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Italian Pages 152 Year 2023
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titoli affini dal catalogo elèuthera
Marco Aime, Luca Borzani Guida minima al cattivismo italiano
Marco Aime, Riccardo Gatti Conversazioni in alto mare
John P. Clark Dallo Stato alla comunità, il mondo di domani
Shahram Khosravi Io sono confine
Pëtr Kropotkin Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione
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Equipaggio della Tanimar
Crocevia Mediterraneo a cura di Jacopo Anderlini e Enrico Fravega
saggi di Guglielmo Agolino, Jacopo Anderlini, Davide Cangelosi, Arianna Colombo, Luca Daminelli, Emanuela Fracassi, Enrico Fravega, Luca Giliberti, Francesca Goletti, Daniela Leonardi, Antonino Milotta, Luca Queirolo Palmas, Vincenza Pellegrino, Filippo Torre, Veronica Valenti
elèuthera
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volume pubblicato con il contributo di fondi di ricerca del Dipartimento di Scienze della Formazione (disfor) dell’Università degli Studi di Genova nel quadro del progetto mobs (prin 2020 – Prot. 2020telsm8) Le opere audiovisuali e i materiali di approfondimento sono consultabili presso l’indirizzo croceviamediterraneo.eleuthera.it
© 2023 elèuthera editrice le illustrazioni sono a cura dell’equipaggio della Tanimar e sono elaborate da Antonino Milotta progetto grafico di Riccardo Falcinelli www.eleuthera.it [email protected]
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Indice
introduzione Fare ricerca attraverso il mare
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Seawork. Appunti sul metodo
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Menzu lu mari
21
primo giorno Tanimar
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secondo giorno Franca contro il sistema
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terzo giorno Stare mare. Appunti corali in navigazione verso Lampedusa
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quarto giorno Lampemusa. L’isola dei tesori?
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quinto giorno Metterci una croce
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quinto giorno / 2 Lotte per la memoria. Narrare la morte nel Mediterraneo
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sesto giorno Lo Stato visto dalle porto-frontiere
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sesto giorno / 2 Le frontiere dello Stato, lo Stato alla frontiera
77
settimo giorno VattelaPesca. Dialoghi ittici
87
ottavo giorno Una solidarietà svuotata
95
nono giorno Il mare è un macello
101
decimo giorno Linosa. Isolitudine
107
undicesimo giorno Isola-confino, isola-cantiere, isola-resort?
117
ultimi giorni Terra di mezzo, mare di mezzo
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un mese dopo Cronaca di una giornata di libeccio a Lampedusa
135
FilMare, fare immagini in movimento
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Bibliografia ragionata
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introduzione
Fare ricerca attraverso il mare di Jacopo Anderlini e Vincenza Pellegrino*
Le narrazioni dominanti nel campo politico e mediatico italiano rappresentano il Mediterraneo come uno spazio di separazione tra aree geograficamente e socialmente distanti, una barriera «naturale» che divide abissalmente realtà differenti1. Al contrario, storicamente, il Mediterraneo è prima di tutto uno spazio di incontro, attraversamento, contaminazione tra realtà differenti: un crocevia di idee, identità cangianti e soggetti in movimento tra passato e futuro. In questa congiuntura, si configura perlopiù come il luogo di frizione e conflitto tra le pulsioni necropolitiche – seguendo Achille Mbembe, politiche orientate a fare morire o esporre alla morte una parte di popolazione – della gestione migra* Jacopo Anderlini e Vincenza Pellegrino sono rispettivamente assegnista di ricerca e professoressa associata presso il Dipartimento di Giurisprudenza, di Studi Politici e Internazionali dell’Università di Parma. 7
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toria e confinaria dell’Unione Europea e l’irriducibile spinta alla mobilità dei migranti. Il Mediterraneo diviene confine mortifero, diretta conseguenza delle politiche migratorie europee attraverso la militarizzazione dei confini marittimi e terrestri, con la criminalizzazione non solo di chi migra ma anche di chi svolge attività di supporto e solidarietà a chi è in transito, e l’assenza sostanziale di politiche di accesso legali al territorio europeo. Allo stesso tempo, lo spazio e le relazioni che si generano al suo interno producono un tessuto sociale complesso dove razionalità, rappresentazioni e pratiche sfuggono le dicotomie e i «confini» sociali tra i soggetti si fanno più sfumati. Così, all’interno del perimetro descritto dalle politiche migratorie europee e dal suo apparato confinario, dalle reti e infrastrutture di controllo e mobilità, si muovono una molteplicità di attori animati da interessi e prospettive differenti ma che in qualche modo mantengono aperti i passaggi: migranti in transito, pescatori, marinai, guardiacoste, funzionari delle forze dell’ordine e delle agenzie europee, umanitari, solidali. In tal senso, più di altri luoghi il Mediterraneo ospita la tensione tra chiusure e aperture, spinte competitive e mortifere da un lato e spinte di collaborazione e solidarietà dall’altro lato, distopie e utopie contemporanee: per questo ci è parso così interessante posizionarci nel mezzo di questo mare, non solo per essere testimoni di quanto accade ma per cogliere il senso e la direzione della storia europea agli occhi di chi ci vive e ci muore. È con questo campo cangiante che, come gruppo di ricercatrici e ricercatori delle università di Genova e Parma, siamo entrati in relazione, abitando lo stesso spazio marittimo. Attraverso un punto di osservazione privilegiato perché in movimento, su un’imbarcazione, abbiamo provato a dare 8
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conto della complessità di questo spazio, in un viaggio di due settimane con tappe a Pantelleria, Lampedusa, Linosa e Malta, dove di volta in volta ci siamo riuniti con gruppi di ricercatrici e ricercatori a terra. Nell’arco di due settimane, dal 26 settembre all’11 ottobre 2022, abbiamo attraversato il Mediterraneo centrale facendo tappa nei principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo. È la prima volta che un’imbarcazione di scienziati sociali abita questo campo in prima persona, nello spirito di una sociologia pubblica che possa confrontarsi e incidere direttamente sul reale. Un’etnografia del mare costellata di incontri e della partecipazione diretta in un contesto sociale complesso. Sono in effetti proprio questi due elementi, la dimensione metodologica e quella legata alla comunicazione con pubblici più vasti di quello accademico – o meglio, al posizionamento delle scienze sociali nel dibattito pubblico – a costituire alcuni dei tratti innovativi dell’esperienza di cui diamo conto in queste pagine. Se guardiamo agli aspetti metodologici (che verranno messi a tema nel primo capitolo), l’innovazione non deriva tanto dall’impiego di tecniche di ricerca particolarmente avanzate, quanto dal fatto che l’applicazione al contesto marittimo dell’approccio etnografico ci ha costretto a rivedere una molteplicità di presupposti teorici ed epistemologici, mutando, in questo modo, sia le nostre pratiche sia il nostro sguardo. Fare ricerca in mare, sul mare, infatti ha comportato la revisione di alcuni nostri posizionamenti, sia rispetto all’oggetto di ricerca (basti pensare ad esempio che molte delle cose che accadono per mare, accadono di notte, regolate anche dalle maree, dal tempo, dal mare appunto, come è avvenuto per gli attracchi e gli sbarchi di cui siamo stati testimoni, che possono essere 9
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visti quindi solo se si è in mare e/o in porto), sia rispetto alle dinamiche tra i diversi membri del gruppo di ricerca (portati a vivere in uno spazio stretto di confronto costante e a percepire così molto più marcatamente come gli stessi eventi siano evidentemente vissuti in modo diverso e selettivo da ciascun/a etnografo/a, ad esempio). Così, nell’ambigua e a volte complessa sovrapposizione che è emersa tra gruppo di ricerca e «crew» si sono aperti inediti spazi di riflessione e di elaborazione; e sono emerse pratiche di lavoro di «analisi circolare» in cui tutti collaboravano con tutti: passare il tempo tra un incontro e l’altro a rileggere le proprie note di campo agli altri, registrare le note per comporle in dialoghi esemplari, trame di una drammaturgia corale che poi è divenuta un podcast, e così via. Proprio in questo frangente ci siamo resi conto che il carattere soggettivo dell’osservazione veniva evidenziato (ognuno ha la sua voce, ognuno ha le sue note etnografiche diverse da quelle degli altri…) proprio all’interno di dinamiche che arginavano il carattere «individualistico» dell’osservazione che solitamente informa anche la pratica etnografica (quel modo di tenere per sé le note, non rileggerle, perdere rapidamente cognizione del processo selettivo attraverso cui esse prendono forma che ci fa trovare casa intellettuale nella autoreferenzialità). Un altro elemento importante del nostro approccio all’osservazione delle mobilità e delle solidarietà stando in mare è costituito dalla centralità di quella che recentemente con Michael Burawoy ha assunto una certa visibilità, la «sociologia pubblica», ma che è sempre stata in realtà esigenza degli scienziati e degli intellettuali più importanti che si sono occupati di studiare la società: l’esigenza di rendere conto e discutere dei dati di osservazione con un pubblico 10
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vasto, composto non (sol)tanto da colleghi ma da platee diverse, magari lontanissime dal tema (gli studenti indaffarati in tutt’altro, presi dalla resistenza contro il precariato, i crediti, le piattaforme accademiche, i voti degli esami…), magari vicinissime al tema (associazioni di migranti, piattaforme di dibattito di volontari, cooperanti anch’essi via mare, e così via). In tal senso, per fare un esempio, ci siamo impegnati a costruire un ponte con gli studenti universitari attraverso il coinvolgimento di Radio Revolution – della rete RadUni – nella realizzazione di un podcast composto dalle voci, dai suoni, dai pensieri delle giornate di campo, proprio perché sono per noi un pubblico specifico, la cui riflessività sociale, la cui capacità di comprensione dei conflitti del mondo in cui vivono (anche al di là dei temi, del corso che stanno frequentando), è senso ultimo dell’Università pubblica, come dice lo stesso Burawoy. In questo contesto, l’elemento del costante riferimento a un pubblico che volevamo «più vasto» ha imposto a ricercatrici e ricercatori di mantenere un piano di riflessività sempre aperto, ad esempio sul tipo di linguaggio da utilizzare, sul tipo di «dati» e come intenderli, e così via, elementi di costante discussione lungo tutto il corso del lavoro etnografico. Il diario etnografico non è qui unicamente rivolto a colleghi o a chi si troverà a dover articolare ragionamenti più strettamente interni all’ambito della disciplina, ma a un Altro non appartenente a questa cerchia, presente ma non «tenuto presente». Siamo consapevoli della poca rilevanza che oggi l’accademia ha rispetto al dibattito sulle diseguaglianze, e siamo motivati ad assumerci la responsabilità di arginare tale irrilevanza, a partire dalle nostre scelte metodologiche. In questo senso abbiamo voluto individuare un 11
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nuovo referente dell’interlocuzione su quanto avviene nel campo, coinvolgendolo nel campo stesso anche attraverso forme di narrazione diverse. Così abbiamo dato voce a incontri, relazioni, al nostro «abitare il campo», raccontandone gli episodi giornalieri in un dialogo costante tra le diverse temporalità e spazialità del mare: abbiamo raccontato gli incontri e le conversazioni, abbiamo descritto gli oggetti, le barche, le giacche, i rifiuti, i pesci, le tombe e i corpi che vedevamo, ma anche i disegni, i simboli, i sogni, le visioni sul tempo passato e il tempo che ci venivano detti e che disegnavano passato, presente e futuro delle forme di mobilità. Ed è proprio a partire dalle frizioni e dalle rifrazioni di cui siamo stati testimoni che abbiamo intuito la forza con cui molti attori sociali riescono a immaginare oggi una dimensione postnazionale che sappia oltrepassare il governo delle mobilità imposto dagli Stati, e di cui parleremo. E ancora, tutto il libro è costellato di qualcosa che poi precipita in uno degli ultimi capitoli: la dimensione audiovisuale della ricerca che abbiamo cercato di mantenere lungo tutto il viaggio, lo sguardo della camera che ci ha permesso di incontrare e rappresentare paesaggi sonori (soundscapes) e visuali nel loro affastellarsi e dipanarsi, imponendo un altro tipo di sguardo, interpretando quella che per Luigi Ghirri era il carattere principale della fotografia, quello di potenziare e sviluppare un linguaggio fatto per porre delle domande sul mondo e interrogare il reale, e in tal senso parte integrante della nostra pratica etnografica quotidiana. Infine, i capitoli di questo libro si snodano idealmente ripercorrendo le tappe del nostro viaggio in ordine cronologico. La scansione temporale e le geografie che vanno a ricomporsi 12
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nei testi rappresentano anche un espediente narrativo per mettere a fuoco aspetti specifici che costituiscono il Mediterraneo come realtà sociale complessa. Il Mediterraneo è sicuramente uno spazio conteso dai diversi dispositivi e apparati di controllo confinario, dall’incontro/scontro tra gli ordinamenti giuridici degli Stati e il diritto internazionale, dall’insopprimibile volontà a muoversi verso un futuro che si spera migliore. Uno spazio composto da economie diverse e intrecciate tra loro, dal turismo, alla pesca, alle zone economiche speciali, alla finanza, dove vecchi poveri e nuovi ricchi si incontrano. In questo contesto, il passato, la memoria, diventa o un rimosso scomodo con cui è difficile fare i conti o un campo di battaglia per definire presente e futuro di un luogo. La solidarietà, a volte irruenta a volte più silenziosa, o negata e schiacciata, è il filo rosso che attraversa tutte queste tappe. Una solidarietà talvolta legata a esperienze e memorie passate di un luogo o proveniente da altrove, capace già di eccedere il gesto compassionevole e farsi azione (quindi politica), prefigurando futuri post-confinari. Nota all’Introduzione 1. Questo primo viaggio etnografico si inserisce all’interno del progetto di ricerca mobs (Mobilities, solidarities and imaginaries across the borders / Prin 2020) – di cui è capofila l’Università di Genova e il gruppo di ricerca legato al Laboratorio di Sociologia Visuale, e in cui sono coinvolte l’Università di Milano Statale, di Napoli, di Padova, di Parma – che prende in esame le porosità del territorio nazionale italiano, indagando le forme della mobilità e dell’abitare dei migranti in transito e le trasformazioni del governo confinario in quattro luoghi privilegiati: la montagna, il Mediterraneo, lo spazio urbano e lo spazio rurale. 13
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Seawork. Appunti sul metodo di Enrico Fravega*
Pochi mesi prima che la missione di ricerca di cui diamo conto in queste pagine venisse concepita – nel corso di un percorso di formazione dottorale itinerante, svolto a bordo di una barca in navigazione tra Livorno e Nizza che vedeva la partecipazione di dottorandi, ricercatori e docenti delle università di Genova e Roma La Sapienza – alcuni di noi hanno sperimentato come funziona (o come può funzionare) il confine in mare. Dopo una giornata trascorsa a Ventimiglia, incontrando gli attivisti del gruppo 20k e alcuni migranti, torniamo a imbarcarci sulla Raj1 e ci dirigiamo verso la baia di Roquebrune, dove passiamo la notte, ancorati in rada. Sino a quel momento il mare ci è apparso uno spazio vuoto, * Enrico Fravega è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova. 15
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poco denso, spopolato, a prima vista libero da controlli opprimenti. Da Genova al confine abbiamo incontrato un mercantile, un peschereccio e il traghetto che prendeva la rotta al largo verso Barcellona. Al mattino riprendiamo la navigazione facendo rotta verso Villefranche-sur-mer e quando siamo nelle acque prospicienti al Principato di Monaco, veniamo affiancati da un gommone della Gendarmerie maritime francese: ci chiedono quanti siamo a bordo e dove siamo diretti. Poi, ci seguono a distanza finché non diamo fondo nella baia di Villefranche-sur-mer. A quel punto si accostano alla nostra barca e chiedono i documenti di tutte le persone a bordo. Sono incuriositi dalla composizione anomala del nostro equipaggio e non fatichiamo a prendere confidenza con loro. Noi gli raccontiamo che stiamo sperimentando una nuova modalità didattica e loro condividono con noi le loro esperienze di lavoro in mare. Scopriamo così che il loro problema principale, soprattutto d’estate, quando questo tratto di mare è superaffollato, è rappresentato dai super-yacht. Gettano l’ancora ovunque, anche in zone marine protette. E i loro armatori non sono minimamente impensieriti dalle eventuali sanzioni. Inoltre, confermando quanto già sapevamo, ci raccontano che non si sono mai registrati casi di attraversamento del confine italo-francese, da parte di migranti, via mare. Ci parlano del problema delle barche abbandonate nelle rade, che non navigano più ma vengono utilizzate per dormire, alludendo a un nuovo soggetto: i clochards del mare. Quando se ne vanno, ci salutiamo molto cordialmente. Anche questa notte dormiamo in rada. Al mattino facciamo colazione sul ponte accompagnati dal rumore insistente di un elicottero scuro che sorvola la baia. Salpiamo 16
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l’ancora e prendiamo il largo dirigendoci verso Nizza, che si trova subito dopo il promontorio del Mont Boron. Quando attracchiamo, ad attenderci troviamo una pattuglia della paf (Police aux frontières). Sanno già chi siamo ma ci richiedono i documenti e vogliono sapere il motivo del nostro viaggio. Uno degli agenti tiene tra le mani un dossier con le fotografie della Raj, dall’alto. L’evento del controllo è divenuto uno strumento per entrare materialmente in contatto con il dispositivo confinario. La situazione ha permesso quindi di produrre conoscenza, di osservare le azioni di attori che avevano in noi un bersaglio, di aprire relazioni discorsive dentro un frame in cui l’azione di sorveglianza – nessuna polizia è salita a bordo – è stata arginata dal capitale culturale e simbolico di cui era portatore un progetto accademico di formazione. L’idea di un percorso di ricerca etnografica collettivo e itinerante che costruisca uno specifico punto di osservazione situato è nata in quel momento, attorno a un’intuizione piuttosto semplice: non si può comprendere come il mare possa essere, al contempo, uno spazio di incontro e un battleground, senza stare in mare. Approcciare il mare come campo di ricerca ci ha costretto ad affrontare una molteplicità di difficoltà, concettuali e pratiche. Il mare, infatti, è un luogo dove accadono cose che, pur dispiegando i loro effetti anche sulla terraferma, non sono facilmente osservabili, individuabili, definibili nel loro divenire. Eppure, il mare si configura come uno spazio cruciale della contemporaneità: sul mare si costituisce la possibilità di costruire mercati globali attraverso l’estendersi dei traffici marittimi e l’estrattivismo ittico; sul mare prendono forma nuove forme di organizzazione economica e nuove 17
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catene di produzione del valore (ad esempio lo sviluppo di specifiche economie turistiche: crociere, villaggi-vacanze, ecc.); sul mare prendono forma, infine, quei processi di razzializzazione che sono parte integrante, e costitutiva, delle pratiche di governance dei processi migratori. Nondimeno, il mare conserva un’aura romantica e spesso si presenta come uno spazio di desiderio. Un luogo incerto, eterotopico, che mette in comunicazione mondi diversi, ricorsivamente esotizzato e reso oggetto di processi di disneyfication e forme diverse di sfruttamento. Ma anche un crogiuolo di culture, persone, visioni del mondo che assieme lo hanno reso pensabile come topos indefinito, spesso irraggiungibile, nel quale prendono forma pratiche di organizzazione sociale radicalmente differenti da quelle che si incontrano sulla terraferma. Modi di stare e di pensarsi assieme che costituiscono un diverso rapporto con il principio dell’autorità e con la spazialità. Da qui scaturiscono le due principali sfide metodologiche che abbiamo cercato di affrontare nella nostra missione nautico-etnografica. La prima ha a che fare con il decentramento conoscitivo che abbiamo dovuto operare stando in mare. Stare in mare, stare male, stare mare ha cambiato il nostro posizionamento sul campo e il nostro modo di pensarci. Innanzitutto, perché i tempi della ricerca, e i margini di autonomia dei ricercatori imbarcati a bordo della Tanimar, sono mutati radicalmente; fortemente condizionati dall’esperienza del vivere in barca. A Pantelleria, ad esempio, non siamo riusciti a giungere via mare a causa del cattivo tempo e, sempre da lì, ce ne siamo dovuti andare qualche giorno prima del previsto perché la finestra meteorologica utile per fare la traversata fino a Lampedusa stava per chiudersi. Inoltre, 18
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l’esperienza di navigazione in alto mare, con i suoi tempi variabili, protratti e indefiniti, ci ha fatto sperimentare una condizione di perdita di controllo sui nostri movimenti che non siamo abituati a vivere. A terra non solo possiamo calcolare esattamente quanto tempo ci vuole da un luogo all’altro ma spesso – in treno, in aereo o anche nei tempi di attesa tra un impegno e l’altro – possiamo agevolmente colmare i tempi morti leggendo, scrivendo, mandando mail, telefonando, ecc. A bordo, invece, ciò non è così facile e i tempi delle navigazioni più lunghe ci hanno costretto a prolungati periodi di inattività. In altre parole, «in mare comanda il mare» e chi non fa navigazione costiera ma si muove tra orizzonti senza terre in vista, fa esperienza di uno spazio-tempo diverso. Allo stesso tempo, stare in mare, muoverci sul mare, arrivare dal mare ci ha inserito in un fitto tessuto di relazioni e pratiche di riconoscimento reciproco che nei porti hanno assunto la forma di incontri inaspettati e un accesso «fluido» a moltissime storie e contesti. In altre parole, il nostro status di «marinai» ha reso estremamente porosi i luoghi dove abbiamo attraccato, agendo come un amplificatore di capitale sociale e simbolico. La seconda sfida riguarda la dimensione collettiva dell’esperienza che abbiamo vissuto in barca e il tentativo di trasformarci da équipe di ricerca in crew. Ovvero di provare a rompere l’individualismo metodologico che caratterizza anche le pratiche di ricerca non-standard, provando a realizzare un’etnografia collettiva. Una scelta che ci imponeva, innanzitutto, di diventare gruppo. Così, condividere gli spazi ristretti della barca, violando – per necessità – le regole della prossemica che vigono a terra, e passando intere giornate assieme, dal mattino alla sera, ha 19
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rappresentato una sorta di rito di passaggio che abbiamo superato mettendo a valore questa prossimità. Ciò ci ha imposto un esercizio di discussione continua sulle nostre pratiche di ricerca e su quello che emergeva quotidianamente dal lavoro di campo; ma ha anche dato forma a un lavoro di scrittura collettiva che, avviato attraverso il sito di MeltingPot.org e il podcast di Radio Revolution, prosegue ora nelle pagine di questo libro. In conclusione di queste note un po’ scarmigliate, vogliamo soffermarci sul termine fieldwork. Al centro della costruzione teorica su cui si basa la ricerca etnografica, il termine «campo» – in inglese field e in francese terrain – rimanda alla «materialità» del lavoro dell’etnografo e a una precisa spazialità che prevede la presenza del ricercatore «giù», a contatto con i soggetti e i contesti della ricerca. Nondimeno, per una pluralità di ragioni che abbiamo provato a declinare in tutto questo breve testo, si tratta di una metafora che mal si adatta allo svolgimento di un’etnografia sul/dal mare. Per questo proponiamo di compiere un salto logico, riconoscendo le specificità del contesto marittimo e dando inizio a un esperimento di definizione di un nuovo vocabolario. Un nuovo set di strumenti conoscitivi che ci consentano di comprendere il tessuto di relazioni e opposizioni che danno forma a ciò che siamo soliti chiamare mare: questo libro vuole essere una prima traccia per pensare in termini di seawork l’agire etnografico. Nota al capitolo 1. La Raj è la barca a vela del progetto Ermenautica – Saperi in rotta. 20
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Menzu lu mari di Davide Cangelosi*
Chissu paisi ch’è terra ri sbarcu ciuri rimmernu pi cu unavi agiu oh miu signuri sarvali ri stu chiaccu carma li acqui prima chi partu (sutta ddu gozzu) signuri signuri signuri ri ncapu sta varca paremmo lignaggiu un gnisamu l’occhi p’un viriri l’autru sfiramu la sorti cu un lignu a lu sfasciu priannu lu ddiu p’aviri nu scogghiu signuri signuri signuri ri ora sugnu menzu lu mari sutta lu suli tra la vita e la morti scanciavu lu pani cu l’ acqua e lu sali * Davide Cangelosi è ricercatore in campo scientifico, attore di teatro, cantautore di musica siciliana e polistrumentista. 21
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Viu la me vita cca nfunnu a lu mari signuri signuri signuri ri viu acqua a perdita d’occhiu rimmi stu lazzu quannu lu sciogghiu mi lu sugnava diversu chistu viaggiu e morti menzu l’acqua quanti ni cogghiu signuri signuri signuri ri ora sugnu menzu lu mari sutta lu suli tra la vita e la morti scanciavu lu pani cu l’ acqua e lu sali e la me vita n’un trattu scumpari signuri signuri signuri ri ora sugnu menzu lu mari ora sugnu menzu lu mari.
