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Italian Pages 277 [280] Year 2019
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Fragmenta Comica (FrC) Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie Projektleitung Bernhard Zimmermann Im Auftrag der Heidelberger Akademie der Wissenschaften herausgegeben von Glenn W. Most, Heinz-Günther Nesselrath, S. Douglas Olson, Antonios Rengakos, Alan H. Sommerstein und Bernhard Zimmermann
Band 2 · Krates
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Serena Perrone
Cratete Introduzione, Traduzione e Commento
Vandenhoeck & Ruprecht
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Dieser Band wurde im Rahmen der gemeinsamen Forschungsförderung von Bund und Ländern im Akademienprogramm mit Mitteln des Bundesministeriums für Bildung und Forschung und des Ministeriums für Wissenschaft, Forschung und Kultur des Landes Baden-Württemberg erarbeitet.
Die Bände der Reihe Fragmenta Comica sind aufgeführt unter: http://www.komfrag.uni-freiburg.de/baende_liste
Bibliografische Information der Deutschen Nationalbibliothek: Die Deutsche Nationalbibliothek verzeichnet diese Publikation in der Deutschen Nationalbibliografie; detaillierte bibliografische Daten sind im Internet über http://dnb.de abrufbar. © 2019, Vandenhoeck & Ruprecht GmbH & Co. KG, Theaterstraße 13, D-37073 Göttingen Alle Rechte vorbehalten. Das Werk und seine Teile sind urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung in anderen als den gesetzlich zugelassenen Fällen bedarf der vorherigen schriftlichen Einwilligung des Verlages. Umschlaggestaltung: disegno visuelle kommunikation, Wuppertal
Vandenhoeck & Ruprecht Verlage | www.vandenhoeck-ruprecht-verlage.com ISBN 978-3-946317-49-4
A Filomena e Titina
Sommario Premessa . . . . . . . . . . . . . . . . Introduzione . . . . . . . . . . . . . . Commento . . . . . . . . . . . . . . . Testimonia. . . . . . . . . . . . . . Commedie e frammenti . . . . . . Γείτονες (Geitones) (“Vicini”) . . . . . . . . . . . . . Ἑορταί (Heortai) (“Feste”) . . . . . . . . . . . . . Ἥρωες (Hērōes) (“Eroi”) . . . . . . . . . . . . . . Θηρία (Thēria) (“Bestie”) . . . . . . . . . . . . . Λάμια (Lamia) (“Lamia”) . . . . . . . . . . . . . Μέτοικοι (Metoikoi) (“Meteci”) . . . . . . . . . . . . Παιδιαί (Paidiai) (“Giochi”) . . . . . . . . . . . . Πεδῆται (Pedētai) (“Prigionieri”) . . . . . . . . . . Ῥήτορες (Rhētores) (“Oratori”) . . . . . . . . . . . . Σάμιοι (Samioi) (“Sami”) . . . . . . . . . . . . . Τόλμαι (Tolmai) (“Imprese temerarie”) . . . . . . Incertarum fabularum fragmenta . Dubia. . . . . . . . . . . . . . . . .
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Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 225 Indici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 249
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Premessa Dopo la proekdosis di Maria Grazia Bonanno, datata 1972, Cratete ha ricevuto solo sporadiche attenzioni, per lo più incentrate su singoli frammenti, in particolare sui più estesi frr. 16 e 17 delle Bestie. Non esistono altri lavori monografici dedicati a questo autore, che pure rientra di diritto in ogni panoramica sulla commedia antica, non fosse altro per i richiami al predecessore presenti in Aristofane (test. 6a e 6b, cfr. fr. 20), in particolare nella parabasi dei Cavalieri (test. 6a), e soprattutto per il ruolo di primo piano che gli riserva Aristotele nella Poetica (test. 5). Il lavoro della Bonanno ha costituito indubbiamente un punto di riferimento per tutti gli studi successivi, in particolare per il profilo storico-letterario lì tracciato – un profilo che escludeva nettamente dall’opera di Cratete la dimensione politica –, ma anche per l’accurata analisi delle questioni filologiche poste dai singoli frammenti. Nella puntuale trattazione dei frammenti trovavano invece spazio diseguale gli aspetti interpretativi, a volte lasciati impliciti. L’edizione di Rudolf Kassel e Colin Austin all’interno del quarto volume dei Poetae Comici Graeci, del 1983, non di rado ha apportato nuovi elementi utili per la comprensione dei frammenti, benché nella forma stringata propria degli apparati dei PCG. Il commento alle testimonianze e ai frammenti qui presentato ha come obiettivo un’analisi quanto più possibile completa della nostra base documentaria e dei suoi limiti, fondamento necessario per tentare di discernere ciò che può con maggior grado di verosimiglianza essere detto su questa importante figura della commedia del V secolo a. C. Di fatto di Cratete e della sua opera sappiamo davvero molto poco (possiamo leggere neanche una cinquantina di versi completi), e anche il poco che sappiamo è spesso assai dubbio. Diversi elementi tuttavia suggeriscono la necessità di rivedere, o quanto meno sfumare, l’immagine tradizionale di Cratete come prototipo della commedia disimpegnata e lontana dai riferimenti all’attualità. La struttura è quella ormai codificata del progetto KomFrag - Kommentierung der Fragmente der griechischen Komödie. La numerazione di testimonianze e frammenti segue quella dei PCG di Kassel e Austin, con l’eccezione della test. 6B e della test. i dei Geitones, che non avevano un numero proprio in PCG. Il testo di riferimento è quello di Kassel e Austin e possibili varianti sono discusse in Costituzione del testo. I frammenti comici sono sempre citati secondo la numerazione di Kassel-Austin se non altrimenti specificato. Le abbreviazioni degli autori antichi seguono tendenzialmente il GI, quelle di autori latini l’Oxford Latin Dictionary. Le sigle delle riviste sono quelle dell’Année Philologique. Un sentito ringraziamento va a Bernhard Zimmermann, per avermi accolta nel progetto, nonché a Francesco Paolo Bianchi, Christian Orth, Virginia Mastellari, Stylianos Chronopoulos, Andreas Bagordo e a tutti i compagni KomFrag con i quali ho avuto il piacere di collaborare e dai quali ho imparato molto, sia in occasione delle mie visite a Friburgo sia durante i workshop presso l’Accademia di Studi Italo-Tedesca di Merano (maggio 2016 e ottobre 2017). La stesura di questo lavoro è iniziata nel 2014 e mi ha accompagnato in un periodo di grandi
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cambiamenti. I debiti di gratitudine contratti in questi anni sono tanti e sarebbe impervio elencarli tutti, ma non posso non citare il mio maestro Franco Montanari e la mia amica e collega Lara Pagani. Grazie infine ai miei più grandi sostenitori: Gianluca, Ottavio e Ada. Il lavoro è dedicato al ricordo delle mie nonne e al loro esempio di umiltà e tenacia. Genova, 5 novembre 2018
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Introduzione 1. Nome e identità Κράτης è un nome ben attestato e piuttosto diffuso nell’Atene di epoca classica (LGPN 138, di cui 39 in Attica, PA 8739; PAA 583995). L’antroponimo è formato a partire dalla radice del sostantivo κράτος (“forza, potenza”), analogamente a Κρατῖνος (cfr. Chantraine 1968, 579), e ricorre anche come secondo elemento di antroponimi composti come Εὐκράτης, Φερεκράτης, Σωκράτης, Ἱπποκράτης. Il nome Κράτης individua diversi autori della letteratura greca (vd. test. 1, test. 10), tra i quali in particolare il filosofo cinico e il grammatico di Mallo, oltre a un presunto omonimo commediografo testimoniato in Suda come poeta anch’egli dell’archaia (test. 1). Su Crates II vd. Orth 2014, 363–371 e Verdejo Manchado 2015, 151–154. Wagner 1905, 60 ipotizzava si trattasse di un errore e che non fosse mai esistito un altro Cratete comico. Meineke I (1839), 58 richiama a supporto di questa idea il fatto che Diogene Laerzio (test. 10) cita nel suo elenco di omonimi un solo Cratete comico. Scettica sulla reale esistenza di un secondo Cratete anche Bonanno 1972, 30–31, che ipotizza si tratti di «uno di quegli sdoppiamenti non insoliti nella letteratura greca… in genere dovuti al tentativo di appianare qualche incongruenza cronologica o di altro genere» (p. 31). Tra i titoli attribuiti a Crates II Ornithes sembra pienamente in linea con un inquadramento nell’archaia, mentre Thēsauros e Philargyros suggerirebbero temi più frequenti nella commedia successiva (vd. Orth 2014, 363). Kassel e Austin tentano di conciliare questi dati collocando Crates II tra V e IV secolo e attribuiscono a lui il possibile titolo ]πνιάστρια[ testimoniato da IG II2 2363.30–31 (Crates II test. *2 = Crat. test. VIII Bonanno).
2. Cronologia e carriera Della biografia di Cratete comico non sappiamo quasi nulla. Suda (test. 1) riferisce che era Ateniese e che era fratello di un altrimenti ignoto poeta Epilico. Le poche altre notizie riguardano la sua carriera in ambito teatrale1. Secondo l’anonimo trattato De comoedia (test. 2a) iniziò la sua attività come attore (#307 O’Connor 1908, #1490 Stephanis 1988). La notizia è riportata anche in uno scolio ai Cavalieri di Aristofane (test. 3), che specifica che fu attore in commedie di Cratino. Se consideriamo affidabile questa notizia, il suo esordio come commediografo sarà successivo a quello di Cratino, che si può forse porre già nel 460 circa (vd. Bianchi 2017, 13). Di Cratino fu sostanzialmente contemporaneo secondo la test. 2a (i termini crono1
Sulla cronologia di Cratete cfr. Geißler 1925, 18 e nota 2; Mensching 1964, 29–30; Bonanno 1972, 27–30; Zimmermann 2011, 730; Bianchi 2017, 14.
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Crates
logici di Cratino sono all’incirca 490–420: vd. Zimmermann 2011, 719; Bianchi 2017, 13), ma l’anteriorità professionale di Cratino sembra confermata anche dall’ordine di successione nelle test. 2a e 6a e soprattutto dalle Liste dei vincitori (test. 9), da cui ricaviamo che Cratete conseguì la prima delle sue tre vittorie alle Dionisie almeno due anni dopo il rivale (dunque 454/453 o 451/450), un dato compatibile con la testimonianza di Eusebio, che pone il floruit di Cratete nel 451/450 (test. 7). Demetrio Lacone (test. 8) lo considera contemporaneo di Eschilo (525–456), una notizia considerata «certamente falsa» da Bonanno 1972, 27, ma forse non totalmente infondata: è plausibile che per un pur breve periodo si siano sovrapposti. La fine della carriera di Cratete è da porsi prima del 424, anno di rappresentazione dei Cavalieri, perché, come ha notato Geißler 1925, 18 n. 2, Aristofane lo descrive come un comico della vecchia generazione e usa per lui verbi al passato (test. 6a). Cratete a quell’epoca doveva essere quindi ormai lontano dalle scene se non addirittura morto (Bonanno 1972, 28). Non abbiamo per nessuna delle sue commedie notizie precise sulla data di rappresentazione. Da Ateneo ricaviamo però che il dramma Thēria è successivo ai Ploutoi di Cratino e anteriore agli Amphiktyones di Teleclide (vd. infra frr. 16–17). In base a questi termini relativi, anch’essi di datazione incerta, possiamo porre la commedia tra 435 e il 426, ma più probabilmente dopo i 429 (vd. infra ad Thēria Datazione)2. Altre ipotesi di datazione di singole commedie in base a elementi interni sono inevitabilmente dubbie. Le proposte avanzate per alcuni drammi da Edmonds 1957 erano rigettate da Bonanno 1972, 29 n. 1 come “improbabili”. Tra esse tuttavia almeno due mi paiono degne di considerazione: 1) la possibile connessione (già evocata ma poi esclusa da Geißler 1925, 18 n. 2) tra la commedia Samioi e la ribellione della città alleata di Atene nel 440/439; 2) la datazione delle Tolmai dopo il 454, inizio della spedizione ateniese in Egitto, dato il riferimento a Megabizo nel fr. 37. Riassumendo i dati cronologici essenziali per la carriera di Cratete sono: 1. debutto verosimilmente successivo al 460 (test. 3); 2. prima vittoria tra 454 (test. 9) e 448 (test. 7b), probabilmente nel 451/450 (test. 9 e test. 7a); 3. rappresentazione dei Thēria probabilmente a inizio anni Venti; 4. carriera conclusa nel 424 (test. 6a). L’attività di Cratete sembra dunque essersi sviluppata tra gli anni 50 e l’inizio degli anni 20 del V secolo a. C. Mensching 1964, 29–30 ipotizzava un debutto negli anni 455–453 e quindi 20–25 anni di carriera. Bonanno 1972, 30 afferma che la carriera di Cratete si svolse per la maggior parte nel ventennio precedente alla guerra del Peloponneso. Anche Storey 2011, indica come periodo di attività 450–430. Altri invece ritengono che la sua carriera sia stata più breve, in base al basso numero di titoli pervenuti e al fatto che il nome di Cratete non è presente nella lista dei 2
«Must date from the early 420s» Rusten et al. 2011, 21.
Introduzione
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vincitore alle Lenee. Secondo Zimmerman 2011, 730, forse la sua attività non andò molto oltre il 440. Così anche Biles 2011, 120: «he composed a relatively small number of plays, most likely his accomplishments were only a memory in 425. Moreover, Crates’ certain absence from the Lenaian Victors List suggests that his career did not overlap with the organization of dramatic competitions at that festival sometime in the 440s long enough for him to leave a mark there». La data di introduzione delle Lenee è incerta3, ma verosimilmente per una parte consistente della carriera di Cratete l’agone lenaico non era ancora formalizzato. Del resto un elevato numero di insuccessi, soprattutto nella seconda parte della sua carriera, sarebbe compatibile con il quadro restituito dalla presa in giro di Aristofane nella parabasi dei Cavalieri (test. 6a). Vd. Ruffell 2002, 147 «Crates’ long and rather mediocre career was successful enough to be known, but sufficiently unsuccessful to be labelled as a relative failure». Il numero di commedie tramandato – sette per test. 1 e 2a, otto per test. 4 – e gli undici titoli citati rispecchiano verosimilmente solo una parte della produzione di Cratete (Mensching 1964 ipotizzava 15–20 drammi). Il resto naufragò precocemente nella tradizione.
3. Tradizione e ricezione Le prime tracce della ricezione di Cratete si trovano in Aristofane. Cratete è rievocato dopo Magnete e Cratino nella parabasi dei Cavalieri (test. 6), tra gli esponenti della vecchia guardia della commedia. Questa menzione apparentemente gli riconosce un ruolo di rilievo nella commedia della generazione precedente ad Aristofane. Aristofane cita ancora esplicitamente Cratete e il suo tarichos elephantinon nelle Thesmophoriazusai II (Aristoph. fr. 347 = Crat. test. 6b; cfr. fr. 32) ed in almeno due occorrenze echeggia il motivo crateteo della Lamia pedens (Ve. 1177 e Ec. 77, cfr. fr. 20). Dai versi di Aristofane sembra emergere un’immagine in parte contraddittoria della poesia del suo predecessore: facile e insieme raffinatissima. La commedia di Cratete è descritta come ormai fuorimoda, rispondente a un gusto semplice, forse anche rozzo se paragonato alle più sofisticate novità dei tempi di Aristofane, un pasto frugale rispetto alla sua haute cuisine, che gli intenditori 3
Le feste delle Lenee sono di per sé antiche ma la formalizzazione degli agoni drammatici sembra risalire all’incirca alla fine degli anni Quaranta. L’inizio è tradizionalmente posto nel 441/440 (Capps 1907, 186–187), ma la data esatta è discussa: secondo Rusten 2006 è da porre non prima del 453 ma più probabilmente tra 444 e 441 (Rusten 2006); secondo Luppe 2007 tra 443 e 439. Cfr. Rusten et al. 2011, 21–22; Olson-Millis 2012, 178; Bagordo 2014b ad Xenophilos test. 2. Olson 2007, 21 a proposito dell’introduzione degli agoni lenaici osserva «Cratinus (whose name appears fourth in the list of Lenaia victors (IG II2 2325. 121) took advantage of this opportunity, and Callias attempted to. But none of the other poets from the 450s and 440s whose names are given in col. I of the City Dionysia Victors’ List also took the prize at the Lenaia».
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sapranno apprezzare, per rimanere sulla metafora culinaria da lui impiegata (test. 6a e 6b). Ma quale sia il giudizio reale di Aristofane sul suo predecessore, se di condanna o di elogio, non è dato definirlo4. La comicità della battuta facile, del tarichos elefantinon o quella scatologica della Lamia da Aristofane derisa a più riprese (cfr. fr. 20) non è diversa da quella più volte criticata e più volte da lui stesso impiegata5, così come irriducibilmente ambiguo è il suo atteggiamento nei confronti di ciò che è nuovo rispetto alle tradizioni del passato 6. Le riprese di Aristofane se da una parte testimoniano comunque una certa fortuna di alcune trovate di Cratete ancora anni dopo la fine della sua carriera, dall’altra certamente influenzarono la fortuna del nome di Cratete in epoche successive, soprattutto per la menzione nella parabasi dei Cavalieri. Un ruolo di assoluto rilievo è riconosciuto a Cratete da Aristotele, che nella Poetica (test. 5) ne fa il capostipite ad Atene della commedia con dialoghi e trame organicamente strutturati, sulla scia del modello costituito dalla commedia siciliana. Nella visione teleologica di Aristotele quindi a Cratete spetterebbe il primato ad Atene nello sviluppo della commedia come forma poetica rispondente ai principi aristotelici di causalità e universalità. È un dato di fatto però che rispetto all’importanza attribuita a Cratete nella storia della commedia, il numero di frammenti a noi giunti è decisamente basso: una sessantina di frammenti, inclusi quelli dubbi, per un totale di neanche cinquanta versi completi. Cfr. Zimmermann 2011, 731 «Die geringe Anzahl an Fragmenten des Krates steht in einem krassen Mißverhältnis zu der Bedeutung, die ihm in der Geschichte der Komödie sowohl Aristophanes in seiner satirischen Behandlung seiner Vorgänger als auch Aristoteles zuschreiben». Le ragioni di questo naufragio possono essere molteplici. Il successo delle sue commedie fu, a quanto sembra, limitato (solo tre vittorie alle Dionisie e apparentemente nessuna vittoria alle Lenee lungo una carriera che durò più di vent’anni), soprattutto se messo a confronto con un altro comico della sua stessa generazione, Cratino. Inoltre le modalità stesse di trasmissione dei testi prima degli anni Trenta del V secolo, con una diffusione scritta ancora molto limitata, possono aver determinato la perdita precoce di una parte significativa della sua produzione7. Secondo Mensching 1964, 29, la maggior 4
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Secondo Bonanno 1972 il giudizio di Aristofane su Cratete fu assolutamente negativo, una condanna senza possibilità di appello della poesia di evasione di cui Cratete sarebbe il massimo esponente. Altri al contrario leggono il giudizio espresso da Aristofane su Cratete in chiave positiva: ad es. Rusten et al. 2011, 21 «Aristophanes admired his poetry, twice comparing it to a simple but elegant meal», pur evidenziando il carattere altamente retorico dei giudizi formulati da Aristofane sui suoi predecessori (p. 19, cfr. Biles 2002 e 2010 e Ruffell 2002). Vd. infra ad test. 6a e test. 6b. Vd. Silk 2000, 75. Cfr. Nub. 537–544, Pax 739–748, Ra. 1ss. Cfr. Wright 2012, 75 «no apparent statement of programmatic authorial intent, however explicit or straightforward it may seem, can be trusted». Già Wilamowitz 1927, 9–10 affermava che solo nella seconda metà del V secolo, e in particolare dal 435 in avanti, la progressiva affermazione della cultura scritta agevolò la
Introduzione
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parte della sua produzione verosimilmente non arrivò alla fine del V sec. perché le commedie non furono pubblicate (il mercato librario non era ancora così sviluppato nel periodo della sua akmē) o per scarso interesse (in confronto al più popolare Cratino). Tuttavia l’interesse per Cratete era evidentemente vivo nell’ambiente del Peripato (test. 5) e in età ellenistica doveva essere ancora possibile un accesso diretto almeno ad alcuni testi di Cratete. Se consideriamo i materiali confluiti in compilazioni più tarde (test. 2a, 2b, 4) come rimontanti ai pinakes alessandrini, è possibile che nella biblioteca di Alessandria fossero ancora conservate sette o otto commedie di Cratete. Nell’ambito della filologia alessandrina abbiamo testimonianza di un’attenzione di Eratostene per Cratete (test. 12). Probabilmente anche in virtù del rilievo nella storia del genere che emergeva da Aristofane (test. 6a) e Aristotele (test. 5), Cratete fu considerato commediografo axiologotatos (test. 2a) e rientra in alcuni dei canoni antichi (test. 2a, 2b, 4)8. Nonostante questo, forse già in età romana i testi di Cratete saranno stati difficilmente accessibili, forse solo in excerpta, attraverso opere esegetiche, lessicografiche, paremiografiche o altre raccolte antologiche di vario contenuto. Abbiamo scarse prove di una conoscenza di Cratete in ambito latino. Essa sarà stata verosimilmente limitata, connessa con la diffusione di trattazioni di argomento poetologico o storico letterario in lingua greca (test. 8) e forse con tradizioni antologiche tematiche (fr. *60). Per i pochi possibili echi che si potrebbero rintracciare nella letteratura latina resta assai dubbio un rapporto diretto (vd. infra fr. 27 forse riecheggiato in Nevio, cfr. Perrone 2018; fr. 49 simile a un verso del Rudens di Plauto).
3.1 Le fonti dei frammenti Le fonti dei frammenti di Cratete mostrano proporzioni non diverse da quelle evidenziate da Nesselrath 2010, 424–430 per Cratino e Eupoli. Oltre ad Ateneo, si tratta di opere onomastiche/lessicografiche e paremiografiche, tipi di raccolte spesso in rapporti di osmosi9, e in minor misura di fonti grammaticali e scoliografiche. L’ordine per numero di frammenti trasmessi è il seguente: – Polluce 16 (frr. 3, 8, 9, 13, 14, 15, 19.3–4, 22, 27, 35, 36, 40, 41, 46, 55, 56) – Fozio 16 (frr. 4, 6, 7, 11, 12, 18, 23, 24, 28, 38, 45, 51, 52, 53, 54, *59)
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conservazione delle commedie, mentre le opere dei decenni precedenti fin dall’antichità risultarono scarsamente documentate e oggetto di dubbi. Cfr. le osservazioni di Bianchi 2017, 42. Sommerstein 2002 collega alla mancanza di una diffusione scritta l’assenza di doppi titoli per le commedie degli anni 440/430. Su canonicità o non canonicità e le conseguenze su perdita e conservazioni vd. Csapo 2000. Cfr. anche Henderson 2013, sp. 250–251 sui modelli predominanti che determinano i canoni. Cfr. F. Montanari in Tosi 1994, 199–200.
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Ateneo 13 (frr. 1, 2, 16, 17, 19.1–2, 21, 29, 30, 32, 37, 42, 43, 50) Suda 9 (frr. 6, 11, 12, 18, 28, 38, 52, 54,*57) Synagōgē 5 (frr. 11, 28, 31, 48, 52) Esichio 2 (frr. 10, *58) Etymologicum Genuinum 2 (frr. 6, 26)
Restituiscono singoli frammenti le seguenti fonti: – Lex. Bekk.III (fr. 5) – Etym. magn. (fr. 47) – Antiatticista (fr. 39) – Frinico (fr. 49) – Arpocrazione (fr. 18) – Zenobio (fr. 33) e Apostolio (fr. 6) – Eustazio (fr. 43) – Scoli ad Aristofane (fr. 20) – Scoli a Platone (fr. 25) – Scoli a Ippocrate (fr. 34) – Scoli ad Arato (fr. 44) Le fonti prevalenti sono quindi Ateneo, la tradizione onomastica rappresentata da Polluce e quella lessicografica rappresentata da Fozio, Suda e Synagōgē. Il maggior numero di frammenti è trasmesso da Polluce e Fozio, ma per numero di versi conservati è Ateneo la nostra principale fonte. È difficile stabilire il grado di conoscenza che autori del II secolo d. C. potessero avere dei testi di Cratete, se e come fossero per loro direttamente accessibili, tenuto conto anche del fatto che sia Polluce sia Ateneo avevano origini egiziane. Si ritiene in genere che Ateneo non avesse una conoscenza diretta della commedia antica (vd. ad es. Nesselrath 1990, Sidwell 2000, 145). L’assenza di papiri assegnati a Cratete costituirebbe secondo alcuni una prova in questo senso10. Si tratta però di un argumentum e silentio, basato su una logica fallace e circolare. In realtà abbiamo più papiri assegnati ad Aristofane e agli altri comici che conosciamo meglio per tradizione indiretta proprio perché li conosciamo meglio a prescindere dai papiri; minore è la nostra conoscenza di un autore minore sarà la nostra capacità di riconoscere una sua opera nei numerosi frammenti adespoti11. A parte Ateneo, i contesti di trasmissione indiretta sono principalmente legati a due fattori: un interesse lessicografico-grammaticale di marca atticista e un interesse per gli aspetti paremiografici. Difficoltà nella corretta assegnazione dei frammenti sono determinate anche dal nome del commediografo, non solo per i casi di omonimia, in particolare con 10 11
Vd. ad es. Sidwell 2000, 145. Sui frammenti comici adespoti, che costituiscono circa il 40% della nostra documentazione papiracea vd. Perrone 2009, sp. 6–8 e Perrone 2011.
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il grammatico di Mallo (vd. fr. *58), e l’assonanza con molti altri nomi omoteleuti, tra i quali quello del collega Ferecrate (es. fr. 20), ma soprattutto per la frequente confusione con Cratino. Diversi frammenti dubbi derivano da divergenze nella tradizione tra Cratete/Cratino, verosimilmente derivanti da diverso scioglimento della forma abbreviata Κρατ o simili (ad es. fr. 54 = Cratin. fr. 436; fr. *57 = Cratin. fr. 439). Si consideri che molti frammenti di questo genere non sono neppure annoverati da Kassel e Austin tra i dubia di Cratete, ma solo sotto gli Incertae fabulae di Cratino (Cratin. frr. 335, 413, 414, 424, 446, 472, 498). Tuttavia tra questi ci sono frammenti quantomeno dubbi, per i quali non sussistono elementi dirimenti per l’attribuzione all’uno o all’altro commediografo: si potrebbe anzi pensare che il più noto Cratino costituisse uno scioglimento facilior. Cfr. Bonanno 1972, 165 e frr. *64-*74.
4. Temi e motivi Anche in base a una certa interpretazione del giudizio di Aristofane (test. 6a e 6b) e di Aristotele (test. 5), Cratete è stato tradizionalmente considerato il principale esponente di un filone di evasione e non politico della commedia antica, antesignano della commedia di epoca successiva. Bonanno ha escluso in modo perentorio qualsiasi tema politico, morale o comunque serio nei suoi frammenti: «argomenti così “impegnati” dovevano essere coerentemente estranei al nostro poeta, i cui più intimi vagheggiamenti sociali trovano posto solo nell’utopia, intesa secondo la più genuina, ma anche più superficiale sensibilità comica» (Bonanno 1972, 53). Questa visione, radicalizzata da Bonanno, è ripetuta in modo pervasivo12, con poche eccezioni13. A giudicare dai titoli e da alcuni frammenti, in realtà temi politici e sociali non sembrerebbero affatto estranei all’opera di Cratete. Temi 12
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Su Cratete come precursore della commedia successiva vd. già Hasper 1877, Prescott 1917. Ad es. Sidwell 2000 ritiene che «we should call Middle Comedy “Sicilian Comedy” and see Krates as its first Athenian exponent». Sul filone d’avasione, capeggiato da Cratete, nettamente contrapposto al filone politico, vd. Norwood 1931, che arrivava a immaginare addirittura una scuola di Cratete. Cratete ad esempio è definito «massimo esponente del filone “disimpegnato” dell’archaia che si ispirava ai versi miti e bonari di Ananio» da Imperio 2002, 215 sulla scorta di Degani 1993. Quaglia 2001a, 7–8 indica in Cratete «il prototipo del poeta disimpegnato». Rusten et al. 2011, 21–22 ritengono che le mancate vittorie di Cratete alle Lenee siano dovute alla scarsa politicità della sua commedia. Storey 2011, 200 parla di «a sort of Old Comedy different from the politically and topically charged farces of Aristophanes and Eupolis». Già Ruffell 2002 ammette che «His plots are not obviously distinctive» e «the titles Samioi and Rhētores might suggest more political content than is usually assumed» (p. 147 e e n. 37). Olson 2010, 60 va ben oltre affermando che «the earliest evidence for explicitly political comedy is perhaps to be found in the work of Crates», e anche Dobrov 2010b, 361–362 accenna al potenziale politico di titoli come Samioi e Rhētores.
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socio-politici sono suggeriti dai titoli che alludono a categorie sociali o etniche: Geitones, Metoikoi, Pedētai, Rhētores, Samioi. In particolare Samioi verosimilmente avrà almeno alluso al contesto del conflitto tra Atene e Samo, l’importante alleato della lega delio-attica, la cui ribellione costituì una grave minaccia alla supremazia ateniese all’interno della lega. Il titolo Rhētores, sospettato da alcuni, evoca dei leader politici che prendono la parola nel contesto assembleare. I Metoikoi chiamano direttamente in causa una categoria sociale al centro del dibattito politico al volgere della metà del V secolo. Anche nell’analisi dei frammenti non vanno pregiudizialmente escluse, come spesso è stato fatto, allusioni a eventi contingenti. Nel fr. 37 difficile negare che il personaggio citato, Megabizo, richiamasse alla memoria la spedizione ateniese in Egitto (fr. 37). Nel fr. 26 dietro l’hapax λιποπωγωνία è verosimile un riferimento alla perdita del porto di Trezene nel quadro delle condizioni della pace trentennale tra Atene e Sparta (446/445). Possibile anche un’allusione a episodi connessi con il conflitto samio (fr. 33). Forse si possono leggere nel quadro più ampio dei rapporti economici interni ed esterni ad Atene anche i riferimenti non infrequenti alle unità di misura e al denaro (frr. 21, 22, 31, 36, 53, forse anche fr. 32). Nei frammenti comici vediamo probabilmente il riflesso della crescente importanza assunta dal denaro e dall’attività commerciale – e quindi della familiarità che il pubblico dell’epoca doveva iniziare ad avere con il fenomeno monetale (frr. 22, 31, 36) –, forse anche di istanze connesse con la distribuzione della ricchezza e la giustizia sociale (fr. 48). Alcuni frammenti fanno intravvedere il tema del lusso (fr. 17) e possibili riferimenti a usi e costumi orientali (fr. 1 un banchetto lussurioso con accenti ionici, fr. 2 il profumo basileios, fr. 40 la frusta astragalōtē). Le nostre fonti hanno ovvi effetti distorsivi sulla nostra valutazione dei temi maggiormente presenti in Cratete. Il motivo utopico del mondo alla rovescia e dell’automatos bios è presente nei due più ampi frammenti (frr. 16–17), trasmessi contestualmente da Ateneo. Il cibo torna ripetutamente, sia in frammenti conservati da Ateneo (frr. 1, 16, 19.1–2, 21, 30), sia in frammenti traditi da altre fonti (frr. 8, 11, 19.3–4, 43), a volte anche come metafora o termine di paragone per argomenti sessuali (es. frr. 1, 43). Gli elementi del sesso (frr. 1, 23, 27, 34, 43, forse anche in fr. 20, *57) e del copros (fr. 15 sterco, fr. 20 il fortunato motivo della Lamia scorreggiante) sono ben documentati, pace Bonanno 1972, 50, secondo la quale la commedia di Cratete sarebbe immune dall’aischrologia. La satira filosofica è stata ipotizzata nella commedia Thēria, in riferimento al vegetarianesimo di marca pitagorica14. Presentano temi metaletterari e metateatrali fr. 21 (sulle parole “da tre cubiti”), forse fr. 22 (un possibile gioco sul tetrametro?), fr. 27.2 (ἐν ἀνδρικοῖς χοροῖσι è forse un riferimento metateatrale al coro), e soprattutto fr. 28 con una possibile 14
Sulle «‘intellectual’ plays» contro le idee di filosofi contemporanei vd. Carey 2000, sp. 420 e cfr. Olson 2007, 227–255.
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contrapposizione con la serietà della tragedia15. Gli aspetti scenici sono assai difficili da valutare data la brevità dei frammenti. Un possibile riferimento a oggetti di scena o parti del costume si può ipotizzare nel fr. 20. I titoli, tutti al plurale con la sola eccezione di Lamia, sembrano indicare una centralità del coro. Sembra invece limitato il tema mitologico: tra i titoli potrebbero indirizzare a argomenti di questo tipo solo Lamia ed Hērōes, apparentemente poco rispetto al peso che il tema mitologico pare avere nella commedia coeva e in Epicarmo (Bowie 2010; Guidorizzi 2006). Tra mostri e personaggi folklorici, oltre alla Lamia, viene evocata in modo indiretto la figura di Mormò (fr. 10). Riferimenti a culti e rituali si riscontrano nel titolo Heortai e nel fr. 4416.
5. Kōmōdoumenoi L’esclusione della invettiva personale è considerata caratteristica di Cratete, sulla scorta dell’indicazione che l’anonimo De Comoedia riferisce al suo emulo Ferecrate (test. 2a) e soprattutto dell’affermazione di Aristotele, secondo il quale Cratete fu il primo ad Atene ad allontanarsi dalla iambikē idea (ma vd. infra test. 5). In effetti nei frammenti superstiti gli attacchi onomastì sono sostanzialmente assenti. Storey 2011, 200 pone il confronto con Archippo, che in un numero simile di frammenti ha una dozzina di attacchi personali. Si è in genere ritenuto che la mancanza di attacchi ad personam non sia frutto di un accidente della tradizione, ma una caratteristica dell’opera di Cratete, a prescindere dai possibili effetti generali del decreto di Morichide, la cui effettiva operatività è peraltro dibattuta, negli anni 440/39–437/617. In realtà nei frammenti di Cratete vi è almeno un caso di riferimento a un personaggio storico: nel fr. 37 dalle Tolmai si nomina Megabizo, il generale persiano contro cui combatterono gli Ateniesi durante la spedizione in Egitto (460–454 a. C.). Alcuni hanno negato che il riferimento sia al personaggio reale (vd. infra fr. 37), ma considerata la rilevanza della disastrosa campagna egiziana per la politica ateniese è difficile che il pubblico non riconoscesse in quel nome un preciso referente.
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Vd. Conti Bizzarro 1999, 109–117. Per questo tema nella commedia frammentaria cfr. Bowie 2000. Sul decreto di Morichide cfr. infra ad Samioi. In proposito vd. Ammendola 2001, 41–113; Henderson 1998; Sommerstein 2004.
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6. Lingua e stile Giudizi antichi sullo stile di Cratete si trovano nell’Anonimo De Comoedia (test. 2a), che lo definisce particolarmente divertente, e in Aristofane (test. 6a e 6b), la cui testimonianza, assai più controversa e inaffidabile, in quanto proveniente da un contesto comico, caratterizza in modo ambiguo lo stile del predecessore come semplice e frugale ma raffinatissimo. Nei frammenti conservati possiamo osservare una certa varietà di registri: termini prosaici e termini tecnici accanto a stilemi paratragici e termini propri della poesia alta. Propri del linguaggio comico sono ad esempio l’uso di forme ipocoristiche (fr. 3 λυχνίδιον; fr. 10.1 ἀσκίῳ, fr. 16.6 θυλακίσκε; fr. 41 τριμίτινα; fr. 43.2 τιτθί’) e la presenza di coloriture dialettali, presenti in almeno due casi (ionico fr. 1.2 ὅκωσπερ; dorico fr. 46 ποτιβαλῶ τοι καἰ τὺ λῆις). Come prova del gusto per espressioni paradossali e giochi verbali è spesso citato il fr. 32, considerato in genere un esempio di non sense. Sono frequenti le immagini proverbiali, forse in alcuni casi codificate proprio a partire da battute icastiche di Cratete (vd. infra 6.2). L’inventiva verbale appare testimoniata dalla frequenza degli hapax legomena (vd. infra 6.1). Si riscontrano espressioni deittiche (τάδ’ fr. 10, δεῦρο fr. 11.1, ὅδ’ fr. 28). Appartengono al lessico alto, forse con movenze paratragiche, ad es. fr. 1.1 δαίς; fr. 23 ἀφροδισίοις ἀθύρμασιν; fr. 32.2–3 πευκίνοισι κύμασι, ποδάνεμοί, τανύπτεροι. In alcuni versi si può notare l’uso retorico di alcune espressioni ridondanti: ad es. fr. 16.1 δοῦλον οὐδὲ … οὐδὲ δούλην (con chiasmo, cfr. anche fr. 32.3), fr. 16.2 αὐτὸς αὑτῶι, fr. 28 ἕτερος … ἄλλος. Alcuni frammenti testimoniano l’uso di termini tecnici, in particolare di ambito metrologico, come τριπήχη (fr. 21), ἡμίεκτόν (fr. 22), ταλαντιαῖος (fr. 36), δεκάδραχμος (fr. 53), e di ambito medico, come κοχωνῶν (fr. 34), σικύα e ἀποσχάσω (fr. 46). Cratete è citato dai grammatici per usi sintattici o lessicali peculiari, ad es. εἰ e congiuntivo senza ἄν (fr. 5), ἐξ ὅτου forse con valore di moto da luogo (fr. 39).
6.1 Hapax Piuttosto frequenti gli hapax legomena, come già notava Bonanno 1972, 54 con n. 2, che li indica come prova del «linguaggio senza dubbio espressivo» del commediografo. Gli hapax legomena sono almeno nove – tra sostantivi, aggettivi e un avverbio –, cinque dei quali sono composti: – ἀδικοχρήματος fr. 48 – ἡμιμάσητοι fr. 55 – καρδοπογλύφος fr. 8 – Κηφισιακαῖσι fr. 30
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κυνητίνδα fr. 27 λιποπωγωνία fr. 26 Παιωνίου fr. 16.3 παλίνδικος fr. 56 τάκωνας fr. 19.4
Le fonti prevalenti sono, come immaginabile, compilazioni onomastiche e lessicografiche che citano Cratete proprio per l’hapax (con la sola eccezione di Παιωνίου nel fr. 16 tramandato da Ateneo). Altri termini rari e apparentemente attestati in Cratete per la prima volta sono ad es. ἀναγρύζειν (fr. 4), κάνης (fr. 14), τραπέμπαλιν (fr. 17.1), περιπόρφυρα (fr. 35), ἀναγκόσιτον (fr. 50), δεκάδραχμος (fr. 53), la forma μεντἄρ(ᾰ) (fr. 10).
6.2 Proverbi Significativamente numerose in Cratete le espressioni proverbiali, o che diventeranno proverbiali18: – ὗς διὰ ῥόδων fr. 6 – oὐκ ἄσκιον fr. 10 – ὁ κάνης τῆς κοίτης ὑπερέχει fr. 14 – ὁ μῦθος ἀπώλετο fr. 25 – ἐν Κέωι τίς ἡμέρα; fr. 32.5 – ἵππωι γηράσκοντι τὰ μείονα κύκλ’ ἐπίβαλλε fr. 33 – ὄνος ἐν μελίτταις fr. 38 – ἐξ Ἑστίας ἀρχόμενος fr. 44 cfr. anche fr. 26 per un possibile collegamento con ἐς Τροιζῆνα δὲ βαδίζειν. La frequente presenza di proverbi nei pochi versi di Cratete che conosciamo ha portato a considerare questo elemento una caratteristica dello stile di Cratete e un altro aspetto di ascendenza epicarmea (vd. ad es. Totaro 2008, 183). Bonanno 1972 parla di un «ricco repertorio paremiografico, che tuttavia non giunge alla pensosità e all’interesse propriamente morale di Epicarmo» (p. 50). Per quanto questa possa essere un’illusione prospettica determinata dalla tradizione del commediografo19, il dato è indubbiamente significativo. Espressioni proverbiali sono presenti in oltre il 13% dei frammenti di Cratete noti (8 su 60: frr. 6, 10, 14, 25, 32, 33, 38, 44), una percentuale alta se si pone il confronto con altri commediografi contemporanei di tradizione frammentaria: ad es. in Cratino, che secondo Lelli 2006a, 72 sarebbe
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Cfr. Bonanno 1972, 50 n. 1 «non si può forse escludere che in qualche caso sia stata magari la felice formulazione di Cratete a trasformarsi successivamente in proverbio». Per i legami tra tradizione paremiografica e tradizione comica vd. Tosi 1994.
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«tra i comici antichi, l’autore in cui è dato riscontrare (in percentuale) il maggior numero di proverbi ed espressioni proverbiali» (cfr. anche Lelli 2011, 145) si trovano espressioni proverbiali in circa il 7% dei frammenti20.
7. Metrica I frammenti sufficientemente estesi da consentire un’analisi metrica compiuta sono pochi. Laddove la metrica è ricostruibile, prevale il trimetro giambico (frr. 1, 2, 10, 11, 12, 13, 14, 17, 21, 31, 43, 44), ma è utilizzato anche il tetrametro trocaico catalettico (frr. 22, 32.2–5, 36, 46), e in casi più sporadici si riscontrano il tetrametro giambico catalettico (fr. 16, forse fr. 30) e il tetrametro anapestico catalettico (fr. 19, 28; ritmo anapestico anche in fr. 4). Tra i metri lirici si individuano sequenze di dimetri giambici (fr. 18), di dimetri trocaici (fr. 27) e di versi eolici (fr. 37). Per quanto riguarda il trimetro si possono osservare casi di incisione pentemimera (es. frr. 11, 12, 17.1–2, 31), mediana (fr. 14), eftemimera (fr. 13, 17.7, 44) o casi senza incisione (fr. 10). Frequenti le soluzioni, soprattutto lo spondeo in sedi dispari: spondeo in prima sede (frr. 11, 13, 17.1 e 5, 31) anapesto in prima sede (fr. 14) dattilo in prima sede (fr. 17.7) spondeo in seconda sede (fr. 11, 17.3–4, 43.2) tribraco in seconda sede (fr. 17.5, 31) esametro in terza sede (fr. 12) spondeo in terza sede (fr. 11, 17.1–4, 31, 43.2) tribraco in quarta sede (fr. 14) anapesto in quarta sede (fr. 31) spondeo in quinta sede (frr. 12, 14, 17.4, 31) dattilo in quinta sede (fr. 13, 17.5) Antilabai si riscontrano con relativa sicurezza in fr. 16.4 dai Thēria (tetrametro giambico catalettico) e fr. 32.5 dai Samioi (tetrametro trocaico catalettico). Cfr. anche fr. 22. Altri casi documentabili in commedie ateniesi del periodo in cui fu attivo Cratete non sono molti: ad es. in Cratino solo in fr. 75.4 dalle Thrattai, commedia databile tra 435 e 430 a. C., e poi in Aristofane a partire da fr. 212 dai Daitalēs del 427 a. C. Le antilabai sembrano invece caratteristiche del dialogo nelle commedie di Epicarmo (vd. Berk 1964, 26 e Gianvittorio 2013, 439). L’antilabē è ancora molto rara in Eschilo (Gentili-Lomiento 2003, 30 oltre a Prom. 980, richiamano i casi dubbi in Sept. 217 e 961; cfr. Köhler 1913, 43–48 e Bonaria 1991). I 20
Mi baso su Bianchi 2017, 188–191, che conta 32 proverbi più quattro casi dubbi. Lelli non fornisce dati numerici.
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cambi di interlocutore all’interno di versi dialogici sono indicativi della rapidità degli scambi e costituiscono inoltre un elemento rilevante nel quadro dell’ipotesi formulata da Willi 2015 in merito alla testimonianza aristotelica (test. 5), che vede proprio nello sviluppo dei dialoghi l’innovazione apportata da Cratete nella commedia attica sulla scorta della commedia siciliana21.
8. Cratete e gli altri commediografi I rapporti di Cratete con Cratino e con Ferecrate delineati dall’anonimo trattato De Comoedia (test. 2a, cfr. anche test. 3) forniscono un dato utile per la cronologia relativa degli autori e la storia della ricezione della commedia, ma non consentono di dedurre rapporti di discepolato effettivi22. Assai dibattuto il rapporto di Cratete con Epicarmo e la commedia siciliana. In base alla testimonianza di Aristotele (test. 5), alcuni hanno visto in Cratete una sorta di anello di congiunzione tra la commedia dorica e la commedia attica. La questione si inscrive nel quadro più generale della discussa portata dell’influenza della commedia dorica sulla commedia ateniese, con ipotesi diametralmente opposte che vanno dall’idea di una profonda dipendenza della commedia attica dalla commedia dorica (ad es. von Salis 1905, Körte 1921, 1224–1225), fino alla negazione di qualsiasi rapporto, vd. in particolare Zielinski 1885a, 243 e François 1978, i quali ritengono che l’opera di Epicarmo non fosse neppure conosciuta dai commediografi ateniesi del V secolo (contra vd. Cassio 1985). Un quadro in Wüst 1950. Più sfumata la posizione di Kerkhof 2001, sp. 173–177 che, pur sostenendo che in generale la documentazione in nostro possesso non offre paralleli sufficienti per confermare la presunta influenza della commedia dorica sulla commedia attica, non nega una possibile influsso sul particolare “filone” avviato da Cratete (e specificamente per i Geitones, vd. infra)23. Nei singoli frammenti non abbiamo elementi contenutistici decisivi in questa direzione. Bonanno 1972, 48–51 riteneva 21
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In questa prospettiva si consideri inoltre la voce ἀντιλαβαί del lessico di Esichio (α 5432 Latte-Cunningham): ἀντιλαβαί· λογικαὶ ῥήσεις ἐξ ἡμιστίχων λεγόμεναι κατ’ ἀμοιβὴν παρὰ 〈τοῖς〉 τραγικοῖς. †Ἱπποκράτης. In luogo del corrotto †Ἱπποκράτης già Meineke annal. Marpurg. 1850, 499 proponeva Κράτης, seguito da Janko (apud Crat.Mall. fr. *85 Broggiato), pensando però al grammatico. Un riferimento a Cratete comico è una possibilità. Priva di fondamento l’idea di una «school of Crates» proposta da Norwood 1931, 145–177. In alcune storie delle letteratura si legge che Ferecrate fu allievo di Cratete (es. Montanari 2017, I 415). «Man wird also anerkennen mussen , daß Aristoteles unser sicherster Zeuge dafur ist, daß Epicharm zumindest auf einen bestimmten Zweig der attischen Komödie [i. e. Cratete seguito da Ferecrate] eienen prägenden Einfluß hatte […] Es sind also Stücke wie vielleicht die Geitones, die ja auch sonst mit Epicharm in Verbindung gebracht werden, hinter dren geringen Resten sich der Einfluß Epicharms verbirgt» (p. 177).
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invece che «innegabili consonanze col più generale carattere della poesia epicarmea» fossero provate dalla presenza in Cratete di presunti personaggi tipizzati, come l’ubriaco (Geitones test. i), il dottore straniero (fr. 46) e l’episition (fr. 37), ma anche l’idea che la commedia di Epicarmo fosse una sorta di Typenkomödie (vd. ad es. Dohm 1964, 22–30) è ormai considerata infondata (vd. Kerkhof 2001, 171; cfr. Willi 2015, 123 n. 32). Si consideri inoltre la sostanzialmente mancanza in quanto conosciamo della produzione di Cratete del Mythentravestie, che ha invece un ruolo importante nella commedia epicarmea. Come è stato evidenziato da Willi 2015, la commedia dorica più probabilmente esercitò la sua influenza soprattutto a un livello macroscopico, nello sviluppo dei dialoghi tra attori. Cfr. supra Metrica a proposito delle antilabai.
Bibliografia principale Edizioni e traduzioni Meineke II (1839), 233–251; Meineke 1847 (ed. min.), I 78–86; Bothe 1855, 74–82; Kock I (1880), 130–144; Demiańczuk 1912, 29–30; Edmonds I (1957), 152–170; Bonanno 1972; Kassel-Austin PCG IV (1983), 83–110; Beta 2009, 128–131 (fr. 16) e 216–217 (frr. 27 e 43); Storey FOC III (2011); Rusten 2011, 137–141 (test. 1, 2a, 3, 5, 6a, 6b, frr. 16–19, 27, 32).
Studi e commenti Hasper 1877; Blaydes 1890, 14–15; Blaydes 1896, 16–18, 283–284, 344; van Herwerden 1903, 12–13, 226; Boyatzidès 1907; Srebrny 1926 (sul fr. 32); Norwood 1931, 8, 17–19, 145–150 (frr. 16- 17, 32, 46 con traduzione in inglese); Pianko 1951 (fr. 17); Goossens 1940 (fr. 28); Goossens 1952 (fr. 28); Baldry 1953 (frr. 16–19); Bonanno 1964 (fr. 44); Degani 1965 (frr. 13 e 15); Bonanno 1966 (fr. 23); Bonanno 1967a (frr. 8 e 14); Bonanno 1967b (fr. 32 e test. 6b); Bonanno 1969, 15–18 (fr. 1); Roux 1976; François 1978; Carrière 1979, 255–263 (frr. 16–19); Tammaro 1984– 1985 (fr. 16); Cassio 1985; Ceccarelli 1992, 24–26 (frr. 16–19); Conti Bizzarro 1999, 109–117 (frr. 21, 28 con traduzione in italiano); Farioli 1999, 30–35 (frr. 16–17, 19); Pellegrino 2000, 55–64 (frr. 16–17 con traduzione in italiano); Ceccarelli 2000, 453–454 (frr. 16–19); Ruffell 2000 (frr. 16–17); Wilkins 2000 (Thēria); Farioli 2001, 58–63 (frr. 16–17, 19); Kerkhof 2001, 173–177; Willi 2010, 498–499; Konstan 2012 (frr. 16–17, 19); Sofia 2012 (fr. 37); Lens Tuero 2014 (frr. 16–19); Olson 2007, 100–101, 427 B32 (fr. 17 con traduzione in inglese); Zimmermann 2011, 730–731.
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Commento Testimonia test. 1 K.-A. (1 B.) Suda κ 2339 Adler Κράτης, Ἀθηναῖος, κωμικός· οὗ ἦν ἀδελφὸς Ἐπίλυκος, ποιητὴς ἐπῶν. δράματα δὲ αὐτοῦ εἰσιν ζʹ· Γείτονες, Ἥρωες, Θηρία, Λάμια, Πεδῆται (Πεδῆται codd.; Παιδιαί Körte 1922), Σάμιοι (Σάμιοι 〈Τόλμαι〉 Jungermann ad Poll. 9.53). ἔγραψε δὲ καὶ καταλογάδην τινά. Cratete, ateniese, comico; del quale era fratello Epilico, poeta epico. I suoi drammi sono 7: Geitones, Hērōes, Thēria, Lamia, Pedētai, Samioi. Scrisse anche alcune opere in prosa.
Bibliografia Meineke I (1839), 58–59; Wagner 1905, 59–60; Körte 1922, 1624; Bonanno 1972, 19–20 test. I; Kassel-Austin 1983, PCG IV, 83; Storey 2011, FOC, I 202–203 test. i; Rusten et al. 2011, 138. Contesto Le voci bio-bibliografiche della Suda presentano caratteristiche contenutistiche e formali ricorrenti e si ritiene che traggano informazioni prevalentemente da una perduta epitome (IX sec. d. C.) dello Onomatologos di Esichio di Mileto (VI sec. d. C.), e in alcuni casi, soprattutto per comici “minori”, anche da materiali tratti da Ateneo (in particolare utilizzato per alcune liste di titoli)24. La voce relativa a Cratete potrebbe verosimilmente derivare dall’epitome di Esichio (vd. infra). Si tratta del primo dei quattro Κράτης lemmatizzati nel lessico: il nostro Cratete è seguito da un altrimenti ignoto e assai dubbio Crates II, anch’egli comico dell’archaia (κ 2340 Κράτης, Ἀθηναῖος, κωμικὸς καὶ αὐτὸς τῆς ἀρχαίας κωμῳδίας. φέρεται αὐτοῦ δράματα τρία, Θησαυρός, Ὄρνιθες, Φιλάργυρος)25, dal filosofo cinico Cratete Tebano (IV/III a. C.) e dal grammatico pergameno Cratete di Mallo (III/II a. C.). Cfr. infra test. 10. La serie è disposta apparentemente in ordine cronologico, ma risponde anche all’ordinamento in categorie (prima poeti, poi filosofi, storici, grammatici o medici) che ricorre usualmente in caso di omonimie e che parrebbe rispecchiare l’organizzazione per categorie letterarie ipotizzata per il repertorio onomastico di Esichio di Mileto (cfr. Wentzel 1895, 57–63, Kaldellis 2005, 388).
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Sulla figura di Esichio di Mileto vd. Kaldellis 2005, Treadgold 2007, 270–278. Sulle fonti delle voci bio-bibliografiche della Suda con specifico riferimento ai commediografi vd. Wagner 1905, 30–55; Lorenzoni 2012; cfr. Bianchi 2017, 277–278. Su Crates II vd. supra Introduzione.
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Crates
Interpretazione Tra le informazioni ricorrenti nelle voci biografiche che si ritengono derivate dall’epitome dell’opera di Esichio di Mileto (vd. Wagner 1905, 33; cfr. Arnott 1991, 328–330) la voce relativa a Cratete presenta: l’etnico (Ἀθηναῖος); la qualifica letteraria (κωμικός); l’indicazione di parentele (οὗ ἦν ἀδελφὸς…); il numero delle opere (δράματα δὲ αὐτοῦ εἰσιν ζʹ); l’elenco dei titoli disposti in ordine alfabetico. Non sono invece riportate indicazioni cronologiche, – se non indirettamente nella successiva voce relativa a Crates II, in cui si legge καὶ αὐτὸς τῆς ἀρχαίας κωμῳδίας –, né numero di vittorie, né notizie aneddotiche, elementi talvolta presenti in voci analoghe. Mancano nell’elenco di titoli altre opere testimoniate da Ateneo, che in questa voce non sembra essere stato utilizzato come fonte. La lista non include alcuni titoli attribuibili a Cratete con sicurezza, come Paidiai e Tolmai (vd. infra), e include invece un titolo non altrimenti attestato per questo autore (Pedētai). Il numero di commedie attribuite a Cratete coincide con quello attestato nei Proleg. de com. III Koster (vd. test. 2a). La quantità di commedie indicate appare comunque esigua se confrontata con quella di un commediografo coevo come Cratino. Il dato potrebbe essere letto come indizio di una scarsa produttività, forse motivabile in rapporto alla durata della carriera di Cratete, ma più probabilmente è l’esito di una precoce perdita della sua produzione (vd. supra Introduzione). Cfr. Magnete, per il quale Suda indica 9 commedie, numero che coincide con i drammi “di cui si ha notizia” ma non più conservati in Proleg. de com. III p. 8.18–19 Koster (νίκας ἔσχεν ιαʹ. τῶν δὲ δραμάτων αὐτοῦ οὐδὲν σῴζεται· τὰ δὲ ἐπιφερόμενά ἐστιν ἐννέα); per Chionide Suda non indica il numero di drammi e cita tre titoli. Altre informazioni presenti nella voce, come l’indicazione di una produzione epica del fratello e di opere in prosa per Cratete, non trovano riscontro in altre fonti e potrebbero essere frutto di errori o confusioni. Κράτης nome ben attestato nell’Atene di epoca classica (vd. supra Introduzione). ἀδελφὸς nelle voci Suda dei commediografi, l’informazione di parentela più frequente è quella del padre, ma in alcuni casi possono essere indicati anche i nomi della madre, oppure di fratelli o di figli. Oltre che nella voce relativa a Cratete il fratello è nominato anche nel caso di Ermippo e Mirtilo, tra di loro fratelli. Ἀθηναῖος l’indicazione etnica ateniese ricorre nella maggior parte delle voci di Suda relative ai poeti della commedia antica (32 volte su 40, cfr. Bianchi 2017, 277). Poco plausibile tuttavia l’idea di Wagner 1905, 41, secondo la quale Ἀθηναῖος potrebbe essere inteso non come etnico vero e proprio ma come semplice indicazione della città in cui i poeti operarono. Ἐπίλυκος non abbiamo altre notizie di un poeta epico di questo nome. È invece noto un commediografo Epilico, probabilmente di V/IV sec., di cui si conservano 9 frammenti, 6 dei quali dalla commedia Kōraliskos (vd. Orth 2014, 247–248). Non abbiamo elementi per identificare i due poeti, epico e comico, né per pensare che il comico Epilico facesse parte della stessa famiglia dell’Epilico epico (che ne fosse ad es. nipote). Si può osservare che nelle voci bio-bibliografiche relative a
Testimonia (test. 2a)
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commediografi della Suda l’indicazione di parenti diversi dai genitori (fratelli o figli), è di norma riservata a casi in cui siano anch’essi implicati nella commedia (cfr. le voci Ermippo e Mirtilo, tra loro fratelli; Antifane, di cui si nomina il figlio Stefano, anch’egli comico; Aristofane, di cui si elencano tre figli commediografi)26. δράματα δὲ αὐτοῦ εἰσιν per questo tipo di espressione ricorrente nelle voci della Suda vd. Wagner 1905, 50–51. ζʹ il numerale è incongruente con il numero dei titoli elencati, che sono solo sei. Non si può escludere un errore di copiatura del numerale, ζ per ξ (così già Westermann 1845; cfr. Suda on line «the Greek signs for the numerals six and seven were easily confused by a copyist»), tuttavia, data anche la coincidenza con l’indicazione numerica del De Comoedia (vd. test. 2), è più probabile che sia caduto un titolo. Cratete scrisse con ogni verosimiglianza più di sette commedie: le fonti nominano 11 titoli, alcuni dei quali sono stati revocati in dubbio solo perché assenti dalla Schriftenliste della Suda (vd. Heortai, Metoikoi, Paidiai, Rhētores, Tolmai). Tra i titoli certi non inclusi nell’elenco Paidiai e Tolmai. Già Jungermann 1706 ipotizzava che quest’ultimo titolo fosse caduto nell’elenco alfabetico dopo Samioi. Incongruenze tra il numero di commedie e i titoli elencati si registrano anche in altri casi (ad es. Cratino, Platone) e possono essere dovute a diverse ragioni, ad esempio doppi titoli, dubbi di attribuzione o semplici errori. Πεδῆται di una commedia Pedētai di Cratete non abbiamo altre testimonianze oltre alla Suda, ma è nota una commedia con questo titolo di Callia (vd. infra). Körte 1922 ha ipotizzato che Pedētai sia un errore per Paidiai. ἔγραψε δὲ καὶ καταλογάδην τινά già secondo Meineke 1839, I 58 questa indicazione va riferita a un altro Cratete, che il compilatore della Suda o le sue fonti avrebbero confuso con il comico. Confusione tra materiali relativi ad omonimi non è infrequente. Vd. ad es. il caso di Alessi analizzato da Arnott 1991. Simili tipi di errori compilativi tra omonimi possono essere avvenuti con maggior probabilità a partire dal riarrangiamento in ordine alfabetico generale che si attribuisce all’epitomatore dell’opera di Esichio di Mileto, la cui struttura originaria si ritiene invece fosse per generi (cfr. Bianchi 2017, 278–279).
test. 2a (10, 12 e 13 B.) Proleg. de com. III p. 7.9–13 Koster οἱ μὲν οὖν τῆς ἀρχαίας κωμῳδίας ποιηταὶ οὐχ ὑποθέσεως ἀληθοῦς, ἀλλὰ παιδιᾶς εὐτραπέλου γενόμενοι ζηλωταὶ τοὺς ἀγῶνας ἐποίουν· καὶ φέρεται αὐτῶν πάντα τὰ δράματα τξεʹ (τζεʹ N2) σὺν τοῖς ψευδεπιγράφοις. τούτων δέ εἰσιν ἀξιολογώτατοι Ἐπίχαρμος, Μάγνης, Κρατῖνος, Κράτης, Φερεκράτης, Φρύνιχος, Εὔπολις, Ἀριστοφάνης… 26
Arnott 1991, 328.
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Crates I poeti della commedia antica dunque concorrevano in agoni non perseguendo una trama veritiera ma un divertimento spiritoso. E si conservano di loro 365 commedie in tutto comprese le spurie. Tra questi sono degni del massimo conto Epicarmo (test. 6a), Magnete (test. 3), Cratino (test. 2a), Cratete, Ferecrate (test. 2a), Frinico (test. 2), Eupoli (test. 2a), Aristofane (test. 4). Proleg. de com. III p. 8.26-31 Koster Κράτης Ἀθηναῖος. τοῦτον ὑποκριτήν φασι γεγονέναι τὸ πρῶτον, ὃς ἐπιβέβληκε Κρατίνῳ, πάνυ γελοῖος καὶ ἱλαρὸς γενόμενος, καὶ πρῶτος μεθύοντας ἐν κωμῳδίᾳ προήγαγεν (παρήγαγεν Meineke coll. Geitones test. i). τούτου δράματά ἐστιν ἑπτά. Φερεκράτης Ἀθηναῖος … γενόμενος {ὁ} δὲ (γ. δὲ Dobree 1833, II 129, Kassel-Austin : ὁ δὲ EN2 Ald : 〈καὶ〉 ὅδε Koster) ὑποκριτὴς (ὑπόπικρος Dindorf) ἐζήλωσε Κράτητα, καὶ αὖ τοῦ (αὖ τοῦ EAld : αὑτοῦ N2 : αὐτὸς τοῦ Kaibel, Van Leeuwen et Bonanno) μὲν λοιδορεῖν ἀπέστη, πράγματα δὲ εἰσηγούμενος καινὰ ηὐδοκίμει γενόμενος εὑρετικὸς μύθων. Cratete ateniese: dicono che fu dapprima un attore, che si sovrappose a Cratino, era molto divertente e spassoso, e per primo introdusse gli ubriachi in commedia. Ci sono sette drammi suoi. Ferecrate ateniese essendo attore emulò Cratete, e a sua volta si astenne dall’insultare, ma proponendo cose nuove otteneva successo come inventore di intrecci.
Bibliografia Meineke I (1839), 59–61; Oellacher 1916, 84–85; Edmonds I (1957) 153; Bonanno 1972, 23–24 test. X, XII, XIII; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 83 n° 2a; Nesselrath 1990, 50; Urios Aparisi 1992, 1–5; Conti Bizzarro 1999, 18; Kerkhof 2001, 175–176; Quaglia 2001a, 2–8; Quaglia 2005, 99–100; Storey 2011, FOC, I 202–203 test. iv; Rusten et al. 2011, 84–85 e 138; Stama 2014, 26; Bianchi 2017, 14, 286–289; Olson 2017, 39–42. Contesto I codici aristofanei Estensis α.U.5.10 (XIV o XV sec.), e Neapolitanus II.F.22 (XIV sec., seconda mano)27, e poi l’edizione Aldina di Aristofane (1498), riportano l’anonimo trattato De comoedia. Il trattato presenta una sintetica storia del genere comico ed è considerato un excerptum che conserva informazioni attendibili, risalenti in ultima analisi a didaskaliai e a pinakes di età ellenistica28. Sono elencati sedici autori comici, suddivisi secondo la tripartizione in commedia antica, di mezzo e nuova, cui seguono precise notizie biografiche sui singoli commediografi, con informazioni cronologiche sulla loro attività, numero di commedie, distinguendo in alcuni casi il numero di quelle conservate e di quelle note (Magn. test. 3) o quelle di dubbia autenticità (ad es. Epicharm. test. 6: Aristoph. test. 4), e caratteristiche dello stile. Non si tratta comunque di una semplice raccolta di dati, ma ci sono evidenti tracce di una rielaborazione critica, con la formulazione di giudizi sullo stile di ciascun poeta, e il tentativo di tracciare una storia del genere 27 28
Nel codice N è omessa in fondo una parte sulla commedia nuova. Wilamowitz 1875a, 335; Kaibel 1899, 6; Mekler 1900; Wagner 1905, 30–55; Regenbogen 1950, 1457.41–68; Nesselrath 1990, 45–64; Storey 1990, 3–4; Konstantakos 2000, 173 e n. 1; Orth 2013, 18–20.
Testimonia (test. 2a)
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individuando linee di continuità tra i poeti comici, quasi dei rapporti di diadochē (vd. Mekler 1900). Legami di questo tipo, espressi attraverso il verbo ζηλόω (vd. Storey 1990, 3), sono evidenziati ad esempio tra Cratino ed Eupoli e tra Cratete e Ferecrate. Nell’elenco dei poeti dell’archaia, disposto secondo l’ordine cronologico, Cratete è citato dopo Epicarmo, Magnete, Cratino e prima di Ferecrate. Interpretazione Il trattato offre un’utile testimonianza per diverse questioni e trova puntuali corrispondenze in altre fonti: 1) l’inclusione di Cratete tra gli ἀξιολογώτατοι della commedia antica (cfr. test. 2b e 4) 2) i dati sulla carriera e la produzione di Cratete: 2a. l’inizio di carriera come attore (cfr. test. 3) e il rapporto cronologico con Cratino (cfr. test. 3 e 6); 2b. il suo primato nell’introduzione sulla scena comica degli ubriachi (cfr. Geitones test. i); 2c. il numero di drammi (cfr. test. 1 e 4); 3) il giudizio critico degli antichi sulla sua opera, qui espresso in modo diretto in riferimento al suo stile e forse anche in modo indiretto attraverso la descrizione del suo “emulo” Ferecrate (cfr. test. 5). οὐχ ὑποθέσεως… ζηλωταὶ il termine polisemantico ὑπόθεσις può assumere in testi di letteratura secondaria come questo il valore specifico di “argumentum”, “trama” in riferimento a un’opera letteraria (vd. ad es. Philod. Poëm. 1 frr. 42.8 e 77.5 Janko, Dicaear. frr. 78 e 81–82 Wehrli (= FGrHist 1400 F 70 e 72–73), sch. Soph. Ai. prooem. e in genere i titoli degli argumenta nei manoscritti di Aristofane). Cfr. nello stesso trattato p. 10.45 K. in riferimento all’attenzione rivolta alle hypotheseis dai poeti della commedia di mezzo. εὐτραπέλου l’aggettivo, usato in riferimento al discorso ad esempio già in Aristoph. Ve. 469 (λόγος εὐ.), indica la prontezza alla risposta, quindi alla battuta, all’arguzia. Nella definizione aristotelica l’εὐτραπελία è πεπαιδευμένη ὕβρις “un eccesso temperato dall’educazione” (Rh. 1389b.11) e costituisce il giusto mezzo tra βωμολοχία “buffoneria” e ἀγροικία “rozzezza” nel divertimento (ἐν παιδιᾷ) EN 1108a.24 (περὶ δὲ τὸ ἡδὺ τὸ μὲν ἐν παιδιᾷ ὁ μὲν μέσος εὐτράπελος καὶ ἡ διάθεσις εὐτραπελία, ἡ δ’ ὑπερβολὴ βωμολοχία καὶ ὁ ἔχων αὐτὴν βωμολόχος, ὁ δ’ ἐλλείπων ἄγροικός τις καὶ ἡ ἕξις ἀγροικία). L’espressione παιδιᾶς εὐτραπέλου sembra dunque rispecchiare la terminologia aristotelica. τξεʹ secondo Olson 2017, 41–42 il numero di drammi qui indicato, congruente con il numero di titoli conosciuti attraverso le voci di Suda e altre liste di titoli, corrisponde verosimilmente a quanto conservato nella biblioteca di Alessandria, e permetterebbe di concludere che «virtually all the material we have comes to us through the Library». Ma i dati qui presentati non sempre corrispondono a quanto effettivamente “salvato”: significativo in particolare il caso di Magnete (test. 1), cui Suda e il trattato attribuiscono nove commedie ma di cui οὐδὲν σῴζεται (cfr. supra ad test. 1). A complicare ogni possibilità di calcolo il fatto che spesso non è chiaro
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Crates
se il dato numerico si riferisce a quanto conservato (a che altezza cronologica e dove?)29 o a quanto è noto, e solo nel caso di Magnete si offrono entrambi i dati. Per il caso specifico di Cratete vd. infra. τοῦτον ὑποκριτήν … Κρατίνῳ secondo una notizia riportata negli scoli ai Cavalieri di Aristofane (test. 3) Cratete fu inizialmente attore di Cratino. In base al confronto con quella testimonianza, il passo era ritenuto corrotto da Kaibel 1899, 7 «hinc Cratino eum natu minorem fuisse facile colligi potuit. Emendatio incerta», seguito da Körte 1922, 1623.43. Bonanno 1972, 24 considera l’espressione «solo più ellittica dello scolio ma ad essa equivalente». Per quanto l’esatto valore di ἐπιβέβληκε possa lasciare margini di dubbio (vd. infra), il trattato non dice esplicitamente che Cratete svolse il ruolo di attore in commedie di Cratino. Cratete non è l’unico caso di poeta con esperienze da attore. Tale prassi era comune tra i tragediografi secondo Aristotele (Rhet. 3.1 1403b 23) e le fonti attestano che Sofocle recitò nei propri drammi (Soph. TrGF test. 1.21 e 30). Per la commedia si può citare il caso di Ferecrate (vd. infra), oltre al controverso caso di Aristofane (cfr. Aristoph. test. 1.13–14 e vd. Mastromarco 1979; Halliwell 1980; MacDowell 1982; Slater 1989). All’epoca di Cratete a quanto sappiamo non si era ancora sviluppata una professionalizzazione del ruolo attoriale e negli spettacoli comici della prima metà del V secolo probabilmente era normale un coinvolgimento del poeta nella performance (vd. Slater 2002, 22–41 (sp. 30–33) sulla scorta di Seeberg 1995). Sugli attori vd. anche Ghiron-Bistagne 1976, Slater 1990, Csapo 2010. Cfr. inoltre O’Connor 1908 (Cratete #307), Stefanis 1988 (#1490). Rohde 1883, 281 n. 2 (= 1901, 412) ipotizza che Cratete fosse χοροδιδάσκαλος di Cratino e non semplice attore, ma non mi pare ci siano argomenti a supporto di questa idea. ἐπιβέβληκε ἐπιβάλλω ha molteplici significati ma l’interpretazione più plausibile in questo contesto è quella in senso cronologico, per indicare che la carriera di Cratete si andò a sovrapporre, si accavallò con quella di Cratino. Cfr. Storey 2011, 241 che traduce «he was first an actor who overlapped with Cratinus». Tra i significati di ἐπιβάλλω infatti è ben attestato “essere coevo”, “contemporaneo” in particolare in contesti biografici: vd. ad es. Sud. μ 20 Μάγνης … ἐπιβάλλει δ’ Ἐπιχάρμῳ νέος πρεσβύτῃ; P.Oxy. 26.2438.6 (FGrHist 4 1132; vita di Pindaro); Eunap. VS 497. Cfr. anche Sud. ε 2020. Sul rapporto cronologico con Cratino vd. supra e cfr. Bianchi 2017, 14 e 289, che traduce «venne dopo» (per questo significato del verbo cfr. ad es. Pol. 11.23.2 riferito però alla coorte romana). Meno probabili le interpretazioni di Edmonds 1957, 153, che traduceva invece «as an actor allotted to Cratinus», cercando evidentemente di conciliare meglio questa testimonianza con test. 3, e di Rusten 2011, 138 «who studied with Cratinus».
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Si può notare che per Magnete non è formulato un giudizio sullo stile, forse perché nel momento dell’elaborazione critica dell’informazione non si conservava già più nulla della sua opera.
Testimonia (test. 2a)
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πάνυ γελοῖος καὶ ἱλαρὸς la commedia di Cratete è caratterizzata come molto divertente e brillante, cfr. anche test. 6a.3 ἀστειοτάτας ἐπινοίας. πρῶτος μεθύοντας ἐν κωμῳδίᾳ προήγαγεν cfr. Geitones test. i da Ateneo. In base a un confronto con questa testimonianza Meineke proponeva di correggere προήγαγεν in παρήγαγεν (con l’approvazione di Bonanno 1972, 24). τούτου δράματά ἐστιν ἑπτά per il numero di drammi cfr. test. 1 e 4 e vd. supra Contesto. La formulazione τούτου δράματά ἐστιν, analoga a quella che si trova per Cratete in Suda (test. 1), è ambigua e non permette di capire se fossero drammi di cui sopravviveva copia o no. Una formula simile è usata nel trattato per Antifane (ἔστι δὲ αὐτοῦ δράματα σξʹ, ma Suda gli attribuisce un numero di drammi ben superiore: ἔγραψε κωμῳδίας τξεʹ) e Difilo (δράματα δέ ἐστιν αὐτοῦ ρʹ, il dato in questo caso non è confrontabile). In altri casi il verbo utilizzato consente di distinguere tra drammi effettivamente conservati (σῴζεται, probabilmente anche φέρεται30) o attribuiti a un autore (γέγραπται). Φερεκράτης… ἐζήλωσε Κράτητα Ferecrate imitò Cratete per il fatto di aver iniziato anch’egli la carriera come attore, ma è incerto se il rapporto di emulazione fosse inteso come limitato a questo elemento o riguardasse anche gli aspetti descritti di seguito. In genere anche l’astensione dal loidorein e il contraddistinguersi per le innovazioni e gli intrecci sono considerate caratteristiche che Ferecrate avrebbe emulato da Cratete, il cui stile sembrerebbe descritto in termini simili da Aristotele (test. 5). Ad es. Koster interpreta αὖ nel senso “in vicem; ut iam Crates”, ma come nota Heat 1989, 351, n. 29 «unfortunately this suggestion is itself based on the standard misinterpretation of Aristotle’s allusion to Crates» (vd. infra ad test. 5). Le trovate spiritose sono un elemento comune con il giudizio formulato anche per Epicarmo (εὑρετικός). Cfr. Nesselrath 1990, 50 «das εὑρετικόν eines Epicharm, Krates, Pherekrates demgegenüber noch einmal eine besondere Art dramatischer Stoffe und Handlungsverläufe (unpolitisch-fiktive Sujets?) bezeichnen könnte». Cratete sarebbero l’iniziatore e il continuatore di un filone che si distinguerebbe dall’«aggressività ‘militante’»31 di altri esponenti dell’archaia. Questo legame tracciato dall’anonimo trattato è stato ulteriormente rimarcato dalla letteratura secondaria moderna, fino a immaginare una vera e propria scuola di Cratete (Norwood 1931 e vd. prima Hasper 1877). Sull’esclusione dei soggetti politici in Cratete vd. supra. Anche per Ferecrate, i frammenti superstiti sembrano però suggerire un quadro differente o per lo meno più sfumato (cfr. Quaglia 2001a, 7–8 e vd. per es. il tono invettivo di fr. 155).
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Per lo meno in Suda φέρεται sembra riferirsi a opere conservate perché come osserva Orth 2014, 366, in alcuni casi è usato con la negazione: Sud. ε 3953.11 (λέγεται δὲ καὶ ψόγον αὐτοῦ γεγραφέναι, ὃς οὐ φέρεται) e π 1887.4 (καὶ πολλὰ μὲν συνέγραψε βιβλία, οὐδὲν δὲ αὐτοῦ. L’espressione è di Canfora 2017, 48.
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Crates
test. 2b K.-A. (11 B.) Canones comicorum, tab. M cap. 4 = C cap. 10 κωμῳδοποιοὶ ἀρχαίας (ἀρχαῖοι C) ζ ́· Ἐπίχαρμος, Κρατῖνος, Εὔπολις, Ἀριστοφάνης, Φερεκράτης, Κράτης (Κράτης om. tab. M), Πλάτων. Sette commediografi dell’archaia: Epicarmo, Cratino, Eupoli, Aristofane, Ferecrate, Cratete, Platone.
Bibliografia Kroehnert 1897, 6 e 12, 26–28; Stein 1907, 31–33; Rabe 1910, 341; Bonanno 1972, 24; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 83 n° 2b e p. 112 (Cratin. test. 2b); Kyriakidi 2007, 65–67; Storey 2011, FOC, I 202–203 test. iii; Bianchi 2017, 290–291; Olson 2017, 39–42. Contesto La tabula M di Kroehnert è basata sul codice Coislinianus 387 del X sec., precedentemente edito da Montfaucon e dal Fabricius (cfr. Kroehnert 1897, 5–6). La tabula C si basa su una recensione della lista presente nel codice Bodleianus misc. Auct. T. 2.11, del XV sec., al f. 358v in coda al lessico di Cirillo (V sec.), già edita negli Anecdota graeca IV pp. 195–197 Cramer, e del Vaticanus gr. 1456, del XI-XII sec. (cfr. Kroehnert 1897, 12). La tabula C fu riedita da Rabe 1910, con l’aggiunta anche del Bodleianus Barocci 125, di fine XVI sec. I canoni restituiti da questi manoscritti bizantini presentano elenchi di autori di vari generi letterari. Tali elenchi probabilmente menzionano gli esponenti considerati più rappresentativi ma non presuppongono una lettura diretta degli autori menzionati (Kyrikiadi 2007, 65: «Listen solchen Inhalts sind Bestandsaufnahmen und implizieren keine direkte literaturkritische Bewertung; man sollte sie daher von der Auswahl der besten Schriftsteller einer Gattung (Kanon) unterscheiden») e risalgono verosimilmente a epoche antecedenti. L’origine di queste “selezioni” è stata ricondotta al periodo alessandrino, in base alle analogie con liste conservate su documentazione papiracea di età tolemaica (Diels 1904, 1–16)32 e alle testimonianze dell’attività catalogica dei grammatici alessandrini (vd. Matijašić 2018, 10–11; cfr. anche Pfeiffer 1968 (1973), 320–321, Fraser 1972, I 455–456). Nella tabula M dopo i poeti epici, giambici e tragici, sono annoverati i poeti comici suddivisi in base alla periodizzazione tripartita della commedia: sette autori per la commedia archaia, due per la mesē, e cinque per la nea. Nel codice Coislinianus il nome Cratete manca, ma è concordemente integrato («Lagarde Usener Christ recte add. propter ζ ́ traditum» Kroehnert 1897, 6 n. 9). La correzione trova conferma nell’elenco degli stessi nomi presente nella tabula C.
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Tra le liste dei cosiddetti Laterculi Alexandrini editi da Diels (P.Berol. 13044r = TM 65645, II-I sec. a. C.) figurano anche elenchi di personalità rilevanti in vari campi. Altri papiri con simili inventari sono di epoca successiva, ad es. P.Oxy. 10.1241 (vd. Matijašić 2018, 12).
Testimonia (test. 3)
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Interpretazione Secondo la testimonianza di alcuni codici bizantini Cratete fa parte della ἑπτάς di poeti della commedia archaia considerati i migliori rappresentanti del genere. Rispetto all’elenco di otto commediografi di test. 2a, questo canone non include Magnete e Frinico, mentre aggiunge il nome di Platone comico. Anche l’ordine è diverso: non rispetta la cronologia degli autori citati ed è apparentemente arbitrario (non segue neppure l’ordine delle vittorie alle Dionisie o alle Lenee: cfr. Olson 2017, 40–41). I canoni letterari antichi erano però vari e mutevoli33 e Cratete non rientra invece in altri canoni: ad es. né nella selezione di Tzetze (diff. poet., Prooem. I, Proleg. ad Lycophr., Proleg. ad Hes.), né dell’Anecdoton Estense, né dell’Anonymus Crameri II (Proleg. de com. XIc, p. 44.39–40 Koster)34, né, come noto, nella più ristretta triade (Cratino, Eupoli, Aristofane) riportata anche nella tradizione latina (Hor. Sat. 1.4.1; Pers. Sat. 1.123–124; Quint. Inst. 10.1.66; Vell. Pat. 1.16.3).
test. 3 K.-A. (17 B.) Sch. (VEΓΘΜ) Aristoph. Equ. 537a Jones-Wilson (I) οἵας δὲ Κράτης ὀργάς: οὗτος κωμῳδίας ποιητής, ὃς πρῶτον ὑπεκρίνατο 〈τὰ〉 Κρατίνου (test. 8), καὶ αὐτὸς ποιητὴς ὕστερον ἐγένετο, καὶ ἐξωνεῖτο τοὺς θεατὰς καὶ τὴν τούτων εὔνοιαν. (II) ἄλλως: τραγικὸς ποιητής, ὀλιγόστιχα ποιήματα γράψας. πρῶτον Meineke 1826, I 26: -ος codd. fortasse retinendum K.-A. coll. Aristoph. test. 4.7 〈τὰ〉 Κρατίνου Küster 1710: Κρατίνῳ Bothe 1829, III 69 e che collere Cratete: costui era un poeta comico, il quale dapprima fece l’attore 〈in commedie〉 di Cratino, e in seguito divenne egli stesso poeta, e si sarebbe comprato gli spettatori e il loro favore. Altrimenti: poeta tragico, che scrisse opere di pochi versi.
Bibliografia Meineke I (1839), 60–61; Edmonds I (1957), 154–155; Bonanno 1972, 26 test. XVII; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 83 n° 3; Storey 2011, FOC, I 208–209 test. xiv; Rusten et al. 2011, 138; Bianchi 2017, 307–308. Contesto Gli scholia vetera al passo della parabasi dei Cavalieri relativo a Cratete (test. 6a, vd. infra), offrono innanzitutto informazioni biografiche sul Cratete citato, contrapponendo due informazioni diverse (ἄλλως). Lo scolio Tricliniano conservato in Lh (537c) riformula le stesse informazioni in modo molto simile. Interpretazione L’annotazione scoliografica mira a chiarire l’identità del Cratete citato da Aristofane, che evidentemente all’altezza cronologica non definibile di 33 34
Sui canoni letterari antichi vd. Matijašić 2018, 1–38 con bibliografia precedente. Per una tavola sinottica di alcuni di questi canones vd. Bianchi 2017, 291.
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queste compilazioni era ormai sostanzialmente sconosciuto (si noti che non c’è una corrispondente annotazione per Cratino al v. 526). La notizia del suo debutto come attore è il portato della tradizione precedente sulla storia della commedia e trova corrispondenza dell’anonimo trattato De Comoedia (cfr. supra test. 2a), in cui però non è esplicito che Cratete fosse attore in commedie di Cratino, ma si dice che Cratete si ‘sovrappose’ cronologicamente a Cratino. Si è spesso giudicato corrotto il testo del trattato De Comoedia in questo punto, ma ci si potrebbe chiedere se non sia piuttosto il testo dello scolio a essere frutto di fraintendimento a partire dall’informazione sul rapporto cronologico dei due commediografi. In base a questo scolio Rohde 1883, 281 n. 2 (= 1901, 412) si interrogava se si potesse considerare Cratete come χοροδιδάσκαλος di Cratino, piuttosto che semplice attore, ma non mi sembra ci siano ragioni per una simile supposizione. Cfr. anche Schmid 1946 (IV.6), 90. L’osservazione che Cratete si sarebbe comprato il favore degli spettatori è chiaramente ricavata dal v. 538 degli Equites (ἀπὸ σμικρᾶς δαπάνης ὑμᾶς ἀριστίζων ἀπέπεμπεν). Nella seconda annotazione sorprende più che la notizia di un Cratete tragico, che non ha altri riscontri, l’uso dell’aggettivo ὀλιγόστιχος “di pochi versi” o “di poche righe” riferito a opere drammaturgiche. In merito a questa nota Meineke I 60–61 osservava «κωμικός reponendum, nisi is Scholiastae error est, nostrum Cratetem cum philosopho eodemque tragediarum poeta confundentis». Ad es. in Diog.Laert. 7.165 τὰ βιβλία ὀλιγόστιχα sono quelli del filosofo Erillo di Calcedonia (fr. 409 von Arnim). È verosimile che questa informazione fosse tratta da una compilazione alfabetica in cui erano annoverati diversi Cratete omonimi e che nel corso della tradizione le informazioni siano state compendiate e confuse (cfr. test. 1). Bonanno 1972, 26, parla di ”inettitudine” del secondo scolio.
test. 4 K.-A. (6 B.) Proleg. de com. VIII p. 18 Koster (EN2; Ald) τῶν τῆς ἀρχαίας κωμῳδίας ποιητῶν ὀνόματα καὶ δράματα Θεοπόμπου δράματα ιζʹ. Στράττιδος δράματα ιϛʹ. Φερεκράτους δράματα ιηʹ. Κράτητος δράματα ηʹ. Πλάτωνος δράματα κηʹ. Τηλεκλείδου δράματα ϛʹ. Φρυνίχου δράματα ιʹ nomi e drammi dei poeti della commedia antica: di Teopompo drammi 17 (test. 3) di Strattide drammi 16 (test. 2) di Ferecrate drammi 18 (test. 3) di Cratete drammi 8
Testimonia (test. 4)
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di Platone drammi 28 (test. 3) di Teleclide drammi 6 (test. 2) di Frinico drammi 10 (test. 3)
Bibliografia Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 84 n° 4; Storey 2011, FOC, I 206–207 test. ix; Bagordo 2013, 34; Stama 2014, 30. Contesto Il sintetico elenco è conservato negli stessi codici che conservano il trattato sulla commedia che offre la test. 2a – Estensis α.U.5.10 (XIV o XV sec.), e Neapolitanus II.F.22 (XIV sec., seconda mano) – ed è riprodotto nell’edizione Aldina di Aristofane (1498). Riporta il nome e il numero di drammi di sette poeti della commedia antica. I sette nomi qui elencati non coincidono con gli ἀξιολογώτατοι di test. 2a (degli otto nomi lì presenti qui ritornato solo Cratete, Ferecrate, Frinico) né con il canone di test. 2b (dei sette nomi lì presenti sono in comune Ferecrate, Cratete, Platone). Sono esclusi i poeti della triade Cratino, Eupoli, Aristofane e il poeta dorico Epicarmo, presenti in entrambi gli altri due elenchi. Il nome di Cratete compare dopo Teopompo, Strattide e Ferecrate e prima di Platone, Teleclide e Frinico. L’ordine non rispetta la successione cronologica degli autori. Il numero di drammi se confrontato con i dati delle voci Suda coincide solo nel caso di Platone, mentre per gli altri autori mostra scostamenti più o meno lievi: una commedia in più rispetto al dato Suda per Strattide (test. 1), Ferecrate (test. 1), Cratete, tre in più per Teleclide (test. 1); una in meno per Frinico (test. 1) e ben sette in meno per Teopompo (test. 1). Solo per Cratete si può porre il confronto anche con il dato dell’anonimo De Comoedia, che non conserva invece indicazioni sulla quantità di drammi per Ferecrate e Frinico (vd. infra). Certamente i numeri non rispecchiano il numero di drammi effettivamente composti dai singoli autori. Ad es. nel caso di Teleclide già solo il numero di vittorie attestate per via epigrafica (Telecl. test. 3: tre vittorie alle Dionisie; test. 4: cinque alle Lenee) è superiore al numero di commedie, sei, qui indicato (vd. Dittmer 1923, 34 e Bagordo 2013, 34 con n. 15). Interpretazione Il numero di drammi indicati per Cratete, otto, non coincide con il numero riportato in Suda (test. 1) né con quello dell’anonimo De Comoedia (test. 2a), che invece riportano concordemente sette opere. Che le opere di Cratete fossero di più di sette è comprovato dalle citazioni nella tradizione indiretta di ulteriori titoli oltre a quelli menzionati in Suda, per un totale di undici titoli di cui almeno otto sicuri (vd. supra ad test. 1). Sette o otto erano forse i drammi effettivamente conservati in una biblioteca in un dato momento (la biblioteca di Alessandria in età ellenistica? cfr. Dittmer 1923, 34; Regenbogen 1950, 1457.48.51).
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test. 5 K.-A. (9 B.) Aristot. Poet. 5 1449b.5–9 τὸ δὲ μύθους ποιεῖν {Ἐπίχαρμος καὶ Φόρμις} (secl. Susemihl; confirm. Arab.) τὸ μὲν ἐξ ἀρχῆς ἐκ Σικελίας ἦλθε, τῶν δὲ Ἀθήνησιν Κράτης πρῶτος ἦρξεν ἀφέμενος τῆς ἰαμβικῆς ἰδέας καθόλου ποιεῖν λόγους καὶ μύθους. quanto alla composizione di racconti essa giunse da principio dalla Sicilia, e tra gli Ateniesi Cratete per primo iniziò, allontanandosi dalla forma giambica, a comporre in generale dialoghi e racconti.
Bibliografia Meineke I (1839), 59–60; Norwood 1931, 145–147; Else 1957, 183–188; Lucas 1968, 91; Bonanno 1972, 23 test. IX; François 1978; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 84 n° 5; Cassio 1985; 39–43; Halliwell 1986, 269–285; Heath 1989; Heath 1990, 143–144; Kerkhof 2001, 51, 173–177; Ruffell 2002, 147–148; Storey 2011, FOC, I 206–207 test. xii; Rusten et al. 2011, 138; Willi 2015, 140–141. Contesto All’inizio del quinto capitolo della Poetica Aristotele dà una definizione della commedia e del geloion e sottolinea la difficoltà di tracciare una storia dello sviluppo formale del genere comico (maschere, prologhi, numero di attori), perché rispetto alla tragedia fu adeguatamente riconosciuto solo più tardi. A questa ammissione di ignoranza sulle prime fasi della commedia, segue la testimonianza con il riferimento a Cratete, un passo brachilogico e di non semplice decifrazione, come frequenti ricorrono in un testo acroamatico come quello della Poetica. Immediatamente dopo il discorso torna all’epica e alla tragedia. Alcuni cenni alle origini della poesia comica erano stati fatti da Aristotele nei capitoli precedenti, laddove (1448b.34–1449a.2) nel Margite di Omero intravede la forma (σχῆμα) della commedia, con la drammatizzazione non dello psogos (il motteggio tipico del giambo) ma del geloion (il ridicolo), e afferma che coloro che erano portati verso questa forma poetica divennero compositori di commedie anziché di giambi (1449a.4 οἱ μὲν ἀντὶ τῶν ἰάμβων κωμῳδοποιοὶ ἐγένοντο). Dopo aver delineato un’ascendenza letteraria dal giambo, individua nei cortei fallici il principio dello sviluppo della commedia (1449a.11–12 ἀπὸ τῶν τὰ φαλλικὰ), che come la tragedia è inizialmente basata sull’improvvisazione (1449a.9–10 ἀπ’ ἀρχῆς αὐτοσχεδιαστικῆς)35. Interpretazione Aristotele riconosce a Cratete un ruolo di assoluta importanza nella storia del genere comico, paragonabile a quello attribuito ad Eschilo per la tragedia. Le questioni sollevate sono assai dibattute e riguardano: 1. il rapporto con la commedia siciliana; 2. il primato di Cratete tra i commediografi ateniesi; 3. la definizione dell’innovazione apportata da Cratete e della sua portata.
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Vd. Storey 2010, 179–181.
Testimonia (test. 5)
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Il passo resta di controversa interpretazione, soprattutto perché non è evidente se il discorso si muova sul piano delle forme o dei contenuti o di entrambi. Nonostante le incertezze nell’esatta valutazione dei termini utilizzati (vd. infra in particolare ad καθόλου e λόγους), sembra di poter dire che secondo Aristotele Cratete fu il primo nel solco della commedia dorica a introdurre ad Atene la commedia come forma poetica compiuta36, con lo sviluppo di dialoghi e trame organiche e il superamento di forme di comicità scommatica di carattere episodico. L’innovazione di Cratete sarebbe quindi strutturale. Vd. in particolare Heat 1989 e Willi 2015. Accanto a questo tipo di interpretazione, che mi sembra la più plausibile, altre hanno invece fondato su questa testimonianza l’idea di Cratete come capostipite di un filone comico diverso nei contenuti rispetto alla predominante commedia politica e aggressiva del V secolo e precursore della commedia nuova per i temi “universali” e non legati all’attualità (vd. in particolare Bonanno 1972, 43–44). Il giudizio di Aristotele su Cratete sarebbe quindi assolutamente positivo e di lode secondo Bonanno 1972 e Degani 1993, conformemente all’ideale di garbata ironia e di condanna dell’aischrologia espressi nei suoi scritti etici e politici (EN 1108a.23–26; 1127b.33–1128a.31; EE 1234a.4–23; Pol. 1336b.3–23). Più sfumato in merito Halliwell 1986, 273–274. Se è vero che le caratteristiche descritte sembrano rispondere alla visione poetica espressa nell’opera aristotelica, nella centralità del mythos e nella tensione al catholou, Aristotele in realtà nella Poetica non esprime esplicitamente alcun giudizio sulla commedia di Cratete, né su quella di altri commediografi del V secolo. Heat 1989, 344–345 giustamente richiama la necessaria distinzione tra ciò che vale nei comportamenti reali in società e ciò che vale all’interno del genere letterario. Un problema di ordine diverso è quanto credito si debba riconoscere alla testimonianza di Aristotele, dato che egli dichiara esplicitamente la propria ignoranza sulle prime fasi della commedia (1449b.1–5)37. Non sappiamo su che basi fondi le sue affermazioni sulle origini del genere, ma almeno sui commediografi dell’epoca di Cratete avrà verosimilmente disposto di informazioni da materiali ufficiali. μύθους mythos è il termine che nella Poetica aristotelica indica una delle sei parti costitutive dell’opera drammaturgica (1450a.9), la più importante (1450a.22– 23), che corrisponde alla composizione dei fatti, cioè il racconto, la fabula imitazione di azioni (1450a.3–5 ἔστιν δὲ τῆς μὲν πράξεως ὁ μῦθος ἡ μίμησις, λέγω γὰρ μῦθον τοῦτον τὴν σύνθεσιν τῶν πραγμάτων)38. La traduzione è quindi «racconto»
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Cfr. Else 1957, 310 «the form that began with Epicharmus and Crates was not a new variety of comedy, but rather comedy itself». Vd. Willi 2015. Cfr. Olson 2007, 17–18 «it is difficult to say how seriously ought to be taken the assertion that his [i. e. di Cratete] work represented a distinct change in the character of the genre, given that Aristotle probably knew little about the earliest Attic comedy». Cfr. Storey 2010, 179–180. Per le occorrenze del termine nella Poetica vd. Wartelle 1985, 106–107.
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Crates
(Lanza), «plot» (Halliwell 1995) e in questo senso tecnico andrà verosimilmente inteso nelle due occorrenze in questo passo: per la commedia la composizione di trame organiche ha origine in Sicilia ed è introdotta ad Atene da Cratete. {Ἐπίχαρμος καὶ Φόρμις} considerata una glossa infiltrata nel testo da Susemihl, seguito da molti editori di Aristotele: vd. ad es. Bywater (che però postulava una lacuna successiva in cui ipotizzava di reintegrare i due nomi), Kassel 1965, Lucas 1968 e Tarán-Gutas 2012 (vd. sp. 334–336, dove Gutas argomenta che verosimilmente i due nomi non c’erano nel manoscritto da cui discendono le versioni siriaca e quindi araba). Contra Bonanno 1972, 23 n. 2. Gallavotti congetturava l’aggiunta di un ὡς davanti ai due nomi, seguito da Zanatta 2004. Anche Kassel e Austin in PCG IV (1983), 84 accolgono l’espunzione ma in PCG I (2001) annoverano il passo tra le testimonianze dei due poeti siciliani: Epicharm. test. 5 e Phorm. test. 2. Epicarmo, spesso insieme a Formide, era considerato in antichità il capostipite della commedia, ad es. da Platone (Theaet. 152e οἱ ἄκροι τῆς ποιήσεως ἑκατέρας, κωμῳδίας μὲν Ἐπίχαρμος, τραγῳδίας δὲ Ὅμηρος = Epichar. test. 3), nel lessico Suda (ε 2766 εὗρε τὴν κωμῳδίαν ἐν Συρακούσαις ἅμα Φόρμῳ = Epichar. test. 1.3) e dallo stesso Aristotele, che in Poet. 3 1448a 30 riporta che i Megaresi di Sicilia rivendicavano l’invenzione della commedia proprio per Epicarmo e afferma un primato temporale di Epicarmo su Magnete e Chionide (sulla discussa questione dell’anteriorità cronologica vd. Bagordo 2014a, 34–35). Cfr. inoltre Themist. or. 27 p. 337b Harduin: ἐπεὶ καὶ κωμῳδία τὸ παλαιὸν ἤρξατο μὲν ἐκ Σικελίας (ἐκεῖθεν γὰρ ἤστην Ἐπίχαρμός τε καὶ Φόρμος), κάλλιον δὲ Ἀθήναζε συνηυξήθη. ἐξ ἀρχῆς ἐκ Σικελίας ἦλθε l’espressione implica un arrivo dalla Sicilia ad Atene e quindi una diretta influenza del teatro siciliano sulla commedia attica, pace François 1978, sp. 67 secondo il quale Aristotele starebbe semplicemente giustapponendo le due informazioni senza metterle in relazione. Vd. Cassio 1985, 40–41. Il tema dell’effettiva influenza di Epicarmo e della commedia siciliana sulla commedia attica del V sec. è assai controverso. Una profonda influenza era ipotizzata già da von Salis 1905, ma fu recisamente negata da Zielinski 1885a, 243 e François 1978, che sostenevano addirittura che la commedia di Epicarmo non fosse nota ad Atene prima di Platone. Se è difficile sostanziare l’idea di una diretta influenza in base ai frammenti a noi noti, tuttavia «sparseness of evidence should not automatically lead to skepticism» (Cassio 1985, 41) Posizioni più sfumate sono assunte da Pickard-Cambridge 19882, 285–287, Carrière 1979, 193 e Kerkhof 2001, 51–177, il quale, pur molto scettico sulla reale portata dell’influsso di Epicarmo sulla commedia attica per come noi la conosciamo, ammette una possibile influenza in particolare su Cratete e il “filone” da lui rappresentato (sp. 173–177). L’ascendente dorico si applica specificamente a Cratete, visto come una eccezione nel quadro della commedia attica antica, anche secondo Bonanno 1972, 47–52, la quale crede di rintracciare una serie di elementi di continuità soprattutto sul piano di contenuti e stile (cfr. anche Rosen 1988, 49 n. 44 «Aristotle implies a stylistic connection between Epicharmus and Crates»). Più recentemente Willi 2015 ha invece avanzato la plausibile ipotesi di una influenza della commedia dorica sulla
Testimonia (test. 5)
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macrostruttura del dramma attico nel suo complesso, tragedia e commedia, con l’introduzione dei dialoghi (vd. infra ad λόγους). Κράτης πρῶτος il fatto che il primato sia riconosciuto a Cratete invece che a Cratino ha spesso suscitato perplessità (vd. Meineke 1839, 59, Körte 1922, 1623, Bonanno 1972, 41–42), perché Cratino più di Cratete sarebbe vicino a Epicarmo per cronologia e per alcune affinità tematiche (in particolare per il Mythentravestie e alcuni titoli). La spiegazione più frequente limita di fatto la portata del ruolo innovativo di Cratete distinguendo due diversi filoni nella commedia antica, «two strands of comedy, a domestic product fuelled by invective, associated with Cratinus, and a plot-based one, drawing on the Sicilian comedy of Epicharmus» (Ruffell 2002, 148); in questo Aristotele potrebbe avere avuto in mente la contrapposizione tra i due poeti tracciata nei Cavalieri di Aristofane (vd. test. 6a; cfr. Ruffell 2002, 147–148: «it is possible that Aristotle took the Cratinus-Crates opposition from Knights, and filtered it through his own formal concerns»). Andrà tuttavia considerato che l’anteriorità cronologica di Cratino rispetto a Cratete fu probabilmente limitata – di fatto le loro carriere si sovrapposero (cfr. supra) – e che nulla sappiamo delle prime produzioni di Cratino, che invece forse Aristotele conosceva almeno attraverso le Didascalie. Cfr. Lucas 1968, 91 «that he was younger than Cratinus does not mean that he cuold not have made the innovation credited to him». ἀϕέμενος τῆς ἰαμβικῆς ἰδέας Aristotele già prima ha accennato al rapporto tra giambo e commedia, delineando una derivazione per contrapposizione (1449a.4 vd. supra Contesto)39. La iambikē idea è in genere intesa quindi nel senso di motteggio aggressivo («personal abuse» Rosen 1988, 4; «den persönlichen Spott nach Art des Archilochos» Kerkhof 2001, 173). Questa interpretazione corrisponderebbe al dato della sostanziale mancanza di onomasti kōmōidein nei frammenti noti di Cratete40 e alla testimonianza dell’anonimo De Comoedia su Ferecrate che, come Cratete, si sarebbe astenuto dal loidorein (vd. supra test. 2a). L’espressione va letta alla luce di quanto affermato da Aristotele più avanti in merito alla poesia, che ha a che vedere con l’universale e non con il particolare; quindi i commediografi, che compongono mythoi sulla base di personaggi verisimili, sono contrapposti ai ἰαμβοποιοί, che invece compongono con riferimento a persone specifiche (1451b.12–15, vd. infra ad καθόλου). Come ha argomentato Heat 1989, 347–351 Aristotele non esclude l’invettiva dalla commedia, ma la differenzia dalle invettive non drammatizzate all’interno di una trama organica. La scarto dunque non è nei contenuti ma nella forma, e anche il termine ἰδέα indirizza in questo
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Sui rapporti tra giambo e commedia vd. Rosen 1988, Degani 1988, Degani 1993, 4, Zanetto 2001. L’idea di un possibile legame con l’operatività del decreto di Morichide che impediva l’ onomasti kōmōidein negli anni 440/439–437/436 a. C. (vd. ad es. Wüst 1950, 352, e François 1978) è giudicata «insostenibile» da Degani 1993, 5.
