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Italian Pages 168 [170] Year 2009
Libera la ricerca Storica 1
LIBERA LA RICERCA
Un progetto Odoya - Libri di Emil nato per consentire la pubblicazione a costo zero dei libri dei ricercatori precari. La selezione dei testi è effettuata attraverso un sistema di blind referee. Le opere sono coperte da licenza Creative Commons, disponibili on line su Google Libri. Responsabili del progetto: Marco de Simoni e Michele Filippini
Cristiana Caserta
Corpo politico Corpo, Dike, comunicazione fra Agamennone e Pericle
I LIBRI DI
EMIL
© 2009 Casa editrice Emil di Odoya srl : 978-88-96026-19-9
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I libri di Emil Via Benedetto Marcello 7 - 40141 Bologna www.ilibridiemil.it
A mia madre
Indice
Introduzione
11
Cirenei
11
Il tema del corpo
12
“Alle spalle” della persona
13
Corpo e comunicazione
15
Oralità e distanza dell’altro
17
La techne
20
Avvertenza
21
23
1. I doni di Prometeo La comunità politica come spazio eusinottico
23
L’uomo prometeico
26
L’esercizio della TέCNH
29
La techne del medico
32
L’isolamento dell’uomo delle technai
34
Governanti e governati: il legislatore pastore
35 43
2. Cercarono di riunirsi… Babilonia: Il destino impolitico dell’uomo prometeico
43
La guerra concorde (PόLEMO6ο‘ MOJRONέWN)
45
Il formato narrativo
47 7
I re scettrati: comunicazione e regalità nel mondo omerico
51
I due doni
53
Le peripezie dello scettro
57
Ricapitolando
61
Farsi ingiustizia
63
Stasis e comunicazione
63
Comunicare: un problema di giustizia
70
Il corpo dell’altro
74
3. Aurea mediocritas
81
La a-technicità della politica
81
Rispetto
86
Achille in mezzo alla battaglia
88
La comunità politica come comunità a norma orizzontale
90
Isonomia
92
Parlare del dialogo o dialogare?
97
4. Prometeo vittorioso
102
Andare ai corvi
102
Una città come Babilonia
106
Il «mondo alla rovescia» e l’ambiguità
109
Prometeo vittorioso
111
Gli orrori della controreligione
112
Un’ottica immunitaria
117 119
5. Tyrannophobia Le cause comiche del bellicismo pericleo
119
L’equivoco plutarcheo
126
Tirannofobia
133
L’autocontrollo come strategia di integrazione
137
8
141
Conclusioni La terza persona
141
L’autorità
143
La comunità: uditorio e autorità
145
E lo storico?
147
Bibliografia
149
Abstract
165
9
INTRODUZIONE
Cirenei In una conversazione avente per oggetto l’attuale situazione dell’istruzione universitaria, le difficoltà della ricerca, lo scarso credito di cui godono attualmente le discipline “antichistiche” – una conversazione dal tenore sconsolato di tante che si sono svolte e altrettante che si svolgono nelle università “in crisi” – un grecista dotto e sensibile mi disse, senza enfasi: «Siamo Cirenei!». Devo confessare che l’accostamento non mi fu subito chiaro. Poi mi venne in mente il Cireneo, l’uomo che per un certo tratto porta la croce di Gesù. Ma anche così la citazione non mi convinceva del tutto. Ciò che mi sembrava “stonare”, in un discorso su fonti, testi, commenti, era l’immagine di un corpo sofferente cui il Cireneo portava momentaneo giovamento. Una lunga consuetudine ai libri, unita agli effetti spesso deleteri della propensione verso la cultura scritta, che attraversa trasversalmente molte discipline genericamente definibili come “scienze umane”, può ingenerare una sorta di indifferenza ai corpi, una convinzione sottesa e quasi scontata che l’intelletto, la razionalità, perfino il processo stesso della ricerca e la divulgazione dei suoi risultati funzionino a prescindere da tutto ciò che è corporeo, “nel silenzio degli organi”. Diversamente dal medico, dall’insegnante, dall’artigiano, il filologo e lo storico hanno a che fare con parole – si pensa – e non con corpi. I corpi, quando arrivano nelle loro mani, sono ormai “dati”, cifre, statistiche o, nella migliore delle ipotesi, pensieri, opzioni, “politiche”1. E tuttavia l’essere cirenei degli studiosi mi sembrava meritevole di qualche supplemento di attenzione. Curiosamente, a partire da quel momento, nella mia memoria, il Cireneo non era obbligato a portare la croce, ma la portava spontaneamente. Complice
L’assenza del corpo nella storia è implicitamente avvertita come problematica o comunque meritevole di indagine da storici del Novecento come Giovanni De Luna che, trattando di biologia e storia, chiede «alla biologia e all’antropologia fisica di aiutarci a introdurre il corpo nella storia». Il corpo del principe, il corpo del contadino, il corpo del potere, il corpo del lavoratore corrispondono ad altrettanti campi di indagine della storiografia che, da almeno qualche decennio, si interroga su argomenti quali l’alimentazione, il modo di vestire, le tecniche, il tenore di vita, i dati biologici. Vd. su ciò De Luna 2004. 1
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l’accostamento con lo studio delle culture antiche, o forse per l’influenza di letture che non sono riuscita a ricostruire, il Cireneo è diventato per me l’emblema della gratuità, di colui che si fa carico – letteralmente – della sofferenza altrui, senza esserne richiesto. Da un lato, questa connotazione, questa interruzione volontaria del circuito “normale” della prestazione e del pagamento, di ciò che si dà per ottenere, che intuitivamente e contro la lettera veterotestamentaria mi pareva di poter collegare al carico della croce altrui, era singolarmente adatta alla prassi e alla teorizzazione della conoscenza “specialistica” che quel grecista incarnava. Da un altro, purtroppo, straordinariamente contrastante. La “gratuità” del gesto di solidarietà può inerire alla comunicazione specialistica? E la reazione al corpo (proprio e altrui) è davvero tagliata fuori da una conoscenza che si fondi sui testi? Queste domande possono apparire ingenue e astratte al tempo stesso. E forse lo sono davvero. E tuttavia sono molto attuali. Infatti, da un lato la conoscenza chiusa e polverosa che nasce e muore sui libri è resa, quand’anche fosse desiderabile per qualcuno, impossibile dagli attuali meccanismi universitari; dall’altro la specificità del sapere e delle sue forme consiste anche nel suo scarto rispetto al “va e vieni” della società attuale, fondato sullo scambio economico2. Il tema del corpo In modo del tutto autonomo rispetto a queste riflessioni avevo già da tempo cominciato a raccogliere materiale su “corpo politico”. Questo interesse nasceva dalla constatazione che, laddove era più presente un’ideologia del corpo politico, ciò che mancava era proprio il lessico corrispondente. Tucidide in VII, 71,3, descrive per esempio l’andamento oscillante della battaglia navale nel porto di Siracusa con queste parole: Altri poi, con lo sguardo rivolto ad un punto della battaglia navale dove c’era equilibrio, poiché la lotta continuava a restare indecisa, la seguivano trepidanti accompagnandone lo svolgimento con i moti di tutto il corpo in simpatia con le loro emozioni, e si trovavano nella situazione più difficile: ché continuamente erano in procinto di scamparla o di morire3.