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primo giorno
Tanimar Pantelleria 36° 49’ Nord – 11° 56’ Est di Luca Queirolo Palmas*
Ascoltando le note e le parole che Davide Cangelosi ci ha donato per il nostro viaggio, non possiamo che misurare l’enorme distanza fra i diversi stare menzu lu mari. Il nostro è quello privilegiato del racconto, del provare a essere occhi e testimoni civili in mare di quanto viene in modo altalenante invisibilizzato o trasformato in spettacolo. Siamo la prima barca di ricercatori in mezzo a questo mare… Quello che si vorrebbe chiudere con i blocchi navali o la chiusura dei porti, quello che è già chiuso con i fermi amministrativi delle navi dei soccorritori civili, i respingimenti delle guardie costiere libiche e tunisine, gli accordi bilaterali… quel mare che continua, lasciando una scia di sangue e morti dietro di sé, a rimanere comunque * Luca Queirolo Palmas è professore associato presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova. 23
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aperto e poroso, attraversato con ogni mezzo da quanti esercitano il diritto alla fuga. Ieri notte ci aggiravamo nel porto di Pantelleria, isola da cui parte la nostra esplorazione del Canale di Sicilia, cercando un bar dove seguire i risultati elettorali. Ma il genere non sembra attirare interesse né passioni. Nessuno schermo è sintonizzato su questo canale. Nessuna attesa particolare. Un cameriere chiede a noi quali sono i risultati: «Non ho tempo per seguire, lavoro sempre, di corsa». E la mattina dopo nel bar di fronte alle pescherie, quando i vincitori – quelli che in modo esplicito vogliono che il Mediterraneo continui a essere un cimitero liquido – sono ormai seduti sul palco della vittoria, il loro vociare dagli schermi è annullato dalle discussioni della vita quotidiana: si parla del lavoro e della fatica, delle vendite del pesce, della casa perduta per un divorzio, del tempo, del mare. D’altra parte, ciò che si manifesta in questa piccola isola a 40 miglia dalla Tunisia riflette qualcosa di ben più esteso: l’astensione è il primo partito in Italia e vale il 36 dei potenziali elettori. Scendendo dalla barca che ci accoglie, la Tanimar, un ketch di 15 metri guidato da due skipper genovesi trapiantati da tempo a Lampedusa, un elicottero si alza in volo dall’altro lato del porto. Volteggia sopra le nostre teste e poi scompare. Due anziani seduti su una panchina ci dicono con indifferenza che «sorveglia i tunisini». Più tardi un carabiniere ci racconterà che quasi ogni giorno l’elicottero fa il giro dell’isola. Produrrà forse immagini che sono rilanciate e andranno a comporre lo sguardo condiviso di diverse agenzie di controllo. Il mare è permanentemente sorvegliato, tracciato, reso visibile, ascoltato, scandagliato; eppure, questa visione panottica va spesso a braccetto con il 24
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suo rovescio necropolitico, lasciar morire chi è protagonista di mobilità inopportune e indesiderate. Nei giorni precedenti, abbiamo preparato la partenza entrando in relazione con altri che per lavoro o vocazione attraversano il Canale di Sicilia. Ecco alcune di queste voci: Ieri al calar della sera, mentre stavo spostando una barca di 46 piedi, mi ha fermato una motovedetta della finanza. Hanno perquisito la barca in cerca di clandestini, poi hanno continuato a scassarmi l’anima per un paio d’ore con futili motivi, come si dice in tribunale, facendomi perdere la luce per atterrare in porto. A un certo punto la loro radio ha detto «è affondata». «Ma chi è? Lampedusa??» ha chiesto uno. «Sì sì» ha risposto l’altro, annoiato. I morti annegati annoiano un poco tutti infatti. Oggi sulla cronaca zero news. Mondo di merda, se la rimesti spussa, se la pesti porta fortuna. Sai… il mio terrore è imbattermi in un barcone, quelli con tanta gente, quando navigo. Che faccio? Io sono piccolino con la mia barchetta a vela da charter, loro tanti e come fai a salvarli? L’unica cosa è restare vicini, in zona, e rilanciare in continuazione il may day, così quelli dello Stato o barche più grandi sono obbligati ad accorrere e portare i soccorsi e magari non li lasciano morire nel silenzio. Quando siete in mare, usate sempre comunicazioni scritte. Magari con pescherecci e università ci vanno più leggeri. Ma a chi salva, non fanno mai sconti.
Anche qui, soprattutto qui, come in altri luoghi di frontiera, si impone la progressiva naturalizzazione di uno spazio di morte: in modo tragico e paradossale, chi soccorre può incorrere in un potenziale «crimine di solidarietà» conside25
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rato come favoreggiamento della migrazione clandestina, mentre i naufragi, quelli dei migranti, divengono parte di uno scenario di accettabilità, per quanto ogni movimento sia seguito e accompagnato da molteplici forme di controllo. L’elicottero è scomparso dietro il porto. Il silenzio (evitare testimoni civili) e la tracciabilità (mantenere uno sguardo panottico sull’inopportuna mobilità migrante) corrono insieme. Dopo il cimitero, dopo il campo da calcio abbandonato, dopo la centrale elettrica, dopo il canile, dopo i lavori non finiti di un lungomare, dopo l’installazione di un’artista che mette in dissonanza turismo e migrazione, una vecchia caserma in disuso accoglie il cimitero delle barche di Pantelleria che osserviamo attraverso le maglie di una rete metallica: gozzi e piccoli barchini, ma anche canoe, stile Decathlon. Molti segni di viaggi auto-organizzati, che cozzano con la retorica istituzionale che individua negli scafisti i responsabili delle partenze, e delle morti. Poco oltre, altre griglie: di un centro dove chi arriva è rinchiuso, e materassi impilati e buttati per terra. Qui e là, un giubbotto di salvataggio sul cemento o una coperta termica dentro sacchi sporchi. È uno scenario di macerie, di scarti. Domani ci aspetta un giorno a terra di interviste prima di andare verso sud, verso Lampedusa, bordeggiando le acque territoriali tunisine. Incontreremo volontari anonimi, ma anche le istituzioni del mare e della terra. Un vecchio articolo di un giornale tunisino – «La Dépeche tunisienne» – del 6 agosto 1947 ci fa da guida. Dice il titolo in francese su una carta ingiallita: «Tunisia, Terra di scelta. Cap Bon rimane luogo di atterraggio favorito dei clandestini che vengono dalla Sicilia. Sbarco massivo, trenta arresti».
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Kelibia (dal nostro corrispondente). Le coste di Cap Bon sono da sempre servite come luogo di atterraggio per gli indesiderabili, che in fuga dalla Sicilia, dai baschi dei carabinieri o per qualunque altra ragione, vengono a cercare alle nostre latitudini la pace, il pane, la libertà. C’è stata un’epoca non lontana di imprese clandestine che organizzavano il passaggio e non è detto che i pescherecci italiani catturati in questi ultimi giorni nelle nostre acque territoriali non contribuiscano potentemente a questo scopo. Certo non ignoriamo che le fattorie di Cap Bon – le fattorie italiane ben inteso – servano come base di appoggio per i sedicenti turisti, che certo non si preoccupano né delle formalità del passaporto, né di quelle della dogana. Sono già molti in Tunisia [gli italiani clandestini], così tanti che è bastato una semplice gettata di rete per pescarne diverse dozzine. La gendarmeria di Kelibia, sotto il comando del maresciallo Guérard, ha appena arrestato a Ras ed-Drek, all’estremità della nostra penisola, sette clandestini nel momento in cui sbarcavano, mezzi morti di fame e di sete. Venendo da Trapani, la loro traversata favorita da un vento del settore Nord è durata 48 ore. Si tratta di ex prigionieri di guerra italiani, nati qui, arruolati e catturati durante la campagna di Tunisia. Le loro famiglie abitano a Tunisi, Sfax e Hammam Lif. Così hanno dichiarato al primo interrogatorio che hanno subìto a Kelibia: «Morivamo di fame e preferiamo rimanere in Tunisia, piuttosto che ritornare in Sicilia». Altri punti di sbarco sono stati segnalati. Diciotto clandestini che hanno toccato terra sono stati fermati sulla spiaggia di Korba e quattro verso Menzel-Temime. La polizia e la gendarmeria tentano di arginare la marea di chi sbarca clandestinamente, per i quali la Tunisia rappresenta la Terra Promessa.
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secondo giorno
Franca contro il sistema Pantelleria 36° 49’ Nord – 11° 56’ Est di Enrico Fravega
Accadono cose che sono come domande. Passa un minuto, oppure anni, e poi la vita risponde. Alessandro Baricco
L’evento che segna l’ingresso di Pantelleria nello scenario migratorio mediterraneo è un naufragio. All’alba del 13 aprile 2011, un peschereccio proveniente dalla Libia, finito fuori rotta, si incaglia sugli scogli, poco lontano dall’imboccatura del porto. L’imbarcazione era stata soccorsa da un’unità della guardia costiera che la stava accompagnando in porto, quando, probabilmente per una manovra sbagliata, si è arenata su un fondale basso. A bordo c’erano poco meno di 200 persone e, nel panico che ne è scaturito, molti degli uomini e delle donne a bordo si sono lanciati in mare. Tre di loro, due donne e un uomo, non ce la faranno. 29
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Quel giorno tutta la popolazione di Pantelleria si mobilita. La capitaneria e le forze dell’ordine intervengono con i loro mezzi, i diving cercano di aiutare a stabilizzare la barca, ma anche singoli cittadini partecipano ai soccorsi e si prodigano nell’offrire un’assistenza immediata. Questo evento si incide nella memoria collettiva di una piccola comunità arroccata su uno scoglio più vicino alle coste tunisine che a quelle italiane. Tutti si ricordano dov’erano e cosa facevano quel giorno e non è raro, nelle sedi delle istituzioni o nei locali aperti al pubblico, imbattersi in foto che ricordano quel momento. Poi, su Pantelleria cala il silenzio. Nonostante gli arrivi, negli anni, continuino non si registrano più casi di sbarchi così numerosi. Negli ultimi due anni, tuttavia, i numeri crescono e da poche centinaia si passa alle migliaia (2.555 nel 2021; 1.858 nel 2020). L’istituzione di un insediamento Frontex è del 2020 e al 2022, precisamente al 4 agosto, risale l’apertura di un punto-crisi (definizione in lingua italiana degli hotspots). Due momenti che, insieme, costituiscono una cesura nella storia dell’accoglienza a Pantelleria. Franca è anziana, ma è ancora appassionata. Da sempre anima del volontariato pantesco, ci dice che non sa collocare con esattezza i suoi ricordi su una linea temporale. Tuttavia, per lei è molto chiaro che c’è un «prima» e c’è un «dopo». «Prima» l’accoglienza era «artigianale»: ognuno faceva quello che poteva. E si stabiliva un contatto umano con le persone che arrivavano sull’isola. Chi sbarcava era preso in consegna dai carabinieri, che trattenevano i migranti nelle celle della caserma. Però in caserma era possibile entrare, portare dei vestiti o una parola di conforto: «Prima si 30
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lavorava in modo casereccio e si arrivava al ‘povero’, alla persona che aveva bisogno, ora è tutta burocrazia. Io sono sempre stata quella dei vestiti, se c’era qualcuno che aveva bisogno chiedevano a me e glieli facevo avere, e se non ne avevo chiedevo a chi poteva darne – e gli facevo aprire le porte delle celle. Che potessero avere almeno un po’ d’aria». Nel «dopo», che in realtà è adesso, un diaframma istituzionale – fatto di procedure burocratiche, di una molteplicità di divise (carabinieri, guardia di finanza, Frontex), di cancelli chiusi ermeticamente e moduli abitativi – si è inserito tra i migranti e le persone che «facevano l’accoglienza». Così, al nuovo punto-crisi, Franca non può accedere. Perché è solo Franca; ovvero non è registrata come volontaria in nessuna delle organizzazioni che hanno un ruolo formale nella gestione del centro. È una donna delusa e mortificata – «Non si possono fare certi lavori se non si è motivati […] io vedo come lavorano quelli: gli gettano i vestiti lì per terra, senza neanche guardarli in faccia» – che nonostante una mitezza disarmante non nasconde una critica radicale all’attuale organizzazione del sistema di accoglienza. Franca decide di accompagnarci personalmente al puntocrisi. L’appuntamento è in un luogo non bene identificato, fuori dal paese: «Pochi passi dopo l’enel». Dopo circa un chilometro dal porto in direzione sudovest, in una terra di nessuno segnata dal degrado – una passeggiata che non si capisce se sia in costruzione o in abbandono, un cimitero, un campo da pallone circondato da un muro diroccato, e un impianto industriale che avvolge tutta l’area in una sorta di rumore bianco – notiamo una garitta arrugginita che si affaccia dall’angolo di un edificio 31
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in rovina e, poco distante, la sagoma bianco-azzurra di una barca che spunta sopra il muro di cinta. Facendoci strada in un passo carrabile senza cancello, ci affacciamo in un cortile in abbandono, senza alcuna insegna se non quella di un vecchio cantiere edile. Alla nostra destra, cintato da una rete metallica coperta da un telo verde, si rivela il cimitero delle barche di Pantelleria. Accatastate le une sulle altre, qualche decina di imbarcazioni di varie dimensioni e anche delle canoe gonfiabili modello Decathlon, sono ammassate, una sull’altra, in un piazzale chiuso. Più avanti si nota un salvagente gettato per terra e, in fondo, un’ambulanza parcheggiata di traverso e dei sacchi gialli semitrasparenti pieni di salvagenti, ammassati l’uno sull’altro. Poi, dietro un angolo, un cancello nuovissimo, in metallo zincato, un’autovettura bianca senza insegne e un container ancora lucido, «brandizzato» con il logo di Frontex e la scritta «Debriefers» sulla porta. Lontano dagli sguardi, al di là di una sorta di terrain vague periurbano, ai nostri sguardi si presenta uno spazio diverso, ermeticamente chiuso e controllato militarmente. Dietro il cancello, sotto un tendone bianco, pile di materassi ammassati per terra uno sull’altro, sembrano giacere in attesa di trovare un utilizzatore. Alla nostra sinistra, da un capannone alcune teste si sporgono oltre il muro. Qualcuno, da dentro, ci sta guardando. Il nostro curiosare è interrotto dall’arrivo di un uomo in motociclo che si fa aprire e richiama l’attenzione del personale di guardia su di noi. Mentre Franca finalmente ci raggiunge, due militari della guardia di finanza escono dal centro e ci impongono di lasciare l’area, senza fornirci alcuna spiegazione. 32
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Torniamo sui nostri passi, riflettendo sul fatto che veramente «lontano dagli occhi» è «lontano dal cuore». Il cancello chiuso e il volto dolce di Franca sono le ultime immagini che ci lascia l’isola di Pantelleria. Domani dobbiamo affrontare 85 miglia di navigazione e tra noi serpeggia un leggero nervosismo. Qualcuno sdrammatizza, pur lasciando trasparire una certa agitazione. Alcuni vorrebbero fermarsi ancora qualche giorno per cercare di comprendere meglio quest’isola, ma la data della partenza è imposta dal meteo. Altri, infine, sono contenti di partire e sono fiduciosi negli skipper. Ma nessuno di noi sa bene cosa aspettarsi.
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terzo giorno
Stare mare. Appunti corali in navigazione verso Lampedusa Mar Mediterraneo 36° 29’ Nord – 12° 04’ Est di Jacopo Anderlini, Daniela Leonardi, Antonino Milotta*, Vincenza Pellegrino e Luca Queirolo Palmas
Daniela. Abbiamo navigato 9 ore e 15 minuti e percorso 60 miglia. Ce ne restano altre 28 per arrivare a Lampedusa. 14 ore di navigazione per una distanza di circa 160 chilometri, è un tempo a cui non siamo abituati, tempo dilatato… tempo per osservare il mare, un cielo stellato che sarà impossibile da dimenticare, tempo per ascoltare la storia di quando la Tanimar è rimasta senza timone, alla deriva, ed è arrivata la guardia costiera ma… Sappiamo bene che non siamo tutti sulla stessa barca. Figurarsi, poi, se lo siamo tutte. La dilatazione del tempo spesso è in relazione con la contrazione spaziale leggo in Le dannate del mare. Il tempo * Daniela Leonardi è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università di Torino; Antonino Milotta è dottorando presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova. 35
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per leggere, in solitudine, è rarissimo… meglio selezionare accuratamente le letture… Voci diverse ci raccontano il punto-crisi, spazi sovraffollati della (non) accoglienza, materassi dappertutto e le giornate che trascorrono senza nulla da fare. In attesa, sospesi… Aspettando di sapere quando si potrà lasciare l’isola alla volta di Trapani e chissà lì cosa succederà… Le voci che ascoltiamo non sono quelle di chi sta vivendo tutto questo, di queste persone abbiamo gli occhi addosso, sguardi eloquenti dietro finestre con le sbarre, nel cortile di un posto isolato e anonimo. L’hanno chiamato punto-crisi… E l’Università? Che spazio può avere in tutto questo? La ricerca sociale collettiva ha delle potenzialità analitiche molto diverse dalla ricerca condotta in modo individuale ma… quando si fa davvero? Quando ci si prende il tempo per raccogliere dati insieme, per analizzare insieme? Serve trovarsi su una barca in mezzo al mare per prendersi il tempo necessario, non portare avanti tre progetti diversi in parallelo e non essere impegnati per la maggior del tempo in compiti burocratici? Sono qui da due giorni (o sono venti?) e il mio modo di muovermi, grazie all’esperienza in barca, è già cambiato. Il mio corpo si adatta velocemente a questi nuovi spazi stretti… Quanto tempo ci vuole ad adattarsi ai cancelli, e alle finestre con le sbarre? E ai container affollati? E al mal di mare? E a girare la testa dall’altra parte, ci si abitua? Luca. La chiesa ha suonato le campane a morto, prima che lasciassimo il porto. Il viaggio inizia. Per alcuni di noi è un battesimo del mare. Il secchio del vomito è a portata di mano. L’onda formata spaesa chi fino a oggi è stato in porto cullato dal beccheggio della Tanimar. A 36
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ognuno di noi viene dato un giubbotto e delle consegne di sicurezza. Abbiamo indumenti, abbiamo cibo, la sicurezza di due skipper a bordo, e la barca ci protegge dall’acqua che è sotto di noi. Mentre la radio gracchia e mantiene il contatto con lo spazio del soccorso e delle informazioni. I nostri corpi prendono confidenza con l’ambiente in cui ci muoviamo, passando attraverso la sofferenza. È ancora una volta un privilegio bianco il nostro, questo tipo di sofferenza. Ripenso alle barche del cimitero, a quelle condizioni di viaggio, a quei volti anonimi che provo a immaginare. Ricordo le parole del nostro amico Georges, al racconto della sua traversata, le persone che piangono, le persone che pregano, le persone che vomitano e si pisciano addosso, le persone che urlano e si spingono, per salvarsi a volte a spese di altri. L’acqua ovunque, il motore che si arresta, i soccorsi che non ci sono, la radio che non risponde. Sul cellulare, appare un messaggio – è di un’amica marinaia sbarcata da poco da una missione di soccorso della flotta civile. Ci augura buon vento e ci dice che in questo mare, non lontano da noi, la Geo Barents è da sei giorni in attesa di un porto sicuro con il suo carico di vite strappate al mare. Vincenza. La Tanimar oscilla forte. Io provo quello che provo quando le cose non mi sono familiari: dall’esterno passo all’interno, dagli occhi mi sposto sulle viscere, per vedere come stanno. «Col corpo capisco» scrive Grossman, ed è vero, e anche io stamattina ascolto le mie viscere mentre Pantelleria si allontana. Che a dire il vero dopo un po’ mi sembra che ci venga dietro, resta imponente e vicina, noi navighiamo ma lei risucchia, mi pare, e resta lì a lunghissimo, orizzonte delle attese lasciate, alle spalle 37
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intrasento le voci degli isolani, quelle di cui abbiamo detto ieri, tanti Stati nello Stato, chi salva dall’annegamento, chi chiede i documenti, chi chiude nel container, ognuno un pezzo, nessuno il tutto, la voce dello Stato sociale tace sommersa dai controlli e dalle paure… Comunque, le mie viscere sono ferme. Non ho il mal di mare. E visto che l’umanità stamattina si divide tra chi ha il mal di mare e chi no, io sto dalla parte giusta. Anche quando cerco di fare prove di annegamento, di scomodanza, di piedi nelle scarpe altrui, poi finisco tra i salvati, i sommersi tenuti dentro. Mi ascolto. Non so perché, l’immagine che mi viene in mente è di due cugini tunisini che sono sul kayak insieme e uno vomita e l’altro no, uno rema e l’altro no, uno muore e l’altro no. Oppure arrivano insieme e lottano per restare insieme, ma uno viene rimpatriato subito e l’altro no. Non so perché due cugini, da dove sbuchino. Dai racconti di qualcuno ieri, dai ragionamenti se sia legittimo, se abbia senso, dividere maschi e femmine, padri e madri, due cugini. Mentre guardo l’acqua mi sento stanchissima di tutto questo smerdamento di chi viene dal sud, i tunisini oggi, i terroni ieri, la subalternità ingoiata, liberarsi dall’idea che davvero dobbiamo andare verso nord. La Tanimar mi pare punti a sud, non so neanche bene, chiederò a chi ci sta portando. Benedetti i trasportatori, benedetti quelli che ci permettono di attraversare il mare, chiunque siano, e benedetti i miei cugini di viaggio di oggi. Jacopo. Siamo sulla stessa barca. Penso alle persone che attraversano questo stesso Stretto di Sicilia, in condizioni completamente diverse dalle nostre: stipati per ore e ore, sotto al sole, in piccole e fragili imbarcazioni di legno. 38
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Ustionati dal carburante, con il rischio costante di naufragare e annegare, in questo mare… nero. No, non siamo sulla stessa barca. Molte volte mi sono chiesto, in modo un po’ naïf, se fossi in grado di salvare qualcuno. Partecipare ai salvataggi. Ma per prendersi cura di qualcuno bisogna essere in grado di prendersi cura di sé. Essere in una posizione sicura. Così penso la solidarietà. Non siamo sulla stessa barca, non abbiamo lo stesso posizionamento, ma non siamo del tutto salvi finché salvi non lo sono tutti. Anto. Che dire, chi dicu, un dicu nenti. Traggo nutrimento dal mare e dal sole. Mi sentu caliato e salato… cristallizzo momenti di esperienze prime. Nel frattempo, penso attraverso le forme e i colori… attratto dai motivi delle cime, dai cavi inossidabili, da strumenti e processi meccanici ingegnerizzati. Staiuu navigando, viru la terra da una distesa di mare, cullato da un corpo galleggiante posato e aggraziato. Ma il pensiero torna indietro, a ieri, a lu cimiteri di li varchii. Relitti che hanno perso la loro grazia… ancorati lì su un fondale cementificato. Progettati per farsi guardare, colori brillanti… sono corpi inermi, gommoni sgonfi ma ugualmente gonfi (magari di speranze), convessi e conche che nascondono dettagli. Bottiglie d’acqua, cartoni di latte, biscotti andati a male. Cappelli, pinne, mute e tanti giubbotti fluorescenti gialli e arancio con righe catarifrangenti. Sbrilluccicano come gli occhi quando immagino, vedo persone che come me stavano alla ricerca navigando. Ricercare ognuno il suo… mondo fisico o interiore? Dentro al flusso mi preparo a non vedere, alla notte buia la fiducia è affidata a chi in porto sa navigare.