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senso41. «The innovation attributed to Crates was the abandonment of casually unstructured plots, not the abandonment of individual abuse» (Heat 1989, 351). καθόλου molti dubbi riguardano l’esatta interpretazione di catholou qui, innanzitutto per la posizione tra ἀφέμενος τῆς ἰαμβικῆς ἰδέας, per cui alcuni intendono «allontanandosi completamente dalla forma giambica» (es. Cavalli 2008, 60), e ποιεῖν λόγους καὶ μύθους, a cui più frequentemente si considera riferito l’avverbio. Catholou inoltre è un termine che può assumere un valore più pregnante42, perché indica la categoria aristotelica dell’universale, definita nel capitolo 9 della Poetica (1451b.6–11), laddove si spiega la differenza tra poesia e storia: l’una parla più di τὰ καθόλου “l’universale”, l’altra di τὰ καθ’ ἕκαστον “il particolare” (ἔστιν δὲ καθόλου μέν, τῷ ποίῳ τὰ ποῖα ἄττα συμβαίνει λέγειν ἢ πράττειν κατὰ τὸ εἰκὸς ἢ τὸ ἀναγκαῖον, οὗ στοχάζεται ἡ ποίησις ὀνόματα ἐπιτιθεμένη· τὸ δὲ καθ’ ἕκαστον, τί Ἀλκιβιάδης ἔπραξεν ἢ τί ἔπαθεν. «catholou è che a una persona di un certo tipo capiti di dire o fare cose di un certo tipo secondo verosimiglianza o necessità, a questo la poesia mira pur aggiungendo i nomi; il particolare invece è ciò che Alcibiade fece o subì»). Quindi catholou è stato inteso in riferimento a logoi e mythoi “di valore universale”, cioè contenuti non legati alla contingente attualità ma di portata più generale: es. François 1978, 51 «d’une portée générale»; Lanza 1987, 147 «di valore generale»; Olson 2007, 2 «of general interest». Ciò sarebbe in linea con l’idea di Cratete come capostipite di un filone comico dai temi non strettamente contingenti, precursore di una commedia dei tipi e più rispondente a un presunto ideale estetico di Aristotele (vd. Bonanno 1972, 43–44). Tuttavia, se da una parte la definizione di catholou data da Aristotele nel proseguo della trattazione indirizza verso i contenuti, il contesto specifico del passo riguarda piuttosto l’evoluzione formale del genere. Altri hanno quindi colto in catholou una connotazione di forma più che di contenuti, ad es. Halliwell 1995, 45 «with an overall structure»; Ruffell 2002, 148 «with unity»; Zanatta 2004, 599 «in forma universale», Storey 2011 «whole stories». Cratete sarebbe allora un innovatore nella struttura della commedia, che a differenza delle prime commedie basate su episodi sviluppa una trama organica. Vd. Heat 1989, 348 «to compose a plot ‘universally’ is to compose it in conformity with the criteria set out in 1450b26–34, as a whole, with beginning, middle and end standing in a necessary or probable delimited series of casually consequent events». λόγους logos non è un termine usato in modo univoco nella Poetica43. Spesso qui è inteso come sinonimo del successivo mythos in una sorta di endiadi con il καὶ esplicativo: «arguments, that is, plots» Else 1957, 184; «des sujets et des fictions» François 1978, 51; «themes and plots» Cassio 1985, 40; «racconti e storie» Lanza 1987, 133; «stories and plots» Halliwell 1995, 45; «whole stories and plots» 41 42 43
Cfr. Wartelle 1985, 77–78 «forme, image, espèce, idée». Per le altre occorrenze nella Poetica cfr. Wartelle 1985, 80–81, che glossa il termine con «en général, universellement». Cfr. Wartelle 1985, 91–92 «récit, discours, énoncé, exposé, argument, raison, etc.».
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Storey 2011, 207. Lucas 1968, 91: «the καὶ is explanatory, logos being rather more general than mythos». Viene richiamato dunque il significato di argumentum di un’opera letteraria che il termine sembra assumere in Aristot. Poet. 1455b.17 τῆς γὰρ Ὀδυσσείας οὐ μακρὸς ὁ λόγος ἐστίν. Cfr. anche Poet. 1455a.35, 1460a.27 Rhet. 3.14 1415a.12 (Cooper 1922, 49–50). Cfr. infra ad fr. 28. Un’ipotesi diversa è stata proposta da Willi 2015, che interpreta l’intero passo ponendo l’accento proprio su logoi, secondo lui non sinonimo ridondante di mythoi ma da intendere più specificamente come «dialoghi». L’innovazione che Cratete portò nella commedia attica sulla scorta di Epicarmo includerebbe il dialogo drammatico, in analogia con quanto fatto da Eschilo per la tragedia con l’introduzione del secondo attore (Poet. 1449a.15–18 πρῶτος Αἰσχύλος ἤγαγε καὶ τὰ τοῦ χοροῦ ἠλάττωσε καὶ τὸν λόγον πρωταγωνιστεῖν παρεσκεύασεν). Nella suggestiva ricostruzione di Willi «Epicharmus “invented” dramatic-dialogic plot comedy by combining mime-inspired plotlines with the metres of iambus, around or shortly after 500B.C., at a time when “comedy” in Athens was still a full choral genre centering around the iambikē idea» (p. 143), questa novità avrebbe influenzato direttamente Eschilo, in seguito al suo viaggio in Sicilia nel 476, e sarebbe poi stata applicata alla commedia da Cratete. Sulla mancanza di prove positive di interlocuzione tra attori nei magri frammenti della prima generazione di commediografi vd. Gianvittorio 2013, 438–439, che invece evidenzia la rapidità che caratterizza il dialogo nella commedia epicarmea. Vd. supra Introduzione – Metrica.
test. 6a (test. 6 K.-A. = 16 B.) Aristoph. Equ. 537–540 οἵας δὲ Κράτης ὀργὰς ὑμῶν ἠνέσχετο καὶ στυφελιγμούς, ὃς ἀπὸ σμικρᾶς δαπάνης ὑμᾶς ἀριστίζων ἀπέπεμπεν, ἀπὸ κραμβοτάτου στόματος μάττων ἀστειοτάτας ἐπινοίας· χοὖτος μέντοι μόνος ἀντήρκει, τοτὲ μὲν πίπτων, τοτὲ δ’ οὐχί. e Cratete che collere e maltrattamenti ha dovuto sopportare da parte vostra, lui che offrendovi colazione con una piccola spesa vi congedava, impastando dalla bocca cristallina raffinatissime pensate; e lui solo resisteva, a volte candendo, a volte no.
Bibliografia Meineke I (1839), 61; Ribbeck 1867, 262–263; Neil 1901, 537; Allègre 1906; Willems 1906; Boyatzides 1907; Norwood 1931, 145–147; Meinsching 1964, 29; Bonanno 1972, 26 test. XVI, 36–41; Spyropoulos 1974, 118; Roux 1976; Sommerstein 1981, 172–173; Kassel-Austin 1983, PCG IV p. 84; Hubbard 1991, 73–76; Bowie 1993, 63–65; Biles 2002, 177–178 e 184; Ruffell 2002, 143–147; Imperio 2004, 214–220; Zimmermann 2006, 5; Kerkhof 2001, 175; Storey 2011, FOC I, 206–209 test. xiii; Rusten et al. 2011, 19, 138; Biles 2011, 93–133; Wright 2012, 131–133; Zimmermann 2014, 157; Telò 2016, 39–40; Willi 2015, 144.
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Contesto Nella parabasi dei Cavalieri il coro rivolgendosi al pubblico espone i timori del poeta dovuti alla volubilità degli spettatori e alla costatazione dell’ingrato e crudele trattamento da essi riservato ai poeti comici della vecchia generazione: Magnete (vv. 520–525 = test. 7 K.-A., su cui vd. Bagordo 2014b), Cratino (vv. 526–536 = test. 9 K.-A., su cui vd. Bianchi 2017, 308ss.) e Cratete. L’ordine relativo nel quale sono riportati i tre autori rispecchia l’esatta cronologia delle loro prime vittorie alle Dionisie, come attestata dalle Liste di vincitori (test. 9), ed è coerente con l’ordine che ritroviamo in altre fonti erudite antiche (test. 2a). La scelta di Cratete in questa successione è stata variamente interpretata. Neil 1901, 81 e 537 riteneva che i tre poeti fossero scelti per marcare differenti «styles and stages of their art»: Magnete la commedia «of old folk or beast tale», Cratino la commedia antica degli attacchi personali, Cratete «a foreshadowing of New Comedy». Sulla stessa linea Bonanno 1972, 36 definisce questa parabasi «quasi un saggio di critica letteraria». Più che una sorta di storia della commedia antica, tuttavia, la parabasi andrà considerata nel contesto agonale: la scelta dei commediografi sarà stata funzionale alla caratterizzazione del bersaglio principale, che è indubbiamente Cratino, ancora rivale di Aristofane in quegli anni e anche in quell’agone lenaico del 424 a. C. (vd. Biles 2002, sp. 178; Ruffell 2002, 143). A proposito del diretto rivale Aristofane contrappone glorie del passato e miserie del presente, e ponendolo tra due commediografi ormai lontani dalle scene lo descrive come parte di una stagione ormai superata della commedia. «By sandwiching him between Magnes and Crates Aristophanes insinuates that he belongs to the past and his retirement is due» (Sommerstein 1981, 171). Vd. anche Biles 2011, 119–120 «the strategy he adopted was to emphasize his rival’s age and imply that he was unfit to compete in the late 420s. To this end, the selection of Crates was of the utmost importance. Crates was an unlikely candidate for inclusion in the Knights parabasis on two counts […] The attraction of Crates as the third poet, I suggest, was that he began his career after Cratinus, but ended it early enough to be regarded as one of the proteroi […] Aristophanes’ selection was thus made with studious care to imply that entire generations of poets had come and gone since Cratinus entered the competitions, making it all the easier to see him as a relic of the past». Interpretazione La parabasi aristofanea costituisce una testimonianza rilevante per la cronologia e la carriera di Cratete. Non solo perché l’ordine in cui sono citati i predecessori – Magnete, Cratino e Cratete – rispecchia la sequenza cronologica e sarebbe una conferma dell’anteriorità di Cratino (cfr. test. 2a, test. 9). Ma soprattutto perché Aristofane, che ha parlato di Cratino con i verbi al presente, nel caso di Cratete usa sempre verbi all’imperfetto: da ciò si può inferire che nel 424, anno di rappresentazione dei Cavalieri, Cratete fosse ormai non più attivo o morto (Geißler 1925, 18 n. 2). Inoltre il riferimento ai molti maltrattamenti e ai molti insuccessi (vv. 537 e 540) sembra testimoniare una carriera non breve e un numero non esiguo di commedie prodotte (vd. Mensching 1964, 29 «diese Worte über Krates’ Ausdauer sind nur so zu verstehen, daß Krates nicht nur während
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einer langen Zeit, sondern auch relativ viel geschrieben hat, d.h. daß ihn eine unverhältnismäßing große Anzahl von erfolglosen Aufführungen nicht beeindrukt hat»). La scelta di Cratete come terzo commediografo nella sequenza andrà intesa come funzionale all’immagine che Aristofane voleva dare del rivale Cratino in contrapposizione alla propria autorappresentazione (vd. supra Contesto; cfr. Ruffell 2002, 147 «the introduction of Crates puts a further spin on the portrait of Cratinus, and adds a supplement with which to build up the emerging Aristophanic brand»). Anche la descrizione di ciascun poeta andrà letta in questa prospettiva, e nei suoi aspetti caricaturali e comici non può essere presa come rivelatrice del reale giudizio di Aristofane. Il passo può testimoniarci che Cratete ebbe insuccessi di pubblico (v. 537) e che resistette tra alti e bassi (v. 540), ma l’interpretazione della descrizione del suo stile resta alquanto problematica. Cratete viene rappresentato come un cuoco che imbandisce per gli spettatori una frugale colazione (v. 538), in linea con la metafora del cibo pervasiva nei Cavalieri (Reckford 1987, 127) e ricorrente in contesti metapoetici (vd. infra test. 6b). Molto controverso il significato da attribuire all’hapax κραμβοτάτου (v. 589), che forse riassume in sé varie connotazioni tra le quali la sobrietà in contrapposizione con la caratterizzazione di Cratino (vd. infra). Accanto alla semplicità/frugalità (v. 538 e v. 539 μάττων) Aristofane indica anche la raffinatezza delle trovate come caratteristica della poesia di Cratete (v. 539 ἀστειοτάτας ἐπινοίας). Le idee raffinate sono un elemento chiave nelle dichiarazioni poetologiche di Aristofane (vd. Zimmermann 2004, 219–220, e cfr. Zimmermann 2011, I 731 «Da ‘elegante Einfälle‘ das Leitmotiv der aristophanischen Poetologie sind, darf man annehmen, daß Aristophanes sich gerade in diesem Punkt Krates als Vorbild verpflichtet fühlte»). Il giudizio che emergerebbe da questi versi sulla commedia di Cratete è stato inteso in modi diametralmente opposti: prevalentemente come un elogio (così ad es. Neil 1901, Roux 1976, Corbel-Morana 2007, Zimmermann 2011, I 731, Hartwig 2012, 20244), anche se non privo di una certa dose di ironia (Meineke I 1839, 61), ora al contrario come un giudizio sostanzialmente critico, da leggere nel quadro di una generale censura da parte di Aristofane nei confronti dei poeti “d’evasione” come Cratete: così Bonanno 1972 («il giudizio che ne scaturisce è assolutamente negativo, senza possibilità di appello per Cratete» p. 44), seguita ad esempio da Imperio 2002, 215, e apparentemente da Kassel e Austin che in nota alla testimonianza richiama Aristoph. fr. 347 (test. 6b) a proposito di Aristofane come «Cratetis censor». Cfr. inoltre infra ad fr. 20.
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Hartwig 2012, 202, notando i toni più benevoli usati da Aristofane nei confronti dei poeti non più attivi («in contrast with the usually hostile attitude towards active rivals, it is worth noting the more benign treatment given to comic poets who were no longer active»), cita ad es. oltre a Magnete e Cratete nel nostro passo, Cratino in Ran. 357, Ferecrate in Lys. 158.
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Al di là della reale opinione di Aristofane sul predecessore, che è improprio dedurre da questi e altri richiami nei suo drammi, verosimilmente l’immagine che questi versi tracciano del predecessore ha avuto un’influenza significativa sulla fortuna di Cratete. 537 οἵας δὲ Κράτης ὀργὰς da questa espressione si dedurrebbe che la produzione di Cratete non fu molto limitata (vd. supra). Insieme al v. 540, trasmette l’idea di Cratete come poeta incompreso e che ottenne scarso successo di pubblico. Willi 2015, 144 pone gli insuccessi in connessione con le novità strutturali da lui introdotte, che non sarebbero state accolte favorevolmente dal pubblico. 537 ὀργὰς ὑμῶν il pronome ὑμῶν andrà inteso come genitivo soggettivo, “collere da parte vostra” (es. Mastromarco «che collere, che insulti dovette sopportare da voi Cratete»), meno probabile che sia un genitivo dell’oggetto («arrabbiature verso di voi»). Cfr. per un’espressione simile Luc. DMer. 4.1.10 δι’ ἣν τοσαύτας ὀργὰς τῶν γονέων ἠνέσχετο. 537 στυφελιγμούς è un hapax (lezione del codice R, altri codici hanno στυφελιγμούς). Il verbo στυφελίζω indica percosse e maltrattamenti. L’aggettivo στυφελός significa “duro, crudele”. Gli sch. ad loc. (537b VEΓ3MLh) glossano con λοιδορίας, μέμψεις, individuando i maltrattamenti sul piano verbale e non fisico. Cfr. Sud. σ 1265. 538 ἀπὸ σμικρᾶς δαπάνης ὑμᾶς ἀριστίζων Cratete, come un cuoco, offriva al pubblico una colazione (ἄριστον è il pasto più semplice consumato al mattino o a metà giornata contrapposto al δεῖπνον, che era un pasto più strutturato, normalmente la cena) con poca spesa (vd. infra). Sommerstein 1981, 173 immagina che si facesse qui allusione al basso costo degli allestimenti scenici «Crates’s play, with their avoidance of the fantastic and the spectacular». Biles 2011, 105 n. 31 ipotizza che la frugalità di Cratete possa essere connessa con un contesto militare: («Crates’ meager victuals (538) might also depend on a military context, namely the notoriously meager rations soldiers lived on (e. g., Eq. 600; Pax 1129; and esp. Ach. 1095–1142)»). L’immagine in questo contesto ha chiaramente (anche) un valore metaforico in riferimento alla poetica di Cratete, anche qui intesa ora nel senso positivo di frugale semplicità, come uno chef che riesce a offrire un elegante rinfresco anche con poco (così ad es. Roux 1976, 259), ora invece negativamente come un giudizio di scarso valore, di chi rimanda a casa il pubblico «pressoché digiuno» per la modestia della sua ispirazione artistica (Bonnano 1972, 39 e Imperio 2004 216–217). Di poetica “a basso costo” Aristofane sembra parlare anche nel fr. 347 (vd. infra test. 6b), una comicità senza fatica che Aristofane mette a contrasto con la propria poetica anche nella parabasi delle Nuvole II (vv. 523–524, vd. Telò 2016, 40). Per l’uso di immagini gastronomiche in funzione metaletteraria, con la comparazione tra la produzione di autori comici e tragici ed alimenti di cui si giudicano le qualità gustative, vd. Corbel-Morana 2007, sp. 9–10. «Aristophane apprécie une nourriture simple et sans apprêt, comme celle que servait son vieux rival Cratès. […] Aristophane vante ses mérites auprès des spectateurs, et assimile ses comédies à une galette d’orge».
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538 ἀπὸ σμικρᾶς δαπάνης già Ribbeck 1867 richiamava l’espressione analoga usata in Plut. Apophth. Lac. 237e, laddove si parla della vita frugale a cui venivano educati i giovani spartani (εἰ πλείω χρόνον διάγοιεν ἀπὸ μικρᾶς δαπάνης·). Cfr. anche DChr. 7.140.8. 539 κραμβοτάτου Wilson 2007, 51 sospetta che –οτάτου possa essere un errore di assimilazione con il successivo στόματος e ritiene probabile la congettura κραμβοφάγου di Kiehl 1852, in linea con l’epiteto ταυροφάγος usato per Cratino in Ran. 357 (che però non accoglie a testo nella sua edizione). La paradosis è difesa tra gli altri da Bonanno 1972 e Kassel-Austin. Il significato dell’aggettivo è assai discusso. Gli scolii al passo glossano il termine con ἡδυτάτου, ξηροτάτου “piacevolissima, asciuttissima” e richiamano il gioco verbale con l’ortaggio κράμβη “cavolo”, connettendolo con l’immediatezza e la semplicità dei drammi di Cratete (sch. 539a.I ἀπὸ κραμβοτάτου: ἔπαιξε δὲ ἀπὸ τῆς τοῦ λαχάνου ἐπινοίας. αὐτοσχέδιος γὰρ ἦν περὶ τὰ δράματα. VEΓΘM). Al superlativo è attestato solo qui e in Hsch. κ 3942 Latte, che lo glossa con καπυρώτατον; cfr. anche Hsch. κ 3941 che registra il grado positivo dell’aggettivo in riferimento a una risata (κραμβόν· καπυρόν τινα γέλωτα καὶ ξηρόν φασιν). Alche il significato della glossa usata da Eisichio, καπυρός, è stato oggetto di acceso dibattito (Willems 1906 «fun, délicat, raffiné», Legrand 1907 «argutus, sonore, clair-sonnant»): il significato primario è quello di “secco”, ma si trova riferito anche a suoni, con il senso di “sonoro, squillante”. In Ath. XV 697b l’aggettivo καπυρός è riferito a canti, contrapposti a canti seri (οὗτος γὰρ τὰς καπυρωτέρας ᾠδὰς ἀσπάζεται μᾶλλον τῶν ἐσπουδασμένων), e in genere inteso nel senso di “sguaiati”. Un’eco dell’immagine aristofanea si può forse sentire in Theoc. 7.37 ἐγὼ Μοισᾶν καπυρὸν στόμα. In linea con le indicazioni scoliografiche e lessicografiche, l’aggettivo riferito alla bocca di Cratete è stato inteso ora come “delicatissima” (es. Mastromarco 1983; Storey 2011 «very delicate»; Rusten et al. 2011 «sweet»), ora come “secchissima” (es. Rogers 1910, 79 «driest») – nel senso negativo di aridità, anche in contrapposizione con il vinolento Cratino (es. Körte 1922, 1624 «das Undionysische») oppure nel senso positivo di finezza umoristica (es. Corbel-Morana 2007, 10 n. 24 «dry sense of humour», vd. già Neil 1901, 81) – ora ancora come come “squillante, sonora” (Legrande 1907). Bonanno 1972, 37–38 ha richiamato l’attenzione in particolare sulle suggestioni veicolate dall’assonanza con κράμβη: il cavolo sarebbe cibo di modesto valore, funzionale a ribadire il concetto già espresso con ἀπὸ μικρᾶς δαπάνης, e aggiunge un ulteriore elemento di antitesi al vino, e quindi di contrapposizione all’ispirazione dionisiaca di Cratino, perché il cavolo era considerato un antidoto all’ubriachezza (su questo aspetto vd. già Boyatzides 1907, che però intendeva all’opposto con «bouche d’ivrogne»). L’aggettivo marcherebbe quindi Cratete come un poeta “sobrio”, privo della potenza dionisiaca riconosciuta a Cratino (così pure Ruffell 2002, 147). Cfr. anche Hubbard 1991, 76 «his “most cabbage-dry” mouth is an unispired mouth». In questa direzione si potrebbe considerare anche che il sostantivo κράμβος indica una malattia che fa disseccare i grappoli prima di
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maturare: Thphr. CP 5.10.1 (vd. Strömberg 1937, 167). E forse dal sostantivo deriva l’aggettivo tanto discusso45. Il termine nella sua polisemia è intraducibile. Con la traduzione “cristallina” ho cercato di rendere i significati di delicatezza, suono squillante (“voce cristallina”) e sobrietà (come l’acqua cristallina). 539 μάττων riprende la metafora culinaria del verso precedente, accostando l’opera comica a una focaccia o a un pane “impastato”, dunque cibo quotidiano, certo non raffinato. Per il verbo cfr. infra fr. 16.6. 539 ἀστειοτάτας l’aggettivo ha etimologicamente il significato di “urbano”, opposto a ἄγροικος, quindi anche “raffinato, colto”, riferito sia a persone sia a cose, in particolare a pensieri e parole. Ad es. in Aristoph. fr. 706 è riferito alla διάλεκτος effeminata dell’élite intellettuale contrapposta a quelle più rozza dei bifolchi, vd. Bagordo 2017, 88 «Das Adj. ἀστεῖος evoziert die durchaus städtische, von der intellektuellen Elite beherrschte Kultur mit ihrer exklusiven und gleichsam snobistischen Raffiness»). In alcuni casi l’aggettivo è inteso anche nel senso di “brillante, spiritoso”: Aristoph. Nub. 204 ἀστεῖον λέγεις (ma Dover 1968, 122 «the sense ‘witty’, pace LSJ, is totally absent here»), Ve. 1258 (Biles-Olson 2015, 448 «‘witty, refined’, based on the stereotypical association of the urban center with refined attitudes and interests»), Ra. 5 (in senso ironico riferito a una delle battute prive di originalità proposte dal servo Xantia), 901 e 906 (Dover 1993, 192 «‘clever’, ‘witty’»). In Aristotele τὰ ἀστεῖα sono “le arguzie” (Rh. 1411b.21). Più in generale può indicare apprezzamento, nel senso di “grazioso” (Aristoph. Ach. 811), anche ironico (Aristoph. Nub. 1064 ἀ. κέρδος «bel guadagno!»). Per ἀστεῖος in Aristofane vd. Turasiewicz 1986. L’aggettivo si trova riferito anche a cibi “raffinati” ad es. a un cavolino (!) bollito in Antiph. fr. 6 κραμβίδιον ἑφθὸν χαρίεν, ἀστεῖον πάνυ; cfr. anche Alexis fr. 194.1; Sotad. Com. fr. 1.15. Altri hanno pensato invece al significato di “garbato”, collegandolo al carattere non aggressivo della poetica di Cratete, al suo essere «per bene» (Bonanno 1972, 39). Anche da chi ritiene che il giudizio di Aristofane sia negativo, questo superlativo è stato quindi inteso in senso letterale. Andrà tuttavia considerata anche la possibilità di un valore antifrastico, considerato anche che la connotazione raffinata sembra contraddittoria rispetto a quella che emerge nelle ripresa aristofanea della Lamia pedens di Cratete nelle Vespe (vd. fr. 20). 539 ἐπινοίας epinoia ricorre in Aristofane in un simile contesto metapoetico ad es. in Ve. 1050 (cfr. anche 1044 καινοτάτας σπείραντ’ αὐτὸν διανοίας) nella rivendicazione della novità della sua commedia. 540 μόνος I codici riportano μόνος, difeso da Kassel-Austin. Sommerstein 1981 correggeva in μόνον, perché μόνος «would end the account of Ar.’s predecessors on the wrong note» e il trattamento riservato a Cratete non sarebbe sufficientemente negativo da giustificare i timori espressi da Aristofane di subire la 45
Vd. Chantraine 1968, 577 e Beekes 2010, 769, che in base all’accento propendono per una originaria funzione di sostantivo.
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stessa sorte dei suoi vecchi colleghi. Cfr. anche Henderson 1998b, 299 «he merely survive». Wilson 2007a accoglie invece a testo la congettura μόλις, proposta in apparato da van Leewen 1900, 103 («hic quoque quantumvis festivus stare vix poterat»). Cfr. Wilson 2007b, 50. A sostegno di μόλις Imperio 2004, 220 richiama una possibile eco nel prologo dell’Hecyra di Terenzio (v. 15 partim sum earum exatus, partum vix steti). 540 μόνος ἀντήρκει, τοτὲ μὲν πίπτων, τοτὲ δ’ οὐχί entrambe le note con cui si chiude il verso sono negative. Meinsching 1964, 29 n. 82 evidenzia una possibile differenza rispetto a Magnete e Cratino: questi avrebbero incontrato insuccessi alla fine di una brillante carriera, ormai vecchi, mentre Cratete avrebbe alternato fin dal principio della sua carriera alti e bassi, riuscendo così a sopportare meglio gli insuccessi. Anche Biles 2011, 120 osserva che la carriera di Cratete non rispetta lo schema stabilito inizialmente da Aristofane al v. 519, di poeti traditi dal pubblico una volta raggiunta la vecchiaia («It is also difficult to imagine that with so few plays, his three victories created any pattern of the type Aristophanes initially claims (519) to have observed in all three careers. When he reaches the final discussion, however, he makes no attempt to make Crates’ career fit this pattern; rather “sometimes failing, sometimes not” (540) implies a career that did not fall into neat halves, as is suggested for the other two poets».
test. 6b (18 B.) Aristoph. fr. 347 ἦ μέγα τι βρῶμ’ †ἐστὶ ἡ† τρυγῳδοποιομουσική, ἡνίκα Κράτης τε τάριχος ἐλεφάντινον λαμπρὸν ἐνόμιζεν ἀπόνως παρακεκλημένον ἄλλα τε τοιαῦθ’ ἕτερα μυρί’ ἐκιχλίζετο. davvero un gran cibo † è l’† arte comica, quando Cratete considerava brillante il tarichos elephantinon invocato senza fatica, e di mille altre cose del genere ridacchiava.
Bibliografia Meineke I (1839), 61; Bonanno 1967b; Bonanno 1972, 26 test. XVIII, 26, 134–139; Roux 1976, 260–261; Kassel-Austin 1983, PCG IV p. 84; Kassel-Austin 1984, PCG III.2 p. 197; Totaro 2000, 18–20; Imperio 2004, 49; Torchio 2000, 51–55; Kerkhof 2001, 175; Storey 2011, FOC I, 208–209 test. xvi; Rusten et al. 2011, 138; Wright 2012, 83–84, 131–133; Pellegrino 2015, 216. Contesto Il frammento aristofaneo è trasmesso da Ath. 3.117c subito dopo il fr. 32 di Cratete (vd. infra), come testimonianza della notorietà del tarichos elephantinon di Cratete. I versi, assegnabili forse a una seconda parabasi (Whittaker 1935, 190, Totaro 2000, 18–20, Imperio 2004, 49), provengono dalle Thesmophoriazusai II, commedia di datazione controversa, ma probabilmente andata in scena tra il 415
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e il 40646. Da quanto si può ricostruire dai frammenti «in the parabasis the poet (speaking through his chorus) explained his recent absence from the public eye (fr. 346) and discussed the history of comedy (fr. 347) and his own—preeminently important—position in it (fr. 348)» (Austin-Olson 2004, LXXXVIII). La costituzione del testo presenta diversi problemi, per i quali rimando all’apparato di Kassel-Austin in PCG III.2. Interpretazione Il passo non è incluso tra le testimonianze di Cratete da Kassel e Austin, che ne fanno cenno solo in test. 6a come parallelo «de Aristophane Cratetis censore». Come per test. 6a anche in questo caso alcuni hanno interpretato il passo aristofaneo come un severo commento di censura contro il «sedicente collega» (Bonanno 1972, 41), espressione di «un certo disprezzo» (Totaro 2000, 18), una denuncia del basso livello della poesia di Cratete (Pellegrino 2015). Ma occorre tener presente la funzione dei riferimenti alla poesia di rivali e predecessori in una sezione parabatica di commedia: essi vanno inquadrati nel contesto retorico dell’affermazione della propria poetica e non come autentici giudizi letterari (cfr. Biles 2002 e 2010 e Ruffell 2002, Wright 2012, 75). Dicendo che ai tempi di Cratete era facile fare commedia e bastavano trovate semplici per far divertire (vd. 1. βρῶμ’, 3. ἀπόνως), Aristofane intende rivendicare per contrapposizione la complessità e la novità della sua commedia e forse anche lamentare il cambiamento di gusti del pubblico47. Anche il passo di Nub. 523ss., evocato da Bonanno 1972, 138–139, affrontava con metafora culinaria lo stesso tema: reputando gli spettatori intelligenti il poeta crede sia giusto “fare assaggiare” (ἀναγεῦσ’) a loro per primi la commedia che gli è costata tanta fatica (παρέσχε μοι ἔργον πλεῖστον). Sulla complessità del presente rispetto al passato vd. anche Aristofane fr. 467 in riferimento alla musica. Anche in questo caso Aristofane utilizza immagini gastronomiche in funzione metaletteraria e riprende anche metricamente un sintagma crateteo, quello del tarichos elephantinon, conservato in un frammento dei Samioi (tradito contestualmente da Ateneo, vd. infra fr. 32.1). È probabile che i versi contessero anche altri echi dello stile crateteo che non siamo più in grado di cogliere (vd. 4. ἄλλα … ἕτερα). La metafora della poesia come pasto imbandito dal poeta/cuoco ricorre con una certa frequenza in commedia e specificamente in Aristofane vd. ad es. Th. 162 (i lirici ἁρμονίαν ἐχύμισαν “insaporirono la loro armonia”), fr. 158 sullo stile del tragediografo Stenelo, non commestibile se non opportunamente condito, una battuta che si ripete simile in riferimento a Euripide nel fr. 595, che sembra presentare una sorta di ricetta per una tragedia ben riuscita. Ancora Aristofane nel fr. 128 allude alla poesia di Euripide con un elenco di cibi elaborati e di poca sostanza contrapposti a un bel pezzo di carne, che rappresenterebbe la più sostanziosa poesia di Eschilo (vd. Alvoni 1990 e vd. infra ad fr. 21). Cfr. Taillardat 19652 § 751–755, Corbel-Morana 2007. 46 47
Una sintesi dello status quaestionis con bibliografia precedente in Pellegrino 2015, 205. Sui mutamenti di gusto del pubblico e gli autori di moda o ormai superati in Aristofane vd. Wright 2012, sp. 83–87.
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La testimonianza prova la notorietà di alcune trovate di Cratete a distanza di diversi anni (almeno un decennio, probabilmente di più) dalla rappresentazione delle sue commedie e descrive la commedia cratetea come non più di moda. 1 βρῶμ’ brōma è un termine che ricorre prevalentemente in prosa per indicare il cibo solido, ciò che viene mangiato (βιβρώσκω), soprattutto in riferimento ad alimenti frugali come il formaggio vd. ad es. Hp. VM 20, Thuc. 4.26.5. Più frequentemente al plurale, nel senso di “viveri” (vd. ad es. Aristoph. Eq. 605). A volte in opposizione a cibi che comportano cotture o preparazioni più complesse (ὄψα, Sosip. 1.30), forse nel senso di portata principale (cfr. anche Aristot. fr. 104 Rose διαφέρειν τράγημα βρώματος). Vd. DGE s. v. Sembra indicare insomma qualcosa di semplice ma di sostanza, cfr. fr. 6a.2. Per la stigmatizzazione moralistica delle diete più sofisticate cfr. ad es. Nub. 983, in cui il Discorso Migliore indica tra i comportamenti sconvenienti a banchetto ὀψοφαγεῖν (vd. Dover 1968, 217–218). Kassel e Austin osservano che in riferimento ad ἀναγεῦσαι “far assaggiare” che Aristofane usa a proposito della propria commedia in Nub. 523 uno scolio spiega τοῦτο ὡς ἐπὶ βρωμάτων εἶπεν (sch. (RVE) Aristoph. Nub. 523b Holwerda). 1 †ἐστὶ ἡ† molteplici le proposte di emendamento al v. 1 per sanare il locus desperatus. Assai plausibile la congettura proposta da Kassel in apparato, ἔτ’ ἦν, giudicata «vorzügliches» da Zimmermann 1986, 546. Cfr. anche Pellegrino 2015, 216 che dunque traduce «Certamente un gran bel cibo †era ancora l’†arte comica». 1 τρυγῳδοποιομουσική è un hapax composto da τρυγῳδία + ποιέω + μουσική (sc. τέχνη). τρυγῳδία è conio comico a indicare la commedia per paranomasia con τραγῳδία e variamente inteso come derivato da τρύγη (raccolto, vendemmia) o da τρύξ (vino nuovo, ma anche feccia). Vd. Aristoph. Ach. 499, 500, 886; Ve. 650, 1537; fr. 156.9 e Eup. fr. 99.29. Sulla concezione poetica insita in questo termine vd. in particolare Aristoph. Ach. 499, 500 con Taplin 1983, secondo il quale esso implica in Aristofane una rivendicazione per la commedia delle stesse prerogative della tragedia, e Edwards 1991, che evidenzia il legame con la scatologia (cfr. fr. 20) e afferma che «the irony of Aristophanes’ humble and playful characterization of comedy, as τρυγῳδία for example, lies, rather, in the fact that through such low images Aristophanes simultaneously vouches for the genre’s seriousness and importance». 2 τάριχος il tarichos era una comune modalità di conservazione della carne o del pesce attraverso un processo di salatura, oppure di essicazione o salamoia (cfr. latino salsamentum)48. Si trattava di un cibo di tipologia varia, ampiamente diffuso e in genere economico. Ateneo cita molti passi comici con riferimento al tarichos. Si trova in elenchi di cibi ad es. in Hermip. fr. 63.5, Pherecr. fr. 190.2. In Aristoph. Ve. 490–492 la tirannide è definita più a buon mercato del tarichos (cfr. MacDowell 1971, 199–200). Cfr. anche Ach. 1101 (cfr. Olson 2002, 339), Eq. 1247, Ran. 558. Vd. Bianchi 2016, ad Cratin. fr. 44. Il termine è anche usato in senso 48
Vd. Curtis 1991. Per la conservazione della carne nell’antichità vd. Frost 1999, Dalby 2003, 95–96 (s. v. conserving).
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figurato nel senso di “mascalzone” (cfr. l’italiano “baccalà”) in Aristoph. fr. 207 (cfr. Cassio 1977, 50). In senso traslato è anche riferito a una mummia: vd. Hdt. 9.120.2 (τεθνεὼς καὶ τάριχος) e cfr. Soph. fr. 712 Radt (νεκρὸς τάριχος εἰσορᾶν Αἰγύπτιος; cfr. Pearson 1917, II 319). Il tarichos ricorre in due dei frammenti noti di Cratete: frr. 19.2 e 32.1, a cui qui si allude. 2 τάριχος ἐλεφάντινον Aristofane allude a un verso dei Samioi (fr. 32.1), ripreso anche metricamente (verso trocaico-peonico) con il sintagma nella medesima posizione. 3 λαμπρὸν l’aggettivo lampros “splendido, brillante” nel V secolo è usato sia in senso proprio sia in senso traslato49. In senso figurato in riferimento allo stile dei ditirambi ad es. in Aristoph. Av. 1388. Considerato il significato “candido, bianco”, ben attestato fin da Od. 19.234, con lampros Aristofane poteva giocare anche sul possibile valore dell’aggettivo ἐλεφάντινον nel senso di “eburneo, color avorio” (vd. infra ad fr. 32.1). 3 ἀπόνως παρακεκλημένον cfr. test.6a v. 538 ἀπὸ σμικρᾶς δαπάνης. Su questo avverbio hanno in particolare appuntato l’attenzione quanti hanno visto in questi versi una condanna della poesia di scarso valore di Cratete. Verosimilmente questo aspetto era funzionale a evidenziare gli sforzi di Aristofane (cfr. Nub. 524 sopra menzionato). Wright 2012, 131 ipotizza che il sintagma sia una citazione da Cratete: «when he quotes the phrase ‘effortlessly summoned up’ – a description which Crates himself, presumably, was using in order to impress his audience – Aristophanes manages to impart a negative sense to it, implying that he himself has spent a lot more time and effort preparing his own nouvelle cuisine». 3 παρακεκλημένον Kassel e Austin mantengono la lezione del Marciano (così anche Henderson 2007, 276), mentre gli editori precedenti e Bonanno 1972, 41, 138 (seguita ad es. da Pellegrino 2015) preferivano παραβεβλ- trasmesso dai codici recentiores, inteso nel senso di “gettare cibo alle bestie, foraggiare”, ma «metro invito» secondo Kassel e Austin (cfr. PCG IV p. 19 ad Autocr. fr. 3). Il verbo παρακαλέω generalmente indica “convocare, chiamare in proprio aiuto” ed è usato spesso anche in riferimento a inviti a banchetto (es. Eur. Bac. 1247). Vd. GI s. v. 4 ἄλλα τε τοιαῦθ’ ἕτερα μυρί’ le trovate di Cratete dovevano essere numerose. Per l’uso pleonastico di ἕτερος e ἄλλος cfr. Cratete fr. 28 (vd. infra). È lecito chiedersi se Aristofane con questa espressione intendesse alludere a uno stilema sentito come tipicamente crateteo o comunque presente in qualche famoso verso del suo predecessore. Per analoghe espressioni iperboliche cfr. Diph. fr. 42.37–38 ἕτερα μυρία τοιαῦτα e Strat. fr. 1.40–41 ἕτερα μυρία τ⸤ο⸥ι⸤αῦ⸥θ’ ἅ. 4 ἐκιχλίζετο il verbo, etimologicamente connesso con κίχλη “tordo”, sembra indicare per onomatopea una risatina tipo cinguettio (vd. Beekes 2010, 706). Vd. Aristoph. Nub. 983, dove κιχλίζειν è elencato dal Discorso Migliore tra i comportamenti sconvenienti a un banchetto dopo ὀψοφαγεῖν (vd. supra ad 1. βρῶμ’). 49
Per estensione l’aggettivo può significare anche “forte, veemente” cfr. ad es. Aristoph. Eq. 430, 760.
Testimonia (test. 7a-c)
51
Cfr. anche Nub. 1073 in cui κιχλισμός è varia lectio per καχασμός tra i piaceri a cui dovrebbe rinunciare il casto. Cfr. Theocr. 11.78 e altre occorrenze posteriori elencate da Headlam 1922, 166 ad Herond. 7.123 «the word is used of immodest sarcastic significant laughter». Cfr. κιχλιδιάω Com.Adesp. fr. 1038.
test. 7a-c K.-A. (4 B.) 7a. Eus. Chr. (Hieron.) p. 112.15 Helm Ol. 82 anno 2 (451/450) Crates comicus et Telesilla ac Bacchylides lyricus clari habentur. Praxilla quoque et Cleobulina sunt celebres 7b. Eus. Chr. (Arm.) p. 193 Karst Ol. 82 anno 4 (449/448) Krates der Komiker und Telesillawaren gekannt 7c. GeorgSync. p. 297.5–7 Mosshammer Κράτης ὁ κωμικὸς καὶ Τελέσιλλα καὶ Πραξίλλα καὶ Κλεοβουλίνα ἐγνωρίζοντο. Βακχυλίδης ὁ μελοποιὸς ἤκμαζεν.
Bibliografia Meineke I (1839), 59; Edmonds I (1957) 153; Luppe 1970, 1–3; Bonanno 1972, 20–21 test. IV, 28; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 84; Kyriakidi 2007, 69–71; Storey 2011, FOC, I 204–205 test. v e vi. Contesto Il nome di Cratete comico compariva nei Chronici Canones dell’opera cronografica di Eusebio di Cesarea (III/inizi IV sec.)50, a noi nota attraverso la versione latina di Girolamo (test. 7a) e una versione armena del V sec. (test. 7b). Il Chronicon di Eusebio è inoltre ripreso nell’Ecloga del cronografo bizantino Giorgio Sincello (test. 7c), che la utilizzò tra le sue fonti51. Nella tavola sincronica di entrambe le versioni della cronaca eusebiana il floruit di Cratete è fissato alla ottantaduesima Olimpiade, ma con una divergenza di due anni: Girolamo lo pone al secondo anno (corrispondente al 451/450), la versione armena al quarto (449/448). Cratete comico è citato accanto ad altri poeti: Telesilla e Bacchilide, Prassilla e Cleobulina. Il nome di Cratino compare poco prima, in corrispondenza del 454/453: vd. Bianchi 1917, 293–295. 50 51
P. 104 nella retroversione in greco di Schöne 1866, II. Per la cronaca di Eusebio, le sue fonti e la sua tradizione successiva vd. Mosshammer 1979, Burgess-Witakowski 1999, sp. 21–27. Per la versione armena vd. anche DrostAbgaryan 2016. Per Sincello vd. Adler-Tuffin 2002, XXIX-LXIX con la traduzione del passo a p. 360.
52
Crates
Interpretazione La testimonianza è importante per la cronologia di Cratete: fissa l’akmē del comico all’ottantaduesima Olimpiade, più specificamente al 451/450 a. C. stando alla versione di Girolamo, tre anni dopo Cratino (vd. Luppe 1970), in un quadro congruente con i dati ricavabili dalle altre fonti. Si ritiene che il clari habentur / ἐγνωρίζοντο sia da intendere in riferimento alla prima vittoria agli agoni drammatici (vd. Luppe 1970, 3). Nel caso di Cratete la data coinciderebbe quindi con la prima vittoria alle Dionisie (cfr. test. 9).
test. 8 K.-A. (5 B.) Demetrius Lacon, Peri poiēmatōn B col. 38, p. 112 Romeo (= col. 43 p. 87 De Falco) νω̣ […]δ’ ο[ὐκ ἐ]πέ[χ]ει[ν] | ποήμ[α]τ̣’ ἀ[ρε]τὴν [κα]ί | γ[ε] ἱ̣κανὸν ἔφ’ ἑνὸς ὑπο|δείγματο[ς]· ὁ γ[ὰ]ρ δὴ Κρά|της κατὰ τ̣ὸν αὐ[τὸν] | χρόνον γε[γο]νὼς [Αἰσ]|χύλωι (Aeschl. test. 69 R.), τούτου διὰ τῶν | Ἠδωνῶν [εὐ]δοκιμήσ̣[αν|τος – ? –]τῶν | [– ? –]ησα[– ? –]γαιτω|[– ? –]κα[– – – Ἠδονῶν pap.
εὐ[δ]οκιμηθέν[τος Lucignano, [εὐ]δοκιμηθέν[τος De Falco
… i componimenti poetici non ripongono valore e adeguatezza su un modello; infatti Cratete, che visse nella stessa epoca di Eschilo, essendo questi rinomato per gli Ēdōnoi…
Bibliografia Gomperz 1877, 477; Edmonds I (1957) 153; Bonanno 1972, 21, 27 test. V; Kassel-Austin 1983, PCG IV, 84; Romeo 1988, 208–211; Amarante 1998, 135–136; West 1990, 48–49; Lucas de Dios 2008, 96; Storey 2011, FOC, I 204–205 test. vii; Rispoli 2013, 245 e n. 26. Contesto Il riferimento a Cratete si trova in una colonna frammentaria di P.Herc. 1014, un rotolo che riporta il secondo libro del De poematis di un Demetrio di incerta identificazione. All’attribuzione al peripatetico Demetrio di Bisanzio sembra da preferire quella proposta nella più recente edizione del papiro, che individua l’autore in Demetrio Lacone52, filosofo epicureo del II/I sec. a. C. (150/75 a. C.). Demetrio Lacone probabilmente insegnò a Mileto ma ebbe connessioni con l’ambiente romano53 e romano era il destinatario dell’opera. Del suo scritto Sulla Poesia, ci restituiscono stralci i papiri ercolanesi P.Herc. 188, 1014 e forse 1113a54. Il P.Herc. 1014 è quello che conserva resti più consistenti (66 colonne) e la sottoscrizione che identifica il volumen come secondo libro del 52 53
54
Sul problema dell’attribuzione vd. Romeo 1988, 21–25. Per una recente messa a punto sulla cronologia di Demetrio Lacone vd. Dorandi 1991, 51–52. Per un profilo dell’autore vd. Puglia 1988, 37–48 e Romeo 1988, 26–32 (e 66–67 sul destinatario romano del De Poematis). Su quest’ultimo papiro, che Romeo esclude, vd. Dorandi 1992, 33.
Testimonia (test. 8)
53
Peri poiēmatōn di Demetrio. La parte conservata comprende inizialmente una estesa trattazione tecnica dedicata alla lexis poetica, con frequenti riferimenti alla poesia drammatica55 e osservazioni sul rapporto con l’hypokrisis e la resa vocale delle parole. A chiusura di questa sezione Demetrio tratta della questione dell’imitazione di un modello (col. 38). È in questo contesto che viene citato Cratete, che avrebbe imitato Eschilo, e forse specificamente gli Ēdōnoi. Tuttavia le lacune materiali interrompono la testimonianza e non consentono di ricostruire il contenuto immediatamente precedente e successivo a questi righi. La colonna seguente secondo Romeo conteneva una citazione poetica (col. 39.5–7 Romeo), quella ancora successiva riporta una definizione di “metafora” (col. 40.2–12). La copia dell’opera di Demetrio, databile al II secolo a. C.56, faceva parte del nucleo originario della biblioteca rinvenuta nella “Villa dei papiri” di Ercolano (Cavalieri 2010). Sotto r. 4 c’è una paragraphos, in corrispondenza con la pausa sintattica segnalata da punto in alto. Interpretazione Il passo testimonia una conoscenza della commedia cratetea in ambiente epicureo nel II sec. a. C. e una continuità nei riferimenti a questo autore nel dibattito critico in materia di poetica anche in età post-aristotelica (per il rapporto tra l’opera di Demetrio e la poetica aristotelica vd. Rispoli 2013, sp. 243–246). La diffusione di tale trattatistica in ambiente latino, dimostrata dai papiri ercolanesi, è rilevante anche per la questione del grado di notorietà di Cratete nel contesto culturale romano (vd. supra). Lo stato frammentario del papiro non consente di stabilire con sicurezza il testo dei primi righi né di ipotizzare come proseguisse il discorso nei righi immediatamente successivi alla menzione di Cratete ed Eschilo. La parziale ricostruzione del passo si deve a Gomperz 1877 ed è stata sostanzialmente accolta dagli studiosi successivi salvo lievi variazioni nella segnalazione delle tracce effettivamente visibili. Gli elementi di interesse nel testo che pare emergere sono principalmente due: 1) il dato cronologico della contemporaneità tra Cratete ed Eschilo; 2) l’uso di un modello eschileo da parte di Cratete. 1) Demetrio sosterrebbe una contemporaneità di Cratete ed Eschilo. La notizia ha suscitato dubbi, considerato che la morte di Eschilo è fissata al 456 a. C. in Sicilia e che secondo le altre fonti Cratete avrebbe debuttato poco dopo Cratino (vd. supra test. 3 e con margini di dubbio test. 2a) e il suo floruit fu nel 451/450 (test. 7 e 9). Körte 1922, 1624 giustificava questa incongruenza con una errata interpretazione 55
56
Eschilo (col. 16, 2–8 e 33, 2–4 = p. 366 R.); Euripide (col. 30, 7–9 = fr. 479 Kannicht). Cfr. Romeo 1988, 52. Numerosi anche i riferimenti alla commedia (col. 11, 6; 25, 3; 26, 4) e più avanti Demetrio cita anche Sofrone (col. 55 = fr. 16; forse anche col. 8, 8–9; vd. Hordern 2002). Più in generale sui riferimenti alla commedia nei papiri ercolanesi vd. Capasso 1990 (su Aristofane) e Capasso 1991 (su Epicarmo). Il papiro è datato al II sec. a. C. da Cavallo 1983. Una datazione al I sec. a. C. è invece proposta da Janko 2000, 5 n. 6.
54
Crates
da parte di Demetrio del passo aristotelico test. 5, che avrebbe potuto far supporre un’anteriorità di Cratete rispetto a Cratino. Più in generale è possibile che l’idea di una contemporaneità tra i due poeti possa essere sorta per il parallelismo, che vediamo, sia pure implicito, nella Poetica di Aristotele, tra Eschilo e Cratete (Eschilo : tragedia = Cratete : commedia). Tuttavia la notizia, piuttosto che «certamente falsa» (Bonanno 1972, 27), andrà considerata semmai imprecisa o generica («not strictly true» Storey 2011, 205). Giustamente Romeo 1988 osserva che nel contesto del passo di Demetrio l’intento non è una ricostruzione cronologica, come in una storia della letteratura: il dato cronologico è secondario, funzionale ad argomentare che Cratete fu influenzato da Eschilo perché visse all’incirca nel medesimo periodo («un divario di quarant’anni, quello intercorrente tra Eschilo e Cratete, a distanza di tre secoli risulta irrilevante per chi non abbia i documenti sotto mano» p. 210, cfr. anche Lucas de Dios 2008, 96). A ben vedere inoltre Demetrio sembra fare specifico riferimento all’epoca in cui Eschilo ebbe successo con gli Edoni, tanto più se al genitivo assoluto τούτου … [εὐ]δοκιμήσ̣[αν|τος si dà un valore temporale57. La data della tragedia è sconosciuta ma appartiene verosimilmente alla fase finale della carriera eschilea (vd. infra), dunque forse a un momento in cui Cratete era già attivo. 2) Che cosa Cratete avesse imitato di Eschilo non è dato ricavarlo dal testo del papiro ercolanese. Né è dato capire se il giudizio di Demetrio sulla rielaborazione del modello da parte di Cratete fosse positivo o meno. Potrebbe indurre a ipotizzare una valutazione positiva il confronto con l’analoga trattazione di Filodemo, spesso accomunata a quella di Demetrio Lacone come esempi dell’approccio epicureo alla poesia, ma le due opere presentato differenze anche sostanziali (come giustamente richiamato da Hordern 2002, 75). L’elemento oggetto di imitazione secondo Gomperz 1877, 477, sarebbe l’introduzione sulla scena di personaggi ubriachi, perché i due poeti secondo le testimonianze antiche sarebbero stati i primi a utilizzarli (vd. test. 2a e Geitones test. i). Le testimonianze parlano però della tragedia Cabiri non degli Ēdōnoi. Secondo Wilamowitz oggetto di imitazione sarebbe invece il personaggio dell’effeminato, che Eschilo introdusse (cfr. frr. 59, 61 e 62 Radt). Amarante pensa in particolare al personaggio di Dioniso, rappresentato come effeminato in contrasto al virile Licurgo. Romeo parla più genericamente di un espediente tecnico o di un personaggio (p. 210). Tuttavia non necessariamente si deve pensare che l’elemento preso a modello fosse un particolare personaggio, anzi il contesto della trattazione potrebbe far piuttosto pensare a elementi lessicali o stilistici. 6 γε[γο]νὼς il participio andrà qui inteso genericamente come “vissuto”. Si consideri tuttavia il dibattito critico in merito alla corretta interpretazione di γέγονε nei biografi greci come “nacque” (Schöne 1876, 744 n. 5) oppure come “fiorì” (Rohde 1878). Cfr. Romeo 1988, 211. 57
Cfr. traduzione di Edmonds «when the latter became famous because of his Edonians». Romeo 1988, 210, ritiene invece che il genitivo assoluto abbia valore causale.
Testimonia (test. 9)
55
6–7 [Αἰσ]|χύλωι sulla presenza di riferimenti a Eschilo nell’opera di Demetrio Lacone e più in generale nelle opere conservate dai papiri ercolanesi si veda Amarante 1998 e più recentemente Totaro 2018. 9 Ἠδωνῶν la tragedia Ēdōnoi era parte della tetralogia Lycurgeia, composta da Ēdōnoi, Bassarai (o Bassarides), Neaniskoi e dal dramma satiresco Lycurgos (cfr. sch. Aristoph. Th. 136 = Aeschl. test. 68 R.). A quanto si può ricostruire in base agli undici frammenti (frr. 57–67) e al confronto con [Apoll.] Bibl. 3.5.1 e tragedie successive come le Baccanti di Euripide e la cothurnata di Nevio Lycurgus58, negli Ēdōnoi di Eschilo Licurgo, re della popolazione tracia degli Edoni, tenta di opporsi all’introduzione del culto dionisiaco e arresta Dioniso e le baccanti, che però riescono miracolosamente a fuggire. Dioniso fa poi impazzire Licurgo che, convinto di recidere un trancio di vite, uccide suo figlio con un’ascia. La fortuna di questo dramma sembra confermata anche da altre riprese comiche. Aristofane fa riferimento a quest’opera, e in particolare alla scena in cui Licurgo interroga Dioniso con un’incalzante sequenza di domande sul suo ambiguo aspetto (fr. 61), nelle Thesmophoriazusai, laddove il parente di Euripide si rivolge ad Agatone (vv. 134ss.). Cfr. inoltre Aristoph. Av. 276, Ra. 47 ed Eub. fr. 24. Il riferimento a un edificio scenico nel fr. 58 suggerisce di collocare la tetralogia nella fase finale della produzione di Eschilo, e indurrebbero a un simile inquadramento cronologico anche altri elementi, di per sé non decisivi, come la probabile presenza di tre attori in scena, le corrispondenze con l’Oresteia e con le Supplices, oltre a considerazioni storiche sui contatti con la popolazione degli Edoni59. test. 9 K.-A. (3 B.) IG II2 2325.48–53 (= 2325C col. I 16 Mette) [Εὐφρόν]ιος Ι [Ἐκφαν]τίδης ΙΙΙΙ [Κρατῖ]νος ΙΙΙ [Διο]πείθης ΙΙ [Κρά]της ΙΙΙ [Καλλία]ς ΙΙ [Eufron]io 1 (test. 1–2) [Ecfan]tide 4 (test. 1) [Crati]no 3 (test. 5) [Dio]pete 2 (PCG V, p. 43) [Cra]tete 3 [Callia] 2 (test. *5) 58 59
Vd. West 1990, 26–50 sp. 27–32; Garzya 2000; Sommerstein 2008, 60–61. Vd. in particolare West 1990, 48–50, che tra i diversi elementi a favore di una datazione negli ultimi anni della carriera eschilea annovera anche la testimonianza di Demetrio Lacone. Cfr. anche Oświecimski 1964, 34ss.
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Crates
Bibliografia Wilhelm 1906, 110, 176; Geißler 1925, 10–11; Bonanno 1972, 20 test. III; Mette 1977, 166; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 84 n° 9; Olson 2007, 384; Storey 2011, FOC, I 206–207 test. x; Rusten et al. 2011, 139; Olson-Millis 2012, 163 e 167; Bianchi 2016, 14; Contesto Il nome di Cratete è una verosimile integrazione al r. 52 (numerazione di Kirchner in IG II2 = col. I r. 16 Mette e Olson-Millis) tra i poeti comici vincitori alle Dionisie del frammento epigrafico IG II2 2325C, parte di un catalogo di vincitori agli agoni drammatici. L’iscrizione in marmo pentelico risale al III sec. a. C. e si ritiene fosse esposta su un edificio commissionato da un agoneta nel 279/278, probabilmente lo stesso delle Didascaliae IG II2 2319–2324 (così Reisch 1907, vd. Summa 2010, 206; contra Olson-Millis 2012, 138 ma vd. Summa 2014). Dopo le edizioni in IG (II 971 e II2 2325), fu ripubblicata anche da Mette 1977, e più recentemente da Olson-Millis 2012 con l’aggiunta di tre ulteriori frammenti. Si tratta di un elenco di nomi di poeti e attori comici e tragici vincitori alle Dionisie o alle Lenee, con il numero di vittorie conseguite. L’ordinamento è cronologico: si basa sulla data del conseguimento della prima vittoria. Il nome di Cratete comparirebbe nella parte relativa agli autori comici vincitori alle Dionisie, dopo Cratino e Diopite e prima di Callia. La prima colonna è molto lacunosa, ma la successione è ricostruibile in base al confronto con altre fonti letterarie ed epigrafiche, soprattutto i Fasti IG II2 2318, a partire dall’integrazione del nome di Magnete a r. 44 con undici vittorie, tante quante gliene attribuisce l’anonimo De Comoedia (Magnes test. 1). Vd. Olson-Millis 2012, 156, cfr. anche p. 53 dove ipotizzano che il nome di Cratete si possa integrare anche in IG II2 2318 al r. 246. Insieme ai Fasti e alle Didascaliae, le Liste di vincitori costituiscono una fonte chiave per la ricostruzione della cronologia del teatro ateniese, con informazioni che si possono far rimontare in ultima analisi agli archivi ufficiali (vd. Olson-Millis 2012, 1 e n. 1). Interpretazione La testimonianza frammentaria è stata ricostruita con un buon grado di sicurezza e in modo congruente con i dati cronologici ricavabili dalle altre fonti. Considerando l’integrazione del nome di Eufronio come ragionevolmente sicura (cfr. Olson-Millis 2012, 156), la sua unica vittoria, che può essere datata in base ai Fasti (IG II2 2318.158) al 459/458, costituisce il dato di partenza. La prima vittoria di Cratete non potrà allora essere anteriore al 455/454, ma fu verosimilmente più tardi perché negli anni tra il 459/458 e il 455/454 i poeti menzionati nei righi precedenti avranno ottenuto le vittorie successive alla prima. La prima vittoria di Cratino si potrebbe collocare nel 456/455 o più probabilmente nel 453/452 immaginando che Ecfantide abbia ottenuto le sue quattro vittorie in quattro anni consecutivi (Capps 1907, 196–197 n. 2; cfr. Bagordo 2014a, 76 e Bianchi 2017, 13). Se Cratino e l’altrimenti ignoto Diopete non ebbero pari fortuna con serie ininterrotte di successi, la prima vittoria di Cratete potrebbe datarsi due anni dopo la prima vittoria di Cratino, dunque al 454/453 o più probabilmente al 451/450 (cfr. test. 7). La datazione più bassa possibile per la prima vittoria di Cratete in
Testimonia (test. 10)
57
base al testo di IG II2 2325 sarebbe il 448/447. La prima vittoria di Callia, il nome integrato al rigo successivo rispetto a Cratete, è infatti databile al 447/446 in base ai Fasti (IG II2 2318.294). Come si può ben vedere si tratta di dati incerti, ma il 451/450 è assunto in genere come data plausibile per la prima vittoria di Cratete (vd. Mensching 1964, 29, Bonanno 1972, 28 e n. 3). Oltre che per il dato cronologico la fonte epigrafica ci restituisce un’informazione sul numero di vittorie conseguite da Cratete agli agoni dionisiaci: tre. Non sappiamo con quali commedie, né in quali anni ottenne queste vittorie, che sono considerate le uniche di Cratete (vd. Bonanno 1972, 28). Sul fatto che il nome di Cratete non compaia invece tra i vincitori delle Lenee vd. supra.
test. 10 K.-A. (2 B.) Diog.Laert. 4.23 Γεγόνασι δὲ Κράτητες δέκα· πρῶτος ὁ τῆς ἀρχαίας κωμῳδίας ποιητής, δεύτερος ῥήτωρ Τραλλιανὸς Ἰσοκράτειος, τρίτος ταφρωρύχος Ἀλεξάνδρῳ συνών, τέταρτος ὁ κύων περὶ οὗ λέξομεν, πέμπτος φιλόσοφος περιπατητικός, ἕκτος Ἀκαδημαϊκὸς ὁ προειρημένος, ἕβδομος Μαλλώτης γραμματικός (Crates Mall. test. 2 Broggiato), ὄγδοος γεωμετρικὰ γεγραφώς, ἔνατος ἐπιγραμμάτων ποιητής, δέκατος Ταρσεὺς φιλόσοφος Ἀκαδημαϊκός. Sono esistiti dieci Cratete: il primo fu il poeta della commedia antica, il secondo un oratore di Tralle allievo di Isocrate, il terzo uno scavafosse al seguito di Alessandro, il quarto il cinico di cui parleremo, il quinto un filosofo peripatetico, il sesto un Accademico sopracitato, il settimo il grammatico di Mallo, l’ottavo uno che scrisse opere di geometria, il nono un poeta di epigrammi, il decimo un filosofo accademico di Tarso.
Bibliografia Bonanno 1972, 20 test. II; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 84 n° 10; Storey 2011, FOC, I 202–203 test. ii. Contesto Diogene Laerzio nelle sue Vitae Philosophorum, in conclusione della biografia del filosofo ateniese Cratete (RE 8) a capo dell’Accademia nel III sec. a. C. (4.21–23), fornisce, secondo lo schema tipico della sue biografie, una lista di omonimi con brevi indicazioni distintive. Nel caso di Cratete gli omonimi annoverati sono dieci a partire in ordine cronologico dal Cratete poeta della commedia antica. Gli altri omonimi includono un oratore (RE 10), un personaggio storico (RE 21), vari filosofi, tra i quali il cinico di Tebe (RE 6) cui è dedicata una successiva biografia (6.85–93), un peripatetico (RE 7) e un accademico di Tarso (RE 9), e poi il grammatico di Mallo (RE 16), un autore di scritti sulla geometria e il poeta epigrammatico (RE 5). Per i rapporti tra le Vite diogeniane e la Suda vd. Dorandi 2009, 136–152. Interpretazione La testimonianza ci informa del fatto che Cratete era conosciuto come poeta della commedia arcaica, almeno come nome, nel III sec. d. C. e che
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Crates
l’omonimia con diversi altri personaggi, filosofi, letterati e personalità storici, poteva porre ovvi problemi nelle ricerche biografiche e aneddotiche.
test. 11 K.-A. Syn. Dio 18.5 ἐγὼ δὴ θαμὰ καὶ τραγῳδίαις ἐπετραγῴδησα, καὶ κωμῳδίαις ἐπιστωμύλλομαι πρὸς τὸν πόνον ἑκάστου τοῦ γράψαντος. εἴποις ἂν ἡλικιώτην εἶναι νῦν μὲν Κρατίνου (test. 34) καὶ Κράτητος, νῦν δὲ Διφίλου (test. 17) τε καὶ Φιλήμονος (test. 33). io molto spesso ho aggiunto drammaticità alle tragedie, e competo in facezie con le commedie, a seconda dell’opera di ciascuno scrittore. Potresti dire che sono contemporaneo ora di Cratino e Cratete, ora di Difilo e Filemone.
Bibliografia Treu 1958, 175; Kassel-Austin 1983, PCG IV, pp. 85 n° 11 e 119 (Cratin. test. 34); Kassel-Austin 1986, PCG V, pp. 50–51 (Diphil. test. 17); KasselAustin 1989, PCG VII, pp. 227 (Philem. test. 33) e 666 (Syn.); Garzya 1989, 712–713 e nn. 107–108; Lamoureux–Aujoulat 2004, 184–185 e n. 150; Storey 2011, FOC, I 204–205 test. viii; Bianchi 2017, 379–380. Contesto Sinesio di Cirene (circa 370–413), allievo di Ipazia, fu retore e filosofo neoplatonico che si convertì al Cristianesimo e divenne nel 410 vescovo di Tolemaide. È annoverato da Kassel-Austin tra i Poetae Comici Graeci (VII, p. 666) proprio in virtù di questo passo, che appartiene a uno degli opuscula, il Dione o del vivere secondo il suo ideale, intitolato al retore e filosofo di Prusa e databile con buona probabilità al 404 (Lamoureux–Aujoulat 2004, 96–101). In quest’opera Sinesio discute del suo ideale culturale e del rapporto tra filosofia e sofistica. Nella parte finale trattando l’argomento dei libri non emendati, che permettono di esercitare la propria maestria in un rapporto aperto tra lettore e opera letta, Sinesio fa diretto riferimento alle proprie capacità di improvvisazione durante la lettura dei libri e del suo porsi in competizione con l’autore che sta leggendo rifacendo intere opere o singoli pezzi dei più svariati stili. Interpretazione La testimonianza non era presa in considerazione da Bonanno 1972. Cratino e Cratete sono citati come esponenti della commedia antica in opposizione a Difilo e Filemone, esponenti della commedia nuova. Significativa la scelta di Cratete a fianco a Cratino come rappresentante dell’archaia in un’opera di inizi V sec. d. C. Bianchi 2017, 380 nota: «se si accetta la bontà di questa testimonianza di Sinesio, sarebbe documentata una lettura di questi quattro commediografi tra la fine del IV e l’inizio del V sec. d. C., in un’epoca in cui si tende generalmente a escludere la possibilità di una conoscenza diretta di questi testi». Non credo tuttavia che il passo possa essere inteso come indizio di una lettura diretta di questi autori. La vistosa omissione del nome dei due autori di maggior spicco, rispettivamente Aristofane e Menandro, è stata interpretata come segno della volontà di
Testimonia (test. 12)
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Sinesio di distinguersi (Garzya 1989, 712 n. 108 «forse perché troppo sfruttati per imitazioni, o riprese, del genere») oppure come segno di modestia nel paragonarsi a così grandi autori (Lamoureux–Aujoulat 2004, 185 n. 150: «par modestie… et par prudence»). Si potrebbe invece pensare che definendosi ἡλικιώτης ora di Cratino e Cratete ora di Difilo e Filemone, Sinesio si stia paragonando, sia pure in modo non esplicito, proprio ora ad Aristofane e ora a Menandro. È verosimile che Sinesio potesse ancora leggere direttamente le opere di questi due autori, mentre la sua conoscenza dei loro contemporanei sarà stata più probabilmente indiretta. Sinesio del resto non si mostra per nulla modesto, e infatti premette ἐγὼ τοίνυν πρὸς μὲν γὰρ ἄλλον οὐδένα νεανιεύσομαι, πρὸς σὲ δὲ τάγε ἀληθῆ (18.1): vanta brillanti capacità di competere con i classici quando li legge e fa sfoggio di conoscenze di storia della letteratura nominando anche i contemporanei dei principali autori. ἐπιστωμύλλομαι è un hapax legomenon. Senza il preverbo, στωμύλλω “chiacchierare”, “cianciare”, ricorre più volte in Aristofane (Ach. 579, Nub. 1003, Pax 995, Th. 1073, Ran. 1310). πρὸς τὸν πόνον ponos è la “fatica”, ma anche “il frutto della fatica”, riferito a un’opera letteraria ad es. in Callim. epigr. 6.1. Qui il termine è inteso come “Arbeitsweise, Manier” da Bernays 1869, 116, seguito da Kassel e Austin 1983, 119 (“stilum”) e Storey 2011, 205 (“style”). Garzya 1989, 712–713 e n. 107, ritiene che l’affermazione non debba essere sopravvalutata («si tratterà di variazioni e di esercizi affidati soprattutto all’improvvisazione») e traduce con “per adattarmi alla fatica” (così anche Bianchi 2017). test. 12 K.-A. (7 B.) 20
25
PSI II 144 (CGFP 68; MP3 2078; LDAB 4664) rr. 20–26 Κράτητα μ[έντοι τὸν κωμικὸν ποιη[τὴν γεγραφότα τὸν [ τον ἐν τῆι ἀ[ρχῆι τῆς ἀντεπιρρήσεως [ πλειον[ δε καὶ μ[
20 μ[έντοι Wilamowitz 1913a 21 ἢ τὸν suppl. Wilamowitz 22 Ἀσκληπ|ιόν Schmid 1946, Διόνυσον πρῶ|τον Mensching 1964 coll. Poll. 6.79 (Magn. fr. 2) 23 suppl. Wilamowitz (che) Cratete il poeta comico […] il quale ha scritto il […] nell’inizio dell’antepirresi (sic) …
Bibliografia Vitelli 1913 (ed. pr.); Wilamowitz 1913a, 1863 [cfr. PSI III, 1914, p. XII]; Körte 1922, 1624; Körte 1924, 243 n° 637; Schmid 1946, 92 n. 6; Kurz 1947, 90–91; Edmonds I (1957), 153; Mensching 1964, 29 n. 83; Wouters 1969; Bonanno
60
Crates
1972, 21–22 test. VII; CGFP 68; Gallo 1975, 141–161 n° 4; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 85 n° 12; CPF I.1 (1989), 36 Crates Cynicus, p. 441; Cooper 1992, 99; Bagordo 1998, 43 Eratosthenes F 19, pp. 134–135; Dorandi 2000, 388; Degni 2002, scheda n° 108; Storey 2011, FOC, I 206–207 test. xi; Perrone in corso di stampa. Contesto PSI II 144 è un frammento papiraceo da Ossirinco, databile su base paleografica al II/III secolo d. C. (cfr. Degni 2002; nell’ed. pr. era datato “II d. C.?”), che conserva la porzione sinistra di una colonna di 26 righi di un testo di natura incerta, per lo più interpretato a partire dal primo editore del papiro come una biografia di Demostene, ma che potrebbe piuttosto appartenere a un’opera di esegesi comica. Il testo è suddiviso in tre parti per mezzo di paragraphoi (sotto r. 6 e sotto r. 19). L’ampiezza della colonna è ricostruibile grazie alle integrazioni pressoché sicure della seconda parte del testo, che precede la testimonianza su Cratete. La possibile interpretazione come testo grammaticale, su accentazione o etimologia, proposta da Wilamowitz 1913a (vd. anche G. Vitelli, Papiri Greci e Latini. III, 2014, p. XII addenda et corrigenda) e poi ripresa da Körte 1924, è stata rigettata da Wouters 1969 e l’ipotesi del primo editore è stata accolta anche da Gallo 1975, che vede nel testo un’epitome di un bios erudito da inquadrare in età imperiale. I rr. 12–18 riguardano effettivamente l’accento e l’etimo della parola Ἀσκληπιός, ma nel contesto di notizie aneddotiche relative a Demostene. Nelle prime due parti del papiro sono stati infatti individuati riferimenti ad altri aneddoti della vita dell’oratore60: la balbuzie e un movimento alla spalla corretti con l’esercizio (rr. 1–6) e comportamenti eccentrici nella sua attività oratoria (rr. 7 ss.), come pronunciare il giuramento in versi, gli atteggiamenti da invasato e la stravagante accentazione proparossitona di Ἀσκληπιός, basata sulla paretimologia da ἤπιος (su quest’ultimo elemento in relazione a Demostene cfr. [Plut.] VOrat. 845b, Hdn. GG III vol. 1 p. 123.1 Lentz ed Eustath. in Il. vol. III p. 245.25 van der Valk). Questi elementi ci sono noti dalla tradizione biografica di Demostene e sono riconducibili a Demetrio Falereo (fr. 135C SOD, forse dalla sua monografia su Antifane)61. Tali bizzarrie dell’oratore erano infatti verosimilmente rilevate in caricatura dai commediografi contemporanei62 ed è proprio alla tradizione comica che sembra attingere l’opera di cui il papiro ci restituisce un frammento. Al r. 8 è citato come testimone Eratostene (Ἐρατοσ[θένης δέ φη]|σι), che con ogni probabilità è la fonte anche della parte successiva relativa a Cratete (cfr. Eratosth. fr. 19 Bagordo). L’opera da cui venivano tratte queste informazioni potrebbe essere il suo Περὶ τὴς ἀρχαίας 60 61
62
Vd. soprattutto le proposte di integrazione ai rr. 1–19 di Drerup 1923, 47–49, 51–52 e poi di Gallo 1975. Vd. Stork / Ophuijsen / Dorandi in Fortenbaugh / Schütrumpf 2000, 240–241. Demetrio Falereo è citato a proposito della discussione sul giuramento metrico di Demostene in Plut. Dem. 9.3–4 e Phot. Bibl. 265.493b12–16 cfr. [Plut.] VOrat. 845b. Montanari 2000, 392 n. 5, seguito da Lowe 2013, 347 e n. 19, ha ipotizzato che questi frammenti di Demetrio provengano dalla monografia su Antifane. Vd. Meerwaldt 1927, Gallo 1975, 145, Perrone in corso di stampa.
Testimonia (test. 12)
61
κωμῳδίας (Bagordo 1998, frr. 1–20 e pp. 37–40), una trattazione che non doveva essere limitata all’archaia in senso stretto (Gallo 1975, 157; cfr. Nesselrath 1990, 176–180). Cooper 1992 ha ipotizzato che il frammento PSI appartenga a un’epitome dell’opera eratostenica63, ma si dovrà pensare più genericamente a un’opera di esegesi comica, per la quale il Περὶ τὴς ἀρχαίας κωμῳδίας insieme all’opera di Demetrio Falereo saranno statate fonti. Proprio la presenza del riferimento a Cratete sembra confermare che il discorso si riferiva alla rappresentazione comica degli oratori, e non solo specificamente a Demostene (vd. Perrone in corso di stampa). Interpretazione Il frammento per la sua lacunosità lascia irresolubili incertezze nella ricostruzione. Si dovranno considerare quindi solo ipotetiche le notizie ricavabili da test. 12 su un possibile nuovo titolo di Cratete e sull’uso da parte del commediografo di giochi di parola basati su accentazioni paretimologiche del tipo Ἀσκλήπιος da ἤπιος. Ciò che si può ben affermare è invece che il testimonium attesta l’esistenza di un interesse esegetico antico per Cratete rimontante almeno ad Eratostene64. Non sappiamo invece se Cratete fosse incluso tra i poeti comici di cui si era occupato già Licofrone, incaricato insieme ad Alessandro Etolo di curare la prima diorthosis dei poeti scenici (secondo la discussa notizia di Tzetz. Proll. Com. 1.1–7, pp. 22–23 Koster) e autore di un Περὶ κωμῳδίας in più di nove libri in cui oltre che di Aristofane trattava di Ferecrate, Cratino, Epilico e forse anche di altri commediografi65. Κράτητα μ[έντοι τὸν κω|μικὸν ποιη[τὴν Κράτητα all’accusativo è il soggetto di un’infinitiva retta ancora da Ἐρατοσ[θένης δέ φη]|σι di rr. 8–9. L’ed. pr. riteneva più probabile che il Cratete citato a r. 20 fosse non il comico, ma il cinico (p. 71), chiamato in causa per qualche suo motto riguardante Demostene, ma tale ipotesi mal si concilia con la palmare integrazione κω]|μικὸν ποιη[τὴν ed è da considerare superata (contra già Wilamowitz 1913a; vd. anche CPF 36, p. 441). Wouters sospettava che il commediografo di cui si parla qui non fosse il famoso Cratete dell’archaia, che per ragioni cronologiche non avrebbe potuto includere nei suoi drammi riferimenti a Demostene, ma un omonimo e altrimenti sconosciuto poeta della mese o della nea (Wouters 1969, 329). Anche questa idea pare però da scartare, non solo perché “il poeta comico Cratete” senza ulteriori specificazioni suggerisce un’identificazione con il più noto Cratete, ma anche perché il riferimento all’antepirrhēsis dei righi successivi è verosimilmente da intendersi nel senso di antepirrhēma, quindi una parte della parabasi propria della commedia antica (vd. comm. ad loc.). 63
64 65
Cooper 1992, 99ss. Inedito il suo intervento The Tradition of Demosthenes’ Speech Impediment, alla International Conference on Demetrius of Phalerum and Dicaearchus of Messene, Boulder 1995, a cui fa riferimento Dorandi 2000, 388. Sugli studi comici di Eratostene vd. Pfeiffer 1968 (1973), 259–263; Nesselrath 1990, 176–180; Bagordo 1998, 37–40, 127–136; Montana 2013. Vd. Pfeiffer 1968 (1973), 183; Bagordo 1998, 150 e Meliadò 2007.
62
Crates
Non sembra comunque necessario postulare che il passo di Cratete a cui si allude contenesse un riferimento a Demostene. Una delle possibilità è che Cratete fosse menzionato da Eratostene per qualche accentazione stravagante basata su giochi paretimologici simili al caso di Ἀσκλήπιος (Gallo 1975, 160). Ciò sarebbe in linea con il tipo di osservazioni presenti negli sparuti frammenti del Περὶ τὴς ἀρχαίας Κωμῳδίας, in cui prevalgono spiegazioni di glosse e interessi linguistici. Un’altra ipotesi potrebbe essere che Cratete fosse chiamato in causa per la descrizione di analoghi atteggiamenti eccentrici di oratori della sua epoca: si pensi in particolare alla commedia Rhētores a lui attribuita da Ateneo (vd. infra). ποιη[τὴν … γε]|γραφότα La proposta di ricostruzione dei rr. 20–24 formulata da Wilamowitz nella sua recensione al volume PSI – Κράτητα μ[έντοι τὸν κω]| μικὸν ποιη[τὴν ἢ τὸν γε]|γραφότα τὸν […]|τον ἐν τῆι ἀ[ρχῆι τῆς ἀν|τεπιρρήσεως[ – ha avuto largo seguito. Wouters e Gallo la accolgono integralmente a testo, mentre Kassel e Austin scelgono una linea più prudente e non stampano a testo l’integrazione di r. 21, “oppure colui che scrisse …”, che presupporrebbe un dubbio nell’attribuzione del dramma menzionato. Peraltro nel Περὶ τὴς ἀρχαίας Κωμῳδίας di Eratostene un’attenzione per questioni di autenticità sembra testimoniata nei frr. 5 e 17 Bagordo. γε]|γραφότα τὸν […]|τον Il titolo che ci si aspetterebbe subito dopo il γεγραφότα τόν è caduto in lacuna eccetto, forse, il -τον a r. 22 (tra i titoli noti di Cratete nessuno termina con –τος). Sul possibile nuovo titolo sono state formulate due ipotesi: Schmid 1946 ha cercato di conciliare questa terza parte del papiro con i righi precedenti immaginando Ἀσκληπ|ιόν, un titolo attestato per altri commediografi, che però non è stato accolto dagli editori del frammento perché troppo breve per lo spazio e non adatto alle tracce di inizio r. 22; Menschin 1964 ha invece suggerito Διόνυσον πρῶ|τον, sulla scorta di Διόνυσος δεύτερος di Magnete e di un fraintendimento della relativa testimonianza di Poll. 6.79 (Magnes fr. 2), in cui dopo la citazione è menzionato un Cratete, ma chiaramente non in riferimento al titolo, bensì solo alla lexis ταγηνίας (il fraintendimento risale già a Meineke 1826, 64; vd. in proposito anche Bonanno 1972, 32). Se è corretta l’ipotesi che il passo comico crateteo fosse citato come parallelo per Ἀσκληπιός, un gioco paretimologico su un nome di divinità sarebbe particolarmente adatto, ma lo stato lacunoso del testimonium lascia adito a molti dubbi. Ai rr. 21–22 si potrebbe anche pensare, considerato lo spazio, a un composto di γράφω (e. g. συγγεγραφότα oppure ἀναγεγραφότα). In ogni caso non è certo che dopo ]γραφότα ci fosse necessariamente un titolo. Il participio poteva essere seguito ad esempio dalla cosa o dalla parola oggetto del gioco comico, che se non qui doveva trovare posto ai rr. 24–25 dove si legge πλειον[. ἐν τῆι ἀ[ρχῆι τῆς ἀν|τεπιρρήσεως Verosimilmente antepirrhēsis è da intendere come equivalente di antepirrhēma (cfr. Bonanno 1972 e Gallo 1975, 160). È plausibile una confusione rhēsis/rhēma da parte del copista, oppure già dell’autore o del suo epitomatore, forse non avvezzo ai termini tecnici della commedia antica.
Testimonia ({test. 13})
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Se invece non si trattasse di un mero errore, saremmo di fronte a un addendum lexicis. πλειον[ Con ogni probabilità da intendere come forma del comparativo di πολύς.
{test. 13} K.-A. (15 B.) P.Flor. II 112 (CGFP 63; MP3 157; LDAB 347) fr. B r. 15 ]εοκρατ
ϲ [
πρῶτος δ]ὲ ὁ Κράτ[η]ς 〈ε〉ἰσή[γαγεν ed. pr., ν]εοκρᾶτά τις π[οιείτω (= Plat. fr. 71.8) Hagerdon 1977 Bibliografia Comparetti 1908 (ed. pr.), 9–18, spec. 14; Bonanno 1972, 25 test. XV; D. Hagerdon apud Kassel 1977, 56 nota 12; Kassel-Austin 1983, PCG IV 85. Contesto Il papiro P.Flor. II 112, databile al II secolo d. C., conserva resti di uno hypomnema a una commedia aristofanea perduta e non identificata (Aristoph. fr. 591, vd. F. Montana, Aristoph. 28 in CLGP 20122 e Bagordo 2016), con diversi riferimenti ad altri passi comici paralleli. Interpretazione Il primo editore leggeva a r. 15 ]ε ο Κρατ[η]ς ιση[ e immaginava un riferimento al comico Cratete e alla notizia antica di un suo primato nella rappresentazione sulla scena comica ateniese della figura dell’ubriaco (cfr. supra test. 2a e Geitones test. i). Tale ipotesi risulta ormai definitivamente invalidata, data la convincente integrazione proposta da Hagerdon 1977, il quale ha riconosciuto ai rr. 14–15 un verso del commediografo Platone già noto per tradizione indiretta (Ath. XV 665b), che trova corrispondenze anche nel contenuto dei righi precedenti.
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Commedie e frammenti Γείτονες (Geitones) (“Vicini”)
Bibliografia Bonanno 1972, 35–36; Kassel-Austin 1983, PCG IV, 85; Storey 2011, FOC I 209. Titolo Il titolo Geitones è il primo enumerato nella Schriftenliste della Suda (test. 1) ed è citato da Ateneo (test. i, frr.1–2), Fozio (frr. 3, 6 e 7) e da altri fonti lessicografiche anonime (fr. 5). Γείτων significa “vicino”, “confinante”. Il termine attestato già nella poesia omerica (es. Od. 4.16), si riferisce in genere a persone (es. Lys. 1.14, Plat. Leg. 696b), ma può riferirsi anche a luoghi, ad es. città (Pind. P. 1.32, Eur. Ion 294) o regioni (Aeschl. Pers. 67). Di possibile origine comica il significato figurato in riferimento ai genitali registrato nel lessico di Esichio: γίτονας (sic)· τὰ δύο αἰδοῖα (Hsch. γ 581 Latte). Nella commedia antica il termine geitones ricorre con una certa frequenza e normalmente si riferisce ai vicini di casa, spesso citati al plurale come categoria collettiva. Ad es. in Aristoph. Ach. 1045 Diceopoli fa morire dalla fame il coro e i vicini con gli odori e gli ordini dalla sua cucina. In Nub. 1322 Strepsiade inseguito dal figlio chiama in aiuto i geitones insieme a parenti e concittadini (ὦ γείτονες καὶ ξυγγενεῖς καὶ δημόται). I vicini sono chiamati in soccorso anche in Pax 79 e Th. 241. Che si intrattenessero normalmente buoni rapporti con i vicini sembra confermato anche da Lys. 699: ἀπήχθου πᾶσι καὶ τοῖς γείτοσιν “sei odiato da tutti persino dai vicini”. Nelle Ecclesiazusae un vicino è tra i personaggi e al v. 1115 la categoria dei vicini è di nuovo citata accanto ai dēmotai (οἱ γείτονές τε πάντες οἵ τε δημόται). In Hermip. fr. 29 si fa riferimento ai vicini di casa in relazione a un oggetto preso in pegno; cfr. Comentale 2016, 126–127: «I γείτονες costituiscono parte integrante della comunità civica di riferimento… del cittadino ateniese medio e per questo motivo sono spesso presenti in commedia». Sull’importanza delle relazioni con i vicini nella società ateniese vd. Ehrenberg 19512, 214. Alcuni aspetti dei rapporti di vicinato erano regolamentati per legge (Plut. Sol. 23 = Solone frr. 60b, 62–63 Ruschenbusch). Il termine ricorre anche nella commedia dorica: ad es. Epicharm. fr. 36 (τὸν τοῦ γείτονος καλιόν “la capanna del vicino”), oppure fr. 99, che racconta un malinteso con i vicini per la fortuita uccisione di un maialino (δέλφακά τε τῶν γειτόνων | τοῖς Ἐλευσινίοις φυλάσσων δαιμονίως ἀπώλεσα). Il titolo plurale suggerisce che i Vicini costituiscano il coro. Non conosciamo altre commedie intitolate Geitones. Ma un confronto si può porre con la categoria immediatamente più ampia degli appartenenti allo stesso demo, Dēmotai di Ermippo (vd. Comentale 2016, 84) e altri titoli relativi a demi (Acharnenses e Daitales di Aristofane, Prospaltioi di Eupoli), nonché con titoli che
Γείτονες (test. i)
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denotano relazioni amicali come Philoi di Eupoli (vd. Olson 2016, 438) e forse anche con Boēthoi di Aristomene (Orth 2014, 42). Argomento Dalla test. i sappiamo che in questa commedia Cratete portava sulla scena degli ubriachi. Al contesto di un banchetto può far pensare il fr. 1, in cui inoltre la presenza di una coloritura ionica rende possibile, ma incerto, che a parlare sia un personaggio ionico. Il fr. 2 contiene probabilmente un riferimento ai Persiani (fr. 2). Ma a parte questi indizi isolati, nulla possiamo ricavare dai frammenti sulla trama della commedia. Datazione Non abbiamo elementi utili per la datazione della commedia. Il fatto che sia indicata come la prima commedia ateniese in cui sono rappresentati in scena personaggi ubriachi (test. 2a e test. i) suggerisce una datazione alta, ma non meglio definibile. test. i Storey (test. XIV B.) Ath. X 428f-429a ἐπεὶ καὶ τὸν Αἰσχύλον ἐγὼ φαίην ἂν τοῦτο διαμαρτάνειν· πρῶτος γὰρ ἐκεῖνος καὶ οὐχ, ὡς ἔνιοί φασιν, Εὐριπίδης παρήγαγε τὴν τῶν μεθυόντων ὄψιν εἰς τραγῳδίαν […] ἀγνοοῦσί τε οἱ λέγοντες πρῶτον Ἐπίχαρμον ἐπὶ τὴν σκηνὴν παραγαγεῖν μεθύοντα, μεθ’ ὃν Κράτητα ἐν Γείτοσι. Io direi che anche Eschilo ha sbagliato sotto questo aspetto: infatti il primo fu lui, e non Euripide come dicono alcuni, a introdurre lo spettacolo degli ubriachi in tragedia […] E sono male informati quelli che dicono che66 per primo Epicarmo portò in scena gli ubriachi, e dopo di lui Cratete nei Geitones.
Bibliografia Meineke I (1839), 61; Boyatzidès 1907, 167–168; Schmid 1946, 91; Bonanno 1972, 25 test. xiv, 35–36; Kassel-Austin 1983, PCG IV 85; Lucas de Dios 2008, 119–120; Storey 2011, FOC I, 210–211 test. i; Rusten et al. 2011, 139; Martano 2012, 296–297. Contesto La discussione dei sofisti a banchetto verte sugli effetti del vino e sull’ubriachezza. Si deplorano le raffigurazioni di Dioniso ubriaco in ambito rituale. Il biasimo riguarda anche il tragediografo Eschilo (test. 117a Radt), poiché lui, e non Euripide, sarebbe stato il primo tragediografo a portare sulla scena personaggi ubriachi, rappresentando in questo stato i compagni di Giasone nei Cabeiroi 67. Il 66
67
Diversa l’interpretazione di R. Cherubina in Canfora 2001, 1061 «ma anche quelli che parlano così ignorano che fu Epicarmo il primo …», che rovescerebbe la prospettiva. Tuttavia manca nel testo greco un riferimento a ciò che è detto prima («così» di Cherubina) e mi pare difficile che l’infinitiva sia retta da ἀγνοοῦσί invece che dal più vicino οἱ λέγοντες. Vd. Sommerstein 2008, 108–109 e Lucas De Dios 2008, 376–377 con bibliografia precedente. La datazione di quest’opera è ignota.
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Crates
tragediografo stesso sarebbe stato solito comporre i suoi drammi in preda all’ebbrezza, come si dedurrebbe dal rimprovero che gli rivolge Sofocle (Soph. test. 52 Radt ὦ Αἰσχύλε, εἰ καὶ τὰ δέοντα ποιεῖς, ἀλλ’ οὖν οὐκ εἰδώς γε ποιεῖς). La fonte di queste informazioni è esplicitamente citata: l’opera Περὶ Αἰσχύλου del filologo peripatetico Cameleonte (fr. 39 Steffen = 40a Wehrli = 43A Martano), autore anche di un Περὶ μέθης (a cui attribuiva il frammento Werhli) e di un Περὶ κωμῳδίας68. Le stesse informazioni, in una versione più sintetica, erano riportate già in Ath. I 22a (= Chamael. fr. 43B Martano). Si polemizza poi con coloro che sostenevano che il primato nella rappresentazione di ubriachi sulla scena teatrale spettasse a Epicarmo (testimonium non presente in PCG I), seguito da Cratete nei Geitones. Il discorso prosegue con riferimento ad Alceo e Aristofane (test. 55), anch’essi indicati come poeti/ubriachi (su Alceo cfr. Chamael. fr. 13 Martano). Steffen 1964, 55 attribuiva anche l’affermazione relativa a Epicarmo e Cratete e quella su Alceo e Aristofane a Cameleonte (fr. 39 «nisi egregie fallor, Chamaeleonti etiam ea tribuenda sunt»). Scettica Bonanno 1972, 25 n. 1 «che anche la nostra testimonianza derivi da Cameleonte, come in genere si ritiene, non è sicuro». Nella più recente edizione di Cameleonte, Martano include queste seconde due affermazioni tra i frammenti incerti (fr. [55]), ma nota oltre alla contiguità tematica anche l’apparente continuità nel riferimento polemico («he criticized οἱ λέγοντες that Epicharmus was the first to do so (apparently returning to the issue of ἔνιοί φασιν of 428f)»; benché nei frammenti noti Cameleonte non menzioni altrove né Cratete né Aristofane «it is not unlikely that he did research on Aristophanes and wine» (Martano in Martano-Matelli-Mirhady 2012, 297). In ogni caso Ateneo ci restituisce le tracce di una discussione di storia letteraria riconducibile a fonti di età ellenistica (cfr. Sidwell 2000, 139). Il dibattito, condotto con toni polemici, verte su chi fosse stato il prōtos nella rappresentazione degli ubriachi sulla scena, nel teatro in generale, in tragedia e in commedia. La ricerca cronologica volta alla ricostruzione della storia del genere si intreccia con una ricostruzione biografica in base a un tipico procedimento autoschediastico che vedeva nei testi letterari un rispecchiamento della personalità degli autori, secondo il “metodo di Cameleonte”, così denominato proprio dal nome dal peripatetico qui citato (Leo 1901, 104, Arrighetti 1987, 141–148; in relazione a questo specifico frammento vd. Mirhady 2012, 387–395 e Schorn 2012, 428–430). Interpretazione Secondo questa testimonianza, a Cratete spetterebbe il primato nell’introduzione di personaggi ubriachi sulla scena comica ateniese (cfr. test. 2a), un primato che in termini assoluti era attribuito da alcuni a Epicarmo, da altri a Eschilo. Il presunto legame tra rappresentazione di ubriachi e composizione in stato di ebrezza, postulato per Eschilo, nel caso di Cratete confligge con l’immagine che di lui trasmette Aristofane, che nella parabasi dei Cavalieri sembra contrap68
Per gli studi eruditi di Cameleonte vd. Corradi 2012, e cfr. Martano-Matelli-Mirhady 2012, 157–444, in particolare Mirhady 2012 in merito agli studi di Cameleonte sulle origini della tragedia.
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porre il sobrio Cratete alla figura del vinolento Cratino (vd. supra test. 6a). Il tema retorico del rapporto tra vino ed ispirazione poetica (che in questa testimonianza appare ormai appiattito a dato biografico di un reale alcolismo della persona poeta, vd. supra Contesto), è un tema che investe fortemente l’autorappresentazione e le polemiche tra rivali in commedia. Altri due elementi, tra loro connessi, rendono la testimonianza di notevole interesse: 1) il rapporto tra Cratete e la commedia siciliana, e specificamente con Epicarmo, espresso anche qui come nella Poetica di Aristotele (test. 5) in termini di successione cronologica (μεθ’ ὃν), ma che potrebbe forse sottintendere una diretta influenza di Epicarmo su Cratete; vd. in proposito Kerkhof 2001, 176 che, escludendo i drammi epicarmei di Mythentravestie, pensa a Elpis ē Ploutos, dove il parassita si presenta ubriaco (frr. 31 e 32)69; 2) la conferma che Cratete era un commediografo frequentato nelle ricerche peripatetiche volte a ricostruire la storia dei generi teatrali attraverso i prōta heurēmata. All’ambito peripatetico rimanda anche la terminologia utilizzata (per ὄψις come elemento visivo dello spettacolo, uno degli elementi costitutivi dell’opera drammatica vd. Aristot. Poet. 1449b.33–1450a.570). fr. 1 K.-A. (1 K. = 1 B.) νῦν μὲν γὰρ ἡμῖν † παιδικῶν δαις † ὅκωσπερ ἀρνῶν ἐστι γαλαθηνῶν τε καὶ χοίρων 1 δαις A : ἅλις Jacob 1809, 209; 〈πᾶσι〉 παιδικῶν ἅλις Bergk : παιδικῶν 〈θάλεια〉 δαίς Bonanno 2 οκως περ A
ora per noi † di amasi un banchetto (?) † come di agnelli e porcellini da latte Ath. IX 396d γαλαθηνῶν δὲ χοίρων ποτὲ περιενεχθέντων καὶ περὶ τούτων ἐζήτησαν οἱ δαιταλεῖς εἰ τὸ ὄνομα εἴρηται. καί τις ἔφη· […] Κράτης Γείτοσι· “νῦν — χοίρων”. quando furono serviti dei porcellini galathēnoi (‘da latte’) anche riguardo a questi i convitati indagarono se il termine era utilizzato. E qualcuno disse […] Cratete in Geitones: “νῦν — χοίρων”. 69
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Tra i possibili punti di contatto tra quest’opera epicarmea e i Geitones Kerkhof richiama un riferimento alla mancanza della lucerna (vd. infra da fr. 3) e a un vicino (Epicharm. fr. 36). Vd. Bonanno 2016 con riferimenti alla bibliografia precedente.
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Metro trimetri giambici
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Bibliografia Jacob 1809, 209; Dobree 1833, 323; Bergk 1838, 278; Meineke II (1839), 233 Geit. fr. I; Meineke V (1857), XLVIII e 25; Bothe 1845, 75; Kock I (1880), 130–131 fr. 1; Blaydes 1896 II 16 e 283; Edmonds I (1957), 154–155; Bonanno 1969, 15–18; Bonanno 1972, 61–65 fr. 1; Kassel-Austin 1983, PCG IV 86; Willi 2010, 498; Storey 2011, FOC I, 210–211. Contesto della citazione Al banchetto dei Deipnosofisti vengono serviti dei porcellini da latte, e ciò dà lo spunto per citare una serie di passi in cui era utilizzato il termine galathēnoi (396c-f): Pherecr. frr. 49 e 33, Alc. fr. 22, Hdt. 1.183, Antiph. fr. 214, Henioch. fr. 2, Anacr. fr. 28 Gentili = 63 Page, il frammento di Cratete e poi ancora Simon. frr. 38.7–9 e 48 Page, Clear. fr. 61 Wehrli, Il. 24.58 e Od. 4.336. Nell’epitome il riferimento a Cratete è caduto insieme alle altre citazioni comiche. Costituzione del testo e metrica La mancata accentazione nel codice Marciano (f. 168r-v) indica che il copista non comprendeva la sequenza δαισοκως περ (vv. 1–2). Il testo tradito è stato giudicato corrotto e numerosi sono stati i tentativi di emendamento del punto e di integrazione del primo trimetro, con lacune prima o dopo παιδικῶν. La congettura ἅλις in fine primo verso avanzata da Jacob (che proponeva un più ampio emendamento: παιδικῶν κωμῶν ἅλις ὄχλος δ’ ἔτ’) ha avuto ampio seguito: in Ateneo la accoglieva già Kaibel, e nel testo di Cratete Meineke (che intendeva «nunc nobis amasiorum tanquam agnorum et porcellorum copia suppetit»), Bothe, Kock (che immaginava invece una sazietà di “pernici” περδίκων in luogo di παιδικῶν), Edmonds. Condivisibile la posizione di Bonanno, che giudica superfluo l’intervento e mantiene il δαις del Marciano nel senso di epulae (vd. infra Interpretazione). Exempli gratia propone inoltre a integrazione metrica del verso una parola trisillabica: παιδικῶν 〈θάλεια〉 δαίς (cfr. Pherecr. fr. 162.1 ἐπὶ δαῖτα θάλειαν). Kassel Austin invece pongono le cruces desperationis e non accentano δαις. Problematico stabilire dove sia la lacuna, ma παιδικῶν δαίς sarebbe un’ espressione paratragica del tutto plausibile. A inizio v. 2 la paradosis del Marciano οκωσ περ, ritenuta corrotta e variamente emendata, è giustamente difesa da Bergk, che vi riconosceva un elemento della parlata ionica (vd. infra Interpretazione). Interpretazione Per l’interpretazione del frammento già Dobree 1833 richiamava a confronto il passo di Aristoph. Ve. 572–573, in cui arnoi e choiroi sono usati in un doppio senso osceno in riferimento rispettivamente a maschietti e femminucce. Mantentendo il δαίς del Marciano, Bonanno intende «nunc enim nobis (floridae) sunt amorum epulae, tamquam agnorum lactentium (= puerorum) et porcellorum (= puellarum)». I versi sembrano far riferimento a un banchetto di
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tenere carni di fanciulli paragonati ad agnelli e porcellini con allusione sessuale. La presenza di uno ionismo a inizio v. 2 offre un ulteriore elemento interpretativo. Secondo Bergk Cratete metteva qui in scena «hominem quendam Ionem, voluptatibus libidinibusque ex more gentis deditum». Non necessariamente a parlare era un personaggio ionico, ma c’è quanto meno una coloritura ionica (Colvin 1999, 265–270 per forme ioniche in commedia) che può essere letta in relazione alla tradizionale connotazione decadente e lussuriosa degli Ioni71. In questo senso è particolarmente utile il confronto con Aristoph. fr. 556, in cui si deridono gli Ioni, utilizzando insistentemente la marcatura linguistica ὅκως (vd. infra ad v. 2) con riferimento anche alla vendita di fanciulli (v. 3 «ὅκως ἔχων τὸν παῖδα πωλήσει ’ς Χίον», «affinché preso il ragazzo tu lo venda con destinazione Chio»), secondo una turpe abitudine commerciale cui fa riferimento anche Hdt. 8.105. 1 νῦν μὲν γὰρ cfr. Aristoph. Lys. 557 e 1231 e Ec. 109 e 361, sempre a inizio verso. 1 δαις δαίς significa “banchetto”, “festino”, “porzione di ciascuno in un pasto comune”. Si tratta di un termine poetico, omerico (es. Il. 15.95, 18.558, Od. 8.248) e tragico (Aeschl. Ch. 483, Soph. Ph. 957), raro in prosa. Cfr. in particolare Aeschl. Ag. 1242 Θυέστου δαῖτα παιδείων κρεῶν e 1593 παρέσχε δαῖτα παιδείων κρεῶν, che potrebbe costituire l’ipotesto parodico del passo di Cratete (cfr. Bonanno 1972, 64–65 dubitanter). In commedia il termine ricorre per lo più in contesti di ripresa di poesia alta: Aristoph. Pax 777–779 ἀνδρῶν τε δαῖτας; Hermip. fr. 63.21 τὰ γάρ τ’ ἀναθήματα δαιτός (con ripresa dell’emistichio omerico Od. 1.152) e fr. 77.11 τούτου χρὴ παρέχειν πίνειν ἐν δαιτὶ θαλείῃ (in cui nei manoscritti dell’epitome di Ateneo c’è una corruttela); Eup. fr. 315 αὐτόματοι δ’ ἀγαθοὶ δειλῶν ἐπὶ δαῖτας ἴασιν, che distorce il proverbio αὐτόματοι δ’ ἀγαθοὶ ἀγαθῶν ἐπὶ δαῖτας ἴασιν. 2 ὅκωσπερ ὅκως è forma ionica corrispondente a ὅπως. La forma ὅκωσπερ ricorre più volte in Eraclito (es. fr. 1.9 e 51.4 Diels-Kranz) e Democrito (fr. 259 Diels-Kranz) e poi in Herond. 3.64. Cfr. anche Hdt. 9.120.4. Cfr. Aristoph. fr. 556 in cui si ripete comicamente ὅκως come elemento tipico della parlata ionica: cfr. Colvin 1999, 268. 2 ἀρνῶν gli agnelli, così come i capretti, erano considerati animali dalle carni particolarmente appetibili. Cfr. Aristoph. fr. 449 e vd. Dalby 2013, 58–59 e 223 n. 8. 2 γαλαθηνῶν aggettivo, dal significato “lattante”, quindi “giovane”, “tenero”, presente già in Omero e nei lirici, come attestato dai passi citati nello stesso contesto da Ateneo (vd. supra Contesto). Normalmente riferito a giovani animali, ma anche a bambini (es. Simon. fr. 48 Page e Clearc. fr. 61 Wehrli, secondo il quale la ferocia di Falaride arrivò al punto di γαλαθηνὰ θοινᾶσθαι βρέφη “banchettare con neonati lattanti”). Riferito come qui ad ἄρνες anche in Theocr. 18.41.
