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Italian Pages 202 [180] Year 2019
Davide Mazzocco
CRONOFAGIA
Come il capitalismo depreda il nostro tempo
Cronofagia Come il capitalismo depreda il nostro tempo Di Davide Mazzocco Prefazione, Daniele Gambetta Ufficio stampa, Roberta De Marchis Cover Design, Emidio Battipaglia Cronofagia è stato pubblicato da D Editore nella collana NEXTOPIE, curata da Daniele Gambetta Copyright D Editore © 2019. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione puo essere fotocopiata, riprodotta, archiviata memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il diritto d’autore.
D Editore Roma Contatti: Telefono: +39 320 8036613 www.deditore.com [email protected] ISBN: 9788894830361 Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write http://write.streetlib.com
Indice dei contenuti
Desiderio di tempo
CRONOFAGIA
Introduzione
1 - Un capitalismo cronofago
2 - Alla conquista del sonno
3 - L’impero dei burocrati
4 - L’azienda con due miliardi di lavoratori
5 - La fine dei tempi morti
6 - Persi nella Rete
7 - Il nontempo dei nonluoghi
8 - Colmare il vuoto
9 - Un tempo senza memoria
10 - Possedere la fine del mondo
11 - Eresie e nuovi paradigmi
12 - Nel nome della lentezza
Bibliografia, Sitografia, Filmografia
Note
DESIDERIO DI TEMPO prefazione di Daniele Gambetta
I
dubbi derivano dalle esperienze passate. Ma il passato sta scomparendo. Un tempo conoscevamo il passato ma non il futuro. Le cose stanno cambiando – disse lei – Ci serve una nuova teoria del tempo . Cosmopolis, Don DeLillo La difficoltà maggiore che ho incontrato nel voler scrivere questa prefazione è stata nel riuscire a trovare #tempo. Viviamo immersi in un perenne momento presente, nel quale però siamo forzati a oscillare tra sensi di colpa per il passato e ansie per il futuro, ritrovando in rari momenti di lucidità la capacità di riconoscere questa nostra condizione, senza però poi riuscire a riprogrammare gli algoritmi che determinano la nostra vita quotidiana.
Quello di Davide è un libro denso, conciso, puntuale, che riesce a dire quello che c’è da dire consapevole che, tra le cose per cui più spesso ci sentiamo frustrati, c’è proprio il non avere il tempo per leggere le cose che vorremmo leggere. Tempo e desiderio, quindi. Desiderio che viene riprogrammato, ricalcolato, in quel capitalismo che è stato chiamato in tanti modi (digitale, delle piattaforme, dell’attenzione…) ma che in fondo punta – come sempre – a estrarre valore da una costante ridefinizione di ciò che vogliamo, di cosa desideriamo. Da analisi svolte sull’utilizzo dei social network da parte degli utenti, sembra che sempre più persone stiano sfruttando il loro account Tinder per raccogliere follower instagram al fine di diventare maggiori influencer, mentre pare siano sempre di più le coppie che riconoscono un’affinità reciproca a partire dalle passioni e dagli hobby mostrati su Linkedin nell’attesa di trovare occupazioni nel proprio campo di interesse. A quanto pare anche questo è il risultato di quella fusione tra tempi di vita e di lavoro di cui parla Davide, e che avevamo provato ad esplorare in varie direzioni nella pubblicazione collettanea Datacrazia . La piattaforma è un luogo, il codice è legge, l’algoritmo è pianificazione condivisa tra gli utenti/cittadini/membri della comunità. Chi detti le leggi algoritmiche, o se queste possano o meno essere rimesse nelle mani della comunità stessa, è questione da discutere. Ma se vogliamo capire la nostra epoca, forse dobbiamo anche capire cosa è nuovo e cosa non
lo è, distinguere i dispositivi – tecnologici, sociali, linguistici – che ci deprimono e ci sfruttano da quelli che dobbiamo riprenderci, riprogrammare, ridefinire. Il dibattito, quanto mai complesso e pieno di contraddizioni, sul ruolo dell’automazione, è un dibattito quanto mai necessario, e nel quale questa distinzione – tra dispositivi politici di sfruttamento e dispositivi tecnologici di eventuale emancipazione – si fa cruciale. Nella tempolinea accelerata ad alta frequenza, a determinare se è il nostro tempo a venire liberato o se non sia invece l’ Orologio dell’Apocalisse ad avvicinarsi alla mezzanotte, sono i rapporti sociali. Partendo proprio dal saggio del 2015 I cronòfagi. I 7 principi dell'ipercapitalismo di Jean-Paul Galibert, in Cronofagia Davide ri-attualizza, portando numerosi casi recenti, l’analisi sui meccanismi dell’ipercapitalismo di nutrirsi del nostro tempo offrendoci in cambio la convinzione di diventare più produttivi, “procedendo a una progressiva erosione del tempo dell’inattività e, quindi, della non redditività”. Un processo di ridefinizione delle nostre identità in base alle nostre occupazioni, o per meglio dire, in base a ciò che di noi possiamo rendere produttivo. L’apparentemente ovvia pretesa di remunerazione monetaria per il nostro lavoro sembra ormai essere diventata una ovvia utopia, mentre le forme di appagamento assumono forme sempre più bizzarre, dalla visibilità alla maggiore rispettabilità, innescando
un eterno loop di economia della promessa, che genera sconforto, smarrimento, depressione. Tessere le connessioni tra questi fenomeni, l’uso delle tecnologie, le forme di produzione, è quello che vuole fare Cronofagia, portando l’attenzione non solo alla predazione quotidiana, ma anche a quella che non appartiene al giorno, quella che tenta di insinuarsi nel tempo della notte, nel tempo del sonno.
Un meme sul furto di #Tempo
Pillola rossa, luci blu
Alcuni studi medici hanno dimostrato che osservare per lungo tempo lo schermo dello smartphone o del pc alla sera influenzerebbe il ritmo circadiano del sonno. La causa di insonnia sarebbe infatti la retroilluminazione usata da tutti i display LCD, che
utilizzano uno spettro di emissione con una predominanre componente di blu e di frequenze vicine all'ultravioletto, tonalità di luce che il nostro corpo è abituato ad osservare nei momenti che precedono l'alba, prendendole così come un segnale per attivare processi dell'attenzione durante la mattina, come la produzione di melatonina. “Siamo in competizione con il sonno” farebbe ridere, se non fosse la dichiarazione rilasciata dal CEO di Netflix nel 2017. Binge watching è il termine di lingua inglese per indicare la prolungata esposizione a programmi televisivi, ben oltre il tempo abituale. Le maratone-Netflix, il chiudersi con una serie, non solo è ovviamente una pratica sempre più diffusa, ma secondo gli psicologi del Texas sarebbe strettamente correlata con un malessere psicologico. Strumento per allontanare emozioni negative, principalmente durante le stagioni invernali, svilupperebbe un atteggiamento compulsivo simile a quello del gioco d’azzardo, oltre che essere fortemente incoraggiato dalle piattaforma di streaming, che a puntata conclusa ci avvia automaticamente quella successiva. L’ipotesi che la pubblicità possa presto entrare nei nostri sogni è un tema che sporadicamente è tornato nelle discussioni online, come in occasione della pubblicazione del video provocatorio Branded Dreams – The Future of Advertising nel 2016 . Ma il furto notturno del tempo avviene già in molti modi, come ricorda Cronofagia citando ovviamente anche 24/7, il
saggio sul “capitalismo all’assalto del sonno” di Jonathan Crary. La politicizzazione dei disturbi mentali e la rivendicazione di una causalità tra iperproduzione e malessere psicologico sono e saranno nei prossimi anni un tema centrale da cui ripartire, oltre che un argomento complesso che renderà necessario approfondire e discutere il rapporto tra individuo e società, tra neuroscienze e politica. Ma anche un tema che, se non affrontato adeguatamente, cela il rischio di cadere in un frame individualizzante che non può che far vendere ancora di più al capitale, e farci sentire ancora più soli. Negli anni del liceo, per un periodo, mi ero iniziato ad interessare particolarmente ai sogni lucidi, ovvero alla possibilità di prendere coscienza all’interno di un sogno notturno senza però svegliarsi, così da poter godere della forte immersione sensoriale in un ambiente in mano alla nostra immaginazione. Un fenomeno che può capitare spontaneamente, ma per il quale esistono anche tecniche mentali da compiere durante la giornata o prima del sonno, che ne favorirebbero la sopraggiunta, e tramite le quali, per più volte, raggiunsi qualche risultato (lo sapevate che nei sogni gli orologi non segnano l’ora in modo coerente se osservati a pochi secondi di distanza?). Quello della lucidità, e quindi della presa di consapevolezza, del svegliarsi dal sonno, è un tema che mi riporta a pensare a come una certa interpretazione
del discorso politico sulla psicologia possa prendere derive aconflittuali e pacificate, se non addirittura reazionarie. Come ricostruito da Alessandro Lolli in La Guerra dei Meme, il frame memetico della pillola rossa, offerta in Matrix da Morpheus a Neo, è diventata simbolo di una narrazione basata sull’accesso a un mondo svelato che si nasconderebbe dietro alle menzogne di un soggetto sempre nuovamente ri-definito, oltre le quali l’individuo può accedere a uno strato profondo di realtà. Per quanto potremmo discutere a lungo delle mitologie alt-right e delle loro genealogie, quello che ci dice il meme della red pill è che senza adeguate precauzioni il disagio psicologico ed emotivo può facilmente protendere verso una volontà di liberazione individuale, che spesso sfocia in sentimenti reazionari espliciti, come mostra anche una certa letteratura sulla “maggiore consapevolezza”, letteratura che si rivela spesso una una propaganda neoliberista camuffata da manuale di psicologia. A fare la differenza, allora, è la necessaria impostazione del discorso in termini sia psicologici che collettivi. Considerarsi – come individui e come comunità – un sistema complesso significa ricordarsi di essere sia organismi pluricellulari, il cui comportamento è determinato da scariche elettriche, ma anche macchine i cui circuiti vengono costantemente influenzati da circuiti limitrofi. Non possiamo quindi aspettarci liberazione di tempo nè
fuoriuscita dallo stato di tristezza se non riportando l’attenzione del discorso sulla produzione di relazioni, capaci di ridefinire il codice della comunità secondo algoritmi non estrattivi e non discriminanti, riconoscendo che l’elaborazione di teorie neuropolitiche critiche è un compito oggi quanto mai necessario.
Nextopie, fare rete nella complessità
Quello che avete tra le mani non è solo un libro, perché nessun libro è solo un libro. È anche lavoro, persone, condivisione, potenziale occasione di incontri e di relazioni future. Quasi un anno fa, con la stessa casa editrice che ora stampa Cronofagia, abbiamo provato a innescare un processo a partire da una pubblicazione, composta anch’essa da (molte) persone. Da allora il processo è ancora in corso, e ci ha permesso di avviare dibattiti, partecipare a discussioni collettive, costruire percorsi che ancora oggi sono in fase di progettazione. Tornando alla mancanza di tempo che permea le nostre giornate, un sentimento diffuso è certamente quello della sovra-informazione, del caos che regna nelle nostre scrivanie (o desktop) e sui nostri scaffali, pieni di appunti a metà, segnalibri salvati e mai più aperti e libri appena iniziati. Alcuni polemizzano sul fatto che si scrive troppo, che non si riesce a leggere tutto, e in effetti è vero, perché anche nell’ipotesi di aver letto tutto quello che è stato scritto finora, ogni giorno produciamo una quantità di informazioni nettamente superiore a quella che è
possibile in un giorno leggere, quindi il gioco è a perdere. Sembrerebbe naturale chiedersi allora perché aggiungere altro, perché pubblicare un altro libro. Oppure, potremmo provare ad elaborare processi nei quali un libro non sia soltanto un libro, ma un’opportunità di creare qualcosa di altro. È con questa ambizione che abbiamo deciso di inserire Cronofagia in un progetto più ampio, come primo numero di una collana, che procederà da qui ai prossimi mesi per portare voci, raccogliere analisi elaborate in spazi di discussione virtuali e no, o trasportare alcuni elaborati accademici in formato saggistico. Nextopie nasce nel caos iperconnesso per cercare di leggere il passato, capire il tempo presente, immaginare futuri possibili all’altezza delle nostri desideri.
CRONOFAGIA
Come incalzano le onde verso la spiaggia ciottolosa, così i nostri minuti s’affrettano alla loro fine, ciascuno cambiando posto con quello che lo precede, e in affannosa sequela tutti s’accalcano in avanti William Shakespeare , Sonetto n. 60
Amo l’essenziale, perché la mia anima ora ha fretta… Mario de Andrade, Ho contato i miei anni
Io vivo altrove dentro la quarta dimensione Dove è messa in fumetti la relatività Vieni da me che sono la quercia ed il domani Vieni da me c'è un fuoco che ti riscalderà
Leo Ferrè, Tu non dici mai niente
INTRODUZIONE
L
a storia dell’umanità è contraddistinta da un insopprimibile istinto predatorio. Si tratta di una caratteristica che ci accomuna a un’infinità di specie animali che necessitano di cacciare per il proprio sostentamento. La predazione è un atto ineliminabile dell’evoluzione e lo è in relazione alle due dimensioni in cui si sviluppa l’esistenza: il tempo e lo spazio. Queste pagine, però non vogliono descrivere la predazione nella sua forma istintiva, perché questa è materia per psicologi ed etologi. Questo libro vuole, molto più semplicemente, mostrare le dinamiche, le strategie e le sovrastrutture con le quali i poteri politico ed economico depredano le masse del loro tempo. Si tratta di una colonizzazione sempre più raffinata, dotata di uno straordinario camaleontismo e capace di nascondersi sotto le sembianze rassicuranti dell’amicizia, dell’arte, dell’intrattenimento e della prospettiva di uno sviluppo economico e sociale. La fame dei predoni non si limita al mondo tangibile, ma si estende all’intangibile. Non vuole solamente lo
spazio e non si accontenta nemmeno di quell’entità ibrida che da 2.800 anni vive fra il reale e il virtuale: il denaro. No, la predazione oggi vuole appropriarsi della dimensione astratta del tempo. Il sistema socioeconomico erode le ore di sonno, dilata i tempi del consumo e, con le sue arti seduttive, assopisce le masse in una servitù volontaria dai confini ancora tutti da sondare. In un giorno feriale l’individuo contemporaneo vive un’esistenza mediamente tripartita in otto ore di lavoro, otto ore di tempo libero e otto ore di sonno. Abbiamo detto mediamente perché dilaga un processo erosivo nei confronti del sonno che aumenta le ore di veglia e, di conseguenza, il tempo disponibile per il lavoro e per i consumi materiali e immateriali. Nella dimensione spaziale la predazione agisce in continuità con le logiche coloniali, latifondistiche e feudali del passato, guarda ai territori come a una risorsa da sfruttare e abbandonare al proprio destino e alle lotte delle popolazioni occupate come a recriminazioni da sedare con le compensazioni o con l’ausilio di forze militari, paramilitari o di polizia. Queste pagine contengono tanti libri e tante idee, pezzi di vita e osservazioni: le esperienze personali si mescolano alle riflessioni di pensatori, filosofi, antropologi e sociologi, il pedinamento della realtà è al servizio dell’analisi e la dimensione locale serve per comprendere quello che avviene su scala globale. Una critica del rapporto che il capitalismo e il potere
politico stabiliscono con il tempo chiama in causa una moltitudine di discipline e rende necessari continui riferimenti ai molteplici aspetti della cultura digitale. Partendo dal concetto di cronofagia di Jean-Paul Galibert, in questa sede ci interrogheremo sulla voracità con la quale il capitalismo si nutre del tempo delle masse. Grazie a raffinate strategie di marketing e all’illusione della gratuità, i capitalismi vecchi e nuovi colonizzano il tempo libero delle persone e, non paghi di estrarre valore dal loro lavoro e ricavare profitti dai loro consumi, cercano di spostare le frontiere del guadagno oltre i vecchi confini. Il sonno è la terra promessa, una delle poche nicchie di resistenza all’invadenza del capitale. Dalla diffusione dell’illuminazione pubblica e privata fino alla moltiplicazione esponenziale degli schermi, il progresso è (anche) una guerra senza esclusione di colpi per conquistare il tempo e l’attenzione dei consumatori-spettatori-clienti-utenti-elettori. Ogni aspetto della vita, dall’amicizia all’amore, dagli hobby all’alimentazione, è soggetto a processi di reificazione e mercificazione che trovano nelle piattaforme digitali ideali terreni di coltura. Miliardi di lavoratori inconsapevoli dedicano parti più o meno importanti della loro giornata a riversare preziose informazioni che arricchiscono la fame di dati dei grandi player del capitalismo digitale. La diffusione globale dei device e della connessione in mobilità riduce al minimo i tempi morti: chiunque abbia un minimo di batteria e di traffico Internet disponibili o la possibilità di
connettersi a una rete Internet ha in tasca tutta la conoscenza del mondo. La progressiva scomparsa della noia dalle nostre esistenze è direttamente proporzionale allo sviluppo di dipendenze e patologie connesse all’utilizzo smodato degli strumenti digitali. La parte più consapevole della società si sta organizzando per produrre gli anticorpi necessari per far fronte alla predazione, ma rappresenta, almeno per il momento, una minoranza marginalizzata dal potere e dagli organi di informazione. Un cambio di paradigma è possibile solo rendendo scalabili le istanze di queste voci dissonanti, cercando di allargare il bacino d’utenza di chi resiste alla predazione attraverso la conoscenza e l’informazione. Cominciamo.
1 - UN CAPITALISMO CRONOFAGO
M
i sembra doveroso iniziare con una sorta di backstage; un libro che è fatto di tanti altri libri, ma anche di esperienza e di osservazioni. Una delle letture che mi hanno spinto a guardare la questione da una posizione completamente differente rispetto al passato è stata quella de I Cronofagi di Jean Paul Galibert. In questo breve ma densissimo saggio, Galibert descrive l’ipercapitalismo dominante come un sistema mosso da un unico progetto ontologico: fare in modo «che la redditività sia il principio, la causa unica e il solo criterio dell’essere e del non essere» [1] . Il successo di questo progetto è correlato alla cronofagia ovvero alla capacità di nutrirsi del tempo delle masse, procedendo a una progressiva erosione del tempo dell’inattività e, quindi, della non redditività. Nella maggior parte dei casi è la nostra principale attività a definirci: da giovani è il nostro corso di studi, da adulti la nostra professione, da anziani la condizione di pensionati. Nel suo saggio, Galibert rivela come la nostra
principale attività non sia che una parte del nostro “lavoro” per alimentare il Leviatano ipercapitalistico: la differenza fra il tempo di lavoro e il tempo libero è molto più sottile di quanto si pensi. Conseguentemente l’individuo è simultaneamente una quantità di tempo disponibile per la cronofagia e una quantità di denaro disponibile per l’ipercapitalismo. Questa regola si erge a condizione della nostra esistenza, al punto di diventare la nuova condizione umana. Nell’ideale di disponibilità, l’uomo diventa un doppio giacimento di denaro e di tempo da prelevare senza limiti, ma è necessario che si stabilisca un rapporto di equivalenza tra il tempo di cui lo si priva e il denaro di cui lo si alleggerisce [2]
La bulimia dell’ipercapitalismo non può essere circoscritta al tempo di lavoro come in Marx, ma va adeguata a un perimetro temporale più esteso che include il tempo libero. La cronofagia agisce con modalità binaria, attraverso due ingiustizie che si elidono nella percezione del produttore-consumatore: Un raddoppiamento dell’ingiustizia può apparire come una giustizia, ma solo a condizione che le due ingiustizie siano percepite come equivalenti. Ora, il consumo è l’equivalente della produzione e il tempo libero l’equivalente del lavoro, basta dunque stabilire tra queste due attività un’equivalenza di durata ed ecco che il tempo che ci viene prelevato dall’una può apparire come il giusto prezzo del tempo di cui veniamo privati nell’altra [3]
La predazione da parte dei cronofagi è duplice, se non triplice. Una volta esaurito il lavoro “vero”,
l’individuo spende quanto guadagnato per i propri consumi e compie un lavoro immaginario a favore del capitale. Secondo Galibert quello compiuto dai cronofagi è stato un vero e proprio miracolo di riprogrammazione delle mentalità: l’ipercapitalismo è riuscito a fare in modo che «lo sfruttamento del tempo libero possa apparire come la giusta ricompensa dello sfruttamento del lavoro. Infatti, tutti coloro che sono sfruttati al lavoro vorranno essere sfruttati come consumatori» [4]. Per Galibert il consumatore è un lavoratore dell’immaginazione che paga sempre due volte al proprio beneficiario: in primis quando aggiunge valore a una merce con la propria immaginazione (desiderando una macchina, un notebook o un abito che ne sottolineerà lo status), secondariamente quando paga la merce con il sovraprezzo che la sua mente ha contribuito a costruire. Pertanto, se una scarpa sportiva d’élite costa sedici dollari ma viene venduta a settanta dollari, parte di questo sovraprezzo è costituito dalle spese di marketing propedeutiche al lavoro immaginativo. Secondo la teoria di Galibert, insomma, la nostra immaginazione è un lavoro che il marketing ha saputo monetizzare con grande abilità. Il paradosso dello scambio cronofago è lavorare e poi pagare, a colui per il quale lavoriamo, il giusto prezzo del nostro lavoro. Questo tipo di scambio è il prodotto di una rivoluzione del mercato che, una ventina d’anni fa, all’alba della cosiddetta new economy e ben prima della grande crisi, Naomi Klein
aveva già delineato in No Logo: «i prodotti che si svilupperanno in futuro saranno quelli presentati non come ‘merci’ ma come concetti» [5]. A cavallo fra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, nell’industria statunitense avviene un progressivo cambio di paradigma: la produzione può essere appaltata e subappaltata a partner che abbiano come unica preoccupazione quella di evadere gli ordini nel minor tempo e al minor costo possibile. Mentre il corpo viene delocalizzato, la testa si concentra su una nuova attività, la costruzione di una mitologia aziendale che sia in grado di «infondere significato agli oggetti apponendovi semplicemente il proprio nome» [6]. Le strategie della pubblicità si adeguano a questa rivoluzione in atto: l’obiettivo non è più comunicare che cosa il prodotto ti consente di fare, ma quale lasciapassare identitario è in grado di fornirti. Se una scarpa sportiva costa quattro o cinque volte il suo costo di produzione non è soltanto a causa di una filiera allungatasi a dismisura: il sovraprezzo include il lavoro del marketing e quello immaginario del pubblico. È la richiesta identitaria del pubblico ad alimentare la cronofagia dei potentati economici. Non è certo un caso che, dopo il crollo del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica, in contesti post ideologici si siano palesate bulimie consumistiche e sindromi da acquisto compulsivo simili a quelle dell’Occidente. Il capitalismo, così com’è strutturato oggi, non sarebbe in grado di sostenersi senza il lavoro immaginario dei consumatori. Non lo è il capitalismo
che produce e distribuisce oggetti e non lo è il capitalismo che produce, organizza e distribuisce i contenuti. Pensiamo al cinema e a come la spesa dell’advertising a Hollywood sia cresciuta dai 2,18 miliardi di dollari del 2010 ai 2,86 miliardi del 2017 [7]. Si tratta di un dato in controtendenza rispetto all’andamento generale settore pubblicitario, ma perfettamente coerente con un’industria che ha creato brand come Star Wars, Disney, Marvel e DC che con i loro blockbuster monopolizzano i box office di tutto il mondo. L’industria dei contenuti non ha fatto altro che adeguarsi al trend iniziato dai marchi dell’abbigliamento, dell’automotive e dell’hi tech: spendere una quota sempre più consistente per marketing e advertising a discapito della produzione e della parte creativa. I risultati sono evidenti: un entertainment omologato e ripetitivo che riduce al minimo i rischi e capitalizza al massimo la propria posizione dominante. Questo lavoro immaginario che remunera doppiamente i beneficiari e impoverisce doppiamente i consumatori necessita di un tempo superiore a quello che crediamo venga effettivamente impiegato. Il tempo del lavoro immaginario è quello che intercorre fra la pubblicazione del trailer di un blockbuster e la sua effettiva uscita in sala, quello fra l’annuncio della pubblicazione di un nuovo capitolo di Harry Potter e la sua uscita in libreria oppure quello fra la presentazione del nuovo iPhone e la sua distribuzione negli Apple Store.
Per il capitale cronofago è necessario che il loop di lavoro immaginario e lavoro reale sia ininterrotto, ma perché questo sogno si realizzi nella maniera più assoluta occorre sconfiggere l’ultimo nemico: il sonno.