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quarto giorno
Lampemusa. L’isola dei tesori? Lampedusa 35° 49’ Nord – 12° 60’ Est di Luca Giliberti e Filippo Torre*
È notte. La Tanimar si sta avvicinando a Lampedusa dopo 14 ore di navigazione. Ci accoglie con le luci di una base dell’aeronautica militare, ma anche di molti pescherecci al lavoro. Una motovedetta ci viene incontro puntandoci i suoi potenti fari addosso. Stanno pattugliando. Chi siamo noi? Turchi? Clandestini? L’ennesimo sbarco? Si chiederanno. Siamo nell’isola frontiera. Dopo 60 secondi di un interrogatorio marino senza parole, i fari si spengono e i militari vanno via. Entriamo in porto. La musica a pieno volume di un locale alterna canzoni neomelodiche con le canzonette dell’estate. La mattina nel Bar dell’Amicizia * Luca Giliberti è ricercatore senior (rtd-b) presso il Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali dell’Università di Parma; Filippo Torre è dottorando presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova. 41
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decine e decine di turisti fanno la coda per la colazione. È l’isola frontiera, è l’isola turismo. Che ci racconterà l’equipaggio di terra che sale a bordo? Che voci avrà raccolto sui moli e nell’isola? Già dall’arrivo è evidente la diversa scala di tutto ciò che si muove e agisce qui: risorse, denaro, Stato e militari, pesca, turismo, migranti. L’isola dei tesori? Per cominciare a esplorare tali aspetti, contestualizzando Lampedusa nelle dinamiche del contesto marittimo mediterraneo in cui sta navigando la Tanimar, come equipaggio di terra abbiamo anticipato l’arrivo della barca, giungendo sull’isola lo stesso giorno in cui il resto del gruppo si imbarcava a Pantelleria. Siamo già stati qui in precedenti occasioni di ricerca, anche in momenti diversi tra di noi, e partiamo dai nostri contatti passati per l’apertura del campo etnografico entro cui ci muoveremo, prima da soli e poi con l’equipaggio della Tanimar al completo. La particolarità di questo momento ha a che fare con un fermento dell’isola dovuto non solo al pieno di turisti – nonostante sia già fine settembre – ma anche alle iniziative organizzate per la commemorazione del 3 ottobre 2013, che prevedono la partecipazione di numerosi studenti di scuole da tutta Italia. Se nella vita quotidiana dell’isola la pandemia sembra passata, le sue ripercussioni influenzano significativamente la gestione degli sbarchi e le politiche di contenimento, impedendo in maniera permanente alle persone che entrano in hotspot di poter uscire dal centro. Nonostante la presenza migrante sia assolutamente intangibile, i continui sbarchi alimentano voci e posizionamenti contrastanti, con diverse sfumature, in relazione alle rotte migratorie. Una delle voci che più risuonano, che ascolteremo a 42
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più riprese in questi giorni, è quella di Giacomo, artista, musicista e attivista lampedusano. Nella cornice di Porto m – circolo culturale legato alla storica attività del collettivo Askavusa – siamo spettatori di Lampemusa: spettacolo sulla storia di Lampedusa, in cui Giacomo alterna teatro popolare, canzoni d’autore e riflessioni politiche sul ruolo dell’isola nello scenario mediterraneo, legandosi poeticamente al passato di pesca, scambi, connessioni e isolamento della sua terra. Alla fine dello spettacolo, si giunge inevitabilmente a una riflessione più prosaica sulle migrazioni attuali che caratterizzano la vita di Lampedusa dalla seconda metà degli anni Ottanta: «Lampedusa è stata descritta alternativamente come ‘isola dei respingimenti’ o ‘isola dell’accoglienza’. Ma entrambe le immagini non danno conto della realtà». Questa lettura binaria, infatti, non coglie le complessità di una situazione piena di contraddizioni e di conflitti. Dintorni di via Roma. Un pescatore lampedusano ci parla lungamente delle emozioni contrastanti di un salvataggio: da un lato, le conseguenze della crescente criminalizzazione dell’aiuto in mare e il pericolo del sequestro della barca; dall’altro, mostra la pelle d’oca per l’impatto emotivo di quel momento. Il suo coinvolgimento entra in cortocircuito con la restituzione di un discorso più ampio su migrazioni e sbarchi che si intreccia con la frustrazione del vivere in un’isola militarizzata e il risentimento per l’abbandono delle istituzioni: «Qui sembra di essere in guerra… Contro i clandestini… Per ogni clandestino ci stanno tre sbirri… Sull’isola c’è troppa legge… E a noi lampedusani ci mancano servizi essenziali come l’ospedale… E hai visto l’isola quanto è sporca e piena di buche?». 43
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Questo sentimento di frustrazione è un tratto comune delle classi popolari – e non solo – dell’isola, trovando eco nei dibattiti sui moli del porto di Lampedusa in occasione degli sbarchi, oltreché nei successi elettorali degli ultimi anni: «L’accoglienza l’abbiamo inventata noi lampedusani… Ma questa qui non è accoglienza, è business… Io non ce l’ho con i migranti, ce l’ho con il sistema…», sentiamo ripetere in un’isola in cui mancano i servizi, ed è facile che il risentimento della popolazione si traduca in aperta ostilità verso chi arriva dal mare. La pandemia inasprisce ulteriormente tali contraddizioni, giustificando la reclusione dei migranti nel centro che, dal 2015, in linea con l’Agenda europea sulla migrazione, è denominato «hotspot» e utilizzato per l’identificazione immediata e la selezione tra migranti politici ed economici. Prima della pandemia l’uscita informale dall’hotspot era tollerata attraverso un buco nella recinzione che serviva come valvola di sfogo nei momenti di eccessivo sovraffollamento, facendo diminuire il rischio di rivolte. Oggi il perimetro del centro, blindato e sorvegliato capillarmente, non ha più vie di fuga: il migrante si trasforma in un «fantasma», una figura invisibile che al tempo stesso – o proprio per questo – diventa una minaccia sempre più incombente. Le occasioni di incontro tra migranti e isolani sono ridotte al minimo e iper-sorvegliate: l’unico contatto possibile si verifica nelle fasi concitate tra la procedura di sbarco e il trasferimento verso l’hotspot. Le uniche persone della società civile presenti agli sbarchi fanno parte del Forum Lampedusa Solidale, rete locale attiva dal 2015 nel sostegno ai migranti: «Il Forum ha anime diverse: abitanti locali sensibilizzati al tema, parrocchiani, operatori di Mediterranean Hope1. 44
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Purtroppo, la pandemia ha abbassato le energie perché ha ridotto gli spazi di attivismo… E poi non incontrandoli più sull’isola alcune persone hanno perso stimoli… Il vecchio parroco che stava con noi sul fronte migratorio è stato trasferito…», ci racconta un’attivista del Forum. Di fronte a questo scenario, come facciamo a restituire una narrazione che tenga insieme le complessità e le contraddizioni che animano la vita dell’isola? Cosa ci diranno gli incontri che da oggi realizzeremo divenendo parte dell’equipaggio della Tanimar? Come si evolverà la situazione e in che modo prenderanno forma queste tensioni dopo le elezioni nazionali del 25 settembre 2022? Nota al capitolo 1. Mediterranean Hope è un progetto di monitoraggio sulle migrazioni a Lampedusa finanziato dalla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, attivo dal 2014.
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quinto giorno
Metterci una croce Lampedusa 35° 31’ Nord – 12° 35’ Est di Enrico Fravega
Ogni volta che il barchino era sul punto di rovesciarsi, loro urlavano. Fissavo quei volti terrorizzati e pensavo: è la prima volta che li vedo e anche l’ultima. Li guardavo uno per uno: devo guardarli bene in faccia perché fra poco saranno morti tutti, e nessuno saprà che faccia avevano. Io devo saperlo, devo riuscirci. Quella ragazza con il velo. Quel ragazzino con i ricci. Memorizzali, forza. Mi sentivo la loro tomba. Caterina Bonvicini, Mediterraneo a bordo delle navi umanitarie
Nel cimitero di Lampedusa c’è una camera mortuaria. Un piccolo locale con infissi in metallo anodizzato e i vetri rotti. Una di noi affacciandosi nota che c’è ancora una bara, chiusa. Quelli del Forum Lampedusa Solidale ci dicono che è di un ragazzo del Bangladesh. Sta lì da quindici giorni. E chissà quanto ancora dovrà stare lì. 47
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Si può essere dimenticati anche prima di avere un posto dove giacere. Un volontario del Forum ci mostra le targhe che fino a poco tempo fa ponevano sulle sepolture delle persone migranti. Sono in pvc, c’è l’emblema del Comune di Lampedusa e Linosa, scritto in corsivo inglese, c’è una data e poche righe che raccontano dove e in che circostanza era stato rinvenuto il corpo. A volte compare un nome; altre volte no. Ora, grazie alla disponibilità di un artista, il Forum si è fatto carico di dare dignità e visibilità alle sepolture dei migranti. Così, oggi, le tombe di chi è scomparso nel corso del processo migratorio sono coperte da piastrelle che riproducono, con tinte pastello, fili spinati che rappresentano il confine e piume che forse alludono alla leggerezza dell’anima portata via; ma anche onde e nuvole. Solo in un caso, il disegno raffigura un volto, e un nome: Welela. In effetti, mediamente, le tombe delle persone migranti sono più colorate di quelle dei lampedusani. E pare che alcuni inizino a lamentarsi anche del fatto che nel «loro» cimitero le tombe dei turchi siano sempre di più; e sempre più visibili. La visita alle tombe dei migranti nel cimitero di Lampedusa sollecita in noi sentimenti contrastanti. Ci ricorda che tutti siamo umani; questo sembra essere, d’altronde, lo spirito che anima i volontari del Forum. D’altra parte, questo luogo sembra dare forma materiale alla necropolitica che innerva i complessi dispositivi di controllo confinario nel Mediterraneo; da decenni. È il Forum che si occupa delle tombe delle persone migranti morte in mare, ma il resto della società lampedusana sembra essere lontana. Quasi mai, i volontari del Forum riescono a rintracciarne i contatti nei paesi d’origine. Se i modi in cui 48
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celebriamo la morte di una persona dicono molto del modo in cui una società pensa sé stessa, mi domando cosa racconta questa indifferenza. Mi domando se, alla fine, l’opera del Forum, più che delle persone migranti, parli di questo pezzo di Lampedusa che, fondamentalmente, non si riconosce in un sentire comune che rimuove quasi completamente dal discorso pubblico il tema delle migrazioni. Il vecchio passa tutti i pomeriggi in fondo a via Roma. Osserva il porto dall’alto, controllando gli sbarchi. «Tutta l’Africa in Italia non ci sta! Aiutiamoli a restare a casa loro…» ripete a chiunque gli si avvicini. «Io nel 2011 andavo tutti i giorni a prendere i cadaveri dalle barche. Ne ho sepolto più di ottanta. Non devono morire in mare». A parlare è l’ex custode del cimitero, che seppelliva i corpi dei migranti, ponendo una croce sui tumuli. Una croce fatta da lui. Sapeva benissimo che non tutti erano cristiani, ma non era un segno di sfregio; era un segno di rispetto. «Per me tutti sono cristiani», diceva. «Io li ho seppelliti come tutti gli altri». La morte affratella. E non è importante la religione, quanto il rispetto. «Finché il fisico me lo permetteva andavo a pregare sulle loro tombe, tutti i giorni». Sotto un’enorme pianta con dei fiori gialli, c’è una lapide che riporta una frase di Cesare Pavese: «Quale mondo giaccia al di là di questo mare non so, ma ogni mare ha un’altra riva e arriverò». Mentre scrivo queste note, davanti a una gastronomia in una piazza vicino a via Roma, due uomini si dividono un pollo mangiandolo con le mani. Uno dei due ringrazia l’altro per averlo invitato a pranzare con lui e gli dice: «Canuscivu omini bianchi cun un cori nivuru, e omini nivuri cun un cori biancu». 49
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quinto giorno / 2
Lotte per la memoria. Narrare la morte nel Mediterraneo Lampedusa 35° 31’ Nord – 12° 35’ Est di Vincenza Pellegrino
Il passato reca seco un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C’è un’intesa segreta tra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra e a noi, come ad ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una – per quanto debole – forza messianica, su cui il passato ha un diritto. Walter Benjamin, Tesi sulla filosofia della storia, n. 2
Nel cimitero di Lampedusa con i/le volontari del Forum delle associazioni Alcuni volontari del Forum delle associazioni ci accompagnano al cimitero. Da qualche anno si occupano di dare sepoltura a chi è arrivato a terra come cadavere, o come fantasma ancorato ora al racconto di chi ha visto morire. 51
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Diversi artisti provano a tradurre in immagini il fatto che per arrivare a chiedere l’asilo si muore. I fili spinati si ripetono, a richiamare forse la continuità con altre morti di massa; si ripetono i pesci ad altezza del nostro sguardo per dire forse che siamo tutti sotto l’acqua; o ancora, due enormi mani dipinte su una tomba emergono dal mare e sollevano la barca stracolma, forse a evocare la speranza dell’intervento divino, e mi perdo a immaginare tutto l’enorme pregare inutile. Interpretare gli epitaffi mi è ancora più difficile: L’1 agosto 2011 due unità della guardia costiera raggiungono un natante di una quindicina di metri salpato dalla Libia e ne seguono la navigazione sino a un miglio da Lampedusa. Qui il motore ha un guasto e i naufraghi vengono trasferiti sulle motovedette. 271 persone tra cui 36 donne e 21 bambini vengono portate in salvo. Nella stiva vengono ritrovati i corpi di 25 persone morte per asfissia durante questa traversata; 6 di loro riposano qui.
Rileggo due o tre volte. Vuole sottolineare il fatto che se li trasferivano subito sulle motovedette si salvavano? Oppure, che grazie all’aiuto delle motovedette molti si sono salvati? E perché si contano «donne e bambini»? Nella notte dell’8 maggio 2011 un motopeschereccio si incaglia negli scogli in località Cavallo Bianco a poche decine di metri dal porto. A causa delle onde l’imbarcazione rischia di rovesciarsi. Una straordinaria operazione di salvataggio che vede impegnati oltre agli uomini della guardia costiera anche decine di volontari delle associazioni umanitarie e semplici cittadini permette di mettere in salvo 528 [persone], tra cui decine di bambini e donne. I corpi di tre ragazzi di età compressa tra i 20 52
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e i 25 anni vengono ritrovati il giorno dopo in mare. Nessuno dei sopravvissuti li riconosce o sa di dove fossero originari. Qui riposano: uomo di circa 20 anni; uomo di età compresa tra i 20 e i 25 anni; uomo di età compresa tra i 25 e i 30 anni. Tutti di probabile origine sub-sahariana.
Le coordinate che cercano di definire il passaggio in terra di un essere umano sono l’età e la provenienza. Capisco quanto sia difficile scegliere le coordinate biografiche «minime», e forse capisco che lo scopo è provocatorio, ma resto turbata lo stesso, e mi perdo a pensare che se perdessimo tutti gli archivi che contengono queste due informazioni contabili potremmo disattivare parecchie delle ingegnerie mortifere. E ancora, sono molti i riferimenti al «salvataggio»: se in un racconto lo stesso soggetto che ti impedisce di viaggiare in sicurezza al tempo stesso ti salva, le cose si fanno confuse per chi legge. In generale mi arriva un senso della storia che percepisco come asfissiato: si parla dei naufragi come eventi puntuali, come se il naufragio fosse fuori da una trama. Nelle note di campo scrivo: «Importanza degli epitaffi. Vedere Spoon River: in poche righe si spiega il morire d’ingiustizia e miseria». Provo a buttar giù un epitaffio alla Spoon River. Primo intermezzo. Un epitaffio alla Spoon River. Aveva la pelle più chiara degli altri neri con cui viaggiava. Perché la nonna se l’era presa con la forza un soldato italiano. Era partito sperando che la pelle più chiara l’avrebbe aiutato in Europa. In Europa non ci arrivò. Al mare il colore non fece impressione.
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Secondo intermezzo. Dal vero Spoon River di Edgar Lee Master: Edith morta a 21 anni. Restiamo qui presso – noi, le memorie e ci copriamo gli occhi perché abbiamo paura di leggere: 17 giugno 1884, di 21 anni e 3 giorni. E tutte le cose son mutate. E noi – noi, le memorie, ce ne stiamo qui sole, perché nessun occhio ci vede, né saprebbe perché siamo qui. Tutto è dimenticato, tranne da noi, le memorie, che siamo dimenticate dal mondo. Tutto è mutato, tranne il fiume e la collina… No, sono mutati anch’essi. Soltanto il sole scottante e le stelle silenziose sono le stesse. E noi – noi, le memorie, restiamo qui timorose, con gli occhi chiusi dalla stanchezza di piangere, nell’infinita stanchezza
Mi chiedo con insistenza quale sia il destinatario implicito di questi epitaffi, chi sia il referente interiore di chi ha cura di queste tombe. Ricercatrice: «Per chi sono queste tombe? A chi parlano secondo te?». Cooperante del Forum: «In realtà sono una testimonianza. Dare un nome, dare un volto. Prima o poi qualcuno dovrà rispondere di queste morti. Non più numeri, non più ‘tot persone’. Un giorno mi auguro che qualcuno dovrà rispondere della morte di tal e tal persona. Secondo me è un po’ questo. Nel mio personale punto di vista, di una persona atea, è una questione di giustizia futura. Ci sarà un giudice in futuro, in un tribunale futuro, che chiederà di rispondere a questi morti specifici».
Da un lato, queste parole mi danno l’idea di un vuoto di speranza, come abbiamo già sottolineato. 54
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Il referente simbolico non è il giudice del presente (che pure potrebbe essere), ma quello di un «tribunale futuro» che non c’è. E il conflitto? E il pretendere giustizia ora? La sera al telefono ne parlo con un collega sociologo che si occupa specificamente di elaborazione collettiva della memoria. Gli dico che mi sento soffocare, che non sento la possibilità, che trovo questa discorsività priva di strategie politiche a me intelligibili. La sua reazione mi colpisce, e mi aiuta. Una narrazione di tipo «politico» davanti alla morte dei migranti – mi dice – non è solo quella capace di parlare delle cause o di chiedere giustizia nel presente rispetto agli agenti delle cause di morte. C’è anche la dimensione politica attinente al «fare testimonianza» che lui ritrova nelle parole della volontaria. Mi cita Walter Benjamin: «Come ogni generazione che ci ha preceduto, ci è stata data in dote una – per quanto debole – forza messianica, su cui il passato ha un diritto». Nel suo linguaggio non religioso, «messianico» indica il farsi carico delle speranze altrui, portarle avanti contrastando l’oblio. Ereditare dal passato la tensione al riscatto, sentirsi catena tra le generazioni e farsi garanti del fatto che ciò che è stato sperato non smetta di essere sperato. Fare testimonianza come responsabilità specifica: quella di rammentare ciò che è stato promesso e non mantenuto. Una dimensione antropologica che assume una connotazione trans-storica: l’istanza umana di lottare perché le speranze passate non si spengano. Questo non attiene tanto al compito di inverare questa o quella specifica forma di giustizia – ci diciamo – quanto piuttosto al compito di mantenere aperta la possibilità stessa di chiedere giustizia. Capisco meglio l’intento dei volontari forse. La frase di 55
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Benjamin – la forza messianica «per quanto [molto] debole» – mi fa stare meglio con quanto visto al cimitero. Qui si lotta per trasformarlo in uno spazio di discorsività, di pensabilità dell’ingiustizia. Renderlo spazio di un discorso pubblico che continui a definire pertinente, pregnante la morte degli oppressi. Questo vale. Anche se a me qualcosa continua a mancare, riconosco che questo vale.
Al Porto m dal collettivo Askavusa Quello che mi mancava lo trovo in parte nella stanza a fianco del circolo Porto m. Qui c’è un’esposizione di oggetti che erano con le persone migranti per mare. La stanza è semplice, rotondeggiante, intima. Gli oggetti sono accostati in un modo che mi colpisce. Su alcune bacheche vi sono oggetti simili tra loro: la fila dei portafogli identici, le mode…; la fila dei bicchieri, tutti diversi tra loro, segnati da un’esperienza diversa, sbeccati, feriti diversamente. Su altre bacheche invece sono accostati oggetti che non sono neanche lontani parenti: uno scarponcino da montagna per bambino sta appoggiato a una borraccia per l’acqua. Da questi oggetti si alza un coro di voci tipo assemblea, discutono sulla loro parentela, su quella tra uomini e donne che non si conoscono, sulle pratiche che li imparentano, il bere, il camminare… Mentre prendo queste note e ragiono sul senso della storia umana che emerge da quegli oggetti, noto il pannello dove l’esposizione viene descritta:
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Ciò che vedete è stato raccolto da poche persone che tra l’immondizia hanno tentato di salvare da un oblio colpevole oggetti considerati di nessun valore, rifiuti per l’appunto. Quello che vedete non abbiamo mai voluto che fosse un museo. A noi interessa di più permettere a questi oggetti di essere messi nelle condizioni di poter sprigionare il loro ruolo di mediatori totemici interroganti in grado di connettere l’osservatore […]. Il rifiuto è qualcosa che ha perso il valore d’uso, anche se acquista il valore di scambio per chi lucra sulla catena dello smaltimento. Quello che vedete, e che è stato salvato dalla sorte dei rifiuti, detiene qui ancora un valore d’uso anche se chiaramente non coincide più con l’originaria destinazione degli oggetti. Ma se adeguatamente inserito in una cornice interpretativa […], il valore di questi oggetti è di forzare chi li osserva a essere chiamato in causa da una radicale domanda di senso sugli eventi sociali, politici, economici che hanno fatto sì che queste cose divenissero altro da sé, per divenire ciò che sono adesso. Una domanda relativa all’umanità che intorno a questi oggetti ha vissuto, la domanda sul perché milioni di persone vengono strappate ai propri luoghi e al proprio tempo […]. Ciò detto, riteniamo che le migrazioni siano il frutto delle politiche di sfruttamento e rapina che potenze imperialiste praticano e hanno praticato negli ultimi secoli; riteniamo che l’attuale situazione sia anche direttamente dovuta alle leggi politiche sulle migrazioni prodotte in Europa a partire dalla metà degli anni Ottanta. E crediamo che debba essere portata avanti una riflessione sui canali di ingresso regolari (Collettivo Askavusa).
Mi guardo intorno. Certo, manca il pubblico per questo spazio pubblico. Ciò non toglie che io lo trovi specificamente politico perché parla delle cause che portano alla 57
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morte nel Mediterraneo e connette finalmente passato e presente: chi è morto aveva una specifica provenienza, veniva dalla storia violenta del colonialismo che non finisce. Una scritta sintetica ricorda che si muore perché non ci sono modi legali di fuggire dalle guerre in quei paesi. Questa memoria sta tra il passato e il futuro e ci permette almeno di immaginare la fine concreta delle morti nel Mediterraneo, perché agli oggetti esposti accosta frasi come «canali di ingresso regolari»: immaginazione del possibile. Questo tipo di discorsi fanno una memoria che mi dà speranza. Certo, lo sconforto torna notando che questo spazio pubblico della memoria ha poco pubblico. Dentro c’è poca gente, anzi in questo momento non c’è nessuno.
Davanti alla chiesa di Lampedusa Le strade del centro sono piene di gente in questi giorni. Turisti. Abitanti di Lampedusa. Bar stracolmi. Camminando in mezzo alla folla del centro, passo davanti alla chiesa. Sulla facciata un grande murale voluto dal precedente parroco, molto attivo nella solidarietà con i migranti, recentemente spostato altrove. Una madonna nera ha in braccio il suo bambino, che ha la corona in testa, il mondo nella mano sinistra e una banconota nella mano destra. Sta togliendo la banconota dagli occhi di chi prega ai suoi piedi, mi pare. Credo voglia dire che i soldi accecano anche i credenti, anche i credenti prima solidali ora pensano ai soldi da turismo e i migranti per loro sono un problema (un volontario poi mi spiega). Anche questo murale fa testimonianza. 58
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Diverse conversazioni con volontari sono centrate sulla storia della solidarietà a Lampedusa. All’inizio del fenomeno si è mostrata molto accogliente, ci dicono, forse per i vissuti diffusi tra i lampedusani rispetto alle tragedie nel mare (molti hanno perso qualcuno in mare, se ne tiene memoria), forse per la lunga frequentazione con il Nord Africa e il «senso del Mediterraneo», e così via. Paradossalmente, poi, l’ossessiva ricorrenza mediatica concentrata sugli sbarchi ha presentato Lampedusa al grande pubblico televisivo che non la conosceva, e così ha avuto inizio il grande turismo. Il turismo come reddito, il cambiamento dei mestieri, il problema migranti. Ma anche, l’impotenza davanti al ripetersi sempre uguale di morti definite come «inevitabili» dalle istituzioni, un trauma senza fine. Il rifiuto viene da qui, forse, ci dicono. Ipotesi interessanti.