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Per la derisione degli Ioni come molli e lascivi in commedia cfr. ad es. Call. fr. 8 (con Bagordo 2014, 155–158), Aristoph. Th. 163. Vd. Göbel 1915, 105–106.
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3 χοίρων il porcello, sia maschio sia femmina. Il termine è spesso usato in commedia con un doppio senso per genitali femminili: cfr. in particolare la scena di Aristoph. Ach. 738ss. e vd. Henderson 1991, 131–132.
fr. 2 K.-A. (2 K. = 2 B.) γλυκύτατον δ’ ὦζε βασιλείου μύρου δ’ ὦζε Porson 1800: δὲ ὦ Ζεῦ A
mandava un odore dolcissimo di profumo regale Ath. XV 690d βασιλείου δὲ μύρου μνημονεύει Κράτης ἐν Γείτοσιν λέγων οὕτως· “γλυκύτατον — μύρου”. del profumo basileios (“regale”) fa menzione Cratete nei Geitones quanto dice così: “γλυκύτατον — μύρου”
Metro parte di trimetro giambico 〈al〉kkk l|lkkk llkl Bibliografia Porson 1800, 230; Bergk 1838, 277; Meineke II (1839), 234 Geit. fr. II; Bothe 1844, 12–13; Bothe 1845, 75; Kock I (1880), 131 fr. 2; Edmonds I (1957), 154–155; Bonanno 1972, 65–66 fr. 2; Kassel-Austin 1983, PCG IV 86; Storey 2011, FOC I, 210–211. Contesto della citazione Dopo aver ampiamente discusso di corone (669c686b), i sofisti a banchetto passano a discutere di profumi (686d-692f), mentre gli schiavi ne portano in giro dei vasi tra i convitati. Passando in rassegna vari tipi di profumo, dopo aver citato Pherecr. fr. 105 a proposito del profumo brentheios “prezioso”, viene riportato il passo dei Geitones di Cratete a proposito del profumo basileios e poi è menzionata Saffo, che in un componimento ricordava contemporaneamente entrambi i profumi, brentheios e basileios (Σαπφὼ δ’ ὁμοῦ μέμνηται τοῦ τε βασιλείου καὶ τοῦ βρενθείου, λέγουσα οὕτως· “βρενθείω βασιληίω” (fr. 94.19–20 Lobel-Page e Voigt). Il catalogo dei profumi prosegue oltre con altre citazioni di passi comici (Eup. fr. 204, Eub. fr. 100) e riferimenti ad altre fonti. Nell’epitome la menzione di Cratete è caduta e per il profumo basileios resta il solo riferimento a Saffo. Costituzione del testo e metrica Il codice Marciano riporta δὲ ὦ Ζεῦ, mantenuto dal solo Kock. Porson a commento della v.l. ὤζεε all’inizio di Od. 5.455 cita il passo di Ateneo «ubi hoc verbum miram quandam apotheosin subiit» e propone di correggere in tal senso la citazione «senario primo pede minor». La correzione di Porson è del tutto convincente (così la giudicano ad es. Blaydes 1896, 16, Bonanno 1972, 65) ed è stata accolta a testo da Meineke, Edmonds e
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Kassel e Austin. Formulazioni simili sono bene attestate in commedia (vd. infra) ed errori connessi con la divisione delle parole sono piuttosto ricorrenti nel Marciano (Arnott 2000a, 44). Inoltre a indurre il copista in errore può aver concorso il fatto che poche righe sopra si trovi il vocativo ὦ Ζεῦ all’inizio della citazione da Aristoph. Thesm. II fr. 336 (Ath. 690d). Non persuasive le ulteriori ipotesi di emendamento: né quella di Bergk 1838, che propose di mantenere anche l’invocazione a Zeus (ὦ Ζεῦ δ’ ὦζε), citando a confronto Aristoph. Th. 254 νὴ τὴν Ἀφροδίτην, ἡδύ γ’ ὄζει ποσθίου e Lys. 206 καὶ μὰν ποτόδδει γ’ ἁδὺ ναὶ τὸν Κάστορα, paralleli su cui si mostra giustamente scettico Meineke («in quo vereor ut δὲ post ὦ Ζεῦ illatum probari possit»); né quella di Bothe 1844, 12–13, che mantiene il vocativo del Marciano e ipotizza un comparativo iniziale γλυκύτερον: «più dolce, per Zeus, del profumo regale», interpretando il verso come docmiaco, salvo poi in Bothe 1845 seguire Bergk ma con espunzione del δὲ e iato (γλυκύτατον, ὦ Ζεῦ, ὦζε β. μ.). Interpretazione Al profumo basileios fanno riferimento, oltre al frammento di Saffo (noto anche grazie al P.Berl. inv. 9722 = TM 62713) e a quello di Cratete riportati da Ateneo, anche alcune fonti lessicografiche, che probabilmente hanno come fonte il passo di Cratete: Poll. 6.105 σφόδρα δ’ ἦν εὐδόκιμον τὸ βασίλειον μύρον “il profumo regale era molto rinomato” e Hsch. β 276 Cunningham (AelD. β 7 Erbse) βασίλειον· εἶδος [τυροῦ καὶ] μύρου “basileion: tipo [di formaggio e] di profumo”. Plin. NH 13.18 parla di un regale unguentum, che rappresenta il colmo della mollezza e della preziosità, composto con moltissimi ingredienti rari e così denominato perché prodotto per i re dei Parti. Si tratta dunque di un raffinatissimo profumo orientale, collegabile ai sovrani persiani72. Non conosciamo tuttavia il soggetto che emana questo profumo nella scena di Cratete. Olson 2012 nella sua traduzione di Ateneo opta per «she gave off the sweet sweet smell of royal perfume» e l’ipotesi di un soggetto femminile suggerisce una possibile connotazione erotica. Il profumo in effetti è spesso associato alle donne e al sesso (cfr. ad es. Aristoph. Nub. 51–52, Lys. 46–48 e 938ss., Ec. 525). Una diversa possibilità è invece suggerita dalla nota esichiana sopra citata. L’espunzione di τυροῦ καὶ proposta da L. Dindorf73 è seguita da tutti gli editori di Esichio (Schmidt, Latte e Cunningham) e considerata persuasiva da Bonanno 1872, 66 n. 2. Tuttavia la paradosis del lessico esichiano potrebbe in realtà restituire un indizio del contesto comico: il soggetto che manda un odore dolcissimo di profumo regale potrebbe essere del formaggio (sul formaggio in commedia vd. Auberger 2000, 16–23). Se così fosse il gioco comico potrebbe risiedere nell’accostamento di un cibo rustico e ordinario con raffinate essenze. Nella commedia di Aristofane inoltre il formaggio 72
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A proposito del frammento di Saffo citato da Ateneo, Wilamowitz 1913b, 51 n. 1 osserva che in Saffo l’aggettivo basileios non può che riferirsi ai re lidi, come poi per gli Ateniesi ai re persiani. Nella terza edizione del Thesaurus Graecae linguae, 1830 II 164B s. v. βασίλειον. Schmidt annota «malim εἶδος τι μύρου cum Eustath. 1425, 41».
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è spesso associato alla dieta dei soldati in guerra (vd. ad es. Aristoph. Pax 368 e 1129) e in questo senso un accostamento di formaggio e lussi da re Persiani acquisirebbe un ulteriore livello lettura. Un parallelo sul tema servizio militare/ profumo, che ha qualche assonanza verbale con il verso crateteo, in Aristoph. Pax 525–526: οἷον δὲ πνεῖς … γλυκύτατον, ὥσπερ ἀστρατείας καὶ μύρου «come emani profumo … dolcissimo di congedo militare e di profumo». Bisogna osservare tuttavia che normalmente sono persone i soggetti del verbo ὄζω. Sugli odori in commedia vd. Thiercy 1993. γλυκύτατον lo stesso aggettivo con i verbo ὄζειν in Cratin.Iun. fr. 1.1–2 (ἐνθυμεῖ δὲ τῆς γῆς ὡς γλυκὺ | ὄζει καπνός τ’ ἐξέρχετ’ εὐωδέστατος;) in un contesto in cui è coinvolto un cuoco siciliano. Al superlativo cfr. il sopra citato Aristoph. Pax. 526. ὦζε il verbo ὄζω significa “mandare odore” buono o cattivo. La costruzione più frequente è come qui con accusativo interno avverbiale e genitivo dell’odore (vd. Poultney 1936, 93–94): cfr. ad es. Aristoph. Ach. 852 ὄζων κακὸν τῶν μασχαλῶν “mandando cattivo odore di ascelle”, con superlativo Ve. 38 ὄζει κάκιστον τοὐνύπνιον βύρσης σαπρᾶς “puzza tremendamente di cuoio marcio”. μύρου il muron è un unguento, un’essenza profumata. Il termine ha le prime attestazioni nella poesia lirica (Archil. fr. 205 West, Semon. fr. 7 West, Alc. fr. 50 Lobel-Page, oltre a Sapph. fr. 94). Sui profumi nell’antichità greca e romana vd. Carannante-D’Acuto 2012 e Squillace 2015.
fr. 3 K.-A. (3 K. = 3 B.) οὐκ ἔστι μοι λυχνίδιον λυχνείδιον Kock 1888
non ho una lucernetta Poll. 10.118.22–25 Bethe (codd. E, CL) ὅταν δ’ εἴπῃ ἐν τῷ Αἰολοσίκωνι Ἀριστοφάνης (fr. 13) ‘δυοῖν λυχνιδίοιν,’ δῆλον ὅτι λύχνια εἴρηκεν ἀλλ’ οὐ λύχνους μικρούς, ὥσπερ καὶ ὅταν Κράτης (Κ. om. FS) φῇ ἐν τοῖς Γείτοσιν ‘οὐκ ἔστι μοι λυχνίδιον’. e quando Aristofane nell’Eolosicone dice “due lucernette” è chiaro che ha voluto dire lucerne ma non lucerne piccole, come anche quando Cratete dice nei Geitones “non ho una lucernetta”.
Metro forse fine di un verso giambico (cfr. Aristoph. fr. 291.2 e Hermip. fr. 62)
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Γείτονες (fr. 4)
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Bibliografia Kock I (1880), 131 fr. 3 e III (1888), 714; Blaydes 1890, 14; van Herwerden 1903, 12; Edmonds I (1957), 154–155; Bonanno 1972, 66–67 fr. 3; Kassel-Austin 1983, PCG IV 86; Kerkhof 2001, 176; Storey 2011, FOC I, 210–211. Contesto della citazione Polluce tra le varie denominazioni di lampade e lanterne (10.155ss.) arriva a trattare la forma λυχνίδιον e cita tre esempi comici, nei quali la forma ipocoristica non ha valore diminutivo: il fr. 13 di Aristofane, il nostro frammento crateteo e poi il fr. 291 dai Drammi di Aristofane (ἀλλ’ ὥσπερ λύχνος | ὁμοιότατα καθηῦδ’ ἐπὶ τοῦ λυχνιδίου). Quest’ultimo frammento è tramandato anche da Ateneo (Ath. XV.699f). Interpretazione Oltre che nei frammenti restituiti da Polluce lo stesso termine λυχνίδιον è attestato in un frammento di Ermippo restituito da Ath. XV 700d (Hermip. fr. 62: τῆιδ’ ἐξιόντι † δεξιᾶι ὦ λυχνίδιον). Si tratta, come rileva lo stesso Polluce, di una forma ipocoristica senza reale valore di diminutivo, secondo un uso espressivo ben documentato nella lingua della commedia antica. In proposito vd. gli studi aristofanei di López Eire 1996, 138–145 e Zangrando 1997. Specificamente al suffiso -ιδιον in commedia è dedicato l’articolo della Dore 1964, 309–312. Il primo iota può essere lungo o breve, ma risulta prevalentemente breve in commedia74. Da rigettare la proposta di correzione di Kock nei Supplementa (vol. III), che emendava in λυχνείδιον, seguito da Blaydes e van Herwerden. Kerkhof 2001, 176 richiama una possibile consonanza con la figura del parassita in Epichar. fr. 32.8 λύχνον δ’ οὐχ ὁ παῖς μοι συμφέρει. Da un punto di vista scenico la necessità di una lucerna potrebbe far pensare a un’ambientazione notturna, ma nessun altro elemento nei nove frammenti superstiti di questa commedia fornisce indizi in merito alle coordinate temporali dello svolgimento dell’azione. Su luci nella commedia cfr. Lorenzoni 2000. Per il topos letterario della lucerna come simbolo di veglia notturna e trasgressioni amorose vd. Kanellou 2013. fr. 4 K.-A. (1 Dem. = 5 B.) σὲ δὲ χρὴ σιγᾶν μηδ’ ἀναγρύζειν devi fare silenzio e non fiatare Phot. (b, Sz) α 1434 Theodoridis ἀναγρύζειν· Κράτης Γείτοσι· “σὲ — ἀναγρύζειν”. καὶ Ξενοφῶν (Oec. 2.11)· “οὐδ’ ἀναγρύζειν μοι ἐξουσίαν ἐποίησας”. anagryzein (“mormorare”): Cratete nei Geitones “σὲ — ἀναγρύζειν”. E Senofonte “οὐδ’ — ἐποίησας”. 74
Sulla graduale affermazione della forma breve, comunque maggioritaria già nella commedia arcaica, vd. Dore 1964, 307, 318–319; López Eire 1996, 196 e n. 411.
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Metro anapesti
kklll lkkll
Bibliografia Demiańczuk 1912, 29 fr. 1; Edmonds I (1957) 154–155, fr. 4a; Bonanno 1972, 68 fr. 5; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 87; Storey 2011, FOC, I 210–211 fr. 4. Contesto della citazione Il frammento crateteo è uno dei sedici tramandati nel lessico del patriarca bizantino Fozio. La glossa è presente nel codice Berolinensis graec.oct. 22 e nel Supplementum Zavordense, le aggiunte a fine opera nel cosiddetto “Fozio macedone” (in cui risultava invece solamente il lemma, senza citazioni). Dopo Cratete, citato esplicitamente con indicazione del titolo della commedia, viene citato un passo di Senofonte, senza indicazione dell’opera. Interpretazione Già Demiańczuk citava a confronto il passo di Aristoph. Nub. 945 in cui è utilizzato lo stesso verbo ἀναγρύζειν (τὸ ἢν ἀναγρύζῃ detto dal Discorso Peggiore in riferimento al Discorso Migliore). Paralleli ancor più calzanti sono segnalati dalla Bonanno: Ve. 741 ἀλλ’ ὅτι σιγᾷ κοὐδὲν γρύζει, e Pax 96ss. (εὐφημεῖν χρὴ καὶ μὴ φλαῦρον | μηδὲν γρύζειν ἀλλ’ ὀλολύζειν· | τοῖς τ’ ἀνθρώποις φράζω σιγᾶν), che secondo Bonanno probabilmente riecheggiavano Cratete (p. 68). Kassel e Austin richiamano inoltre l’attenzione su un frammento adespoto che riporta un verso molto simile a quello delle Vespe ὁ δ’ ἀνὴ]ρ ϲ̣ι ̣[γ]ᾶ[ι] κοὐδὲν γρύζει κ[ (fr. 1095.19). Questi inviti al silenzio, che con il frammento crateteo hanno in comune anche il metro anapestico, hanno spesso tono paratragico, per mettere in rilievo situazioni particolarmente drammatiche e ricche di pathos e con riferimento ai silenzi tipici degli eroi tragici, in particolare eschilei75. Diversamente da altri casi in cui in un contesto assembleare si richiede il silenzio generale, nel verso di Cratete l’invito a tacere è rivolto a una singola persona e doveva far parte di un dialogo. ἀναγρύζειν quella in Cratete è una delle poche attestazione, e la più antica, di ἀναγρύζειν (cfr. Aristoph. Nub. 945 e Xen. Oec. 2.11), una forma rafforzativa del verbo γρύζειν, che è invece ben attestato anche in commedia. Derivato dalla voce onomatopeica γρῦ, γρύζειν indica propriamente il grugnito di un animale, ma per analogia può essere utilizzato in riferimento al brontolio, al mormorio di una persona.
75
Rau 1967, 152–155 con riferimento alla scena delle Vespe.
Γείτονες (fr. 5)
75
fr. 5 K.-A. (5 K. = 6 B.) εἰ σοφὸς ἦι ἦι Bekker : εἶ cod.
se sia valente/saggio Lex.Bekk.III AG I, p. 144.27–28 (= p. 50.13–14 Petrova) Κράτης (Κράτ C) Γείτοσιν· “εἰ — ἦι”. Cratete in Geitones: “εἰ — ἦι”.
Metro incerto
l k k l
Bibliografia Meineke 1826, 29; Edmonds I (1957) 154–155, fr. 5; Bonanno 1972, 68–69 fr. 6; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 87; Bers 1984, 160; Willi 2010, 499; Storey 2011, FOC, I 210–211 fr. 5. Contesto della citazione Il frammento dai Geitones di Cratete è citato come esempio di un uso sintattico nell’anonimo lessico Περὶ συντάξεων conservato nel codice Coislinianus 345 (X sec.) e noto come terzo dei Lexica Segueriana o Bekkeriana (su cui vd. de Leeuw 2000 e ora Petrova 2006). Si tratta di un lessico alfabetico di verbi e particelle con spiegazioni delle costruzioni sintattiche basate su testi di autori classici (per lo più oratori e storici) e cristiani. La composizione potrebbe essere contestualizzata nel primo quarto del VII secolo, forse a Gaza (Petrova 2006, XXVIII). Sotto la voce εἰ (76, AG I, p. 144.3–30) la spiegazione illustra l’uso con l’indicativo e l’ottativo, adducendo varie citazioni da Demostene, e poi con il congiuntivo, con citazioni anche da opere poetiche: Il. 12.239, Soph. OT 873–874 e OC 1442–1443, quindi Cratete e poi Senofonte Cyr. 3.3.50 e Plat. Leg. 958d. Le citazioni di testi poetici nell’opera sono assai poche (15 su 728 citazioni) e si concentrano in particolare nelle voci relative alle particelle, in cui spesso si fa riferimento a fonti non usate nel resto del lessico. Per la commedia oltre a questo caso di Cratete si registrano due citazioni di Cratino (frr. 30 e 31), s. v. ἄν, di fatto per illustrare lo stesso tipo di costruzione con il congiuntivo senza ἄν76. Nell’edizione di Bekker 1814 in questo punto si leggeva Κρατῖνος Γείτοσιν, un errato scioglimento dall’abbreviazione Κράτ presente nel codice, corretto già da Meineke 1826.
76
Sono presenti otto citazioni di Omero, quattro di Sofocle. Per gli autori citati nel Peri Syntaxeōs vd. Petrova 2006, XVI-XVIII, per l’uso delle fonti pp. XXII-XXIV.
76
Crates
L’indicativo seconda persona singolare εἶ riportato nel manoscritto è chiaramente incongruente con il motivo per cui è citata l’espressione comica ed era emendato già dal Bekker77. Del resto sono numerose le corruttele nel manoscritto, soprattutto nelle citazioni. Interpretazione L’uso di εἰ e congiuntivo senza ἄν nella protasi di un periodo ipotetico dell’eventualità è una peculiarità ben documentata nella poesia di età arcaica e classica, in particolare nella poesia omerica, lirica e tragica, e raro in prosa78. Bonanno ipotizzava nel frammento di Cratete un tono paratragico, portando a confronto in particolare Soph. Ant. 710 (κεἴ τις ᾖ σοφός). Contra Bianchi 2016, 179. Oltre che in Cratin. fr. 30 εἴ τις δ’ ὑμῶν κάλλει προκριθῇ (citato nella stessa opera che trasmette il frammento di Cratete: Lex.Bekk.III AG I, p. 129), l’uso di εἰ con il congiuntivo in commedia è attestato anche in passi di Aristofane: Aristoph. Eq. 698, 700 come parte di un solenne giuramento e Lys. 580, nel contesto di raccomandazioni dal tono formale. Nel caso della Lisistrata e in altri casi come Aristoph. Eq. 805 la tradizione manoscritta lascia margini di dubbio. L’uso di subordinate con il congiuntivo senza particella modale poteva essere percepito, se non come una forma specificamente epica o tragica, come un arcaismo, un’espressione di tono elevato e forse sentenzioso79. σοφὸς l’aggettivo, che si riferisce molto spesso ad abilità tecniche, artistiche o anche artigianali, e non solo alla saggezza, è attestato a partire dal VII sec. a. C. (ma già nella poesia omerica c’è il sostantivo σοφία)80 e molto frequente anche in commedia. Cfr. Dover 1968, 106 e Id. 1993, 12–13. Può essere riferito non solo a persone, ma anche a cose: cfr. ad es. [Epicharm.] fr. 259.1 αἴ τί κα ζατῆις σοφόν. fr. 6 K.-A. (4 K. = 4 B.) Phot. υ 296 Theodoridis = Sud. υ 675 Adler = Apost. 17.71 CPG II von Leutsch = EGen. A81 ὗς διὰ ῥόδων· ἐπὶ τῶν σκαιῶν καὶ ἀναγώγων· Κράτης Γείτοσιν. un maiale/una scrofa tra le rose: in riferimento alle persone maldestre e rozze; Cratete nei Geitones.
77 78 79 80 81
Apparentemente per mero errore Storey, che pur riporta ᾖ nel testo del frammento, traduce “if you [masc.] are wise”. Si veda Goodwin 1980, 172–173 § 471; Bers 1984, 142–161. Cfr. Bers 1984, sp. pp. 143–145 e 149–160. Il. 15.412. Cfr. Chantraine 1968, s. v. σοφός. La presenza della glossa nell’EGen. A è indicata da Adler e Theodoridis, che in apparato riporta EGen. A s. v. ὗς διὰ ῥόδων· ἐπὶ τῶν σκαιῶν καὶ ἀναγώγων· Κράτης Γείτοσιν. Non è stato possibile verificare l’informazione sul manoscritto (http://digi.vatlib.it/view/ MSS_Vat.gr.1818): a f. 283v la porzione in basso è danneggiata dove presumibilmente doveva esserci il lemma.
Γείτονες (fr. 6)
Metro non definibile l (?) (ὗς) k
77
k k l (διὰ ῥόδων)
Bibliografia Blaydes 1896, 283; van Herwerden 1903, 226; Erhrenberg 19512, 78; Edmonds I (1957) 154–155, fr. 4; Bonanno 1972, 67 fr. 4; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 87; Bettarini 1997, 30; Storey 2011, FOC, I 212–213 fr. 6. Contesto della citazione L’espressione proverbiale è riportata in diverse raccolte lessicografiche e paremiografiche, che dopo una breve spiegazione del significato fanno riferimento ai Geitones di Cratete. Erbse, seguito da Theodoridis, riteneva che la fonte di Fozio fosse Pausania (cfr. Paus. υ 15 Erbse). Ovviamente l’ordine delle parole e il caso di ὗς nel testo comico potevano non coincidere con la forma lemmatizzata. Interpretazione Il proverbio trova numerosi paralleli nelle lingue moderne. In italiano si usa dire “un elefante in una cristalleria” (ed espressioni analoghe si hanno in francese e in spagnolo), in inglese “a bull in a china shop”, per indicare qualcuno maldestro, goffo alle prese con qualcosa di fragile e delicato, con prevedibili esiti distruttivi. Questa la connotazione che è data anche al proverbio greco “un maiale tra le rose” nelle fonti antiche. Oltre a Cratete non conosciamo altre occorrenze in letteratura. In un altro proverbio a essere tra le rose è il cane: App. prov. 3.54 κύων ἐν ῥόδοις riferito a chi non si accorge di nulla. Altri proverbi simili che accostano un animale sgraziato a elementi raffinati hanno invece una connotazione leggermente diversa, a indicare qualcuno che nella sua rozzezza non è in grado di apprezzare una cosa raffinata. In italiano possiamo pensare, per rimanere con il maiale, all’espressione “perle ai porci”. In greco ad esempio onos en myrōi “asino con il profumo” o onos epi lyrai “l’asino alla lira”. Similmente l’adagio latino Nil cum fidibus graculo est, nihil cum amaracino sui “la cornacchia non ha nulla a che fare con la lira, nulla il maiale con la maggiorana”, tramandato da Gellio nella prefazione alle Noctes Atticae (Gel. praef. 19), indica l’incapacità del maiale di apprezzare il profumo (su cui cfr. Lucr. 6.973). Kassel e Austin giustamente lo accostano al proverbio usato da Cratete, che potrebbe indicare l’insensibilità del rozzo maiale al profumo delle rose. Tra le altre numerose espressioni idiomatiche con il maiale ad esempio Boiōtia hys “scrofa beotica” un insulto riferito a poeti (Pind. O. 6.90), “un tempo il maiale sfidò Atena” (Theocr. 5.23), “scatenare la scrofa” nel senso di “dar sfogo all’ira” (Aristoph. Lys. 683, con un chiaro doppio senso sessuale)82. Vd. Bettarini 1997. È possibile che il proverbio fosse usato in commedia con un doppio senso sessuale (vd. infra s. v. ὗς), ma non abbiamo elementi che supportino questa ipotesi. Per altre espressioni proverbiali dalle commedie di Cratete vd. ad es. frr. 25, 33, 38, 44.
82
Per questi e altri esempi vd. Tosi 2017, nrr. 449, 514, 874, 986.
78
Crates
ὗς il termine ὗς si riferisce normalmente al suino domestico adulto, sia maschio sia femmina. L’allevamento è documentato già nelle tavolette in lineare B e sono ben noti i riferimenti nella poesia omerica (Il. 23.32; Od. 14.14). I suini erano una riserva di carne particolarmente apprezzata e potevano essere usati nei sacrifici (vd. Dalby 2003, 168–169; Kitchell 2014, 150–153.). Il maiale è spesso simbolo di rabbia, rozzezza e sporcizia (Semon. fr. 7.1–6). In commedia sono una presenza piuttosto frequente, in contesti culinari (ad es. Hermip. fr. 63.9) o rituali (Aristoph. Pax 927, Pl. 820) o in scene dalle connotazioni sessuali (Aristoph. Ach. 741 e 758s., Lys 683), con doppio senso in riferimento ai genitali di donne mature (vd. Golden 1988; Herderson 19912, 132 e cfr. Ath. XIII.581a), o ancora come metafora per una donna infuriata (Aristoph. Ve. 36). Per un possibile altro riferimento al maiale in Cratete cfr. fr. 32.4. ῥόδων in commedia ci sono a volte riferimenti alle rose come fiori di una corona per cingere il capo: Aristoph. Eq. 966, Cratin. fr. 105.2 dai Malthakoi e forse anche Cratin. fr. 257.1. Queste corone di fiori sembrano associate ad atteggiamenti voluttuosi. Di rose è l’aroma di un vino in Hermip. fr. 77.8. Un uso metaforico è attestato nei Persiani di Ferecrate: qualcuno che forse viene rimproverato per i suoi languidi costumi ῥόδα προσσεσηρώς “sorride rose” (Pherecr. fr. 138.2); in Aristoph. Nub. 910 alle volgari ingiurie del Discorso Migliore il Discorso Peggiore replica “mi dici rose” e analogamente in Nub. 1330 sono metaforicamente rose gli insulti ricevuti.
fr. 7 K.-A. (7 B.) Phot. (z) ε 865 Theodoridis ἐνεβάλου· παρεβάλου, ἐξηπάτησας. Κράτης Γείτοσι. enebalou: gettasti nel rischio, ingannasti. Cratete in Geitones.
Metro non definibile
k k k l (?)
Bibliografia Bonanno 1972, 69 fr. 7; Tsantsanoglou 1984, 105 fr. 110; KasselAustin 1983, PCG IV, p. 87; Storey 2011, FOC, I 213. Contesto della citazione La glossa è conservata dal codice Zavordense di Fozio e registra probabilmente un’accezione particolare del verbo. Come unica fonte è citata la commedia Geitones di Cratete, più volte menzionata nel lessico foziano (cfr. frr. 4 e 6). Si può plausibilmente ipotizzare che la forma coniugata del lemma riprenda il verbo presente in Cratete. Interpretazione La forma, all’aoristo indicativo medio seconda persona singolare, è probabilmente tratta da un dialogo.
Γείτονες (fr. 8)
79
Il verbo ἐμβάλλω è piuttosto frequente e ha generalmente come significato al medio “mettere, gettare in” o ”gettarsi in”. L’occorrenza in Cratete avrà suscitato l’esigenza di una glossa forse per un uso in un’accezione non comune, che è però per noi difficile definire con sicurezza in mancanza del contesto. I due sinonimi addotti nel lessico bizantino sembrano dare l’idea di un attacco non fisico, e in particolare ἐξαπατάω suggerisce l’azione di ingannare, fuorviare qualcuno. Bonanno richiamava il valore traslato del verbo in espressioni come “mettere in animo a qualcuno” (Il. 10.447 μή μοι φύξιν ἐμβάλλεο θυμῷ). Tsantsanoglou intende nel senso di “deceive”, e anche Storey traduce “you led astray”. Cfr. infra fr. 54, in cui per il verbo διαβάλλω col medesimo significato la Suda cita Cratete, mentre nel lessico di Fozio è menzionato Cratino (= fr. 436). Vd. in proposito Tsantsanoglou 1984, il quale ipotizza una certa confusione non solo nei nomi ma anche nei lemmi.
fr. 8 K.-A. (6 K. = 8 B.) Poll. 7.179.10–12 Bethe (codd. FS, AB) καρδοπογλύφος, ὡς Κράτης (Κρατῖνος A) εἴρηκεν ἐν Γείτοσιν (ὡς — Γείτοσιν om. B)· Μένανδρος (fr. 113) δὲ τὴν κάρδοπον καὶ ληνὸν κέκληκεν. kardopoglyphos (“intagliamadie”) come dice Cratete nei Geitones; Menandro chiama la madia anche lēnos.
Metro incerto. La sequenza l k l k x potrebbe essere parte tanto di un trimetro (cfr. Aristoph. Ve. 1357) o altro verso giambico quanto di un verso trocaico. Bibliografia Blümner II (1879), 327; Kock I (1880) fr. 6; Blaydes 1890, 14; van Herwerden 1903, 12; Edmonds I (1957) 154–155; Bonanno 1967a, 138–141; Bonanno 1972, 69–71 fr. 8; Kassel-Austin 1983, PCG IV 87; Storey 2011, FOC I 213. Contesto della citazione Si tratta di uno dei sedici frammenti cratetei trasmessi da Polluce. Poco prima Polluce ha fatto riferimento a δακτυλιογλύφος (179.3 Bethe), composto comico simile a quello attribuito a Cratete. Il codice Parisinus Gr. 2670 (A) dell’Onomasticon riporta il nome di Cratino invece che quello di Cratete: la confusione tra i nomi dei due commediografi, verosimilmente dovuta a errato scioglimento di compendio, è frequente nella tradizione indiretta di entrambi gli autori (vd. Bonanno 1972, 165 e n. 2). Nello stesso Polluce si veda ad esempio Crates fr. 56. Dell’attribuzione a Cratete dubitava, senza esplicitare in base a quali motivazioni, van Herdwerden 1903. Interpretazione Il composto καρδοπογλύφος è un hapax legomenon. Altri composti con secondo elemento -glyphos in commedia sono ad esempio κυμινο-
80
Crates
πριστοκαρδαμογλύφος Aristoph. Ve. 1357 per uno “che sega il cumino e raschia il nasturzio”, cioè un tirchio; τοκογλύφος per uno che “segna gli interessi”, cioè un usuraio (Com. adesp. fr. 1165); Λιθογλύφος (Philemon tit.). Perfetti paralleli sono anche i nomi parlanti di due topi protagonisti della Batracomiomachia: Τυρογλύφος e Πτερνογλύφος (Batr. 137 e 224). Sulla scorta del composto aristofaneo Blaydes 1890 congetturava nel passo di Polluce una non necessaria correzione in καρδαμογλύφος. La κάρδοπος, la “madia” per impastare e conservare il pane, è una presenza del tutto plausibile in commedia: vd. ad esempio Eup. fr. 218.1, Aristoph. Ran. 1159 e nella forma καρδόπη Nub. 678. Il significato primario di γλύφω è “creuser en taillant” (cfr. Chantraine 1968 s. v.) ed è di norma riferito a un lavoro di intaglio, allo “scolpire”, “cesellare”, opposto alla semplice incisione espressa con γράφω. Il composto è stato inteso quindi come “intagliatore di madie” o, più banalmente, “fabbricante di madie”: “Backtrogschnitzer” (Blümner 1879), “trough-maker” (Edmonds 1957), “scooping out kneading-troughs or other wooden utensils” (LSJ). Bonanno, ritenendo sculture e intagli «piuttosto improbabili per una madia», preferisce intendere il verbo nel senso traslato di “sgraffignare”, dunque in relazione con il furto di cibarie. Cfr. anche καρδοπεῖον, il coperchio della madia come παυσικάπη, “museruola” per evitare il furto di pane, in Aristoph. fr. 313. La Bonanno vedrebbe una conferma di questo essenziale valore di γλύφω in Eup. fr. 361: ὡς οἴχεται μὲν τυρὸς ἐξεγλυμμένος (su cui vd. Olson 2013, 83). Tuttavia il riferimento al furto di cibo, che pure poteva ben esserci nel contesto comico a noi ignoto, non mi pare di per sé insito nel verbo. La pointe comica potrebbe risiedere proprio nell’improbabile accostamento tra scultura e madia, tra il fine lavoro scultoreo suggerito da γλύφω e l’oggetto basso e umile a cui si applica. Simili composti comici con –γλύφος esprimerebbero dunque una meticolosa cura, un’attenzione quasi ossessiva verso qualcosa, sia esso il cibo (il formaggio, il prosciutto nei nomi della Batracomiomachia) o, metonimicamente, l’oggetto d’uso quotidiano per contenerlo (la madia appunto), a descrivere un personaggio affamato o ghiotto, oppure una cosa di infinitesimo valore come il nasturzio del composto aristofaneo, a cui solo un micragnoso taccagno potrebbe riservare tale cura, o ancora i soldi degli interessi di cui si fa tanta premura l’usuraio nel frammento adespoto. Il composto crateteo si può insomma ricondurre a quella attenzione maniacale per il cibo tipica della commedia ed era probabilmente riferito a un personaggio che per gola o per fame aveva particolarmente a cuore la madia e il pane in essa custodito.
Γείτονες (fr. 9)
81
fr. 9 K.-A. (7 K. = 7 B.) Poll. 7.204 (codd. FS, A, BC) τὸ δὲ πεσσοῖς παίζειν π ε σ σ ο ν ο μ ε ῖ ν Κράτης εἴρηκεν ἐν Γείτοσιν (ἐν Γείτοσιν om. BC ἐναγγείτορσι A) Cratete nei Geitones chiama pessonomein il giocare con le pedine
Metro incerto. In Aeschl. Suppl. 12 il verbo è alla fine di un dimetro anapestico. Bibliografia Kock I (1880) fr. 7; van Herwerden 1903, 12; Edmonds I (1957) 154–155; Bonanno 1972, 71 fr. 9; Kassel-Austin 1983, PCG IV 88; Storey 2011, FOC I 213. Contesto della citazione Polluce sta parlando dei giochi coi dadi (7.203) e della πεττεία o πεσσεία, un gioco simile al backgammon, in cui si muovevano le pedine su un tavoliere in base al risultato del lancio dei dadi. Cita in proposito Sofocle (fr. 1081 Radt), la commedia Κυβευταί di Anfide (fr. 25), la Repubblica di Platone (per le forme πεττοί, πεττεύειν, πεττευτής Rp. 292c) e Cratete. Prosegue poi a trattare dei nomi dei lanci, quelli malriusciti e quelli più fortunati, citando questa volta i Κυβευταί di Eubulo (fr. 57). Il titolo della commedia di Cratete è omesso nei codici B e C, ed evidentemente non era compreso dal copista di A (che del resto poco prima aveva attribuito i Geitones a Cratino, vd. fr. 8). Interpretazione Van Herwerden riteneva che il termine fosse da correggere in πεττ- secondo la forma attica, “nisi forte glossa petita sit e parodia tragica”. L’intervento emendativo non pare però necessario né opportuno. La forma con doppio sigma è confermata anche da un altro passo di Polluce: 9.97 (τὸ δὲ πεττεύειν καὶ ἡ πεττεία καὶ τὸ πεσσονομεῖν καὶ ὁ πεττευτής). Si noti inoltre che in entrambi i passi di Polluce il verbo è menzionato immediatamente vicino a forme con doppio tau e la non uniformazione può considerarsi difficilior. Inoltre è possibile che Cratete utilizzasse il termine all’interno di una parodia tragica: l’unica altra attestazione è in Eschilo, Suppl. 1283, dove il verbo, che letteralmente significa “disporre le pedine per giocare”, è utilizzato in senso metaforico con riferimento alle sorti disposte per le Danaidi dal loro padre (Δαναὸς δὲ πατὴρ καὶ βούλαρχος | καὶ στασίαρχος τάδε πεσσονομῶν | κύδιστ’ ἀχέων ἐπέκρανεν | φεύγειν ἀνέδην διὰ κῦμ’ ἅλιον)84. Anche in Cratino si trova πεσσοί con doppio sigma all’interno di una parodia epica (fr. 7).
83 84
Non 13, come riportano erronemamente LSJ e PCG. Vd. in proposito Johansen–Whittle 1980, II 12–13, in cui si discute anche del possibile uso transitivo o intransitivo del verbo.
82
Crates
Non infrequenti i riferimenti al gioco dei pessoi in letteratura, a partire da Od. 1.107. In commedia, oltre al già menzionato Cratin fr. 7 (cfr. Bianchi 2016, 79), si veda anche Aristoph. Ec. 987. Per i verbi in –νομέω, derivati da composti con secondo elemento –νομος cfr. Chantraine 1968, 743. Spesso esprimono il significato di “disporre”, “regolare” e possono essere connessi con ruoli istituzionali (es. ἀγορανομέω, δικαιονομέω). Alcuni composti sono collegati invece al significato “pascolare” (es. αἰγονομέω, βουνομέω). È possibile che tale ambivalenza potesse essere sfruttata a fini comici.
83
Ἑορταί (Heortai) (“Feste”)
Bibliografia Meineke 1839, I 62; Bonanno 1972, 33–35; Kassel-Austin 1983, PCG IV 88; Bowie 2000, 327; Storey 2011, FOC I 213. Titolo Il titolo Heortai, non incluso nell’elenco di Suda (test. 1), è attestato nell’Onomasticon di Polluce, in due codici per il fr. 40 come variante di Tolmai e in tutti i codici per il fr. 41 (vd. infra). Gli editori hanno ritenuto quindi di ascrivere entrambi i frammenti tramandati da Polluce alle Tolmai. Si è in genere escluso che una commedia Heortai sia effettivamente da attribuire a Cratete (vd. Meineke, Bonanno 1972). L’errore nei manoscritti dell’Onomasticon potrebbe essere stato ingenerato da una confusione con una commedia Heortai scritta da Platone comico, autore con il quale per altro Cratete avrebbe in comune anche il titolo dubbio Metoikoi (vd. infra). I sedici frammenti delle Heortai di Platone conservati (frr. 27–42) permettono una datazione al 415 a. C. circa, ma non consentono di delinearne con precisione i contenuti, che potrebbero essere stati connessi a feste religiose, forse oggetto di parodia (vd. Pirrotta 2009, 101ss.). Una commedia intitolata Heorta è attribuita a Epicarmo da Ateneo (fr. 38, vd. PCG I p. 32). Non abbiamo elementi per ipotizzare a quale tipo di feste si facesse riferimento. È verosimile che il titolo indicasse i membri del coro, ma non sappiamo se ciascun coreuta rappresentasse una specifica festa o se tutti rappresentassero feste generiche (cfr. Wilson 1977), né è possibile immaginare quali costumi potessero indossare. Per altri titoli di commedie antiche correlati a eventi festivi cfr. ad es. Thesmophoriazusai I e II di Aristofane, Ipnos ē Pannychis di Ferecrate, Hai aph’hierōn di Platone, Dōdekatē di Filillio, Adōniazousai di Filippide, Dionysiazousai di Timocle (vd. Bowie 200, 560). Argomento Ammesso che una commedia Heortai sia effettivamente da attribuire a Cratete, in base ai due possibili frr. 40–41 nulla si può affermare sugli argomenti in essa trattati. Datazione Non abbiamo nessun elemento utile alla datazione a parte il possibile confronto con l’omonimo dramma di Platone del 415 a. C. circa.
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Ἥρωες (Hērōes) (“Eroi”)
Bibliografia Bonanno 1972, 35; Kassel-Austin 1983, PCG IV 88; Bowie 2000, 319–322; Storey 2011, FOC I 213. Titolo Il titolo Hērōes è incluso nell’elenco riportato da Suda (test. 1) e confermato dalle esplicite citazioni presenti in Esichio (fr. 10), Fozio (frr. 11–12) e Polluce (frr. 13–15). Commedie dal medesimo titolo furono composte anche da altri poeti della commedia antica, Chionide (frr. 1–3; vd. Bagordo 2014a, 36–38) ed Aristofane (frr. 310–330; vd. Pellegrino 2015, 196), e poi da Timocle e Filemone. Al singolare è un titolo di Difilo e Menandro. Al femminile Hērōinē di Epigene. Più in generale per commedie relative a dei ed eroi vd. Bowie 2000. Nello scolio a Dionisio Trace XVIIIb 3.6 (p. 74 Koster) leggiamo che gli eroi appaiono in commedia solo di rado. Questa affermazione è però contraddetta dai dati che conosciamo: circa un quarto dei titoli suggeriscono una connessione con leggende eroiche, spesso con Eracle e Odisseo, e il tema mitologico sembra farsi più frequente in particolare nelle commedie delle ultime due decadi dell’archaia, di pari passo con una tendenza alla parodia tragica (Bowie 2000, 320). Per gli aspetti scenici connessi con la rappresentazione di dei ed eroi in commedia cfr. Miles 2011. Gli eroi erano figure particolarmente rilevanti nella tradizione cultuale ateniese, oggetto di culto come entità semidivine ed eponimi delle tribù clisteniche (cfr. Hdt. 5.66). Vd. Farnell 1921, Kerényi 1958, Ekroth 2002. Si credeva potessero esercitare poteri dalla tomba, e talvolta assumevano anche connotazioni negative. In Aristoph. Av. 1488–1493 si dice che di notte è pericolo incontrare eroi. Lo scolio al passo menziona Myrtil. fr. 2 a proposito della necessità di fare silenzio quando ci si avvicina agli altari degli eroi; cfr. in proposito anche Hsch. κ 4041 κρείττονας· τοὺς ἥρωας οὕτω λέγουσιν. δοκοῦσι δὲ κακωτικοί τινες εἶναι. διὰ τοῦτο καὶ οἱ παριόντες τὰ ἡρῶια σιγὴν ἔχουσι μή τι βλαβῶσι. In Aristoph. fr. 322 gli eroi chiedono agli uomini di essere venerati e si definiscono ταμίαι τῶν κακῶν καὶ τῶν ἀγαθῶν “dispensatori di mali e di beni” (vv. 3–4), minacciando di procurare una serie di malattie a chi rubi. A un’inclinazione malvagia fa riferimento anche Men. fr. 348. Agli eroi come presenze spettrali pensa Storey, che osserva come personaggi che ritornano dall’aldilà non sono rari nel dramma satiresco e in commedia, per es. il fantasma di Solone in Cratin. fr. 246 o i leader politici nei Demi di Eupoli. Il termine ἥρως poteva anche essere usato ironicamente, ad esempio in Aristoph. Ach. 575–579 è in riferimento a Lamaco.
Ἥρωες (fr. 10)
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fr. 10 K.-A. (8 K. = 10 B.) οὐκ ἀσκίωι μεντἄρ’ ἐμορμολύττετο αὐτούς, ἐπεὶ τάδ’ ἔστ’ ἀληθῆ μεντἄρ’ Hsch. : γ’ Prov. : μεντἄν Blaydes ἐμορμολύττετο Kock : ἐμορμολύττετ’ codd. : ἐμορμολύττετε Meineke ἐπεὶ τάδ’ Meineke : εἶτα δ’ Hsch. : εἰ τάδ’ Musuro : ἄν εἰ τάδ’ Fritzsche : *** ἐτά Headlam
non li stava spaventando con uno spauracchio quindi, perché queste cose qui son vere Hsch. ο 1658 Latte οὐκ ἀσκίῳ· ‘οὐκ ἀσκίῳ μεντἄρ’ ἐμορμολύττετο αὐτούς, ἐπεὶ τάδ’ ἔστ’ ἀληθῆ’. παροιμία ἐπὶ τῶν καὶ τὰ κενὰ δεδοικότων· ἐπεὶ κενὸς ὁ ἀσκός non con uno spauracchio: “Οὐκ — ἀληθῆ”. Espressione proverbiale riferita alle persone che hanno paura anche di cose vuote e inconsistenti: perché la pelle per otre è vuota Prov. Bodl. IV 46 Οὐκ ἄσκιον: εἴρηται ἐπὶ τῶν τὰ κενὰ δεδοικότων· Κράτης Ἥρωσιν· Οὐκ ἀσκίῳ γ’ ἐμορμολύττετ’ αὐτούς. non uno spauracchio: si dice in riferimento alle persone che hanno paura di cose vuote e inconsistenti. Cratete negli Hērōes: “Οὐκ — αὐτούς”
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Bibliografia Meineke II (1839), 235 Her. fr. I; Bothe 1855, 75; Fritzsche 1857/1858, 4; Kock I (1880), 132 fr. 8; Blaydes 1896, 16; Headlam 1905; Denniston 19542, 410; Edmonds I (1957), 157; Bonanno 1972, 72–75 fr. 10; Kassel-Austin 1983, PCG IV 88; Storey 2011, FOC I 212–213. Contesto della citazione Esichio riporta i due versi, senza specificarne l’auctoritas, come esempio di uso del lemma οὐκ ἀσκίῳ, un’espressione proverbiale di cui spiega il significato. Sappiamo che si tratta di un frammento degli Hērōes di Cratete perché ritroviamo il primo dei due versi anche nei Proverbia Bodleiana, questa volta con precisa indicazione dell’autore e dell’opera da cui la citazione è tratta. Le testimonianze dell’espressione proverbiale in questione sono varie, in fonti lessicografiche e paremiografiche, ma in nessun’altra si conservano citazioni. Oltre a Esichio e ai Proverbia Bodleiana si veda in particolare Phot. ο 638 Theodoridis οὐκ ἀσκίῳ· ἀντὶ τοῦ κενῷ· ἀσκίοις γὰρ τὰ παιδία μορμύσσεται; Sud. μ 1251 Μορμολύττεται· αἰτιατικῇ. φοβεῖ. Ἀσκίῳ μορμολύττεις, ἐπὶ τῶν τὰ κενὰ δεδοικότων· ἐπεὶ κενὸς ὁ ἀσκός; Diogen. 2.65 Ἀσκῷ μορμολύττεσθαι: ἐπὶ τῶν μάτην φοβούντων; Macar. 2.52 Ἀσκῷ μορμολύττεσθαι: ἐπὶ τῶν εἰκῆ δεδιττομένων
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Crates
(in Macar. 7.68 anche la variante con “ombra”, verosimilmente una banalizzazione, Σκιᾷ μορμολύττεσθαι: ἐπὶ τῶν κενῶς ἐκφοβούντων). La lemmatizzazione con l’avverbio di negazione οὐκ in alcune fonti (Esichio, Fozio e, con normalizzazione al caso diretto, Proverbia Bodleiana) pare rivelare una diretta influenza del testo crateteo, laddove altre fonti riportano la forma ἀσκίῳ μορμολύττομαι senza οὐκ e tutte forniscono una spiegazione che non contempla la presenza della negazione. Non si può escludere del resto che sia stata proprio la formulazione di Cratete a originare il proverbio. Interpretazione Il senso dell’espressione proverbiale ἀσκίῳ μορμολύττομαι al v. 1 è quello di terrorizzare con uno spauracchio, con un vuoto fantoccio (com’è vuota la pelle d’animale usata per fare un otre), che può spaventare solo dei bambini. Sulla scena comica la minaccia si rivela tuttavia non così inconsistente come sembrava. Il deittico τάδ’ (v. 2)85 pare indicare la presenza o la realizzazione in scena di qualcosa di effettivamente spaventoso e temibile (cfr. infra fr. 12). Chi parla ha un punto di vista esterno rispetto all’azione passata che coinvolgeva almeno tre personaggi diversi da chi sta parlando: chi spaventava e gli spaventati (αὐτούς). A provocare terrore potrebbero essere gli eroi del coro, in linea con la connotazione malvagia che essi hanno in alcune fonti (vd. supra Titolo). All’elemento proverbiale si aggiunge, sul piano contenutistico, il richiamo di motivi folklorici, connessi con i mostri che popolavano le paure dei bambini, un aspetto che può essere visto anche nella Lamia, altro demone spaventoso cui Cratete dedica una commedia (vd. infra). ἀσκίωι ἀσκίον, al pari di ἀσκίδιον (vd. Aristoph. Ec. 307), è un diminutivo di ἀσκός, una pelle di animale che normalmente veniva cucita per farne un otre o una borsa (vd. traduzione dell’Edmonds «not with a wineskin bogey»), ma che poteva anche essere usata come una sorta di vuoto fantoccio per spaventare i bambini (Phot. ο 638 ἀσκίοις γὰρ τὰ παιδία μορμύσσεται). È stata ipotizzata una connessione tra ἀσκός e Ἀκκώ, una delle molte figure usate nelle favole da madri e balie per atterrire i bambini (vd. Plut. Stoic. rep. 1040b 5 e Hsch. α 2434), che tra l’altro dà il titolo a una commedia di Anfide (cfr. anche Hermip. fr. 6), ma non c’è alcuna connessione etimologica tra i due termini (vd. Chantraine 1968 s. v.)86. ἐμορμολύττετο il verbo μορμολύττομαι significa “impaurire” o più specificamente “pronunciare l’esclamazione μορμώ”, “fare bu!”. Il verbo deriva infatti da Μορμώ, un essere mostruoso femminile, una strega, paragonabile al nostro uomo nero, creato per intimorire i più piccoli (vd. ad es. Luc. Incred. 2.30 che cita Mormò accanto alla Lamia: πάνυ ἀλλόκοτα καὶ τεράστια μυθίδια παίδων ψυχὰς κηλεῖν δυνάμενα ἔτι τὴν Μορμὼ καὶ τὴν Λάμιαν δεδιότων). In commedia vd. Aristoph. Av. 1245 per il verbo, Ach. 582, Pax 474 per il sostantivo, e Eq. 693 per 85 86
Vd. Bakker 2010, 153–154, che nota l’uso del deittico ὅδε per marcare qualcosa «not simply close to the speaker but also new and salient to the hearer». Zieliński 19312, 114ss.
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l’uso come esclamazione (cfr. anche Theocr. 15.40). Sul mostro Mormò vd. Patera 2015, 106–144. μεντἄρ’ la crasi μέντοι + ἄρ(ᾰ) è rara se non unica. Cfr. Eur. Med. 703 συγγνωστὰ μέν τἄρ’ ἦν σε λυπεῖσθαι, γύναι e vd. Lowe 1973, 51. Proprio la sua eccezionalità parla in favore dell’autenticità di questa lezione e la rende preferibile rispetto a γ’ testimoniato nei Prov.Bodl. e accolto da Blaydes (che alternativamente proponeva una correzione μεντἄν). Vd. Denniston 19542, 410 per μεντἄρα e 35–36 per ἄρα «expressing the surprise upon disillusionment» con verbi al passato. ἐπεὶ τάδ’ il codice Marciano di Esichio, nostra unica fonte in questo punto, riporta εἶτα δ’, che crea qualche difficoltà metrica e qualche perplessità sul significato (Bonanno 1972, 74: «l’ultima frase così com’è data da Esichio non ha senso», ma vd. ad es. Aristoph. Eq. 604). Tra i vari tentativi di correzione, dal primo εἰ τάδ’ di Musuro, seguito da Bothe ed Edmonds, al più fantasioso ἐτά di Headlam, si è imposto ἐπεὶ τάδ’ proposto dal Meineke, accolto da Kock, dalla Bonanno e da Kassel e Austin87.
fr. 11 K.-A. (9 K. = 11 B.) οὐκοῦν ἔτνους χρὴ δεῦρο τρύβλιον φέρειν καὶ τῆς ἀθάρης. 1 τρυβλίον Synag.
ebbene, bisogna portare qui una scodella di purè e della polenta Synag. B (Σb) α 463 Cunningham ἀθάρη … τὸ ἀθάρη παρὰ τοῖς Ἀττικοῖς λεγόμενον τὴν μὲν παραλήγουσαν κατὰ τὴν Δώριον, τὴν δὲ κατάληξιν κατὰ τὴν Ἰωνικὴν ἔσχεν διάλεκτον. Ἀριστοφάνης Πλούτῳ (673)· ‘ἀθάρης χύτρα τις ἐξέπληττε κειμένη.’ Κράτης Ἥρωσιν ‘οὐκοῦν — ἀθάρης’. la atharē così detta dagli Attici ha la penultima secondo il dialetto dorico, mentre l’ultima secondo lo ionico. Aristofane nel Pluto ‘ἀθάρης — κειμένη’. Cratete negli Hērōes ‘οὐκοῦν — ἀθάρης’. Phot. (b, z) α 452 Theodoridis ἀθάρην, οὐκ †ἀθάρην† (ἀθήρην zpc; ἀθάραν Blaydes et Reitzenstein, cfr. Sch. Aristoph. Pl. 673) τὴν ἐρεικτὴν καλοῦσιν. Ἀριστοφάνης Πλούτῳ (673)· ”ἀθάρης — κειμένη”. 〈καὶ ἐν〉 Γήρᾳ (fr. 136)· ”ἀθάρης ἀνακαλύψασα μεστὸν τρύβλιον”. Κράτης Ἥρωσιν· ‘οὐκοῦν — ἀθάρης’.
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Storey in FOC stampa il testo di K.-A. con ἐπεὶ, poi però traduce “if this is true”.
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atharē, non †atharē†, chiamano quella macinata. Aristofane nel Pluto ‘ἀθάρης — κειμένη’. E nel Gēras ‘ἀθάρης — τρύβλιον’. Cratete negli Hērōes ‘οὐκοῦν — ἀθάρης’. Suda α 708 Adler ἀθάρα: ἄλευρον ἡψημένον. κλίνεται δὲ παρὰ μὲν Ἀττικοῖς διὰ τοῦ η ἀθάρης, ἡ δὲ κοινὴ διὰ τοῦ α ἀθάρας. Ἀριστοφάνης Πλούτῳ (672–674)· ‘ἀλλά με ἀθάρης — κειμένη ὀλίγον ἄπωθεν τῆς κεφαλῆς τοῦ γρᾳδίου’. Ἀθάρην, οὐκ ἀθαρὴν τὴν ἐρεικτὴν καλοῦσι. Κράτης Ἥρωσιν· ‘οὐκοῦν — ἀθάρης’. athara: farina di frumento bollita. Si declina negli autori attici con l’ēta di atharē, mentre nella koinē con l’alpha di athara. Aristofane nel Pluto ‘ἀλλά –γρᾳδίου’. Atharē, non atharē chiamano quella macinata. Cratete negli Hērōes ‘οὐκοῦν — ἀθάρης’.
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Bibliografia Meineke II (1839), 235 Her. fr. II; Kock I (1880), 132 fr. 9; Blaydes 1896, 16; van Herwerden 1903, 12; Edmonds I (1957), 156–157; Bonanno 1972, 75–76 fr. 11; Kassel-Austin, PCG IV 89; Storey 2011, FOC I 212–213. Contesto della citazione Il frammento dagli Hērōes è citato dalle fonti lessicografiche a propositi di ἀθάρη, forma ionico-attica distinta da altre forme come ἀθήρα o ἀθάρα. Cratete è citato dopo Aristoph. Pl. 673 (672–674 in Suda) e Gēras fr. 136, quest’ultimo presente solo nei codici di Fozio. Le voci dei diversi lessici assemblano i materiali in modo differente, ma sono tutte riconducibili a fonti atticiste. Nella prima parte della voce della Synagōgē (cfr. Phryn. SP. p. 14,11; Poll. 6.62 e Phot. α 471 Theodoridis) ci si sofferma anche sulla differenza tra atharē ed etnos e sull’origine della forma con ēta finale: ἀθάρη καὶ ἀθέρα καὶ ἀθήρα καὶ ἀθάρα τὸ αὐτό φασιν. ἔστιν δὲ ἡ ἀθάρη ἡ ἐκ πυρῶν ἑψημένων καὶ διακεχυμένων ὥσπερ ἔτνος τροφή. διαφέρει δὲ τοῦ ἔτνους ὅτι τὸ μὲν ἔτνος ἐκ κυάμων ἢ πισῶν ἢ ἁπλῶς κατερικτῶν ὡντινωνοῦν σκευάζεται, ἡ δὲ ἀθάρη ὥσπερ εἴρηται πυρῶν ἑψημένων καὶ διακεχυμένων. ἔστι δὲ ἡ χρῆσις τῆς λέξεως πολλὴ παρὰ τοῖς Ἀττικοῖς, κατὰ μὲν τὸ τέλος διὰ τοῦ η προαγομένη, κατὰ δὲ τὴν μέσην διὰ τοῦ α. κατὰ δὲ πολλοὺς ἄλλους κατὰ μὲν τὸ τέλος διὰ τοῦ α, κατὰ δὲ τὴν μέσην διὰ τοῦ η· οὕτως δὲ καὶ Ἑλλανικὸς (FGrHist 4 F 192) καὶ Σώφρων (fr. 141) ἐχρήσαντο. ἐκτείνουσι δὲ καὶ τὸ α, ὡς ἀπὸ τοῦ ἀθήρα τῆς λέξεως μεταληφθείσης. ἴσως δέ φασιν ἀθέρα ἦν ἡ λέξις διὰ τοῦ ε τὸ πρῶτον, ἡ ἐκ τῶν ἀθέρων κεκαθαρμένη τροφὴ καὶ ἑψημένη ἐκ τῶν πυρῶν, ὕστερον δὲ τὸ ε εἰς τὸ η ἐξετάθη, ὥσπερ καὶ τὸ ἔθος εἰς ἦθος. τὸ μέντοι ἀθέρα εἰς τὸ ἀθάρα Δωρικῶς γέγονεν. οἱ δὲ ἀθάρην λέγοντες Ἰακῶς φασι· καὶ γὰρ καὶ ἄλλοις ἐχρήσαντο Ἰακοῖς διὰ τὴν ἄνωθεν συγγένειαν, ἐσημηνάμην λέγοντες ἀεὶ καὶ σημηνάμενος. ὥστε τὸ ἀθάρη παρὰ τοῖς Ἀττικοῖς … «chiamano atharē e athera e athēra la stessa cosa. L’atharē è un cibo fatto con frumento bollito e ridotto in purè come l’etnos. Differisce dall’etnos perché l’etnos è preparato con fave o piselli o semplicemente qualsiasi cosa tritata, mentre l’atharē come si è detto (è preparata) con frumento
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bollito e ridotto in purè. C’è un uso diffuso del termine negli autori attici, con la terminazione pronunciata in ēta, con la sillaba di mezzo con alpha. E in molti altri modi con la terminazione in alpha e la sillaba di mezzo con ēta; così la usano anche Ellanico e Sofrone. Allungano anche la alpha, come se il termine derivasse da athēra. Dicono che forse in origine il termine era con epsilon athera, l’alimento ottenuto dalla pula (athēr atheros) e bollito di frumento, in seguito la epsilon si è allungata in ēta, come anche ethos in ēthos. L’athera diventa l’athara in Dorico. Quelli che dicono atharē parlano in Ionico; e infatti usavano anche altre parole ioniche per la parentela originaria, perché dicono sempre esēmēnamēn (contrassegnai) e sēmēnamenos (contrassegnato)». Costituzione del testo Le moderne edizioni di Cratete recano unanimemente οὐκοῦν attenendosi alla paradosis delle fonti lessicografiche. Tuttavia la tradizione manoscritta non è dirimente per accentuazione e punteggiatura e occorre chiedersi se la ricostruzione testuale corretta sia οὐκοῦν oppure οὔκουν (cfr. fr. 16.10) e se la frase sia affermativa o piuttosto interrogativa. Cfr. ad es. Aristoph. Av. 1177 e 1185, in cui i codici sono divisi tra οὔκουν (accolto a testo nell’ed. Dunbar 1995 in entrambi i versi) e οὐκοῦν (a testo nell’ed. Wilson 2007 al v. 1185bis, ma non al v. 1177bis). Questo elemento non incide in modo sostanziale sul significato della battuta, ma piuttosto sul tono di essa: οὔκουν, largamente prevalente in commedia e nel dramma in generale, implicherebbe un tono più enfatico, una sorta di comando impaziente, laddove οὐκοῦν comporterebbe un tono consenziente. Vd. Denniston 19542, 430–441, secondo il quale nel dramma οὔκουν è la forma da preferire nella maggior parte dei casi (sp. 432 e 440). Cfr. anche Eup. fr. 269, dove οὐκοῦν dei codici è corretto in οὔκουν da Cobet 1858, 111. Interpretazione Atharē ed etnos sono cibi semplici più volte citati in commedia e lasciano intravvedere un tema gastronomico. Il metro e la presenza dell’avverbio oukoun suggeriscono un frammento da un dialogo. Si noti anche il deittico deuro. 1 οὐκοῦν tale forma avverbiale si trova spesso nelle risposte affermative. Fondato il dubbio se non sia piuttosto da leggere οὔκουν (vd. supra Costituzione del testo), avverbio negativo con valore enfatico o deduttivo, a volte usato in interrogative retoriche con risposta attesa positiva. In Aristofane sembra decisamente più frequente οὔκουν. 1 ἔτνους una sorta di purè o zuppa di legumi (vd. Dalby 2003, 49–50). L’etnos è menzionato già in Alcm. fr. 9.4 Calame e Hippon. fr. 118 Degani ed è spesso citato in commedia: ad es. Call. fr. 26; Pherecr. fr. 137.8; Aristoph. Ran. 62 e 506; Antiph. fr. 181. In alcuni passi aristofanei il contesto suggerisce un doppio senso sessuale in relazione a secrezioni femminili (Henderson 1991, 145): Ec. 845–847 (vd. Sommerstein 1998, 212), Lys. 1061–1062, e forse Ach. 246 (vd. Olson 2002, 143). 1 τρύβλιον scodella, ciotola, usata in cucina per mischiare contenere, servire cibo o per consumare alimenti semiliquidi: cfr. ad es. Aristoph. Ach. 278, Eq. 650 e 905 Ve. 937, Av. 77, Eub. fr. 37.1; Alexis fr. 146.2. Con l’atharē in Aristoph. fr. 136, citato dalle stesse fonti. In Synag. l’accento è τρυβλίον, così come ad esempio
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Crates
in alcuni manoscritti di Aristoph. Eq. 905, ma nel De accentibus dello Pseudo Arcadio (p. 137 Schmidt) per questo tipo di parole trisillabiche è prescritto l’accento proparossitono (cfr. Hdn. GG III.1 p. 1357 Lentz). 1 δεῦρο … φέρειν φέρειν δεῦρο ricorre spesso in commedia come comando per fare portare in scena degli oggetti. Negli Acharnenses di Aristofane ad esempio l’espressione è ripetuta più volte nella scena dell’armamento di Lamaco (vv. 1097–1132), in Ecclesiazusae 737–738 accompagna l’ingresso in scena delle suppellettili del vicino. Cfr. anche Aristoph. fr. 520.7 in riferimento come qui a ghiotte vivande. 2 καὶ τῆς ἀθάρης già Blaydes 1896 lo interpretava come genitivo partitivo pro accusativo. Cfr. Bonanno 1972, 76 e K.-A. 2 ἀθάρης semola, pappa fatta con frumento macinato bollito (vd. García Soler 2001, 99; Dalby 2003, 132), spesso citata in commedia. In Aristoph. Pl. 673 (citato dai lessicografi insieme al frammento crateteo) Carione è desideroso di mangiarla; è elencata tra altri cibi gustosi in Pherecr. fr. 113.3 e Anaxandr. fr. 42.42. Cfr. anche Nicoph. fr. 6 (con Pellegrino 2013, 39). Secondo Plin. NH 22.122 è un termine di origine egiziana. L’etimologia, su cui già discutevano gli antichi (vd. supra Contesto), resta incerta: vd. Chantraine 1968, 27; Beekes 2010, 28.
fr. 12 K.-A. (10 K. = 12 B.) τὸν αὐχέν’ ἐκ γῆς ἀνεκὰς εἰς αὐτοὺς βλέπων il collo su da terra guardando verso di loro Sud. α 2234 Adler = Phot. α 1797 Theodoridis (= Synag. (B) α 1254 Cunningham [usque ad ἐπαίρω B]) ἀνεκάς· ψιλῶς, τὸ ἄνω λέγουσι· καὶ ἀνέκαθεν τὸ ἄνωθεν. Εὔπολις Αὐτολύκῳ (fr. 57)· ἀνεκάς τ’ ἐπαίρω — σκέλος’. Κράτης (Κρατ Sud. AF Κρατῖνος cett.) Ἥρωσι· ‘τὸν — βλέπων’ (duo versus om. Phot.). καὶ Κρατῖνος Ὥραις (fr. 287) (καὶ Κ. Ὥραις om. Sud.). anekas: senza aspirazione, dicono “su” (anō); anche anekathen per “da su” (anōthen). Eupoli nell’Autolykos ‘ἀνεκάς — σκέλος’. Cratete negli Hērōes · ‘τὸν — βλέπων.’ E Cratino nelle Hōrai.
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Bibliografia Meineke II (1839), 235–236 Her. fr. III; Meineke 1847, 79; Bothe 1855, 76 Her. fr. 3; Kock I (1880), 132 fr. 10; Edmonds I (1957), 156–157; Bonanno 1972, 77–78 fr. 12; Kassel-Austin 1983, PCG IV 89–90; Storey 2011, FOC I, 212– 213.
Ἥρωες (fr. 12)
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Contesto della citazione La glossa riportata nelle fonti lessicografiche, tutte riconducibili a una fonte comune (Σ’), riguarda ἀνεκάς, di cui si specifica la mancanza di aspirazione (forse nel senso che non deriverebbe da ἑκάς?) e il significato. L’equivalenza di questa forma con ἄνω si ritrova in varie fonti, che spesso la considerano forma specificamente attica: cfr. anche Synag. B α 1276; Plut. Thes. 33 (τὸ γὰρ ἄνω τοὺς Ἀττικοὺς ἀνέκας ὀνομάζειν καὶ ἀνέκαθεν τὸ ἄνωθεν); Phryn. SP. 32.11 (ἀνεκάς: Ἀττικῶς. καὶ σημαίνει τὸ ἄνω); Erot. Gloss.Hp. 42 che lo spiega come composto di ἄνω + ἑκάς e riporta Aristoph. fr. 192 (κἀνεκάς codd.); sch. Aristoph. Ve. 18c; sch. Pind. O. 2.38a; sch. Luc. 28.25. Nel codice B della Synagōgē la glossa si interrompe prima della citazione di Cratete. In Fozio sono omesse le citazioni estese da Eupoli e Cratete. Il verso crateteo è trasmesso solo dai manoscritti della Suda. Interpretazione Il frammento è in genere considerato sintatticamente incompleto (a parte un tentativo di Meineke 1847, che ipotizzava un senso imperativo “sursum cervicem”; contra già Kock). L’accusativo iniziale τὸν αὐχέν’ potrebbe dipendere da un verbo che si trovava ai versi precedenti: forse ἐπαίρειν88 secondo Kassel-Austin in base a un confronto con Eup. fr. 57 (vd. infra) ed Eur. Tro. 99. Il sollevamento del collo da terra potrebbe far pensare a esercizi ginnici (cfr. fr. 13) eseguiti da una persona sdraiata. αὐχέν’ auchēn “collo”, a volte nel senso più specifico di “nuca” o all’opposto di “gola”, è attestato già nella poesia omerica (ad es. Il. 6.117). In commedia ricorre spesso in riferimento alla gogna o altri strumenti coercitivi applicati al collo: Cratin. fr. 123, Aristoph. Nub. 592, Lys. 681, fr. 313. ἀνεκάς la prima attestazione è in Pind. O. 2.22. L’avverbio, piuttosto raro, si trova in Ippocrate (ad es. Hp. Mul. 143.8) e in commedia. Oltre che nei frammenti comici tramandati nella stessa voce lessicografica (Eup. fr. 57 e Cratin. fr. 287), in Aristoph. Ve. 18 (ἀσπίδα | φέρειν ἐπίχαλκον ἀνεκὰς εἰς τὸν οὐρανόν “sollevare verso il cielo l’aspis di bronzo”) e fr. 192.2 in una scena con l’utilizzo della macchina del volo (ὁ μηχανοποιός, ὁπότε βούλει τὸν τροχὸν | ἱμᾶν ἀνεκάς, λέγε, χαῖρε φέγγος ἡλίου “ehi, tu, macchinista, quando vuoi lasciare andare la ruota in alto, pronuncia pure la frase «Salve, luce del sole»” Pellegrino 2015, 131–132). Come nel frammento di Cratete anche in Eupoli c’è il sollevamento di una parte del corpo, in questo caso una gamba, forse nel contesto di una danza o in riferimento a un atto sessuale (fr. 57 ἀνεκάς τ’ ἐπαίρω καὶ βδελυρὸς σὺ τὸ σκέλος “and I raise up high † and you, you loathsome man, your leg” Olson 2017, 205–207). L’etimologia da ἄνω (su) + ἑκάς (lontano), indicata già da Eroziano (vd. supra Contesto), è la più plausibile. Cfr. Chantraine 1968, 328. I grammatici antichi discutevano sull’accentazione corretta: ossitona come altri avverbi in -κάς oppure proparossitona (Apoll.Disc. Adv. GG 2.2.1 p. 160.21 Schneider). Cfr. Schneidewin 1848, 118.
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Meineke 1839 proponeva ἀναφέρειν, Bonanno αἴρειν.
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fr. 13 K.-A. (11 K. = 13 B.) ἁλτῆρσι θυλάκοισι χρῆσαι τὸ μέγεθος θηλυκοῖσι FSC
χρῆται A, τὸ μέγεθος om. (vacuum 9 litt.)
usa manubri come sacchi in grandezza Poll. 3.155 (FS, A, BC) τὸν δὲ θύλακα (θύλακον B : θήλακον C) τῶν ἀσκητῶν (ἀθλητῶν ACFS) ἢ σάκκον καλοῦσιν ἢ σάκταν (σάκταν καλοῦσιν FSC : κ. ἢ σάκτας A : ἢ σάκταν om. B). ἀθληταῖς δ’ ἂν προσήκοιεν καὶ αἱ ἐνδρομίδες· οὕτω δ’ ἐκαλοῦντο τὰ τῶν δρομέων ὑποδήματα. Κράτης δ’ ἔφη ἐν Ἥρωσιν “ἁλτῆρσι — μέγεθος” (Κράτης — μέγεθος om. B). il sacco (thylakos) degli atleti lo chiamano sakkos o saktas. Agli atleti si addicono anche gli endromides (“stivaletti”): così erano chiamati i calzari dei corridori. Cratete negli Hērōes diceva “ἁλτῆρσι — μέγεθος”.
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Bibliografia Meineke II (1839), 236 Her. fr. IV; Bothe 1855, 76 Her. fr. 4; Kock I (1880), 132 fr. 11; Edmonds I (1957), 156–157; Degani 19652, 268–269; Bonanno 1972, 78–80 fr. 13; Kassel-Austin 1983, PCG IV 90; Storey 2011, FOC I, 214–215. Contesto della citazione Polluce sta trattando di ginnastica e allenamenti e menziona vari attrezzi ginnici e altri strumenti usati per gli esercizi. Poco dopo un riferimento al thylakos (in mezzo un riferimento agli endromides) viene citato un verso di Cratete che contiene questo termine con indicazione del titolo dell’opera. Gli haltēres, un altro attrezzo presente nel frammento crateteo, sono poi menzionati in Poll. 10.64 tra altri strumenti ginnici. Interpretazione Il verso contiene un ordine impartito da un personaggio a un altro apparentemente in un contesto ginnico, forse in riferimento a un allenamento con attrezzi di dimensioni maggiori rispetto alla norma. Kock intendeva “iubentur nescio quis, ironice sine dubio, globis plumbeis uti tantis, ut sacci vel culei esse videatur” e portava a confronto Cratin. fr. 252 e Pherecr. fr. 108. Degani intendeva thylakos come “palla” in base a Antyll. ap. Orib. 6.32.12 e dunque ἁλτῆρσι θυλάκοισι come un asindeto per indicare “l’attività ginnica nel suo complesso”, leggera (θύλακος “palla”) e pesante (ἁλτῆρες “manubri”), anche sulla scorta della menzione di questi attrezzi ginnici in Artemid. 1.55; infine τὸ μέγεθος sarebbe un accusativo di relazione riferito a un aggettivo non tramandato in Polluce. Per Bonanno invece θυλάκοισι è predicativo di ἁλτῆρσι, nel senso di “servirsi di ἁλτῆρες che sono θύλακοι per grandezza”. Secondo Kassel e Austin, sulla scorta del contesto di citazione in Polluce, θύλακος indica non la palla (significato non attestato prima dell’età imperiale), ma
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forse piuttosto un sacco usato dai pugili, che però veniva normalmente chiamato κώρυκος (cfr. Timocl. fr. 31.4, Com.Adesp. fr. 99). Forse in thylakos può esserci un gioco comico basato sull’uso prevalentemente alimentare del termine. Cfr. fr. 10 per un altro sacco in pelle (askion). ἁλτῆρσι haltēres, di norma la plurale (al singolare in Philostr. Gym. 55), sono manubri o pesi tenuti in mano per saltare, in particolare nel pentathlon. L’uso e la forma sono descritti in Philostr. Gym. 55 e Paus. 5.26.3. L’attestazione più antica sembrerebbe un’epigrafe votiva sull’oggetto di piombo: I.Eleusis 1 (= IG I3 988; ca. 575–550 a. C.? rr. 3–4 hα|[λτε͂ρ(ε)]). Questi pesi dovevano avere la funzione di fornire uno slancio nel salto. Cfr. anche Aristot. IA 705a16 οἱ πένταθλοι ἅλλονται πλεῖον ἔχοντες τοὺς ἁλτῆρας ἢ μὴ ἔχοντες “i pentatleti saltano di più con gli haltēres che senza”, e Pr. 881b5; Thphr. Lass. 13, Arr. Epict. 1.4.13, 2.21.20, 4.4.12. Sono spesso menzionati in fonti mediche (ad es. Gal. vol. VI pp. 147.3 e 325.2 Kühn). θυλάκοισι thylakos è un sacco, soprattutto di pelle. Spesso è così denominato un sacco per trasportare cibo (ad es. Hdt. 3.46; Aristoph. Pl. 763; vd. infra fr. 16.6) e metaforicamente può indicare un gran mangione (Alexis fr. 88.4). In Aristoph. Eq. 370 δερῶ σε θύλακον “ti scuoierò per farne un sacco”. Al plurale poteva essere usato anche per delle ampie brache tipicamente orientali Aristoph. Ve. 1087 e Eur. Cycl. 182 (cfr. Hdt. 5.49.3). Nel medico Antillo (II sec. d. C.; vd. Orib. 6.32.12) il termine è usato per indicare una sorta di palla vuota per fare esercizi. Cfr. anche Artemid. 1.55 che cita i thylakoi tra i gymnasia paidika. Thylakē femminile è lo scroto (Hippiatr. 50.1.4). χρῆσαι la forma va verosimilmente intesa come imperativo aoristo medio seconda persona singolare di χράομαι “usare”. τὸ μέγεθος accusativo di relazione. Cfr. ad es. Aristoph. Pax 229.
fr. 14 K.-A. (12 K. = 14 B.) ὁ κάνης δὲ τῆς κοίτης ὑπερέχειν μοι δοκεῖ la stuoia mi sembra più grande della cesta Poll. 10.90 (FS, usque ad κανίσκια tantum ABCL) ἐπὶ δὲ τούτοις κανᾶ καὶ κάνητα καὶ κανήτια καὶ κανίσκια. μὲν Κράτης ἐν (ed.pr. : ἐκράτησεν F : Φερεκράτης ἐν S) Ἥρωσιν εἶπεν “ὁ — δοκεῖ”· Ἀριστοφάνης δ’ ἐν μὲν Ἀχαρνεῦσι (?) κάνητος, ἐν δὲ Γηρυτάδῃ (fr. 173) “ἄλλος — θρύμματα”. καὶ κανοῦν δὲ ἀρτοφόρον. εἴποις ἂν καὶ κίστην ὀψοφόρον, ὅθεν καὶ (Od. 6.76) “μήτηρ — ἐδωδήν”. καί που καὶ κοίτην, ὡς ἔν τε τοῖς Βάπταις Εὐπόλιδος (fr. 86) “ἀλλὰ — σεσαγμένας”, καὶ ἐν Φερεκράτους Μυρμηκανθρώποις (fr. 127) “ἀλλὰ — ἀριστῆσιν”. oltre a questi kaneon (“canestro”) e kanēs (“stuoia/sporta”) e kanētion (“piccolo paniere”) e kaniskion (“piccolo paniere”). Cratete negli Hērōes dice “ὁ — δοκεῖ”. Aristofane negli Acarnesi kanētos, nel Gērytadēs “ἄλλος — θρύμματα”. E kanoun (“cesto”) per il pane.
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Potresti dire anche kistē (“cesta”) portavivande, donde anche “μήτηρ — ἐδωδήν”. E forse anche koitēs, come nei Baptai di Eupoli “ἀλλὰ — σεσαγμένας”, e nei Murmēkanthōrpoi di Ferecrate “ἀλλὰ — ἀριστῆσιν”.
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Bibliografia Meineke II (1839), 236 Her. fr. V; Bothe 1855, 76 Her. fr. 5; Kock 1875, 414–415; Kock I (1880), 133 fr. 12; Edmonds I (1957), 156–157; Bonanno 1967a, 140–141; Bonanno 1972, 81–83 fr. 14; Kassel-Austin 1983, PCG IV 90–91; Storey 2011, FOC I, 214–215. Contesto della citazione Nella sua trattazione degli stumenti per varie technai Polluce parla anche di contenitori usati per il cibo e in particolare elenca una serie di denominazioni di cesti intrecciati, molte delle quali già menzionate al libro 6. Cfr. ad es. Poll. 6.86 τὸ δὲ νῦν κανίσκιον κανήτιον ἐκάλουν, ὡς τὸ λίκνον κάνητα “il kaniskion di ora lo chiamavano kanētion, come il vaglio kanēs”. La menzione degli Acarnesi non pare corretta89 e nei manoscritti il nome di Cratete è frainteso (nell’ed. Bethe a testo Φερεκράτης). Il verso dagli Hērōes è adotto come esempio di uso della parola kanēs, ma contiene anche il termine koitē, a cui Polluce fa riferimento poco dopo, mostrando qualche incertezza sul significato (που) e citando altri due passi comici (Eup. fr. 86 e Pherecr. fr. 127). Interpretazione L’espressione ὁ κάνης τῆς κοίτης ὑπερέχει è glossata nelle raccolte lessicografiche di Fozio e Suda e si ritrova anche dell’Appendix proverbiorum: Phot. ο 172 Theodoridis = Sud. ο 103 Adler = App.Prov. 4.17 Schneidewin Leutsch vol. 1 p. 438 (Paus. ο 12 Erbse) ὁ κάνης τῆς κοίτης (τύχης Sud. App. Paroem.) ὑπερέχει· ἐπὶ τῶν τὰ μὴ (μὴ om. Sud.) ἀναγκαῖα μείζω καὶ πλείω τῶν ἀναγκαίων κεκτημένων “riferito a coloro che posseggono le cose non necessarie in maggior numero e in maggior dimensioni rispetto a quelle necessarie”. Nell’Appendix Proverbiorum è aggiunto inoltre κοίτη γὰρ ἡ κίστη, εἰς ἣν τὰ βρωτὰ ἐμβάλλουσιν, κάνης δὲ, τὸ ἐπίθεμα τῆς κοίτης “koitē infatti è la cesta nella quale si mettevano gli alimenti, mentre kanēs è il coperchio della koitē”. Si tratterebbe dunque di un’espressione idiomatica, o che diverrà tale. L’interpretamentum paremiografico indurrebbe a intendere kanēs come coperchio della koitē e l’espressione proverbiale varrebbe a dire che è più grande il coperchio, che è accessorio, rispetto al contenitore del cibo, che per sineddoche è più sostanziale, perché il cibo in esso contenuto è necessario. Tuttavia nelle poche fonti in cui ricorre kanēs, esso sembra utilizzato non come coperchio ma per contenere cibo e in particolare è usato da Plutarco in riferimento alla legge soloniana che prescriveva tra le norme di sobrietà del comportamento femminile che le donne non portassero con sé fuori casa kanēs oltre a una certa misura (vd. infra s. v.). Forse 89
Il termine κάνης non è presente in quanto conosciamo della produzione di Aristofane. Negli Acarnesi tuttavia c’è il composto κανηφόρος (Ach. 242, 260).
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il kanēs del frammento crateteo, che era più grande delle ampie ceste usate per le offerte pubbliche (koitē?), superava la misura consentita. Resta poco chiaro tuttavia come l’espressione acquisisca il significato figurato indicato dalle fonti antiche, o in altri termini perché kanēs sia associato alle cose non necessarie e koitē a quelle necessarie. Superate le prime interpretazioni del frammento che intendevano koitē nel significato più usuale di “letto” (vd. infra s. v.) e quindi kanēs nel senso di stuoia usata come coperta: “la stuoia ricopre il letto”. Su questa base in LSJ il proverbio era spiegato con “of those who make a show abroad with poverty at home” (cfr. anche GI s. v. κάνης), ma nel Suppl. 1996, 166 corregge con “app(arently) of trivialities being given precedence over important things”. Ci si può chiedere se la battuta si riferisse a un reale kanēs, forse effettivamente presente sulla scena, o se l’espressione fosse già usata nel senso figurato. A proposito di oggetti di giunco intrecciati cfr. fr. 15, tramandato dallo stesso Polluce. κάνης Si tratta di un termine piuttosto raro, che non ha altre attestazioni nel V secolo a. C. né in commedia. In Dion.Hal. 2.23.5 è usato per offerte domestiche e contiene cibo. Cfr. Plut. Sol. 21.5.5: le prescrizioni soloniane per il comportamento delle donne fuori casa comprendono anche una misura massima del kanēs, qui apparentemente nel senso di sporta per il cibo (μηδὲ βρωτὸν ἢ ποτὸν πλείονος ἢ ὀβολοῦ φερομένην, μηδὲ κάνητα πηχυαίου μείζονα “non portasse con sé più di 1 obolo di cibo o bevande, né un kanēs più grande di un cubito”). In Suda α 4161 e κ 307 è glossato con ὁ ψίαθος “stuoia”; cfr. Sch. Aristoph. Ve. 394a-b. In Poll. 6.86 con λίκνον “vaglio”. Sembra di poterne dedurre che kanēs è propriamente una stuoia di canne intrecciate che poteva essere usata con diverse funzioni. κοίτης In genere indica il giaciglio, il letto (ad es. Od. 19.341; Pind. P. 11.25, Hdt. 1.10.2; Aeschl. Suppl. 804; Aristoph. Ve. 1040, Com.dor. fr. 1.8), e così lo intendevano nel frammento crateteo Bothe e Kock, tuttavia il contesto della citazione indica chiaramente che qui, come negli altri due frammenti comici Eup. fr. 8690 e Pherecr. fr. 127 citati contestualmente da Polluce, il termine è usato nel senso di “canestro per vivande” (cfr. Bonanno 1972, 82 e Kassel-Austin 1983, 91, Delneri 2006, 311–312). Il significato di contenitore per alimenti è confermato da altre evidenze: epigrafiche, come IG I3 387.15 (407/406 a. C.) e IG II2 1424a.142 (369/368 a. C.); papiracee, ad es. P.Petr. II 4 ἄρτους ἐν τῆι κοίτηι (III sec. a. C.); e da altre attestazioni letterarie, vd. ad es. Men. Dysc. 448. Cfr. anche Hsch. κ 3274. Le ceste così denominate erano spesso usate per offerte rituali: vd. ad es. il passo menandreo e Plut. Phoc. 28. Cfr. Olson 2017, 266–267.
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ἀλλὰ τὰς κοίτας (κίστας Kock) γ’ ἔχουσι πλουσίως σεσαγμένας “But as for their storage vessels, they have them richly stuffed” Olson 2017, 265–268. Cfr. anche Delneri 2006, 311–312.
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fr. 15 K.-A. (13 K. = 15 B.) ῥιπίδι κοπραγωγῷ ῥιπὶ Blaydes et Degani
sporta portasterco Poll. 10.175 καὶ ῥιπίδα (ῥιπάδα AL : ῥῖπα Blaydes et Degani) δ’ ἄν τις φαίη πλέγμα τι ψιάθῳ ἢ φορμῷ παραπλήσιον· Κράτης δ’ ἐν τοῖς Ἥρωσιν (ἐν τοῖς Ἥ. defic. A) ἔφη ‘ῥιπίδι κοπραγωγῷ’ e si potrebbe dire rhipis qualcosa di intrecciato simile a una stuoia o una cesta; Cratete negli Hērōes diceva “ῥιπίδι κοπραγωγῷ”
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Bibliografia Meineke II (1839), 236 Her. fr. VI; Kock I (1880), 133 fr. 13; Blaydes 1896, 16; van Herwerden 1903, 12; Edmonds I (1957), 156–157; Degani 1965, 270; Bonanno 1972, 83–84 fr. 15; Kassel-Austin 1983, PCG IV 91; Storey 2011, FOC I 214–215. Contesto della citazione Nell’ambito di una rassegna di oggetti di vario tipo e materiale Polluce elenca la βαίτη, casacca di pelle propria dei contadini (con citazione di Sophr. fr. 37), la ἄμφωτις, sorta di paraorecchie (con citazione di Plat. fr. 256, Aeschyl. fr. 102 R. e un titolo di Alexis frr. 13–14) e poi la ῥιπίς. Dopo una spiegazione del termine, viene introdotta la citazione dagli Hērōes di Cratete (nel codice A manca l’indicazione dell’opera). Segue una citazione dagli elenchi di Δημιόπρατα (beni confiscati messi all’asta)91, con un problematico ῥιπαικὰ παγκτόν, e da Odissea 5.256 (ῥίπεσσι διαμπερὲς οἰσυΐνοισι). Dopo di che Polluce passa a enumerare oggetti di vimini e altre fibre vegetali. Costituzione del testo Il testo tradito è da mantenere nonostante le ipotesi correttive, avanzate da Blaydes nel 1896 (seguito da van Herwerden) e ancor prima dall’Hermsterhuys 1706, 1365, e difese e argomentate in particolare da Degani (cfr. anche Bonanno). Poiché i significati che Polluce attribuisce qui al termine ῥιπίς sono quelli normalmente espressi con ῥίψ (vd. infra, cfr. ad es. Aristoph. Pax 699), si riteneva di dover correggere il passo di Polluce e il frammento crateteo in esso riportato con la parola ῥίψ. L’errore ῥιπίδα per ῥῖπα avrebbe una sua plausibilità paleografica: dato il successivo δ’ ἄν si può immaginare generato per dittografia. Degani adduce tra gli elementi a favore della correzione di ῥιπίδα in ῥῖπα e di ῥιπίδι in ῥιπὶ anche il fatto che l’esempio omerico riportato poco dopo da Polluce (Od. 5.256: ῥίπεσσι διαμπερὲς οἰσυΐνοισι) riguarda ῥίψ e non ῥιπίς (senza far cenno però al ῥιπαικὰ 91
Tali liste, citate più volte nel decimo libro dell’Onomasticon, sono menzionate anche in Ath. XI 476e.
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annoverato da Polluce tra i due esempi). Degani riteneva inoltre fossero da correggere anche altre attestazioni di ῥιπίς in fonti lessicografiche, vale a dire Hsch. ρ 360 Hansen: ῥιπίρ· ῥιπίς, τὸ πλέγμα, ἢ ἐκ σχοίνου ψίαθος (πέτασος codd.). Ἀττικοὶ δὲ ῥιπίδα, ᾧ τὸ πῦρ καίουσι· καὶ τραπέζας οὕτω λέγουσι; e la glossa a Hdt. 2.96.4 Ῥιπίς. πλέγμα, riportata anche in Suda ρ 180 (Ῥιπὶς δὲ πλέγμα παρ’ Ἡροδότῳ), perché nei codici di Erodoto si legge κατερραμμένη ῥιπὶ (e non ῥιπίδι) καλάμων. In realtà, anche al di là di queste fonti lessicografiche, troviamo almeno un’altra occorrenza che conferma l’uso di ῥιπίς con significati equivalenti a ῥίψ. Si tratta di un passo di Ael. NA. 13.10, richiamato da Kassel e Austin in PCG, in cui il termine è usato nel senso di “graticcio”/“stuoia” in riferimento alla porta di una trappola per leopardi: θύραν δὲ ἐκ ῥιπίδων καί τινων καλάμων ἀραιὰν ἐπέστησαν. Alla luce di questa ulteriore testimonianza sembra opportuno non accogliere gli estensivi interventi sostenuti da Degani, e anche il lemma esichiano andrà letto come una riprova della sostanziale equivalenza dei sostantivi ῥιπίς e ῥίψ in ambito attico. Interpretazione In linea con i sinonimi indicati da Polluce, ψίαθος e φορμός, il termine ῥιπίς indica in Cratete un oggetto fatto di fibre vegetali intrecciate atto a contenere e a trasportare qualcosa. La cosa trasportata nello specifico è lo sterco. Per quanto l’espressione, al dativo, sia del tutto decontestualizzata, appare plausibile una lettura nell’ambito di una comicità coprolalica (cfr. fr. 20). ῥιπίδι Il termine ῥῑπίς spesso denota il soffietto, il mantice per attizzare il fuoco (così ad es. in Aristoph. Ach. 669, 888, Eub. fr. 75.7). In Stratt. fr. 59 indica invece un accessorio per signore di moda orientale, verosimilmente un ventaglio (vd. Fiorentini 2009, 271–274; cfr. anche AP. 6.290.1 e Dion.Hal. 7.9.4). In Cratete ῥιπίς si riferisce, stando a Polluce, a un oggetto di fibre intrecciate (πλέγμα) simile a una stuoia (ψίαθος, termine che nei papiri egiziani sembra avere il significato di “sacca”: ad es. P.Cair. Zen. III 59430.7; BGU XIII 2334.5, cfr. anche Sor. 2.14.1) oppure a un cesto (φορμός). Tra i vari significati riportati nelle fonti lessicografiche per ῥιπίς anche estremità dell’arto inferiore (Hsch. ρ 361: ῥιπίς· τοῦ σκέλους τὸ ἀκροκώλιον) e, forse, cappello a tesa larga femminile con funzione di parasole (vd. Hsch. ρ 360 codd. e cfr. Poll. 5.127, fonte del frammento di Strattide sopra citato). κοπραγωγῷ L’aggettivo composto è attestato anche in un frammento di Platone comico, in riferimento al ventre (Plat. fr. 243 κοπραγωγοὺς γαστέρας), citato dallo stesso Polluce 7.134 insieme a Aristoph. fr. 741. Il verbo κοπραγωγέω si trova in Aristoph. Lys. 1174 (ἐγὼν δὲ κοπραγωγῆν γα πρῴ, ναὶ τὼ σιώ). Al di fuori dell’ambito comico si conservano occorrenze di simili composti con κόπρος nei papiri di età romana, nei quali è ben attestato l’uso di κοπρηγία e dell’aggettivo κοπρηγός, anche sostantivato, nonché del verbo κοπρηγέω, in relazione all’attività di trasporto di letame92. 92
Per κοπρηγία vd. ad es. P.Soterichos 1.24 (69 d. C.) e P.Fay. 110.11 (94 d. C.). L’aggettivo κοπρηγός in riferimento a un’imbarcazione si trova in P.Lond. II 317.8–9 (156 d. C.), sostantivato sembra riferirsi a un carretto per il trasporto di letame in P.Lond. I 131r. 30
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Θηρία (Thēria) (“Bestie”)
Bibliografia Whittaker 1935, 186–187; Baldry 1953; Kenner 1970, 74; Carrière 1979, 255–263; Ceccarelli 1992, 24–26; Farioli 1999, 21–37; Pellegrino 2000, 55– 69; Ceccarelli 2000, 453–455; Ruffell 2000, 481–483; Wilkins 2000a; Farioli 2001, 57–74; Rothwell 2007, 123–126; Melero 2009; Zimmermann 2011, I 730–731; Konstan 2012; Lens Tuero 2014. Titolo Thēria è una variante di thēr (“bestia”), sostantivo usato soprattutto in poesia, e in particolare nell’epica e nella tragedia, spesso in riferimento ad animali feroci come il leone (es. Il. 15.586) o il cinghiale selvatico (Soph. Tr. 1097). La forma derivata thērion (forse originariamente un diminutivo)93, presente già nell’Odissea (mai nell’Iliade), è più frequente in prosa, ed usata nel dramma satiresco. Il termine si riferisce in genere a bestie selvatiche o ostili all’uomo (ad es. Plat. Men. 237d), ad es. lo squalo (Hdt. 6.44), oppure esseri mostruosi (Soph. Ichn. fr. 314.153 R. satiri, Aeschl. fr. 26 R. Glauco come mostro marino; cfr. thēr Aeschl. Sept. 558 Sfinge, Soph. OC. 1569 Cerbero), ma può indicare anche più genericamente gli animali, di ogni specie, anche i non carnivori: le prede come il cervo (Od. 10.171 e 180), o piccoli insetti (Aristot. HA 623a.27 la preda del ragno; cfr. thēr in Aristoph. Av. 1064 riferito alle piccole prede degli uccelli) e animali addomesticati (forse Eup. fr. 143, vd. Olson 2017, 468–469), come il maiale (Hdt. 2.47.1; Aristoph. Ach. 808). Al plurale può indicare le “fiere” in opposizione a uomini, pesci e uccelli (Hom. 5.4, Hdt. 3.108.3; cfr. thēr in Od. 24.291, Hes. Op. 277), ma si trova usato anche in riferimento all’uomo (Antipho Soph. B 48 ἄνθρωπος, ὅς φησι μὲν πάντων θηρίων θεαιδέστατον γενέσθαι). In commedia a volte è usato come termine ingiurioso contro persone – ad es. Aristoph. Eq. 273 (riferito al coro che percuote Paflagone), Pl. 439 – o a cose, ad es. Men. Georg. 78 (la povertà). Dunque all’epoca di Cratete il sostantivo può indicare sia le bestie selvagge, sia più in generale gli animali (cfr. Farioli 1999, 31 e n. 36, Rothwell 2007, 123 e n. 65). Non sappiamo di quali animali si trattasse, ma sembra di poter escludere i pesci (cfr. fr. 19.2). Verosimilmente il titolo indica i componenti del coro, forse tutti genericamente animali oppure ciascuno nei panni di una bestia diversa (cfr. Wilson 1977, 283). I cori animali sono tipici dell’archaia: cfr. Magnete Batrachoi, Ornithes e Psēnes (vd. Bagordo 2014b, 89, 103 e 110); Callia Batrachoi (vd. Bagordo 2014a, 143); Eupoli Aiges (vd. Olson 2017, 91–92); Ferecrate Myrmēkanthrōpoi (frr. 117–131); Platone Grupes e Myrmēkes (Pirrotta 2009, 82 e 190); Aristofane Sphēkes, Batrachoi e Pelargoi (frr. 444–457); Archippo Ichthyes (vd. Miccolis 2017,
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(78/79 d. C.) e P.Fay. 119.33 (103 d. C.). Tra le varie attestazioni del verbo κοπρηγέω vd. ad es. P.Princ. 65.4–5 (39 d. C.). Beekes 2010, 547 «originally diminutive». Secondo Chantraine 1968, 435 «n’est pas un diminutif, mais un substitut de θήρ en ion-att.».
Θηρία (fr. 15)
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92–93); Cantaro Aēdones e Myrmēkes (vd. Bagordo 2014a, 226 e 233); Cratete II Ornithes (vd. Orth 2014, 370); Diocle Melittai (vd. Orth 2014, 217–219)94. Rispetto a questi titoli tuttavia nel caso di Cratete il nome è più generico e non si riferisce a un’unica specie. Rientra nella categoria dei cori edibili, su cui vd. specificamente Wilkins 2000a, Rothwell 2007, 104ss. Argomento Ateneo cita l’opera di Cratete insieme ad altre commedie che fanno riferimento ai tempi primitivi e al motivo dell’età dell’oro. I frr. 16, 17 e 18 descrivono una vita futura (da intendere come un ritorno all’età dell’oro?) senza fatiche e senza bisogno di schiavi, grazie all’automatizzazione degli oggetti, agi e abbondanza di cibi e ricchezze. Dal fr. 19 evinciamo che il coro di animali o un suo rappresentante impone agli uomini di convertirsi a una dieta vegetariana. I due elementi sono stati messi in relazione considerando l’imposizione del vegetarianismo da parte del coro di animali (fr. 19) come il contraltare per ottenere la vita di lussi prospettata nei frr. 16, 17 e 18. Animali che parlano, armonia tra animali e uomini, acqua che scorre controcorrente sono tutti elementi tipici del mondo alla rovescia (su cui vd. Cocchiara 1963, Kenner 1970). Rispetto ad altre commedie zoocratiche come gli Uccelli di Aristofane o i Pesci di Archippo è stato notato l’«apparente carattere positivo del governo delle bestie» (Farioli 2001, 71), in cui il modello utopico non comporterebbe solo un cambio dell’autorità ma anche l’istaurazione di nuovi valori. Accanto al tema utopico è stato evidenziato l’elemento di satira filosofica, con riferimento in particolare al vegetarianismo di marca orfica o pitagorica: ad es. Baldry 1953, 54 richiama Eur. Hippol. 952–953 «the vegetarianism of the Orphics, which Euripides about the same date made Theseus decry in Hyppolytus” (428 a. C.)». Vd. anche Farioli 2001, 70 e nota 112, Schmidt 1946, 91 e Nestle 1961, 104 «Parodie neumodischer sozialer und hygienischer Ideale». In linea con la visione tradizionale della poetica cratetea, è stata invece spesso esclusa ogni istanza di satira politica o di tematiche impegnante, e la commedia è stata intesa all’insegna della pura utopia, del carnascialesco mondo alla rovescia. Così in particolare Bonanno 1972, 53–54 («si è voluto vedere nel mondo senza schiavi raffigurato nel fr. 16 un serio interesse verso i problemi economico-sociali, e nella fantasmagorica carrellata di oggetti semoventi del fr. 17 una “Parodie neumodischer sozialer und hygienischer Ideale” [Nestle] … ma a una spassionata lettura appare evidente la predilezione di Cratete – a parte i motivi socio-utopistici – per gli spunti più scherzosi e pittoreschi»), seguita da Pellegrino 2000, 58, e su questa linea già Baldry 1953, 54 e anche Farioli 2001, 72, che in base al presunto caratattere desengagé della musa di Cratete ritiene «improbabile che alla ripresa del mito aureo il poeta avesse sotteso una simbologia di tipo politico», pur avendo sottolineato l’imperialismo delle Bestie (Farioli 1999, 21–27). Diversamente Rothwell 2007, 125, sottolinea
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Sui cori animali in generale vd. Sifakis 1971 e Rothewell 2007, sui cori di insetti Conti Bizzarro 2009.