2 - ALLA CONQUISTA DEL SONNO
I
l sogno perverso del capitalismo è un mondo di insonni, un pianeta in costante stato di veglia, popolato da individui pronti per lavorare o per consumare. A confermare come il capitalismo cronofago abbia già iniziato a dare l’assalto all’ultima sacca di resistenza dal mercato è la dichiarazione rilasciata dal CEO di Netflix, Reed Hastings, nell’aprile 2017: «Quando guardi uno spettacolo di Netflix e ne diventi dipendente rimani sveglio fino a tarda notte. Alla fine, siamo in competizione con il sonno ed è una grande quantità di tempo» [8]. Chi guadagna sui contenuti ha sempre giocato in un campo delimitato da una parte dalle ore lavorative e dall’altra dal tempo dedicato al sonno. È quest’ultimo, dunque, il territorio che resta da colonizzare, questa “malattia” che accorcia di un terzo la nostra vita, come dice il dottor Gregory Dudden de La casa del sonno di Jonathan Coe. L’erosione del tempo dedicato al sonno non è certo una novità, ma una progressione scandita dal progresso tecnologico e dalla diffusione
dell’illuminazione pubblica e privata. Anticamente gli uomini si adattavano al ritmo della natura e, fino alla fine del XVII secolo, la norma era un sonno bifasico, spezzato in due parti: si andava a letto dopo il tramonto, per poi svegliarsi nel cuore della notte per due o tre ore e dormire un secondo sonno fino al mattino. In questo intermezzo di veglia si pregava, si mangiava, si faceva l’amore, si conversava con i familiari o si leggeva. Roger Ekirch, un professore che ha studiato il sonno segmentato per quindici anni, ha trovato cinquecento riferimenti su libri di medicina e diari, ma anche fra le pagine dei grandi della letteratura come Omero e Charles Dickens. Nel corso del XVIII secolo l’illuminazione stradale viene potenziata con lo scopo di migliorare la sicurezza e con lo spostamento del riposo in orari più tardivi l’abitudine al sonno segmentato scompare, sostituita da un sonno senza soluzione di continuità. Nel 1878, al termine della prima dimostrazione pubblica della sua lampadina a incandescenza, Thomas Edison dichiara come il sonno sia «una perdita di tempo criminale e un’eredità dei nostri giorni da uomo delle caverne». La lampadina e, dunque, la possibilità di prolungare le ore di luminosità ben oltre il tramonto rivoluzionano tanto la vita pubblica quanto la vita privata. In un interessante articolo pubblicato su Raconteur [9], John Illman spiega come il progresso sia contraddistinto da una serie di invenzioni “luminose” pensate per tenerci svegli e disturbare o accorciare il
nostro sonno: l’illuminazione pubblica (1807), la lampadina (1878), la televisione (1936), i personal computer (1976), i telefoni cellulari (1986), il web (1991), Google (1998), Facebook (2004), YouTube (2005) e l’iPhone (2007). La piattaforma di produzione e distribuzione Netflix si inserisce alla perfezione in questa sequenza di disturbatori del sonno. La serialità in passato scandita da appuntamenti settimanali o quotidiani - diventa on demand con la possibilità di fruire un’intera stagione senza soluzione di continuità. È sempre più diffusa la pratica del binge-watching, vale a dire la consuetudine di vedere tutte le puntate di una stagione in sequenza, nei casi più estremi entro le prime ventiquattro ore dalla pubblicazione. Se si decide di rinunciare al sonno, una stagione di una serie come Stranger Things può essere esaurita in una sola notte! Quanto la privazione del sonno del proprio pubblico sia importante per Netflix non ce lo chiariscono solamente le parole del CEO Reed Hastings. Nel marzo 2018 il colosso dell’intrattenimento di Los Gatos ha pubblicato annunci per binge-watcher disposti a sottoporsi a maratone di programmi e serie televisive in anteprima; fra i requisiti richiesti, oltre alle capacità di analisi e a una buona cultura cinematografica e televisiva, anche la resistenza fisica alla visione prolungata. Non sono né la televisione, né i social network gli avversari che Netflix vuole sconfiggere: il principale competitor è il sonno. Poco importa che l’American Academy of Sleep Medicine
[10] abbia sottolineato gli effetti dannosi che il bingewatching può avere sul corpo e sul ciclo del sonno suggerendo di limitarsi alla visione di un episodio per ogni sera. Ed è trascurabile anche il fatto che uno studio della Texas A & M University abbia rilevato un rapporto di causalità fra il binge-watching estremo e la depressione. Eppure, Gli annunci sono stati naturalmente accolti da un coro pressoché unanime di approvazione: quello del binge-watcher viene presentato come “il lavoro dei sogni”. Il capitalismo cronofago ha fame del nostro tempo e il sonno rappresenta un succulento e irrinunciabile terzo della torta. Far coincidere lavoro e consumo è un progetto perfettamente coerente con la società 24/7 che ambisce all’abolizione del sonno. È una lotta fra evoluzione biologica e rivoluzione tecnologica: se la maggior parte di noi ha saputo adattare i propri bioritmi alle condizioni create dalla luce artificiale, l’orologio biologico dei più refrattari paga le conseguenze di questa asincronia. Un esempio? Il 12,3% della popolazione statunitense (40 milioni di persone) è interessato da disturbi del sonno e il 30% della popolazione adulta fa i conti con episodi di insonnia ogni anno [11]. Non tutti guardano all’incapacità di prendere sonno come a un disturbo. L’insonnia può diventare efficiente? All’inizio di Taxi Driver, il protagonista Travis Bickle decide di monetizzare la propria insonnia cronica facendosi assumere come tassista notturno. Il protagonista, come la sua città, non dorme
mai. La dimensione onirica del protagonista è completamente trasferita nel reale. Il capolavoro di Martin Scorsese anticipa il sogno perverso del capitalismo: abolire il sonno rendendo l’insonnia efficiente. Il passero dalla corona bianca è un uccello migratore che in autunno vola dall’Alaska sino al Messico, per poi compiere il tragitto inverso in primavera. Durante la migrazione può rimanere in stato di veglia per una settimana. Questa sua straordinaria resistenza al sonno gli consente di volare seguendo la rotta durante la notte e di procacciare il cibo nelle ore diurne. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti ha investito notevoli risorse economiche per studiare i meccanismi che consentono a questa specie aviaria di rimanere così a lungo in stato di veglia. L’obiettivo è riuscire a creare soldati liberi dall’esigenza di dormire e, quindi, maggiormente adeguati a operare in simbiosi con reti e apparati non umani. Inutile aggiungere come l’ambito militare sia, da sempre, il campo della sperimentazione di innovazioni che vengono successivamente trasferite nella società. Il soldato senza sonno sarà inevitabilmente l’antesignano del lavoratore o del consumatore senza sonno. «I sistemi di mercato 24/7 e un’infrastruttura globale concepita per forme di produzione e consumo senza limiti sono già una realtà da tempo, ma ora si tratta di costruire un soggetto umano che possa adeguarvisi in modo sempre più completo» [12], spiega Jonathan
Crary nelle prime pagine del suo saggio 24/7 che in Italia è uscito con il sottotitolo Il capitalismo all’assalto del sonno. Nell’orizzonte distopico del futuro prossimo il mercato potrebbe dunque reggersi su robot sempre più umani ed esseri umani sempre più robotizzati. Continua Crary, in un brano che sintetizza molti dei concetti che abbiamo espresso finora: Del tutto inutile ed essenzialmente passivo, con tutte le incalcolabili perdite che comporta nei tempi di produzione, di circolazione e di consumo, il sonno è destinato a entrare in netto contrasto con le esigenze di un universo 24/7. L’enorme quantità di tempo che trascorriamo dormendo, a rancati da quella paludosa congerie di bisogni artefatti, rappresenta uno dei grandi atti di oltraggiosa resistenza degli esseri umani alla voracità del capitalismo contemporaneo. Il sonno interrompe il furto del tempo che il sistema capitalistico compie ai nostri danni. La maggior parte delle necessità apparentemente fondamentali della vita umana – dalla fame alla sete all’impulso sessuale, al bisogno, più recente, di amicizia – sono state riproposte in versioni mercificate o finanziarizzate. Il sonno pone il problema di un bisogno umano che si può soddisfare solo in un certo intervallo di tempo e non può quindi essere asservito e aggiogato a una macchina per fare profitti, o rendosi così come un’incongrua eccezione, una vera e propria area di crisi nell’ambito dell’attuale globalizzazione [13]
Crary parla di “furto del tempo” così come Galibert parla di cronofagia: il capitalismo ruba il tempo oppure lo divora. Dato che il tempo del sonno è una nicchia di resistenza non ancora mercificata, il potere economico cerca di ridurlo più che può. I dati sembrano indicare come il tempo trascorso a letto sia sempre meno: se all’inizio del XX secolo si dormiva mediamente per dieci ore a notte, nella seconda metà del Novecento il tempo del sonno si è
attestato sulle otto ore. Oggi uno statunitense in età adulta dorme mediamente per sei ore e mezzo a notte. Numeri alla mano, nel breve volgere di un secolo, abbiamo ridotto il tempo del sonno di un terzo. Con un interessante parallelismo, Crary paragona la strategia di attacco al sonno allo smantellamento di sistemi di protezione sociale in atto in altri ambiti: Come la possibilità di accesso universale all’acqua potabile è stata programmaticamente annullata in ogni parte del mondo dall’inquinamento e dalle privatizzazioni, con la conseguente riduzione a merce dell’acqua imbottigliata, così è possibile riscontrare una costruzione di scarsità non molto diversa nei riguardi del sonno. I continui sconfinamenti ai suoi danni creano condizioni di insonnia tali per cui il sonno diventa un bene acquistabile tra gli altri (anche se si tratta di un surrogato ottenuto chimicamente) [14]
Vuoi dormire? Paga. Non riesci a dormire? Cerca di produrre o distraiti consumando. Se il lavoro notturno non è certo una novità, le opportunità di consumo 24/7 sono un’aberrazione piuttosto recente. Nell’ultimo decennio gli orari e i giorni di apertura di alcuni super e ipermercati sono stati dilatati a dismisura: se molti si sono accontentati di estendere l’apertura alla domenica, alcuni hanno scelto di tenere aperto anche di notte. Se i benefici sono per i soliti noti, la ricaduta negativa è a carico della classe lavoratrice, molto spesso ridotta in condizioni di semi-schiavitù. In un reportage pubblicato sul Venerdì di Repubblica e poi ripreso sul suo blog [15], Riccardo Staglianò ha raccontato le condizioni dei lavoratori
notturni nella Grande distribuzione. A sistemare i pacchi di pasta e le confezioni di detersivi negli scaffali a notte fonda consentendo ai consumatori di fare la spesa durante la notte sono per la maggior parte scaffalisti reclutati tramite le cooperative. A loro vanno 5,16 euro l’ora, le vecchie 10.000 lire; se fossero interinali guadagnerebbero 8 euro l’ora, da assunti 10,00 euro con il supplemento per il notturno, gli straordinari e le ferie. Il gioco vale la candela? Esiste un’effettiva domanda di acquisti 24/7? O è l’offerta che tenta di rimodellare la domanda? Personalmente, evito “politicamente” di fare acquisti dopo le 19.30 e nei giorni festivi. Qualcuno potrebbe obiettare che medici, farmacisti, tassisti, albergatori, poliziotti e vigili del fuoco hanno sempre lavorato anche di notte e nei giorni festivi, ma queste sono professioni che devono far fronte a urgenze o a servizi che si erogano in orari notturni. L’ipermercato aperto 24/7 è un’altra cosa: un santuario dalle porte sempre aperte per accogliere i fedeli della religione del consumo. In Italia, la questione dei punti vendita aperti alla domenica e nei giorni festivi è salita alla ribalta degli organi di informazione nell’estate 2018 quando il vicepremier Luigi Di Maio ha annunciato di voler approvare, entro la fine dell’anno, una legge che imponga ai centri commerciali la chiusura domenicale e nei giorni festivi. «L’orario liberalizzato dal governo Monti sta distruggendo le famiglie italiane» ha detto il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico,
sottolineando l’importanza di una nuova disciplina delle aperture e chiusure dei centri commerciali. Difficile prevedere che cosa accadrà nel lungo iter legislativo viste le inevitabili pressioni che arriveranno dal mondo della Grande Distribuzione. Nel momento in cui scriviamo, l’accordo trovato all’inizio del 2019 dal governo M5S-Lega prevede un tetto massimo di aperture di ventisei domeniche e quattro giorni festivi, ma lascia l’ultima parola alle regioni che dovranno stilare i loro piani dopo una negoziazione fra commercianti, associazioni di categoria e sindacati. Alla proposta di legge del governo gialloverde si sono opposti quattordici comuni metropolitani (Bari, Bologna, Cagliari, Catania, Firenze, Genova, Messina, Napoli, Palermo, Reggio Calabria, Roma, Torino e Venezia) che appaiono intenzionati a sfruttare al massimo le deroghe per aumentare le aperture domenicali e le festività. Altre eccezioni potrebbero essere concesse alle località turistiche facendo sì che, di deroga in deroga, la riforma si riveli irrilevantemente gattopardesca. Il tema è molto sentito dai lavoratori della GDO e ovviamente anche dai negozianti che si trovano a competere con colossi che vincono la battaglia sia sul terreno dei prezzi che su quello degli orari. La risposta che mi ha dato un’addetta alla vendita di un megastore di articoli sportivi quando le ho chiesto che cosa ne pensasse della possibile riforma delle aperture è paradigmatica: «Sono fortunata a lavorare di questi
tempi… Certo mi piacerebbe poter passare la domenica in famiglia visto che c’è già così poco tempo disponibile per stare insieme, ma quando si ha un lavoro è meglio tenerselo stretto». Il problema, comunque, resta molto sentito: la pagina Facebook Chiudere i centri commerciali le domeniche e i giorni festivi, aperta il 2 giugno 2014, conta attualmente oltre 200.000 iscritti. È un bacino di elettori interessante che non poteva restare inascoltato da una forza politica che ha costruito i propri successi sull’intercettazione del malcontento. Vedremo se in futuro si passerà dai semplici proclami a decisioni politiche vere e proprie.
3 - L’IMPERO DEI BUROCRATI
I
tecnottimisti raccontano da mezzo secolo la favola di un’informatizzazione che ci libererà dalla burocrazia, dalla compilazione di moduli e dal tempo perso per riempire le scartoffie. Il web, le comunicazioni tramite e-mail e soprattutto il riversamento dei dati cartacei in database digitali avrebbero dovuto liberare il mondo dalla schiavitù dalla carta e dalle lungaggini dei processi di trattamento dei dati. Oltre alla diminuzione dei documenti cartacei, la Rete avrebbe dovuto farci guadagnare tempo prezioso. Ma chiunque si rapporti con gli sportelli di un’amministrazione pubblica o con qualsiasi ente che richieda la compilazione di moduli cartacei o form online sa quanto sia cresciuto il tempo che viene speso per la burocrazia. Non solo la tecnologia non ci ha liberato dalla schiavitù della burocrazia: molto spesso ne ha raddoppiati tempi e costi visto che i dati caricati online necessitano molto spesso di una copia cartacea [16]. Nel suo saggio Burocrazia, l’antropologo David Graeber spiega come la burocrazia nella quale
abbiamo intrappolato la nostra società sia uno dei principali freni al progresso della medesima. Negli anni ’50, immaginavamo che negli anni 2000 avremmo viaggiato a bordo di macchine volanti. Se ciò non è accaduto, la colpa è in parte di una burocrazia che sottrae tempo prezioso al tempo e al lavoro: Qui parlo per esperienza personale, che viene in gran parte dalle università americane e britanniche. In entrambi i paesi, negli ultimi trent’anni c’è stata una vera e propria esplosione del numero di ore lavorative dedicate alle scarto e amministrative a spese di tutte le altre attività. Nella mia università, per esempio, non solo ci sono più amministrativi che docenti, ma gli stessi docenti sono tenuti a dedicare alle attività amministrative almeno lo stesso tempo che dedicano all’insegnamento e alla ricerca messi insieme [17]
Questa equa bipartizione fra tempo burocratico e tempo produttivo è la trave che finisce negli ingranaggi dell’orologio della storia facendolo inceppare. Se nel XVIII e nel XIX secolo l’automazione industriale ha rimodellato la società trasformando gli abitanti delle zone tecnologicamente evolute in lavoratori industriali full time, la rivoluzione tecnologica della fine del XX secolo e dell’inizio del XXI secolo che aveva promesso di liberarci dalla burocrazia ci ha trasformato in amministrativi part time e in segretari di noi stessi: Come per i professori universitari è diventato inevitabile passare sempre più tempo a gestire le borse di studio, i genitori prendono semplicemente atto che ogni anno devono dedicare varie settimane a compilare moduli di quaranta pagine su Internet per iscrivere i figli a una scuola dignitosa. Allo stesso modo, un semplice commesso sa che dovrà passare sempre
più tempo a digitare password sul telefono per accedere al suo conto in banca e simili. E ognuno di noi sa che dovrà imparare a fare il lavoro che un tempo facevano gli agenti di viaggio, i mediatori finanziari e i commercialisti [18]
Secondo Graeber l’aspetto più paradossale di questa involuzione è che l’iperburocratizzazione della nostra società sia avvenuta dopo la caduta degli apparati della burocrazia socialista. Molti degli oneri amministrativi che in passato ricadevano su professionisti o eroici volontari vengono ora riversati sui singoli individui. Anche questo è tempo di lavoro regalato al capitalismo cronofago. Faccio un esempio molto personale. Fra la preparazione delle lettere d’incarico, la lettura e la firma dei contratti, le comunicazioni telefoniche e digitali con i miei committenti, la fatturazione e la predisposizione della documentazione fiscale per la mia commercialista, il pagamento delle imposte e le verifiche per controllare che tutto sia stato fatto alla regola dell’arte se ne vanno, ogni anno, almeno due o tre settimane di lavoro. Nell’apparente libertà del free lance è nascosta la schiavitù di essere il ragioniere, il commercialista e il fiscalista di sé stesso. Perché la mia commercialista possa predisporre la mia dichiarazione dei redditi e il pagamento delle tasse sono necessari dieci-quindici giorni lavorativi? Supponendo che la mia vita da freelance duri trentacinque anni, ne consegue che, giunto alla pensione, avrò lavorato da commercialista e ragioniere per un tempo di quasi due anni. Rimanendo nel
liquido universo dell’ipotetico e considerando che solitamente impiego otto mesi per produrre un testo saggistico, la burocrazia mi avrà tolto la possibilità di scrivere almeno tre libri. Il secondo esempio è decisamente più universale e riguarda la banca, una delle roccaforti della burocratizzazione. Se l’home banking ha ridotto i tempi di attesa agli sportelli, è sufficiente fare un investimento o attivare un mutuo per iniziare una lunga sessione di firme su documenti pieni di clausole e postille che nessuna persona sana di mente leggerà mai da cima a fondo. Anche se gli istituti di credito stanno implementando i servizi online e le firme digitali, la quantità di documenti cartacei prodotta e consegnata ai clienti resta enorme. Le banche sono dei veri e propri firmifici che vendono l’illusione della trasparenza praticando al contrario l’opacità più assoluta. La firma su documenti che non abbiamo letto, dopo quello che le banche hanno fatto al mondo nella più totale impunità con i mutui subprime, è un atto di fede degno dei pellegrini che volano a Lourdes e a Fatima sperando in un qualche tipo di miracolo. Non è nemmeno necessario andare in banca per esercitare la propria fede nel sistema capitalistico, è sufficiente accettare i termini e le condizioni dei servizi digitali che richiedono una registrazione online. Quanti fra i 2,27 miliardi di utenti del colosso di Menlo Park avranno letto le Condizioni, la Normativa sulla privacy e la Normativa sull’uso dei cookie? E quanti fra gli utenti di Facebook sanno che la
sua informativa sulla protezione dei dati e della privacy è più lunga della Costituzione degli Stati Uniti d’America? Considerato che il potere economico deve comunque agire all’interno di ordinamenti giuridici nazionali e/o regole internazionali, la relazione con la propria utenza è organizzata attraverso una strategia di sovraccarico informativo e offuscamento. Il foglietto illustrativo che accompagna i medicinali viene comunemente chiamato “bugiardino”, tanto che il lemma è ormai entrato di diritto nei vocabolari italiani. Più che sulla falsità delle informazioni fornite, il foglietto illustrativo dei farmaci adotta una strategia di comunicazione ambigua e offuscata. Il corpo scelto dalle aziende farmaceutiche è spesso illeggibile per i presbiti e per le persone anziane, i quali rappresentano la parte maggioritaria dei consumatori di medicinali. Se proprio i consumatori devono essere informati, si cerchi di rendere difficilmente fruibile l’informazione! Se devi informare il tuo cliente che il medicinale che sta per assumere contempla, fra i vari effetti collaterali, anche il decorso fatale, meglio che tu lo scriva utilizzando caratteri microscopici. Come spiega in maniera molto acuta Luca Rastello in Dopodomani non ci sarà, la burocrazia ci accompagna dai primi vagiti fino all’ultimo respiro: Nella prima ora di vita riceve il codice fiscale, un braccialetto con il codice a barre di identificazione, liberatoria per esporre il nome nella nursery, pacco dono di una certa marca con creme, talco, il foglio delle vaccinazioni da fare e il suo primo voto: punteggio di salute alla nascita, indice di Apgar.
Marcato stretto da subito: consegnato alla tenaglia di controllo e abbandono che deve deformare la sua intera esistenza. A dato alle macchine, perché salute, alimentazione, istruzione e distrazione, prevenzione e minaccia, tutto dipenderà da macchine con relativi esperti a decodificare display, grafici, spie [19]
Secondo Graeber, la creazione di una struttura burocratica genera problemi che possono essere risolvibili solamente per via burocratica. È un po’ come nel mito dell’idra di Lerna: quando Ercole taglia una delle teste del serpente marino a nove teste, dal moncherino ne nascono altre due. Il comportamento della burocrazia è simile a quello della politica: sia l’una che l’altra operano per la propria autosussistenza più che per il servizio che dovrebbero rendere alla collettività. Eliminata dalla propria agenda la parola “servizio pubblico”, i poteri politici e burocratici si relazionano con l’individuo attraverso una dialettica che alterna seduzione e controllo: il cittadino è l’elettore che deve fornire consenso, ma è anche il presunto colpevole che deve dimostrare la propria innocenza agli organi di verifica delle amministrazioni. Da quando il Governo Renzi ha legiferato in merito al pagamento del canone Rai in bolletta, il sottoscritto deve inoltrare annualmente all’Agenzia delle Entrate un’autocertificazione con la quale comunica la non detenzione di un apparecchio televisivo nella propria abitazione. Considerato che la maggior parte degli italiani possiede un televisore e che i tassi di evasione del canone Rai si attestavano intorno al 36% prima
della discussa iniziativa del Governo Renzi, chiunque abbia attivato un contratto di fornitura dell’energia elettrica viene considerato automaticamente come possessore di un televisore. La presunzione d’innocenza che si deve anche a chi si è macchiato dei peggiori crimini viene ribaltata: lo Stato e il Fisco (amico?) trattano chi non ha il televisore come un presunto colpevole fino a prova contraria. Una volta reperito il modulo online bisogna stamparlo, compilarlo e spedirlo tramite raccomandata senza busta. Tempo perso? Un’ora oppure un’ora e mezza, dipende dalla lunghezza della coda nell’ufficio postale. Nel lungo iter della comunicazione dei dati (Dichiarante > Poste Italiane > Agenzia delle Entrate > Rai > Società Energia Elettrica) qualcosa può andar perso fra un passaggio e l’altro costringendo il non utente a pagare comunque. Al netto delle spese postali, anche la perdita di tempo necessaria per dare disdetta e rincorrere la ka iana burocrazia di casa nostra è una tassa che grava sui cittadini che scelgono di vivere senza un apparecchio televisivo in casa. Alla luce di come viene gestita la situazione dei non possessori di apparecchi televisivi, l’impressione è che si voglia spingere a pagare non solo gli evasori, ma anche tutti quelli che la televisione non ce l’hanno. In che modo? Prendendoli per sfinimento, non dando informazioni, rendendo i tempi per regolarizzare la propria posizione così lunghi da farli diventare più onerosi del pagamento non dovuto della tassa. Quello del canone Rai non è
che un esempio di come l’autocertificazione, presentata come una positiva evoluzione nel rapporto fra i cittadini e le amministrazioni, si stia rivelando, all’atto pratico, una redistribuzione sulla collettività del lavoro che in passato veniva svolto esclusivamente dal personale negli uffici che ora si occupano del trattamento dei dati e del loro eventuale trasferimento. Le “nuove tecnologie” non hanno semplificato le nostre vite, non ci hanno fatto risparmiare tempo e carta per la semplice ragione che ampie fasce della popolazione non sono state in grado di riconvertirsi alle logiche dei sistemi digitali. Per spiegare meglio il concetto faccio un altro esempio pescando nuovamente dalla mia esperienza personale. Mentre iniziavo a scrivere questo saggio, mi è arrivata dall’Ordine Nazionale dei Giornalisti la richiesta di una verifica dell’attività giornalistica da me svolta. Si tratta di un controllo che i pubblicisti devono sostenere quindici anni dopo l’iscrizione nell’albo per dimostrare che continuano a operare in ambito giornalistico. La verifica è più che legittima, così come la sua tempistica: a quindici anni dall’iscrizione nell’albo, un giornalista “part time” potrebbe avere smesso di praticare tale attività. A risultare inadeguata ai tempi è la modalità con la quale ho dovuto dimostrare la continuità del mio impegno in ambito giornalistico. Nonostante l’Ordine dei Giornalisti riceva annualmente la mia quota di iscrizione, nonostante abbia fornito i documenti fiscali comprovanti la mole di lavoro svolta e sia in regola
con i crediti della formazione continua, nonostante la Cassa di previdenza collegata all’Ordine sia in possesso dell’entità dei redditi delle mie collaborazioni giornalistiche ho dovuto fornire una copia cartacea di alcuni miei articoli pubblicati online. La lista integrale delle migliaia di articoli prodotti nel biennio precedente la verifica è stata respinta: mi è stato esplicitamente richiesto di produrne la copia cartacea. Quando ho spiegato che la lista con i link avrebbe consentito l’accesso diretto agli articoli mi è stata ribadita la necessità di produrre una copia cartacea degli articoli. Alla segreteria ho suggerito di stampare il campione di articoli scegliendo fra le migliaia di link inviati, ma anche stavolta non c’è stato nulla da fare. Dopo una serie di botta e risposta con la segreteria, dopo avere stampato e consegnato il campione di articoli, dopo una dozzina di ore di lavoro perse, con carta e inchiostro sperperati inutilmente, il mio status di pubblicista in attività è stato riconosciuto. Se questo accade in un settore ad alta tecnologia come il giornalismo, cosa succederà nelle burocrazie di comparti industriali con una minore dimestichezza con le “nuove tecnologie”? Ma, soprattutto, fino a quando tecnologie che usiamo ormai da anni saranno “nuove” per chi deve gestire i dati e le informazioni? Nell’ottobre 2018, il CNA ha diffuso un report secondo il quale per aprire un bar occorrono settantuno adempimenti con code da fare in ventisei enti. Peggio ancora se si vuole aprire un’officina e diventare autoriparatore: in questo caso gli adempimenti sono
ottantasei e gli enti con i quali si viene in contatto addirittura quarantotto. Noi italiani, comunque, non siamo soli. Alcuni anni fa, in Portogallo, sono stati introdotti i caselli elettronici. Si tratta di telecamere che captano il passaggio dell’autoveicolo e trasmettono il numero di targa a una centrale che effettua il computo dei passaggi. Nelle più moderne autostrade lusitane, i pedaggi con la sbarra non sono più necessari perché la sequenza dei caselli elettronici scandisce il viaggio degli automobilisti sommando i micropagamenti che vanno da 10 centesimi di euro a 4,60 euro a seconda della classe dell’autoveicolo e della lunghezza del segmento percorso. L’automobilista non deve più fermarsi al casello né in entrata, né in uscita perché la società autostradale si occupa di registrare i passaggi e prezzare il viaggio. Niente più code, né lungaggini in autostrada. Niente più monetine da cercare nelle tasche o nel portafoglio per pagare la tariffa immediatamente. Non male vero? Raccontata così sembra una storia a lieto fine, con Ercole che riesce finalmente a sconfiggere l’idra di Lerna della burocrazia. Purtroppo, non è così. Per i turisti o per i frequentatori occasionali le autostrade portoghesi si rivelano un piccolo viaggio nell’assurdo. Se non si è acquistata una carta prepagata o non è stato stipulato un contratto con prelievo sul proprio conto bancario è necessario recarsi alle poste per pagare il pedaggio. Ma è qui che la situazione si ingarbuglia: il pagamento può essere effettuato solo due giorni dopo (tre o quattro se
il periodo comprende il sabato o la domenica) e per un periodo di quattro, cinque o sei giorni (anche in questo caso la variabile è il giorno di passaggio). Se non si riesce a saldare il proprio debito con l’agenzia delle autostrade entro il tempo utile scattano le sanzioni: al costo dei pedaggi vanno sommati costi di 2,21 euro a viaggio. Se non si paga dopo la notificazione l’iter può portare a un processo di esecuzione fiscale con un pignoramento dei beni. Altro elemento da non trascurare è l’impossibilità di effettuare il pagamento online, davvero un paradosso per un processo di raccolta e trasferimento di dati gestito, dall’inizio alla fine, attraverso un sistema digitale. Il caso dei pedaggi elettronici lusitani conferma come la sostituzione dei lavoratori con le macchine sia possibile solo ed esclusivamente scaricando sui cittadini parte del lavoro amministrativo. Proprio come il consumatore di Galibert che paga due volte il prodotto – prima con il suo lavoro immaginario e poi con il denaro guadagnato lavorando – l’utente delle nuove autostrade lusitane (attive in compresenza con quelle tradizionali) non solo paga il pedaggio, ma spende del tempo per appianare il proprio debito con lo Stato. L’anomalia e la brevità della finestra temporale che Ascendi, la società che gestisce le autostrade con gli “innovativi” pedaggi elettronici, propone ai propri utenti costringe gli automobilisti a contorsionismi logistici che hanno ben poco a che vedere con uno snellimento della burocrazia. Può capitare, per esempio, di utilizzare un’autostrada con
pedaggio elettronico e uscire dal Portogallo per una settimana. Se ci si trova all’estero c’è un solo modo per pagare senza incorrere in sanzioni: chiedere a un parente o a un amico di recarsi in un ufficio postale e saldare il vostro debito. In caso contrario, bisognerà attendere al proprio domicilio la missiva con la somma da pagare per i pedaggi incrementata dalla mora per il mancato saldo. In un caso o nell’altro, qualcuno dovrà spendere del tempo per uscire di casa e recarsi al più vicino ufficio postale. A fronte di un maggiore potere di controllo sui cittadini, la digitalizzazione della burocrazia non ha regalato alla società i benefici sperati. La riduzione del lavoro umano e l’incremento dell’automazione e della digitalizzazione si traducono in una sommatoria di costi reali (tariffe) più costi immateriali (tempo). La questione riguarda, ovviamente, anche chiunque debba riempire moduli per lavoro. Un articolo pubblicato nel 2013 su The Telegraph [20] ha spiegato come un dottore o un’infermiera del National Health Service (il servizio sanitario britannico) trascorrano dieci ore a settimana a riempire moduli e a liquidare pratiche burocratiche invece di occuparsi dei propri pazienti. La spesa annua per la burocrazia dell’NHS è quantificabile in un miliardo di sterline (1,15 miliardi di euro), una cifra in grado di coprire la spesa sanitaria di 339.000 persone nel Regno Unito, nell’anno in questione. Ma davvero tutti questi “lacci e lacciuoli” che così tanto tempo ci sottraggono sono un’imposizione dall’alto? Non ne
siamo forse complici? Non siamo forse vittime di una sorta di Sindrome di Stoccolma che ci fa amare la nostra condizione di prigionieri della politica e del mercato cronofagi?
