetti Michelangeli, com’è suo costume, non tocca testi che presentino problemi storico-critici, e anche in questo caso ciò che gli preme è la perfetta resa sonora di un’opera che il pubblico accetta senza riserve. Ora, entro questi limiti cronici l’esecuzione di Benedetti Michelangeli rende la grafia di Debussy con una precisione che sa di miracolo: difficile trovare una più perfetta resa delle battute 12 e 14 del primo Preludio (dove tutti conoscono il problema e pochissimi lo risolvono con eleganza) o del fraseggio del Preludio n. 11 o dei gruppetti del n. 12 o di infiniti particolari che di solito si perdono o non sono così tersa­ mente chiari. Ci sono, insomma, i segni di un cervello musicale che lavora intensissimamente. Ciò che lascia perplessi è la qualità del suono ed i rapporti sonori tra le parti. Il suono è intenso, scultoreo, declamatorio, i rapporti sono scenografici, con prospettive lunghe e distanziate. Conviene, questa impostazione di sonorità, a Debussy? o non converrebbe piuttosto, tutt’al più, al Debussy di Pour le piano, e pienamente al Franck del Preludio, corale e fuga e del Preludio, aria e finale, all’Albeniz di Iberia, al Rachmaninov dei Momenti musicali, al Reger delle Variazioni e fuga su un tema di Bachi II preludio n. 9, La serenade interrompue, non assomiglia un po’ troppo alla vecchia Malaguena di Albeniz? Insomma, è giusti­ ficata quella che a me sembra una decisa retrodatazione del primo libro dei Preludi? Il problema è sempre lo stesso. Anche la più perfetta resa del testo — ed a ciò mira Benedetti Michelangeli — non può evitare l’evidenziarsi di una posizione storico-critica, che è espressa dalla presenza dell’oggetto sonoro prodotto. E a me sembra che Bene­ detti Michelangeli tenda a ricondurre i Preludi in un ambito stori­ co-critico che ne attenua o ne annulla la novità, e li inserisce in un’ultima spiaggia dell’ottocento in cui il parigino Debussy non è tanto diverso dagli spagnoli pariginizzati Albeniz e Granados. Ca­ pirei forse questa collocazione in un interprete che leggesse poi in modo radicalmente opposto il secondo libro dei Preludi e gli Studi. Benedetti Michelangeli potrebbe fare qualcosa del genere? Non credo. Credo che l’originalità maggiore di Benedetti Michelangeli consista proprio nel darci interpretazioni stilisticamente datate ep­ pure non semplicemente accademiche, ripetitive del passato: una forma di manierismo, come ho già accennato, applicata non al testo

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ma alla sua interpretazione in un certo momento di storia della cultura, che per Benedetti Michelangeli è la cultura neoclassica italiana. E ciò scandaloso? Spesso la critica se ne è scandalizzata. Scri­ vendo questo capitolo ho però ripensato ad un’osservazione che sentii più di trentanni addietro da Gino Tagliapietra, e che adesso mi sembra acutissima. Conobbi Tagliapietra nel 1948, ad un con­ corso di pianoforte che si svolgeva ad Udine: lui, sessantunenne, stava nella commissione giudicatrice, io, diciassettenne, concorre­ vo. Suonai malissimo e fui subito eliminato. La sera della... disfatta stavo andando al circo quando vidi Tagliapietra in un’osteria: tavolo sgombro, un recipiente da un quarto (di quelli antichi, con bollo) posato su un piattino, un bicchiere, una piletta di piattini a sinistra. Entrai e mi presentai. Coi capelli lunghi e grigiastri, con una palandrana antracite che doveva risalire ai suoi anni viennesi, con il cravattone a farfalla e con gli occhi pungenti sotto le pesanti palpebre, Tagliapietra sembrava un segretario di Cari Marx, ma distaccatamente gentilissimo e persino cordiale. A Tagliapietra non era piaciuta la mia esecuzione di Eroica di Liszt (il che non mi stupiva); non gli piacevano però neppure Lessona e Vincenzo Fertile, che erano allievi di Benedetti Miche­ langeli e che si sarebbero poi piazzati ai primi due posti del con­ corso, e non gli piaceva quasi niente dei pianisti contemporanei. Parlava con calma: «Quando si andava ai concerti di Busoni o di d’Albert o di Reisenauer o di altri si sentivano delle personalità; i pianisti di oggi non hanno personalità». Tacque, bevve, pensò. E aggiunse: «Benedetti Michelangeli meno di tutti». Mi piaceva il circo, e Tagliapietra era del resto in vena di medi­ tare le virtù del contemporaneo rosso friulano più che le magagne dei pianisti contemporanei. Perciò me ne andai. Tornando indietro verso l’una di notte vidi che Tagliapietra stava ancora seduto al tavolo: la scena era identica, con l’unica variante della piletta dei piattini divenuta torre. Entrai. Tagliapietra prese a parlare di Bu­ soni, di cui era stato allievo e che per me rappresentava una leggenda. Mi raccontò molte cose, non aneddotiche, ma di mestie­ re, e siccome mi stupivo e ponevo domande e un po’ mi scandaliz­ zavo mi disse: «Busoni non si può discuterlo. Bisogna prenderlo com’è».

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Ho notato tante volte che i signori del mestiere sanno scoprire il nocciolo dei problemi critici e non sanno resistere alla tentazione di usare a rovescio le loro fulminanti intuizioni. Rispetto al contesto storico cui Tagliapietra si riferiva era vero, ed è vero che Benedetti Michelangeli non ha personalità. Ma quanto c’è di eterno in quel contesto? Si può certamente discutere Benedetti Michelangeli e, moralisticamente, cercare di ridimensionarlo. Ci ho provato varie volte, poi ho tentato di capire com’è fatto. E allora? Preferirei che fosse diverso, ma ho dovuto accorgermi che bisogna prenderlo com’è.

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Di pianisti bizzarri ce ne sono stati sempre, e non pochi. Di qual­ cuno, come Pachmann, ho parlato, di qualcun altro ho taciuto. La bizzarria di Pachmann consisteva soprattutto nei suoi sermoncini elargiti al pubblico e nella sua faccia tosta quando commentava per primo, ammirativamente e latreuticamente, ciò che gli era riuscito bene. Anche Francis Piantò, che fu considerato da molti il più grande pianista francese della seconda metà dell’ottocento, ma che suonò pochissimo e visse appartato a Mont-de-Marsan, faceva sa­ lotto in pubblico. Alfredo Casella, che lo conobbe al Casino di Dieppe nel 1902, dice: «Era un vecchio spaventosamente maniaco. Si recava al concerto con una enorme valigia piena di ogni sorta di cose, e persino di una collezione di dodici spazzolini da denti tutti diversi, valigia che avevo l’alto onore di portargli». Artur Rubin­ stein racconta di un recital a due pianoforti, Piantò e Saint-Saens, con cerimoniosi scambi di complimenti: «“Bravissimo, vecchio mio!”, poteva dire Saint-Saèns quando l’altro aveva eseguito un passo brillante. “Ah, quale eleganza!”, gridava Piantò quando Saint-Saèns aveva perfettamente delineato il modellato di una fra­ se». Io ho conosciuto un pianista che si giustificava con il pubblico quando un passo difficile gli veniva molto pasticciato (il che acca­ deva spesso): «Questo, a casa, non l’avevo sbagliato mai», diceva, e dopo un momento di meditazione magari aggiungeva, implorando vigliaccamente indulgenza: «Ho un mal di testa feroce». I suoi recitals — suonava di rado, e quasi sempre gli stessi pezzi — cominciavano di norma con il Concerto in re minore di Vivaldi trascritto da August Stradai, che inizia con dei re all’estremità

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grave, pianissimo e poi crescendo e crescendo e crescendo, Carlo Vidusso, una volta, smontò nel pomeriggio la tastiera, cosparse il fondo di un bello strato di talco e rimise a posto i tasti. La sera, a mano a mano che il crescendo avanzava, dagli interstizi fra tasto e tasto cominciarono a sbuffar fuori nuvolette di talco che divennero alla fine nuvola, mentre il pianista tossiva e continuava ad affon­ dare i suoi re, senza capire che stesse succedendo e chiedendo scusa al pubblico — il buonuomo — per la tosse. Non è però di tipi bizzarri che voglio parlare, ma di coloro che, dotati di grandi capacità e qualità, sono in qualche modo dei «disadattati», dei «diversi» nella vita musicale quale si è venuta configurando nel nostro secolo. Di qualcuno — Nat, Erdmann — ho già detto; di altri, più giovani, parlerò in questo capitolo che ho intitolato all’esercito di Arlecchino, a quell’esercito di originali e di mezzi diavoli che seguiva un originale e un mezzo diavolo come Gargantua. Appena un accenno su Witold Malcuzynski, polacco giramondo che si sposò in Francia, visse in Portogallo e in Sud America, morì, cittadino argentino, a Palma di Maiorca. La sua fede si chiamava Chopin, e delle musiche di Chopin egli ci ha lasciato interpretazioni da ricordare, tra cui almeno una straordi­ naria: la Sonata n. 2. Rachmaninov e Horowitz sono i due termini di paragone dell’interpretazione di Malcuzynski. Ma non per so­ miglianze stilistiche: per analoga violenza, ottenuta con mezzi di­ versi. L’inizio in cui non si riesce ad afferrare la nozione del tempo, poi l’enorme crescendo, l’angosciato attacco del tema, il secondo tema grondante di dolore sollevano irresistibilmente — seppure, ahimè!, banalmente — il ricordo delle sventure polacche, di ciò che Chopin aveva visto e di ciò che videro i polacchi della generazione di Malcuzynski. Nello Scherzo apocalittico, con fraseggi barcollanti che danno l’impressione di un gigante colpito a morte, acquistano forza drammatica persino i colpi del pedale di risonanza, pedale che Malcuzynski lascia risalire senza accompagnarlo e che abbassa vio­ lentemente L Meno sorprendente è la Marcia funebre, che avrebbe forse avuto bisogno di un arbitrio alla Paderewski, cioè il trasporto 1 Anche Richter, come ho detto, usa talvolta il colpo del pedale, ed anche Nat. Malcuzynski «riempie» con il colpo di pedale i vuoti che risultano dal suo fraseggio espressionisticamente spezzato.

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all’ottava bassa di alcuni accordi. Direi che la penultima registra­ zione della Sonata, effettuata da Cortot nel 1953 e generalmente disastrosa, ha però la Marcia funebre che sarebbe adatta all’inter­ pretazione di Malcuzynski. Campane di morte, lugubri cortei, ca­ valli impennacchiati di nero: tutta la paccottiglia delle vecchie interpretazioni programmatiche rivive, con Cortot, in un trionfo del Kitsch di proporzioni epiche. Malcuzynski non è da tanto e la sua Marcia funebre suona a parer mio troppo «moderna» in un contesto di barocchismo esasperato. Il finale di Malcuzynski è di nuovo impressionante. Il Presto e sotto voce di Chopin ha avuto tipiche risoluzioni: un Presto relativo, un vero sotto voce e pochis­ simo pedale di risonanza (Kempff); un Presto velocissimo, un vero sotto voce e poco pedale di risonanza (Benedetti Michelangeli); un Presto velocissimo, ondate di suono continue dal sotto voce al fortissimo, pedale di risonanza quasi sempre (Rachmaninov). Mal­ cuzynski trova una quarta soluzione: Presto relativo, dinamica sul mezzo forte, quasi sempre pedale di risonanza. Ogni soluzione può essere, ed è efficace (anche se qualcuna è in maggiore o minor misura arbitraria); la soluzione di Malcuzynski è una di quelle esemplari per il senso di torbida stagnazione, di macabri sussulti che sprigiona. E può anche darsi che Malcuzynski ci sia arrivato perché non aveva le dita né di Rachmaninov né di Benedetti Michelangeli; ma è fuor di dubbio che il Presto finale diventa con lui la logica conclusione di una interpretazione tutta percorsa da una violenza selvaggia. Malcuzynski non ha inciso molto e la sua carriera concertistica non fu clamorosa perché aveva serate terribili in cui non azzeccava una nota. Ma un posto nella storia dell’inter­ pretazione se lo merita tutto.

Anche Samson Francois che, per sua disgrazia, in sala di concerto poteva essere catastrofico, cominciò in tempi nei quali si preten­ deva dal giovane concertista rifinitura artigianale, aderenza al testo e costanza di rendimento, ed essendo di ciò tutto il contrario non ebbe una carriera facile. Come interprete, per di più, dovette lottare con se stesso per liberarsi dell’ombra gigantesca di Cortot. Nato nel 1924, fu notato da Cortot che lo mandò a studiare — il lettore ricorda Lipatti? — con Yvonne Lefébure, sua assistente:

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Francois passò però al nemico, a Marguerite Long che di Cortot, come già mi è avvenuto di dire, era acerrima rivale. Francois non fu tuttavia fedele ai mani della Long e, non avendo studiato con Cortot, ne subì maggiormente l’influenza. Era del resto difficile, per un pianista francese che prediligeva Chopin, Schumann e Liszt, non avere nelle orecchie la lezione di Cortot. Tuttavia, Francois seppe diventare interprete di Chopin molto diverso da Cortot (e dalla Long), un interprete che ricorda piuttosto Yves Nat ma, stranamente, l’Yves Nat che affronta Beethoven, non Chopin. Quel senso continuo di un gigantesco dramma panico, che Nat scopre in Beethoven ma non in Chopin, Francois lo scopre in Chopin e specialmente negli Studi. Con quelle di Cortot, di Backhaus, di Ashkenazy e di Pollini, quella che Francois ci ha lasciato è una delle interpretazioni fon­ damentali degli Studi di Chopin, una delle interpretazioni che mettono superbamente in evidenza un carattere profondo dell’o­ pera. «Rovine e penne d’aquila», aveva detto Schumann dei Pre­ ludi. Francois, che nei Preludi è ancora vicino a Cortot, applica questo concetto schumanniano agli Studi, e fa di ogni Studio il pannello superstite di una serie di cicli a programma immaginario: lo Studio op. 10 n. 1 è come l’introduzione di una suite gotica, l’op. 10 n. 11 è come la serenata di una notte trasfigurata, l’op. 25 n. 2 — eseguito ad un tempo assai lento e con sonorità cantante — è come la melopea cromatizzante di una scena erodiaca, l’op. 25 n. 11 è l’illustrazione perfetta del titolo apocrifo Vento d'inverno, una specie di battaglia disperata tra i ghiacci della landa russa; e lo Studio op. 25 n. 10 è come lo scherzo di una sonata più terribile, più straziante ancora della Sonata op. 35 con la Marcia funebre. Terribile e straziante al punto da render plausibile una delle tipiche «scorrettezze» di Francois, la penultima battuta eseguita ad una velocità due volte più elevata di quella dovuta. C’è qualcosa di Rachmaninov e qualcosa di Sofronitzki, nel Francois degli Studi di Chopin: una drammatizzazione del fregio ornamentale che pare riportare Chopin al romanzo gotico, al ro­ manzo nero, o addirittura a Sade. E c’è altre volte in Francois, soprattutto in Schumann, una riservatezza ombrosa ed una sono­ rità del tutto opposta a quella degli Studi e molto personale, ottenuta con un uso parco e raffinatissimo del pedale di risonanza.

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Se fosse sempre a questi livelli, Francois andrebbe ricordato tra i maggiori pianisti della storia. Non sempre lo è. Ma morì ancor giovane, a quarantasei anni, in sospetto di droga e con un po’ di aureola di poeta maledetto e, soprattutto, senza aver veramente sviluppato in sintonia con i tempi un talento di interprete forte­ mente creativo, e perciò un po’ anacronistico negli anni 50 e 60, che più tardi avrebbe potuto far di lui un maestro della giovane generazione.

Friedrich Guida, invece, è il ritratto della salute e dell’artista senza problemi di carriera. Chi ricorda l’esecuzione del secondo e del terzo tempo del Concerto n. 4 di Beethoven, che Guida pre­ sentò nella serata dei premiati al Concorso di Ginevra 1946, ha ancora in mente il ragazzo di sedici anni che suonava con la sicurezza e con la maturità di un professionista di quaranta. Nel Concerto n. 4 di Beethoven come nel Concerto n. 1 di Chopin come nel Concerto n. 2 di Saint-Saéns come nella Sonata K 576 di Mozart come nella recentissima Sonata n. 7 di Prokofiev, Guida non aveva da temer confronti. La sua mano era sicurissima, la memoria infallibile, il cervello come programmato da un computer che avesse astratto una media stilistica dagli interpreti tedeschi ed austriaci delle due generazioni precedenti. In pochi anni Guida ampliò enormemente il suo repertorio e divenne un concertista di giro tra i più richiesti, tanto che già prima dei trent’anni era considerato interprete beethoveniano di levatura storica. Raggiunto questo status si fermò o, meglio, rivolse altrove i suoi interessi: interprete acclamato di Beethoven non si accorse del revival di Schubert, interprete di Debussy non si accorse di Boulez, né si interessò di Schonberg e meno che mai di Stockhausen. Guida cominciò invece ad occuparsi seriamente di jazz, partecipando a festivals (anche come esecutore di flauto e di sax baritono) e dando inizio, negli anni 60, a quei concerti misti di «classico» e di jazz che finivano per non accontentare nessuno. I jazzomani fiutavano l’awenturiero in un pianista che puzzava ancora di classico, e i classicomani non gradivano che Guida, smodatamente ingordo del jazz della seconda parte, trattasse così lestamente e rozzamente gli Hàndel e i Bach e i Debussy che metteva nella prima parte del

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programma. Era un po’ come vedere un abilissimo chirurgo che sbriga distrattamente la trapanazione di un cranio e corre subito dopo, spasimando di desiderio, ad una partita di golf. Guida suonava con impegno solo quando il compassato inserviente gli aveva messo vicino al piede destro un tappetino di gomma su cui pestava il ritmo con voluttà; e la sua eccitazione contrastava stranamente con la tranquilla, professionale indifferenza del contrabbassista e del batterista, che di quel jazz schematico dovevano averne man­ giato a palate fin da ragazzi. Passato il tempo dei programmi misti, Guida ricominciò a com­ parire nelle sale di concerto, non di frequente, con programmi «normali». «Normali», ma non suonati «normalmente». Le trentadue Sonate eseguite a Vienna nel 1970, bicentenario della nascita di Beethoven, suscitarono indignate proteste nei circoli tradizio­ nalisti. Alcuni Concerti di Mozart vennero caricati da Guida di un profluvio di ornamentazioni, e la Sonata «per principianti» K 545 divenne con lui un pezzo da metter spavento anche a chi avesse nelle dita la «scuola del concertista» di Czerny. Il Clavicembalo ben temperato di Bach, eseguito in due sole, lunghissime serate, lasciava distrutti i critici e spaventava le vecchie inclini ad appisolarsi: Guida suonava solo o piano (assaipiano) o forte (piuttosto forte) e, come se ciò non bastasse, picchiava il piede in terra (senza tappe­ tino: una botta infernale) quando i soggetti delle fughe erano protetici. Tutta la storia di interprete di Guida, dalla rapida affermazione fino agli anni 70 testimoniava il disagio, la lotta con se stesso di chi, cresciuto senza problemi in mezzo ad una secolare tradizione, sente il pericolo di finire nell’accademismo e non trova altro mezzo di rinnovamento se non lo sfogo furibondo e iconoclastico. Con Schnabel Beethoven era stato un Goethe, vate illuminato che parla ai potenti ed ai popoli della terra; con Arrau, una generazione dopo, diventava un Emerson, pedagogista insigne che, nell’isola­ mento felice di una Castaldia, discute tranquillamente di etica e di estetica; con Guida, due generazioni dopo, Beethoven diventava il professor Unrat dell’Angelo azzurro, filosofo da taverna che grida a se stesso le sue altissime verità senza più crederci neppur lui. Il dominio virtuosistico, che verso il 1970 era totale, consentiva a Guida veri e propri giochi meccanici che annullavano la tensione

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spirituale di un tecnico mediocre come Schnabel, e la durezza della sonorità e la poca varietà nella articolazione del suono denotavano il disprezzo per il pubblico, che non veniva né interessato a ciò che udiva né, tanto meno, sedotto. D’altra parte, impegnandosi nel­ l’incisione di alcuni Concerti di Mozart sotto la direzione di Clau­ dio Abbado, Guida dimostrava di poter realizzare il segno con una cura e con una delicatezza degne di Arrau. Nei due Scherzi D 593 di Schubert dimostrava di sapersi divertire e di saper essere cordiale anche quando non suonava jazz, nei Preludi di Debussy, muoven­ dosi nell’orbita di Gieseking, trovava una sonorità prevalentemen­ te morbida e profonda e una scansione del tempo quasi sempre in rubate^ con molto abbandono ma con un controllo raffinatissimo e ferreo fin nelle più piccole oscillazioni. C’erano insomma ampi motivi per credere che se prima o poi si fosse deciso, come si diceva un tempo, a metter testa a partito, tutti avrebbero dovuto fare i conti con lui. E per «tutti» non si dovevano intendere solo i suoi contemporanei, ma i Cortot, i Backhaus, i Gieseking... Guida non ha messo testa a partito nel senso che intendevano i nostri nonni, ma all’inizio degli anni 80 si è collocato in una posizione che lo accomuna appunto ai Backhaus e soci. Parlo, naturalmente, dell’esecuzione in pubblico — a Monaco, Parigi e Milano — di tutte le Sonate di Mozart2. In maglione scuro e pantaloni usciti dalla bocca di un cane, i capelli grigiastri arricciati sul collo e la pelata ricoperta da un liripipion che lo salva dalle correnti d’aria, Guida entra in scena impersonando visibilmente l’anti-divo, l’anti-esteta, l’anti-sacerdote-dell’arte; le luci in sala re­ stano accese, Guida si inchina come un orso e magari riceve l’ap­ plauso appoggiandosi al pianoforte con le gambe incrociate in una posa alla Gatto Silvestro, comincia a suonare mentre il pubblico ancora non sta zitto. Alla fine sfodera di quei suoi bis che stanno tra il jazz e la vecchia canzone viennese, e fa insomma di tutto per dimostrare — e dimostra — che la nevrosi del concerto non lo tocca minimamente. L’immagine del filosofo da taverna si è tra­ 2 Tutte meno una, la K 309, che ci è pervenuta solo in una copia di mano di Leopold Mozart, padre di Wolfgang. Guida ritiene, secondo me a torto, che Mozart padre abbia «messo le mani» nel testo di Mozart figlio ed esclude perciò la Sonata dal ciclo.

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sferita dal suo modo di interpretare i classici alla sua persona. Il suo modo di interpretare Mozart è invece quello di chi ha lasciato dietro di sé i miti e la filosofia ed ha scoperto la storia. Nessun grande pianista aveva ancora affrontato in toto, in pub­ blico, le Sonate di Mozart; Guida le esegue in tre serate, in ordine cronologico, come se svolgesse un tema sonoro di storiografia mozartiana. Il Mozart che preparava a Salisburgo cinque Sonate da rifilare ai dilettanti è delineato sia nelle sue trovate saporose che nel suo innocente meretricio; il Mozart che quando va a Monaco per la Finta giardiniera trova l’orchestra di corte e fa in modo di ripro­ durne sulla tastiera la magnificenza balza imperiosamente alla vista con la Sonata n. 6 in re maggiore, la Dùrnitz-Sonate. E poi il Mozart in viaggio per Parigi e a Parigi, il Mozart viennese della tragica Fantasia e Sonata in do minore, il Mozart delle due piccole Sonate facili, il Mozart della K 576 che odora già di Flauto magico. La dimensione, dicevo, non è mitica ma storica, e perciò Guida fa vedere non un Mozart ma tanti non un artista che domina il mondo con un’idea traente ma un artista che con il mondo cerca di venire a patti senza poterlo mai conquistare perché un demone lo guida. Guida non ha preoccupazioni di sonorità filologica ed è persino scabro e rozzo con il suo forte penetrante e aggressivo; suona prevalentemente piano e forte, varia pochissimo i timbri, non cerca l’incanto delle mezze tinte, aggiunge poche ornamenta­ zioni improvvisate. Non teme la monotonia e non teme la stan­ chezza del pubblico, e dimostra che la «integrale» delle Sonate di Mozart, in ordine cronologico, è la rivelazione di un’esperienza di vita spirituale di cui non si sospettava l’esistenza. Le Sonate di Mozart diventano con Guida, uso ancora questo termine, che non mi piace, cultura di massa. Guida ha rifiutato di riprendere subito il ciclo in altre città, perché il suo fastidio per la vita concertistica non è venuto meno. Con l’esecuzione delle Sonate di Mozart egli ha però aggiunto un capitolo alla storia dell’interpretazione; altri ne potrà aggiungere, se vorrà continuare a cercare. Per intanto si è messo a suonare il clavicordo (e il flauto dolce), su cui ha ripreso a studiare Bach. Il suo clavicordo, in disco, somiglia forse un po’ ad una chitarra elettrica. Ma da Johann Sebastian Bach Guida potrebbe, con il clavicordo, arrivare a Cari Philipp Emanuel Bach o a Haydn, che

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attendono di diventare anch’essi, con licenza parlando, cultura di massa.

La storia delle fortune di Lazar Berman è abbastanza curiosa perché valga la pena di parlarne un po’ diffusamente. Nato a Leningrado nel 1930, allievo di sua madre e poi, a Mosca, di Alexander Goldenweiser, profondamente influenzato dalla lezione di Vladimir Sofronitzki, Berman si diploma nel 1953 ed inizia la carriera suonando nelTUnione Sovietica e partecipando a vari concorsi internazionali. Nel 1955 si iscrive ad una delle più presti­ giose e dure competizioni, quella di Bruxelles: arriva alla finale, ha dei dubbi sul programma da presentare, telefona per consiglio alla madre, sbaglia — o sbagliano in due — la scelta, non vince e non si piazza nemmeno tanto bene (quinto su dodici finalisti: il vincitore è Vladimir Ashkenazy). Nel 1958 va a Londra ed incide un disco con l’Appassionata di Beethoven e la Sonata di Liszt. La sua Appassio­ nata non si distingue tra le decine di Appassionate che circolano sul mercato, ma nella Sonata di Liszt, senza rinunciare al virtuosismo, Berman riesce a tradurre in canto, in effusione lirica, tutto: persino le scalette, i passi di bravura, le colossali doppie ottave. Se vivesse in Austria verrebbe probabilmente «catturato» dalla Vox o dalla Westminster per un tutto-Liszt che potrebbe occupare venticinque o trenta dischi. Torna invece in patria, partecipa senza fortuna al concorso Liszt-Bartók di Budapest, riceve alcuni inviti per tournées in Occidente, inviti che vanno a vuoto perché, essendosi sposato con una francese residente a Mosca, incontra difficoltà nelTottenere il visto di espatrio. Incide alcuni dischi, tra cui tre esemplari «integrali» (degli Studi trascendentali di Liszt, degli Studi op. 42 di Scriabin e dei Momenti musicali di Rachmaninov) ed una favolosa esecuzione della Rapsodia ungherese n. 9 di Liszt, da far invidia a Gilels. La sua carriera, però, non si sviluppa più, ed anche nell’Unione Sovietica non acquista fama: diventa un concertista dei circuiti secondari, una figura minore di buon professionista. Alla fine degli anni 60 il pianista italiano Alberto Mozzati capita a Mosca, acquista tutti i dischi reperibili di Berman, li ascolta, segnala questo singolare e straordinario virtuoso al Festival Inter­ nazionale di Brescia e Bergamo e all’Euroconcerti di Milano. Invi­

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tato in Italia, Berman, che nel frattempo ha divorziato dalla moglie francese e si è risposato con una ragazza russa, suona a Bergamo, Brescia, Milano. E il 1971. Berman impressiona e sconcerta nello stesso tempo: la tecnica è fantastica, ed è impiegata non per effetti di vanaglorioso virtuosismo ma in senso a volta a volta lirico o monumentale; nello stesso momento, però, l’esecutore non è af­ fatto pulito, ma prende con assoluta indifferenza, alla Cortot o alla Fischer, una caterva di note false; e Finterprete sembra uscito direttamente dalla scuola di Anton Rubinstein, tanto è anacroni­ stico il suo modo di fraseggiare e di usare il pedale di risonanza, e tanto è démodé il suo repertorio; alla Anton Rubinstein sono anche i suoi programmi, pantagruelici, e Finterminabile serie di bis che regala al pubblico senza nessun segno di fatica o di noia. Quanto alla figura... Beh! un misto di Gogol e di Balzac: un pizzetto ovale dentro un viso ovale sopra un corpo ovale incorniciato da un frac ovale. E Fuomo: uscito pari pari da una qualche pagina delle Anime morte. Una tale figura di musicista può scatenare gli entusiasmi del pubblico più brado e sprovveduto o dei raffinatissimi esteti cui, sazi e satolli delle quintessenze di Benedetti Michelangeli, fremono le narici sotto la sferza inebriante dell’odor di stallatico. Non può invece piacere al pubblico medio, che non ha neppure ancor ben digerito Richter. Comunque, Berman è pur sempre uno che fa discutere, che resiste a fatiche disumane e che costa poco. Tra il 1971 e il 1975 torna regolarmente in Italia, talora in sedi prestigiose (suona anche alla Scala, dove sbaglia — o gli fanno sbagliare — repertorio perché si presenta con il Concerto n. 4 di Beethoven), più spesso in provincia, e disordinatamente, non guidato da un press agent che ne sappia pilotare la carriera. In uno di questi suoi giri dell’oca capita a Bologna, dove sono direttore artistico del Comunale. Abbiamo avuto una breve corrispondenza, mediata attraverso l’immancabile organizzazione statale sovietica, il Goskonzert. Io gli avevo chiesto il Primo Concerto di Ciaikovsky, lui mi aveva risposto che il Primo aveva giurato di non più eseguirlo dopo averlo ascoltato dodici volte di seguito al Concorso Ciaikov­ sky di Mosca, ed aveva proposto il Primo di Prokofiev o il Terzo di Rachmaninov. Siccome né Prokofiev né Rachmaninov potevano rientrare nella programmazione della stagione gli avevo fatto dire

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che se lui non rompeva il giuramento io dovevo rompere le tratta­ tive. Aveva rotto lui, perché Bologna era Tunica piazza importante nel suo carnet. Arriva e comincia subito a provare con un direttore giapponese che intende Ciaikovsky come Tintendono gli america­ ni. Sono prove deliziose: Berman suona la sua parte, suona la parte dell’orchestra, canta, grugnisce, sorride, scuote le spalle, agita i gomiti, batte i piedi, e a un passetto per volta sposta Ciaikovsky dal ponte di Brooklyn fin nel cuore di Santa Madre Rus. La prova generale, al mattino, è una cosa che fa saltare il cuore: avevo scelto il Primo di Ciaikovsky per andare a colpo sicuro con il pubblico, e adesso mi accorgo che è come se ascoltassi Beethoven o Schubert interpretati da Furtwangler. Dopo colazione Berman si ricorda che il Primo di Ciaikovsky è un concerto difficilissimo e passa il pomeriggio a battere come un forsennato i passi di ottava e la Cadenza del primo tempo su un mezzacoda Yamaha. Alla sera è cotto e adotta il catenaccio, facen­ do rinculare il giapponese fino al Fujiyama e trasformando l’or­ chestra di cosacchi del mattino in un’orchestra di frati. Il successo è discreto; due bis: se avesse suonato come al mattino avremmo dovuto tagliare la seconda parte del programma perché i bis sa­ rebbero stati almeno venti... Dopo il concerto andiamo a cena insieme con il direttore giapponese e facciamo le quattro. Berman non è più così ovale perché si è scorniciato dal frac e naviga in immensi pantaloni di fustagno e in due scarponi che sembrano ereditati da un alpino della guerra quindicidiciotto. Di una cordia­ lità che straripa come un torrente in piena, parla sempre lui: in francese con me, in tedesco con il direttore, mulinando come un traduttore all’istante e con una mimica talmente espressiva che a un certo punto io comincio a capire il tedesco e il giapponese a capire il francese. Che cosa ci dice, Berman? Ha un repertorio di orripilanti bar­ zellette, prevalentemente scatologiche, che funzionano come aste­ rischi in una raccolta di pensieri: i pensieri tornano su Goldenweiser, sulla madre, su Sofronitzki, su Liszt, su Scriabin, su Rachma­ ninov, sulla città di Ferrara che l’ha impressionato, su una pelliccia vista in una vetrina di Bologna, sul Primo di Ciaikovsky che è bene non suonare, sulla carriera... «Quando mi chiamavano all’estero —