Su “gratis” vd. Benveniste 2001: 151-153. La “gratuità” del sapere è formulazione ambigua: che il termine “intellettuali” – con la carica dispregiativa di cui ancora si sente l’eco – si trovi documentato, come sostantivo e usato al plurale, non prima della fine del XIX secolo, quando essi erano definiti come «coloro la cui attività, per essenza, non segue fini pratici» (traggo la citazione, che è di J. Benda, da Miralles 1996: 851) può ingenerare il dubbio che “gratuito” sia sinonimo di “inutile”. Vaccaro 2002: 35 parla di gratuità «nel senso dell’infunzionalità dei saperi ai vincoli della realtà» e ricollega «l’infungibilità del sapere autonomo al piacere del dono». 3 Thuc. II 60, 2-4. La traduzione di Tucidide, come le altre seguenti, è quella di Canfora 1996. Per la traduzione di pÒlij con «stato», vd. Ampolo 1997. 2
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Questa singolare e poco commentata osservazione è assai rilevante: non solo nel delineare una concezione della polis come synousia di individui nella quale si neutralizza la differenza fra i corpi dei singoli, ma anche nell’indicare il corpo come il medium di questa synousia. Tutti usiamo, in modo quasi automatico e senza una riflessione specifica, il termine “corpo” in riferimento ad un insieme di individui. L’espressione “corpo politico” è un esempio di questo uso, familiare agli storici di ogni epoca e usato per descrivere comunità politiche di ogni tipo: antiche, moderne, democratiche etc. Essa, come ha notato Adriana Cavarero, affonda le radici in una tradizione millenaria, che ha conosciuto fratture, riprese, discontinuità ma che ha garantito un usus lessicale pressoché ininterrotto4. La sua persistenza e la sua lunga fortuna nella metaforologia politica, nonostante il numero di studi in proposito, non risultano tuttavia a mio avviso compiutamente spiegate. Se da un lato infatti, prestando fede alla metafora, la politica sembra rappresentare un campo in cui il corpo e i suoi saperi hanno uno spazio notevole e che anzi ha costruito il suo armamentario concettuale e lessicale (anche) nel confronto con essi; d’altra parte non è affatto chiaro il trait d’union fra la sfera del corporeo e quella della politica, dal momento che l’idea di una scienza politica che “prende in prestito” gli strumenti cognitivi e il lessico di altre discipline più “vicine” al corpo, quali la medicina, la scultura, la musica, è smentita da un’analisi accurata delle fonti, che documentano tutt’al più una contiguità, una convergenza ma non una dipendenza. Anche l’indagine sulla presenza del corpo nella politica, cioè su una politica del corpo non rende conto a sufficienza del diverso peso delle due declinazioni del problema, “corpo politico” e “politiche del corpo”. “Corpo politico” scivola nella “naturalità” di un concetto così logoro da non porre neanche più il problema di che tipo di corpo sia implicato e in che tipo di politica ogni qualvolta il sintagma trova applicazione. “Alle spalle” della persona Nell’attuale panorama della filosofia, della bioetica, del diritto, a fronte della presupposizione largamente condivisa riguardante il valore universalmente conferito alla categoria di persona, si va affacciando l’ipotesi che – per usare le parole di Roberto Esposito – «il sostanziale fallimento dei diritti umani – la mancata ricomposizione tra diritto e vita – abbia luogo non nonostante, ma in ragione dell’affermarsi dell’ideologia della persona»5.
Così Cavarero 20033: 113. La tematica platonica del corpo è stata indagata sopratutto da Vegetti: cfr. Vegetti 1983: 459-69; Vegetti 1982: 41-50; Vegetti 1992. Sulla metafora del corpo politico in età moderna, cfr. de Baecque 1993. Vd. anche Temkin 1977: 271-83. Per altre attestazioni della metafora vd. Cornut., Theolog. Graec. 20; Orph., fr. 21a; Diod. I 11,5; Philo. Som. I, 144; Quaest. Ex. 2,117, Dem. fr. 34. 5 Esposito 2007: 8. 4
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Più precisamente, nella ricostruzione di Esposito, a costituire il nodo problematico di ciò, che, a partire dal diritto romano, è stato il concetto di persona, è la separazione tra persona come entità artificiale e uomo come essere naturale, cui può convenire o meno uno statuto personale. Tale scarto, consentendo delle zone di indistinzione, produce uno spostamento continuo delle soglie categoriali che definiscono lo status degli esseri viventi e rende possibile strategie di de-personalizzazione e di reificazione degli individui viventi6. “Persona” viene così a trovarsi all’estremo di una serie che contiene anche, e necessariamente, semi-persone e non-persone quali, in diverse epoche storiche, lo schiavo, la donna, il bambino, il disabile, il malato terminale, il folle e così via. Il campo in cui, attraverso la mediazione della bioetica, si sono manifestate le implicazioni più ambigue della categoria di persona è quello del diritto, che ha subordinato al rilancio della “persona” ogni possibilità di far valere la nozione di “diritti umani”. In questa sussunzione di responsabilità, “persona” subentra però al più malandato e strumentalizzato “cittadino”, che ancora Arendt nel secondo dopoguerra riteneva il necessario involucro protettivo dell’essere umano in balia degli stati nazionali7. Così anche per “persona” vale la risposta che, alla domanda «qui vient après le sujet?», forniva E. Balibar: «après le sujet vient le citoyen». Se “persona” deve sostituire e integrare – nel senso dell’universalità – “cittadino”, sottraendolo all’eventuale arbitrio di uno stato nazionale, è dunque a “cittadino”, in una dimensione che supera le ideologie nazionali, che sempre si torna per tutelare l’uomo. Quello di “cittadino” è un dispositivo la cui origine greca se non è immediatamente rivelata dall’etimologia è comunque pacificamente asserita dagli studiosi. Vegetti esprime la convinzione che lo «sforzo di una identificazione primaria dell’uomo nella figura del cittadino, del membro integrato di un corpo civico, abbia costituito l’impresa centrale della società greca nei secoli della sua formazione, e che si sia trattato di un’impresa largamente condivisa»8. Ora, ciò che pare centrale è comprendere se già cittadino, come poi persona, sia un dispositivo doppio ed escludente come sottolinea Esposito e quale sia la relazione fra una tale eventuale esclusione e il corpo (dell’individuo, della comunità). A Platone, come è noto, risale quell’impianto «che andrà ad ispirare la figura organica di un corpo politico che prevede la testa in ruolo dominante», in virtù della opposizione alla materia carnea di un principio attivo – il logos – in grado di plasmarla e diri-