4 - L’AZIENDA CON DUE MILIARDI DI LAVORATORI
P
er capire come oggi una singola azienda possa contare su oltre 2,27 miliardi di dipendenti bisogna fare un passo indietro e tornare a Karl Marx. Nella teoria marxiana del lavoro esiste una tensione fra il lavoratore (per la prima volta nella storia proprietario della propria forza lavoro e del tempo impiegato per svolgerlo) e il capitalista (desideroso di incrementare il tempo di lavoro a dismisura per recuperare al più presto gli investimenti fatti con l’acquisto delle macchine). Nel XIX secolo, la classe lavoratrice prende coscienza del proprio potere e si organizza per reagire alla brama cronofaga del capitale, arrivando persino a costringere i governi dei paesi maggiormente industrializzati a far emanare leggi che limitano l’orario di lavoro. Laddove la legge riesce a obbligare gli industriali a diminuire la quantità di ore lavorative, questi si impegnano a intensificare i ritmi di lavoro dei propri dipendenti. Nel 1898, Frederick Winslow Taylor viene assunto dalla Bethlehem Steel Works, in Pennsylvania, per
migliorare l’efficienza dell’azienda. Le sue riflessioni lo porteranno all’elaborazione del paradigma gestionale che porta il suo nome, il taylorismo, un’organizzazione scientifica del lavoro che prevede la razionalizzazione del ciclo produttivo attraverso una scomposizione e parcellizzazione dei processi di lavorazione in blocchi operativi, ai quali sono assegnati dei tempi standard di esecuzione. Si tratta di una rivoluzione gestionale che interessa sia il lavoro manuale che quello impiegatizio, e interviene sul tempo di lavoro organizzandolo secondo criteri di ripetitività, parcellizzazione e standardizzazione. Nel 1913 Henry Ford mette in pratica nelle proprie fabbriche le teorie di Taylor introducendo la catena di montaggio che diventerà, da quel momento, il modus operandi delle industrie di tutto il mondo. È la nascita del cosiddetto fordismo. Il tiro alla fune fra capitalismo e sindacalismo si gioca sulla qualità e quantità del tempo di lavoro. Le battaglie sulla lunghezza dell’orario di lavoro iniziano a dare i loro frutti nella seconda metà dell’Ottocento: nel 1870 le dieci ore di lavoro su sei giorni sono la regola più diffusa nel Regno Unito, dieci anni dopo questa tempistica si afferma anche negli Stati Uniti. Fra il 1900 e il 1910 sono la Germania e la Francia ad adeguarsi alle dieci ore lavorative, in Italia la conquista avviene negli anni che precedono la Prima Guerra Mondiale. Dopo la Prima Guerra Mondiale, in seguito alla rivoluzione bolscevica e alla diffusione delle idee comuniste, molti paesi industrializzati diminuiscono ulteriormente l’orario di
lavoro: si passa alle otto ore di lavoro per sei giorni alla settimana. L’ultima grande conquista delle mobilitazioni operaie è quella che, fra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, porta alle otto ore di lavoro per cinque giorni alla settimana. Due terzi delle giornate feriali e il week end sono liberi, senza contare i giorni feriali di cui il lavoratore può usufruire nella pausa estiva o nelle festività religiose o civili. L’aumento del tempo libero a disposizione dei lavoratori avviene, salvo rarissime eccezioni, senza che ciò vada a incidere sulla loro retribuzione. Con il nuovo millennio, il tramonto dell’egemonia del paradigma fordista e il timore diffuso su scala globale dalla recessione iniziata nel 2007, la sorveglianza e il controllo sul tempo di lavoro sono stati sostituiti dall’autodisciplina e dall’autocontrollo di lavoratori che, in un contesto di carenza occupazionale, lavorano più del dovuto pur di mantenere il proprio impiego. Le battaglie per scendere al di sotto delle quaranta ore sono state improficue e pur nella moltiplicazione degli scenari (part time verticali e orizzontali, minijob, telelavoro, eccetera) le cinque giornate di otto ore continuano a essere la formula più utilizzata anche nell’attuale contesto occupazionale. La diminuzione delle ore lavorative è complementare all’aumento del tempo libero. Per i lavoratori poter contare su di un tempo da dedicare a sé stessi (hobby e sport) o agli altri (volontariato, famiglia) è una conquista. Per il capitalismo, invece, il
tempo libero è un’opportunità per ampliare a dismisura il bacino dei consumatori. In questo contesto di dilatazione infinita delle occasioni di consumo si inserisce l’irresistibile ascesa degli strumenti tecnologici pensati per semplificare le nostre esistenze. In realtà l’innovazione tecnologica non riduce la quantità di lavoro, ma innalza gli standard qualitativi della produzione, come spiega con efficacia il giornalista Oliver Burkeman: È esattamente quello che è successo con la di usione degli elettrodomestici, che hanno risparmiato tanta fatica a casalinghe e domestiche in Europa e in Nordamerica, trasformando le loro vite a partire dalla fine dell’Ottocento. Grazie alla tecnologia, lavare i vestiti non voleva più dire passare un giorno intero chine su un mangano. Un’aspirapolvere poteva rendere immacolato un tappeto in pochi minuti. Ma come ha dimostrato la storica Ruth Cowan nel libro del 1983 More work for mother, per gran parte del Novecento il risultato non è stato un aumento del tempo libero tra le persone addette ai lavori di casa. Al contrario, con l’aumentare dell’e cienza nelle pulizie di casa, aumentavano anche gli standard di pulizia e ordine richiesti dalla società. Ora che il tappeto del salotto poteva essere immacolato, doveva esserlo sempre. Ora che i vestiti non dovevano più essere sporchi, la sporcizia era ancora più un tabù. Oggi è possibile rispondere alle e-mail di lavoro a mezzanotte dal proprio letto. Siamo sicuri che quell’email ricevuta alle cinque e mezza del pomeriggio debba aspettare fino a domattina per una risposta? [21]
Come lavatrici e aspirapolvere hanno alzato l’asticella degli standard igienici, gli strumenti tecnologici che ci rendono reperibili 24/7 hanno fatto cadere molte delle barriere che tenevano separate la vita pubblica dalla vita privata, il tempo del lavoro dal tempo libero, la nostra professione e i nostri hobby. Negli ultimi quindici anni la proliferazione dei social
network ha creato una massa di doppiolavoristi inconsapevoli in continua crescita. Paul Mason è uno dei più acuti osservatori di queste dinamiche socioeconomiche. I rapidi progressi della tecnologia stanno alterando la natura del lavoro, cancellando i confini tra lavoro e tempo libero e imponendoci di partecipare alla creazione di valore non soltanto sul luogo di lavoro, ma in tutte le attività quotidiane. Questa evoluzione ci conferisce personalità economiche multiple, il ché rappresenta la base economica che ha fatto emergere un nuovo tipo di persona, dalle molteplici identità. È questo nuovo tipo di persona, l’individuo interconnesso, l’alfiere della società ipercapitalistica che potrebbe emergere. La direzione tecnologica di questa rivoluzione è in contrasto con la sua direzione sociale. Dal punto di vista tecnologico siamo diretti verso merci a prezzo zero, lavoro non misurabile, decollo esponenziale della produttività ed estesa automazione dei processi fisici. Dal punto di vista sociale, siamo intrappolati in un mondo di monopoli e ine cienze, tra le rovine di un libero mercato dominato dalla finanza e una proliferazione di ‘lavori del cazzo’ [22]
Lavoriamo per Mark Zuckerberg con la stessa passione che riserviamo ai nostri hobby, ma con una continuità assolutamente inedita nella storia dell’umanità. Alla mattina appena svegli, nel corso della giornata, nelle pause fra un lavoro e l’altro, sulla metropolitana e sul treno che ci riportano a casa, sul divano quando ci rilassiamo, in cucina mentre aspettiamo che l’acqua bolla, nel letto prima di spegnere la luce controlliamo se abbiamo ricevuto nuove notifiche, se qualcuno ha apprezzato un nostro status o se qualcuno ci ha contattati privatamente. Siamo i nodi di un reticolo di due miliardi e 270 milioni di persone, mittenti e destinatari di messaggi pubblici e privati che alimentano un gigantesco
Leviatano che si nutre di dati. Come spiega Jonathan Crary: invece di una sequenza scontata di luoghi ed eventi collegati ai rapporti familiari, al lavoro e alle proprie relazioni sociali, il filo conduttore principale nella storia della propria vita ora diventano le merci e i media elettronici attraverso i quali tutta l’esperienza è stata filtrata, registrata o costruita. Dal momento che è scomparsa la possibilità di un lavoro per tutta la vita, l’unica vita lavorativa durevole a disposizione per la maggior parte delle persone è diventata l’elaborazione del proprio rapporto con i dispositivi elettronici [23]
L’abbondanza di contenuti, la possibilità di entrare in relazione con centinaia di “amici”, o di seguire ciò che stanno facendo i nostri beniamini, genera l’illusione di un’esperienza più completa, formativa e gratificante della lettura di un libro, della visione di un programma televisivo o di molte delle esperienze fattibili nella vita reale. L’intermediazione degli strumenti digitali da una parte funziona da scudo, facendo sentire gli individui più protetti, dall’altra si configura come una tribuna nella quale esporsi. Secondo alcuni studi, una percentuale compresa fra il 5% e il 10% dell’utenza di Facebook è incapace di controllare il tempo trascorso sui social network. L’appagamento immediato offerto con uno sforzo davvero ridotto dai social network fa sì che il cervello sviluppi una dipendenza dagli stimoli offerti durante il tempo trascorso su Facebook, Instagram, Twitter e gli altri social. Le statistiche sul tempo medio trascorso dagli utenti sui social network nel mondo parlano chiaro: in soli
cinque anni i minuti spesi sugli account social è aumentato del 50%. Nel 2012 il tempo medio trascorso sui social network era di 90 minuti, nel 2013 di 95, nel 2014 di 101 minuti, nel 2015 di 109 minuti, nel 2016 di 126 minuti e nel 2017 di 135 minuti [24]. Questa crescita inarrestabile è una vera e propria manna dal cielo per i grandi social network che hanno come scopo primario quello di mantenerci per più tempo possibile all’interno delle proprie piattaforme. Facebook è un walled garden, una piattaforma chiusa che restringe le funzioni a prodotti autorizzati o, nel migliore dei casi, ostacola il raggiungimento di contenuti o applicazioni su fonti esterne. Non essendo un ente di beneficienza, ma un’azienda che deve fare profitti, Facebook ha fatto della raccolta dei dati il proprio core business. Maggiori sono il numero degli utenti e il tempo medio trascorso sulla piattaforma ideata da Mark Zuckerberg, più grandi possono essere i profitti. Le costanti modifiche dell’algoritmo sono pensate per favorire un utilizzo attivo del social network in modo che i contenuti postati dagli utenti (parole, immagini, video e link) possano contribuire a una loro profilazione sempre più raffinata. Il concetto di walled garden è spiegato in maniera molto chiara da Alberto Puliafito su Slow News: Il più grosso walled garden di oggi è Facebook. Erroneamente interpretato da molti (in primis gli editori, ma non solo) come una piattaforma di distribuzione dei propri contenuti (in virtù del fatto che ha rappresentato e rappresenta o può rappresentare una fonte di tra co consistente per i siti, anche per quelli di informazione), Facebook ha una sua convenienza propria
che sta sviluppando senza mezzi termini. Mantenere l’utente al proprio interno. […] Facebook vuole diventare internet, o almeno, un pezzo consistente di internet. Il suo miliardo e mezzo di utenti è una ricchezza enorme dal punto di vista del database. Più riesce a recintarne al suo interno, meglio è per Facebook. Facebook ti vuole tenere dentro. Ed essersi proposto come fonte di tra co per poi chiudere progressivamente i rubinetti è una strategia perfetta e coerente. Si può scegliere di farne parte, ma bisogna esserne consapevoli [25]
I contenuti testuali, le immagini e i video caricati direttamente sulla piattaforma hanno una visibilità maggiore rispetto ai link che portano l’utenza fuori da Facebook. Questo perché gli algoritmi di Menlo Park vogliono costringerci a restare all’interno del recinto costruito con abilità nel corso degli ultimi quindici anni. Sia la penalizzazione dei contenuti esterni che le regole del gioco delle fan page sono pensate per costringere gli utenti a pagare per promuovere i propri contenuti e le proprie attività. L’idea di un web libero e di un’architettura digitale degerarchizzata si scontra con un capitalismo che si sta rivelando molto più aggressivo e invasivo di quello “analogico”. L’inganno riesce perché i CEO dei player che dominano la scena mondiale si presentano in maglietta e scarpe da ginnastica, fanno beneficienza q.b., utilizzano le tecniche del pop, incarnano l’ideale del/la self made man/woman ma, soprattutto, forniscono servizi apparentemente gratuiti. La crisi economica scatenatasi nel 2007 è stata la tempesta perfetta per tutti i servizi digitali gratuiti e freemium che sono andati a conquistare importanti porzioni di tempo prima riservato ad attività a
pagamento. Intere filiere produttive nel mondo dei contenuti sono state distrutte dalla compresenza di servizi digitali gratuiti. L’esempio del giornalismo online è forse il più emblematico: la gratuità dell’informazione sui siti internet si è riflettuta sul mercato tradizionale con un’inarrestabile fuga dei lettori da quotidiani e periodici e la conseguente crisi dei segmenti della filiera produttiva, vale a dire le imprese che si occupano della stampa e della distribuzione. Quando propongo ai miei studenti la lettura del quotidiano in classe, i feedback che ne ricevo sono di tre tipi: 1. “Prof, non abbiamo mica sessant’anni che ci dà da leggere il giornale!”; 2. “Non c’è nulla di interessante su questo giornale!”; 3. “Noi quando dobbiamo informarci andiamo sui social”. La preghiera del mattino dell’uomo moderno di hegeliana memoria si è trasformata in un flusso costante, sovrabbondante e incontrollato fruito sempre e ovunque attraverso il filtro opaco dei social. La migrazione dal contenuto analogico finito a un contenuto digitale infinito e ricco di collegamenti ipertestuali ha moltiplicato a dismisura il tempo
spendibile nella fruizione dei contenuti. Con buona pace di chi vuole mandare in soffitta uno dei comandamenti di McLuhan, il medium continua a essere anche il messaggio: i centennials che guardano alle informazioni contenute sui quotidiani come a un’anticaglia sono immersi 24/7 nel flusso di ciò che transita nelle loro timeline. Quando leggiamo o sentiamo parlare della continua espansione del numero di utenti Facebook troviamo spesso utilizzata la metafora della “nazione” o del “continente” con due miliardi e 270 milioni di abitanti. Credo sarebbe molto più efficace parlare di Facebook per ciò che è realmente vale a dire un’azienda con due miliardi e 270 milioni di lavoratori. Lavoratori che producono 24/7, con un’abnegazione e una dedizione paragonabile solamente a quella con la quale si svolge una professione che è anche la nostra passione. Le premesse per questa pandemia di narcisismo e autoreificazione sono molte dal deterioramento qualitativo delle relazioni sociali a un’urbanistica pensata per isolare, dall’individualismo instillato dal sistema capitalismo all’egemonia culturale del modello americano. In molti casi, i like e i commenti dei social network o le visualizzazioni dei video nelle piattaforme come YouTube diventano metriche spendibili sul mercato della società dello spettacolo prefigurata mezzo secolo fa da Guy Debord. In Nosedive, primo episodio della terza stagione della serie Black Mirror, la protagonista Lacie aspira alla perfezione in una società in cui gli individui vengono
costantemente valutati da un sistema in cui degli impianti oculari hi tech si integrano con un social network totalizzante assegnando a ognuno un indice di gradimento. L’impegno di Lacie per riuscire ad aumentare il proprio rating da 4.2 a 4.5 (indice che gli consentirebbe di acquistare una casa in un quartiere esclusivo) diventa un’occupazione a tempo pieno, un lavoro che si sovrappone alla sua vera professione e che occupa tutto il suo tempo libero. Dopo una lite con il fratello e con una passante con la quale si è scontrata, il suo rating comincia a scendere precludendole il volo che la deve portare dall’amica d’infanzia che la vuole come damigella al suo matrimonio. L’orizzonte distopico creato con grande acume dagli sceneggiatori della fortunata serie britannica non sembra essere così lontano. Le tecnologie che ci consentono di comunicare riducono costantemente la distanza dal nostro corpo. In pochi decenni siamo passati dai metri che ci separavano da telefono, radio e televisione, ai pochi centimetri di personal computer, tablet e smartphone. La realtà aumentata di prodotti come Google Glass potrebbe essere il passaggio intermedio per arrivare a lenti simili a quelle indossate dalla protagonista di Nosedive. Siamo vicini a una generazione di individui superumani, come ha scritto Andrea Daniele Signorelli su Il Tascabile: Le mail, le telefonate, le notifiche, gli appuntamenti non saranno più nel nostro smartphone, ma appariranno direttamente davanti ai nostri occhi;
aumentando ancor più la nostra capacità di gestirle in tempo reale, qualunque attività si stia svolgendo. E se adesso dobbiamo decidere di prendere in mano lo smartphone per collegarci, nel futuro (che dista solo un paio d’anni) dovremo decidere di toglierci il visore per scollegarci. Una di erenza fondamentale: la nostra condizione di base sarà connessa alla rete e al fiume di attività lavorative e non che possiamo gestire con gli headset; per staccare dovremo decidere di levarceli dagli occhi. Questo ribaltamento è però solo un passaggio intermedio. Parecchie aziende – in vantaggio sembra essere Samsung – stanno già brevettando le lenti a contatto smart. Una prospettiva che dista ancora parecchio, ma che integrerà definitivamente il digitale nel corpo umano. A quel punto, forse, ci sconnetteremo solo per andare a dormire; il resto del nostro tempo sarà invece sempre immerso nella rete. Le ricadute lavorative sono evidenti: la nostra costante e immediata reperibilità verrà data ancor più per scontata; così come la capacità di monitorare non-stop tutto ciò che compare sui monitor che, a quel punto, si troveranno letteralmente appoggiati ai nostri occhi [26]
Quale sarà l’impatto sociale dell’integrazione sempre più stretta fra uomo e macchina? Quali le implicazioni economiche di un tempo libero che verrà colonizzato da motori di ricerca e social network, proprio come nelle distopie di Black Mirror? Ma il capitalismo non avrebbe dovuto crollare su sé stesso creando uomini liberi di appartenersi? Perché, al contrario, il capitalismo ha concretizzato i timori che avevano accompagnato l’ascesa e la diffusione del comunismo? [27] Nella sua approfondita critica a Facebook, Julian Azam spiega come il capitalismo non solo non sia collassato come era stato previsto da Marx e dai suoi discepoli, ma abbia trasferito l’alienazione al di là della sfera produttiva: Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il capitalismo non investe più solo l’industria per estorcere il plusvalore in ambito produttivo, come l’analisi
economica ha mostrato. Ora colonizza nuovi settori di mercato, in particolare il settore terziario e più precisamente il tempo libero. I momenti della vita vacanti per la riduzione secolare dell’orario di lavoro diventano quindi il nuovo Eldorado per una società capitalista avida di nuovi consumatori. Agli albori del XXI secolo l’alienazione si perpetua, e diventa sempre più di cile rendere autonome la vita privata, la sfera culturale e la sfera produttiva. E cosa peggiore, procede in tal modo che si assiste a un’autoreificazione degli individui di cui Facebook costituisce il luogo privilegiato [28]
Come ci si sottrae a Facebook una volta che si è stati nel suo recinto? Quale grado di consapevolezza è necessario per compiere un salto e vivere al di fuori del suo walled garden? Nel racconto dei tre anni trascorsi senza Facebook, Giorgio Fontana enumera le ragioni che lo hanno spinto a chiudere il proprio account. La terza motivazione fornita dallo scrittore è la decisione di smettere di “regalare soldi a Zuckerberg”: Del resto, non voglio nemmeno che le mie parole alimentino gratuitamente il capitale di Facebook. Non tanto per il loro valore in sé, ma quasi per il loro valore numerico — vale per me come per chiunque. Ci ripetiamo da anni che nell'economia digitale dell'attenzione il prodotto e il produttore siamo noi stessi: che per quanto sia bello fruire di tante applicazioni gratuite, gratuite non lo sono a atto — e il loro costo sta nei nostri dati, nei nostri contenuti, nel tempo che doniamo loro ogni giorno. Ribellarsi a tutto ciò in modo indistinto è piuttosto folle (dovrei chiudere innanzitutto il mio account Gmail), ma è un tema che continuo a vivere abbastanza male, come tutti i temi che hanno a che fare con il capitalismo surrettizio. Uscire da Facebook è stato anche un modo per ricordarmelo, benché certo non il motivo principale. Questo naturalmente non significa difendere alcun ritorno all'analogico, anzi. Quando tengo dei corsi di scrittura digitale, la prima cosa che consiglio è di creare un proprio sito — anche solo un blog su WordPress. Basta un minuto e si imparano già diverse cose sul funzionamento della rete e magari su com'è fatta una pagina web. Ma più di tutto si avrà a disposizione un luogo interamente proprio, che farà da casa madre e da collettore di tutti i
propri contenuti: fossero anche un cv, una biografia e qualche foto. Sarà più facile recuperarli con una semplice ricerca su Google, anche dopo anni, perché fuori dal recinto presentista di Facebook; non saranno limitati dalle vaghe norme di privacy di quella piattaforma; saranno linkabili liberamente. Godranno di tutto il bello della rete, insomma [29]
A Giorgio Fontana bastano poche righe per mettere a fuoco alcuni dei nodi fondamentali del lavoro gratuito che forniamo ai colossi del capitalismo digitale. Primo: le applicazioni che crediamo gratuite non lo sono. Secondo: regaliamo dati, contenuti e tempo incrementando il capitale di Facebook. Terzo: un proprio blog è uno spazio web libero dalle variabili algoritmiche e dalle esigenze di cassa di Facebook. Il bello di internet è, per Fontana, ciò che il web è stato prima che motori di ricerca come Google e social come Facebook e Instagram lo rendessero l’avamposto dell’ipercapitalismo. Pensiamo alla discriminazione algoritmica che il social di Mark Zuckerberg opera fra i contenuti di proprietà (testi, immagini e video caricati sulla piattaforma) e i contenuti terzi (quelli che linkano fonti esterne). L’evidente squilibrio a favore dei primi quando scorriamo su una qualsiasi timeline nega tutto ciò che il web dovrebbe essere o, meglio, tutto ciò che aveva promesso sarebbe stato: un luogo in cui scambiare informazioni e conoscenza in un ambiente democratico e privo di gerarchie. Se proprio sentiamo l’esigenza di esprimerci e di comunicare agli altri le nostre idee e opinioni, consideriamo la possibilità di farlo in un ambiente di nostra proprietà, sotto il nostro controllo, con le nostre regole e la
nostra faccia. Avremo un’audience più ristretta? Può essere. Ma chiediamoci anche quali benefici ci porta un’audience più ampia e quanto tempo ci porta via la gestione dei commenti e delle risposte ai nostri status. Bisogna imparare a prestare per il tempo libero la stessa attenzione che riserviamo al tempo del lavoro. Lo stesso discorso vale per un atto creativo o per un’idea: perché regalarla a vampiri algoritmici e a un pubblico che ci remunera con like e commenti? C’è tanto da condividere, ma allora perché sperperare contenuti che possono essere utilizzati in uno spazio di proprietà come un blog o come il libro che state leggendo? Per pigrizia e impazienza, avrei potuto regalare le mie riflessioni sul furto del tempo al social bianco e blu. Il risultato? Avrei avuto qualche snack di dopamina in più con i feedback dei miei “amici”, avrei dovuto gestire consenso e dissenso, spendere tempo per chiarire concetti poco chiari e per motivare le mie opinioni. Quando mi viene un’idea, invece, lascio che cresca, ne faccio talee, mi creo il mio giardino recintato fatto di fogli elettronici e appunti cartacei. Lavoro duro affinché le riflessioni possano strutturarsi in una forma accettabile per un pubblico pagante. Il risultato che prediligo è un libro. Lo tocco, lo sfoglio. Resta in verticale fra i suoi simili. Per un certo periodo di tempo, ha persino un suo profumo particolare. Il messaggio arriva in differita, con mesi di ritardo rispetto a quando è stato partorito. Qualcuno lo arricchisce col proprio tempo. Con l’attesa ho creato valore per il mio sforzo e per quello di chi ha creduto
in un progetto comune. Se avessi comunicato le stesse idee su Facebook sarebbero state travolte dal flusso. Sarei stato un dilettante delle idee e della scrittura, ma siccome da vent’anni è con le idee e con la scrittura che pago le mie bollette e faccio la spesa, non sperperarle su di una piattaforma che fa profitti sui miei contenuti è soltanto uno dei modi che conosco per avere rispetto del mio tempo. C’è una domanda che i nativi digitali forse non possono comprendere, ma che ha senso più che altro per i migranti digitali come me: se vent’anni fa vi avessero chiesto di trascorrere, in media, 135 minuti al giorno a fruire e produrre contenuti testuali, fotografici e video senza alcun tipo di remunerazione, quale sarebbe stata la vostra risposta?