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mi dice — non ci potevo andare, e adesso che ci posso andare non mi chiamano più». E mi chiede se so consigliargli uno stratagemma per essere invitato in Francia o in Inghilterra. Lo stratagemma non glielo so suggerire. Ma ci pensa, un anno dopo, Herbert von Karajan o una qualche eminenza grigia a cui anche Karajan obbedisce. Il mito del grande pianista russo è da più di cent’anni una «costante» del concertismo internazionale. Anton Rubinstein ne è stato il prototipo, poi sono venuti Pachmann, Lhevinne, Rachmaninov, Horowitz, Gilels, Richter. Chi può rac­ cogliere l’eredità di Gilels e Richter, che negli anni 70 toccano i sessantanni? Vladimir Ashkenazy, senza dubbio, che però è espa­ triato e che comunque non basta da solo a coprire il vuoto. Victor Merzhanov, coetaneo di Gilels e Richter, ma ancora ignoto in Occidente, sarebbe bravissimo: peccato che, a causa di una ferita di guerra, soffra di vuoti di memoria. Tra i pianisti che viaggiano fra i trenta e i cinquant’anni Evghenij Malinin, raccomandato di ferro, non è una personalità che s’imponga e Stanislav Neuhaus ha una tecnica limitata. Dimitri Bashkirov gira parecchio in Occidente ma non muove entusiasmi né discussioni, né riesce a sfondare Bella Davidovic; Igor Zhukov è troppo aristocratico, Alexander Slobodiannik è freddo come il ghiaccio, Nicolaj Petrov, sanguigno ed arruffone, è ancora immaturo e il dotatissimo Evgenij Mogilewski ha dei nervi di una fragilità da metter paura. Resta Lazar Berman, l’affascinante troglodita che olezza di terra nera e di letame. Her­ bert von Karajan, si dice, sente la sua vecchia incisione degli Studi trascendentali e lo invita a registrare sotto la sua direzione il Primo Concerto di Ciaikovsky. Non so se dopo Bologna Berman avesse rinnovato il giuramento di non riprendere in mano il Primo di Ciaikovsky. Se l’aveva rinnovato lo rompe un’altra volta e fa il disco. Registrazione fatta in fretta e montata in furia, ma interpretazione meravigliosa. Karajan è un interprete straordinario del decadentismo europeo e la sua visione tutta interiorizzata, tutta intensamente lirica del Concerto era già stata dimostrata in due incisioni, una con Richter ed una con Weissenberg. In Lazar Berman, Karajan trova un terzo collabora­ tore, che vorrei dire ideale: ideale non tanto perché sia il miglior interprete possibile del Primo di Ciaikovsky, quanto piuttosto perché, essendo un sommo interprete di Rachmaninov e del primo

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Scriabin, si trova particolarmente in sintonia con la concezione di Karajan. A me, per dire il vero, questa concezione sembra riduttiva rispetto al significato storico dell’opera, opera nella quale, mi pare, il virtuosismo assume l’aspetto di una delirante affermazione della personalità romantica. Ritengo quindi che la rinuncia all’ostenta­ zione virtuosistica, se può essere spiegabile come negazione pole­ mica di un costume interpretativo grossolano e bolso, di cui si son resi partecipi tanti interpreti americani e russi, finisca per non cogliere interamente la complessità spirituale del Concerto. Certo è però che, se la concezione di Karajan e Berman può suscitare dei dubbi, la loro realizzazione è tale da lasciare stupefatti ed ammirati. Il rallentamento generale dei tempi e l’assottiglia­ mento della sonorità servono infatti a Karajan, perfettamente as­ secondato da Berman, per esporre la partitura con una chiarezza impressionante, con una miracolosa capacità di rendere percepibili all’ascoltatore tutte le linee. Il divisionismo timbrico di Karajan non diventa tuttavia virtuosismo del suono ma serve ad un’operazione di analisi strutturale, cioè di scoperta delle ragioni compositive dell’autore interpretato. Berman ritrova l’atmosfera della sua prima incisione della Sonata di Liszt, la sostanza intima del Romanticismo eroico, e si adagia fra le morbide trine di Karajan come una Manon sedicenne che anela all’amore, non come un personaggio gogoliano che si gioca la carriera internazionale. Il successo del Primo di Ciaikovsky, versione Karajan-Berman, catapulta Berman negli Stati Uniti. Tornato in Europa, Berman fa un disco con Giulini, non ben riuscito: i due Concerti di Liszt. A Londra trova di nuovo un direttore di suo gusto, Claudio Abbado, che gli illumina il Concerto n. 3 di Rachmaninov in modo da regalargli ali di farfalla. A Milano suona i sei Momenti musicali di Rachmaninov e i dodici Studi trascendentali di Liszt, seguiti da una serie di bis che si conclude con Orage di Liszt: dopo due ore ha ancora la freschezza per concludere Orage con uno dei passi d’ot­ tave più rapidi, più brucianti che io abbia mai sentito in pubblico. Dopo parecchi anni che non lo vedevo incontro nel 1979 Ber­ man in treno, in viaggio da Milano a Venezia. Della maggior parte dei dischi che ha fatto non è contento; dice che ha sempre troppo poco tempo e che qualche mese dopo aver fatto il disco, con il cervello che continua a lavorare per conto suo, ha scoperto tante

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cose e vorrebbe cambiare quelle interpretazioni che sono rimaste malauguratamente stampate nei solchi. Sta pensando al Concerto n. 1 di Brahms, che deve fare a Boston con Ozawa (ci sarà anche il disco) e alla Rapsodia in blu di Gershwin. Andando in giro per il mondo ha comprato un’infinità di dischi, li ha ascoltati e studiati con attenzione ed ha una conoscenza dei pianisti di ieri e di oggi quale avevo raramente riscontrato in un concertista di professione. Divide i pianisti di oggi in tre schiere: quelli che adora sono capitanati da Horowitz, quelli che ammira da Benedetti Miche­ langeli, quelli che non capisce da uno che gli sembra, malgrado la fama, «anti-musicale». Il successo è arrivato tardi e Berman è rimasto un uomo modesto: la sua carriera continua, i suoi dischi si moltiplicano ed il suo carnet è fitto di impegni, ma non arriverà, penso, ad incarnare veramente il mito del grande pianista russo. Del resto, diciamolo pure, non si succede a Gilels e a Richter: dopo Gilels e Richter non può esserci che un interregno dominato da astri di minor fulgore. Da quando è diventato importante Berman ha perso un po’ di quelle eccentricità, di quelle follie, di quelle illuminazioni liriche che potevano destare perplessità ma che finivano poi per affasci­ nare con la forza della loro originalità e si è fatto più misurato, più signorile, più corretto. Mi sembra a volte Mussorgski riveduto da Rimski Korsakov e trovo che certe sue incisioni di oggi non valgono le vecchie. L’unica sorpresa Berman me l’ha ultimamente procu­ rata con una scelta dei Preludi op. 34 di Shostakovic, in cui ha toccato la tragedia e il Kitsch, il lirismo e la satira con la superba sicurezza di un grande maestro del grottesco. A parte questa ag­ giunta alla sua figura di artista Berman continua a restare per me l’interprete che lega insieme Liszt, Rachmaninov e il primo Scria­ bin. Partendo dal Liszt trascrittore dei Lieder di Schubert, che diventa con lui come la più bella voce di soprano o di tenore accompagnata da angelici cori invisibili, Berman, come già dicevo, risolve in canto tutto Liszt, il Rachmaninov dei Momenti musicali, lo Scriabin degli Studi op. 42, cioè ritrova un’esaltazione lirica nella ricerca virtuosistica degli slavi. Le sue recenti interpretazioni chopiniane non dicono molto di nuovo, ma un’esecuzione dello Studio op. 25 n. 10, degli anni 50, fa pensare che anche Chopin potrebbe essere da lui riletto in modo diverso. Le interpretazioni dello Studio

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per le otto dita di Debussy e di Ondine di Ravel, sempre degli anni 50, restano isolate, ma sono da ricordare come quelle di un inter­ prete potenzialmente grande dei simbolisti francesi. Anche da Berman, come da Guida, possiamo attenderci qualcosa.

La carriera di Glenn Gould è un po’ il rovescio di quella di Berman: la carriera di Berman cominciò in pratica verso i quaran­ tanni; verso i quarantanni, la carriera di Gould è finita da un pezzo. Quando apparve a New York, nel 1955, e fino a quando non si ritirò nei boschi del Canada, nel 1964, Gould fu l’unico pianista effettivamente neoclassico in senso ideologico, l’unico cioè che respingesse programmaticamente il Romanticismo. Il suo re­ pertorio era centrato su tre soli nomi: Bach, Mozart, Beethoven. Niente Schubert, niente Chopin, niente Schumann, niente Liszt. Di Brahms solo il Concerto n. 1, eseguito sotto la direzione di Bernstein in modo tale da far dichiarare dal direttore al pubblico, prima di iniziare, il più completo disaccordo con il solista. Poi si passava a Schonberg, a Berg, a Krenek. Più tardi Gould infoltì il suo repertorio moderno con qualcosa di Scriabin, di Prokofiev e di Hindemith, si degnò di vedere negli Intermezzi di Brahms il pre­ cedente storico di Schonberg e andò a scoprire, al di là di Bach, Byrd e Gibbons. E infine «coprì» lo spazio che separa Beethoven da Schonberg con le Variations cromatiques de concert e un Noc­ turne di Bizet, con la Sonata di Grieg e alcuni pezzi di Sibelius. La prima esecuzione bachiana di Gould che facesse colpo fu quella delle Variazioni di Goldberg, nel 1955. I caratteri stilistici essenziali dell’interpretazione bachiana si colgono però meglio nelle Invenzioni a due e a tre voci, eseguite da Gould nel suo ultimo concerto pubblico ed incise poco più tardi. Si può suonare Bach al pianoforte con quella sonorità, diciamo lisztiana, che è considerata pianistica per eccellenza, si può suonarlo con sonorità paraorgani­ stica e paraclavicembalistica. Wanda Landowska non suonava Bach al pianoforte, ma se l’avesse suonato avrebbe probabilmente adottato quella sonorità da fortepiano che adottava in Mozart. Rosalyn Tureck ha inventato una sonorità bachiana al pianoforte, forse la più sorprendente che sia mai esistita, che ricorda nello stesso tempo uno strumento antico come il clavicordo e uno stru­

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mento moderno come le Onde Martenot. Gould, l’antiromantico per principio, trova sul pianoforte moderno una sonorità da Graf 1830, quasi dando ragione ad Albert Schweitzer, che diceva: «I brani del Clavicembalo ben temperato si interpretano molto meglio su un bel pianoforte tipo 1830 anziché con uno dei nostri strumenti moderni». Perché poi Gould usasse una sonorità di pianoforte viennese in Bach invece che nelle fughe di Mendelssohn o di Schumann è un mistero che non so sviscerare. Gould si servì preferibilmente di un vecchio grancoda Steinway (con telaio metallico), i cui feltri si erano probabilmente induriti e, forse, facendo accordare un po’ crescente una delle tre corde, il «coro», che corrispondono ad ogni tasto. Ho già parlato dei «trucchi» a proposito di Paderewski e di Horowitz, ed avrei potuto aggiungere che, a quanto mi sembra, anche Solomon faceva accordare in modo non uniforme il coro. Torno però a dire che non bisogna attribuire troppa importanza ad accorgimenti particolari di accordatura o di meccanica, che rivelano subito la loro artificiosità e diventano monotoni se il pianista non sa creare in ogni momento la «sua» sonorità. E Gould è un creatore di sonorità tra i più raffinati ch’io conosca. Nelle Invenzioni a due e a tre voci i momenti di invenzione assoluta e di arbitrio sono accostati addirittura con violenza. Il testo è analizzato minuziosamente ed esposto con l’evidente intento di comunicare all’ascoltatore i risultati dell’analisi: tutti i rallenta­ menti e gli indugi, che possono anche scandalizzare chi è affezio­ nato all’immagine di Bach tedesco-tutto-d’un-pezzo, servono a mettere in evidenza e a sottolineare la struttura formale delle composizioni. L’articolazione di base del suono è il non-legato, che sul pianoforte comporta problemi tecnici particolari, ma che era sicuramente il tipo di articolazione prevalente nel Settecento, mentre il legato era usato per eccezione; Bach indica il legato nelle Invenzioni a due n. 3 e n. 9: Gould lo pratica nell’invenzione n. 9, non nell’invenzione n. 3 (e non si capisce proprio, come non di rado avviene con lui, per quale ragione). Gould, giustamente, non predispone poi piani di dinamica, ma sfrutta la dinamica in fun­ zione del fraseggio, intonando quasi vocalisticamente gli intervalli con sbalzi di dinamica che dipendono dalla tensione espressiva degli intervalli stessi. Sulla realizzazione degli abbellimenti ci sa-

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rebbe molto da discutere, ma si può ammettere comunque che in molti casi è impossibile trovare norme veramente certe; non si comprende invece perché Gould stacchi talvolta (Invenzioni a due n. 10 e n. 11) movimenti così rapidi da costringerlo a tagliar via molti abbellimenti, o perché faccia sfoggio di agilità in composi­ zioni (Invenzioni a tre n. 6 e n. 15) che eseguite virtuosisticamente perdono ogni carattere. Queste ed altre osservazioni e riserve, per quanto pertinenti, alla fine si fan fioche e svaniscono, di fronte alla «presenza» creativa di Gould. Le sue incisioni bachiane — dalla prima delle Variazioni di Goldberg nel 1955 alla nuova incisione dello stesso pezzo nel 1982 — sono numerosissime, e nel complesso costituiscono un progetto interpretativo coerente, perché anche quello che in lui disturba e sconcerta fa parte di uno stile e finisce per collocarsi in un contesto che acquista una perfezione estetica tale da autogiustificarsi. In Bach, Gould affronta testi che per definizione, allo stato attuale della cultura, non dovrebbero più appartenere al pianoforte ma al clavicembalo e al clavicordo: trasgredendo il primo divieto, egli sceglie poi come vuole i mezzi per sottrarre Bach ai condiziona­ menti dello storicismo e per farlo diventare maestro di una razio­ nalità e di una saggezza fuori del tempo. Operazione che deve esser vista in funzione di uno strumento «sbagliato» e della creazione di una sonorità unica, «sbagliata» anche rispetto allo strumento perché ottenuta con una tecnica, di cui dirò poi, artificiosissima. Operazione, non c’è dubbio, miracolosa. Il discorso su Bach, Gould lo estese però ad un autore, Mozart, che già scriveva per pianoforte e con il quale il pericolo dell’esteti­ smo fine a se stesso poteva diventare incombente. A parte una giovanile incisione del Concerto K 491, Gould lasciò in disco tutte le Sonate e le Fantasie K 397 e K 475. Un Mozart — come Bach, del resto — molto difficile da ascoltare. Consiglierei di non ascol­ tare le Sonate, eseguite da Gould, tenendo sott’occhio il testo mozartiano. Gould non usa un’edizione urtext, ma una qualche buona edizione — non ho saputo individuare quale — non recen­ te; inoltre taglia quasi tutti i ritornelli ed elimina o quasi, secondo il suo solito, il legato. Per chi conosce a memoria il testo di Mozart la mancanza del legato, che in Mozart è raro ma non rarissimo, fa una curiosa impressione, come se si ascoltasse una poesia classica de­

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clamata da un attore che non pronuncia bene, non dico una lettera molto frequente come la erre, ma come la zeta. Meglio allora, per chi non ha familiarissimo il testo, non averlo sottocchio mentre Gould striscia tranquillamente sulla zeta,... pardon, sul legato. Ma vi sono altre ragioni che sconsigliano di leggere Mozart mentre lo si ascolta da Gould. Ad esempio, per via di certi tempi presi a velocità folle. Se ci si ponza un po’ sopra si capisce che Gould considera con un’ottica diversa Vallegro di denso contenuto musicale e Yallegro di tipo spiccatamente virtuosistico, e che teo­ rizza una specie di... onnicomprensività pianistica della sonata: la sonata di Mozart, pensa Gould, è dimostrativa della sapienza e dell’invenzione musicale (primo tempo, di solito), della cantabilità (secondo tempo), della destrezza digitale (terzo tempo), perché il pianista-compositore Mozart intende far verificare sempre al pub­ blico la sua completezza di pianista-compositore. Se non si capisce questa intenzione non si riesce a spiegarsi perché tra l’Allegro iniziale e YAllegro finale della prima Sonata, tra YAllegro assai iniziale e il Presto finale della seconda Sonata debba esserci una così abissale differenza di stacchi di velocità. E non dico che le ragioni di Gould siano del tutto convincenti; ma non c’è dubbio che il suo vedere le sonate di Mozart secondo le categorie dell’oratoria forense — un’arringa deve far vibrare la corda logica, la corda sentimentale, la corda drammatica, la corda sociale — non sia priva di originalità e non costituisca una stuzzicante chiave di lettura. In certi altri casi Gould prende invece tempi molto più lenti di quelli tradizionali; ciò avviene soprattutto nelle sonate più cono­ sciute e per una ragione, ritengo, didascalica: si sa che la scansione del ritmo in limiti noti stabilisce un’attenzione d’ascolto attenuata, mentre una scansione eccentrica provoca una reazione e magari un’irritazione, ma stimolando l’attenzione. Si ascolti a quale tem­ po... da lumacone Gould inizi la Sonata in la maggiore K 331, e con quale passo moderatissimo, felpato, sornione conduca YAlla turca della stessa Sonata. È un po’ faticoso seguire Gould, in questo caso, perché la sua intenzione dissacratoria traspare in modo fin troppo palese. Altre volte invece, come nella Fantasia in re minore, la sua lentezza è affascinante già a tutta prima: il rapporto con lo stile

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empfindsam settecentesco e con l’intimismo romantico ottocente­ sco viene messo da lui in evidenza in un modo che non ammette discussioni, tanto è esteticamente centrato, e la storia secolare dell’interpretazione della composizione ne esce rinnovata e sinte­ tizzata insieme. Perciò è meglio ascoltare solo Gould, senza leggere Mozart; perché il rapporto Gould-Mozart è complicato, tortuoso, fin troppo creativo per il gusto dominante al quale siamo anche inconsapevolmente soggetti e che tanto più sussulta quanto più siamo ancorati alla pagina scritta. Sia che stacchi velocità tradizionali, sia che vada più svelto o più lento di quel che ci attendiamo, Gould concepisce però il fluire del tempo in termini neoclassici: le oscillazioni dell’unità di misura sono minime, le differenze di velocità tra i diversi temi sono pres­ soché inavvertibili, le differenze di velocità all’interno del singolo tema non sono prese in considerazione. Per questo aspetto, in verità, Gould, pur con tutta la sua originalità, ci sembra apparte­ nere ad un’epoca che si è conclusa. Se prendiamo come esempio l’ultima Sonata, in re maggiore K 576, sappiamo — lo sa chi si sia provato a suonarla — quanto sia difficile mantenere la stessa velocità nel corso di tutto il primo tema:

.Allegro-----

Un tempo comodo per i trilli fa afflosciare la fanfara precedente, un tempo scattante per la fanfara costringe ad acrobazie sui trilli (Gould deve addirittura sostituire al trillo un gruppetto). Si può però notare che il secondo tema deriva dal secondo nucleo tematico del primo tema:

Siccome molti interpreti eseguono un po’ più lento il secondo tema non è illogico pensare che la derivazione potrebbe esser messa

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in evidenza attraverso il tempo, e cioè adottando due diverse velocità airintemo del primo tema. Nessun interprete neoclassico accetterebbe una soluzione di questo genere: non l’adotta neppure Wanda Landowska, che non era interprete neoclassica e che esegue in modo sensibilmente più lento il secondo tema. Una soluzione come quella che prospetto teoricamente, a pensarci, non sarebbe però stata estranea alla concezione del tempo in Paderewski o in Rachmaninov o in Cortot. Ora, ascoltando Paderewski in Coupe­ rin, ad esempio, abbiamo la sensazione di un recupero intuitivo della libertà barocca, di quella libertà agogica che i claviccmbalisti del nostro tempo hanno riconquistato attraverso l’esercizio rigoro­ so della filologia. Le aperture di Gould verso un superamento della concezione tradizionale del tempo sono rarissime, ed impressio­ nanti per la loro forza di coinvolgimento: si notano soprattutto nelle Fantasie e, in un modo stupendo, nella Cadenza del finale della Sonata K 333. Si capisce però che in tutti questi casi Glenn Gould vuol dare l’impressione della musica improvvisata, e che quindi infrange volutamente una regola a cui, di norma, egli si adegua. L’esecu­ zione mozartiana di Gould, inattaccabile ed invincibile sul piano estetico, potrà essere consegnata alla storia e superata solo se, dopo l’esperienza del barocco, verrà ripensato radicalmente il problema della scansione del tempo rispetto all’epoca classica. Neoclassico per questo aspetto della sua concezione dell’inter­ pretazione mozartiana, Gould va oltre il neoclassicismo del periodo fra le due guerre per altri aspetti. Un aspetto di filologismo, curioso perché molto marginale, lo abbiamo nell’esecuzione degli accordi: gli accordi vengono spesso arpeggiati rapidamente, con qualche curiosissimo effetto di «grattamento» che ricorda il clavicembalo, e vengono spesso eseguiti arpeggiandoli lentamente e in batte­ re. Altra caratteristica filologicamente fondata è la scansione indi­ pendente delle parti, che porta a non-coincidenze contrarie a ciò che si legge sulla carta e a ciò che risulta dal calcolo bruto del solfeggio. Il filologismo di Gould, tremendamente creativo, si esercita però soprattutto nella sonorità. Il grande critico haydniano H.C. Rob­ bins Landon, presentando nel 1967 uno dei dischi mozartiani di Gould, scriveva: «... uno dei termini di confronto per un sensibile

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pianista moderno è il compromesso tra come una Sonata di Mozart, come la K 311, suonava sullo strumento di quei tempi, piuttosto metallico ma estremamente delicato e sensibile, e come trasferirlo sulla tastiera di uno dei nostri giganteschi, moderni pianoforti-mo ­ stri». I primi esperimenti di esecuzioni mozartiane su strumenti d’epoca risalgono alla fine degli anni quaranta, quando Gould iniziava la sua carriera: Ralph Kirkpatrick eseguì allora su forte­ piano, ed incise, il Concerto K 453, L. Epstein incise sei pezzi sul pianoforte Walter appartenuto a Mozart, e P. Badura Skoda incise sullo stesso pianoforte di Mozart l’Adagio in si minore, ponendo a confronto questa esecuzione con l’esecuzione sul pianoforte mo­ derno. In questo clima di curiosità culturale Gould si pose, e risolse il problema di parafrasare la sonorità del pianoforte moderno fino a farla diventare non identica, ché sarebbe impossibile, ma evocativa della sonorità del fortepiano. La sua tecnica, che sarebbe da analizzare e da studiare minuta­ mente, è semplicemente prodigiosa, non in rapporto con le cate­ gorie tradizionali della tecnica accademica, quanto per la novità dei risultati sonori che consegue. Si sente persino fisicamente la ten­ sione muscolare parossistica del dito nel momento in cui si avventa sul tasto, la cessazione rapidissima della tensione, l’intervento del pedale o del «mezzo pedale» di risonanza che «sporca» la nettezza della smorzatura: si sente insomma una rapidità di reazioni nervose e di coordinamenti mano-piede che appartengono solo ai grandi creatori di timbri come Horowitz o Richter o Benedetti Michelan­ geli, che se ne servono però per altri e più spettacolari scopi, mentre l’eccezionaiità della tecnica di Gould può esser colta soltanto dalla gente del mestiere,... e non da tutta. Si capisce anche, se si analizza la tecnica di Gould, perché il legato venisse praticamente da lui escluso, o limitato a pochi momenti eccezionali: perché il legato di dito non è in realtà praticabile, con quello scatto nervoso da pri­ mato, e perché la mancanza del legato denuncia l’originalità e l’artificiosità estrema, cioè l’orgoglio luciferino di quella tecnica. Non legando di dito, Gould non lega nemmeno con il pedale, perché il pedale gli serve a controllare la qualità timbrica del singolo suono. I veri e proprii effetti di pedale sono molto rari e sono «caotici» perché avvengono allo scopo di creare sovrapposi­ zioni dissonanti, e quindi a fini drammatici: si ascoltino lo «svilup­

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po» della Sonata in la minore K 310, tratti del secondo tempo e del finale della stessa, drammaticissima Sonata, o la Fantasia in do minore K 475 (che sono momenti da citare a lettere d’oro nella storia dell’interpretazione). Si osservi invece come il pedale «una corda», che da solo, meccanicamente, provocherebbe una sensibile modificazione del timbro, non venga praticamente sfruttato, per lo meno non in modo «riconoscibile» (al contrario, ad esempio, di quel che avviene con Richter). Gould, mago del timbro, non usa i comuni trucchi ma inventa trucchi di cui lui solo possiede il segreto, ed il paradosso finale è che la sua sonorità, pur evocando il forte­ piano, non eyoca l’ambiente, la società in cui il fortepiano era usato, il modo familiare del far musica, del far musica fra colti dilettanti. Coerente con se stesso fino allo spasimo, Gould non accetta neppure il concerto pubblico, succedaneo del concerto familiare, ma taglia ogni contatto fisico con l’ascoltatore rifugian­ dosi nella sala di incisione e mandando al mondo messaggi che, come quelli delle buone vecchie sibille, son sempre un po’ equivo­ ci: un pianoforte che evoca un fortepiano senza minimamente ristabilire i rapporti umani che il fortepiano creava.... Il nemico da battere è, anche in questo caso, lo storicismo, non tanto inteso come scienza storica quanto, suppongo, come mito di riappropria­ zione della verità. In questa sua furia iconoclastica, che a parer mio costituisce la chiave della sua lezione critica, non mi sembra che Gould fosse sempre in grado di sfuggire al rischio di épater les bourgeois, e tanto più quanto più si allontanava dal prediletto Settecento. Credo che tra le sue numerose interpretazioni beethoveniane si trovi solo un caso di scoperta vera, di scoperta totale, seppur dissacrante e caricaturale, di un carattere dell’opera che era rimasto prima celato: il Concerto n. 5, l’imperatore. Richter aveva ipotiz­ zato la rottura rivoluzionaria dell’Appassionata, ma si era fermato al Concerto n. 3, interpretato da lui in una luce di ascetica dram­ maticità goethiana, e non aveva toccato i Concerti n. 4 e 5 per soffermarsi invece sulla Fantasia op. 80 per pianoforte, coro e orchestra (opera basata sulla variazione, e quindi progressiva, se­ condo i concetti richteriani). Gould non solo interpreta tutti i Concerti di Beethoven, ma li fa culminare nel Quinto, accentuan­ done addirittura, per così dire, il titolo apocrifo, Imperatore. Se­

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condato da uno Stokowski che con il maestoso ci va a nozze, Gould prende nelTImperatore tempi larghi, procede con sacerdotale pa­ catezza, fa persino lenti e misurati i trilli, e dimostra insomma che la tentazione di acquiescenza verso il potere, testimoniata dalla terza versione del Fidelio (1814), vale anche per il Concerto n. 5 (1809). Si può certamente discutere questa interpretazione, ma Gould dà la risposta ad una domanda che molti critici si son posta: perché Beethoven non scrisse più concerti dopo il Quinto, mentre conti­ nuò a scrivere sinfonie, quartetti, sonate? Il Quinto, secondo Gould, rappresenta una vergognosa resa a discrezione di fronte alla realtà dell’impero (asburgico), e brucia per Beethoven tutte le possibilità di sviluppo del «genere» concerto. In un’altra occasione ancora, la Sonata n. 7 di Prokofiev, Gould riesce in un’analoga, furente «denuncia». Il secondo tempo della Sonata, Andante caloroso (si badi al caloroso) inizia con una melo­ dia, indicata cantabile, nettamente sentimentaleggiante, ed è co­ struito, molto romanticamente, con un accumulo di tensione emo­ tiva che giunge fino ad un climax parossistico per esaurirsi poi su glaciali rintocchi di due suoni. L’interpretazione di Richter (a cui Prokofiev aveva affidato nel 1943 la prima esecuzione assoluta) nasce da una profonda simpatia per l’autore e si pone nella di­ mensione del ricordo, della nostalgia, della reviviscenza di un pas­ sato ormai irrimediabilmente perduto. Horowitz (primo interprete della Settima in America) affronta XAndante caloroso come se fosse stato scritto da Ciaikovsky e ne fa il centro emotivo della Sonata, il momento in cui Prokofiev compare allo scoperto nella sua vera natura. L’interpretazione di Gould è più interessante (anche perché l’interpretazione di Gould è del 1970, mentre quella di Horowitz fu incisa nel 1945): accettando per scontata l’angolazione critica di Horowitz, Gould si dà a sottolineare furiosamente il Kitsch, in polemica non solo con Prokofiev, ma anche con l’Ame­ rica codina, che in grazia di melodie come quella deAFAndante aveva accettato, negli anni di guerra, la musica di Prokofiev. Altre volte Gould alternava lentezze interminabili e corse preci­ pitose che finivano per parere gratuite e che sembravano toccare in realtà il limite dell’autoironia. Non so se Gould arrivasse solamente ad épater les bourgeois o non anche a guardare il se stesso che voleva épater e che diventava il primo bourgeois. Questa furia del carica­

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turista Gould verso certo Beethoven e verso Prokofiev era proba­ bilmente rivolta più contro i miti della società americana — l’eroe Beethoven come l’eroe Washington, Prokofiev come «moderno» che non respinge la tradizione romantica — che non contro gli autori. Così sembrerebbe. Ma poi non si capisce perché anche in Schonberg Gould dovesse andare a stanare tutti i tarli tardoromantici che rodono l’edificio razionalistico. Non si capisce bene, dico, se Gould agisse da giacobino, per denunciare ogni minima compromissione con l’irrazionale, o da reazionario, per dimostrare che i rivoluzionari sono tali solo in apparenza. Forse, questo tra­ sportare Bach su un pianoforte che assomiglia a un Graf 1830, questo scovar vermi romantici in Schonberg e in Prokofiev, questo ridurre il Romanticismo a Bizet, Grieg e Sibelius dimostra in realtà una passione che, se manifestata, avrebbe rischiato di distruggere Gould. Come il virtuoso Atanaele di France, Gould sembrava aver orrore di una bellezza carnale cui in cuor suo agognava. Ed io avevo immaginato che un giorno, forse, Atanaele-Gould avrebbe avuto il coraggio di confessare, a Taide-Chopin: «Taide, ti amo». E che avrebbe suonato i Notturni. Voluttuosamente. Morendo tragicamente a soli cinquant’anni, e nel pieno di una maturità ancora in evoluzione, Gould scompaginò tutte le mie oziose profezie. Ad un Beethoven che avesse appena composto l’Appassionata si sarebbe potuto dire: bravissimo, Ludwig, ma attento: ti aspetta la 111 ! Ma se Beethoven fosse morto subito dopo l’Appassionata si sarebbe dovuto soltanto esclamare: quanto fu grande! Ci sono in Gould molte cose che non capisco, molte che mi urtano, e so di non essere in grado di analizzarne fino in fondo la personalità. So però che la sua grandezza e la sua originalità di interprete sono assolute.

John Ogdon, che nel 1958 esordì a Londra, a ventun anni, con il Concerto di Busoni, che nel 1962 vinse il Concorso Ciaikovsky di Mosca a pari merito con Vladimir Ashkenazy e che incise decine di dischi, si è in pratica ritirato dalla vita concertistica,... ed il suo nome sta cadendo nel dimenticatoio. Pianista di intelligenza vigile e lucidissima, che ha eseguito, oltre al tradizionale repertorio, il tardo Liszt, quasi tutto Scriabin, e Carl Nielsen, Messiaen, Schòn-

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berg, Stravinsky, Shostakovic, moltissimi contemporanei inglesi (Birtwistle, Goehr, Maxvell Davies, Hoddinott, ecc.), Ogdon non ha saputo costruirsi la sua immagine di bizzarro, di lanzo dell’eser­ cito di Arlecchino. L’ho seguito durante le prove di un’esecuzione del Concerto di Busoni e posso paragonarlo solo a Carlo Vidusso e a Thiollier per la facilità estrema con cui dominava la tastiera. H Concerto di Busoni non lo suonava e non lo vedeva da parecchi anni, né aveva minimamente pensato di rivederlo prima delle prove o di ripassarlo tra una prova e l’altra. Era grosso e anfanante, perennemente stanco, con i piedi gonfi, con capelli e pizzo com­ pletamente bianchi,... a trentasette anni. Negli intervalli sedeva sugli scalini e in dieci minuti cospargeva il pavimento di mozziconi di sigaretta, se il direttore fermava l’orchestra per dire qualcosa appoggiava braccia e capo sul pianoforte e sembrava dormire. Le sue mani avrebbero potuto spezzare i sassi e si muovevano sulla tastiera come ventose, con una potenza da far impressione; quando arrivò ricordava forse un dieci per cento della sua parte e due giorni dopo, avendo gettato solo qualche occhiata sulla musica lasciata negligentemente aperta sui pironi, aveva ripreso il pieno dominio di una composizione che dura più di un’ora e che racchiude la summa di tutta la tecnica virtuosistica. E non era un mechanicus. Ricordava Guida per il suo modo completamente privo di lusinghe di rendere la musica che suonava, ma senza mài dar l’impressione di disinteressarsi di ciò che faceva. Certo, aveva bisogno di un pesante razzo da pilotare verso la luna, non di un aliante da far salire in graziose volute, e faceva impres­ sione soprattutto quando i suoi dieci stantuffi lavoravano in tutta la loro potenza e rapidità. Sarebbe stato in grado di affrontare le pagine della leggenda — la seconda versione degli Studi trascen­ dentali di Liszt, gli Studi sopra gli Studi di Chopin di Godowsky, YOpus clavicembalisticum di Sorabij — che nessuno tenta di far rivivere. Sarebbe stato... È, perché non ha ancora cinquant’anni. Il suo ritorno alla vita concertistica, o per lo meno alla sala di inci­ sione, sarebbe una fortuna per noi.