Esposito 2007: 12-18. Hannah Arendt ha espresso questa convinzione in vari suoi scritti: vd. per esempio, in Arendt 1999, il capitolo nono, Il tramonto dello stato nazionale e la fine dei diritti umani, specialmente 383-402. 8 Vegetti 1996: 448, in cui trovo la citazione di Balibar. Vd. anche Murray 1997, sulla nozione di “persona”. Sulla recezione del concetto di “persona” nella tradizione cristiana occidentale, vd. la ricostruzione fatta da Prosperi 2005: 288 e ss; su “persona” nell’antichità, da un punto di vista linguistico, vd. Nédoncelle 1948; Štajerman 1985; Tacho-Godi 1971. 6 7
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gerla9. Ma, prima di Platone? Nella prassi politica delle poleis che spazio ha il corpo del cittadino? Corpo e comunicazione Queste dimensioni problematiche del corpo – nel sapere, nella cittadinanza – hanno assunto una diversa configurazione dopo la lettura di due libri: uno di questi è Cronosensitività. Una teoria per lo studio filosofico dei linguaggi di Marcello La Matina10. Esso fornisce infatti quel modello interpretativo, quella strumentazione concettuale che cercavamo per giustificare la presenza, nella politica, di un sapere del corpo. Si tratta di una esperienza individuale e comunitaria al tempo stesso, personale e sociale, intellettuale e corporea, astratta e concreta: il linguaggio. Muovendo da un’idea di comunicazione come “evento” e non come “struttura”, e attraverso una radicale revisione dell’impianto concettuale ereditato dalla tradizione dello strutturalismo e della semiotica, La Matina propone un modello di comunicazione con una forte vocazione pragmatica che consente di includere a pieno titolo il corpo nella comunicazione, anche scritta. Il risultato cui si perviene è duplice: si apre il campo di ricerca costituito dal ‘corpo politico’ all’apporto dello studio dei linguaggi e delle comunità linguistiche storicamente esistite e si decostruisce al tempo stesso un’idea del sapere e della conoscenza come attività solipsistica. Procediamo con ordine. Per La Matina un testo, un’epigrafe, ma anche una melodia, o un dipinto, non sono (“á la Saussure”) significanti che rinviano a significati: sono qualcosa di più e di diverso, da cui veniamo attratti perché annunciano una intenzione di comunicare, che riconosciamo tipica della nostra condizione: noi reagiamo agli oggetti se e solo se essi si presentano come traccia minima di un agire saliente per noi e per i nostri simili.
Così Cavarero 20033: 114. È appena il caso di ricordare che esiste una “preistoria” della metafora del corpo politico: mi riferisco, per esempio, al simbolismo egizio e israelita del corpo/terra. «In Egitto – afferma Assmann 2002: 100 – troviamo il simbolismo del corpo fin dall’inizio (...) I singoli distretti o “luoghi” d’Egitto formano le membra di un corpo che è identificato con il dio Atun (...) Nei riti della cosiddetta “riunione delle membra” si ricostituisce, con quella del corpo del sovrano del sovrano defunto, anche e contemporaneamente l’unificazione del paese che si era disfatta con la sua morte». Ciò ricorda il gesto con cui Samuele, per convocare le tribù, prende un bue, lo taglia a pezzi e li invia mediante messi in tutto il territorio di Israele: il testo presuppone – secondo Carandini 2006: 339 «la corrispondenza tra membra del corpo e terra destinataria con i suoi uomini o tribù (...) Le parti dell’uomo o dell’animale corrispondono alle parti di una comunità intesa nelle sue diverse componenti ma anche nella sua identità». Anche nella Roma arcaica esiste una simile corrispondenza tra struttura territoriale e corpo del re, come è evidente nell’episodio dello squartamento di Romolo, in cui – secondo A. Carandini – le parti del corpo corrispondono non a leghe o a distretti ma ai «rioni di una città». In tutti questi casi la corporeità non è dell’individuo, del cittadino, ma della struttura territoriale – distretto, rione, tribù – di appartenenza; la metafora è tuttavia strettamente organologica: tant’è che, per gli Egizi, ciò che il re fa nel mondo, all’interno del corpo umano lo fa il cuore, quale principio centralizzante: cfr. Assmann 2002: 101. 10 La Matina 2004, che seguo per tutto il paragrafo e quello seguente. 9
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Per comunicare tra di noi, esibiamo certi oggetti o eventi, suoni, gesti, in contesti di vario genere. Il problema centrale non è il codice adoperato ma il tipo di azioni, più o meno coordinate, che i soggetti compiono per identificare siffatti oggetti o eventi, eventualmente attribuendo loro (come nell’esercizio delle lingue naturali) un’interpretazione semantica. L’idea prevalente, che il comportamento linguistico sia governato da un sistema di regolarità predisposte anteriormente, condivise dai parlanti o utenti dei linguaggi, implicata dalla celebre dicotomia saussuriana Significante/significato, è stata messa in crisi dalle obiezioni di Davidson circa l’idea di lingua condivisa e dalle intuizioni di Goodman sulla natura del comportamento cognitivo legato ai simboli, autori cui La Matina fa esplicito riferimento11. Da queste obiezioni si fa strada l’idea di una rilevanza del significante: c’è un tipo di verità che riguarda il comportamento in base al quale un osservatore o un ascoltatore considerano vero un evento o un oggetto simbolico – suoni, immagini, parole – prima ancora di averlo interpretato12. Ciò che si verifica nella comunicazione è infatti una sorta di accordo transitorio che può nascere fra i parlanti al momento della comunicazione, anche se le teorie interpretative del parlante e dell’interprete sono differenti prima della comunicazione. In questa “negoziazione” è il corpo a giocare il ruolo principale. La situazione comunicativa che meglio illustra questo processo è quella dei lapsus linguae, degli usi impropri, dei misunderstandings, degli scambi di parole volontari e involontari. In questi casi, apparentemente marginali, l’interprete giunge al momento del proferimento di alcuni enunciati da parte di un parlante P con una teoria, la quale assegna il significato a questi enunciati e alle loro parti. Salvo che, a un certo punto, P dice qualcosa di imprevisto (con l’intenzione di essere interpretato in modo diverso dal solito) e riesce a essere compreso. Ciò che avviene nella comunicazione è allora è un tentativo da parte dell’interprete (chiamato “radicale” da Davidson) di eguagliare i dispositivi strutturanti, caratteristici del comportamento comunicativo dell’Altro, ai suoi dispositivi analoghi. Ciò equivale a dire che il Significato è in rapporto al successo della comunicazione e non predisposto in precedenza; e anche che è nella vita sociale del linguaggio, nella