5 - LA FINE DEI TEMPI MORTI
N
ell’estate 2016 mi trovavo nel castello di Monsaraz, in uno dei luoghi più suggestivi del Portogallo. Era mezzogiorno e, fra i turisti presenti all’interno della fortificazione, ho notato tre bambini di una decina d’anni totalmente disinteressati all’architettura medievale e intenti a cercare qualcosa con il loro cellulare. Non c’è voluto molto per capire che stavano utilizzando Pokémon Go, l’applicazione che nell’estate 2016 è stata scaricata da 500 milioni di persone in tutto il mondo. I tre bambini non hanno smesso di guardare il loro smartphone nemmeno nel momento in cui i genitori hanno chiesto loro di mettersi in posa per una foto di gruppo. Questo episodio mi ha ricordato le creature con cui popolavo castelli e abbazie nelle visite che compivo da bambino. In passato, l’attività immaginativa, ora sostituita dal gioco basato su realtà aumentata geolocalizzata, era un esercizio privo di intermediazione tecnologica e l’esperienza della visita era totalizzante, si sedimentava nella memoria. Mi chiedo che cosa quei tre ragazzi potranno
memorizzare della visita al castello di Monsaraz: se è vero che ricordiamo maggiormente ciò che ci emoziona, può anche essere che la cattura di un Pokémon abbia funzionato da catalizzatore mnemonico. Al contrario, può essere che la mancata cattura del Pokémon si traduca in una rimozione e che i contorni del teatro di gioco si facciano sfumati. L’unica certezza che ho in quest’episodio è l’assoluto monopolio che lo strumento ha avuto sull’attenzione di quei tre bambini, una totale colonizzazione del tempo che hanno trascorso all’interno del monumento. La diffusione pandemica di Pokémon ha scatenato numerose controversie in giro per il mondo. In Turchia, Mehmet Bayraktutar, il capo dell’associazione ufficiale degli imam, ha condannato il gioco dopo che alcuni Pokemon sono stati trovati all’interno di una moschea. In Egitto e negli Emirati Arabi il gioco è stato proibito perché considerato una sorta di cavallo di troia dello spionaggio internazionale. Secondo una statistica della Purdue University, a cinque mesi dal lancio dell’applicazione, Pokemon Go avrebbe causato 100.000 incidenti stradali, con un bilancio di circa 7 miliardi di dollari di danni. Tom Currie, un barista neozelandese, ha deciso di licenziarsi per dedicare la propria esistenza alla cattura dei Pokémon. Nei giorni dell’isteria collettiva per il gioco su YouTube e sui social network, circolava un video in cui alcuni autoveicoli rimanevano bloccati in un ingorgo a causa
della folla intenta a dare la caccia ai Pokémon presenti sul posto. Il grande successo del gioco fa riflettere su un processo di gamification che si estende ad attività che non possono essere svolte in multitasking: la guida di un autoveicolo, per esempio. Possiamo ascoltare l’autoradio, certo, ma non siamo né neurologicamente, né fisicamente pronti per guidare l’auto con una mano e cercare Pikachu con l’altra. Perché un ipercapitalismo che vuole mercificare ogni ambito della vita pubblica e privata, che aspira a ridurre al minimo le ore di sonno e che ci trasforma in impiegati amministrativi nostro malgrado dovrebbe lasciarci il tempo per la noia e per la contemplazione? Quanta noia e quanta contemplazione ci sono nelle nostre vite? I pochi interstizi di libertà che in passato sarebbero stati tempi morti vengono oggi occupati da strumenti digitali che espellono la noia dalle nostre vite e ci rendono reperibili e potenzialmente attivi 24/7. Sulla metropolitana, sul treno o in coda all’ufficio postale lo sguardo è perso negli schermi. Non c’è interstizio del nostro tempo che non possa essere colmato. La nostra società è liquida anche in questo, nel riempimento dei tempi morti. Nella prima parte de Lo straniero di Albert Camus ci sono alcune pagine che, molto probabilmente, oggi, in un’epoca di dittatura della trama, verrebbero cassate dalla maggior parte degli editor. È domenica. Il protagonista, Meursault, è da solo. Maria, la sua
compagna, è uscita e lui trascorre il giorno di festa fumando e osservando la vita che scorre sotto i suoi occhi. Sono cinque pagine di letteratura straordinaria in cui non accade assolutamente nulla, ma che hanno un loro peso nella costruzione di un personaggio che sembra osservare tutto, anche la propria esistenza, con uno sguardo indolente e distaccato. Quindi anche se raccontano la noia e una domenica fatta di tempi morti, sono pagine senza le quali Lo straniero non sarebbe lo stesso romanzo. Chi volesse raccontare la domenica solitaria di Meursault oggi gli metterebbe in mano uno smartphone, lo farebbe sedere davanti a un pc o su un divano, magari evitando le sigarette che, nel frattempo, sono diventate politicamente scorrette. Mi vengono in mente sequenze del cinema neorealista, momenti di capolavori come Umberto D, in cui la progressione della trama si ferma e la macchina da presa si mette a registrare la vita così com’è. La servetta Maria, unica amica dello squattrinato Umberto, ingaggia una breve battaglia con le formiche che hanno invaso la cucina della casa in cui vive l’anziano. Nell’economia del racconto è una scena superflua, ma in realtà sono queste scene apparentemente “innocue” ad agire sullo spettatore e a rinsaldare il patto narrativo. In una società ossessionata dalla produttività non c’è spazio per i tempi morti che vengono ridotti quando non del tutto cancellati.
All’inizio del 2018, ha tenuto banco per diverse settimane la polemica riguardante un bracciale utilizzato da Amazon per velocizzare la produttività dei propri dipendenti. Questo bracciale – pensato per rendere più veloce la ricerca dei prodotti stoccati nei magazzini del colosso dello shopping online – riceve un messaggio con le coordinate del prodotto da inscatolare ogni volta che viene effettuato un ordine online. Come hanno fatto notare molti commentatori, questa innovazione di Amazon non fa altro che robotizzare i lavoratori in una fase storica in cui l’hi tech tenta di rendere sempre più umani i robot. Inutile aggiungere come il bracciale pensato per migliorare la produttività sia anche uno strumento di controllo panottico: i movimenti e le pause per andare in bagno di chi lo indossa possono essere tracciati durante tutto l’orario di lavoro. L’azienda è stata ripetutamente contestata per l’impegno richiesto ai propri dipendenti: secondo quanto pubblicato da Elena Tebano sul Corriere [30], gli addetti all’inventario devono registrare con la pistola laser trecento prodotti l’ora, vale a dire cinque al minuto, mentre i magazzinieri percorrono fino a venti chilometri al giorno fra gli scaffali dello stabilimento di Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza. Alla luce di storie, come queste sembra evidente come le conquiste ottenute nelle battaglie per la quantità delle ore di lavoro vengano annullate dai ritmi parossistici richiesti agli operai con l’utilizzo di strumenti digitali atti a monitorarne l’efficienza. Il bracciale di Amazon altro
non è che la concretizzazione di un controllo che l’ipercapitalismo è riuscito a introiettare nei singoli individui con decenni di costruzione dell’immaginario. Centinaia di film, libri e prodotti pop hanno raccontato la storia del/la ragazzo/a che lavorando duro riesce a salire sull’ascensore sociale e a smarcarsi dalle proprie origini. Le narrazioni mainstream hanno rappresentato un mondo in cui l’impegno e il talento vengono premiati e l’indolenza e la malvagità puniti. La fede in questo immaginario ha creato un mondo in cui la forza lavoro ha visto nella possibilità del riscatto l’orizzonte utopico verso cui procedere a passo spedito. E così, come spiega Zygmunt Bauman in Sesto potere, «oggi ci si attende che siano gli oggetti delle preoccupazioni disciplinari dei manager ad autodisciplinarsi e a sopportare i costi materiali e psichici della creazione di disciplina. Ci si attende che siano loro a costruire le mura e a starci dentro di propria volontà» [31]. Proprio come la burocrazia ci trasforma in amministrativi part time, la carenza occupazionale e il clima di terrore seminato dalla crisi fa di ognuno di noi il responsabile del personale di sé stesso. Con uno dei suoi perversi ribaltoni, l’ipercapitalismo crea un contesto in cui «alle funzioni di polizia che generano inevitabilmente dissenso si sostituiscono l’educazione e l’addestramento ai desideri» necessari all’autodisciplina [32]. Gli stessi contenuti che ci propongono modelli di efficienza irraggiungibili nascondono nella loro forma,
a un livello subliminale, un’esaltazione della velocità e del ritmo che elimina i tempi morti. Limitandoci a Hollywood è sufficiente comparare il ritmo di un film d’azione degli anni Settanta con uno dell’ultimo decennio per capire come qualsiasi tempo morto sia stato abolito. Tutto il tempo che Sydney Pollack si prese per far entrare progressivamente lo spettatore nell’angoscia del protagonista de I tre giorni del condor, è inconcepibile nella saga di Jason Bourne che propone sequenze rocambolesche dal primo all’ultimo minuto di un suo film. I contenuti sono stati rimodellati dai… contenitori. Al giorno d’oggi, film con una durata superiore alle tre ore come Via col vento (238’), Ben Hur (212’), Lawrence d’Arabia (219’), C’era una volta in America (229’) Schindler ‘s list (195’) o Titanic (195’) sono improponibili per mere ragioni di mercato. Perché fare una sola proiezione e vendere un solo biglietto se, nello stesso lasso di tempo, puoi venderne due? Nella primavera del 2018, il biopic su Silvio Berlusconi di Paolo Sorrentino è uscito in due tempi: Loro 1 (104’), il 24 aprile, e Loro 2, il 10 maggio (100’). Una soluzione inedita per l’Italia, che il pubblico ha accolto con curiosità: il primo film ha incassato 4.068.970 euro e il secondo film 2.535.232 euro. Le logiche industriali dello Studio System hollywoodiano, che fra gli anni Trenta e Novanta concedevano speciali deroghe per i film evento, sono state ridotte al minimo per rendere il mercato più redditizio. L’attuale standard di durata è compreso fra i 90 e i 105 minuti, sia per ragioni di distribuzione
cinematografica, sia per facilitarne il successivo inserimento nei palinsesti televisivi. Così, se da una parte si sviluppa il fenomeno dei binge-watcher insonni che compiono delle vere e proprie maratone per vedere in sequenza intere stagioni delle loro serie preferite, dall’altra si afferma una standardizzazione della durata dei film. Ne sanno qualcosa il regista Denis Villeneuve e il produttore Ridley Scott che con Blade Runner 2049 hanno incassato “solamente” 259 milioni di dollari a fronte di un budget di 150-185 milioni di dollari. L’obiettivo di incassare 400 milioni di dollari è stato clamorosamente fallito nonostante il sequel di Villeneuve fosse uno dei migliori film di fantascienza degli ultimi anni. Ridley Scott, regista del primo film del 1982 e produttore esecutivo del sequel, non si è certo risparmiato nella sua diagnosi del flop: «È lento. Lungo. Troppo lungo. Avrei dovuto tagliarne mezz’ora». Ovviamente non è colpa degli spettatori, ma del mercato che ha educato gli spettatori a una durata più breve e a ritmi narrativi che in passato erano impensabili. La storia del cinema ci insegna che è accaduto anche il contrario: quando, nel 1941, Orson Welles debuttò al cinema con Quarto potere, il film si rivelò un insuccesso perché il pubblico statunitense dei primi anni Quaranta non era pronto per un montaggio così rapido. Nel documentario Tout s’accélère di Gilles Vernet, il fisico e filosofo spiega come ritmo, velocità e tempi di alcuni settori della nostra società abbiano subito una forte accelerazione:
Ci sono e ettivamente cose il cui ritmo accelera: gli scambi di Borsa, per esempio, e la comunicazione. Anche il ritmo delle storie presentate alla televisione e la durata di un piano cinematografico sono sempre più corti. Si ha l’impressione che il mondo globalmente acceleri. Ma non bisogna confondere il mondo e la sua rappresentazione. Nel mondo ci sono due miliardi di persone che non hanno mai visto una presa elettrica e ho l’impressione che non direbbero che il mondo accelera. Quello che mi sembra sintomatico della postmodernità è che non ci troviamo più tutti in un tempo sincrono: ci sono persone che vivono nell’attesa, in una lentezza permanente, nella noia, ma che sono ai margini del campo visivo [33]
Il discorso su durata e ritmo fatto per il cinema vale anche per il mercato della musica leggera. La necessità di un’alternanza rapida delle canzoni nella programmazione radiofonica, ma anche nelle nuove fruizioni (YouTube, Spotify, eccetera) sta portando una progressiva riduzione della durata delle canzoni. Per fare un esempio, la durata di The End dei Doors (11’40’’) coprirebbe la durata di quattro o cinque canzoni pop pubblicate oggi. E che dire di Echoes dei Pink Floyd? I suoi ventitré minuti erano l’intero lato B dell’album Meddle. Nel 1971 il pubblico era abituato a suite di questo genere; ora sarebbe un contenuto al di fuori delle regole del mercato. Film di tre ore e canzoni di 8, 9 e 10 minuti continuano a essere prodotti, ma possono essere circuitati solamente al di fuori di contenitori mainstream. Il punto di convergenza di questa tensione verso la forma breve avrebbe dovuto essere il videoclip, ma si tratta di un formato audiovisivo che, dopo i fasti degli anni Novanta, attraversa una grave crisi creativa. Che il
videoclip, nella sua forma di canzone filmica o di film musicato, sarebbe diventato uno dei must della fruizione libera e gratuita 24/7 lo ha compreso bene l’industria discografica che ha ricavato nuove forme di monetizzazione dalle visualizzazioni su YouTube/Vevo. Il cortometraggio, dopo i fasti di inizio Novecento, stenta a decollare come prodotto vendibile e si limita a essere una “palestra” per chi aspira a dirigere un lungometraggio. Dal punto di vista “infrastrutturale”, va sottolineato come lo sviluppo della rete 4G abbia consentito forme di fruizione dei contenuti in mobilità impensabili fino a qualche tempo fa: in questo nuovo contesto, le forme brevi come videoclip, tutorial e frammenti di contenuti audiovisivi più lunghi sono diventate “moduli” con i quali occupare liquidamente gli interstizi del tempo libero. Mezzo secolo fa, con la sua proverbiale lungimiranza, Guy Debord sottolineava le contraddizioni di una società che cerca di guadagnare tempo con i cibi pronti per poi trascorrere una parte considerevole della propria giornata davanti a uno schermo: Il tempo del consumo di immagini, medium di tutte le merci, è inseparabilmente il campo in cui si esercitano pienamente gli strumenti dello spettacolo, e lo scopo che questi presentano globalmente, come luogo e come figura centrale di tutti i consumi particolari: è noto che il risparmio di tempo costantemente perseguito dalla società moderna – che si tratti della velocità dei trasporti o dell’uso delle minestre in polvere – si traduce positivamente per la popolazione degli Stati Uniti nel fatto che la sola contemplazione della televisione la tiene occupata in media da tre a sei ore al giorno [34]
Nel capitalismo cronofago, l’acquisto di molte merci corrisponde a uno scambio, più o meno equo, fra il denaro che spendiamo e il tempo che guadagniamo. Accade quando imbocchiamo un’autostrada che ci consente di viaggiare a 120 km/h, quando prepariamo il nostro risotto con un preparato liofilizzato, quando scendiamo in un esoso parcheggio sotterraneo invece di continuare a girare per trovare un posto libero. Da qualche anno, negli aeroporti, si sono diffuse delle corsie preferenziali per i clienti di First Class o Business Class, oppure dei Frequent Flyer che aderiscono a dei programmi di fedeltà. La modalità, palesemente classista, consente ai più ricchi di risparmiare tempo in cambio di un biglietto più caro e a tutti gli altri di risparmiare denaro a fronte di una coda più lunga. In Silicon Valley: i signori del silicio, Evgeny Morozov esamina criticamente lo sviluppo di alcune app prodotte dal tecnocapitalismo digitale e promosse dall’informazione che ne amplifica il messaggio come supporti pensati per migliorarci la vita. Fra queste c’è Haystack, un’applicazione che consente agli automobilisti di vendere all’asta il parcheggio che stanno liberando a beneficio di altri guidatori alla ricerca di un posto libero. Il parcheggio continua a essere pubblico, ma attraverso l’app un privato può monetizzare l’informazione trasformando quello spazio in un bene privato. La visione di Morozov è lungi dalla posizione tecnottimista dominante:
Così è stato sempre possibile trovare conforto nell’arte, nello sport, nel cibo, nell’urbanistica: ambiti, pensavamo, nutriti da valori artistici ed estetici, oppure ancora caratterizzati da un livello di cooperazione e solidarietà su ciente almeno a compensare la ripetuta e ineludibile brutalità delle relazioni di mercato. Dopotutto c’era qualcosa di confortante nel sapere che un manager di un hedge found doveva cercare parcheggio esattamente come doveva cercarlo un bidello. Dieci anni fa questa presunta uguaglianza sembrava essere un fatto incontrovertibile della vita; oggi si tratta di un’imperfezione tecnologica che può essere facilmente corretta con un telefonino [35]
Se è vero, come sosteneva Marx, che il pensiero dominante è espressione della classe dominante, il tecnocapitalismo non può che esprimere un pensiero favorevole all’innovazione tecnologica. Le voci come quelle di Morozov e Bauman, capaci di fornire ai propri contemporanei un punto di vista critico di fronte all’impatto delle tecnologie sulle nostre vite, non mancano di certo, ma vengono ridotte a rumore di fondo dalla massiccia pubblicistica a favore di una digitalizzazione pandemica, liquida e irrinunciabile. Come nel capitalismo “analogico”, con il capitalismo digitale il consumatore spende per risparmiare tempo e, successivamente, trascorre il tempo libero che ha incrementato consumando. La differenza fra le modalità di consumo del passato e quelle del presente è tutta nella tracciabilità dei dati: il tornaconto della nostra ansia di risparmiare tempo è una profilazione che ci costruisce intorno una realtà personalizzata e rassicurante alimentando un mercato che ha nelle informazioni la propria linfa vitale. L’abbonamento
annuale ai musei, la tessera del supermercato, la carta di credito ci permettono di risparmiare tempo e/o denaro e in cambio si prendono dati che in passato venivano estratti con costosissime ricerche di mercato. Come aveva già intuito Debord: nel suo settore più avanzato il capitalismo concentrato si orienta verso la vendita di blocchi di tempo ‘completi di tutto’, ciascuno dei quali costituisce una sola merce unificata che ha integrato un certo numero di merci diverse. Si vede così apparire nell’economia in espansione dei ‘servizi’ e del ‘tempo libero’, il pagamento calcolato secondo la formula del ‘tutto compreso’, per l’habitat spettacolare, per gli pseudospostamenti collettivi delle vacanze, per l’abbonamento al consumo culturale, e per la vendita della socialità stessa in ‘conversazioni appassionanti’ e ‘incontri con personalità [36]
Il tempo libero per eccellenza, quello della vacanza, nega la sua stessa etimologia. Vacanza deriva dal latino vacantia, neutro plurale sostantivato di vacans, participio presente di “vacare” che significa essere vuoto, essere libero. Ma nella vacanza “tutto compreso” non c’è posto per il vuoto e per i tempi morti. Inoltre, come spiega Edgar Morin ne Lo spirito del tempo, il tempo libero è molto diverso dal tempo delle feste dell’antichità: Le feste, ripartite su tutto l’anno, erano anche il tempo delle riunioni collettive, dei riti sacri, delle cerimonie, delle rimozioni di tabù, delle baldorie e dei banchetti. Il tempo delle feste è stato sbriciolato dall’organizzazione moderna e dalla nuova ripartizione degli spazi di tempo libero nei week-end e nelle vacanze [37]
Lo sbriciolamento del tempo delle feste [38] in un tempo libero spalmato lungo tutto l’anno è la
condizione ineludibile per creare occasioni di consumo senza soluzione di continuità. Morin individua nella «zona abbandonata dal lavoro, dalla festa e dalla famiglia» [39] l’humus di una cultura di massa che può essere così considerata come una gigantesca etica del tempo libero. In altri termini, l’etica del tempo libero, che si sviluppa a discapito dell’etica del lavoro, a fianco di altre etiche vacillanti, prende forma e si struttura nella cultura di massa. Questa non fa altro che occupare il tempo libero (con spettacoli, incontri sportivi, trasmissioni radiotelevisive, lettura di giornali e riviste), orientare la ricerca della salvezza individuale nel tempo libero che, così strutturato, diventa stile di vita [40]
Riempire la propria agenda di spettacoli ai quali assistere e di eventi ai quali partecipare significa aderire a questa etica, resa possibile dalla liberazione del tempo nella società contemporanea. Come spiega Etienne Klein: Il fatto di non avere tempo è un sintomo della nostra libertà. Noi potremmo visitare mille mostre l’anno perché abbiamo una possibilità di occupare la nostra vita inedita nella storia. Noi diciamo che non abbiamo tempo perché siamo liberi. La mia bisnonna, che passava tutti i giovedì a lavare, non aveva assolutamente del tempo libero, ma non diceva ma che non aveva tempo. In altre parole, c’era una sorta di armonia fra il tempo vissuto dal soggetto e il tempo cosmico ovverosia il tempo imposto agli individui dalla vita sociale. La vita sociale aveva senso. Oggi l’individuo è sempre più rivolto verso sé stesso, verso le proprie possibilità moltiplicate dalle tecnologie e, dunque, ha voglia di saturare il proprio impiego del tempo per non lasciare spazio al vuoto che lo colpevolizzerebbe. Quindi non dovremmo lamentarci perché penso che tutto ciò sia il risultato di un desiderio che non è necessariamente espresso, ma che ci spinge a saturare il nostro tempo perché l’occupazione ci dona un’ontologia, un peso esistenziale. Quando siete sommersi di lavoro esistete! C’è una sorta di piacere nel fatto di poter dire di
non avere tempo, in più è una buona scusa che permette di non ascoltare gli altri, di non dover rispondere alle loro domande e di non occuparci di loro. È molto comodo tutto questo, per chiunque! [41]
Che cosa accade quando il tempo libero si mangia tutto e quando viene meno la complementarità con il tempo del lavoro e il tempo dello studio? Cosa accade quando la ricerca della salvezza nel tempo libero diventa un’esperienza totalizzante e/o patologica?