Nell’Archivio Storico di Lampedusa La questione della perdita di memoria legata al cambiamento di ceto, o meglio al passaggio da «tutti-pescatori» a «tutti-micro-imprenditori-del-turismo», la questione dei soldi rapidi legati al subaffitto delle case e così via, l’apocalisse del mondo della pesca senza tempi e modi per capire quali altri mondi sorgano in termini di saperi e competenze, tutto questo torna nuovamente nella sede dell’associazione Archivio Storico di Lampedusa. L’Archivio è la sede di un’associazione affacciata sul corso principale: due stanze piene di fotografie e di giornali con notizie su Lampedusa dei secoli passati. Nelle fotografie ragazzi vestiti a festa ma senza scarpe, strade in terra battuta 59
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piene di persone festose, barche e barche e barche. L’effetto che spesso fanno queste foto in bianco e nero, l’Italia della prima parte del Novecento, è di straniamento, incredibile lontananza, tenerezza. E quella idea difficile da sradicare che la storia vada verso il progresso, oggi, qui, non mi sembra più credibile. N., il responsabile dell’associazione, ci racconta il suo punto di vista: le persone che oggi vivono a Lampedusa – dice – hanno un rapporto strano con il tempo passato. Vogliono dimenticare la miseria. Non conoscono più il lavoro e il modo di vivere dei loro nonni. Le persone anziane vengono qui a ricordare, i ragazzi delle scuole trovano interessante questo mondo alieno, il punto sono le generazioni intermedie, quelle degli adulti, dei lavoratori. Sfuggono, rimuovono, non hanno voglia di elaborare il passare così rapido di stagioni che lascia senza una narrazione univoca su come intendere lo «sviluppo». Interessante. La memoria è un prodotto culturale dinamico che cambia al cambiare delle condizioni materiali: i pescatori hanno un modo di elaborare lo sbarco dei migranti diverso dagli imprenditori turistici, o meglio se si passa da molti-pescatori a molti-imprenditori il sentimento collettivo della storia cambia. Plasticità storica della memoria potremmo dire. Allora, i fatti oggettivi – che siano riportati da articoli o da fotografie – non bastano, hanno bisogno di essere rinarrati. L’Archivio è uno spazio di conversazione, sono relazioni – noi, seduti intorno a N., siamo un archivio. Negoziazioni senza fine su cosa dire rispetto all’accaduto. Per strada, a porta aperta. Resta il problema del poco pubblico.
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Alle celebrazioni del 3 ottobre Arriva così il 3 ottobre e le celebrazioni finalizzate a ricordare la tragedia in cui morirono 368 persone nel 2013. Persone perlopiù di origine eritrea ed etiope che viaggiavano per chiedere asilo ma sono morte prima di poterlo fare, come è per migliaia e migliaia di altre persone migranti. Un «comitato» costituitosi in associazione, in collaborazione con le istituzioni locali e il ministero dell’Istruzione, gestisce l’organizzazione di molti eventi in piazza che hanno come pubblico privilegiato le scuole superiori di diversi paesi europei. Quest’anno – ci dice il coordinatore, un professore del liceo scientifico di Pesaro – ci sono quaranta scuole. Altre associazioni – il Forum e il collettivo Askavusa, ad esempio, già citati – decidono di organizzare altri momenti di riflessione, in parallelo. Contro-posizionamenti, potremmo dire. Vale a dire: nelle conversazioni con loro capiamo che cercano di fuggire dai frame mediatici, dagli eventi «mediati» che costringono a posture eccessive e semplificanti, che reiterano discorsi scontati sulla «propensione naturale» dei lampedusani a salvare e accogliere, e così via. Ma anche e soprattutto, contro-narrazioni. Le loro narrazioni dell’accaduto sono diverse dalle ricostruzioni ufficiali, mettono maggiormente in chiaro le dinamiche della tragedia, vi rintracciano delle responsabilità istituzionali, che chiedono siano maggiormente esplicitate. Non farlo deforma le cose, impedisce di capire le cause e quindi impedisce di pensare alla possibilità di arrestare le morti per mare. La versione ufficiale parla di una tragedia in cui una barca pienissima di persone si rovescia a poche 61
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miglia dalla costa, un’imbarcazione di pescatori non si ferma (verrà indagata e condannata), poi arrivano altri civili e pescatori, poi la guardia costiera, ma, nonostante i tanti sforzi, molti migranti muoiono. La versione di questi testimoni, in accordo con diverse persone migranti che erano a bordo, ci dicono di due imbarcazioni che non prestano soccorso – una di pescatori, l’altra più grande e con potenti fari ispettivi, tipici della guardia di finanza. Della seconda non vi è traccia nella narrazione ufficiale, processuale. I testimoni concordano nel raccontare che l’allontanamento di queste imbarcazioni incrementò senso di abbandono, agitazioni, manifestazioni di panico che indussero l’accensione di un fuoco per richiamarle, e quindi il ribaltamento della barca. Ancora, anche al di là di questa dinamica, concordano nel dire che i ritardi nell’arrivo della guardia costiera furono notevoli. I primi soccorritori lo raccontano per strada, lo hanno raccontato in diversi video, lo hanno raccontato alle autorità. L’attesa dei soccorsi, lo spazio finito sulle loro barche, la vista delle altre persone che si inabissavano. Il trauma è profondissimo. Le due narrazioni sono diverse. Dire di ciò che ha immediatamente preceduto e immediatamente seguito il capovolgimento dell’imbarcazione conta molto, non tanto per avere una giustizia «retributiva» – chi ha sbagliato paghi – quanto per avere una giustizia «riparativa» – restituire il senso degli eventi di chi ha vissuto il torto. La barca non si è rovesciata per caso, i salvataggi sono tardati: due aspetti – ci ripetono – di cui c’è bisogno di dire non tanto per trovare i responsabili quanto per non creare narrazioni surreali in cui si 62
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celebrano le polizie di mare come attori della sicurezza in mare. La mancanza di verità su un evento puntuale crea cortocircuiti nel racconto, rende impossibile l’elaborazione di una memoria utile a che non si ripeta la violenza. Se la polizia europea in mare è quella che univocamente «salva», allora a ogni strage in mare aumentano gli investimenti in polizia. Ma se si muore in mare proprio per sfuggire all’identificazione della polizia, allora più polizia in mare vuole dire più morte. Credo che questo cortocircuito narrativo qui sia un vero shock culturale: essere sinceramente sconvolti dalla morte di tante persone senza avere spazio simbolico per concepire la catena di eventi che la genera. Ancora una volta, capisco bene il valore di mantenere aperta la riflessione delle giovani generazioni su questi eventi: è importante mettere il pubblico delle scuole al centro dei propri sforzi con laboratori dedicati all’interno dei quali coinvolgere i ragazzi. Ma se sfera pubblica e sfera istituzionale della memoria stanno così, giustapposte, accostate e separate a forza, se le ricostruzioni di cui abbiamo sentito da parte di alcuni che hanno vissuto l’evento non trovano spazio sul palco della memoria, mi pare impossibile apprendere dalla tragedia.
Infine, tornando a un’aula di sociologia della globalizzazione, in università Appena sei mesi fa ero impegnata nello svolgimento del corso di sociologia della globalizzazione. A lezione cercavo di descrivere tutto questo: i processi di esternalizzazione 63
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delle frontiere d’Europa, l’istituirsi dei centri di detenzione dei migranti in Libia, l’ampliarsi degli investimenti alla guardia costiera libica perché riconduca i migranti verso quei luoghi di tortura. Lezioni piene delle testimonianze di chi ha cercato di attraversare il Mediterraneo per chiedere l’asilo e ha visto morire amici, figli, i propri amori per mare. Si tratta di documenti pubblici, video che circolano nella rete, libri ormai popolari. Alcuni studenti sapevano già, la maggior parte no. In ogni caso, dicono di non riuscire ad «apprendere davvero», a introiettare queste ricostruzioni, a fissare gli eventi in una memoria che li faccia uscire dallo shock e li aiuti ad assumere una «filosofia della storia» più precisa. Non è bastato neanche parlare di colonialismo, parlare delle cause. Alcune enormità storiche non si riescono a comprendere. È davvero difficile immaginare dispositivi culturali che rendano le persone in grado di raccontarsi in un modo non mediatizzato quanto accade nel Mediterraneo oggi, in un modo che abiliti a non intendere come naturale e inevitabile questa morte socialmente somministrata. Come farlo attiene a una certa creatività culturale, credo. Per questo, negli ultimi anni il corso ha sviluppato una parte laboratoriale dove gli studenti mettono queste testimonianze dei migranti in risonanza con le loro autobiografie: scrivono della propria vita dopo aver ascoltato le loro storie. Molti studenti accostano a queste storie le esperienze legate alle burocrazie, momenti tragici in cui altri decidono per noi, senza appello, senza spazio di spiegazioni. Violenze istituzionali simboliche e materiali che, per quanto diverse, 64
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paiono assomigliarsi a sufficienza da essere pensate insieme. Poi, l’impressionante diffusione dell’esperienza del migrare: sentirsi annullati, infantilizzati, depotenziati in luoghi privi di qualsiasi competenza dell’accogliere, senza una lingua per salvarsi. Alla fine del corso, gli studenti ammettono di aver cambiato «ragionamento» sulle migrazioni, non (sol) tanto perché hanno avuto accesso a nuovi dati, quanto perché li hanno messi in relazione a dimensioni e processi della vita di tutti. Il fenomeno delle migrazioni forzate è «memorizzabile» se si sviluppa una capacità (auto)narrativa di tipo politico, insomma, che riguarda la nostra vita innanzitutto. Mentre sono a Lampedusa torno a quei diari. Li rileggo. Alla fine, mi danno un certo sollievo, credo attenga all’idea di una sfera pubblica della memoria che preveda la reciprocità narrativa, cioè un racconto alternato delle vite fallite. Un modo di pensare insieme diverso, che rileghi esperienze apparentemente lontane in una narrazione più strutturale dell’epoca che viviamo. Mediterraneo. Ma prima del Mediterraneo c’è il deserto. Il mio deserto è la città. Marciapiedi, edifici grigi, negozi. Cammino in cerca di qualcosa, senza trovare nulla. Entro nei negozi, uno dietro l’altro, e sono circondata da cose. Le tocco, le provo, le lascio. Le persone non mi guardano e non mi conoscono […]. La volta in cui ho visto il deserto è stato il momento in cui, dopo essermi trasferita a Parma, sono stata abbandonata da tutte le mie amicizie e da tutte le persone che erano al mio fianco nella mia città.
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Il mio mare è: Non sentirmi qui all’altezza Deludere voi qui, e i miei cari Farsi piacere tutto Sentirmi vuota Non avere scopi o passioni. Il mio mare è: Sentirmi sbagliata, assente, passiva, come se tutto scorresse e io in balia delle onde. Ammiro chi sfida il proprio mare, il mare vero davvero, perché io non ci riesco1.
Nota al capitolo 1. L’estratto del diario e la poesia sono tratti dalle narrazioni degli studenti/esse coinvolti nel laboratorio di sociologia della globalizzazione 2021-2022, Università di Parma.
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sesto giorno
Lo Stato visto dalle porto-frontiere Lampedusa 35° 49’ Nord – 12° 60’ Est di Jacopo Anderlini e Vincenza Pellegrino
Incipit. Per le strade di Lampedusa In questi giorni, camminando per le strade di Lampedusa, ci rendiamo conto che questo è uno dei pochi posti d’Europa dove non si vede neanche un migrante. A ben pensarci ci era successo anche a Pantelleria. Nei luoghi maggiormente attenzionati da tutto il paese sulla questione migratoria, descritti attraverso la retorica dell’invasione dei migranti, ci diluiamo in una folla di turisti: si fa fatica a camminare per strada nelle ore dell’aperitivo, rito che impera occupando baretti, muretti, giardini, camioncini mobili, a perdita d’occhio. Eppure. Eppure, in due giorni che siamo qui, tre sbarchi. Nell’ultimo a cui abbiamo assistito da lontano, su una novantina di persone i due terzi erano ragazzini ben sotto i 18 anni. Efficienza dei trasferimenti, quindi. Efficienza di Stato. Migranti subito portati dentro l’hotspot, 67
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in mezzo all’isola, distante da spiagge e da celebrazioni, chiusi ermeticamente. Nessuno dei migranti può uscire, nessuno può comunicare con l’esterno. In effetti, in porto la presenza di vedette della guardia costiera e della guardia di finanza è massiccia e sulla terra, camionette e auto della polizia stazionano ovunque nelle strade. La presenza di Stato è debordante qui. Eppure. Eppure, né a Pantelleria né a Lampedusa c’è un «punto nascita», per fare un esempio. Le donne si trasferiscono in terraferma, ci restano quel che gli dicono, poi tornano col neonato. Viaggi brevi, distacchi descritti con angoscia. Lo Stato qui manca, ci dicono molti. Quindi. Troppo Stato, poco Stato? Poco Stato come organizzazione del welfare, molto Stato come dispositivo di controllo e repressione, forse. Ci fa pensare alla distinzione tra «mano destra» – la dimensione securitaria di monopolio della violenza – e «mano sinistra» – la dimensione di regolazione sociale – dello Stato operata dal sociologo Pierre Bourdieu ne La Misère du monde per rappresentare le due direttrici attraverso cui opera lo Stato moderno. No, neanche. È più complicata di così. Durante un’intervista, un attivista di Lampedusa ci racconta di un fatto qui noto: un ex sindaco ha provato a normare la gestione delle spiagge davanti alla crescita esponenziale dello sfruttamento della costa da parte di gestori abusivi. Non ottenendo alcuna adesione ai regolamenti, ha fatto rimuovere alcune strutture dalle spiagge. È stata minacciata con violenza. Le strutture sono restate, anzi sono aumentate. 68
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Quindi, una presenza abbondante dell’apparato securitario di Stato, volto a garantire l’ordine, ma senza riuscire a preservare l’ordine dello spazio pubblico. Allora. Molto Stato o poco Stato? Molto o poco ordine? Certo, sappiamo che lo Stato non è un organismo monolitico ma un aggregato composito di diversi attori, in parte anche in tensione tra di loro. Ma qual è la presa dello Stato in questo territorio e come si articola? Qual è la rappresentazione che ne danno le diverse figure che lo compongono? La nostra etnografia di gruppo ci porta a incontrare diversi lavoratori dello Stato, ufficiali di guardia costiera, di guardia di finanza, ispettori di polizia, assessori dei servizi sociali. Ma ancora, volontari e cooperanti. Proviamo a rispondere dopo averli ascoltati.
Lo Stato frammentato e la «sea-level bureaucracy» In questi giorni, osservando e parlando con i rappresentanti delle istituzioni qui, nei porti di Pantelleria e Lampedusa, abbiamo cercato di capire come opera lo Stato nel contesto del confine marittimo e come si articola il governo del confine tracciato arbitrariamente. «Il mare non si può dividere in modo stabile», dice un comandante di guardia costiera come fosse un’ovvietà. Non è banale affatto, ci pare, nel momento in cui distinzioni e attribuzioni di responsabilità sui salvataggi sembrano muovere proprio da un suo partizionamento, seppure con sovrapposizioni tra acque territoriali, acque internazionali e zone di ricerca e soccorso suddivise tra Stati. Troviamo la guardia costiera particolarmente disponibile 69
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nell’esporci e discutere le proprie pratiche operative, come fosse un segmento professionale specifico, di interfaccia, esposto alla negoziazione dei significati di Stato più degli altri segmenti presenti. Interessante. Ci spiegano che in mare operano congiuntamente due forze di polizia a ordinamento militare: la guardia di finanza, nata come corpo speciale di vigilanza finanziaria, divenuta per decreto legislativo del 2017 «unica forza di polizia sul mare», con incremento notevole delle sue dotazioni; la guardia costiera, da un lato dedita agli usi civili del mare e inquadrata nell’ambito di diversi dicasteri – Infrastrutture e Mobilità, Transizione ecologica, Politiche alimentari – dall’altro lato, al tempo stesso, corpo specialistico della Marina militare. Storie e ruoli diversissimi: la guardia di finanza – polizia originariamente dedita al controllo delle dogane e al monitoraggio di attività economiche illegali – ha nella difesa del territorio nazionale il suo focus primario. Nel nostro caso, la «difesa» è da chi commette il reato di immigrazione clandestina, introdotto dalla legge n. 94 del 2009, art. 10 bis (non come categoria «delitto» ma come categoria «contravvenzione», attualmente sanzionata con un’ammenda da 5.000 a 10.000 euro. Un reato che in potenza può applicarsi a qualsiasi migrante in arrivo, qualunque siano le condizioni di salute e di vita, che solo in un secondo momento vengono accertate. Nel ricoprire questa funzione, potremmo dire che la guardia di finanza «territorializza» il confine di mare, cioè lo riproduce come spazio tracciato, delimitato da linee e coordinate spaziali e controllabile nei termini del non attraversamento improprio. La guardia costiera al contrario mette al centro il mare, 70
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o meglio «la vita in mare come bene giuridico da tutelare», per citare un funzionario. La salvaguardia della vita umana sembra quindi essere, per i rappresentanti con cui abbiamo parlato, il centro della loro attività marittima, senza distinzioni. In pratica, però, le persone non devono morire in acqua. Sulla terraferma, poco importa che sia in una sponda o nell’altra del Mediterraneo, la responsabilità non è più di questo corpo dello Stato. Intermezzo. Ricercatrice: «Mi scusi, per capire meglio, ma se l’azione di salvataggio la fa la guardia costiera libica con cui collaborate, e li riportano dentro i centri di detenzione in cui si muore, per cui si salva il naufrago ma il migrante muore, non capisco bene il concetto di ‘bene giuridico vita’». Guardia costiera: «A noi è affidata la vita del naufrago». Ricercatrice: «Ma sono la stessa persona». Guardia costiera: «Ha ragione». Fine intermezzo.
Ma come operano in pratica queste parti dello Stato nel caso dell’arrivo di un «natante non identificato» (noi leggiamo: imbarcazione con migranti)? Dipende. Se il natante non identificato è in distress, è previsto un intervento Search and Rescue (sar), cioè ricerca e soccorso, altrimenti è previsto un intervento Law Enforcement, cioè quanto segue la rilevazione di un illecito. Si tratta insomma di due percorsi diversissimi. Del primo si occupa la guardia costiera, del secondo la guardia di finanza. Non ci pare così facile capire chi non sia in difficoltà se si viaggia anche 71
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semplicemente senza l’equipaggiamento adatto e senza essere esperti del mare. Secondo quanto ci dicono gli uomini delle istituzioni, la distinzione tra Search and Rescue e Law Enforcement non è netta e tutto avviene secondo valutazioni discrezionali, seguendo alcuni indicatori come il sovraffollamento, la lentezza del mezzo, la coerenza della traiettoria. Ma resta legato all’esperienza del singolo ufficiale nella lettura dei dati che arrivano dagli avvistamenti e dalle tecnologie di rilevazione. Ci sono le segnalazioni delle barche che assistono a un evento in mare, i radar, le fotografie provenienti da aerei e droni di Frontex, ma la valutazione se ci si trovi davanti a un evento distress o meno sta – entro le 12 miglia delle acque territoriali – in capo al comandante dell’unità in loco. Valutazioni di Stato, molto lontane da quel discorso per cui la norma non è discrezionale. Potremmo chiamare «sea-level bureaucracy» questo processo, richiamando gli studi centrati sulla forza dell’elemento discrezionale proprio dentro contesti professionali ideologicamente convinti che la norma sia garanzia del funzionamento della procedura. In molti studi sul mare si vede come questa discrezionalità agisca in funzione delle pressioni ambientali circostanti, della presenza o meno di ong o di attori dello Stato sociale, e così via. In questo scenario la zona sar è molto interessante perché garantisce un’azione di Stato «finalizzata alla salvezza della vita umana», quindi una sorta di esercizio di governo umanitario che si sposta continuamente e non coincide affatto con la fissità del confine di Stato in acqua, posto a 12 miglia dalla costa. La sar, come confine dell’azione di Stato, si sposta continuamente. La zona sar italiana, ad 72
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esempio, si è contratta, cioè avvicinata alle nostre coste, nel 2018, in accordo alla negoziazione avuta con gli altri Stati limitrofi attraverso organismi internazionali. Si è ritratta perché è stata istituita la sar libica grazie al fatto che la guardia costiera libica è stata attrezzata dall’Europa e formata in particolare dall’Italia, mostrando «capacità di sviluppo e di governo del caos, insomma di civiltà». Ma se uno Stato a sud del Mediterraneo ferma i propri cittadini che fuggono dalla miseria o dalla guerra o dalle violenze che lo Stato stesso esercita, mostra «governo e capacità di civiltà» perché aderisce agli interessi della fortezza Europa? I ragionamenti sullo sviluppo delle competenze di Stato ci riporta a impliciti coloniali con i quali è difficile interloquire dentro al campo etnografico, e tuttavia ne teniamo traccia. Imporre la propria convenienza e chiamarla civiltà pare un elemento pregnante della logica di Stato europea che ne caratterizza passato e presente (neo)coloniale.
«Separare la farina bianca dalla crusca per poi rimetterle insieme nel pane integrale». Il «confine logistico» e le sue tensioni con il discorso umanitario Tornando alla tensione interna tra culture istituzionali e organizzazioni statuali diverse ci pare di re-incontrarla ancora, e tanto. Qui lo Stato ha impedito varie volte lo sbarco di migranti per molti giorni, giorni di sete e di freddo, per poi mandare personale sanitario sul molo. «Lo Stato ti ammala e poi ti cura», dicono spesso i detenuti in carcere. 73
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Ancora, qui lo Stato ti separa all’arrivo da quelli che hanno viaggiato con te, secondo criteri di genere, provenienza, ma anche presunta pericolosità. Intermezzo breve. Prime valutazioni allo sbarco. Polizie. Frontex. «Chi guidava? Lui è vestito meglio di tutti…». Fine intermezzo.
Capire prima di tutto chi è «buono» e chi è «cattivo» (e di solito seguendo piste con logiche non chiare e pratiche le cui radici normative stentiamo a identificare), quindi «dividere la farina bianca dalla crusca». Separare spesso le famiglie (bambini con la madre, padre e fratelli da un’altra parte), ma anche le persone che hanno condiviso un intero viaggio. Poi, però, sulle navi quarantena c’è una figura specifica di operatore/trice che ha il compito di indagare dove siano i parenti per poter riunire il nucleo famigliare. Lo Stato lavora per dividere e poi riunire. Ancora, ti salva dall’acqua e ti consegna a destini tragici, a contesti cruenti. Viene in mente un tipo di logica che potremmo chiamare «logistica» e che si basa sulla suddivisione tra sottoinsiemi operativi. Ogni sottoinsieme opera una funzione specifica che lo sottrae dall’idea che una visione complessiva sia parte della sua responsabilità. Una forma specifica di catena di produzione. A conferma di questo, scopriamo il tipo di turn-over dei funzionari di polizia: il responsabile della polizia a terra ha turni di quindici giorni, l’unico comandante fisso è quello di guardia costiera. Così, non solo è più difficile 74
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che operino tra loro con spazi di «visione d’insieme», cioè seguendo insieme il destino del migrante da prima a dopo il mare, ma diventa poi di fatto quasi impossibile per chi vive qui – associazioni, ong, gruppi sociali implicati nella solidarietà – interagire con loro in modo stabile, sedimentare discorsi di contrapposizione o di collaborazione densi e incrementali. Allora, come agisce in tutto questo la parte di Stato che chiamiamo Stato sociale? Quello che dovrebbe avere le sue operatività tecniche specialistiche per definire un’accoglienza realmente accogliente? Non agisce. «Non possiamo identificare qui, accogliere qui stabilmente, fare il lavoro sociale previsto in un vero hotspot», ci dice un amministratore, «perché lo spazio isolano è piccolo, e se accogliamo stabilmente poi rischiamo che li lascino qui a lungo». Rischiamo che la terra scarichi sull’isola la miseria della frontiera. Racconti che evocano ripetutamente i concetti di «centro e periferia» che, per quanto discutibili, qui evocano un tipo di diseguaglianza sociale che deriva anche dalla posizione, una diseguaglianza territoriale. Infine, non solo non c’è il punto nascita, per tornare al nostro incipit, ma non c’è l’accoglienza: i migranti sono chiusi dentro centri di detenzione inaccessibili e da cui non possono uscire, gestiti dalla polizia nazionale e da Frontex; in altre parole, recinzioni e container. Poi, la deportazione o la dispersione in qualche struttura ricettiva sul territorio italiano. Per rispondere alla domanda iniziale, uno Stato sociale assente. Di più, uno Stato che nelle sue articolazioni fa vivere alcuni e lascia morire altri, nel Mediterraneo.