Davidson 1986; Goodman 2008. Donald Davidson è considerato uno dei più grandi filosofi del linguaggio del Novecento ed è noto soprattutto per aver rimesso in campo la nozione di verità nella costruzione di una teoria del significato. I suoi scritti su “linguaggio”, “significato” e “comunicazione” hanno generato un vivace dibattito nella filosofia del linguaggio, ma anche lasciato irrisolte alcune aporie, cui La Matina cerca di proporre una soluzione. Nelson Goodman è stato uno studioso di difficile collocazione, per via dell’originalità delle sue impostazioni e della trasversalità dei suoi interessi. Le nozioni goodmaniane di “esemplificazione” e “riferimento” e altre intuizioni del filosofo sono adoperate da La Matina per elaborare una filosofia delle forme simboliche senza rinunciare all’eredità della filosofia analitica del linguaggio. Su Goodman, vd. ora Franzini-La Matina 2007, volume che riunisce i lavori di un convegno tenutosi a Macerata nel 2005 su Nelson Goodman, la filosofia e i linguaggi. 12 Vd. La Matina 2007 con particolare riferimento al problema della verità. Che il linguaggio non sia (sia stato) soltanto un meccanismo per denotare, ma abbia avuto anche efficacia “performativa” è sostenuto da Agamben 2008. 11
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dimensione dialogica, intersoggettiva del parlare, che il Significato si lascia cogliere mentre assume chiarezza e distinzione. Questo è d’altra parte implicito nella pratica della filologia: il filologo postula o riconosce una tensione differenziale fra il testo che egli appercepisce nella lettura e quel testo che probabilmente non esiste più, almeno come “oggetto parlante” ma che è costantemente evocato come antecedente: originale o meno, egli agisce non diversamente non diversamente da come fa l’interprete di un proferimento, che dà vita ad una «edizione» del proferimento stesso. In questo modo di leggere vi sono sempre due stringhe testuali: quella che l’editore ascrive al testo originale e quella, che non possiamo conoscere senza editarla, ma che presuppone sempre un antecedente13. Oralità e distanza dell’altro Una teoria cronosensitiva, servendosi del modello filologico, distribuisce l’esistenza del testo fra la Vorlage di un Autore e il «testo appaiato» di un editore: tale accostamento non avviene in base a ciò che essi significano, ma in base alla presunzione dell’editore di avere accesso alla intenzione dell’Autore. Il passaggio da una teoria anteriore, ciò che l’interprete sa prima di accostarsi al testo, ad una teoria transitoria, nata nella lettura, è dunque una rottura epistemica, così come avviene nella comunicazione orale14. L’ingresso dell’Altro – testo, epigrafe, dipinto – mette in gioco il linguaggio come processo e non come struttura. A differenza dei semiologi e dei testualisti, gli oralisti infatti riconoscono la preminenza del linguaggio come evento e come luogo della comunicazione e pertanto, quando trattano l’oralità, si riferiscono alla condizione in cui «il linguaggio è dato alle creature originariamente»15. L’oralità – sostiene l’Autore – non
La Matina 2004: 283 e ss. Uno dei contributi più rilevanti offerti dalle scienze dell’antichità alla conoscenza generale è la riflessione sull’oralità; una riflessione che, mossa dall’intento di spiegare alcune caratteristiche della comunicazione letteraria nel mondo antico, ha trovato riscontri significativi sia negli studi di taglio antropologico sulle culture contemporanee prive di scrittura, sia in un ramo della storia che, proprio per la sua competenza nello studio e nell’uso delle fonti orali, si definisce “storia orale”. Vd. Havelock 1963, in cui l’autore spiega le critiche di Platone alla poesia omerica ed esiodea alla luce della relazione oralità-alfabetismo, formulando una teoria che sarà poi ripresa e approfondita in vari saggi fino ad Havelock 2005; Il concetto di “oralità primaria” è di Ong 1970; un utile quadro d’insieme in Prins 20022. Lo studio dell’oralità, nel panorama attuale delle scienze umane, è un vasto campo di metodi e interessi che interseca diverse discipline “tradizionali”, senza saturarne nessuna. Vd. La Matina 2004: 176 e ss. 15 Vd. La Matina 2004: 177. La considerazione dell’oralità come condizione originaria e non come «il luogo dove si manifestano le imperfezioni del sistema linguistico» e del linguaggio come processo e non come struttura, consente di rispondere ad una esigenza avvertita diffusamente ma di rado teorizzata con coerenza: quella di riaccostarsi, superando la mera descrittività di tanta storiografia passata, agli «eventi». Considerare eventi, nel campo del linguaggio, significa riaccostarsi alla sua vita sociale, alla dimensione dialogica, intersoggettiva del parlare. Che tale dimensione sia una condizione permanente e non marginale 13 14
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va considerata una fase transitoria nell’evoluzione del linguaggio umano, bensì una condizione permanente di esso e come tale in grado di spiegare la comunicazione tout court. Nella comunicazione orale il gesto e la voce del parlante stimolano una risposta mimetica nell’ascoltatore: le creature dialoganti, interagendo fra loro e con l’ambiente, modificano il testo della performance. Questa reazione ha un effetto sul testo che viene performato. Il testo non è dunque qualcosa che preesista all’evento comunicativo, bensì un oggetto che viene costantemente adattato alla qualità e al genere di ascoltatore, è una entità irriducibile, essendo costituito da ciò che ha proposto il parlante e dall’enunciato in cui l’Interprete ha tradotto/trascritto quel parlante: è quindi un’entità contenente tracce di alterità. Il Significato dipende dall’accordo che, in base all’intenzione del parlante, i due attori della comunicazione ottengono di realizzare al momento del proferimento. La comunicazione è dunque spiegata da una teoria cronosensitiva come «fare amebeico», cioè come atteggiamento o attività che presupponga l’indirizzamento della intenzione di un soggetto verso uno o più conspecifici, o al fine di stimolarne un comportamento responsionale. Se oggi noi consideriamo il testo come un risultato di un processo creativo, in origine esso inglobava anche il processo alle sue spalle. Ciò che dobbiamo fare – per accorgerci di questa fluidità del processo compositivo del testo – è, secondo l’Autore, abbandonare la concezione strutturalista e semiologica che considera il testo un prodotto finito e per di più un oggetto costituito da una serie di solidarietà istituite e regolate da un Codice, senza nessun riferimento alla natura temporale, anzi cronosensitiva, della creazione e comunicazione scritta od orale. Nell’Antichità, il testo non è un oggetto, ma una strategia transitoria, che può occasionalmente venire fissata, ma che non esiste, in quanto testo, se non all’interno di un regime orale, triangolare (...). Il testo è nel tempo ed è sensibile al tempo.16