6 - PERSI NELLA RETE
N
el marzo 2010, in Corea del Sud una coppia coreana viene arrestata dopo la morte della figlia di tre mesi, Sarang. L’uomo ha quarantuno anni e la donna è di vent’anni più giovane. Per la bimba hanno scelto un nome che nella loro lingua significa “amore”. I genitori di Sarang si sono incontrati online giocando a un gioco molto popolare nella Repubblica di Corea: Prius . Va detto che in questo Paese dell’Estremo oriente la passione per i videogiochi ha una dimensione ben diversa da quella a cui siamo abituati in occidente: i campioni dei videogame firmano contratti di sponsorizzazione principeschi e sono conosciuti e venerati con lo stesso trasporto che in Europa e in Sud America è riservato ai top player del calcio. In uno dei paesi maggiormente evoluti dal punto di vista tecnologico, dunque, i videogiochi sono una forma di intrattenimento diffusissima e intergenerazionale. Fino al caso della piccola Sarang non esisteva alcun limite orario e le sale giochi erano aperte 24/7, pronte ad alimentare, a qualsiasi ora del giorno e della notte, la passione dei
gamer. Ed è per questo che la piccola Sarang è morta di stenti. Invece di prendersi cura della neonata, i genitori sono stati inghiottiti dalla realtà parallela di Prius, un videogioco popolato da robot, cavalieri e maghi nel quale fra gli obiettivi del proprio avatar vi è la cura di un bambino chiamato Anima. Mentre la loro bambina deperiva, rimanendo sola anche per dodici ore, i due genitori accudivano un bambino all’interno degli ambienti virtuali di Prius. È proprio questo paradosso ad avere fatto sì che la storia di Sarang facesse il giro del mondo: la devozione dimostrata nei confronti del loro figlio virtuale ha evidenziato come i concetti di genitorialità e di cura non fossero estranei alla coppia. Le indagini e il successivo processo hanno dimostrato come entrambi soffrissero di una totale dipendenza dal videogioco. Al centro del tempo della coppia non c’era la piccola Sarang, ma il videogioco Prius. Questa storia così dolorosa è paradigmatica di un problema sottovalutato che estremizza le logiche cronofaghe dalle quali ha preso le mosse la nostra riflessione. L’individuo dipendente, quale che sia la sua ossessione, vive un’esistenza in cui la dimensione del tempo viene governata da una singola attività. Internet, fornendo un accesso illimitato e tendenzialmente gratuito ai contenuti, ha aperto la strada a una serie di dipendenze da Internet che vanno da quella cybersessuale a quella cyber-relazionale, dall’acquisto compulsivo al gioco d’azzardo patologico, dal gaming al sovraccarico informativo. E, ultima
arrivata in ordine di tempo ma non ultima per importanza, c’è la dipendenza da social network che spinge gli utenti del web a controllare i propri profili social decine di volte al giorno. C’è un altro aspetto molto importante che riguarda le dipendenze nate in un ambito digitale ovverosia la percezione di una loro minore dannosità. Nonostante l’impatto negativo che le dipendenze prima elencate possono avere sulla vita privata e pubblica, sulle risorse economiche e sullo stato di salute, gli strumenti digitali agiscono come una sorta di filtro deresponsabilizzante. In Sesto potere, Zygmunt Bauman compie un interessante ribaltamento di prospettiva che vale la pena riportare nella sua interezza: Non sviluppiamo più una tecnica ‘al fine di’ fare ciò che vogliamo sia fatto, ma scegliamo la cosa da fare solo perché la tecnologia per farle è stata sviluppata (o piuttosto perché ci siamo imbattuti in essa, l’abbiamo scoperta casualmente, per ‘serendipità’). E più aumenta la distanza da cui la tecnologia ci permette di provocare la comparsa o scomparsa di una determinata cosa, più diminuisce la probabilità che le nuove opportunità create dalla tecnologia siano accantonate o addirittura bandite per il semplice motivo che i loro potenziali risultati o e etti collaterali possano collidere con altre considerazioni (per esempio morali), irrilevanti rispetto al compito in sé. In altri termini, l’e etto più degno di nota dei progressi della tecnologia che ci permette di operare ‘a distanza, con distacco, automaticamente’ è l’emancipazione progressiva e forse inarrestabile delle nostre azioni dai vincoli morali [42]
Bauman porta l’esempio degli attacchi con i droni che migliaia di vittime hanno mietuto negli ultimi quindici anni nel più totale silenzio dell’informazione mainstream. Ovviamente la riflessione del pensatore
polacco può essere applicata in maniera altrettanto efficace alle conseguenze morali delle dipendenze prima elencate. Oltre a causare il rilascio della dopamina che ci spinge alla continua ricerca di ciò che ci ha procurato appagamento e benessere, la mediazione tecnologica favorisce dinamiche autoassolutorie e rende meno tangibile tutto ciò che la dipendenza ci fa perdere. Le perdite economiche e i problemi che la dipendenza causa alla nostra vita pubblica e privata sono nodi che, prima o poi, vengono al pettine. Ma il tempo? Il tempo è davvero l’unica forma di ricchezza irrecuperabile e tutto lo sperpero che ne facciamo facendoci governare da un’ossessione o strumentalizzare da uno strumento è un processo irreversibile. L’esistenza dei nativi digitali e dei migranti digitali, maggiormente permeabili alle seduzioni delle nuove tecnologie, si sviluppa in una dimensione di affollamento virtuale e solitudine fisica. Si stima che il 51% dei ragazzi fra i quindici e i venti anni controlli il proprio smartphone settantacinque volte al giorno, mentre il 7% monitora per centodieci volte al giorno notifiche e attività sul proprio cellulare. Con la scomparsa della noia e dei tempi morti spariscono anche i tempi morti che sono sempre stati il terreno di coltura della fantasia, della creatività e dell’autocoscienza. Se siamo sempre in ascolto di qualcun altro o di qualcos’altro, quale tempo riserviamo all’ascolto di noi stessi? Secondo
un’indagine condotta dall'Associazione Di.Te. (Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, Gap e Cyberbullism) il 79% dei giovani intervistati (quindici-venti anni) non riesce a prendersi una pausa di tre ore dagli smartphone e altri device. La mia esperienza personale di docente in una scuola in cui i ragazzi hanno fra i quattordici e i diciotto anni dimostra come il “traguardo” delle tre ore senza cellulare sia pressoché irraggiungibile. Alle mie richieste di rispettare il regolamento che obbliga gli studenti a non utilizzare lo smartphone, molti ragazzi reagiscono porgendomi il telefonino. Quando spiego che non voglio sequestrare il loro cellulare, ma voglio solamente che non lo utilizzino nell’orario delle lezioni loro mi dichiarano di essere incapaci di non utilizzarlo se ne sono in possesso. Il meccanismo della dipendenza è talmente manifesto che alcuni di loro ammettono con candore: quando ho chiesto a uno dei miei studenti quanto tempo riuscisse a stare senza controllare il proprio smartphone mi è stato risposto un quarto d’ora. I nativi digitali sono la fascia più appetibile nell’economia dell’attenzione proprio per il loro rapporto simbiotico con i device. D’altronde era stato lo stesso per i babyboomers, i nati fra il 1945 e il 1964 che ebbero un ruolo determinante nella crescita dei consumi della seconda metà del Novecento. Secondo Jeff William, ex Google Strategist e ora ricercatore all’Università di Oxford, quello dei social è un potere
nuovo, in grado di modellare il modo di pensare di milioni di persone: Mai, nella storia dell’umanità, un uomo solo come Mark Zuckerberg è stato in grado di digitare qualcosa su una tastiera e modificare i comportamenti di due miliardi di persone. È un potere che va oltre i governi e persino oltre le religioni. Per catturare la nostra attenzione le piattaforme fanno leva sulle nostre parti più basse, più impulsive. Per questo quello che ti viene mostrato online ti indigna. Le sfumature, le vie di mezzo non riescono ad attirarci come fa un’esplosione. Le piattaforme digitali ci forniscono una specie di ricompensa psicologica e l’indignazione è una ricompensa strepitosa. Ci dà un senso di identità con quelli che la pensano come noi, ci fa sentire parte di una tribù, ma tutto questo ha delle conseguenze politiche perché il pensiero tribale a cui l’economia dell’attenzione ci sta abituando ci fa vedere le cose per estremi: o bruttissime o bellissime. Questa polarizzazione – che è un e etto di come viene progettato il modo in cui parliamo online fra di noi – ci divide, ci fa guardare gli altri con paura. Facebook non ci dà mai la possibilità di scegliere come pagare. Dobbiamo pagare con la nostra attenzione che è molto più preziosa dei soldi: l’utente medio di Facebook vale 5-6 dollari l’anno [43]
Pur con numeri inferiori a quelli dei giovani, anche gli adulti dimostrano di non poter stare a lungo senza controllare il proprio cellulare: il 49% degli over 35 lo controlla almeno quarantatré volte al giorno e il 6% almeno sessantacinque volte al giorno. Fra le dipendenze già decodificate dagli psicologi e studiate in ambito sociologico vi sono la nomofobia (la paura di rimanere sconnessi dalla rete di telefonia mobile), la FOMO (letteralmente “Fear Of Missing Out”, è la paura di rimanere esclusi da qualcosa che sta accadendo) e il Vamping (consiste nel rimanere svegli, come i “vampiri”, fino alle prime ore del mattino per socializzare e chattare con altri utenti della rete).
Un discorso più approfondito lo merita il fenomeno degli Hikikomori che, pur non essendo necessariamente legato alle dipendenze tecnologiche, trova in esse un potente catalizzatore. Gli Hikikomori sono ragazzi e giovani adulti, di età compresa fra i tredici e i trentacinque anni, che scelgono volontariamente una vita di reclusione e di isolamento dalla società. Se in Giappone il numero di Hikikomori interessa attualmente oltre mezzo milione di persone, in Italia l’autoesclusione dalla società riguarda un numero sempre crescente di giovani con una stima non ufficiale di oltre 30.000 persone isolate. Reclusi nelle loro stanze, gli Hikikomori rifiutano ogni tipo di contatto con il mondo esterno e sopperiscono con un sovrautilizzo delle tecnologie alla completa assenza di una vita sociale. Anche per i NEET [44] restare connessi alla Rete significa non rinunciare totalmente a occupare un posto nel mondo. Secondo una statistica di Flurry Analytics dal 2013 al 2016 il tempo medio trascorso dagli utenti statunitensi sul proprio cellulare è passato da 158 a 300 minuti. Il sito Hackermoon [45] ha preso i tempi medi di utilizzo quotidiano dei social media (40 minuti di YouTube, 35 minuti di Facebook, 25 minuti di Snapchat, eccetera) e ne ha fatta una proiezione sull’arco di un’intera esistenza. Il risultato? Un anno e dieci mesi di vita su YouTube, un anno e sette mesi su Facebook, un anno e due mesi su Snapchat, 8 mesi su Instagram e soltanto 18 giorni su Twitter. Complessivamente 5 anni e 4 mesi di vita consumati sul display, un periodo nel quale
avremmo potuto percorrere a piedi la Grande Muraglia per tre volte e mezzo e prendere trentadue voli di andata e ritorno per la Luna! La principale conseguenza della dipendenza da Internet e dai gadget digitali e proprio la quantità significativa di ore trascorse in Rete, ma le conseguenze sono molteplici, dai problemi con il sonno all’attività fisica ridotta, dall’incapacità di mantenere il contatto visivo con le persone a un peggioramento della vita sessuale, dalla scarsa partecipazione alla vita sociale a stati di irritabilità e rabbia. Gli individui persi nella Rete diventano il pasto perfetto per la selvaggia bulimia del capitalismo cronofago.
7 - IL NONTEMPO DEI NONLUOGHI
A
ll’aeroporto di Lisbona la pubblicità sistemata a fianco dei dispositivi installati per consentire ai viaggiatori di effettuare il check in senza l’ausilio degli operatori attira la mia attenzione:
Time is a luxury. Check in online
*An extra 17 minutes to buy a souvenir [46] Nonostante l’asterisco e il carattere ridotto della precisazione, il messaggio è chiaro: i diciassette minuti che risparmi facendo il check in online potrai utilizzarli per consumare. Non ci sono allusioni e sottotesti: è il capitalismo senza più alcun pudore. Il fatto che il tempo sia un lusso è un’evidenza: mi trovo perfettamente d’accordo con l’agenzia pubblicitaria che, peraltro, non fa che ribadire un concetto ben radicato nella nostra cultura. È l’immagine al centro del cartellone pubblicitario – una scatola di praline
aperta – e il suggerimento che l’accompagna che realizzano un passo in avanti rispetto a un advertising maggiormente pudico che, in passato, si sarebbe limitato a sottolineare il guadagno di tempo. Si torna quindi a quanto abbiamo spiegato nel primo capitolo: il consumatore è, allo stesso tempo, un giacimento di minuti e di denaro. Nel capitalismo cronofago, il tempo guadagnato, l’intervallo e il tempo morto diventano occasioni di consumo oppure uno spazio per realizzarci come prosumer sui social network. Con il boom dei voli low cost, e il conseguente incremento esponenziale dei passeggeri su voli continentali, gli aeroporti hanno ripensato i propri spazi divenendo dei veri e propri centri commerciali. Le aerostazioni sono fra gli spazi che meglio incarnano il concetto di nonluogo definito da Marc Augé nel suo saggio del 1992: Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi identitario, relazionale e storico definirà un nonluogo. […] Un mondo in cui si nasce in una clinica e si muore in un ospedale, in cui si moltiplicano, con modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni provvisorie (le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club vacanza e i campi profughi, le bidonville destinate al crollo o a una perennità putrefatta), in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un commercio “muto”, un mondo promesso all’individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all’e mero propone all’antropologo (ma anche a tutti gli altri) un oggetto nuovo del quale conviene misurare le dimensioni inedite prima di chiedersi di quale sguardo sia passibile [47]
All’alba dell’era digitale, parlando dei nonluoghi, Augé stabilisce una correlazione fra le vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti ‘mezzi di trasporto’ (aerei, treni, auto), gli aeroporti, le stazioni ferroviarie, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e, infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di sé stesso [48]
C’è davvero qualcosa di straordinariamente profetico nell’ultima frase di questo elenco. Con qualche anno di anticipo sulla rivoluzione antropologica imposta dal web, e tre lustri prima della diffusione planetaria dei social network, Augé parla di una comunicazione autoreferenziale mediata dalla tecnologia, qualcosa di molto simile al narcisismo digitale. L’antropologo sottolinea a più riprese la relazione fra l’identità degli individui e gli spazi in cui si muovono. Ed è proprio il discorso identitario a chiudere il cerchio facendoci tornare al cartellone pubblicitario con il quale abbiamo aperto il nostro capitolo: Duty-free: appena declinata l’identità personale (quella del passaporto o della carta d’identità), il passeggero in attesa del prossimo volo si avventa nello spazio ‘esentasse’, egli stesso liberato dal peso dei bagagli e dagli impegni della quotidianità, forse non tanto per comprare a un prezzo più conveniente quanto per provare la realtà della sua disponibilità del momento, la sua irrecusabile qualità di passeggero in attesa di partenza [49]
Per Augé e per i creativi che hanno realizzato la pubblicità dell’aeroporto lisbonese l’identità del
passeggero in attesa di imbarcarsi è, quindi, quella del consumatore. Il capitalismo cronofago rimodella gli spazi e, di conseguenza, anche i tempi del consumo. I nonluoghi creano un nontempo? Il tempo del transito, degli acquisti, del viaggio, è un tempo separato dal tempo del lavoro, della vita sociale e domestica e del sonno? Il quesito è lecito e la liberazione dagli impegni della quotidianità di cui parla Augé sembra alludere proprio a una dimensione temporale parallela a quella in cui definiamo la nostra identità. Come le nuove tecnologie colonizzano i tempi morti e gli interstizi fra un’attività e l’altra, i non luoghi vengono pensati per massimizzare il tempo dei consumi dei passeggeri. Una volta messo alle spalle il metal detector, ci si trova molto spesso all’interno di un tunnel sovrailluminato in cui liquori, alcolici, tabacchi, profumi e, naturalmente, scatole di praline ci vengono proposti per un ultimo contributo all’economia locale prima di prendere il volo. Gli spazi commerciali vengono distribuiti lungo l’itinerario che dai controlli conduce fino alle porte d’imbarco. Gli spazi d’attesa, una volta predominanti e separati, sono ora inglobati all’interno delle aree commerciali. Quando l’aeroporto bergamasco di Orio al Serio è stato trasformato in un importante hub per i voli low cost, si è verificato uno strano fenomeno: dalla Gran Bretagna e dall’Irlanda sono arrivati turisti dello shopping che, dopo avere fatto la spesa nel vicino centro commerciale, tornavano in patria in giornata
con le valigie piene di prodotti Made in Italy o presunti tali. Così come accade con l’utilizzo delle piattaforme digitali, anche nei centri commerciali la strategia di marketing è basata sul concetto del walled garden che abbiamo illustrato in precedenza. L’obiettivo di chi vende – tanto nell’economia dell’attenzione come in quella reale – è trattenere nel proprio giardino recintato, per il maggior tempo possibile, i propri clienti. Il caso più emblematico è quello di Ikea, la maggiore catena di mobili, complementi d’arredo e oggettistica per la casa del mondo. La planimetria dei punti vendita del colosso svedese ha un unico archetipo di riferimento: il labirinto. Dopo un approfondito studio, alcuni ricercatori dello University College di Londra hanno evidenziato lo stretto legame fra la struttura labirintica degli store del marchio scandinavo e la tendenza dei clienti ad acquistare più prodotti dello stretto necessario. Alan Penn, capofila dello studio dello University College di Londra, intervistato da The Guardian parla di “effetto labirinto” per sottolineare la trappola logistica tesa a mantenere i clienti il più a lungo possibile fra mobili, complementi d’arredo e accessori. Proprio come in un labirinto, l’itinerario costringe intenzionalmente i clienti a un passaggio obbligato in tutte le stanze del punto vendita: «Il percorso sinuoso risulta disorientante e confuso e spinge gli acquirenti a mettere i prodotti nel carrello non appena li vedono perché non possono avere la certezza che li troveranno di nuovo» [50].
Le scorciatoie ci sono, ma vengono astutamente nascoste creando un percorso cronofago ed estremamente redditizio: secondo lo studio coordinato da Penn, il 60% dei prodotti che transitano dalle casse dell’Ikea non facevano parte della lista della spesa dei clienti al momento dell’ingresso nel punto vendita. La planimetria scientemente confusa costringe gli acquirenti a percorrere la via maestra che tocca tutte le stanze, gli scaffali e le aree di esposizione dello store. La stessa cosa avviene, per esempio, in molti autogrill presenti nella rete autostradale italiana, mentre nella grande distribuzione e nei supermercati di quartiere gli scaffali continuano a essere disposti con la consueta linearità. Gli iperstore e i grandi centri commerciali non mangiano il nostro tempo solamente intrappolandoci nei loro allettanti labirinti: c’è il tempo dello spostamento, quello delle code al parcheggio e in uscita. La convenienza economica viene parzialmente erosa dai mezzi di trasporto con i quali ci spostiamo e sui quali carichiamo le merci. Per molti anni il sistema ha funzionato, fino a quando non è arrivata la “retail apocalypse”, l’apocalisse della vendita al dettaglio che, negli Stati Uniti, a partire dal 2010, ha costretto decine di migliaia di grandi centri commerciali alla chiusura. Se da una parte una mobilità più leggera e più smart ha fatto riscoprire i negozi di quartiere, dall’altra la diffusione dello shopping online ha modificato le abitudini dei consumatori e gran parte delle filiere commerciali. Se a tutto ciò si aggiunge la diminuzione
del potere di spesa della classe media, si può ben comprendere come molti grandi centri commerciali abbiano dovuto chiudere i battenti. Grandi reti di negozi come J. C. Penney, Macy’s, Sears e Kmart hanno chiuso centinaia di punti vendita, altre hanno dichiarato fallimento. Nel 2017 le chiusure di centri commerciali negli Stati Uniti sono state 9.000 e, secondo le previsioni di Cushman & Wakefield [51], un colosso del settore immobiliare statunitense, nel 2018 è probabile che altri 12.000 megastore abbiano chiuso i battenti. In Europa, si sa, i trend economici cambiano in differita rispetto a quanto accade Oltreoceano, ma qualcosa sta iniziando a scricchiolare nella Grande Distribuzione italiana ed è ipotizzabile che i consumatori tornino a fare acquisti nei negozi di quartiere. Non è un caso che alcuni marchi della Grande Distribuzione stiano aprendo supermercati e, in casi più rari, anche negozi di quartiere più adatti alle abitudini dei consumatori del futuro prossimo. Con il declino dei centri commerciali scomparirà anche il nontempo dei labirinti del consumo?
8 - COLMARE IL VUOTO
V
acanza, dal latino vacantia, da vacans, participio presente di vacare, essere vacuo, libero, senza occupazione. Nella nostra società, questo recipiente vuoto deve essere colmato, riempito da occupazioni. La società produttivistica ce lo chiede. La vacanza ha senso se il vuoto viene riempito da esperienze, movimento, fotografie, souvenir, calorie, emozioni. Insomma, la vacanza, per come la intendiamo noi occidentali del XXI secolo, è esattamente il contrario del vuoto, dell’ozio, della stasi. I voli low cost, l’esplosione delle piattaforme online che permettono di spostarsi, mangiare e dormire a prezzi convenienti, l’apertura di Paesi una volta inaccessibili e una maggiore intraprendenza degli individui nella preparazione dei viaggi hanno fatto crescere il mercato turistico in maniera esponenziale. Nonostante la grave crisi economica iniziata nel 2007 e le ondate di attacchi terroristici che hanno interessato Europa, Nord America e Australia nell’ultimo lustro, l’impatto dell’industria del turismo e dei viaggi ha avuto una crescita pressoché costante.
Secondo i dati di Statista [52], il contributo totale dei viaggi e del turismo all’economia globale è cresciuto da 6.030 miliardi di dollari del 2006 a 8.270 miliardi di dollari del 2017 (+37,1%). In questo periodo di soli due anni hanno fatto registrare un calo del giro d’affari globale rispetto all’anno precedente: il 2008 (anno della grande recessione economica) e il 2015 (anno degli attentati terroristici iniziati con Charlie Hebdo e terminati con le stragi del 13 novembre a Parigi). Se si valuta esclusivamente il traffico dell’industria aeronautica, la crescita è ancora più evidente: nel 2004, vale a dire agli albori dell’era low cost, volavano 1994 milioni di passeggeri ogni anno, nel 2018 si è raggiunta la cifra storica di 4.358 milioni di passeggeri (+118,6%). In un mondo sempre più occidentalizzato l’horror vacui è una malattia diffusa, quasi pandemica. Nel già citato Lo spirito del tempo, Edgar Morin spiega come la cultura del tempo libero sviluppi il gioco estendendone la pratica ben oltre gli anni in cui ci si addestra alla vita. Secondo Morin le vacanze moderne rappresentano veramente il tempo vivo e vissuto, rispetto al tempo sclerotizzato ed esangue del resto dell’anno lavorativo. Queste vacanze non costituiscono soltanto degli intervalli corroboranti in mezzo alla natura (sonno, riposo, passeggiate), ma anche il tempo del piacere e dei giochi, tramite l’esercizio ludicamente praticato di attività vitali per i nostri avi (pesca, caccia, raccolta) o attraverso la partecipazione a giochi inediti (sport di spiaggia, sci nautico, pesca subacquea). La vita durante le vacanze diventa un grande gioco: si gioca a fare i contadini, i pescatori, i boscaioli, a lottare, correre, nuotare [53]
L’opposizione fra il tempo ordinario del lavoro e il tempo straordinario della vacanza è estremamente radicale in Morin che alla esangue sclerotizzazione del primo oppone la vitalità del secondo. Viene da chiedersi, quindi, in quale tempo si manifesti l’essenza di ognuno: nella routine e nella quotidianità o nel tempo in cui possiamo liberare le energie in ciò che ci gratifica veramente? La dicotomia fra tempo ordinario e tempo straordinario necessita di un tempo vacante e di un altrove. Il modo in cui la società dei consumi organizza questi altrove per attrarre i turisti, per sfruttare le risorse paesaggistiche, naturali ed enogastronomiche non si limita all’esercizio della cronofagia: ha bisogno di consumare suolo, di rimodellare i territori rurali, montani e marittimi e di riorganizzare le città. I fenomeni della turistificazione e della gentrificazione sono strettamente connessi al capitalismo cronofago e, dando a esso una dimensione spaziale, sono la materializzazione della bulimia del capitalismo contemporaneo. Le analogie fra i processi di turistificazione e gentrificazione e i cicli economici delle delocalizzazioni e dell’industria estrattive sono sorprendenti. Che cosa accade con la turistificazione? Si individua un luogo incontaminato, si creano strutture ricettive, si potenzia la vocazione turistica del luogo facendo terra bruciata delle economie preesistenti, si sfruttano le risorse turistiche fino a quando la meta è di moda, fino a quando ci sono infrastrutture in grado di servirla, fino a che il clima e
la sostenibilità ambientale la rendono appetibile alle masse. Quando le spiagge sono diventate un ammasso di plastiche e rifiuti (come accade a Bali e in molte coste da sogno degli Oceani Indiano e Pacifico), quando gli impianti di risalita delle stazioni sciistiche sono ormai scheletri inerti (come in Italia e in molte aree dell’Europa meridionale), quando gli alberghi incompiuti o abbandonati giganteggiano sulle coste (nel Sud Italia ne abbiamo molti esempi) ci si sposta altrove, verso nuove terre vergini da colonizzare. A fine ciclo, chi abbandona le località turistiche (ormai ridotte a orme del dinosauro capitalista) può fare due cose: spostarsi verso nuove El Dorado a termine oppure inurbarsi. Che cosa accade con la gentrificazione? Cinquant’anni fa, Guy Debord aveva già compreso che cosa avrebbe prodotto sul tessuto sociale la turistificazione portata all’interno delle grandi città: «L’urbanismo è la presa di possesso dell’ambiente naturale e umano da parte del capitalismo che, sviluppandosi conseguentemente in dominio assoluto, può e deve ora rifare la totalità dello spazio come suo proprio scenario» [54]. Modellare la città significa modellare i propri abitanti e il loro tempo di vita. Nel documentario The Human Scale [55], il regista Andreas M. Dalsgaard spiega, in cinque capitoli, come la forma delle città rimodelli i tempi della nostra esistenza. Dalsgard parte dalle nuove metropoli cinesi. Negli ultimi venticinque anni, l’abbandono delle campagne e la concentrazione nelle città hanno fatto sviluppare in maniera
esponenziale le città della Cina, facendo cambiare le abitudini dei suoi abitanti. Gli hutong, gli stretti vicoli commerciali, sono stati spazzati via dalle grandi vie di comunicazione, privando la popolazione dei luoghi di ritrovo deputati allo sviluppo della socialità. Inoltre, lo sviluppo orizzontale delle città ha moltiplicato in maniera esponenziale il fenomeno del pendolarismo, erodendo il tempo libero e le possibilità di incontro. Invece di favorire la socialità, le città la annichiliscono. Mi sveglio, viaggio, lavoro, viaggio e torno a casa per cenare e dormire. Il vero lusso di chi abita nei centri cittadini e non lontano dal luogo di lavoro sono le due, tre o addirittura quattro ore in più di vita domestica di cui può godere rispetto ai pendolari. Nel secondo capitolo, The Human Scale affronta uno dei temi nodali dello sviluppo delle città: per buona parte del Novecento, l’urbanistica ha pensato le città in funzione delle automobili, ma alla fine del secolo scorso qualcosa è cambiato. Copenaghen, per esempio, ha rivoluzionato la propria struttura urbana pedonalizzando le vie del centro storico e aprendo numerose piste ciclabili. Che cosa è successo? La pedonalizzazione e la ciclabilità, la creazione di piazze per le persone e non per le auto hanno creato occasioni di incontro sviluppando la vita pubblica, una cittadinanza matura e una mobilità orientata sulla bicicletta (il 35% degli spostamenti avviene in bicicletta e il 24% con mezzi motorizzati). È un caso che Copenaghen sia sempre in testa a tutte le classifiche sulle capitali più vivibili del
mondo? La stessa trasformazione è avvenuta a New York, metropoli che per un secolo è stata costruita solo e soltanto in un’ottica motoristica e che ha iniziato a cambiare quando l’amministrazione ha deciso di pedonalizzare alcuni tratti di Broadway e di allestire piste ciclabili. Più ciclabilità vuol dire più tempo. Il ritorno dell’utilizzo delle biciclette nelle città ha portato a un’utenza ben diversa da quella di un secolo fa: nella prima metà del Novecento e fino al secondo Dopoguerra erano le classi meno abbienti a spostarsi in bicicletta, ora è soprattutto la classe medio-alta a utilizzare la bicicletta per gli spostamenti urbani, mentre le classi meno abbienti sono costrette a muoversi in auto perché molto spesso abitano lontano dal luogo di lavoro. Nei percorsi urbani la bicicletta consente spostamenti più rapidi dell’auto in un raggio di cinque chilometri. L’auto guadagna nei tratti di strada più scorrevoli, ma la bicicletta recupera quando si creano delle code e, soprattutto, quando si giunge a destinazione: mentre l’automobilista si mette alla disperata ricerca di un parcheggio, il ciclista vincola il suo mezzo allo stallo fisso più vicino alla meta. Nel terzo capitolo del documentario, Andreas M. Dalsgaard arriva a una constatazione: le città ideali sono quelle pensate per spostamenti a 5 km/h, per esempio Siena. Molte amministrazioni, anche in Italia, hanno creato delle zone 30 dove gli incidenti stradali mortali sono ridotti praticamente a zero. Il paradosso che ancora troppi pochi comprendono è che
utilizzando un mezzo dalla velocità più ridotta possiamo in realtà guadagnare molto più tempo. Il quarto e il quinto capitolo completano il quadro proponendo l’esempio negativo di Dacca, città che ogni anno accoglie 500.000 nuovi abitanti, e quello di Christchurch, cittadina della Nuova Zelanda che, dopo il terremoto del 2011, ha imposto il limite di sei i piani per i suoi edifici, anche perché ci si è accorti che più basse sono le case e maggiore è la socializzazione. La gentrificazione – ovverosia la trasformazione di zone popolari in zone adibite al turismo, al business o alle residenze di pregio – è un processo di riappropriazione delle élite che evidenzia come le città siano pensate dai ricchi per i ricchi: la città è un dispositivo per ricchi, e chi non se la può permettere viene spinto via. L’aumento vertiginoso degli a tti in ogni quartiere oppure le panchine su cui nessuno può stendersi […] sono misure contro la povertà. Se non ce la fai, non hai più nessun paracadute. Se ce la fai, puoi anche concederti il lusso di stare da solo: chi sceglie l’isolamento ha un ruolo attivo nella definizione della solitudine. Sia la propria, che quella degli altri. Io credo che ogni azione che vada contro alle altre persone causi solitudine [56]
Il dettaglio delle panchine su cui nessuno può stendersi è molto significativo. A ben pensarci è accaduto anche negli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie: le vecchie panche sono state sostituite da sedili con i braccioli. Il primo effetto della gentrificazione e del rincaro delle zone centrali delle città è il respingimento delle fasce meno abbienti della popolazione nelle zone
periferiche o nei comuni dell’hinterland. Come si colma il gap economico? Con spostamenti più lunghi, con una maggiorazione di tempo sui mezzi di trasporto che si somma a quello del lavoro. Sui treni, sulle metropolitane e sui mezzi pubblici questo tempo è stato colonizzato dal capitalismo digitale che ha marginalizzato la lettura “analogica”. Per quanto riguarda i trasferimenti in auto, invece, è ancora la radio a farla da padrona: la tariffazione delle pubblicità radiofoniche è direttamente proporzionale al traffico automobilistico [57]. Oltre a respingere all’esterno le fasce meno abbienti, la gentrificazione ha anche un’altra funzione che ci riporta nuovamente al testo seminale di Debord: «L’urbanismo è il compimento moderno del compito interrotto che salvaguarda il potere di classe: il mantenimento dell’atomizzazione dei lavoratori che le condizioni urbane di produzione avevano riunito» [58]. La tensione dell’urbanismo alla gentrificazione e alla trasformazione degli spazi pubblici in spazi privati ha anche un’altra funzione: quella di dividere e separare la parte maggioritaria della popolazione. Divide et impera, dunque, una strategia politica vecchia come il mondo. Le grandi arterie stradali e ferroviarie all’interno delle città sono elementi di frattura nel tessuto sociale. A ben pensarci, l’urbanistica non ha fatto altro che anticipare l’abile lavoro di smembramento che il capitalismo digitale sta portando a termine con i social network. Così come i piani regolatori allontanano le persone e frammentano
le città con linee ferroviarie e grandi arterie, così la pratica quotidiana dei nostri avatar social allontana il dibattito dalle piazze e dai luoghi di incontro. Se la democrazia è nata nelle piazze dell’antica Grecia, un urbanismo che incentiva i corsi e le cosiddette “spine” lavora in senso opposto: da una parte ci sono l’incontro e la lentezza, dall’altra il movimento (spesso individuale) e la velocità. Ogni processo di gentrificazione e di turistificazione delle città provoca delle conseguenze in termini di trasporti, flussi di traffico e fruizione dei servizi. In The Human Scale, l’architetto Jan Gehl spiega che «la città è realizzata dagli uomini per ospitare uomini, per cui deve essere la città ad adattarsi agli uomini, non viceversa». Il tempo che, nelle nostre vite, dedichiamo agli spostamenti ha un impatto molto importante sulle nostre esistenze, ma nel rimodellare le città privilegiando chi è di passaggio a chi nelle città vive e lavora questa evidenza viene trascurata.