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Concludendo Siamo nel bar dei pescatori, quelli precari, senza mezzi di produzione. Pescatore: «Ma voi cosa ci fate qui? Si vede che non siete di qui. Che venite da nord. Che non bevete davvero birra». Ricercatrice: «Beviamo birra». Pescatore: «No, dai, seriamente, cosa fai qui?». Ricercatrice: «Cerchiamo di capire cosa succede intorno alla questione dei migranti». Pescatore: «Allora ti dico subito che ho votato a destra perché qui c’è troppo poco Stato. Magari la Meloni che è una tipa molto decisa porta qui servizi». Ricercatrice: «Io credo che manderà motovedette». Pescatore: «Non lo so. Intanto almeno qualcosa lo Stato lo farà».
Addendum, dalla terraferma. Il nuovo corso segnato dall’insediamento del governo della destra populista marca, in pochi mesi, un record negativo di morti nel Mediterraneo e forme di criminalizzazione dei salvataggi in mare, in quello che ci sembra incarnare in modo più crudo il senso di necropolitica, come politica di (esposizione alla) morte.
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sesto giorno / 2
Le frontiere dello Stato, lo Stato alla frontiera Lampedusa 35° 49’ Nord – 12° 60’ Est di Veronica Valenti e Guglielmo Agolino*
Non era così / che mi avevano detto il mare / No, non era così / e poi tanto di notte cosa mai puoi vedere / qui c’è uno / che grida / che dice ch’è tardi / e bisogna partire. Gianmaria Testa, «Rock», in Da questa parte del mare
1. Nuove coordinate, e non solo per le latitudini alle quali
conduciamo questa ricerca. Ci muoviamo sul piano inclinato di una nuova dimensione, che non è quella, statica, delle larghe scrivanie, affollate spesso da manuali e scritti giuridici, a cui siamo abituati nei nostri spazi universitari. L’indagine etnografica, sul campo, ci proietta in una * Veronica Valenti e Guglielmo Agolino sono rispettivamente professoressa associata e assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Giurisprudenza, di Studi Politici e Internazionali dell’Università di Parma. 77
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dimensione inedita, dinamica, per certi versi ignota, che sfida il giurista, mettendolo di fronte alla mobilità del diritto che incontra la vita, le vite, delle persone che migrano, in questo caso, attraversando il mare. Non ci sono le aule, ma c’è un «campo», fatto di visi, persone da incontrare, esperienze da appuntare, prassi applicative da comprendere meglio. Questo «campo», quindi, è un palcoscenico dove il copione non è già scritto, come in una lezione universitaria o in un convegno, nei suoi riti bizantini, ma è in divenire, tutto accade mentre succede; questo ci spiazza, come una pioggia estiva. Serve la rapidità, abbandonare il pc e prendere in mano il taccuino, fare le domande giuste dopo aver studiato, anticipare, a volte, la risposta per capire la prossima domanda utile. Le norme, il «quadro giuridico», prende vita in una tela dove alle parole si sostituiscono i volti delle persone che devono applicare il diritto, i visi di chi lo subisce, gli sguardi di chi semplicemente è uno spettatore. Come noi, in un certo senso. È grazie ai colleghi che ci accompagnano in questo campo, sociologi e antropologi, che esploriamo questa nuova dimensione, lungo la rotta centrale del Mediterraneo. Apprendiamo «a specchio», vedendoli al lavoro, sono un nostro punto di riferimento per le interviste che anche noi realizzeremo in questo viaggio, mentre ci chiediamo quale possa essere un nostro, utile, contributo qui: serve passare dallo studio delle sentenze e dei testi di legge fatto «a casa», alla ricerca di quello che può essere più efficace per un’analisi giuridica, qui, secondo il metodo etnografico, che possa comprendere meglio le aporie dello scenario.
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2. Abbiamo «aperto il nostro campo» – così dicono gli etnografi – in provincia di Ragusa. Qui, un breve passaggio per incontrare le associazioni impegnate nella seconda accoglienza, come Mediterranean Hope – Casa delle Culture di Scicli; i rappresentanti istituzionali del Comune di Pozzallo, dove è situato uno degli hotspot di prima accoglienza presenti sul territorio nazionale; gli operatori della capitaneria di porto, attigua alla struttura. Anelli della catena di accoglienza che, seppur con sfumature differenti, ci restituiscono il senso di un continuo lavorio, di una tensione politica, civile e sociale, che si esprime nelle forme, diverse, del servizio: c’è quello politico, nel caso degli amministratori; sociale, nel caso dei volontari della Casa delle Culture, a sostegno dell’altro, nonostante tutte le difficoltà, normative e di contesto; di servizio, appunto, nel caso dei militari della capitaneria di porto. Arriviamo, così, a Lampedusa. La tela resta sempre sfocata, ma iniziamo a vedere nitidamente alcuni contorni di essa nel divenire del diritto costituzionale italiano ed europeo, in difficoltà, quasi impedito, nell’essere percepito come non eludibile fondamento nella gestione del fenomeno migratorio e delle politiche di accoglienza. Lo scenario che raccogliamo dai primi momenti è quello di un campo nel quale le categorie classiche del Novecento sembrano scivolare sullo sdrucciolevole piano inclinato in cui ci muoviamo. Stato, sovranità, territorio, sono alla frontiera – alle frontiere – verso nuovi confini. Ci pare subito che, dinanzi al fenomeno migratorio, lo Stato venga sfidato al centro della sua vicenda costituzionale, quella della tutela dei principi fondamentali della persona umana. Il diritto è alla prova nella sua manifestazione più alta, la garanzia dei 79
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diritti inviolabili, traccia indefettibile del percorso costituzionale. Il «pieno sviluppo della persona umana» dell’articolo 3, comma 2 della nostra Costituzione resta, così, ai margini; persino il riconoscimento dei diritti inviolabili dell’uomo, sotto alcuni aspetti, resta al confine, apolide. La concreta attuazione del diritto costituzionale all’asilo incontra nuove sfide, inedite, in uno scenario multilivello. A esso si sostituiscono sempre più, in funzione supplente, altre forme di protezione, appunto, sussidiarie o, in alcuni casi, temporanee. Il diritto all’asilo si mostra, a queste latitudini, in tutta la sua fragilità. A questo si contrappone, sempre più, la solida applicazione di una declinazione «securitaria» dell’ordine pubblico, in un bilanciamento spesso in disequilibrio, manifestazione anch’esso del piano inclinato in cui ci troviamo. Il dépeçage del personale dello Stato che si occupa della gestione dei flussi nel porto, e non solo, sembra persino sfidare il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, visto che la continua rotazione a cui sono soggetti sull’isola mette in difficoltà l’efficienza amministrativa di chi si occupa di gestire i flussi migratori. La ricerca ci mostra, giorno dopo giorno, un volto del diritto costituzionale italiano, europeo e internazionale in divenire, che si incrocia con le contraddizioni e la burocrazia, cortocircuiti che rischiano di allontanare il diritto dal suo ruolo di portare in salvo da sé stessa, nel tempo, l’umanità medesima.
3. Se pensiamo a tutto ciò, allora, per noi costituzionalisti ha un senso il nostro essere qui: seguire le rotte del viaggio dell’umanità nel Mediterraneo, ci costringe a 80
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confrontarci con questo caotico divenire, disciplinato da un quadro normativo che, dato da un intreccio di norme di diritto internazionale, sovranazionale, nazionale, di norme cogenti, prassi tecnico-applicative, atti amministrativi e linee guida, assume, sempre più, le sembianze di un puzzle scomposto, in cui il significato ultimo della dimensione giuridica e quella carica «emancipativa» del diritto costituzionale sembrano smarrirsi e l’immagine universale della tutela della dignità umana, su cui si regge il diritto internazionale contemporaneo, sembra sgretolarsi. La ricerca etnografica che le nostre colleghe e i nostri colleghi sociologi stanno conducendo ci dimostra come il Mediterraneo stia diventando sempre più la rappresentazione fisica e simbolica della forte tensione tra le garanzie dello Stato costituzionale (che faticano a essere effettive) e le politiche di uno Stato sempre più securitario che, di fatto, è al contempo e contraddittoriamente «minimo e forte» e, nella sua dimensione sociale – considerate le innumerevoli fragilità delle politiche di prima accoglienza e del sistema hotspot – quasi assente. Tensioni e contraddizioni amplificate da diversi aspetti.
4. Pensiamo proprio al diritto applicabile nell’area del Mediterraneo che si regge su un precario equilibrio tra la necessità di controllare i confini nazionali e la tutela dei diritti delle persone in viaggio, potenziali richiedenti asilo. Siamo in presenza di «un mare di norme», che fatica spesso a tradursi in sistema ordinato e che evidenzia i difetti della cosiddetta «sea-level bureaucracy», determinando in concreto: 81
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1) un eccessivo – spesso irragionevole – ampliamento di spazi decisionali che si aprono alla discrezionalità amministrativa e politica degli Esecutivi; ii) incertezza nel coordinamento delle attività di soccorso in mare e difficoltà di realizzare un’effettiva collaborazione tra Stati confinanti. Una normativa che va a definire, prima di tutto, la «geografia internazionale» dei confini di Stato, in uno spazio di mare spezzettato da aree Search and Rescue che mirano a individuare i soggetti istituzionali responsabili dei salvataggi delle persone, ma che in concreto si traducono in vicendevoli accuse di inadempimento istituzionale sul piano internazionale e sovranazionale e confondono il coordinamento delle operazioni di soccorso e salvataggio, minandone la tempestività e ledendo, al contempo, la prima e prioritaria regola del diritto del mare: il dovere di salvare le vite umane. A tal proposito, ci consolano un pochino le voci di una parte delle istituzioni italiane che, per mare, intercetta quotidianamente il dramma di quella umanità in viaggio verso la nostra parte di mondo. Voci che continuano a ricordarci che «Il mare è il mare», di come sia impossibile immaginare di costruire qui dei muri e che è loro dovere morale, prima ancora che giuridico, salvare la vita delle persone. Non importa che siano richiedenti asilo, clandestini o migranti economici, a fronte di una richiesta di soccorso, e di distress accertato, «dobbiamo intervenire e garantire l’attracco in un porto sicuro. Poi viene il resto…», che qualche volontaria di organizzazioni internazionali impegnata nella prima accoglienza ci descrive come «il peggio». Ci viene così offerta una prima ricostruzione delle opera82
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zioni di salvataggio nell’area sar italiana (che per un tratto si sovrappone a quella maltese), dei «grandi eventi» il cui coordinamento è centralizzato, o delle operazioni come l’attracco di ong che salvano vite umane nell’area sar maltese o libica, estesissime e controllate da autorità che operano, come nel caso libico, in violazione degli standard di protezione internazionale dei diritti umani. Chiediamo cosa succede se il paese a cui è assegnata una zona sar non interviene. E qui, ci sembra, il sistema si inceppa e la questione, più che giuridica, appare politica: ci rispondono che la decisione non dipende da loro, che non possono intervenire, ma devono attivarsi affinché l’Italia segnali al paese confinante la situazione di distress, monitorarla e attendere il soccorso dello Stato confinante.
5. In questo divenire, in cui sembra smarrirsi l’umanità
del diritto e nel diritto, c’è chi cerca di mettere ordine e ristabilire le priorità sociali e giuridiche a fronte di un dramma dell’intera umanità: i giudici nazionali, sovranazionali e internazionali. Ricordiamo che, nel gennaio del 2021, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha affermato la responsabilità «concorrente» di Italia e Malta in relazione al naufragio e successivo annegamento di oltre 200 persone, di cui 60 bambini, avvenuto l’11 ottobre 2013 nelle acque sar maltesi, ritenendo che i ricorrenti si trovassero nella «giurisdizione» di entrambi gli Stati al momento del drammatico evento e che potessero, dunque, invocare la violazione delle norme del Patto internazionale sui diritti civili e politici (diritto alla vita e il diritto a un rimedio effettivo). A tale decisione, fa «eco» la recente decisione 83
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del Tribunale di Roma del 2 dicembre scorso, con la quale i giudici italiani, pur ritenendo i reati contestati ai singoli imputati prescritti, ha ritenuto sussistere la responsabilità dello Stato per l’omissione del soccorso che avrebbe potuto scongiurare la morte di quelle persone. Ci vengono in mente anche le motivazioni dei giudici che abbiamo letto nel corso degli ultimi anni, in merito alle attività delle ong che continuano a salvare vite umane, nonostante l’eccessivo ampliamento della discrezionalità dell’Esecutivo (riconosciuto, nel 2018, anche dal Tribunale di Catania – sezione reati ministeriali nella paradossale vicenda Diciotti) di negare l’accesso a esse in acque territoriali, e/o il potere di fermo delle imbarcazioni a loro intestate: i giudici stanno infatti cercando, caso per caso, di recuperare la democraticità dell’ordine giuridico, che è tale solo se pone al centro della dimensione giuridica la persona umana. Così ha fatto la Suprema Corte italiana, nel caso della SeaWatch 3 (Corte di Cass, senz. Pen, sent. 20 febbraio 2020, n. 6626). Così hanno fatto i giudici del Lussemburgo, che hanno chiarito come la valutazione in merito alla tenuta dell’ordine pubblico interno non possa incidere sull’individuazione del porto sicuro e sulle operazioni di salvataggio della vita umana, e più recentemente i giudici della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (C-14/21 e C-15/21, dec. 1° agosto 2022), che hanno chiarito come il potere di controllo sulle regolarità delle imbarcazioni delle ong, riconosciuto allo Stato di approdo, vada esercitato in modo proporzionato e, quando vi sia una sistematica attività di soccorso, vada motivato e limitato solo in caso di chiari e dimostrati elementi fattuali e giuridici che dimostrano la sussistenza di un grave pericolo per la sola sicurezza della navigazione. 84
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Come notato da asgi (Associazione Studi Giuridici Immigrazione), commentando in generale l’orientamento della Corte di Giustizia, «il richiamo a generici rischi per la sicurezza e l’ordine pubblico non possono quindi essere utilizzati per derogare alle norme di sistema e sul diritto di asilo».
6. Trascorriamo la prima notte in barca, attraccati al
porto di Lampedusa. Al risveglio, si svela in un’immagine la natura di questa isola: vicino a noi un’imbarcazione di turisti, a sinistra invece la Louise Michel, nave della omonima ong che il giorno precedente ha salvato vite umane, e nel molo Favaloro, a destra, la nave della guardia di finanza… eccola Lampedusa, scenario perfetto di questo caotico divenire giuridico, politico e sociale. In questa arena, e in queste tensioni, opera un sistema europeo di asilo che, per come è congegnato, può funzionare solo se non ci siano inceppamenti, ambivalenze, e non si smarrisca il significato primo dell’agire giuridico: recuperare il senso di comunità che, solo partendo dal rispetto della vita e della dignità delle persone, può ricostruire, in un mondo globalizzato e impazzito, la propria identità. Sulla barca arriva solo l’eco del dibattito politico scaturito dal discorso del sindaco di Lampedusa, durante la commemorazione ufficiale del naufragio del 3 ottobre 2013, il quale ha manifestato l’intenzione di trasferire la Porta d’Europa davanti al Parlamento europeo. E subito il nostro pensiero va al futuro dell’Europa e, ancora una volta, smarriamo le nostre coordinate: siamo a sud di quell’Europa che decide (ad esempio, su Frontex, sul 85
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Fiscal Compact, sulla gestione pandemica) e al contempo non decide (per l’appunto, sulla modifica del Regolamento di Dublino iii, sui ricollocamenti obbligatori e automatici, snodi importanti della governance delle migrazioni); a sud dell’Europa delle persone e dei giudici, che cerca di resistere ma che fatica a spiegarsi, a queste latitudini. Ma siamo anche al centro del Mediterraneo e, spostando lo sguardo su altri orizzonti, le cose ci appaiono molto diverse. Allora forse, proprio per tutte le contraddizioni in cui l’Europa sta inciampando, ci diciamo che questa porta deve restare qui, a Lampedusa, a mo’ di sentinella di una memoria che dovrebbe passare il testimone al Futuro europeo, ma che oggi sembra solo definire la distanza tra le memorie d’Europa, il futuro d’Europa e il sogno d’Europa con cui i migranti attraversano il Mediterraneo.
7. Ci diciamo che questa ricerca ci sta facendo calare
appieno nel «realismo giuridico», nelle sue contraddizioni e nel suo divenire. A fronte di tutto ciò che stiamo vivendo, un’unica cosa ci consola e ci dà speranza, da giuristi: lo sbarco notturno della Louise Michel, che ieri ha salvato 88 vite umane (di cui 68 minori) soccorse in zona sar libica e a cui abbiamo assistito dal molo, nell’entusiasmo dell’equipaggio, e insieme a chi non si vuole rassegnare a questo (dis)ordine normativo globale.
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settimo giorno
VattelaPesca. Dialoghi ittici Lampedusa 35° 31’ Nord – 12° 35’ Est di Luca Queirolo Palmas
Lampedusa, concepita per essere una colonia agricola, è stata ben presto caratterizzata da una lunga storia di pesca. Negli ultimi decenni, il turismo di massa diviene la principale fonte di reddito, trasformando radicalmente i modi di vita degli isolani; eppure, le distanze fra i due mondi sono porose e molti capitali accumulati in mare si riconvertono a terra. Sopra la Tanimar, in ogni caso, il rombo degli aerei di ogni tipo e di ogni provenienza è continuo. Nei giorni in cui il cattivo tempo ci ha bloccato in porto, abbiamo provato a raccogliere voci e storie fra i moli e i bar del porto. Il risultato è una specie di conversazione immaginata attorno ad alcuni temi: il futuro della pesca, l’immagine dei tunisini, i salvataggi in mare. Il discorso risente del differente posizionamento sociale in quella che è una realtà stratificata in termini di classe sociale e scala: 87
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dagli armatori ai capitani, dai grossisti ai proletari del mare, dagli artigiani della pesca agli imprenditori.
Sul futuro della pesca z: «La pesca? Che si può fare per migliorare? Nulla, è morta. Mezza Lampedusa sta aspettando la rottamazione delle barche. Pesce? Non ce n’è più. Vengono tutti a pescare qui, anche i mazaresi. Il gasolio costa troppo, non c’è più tempo buono. Prima potevi uscire per trenta-quaranta giorni consecutivi. La mia barca è ferma in porto da anni, al corpo morto. Se la vendo ci faccio 12.000 euro, se la rottamo con lo Stato almeno 60.000. Poi mi vendo pure la licenza di pesca. Adesso me ne vado in pensione, prenderò 800 euro, poi ai 60 anni magari 1.200. Il pesce è morto, non si può fare niente per migliorare la situazione. Persino i mazaresi hanno ridotto le barche. Qui i grossisti la fanno da padroni, sono loro che fissano i prezzi. D’estate, ancora, vendiamo ai ristoranti, ma d’inverno? Che facciamo? Lo buttiamo il pesce che tiriamo su? Sono dei ladri, cambiano persino i pesi sulle bilance. Alla fine, guadagnano loro. Ci hanno provato diverse volte a fare la cooperativa, ma non ha funzionato. La calamità? L’ultima cinque anni fa. Mi hanno dato quasi 30.000 euro, mi sono fatto due manutenzioni alla barca. Io ho la licenza di pesca entro le 12 miglia, ma vado spesso oltre; cernie e tonni li pesco a 200 metri di profondità». h: «Mio padre ha lasciato un peschereccio, tanti fratelli e tutti pescatori. Ma dei miei figli nessuno ha voluto continuare con la pesca… ci hanno provato, ma è un lavoro 88
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duro… e poi qua stava prendendo piede il turismo e piano piano la pesca scompariva. I miei figli hanno voluto studiare e tutti e due sono andati via da Lampedusa… oggi noi stessi viviamo più di turismo che di pesca, affittiamo gli appartamenti di famiglia. Ma la pesca rimane la mia grande passione… e poi comunque devo tirare a campare fino alla pensione. La pesca in ogni caso non ha futuro, i prezzi del carburante non permettono più a nessuno di lavorare».
y: «La mia famiglia continua ancora con la pesca. Molti
pescatori hanno scoraggiato i propri figli a intraprendere questo mestiere usurante … ma per noi è stato diverso, ho trasmesso ai miei figli la mia grande passione. Purtroppo, è chiaro che tanti fattori incidono negativamente, ad esempio ho sempre detto di fare un mercato ittico a Lampedusa e mai è arrivato. Abbiamo tanti pesci ma il guadagno è minimo, per non parlare del caro gasolio di oggi che ci sta ammazzando tutti. Degli ottanta pescherecci che ci sono a Lampedusa, oggi quaranta sono fermi…».
k: «Qua prima si viveva di pesca, oggi si vive di turismo. Gli armatori non erano ricchi ma guadagnavano quel poco per avere la fiducia delle banche. Così, hanno costruito degli appartamenti e si sono buttati tutti sul turismo… Gli unici che hanno mantenuto una grande flotta sono i mazaresi, ma in ogni caso il mondo della pesca sta morendo». r: «Tutte le tecnologie per individuare il pesce hanno
distrutto la pesca e il mare. È una mattanza continua e il mare non si rigenera».
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Sull’immagine dei tunisini y: «Dai racconti dei miei, c’era pace e rispetto fra le parti. La Tunisia era la nostra Sicilia di allora. C’era una stretta collaborazione con Sfax e Sousse, molti andavano a vivere lì, perché c’erano banchi di pesca molto ricchi». h: «Quando si faceva la pesca alle spugne, noi e i tunisini
pescavamo insieme. Abbiamo tutti parenti che sono nati in Tunisia. Poi c’è stata l’indipendenza, e ci hanno costretto a scegliere se essere tunisini o italiani. La maggior parte è tornata. Io al Mammellone [una zona protetta nel sud tunisino] a pescare non ci vado più da decenni, una volta ci hanno inseguito per spararci. I tunisini si piazzavano sulle secche a vivere, non facevano avanti e indietro come noi e le occupavano con le reti. Dal pesce azzurro siamo dovuti passare allo strascico, chiaramente senza licenza, e ci hanno regolarizzato solo dopo più di venti anni».
z: «I tunisini ci rubano il pesce, e noi rubiamo il pesce
a loro».
j: «I tunisini sono una brutta razza… vengono a pescare da noi e noi non possiamo pescare da loro. A differenza dei neri, chi arriva qui non scappa da nessuna guerra». k: «Io la Tunisia la conosco bene, è un popolo che non mi piace. Mi hanno sparato e messo in galera quando ero giovane… mi hanno lasciato trecento buchi sulla barca. Noi andavamo a rubare il pesce, però quando sconfinano loro nessuno gli dice nulla». 90
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r: «I tunisini hanno barche più grandi e attrezzate delle nostre. Anche loro spolpano il mare, come i mazaresi. È come una pentola. Ci dovremmo vivere tutti, ma a forza di prendere e sfruttare, il mare si svuota». Sui salvataggi in mare z: «Meno male che c’è Salvini che ci toglie tutti questi clandestini. Vediamo che fa questo nuovo governo. Quando c’era lui, Salvini, non arrivavano più. In realtà qui li vogliamo i clandestini. Ti spiego… Noi pigliamo il pesce; loro – i finanzieri, lo Stato – pigliano i clandestini. Se togliamo i clandestini, poi loro si occupano troppo di noi. Invece così viviamo senza legge, perché loro ci lasciano in pace e si occupano dei clandestini. È il loro lavoro. Se io mi sono trovato a dover soccorrere? Milioni, milioni di volte. E che devi fare? Io soccorro anche se mi mettono in galera. Almeno sono a posto con la coscienza, non mi interessa della galera. E poi io sto in mare. Chi mi salva a me, se io non salvo gli altri?». h: «Il decreto sicurezza è stato fatto sulle spalle dei pescatori. Non facevano uscire la guardia costiera oltre le 12 miglia. Allora, se vado a pescare al largo, devo decidere io se farli vivere o morire? Lo Stato perlomeno deve prendersi le sue responsabilità. Nonostante a terra i pescatori ti dicono di tutto, poi a mare non possono non salvare. Se non li salvi, poi come vivi, come fai a guardare i tuoi figli? Per noi che peschiamo a strascico il vero problema della migrazione sono i relitti lasciati in mare…». 91
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j: «Bisogna difendersi. Qui siamo in guerra contro i clandestini. Però che fai se li trovi in mare? A me, come a tutti, è capitato. Ho chiamato i miei amici che mi hanno detto di lasciar stare. Alla fine ho deciso di trainarli, e se fosse affondata la barca me li sarei presi a bordo. Non si lasciano le persone a mare. Quando siamo arrivati in porto, mi hanno abbracciato come un salvatore… guarda ho ancora la pelle d’oca». r: «Un tempo erano i pescatori di là che portavano la
gente qui di nascosto. In mare ci sapevano andare, e le loro barche le volevano riportare a casa. C’era più sicurezza».