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«even if the Beasts had been set in the time of Kronos, it should be considered a critique of contemporary Athenian consumption». Le prescrizioni alimentari del vegetarianismo, non compatibili con l’istituto del sacrificio rituale, risultavano particolarmente problematiche in una società come quella dell’Atene di epoca classica (vd. ad fr. 19) ed erano al centro di una speculazione intellettuale. Datazione Thēria è l’unica commedia di Cratete per cui sussista qualche elemento di datazione, se pur relativo. Ateneo, che pone i frr. 16 e 17 tra i Ploutoi di Cratino e gli Amphiktyones di Teleclide, dice infatti esplicitamente di aver citato le commedie nel loro ordine cronologico e che fu Cratino il primo, poi imitato dagli altri (vd. infra fr. 16 Contesto). Secondo Zimmermann 2011, I 730 n. 265, il quale ritiene che la carriera di Cratete finisca negli anni Trenta, «Dies kann aber nur dann stimmen, wenn die Plutoi nicht nach Perikles’ Tod zu datieren sind». La data di rappresentazione dei Plutoi non è nota, ma in base a indizi interni sembra inquadrabile genericamente tra il 436 e il 428, più probabilmente dopo l’inizio della guerra del Peloponneso: vd. anche Pellegrino 2000, 46 n. 2 e Bianchi 2017, 30–33 con bibliografia precedente. Il frammento papiraceo PSI XI 1212 (ancora ignoto al Geißler 1925, ma vd. Nachtrag 1969, XII) offre diversi elementi utili per la ricostruzione cronologica, tra i quali la menzione di Agnone (fr. 171.68) e soprattutto il possibile riferimento alla morte di Pericle, avvenuta nel 429 (fr. 171.22). Ignota anche la data di rappresentazione degli Amphiktyones di Teleclide, che Ateneo cita prima dei Metallēs di Ferecrate. Geißler proponeva il 426 (Geißler 1925, Nachtrag 1969, XI-XII). Pellegrino 2000, 72 e n. 1 indica il 433 a. C. come terminus post quem in base alle vicende del kōmōdoumenos Diopite. Un inquadramento tra 431 e 426 appare plausibile: vd. Bagordo 2013, 13 e 46–47. Dunque i Thēria sarebbero databili grosso modo tra 435 e il 426 (Geißler 1925, Nachtrag 1969, XII; tra il 436 e il 431 secondo Edmonds 158 nota a; tra 437–424 secondo Farioli 2001) e più probabilmente negli anni Venti, quindi negli ultimi anni della carriera di Cratete. Bonanno 1972, 29 afferma «pare comunque certo che le Bestie siano state una delle ultime commedie».
fr. 16 K.-A. (14 K. = B.)
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(A.) ἔπειτα δοῦλον οὐδὲ εἷς κεκτήσετ’ οὐδὲ δούλην, ἀλλ’ αὐτὸς αὑτῶι δῆτ’ ἀνὴρ γέρων διακονήσει; (Β.) οὐ δῆθ’, ὁδοιποροῦντα γὰρ τὰ πάντ’ ἐγὼ ποιήσω. (Α.) τί δῆτα τοῦτ’ αὐτοῖς πλέον; (Β.) πρόσεισιν αὔθ’ ἕκαστον τῶν σκευαρίων, ὅταν καλῆι τις· “παρατίθου τράπεζα· αὐτὴ παρασκεύαζε σαυτήν. μάττε θυλακίσκε. ἔγχει κύαθε. ποῦ ’σθ’ ἡ κύλιξ; διάνιζ’ ἰοῦσα σαυτήν. ἀνάβαινε μᾶζα. τὴν χύτραν χρῆν ἐξερᾶν τὰ τεῦτλα. ἰχθύ, βάδιζ’. ” “ἀλλ’ οὐδέπω ’πὶ θάτερ’ ὀπτός εἰμι.” “οὔκουν μεταστρέψας σεαυτὸν ἁλὶ πάσεις ἀλείφων;”
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2 αυτῶι AC : αὑτω E 3–5 om. CE (διακονήσει, ἐπάγει· τράπεζα) 3 ὁδοιποροῦ· τὰ A corr. Casaubon; γὰρ ταῦτα πάντ’ A corr. Elmsley 4 πλεῖον A corr. Heringa 5 καλῆι τις Casaubon : καλῇ τι A : καλῆται Bergk 5 παρατιθῶ A corr. Elmsley : παρατίθεσ’ ὦ Jacobs et Bonanno 6 αὐτὴ et σαυτήν CE : αὕτη et σαυτόν A 7 λίανιζουσα σεαυτήν A : νίζε σεαυτήν CE corr. Dindorf 8 χρῆν Jacobs : χρὴ codd.; ἐξερᾶν τὰ Schweighäuser : ἐξάιραντα A : ἐξᾶραι τὰ E : ἐξ ἆραι τὰ C 9 οὐδέπω ’πὶ Erfurdt : οὐδέπω τἀπὶ codd. : οὐδὲ τἀπὶ Elmsley et Bonanno 10 ἁλὶ πάσεις Erfurdt : ἀλειπασεις Α (om. CE) : ἁλσὶ π. Elmsley (et Bonanno); ἀλείφων A : ἄλειφε CE
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(A.) quindi nessuno avrà uno schiavo né una schiava, ma allora un uomo anziano farà da solo da servo a se stesso? (B.) no di certo, infatti io renderò semoventi tutte le cose. (A.) dunque questo che vantaggio sarà per loro? (B.) si presenterà ciascuno degli utensili, qualora qualcuno lo chiami: “sistemati, tavola, apparecchiati da sola! impasta, sacchetto! versa da bere, mestolo! dov’è la coppa? va’ a lavare te stessa! monta su, focaccia! la pentola doveva scolare le bietole. pesce, procedi’!” “ma non sono ancora cotto dall’altro lato” “e allora che aspetti a girarti e cospargerti di sale ungendoti?”
Ath. VI 267e-268e οἱ δὲ τῆς ἀρχαίας κωμῳδίας ποιηταὶ περὶ τοῦ ἀρχαίου βίου διαλεγόμενοι ὅτι οὐκ ἦν τότε δούλων χρεία τοιάδε ἐκτίθενται· Κρατῖνος μὲν ἐν Πλούτοις (fr. 176) “οἷς — κομῶσαι”. Κράτης δ’ ἐν Θηρίοις “ἔπειτα — ἀλείφων;”. ἑξῆς δὲ μετὰ ταῦτα ὁ τὸν ἐναντίον τούτῳ παραλαμβάνων λόγον φησίν (fr. 17)· “ἀλλ’ — σάνδαλα”. βέλτιον δὲ τούτων Τηλεκλείδης Ἀμφικτύοσι (fr. 1) “λέξω — γιγάντων”. πρὸς τῆς Δήμητρος ὑμῖν, ὦ ἑταῖροι, εἰ ταῦτα οὕτως ἐγίνετο, χρεία τίς ἡμῖν ἦν οἰκετῶν; ἀλλὰ γὰρ αὐτουργοὺς εἶναι ἐθίζοντες ἡμᾶς οἱ ἀρχαῖοι διὰ τῶν ποιημάτων ἐπαίδευον εὐωχοῦντες λόγοις. ἐγὼ δ’ ἐπειδὴ ὥσπερ λαμπάδιον κατασείσαντος τοῦ θαυμασιωτάτου Κρατίνου τὰ προκείμενα ἔπη καὶ οἱ μετ’ αὐτὸν γενόμενοι μιμησάμενοι ἐπεξειργάσαντο, ἐχρησάμην τῇ τάξει τῶν δραμάτων ὡς ἐδιδάχθη… I poeti della commedia antica parlando della vita antica spiegano che allora non c’era tale bisogno di schiavi: Cratino nei Ploutoi “οἷς — κομῶσαι”. Cratete nei Thēria “ἔπειτα — ἀλείφων;”. Di seguito, dopo questi versi, chi prende la parola in risposta a questo dice: “ἀλλ’ — σάνδαλα”. Ancora meglio tra questi Teleclide con gli Amphykyones “λέξω — γιγάντων”. Per Demetra secondo voi, amici, se così stavano le cose, che bisogno avevamo di servi? Ma mentre ci abituavano a essere autonomi, gli antichi attraverso le loro opere ci istruivano nutrendoci lautamente con le parole. Dato che il mirabile Cratino ha agitato come una fiaccola i versi suddetti e quelli che sono venuti dopo di lui imitandolo hanno completato l’opera, io ho seguito l’ordine dei drammi nella sequenza in cui furono rappresentati.
Metro tetrametri giambici catalettici
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Crates 5
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Bibliografia Bergk 1838, 278; Meineke II (1839), 237–238 Ther. fr. I; Bothe 1845, 76–77; Cobet 1858, 18; Kock I (1880), 133 fr. 14; Whittaker 1935, 186–187; Pianko 1951; Edmonds I (1957), 158–159; Gelzer 1960, 185; Bonanno 1972, 85–93 fr. 16; Carrière 1979, 256–261; Kassel-Austin 1983, PCG IV 92–93; Tammaro 1984–1985; Ceccarelli 1992, 24–26; Farioli 1999, 30–35; Pellegrino 2000, 55–64; Ceccarelli 2000, 453–454; Ruffell 2000; Farioli 2001, 58–63; Olson 2007, 75, 100–101, 427; Beta 2009, 128–131 con n. 93; Storey 2011, FOC I 216–217; Rusten et al. 2011, 139; Konstan 2012, 13–14; Konstan 2014, 287–288; Lens Tuero 2014; Duranti 2015, 141–143 e 147–150. Contesto La fonte del più ampio frammento di Cratete, costituito da dieci versi, è Ateneo. Dopo una rassegna della terminologia relativa a schiavi e servi (cap. 93. 267c-e), Democrito, il convitato che sta parlando (262b-270a), introduce alcuni passi della commedia antica che riguardano la vita dei tempi primitivi (περὶ τοῦ ἀρχαίου βίου), per mostrare che in quei tempi non c’era necessità di schiavi. La prima commedia citata è i Ploutoi di Cratino (fr. 176), seguita dai due frammenti dai Thēria di Cratete (frr. 16–17) – di cui si esplicita il rapporto di sequenzialità nella commedia (vd. infra fr. 17 Contesto) –, e poi dagli Amphiktyones di Teleclide (fr. 1, cfr. Bagordo 2013, 48–74), sul quale è espressa una preferenza rispetto al o ai precedente/i (βέλτιον δὲ τούτων). Democrito dice espressamente di aver citato le commedie nel loro ordine cronologico e che fu Cratino il primo, poi imitato dagli altri (per la metafora della lampadēphoria, una gara a staffetta, vd. Pellegrino 2000, 45–46 n. 1), fornendoci un’indicazione cronologica relativa per queste commedie (vd. supra Datazione). Segue una lunga citazione di Ferecrate dai Metallēs (fr. 113) e dai Persai (fr. 137), dalle Seirēnes di Nicofonte (fr. 21) e dai Thouriopersai di Metagene (fr. 6). Fa inoltre riferimento ai Friggitori di Aristofane, ma non ritiene necessario riportarne i versi. Il frammento di Cratete è l’unico tra quelli citati a parlare esplicitamente dell’abolizione della servitù (in Telecl. fr. 1.14 gli schiavi possono dedicarsi a giocare a dadi), anche se come rileva Democrito le condizioni prospettate in tutti i passi citati ne rendono di fatto inutile la presenza (268d). Il frammento di Cratete si differenzia inoltre dagli altri perché non sembra ambientato cronologicamente nel passato, come farebbe suppore la presentazione di Ateneo (267e ποιηταὶ περὶ τοῦ ἀρχαίου βίου διαλεγόμενοι), ma nel futuro. I frammenti citati in questa sezione dei Deipnosofisti sono accomunati da descrizioni di “paesi di cuccagna”, fantasie utopiche caratterizzate da tripudi gastronomici e automatos bios (vd. Pellegrino
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2000) con diverse ambientazioni temporali e geografiche (in un mitico tempo di Crono nei Ploutoi di Cratino, nel regno dei morti nei Metallēs di Ferecrate (su cui vd. Rehrenböck 1987 e e Urios Parisi, 327–331). Sul tema dello Schlaraffenland in commedia vd. Baldry 1953, Langerbeck 1963, Ceccarelli 1996, Pellegrino 2000, Farioli 2001. Costituzione del testo e metrica Il testo trasmesso dai manoscritti di Ateneo è stato corretto in più punti (vd. apparato e cfr. Bonanno 1972, 89–93). Tra le lezioni più controverse al v. 5 καλῇ τι del Marciano, corretto da Casaubon in καλῆι τις (con l’approvazione di van Herwerden 1903, 12, Edmonds, Bonanno e KasselAustin), ma difeso da Heringa 1749, 174–176, che lo riferiva a τῶν σκευαρίων, quindi “uno (degli utensili)” immaginando come soggetto del verbo «ille qui αὐτὸς αὑτῶι διακονήσειν dicebatur», seguito da Meineke e Kock. Schweighäuser intendeva καλῇ come medio «quodcumque vocaveris». Si potrebbe anche intendere τι come soggetto, immaginando che sia un oggetto anche chi impartisce gli ordini e coordina la cucina, ma καλῆι τις sembra offrire un testo migliore dal punto di vista logico e può trovare un parallelo in Alexis fr. 48.5. Al v. 9 è in genere accolta la correzione οὐδέπω ’πὶ di Erfurdt 1812, 461, per l’οὐδέπω τἀπὶ contra metrum dei codici, ma Bonanno preferisce οὐδὲ τἀπὶ proposto da Elmsley 1811, 88, in base ai paralleli Eur. Bac. 1129 (Ἰνὼ δὲ τἀπὶ θάτερ’ ἐξηργάζετο) e Thuc. 7.84.4. Molto controversa la ricostruzione dei cambi di battuta nei primi versi. Dindorf 1827, I 579 (seguito da Bergk 1838, 282, Meineke, 237, Bothe, 76, e Bonanno 1972, 89) assegnava il v. 2 a un secondo personaggio (contra Cobet 1858, 18), interpretando il verso come un’interruzione con tono tra il sorpreso e l’indignato. Kassel-Austin, sulla scorta di Kock, interpretano in questo modo anche il primo verso assegnando quindi allo stesso personaggio i primi due versi (cfr. Farioli 2000, 60–63). La proposta di Dindorf tuttavia ha trovato un convinto difensore in Tammaro, che la ritiene “logicamente e stilisticamente superiore”: nella sequenza si avrebbe un personaggio A che continua a descrivere la situazione futura (ἔπειτα), che sarà senza schiavi. Al secondo verso è interrotto da un interlocutore, un vecchio secondo Tammaro, preoccupato dei disagi che ciò comporterà per gli anziani. E ad anziani Tammaro immagina sia da riferire anche αὐτοῖς di v. 4 (p. 44 n. 5). Anche Pellegrino 2000, 59 giudica convincente questa difesa della suddivisione di Dindorf. Entrambe le soluzioni appaiono plausibili ma la ripetizione enfatica di v. 1 δοῦλον οὐδὲ … οὐδὲ δούλην sembra adatta a una reazione incredula analoga a quella di fr. 19.3–4. I versi sono tetrametri giambici catalettici, dall’antepirrhēma secondo Whittaker 1935, 186–187 o dall’epirrhēma a parere di Gelzer 1960, 185. Cfr. Aristoph. Eq. 841–910, Nub. 1034–1084, Ran. 905–970. Vd. Perusino 1968. Prevale l’incisione mediana (tranne vv. 6, 9 e 10 che la postpongono). Al v. 4 l’antilabē coincide con l’incisione mediana (cfr. ad es. Aristoph. Th. 381–382, 531–573). Interpretazione Un personaggio B dotato di poteri sovrannaturali, un dio o un rappresentante del coro, sta illustrando una futura vita senza bisogno di schiavi grazie all’automatos bios degli oggetti a un personaggio A, che lo interrompe con
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Crates
delle domande. (cfr. supra Costituzione del testo). Il personaggio A apparentemente non è un umano (cfr. v. 4). Secondo il progetto di B i servi non occorreranno più perché egli farà in modo (v. 3 ἐγὼ ποιήσω) che le cose si muovano da sole. Saranno gli oggetti stessi della cucina, utensili e cibi, a provvedere alla varie operazioni necessarie per la preparazione di un banchetto, proprio come avrebbero fatto i servi: disporre la tavola e apparecchiarla, preparare l’impasto d’orzo, servire il vino e cucinare il pesce. Tra i cibi menzionati non c’è la carne (cfr. fr. 19). Il tema dell’automatos bios è un elemento caratteristico delle fantasie utopiche che descrivono paesi di cuccagna e ricorre anche in altri frammenti comici citati da Ateneo in questa stessa sezione95: vd. Telecl. fr. 1.3 αὐτόματ’; Pherecrat. fr. 113.6 καὐτομάτην; fr. 137.3 αὐτόματοι. Il tema trova precedenti nella tradizione letteraria e mitologica: basti pensare agli automata creati da Efesto, cui si fa riferimento nei poemi omerici (i tripodi che si muovono su ruote o le ancelle-robot in Il. 18.376 e 417ss., i cani metallici che fanno la guardia nel palazzo di Alcinoo in Od. 7.92) e alle statue semoventi del mito di Dedalo cui allude Plat. Men. 97d (cfr. Aristot. Pol. 1253b)96. Nei frammenti comici a noi noti non si tratta però di automi metallici o particolari dispositivi; più che un automatismo di tipo tecnologico è un automatismo magico tipico della fiaba: oggetti comuni animati di vita propria, che quindi possono anche parlare97. Per il dialogo con gli utensili domestici cfr. la scena del vicino che fa l’inventario in Aristoph. Ec. 730–745 (su cui vd. Duranti 2015). 1 ἔπειτα chi segue Dindorf nell’assegnare il verso a chi esporrà il progetto di automatos bios, intende l’avverbio nel senso di “e poi” per introdurre la continuazione di una propria esposizione. Kassel-Austin adducono come possibili paralleli di un uso simile di ἔπειτα alcuni esempi aristofanei «in orationibus Euripidis et Praxagorae consilia sua exponentium»: Aristoph. Ran. 948, 954 (945 εἶτα), Ec. 718. Tuttavia, a sostegno dell’attribuzione dei primi due versi allo stesso personaggio, Kassel e Austin notano che ἔπειτα con il futuro è spesso usato per esprimere un tono di reclamo e sorpresa indignazione, come in Aristoph. Pax 1235, Eq. 1369, Lys. 914, Pl. 1148. Cfr. anche Av. 911 (ἔπειτα δῆτα δοῦλος ὢν κόμην ἔχεις;). Contra Tammaro 1984/1985 (vd. supra Costituzione del testo). 1 δοῦλον … οὐδὲ δούλην come nota Conti Bizzarro 1990/1993, 80, questi versi si possono accostare a Pherecr. fr. 10 (citato da Ath. VI 263b), che descrive la semplicità della vita in un tempo passato privo di schiavi. Il motivo del rimpianto per una passato semplice e operoso in cui non c’era necessità di mano d’opera 95 96
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Sull’utopia in commedia vd. Ruffel 2000, Farioli 2001. Più specificamente sulle utopie gastronomiche trasmesse da Ateneo vd. Pellegrino 2000. Bertelli 1982, 522, parla di «fantasia mitico-meccanicistica». Cfr. in proposito Farioli 2001, 65–66 e Lens Tuero 2014, 10–13, secondo il quale l’immagine degli automata presente in Omero sarebbe un referente fondamentale del fr. 16 di Cratete. Per la diffusione di questo motivo nelle fiabe cfr. Thompson 1955–19582, D1600–D1649 «Automatic magic objects».
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servile era presente anche in Ecateo (FGrHist 264 F 127), citato da Hdt. 6.137. L’idea dell’automazione che rende inutile i servi sarà teorizzata in Aristot. Pol. 1253b 33–39. Nel contesto di una società come quella greca, la schiavitù era la norma (Paradiso 1990, 21–24) e la subordinazione dei servi poteva essere sovvertita solo all’interno di dimensioni rituali carnevalesche (vd. Carriére 1979, 66–75 e Paradiso 1991, 132–134). Sulle funzioni degli schiavi nei frammenti comici, prevalentemente in contesti simposiali, vd. Sells 2013. 2 ἀλλ’ … δῆτ’ per ἀλλά … δῆτα di norma in interrogative vd. Denninston 19542, 273–274: in alcuni casi esprime enfaticamente indignazione, cfr. ad es. Soph. Tr. 1245 e Aristoph. Eq. 1369, Av. 357. δῆτα (su cui vd. più in generale Denninston 19542, 269–279) è ripetuto anche ai vv. 3 e 4. 2 αὐτὸς αὑτῷ cfr. Aeschl. Ag. 836 αὐτὸς αὐτοῦ e in proposito vd. Fraenkel 1950 «αὐτοσαυτοῦ serves as an intensified form of the reflexive pronoun… It is very probable that the linguistically unjustified trasformation of αὐτοσαυτοῦ, still preserved in Doric, into αὐτὸς αὐτοῦ (= ἑαυτοῦ) did not take place as early as the fifth century». 2 αὑτῷ … διακονήσει cfr. Aristoph. Ach. 1017 (αὑτῷ διακονεῖται;), riferito dal coro a Diceopoli che mostra di essere abile a “servirsi da solo”, nella preparazione del banchetto98; Plat. Leg. 6.763a. Pellegrino 2000, 60, osserva che il verbo διακονέω in commedia è spesso usato in riferimento alle mansioni di cuochi e schiavi addetti alla preparazione del cibo e al servizio in tavola (ad es. Anaxandr. fr. 58.3; Diphil. fr. 42.33; Men. fr. 208.2), dunque alle necessità specificamente risolte dall’automatizzazione degli oggetti della cucina prospettata ai versi successivi. 3 ὁδοιποροῦντα il verbo ὁδοιπορέω “marciare, camminare” è ben attestato a partire dal V secolo a. C., sia in prosa (es. Hdt. 4.116, Hp. Art. 58) sia in poesia (Soph. OT 1027), naturalmente riferito a persone non ad oggetti. In commedia cfr. Philipp. fr. 14 (ὀρθῶς γε τὴν ῥύμην ὡδοιπορήκαμεν “abbiamo percorso la strada dritti”). 4 τί δῆτα τοῦτ’ αὐτοῖς πλέον; Per questo tipo di interrogativa colloquiale vd. ad es. Eur. Ion 1255 (καὶ τί μοι πλέον τόδε;), Philem. fr. 77.7 (τί οὖν ποιεῖς πλέον;). Per δῆτα cfr. v. 2. 4 αὐτοῖς il pronome è per lo più inteso in riferimento agli uomini in generale (cfr. Bonanno 1972, 89, Carrière 1979, 260, Pellegrino 2000, 60). Tammaro pensava più specificamente ai vecchi richiamando il v. 2 (in linea con l’ipotesi di Heringa, che però emendava in αὑτῷ), ma non mi pare ci siano elementi che portino in questa direzione. In ogni caso chi parla apparentemente è escluso dalla categoria. Su questo punto cfr. Farioli 1999, 25, che aggiunge l’eventualità che il parlante fosse «un uomo favorevole al progetto utopico dei thēria o il suo organizzatore, come Pisetero negli Uccelli: in tal caso egli avrebbe parlato degli altri uomini, avversari del coro, distinguendoli da sé e dai suoi alleati». 98
Ma vd. Olson 2002, 322 «the point is not just that Dik. (like Trygaios at Pax 1032) is self sufficient […] but that he will not share the good things he has got with anyone».
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4 αὔθ’ cfr. v. 6 αὕτη. 5 σκευαρίων diminutivo di σκεῦος, frequente in commedia, soprattutto al plurale Aristoph. Ach. 451, Pac. 201, Ran. 172, Pl. 809. 5–10 ὅταν καλῆι τις· … l’introduzione del dialogo nel dialogo, con un parlante fittizio (τις) che si rivolge ai vari utensili e cibi semoventi, non è chiaramente segnalata a livello testuale e doveva essere gestita a livello attoriale. Uno degli ordini impartiti ha un’inattesa risposta da parte del pesce sulla griglia (v. 9). Sulla citazione di discorsi diretti nei testi drammatici vd. Nünlist 2002, sp. 231 con riferimento al frammento di Cratete. 5 παρατίθου il verbo παρατίθημι è usato spesso in commedia in riferimento alla preparazione dei cibi (vd. ad es. Aristoph. Ach. 85, Eq. 52). I due imperativi παρατίθου (v. 5) e παρασκεύαζε (v. 6) sembrerebbero quindi coincidere, entrambi nel senso di “imbandire” la tavola. Qui però παρατίθημι potrebbe essere inteso anche nel senso di “sistemare”, come operazione preliminare all’apparecchiamento. Kaibel apud Kassel-Austin cita in proposito Od. 5.92 ὣς ἄρα φωνήσασα θεὰ παρέθηκε τράπεζαν | ἀμβροσίης πλήσασα, κέρασσε δὲ νέκταρ ἐρυθρόν “dopo aver detto così la dea gli pose davanti una tavola colma di ambrosia, e gli versò il rosso nettare”. Secondo Pellegrino 2000, 60 «non è improbabile che nel verso di Cratete vi sia la ripetizione di un modulo omerico». Cfr. anche PEG Thebaïs fr. 2.2 Bernabé. 6 θυλακίσκε è propriamente un piccolo sacco per trasportare il pane. Forma ipocoristica di thylakos (cfr. supra fr. 13), equivalente a θυλάκιον. In questa forma si ritrova solo in Aristoph. fr. 249 e fr. 557.2, in cui è usato come contenitore con cui andare al mercato (cfr. Ec. 819–820: κἄπειτ’ ἐχώρουν εἰς ἀγορὰν ἐπ’ ἄλφιτα | ἔπειθ’, ὑπέχοντος ἄρτι μου τὸν θύλακον “dunque andavo al mercato per la farina. Poi, appena tendo il sacchetto…”), e come termine botanico per “capsula” nel trattato medico Diosc.Ped. 2.106. 7 ἔγχει il verbo ἐγχέω “versare in”, “versare da bere”, “riempire il bicchiere”, si riferisce generalmente al vino (vd. ad es. Od. 3.40, Aristoph. Pax 1102). Su vino e simposio nella commedia antica vd. Bowie 1997. 7 κύαθε kyathos è una tazza con un lungo manico usata come mestolo per attingere vino dal cratere (vd. Richter-Milne 1935, 30–31 fig. 183–184; Hill 1942, 42–45). Versare da bere è un compito usualmente affidato ai servi: cfr. Ath. VI 254a che cita Alexis fr. 116.1.2 e Ath. X 423c con Antiph. fr. 81. Altri passi comici in cui ricorre il termine sono ad es. Plat. fr. 192, Archipp. fr. 21 (con Miccolis 2017, 146–147). Il termine era usato anche come unità di misura per liquidi (equivalente a l. 0,045). 7 κύλιξ coppa a due anse, generalmente con un alto stelo e poco profonda, usata per bere il vino (Richter-Milne 1935, 24–25 fig. 152–166). Il vino attinto dal cratere tramite il kyathos era versato nella kylix, ma in questa scena comica la coppa in cui versare il vino manca all’appello e quando arriva è sporca e viene mandata a lavarsi. Prime attestazioni del termine kylix nei lirici Sapph. fr. 2.14 L.-P. e V., Alc. fr. 346.5 L.-P. e V. In commedia ad es. in Pherecr. fr. 73.2–3, Plat. fr. 205.2, Aristoph. Lys. 195ss.
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7 διανίζω il verbo è in genere usato in riferimento a stoviglie: Aristoph. fr. 139 (ὑδρίαν), Damox. fr. 2.44 (λοπάδας), Eub. fr. 30.1. Cf. Moeris ψ 12.2 Hansen. In ambito medico è utilizzato anche in riferimento a parti del corpo: Hp. Mul. 2.112 (διανιψάσθω τὸ αἰδοῖον) e Diocl. fr. 153.18 van der Eijk (τὴν κοιλίαν). 8 ἀνάβαινε Pellegrino 2000 intende “lievita!”, ma non mi pare ci siano attestazioni del verbo in questo senso (che normalmente è espresso con ζυμόω), né la maza era un cibo lievitato (vd. infra). Più corretta dunque l’interpretazione di Carrière 1979, che traduce “grimpe”, Olson 2007 “get up (onto the table)!” e Beta 2009 “sollevati!”. 8 μᾶζα una sorta di focaccia d’orzo non cotta, un cibo semplice di ampio consumo nella dieta greca. Era un impasto (cfr. verbo μάσσω) a base di farina di orzo mescolata con vino o latte o altro liquido e non cotta. Vd. Dalby 2003, 47. Menzionato già in Hes. Op. 590 e Archil. fr. 2.1 West, è spesso presente in commedia: vd. ad es. Cratin. fr. 176.2, Aristoph. Eq. 55, Ve. 610, Ec. 606, Alexis fr. 145. La descrizione della preparazione di una maza (di sterco però) in Aristoph. Pax 1–37. La maza qui interpellata è verosimilmente il prodotto immediato del lavoro richiesto al sacchetto al v. 6. 8 χύτραν termine assai frequente in tutta la letteratura di età classica, nelle sue diverse varianti grafiche (χύτρα/κύθρα/κύτρα), in particolare in commedia e negli scritti medici. La prima attestazione in Hippon. fr. 118 Degani e nel composto χυτρόπους già in Hes. Op. 748. La χύτρα era un utensile di uso quotidiano, di solito in terracotta. Oltre che per cucinare, poteva essere destinata a vari altri usi, per la conservazione e il trasporto di alimenti, per pratiche cultuali (Aristoph. Pl. 1197–1199), per giochi (Poll. 9.113.5–114.6, Hsch. χ 850 Hansen-Cunningham, Suda χ 619 Adler s. v.), e per l’esposizione dei neonati (Aristoph. Th. 505). Sulle diverse testimonianze letterarie, papiracee, epigrafiche e archeologiche vd. Bonati 2016, 197–229. Cfr. fr. 32.1. 8 χρῆν ἐξερᾶν anche gli utensili semoventi si dimostrano in alcuni casi inadempienti, come gli schiavi che sostituiscono: cfr. Olson 2007, 101. Per ἐξερᾶν “svuotare” cfr. Pherecr. fr. 138.1, Aristoph. Ach. 341, Ve. 993, Th. 761. 8 τεῦτλα la bietola (beta vulgaris) è citata frequentemente in commedia e spesso accompagna il pesce (Aristoph. Ach. 894, Pax 1014, Antiph. fr. 179, Eub. fr. 92). Vd. García Soler 2001, 327–332, Dalby 2003, 51. Normalmente al plurale (vd. ad es. anche Pherecr. fr. 113.12, Eub. fr. 36.4), ma anche al singolare (ad es. Eub. fr. 34.1). Nella commedia di IV-III sec. a. C. è ridicolizzata la forma σεῦτλον, ionica e tarda: Alexis fr. 146.5–7 ἐὰν μὲν τευτλίον (scil. εἴπῃ), παρείδομεν· | ἐὰν δὲ σεῦτλον, ἀσμένως ἠκούσαμεν, | ὡς οὐ τὸ σεῦτλον ταὐτὸν ὂν τῷ τευτλίῳ (con Arnott 1996, 434); ἐπὰν δὲ καλέσῃ … τὸ τευτλίον δὲ σεῦτλα Euphro fr. 3.1–2; cfr. anche Diph. fr. 46. 9 ἰχθύ anche nel fr. 19.2 (vd. infra) si parla di pesce arrostito: i pesci non erano evidentemente inclusi tra le carni da cui astenersi. Da ciò si può dedurre che il coro di thēria non includesse pesci. Per una scena simile vd. Telecl. fr. 1.6.
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9 βάδιζ’ l’imperativo di βαδίζω è molto frequente in commedia cfr. ad es. Arsitoph. Ach. 1086 e 1140, Th. 485, Cratin fr. 421 (al medio). 9 ὀπτός si riferisce alla cottura sulla griglia, oppure al forno. Cfr. fr. 19.2. 10 οὔκουν … πάσεις interrogativa retorica che corrisponde a un imperativo Kühner-Gerth 1898, I 176–177. Per οὔκουν in interrogative vd. Denninston 19542, 431. 10 μεταστρέψας … ἁλὶ πάσεις ἀλείφων la ricetta del pesce cotto alla griglia su entrambi i lati e condito con sale e olio si ritrova in Archestr. fr. 14.7 Olson-Sens e nell’opera sui pesci di Dorione (apud Ath. 7.309f). 10 ἁλὶ per l’uso del sale in cucina vd. García Soler 2001, 327–332. Il termine è più frequentemente usato al plurale, ma al singolare ad es. in Aristoph. frr. 6 e 12. Contro i sospetti della Bonanno sulla forma al singolare, paleograficamente più probabile, vd. Kassel-Austin 1983, 93 e Pellegrino 2000, 62–63.
fr. 17 K.-A. (15 K. = 17 B.)
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ἀλλ’ ἀντίθες τοι· ’γὼ γὰρ αὖ τραπέμπαλιν τὰ θερμὰ λουτρὰ πρῶτον ἄξω τοῖς ἐμοῖς ἐπὶ κιόνων, ὥσπερ διὰ τοῦ Παιωνίου, ἀπὸ τῆς θαλάττης ὥσθ’ ἑκάστωι ῥεύσεται εἰς τὴν πύελον· ἐρεῖ δὲ θὔδωρ “ἀνέχετε”. εἶθ’ ἀλάβαστος εὐθέως ἥξει μύρου αὐτόματος, ὁ σπόγγος τε καὶ τὰ σάνδαλα.
1 ’γὼ Jacobs 1809 : ἐγὼ A; αὖ τραπέμπαλιν “nescio quis” Meineke 1867, K.-A. : αὐτὰ πάμπαλιν A: αὖ τἄμπαλίν Casaubon 4 ἀπὸ Bergk 1838: ἐπὶ A 5 ‘ἀνέχετε’ Dindorf : ἀνεχετει A : ἀναχαιτε CE : ἐρεῖ (vel ἐρεῖς) δὲ, θὔδωρ ἀνέχεται Bergk 6 εἶθ’ ἀλάβαστος Bergk : ἔπειτα AC : ἔπειτ E.
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ma fa’ il confronto. Io invece innanzitutto per i miei porterò i bagni caldi a ritroso sulle colonne, come attraverso il Peonio, dal mare, così che scorreranno per ciascuno nella vasca; e l’acqua dirà “Fermatemi”. Poi subito arriverà da solo un vaso di profumo, e una spugna e i sandali.
Ath. VI 267e-268e (vd. supra fr. 16) […] ἑξῆς δὲ μετὰ ταῦτα ὁ τὸν ἐναντίον τούτῳ παραλαμβάνων λόγον φησίν (fr. 17)· “ἀλλ’ — σάνδαλα” […] […] Di seguito dopo questi versi chi prende la parola in risposta a questo dice: “ἀλλ’ — σάνδαλα” […]
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Metro trimetri giambici
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Bibliografia Bergk 1838, 282–283; Meineke II (1839), 238–239 Ther. fr. II; Bothe 1845, 77; Kock I (1880), 134–135 fr. 16; Norwood 1931, 148–149; Whittaker 1935, 187; Edmonds I (1957), 158–159; Gelzer 1960, 185; Bonanno 1972, 85–96 fr. 17; Carrière 1979, 256–263; Kassel-Austin 1983, PCG IV 93–94; Ceccarelli 1992, 24–25; Farioli 1999, 23–30; Pellegrino 2000, 64–69; Ceccarelli 2000, 454–455; Ruffell 2000, 481; Farioli 2001, 58–66; Storey 2011, FOC I 218–219; Rusten et al. 2011, 139; Konstan 2012, 14–15; Lens Tuero 2014. Contesto Vd. supra fr. 16 Contesto. Ateneo introduce questo secondo frammento dai Thēria di Cratete affermando che è la replica di un altro personaggio che controargomenta (ὁ τὸν ἐναντίον τούτῳ παραλαμβάνων λόγον) dopo i versi del fr. 16 (ἑξῆς δὲ μετὰ ταῦτα). Le parole di Ateneo suggerirebbero che il frammento appartenga a un dibattito agonale, in cui si contrappongono due posizioni, quella espressa dal personaggio B nel fr. 16, citato immediatamente prima, e quella espressa da un suo antagonista nel fr. 17 (cfr. v. 1 ἀλλ’ ἀντίθες τοι). Tuttavia le indicazione di Ateneo hanno posto due difficoltà: 1) un’apparente difficoltà di ordine contenutistico, perché in quanto possiamo leggere nel fr. 17 non sembra esserci un evidente contrasto tra l’automatos bios degli elementi della cucina (fr. 16) e l’automatos bios dei bagni caldi a domicilio (fr. 17). In entrambi i casi si prospetta una futura vita di comodità. Da più parti è stato quindi messo in dubbio che i due frammenti facessero parte dell’esposizione di due progetti contrapposti. Bonanno 1972, considerando impossibile una contrapposizione, ritiene che Ateneo sia stato indotto in errore dall’espressione ἀλλ’ ἀντίθες τοι di fr. 17.1 e per ragioni metriche (vd. infra) e contenutistiche considera il fr. 17 a sé stante e «senza alcuna connessione con il fr. 16» (p. 88). Già Baldry 1953 sottolineava la complementarietà dei due tipi di lusso, uno riferito alla cucina (fr. 16), l’altro ai bagni (fr. 17) e anche secondo Carrière 1979, 258–259, i due frammenti rappresentano due aspetti dell’automatos bios ed è illusorio contrapporli, tanto che il personaggio B di fr. 16 e chi parla nel fr. 17 potrebbero coincidere. Su questa linea anche Ceccarelli 2000, 454. Seguendo invece l’indicazione di Ateneo, Bergk, Meineke, Bothe, Kock, Edmond, e più di recente Olson 2007, 100, hanno ritenuto che l’opposizione potesse essere tra un modello di vita più sobrio (fr. 16), che prevede alimenti piuttosto semplici e in linea con la prescrizione di un regime vegetariano cui fa riferimento il fr. 19, e dall’altra parte una vita più lussuosa (fr. 17), dedita a piaceri come i bagni caldi, spesso considerati segno di degenerazione
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morale (vd. infra ad v. 2. τὰ θερμὰ λουτρὰ). Accanto a questa ipotesi, andrà considerato che l’opposizione tra i due personaggi avrebbe potuto consistere anche in qualcosa che non emerge affatto nei versi dei due frammenti e le comodità prospettate potrebbero essere semplicemente promesse con cui ciascuna delle due parti contrapposte cercava di ottenere favore. 2) una difficoltà di ordine metrico nell’opporre ai tetrametri di fr. 16 i trimetri di fr. 17 (cfr. Kassel-Austin 1983, 93). Il fr. 17 non sarebbe allora parte dell’agone ma di una scena ad esso (immediatamente?) successiva. Whittaker 1935, 187 immagina per i Thēria un agone oppositivo in cui due personaggi, di cui uno rappresentante del coro di animali, stanno cercando in opposizione l’uno all’altro di convincere un terzo personaggio (A del fr. 16) dei benefici del proprio progetto, mentre il fr. 17 mostrerebbe che l’agone vero e proprio non aveva portato a un esito decisivo, come avviene nei Cavalieri e nelle Rane di Aristofane. Cfr. anche Gelzer 1960, 185. Allo stato delle nostre conoscenze, non abbiamo elementi sufficienti per smentire le indicazioni con cui Ateneo introduce il fr. 17, per quanto problematiche. Poco probabile l’ipotesi di un guasto nella tradizione (Zieliński 1931, 64 immaginava una lacuna tra i due frammenti)99, ma ovviamente non si può escludere con certezza un errore di Ateneo, o della sua fonte, se – come probabile – Ateneo traeva i brani in questione da precedenti excerpta100. Dai casi in cui è possibile un riscontro con opere conservate, ricaviamo che Ateneo non è immune da imprecisioni sulle situazioni sceniche e la posizione di brani: ad es. Ath. 3.94c-d dopo una citazione di Aristoph. Equ. 300 introduce con καὶ ἑξῆς i versi, in realtà precedenti, Equ. 160–161. Tuttavia in generale Ateneo appare una fonte abbastanza affidabile101 e, considerato quanto poco sappiamo della trama della commedia, è opportuna cautela prima di svalutare del tutto le informazioni di contestualizzazione fornite dalla nostra fonte102, che sembrano basate piuttosto su una conoscenza della commedia, se non nella sua interezza, perlomeno in una porzione più ampia rispetto ai singoli frammenti a noi restituiti. 99
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Stupito dall’assenza nell’antologia utopica proposta da Ateneo di un riferimento al Chrysoun genos di Eupoli, Zieliński postula che tale riferimento fosse caduto in lacuna dopo la citazione del fr. 16 e prima della problematica frase che introduce il fr. 17, che egli dunque assegna a Eupoli. Tale ipotesi è da rigettare perché non congruente con l’ordinamento cronologico della rassegna (vd. Kassel-Austin 1983, 93). A parte il titolo, nessun frammento conservato della commedia di Eupoli sembra attinente a temi utopici: cfr. Ceccarelli 1996, 133–135 e vd. Olson 2016, 460. Rothwell 2007, n. 67 «although Athenaeus may have known more about the context than we do, it is also possible that he was himself misled by earlier excerpters». Su Ateneo come fonte della commedia vd. Nesselrath 1990, 65–79; Arnott 2000b, 4–7; Sidwell 2000, Quaglia 2001b. Più in generale sull’affidabilità di Ateneo vd. Zepernick 1921, Arnott 2000a, 41 e n. 2. Un caso simile ad es. in Ath. 11. 494c-e, in cui sono fornite indicazioni sulla situazione scenica per la Mistide di Antifane e i Babilonesi di Aristofane.
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Costituzione del testo I sette versi pongono alcuni problemi testuali, che sono stati oggetto di svariati tentativi di emendamento proposti dagli editori e commentatori di Ateneo e di Cratete (riportati selettivamente supra in apparato critico; cfr. Bonanno 1972, 93–96). In particolare al v. 1 αὖ τραπέμπαλιν è congettura antecedente al Meineke in luogo dell’improbabile αὐτὰ πάμπαλιν del Marciano: πάμπαλιν non è altrimenti attestato mentre il raro avverbio τραπέμπαλιν trova una possibile conferma in fonti lessicografiche (vd. infra). Al v. 4 la lezione ἐπὶ τῆς θαλάττης del Marciano (cfr. v. 3 ἐπὶ κιόνων), difesa da Kock 1880, è stata corretta in ἀπὸ dal Bergk. A fine v. 5 il Marciano ha ἀνεχετει (ἀναχαιτε nei manoscritti dell’Epitome), che Bergk provò a correggere in ἀνέχεται «ubi iusseris, statim aqua sua sponte sistetur, desinet»; Dindorf (seguito da Meineke 1847, I 81; Kock 1880, 134; Norwood 1931, 148; Zieliński 1931, 63; Kassel-Austin 1983, 94), propose invece di intendere θὔδωρ come soggetto di ἐρεῖ e leggere ‘ἀνέχετε’ in fine verso come discorso diretto (cfr. fr. 16.5ss.)103. A inizio v. 6 i primi editori riportano ἔπειτ’ ἀλάβαστος, in linea con il Marciano, che reca ἔπειτα ἀλάβαστος; Kassel e Austin accolgono invece a testo εἶθ’ ἀλάβαστος proposto da Bergk (e indipendentemente da Cobet, vd. Peppink 1936, 43). Interpretazione Stando a quanto afferma la fonte, il fr. 17 è pronunciato da un personaggio che ribatte al personaggio B del fr. 16, e apparentemente è da collocare poco dopo di esso (cfr. supra Contesto). Chi parla promette a chi sta dalla sua parte un lusso avveniristico: bagni caldi direttamente a domicilio. Come nel fr. 16 troviamo elementi tipici del tema del mondo alla rovescia: l’acqua che scorre a ritroso dal mare e parla, l’automatos bios degli oggetti del bagno. Come sottolinea Farioli 1999, 29, questo è l’unico caso a noi noto in cui l’automatos bios si applica al di fuori della sfera gastronomica. 1 ἀλλ’ ἀντίθες τοι cfr. fr. 45 per un’espressione simile. In Plat. Gorg. 461e Socrate controbatte a un’obiezione di Polo con le medesime parole. In base a questo parallelo Carrière 1979, 261 ritiene che anche in Cratete sia così introdotta una risposta a un’obiezione. Per ἀλλά iniziale nei cambi di battuta vd. Drummen 2009. La particella τοι ha spesso la funzione di richiamare l’attenzione e «implies an audience, and preferably an audience of one» (Denninston 19542, 537, vd. anche p. 545 per altri esempi con imperativo; 549 per l’uso in combinazione con ἀλλά). 1 τοι· ’γὼ il codice Marciano di Ateneo riporta la forma plenior τοι ἐγὼ. Il caso è menzionato come possibile «exemplum crasis illegitimae» da Ahrens 1845, 75, cfr. Schwyzer 1939, I 403. La forma con aferesi fu proposta da Jacoby. 1 τραπέμπαλιν l’avverbio, assai raro, si trova anche in Pherecr. fr. 274, citato da Phot. τ 418 Theodoridis: τραπέμπαλιν· ἐπ’ ἀριστερά· ὑπεναντίως. οὕτως Φερεκράτης, ma Kassel-Austin 1983, 94 ipotizzano che οὕτως Φερεκράτης possa essere un errore per οὕτως Κράτης e che il riferimento sia a questo passo di Cratete. 103
Altri ipotizzano invece per ἐρεῖ un soggetto indefinito sottinteso: vd. Schweighauser 1802, III 578, Meineke 1839, 239, Bonanno 1972, 96, Carrière 1979 ἐρεῖ δὲ ‘θὔδωρ ἀνέχετε’ «et on dira à l’aqueduc: “Arrête l’eau”».
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Cfr. anche Hsch. τ 1261 Hansen-Cunningham (τραπέμπαλιν· ἐνηλλαγμένως, ἢ παρηλλαγμένως). Vd. Plut. Fac.lun. 924c (congettura di Meineke 1859, 5) in un contesto simile con il fluire a ritroso di corsi d’acqua; DCass. 47.40. Il flusso al contrario dei corsi d’acqua è un adynaton ricorrente e ἄνω ποταμῶν è un’espressione proverbiale per indicare situazioni del tutto anomale: vd. Tosi 2017, nr. 545 e Pellegrino 2000, 65. 2 τὰ θερμὰ λουτρὰ già nella poesia omerica troviamo diversi riferimenti a bagni caldi, grazie ai quali gli eroi alleviano le fatiche della battaglia o del viaggio (es. Il. 14.6, Od. 8.233 e 10.165). In età classica l’uso di bagni caldi doveva essere piuttosto diffuso, soprattutto tra i più ricchi. A partire dalla seconda metà del V sec. a. C. le fonti letterarie spesso associano i bagni caldi a uno stile di vita fiacco ed eccessivamente lussuoso, a mollezza orientale e degenerazione fisica e morale (Paradiso 1991, 62–63), e condannano questo lusso come non adatto a un corpo virile: vd. ad es. Hermip. fr. 68 e Antiph. fr. 239 (con Ath. 1.18b-c, che è il contesto di citazione di entrambi), Aristoph. Nub. 837, 991, 1044–1046, Com.Adesp. fr. *555. I bagni caldi sono associati ai banchetti in Plut. Lyc. 10.1 tra i deleteri lussi cui si abbandonava chi mangiava troppo e che Licurgo intendeva combattere introducendo le mense comuni. In generale sui bagni vd. Ginouvès 1962, Yegül 1992, sp. 6–29, Gill 2004, Lucore-Trümper 2013. Sorgenti di acqua calda per i bagni come parte di un universo utopico di vita beata si trovano anche nelle descrizioni dell’isola di Atlantide (Plat. Criti. 117a4b9) e delle Isole del Sole di Giambulo (Diod. 2.57.3). 3 ἐπὶ κιόνων l’acqua che scorre su colonne sembra indicare un acquedotto. Sul sistema idrico di Atene nel VI e V sec. a. C., dall’acquedotto dei Pisistratidi al rinnovamento postpersiano in epoca cimoniana vd. Tölle-Kastenbein 1994 e Monaco 2004, sp. 34–46. Diversa l’interpretazione di Roebuck 1951, 158 n. 17, che ipotizzava invece “some type of medicinal shower bath”, richiamando alcune raffigurazioni vascolari a figure nere con persone che si fanno la doccia sotto piccoli edifici colonnati adibiti a docce pubbliche o forse semplicemente fontane: es. Pfuhl 1923, III ill. n° 286 (idria Leida, Rijksmuseum XVe 28) e n° 295 (anfora Berlino, Staatliche Museen 1843)104. In quest’ultima rappresentazione le bocche teriomorfe delle docce sembrano fissate su colonne, ma cfr. Ginouvès 1962, 22–24. 3 Παιωνίου il termine è un hapax e sembra alludere a un luogo reale, di cui però non abbiamo altre attestazioni. Il luogo doveva essere attraversato da un acquedotto (cfr. ἐπὶ κιόνων) e forse localizzabile vicino al mare (v. 4), ma non è detto che il paragone riguardasse anche questo aspetto. L’epiteto Παίων (Παιάν nell’epica) è attribuito spesso ad Apollo, ma anche ad altre divinità, nel significato di “Salvatore”, “Guaritore” (vd. Schröder 1999, 10–49). Un Peone medico degli dèi è ricordato ad es. in Il. 5.401 o Hes. fr. 307 Merkelbach-West. L’aggettivo παιώνιος ha il significato di “guaritore” (ad es. riferito a φάρμακα in Aeschl. Ag. 848, a χείρ in Aeschl. Suppl. 1066 e in Aristoph. Ach. 1223). Su queste basi si può pensare 104
Yegül 1992, 19 ill. 20 e 19.
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che il Peonio fosse un santuario in cui si guarivano i malati. Altri intendono il termine come un nome comune per “ospedale” (vd. ad es. Bonanno 1972, 94 con n. 2). Secondo le fonti lessicografiche antiche il Peonio era un sanatorio, ma la notizia potrebbe essere autoschediastica: Suda π 883 Adler Παιώνιον: ἰατρεῖον, θεραπευτήριον. ἢ σωτήριον φάρμακον. καί, Παιωνίοις τισὶ φαρμάκοις, σωτηρίοις, ἰατρικοῖς, θεραπευτικοῖς. καὶ αὖθις· πύστιν κατ’ ἐσθλὴν ὕδατος παιωνίου ἦλθέν ποθ’ἑρπύζουσα; cfr. Phot. π 43 Theodoridis e Synag. π 21 Cunningham. Già Kock 1880, 135 era convinto che l’edificio fosse da localizzare al Pireo e Pascal 1910 credeva di poterlo identificare nel santuario di Asclepio presso Munichia rinvenuto in scavi archeologici di fine ‘800 (Judeich 1931, 441). Carrière 1979, 263, ritiene probabile che si tratti di un santuario di Asclepio, a cui l’epiteto Παίων è attribuito ad es. in Soph. fr. 710.3 Radt, Aristoph. Pl. 636, e ricorda il santuario di Egina (menzionato in Aristoph. Ve. 123) oltre a quello presso il Pireo, ma richiama a maggior cautela. I bagni sono collegabili non solo al culto iatromatico di Asclepio ma anche a divinità come Apollo o Poseidone ed eroi come Trofonio, Anfiarao e Podalirio (vd. Ginouvés 1962, 327–373). Sull’uso terapeutico dei bagni caldi vd. Fontanille 1982. Lens Tuero 2014 sottolinea molto l’aspetto medicale dei bagni caldi e ritiene che questo sia l’elemento centrale del frammento in continuità con la domanda di fr. 16.1–2 sulle possibili difficoltà di una persona anziana in assenza di servitù: non si tratterebbe quindi di lussi ma di meccanizzazioni di attività normalmente svolte da schiavi, necessari per vecchi e infermi. Tuttavia non abbiamo elementi per pensare che le comodità presentate dal parlante fossero destinate solo a queste categorie più deboli. 4 ἀπὸ τῆς θαλάττης Considerando impossibile che l’acqua incanalata potesse provenire dal mare, Norwood 1931, 148 n. 2, ed Edmonds 159 n. b intendevano θαλάττα non come “mare” ma come “cisterna”, anche sulla scorta di Hdt. 8.55, che così denomina un bacino di acqua salata sull’acropoli. Cfr. anche Roebuck 1951, 158 n. 17 e Ginouvés 1962, 356 n. 1, che portano il passo crateteo a confronto di Aristoph. Pl. 656–658 in cui Pluto viene immerso ψυχρᾷ θαλάττῃ prima di entrare nell’Asclepeion. Le difficoltà di ordine idraulico nell’immaginare un acquedotto che trasporta l’acqua dal mare appaiono superabili: nel quadro utopico descritto anche un simile adynaton sarebbe plausibile, tanto più se si accoglie τραπέμπαλιν al v. 1, e prefigurerebbe una fonte d’acqua praticamente inesauribile. Carrière 1979, 262, seguito da Pellegrino 2000, preferisce considerare il complemento ἀπὸ τῆς θαλάττης come parte della consecutiva successiva, anche in base al parallelo offerto da Pherecr. fr. 137.3–5: ἀπὸ τῶν πηγῶν τῶν τοῦ Πλούτου ῥεύσονται. 4 ἑκάστωι si fa riferimento verosimilmente alla possibilità di avere il lusso del bagno caldo ognuno nella propria casa. Testimonianze letterarie e archeologiche indicano che nella Grecia arcaica e classica potevano esserci vasche appositamente installate nelle case per fare bagni completi (vd. Ginouvés 1962, 156–181 e cfr. infra ad 5 πύελον). L’acqua corrente nelle abitazioni private però è un’innovazione tecnologica che non si ha prima dell’età romana (vd. Busch 1999,
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20–21). I versi di Cratete presentavano dunque un lusso utopico per l’epoca della rappresentazione. 5 πύελον in Od. 19.553 il termine indica un grosso recipiente per dare il cibo al bestiame. In età classica è usato prevalentemente nel significato di “vasca da bagno”: vd. ad es. Hp. Acut. 65 e in commedia Aristoph. Equ. 1060, Pax 843, Ve. 141 (localizzata in cucina e apparentemente dotata di tubo di scarico, dal quale si teme possa scappare Filocleone), Th. 562, fr. 376.2, Eup. fr. 272 (con Olson 2016, 406). Sui reperti archeologici così denominabili vd. Ginouvés 1962, 29–49, sp. 47–48. 5 ἐρεῖ δὲ θὔδωρ ‘ἀνέχετε’ cfr. supra Costituzione del testo. L’acqua, animata di vita propria, che parla è in linea con il tema dell’automatos bios e dell’assurdo che impernia i frr. 16 e 17. Per il discorso diretto riportato nei testi drammatici cfr. supra ad fr. 16.5ss. Suggestiva quanto ardita l’ipotesi di Gomme 1945, 105 n. 1, secondo il quale ‘ἀνέχετε’ potrebbe corrispondere a iscrizioni su rubinetti («I cannot help thinking that in 15 is laughing at taps in the hospital marked “on” and “off ”»). Rusten 2011, 139 traduce «the water will say “you can turn me off now”». 6 ἀλάβαστος alabastos (o alabastros) è un piccolo vaso di forma allungata e collo stretto, privo di anse, spesso – ma non necessariamente – in alabastro, usato per contenere profumi e oli cosmetici (Richter-Milne 1935, 17). Cfr. Sud. λ 438 λήκυθον τὴν τοῦ μύρου Ἀττικοὶ καλοῦσιν ἀλάβαστρον […]. Sovente con esplicito riferimento al profumo, es. Hdt. 3.20.5 (μύρου ἀλάβαστρον), Alexis fr. 63.1 (ἐμυρίζετ’ ἐξ ἀλαβάστου), fr. 147.3, Eub. fr. 98; associato a donne sposate e usato per doppi sensi sessuali anche per la forma cilindrica e oblunga assimilabile al fallo ad es. in Aristoph. Ach. 1053 (con Olson 2002, 328), Lys. 947 (con Henderson 1987, 182), fr. 561 (la vagina è una ἀλαβαστοθήκη). La forma senza rho sembrerebbe la forma attica più antica: vd. IG I3 421. 207 (414 a. C.), cfr. AelD. α 71 Erbse (che cita Men. fr. 268). Vd. Tischler 1978, 54–58. 6 μύρου cfr. frr. 2 e 38. Profumi e oli erano comunemente usati dopo il bagno. 7 αὐτόματος l’aggettivo è un elemento chiave che accomuna i frammenti comici citati da Ateneo in questa sezione: vd. Teleclid. fr. 1.3 αὐτόματ’; Pherecrat. fr. 113.6 καὐτομάτην; fr. 137.3 αὐτόματοι. 7 ὁ σπόγγος spoggos “spugna” è termine attestato già nella poesia omerica (ad es. Il. 18.414). Le spugne erano solitamente usate, come qui, per lavarsi (Aristoph. Th. 247; Aristoph. Ran. 482–485105 e fr. 59; Pherecr. fr. 58), oppure per pulire delle superfici (Od. 1.111 per pulire i tavoli; Aeschl. Ag. 1329 per cancellare un disegno; Theop.Com. fr. 41 per pulire il vomito). Per l’uso nei bagni cfr. Ginouvès 1962, 143 n. 5. Rispetto allo strigile, la spugna era più adatta a corpi
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Dioniso chiede a Xantia “una spugna per il cuore” per riaversi dopo le minacce di Eaco (cfr. Dover 1993, 255 «it seems that a sponge soaked in cold water was applied (to the chest) to assist recovery from shock»), ma non è per il cuore che serve, quanto, come in Th. 247, per pulire il sedere di chi se l’è fatta sotto.
Θηρία (fr. 18)
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delicati, ai malati e agli anziani (cfr. Hp. Acut. 18.16 con Gal. vol XV pp. 713–714 Kühn). 7 τὰ σάνδαλα le attestazioni più antiche del termine nell’inno omerico a Ermes (Hom. 4.79, 83, 139) e nella forma σάμβαλον in Sapph. fr. 110.2 L.-P. e V. e in Eumel. fr. 1 PMG Page. In commedia sandalon si ritrova solo in Eup. fr. 312 (al singolare τοῦ Διὸς τὸ σάνδαλον), ma vd. Poll. 7.86 (τὸ σάνδαλον Εὔπολις ἐν Χρυσῷ γένει καὶ σχεδὸν ἅπαντες οἱ κωμικοί) e cfr. Olson 2016, 492. Forme al diminutivo σανδάλιον in Cratin. fr. 139 e Cephisod. fr. 4.1; Theop.Com. fr. 45; Antiph. fr. 188.2, e σανδαλίσκον in Aristoph. Ran. 405. Non abbiamo attestazioni sicure di calzature specificamente usate per i bagni: Ginouvès 1962, 224 e n. 6.
fr. 18 K.-A. (16 K. = 18 B.) ἔχοντες εὐπαθῆ βίον παρουσίαν τε χρημάτων 1 ἀπαθῆ Harp. ep. D Phot. g z
2 περὶ οὐσίας Harp. ep. D, περιουσίαν Phot. ante corr.
avendo/che hanno una vita felice e disponibilità di ricchezze Harp. π 35 Keaney (p. 241.8 Dind.) = Phot. π 440 Theodoridis = Sud. π 706 παρουσία· ἀντὶ τοῦ περιουσία ἢ αἰτία πλούτου οὐσία (ἤτοι ἡ αἰτία τοῦ πλούτου· ἡ οὐσία· Harp. ep., Phot.; ἀντὶ τοῦ οὐσία Bonanno)· Δημοσθένης ἐν τῷ Περὶ συντάξεως (13.7.3) καὶ Δείναρχος ἐν τῷ Ὑπὲρ τῆς νεὼς (Or. 68 fr. 2 Conomis καὶ — νεὼς om. Phot. Sud.) καὶ Κράτης (καὶ Κράτης om. Harp. pl.) Θηρίοις (Θηρίοις om. Harp. ep. Phot. Sud.): “ἔχοντες — χρημάτων”. parousia: nel senso di periousia (“abbondanza”) o situazione di ricchezza, proprietà: Demostene nel Peri Syntaxeōn e Dinarco nel Hyper tēs neōs e Cratete in Thēria “ἔχοντες — χρημάτων”.
Metro dimetri giambici
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Bibliografia Meineke II (1839), 240 Ther. fr. IV; Kock I (1880), 135 fr. 16; Blaydes 1896, 17; van Herwerden 1903, 13; Blaydes 1905, 328; Whittaker 1935, 186–187; Baldry 1953, 54; Edmonds I (1957), 158–159; Gelzer 1960, 185; Bonanno 1972, 96–97 fr. 18; Kassel-Austin 1983, PCG IV 95; Ceccarelli 1992, 25; Farioli 2001, 66; Melero 2009, 78; Storey 2011, FOC I 218–219; Rusten et al. 2011, 140. Contesto della citazione Il materiale si ritrova in varie compilazioni lessicografiche a partire da quella più antica di Arpocrazione (cfr. Lex.Vind. di Lopadiotes
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Crates
p. 143, 8 Nauck), la cui epitome è la fonte di Fozio e di Suda (cfr. anche AG. Ox. II p. 498, 15–18 Cramer). Fozio e Suda omettono il riferimento a Dinarco (presente nell’epitome) e il titolo di Cratete (assente anche nell’epitome di Arpocrazione). Il titolo Thēria è quindi tradito solo dalla versione plenior del lessico dei dieci oratori di Arpocrazione, in cui per altro manca il nome dell’autore. Phot. π 449 e Sud. π 707 (cfr. AelD. π 23 Erbes) conservano un’altra glossa col medesimo lemma, sempre spiegato come sinonimo di abbondanza (λέγεται οὕτως ἐπὶ τῆς τῶν παρόντων δαψιλείας), con citazione dal Phaōn di Platone (fr. 194 ὡς καὶ νῦν ἔχομεν παρουσίας, vd. Pirrotta 2009, 369; Phaidōni in Suda), e osservano che tale significato è frequente negli autori attici, accanto a quello di “presenza”. L’uso di parousia nel senso di “beni posseduti” è attestato anche nel lessico di Esichio, che in proposito cita Menandro (Hsch. π 994 Hansen = Men. fr. 361), e da altri lessici atticisti come Moer. π 14 Hansen. Metro Salmasius 1638, 182 pensava a trimetri incompleti (cfr. anche Pierson 1830, 297). Più probabile tuttavia la divisione in dimetri proposta nell’edizione di Meineke e accolta dagli editori successivi. Secondo Whittaker, 187, si tratta di due versi del pnigos106. Successioni giambiche articolate in cola dimetrici si riscontrano nella commedia aristofanea soprattutto in chiusura di epirrema o antepirrema di agoni (es. Eq. 367–381; 441–456; 911–940; Nub. 1089–1104; 1386–1390; 1445–1451; Ran. 971–991), oppure alla fine della parodo (Lys. 382–386)107. Costituzione del testo Appaiono frutto di corruttela le lezioni ἀπαθῆ (cfr. Diphil. fr. 42.19) e περιουσίαν. Tuttavia, sulla scorta di Cobet 1876, 60 e Nauck, Blaydes riteneva che περιουσίαν fosse da accogliere a testo in luogo di παρουσίαν in base a un confronto con Aristoph. Nub. 50 (ἐρίων περιουσίας), Plat. Def. 415d (περιουσία χρημάτων), Demosth. 49.3 (περιουσίαν χρημάτων), Thuc. 2.13 (χρημάτων περιουσίᾳ, vd. anche 1.2). Contra Bonnano 1972, 97, che oltre ad addurre altre presunte attestazioni di παρουσία con questo valore (Aristoph. Th. 1049; Plat. Gorg. 497e; cfr. παρεῖναι in Cratin. fr. 363.3, su cui Kock 1880, 109), richiama l’attenzione soprattutto sul contesto in cui è tramandato il frammento: il fatto che παρουσία costituisca il lemma da spiegare rende improbabile che sia un errore. Interpretazione Questi versi sono stati messi in relazione con le promesse di una vita di agi e lusso con cui il coro di bestie cercherebbe di convincere gli uomini ad astenersi dal mangiare carne animale (Whittaker 1935). Certamente in essi torna il tema della ricchezza, che ricorre in più frammenti cratetei (vd. ad es. frr. 22, 36, 48), qui associata a una vita agiata e gioiosa. εὐπαθῆ quella in Cratete è l’attestazione più antica di questo aggettivo, che non ricorre altrove in commedia né nella poesia in generale, ed è l’unica con il significato di “che procura gioia”. L’aggettivo è invece relativamente frequente nella 106 107
Cfr. anche Baldry 1953, 54; Gelzer 1960, 185; Perusino 1968, 107. Cfr. Martinelli 1995, 151.
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prosa più tarda, dove assume il significato di “sensibile” (Aristot. Pr. 887b 23; Thphr. CP. 5.14.7; Plut. Alex. 35.2). Per il significato con cui è utilizzato in Cratete cfr. il verbo εὐπαθέω ad es. in Hdt. 2.133.4 e 174.1. παρουσίαν le fonti lessicografiche chiariscono che il termine va inteso in Cratete e in altri passi comici (Plat. fr. 194 e Men. fr. 361, vd. supra Contesto) non come “presenza” ma come “abbondanza”, “ricchezza”. Se così è, e non si tratta solo di un valore ricavabile dagli specifici contesti, l’espressione παρουσίαν χρημάτων risulterebbe particolarmente enfatica108. fr. 19 K.-A. (17 K. = 19–20 B.) (A.) καὶ τῶν ῥαφάνων ἕψειν χρὴ ἰχθῦς τ’ ὀπτᾶν τούς τε ταρίχους, ἡμῶν δ’ ἄπο χεῖρας ἔχεσθαι. (Β.) οὐκ ἄρ’ ἔτ’ οὐδὲν κρέας, ὡς ὑμεῖς λέγετ’, οὐδ’ ὁτιοῦν ἐδόμεσθα, οὐδ’ ἐξ ἀγορᾶς, οὐδὲ τάκωνας ποιησόμεθ’ οὐδ’ ἀλλᾶντας; 2 ἀπό Ath.
3 ἔτ’ Bergk : ἔστ’ Poll. FS : ἐστὶν A; ὅτι ἐδόμεσθ’ Poll. A
(A.) e bisogna far bollire dei cavoli e arrostire pesci freschi e tarichos, ma via le mani da noi. (B.) cioè quindi non mangeremo più carne, come dite voi, di nessun tipo, neppure quella presa al mercato, e non ci faremo polpette né salsicce? [1–2] Ath. III 119c λέγε οὖν ἡμῖν καὶ σὺ εἰ καὶ ἀρσενικῶς ὁ τάριχος λέγεται παρ’ Ἀττικοῖς· παρὰ γὰρ Ἐπιχάρμῳ (fr. 162) οἴδαμεν. ὃν ζητοῦντα προφθάσας ὁ Μυρτίλος ἔφη· Κρατῖνος μὲν ἐν Διονυσαλεξάνδρῳ (fr. 44)· “ἐν — Ποντικούς”. Πλάτων Διὶ κακουμένῳ (fr. 49)· “ὥσθ’ — ἀπολέσω”. Ἀριστοφάνης Δαιταλεῦσιν (fr. 207)· “οὐκ — κακά”. Κράτης Θηρίοις· “καὶ — ἔχεσθαι”. ἰδίως δ’ ἐσχημάτισται παρ’ Ἑρμίππῳ ἐν Ἀρτοπώλισι (fr. 10)· “καὶ τάριχος πίονα”. Σοφοκλῆς τ’ ἐν Φινεῖ (fr. 712 Radt)· “νεκρὸς — Αἰγύπτιος”. dicci allora a tua volta se gli Attici usano anche al maschile il termine tarichos: sappiamo infatti che in Epicarmo c’è. Mirtilo, precedendolo mentre cercava una risposta, disse: Cratino nel Dionysalexandros “ἐν — Ποντικούς”. Platone nello Zeus kakoumenos “ὥσθ’ — ἀπολέσω”. Aristofane nei Daitalēs “οὐκ — κακά”. Cratete nei Thēria “καὶ — ἔχεσθαι”. In Ermippo, nelle Artōpolides una forma particolare “καὶ τάριχος πίονα”. Sofocle nel Phineus “νεκρὸς — Αἰγύπτιος”. [3–4] Poll. 6.53 (FS, A) ἔστι δὲ γαστρίον ἡδυσμένον, ὃ καὶ τάκωνας (τὰς κῶνας FS) ἔνιοι κεκλῆσθαι παρὰ Κράτητι νομίζουσι τῷ κωμικῷ μόνῳ καὶ ἅπαξ εἰρηκότι ἐν Θηρίοις “οὐκ — ἀλλᾶντας”. οἱ (οἱ om. A)
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Rusten et al. traducono “presence of possessions”.
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δ’ οἴονται τοὺς τάκωνας ἐκ ταγήνου (κακῶνας ἐκ ταγεῖν οὐ FS) κρέας, ἢ στέατος τροχοὺς σὺν ἁλσὶ καὶ ξηροῖς ἡδύσμασι κοπέντας. c’è una salsiccia stagionata che alcuni ritengono sia chiamata anche takōn in Cratete comico, il quale è l’unico che lo ha detto e una volta soltanto in Thēria “οὐκ — ἀλλᾶντας”. Altri credono che i takōnes (siano) carne in tegame, oppure dischi di lardo con sale e spezie essiccate fatti a pezzetti.
Metro tetrametri anapestici catalettici
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Bibliografia Meineke 1826, 29; Bergk 1838, 278–281; Meineke II (1839), 239–240 Ther. fr. III; Bothe 1845, 77; Kock I (1880), 135 fr. 17; Blaydes 1890, 14; Blaydes 1896, 17; Whittaker 1935, 187; Edmonds I (1957), 160–161; Bonanno 1972, 98–101 frr. 19–20; Kassel-Austin 1983, PCG IV 95–96; Bertelli 1989, 109; Ceccarelli 1992, 25–26; Farioli 1999, 30–35; Pellegrino 2000, 57; Wilkins 2000a; Ceccarelli 2000, 454–455; Ruffell 2000, 481–482; Farioli 2001, 66–68; Melero 2009, 78; Storey 2011, FOC I 218–219; Rusten et al. 2011, 140; Konstan 2012, 15–16. Contesto della citazione I primi due versi sono citati da Ateneo nell’ampia sezione dedicata al tarichos (116d-125f), laddove si discute a proposito del genere del termine (cfr. Moer. τ 20 Hansen, AelD. τ 3 Erbse, sch. Aristoph. Ran. 558a). Nelle citazioni precedenti (tra le quali anche Crat. fr. 32) il termine è al neutro. In risposta al dubbio avanzato da un convitato, se gli autori attici usino il termine tarichos al maschile come in Epicarmo, Mirtilo risponde con una sequenza di citazioni comiche, da Cratino fr. 44 (vd. Bianchi 2016, 266–273), Platone fr. 49 (Pirrotta 2009, 132–134), Aristofane fr. 207 (Pellegrino 2015, 142), Cratete ed Ermippo fr. 10 (in cui il sostantivo è al neutro ma concordato con un aggettivo maschile: vd. Comentale 2016, 80–81), a cui segue una citazione da Sofocle fr. 712 (Pearson 1917, II 319). Prosegue poi con esempi di uso della forma al diminutivo e quindi riprende con ulteriori esempi di uso al maschile. I versi 3–4 sono invece riportati da Polluce, nel libro relativo alla terminologia del banchetto, a proposito di takōn. Polluce appare incerto sull’esatta identificazione di questa preparazione di carne e riporta in forma anonima opinioni contrastanti in merito sottolineando che il termine è un hapax legomenon. La citazione dei due versi è omessa nei codici B e C. Costituzione del testo e metrica La congiunzione dei due frammenti, proposta da Bergk 1838, 279, è accolta dagli editori successivi con la sola eccezione di Bonanno, che considera l’unificazione possibile ma troppo incerta. Le due battute mostrano una chiara consequenzialità logica, ma in effetti non si può escludere che ci fossero altri versi tra i due frammenti (vd. già Kaibel apud Kassel-Austin «sed possunt plura intercessisse»).
Θηρία (fr. 19)
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I versi sono tetrametri anapestici catalettici, probabilmente dall’agone (vd. Whittaker 1935, 186–187), da un antepirrema dialogico secondo Gelzer 1960, 185. Al v. 1 e al v. 4 lo spondeo in settima sede, di regola evitato da Aristofane (vd. ad es. Aristoph. fr. 548 con Pellegrino 2015, 313), suscitò qualche perplessità nei primi editori e per evitare la presunta anomalia della clausola spondaica Meineke 1826, seguito da Kock, postulava una lacuna al v. 1 dopo χρή, mentre Dindorf e altri editori di Ateneo tentavano una scansione in dimetri. Lo spondeo in settima sede in realtà è attestato anche in altri due frammenti comici: Cratin. fr. 143.2; Philyll. fr. 12.1. Vd. Martinelli 1995, 156. La realizzazione con dattilo (qui in sedi dispari: terza sede ai vv. 2 e 4 e prima sede al v. 3) non è frequente ma trova diversi paralleli (ad es. Aristoph. Ve. 350). Interpretazione Nello scambio ricostruito in questo frammento, forse dall’agone, il personaggio A, identificabile con il corifeo delle bestie109, prescrive la preparazione di cibi comuni ed economici, verdure e pesce, come alternativi a “noi”, quindi al consumo di carne. Il personaggio B, un uomo, chiede conferma che il divieto delle Bestie riguardi tutti i tipi di carne, anche le carni acquistate al mercato e le carni lavorate, cioè quelle che non implicavano un diretto coinvolgimento nell’uccisione dell’animale. In genere consumo di carne e uccisione dell’animale erano infatti strettamente legati nel contesto dei rituali di sacrificio. L’imposizione del vegetarianesimo sarebbe la contropartita in cambio della vita di agi prospettata nei frr. 16–18. Il tono perentorio dei primi due versi e i verbi al futuro nella risposta di B non sembrano lasciar spazio a una possibilità di scelta da parte degli uomini (cfr. Farioli 1999, 31). Nella prescrizione del v. 2 (ἡμῶν δ’ ἄπο χεῖρας ἔχεσθαι) Bonanno riconosceva una eco del frammento empedocleo relativo al divieto pitagorico di mangiare le fave (vd. infra s. v.). La commedia di Cratete avrebbe quindi avuto anche un elemento di satira filosofica, con la presa in giro delle restrizioni dietetiche orficopitagoriche, bersaglio anche di Eur. Hip. 952–955 e Aristoph. Ran. 1032. La parodia dei pitagorici si ritrova soprattutto nella commedia del IV secolo vd. ad es. i titoli Pythagorizousa di Cratino II e Alessi, Pythagoristēs di Aristofonte e Mnesimaco, nonché in molteplici riferimenti nei frammenti di Antifane (ad es. frr. 133, 158, 166). Per la parodia dei precetti alimentari in particolare vd. anche Mnesim. fr. 1 e Alexis fr. 223. Cfr. Konstan 2014, 288–289. Il dibattito sul rapporto tra uomini e animali risale almeno ai filosofi presocratici del VI sec. a. C. L’opposizione più netta e più nota al consumo di carne animale (ἀποχὴ ἐμψύχων) è attribuita ai pitagorici, contro i sacrifici animali (non è chiaro se includesse o meno il pesce)110, in parte motivata in base alla credenza nella metempsicosi (vd. Sext. S. 9.127), ma è collegabile anche ad ambienti orfici (vd.
109 110
Vd. già Bergk 1838, seguito quasi concordemente dagli studiosi. Zieliński 1931, 32, immaginava che a parlare fosse un toro. Cfr. Porph. Pyth. 25 e Plut. QConv. 728d-730f.
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Crates
Plat. Leg. 6.782c-d). Cfr. Porfirio, Sull’astinenza dal cibo animale (III sec. d. C.)111. Il vegetarianismo potrebbe inoltre essere associato a una fase primigenia di armonia tra uomini e animali, prima dell’introduzione di sacrifici cruenti, secondo un’idea presente anche in Empedocl. frr. 77, 78, 128, 130 Diels-Kranz. In questo aspetto il programma di vegetarianesimo espresso nel fr. 19 rientrerebbe nel progetto di restaurazione di una età dell’oro che sembra emergere dai frammenti della commedia (vd. Farioli 2001, 70–71). 1 τῶν ῥαφάνων genitivo partitivo (cfr. ἥψομεν τοῦ κορκόρου Aristoph. Ve. 239). Rhaphanos secondo Hsch. ρ 143 Hansen negli autori attici corrisponde a krambē, cavolo, e differisce da rhaphanis, ravanello. Cfr. ad es. Call. fr. 26 (con Bagordo 2014a, 198); Aristoph. fr. 111.4, Alc. fr. 24 (con Orth 2013, 118). Col significato di ravanello ad es. in Aristot. Pr. 924a.34. Il cavolo era un cibo economico, che si consumava di norma bollito ed era considerato anche un rimedio per il dopo sbornia cfr. ad es. Nicoch. fr. 18.1, Alexis fr. 287.13 (con Arnott 1996, 91). Vd. Dalby 2003, 67. 1 ἕψειν la cottura tramite bollitura doveva essere usuale per il cavolo: vd. supra. Lo stesso verbo in Cratete anche in fr. 32.2. 2 ἰχθῦς il pesce fresco, un cibo comune nella dieta ateniese, anche se è controverso quanto fosse accessibile anche agli strati più poveri della popolazione. Vd. Dalby 2003, 144–148. Un pesce cotto alla griglia è evocato anche nel fr. 16.9–20. Gli animali che componevano il coro di thēria non dovevano includere dunque pesci (che formeranno invece il coro della commedia Ichthyes di Archippo). Vd. supra Titolo. 2 ὀπτᾶν la cottura arrosto delle carni è tipica nei poemi omerici, vd. ad es. Il. 1.466, Od. 15.98. Cfr. Aristoph. Av. 1690, Pl. 894. Lo stesso verbo può indicare anche una cottura al forno (Hdt. 1.200 e Aristoph. Ran. 507). Il verbo sembra indicare genericamente la cottura col fuoco opposto alla cottura per bollitura nell’acqua. Cfr. Chantraine 1968, 810. 2 τούς τε ταρίχους per il tarichos cfr. test. 6b e fr. 32, citato dallo stesso Ateneo, in cui il termine è usato al neutro. Qui il termine è usato al maschile e segue la seconda declinazione, come negli altri passi citati contestualmente da Ateneo (vd. supra Contesto). Il tarichos a cui qui si fa riferimento è chiaramente di pesce non di carne. Come il cavolo anche il tarichos doveva essere un alimento molto economico: vd. ad es. Aristoph. Ve. 491 τοῦ ταρίχους ἐστὶν ἀξιωτέρα “è più a buon mercato del tarichos” riferito alla tirannide. 2 ἡμῶν δ’ ἄπο χεῖρας ἔχεσθαι Bonanno 1972, 100 rileva il “calco parodico” da Empedocle δειλοί, πάνδειλοι, κυάμων ἄπο χεῖρας ἔχεσθαι (31B 141 D.-K.), relativo alle prescrizioni dietetiche pitagoriche (“tenere le mani lontane dalle fave”): cfr. Callim. fr. 553 Pfeiffer e Gel. 4.11.1 (= Pyth. test. 9 D.-K.). Per il sintagma ἄπο 111
Sul vegetarianismo vd. Haussleiter 1935; Osborne 1995; Garnsey 1999, 85ss; HillWilkins 2006 sul pensiero riguardo al cibo 185ss., sulla carne 140ss. Cfr. anche Donahue 2015, 119–120.
Θηρία (fr. 19)
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χεῖρας ἔχεσθαι cfr. già Od. 22.316 κακῶν ἄπο χεῖρας ἔχεσθαι e poi Heracl.Pont. fr. 138.8 Wehrli. 2 ἄπο forma della preposizione ἀπό in anastrofe di uso frequente in poesia (ad es. Pind. N. 6.59; Soph. El. 1231). 3 ἄρ’ la particella può esprimere «surprise attendant upon disillusionment» Denninston 19542 32–43: sp. 37 con il futuro in interrogative. 3–4 οὐδὲν Kassel-Austin chiamano a confronto per la ripetizione rafforzativa di οὐδὲν Aristoph. Nub. 981ss. 4 οὐδ’ ἐξ ἀγορᾶς la carne comprata al mercato è la carne per la quale non si è assistito all’uccisione dell’animale, come avveniva normalmente per la carne degli animali sacrificati. Anche gli altri tipi di carne cui si fa riferimento nel verso rispondono a questa caratteristica, in quanto carne lavorata. vd. Hill-Wilkins 2006, 190 «Preserved meat also constitutes an example of meat not eaten at sacrifice. A large amount of the meat consumed in antiquity was the product of slaughter at sacrifice». 4 τάκωνας già per Polluce si trattava di un hapax legomenon e l’esatto significato era discusso. Il significato di “salsiccia” è verosimilmente dedotto dal passo (cfr. ἀλλᾶς subito dopo). Polluce riporta altre due ipotesi alternative: carne in tegame o preparazione di grasso salato e aromatizzato a pezzetti (forse per il legame etimologico con τήκω?). Quest’ultima spiegazione si ritrova anche in Hsch. τ 42 Hansen-Cunningham τακῶνες· τροχίσκοι στέατος κεκομμένου μεθ’ ἁλῶν καὶ ξηρῶν [καὶ] ἀρτυμάτων “cerchietti di lardo spezzettato con sale e spezie essiccate”. 4 ποιησόμεθ’ nel senso di “prepararsi da mangiare” già in Hippon. fr. 39.3 West (= 48.3 Degani). 4 ἀλλᾶντας il termine ἀλλᾶς è attestato già in Hippon. fr. 84.17 West (= 86.17 Degani). Questo tipo di insaccato, una sorta di sanguinaccio, è spesso citato in commedia, come piatto gustoso e in relazione ai riti delle Apaturie: vd. ad es. Pherecr. fr. 113.8; Metag. fr. 6.7; Aristoph. Ach. 146, e naturalmente Eq. 161, 201, 207–208, 432; Nicoph. fr. 22. Per le salsicce nell’antichità vd. Frost 1999, sp. 246–247 per l’allas.
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Λάμια (Lamia) (“Lamia”)
Bibliografia Bonanno 1972, 39–41; Kassel-Austin 1983, PCG IV; Sommerstein 2009b, 159–160; Johnston 1999, 169 e 179; Storey 2011, FOC I, 219–221; Pellegrino 2015, 411–412. Titolo Il titolo Λάμια è nell’elenco delle opere di Cratete riportato dalla Suda ed è citato da Ateneo, da fonti lessicografiche e scoliografiche. Sulla possibile oscillazione nell’accento Λάμια / Λαμία vd. Bonanno 1972, 102 n. 1 (Λαμία è di norma il toponimo della città in Tessaglia). Lamia è una figura mitico-folklorica, un mostro mangiabambini usato come spauracchio nelle storie infantili. Nel mito Lamia è in principio caratterizzata come mostro marino, figlia di Poseidone e madre di Scilla, e il suo nome coincide con quello di un feroce squalo112. Secondo le favole popolari Lamia era in origine una regina libica poi trasformatasi in mostro terrificante. Vd. Rybakova 2004, 65–111; Imperio 2015, 2–4; Patera 2015, 1–105. Lo scolio ad Aristoph. Ve. 1035 (cfr. Phot. e Sud. s. v. Λάμια) riporta un frammento di Duride (FGrHist 76 F 17), che nel secondo libro della sua Storia libica racconta la leggenda di Lamia, una bellissima donna a cui Zeus volle unirsi. Era, gelosa, si vendicò facendo morire tutti i suoi figli. Lamia allora per il dolore divenne brutta e iniziò a rapire i figli degli altri per ucciderli. Anche Diodoro Siculo (20.41.3–6)113 dedica un ampio excursus alla leggenda della bella e crudele regina libica, nata in una grotta, che dopo la morte dei suoi figli, avrebbe ordinato di strappare i figli dalle braccia delle altre madri e ucciderli; spesso ubriaca e inconsapevole di ciò che avveniva intorno a lei, viene descritta come cieca perché avrebbe gettato i suoi occhi in un cesto. A proposito delle origini libiche di Lamia, Diodoro cita Eur. fr. 472m Kannicht (vd. infra). Sulla capacità di togliersi gli occhi cfr. Plut. Curios. 515f-516a. Altre fonti le attribuiscono il potere di scomparire e trasformarsi, come Mormo e Empusa (cfr. sch. VΓ Aristoph. Pac. 758d, Heraclit.Paradox. 34; Ant. Lib. Met. 8). Connessa con la capacità di presentarsi sotto sembianze ingannevoli è anche la connotazione di Lamia come demone seducente che attrae e poi divora gli uomini (Heraclit.Paradox. 34 e Philostr. Ap. 4.25). Il personaggio crudele e terrificante di Lamia, a volte anche al plurale, è protagonista per eccellenza delle storielle per spaventare i bambini ad es. in Strabo 1.2.8, Tert. Adv.Val. 2. Lamia è stata riconosciuta anche in alcune rappresentazioni vascolari (vd. Halm-Tisserant 1989; LIMC VI.1.189). In particolare una possibile relazione con la commedia Lamia di Cratete o con un dramma satiresco sul tema è stata supposta per la lēkythos a figure nere del pittore Beldam (Atene, Museo Nazionale, inv. 1129) 112 113
Sulla specie di squalo vd. Aristot. HA. 540b.18, 621a.20 e cfr. Arata 2011. Vd. Landucci-Gattinoni 2008.
Λάμια
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che rappresenta una figura femminile itifallica con tratti negroidi e seni cadenti, legata a una palma e torturata da dei satiri114. Non conosciamo altre commedie intitolate Lamia, ma un dramma satiresco Lamia è annoverato tra le opere di Euripide (vd. Kannicht 2004, 517 e fr. 472m = 922 Nauck2 = *312a Snell). La reale esistenza di quest’opera era stata messa in discussione da molti (ad es. Wilamowitz 1875b, 159), che ritenevano che Lamia fosse non il titolo, ma il personaggio che recitava nel prologo di un dramma euripideo, specificamente il Busiris (fr. *312a Snell; così anche Kassel-Austin 1983, 96), ma successive evidenze papiracee hanno smentito questa ipotesi115. Si può porre il confronto con altre commedie che trattano di mostri e demoni terrificanti, analizzati da Sommerstein 2009b, ma Lamia non mi pare direttamente assimilabile con Eumenides e Panoptai di Cratino, né tanto meno con altre figure sconfitte dall’eroe di turno, come Busiride, il centauro Folo, Scirone, la Sfinge e i Ciclopi, che danno il titolo a commedie di Epicarmo (Kyklōpes è anche un titolo di Callia). Il caso più vicino è probabilmente il titolo Akkō di Anfide (vd. Papachrysostomou 2016, 30). In commedia comunque si trovano frequenti riferimenti a mostri femminili come Lamia, Mormò (cfr. supra fr. 10), Empusa. Cfr. Sanchis Llopis 2014. In particolare Lamia ricorre più volte in Aristofane, caratterizzata come puzzolente ermafrodito e collegata – nella parabasi delle Vespe v. 1035, ripreso alla lettera in Pax 758 – a Cleone, cui si attribuiscono “i testicoli zozzi di Lamia”, all’interno di una composita descrizione che tratteggia in Cleone il mostro affrontato da Aristofane come novello Eracle (Mastromarco 1989, sp. 420)116. Altrove Aristofane riecheggia chiaramente la commedia di Cratete e il motivo della Lamia pedens, 114
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L’ipotesi di un legame con la commedia di Cratete è di Mayer 1891 (cfr. anche Seltman 1920, 15–16). La datazione del vaso è alla prima metà del V sec. ma non prima del 470. Halm-Tisserant 1989 argomenta che la Lamia bisessuale catturata era un motivo folklorico che probabilmente circolava negli atelier nel periodo 550–470, un motivo che poi sarebbe passato anche alla commedia. Cfr. anche Johnston 1995, 373 e 1999, 179. Una riproduzione della lekythos in Haspels 1936, tav. 49b. Cfr. Varro Antiq. rer. div. fr. 46a apud Lactant. Inst. 1.6.8 in cui in relazione alle varie Sibille se ne ricorda una «secundam Lybicam cuius meminit Euripides in Lamiae prologo» = Or.Sib. p. 2.36 Geffcken, δευτέρα Λίβυσσα, ἧς μνήμην ἐποιήσατο Εὐριπίδης ἐν τῷ προλόγῳ τῆς Λαμίας (sch. Plat. Phaedr. 244b p. 87.10 Cufalo, Phot. Amph. 27). La testimonianza va ora confrontata con i papiri che conservano frammenti di hypotheseis euripidee con i primi versi dei drammi, in particolare P.Oxy. 27.2455 e P.Oxy. 52.3651 (che conserva l’inizio del Busiris non congruente con il fr. *312a Snell; vd. Meccariello 2014, 179). Sulla base del presunto collegamento con Busiride Sommerstein 2009, 159–160 ipotizzava che la Lamia di Cratete fosse una commedia con Eracle nel solco della tradizione epicarmea e chiamava a confronto l’opposizione Cleone/Lamia vs Aristofane/Eracle nelle parabasi di Vespe e Pace, ma poi vd. addenda a p. 174. L’argomento di Mastromarco è ripreso e amplificato in Sommerstein 2009, che sottolinea come in Aristofane per la prima volta i mostri sarebbero associati a kōmōdoumenoi e alla satira politica.
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Crates
che doveva essere ben noto al pubblico: in particolare nel dialogo tra Bdelicleone e Filocleone in Ve. 1174–1180 la storia della Lamia flatulenta assurge ad esempio di storia non opportuna, in versi che sono stati intesi come una dichiarazione di poetica di Aristofane in netta opposizione alla poetica del suo predecessore (vd. infra fr. 20). Che Lamia potesse rappresentare un modello letterario deprecabile sembra confermato anche da Hor. ars 338–340, secondo il quale la storia dei bambini estratti vivi dalla pancia di Lamia è poco credibile e da evitare. Lamia è citata anche in Aristoph. fr. 724 al plurale (οὐχὶ ταμίας ἀλλὰ Λαμίας “non dispensiere ma Lamie”, vd. Pellegrino 2015, 411–412). In Men. fr. 334 Lamia è appellativo che il marito riserva alla moglie parlando con un vicino. La connotazione erotica del personaggio sembra tornare in Mach. fr. 13.174– 187 Gow, dove Lamia è il nome di una suonatrice di aulo davanti alla quale Demetrio Poliorcete si masturba. Argomento Dai pochi frammenti conservati ricaviamo una probabile presenza in scena del personaggio Lamia, con connotazioni coprolaliche (fr. 20) e forse sessuali (frr. 23, 24). In due frammenti (frr. 21 e 22) notiamo il ricorrere di riferimenti a unità di misura, forse collegabili alla derisione di tecnicismi, e contenuti potenzialmente metaletterari. Non siamo in grado di stabilire la rilevanza di questi elementi nella trama, che ci resta del tutto ignota. Oltre al titolo nessun indizio sembra confermare un tema mitologico117. Telò 2016, 48, sulla scorta del valore metapoetico dell’allusione parodica nelle Vespe di Aristofane (vd. infra fr. 20), definisce la Lamia «a possible self-reflexive play», ma non mi sembra ci siano elementi sufficiente a sostanziare questa ipotesi. Datazione Le riprese in Aristofane offrono un terminus ante quem al 422 a. C. (data di rappresentazione delle Vespe) scarsamente utile (si suppone che la carriere di Cratete fosse già finita nel 424, vd. supra Cronologia), né possiamo postulare che la commedia di Cratete dovesse essere di pochi anni precedente per essere ancora ricordata, considerato che l’eco di questo personaggio crateteo durò a lungo se ricorre ancora nelle Ecclesiazusae, databili al 391 a. C. Edmonds azzardava una datazione al 427, ma di fatto non abbiamo elementi fondati per stabilire la cronologia della commedia.
fr. 20 K.-A. (18 K. = 21 B.) Sch. (ΓΛ) Aristoph. Ec. 77c Regtuit. (Λαμίου:) ἀρσενικῶς τὸν (τὸν om. Γ) Λαμίαν. 〈λέγουσι δὲ καὶ θηλυκῶς τὴν Λάμιαν,〉 (add. Meineke I 65) ὑπὲρ ἧς ὁ Κράτης (φερεκράτης codd., corr. Meineke) λέγει ἐν τῷ ὁμωνύμῳ δράματι ὅτι (ὅτε codd., corr. editio Aldina 1498) σκυτάλην ἔχουσα ἐπέρδετο. 117
Henderson 2012, 10 n. 37 cita la Lamia di Cratete insieme ad altri esempi di titoli e/o frammenti che alludono al ritrito soggetto comico delle tresche erotiche di Zeus.
Λάμια (fr. 20)
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di Lamio: il Lamio al maschile. 〈Dicono anche al femminile la Lamia〉, riguardo alla quale Cratete nell’omonimo dramma dice che con il bastone scorreggiava. Aristoph. Ec. 76–78 (Γυ. α.) ἔγωγέ τοι τὸ σκύταλον ἐξηνεγκάμην | τὸ τοῦ Λαμίου τουτὶ καθεύδοντος λάθρᾳ | (Γυ. β.) †τοῦτ’ ἔστ’ ἐκεῖνο (ἐκεῖνο codd. : ἐκείνων Sud.) τῶν σκυτάλων ὧν πέρδεται.† (ἐκεῖνο τὸ σκύταλον ὧι π. Bothe : ἐκείνων ὧν περιφέρων π. Coulon, ἐκεῖν’ ὧι περδόμενος ἐρείδεται Holzinger). (Donna A) e io mi porto in giro il bastone, questo qui di Lamio sottratto di nascosto mentre dormiva. (Donna B) † questo qui è uno dei bastoni di cui si scorreggia †. Ve. 1174–1180 (Βδ.) ἄγε νυν, ἐπιστήσει λόγους σεμνοὺς λέγειν | ἀνδρῶν παρόντων πολυμαθῶν καὶ δεξιῶν; | (Φι.) ἔγωγε. (Βδ.) τίνα δῆτ’ ἂν λέγοις; (Φι.) πολλοὺς πάνυ. | πρῶτον μὲν ὡς ἡ Λάμι’ ἁλοῦσ’ ἐπέρδετο, | ἔπειτα δ’ ὡς ὁ Καρδοπίων τὴν μητέρα— | Βδ. μὴ ’μοιγε μύθους, ἀλλὰ τῶν ἀνθρωπίνων, | οἵους λέγομεν μάλιστα, τοὺς κατ’ οἰκίαν. (Bdelicleone) orsù dunque, saprai fare discorsi seri alla presenza di persone colte e intelligenti? (Filocleone) Sì certo. (Bd.) Che cosa diresti quindi? (Fi.) Tante cose davvero. Innanzitutto che la Lamia quando fu catturata scorreggiava, poi che Cardopione la madre… (Bd.) non raccontarmi favole, ma storie di vicende umane, come si raccontano spesso e volentieri, quelle di casa.
Bibliografia Meineke I (1839), 65; Meineke II (1839), 240–241 Lam. fr. I; Schneider 1875, 423; Kock I (1880), 136 fr. 18; Edmonds I (1957), 160–161; Bonanno 1972, 40–41, 102–108 fr. 21; Kassel-Austin 1983, PCG IV, 96–97; Henderson 19912, 196; Johnston 1995, 373; Johnston 1999, 178; Storey 2011, FOC I, 220–221; Imperio 2014, 86; Patera 2015, 43, 57. Contesto della citazione L’annotazione scoliografica si riferisce al verso 77 delle Ecclesiazusae, nella scena in cui tra le donne camuffate da uomini una dice di aver anche il bastone (skytalon) sottratto a Lamio (il marito?) mentre dormiva. Lo scolio 77c si trova nei manoscritti Laurentianus e Perusinus di Aristofane, in continuità con gli scolii 77a e b Reguit (cfr. Suda σ 721 Adler): (77a) τὸ τοῦ Λαμίου τουτί: Λάμιός τις πένης καὶ ἀπὸ ξυλοφορίας ζῶν. διὸ καὶ βακτηρίαν ἐξενέγκας αὐτοῦ φησιν εἶναι. (77b) κωμῳδεῖται γὰρ καὶ ὡς δεσμοφύλαξ. (77c) ἀρσενικῶς δὲ … “(77a) questo qui di Lamio: Lamio qualcuno povero e che trae di che vivere trasportando legna. Perciò avendo portato via il bastone dice che era di lui. (77b) Infatti è rappresentato in commedia come un carceriere. (77c) …”118
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Sull’interpretazione del passo e dei relativi scolii vd. Sommerstein 1998, 144–145.
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La nota 77c rileva l’uso al maschile del nome Λάμιος (o Λαμίας)119 e introduce il riferimento alla commedia di Cratete, intitolata Lamia, al femminile, che costituirebbe l’ipotesto della battuta al successivo v. 78 τοῦτ’ ἔστ’ ἐκεῖνο τῶν σκυτάλων ὧν πέρδεται, con aprosdoketon finale πέρδεται a completare l’assimilazione tra Lamio e il mostro mitologico Lamia120. L’integrazione di Meineke nello scolio 77c 〈λέγουσι δὲ καὶ θηλυκῶς τὴν Λάμιαν,〉 è utile all’interpretazione del dettato brachilogico della nota, ma non necessaria. Allo stesso Meineke si deve l’emendamento Κράτης per φερεκράτης dei codici. La correzione è verosimile e concordemente accolta, in considerazione del fatto che non abbiamo attestazioni di una commedia Lamia per Ferecrate, mentre fonti diverse attribuiscono un dramma così intitolato a Cratete (cfr. test. 1). La confusione tra i due nomi è piuttosto frequente. Le parole σκυτάλην ἔχουσα ἐπέρδετο sono introdotte dal verbo λέγει, ma non si può attribuire con sicurezza al frammento valore testuale. Resta infatti incerto se si tratti di una parafrasi o di una citazione letterale. Sono considerati ipsissima verba di Cratete ad es. in Edmonds e così sembra suggerire l’impaginazione nell’edizione degli scolii di Regtuit 2007, che riporta a capo le tre parole. Bonanno 1972, 108, ipotizza che ἔχουσ’ ἐπέρδετο, riecheggiato testualmente nel ἁλοῦσ’ ἐπέρδετο di Ve. 1177, sia il finale di un trimetro giambico. Schneider 1876, 422– 423, riteneva di poter ricostruire il verso ἐν τἀγορᾶι σκυτάλην ἔχουσ’ ἐπέρδετο sulla scorta del materiale conservato nel lessico di Esichio, e ripreso da Fozio (che però ha in più σκύταλον ἔχουσα) e negli scolii a Pausania, che anche gli editori di Esichio, Schmidt e Latte, riferivano alla Lamia di Cratete. – Hsch. λ 248 Latte Λάμια· Ἀριστοφάνης (fr. 700 b) φησὶν, {ὡς τηκούσης} ἐν τῇ ἀγορᾷ τινος λαμιώδους γυναικὸς ἐνδιατριβούσης. τινὲς δὲ ἐν τῇ ἀγορᾷ περδομένην γυναῖκα (Lamia: Aristofane dice di una certa donna somigliante alla Lamia che passava il tempo nell’agorà. Secondo alcuni invece una donna che scorreggia nell’agorà) – Hsch. λ 249 Λάμια· θηρίον. καὶ γυνή τις ἀρχαία οὕτως καλουμένη Λίβυσσα (Lamia: mostro. E una donna antica così chiamata Libica) – Hsch. λ 250 λάμιαι· τὰ φάσματα. ἢ οἱ πολύφαγοι τῶν ἀνθρώπων. καὶ ἰχθῦς (lamiai: i fantasmi. O le persone che mangiano troppo. E un pesce) – Phot. λ 62 Theodoridis Λάμια· γυνὴ Ἀθήνησιν ἐν ἀγορᾷ διατρίβουσα, σκύταλον ἔχουσα καὶ ἀποψοφοῦσα· ἔστι δὲ καὶ θηρίον (cfr. Hsch. λ 249 Latte) (Lamia: donna che passava il tempo nell’agorà di Atene, tenendo un bastone e scorreggiando; è anche un mostro) – Sch. Paus. 1.1.3 (III p. 218.8 Spiro) cfr. EM 555.51–54 Λαμίαν] … καὶ οὕτω μὲν Ἡσύχιος, Ἀριστοφάνης δέ φησιν 〈λαμιώδους〉 γυναικὸς ἐν τῇ ἀγορᾷ 119
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Il nome maschile Lamios (così riportato nello sch. 77a) è attestato 52 volte, contro sole due volte della forma Lamias (LGPN, consultato on-line ottobre 2018 http://clas-lgpn2. classics.ox.ac.uk). Il verso è considerato corrotto e variamente emendato. Wilson lo pone tra cruces. Cfr. apparato per alcuni dei tentativi di emendamento, e vd. Sommerstein 1998, 145.