9 - UN TEMPO SENZA MEMORIA
C
hi controlla il passato controlla il futuro e chi controlla il presente controlla il passato. La distopia orwelliana di 1984, spesso citata quando si parla della società del controllo e delle tecnologie panottiche che estraggono ricchezza dai nostri dati, ha uno dei suoi punti di forza nell’invenzione letteraria del Ministero della Verità, il luogo nel quale lavora il protagonista del romanzo. Compito di Winston è correggere i libri e gli articoli di giornale che sono già stati pubblicati. La storia scritta viene modificata in modo da consolidare la fama di infallibilità del Partito unico al governo. Ogni forma di dissidenza viene fatta sparire e l’intervento sui testi già scritti è finalizzato a rendere la realtà del presente uniforme con le previsioni di un passato riscritto ad arte. Al Ministero della Verità interessa la sincronia, l’hic et nunc, la contingenza, l’alleato del momento, il nemico del momento. L’unico tempo utile è il tempo presente. Ci sono voluti settant’anni, ma siamo giunti a
una percezione della realtà in linea con quella auspicata dal Grande Fratello. L’elezione di Trump alla Casa Bianca, l’inarrestabile ascesa della destra in Europa, i leader populisti al governo in Sud America e un mercato sempre più deregolamentato si sono mangiati in pochi anni decenni di conquiste sociali. Lo Stato dell’Ohio sta valutando la pena di morte per i medici e per le donne che praticano l’aborto. Le presidenziali brasiliane del 2018 sono state vinte da Jair Bolsonaro, la cui ascesa politica è stata contraddistinta da razzismo, sessismo, omofobia e uno smaccato appoggio alle armi. Il primo ministro ungherese Viktor Orban e il vicepremier italiano Matteo Salvini aggregano consenso intorno a posizioni razziste che sembravano superate da tempo. Se il fascismo, messo fuorilegge dalla Costituzione Italiana, rialza la testa andando in piazza con magliette che associano Auschwitz a Disneyland, vuol dire che qualcosa deve essere accaduto nel rapporto fra gli individui e la storia. Se l’italiano razzista dimentica che cento o cinquant’anni fa erano i suoi avi o i suoi nonni a emigrare altrove per costruire un domani migliore qualcosa deve essere inceppato nel secolare esercizio dell’apprendere dalla storia per non ripeterne gli errori. Proprio come per il Ministero della Verità, anche nella politica del terzo millennio non esiste altro tempo che il presente. Come spiega Ezio Partesana: Nella propaganda non esiste propriamente il tempo. Occasionalmente si potrà fare riferimento a qualche evento remoto o a una data simbolica, così
come si sfruttano i centenari di nascita o di morte degli artisti per qualche ristampa o convegno, ma sempre con la noncuranza di chi sa bene che in fondo la cosa è priva di importanza. Per la propaganda il tempo è il presente eterno e indistinto dell’urgenza e dello schieramento [59]
Eliminare il passato dal dibattito pubblico è fondamentale per la retorica emergenziale poiché consente di concentrare l’attenzione sulle conseguenze eliminando le cause. Prendiamo due temi caldi della contemporaneità come le migrazioni e i cambiamenti climatici: in entrambi i casi, il dibattito pubblico è saturo di informazioni o pseudoinformazioni sulle conseguenze. A mancare sono le informazioni sulle cause. Spiegare i processi che hanno portato al boom dei flussi migratori verso Stati Uniti ed Europa e alla crisi ecologica che caratterizzerà il XXI secolo è sconveniente per chi detiene il potere. Il ruolo delle delocalizzazioni, delle guerre per procura, dei disastri ecologici dell’estrattivismo e delle crisi idriche non vengono mai accennati da chi costruisce consenso sulla paura dei migranti. Ci si limita a facili slogan come “aiutiamoli a casa loro” e si traccia un’ipocrita linea di demarcazione fra i migranti economici e i profughi, come se non appartenessero entrambi agli stessi problemi generati dal neoliberismo e dal neocolonialismo. Se per il fenomeno dei migranti il passato viene sapientemente trascurato, di fronte alle evidenze dei cambiamenti climatici l’atteggiamento preponderante è quello negazionista. Per Trump e soci i cambiamenti climatici non esistono, sono una fake news, un
complotto per rallentare l’economia americana. Nonostante siano proprio gli Stati Uniti a pagare il prezzo più salato dei cambiamenti climatici con uragani e incendi sempre più intensi, Washington è diventata la capitale del negazionismo. Nella distopia orwelliana si doveva «dimenticare tutto quel che era necessario dimenticare, e quindi richiamarlo alla memoria nel momento in cui sarebbe stato necessario, e quindi, con prontezza, dimenticarlo da capo: e soprattutto applicare lo stesso processo al processo stesso» [60]. Per il potere politico ed economico, rimodellare il tempo secondo questo paradigma orwelliano è fondamentale per non assumersi delle responsabilità quando le cose vanno male. Recidendo il filo che lega passato e presente, i detentori del potere possono colmare il vuoto di senso attribuendo le colpe a chi il potere lo deteneva ieri o a chi il potere lo detiene oggi, a seconda delle circostanze. La causalità viene sostituita dalla casualità: ciò che è prevedibile (un ponte che crolla, un territorio che si allaga, un villaggio distrutto da un terremoto, migliaia di abitazioni contaminate dall’amianto) viene trasformato dalla retorica della politica e del mercato in un evento imprevedibile, frutto del caso. Se gli elettori – nei loro molteplici ruoli di cittadini, votanti e consumatori – hanno progressivamente introiettato questa dimensione di urgenza cronica e di dissolvenza del passato, molto lo si deve all’utilizzo quotidiano dei social network e in particolar modo di
Facebook. La realtà così come compare sulle nostre bacheche non è una realtà scandita da una successione cronologica degli eventi, ma è una dimensione digitale regolata da un algoritmo che privilegia la prossimità della relazione e le nostre preferenze. Questa non è affatto una cosa di poco conto. Provate a pensare a quali e quanti equivoci si possano creare in una bolla in cui in un’ipotetica successione di eventi raccontata con i post A, B e C la pubblicazione di maggiore successo continui a essere la B. Poniamo il caso che il post B, in virtù di un maggior numero di interazioni, continui a essere riproposto a un bacino più ampio di persone rispetto all’A che lo ha preceduto e al C che lo segue. Per la maggior parte degli amici sarà ciò che è stato detto nel post B ciò che conta veramente, con la possibilità che un’eventuale smentita nel post C sia eclissata per ragioni che conoscono solamente gli algoritmi di Menlo Park. Per i nativi digitali, muoversi quotidianamente in ambienti digitali regolati dalle preferenze e autonomi rispetto all’ordine cronologico degli eventi è assolutamente naturale, come spiega Mark Fisher: «quella che oggi frequenta le aule scolastiche è insomma una generazione emersa all’interno di una cultura astorica e segnata dalle interferenze antimenmoniche, per la quale il tempo è da sempre ripartito in microproporzioni digitali» [61]. Dopo avere ridotto la cronologia degli eventi a un puzzle senza né capo, né coda, il potere può ricomporla a proprio piacimento e, attraverso la
retorica, cambiare di segno la semantica dei propri interventi. Un po’ come avviene con gli slogan del Grande Fratello – quelli secondo i quali la guerra è pace, la libertà è schiavitù e l’ignoranza è forza – il potere economico e politico spaccia il conservatorismo come progresso e le posizioni progressiste come reazionarie. In Italia l’esempio paradigmatico è senza ombra di dubbio quello della Tav Torino-Lione. Da trent’anni la popolazione della Valsusa si oppone a un’opera ritenuta da molteplici ricerche indipendenti come inutile e dannosa. Nel libro Binario morto, Luca Rastello e Andrea De Benedetti fanno cadere il castello di carte costruito sul Corridoio 5 Lisbona-Kiev, il corridoio unicorno, il corridoio ircocervo. Con dati, documenti e interviste, i due autori dimostrano come non vi sia alcuna volontà da parte del Portogallo e della Spagna, né da parte dei Paesi dell’est di proseguire su di un progetto nato in un contesto economico totalmente diverso. Per far sopravvivere questa dimensione mitica, la narrazione del potere necessita di immaginare un futuro identico al presente. In un sistema vicino al collasso – nel quale le sole vie d’uscita sono l’economia circolare, un potenziamento dell’agricoltura di prossimità, un alleggerimento dell’industria e una conservazione delle linee di trasporto pubblico locale già esistenti – si progettano costruzioni che saranno già superate in corso d’opera. Lo stalinismo che faceva piani quinquennali viene sorpassato a quadrupla velocità. Per smentire chi si fa
portavoce di un conservatorismo travestito da progressismo non sono necessari nemmeno i dati, basta il semplice buonsenso. Nei due secoli e mezzo successivi alla Rivoluzione Industriale, i ritmi dello sviluppo sono aumentati a una velocità insostenibile. Dal secondo Dopoguerra a oggi, nell’era che chiamiamo Antropocene, l’umanità ha proseguito sulla strada di uno sviluppo infinito, non rendendosi conto della finitezza delle risorse. Ecco perché la vera forza conservatrice e reazionaria è lo sviluppismo. Come scrivono Rastello e De Benedetti: Eccoci dunque al punto: ‘Fra quarant’anni le cose fatte adesso saranno già vecchie’. A che serve allora tutta questa fretta? Perché continuiamo a correre? Perché nessuno tira il freno? Forse perché, se ci fermassimo, il mondo verrebbe sbalzato via dal suo morbido sedile di certezze: che chi programma il futuro remoto sappia prevederlo, che le cose costruite oggi siano ancora utili e moderne non solo domani, ma anche dopodomani, che sviluppo e progresso viaggino parallelamente a velocità costanti, che sia l’umanità a doversi adeguare all’andatura del progresso e non viceversa [62]
Da una parte, dunque, si fa tabula rasa del passato, lo si trasforma in un’intermittente protesi del presente, dall’altra si immagina un futuro insostenibile dal punto ambientale, concentrazionario, antidemocratico e governato dal mito dello sviluppo. La questione non trascurabile è che a pagare il prezzo del gap fra sviluppo e progresso sono l’ambiente e le fasce più deboli della popolazione. Così come, nella maggior parte dei casi, il prezzo al metro quadro degli appartamenti decresce man mano che ci allontaniamo dal centro, il tempo speso per il pendolarismo è
inversamente proporzionale al costo dell’abbonamento ferroviario [63]. Il tempo e non lo spazio è la metrica che viene utilizzata per definire la tariffazione di uno spostamento nello spazio su di uno stesso mezzo di trasporto. Il tempo “liberato” dalla velocità finisce comunque per essere assorbito dai meccanismi del capitalismo producendo ineguaglianze sempre più varie e diffuse, come quella di cui ci occuperemo nel prossimo capitolo.
10 - POSSEDERE LA FINE DEL MONDO
«T
utti vogliono possedere la fine del mondo»: questo è l’incipit di Zero K , il romanzo con il quale Don De Lillo si è confrontato con il complesso tema della crioconservazione e con le implicazioni scientifiche, etiche e religiose che l’ibernazione solleva. A pronunciare questa frase è Ross Lockhart, padre del protagonista Jeffrey, magnate della finanza sessantenne che sceglie di affidarsi alla Convergence, un’azienda con una sede segreta nel deserto del Kazakistan che, attraverso le ricerche biomediche e le nuove tecnologie informatiche, può conservare i corpi e le coscienze fino al giorno in cui le malattie potranno essere sconfitte. Inizialmente il progetto prevede che a essere ibernata sia Artis Martineau, la compagna gravemente malata di Ross, ma successivamente anche il padre di Jeffrey deciderà di farsi ibernare fino a data da destinarsi. Il libro ha suscitato pareri contrastanti: alcuni lo hanno giudicato come un passo falso, altri ne hanno apprezzato lo sguardo lungimirante. È innegabile che
Zero K di Don De Lillo sia uno dei primi grandi romanzi che si confrontano con il tema poco esplorato della crioconservazione e, dunque, con una scala temporale che va oltre i consueti parametri. Si tratta di «tecnologia basata sulla fede. Ecco cos’è. Un altro dio. Non tanto diverso, alla fine, da alcune nostre divinità del passato. Solo che è un dio reale, questo, è vero, mantiene le promesse» [64]. Più avanti, Ross spiega che «la tecnologia è diventata una forza della natura. Non siamo in grado di controllarla. È come un turbine sopra il pianeta e noi non sappiamo dove andarci a nascondere» [65]. Il dio reale della scienza rende possibile mettere in stand by la propria esistenza, farsi da parte mentre le vite degli altri proseguono. L’ibernazione diventa il punto di partenza per una riflessione sull’identità: La solitudine, sì. Immaginate di essere soli e congelati all’interno della cripta, nella capsula. Le nuove tecnologie riusciranno a consentire al cervello di funzionare al livello dell’identità? Forse è questa la sfida che vi troverete ad a rontare. La mente cosciente. La solitudine definitiva. Pensate alla parola inglese alone. Dall’inglese medio. All one, tutto uno. Buttate via la persona. La persona è la maschera, il personaggio inventato in questa miscellanea di rappresentazioni sceniche che costituiscono la vostra esistenza. La maschera cade e la persona diventa quello che siete nel senso più vero. Tutto uno. L’io. Cos’è l’io? Tutto quello che siamo, senza gli altri, senza amici, estranei, amanti, bambini, strade da percorrere, cose da mangiare, specchi dove guardarsi. Ma si è davvero qualcuno senza gli altri? [66]
La domanda resta in sospeso. Presentando il libro al Circolo dei Lettori nel tour del 2016, lo scrittore ha
dichiarato la sua assoluta inadeguatezza di fronte all’insondabilità del tempo [67]. Tutti vogliono possedere la fine del mondo ma, ovviamente, non tutti possono permetterselo. Dal punto di vista tecnico, la crioconservazione (anche detta crionica o criopreservazione) è la conservazione del corpo a temperature bassissime in modo da poter curare il defunto da una malattia attualmente senza cure, per poi rianimarlo. Organizzazioni come la Convergence esistono: la Alcor Life Extension Foundation è l’azienda leader mondiale nella crioconservazione. Sul sito dell’azienda con sede a Scottsdale, Arizona, si sottolinea come la crionica non sia fantascienza, ma una pratica basata sulla scienza moderna. Tre sono le evidenze sulle quali si fonda la crionica [68]. La prima è che la vita può essere fermata e riavviata se la sua struttura base viene preservata, proprio come accade per gli embrioni umani che vengono conservati per anni a temperature che fermano completamente la chimica della vita. Nel caso degli umani adulti è già stato provato come questi sopravvivano al raffreddamento a temperature che impediscono il funzionamento del cuore, del cervello e di tutti gli altri organi fino a un’ora. La seconda è il processo di vetrificazione senza congelamento: l’aggiunta di alte concentrazioni di sostanze chimiche chiamate crioprotettori alle cellule consente di raffreddare i tessuti a temperature molto basse senza la formazione di ghiaccio. Lo stato di assenza di
formazione di ghiaccio a una temperatura inferiori a – 120° C viene chiamato vetrificazione. La terza è che i metodi per la riparazione della struttura a livello molecolare possono ora essere previsti: lo sviluppo delle nanotecnologie porterà alla creazione di dispositivi in grado di estendere la riparazione e la rigenerazione dei tessuti, compresa la riparazione delle singole cellule, una molecola alla volta. Questa futura nanomedicina potrebbe quindi recuperare qualsiasi persona che si sia affidata alla crionica. Si legge sul sito della Alcor Life Extension Foundation: «Se la sopravvivenza della struttura significa sopravvivenza della persona, se il freddo può preservare la struttura essenziale con sufficiente fedeltà, se la tecnologia prevedibile può riparare lesioni del processo di conservazione, la crionica dovrebbe quindi funzionare, anche se non può essere dimostrato che funzioni oggi» [69]. Fino a oggi sono centoquarantasei gli individui criopreservati nei congelati di Scottsdale, mentre il numero delle persone che hanno firmato un contratto per esseri ibernati dopo il decesso sono un migliaio, fra cui tre italiani. Il caso più noto è quello di Matheryn Naovaratpong, una bambina di origine tailandese deceduta nel 2015 a due anni e mezzo a causa di un raro tumore cerebrale. Dopo dodici interventi e molti cicli di chemio e radioterapia i genitori hanno contattato la Alcor per iniziare i preparativi per la criopreservazione della figlia. Perché un corpo venga criopreservato occorre attendere il
decesso: le leggi attuali impediscono di iniziare i preparativi prima della morte. L’organizzazione di Scottsdale non è la sola attiva nel campo della crionica. A Comfort, una cittadina texana nei pressi di San Antonio, si sta lavorando alla costruzione di Timeship, una “nave del tempo” che custodirà 50.000 cadaveri (o corpi “deanimati” come preferiscono chiamarli gli artefici del progetto) pronti a essere risvegliati quando le malattie che li hanno condotti alla morte saranno state debellate. Oltre a Scottsdale e a Comfort, altre celle frigorifere pronte ad accogliere altri clienti si trovano a Clinton Township, nel Michigan, e a Sergiev Posad, una città situata a nord di Mosca. Nelle celle frigorifere della russa Kriorus sono presenti cinquantuno persone e una ventina di animali. Alla Alcor Life Extension Foundation il processo di criopreservazione costa 200.000 dollari, mentre la spesa è di 80.000 euro se si opta per la conservazione della sola testa. L’opzione più economica è concepita nella speranza che la mente possa tornare al mondo su di un altro corpo oppure su di un corpo artificiale. Il funzionamento delle tecniche di criopreservazione apre prospettive inedite nel campo dei trapianti di organi: attualmente, un cuore può essere conservato per un tempo massimo di quattro ore, mentre nel caso la crionica possa essere allargata ai singoli organi potranno essere create delle vere e proprie “biobanche” alle quali attingere nel momento del bisogno.
Possedere la fine del mondo, dunque, resta una scommessa fideistica e pseudoreligiosa che non tutti possono permettersi, un campo finora poco esplorato nel quale praticare l’ineguaglianza sociale. Se un giorno sarà possibile mettere la propria esistenza in stand by il servizio non verrà passato dal servizio sanitario nazionale: dopo la morte i poveri verranno interrati o cremati, i ricchi verranno ibernati fino a data da destinarsi. Nei capitoli precedenti abbiamo indagato le modalità predatorie con le quali i poteri economico e politico governano il tempo delle classi meno abbienti, abbiamo scoperto come il conflitto sociale sia stato annacquato dal capitalismo digitale in una servitù volontaria agli algoritmi e come la burocrazia ci faccia diventare lavoratori nostro malgrado. Parlando di questioni come l’estrazione di valore dai nostri dati o il ribaltamento sui cittadini delle incombenze amministrative e di data entry una volta spettanti a professionisti, è comunque possibile stabilire delle metriche o, quantomeno, maneggiare questioni che attengono alla quotidianità e chiunque può (ri)conoscere. Varcando il confine del transumanesimo, invece, ci si addentra in temi che appartengono a una ristrettissima élite di ricercatori e uomini d’affari [70]. Affini alla crionica sono tutte le pratiche che hanno come scopo l’allungamento della vita oltre i limiti fisiologici finora conosciuti. Nel saggio La fine dell’invecchiamento Aubrey de Grey e Michael Rae
propongono una rivoluzione copernicana nel trattare il tema della vecchiaia: Non c’è nessuna bomba a orologeria, ma solo un accumulo di danni. L’invecchiamento del corpo, proprio come un’automobile o una casa, è un problema di scarsa manutenzione. Abbiamo macchine di cent’anni e (almeno in Europa) edifici di secoli che si trovano nello stesso stato di e cienza di quando furono costruiti, a dispetto del fatto che non furono progettati per durare una frazione di questo tempo. Come minimo, il paragone con automobili ed edifici ci fornisce un buon motivo per nutrire un cauto ottimismo riguardo al fatto che l’invecchiamento possa essere rimandato indefinitamente grazie a una manutenzione minuziosa e frequente [71]
Il nostro corpo, con determinate terapie, un monitoraggio e una manutenzione costanti può essere mantenuto in vita ben oltre i limiti attualmente conosciuti. L’invecchiamento è, per i due autori, una malattia come tante altre, una patologia molto diffusa che può essere curata e debellata. In una condizione di progressivo aumento dell’età media e di incremento demografico su scala globale, la scommessa tutta da verificare della crionica e la più realistica sfida all’invecchiamento sostenuta dai transumanisti non possono che collidere. Anche nella più utopica delle ipotesi, quindi, le Timeship non sostituiranno i cimiteri, né avremo centenari ai Giochi Olimpici. Per una mera ragione di controllo demografico, i servizi della crionica e i trattamenti per prolungare la vita saranno calmierati dai prezzi. È facile immaginare che se queste pratiche dovessero diffondersi il loro sviluppo sarà coerente con quello dei sistemi sanitari che tendono a privatizzare i servizi con tempi d’attesa
biblici, sovraffollamento delle strutture e disagi assortiti per chi opta per il settore pubblico. Come accaduto per precedenti conquiste in campo medico, ma ancor più che in passato, il processo di “sgocciolamento” verso il basso sarà verosimilmente rallentato da mere ragioni di opportunità. Questo tempo di vita potenzialmente prolungato in corpi resi più efficienti per un numero più elevato di anni, oppure questo tempo di morte apparente in attesa di un’ipotetica resurrezione, sollevano numerosi problemi di ordine etico e religioso che non è certo possibile trattare in questa sede. Così come appare scontato l’ennesimo scontro fra scienza e religione [72], è verosimile immaginare che questo mutamento antropologico nel rapporto fra gli individui e il tempo della propria esistenza genererà una diseguaglianza inedita nella storia dell’umanità. Il mito dell’eterna giovinezza è vecchio quanto l’umanità [73], dall’epopea di Gilgamesh alla Nuova Atlantide di Francesco Bacone in cui immaginano delle caverne artificiali progettate per refrigerare e conservare i corpi, proprio come fanno alla Alcor Life Extension Foundation. Nel 2011, il regista e sceneggiatore Andrew Niccol è uscito nei cinema con In Time, una distopia cinematografica che, col pretesto dell’action movie, fa riflettere con grande acume sul rapporto fra individui e tempo. Nel 2169, le persone sono programmate geneticamente per invecchiare fino ai venticinque anni. Il loro sviluppo fisico si arresta a quella data. Raggiunta quell’età, un timer posto sull’avambraccio
inizia a scandire il countdown di un anno fino alla morte istantanea. Questo limite di un anno può essere differito con delle trasfusioni di tempo, oppure lavorando. Dal punto di vista fisiologico non c’è invecchiamento: il corpo rimane cristallizzato a venticinque anni. In questo ipotetico XXII secolo il tempo è l’unica valuta esistente: mentre i poveri giunti a venticinque anni vivono con la spada di Damocle di una morte ormai prossima, i ricchi dispongono di centinaia di anni, possono vivere per sempre e concedersi lussi pagabili con giorni, settimane o anni di vita. Mentre i ricchi si muovono con lentezza perché vivranno per sempre, i poveri vivono un’esistenza frenetica alla continua ricerca di tempo che garantisca loro di differire il momento della loro morte. Protagonista del film è Will Salas, un operaio che lavora nella fabbrica che produce gli apparecchi in cui viene immagazzinato il tempo. In un contesto di aumento del costo della vita e decrescita degli stipendi, sempre più persone povere di tempo muoiono. Una sera, in un bar, Will Salas incontra Henry Hamilton, un uomo che ha già vissuto centocinque anni e che vuole togliersi la vita, stanco di vivere da privilegiato in un mondo basato sulla disuguaglianza. Hamilton spiega a Salas che le élite controllano i prezzi e le paghe in modo da conservare il loro status poiché se tutti vivessero in eterno il sistema crollerebbe. Ecco perché mentre alcuni continuano a vivere con un’aspettativa di vita ultrasecolare quando non millenaria, i poveri continuano a morire allo scadere del countdown.
Hamilton si suicida trasferendo i suoi centosedici anni a Salas che, acquisita una nuova coscienza sulle dinamiche che governano il mondo, fugge dalla polizia e cerca di guadagnare anni prima con il rapimento della figlia di un magnate, Sylvia Weis, poi rapinando le banche del tempo in cui viene stoccato il capitale. La narrazione distopica di Andrew Niccol racconta le dinamiche economiche e sociali della nostra società con una storia che riesce a conciliare le esigenze “ritmiche” dell’action movie e un’acuta riflessione sulla cronofagia del potere. Si tratta di un film che maneggia in maniera estremamente spettacolare il marxismo e che dimostra come l’ipertrofica macchina hollywoodiana sia talmente inattaccabile da potersi concedere il lusso di raccontare criticamente lo stesso sistema di cui fa parte. In Time è un’esplicita denuncia del carattere cronofagico del potere, una fantascienza fatta con tanto cervello e pochi effetti speciali per spiegare il funzionamento dell’economia, i rapporti di potere e le diseguaglianze. Non illudiamoci che l’eventuale fine dell’invecchiamento o che un buon esito della crionica diventino una conquista condivisa: ci sarà sempre un gruppo di potere che metterà al sicuro i propri privilegi e una base che non potrà far altro che tentare un’ascesa sociale resa sempre più viscosa dai cronofagi. Proprio come Niccol ha raccontato con la sua potente metafora filmica.