Epilogo I tunisini, i mazaresi, i clandestini… Le storie raccolte fra il mondo, i mondi, della pesca si costruiscono attorno a questo primo piano iper-visibile. Però spesso è una facciata. E il retroscena che a tratti appare sgretola certezze e posizionamenti e mette in luce altre dimensioni. Ad esempio, l’estrattivismo forzato e la distruzione ambientale. Oppure il mercato e la standardizzazione dei gusti: «Ora vogliono solo certi pesci, devono essere senza spine. Ci sono pesci buonissimi che nessuno mangia più e che non te li comprano. Dobbiamo insegnare ai nostri figli a mangiare il pesce, tutto il pesce!», con le parole di uno che dopo molti anni di imbarchi ha cambiato mestiere. Continua un altro ex del mare: «Il mare è pieno di spazzatura, olio, motori, relitti. Certo, colpa dei clandestini. Però mi ricordo anche tutto il pesce che si tirava su e poi ributtavamo a mare quando lavoravo in Atlan92
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tico perché non pregiato e senza mercato. Mi ricordo che qui si pescava con le bombe e questo distruggeva tutto. Ci sono barche che in questi giorni tirano su dentici enormi pieni di uova… e poi come pensiamo che si ripopoli il mare?». E infine la questione della classe e dello sfruttamento: «I grossisti sono quattro strozzini, guarda uno è qui davanti. Il pesce entra a 5 [euro] da una porta e ne esce a 25 [euro] dall’altra. Non sanno manco cosa è un amo. Noi non siamo stati capaci a organizzarci. I «rigattieri» ci mettevano in concorrenza. Ti offrivano un prezzo più alto se non lo dicevi agli altri pescatori. La cooperativa? Non esiste. È solo per i contributi dello Stato, non per fissare un prezzo e fare un nostro punto vendita o ristorante». Prima di partire, alcuni articoli di Giacomo Orsini ci hanno aiutato a comprendere i diversi modi di organizzarsi dei pescatori fra Lampedusa e le Canarie; se nel primo caso prevale una gestione individuale familiare, nel secondo il pesce viene conferito alle confraternite che si occupano di distribuirlo e rivenderlo, riducendo il potere dei grossisti. Dalle Canarie alcuni di noi sono tornati da poco e sul molo di Arguineguín abbiamo raccolto altre storie di mare che adesso portiamo qui a Lampedusa in queste conversazioni informali: la distruzione della pesca artigianale in Senegal, i viaggi auto-organizzati nei villaggi per raccogliere i capitali necessari a rottamare la vecchia imbarcazione e a comprarne una nuova, i pescatori costretti a fare i clandestini perché strozzati dalle multinazionali. Eh sì, la pentola si sta svuotando; e non è un caso che ormai una buona parte delle catture in tutta l’industria ittica globale sia ormai di allevamento.
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ottavo giorno
Una solidarietà svuotata Lampedusa 35° 31’ Nord – 12° 35’ Est di Luca Giliberti e Filippo Torre
Lampedusa di per sé è già un hotspot… Quando sei in un’isola, anche se riesci a uscire dal centro, alla fine dove vai? Ti fai un giro, prendi una boccata d’aria, fai la spesa, compri le sigarette… Ma finisce lì. Anche se molti migranti quando arrivano non lo sanno e chiedono dov’è la stazione, Lampedusa è un’isola e qui si rimane bloccati… L’hotspot è Lampedusa.
Le parole di un’avvocata, vicina ai movimenti sociali, che da anni si occupa del tema migratorio in Sicilia – raccolte in periodo pre-pandemico – evidenziavano già la dimensione detentiva dell’accoglienza delle persone migranti a Lampedusa. All’epoca, però, un buco nella recinzione permetteva l’uscita informale dal centro, probabilmente seguendo una logica di decompressione dell’hotspot nei 95
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momenti di sovraffollamento e di diminuzione del rischio di rivolte. La possibilità di muoversi liberamente sull’isola si traduceva in un incontro che, insieme a forme di contestazione e ostilità, produceva anche momenti di scambio e supporto a favore delle persone in viaggio: «Ancora adesso sono in contatto con molti ragazzi passati di qua… Quando venivano qui in paese ci si incontrava e si passava dei bei momenti insieme, si creavano delle relazioni, diversi di loro li ho anche ospitati a casa… Oggi è diverso, non li vediamo proprio i migranti… Paradossalmente in qualsiasi paese d’Italia vedi più facce nere che a Lampedusa», ci racconta un abitante dell’isola mostrandoci fotografie dei numerosi incontri del passato. La situazione si modifica con la pandemia e l’inaugurazione delle navi quarantena, «hotspot galleggianti» che per due anni hanno facilitato l’alleggerimento del centro cancellando la presenza migrante agli occhi dei turisti e della popolazione locale, affermando un nuovo paradigma che trova espressione nella chiusura definitiva del «buco» e nella completa invisibilizzazione della presenza migrante. In questa fase post-pandemica, in cui le navi quarantena hanno smesso di operare, il centro è sorvegliato capillarmente e blindato, rendendo di fatto impossibile ogni forma di relazione tra abitanti dell’isola e migranti. La reclusione dei migranti dentro l’hotspot ha risvolti inerenti alla violazione dei diritti di queste persone, assumendo un’importantissima rilevanza sociale e politica. Il punto non è solo privare della libertà qualcuno che tecnicamente per lo Stato ha commesso un reato di tipo contravvenzionale – come è quello di immigrazione clandestina – che non prevede la reclusione. Il punto è che que96
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sta situazione nel tempo cambia completamente il modo in cui le persone migranti interagiscono con gli attori del contesto locale. In che modo allora, ci chiediamo, la nuova gestione istituzionale dell’accoglienza ha inciso sulle forme di solidarietà nell’isola? Con quali modalità oggi si può fare attivismo a Lampedusa? Con la detenzione dei migranti all’interno dell’hotspot, la sola attività di supporto diretto resta la presenza della società civile agli sbarchi sull’arena politica del molo Favaloro: «In un molo in cui ci si mette in fila, tutti in ordine, noi siamo gli unici senza divisa… Per noi è importante agli sbarchi salutare le persone, portare loro un ristoro, una tazza di tè… Ma soprattutto un sorriso, un abbraccio… Li guardiamo negli occhi uno a uno. Nonostante siamo sempre meno, proviamo a continuare ad affermare nei fatti la solidarietà alle persone… Oggi quello è l’unico spazio in cui le vediamo». Chi parla è una volontaria del Forum Lampedusa Solidale, rete di attivismo locale che, dalla pandemia in poi, ha subìto una forte flessione in termini di partecipazione e motivazioni. Quando i soggetti con cui si co-costruisce il senso dell’azione sociale non ci sono più, il senso stesso di quell’azione diventa sospeso e una parte degli attori decidono di abbandonare. A differenza di altri luoghi del regime di frontiera europeo, inoltre, a Lampedusa è quasi inesistente il flusso di gruppi di attivismo politico radicale contro i confini, non essendoci spazi e modi informali per supportare la mobilità delle persone. Altri attori animati da spirito solidale, in assenza di forme di azione possibile, finiscono per operare con le istituzioni, come i medici e gli infermieri del cisom 97
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(Corpo Italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta, una fondazione con finalità di protezione civile): Ho scelto di fare il medico a bordo della guardia costiera perché volevo sentirmi utile alla causa… certo, è il mio lavoro, ma non lo faccio per necessità, avrei potuto fare il medico da qualsiasi altra parte. Con tutte le contraddizioni, la mia è una scelta politica…
Si tratta di soggetti con competenze di tipo sanitario che creano interferenze, tipi di interazioni diverse da quelle che avverrebbero se fossero presenti solo i militari a bordo e che, parlandoci di «contraddizioni», restituiscono l’esperienza di tempi e spazi ridottissimi di interazione, angoscia, senso di impotenza. Alla fine, la posta in gioco legata all’azione collettiva si è talmente ristretta da rendere necessaria la ricerca di nuovi spazi di senso. Ad esempio, quelli della produzione culturale, della formulazione e della stabilizzazione della memoria collettiva sulla questione migratoria che, però, sembrano restare all’interno di una dimensione di nicchia. Il collettivo Askavusa, segmento politicizzato della società civile lampedusana, negli ultimi anni si è dedicato a un’attività di denuncia che si presenta come «contro-narrazione» e costruzione di una memoria alternativa al racconto ufficiale. Le commemorazioni istituzionali del naufragio del 3 ottobre 2013, in atto in questo momento, sono al centro di un dibattito critico che vuole mettere in discussione la narrazione ufficiale degli eventi, così come il frame narrativo «emozionale» che ostacola un’analisi storico-politica più strutturale delle morti nel Mediterraneo. 98
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Nel contesto di una solidarietà svuotata a terra, il mare appare come uno spazio complementare di agibilità solidale e di contrasto alle necropolitiche, da guardare nelle sue interazioni possibili con l’accoglienza sulla terraferma. Come equipaggio della Tanimar, abbiamo avuto per qualche giorno come vicina di banchina la Louise Michel, nave di salvataggio tedesca che opera al largo della Libia. Come racconta l’equipaggio in un post di Twitter: 88 persone recuperate da un gommone. Questa mattina presto Alarm Phone ci ha informato delle persone in distress. Dopo diverse ore di ricerca e un difficile salvataggio dovuto al rapido avvicinamento della cosiddetta guardia costiera libica, tutti sono ora a bordo della Louise Michel.
La presenza in mare delle navi ong diventa sempre più determinante nel momento in cui le navi militari italiane non vanno oltre le acque sar nazionali: «Quando c’era Mare Nostrum, le navi italiane scendevano in acque libiche, adesso ci vanno solo le ong. A differenza delle navi militari che hanno subito accesso a un porto sicuro, le navi ong devono aspettare l’autorizzazione», afferma un funzionario della guardia costiera di Lampedusa. Di fronte a questo arretramento istituzionale, le uniche attività di salvataggio in mare aperto sono portate avanti dalla società civile; questa attenua, con la sua azione, le esposizioni ai pericoli e alle morti in mare, subendo però una sempre maggiore criminalizzazione perché accusate di costituire un fattore d’attrazione verso l’Italia. La solidarietà e le retoriche contrastanti che si generano a terra non si possono comprendere senza allargare lo sguardo 99
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allo spazio marittimo dello Stretto di Sicilia, in cui gli attraversamenti irregolarizzati e la criminalizzazione del salvataggio modificano le forme e le relazioni tra mare e terra.
Nota finale Una nota dell’avvocato generale della Corte di Giustizia nella conclusione sul caso della Sea-Watch 3 (cgue n. C-14\21, C-15\21 1° agosto 2022) afferma: Mi permetto, a questo punto, un’ultima osservazione. La vita umana e il suo salvataggio è, ovviamente, il valore prevalente (su qualsiasi altra considerazione). Tuttavia, il «dovere del Buon Samaritano» non è esente da obblighi. Ad esempio, per quanto ciò possa avere un interesse, è ben vero che il Buon Samaritano del Testamento ha salvato la persona in pericolo senza esitazione. Tuttavia, egli l’ha trasportata in un luogo sicuro (una locanda) a proprie spese, con il mezzo di trasporto più sicuro (il proprio asino), si è preso cura di tale persona senza trasferire tale onere su altri e ha dato il proprio denaro al locandiere affinché se ne prendesse nel frattempo cura, promettendogli che «ciò che spenderai in più, te lo renderò al mio ritorno». I confronti, talvolta, sono difficili…
A buon intenditore: se una ong vuole salvare qualcuno, che lo faccia a spese sue. In una fase storica in cui la confusione tra diritti, solidarietà e carità è così grande ci capita di sentire anche questo.
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nono giorno
Il mare è un macello Lampedusa-Linosa 36° 02’ Nord – 14° 11’ Est di Luca Queirolo Palmas
La Tanimar lascia Lampedusa dopo diversi giorni di maltempo in cui persino i mazaresi hanno trovato riparo sui moli dell’isola. Per noi il riparo obbligato ha permesso di incontrare storie, di frequentare il porto stando nel porto. L’isola ci ha lasciato con le campane a morto, suonate dal traghetto che ha appena attraccato e sta scaricando una bara. A Lampedusa non si nasce, né si muore. A pensarci bene, anche a Pantelleria siamo partiti con le campane a morto. E ora, mentre la porta d’Europa scorre sotto i nostri occhi, lì sotto sulla scogliera vediamo l’ennesimo relitto abbandonato. Fresco di arrivo, con il motore fuoribordo schiaffeggiato dalle onde. Anche lui trasuda morte. D’altra parte, tutte le coste dell’isola sono adornate di relitti più o meno recenti… alcuni ormai si sono elevati a terra, tanto che sembrano piovuti dal cielo più che portati dal mare. 101
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Siamo diretti verso Malta e sul telefono abbiamo il numero di uno dei principali imprenditori delle industrie dell’allevamento del tonno. Nel passato alcune di queste grandi gabbie che attraversano il Mediterraneo sono divenute ancore di salvezza per migranti. C’è un’immagine che è divenuta famosa e che abbiamo in testa… i tonni e i naufraghi. Le gabbie che si muovono dai luoghi di cattura a quelli di crescita e ingrassamento fanno parte del paesaggio mediterraneo, così come le crociere per turisti, i mercantili, le navi militari e quelle della flotta civile. Questo mare è al centro non solo di processi di mobilità di ogni tipo, ma anche di iper-estrattivismo. Dietro ogni merce, sappiamo, c’è un rapporto sociale, un rapporto di produzione. Dietro ogni imprenditore, diversi strati e intensità di sfruttamento. L’imprenditore non lo incontreremo, ma abbiamo la fortuna di raccogliere per telefono la testimonianza di un operaio subacqueo che ha lavorato nel settore, presso l’azienda concorrente. Questo il suo racconto: I tonni sono comprati in Sardegna, messi in una gabbia e trainati a Malta. Vanno a mezzo nodo, ci mettono un mese a portarli giù a Malta. Molti animali muoiono durante il trasporto. Poi vengono ingrassati, a fine ottobre inizia la mattanza. Sono venticinque gabbie, con circa duemila tonni ognuna. Girano un sacco di soldi, non puoi immaginare. Io facevo il raccoglitore, eravamo un gruppo di venti persone che si immergevano. Tunisini, libici, italiani, spagnoli, maltesi. Tunisini e maltesi si capivano fra di loro, noi italiani con gli spagnoli. Solo i maltesi erano a contratto, in regola, e c’era un clima da nonnismo: i lavori più pesanti li facevamo sempre noi. Un lavoro da disperati, per tutti. Alle 4 del mattino si partiva da 102
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Valletta e poi finivamo per le 8-9 di sera, sette giorni su sette, per tre mesi sino a gennaio. Sempre in acqua, per la fatica devi mangiare sempre. L’acqua è fredda. Io mi dovevo immergere e mettere dei palloni d’aria per far risalire le gabbie in modo tale che i tonni avessero meno spazio. Poi toccava agli sparatori, un solo colpo in testa con una specie di lupara di mare. Se si sbaglia il colpo, i tonni impazziscono e iniziano a saltare. I giovani a volte si divertivano, li inseguivano con i pugnali per finirli. Si facevano chiamare i «cowboy del mare». Ma nella maggior parte dei casi i tonni si facevano ammazzare senza reagire. Sono bestie enormi, ti danno una musata e ti ammazzano. Ma non succedeva. Anche dalle reti non scappavano, era curioso. Imparavano a girare in tondo e poi continuavano, si abituavano. Il tonno non si deve rovinare, altrimenti i giapponesi non te lo comprano. Anche gli sparatori stanno con le bombole in mezzo ai tonni. Sangue ovunque, non puoi immaginare. Quelli grossi che non riuscivano a emergere una volta morti, gli mettevamo l’aria compressa nel culo per farli salire in superficie. Il mare è un macello, un inferno. Poi, una volta morti, li dovevamo portare alla nostra barca dove venivano issati. Li prendevano per il muso e con le pinne li trainavamo. Sempre facendo attenzione a non lasciare un solo graffio sulla pelle. Le gabbie prima erano sotto costa, poi li hanno obbligati a portarle qualche miglio fuori. È una devastazione ambientale. I bagnanti si ritrovavano ricoperti di olio e di sangue. Ogni tanto saliva un ispettore maltese, metteva una GoPro nella vasca e diceva che c’erano troppi tonni nella gabbia. Non succedeva nulla, gli avranno dato delle mazzette. È un lavoro da disperati, come quello dei raccoglitori di pomodori. La paga ufficiale di un operaio a Malta è 4,50 [euro], 103
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a noi pagavano 10 euro l’ora in nero, ma è comunque un lavoro da disperati. Mi davano i soldi in una busta. Sapevano di me solo il nome, manco il cognome. Non ero nessuno io. Non ci sono immagini, non c’è giornalismo che entra. Nessuno protesta, è tutto offshore, è un lavoro da schiavi. Non ci mettono nulla a buttarti a mare se vogliono, nessuno sa chi sei, nessuno sa dove sei. I tunisini comunque erano contenti, abitavano tutti insieme e si facevano dei bei soldi, si costruivano la casa al loro paese. Si lavorava con tutte le condizioni di tempo, sempre dentro queste gabbie, con le onde che le sbattono da tutte le parti. Sempre in acqua. Immagina le gabbie che sbattono contro le barche e tu ci sei in mezzo ad aiutare a issare i tonni. Sino a mare forza 5 ti facevano lavorare. È un lavoro massacrante, io ero fra i più anziani. Non ti potevi ammalare, dovevi andare sempre, eri lì per quello. Se ti fai male, sono affari tuoi. Se hai la febbre, lavori con la febbre. Uno di noi ha perso un dito ed è rimasto sino a sera nelle vasche, non è che lo hanno portato subito in ospedale. L’attrezzatura te la devi portare tu, sei tu che pensi alla tua sicurezza. Ti danno le bombole, non ti dico che bombole erano. Poi i tonni venivano condotti alle tre navi giapponesi che stavano lì intorno, enormi, tutte bianche. Quando gli operai, tutti giapponesi, iniziavano a tagliare con la motosega, uscivano fiumi di sangue dalle fiancate. I giapponesi ti facevano la comanda, dieci tonnellate per lunedì, trenta per martedì, e così via. E tu andavi nelle gabbie a sparare e raccogliere. Ero come un raccoglitore di pomodori, però in acqua. Il mare è un macello. I tonni che venivano scartati ce li portavamo a casa. Mangiavamo sempre tonno, poi ho iniziato a sentirmi male, anche mia moglie. Intossicazione da metalli pesanti, immagino. La mattanza finisce quando l’ultimo tonno è ucciso, fa’ tu i conti: duemila per venticinque gabbie. Riforniscono tutto il mercato del sushi in Europa; il sushi 104
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è ormai come la pizza. Mai più farò questo lavoro, la puzza del sangue non te la togli più di dosso. Il mare è un macello.
Discutiamo a distanza di questa testimonianza con i nostri amici che ci aspettano a Malta: «Sì, le vedrete anche sotto Gozo quelle gabbie e quelle navi bianche alla fonda che vi hanno descritto in ogni dettaglio». Sul portale vesselfinder.com, l’area è definita come tuna zone. Si usa anche il termine farm da queste parti, segno che il mare viene progressivamente territorializzato, ridotto a logiche di terra che lo addomesticano. Continuano così i commenti da terra: «Quando c’è corrente da sud o da est, il mare porta con sé tutto il mangime per i tonni. È una schifezza, sporca le spiagge e i bagnanti. Abbiamo amici che hanno avuto problemi di salute, infezioni alla pelle, agli occhi, alle orecchie. La gente non protesta, anche se l’inquinamento va contro il turismo e l’utilizzo delle spiagge. Qui la politica è nepotismo e se il tuo partito ti ha promesso un posto di lavoro per il figlio, non vai certo a criticarlo apertamente». Politiche locali e industrie globali, mercati del lavoro transnazionali ed estrattivismo ittico e turistico, questioni di salute e di ecocidio iniziano ad affastellarsi come tanti strati sovrapposti e incrociati sullo spazio marino che stiamo cercando di esplorare. A volte nelle nostre conversazioni in pozzetto citiamo i due sociologi francesi – Michel Pinçon e Monique Pinçon-Charlot – che da anni hanno puntato lo sguardo sulle classi dominanti, praticando un’etnografia delle borghesie. In effetti, come dare loro torto: si studiano poco i ricchi e i potenti, mentre le scienze sociali vivisezionano i poveri di ogni tipo. Il mare è un macello, e forse dovremmo dedicarci a cercare i macellai. 105
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decimo giorno
Linosa. Isolitudine Linosa 35° 30’ Nord – 12° 36’ Est di Guglielmo Agolino, Arianna Colombo e Francesca Goletti*
Isolitudine: s.f. («isola» + «solitudine») izoli’tudine. Disposizione dell’animo corrispondente a sentimenti di intermittente euforia e malinconia, tensione verso il superamento eroico di barriere geografiche ed emotive, permanente stato di luminosa predisposizione verso il futuro, tormentata ricerca di un altrove talora impossibile1.
Sono 25 le miglia da navigare, una manciata d’ore con il vento in faccia che ti fa pensare ai pomeriggi freschi. Continuano a mescolarsi nella memoria immagini di Lampedusa, le sensazioni sulla pelle, le voci forti per i microfoni sui palchi, l’odore di pesce e benzina al porto, e * Arianna Colombo e Francesca Goletti sono dottorande presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova. 107
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benché le parole siano molte, rimane un senso di vaghezza nelle nostre riflessioni; come quando incontri la neve per la prima volta e, scottato, rimani un poco imbambolato, senza sapere dove muovere il prossimo passo per non scivolare, cercando di riconoscere quelle sfumature di bianco che solo un tempo di permanenza lungo può dare. È difficile trovare un equilibrio del narrare, saper stare in piccoli e brevi racconti di osservazione. All’arrivo la luce sembra tutta assorbita da questo chicco galleggiante, dalle sue lingue di terra gialla, marrone e rossiccia. Linosa spunta come un piccolo pugno di terra. I vulcani, ormai addormentati, segnano oleografie irregolari e fanno da cornice a un lembo di suolo umiliato da una cascata di cemento. Quello è il piccolo scalo, abitato anche da alcuni bagnanti che si cuociono tra asfalto e sole. Alcuni dicono che la salvezza di questa piccola isola sia la mancanza di un porto, altri accusano la stessa assenza come rovina. Durante la manovra per l’attracco sembra esserci qualche complessità, noi terrestri ce ne accorgiamo alla discesa, nessuna passerella, punto di appoggio o scaletta: si fa un piccolo salto per raggiungere la terraferma. Ci aspetta sulla strada un uomo molto magro, con la faccia che assomiglia alle rughe della sua terra. È ritto di fronte al furgone bianco, con cui ci dice essere solito frequentare la zona per recuperare i turisti per il giro dell’isola. È il suo nuovo lavoro. Anche noi partecipiamo al piccolo tour, tutti seduti in questo pulmino che fa pensare ad anni passati, mentre l’uomo, pronto per la guida, indossa il suo microfono ad archetto. Mentre il paesaggio continua a esercitare un certo incanto per gli occhi fino a rapirti, la voce amplificata inizia a dar peso e quotidianità alla bellezza, come se ogni sua parola 108
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ricordasse che in quell’isola così piccola e lontana ancora ci si vive, arrabatta e arrabbia. Anche se dalla cima del Monte Nero sembra che le coltivazioni di capperi regnino sovrane, vivere in questo piccolo ritaglio di terra sul mare comporta far parte di una maglia di relazioni. Relazioni che, in una tale e limitata condivisione dello spazio, sono una rete alla quale affidarsi o in cui rimanere facilmente incastrati. Anche a livello istituzionale le cose sembrano avvenire per portate, attraverso influenze e contatti personali. L. è uno di quegli uomini che sembra abbia incarnato l’istituzione stessa, lo incontriamo davanti alla casa comunale. Oggi è in pensione, dopo oltre trentacinque anni di servizio, ma sono passati più di undici mesi e nessuno lo ha ancora sostituito. Ci dice: A Linosa nun avimu nenti… anzi l’unico problema che non abbiamo qui è l’acqua, perché il dissalatore funziona. Nel 2021 ho ricevuto come economato solo 3.000 euro dal bilancio del Comune per le spese di Linosa. In passato per comprare il toner della stampante, necessario per le attività amministrative, ho dovuto anticipare io, a mie spese, l’acquisto per evitare di rimanere senza cartucce.
Non sono casualità, ma tasselli di uno stesso puzzle che complicano anche i rapporti tra i cittadini ormai esausti, arrabbiati e frustrati per l’assenza delle istituzioni: Nel primo decennio degli anni Duemila, come linosani abbiamo consegnato ufficialmente le schede elettorali prima di una delle tornate in programma. Per testimoniare che qui a Linosa votare non vale nulla, abbiamo fatto un gesto ufficiale, 109
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non le abbiamo strappate o bruciate… le abbiamo consegnate ufficialmente alla sede comunale di Linosa.