È sparito, direi senza lasciar traccia, Jean-Rodolphe Kars, che all’inizio degli anni 70, nei due libri dei Preludi di Debussy, fu

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interprete, una volta tanto, veramente «giovane», capace, pur di seguire radicalmente un’idea, di gettare al vento la prudenza e di sbagliare. L’idea era di verificare in concreto le tesi critiche dell’a­ vanguardia francese su Debussy. Jean-Rodolphe Kars, che non per nulla aveva vinto nel 1968 il Concorso Messiaen di Royan, volle verificare la capacità di Debussy di mettere in liquidazione la logica tradizionale dei nessi formali, dei rapporti armonici e dei rapporti melodici, e di fondare sul timbro il quadro sonoro. Era naturale che una simile tesi fosse verificabile nel secondo meglio che nel primo libro dei Preludi. Ed infatti l’assunto riuscì completamente al Kars almeno in un’occasione: l’interpretazione di Brouillards, primo preludio del secondo libro, era un capolavoro che trovava riscontro solo in alcune interpretazioni debussiane di Boulez. Molto spesso, e cioè in un’altra decina almeno di Preludi, il Kars era vicinissimo alla perfezione di Brouillards. Talvolta la effettiva resa tecnica non era pari alla concezione dei rapporti di timbri, ma era inevitabile che avvenisse così perché la ricerca di sonorità nuove imponeva la ricerca di nuovi modi di attacco del tasto, e quindi il dominio di una tecnica che solo alcuni tra i migliori specialisti della musica d’a­ vanguardia avevano già sperimentato. Ciò si avvertiva specialmen­ te in passi molto rapidi, e soprattutto nei passi nei quali la fre­ quenza di successione dei suoni doveva postulare il fruscio indi­ stinto. Alcuni momenti non venivano convincentemente risolti dal Kars perché egli non arrivava fino alla macchia sonora ma preferiva una costruzione puntilistica; altri momenti non venivano risolti perché la chiave critica usata (l’ipotesi di dissoluzione dei nessi linguistici) non trovava effettiva rispondenza nella pagina interpretata. Così, tanto per citare i due casi più evidenti, in La Cathédrale engloutie e in La ferrasse des audiences du clair de lune. In qualche rarissimo caso, quando il dato aneddotico contrastava con troppa evidenza con la tesi critica generale, il Kars si rifugiava nella tradizione diventando anonimo (così in Minstrels, ma non, ad esempio, nella Puerta del vino, risolta con stupende calibrature di timbri). Lo studio di tutta l’opera pianistica di Debussy avrebbe portato il Kars a superare l’ingenuità della sua posizione, che era l’ingenuità di chi pensa di poter risolvere unilateralmente un artista di vita intellet­ tuale complessa ed anche contraddittoria come Debussy. Ma ciò

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non escludeva che l’audizione delle sue interpretazioni dei Preludi non fosse e non sia ancora, anche quando manca il pieno consenso, tra le più stimolanti, sorprendenti e geniali che si possano immagi­ nare. Nel 1972, quando uscirono i Preludi di Debussy, avrei giu­ rato nella grande carriera di Jean-Rodolphe Kars: non ho più sentito parlare di lui e credo non abbia più suonato in pubblico da anni.

Né ho più sentito parlare di Milosz Magin, la cui incisione dei Valzer di Chopin mi aveva entusiasmato nel 1973 e che avevo poi ascoltato alcune volte in pubblico. È molto facile eseguire i Valzer di Chopin in modo virtuosistico, facendone pagine da concerto e togliendo loro il profumo del salotto borghese (la maggior parte dei valzer) o del salone aristocratico (i valzer denominati «brillanti» da Chopin). Ed è altrettanto facile renderli insopportabilmente sentimentali, specie quando si toccano i brani (Valzer in do diesis minore, Valzer cosiddetto «degli Addii») più usurati dalla retorica pseudoroman­ tica. Per la verità, le esecuzioni sentimentaleggianti, che tenevano banco ancora una sessantina d’anni addietro, si ascoltano oggi spesso durante gli esami dei provincialotti e molto di rado, invece, nelle sale di concerto. Ma lo spettro dell’interpretazione bolsa­ mente sentimentale è sempre in agguato, e scoraggia e frena molti interpreti, tanto che è persino diventata inusuale l’apparizione di un Valzer in un programma di concerto non interamente dedicato a Chopin. L’interpretazione del Magin è — mi si passi il termine, che parrà grosso — sociologica. Ritroviamo nell’interpretazione del Magin tutti i languori estenuati, tutto l’umido lacrimale, tutti i tira e molla di ritmo, tutto il meschino patetismo, tutta la mancanza di virile pudore che appartengono al più fatiscente, al più ciarpaminoso, al più screditato fin de siede. Solo che il suono non è quello dei pianisti fin de siede*, è un suono lucente, breve e secco, martellato (non pestato), quasi come un vibrafono senza eliche. Ed il risultato è di sorprendente novità. Non si pensi però che il Magin si volga verso il passato ironica­ mente. Questo è l’aspetto più inatteso della sua interpretazione. Il

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Magin fa sul serio, cioè, analizza seriamente uno stile di interpre­ tazione perento, togliendogli la dimensione di base — il tipo di suono — nella quale si era fissato storicamente. La mancanza di una delle dimensioni originali, il suono, dà la misura del distacco, del ripensamento del passato, ma il ripensamento avviene senza intenzioni dissacratorie perché la dissacrazione, dopo Stravinsky, non avrebbe più senso. Dissacranti erano la furia selvaggia di Rachmaninov o l’ironia sottilissima di Cortot, interpreti che agiva­ no a ridosso della generazione fin de siede e che dovevano staccar­ sene e sostituirla. Nel Magin, invece, quello stile riappare non più vivente e combattuto, ma pietrificato, e visto con l’obbiettività non priva di simpatia dello storico, che finisce coll’affezionarsi a ciò che anatomizza. La Decca aveva affidato a Magin la «integrale» delle opere di Chopin. I dischi delle Ballate e delle Polacche furono eccezionali quasi quanto quello dei Valzer: la lettura era sempre mediata attraverso un ripensamento dello stile di interpreti, soprattutto slavi, del principio del secolo, ma la sonorità asciuttissima, vitrea, non aveva nulla a che vedere con quello stile di interpretazione ormai tramontato e il dislivello suono-stile creava una tensione altissima. I dischi successivi non confermarono i primi; quando conobbi il Magin trovai in lui un musicista che non vedeva l’ora di finirla con Chopin perché i suoi interessi preminenti erano di compositore. Come Nat... e all’incirca con gli stessi risultati, a quanto posso giudicare da una Sonata e dal Concerto n. 3, che Magin ha inciso. Chissà che non riprenda un giorno a fare l’inter­ prete...

Quando Martha Argerich, ragazzina argentina di sedici anni, comparve in Europa per misurarsi nelle competizioni pianistiche, vinse facilmente il Concorso Busoni di Bolzano e il Concorso di Ginevra, stupì un po’ tutti per le sue esplosive doti virtuosistiche e fu lodata persino da Guida. Dopo il folgorante inizio di carriera la Argerich sparì però presto dalla circolazione, attraversò vicende personali travagliate, andò a Torino per quel corso di perfeziona­ mento tenuto da Benedetti Michelangeli che durò una sola stagio­ ne e nei saggi del corso apparve spenta, svuotata dell’antica bai-

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danza e sicurezza. Sembrava finita. Ricomparve invece sulla scena al Concorso Chopin di Varsavia del 1965, a ventiquattr’anni: vinse liscio e da allora riprese la carriera interrotta, diventando un «no­ me» su cui si può discutere ma a cui non si possono negare le doti del concertista internazionale. Abbiamo il disco che fissa il momento in cui la Argerich sorprese i giudici del Concorso Chopin che la consideravano già una ex, una di quelle fanciulle-prodigio che non reggono oltre l’adolescenza. Tecnica perfetta, temperamento esuberante, impressionante con­ trollo di sé e dello strumento. Gli applausi che scrosciano dopo ogni esecuzione sono ben meritati e danno la misura di un entusiasmo e di una partecipazione del pubblico che non sempre i vincitori di concorsi sanno suscitare. Che poi le interpretazioni chopiniane della Argerich siano da annoverare tra le cose memorabili, a me non pare. Ma il disco si ascolta con interesse, con il piacere che si prova nel vedere all’opera un giovane atleta o un giovane ballerino concentratissimo e caricatissimo. fl seguito della carriera della Argerich non ha portato per ora alla maturazione del talento, ed accanto ad una interpretazione azzec­ cata ed entusiasmante — come VAndante spianato e Polacca bril­ lante di Chopin — abbiamo decine di interpretazioni banali o addirittura sciatte. Quando però è posta sotto la bacchetta di un musicista come Rostropovic, con il quale ha inciso il Concerto di Schumann e il Concerto n. 2 di Chopin, un musicista che non cerca di imporle una visione interpretativa sua ma si sforza invece di razionalizzarne l’istinto debordante, la Argerich trova uno dei suoi momenti più felici, uno dei momenti in cui riesce a dar la misura di ciò che può essere e di ciò che potrà diventare. Difficile partitura, il Concerto di Schumann, sia perché la scelta delle tessiture stru­ mentali è spesso in contrasto con la scrittura del pianoforte solista, sia perché il suono dei pianisti di oggi non ha, il più delle volte, la morbidezza e l’elasticità a cui probabilmente Schumann pensava. Non potendo impostare un’interpretazione filologica (filologica nel suono, non solo nel testo), Rostropovic si preoccupa di trovare, e trova un rapporto equilibrato tra pianoforte e orchestra chiedendo all’orchestra un suono più penetrante del solito, accentuando lo spiccato degli archi, puntando su attacchi ben accentuati più che sulla tenuta dinamica, modellando insomma il suono orchestrale

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sul suono granito ed imperioso della solista. Ottenuta questa im­ postazione del suono, Rostropovic non ha poi che da trattenere appena l’aggressività della Argerich per trasformarla in piglio eroi­ co e in coinvolgente emozione. Ne risulta un’interpretazione un po’ lisztiana ma travolgente, passionale e sensuale in sommo grado, anzi, direi, francamente erotica in certi momenti di bruciante liri­ smo. Anche il Concerto n. 2 di Chopin è diretto con suprema intel­ ligenza da Rostropovic, ma con risultati meno sorprendenti (tranne che nella parte centrale del secondo tempo) perché qui il rapporto solista-orchestra è tutto sbilanciato a favore del solista ed il diret­ tore non può intervenire a fondo. Comunque, la Argerich dimostra di saper fraseggiare anche i passi rapidi e virtuosistici del Maestoso iniziale e sostiene benissimo il tempo insolitamente lento che Ro­ stropovic sceglie per il Larghetto, scatenandosi un po’ avventatamente solo nel finale. Quando è da sola, per adesso, la Argerich parte troppo spesso come il marine che attraversa un tratto sco­ perto al galoppo e proteggendosi con bombe a mano e sventagliate di mitra, e che non si arresta finché non cade gloriosamente, dopo aver seminato di morti il terreno. Diamole la medaglia, a questa cavalla della Argerich che ancora suona come ai concorsi, e aspet­ tiamo che, diminuitele le forze e le munizioni, preferisca attraver­ sare il tratto scoperto di notte: silenziosa, astuta, calma e discreta come un vecchio sergente che, senza beccarsi la medaglia e il pianto del commodoro, salva la pelle sua e non carpisce quella degli altri. La Argerich ha mólte probabilità di arrivarci, come ci sono arrivati certi grandi virtuosi — Artur Rubinstein e Gilels, ad esempio — quando sono stati costretti ad accorgersi che non tutto è agevole sulla tastiera,... ad una certa età.

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Dopo aver parlato dei pianisti che all’incirca nell’ultimo mezzo secolo hanno percorso con disagio la carriera concertistica o che, avendo iniziato su posizioni di originalità, non sono riusciti ad ottenere consensi sufficienti per affermarsi vedremo invece in questo capitolo coloro che nella vita concertistica si sono inseriti come lame in un fodero già preparato. Prima di tutti Nikita Magaloff. Russo, nato suddito dello zar in una capitale imperiale che si chiamava ancora S. Pietroburgo, Nikita Magaloff cominciò a stu­ diare il pianoforte da bambino, ricevendo qualche lezione da Alek­ sander Siloti, allievo di Liszt e cugino e maestro di Rachmaninov. Nel 1918 — Nikita aveva sei anni — la famiglia Magaloff arrivava a Parigi, ed a Parigi, dopo gli infantili assaggi di S. Pietroburgo, il Nostro riceveva un’educazione musicale suntuosa, assolutamente soignée. Studi di composizione (con contorno di partite a scacchi) sotto la guida di Prokofiev, anche lui emigrato. Studi pianistici con Isidor Philipp, ungherese francesizzato che discendeva dalla costola di Chopin, avendo studiato con l’allievo di Chopin Georges Mathias. Una doppia discendenza, a dire il vero, perché Mathias aveva studiato con Kalkbrenner, prima che con Chopin. Philipp ereditava così e il gusto di Chopin, sia pur filtrato da un mezzo secolo di sedimentazione, e il perfezionismo di Kalkbrenner. E le sue opere didattiche lo dimostrano: non la scelta della diteggiatura più comoda, non di quella più funzionale (che, dice Clementi, non sempre è la più comoda), ma il possesso di qualsiasi combinazione di dita possibile. Come il conte d’Albretto di Giovanni Mosca, gran signore che riteneva necessario dare ai figli un’istruzione tanto

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completa da comprendere teoria e prassi del miagolio, Isidor Phi­ lipp pretendeva trilli di anulare e mignolo pari in scioltezza a quelli di indice e medio. E dava dimostrazioni impeccabili dei suoi per­ sonali traguardi: mi disse Magaloff che Philipp, esemplificando all’ottava alta, come fanno tutti gli insegnanti, difficili passi della destra mentre l’allievo suonava, usava la sinistra, non la destra! Magaloff non è perfezionista oggi e non lo era neppure a quin­ dici anni, sicché trillava con le dita che gli tornavano più comode, faceva le scale in doppie terze senza consultare il trattato di Moszkowsky e non si spaventava — come non si spaventa — se gli scappavano delle note false. Ma la base della sua tecnica furono e sono il jeu perle e il velluto dei francesi, e chiunque ascolti da lui le volate impalpabili dell’ultima pagina di quel Lento con gran espressione di Chopin, ch’egli esegue spessissimo come bis, si ac­ corge subito che questo oriundo russo non ha proprio niente della tecnica di Rachmaninov o di Horowitz e che ha invece tutto della tecnica di Pugno o di Casadesus. Anche quando passa ad altri tipi di tecnica, anche quando, in omaggio al mito del «rilassamento», si assicura con visibili scuotimenti di avere le spalle ben sciolte, il suo modo di attaccare il tasto è sempre quello sacro al patriarca SaintSaéns: chi parla è il dito, chi regge le fila è Sua Maestà il dito. La tecnica di Magaloff resta quindi, nelle sue basi, la tecnica di SaintSaéns, di Marmontel, di Mathias, e di Pugno e di Casadesus. Ma non di Cortot. Educato a Parigi mentre il più acclamato interprete di Chopin, Alfred Cortot, a Parigi spopolava, Magaloff dovette capire subito che l’originalità geniale di Cortot era distrut­ tiva per chi lo avesse imitato. Come interprete di Chopin (e tutti sanno quanta parte abbia Chopin nel suo repertorio), Magaloff procede da una tradizione antica direttamente tramandata, rinno­ vatasi attraverso i postulati neoclassici della lettura attenta, precisa, analitica del testo. L’educazione tecnica che non esce dalla tradi­ zione francese e l’educazione stilistica fondata sull’insegnamento di Chopin si uniscono in Magaloff alla scelta, alla identificazione con una poetica: Stravinsky. Non lo Stravinsky polemico e schematico dei libri, ma lo Stravinsky che capitava ad ogni momento a Parigi e che dava dimostrazioni tecniche di come si potesse apprezzare, da musicisti, più Ciaikovsky che Wagner. L’adesione alla poetica di Stravinsky non è magari più tanto evidente, oggi: così come, rien­

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trando nell’Unione Sovietica più di cinquantanni dopo esserne uscito, Magaloff s'accorse di parlare correntemente una lingua russa arcaicizzante, noi ci accorgiamo che qualcosa del salotto pietroburghese, di Arensky e di Ljadov e di Vitols, gli è restato nelle pieghe della memoria, e che ritorna in luce. Ma il fondo culturale di Magaloff è tutto stravinskiano (anche Stravinsky è un pietroburghese), e magari ingentilito dalle grazie di un uomo di mondo impareggiabilmente charmeur. Il primo titolo di Magaloff è di aver eseguito Stravinsky e di essere interprete stravinskiano come Stravinsky desiderava: come Monteux, come Ansermet. Il secondo titolo è di esser stato non tanto interprete di Chopin (gli interpreti di Chopin sono legioni, i grandi interpreti di Chopin sono moltissimi), quanto di aver ese­ guito Finterà opera di Chopin in ordine cronologico. Nella storia concertistica dell’interpretazione di Chopin troviamo dapprima i bouquets di pagine sparse (un valzer, tre preludi, una mazurca, una ballata, ecc.), poi i generi (tutti gli studi, tutti i preludi, tutte le ballate, tutti gli scherzi, ecc.); Alexander Brailowsky e, a quanto pare accertato, Edouard Risler e Robert Lortat avevano eseguito nel primo quarantennio del nostro secolo il tutto-Chopin. Questa iniziativa diventa con Magaloff, per così dire, «istituzionale», ed il pubblico impara che con lui anche i rondò, la Sonata op. 4, l’Al­ legro da concerto op. 46 hanno un senso nel contesto dell’opera di Chopin, così come, nel contesto, acquistano un significato diverso e più preciso, perché non mitizzante, le pagine più celebri. H lavoro di Magaloff è stato però più ampio di quello, già molto cospicuo, di apostolo di Stravinsky e del tutto-Chopin. Magaloff è stato il primo pianista di fama internazionale che abbia eseguito Soler, è stato il primo che abbia eseguito le incompiute Variazioni su un tema di Beethoven di Schumann, ha tenuto in vita le trascri­ zioni Schubert-Liszt mentre erano desuete in Occidente, è andato a cercare uno Schubert non di repertorio. Quando Magaloff sfodera come bis un suo cavallo di battaglia, l’improvviso op. 90 n. 2, e l’esegue con la chiarissima intenzione di strappare un boato di applausi, è persino un po’ irritante. Ma ciò non toglie che da lui io abbia ascoltato la più bella esecuzione pubblica a me nota della Sonata op. 78, rimasta al di fuori degli interessi, sia detto per inciso, di uno schubertiano di ferro come Richter.

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Di recente Magaloff ha poi ripreso a suonare Weber e Men­ delssohn, e non il Weber del Concertstùck e il Mendelssohn del Concerto in sol minore, ma il Weber delle Sonate e il Mendelssohn delle Romanze senza parole, dei Preludi e fuga, delle sonate giova­ nili. Recuperato Schubert, c'è oggi da verificare se sia veritiera la «linea» tradizionale Schubert-Schumann, e Magaloff comincia a far intrawedere al pubblico due linee diverse tra le quali corrono dei ponti, ma che sono storicamente indipendenti: una linea «vienne­ se» che finisce con Schubert, una linea «tedesca» che comincia con Weber e, se vogliamo, una sintesi che si attua in Brahms. Propo­ nendo alle società di concerti e Weber e Mendelssohn, Magaloff opera da artista che promuove lo sviluppo della cultura; se poi sono le società che scartano Weber e Mendelssohn e invocano l'eterno Chopin, beh!, la colpa non è di Magaloff. Intendo dire che in una vita musicale meno pigra e consuetudinaria di quanto non sia l'attuale, un pianista con la facilità di apprendere e con la disponi­ bilità allo studio come Magaloff potrebbe fare moltissimo, potreb­ be essere più prezioso di quanto in effetti non risulti essere. Tra le due specie di pianisti che Busoni distingueva, quelli che presentano la letteratura e quelli che scelgono alcuni pezzi per presentare se stessi, Magaloff appartiene comunque alla prima: che non è sempre la più ammirata, che non è sempre la più grande, ma che è sicura­ mente la più nobile.

Magaloff, con il ciclo-Chopin, riprendeva un'idea di Alexander Brailowsky, che l’aveva attuata per la prima volta nel 1924. L’a­ mericano Julius Katchen, all’inizio degli anni 60, cominciò ad eseguire in quattro serate tutte le opere per pianoforte solo di Brahms. Il pubblico si accorse, con sorpresa, di quanto poco fosse noto il Brahms pianistico: le Variazioni su un tema di Paganini e le Variazioni su un tema di H'àndel erano sì popolarissime, la Sonata op. 5 era compresa nel repertorio di qualche mostro sacro (come Fischer e Rubinstein), le Rapsodie op. 79 e i Valzer op. 39 si erano sentiti e tutti i pianisti avevano sottomano qualcuno degli Inter­ mezzi. Ma Katchen faceva scoprire al pubblico più attento una produzione non vastissima, eppure eccezionalmente densa di ac­ cadimenti, una produzione nella quale si rifletteva come in uno

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specchio rovesciato tutta la storia della letteratura pianistica nella prima metà dell’ottocento. Proprio questo senso della brahmsiana meditazione sulla storia risultava chiaro dalle esecuzioni di Kat­ chen, che faceva inoltre scoprire il carattere ciclico delle ultime raccolte di pezzi, eseguite fino a quel momento solo per frammenti. H ciclo brahmsiano di Katchen non ottenne i successi del ciclo beethoveniano delle Sonate o del ciclo chopiniano. Credo però che Katchen avrebbe alla fine «sfondato» e che il suo ciclo brahmsiano avrebbe potuto diventare per il pubblico un appuntamento gradito quanto gli incontri beethoveniani e chopiniani. Purtroppo Julius Katchen morì nel ’69, a quarantatre anni e nel momento in cui stava conquistando una posizione di grande prestigio nella vita concertistica. Come molti americani della sua generazione, Kat­ chen era un gran macinatore di note, un pianista dal suono robusto e dalle mani infallibili, un costruttore di architetture solidissime. In tempi in cui era ancora attivo Backhaus ed era ancora vicino il ricordo di Fischer e di Schnabel poteva sembrare un interprete serio, volenteroso e quadrato, che non raggiungeva mai i livelli dei grandi esegeti di Brahms. Oggi le cose stanno un po’ diversamente. E evidente che Katchen era stato fortemente impressionato dalla lezione di Fischer e di Backhaus, ma nel suo stile di interprete brahmsiano si trovavano e si trovano almeno due elementi di novità che escludono l’epigonismo: una cupa, tetra sfumatura della nostalgia e della malinconia di Brahms, ed una tavolozza di colori più ricca di quella dei pianisti nati intorno al 1880, che non aveva­ no affrontato in profondità i simbolisti. L’originalità di Katchen risulta chiaramente proprio là dove un virtuoso delle sue qualità dovrebbe trovarsi meno a suo agio: nei pezzi op. 76 e 116-119. E molto raro che il pianismo tendenzialmente aggressivo di Katchen prevalga in queste pagine: si può ricordare per eccezione la Ballata op. 118 n. 3, che manca di interiorizzazione, o il finale della Rapsodia op. 119 n. 4, dove però l’esplosione virtuosistica dell’ul­ tima pagina arriva al culmine di una progressione emotiva accor­ tamente calcolata e suona perciò del tutto logica. Ma là dove il recensore scettico aspetta Katchen con più curiosità (nell’inter­ mezzo op. 116 n. 4, nell’intermezzo op. 117 n. 2, nell’intermezzo op. 118 n. 6, nell’intermezzo op. 119 n. 1), ebbene, Katchen non suona solo bene le note: fraseggia con ricchezza di idee ed espone il

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discorso con una chiarezza ed una poesia che non la cedono a quelle di altri più celebrati interpreti, appartenenti ad aree culturali impregnate di memorie brahmsiane. Rebus sic stantibus, è ovvio che un virtuoso come Katchen si trovi in mezzo ad un giardino di delizie quando Brahms spinge perfidamente l’esecutore ai limiti dell’impossibile. Sia le Variazioni su un tema di Handel che le Variazioni su un tema di Paganini sono rese con una pienezza, una forza, un dominio quali rarissimamente sono stati raggiunti. Nelle prime due Sonate la tecnica trascendentale di Katchen trova un altro ideale campo di battaglia, e anche nei momenti più scabrosi (ad esempio, nel finale della Sonata n. 1 e nello Scherzo della Sonata n. 2) si ha sempre l’impressione di una riserva di risorse che non viene toccata. Ma assolutamente sconvolgente è l’audizione della Sonata op. 5, nella quale, miracolosamente, Katchen riesce a far vedere in proiezione tutto il futuro sviluppo della personalità di Brahms. È un peccato che Katchen non abbia inciso le pagine virtuosi­ stiche sperimentali di Brahms (i Cinque Studi e la versione del­ l’improvviso op. 90 n. 2 di Schubert con la parte della mano sinistra affidata alla destra e viceversa), cioè quelle pagine ch’egli sarebbe stato tra i pochissimi pianisti — non più di cinque o sei — in grado di dominare veramente. È invece strano che nella prima serie delle Danze ungheresi, in cui, tecnicamente, fa cose da... pazzi, non riesca a riproporre lo stile fantasioso e capriccioso degli zingari ungheresi e ci trasporti, più che nella brasserie danubiana, in un serioso Concerthaus. Strano, perché Katchen è interprete tra i più brillanti e caustici di pagine — dal Concerto n. 2 di Rachmaninov alla Rapsodia in blu di Gershwin al Concerto n. 3 di Prokofiev ai Concerti di Ravel — nelle quali i compositori gettano l’occhiata amorosa o l’occhiata complice verso la musica disimpegnata, verso quella musica che sa un po’ di compromesso tra sacro e profano. Era interprete eclettico, Katchen, e riusciva bene nei Concerti K 466 e K 503 di Mozart, come nelle Variazioni su un valzer di Diabelli di Beethoven, come in certo Chopin, come nel Bartók del Concerto n. 3, come, stupendamente, nel Britten delle Diversions. Quando morì aveva cominciato a raccogliere il suo immenso ta­ lento e il suo mutevole temperamento intorno ad un autore, Brahms, da cui avrebbe potuto partire per rileggere tutta la lette-

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ratura: la sua morte prematura è stata certamente una perdita gravissima per la storia dell’interpretazione pianistica nella seconda metà del nostro secolo, la più grave dopo la scomparsa di Lipatti.

Il concertismo solistico, iniziato verso la fine del Settecento, ha inventato e messo a punto diversi meccanismi di selezione dei talenti, e quindi di avvio della carriera. Il più antico e il più ingenuo è quello che fu adottato da Mozart: il libero professionista si fa impresario di se stesso e si assume tutti i rischi economici. Poco più tardi Muzio Clementi inventava il sistema del protégé: un grande maestro presenta al pubblico il suo allievo, facendosi patrocinatore e garante del nuovo talento: Clementi fa esordire John Field, Liszt fa esordire Hans von Bùlow, Leschetitzki fa esordire Ignaz Pade­ rewski, e così via. Il sistema dei concorsi, di cui parlerò in partico­ lare più avanti, è più recente, perché risale alla fine dell’ottocento: nel 1890 Anton Rubinstein bandiva un concorso di pianoforte e di composizione, laureando rispettivamente il russo Dubassov e l’italiano Busoni, nel 1893 Louis Diémer metteva in palio una somma di denaro e formava una giuria di celebrità — Paderewski, Philipp, Planté, Pugno, Rosenthal, Saint-Saèns — che laureava Joaquin Malats. Backhaus, Gilels, Benedetti Michelangeli, Guida, Pollini e tanti altri hanno ricevuto dalla vittoria in un concorso il viatico per la celebrità. L’ultimo sistema — per ora — risale al dopoguerra: la carriera iniziata con il disco. Lipatti, come abbiamo visto, è il primo che intuisce questa possibilità; Alfred Brendel è il primo che attraverso il disco ottiene la notorietà. Nato a Wiesenberg il 4 gennaio 1931, dopo aver studiato a Zagabria e a Graz, Brendel seguì corsi di perfezionamento tenuti da Paul Baumgartner, da Edwin Fischer e da Eduard Steuermann. Con alle spalle questi ottimi studi, e con un modesto terzo premio conquistato nel Concorso Busóni di Bolzano nel 1949, Brendel fu notato da una piccola casa discografica americana, la Vox, che stava iniziando una nuova politica editoriale. L’Austria del dopoguerra era un gran serbatoio di talenti, ed offriva molte specie di pesci a chi voleva gettarvi la rete. Vivevano infatti a Vienna Friedrich Guida, Alfred Brendel, Paul Badura Skoda, Jòrg Demus, Walter Klien, Ingrid Haebler, oltre a direttori d’orchestra ed esecutori di vari

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strumenti. Tra tutti i giovani pianisti austriaci che iniziavano la loro carriera tra il 1945 e il 1950 il solo Guida si impose rapidamente attraverso la vittoria nel Concorso di Ginevra e poche, fortunatis­ sime tournées di concerti. Tutti gli altri trovarono invece occasioni e stimoli di lavoro nella nascente industria del microsolco, alla quale occorrevano interpreti disponibili per imprese faticose, mas­ sacranti ma, a lunga distanza, culturalmente producenti. La Vox e la Westminster iniziarono con i giovani pianisti viennesi (e con qualcuno più anziano, come Friedrich Wùhrer) una politica lungi­ mirante, che intendeva sostituire con il disco la pubblicazione della musica stampata o, se si preferisce, affiancare agli opera omnia stampati gli opera omnia in disco. Politica proseguita coerente­ mente per più d’un decennio, e poi generalizzatasi, che favorì gli interpreti in grado di cogliere al volo l’occasione e ne escluse per sempre altri, come Walter Kamper e Alexander Jenner, forse al­ trettanto dotati ma non ancora pronti per le fatiche delle «integra­ li». La mastodontica mole di incisioni effettuate tra il 1950 e il 1965 permise poi a Brendel, a Demus e alla Haebler di emergere anche in campo concertistico con il sussidio di una formidabile prepara­ zione di base e con un repertorio vastissimo. Brendel incise la Fantasia contrappuntistica di Busoni, tutta l’opera per pianoforte solo e il Concerto di Schonberg, ed incise qualcosa di Schubert, di Haydn, di Schumann, alcuni Concerti e Sonate di Mozart, la Sonata op. 5 e i Pezzi op. 3 di Richard Strauss. Il più importante lavoro che la Vox gli affidò fu l’incisione di tutte le opere per pianoforte solo e per pianoforte e orchestra di Beet­ hoven. Alla resa dei conti l’incisione non fu proprio completa (Brendel scrisse di aver volutamente escluso le composizioni da lui ritenute poco significative), ma era la più completa che si potesse trovare allora e fino a molti anni più tardi, ed era utilissima, malgrado l’evidente immaturità dell’interprete. La Vox si impe­ gnava a fornire una corretta lettura di tutta l’opera di Beethoven, di quella di cui si potevano trovare interpretazioni esemplari e di quella che non aveva mai avuto l’onore di un’incisione. Brendel ripagò la fiducia che era stata in lui riposta, ed offrì un’esecuzione pressoché impeccabile. Ma in che cosa consisteva l’impeccabilità di Brendel? Nella scelta del testo filologicamente più sicuro fra quelli disponibili, nel rispetto delle note e dei segni, nella conoscenza e

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nella fedeltà allo stile elaborato dai grandi interpreti cosiddetti classici o neoclassici: Schnabel, Fischer, Backhaus, Kempff, Baum­ gartner. Brendel non imitava direttamente nessuno, e non avrebbe del resto potuto imitare personalità tanto diverse tra di loro senza cadere in un vuoto eclettismo. Ci sono però elementi di stile — dallo stacco dei tempi al modo di realizzare i gradi della dinamica al modo di fraseggiare — che gli interpreti citati avevano, entro certi limiti, in comune. Ad esempio, è ben vero che Schnabel, Fischer, Backhaus e Kempff adottano velocità lievemente diverse tra di loro nei quattro principali episodi di cui si compone l’esposizione del primo tempo dell’Appassionata. Ma basta ascoltare le velocità adottate da Richter per capire che la prospettiva di quest’ultimo è radicalmente diversa, mentre gli altri quattro, fatte salve le diversità individuali, si muovono entro una prospettiva comune. In quella prospettiva si muoveva anche Brendel, che servendosi di stilemi già elaborati e sperimentati conduceva onorevolmente, molto onore­ volmente a termine,ciò che gli era stato richiesto di fare. L’impeccabilità ha i suoi pregi — e non lo dico ironicamente. Ha per esempio i pregi delle garanzie che offre all’ascoltatore non esperto o poco esperto di musica, il quale attraverso l’impeccabilità dell’esecutore può cogliere un’immagine complessiva dell’autore, non distorta, non provocatoria, non ipotetica. L’impeccabilità ha anche i suoi limiti. Solo nella non impeccabilità, talvolta, si registra una tensione spirituale che rende affascinanti le manchevolezze, che fa spalancare gli occhi e fa intrawedere cose mai viste: «Less is more, Lucrezia», Quel meno è un più, Lucrezia, dice alla moglie Andrea del Sarto nel poemetto di Robert Browning, quando nota l’errata positura di un braccio disegnato da Raffaello, e non riesce a muovere il carboncino per una correzione che gli era parsa agevo­ le... ... e Brendel era a parer mio un del Sarto quando interpretava Beethoven o in genere quando interpretava i.classici tedeschi. Ma era anche un Raffaello quando interpretava Chopin e soprattutto Liszt. L’interesse per Liszt era certamente sorprendente e persino, in un certo senso, contraddittorio, ma conduceva Brendel a sco­ perte sue, personali e originali, non condizionate da una tradizione ricevuta da grandi maestri, da conservare e custodire con cura. La tradizione lisztiana tedesca, quella dei Bùlow, dei Bronsart,