11 - ERESIE E NUOVI PARADIGMI
U
na delle idee germinali da cui è scaturito questo libro è un’intervista di Riccardo Staglianò all’ex presidente dell’Uruguay José Pepe Mujica: La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per sé stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L'alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere [74]
Il concetto è piuttosto semplice sia da spiegare che da comprendere, ma se ci guardiamo intorno scopriamo che la maggior parte delle persone non guarda al tempo della vita come a un bene da non sperperare. Fra le dipendenze omesse nel capitolo precedente c’è anche il workalcolismo ovverosia la tendenza a
lavorare più del necessario e ben oltre il normale orario di lavoro. Anche in questo caso, gli strumenti digitali e le connessioni che rendono reperibili gli individui 24/7 generano fenomeni di “esondazione” del tempo del lavoro nella vita privata. Così come facciamo delle cose non perché necessarie ma perché ci sono consentite dalla tecnologia, allo stesso modo lavoriamo anche al di fuori del tempo e dello spazio deputati alla nostra professione perché continuiamo ad utilizzarne gli strumenti anche nel tempo libero. Nei Paesi più maturi sotto il profilo dei diritti civili, il dibattito sul rapporto fra connessione e tempo libero è attivo da tempo. In Francia, a partire dal gennaio 2017, è scattato il diritto alla disconnessione, una norma contenuta nella Loi Travail approvata nel maggio 2016 che obbliga le aziende con più di cinquanta dipendenti a negoziare con i lavoratori il diritto a non rispondere a telefonate ed e-mail al di fuori dell’orario di lavoro. La misura introdotta dal ministro del Lavoro Myriam El Kohmri ha tracciato una linea di demarcazione fra tempo del lavoro e tempo libero intervenendo con una normativa che prevede la pubblicazione di una carta dei diritti e dei doveri dei lavoratori nella quel vengono fissati i momenti del giorno o della settimana in cui i dipendenti possono essere disconnessi senza che ciò abbia un impatto sulla loro vita lavorativa. Prima ancora che lo Stato francese intervenisse con una legge nazionale, alcune grandi aziende avevano già affrontato il problema in maniera autonoma e non solamente in territorio francese: l’operatore telefonico
Orange aveva chiesto ai dipendenti di non usare messaggi ed e-mail durante le riunioni per evitare cali dell’attenzione, mentre la compagnia di energia nucleare Areva e quella di assicurazioni Axa avevano posto un limite ai messaggi fuori orario. Già nel 2010 i dirigenti della Deutsche Telekom avevano dato un giro di vite al regolamento interno: nessun dipendente era costretto a leggere la posta elettronica dopo avere abbandonato la scrivania. Dalla fine del 2011 era stata Volkswagen a optare per lo spegnimento dei server aziendali da mezz’ora dopo la fine dei turni a mezz’ora prima dell’inizio. La tanto agognata possibilità di essere reperibili sempre e ovunque (ci sia campo) ha mostrato progressivamente il proprio lato oscuro. Se in passato un pendolare occupava il proprio tempo leggendo un libro o un giornale, conversando con i suoi compagni di viaggio o leggendosi qualche documento di lavoro, ora, grazie ai device, può proseguire in itinere la propria attività. Ultimamente ho ripreso il Torino-Milano, il treno con il quale dal 2003 al 2009 ho raggiunto per tre volte alla settimana il mio posto di lavoro, e ho trovato un panorama umano radicalmente trasformato. La lettura di libri e giornali è stata notevolmente ridimensionata a favore dell’utilizzo di smartphone, tablet e notebook, il tempo del pendolarismo diventa molto spesso uno straordinario non pagato. Pensiamoci bene: nelle pubblicità delle compagnie telefoniche, la possibilità di connettersi in mobilità è
sempre stata e viene tuttora “venduta” come un’opportunità per comunicare con gli amici e per divertirsi. L’advertising ci porta spesso sulle spiagge, nel cuore della festa e sul bordo di una piscina suggerendo in maniera neanche troppo subliminale un rapporto di proporzionalità fra la spesa per il nostro piano tariffario e le possibilità di divertimento che ne ricaveremo. Molto più raramente la pubblicità suggerisce che la connessione ci costringerà a lavorare anche in mobilità, a portarci il lavoro “a casa”, anzi in treno o sugli altri mezzi pubblici. Eppure, proprio nel cuore pulsante del capitalismo digitale si stanno diffondendo pensieri eretici: fra coloro che hanno contribuito a diffondere le tecnologie digitali e fra chi ha fatto di Internet l’infrastruttura imprescindibile per il capitalismo del terzo millennio non manca l’autocritica. Due dei principali “guru” della Silicon Valley, Bill Gates e Steve Jobs, hanno cresciuto i loro figli cercando di limitare la loro presenza in Rete e il tempo di utilizzo dei dispositivi elettronici. Nel 2007, il fondatore di Microso programmò una limitazione del tempo trascorribile davanti allo schermo quando si accorse che una delle sue figlie stava sviluppando una dipendenza da un videogioco. In un’intervista rilasciata al Mirror [75] nel 2017, Gates ha elencato alcune delle regole imposte ai propri figli Jennifer, Rory e Phoebe: 1) schermi di telefoni, tv e pc spenti prima di andare a letto, 2) divieto di utilizzo degli smartphone o dei tablet a tavola, 3) divieto di utilizzo
dello smartphone prima dei quattordici anni di età. Nonostante le recriminazioni dei figli – frustrati dal non poter stare al passo con le tecnologie utilizzate dai loro compagni di scuola – i coniugi Gates hanno scelto un’educazione finalizzata a scongiurare la dipendenza da Internet o dall’hi tech. Anche Steve Jobs, conversando con Nick Bilton del New York Times, rivelò di avere vietato ai propri figli l’utilizzo dell’iPad da poco lanciato sul mercato: «Limitiamo la quantità di tecnologia che i nostri figli utilizzano in casa» [76]. Tony Faddell, co-creatore dell’iPod, ha confermato come una delle maggiori preoccupazioni di Jobs fosse la dipendenza dalla tecnologia. Anche Chris Anderson, dal 2001 al 2012 direttore di Wired Usa (il più importante magazine al mondo sui temi dell’innovazione e della cultura digitale) e attualmente CEO della 3D Robotics ha istituito limiti di tempo e controlli parentali su ogni dispositivo tecnologico utilizzato in casa: I miei bambini accusano me e mia moglie di essere fascisti, di essere troppo preoccupati per la tecnologia e sostengono che nessuno dei loro amici deve sottostare a simili regole. Questo perché abbiamo visto i pericoli della tecnologia in prima persona. Ho visto cosa è accaduto a me e non voglio vedere accadere lo stesso ai miei figli [77]
Oltre alle semplici cautele in ambito domestico, c’è chi esprime un vero e proprio dissenso nei confronti del mondo che ha contribuito a produrre. È il caso di Tristan Harris, ex designer ethics di Google, fuoriuscito dalla Big G alla fine 2015 dopo alcuni
fallimentari tentativi di cambiare il monopolista dei servizi di ricerca dall’interno. Intervistato da Riccardo Staglianò per Il Venerdì di Repubblica, Harris ha sottolineato come la guerra che si gioca all’interno dell’economia dell’attenzione stia diventando un problema esistenziale: «dal momento che Facebook, con due miliardi di iscritti che la frequentano anche oltre cento volte al giorno, ha più seguaci del cristianesimo ed è grande una volta e mezzo l'islam. È, insomma, più influente di qualsiasi religione» [78]. Anche se i tecnottimisti hanno sempre spacciato la rivoluzione digitale come un’economia pulita che non lascia scorie, Harris ne paragona le dinamiche a quelle dell’industria delle energie fossili: Estrae l'attenzione dagli esseri umani come quelli fanno col petrolio. E quando i pozzi scarseggiano, passano a tecniche sempre più aggressive, una specie di fracking del tuo cervello, tipo bersagliare ragazzi sempre più giovani, consci che ogni notizia che suscita scandalo ha molte più probabilità di diventare virale delle altre (ed è quindi più redditizia), di fatto incoraggiando le fake news che pure in pubblico stigmatizzano [79]
Harris ha fondato Time Well Spent, un’organizzazione no profit che cerca di contrastare la “crisi dell’attenzione digitale” causata dalle società tecnologiche che progettano dispositivi mobili e funzionalità dei social media in modo da catturare l’attenzione delle persone per il maggior tempo possibile e con il più completo disinteresse nei confronti della loro qualità della vita. Nell’homepage del sito del Center for Humane Technology vengono
sottolineati i pericoli del sovrautilizzo di Facebook, Twitter, Instagram e Google: «Ciò che è iniziato come una corsa per monetizzare la nostra attenzione ora sta erodendo i pilastri della nostra società: salute mentale, democrazia, relazioni sociali e i nostri bambini» [80]. La competizione dei colossi del digitale per conquistare la nostra attenzione ha un forte impatto sui comportamenti collettivi, anche se gran parte della società sembra non comprenderne gli effetti. Snapchat sfilaccia il dialogo ridefinendo le metriche con cui le nuove generazioni misurano l’amicizia, Instagram diventa lo strumento con cui glorificare la vita “perfetta” attraverso una rappresentazione per immagini, Facebook frammenta le comunità segregando gli “amici” nelle proprie camere e YouTube ci proietta in un flusso ininterrotto di video nutrendosi del nostro stato di veglia. Questi e gli altri social non sono affatto neutri, ma sono progettati per catturare la nostra attenzione. La salute mentale è minacciata dalla brama di tenerci davanti a uno schermo 24 ore su 24, rendendo sempre più difficile la disconnessione, aumentando lo stress, l’ansia e riducendo il sonno. I bambini vengono addestrati a sostituire la propria autostima con i Like e crescono con l’ansia di essere esclusi dalle conversazioni che avvengono sui social. Per quanto riguarda le relazioni interpersonali, la corsa per l’attenzione costringe gli ideatori dei social media a fare in modo che le interazioni virtuali e le
effimere gratificazioni di Like e condivisioni diventino prioritari rispetto alle relazioni vis-à-vis. Il quarto pericolo elencato dal Center for Humane Technology è quello per la democrazia: i social media premiano l'indignazione, i fatti falsi e le filter bubble e dividono le persone estremizzandone le posizioni e rendendo difficoltoso il dibattito su questioni di pubblico interesse. Quattro sono le vie d’uscita per smarcarsi dalla dittatura del capitalismo digitale che si nutre del nostro tempo. La prima chiama in causa aziende come Apple, Samsung e Microso , imprese che possono dare il loro contributo ridisegnando dispositivi e interfacce in modo da proteggere le persone da distrazioni costanti. Alla politica spetta il compito di spingere le aziende tecnologiche verso modelli aziendali più umani e di creare i presupposti per una maggiore tutela della qualità della vita dei consumatori. Il terzo punto riguarda i consumatori: fra coloro che rappresentano il capitale dell’economia dell’attenzione deve diffondersi la consapevolezza dei danni che la tecnologia può provocare. Ma non solo, questa rivoluzione culturale deve riorientare gli obiettivi della tecnologia allineandoli al benessere delle persone e non alle esigenze di cassa dei player del capitalismo digitale. Infine, occorre lavorare a una responsabilizzazione dei dipendenti delle grandi aziende tecnologiche affinché sostengano progetti e modelli di business non basati sull’estrazione dell’attenzione delle persone.
La schiera degli eretici che prendono le distanze dal mondo che hanno contribuito a creare si allunga e si moltiplicano, in giro per il mondo, territori franchi in cui disconnettersi e tornare a ritmi più umani. Come per le dipendenze dall’alcol e dalle droghe anche per l’Internet Addiction Disorder (IAD) esistono centri di riabilitazione nei quali le persone vengono aiutate a smettere di utilizzare i dispositivi digitali in maniera compulsiva. E se sulla West Coast, non lontano dalla Silicon Valley, si moltiplicano i centri per il trattamento dei disturbi connessi al sovrautilizzo di Internet, in Europa sono i sistemi sanitari nazionali a farsi carico delle dipendenze da Internet. Il Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da web, nato dalla collaborazione fra il Policlinico Gemelli e la Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica di Roma, si occupa, fra l’altro, di attività clinica ambulatoriale con adolescenti che presentano ritiro sociale, dipendenza da Internet e psicopatologie legate al fenomeno del cyberbullismo. A Torino è l’Ambulatorio nuove dipendenze dell’Ospedale San Giovanni Battista ad avere il polso della situazione sui casi di IAD nell’area metropolitana torinese. Le dipendenze da Internet non sono soltanto un onere per il sistema sanitario nazionale o un’occasione di business per psicoterapeuti e psichiatri. Qualcuno ha fiutato il business e ha capito che si possono fare profitti proponendo viaggi e soggiorni fuori dal vorticoso ritmo dei social network e della reperibilità
24/7. Per contrastare le situazioni di stress e le sindromi da burnout, alcuni tour operator si sono inventati dei neo-eremitaggi Internet free in luoghi lontani dalle “tentazioni” della civiltà. Ciò non deve sorprendere: la necessità di essere reperibili, anche nei casi meno gravi di dipendenza da internet, crea l’illusione della necessità di dover essere costantemente reperibili in tempo reale, di dover rispondere immediatamente a messaggi, e-mail e tweet, di dover essere sempre più competitivi anche nelle abilità sociali. Tanto è vero che, persone poche attive online sono considerate come invisibili per aziende e possibili datori di lavoro, cosa che accresce, soprattutto nelle giovani generazioni, il bisogno di avere diverse pagine, tutte adeguatamente curate, e tutte capaci di rispondere in tempo reale alle domande di possibili clienti (basti pensare che Facebook ha recentemente inserito, tra i criteri di valutazione delle pagine, la velocità di risposta ai messaggi inviati). A questo proposito, è illuminante quanto afferma Etienne Klein: «Il tempo del mondo è rappresentato come estremamente veloce e crea, in ciascuno di noi, l’impressione di non essere all’altezza della nostra epoca e di non saper tenere il ritmo del nostro tempo. Ciò diffonde in maniera del tutto inconscia un senso di colpa collettivo, l’idea che siamo tutti in ritardo rispetto alla storia» [81]. Contrastare le derive cronofaghe del “sistema” significa smarcarsi dalla reificazione e dalla mercificazione delle relazioni personali e del tempo
libero, riscoprire il valore del tempo in sé e non in relazione alle entrate e alle uscite di cassa. Il tempo dedicato all’autoproduzione, il baratto, il dono e il volontariato sono scambi senza moneta che agiscono in opposizione al pensiero e all’economia dominanti. Tutti gli scambi non mercantili diventano un ostacolo all’idea dominante di sviluppo e di benessere e vengono pertanto ostacolati e repressi con apposite misure legislative, con la loro svalutazione nel sistema dei valori condivisi, con la cancellazione delle conoscenze necessarie al saper fare dall’ambito della cultura, con l’esaltazione della concorrenza come fattore di progresso, con l’identificazione del benessere con tanto avere. Le innovazioni tecnologiche vengono finalizzate all’aumento della produttività e i danni ambientali, che spesso vengono causati per accrescerla, non vengono nemmeno presi in considerazione [82]
La questione ambientale non è certo estranea al dibattito sulla predazione del tempo nella nostra società. I so ware che ci sottraggono tempo promettendo di farcelo risparmiare funzionano su hardware con cicli di vita volutamente brevi, programmati durante la fase produttiva. L’obsolescenza programmata è la strategia che il mercato adotta per riuscire a trascinare nel vortice dei consumi gli individui più refrattari alle seduzioni del marketing e alle suggestioni del prodotto innovativo. Ovviamente il loop degli acquisti non è alimentato soltanto dalla programmazione dell’obsolescenza del prodotto. Anni di affinamento delle tecniche del neuromarketing hanno creato una mitologia del
nuovo che ha marginalizzato quello che era il principale valore dei prodotti in passato ovverosia la loro durata nel tempo, la possibilità, per esempio, di utilizzare un frigorifero e un televisore per oltre vent’anni. La santificazione del brand e la creazione di un mercato in gran parte regolato da logiche tribali di inclusione ed esclusione ha reso la novità una delle più potenti calamite per i consumatori. Anche se l’obsolescenza programmata è divenuta dominante nell’epoca della globalizzazione e della delocalizzazione, l’origine ideologica di questa strategia che ha rimodellato il rapporto che i consumatori hanno con il tempo è vecchia di novantacinque anni. Nel 1924, infatti, le principali società produttrici di lampadine (General Electric Company, Tungsram, Compagnie di Lampes, OSRAM e Philips) costituirono il cartello Phoebus per limitare il ciclo di vita delle lampadine. L’accordo – attivo fino al 1939 – decise di accorciare deliberatamente la durata del ciclo di vita delle lampadine, in modo da aumentare il numero dei pezzi venduti sul mercato. Fino al 1924 esistevano numerose tipologie di lampadine, differenti per forma, incastro, tensione, potenza e luminosità. Con il cartello Phoebus le società imposero uno standard tecnico che omologò la produzione europea e statunitense, ma soprattutto fissò in 1.000 ore il ciclo di vita del prodotto. Obiettivo di questo accordo fu quello di mantenere una posizione di assoluto predominio nel mercato internazionale.
Qualche anno dopo, negli Stati Uniti della Grande Depressione, il mediatore immobiliare Bernard London propose che l’“obsolescenza pianificata” venisse imposta per legge con lo scopo di rilanciare l’economia nazionale. Negli anni Trenta, ma soprattutto nel Secondo Dopoguerra, l’economia occidentale fu rimodellata secondo queste linee guida che, negli ultimi trent’anni, sono dilagate su scala globale con le conseguenze ecologiche e sociali che sono sotto gli occhi di tutti. Secondo Serge Latouche, filosofo ed economista francese, l’obsolescenza programmata è uno dei tre pilastri che sostengono la società dei consumi insieme alla pubblicità e al credito. L’obsolescenza viene programmata in modo che il guasto sia successivo all’eventuale periodo di garanzia e, inoltre, gli oggetti tecnologici vengono realizzati in modo che i costi di riparazione risultino superiori a quelli di acquisto di un nuovo modello. Messa fuori mercato la filiera dei “riparatori”, l’industria della tecnologia ha compiuto una sorta di “delitto perfetto” ai danni dei consumatori. Molti di loro, però, hanno aperto gli occhi, si sono organizzati e ora chiedono giustamente che la legge li difenda dagli abusi del tecnocapitalismo. La Francia è, senza ombra di dubbio, il punto di riferimento a livello globale nella lotta all’obsolescenza programmata. Nel settembre 2017 l’associazione HOP (Halte à l’obsolescence programmée) con il suo avvocato Emile Meunier ha depositato una denuncia
per il delitto di obsolescenza programmata e inganno contro i principali marchi produttori di stampanti a getto di inchiostro e cartucce. Nel dicembre dello stesso anno, un’altra denuncia per obsolescenza programmata ha avuto come oggetto i modelli 6, 6s, SE e 7 dell’iPhone. In Francia, dal 2015, l’obsolescenza programmata è un delitto penale legiferato dall’articolo L441-2 del Codice dei consumi. L’associazione HOP si batte per porre fine al sentimento di impunità e di omertà nei confronti delle pratiche scorrette dei grandi gruppi industriali e per difendere gli interessi dei consumatori. Ovviamente la battaglia di HOP è anche una battaglia ambientale: in un mondo in cui vengono prodotti 44,7 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici [83] l’obsolescenza programmata è una pratica che conserva la linearità dell’economia a discapito della sua circolarità. Intanto mentre le due inchieste della magistratura francese su stampanti e iPhone vanno avanti, anche in Italia si sta prendendo coscienza del problema. Nell’ottobre 2018 il Garante italiano dei consumatori (Antitrust) ha inflitto dieci milioni di multa ad Apple e cinque milioni di multa a Samsung perché i due colossi della telefonia hanno imposto ai consumatori di scaricare aggiornamenti so ware finalizzati a rendere i telefoni meno efficienti o mal funzionanti. L’azienda americana ha avuto una sanzione maggiore perché non ha informato correttamente gli utenti sulla deteriorabilità delle pile al litio e in merito alle “corrette procedure per mantenere, verificare e
sostituire le batterie ” [84]. I clienti di Apple e Samsung hanno scaricato sui loro smartphone degli aggiornamenti che li hanno resi ingestibili. Ma non solo: le due aziende hanno fatto in modo che il processo fosse irreversibile e non si potessero ripristinare le condizioni precedenti all’update. Il capitalismo cronofago non si limita alla predazione del nostro tempo attraverso le seduzioni degli strumenti digitali o la trasformazione degli individui in amministrativi part-time; proprio come i ricchi destinati all’eternità di In Time, i cronofagi determinano i cicli di vita dei nostri oggetti. Sono loro a decidere quando il nostro smartphone smetterà di funzionare senza che una caduta o un urto ne abbiano compromesso il sistema. Non sono solamente le organizzazioni dei consumatori a organizzarsi per creare gli anticorpi in questo sistema malato. Negli ultimi anni, in molte città europee, si sono sviluppati i Repair Café, ovverosia dei luoghi in cui gli oggetti possono essere riparati e riportati in vita da persone che credono nel paradigma dell’economia circolare che la società dei consumi ci ha fatto dimenticare. Sono 1664 i luoghi mappati sul sito repaircafe.org [85] e poco meno di un quarto di questi (quattrocentotredici) sono in Olanda, il paese che per primo ha dato impulso a questa rete diffusa di locali in cui sono presenti postazioni di lavoro con gli attrezzi necessari a effettuare riparazioni e manuali e libri che spiegano come intervenire sugli oggetti malfunzionanti. In Italia, i Reapair Café sono appena
undici, tutti nella parte centro-settentrionale della Penisola, ma va detto che nessuno degli ultimi governi ha legiferato su incentivi volti a favorire la riparazione e l’economia circolare come accade nei paesi nordeuropei. In Francia, Ethikis, un’azienda specializzata in questioni ambientali, ha creato l’etichetta LONGTIME® che ha come obiettivo quello di segnalare la riparabilità, la solidità, le garanzie e i servizi post-vendita di elettrodomestici, dispositivi elettronici, mobili, attrezzature per il tempo libero, attrezzature professionali, smartphone e scooter in modo che i consumatori siano informati sul ciclo di vita dei prodotti. Indipendentemente dalla maggiore o minore impermeabilità dei singoli Stati alle normative comunitarie volte a incentivare l’economia circolare, nell’ultimo decennio la Commissione Europea ha emanato numerose normative sull’ecodesign che hanno come obiettivo quello di rendere caldaie, computer, dispositivi elettronici ed elettrodomestici più efficienti sotto il profilo energetico, maggiormente riparabili e con un ciclo di vita più lungo. Nella relazione adottata il 31 maggio 2018 dalla seduta plenaria del Parlamento europeo, gli eurodeputati hanno chiesto alla Commissione europea di ampliare la gamma di prodotti che rientrano nell’ambito di applicazione della direttiva sulla progettazione ecocompatibile: l’estensione riguarda anche gli smartphone che il consumatore medio europeo cambia ogni due anni. L’ampliamento mira a favorire
un miglioramento dell’efficienza energetica, in modo che le batterie possano essere facilmente rimosse e sostituite e i metalli rari vengano riciclati. Attualmente, infatti, solamente una quota fra l’1 e il 5% dei metalli rari utilizzati nei cellulari (tungsteno, cobalto, grafite e indio) viene riciclata dalle industrie produttrici di smartphone con impatti socio-ambientali devastanti su tutta la filiera, dall’estrazione allo smaltimento dei rifiuti elettronici. Nel mondo dell’impresa qualcuno ha intercettato la crescente esigenza di uno smartphone più durevole. Nel dicembre 2016 è stato lanciato sul mercato Fairphone 2, uno smartphone dual Sim pensato per essere più facilmente riparato dagli utenti: con un semplice cacciavite i moduli del telefono possono essere sostituiti dai consumatori stessi. La Fairphone lo ha progetto per avere un basso impatto ambientale e per portare la sua longevità a cinque anni. Circolarità contro linearità, riciclo contro rifiuto, scambi non mercantili contro scambi commerciali, lentezza contro velocità. Ed è proprio della lentezza che ci occuperemo nell’ultimo capitolo.