Da questo carattere processuale del testo antico, che non è qualcosa che preesista all’evento comunicativo, bensì un oggetto che viene costantemente riadattato alla qualità e al genere di ascoltatore, consegue che lo studio diacronico dell’uso linguistico, e cioè la storia del comportamento comunicativo è non una parte accessoria e secondaria, ma il fulcro dello studio filosofico del linguaggio ed al contempo il ponte fra questo e le scienze umane17. Ciò consente anche di confutare l’idea della conoscenza come «relazione solipsistica fra un soggetto cartesiano ed uno stimolo dotato o sprovvisto di oggettività», per proporre invece un concetto fluido e dinamico, nonché transitorio, della conoscenza
del linguaggio è quanto emerge, per esempio, dagli studi di Havelock che sostiene che la lingua orale dei Greci «imparò a scrivere, senza smettere mai di cantare». Vd. Havelock 2005. 16 La Matina 2004: 189. 17 Al problema del “linguistic turn” nelle scienze umane sono dedicate dall’Autore importanti riflessioni a p. 440 e ss.
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come forma di reazione alla presenza dell’Altro e soprattutto come «negoziazione» sulla base di evidenze. Se la «presenza» dell’altro, si è visto, è un fattore linguisticamente rilevante in quanto produttrice di «Doppelsträngigkeit»18; che cosa produce viceversa la distanza, fisica o psicologica? E quale legame c’è fra l’assenza o la distanza e quella «deresponsabilizzazione» che è insita nell’idea di langue e che consente di accantonare il problema della verità? Se, da un lato è la presenza dell’altro a rendere manifesta la cronosensitività della comunicazione, dall’altro infatti sembra precisamente la sua assenza o distanza a rendere possibile il saussurismo, cioè la negazione della rilevanza di ciò che esula dal campo della «convenzione». L’analisi della comunità linguistica in cui opera Gesù sembra non lasciare dubbi sul fatto che il rapporto con fonti di autorità univoche e monopolistiche produce l’impotenza dell’individuo e la sua disponibilità a rinunciare alla sua propria parole. La società appare allora come capace, in alcune situazioni, di spegnere o fortemente ridimensionare la «cronosensitività»: in questo senso solo i singoli, come Gesù, possono ricostruire uno «spazio epecoico», cioè luogo di possibile contagio fra creature. Se è così, è opportuno allora chiedersi se certi modi di costruzione dell’autorità non comportino la manipolazione della cronosensitività e l’erosione della prossimità dell’altro e se ciò non sia reso possibile solo a condizione di neutralizzare e rendere convenzionali tutti gli aspetti originari del linguaggio. Si consideri per esempio alla luce di quanto osservato il testo seguente. Esso è un promemoria preparato dall’esperto Willy Just sul miglioramento tecnico dei camion dotati di camere a gas usati dai nazisti per sterminare gli ebrei, i quali dovrebbero essere – secondo Just – più corti. Gli effetti svantaggiosi sull’equilibrio dei pesi sarebbero scongiurati dal fatto che: (…) in pratica una correzione della distribuzione dei pesi avviene automaticamente grazie al fatto che nel corso dell’operazione il carico, lottando per raggiungere la porta posteriore si accumula prevalentemente in quella parte del piano». Per facilitare la pulizia, il pianale del camion dovrebbe essere leggermente inclinato verso il centro e dotato di un foro con coperchio apribile dall’esterno cosicché tutti i «fluidi» vi confluirebbero, quelli «poco densi» colerebbero giù durante l’operazione, quelli «meno densi» potrebbero essere fatti defluire in seguito19.
Baumann ha commentato il testo per le implicazioni morali che esso suscita. Io vorrei soffermarmi sulle condizioni che rendono possibile (e sul prezzo che la società paga per) ciò che Borges chiama: l’«illusione del referente». Che il referente sia una «il-
La Matina 2004: 327. Con questo termine, intraducibile correttamente in italiano, l’autore designa la caratteristica del processo comunicativo di esistere «in forma di doppia stringa» cioè come costruzione temporanea prodotta fra un Emissario e un Editore. 19 Citato e commentato da Bauman 1992: 265-66 18
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lusione», che nella lingua ci siano «fluidi» e non vomito, urina e feci, «carico» e non esseri umani in lotta e prossimi a morire è stato forse indispensabile per considerare lo sterminio nient’altro che un’«operazione», una sfida tecnica, e l’omicidio un «compito»?20 L’espulsione del referente – è lecito chiedersi – non è in altri termini funzionale ad una certa idea della modernità? Certe logiche di razionalità, di efficienza, di rapporti disumanizzati e burocraticizzati richiedono una analoga “razionalizzazione” del linguaggio. Tutto ciò è possibile soltanto grazie all’assenza dell’altro, (o, nel caso-limite dello sterminio degli Ebrei, alla sua emarginazione e esclusione dalla vista e dallo spazio epecoico della gente comune). Alla modernità, se vuole ignorare gli aspetti disumanizzanti che essa (fra gli altri) produce è precisamente necessaria la convinzione che la lingua sia l’isola felice in cui l’altro (specie se perseguitato e morente) è assente e il soggetto è libero dall’esserne responsabile. Funziona infatti perfettamente anche dal punto di vista del linguaggio ciò che Baumann osserva con riferimento alla spersonalizzazione dell’azione rivelata dall’esperienza della Shoà: Gli attori fungono da semplici agenti della conoscenza, in quanto portatori di know-how, e la loro responsabilità personale consiste esclusivamente nel rappresentare adeguatamente la conoscenza, cioè nel fare le cose secondo lo «stato dell’arte», nel migliore dei modi che la conoscenza disponibile consente. Per coloro che non possiedono il knowhow, agire responsabilmente significa seguire il consiglio degli esperti. Nel corso di questo processo, la responsabilità personale si dissolve nell’autorità astratta del know-how tecnico21.