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dei Klindworth, degli Ansorge, dei d’Albert, dei Reisenauer, non era stata continuata da interpreti altrettanto grandi, al contrario di quanto era accaduto in Russia. Per Brendel, giovane esponente del classicismo viennese, Liszt rappresentava dunque un momento affascinante di cultura autre, Ed in Liszt il suo talento di interprete, tenuto a freno dalla tradizione in Mozart e in Beethoven, acqui­ stava tutto lo slancio, tutta la fantasia, tutta l’originalità di cui era capace. Ad esempio, la sua interpretazione della Sonata in si mi­ nore, acutamente analizzatrice e nello stesso tempo fervidissima ed impetuosa, si colloca nel novero delle interpretazioni storiche, do­ po quelle di Cortot e di Horowitz e prima di quelle di Arrau, di Gilels, di Berman. Altrettanto straordinaria l’esecuzione dei due Concerti sotto la direzione di Michael Gielen. Per sua fortuna, Brendel non era un virtuoso che facesse saltare gli ascoltatori sulle sedie; per sua fortuna, Gielen era ancora al bivio tra la carriera di direttore e la carriera di compositore. Messisi a decifrare i due Concerti di Liszt, i due si scoprirono abbastanza ingenui da non temere i confronti con i grandi virtuosi e abbastanza smaliziati da non paventare il cattivo gusto di Liszt. La loro lettura intendeva valorizzare le partiture, distillandone tutti i succhi musicali ma senza rifiutarne la dimensione oratoria, cioè senza dimenticare che le stupende invenzioni di Liszt erano usate dal compositore come mezzo di pressione psicologica nei confronti dell’ascoltatore. Il generale, forte rallentamento dei tempi adottati da Gielen e Bren­ del permetteva loro di far sentire tutte le preziosità dell’armonia e della strumentazione, e nello stesso tempo nessun pudore classici­ stico li costringeva ad attenuare il gestire eroico ed il cantare con il cuore in mano: anzi, proprio il rallentamento dei tempi rendeva più monumentale il gesto eroico e più arcanamente soggiogante l’esposizione dei sentimenti. Il barocco di Liszt — autentico ba­ rocco romantico, che non desidera ancora recuperare il classicismo e non è ancora turbato da presentimenti decadentistici, ma vive in un presente che gli appare eterno — si affermava nell’interpreta­ zione di Brendel e Gielen in una misura inusitata, equilibratissima, assolutamente esemplare. Forse Brendel e Gielen avevano tenuto presente la vecchia incisione di Emil von Sauer e Felix Weingartner, e forse conoscevano l’interpretazione di Lipatti. Certo è però che la loro forza emotiva era più autentica di quella di Sauer e

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Weingartner e più intensa di quella raggiunta, in prospettive an­ cora classiciste, da Lipatti. Sono passati molti lustri, ma quella incisione resta ancor oggi memorabile, storica. E Brendel aveva allora ventisei anni. Oltre ai Concerti e alla Sonata Brendel incise molte altre pagine di Liszt, comprese parecchie Rapsodie ungheresi e parecchie para­ frasi su temi d’opera, e comprese alcune delle ultime composizioni, allora del tutto sconosciute e neppur oggi veramente note. Di Chopin, Brendel incise le Polacche op. 22, op. 40 n. 2, op. 44, op. 53, op. 61: anche questa è un’interpretazione piena di idee e talora veramente entusiasmante (op. 44, op. 61), sulla quale non mi soffermo perché Chopin non fu affrontato da Brendel con l’impe­ gno e con l’ampiezza di vedute posti nell’interpretazione di Liszt, così come episodico mi sembra sia stato l’interesse per la letteratura russa (un’incisione geniale dei Quadri di Mussorgski, incisioni di Islamey di Balakirev, di Petruska di Stravinsky, della Sonata n. 5 e del Concerto n. 5 di Prokofiev). La personalità di Brendel appariva già ben definita verso il 1965, nelle sue focalizzazioni come nelle sue esclusioni. L’interesse pre­ minente riguardava la civiltà viennese. Viennese, si badi, non tede­ sca-. Haydn, Mozart, Beethoven, Schubert, e anche Schonberg, ma quasi niente Schumann e Brahms, e tanto meno Weber e Men­ delssohn. Limitato interesse per Chopin e per i russi, nessun inte­ resse per gli impressionisti francesi, una grande ammirazione, quasi un culto per Liszt. Interessi che si sono approfonditi, ma non ancora sostanzialmente modificati dopo che Brendel, dalla metà circa degli anni 60, ha aumentato i suoi impegni e si è imposto nelle sale di concerto, soprattutto in Inghilterra (vive a Londra dal 1971) e negli Stati Uniti, come uno tra i più acclamati pianisti del nostro tempo. Brendel dal vivo non corrisponde del tutto a Brendel in disco, e in verità ci vuole un po’ di tempo per superare la sorpresa che si prova ascoltandolo per la prima volta in sala di concerto. In pub­ blico Brendel dimostra un impressionante dominio di sé: la tecnica e la memoria sono in genere sicurissime, il senso della forma non lo abbandona quasi mai, la presenza degli ascoltatori non sembra condizionarlo. Il suo volume di suono è però assai limitato, e l’ascoltarlo richiede uno sforzo di concentrazione insolito perché

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con lui non si resta dominati, assaliti da sonorità imperiose, ma bisogna invece adattarsi ad un suono sottilissimamente graduato nella intensità e timbricamente poco variato, che dà l’impressione di un disegno a penna. Un tempo si diceva che Brendel doveva contenere il suono perché gli si spezzavano facilmente le unghie (suonava allora spesso con cerotti sulla punta delle dita). Oggi la dinamica limitata fa parte di uno stile asciutto e lineare, di una lettura ascetica e severa come una lezione di filologia. E forse per ciò Brendel, discograficamente molto «venduto» in Italia, non è popolare nelle nostre sale di concerto, dove pure è apparso spesso. Negli anni 70 Brendel ha nuovamente inciso quasi tutto il suo vecchio repertorio (non Chopin ed i russi), aggiungendovi pochi pezzi di Bach, i due Concerti di Brahms, molti lavori della maturità di Schubert, molti Concerti e alcune Sonate di Mozart. La sua maturazione è evidente da un’infinità di particolari, quando si paragonano ad esempio le due incisioni delle Sonate e dei Concerti di Beethoven. Molte cose erano accadute, nell’interpretazione beethoveniana, tra il 1960 e il 1977. Nel 1960 il classicismo stava esaurendo la sua funzione e doveva essere portato alle estreme conseguenze o essere superato. Alle estreme conseguenze lo portò Arrau, il cui rigore analitico fu spinto a limiti sconosciuti persino ad uno Schnabel, certamente il più acuto indagatore del testo tra gli interpreti della generazione precedente. Ad un certo tipo di supe­ ramento lo portò Backhaus nei suoi ultimi anni. Ad un altro tipo di superamento lo portò l’esperienza più importante che venisse fatta in quegli anni, con Badura Skoda e, con risultati di maggior novità, con Jorg Demus: l’esecuzione sui pianoforti di Beethoven o del tempo di Beethoven. Nel 1977 non c’era chi, in senso globale, potesse andar oltre a ciò che aveva fatto Arrau, non era ancora apparso chi sapesse riprendere le proposte di Backhaus, ed era in via di continuo, ma lentissimo sviluppo l’esecuzione sul fortepiano. I traguardi raggiunti dal classicismo non potevano essere toccati e il classicismo appariva un’esperienza irreversibile. Non si poteva però neppure congelare il classicismo, che veniva invece sottoposto ad una continua erosione con proposte per allora parziali. L’olimpica certezza di Brendel era sicuramente consolante. Ma intanto Richter aveva sconvolto la tradizione classica in almeno due Sonate (l’op. 14 n. 1 e l’Appassionata), Serkin aveva dato un volto diverso all’op.

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101, Ashkenazy, come vedremo fra poco, aveva riscoperto la Pa­ tetica e l’op. Ili, Gilels stava mettendo in luce un Beethoven strettamente collegato ai primi romantici. Se pensiamo a Brendel, quando ascoltiamo la stupefacente, persino irritante esecuzione che Richter ci dà del secondo tempo dell’op. 14 n. 1, dobbiamo dire che il less di Richter è un more rispetto a Brendel. E less is more dobbiamo dire anche quando paragoniamo Brendel alla furia ico­ noclastica di Guida, alle bizzarrie di Barenboim, alle follie di Lupu. Brendel era certamente maturato, dal 1961 al 1977; lo si avvertiva da un’infinità di sfumature, dalla maggiore perfezione, dalla mag­ gior trasparenza dei piani sonori. Di nuovo, rispetto a prima, c’era però pochissimo: qualche pedale di risonanza più lungo (due bel­ lissimi esempi: nel primo tempo dell’op. 31 n. 3, nel secondo tempo dell’op. 79), qualche accordo rapidamente arpeggiato, qualche altro particolare di minor conto. Rimaneva l’uso del si bemolle grave nell’op. 106, che in un classicista di questo tipo dava persino fastidio. Rimaneva la sensazione che fosse sempre mancata, a Brendel, una crisi di rigetto della tradizione, che gli fosse mancato il coraggio di affrontare Beethoven con l’indipendenza di spirito con cui aveva affrontato Liszt e, in misura più limitata ma pur sempre cospicua, Schubert. Un autentico arricchimento è invece da notare soprattutto nei Concerti (più che nelle Sonate) di Mozart, tanto che oggi il solo Rudolf Serkin può stare alla pari di Brendel come interprete mo­ zartiano, per lo meno tra gli interpreti che usano il pianoforte moderno. Brendel sceglie la strada della collocazione storicamente esatta di Mozart, al primo momento della civiltà viennese che proseguirà con Beethoven e si concluderà con Schubert. Interprete, come dicevo, un po’ conservatore di Beethoven, e interprete schubertiano acuto ma non sempre disposto a seguire Schubert nel suo tragico pessimismo, Brendel trova invece nei Concerti di Mozart un punto di equilibrio perfetto, cogliendo, con sensibilissime antenne, tutte le sfaccettature della personalità mozartiana, dalla gaiezza quasi infantile al demonismo. La sua visione interpretativa è pur sempre quella che era stata elaborata dalla generazione dei classi­ cisti, e sarebbe forse auspicabile che l’interpretazione mozartiana si rinnovasse. Ma non si vede come. Lo stile del classicismo, all’inizio degli anni 80, accomuna interpreti di età, formazione culturale e

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personalità diverse come Brendel, Ashkenazy, Pollini, Lupu, Perahia, Lonquich. La Kraus, unica interprete nella quale la teoria degli affetti prevalga sullo storicismo, non ha seguito, Arrau, che porta il classicismo alle estreme conseguenze, vanificandolo, con il Mozart dei Concerti non ci ha provato ancora, né gli esperimenti con strumenti d’epoca sono stati condotti con quel radicalismo che, probabilmente, avrebbe aperto nuove vie. Brendel è quindi oggi il maggior esponente della, cultura dominante, e in quest’ambito si muove con una compiutezza ed un magistero assoluti. Che cosa manca in un pianista, in un interprete di questo valore, in un artista della tastiera che è certamente da annoverare, con Ashkenazy e Pollini, tra i migliori della sua generazione? Manca, a parer mio, un momento di crisi in uno sviluppo rettilineo. Nel 1976, in un breve saggio su Busoni (poi pubblicato nel volume Nachdenken uber Musik), Brendel esponeva sinteticamente la sua concezione della «missione dell’interprete», e la esponeva con la chiarezza intellettuale e con l’interiore sicurezza che non gli fanno mai difetto. Concezione che si articola in tre momenti (filologico, storico, morale), sulla quale non si può non consentire e che permette a chi l’adotta di meditare senza fine i testi dei grandi creatori. Sarebbe tuttavia deludente veder Brendel completare fra qualche anno una sua terza, perfezionata incisione delle Sonate e dei Concerti di Beethoven. Il rischio degli interpreti beethoveniani affermati è di diventare per il pubblico dei Beethovenspieler a cui si chiede di cesellare sempre più finemente le loro esecuzioni. Ma il Beethovenspieler Wilhelm Backhaus sentì a sessantacinque anni il bisogno di riprendere in mano Chopin, e dopo aver ristudiato Chopin ci diede, a ottant’anni, il Beethoven più enigmatico del­ l’ultimo quarto di secolo. Il Beethovenspieler Wilhelm Kempff a settant’anni scoprì in Schubert un sonatista pari a Beethoven. Che cosa troverà Brendel? Per ora ha cominciato ad ampliare il suo repertorio con alcune Sonate di Haydn, alcuni grandi lavori di Schumann ed il Concertstiick di Weber. Ho accennato all’interpretazione del Concerto di Schumann della coppia Argerich-Rostropovic e parlerò più avanti dell’interpretazione di Ashkenazy. Se la Argerich mette in luce quanto di più... concertistico ha il Concerto di Schumann, e se Ashkenazy mette in luce le aspirazioni neoclassiche schumanniane,

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Brendel ci mostra la continuità tra lo Schumann intimistico e lo Schumann sinfonico. Tempi più svelti e suono più ridotto rispetto sia alla Argerich che ad Ashkenazy, un modo di cantare intenso ma dolce, sensibili differenziazioni di carattere tra i vari episodi ma sotto il comune denominatore di un colloquio del poeta con se stesso. Si direbbe che Brendel colga nel Concerto tutto il mondo giovanile di Schumann, ordinato ma non costretto nelle forme della tradizione classica: un Davidsbundlertànze riscritto come Concer­ to. Interpretazione affascinante, in cui Brendel è mirabilmente coadiuvato dal suono che Abbado cava dall’orchestra, specie dagli archi, e in cui si rivaluta addirittura la scrittura sinfonica schumanniana. Le più note interpretazioni del Concertstùck sono quelle di Casadesus e di Magaloff, che collocano Weber nel contesto della cultura romantica francese in cui il compositore tedesco era stato introdotto da Berlioz e da Liszt. La lettura di Brendel ed Abbado riconduce invece Weber nel protoromanticismo tedesco, facendo del Concertstùck Tequivalente strumentale del Franco cacciatore e non mancando di mettere in luce le lontane ascendenze in Mozart e in Cari Philipp Emanuel Bach. Haydn, Weber e Schumann rappresentano tre direzioni che possono portare molto lontano un grande interprete, e le prime due sono per di più strade poco esplorate. Percorrendole, Brendel potrebbe trovare ciò che a parer mio ha scansato in Beethoven, non ha ancora visto bene in Schubert ed ha appena sfiorato in Mozart: gli aspetti non razionali, il male oscuro della civiltà di cui è inter­ prete eminente.

Al contrario di Brendel, il russo, poi naturalizzato islandese Vladimir Ashkenazy è un tipico prodotto delle selezioni dei con­ corsi internazionali. Nato a Gorky il 6 luglio 1937, studi iniziati a sei anni, esordio a Mosca a otto anni, dieci anni di lavoro con una preparatrice-allenatrice di talenti, allievo, a partire dai diciottenni, cioè dopo il compimento della scuola media superiore, del grande didatta Lev Oborin (vincitore del primo Concorso Chopin di Var­ savia e noto soprattutto come collaboratore di David Oistrakh). Nello stesso anno in cui cominciava a studiare con Oborin, Ash-

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kenazy vince il secondo premio al Concorso Chopin di Varsavia, Fanno dopo vince a Bruxelles il Concorso Regina Elisabetta del Belgio, nel 1958 suona negli Stati Uniti, nel 1960 conclude gli studi nel conservatorio di Mosca, nel 1962 vince, a pari merito con Ogdon, il Concorso Ciaikovsky di Mosca, l’anno dopo si stabilisce a Londra e nel corso degli anni 60 diventa un concertista di indi­ scusso prestigio in tutto il mondo. Alcuni dischi dell’Ashkenazy venticinquenne testimoniano qualità virtuosistiche stupefacenti: ad esempio, un’esecuzione in pubblico del pestifero Concerto n. 2 di Prokofiev è veramente miracolosa per la disinvolta facilità con cui vengono superati gli ostacoli innumerevoli e per la assoluta mancanza di problemi di ordine musicale-architettonico: Ashkenazy sembra una reincarna­ zione del compositore, tanto speditamente ritrova la logica della composizione, e non ha il minimo problema fisico nel far passare le intenzioni musicali alla punta delle dita. Prodotto di una scuola, prodotto di una preparazione metodica, quasi scientifica? Proba­ bilmente sì, in Prokofiev. Ma nessuno poteva aver insegnato ad Ashkenazy a declamare con infinita poesia i più difficili Studi di Chopin: ascoltato radiofonicamente dal Festival di Bergen e poi riascoltato in disco, Ashkenazy mi sbalordiva agli inizi degli anni 60 perché negli Studi di Chopin aveva superato anche il virtuosismo, anche il piacere di sentirsi sano e di trovar tutto facile, e veramente cantava come un usignolo. Alcuni dischi e molte esecuzioni in tutto il mondo fecero di Ashkenazy, in circa un quinquennio, il giovane pianista che occupò lo spazio lasciato libero dal bizzoso Guida. L’incisione della Sonata op. 106 di Beethoven, nel 1968, lo qualificò come interprete che potenzialmente era in grado di andare ben al di là di Chopin e dei russi. Grandioso ed impetuoso il primo tempo, tutto basato su una sonorità metallica che richiamava nettamente sonorità di strumenti a fiato di timbro chiaro. II fugato era eseguito con chiarezza ecce­ zionale, ed altrettanto eccezionali erano i contrasti dinamici nel­ l’ultima pagina. Lo Scherzo era forse meno riuscito del primo tempo perché il ritmo, vigorosamente scandito nel/orte, peccava di incisività nel piano. Ashkenazy si riportava ad un livello molto alto nell’Adagio, detto con intimo sentimento e senza quegli eccessi di espressione che si sarebbero potuti temere in un interprete incline a

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soffermarsi di preferenza sugli autori romantici. L’esecuzione della Fuga era tecnicamente portentosa; e non si trattava di un exploit reso possibile dal disco perché con la stessa disinvoltura, sebbene non con la stessa potenza di sonorità, Ashkenazy aveva eseguito la Fuga in pubblico. La velocità e la chiarezza del contrappunto non erano però fini a se stesse; l’esaltazione giubilante del primo tempo era mantenuta anche nella Fuga, appena temperata dall’episodio centrale, che Ashkenazy conduceva come un intermezzo anziché, al modo di altri interpreti, come il centro emotivo di tutto il finale. L’op. 106 divenne la pietra angolare di una «integrale» delle Sonate di Beethoven che Ashkenazy portò lentamente avanti nel corso degli anni 70. Val dunque la pena di considerare subito il suo contributo all’interpretazione beethoveniana. L’interpretazione delle prime Sonate — ed analogo discorso si potrebbe fare per i primi due Concerti — appare stilisticamente non ben definita. Ashkenazy impiega talvolta una paletta timbrica assai variata, che gli permette di rendere con una chiarezza straordinaria i momenti di scrittura più tipicamente «orchestrale» (ad esempio, nel primo tempo della Sonata op. 2 n. 2), ma poi fa anche ricorso, con un’insistenza a parer mio eccessiva, al pedale una corda, cadendo nella monotonia e soprattutto nella uniformità timbrica perché il pedale una corda non permette sensibili variazioni timbriche in rapporto con diversi tipi di tocco. Anche la carica espressiva di alcuni momenti (ad esempio, il secondo tempo dell’op. 2 n. 2) risulta attenuata, frenata, troppo «signorile» e riservata per un compositore focoso come il Beethoven venticinquenne. Se la sonorità e la gamma espressiva del primo Beethoven non appaiono dunque risolte da Ashkenazy in modo del tutto convin­ cente, del tutto convincente è invece il fraseggio, molto attento a conciliare l’assoluto rispetto del segno con un’esposizione varia e non pedantesca. Ashkenazy fraseggia anche i passi virtuosistici, tenendo conto della difficoltà tecnica, e cioè facendo della difficoltà un parametro del fraseggio. I pianisti dilettanti e non dilettanti, che hanno sudato le loro sette camicie, sciroppandosi tutte le possibili varianti ritmiche e tentando tutte le più astruse diteggiature nelle battute 21-24 del primo tempo e nelle battute 9-18 del finale della Sonata op. 2 n. 3, sentono con un po’ di rabbia che Ashkenazy, al contrario di altri celebri virtuosi, se la prende comoda in un modo

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che una commissione d’esame definirebbe furbesco e sfacciato. Probabilmente, Ashkenazy potrebbe viaggiare a macchinetta an­ che in quei tratti così insidiosi. Ma la sua capacità di lasciar vedere che la difficoltà impegna lui pure ci rende un modo antico di rapporto tra il concertista e il mondo dei dilettanti. Ne avevo parlato analizzando le interpretazioni mozartiane di Gieseking; lo ritrovo, sebbene con minore ingenuità e con un pizzico di civette­ ria, in Ashkenazy, e non posso non apprezzarlo interamente. La Sonata che segna il passaggio dal colto, sensibile, aggiornato lettore di Beethoven all’interprete che incide sulla storia, per Ash­ kenazy è la Patetica. L’idea da cui il pianista russo parte è molto semplice: l’unificazione dell’unità ritmica di base in tutti i tempi della Sonata, con conseguenti rapporti per due o per multipli di due delle unità metriche. La realizzazione di Ashkenazy è però ben lungi dall’essere meccanica, metronomica, ed è invece variata in modo infinitesimale in rapporto con il fraseggio e la sonorità, tanto che l’idea di fondo non si percepisce chiaramente alla prima audi­ zione, ma solo con un successivo controllo. Alla prima audizione si nota invece la relativa lentezza dell’ultimo tempo e l’enorme len­ tezza del Grave iniziale, con una dilatazione dei silenzi, rispetto a ciò che si ascolta solitamente, che lascia esterrefatti. Ma proprio da questo inizio così inconsueto è il significato stesso del patetico a mutare, per ridiventare quello teorizzato da Schiller, «forza tragica della rappresentazione» di una «lotta contro la sensibilità che ci opprime» (L. Magnani). E dall’inizio sgorga tutto il seguito della Sonata, che suona alle nostre orecchie come un qualcosa di mai udito. Non paia eccessivo ciò che dico, e non sembri ch’io pensi di dover considerare superate le interpretazioni di Fischer o di Back­ haus o di Serkin o di Richter: l’interpretazione di Ashkenazy è però di quelle che fanno epoca, non meno delle interpretazioni ora citate. Altra interpretazione da antologia è quella dell’op. 27 n. 1, che Ashkenazy riesce a rendere come una grande improvvisazione, come una versione ottocentesca delle toccate bachiane, dando piena ragione della denominazione Sonata quasi una Fantasia scelta da Beethoven. La Sonata op. 31 n. 1 è resa con gusto e con umorismo, tanto da affiancarsi all’interpretazione di Gilels nella definizione di un lavoro di collocazione stilistica tra le più difficili.

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Le altre Sonate della cosiddetta «seconda maniera» vengono ese­ guite in modo meno inventivo, magari con qualche idea nuova (ad esempio nell’op. 53) non condotta coerentemente fino in fondo. Nelle ultime Sonate, oltre all’op. 106 di cui ho già detto, si distin­ guono la luminosissima op. 109 e l’op. 111. L’op. Ili presenta un problema molto spinoso: il rapporto di tempo tra il Maestoso introduttivo e il successivo Allegro con brio ed appassionato. L’ul­ tima battuta dal Maestoso e le prime due dell’Allegro presentano un ininterrotto trillo misurato al basso, e ciò pone un problema di rapporti della rispettiva velocità delle figurazioni (trentaduesimi nel Maestoso, sedicesimi nell’Allegro). A prima vista si sarebbe indotti a credere che il trillo debba mantenere la stessa velocità nel Maestoso e nell’Allegro, il che significherebbe un rapporto del 200% di velocità in più dell’unità metrica dell’Allegro rispetto a quella del Maestoso. Ma così facendo ci si trova subito di fronte a due inconvenienti opposti: o la scansione di tutto il Maestoso diventa troppo veloce oppure diventa troppo lenta quella dell’Al­ legro. La tradizione ha trovato una soluzione che è stata indicata da molti revisori e che era stata adottata da tutti i maggiori interpreti: accelerazione progressiva del trillo e velocità dell’Allegro del 250 per cento circa più alta di quella del Maestoso. Troviamo questa soluzione, con piccole varianti, in Backhaus, Fischer, Schnabel, Nat, Kempff, Arrau e molti altri fino a Barenboim. Un tentativo di soluzione diversa era stato proposto da Elly Ney, ma in modo non chiaro e probabilmente solo intuitivo: intuitivo di valori dramma­ tici che potevano essere esaltati da un diverso rapporto tra Mae­ stoso e Allegro, ma non cosciente della dimensione teorica del problema, e perciò non perfettamente coerente nella pratica rea­ lizzazione. Una soluzione radicalmente diversa da quella della tradizione era stata invece trovata da Glenn Gould, il quale partiva dal principio che la velocità del trillo, dall’ultima battuta del Maestoso alla prima dell’Allegro, dovesse aumentare del doppio; il rapporto di velocità dell’unità metrica diventava così del 400 per cento in più nell’Allegro rispetto al Maestoso. Gould, come gli accade spesso, realizzava però la sua folgorante idea con provocatoria ostentazio­ ne, riuscendo praticamente solo a rendere tremendamente virtuo­

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sistico l’Allegro. L’idea di Gould fu ripresa da Ashkenazy e realiz­ zata con ben altra capacità di passare dalla dimensione teorica al fatto sonoro concreto. Quel processo di revisione della tradizione, presente allo stato intuitivo nella Ney ed allo stato teorico in Gould, si saldò in Ashkenazy in un’interpretazione che conservava insieme il rigore della enunciazione teorica ed una rinnovata ric­ chezza drammatica dell’espressione musicale. Ashkenazy spinse poi ancora più avanti la semplificazione dei rapporti perché mantenne la stessa durata dell’unità metrica di base nell’Allegro e nell’Arietta, e con ciò pose i fondamenti di un’interpretazione della Sonata veramente innovativa rispetto alla tradizione. Con ciò non voglio dire che solo Ashkenazy abbia ragione e tutti coloro che lo hanno preceduto abbiano avuto torto o siano stati incapaci di leggere correttamente il testo di Beethoven; ma con Ashkenazy — nell’op. Ili come nella Patetica — abbiamo la scoperta per lo meno di una validissima alternativa alla soluzione che una tradizione secolare aveva elaborato.

Beethoven come primo polo di una ricerca. Dopo Beethoven l’altro polo essenziale è rappresentato per Ashkenazy da Chopin, di cui ha iniziato, ma non ancora concluso l’incisione completa delle opere per pianoforte solo. Dopo aver ripreso gli Studi (in un’ese­ cuzione che aveva perduto un poco della freschezza e della imme­ diatezza poetica della prima incisione), Ashkenazy progettava una serie di dischi in cui le opere di Chopin venissero presentate in ordine cronologico... rovesciato: dalle ultime note tracciate dalla mano di un morente alla prima Polacca di un bimbette di sette anni. Curiosa griglia^ che Ashkenazy riempie saltando un po’ di qua e un po’ di là, sempre con risultati che lo pongono al livello dei dieci o dodici pianisti che hanno fatto la storia dell’interpretazione di Chopin. La sua formazione stilistica è molto lineare e la sua derivazione dalla tradizione russa è evidentissima. Ma più che un prodotto di una tradizione Ashkenazy è una personalità che sulla tradizione opera una sintesi, conglobandovi anche aspetti della lezione di interpreti estremamente originali e non-tradizionali come Sofro­ nitzki, Horowitz e Richter (da Horowitz e forse da Sofronitzki Ashkenazy ha derivato secondo me un fraseggio sempre molto

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teso, da Richter la dinamica contenuta nei limiti di un fortissimo non squillante né massiccio). Ma queste radici storiche e queste derivazioni culturali vengono rifuse in una qualità di suono talmente personale da costituire un dato stilistico inconfondibile. L’atteggiamento culturale di Ashke­ nazy è strutturalistico. Ashkenazy sa che le motivazioni storiche, sociologiche, biografiche dell’opera di Chopin sono state analizzate e rivelate, ma sa anche che nulla può spiegare completamente la creazione chopiniana e ritorna, forte di tutta la preparazione di più generazioni, a considerare il testo di Chopin nei suoi rapporti interni, con l’atteggiamento meditativo di chi contempla anziché analizzare. Non dico che gli studi critici su Chopin non possano rivelarci più nulla di nuovo, né che non possano esistere, in altri interpreti, altri atteggiamenti culturali. L’atteggiamento di Ashke­ nazy è però non solo del tutto legittimo, ma è anche quello di una personalità alla quale non sfuggono né la complessità né la varietà dell’arte di Chopin. Rispetto ad altri interpreti che affrontano Chopin in chiave classico-strutturalista, Ashkenazy ha dunque il vantaggio di non operare in modo riduttivo, ma di saper cogliere l’arte chopiniana come un cosmo che trova in sé la spiegazione del suo essere. Ed abbiamo così la prima «integrale» che conclude, potrei dire che esemplifica quarantanni di studi critici e di ricerche. L’atteggiamento di Ashkenazy verso la letteratura, come il let­ tore avrà capito, è un po’ quello del giovane Arrau: leggere tutto, studiare tutto, avere di fronte a sé un quadro completo i cui tasselli, collocati al posto giusto, sveleranno con solare evidenza i loro rapporti e il disegno generale di due secoli di storia. L’atteggia­ mento di Ashkenazy, come di Guida e di Brendel, differisce però da quello dei predecessori perché non è mitico e non è semplicemente strutturalista: Ashkenazy non cerca una linea portante e dominante a cui i fatti storici si rapportino gerarchicamente e non cerca archetipi formali, ma cerca la molteplicità e la contradditto­ rietà della storia. Si può solo immaginare dove approderà nei prossimi vent’anni. Per ora si può notare che, dopo aver quasi dato fondo a Beethoven e a Chopin, egli sta incidendo come solista-di­ rettore tutti i Concerti di Mozart, che sta incidendo tutte le Sonate di Schubert, che ha inciso tutte le Sonate di Scriabin, tutte le opere per pianoforte e orchestra e gran parte delle opere per pianoforte

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solo di Rachmaninov, tutti i Concerti di Prokofiev, i Concerti di Bartók,... oltre a tante cose di Schumann, Liszt, Brahms, Mussorg­ sky Debussy, Ravel, ecc. ecc. È persino più facile andare ad osservare Ashkenazy là dove è meno ammirevole. Ad esempio, dato per scontato che egli rag­ giunga sempre quel suo standard minimo, oggettivamente assai elevato, possiamo dire che in Rachmaninov egli non tocca le punte estreme che ha toccato in Beethoven o in Chopin. In realtà, l’arte pianistica di Rachmaninov procede direttamente dall’arte di Liszt, soprattutto per quanto riguarda la concezione del suono, incisivo, marcato, oratorio, retorico (parlo, s’intende, del Liszt più noto, non dell’ultimo Liszt). E Ashkenazy non è un sommo interprete di Liszt: la sua incisione di sette degli Studi trascendentali, ad esempio, è molto meditata ed è risolta con musicalità impeccabile, ma manca delle qualità fantastiche, visionarie che si ritrovano invece in un Richter o in un Berman, e manca anche del travolgente virtuosismo di un Cziffra o di un Bolet. Per di più, Ashkenazy, che è un tecnico sopraffino e che negli Studi di Chopin fa cose strabilianti anche sul piano tecnico, non possiede però una tècnica delle ottave, soprat­ tutto delle ottave ribattute, fenomenale quanto quella di Horowitz o di Gilels o di Berman. Le sue esecuzioni di Rachmaninov, spe­ cialmente di alcuni brani, sono quindi piuttosto compassate e prudenti, vorrei dire frenate. E il pensiero ritorna insistentemente ai grandi interpreti storici di Rachmaninov, da Rachmaninov stesso a Sofronitzki, Horowitz, Richter, Berman, per confronti e per paragoni che non vanno mai a vantaggio di Ashkenazy. Ma non vorrei dar l’impressione di andare con accanimento in cerca del vizio nascosto nel cavaliere senza macchia e senza paura. E dopo aver detto di due grandi interpretazioni del Concerto di Schumann (Argerich-Rostropovic e Brendel-Abbado) aggiungerò qualche considerazione sull’interpretazione di Ashkenazy, diretta da Uri Segai. Con Ashkenazy e Segai abbiamo un’interpretazione del Concerto esattamente opposta a quella della coppia ArgerichRostropovic. Questa volta è il solista, non il direttore, che dà il tono all’interpretazione. E la dà cercando prima di tutto quelle qualità di elasticità e di morbidezza del suono che alla Argerich mancavano completamente. Da questo colore di suono, che percorre l’opera da capo a fondo, nasce un’interpretazione del Concerto come mani-