Λάμια (fr. 20)
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ἑστηκούσης. τινὲς δὲ ἐν τῇ ἀγορᾷ περδομένην γυναῖκα Λάμιαν εἶναι· καὶ τὰ φάσματα· καὶ θηρίον· καὶ ὁ ἰχθύς· καὶ οἱ πολυφάγοι τῶν ἀνθρώπων (Lamia: … e così Esichio: Aristofane dice di una donna somigliante alla Lamia che se ne stava nell’agorà. Secondo alcuni invece Lamia è una donna che scorreggia nell’agorà; e i fantasmi; e un mostro; e il pesce; e gli uomini che mangiano troppo Come ha mostrato Bonanno 1972, 105–108, tuttavia, la voce esichiana non si riferisce alla Lamia di Cratete, ma parte verosimilmente dal passo delle Ecclesiazusae. In proposito anche Kassel e Austin notano «nobis ne hoc quidem constare videtur, rectene an per errorem repetantur verba ἐν τῇι ἀγορᾶι in Hesychii cod. Marc. et Schol. Paus.». Oltre che nel verso delle Ecclesiazusae, il motivo crateteo della Lamia flatulenta era ripreso da Aristofane già nelle Vespe, nella scena in cui Bdelicleone interroga Filocleone sui discorsi da fare tra persone colte in occasioni quali i banchetti. Come esempio di logos semnos (cfr. infra fr. 28) Filocleone risponde che racconterebbe innanzitutto la storia di Lamia che scorreggiava quando la stavano catturando e poi quella di un tale Cardopione e la madre, ma è interrotto bruscamente dal figlio che dice di non volere sentire mythoi, “favolette”, ma storie che riguardano gli uomini e la vita quotidiana. Non sappiamo se anche la storia di Cardopione – un nome parlante costruito su καρδόπος “madia”121 – e di chissà quale turpitudine da lui commessa nei confronti della madre (Biles-Olson 2015, 428), fosse tratta da Cratete: così ipotizzava Meineke 1839, 241, seguito da Bonanno 1972, 103 n. 2, che lo include nella sua proekdosis come fr. 60 (p. 162). Chiaramente i due esempi rimandano a discorsi legati alla comicità corporea (peti e cibo), volgari e quindi inadatti alla conversazione in società richiesta da Bdelicleone. In questa scena Bonanno credeva di vedere un netto rifiuto da parte del poeta impegnato Aristofane verso la comicità d’evasione di Cratete, fatta di mythoi fini a se stessi, così come la battuta delle Ecclesiazusae «non può che attaccare Cratete e la triviale facilità delle sue epinoiai» (Bonanno 1972, 40–41). Interpretazione Aristofane accenna in due passi alla storia di Lamia che scorreggia, secondo una caratterizzazione dell’essere mostruoso come laido e puzzolente (vd. supra): in Ve. 1177 Lamia scorreggia quando viene catturata, probabilmente a scopo di difesa (cfr. Hom. 4.295–296 e vd. infra ad ἐπέρδετο); in Ec. 76–78 l’episodio è associato a un bastone, lo skytalon. È verosimile che Aristofane stesse riecheggiando in entrambi i casi proprio la commedia Lamia di Cratete, in cui secondo lo scolio Cratete diceva che la Lamia scorreggiava con una skutalē (forse non un banale bastone, vd. infra). Non sappiamo se Lamia fosse effettivamente rappresentata sulla scena in Cratete, dotata di una skutalē come oggetto scenico
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Il nome non è storicamente attestato e già Didimo (vd. sch. ad Ve. 1178a Koster) si interrogava su questo personaggio. Per κάρδοπος cfr. supra Crat. fr. 8.
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(forse parte del suo costume?) e scorreggiante, ma le riprese in Aristofane suggeriscono di sì e attestano se non altro la notorietà del motivo della Lamia pedens presso il pubblico a teatro nel 422 a. C., (anno di rappresentazione delle Vespe) e poi ancora una trentina di anni più tardi (Ecclesiazusae). σκυτάλην il sostantivo corrisponde apparentemente alla forma al neutro σκύταλον (che si trova in Aristoph. Ec. 76 e 78), a indicare un bastone dalla testa grossa, una sorta di clava o randello, diverso dal tipico bastone da passeggio (βακτηρία). Il termine è usato ad es. in riferimento alla clava di Eracle (σκύταλον in Pind. O. 9.30; σκυτάλη in Eryc. AP. 9.237.4). L’uso di questo tipo di bastone nodoso è associato in particolare agli Spartani: Aristoph. Av. 1283 (con sch. ad loc.), cfr. Ec. 74 (Λακωνικὰς γὰρ ἔχετε καὶ βακτηρίας) e vd. soprattutto Aristoph. Lys. 991–992 (σκυτάλα Λακωνικά | εἴπερ γε, χαὔτη ’στὶ σκυτάλη Λακωνική;). Nel passo della Lisistrata, e verosimilmente anche in quello delle Ecclesiazusae, il termine è usato con doppio senso sessuale per il fallo, con riferimento al fallo posticcio del costume teatrale (Taillardat 1965, 73, §101). Su questa base si potrebbe anche immaginare che σκυτάλην ἔχουσα faccia riferimento anche nel caso della Lamia di Cratete a un fallo posticcio parte del costume del personaggio (vd. in particolare Johnston 1995, 373)122, in linea con la connotazione di mutaforma ermafrodito tipico del mostro (cfr. il riferimento ai testicoli di Lamia in Aristoph. Ve. 1035 e Pax 758). Va però anche considerato che la forma al femminile σκυτάλη è spesso usata in un senso tecnico particolare in riferimento a un sistema di invio di messaggi, fin dalle prime attestazioni in Archil. fr. 185.2 West (ἀχνυμένηι σκυτάληι) e Pind. O. 6.91 (σκυτάλα Μοισᾶν)123. Più specificamente erano infatti denominati skytalai i bastoni usati dagli efori spartani per trasmettere messaggi di stato, quindi scitala era il bastone usato a questo scopo o il dispaccio stesso: Thuc. 1.131.12 (vd. Gomme 1945, 433), Xen. Hel. 3.3.8. Stando alla descrizione di Plut. Lys. 19.5–7 e Gel. 17.9.6–15 la scitala spartana era una sorta di sistema crittografico, perché il messaggio era scritto su strisce avvolte su un bastone e, una volta inviato senza questo supporto, sarebbe stato decifrabile solo se le strisce fossero state riavvolte su un bastone di uguale grandezza (vd. Reinke 1962, 114 e Sheldon 2003, 72–76, e cfr. Kelly 1985 e Id. 1998, secondo il quale l’idea che si trattasse di messaggi criptati risalirebbe all’età ellenistica). Da qui verosimilmente deriva anche l’espressione figurata ἡ σκυτάλης περιτροπή per indicare una fatica vana (Plat. Theaet. 209d). A questo sistema di comunicazione fa forse riferimento anche Nicofonte nel fr.
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Johnston 1995, 373 e n. 26 richiama per questo aspetto la lekythos a figure nere del pittore Beldam (Atene, Museo Nazionale, inv. 1129) con figura femminile grottesca itifallica in cui Mayer 1891 ipotizzava di riconoscere Lamia (vd. supra). L’interpretazione di questi passi è controversa: per una sintesi vd. Philippides 2009. Negli sch. Pind. O. 6.154a Drachmann si fa riferimento alla trattazione sulla σκυτάλη in commentarii ad Archiloco (περὶ δὲ τῆς σκυτάλης καὶ ἐν τοῖς Ἀρχιλόχου ὑπομνήμασιν), secondo Pfeiffer 1968 (1973), 343 con n. 62, ad opera di Aristarco. Il correlato sch. 154b spiega σκυτάλη in base all’uso dei messaggeri spartani.
Λάμια (fr. 21)
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2.2 (citato da sch. Aristoph. Av. 1283a) ἀπὸ τοῦ σκυταλίου 〈 〉 καὶ τῆς διφθέρας, con διφθέρας da intendersi nel senso di striscia di pergamena su cui era scritto il messaggio piuttosto che come “giubba di pelle” (diversamente Pellegrino 2013, 32). Alla luce di quest’uso specifico del termine, andrà considerata la possibilità che la scitala della Lamia cratetea fosse connotata come spartana e/o che potesse riferirsi al sistema di invio di messaggi. In epoche successive σκυτάλη può essere usato inoltre per indicare metaforicamente qualcosa di lungo e cilindrico, ed è anche la denominazione di un serpente (Nic. Th. 384, cfr. Plut. Crass. 32.5 ταῖς λεγομέναις ἐχίδναις καὶ σκυτάλαις). ἐπέρδετο il verbo πέρδομαι ricorre sia in Aristoph. Ve. 1177 ὡς ἡ Λάμι’ ἁλοῦσ’ ἐπέρδετο, sia in Ec. 78 τῶν σκυτάλων ὧν πέρδεται. Nelle Vespe Lamia scorreggia al momento della cattura, ma più che di un effetto della paura, il peto è forse una strategia di difesa: scorreggiare per paura è più frequentemente espresso con verbi come bdullein, bdullesthai, bdein, mentre perdesthai in commedia è usato di solito in contesti di allegra rilassatezza: vd. ad es. Aristoph. Ve. 1305, Pax 335. Cfr. Henderson 1991, 195–196, n° 424; Taillardat 1965, 151–152 e 163, §293 e §309. Rybakova 2004, 89, ipotizza che nel caso di Lamia il peto possa essere connesso anche alla digestione, in relazione alla sua caratterizzazione di mangia-bambini. L’aspetto maleodorante e nauseabondo di Lamia ricorre anche in Aristoph. Ve. 1035 e Pax 758, in cui si attribuiscono a Cleone “i testicoli zozzi di Lamia” (Λαμίας δ’ ὄρχεις ἀπλύτους); cfr. Patera 2015, 42–43. fr. 21 K.-A. (19 K.) ἔπη τριπήχη Θετταλικῶς τετμημένα ἔπη Casaubon : ἐπεὶ A
parole lunghe tre cubiti tagliate alla maniera dei Tessali Ath. X 418c ὅτι δὲ καὶ πάντες Θετταλοὶ ὡς πολυφάγοι διεβάλλοντο Κράτης φησὶν ἐν Λαμίᾳ· “ἐπεὶ — τετμημένα”. τοῦτο δ’ εἶπεν ὡς τῶν Θετταλῶν μεγάλα κρέα τεμνόντων. che tutti i Tessali sono denigrati come ingordi lo dice Cratete in Lamia: “ἐπεὶ — τετμημένα”. Dice ciò perché i Tessali taglierebbero la carne a pezzi enormi.
Metro trimetro giambico
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Bibliografia Meineke II (1839), 241 Lam. fr. II; Kock I (1880), 136 fr. 19; Blaydes 1890, 15; Blaydes 1896, 17; Baker 1904, 152 e n. 1; Edmonds I (1957), 160–161; Bonanno 1972, 108–109 fr. 22; Kassel-Austin 1983, PCG IV, 97; Conti Bizzarro 1997; Conti Bizzarro 1999, 109–112; Storey 2011, FOC I, 220–221.
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Crates
Contesto della citazione Dopo aver riferito della derisione comica degli abitanti di Farsalo come ghiottoni, con una citazione da Mnesim. fr. 8, Ateneo cita la Lamia di Cratete come testimone dell’ingordigia dell’intera popolazione tessalica124, e prosegue sempre a proposito di porzioni smisurate secondo lo stile tessalico con Philetaer. fr. 10 dai Lampadēphoroi (di nuovo con riferimento a pezzi di carne) e Hermip. fr. 42 dalle Moirai sul boccone tessalico impastato da Zeus. Per un’altra espressione di voracità (kapanika “carrettate di cibo”) sempre legata ai Tessali cita poi Aristoph. fr. 507 e Xenarch. fr. 11. Costituzione del testo Casaubon ha emendato l’ἐπεὶ del Marciano in ἔπη intendendo l’espressione come un omologo del latino “sesquipedalia verba” (cfr. Hor. ars 97). L’intervento, rifiutato da Schweighäuser 1804, V 336 («non videtur hinc posse colligi quod voluit probare Athenaeus») e da Kock («quis praestet nomen ad quod pertineret τριπήχη non in eis fuisse positum quae perierunt?»), ho trovato largo consenso ed è approvato da Meineke, Bonanno, Kassel e Austin, sulla base di paralleli aristofanei (vd. infra Interpretazione). Interpretazione La battuta sembra riferirsi a qualcuno che usa paroloni pomposi, paragonabili per dimensioni alle porzioni proverbialmente enormi dei voraci Tessali. Il confronto con altri passi comici rende del tutto plausibile un contenuto metaletterario, forse per deridere lo stile di qualche poeta. La misurazione delle parole poetiche in commedia è ampiamente sfruttata nelle Rane di Aristofane, basti pensare alla scena della pesa dei versi. In particolare in Aristoph. Ran. 799 tra gli attrezzi che si preannunciano per misurare i versi c’è anche la squadra da un cubito: πήχεις ἐπῶν. Anche il legame con le porzioni di carne, che in Cratete è esplicitato da Ateneo, trova riscontro nell’uso dell’espressione κρέας μέγα in riferimento alla tragedia. Secondo Diog.Laert. 4.18–19 e Suda ο 76 Adler, Aristofane nel fr. 128 con una rassegna di cibi elaborati e poco sostanziosi alluderebbe alla tragedia di Euripide paragonata a una poesia di maggior sostanza, forse quella di Eschilo: v. 3 καταπυγοσύνη ταῦτ’ ἐστὶ πρὸς κρέας μέγα «questa è roba da pervertiti in confronto a un bel pezzo di carne» (vd. Alvoni 1990 e Pellegrino 2015, 98–99). La metafora delle tragedie di Eschilo come porzioni dei grandi banchetti omerici, è inoltre testimoniata in Ath. VIII 347d come definizione che il tragediografo stesso dava della sua opera (Aeschl. test. 112a Radt). Secondo Conti Bizzarro con le parole di tre cubiti Cratete sta deridendo probabilmente lo stile di Eschilo oppure di un ditirambografo (per le parole composte come adatte allo stile ditirambico vd. Aristot. Poet. 22.1459a). Sull’uso di parole lunghe in Eschilo vd. Earp 1948, 6–38. Per sintagmi simili, però con ῥῆμα, cfr. Aristoph. Ran. 924 ῥήματ’ ἂν βόεια “parole pesanti come buoi” sempre riferito allo stile di Eschilo; Ve. 481 τῶν τριχοινίκων ἐπῶν “parole di tre chenici” quindi pesanti; Pax 521 ῥῆμα μυριάμφορον “parola di diecimila anfore”; ἁμαξιαῖα ῥήματα “parole enormi” (lett. “da carro”), pomposa 124
In luogo di πάντες Conti Bizzarro 1999, 109 propone «vel πάντως = praesertim?», contra Bagordo 2000, 391.
Λάμια (fr. 22)
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espressione che parodia lo stile tragico in Canth. fr. 8 (vd. Bagordo 2014a, 242) e in Polyz. fr. 7 (vd Orth 2016, 341); Plat. fr. 69.1 γωνιαίον ῥῆμα “parola angolare”, nel senso di difficile da pronunciare (vd. Pirrotta 2009, 165–166). Sulla presa in giro degli studi di geometria in commedia si pensi ad Aristoph. Nub. 202ss. o alla figura di Metone negli Uccelli (Av. 997ss.). Cfr. fr. 22. τριπήχη la misura di lunghezza del cubito corrispondeva al braccio dal gomito all’estremità del dito medio (cm 44 circa). Il termine tecnico tripēkē, “della lunghezza (o altezza) di tre cubiti” (cm 133 circa), è attestato in Hes. Op. 423 (in riferimento all’aratura), Hdt. 1.51.5 (l’altezza di una statua) e 4.192.2 (lunghezza dei coccodrilli), in Eur. Cycl. 235 (riferito a un grande giogo per il ciclope), e in altri testi successivi. L’analogo τετράπηχυς è usato in Aristoph. Ve. 553 (ἄνδρες μεγάλοι καὶ τετραπήχεις) e Ran. 1014 (γενναίους καὶ τετραπήχεις sono i cittadini educati dalla tragedia eschilea, non ancora corrotti da Euripide). Θετταλικῶς la fama di ghiottoni dei Tessali in commedia è confermata dagli altri passi citati da Ateneo (vd. supra Contesto). Per gli skōmmata contro i Tessali vd. Göbel 1915, 67–70 sp. 69. La proverbiale grandezza del boccone tessalico è attestata anche dalla tradizione lessicografica e paremiografica (vd. ad es. Poll. 6.43, Hsch. θ 422; Phot. θ 143 e Macar. 4.67). Cfr. Wilkins 2000b, 98. τετμημένα il verbo τέμνω in riferimento al taglio di pezzi di carne ad es. già in Il. 9.209, Od. 9.291. fr. 22 K.-A. (20 K. = 24 B.) ἡμίεκτόν ἐστι χρυσοῦ (μανθάνεις;) ὀκτὼ ὀβολοί è un mezzo sestario aureo – capisci? – otto oboli Poll. 9.62 (cod. F) οἱ μέντοι ὀκτὼ ὀβολοὶ ἡμίεκτον ἂν ὀνομάζοιντο, ὡς φησὶν ἐν Λαμίᾳ Κράτης ἡμίεκτόν — ὀβολοί. e gli otto oboli potrebbero essere chiamati hēmiekton, come dice nella Lamia Cratete.
Metro tetrametro trocaico catalettico
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Bibliografia Meineke II (1839), 241 Lam. fr. III; Kock I (1880), 136 fr. 20; Gardner 1881, 289–290; Keil 1904, 650; Edmonds I (1957), 162–163; Bonanno 1972, 110–113 fr. 20; Kassel-Austin 1983, PCG IV, 97; Storey 2011, FOC I, 220–221. Contesto della citazione Polluce sta elencando denominazioni di monete e unità ponderali125, in particolare forme con il prefisso ἡμι-. Il riferimento a Cratete 125
Sulla sezione peri nomismatōn dell’Onomasticon vd. Gardner 1881, Caccamo Caltabiano - Radici Colace 1992.
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Crates
e la citazione sono conservati solo nel manoscritto F (Parisinus Graecus 2646). Riferimenti al termine ἡμίεκτον ricorrono anche in altre parti dell’Onomasticon: 1.246 e 4.168 (unità di misura/termine metrologico equivalente a quattro chenici), 6.160 (termini con hēmi- dopo hēmidrachmon e hēmiobolion, cita anche la variante ἡμιέκτεον con riferimento ad Aristofane), 10.113 (cita Aristoph. Nub. 643–645). Polluce sulla base del passo crateteo indica l’equivalenza hēmiekton aureo = otto oboli. Costituzione del testo Le incertezze nella ricostruzione ecdotica del frammento hanno riguardato in particolare l’interpunzione e l’eventuale suddivisione delle battute con antilabē all’interno del tetrametro (cfr. Gentili-Lomiento 2003, 30 e n. 15). Ha avuto scarso seguito l’ipotesi di Hemsterhuys 1706, 1032, che le due parole finali fossero la battuta di un altro personaggio (possibilista Bonanno 1972, 110–111), e il verbo μανθάνεις è stato giustamente interpretato come un inciso colloquiale all’interno della battuta di un unico personaggio. Il punto interrogativo dopo μανθάνεις, stabilito già da Casaubon, è generalmente accolto dagli editori, con l’eccezione di Kock, che poneva invece il verbo tra virgole. L’uso parentetico di μανθάνεις interrogativo trova convincenti paralleli in commedia: ad es. Antiph. fr. 51 (nella stessa sede metrica), Eub. fr. 101, Alexis fr. 129.15. In Aristoph. Av. 1003 e Ran. 195 invece le immediate risposte οὐ μανθάνω e πάνυ μανθάνω rendono evidente il cambio di battuta dopo μανθάνεις; (cfr. commento ad l.). Interpretazione L’hēmiekton d’oro è stato inteso fin da Gardner 1881 come una piccola moneta equivalente a un dodicesimo dello statere di Cizico o Focea. Lo statere di Cizico era una moneta in elettro (una lega di oro e argento) che in età classica era coniata in tre zecche: Cizico, Focea e Mitilene. In particolare le serie di 1/6 (ἕκτη) erano emesse ad anni alterni da Focea e Mitilene. Che hektai circolassero ad Atene è comprovato dalle liste del tesoro126. Sulla scorta della lettura di Polluce, il frammento di Cratete è stato considerato prova di una equivalenza effettiva tra hēmiekton e otto oboli (vd. anche Keil 1904), e si è argomentato sulla svalutazione che tale corrispondenza implicherebbe127. Se anche ammettiamo sulla base di Polluce, che aveva – a differenza di noi – la possibilità di conoscere il contesto del verso, che ὀκτὼ ὀβολοί sia una chiosa esplicativa di ἡμίεκτόν χρυσοῦ, non pare comunque prudente utilizzare un verso comico come fonte affidabile di un dato monetale. Esichio (s. v. 493 Latte) indicava invece una corrispondenza con τὸ ἡμιωβέλιον (‘il mezzo obolo’)128.
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Cahn 2000, 34. Gardner 1981, partendo dalla considerazione che l’hēmiekton era circa gr 20 di elettro, osserva «That such pieces should have passed at Athens in the middle of the fifth century for only 8 obols (90 grs.) of Attic silver shows that they were held in low esteem, an opinion justified by the inferiority of their metal». Cfr. Demosth. 34.37.9. Cfr. anche Hsch. η 521 s. v. ἥμισυ e μ 1945 s. v. μυσημίεκτον· τοῦ ἡμιέκτου τὸ ἥμισυ. οὐ καλῶς δὲ νομισμάτιον μικρόν.
Λάμια (fr. 22)
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L’inciso μανθάνεις è indicativo di un dialogo tra due personaggi (vd. commento ad l.), in cui uno sta spiegando all’altro qualcosa, verosimilmente qualcosa che poteva risultare poco perspicuo all’interlocutore, forse il riferimento a una piccola monetina di altre città che poteva circolare ad Atene per i suoi traffici commerciali con l’Asia minore, ma che non era certo di uso quotidiano come gli oboli. Inoltre in base al parallelo con Aristoph. Nub. 636ss. si può cautamente ipotizzare un gioco metaletterario con riferimento al verso tetrametro costituito da otto piedi (vd. infra ad ἡμίεκτον). Un altro riferimento monetario, testimoniato dallo stesso Polluce, si trova nel fr. 36 (vd. infra). Sulla terminologia monetale in commedia vd. Burelli 1973, Schirripa 2008. La rilevanza del tema in commedia è testimoniata anche dal titolo di Ferecrate Krapatal(l)oi, che prevede un immaginario sistema monetario nell’Ade e anche per esso Poll. 9.83 indica i valori di conversione in dracme (vd. Caccamo Caltabiano - Radici Colace 1987b). ἡμίεκτον metà di un ἑκτεύς ‘moggio’, cioè mezzo sesto di medimno, corrispondente a quattro chenici (poco più di 4 litri). Si tratta di un’unità di misura degli aridi. In Aristoph. Nub. 636ss. in un dialogo in cui il rozzo Strepsiade equivoca i ‘metri’ che Socrate gli vorrebbe insegnare, intendendoli non come misure di verso ma come misure di capacità utili dal fornaio, egli afferma che il metron più bello è l’ἡμίεκτον e lo confonde con il tetrametro (vv. 643–645). Per la riuscita della battuta dobbiamo supporre che la corrispondenza con una misura di quattro dovesse essere immediatamente comprensibile per il pubblico. Considerato che anche il verso di Cratete è un tetrametro, potremmo supporre che anche qui l’equivalenza con otto possa alludere ai piedi metrici. Nella forma -εκτέον in altre fonti letterarie ed epigrafiche o -εκτέων in attestazioni epigrafiche. Il significato di moneta troverebbe conferma, oltre che in Hsch. η 493 e 521, nella documentazione epigrafica (Syll. 5.26; IG I2 310.118). Un altro composto in ἡμι, sempre testimoniato da Polluce, in Crat. fr. 55 (vd. infra). μανθάνεις; tale inciso è utilizzato in dialoghi in cui chi parla sta spiegando qualcosa di difficile o in linguaggio tecnico a un interlocutore che fa fatica a seguire il discorso e a comprenderlo. Si trova ad es. in Alexis fr. 129.15 in un dialogo in cui un cuoco propone un rimedio all’eccessiva cottura della carne di maiale con un lessico scientifico e l’interlocutore nota ironicamente che il suo linguaggio è ὡς ἰατρικῶς; in Aristoph. Av. 1003, quando il geometra Metone espone il suo complesso sistema per misurare l’aria a un perplesso Pisetero. La risposta di Pisetero, οὐ μανθάνω, è un intervento inaspettato (e forse rivolto al pubblico) perché la domanda (μανθάνεις;) è parentetica e normalmente non prevede risposta; così anche in Eub. fr. 101, Men. Sam. 377–378, Peric. 337–338 (vd. Hunter 1983, 195 e Dunbar 1995, 557). Una risposta è presente anche in Aristoph. Ran. 195 (μανθάνεις; - Xantia πάνυ μανθάνω).
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ὀκτὼ ὀβολοί Meineke preferiva alla scriptio plena ὀκτὼ ὀβολοί l’aferesi ὀκτὼ ’βολοί, così come in Lync. fr. 1.20 (ma ὀκτὼ ὀβ- nel codice A di Ateneo). Cfr. anche Amph. fr. 30.12 βολῶν (ὀβ- A) γένοιτ’ ἄν·” “ἡ δὲ κέστρα;” “κτὼ βολῶν.” (κτὼ Meineke: ὀκτὼ A), in cui però si sta scimmiottando la parlata del pescivendolo che taglia qualche sillaba (vd. Papachrysostomou 2016, 194 e 202). Contra Ahrens 1845, I 66, che propone com possibile alternativa la scrittura ὀκτώβολοι. Nei documenti epigrafici si trova la forma οκτωβολ- variamente resa come prodelisione o come crasi dagli editori (IG ΙΙ2 1672.206, Attica 329/328 a. C., IG V.1 1432 e 1433, Messene 39 a. C.): secondo Threatte 1980, I 426 (cfr. anche 432) la prodelisione è un fenomeno poco frequente nelle iscrizioni attiche. Il frammento è citato come esempio di sinecfonesi anche in West 1982, 13. fr. 23 K.-A. (2 Dem. = 26 B.) καὶ μάλιστ’ ἀφροδισίοις ἀθύρμασιν e soprattutto ai passatempi amorosi Phot. (Sz) α 3396 Ἀφροδίσιον ἄθυρμα· Κράτης Λαμίᾳ· „καὶ μάλιστ’ ἀφροδισίοις ἀθύρμασιν”. ἡδὺ γὰρ κἀκεῖνο δρᾶν ἐστι, λέγεσθαι δὲ οὐ καλόν. passatempo amoroso: Cratete nella Lamia “e soprattutto ai passatempi amorosi”. Infatti anche quello è piacevole farlo, ma non sta bene parlarne.
Metro incerto
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Bibliografia Papadopulos-Keramenos 1892, 2; Reinach 1892, 323–324 e nota 1; Kock 1893, 581–582; Blaydes 1896, 344; Demiańczuk 1912, 29 fr. 2; Wilamowitz 1921, 229–230; Edmonds I (1957), 162–163 fr. 21A; Bonanno 1966, 8–9; Bonanno 1972, 114–116 fr. 26; Theodoridis 1982; Tsantsanoglou 1984; Kassel-Austin 1983, PCG IV 98; Henderson 19912, 154; Storey 2011, FOC I 220–221. Contesto della citazione La glossa foziana con il frammento crateteo è tramandata nel Supplementum Zavordense, le glosse aggiunte a fine opera nel cosiddetto “Fozio macedone”, ma era già nota dal Lexicon Sabbaiticum129. Il lessico foziano annovera in questo punto sette sintagmi con l’aggettivo Ἀφροδίσιος, con una messe di riferimenti a poeti scenici e in particolare comici (oltre a Cratete, Pherecr. fr. 205, Archipp. fr. 50, Plat. frr. 55 e 208, Aristoph. fr. 788). 129
Tra i nuovi frammenti letterari restituiti dal manoscritto Zavordensis 95 e resi noti in Tsantsanoglou 1984, ve ne erano due cratetei (frr. 7 e 53). Il codice Sabbaiticus 137, che da esso deriva, fu pubblicato da A. Papadopoulos-Kerameus, San Petersburgo 1892–93.
Λάμια (fr. 23)
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In base a un confronto con Phot. α 1764 ἀνδρογύνων ἄθυρμα (in cui è citato Eup. fr. 46), che Reitzenstein 1907 attribuiva dubitativamente a Frinico, Theodoridis ritiene che la fonte di Fozio sia Frinico anche per la glossa Ἀφροδίσιον ἄθυρμα. Il frammento sarebbe dunque da ricondurre a una fonte di marca atticista. Costituzione del testo Il frammento pone problemi nella definizione dei confini del testo poetico citato. Fino all’edizione foziana di Theodoridis, e a volte anche oltre (vd. ad es. Storey FOC), anche l’ultima frase della voce lessicale era considerata parte della citazione di Cratete. Su questa base si sono susseguite diverse discussioni sul possibile assetto metrico. Reinach, seguito poi dalla Bonanno, riconosceva nel novello frammento crateteo restituito dal Lessico Sabbaitico resti di due tetrametri trocaici e rimarcava (p. 324 nota 1) l’assenza di cesura non rara nei comici: καὶ μάλιστ’ ἀφροδισίοις ἀθύρμασιν ἡδὺ γὰρ κἀκεῖνο δρᾶν ἐστι, λέγεσθαι δὲ οὐ καλόν “Numeris horridulis” chiosano recisamente Kassel e Austin in PCG e già Kock 1893 rigettava la ricostruzione del Reinach per la mancanza di dieresi e per la sostituzione con il dattilo in quarta sede del primo verso (ma vd. Bonanno 1972, 115–116). Kock preferiva leggervi dei telesillei, alterando però il testo tradito in due punti (aggiunta dell’articolo davanti a δρᾶν e trasposizione di ἐστιν):
καὶ
μάλιστ’ ἀφροδισίοις ἀθύρμασιν· ἡδὺ γὰρ κἀκεῖνο τὸ δρᾶν, λέγεσθαι δ’ οὐ καλόν 〈ἐστιν〉. L’ipotesi del Kock è accolta da Demiańczuk e, con lievi variazioni, da Edmonds. Wilamowitz dal canto suo, integrando 〈ἡδόμεσθ’〉 ἀθύρμασιν, proponeva di leggervi due tetrametri coriambici, la cui struttura piuttosto insolita era giustificata con l’arcaicità di Cratete. Le difficoltà metriche non sono del tutto superate nemmeno con il nuovo assetto testuale proposto da Theodoridis, il quale ritiene che la citazione dalla Lamia sia limitata a καὶ μάλιστ’ ἀφροδισίοις ἀθύρμασιν e sospetta che le parole successive siano di Frinico (cf. Praep. soph. 67.7, congetturando una lacuna prima di ἡδὺ γὰρ (“coniunctio γὰρ indicat ante ἡδὺ aliquid excidisse”). Certamente il passaggio tra i due segmenti risulta piuttosto brusco, e ciò aveva suggerito ad esempio la correzione κἀκεῖνα di Blaydes, seguito da Edmonds, per armonizzare il secondo segmento con il plurale ἀφροδισίοις ἀθύρμασιν. Che ci sia o meno lacuna, è possibile che l’espressione ἡδὺ γὰρ κἀκεῖνο δρᾶν ἐστι, λέγεσθαι δὲ οὐ καλόν sia da attribuire non al commediografo ma a un grammatico, che con queste parole glossava il passo crateteo: κἀκεῖνο sembra riprendere infatti il καὶ μάλιστα e si intende che nel testo comico gli ἀφροδισία ἀθύρματα erano menzionati dopo altre cose piacevoli ma disdicevoli. Oltre che da un punto di vista metrico e sintattico, occorre riflettere sulle implicazioni di una diversa attribuzione anche dal punto di vista della concezione etico-morale che è presupposta in questa frase – tanto più
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se si esclude un tono comico – e dell’idea di aischrologia che rivela130. Che non sia bene dire ciò che non è bene fare è una concezione significativamente espressa in Soph. OT 1409 ἀλλ᾽ οὐ γὰρ αὐδᾶν ἔσθ᾽ ἃ μηδὲ δρᾶν καλόν, e poi ad es. in Isocr. 1.15 ἃ ποιεῖν αἰσχρόν, ταῦτα νόμιζε μηδὲ λέγειν εἶναι καλόν. Qui invece il piano dell’azione e quello della parola non coincidono e a οὐ καλόν si oppone ἡδύ, due qualificazioni affiancate ad es. nel sillogismo imperfetto che si ritrova in Suda α 2670 (s. v. Ἀντικείμενα): εἰ γὰρ τὸ κακὸν ἡδὺ, τὸ οὐχ ἡδὺ οὐ καλόν· ἀλλ’ οὐχὶ τὸ οὐ καλὸν οὐχ ἡδύ. L’espressione sembra rivelare un sentimento non moralistico, almeno sul piano pragmatico. Appare plausibile che il patriarca bizantino traesse dalla sua fonte (attraverso non sappiamo quanti e quali passaggi) una chiosa riferita al passo crateteo (e non direttamente al lemma), una chiosa che spiegava un concetto che doveva essere presente in modo più o meno esplicito nel contesto comico a noi ignoto. Insomma le parole ἡδὺ γὰρ κἀκεῖνο δρᾶν ἐστι, λέγεσθαι δὲ οὐ καλόν non apparterrebbero al testo crateteo ma ne sarebbero una spiegazione, dalla quale ricavare indizi sul contesto del frammento. La lacuna postulata da Theodoridis è possibile ma non necessaria. Interpretazione I “trastulli di Afrodite” sono chiaramente da intendersi nel senso di giochi erotici, sessuali, forse in relazione alle abitudini oscene del demone Lamia e alle sue pericolose arti seduttive (anche se la caratterizzazione di Lamia come vampiro divora-uomini è di norma considerata più tarda131). Il contrasto tra un significato οὐ καλός (il sesso) e un significante dal tono elevato (ἀφροδίσια ἀθύρματα) contribuiva verosimilmente all’effetto comico, esemplificando la discrasia tra αἰσχρός sul piano morale e αἰσχρός sul piano del linguaggio. καὶ μάλιστ’ Cfr. Aristoph. Lys. 618, in apertura di tetrametro trocaico catalettico. ἀφροδισίοις ἀθύρμασιν Il termine ἄθυρμα è di tono elevato, ricorre soprattutto nell’epica omerica e nei poeti lirici, e ha in questo frammento la prima attestazione di un uso in senso erotico, che si ritrova poi in Eup. fr. 46 (ἀνδρογύνων ἄθυρμα), e con il medesimo aggettivo in DCass. 58.2.5132, laddove si narra di Livia Drusilla e della sua indulgenza verso le intemperanze sessuali del marito, Cesare Augusto: καὶ τὰ ἀφροδίσια αὐτοῦ ἀθύρματα μήτε ἀκούειν μήτε αἰσθάνεσθαι
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Oltre al classico Henderson 1991, vd. in proposito Halliwell 2004, che, considerando di Cratete l’intera glossa, ne nota il peculiare contenuto in relazione al tema dell’aischrologia: “it may also, in principle, be thought shameful to talk of x in certain way even when x in itself is not intrinsically or unqualifiedly shameful […] Crates com. fr. 23 PCG where a character call it enjoyable to practice sex but improper to describe it, seems to make this point” (p. 120 nota 14). Vd. Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology s. v. Lamia, in cui sono citate come fonti per questa connotazione Philostr. Vit.Apollon. IV 25; Hor. ars 340; Isidor. Orig. VIII 11; Apul. Met. I p. 57. Una consonanza con Cassio Dione si può notare anche per un sintagma presente nel fr. 34. Vd. infra.
Λάμια (fr. 24)
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προσποιουμένη. L’espressione ἀφροδίσιόν τ’ ἄθυρμα compare anche in [Anacr.] fr. 55.8 West, in riferimento alla rosa. Per ἄθυρμα cfr. anche Cratin. fr. 152, in cui però il termine sembra riferirsi al diletto letterario/teatrale (in proposito vd. Conti Bizzarro 1999, 60–61; Bianchi 2017, 28).
fr. 24 K.-A. (3 Dem. = 27 B.) Phot. (b, z) α 1749 ἀνδριστὶ μιμεῖσθαι φωνήν· ὡς ἀνήρ. Κράτης (Κράτης z: Ακρατ b littera initialis rubra) Λαμίᾳ. imitare una voce maschile: come un uomo. Cratete nella Lamia.
Metro incerto
l l k l l l l l (?)
Bibliografia Demiańczuk 1912, 29–30 fr. 3; Bonanno 1972, 116 fr. 27; KasselAustin 1983, PCG IV 98; Sommerstein 1998, 151; Willi 2010, 499; Storey 2011, FOC I 220–221. Contesto della citazione Demiańczuk considerava il lemma foziano ipsissima verba di Cratete. Gli editori successivi si mostrano giustamente più prudenti. L’infinito μιμεῖσθαι suggerisce che la forma del sintagma sia frutto di lemmatizzazione (cfr. Bonanno 1972, 116 e n. 3). Una possibilità è che solo ἀνδριστὶ fosse usato da Cratete e che μιμεῖσθαι φωνήν facesse parte della spiegazione. Theodoridis sulla scorta di Reitzenstein 1907, 127, ritiene che la fonte di Fozio per questa glossa sia l’atticista Frinico (cfr. Praep. soph. fr. *213 de Borries). Interpretazione L’espressione trova un parallelo in Aristofane, Ec. 149 (ἄγε νυν ὅπως ἀνδριστὶ καὶ καλῶς ἐρεῖς), dove Prassagora raccomanda a chi sta per prendere la parola in assemblea di parlare in modo virile. In Th. 267–268 all’opposto un personaggio maschile, il Parente di Euripide che si appresta a infiltrarsi tra le donne alle Tesmoforie, deve imitare una voce femminile. Il meccanismo comico è quello dello scambio di ruoli donna/uomo. Da un punto di vista scenico va considerato che gli attori sono tutti maschi e dunque è difficile valutare se e quanto ci fosse una reale contraffazione della voce133. Nella commedia di Cratete è possibile che ci si riferisse alla natura sessualmente ambigua del personaggio Lamia. 133
Sommerstein 1998 ritiene che “little comic effect could be produced by a woman character imitating a male voice” e interpreta ἀνδριστὶ nel passo delle Ecclesiazusai in riferimento a grammatica e fraseologia tipicamente maschile piuttosto che in connessione alla voce. Cfr. Willi 2010, 499.
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Crates
ἀνδριστὶ l’avverbio trova paralleli, oltre che nel già citato Aristoph. Ec. 149, in Theocr. 18.23 e DChr. 33.38. Questo tipo di formazione avverbiale è spesso usato in riferimento a lingue e popolazioni, soprattutto in commedia, es. λυδιστί (Cratin fr. 276.4), βαρβᾰριστί (Aristoph. fr. 81), δωριστί (Aristoph. Eq. 989 e 996), ἀττικιστί (Alexis fr. 200.4; Antiphanes fr. 97). Esiste anche l’avverbio γυναικιστί attestato ad esempio in Ath. XII 528f. μιμεῖσθαι φωνήν cfr. Hymn.Apoll. 162–163 e Aeschl. Ch. 563–564.
fr. 25 K.-A. (21 K. = 25 B.) Sch. (T) Plat. Phil. 14a 3–4 n. 2 p. 88 Cufalo (= p. 50 Green) ὥσπερ μῦθος ἀπολόμενος] παροιμία “ὁ μῦθος ἀπώλετο”· τούτῳ χρῶνται τῷ λόγῳ οἱ λέγοντές τι πρὸς τοὺς μὴ προσέχοντας. μέμνηται δὲ αὐτῆς καὶ Κρατῖνος ἐν Δραπέτισι (fr. 63) καὶ Κράτης Λαμίᾳ (Λαμείᾳ cod.). proverbio ho mythos apōleto (“il racconto è finito”). Usano questa espressione quelli che dicono qualcosa contro chi non sta attento. Lo ricorda anche Cratino nelle Drapetides e Cratete nella Lamia.
Metro non definibile Bibliografia Meineke II (1839), 241 Lam. fr. IV; Kock I (1880), 137 fr. 21; Ehrenberg19512, 266 e n. 5; Edmonds I (1957), 162–163; Bonanno 1972, 113–114 fr. 25; Kassel-Austin, PCG IV, 98; Storey 2011, FOC I, 222–223; Bianchi 2016, 372Contesto della citazione Uno scolio al Filebo di Platone nel codice Marciano T spiega l’espressione ὥσπερ μῦθος ἀπολόμενος, usata da Socrate nel suo dialogo con Protarco (κἄπειθ’ ἡμῖν οὕτως ὁ λόγος ὥσπερ μῦθος ἀπολόμενος οἴχοιτο “dopo di che il nostro discorso come una favola perirebbe svanendo”134), con riferimento al proverbio ὁ μῦθος ἀπώλετο, che sarebbe usato per rivolgersi a chi non presta attenzione. Vengono quindi menzionati due poeti dell’archaia che utilizzarono il proverbio: Cratino e Cratete, con indicazione del titolo della commedia. Non abbiamo elementi per stabilire se questi autori utilizzassero il proverbio esattamente nella forma ὁ μῦθος ἀπώλετο. L’espressione non è presente nelle raccolte paremiografiche antiche e si ritrova solo in tre passi di Platone, dove è usato in forme diverse (vd. infra Interpretazione). Nel corpus scoliografico a Platone sono frequenti i riferimenti a poeti della archaia135.
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Trad. di G. Cambiano (ed. UTET). Ad esempio sono fonti di 13 frammenti e 18 menzioni di Cratino (Bianchi 2017, 96), almeno 7 frammenti di Eupoli, fr. 6 di Ermippo, e di decine di frammenti di Aristofane.
Λάμια (fr. 25)
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Interpretazione Secondo lo scolio che trasmette il frammento crateteo l’espressione proverbiale ὁ μῦθος ἀπώλετο si usa rivolgendosi a chi non sta attento, perde le fila del discorso. Questo significato non sembra deducibile dal testo di Platone. Platone fa usare l’espressione a Socrate anche in Theaet. 164d nella sua confutazione (καὶ οὕτω δὴ μῦθος ἀπώλετο ὁ Πρωταγόρειος καὶ ὁ σὸς ἅμα ὁ τῆς ἐπιστήμης καὶ αἰσθήσεως ὅτι ταὐτόν ἐστιν “e così è andato perduto il discorso di Protagora e anche il tuo insieme, secondo cui scienza e sensazione sono la stessa cosa”). Gli scolii riportano in questo caso una spiegazione diversa sul significato del proverbio: Sch. (T) Plat. Phil. 164d8–9 n. 78 p. 56 Cufalo μῦθος ἀπώλετο] παροιμία ἐπὶ τῶν τὴν διήγησιν μὴ ἐπὶ πέρας ἀγαγόντων “proverbio riferito a coloro che non portano a termine l’esposizione”. Cfr. Greg.Cypr.Leid. 2.90. Anche alla fine del racconto sul mito di Er in Resp. X 621b è evidente il riferimento all’espressione proverbiale anche se in questo caso μῦθος ἐσώθη καὶ οὐκ ἀπώλετο “il racconto si è conservato e non è andato perduto”. Gli sch. ad l. (p. 276 Greene cfr. Greg.Cypr.Leid. 2.91, Procl. II p. 354.25 Kroll) offrono una spiegazione ancora diversa, notando che era usanza concludere le storie con mythos apōleto (“la storia è finita”), per mostrare che le storie dicono cose che non esistono nella realtà, nello stesso tempo sono raccontate e non esistono. Cfr. anche Hermias In Plat. Phaedr. 1 p. 69 Lucarini-Moreschini. Dal passo della Repubblica deriva verosimilmente anche la voce Phot. μ 579 μῦθος ἐσώθη ἐπίρρημά ἐστι λεγόμενον ἐπ’ ἐσχάτῳ τοῖς λεγομένοις μύθοις τοῖς παιδίοις “è una chiusa detta alla fine per le storie raccontate ai bambini”. Gli scoli offrono dunque interpretazioni divergenti, ma che non sembrano escludersi tra loro. L’espressione, un epimythos tradizionale per dire che una storia è finita, poteva essere usata in battute scherzose in contesti diversi, per indicare una prematura interruzione del discorso, o per colpa di chi dovrebbe ascoltare e non presta ascolto o per colpa di chi non finisce il racconto iniziato136. Non abbiamo elementi per stabilire in che contesto fosse usata dai due comici al di là del contesto della citazione, che fa propendere per uno scherzoso rimprovero rivolto a un personaggio che non prestava attenzione al discorso. Nulla sembra autorizzare interpretazioni di mythos come riferimento a miti tradizionali verso i quali i commediografi proverebbero disillusione, né come trama della commedia (Ehrenberg 19512, contro cui vd. già Bonanno 1972).
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Bianchi 2016, 373, mostra una cauta preferenza per l’interpretazione avanzata negli scolii al Filebo (cioè che il proverbio si riferisce a chi non sta attento) perché non deducibile dal passo commentato. Cfr. anche Lelli 2006a, 122: «impiegato probabilmente sia per troncare recisamente un discorso sia per esprimere perplessità sull’esito di un discorso».
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Μέτοικοι (Metoikoi) (“Meteci”)
Bibliografia Meineke 1826, 28; Meineke 1839, I 64; Schmid 1946, 91 n. 14; Edmonds I (1957), 163; Bonanno 1972, 163–164; Whitehead 1977, 39; KasselAustin 1983, PCG IV 98; Pirrotta 2009, 184–186; Storey 2011, FOC I 223. Titolo La citazione nei lessici etimologici bizantini costituisce l’unica attestazione di una commedia Metoikoi di Cratete (vd. fr. 26, ma EGen. reca Μετρικοῖς). Il titolo non è incluso nell’elenco di Suda (test. 1) e alcuni hanno dubitato della validità di questa attribuzione. Drammi dal medesimo titolo sono testimoniati per Platone (frr. 80–83, fonti Fozio, Polluce e Apollonio Discolo; cfr. Suda π 1708) e Ferecrate (Apoll.Disc. Pron. p. 113.77 Sch. = GG II 1.1). Ma quest’ultima attestazione è considerata frutto di un errore nel testo di Apollonio Discolo, che poco sopra aveva citato l’omonima commedia di Platone (vd. Kassel-Austin PCG VII p. 161; Quaglia 2001a, 12). Risulta dunque fondata su basi troppo incerte l’ipotesi di attribuire a Ferecrate anche il fr. 26 di Cratete (così Meineke 1826, Schmidt 1946 e dub. Bonanno 1972), supponendo una possibile confusione tra i nomi Cratete e Ferecrate (cfr. infra ad frr. 14, 20). Si è arrivati anche a ipotizzare che ci sia stata in realtà una sola commedia Metoikoi, attribuendo a Platone tutti i frammenti citati sotto questo titolo (Meineke 1839, 64; Kaibel apud PCG VII p. 466). Errori nella tradizione sono certamente possibili, tuttavia è altrettanto possibile che comici diversi abbiano scritto opere dal medesimo titolo. Né il fatto che la fonte sia singola né l’assenza dall’elenco della Suda costituiscono argomenti sufficienti per escludere il titolo dal novero delle commedie cratetee. Al singolare Metoikos il titolo è attestato per Antifane e Filemone. I meteci erano una categoria di persone particolarmente numerosa nell’Atene del V sec.: erano gli immigrati, o stranieri ufficialmente residenti in città, liberi ma esclusi dai diritti politici, soggetti all’obbligo di registrare un prostates e al pagamento di determinate imposte137. Nonostante il loro status inferiore e lo stereotipo che li etichettava come persone interessate solo al denaro e che avevano in spregio la propria patria (Lape 2010, 49ss.), i meteci erano integrati nella vita economica, sociale e religiosa della città, e avevano un ruolo fondamentale per la potenza commerciale di Atene. Negli Acarnesi (vv. 507–508) una metafora li accosta ai cittadini ateniesi in opposizione agli stranieri presenti alle Dionisie: gli abitanti ateniesi, polites e meteci, i soli ad assistere alle Lenee, sono come l’orzo nettato dalla pula, cioè dagli stranieri; i cittadini sono il fior di farina e i meteci la crusca138. Anche in altri passi (Pax 297, Eq. 347, Lys. 580) Aristofane sembra 137 138
Per la definizione dello status di meteco vd. Whitehead 1977, 6–10, Kamen 2013, 43ss. e Sosin 2016. Taillardat 19652, 392.
Μέτοικοι
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mostrare un atteggiamento relativamente benevolo verso questa categoria “inferiore”, non fosse altro per ingraziarsi una parte non irrilevante del suo pubblico. I meteci non solo partecipavano agli agoni teatrali come spettatori, ma almeno per le Lenee anche come possibili membri del coro e choregoi139. Per le Dionisie invece erano esclusi dai cori gli stranieri (cfr. Sch. Aristoph. Pl. 953, Plut. Phoc. 30.6). Questa preclusione fu formalmente sancita tramite una legge, a cui fanno riferimento [And.] 4.20 e Demosth. 21.56–60 a proposito di un episodio che coinvolse Alcibiade. Secondo Wilson 2000, tale legge potrebbe collocarsi già negli anni Quaranta del V sec., nel medesimo clima da cui era nata la legge periclea sulla cittadinanza del 451/450, altri sulla scorta di Demosth. 21.147 ritengo invece che la norma fosse in vigore solo nel secolo successivo140. A prescindere dalla questione della data di emanazione della legge che stabiliva le procedure con cui denunciare la presenza di stranieri nei cori, è verosimile che l’esclusione degli xenoi dai cori delle Dionisie esistesse già di fatto o di diritto nella seconda metà del V sec. Non sappiamo quando furono rappresentate le commedie intitolate Metoikoi, né se alle Lenee o alle Dionisie, ma, se, come è verosimile, il titolo al plurale si riferisce ai membri del coro, il confronto metateatrale tra l’identità drammatica e l’identità reale dei membri del coro avrebbe assunto un particolare significato in un periodo di dibattito su tali questioni e in un agone dionisiaco avrebbe potuto addirittura creare un vero e proprio cortocircuito. Per altri titoli di commedia riferiti a particolari categorie sociali si veda ad es. Heilōtes di Eupoli (cfr. Olson 2016, 12). Argomento In base al titolo si potrebbe supporre un contenuto attinente alla realtà sociale della polis. Un unico frammento non permette di avanzare fondate ipotesi. Datazione Non ha avuto seguito la proposta di Edmonds di datare la commedia al 426 a. C., anno in cui «the escaped Plataeans were given the citizenship». Non ci sono elementi sufficienti per stabilire la cronologia della commedia, ma una cauta ipotesi si può forse avanzare in base a una possibile allusione alla perdita del porto di Trezene presente nel fr. 26 (vd. infra): il gioco di parole potrebbe quindi connettersi alle condizioni della pace trentennale stipulata nel 446. Una datazione in quegli anni sarebbe congruente anche con il fatto che il tema dei meteci e del rapporto tra le diverse categorie di persone che abitavano Atene dovette essere al 139 140
Per una recente sintesi dei dati relativi vd. Wijma 2014, 66ss. Il passo di Demostene, in cui si afferma che al momento dell’episodio che coinvolse Alcibiade la legge non era ancora in vigore si riferisce alla legge che regolava le denunce preliminari in materia (citata in Demosth. 21.8), una norma che MacDowell 1990, 227 colloca tra fine V e inizi IV sec. Ma è verosimile che tale legge andasse a regolamentare le procedure di denuncia di infrazione al principio già vigente di esclusione degli stranieri. Per l’esistenza di una simile prescizione già nel V sec. vd. Ostwald 1986, 120–121; Wilson 2000, 29, 80, 340 n. 131. Sulla questione vd. anche Gazzano 1999, 97–101, Wijma 2014, 83ss.
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Crates
centro del dibattito politico al volgere della seconda metà del V sec. Un evento di grande impatto per la questione fu certamente la promulgazione della legge periclea sulla cittadinanza nel 451/450, che, limitando la cittadinanza ai figli con entrambi i genitori ateniesi, di fatto relegava tra i meteci molti metroxenoi e bloccava ogni speranza di promozione sociale per le future generazioni. Incerto se in quello stesso periodo si possa collocare anche la legge che escludeva gli stranieri dai cori delle Dionisie (vd. supra). All’interno di questa particolare fase politicosociale si potrebbe dunque ben inquadrare una commedia dal titolo Metoikoi. Una datazione negli anni Quaranta, troppo alta per la commedia Metoikoi di Platone, sarebbe possibile per Cratete (cfr. supra Cronologia).
fr. 26 K.-A. (22 K. = *61 B.) EGen. AB ≃ EM. p. 698, 8 ≃ ESym. CV s. v. πωγωνιήτης πωγωνιήτης: πώγων (om. AB) πώγωνος πωγωνίτης (καὶ πλεονασμῶι τοῦ η πωγωνιήτης ESym. V). λέγει σοί τις· “δός μοι ἀπὸ τῶν εἰς ων ληγόντων· οὐκ ἔχεις.” γεγονέν πωγωνία. Κράτης (σωκρ- ESym. C) γοῦν ἐν Μετοίκοις (μετρικοῖς AB) λιποπωγωνία (λιπ- Sylburg: λειπ- EM.: λέγει· τὸ πωγ- AB, πωγ- ESym.) ἔφη. δύναται οὖν, ὥσπερ οἰκία οἰκιάτης, οὕτω πωγωνία πωγωνιάτης καὶ πωγωνιήτης (γενέσθαι add. ESym.). pōgōniētēs (barbuto): pōgōn pōgōnos pōgōnitēs (e per ripetizione di ē pōgōniētēs). qualcuno ti dice: “trovami (una derivazione) da parole che finiscono in ōn; non ce l’hai”. Esiste pōgōnia. Cratete appunto nei Metoikoi dice lipopōgōnia (mancanza di barba). Quindi è possibile che ci sia, come oikia oikiatēs, così anche pōgōnia pōgōniatēs pōgōniētēs.
Metro non definibile
l k l l k ?
Bibliografia Meineke II (1839), 242; Kock I (1880), 137 fr. 22; Edmonds I (1957), 162–163; Bonanno 1972, 163–164 fr. *61; Kassel-Austin 1983, PCG IV 99; Storey 2011, FOC I 222–223. Contesto della citazione Nella trattazione del lemma πωγωνιήτης, epiteto di Zeus “barbuto”, la tradizione lessicografica degli etimologici bizantini mostra testi in parte divergenti e problematici. Nel testo stabilito da Kassel e Austin, in risposta all’opinione di chi negava la possibilità di una derivazione da nomi in –ōn si segnala il caso di pōgōnia141 e si adduce l’esempio crateteo. Stando al testo dell’Etymologicum Magnum, Cratete usò il termine pōgōnia nel composto λιποπωγωνία, secondo la lectio del Genuinum e del Symeonis invece Cratete avrebbe usato semplicemente
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Nell’edizione dell’Etymologicum Magnum di Gaisford si legge invece λέγουσι δέ τινες, ὅτι ἀπὸ τῶν εἰς ων ληγόντων οὐκ ἔχει γεγονέναι πωγωνία “ma alcuni dicono che da termini che finiscono in ōn non possa derivare pōgōnia”.
Μέτοικοι (fr. 26)
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pōgōnia: una lectio che pare una banalizzazione, con il doppio verbum dicendi (λέγει… ἔφη) come ulteriore indizio della corruzione del testo. La lezione λειπ- dei codici è una variante grafica itacistica comune (cfr. λειποταξίου Plato fr. 7). Già Sylburg proponeva di leggere λιπ- perché più adatto al metro giambico. Interpretazione Il termine λιποπωγωνία è un hapax composto da λείπω + πώγων e indica la mancanza di barba. Composti con lipo- come primo elemento sono molto produttivi nel greco tardo, spesso con significato privativo (es. λιπόγλωσσος “senza lingua, muto” Nonn. D. 4.325). Nei composti più antichi sembra prevalere il significato transitivo di λείπω “abbandonare”. I campi semantici più frequenti nel V/IV sec. a. C. sono connessi con: 1) la diserzione (λῐπόναυς “che abbandona la sua nave” Aeschl. Ag. 212; λῐποστρᾰτία Hdt. 5.27.2 e in commedia (γραφὴ) λιποταξίου “(accusa) di diserzione” Aristoph. fr. 846, Plato fr. 7 e poi Antiph. 127.9; λῐποταξία Demosth. 21.166) lo svenimento (termini in λῐποθυμ- in Ippocrate e λιποψυχ- ad es. in Soph. fr. 496 e poi nel comico Xenarch. fr. 7.12). Anche i composti relativi alla barba sono numerosi, ad es. εὐπώγων (Aristot. Phgn. 808a 23, Leon. [AP 9.99 e 744]), per indicare una barba bella, e, con significato affine al termine crateteo, σπᾰνοπώγων “dalla barba rada” (Ion fr. 113 Leurini = FGrHist 392 F8) e altri ancora citati in Poll. 2.88. In commedia altri composti con -pōgōn sono τρᾰγοπώγων “dalla barba caprina” (Cratin. fr. 108), δασυπώγων “dalla barba folta”(Aristoph. Th. 33) e τιλλοπώγων “che si strappa la barba” (Com. Adesp. *671). La barba nella cultura greca classica è simbolo di virilità e portare la barba era la norma per gli Ateniesi adulti del V sec. (la moda di radersi iniziò solo sul finire del IV sec.: cfr. Ath. XIII 565a). Il sostantivo λιποπωγωνία potrebbe intendersi quindi in una dimensione scoptica, come presa in giro contro un personaggio tacciato di scarsa mascolinità (vd. ad es. Aristoph. Th. 191ss., Alexis fr. 266, Timocl. fr. 5)142 oppure irriso per la giovane età. Ma è possibile un ulteriore livello di lettura. Pōgōn infatti non è solo il nome comune della barba ma anche un toponimo che identifica il porto di Trezene (Hdt. 8.42). Esisteva inoltre un proverbio particolarmente rilevante per l’interpretazione dell’hapax crateteo. Vd. Suda (ει 324) Εἰς Τροιζῆνα δεῖ βαδίζειν: ἐπὶ τῶν κακογενείων καὶ σπανοπωγώνων εἴρηται. Πώγων γάρ ἐστι λιμὴν εἰς Τροιζῆνα “bisogna andare a Trezene: si dice in riferimento a chi ha poca barba e a chi la ha rada. Pōgōn infatti è un porto a Trezene”. Cfr. anche Suda π 2150 s. v. Πώγων, πώγωνος: Τροιζήνιος λιμὴν οὕτω καλούμενος· ὅθεν καὶ παροιμία ἐπὶ τῶν κακογενείων· ἐς Τροιζῆνα δὲ βαδίζειν “Pōgōn pōgōnos: porto di Trezene così chiamato; da qui anche il proverbio riferito a chi ha poca barba: andare a Trezene”; vd. inoltre Eustath. in Il. vol. I p. 442.12 van der Valk.
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Cfr. Arnott 1996, 743–744.
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Il gioco di parole tra i due significati doveva essere immediatamente intellegibile come dimostra il proverbio ricordato nella Suda e in altre fonti paremiografiche. Oltre alla barba pōgōn richiamava quindi alla mente anche il porto di Trezene, la città dell’Argolide alleata di Atene fino al 446 a. C., quando Atene dovette rinunciare al controllo su di essa e riconoscerne l’indipendenza in seguito alla stipula della tregua trentennale. È plausibile che il composto λιποπωγωνία avesse più livelli di lettura, la presa in giro contro un personaggio poco virile a cui manca la barba e l’allusione a una vicenda politica, la perdita del porto di Trezene, che dovette avere dirette conseguenze sui commerci e gli affari ateniesi (campo in cui i meteci erano in particolare attivi). Analoghi composti in lipo- relativi al disonore militare (vd. supra λῐποστρᾰτία o λῐποταξία) possono aver costituito il modello per la formazione di questo termine. Se tale ipotesi cogliesse nel segno avremmo un dato cronologico post quem, il 446 a. C., congruente con le supposizioni in merito alla possibile datazione della commedia basate sul titolo (vd. supra). Significativo per questa ipotesi cronologica è il fatto che il composto di analogo significato σπᾰνοπώγων sopra citato (utilizzato anche da Suda a proposito del proverbio “andare a Trezene”) appartenga a un’opera del poeta tragico Ione di Chio, Sunekdēmētikos, che è stata messa in relazione proprio con la legazione a Sparta (vd. Leurini 2000, 73). L’aggettivo pōgōnias è attestato da Polluce come usato da Cratino (fr. 485: Poll. 2.10.9 γενειῶν, γενειάσκων, πώγωνος ὑποπιμπλάμενος, πωγωνίας, ὡς Κρατῖνος; vd. Olson-Seaberg 2018, 320–321).
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Παιδιαί (Paidiai) (“Giochi”)
Bibliografia Bergk 1838, 131; Goossens 1952; Bonanno 1972, 19, 35; KasselAustin 1983, PCG IV 99–100; Storey 2011, FOC I 223. Titolo Il titolo Paidiai, attestato esplicitamente dalle fonti di tre frammenti cratetei, è assente nella Schriftenliste riportata da Suda (test. 1), tuttavia secondo Körte (RE XI 2, p. 1624) sarebbe da identificare con Paidiai la commedia lì citata come Pedētai, forse per una confusione con l’omonima commedia di Callia. Il termine παιδιά è usato di norma per indicare un gioco infantile e, per estensione, anche “divertimento”, “scherzo”, qualcosa di poco conto in opposizione a cose serie. Il termine è attestato sia in tragedia (es. Aeschl. Pr. 314) sia in commedia (es. Aristoph. Pl. 1056bis). Se il titolo plurale denota, come spesso accade, i membri del coro, è possibile che essi rappresentassero vari tipi di giochi (per i cori comici costituiti da personificazioni di cose inanimate cfr. Rosen 1997, 149–150). L’idea era avanzata già da Bergk 1838 ed è generalmente condivisa143. Bergk immaginava che i singoli coreuti portassero in scena oggetti identificativi del proprio gioco (“opinor choreutas variorum ludorum genera representavisse, speciem quandam et instrumenta ludendi prae se ferentes” p. 131). Considerato però che il “gioco del bacio” cui fa riferimento il fr. 27 non sembra aver oggetti simbolici, Storey ritiene più probabile che il titolo identificasse i giochi rappresentati nel corso della commedia e non i coreuti. In effetti nei pochi frammenti superstiti non ci sono riferimenti a giochi che prevedano l’uso di oggetti. Oltre al gioco del bacio di fr. 27, si consideri che anche il gioco ἐν κοτύλῃ, una sorta di “cavalluccio”, cui forse potrebbe alludere il fr. 29 (vd. infra), non ha oggetti distintivi. La posizione a cavalluccio, anche senza oggetti, poteva di per sè rendere ben identificabile il gioco, e non si può escludere che all’ingresso nell’orchestra due coreuti potessero presentarsi uno in groppa all’altro, ma certo è poco plausibile che una simile posizione potesse essere mantenuta a lungo. La questione dell’identità del coro in questa commedia deve inoltre tenere conto del possibile riferimento ai coreuti nel fr. 27, ammesso che il coro maschile lì menzionato sia da intendersi come un riferimento ai coreuti del dramma in scena (vd. infra). Argomento Dei soli tre frammenti superstiti, uno o forse due fanno riferimento a giochi (frr. 27 e 29) e uno, di contenuto metateatrale, evidenzia una differenza rispetto alla tragedia (con una contrapposizione serio / scherzoso, a cui potrebbe forse alludere anche il titolo Paidiai). Riferimenti a giochi di vario genere sono relativamente frequenti in commedia, e anche in Cratete cfr. ad esempio fr. 9. Va osservato che dai pochi frammenti delle Paidiai che abbiamo, e specificamente dal 143
Cfr. Zimmermann 2011, 730 n. 264. Anche Kassel e Austin in PCG riportano le parole di Bergk.
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Crates
fr. 27 sul “gioco del bacio”, si può dedurre che i giochi in argomento non dovevano essere solo giochi infantili, ma anche, e forse soprattutto, giochi per adulti, verosimilmente legati a contesti simposiali. In questo senso non pare si possa accostare per argomento alla commedia intitolata Paides di Teopompo (frr. 38–40). Polluce, fonte del fr. 27, afferma che in questa commedia Cratete parlava di quasi tutti i giochi esistenti (σχεδὸν δὲ καὶ περὶ τῶν πλείστων ὁ ποιητὴς οὗτος εἴρηκεν ἐν τῷδε τῷ δράματι 9.115). Kock ipotizzava che la commedia cratetea fosse la principale fonte della sezione sui giochi dell’Onomasticon di Polluce (9.110–129), e anche la Bonanno ritiene che Polluce ne abbia tratto molto materiale per la sua ampia esposizione. Questo dramma però è citato esplicitamente un’unica volta. Datazione Non abbiamo elementi per la datazione di questa commedia, né in termini assoluti né in termini relativi. fr. 27 K.-A. (23 K. = 28 B.) παίζει δ’ ἐν ἀνδρικοῖς χοροῖσι τὴν κυνητίνδ’, ὥσπερ εἰκός, τοὺς καλοὺς φιλοῦσα 1–2 παίζει L : παίζειν FSC κυνητίνδα FS : κυνητίνδαν C δέ Bothe
2 χοροῖσι F: χορήει S : χόροις CL 3 κυνητίνδ’ L : 4 φιλοῦσα Poll. codd. : φιλοῦσ’ ἀεί Meineke : φιλοῦσι
fa il gioco del bacio in mezzo a gruppi di uomini baciando, come prevedibile, i belli Poll. 9.114–115 ἡ δὲ κυνητίνδα ἀπὸ τοῦ κυνεῖν, ὅ ἐστι καταφιλεῖν, ὠνόμασται, ᾗπερ ὑποδηλοῦν ἔοικε Κράτης ἐν Παιδιαῖς. σχεδὸν δὲ καὶ περὶ τῶν πλείστων ὁ ποιητὴς οὗτος εἴρηκεν ἐν τῷδε τῷ δράματι· φησὶ δ’ οὖν παίζει δ’ ἐν ἀνδρικοῖς χοροῖσι τὴν κυνητίνδ’, ὥσπερ εἰκός, τοὺς καλοὺς φιλοῦσα. La kunētinda prende il nome da kunein, cioè baciare, come appunto sembra mostrare Cratete nelle Paidiai. Probabilmente il poeta in questo dramma trattava la maggior parte (dei giochi); e dice dunque “παίζει — φιλοῦσα”.
Metro forse dimetri trocaici
l lklk lkll lkll | lkll lklk ll
Παιδιαί (fr. 27)
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Bibliografia Bergk 1838, 131; Meineke II (1839), 243; Bothe 1855, 78; Kock I (1880), 137 fr. 23; Blaydes 1890, 15; van Herwerden 1893, 151; Edmonds I (1957), 162–163; Bonanno 1972, 117–120 fr. 28; Kassel-Austin 1983, PCG IV 99; Beta 2009, 216–217 e n. 184; Miles 2009, 42 n. 13; Storey 2011, FOC I 224–225; Rusten et al. 2011, 140. Costituzione del testo La scansione metrica condivisa nelle edizioni più moderne (Bonanno, Storey, Kassel-Austin) è quella in dimetri trocaici proposta da Meineke. Meineke giudica preferibile la divisione in dimetri, piuttosto che una possibile scansione in tetrametri παίζειν δ’ ἐν ἀνδρικοῖς χοροῖς τὴν κυνητίνδ’, ὥσπερ εἰκός, τοὺς καλοὺς φιλοῦσ’ ἀεί che non consentirebbe di mantenere il χοροῖσι difficilior attestato in F (CL hanno χόροις sic). La sistemazione in dimetri comporta una sinafia tra i prime due dimetri (cfr. e. g. Aristoph. Pax 339, Ran. 543, 545). Altre ipotesi di sistemazione metrica in tetrametri sono state proposte al prezzo di pensati interventi sul testo tradito (Bothe, Blaydes). Per il resto il testo stabilito da Meineke, dunque quello su cui si basarono i primi tentativi di analisi metrica, poggiava su un testo di Polluce anteriore all’edizione del Bekker (1846) e del Bethe (1931 il secondo volume), e il riesame dei manoscritti dell’Onomasticon ha portato a una diversa constitutio textus: in particolare l’indicativo terza persona singolare παίζει attestato da L in luogo dell’infinito (già in Bekker) e φιλοῦσα finale ristabilito dal Bethe in luogo di φιλοῦσ’ ἀεί, congetturato dal Meineke in base a un’ errata lettura φιλοῦσα δέ. Nonostante le posizioni di fine parola non aiutino e lascino aperto il dubbio di possibili scansioni alternative sempre nell’ambito di un ritmo giambo-trocaico144, anche nell’attuale situazione testuale la divisione in dimetri trocaici sembra restare la più plausibile. Serie trocaiche articolate in cola dimetrici in commedia si trovano ad esempio nella parabasi della Pace a chiusura di epirrema (vv. 1156–1158) e antepirrema (vv. 1188–1190) o in chiusura di dialoghi (es. Eq. 284–302, Pax 339–345)145. Alcuni indizi contenutistici potrebbero portare a ipotizzare che il frammento derivi dalla sizigia epirrematica (vd. infra). Contesto della citazione Polluce 9.110–170 elenca una serie di nomi di giochi con terminazione in – ίνδα, e di ciascuno fornisce una breve descrizione. Tra essi anche κυνητίνδα, gioco non altrimenti attestato, per il quale viene citata la commedia cratetea. Interpretazione Che il “gioco del bacio” facesse qui riferimento non a un contesto ludico infantile ma a una situazione sensuale era chiaro già al Kaibel (“basiandi lusus ioculariter ad mulierem libidinosam translatus” apud K.-A.). La rappresentazione di una donna dal comportamento così trasgressivo suscitò qualche perplessità nel Bothe (che proponeva di correggere in φιλοῦσι δέ) e nel Kock 144 145
Dale 1968, 69ss. Cfr. anche Miles 2009, 42 nota 13. Martinelli 1995, 131–132.
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Crates
(“quomodo mulier in virilibus choris ludibunda pulcherrimos quosque exosculari potuerit, non satis liquet”). Pure Edmonds forse cercava di rimediare a questa presunta difficoltà ipotizzando che la situazione descritta in questi versi potesse riferirsi alla dea della Vittoria e ai cori comici in competizione. Kassel e Austin chiamano invece a confronto il verso della Pannychis callimachea (fr. 227 Pf.) in cui si promettono a chi fosse rimasto sveglio tutta la notte dolci e il premio del cottabo, la possibilità di baciare fanciulle e fanciulli presenti a proprio piacimento: καὶ τῶ̣ν̣ παρ̣⸤ουσῶν ἣν θέλει⸥ χὢν θέλει ⸤φιλήσει (v. 7). I baci premio nel frammento callimacheo sono legati alla situazione della pannychis, festa notturna che in un contesto sacrale prevedeva una promiscuità tra uomini e donne normalmente inibita, una trasgressione ritualizzata, con danze di donne e simposio di uomini in un unico luogo146. Riferimenti alla pannychis in commedia sono conservati ad esempio nelle Rane di Aristofane (vv. 371 e 448), oltre che in Menandro (Dysc. 857, Epitr. 452) e in Posidip. fr. 28.22, e conosciamo commedie intitolate Pannychis di Ferecrate (Ιπνὸς ἧ παννυχίς), Ipparco, Alessi (Παννυχίς ἧ Ἔριθος) ed Eubulo147. Appare dunque plausibile che il frammento crateteo potesse alludere a un contesto festoso di questo tipo, forse in connessione con il gioco del cottabo. Che tra i premi per il vincitore del cottabo nelle feste notturne fossero inclusi, oltre a focaccette e dolciumi, anche i baci ci è confermato da Ateneo (Ath. 15.668d), che dopo parte dello stesso frammento callimacheo148, cita due frammenti di Eubulo (frr. 1 e 2), in particolare per i baci il fr. 2 (εἶεν, γυναῖκες· νῦν ὅπως τὴν νύχθ’ ὅλην | ἐν τῇ δεκάτῃ τοῦ παιδίου χορεύσετε. | θήσω δὲ νικητήριον τρεῖς ταινίας | καὶ μῆλα πέντε καὶ φιλήματ’ ἐννέα. “su donne! ora per tutta la notte danzerete nella festa dei dieci giorni del bimbo. Metto in palio per chi vincerà tre nastri, cinque mele e nove baci”)149. La situazione del frammento di Eubulo – sia o meno da porsi in connessione con il cottabo (secondo Bravo 1997, 116, il premio non sarebbe per il cottabo ma piuttosto per una sorta di gara di ballo tra pannychides) – appare confrontabile con quella del nostro frammento, in cui il soggetto 146
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Proprio per questo aspetto trasgressivo, la pannychis è citata da Dion. Antiq. Rom. 2.19.2 tra le pratiche religiose aberranti dei Greci. Sulla pannychis vd. Bravo 1997. Questo tipo di veglia notturna in onore di un dio si svolgeva in diverse occasioni, tra le quali ad esempio le Panatenee (vd. Pritchett 1986). In particolare per i drammi di Ferecrate ed Eubulo, ma anche per Alessi, è stata avanzata l’ipotesi che Pannychis sia da intendersi come nome proprio femminile, e specificamente come nome di un’etera. Vd. Geißler 1925, 52 n. 1 e Quaglia 2001a, 315 e Id. 2005; Hunter 1983, 175; Souto Delibes 2002, 173 e 178; Stama 2016, 339. Sulla pannychis in commedia cfr. anche Orth 2015, 157 a proposito di una possibile contestualizzazione di Philyll. fr. 5. Il codice Marciano di Ateneo presenta il nome Κάλλιππος, incluso tra i comici nell’edizione di Kock, ma i dubbi del Wilamowitz che si trattasse di una forma corrotta per Callimaco sono stati confermati dal papiro P.Berol. 13417 B, che restituisce una porzione più ampia del componimento callimacheo. Vd. D’Alessio 1996, 658–659. Vd. commento di Hunter 1983, 87–88 e Kassel-Austin in PCG V, p. 238.
Παιδιαί (fr. 27)
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che bacia è femminile. Un ulteriore confronto è da porsi con un frammento di Platone comico, fr. 46.5, παίζωμεν περὶ φιλημάτων, nuovamente in connessione col cottabo (nello stesso frammento pochi versi oltre, v. 9, è menzionato il κότυλον, per il quale vd. infra fr. 29 delle Paidiai di Cratete)150. Per i baci come premio vd. anche Soph. fr. 537 Radt, Plat. Rp. 5.468b e Xen. Symp. 5.9. Una possibile eco di scene simili nella commedia latina si può scorgere nel frammento della coquette attribuito alla Tarentilla di Nevio (fr. 2 Ribbeck = 74–79 Warmington) in cui si descrive il comportamento provocante di una ragazza tra più uomini “quasi pila in choro ludens” (vd. Perrone 2018). Un altro indizio di una possibile connessione con la pannychis si può forse scorgere nell’espressione ἀνδρικοῖς χοροῖσι, che potrebbe rimandare ai cori propri di questo festoso rituale, e tipicamente formati da fanciulle (cfr. Crizia fr. 1.11 D.-K.: παννυχίδας θ’ ἱερὰς θήλεις χοροὶ ἀμφιέπωσιν), ma è dubbio se ai cori femminili si affiancassero anche cori di ragazzi (vd. Bravo 1997, 111). Nel contesto della commedia occorre poi chiedersi se ἀνδρικοῖς χοροῖσι si riferisca (anche) ai coreuti (come riteneva Bergk 1838, 131, seguito da Edmonds e dalla Bonanno) e se il gioco del bacio fosse effettivamente mimato in scena. Se così fosse, da un punto di vista scenico, dovremmo pensare a un personaggio femminile interpretato da un attore che scende nell’orchestra tra i coreuti, oppure a un membro di un semicoro femminile che interagisce con un semicoro maschile. Una divisione in due semicori, maschile e femminile, presente com’è noto nella Lisistrata, è forse in atto proprio per il passo delle Rane in cui si fa riferimento alla pannychis, ma la questione è dibattuta151. Una serie di indizi, tutti per altro irrimediabilmente incerti (ammissibile divisione in semicori, probabile riferimento metateatrale al coro, ritmo trocaico, possibili movimenti di danza in stile pannychis) porterebbero alla ipotetica suggestione di una collocazione del frammento nel quadro di un epirrema o antepirrema. κυνητίνδα Il termine è un hapax, forse di invenzione comica. Si tratta di un avverbio formato con la radice di κῠνέω (“baciare”) più la terminazione –ίνδα, tipica delle denominazioni di giochi. Polluce ne elenca 14. Cfr. ad es. ὀστρακίνδα (Aristoph. Eq. 855), ἐφετίνδα (Cratin. fr. 456). ἀνδρικοῖς χοροῖσι È possibile che si riferisca ai coreuti, come presupponeva già Bergk 1838, 131; così anche Bonanno 1972, che richiama Xen. Hel. 6.4.16, e Beta 2009. La forma plenior χοροῖσι, attestata dal codice F, è considerata difficilior e dunque preferita dagli editori del frammento. Tale forma si trova con relativa frequenza nei testi della commedia antica, specie in versi del coro (ad. es. Aristoph. Av. 787, Ran. 366, Th. 975).
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Sul frammento vd. Pirrotta 2009, 126–130, sp. 129. Vd. in proposito Dover 1993, 66–68 (che la ritiene improbabile); Sommerstein 1996, 184; Newinger 1999, 205. Cfr. Zimmermann 1984–1987, I 135–136.
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ὥσπερ εἰκός per un uso analogo dell’espressione in versi lirici cfr. Aristoph. Th. 722–723, 974 (μέλψωμεν ὥσπερ εἰκός | ἣ πᾶσι τοῖς χοροῖσιν ἐμπαίζει…), 1144: in Mastromarco-Totato 2006 è tradotta «come è giusto»152. τοὺς καλοὺς Cfr. Aristoph. Ec. 625 (φεύξονται γὰρ τοὺς αἰσχίους, ἐπὶ τοὺς δὲ καλοὺς βαδιοῦνται “fuggiranno dai brutti, andranno dai belli”). fr. 28 (24 K. = 29 B.) τοῖς δὲ τραγῳδοῖς ἕτερος σεμνὸς πᾶσιν λόγος ἄλλος ὅδ’ ἔστιν πᾶσιν λόγος Porson : πᾶσι λόγος Σb, Phot., Sud. Bernhardy
δ’ ἔστιν Sud. (δὲ ὄν S) : ὅδ’ ἔσται
ma tutt’altra storia, da rappresentazioni tragiche, per tutti veneranda è questa qui Synag. B (Σb) α 920 Cunningham ἄλλο ἕτερον ἐκ παραλλήλου λέγουσιν. Μένανδρος Μέθῃ· „εἶτ’ οὐκ εἶχεν οὐ πῦρ, οὐ λίθον, οὐκ ἄλλο τι οὔθ’ ἕτερον”. Κρᾶτης Παιδιαῖς· „τοῖς δὲ τραγῳδοῖς ἕτερος σεμνὸς πᾶσιν λόγος ἄλλος ὅδ’ ἔστιν”. Phot. α 1010 Theodoridis ἄλλο ἕτερον· ἐκ παραλλήλου λέγουσιν. Μένανδρος Μέθῃ· „εἶτ’ οὐκ εἶχεν οὐ πῦρ, οὐ λίθον, οὐκ ἄλλ’ ὁτιοῦν ἕτερον”. Κράτης Παιδιαῖς· „τοῖς δὲ τραγῳδοῖς ἕτερος σεμνὸς πᾶσιν λόγος ἄλλος ὅδ’ ἔστιν”. {ἄλλος μάτην}. Suda α 1317 Adler ἄλλο ἕτερον· ἐκ παραλλήλου λέγουσιν. Μένανδρος Μέθῃ· „εἶτ’ οὐκ εἶχεν οὐ πῦρ οὐ λίθον οὐκ ἄλλ’ ὅτι οὔθ’ ἕτερον.” Κράτης Παιδιαῖς· „τοῖς δὲ τραγῳδοῖς ἕτερος σεμνὸς πᾶσι λόγος ἄλλος δ’ ἔστιν.” altro diverso: (li) dicono in coppia come sinonimi. Menandro nell’Ubriachezza: “e se non aveva né fuoco, né pietra, né nessun’altra diversa cosa di alcun genere” (fr. 227). Cratete nelle Paidiai: “ τοῖς — ἔστιν”.
Metro tetrametro anapestico catalettico
lkkll | kklll | llkkl kkll
Bibliografia Porson 1815, 200; Kock I (1880), 138 fr. 24; O’Connor 1908, 20; Whittaker 1935, 188; Goossens 1940, 157; Schmid 1946, 44, 92; Goossens 1952; Edmonds I (1957), 162–163; Bonanno 1972, 120–122 fr. 29; Kassel-Austin 1983, PCG IV 100; Pickard-Cambridge 19882, 128 (= trad. Blasina 1996, 180); Conti Bizzarro 1999, 113–117; Miles 2009, 42–44; Storey 2011, FOC I 224–225; Stama 2014, 271; Farmer 2016, 28 nota 49. 152
Beta 2009 traduce invece «a quanto pare».
Παιδιαί (fr. 28)
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Contesto della citazione Il frammento è tramandato da tre fonti lessicografiche, tra loro imparentate e pressocché coincidenti nel lemma in questione. Il verso di Cratete è citato insieme a un frammento di Menandro (fr. 227) per una questione stilistica, come esempio dell’accostamento pleonastico di ἕτερος e ἄλλος. Interpretazione Pur nei molti dubbi interpretativi sul frammento, sembra che esso annunci l’esposizione di un logos tragico e solenne, che si contrappone a un altro logos, verosimilmente comico. Siamo dunque di fronte a un contenuto metapoetico. Difficile però precisare come debba intendersi il logos in questione (cfr. Farmer 2016). Nè si può escludere la possibilità che il tono fosse ironico e che il logos venerando fosse in realtà una fanfaronata. Kock commentava “non sine aliqua invidia Crates tragicorum poetarum in scribendis fabulis condicionem multo faciliorem esse queritur”, immaginando dunque un confronto tra il mestiere dei tragediografi e quello dei commediografi. Questo tema si ritrova in particolare in un frammento della commedia Poiēsis di Antifane (fr. 189), su cui vd. Olson 2007, 172–173 (D6). Di synkrisis tra tragedia e commedia e rispettive difficoltà parla anche Schmidt. Goossens ritiene invece che λόγος non si debba intendere come “condicio” ma piuttosto come tradizione, versione (cfr. Eur. Hel. 137–141 e Paus. 9.20.4), e ipotizza che nella parabasi delle Paidiai potesse essere trattata l’origine di ciò che dà il nome alla commedia (analogamente a quanto avviene ad esempio nella parabasi degli Uccelli di Aristofane). In questo frammento si farebbe riferimento alle due versioni del mito in proposito note nel V secolo: quella che ascrive a Palamede il ruolo di εὑρετής dei giochi, logos trattato dai tragici (presumibilmente nei vari Palamede e/o nel Nauplios di Sofocle), e quella alternativa, raccontata in Hdt. 1.94, di una origine lidia dei giochi. Tale ipotesi ricostruttiva del Goossens è stata aspramente contestata dalla Bonanno e non trova in genere accoglimento. Anche Kassel e Austin chiosano «incerta profert Goossens». Il metro è solenne come il logos che si introduce. Il tetrametro anapestico catalettico è usato per lo più nelle parabasi o negli agoni, come verso recitativo o in parakataloghe (Korzeniewski 1968, 96; Martinelli 1995, 154–155). Edmonds attribuiva dubitanter il verso al coro. Già la Whittaker riteneva che il frammento appartenesse alla parabasi e più precisamente alla seconda parte, o parabasi vera e propria, spesso dedicata a un elogio del commediografo e slegata rispetto alla trama («fr. 24, an anapaestic tetrameter complaining of the ease of writing Tragedy, probably comes from a literary ἁπλοῦν in which Crates painted the difficulties of the comic poets as opposed to the tragic»). Per quanto l’assegnazione alla parabasi non possa che rimanere incerta (come avverte Bonanno, citando Schmid 1946, 44; cfr. anche Imperio 2002, 14 n. 30), mi pare che contenuto e metro rendano l’ipotesi verosimile. Un possibile riecheggiamento dell’espressione σεμνὸς λόγος in Aristoph. Ve. 1174, quando Bdelicleone chiede al padre se sarebbe in grado di fare “discorsi seri” con persone colte e in tutta risposta Filocleone propone come esempio la Lamia pedens, verosimilmente con allusione alla commedia di Cratete (cfr. fr. 20).
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Crates
τραγῳδοῖς le interpretazioni di Kock, Goossens, Bonanno, Storey presuppongono che nel passo crateteo il termine sia da intendere come “poeta tragico”. Questo frammento sarebbe la prima attestazione di tale rara accezione (così GI, maggiore cautela in LSJ), attestata con sicurezza solo in testi più tardi (Vita Aeschyli p. 123 Westermann e Sch. Aristoph. Ran. 86c; probabile in Aristot. Poet. 1458b 31–32; Plut. Util. 88d). Resta irrimediabilmente dubbia l’attribuzione di tale significato in Aristoph. Ve. 1480, 1498, 1505 (sostenuta ad es. da O’Connor 1908, 19–21), e nei frammenti Diph. 29.4 e Timocl. 6.8. Un esame delle attestazioni epigrafiche (a partire dal IV sec.) e della letteratura classica porta a un significato al plurale di “compagnia tragica” o “rappresentazioni tragiche” e al singolare di “membro della compagnia tragica”, senza una precisa distinzione dei ruoli: nella maggior parte dei casi sembra che con il termine ci si riferisca a coreuti o attori tragici, anche se non si può escludere che il membro della compagnia tragica cui si vuole alludere possa essere in alcuni casi anche il poeta153. Nell’incertezza del contesto mi pare che la prudenza suggerisca una traduzione più generica per il frammento crateteo. In questo punto mi sembra dunque valida la traduzione dell’Edmonds “but this is another tale, fine and fresh and grand, for the tragic stage”. ἕτερος … ἄλλος L’uso pleonastico dei due aggettivi è il motivo della citazione nelle fonti lessicografiche (cfr. anche Eustath. in Od. vol. I p. 268 Stallbaum: περὶ τοῦ ἕτερος καὶ ἄλλος … ἀδιαφόρως Ἀττικοὶ χρῶνται ἀμφοῖν. ὥστε καὶ ἐκ παραλλήλου λέγουσιν ἀμφότερα)154. Cfr. anche Aristoph. fr. 347.4 ἄλλα τε τοῐαῦθ’ ἕτερα μυρί’ ἐκιχλίζετο (vd. supra test. 6b). σεμνὸς Per l’uso di σεμνός in riferimento alla tragedia Kassel e Austin chiamano a confronto Plat. Gorg. 502b (ἡ σεμνὴ αὕτη καὶ θαυμαστή, ἡ τῆς τραγῳδίας ποίησις) e Aristoph. Ran. 1004s. (ἀλλ᾽ ὦ πρῶτος τῶν Ἑλλήνων πυργώσας ῥήματα σεμνὰ | καὶ κοσμήσας τραγικὸν λῆρον, θαρρῶν τὸν κρουνὸν ἀφίει), 1496 (τὸ δ᾽ ἐπὶ σεμνοῖσιν λόγοισι). L’aggettivo è talvolta usato in senso ironico nel significato di “pomposo” o “altezzoso”, vd. ad es. Aristoph. Pl. 275. Per questo significato negativo, spesso in relazione con la figura dell’ἀλαζών cfr. Imperio 1998, 226–228 e Bagordo 2014a, 173 a proposito di Call. fr. 15 e Belardinelli 1998, 274 a proposito di Diod. fr. 2.2. Gli esempi di uso negativo di σεμνός portano Miles 2009 a intendere il tono del frammento come “cynical” e volto a parodiare lo stile elevato della tragedia. πᾶσιν il dativo viene in genere concordato con τραγῳδοῖς, così ad es. Bonanno, che traduce “però per i tragedi tutti c’è un altro diverso, austero racconto: eccolo” e Storey “this is a different sort of story, a serious one, for all the tragic 153
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Per una dettagliata disamina vd. O’Connor 1908, 5–27. O’Connor sostiene l’accezione “poeta” nei passi delle Vespe e nei frammenti comici citati, tra cui quello di Cratete. Maggior prudenza in Pickard-Cambridge 19882, 128–129 = 1996, 179ss. Per i significati del termine τρᾰγῳδός cfr. anche Stama 2014, 271 a proposito della commedia di Frinico intitolata Tragōdoi ē Apeleutheroi. Vd. Radicke 1995, 146–147.
Παιδιαί (fr. 29)
153
poets”. Non mi pare si possa però escludere del tutto che πᾶσιν sia retto da σεμνός: questa seconda possibilità era prospettata da Goossens («ou encore, car il faut peut-être séparer πᾶσιν de τραγῳδοῖς, elle est respectée de tout le monde»). Cfr. Hp. Med. 1.9 τοιοῦτον δ’ ὄντα πᾶσι καὶ σεμνὸν καὶ φιλάνθρωπον; Lycurg. In Leocr. 75 πᾶσιν ἀνθρώποις σεμνοὶ; Iul. Them. 4.30 (257c) ταπεινοὶ δὲ ἀντὶ γενναίων καὶ σφόδρα εὐτελεῖς ἀντὶ τῶν πρόσθεν σεμνῶν ἅπασιν ὤφθησαν. ὅδ’ il pronome deittico è di norma utilizzato per indicare una cosa che sarà detta subito dopo ed è frequente nei prologhi o in riferimento a personaggi che entrano in scena. In questo caso annuncerebbe l’esposizione di un diverso e più solenne logos. λόγος tra i tanti significati di logos, si consideri in particolare quello di argumentum di un’opera letteraria, vd. Aristot. Poet. 1455b 17 τῆς γὰρ Ὀδυσσείας οὐ μακρὸς ὁ λόγος ἐστίν «il racconto dell’Odissea non è ampio»). In relazione specificamente all’esposizione dell’argomento di una commedia cfr. Aristoph. Ve. 54 e Pax 50. Vd. inoltre Pax 148, Cratin. frr. 151 e 323, Com.adesp. fr. 51.
fr. 29 (25 K. = 30 B.) Ath. XI 478f Διόδωρος δὲ τὸν παρά τισι κότυλον κοτύλην ὠνομακέναι τὸν ποιητήν (ο 312) ‘πύρνον καὶ κοτύλην.’ ὃ κύλικα μὲν οὐκ εἶναι, οὐ γὰρ ἔχειν ὦτα, παραπλήσιον δ’ ὑπάρχειν λουτηρίῳ βαθεῖ, ποτηρίου δὲ εἶδος εἶναι. δύνασθαι δὲ καὶ τὸν παρὰ τοῖς Αἰτωλοῖς καί τισι τῶν Ἰώνων λεγόμενον κότυλον, ὃν ὅμοιον ὄντα τῷ προειρημένῳ ἓν οὖς ἔχειν. μνημονεύει δ’ αὐτοῦ Κράτης ἐν Παιδιαῖς καὶ Ἕρμιππος ἐν Θεοῖς. Diodoro dice che il Poeta ha chiamato kotylē quello che alcuni chiamano kotylos “un pezzo di pane e una coppa” (Od. 15.312). Dice che non è una kylix, non ha infatti anse, ma è simile a un loutērios fondo, ed è un tipo di coppa per bere. Può anche indicare quello che presso gli Etoli e gli Ioni è chiamato kotylos, il quale, simile alla coppa suddetta, ha una sola ansa. Ne fa menzione Cratete nelle Paidiai ed Ermippo nei Theoi.
Bibliografia Meineke, 243; Kock I (1880), 138 fr. 25; Edmonds I (1957), 162–163; Bonanno 1972, 122 fr. 30; Kassel-Austin 1983, PCG IV 100; Storey 2011, FOC I 225. Contesto della citazione Nell’ampia rassegna di bicchieri e vasi potori dell’XI libro dei Deipnosophisti Ateneo annovera il κότυλος e la κοτύλη, di cui tratta in due specifici paragrafi (rispettivamente par. 56 e par. 57). Nel paragrafo sul κότυλος, definito come coppa a un’ansa, viene citato Alceo (verosimilmente il comico, fr. 39, oppure il lirico, fr. 417 L.-P. e V.)155, Diodoro
155
Orth 2013, 154, al quale rimando per una sintesi delle posizioni in merito, propende per l’assegnazione al lirico.
154
Crates
aristofaneo nello scritto contro Licofrone (Gloss. Ital. 128 K.-A.; cfr. Lyc. fr. 76 Str.), Ione di Chio (fr. 61 Leurini) e poi Ermippo fr. 29, Platone comico fr. 48, Aristofane fr. 68, Eubulo fr. 71, cui seguono Panfilo (fr. 17 Schmidt) e Polemone (fr. 88 Preller). Nel successivo paragrafo sulla κοτύλη viene citato innanzitutto Aristofane fr. 364 (su vecchie ubriacone, che bevevano vino rosso puro da κοτύλαι d’argilla), Omero (Il. 23.34 e Od. 15.312), e fonti erudite assai contraddittorie sull’esatta forma di questa coppa e sulla differenza rispetto al κότυλος. Secondo Sileno, Clitarco e Zenodoto questo tipo di coppa è da identificare con la kylix (cfr. anche proverbio πολλὰ μεταξὺ πέλει κοτύλης καὶ χείλεος ἄκρου “ce ne corre tra la coppa e l’estremità del labbro”, che nelle fonti paremiografiche è citato con kylix anziché con kotylē). Secondo Simaristo si tratta di una coppa piccola. Secondo Diodoro Aristofaneo invece è un termine usato in Od. 15.312 per indicare la coppa che altri chiamano κότυλος (tra gli Etoli e in ambienti ionici), una sorta di loutērion profondo che si differenzia dalla kylix perché a una sola ansa. A questo punto è presente la notizia che questo genere di coppa era ricordato (μνημονεύει δ’ αὐτοῦ) nelle Paidiai di Cratete e nei Theoi di Ermippo (cfr. citazione del fr. 29 al paragrafo precedente su κότυλος), ma non è chiaro se Ateneo stia ancora riportando l’opinione di Diodoro, né se αὐτοῦ sia da intendere specificamente come la forma maschile κοτύλου o più genericamente nel senso “di questo tipo di ποτήριον” (nel frammento di Diodoro, che presuppone l’uguaglianza κοτύλη = κότυλος, è utilizzato sempre il maschile). Il fatto che gli stessi Dei di Ermippo (ma non Cratete) siano menzionati anche nel paragrafo dedicato al κότυλος, lì con una citazione esplicita del passo τόν τε κότυλον πρῶτον ἤνεγκ’ ἐνέχυρον τῶν γειτόνων, indirizzerebbe verso la prima interpretazione, dato che verosimilmente il passo cui si allude qui è il medesimo, ma di fatto non sappiamo con sicurezza se nel passo di Cratete sia da presupporre una forma κοτύλη (come in Aristoph. fr. 364), di cui in questo paragrafo Ateneo sta trattando, oppure una forma κότυλος (come nel frammento di Ermippo). Dopo il riferimento alle due commedie, la trattazione di Ateneo su κοτύλη prosegue con riferimento alla misura di capacità così denominata (grosso modo un quartino di litro), a Aristoph. fr. 481 (su un dispensiere di farina disonesto) e ad altre fonti tra cui un passo di Apollodoro (FGrHist 244 F 254), il quale riferisce tra i vari usi del termine anche l’espressione ἐν κοτύλῃ per indicare un gioco tra ragazzi in cui i vinti uniscono le mani “a coppa” dietro la schiena per reggere le ginocchia dei vincitori, che vengono trasportati sul dorso (καὶ ἐν κοτύλῃ δέ τις παιδιὰ καλεῖται, ἐν ᾗ κοιλάναντες τὰς χεῖρας δέχονται τὰ γόνατα τῶν νενικηκότων οἱ νενικημένοι καὶ βαστάζουσιν αὐτούς). È chiaro dalla trattazione di Ateneo che la forma esatta di questo tipo di coppa156 così come l’identificazione di κότυλος e κοτύλη erano oggetto di discussione tra gli eruditi antichi. Nell’epitome il riferimento a Cratete ed a Ermippo risulta omesso. 156
E. Pottier, s. v. cotyla in DAGR, I.2 p. 1550.
Παιδιαί (fr. 29)
155
Interpretazione Questo tipo di coppa di forma assai discussa era usato per bere vino, per attingerlo, ma anche per libagioni in connessione col culto dionisiaco. È attestato in diversi frammenti comici, citati da Ateneo. Si è detto che, nonostante Cratete sia menzionato nella sezione dedicata alla κοτύλη e non in quella precedente sul κότυλος, non sappiamo se la forma utilizzata nella commedia di Cratete fosse quella maschile (come presuppongono ad es. Meineke, Edmonds, Bonanno; cfr. Alc. fr. 39 dub.157, Plat. fr. 46.9158 e fr. 48; Aristoph. fr. 68.2; Eub. fr. 71159) o quella femminile. La forma femminile è attestata nel frammento aristofaneo restituito dallo stesso Ateneo (fr. 364) e in relazione alla misurazione del vino ad es. in Aristoph. Pl. 436 e 737. La concisione del riferimento a Cratete in Ateneo non consente di trarre informazioni sul contesto comico in cui veniva ricordata questa coppa. È plausibile che fosse ricordata semplicemente in relazione al tema del vino e del banchetto (e del cottabo?). Tuttavia, dato il titolo della commedia a cui il frammento è attribuito, non mi pare sia da escludere del tutto la possibilità che potesse esserci un qualche riferimento al gioco denominato appunto ἐν κοτύλῃ. Oltre alla testimonianza di Apollodoro riportata da Ateneo, del gioco ἐν κοτύλῃ (a volte scritto ἐγκοτύλη) troviamo ampia testimonianza anche in altre fonti, tra le quali Suet. Paed. 14 (Παιδιά τις παίζεται καλουμένη ἐν κοτύλῃ. Προάγεται δὲ οὕτως· περιαγαγών τις ὀπίσω τὼ χεῖρε συμπλέκει τοὺς δακτύλους. Ἕτερος δέ τις εἰς τὰ κοιλώματα τῶν χειρῶν, ἅπερ εἰσὶ κοτύλαι, τὰ γόνατα ἐνθεὶς καὶ οὕτως ἀναλαβὼν ἑαυτὸν φέρεται ἔποχος, ἐπιλαβὼν τοὺς ὀφθαλμοὺς τοῦ φέροντος. Εἶτα ἐν μέρει ὁ τέως φερόμενος κατελθὼν φέρει τὸν ἕτερον. Καὶ ἦν αὕτη παιδιὰ ἐν κοτύλῃ). Cfr. inoltre Paus. attic. ε 6 Erbse s. v. ἐγ κοτύλῃ (cfr. Eustath. ad Il. vol. IV p. 665); Poll. 9.119 e 122; Zenob. 3.60; Hsch. ε 3167 s. v. ἐν κοτύλῃ φέρειν (cfr. α 558 s. v. ἀγκοτύλῃ); Phot. ε 976 s. v. ἐν κοτύλῃ; Sch. Il. 23.34CI vol. V pp. 372–373 Erbse160. Si tratta dunque di un gioco “a cavalluccio”, simile a quello detto ἐφεδρισμός o alla κυβησίνδα, che si svolgeva spesso a conclusione di altri giochi come penitenza nella quale il vinto doveva trasportare il vincitore. Rispetto ad altri giochi analoghi ἐν κοτύλῃ sembra caratterizzato dal fatto che il vincitore, portato a dorso, si teneva con le braccia al collo del trasportatore e gli copriva con le mani gli occhi. I giochi a cavalluccio potevano ben prestarsi a una mimesi comica e conosciamo una commedia dal titolo Ἐφεδρίζοντες di Filemone. Questa possibile connessione con uno specifico gioco sembra essere stata finora trascurata dagli editori e commentatori di Cratete, ma del resto rimane inevitabilmente ipotetica.
157 158 159 160
Vd. Orth 2013, 154–155. Vd. Pirrotta 2009, 129–130. Vd. Hunter 1983, 161. Su questo gioco cfr. Becq de Fouquières 1869, 126–129 e Carbone 2005, 429. Per le possibili rappresentazioni iconografiche vd. Panofka 1832.
156
Πεδῆται (Pedētai) (“Prigionieri”)
Bibliografia Bonanno 1972, 19–20; Kassel-Austin 1983, PCG IV, 100; Storey 2011, FOC I, 203. Titolo L’unica attestazione di questa commedia è nell’elenco delle opere di Cratete testimoniato dalla Suda (cfr. supra test. 1), ma già Meineke sospettava dell’esattezza della notizia, anche sulla base del fatto che è nota una commedia omonima di Callia (frr. 14–23; vd. Bagordo 2014a, 167–168). Sulla scorta di Meineke anche gli editori successivi hanno escluso Pedētai dal novero delle commedie cratetee (Bonanno 1972, Kassel-Austin 1983, Storey 2011; cfr. anche Körte 1922 e Schmid 1946, 91) e considerano la menzione nella Suda come un errore per Paidiai (vd. infra). Pedētai indica gli uomini incatenati, i prigionieri.