La techne Accennavo, poco sopra, a due libri fondamentali per la connessione fra alcune delle dimesioni problematiche del corpo. L’altro a cui mi riferivo è Origini dell’uguaglianza. Ricerche sociologiche sull’antica Grecia, di Gian Antonio Gilli: una monografia di estremo interesse la cui tematica è assai più ampia di quanto il titolo lasci intravedere. Il merito – o, meglio, uno dei meriti – di questo libro è quello di illustrare, con dovizia di particolari e acume di analisi, la discontinuità fra il moderno concetto di “tecnica” e la techne dei Greci. Il tipo di rapporto che Gilli ricostruisce – servendosi del mito di Prometeo come illustrato nel Protagora di Platone – fra la techne politica, donata da Zeus, e le altre technai, donate da Prometeo, ci consente non solo di differenziare quella del cittadino da una dimensione preesistente e originaria della persona, ma anche di legare tale dif-
Che la “decostruzione” del concetto di verità non sia estranea al collaborazionismo è adombrato da Ginzburg 2000: 36 -40, a proposito della vicenda di Paul de Man, lettore acuto di Nietzsche (il Nietzsche di Sulla verità e la menzogna) e autore in gioventù di articoli di contenuto antisemita: «de Man – commenta Ginzburg – aveva molti motivi per volersi liberare dal peso della storia». 21 Vd. Bauman 1992: 265 e ss. 20
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ferenza al grado di relazionalità e al tipo di comunicazione che il cittadino riesce a instaurare rispetto all’uomo “prometeico”. La condizione “prometeica”, dimensione originaria dell’uomo e preesistente alla sua integrazione “politica”, nel mito di Prometeo – nelle sue varianti principali: esiodea, eschilea e platonica – è il frutto della “distribuzione” delle technai fatta da Prometeo, dopo che Epimeteo ha già distribuito agli animali le dynameis, ed è vistosamente segnata dall’isolamento e dall’impossibilità della vita associata, “politica”. Se il comportamento comunicativo minimale si può descrivere come una forma di “negoziazione”, nella quale gli interlocutori reagiscono ad un’evidenza condivisa e rivestono di volta in volta la funzione di editare il proferimento altrui, modificando il proprio comportamento tutte le volte che nuove informazioni, scaturite durante la comunicazione, lo richiedano: allora è possibile interpretare la condizione rappresentata nel mito come caratteristica dell’uomo pre-politico come afflitta da una patologia del linguaggio o segnata dalla insuccessfull comunication. I primi quattro capitoli del libro sono dedicati all’analisi di questa possibilità, con riferimento particolare all’epos omerico. Del mito di Prometeo, è stata privilegiata la variante platonica, esposta nel Protagora. L’uso che viene fatto di questo mito tende a privilegiare in esso gli aspetti paradigmatici: esso viene cioè usato come esempio di ciò che – sulla techne e sulla cittadinanza – nel V secolo poteva essere considerato plausibile oggetto di riflessione. Senza dimenticare naturalmente che l’inserimento del mito nella forma del dialogo platonico, e all’interno di un discorso attribuito al “personaggio” Protagora ha dei risvolti anche sul piano dell’articolazione del contenuto mitico, come di volta in volta si cercherà di sottolineare. Il quinto capitolo affronta il medesimo tema – lo scarto fra cittadino e uomo prometeico – sul versante della Commedia, attraverso l’analisi degli Uccelli di Aristofane. L’ultimo capitolo è dedicato alla figura di Pericle – nel cui bios si mescolano aspetti “politici” e aspetti “prometeici” – e all’uso del modello mitico nell’Atene del V secolo, con riferimento particolare ai Sofisti. Tema che si ricollega peraltro al contesto storico in cui è collocata la scena del Protagora. Avvertenza I sostantivi techne, technites e i relativi aggettivi, traslitterati e in corsivo, saranno usati con riferimento al concetto greco di tšcnh come ricostruito da Gilli; la grafia non traslitterata: tecnica, tecnico, etc., invece sarà usata per riferirsi ai concetti moderni. I termini greci adoperati più di frequente saranno traslitterati senza accento.
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I DONI DI PROMETEO
La comunità politica come spazio eusinottico Quattrocentottanta stadi di fortificazioni, un fossato largo e profondo, un muro alto cinquanta cubiti e largo duecento, cento porte di bronzo, viveri accumulati da molti anni non servirono a salvare Babilonia dalla conquista persiana. Erodoto, che si diffonde lungamente sulla bellezza e la grandezza della città assira, ne addebitava la caduta ad una sottovalutazione del pericolo, ma soprattutto a una difficoltà di comunicazione. Infatti, quando Ciro svia il letto del fiume Eufrate, rendendolo guadabile e facendo entrare per quella via l’esercito in città, Se i Babilonesi avessero saputo prima o avessero capito ciò che Ciro intendeva fare, non permettendo che i Persiani entrassero in città, li avrebbero sterminati nel modo più tremendo; sbarrando infatti tutte le porte che davano sul fiume e salendo sui muri a secco che correvano lungo le rive li avrebbero presi come in una trappola 22.
Ciò non avvenne. E anzi Babilonia cadde quasi senza combattere. Infatti,
Hdt. I 191,5. La conquista di Babilonia, nel 539 a. C., fu evento memorabile: Erodoto dedica tre capitoli alla storia dell’assedio e della conquista persiana, preceduti dalla descrizione della città e seguiti da una sezione etnogeografica. Il logos erodoteo è giudicato sostanzialmente attendibile e si basa, oltre che su informazioni ricevute in loco e su altre fonti greche (Ecateo), anche su ciò che lo storico poté vedere circa un secolo dopo la conquista, quando Babilonia era una satrapia sotto Artaserse I Longimano. Vd. Asheri 19974: comm. ad loc. 22
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Come raccontano gli abitanti, per la grandezza della città, quando quelli alle parti estreme erano stati già sopraffatti, i Babilonesi che abitavano il centro non sapevano di essere stati già conquistati, ma ballavano e si divertivano, finché non se ne accorsero assai bene23.