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festo del neoclassicismo ottocentesco, cioè come superamento del concerto brillante e come recupero di un rapporto paritetico, mo­ zartiano tra solista e orchestra. Le velocità sono più moderate del solito nei tempi mossi e più mosse nei tempi moderati, il virtuosi­ smo è escluso in modo, a volte, persino dimostrativo e puntiglioso, il pianoforte è considerato interlocutore dell’orchestra. Il Concerto di Schumann regge, certamente, interpretazioni diverse o opposte, proprio perché, essendo lavoro non di un accademico ma di un artista, rappresenta una sintesi storica di classicità e virtuosismo brillante: le intenzioni di Schumann, in altre parole, non erano reazionarie, ma miravano al superamento di una fase storica re­ cente mediante il ripensamento di tutta la storia del concerto per pianoforte e orchestra. Ashkenazy ha però tutte le ragioni di met­ tere in speciale evidenza quello che è l’aspetto più nuovo e più progressivo del Concerto di Schumann, ed ha il coraggio di rinun­ ciare a tutto ciò che più facilmente entusiasmerebbe l’ascoltatore. Tra i grandi interpreti schumanniani soltanto Kempff, per quanto ricordo, aveva impostato un’interpretazione del Concerto tanto contenuta e cameristica, dando però l’impressione di un certo imbarazzo e anche di una limitazione tecnica che favoriva e guidava la scelta di un’interpretazione. In un virtuoso come Ashkenazy la rinuncia al virtuosismo acquista invece un valore probante e un significato di analisi critica approfondita, dalla quale l’interpreta­ zione coerentemente scaturisce. Ashkenazy, al contrario di altri grandi interpreti del Concerto (Serkin escluso), sente inoltre l’ambizione di andare a verificare negli altri due pezzi schumanniani per pianoforte e orchestra, l’op. 92 e l’op. 134, la validità della sua tesi. Basta ascoltare da Ashke­ nazy l’introduzione dell’op. 92 per capire il senso del neoclassici­ smo schumanniano, esteso, in questo caso, fino al Bach delle fan­ tasie in arpeggi; e basta ascoltare il secondo tema dell’op. 134 per vedere l’immediato rapporto tra Schumann al termine della vita e Brahms all’inizio della sua attività, tanto che la dedica a Brahms dell’op. 134 appare simbolicamente indicativa di un’eredità arti­ stica. La penetrante capacità di analisi stilistica di Ashkenazy riesce anche a mettere in evidenza nell’op. 134 l’affettuoso omaggio alla memoria di Mendelssohn. L’op. 134, lavoro in pratica sconosciuto e certamente non tale da poter mai diventare popolare, si svela così

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come il testamento spirituale in cui si evidenziano, alla metà dell’Ottocento, le correnti di pensiero che percorrono Parte musicale tedesca tra romanticismo e neoclassicismo. Ho già detto che in Erdmann avevo trovato una sintesi di pari levatura; qualcosa di analogo, in modo almeno apparentemente istintivo, lo trovo in Serkin. Forse Ashkenazy non possiede ancora quella suprema saggezza serkiniana che scioglie ogni residuo di tesi e che fa diventare l’interpretazione un puro gioco; ma è certo che ogni sua nuova interpretazione non cade a caso, nell’immane la­ voro che gli tocca di condurre per completare le innumerevoli «integrali» ch’egli tiene in marcia. L’ultima scoperta di Ashkenazy è per ora Bartók. Apparente­ mente condizionato da certi rozzi meccanismi pubblicitari della nostra vita musicale, Ashkenazy è arrivato a Bartók esattamente in occasione del centenario della nascita del compositore e delle rela­ tive celebrazioni. Ha eseguito a New York i tre Concerti e li ha incisi sotto la direzione di Solti, dimostrando però che il centenario era solo l’occasione contingente per attaccare dopo congrua pre­ parazione uno dei giganti del nostro secolo e ponendo quindi subito alcuni punti fermi nell’interpretazione bartokiana. Dei Concerti di Bartók non abbiamo purtroppo l’esecuzione dell’auto­ re (che eseguì i primi due, com’è ben noto; il Terzo era incompiuto alla morte di Bartók). Il punto di riferimento storico è dunque l’incisione completa di Geza Anda e Ferenc Fricsay, i maggiori termini di confronto sono il Secondo eseguito da Richter-Maazel, il Primo e il Secondo eseguiti da Pollini-Abbado, il Primo eseguito da Hambro-Mann, il Terzo eseguito da Katchen-Kertesz. Com’era facile pronosticare dopo la sua incisione del Concerto di Schu­ mann, Ashkenazy mette in luce le matrici classiche dei Concerti di Bartók, sia in senso strutturale che ideologico, e sottolinea affet­ tuosamente le citazioni stilistiche classiche del Terzo Concerto. Ma nello stesso tempo, mentre in Schumann aveva rinunciato persino ostentatamente al virtuosismo, nel Secondo di Bartók sfoggia una grinta virtuosistica che quasi non gli conoscevamo più dai tempi della sua incisione live del Concerto n. 2 di Prokofiev. Là dove il virtuosismo trascendentale non è un’aggiunta, opinabile, all’opera, ma dell’opera è invece elemento costitutivo, Ashkenazy non si tira indietro e non cerca rivisitazioni signorilmente cameristiche. Per

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arrivare al fine, quasi come un campione sportivo che, non pago dei successi, riesce ancora a migliorare un qualche «colpo» che non gli riusciva così bene come altri, Ashkenazy ha perfezionato le sue ottave ed ha acquistato in potenza. Avevo notato, in alcune sue esecuzioni in pubblico, un gioco delle spalle che gli permetteva di raggiungere una potenza per lui insolita nell’ultima pagina dello Scherzo n. 4 di Chopin. Ma nello Scherzo il passo in ottave era breve, mentre nel Secondo di Bartók ottave e accordi rapidi e incisivi si sprecano. Dopo aver molto lavorato, direi, anche sulla Sonata n. 2 di Rachmaninov, presentata in pubblico nel 1980, Ashkenazy non ha mancato l’occasione che il Secondo gli offriva e, mi sembra, si è aperta la strada verso una landa che inizia con il Bartók della Sonata e di All'aria aperta e procede fino al Liszt del Totentanz e della Sonata in si minore. Per Ashkenazy sono in vista altre «integrali», e, mi auguro, altre scoperte.

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Dino Ciani era un pianista ammirevole per la versatilità e per la vastità del repertorio, che testimoniava la inconsueta molteplicità dei suoi interessi spirituali, e se non fosse tragicamente scomparso a poco più di trentanni sarebbe probabilmente divenuto uno dei più completi interpreti della letteratura pianistica. La morte lo colse invece nel momento in cui la sua sete di conoscere non si era ancora appagata ed in cui non si erano ancora iniziati quei processi di sedimentazione, di riflessione, di superamento dell’istinto che portano l’interprete a ripercorrere con un’angolazione critica co­ sciente e coerente i due secoli di storia durante i quali la letteratura pianistica è cresciuta su se stessa. È un fatto paradossale, per un pianista così intriso di musica e così innamorato del suono, ma non si può non notare che l’analisi della sua carriera, più che dei suoi dischi, rende a Dino Ciani la vera testimonianza del suo valore. Nella carriera di Ciani si iscrivono le sue scelte di repertorio e certe idee innovatrici, come l’esecuzione in concerto del gruppo delle ultime opere di Chopin o l’esecuzione in due serate dei Notturni di Chopin alternati con i Preludi di Debussy o della serie completa dei Notturni di Chopin in una sola serata. La sua discografia consegna invece alla storia, a parer mio, due sole interpretazioni meditate, quella dei Preludi di Debussy e quella del Concerto n. 1 di Brahms con Claudio Abbado. Altri dischi e registrazioni di esecuzioni pubbliche vanno guardati invece come lavori preparatori per una sintesi che non potè avvenire. La prima importante impresa discografica di Ciani fu l’incisione delle quattro Sonate di Weber per la Dynamic. Verso il 1960 solo una mentalità aperta ad esperienze avveniristiche, solo una straor­

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dinaria sensibilità all’evolversi della storia della cultura poteva applicarsi alla decifrazione delle Sonate di Weber. E su questo punto i meriti di Dino Ciani sono al di là di ogni elogio. Ciò non significa che la sua decifrazione sia illuminante. Parlo, s’intende, di decifrazione stilistica, cioè di collocazione stilistica di Weber come fenomeno storico alternativo e a Beethoven e a Schubert. La for­ ma-sonata è percorsa in Weber da un umore rapsodico e improvvisatorio, e da un gusto teatrale, coloristico, paesistico che ne denunciano veramente la crisi storica irreversibile. «... la signora Du Joncquoy dichiarava che non poteva sentir suonare del Weber senza vedere subito laghi, foreste, sorger del sole su campagne molli di rugiada», dice Zola in Nana, rieccheggiando i discorsi dei salotti parigini del Secondo Impero. Ed io credo che proprio in questa direzione, nella direzione del fantastico, del cavalleresco, del «romantico» come l’intendeva madame Du Joncquoy vada cercata la collocazione stilistica delle Sonate di Weber. Ora, solo in un’oc­ casione Dino Ciani traduce in termini di compiuta concretezza — di qualità di suono, di fraseggio, di scansione del tempo — la poetica di Weber: solo nel Trio del Minuetto della Sonata n. 1. Non ci sono, a mio giudizio, altri brani nei quali si attui completamente uno stile appropriato; si notano invece, qua e là, alcuni barlumi di idee originali in mezzo a un panorama di slanci, di entusiasmi, di musicalità istintiva, vivace ma generica. Ci sarebbero voluti molti anni e molta fatica perché la straordinaria idea da cui Ciani era partito trovasse da lui una definitiva realizzazione. Quando incise di nuovo la Seconda e la Terza Sonata, per la Deutsche Grammophon Gesellschaft, non era ancora andato oltre le posizioni assunte al tempo dell’incisione per la Dynamic, pur avendo modi­ ficato e maturato alcuni importanti particolari (basti paragonare le due versioni dell’inizio della Sonata n. 2). Avrebbe probabilmente risolto il problema nel momento della sua completa maturità; ma la morte lo portò via molto prima che le sue idee di avanguardia ed il suo originale talento di interprete potessero raccogliersi e concen­ trarsi su ricerche condotte in profondità. Un altro disco inciso per la Dynamic nel 1965 è molto stimolante per la scelta di un gruppo di musiche di Bartók: la Sonata, le Improvvisazioni op. 20, All/aria aperta, la Suite op. 14. I limiti di maturità dell’interprete sono chiari; la scelta è tale da prospettare

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sinteticamente l’evoluzione dello stile di Bartók dal 1916 al 1926, ma la perfetta individuazione dei problemi di interpretazione viene talora solo sfiorata. Da una parte Ciani dà troppo credito all’im­ magine del neoclassicismo bartokiano muscoloso e sportivo, che è in realtà una riduzione di comodo della cultura italiana durante il fascismo, e dall’altra non approfondisce i rapporti, che pure intui­ sce benissimo, tra Bartók e Debussy. Nella Sonata Ciani risente dell’influenza di Pietro Scarpini, primo pianista italiano ad eseguire ed incidere il lavoro, e che collocava l’arte di Bartók assai vicino a quella di Hindemith. E nelle Improvvisazioni il giovane interprete teme forse di far apparire una dipendenza di Bartók da Debussy, ed attenua, modificando le indicazioni originali per il pedale di riso­ nanza, il «debussismo» di alcune parti, mentre invece il fatto stesso che il settimo brano sia dedicato «alla memoria di Debussy» do­ vrebbe denotare non la dipendenza ma la citazione. Il modo di considerare l’arte di Bartók non è però, in Ciani, attardato rispetto ai tempi. Anzi: ciò che maggiormente muove la sua immaginazione sono i momenti materici di All’aria aperta, ed è partendo dal punto di più avanzato radicalismo ch’egli cerca di leggere retrospettivamente Bartók. I condizionamenti inconsci im­ postigli dalla cultura italiana gli impediscono però di centrare interamente l’obbiettivo. E del resto, quanti interpreti di ventiquattr’anni avrebbero potuto centrare un obbiettivo di tale porta­ ta? È straordinario il solo fatto che Ciani abbia saputo porselo e che abbia saputo cercarlo con una tensione intellettuale ed un entusia­ smo che vivificano tutte queste sue interpretazioni. Ciani fu il secondo pianista italiano, dopo Alfonso Rendano, che eseguisse in pubblico il ciclo delle trentadue Sonate di Beethoven (eseguì anche i cinque Concerti e diverse serie di Variazioni e di Bagatelle). È quindi opportuna una valutazione del suo rapporto con Beethoven. La registrazione di un recital tenuto a Verona nel 1973 permette di cogliere il momento aurorale, il primo apparire di un autentico interprete beethoveniano. La cultura italiana, si sa, ha raccolto la lezione del classicismo tedesco solo nel secondo dopo­ guerra. Tra le due guerre noi avemmo l’edizione commentata delle Sonate di Beethoven curata da Alfredo Casella, di cui possiamo oggi vedere con chiarezza tutti i meriti in rapporto con la situazione culturale italiana del momento e tutti i ritardi rispetto all’evolu­

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zione della cultura tedesca, ed avemmo, sulla scia di Casella, le poche interpretazioni beethoveniane ricordevoli di Carlo Zecchi, Guido Agosti, Arturo Benedetti Michelangeli. Non avemmo uno Schnabel, un Fischer, un Backhaus, e neppure un Kempff, un Solomon, un Serkin, un Baumgartner, un Arrau. È prendendo le mosse da questa scuola, ma ben dopo il 1945, che la cultura italiana si allineò sulle posizioni raggiunte tra le due guerre dalla cultura anglosassone. Da qui partì Maurizio Pollini e da qui partì Dino Ciani. Più vicino Pollini a Schnabel, più vicino Ciani a Kempff; entrambi, forse, nella condizione di far evolvere in senso originale, italiano, un’eredità ricevuta da una diversa cultura, così come nell’Unione Sovietica avevano operato prima Richter e poi Gilels. Ho fatto il nome di Kempff, e l’ho fatto perché Ciani, come Kempff, sente con profonda simpatia gli aspetti intimi ed elegiaci dell’arte di Beethoven, mentre ne rende con timorosa compostezza gli aspetti tragici. Nel recital veronese spicca dunque su tutte l’interpretazione della Sonata op. 79 e si distinguono il primo, terzo e quarto tempo della Sonata op. 7, il primo tempo della Sonata op. 110 e lo Scherzo della Sonata op. 14 n. 2 concesso come bis. Più convenzionale, ma non superficiale o scontata, è l’interpretazione dell’op. 31 n. 2, che trova però qualche impronta personale nel terzo tempo, nel quale l’adozione di una velocità molto flessibile e diversificata permette all’interprete di sfuggire al cliché del moto perpetuo per proporre una schubertiana sospensione della durata temporale. Il secondo tempo della Sonata op. 7 ci offre la punta più avanzata e nuova di Ciani interprete di Beethoven; qui la ricerca della varietà timbrica e della molteplicità dei piani sonori porta Ciani a non distinguere bene la timbrica dalla dinamica e a pro­ porre soluzioni, a parer mio, stilisticamente non coerenti. Eppure proprio in questo momento contraddittorio si comincia a vedere una personalità che si stacca dalla tradizione per interrogare diret­ tamente il testo beethoveniano. Se non consideriamo un’interpretazione scintillante e centratissima della Sonata op. 13 di Hummel, splendida ma isolata, l’ultimo autore sul quale Ciani si fosse impegnato in modo già originale è Chopin. Abbiamo la registrazione della serata — 16 dicembre 1973 — nella quale Ciani eseguì al Piccolo Teatro di Milano, primo pianista che affrontasse l’impresa, il ciclo completo dei Notturni di

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Chopin. In verità non si può dire che questa esecuzione dei Not­ turni si inserisca tra quelle storicamente memorabili. La declama­ zione è quasi sempre drammatica, spesso non senza retorica, e troppo di rado si piega all’introspezione, alla scoperta del pessimi­ smo cosmico di Chopin; l’atteggiamento di Ciani, se è perfetta­ mente adeguato al senso di individualistica ribellione di qualcuno dei primi Notturni, non può cogliere il fondo tragico di altri Not­ turni, soprattutto di quelli della maturità. Come in Beethoven, l’univocità espressiva si traduce in elementarietà stilistica, e cioè in una assolutizzazione della dinamica che non tiene sufficientemente conto dei fattori timbrici del suono pianistico. Nei passaggi di dinamica nell’ambito di una frase il piano e il pianissimo di Ciani sono così di una qualità timbrica diversa da quella dei forte e dei fortissimo. Manca cioè una ben chiara concezione delle diverse gamme di intensità rapportate a diversi tipi di timbro, e manca quindi l’impiego strutturale del timbro. Ci sono però segni evidenti di una sensibilità di interprete che si sta aprendo verso la proble­ matica dell’uso strutturale del timbro: nel Notturno op. 62 n. 1 si nota appunto la capacità di variare i timbri in funzione della struttura, e qualcosa di altrettanto interessante si ascolta nel Not­ turno op. 32 n. 1. Ma sono lampi, barbagli di novità inseriti in un contesto in cui l’emozione è ancora troppo diretta e troppo ingenua per poter stringere in una superiore sintesi il cammino spirituale che va dal giovanile spleen dell’op. 9 all’altissimo manierismo dell’op. 62. Qui, non meno che altrove, si ha l’impressione di ascoltare appunti parziali di uno studio vastissimo rimasto incom­ piuto. La caratteristica di Ciani e di altri pianisti ancora della sua generazione è di non avere «cavalli di battaglia», di non suonare pezzi così ben tirati a lucido, così ben cesellati come oggetti sonori da poter essere ammirati per la loro semplice bellezza. La Melodia di Gluck-Sgambati eseguita da Mischa Levitzki, che ho già citato, è un capolavoro pianistico, anche se Levitzki è poi interprete ordi­ narissimo, ad esempio, del Concerto n. 1 di Liszt; il Notturno op. 55 n. 2 di Chopin, eseguito da Friedmann, fa saltare le valvole al più freddo degli ascoltatori, anche se Friedmann non arriva poi nemmeno a mezza strada nello sviscerare la Ballata n. 4. In Ciani vale invece la visione complessiva, che era di amplissimo raggio e che si sarebbe sviluppata in profondità con gli anni; tanto più

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cocente è perciò il dolore per la sua morte, provocata da un banale, assurdo incidente automobilistico.

Pablo Casals racconta che, invitato a suonare nel palazzo reale di Londra, non potè valersi del pianista con cui lavorava abitualmente e con il quale era affiatato perché la corte britannica, come ogni simile istituzione degna di questo nome, aveva il suo «pianista di corte» al quale toccavano l’onore e l’onere di accompagnare le celebrità di passaggio che le Loro Graziose Maestà desideravano godersi nel chiuso della reggia. Prima del concerto Casals fece dunque una prova con il pianista di corte, che si chiamava Leonard Borwick e che era senza dubbio un musicista camme il faut. Assi­ steva alla prova il compositore Emmanuel Moór, amicissimo di Casals, a cui la regale distinzione di Borwick, che suonava nel più impeccabile stile accademico appreso alla scuola di Clara Schu­ mann, non andava per niente a genio; dopo qualche minuto di furiosi borbottìi Moór scostò rudemente il pianista di corte, ne prese il posto, diede una pratica dimostrazione di come secondo lui bisognava accompagnare Casals e lasciò di nuovo libero il seggioli­ no. Borwick vi si assise e con la calma del gentlemen che nulla può turbare disse cortesemente a Moór: «Grazie, sir: vedrò di fare del mio meglio». Leonard Borwick era un funzionario di corte, uno stipendiato i cui compiti consistevano nell’eseguire con la più alta protocollare signorilità le pagine che i sovrani e i loro ospiti desideravano ascoltare: c’erano concerti di corte e c’erano pranzi di corte, ed il musicista doveva saper condurre il suo gioco così come il cuoco doveva saperne giocare un altro. Eran cose vecchie, del resto. Haydn era stato direttore d’orchestra di una corte principesca, ed aveva saputo stare ai patti. Mozart non aveva saputo stare ai patti e, uscito dalla famiglia cortigiana, aveva affidato le sue fortune ad un pubblico ignoto, raggiunto attraverso forme di pubblicità mercan­ tile. Come abbiamo visto, il concerto pubblico a pagamento, più rischioso ma più remunerativo dell’impiego a corte, si era svilup­ pato a dismisura nel corso dell’ottocento, specie dopo che Paganini e Liszt avevano dimostrato fino a qual punto si potessero sedurre e condurre al fanatismo duemila sconosciuti riuniti in un

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teatro. Così, alla fine dell’ottocento prosperavano ancora sì i pia­ nisti di corte come Borwick, ma prosperavano anche, molto più numerosi, i «liberi artisti». Solo che la dizione «libero artista» era ormai un po’ eufemistica perché col tempo si era scissa in due — esecutore, impresario — la figura dell’imprenditore impersonata da Mozart, da Paganini, da Liszt. Il concerto era diventato spetta­ colo — gioco, in senso lato — e si era creato le ferree regole della sua sopravvivenza. La prima regola è che un gioco remunerativo deve poter contare su un alto numero di aspiranti e su un ricambio di forze garantito da sicuri meccanismi di selezione dei talenti. Ferruccio Busoni, rispondendo al quesito Suonare a memoria, diceva che il vero problema era un altro: «Dove sta il limite, oltre il quale comincia il diritto di suonare in pubblico?» Difficile domanda. Mozart, don­ chisciottesco capitano di un’industria ancora inesistente, risponde­ va assumendosi tutto il rischio economico: pagava tutto, suonava, incassava tutto. Finì in miseria. Paganini e Liszt si comportarono in modo analogo ma meno avventuroso e, pur rischiando grosso, ebbero successo. La domanda che Busoni poneva aveva però avuto anche altre risposte, meno individualistiche. Una di queste, inven­ tata alla fine dell’ottocento, era il concorso internazionale. Tra l’artista che vendeva e il pubblico che comprava si era già interposto l’intermediario che organizzava la vendita. L’interme­ diario, l’impresario, si assumeva lui una gran fetta di rischio, ma cercava di garantirsi ragionevolmente le più alte probabilità di riuscita e delegava perciò la scelta del prodotto da lanciare ad un collegio di periti: il più efficiente meccanismo di selezione dei talenti diventava il concorso, la gara in cui produttori ancora sco­ nosciuti esponevano la loro merce sottoponendola alla valutazione della giuria, collegio di periti in cui sia l’intermediario che l’acqui­ rente riponevano la loro fiducia. I periti fissavano un complesso di prove bilanciate che servivano a stabilire la congruità del prodotto e ad evitare la possibilità di adulterazioni, gli aspiranti vi si sotto­ ponevano, e chi vinceva veniva «lanciato». Così allora, così oggi. Non tutto è tanto semplice. Non sempre. Questo è il meccani­ smo, che può però venire usato fraudolentemente e può esser piegato ad altri scopi. Ci sono anche, ce ne sono specialmente a partire da circa il 1960, concorsi che non «lanciano» perché in

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realtà non selezionano affatto: sono manifestazioni finanziate da enti turistici, che devono portare in loco il maggior numero possi­ bile di concorrenti e soddisfarli con la più ampia distribuzione possibile di premi, coppe e medaglie. Ci sono concorsi che vengono manovrati dai periti perché giovino alla fama dei periti, non dei concorrenti. Quando è usato correttamente, però, il meccanismo funziona. Con un solo limite: di norma, premia il prodotto che non sconvolge il mercato, cioè, in altre parole, non premia roriginalità. Il Concorso Chopin di Varsavia è uno dei non molti concorsi di pianoforte che usano correttamente il meccanismo, che già in partenza tengono fuor dell’uscio i figuranti e le mezze calzette, e che lasciano andare avanti, tra eliminatorie e finali, solo chi non ha talloni d’Achille,... per lo meno non più grandi di un neo. Cardini del Concorso Chopin sono a parer mio gli Studi e le Mazurche. Gli Studi, si sa, sono tra i pezzi più disperanti del repertorio pianistico. Non tutti, s’intende: ma almeno una metà di essi può far paura a chiunque. Artur Rubinstein, che pure conta qualcosa nella storia dell’interpretazione e del virtuosismo, confes­ sa tranquillamente di averne eseguiti bene alcuni, di averne eseguiti alcuni altri così così, di non averci neppure provato con certuni. Rubinstein è in verità pianista che non ama molto faticare alla tastiera. Ma Horowitz, che della tastiera è stato sempre un sommo stakanovista, ha eseguito in pubblico non più di nove o dieci dei ventiquattro Studi di Chopin. E quanti ne ha eseguiti Benedetti Michelangeli? quattro? cinque? Il Concorso di Varsavia non solo impone quattro Studi, ma costringe a sceglierli all’interno di gruppi fissati rigidamente, senza possibilità di scappatoie: chi non vuol far coincidere l’entrata nel Concorso con l’uscita deve dunque possedere certi mezzi tecnici su cui non si può discutere. Ma se la scelta degli Studi impone al concorrente un certo livello minimo, assai elevato, non è che non manchino poi le possibilità di presentare credenziali di diverso peso anche attraverso la semplice scelta di quattro Studi: il livello mini­ mo è elevato, ma il livello massimo può diventare addirittura stratosferico. Chiunque, vedendo nel programma del 1960 quali Studi aveva scelto il diciottenne Maurizio Pollini poteva capire che il ragazzo di Milano era un serio candidato o al manicomio o alla vittoria, e che

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l’esecuzione avrebbe solo confermato Tuna o l’altra di queste due semplici alternative. Lo Studio op. 25 n. 10, tutto sulle ottave, è di quelli che vogliono una forza prensile in anulare e mignolo, una elasticità nel polso, una resistenza alla fatica nell’avambraccio tutt’altro che comuni, e tanto più difficili da dimostrare quanto più l’emozione della gara influisce negativamente sul battito cardiaco, sulla pressione sanguigna, sui riflessi nervosi. Sentito da Pollini lo Studio sulle ottave la giuria potè dirsi tranquillamente: qui ci siamo. Tuttavia c’è qualche pianista, fisiologicamente dotato in modo abnorme per la tecnica delle ottave, che nello Studio op. 25 n. 10 riesce a far cose spettacolose senz’esser, in realtà, strumentista completo. È questo il caso di Pollini? No. Ecco lo Studio op. 25 n. 11, tutto sull’agilità di forza — agilità drammatica, potremmo dire — della mano destra, in posizione stretta o appena legger­ mente aperta. Qui ci vogliono dita robuste (tutte e cinque, non solo quelle «naturalmente» forti), esatta e rapidissima valutazione delle distanze, coordinamento dei movimenti delle dita ad elevatissima velocità, e resistenza. L’esecuzione di Pollini è di quelle che non lasciano ombre: ci siamo anche qui. Ma ci siamo del tutto? Gli altri due Studi sono scelti apposta per fugare ogni dubbio. È già molto raro che chi risolve per istinto lo Studio op. 25 n. 10 possa risolvere per istinto anche lo Studio op. 25 n. 11. Ma è impossibile risolvere per istinto i problemi tecnici dello Studio op. 10 n. 1, che è tra i più rischiosi: agilità — non drammatica — della mano destra, in una posizione allargata molto difficile da mante­ nere, con alcuni momenti in cui bisogna toccare successioni di tasti bianchi e neri tra le più scomode che si possano immaginare. Azzeccare anche soltanto il 95 per cento di note giuste, nello Studio op. 10 n. 1, è già come giocare alla roulette una qualche combina­ zione arrischiatissima. Pollini, in questa esecuzione di Varsavia, tocca male una mezza dozzina delle milleduecentotre note che esegue con la mano destra in un minuto e quarantacinque secondi. La velocità è quella indicata da Chopin: ardua sui pianoforti del suo tempo, spaventevole per chiunque sui pianoforti di oggi. A questo punto una giuria severissima può ancora sospettare che un pianista di questo genere non abbia il velluto di Friedmann o il jeu perle di Hofmann o le terze di Rosenthal o le seste di Lhevinne

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o la sinistra di Barer, ma sa ormai bene che ha mani atte a rendere una grossissima porzione della letteratura pianistica, e sa anche che è un concertista. Un concertista, cioè uno che di fronte ad una platea gremita suona meglio che a casa sua, perché è intimamente convinto di esser ben al di là di quel limite da cui, come diceva Busoni, «comincia il diritto di suonare in pubblico». L’ultimo Studio, op. 10 n. 10, è dedicato solo alla giuria, non al pubblico inesperto di tecnica pianistica. È uno Studio molto diffi­ cile — Hans von Bùlow dice che è il più difficile di tutti — ma che sembra di media difficoltà e che viene affrontato anche da pianisti tecnicamente non dotatissimi. Infatti, meccanicamente, lo Studio op. 10 n. 10 non pone problemi scoraggianti se non in un passo solo; difficilissimo è però controllare non soltanto i tasti, ma la qualità del suono. Ed è quello che Pollini fa, chiudendo la serie degli Studi con un piatto ad uso e consumo dei palati finissimi, dei più esperti assaggiatori di timbri. Con le Mazurche siamo all’estremità opposta del pianismo di Chopin: se gli Studi erano come una danza sulla corda, le Mazurche sono una partita a scacchi. Negli Studi il contenuto musicale è infatti, generalmente, di solare evidenza, ed i problemi tecnici sono spesso spaventevoli; nelle Mazurche la meccanica è relativamente molto semplice, ma i contenuti musicali sono di ricchezza nello stesso tempo infinita ed ermetica, ed esigono una capacità di analisi che sappia scavarne i ramificatissimi filoni diamantiferi ed una capacità di sintesi che sappia estrarne solo le gemme. Pollini sceglie una Mazurca, l’op. 50 n. 3, di cui esiste una famosa esecuzione incisa da Horowitz negli anni 30 (l’esecuzione di So­ fronitzki non era ancora stata pubblicata in disco): esecuzione nota a chiunque si occupi di Chopin, esecuzione che coglie con miraco­ losa perfezione il momento in cui l’autore illumina in un ricordo di lancinante intensità la sua giovinezza in Polonia, dagli studi classici all’ambiente sociale borghese alle aspirazioni eroiche della giovane intellighencija polacca. Presentare in un concorso internazionale la Mazurca op. 50 n. 3 vuol dire accettare il confronto con uno dei maggiori pianisti del nostro secolo in uno dei suoi cavalli di batta­ glia. Pollini cerca il confronto, e lo sostiene. Poi sceglie una Ma­ zurca, l’op. 33 n. 3, di quelle che vengono eseguite spesso dai dilettanti, tanto sono tecnicamente facili; e qui dimostra che le sue

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dita favolosamente sicure non sono che un aspetto della sua per­ sonalità e della sua concezione della musica, perché da semplicissi­ me ribattiture di suoni nell’accompagnamento fa nascere una «melodia di timbri», una trasmutazione di colore. Indirettamente, in un concorso tutto basato su Chopin, Pollini dà la dimostrazione di saper sviscerare un Andante di Mozart, un Adagio di Beethoven, in Intermezzo di Brahms, un Klavierstùck di Schonberg. Tutte le altre esecuzioni sono stupefacenti, ma questa, in un ragazzo di diciottenni, è veramente inimmaginabile. È qui che si rivela la misura del talento musicale di Pollini, ed è qui che si colloca il nascere della sua personalità di interprete quale si è poi venuta rivelando e quale continua a rivelarsi oggi: lettore che arriva a cogliere l’autore nel momento in cui l’autore guarda in se stesso senza costruire per altri la sua immagine. L’ultima Mazurca, op. 59 n. 3, ormai quasi superflua per definire il concorrente Maurizio Pollini, è un altro regalo offerto ai degu­ statori di sibaritiche prelibatezze: apparenza facile, scomodità somma di dita che si muovono in spazi angusti e che, per ottenere il timbro appropriato, devono lavorare con la delicatezza e la deci­ sione del giocoliere. H resto del programma eseguito da Pollini (Polacca op. 44, Notturno op. 48 n. 1, Preludi op. 28 n. 2, 8, 24, Sonata op. 35) è in linea con le fondamentali scelte degli Studi e delle Mazurche, e ci conferma, semplicemente, che siamo in presenza di un grande dominatore del pianoforte e di un cervello lucidamente razioci­ nante, che calcola tutte le mosse per arrivare con sicurezza ad una vittoria senza discussioni. Pollini tiene d’occhio la giuria e soltanto la giuria. Non combatte con il pubblico, che potrebbe facilmente far suo accentuando pochi aspetti bravuristici della sua esecuzione, e prosegue senza perdere fiducia nella sua strategia, senza farsi impressionare dalla personalità degli avversari (anche se Michel Block, a cui il giurato Artur Rubinstein assegnerà un premio spe­ ciale istituito lì per lì, è un temibile concorrente). Solo all’ultima pagina del Concerto op. 11, al termine dell’ultima prova, Pollini sembra accorgersi della presenza di un pubblico di tifosi e, come il corridore che in vista del traguardo, pur essendo ormai solo, fa lo sprint per la gioia della folla, accelera spavaldamente la velocità del lungo passo in ottava a due mani. E sullo slancio di questa corsa

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liberatoria mette per un attimo a tacere gli scrupoli filologici e unisce al rombo dell’orchestra, negli accordi finali, il rombo del pianoforte non voluto da Chopin *. La precocità non è rara, negli strumentisti, e non è neppur rarissimo che ragazzi sui vent’anni dimostrino una completezza di interpreti tale da lasciar sbalorditi: Tausig, d’Albert, Hofmann erano grandi pianisti prima di aver toccato i vent’anni, Backhaus, suonava in modo stupefacente quando, a ventun anni, vinse il Concorso Rubinstein. Benedetti Michelangeli era un pianista mi­ racoloso a diciannove anni, quando vinse il Concorso di Ginevra, e Friedrich Guida, vincitore del Concorso di Ginevra a sedici anni, padroneggiava l’eredità del neoclassicismo, come abbiamo visto, come se avesse contribuito a formarla. Anche altri suonavano però a diciott’anni come semidei, ma poi, come si suol dire, non «mantennero le promesse». Grande è la differenza tra chi mantiene le promesse e chi, programmato come un atleta, a diciott’anni esplode per poi rapidamente declinare. Oggi non abbiamo una documentazione di come suonassero da ragazzi, ad esempio, lo Josef Hofmann che poi divenne un domi­ natore della vita concertistica e l’Otto Hegner che, partito all’incirca come Hofmann, fece una carriera soltanto dignitosa. Ma se andiamo a vedere quel che scrivevano a vent’anni Mozart o Schu­ bert o Chopin o Brahms ci rendiamo conto di che cosa significhi la parola «genio». Parola che non si pronuncia volentieri, e che pure ci dà la misura di fatti non interamente spiegabili. Le doti psicofi­ siche, l’intelligenza, l’ambiente familiare, gli studi, la carriera già percorsa (dall’esecuzione dei ventiquattro Studi di Chopin al Cir­ colo della Stampa di Milano nel 1957, al secondo premio al Con­ corso di Ginevra nello stesso anno, all’esordio alla Scala nella Fantasia di Ghedini nel 1958, al primo premio al Concorso di Seregno nel 1959), spiegano la partecipazione di Pollini al Con­ corso Chopin e la sua vittoria come momento conclusivo di una saggia e metodica preparazione alla carriera di concertista. Il com­ plesso delle sue esecuzioni a Varsavia mostra anche la scelta di un 1 Rubinstein scrive nelle sue memorie: «Fin dal primo istante Maurizio Pollini dimostrò un’assoluta superiorità. Un altro giovane pianista, Michel Block, aveva personalità da vendere e una bella tecnica».