157
Ῥήτορες (Rhētores) (“Oratori”)
Bibliografia Volkmann 1861, 40; Kock I (1880), 138; van Herwerden 1903, 12– 13; Schmid 1946, 91–92; Mensching, 1964, 29s.; Bonanno 1972, 33–35, 122–123; Kassel-Austin 1983, PCG IV 101; Storey 2011, FOC I 224–225. Titolo Il titolo Rhētores, non presente nell’elenco di titoli attribuiti al commediografo Cratete nella voce Suda, ha un’unica attestazione nei Deipnosofisti di Ateneo, fonte del fr. 30. Molti studiosi hanno quindi messo in dubbio l’esistenza di quest’opera, e hanno ritenuto il titolo frutto di un errore nella tradizione testuale di Ateneo, da ricondurre ai meglio attestati Hērōes (come propose Volkmann, cfr. Kock) oppure Geitones (così Bonanno161). Anche Storey afferma «the easiest solution is to regard this title as a garbled form of either Neighbours (Retorsin ~ Geitosin) or Hērōes (Retorsin ~ Erosin)» (vd. infra ad fr. 30). Ma il generale sospetto contro i titoli non testimoniati da Suda, sia pure con attestazioni isolate, non mi pare del tutto fondato. Il titolo al plurale, come la maggior parte dei titoli cratetei, potrebbe indicare anche in questo caso la composizione del coro. Una commedia dal titolo Ῥήτωρ, al singolare, fu forse scritta da Nicostrato (fr. 24). Argomento Con il termine ῥήτορες di norma ci si riferisce in epoca classica a coloro che prendono la parola in assemblea, e quindi in generale agli oratori e più specificamente ai leader politici (vd. ad es. Aristoph. Ach. 38, Th. 292ss., Ec. 244, fr. 205.5), mentre solo più tardi il termine assumerà il significato di “retori”. L’abilità retorica ha un ruolo nodale all’interno di un sistema deliberativo assembleare come quello ateniese, e non di rado di tale abilità gli oratori facevano un uso anche spregiudicato al fine di persuadere l’ecclesia162. Per una possibile testimonianza di un riferimento in Cratete ad atteggiamenti eccentrici degli oratori vd. supra ad test. 12. Se il titolo lascia immaginare un possibile argomento politico – tema tradizionalmente considerato estraneo alla poetica cratetea163 –, nulla può positivamente affermarsi sul reale contenuto della commedia, di cui ci resta un solo frammento, di neppure un verso intero. Datazione Anche in questo caso non abbiamo alcun indizio utile per la datazione dell’opera. 161
162 163
Non del tutto persuasiva l’argomentazione della Bonanno 1972, 123, secondo la quale è paleograficamente più verosimile un errore ΡΗΤΟΡΣΙΝ per ΓΕΊΤΟΣΙΝ piuttosto che per ΗΡΩΣΙΝ. La Bonanno chiama a confronto il “significativo” ΕΝΑΓΓΕΙΤΟΡΣΙ del codice A di Polluce 7.204 = fr. 9 di Cratete. In proposito vd. Hansen 1991 (2003), 444ss. e cfr. Pellegrino 2010, 212–213. Vedi ad es. Storey 2014, 108 e cfr. supra.
158
Crates
fr. 30 K.-A. (26 K. = 31 B.) Κηφισιακαῖσι γογγυλίσιν ὅμοια πάνυ Κηφησ- cod. A
πάνυ Ath. : πνεῖ Wilamowitz apud ed. Kaibel, II p. 306
proprio uguali a rape di Cefisia Ath. IX 369c Κηφισιακῶν (Κηφησιακῶν cod. A) δὲ γογγυλίδων μνημονεύει Κράτης ἐν Ῥήτορσιν (ἐν Ἥρωσιν Volkmann et Kock : ἐν Γείτοσιν Bonanno) οὕτως (Musuro : οὕτως ὡς cod. A : οὕτως πως Meineke)· “κηφισιακαῖσι —πάνυ”. delle rape di Cefisia fa menzione Cratete negli Oratori, così: “κηφισιακαῖσι —πάνυ”.
Metro incerto (forse parte iniziale di un tetrametro giambico?)
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Bibliografia Volkmann 1861, 40; Meineke II (1839), 243; Kock I (1880), 138 fr. 26; Blaydes 1896, 17; Edmonds I (1957), 164–165; Bonanno 1972, 122–123 fr. 31; Kassel-Austin 1983, PCG IV 101; Storey 2011, FOC I 224–225. Contesto della citazione I Deipnosofisti di Ateneo sono la nostra unica fonte dell’esistenza di una commedia intitolata Ῥήτορες di Cratete, tanto che è stata messa in dubbio la lezione del codice Marciano (vd. supra). Nell’epitome la citazione risulta caduta nel processo di compendio. La citazione di Cratete si trova nel contesto di una trattazione sulle γογγυλίδες, le rape, alle quali nel quadro della sezione sulle verdure nel nono libro (parr. 7–14) è dedicato il paragrafo 8. Ateneo, dopo aver riportato glosse e dossografia sull’identificazione di rape, ravanelli e altri ortaggi simili, fa riferimento a Cratete dopo una citazione dalle Georgiche di Nicandro (fr. 70.1–5 Gow-Scholfield), e prima di citazioni da altre fonti botaniche (Thphr. HP. 7.4.3), storiche (Posid. fr. 174 Theiler) e mediche (Diph. fr. 18 Garcia Lazaro). Seguono citazioni da Eubulo (fr. 3) e Alessi (fr. 92) relativamente alle rape arrostite, più facili da digerire e particolarmente efficaci come dimagrante. Interpretazione Già Kassel e Austin richiamavano l’attenzione sulla possibilità che la comparazione con le γογγυλίδες fosse accostabile a quella del frammento incertae sedis 43 (“an similis comparatio atque fr. 43?”), dove si paragonano i seni a mele e corbezzoli: πάνυ γάρ ἐστιν ὡρικὰ τὰ τιτθί’ ὥσπερ μῆλα καὶ μιμαίκυλα (vd. infra ad loc.). Un confronto tra seno e rapa (γογγύλη) è attestato nelle Thesmophoriazusai di Aristofane, dove al v. 1185 il barbaro arciere afferma οἴμ᾽ ὠς στέριπο τὸ τιττἴ, ὤσπερ γογγύλη. Mi sembra quindi plausibile che a essere simili alle rape di Cefisia fossero anche qui τὰ τιτθία. La rapa, rotonda, a pasta soda e bianca, ben si prestava a rappresentare comicamente le caratteristiche ideali del seno (vd. Gerber 1978).
Ῥήτορες (fr. 30)
159
Sia nel fr. 30 sia nel fr. 43 è presente πάνυ, un avverbio piuttosto frequente nei dialoghi comici, e il metro sembra essere giambico. Si potrebbe immaginare che i due frammenti provengano da uno stesso dialogo incentrato sull’argomento erotico/gastronomico delle similitudini tra seni e vari prodotti ortofrutticoli, ma non abbiamo elementi sufficienti per uscire dal campo delle mere ipotesi. Κηφισιακαῖσι L’aggettivo è attestato solo in questo passo di Ateneo. Κηφισία, era un demo dell’Attica, a circa 14,5 km da Atene, alle pendici occidentali del Monte Pentelico, noto per le fonti e i boschi (cfr. Strab. 9.1.20; vd. Traill 1975, 38 e passim; H. Lohmann, s. v. Cephisia, in Brill’s New Pauly). Non è dato sapere se Κηφισία fosse effettivamente luogo di origine di rape particolari o rinomate (Poll. 6.63 fa riferimento a γογγύλαι ἐκ Μαντινείας), oppure se il riferimento a questo demo potesse nascondere qui un’allusione a qualche specifico personaggio o a qualche specifica vicenda. γογγυλίσιν γογγυλίς è la radice di forma tondeggiante a pasta bianca della Brassica Rapa, di cui parla Teofrasto (HP. 7.4.3). La rapa era un alimento comune nella dieta greca (García Soler 2001, 45–46, Dalby 2003, 337) e si trova più volte menzionata in elenchi comici di cibarie (vd. Pellegrino 2000, 189–190). Oltre che nel passo delle Thesmophoriazusai sopra citato e nei passi riportati da Ateneo in questo stesso paragrafo, si trovano menzioni delle rape ad es. in Aristoph. fr. 581.6 e in Eubul. fr. 74.3, dove le γογγυλίδες sono citate insieme ad altri frutti come simbolo dell’abbondanza di prodotti disponibili ad Atene. Cfr. inoltre Call. fr. 26164, Antiph. fr. 273.2, Alexis fr. 167.12, Euphr. fr. 10.6. πάνυ In fine verso spesso in Aristofane (e. g. Nub. 484–485, Ran. 137). Sulle posizioni di πάνυ in commedia vd. Dover 1985, 332–335, che cita questo frammento tra gli esempi frequenti in commedia di πάνυ a seguire la parola rafforzata (p. 333).
164
Su cui vd. Bagordo 2014, 198.
160
Σάμιοι (Samioi) (“Sami”)
Bibliografia Geißler 1925, 18 n. 2; Edmonds I (1957), 165; Bonanno 1972, 29–30 n. 1; Kassel-Austin 1983, PCG IV 101; Storey 2011, FOC I 225–227. Titolo Il titolo è incluso nell’elenco della voce su Cratete in Suda (test. 1) ed è citato da Ateneo e da fonti lessicografiche, paremiografiche ed erudite. Non conosciamo altre commedie intitolate Samioi. Samia, al femminile singolare, è un titolo di Anassandride e di Menandro. Titoli formati con un aggettivo etnico al plurale sono piuttosto comuni nella commedia antica, spesso con nomi di popolazioni esotiche (es. Lydoi di Magnete; Persai ē Assyrioi di Chionide; Persai di Ferecrate; Babylōnioi di Aristofane) ma anche con riferimenti agli abitanti di altre poleis greche, come Lakōnes di Cratino, Eupoli e Platone comico. L’isola di Samo (IACP #864) era nota come luogo di nascita di Pitagora, e luogo di tradizione filosofica, scientifica e letteraria, in cui operarono poeti come Ibico e Anacreonte presso la corte di Policrate. Vd. Cavallini 2004. A livello economico e politico l’isola ha notevole importanza strategica nel contesto ionico. Nel V secolo è uno dei più importanti membri della Lega delio-attica. È una delle poche a contribuire con navi e secondo Plut. Arist. 25.3 il trasferimento del tesoro della symmachia da Delo ad Atene nel 454 sarebbe avvenuto su suggerimento dei Sami, anche se la notizia è giudicata storicamente poco attendibile (cfr. Biondi 2016, 42 e n. 3). Fu alleata di Atene almeno fino al 441, quando l’ingerenza di Atene nella disputa con Mileto per il controllo sul territorio di Priene fu il motivo scatenante di una rivolta (440/439). Vd. Shipley 1987, 103–112. Sui rapporti tra Atene e Samo vd. anche Quinn 1981, 10–23 e Gallo 2005. Per sedare questa ribellione contro la sua egemonia, Atene dovette dispiegare ingenti risorse e riuscì vincitrice solo dopo un assedio durato nove mesi condotto da Pericle e due grandi battaglie navali, una delle quali sotto la guida di Formio. Dietro l’improvviso deterioramento dei rapporti tra Samo ed Atene alcuni hanno ricercato eventuali episodi di attrito prima del 440, tra i quali un possibile mancato rispetto del decreto ateniese sulla moneta da parte di Samo, che aveva continuato le emissioni della propria moneta d’argento (vd. Barron 1966, 86ss., contra Figueira 1998, 166; sul controverso decreto vd. infra ad fr. 32), e alcune misure coercitive messe in atto da Atene, tra cui l’imposizione di tributi su territori controllati da Samo e la confisca di terreni appartenti a oligarchi antiateniesi a Samo (una sintesi in Quinn 1981, 10ss. e Gallo 2005). Dopo la repressione della rivolta ai Sami sconfitti fu imposto, oltre alla restituzione degli ostaggi, la distruzione delle mura e la rinuncia alla flotta, anche il pagamento di un ingente indenizzo delle spese sostenute dagli Ateniesi per la guerra, corrisposto dai Sami a rate fino al 414/413. La ribellione di un alleato chiave come Samo fu un evento particolarmente rilevante, perché rappresentò una seria minaccia per l’egemonia ateniese in seno alla Lega e determinò una svolta nella politica estera e militare di Pericle. Riferimenti ai fatti di Samo si ritrovano in almeno due commedie ancora alla fine degli anni venti:
Σάμιοι
161
Aristoph. Ve. 281–284 (vd. Sch. ad loc. e cfr. MacDowell 1971, 172, Biles-Olson 2015, 187) e Eup. fr. 156 dai Kolakes (Napolitano 2012, 67 e n. 139 e Olson 2016, 41–43). Anche Aristoph. fr. 71 dai Babylōnioi (Dionisie 426) Σαμίων ὁ δῆμος ὡς πολυγράμματος è interpretato in riferimento alla stigmatizzazione dei prigionieri Sami da parte degli Ateniesi (cfr. infra fr. 33), con un possibile ulteriore gioco in riferimento alla tradizione di erudizione dell’isola e all’invenzione dell’alfabeto di 24 lettere (vd. Imperio 1991, Bühler 1999, V 544–546, Pellegrino 2015, 72, Orth 2017, 433–445). Per gli skōmmata contro i Sami, spesso associati con il lusso ionico vd. Göbel 1915, 91–93. Argomento I cinque frammenti conservati non consentono una ricostruzione dei contenuti della commedia. Dal titolo deduciamo che il coro doveva rappresentare i Sami. Il possibile legame con la guerra samia è stato in genere negato sulla base della supposta apoliticità di Cratete (vd. supra Introduzione e infra Datazione), ma nei decenni in cui fu attivo Cratete è difficile pensare che una commedia così intitolata non avesse nulla a che fare con i rapporti politici tra Atene e l’importante alleato della lega delio-attica o che per lo meno il pubblico ateniese di quell’epoca non associasse il titolo Sami a tali questioni165. Nel quadro della rivolta samia, o della memoria storica di quei cruciali eventi, bene si inquadrerebbero i riferimenti a ingenti quantita di denaro (fr. 31) e le possibili allusioni alle monetazioni autonome (fr. 32) e alla stigmatizzazione dei prigionieri (fr. 33). Datazione Già Geißler 1925, notava che il titolo si presta a pensare al tempo della guerra samia (440/39), ma negava questo collegamento in base a due argomenti: 1) a quel tempo era valido il decreto di Morichide; 2) l’elemento politico sarebbe in generale estraneo alla commedia di Cratete («und überhaupt scheint Krates der politischen Richtung abhold gewesen zu sein»). In linea con Geißler, Bonanno giudica “gratuita” anche questa tra le possibili datazioni presentate da Edmonds (Bonanno 1972, 29–30 n. 1). Il secondo argomento di Geißler è ripetuto anche da Storey: «Is there any connections between a play called “Samians” by a poet of the 430s and the critical revolt of Samos (440/39) from the Athenian arche? But since Crates seems to have been an apolitical and non-topical comic poet, we might ask what other aspects of Samians might have been useful for comedy» (Storey 2011, I 225–227). Entrambe le obiezioni di Geißler non risultano valide per escludere un possibile riferimento a quegli eventi. Sui contenuti e l’applicazione del decreto di Morichide non sappiamo quasi nulla, e comunque il decreto fu in vigore per un periodo limitato, proprio in corrispondenza della guerra samia (440–439) e già nel 437/436 era stato abolito166. Quanto alla presunta apoliticità di Cratete, questa 165 166
Sulla divulgazione dei titoli prima delle rappresentazioni e sui possibili usi da parte dei drammaturghi per creare aspettative nel pubblico vd. Sommerstein 2002. Cfr. Sch. Aristoph. Ach. 67 τὸ ψήφισμα τὸ περὶ τοῦ μὴ κωμῳδεῖν γραφὲν ἐπὶ Μορυχίδου. Vd. Ammendola 2001, 91–93, Cuniberti 2012, 22–25.
162
Crates
idea pregiudiziale ha a lungo impedito di cogliere possibili riferimenti al contesto ateniese nei suoi frammenti (vd. supra Introduzione). Non abbiamo elementi per determinare se la commedia Samioi di Cratete sia stata rappresentata nelle fasi antecendenti, durante o dopo la rivolta samia, anche diversi anni dopo (cfr. supra per i riferimenti a questa vicenda in commedie degli anni 420) ma l’ipotesi di un collegamento resta del tutto verosimile.
fr. 31 K.-A. (28 K. = 23 B.) ἥξει δὲ ταχέως ἀργυρίου χλῆδον λαβών χληδῶν cod.167 verrà rapidamente dopo aver preso un mucchio di soldi Synag. (Σb: B) χ 158 Cunningham χλῆδος· ὃν οἱ πολλοὶ χλὰς λέγουσιν. καὶ παρὰ Δημοσθένει ἐν τῷ Πρὸς Καλλικλέα (55.22, al.). †Κρήτης (Κράτης Bernahrdy) ταμίοις† (Σαμίοις Jacoby ap. Meineke) · ‘ἥξει — λαβών’· οἷον πλῆθος καὶ σωρόν. chlēdos: che molti dicono chlas. Anche in Demostene nella Pros Kalliklea. †Cratete nei Samioi† ‘ἥξει — λαβών’: come plēthos (ammasso) e sōros (mucchio).
Metro trimetro giambico
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Bibliografia Meineke V (1857), p. XLIX Sam. fr. IV; Kock I (1880), 139 fr. 28; Edmonds I (1957), 164–165; Bonanno 1972, 109–110 fr. 23; Kassel-Austin 1983, PCG IV 101; Storey 2011, FOC I 226–227. Contesto della citazione Le fonti lessicografiche trattano del genere e del significato del termine chlēdos (Harp. χ 8 Keaney, Lex.Cyrill. Z; Et.Gud. χ 567, 43 Sturz; cfr. anche Sud. χ 342 Adler) con riferimenti a Demostene (55.22), Eschilo (fr. 16 Radt) e Cratete. La menzione del commediografo Cratete di conserva solo nella versio antiqua della Synagōgē, nel secondo dei due lemmi dedicati a chlēdos (χ 157–158 Cunningham). Il codice reca Κρήτης ταμίοις. La correzione Κράτης risale a Bernhardy 1853, II.2 p. 1642, che sulla base dell’erronea lettura ταμίας del codice della Synagōgē nell’edizione di Bachmann (in luogo di ταμίοις) proponeva come titolo Τόλμαις. Kaibel e Bonanno ipotizzano invece Λαμίαι. La correzione più economica, considerato il ταμίοις effettivamente presente nel codice sembra quella avanzata in Meineke 1857 (“quidni Σαμίοις?”). 167
Nel codice Coinslinianus 345 (f. 148r) l’accento è χληδῶν come riportato nell’edizione di Bachmann e non χλήδων come in Cunningham.
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Interpretazione La persona loquens fa riferimento al prossimo arrivo di qualcuno che si sarà impossessato di una grande quantità di denaro. Per il tema del denaro in Cratete cfr. supra Introduzione e vd. fr. 32. ἥξει oltre che come indicativo futuro attivo terza persona singolare, potrebbe intendersi come medio seconda persona singolare, ma l’uso di ἥκω al medio è assai raro. Per ἥξει a inizio trimetro cfr. Aristoph. Th. 1014, Lys. 613, Pl. 1201, Strato fr. 1.13. ταχέως l’avverbio è usato con il verbo ἥκω come qui anche in Aristoph. Lys. 731, 924, Ran. 1508 ἀργυρίου spesso usato in riferimento alla moneta più che al metallo. Cfr. ad es. Aristoph. Av. 600, fr. 215, Eup. fr. 162.2 (su cui vd. Olson 2016, 164). Frequente il singolare collettivo per indicare il denaro, come qui, ad es. in Aristoph. Nub. 756, 1247, 1285. χλῆδον “cumulo”, “mucchio”, riferito normalmente a pietre o altri detriti trasportati dall’acqua. In Demosth. 55.22 e 27 sono i detriti portati dall’acqua che ostruiscono la strada. Arpocrazione spiega che πᾶν πλῆθος χλῆδος λέγεται, καὶ ἐστὶν οἷον σωρός τις, μάλιστα δὲ τὸ τῶν ἀποκαθαρμάτων τε καὶ ἀποψημάτων, καὶ ἡ τῶν ποταμῶν πρόσχωσις, καὶ πολὺ μᾶλλον τῶν χειμάρρων “si dice chlēdos ogni ammasso, ed è per esempio un qualunque mucchio, soprattutto quello di scorie e rifiuti, e terra di deposito dei fiumi, e ancor di più dei torrenti in piena” (Harp. χ 8 Keaney). Un uso traslato è in Eschilo fr. 16 Radt καὶ παλτὰ κἀγκυλητὰ καὶ χλῆδον βελῶν (βαλῶν codd.) “e lance e giavellotti e un mucchio di dardi”. Anche nel frammento di Cratete il termine è usato in modo metaforico ed è da intendersi come “grande quantità”, in un’espressione figurata per indicare “un mucchio di soldi” (cfr. Edmonds e Storey, che traducono “a heap of silver”). Questa interpretazione è in linea con i sinonimi πλῆθος e σωρός indicati dalle fonti antiche. Non mi pare invece condivisibile l’interpretazione di Bonanno, che indende qui chlēdos nel senso di “spazzatura”, e anche in GI 20133 l’esempio crateteo è tradotto con «prendendo le scorie dell’argento» (ma vd. WiP s. v.). L’accentazione properispomena è indicata nel De accentibus dello Pseudo Arcadio (p. 53 Schmidt); cfr. Hdn. GG III.1 p. 142.6 Lentz. fr. 32 K.-A. (29 K. = 33 B.) σκυτίνηι πότ’ ἐν χύτραι τάριχος ἐλεφάντινον ἧψε ποντιὰς χελώνη πευκίνοισι κύμασι, καρκίνοι ποδάνεμοί τε καὶ τανύπτεροι λύκοι † υσοριμαχειν † ἄνδρες οὐρανοῦ καττύματα. παῖ’ ἐκεῖνον, ἄγχ’ ἐκεῖνον. ἐν Κέωι τίς ἡμέρα; 2 ποντία CE : ποντιὰς χελώνης Erfurdt 1812, 450; κύμασι codd. : καύμασιν Kock et Madvig 1884, III 53 3–5. om. CE 3 ποδήνεμοί Kock 4 ϋσ ορι μαχειν A : ὗς ὀρεῖ †
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Crates
μαχειν 〈k〉 Mette 1966, 142 coll. Men. Mis. 303 (alii ὗς ὄρει) ἄγχε κεῖνον A; ἐν Κέωι τίς Porson 1815, 236 : ἐγκαιῶ τις Α
5 ἄγχ’ ἐκεῖνον Dindorf :
Una volta in una pentola di cuoio una tartaruga marina fece cuocere tarichos eburneo su flutti di pino; e granchi dai piedi veloci come il vento e lupi dalle ali spiegate †suino al monte combattere† uomini suole di cielo. Colpiscilo, strangolalo. A Ceo che giorno è? Ath. III 117b-c παρέλιπεν δ’ ὁ τένθης Ἀρχέστρατος συγκαταλέξαι ἡμῖν καὶ τὸ παρὰ Κράτητι τῷ κωμῳδιοποιῷ ἐν Σαμίοις λεγόμενον ἐλεφάντινον τάριχος, περὶ οὗ φησιν· “σκυτίνῃ –ἡμέρα;”. ὅτι δὲ διαβόητον ἦν τὸ τοῦ Κράτητος (Κρατῆρος A corr. Casaubon) ἐλεφάντινον τάριχος μαρτυρεῖ Ἀριστοφάνης ἐν Θεσμοφοριαζούσαις (fr. 347) διὰ τούτων· “ἦ μέγα - ἐκιχλίζετο”. Il goloso Archestrato trascurò di elencarci anche il tarichos chiamato nei Samioi del comico Cratete elephaninon (“di elefante/eburneo”), riguardo al quale dice: “σκυτίνῃ – ἡμέρα;”. Che il tarichos elephantinon di Cratete fosse celebre lo testimonia Aristofane nelle Thesmophoriazusae con queste parole: “ἦ μέγα - ἐκιχλίζετο”
Metro tetrametri trocaici catalettici
lklk lkl|k lkkk lkl lklk lkll | lklk lkl lklk lklk | lklk lkl † lklk l † lk | lkll lkl lklk lklk | lklk lkl
Bibliografia Porson 1815, 236; Bergk 1838, 280; Meineke II (1839), 244 Sam. fr. I; Bothe 1845, 79; Cobet 1858, 149; Kock I (1880), 139–140 fr. 29; Zieliński 1885b, 22–23; Blaydes 1890, 15; Srebrny 1926; Norwood 1931, 150; Edmonds I (1957), 164–165; Bonanno 1967b; Bonanno 1972, 126–139 fr. 33; Kassel-Austin 1983, PCG IV 102; Storey 2011, FOC I 226–227; Rusten et al. 2011, 140–141. Contesto della citazione Nell’ampia sezione dedicata da Ateneo al tarichos (116d-125f), dopo un proverbio ricordato da Clearco di Soli (fr. 32 Wehrli), si cita un passo di Diocle di Caristo (fr. 233 van der Eijk) sui pesci salati di migliore qualità, e un estratto da Archestrato (fr. 39 Olson-Sens = SH 169) con consigli sui pesci salati più o meno gustosi. Viene osservato che tra i vari tipi di tarichos menzionati da Archestrato manca il tarichos elephantinon dei Samioi di Cratete. Alla citazione di cinque versi segue, come prova della notorietà di questo tipo tarichos una citazione da Aristofane fr. 347 in cui si cita esplicitamente Cratete (vd. supra test. 6b). Nella successiva discussione sul genere del termine τάριχος, è nuovamente citato tra gli altri Cratete (vd. supra fr. 19). L’epitome mantiene solo i primi due dei cinque versi citati, quelli che contengono il riferimento culinario in questione.
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Costituzione del testo e metro Il testo tradito è stato variamente corretto, ma risulta nel complesso difendibile nei primi tre versi. Al v. 2 ποντιὰς χελώνη è lezione del Marciano, in genere difesa dagli editori. Erfurdt proponeva invece anche χελώνης genitivo. In questo caso il soggetto che cucina non sarebbe esplicitato nei versi conservati e il tarichos elephantinos sarebbe di carne di tartaruga (vd. infra). Al v. 2 per il tradito κύμασι è stato proposto καύμασιν, così Kock 1880, 140 «flammis piceis» e Madvig 1884, III 53 «caloribus abiegnis, ligno abietis subiecto ollae» (accolto nel testo di Ateneo da Kaibel 1887, I 268 e Gulick 1937, II 46), una correzione razionalizzante non necessaria. Più problematici gli ultimi due versi. La prima parte del v. 4 in particolare è un locus desperatus: il Marciano (f. 24v) reca la sequenza ϋσ ορι μαχειν senza spiriti e accenti. Mette 1966 proponeva ὗς ὀρεῖ † μαχειν 〈k〉: la correzione, condivisa da Bonanno, risolve almeno in parte la difficoltà restando aderente alla paradosis, e trova un parallelo nel verso Men. Mis. 303, trascritto ὗς ὀρεῖ, τὸ τοῦ λόγου dal primo editore del papiro menandreo (Turner 1965 che accoglieva una congettura di J.H. Kells), ma poi con un più plausibile ὗς ὄρει secondo la lettura di Austin 1966, 296 («“the pig is on the mountain”: the proverb is here used to describe Demeas’ obstinacy and refusal to behave as he ought to») condivisa dagli editori successivi (Sandbach 1972, cfr. Gomme-Sandbach 1973, 458 «a type of unsocial illtemper»; Austin 1973 in CGFP; Sisti 1986 con commento p. 109). Vd. infra. Al v. 5 Porson 1815, 236 ha corretto ἐγκαιῶ τις del Marciano in ἐν Κέωι τίς in base al confronto con un lemma esichiano che attesta questa espressione idiomatica (vd. infra). Da un punto di vista metrico, si tratta di un verso trocaico-peonico, per cui già Meineke proponeva un confronto con il dialogo corale in Aristoph. Lys. 1014– 1037168 (e cfr. Aristoph. fr. 347 per τάριχος ἐλεφάντινον in fine verso), seguito da quattro tetrametri trocaici catalettici. Interpretazione Ai primi versi dal sapore quasi favolistico (πότ’ iniziale, animali protagonisti) fa seguito una serie di bizzarri accostamenti a tratti in linguaggio aulico (v. 3), interrotti al v. 5 da minacciosi ordini. Questi versi, che affastellano elementi ed espressioni almeno in apparenza incongrui, sono stati per lo più interpretati come esemplari di un gusto per il paradosso e il nonsense, un puro gioco per far divertire il pubblico. Così già Schweighäuser 1801–1805, 315, Bergk 1838, 280, Cobet 1858, 149, Zieliński 1885b, 23. Secondo Bonanno 1972 «una sequela di assurdità … consapevolmente ricavate da ben note e correnti espressioni paradossali» (p. 131). Anche Rusten et al. 2011, 140 n. 4 parlano di «an assortment of absurdities and paradoxes»; Storey 2011, 227 «nonsense verse, with inappropriate
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Cfr. Henderson 1987, 188. Per altri esempi in Aristofane vd. Zimmermann 1985, II 239–240 e n. 16.
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adjectives for the nouns and arresting nonsequiturs»169. Si tratterebbe insomma di un insieme di adynata, alcuni dei quali registrati come tali dalle fonti paremiografiche (vd. infra ad 3. καρκίνοι ποδάνεμοί e τανύπτεροι λύκοι e ad 5. ἐν Κέωι τίς ἡμέρα) o che ricorrono in forma simile in altre fonti (vd. infra ad 2. ἧψε ποντιὰς χελώνη e ad 4. υσοριμαχειν). Altri hanno pensato a una sorta di arcano indovinello – così già Casaubon (“griphi habent speciem”), e poi Kock e Körte 1922 –, del quale sono state tentate varie soluzioni: ad es. Bothe pensava a una «pugna epularis, agmen ducentibus salsamento elephantino, i. e. ingente, et testudine marina, a tergo vero fortiter dimicantibus, cancris celeribus et lupi alatis, palati insidiis», Edmonds immaginava una improbabile allegoria di avventure odissiache. Se l’effetto ricercato è infatti con ogni verosimiglianza quello dell’accumulo170 di assurdità, un’interpretazione unitaria rischia di essere un esercizio vano. Non di meno potrebbero esserci associazioni mentali tra i singoli elementi. Si può notare che ritorna più volte il tema della lavorazione del cuoio (vd. ad 1. σκυτίνηι 4. καττύματα e forse anche 3. καρκίνοι) e che si elencano soprattutto animali, marini e terrestri (elefante, tartaruga, granchi, lupi e maiale)171. Questi animali potevano veicolare suggestioni favolistiche, e alcuni di essi potevano forse essere associati all’iconografia monetale. In particolare la chelōnē è il simbolo eponimo della antica moneta di Egina diffusa in tutto il Peloponneso (simbolo che da testuggine diventa tartaruga marina in una precisa fase storica)172. Alludere alla moneta attraverso il suo typōma doveva essere piuttosto comune ed è usato anche come meccanismo comico: ad es. le civette di Atene in Aristoph. Av. 301, 1105–1108173. La tartaruga 169 170 171
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Sul nonsense in commedia vd. Kidd 2014, che però cita questa frammento crateteo a proposito di «riddle» (p. 62 n. 23). Sull’accumulazione verbale in commedia vd. Spyropoulos 1974. Elefanti e tartarughe sono citati insieme anche nell’elenco di animali di un verso eupolideo Eup. fr. 317, ma senza epiteti. Un elenco di animali con tartaruga anche in Soph. fr. 111 Radt. Cfr. Poll. 9.74–76, che riporta anche il proverbio τὰν ἀρετὰν καὶ τὰν σοφίαν νικᾶντι χελῶναι «virtù e saggezza sono battute dalle tartarughe» e cita tra gli altri Eup. fr. 150 (vd. infra) e Eub. fr. 5. Sulla monetazione di Egina cf. Diph. fr. 67.11–13 e vd. Head 1911, 394–398, Holloway 1971, Kroll-Waggoner 1984. La datazione del passaggio dalla tartaruga marina alla testuggine sul verso della moneta è questione assai dibattuta: secondo Rago 1963 Egina continua a battere moneta dopo essere stata conquistata da Atene nel 456 a. C. e fino al 431, data di deportazione degli Egineti: allora, dovendo rinunciare su ordine di Atene alla tartaruga marina (ideologicamente intesa come simbolo di dominio sul mare), inizierebbe a emettere la serie con testuggine. Contro questa ricostruzione Holloway 1971, 17ss., che data il passaggio da tartaruga a testuggine nel terzo quarto del V secolo (prima del 425) e Figueira 1998, 119. Vd. Caccamo Caltabianco – Radici Colace 1987a (1992, 119–120): l’onomastica che contraddistingue le monete delle più importanti poleis greche (parthenoi, glaukes Atene, pōloi Corinto e chelōnai Egina) «richiama l’attenzione sul typos monetale (che al di fuori e al di là della legenda ne consentiva l’immediata identificazione) e danno il senso
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stessa si ritrova in Eup. fr. 150 ὀβολὸν τὸν καλλιχέλωνον (vd. Olson 2016, 21). Inoltre la moneta di Egina era detta dagli Ateniesi pacheia174 perché di valore maggiore rispetto alla dracma ateniese, e pachus per eccellenza è l’elefante. Gli altri animali citati non sono tra i tipi monetari più identificativi, ma molti di essi sono attestati su varie monete: ad es. il granchio a Cos e molti altri luoghi come Agrigento, Himera; il lupo ad Argo; i suini in varie monete ad es. il cinghiale alato di Lesbo; anche onde, pigne e corone di pino non sono estranee all’iconografia monetaria. Cautamente si potrebbe quindi aggiungere una nuova ipotesi ai tentativi di razionalizzazione per questo enigmatico frammento: l’effetto nonsense era forse ottenuto con un accumulo di ingredienti che potevano avere un nesso logico. La tartaruga marina simbolo della “pesante” moneta e della potenza di Egina, in un tempo favolistico forse ormai lontano, innescherebbe un’elencazione di animali, ibridi e altri elementi che come la chelōnē potevano alludere genericamente alle svariate effigi sulle monete provenienti da diverse città (in possibile connessione con il “mucchio di soldi” del fr. 31?). Tanto più se teniamo conto del fatto che nell’epoca intorno al 450/425 a. C. le coniazioni in argento autonome e distintive delle città della Lega Attica sarebbero state sospese in conseguenza del fatto che Atene aveva imposto agli alleati l’uniformazione ai suoi standard di monete, pesi e misure175. Anche il riferimento al bizzarro calendario di Ceo potrebbe trovare spiegazione in un simile schema, come riferimento alla molteplicità metrologica. Connesse con le difficoltà interpretative sono le incertezze sulla suddivisione delle battute. È del tutto verosimile un cambio di persona loquens dopo il quarto verso, quando le incitazioni alla violenza interrompono la narrazione, ed è assai probabile anche un’antilabē all’interno del quinto verso tra παῖ’ ἐκεῖνον, ἄγχ’ ἐκεῖνον e la domanda ἐν Κέῳ τίς ἡμέρα; in coincidenza con la dieresi mediana. Così proponeva già Srebrny 1926, 206 (sulla scorta di Zieliński 1885b, 22), il quale
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della “convenzionalità” a livello dell’utenza, in una struttura comunicativa di estrema chiarezza ed economia». Anche al di là di questi casi più evidenti, i Greci si riferivano normalmente alle monete in base ai tipi su essa espressi: vd. Cahn 2000, 23; Seaford 2004, 171. Tra gli esempi citati da Polluce anche Eub. fr. 5 che chiamava le monete ateniesi Παλλάδας. Poll. 9.76 ἀλλὰ μὴν τὴν μὲν Αἰγιναίαν δραχμὴν μείζω τῆς Ἀττικῆς οὖσαν—δέκα γὰρ ὀβολοὺς Ἀττικοὺς ἴσχυεν—Ἀθηναῖοι παχεῖαν δραχμὴν ἐκάλουν, μίσει τῶν Αἰγινητῶν Αἰγιναίαν καλεῖν μὴ θέλοντες: la dracma di Egina, corrispondente a 10 oboli, era chiamata dagli Ateniesi παχεῖα δραχμή. Il decreto su moneta, pesi e misure è di datazione e interpretazione assai discusse: secondo alcuni risalirebbe agli anni 449/448, altri propendono per una datazione più bassa, vicino al 420 (cfr. Aristoph. Av. 1040–1041), un’ulteriore ipotesi è che ci sia stato più di un decreto. Vd. Figueira 1998, Cahn 2000, 137 e Lewis 2008 per una sintesi della questione. Il decreto avrebbe privato tutte le città alleate della loro monetazione distintiva (con l’eccezione delle emissioni in elettro) e le avrebbe costrette a una conversione alla moneta d’argento ateniese. Portata, modalità di applicazioni e motivazioni politiche o pragmatiche dell’intervento ateniese sono oggetto di ampio dibattito: vd. su versanti opposti Figueira 1998 e Matthaiou 2010.
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immaginava inoltre che la prima parte del v. 5 spettasse al corifeo che si rivolge agli altri membri nel coro (cfr. anche v. 4 ἄνδρες vocativo riferito al coro?) e la seconda allo stesso personaggio che pronuncia i vv. 1–4, «homo quidam ridiculus, Chorum, qui videtur serium aliquid exspectasse, allocutus, orationem habet meras ineptias continentem impudentiamque suam aperte profitetur». Kassel e Austin, pur considerando ingegnosa la ricostruzione, sollevano obiezione per la presenza di ἐκεῖνον (v. 5, vd. infra ad παῖ’ ἐκεῖνον) che difficilmente potrà riferirsi all’interlocutore sulla scena. Non si può escludere che ci fossero dei cambi di battuta anche ai versi precedenti. La fortuna della battuta di Cratete sul tarichos elephantinon è testimoniata dall’aperto riferimento ad essa nel frammento di Aristofane, Thesmophoriazusae seconde, preservato dallo stesso Ateneo (vd. supra test. 6b). 1 σκυτίνηι… χύτραι l’aggettivo σκύτινος “fatto di cuoio” è attestato per la prima volta in Anacreonte (σκυτίνηι μάστιγι fr. 43.8 Page) e poi più volte in Erodoto (es. Hdt. 4.189.1), nel Corpus Hippocraticum (es. Hp. Art. 30) e in commedia. In commedia è spesso usato in riferimento al fallo di cuoio: Aristoph. Nub. 538 (σκύτινον καθειμένον), Lys. 110 (σκυτίνη ’πικουρία con una detorsio dell’espressione συκίνη ἐπικουρία, cfr. anche Stratt. fr. 57). Cfr. anche Eup. fr. 418 con Olson 2013, 185. Una pentola per cucinare in cuoio appare illogica. La χύτρα era normalmente di terracotta, ma poteva essere anche di altri materiali, come bronzo, argento, vetro (vd. Bonati 2016, 197 e 222). Tuttavia vd. Hdt. 4.61, dove si espone un particolare metodo di cottura utilizzato dagli Sciti per i sacrifici, che in mancanza di lebeti mettono le carni nel ventre della vittima stessa con acqua e così le cuociono sopra un fuoco alimentato con le ossa. Per altri riferimento all’ambito della lavorazione del cuoio cfr. v. 4 καττύματα e forse anche v. 3 καρκίνοι176. 1 πότ’ determinazione temporale vaga, propria della narrazione favolistica. Cfr. Aristoph. Ve. 1182 e vd. Schirru 2009, 89 e n. 176. 1 τάριχος per questo tipo di carne o pesce conservati vd. supra test.6a.2. Il sostantivo è qui al neutro. Per la discussione sul genere cfr. supra fr. 19. 1 ἐλεφάντινον l’aggettivo ha normalmente il significato di “eburneo”, “d’avorio” e quindi anche “di colore bianco come l’avorio”. Spesso è riferito a oggetti di lusso o di potere: cfr. ad es. la prima attestazione in Alceo in riferimento all’impugnatura di una spada (fr. 350.1 Lobel-Page) o Aristoph. Pl. 815. L’avorio si connota per la sua lussuosità e in questo l’aggettivo contrasterebbe con tarichos che è in genere considerato un alimento comune ed economico. Nell’Atene dell’epoca di Cratete l’avorio poteva essere associato anche alle colossali statue criselefantine realizzate da Fidia (l’Atena Parthenos, consacrata nel 438 a. C., e poi lo Zeus Olimpio): cfr. Aristoph. Eq. 1169 (crostini di pane fatti dalla dea con la sua mano elephantinē, con allusione alla statua criselefantina di Atena). Un uso dell’aggettivo 176
Sulla terminologia relativa alla lavorazione del cuoio vd. Blümner I (1875) 268–287.
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in relazione non al materiale ma al colore è attestato ad es. in Anacreonte (fr. 43.11 Page σκιαδίσκην ἐ.; [Anacr.] fr. 16.12 West μέτωπον) e in altre fonti più tarde (es. ὀδόντες Artemid. 1.31; Hsch. ε 2034 Latte ἐλεφάντινα· λευκά). Vd. LSJ9 533, GI3 e DGE s. v. In riferimento al tarichos l’aggettivo è stato quindi interpretato in due modi: 1) “di elefante”, cioè il tarichos sarebbe di carne di elefante; così ad es. Bothe (“salsamentum elephantinum”), M.F. Salvagno (in Canfora 2001, 307 n. 4, «tarichos elephantinon è un’invenzione comica che gioca sul paradossale accostamento di un comune uso alimentare con un animale esotico del tutto estraneo agli orizzonti gastronomici e culturali dei Greci») e Pellegrino 2015, 216 che traduce l’espressione ripresa in Aristoph. fr. 347.2 con “salamoia di elefante”; 2) “eburneo”, con riferimento dunque non all’animale con la cui carne è preparato il tarichos, ma al colore di un particolare tipo di tarichos “bianco come l’avorio”, ovvero al suo pregio pari all’avorio; in questa seconda direzione vanno ad es. Olson 2008 e Storey 2011, che traducono con “ivory”. Cfr. anche DGE s. v. Si tratta chiaramente di un’ambiguità insita nell’aggettivo su cui il comico poteva giocare. Si consideri inoltre che l’elefante è di norma simbolo di smodatezza ed eccessi (Kitchell 2013, 64–67). In Antiph. fr. 82.4 chi parla si è abbuffato di cibo come quattro elefanti (καταβεβρωκὼς σιτία ἴσως ἐλεφάντων τεττάρων.). Sui riferimenti agli elefanti in commedia vd. Olson 2016, 505 a proposito di Eup. fr. 317. 2 ἧψε… χελώνη Bonanno 1972, 132 richiama l’episodio del re lidio Creso e dell’oracolo della Pizia raccontato da Hdt. 1.47–48 (Orac. 52 P.-W.). Creso con l’intento di testare le capacità degli oracoli, cerca qualcosa di assurdo e impossibile da indovinare (ἀμήχανον ἐξευρεῖν τε καὶ ἐπιφράσασθαι): uccide una tartaruga e la cucina in una pentola di bronzo insieme a un agnello. Solo l’oracolo di Delfi con il suo responso dimostra di conoscere la verità (vv. 3–4 ὀδμή μ’ ἐς φρένας ἦλθε κραταιρίνοιο χελώνης | ἑψομένης ἐν χαλκῷ ἅμ’ ἀρνείοισι κρέεσσιν «odore mi giunge al cuore di tartaruga dal robusto guscio cotta nel bronzo insieme a carni d’agnello»). La cottura della tartaruga si configura dunque come un adynaton, tuttavia la chelōnē erodotea è oggetto e non soggetto della cottura come nel testo crateteo (ma vd. supra l’emendamento proposto da Erfurdt). 2 ἧψε far bollire o stufare. Cfr. fr. 19, in cui però a essere bolliti o stufati sono i cavoli, mentre il tarichos di pesce è arrostito. Riferito alla carne ad es. in Hdt. 4.61 (vd. supra). 2 χελώνη chelōnē è un termine che può indicare indifferentemente la testuggine o la tartaruga marina. Nel frammento il genitivo ποντιάς la definisce inequivocamente come tartaruga marina. La chelōnē è protagonista di diverse favole ed è in genere associata alla lentezza (si pensi all’apologo esopico della lepre e la tartaruga o al paradosso di Zenone). In ambito cultuale è in genere associata ad Afrodite e nel mito si può ricordare la tartaruga marina che divorava gli uomini scaraventati in mare dal brigante Scirone, poi ucciso da Teseo (vd. Arnott 1991b). Le tartarughe erano usate per scopi farmaceutici e il guscio era utilizzato per gli strumenti musicali e per oggetti di artigianato di lusso. La loro carne veniva
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certamente mangiata da alcune popolazioni antiche, ma il consumo non era probabilmente normale presso i Greci (Plin. NH 9.12.35–39). Vd. Keller 1913, 247–259, Dumoulin 1994 e Kitchell 2013, 186–188. In Aristoph. Ve. 429 e 1292 la corazza delle tartarughe è oggetto di invidia da parte di chi non ha protezioni per le botte. Per la chelōnē come simbolo e nome della moneta di Egina vd. supra. 2 πευκίνοισι l’aggettivo non ha altre attestazioni in commedia. Oltre al passo crateteo, nel V e IV secolo ricorre esclusivamente in tragedia: ad es. Eur. Med. 1200 (πεύκινον δάκρυ goccia di resina), Hec. 575 (riferito a tronchi), Soph. Tr. 1198 (riferito a torce di legno di pino). 2 κύμασιν il termine indica qualcosa di gonfio (come pregno), quindi l’onda, il flutto (es. Il. 2.209; Aeschl. Pr. 1001) ma anche il feto (Aeschl. Eum. 659). Il termine ricorre soprattutto nella poesia epica, lirica e tragica ed è poco frequente in prosa. In commedia ad es. in Aristoph. Eq. 433, Av. 778, in Th. 44, Ran. 304 e 1310 in contesti paratragici. Il significato botanico di germoglio è attestato più tardi: Thphr. HP 1.6.9. 3 καρκίνοι… λύκοι il verso presenta un chiasmo (sostantivo, epiteto – epiteto sostantivo) ed è caratterizzato da epiteti epici, che come πευκίνοισι κύμασι al v. 2, conferiscono un tono elevato in contrasto con altri elementi. 3 καρκίνοι il granchio come la tartaruga è simbolo di lentezza e l’associazione con l’aggettivo ποδάνεμοί risulta ossimorica. Sul granchio come animale simbolico vd. Deonna 1954. In commedia il granchio è citato in Aristoph. Eq. 608, Ve. 1507, Pax 1083, Pherecr. fr. 192 καττύομαι τοὺς καρκίνους: karkinoi sono anche un tipo di calzature (fonte Poll. 7.90, cfr. Hsch. κ 832 Latte, Phot. κ 190 Theodoridis, Herond. 7.60 e 128). Su questo si potrebbe innestare la battuta con καττύματα al v. 4. Carcinos era anche un nome di persona, in particolare il poeta tragico ricordato anche da Aristoph. Nub. 1261 e le cui opere erano proverbialmente enigmatiche (Men. fr. 415 in Phot. κ 193 = Sud. κ 397 Καρκίνου ποιήματα: Μένανδρος Ψευδηρακλεῖ. ἀντὶ τοῦ αἰνιγματώδη). 3 ποδάνεμοί ποδήνεμος è epiteto omerico riferito a Iris (e. g. Il. 2.786, 5.353). Si ritrova in Bacchyl. Epin. 6.13 riferito al vincitore della gara di corsa: Ἀριστομένειον ὦ ποδάνεμον τέκος. La forma dorica ποδάνεμος trova conferma anche in Hsch. π 2660 Hansen ποδάνεμοι· ταχεῖς (cfr. 2672 e 2678). Si tratta dunque di un aggettivo di tono elevato per indicare velocità. Podanemos è anche un nome proprio di persona attestato in relazione a eventi di inizio IV sec. a. C. da Xen. Hel. 4.8.10 (navarco spartano nel 394/393 a. C.) e 5.3.13 (Podanemo di Fliunte legato da legami di ospitalità al re spartano Archidamo). 3 τανύπτεροι altro epiteto epico (Esiodo Th. 523, Inno a Demetra 89) e lirico (Pind. P. 5.111; Ib. fr. 36b Page) normalmente riferito a uccelli “dalle ali spiegate”. 3 λύκοι anche il lupo era protagonista della tradizione favolistica e di vari modi di dire, che in genere ne rivelano una reputazione negativa: il lupo è feroce ma codardo, forse perché lotta in branco (diversamente dall’eroico leone); è inoltre caratterizzato da rabbia e fame insaziabile. Vd. Kitchell 2013, 199–201.
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4 ὑσοριμαχεῖν dalla sequenza “incomprensibile” (Bonanno) possiamo ricavare con buona probabilità un suino e un riferimento al combattimento, più incerto l’elemento mediano (cfr. supra Costituzione del testo). La correzione proposta da Mette 1966 si basava sul confronto con il discusso Men. Mis. 303 Sandbach ὗς ὄρει, τὸ τοῦ λόγου, che indicherebbe in una sequenza molto simile un’espressione proverbiale, forse per esprimere l’ostinazione di Demea. Diverse le ipotesi per la dibattuta lezione del passo di Menandro: 1) ὀρεῖ “al mulo” nell’ed. pr. ripreso da Mette e accolto nella traduzione del frammento crateteo in Ateneo da Salvagno «e un maiale con un mulo» (in Canfora 2001, 308); 2) ὄρει “al monte”, proposto nella recensione di Austin e in genere accolto da editori e commentatori di Menandro (vd. supra Costituzione del testo); in proposito Lelli 2006b, 41–42 pone la comparazione con il proverbio calabrese «il calderone bolle, e il maiale è ancora in montagna» che descrive un comportamento scioccamente impaziente; vd. anche Aristot. HA 8.607a 12, secondo il quale i suini delle zone montuose sono più selvaggi e più forti (γὰρ τὰς ὄψεις ἀγριώτερα καὶ ἀλκιμώτερα, καθάπερ καὶ οἱ ἐν τῷ Ἄθῳ ὕες); 3) ὀρ〈ίν〉ει proposto da Gigante 1966, 20–21, a costo di interventi invasivi sul testo tradito, sulla base del proverbio ὗς ὀρίνει attestato dalla tradizione paremiografica come riferito alle persone violente e litigiose (ὗς ὀρίνει: ἐπὶ τῶν βιαίων λέγεται καὶ ἐριστικῶν Diogen. 8.64 e Apost. 17.74) e usato già da Alc. fr. 393 L.-P. e V. (vd. Bettarini 1997)177. Il maiale è in genere associato a un carattere rozzo e litigioso. Sulla combattività dei suini vd. già Il. 12.145 e Aristot. HA 8.595b.1 μάχεται δ’ ὗς καὶ λύκῳ “un suino lotta anche contro un lupo”. Cfr. anche Plut. Bruta anim. 988d ‘συῒεἰκέλους ἀλκὴν’ tra gli esempi di espressioni poetiche che associano guerrieri in battaglia ad animali. Sui valori simbolici del maiale vd. Golden 1988, sp. 8–9 per la caratteristica di combattività. Si consideri inoltre che secondo la testimonianza dello storico Coirilo la prua della tipica imbarcazione samia, la samaina, era a forma di maiale: cfr. Phot. σ 59 Σαμιακὸν τρόπον· Κρατῖνος Ἀρχιλόχοις (fr. 14) εἰς ὑηνίαν ἐπισκώπτων †Μιννύωνα†· ὑσὶ γὰρ ἐμφερεῖς εἶχε τὰς πρῴρας τὰ τῶν Σαμίων πλοῖα, ὡς Χοιρίλος ὁ Σάμιος (FGrHist 696 F 34 hα). Cfr. anche Phot. σ 55, Hsch. σ 147, Plut. Per. 26.4 (ἡ δὲ σάμαινα ναῦς ἐστιν ὑόπρωρος μὲν τὸ σίμωμα, κοιλοτέρα δὲ καὶ γαστροειδής), Zenob. 2.98 Bühler e vd. Wallinga 1993, 93–99. Possibile quindi una allusione all’imbarcazione costruita per Policrate e divenuta simbolo di Samo, rappresentata anche su alcune monete (e forse alle battaglie navali combattute durante la guerra samia?). La sintassi del passo non è ricostruibile. In base al contesto si potrebbe immaginare ὗς e un epiteto (ma nei casi immediatamente precedenti l’animale è al plurale). 177
Gigante doveva però rinunciare per ragioni metriche al τὸ davanti a τοῦ λόγου. Tra le altre ipotesi di lettura di ορει anche forme verbali: Gigante stesso sulla base della glossa corrotta Hsch. ο 1133 Latte [ὄρει· φυλάσσει] oppure Cataudella 1969, 59 che ipotizza un’equivalenza ὄρει = ὀρίνει.
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4 ἄνδρες è verosimilmente un altro nominativo plurale come gli altri elencati ai vv. 3–4, ma non si può escludere un vocativo. 4 οὐρανοῦ καττύματα kattyma è un pezzetto di cuoio da cucire, specialmente usato come suola da scarpa, e quindi per sineddoche anche la scarpa, il sandalo. Il termine deriva dal verbo kassyo “cucire con cuoio” “rattoppare” (di scarpe) e in senso figurato “imbastire, tramare, ordire” (vd. ad es. Aristoph. Eq. 314 con riferimento a Cleone). Il sostantivo ricorre in Aristoph. Ach. 301 (μεμίσηκά σε Κλέωνος ἔτι μᾶλλον, ὃν ἐγὼ τεμῶ τοῖσιν ἱππεῦσι καττύματα «ti odio ancora di più di Cleone, che ridurrò a suole per i cavalieri» cfr. sch. ad l.), Eq. 315, 869, Ve. 1160 (ὑποδήσασθαι ἐχθρῶν παρ’ ἀνδρῶν καττύματα «indossare le scarpe dei nemici»). Come per il verbo anche per il sostantivo è testimoniato il significato figurato di “inganno”, ”trama” (κάττυμα· ἀπάτη, δόλος Hsch. s. v., Synag. κ 240 Cunningham. Il termine è usato in senso traslato anche in riferimento a composizioni musicali di cattivo livello (Plut. Mus. 1138b). Storey traduce «little bits». Se l’ipotesi di una lettura monetaria di questi versi fosse corretta, si dovrebbe considerare anche l’esistenza di monetazioni primitive in cuoio, di cui abbiamo testimonianza anche per Sparta (Nicol.Dam. FGrHist 90 F 103.7–8 χρηματίζεσθαι δ’ αἰσχρὸν Σπαρτιάταις. νομίσματι δὲ χρῶνται σκυτίνῳ). I kattymata sarebbero alloro i pezzetti di cuoio utilizzati come monete. In tal caso οὐρανοῦ, normalmente inteso come nome comune per “cielo”, potrebbe essere inteso forse come “Urano”, in relazione alla tradizione che indica in Crono-Saturno l’inventore dell’arte di coniare moneta178. 5 παῖ’ ἐκεῖνον Per analoghe esclamazioni minacciose, pronunciate dal coro cfr. Aristoph. Ach. 282 παῖε, παῖε τὸν μιαρόν, Eq. 247 παῖε παῖε τὸν πανοῦργον καὶ ταραξιππόστρατον, Av. 365 ἕλκε, τίλλε, παῖε, δεῖρε. Cfr. Gelzer 1960, 195 n. 2, che cita in proposito oltre al frammento di Cratete anche Cratin. fr. 341. In Pax 1119 è invece Trigeo che aizza il servo contro Ierocle ὢ παῖε παῖε τὸν Βάκιν. Difficilmente il personaggio minacciato può essere quello che pronuncia i versi precedenti, come verrebbe naturale pensare, perché ἐκεῖνον indica qualcuno lontano da chi parla, normalmente qualcuno fuori scena (cfr. ad es. Aristoph. Ach. 236 ὡς ἐγὼ βάλλων ἐκεῖνον οὐκ ἂν ἐμπλῄμην λίθοις si riferisce ad Anfiteo che è uscito di scena). 5 ἄγχ’ il verbo “stringere”, “strangolare”, “soffocare” si trova usato già nella poesia omerica (es. Il. 3.371) e lirica (es. Pind. N. 1.46) e ricorre più volte in Aristofane, ad es. Av. 1348, 1352, 1575 e 1578, Ve. 1039. 5 ἐν Κέῳ τίς ἡμέρα; si tratta di un modo di dire per le cose sconosciute e inconoscibili. L’espressione proverbiale era utilizzata in commedia anche da Eupoli fr. 288 οὐδεὶς γὰρ οἶδεν, ἐν Κέῳ τίς ἡμέρα «perché nessuno sa che giorno è a Ceo» (vd. Olson 2016, 445–446) e Difilo fr. 52. Le fonti lessicografiche Esichio e Fozio (che cita Eupoli) forniscono come spiegazione il fatto che gli abitanti di Ceo non avevano un calendario e ognuno contava i giorni come voleva (Hsch. ε 3156 178
Per le testimonianze sulla monetazione di cuoio vd. Nenci 1974. Per Saturno come inventore della moneta vd. Tert. Apol. 10.8, Isid. Orig. 16.17.
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Latte παροιμία ἐπὶ τῶν οὐκ εὐγνώστων· ‘οὐδεὶς γὰρ οἶδεν ἐν Κέῳ τίς ἡμέρα’ ὅτι οὐχ ἑστᾶσιν αἱ ἡμέραι, ἀλλ’ ὡς ἕκαστοι θέλουσιν ἄγουσιν. ὅθεν λέγεται· σεαυτῷ νουμηνίαν κηρύσσεις, cfr. Phot. ε 972 Theodoridis e App.Prov. 2.61). Zenob. Ath. 1.50 (fonte del frammento di Difilo) richiama invece l’usanza degli abitanti di Ceo che chi entrasse in carica offrisse il pranzo al popolo, e se più persone entravano in carica si dividevano il giorno. L’isola di Ceo, nota come patria di Simonide e Bacchilide e poi del sofista Prodico, in epoca classica aveva sul suo territorio quattro città tributarie di Atene (cfr. IACP, 747–748). fr. 33 K.-A. (30 K. = 34 B.) Zenob. Ath. 3.15 (M) = vulg. 4.41 (P) ἵ π π ω ι γ η ρ ά σ κ ο ν τ ι τ ὰ μ ε ί ο ν α κ ύ κ λ ’ (Mc : κύκλα Mac : κρίκελ’ P) ἐ π ί β α λ λ ε (ἐπίβαλε P)· ταύτης μέμνηται Κράτης ὁ κωμικὸς ἐν (ἐν om. P) Σαμίοις. τάττεται δὲ ἐπὶ τῶν διὰ γῆρας δεομένων ῥαιστώνης τινὸς καὶ ἀναπαύλης. μετῆκται δὲ ἀπὸ στρατιωτικῶν ἵππων οἷς γηράσκουσιν ἐπέβαλλον τὸ καλούμενον τρυσίππιον (τρισ- codd.)· ἔστι δὲ τοῦτο σιδηροῦς τροχίσκος οἱονεὶ δημόσιος {ὡς} χαρακτήρ {τροχίσκος}, ὃν ἐκπυροῦντες ἐπέβαλλον ταῖς σιαγόσι τῶν ἵππων. al cavallo vecchio marchia cerchi più piccoli: questo (sc. proverbio) è ricordato da Cratete il comico nei Samioi. Si impiega in riferimento a coloro che hanno bisogno di un certo riposo e di una pausa a causa dell’età avanzata. Deriva dai cavalli da guerra, ai quali una volta invecchiati apponevano il cosiddetto trysippion; questo è un cerchietto di ferro, quasi come un marchio pubblico, che arroventavano e imprimevano sulle mandibole dei cavalli.
Metro esametro dattilico
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Bibliografia Grotius 1626, 508; Meineke II (1839), 245; Kock I (1880), 140 fr. 30; Edmonds I (1957), 166–167; Bonanno 1972, 139 fr. 34; Kassel-Austin 1983, PCG IV 102–103; Bühler 1982–1999 (1987), I 161–162; Bianchi in Lelli 2006b, 165 e 432–433 n. 391; Parlato 2010, 59; Storey 2011, FOC I 226–227; Olson 2013, 53; Tosi 2017, nr. 809; Bianchi di prossima pubblicazione. Contesto Il riferimento a Cratete si conserva solo in alcuni manoscritti della raccolta paremiografica zenobiana: nelle versioni più ampie rappresentate dalla collectio Monacensis e dallo Zenobius vulgatus (vd. Bühler 1987, I 161–162, in cui il caso è utilizzato come «exemplum explicationis Zenobianae in collectione M melius conservate quam in recensione B»). Il proverbio ricorre anche in Diogeniano 5.27, Plutarco 1.13, e Suda ι 586, senza però riferimento a Cratete. Le fonti forniscono informazioni precise sul significato dell’espressione proverbiale, spiegando che nasce dall’uso di marchiare i cavalli da guerra ormai vecchi sulle mandibole con un cerchietto arroventato, come si faceva anche con gli schiavi. I κύκλ(α) dunque si riferirebbero al τρυσίππιον, il marchio per i cavalli ormai
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sfiancati. Eustazio (in Od. vol. I p. 191.44 Stallbaum, citando AelD. τ 26, ι 17 Erbse) attesta un riferimento al trysippion in Eupoli: fr. 343 ἀλλ’ ὥσπερ ἵππῳ μοὐπιβαλεῖς τρυσίππιον; «ma mi metterai il trysippion come un cavallo?» (vd. Olson 2013, 52–54). Oltre alle fonti paremiografiche (vd. supra Contesto) e lessicografiche (vd. anche Hsch. ι 863 e τ 1565, Poll. 7.187, Phot. ι 185 e τ 526), di quest’uso parla già [Aristot.] Ath. 49.1, che costituisce presumibilmente la fonte delle compilazioni successive179: Δοκιμάζει δὲ καὶ τοὺς ἵππους ἡ βουλή … τοῖς δὲ μὴ δυναμ[ένοις ἀκολ]ουθεῖν, ἢ μὴ θέλουσι μένειν ἀλλ’ ἀνάγουσι, τροχὸν ἐπὶ τὴν γνάθ[ο]ν [ἐπιβ] άλλει, καὶ ὁ τοῦτο παθὼν ἀδόκιμός ἐστι «il consiglio ispeziona i cavalli … a quelli che non sono in grado di seguire, o non vogliono star fermi e si imbizzarriscono, (il consiglio) appone sulla mandibola una ruota». Queste procedure di dokimasia dei cavalli della cavalleria sono confermate anche da rappresentazioni vascolari di V sec. a. C. (vd. Rhodes 1981, 564–565). Il verbo utilizzato da Zenobio (μέμνηται) non ci assicura affatto che l’esametro riportato coicida con gli ipsissima verba del poeta. Metrica Per l’impiego dell’esametro nei proverbi vd. Parlato 2010, 54–56: lo spondeo in prima sede e l’incisione trocaica sono in linea con la generale tendenza. Interpretazione Non sappiamo in che termini Cratete ricordasse questa espressione proverbiale (cfr. supra Contesto), se vi facesse allusione in qualche forma oppure se l’esametro riportato corrisponda a un suo frammento. L’interpretazione del proverbio è controversa, in particolare in relazione al significato da attribuire a κύκλα180, termine generico per cose di forma circolare. In linea con la spiegazione offerta da Zenobio, i κύκλα sono intesi come i cerchi del τρυσίππιον, la marchiatura per i cavalli ormai inabili: così ad esempio Edmond («horses that are getting old need branding with the lesser ring») e Bonanno. Bianchi in Lelli 2006b traduce il proverbio con «imprimi i marchi più piccoli al cavallo che invecchia». Il verbo ἐπιβάλλω sarebbe quindi impiegato nel senso di “apporre”/“imprimere”, secondo un uso specifico in riferimento a segni o sigilli che trova paralleli in Eup. fr. 343, proprio in riferimento al trysippion, e ad es. in Aristoph. Av. 559–560, 1213–1215 e Th. 415; Hdt. 3. 128. 2; Men. Asp. 358. Una diversa interpretazione era invece proposta da Grozio, che traduceva “fessae aetatis equum spatiis brevioribus urge” (cfr. Meineke «Grotius de curriculi spatiis videtur intellexisse»). Kassel e Austin la considerano preferibile («τὰ μείονα κύκλα aptius interpretatus est Grotius» p. 103) e richiamano Hsch. κ 4478 Latte κύκλος … εἶδος ἱππασίας “tipo di cavalcata”. Anche Storey traduce «set out smaller circuits for an aging horse». Sarebbe un’esortazione a non pretendere che gli anziani eseguano gli stessi lavori dei giovani (Tosi 2017, nr. 809). In questo modo si spiegherebbe forse meglio la presenza dell’aggettivo comparativo μείονα, ma questo elemento da 179 180
Kaibel e Wilamowitz ipotizzavano come fonte intermedia un’annotazione al passo di Eupoli (vd. Kaibel 1893, 217 e cfr. Sandys 1893, 178). Il plurale eteroclito al neutro è comune (ad es. nei poemi omerici), ma in commedia al plurale si trova al maschile in Antifane (frr. 70 e 188.9) e in Men. fr. 150.2.
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solo non mi sembra basti per scartare l’interpretazione della fonte in relazione al trysippion, che resta la più plausibile ed è avvalorata dal parallelo con Eup. fr. 343. Ulteriori elementi in questo senso sono addotti in Lelli 2006b, 433, sia in base alla comparazione con esiti moderni della tradizione paremiografica181, sia in base a considerazione su aspetti tecnici dell’equitazione: i giri più brevi (“tondini”) sono i più difficili (cfr. Xen. Hip. 7.13–15) e quindi inadatti a un cavallo vecchio, salvo intendere l’espressione come ironicamente antifrastica. Non è dato stabilire il contesto comico in cui si iscriveva il frammento. Il gioco poteva risiedere nell’assimilazione tra il cavallo e una persona (come in Eup. fr. 343), derisa come vecchia o sfaticata, oppure giocare (anche) sulla polisemia di kyklos182, quindi in riferimento a qualcosa di circolare (sia concreto sia astratto) e di dimensioni troppo grandi. Ci si potrebbe chiedere se con il riferimento alla marchiatura dei cavalli Cratete alludesse in qualche modo alla vicenda della marchiatura dei prigionieri nel conflitto tra Atene e Samo, un barbaro episodio a cui forse allude Aristoph. fr. 71 e che è ricordato da Plutarco, Eliano e da fonti lessicografiche: gli Ateniesi avrebbero impresso sul volto dei Sami catturati una civetta e a loro volta i Sami avrebbero risposto all’offesa marchiando con una samena, la tipica imbarcazione samia (vd. supra ad fr. 32.4), i prigionieri ateniesi sull’isola183.
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Più specificamente si richiama il proverbio “lettere al culo, cavalli da tamburo”: i cavalli dell’esercito erano marchiati a fuoco sul posteriore e quando erano messi in vendita erano ormai così sfiancati da poter essere usati solo come pelle per i tamburi. In Aristoph. Ach. 1124–1125 il termine κύκλος è alla base di un accostamento comico tra disco dello scudo per l’armatura di Lamaco e disco della torta al formaggio richiesto da Diceopoli (Λα. φέρε δεῦρο γοργόνωτον ἀσπίδος κύκλον. Δι. κἀμοὶ πλακοῦντος τυρόνωτον δὸς κύκλον). In Av. 1005 kyklos è la figura geometrica, in Av. 1378 è in una presa in giro della poesia ditirambica, in Av. 1715 è la volta celeste, in Ran. 441 si riferisce alla danza. Inoltre la voce esichiana evocata da Kassel Austin tra i diversi significati per κύκλος ne indica anche uno specificamente in relazione alla commedia: καὶ ἐν ταῖς κωμῳδίαις ὑπότροχόν τι κατασκεύασμα «nelle commedie una sorta di marchingegno dotato di ruote». Plut. Per. 26.4 inverte per errore civetta e samena (dunque marchio di civetta sugli Ateniesi, e marchio di samena sui Sami; vd. Stadter 1989, 250) e parla specificamente di marchiatura sulla fronte. Cfr. Ael. VH 2.9 (τούς γε μὴν ἁλισκομένους αἰχμαλώτους Σαμίων στίζειν κατὰ τοῦ προσώπου καὶ εἶναι τὸ στίγμα γλαῦκα καὶ τοῦτο Ἀττικὸν ψήφισμα) e Phot. σ 61 Theodoridis s. v. Σαμίων ὁ δῆμος ὡς πολυγράμματος (= Aristoph. fr. 71) = Sud. σ 77: οἱ δὲ ὅτι Ἀθηναῖοι μὲν τοὺς ληφθέντας ἐν πολέμῳ Σαμίους ἔστιζον γλαυκί, Σάμιοι 〈δ’ Ἀθηναίους〉 τῇ Σαμαίνῃ, 〈ἥ〉 ἐστι πλοῖον δίκροτον ὑπὸ Πολυκράτους πρῶτον παρασκευασθὲν τοῦ Σαμίων τυράννου, ὡς Λυσίμαχος ἐν βʹ Νόστων (FGrHist 382 F 7)· τὸ δὲ πλάσμα Δούριδος (FGrHist 76 F 66)· οἱ δὲ τὴν Σάμαιναν νόμισμα εἶναι. Sulla marchiatura dei prigionieri, una pratica propria dei Persiani (Hdt. 7.233.2), vd. Jones 1987, sp. 149–150.
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Si potrebbe allora immaginare che queste marchiature184 fossero state fatte con i pezzi metallici usati per il conio, che avrebbero impresso oltre ai simboli delle città anche i κύκλα185. A proposito del cavallo vecchio le raccolte paremiografiche (App.Prov. 3.29, Macar. 4.80, Arsen. 9.7a) registrano anche un’altra espressione proverbiale: ἵππου γῆρας “vecchiaia da cavallo”, usata dal paradossografo Heraclit. 1.9, da Plut. An seni 785d e DChr. 6.41. Cfr. Tosi 2017, nr. 809186. L’immagine del cavallo ormai vecchio e debole in contrasto con la forza della giovinezza ricorre anche altrove in letteratura: in Soph. El. 25–27 il fedele pedagogo è paragonato da Oreste a un nobile destriero, ormai vecchio, ma sempre attento (ὥσπερ γὰρ ἵππος εὐγενής, κἂν ᾖ γέρων ἐν τοῖσι δεινοῖς θυμὸν οὐκ ἀπώλεσεν, ἀλλ’ ὀρθὸν οὖς ἵστησιν); in Hor. ep. 1.1.8 (solve senescentem mature sanum equum, ne peccet ad extremum ridendus et ilia ducat) il vecchio cavallo è evocato in riferimento all’attività di scrittore e alla necessità di accettare il passare degli anni e uscire di scena per tempo. Per altri contatti di Cratete con la tradizione paremiografica vd. ad es. frr. 6, 38, 44 e cfr. supra.
fr. 34 K.-A. (27 K. = 32 B.) Schol. RH Hippocr. epid. 5.7 = 5.208.2–3 Littré (Erot. fr. 17 Nachmanson) κοχώνην· οἱ μὲν τὸ ἱερὸν ὀστοῦν. οἱ δὲ τὰς κοτύλας τῶν ἰσχίων, ἐξ ὧν ἐστιν Ἀριστοφάνης ὁ γραμματικός (fr. 341 Slater). Γλαυκίας (fr. 349 Deichgräber) δὲ καὶ Ἰσχόμαχος καὶ Ἱππῶναξ (fr. 151b West = *202 Degani) τὰ ἰσχία. οὐ γάρ, ὥς τινες ἔφασαν, αἱ ὑπογλουτίδες εἰσὶ κοχῶναι, ἀλλὰ τὰ σφαιρώματα καλούμενα. σάρκες δ’ εἰσὶν αὗται περιφερεῖς, ἐφ’ αἷς καθήμεθα. ὡς καὶ Ἀριστοφάνης ὁ κωμικὸς ἐν Τριφάλητί (fr. 558) φησι· “†τίς — οὑτοσί; καὶ Εὔπολις ἐν Κόλαξιν (fr. 88.1 e 3–4) · “ὃς — σκέλη”. καὶ ἐν Βάπταις (fr. 159)· “καὶ — θυννίδος”. καὶ Κράτης ἐν Σαλαμινίοις (Σαμίοις Daremberg)· “ἔ π α ι ξ α ν γ υ ν α ῖ κ ε ς ἅ τ ’ ὀ ρ χ η σ τ ρ ί δ ε ς κ α λ α ί , ἐ π ὶ κ ο χ ω ν ῶ ν τ ὰ ς τ ρ ί χ α ς κ α θ ε ι μ έ ν α ι”. μέμνηται καὶ Στράττις ἐν Χρυσίππῳ (fr. 56) καὶ Εὔβουλος ἐν Σκυτεῖ (fr. 96).
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Il verbo στίζω usato dalle fonti è ambiguo, indica segnare con un marchio e può essere usato sia in riferimento a tatuaggi sia in riferimento a marchiature a fuoco. Stadter 1989, 249 ritiene che nell’episodio dei Sami si tratterebbe di tatuaggi, sulla base di Jones 1987, che postulava che nel mondo greco stigma si riferirebbe esclusivamente ai tatuaggi e dall’epoca romana anche alle marchiature a fuoco. Anche ammettendo il presunto slittamento di significato, le nostre fonti sull’episodio dei Sami sono di epoca romana. Cfr. Phot. σ 561 Theodoridis στίξαι· τὸ ἐγκαῦσαι ἵππον e l’uso di καταστίζω in Phil. Spec. 1.58.4 e Diod. 34/5.2.27. La samena è il tipo attestato sui tetradrammi emessi dai Sami a Zancle nel 494–489 (Barron 1966, 6 tavv. VI-VII) e anche le fonti lessicografiche ricordato che era una moneta (vd. supra n. 183). Tosi attribuisce per errore a Cratino il frammento.
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kochōne: secondo alcuni l’osso sacro; invece le cavità degli ischi secondo altri, tra i quali il grammatico Aristofane. Glaucia e Iscomaco e Ipponatte gli ischi. Né invero, come dicevano alcuni, le parti inferiori dei glutei sono kochōnai, ma le cosiddette sphairōmata (natiche). Esse sono le parti carnose curve sulle quali ci sediamo. Come dice anche Aristofane comico nel Triphalēs “†τίς — σκέλη”. Anche Eupoli nei Kolakes “ὃς — σκέλη”. E nei Baptai “καὶ — θυννίδος”. E Cratete nei Salaminoi (i. e. Sami) “si divertivano le donne come belle ballerine, con i capelli sciolti fino alle chiappe”. Lo ricordano anche Strattide nel Chrysippos e Eubulo nello Skytos.
Metro incerto (vd. infra)
k l l k l k k l l k l k l k k k l l l k l k l k l
Bibliografia Daremberg 1851, 424; Schneidewin 1852, 426; Daremberg 1853, 217; Meineke V (1857), pp. XLIX-L Sam. fr. V; Bothe 1855, 79 Sam. fr. 5; Fritzsche 1857/1858, 6; Kock I (1880), 138–139 fr. 27; Blaydes 1896, 17; Edmonds I (1957), 164–165; Bonanno 1972, 48, 124–126 fr. 32; Kassel-Austin, PCG IV 103; Henderson 19912, 200; Storey 2011, FOC I 226–227. Contesto della citazione Il frammento è citato in uno scolio alle Epidemie ippocratee nel codice Vaticanus gr. 777. Il materiale erudito conservato nello scolio deriva verosimilmente da Eroziano, grammatico del I sec. d. C. autore di un glossario di termini ippocratici di cui ci è giunta una versione epitomata strutturata in ordine alfabetico. Eroziano utilizzava tra le sue fonti anche letteratura secondaria su altri testi letterari187. L’annotazione sul manoscritto ippocrateo riguarda il dibattito sull’esatta definizione del termine kochōne: osso sacro, oppure cavità degli ischi, oppure ischi stessi, o ancora parte inferiore delle natiche. Sono menzionati esplicitamente il grammatico Aristofane di Bisanzio, che intendeva come cavità degli ischi, e altri tre personaggi secondo i quali kochōnai erano gli ischi: l’empirico Glaucia, uno dei primi commentatori di Ippocrate188; il medico Iscomaco, autore di un’opera sulla scuola ippocratica189; e un Ipponatte di difficile identificazione190. È poi addotta una serie di passi comici. I due versi di Cratete sono il quarto passo citato estesamente dopo Aristoph. fr. 558 ed Eup. frr. 88 e 159, e precedono la menzione senza citazione di Stratt. fr. 56 e Eub. fr. 96. Il titolo di Cratete è sbagliato (già Dearemberg 1851, 215 riconduceva il tradito Salaminoi a Samioi), come probabilmente è erronea anche l’indicazione dei titoli di Eupoli, perché Ath. IV 183e-f cita il fr. 88.1–2 come dai Baptai e non dai Kolakes (per la possibile trasposizione dei due titoli in Eroziano 187 188 189 190
Vd. Dickey 2007, 45. Glaukias 8 RE. Vd. Deichgräber 19652. Radicke 1999. Salvo ipotizzare una totale confusione nello scolio o nelle sue fonti, in questo contesto ci aspetteremmo il nome di un grammatico o di un medico. Pare dunque poco probabile che questo Ipponatte sia il giambografo, che pure è menzionato altrove nell’opera di Eroziano. Sulle diverse ipotesi di identificazione vd. Degani 19912, 177 e 186.
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o nella sua fonte vd. già Dübner 1851). Il riferimento alle fonti comiche potrebbe risalire ad Aristofane di Bisanzio, l’unico tra le auctoritates menzionate per il quale siano noti interessi non solo specificamente medici e che certamente si occupò di commedia. Tuttavia nessuno dei passi comici sembra supportare l’interpretazione tecnica di kochōnē come cavità degli ischi (cfr. Slater 1986, 116). Le diverse interpretazioni del termine sono riportate, senza riferimenti a fonti primarie o secondarie, anche in Hsch. κ 3886 e 3887 e in Sch. VEΓΘMLh Aristoph. Eq. 424a. Cfr. anche Poll. 2.183. Constituzione del testo e metro Testo e metro sono incerti probabilmente a causa di guasti tradizionali. Fin dalla prima recensio del testo in Daremberg 1851, sono stati diversi i tentativi di ricostruzione, nessuno dei quali pienamente convincente. Dübner (apud Daremberg 1851, 424) proponeva dei trimetri ed emendava così: ἔπαιξαν οὖν (vel ἄρα) γυμναὶ καλαὶ τ’ ὀρχηστρίδες ἐπὶ 〈τῶν〉 κοχωνῶν τὰς τρίχας καθειμέναι immaginando che a partire da γυμναὶ καλαὶ τ’ ὀρχηστρίδες “ballerine nude e belle” trovasse spiegazione paleografica l’errore ΓΥΝΑΙΚΕΣΑΙ. Il τῶν al secondo verso è aggiunto per ragioni metriche. Tale ricostruzione era accolta dal Bothe e con qualche riserva da Schneidewin, che al posto di καλαὶ τ’ pensava fosse da restaurare il nome di un gioco, come oggetto di ἔπαιξαν. Jacoby (apud Meineke 1857, L) propose per il primo verso ὀρχηστρίδες γυμναὶ τ’ ἔπαιξαν καὶ καλαὶ e a conferma del καθειμέναι di v. 2 (per cui Blaydes suggeriva anche τετιλμέναι) portò a confronto DCass. 62.2.4, che nella descrizione della temibile e bellicosa Boudicca, donna a capo di un esercito di Britanni, scrive τήν τε κόμην πλείστην τε καὶ ξανθοτάτην οὖσαν μέχρι τῶν γλουτῶν καθεῖτο “lasciava sciolta la chioma folta e biondissima fino alle natiche”. Fritzsche mise in discussione la forma di aoristo ἔπαιξαν, ritenuta non attica, e propose ἐπῇιξαν, dunque non παίζω ma ἐπαΐσσω “slanciarsi”, “muoversi”, “agitarsi” (Il. 10.345, Od. 22.187, Eur. Hec. 1071), ricostruendo due tetrametri giambici ἐπῇιξαν αἵ τ’ ὀρχηστρίδες [κἄλλαι] καλαὶ γυναῖκες μέχρι τῶν κοχωνῶν τὰς τρίχας καθειμέναι kll Anche Kock emendava l’ἔπαιξαν iniziale, ma tornava ai trimetri ἔπαιζον αἱ γυναῖκες ἅμα τ’ ὀρχηστρίδες καλαί, ‘πὶ κοχωνῶν τὰς τρίχας καθειμέναι Bonanno difendeva invece il testo tradito, interpretandolo metricamente come dimetro bacchico / baccheo + digiambo / docmio / prosodiaco docmiaco, forse un attacco di strofa. Kaibel (apud Kassel-Austin) pensava a dimetri ἔπαιξαν (vel ἔπαιζον) γυναῖκες ἕπτ’ ὀρχηστρίδες καλαὶ ἐπὶ 〈τὼ 〉 κοχώνα τὰς τρίχας καθειμέναι Kassel e Austin prudentemente riportano il testo così come nella fonte, non prendendo posizione sull’inquadramento metrico, salvo dividere in ἅ τ’ il tradito ἅτ’,
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che Bonanno considerava «intoccabile» richiamando i paralleli lirici Alcm. fr. 3.62 Calame e Pind. O. 1.2. La forma ἅτ(ε) si trova non di rado in tragedia (Aeschl. Ag. 1122; Ch. 615; Sept. 140; Soph. Ai. 168) e in commedia, sia pure più spesso seguita da participio (vd. infra Interpretazione s. v.). Kassel e Austin non adducono argomenti in merito alla scelta di ἅ τ’. Interpretazione Nonostante le incertezze sul piano testuale, possiamo affermare che il frammento descrive una situazione di rilassatezza e sensualità. Delle donne sembrano abbandonare freni inibitori forse in una scena di danza. Sono evocate delle ballerine, che usualmente intrattenevano i convitati a simposio e si può intravvedere un’allusione sessuale anche nel’uso del termine kochōnē. Una simile atmosfera ludico/erotico anche nel fr. 27 (vd. supra). ἔπαιξαν è stato messo in discussione che tale forma di aoristo potesse essere utilizzata in attico in luogo del più comune ἔπαισαν (vd. supra Costituzione del testo). Bonanno 1972, 124–5 la difende in base al parallelo con Ctes. FGrHist 688 F 16.36 (παίξασα καὶ νικήσασα). Il verbo παίζω è usato a volte in riferimento alla danza, ad es. Od. 8.251, 23.147, Hes. Sc. 277, Pind. O. 13.86. Cfr. anche Aristoph. Ran. 407 (παίζειν τε καὶ χορεύειν). Lo stesso verbo ricorre in Cratete nel fr. 27 (παίζει). ἅτ’ forma avverbiale derivata dall’accusativo neutro plurale del pronome relativo ὅστε, usata soprattutto dai lirici e in tragedia come congiunzione con il significato di “come”, “come se” (oltre a Alcm. fr. 3.62 Calame e Pind. O. 1.2, menzionati da Bonanno, vd. Soph. Ai. 168 e cfr. anche Hdt. 5.85 κτείνειν ἀλλήλους ἅτε πολεμίους “si uccisero tra loro come nemici”). Più spesso si trova usata come congiunzione causale e seguita da participio. In commedia ad es. in Cratin. fr. 339 δασὺν ἔχων τὸν πρωκτὸν ἅτε κυρήβι’ ἐσθίων “con il culo peloso (i. e. virile, coraggioso) perché mangia crusca” (vd. Olson-Seaberg 2018, 112), Aristoph. Pax 623, Av. 75, Th. 456, Ran. 546a. Cfr. Denninston 19542, 525–526. ὀρχηστρίδες καλαί lo stesso sintagma in Aristoph. Ach. 1093. Oltre che nel finale degli Acharnesi, le ballerine, così come altre intrattenitrici in contesti simposiali, erano spesso ricordate in commedia per le loro prestazioni sessuali. Vd. ad es. Aristoph. Ran. 513 e 515, Metag. fr. 4 (su cui Pellegrino 1998, 297–299 con ulteriori riferimenti) e il titolo Orchēstris di Alessi. Gianvittorio 2018 evidenzia il frequente legame in commedia antica tra rappresentazioni di danze erotiche e parodia della Nuova Musica. κοχωνῶν termine anatomico attestato a partire dal V sec. in testi medici e comici. Si trova in Ippocrate oltre che in Epid. 5.1.7 (il passo oggetto dello scolio che è fonte del frammento crateteo), anche in Mul. 8.16 e 131.3. Il termine tecnico anatomico indica probabilmente il perineo o, meglio, la zona perineale. Cfr. Gal. Gloss.Hipp. vol. XIX p. 114.7 Kühn κοχώνην: τὴν σύζευξιν τὴν ἐν τοῖς ἰσχίοις τὴν πρὸς τὴν ἕδραν, δι’ ἣν καὶ πᾶς ὁ περὶ τὴν ἕδραν τόπος οὕτως ὀνομάζεται “la congiunzione negli ischi vicino all’ano, per cui e così chiamata anche tutta la zona intorno all’ano”. Ma sull’esatta definizione disputavano grammatici e commentatori antichi (vd. supra Contesto) e alcuni identificavano la kochōne più specificamente
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con l’osso sacro, o con gli ischi o con la cavità degli ischi o con la parte inferiore delle natiche. Probabilmente concorreva a questa incertezza il fatto che in commedia il termine fosse utilizzato, quasi sempre al plurale o al duale, con il significato più generico di “chiappe” (cfr. Poll. 2.183). In commedia al singolare ricorre solo in Theop. fr. 80 (fonte Poll. 2.18) ed è usato come insulto rivolto a una vecchia ubriacona “sederona”. Al duale si trova in Aristoph. Eq. 424 e 484: il Salsicciaio nasconde un pezzo di carne εἰς τὰ κοχώνα “tra le chiappe”. Gli sch. ad l. citano anche Aristoph. fr. 496 “ma bisogna stringere le chiappe”. In Aristoph. fr. 558 il termine è, come in Cavalieri, riferito a un uomo. Così pure in Eup. fr. 88.3, in cui come nel frammento crateteo c’è un contesto di danza e le natiche si muovono a ritmo di musica (vd. Olson 2017, 273). In Eup. fr. 159.2 è utilizzato in riferimento al corpo teriomorfo del mitico Cecrope (vd. Olson 2016, 54–55). In commedia dunque il termine anatomico è in genere riferito alle natiche maschili e a volte in contesti dalle chiare connotazioni sessuali (Henderson 19912, 200). La parola ricorre poi in Herond. 7.48, dove gli schiavi o i figli del calzolaio si scaldano le kochōnas come pulcini (vd. Cunningham 1971, 180). τὰς τρίχας καθειμέναι oltre al già citato DCass. 62.2.4, cfr. anche Aristoph. Th. 841 (la madre di Iperbolo con i capelli sciolti; cfr. Nub. 555 = Eup. Marikas test. 1, in cui la madre di Iperbolo doveva essere impegnata in una danza sfrenata), Eur. Bac. 695 (le baccanti sciolgono le chiome sulle spalle) e IT 52. Chiome particolarmente lunghe (in questo caso arrivano fino al sedere) erano forse considerate un elemento di bellezza (si confronti l’iconografia della dea Afrodite: LIMC II.1, 59–62). Il gesto di sciogliere i capelli è un segno di abbandono delle inibizioni, un messaggio di seduzione191.
fr. 35 K.-A. (31 K. = 35 B.) Poll. 7.63 Bethe (codd. FS, A, C) Ξενοφῶν (Cyr. 8.3.13) δ’ ἔφη ‘κάνδυν ὁλοπόρφυρον,’ Κράτης δ’ ἐν Σαμίοις (δ’ ἐν Σ. defic. C) ‘ἱμάτια περιπόρφυρα’ (περὶ πορφύρων ἱμάτια FSA). ταύτας δὲ τὰς πορφυροβαφεῖς ἐσθῆτας καὶ κάλλη φίλον τοῖς κωμῳδοῖς καλεῖν, ὡς Εὔπολίς που λέγει (fr. 363) ‘τὰ κάλλη – θεῷ’. Ἄρχιππος δ’ ἐν Πλούτῳ (fr. 41) καὶ πλατυπόρφυρα εἴρηκεν ἱμάτια. Senofonte dice kandun holoporphyron, Cratete nei Samioi (dice) himatia periporphyra “vesti orlate di porpora”. Ai comici piace chiamare queste vesti tinte di porpora anche kallē. Come dice Eupoli da qualche parte τὰ κάλλη – θεῷ. Archippo nel Ploutos ha detto anche platyporphyra himatia.
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Il motivo dei capelli come arma di seduzione trova notevole fortuna nella letteratura latina: vd. Hälikkä 2001 e Rosati 2015.
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Metro non definibile l k k ? (ἱμάτια) k k l k ? (περιπόρφυρα) Bibliografia Meineke II (1839), 246 Sam. fr. III; Bothe 1855, 79; Kock I (1880), 140 fr. 31; Edmonds I (1957), 166–167; Bonanno 1972, 140 fr. 35; Kassel-Austin 1983, PCG IV 104; Storey 2011, FOC I 226–227. Contesto della citazione Polluce cita il sintagma dai Samioi di Cratete (il titolo dell’opera è omesso nel codice C) nella sezione relativa all’abbigliamento, in particolare laddove ricorda abiti di colore porpora, enumerando alcuni aggettivi composti con -πόρφυρος. Il frammento di Cratete è citato dopo κάνδυν ὁλοπόρφυρον “sopravveste tutta di porpora” di Senofonte (Cyr. 8.3.13). Segue il fr. 363 di Eupoli, relativo a κάλλη “splendori” per indicare vesti purpuree destinate alla dea (vd. Olson 2014, 85–87), e il riferimento all’espressione πλατυπόρφυρα ἱμάτια di Archippo (fr. 41, su cui vd. Miccolis 2017, 249–250), molto simile a quella di Cratete. La lezione περὶ πορφύρων ἱμάτια deriva verosimilmente da una mancata comprensione dell’aggettivo περιπόρφυρα, erroneamente scomposto in περὶ πόρφυρα e quindi normalizzato al genitivo. Tale errore ha portato a pensare che l’ordine dei termini in Polluce non fosse ἱμάτια περιπόρφυρα (testimoniato da C e accolto a testo da Bekker 1846 e da Bethe 1966), ma περιπόρφυρα ἱμάτια (cfr. πλατυπόρφυρα … ἱμάτια per Archippo), e che ciò rispecchiasse il testo di Cratete (così Meineke, Bothe, Kock). Edmonds manteneva invece per Cratete ἱμάτια περιπόρφυρα, e anche secondo Bonanno «sembra preferibile – non essendo possibile una scelta su base metrica – questa seconda soluzione, che evita lo iato» (Bonanno 1972, 140). Non abbiamo tuttavia nessuna certezza né sul caso in cui erano i due termini né se tra di essi si frapponessero altri elementi nel testo comico. Interpretazione Non abbiamo elementi per ipotizzare il contesto comico in cui Cratete inserì gli abiti con bordatura (o frangia?) purpurea, né per capire se fossero parte di un costume effettivamente presente sulla scena. Si tratta certamente di capi di vestiario pregiati, che potevano marcare lo status sociale elevato di chi li indossava. Nell’epitome delle Politeiai aristoteliche di Eraclide Lembo ricorre lo stesso sintagma περιπόρφυρα ἱμάτια e tali vesti lussuose sono il segno della prosperità raggiunta dagli Agrigentini (εὐθένησαν οὕτως ὡς περιπόρφυρα ἔχειν ἱμάτια Heracl. Exc. 69)192. In altre fonti più tarde, riferibili ad ambiente romano, la veste periporphyros può essere associata alla giovane età (vd. infra). Secondo Polluce 4.119 il costume color porpora era utilizzato sulla scena per i personaggi giovani (καὶ πορφυρᾷ δ’ ἐσθῆτι χρῶνται οἱ νεανίσκοι).
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Vd. Polito 2001, 185. Dilts accoglie εὐθένησαν, mentre Rose nell’edizione dei frammenti aristotelici del 1886 preferiva la variante εὐσθένησαν, che forse ricondurrebbe più che al lusso al vigore giovanile di chi indossava tali vesti.
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περιπόρφυρα Dopo il frammento crateteo l’aggettivo περιπόρφῠρος si ritrova in attestazioni letterarie, epigrafiche e papiracee a partire dal III-II sec. a. C.193, normalmente riferito a vesti194. Oltre che i già citati excerpta di Eraclide Lembo, vd. Polibio 3.114.4, in cui è periporphyros una tipica tunichetta dei soldati Iberici (τῶν δ’ Ἰβήρων λινοῖς περιπορφύροις χιτωνίσκοις κεκοσμημένων κατὰ τὰ πάτρια). Numerose le occorrenze in riferimento all’ambiente romano, dove la veste periporphyros è la toga praetexta, la toga indossata dalle più alte cariche pubbliche e dai giovani prima dell’età per la toga virilis (Dion.Hal. 2.70; Plut. Rom. 26.3, Sul. 9.4 ecc.). In questo senso περιπόρφῠρος può riferirsi anche al giovinetto che indossa la toga (Plut. Publ. 18.3 ὁμήρους ἔδωκαν ἐξ εὐπατριδῶν περιπορφύρους [sc. παῖδες] δέκα καὶ παρθένους τοσαύτας). Riferimenti alla πορφύρα non sono infrequenti in commedia, sia per designare il mollusco (murex), ad es. Epicharm. fr. 40.3 e Archipp. fr. 25, sia il prezioso pigmento da esso ottenuto. Per quest’ultimo significato, più frequente, si veda in particolare il fr. 41 di Archippo, citato da Polluce nello stesso contesto del frammento crateteo. Πορφύρα, forse da intendere come nome proprio femminile, è inoltre il titolo di commedie del IV secolo: di Xenarchus (frr. 7–9) o Timocles (vd. test. 1) e di Augeas. ἱμάτια L’himation era un ampio rettangolo di tessuto indossato sul chitone a mo’ di mantello o direttamente come vestito. Era un capo di abbigliamento esterno molto versatile e comunemente utilizzato sia da uomini sia da donne. L’himation fa spesso parte del costume drammaturgico ed è il capo di abbigliamento menzionato più spesso in commedia, anche perché poteva essere tolto, ricomposto o comunque manipolato sulla scena; vd. Compton-Engle 2015, sp. 60–65. Compton-Engle, in base alle occorrenze in Aristofane, ritiene che l’himation potesse caratterizzare il personaggio come cittadino Ateniese in contrasto con non-cittadini o personaggi non ateniesi, e che d’altra parte diversi tipi di himatia, in base a tessuto ed eventuali decorazioni e colori, potessero essere usati per marcare lo status sociale dei personaggi che li indossavano (Compton-Engle 2015, 61). Per le rappresentazioni vascolari e le figurine di terracotta con himatia, anche con bordi e frange, vd. Hughes 2012, 185–188. Per le occorrenze in commedia cfr. anche Olson 2016, 89–990 ad Eup. fr. 172.5.
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Con l’unica possibile eccezione di un frammento dello storico Ippia di Eritre, la cui datazione è assai controversa (età ellenistica o IV sec. a. C.?): FGrHist 421 F 1.31 χιτῶνας ἐνδεδυκότες περιπορφύρους con riferimento ai magistrati di Eritre. In papiri di età tolemaica l’aggettivo è riferito a tappeti o coperte (P.Cair.Zen. III 59423; P.Col. III 15; PSI VII 858). Non a stoffe ma alla cornice di una stanza da dipingere sembra invece da riferirsi in P.Cair.Zen. III 59445.5–6.
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Τόλμαι (Tolmai)
(“Imprese temerarie”) Bibliografia Schmid 1946, 90; Edmonds I (1957), 167; Bonanno 1972, 53; KasselAustin 1983, PCG IV 104; Storey 2011, FOC I 229; Sofia 2012; Sofia 2016, 65–66. Titolo Non conosciamo altri drammi con questo titolo. L’unico parallelo, per altro incerto, potrebbe essere offerto da uno dei titoli elencati in P.Berol. inv. 13927.2, un papiro del V/VI sec. verosimilmente riferibile a spettacoli di varietà tardo-antichi195. Il termine τόλμα “coraggio”, “ardimento”, “audacia”, spesso assume la connotazione negativa di temerarietà, ardire oltre i limiti della ragionevolezza (ad es. Aeschyl. Ch. 1004, 1029, Soph. Ant. 915, Thuc. 3.82.4). In questo senso nel titolo si potrebbe immaginare una nota di disapprovazione morale verso imprese avventate, sconsiderate. Per altri titoli astratti al plurale cfr. ad es. Peirai di Ecfantide (vd. Bagordo 2014a, 85) o Katachēnai di Lisippo (vd. Bagordo 2014b, 67). Il fatto che il titolo sia al plurale potrebbe indicare un coro femminile costituito da personificazioni di “imprese audaci” (vd. Storey 2011: «how costumed?»). Secondo Storey 2011, se Tolmai non sono i membri del coro, avremmo a che fare con un titolo che riflette un tema portante della trama comica («a continuing theme within the play»). Bonanno 1972 richiama il concetto filosofico di tolma196 e più specificamente la nozione sofistica197. Secondo l’interpretazione prevalente il tema potrebbe essere invece storico. Già Schmid 1946 vedeva in questo titolo un indizio di contenuti connessi all’attualità ed Edmonds 1957, seguito da Sofia 2012 e 2016, sulla base del fr. 37 (vd. infra) ipotizza un inquadramento della commedia nel contesto della fallimentare spedizione ateniese in Egitto in supporto alla rivolta antipersiana di Inaro. Secondo questa interpretazione il titolo alluderebbe sarcasticamente alle decisioni azzardate prese dagli Ateniesi in quel frangente, si riferirebbe quindi a una precisa situazione di politica estera. Sofia 2012 attribuisce a Cratete «un moto profondo di dissenso nei confronti della politica imperialistica ateniese», che lo spingerebbe a trattare nella sua commedia di «fatti scottanti», che l’autrice immagina al centro anche del Bousiris, dramma di Cratino (che Welcker 1844, 333 e 338 attribuiva a Cratete) di cui si sa ben poco (vd. Bianchi 2016). Scettico Nesselrath 2017: «are we really to believe that Crates wrote a comedy in which he made fun of a disastrous Athenian defeat (he might have remembered what happened to his fellow dramatist Phrynichus when he put the destruction of Miletus by the Persians on stage: see Herodotus 6.21.2)? Moreover, the events that 195 196 197
La lettura σχήματιν τολμήματος (“Danza dell’audace impresa”) è molto dubbia. Vd. Perrone 2011, sp. 132–133 e n. 10. Sul tema vd. Baladi 1971. Sui Sofisti e la commedia antica vd. Carey 2000.
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Crates is supposed to have alluded to according to Edmonds and Sofia took place around 460 BCE, but Crates very likely only started producing comedies around 450: why should he have wanted to start his dramatic career by reminding his fellow Athenians of their bitter defeat in Egypt ten years ago?». Difficile tuttavia negare l’allusione a questi eventi nel fr. 37 (vd. infra e cfr. Perrone di prossima pubblicazione). Resta da chiedersi se fosse un richiamo circoscritto o se fosse centrale per l’argomento della commedia. Datazione Secondo Edmonds la commedia potrebbe datarsi al 452, immediatamente dopo il fallimento della spedizione ateniese in Egitto. Sofia 2012 ritiene ci possa essere in particolare un riferimento all’assedio dell’isola di Prosopitide del 454 a. C. Se è corretta la connessione con questa vicenda politico-militare, andrà considerato che l’impegno di Atene in aiuto dei ribelli del Delta durò fino al 450, anno in cui l’invio di una flotta da Cipro all’Egitto venne interrotto a causa della morte del comandante Cimone per un’epidemia198. Data la rilevanza di questi eventi per la politica ateniese, non si può escludere che allusioni potessero ricorrere anche a distanza di diversi anni.
fr. 36 K.-A. (32 K. = 36 B.) πρῶτα μὲν ταλαντιαῖος ὅστις ἔστ’ αὐτῶν λέγε innanzitutto di’ quale di questi vale un talento Poll. 9.53 τὸ δὲ ἐν ταῖς Κράτητος Τόλμαις “πρῶτα μὲν ταλαντιαῖος ὅστις ἔστ’ αὐτῶν λέγε” ἄδηλον εἴτε τιμὴν εἴτε ῥοπὴν λέγει, ὥσπερ ὅταν Ἀλκαῖος ὁ κωμικὸς ἐν Ἐνδυμίωνι εἴπῃ· νοσημάτων ταλαντιαίων (fr. 12). nelle Tolmai di Cratete πρῶτα — λέγε non è chiaro se intende il valore o il peso, come quando il comico Alceo nell’Endymiōn avrebbe detto “malattie da un talento”.
Metro tetrametro trocaico catalettico
lklk lklk | lkll lkl
Bibliografia Meineke II (1839), 246 Tolm. fr. II; Kock I (1880), 140 fr. 32; Gardner 1881, 284; Ehrenberg 1951, 235 n. 7; Edmonds I (1957), 166–167, 889; Gelzer 1960, 185; Bonanno 1972, 54 n. 2, 140–141 fr. 36; Gil-Alfageme 1972, 39 nota 8; Kassel-Austin, PCG IV 104; Storey 2011, FOC I 228–229; Orth 2013, 63.
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Su queste vicende vd. Biondi 2016.