Benché le cifre indicate da Erodoto siano reputate dagli archeologi puramente fantasiose, l’impressione suscitata nei Greci dalle dimensioni della città, che contribuì a creare lo stereotipo della “città orientale”, è genuina e molto opportunamente è collegata all’impossibilità di trasmissione dell’informazione, che sia stata questa o meno la causa della conquista persiana24. Aristotele affermava infatti che polis e territorio dovevano essere «abbracciabili con un solo sguardo» (eÙsÚnoptoj) perché, eccedendo questa misura, «quale araldo potrebbe farsi sentire da tutti, che non avesse la voce di Stentore?». Oddone Longo, nel commentare questa osservazione, afferma: L’area di accesso alla comunicazione segna pertanto il limite della città greca, circoscrivendola come organismo compiuto: il limite di comunicabilità, di diffusione immediata delle notizie, ne è ad un tempo il peras e il telos. Al di là di questo limite si hanno megalopoli come quelle orientali, dove l’incomunicabilità è il prezzo della dilatazione urbanistica, e insieme del sistema politico25.
Area di accesso alla comunicazione non vuol dire banalmente divulgazione di novità e pettegolezzi, ma definisce qualcosa che investe direttamente l’esistenza politica della comunità, per cui al polo opposto di Babilonia, che incautamente balla mentre perde la libertà, c’è lo spazio eusinottico della polis26. Negli ultimi anni, in seguito alla pubblicazione di alcuni importanti lavori, si è molto discussa la questione se la polis sia da considerarsi un’entità statuale ovvero una stateless community27. Le opinioni degli studiosi sono su ciò totalmente discordanti sia in ra-
Hdt. I 191,6. Aristot. Pol. 1286. Le misure fornite da Erodoto in I 178,6 sono considerate fantasiose da Asheri 19974: comm. ad loc. 369. Vd. Longo 1997: 655-56. 25 Aristot. Pol. 1286. Longo 1997: 656. Su questa problematica, vd. Musti 2008: 49 e ss che traccia la storia delle concezioni topografiche greche dalla creazione poetica del modello (la polis dello scudo di Achille), alle varie applicazioni pratiche, alla fantasia utopistica della città degli Uccelli di Aristofane. Secondo Musti, Aristotele «rappresenta la quintessenza della città coesa non tanto come morfologia circolare, perseguita secondo schemi favolistici, ma come circolarità organica, attraverso la nozione di una visione d’insieme (…) questa idea di Aristotele trova il suo germe in Omero, più propriamente nell’Odiseea e nella struttura urbana della città dei Feaci». Il passo di Aristotele è stato variamente interpretato, con particolare riferimento alla sua applicazione ad Atene, che pare a più inverosimile date le dimensioni considerevoli della polis al tempo di Aristotele, e dunque al suo carattere “realistico” o riferibile all’ “immaginario”: vd su ciò i lavori citati infra, n. 27. 26 L’idea dello spazio eusinottico rimanda, secondo Musti 2008: 59-60 alla coesistenza dialettica dei due schemi urbanistici, ortogonale e circolare, che rispecchiano la morfologia di tutto ciò che è comune, generale, pubblico. 27 Per una sintesi delle posizioni vd. Faraguna 2000. Una posizione equilibrata è quella di Giangiulio 2004. 23 24
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gione della definizione da dare del termine “stato”, e cioè su quali siano le condizioni necessarie e sufficienti per poter qualificare un gruppo politico o una comunità come “stato”28: utilizzazione della costrizione fisica, monopolio della costrizione fisica legittima; sia sull’esistenza in seno alla polis di elementi riconducibili alla sfera della statualità29. Secondo Carmine Ampolo, alla base di ogni discussione è da considerarsi il fatto che la polis era vista «come comunità di cittadini», come mostra la vicenda plurisecolare del topos, già presente in Alceo, secondo cui «sono gli uomini il bastione possente della città»30. Senza dunque voler entrare nel problema spinoso della statualità, che a rigore di termini, per essere davvero saliente dovrebbe trasformarsi nel problema dell’eventuale esistenza di una statualità greca, ritengo interessante porsi il quesito se la polis sia (anche) una comunità che si differenzia dalle altre proprio in ragione del tipo di comunicazione che vi svolge e se essere cittadino significhi essere in possesso di una competenza comunicativa specifica31.
In termini weberiani, “stato” è connotato dall’uso legittimo della forza fisica. L’impossibilità di definire “stato” la polis adoperando la nozione weberiana è sostenuta da Berent 2000, che ritiene la polis una “stateless community” secondo il modello antropologico di Gellner. Hansen 1998 invece fa riferimento ad un concetto di “stato” più ampio e storicizzato e ritiene più proficuo un confronto sistematico dei risultati delle due indagini – sulla statualità antica e moderna – compiute in modo indipendente. Berent pone l’accento sull’importanza “strutturale” della guerra, che secondo Gellner è caratteristica delle comunità acefale in quanto forma rapida di acquisizione di ricchezza, e vede nel combattimento in falange il fattore di produzione della coesione che nelle strutture tribali (le “stateless communities” per eccellenza) è dato dalla parentela. Hansen vede nella nozione di cittadinanza – intesa come prerogative e privilegi discendenti all’individuo per l’appartenenza ad uno stato – l’elemento di maggiore analogia fa “stato” moderno e “stato” antico. 29 A questo mancato accordo corrisponde l’opacità stessa del termine polis, il cui uso – ma qui vale anche il peso del prestigio di studiosi che hanno consacrato l’uso di determinati vocaboli – molto spesso nasce proprio dall’impossibilità di trovare un corrispettivo che, nelle varie lingue moderne, renda con esattezza la multiforme sfaccettatura del concetto che gli antichi greci avevano della realtà politica cui facevano riferimento. Fra le varie opzioni, la scelta di polis, rispetto al più impegnativo Staat e Staadtstaad della tradizione germanica, pare allora da preferire, non tanto per sottolineare il ruolo di “antenati” dei Greci rispetto al campo della politica, quanto per sottolineare l’irriducibilità della polis ad altri modelli antichi o recenti. Ampolo 1997. Sulle differenze “nazionali” nella definizione della polis, vd. Murray 1993, sul ruolo di “antenati” dei Greci nel campo della politica, vd. le precisazioni di Cartledge 1996. Un quadro delle varie concezioni antiche e moderne in Sakellariou 1989. 30 Ampolo 1997 che rileva un «dualismo concettuale» fra stato cittadino e città fisica, rispecchiato anche dalla terminologia. Su pÒlij e ¥stu vd. Lévy 1990. Alceo fr. 112 Lobel-Page/Voigt su cui vd. Longo 1974 e 1975. Dallo stesso Ampolo un valore meno decisivo viene accordato ad altri elementi pure importantissimi quali la presenza di mura, edifici comuni, sistemi idrici, abitazioni. 31 Non intendo riferirmi alla vexata quaestio della polis come società “face to face”, secondo la celebre affermazione di Finley oggi duramente contestata e addirittura etichettata come «modern myth», su cui vd. Osborne 1985; Ober 1991; Cohen 2002; Cartledge 2002; Hansen 2006; ma, come sarà illustrato in seguito, alla formazione del soggetto politico nel senso di Gilli 1988 e cioè alla normatività come insita in ciascuno e dunque accessibile a ciascuno. In altri termini, ritengo che il problema non sia tanto se il rapporto “face to face” fra i cittadini fosse reale o fittizio o semplicemente asupicabile quanto se fosse normativo o no. Nella “città orientale”, come si vedrà, le relazioni normative sono verticali (benefattore-beneficato). 28
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L’analisi del problema prenderà le mosse tuttavia dalla situazione opposta, di cui Babilonia è il modello, cioè dalle aggregazioni che i Greci, o la maggior parte di loro, non consideravano polis. L’uomo prometeico Secondo il mito di Prometeo32, nella versione che Platone fa esporre a Protagora nel dialogo giovanile che dal sofista di Abdera prende il nome, ciò che rende possibile una prima forma di cittadinanza è la distribuzione egualitaria di “rispetto” e “giustizia” operata da Ermes per volere di Zeus: Zeus, temendo che la nostra specie andasse completamente distrutta, inviò allora Ermes per condurre tra gli uomini il rispetto e la giustizia, perché costituissero il fondamento dell’ordine della città e un legame unificante di amicizia33.