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modello stilistico, Artur Rubinstein, e la conoscenza approfondita di alcune interpretazioni da antologia (Horowitz, come già detto, Benedetti Michelangeli nel trio della Marcia funebre della Sonata op. 35). Ma nulla può spiegare certe illuminazioni che balenano qua e là, o quel completo squarcio di luce nuova della Mazurca op. 33 n. 3. La professionalità del concorrente è perfetta, e nessun Beckmesser della giuria troverà lo spunto per sollevare il gessetto, ma c’è anche ciò che può muovere il cuore di Hans Sachs: il Maurizio Pollini che a diciott’anni stravince uno dei più importanti e severi concorsi non è solo un prodotto di natura, di preparazione razionale, di disciplina, di cultura, ma è anche un artista che intro­ duce alcuni fermenti di originalità in un meccanismo che per sua natura li rifiuta. Si presenta, mutatis mutandis, come il pianista di corte Leonard Berwick, ma lascia intrawedere il temperamento di Moór. I moderni forzieri del suono hanno conservato questo terso e luminoso momento della carriera e della formazione di Pollini. Non so se ne abbiano conservato un altro, quello immediatamente successivo, aspro ed oscuro. Tanto era «bello» il Pollini di Varsavia quanto era «brutto» il Pollini che ascoltai un anno e mezzo dopo, a Milano, nella Fantasia e Sonata in do minore di Mozart e nelle Sonate op. 27 n. 2 e op. 106 di Beethoven. Emergeva allora in Pollini il problema che ogni strumentista o direttore sinfonico italiano si trova a dover affrontare quando si accorge che i testi da interpretare non solo non appartengono alla cultura del suo paese, ma non sono neppure stati da questa veramente assimilati a fatti propri. Il Pollini del 1962 non aveva più modelli stilistici: era solo, con le sue enormi potenzialità di lettore di musica, con il suo enorme arsenale tecnico, ma con una sola chiave per aprire gli scrigni. Pollini aveva messo in parentesi la cultura e persino la filologia, aveva messo a tacere la sua originalità istintiva e non si fidava che della chiave insieme più raffinata e più rozza: l’esegesi. Ed era brutto, era brutto forte, e lasciava costernato non solo Beckmesser ma Sachs. L’autocontrollo di Borwick era stato spaz­ zato via e c’era la protervia maleducata di Moór. La vocazione di Pollini non era di diventare un acclamato spe­ cialista di Chopin, e dopo l’episodio superbo ma intimamente convenzionale di Varsavia aveva bruscamente cambiato rotta. Lo

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studio delle opere di Schonberg e della Sonata n. 2 di Boulez gli avrebbe dato i punti di riferimento per rileggere tutta la letteratura. Ma nel 1960 nessuno avrebbe accettato che dimostrasse il suo diritto ad entrare nella carriera concertistica internazionale attra­ verso la Sonata di Boulez o attraverso l’opera pianistica di Schon­ berg. Dopo il Concorso Chopin, dopo una vittoria ottenuta con lucida coscienza della natura della prova da superare, era esplosa la rivolta contro l’establishment che lo aveva condizionato ed alle cui esigenze si era piegato per un momento. Una vittoria in un concorso internazionale, una garanzia di sicura carriera possono spesso far credere ad un ragazzo di essere già qualcuno, e possono, rarissimamente, fargli capire di non essere ancora niente. E se le registrazioni di Varsavia destano oggi la più profonda, la più stupefatta ammirazione, commuove il ricordo di quella ascetica rinuncia alle vie battute e sicure, che il concerto milanese del 1962 denunciava a chiare lettere. Ed è di lì, a parer mio, non da Varsavia, che comincia la grandezza solitaria di inter­ prete di Maurizio Pollini, pianista italiano. Pollini pagò duramente il peccato d’orgoglio di volersi fare da solo una sua faccia: dopo la prima trionfale tournée seguita al Concorso di Varsavia la seconda non fu trionfale affatto, e molte importanti società di concerti non lo — così si usa dire — «ricon­ fermarono». La EMI, che gli aveva fatto incidere a Londra il Concerto n. 1 di Chopin, gli commissionò solo un altro disco chopiniano, e la Deutsche Grammophon Gesellschaft, che aveva pubblicato alcune delle sue esecuzioni di Varsavia, lo lasciò a cuocersi nel suo brodo. Curiosa storia, questa. Intorno al 1965 la Deutsche Grammophon Gesellschaft commissionò a Tamàs Vàsàry, che aveva da poco superato i trent’anni e che aveva iniziato da non molto tempo una sia pur promettente carriera internazio­ nale, l’incisione di una larga scelta delle opere di Chopin.. Non si trattava di far registrare ad un giovane, di talento e noti ancora troppo occupato, una impegnativa «integrale», com’era invece accaduto con Brendel e con altri; si trattava di gettare sul mercato, in concorrenza con le interpretazioni chopiniane dei Cortot e dei Rubinstein e degli Horowitz, una scelta tra le opere più popolari di Chopin: operazione, come si vede, per lo meno azzardosa. Il senso dell’operazione si spiegava però chiaramente guardando

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al catalogo della Deutsche: prima della guerra la casa tedesca aveva avuto un interprete chopiniano rinomato nel polacco Raoul von Koczalski, ma poi aveva sbagliato i conti puntando dapprima su Julian von Karolyi e poi su Stefan Askenase, entrambi, in diversa misura, bravi, ed entrambi con una carriera internazionale limitata e non assurti quindi alla categoria dei mostri sacri. Non avendo in catalogo nessuno dei grandi interpreti chopiniani viventi, la Deut­ sche Grammophon Gesellschaft aveva deciso di inventarne uno. Avrebbe potuto inventarlo meglio? Sì, probabilmente, se si fosse accorta che Maurizio Pollini era tuttora vivo e vegeto. Oppure avrebbe potuto rivolgersi a Michel Block. Non è improbabile che Pollini e Block siano stati passati al setaccio e scartati in una qualche riunione di consiglio d'amministrazione. Come che siano andate le cose, fatto sta che la Deutsche Grammophon Gesellschaft lasciò nel frigorifero Pollini, mise da parte Block e inventò Vàsàry. Tamàs Vàsàry corrispondeva all’invenzione? E il capitale inve­ stito dalla Deutsche era destinato a dar frutti? La risposta non rientra nel mio tema. Ma mi interessava far notare che, avendo perduto un’occasione nel 1965, la Deutsche Grammophon Ge­ sellschaft andò a recuperare nel 1972 un Pollini che nel frattempo aveva di molto ampliato il suo repertorio in generale e di poco il suo repertorio chopiniano. Per il ritorno in casa Deutsche di Pollini furono scelti nel 1972 i Tre movimenti da Petruska di Stravinsky e la Sonata n. 7 di Prokofiev. I Tre movimenti da Petruska sono dedicati a Rubinstein, e Ru­ binstein li eseguiva con gioiosa spavalderia, infischiandosene delle note false e dei pasticcetti nei quali incorreva invariabilmente, e rendendo invece una vivida, sebbene allusiva immagine della par­ titura orchestrale. Questa è una possibile soluzione: la trascrizione come riduzione dall’orchestra, da eseguire approssimativamente e da ascoltare senza dimenticare il suono della partitura, e cioè come si ascoltavano nel secolo scorso, quando le orchestre erano scarse e i dischi non esistevano, le trascrizioni di Liszt dai grandi lavori di Beethoven o di Berlioz. La soluzione era ancora ipotizzabile al tempo in cui Stravinsky trascrisse i tre pezzi, cioè nel 1921. Ma avrebbe ancor senso in un’epoca in cui, esistendo i dischi micro­ solco, la possibilità di ascoltare a volontà la versione orchestrale del Petruska è a portata* di mano?

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C’è un’altra soluzione, ed è di suonare i tre pezzi come pagine «per pianoforte», non «trascritte per pianoforte», e quindi senza tentare magie illusionistiche, ma partendo da un impegno di far percepire ogni suono. Ricordo in questo senso qualche esecuzione assolutamente inappuntabile, da lasciar allocchito l’ascoltatore: per esempio, di Michael Ponti. Ma ricordo, molto più numerose, ese­ cuzioni nelle quali pianisti anche di gran fama, messisi sulla via di bulinare con puntigliosa chiarezza tutte le note scritte, nel migliore dei casi arrancavano e nel peggiore perdevano le staffe. Comunque, neppure le esecuzioni semplicemente impeccabili sono sufficienti perché, alla fin fine, risultano di una piattezza insopportabile. La soluzione diventa convincente quando il pianista non solo suona tutto, ma lo suona secondo piani prospettici, trovando tipi di suono che gli permettano di dare l’equivalente della partitura senza tuttavia imitare o ricordare l’orchestra. Si veda ad esempio l’ultima pagina di partitura della Danza russa, quando la linea melodica esposta da pianoforte, flauti e silofono viene continuamente inter­ rotta da massicci accordi di tutta l’orchestra. Se nella trascrizione per pianoforte si esegue molto intensa la linea melodica si perde il senso della frattura, della contrapposizione, del dislivello tra masse sonore diverse; se si usa invece, nella linea melodica, un suono molto secco e di ridotta intensità, che non è precisamente quello impiegato dal pianista dell’orchestra, si ottiene l’equivalente della concezione musicale della partitura, e l’ascoltatore percepisce un’architettura musicale pienamente autosufficiente. Di casi di questo genere, nei tre pezzi, se ne trovano a decine: non sto ad elencarli, basti avervi fatto cenno. Questi casi balordi, questi casi che possono essere veramente risolti da un pianista su mille, a trentanni Maurizio Pollini li risolve tutti. E in più non c’è momento in cui egli non faccia pienamente suo il testo. Ci troviamo di fronte ad una di quelle rarissime letture nelle quali il termine «interpretazione» finisce per scomparire e non resta se non la realtà della musica, che pare rivelarsi attraverso l’esecutore. Con ciò, non è detto che non ci siano altre possibili letture, ma non saprei immaginarne di diverse, né le desidererei. Ed un’audizione in recital, nel 1980, mi ha confermato che APetruska secondo Pollini resta un punto fermo nella mia... carriera di ascol­ tatore professionale.

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Meno felice era l’interpretazione della Sonata di Prokofiev; del resto Pollini ha ancora eseguito il Concerto n. 3 di Prokofiev, ma non ha mai preso in considerazione i russi, da Mussorgski a Scria­ bin, né ha finora incluso nel suo repertorio il Liszt di Weimar, che condiziona la civiltà musicale russa di fine Ottocento. Agli inizi degli anni 70 egli era invece decisamente indirizzato verso Beet­ hoven, Schubert, Schumann, Chopin, riletti però tutti dopo tre esperienze cruciali: la Sonata n. 2 di Boulez, il Klavierstùck X di Stockhausen, l’opera completa di Schonberg. Le composizioni di Schonberg erano state incise da Brendel. Pollini non era da meno nella lettura analitica di testi molto ardui e nella loro collocazione storica di composizioni direttamente legate al decadentismo brahmsiano. Le esecuzioni pubbliche di Pollini, molto numerose, rappresentarono però, nella storia del concerti­ smo, un qualcosa di diverso e di più di una lettura affascinante: rappresentarono il passaggio di un autore nel novero dei classici che persino il pubblico più vasto e più sprovveduto accetta senza discussioni. I grandi compositori trovano sempre degli interpreti devoti e intelligenti, che con spirito di pionieri ed indifferenza alle negative reazioni del pubblico ne presentano le nuove composi­ zioni. Schonberg trovò in Eduard Steuermann il suo primo, devo­ tissimo, ammirevole interprete, ed in Italia fu Pietro Scarpini il pianista che accettò la commiserazione idiota ed i fischi rimbom­ banti che accompagnarono le sue esecuzioni schonberghiane. Ma solo quando un pianista, appartenente al piccolo gruppo di questi mostri sacri che possono riempire le sale da cinquemila posti, include un autore moderno nel suo repertorio, solo in quel mo­ mento l’autore cessa di essere «sperimentale» per diventare a sua volta un mostro sacro. Così, Gieseking fece accettare Debussy e Ravel, Horowitz fece accettare Scriabin, Richter fece accettare Prokofiev e Bartók; e così, Pollini ha collocato Schonberg nel mazzetto dei compositori moderni a cui tutti riconoscono l’appel­ lativo di grandi, pronti a riconoscersi idioti, invece di sghignazzare, se non riescono a capirne le composizioni. L’esecuzione della Sonata n. 2 di Boulez e del Klavierstùck X di Stockhausen accentuava ancor di più una scelta già evidente nelle esecuzioni schonberghiane: la scelta di una indagine sulle ragioni di vita della musica contemporanea più che del pianoforte contem­

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poraneo. Più tardi Pollini avrebbe eseguito di Nono Come una ola de fuerzay luz e «... sofferte onde serene...» e di Giacomo Manzoni Masse: Omaggio a Edgard Varèse-, tutti lavori da lui presentati in prima esecuzione. Sappiamo bene come un tempo fosse normale che un grande pianista eseguisse musiche contemporanee, ma già abbiamo visto che il repertorio di Brendel e il repertorio di Ashke­ nazy arrivano fino a Prokofiev. L’atteggiamento di Pollini non è però simile a quello di Gieseking, che nella prima parte della sua carriera eseguì moltissimi lavori contemporanei come il professio­ nista che presenta anche la musica del suo tempo. Il repertorio contemporaneo di Pollini è invece limitatissimo, scelto con atten­ tissima cura, e la scelta intende a mio parere individuare la conti­ nuità di una linea di umanesimo e di impegno civile che ha il suo corso storico nella civiltà austrotedesca e il suo fulcro in Schonberg. Si può dire che Schonberg e Webern salvano i principi metastorici di una civiltà giunta alla conclusione e li trasmettono agli esponenti della Nuova Musica anni 50. Negli anni 70 Pollini verifica così una costante affermazione di libertà spirituale e di responsabilità mo­ rale che da Mozart arriva fino a Nono. Mozart e Beethoven. Pollini ha eseguito Mozart ma ha eseguito soprattutto Beethoven, e specialmente le ultime Sonate. In Beet­ hoven, sia nei Concerti n. 3, 4 e 5 eseguiti sotto la direzione di Karl Bòhm, sia nelle Sonate, l’atteggiamento di Pollini è sostanzial­ mente tradizionalista. Quella lettura puntigliosamente esegetica dell’op. 106 (ricordo anche una simile esecuzione del Concerto n. 3) si è un poco alla volta ammorbidita e si è accostata alla tradizione di Backhaus senza rifiutare, nei Concerti, le qualità «latine» — la pienezza sentimentale e la cordialità — di Artur Rubinstein. I suoi inizi di interprete beethoveniano avrebbero potuto condurlo su una posizione simile a quella di Arrau; egli è invece prossimo alla posizione conservatrice di Brendel e non è per ora pervenuto, al contrario di Ashkenazy, a parziali scoperte inno­ vatrici. Di Schubert Pollini ha eseguito varie Sonate e la Fantasia op. 15. A parte il fantastico dominio tecnico della Fantasia è da notare soprattutto la presentazione in una sola serata delle ultime tre Sonate di Schubert (l’idea, come ho detto, era di Erdmann). Una serata simile eccede i limiti di durata degli odierni programmi e richiama alla memoria le maratone di Anton Rubinstein, ma

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l’audizione mostra la grandezza di Schubert, la sua indipendenza da Beethoven, la sua collocazione in quella linea di testimonianza umanistica che Pollini ha individuato e che va ricercando ovunque. Il repertorio schumanniano di Pollini non è vasto, mentre il suo repertorio chopiniano si è accresciuto negli anni 70. Le più impor­ tanti incisioni sono a parer mio quelle dei Preludi e delle Polacche (l’incisione degli Studi, scintillante ed equilibrata insieme, precisis­ sima, stilisticamente inappuntabile, mi pare meno interessante di quella di Ashkenazy). La critica, al termine di un lunghissimo processo di studio e di meditazioni seguito agli iniziali tentennamenti e fraintendimenti, tende oggi a considerare i Preludi come un tutto unitario, come una gigantesca costruzione a polittico in cui Chopin mantiene al giro delle ventiquattro tonalità una tensione strutturale che si conclude solo con l’ultima. La bellezza, la fini­ tezza preziosa di ogni singolo Preludio viene oggi vista in rapporto con il tutto, ed in questo rapporto si collocano pagine diversissime per caratteri espressivi e stilistici (basti pensare ai due antipodi: il Preludio in la minore e il Preludio in la bemolle maggiore), che non potrebbero altrimenti essere accostate. Ogni esecuzione parziale, ogni scelta, determina quindi una visione unilaterale e riduttiva, proprio perché Chopin cercò, e impiegò anni a trovarli, rapporti che legassero in una forma miracolosamente equilibrata ventiquattro pezzi diversi. Queste cose si sanno ormai da tempo, e da tempo gli interpreti più qualificati non si azzardano a presentare una scelta dei Preludi. Ma è ben raro che l’interprete sappia veramente mettere in luce l’unitarietà della raccolta. Ci sono, credo, due maniere, opposte ed entrambe legittime, di considerare la forma complessiva della rac­ colta; una è quella che accentua, assolutivizzandola, la dicotomia maggiore-minore, per fare del modo maggiore il luogo della gioia e del modo minore il luogo dell’angoscia; l’altra è invece quella che vede i modi maggiore e minore come complementari. La prima è frequente negli interpreti slavi, generalmente influenzati dal­ l’espressionismo di Rachmaninov, e può avere, anzi, ha il più delle volte come conseguenza un ritorno ad una concezione frammen­ taria della raccolta («rovine, penne d’aquila, tutto disposto selvag­ giamente e alla rinfusa», come diceva Schumann). Pollini sceglie la seconda maniera: l’ascoltatore l’avverte fin dal primo Preludio, di

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andamento non molto mosso e con un volume di suono contenuto, e lo può verificare, se vuole, in ogni momento. Si osservino in particolare i Preludi in sol diesis minore, mi bemolle minore e si bemolle minore, che potrebbero facilmente essere collocati nel clima allucinato della Sonata op. 35 e che Pollini mette invece in rapporto con i Preludi in fa diesis maggiore e la bemolle maggiore, i quali, a loro volta, non sono considerati alla stregua di notturni capitati per caso tra i Preludi. In questo caso Pollini compie il miracolo di ritrovare, in una struttura geometrica ed astratta, una forma musicale che vive di equilibri e di rapporti interni sottilissimi. Posizione radicalmente opposta a quella di Richter, che tende invece a frammentare anche la struttura più musicalmente compatta per risospingerla verso la non-determinazione dell’informale. Non intendo, si capisce, contrapporre Richter e Pollini o, per lo meno, non in modo tanto schematico, così come solo per comodità di esposizione avevo indicato in Paderewski e in Busoni due termini antitetici di concezione dell’interpretazione. Richter procede del resto da Beethoven verso Scriabin, mentre Pollini procede da Beethoven verso Nono. La sua esecuzione dei Preludi è tuttavia indicativa al massimo grado della sua tensione verso la razionalità della forma, che in questo caso viene colta al di là della gratuità dello schema geometrico scelto da Chopin. Nell’incisione delle Polacche Pollini segue invece l’evoluzione di uno schema tradizionale, quello della forma di canzone con trio, che viene da Chopin trasformato da schema convenzionale e ri­ producibile all’infinito in forma irripetibile, unica. Le Polacche op. 26 e op. 40 rappresentano sempre un grosso problema, per gli interpreti. Sono opere affascinanti, ma non sono state pensate come lavori da concerto, sono piene di ripetizioni stereotipe, sono di media difficoltà, e la loro bellezza viene colta soprattutto dall’e­ secutore (sia esso un virtuoso o un dilettante) e molto meno dal pubblico. Musica privata, altissima poesia da recitare mentalmente, le Polacche op. 26 e op. 40 lasciano dunque spesso freddo il pubblico e ben pochi concertisti hanno il coraggio di includerle nei loro programmi. Un tempo si usava dar loro una mano di belletto, ad uso concertistico, ed il disco ci ha conservato, come ho già detto, il lavoro di truccatore di Paderewski per la Polacca op. 26 n. 2, e di Mark Hambourg e ancora di Paderewski per la Polacca op. 40 n. 1.

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Storia e mito

Ma da quando simili restauri non sono più permessi ricordo solo un’esecuzione pubblica di Richter, della Polacca op. 26 n. 1, che oltre ad essere di inestimabile valore aveva anche la forza di in­ chiodare il pubblico alla sedia. Orbene, nel 1975 ascoltai Pollini che eseguiva in pubblico le sei Polacche di Chopin (mancava la Polacca-Fantasia op. 61), riuscendo a tener desta l’attenzione del pubblico, senza trucco, anche nelle opere 26 e 40. A maggior ragione l’interpretazione di Pollini non induce in distrazioni il discofilo, che ascolta in condizioni più favorevoli di concentrazione mentale. Pollini non recupera attraverso variazioni di timbro la monumentalità eroica che i pianisti di fine Ottocento proiettavano già sulle Polacche giovanili: operazione che, come ho detto, è stata invece attuata da Rubinstein. Pollini coglie invece il momento in cui la danza fastosa di corte diventa simbolo della patria e ne sottolinea la trasformazione formale (progressivo ampliamento delle dimensioni e fluidificazioni delle articolazioni, cioè dissolu­ zione del genere). Dopo la Polacca op. 40 n. 2, la Polacca op. 44 rappresenta una svolta decisiva. Pollini ha inciso l’op. 44 tre volte: nel 1960, quando vinse il Concorso Chopin, nel 1969, nel 1976. L’analisi comparativa delle tre interpretazioni, proiettate nell’arco di un quindicennio, dimostra quale cammino abbia percorso Pol­ lini. La prima era l’espressione di un talento pianistico fenomenale e di un intelletto musicale severo e severamente raziocinante, che della tradizione sapeva cogliere i dati salienti. La seconda rappre­ sentava il momento di passaggio: priva ormai della sicurezza sem­ plificatrice che è dei giovani genii e non ancora nutrita di nuove idee originali. La terza è un’interpretazione matura, che ha sempre come punto di riferimento l’interpretazione di Artur Rubinstein, ma nella quale fiorisce una quantità di idee originali. Anche la Polacca op. 53 era stata registrata da Pollini nel 1969. E anche in questo caso la maturazione, dalla prima alla seconda incisione, è evidente: basti osservare con attenzione, per tacer d’altro, con quale stupendo senso del rubato Pollini sappia deli­ neare, nella seconda incisione, l’introduzione. Resta la PolaccaFantasia, non compresa nell’esecuzione pubblica del 1975, com­ presa nel disco. Pollini la pone in relazione, nel senso della sonorità e dello stile, con l’op. 53. Interpretazione pienamente conseguente,

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ma che, a parer mio, non mette in luce la forza rivoluzionaria della Polacca-Fantasia. Anche qui si può trovare il punto di contatto e di opposizione con Richter. Il problema dell’op. 61 di Chopin, com­ posta nel 1845-46, è in realtà il problema del definitivo supera­ mento delle strutture classiche simmetriche, ed è il problema es­ senziale della Sonata (1852-53) e dei Concerti di Liszt, che Pollini non ha finora affrontato. Di Liszt egli ha eseguito alcune delle tarde composizioni, che annunciano la dissoluzione della tonalità ed an­ che della forma ma, al contrario di Brendel, non ha trovato anco­ ra nel Liszt di Weimar e, prima ancora, nel Liszt delle parafrasi operi­ stiche il momento del radicalismo anticlassico che dà inizio alla cri­ si. Mussorgski e Scriabin non sono stati toccati da Pollini e Debussy è rimasto per ora ai margini dei suoi interessi, anche se l’esecuzio­ ne degli ultimi sei Studi è parsa rivelatrice. Di qui, a parer mio, proviene un eccesso di semplificazione dei problemi ed un atteg­ giamento che, identificando nel dominio della ragione la linea emer­ gente e progressiva finisce coll’essere più mitico, al modo della gene­ razione dell’ottanta, che storico al modo di Guida e di Ashkenazy. Pollini è stato d’altra parte il primo grande pianista della sua generazione che abbia saputo individuare in Bartók un protagoni­ sta sommo della storia della letteratura pianistica. Può darsi che la simpatia sia dipesa dall’impegno civile di Bartók, ma la scoperta di Bartók (i Concerti n. 1 e 2, la Sonata, la Suite op. 14, gli Studi op. 18, le suite All'aria aperta, di cui Pollini ha dato la più grande interpretazione ch’io conosca) dovrebbe portare Pollini a ritrovare, con il legame profondo Bartók-Liszt, la complessità e la contrad­ dittorietà della storia. Credo che la monolitica visione di Beethoven a cui egli si riferisce sia stata irreversibilmente messa in crisi — ideologicamente, se non stilisticamente — da Richter, e che a Pollini, come a Brendel e ad Ashkenazy, spetti di sciogliere il nodo dei problemi che Richter ha sollevato. Si è notato in Pollini, in recenti recitals, una spinta emotiva inconsueta, che porta anche a inconsuete, seppur lievi perdite di controllo tecnico, si è accentuata la tendenza a sostenere psicologicamente col canto, tra sé e sé, il suono pianistico. Talvolta sembra di vedere di nuovo Serkin alla ricerca della musica... Ma al di là di Serkin, e al di là di Richter, c’è ancora l’ombra ammonitrice del patriarca Backhaus, che a ottantaquattro anni aveva scoperto un altro Beethoven.

E POI...

.... la vita continua, ma io mi fermo. Ho già molto faticato a parlare di Brendel e di tutti coloro che hanno cinquant’anni o meno di cinquantanni: sono personalità in evoluzione, che riesco forse a cogliere nelle loro motivazioni culturali, ma che non posso ancora vedere nella completezza della loro ricerca. Tanto più faticherei a parlare di artisti la cui personalità non si è ben definita e che possono riservare sorprese o sparire di scena. Non sparirà certa­ mente Daniel Barenboim, nato nel 1942, le cui quotazioni di direttore d’orchestra e di pianista sono solidissime. Barenboim si era dimostrato interprete fantasioso, anche se non sempre convin­ cente, nell’incisione completa delle Sonate di Beethoven; poi la molteplicità e la frequenza degli impegni lo ha portato ad esecu­ zioni pubbliche tecnicamente non rifinite ma sempre vivaci e ad incisioni, al contrario, molto controllate e di un tono qualche po’ magistrale, ma da maestro di scuola più che da maestro d’arte. Invece del ragazzaccio geniale e scombinato troviamo spesso in Barenboim il gentiluomo che sa il dover suo e che si mantiene abbottonatissimo. Sarà per dar retta ai critici, che volentieri lo trattano da matto, o sarà perché deve più del lecito badare alle dita? Direi che quest’ultima sia l’ipotesi più probabile. Ma quand’era sui tredici anni Barenboim suonava l’op. 106 di Beethoven, e se non facesse tanto il Cortot potrebbe diventare veramente qualcuno... Potrei parlare di Radu Lupu, che a parer mio è il più personale tra i pianisti giovani. Agli inizi della carriera Lupu era anche lui un po’ svitato e la sua incisione delle Sonate op. 13, op. 27 n. 2 e op. 53 di Beethoven, uscita nel 1973, è un documento storico dell’esplo­ sione di un talento. La contraddizione di fondo, in quest’incisione,

Lupu

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nasce dall’istinto virtuosistico e dalla insorgente propensione verso stili interpretativi antiquati, che si scontrano con la consapevolezza culturale acquisita durante i lunghi studi in un centro come il Conservatorio di Mosca. Radu Lupu si lascia quindi andare a clamorose scorrettezze (come certi raddoppi dei bassi, che non si sentivano da tempo), non è capace di rispettare i pedali indicati da Beethoven, cede alla tentazione di far vedere quanto siano agili le sue dita, ammorbidisce il suono fino a livelli impressionistici e imposta i rapporti sonori tra le parti in modo romantico: il suo Beethoven, insomma, assume i tratti di Czerny, di Schumann, di Liszt, di Brahms, di Debussy. Ma Radu Lupu sa anche usare i pedali in modo non convenzionale, sa trovare impasti sonori inu­ suali e del tutto convincenti, sa intrawedere un Beethoven al negativo, un Beethoven, cioè, analizzato dal di fuori, nelle sue illusioni anziché nelle sue certezze. L’inizio della Patetica, in que­ st’ultimo senso, è quasi esemplare: il tempo lentissimo, la sonorità smorta, l’espressione malinconica rendono un’impressione di ras­ segnata sconfitta anziché di volontà di lotta. Ma qualcosa manca ancora: manca un’individuazione veramente rigorosa della sono­ rità, che in più punti inclina invece verso altri ambiti stilistici. Esemplare la prima parte della Patetica; ma la seconda parte, con quel suono alla cipria, non si iscrive nel mondo stilistico di Beet­ hoven, neppure di questo Beethoven particolarissimo che Lupu intravvede e ci fa intrawedere (insieme con quell’altro Beethoven alla Fregoli). Così nel 1973. Lupu si è poi fatto più prudente, ha tenuto conto della carriera ed è diventato, come Barenboim, un impeccabile gentiluomo all’inglese. Ma da qualche tempo — in Beethoven, in Schubert, in Brahms — si ricomincia a vedere in lui il magma sotterraneo in movimento. Potrei parlare delle esecuzioni su pianoforti non moderni, su pianoforti d’epoca: i Walter per Mozart, gli Streicher e i Broadwood per Beethoven, i Graf per Schubert e per Schumann, i Pleyel per Chopin, gli Érard per Liszt. Sono esperienze che hanno arric­ chito le nostre conoscenze storico-filologiche, ma che non hanno ancora provocato salti di qualità nella storia dell’interpretazione. Potrei parlare ipoteticamente di novità che forse verranno dal pianoforte cosiddetto modulato. Potrei. Ma preferisco fermarmi

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E poi...

mentre la storia procede, mentre gli interpreti guardano i problemi che esistono, che si rinnovano, che non si risolvono mai. C’è un aspetto pittoresco, nel suonare il pianoforte, quel «tremito delle articolazioni delle mani e dei piedi» di cui dice Musil. C’è un aspetto epico, che lo stesso Musil rivela quando ragiona sui grandi scrittori: «Essi hanno dato alla loro composizione una forma così solida da rimanere come metallo pressato fin negli spazi tra le righe. Ma che cos’hanno detto, in fondo? Nessuno lo sa. Neanche loro Than mai saputo interamente. Sono come un campo su cui volano le api; nello stesso tempo sono anche un volo che va e viene. I loro pensieri e sentimenti hanno tutte le gradazioni del trapasso fra verità o anche errori, che al bisogno si possono dimostrare, e creature mutevoli che si avvicinano e s’allontanano arbitrariamente quando vogliamo osservarle». Nessuna interpretazione esaurisce dunque l’opera, ma il lavoro di tante generazioni di pianisti non è stato tuttavia fatica di Sisifo. Lo abbiamo ripercorso insieme, per quanto i documenti ci permettono di ripercorrerlo, ed io ho cercato di spiegarlo nelle sue ragioni o in quella parte delle sue ragioni che riuscivo a vedere. Smetto di scrivere, ma non di pensarci. E spero di aver aiutato il mio lettore a pensarci da solo.