12 - NEL NOME DELLA LENTEZZA
D
opo la corsa a perdifiato del Dopoguerra, i boom economici, l’età dell’oro dell’Occidente, lo shock dell’11 settembre 2001, la crisi economica degli ultimi dieci anni e le conseguenze sempre più devastanti dei cambiamenti climatici, si è aperta una crepa nell’idea che ci possa essere una crescita infinita in un sistema dalle risorse finite. Nel mito cronofago ed energivoro dello sviluppo celebratore della velocità e della capacità umana di dominare il tempo, lo spazio e gli elementi si è insinuata una crescente resistenza. Fra i primi a intuire che lo sviluppo avrebbe colliso con i limiti fisici del pianeta Terra è importante citare Aurelio Peccei, illuminato manager della Fiat che nella seconda metà degli anni Sessanta iniziò a ragionare con studiosi di tutto il mondo sui limiti dello sviluppo. Il contributo di Peccei all’evoluzione degli studi sul futuro sorti in Europa e negli Stati Uniti fu quello di un cambio di prospettiva: l’imprenditore e studioso torinese fu il primo a sostenere che ogni valutazione
sugli sviluppi futuri doveva essere inserita in una visione globale delle problematiche dell’umanità. Da questa nuova visione e dalla creazione del Club di Roma nel 1972 scaturì Limits to growth, un rapporto scritto da Donella H. Meadows, Dennis L. Meadows, Jorgen Randers e William Behrens III che ebbe un enorme rilevanza a livello mondiale. Tre furono le conclusioni principali di questo studio: 1) nel caso la crescita delle grandezze che caratterizzano il mondo (popolazione e disponibilità di alimenti) fosse continuata con il trend di fine anni Sessanta e inizio anni Settanta si sarebbe giunti a un limite che, una volta oltrepassato, avrebbe portato a un collasso della popolazione e della capacità industriale del mondo; 2) la crescita di questi parametri avrebbe potuto essere modificata in modo da garantire all’umanità uno sviluppo sostenibile; 3) nel caso si fosse scelta la seconda opzione, le modifiche avrebbero dovuto essere effettuate il più presto possibile per avere maggiori possibilità di successo. Il testo, tradotto in Italia con il titolo I limiti dello sviluppo è, a quasi cinquant’anni dalla pubblicazione, una delle pietre miliari nel braccio di ferro ideologico fra chi propugna un’economia lineare alimentata dall’industria estrattiva e dalle energie fossili e chi vi si oppone nel nome di un’economia circolare basata su riciclo, riuso ed energie rinnovabili. L’idea che si staglia sullo sfondo di questa filosofia anti-sviluppista è quella del rallentamento, della creazione di economie capaci di prendere tutto ciò che
di buono c’era nel passato e che è stato accantonato nel nome del profitto. Nascono ovunque, trasversalmente alle culture e alle diverse organizzazioni sociali, movimenti slow che si fanno promotori del rallentamento come forma per sfuggire alle logiche quantitative del capitalismo. Il più noto di tutti è, senza alcun dubbio, Slow Food. Nato a Bra (in provincia di Cuneo) nel 1986 come reazione alla diffusione dei primi fast food sul territorio italiano, il movimento fondato da Carlin Petrini presidia attualmente centosessanta nazioni promuovendo un cibo “buono, pulito e giusto” e difendendo le tradizioni agricole ed enogastronomiche di ogni parte del mondo. Fra gli impegni di Slow Food vi sono la difesa della biodiversità, dei diritti dei popoli alla sovranità alimentare e il contrasto alla standardizzazione dei sapori, al junk food, all’agricoltura intensiva, alle manipolazioni genetiche e al fenomeno del land grabbing. Nel manifesto del movimento pubblicato il 3 novembre 1987 si legge: Questo secolo è nato sul fondamento di una falsa interpretazione della civiltà industriale, sotto il segno del dinamismo e dell’accelerazione: mimeticamente, l’uomo inventa la macchina che deve sollevarlo dalla fatica ma, al tempo stesso, adotta ed eleva la macchina a modello ideale e comportamentale di vita. Ne è derivata una sorta di autofagia, che ha ridotto l’homo sapiens ad una specie in via di estinzione, in una mostruosa ingestione e digestione di sé. È accaduto così che, all’alba del secolo e giù giù, si siano declamati e urlati manifesti scritti in stile sintetico, ‘veloce’, all’insegna della velocità come ideologia dominante. La fast-life come qualità proposta ed estesa ad ogni forma e a ogni atteggiamento, sistematicamente, quasi una scommessa di ristrutturazione culturale e genetica dell’animale-uomo. […] Bisogna prevenire il virus del fast con tutti i suoi e etti collaterali. Perciò contro la vita
dinamica propugniamo la vita comoda. Contro coloro, e sono i più, che confondono l’e cienza con la frenesia, proponiamo il vaccino di una adeguata porzione di piaceri sensuali assicurati, da praticarsi in lento e prolungato godimento. Da oggi i fast-food vengono evitati e sostituiti dagli slow-food, cioè da centri di goduto piacere. In altri termini, si riconsegni la tavola al gusto, al piacere della gola
Trent’anni fa, i firmatari del manifesto (oltre a Carlin Petrini anche Dario Fo, Sergio Staino, Gina Lagorio ed Ermete Realacci) non immaginavano che il movimento dedicato al cibo avrebbe ispirato iniziative analoghe in molti altri settori. Da una costola del movimento dedicato al cibo è nato Cittaslow, un network di amministrazioni comunali che hanno deciso di ripensare il proprio territorio seguendo gli esempi virtuosi di Slow Food. Il movimento Slow Travel si è sviluppato per rivalutare la lentezza e considerare l’impatto ambientale nell’esperienza del viaggio, mentre la Slow Medicine propone una medicina lenta, capace di sviluppare la relazione tra medico e paziente e di applicare le conoscenze mediche, la tecnologia e il trattamento sanitario al caso del singolo individuo. Anche nel settore dell’abbigliamento è nato un movimento Slow Fashion che si oppone, nel segno della lentezza, alla Fast Fashion che, dopo un lavoro di cool hunting in giro per il mondo, disegna, produce e distribuisce collezioni a ritmi fino a poco tempo fa impensabili. Slow Money [86] è un’organizzazione no profit di Boulder, Colorado, che promuove un’economia di prossimità in grado di valorizzare le imprese
alimentari locali, le fattorie biologiche e le filiere a chilometro zero. Dopo avere coinvolto decine di migliaia di investitori negli Stati Uniti, Slow Money si è diffuso anche in alcuni paesi europei come Svizzera, Francia e Belgio. Lo Slow Cinema è un tipo di cinema contemplativo, osservativo e minimalista che ha in Andrei Tarkovsky, Michelangelo Antonioni, Robert Bresson, Aleksandr Sokurov, Béla Tarr, Chantal Akerman, Theo Angelopoulos, Abbas Kiarostami, Lav Diaz e Lisandro Alonso i principali punti di riferimento, ma in campo documentaristico sono sempre di più i registi che scelgono una narrazione basata su una lenta osservazione della realtà. In Italia, nel 2015, un team di giornalisti free lance ha creato Slow News, la prima piattaforma italiana dedicata allo slow journalism ovverosia a un’informazione capace di fare approfondimento e fornire al lettore un valore aggiunto. Il primo punto del Manifesto per un giornalismo sostenibile [87] afferma che «il tempo è l’unica ricchezza che abbiamo». In un contesto di sovraccarico informativo in cui l’accesso alle informazioni è gratuito 24/7 i giornalisti di Slow News propongono un modello a pagamento basato sulla curation dei contenuti di valore e sul reportage lento. Fra i primi a intuire che il modello Slow Food poteva essere declinato in ogni campo dell’attività umana è stato Carl Honorè, che nel suo libro Elogio della lentezza ha coniato il termine Slow Movement. Anche il World Institute of Slowness [88], fondato da Geir Berthelsen, rientra nell’ampia galassia di network che
promuovono uno stile di vita all’insegna della lentezza. A dimostrazione della sensibilità maturata sul tema nel nostro Paese, ricordiamo anche il Festival della Lentezza, ospitato nella Reggia di Colorno: obiettivo della manifestazione estiva parmense è ridare centralità al valore del tempo. Ovviamente, le trasformazioni antropologiche volte a un rallentamento dei ritmi di vita si sono sviluppate anche al di fuori delle iniziative collettive. Cresce il numero delle persone che optano per il per la semplicità volontaria (in inglese downshi ing) ovverosia per una libera e consapevole autoriduzione del salario finalizzata al recupero del tempo per dedicarsi alle relazioni, allo studio e agli hobby. Si tratta di un fenomeno poco indagato ma che nasce essenzialmente da una rimodulazione del proprio tempo nel nome di un parziale disimpegno nel mondo delle professioni. Secondo i sociologi, il downshi ing è uno dei più evidenti e interessanti mutamenti sociali degli ultimi tempi. Molte persone hanno iniziato a comprendere il valore del proprio tempo e a privilegiare la qualità alla quantità, la lentezza alla velocità. Da quando ho iniziato a utilizzare la bicicletta per muovermi in città, il numero di ciclisti urbani è aumentato in maniera esponenziale. Se prima eravamo poche centinaia oggi si può parlare ragionevolmente di migliaia di ciclisti che si spostano per Torino in sella a una bici di proprietà oppure a una bici del servizio comunale di bike sharing o dei servizi di free floating. La riscoperta
della bicicletta come mezzo di trasporto urbano è diventata un fenomeno planetario; da Parigi a New York, da Londra a Copenaghen, le amministrazioni delle grandi metropoli occidentali hanno investito ingenti somme per favorire la mobilità ciclistica e l’intermodalità con i servizi di trasporto pubblico. L’utenza ha capito che nei centri urbani nessun mezzo di trasporto ti fa risparmiare così tanto tempo come una bicicletta. I movimenti a sostegno della ciclabilità hanno assunto un’importanza sempre crescente tanto da divenire in alcuni casi degli importanti gruppi di pressione a livello locale: ci avete mai fatto caso che nei programmi elettorali di qualsiasi candidato sindaco non manca mai la promessa di nuovi chilometri di piste ciclabili? Tutto bene dunque? Si potrebbe pensare che le istanze provenienti dal basso abbiano vinto, almeno questa volta, la partita nei confronti dei poteri economici e di chi orienta le scelte verso una mobilità motorizzata e, quindi, maggiormente monetizzabile. Dal punto di vista ambientale, avere un maggior numero di ciclisti per le strade è sicuramente un successo, ma la capacità del capitalismo cronofago di occupare liquidamente qualsiasi spazio monetizzabile induce a calmierare gli entusiasmi nei confronti della sharing economy e della gig economy. Forse non molti sanno che i servizi di bike sharing europei sono nati molto spesso come cambio pubblicità: sono stati i colossi continentali dell’advertising negli spazi pubblici a finanziare gli
stalli, le biciclette e i servizi di manutenzione e trasferimento delle biciclette condivise. Il bike sharing “tradizionale” aveva però un difetto che la modalità free floating ha corretto: prima nei big data finivano solamente la stazione di partenza e quella di arrivo dell’utente, ora, invece, si possono conoscere gli itinerari nella loro totalità. È proprio nel monitoraggio spazio-temporale degli spostamenti che il capitalismo cronofago integra i guadagni dei micropagamenti effettuati nel periodo in cui la bici è sbloccata con la app. Conoscendo gli itinerari, infatti, le società possono promuovere tramite le app sullo smartphone dei loro utenti attività commerciali, eventi e prodotti che si trovano sul tragitto o in prossimità dei percorsi effettuati in bicicletta. Come abbiamo detto in precedenza, avere meno automobili in strada e senza dubbio un vantaggio ma deve essere altrettanto chiaro che il prezzo non è solamente quello dei pochi centesimi della temporanea condivisione del mezzo: alle società del bike sharing in free floating cediamo dati preziosi sui flussi. Negli ultimi anni sono nati o rinati lavori che sono legati a doppio filo alla bicicletta. Una decina d’anni fa in alcune città del Nord Italia si sono diffusi i bike messenger, “postini” privati per consegne cittadine in bici. Da alcuni anni a questa parte sono arrivate multinazionali specializzate nella consegna di cibo come Deliveroo o Foodora. Grazie a un’app e a una bicicletta, molti ciclisti hanno potuto accedere a lavori in grado di integrare altre entrate oppure di convivere
con lo studio. Come spesso accade, anche in questo caso la ventata di innovazione è stata salutata con entusiasmo dai tecnottimisti. Ben presto sono venute a galla molte delle criticità di questi lavori [89]: dall’ambiguità dell’inquadramento (i rider sono dipendenti o autonomi?) a quella della posizione fiscale, dalle attività non retribuite (la pulizia dello zaino e la ricerca di compiti) al tracciamento di ogni singolo movimento del corriere, senza dimenticare la spada di Damocle del rating, il giudizio espresso dai clienti che ha un ruolo determinante nella possibilità o meno di intercettare futuri ordini. Ecco, quindi, che il capitalismo cronofago, tramite le “catene digitali” delle app, della reperibilità e di una logica quantitativa che ricorda il vecchio cottimo, è riuscito a trasformare in una gabbia uno strumento di liberazione come la bicicletta. Oggi, come in passato, il controllo del tempo sul lavoratore è totale che si utilizzi un bracciale come nei magazzini di Amazon o che l’elemento vincolante sia un’applicazione sul proprio smartphone, come accade per i rider. Sono questioni alle quali l’Europa sta prestando attenzione e che dovrebbero diventare una delle priorità delle forze di sinistra e dei sindacati, troppo spesso in affanno nella comprensione delle trasformazioni del mercato (del lavoro). Modelli virtuosi a cui ispirarsi non mancano, anche se le narrazioni dominanti prodotte dalle classi dominanti li relegano nell’ambito del folklore e della
stravaganza, quando non di una decrescita che rischia di bloccare lo sviluppo e di far diminuire il Pil. I capitalisti, d’altronde, non possono che fare il loro lavoro: cercare di contrastare in ogni modo qualsiasi iniziativa estranea agli scambi mercantili. Una delle più diffuse reazioni a questa logica sono le banche del tempo, luoghi fisici in cui le persone si scambiano competenze e prestazioni con il tempo come unica misura: una lezione di pittura viene ripagata con una lezione sull’utilizzo dei so ware, con un insegnamento di una lingua straniera o con un laboratorio. Tutti gli scambi all’interno delle banche del tempo sono indipendenti dal valore monetario e dalla complessità delle prestazioni svolte: un’ora ricevuta vale quanto un’ora offerta. Le ore vengono accreditate e addebitate sui “conti” dei soci della banca del tempo proprio come accade negli istituti di credito veri e propri. Il principio democratico per cui il valore di un’ora è identico qualsiasi siano le cose che si insegnano o si imparano è estremamente democratico e mette fuori gioco il paradigma dominante della cronofagia. È interessante sottolineare come le prime banche del tempo siano nate nel Regno Unito negli anni Ottanta dello scorso secolo, proprio nel Paese e nel momento in cui Margareth Thatcher stava dando il via a una serie di processi che hanno portato alla distruzione del Welfare, all’aumento delle disuguaglianze sociali e alla creazione di un’economia cronofaga e reificatrice. Le prime associazioni di questo tipo si chiamavano LETS,
acronimo di Local Exchange Trading System. Qualsiasi scambio non commerciale, sia esso il baratto o la reciproca transazione di un’ora in una banca del tempo, è strettamente legato alla dimensione locale: la natura non monetaria dello scambio e la sua natura locale si trovano agli antipodi rispetto alla finanziarizzazione dell’economia e alla globalizzazione. Un altro interessante esperimento è quello del Park Slope Food Coop di Brooklyn (New York), un supermercato sui generis nel quale le vendite per metro quadro superano la media nazionale di quasi dieci volte. Ogni anno, lo stock viene venduto settanta volte, mentre la media nazionale si ferma a quindici volte. Qui le persone sono disposte a fare anche quaranta minuti di coda alle casse per assicurarsi un cibo migliore e meno caro. Com’è possibile? Semplice: il Park Slope Food Coop di Brooklyn (New York) è un supermercato cooperativo aperto ai soci, ma nel quale tutti possono iscriversi. Se si vogliono acquistare i prodotti in vendita bisogna accettare la regola del gioco, ovverosia mettere a disposizione, mensilmente, 2 ore e 45 minuti del proprio tempo fra gli scaffali, nei magazzini, alle casse o nei banchi di frutta e verdura. Assistenti sociali, maestre d’asilo, grafici e filmmaker si alternano fra scaffali e casse in un gioco di ruolo che consente loro di acquistare i prodotti venduti nello stesso locale in cui prestano la loro opera. Il 75% del lavoro è fatto dai soci lavoratori, mentre il restante 25% è svolto dai lavoratori stipendiati che svolgono
principalmente un’attività di coordinamento. L’alta frequenza della rotazione dei cibi riduce al minimo lo spreco alimentare e il rapporto diretto con i coltivatori consente al Park Slope di incrementare soltanto del 20% il prezzo dei prodotti agricoli per il pubblico. Fondato nel 1973 da un gruppo di idealisti che condividevano il disprezzo per la guerra in Vietnam e molte battaglie per i diritti civili fondamentali, il supermercato cooperativo Park Slope è un invito continuo a disobbedire alle logiche dell’agricoltura intensiva ma anche a quelle che determinano dall’alto l’uso che dobbiamo fare del nostro tempo. Esempi come questi sono preziosi per ripensare il nostro modo di stare insieme. Il valore del tempo deve essere messo al centro della politica, delle decisioni sul Welfare, della pianificazione urbana e dell’organizzazione del lavoro, deve diventare una delle priorità nel dibattito sui Big Data e sui limiti dello sviluppo. Solo riuscendo a stabilire un collegamento fra questo concetto così astratto e insondabile e ciò che c’è di più concreto e comprensibile nelle nostre esistenze si può prendere coscienza di quanta libertà dobbiamo riprenderci. Non domani, oggi. Non gli altri, noi.
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B
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NOTE [1] ab Jean Paul Galibert, I Cronòfagi, Stampa Alternativa, Viterbo
2015, p. 67. [2] Ibidem, p. 37 [3] Ibidem, p. 38 [4] Ibidem, p. 40 [5] Naomi Klein, No logo, Baldini e Castoldi, Milano 2001, p. 42. [6] Ibidem, p. 43 [7] https://www.statista.com/statistics/273715/global-cinemaadvertising-expenditure/ [8] https://www.independent.co.uk/life-style/gadgets-and-
tech/news/netflix-downloads-sleep-biggest-competition-videostreaming-ceo-reed-hastings-amazon-prime-sky-goa7690561.html [9] ab https://www.raconteur.net/healthcare/history-is-an-eyeopener-for-disturbed-sleep [10] http://variety.com/2017/digital/news/binge-watching-healthrisks-netlfix-1202447516/ [11] https://www.statisticbrain.com/sleeping-disorder-statistics/ [12] Jonathan Crary, 24/7, Einaudi, Milano 2015, p. 6. [13] Ibidem, p. 13. [14] Ibidem, p. 21. [15] http://stagliano.blogautore.repubblica.it/2017/11/02/se-andateal-supermercato-di-notte-ringraziate-questi-filippini/ [16] Secondo Statista.com (https://www.statista.com/statistics/270314/production-of-paperand-cardboard-in-selected-countries/) la produzione globale di carta è passata in un decennio dalle 382,6 milioni di tonnellate del 2006 alle 407,6 milioni di tonnellate del 2015.
[17] Davide Graeber, Burocrazia, Il Saggiatore, Milano 2016, p. 116. [18] Ibidem, p.122. [19] Luca Rastello, Dopodomani non ci sarà, Chiarelettere, Milano
2018, p. 110. [20]
https://www.telegraph.co.uk/news/health/news/10462858/NHSdoctors-spend-10-hours-a-week-on-bureaucracy.html [21] Oliver Burkeman, Schiavi del tempo, da Internazionale del 28
aprile/4 maggio 2017, p. 45. L’articolo originale è apparso su The Guardian. [22] Paul Mason, Postcapitalismo, Il saggiatore, Milano 2016, p. 178. [23] Jonathan Crary, 24/7, Einaudi, Milano 2015, p. 63. [24] https://www.statista.com/statistics/433871/daily-social-mediausage-worldwide/ [25] https://www.slow-news.com/2016/04/walled-garden/ [26] http://www.iltascabile.com/scienze/superumani/ [27] “Tutto quello che temevamo di subire dal comunismo - che avremmo perso la nostra casa, i nostri risparmi, che saremmo stati costretti a lavorare per salari da fame, senza nessuna voce in capitolo all' interno del sistema - è diventato realtà col capitalismo”, da Communism: A Love Story (2007) di Jeff Sparrow. [28] Julian Azam, Facebook. Anatomia di una chimera, Stampa Alternativa, 2015, pag. 87-88 [29] http://www.doppiozero.com/materiali/tre-anni-senzafacebook [30] http://www.corriere.it/cronache/18_febbraio_01/amazon-
brevetta-braccialetto-elettronico-che-monitora-lavoratori1c239468-0728-11e8-8886-af603f13b52a.shtml [31] Zygmunt Bauman, David Lyon, Sesto potere, Laterza, pag.61 [32] Ibidem, pag. 61
[33] Gilles Vernet, Tout s’accélére (2016). [34] Guy Debord, La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi,
Milano 1972, p. 142. [35] Evgeny Morozov, Silicon Valley: i signori del silicio, Codice, Torino 2016, pp. 28-29. [36] Guy Debord, op. cit., p. 142. [37] Edgar Morin, Lo spirito del tempo, Meltemi, Roma 2017, p. 105. [38] Allo stesso tempo, nella società dei consumi, ogni mese offre una o più occasioni per scambiarsi doni, per fare acquisti straordinari e per alimentare la voracità del mercato. Gennaio comincia con i festeggiamenti per l’inizio dell’anno nuovo, febbraio celebra la festa degli innamorati e marzo quella dei padri. Fra febbraio e marzo ci sono i festeggiamenti del Carnevale e fra marzo e aprile quelli di Pasqua. A maggio si festeggiano le madri e fra giugno e agosto ci sono le vacanze estive. Ottobre è il mese di Halloween, a novembre c’è la festa per eccellenza del consumismo, il Black Friday e a novembre il Natale con cui si chiude il cerchio a pochi giorni dall’inizio del nuovo loop. A queste feste va aggiunto il compleanno. Ovviamente mi sono soffermato su quello che è il calendario italiano, un contesto nel quale al potenziamento degli appuntamenti della tradizione cattolica e pagano-mediterranea si aggiungono ricorrenze del paganesimo celtico (Halloween) o puramente consumistiche (il Black Friday nasce nel 1924 quando la catena di distribuzione Macy's decide di dare il via agli acquisti natalizi all’indomani del Giorno del Ringraziamento). Le feste e gli eventi inseriti nello scadenzario dei consumatori travolgono ogni festività “sterile”: sono i consumi che rendono importante la festività, non il contrario. L’assorbimento di festività che non appartengono all’Europa mediterranea nel nostro calendario è la conseguenza dell’americanizzazione del mondo e dell’esportazione dei valori del capitalismo nordamericano. Contestualmente i periodi di “avvento” e di preparazione alla festa vengono estesi a dismisura tanto che il 26 settembre 2018 mi è capitato di ascoltare in radio un annuncio pubblicitario con il sottofondo di Jingle Bells. [39] Ibidem, p. 106. [40] Ibidem, p. 107. [41] Gilles Vernet, Tout s’accélère (2016).
[42] Zygmunt Bauman, David Lyon, Sesto potere, Laterza, Roma-
Bari 2014, p. 74. [43] Intervista a Jeff William nella puntata di Presadiretta del 15 ottobre 2018 intitolata Iperconnessi. https://www.raiplay.it/video/2018/10/Presa-Diretta-Iperconnessia5d6226e-1fd2-450d-a8e7-ecd622413b20.html [44] NEET è l’acronimo di Not Engaged in Education, Employment or Training ovverosia “non impegnati nella scuola, nell’impiego o nella formazione”. [45] https://hackernoon.com/how-much-time-do-people-spendon-their-mobile-phones-in-2017-e5f90a0b10a6 [46] Il tempo è un lusso. (Fai il) check in online. *Un extra di 17 minuti per acquistare un souvenir. [47] Marc Augé, Nonluoghi, Elèuthera, Milano 2009, p. 77. [48] Ivi. [49] Ibidem, p. 92. [50] https://www.theguardian.com/science/blog/2011/jan/31/shopdesign-layout-impulse-purchasing [51] https://www.businessinsider.com/store-closures-in-2018-willeclipse-2017-2018-1?IR=T [52] https://www.statista.com/statistics/233223/travel-and-
tourism--total-economic-contribution-worldwide/ [53] Edgar Morin, op. cit., p. 111. [54] Guy Debord, op. cit., p. 152. [55] Andreas M. Dalsgaard, The Human Scale (Danimarca, 2013). [56] https://www.linkiesta.it/it/article/2018/05/19/arte-politicacapitalismo-sesso-la-citta-sola-di-olivia-laing/38153/ [57] Nel listino prezzi delle pubblicità su Radio Rai si parla di Drive Time per le fasce 6.35-9.15 e 17.10 e 20.00. [58] Guy Debord, op. cit., p. 153.
[59] Ezio Partesana, Il gioco delle parti, Sensibili alle foglie, Roma
2016, p. 12. [60] George Orwell, 1984, Mondadori, Milano 1998, p. 39. [61] Mark Fisher, Realismo capitalista, Nero, Roma 2018, p. 64. [62] Andrea De Benedetti, Luca Rastello, Binario morto, Chiarelettere, Milano 2013, p. 62. [63] Sulla tratta Torino-Milano, per esempio, la spesa per un abbonamento Trenitalia è di 126 euro su treni regionali che impiegano 93 minuti ed è di 399 euro su treni ad Alta Velocità che impiegano 48 minuti. [64] Don De Lillo, Zero K, Einaudi, Milano 2016, p. 10. [65] Ibidem, p. 213. [66] Ibidem, pp. 58-59.
[67] «Il tempo ha svolto un ruolo molto importante nelle cose che
ho scritto negli ultimi vent’anni. Una volta ho interrogato sulla questione un professore di filosofia di Princeton e lui mi ha risposto, molto semplicemente, che il tempo è un argomento troppo difficile da spiegare. Alcuni filosofi sostengono una teoria secondo la quale ciò che ci accadrà in futuro ci è già successo ma noi non lo sappiamo. Ecco, per me il tempo resta un mistero». Don De Lillo intervistato da Giuseppe Culicchia al Circolo dei Lettori; 24 ottobre 2016 [68] https://alcor.org/AboutCryonics/index.html [69] Ivi. [70] Basti pensare che a oggi la definizione di transumanesimo (o transumanismo) non è stata ancora inserita fra i lemmi di Treccani.it. [71] Aubrey de Grey, Michael Rae, La fine dell’invecchiamento, D Editore, Roma 2015. [72] Il 20/11/2016, su Famiglia Cristiana, nell’articolo “Congelare il corpo dopo la morte è scimmiottare la fede nella vera resurrezione”, il teologo Paolo Benanti si esprimeva in questi termini: «L’approccio alla morte che segue chi si affida alla crionica di fatto si fonda su una comprensione della vita molto
riduttiva e inadeguata. La vita umana non è un qualcosa di esprimibile in termini di semplici parametri quantitativi come, ad esempio, i valori dei parametri vitali del nostro organismo. La vita è in primo luogo un insieme di relazioni e di esperienze cha la persona vive in una unicità che è la sua storia. Di conseguenza la morte non può mai essere ridotta all’equivalente di uno stato binario, a un interruttore che si sposta da acceso a spento. La morte, in questo senso, non esiste! Esiste invece il morire, cioè quel processo, più simile a un’alba o a un tramonto, che la persona vive: il morente è una persona viva e ogni vivente, in quanto spirito incarnato, è morente, cioè sempre più in cammino verso il termine biologico della sua esistenza». Articolo al link: http://www.famigliacristiana.it/articolo/congelare-il-corpo-dopola-morte-e-scimmiottare-la-fede-nella-vera-resurrezione.aspx [73] Un interessante excursus nel mito dell’eterna giovinezza firmato da Riccardo Campa si può leggere nel già citato La fine dell’invecchiamento. [74] La felicità al potere di Riccardo Staglianò, dal Venerdì di Repubblica dell’8 novembre 2013. [75] https://www.mirror.co.uk/tech/billionaire-tech-mogul-billgates-10265298 [76] https://www.nytimes.com/2014/09/11/fashion/steve-jobsapple-was-a-low-tech-parent.html?_r=0 [77] Ivi. [78]
http://www.repubblica.it/venerdi/reportage/2018/02/01/news/cos i_i_guru_della_silicon_valley_si_pentono_dei_loro_like187810159/ [79] Ivi. [80] http://humanetech.com/problem/ [81] Gilles Vernet, Tout s’accélére (2016). [82] Maurizio Pallante, Sostenibilità equità solidarietà, Lindau, Milano 2018, p. 39. [83] I dati si riferiscono al rapporto Global E-Waste Monitor 2017. Disponibile al link: https://collections.unu.edu/eserv/UNU:6341/Global-Ewaste_Monitor_2017__electronic_single_pages_.pdf
[84]
https://www.repubblica.it/economia/2018/10/24/news/multa_anti trust_apple_samsung_obsolescenza_programmata-209826512/ [85] https://repaircafe.org/en/visit/ [86] https://slowmoney.org/ [87] https://www.slow-news.com/2015/10/slow-news-manifesto-
giornalismo-sostenibile/ [88] https://www.theworldinstituteofslowness.com [89] Per quanto la pubblicistica e il giornalismo suggerisca la definizione di “lavoretti”, preferisco in questa sede parlare di “lavoro”. Il termine “lavoretto” ha assunto, infatti, una connotazione decisamente negativa, quasi a voler minimizzare gli sforzi e la fatica dei lavoratori e a delegittimare il loro ruolo all’interno della società.