Anche qui, a distanza di circa cinquant’anni dal rifiuto del voto da parte dei lampedusani, si ripete quasi come un rito lo stesso gesto. Emerge dalle sue parole una visione comune a quella di molti altri linosani: «Siamo uno scoglio di Lampedusa…dipendiamo in tutto e per tutto da loro». È un edificio nuovo, dalla forma squadrata. Una grande struttura bianca con una cintura blu. L’istituto comprensivo Luigi Pirandello di Linosa (succursale di quello di Lampedusa) gode di buone condizioni strutturali: non ci sono crepe, lavori in corso e finestre rotte. All’entrata c’è S. ad accoglierti, ci chiede chi stiamo cercando con un vassoio pieno di tazzine e una moca. È ricreazione. Non c’è nessun chiasso tipico dell’intervallo: gli studenti e le studentesse sono un totale di ventisette, una piccola popolazione dell’isola divisa tra formazione primaria (sette), secondaria (sette), e i primi due anni delle superiori (13). Sono raggruppati per pluriclassi informali e per questo le insegnanti sono perennemente in cerca di modi e tecniche per raccontare a differenti età la vastità della storia, le imprese delle scienze e la grammatica della lingua: Nonostante queste difficoltà potremmo avere un’ottima qualità della didattica qui, se solo ci fosse concesso di fare delle pluriclassi. La legge impedisce di comporle quando gli studenti per l’intero ciclo (elementari, medie, ecc.) sono meno di otto. Attualmente l’Istituto è composto da sette studenti per le elementari e sette per le medie. Così è complicato fare didattica.
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In passato, ci raccontano come alcune famiglie siano state obbligate a trasferirsi a Lampedusa durante l’anno o, addirittura, a Porto Empedocle, per poter far frequentare lì le scuole dell’obbligo ai propri figli e figlie. La stessa situazione, sebbene diversa, riguarda l’istruzione secondaria di secondo grado: Negli anni scorsi, e ben prima della pandemia, era stato attivato un sistema di didattica a distanza con il liceo di Lampedusa, per i primi due anni. Dal terzo in avanti, comunque, gli studenti superiori linosani dovrebbero trasferirsi fuori dall’isola. Infatti, nonostante la scuola sia dotata di apparecchiatura tecnologica e due docenti tutor per affiancare gli studenti, la didattica a distanza non funziona perché la connessione internet non è stabile.
Tutte le studentesse e gli studenti terminano a Linosa il ciclo scolastico secondario inferiore per poi essere costretti a trasferirsi sin dal primo anno fuori dall’isola, senza nessun tipo di sostegno economico per le famiglie. Alcune delle docenti ricordano anche le loro esperienze dirette: lasciare la casa da molto giovani trovandosi catapultate in un mondo con altri ritmi, spazi e modi, e soprattutto senza nessuno su cui contare. Per quanto siano preoccupate e afflitte rimane una certa dose di rabbia: «Il diritto allo studio a Linosa è fantascienza». Lo stesso abbandono e la stessa mancanza di supporto riservato alle famiglie colpiscono anche il corpo docenti: «È sempre più difficile trovare docenti disposti a insegnare a Linosa». Il motivo è presto detto: «L’abrogazione del raddoppio del punteggio per i docenti che decidevano di insegnare qui ha ridotto drasticamente l’attrattività delle 111
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isole minori da parte dei colleghi, che così trovano meno incentivi per venire a Linosa». Una scelta che non ha tenuto conto delle peculiarità dei luoghi, delle dinamiche di un territorio: «Ustica è meglio collegata con Palermo; quindi, la condizione di insularità per chi insegna lì è diversa rispetto alla nostra». La situazione diventa ancora più insostenibile per quelli che vengono assegnati sia a Lampedusa che a Linosa, trovandosi a fare la spola tra le due isole con molta difficoltà: Quando devo venire a Linosa, per essere in classe il mercoledì mattina, devo prendere la nave il martedì, in quello che sarebbe il mio giorno libero. Una volta a Linosa, poi, posso soggiornare una sera in una piccola residenza per i docenti che vengono da Lampedusa come me; almeno questo è d’aiuto.
I mezzi di collegamento non sono solo pochi, ma hanno anche un costo e tutto a carico del docente: «C’è solo una diminuzione parziale della tariffa per la nave, che impiega due ore a tratta, non c’è invece alcuna agevolazione per l’aliscafo, che invece è più veloce e impiega cinquanta minuti». Una cornice che grava sulla didattica, talvolta concentrata in un’unica giornata per le complicanze di spostamento o annullata per il mare grosso. Sono molti i richiami a una mala gestione dell’isola e la scuola sembra esemplificarne una buona parte. La campanella suona la fine della ricreazione. Siamo invitate a tornare e a seguire il filo di queste storie. Usciamo dalla scuola e la via sembra più affollata. L’alimentari è aperto e diversi profumi ci guidano fino alla via principale. Nel cercare T., un uomo dell’isola, inciampiamo ancora sulle parole di una maestra: «Qui eravamo 112
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nel deserto. Non c’era più nemmeno la benzina». T. sembra confermare le parole che abbiamo raccolto, ha svolto molti lavori qui e conosce bene le varie vicissitudini del luogo: «Il medico di base è andato in pensione tre mesi fa, si fa fatica a trovarne un altro. Al momento siamo senza». L’unica assistenza sanitaria sull’isola è il presidio della guardia medica: «Fanno il possibile, sono tutti giovani medici; cambiano però spesso perché lavorano a turni». Anche per la vaccinazione obbligatoria «i bambini sono costretti a prendere la nave e andare a Porto Empedocle e, ovviamente, le spese di viaggio sono tutte a carico delle famiglie». Come a Lampedusa, si nasce fuori dall’isola, nel continente. Altre volte ci si ritorna, come ci racconta E., mentre è intento a riparare la rete per la pesca del giorno dopo: «Una signora, poco tempo fa, ha deciso di venire qui, per trascorrere gli ultimi giorni di vita. Veniva da Torino». In un piccolo cortile tra due case, all’ombra, un uomo anziano è indaffarato con la sua rete: A 18 anni volevo comprarmi una casa e avere le mie cose, così sono partito per la Germania. Dopo otto anni, sono tornato a Linosa per restarci. Sono andato da mio padre e gli ho detto che volevo una barca per fare il pescatore. Mio padre era un uomo della Finanza ed è stato chiaro fin dall’inizio: «Se vuoi una barca devi prenderti la licenza, altrimenti niente». Io faccio tutto in regola, ogni vendita la segno sul registro e così il mio equipaggio: i miei due figli e uno dei miei nipoti. L’altro per fortuna ha deciso di fare il meccanico, e ha fatto bene. Qui fanno di tutto per farti saltare il lavoro: aumentano i prezzi del gasolio, ora è passato da 40 centesimi a 1,30 euro al barile; per non parlare dei controlli: sono ridicoli. La Finanza chiede solo 113
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a me i documenti, gli altri manco li vede. L’altro giorno un amico mi ha detto che mi cercavano; sono andato a sentire che volevano ed era l’ennesimo controllo a me. E sai perché? Perché sono l’unico che ha la licenza! Allora gli ho chiesto se tutte le altre barche, secondo loro, stanno in mare a prendere il sole. Li ho spiazzati ed è finita lì. La vedete tutta questa fatica? Loro te la complicano, ma noi proviamo a continuare finché possiamo. La vecchia rete si è rotta e devo rammendarla con quella nuova che viene da Catania. Era tutta bianca, ma per i fondali di Linosa serve un altro colore. Il migliore sarebbe il nero, ma era finito e l’ho ridipinta di rosso. È a maglie piccole e va cucita su tre piani con quella vecchia. Si parte dall’alto, alternando ogni tre nodi una survedda, poi si passa alla parte sotto dove vanno aggiunti i piombini. Poi arrivano i delfini e ce le rompono. E noi non possiamo nemmeno pescarli.
Ci muoviamo ancora fra i piccoli negozi, ascoltando i racconti di qualche abitante coinvolto nel settore turistico. Continua a farsi largo una certa insoddisfazione, Lampedusa è il metro con cui si confronta la situazione sull’isola.
k: «Con il turismo stiamo indietro. Non è come a
Lampedusa. Qui non sai quando arrivi né quando parti. E quest’anno ci hanno anche tolto l’aliscafo a ottobre, con Lampedusa piena di turisti. Non si può lavorare con le agenzie e i loro pacchetti. Noi non vogliamo il turismo di massa, però qualche centinaio di turisti in più sì, viviamo di questo. Prima c’erano i turisti avventurieri, andavano in campeggio o vivevano nelle nostre case. Ora vogliono tutto preparato. Ma chi sceglie Linosa non è da albergo. Chi arriva qui non vuole avere gente attorno, vuole vedere le 114
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berte, godere della tranquillità e della natura. Lampedusa è un’isola che lavora perché ha l’aeroporto. Ma che isola è?».
j: «La torta del turismo qui è piccola. Non è come a
Lampedusa, qui c’è poco da spartire. Bisogna lasciare spazio a tutti. I vecchi si dovrebbero ritirare e lasciare che i giovani facciano. Quando c’è bisogno, qui andiamo tutti insieme. Ad esempio, volevano costruire un villaggio turistico fuori dal centro abitato che non avrebbe portato nulla ai linosani. Abbiamo bloccato l’operazione».
z: «Si lavorava meglio una volta. Mio marito faceva il
giro dell’isola in trattore, altri invece lo facevano con l’asino. I lampedusani portano i turisti a Linosa in gommoni e barconi e non lasciano niente qui. L’isola è sfruttata da loro. Si mettono i soldi in tasca e non si preoccupano che il linosano non lavori. Qui i turisti ritornano, l’altro giorno da noi è venuto un signore che avevamo ospitato quarant’anni fa».
f: «Prima si viveva con la solidarietà contadina. Ci si dava una mano per costruire il tetto alla casa, per le bestie, per tutto. Il turismo ha stravolto questo modo di vita. Adesso conta il soldo. Si fatica di meno e si guadagna di più a fare il giro guidato dell’isola che a coltivare la terra. Quando faranno il porto, sarà la fine di Linosa». Un’isola che dipende dagli affari di Lampedusa, in ombra rispetto alle luci mediatiche della sua vicina. Un’isola legata al potere decisionale di una terraferma che non le riserva nessuna attenzione, cura, ma allo stesso tempo 115
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la considera luogo salvo, pieno di bellezze naturali, un gioiellino delle Pelagie. Rispetto alla nostra traversata e ai paesaggi sbirciati, sentiamo ancora una volta una difficoltà nel provare a raccontare e mettere in scena questi ristretti estratti di incontri avvenuti. Così, in ultimo, proviamo a invertire la direzione dello sguardo e a rivolgerlo verso noi stesse. Ci chiediamo in che modo siamo state segnate da quest’isola mentre prendiamo il largo nel buio, tentando di cucire sensazioni e di comporre immagini. Sembra, tornando alle facce di quella notte, di vedere e sentire un diverso peso nell’abbandonarla. Intimità, riservatezza, malinconia, entusiasmo per la traversata notturna che ci aspetta. Salutiamo questo chicco in tarda serata e quel porto fantasma illuminato solo dalla luna. Nota al capitolo 1. Catalogo della mostra temporanea «Isolitudine», Fondazione Merz, presso Cantieri Culturali della Zisa, Palermo. Curatori: Agata Polizzi, Laura Barreca, Valentina Bruschi, Beatrice Merz.
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undicesimo giorno
Isola-confino, isola-cantiere, isola-resort? Gozo 36° 05’ Nord – 14° 17’ Est di Luca Queirolo Palmas
Oltre la splendida scogliera a picco sul mare, un albergo in costruzione. Accanto una gru. Sotto, un vecchio borgo di pescatori riconvertito interamente all’economia turistica. Questa la prima immagine che si imprime nei nostri occhi dopo la navigazione notturna da Linosa. Nell’avvicinarci a Gozo, rileggiamo alcuni passi di un testo scritto pochi mesi prima durante un soggiorno di ricerca sull’isola. Mettono in scena tre dimensioni attorno a cui ruota l’economia, materiale e simbolica, dell’isola: il cantiere, il resort, il confino. Così scrivevamo in un volume curato da alcuni di noi della Tanimar1: Malta cresce quotidianamente a un ritmo esorbitante, parossistico, seguendo il disegno speculativo di urban developers (itzviluppaturi, li chiamano qui) e mercato immobiliare, tempestata da gru, impalcature e cantieri rispettivamente 117
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manovrate, erette e occupati per lo più da altri lavoratori migranti: forza lavoro imbrigliata che, se verosimilmente si pensava in transito, to Europe, in realtà si riscopre al confino; e se di giorno affolla l’isola-cantiere, di notte risiede nell’ombra di edifici vecchi e abbandonati o in uno dei diversi centri di accoglienza/detenzione dell’isola-confino. In mezzo, al sole, c’è l’isola-resort, la cartolina surreale veicolata da tourist operator e agenzie immobiliari per attrarre una galassia di ulteriori soggetti in transito: turisti ovviamente, ma anche studenti Erasmus, oligarchi extraeuropei a caccia di un passaporto eu, players del gambling e dell’azzardo, professionisti dell’industria del betting e del gaming, sviluppatori di blockchain, digital nomads attratti da sgravi fiscali e incentivi di ogni tipo. Nel giro di uno, forse due decenni, alimentata da scelte politiche spregiudicate, l’economia dell’isola si è trasformata affiancando a traffici tradizionali, leciti o meno, tutta una serie di nuovi asset finanziari e digitali che hanno fatto di un territorio poco più grande dell’isola d’Elba, ma con oltre 500.000 abitanti (più del 20% dei quali stranieri), una sorta di Stato offshore dentro l’Unione Europea e l’area euro.
Noi abbiamo appena dato l’ancora e le 12 ore di navigazione da Linosa sono state solitarie. Solo qualche peschereccio lontano… per il resto il mare a queste latitudini è vuoto. Ci scherza su un amico skipper dicendoci che si va per mare proprio per godere della solitudine, non del traffico. Lui comunque, per arrotondare la stagione, fa i transfer delle barche dai porti turistici ai cantieri e si descrive come «un camionista del mare». Ripensiamo all’operaio dei tonni che si comparava con i raccoglitori di pomodori. Alla fine, il linguaggio cerca metafore e parallelismi con quanto ci è più 118
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familiare, la terra e le logiche di sfruttamento che lì sono radicate. Continuiamo a leggere: Agli occhi di chi vi approda provenendo da sud e dal mare, dalle coste nordafricane (Tunisia e soprattutto Libia), eludendo blocchi e respingimenti preventivi o rotte per lo più incanalate altrove (a Lampedusa, in Sicilia o sulla costa ionica), l’isola può apparire come un’enorme trappola, per quanto aggirabile – le uscite verso l’Italia e il continente, sebbene azzardate, sono comunque praticabili anche per i «dublinati» a Malta. Ma ad altri sguardi e sotto altre orbite si rivela uno snodo temporaneo attraente, un crocevia remunerativo. L’aspetto significativo, tuttavia, è che questo caleidoscopio di sguardi e questa costellazione di traiettorie sembrano in qualche modo convivere, per quanto sotto cieli diversi. Qui, infatti, turisti o temporary residents e migranti o richiedenti asilo non si incontrano quasi mai, pur sfiorandosi quotidianamente, come in un gioco di incastri, di orbite parallele.
Ripensiamo a Lampedusa e a quell’amaro che ti lascia in bocca lo spettacolo gridato delle migrazioni e l’invisibilità radicale degli stessi migranti nello spazio pubblico. A Lampedusa non se ne vedono proprio. Qui è più complessa e profonda la separazione, si muove su una scala diversa, deve gestire flussi eterogenei che non si limitano al binarismo fra turisti e clandestini. La detenzione è in ogni caso uno strumento cruciale, che non si nasconde neanche troppo dietro la retorica dell’accoglienza: A fine aprile 2020, nel pieno della prima ondata pandemica, 57 naufraghi salvati nel corso di un’operazione di rescue nell’area 119
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marittima maltese sono stati trattenuti per quattro settimane su un battello di sight-seeing della catena armatoriale Captain Morgan, riadibito per l’occasione a nave quarantena. Nonostante i reiterati ma timidi appelli delle agenzie internazionali (unhcr, oim, Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo), la decisione governativa di riconvertire a quarantine ship i natanti turistici non è stata revocata, perlomeno durante la bassa stagione. Come sottolineano [Daniela] DeBono e [Cetta] Mainwaring, nel corso del 2020 il governo «ha detenuto più di 400 persone su imbarcazioni turistiche, in alto mare all’interno delle acque territoriali maltesi, talvolta per quasi sei settimane», sbarrando l’accesso a ogni forma di assistenza legale e organizzazione non governativa e impedendo de facto di chiedere asilo a Malta: un modo per «bloccare efficacemente il diritto d’asilo delle persone detenute». A questa forma di detenzione offshore, in cui gli stessi luoghi e le stesse strutture vengono utilizzati come sliding doors per diverse tipologie di presenze nomadi, su rotte diverse e diverse crociere, va aggiunto il fatto che, al di là dell’emergenza e dei confini sanitari da questa sovraimposti a quelli (bio)politici, per migranti e asylum seekers lo spazio dell’accoglienza resta per lo più relegato in luoghi riservati e tradizionali, in base a temporalità meno effimere e condizioni se possibile ancor meno garantite: «Nel corso degli ultimi anni, migliaia di persone sono state detenute in maniera forzata in pessime condizioni» (Ibidem). Del resto, Malta è l’unico paese europeo ad aver ufficialmente previsto la detenzione amministrativa e dirottato in appositi centri anche gli asylum seekers. In effetti l’irrefrenabile pulsione edilizia che investe l’isola sembra arrestarsi di fronte alle strutture di accoglienza e/o detenzione di migranti irregolari(zzati) e richiedenti asilo, ai quali al contrario sono riservati edifici per lo più fatiscenti, abbandonati e riconvertiti per l’occasione. È il caso di 120
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una ex scuola chiusa per amianto, a Marsa, a ridosso dei cantieri navali e del porto industriale, che una decina di anni prima un progetto co-gestito dalla Foundation for Shelter and Support to Migrants aveva trasformato in luogo di incontro, con un mercato, negozi e ristoranti improvvisati, e che oggi risulta ermeticamente sigillata, riconvertita in centro di prima accoglienza di richiedenti asilo in semi-cattività. Come pure dell’ingente e rigorosamente interdetto reception center di Ħal Far, ufficialmente Ħal Far Tent Village, costituito da file di container semi-nascosti in mezzo a vecchi hangar abbandonati nei paraggi dell’aeroporto, che ospita centinaia di persone in attesa. O di diversi altri centri, quasi sempre riciclati da strutture pre-esistenti (tra cui un vecchio quartier generale cinese), oggi sovraffollati di richiedenti asilo in attesa di una decisione e di una forma di protezione in quanto unauthorized migrants in attesa di relocation, resettlement o rimpatrio (assistito o meno). Ma la politica di detenzione non è solo amministrativa e può assumere risvolti anche penali. È successo a tre ragazzi, Abdalla, Amara e Kader, già detenuti per otto mesi in un braccio speciale, la Division 6 del carcere di La Valletta, e attualmente sotto processo con l’accusa di terrorismo per il «dirottamento», nel marzo del 2019, della nave mercantile El Hiblu, dopo che un’operazione di soccorso li ha salvati insieme ad altre 106 persone alla deriva, in acque territoriali forse libiche. I tre, all’epoca dei fatti contestati ancora minorenni, sono in realtà responsabili solo di aver mediato linguisticamente un acceso confronto avvenuto a bordo della El Hiblu in seguito alla decisione, surrettizia e non comunicata, di far rotta di nuovo verso la Libia riconsegnando le ignare persone in fuga agli stessi lager da cui tentavano di sottrarsi. Il confronto a bordo, presentato dall’accusa come ammutinamento, ha indotto il capitano della nave a scegliere 121
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di sbarcare a Malta le persone salvate, disobbedendo agli ordini della capitaneria e della guardia costiera locale e configurandosi semmai come ammutinamento collettivo, rispetto al quale Michel Foucault avrebbe forse fatto ricorso al termine «controcondotta», l’idea di condursi insieme in modo diverso.
Il processo è in corso e in parallelo si è generata un’estesa rete di solidarietà, una mobilitazione internazionale sollecitata anche da diverse realtà e movimenti locali, come il collettivo Moviment Graffitti che ci ospiterà una volta sbarcati. Finiamo la lettura e diamo l’ancora; abbiamo di fronte le scogliere di Gozo – sembra di stare a Dover oppure sulle Dolomiti – e respiriamo ormai aria di terra, aria di sbarco, e la nostra ricerca è sempre più anfibia. Guardiamo, per contestualizzare il nuovo spazio politico in cui siamo approdati, le mappe delle sar mediterranee. Quella maltese è enorme. Una collega e attivista locale ci spiega: «La sar maltese è così grande perché è un retaggio della potenza inglese sul mare. Poi, dopo l’indipendenza, abbiamo lottato con i denti per tenerla anche perché è una risorsa economica. Ogni nave che passa, ogni aereo che la sorvola, deve pagare». Chissà se questa è una specificità maltese o un principio operante ovunque. Continua: «Più volte abbiamo domandato allo Stato quante sono le entrate fiscali della nostra sar, non abbiamo mai avuto risposte». Lei stessa è impegnata nella costruzione di una specie di Alarm Phone maltese; ma tutto è molto discreto. Si fa in punta di piedi, per evitare che i militari («l’Armata») si irrigidiscano: «Alarm Phone è vista come un’organizzazione di nordici, noi chiamiamo come cittadini maltesi. Prima chiedevamo all’Armata di soccorrere, poi ci siamo limitati 122
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a chiedere di coordinare il soccorso, ora ci limitiamo a pregare che portino acqua alle navi in distress». È un quadro desolante quello che emerge: nella sar maltese non si salva e le navi della flotta civile fuggono da questi porti se hanno persone da sbarcare. Malta è governata dal Partito laburista, facente parte dell’Internazionale Socialista; a pochi giorni dalla vittoria dell’estrema destra in Italia, le prime dichiarazioni politiche materializzano già il ritorno a una gestione più muscolosa e roboante, meno giocata sul silenzio e sulla pena dolce delle sanzioni e dei fermi amministrativi per chi soccorre. Nota al capitolo 1. Parti di questo capitolo sono estratti dal libro a cura di Jacopo Anderlini, Davide Filippi, Luca Giliberti, Borderland Italia. Regime di frontiera e autonomia delle migrazioni nella pandemia, DeriveApprodi, Roma, 2022.