APPENDICE

IL PARNASO VIOLATO

L’esecuzione pubblica completa di un’opera a destinazione didat­ tica è idea che ha compiuto da poco cent’anni: nel 1880 Joseph Rubinstein — niente a che vedere con Anton, con Nicolaj, con Artur, con Beryl — eseguiva a Berlino, in sei mattinate domenicali, tutto il Clavicembalo ben temperato di Bach. L’esito fu catastrofico, ed il solo ascoltatore che da un’esecuzione in privato riservatagli dal Rubinstein ricavasse la rivelazione di un tesoro nascosto fu Richard Wagner. Oggi, il Clavicembalo è più o meno un lavoro del reper­ torio concertistico; le sue esecuzioni pubbliche si susseguono con regolarità, le incisioni in disco, dopo le prime di Edwin Fischer e di Arnold Dolmetsch che risalgono a quasi mezzo secolo, addietro, non si contano in pratica più. Ed anche le Invenzioni e le Sinfonie sono state eseguite ed incise. E Gradus ad Pamassum di Clementi non sarà (non è) il Clavi­ cembalo ben temperato, ma non è neppure il Pianista virtuoso di Hanon; eppure non ha ancora avuto un’esecuzione pubblica com­ pleta ed è uscito in disco per la prima volta solo al cadere del 1981. Vero è che il signor Bossi, rappresentante in Italia della Westmin­ ster, cercava un pianista disposto ad inciderlo già negli anni 50, e vero è che Carlo Vidusso ne aveva annunciato l’esecuzione pub­ blica nel 1952 o giù di lì. Ma poi Vidusso dovette rinunciare all’idea per causa di quel malanno a un dito che gli troncò prematuramente la carriera, e il Bossi perse il fiato ad invocare un cireneo che non compariva mai all’orizzonte. H cireneo, Vincenzo Vitale, che arrivò alla cima del monte nel 1981, merita tutta la nostra più affettuosa ammirazione e ricono­ scenza per due motivi. Prima di tutto perché ebbe l’idea di dividere

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l’esecuzione dei cento Studi tra se stesso e sette dei suoi allievi, rendendo così possibile la massacrante impresa; in secondo luogo perché non attese che una casa discografica promuovesse l’iniziati­ va, ma la finanziò personalmente, presentando poi il lavoro com­ piuto ad un editore. Vincenzo Vitale dimostrò dunque nei fatti di saper onorare quella «medaglia d’oro per i benemeriti della Scuola, della Cultura e dell’Arte» che il Ministero della Pubblica Istruzione gli conferì nel 1968. Il Ministero, naturalmente, conferisce meda­ glie ma non assegna fondi per la ricerca e per gli studi, né esistono in Italia un Istituto Clementi o un Istituto per la Musica Strumen­ tale Italiana che sopperiscano ai buchi (o voragini) culturali del Ministero. E perciò Vincenzo Vitale non presentò a nessuno un piano di finanziamento per realizzare in disco il Gradus ad Pamassum, ma convinse sette suoi allievi a lavorare gratuitamente, pagò di tasca sua l’affitto degli Studi Phonotype di Napoli e l’accorda­ tura del pianoforte, e pian piano, tra il 1977 e il 1979, mise insieme le registrazioni dei cento Studi. Poi trovò l’editore, riuscendo a far uscire la pubblicazione in tempo utile perché la cultura italiana si presentasse con il suo fiore all’occhiello alle celebrazioni per il centocinquantenario della morte di Clementi, che cadeva nel 1982. Vincenzo Vitale merita dunque non solo il titolo di benemerito assegnatogli dal Ministero, ma anche quello di cireneo che gli ho attribuito io, tanto che sarei tentato di riassumere tutte le virtù di questa sua pubblicazione in un — purtroppo mediocrissimo — gioco di parole: il mosaico di San Vitale. Grazie al mosaico degli esecutori e alla tenacia del santo protettore avemmo infine dispo­ nibile in cinque microsolco l’intero Gradus ad Parnassum, disponi­ bile per gli ascoltatori comuni e per i pianisti pigri che non l’ave­ vano mai letto da capo a fondo. Uno strumento di cultura ed anche, come dirò con un lungo ragionamento da cui non potrò esimermi, uno strumento di provocazione culturale: ad un tempo utilissimo, quindi, e un poco scomodo. Non entrerò nel merito di un problema di fondo, che oggi è da considerare superato o per lo meno momentaneamente... ibernato: ha senso far ascoltare al pubblico le musiche destinate dall’autore agli esecutori? Problema molto più sottile e molto meno sofistico di quanto non appaia in superficie, ma che non si potrebbe seria­ mente discutere in rapporto a Clementi senza discuterlo in rap-

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porto anche a Bach, perché il fatto che il Gradus non sia il Clavi­ cembalo non sposta i termini del problema generale. Lasciato dun­ que in disparte il problema di fondo, un problema specifico sorge però con il Gradus. I quarantotto Preludi e fughe del Clavicembalo sono diversissimi tra di loro, ma sono inquadrati in uno schema geometrico perfetto; le quindici Invenzioni e le quindici Sinfonie si susseguono secondo uno schema geometrico discontinuo ma chia­ rissimo, ed i centoquarantatre pezzi che formano il Mikrokosmos di Bartók — altro lavoro didattico che ha avuto esecuzioni e incisioni — sono disposti in ordine di difficoltà. I cento Studi del Gradus si presentano invece senza alcun ordine, senza alcuno schema. Sem­ bra un’inezia, ma un ordine anche esterno, anche intellettualistico, in una successione di pezzi disparati, facilita enormemente la con­ centrazione e l’ascolto. Con Bach si ha almeno l’impressione (il lettore perdoni il paragone poco elegante) di un magazzino ben schedato; con Clementi si ha l’impressione di un materiale accata­ stato alla rinfusa, in cui persino i parziali raggruppamenti (i pezzi raccolti in suites) accrescono il senso di generale accumulo, di generale casualità, tanto che ci si chiede addirittura perché si debba arrivare fino ad un numero tondo e simbolico come il cento invece di fermarsi prima o di procedere oltre per arrestarsi su un nume­ racelo qualsiasi. Il pericolo per l’ascoltatore, in questo caso, è di scegliere fior da fiore, di distinguere esteticamente ciò che incanta e ciò che annoia, di sentirsi deliziato con le brillanti cascate e depresso con le fughe arcigne; bisogna invece cercar di cogliere un disegno generale, per nulla geometrico eppur razionale, di enciclopedia non alfabetica del sapere, di inventario di tutto ciò che esiste ed ha diritto di esistenza nel cosmo pianistico all’anno 1826, di memoria storica della classicità. Il Gradus va visto, e non è facile, come una specie di Pouvard e Pécuchet-. mortale, se lo si legge come romanzo, affasci­ nante, se lo si legge come spezzone di storia culturale. Nella introduzione generale e nelle note a ciascun Studio del Gradus scritte da Vitale si colgono benissimo alcuni concetti di base e si coglie una polemica sommersa ma lucidamente rivelata, a chi ha orecchie per intendere, da una frase sibillina: «Ho voluto solo consigliare ai giovani pianisti la massima circospezione nel seguire certe avventate proposte di “travail”». Perché mai un napoletano

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puro sangue, che scrive da intellettuale napoletano, va a scovare un termine come travail? L’obbiettivo è chiaro e si chiama Alfred Cortot con le sue editions de travail dei classici. E il celato obbiet­ tivo polemico ci trasporta nella biografia di Vincenzo Vitale, che all’inizio degli anni 30 galoppa da Napoli a Parigi per seguire i corsi di Cortot all"Eco le normale. Cortot aveva pubblicato nel 1928 i Principi razionali della tecnica pianistica ed era considerato un principe dei didatti: Vitale, partito per attingere grandi sorsate alle fonti del sapere, dovette capire presto che Cortot razzolava magari bene ma predicava malissimo e che i principi razionali non erano razionali per niente. Per uno che si era formato nel bacino di carenaggio della scuola napoletana, avendo studiato con Sigi­ smondo Cesi, Florestano Rossomandi e Attilio Brugnoli, l’accor­ gersi che la farraginosa e indisponente Dinamica pianistica di Brugnoli, pubblicata nel 1926, era più razionale dei Principi ra­ zionali dispensati nel tempio parigino, dovette essere un bello choc. E il contraccolpo dello choc vibra ancora nelle note di presentazio­ ne del Gradus, così come vi scorrono sotterraneamente gli entusia­ smi di un cammino a ritroso nella storia culturale di Napoli: lavati e setacciati gli ingombranti detriti della Dinamica pianistica, Vitale scoprì qualche pepita lucentissima; ripensata e analizzata la didat­ tica di Florestano Rossomandi, di Sigismondo Cesi e del maestro di entrambi, Beniamino Cesi, Vitale ritrovò l’intatta mummia di Sigi­ smondo Thalberg, maestro del Cesi. Beniamino Cesi aveva studiato con Thalberg quando questi, chiusa la carriera concertistica e ritiratosi a vita privata in una splendida villa di Posillipo, riceveva in casa sua e seguiva con attenzione alcuni giovani napoletani di talento; e i fondamenti stilistici della scuola napoletana stanno li, nei brevi precetti che Thalberg premise dXArte del canto applicata al pianoforte e di cui insegnò al Cesi i significati tecnici. Se dobbiamo prestare orecchio ad un affidabile testimone, Francois Fétis, Thalberg aveva scoperto per primo il modo di unire insieme il canto, espressivo, e la figurazione ornamentale virtuosi­ stica e brillante, rendendoli nettamente diversificati e inconfondi­ bili; il Marmontel, ricordando Thalberg nella Fantasia sul Mose, diceva che «la larga e bella melodia, che ad ogni strofa s’accresceva di forza, emergeva sotto il torrente degli arpeggi che percorrevano

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la tastiera in tutta la sua estensione». Alla base della concezione della sonorità pianistica in Vitale sta questa netta distinzione thalberghiana di suono cantabile e di suono brillante, che tecnicamente si realizza oggi rispettivamente — il lettore perdoni la schematiz­ zazione: l’accenno è sommario, ma preciso — con peso del braccio appoggiato sul tasto e non appoggiato sul tasto (o, come dice Tobias Matthay, con «giacenza a fondo tasto» e «giacenza a livello tasto»). Vitale sviluppò questo concetto in modo — lui sì — razionale, studiando tutti i meccanismi fisiologici, cioè i movimenti e i coordinamenti dei movimenti che garantiscono la distinzione, l’alternanza e la sovrapposizione di due specie fondamentali di timbro pianistico. Che questa fosse la concezione della sonorità in Thalberg e nella scuola napoletana che da lui deriva è fuor di dubbio. Che questa fosse la tecnica thalberghiana è cosa molto incerta. A parer mio, e il Metodo del Cesi sembra dimostrarlo, la tecnica Thalberg-Cesi era diversa dalla tecnica Brugnoli-Vitale. La continuità della scuola napoletana consiste invece nella conservazione di una concezione della sonorità attraverso un adeguamento della tecnica a mutate caratteristiche dello strumento: Vitale porta a perfetta definizione una tecnica che rende possibile la sopravvivenza, sul pianoforte moderno, di una concezione del suono nata sul pianoforte roman­ tico. H pianoforte moderno è strumento diverso dal pianoforte ro­ mantico, è strumento di enormi potenzialità che può sì dare risul­ tati sonori analoghi a quelli del suo predecessore ma a patto di esser fatto agire mediante una tecnica rispondente alla sua più complessa struttura. Ad esempio, basta mettere le mani su un pianoforte romantico per ritrovare subito i rapporti di timbri di un pezzo come il Miserere del Trovatore trascritto da Liszt; per riprodurre gli stessi rapporti su un pianoforte moderno bisogna possedere una tecnica del tocco di livello trascendentale. La tensione massima, il punto di rottura tra evoluzione dello strumento ed evoluzione della tecnica risale storicamente proprio all’anno di nascita di Vincenzo Vitale: 1908. Nel 1908 Debussy pubblica la seconda serie delle Images, nel 1908 Ravel pubblica Gaspard de la nuit. Due opere tra le maggiori della letteratura pianistica, due opere radicalmente opposte. Debussy continua ad

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impiegare sul pianoforte moderno la tecnica tradizionale, raffi­ nando all’estremo il lavoro delle dita e del pedale di risonanza e lasciando perire i rapporti timbrici del pianoforte romantico, Ravel progetta il ripristino di rapporti timbrici tradizionali, postulando una rivoluzione tecnica; Debussy studia gli effetti di una tecnica arcaica su un materiale nuovo, Ravel fa rinascere con una tecnica nuova un materiale antico; Debussy si incammina verso la disinte­ grazione del linguaggio, Ravel verso la sua restaurazione. Un pro­ cesso simile era già avvenuto una decina d’anni prima, ma ad uno stadio di minor radicalismo, con Scriabin e Rachmaninov. Debussy e Ravel portano invece all’estremo un dilemma che era nato im­ plicitamente nell’ultimo trentennio dell’ottocento, con la totale sostituzione del pianoforte moderno al pianoforte romantico, e mettono a nudo un problema che investe la sopravvivenza stessa della letteratura pianistica. A complicare le cose, oltre al radicali­ smo delle rispettive posizioni, sta il fatto che la scelta di Ravel si capovolge dall’inizio del secolo al 1908, da Jeux d’eau & Gaspard, e che la scelta di Debussy si capovolge dall’inizio del secolo al 1908, da Pour le piano alla seconda serie delle Images: il primo finirà poi col ricreare sul pianoforte moderno la sonorità del clavicembalo (Tombeau de Couperin) e il secondo con lo sperimentare sul pia­ noforte moderno tutta la tecnica antica (Études). Questo nodo, questo intreccio, questo groviglio dantesco era ancora didatticamente tutto da sciogliere negli anni 20 e 30, quando Vincenzo Vitale studiava a Napoli e poi a Parigi. Molti didatti giocarono sull’equivoco, mettendo insieme Debussy e Ravel nel calderone dell’impressionismo. Córtot predicò un vangelo se­ cundum Claudium razzolando secundum Mauritium. Altri, in Rus­ sia come negli Stati Uniti, come in Inghilterra, studiarono a fondo il problema, e tra di essi Vitale che, vivendo a Parigi, capì qual era il nocciolo della questione e scelse: scelse Ravel, cioè si pose ad indagare razionalmente, sotto l’aspetto teorico, sotto l’aspetto fi­ siologico e sotto l’aspetto didattico, la tecnica rivoluzionaria che Ravel aveva postulato con Gaspard de la nuit, La concezione della sonorità pianistica e la ricerca sulla tecnica nascono in Vitale, a parer mio, dalla fedeltà ad una tradizione culturale autoctona e dalla adesione alla poetica di un grande creatore contemporaneo. All’origine della concezione timbrica di

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Vitale sta VArte del canto applicata al pianoforte, al cuore della sua tecnica stanno il Gaspard de la nuit ed il suo antecedente storico: il Mephisto-Walzer n. 1 di Liszt. Da Ravel e Liszt, fondamenti stili­ stici della sua tecnica, Vitale procede poi verso Debussy e Chopin, verso Schumann, verso Beethoven. E verso Clementi. Ciò non significa che Vitale sia indifferente a problemi di stile: nella distinzione di suono cantabile e di suono brillante si innestano le distinzioni di legatissimo, legato, portato, non-legato, staccato, staccatissimo, si innesta la tecnica dei pedali separati e riuniti, si innestano cioè tutte le «imperscrutabili sotti­ gliezze» di cui dice Vitale, il quale, in Clementi, non impiega ad esempio certi tipi di legato che impiega in Schumann, usa poco il pedale di risonanza e pochissimo il pedale una corda. Ma egli ha fissato e comunicato ai suoi allievi un cantabile e un brillante di caratteri timbrici inconfondibili che diventano per tutti un’incon­ fondibile base stilistica. L’esecuzione del Gradus, in quest’ottica, dimostra la completa meravigliosa appropriazione di un testo didattico in una — pos­ siamo dirlo? — vera e propria mistica della sonorità. Si può notare una simile appropriazione nell’esecuzione che Richter ci ha dato del Clavicembalo ben temperato di Bach. E, come in Richter, non si tratta della lettura storicistica di un testo ma di una sua geniale utilizzazione tecnica. Clementi viene cioè posto da Vitale all’alba di un evento storico centrale, il romanticismo iniziato con Thalberg, ed i tre volumi del Gradus, pubblicati nel 1817, nel 1819 e nel 1826, diventano i prodromi di Mendelssohn, Schumann, Chopin, Liszt. A parer mio i prodromi anche tecnici del romanticismo — la testimonianz di Fétis mi guida pure in questo caso — si trovano in Hummel e in Moscheles, mentre il vecchio Clementi sbatte in faccia ai nuovi venuti la mole imponente della cultura classica. Gli Studi n. 53, n. 56 e n. 83 sono lì a dirmi che una sbirciata oltre la classicità anche Clementi se la concede. Ma il grosso del Gradus dimostra a parer mio che di fronte ad una generazione che adorerà la polifonia bachiana Clementi rivendica, con diciotto tra canoni e fughe, la sua propria statura di polifonista romano, che di fronte ad una generazione che troverà nella tonalità una fonte di variazioni timbriche e psicologiche egli dispone un’armata di cento Studi senza un sol pezzo in re bemolle maggiore, senza un sol pezzo in do

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Appendice I

diesis, sol diesis, re diesis minore. L'esecuzione su un pianoforte inglese del 1820 circa potrebbe favorire una lettura storicistica del Gradus e verificare in concreto la validità o non validità della tesi critica ora esposta, l’esecuzione con una tecnica arcaica impiegata su un pianoforte moderno potrebbe mettere in luce quello che a parer mio è, del Gradus, il carattere superbamente reazionario. Tuttavia, non è questo il luogo per discussioni o per dispute sulla posizione storica di Clementi e su altre possibilità di lettura della sua summa didattica. Merito altissimo di Vitale e dei suoi discepoli è non solo di aver messo a disposizione del pubblico il Gradus, ma di averne scelto una chiave di interpretazione precisa, inequivoca­ bile, e di averla adoperata con impegno inflessibile e con rigore metodologico assoluto. Dalla curiosità di ascoltare un lavoro tanto celebre quanto poco studiato potranno nascere riflessioni sulla sua natura; e, procedendo a ritroso fino alle Sonate op. 1, si potrà anche cercare di ricostruire criticamente la figura di Clementi, ancor oggi tenuta in bilico tra le lodi per i suoi brevi flirts con l’Arte ed i rammarichi per il suo lungo concubinaggio con la Meccanica.

MUSICA COME SILENZIO

Durante la guerra udii spesso parlare di Carlo Vidusso dal maestro con cui studiavo, che era stato suo allievo a Padova; lo ascoltai per la prima volta, alla radio, nel 1945, lo conobbi nel 1948, studiai intensamente con lui tra il 1950 e il 1952 e saltuariamente fino al 1954, lo ritrovai come collega nel conservatorio di Milano dal 1965. Per più di trentanni, dunque, il nome, l’opera, la persona di Vidusso mi furono familiari, e per più di trent’anni, anche invo­ lontariamente, lo osservai con curiosità e con sbalordimento senza mai arrivare a capirlo bene. Ho ripensato molto a lui mentre stendevo queste note ed ho cercato di dare ordine ai miei ricordi e alle mie riflessioni. Ma non so se oggi lo capisco meglio e non so fino a che punto ciò che scrivo sia utile per chi non lo conobbe. Pur sapendo che rischio di sbagliare e di dare al lettore un’immagine parziale o distorta, penso però di essere nel giusto se di Vidusso parlo. Vidusso, e su ciò non ho dubbi, era una di quelle persone che si ricordano per tutta la vita e che meritano di essere ricordate. Quando cominciai a studiare con lui, Vidusso aveva appena messo a punto un sistema di lavoro che si basava essenzialmente su tre principi: per ogni nota da suonare doveva esser scritto sotto la nota il numero del dito corrispondente, era obbligatorio studiare con il metronomo e raggiungere gradualmente la velocità voluta, si mandava a memoria qualsiasi pezzo imparando senza pianoforte la prima riga di ogni pagina, la seconda riga di ogni pagina e così via, per «rimontare» poi il tutto alla fine. Fine che non era comunque tale perché l’esecuzione «libera» del pezzo, nella quale venivano sentimentalmente ritrovati il decorso temporale non meccanico e il senso discorsivo della musica, era rara, eccezionale, e bisognava

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sempre ritornare allo studio con il metronomo e alla lettura men­ tale a un rigo per volta. Personalmente usava, ma non lo imponeva agli allievi, di contare il numero delle note in ogni riga e in ogni pezzo, e sapeva quante note ci fossero nel Clavicembalo ben tem­ perato (con e senza gli abbellimenti realizzati), quante negli Studi di Chopin, ecc. ecc. Diteggiava ogni nota: anche i trilli, anche i tremoli (non tutti, a dire il vero: faceva un’eccezione per i lunghissimi tremoli di Chasse-neige di Liszt, per i quali ammetteva il segno %), ed aveva aggiunto alla numerazione tradizionale il 6, per indicare pollice e medio uniti, il 7 per anulare e mignolo uniti, 1’8 per il pollice di traverso su due tasti. Scriveva, con penne a sfera di quelle di allora, numeri di grandezza proporzionale allo spazio disponibile, talvolta premendo la carta fino a forarla, e le musiche da lui diteggiate prendevano l’aspetto di fantastici geroglifici, geroglifici nei quali, peraltro, egli si orientava benissimo. Aveva un orecchio fantastica­ mente selettivo, Carlo Vidusso, ed agli esami era il terrore dei candidati e dei colleghi perché scopriva i più piccoli errori di esecuzione o di lettura. Ma aveva anche un occhio fulminante, e così come individuava istantaneamente l’errore di nota, altrettanto istantaneamente individuava l’errore di dito. «Perché hai fatto questo trillo con 1-3-1-3-2-1-3-2 invece che con 2-3-1-3-2-1-3-2?», diceva dopo che l’allievo aveva magari eseguito tutto un primo tempo di una sonata di Beethoven; e si poteva star sicuri che non sbagliava. H metronomo era per Vidusso più che un utensile indispensabi­ le: era un compagno di vita. Ho conosciuto solo un altro musicista, Karl Heinz Stockhausen, sensibile quanto Vidusso alle velocità di metronomo. Stockhausen è in grado di battere, a richiesta, a 72 o a 108 o a 184, e di passare di colpo da una velocità ad un’altra. Vidusso, ascoltando un’esecuzione, diceva tranquillamente: «Toh, questo passo lo fa a 112 scarso; Horowitz lo fa a 116». Prendeva il metronomo e controllava: aveva ragione. Prendeva il metronomo, dico. Potrei dire che prendeva uno dei suoi novantacinque metronomi (o giù di lì). Ne aveva di tutti i tipi e di tutte le epoche, da piccolissimi metronomi a nastro fino ad un piramidale blocco che — pare — era appartenuto a Maria Luigia d’Austria e che era graduato solo fino a 160. Vidusso, naturai-

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mente, non era il collezionista ordinato che tiene tutto schedato e che amoreggia con l’oggetto; comprava, per il gusto di diventarne possessore, l’oggetto che vedeva in vetrina o che gli veniva offerto, ma poi si dimenticava di averlo e magari acquistava due volte lo stesso modello. Un metronomo gli piaceva veramente solo nel momento in cui lo faceva funzionare, e quindi non capisco ancor bene perché ne facesse collezione. Ma penso che nel metronomo vedesse un simbolo del tempo e che ogni diverso metronomo gli piacesse, per un attimo, quasi come una diversa incarnazione di un’idea metafisica. Il metronomo lo si usava moltissimo, con Vidusso, persino negli adagi o in certi tratti degli adagi. Si fissava una velocità che si voleva raggiungere e si cominciava da una velocità di circa una metà più bassa. Si eseguiva tutto il pezzo una volta e, se andava bene, si faceva avanzare di una tacca il contrappeso. Poi di un’altra tacca, di un’altra... Si scriveva il numero a cui si era arrivati in giornata, il giorno dopo si ricominciava dal numero immediatamente prece­ dente, si procedeva, si scriveva il numero raggiunto alla fine del lavoro, e così via per quanti giorni erano necessari a raggiungere il numero finale. Insieme con ciò veniva lo studio a memoria che, come dicevo, cominciava con la prima riga di ogni pagina e proseguiva riga per riga. Quando cominciai a studiare con lui, Vidusso aveva già im­ parato in questo modo a memoria i quarantotto Preludio e fuga del Clavicembalo ben temperato di Bach, e non ad uno per volta, ma tutti e quarantotto insieme: tutte le prime righe di tutte le pagine dei due volumi del Clavicembalo ben temperato, tutte le seconde righe, ecc. ecc. Mentre studiavo con lui imparò in questo modo tutto il Gradus ad Parnassum di Clementi. Preso nel suo insieme ed applicato con rigore, questo sistema di studio sembra una totale assurdità, ed è una totale assurdità che esclude completamente la logica architettonica e discorsiva della musica per sostituirle la geometria astratta dell’impaginazione e della velocità costante. L’utilità pratica del sistema venne del resto smentita dagli esiti stessi di Vidusso, che non di rado, quando presentò in pubblico il Clavicembalo ben temperato in tre serate, fu costretto ad eseguire con la carta, invece che a memoria, l’ultima serata, e che dovette rinunciare all’esecuzione del Gradus, già an-

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nunciata a Napoli in quattro serate. Più tardi riuscii però a capire, o così mi parve, perché Vidusso avesse escogitato un modo tanto complicato e tanto assurdo di studiare: perché era Punico che lo costringesse a studiare. Nel dopoguerra la carriera di Vidusso non aveva preso quota: egli aveva un buon «giro» nelle società di concerti italiane, ma non aveva sfondato in campo internazionale e non aveva né prospettive né ambizioni di proseguire ancora, a più di trentacinque anni, una carriera di routine. Il Concerto n. 1 di Ciaikovsky, che era stato un suo cavallo di battaglia, lo annoiava al punto che una volta chiese una somma spropositata ad una società che voleva a tutti i costi il Primo. Con sua grande sorpresa venne accontentato e dovette rimettersi il Primo nelle dita, brontolando. Né gli piacevano più la Rapsodia ungherese n. 2 di Liszt e Islamey di Balakirev o quelle anacronistiche pagine di virtuosismo che prima della guerra era stato il solo, in Italia, a suonare ancora. Aveva invece giustamente individuato nelle «integrali» una novità in via di affermazione ed aveva appunto progettato le «integrali» del Clavicembalo ben tem­ perato e del Gradus ad Pamassum\ la RAI gli aveva commissionato le «integrali» degli Studi di Liszt, di Iberia di Albeniz e di Goyescas di Granados, che portò tutte a compimento. Una prospettiva non tradizionale di nuova carriera si era dunque aperta per Vidus­ so nell’imminenza dell’anno bachiano, il 1950 in cui cadeva il bi­ centenario della morte di Bach. Ma per le «integrali» bisogna­ va studiare, allenarsi. Vidusso non aveva studiato mai: aveva solo capito. La facilità di lettura di Vidusso era favolosa. Leggeva quasi ogni cosa, praticamente, a prima vista, e fin dalla prima lettura realizza­ va anche musicalmente l’essenziale. Dopo quattro o cinque letture non ci pensava più e se gli capitava di eseguir spesso una composi­ zione si annoiava mortalmente. Arrigo Pedrollo mi raccontò di aver chiamato Vidusso nel tardo pomeriggio, quand’era direttore stabile all’EIAR, perché il pianista che doveva eseguire la sera Notti nei giardini di Spagna di Falla si era improvvisamente ammalato. Vi­ dusso, che non conosceva il lavoro, lo lesse su un pianino nel camerino di Pedrollo, che dirigeva e cantava le parti principali degli altri strumenti; poi scesero in orchestra ed eseguirono le Notti> diceva Pedrollo, come se le avessero regolarmente studiate e pro-

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vate. Anche Franco Margola mi raccontò di aver fatto vedere a Vidusso il suo Concerto (il Concerto, non il Kinderkonzert}, che era stato appena eseguito a Firenze da Benedetti Michelangeli: Vidus­ so lo lesse speditamente da capo a fondo. Mario Gusella mi rac­ contò di aver eseguito con Vidusso e con un violinista, tutti e tre allievi del conservatorio di Milano, il Concerto triplo di Beethoven. Le parti erano state consegnate ai ragazzi tre mesi circa prima dell’esecuzione, ma Vidusso aveva chiesto a Gusella di tenergli la parte del pianoforte perché temeva di smarrirla. Sollecitato più volte da Gusella, Vidusso si decise a dare un’occhiata alla parte il giorno stesso in cui c’era la prova in orchestra; alla prova suonò perfettamente, riconsegnò la parte a Gusella, suonò perfettamente alla prova generale ed all’esecuzione del giorno dopo. Ed io ricordo di aver sentito Vidusso leggere spartiti per canto e pianoforte e partiture per orchestra, con la più grande tranquillità e senza un’esitazione. Ricordo anche che, per crearsi un interesse quando suonava in trio, si poneva un problema tecnico fittizio. «Questa sera suonerò senza usare l’anulare della destra», diceva prima del concerto; e quando gli voltavo le pagine vedevo che manteneva la parola... magari pasticciando qua e là. La mano di Vidusso non era eccezionalmente grande: prendeva appena la decima, tanto che doveva arpeggiare alcune delle decime nella seconda parte, il Presto, della Rapsodia ungherese n. 6 di Liszt. Era però una mano quadrata, con dita a spatola robustissime. Vidusso suonava con le mani piuttosto inclinate in dentro ed aveva uno scatto nervoso eccezionale, tanto che, per scherzo, poteva eseguire rapidissimamente con 5-4-3-2-1, invece che con 1-2-3-4-5 (con la destra), la successione do-re-mi-fa-sol\ lo Studio op. 10 n. 2 di Chopin gli riusciva con sconcertante fluidità e in genere qualsiasi tratto in posizione stretta sembrava con lui un glissando-, un’altra sua «specialità» era la scala di do maggiore per moto contrario alla velocità di un glissando, ripetendo sempre la successione di dita 1-2-3-4-5. Eseguiva con facilità estrema le doppie note e le più intricate combinazioni contrappuntistiche poliritmiche, agendo in frazioni minime di tempo e cessando altrettanto fulmineamente la presa del tasto; aveva una sinistra in tutto pari alla destra. La tecnica era fondamentalmente articolatoria e l’impiego del braccio e delle spalle avveniva solo per eccezione; la sonorità non era perciò

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molto ampia, né la scala della dinamica era graduata con sotti­ gliezza. Dotato di quest’enorme facilità, quand’era allievo di Carlo Lonati,Vidusso aveva imparato il repertorio virtuosistico tradizionale del tardo Ottocento (Studi di Chopin, Variazioni su un tema di Paganini di Brahms, Rapsodie ungheresi n. 2, 6, 12 e 14 e Campa­ nella di Liszt, Islamey di Balakirev, Invito alla danza di WeberTausig, Il bel Danubio blu di Strauss trascritto da Schulz Evler, Valzer op. 64 n. 2 di Chopin trascritto in terze da Rosenthal, Studio op. 25 n. 2 di Chopin trascritto in seste da Brahms, Concerto n. 1 di Liszt, Concerto di Grieg, Concerto n. 1 di Ciaikovsky, ecc.). A vent’anni si era diplomato, a ventun anni aveva preso parte al Concorso Chopin di Varsavia, a ventidue anni era stato scelto da Pizzetti per la prima esecuzione assoluta dei Canti della stagione alta all’Augusteo di Roma sotto la direzione di Bernardino Molinari, aveva eseguito i Canti alla Scala sotto la direzione di Pizzetti ed aveva vinto un concorso per una cattedra nel Liceo Musicale di Padova (battendo per pochi centesimi di punto Vincenzo Vitale), a ventitré anni aveva esordito alla Società del Quartetto di Milano con un programma tipico (Bach-Busoni: Preludio e fuga in re maggiore. Scarlatti: Quattro Sonate. Brahms: Intermezzo, 24 Va­ riazioni su un tema di Paganini. Chopin: Ballata op. 23, Studi op. 25 n. 6, op. 10 n. 3, op. 25 n. 11. Prokofiev: Toccata. Liszt: Studio in fa minore, Rapsodia ungherese n. 6). Ma i Canti di Pizzetti non lo impegnavano a sufficienza, tanto che, per non annoiarsi troppo, aveva chiesto al compositore di lasciargli introdurre nel finale due passi in doppie note (doppie terze e doppie seste difficilissime, di una difficoltà sproporzionata al resto della composizione); e così, dopo aver «agganciato» un personaggio potente come Pizzetti, non seppe tenerselo stretto. Il Concorso di Varsavia lo passò senza infamia e senza lode, e alla Società del Quartetto non fu riconfermato. La realtà della sua carriera fu l’insegnamento a Padova, poi a Verona, quindi il pas­ saggio ai conservatori di stato nel ’39 (Bologna, poi Parma, dove sarebbe rimasto fino al 1951). Non erano certo anni in cui un italiano potesse sviluppare una grande carriera concertistica. Ma Vidusso vagolò per conto suo senza appoggiarsi a Pizzetti, che negli anni 30 aveva finito col