Τόλμαι (fr. 36)
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Contesto della citazione Polluce tratta delle denominazioni delle unità monetarie attiche e a proposito del talento osserva che può indicare sia un valore monetario (τιμή) sia un’unità di peso (ῥοπή). Come esempi di questa potenziale ambiguità cita il frammento di Cratete e il fr. 12 di Alceo comico, in cui l’aggettivo è riferito a malattie insieme gravi e la cui cura richiede significativi esborsi. In entrambi i casi Polluce indica esplicitamente anche il titolo dell’opera da cui cita. Interpretazione Il frammento deriva da un dialogo tra due personaggi, in cui uno richiede all‘altro di indicare chi è ταλαντιαῖος tra più persone oppure cose definite in precedenza (ὅστις αὐτῶν). Secondo Gelzer 1960 il verso potrebbe far parte dell’agone epirrematico. Il contesto di citazione suggerisce che la battuta sia giocata sull’ambivalenza di ταλαντιαῖος in riferimento a qualcuno o qualcosa che pesa un talento / che vale o costa un talento. Bonanno ritiene sia da intendere nel senso di “che possiede – e quindi vale – un talento”. Il talento è un’unità di conto equivalente a 36.000 oboli (= 600 dracme = 60 mine) e a circa 26 kg di argento, e spesso indica genericamente una somma di denaro molto alta. Sono in talenti i conti delle città, dei tributi degli alleati e delle entrate fiscali ad esempio (vd. Aristoph. Ve. 656–663). È possibile che qui l’aggettivo stesse a indicare una persona ricca, forse con un uso iperbolico del termine, oppure che si alludesse a un personaggio responsabile di provvedimenti finanziari rilevanti per la politica ateniese. Riferimenti al tema del denaro e della ricchezza si ritrovano anche in altri frammenti di Cratete, ad es. frr. 22 e 48. Sulla terminologia monetale e il suo uso metaforico in commedia in relazione alla politica finanziaria ateniese vd. Burelli 1973. ταλαντιαῖος Per il significato “che pesa un talento” riferito a cose vd. ad es. Aristot. Cael. 311b3–4 riferito a ξύλον “legno”, Pol. 9.41.8 riferito a λιθοβόλος “una macchina lanciasassi” a indicare il peso del proiettile. Per il significato “che costa un talento” vd. ad es. Demosth. 27.64 οἶκοι ταλαντιαῖοι “case che valgono un talento”, Pol. 23.4.3 ταλαντιαίαν λαβόντες κτῆσιν “acquisita una proprietà che vale un talento”. Riferito a persone come nel frammento di Cratete in Aristot. Oec. 1350a19 con ἔγγυος “che dà garanzie fino all’importo di un talento”. Forme analoghe testimoniate dallo stesso Polluce sono μνααῖος (Poll. 9.96, che cita Amips. fr. 19) e δραχμιαῖος (Poll. 9.60, che cita Aristoph. fr. 438). Attestato anche ὀβολιαῖος (ad es. Aristot. HA 522a31, Theano Ep. 6.2). Cfr. inoltre gli aggettivi come διτάλαντος, τριτάλαντος (Aristoph. Lys. 338); vd. Lobeck 1820, 547.
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Crates
fr. 37 K.-A. (33 K. = 37 B.) ποιμαίνει δ’ ἐπισίτιον· ῥιγῶν δ’ ἐν Μεγαβύζου, † δέξετ’ ἐπὶ μισθῶι σῖτος † 1 ποιμανεῖτ’ ἐπισίτιος Bonanno (ἐπισίτιος iam Daléchamp) μεταβύξου A199 δέξεται τ’ ἐπὶ μισθῶι | σῖτον Porson
2 Μεγαβύζου Casaubon :
pasce senza paga oltre al cibo; battendo i denti nel palazzo di Megabizo † riceverà per paga cibo † Ath. VI 247f (μνημονεύει 247d)—ἐπισιτίου δὲ Κράτης Τόλμαις· ποιμαίνει — σῖτος (ricorda) episitios Cratete in Tolmai: ποιμαίνει — σῖτος.
Metro versi eolici: gliconeo, ferecrateo, incerto
l l l k k l k x l l l k k l x l k k k l l l x
Bibliografia Porson 1814, 74; Meineke II (1839), 246 Tolm. fr. I; Kock I (1880) fr. 33; van Herwerden 1903, 13; Edmonds I (1957), 166–167; Bonanno 1972, 141–144 fr. 37; Kassel-Austin 1983, PCG IV 104–105; Nesselrath 1985, 98 n. 294; Storey 2011, FOC I 228–229; Sofia 2012.; Sofia 2016, 65–67. Contesto della citazione Nell’ambito di una discussione sul significato di παράσιτος e parole simili come ἀπόσιτος, οἰκόσιτος, ἐπίσιτος (senza iota), Ateneo cita il passo di Cratete come esempio dell’uso del termine episitios (con iota), ma la citazione pare fuori posto perché Ateneo ha già trattato di episitios (con iota), come egli stesso ricorda (τῷ δὲ παράσιτος ὅμοιά ἐστιν ὀνόματα ἐπίσιτος, περὶ οὗ προείρηται), poco sopra (Ath. VI 246f-247a), con riferimenti a altri passi comici – Timocl. fr. 31, Pherecr. fr. 37, Aristoph. fr. 452, Eub. fr. 20 – e a Plat. Rp. 420a καὶ ταῦτα ἐπισίτιοι καὶ οὐδὲ μισθὸν πρὸς τοῖς σιτίοις ὥσπερ οἱ ἄλλοι λαβόντες “e sono episitioi e non ricevono, a differenza di altri, alcun compenso oltre agli alimenti” (i difensori della città). Costituzione del testo Il testo tradito dal Marciano è corrotto e la constitutio textus resta molto incerta. Diversi sono stati i tentativi di emendamento. 199
Kaibel e Kassel-Austin riportano μεταβύζου come lezione del Marciano. Ma da un controllo del punto (ultimo rigo del f. 87v del Marciano) la lettura risulta -βύξου, come correttamente riportato nell’edizione di Casaubon 1657, 248.
Τόλμαι (fr. 37)
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Daléchamps (apud Schweighäuser 1802, II 464), seguito da Edmonds, Bonanno, Sofia, propose di correggere l’accusativo ἐπισίτιον (v. 1) con il nominativo. Il senso sarebbe in tal caso “ma pascolerà (le greggi) retribuito solo col pasto” (trad. Sofia). Intendendo l’accusativo come avverbiale (vd. infra) questa correzione non sarebbe necessaria e l’interpunzione potrebbe essere modificata dal punto alto stampato da Kassel e Austin a virgola, perché non ci sarebbe verosimilmente cambiamento di soggetto. Bonanno congetturava un originario futuro medio ποιμαινεῖτ(αι), che avrebbe dato luogo all’errato presente attivo ποιμαίνει δ’ e di conseguenza alla trasformazione del nominativo ἐπισίτιος in accusativo. Gravi incertezze investono anche il v. 3 δέξετ’ ἐπὶ μισθῷ σῖτος, sospettato di essere una glossa riferita a episitios (van Herwerden, Wilamowitz, Bonanno 1972, 143) infiltratasi nel testo. Nonostante diversi tentativi di emendamento con la correzione di σῖτος in σῖτον e vari aggiustamenti necessari per la metrica (in particolare si vd. in app. la congettura di Porson, seguito da Sofia), Kassel-Austin e Storey ritornano al textus receptus, ponendo tra cruces l’ultimo verso. Interpretazione Le possibili interpretazioni del frammento sono dipese sostanzialmente da due elementi: dalla constitutio textus al v. 1, con l’accusativo ἐπισίτιον dei codici ovvero con l’emendamento ἐπισίτιος e da come si intende il nome Megabizo al v. 2. Se si considera l’accusativo ἐπισίτιον al v. 1 come complemento oggetto di ποιμαίνει (“pasce uno che si guadagna il vitto”) avremmo due personaggi distinti: l’episitios e colui che dà sostentamento all’episitios (soggetto di ποιμαίνει al v. 1). Non è chiaro se è quest’ultimo a soffrire il freddo nel palazzo di Megabizo (v. 2) e a diventare a sua volta episitios (v. 3), oppure se ci sia un cambio di soggetto al v. 2. Accogliendo invece il nominativo, l’episitios di v. 1 sarebbe il soggetto che pascola, soffre il freddo, e riceve come paga cibo. Un’altra possibilità, finora non considerata, sarebbe quella di mantenere l’accusativo della paradosis intendendolo però come avverbiale, nel senso di “senza ricevere pagamento” (cfr. δωρεάν “gratuitamente” ad es. in Hdt. 5.23). Il nome Μεγαβύζος è inteso da alcuni come nome pomposo per indicare genericamente un riccone (cfr. Luc. Tim. 22, Hsch. μ 446) e dare un “overtone of grandeur” (Storey 2011, 229; vd. anche Kassel-Austin 1983, 105). Secondo altri invece Cratete si riferiva a un preciso personaggio storico: il generale persiano contro cui combatterono gli Ateniesi durante la spedizione egiziana (460–454 a. C.). In base a questa identificazione Edmonds, 167 n. 8, suggeriva un’identificazione dello sventurato personaggio descritto nel frammento con Inaro, il principe libico che guidò la rivolta egiziana contro i Persiani e fu sconfitto e catturato da Megabizo. L’ipotesi è ripresa da Sofia 2012, la quale però ritiene che il frammento sia da riferire all’episodio del lungo assedio patito dai soldati ateniesi nell’isola di Prosopitide nel 454 a. C.: i versi di Cratete sarebbero una sorta di canto di incoraggiamento alla resistenza con il quale il coro di soldati prefigura le dure condizioni di vita che sarebbero toccate loro se se si fossero arresi a Megabizo. L’ipotesi di Sofia si spinge probabilmente troppo oltre e non abbiamo elementi sufficienti che avvalorino una così dettagliata ricostruzione. Appare però del tutto verosimile che
188
Crates
l’evocazione del nome Megabizo negli anni in cui fu attivo sulla scena Cratete fosse inteso in relazione al personaggio ben noto agli Ateniesi e non come un generico riferimento antonomastico. Il pubblico a teatro doveva avere ancora vivo il ricordo della clamorosa disfatta, che aveva rappresentato un punto di svolta nella politica militare di Pericle. Sulla spedizione egiziana e Megabizo vd. Thuc. 1.104, 109–110, Ctes. FGrHist 688 F 14.37–39, Diod. 11.77.5. ποιμαίνει verbo documentato già nella poesia omerica con il significato di “portare al pascolo” (e. g. Il. 6.25; Od. 9.188) e in seguito anche nel senso figurato di “nutrire”, “aver cura di” (Pind. I. 5.12; Aeschl. Eum. 91) – che sembra essere qui usato –, oppure “guidare”, “comandare” (Anacr. fr. 3.8 Page; Eur. fr. 744.2). In commedia si ritroverà solo in Men. Epitr. 243, 256 in riferimento all’attività del pastore Davo. ἐπισίτιον episitios è colui che si mette al servizio di qualcuno per guadagnarsi il vitto (vd. Plat. Rp. 420a; Hsch. ε 5167; vd. inoltre gli altri passi comici citati da Ateneo). Il termine è usato in commedia in accezione chiaramente negativa per schernire chi, pur non essendo schiavo, è pronto a tutto pur di mangiare a sbafo. La figura è assimilabile a quella del kolax ed è ben rappresentata nella commedia dorica così come nella commedia ateniese200. Per la vita di disagi patita dal parassita cfr. Epichar. fr. 32.8ss. ῥιγῶν da ῥιγόω o ῥιγέω. Patire il freddo è tipico di una situazione di privazioni e spesso associato alla fame: ad es. in Aristoph. Ach. 857 lo stesso participio è riferito a Lisistrato (un ingegnere militare di età periclea), “che ha sempre freddo e fame”. Cfr. anche Nub. 416 e 442. In Ach. 1146 a essere intirizzito è Lamaco che fa la guardia. Il freddo è spesso dovuto alla mancanza di vestiti adeguati, es. Aristoph. Ve. 446, Av. 712. Cfr. anche il titolo Hēlios rigōn di Aristonimo (su cui Orth 2014, 107–108). Ad aver freddo può essere il poeta (vd. ad es. Aristoph. Av. 935), secondo il topos del poeta pitocco (Hippon. fr. 42 Degani) e forse anche con un doppio senso sulla “frigidità” della cattiva poesia, con una connotazione tecnica di critica letteraria che più spesso è espressa con l’aggettivo ψυχρός (vd. Mastromarco 1997, 541–548). La forma ῥιγῶν può essere un participio presente attivo nominativo singolare maschile, come è in genere inteso, oppure anche una forma ionica dell’infinito (cfr. Aristoph. Nub. 439, Ve. 446 e Av. 935). Μεγαβύζου l’emendamento di Casaubon è accolto da tutti gli editori di Cratete eccetto Kock. Megabizo è nome persiano (Hdt. 3.70.2 e 7.82) e con ogni veosimiglianza fa riferimento al generale che sconfisse gli Ateniesi (vd. supra). δέξετ’ potrebbe essere tanto una seconda persona plurale quanto una terza singolare, ma se si considera il v. 2 sintaticamente legato al v. 3 e non al v. 1, allora δέξετ’ è da intendere come terza persona singolare, dato il participio ῥιγῶν (v. 2). Se invece si intendesse ῥιγῶν come infinito (vd. supra) allora si dovrebbe valutare
200
Vd. Nesselrath 1985, 98, 100, Quaglia 2002, 219–220. Sulla figura del parassita vd. anche Corner 2013.
Τόλμαι (fr. 38)
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una costruzione di δέχομαι + inf. nel senso di “accettare di/rassegnarsi a” patire il freddo. ἐπὶ μισθῶι incerto il valore di ἐπί + dativo, se sia da intedere come “per paga” oppure “in aggiunta alla paga”. Così Olson, che nella traduzione del passo di Ateneo (2006–2012: 2018) scrive “in addition to a wage”. Cfr. Pherecr. fr. 37 τιν’ ἐπὶ μισθῷ ξένον “ospite a pagamento”. La prima interpretazione mi sembra preferibile perché in linea con il significato di episitios e perché trova paralleli in altre occorrenze dello stesso sintagma con il significato di “per un compenso” “dietro pagamento” as es. in Aesop. 57, Hdt. 8.4.10 e 8.137.2.
fr. 38 K.-A. (36 K. = 40 B.) Phot. ο 354 Theodoridis = Suda ο 388 Adler (= AelD. ο 24 Erbse) ὄνος ἐν μελίτταις: Κράτης Τόλμαις· καὶ, ὄνος ἐν μύρωι· παροιμία. asino tra le api: Cratete in Tolmai. Anche asino con il profumo: proverbio.
Metro non definibile k ? (ὄνος) l k
l l (ἐν μελίτταις)
Bibliografia Meineke II (1839), 247 Tolm. fr. VI; Kock I (1880), 141 fr. 36; Blaydes 1896, 283–284; van Herwerden 1903, 13; Edmonds I (1957), 166–167; Bonanno 1972, 147 fr. 40; Kassel-Austin, PCG IV 105; Storey 2011, FOC I 229. Contesto della citazione Nella tradizione lessicografica riconducibile all’atticista Elio Dionisio viene lemmatizzata l’espressione onos en melittais ed è citata come fonte la commedia Tolmai di Cratete. Ad essa segue un proverbio simile che ha per protagonista l’asino: ὄνος ἐν μύρωι. Non è chiaro se si tratti di due glosse relative a espressioni simili semplicemente giustapposte in serie, come spesso accade in queste fonti, oppure se la seconda costituisca la spiegazione del lemma (si noti che παροιμία è al singolare). In questo secondo caso l’espressione usata da Cratete sarebbe una deformazione comica a partire dal proverbio ὄνος ἐν μύρωι con la sostituzione dell’ultimo termine (cfr. infra Interpretazione). Non sappiamo se nel testo comico l’ordine delle parole e il caso di ὄνος corrispondessero al lemma. In questa forma potrebbe costituire la prima parte di un trimetro giambico. Interpretazione Nella tradizione paremiografica l’espressione “asino tra le api” è spiegata come riferita a chi incappa in avversità o in persone malvage: cfr. Diogen. 7.32 Ὄνος ἐν μελίσσαις: ἐπὶ τῶν κακοῖς περιπεσόντων. Un ulteriore dettaglio si trova in Prov. Coisl. 365: Ὄνος ἐν μελίσσαις: ἐπὶ τῶν ὑπὸ συκοφαντῶν ἢ πονηρῶν ἀνδρῶν παραλαμβανομένων, riferito a chi è preso da sicofanti o da persone malvage. Erasmo da Rotterdam Adagi 15.42 lo compara con il proverbio ὄνος ἐν πιθήκοις “asino tra le scimmie” (Men. fr. 296.8 citato da Gel. 2.23.9) riferito allo sciocco
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Crates
che si imbatte in persone insolenti che lo deridono. Nella stessa voce lessicografica è ricordato un altro proverbio ὄνος ἐν…, “asino con il profumo”, che sembra da intendersi come riferito a persone rozze che non sono in grado di apprezzare cose raffinate (cfr. Prov. Coisl. 367) e che potrebbe aver costituito la base di partenza per l’espressione utilizzata nella commedia di Cratate. Molte le espressioni proverbiali con l’asino (vd. Tosi 2017, nrr. 588–597; Griffith 2006, 227–228), spesso usate anche in commedia: vd. ad es. “l’ombra dell’asino” per cose di nessuna importanza, che è il titolo di un dramma di Archippo (Onou skia vd. Miccolis 2017, 213–216) e ricorre in Aristoph. Ve. 191 e fr. 199; “un asino è più bello per un asino” [Epichar.] fr. 279.5; “asino sotto la pioggia” Cratin. fr. 56 (con Bianchi 2016, 333–334); “asino di Antrone” Pherecr. fr. 16; “asino ai misteri” Aristoph. Ran. 159; “asino che ascolta la tromba” Eup. fr. 279 (con Olson 2016, 422) e “asino alla lira” Men. fr. 418 e Mis. 295; “asino che va alle scorze di frutta secca” Philem. fr. 158. Non abbiamo elementi per ipotizzare a chi potesse riferirsi questa metafora animale nel passo comico. Se teniamo conto dell’interpretazione dei paremiografi, probabilmente era paragonata all’asino una persona, forse giudicata sciocca o semplicemente disgraziata, che si trovava sopraffatta da avversari aggressivi. Non è da escludere però un significato più vicino al proverbio “asino col profumo” o “asino alla lira” a indicare incapacità di apprezzare cose raffinate, In questo secondo caso sarebbe possibile un significato metaletterario (vd. infra ad μελίτταις), in riferimento a una persona rozza tra fini oratori o poeti. Cratete è ricordato dalle fonti anche per altre espressioni proverbiali o divenute tali: vd. ad es. fr. 6, fr. 33, fr. 44 (vd. infra). ὄνος nel mondo greco l’asino era usato prevalentemente come bestia da soma e spesso connotato come animale stupido, lento, testardo e bersaglio di percosse. Vd. Kitchell 2014, 57–59; Gregory 2007. μελίτταις forma attica per μελίσσαις. Le api sono spesso connotate positivamente come simbolo di operosità (in contrapposizione al fuco ozioso che approfitta del lavoro altrui, vd. ad es. Hes. Op. 303–306), ordinata organizzazione (Semonide fr. 7.83–87 West), combattività (Il. 12.167), purezza (Eur. Hip. 77), e arrivano ad essere considerate quasi divine (Aristot. GA 761a5). Vd. Roscalla 1998 e Conti Bizzarro 2009; Kitchell 2014, 16–17. Un aspetto negativo di pericolosità e malvagità si evidenzia invece nella tradizione favolistica. Ad es. nell’apologo eziologico Le api e Zeus (Aesop. 172), Zeus punisce le api, che chiedono di poter uccidere gli uomini che si impossessano del loro miele, stabilendo che esse muoiano per la perdita del pungiglione: le api in questo caso rappresentano le persone così maligne da essere disposte a subire esse stesse un danno. Cfr. anche Aesop. 27 e 74. In commedia il titolo Μέλιτται è attestato per Diocle (vd. Orth 2014, 217–219) e al singolare per Antifane Μέλιττα, probabilmente il nome di una cortigina (cfr. anche Luc. DMer. 4). Aristofane usa la metafora dell’ape per Paflagone/Cleone, che si posa su tutti i fiori della corruzione ma sarà costretto a risputare il maltolto (Eq. 406–407) e nei Demi di Eupoli (fr. 102) Pericle ha “l’ape sulle labbra” perché il suo eloquio è dolce come il miele e penetrante come un pungiglione: vd. Conti Bizzarro 2009, 47–66 e 71–120. L’ape è spesso associata ad oratori e poeti, ad es.
Τόλμαι (fr. 39)
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anche in Aristoph. Av. 748–751, Ran. 1299ss. e fr. 598, in riferimento a Sofocle, che era soprannominato dai commediografi melissa (Soph. test. 110 R.) Per estensione melissa può indicare anche il miele (cfr. Soph. OC 481), un significato che renderebbe più stringente la corrispondenza con ὄνος ἐν μύρωι, ma è improbabile che μελίτταις al plurale fosse inteso in questo senso. Si consideri infine che melissa può essere anche nome proprio femminile (47 occorrenze in LGPN; e. g. Hdt. 3.50 e 5.92, moglie di Periandro) o toponimo (varie località: Pleiades nr. 614746 e vd. e. g. Steph. Byz. s. v. = Hecat. fr. 357, città libica).
fr. 39 K.-A. (37 K. = 41 B.) Antiatticista ε 33 Valente ἐξ ὅτου· ἀντὶ τοῦ ἐξ οὗ ἦλθον. Κράτης Τόλμαις. ἐξ ὅτου ἦλθον Sicking : οὗ, ἦλθον Meineke (et K.-A.) ex hotou (“da che”): nel senso di “da dove sono venuti/o”. Cratete in Tolmai.
Bibliografia Meineke II (1839), 247 Tolm. fr. VII; Kock I (1880), 141 fr. 37; Blaydes 1896, 18; van Herwerden 1903, 13; Edmonds I (1957), 166–167; Bonanno 1972, 147 fr. 41; Kassel-Austin 1983, PCG IV 105; Storey 2011, FOC I 229. Contesto della citazione Alla spiegazione del lemma segue un riferimento a una commedia di Cratete, autore citato nella raccolta lessicografica solo qui e forse a μ 35201. Non è certo ma è probabile che ἦλθον riprenda il testo poetico di Cratete (Kaibel apud K.-A.), o almeno alluda al suo contenuto. La trasposizione del verbo a lemma proposta da Sicking 1883 ha avuto un certo seguito: Kock ed Edmonds hanno considerato parte del frammento crateteo anche il verbo: ἐξ ὅτου ἦλθον. Ne sono conseguite varie ipotesi per evitare lo iato: van Herwerden (ἐξ ὅτου 〈δ’ vel τ’〉 ἦλθον) Blaydes (ἐξ ὅτου δ’ ἦλθον), Bonanno (ἐξ ὅτου 〈…〉 ἦλθον). Interpretazione ἐξ ὅτου è una locuzione avverbiale che di norma ha significato causale (“dato che”, “perché”) o temporale (“da quando”, “dal momento in cui”) ben attestata in commedia – vd. Aristoph. Ach. 17, 596, 597, Nub. 528, 1351, Av. 322; Eup. fr. 274 –, e non solo (vd. ad es. Soph. Ant. 12, Thuc. 1.23.5). Il fatto che sia incluso nella spiegazione il verbo di moto ἦλθον fa pensare che Cratete usasse in modo peculiare ἐξ ὅτου come locuzione avverbiale di luogo (“da dove”). Cfr. Ptol. p. 390.28 Heylbut: ἐξ ὅσου μὲν χρόνου, ἐξ ὅτου δὲ ἐξ οὗ τινός. 201
μεσόκοπον· ἀρρενικῶς τὸ〈ν〉 ἐπὶ μέσου ἡλικίας. Κρατίνος (Cratin. fr. 473). Vd. Valente 2015, 218 «de Cratete pro Cratino cogitare possis». Sugli autori di commedia antica citati nell’opera del cosiddetto Antiatticista cfr. Willi 2010, 475.
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fr. 40 K.-A. (35 K. = 39 B.) Poll. 10.54 (FS, CL) παρὰ δὲ Κράτητι (Κράτη C) ἐν ταῖς Τόλμαις (Τόλμαις CL : Ἑορταῖς FS) καὶ ἀ σ τ ρ α γ α λ ω τ ή τις μάστιξ ὠνόμασται. in Cratete nelle Tolmai una certa frusta era denominata anche astragalōtē (con ossicini).
Metro non definibile l k k l ? Bibliografia Meineke II (1839), 246 Tolm. fr. III; Bothe 1855, 80 Tolm. fr. 3; Kock I (1880), 141 fr. 40; Edmonds I (1957), 166–167; Bonanno 1972, 146 fr. 39; Kassel-Austin 1983, PCG IV 105; Storey 2011, FOC I, 229. Contesto della citazione Polluce sta enucleando equipaggiamenti usati per i cavalli, tra i quali gli speroni (ἐγκεντρίδας con riferimento a Plat. fr. 40 e poi Pherecr. fr. 54), la cavezza (Aristoph. fr. 60 πνιγέα) e la frusta con gli ossicini. I riferimenti a fonti comiche sono completi dell’indicazione del titolo. I codici FS riportano il titolo Heortai, verosimilmente un errore, perché poco sopra è citata l’omonima commedia di Platone (cfr. infra fr. 41). A parte l’uso dell’aggettivo astragalōtos, resta incerta l’esatta espressione in Cratete: a rigore anche μάστιξ potrebbe non essere stato presente nel testo crateteo. Interpretazione La astragalōtē mastix è uno strumento di flagellazione particolarmente cruento. Dal contesto della citazione potremmo supporre che fosse usato con gli animali e specificamente i cavalli, ma le altre fonti ne fanno menzione come una punizione per persone in connessione con culti e contesti orientali. Dopo Cratete ne parla il filosofo Posidonio (fr. 114 Theiler = 57 Eldestein-Kidd, citato da Ath. 4.152f-153a), a proposito dell’aberrante figura dell’“amico del re” presso i Parti, che mangia come un cane ciò che il re getta per terra e viene spesso bastonato e frustato a sangue con cinghie munite di ossicini (ἱμᾶσιν ἀστραγαλωτοῖς μαστιγοῦται), finché prostrato non venera come suo benefattore chi lo ha fatto punire. Anche in Plutarco questo genere di frusta è per persone in condizioni servili: οὐδὲ μάστιγος ἐλευθέρας δεόμενος, ἀλλὰ τῆς ἀστραγαλωτῆς ἐκείνης “merita non la frusta che si può usare per un uomo libero, ma quella con gli ossicini” (Plut. Col. 1127c) e aggiunge che questa frusta era usata per i Galli, gli eunuchi sacerdoti della dea Cibele, nel caso non adempissero ai loro doveri. Cfr. anche [Luc.] Asin. 38 (cfr. Apul. met. 8.28.30) εἶτα ἐκείνῃ τῇ ἐκ τῶν ἀστραγάλων μάστιγι παίοντες ὀλίγον ἐδέησαν ἀποκτεῖναι “poi battendomi con quella frusta di ossicini per poco non mi ammazzavano”. Eustath. in Il. p. 1289.52 (= vol. IV p. 690.10 van der Valk) parlando degli astragali ricorda che αἱ ἀστραγαλωταὶ μάστιγες ἐκ τοιούτων τινῶν ἐνειρομένων κατεκροτοῦντο. Cfr. anche in Il. p. 998.21–22 (= vol. III p. 680.5–6 van der Valk) e in Od. p. 1494.45 (= vol. I p. 163.18 Stalbaum). Quest’ultimo passo è particolarmente significativo perché, a proposito di forme di autolesionismo e umiliazione della
Τόλμαι (fr. 41)
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propria dignità per compiacere il sovrano202, richiama la figura dell’“amico del re” con riferimento alla corte persiana, subito dopo aver nominato Megabizo, personaggio citato in questa stessa commedia al fr. 37 (vd. supra): δηλοῖ καὶ ὁ Πέρσης Μεγάβυζος, κολοβώσας ἑαυτὸν καὶ ἄλλως αἰκίσας χάριν τοῦ δεσπότου βασιλέως. ἑτέρου δὲ βασιλέως Περσῶν θεράπων ὁ καλούμενος Φίλος ὡς ὁ δειπνοσοφιστὴς ἱστορεῖ, ἄλλον τρόπον οὕτως εἶχεν. ὃς τραπέζης μέν φησιν οὐκ ἐκοινώνει, χαμαὶ δὲ ὑποκαθήμενος, τὸ παραβληθὲν κυνιστὶ ἐσιτεῖτο. καὶ πολλάκις διὰ τὴν τυχοῦσαν αἰτίαν ἀποσπασθεὶς τοῦ χαμαιπετοῦς δείπνου, ῥᾴβδοις καὶ ἱμᾶσιν ἀστραγαλωτοῖς ἐμαστιγοῦτο. L’uso di questo violento strumento di flagellazione sembra essere dunque collegato a barbari usi orientali, e in particolare alla corte dei Persiani.
fr. 41 K.-A. (34 K. = 38 B.) Poll. 7.91–92 (codd. FS, A, C) ἃ δὲ ποδεῖα Κριτίας καλεῖ, εἴτε πίλους αὐτὰ οἰητέον εἴτε περιειλήματα ποδῶν, ταῦτα πέλλυτρα καλεῖ ἐν Φινεῖ Αἰσχύλος “πέλλυτρ’ ἔχουσιν εὐθέτοις ἐν ἀρβύλαις”. τὰ δὲ πέλλυτρα καὶ εἶδος ὑποδήματος, ὥσπερ αὖ τὰ ποδεῖα ταὐτὸν ἦν ταῖς ἀναξυρίσιν, ἃς σκελέας ἔνιοι ὀνομάζουσιν. Κράτης δ’ ἐν Ἑορταῖς (Ἑορταῖς codd. : Τόλμαις Meineke) ἔφη καὶ π ο δ ε ῖ α (πόδια codd.) τ ρ ι μ ί τ ι ν α . quelli che Crizia chiama podeia, sia che si debba pensare che siano calzari di feltro sia fasciature avvolte intorno ai piedi, Eschilo nel Fineo li chiama pellutra “han fasciature nei bei stivaletti”. I pellutra sono anche un tipo di calzatura, come d’altra parte i podeia sono la stessa cosa delle braghe, che alcuni chiamano “gambe”. Cratete nelle Heortai dice anche “calzari di triliccio”.
Metro non definibile k l ? (ποδεῖα)
k k k ? (τριμίτινα)
Bibliografia Meineke I (1839), 62; Meineke II (1839), 247 Tolm. fr. IV; Kock I (1880), 141 fr. 34; Edmonds I (1957), 166–167; Bonanno 1972, 145–146 fr. 38; Kassel-Austin 1983, PCG IV 105–106; Storey 2011, FOC I 229. Contesto della citazione Nella sezione del settimo libro dell’Onomasticon dedicata al vestiario, Polluce tratta anche di vari tipi di scarpe e calzari, tra i quali i ποδεῖα, con menzione di Crizia (fr. 88 B 65 D.-Kr.) e i πέλλυτρα, con citazione di un passo eschileo (fr. 259 Radt). Polluce non sa esattamente indicare se si tratti di una calzatura di stoffa pesante o di una sorta di fasciatura da avvolgere al piede e accenna al fatto che i termini sono usati anche per indicare rispettivamente un tipo di scarpe e una sorta di gambali. La menzione di Cratete, omessa nel codice C, aggiunge un’ulteriore specificazione relativa ai ποδεῖα. 202
Per gesti autodistruttivi di mutilazione alla corte persiana cfr. la storia di Zofiro in Hdt. 3.155.
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Crates
L’indicazione della commedia, ἐν Ἑορταῖς, era ritenuta da Meineke un errore per ἐν Τόλμαις sulla scorta di un analogo errore dei codici FS per il fr. 40 (vd. ad loc.), dove però l’errore poteva essere favorito dalla presenza poco prima di una citazione dalle Ἑορταί di Platone comico. La sua correzione è sostenuta da Bonanno e in genere seguita dagli editori di Cratete. Polluce nel decimo libro (10.50) farà nuovamente riferimento ai termini trattati in questo punto (ποδεῖα, πίλοι, πέλλυτρα). Interpretazione I calzari o fasciature per i piedi menzionati da Cratete sono di triliccio, cioè di un tessuto a triplo filo, quindi piuttosto pesante e resistente. I πέλλυτρα erano a volte indossati da corridori per proteggere i piedi (vd. Hsch. π 1357 Hansen), ma non abbiamo elementi per capire in che contesto potesse esserci un riferimento a questo genere di calzatura nella commedia cratetea. ποδεῖα cfr. Thphr. HP. 7.13.8. I codici di Polluce riportano concordemente πόδια, ma sulla forma con dittongo vd. Theognost. Orth. 778.12 che elenca il termine ποδεῖον tra gli esempi relativi a τὰ διὰ τοῦ ειον μονογενῆ τρισύλλαβα περισπώμενα. τριμίτινα forma diminutiva di τρίμιτος. Cfr. Aeschl. fr. 365 Radt σὺ δὲ σπαθητοῖς τριμιτίνοις ὑφάσμασιν (fonte Poll. 7.78). Nella forma τρίμιτος e di nuovo in riferimento a scarpe in Lysip. fr. 3 trasmesso dallo stesso Poll. 10.50 (vd. Bagordo 2014b, 54). fr. 42 K.A. (38 K. = 42 B.) Ath. XIV 619a ἡ δὲ τῶν θεριστῶν ᾠδὴ Λιτυέρσης καλεῖται. καὶ τῶν μισθωτῶν δέ τις ἦν ᾠδὴ τῶν ἐς τοὺς ἀγροὺς φοιτώντων, ὡς Τηλεκλείδης φησὶν ἐν Ἀμφικτύοσιν (fr. 8)· καὶ βαλανέων (βαλανείων codd., corr. Daléchamp) ἄλλαι, ὡς Κράτης ἐν Τόλμαις· καὶ τῶν πτισσουσῶν ἄλλη τις, ὡς Ἀριστοφάνης ἐν Θεσμοφοριαζούσαις (fr. 352) καὶ Νικοχάρης ἐν Ἡρακλεῖ Χορηγῷ (fr. 9). ἦν δὲ καὶ τοῖς ἡγουμένοις τῶν βοσκημάτων ὁ βουκολιασμὸς καλούμενος. Il canto dei mietitori è chiamato Lityersēs. C’era anche un qualche canto dei braccianti che andavano nei campi, come dice Teleclide negli Amphiktyones; e altri di bagnini, come (dice) Cratete in Tolmai; e un qualche altro delle mondine dell’orzo, come (dice) Aristofane in Thesmophoriazousai e Nicocare in Heraklēs Chorēgos. C’era anche il cosiddetto boukoliasmos per quelli che portano le greggi al pascolo.
Bibliografia Meineke II (1839), 247 Tolm fr. V; Kock I (1880), 141 fr. 38; Edmonds I (1957), 166–167; Bonanno 1972, 148 fr. 42; Kassel-Austin, PCG IV 106; Storey 2011, FOC I 229. Contesto della citazione L’argomento discusso è quello dei nomi di canti di lavoro o canti popolari. Si fa riferimento inizialmente a quelli elencati da Trifone (618c, fr. 113 von Velsen) e poi a Semo di Delo (618d, FGrHist 396 F 23) e Aristotele (618e, fr. 515 Rose).
Τόλμαι (fr. 42)
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Le Tolmai di Cratete sono citate per i canti dei bagnini subito dopo Teleclide (vd. Bagordo 2013, 100–102), menzionato per il canto dei braccianti agricoli e prima di Aristofane (Thesmophoriazusai II) e Nicocare (vd. Orth 2016, 69), ricordati per i canti delle donne che mondano il grano. Per le canzoni di cui trae notizia dai comici Ateneo apparentemente non conosce una specifica denominazione (τις). I canti per cui è menzionato Cratete a differenza degli altri annoverati nel passo non riguardano lavori connessi all’agricoltura e alla pastorizia. Si noti inoltre la forma ἄλλαι al plurale (messa in discussione da Peppink 1936, 85 e Bonanno 1972, 148, ma difesa da Kassel-Austin 1983, 106 in base al confronto con 618e τιτθευουσῶν ᾠδαὶ “canti delle balie”). Interpretazione Delle tradizioni musicali popolari greche si conosce ben poco, innanzitutto a causa dell’immanente natura orale della loro trasmissione. Cfr. CarmPop. PMG 847–883: 848 e 869 e vd. Lambin 1992 e Palmisciano 2003. I riflessi di questi repertori di musica folklorica all’interno di generi codificati come la commedia sono un’importante fonte di informazione. Si veda in proposito Rocconi 2010, che in particolare esamina due esempi di riuso di canti di lavoro in Aristofane: in Pax 459–472 e 486–499 strofi liriche accompagnano le operazioni per liberare Pace dalla grotta e in Ran. 209–267 invece accompagnano la fatica ai remi di Dioniso. Sui canti di lavoro, che accompagnavano le attività e i suoi ritmi ripetitivi a volte anche con strumenti musicali, le nostre principali fonti indirette sono quelle offerte da Ateneo (vd. supra Contesto) e da Poll. 4.53–56. Vd. anche Aristoph. Nub. 1357–1358 sulle donne che cantono mentre macinano l’orzo; Phryn. fr. 14 sul canto della mondatura. Le fonti menzionano canti di lanaioli, di contadini per la mietitura, per la vendemmia, per il lavoro alla macina, tutte attività fisiche e ripetitive per le quali la musica aveva la funzione pratica di dare il ritmo e a volte anche di aiutare il coordinamento di più lavoratori. Anche il lavoro dei bagnini, che comportava travasi di acqua calda nei tubi (cfr. Aristoph. fr. *450 βαλανεὺς δ’ ὠθεῖ ταῖς ἀρυταίναις “il bagnino respinge con le brocche”), poteva essere faticoso e ripetitivo. I canti dei bagnini potevano essere più d’uno (pace Bonanno). Non abbiamo altre attestazioni di canzoni per questa categoria di lavoratori, che però è spesso ricordata per gli schiamazzi. Vd. ad es. Hsch. β 145 Latte βαλανεύειν· λαμπροφωνεύεσθαι. παρόσον οἱ βαλανεῖς, ὅταν παραχέωσιν τὸ ὕδωρ, κραυγάζουσιν “preparare il bagno: parlare ad alta voce. In quanto i bagnini, quando travasano l’acqua, gridano”. Il verbo βαλανεύω poteva essere usato nel senso di “parlare a voce alta”, “gridare” (Aristoph. fr. 790). Aristoph. Eq. 1403 cita i bagnini insieme alle prostitute come categoria con la quale gareggiare in strilli: πόρναισι καὶ βαλανεῦσι διακεκραγέναι. Lo stereotipo del bagnino ciarliero si ritrova in Plat. Rp. 344d (ὥσπερ βαλανεὺς ἡμῶν καταντλήσας κατὰ τῶν ὤτων ἁθρόον καὶ πολὺν τὸν λόγον “come un bagnino versandoci nelle orecchie una profluvie di parole”). Il bagnino è proverbialmente affaccendato e intrallazzone (πολυπράγμων: Diogen. 3.64).
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Altri riferimenti alla figura del bagnino in commedia in Aristoph. Av. 491 (tra varie categorie di lavoratori che si alzano al canto del gallo per recarsi al lavoro), Ran. 710 (in cui si deride Cligene ὁ πονηρότατος β.), Pl. 955 (il bagnino è evocato come brutale buttafuori). Nelle fonti antiche ci sono inoltre riferimenti all’abitudine di cantare nel contesto dei bagni, ma non in riferimento specifico al bagnino (cfr. la lezione dei codici βαλανείων). Secondo Thphr. Ch. 4.15 cantare nei bagni è tipico dell’ἄγροικος, dello zotico (ἐν βαλανείῳ δὲ ᾆσαι). Cantare in bagno è considerato negativamente anche in Sen. epist. 56.2 (tra chi disturba la quiete dello studioso annovera illum cui vox sua in balineo placet “quello che si compiace della propria voce nei bagni”) e Artemid. On. 1.76.49–52 (ᾄδειν δὲ ἐν βαλανείῳ οὐκ ἀγαθόν· τὸ μὲν γὰρ εὐπρεπῶς καὶ εὐθύμως τὸν βίον διεξάγειν σημαίνει, τὸ δὲ μὴ σαφεῖ χρῆσθαι τῇ φωνῇ “cantare in bagno non è un buon presagio: infatti significa che si conduce la vita in modo sereno e conveniente, ma non si usa con saggezza la voce”). Per un altro riferimento ai bagni in Cratete cfr. fr. 17.
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Incertarum fabularum fragmenta fr. 43 K.-A. (40 K. = 43 B.) πάνυ γάρ ἐστιν ὡρικὰ τὰ τιτθί’ ὥσπερ μῆλα καὶ μιμαίκυλα. 1 ὡρικὰ Dobree : ὡρικώτατα Ath. B : -τάτηι E : -τάτη C Eust. : ὡρική Meineke ed. min. : ὡρικ’, ὦ τάλαν Austin 2 μῆλα καὶ Kock dub. : μῆλον ἢ codd. μιμαίκυλα Ath. B (μιμαικλ CE) : -λον Eust.
infatti sono floridi davvero i piccoli seni come mele e corbezzoli Ath. epit. II 50e-f (CEB) par. 35 ταῦτα ὁ Ἀσκληπιάδης, φησί, μοι δοκεῖ λέγειν περὶ τῶν μιμαικύλων. τό τε γὰρ φέρον αὐτὰ δένδρον τοιοῦτον καὶ ὁ πλέον τῶν ἑπτὰ τοῦ καρποῦ φαγὼν κεφαλαλγὴς γίνεται. Ἀριστοφάνης (fr. 698)· “ἐν — πολλά”. Θεόπομπος (fr. 68)· “τρώγουσι –μιμαίκυλα”. Κράτης· “πάνυ — μιμαίκυλα”. Ἄμφις (fr. 38)· “ὁ συκάμινος — μιμαίκυλα”. Θεόφραστος (fr. 413.33 Fortenbaugh, cfr. H.Pl. 3.16.4)· ‘ἡ κόμαρος — ἐδώδιμον.’ Queste parole, afferma, Asclepiade mi sembra le dica riferendosi ai corbezzoli. Difatti la pianta che li produce è di tal fatta e chi mangia più di sette frutti è preso da mal di testa. Aristofane: “sui monti spontaneamente per loro i corbezzoli crescevano in grande quantità”. Teopompo: “spiluccano bacche di mirto e corbezzoli maturi”. Cratete: “πάνυ —μιμαίκυλα”. Anfide: “il gelso produce gelsi, vedi, il leccio ghiande, il corbezzolo corbezzoli”. Teofrasto: “la pianta di corbezzolo che produce il corbezzolo commestibile”. Eustath. in Od. vol. I p. 348 Stallbaum ὃ δὴ σεμνύνει τὸ μῆλον ἐπὶ εὐοδμίᾳ. ὥσπερ ἐπὶ κάλλει τὸ, ὡρικωτάτη τὰ τιτθία ὥσπερ μῆλον ἢ μιμαίκυλον. magnifica la mela per il buon odore. Così come per la bellezza “ὡρικωτάτη —μιμαίκυλον”.
Metro trimetri giambici
|kkkl klkl klll llk|l klkl
Bibliografia Schweighäuser 1801, I 349; Dobree 1833, II 297; Meineke II (1839), 248 inc. fab. fr. IV; Meineke 1847, 85; Blaydes 1890, 15; Kock 1893, 142 fr. 40; Blaydes 1896, 18; Edmonds I (1957), 166–167 fr. 40; Taillardat 19652, 69; Littlewood 1968, 157; Bonanno 1972, 148–151 fr. 43; Kassel-Austin 1983, PCG IV 106; Cameranesi 1987, 42 nota 40; Beta 2009, 216–217 e n. 185; Storey 2011, FOC I 228–229; Robson 2013, 47, 18; Pellegrino 2015, 401. Contesto della citazione Il frammento comico è restituito da due fonti: l’epitome dei Deipnosofisti di Ateneo e il commento all’Odissea di Eustazio. Com’è noto, la
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Crates
principale fonte delle citazioni di frammenti comici nei commentari omerici di Eustazio fu proprio l’epitome dell’opera di Ateneo, tanto che un tempo si riteneva che il vescovo di Tessalonica fosse l’autore di tale epitome203. In Ateneo il passo crateteo è richiamato insieme ad altri passi comici relativi al corbezzolo, pianta con la quale il convitato che sta parlando ritiene sia da identificare il ciliegio nano (χαμαικέρασος) di cui parla Asclepiade di Mirlea (FGrHist 697 F 4). Cratete è citato esplicitamente, ma senza indicazione dell’opera, dopo Aristofane e Teopompo e prima di Anfide. Alle citazioni comiche segue una citazione dall’historia plantarum di Teofrasto. Nel commentario all’Odissea di Eustazio il frammento è citato in forma del tutto anonima. A commento del libro nono, ai versi in cui Polifemo mostra grande apprezzamento per il vino offertogli da Odisseo (vv. 355–359), Eustazio viene a parlare del vino di Taso, pregiato perché odora di mele, citando Hermip. fr. 77.3. Delle mele oltre al buon odore egli ricorda l’associazione con la bellezza e in proposito cita il nostro passo comico. L’attacco della citazione differisce da quello dell’epitome di Ateneo, che ha in più tre parole (πάνυ γάρ ἐστιν). Costituzione del testo Sia nei codici dell’epitome di Ateneo sia in Eustazio l’aggettivo ὡρῐκός è al grado superlativo: al neutro plurale concordato con τιτθία nel codice B dell’epitome, al femminile singolare negli altri testimoni. Nonostante la concordanza delle fonti, la maggior parte degli editori moderni di Cratete si è espressa contro la forma al superlativo, in base al fatto che πάνυ seguito da superlativo è raro e attestato solo nel greco più tardo (cfr. Willi 2010, 499). Rispetto alla proposta di Meineke nell’editio minor ὡρική, si è imposta la correzione ὡρικά di Dobree, riportata a testo da Kassel e Austin (“πάνυ cum superl. recentioris Graecitas est”) e preferita anche da Edmonds, Bonanno (che spiega “su base dittografica, e forse anche itacistica” l’origine dell’errore prodottosi nel testo tradito) e Storey. Kock, che pur lasciava a testo il superlativo, ne evidenziava a commento la problematicità (proponendo però una diversa e poco convincente soluzione: correggere il πάνυ γάρ iniziale con Παιδιαῖς). Da un punto di vista metrico il superlativo non creerebbe difficoltà. Un altro elemento del testo tradito che ha creato perplessità ai moderni editori è al secondo verso: μῆλον ἢ, con il singolare e la congiunzione disgiuntiva riportati concordemente dai codici, cui in Eustazio segue il singolare μιμαίκυλον, mentre nell’epitome di Ateneo (o, meglio, nell’unico codice in cui la forma non è abbreviata) si legge il plurale μιμαίκυλα. Kock suggeriva nel commento μῆλα καὶ μιμαίκυλα, con un plurale che meglio si adattava a τιτθία e la congiunzione καὶ per evitare uno iato μῆλα ἢ. Questa correzione è accolta da Kassel e Austin, che chiamano a confronto il trimetro giambico di Pherecr. fr. 157.1 (ἀμυγδάλας καὶ μῆλα καὶ μιμαίκυλα), e prima ancora già da Edmonds e dalla Bonanno. Bonanno anche in questo caso cerca di ipotizzare la genesi dei guasti della tradizione, immaginando 203
L’ipotesi è stata ormai superata, vd. van der Valk 1986. Cfr. Collard 1969.
Incertarum fabularum fragmenta (fr. 43)
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un errato scioglimento di καὶ in compendio con ἢ, cui sarebbe seguita una dotta correzione di μῆλα in μῆλον per evitare iato, e una conseguente normalizzazione di μιμαίκυλον al singolare in Eustazio. Storey invece mette a testo i plurali e la disgiuntiva: μῆλα ἢ μιμαίκυλα. Nonostante queste sostanziali incertezze nel testo tradito, il metro sembra definibile come trimetro giambico. Interpretazione Il paragone dei seni con dei frutti, e in particolare con le mele, è un topos della letteratura greca (vd. Littlewood 1968; Gerber 1978; Drago 2007, 132), ben attestato anche nella commedia (vd. Taillardat 1965, 69; Henderson 1987, 148–149). In commedia troviamo un’ampia varietà di paragoni ortofrutticoli riferiti ai seni femminili: oltre che con le mele (Aristoph. Lys. 155; Ec. 903) e le cotogne (Aristoph. Ach. 1199 τῶν τιτθίων, ὡς σκληρὰ καὶ κυδώνια; Canth. fr. 6 Κυδωνίοις μήλοισιν εἰς τὰ τιτθία)204, anche con le rape (Aristoph. Th. 1185), con le noci (Aristoph. fr. 664), forse persino con le olive in salamoia (Aristoph. fr. 148) e le fave (Aristoph. fr. 599)205. Proprio il confronto tra seno e rape, in bocca all’arciere scita in Aristoph. Th. 1185 (οἴμ᾽ ὠς στέριπο τὸ τιττἴ, ὤσπερ γογγύλη), porta ad accostare questo frammento incertae sedis al fr. 30 dai Rhētores (K.-A. «an similis comparatio atque fr. 43?»), in cui a essere “davvero uguali a rape di Cefisia” saranno verosimilmente i τιτθία. Nel fr. 30 si noti tra l’altro la presenza dell’avverbio πάνυ, come nel fr. 43. Si potrebbe arrivare a pensare che i due frammenti appartengano alla stessa scena, in una sorta di catalogo di preferenze su forme e dimensioni dei seni, esplicati attraverso paragoni ortofrutticoli più o meno improbabili e quindi tali da suscitare il riso. Ma mentre il paragone con le mele è topico e quello con le rape trova un seguito in Aristofane, per il paragone con il corbezzolo non abbiamo altre attestazioni. I corbezzoli in commedia si ritrovano nei passi citati da Ateneo e nel frammento di Ferecrate sopra menzionato (fr. 157: ἀμυγδάλας καὶ μῆλα καὶ μιμαίκυλα | καὶ μύρτα καὶ σέλινα κἀξ οἴνου βότρυς | καὶ μυελόν), ma solo nel frammento crateteo è evidente il riferimento al seno. Bonanno ha suggerito che il corbezzolo qui evocato alludesse al rossore dei capezzoli («rossastre bacche montane, che è presumibile stiano ad indicare realisticamente i capezzoli», p. 149)206. Tale interpretazione è possibile e plausibile con il testo μῆλα καὶ μιμαίκυλα, mentre non sarebbe sostenibile con la disgiuntiva ἢ dei codici. Considerato il florilegio di paragoni comici, anche con frutti piccoli come le noci (Aristoph. fr. 664: ἀλλὰ τὸ στρόφιον λυθὲν | τὰ κάρυά μοὐξέπιπτεν), non sembra comunque da escludere che il corbezzolo potesse indicare il seno in sé, forse con l’intento di distorsione finale in ridicolo dopo le canoniche mele. Nel canone di bellezza rispetto alle dimensioni sembrano prevalere altri aspetti: un seno è considerato bello se è sodo, tondo, bianco (vd. Gerber 1978). Tuttavia 204 205 206
Cfr. Bagordo 2014, 239. Per questi ultimi due passi vd. Robson 2013, 47 e n. 18. Tale interpretazione è ripresa ad es. da Pellegrino 2015, 401 ad Aristoph. fr. 698.
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almeno in commedia c’è una certa enfasi per i seni grossi e prosperosi (Henderson 1987, 38). 1 πάνυ L’avverbio è piuttosto frequente nei dialoghi comici, specie in risposte affermative, vd. ad es. Aristoph. Pl. 97. Cfr. Dover 1985, 334, che cita questo frammento tra gli esempi di ordinamenti di πάνυ rispetto alla parola rafforzata propri della commedia. 1 ὡρικὰ Per l’uso dell’aggettivo cfr. ad es. Aristoph. fr. 245: ὡρικὸν δὲ μειράκιον καὶ κόρη. 2 τιτθί’ τιτθός “mammella”, “seno”, al plurale “petto” è termine anatomico usato anche in scritti medici come Hp. Aph. 5.40 e di per sé non volgare. La forma ipocoristica in età classica è attestata esclusivamente in commedia, vd. ad es. Aristoph. Ach. 1199, Pax 863; in Men. Sam. 536 e 540 τιτθίον è il seno dato al bambino. 2 ὥσπερ Beta 2009 lo intende in diretto riferimento a τὰ τιτθί’ e non a ὡρικὰ e traduce «le tettine che somigliano alle mele».
fr. 44 K.-A. (52 K. = 45 B.) ἐξ Ἑστίας ἀρχόμενος εὔχομαι θεοῖς a partire da Estia prego gli dei Sch. (S) Arat. 1 pp. 44–45 Martin ζητεῖται διὰ τί ἐκ τοῦ Διὸς ἤρξατο, καὶ οὐκ ἀπὸ τῶν Μουσῶν ὡς Ὅμηρος. οἰκειότερον ἡγήσατο ἀρχὴν τῶν Φαινομένων ποιήσασθαι ἀπὸ τοῦ Διὸς ἐπειδὴ καὶ τῶν Μουσῶν ἀρχηγέτης αὐτός ἐστιν. οὐ φαίνεται δὲ Ἄρατος μόνος οὕτως ἦρχθαι, ἀλλὰ καὶ Κράτης (κράτηρ cod.) ὁ κωμικὸς εἰπὼν “ἐξ — θεοῖς”, καὶ Σώφρων (fr. 41)· “ἐξ Ἑστίας ἀρχόμενος καλῶ Δία πάντων ἀρχηγέτην”. si indaga sul perché inizi da Zeus, e non dalle Muse come Omero. Ha ritenuto più adatto comporre l’inizio dei Phainomena da Zeus perché egli è anche origine delle Muse. Non sembra che Arato sia stato l’unico ad aver cominciato così, ma anche Cratete il comico dicendo “ἐξ — θεοῖς”, e Sofrone “a partire da Estia invoco Zeus origine di tutto”.
Metro trimetro giambico
llkl lkkk|l klkl
Bibliografia Meineke II (1839), 251 inc. XVII; Kock I (1880), 144 fr. 52; Maas 1884, 99–100; Edmonds I (1957) 168–169, fr. 52; Bonanno 1964 = Bonanno 1972, 152–154 fr. 45; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 106; Hordern 2004, 69 e 167; Storey 2011, FOC, I 228–229 fr. 44; Tosi 2017, nr. 994. Contesto della citazione In uno scolio relativo al verso iniziale dei Fenomeni di Arato, presente nel codice Scorialensis Σ III 3 (Creta ante 1490) e in traduzioni
Incertarum fabularum fragmenta (fr. 44)
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latine negli Scholia in Germanici Caesaris Aratea e nell’Aratus Latinus207, si fa riferimento a due precedenti comici per invocazioni proemiali non rivolte alle Muse come nella tradizione omerica. Sono citati, senza indicazione dei titoli dei drammi, Cratete e Sofrone. I due versi comici offrono un parallelo per l’incipit cletico di Arato ἐκ Διὸς ἀρχώμεσθα, ma entrambi indicano un inizio da Estia non da Zeus (benché in Sofrone ci sia un riferimento anche a questa divinità). Degno di nota che siano menzionati i due passi comici anziché altri paralleli più calzanti con proemi a partire da Zeus, che sono invece citati negli scolii al primo verso dei Phainomena conservati in altri manoscritti: in particolare Alcm. fr. 89 Calame (ἐγὼν δ’ ἀείσομαι | ἐκ Διὸς ἀρχομένα, Sch. MQDΔKVA Vat. 191 Arat. 1 pp. 37 e 41 Martin) e Pind. N. 2.1–3 (Ὅθεν περ καὶ Ὁμηρίδαι | ῥαπτῶν ἐπέων τὰ πόλλ’ ἀοιδοί | ἄρχονται, Διὸς ἐκ προοιμίου, Sch. Vat. 191 Arat. 1 p. 41 Martin)208. Negli scolii ad Arato sono presenti pochi altri casi di riferimenti a poeti comi209 ci , ma le fonti antiche del materiale esegetico che essi trasmettono includono grammatici che indubbiamente si occuparono di commedia, come Aristarco ed Eratostene210. Interpretazione Estia, figlia primogenita di Crono e Rhea, era la divinità del focolare domestico tradizionalmente evocata per prima nei sacrifici e nelle libagioni211. In commedia cfr. ad es. Aristoph. Av. 865–867 in cui il sacerdote dà inizio alla preghiera con εὔχεσθε Ἑστίᾳ ὀρνιθείῳ (vd. Dunbar 1995, 510). L’espressione rituale divenne proverbiale nel senso di “cominciare dall’inizio”, e quindi fare qualcosa per bene, come dev’essere fatta. Vd. Prov. Bodl. 68 = Zenob. vulg. I 40 = Hsch. α 8619 ἀφ’ Ἑστίας ἀρχόμενος· παροιμία. μετενήνεκται δὲ ἀπὸ τῶν περὶ τὰ ἱερὰ δρωμένων. ἔθος γὰρ ἦν τῇ Ἑστίᾳ τὰς ἀπαρχὰς ποιεῖσθαι e cfr. ε 3779)212. Aristofane gioca sul valore metaforico dell’espressione in Ve. 846 (ἀφ’ Ἑστίας ἀρχόμενος ἐπιτρίψω τινά): Filocleone porta in scena una gabbia con i porcellini 207
208 209 210 211 212
Sulle sole traduzioni latine si basavano le prime edizioni e i tentativi di ricostruzione del frammento di Cratete prima dell’edizione Maas 1884 e ancora in seguito fino a Bonanno 1964. Ad es. in base alla versione latina dello scolio emendata da Maas – Sch. German. (AP, ΠSV) p. 55, 5 e 109, 15 Breysig (= p. 45, 6 Mart.)… non solus autem ita coepisse videtur Aratus, sed et Crates comicus a Vesta incipiens et † profari carmina (“a Vesta incipiens omnes invoco deos” praefari carmina Maas, cf. Ov. fast. 6.303s.) et Sophrom in mimo qui nuntius inscribitur “a Vesta incipiens omnes invoco deos, Iovem omnium principem” – Kaibel immaginava un secondo verso che iniziava con πᾶσίν τε πάσαις (omnes invoco deos). Cfr. anche Ion Ch. fr. 27.6 West (= 90 Leurini), Theocr. 17.1. Aristoph. Ran. 859 in Sch. MΔKUAS Arat. 1047 (p. 496 M.); Philemon. fr. 95 K. in Sch. Vat. 191. Arat. 1 (p. 42 e cfr. Sch. German. Ar.lat. p. 46 M.). Per la tradizione esegetica sull’opera di Arato vd. Martin 1974, IV-XXXIII; Kidd 1998, 43–48; Dickey 2007, 56–60 con altre indicazioni bibliografiche. Cfr. Roscher (1886–1937: 1890), vol.1.2 pp. 2605–2653. Per il primato nei sacrifici vd. ad es. Hom. Hymn. 29.5; Pind. N. 11.5. Cfr. Tosi 2017 a proposito dell’espressione “Ab Iove principium” (nr. 994).
202
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per Estia e a Bdelicleone che gli rimprovera di commettere sacrilegio risponde che vuole distruggere qualcuno in tribunale “cominciando da Estia” (vv. 843–846; cfr. MacDowell 1971, 244; Biles-Olson 2015, 339–340). Gli scolii al verso (sch. ad l. 846a Koster) spiegano la battuta ricordando il primato di Estia nelle offerte, e la natura proverbiale dell’espressione con riferimento a Soph. fr. 726 Radt, poi riportano l’eziologia mitica basata sulla testimonianza di Aristocrito (FGrHist 493 F 5)213, e richiamano l’uso proverbiale anche in Platone, Euthyph. 3a.7214. Non abbiamo elementi sufficienti per stabilire se Cratete usasse l’espressione in senso proprio o metaforico, ma la seconda parte del verso (εὔχομαι θεοῖς) suggerisce un uso in senso letterale. Secondo Bonanno Cratete «si inserisce nel solco della tradizione innodica» dell’invocazione a Zeus (vd. supra Contesto), ma al tempo stesso «la contamina con un motivo prosastico e paremiaco» a fini parodici. Bonanno legge un valore ironico anche nell’uso della preposizione ek, proprio della tradizione poetica, in contrasto con la preposizione apo, che denoterebbe invece un linguaggio prosastico. Tali denotazioni non mi sembrano così certe. Ciò che si può affermare è che il verso è di fatto un’espressione liturgica, verosimilmente non usata in commedia con intento proemiale, che in fonti di poco successive mostra di aver assunto valore metaforico proverbiale. Possiamo immaginare una scena di preghiera durante un’offerta agli dei, confrontabile con il già citato Aristoph. Av. 865ss. oppure Th. 295–311, in cui sono parodiate formule rituali in forma ametrica. Altre scene di sacrificio ad es. in Aristoph. Ach. 238ss. e Ec. 128–267. εὔχομαι θεοῖς in chiusura di trimetro anche in Aristoph. Ran. 889. fr. 45 K.-A. (5 Dem. = 52 B.) ἀντάκουε νῦν ἐμοῦ adesso stai a sentire me Phot. (b) α 2066 Theodoridis ἀντάκουε· Κράτης· “ἀντάκουε — ἐμοῦ”. antakoue (“ascolta a tua volta!”): Cratete “ἀντάκουε — ἐμοῦ”.
Metro incerto
l k l l k l
213
214
Zeus, una volta sconfitti i Titani e acquisito il potere, concesse a Estia di prendere ciò che volesse ed Estia chiese la verginità e le primizie dei sacrifici da parte degli uomini. Cfr. Greg.Cypr.Leid. 1.63. ἀτεχνῶς γάρ μοι δοκεῖ ἀφ’ ἑστίας ἄρχεσθαι κακουργεῖν τὴν πόλιν “mi sembra che inizi proprio da Estia a rovinare la città”. Cfr. anche Plat. Crat. 401b.
Incertarum fabularum fragmenta (fr. 46)
203
Bibliografia Demiańczuk 1912, 30 fr. 5; Edmonds I (1957) 168–169, fr. 45a; Bonanno 1972, 158 fr. 52; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 107; Storey 2011, FOC, I 230–231 fr. 45; Major 2013, 39. Contesto della citazione La glossa è conservata solo nel codice berlinese del lessico di Fozio. Il lemma è ripreso nella stessa forma in cui si trova nel testo crateteo. Non è specificato il titolo della commedia. Interpretazione Il verbo antakouō, “ascoltare a propria volta” o “in risposta”, ricorre nei tragici sempre all’imperativo aoristo o presente: oltre a Aeschl. Eum. 198, i paralleli più prossimi dell’espressione cratetea sono Eur. Suppl. 569 (κἀμοῦ νυν ἀντάκουσον), Hec. 321 (τάδ’ ἀντάκουέ μου). In commedia si ritrova in Alexis fr. 160.5. Numerose le attestazioni nella prosa più tarda. Il verbo è utilizzato anche nell’espressione proverbiale εἰπὼν ἃ θέλεις, ἀντάκουε ἃ μὴ θέλεις “dopo aver detto ciò che vuoi, ascolta in risposta ciò che non vuoi” (Paroem. App. 2.17). Il frammento fa chiaramente parte di un dialogo tra due personaggi. Il tono sembra piuttosto perentorio e sembra presupporre una contrapposizione dialettica215. Kassel e Austin richiamano a confronto l’incipit di fr. 17 (ἀλλ’ ἀντίθες τοι). fr. 46 K.-A. (41 K. = 44 B.) ἀλλὰ σικύαν ποτιβαλῶ τοι καἰ τὺ λῆις ἀποσχάσω ποτιβαλῶ Meineke : ποτιβάλλω A τοι Meineke ed. min. : σοι codd. καἰ τὺ λῇς Meineke : κἀνατλῆς A : κάταλις FS : κἄν τὸ λῇς “si id volueris” Salmasio : καἴ κα λῇς Kaibel ap. Bethe ἀποσχασῶ Edmonds
ma ti applicherò una ventosa e, se tu vuoi, inciderò Poll. 4.183 (codd. FS, A) καὶ μὴν καὶ σικύα ἕν τι τῶν ἐργαλείων, ὡς Κράτης ὁ κωμικός “ἀλλὰ — ἀποσχάσω”. e anche la ventosa è uno tra gli strumenti (medici), come il comico Cratete: “ἀλλὰ — ἀποσχάσω”.
Metro tetrametro trocaico catalettico? lkkl kkkll | lklk lkl Bibliografia Meineke II (1839), 249 inc. fab. fr. V; Bothe 1855, 81 fr. 6; Kock I (1880), 142 fr. 42; Norwood 1931, 150; Edmonds I (1957), 168–169; Bonanno 1972, 215
Major 2013 fa riferimento al frammento di Cratete a proposito della terminologia propria della retorica nella commedia antica.
204
Crates
48, 151–152 fr. 44, e pp. 177–178; Gil-Alfageme 1972, 37; Colvin 2000, 293–294; Kassel-Austin 1983, PCG IV 107; Cordes 1994, 60; Imperio 1998, 67ss.; Ingrosso 2010, 345; Willi 2010, 498-499; Storey 2011, FOC I 230–231; Ingrosso 2016, 14. Contesto della citazione Polluce sta trattando di argomenti medici (On. 4.177ss.), e passa a elencare i nomi di strumenti usati dai dottori (ἐργαλεῖα ἰατρῶν 4.181–183), con il consueto supporto di citazioni comiche. Dopo aver menzionato il fondo del bacile (πτερνίς) di Alexis fr. 330, usato per i salassi (con riferimento al verbo ἀποσχάζω), viene aggiunta all’elencazione di strumenti la σικύα, la ventosa, con la citazione isolata del verso crateteo. La citazione da Cratete non è presente nei codici B e C, dove il testo si limita a indicare la σικύα tra gli strumenti medici senza nessun riferimento letterario. Interpretazione Il medico, di norma straniero, è un personaggio tipico della commedia del IV sec. a. C. (vd. Gil-Alfageme 1972; Cordes 1994, 58–63; Arnott 1996, 430–432 ad Alexis fr. 146; Imperio 1998, 63–75; Ingrosso 2016), basti pensare alla famosa scena del falso medico che imita la parlata dorica nella scena del terzo atto dell’Aspis di Menandro (vv. 439–463, sui quale vd. Gigante 1969, Ingrosso 2010, 344ss.) e alle diverse commedie intitolate Ἰατρός (attestate per Antifane, Aristofonte, Filemone, Teofilo). Tuttavia diversi elementi indicano che il tipo comico del medico risale più addietro, già alla commedia dorica. Sosibio Lacone (FGrHist 595 F 7, citato in Ath. XIV 621d-e) ascrive all’antica farsa megarese i personaggi del ladro di frutta e del medico straniero. Dinoloco, epigono di Epicarmo, scrisse una commedia intitolata Ἰατρός (P.Oxy. 30.2659 fr. 1 col. II 12 = test. 3.2). Inoltre un frustulo papiraceo rinvenuto a Saqqara, edito da Turner 1976, ci ha restituito resti di una iatrologia in tetrametri trocaici in lingua dorica, forse attribuibile a Epicarmo (P.Saqqara inv. SAK.71/2GP65 = Mertens-Pack3 364.1; vd. anche Rossi 1977, Thesleff 1978). Il fr. 46 di Cratete, per quanto breve, isolato ed esposto a guasti tradizionali, è particolarmente degno di nota perché rappresenterebbe la prima attestazione di un medico straniero che agisce come persona loquens nella commedia attica, e significativamente questo medico parla in dorico. Questo elemento linguistico, che contraddistingue la maggior parte dei medici sulla scena comica (vd. Imperio 1998, 71–73 e Colvin 2000, 293–294), potrebbe essere legato all’influenza della commedia dorica, da cui Cratete potrebbe aver tratto questo personaggio (sui legami tra Cratete e la commedia dorica vd. supra), tanto quanto alla reale provenienza di molti medici: le principali scuole avevano infatti sede in aree di lingua dorica come la Sicilia, Crotone, Locri, Cnido, Cos. Il passo crateteo è troppo poco esteso per poter valutare se la parlata riproducesse un vero e proprio dialetto epicorico o se fosse solo genericamente caratterizzata da elementi dorici, ma certo già nel V sec. il dialetto poteva essere utilizzato per l’identificazione di personaggi tipizzati. Proprio l’uso di maschere tipizzate come quella del dottore straniero è stata considerata, sulla scorta della testimonianza di Aristotele (vd. test. 5), un elemento distintivo dell’opera di Cratete rispetto ad altri filoni dell’archaia. Colvin 2000 ha ipotizzato inoltre che il marchio dialettale potesse indicare qui non solo
Incertarum fabularum fragmenta (fr. 46)
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una caratterizzazione professionale, ma anche una caratterizzazione morale, dal momento che i medici erano spesso associati con ciarlataneria e incompetenza. Cfr. il dottore (vero o presunto) che parla Ionico nella Fionda di Amipsia (fr. 17 con la prescrizione di una pozione a base di lepre marina, che doveva avere effetti letali sul paziente, vd. Totaro 1998, 176–177). L’esotismo nella caratterizzazione linguistica del medico poteva da una parte conferire autorevolezza e accrescerne il prestigio, dall’altra suggerire diffidenza e sospetto. Nel caso di Cratete, la perdita del contesto non consente di affermare nulla sul ruolo del personaggio nello sviluppo dell’azione né sulla sua reale caratterizzazione (se fosse rappresentato ad esempio come un impostore o un vero professionista). Per un altro possibile esempio di medico in scena nell’archaia vd. Frinico fr. 66 (con Stama 2015 ad loc.). Nello specifico la terapia del medico del frammento crateteo prevede l’applicazione di una ventosa e l’incisione, verosimilmente di una vena. La flebotomia terapeutica, volgarmente detta “salasso”, era una pratica medica diffusa in diverse civiltà antiche ed era nota in Grecia già nel V sec. a. C., come dimostrano i riferimenti presenti nell’opera di Ippocrate (vd. Hp. NatMul. 5.19) e le testimonianze iconografiche, come il famoso aryballos Peytel (Paris, Louvre, CA 1989-CA 2183, datato 480–470 a. C.)216. ἀλλά per ἀλλά iniziale come “discourse marker” nei cambi di battuta dei dialoghi drammatici, e in particolare in Aristofane, vd. Drummer 2009. σικύαν σικύα, termine botanico per indicare il frutto delle cucurbitacee e in particolare la zucca, in ambito medico designa una coppetta di vetro, di forma simile a una zucca, usata come ventosa (cfr. ad es. Hp. Art. 48; VM. 22.17). Ateneo (Ath. VI 257a) testimonia anche l’uso come soprannome per un parassita, verosimilmente proprio in relazione all’uso dello strumento per i salassi, come noi diremmo “sanguisuga”. In commedia il termine σικύα ricorre in relazione a un contesto medico in Eub. fr. 145 e Antiph. fr. 206.4. ποτιβαλῶ ποτί è forma dorica corrispondente a πρός. L’espressione tecnica σικύην προσβάλλειν è frequente nel corpus ippocratico (e. g. Hp. Epid. 4.1.20; VM. 22.17). τοι La forma con tau, proposta da Meineke ed.min. e accolta da K.-A., è tipica forma dorica per σοι (lezione dei codici di Polluce). καἰ τὺ λῇς Nei codici di Polluce il punto è corrotto, forse per le difficoltà di intendere l’espressione in dorico. Unico elemento condiviso di vari tentativi di restituzione del testo la seconda persona singolare del verbo λῶ, forma dorica corrispondente a θέλω e ben attestata in commedia. Cfr. [Epichar.] fr. 277.10 ὅ τι τὺ λῆις, Aristoph. Lys. 1188 τυ λῇς, Lys. 95 ὅ τι λῇς. Per αἰ λῇς cfr. ad es. Epichar. fr. 113.3, Aristoph. Ach. 766. 216
Sulla pratica del salasso nella medicina greca, che troverà un convinto assertore in Galeno, vd. Brain 1986.
206
Crates
τὺ è forma dorica conservativa del pronome di seconda persona singolare. ἀποσχάσω Il significato medico di “incidere una vena” è attestato ad es. in Hp. Morb. 1.28, Aristot. HA. 514b 2, Gal. vol. XI p. 84.8 Kühn. In fonti lessicografiche questo verbo è glossato con φλεβοτομέω (vd. Hsch. α 6691; cfr. EM. 126). In commedia oltre che nel frammento crateteo ἀποσχάζω è attestato in Plat. fr. 135 (cfr. Pirrotta 2009, 269).
fr. 47 K.-A. (6 Dem. = 49 B.) EM cod. Voss. gr. 20 apud v. ἅλς, I p. 337 Lasserre-Livadaras (= col. 193C Gaisford) ἐγὼ δὲ εὗρον ἐν τῷ ιβ´ τοῦ Λουπέρκου· ὁ ἅλς ἐπὶ τῆς θαλάσσης ἀρσενικῶς, οἶον “μέλας ἅλς”, καὶ “ἁλὸς θεινομένοιο”. καὶ ἐν τῷ α´ (ἐν τῷ α Kassel-Austin) ἐπὶ τοῦ ἐδωδίμου· ἅλας, ὡς Αἶας ἀρσενικῶς εἴρηται, καὶ Κράτης “ἄναλτος χύτρα”, ὀρθωτέρα δὲ κατάληξις τὸ ἅλας ὡς τὸ κέρας· τούτου γε μὴν διαφορώτερον τὸ ἀρσενικὸν ὁ ἅλς καὶ οἱ ἅλες, καθόσον οἱ μάλιστα δοκοῦντες τὴν Ἐλληνικὴν διαπεπονηκέναι διάλεκτον οὕτως ἐχρήσαντο. io ho trovato nel 12° (libro) di Luperco ho hals al maschile per indicare il mare, ad esempio melas hals (“mare nero”) e halos theinomenoio (“del mare che colpisce”). E nel 1° (libro)217 per indicare quello che si mangia: halas, come Aias viene detto al maschile, e Cratete analtos chytra (“pentola insipida”), ma è più corretta una desinenza to halas (“il sale”) come to keras (“il corno”); da questo differisce il maschile ho hals e hoi hales, in quanto proprio coloro che sembrano aver massimamente curato la lingua greca usano così.
Metro non definibile
k l l l k
Bibliografia Meineke V.1 (1857), XLVII- XLVIII; Nauck 1894, 66 n. 8; Demiańczuk 1912, 30; Edmonds I (1957), 168–169 fr. *53A; Bonanno 1972, 156–157 fr. 49; Kassel-Austin 1983, PCG IV 108; Storey 2011, FOC I, 230–231.
217
La trattazione di ἅλας nel primo libro sarebbe in linea con l’ipotesi di Paton 1912 di una alfabetizzazione interna dell’opera di Luperco, ma non altrettanto il richiamo al dodicesimo libro (salvo forse pensare che da lì fosse tratto l’esempio μέλας ἅλς). Cfr. Ucciardello 2008, che tuttavia considera solo la citazione del 12° libro e non quella dal 1°. Si consideri che per Kassel e Austin ἐν τῷ α non indicherebbe il numerale del libro (in PCG manca l’apice) ma la lettera, alfa, nella desinenza della forma ἅλας. Kassel e Austin rimandando a PCG III.2, p. 95 ad Aristoph. fr. 138 (fonte Synag. α 1884 Cunningham) in cui sono citati alcuni paralleli per l’espressione ἐν τῷ … per indicare l’uso di una lettera in un termine in luogo dell’usuale διὰ τοῦ … (cfr. in particolare Phryn. Att. 28, l’unico esempio in cui la lettera non è scritta per esteso). Sia in Gaisford sia in Lasserre-Livadaras alfa è invece trascritto come numerale. L’uso scribale non consente di distinguere: nel manoscritto alfa è sopralineato, come il precedente numerale ιβ, ma anche come omicron citata poco prima indiscutibilmente come lettera (ἄολς· καὶ ἀποβολῇ τοῦ ο, ἅλς).
Incertarum fabularum fragmenta (fr. 47)
207
Contesto della citazione Cratete si trova citato in un additamentum alla voce ἅλς dell’Etymologicum Magnum Auctum presente nel manoscritto Vossiano (f. 218v), datato a fine XIII sec. e forse riconducile all’ambiente planudeo (cfr. LasserreLivadaras 1976, xvi). Si tratta di una nota di contenuto linguistico su forme alternative di hals e il loro genere. La fonte, citata esplicitamente è Luperco di Berito (FGrHist 636; vd. Schubert 2007 e Ucciardello 2008), un grammatico del III sec. d. C., autore di diverse opere di interesse prevalentemente linguistico tra le quali un trattato in tredici libri sui tre generi dei nomi Περὶ γενῶν ἀρρενικῶν καὶ θηλυκῶν καὶ οὐδετέρων, che secondo Sud. λ 691 gli avrebbe procurato una reputazione superiore persino a Erodiano, e che forse era ancora accessibile nell’ambiente dotto costantinopolitano del XIII secolo218. Evidentemente a questa opera di Luperco si fa riferimento, pur senza indicazione del titolo. Non è immediatamente evidente la rilevanza della citazione da Cratete per l’argomentazione sul genere di hals. Luperco probabilmente lo citava nel quadro di una discussione più ampia, forse come elemento di conferma di un tema in dentale. Troviamo tracce del dibattito sul modello di declinazione di hals anche in Erodiano (Hdn. GG III.2 p. 715.36 Lentz, citato da Choer. 265.22, cfr. anche Eustath. in Il. vol I p. 224.11 van der Valk e Od. vol II p. 269.5 Stallbaum) che postula un genitivo altos, senza aspirazione, divenuto halos per caduta di tau. Normalmente hals al femminile indica il mare, mentre hals al maschile, e più frequentemente al plurale, indica il sale. Dall’accusativo plurale deriverebbe la forma halas –tos neutro, cui fa riferimento la nota, usata ad es. da Ippocrate (Vict. 2.56, Mul. 1.78), Men. Dysc. 506 e altri autori successivi. Cfr. Chantraine 1968, 65. Interpretazione L’aggettivo hanaltos con il significato di “insaziabile” ricorre nell’Odissea (nella formula βόσκειν ἣν γαστέρ’ ἄναλτον “nutrire il ventre insaziabile” in Od. 17.228 e 18.364, cfr. anche 18.114) e a quanto attesta Suda α 1947 Adler era usato in questo senso anche da Cratino (fr. 140)219, mentre l’oratore Dinarco (fr. inc.sed. 9 Conomis) lo usava nel senso di “privo di sale” (ἄναλτον· Ὅμηρος καὶ Κρατῖνος ἀντὶ τοῦ ἀπλήρωτον, Δείναρχος δὲ ἀντὶ τοῦ χωρὶς ἁλῶν). Con questo secondo significato l’aggettivo, corrispondente ad ἄναλος, ricorre nel corpus hippocraticum in riferimento a cibi (es. Hp. Morb. 2.54 riferito a ἔτνος e σιτία, Nat.Mul. 11.38 riferito ad ἄλφιτα) e in Timocl. fr. 16.7, riferito a due pesci (saperdai), insipidi e dal muso largo, che indicherebbero metaforicamente i figli del venditore di pesce salato con cui si intrattiene la golosa etera Pizionice (σύνεστι σαπέρδαις δυσίν, καὶ ταῦτ’ ἀνάλτοις καὶ πλατυρρύγχοις τισίν)220. Si tratta di due forme omografe, ma che hanno evidentemente diversa origine, ἀ- privativo + *ἀλ-τός (cf. Lat. alo) la prima (vd. Beekes 2010, 98); ἀ- privativo + ἅλς la seconda.
218 219 220
Vd. Paton 1912 e Kaster 1988, 305. Cfr. Ucciardello 2008. Cfr. Olson-Seaberg 2018, 240–241. Per i saperdai come pesci senza sapore e di scarso valore vd. Archestr. fr. 39.3–5 OlsonSens.
208
Crates
Considerato il contesto di citazione, in cui si parla di sale, in Cratete l’aggettivo riferito alla pentola andrà interpretato nel senso di “insipido” e non nel senso di “insaziabile”. Diversamente Storey traduce «a pot that can’t be filled», come già Edmonds che proponeva «insatiable pot», e in linea con il significato omerico sembra intenderlo anche Bonanno; così anche DGE s. v. Poco probabile che il frammento sia da assegnare a Cratino, come proponeva Nauck «fortasse rectius» secondo Meineke, seguito da Demiańczuk. Dubbiosi anche Lasserre-Livadaras («an Cratin fr. 382?» p. 337). Per Cratino è attestato l’uso dell’aggettivo analtos “insaziabile” (fr. 140) e non di analtos “insipido”. Contro la conflazione delle testimonianze e l’attribuzione del frammento a Cratino si sono espressi anche Kassel-Austin: «prorsus diversa sunt quae de eiusdem vocis vi apud Cratinum fr. 410 protulerunt grammatici, ut vel inde appareat temere conflatis testimoniis Cratetis fragmentum Cratino vindicantum esse a Nauckio» (p. 108). Analtos “insipido” poteva essere usato anche in senso figurato, proprio come l’aggettivo italiano “insulso”: vd. EGen. α 770 Lasserre-Livadaras ἄναλτος· ἀηδής· ἀπὸ τῶν ὄψων τῶν μὴ ἐχόντων ἅλας καὶ ἀηδῶν ὄντων· σημαίνει δὲ καὶ τὸν ἀχρεῖον “analtos: sgradevole; dai cibi che non hanno sale e sono sgradevoli; significa anche inutile”221. Cfr. anche Hsch. α 4421, Phot. α 1542. Si può porre inoltre il confronto con un altro composto analogo, κάθαλος “molto salato” usato in Diph. fr. 17.13 e Posidip. fr. 1.7, riferito in questo secondo caso a un cuoco che sala troppo. χύτρα cfr. frr. 16.8. e 32.1.
fr. 48 K.-A. (42 K. = 46 e *56 B.) Synag. B α 354 Cunningham ἀδικότροπος ἐρεῖς καὶ ἀ δ ι κ ο χ ρ ή μ α τ ο ς, ὡς Κράτης, καὶ ἀδικόχειρας, ὡς Σοφοκλῆς (fr. 977 Radt). dirai “di indole ingiusta” e “ingiustamente arricchito”, come Cratete, e “con mani ingiuste”, come Sofocle.
Metro non definibile l k k l ? Bibliografia Meineke II (1839), 249 inc. fab. fr. VII; Bothe 1855, 81 fr. 6; Kock I (1880), 142 fr. 42; Blaydes 1896, 18, 284; Edmonds I (1957), 168–169; Bonanno 1972, 154–155 fr. 46, 160 fr. 56; Kassel-Austin 1983, PCG IV 108; Ruffell 2000, 498 n. 47; Storey 2011, FOC I, 231.
221
Cfr. l’uso figurato di sale nel senso di “arguzie” (cfr. lat. sales), documentato dal I sec. d. C., ma forse già in Aristoph. fr. 158.
Incertarum fabularum fragmenta (fr. 49)
209
Contesto della citazione Nella Synagōgē tra gli aggettivi composti con primo elemento ἀδικο-, sono raggruppati in un’unica voce tre hapax: ἀδικότροπος, ἀδικοχρήματος, ἀδικόχειρας. Come auctoritates sono citati Cratete e Sofocle, entrambi senza indicazione dell’opera (come spesso accade in questa raccolta lessicale). Meineke attribuiva a Cratete anche il primo aggettivo, ἀδικότροπος (seguito da Bothe; così anche LSJ, s. v.). Di diverso avviso Kock, Blaydes, Edmonds e ora Kassel e Austin, che attribuiscono a Cratete solo ἀδικοχρήματος. Bonanno annovera ἀδικότροπος tra i frammenti incerti del commediografo (fr. *56 B.). Interpretazione L’hapax ἀδικοχρήματος fa chiaramente riferimento a ricchezze acquisite in modo ingiusto. Il significato è esplicitato in uno specifico lemma nelle Lexeis rhētorikai dello stesso codice Coislinianus 345, che conserva anche la Synagōgē: ἀδικοχρημάτους: τοὺς κακοπράγμονας. οἱ δὲ τοὺς ἐξ ἀδίκων πλουτοῦντας (Lex. Bekk.V α p. 210, 19–20). Se anche la fonte di questo lemma fosse Cratete ne potremmo dedurre che il comico usava l’aggettivo al plurale. Il tema che si intravvede dietro questo aggettivo è quello dell’equità e del difficile rapporto tra onestà e ricchezza, un tema che troviamo sviluppato ad esempio nei Pluti di Cratino e poi nel Pluto di Aristofane e verosimilmente presente anche nei Thēria di Cratete (vd. infra). Da un punto di vista metrico l’alpha privativo, normalmente breve, in aggettivi inizianti con tre brevi è frequentemente da considerare come sillaba lunga.
fr. 49 K.-A. (43 K. = 47 B.) Phryn. SP. pp. 23.12–24.2 de Borries ἀλλόκοτον: σημαίνει μὲν κυρίως τὸ παρηλλαγμένον τῆς καθεστώσης διαίτης καὶ τρόπου. πεποίηται δὲ παρὰ τὸν κότον … Κράτης δ’ ἐπὶ ὀνείρατος ἠλλαγμένου καὶ τερατώδους. allokotos: indica propriamente ciò che è diverso dall’usuale modo di vivere e dall’uso. È formato su kotos … Cratete (usa il termine) in riferimento a un sogno mutevole e prodigioso.
Metro non definibile l k k? Bibliografia Kock I (1880), 142 fr. 43; Blaydes 1896, 18, 284; Edmonds I (1957), 168–169; Bonanno 1972, 155 fr. 47; Kassel-Austin 1983, PCG IV 108; Storey 2011, FOC I, 231. Contesto della citazione Il riferimento a Cratete è conservato nell’epitome della Praeparatio Sophistica di Frinico, raccolta di parole attiche oscure per lo più tratte da tragedia e commedia antica. Questo è l’unico caso in cui si conserva una menzione esplicita di Cratete da parte dell’atticista, ma è probabile che in alcuni casi in cui Fozio cita Cratete la fonte sia proprio Frinico (cfr. frr. 11 e 24).
210
Crates
Frinico dà il significato del termine e ne indica la formazione. Prima del riferimento a Cratete cita e spiega Plat. Leg. 747d. Per Cratete è indicato il contesto in cui è usato l’aggettivo, ma senza titolo dell’opera né citazione diretta, probabilmente caduti nel processo di epitomazione. Interpretazione L’aggettivo è composto da allos + kotos, “risentimento, odio”. Tale accezione del secondo elemento non sembra però percepibile nel composto, come del resto neanche in νεόκοτος (Aeschl. Pers. 257, Sept. 803), che ha come ἀλλόκοτος il significato di “strano, straordinario”222. Le prime attestazioni di ἀλλόκοτος datano al V secolo: Hp. Fract. 1.15, Soph. Ph. 1191 (ἀλλοκότῳ γνώμᾳ τῶν πάρος “proposito diverso dai precedenti”), con valore negativo in Thuc. 3.49.4 (πρᾶγμα ἀλλόκοτον “faccenda sgradevole”). In commedia è usato in Aristoph. Ve. 47 (οὔκουν ἐκεῖν’ ἀλλόκοτον “non è strano che…?”) e 71 (νόσον γὰρ ὁ πατὴρ ἀλλόκοτον αὐτοῦ νοσεῖ “il padre ha una strana malattia”). Cfr. inoltre Plat. fr. 252 (al superlativo e comparativo: ἀλλοκοτώτατον e ἀλλοκοτώτερον), Pherecr. fr. 216 (l’avverbio ἀλλοκότως), entrambi tralati da Phot. α 1000 Theodoridis. Bonanno rivendica a Cratete anche onar, ma non abbiamo la certezza che fosse esattamente questo il termine usato dal commediografo per indicare il sogno. La forma ὄναρ nella commedia di V secolo ricorre in Aristoph. Eq. 1090, Ve. 13, ma è utilizzata anche la forma ὄνειρος in Ve. 53, Ran. 1332 e 1340 e nel titolo Oneiroi di Diocle (su cui vd. Orth 2014, 233–235), nonché il termine ἐνύπνιον, ad es. in Aristoph. Ve. 25, 38 e 1218. Le visioni oniriche sono spesso usate nella letteratura greca, fin da Omero (cfr. Dodds 1551, 102–134; Kessels 1978; Harris 2009) e sono piuttosto frequenti anche in commedia. I sogni sono spesso premonitori e forniscono indicazioni sul futuro (Aristoph. Ve. 13–53, Eq. 1090–1096, Pherecr. fr. 43), possono rivelare la personalità e le preferenze del personaggio che sogna (Aristoph. Nub. 16 e 25–32) o desideri irrealizzabili (Aristoph. Ve. 1218) o ancora essere l’effetto collaterale di cattiva digestione (Hermip. fr. 63.16). A volte si tratta di parodia delle rappresentazioni del sogno nella tragedia (ad es. Aristoph. Ran. 1332–1337). Per il frammento crateteo Kassel e Austin propongono un confronto con Plaut. Rud. 597 mirum atque inscitum somniavit somnium.
fr. 50 K.-A. (44 K. = 48 B.) Ath. epit. II 47e par. 28 ἀναγκόσιτον δὲ (εἴρηκεν) Κράτης. καὶ Νικόστρατος δέ (fr. 31)· ‘μειράκιον — ἀναγκόσιτον’ anagkositon (“che mangia a forza”) lo ha detto Cratete. E Nicostrato ‘μειράκιον – ἀναγκόσιτον’ 222
Cfr. Chantraine 1968, 572.
Incertarum fabularum fragmenta (fr. 51)
211
Metro non definibile k l k l ? Bibliografia Meineke II (1839), 249 inc. fab. fr. VI; Bothe 1855, 81 inc. fab. fr. 5; Kock I (1880), 143 fr. 44; Edmonds I (1957), 168–169; Bonanno 1972, 155–156 fr. 48; Kassel-Austin 1983, PCG IV 108; Storey 2011, FOC I, 231. Contesto della citazione L’epitome di Ateneo conserva una menzione di Cratete in una prima discussione a proposito di termini in –sitos (cfr. poi Ath. VI 248b) e simili. Prima di anagkositos di Cratete, sono citati monositon “che mangia una sola volta al giorno” (Alexis fr. 271 e Plat. fr. 296), e poi apositos “che sta digiuno” (Philon. fr. 1), autositos “che si porta il cibo” riferito a un parassita (Crobil. fr. 1.1), anaristētos “che non ha fatto colazione” (Eup. fr. 77). Segue una citazione di tre versi di Nicostrato, fr. 31 con lo stesso aggettivo (ἀναγκοσῑτῶ CE corr. Porson) in riferimento a un efebo. Interpretazione Il composto anagkositos, testimoniato solo nei due frammenti di Cratete e Nicostrato riportati da Ateneo, richiama alcuni composti analoghi riferiti al regime alimentare controllato degli atleti: ἀναγκοφαγία Hp. Sal. 7, Aristot. Pol. 1339a.6, Them. Or. 15.185d; e i verbi ἀναγκοτροφέω (Epict. Ench. 29.2) e ἀναγκοφαγέω (Ephor. in P.LondLit. 114.12; Arr. Epict. 3.5.3). È verosimile che in commedia l’aggettivo fosse riferito a un parassita e così è inteso in genere nei lessici moderni (cfr. LSJ, GI e DGE s. v.). Come notava Bonanno la formazione, coniata su parasitos, probabilmente distorceva comicamente il significato di regime dietetico dell’atleta applicandolo al comportamento vorace del parassita. Per altri composti in anagko- cfr. ad es. Aeschl. fr. 172a Radt ἀναγκόδακρυς “che versa lacrime forzate”. Per i composti in –sitos vd. Chantraine 1968, 1007 e cfr. supra fr. 37.1.
fr. 51 K.-A. (4 Dem. = 50 B.) Phot. (b, z) α 1680 Theodoridis ἀναστῶ· ἀντὶ τοῦ ἀναστήσω (ἀναστήσομαι Edmonds). Κράτης καὶ Φερεκράτης (fr. 218) καὶ Ἄρχιππος (fr. 54) (καὶ Φερεκράτης καὶ Ἄρχιππος in marg. z). anastō: invece di anastēsō. Cratete e Ferecrate e Archippo.
Metro non definibile k k l (?) Bibliografia van Herwerden 1907, 285–286; Demiańczuk 1912, 30 fr. 4; Edmonds I (1957) 168–169, fr. 44a; Bonanno 1972, 157 fr. 50; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 108; Storey 2011, FOC, I 231; Miccolis 2017, 300–301.
212
Crates
Contesto della citazione La glossa è conservata solo nel lessico di Fozio e sono citati come fonti tre commediografi dell’archaia, apparentemente in ordine cronologico, senza indicazione del titolo delle commedie. Il lemma anastō è un congiuntivo dell’aoristo fortissimo di ἀνίστημι attivo prima persona singolare (vd. già van Herwerden 1907), glossato con anastēsō, che è stato per lo più inteso come indicativo futuro attivo prima persona singolare. Secondo van Herwerden l’interpretazione riportata nel lessico di Fozio sarebbe errata e nascerebbe dalla confusione tra congiuntivo e futuro propria dell’evoluzione della lingua greca; tale confusione è ben ravvisabile nei lessicografi di età romana e bizantina, che spesso glossano forme del futuro con il congiuntivo e forme del congiuntivo aoristo con il futuro (vd. esempi in Lobeck 1820, 723–725). Tuttavia è anche possibile intendere l’interpretamentum anastēsō non come futuro ma come congiuntivo dell’aoristo sigmatico (vd. LSJ s. v., Bonanno 1972, 157). L’aoristo sigmatico di ἀνίστημι ha di norma valore transitivo causativo “far alzare”, mentre l’aoristo fortissimo è usato con il significato intransitivo “alzarsi”. Si potrebbe allora immaginare che i comici citati usassero l’aoristo fortissimo con valore transitivo e che la glossa fosse tesa a evidenziare questo uso (vd. Miccolis 2017, 300–301). La prima persona singolare anastō è probabilmente dovuta a una normalizzazione per lemmatizzazione e non sappiamo la persona con cui ciascuno dei tre comici usasse il congiuntivo aoristo. Interpretazione Cratete, e Ferecrate e Archippo dopo di lui, usavano il congiuntivo aoristo fortissimo di ἀνίστημι in un modo che doveva apparire inusuale ai lessicografi. Resta incerto se fosse usato con valore di futuro223, secondo un uso del congiuntivo documentato nella poesia omerica (vd. Goodwin 1890, 97 § 284) oppure nel senso transitivo di “far alzare” (vd. supra).
fr. 52 K.-A. (45 K. = 51 B.) Synag. B α 1250 Cunningham = Phot. (b, z) α 1783 Theodoridis = Sud. α 2211 ἀνεβιωσάμην· ἀντὶ (ἀπό Phot.) τοῦ ἀναβιῶναι ἐποίησα (ἐποίησε Phot.). Κράτης (κρατ Σb Phot. b) anebiōsamēn: invece di anebiōnai epoiēsa (“feci tornare in vita”). Cratete.
Metro non definibile
k k k l k l (?)
223
Così interpretano il frammento ad es. Edmonds, Kassel-Austin, Storey. Edmonds 1957, 168 n. 2, ipotizzava che il congiuntivo fosse preceduto da φέρε o ἄγε. Cfr. Pherecr. fr. 73.1 δὴ φέρε κατακλινῶ.
Incertarum fabularum fragmenta (fr. 52)
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Bibliografia Blaydes 1890, 15; Blaydes 1896, 18; Edmonds I (1957) 168–169, fr. 45; Bonanno 1972, 157–158 fr. 51; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 109; Storey 2011, FOC, I 231. Contesto della citazione La glossa è conservata insieme ad altre voci relative allo stesso verbo ἀναβιόω nei lessici bizantini di Fozio, Suda e nel codice B dell’anonima Synagōgē (Phot. α 1780–1783; Sud. α 2210–2211; Synag. B α 1245 e 1250). Si tratta di materiale riconducibile alla fonte comune Σ. Come spesso accade, l’abbreviazione del nome dell’autore presente in parte della tradizione manoscritta può lasciare dubbi sull’attribuzione a Cratete o a Cratino (Bekker non scioglieva l’abbreviazione e Bernhardy pensava a Cratino), ma Suda e il codice Zavordensis di Fozio portano ad attribuire il frammento a Cratete. Lo stesso Fozio e altri lessici sono fonte di altri frammenti della commedia antica in cui è utilizzato questo verbo, considerato un atticismo (vd. Moer. α 38). Phot. α 1408 cita Aristoph. Ran. 177 e fr. 770, Plato fr. 139, Sannyr. fr. 12 (cfr. Orth 2015, 417), oltre a Eur. fr. 1096a K.224 La glossa in cui è menzionato Cratete riguarda l’aoristo medio del verbo ἀναβιόω/ἀναβιώσκομαι con valore causativo, secondo un uso che si trova ad esempio anche in Plat. Phaed. 89b o Ael. NA. 2.29. Nella prosa tarda però l’aoristo medio poteva essere usato in senso intransitivo con lo stesso valore dell’attivo “tornare in vita”: vd. ad es. in Plut. Isid. 377b. Questo secondo uso era forse più familiare ai lessicografi. La prima persona singolare anebiōsamēn potrebbe essere dovuta alla lemmatizzazione. Interpretazione L’uso del verbo ἀναβιόω è ben documentato in commedia. Oltre ai passi già citati perché traditi nelle fonti lessicografiche (Aristoph. Ran. 177 in cui il morto dice ἀναβιῴην νυν πάλιν “piuttosto resuscito” e fr. 770; Plat. fr. 139 ἀναβιῶν’ ἐκ τῆς νόσου “riprendersi da una malattia”; Sannyr. fr. 12), si vedano anche Eup. fr. 101.4 dai Dēmoi (ἂν ἐβίων Grenfell-Hunt : ἀνεβίων Schroeder, vd. Olson 2017, 371), Timocl. fr. 20.2–3 (ὁ γὰρ Τιθύμαλλος οὕτως ἀνεβίω | κομιδῆ τεθνηκώς “così tornò in vita Titimallo, che era bell’e morto”) e Com.Adesp. fr. 1001.11. Storey traduce “I came back to life” ma stando all’interpretamentum dei lessici antichi, Cratete usava il verbo con valore causativo, quindi “far resuscitare”, “far tornare in vita” (vd. supra Contesto). Per gli esempi di uso comico del tema del ritorno dall’aldilà basti pensare alle Rane di Aristofane o ai Demi di Eupoli. Non sappiamo tuttavia se Cratete usasse il verbo in senso proprio (come Aristoph. Ran. 177 e forse Eup. fr. 101.4) o metaforico (come Plat. fr. 139).
224
Cfr. Lautensach 1911, 29–30.
214
Crates
fr. 53 K.-A. (53 B.) Phot. δ 154 Theodoridis δεκάδραχμος· τελώνης δεκάτην πράσσων. οὕτως Κράτης. dekadrachmos: esattore che riscuote la decima. così Cratete.
Metro non definibile
k k l ?
Bibliografia Bonanno 1972, 158 fr. 53; Tsantsanoglou 1984, 105–106 fr. 111; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 109; Storey 2011, FOC, I 231. Contesto della citazione La glossa è conservata solo nel lessico di Fozio, ma è confrontabile con la voce esichiana per δεκάδαρχος “decurione”, in fondo alla quale è aggiunta la spiegazione καὶ ὁ τελώνης “anche l’esattore” (Hsch. δ 553 LatteCunningham δεκάδαρχος· οἱ μὲν ἀπὸ τοῦ δεκαδαρχεῖν. οἱ δὲ ἀπὸ τοῦ δεκάζειν, ὅπερ ἐστὶ τοὺς δικαστὰς πείθειν δώροις. ἦν δὲ καὶ ὄνομα. καὶ ὁ τελώνης). L’ipotesi più probabile è che nel lessico di Esichio sia stata inglobata a fine voce una spiegazione relativa a un lemma successivo molto simile. Il termine δεκάδαρχος non sembra avere nulla a che fare con l’esazione delle tasse. Dunque il termine utilizzato da Cratete era verosimilmente δεκάδραχμος e non δεκάδαρχος225. Possibile fonte per entrambi i lessici è Diogeniano (cfr. Theodoridis e LatteCunningham). Interpretazione Quella in Cratete è la prima attestazione di dekadrachmos, un termine raro che si ritrova in alcuni documenti papiracei e in letteratura solo in un passo di Aristotele. In Aristot. Oecon. 1352b è usato in riferimento a σῖτος come aggettivo nel senso “del valore di dieci dracme”. Un significato analogo in BGU IV 1134.7 e 1135.7–8 del I sec. a. C. in riferimento a ἔρανος. In altri due papiri di epoca romana sembra invece riferirsi a un’imposta: πρὸς (δεκάδραχμον) in P.Ryl. 216.304, un documento relativo a terreni agricoli del II/III sec. d. C., mentre nella dichiarazione di censimento del 189 d. C. BGU 118.2.9 è chiaramente riferito a una persona, forse in qualità di contribuente che paga tale imposta226. Non possiamo dire se fosse un termine tecnico già esistente utilizzato da Cratete o se fosse un conio comico (cfr. Tsantsanoglou 1984, 106). Storey traduce “worth ten drachmas”, sulla scorta dell’uso in Aristotele. Certo non si può escludere che il significato registrato nel lessico bizantino risentisse di un uso più tardo del termine e non rispecchiasse il contesto di Cratete. Tuttavia in assenza di ulteriori elementi, un possibile riferimento in Cratete alla riscossione di una decima sembra storicamente plausibile. La decima poteva essere una tassa 225 226
Pace DGE s. v. che annota «quizá error por δεκάδαρχος». Cfr. Tsantsanoglou 1984. Così Preisigke WB, s. v. Cfr. anche DGE s. v. In entrambe le attestazioni il termine non è scritto per esteso ma è reso con il simbolo numerico e monetario sopralineato.