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ultimi giorni
Terra di mezzo, mare di mezzo Malta 35° 54’ Nord – 14° 30’ Est di Arianna Colombo, Luca Daminelli*, Enrico Fravega, Francesca Goletti e Luca Queirolo Palmas
Ci si potrebbe perdere in tutto questo mare, così come fanno le nostre parole che scivolano, si scompongono e non trovano più un solido attrito terrestre. Da questa malìa marina ci ripariamo continuando a seguire una rotta, un tracciato che ci porta lungo Dwejra Bay a Gozo – tra le pieghe di un costato fatto di rocce, rampicanti e tramonti lunari – fino ad arrivare a Malta. Lì, ad accoglierci, un paesaggio che mette natura e storia in un racconto «difficile»: scogliere dalle forme striate cadono perpendicolari sul mare e riflettono dei colori che ci riportano a Lampedusa, non fosse per una sorta di inciampo degli occhi. Sparsi e numerosi si affilano verso il cielo degli scheletri in cemento, bracci di gru che si danno un gran da fare: la speculazione * Luca Daminelli è dottorando presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università di Genova. 125
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edilizia è la protagonista, artefice di un’incisione nevrotica che anche noi conosciamo. Tentiamo di seguire il profilo di questo brulicare, ma si moltiplica ed espande: ecco che si scorge la proliferazione degli stabilimenti balneari, il noleggio barche e un denso movimento di persone e di natanti; ecco i litorali che si fanno vere e proprie fabbriche del loisir. Nel porticciolo turistico di Manoel Island, arriva il tempo dei saluti per Tanimar e per i nostri due skipper, Emanuela e Lorenzo. Siamo state bene insieme ed è il corpo, con le braccia strette e forti, a manifestarlo. È un saluto che tocca e ripercorre i giorni passati insieme, un modo e un tentativo di essere un piccolo equipaggio. Prendere terra implica abbandonare uno spazio ristretto, fatto di legno, vetroresina e corpi che si sfiorano e colpiscono quasi continuamente; interrompere un flusso continuo di parole, idee, discorsi, silenzi e tensioni che un equipaggio produce. Tornare a terra porta a riorientarci in una geografia quotidiana, più familiare, meno satura di ostacoli, cime, verricelli; a reimparare a muoverci tra una percezione di maggiore stabilità e il dilatarsi della prossimità. Così ci disperdiamo. Qualcuna ha trovato un Airbnb a Valletta, altre stanno a casa di amici a più di un’ora di autobus dal centro. Tutte, però, ci portiamo a casa una sensazione salina, un qualcosa che ancora si muove, dondola dentro e fuori di noi. Forse è il piede marino, o forse le innumerevoli suggestioni, raccolte durante il viaggio, non trovano ancora una forma calzante: si dibattono contro le pareti delle nostre teste, come tonni nella rete. La Valletta è un luogo spiazzante per una genovese. A Genova, se si è foresti è facile perdersi, ma si impara facil126
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mente che da un lato si ha il mare e dall’altro i monti. Ha delle vie che imitano la lingua di terra in cui si trova, ma se si scende, prima o poi, si arriva al mare e da lì orientarsi diventa più semplice. A Malta il mare è da tutte le parti, non è un punto di riferimento, aiuta più a perdersi che a trovarsi. Malta è un luogo spiazzante. Siamo a Nord o a Sud? È Africa o Europa? Per le vie di La Valletta l’inglese si mischia all’italiano e alle lingue parlate dalle migliaia di turisti che affollano i bar, intorno ai numerosi tavoli che ingombrano le arterie di una qualsiasi capitale europea. Il maltese è una lingua meticcia, per un buon 60% proviene dall’arabo e per il resto è frutto delle occupazioni e degli incontri avvenuti sull’isola nel corso dei secoli. Si scrive con caratteri latini, ma suona come l’arabo (parlato da un siciliano). Quasi tutti sono bilingui, un tempo anche trilingui: inglese e maltese come lingue ufficiali, e italiano appreso attraverso la televisione. Ora i giovani preferiscono le serie e i programmi americani, allentando questo legame linguistico e segnalandoci un riposizionamento di Malta nelle geografie culturali dell’oltre-atlantico, più che in quelle dell’Europa mediterranea. Ma la riconfigurazione dei consumi culturali e delle abitudini linguistiche non sono che l’elemento più visibile – per chi, come noi, attraversa le strade della Valletta solo per pochi giorni – di processi economici e politici più ampi. La globalizzazione della filiera della pesca, l’arrivo a Malta di colossi internazionali della finanza e delle tecnologie digitali, la frontierizzazione della sponda sud del Mediterraneo, sono alcuni tra gli elementi che contribuiscono a ricollocare Malta nella geopolitica del Nord globale. 127
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Malta sta in mezzo al Mediterraneo, ma simbolicamente su quale sponda si colloca? Per chi ci arriva dal mare fuggendo dalla Libia, o dalla Tunisia, è Europa. Ma i cittadini e le cittadine maltesi sudditi dell’impero britannico, quando migravano in Australia venivano etichettati come non-white; non erano British citizens, ma British subjects: soggetti coloniali. Il passato coloniale e il presente postcoloniale confliggono e si confondono, contribuendo a complicare questo posizionamento nella storia del colonialismo bianco, machista, europeo. Decidiamo di perderci tra gli edifici di questa città. Stracciamo per un attimo il paradigma indiziario del buon ricercatore/ricercatrice e decidiamo dove andare a mangiare. La scelta è poco variegata, si posiziona nella scala di un climax: catene di fast food, ristoranti patinati con una vorace passione per foto di piatti tipici e altrettante stanze di una ristorazione che, sebbene sia qui, potrebbe essere ovunque. «Noi abitiamo fuori dal centro, a Valletta non veniamo mai a mangiare. Non saprei consigliarti un ristorante, tutti questi posti quattro o cinque anni fa non esistevano». Arriviamo nel vecchio mercato centrale, convertito a luogo di consumo per turisti e turiste, come succede a Barcellona, a Madrid, o al Mercato Orientale di Genova. «Ci andavo a fare la spesa con mia nonna. Now it’s a tourist trap». Per il quartiere di La Valletta si sparpagliano turisti e turiste che mangiano a qualsiasi ora diurna e pomeridiana. Eccoli, eccoci, intrappolate e ingrassate come tonni. Ordiniamo una ftira con caponata: ci arriva una pizza con funghi e formaggio. I bassi pompano, comunicare è difficile; ci estraniamo, quasi ipnotizzate da questo vociare di sciame. Siamo in un qualsiasi non-luogo, in un qualsiasi 128
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posto del Nord globale, ma resta ancora qualcosa. È il luogo a mostrarci che esiste qualche scorcio, qualche nota salva per gli incontri, gli sguardi e le parole. Rispetto al paesaggio sono chiaramente dei furti, ma indicano comunque un qualcosa. Nessun totalitarismo è assoluto, nemmeno quello turistico. Abbandoniamo, sgomente, il mercato di un lunedì autunnale e sentiamo l’attrito. Come volessimo tornare e contrastare con un tempo lento il levigato incalzare della turistificazione globale. Ci sediamo nei Barrakka Gardens, osserviamo la baia alla nostra destra, le gru del porto sullo sfondo del Forte Sant’Angelo. Passa lenta una chiatta, qualche barca a vela. Una nave da crociera, più grande di qualsiasi edificio attorno, si impone come punto di fuga alla nostra vista. Sedute in cerchio in una stanza colorata da scritte, adesivi e manifesti politici, siamo all’assemblea di Moviment Graffitti. Le compagne e i compagni maltesi dialogano con noi e ci regalano altre storie, mettendo a nudo le difficoltà di fare battaglie politiche radicali, auto-organizzandosi e destreggiandosi nella tensione fra conflitto e consenso: Su tutte le lotte che facciamo coinvolgiamo i locali, anzi sono i nostri vicini che ci chiamano, che ci segnalano le cause per cui mobilitarci: contro lo sfruttamento turistico, la speculazione edilizia, il consumo del suolo, la distruzione dell’ambiente, lo sfruttamento lavorativo… Insomma, siamo riconosciuti come un soggetto utile. Soltanto sulle migrazioni ci scontriamo con un’ostilità generale della popolazione e ci ritroviamo soli.
Ci raccontano del primo sciopero dei drivers – per lo più migranti – di Malta, taglieggiati dalle agenzie interinali 129
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internazionali da cui sono assunti. Lo sciopero, nonostante la partecipazione massiva, dura pochi giorni; il rischio è troppo elevato: perdere il proprio lavoro equivale a perdere la regolarità del proprio status giuridico e avere uno Schengen ban, ossia trovarsi nell’impossibilità di rientrare in Europa per cinque anni. Poi ci chiedono cosa abbiamo imparato stando in mare, ma il tempo è stato breve e lo spaesamento denso. Come per cucire una memoria e sbrogliarne qualche nodo, ripensiamo tutte insieme alla rotta, alle facce e agli incontri: le storie di sfruttamento degli operai delle tuna farms, le dichiarazioni ambigue delle mille autorità del mare, la disillusione dei pescatori di fronte alla fine di un mondo che hanno abitato, la pervasività delle economie di confine, la presa (materiale e simbolica) del turismo come orizzonte di reddito e desiderio, l’isolamento e la distanza delle pratiche di solidarietà rispetto ai sentimenti isolani. Stando in mare ci è mancata la terra sotto i piedi: è venuto meno il suolo in cui siamo radicate e solite camminare. Il continuo ondeggiare e tentare di muoversi scalze sulla ruvida vetroresina della Tanimar, tra altri piedi nudi e troppi spigoli, scardinava la grammatica dei corpi e della parola: le comode categorie e le abituali classificazioni vacillavano, così come le percezioni e le relazioni costruite a terra. A cambiare soprattutto sono i rapporti tra chi lavorando nello stesso luogo ha ruoli diversi; tra chi sta al piano ammezzato e chi al terzo, chi è dottorando, chi ricercatore e chi docente. A bordo si vive e si dorme assieme. Adesso che siamo a terra, per tutti noi è comune mangiare le patatine dal piatto dell’altro. I ruoli non si annullano, ma mutano forse le loro geometrie, contestando le gerarchie terrestri. 130
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In barca si pensa con i piedi, si abbandonano facili dicotomie nella ricerca di un equilibrio. Bisogna essere caute e te lo ricordano le macchie di lividi sparse sul corpo e qualche bernoccolo. La consapevolezza del proprio corpo, e di quello altrui, cambia e non solo per un’attenzione geometrica e di estensione: quel che accade è un decentramento della soggettività, inevitabilmente una ridefinizione del perimetro del noi. Ma dell’io non ci si sbarazza facilmente, e a bordo gli spazi chiusi si fanno stretti, a volte soffocanti, e diventa difficile trovare uno spazio di intimità o solitudine. Non potendo uscire o raggiungere luoghi lontani, bisogna servirsi di una certa dose di fantasia, la stessa che può essere utile nel risolvere gli incastri dei movimenti nella cuccetta condivisa. Si tratta di imparare a muoversi insieme, di aprirsi a un tipo di condivisione confusa e ascoltare quanto sia possibile negoziare, confliggere e dialogare sui propri confini. In barca – dipendenti e in balìa di condizioni meteorologiche e di strumenti di navigazione – diventa forte la consapevolezza del corpo che siamo (o abbiamo), di essere lì in quel preciso momento, presenti. Si è quasi totalmente esposte al vento che sferza, alla salsedine che si appiccica e alle onde che non si stancano mai di muoversi; così mal di mare e capelli intrecciati sono parte della nostra quotidianità. A riportarci a terra sono i tempi di scrittura, le scadenze di consegna e le richieste di produzione dell’accademia. Siamo immerse in un labirinto di ritmi frenetici e mura che rendono difficile guardarci attorno. Ma più che una netta contrapposizione tra terra e mare, ci portiamo dietro la 131
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sensazione che abitare l’una o l’altro comporti una diversa relazione con la spazialità e con la temporalità. Forse, in mezzo al mare ci si allontana da una relazione con il tempo improntata sulla sua scansione in minuti, ore e giorni. Non è un tempo che si misura, ma un tempo che si guarda e dal quale ci si guarda: si aspettano le condizioni meteorologiche adatte alla navigazione o si modifica la rotta in base a esse. In mare, il movimento non è quasi mai una linea retta, ma una continua mediazione con il vento, le correnti e le controcorrenti, la pioggia, la risacca. Tempo, velocità, spazio, diventano tutte incognite solo parzialmente controllabili. Arrivare a terra dal mare e ormeggiare in un porto significa abitare uno spazio liminale che scopriamo essere denso di relazioni. Mangiare in coperta, prenderci cura della barca, controllare gli ormeggi, ciabattare lungo il pontile verso le docce, o per prendere un caffè, ci fa chiacchierare con persone e scoprire abitudini che non avremmo incontrato arrivando da terra. Il porto, come spazio liminale fra terra e mare, interroga la nostra scrittura e la possibilità di raccontare il mare attraverso un vocabolario terrestre. Vestire per alcuni giorni i panni della gente di mare non ci fa marinai, ma sbilancia una postura quotidiana, portandoci a riflettere sulla necessità di cambiare le nostre lenti e decentrare la nostra prospettiva per tentare di comprendere e raccontare lo spazio marino, i suoi attori, le sue dinamiche. A Malta termina questo primo imbarco, così come il tempo del nostro equipaggio e questo primo tentativo di raccogliere storie dal mare nella forma di contro-narrazioni. Il convegno all’interno dell’Università di Malta segna un primo ritorno alla routine accademica, reso meno violento 132
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dall’accoglienza dei colleghi maltesi, dall’informalità delle discussioni e dal luogo che ci ospita, un vecchio dammuso in pietra immerso nella macchia mediterranea, ora sede del Mediterranean Institute. Sono ancora molti i piani di contraddizione da districare, così come sono da complicare ancora le riflessioni che avevamo ipotizzato alla partenza. Torniamo con la consapevolezza che solo stando in mare, praticando i tempi lunghi e indefiniti della navigazione, possiamo educarci a uno spazio franco dove costruire insieme ai diversi attori – lavoratori, operatori umanitari, pescatori, attivisti, persone in movimento, e tutte quelle genti che abitano il mare – una narrazione delle differenti mobilità, dei conflitti e degli incontri, che animano oggi il Mediterraneo centrale.
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un mese dopo
Cronaca di una giornata di libeccio a Lampedusa di Emanuela Fracassi
Come nel film Triangle of Sadness, il mare è un attore che fa emergere in modo inatteso e stringente le contraddizioni latenti. Nel caso del soggetto di Östlund, tra la ricchezza opulenta degli ospiti, completamente alienati dalla realtà, e lo stretto imbrigliamento dei lavoratori salariati, alienati dal lavoro, l’irruzione violenta del mare mette alla berlina e ribalta tutti i ruoli [prima incursione di Jacopo Anderlini e Enrico Fravega].
Con Lorenzo ci stavamo preparando da giorni. I bollettini erano tutti unanimi, a fine settimana vento forte, venerdì libeccio, sabato e domenica maestrale. Brutto tempo, malu tempu. Qui il mare formato dal libeccio, che soffia da sud-ovest, porta danni, entra dritto nel Porto Vecchio, con risacca nel Porto Nuovo. C’è movimento in generale, c’è chi porta la barca a terra, un lavorio continuo delle gru e dei rimorchi, altri si 135
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spostano al corpo morto (lontano dalle banchine per non andare a sbattere); nei pontili al Porto Nuovo si rinforzano gli ormeggi. Anche noi ci preoccupiamo per la Tanimar, la barca a vela con cui lavoriamo, che non può restare ai pontili estivi del Porto Vecchio, totalmente esposti al libeccio. Giriamo per il Porto Nuovo alla ricerca di un posto liberato da chi ha tirato in secco. E così mi rendo conto con una chiarezza nuova che tutte le banchine più sicure e riparate sono state occupate dalle forze dell’ordine: guardia costiera, guardia di finanza, polizia, carabinieri. Di fatto requisite in un’isola dove tutta l’economia ruota intorno al mare. Per quanto ci riguarda, ci consigliano di chiedere a Martorana, un amico che generosamente ci ospita nel posto lasciato libero dalla sua barca già tirata in secco, nella piccola Marina sotto la Madonnina. Ci ormeggiamo tra le barche dei lampedusani, per lo più natanti, barche a motore per andare a fare un bagno a Ferragosto e qualche pescata in autunno e primavera. Venerdì – come annunciato – arriva il libeccio. Aggiungiamo parabordi e palloni per non scontrarci con le altre barche. Siamo all’ormeggio, ma balliamo così tanto che sembra di essere in navigazione. La situazione però sembra sotto controllo. Fino a tarda sera quando succede di tutto. Dal molo Favaloro – occupato dalla guardia di finanza e dove normalmente è organizzato lo sbarco dei migranti – le decine di barche sequestrate rompono gli ormeggi e iniziano a viaggiare senza controllo, spinte dal mare e dal vento forte, verso l’interno dei porti. Masse alla deriva che si muovono veloci sul pelo dell’acqua. Decine e decine di lampedusani si precipitano al porto 136
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e iniziano dove possibile, per quanto possibile, a trascinare i relitti, a legarli alle bitte, a spingerli lontano dalle barche ormeggiate, a salvare il salvabile. Il giorno dopo lo spettacolo è impressionante. Relitti semi galleggianti a riva e contro i moli e le banchine, altri affondati in porto, montagne di rifiuti e di gasolio riversati in mare e spiaggiati a cala Palme e alla Salina. Molti i danni, anche se sarebbero stati molti di più se la gente non fosse intervenuta. Sono rimasta colpita e ho voluto scrivere. Perché da qualche parte voglio dire queste tre cose:
1. Da donna di mare, mi sento di affermare che ci sarebbero stati il modo e il tempo per mettere quelle barche in sicurezza e mi chiedo: perché non è stato fatto? 2. Non ho visto un solo membro della guardia costiera, dell’agenzia delle dogane, della guardia di finanza, della polizia, dei carabinieri sulle banchine e sui pontili venerdì notte ad aiutare, nessuno. Accidenti, ma dov’erano? 3. Sono stata in mezzo ai lampedusani che nel buio si davano da fare per fermare l’avanzare pericoloso dei relitti alla deriva. Ho preparato e servito il caffè a uomini che in squadre improvvisate ma totalmente coese agivano con rapidità, maestria ed efficacia. Ciò che mi ha più stupito, tutto avveniva in un clima disteso e ilare. Battute, sorrisi e risate. Inutile lamentarsi, indignarsi: da troppi anni questa è la presenza dello Stato sull’isola, non si aspettano ormai niente di diverso. Meno che mai esprimevano sorpresa, a dirla tutta già nel pomeriggio avevo sentito dire: «Speriamo che non mollino le barche dal molo Favaloro»; lo sapevano, non era la prima volta. 137
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In modo analogo a quanto succede nel film citato, quanto accade nel porto di Lampedusa fa emergere le contraddizioni di un’isola che vuole mettere al centro della propria rappresentazione un’esperienza turistica, di leisure, separata dal fluire degli eventi, priva di frizioni e «asperità», in cui il mare è null’altro che lo sfondo blu di una cartolina o di un selfie. Così, la violenza del libeccio «spettina» l’immagine che il dominio dello Stato vuole dare di sé stesso, portando a galla e immediatamente storicizzando il posizionamento dell’isola e il permanere di una dimensione coloniale. I barchini usati dai migranti per le traversate, nascosti allo sguardo e conservati malamente in una zona militare, tornano alla ribalta fisicamente e simbolicamente costringendo i lampedusani a fronteggiare le conseguenze di un’azione dello Stato meramente e funzionalmente emergenziale [seconda e ultima incursione di Jacopo Anderlini e Enrico Fravega].
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FilMare, fare immagini in movimento di Antonino Milotta
In barca lo sguardo è perennemente in movimento, il corpo è perennemente in movimento, un mix che dipende dal moto ondoso può farti sentire più o meno cullato o shakerato. Fare immagini in movimento in mare è estremamente naturale. Un movimento che diviene attitudine, che si manifesta anche quando tieni i piedi per terra, dato che il corpo non abituato alla vita galleggiante tende a muoversi diversamente. Come un anfibio, capace di vivere in due condizioni ambientali diverse, non solo ti muovi sulle superfici acquatiche e terrene, ma inizi a studiarne e osservarne una in relazione all’altra. Il mare visto dalla terra, la terra vista dal mare, ma specialmente il mare visto da un’imbarcazione galleggiante, può abituarti a quella fluidità che non solo lo sguardo oggi reclama. Bisogna che il corpo si adatti al ritmo dell’onda per cercare di stare in piedi e che lo sguardo si abitui a trovare 139
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un suo equilibrio, nonostante la mancanza di punti di riferimento prospettici. Un equilibrio che va in netto contrasto con le impostazioni della videocamera, che continua a segnalare errori di scorretto allineamento dell’immagine, dato che la livella integrata non trova l’equilibrio su cui è stata settata. L’elemento dell’orizzontalità viene spesso a mancare, specialmente durante la navigazione a vela, visto che la barca si assetta obliquamente. Aria e acqua bilanciano, trattengono e spingono, in un gioco di equilibri tra forze e consistenze differenti. L’assenza di rumori meccanici rende questo preciso momento di navigazione estremamente fluido anche per il nostro orecchio, che inizia a captare e distinguere ogni singolo suono. Onde marine e onde sonore si allineano nel flusso del viaggio dell’audiovisivo. Gestire la telecamera in barca mi ha più volte fatto sentire il pericolo del navigante sprovveduto. Il peso del corpo macchina tende a sbilanciare e far perdere l’equilibrio; tenere le mani impegnate nella gestione della videocamera rallenta l’istinto all’aggrapparsi a qualcosa di stabile; la tracolla che protegge lo strumento rappresenta un possibile ostacolo alla mobilità. Ricordo ancora le parole degli skipper che consigliavano di evitare di indossare capi con lacci o lembi che potessero agganciarsi e ostacolare il movimento in caso di emergenza. Paure trasversali tra il danneggiare il corpo macchina o il proprio corpo. Ma la questione più rilevante è che con una videocamera tra le mani lo sguardo smette di essere discreto, tutti sanno cosa stai puntando. Guardi la scena attraverso un obiettivo che punta una direzione, ritagli il tuo punto di vista stando continuamente attento a non perdere il quadro della situa140
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zione. Inevitabilmente sei rigido, ti muovi lentamente e solo grazie ad alcune accortezze puoi raggiungere un buon grado di immersione nel contesto, senza essere percepito dal resto dell’equipaggio come una mina vagante. In un seascape, come sottolinea Matteo Aria nell’introduzione al libro da lui curato Ermenautica, dove alcune parole come convivenza, convivialità e condivisione rappresentano la base dello stare insieme a bordo, l’elemento della fiducia nell’altro assume ancora più valore, in quanto le disattenzioni e le ingenuità dell’uno potrebbero avere gravi ripercussioni sull’intero gruppo. Ma quando il tuo ruolo è quello di fare ricerca attraverso le immagini in movimento, alcuni di questi rischi sono contemplati. Cosa decidi allora di mostrare quando i tempi sono quelli dettati dal mare e dal flusso degli eventi, quando non insegui le notizie ma le storie che il mare genera e determina? Quando il soggetto è il mare, nelle sue innumerevoli declinazioni, ti rendi conto di come agisce in funzione non solo del paesaggio, ma specialmente di chi lo vive e attraversa. Un mare di colori, di forze interne ed esterne, di profondità e deviazioni, di liquidi che agiscono sullo stato della materia. Onde su onde che plasmano e levigano, e a volte cancellano, non solo i fondali e le coste ma anche gli oggetti e i corpi di chi lo abita. Nelle porosità relazionali che accomunano gli uomini e le donne di mare, si scorgono letture e interpretazioni variegate, talvolta contrastanti, con l’unica costante che tutti rispondono alle sue leggi, perché le leggi del mare richiamano un’umanità antica e primordiale. Un video, che non parte da una sceneggiatura o da un soggetto da seguire e documentare, si costruisce mediante 141
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una forma di scrittura creativa, dove i concetti e i saperi emergono attraverso le frizioni che si innescano tra il familiare e l’estraneo, tra il vissuto e l’immaginato, tra lo sperimentato e il desiderio. Certo cinema documentario e certa arte contemporanea stanno da anni ragionando e facendo proprio questo: offrire un’alternativa interpretativa originale e senza giudizio. Tutto sembra essere stato mostrato di questo mare: la dimensione naturalistica marina e sottomarina, grazie a tecnologie subacquee stupefacenti; la pesca, documentata e scrutata da ogni punto di vista e con ogni tipo narrazione, documentaristica o di finzione; il turismo, capace di raccontarsi attraverso la spettacolarizzazione dello stare in mare, anche con dispositivi aerei; l’appeal dei grandi mezzi di trasporto marini come le navi container, scenari di innumerevoli film; i migranti, in grado di autorappresentarsi con dei video selfie fatti con i loro cellulari durante la traversata; le ong, che accolgono a bordo delle loro imbarcazioni di soccorso videomaker per documentare i drammi dei salvataggi; infine, i potenti mezzi delle forze armate, capaci di contare su dispositivi di monitoraggio satellitare, camere termiche e notturne. Cosa possiamo allora restituire in termini visivi, nella fugacità del nostro viaggio, quando determinato giornalismo e certe autoproduzioni audiovisive hanno già descritto tutto e prima di tutti gli altri, e paradossalmente mostrato tutto e da tutti i punti di vista? Forse una visione ragionata e calibrata per innescare e stimolare una riflessione unica, non parcellizzata e frazionata. Come una spugna, risucchi e trattieni fatti, dettagli e frammenti, fino a quando una forza centrifuga strizza fuori scenari e visioni sensibili, capaci di mettere insieme storie apparentemente sconnesse. 142
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I video girati, post-prodotti e finalizzati durante le due settimane di ricerca tra i principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo, come Pantelleria, Lampedusa, Linosa, Malta, diventano in senso figurato una cartina tornasole degli scenari, dei luoghi e delle persone con cui, seppur brevemente, siamo riusciti a costruire relazioni e interazioni. Immagini in movimento, dove suoni diegetici, musiche o parole fanno da corpo e sfondo ai testi scritti giorno dopo giorno, durante l’intensa ricerca di campo del nostro crocevia mediterraneo.
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finito di stampare nel mese di aprile 2023 presso Printì, Manocalzati (AV) per conto di elèuthera editrice, via Jean Jaurès 9 Milano