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rappresentare una destra non culturalmente squalificata, e senza accostarsi a Casella, che rappresentava la sinistra, o a Gino Tagliapietra, che rappresentava la tradizione dell’insegnamento di Buso­ ni. Le scelte di repertorio di Vidusso non sarebbero state certa­ mente approvate da Casella ed il suo modo tutto istintivo e ma­ nualistico di affrontare i testi era agli antipodi delle concezioni caselliane. E d’altra parte Vidusso non si sarebbe trovato a suo agio con le concezioni di Pizzetti, almeno con quelle espresse nella famosa recensione in cui Pizzetti stroncava Wilhelm Backhaus. Vidusso mi disse che Backhaus era stato il primo pianista da lui ascoltato in recital, a Buenos Aires, ed aggiunse che la sua ammi­ razione per Backhaus, nata allora, non era cessata mai. Mi raccontò anche che, suonando un repertorio virtuosistico, aveva cercato di avvicinare un grandissimo virtuoso della vecchia generazione, Mo­ ritz von Rosenthal, che si era fatto ascoltare da Rosenthal e che era rimasto deluso da ciò che il vecchio leone gli aveva detto. Era invece andato a Tremezzo per farsi sentire da Schnabel e avrebbe desiderato studiare con Schnabel; ma il prezzo della lezione — cinquanta lire, se ben ricordo — era troppo elevato per lui, e da Schnabel non era più tornato. Sebbene suonasse un repertorio datato, Vidusso non suonava in modo antiquato ma, semmai, in un modo desueto in Italia. I suoi dischi di prima della guerra — la Campanella, gli Studi op. 25 n. 1 e 6 di Chopin, La fileuse di Raff, La Danse cTOlaf di Pick-Mangiagalli — ricordano stilisticamente Joseph Lhevinne e soprattutto Grigo­ ry Ginsburg. Gli Studi di Liszt registrati dopo la guerra non sono più, virtuosisticamente, così scintillanti, e solo r\e\V Invito alla danza di Weber-Tausig si avvertono ancora la scioltezza, il distacco, la magia del virtuosismo di Vidusso. Prima della guerra certe sue cose suscitavano la meraviglia che suscitano certe cose di Lhevinne o di Ginsburg, e in un altro contesto culturale Vidusso avrebbe potuto venir stimolato nella sua rilettura del repertorio virtuosistico otto­ centesco e avrebbe potuto rappresentare fra di noi quel rovescia­ mento della retorica in magia illusionistica che un artista come Ginsburg rappresentò nella cultura sovietica. In Italia, Vidusso non era invece abbastanza a destra per essere sostenuto dalla destra, e non era a sinistra: era un interprete che la destra considerava «freddo» e la sinistra anacronistico, e venne superato prima da

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Scarpini e da Gorini, suoi coetanei, poi dalla «esplosione» di Be­ nedetti Michelangeli. Scarpini, allievo di Casella, e Gorini, allievo di Tagliapietra, furono i giovani in vista nelle due «punte» più avanzate della cultura musicale italiana, la romana e la veneziana, mentre la cultura milanese, guidata prima da Pizzetti e poi da Pick-Mangiagalli, firmatari entrambi del manifesto reazionario del 17 dicembre 1932, trovò proprio in Benedetti Michelangeli il suo uomo. La storia culturale dell’Italia durante il fascismo è complicata e per nulla chiarita, ma si può per lo meno supporre che Benedetti Michelangeli emergesse nel momento in cui il neoclassicismo si stava esaurendo, e che emergesse proponendo un virtuosismo co­ loristico (alla Horowitz, tanto per intenderci) a cui Vidusso era completamente estraneo. Vidusso ammirava moltissimo Horowitz, ma la registrazione dello Studio da Paganini n. 2 dimostra quant’egli fòsse distante dalla famosa incisione di Horowitz, della quale, pure, tenne evi­ dentemente conto; tra i miei ricordi c’è una sua esecuzione della Danza macabra dì Saint-Saèns nella trascrizione di Liszt nella quale il fantasmagorico gioco di colori di Horowitz veniva annullato come in una copia a penna. Ammirava moltissimo Carlo Zecchi, ma gli erano del tutto sconosciute la minuziosissima cura del partico­ lare e la ricerca del bel suono, essenziali nell’arte interpretativa di Zecchi. Né Horowitz né Zecchi, nati entrambi nel 1904 e perso­ nalità dominanti negli anni 30, furono per Vidusso dei modelli stilistici, e neppure i grandi pianisti che più spesso scendevano in Italia, come Gieseking, Rubinstein, Fischer, Backhaus, Cortot. I nomi che si affacciano alla mente, ascoltando i vecchi dischi di Vidusso, sono quelli di Lhevinne e specialmente di Ginsburg, nato nel 1904, completamente sconosciuto in Occidente negli anni 30, nonché di Victor Merzhanov, nato nel 1919. Come diavolo si possa inserire Vidusso, nato nel 1911, in mezzo a due pianisti russi come Ginsburg e Merzhanov, è un problema che non saprei risolvere; ma il lettore capirà quanto desueto dovesse parere in Italia un giovane che non assomigliava a nessun pianista famoso. Il desiderio di studiare con Schnabel può parere sorprendente, ma sarebbe stato il giusto correttivo per uno strumentista fin trop­ po dotato da natura e che, per le sue caratteristiche di suono e di

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temperamento, avrebbe potuto identificarsi, ma in modo persona­ lissimo, nel neoclassicismo. La concezione del suono era infatti in Vidusso monocroma, da vero piano e forte', si osservi come, in dodici Studi di Liszt e in dieci pezzi di Albeniz e Granados vi sia un solo momento di autentica ricerca timbrica, alla fine della Leggierezza\ si osservi come il fraseggio di un tema sentimentale come quello del Sospiro sia classicamente basato non sull’anacrusi ma sull’accento tetico, che viene sottolineato da un momento di attesa prima dell’ultima nota. Schnabel avrebbe sicuramente offerto un indirizzo culturale preciso a Vidusso, e non perché Vidusso dovesse cambiar pelle, ma perché aveva bisogno di dare un significato al suo talento. Del resto, chi direbbe che Jorge Bolet, all’incirca coetaneo di Vidusso, abbia studiato anche con Serkin e sia stato assistente di Serkin per alcuni anni? Eppure, a pensarci, le esecu­ zioni lisztiane di Bolet passano attraverso la classicità di Serkin. Da Schnabel, Vidusso avrebbe sicuramente tratto molto. La stessa scoperta delle «integrali», che Vidusso fece dopo la guerra, nasceva nella prospettiva di un indirizzo di cultura di cui Schnabel era stato esponente massimo. E se Vidusso avesse disposto di quelle cin­ quanta lire a lezione... Invece non le aveva. E per superare i tranelli della sua eccessiva facilità di lettura inventò i geroglifici delle diteggiature, lo studio con il metronomo, l’apprendimento a memoria ad una riga per volta. L’assurdità era la salvezza, era l’obbligo di studiare, era la costrizione a far proprii quarantotto Preludio e fuga invece di fermarsi all’ottavo o al decimo o di imparare ad orecchio. Sarebbe stato diverso se le «integrali» le avesse fatte in dischi, leggendo, registrando e passando ad altri pezzi; l’obbligo della registrazione tutta di fila di una «integrale», per la radio, e l’obbligo della memoria per le esecuzioni pubbliche diventarono ostacoli insor­ montabili perché, se non sbaglio, la memoria di Vidusso non era pari alla sua tecnica. Dopo qualche anno di terribili tours de force si diede per vinto, e con... l’aiuto del dito medio della destra, che gli si bloccò, rinunciò al concertismo. Era un malanno probabilmente curabilissimo e, forse, semplicemente d’origine nervosa, senza le­ sioni tendinee o muscolari. Ma Vidusso non riprese più a suonare in pubblico. Continuò ad insegnare, a diteggiare, a far lavorare con il metro­

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nomo (non più a far studiare a una riga per volta). Quando lo ritrovai, come collega, era un po' cambiato, ma non molto. Il suo disinteresse per Faspetto coloristico, e il suo interesse per Faspetto meccanico dell’esecuzione si erano persino accentuati, tanto che diteggiava servendosi di una tastiera muta. Le sue diteggiature, pensando la musica senza colori, erano formidabili, ed i trucchi che escogitava, portando alla mano destra note scritte per la sinistra e viceversa, facendo qualche trasposizione d’ottava o tagliando o sostituendo qualche nota, erano sorprendenti. Aggiungeva spesso qualcosa e non aveva ancora ripudiato certe sue incredibili inven­ zioni, come il quarto degli Studi da Paganini in mi bemolle mag­ giore invece che in mi maggiore o l’ultima pagina della Rapsodia ungherese n. 14 in fa diesis maggiore invece che in fa maggiore. Un poco alla volta mise però da parte certi trucchi, non cambiò più una nota, decise persino di realizzare gli abbellimenti secondo prassi filologicamente ineccepibili, e dopo aver diteggiato pressoché tutta la letteratura pensò di preparare per il 1970, nel bicentenario della nascita di Beethoven, una nuova revisione delle trentadue Sonate. Aveva in mente di fare insieme diteggiatura ed analisi, e si mise a diteggiare con un colore i primi temi, con un altro le transizioni, con un terzo i secondi temi, con un quarto le code; negli sviluppi, naturalmente, mischiava i colori. Cominciò a lavorare così, poi s’accorse che la stampa avrebbe presentato troppi problemi e ri­ nunciò al colore, limitandosi ad usare varie penne nere di diverso tipo. Con la sua tastiera muta, l’astuccio dalle sette penne, la lametta da barba per raschiare gli errori, in conservatorio Vidusso era diventato un personaggio proverbiale. Era diventato anche un bibliofilo che comprava, dei testi classici, ogni edizione esistente ed esistita. Delle Sonate di Beethoven aveva, credo, non meno di cinquanta edizioni, non so quante, mi pare una novantina, del Clavicembalo ben temperato, e così via. Non che fosse diventato filologo, ma il possesso della musica stampata lo ossessionava. Una volta rinunciò a comprare un’edizione del primo Ottocento perché la trovava troppo cara. Questo al mattino. Al pomeriggio ritornò in negozio per comprarla e seppe che era stata venduta ad un cliente, un dentista. Disperato, andò dal dentista, si piazzò in anticamera, e quando venne il suo turno disse al dentista sbalordito che era lì per ricomprare, a qualsiasi prezzo, l’edizione agognata. Il dentista fu

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così impressionato che l’edizione rara gliela regalò e, Vidusso ne era orgoglioso, gli offrì pure un vermut. H gusto del possedere era diventato talmente forte che — già l’ho detto a proposito dei metronomi — comprava senza guardar neppure che cosa comprava. Saputo che sarei andato a Mosca, mi chiese di cercargli il secondo volume di una edizione russa del Clavicembalo ben temperato) di cui aveva solo il primo volume. Non ricordando lì per lì di quale edizione si trattasse mi portò dopo qualche giorno il volume. Lo aprii: era l’edizione in russo della revisione di Bruno Mugellini. Non so di preciso quante edizioni avesse del Clavicembalo ben temperato) e per molti anni non lo seppe neppur lui; né so quanti fossero i doppioni, ma penso che fossero molti. Affogava nella carta stampata e nelle fotocopie, e continuava a comprare e a fotocopiare, ad imprestare — non era affatto geloso dei suoi beni — e a perder libri. Poi trovò qualcuno che gli schedò tutti i suoi averi ed un allievo che gli copiò, a mano, tutto il catalogo dei pezzi giacenti nella biblioteca del conservatorio di Milano (chiedere una fotografia del catalogo era una cosa che non gli sarebbe mai passata per la testa). Decise così di tenere un quaderno in cui annotare i prestiti e di non comprare ciò che si poteva trovare in conservatorio. Ma quando seppe che la biblioteca civica di Milano possedeva la raccolta, rara, dei pezzi di vari autori russi sul cosiddetto «tema delle cotolette», si precipitò a divorare il catalogo, prendendo montagne di appunti e facendo fotocopiare centinaia di pagine di altre inutili edizioni. Una volta, durante un esame di compimento medio, vide che un disgraziato di candidato privatista aveva studiato sulla revisione di Alessandro Bustini del Gradus ad Pamassum e si batté perché al giovinotto venisse asse­ gnato il sei liberatorio: «Così — disse alla fine, felice — posso chiedergli di vendermi il libro». Non vorrei che il lettore, avendomi seguito pazientemente fin qui, pensasse a Carlo Vidusso semplicemente come ad un maniaco o ad un prossimo parente di Buvard e Pécuchet. Era piuttosto un personaggio hoffmanniano che accumulava oggetti e cifre nel ten­ tativo di dar corpo a realtà concettuali che la sua mente coglieva con lucidità folgorante. Ho detto, iniziando, che per più di tren­ tanni ho osservato Vidusso con curiosità. Con curiosità e, devo aggiungere, con affetto.

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Vidusso non era uomo intellettualmente affascinante; anzi, i suoi paradossi portavano verso la soggezione passiva dell’allievo o verso la ripulsa, e certi aspetti maniacali del suo insegnamento potevano causare traumi psichici veri e propri. In ogni caso non si cessava dal volergli bene, perché al di sotto degli abiti di astratta ascesi che imponeva a se stesso e agli altri, e al di sotto di quei contraddittori lampi fanciulleschi che tanto spesso erompevano in lui, dando luogo a 'scherzi geniali e feroci, si avvertiva una sorta di bontà naturale o forse, meglio, di antica rettitudine morale che creava un profondo rapporto umano. Si poteva non essere d’accordo con Vidusso, non si poteva essere in collera con lui: aveva, nella musica come nella vita, un intuito che gli faceva cogliere la verità, anche se non sempre sapeva poi procedere con coerenza. Ma qualcosa re­ stava* qualcosa di così vero che dava l’impressione di una scintilla di divino, di un’intuizione allo stato puro, di una conoscenza non trasmissibile e persino non comunicabile; e così come, eseguendo a prima vista, realizzava subito un’immagine sonora completa, in qualsiasi cosa sembrava leggere una realtà al di là del fenomeno. Gli si voleva bene perché era artista in un senso molto arcaico, medioevale, perché aveva, nel fondo, la semplicità e la saggezza infantile dei poeti. Insegnante probo e gran lavoratore, dispensò regalmente diteggiature e tempi di metronomo e tenne per sé, nascosta, la scabra poesia rustica che sarebbe stata il suo dono più raro. Quando lo vidi seduto nel letto della clinica dopo l’operazione alla lingua, mentre, muto, diteggiava qualcosa sulla tastiera muta, Vidusso era serio e concentrato. Non giocava: passare dal segno sulla carta alle dita sulla tastiera era per lui toccare la musica, riconoscerla e ricrearla attraverso un organo sensoriale improprio, fare del suono un movimento e della tastiera un teatro di danza. Era una cosa diversa dallo scegliere una diteggiatura, ed era una esperienza incomunicabile: era l’essenza stessa del suonare uno strumento come il pianoforte, uno strumento in cui il suono inizia dopo che l’esecutore ha maneggiato il tasto e in cui, per l’esecutore, il suono creato dimostra solo che è stato toccato il tasto voluto nel modo voluto. Di questa verifica, Vidusso non aveva bisogno, e non aveva bisogno del pubblico. La sua revisione delle Sonate di Beet­ hoven è rimasta inedita, i dischi suoi sono pochissimi, le sue regi­ strazioni appartengono al periodo di crisi incipiente che precede

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l’abbandono della carriera concertistica. Di Carlo Vidusso non resta dunque molto, di tangibile, di valutabile, ed io non so quali impressioni possano suscitare, in chi non lo conobbe, le sue esecu­ zioni rimasteci. In me risvegliano il ricordo, ma non rinnovano la realtà di una capacità di avere la musica sulla punta delle dita, come diceva Mendelssohn di Liszt, che è solo dei grandi pianisti. Anche se Vidusso, per la storia, non potè essere un grande pianista.

NOTA SULLA DISCOGRAFIA

Sarebbe forse mio dovere elencare i dischi che ho citato o, meglio ancora, fare elenchi completi delle incisioni lasciateci dai pianisti dei quali ho parlato. Il primo elenco non sarebbe però molto utile per il lettore perché non pochi dei dischi citati non sono più in commercio o sono difficilmente reperibili. Il secondo elenco occuperebbe uno spazio enorme e non sa­ rebbe alla fine, per gli stessi motivi, più utile del primo. Elencherò invece, genericamente, i cataloghi delle Case a cui il lettore può attingere con facilità per avere dati più precisi:

CBS, per Casadesus, Gould, Horowitz, Serkin. Decca, per Ashkenazy, Backhaus, Guida, Kars, Katchen, Lupu, Magin. Deutsche Grammophon Gesellschaft, per Argerich, Barenboim, Benedetti Michelangeli, Berman, Ciani, Gilels, Kempff, Pollini. EMI, per Barenboim, Benedetti Michelangeli, Berman, Cortot, Fischer (catalogo francese), Francois (catalogo francese), Gieseking, Gilels, Lipatti (catalogo tedesco), Nat (catalogo francese), Ogdon, Richter, Solomon (cataloghi inglese e tedesco). Fonit-Cetra, per Benedetti Michelangeli, Ciani, Pollini, Vidusso Philips, per Arrau, Brendel, Magaloff. RCA, per Horowitz, Rachmaninov, Rubinstein. Ricordi, per Ciani, Guida. Seraphim, per Malcuzynski, Schnabel.

Qualche casa ha cominciato a pubblicare collezioni complete o quasi complete delle incisioni di un pianista: per ora sono disponibili i quindici dischi della RCA dedicati a Rachmaninov, i sei albums della EMI dedicati a Gieseking, la serie Horowitz Collection della RG4; presso la EMI è in corso di pubblicazione la raccolta delle incisioni di Cortot, presso la Pearl quella delle incisioni di Paderewski e presso la Melodiya quella delle incisioni di Sofronitzki. La Electrola ha pubblicato e pubblica molte rie­ dizioni (Petri, Lipatti, ecc.) e la Ariola pubblica molti dischi da matrici

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Appendice II

russe (Neuhaus, Igumnov, Richter, Gilels, ecc.). Molte case di minore importanza commerciale hanno pubblicato e pubblicano vecchie incisioni, riversamenti da registrazioni, riversamenti da rulli di pianoforte meccani­ co: Bruno Waller Society, Desinar, Everest, Klavier, Opus Record, Past Master, Pearl, Rare Recorded Editions, Rococo. I dischi pubblicati da queste Case, spesso molto interessanti, possono essere reperiti, e non sempre con facilità, solo presso negozi specializzati. Capita d altra parte di trovare in serie di dischi a prezzo economico, venduti anche in grandi magazzini, esecuzioni di importanza storica che erano magari state regi­ strate non professionalmente e che sono state pubblicate allo scadere — vent’anni — dei diritti di esecuzione. Nessuna rivista recensisce sistemati­ camente tutte le pubblicazioni e nessun catalogo generale (il Bielefelder tedesco, FHarmonie francese, lo Schwann americano) le riporta tutte. È quindi praticamente impossibile conoscere tutto quel che viene pubblicato e non si possono dare sicure indicazioni metodologiche a chi intenda occuparsi dell argomento; al di là di un interesse non approfondito valgo­ no in realtà, soprattutto, gli scambi di informazione privati, la «apparte­ nenza» a quella rete di appassionati ricercatori che sa un po’ di carboneria e in cui circolano anche, riprodotte in esemplari rilasciati solo ad amici fidatissimi, certi pezzi rari cne non vengono pubblicati.

OPERE CITATE

E. d’Albert (a cura di): Bach, Das Wohltemperierte Klavier, Berlino 1906. C. Arrau, ricorda i grandi pianisti, in «Musica», marzo 1982. F. Ballo, Interpretazione e trascrizione, in «Rassegna musicale», 1936. B. Bartók, Lettere scelte, trad, di Paolo Ruziscka, Milano 1969. L. v. Beethoven, The Letters of Beethoven, a cura di E. Anderson, Londra 1961. O. Bie, Das Klavier und seine Meister, Berlino 1898. F. Bowers, The new Scriabin. Enigma and answers, New York 1973. R. M. Breithaupt, Die Naturliche Klaviertechnik, Lipsia 1905. A. Brendel, Nachdenken ùberMusik, Monaco Zurigo 1957. A. Brugnoli, Dinamica pianistica, Milano 1926. H. v. Bùlow, Briefe und Scriften, Lipsia 1896-1908. F. Busoni, Lettere alla moglie, Milano 1955. — Lo sguardo lieto, Milano 1977. A. Casella, 1 segreti della giara, Firenze 1941. B. Cesi, Metodo per pianoforte, Milano s.a. H. Cohen, A bundle of time, Londra 1969. A. Cortot, Cours ^interpretation, Parigi 1934. — La musique frangaise du piano, Parigi 1930-32. — Principes rationels de la techniquepianistique, Parigi 1928. C. Curzon, Prefazione a C. Saerchinger, Artur Schnabel, a Biography, New York 1958. C. Czerny, Vollst'àndigen theoretisch-practischen Pianoforte-Schule op. 500, Vienna s.a. (1835 ca.). L. Dallapiccola, Appunti, studi, meditazioni, Milano 1970. C. Drinker Bowen, «Free Artist». The Story of Anton and Nicholas Ru­ binstein, Boston 1939. Z. Drzewiecki, Recalling bygone days, in The golden pages ofpolish pianistic art, Varsavia 1963.

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Appendice II

A. Fay, Music Study in Germany, Chicago 1880. F. Fétis e I. Moscheles, Méthode des Méthodes, Parigi 1837. E. Fischer, Musikalische Betrachtungen, Wiesbaden 1949. A. Friedheim, Life and Liszt, New York 1961. B. Gavoty, A. Cortot, Parigi 1977. W. Gieseking (a cura di): Schubert, Impromptus und Moments musicaux, Monaco s.a. W. Gieseking, So wurde Ich Pianist, Wiesbaden 1963 (1975, 4a ed.). L. Hernadi, Béla Bartók, Le pianiste, Le pedagogue, L’homme, in «La Revue Musicale», 224 (1955). A. Hoffmann, Un grand interprete roumain de Chopin: Dinu Lipatti, in The book of the first musicological congress devoted to the works of Frede­ rick Chopin, Varsavia 1963. E.T.A. Hoffmann, Dialoghi di un musicista, Milano 1945. J. Hofmann, Piano playing with piano questions answered, Filadelfia 1920. J. Kaiser, Grosse Pianisten in unsererZeit, Monaco 1965. W. Kempff, Unter demZimbelstem, Stoccarda 1951. L. Kentner, The Piano, Londra 1976. E. Kurth, Grundlagen des linearen Kontrapunkts, Berna 1917. A. Jaell-F. Liszt, Corrispondenza, in M. Sogny, L’admiration créatrice chez Liszt, Parigi 1975. M. Jaèll-Trautmann, Le mécanisme du toucher, Parigi 1897. P. Lalo, Edouard Risler, le quatuor Capet, in De Rameau a Ravel, Parigi 1947. W. Legge, D. Lipatti, in The Gramophone, 1951. J. Lhevinne, Basic Principles in Pianoforte Playing, Filadelfia 1924. K. Leiner-W. Gieseking, Modemes Klavipespiel, Magonza 1931. «Le Pianiste», Parigi 1833-35. A. Lipatti, La vie dupianiste Dinu Lipatti écriteparsa mère, Parigi 1954. D. Lipatti: Corrispondenza, in D. Tanasescu, Lipatti, Bucarest 1965. M. Lipatti (a cura di), Hommage a Dinu Lipatti, Ginevra 1952. L. Magnani, I quaderni di conversazione di Beethoven, Milano-Napoli 1962. I. Markevitch (intervista con), in «Musica», 11 (1979). W. Mason, Memories of a musical life, New York 1901. T. Matthay, The act of touch, Londra 1903. C. Moscheles, Aus Moscheles1 Leben, Lipsia 1872. W. A. Mozart, Gesamtausgabe der Briefe und Aufzeichnungen derFamilie, Berlino 1942. H. Neuhaus, The art of piano playing, Londra 1973.

Opere citate

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INDICE DEI NOMI

Abbado, Claudio (1933), 359, 365,397, 404, 406, 408. Abbey, Henry, 91. Agosti, Guido (1901), 411. Albeniz, Isaac (1860-1909), 17, 132, 206, 299-301, 342, 350, 446, 451. Albert, Eugen d’ (1864-1932), 7,59, 60, 71, 72-76,78,89,107,112,124,129, 131, 132, 141, 144, 153, 165, 166, 177, 222, 298, 299, 351, 392, 419. Alessandro I, zar (1777-1825), 21. Alessandro III, zar (1845-1894), 296. Alexanian, Diran (1881-1954), 276. Alkan (Charles-Henry-Valentin Morhange , 1813-1888), 82, 90, 227. Alsager, Thomas Massa (1779-1846), 25. Anda, Geza (1921-1976), 334, 406. Andricu, Mihail (1894-1974), 283. Anfossi, Giovanni (1864-1946), 342, 343, 348. Ansermet, Ernest (1883-1969), 110, 292, 385. Ansorge, Conrad (1862-1930), 71, 201, 206, 236, 392. Arensky, Anton Stepanovic (18611906), 385. Argerich, Martha (1941), 380-382, 396, 397, 404. Arne, Thomas Augustine (1710-1778), 14. Arrau, Claudio (1903), 120, 122, 137, 140, 145, 157, 177, 204-215, 238, 243, 245, 293, 344, 347-349, 358, 359, 392, 394, 396, 401, 403, 411, 425. Ashkenazy, Vladimir (1937), 158, 236,

246, 344, 345, 356, 361, 364; 376, 393-407, 425, 426, 429.

Askenase, Stefan (1896), 308, 422. Astruc, Gabriel 297. Athanasof, Smaranda, 283. Auber, Daniel-Fran^ois-Esprit (17821871), 32, 39. BabitsToròk, Sophie (1895-1955), 171. Bach, Johann Christian (1735-1782), 14, 37. Bach, Johann Christoph (1732-1795), 37. Bach, Johann Sebastian (1685-1750), 14, 24, 33, 37, 39-41, 43-48, 51, 54, 73, 75, 77-83, 90, 97, 106, 127, 130-132, 135, 136, 145-147, 149, 152, 154, 160, 171, 173-175, 177, 179, 181, 184-186, 192, 197, 200, 202, 206, 207, 217, 218, 221, 222, 225, 227, 228, 237, 240, 244, 245, 255, 257, 260, 274, 276, 277, 282, 284, 290-293, 298, 305, 325, 326, 338, 343, 357, 358, 360, 367-369, 376, 394, 405, 435, 437, 441, 445, 446, 448. Bach, Karl Philipp Emanuel (17141788), 37,41,51,320, 360, 397. Bach, Wilhelm Friedmann (17101784), 37. Backhaus, Wilhelm (1884-1969), 84, 109, 112, 113, 129-141, 142, 143, 158, 159, 166, 173, 177, 180, 197-199, 203, 204, 208-210, 214, 215, 217, 218, 233, 246, 293, 295, 299, 306, 308, 310, 311, 336, 339, 343, 346, 356, 359, 387, 389, 391,

464 394, 396, 400, 401, 411, 425, 429, 449, 450. Badura Skoda, Paul (1927), 373, 389, 394. Bajardi, Francesco (1867-1934), 228. Balakirev, Milij Alekseevic (18361910), 53,113, 206, 393, 446, 448. Ballo, Ferdinando (1906-1959), 122. Balzac, Honoré de (1799-1850), 47, 362. Barber, Samuel (1910-1981), 265. . Barbirolli, John (1899-1970), 303. Bardac, Emma, 127. Barenboim, Daniel (1942), 218, 395, 401,430, 431. Barer, Simon (1896-1951), 227, 249, 261,417. Barrell, W.S., 280. Barth, Heinrich (1847-1922), 296, 297, 311,313, 343. Barthélemon, Cecilia Maria, 19. Bartho, Louis, 110. Bartók, Béla (1881-1945), 72, 77, 129, 131, 165-172, 180, 181, 240, 248, 267, 282, 284, 293, 334, 337, 341, 388, 404, 406, 407, 409, 410, 424, 429, 437. Bashkirov, Dimitri (1931), 364. Baudelaire, Charles (1821-1867), 108. Bauer, Harold (1873-1951), 96. Baumgartner, Paul (1903-1976), 200, 201, 204, 205, 210, 235, 318, 389, 391,411. Beethoven, Ludwig van (1770-1827), 13, 20, 21, 23-26, 28, 33, 34, 37-47, 51, 54, 55, 60, 66, 71-77, 80-83, 85, 86, 89-91, 93-99, 106, 109, 112, 114, 119, 123, 124, 127, 129, 130-133, 135-137, 139-143, 145-150,152-160, 165, 170, 173, 174, 176, 177, 179, 181-184,186,190-193,195,197-202, 204-208, 210, 212, 215-217, 223, 225,228-231,233-236,245-247,256258, 261, 262, 266, 267, 269, 279, 282, 289, 291, 297-299, 305, 309, 314, 316-318, 322, 326-331, 333, 334,337,343-346,356-358,361-363, 367, 374-376, 388, 390, 392-400, 402-404, 409-412, 418, 420, 422, 424-431, 441, 444, 447, 452, 453, 454.

Indice dei nomi

Behr, Therese (1876-1959), 152. Belgiojoso, Cristina (1808-1871), 13. Bellini, Vincenzo (1801-1835), 32, 39. Benedetti Michelangeli, Arturo (1920), 67, 203, 229, 245, 278, 280, 287, 288, 292, 300, 303, 316, 323, 336-352, 355, 362, 366, 373, 380, 389, 411, 415, 419, 420, 447, 450. Berg, Alban (1885-1935), 236, 238, 239, 240, 248, 367. Bergson, Henri-Louis (1859-1941), 107. Beria, Lavrentij Pavlovic (1899-1953), 250. Berlioz, Hector (1803-1869), 30,40,42, 111,221,251,397,422. Berman, Lazar (1930), 212, 213, 361-367, 392, 404. Bernstein, Leonard (1918), 367. Bie, Oscar (1864-1938), 87. Birtwistle, Harrison (1934), 377. Bismarck-Schonhausen, Otto (18151898), 192. Bizet, Georges (1838-1875), 367, 376. Blake, William (1757-1827), 233. Block, Michel (1937), 418, 419, 422. Blumenfeld, Felix (1863-1931), 261, 313. Bobescu, Lola (1920), 277, 283. Bohm, Karl (1894-1981), 425. Bolet, Jorge (1914), 404, 451. Bordes, Charles (1863-1909), 221. Bordoni, Paolo, 8. Borovski, Alexander (1889-1968), 212, 298. Borwick, Leonard (1868-1925), 413, 414, 420. Bossi, Valdo, 435. Boucherit, Jules (1878-?), 109. Boulanger, Nadia (1887-1979), 273, 276, 277, 280, 283, 289. Boulez, Pierre (1925), 239, 340, 357, 378, 421,424. Bowers, Faubian (1917), 324. Brahms, Johannes (1833-1897), 45, 50, 54, 65, 66, 70, 72, 75, 78, 80-82, 92, 96, 100, 109, 110, 131-133, 135, 143-145, 148, 151, 152, 154, 156, 160, 165, 166, 173-175, 177, 179, 181, 186, 190, 196, 198, 202, 204, 207, 212, 214, 217, 218, 224, 227, 228, 231, 232, 234-236, 238, 240,

Indice dei nomi

277, 280, 283, 291, 296-298, 300, 305, 316-318, 322, 326, 332, 333, 338, 341, 342, 366, 367, 386-388, 393, 394, 404, 405, 408, 418, 419, 431, 448. Brailovsky, Alexander (1896-1976), 249, 385, 386. Braque, Georges (1882-1963), 129. Brassin, Louis (1840-1884), 97. Bréal, Clotilde, 124. Brée, Malvine (1860 c. - ?), 151. Breithaupt, Rudolf Maria (1873-1945), 61, 63,117, 132,134, 224. Brendel, Alfred (1931), 218, 245, 3