Incertarum fabularum fragmenta (fr. 54)
215
dovuta a città o a templi e spesso l’imposizione di tale contributo costituiva una sanzione contro chi violava accordi. Ad es. nel 481 a. C. i Greci sotto la minaccia persiana avevano giurato che qualunque città greca si fosse sottomessa ai Persiani senza esserne costretta avrebbe dovuto pagare una decima al santuario di Delfi (Hdt. 7.132); due anni più tardi con la decima del bottino di guerra dedicarono al dio di Delfi il famoso tripode aureo (Hdt. 9.81). Il giudizio sulle città greche medizzanti fu oggetto di lunghe discussioni nei decenni successivi e fu utilizzata in chiave propagandistica nei rapporti tra Atene e gli alleati, basti pensare al dibattito di Platea nel 427 a. C. (Thuc. 3.62). fr. 54 K.-A. (47 K. = *58 B.) Phot. δ 287 Theodoridis = Sud. δ 500 διαβάλλειν· τὸ ἐξαπατᾶν καὶ παραλογίζεσθαι. Θουκυδίδης αʹ καὶ Κράτης (Κράτης Sud. : Κρατῖνος in marg. Phot. z = fr. 436). diaballein: l’ingannare e imbrogliare. Tucidide primo libro e Cratete.
Bibliografia Bonanno 1972, 161 fr. *58; Tsantsanoglou 1984, 105 fr. 111; KasselAustin 1983, PCG IV, p. 109; Storey 2011, FOC, I 231; Olson-Seaberg 2018, 266–268. Contesto della citazione Il lessico di Fozio e Suda traggono il materiale dalla fonte comune Σ ma presentano una divergenza nel secondo autore menzionato. La Suda cita Cratete, mentre nel lessico di Fozio è menzionato Cratino (= fr. 436, vd. Olson-Seaberg 2018). È uno dei diversi casi in cui abbiamo verosimilmente a che fare con due possibili scioglimenti di una stessa abbreviazione Κρατ e resta insolubile il dubbio nell’attribuzione del frammento all’uno o all’altro commediografo (cfr. supra Introduzione). Si notino però le coincidenze con Phot. (z) ε 865 Theodoridis, cfr. supra fr. 7, in cui cambia il preverbo e la forma del lemma ma il significato coincide ed è citato Cratete. Tsantsanoglou 1984 ipotizzava una certa confusione non solo nei nomi ma anche nei lemmi. Il verbo è piuttosto frequente in Tucidide, ma non risulta tuttavia presente nel primo libro, né le occorrenze negli altri libri sembrano mostrare chiaramente il significato indicato. L’accezione più frequente è quella di “gettare discredito”, “mettere in cattiva luce” (es. Thuc. 3.109.2 o 7.48.3), altrove vuol dire “attraversare” (es. Thuc. 2.83.3; 6.30.1). Bonanno 1972, 161 n. 1, pensava a un’interpretazione erronea di Thuc. 2.18.3, ma non mi pare ci siano ragioni per individuare questo passo specifico tra le oltre venti occorrenze al di fuori del libro primo. È possibile che si tratti di una svista nella trascrizione del numerale, un errore assai comune, oppure si potrebbe, con Tsantsanoglou considerare una confusione nel lemma, sulla scorta delle coincidenze con Phot. (z) ε 865 Theodoridis (fr. 7). Il verbo ἐμβάλλειν è effettivamente presente nel primo libro di Tucidide (Thuc. 1.49.7 τὸ μὲν πρῶτον ἀπεχόμενοι ὥστε μὴ ἐμβάλλειν τινί· ἐπειδὴ δὲ ἡ τροπὴ ἐγίγνετο λαμπρῶς …).
216
Crates
Tucidide è menzionato per questo significato del verbo diaballein anche in Sud. δ 892 (διέβαλεν: ἐξηπάτησε. καὶ Θουκυδίδης οὕτως κέχρηται καὶ Ἀριστοφάνης ἐν Θεσμοφοριαζούσαις. διέβαλέ μ’ ἡ γραῦς. ἀντὶ τοῦ ἐξηπάτησε). Per altro materiale lessicografico relativo al verbo cfr. Olson-Seaberg 2018, 267. La forma è lemmatizzata all’infinito presente e non sappiamo in quale modo e tempo ricorresse nel testo comico. Interpretazione Il verbo diaballein può voler dire “attraversare”, ma anche “calunniare” e, meno frequentemente, “ingannare, imbrogliare”227. In quest’ultimo senso è utilizzato ad esempio dall’arciere sciita in Aristoph. Th. 1214. Gli sch. ad loc. (1214a Regtuit) lo glossano con ἐξαπατᾶν e spiegano che si tratta di un’espressione tipicamente ionica. Con il significato di “indurre in errore, ingannare” il verbo si trova più volte in Erodoto (ad es. Hdt. 2.1; 5.107; 8.110). Con il medesimo valore, però al medio, il verbo ricorre anche in Aristoph. Av. 1648: anche in questo caso gli sch. ad loc. (1648a Holwerda) fanno riferimento all’uso nel senso di ἐξαπατᾶν e citano come parallelo Archipp. fr. 38.2 (su cui vd. Miccolis 2017, 237–238).
fr. 55 K.-A. (49 K. = 54 B.) Poll. 6.161 ἡμιμάσητοι δέ Κράτης Cratete (dice) hēmimasētoi (“semimasticati”)
Metro incerto
l k k l l
Bibliografia Meineke II (1839), 251 inc. fab. fr. XIV; Kock I (1880), 143 fr. 49; Edmonds I (1957), 169; Bonanno 1972, 159 fr. 54; Kassel-Austin 1983, PCG IV 109. Contesto della citazione Polluce sta enumerando una serie di composti col prefisso ἡμι-. I termini sono elencati in diversi casi, numeri e genere, cosicché si potrebbe supporre che in Cratete il composto ἡμιμάσητοι fosse effettivamente utilizzato al nominativo plurale. Prima del riferimento a Cratete sono indicati altri due composti al nominativo plurale: ἡμίλουτοι (Cratin. fr. 457) e ἡμίπλεκτοι (Philyll. fr. 31). Interpretazione Si tratta di un hapax legomenon composto da ἡμι- + μασάομαι. Il verbo μασάομαι è frequente nei comici per “masticare”, “mangiare”: cfr. ad es. Eup. fr. 271 (e commento di Olson 2016 ad l.), Aristoph. Ve. 780, Pax 1310. Al di fuori della commedia il verbo è attestato in Hp. Epid. 7.11 e in prosa di epoca successiva. 227
Chadwick 1996, 87–94 sp. 91–92.
Incertarum fabularum fragmenta (fr. 56)
217
Il termine sembra suggerire un contesto culinario, anche se non si può escludere un uso metaforico. Per un altro composto in ἡμι- vd. fr. 22.
fr. 56 K.-A. (51 K. = *62 B.) Poll. 8.26 (FS, ABCL) καὶ ἐφυγοδίκουν εἴρηκε Δημοσθένης (40.10), Κράτης (Κρατῖνος FS) δὲ ὁ κωμικὸς παλίνδικον τὸν πολλάκις δικαζόμενον. Demostene ha detto anche ephugodikoun (“si sottraevano al processo”), e Cratete comico palindikos chi intenta spesso processi.
Metro non definibile k l k ? Bibliografia Meineke II (1839), 251 inc. fab. fr. XV; Bothe 1855, 81 fr. 13; Kock I (1880), 143 fr.51; Edmonds I (1957), 168–169; Bonanno 1972, 164 fr. 62; KasselAustin 1983, PCG IV 109; Storey 2011, FOC I, 231. Contesto della citazione Polluce sta trattando una serie di composti con δίκη e derivati con riferimenti a vari autori di prosa e poesia. Cratete comico è menzionato senza indicazione del titolo per l’hapax παλίνδικος. I codici FS recano il nome di Cratino, non Cratete. Benché la specificazione ὁ κωμικὸς indirizzi a Cratete, autore per il quale si ponevano problemi di omonimia, Bonanno preferisce inserire il frammento tra i dubia considerando che si trova anche Κρατῖνος ὁ κωμικὸς ad es. in Plut. Cim. 10.4 (e Sol. 25.2.2). Tuttavia in Polluce tale specificazione ricorre tre volte in riferimento a Cratete (Poll. 4.183, 6.53 e 8.26) e mai per Cratino (cfr. Kassel-Austin 1983, 109) In Poll. 6.164 lo stesso aggettivo è ricordato, senza menzione di fonti e con la stessa spiegazione, tra i composti in palin-. Interpretazione L’aggettivo è un hapax che Polluce spiega come riferito a “chi ricorre in giudizio più volte”228, secondo Edmonds e LSJ quindi si potrebbe intendere più genericamente come “litigioso”. Potrebbe trattarsi però di un termine tecnico. Il verbo πᾰλινδῐκέω è attestato in due papiri di epoca romana (BGU II 163.17, copia di un rapporto al prefetto; P.Mert. III 104.17, una bozza di petizione in cui ἡ παλινδικοῦσα è colei che presenta un ricorso giudiziario) e nelle fonti lessicografiche è glossato con ἐπισυνάπτει δίκην (Hsch. π 197; Synag. π 40; Phot. π 80; Sud. π 95). È attestato anche il sostantivo παλινδικία che indica tecnicamente un’azione giudiziaria per la revisione di un processo: Plut. Dem. 6 διαδύσεις καὶ παλινδικίας εὑρίσκοντας “che trovavano 228
Bothe traducendo “identidem judicatum” sembra preferire un significato passivo, ma più probabilmente δικαζόμενον di Polluce andrà inteso come medio.
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scappatoie e revisioni giudiziarie”; e lo storico Hdn. 7.6.4 καὶ παλινδικίαν διδοὺς τοῖς ἀδίκως κατακριθεῖσι “concedendo una revisione del processo a coloro che sono stati condannati ingiustamente”. Cfr. anche Hsch. π 198 ἡ ἐξ ἀρχῆς δίκη e Sud π 95. Non sappiamo se all’altezza cronologica di Cratete l’aggettivo si riferisse già a questo specifico tipo di azione giudiziaria, di ricorso per un nuovo processo, ma la possibilità di appello era prevista in alcuni casi fin dai tempi di Solone (vd. MacDowell 1978, 31–33). Composti con primo elemento palin- sono numerosi (Chantraine 1968, 853) sia con il valore di “ripetutamente”, “di nuovo”, sia più frequentemente con il valore di “a propria volta” “in risposta”. In commedia vd. ad es. Cratin. fr. 166 παλινῳδικός “palinodico”, Plat. fr. 180 παλινδορία “pelle riciclata”, Aristoph. Pl. 1156 παλιγκάπηλος “rivenditore”. Relativamente numerosi anche i composti con secondo elemento –dikos (Chantraine 1968, 283). Ad es. πρόδικος Aristoph. fr. 278, εὐθύδικος Aeschl. Ag. 761 e Euthydikos titolo di Antifane. Per il tema dell’amministrazione della giustizia e della mania ateniese per i processi basti pensare alle Vespe di Aristofane.
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Dubia fr. *57 K.-A. (46 K. = *57 B.) Sud. α 4723 Adler ἀψάλακτος: ἀπαθὴς, ἀτιμώρητος. ἀψάλακτον γὰρ τὸ ἄθικτον. οὕτως Κράτης (οὕτως Κράτης om. FV). apsalaktos: incolume, impunito. apsalakton infatti (è) la cosa non toccata. Così Cratete.
Metro non definibile l k l ? Bibliografia Meineke II (1839), 250, inc. XI; Kock I (1880), 143 fr. 46; Edmonds I (1957) 168–169, fr. 46; Bonanno 1972, 160 fr. *57; Kassel-Austin 1983, PCG IV, pp. 110 e 318; Broggiato 2001, lxviii. Contesto della citazione La voce della Suda, direttamente confrontabile con sch. ad Aristoph. Lys. RΓBar 275a Hangard e Zon. α 365 Tittmann, conserva la menzione dell’auctoritas di Cratete. L’aggiunta οὕτως Κράτης, non presente in alcuni manoscritti, potrebbe essere stata tratta secondo Adler dalla voce δ (845) διαψαλάττεσθαι: τὸ διαστέλλεσθαι εἰς ἔρευναν. τὸ γὰρ ἀψάλακτον, ἄθικτον. οὕτως Κράτης (“diapsallesthai: l’essere aperto per ispezione; l’apsalakton infatti intatto. Così Cratete”), che trova perfetta corrispondenza nel lessico di Fozio, che però cita Cratino: Phot. δ 505 Theod. διαψαλάττεσθαι· τὸ διαστέλλεσθαι εἰς ἔρευναν· τὸ γὰρ ἀψάλακτον ἄθικτον. οὕτως Κρατῖνος. Sulla base di Fozio il frammento è incluso da Kassel-Austin tra gli incertae fabulae di Cratino (fr. 439, vd. Olson-Seaberg 2018, 271: «whether the author in question is Crates or Cratinus is unclear—Kassel–Austin offer no reason for assigning διαψαλάττεσθαι unambiguously to Cratinus or for offering only ἀψάλακτος as Crates Com. fr. dub. 57—and this fragment (like fr. 436) might better have been placed among the dubia»). L’attribuzione resta incerta. Interpretazione L’aggettivo ἀψάλακτος (“intatto”, “incolume”) deriva dal verbo ψαλάσσω “toccare leggermente”, che analogamente a ψάλλω poteva essere usato per indicare il tocco per far vibrare una corda di uno strumento musicale (Lyc. 139). Oltre a questo frammento l’aggettivo ha solo due altre attestazioni: Soph. fr. 550 Radt, menzionato in Hsch. α 8940 (ἀψάλακτος· ἀκίνητος. ἀψηλάφητος. ἀκράτητος. Σκύθαις Σοφοκλῆς) e Aristoph. Lys. 275. Nella Lisistrata l’aggettivo è riferito a Cleomene, il re di Sparta cacciato dall’acropoli “non indenne” (ἐπεὶ οὐδὲ Κλεομένης, ὃς αὐτὴν κατέσχε πρῶτος, | ἀπῆλθεν ἀψάλακτος). Henderson 1987, 103 traduce con “unmolested”. Sulla base dell’uso del verbo ὑποψαλάσσω al v. 84 della stessa commedia (ἇπερ ἱαρεῖόν τοί μ’ ὑποψαλάσσετε “mi palpeggiate come una bestia da sacrificio”), si potrebbe ipotizzare un’accezione sessuale anche per
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l’aggettivo ἀψάλακτος. Nella voce relativa al verbo διαψαλάττεσθαι (vd. Contesto) la spiegazione τὸ διαστέλλεσθαι εἰς ἔρευναν “essere allargato, dilatato per una perquisizione o per una esplorazione” farebbe pensare a un possibile uso per una metafora sessuale analoga a quella della Lisistrata. In Aristofane l’aggettivo si riferisce però a una persona. L’interpretamentum al neutro nelle fonti lessicografiche suggerirebbe che invece in Cratete (o Cratino) fosse riferito a una cosa (ἀψάλακτον γὰρ τὸ ἄθικτον), e dunque forse a una parte del corpo.
fr. *58 K.-A. (*55 K. = *70 B.) Hsch. η 476 Latte ἡμεροῦν· Κράτης τὸ τὴν γῆν ἐξημεροῦν καὶ ἐργάζεσθαι. τιθέασι δὲ καθόλου ἐπὶ τοῦ γεωργεῖν τὴν λέξιν. hēmeroun: Cratete il dissodare la terra e lavorarla. In generale mettono il termine in relazione al coltivare la terra.
Bibliografia Meineke II (1839), 251; Bothe 1855, 81; Kock I (1880), 144 fr. *55; Edmonds I (1957) 168–169, fr. 55; Bonanno 1972, 172 fr. *70; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 110; Broggiato 2001,115 e 271. Contesto della citazione Nella glossa relativa al verbo hēmeroun, che risale verosimilmente alla raccolta di Diogeniano, il lessico di Esichio conserva una menzione di un Cratete senza ulteriori specificazioni. Latte lo identificava con il filosofo e grammatico Cratete di Mallo e già Meineke e Bothe escludevano il lemma dal novero dei frammenti del comico. Contro l’attribuzione al commediografo anche Bonanno, 172, che punta l’attenzione sulla seconda parte dell’interpretamentum, τιθέασι … τὴν λέξιν, che «non può che inquadrarsi in un discorso di carattere grammaticale». Ciò è senz’altro vero ma considerato anche il verbo al plurale τιθέασι, non permette una sicura identificazione del Cratete della frase precedente perché il discorso grammaticale poteva basarsi su un locus classicus. Non sarebbe insolito in compilazioni di questo tipo anteporre la fonte letteraria e poi riportare le osservazioni della letteratura secondaria in proposito. Nel lessico esichiano si trova un’altra menzione di un Cratete senza ulteriori specificazioni e si tratta di Cratete di Mallo (Hsch. ε 3470 = fr. 6 Br.)229, chiamato in causa per una glossa omerica. Appartengono ai suoi scritti su Omero la maggior parte dei frammenti ai noi noti. Ma non può essere questo il caso per il lemma
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Incerta la possibilità che il nome potesse essere citato anche in Hsch. α 5432 s. v. ἀντιλαβαί, dove i manoscritti hanno Ἱπποκράτης emendato in Κράτης da Meineke, vd. supra n. 21. Cfr. fr. *85 Broggiato.
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hēmeroun, che non è usato in Omero230. Non possiamo escludere invece che fonte di questa glossa potessero essere i sui scritti di linguistica. Wachsmuth 1860 (cfr. anche Kassel-Austin) pensava in particolare alla sua opera Sul dialetto attico. Più prudente Broggiato che include il frammento tra i dubia (fr. *122) e nota che la glossa non è attestata in altri lessici atticisti. Interpretazione La voce hēmeroun, secondo Cratete (se intendiamo il Mallota) o in Cratete (se intendiamo il comico) significava “coltivare” la terra. Il verbo ἡμερόω significa generalmente “rendere mite”, “addomesticare”, ma anche “bonificare” una zona dalla presenza di bestie feroci (Hp. Aër. 12 ἡ. ἐξ ἀγρίων) o altri pericoli (Pind. I. 4.57 ναυτιλίαισί τε πορθμὸν ἡμερώσαις “bonificare la rotta per i naviganti”, cioè liberarla dai pirati). Al medio anche “sottomettere” (Hdt. 4.118.5). Un buon parallelo per il significato qui indicato è Aeschl. Eum. 13–14 χθόνα ἀνήμερον τιθέντες ἡμερωμένην “rendendo civile una regione selvaggia”.
fr. *59 K.-A. (56 K. = 63 B.) Phot. ρ 102 Theodoridis ῥῆσις: τὸ ψήφισμα· οὕτως Κράτης. rhēsis: la deliberazione. Così Cratete.
Bibliografia Meineke II (1839), 251; Kock I (1880), 144 fr. 56; Edmonds I (1957) 168–169, fr. 56; Bonanno 1972, 165 fr. 63; Kassel-Austin 1983, PCG IV, p. 110; Broggiato 2001, 115 e 271–272; Major 2013, 42. Contesto della citazione Nella glossa su un uso particolare del termine rhēsis, il lessico di Fozio menziona un Cratete non meglio specificato. Si tratta di un altro caso di identificazione dubbia tra Cratete comico e Cratete di Mallo (cfr. supra fr. 58). Incerto il Meineke («nisi Cratetem dicit grammaticum» p. 251). Wachsmuth 1860, 35 ipotizzava che il frammento appartenesse all’opera Sul dialetto attico del Mallota. Broggiato lo include tra i dubia di argomento vario del grammatico (fr. *123). Si esprimono invece decisamente per Cratete comico Kaibel («vix potest grammatici esse» apud K.-A.), Bonanno, che considera la glossa tra i frammenti sicuri, e Theodoridis. Kassel e Austin preferiscono invece mantenerlo tra i dubia. Fa propendere per un’assegnazione a Cratete comico la modalità di citazione con οὕτως, normalmente usata per riferimenti a un autore antico, spesso senza 230
Il verbo è usato da Pindaro, ma non in relazione alla terra, e da Eschilo (vd. infra Interpretazione), entrambi poeti di cui Cratete di Mallo si era occupato probabilmente non in modo diretto ma in relazione a Omero (vd. Broggiato 2001, xxiv-xxv).
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specificazione dell’opera. Ad es. la glossa di poco precedente (ρ 98 Th.), dedicata all’uso più comune di rhēsis nel senso di discorso di un oratore, termina con οὕτως Ἀριστοφάνης. Cfr. anche Crat. fr. 53231. La glossa trova corrispondenza in Hsch. ρ 268 Hansen: ῥήσεις· νόμοι, δόγματα. λόγοι, λέξεις. ψηφίσματα “rhēseis: leggi, decisioni; discorsi, parole; decreti”. Interpretazione Il termine rhēsis, etimologicamente connesso con il verbo εἴρω, significa genericamente “discorso”, ed è attestato già a partire da Omero (Od. 21.291)232. In ambito teatrale può assumere il significato tecnico di discorso recitato da un personaggio (e. g. Aristoph. Nub. 1371 con Dover 1968, 255; vd. anche Demosth. 18.267 e Aristot. Poet. 1451a 31). L’accezione di “risoluzione”, “decisione”, attestata in Fozio, trova paralleli in Hdt. 1.152.3 (ἀγγελέοντα Κύρῳ Λακεδαιμονίων ῥῆσιν “per riferire a Ciro la decisione degli Spartani”) e nel testo epigrafico IG V2 343.19 (IV sec. a. C. da Orchomenos in Arcadia). Questo particolare uso può collegarsi al contesto dell’oratoria assembleare e porre a confronto con l’accezione “politica” della parola ῥήτωρ233, per cui si veda infra a proposito del titolo di Cratete Rhētores. L’interpretamentum nel lessico di Fozio sembra confermare un contesto politico istituzionale, poiché ψήφισμα indica una proposta approvata a votazione e che assume forza di legge, un decreto (cfr. νόμοι e ψηφίσματα nella voce di Esichio).
fr. *60 K.-A. (test. 19 B.) Vitruvius VI praef. 3 non minus poetae, qui antiquas comoedias graece scripserunt, easdem sententias versibus in scaena pronuntiaverunt, ut † Eucrates (Crates Bondam, Eu〈polis〉, Crates Krohn), Chionides (fr. 8), Aristophanes (fr. 924), maxime etiam cum his Alexis (fr. 305) non di meno i poeti che scrissero commedie antiche in greco espressero queste stesse massime in versi sulla scena, come † Eucrate, Chionide (fr. 8), Aristofane (fr. 924), e specialmente, insieme a loro, Alessi (fr. 305).
Bibliografia Bonanno 1972, 26–27; Kassel-Austin 1983, PCG IV 110; Storey 2011, FOC I 230–231; Olson 2013, 255; Ruffell 2014, 304; Bagordo 2014a, 69–70; Pellegrino 2015, 474. Contesto Nella prefazione al sesto libro del De architectura, dedicato agli edifici privati, Vitruvio cita Aristippo, Teofrasto ed Epicuro, enunciando alcune massime 231 232 233
Altri esempi α 286, 287, 1289, 3095, δ 841, τ 131. Chantraine 1968, 325. Cfr. Major 2013, 42 «the early sense of ῥῆσις as communal judgment or decree, going back to Homer but also in early comedy (Crates fr. 59), perhaps also contributes to the sense of ῥήτωρ as politician».
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filosofiche sul valore dell’educazione intellettuale e della cultura e sul fatto che siano da preferire i doni dell’animo e della mente rispetto a quelli della sorte. Vitruvio osserva che gli stessi concetti erano espressi anche nelle opere dei commediografi greci, tra i quali menziona alcuni nomi, e cita più diffusamente Alessi a proposito della legge ateniese secondo la quale erano tenuti al sostentamento dei propri genitori solo i figli che avessero ricevuto un’educazione nelle arti liberali (vd. Arnott 1996, 706). Questi riferimenti sono funzionali a esprimere le motivazioni che spingono Vitruvio a scrivere l’opera e mettere in questo modo a frutto l’arte in cui è stato istruito, piuttosto che cercare committenze per arricchirsi. Nello sconosciuto Eucrates, ricordato prima di Chionide (fr. 8) e Aristofane (fr. 924), è stato proposto di leggere il nome del commediografo della commedia di mezzo Epikrates (Kock 1880, I 7), o, più verosimilmente, Crates (correzione di Bondam accolta nell’edizione Loeb di Granger 1970) oppure Eu〈polis〉, Crates (proposta avanzata in apparato da Krohn e accolta a testo nell’edizione Belles Lettres di Callebat 2004). L’ordine di menzione sarebbe grosso modo cronologico, con i poeti dell’archaia separati dal successivo Alessi. Il riferimento a Cratete è considerato certo da Bonanno 1972, 26–27 test. XIX. Kassel e Austin includono invece il passo tra i frammenti dubia. Al pari di Eup. fr. 494, Chion. fr. 8 e Aristoph. fr. 924, sarebbe preferibile trattare il testo di Vitruvio come testimonianza, piuttosto che come frammento (cfr. Olson 2013, 255). Interpretazione La menzione di Cratete nel testo prefatorio di Vitruvio testimonierebbe la presenza nell’opera del commediografo di un tema morale relativo al valore dell’educazione intellettuale e della cultura o alla limitata importanza della fortuna e della ricchezza per i sapienti. Tra questi possibili motivi, l’unico che siamo in grado di rintracciare in altri frammenti cratetei a noi noti è forse quello connesso alla ricchezza (vd. frr. 18, 22, 36, 48). La menzione di Cratete in Vitruvio sarebbe una delle poche testimonianze della ricezione del commediografo in ambito latino (anche la citazione di un poeta meno noto come Chionide desta un certo stupore, vd. Bagordo 2014a, 70). Comunque il riferimento di Vitruvio è piuttosto vago e probabilmente non di prima mano234. Considerato il contesto della menzione è possibile che la fonte fosse una raccolta gnomologica, come quelle di cui troviamo esempio nei reperti papiracei235.
234 235
Cfr. Ruffell 2014 e più in generale sulle citazione di Vitruvio, concentrate soprattutto nelle parti prefatorie e spesso non precise, vd. Fleury 1990, XL-XLI. Tra le antologie miscellanee che includono anche passi comici del’archaia vd. ad es. P.Petr. 49 b, in cui sono citati passi di Cratino e di Platone comico; P.Schub. 28, del II sec. a. C., che include un passo di Diocle in una raccolta sul tema padrone/schiavo; P.Berol. inv. 9772, un’antologia comico-tragica tematica del II sec. a. C. che, oltre ad autori della nea e allo Pseudo-Epicarmo, cita anche Platone comico e Ferecrate. Sulla documentazione papiracea di antologie vd. Pordomingo 2013.
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Indici Nota: l’index fontium riporta le fonti di testimonianze e frammenti di Cratete con la relativa numerazione; l’index verborum riporta le parole greche discusse nel commento in forma lemmatizzata; l’index locorum riporta i passi citati come paralleli o comunque discussi nel commento, con l’esclusione di quelli già indicati nell’index fontium; l’index rerum riporta una selezione delle questioni discusse nel volume. Negli indici 2–4 il riferimento è al numero di pagina.
1. Index fontium Antiatt. ε 33: fr. 39 Apost. 17.71 CPG II von Leutsch: fr. 6 Aristoph. Equ. 537–540: test. 6a Aristoph. fr. 347: test. 6b Aristot. Poet. 5 1449b.5–9: test. 5 Ath. epit. II 47e: fr. 50 Ath. epit. II 50e-f: fr. 43 Ath. III 117b-c: fr. 32 Ath. III 119c: fr. 19.1–2 Ath. VI 247f: fr. 37 Ath. VI 267e-f: fr. 16 Ath. VI 268a: fr. 17 Ath. IX 369c: fr. 30 Ath. IX 396d: fr. 1 Ath. X 418c: fr. 21 Ath. X 428f-429a: Geitones test. i Ath. XI 478f: fr. 29 Ath. XIV 619a: fr. 42 Ath. XV 690d: fr. 2 Canones comicorum, tab. M cap. 4: test. 2b Dem.Lac. Peri poiēmatōn B col. 38: test. 8 Diog.Laert. 4.23: test. 10 Erot. fr. 17: fr. 34 EGen. A s. v. ὗς διὰ ῥόδων: fr. 6 EGen. AB s. v. πωγωνιήτης: fr. 26 EM. addit. in cod. Voss. gr. 20 ad v. ἅλς, I p. 337 Lasserre-Livadaras: fr. 47 EM. p. 698.8 s. v. πωγωνιήτης: fr. 26 ESym. CV s. v. πωγωνιήτης: fr. 26 Eus. Chr. (Arm.) p. 193 Karst: test. 7b Eus. Chr. (Hieron.) p. 112.15 Helm: test. 7a Eustath. in Od. vol. I p. 348 Stallbaum: fr. 43
GeorgSync. p. 297.5–7 Mosshammer: test. 7c Harp. π 35: fr. 18 Hsch. η 476: fr. *58 Hsch. ο 1658: fr. 10 IG II2 2325.48–53: test. 9 Lex.Bekk.III AG I p. 144.27–28: fr. 5 P.Flor. II 112 fr. B r. 15: {test. 13} Phot. α 452: fr. 11 Phot. α 1010: fr. 28 Phot. α 1434: fr. 4 Phot. α 1680: fr. 51 Phot. α 1749: fr. 24 Phot. α 1783: fr. 52 Phot. α 1797: fr. 12 Phot. α 2066: fr. 45 Phot. α 3396: fr. 23 Phot. δ 154: fr. 53 Phot. δ 287: fr. 54 Phot. ε 865: fr. 7 Phot. ο 354: fr. 38 Phot. π 440: fr. 18 Phot. ρ 102: fr. *59 Phot. υ 296: fr. 6 Phryn. SP. pp. 23.12–24.2 de Borries: fr. 49 Poll. 3.155: fr. 13 Poll. 4.183: fr. 46 Poll. 6.161: fr. 55 Poll. 6.53: fr. 19.3–4 Poll. 7.179.10–12: fr. 8 Poll. 7.204: fr. 9 Poll. 7.63: fr. 35 Poll. 7.91–92: fr. 41 Poll. 8.26: fr. 56
250
Index verborum
Poll. 9.114–115: fr. 27 Poll. 9.53: fr. 36 Poll. 9.62: fr. 22 Poll. 10.118.22–25: fr. 3 Poll. 10.175: fr. 15 Poll. 10.54: fr. 40 Poll. 10.90: fr. 14 Proleg. de com. III p. 7.9–13 Koster: test. 2a Proleg. de com. VIII p. 18 Koster: test. 4 PSI II 144.20–26: test. 12 Sch. Arat. 1 pp. 44–45 Martin: fr. 44 Sch. Plat. Phil. 14a 3–4 n. 2 p. 88 Cufalo: fr. 25 Sch. Aristoph. Ec. 77c Regtuit: fr. 20 Sch. Aristoph. Equ. 537a Jones-Wilson: test. 3 Sch. Hp. epid. 5.7: fr. 34
Sud. α 708: fr. 11 Sud. α 1317: fr. 28 Sud. α 2211: fr. 52 Sud. α 2234: fr. 12 Sud. α 4723: fr. *57 Sud. δ 500: fr. 54 Sud. κ 2339: test. 1 Sud. ο 388: fr. 38 Sud. π 706: fr. 18 Sud. υ 675: fr. 6 Syn. Dio 18.5: test. 11 Synag. α 354: fr. 48 Synag. α 463: fr. 11 Synag. α 920: fr. 28 Synag. α 1250: fr. 52 Synag. χ 158: fr. 31 Vitr. VI praef. 3: fr. *60 Zenob. Ath. 3.15 (M): fr. 33
2. Index verborum ἀγορά: 121 ἄγχω: 172 ἄγω: 108 ἀδικότροπος: 209 ἀδικοχρήματος: 209 ἀθάρη: 87–90 Ἀθηναῖος: 26 ἄθυρμα: 136s. Ἀκκώ: 86 ἀλάβαστος: 114 ἀλείφω: 108 ἀληθής: 85s. ἀλλά: 105; 111 ἀλλᾶς: 121 ἀλλόκοτος: 210 ἄλλος: 20; 50; 152; 195; 205 ἅλς: 108; 207 ἁλτῆρες: 93 ἄμφωτις: 96 ἄν: 20; 75s. ἀναβαίνω: 107 ἀναβιόω: 213 ἀναβιώσκομαι: 213 ἀναγκόσιτος: 21; 211 ἀναγκοτροφέω: 211
ἀναγκοφαγέω: 211 ἀναγκοφαγία: 211 ἀναγρύζω: 21; 74 ἄναλτος: 207s. ἀνατίθημι: 111 ἀνδρικός: 149 ἀνδριστί: 138 ἀνεκάς: 91 ἀνέχω: 114 ἀνήρ: 100; 137; 172 ἀνίστημι: 212 ἀντακούω: 203 ἀντεπίρρησις: 62s. ἀξιόλογος: 27ss. ἄπο: 121 ἀπόλλυμι: 138s. ἀπόνως: 50 ἀποσχάζω: 206 ἀργύριον: 163 ἀρήν: 69 ἀριστίζω: 44 ἄριστον: 44 ἀρχόμενος: 200 ἀσκίον: 86 Ἀσκληπιός: 60s.
Index verborum ἀστεῖος: 46 ἀστραγαλωτή: 192 ἅτ(ε): 178s. αὖ: 31; 108 αὐτόματος: 104; 114 αὐτός: 105; 106; 184 αὐχήν: 91 ἀφίστημι: 28 ἀφροδίσιος: 134ss. ἀψάλακτος: 219s. βαδίζω: 108; 143 βαίτη: 96 βαλανεύς: 194ss. βαλανεύω: 195 βασίλειος: 71 βδέω: 129 βδύλλω: 129 βίος: 115 βλέπω: 90 βρῶμα: 49 γαλαθηνός: 69 γάρ: 67; 108; 197 γείτων: 64 γελοῖος: 31 γέρων: 100 γῆ: 220 γηράσκω: 173 γλυκύς: 72 γλύφω: 80 γνωρίζω: 52 γογγύλη: 158 γογγυλίς: 159 γυνή: 176 δαίς: 20; 69 δαπάνη: 44s. δασυπώγων: 143 δεκάδαρχος: 214 δεκάδραχμος: 214s. δεῦρο: 20; 90 δέχομαι: 188s. δῆτα: 105 διαβάλλω: 215s. διακονέω: 105 διανίζω: 107 διαψαλάττω: 219 διτάλαντος: 185 δοκέω: 93 δοῦλος: 104s.
δραχμιαῖος: 185 ἐγκοτύλη: 155 ἐγχέω: 106 ἐγώ: 72; 93; 104; 111; 202 εἰ: 20; 76 εἰκός: 150 εἶμι: 100 εἰμί: 85; 100; 131; 150; 184; 197 εἴρω: 108 εἶτα: 108 ἕκαστος: 40; 100; 113 ἐκεῖνος: 168; 172 ἑκτεύς: 133 ἐλεφάντινος: 168s. ἐμβάλλω: 79; 215 ἐμός: 107 ἐναντίον: 109 ἐνύπνιον: 210 ἐξ ὅτου: 20; 191 ἐξεράω: 107 ἑξῆς: 109s. ἑορτή: 83 ἐπεί: 87 ἔπειτα: 104 ἐπί: 176; 189 ἐπιβάλλω: 30; 174 ἐπίνοια: 46 ἐπισίτιος: 188 ἔπος: 129s. ἔρχομαι: 191 ἐσθίω: 117 Ἑστία: 200 ἕτερος: 20; 50; 108; 152 ἔτι: 117 ἔτνος: 89 εὐθέως: 108 εὐπαθής: 116–117 εὐπώγων: 143 εὑρετικός: 31 εὐτράπελος: 29 εὔχομαι: 200 ἐφεδρισμός: 155 ἐφετίνδα: 149 ἔχω: 115; 120s. ἕψω: 120; 169 ζηλόω: 29 ἥκω: 108; 163 ἡμεῖς: 117
251
252 ἡμέρα: 172 ἡμερόω: 220s. ἡμι-: 216s. ἡμίεκτον: 132s. ἡμιμάσητος: 216 ἥρως: 84 θαλάττα: 113 θεός: 200 θερμός: 112 Θετταλικῶς: 131 θήρ: 98 θηρίον: 98 θρίξ: 180 θυλακίσκος: 20; 106 θύλακος: 92s. ἰαμβικῆ ἰδέα: 39s. ἱλαρός: 31 ἱμάτιον: 182 ἵππος: 173 ἰχθῦς: 107; 120 καθίημι: 176 καθόλου: 40 καλέω: 106 καλός : 150; 179 κάνης: 21; 95 καπυρός: 45 καρδοπογλύφος: 20; 79s. κάρδοπος: 80; 127 καρκίνος: 170 κασσύω: 172 κάττυμα: 172 Κέως: 172s. Κηφισιακός: 20; 159 κιχλίζω: 50s. κίων: 112 κοίτη: 95 κοπραγωγός: 97 κοτύλη: 153ss. κότυλος: 153ss. κοχώνη: 20; 179s. κράμβη: 45 κράμβος: 45s. κραμβότατος: 45s. κρέας: 130 κτάομαι: 100 κύαθος: 106 κυβησίνδα: 155 κύκλος: 174s.
Index verborum κύλιξ: 106 κῦμα: 170 κυμινοπριστοκαρδαμογλύφος: 79s. κυνητίνδα: 21; 149 κώρυκος: 93 λαμβάνω: 162 Λάμια: 122 Λαμίας: 126 e n. 119 Λάμιος: 126 e n. 119 λαμπρός: 50 λέγω: 117; 184 λείπω: 143 Λιθογλύφος: 80 λιποθυμ-: 143 λιπόναυς: 143 λιποπωγωνία: 142ss. λιποστρατία: 143 λιποταξία: 143 λιποταξίου (γραφή): 143 λιποψυχ-: 143 λόγος: 40s.; 153 λοιδορέω: 31 λουτρόν: 112 λύκος: 170 λυχνίδιον: 20; 73 λῶ: 20; 206 μᾶζα: 107 μανθάνω: 132s. μασάομαι: 216 μάστιξ: 192 μάττω: 46; 100 Μεγάβυζος: 187s. μέγεθος: 92s. μεθύω: 28; 65 μείων: 173s. μέλιττα: 190s. μεντἄρα: 87 μεταστρέφω: 108 μέτοικος: 140s. μῆλον: 197 μιμαίκυλον: 197 μισθός: 189 μνααῖος: 185 μνημονεύω: 70; 153; 158; 186 μορμολύττομαι: 86s. Μορμώ: 86 μῦθος: 37s.; 138s. μύρον: 72
Index verborum νεόκοτος: 210 νῦν: 67; 202 ὀβολιαῖος: 185 ὀβολός: 131ss. ὅδε: 20; 86; 153 ὁδοιπορέω: 105 ὄζω: 72 ὀκτώ: 131ss. ὅκωσπερ: 20; 69 ὅμοιος: 158 ὄναρ: 210 ὄνειρος: 210 ὄνος: 189s. ὀπτάω: 120 ὀπτός: 108 ὀργή: 44 ὀρεύς: 165; 171 ὀρίνω: 171 ὄρος: 165; 171 ὀρχηστρίς: 179 ὅστις: 184 ὀστρακίνδα: 149 ὅταν: 100 ὁτιοῦν: 117 οὐδέ: 100 οὐδείς: 121 οὐδέπω: 100 οὐκοῦν: 89 οὔκουν: 89; 108 οὐρανός: 172 ὄψις: 67 παιδιά: 145 παίζω: 81; 146; 178s. παίω: 172 Παίων: 112 Παιωνίου: 21; 112s. παλινδικία: 217s. παλίνδικος: 21; 217s. πάνυ: 31; 158s.; 198ss. παρακαλέω: 50 παρασκεύαζε: 106 παρατίθημι: 106 παροιμία: 85; 138; 143; 173; 189 παρουσία: 115ss. πάς: 152s. παχύς: 167 πεδήτης: 156 πέλλυτρα: 193
πέρδομαι: 129 περιουσία: 115s. περιπόρφυρος: 21; 182 πεσσονομέω: 81s. πεύκινος: 20; 170 πλέον: 100 πλῆθος: 162s. ποδάνεμος: 20; 170 ποδεῖα: 194 ποιέω: 100; 117; 121 ποιμαίνω: 188 πόντιος: 169 πότ(ε): 168 ποτιβάλλω: 205 ποῦ: 100 πρόσειμι: 100 πρῶτα: 184 πρῶτον: 28; 108 πρῶτος: 28; 39; 57; 63; 65 Πτερνογλύφος: 80 πύελος: 114 πώγων: 143s. Πώγων: 143s. πωγωνιήτης: 142 ῥαφανίς: 120 ῥάφανος: 120 ῥέω: 108 ῥῆσις: 222 ῥήτωρ: 157; 222 ῥιγόω/ῥιγέω: 188 ῥιπίς: 96s. ῥίψ: 96s. ῥόδον: 78 ῥοπή: 185 Σάμιος: 160 σάνδαλον: 115 σαυτοῦ: 100 σεμνός: 125; 152 σιγάω: 73 σικύα: 205 σῖτος: 186 σκευάριον: 106 σκυτάλη: 128s. σκύταλον: 128 σκύτινος: 168 σοφός: 76 σπανοπώγων: 143s. σπόγγος: 114s.
253
254 στίζω: 176 n. 184 στυφελιγμός: 44 σύ: 73; 206 σωρός: 162s. τάκων: 21; 121 ταλαντιαῖος: 185 τανύπτερος: 20; 170 τάριχος: 49s.; 120; 168 ταχέως: 163 τέμνω: 131 τετράπηχυς: 131 τεῦτλον: 107 τί: 105 τιλλοπώγων: 143 τιμή: 185 τις: 106; 195 τιτθίον: 20; 200 τιτθός: 200 τοι: 111; 203 τοκογλύφος: 80 τόλμα: 183 τραγοπώγων: 143 τραγῳδός: 152 τράπεζα: 100 τραπέμπαλιν: 21; 11s. τριμίτινος: 20; 194 τρίμιτος: 194 τριπήχυς: 20; 131 τριτάλαντος: 185 τρύβλιον: 89s.
Index locorum τρυγῳδοποιομουσική: 49 τρυσίππιον: 173ss. Τυρογλύφος: 80 ὔδωρ: 114 ὑμεῖς: 117 ὑπερέχω: 93 ὑπόθεσις: 29 ὑποκριτής: 30 ὑποψαλάσσω: 219 ὗς: 78; 171 φέρω: 31 e n. 30 φιλέω: 146 φωνή: 137s. χείρ: 120s. χελώνη: 169s. χλῆδος: 162s. χοῖρος: 70 χορός: 149 χράομαι: 93 χρή: 73; 87; 100 χρῆμα: 115 χρυσός: 131 χύτρα: 107; 168; 208 ψαλάσσω: 219 ψήφισμα: 222 ψίαθος: 95ss. ᾠδή: 194 ὡρικός: 200 ὥσπερ: 108; 150; 158; 200 ὥστε: 108
3. Index locorum Ael. NA. 13.10: 97 NA. 2.29: 213 VH 2.9: 175 n. 183 AelD. α 71 Erbse: 114 β 7: 71 ι 17: 174 ο 24: 189 π 23: 116 τ 3: 118 τ 26: 174
Aeschl. Ag. 212: 143 Ag. 761: 218 Ag. 836: 105 Ag. 848: 112 Ag. 1122: 179 Ag. 1242: 69 Ag. 1329: 114 Ag. 1593: 69 Ch. 483: 69 Ch. 563–564: 138 Ch. 615: 179
Index locorum Aeschl. [cont.] Eum. 13–14: 221 Eum. 91: 188 Eum. 198: 203 Eum. 659: 170 Pers. 67: 64 Pers. 257: 210 Pr. 314: 1001: Sept. 140: 179 Sept. 558: 98 Sept. 803: 210 Suppl. 12: 81 Suppl. 804: 95 Suppl. 1066: 112 test. 68 Radt: 55 test. 69: 52 test. 112a: 130 test. 117a: 65 fr. 16: 162 fr. 26: 98 frr. 57–67: 55 fr. 59: 54 fr. 61: 54s. fr. 62: 54 fr. 102: 96 fr. 172a: 211 fr. 259: 193 fr. 365: 194 Aesop. 27: 190 57: 189 74: 190 172: 190 Alc. fr. 50 Lobel-Page: 72 fr. 346.5: 106 fr. 350.1: 168 fr. 417: 153 fr. 393: 171 Alc.Com. fr. 12: 184 fr. 22: 68 fr. 24: 120 fr. 39: 153; 155 Alcm. fr. 3.62 Calame: 178s. fr. 9.4: 89 fr. 89: 201
Alexis fr. 48.5: 103 fr. 63.1: 114 fr. 88.4: 93 fr. 92: 158 fr. 116.1.2: 106 fr. 129.15: 132s. fr. 145: 107 fr. 146: 89; 204 fr. 147.3: 114 fr. 160.5: 203 fr. 167.12: 159 fr. 194.1: 46 fr. 200.4: 138 fr. 223: 119 fr. 266: 143 fr. 271: 211 fr. 287.13: 120 fr. 305: 222s. fr. 330: 204 Amphōtis: 96 Orchēstris: 179 Pannychis ē Erithos: 148 Pythagorizousa: 119 Amips. fr. 17: 205 fr. 19: 185 Amph. fr. 25: 81 fr. 30.12: 134 fr. 38: 197 Akkō: 86; 123 Anacr. fr. 3.8 Page: 188 fr. 43: 168s. fr. 63: 68 [Anacr.] fr. 16.12 West: 169 fr. 55.8: 137 Anaxandr. fr. 42.42: 90 fr. 58.3: 105 Samia: 160 [And.] 4.20: 141 Ant.Lib. Met. 8: 122 Antiph. fr. 6: 46 fr. 51: 132
255
256 Antiph. [cont.] fr. 70: 174 n. 180 fr. 81: 106 fr. 82.4: 169 fr. 97: 138 fr. 127.9: 143 fr. 133: 119 fr. 158: 119 fr. 166: 119 fr. 179: 107 fr. 181: 89 fr. 188: 115; 174 n. 180 fr. 189: 151 fr. 206.4: 205 fr. 214: 68 fr. 239: 112 fr. 273.2: 159 Euthydikos: 218 Iatros: 204 Melitta: 190 Metoikos: 140 Antipho Soph. B 48: 98 Antyll. ap. Orib. 6.32.12: 92 AP. 6.290.1: 97 [Apoll.] Bibl. 3.5.1: 55 Apoll.Disc. Adv. p. 160.21 Schneider: 91 Pron. p. 113.77: 140 Apollod. FGrHist 244 F 254: 154 Apost. 17.74: 171 App.Prov. 2.61: 173 3.29: 176 3.54: 77 4.17: 94 Apul. met. 8.28.30: 192 [Arc.] p. 53 Schmidt: 137 Archestr. fr. 14.7 Olson-Sens: 108 fr. 39: 164; 207 n. 220 Archil. fr. 2.1 West: 107 fr. 185.2: 128 fr. 205: 72 Archipp. fr. 21: 106 fr. 25: 182 fr. 38.2: 216
Index locorum Archipp. [cont.] fr. 41: 180ss. fr. 50: 134 fr. 54: 211s. Ichthyes: 98s.; 120 Onou skia: 190 Aristocritus FGrHist 493 F 5: 202 Aristom. Boēthoi: 65 Ariston. Hēlios rigōn: 188 Aristoph. Ach. 17: 191 Ach. 38: 157 Ach. 85: 106 Ach. 146: 121 Ach. 236: 172 Ach. 238ss.: 202 Ach. 242: 94 n. 89 Ach. 246: 89 Ach. 260: 94 n. 89 Ach. 278: 89 Ach. 282: 172 Ach. 301: 172 Ach. 341: 107 Ach. 451: 106 Ach. 499–500: 49 Ach. 507–508: Ach. 575–579: 59; 84 Ach. 582: 86 Ach. 596–597: 191 Ach. 669: 97 Ach. 738ss.: 70 Ach. 741: 78 Ach. 758s.: 78 Ach. 766: 205 Ach. 808: 98 Ach. 811: 46 Ach. 852: 72 Ach. 857: 188 Ach. 886: 49 Ach. 888: 97 Ach. 894: 107 Ach. 1017: 105 Ach. 1045: 64 Ach. 1053: 114 Ach. 1086: 108 Ach. 1093: 179 Ach. 1097–1142: 44 Ach. 1101: 49
Index locorum Aristoph. [cont.] Ach. 1124–1125: 175 n. 182 Ach. 1140: 108 Ach. 1146: 188 Ach. 1199: 199s. Ach. 1223: 112 Av. 75: 179 Av. 77: 89 Av. 276: 55 Av. 301: 166 Av. 322: 191 Av. 357: 105 Av. 365: 172 Av. 491: 196 Av. 559–560: 174 Av. 600: 163 Av. 712: 188 Av. 748–751: 191 Av. 778: 170 Av. 787: 149 Av. 865–867: 201s. Av. 911: 104 Av. 935: 188 Av. 997ss.: 131 Av. 1003: 132s. Av. 1005: 175 n. 182 Av. 1040–1041: 167 n. 175 Av. 1064: 98 Av. 1105–1108: 166 Av. 1177: 89 Av. 1185: 89 Av. 1213–1215: 174 Av. 1245: 86 Av. 1283: 128 Av. 1348: 172 Av. 1352: 172 Av. 1378: 175 n. 182 Av. 1388: 50 Av. 1488–1493: 84 Av. 1575: 172 Av. 1578: 172 Av. 1648: 216 Av. 1690: 120 Av. 1715: 175 n. 182 Ec. 74: 128 Ec. 76–78: 13; 124ss. Ec. 109: 69 Ec. 128ss.: 202
Aristoph. [cont.] Ec. 149: 137s. Ec. 244: 157 Ec. 307: 86 Ec. 361: 69 Ec. 525: 71 Ec. 606: 107 Ec. 625: 150 Ec. 718: 104 Ec. 730–745: 104 Ec. 737–738: Ec. 819–820: 106 Ec. 845–847: 89 Ec. 987: 82 Ec. 903: 199 Ec. 1115: 64 Eq. 52: 106 Eq. 55: 107 Eq. 161: 121 Eq. 201: 121 Eq. 207–208: 121 Eq. 247: 172 Eq. 273: 98 Eq. 284–302: 147 Eq. 314: 172 Eq. 315: 172 Eq. 347: 140 Eq. 367–381: 116 Eq. 370: 93 Eq. 406–407: 190 Eq. 424: 180 Eq. 430: 50 n. 49 Eq. 432: 121 Eq. 433: 170 Eq. 441–456: 116 Eq. 484: 180 Eq. 600: 44 Eq. 604: 87 Eq. 605: 49 Eq. 608: 170 Eq. 650: 89 Eq. 693: 86 Eq. 698: 76 Eq. 700: 76 Eq. 760: 50 n. 49 Eq. 805: 76 Eq. 841–910: 103 Eq. 855: 149
257
258 Aristoph. [cont.] Eq. 869: 172 Eq. 905: 89s. Eq. 911–940: 116 Eq. 966: 78 Eq. 989: 138 Eq. 996: 138 Eq. 1060: 114 Eq. 1090–1096: 210 Eq. 1169: 168 Eq. 1247: 49 Eq. 1369: 104s. Eq. 1403: 195 Lys. 46–48: 71 Lys. 84: 219 Lys. 95: 205 Lys. 110: 168 Lys. 155: 199 Lys. 158: 43 Lys. 195ss.: 106 Lys. 206: 71 Lys. 275: 219 Lys. 338: 185 Lys. 382–386: 116 Lys. 557: 69 Lys. 580: 76; 140 Lys. 613: 163 Lys. 618: 136 Lys. 681: 91 Lys. 683: 77 Lys. 699: 64 Lys. 731: 163 Lys. 914: 104 Lys. 924: 163 Lys. 938ss.: 71 Lys. 947: 114 Lys. 991–992: 128 Lys. 1014–1037: 165 Lys. 1061–1062: 89 Lys. 1174: 97 Lys. 1188: 205 Lys. 1231: 69 Nub. 16: 210 Nub. 25–32: 210 Nub. 50: 116 Nub. 51–52: 71 Nub. 202ss.: 131 Nub. 204: 46
Index locorum Aristoph. [cont.] Nub. 416: 188 Nub. 439: 188 Nub. 442: 188 Nub. 484–485: 159 Nub. 523–524: 48ss. Nub. 528: 191 Nub. 537–544: 14 n. 5; 168 Nub. 555: 180 Nub. 592: 91 Nub. 636ss.: 133 Nub. 643–645: 132 Nub. 678: 80 Nub. 756: 163 Nub. 837: 112 Nub. 910: 78 Nub. 945: 74 Nub. 981ss: 121 Nub. 983: 49s. Nub. 991: 112 Nub. 1003: 59 Nub. 1034–1084: 103 Nub. 1044–1046: 112 Nub. 1064: 46 Nub. 1073: 50 Nub. 1089–1104: 116 Nub. 1247: 163 Nub. 1261: 170 Nub. 1285: 163 Nub. 1322: 64 Nub. 1330: 78 Nub. 1351: 191 Nub. 1357–1358: 195 Nub. 1371: 222 Nub. 1386–1390: 116 Nub. 1445–1451: 116 Pax 1–37: 107 Pax 50: 153 Pax 79: 64 Pax 96ss.: 74 Pax 148: 153 Pax 201: 106 Pax 229: 93 Pax 297: 140 Pax 335: 129 Pax 339–345: 147 Pax 368: 72 Pax 459–472: 195
Index locorum Aristoph. [cont.] Pax 474: 86 Pax 486–499: 195 Pax 521: 130 Pax 525–526: 72 Pax 623: 179 Pax 699: 96 Pax 739–748: 14 n. 5 Pax 758: 123; 128s. Pax 777–779: 69 Pax 843: 114 Pax 863: 200 Pax 927: 78 Pax 995: 59 Pax 1014: 107 Pax 1083: 170 Pax 1102: 106 Pax 1119: 172 Pax 1129: 44 Pax 1156–1158: 147 Pax 1188–1190: 147 Pax 1235: 104 Pax 1310: 216 Pl. 97: 200 Pl. 275: 152 Pl. 436: 155 Pl. 439: 98 Pl. 636: 113 Pl. 656–658: 113 Pl. 672–674: 88ss. Pl. 737: 155 Pl. 763: 93 Pl. 809: 106 Pl. 815: 168 Pl. 820: 78 Pl. 894: 120 Pl. 955: 196 Pl. 1056bis: 145 Pl. 1148: 104 Pl. 1156: 218 Pl. 1197–1199: 107 Pl. 1201: 163 Ran. 5: 46 Ran. 47: 55 Ran. 62: 89 Ran. 137: 159 Ran. 159: 190 Ran. 172: 106
Aristoph. [cont.] Ran. 177: 213 Ran. 195: 132s. Ran. 209–267: 195 Ran. 304: 170 Ran. 357: 43s. Ran. 366: 149 Ran. 371: 148 Ran. 405: 115 Ran. 407: 179 Ran. 441: 175 n. 182 Ran. 448: 148 Ran. 482–485: 114 Ran. 506: 89 Ran. 507: 120 Ran. 513: 179 Ran. 515: 179 Ran. 543: 147 Ran. 545: 147 Ran. 546a: 179 Ran. 558: 49 Ran. 710: 196 Ran. 799: 130 Ran. 859: 201 n. 209 Ran. 889: 202 Ran. 901: 46 Ran. 905–970: 103 Ran. 906: 46 Ran. 924: 130 Ran. 945: 104 Ran. 948: 104 Ran. 954: 104 Ran. 971–991: 116 Ran. 1004s.: 152 Ran. 1014: 131 Ran. 1032: 119 Ran. 1159: 80 Ran. 1299ss.: 191 Ran. 1310: 59; 170 Ran. 1332: 210 Ran. 1332–1337: 210 Ran. 1340: 210 Ran. 1496: 152 Ran. 1508: 163 Th. 33: 143 Th. 44: 170 Th. 134ss.: 55 Th. 162: 48
259
260 Aristoph. [cont.] Th. 163: 69 Th. 191ss.: 143 Th. 241: 64 Th. 247: 114 Th. 254: 71 Th. 267–268: 137 Th. 292ss.: 157 Th. 295–311: 202 Th. 381–382: 103 Th. 415: 174 Th. 456: 179 Th. 485: 108 Th. 505: 107 Th. 531–573: 103 Th. 562: 114 Th. 722–723: 150 Th. 761: 107 Th. 841: 180 Th. 974: 150 Th. 975: 149 Th. 1014: 163 Th. 1049: 116 Th. 1073: 59 Th. 1144: 150 Th. 1185: 199 Th. 1214: 216 Ve. 13–53: 210 Ve. 18: 91 Ve. 25: 210 Ve. 36: 78 Ve. 38: 72; 210 Ve. 53: 210 Ve. 47: 210 Ve. 54: 153 Ve. 71: 210 Ve. 123: 113 Ve. 141: 114 Ve. 191: 190 Ve. 239: 120 Ve. 281–284: 160s. Ve. 350: 119 Ve. 429: 170 Ve. 446: 188 Ve. 469: 29 Ve. 481: 130 Ve. 490–492: 49; 120 Ve. 553: 131
Index locorum Aristoph. [cont.] Ve. 572–573: 68 Ve. 610: 107 Ve. 650: 49 Ve. 656–663: 185 Ve. 741: 74 Ve. 846: 20 Ve. 937: 89 Ve. 993: 107 Ve. 780: 216 Ve. 937: 89 Ve. 1035: 122; 128 Ve. 1039: 172 Ve. 1040: 95 Ve. 1044: 46 Ve. 1050: 46 Ve. 1087: 93 Ve. 1160: 172 Ve. 1174–1180: 124ss.; 151 Ve. 1177: 13; 126s.; 129 Ve. 1182: 168 Ve. 1218: 210 Ve. 1258: 46 Ve. 1292: 170 Ve. 1305: 129 Ve. 1357: 79s. Ve. 1480: 152 Ve. 1498: 152 Ve. 1505: 152 Ve. 1507: 170 Ve. 1537: 49 test. 1.13–14: 30 test. 55: 66 fr. 6: 108 fr. 12: 108 fr. 13: 72s. fr. 59: 114 fr. 60: 192 fr. 68: 155 fr. 71: 161; 175 fr. 81: 138 fr. 111.4: 120 fr. 128: 130 fr. 136: 89 fr. 138: 206 n. 217 fr. 139: 107 fr. 148: 199 fr. 156.9: 49
Index locorum Aristoph. [cont.] fr. 158: 208 n. 221 fr. 173: 93s. fr. 192: 91 fr. 199: 190 fr. 205.5: 157 fr. 207: 50 fr. 215: 163 fr. 245: 200 fr. 249: 106 fr. 278: 218 fr. 291.2: 72s. fr. 313: 80 fr. 322: 84 fr. 336: 71 fr. 352: 194s. fr. 364: 154 fr. 376.2: 114 fr. 438: 185 fr. 449: 69 fr. *450: 195 fr. 452: 186 fr. 467: 48 fr. 481: 154 fr. 496: 180 fr. 507: 130 fr. 520.7: 90 fr. 548: 119 fr. 556: 69 fr. 557.2: 106 fr. 558: 177; 180 fr. 561: 114 fr. 581.6: 159 fr. 595: 48 fr. 598: 190s. fr. 599: 199 fr. 664: 199 fr. 698: 199 fr. 706: 46 fr. 724: 124 fr. 741: 97 fr. 770: 213 fr. 788: 134 fr. 790: 195 fr. 846: 143 fr. 924: 223 Babylōnioi: 160 Batrachoi: 98
Aristoph. [cont.] Daitalēs: 64 Hērōes: 84 Pelargoi: 98 Thesmophoriazusai I e II: Sphēkes: 98 Aristoph.Byz. fr. 341 Slater: 176s. Aristophon Iatros: 204 Pythagoristēs: 119 [Aristot.] Ath. 49.1: 174 Aristot. Cael. 311b.3–4: 185 EE 1234a.4–23: 37 EN 1108a.23–26: 29; 37 EN 1127b.33–1128a.31: 37 GA 761a.5: 190 HA 514b.2: 206 HA 522a.31: 185 HA 540b.18: 122 n. 112 HA 595b.1: 171 HA 607a.12: 171 HA 621a.20: 122 n. 112 HA 623a.27: 98 IA 705a.16: 93 Oec. 1350a.19: 185 Oec. 1352b: 214 Phgn. 808a.23: 143 Poet. 1448b.34–1449a.2: 36 Poet. 1449a: 36 Poet. 1449b.33–1450a.5: 67 Poet. 1450a.3–5: 37 Poet. 1450a.9: 37 Poet. 1450a.22–23: 37 Poet. 1451a.31: 222 Poet. 1451b.6–11: 40 Poet. 1451b.12–15: 39 Poet. 1455b.17: 41; 153 Poet. 1455a.35: 41 Poet. 1458b 31–32: 152 Poet. 1459a: 130 Poet. 1460a.27: 41 Pol. 1253b: 104s. Pol. 1336b.3–23: 37 Pol. 1339a.6: 211 Pr. 881b5: 93 Pr. 887b 23: 117 Pr. 924a.34: 120
261
262 Aristot. [cont.] Rh. 1389b.11: 29 Rh. 1403b.23: 30 Rh. 1415a.12: 41 Rh. 1411b.21: 46 fr. 515 Rose: 49 Arr. Epict. 1.4.13: 93 2.21.20: 93 3.5.3: 211 4.4.12: 93 Arsen. 9.7a: 176 Artemid. 1.31: 169 1.55: 92s. 1.76.49–52: 196 Asclep.Mirl. FGrHist 697 F 4: 198 Ath. I 18b-c: 112 I 22a: 66 III 94c-d: 110 III 117c: 47 IV 152f-153a: 192 IV 183e-f: 177 VI 246f-247a: 186 VI 248b: 211 VI 254a: 106 VI 257a: 205 VII 309f: 108 VIII 347d: 130 X 423c: 106 XI 476e: 97 n. 91 XI 494c-e: 110 n. 102 XII 528f: 138 XIII 565a: 143 XIII 581a: 78 XIV 621d-e: 204 XV 665b: 63 XV 668d: 148 XV 690d: 71 XV 697b: 45 XV 699f: 73 Augeas Porphyra: 182 Bacchyl. Epin. 6.13: 170 Batr. 137: 80 224: 80
Index locorum Call. test. *5: 55ss. fr. 8: 69 n. 71 fr. 15: 152 fr. 26: 89; 120; 159 Batrachoi: 98 Kyklōpes: 123 Pedētai: 27; 145; 156 Callim. fr. 227 Pfeiffer: 148 fr. 553: 120 Canth. fr. 6: 199 fr. 8: 130s. Aēdones: 99 Myrmēkes: 99 Cephisod. fr. 4.1: 115 Chamael. fr. 13 Martano: 66 fr. 43A-B: 65ss. Chion. fr. 8: 222s. Hērōes: 84 Persai ē Assyrioi: 160 Choer. 265.22: 207 Choiril. FGrHist 696 F 34 hα: 171 Clearc. fr. 32 Wehrli: 164 fr. 61: 69 Com.Adesp. fr. 51: 153 fr. 99: 93 fr. *555: 112 fr. *671: 143 fr. 1001.11: 213 fr. 1038: 51 fr. 1095.19: 74 fr. 1165: 80 dor. fr. 1.8: 95 Crat.Mall. test. 2 Broggiato: 57 fr. 6: 220 fr. *85: 23 n. 21; 220 n. 229 fr. *122: 220s. fr. *123: 221s. Crates II test. 1: 25
Index locorum Crates II [cont.] test. *2: 11 Ornithes: 99 Cratin. test. 2a: 27ss. test. 2b.: 32 test. 8: 33s. test. 9: 42ss. test. 34: 58s. fr. 7: 81s. fr. 14: 171 fr. 30: 75s. fr. 31: 75 fr. 44: 49; 117s. fr. 56: 190 fr. 63: 138 fr. 75.4: 22 fr. 105.2: 78 fr. 108: 143 fr. 123: 91 fr. 139: 115 fr. 140: 207s. fr. 143.2: 119 fr. 151: 153 fr. 152: 137 fr. 166: 218 fr. 176: 101ss. fr. 246: 84 fr. 252: 92 fr. 257.1: 78 fr. 276.4: 138 fr. 287: 90 fr. 323: 153 fr. 335: 17 fr. 339: 179 fr. 341: 172 fr. 363.3: 116 fr. 382: 208 fr. 413: 17 fr. 414: 17 fr. 421: 108 fr. 424: 17 fr. 436: 17; 79; 215 fr. 439: 17; 219 fr. 446: 17 fr. 456: 149 fr. 457: 216 fr. 472: 17
Cratin. [cont.] fr. 473: 191 n. 201 fr. 485: 144 fr. 498: 17 Bousiris: 183 Eumenides: 123 Lakōnes: 160 Panoptai: 123 Plutoi: 100ss.; 209 Cratin. II fr. 1.1–2: 72 Pythagorizousa: 119 Criti. fr. 1.11 D.-Kr.: 149 fr. 88 B 65: 193 Crobil. fr. 1.1: 211 Ctes. FGrHist 688 F 14.37–39: 188 F 16.36: 179 Damox. fr. 2.44: 107 DCass. 47.40: 112 58.2.5: 136 62.2.4: 178 DChr. 6.41: 176 7.140.8: 45 33.38: 138 Dem.Phal. fr. 135C SOD: 60 Democr. fr. 259 D.-Kr.: 69 Demosth. 13.7.3: 115 18.267: 222 21.8: 141 n. 140 21.56–60: 141 21.147: 141 21.166: 143 27.64: 185 34.37.9: 132 n. 127 40.10: 217 49.3: 116 55.22: 162s. 55.27: 163 Dicaear. FGrHist 1400 F 70: 29 F 72–73: 29 Dinarch. Or. 68 fr. 2 Conomis: 115
263
264 Dinarch. [cont.] fr. inc.sed. 9: 207 Dinol. Iatros: 204 Diocl.Caryst. fr. 153.18 van der Eijk: 107 fr. 233: 164 Diocl.Com. Melittai: 99; 190 Oneiroi: 210 Diod. 2.57.3: 112 11.77.5: 188 20.41.3–6: 122 34/5.2.27: 176 n. 184 Diod.Com. fr. 2.2: 152 Diod.Aristophan.: 153s. Diog.Laert. 4.18–19: 130 7.165: 34 Diogen. 2.65: 85 3.64: 195 5.27: 173 7.32: 189 8.64: 171 Dion.Hal. 2.19.2: 148 n. 146 2.23.5: 95 2.70: 182 7.9.4: 97 Diosc.Ped. 2.106: 106 Diph. fr. 18 Garcia Lazaro: 158 Diph.Com. test. 17: 58s. fr. 17.13: 208 fr. 29.4: 152 fr. 42: 50 fr. 46: 107 fr. 52: 172s. fr. 67.11–13: 166 Hērōs: 84 Dur. FGrHist 76 F 17: 122 F 66: 175 n. 183 Ecphantid. Peirai: 183 EGen. α 770 Lasserre-Livadaras: 208 EM. 126: 206
Index locorum Empedocl. 31B fr. 77 D.-Kr.: 120 fr. 78: 120 fr. 128: 120 fr. 130: 120 fr. 141: 119s. Ephor. in P.LondLit. 114.12: 211 [Epichar.] fr. 259.1: 76 fr. 277.10: 205 fr. 279.5: 190 Epichar. test. 1: 38 test. 3: 38 test. 5: 38 test. 6: 28 fr. 32.8: 73; 188 fr. 36: 64; 67 n. 69 fr. 40.3: 182 fr. 99: 64 fr. 113.3: 205 fr. 162: 117 Heorta: 83 Epict. Ench. 29.2: 211 Epigen. Hērōinē: 84 Eratosth. fr. 19 Bagordo: 60 Erot. Gloss.Hp. 42: 91 Eryc. AP. 9.237.4: 128 Eub. fr. 1: 148 fr. 2: 148s. fr. 3: 158 fr. 5: 166s. n. 172s. fr. 20: 186 fr. 24: 55 fr. 30.1: 107 fr. 34.1: 107 fr. 36.4: 107 fr. 37.1: 89 fr. 57: 81 fr. 71: 154s. fr. 74.3: 159 fr. 75.7: 97 fr. 92: 107 fr. 96: 176s. fr. 98: 114 fr. 100: 70 fr. 101: 132s.
Index locorum Eub. [cont.] fr. 145: 205 Pannychis: 148 Eumel. fr. 1 PMG Page: 115 Eunap. VS 497: 30 Eup. test. 2a: 28 fr. 46: 135s. fr. 57: 90s. fr. 77: 211 fr. 86: 94s. fr. 88: 177; 180 fr. 99.29: 49 fr. 101.4: 213 fr. 102: 190 fr. 143: 98 fr. 150: 166s. fr. 156: 161 fr. 159: 177; 180 fr. 162.2: 163 fr. 172.5: 182 fr. 204: 70 fr. 218: 80 fr. 269: 89 fr. 271: 216 fr. 272: 114 fr. 274: 191 fr. 279: 190 fr. 288: 172 fr. 312: 115 fr. 315: 69 fr. 317: 166 n. 171; 169 fr. 343: 174s. fr. 361: 80 fr. 363: 180s. fr. 418: 168 fr. 494: 223 Aiges: 989 Demi: 84; 213 Heilōtes: 141 Lakōnes: 160 Marikas test. 1: 180 Philoi: 65 Prospaltioi: 64 Euphr. fr. 3.1–2: 107 fr. 10.6: 159
265
Eur. Bac. 695: 180 Bac. 1129: 103 Bac. 1247: 50 Cycl. 182: 93 Cycl. 235: 131 Hec. 321: 203 Hec. 575: 170 Hec. 1071: 178 Hel. 137–141: 151 Hip. 77: 190 Hip. 952–955: 99; 119 Ion 294: 64 Ion 1255: 105 IT 52: 180 Med. 703: 87 Med. 1200: 170 Suppl. 569: 203 Tro. 99: 91 fr. 472m Kannicht: 122s. fr. 479: 53 n. 55 fr. 744.2: 188 fr. 1096a: 213 Eustath. in Il. vol. I p. 224.11 van der Valk: 207 in Il. vol. I p. 442.12: 143 in Il. vol. III p. 245.25: 60 in Il. vol. III p. 680.5–6: 192 in Il. vol. IV p. 665: 155 in Il. vol. IV p. 690.10: 192 in Od. vol. I p. 163.18 Stalbaum: 192 in Od. vol. I p. 191.44: 174 in Od. vol. I p. 268: 152 in Od. vol. II p. 269.5: 207 Gal. vol. VI p. 147.3 Kühn: 93 vol. VI p. 325.2: 93 vol. XI p. 84.8: 206 vol. XV pp. 713–714: 114s. vol. XIX p. 114.7: 179 Gel. praef. 19: 77 2.23.9: 189s. 4.11.1: 120 17.9.6–15: 128 Glauc. fr. 349 Deichgräber: 176s. Gloss. Ital. 128 K.-A.: 154
266 Greg.Cypr.Leid. 1.63: 202 n. 213 2.90: 139 2.91: 139 Harp. χ 8 Keaney: 162 Hdn. GG III.1 p. 123 Lentz: 60 GG III.1 p. 142.6: 163 GG III.1 p. 1357: 90 GG III.2 p. 715.36: 207 Hdn.Hist. 7.6.4: 218 Hdt. 1.10.2: 95 1.47–48: 169 1.51.5: 131 1.94: 151 1.152.3: 222 1.200: 120 2.1: 216 2.47.1: 98 2.96.4: 97 2.133.4: 117 2.174.1: 117 3.20.5: 114 3.46: 93 3.50: 191 3.70.2: 188 3.108.3: 98 3.128.2: 174 3.155: 193 n. 202 4.61: 168s. 4.116: 105 4.118.5: 221 4.189.1: 168 4.192.2: 131 5.23: 187 5.27.2: 143 5.49.3: 93 5.85: 179 5.92: 191 5.107: 216 6.44: 98 6.137: 104s. 7.82: 188 7.132: 215 7.233.2: 175 n. 183 8.4.10: 189 8.42: 143
Index locorum Hdt. [cont.] 8.55: 113 8.105: 69 8.110: 216 8.137.2: 189 9.81: 215 9.120.2: 50 9.120.4: 69 Hecat. FGrHist 264 F 127: 104s. Hellan. FGrHist 4 F 192: 88s. Heracl.Lemb. Exc. 69: 181 Heracl.Pont. fr. 138.8 Wehrli: 121 Heraclit. fr. 1.9 D.-Kr.: 69 fr. 51.4: 69 Heraclit.Paradox. 1.9: 176 34: 122 Hermias In Plat. Phaedr. 1 p. 69 LucariniMoreschini: 139 Hermip. fr. 6: 86; 138 n. 135 fr. 10: 117s. fr. 29: 64; 152ss. fr. 42: 130 fr. 62: 72s. fr. 63: 49; 69; 78; 210 fr. 68: 112 fr. 77: 78; 198 Dēmotai: 64 Herond. 3.64: 69 7.48: 180 7.60: 170 7.123: 51 7.128: 170 Hes. Op. 277: 98 Op. 303–306: 190 Op. 423: 131 Op. 590: 107 Op. 748: 107 Sc. 277: 179 Th. 523: 170 fr. 307 Merkelbach-West: 112 Hippar. Pannychis: 148 Hippias FGrHist 421 F 1.31: 182 n. 193 Hippiatr. 50.1.4: 93
Index locorum Hippon. fr. 42 Degani (= 32 West): 188 fr. 48.3 D. (= 39.3 W.): 121 fr. 86.17 D. (= 84.17 W.): 121 fr. 118 D. (= 29a W.): 89; 107 fr. *202 D. (= 151b W.): 176s. Hom. Il. 1.466: 120 Il. 2.209: 170 Il. 2.786: 170 Il. 3.371: 172 Il. 5.353: 170 Il. 5.401: 112 Il. 6.25: 188 Il. 6.117: 91 Il. 9.209: 131 Il. 10.345: 178 Il. 10.447: 79 Il. 12.145: 171 Il. 12.167: 190 Il. 12.239: 75 Il. 14.6: 112 Il. 15.95: 69 Il. 15.586: 98 Il. 18.376: 104 Il. 18.414: 114 Il. 18. 417ss.: 104 Il. 18.558: 69 Il. 23.32: 78 Il. 23.34: 154 Od. 1.111: 114 Od. 1.152: 69 Od. 3.40: 106 Od. 4.16: 64 Od. 5.92: 106 Od. 5.256: 96 Od. 5.455: 70 Od. 6.76: 93s. Od. 7.92: 104 Od. 8.233: 112 Od. 8.248: 69 Od. 8.251: 179 Od. 9.188: 188 Od. 9.291: 131 Od. 10.165: 112 Od. 10.171: 98 Od. 10.180: 98 Od. 14.14: 78
Hom. [cont.] Od. 15.98: 120 Od. 15.312: 153s. Od. 17.228: 207 Od. 18.364: 207 Od. 19.341: 95 Od. 19.234: 50 Od. 19.553: 114 Od. 21.291: 222 Od. 22.187: 178 Od. 22.316: 120s. Od. 23.147: 179 Od. 24.291: 98 Hymn. 2.89: 170 3.162–163: 138 4.79: 115 4.83: 115 4.139: 115 4.295–296: 127 5.4: 98 29.5: 201 n. 211 Hor. ars 97: 130 ars 338–340: 124; 136 n. 131 ep. 1.1.8: 176 sat. 1.4.1: 33 Hp. Acut. 18.16: 114s. Acut. 65: 114 Aër. 12: 221 Aph. 5.40: 200 Art. 30: 168 Art. 48: 205 Art. 58: 105 Epid. 4.1.20: 205 Epid. 5.1.7: 179 Epid. 7.11: 216 Fract. 1.15: 210 Med. 1.9: 153 Morb. 1.28: 206 Morb. 2.54: 207 Mul. 1.78: 207 Mul. 2.112: 107 Mul. 8.16: 179 Mul. 131.3: 179 Mul. 143.8: 91 NatMul. 5.19: 205
267
268 Hp. [cont.] NatMul. 11.38: 207 Sal. 7: 211 Vict. 2.56: 207 VM. 22.17: 205 VM. 20: 49 Hsch. α 558: 155 α 2434: 86 α 4421: 208 α 5432: 220 n. 229 α 6691: 206 α 8619: 201 α 8940: 219 β 145: 195 β 276: 71 γ 581: 64 δ 553: 214 ε 2034: 169 ε 3156: 172s. ε 3167: 155 ε 3470: 220 ε 3779: 201 ε 5167: 188 η 493: 133 η 521: 132s. e n. 128 θ 422: 131 ι 863: 174 κ 832: 170 κ 1872: 172 κ 3274: 95 κ 3886–3887: 178 κ 3941: 45 κ 3942: 45 κ 4041: 84 κ 4478: 174 λ 248–250: 126 μ 446: 187 μ 1945: 132 n. 128 π 197: 217 π 198: 218 π 994: 116 π 1357: 194 π 2660: 170 π 2672: 170 π 2678: 170 ρ 143: 120 ρ 268: 222
Index locorum Hsch. [cont.] ρ 360: 97 ρ 361: 97 σ 147: 171 τ 42: 121 τ 1261: 111s. τ 1565: 174 χ 850: 107 Ib. fr. 36b Page: 170 Iscrizioni IG I2 310.118: 133 IG I3 387.15: 95 IG I3 421.207: 114 IG I3 988: 93 IG II2 1424a.142: 95 IG II2 2318: 56s. IG II2 2319–2324: 56 IG II2 2363.30–31: 11 IG V.1 1432–1433: 134 IG V2 343.19: 222 IG ΙΙ2 1672.206: 134 Syll. 5.26: 133 Ion fr. 61 Leurini: 153s. fr. 90: 201 n. 208 fr. 113: 143 Ischomach.: 176s. Isid. Orig. 16.17: 172 n. 178 Isocr. 1.15: 136 Iul. Them. 4.30: 153 Leon. AP 9.99 e 744: 143 Lex. Bekk.V α p. 210.19–20: 209 [Luc.] Asin. 38: 192 Luc. DMer. 4: 190 DMer. 4.1.10: 44 Incred. 2.30: 86 Tim. 22: 187 Lucr. 6.973: 77 Luperc.: 206s. Lyc. Alex. 139: 219 fr. 76 Str.: 154 Lycurg. In Leocr. 75: 153 Lync. fr. 1.20: 134 Lys. 1.14: 64 Lysimach. FGrHist 382 F 7: 175 n. 183
Index locorum Lysip. fr. 3: 194 Katachēnai: 183 Macar. 4.67: 131 4.80: 176 7.68: 85s. Mach. fr. 13.174–187 Gow: 124 Magnes test. 1: 29s.; 56 test. 3: 28ss. test. 7: 42ss. fr. 2: 62 Batrachoi: 98 Lydoi: 160 Ornithes: 98 Psēnes: 98 Men. Asp. 358: 174 Asp. 439–463: 204 Dysc. 448: 95 Dysc. 506: 207 Dysc. 857: 148 Epitr. 243: 188 Epitr. 256: 188 Epitr. 452: 148 Georg. 78: 98 Mis. 295: 190 Mis. 303: 164; 171 Peric. 337–338: 133 Sam. 377–378: 133 Sam. 536ss.: 200 fr. 150.2: 174 n. 180 fr. 208.2: 105 fr. 227: 150s. fr. 268: 114 fr. 296.8: 189s. fr. 334: 124 fr. 348: 84 fr. 361: 116s. fr. 415: 170s. fr. 418: 190 Metag. fr. 4: 179 fr. 6: 102; 121 Mnesim. fr. 1: 119 fr. 8: 130
269
Mnesim. [cont.] Pythagoristēs: 119 Moer. α 38: 213 π 14: 116 τ 20: 118 ψ 12.2: 107 Myrtil. fr. 2: 84 Naev. fr. 2 Ribbeck (= 74–79 W.): 149 Lycurgus: 55 Nic. Th. 384: 129 fr. 70.1–5 Gow-Scholfield: 158 Nicoch. fr. 9: 194s. fr. 18.1: 120 Nicol.Dam. FGrHist 90 F 103.7–8: 172 Nicoph. fr. 2.2: 128s. fr. 6: 90 fr. 21: 102 fr. 22: 121 Nicostrat. fr. 31: 210s. Rhētōr: 157 Orac. 52 P.-W.: 169 Papiri BGU I 118.2.9: 214 BGU II 163.17: 217 BGU IV 1134.7: 214 BGU IV 1135.7–8: 214 BGU XIII 2334.5: 97 P.Berol. inv. 13927.2: 183 P.Berol. inv. 9772: 223 n. 235 P.Cair. Zen. III 59430.7: 97 P.Cair. Zen. III 59423: 182 n. 194 P.Cair. Zen. III 59445.5–6: 182 n. 194 P.Col. III 15: 182 P.Fay. 110.11: 97 P.Fay. 119.33: 97s. n. 92 P.Herc. 188: 52 P.Herc. 1014: 52 P.Herc. 1113a: 52 P.Lond. I 131r.30: 97 n. 92 P.Lond. II 317.8–9: 97 n. 92 P.Mert. III 104.17: 217 P.Oxy. X 1241: 33 n. 32
270
Index locorum
Papiri [cont.] P.Oxy. XXVI 2438.6 (FGrHist 4 1132): 30 P.Oxy. XXVII 2455: 123 n. 115 P.Oxy. XXX 2659: 204 P.Oxy. LII 3651: 123 n. 115 P.Petr. 49 b: 223 n. 235 P.Petr. II 4: 95 P.Princ. 65.4–5: 98 P.Ryl. 216.304: 214 P.Saqqara inv. SAK.71/2GP65: 204 P.Schub. 28: 223 P.Soterichos 1.24: 97 n. 92 PSI VII 858: 182 n. 194 Pamph. fr. 17 Schmidt: 154 Paroem. App. 2.17: 203 Paus. 5.26.3: 93 9.20.4: 151 Paus.Attic. ε 6 Erbse: 155 ο 12: 94 υ 15: 77 PEG Thebaïs fr. 2.2 Bernabé: 106 Pers. Sat. 1.123–124: 33 Pherecr. test. 1: 35 test. 2a: 28ss. test. 3: 34s. fr. 10: 104 fr. 16: 190 fr. 33: 68 fr. 37: 186; 189 fr. 43: 210 fr. 49: 68 fr. 54: 192 fr. 58: 114 fr. 73: 106; 212 n. 223 fr. 105: 70 fr. 108: 92 fr. 113: 90; 102s.; 107; 121 fr. 127: 94s. fr. 137: 89; 113 fr. 138: 78; 107 fr. 157.1: 198s. fr. 162: 68 fr. 190.2: 49 fr. 192: 170
Pherecr. [cont.] fr. 205: 134 fr. 216: 210 fr 218: 211s. fr. 274: 111 Ipnos ē Pannychis: 83; 148 Krapatal(l)oi: 133 Metoikoi: 140 Myrmēkanthrōpoi: 98 Persai: 160 Phil. Spec. 1.58.4: 176 n. 184 Philem. test. 33: 58s. fr. 77.7: 105 fr. 158: 190 Ephedrizontes: 155 Hērōes: 84 Iatros: 204 Lithoglyphos: 80 Metoikos: 140 Philetaer. fr. 10: 130 Philipp. fr. 14: 105 Adōniazousai: 83 Philod. Poëm. 1 frr. 42.8 e 77.5 Janko: 29 Philon. fr. 1: 211 Philostr. Ap. 4.25: 122 Gym. 55: 93 Philyll. fr. 5: 148 n. 147 fr. 12.1: 119 fr. 31: 216 Dōdekatē: 83 Phot. Amph. 27: 123 Bibl. 265.493b12–16: 60 n. 61 Lex. (Theodoridis) α 471: 88 α 1000: 210 α 1408: 213 α 1542: 208 α 1764: 135 α 1780–1783: 213 δ 505: 219 ε 865: 215 ε 972: 173 ε 976: 155
Index locorum Phot. [cont.] θ 143: 131 ι 185: 174 κ 190: 170 κ 193: 170 λ 62: 126 μ 579: 139 ο 172: 94 ο 638: 85s. π 43: 113 π 80: 217 π 449: 116 ρ 98: 222 σ 55: 171 σ 59: 171 σ 61: 175 n. 183 σ 561: 176 n. 184 τ 418: 111 τ 526: 174 Phryn. Att. 28: 206 n. 217 SP. 14.11: 88 SP. 32.11: 91 SP. 67.7: 135 SP. fr. *213: 137 Phryn.Com. test. 1: 35 test. 2: 28 test. 3: 35 fr. 14: 195 fr. 66: 205 Tragōdoi ē Apeleutheroi: 152 n. 153 Pind. I. 4.57: 221 I. 5.12: 188 N. 1.46: 172 N. 2.1–3: 201 N. 6.59: 121 N. 11.5: 201 n. 211 O. 1.2: 179 O. 2.22: 91 O. 6.90: 77 O. 6.91: 128 O. 9.30: 128 O. 13.86: 179 P. 1.32: 64 P. 5.111: 170 P. 11.25: 95
Plat. Crat. 401b: 401b Criti. 117a4-b9: 112 Def. 415d: 116 Gorg. 461e: 111 Gorg. 497e: 116 Gorg. 502b: 152 Euthyph. 3a.7: 202 Leg. 696b: 64 Leg. 747d: 210 Leg. 763a: 105 Leg. 782c-d: 120 Leg. 958d: 75 Men. 97d: 104 Men. 237d: 98 Phaed. 89b: 213 Rp. 292c: 81 Rp. 344d: 195 Rp. 420a: 186; 188 Rp. 468b: 149 Rp. 621b: Theaet. 152e: 38 Theaet. 164d: Theaet. 209d: 128 Plat.Com. test. 3: 35 fr. 7: 143 fr. 40: 192 fr. 46: 149; 155 fr. 48: 154s. fr. 49: 117s. fr. 55: 134 fr. 69.1: 131 fr. 71.8: 63 fr. 135: 206 fr. 139: 213 fr. 180: 218 fr. 192: 106 fr. 194: 116s. fr. 205.2: 106 fr. 208: 134 fr. 243: 97 fr. 252: 210 fr. 256: 96 fr. 296: 211 Hai aph’hierōn: 83 Heortai: 83; 192; 194 Grupes: 98
271
272 Plat.Com. [cont.] Lakōnes: 160 Myrmēkes: 98 Metoikoi: 140 Plaut. Rud. 597: 210 Plin. NH 9.12.35–39: 170 13.18: 71 22.122: 90 [Plut.] VOrat. 845b: 60 Plut. Moralia Util. 88d: 152 Apophth. Lac. 237e: 45 Isid. 377b: 213 Curios. 515f-516a: 122 An seni 785d: 176 Fac.lun. 924c: 112 QConv. 728d-730f: 119 Bruta anim. 988d: 171 Stoic. rep. 1040b.5: 86 Col. 1127c: 192 Mus. 1138b: 172 Vitae Alex. 35.2: 117 Arist. 25.3: 160 Cim. 10.4: 217 Crass. 32.5: 129 Dem. 6: 217s. Dem. 9.3–4: 60 n. 61 Lyc. 10.1: 112 Lys. 19.5–7: 128 Per. 26.4: 171; 175 e n. 183 Phoc. 28: 95 Phoc. 30.6: 141 Publ. 18.3: 182 Rom. 26.3: 182 Sol. 21.5.5: 95 Sol. 23: 64 Sol. 25.2.2: 217 Sul. 9.4: 182 Thes. 33: 91 Plut.Paroem. 1.13: 173 Pol. 3.114.4: 182 9.41.8: 185 11.23.2: 30 23.4.3: 185
Index locorum Polem. fr. 88 Preller: 154 Poll. 1.246: 132 2.10.9: 144 2.18: 180 2.88: 143 2.183: 178: 180 4.53–56: 195 4.119: 181 4.168: 132 5.127: 97 6.43: 131 6.63: 159 6.79: 62 6.86: 94s. 6.105: 71 6.160: 132 6.164: 217 7.86: 115 7.90: 170 7.134: 97 7.187: 174 7.78: 194 9.60: 185 9.74–76: 166 9.76: 167 9.83: 133 9.96: 185 9.113.5–114.6: 107 9.115: 146 9.119: 155 9.122: 155 10.50: 194 10.64: 92 10.113: 132 Polyz. fr. 7: 131 Porph. Abst.: 120 Pyth. 25: 119 n. 110 Posidip. fr. 1.7: 208 fr. 28.22: 148 Posid. fr. 114 Theiler: 192 fr. 174: 158 Procl. II p. 354.25 Kroll: 139 Prov. Bodl. 68: 201
Index locorum Prov. Coisl. 365: 189; 367 367: 190 Ptol. p. 390.28 Heylbut: 191 Pyth. test. 9 D.-K.: 120 Quint. Inst. 10.1.66: 33 Sannyr. fr. 12: 213 Sapph. fr. 2.14 L.-P. e V.: 106 fr. 94: 70ss. fr. 110.2: 115 Sch. Arat. 1 Vat. 191 pp. 37 e 41 Martin: 201 Sch. Aristoph. Ach. 67 Wilson: 161 n. 166 Av. 1283a Holwerda: 129 Av. 1648a: 216 Eq. 424a Jones-Wilson: 178 Eq. 537b: 44 Lys. 275a Hangard: 2219 Pac. 758d Holwerda: 122 Pl. 673 Chantry: 87 Pl. 953: 141 Ran. 86c Chantry: 152 Ran. 558a: 118 Th. 136 Regtuit: 55 Th. 1214a: 216 Ve. 18c Koster: 91 Ve. 394a-b: 95 Ve. 846a: 202 Ve. 1035: 122 Sch. Dion. Thrac. XVIIIb 3.6 p. 74 Koster: 84 Sch. Il. 23.34CI vol. V pp. 372–373 Erbse: 155 Sch. Luc. 28.25: 91 Sch. Paus. 1.1.3: 126 Sch. Pind. O. 2.38a Drachmann: 91 O. 6.154a-b: 128 n. 123 Sch. Plat. Phaedr. 244b p. 87.10 Cufalo: 123 n. 115 Phil. 164d8–9 n. 78 p. 56 C.: 139 Sch. Soph. Ai. prooem.: 29 Sem. fr. 7.83–87 West: 190 Semus FGrHist 396 F 23: 194 Sen. epist. 56.2: 196 Sext. S. 9.127: 119
Simon. fr. 38.7–9 Page: 68 fr. 48: 68 Sol. frr. 60b, 62–63 Ruschenbusch: 64 Soph. Ai. 168: 179 Ant. 12: 191 Ant. 710: 76 Ant. 915: 183 El. 25–27: 176 El. 1231: 121 OC 481: 191 OC 1442–1443: 75 OC 1569: 98 OT 873–874: 75 OT 1027: 105 OT 1409: 136 Ph. 957: 69 Ph. 1191: 210 Tr. 1097: 98 Tr. 1198: 170 Tr. 1245: 105 test. 1 Radt: 30 test. 52: 66 test. 110: 191 fr. 111: 166 fr. 314.153: 98 fr. 496: 143 fr. 537: 149 fr. 550: 219 fr. 710.3: 113 fr. 712: 50; 117s. fr. 726: 202 fr. 977: 208s. fr. 1081: 81 Sophr. fr. 16: 53 n. 55 fr. 37: 96 fr. 41: 200s. fr. 141: 88s. Sor. 2.14.1: 97 Sosib. FGrHist 595 F 7: 204 Sotad.Com. fr. 1.15: 46 Strab. 1.2.8: 122 9.1.20: 159 Strat. fr. 1.13: 163
273
274 Strat. [cont.] fr. 1.40–41: 50 Stratt. test. 1: 35 test. 2: 34s. fr. 56: 176s. fr. 57: 168 fr. 59: 97 Sud. α 1947 Adler: 207 α 2210–2211: 213 α 2670: 136 α 4161: 95 δ 845: 219 δ 892: 216 ε 2020: 30 ε 2766: 38 ε 3953: 31 n. 30 ει 324: 143 ι 586: 173 κ 307: 95 κ 397: 170 λ 438: 114 λ 691: 207 μ 20: 30 μ 1251: 85 ο 76: 130 ο 103: 94 π 95: 217 π 707: 116 π 883: 113 π 1708: 140 π 1887: 31 n. 30 π 2150: 143 ρ 180: 97 σ 77: 175 σ 721: 125 σ 1265: 44 χ 342: 162 χ 619: 107 Suet. Paed. 14: 155 Synag. α 1245 Cunningham: 213 α 1250: 213 α 1276: 91 α 1884: 206 n. 217 κ 240: 172 π 21: 113
Index locorum Synag. [cont.] π 40: 217 Telecl. test. 1: 35 test. 2: 34ss. test. 3: 35 fr. 1: 101ss. fr. 8: 194s. Amphiktyones: 100 Terent. Hecyra 15: 47 Tert. Adv.Val. 2: 122 Apol. 10.8: 172 n. 178 Theano Ep. 6.2: 185 Them. Or. 15.185d: 211 Theocr. 5.23: 77 11.78: 51 15.40: 86s. 17.1: 201 n. 208 18.23: 138 18.41: 69 Theognost. Orth. 778.12: 194 Theop.Com. test. 1: 35 test. 3: 34s. fr. 41: 114 fr. 45: 115 fr. 68: 197s. fr. 80: 180 Paides: 146 Theophil. Iatros: 204 Thphr. Ch. 4.15: 196 CP. 5.10.1: 45s. CP. 5.14.7: 117 HP. 1.6.9: 170 HP. 3.16.4: 197 HP. 7.4.3: 158s. HP. 7.13.8: 194 Lass. 13: 93 fr. 413.33 Fortenbaugh: 197s. Thuc. 1.23.5: 191 1.49.7: 215 1.104: 188 1.109–110: 188 1.131.12: 128
Index rerum Thuc. [cont.] 2.13: 116 2.18.3: 215 2.83.3: 215 3.49.4: 210 3.62: 215 3.82.4: 183 3.109.2: 215 4.26.5: 49 6.30.1: 215 7.48.3: 215 7.84.4: 103 Timocl. test. 1: 182 fr. 5: 143 fr. 6.8: 152 fr. 16.7: 207 fr. 20.2–3: 213 fr. 31: 93; 186 Dionysiazousai: 83 Hērōes: 84 Trypho fr. 113 von Velsen: 194
275
Varro Antiq. rer. div. fr. 46a: 123 Vell. Pat. 1.16.3: 33 Vita Aeschyli p. 123 Westermann: 152 Xen. Cyr. 3.3.50: 75 Cyr. 8.3.13: 180s. Hel. 3.3.8: 128 Hel. 4.8.10: 170 Hel. 5.3.13: 170 Hel. 6.4.16: 149 Hip. 7.13–15: 175 Oec. 2.11: 73s. Symp. 5.9: 149 Xenarch. fr. 7.12: 143 fr. 11: 130 Porphyra: 182 Zenob.Ath. 1.50 Bühler: 173 2.98: 171 3.60: 155 Zon. α 365 Tittmann: 219
4. Index rerum abbigliamento calzature: 193s. vesti: 93; 180ss. vd. anche s. v. costumi acquedotti: 112s. adynata: 112s.; 166ss. aferesi: 111; 134 aischrologia: 18; 37; 136 animali: 98ss. api: 189ss. asini: 77; 189s. suini: 67ss.; 76ss.; 163ss. agnelli: 67ss.; 169 pesci: 98; 100ss.; 117ss. granchi: 163ss. elefanti: 163ss. cavalli: 173ss.; 192 tartarughe: 163ss. lupi: 163ss. antilabai: 22s.; 103; 132; 167 Asclepio: 113
attore: 11; 24; 27ss.; 33s.; 41; 106; 137; 149; 152 automatos bios: 18; 99ss. bagni / bagnini: 108ss.; 194ss. banchetto: 49; 50; 65; 67ss.; 104s.; 112; 118; 127; 155 barba: 142s. canoni: 15; 32s.; 35 canti: 45; 194s. cibo carne: 48; 49; 78; 104; 116; 117ss.; 129ss.; 165; 169s. cavolo: 45; 120 corbezzoli: 158; 197ss. formaggio: 49; 71ss. mele: 148; 158; 197ss. rape: 158s.; 199 tarichos: 13; 47ss.; 117ss.; 164ss. coloriture dialettali: 20 dorico: 20; 203ss. ionico: 20; 68s.
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Index rerum
commedia politica VS commedia d’evasione: 9; 17s.; 99s.; 157; 161s. commedia siciliana, rapporto con la: 14; 17 n. 12; 23; 36ss. rapporto con Epicarmo: 22ss.; 31; 38ss.; 65ss.; 83; 204 coprolalia: 18; 96s.; 124ss. coro: 19; 141; 145; 149 costumi e oggetti di scena: 19; 90; 95; 127s.; 145; 181s. cottabo: 148s.; 155 Crates II: 11; 25s. Cratete di Mallo: 11; 17; 25; 57; 220s. cuochi: 72; 105; 133; 208 poeta/cuoco: 43s.; 48 cuoio: 72; 166ss. danza / ballerine: 91; 148s.; 178s.; 183 n. 195 decima: 214s. decreto di Morichide: 19; 39 n. 40; 161 deittici: 20; 86; 89; 153 Demostene: 60ss. Egitto, spedizione in: 12; 18s.; 183ss. Inaro: 183; 187 episition: 24; 186ss. Estia: 200ss. figure retoriche asindeto: 92 chiasmo: 20; 170 ossimoro: 170 filologia alessandrina: 15; 29; 32; 61; 201 Eratostene: 15; 60ss.; 201 freddo: 187ss. frusta: 18; 192s. ginnastica / atleti: 92s.; 211 giustizia / processi: 216ss. hapax: 20s.; 43s.; 49; 59; 79; 112; 118; 121; 143; 149; 209; 216; 217 invettiva: 19; 31; 39 ipocorismi: 20; 73; 106; 200 kōmōdoumenoi: 19; 100; 123 n. 116 Lamia: 18s.; 86; 122ss. lega delio-attica: 18; 160s.; 167 Lenee: 12ss.; 17 n. 12; 56; 140s. lusso: 18; 109ss.; 112s.; 116; 161; 168s.; 181 marchiatura: 173ss. medico straniero: 24; 203ss.
Megabizo: 12; 18; 19; 186ss. metaletterarietà: 18–19; 44; 48; 124; 130ss.; 190 metateatralità: 141; 145; 149 meteci: 140ss. metrica: 22s. dimetri giambici: 22; 115s. dimetri trocaici: 22; 146s. anapesti: 74; 81 tetrametro anapestico catalettico: 22; 119; 150s. tetrametro giambico catalettico: 22; 101; 103; 158 tetrametro trocaico catalettico: 22; 131; 133; 136 trimetro giambico: 22; 109; 126; 129; 162; 178; 197; 200 versi eolici: 22; 186 antepirrhēma: 61ss.; 103; 116; 119; 147 epirrhēma: 103; 116; 147; 185 pnigos: 116 sinafia: 147 vd. anche s. v. antilabai misurazioni e unità metrologiche: 18; 106; 130ss.; 167 vd. anche s. v. moneta mito: 19; 84; 99; 104; 122; 124; 151 mondo alla rovescia: 18; 99; 111 moneta: 131ss.; 160s.; 163; 166ss.; 176; 185; 214 Mormò: 19; 86s.; 122s. nonsense: 20; 165ss. numero di commedie: 13; 25ss.; 27ss.; 34ss. numero di vittorie: 14; 26; 55ss. oratori: 60ss.; 157; 222 pace trentennale tra Atene e Sparta: 18; 141; 144 pannychis: 148s. parassita: 73; 188; 205; 211 paratragedia: 20; 68; 74; 76; 170 Pericle: 100; 190 legge sulla cittadinanza: 141s. politica estera: 160; 188 Peripato: 15; 52ss.; 66s. Pitagora e Pitagorismo: 18; 99; 119s.; 160 porpora: 180ss. profumo: 18; 70ss.; 77; 189s.; 114
Index rerum proverbi: 20; 21s.: 76ss.; 85ss.; 93ss.; 112; 130s.; 138s.; 143s.; 154; 166 n. 172; 171; 172; 173ss.; 189s.; 195; 201s. ricchezza: 18; 99; 115ss.; 185; 209; 223 rosa (fiore): 76ss.; 137 sale: 108; 206ss. salasso: 203ss. Samo / guerra samia: 18; 160ss.; 171; 175 samena: 175 e n. 183; 176 n. 185 satira filosofica: 99; 119 Sofisti: 173; 183 schiavi: 99; 100ss.; 173 seno: 123; 158s.; 197ss. sesso: 18; 69; 71; 77s.; 89; 91; 114; 124; 128; 136; 179s.; 219s. sobrietà: 43ss.; 67 sogno: 209s. termini tecnici: 20; 38; 124; 131; 133; 205; 214; 217; 222
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Tessali: 129ss. Trezene: 18; 143s. trysippion: 173ss. ubriachezza: 45; 65ss.; 122; 124 personaggio dell’ubriaco: 24; 28s.; 54; 63; 65ss. Urano: 172 usi e costumi orientali: 18; 71; 93; 97; 112; 192s. “amico del re”: 192s. Persiani: 65; 71s.; 175 n. 183; 183; 187s.; 192s.; 215 utopia: 17s.; 98ss. vegetarianismo: 18; 99s.; 109; 119s. voce: 137s. zoocrazia: 98ss.