In un saggio fondamentale per l’argomento in questione, e che avremo modo di riprendere anche in seguito, G. A. Gilli ha illustrato come “rispetto” e “giustizia” siano virtù “relazionali”, cioè tali da consentire un primo rapportarsi fra gli uomini, che fino a quel momento vivevano isolati e sparsi compiendo ingiustizia l’un l’altro34.
Il mito di Prometeo è uno dei più conosciuti e più studiati della letteratura greca. Per un esame delle fonti, vd. le voci Prometheus ed Epimetheus in RE curate rispettivamente da Kraus 1957 ed Eckhart 1957 e da Escher 1907. Il mito è trattato da Esiodo, nella Teogonia (507-616) e in Opere e giorni (47-105). Figlio di Giapeto, Prometeo entra in conflitto con Zeus, che induce con l’inganno a scegliere per sé e per gli dèi la parte peggiore delle vittime sacrificali. Zeus, per punizione, nasconde il fulmine, impedendo agli uomini l’uso del fuoco. Prometeo riesce a rubarlo e Zeus lo fa incatenare ad una colonna dove un aquila gli divora il fegato, che nottetempo ricresce. Ad Epimeteo, Zeus invia invece Pandora, la prima donna, che apre il vaso in cui stavano racchiusi i mali e li lascia fuggire. Il tema viene ripreso da Eschilo che, al solo Prometeo, dedica una trilogia tragica, di cui è rimasta soltanto il dramma intitolato Prometeo incatenato. Lo spessore tragico di Prometeo, che anche incatenato ad una rupe selvaggia non si piega al volere divino per amore dell’uomo, scaturisce dalla critica che Eschilo muove all’agire del titano pur nella sua esaltazione intellettuale. Recenti messe a punto: De Petris 2003; Luri Medrano 2001. Sul mito Esiodeo, Vernant 1981 su cui vd. Ferrari 1978. Sulla versione eschilea, Longo 1961-1962, che legge il personaggio di Prometeo come esponente delle classi popolari contro Zeus che rappresenterebbe invece la classe aristocratica; Cerri 1975, invece vede nella vittoria di Zeus su Prometeo l’instaurazione della tirannide. Vd. anche Dolfi 1988; Sul tema del fuoco, Marconi 1983; sul culto attico, vd. Pisi 1990, Altri aspetti del mito sono analizzati in Petterlini 1992; Albini 1985; Bianchi 1976. 33 Plat. Prot. 322c. Su questo passo, e in generale sul Protagora, vd. Guthrie 1957; Adkins 1973; Brisson 1975; Cambiano 1971; Szlezák 1988: 228-149; Vlastos 2003: 125-142; Kahn 2008: 210-254. Sulla distribuzione di “rispetto” e “giustizia”, vd. Díaz Argüelles 1988. 34 Gilli 1988: cap. X. Queste “capacità relazionali” non afferiscono alla sfera morale, ma a quella politica, pubblica. «Si tratta – secondo Cassin 2005: 564 – esclusivamente di regole di comportamento pubblico sempre mediato dallo sguardo altrui». Se ne desume che «fra politica e linguaggio (o, più esattamente, fra la politica e l’insegnamento della lingua greca) esiste dunque un legame strettissimo». 32
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È interessante tuttavia notare che questa capacità relazionale, su cui si fonda la polis, si istalla, non su un precedente vuoto, ma sugli uomini che già da Prometeo erano stati dotati delle technai di Atena e di Efesto. In precedenza, infatti: Prometeo (…) penetrò invece di nascosto nell’officina comune di Atena e di Efesto, dove i due esercitavano la loro tecnica, e, rubata l’arte del fuoco di Efesto e l’altra, quella di Atena, le consegnò all’uomo. In seguito a questo l’uomo ebbe abbondanza di risorse per la vita35.
La politik¾ tšcnh, l’arte politica, si sovrappone (o si contrappone) pertanto ad una precedente “dotazione” che Protagora definisce sof…an perˆ tÕn b…on, scienza della vita. Questa doppia attrezzatura e le diverse modalità di ciascuna ci rimandano ad una sorta di immagine stratigrafica della “persona”, il cui primo nucleo consisteva in un bagaglio già notevole di dotazioni, che tuttavia non solo non consentiva ma addirittura ostacolava la vita associata, “politica”. Questo uomo, “prometeico”, cominciò a credere negli dèi, e si dedicò a innalzare loro altari e sacre immagini. Successivamente iniziò ben presto a utilizzare la voce e ad articolare le parole con tecnica, e inventò abitazioni, calzari, coperte e gli alimenti che nascono dalla terra. Attrezzati in questo modo, gli uomini dapprincipio vivevano dispersi, e non vi erano città (…)36.
Già nella parte del dialogo precedente la narrazione del mito da parte di Protagora, che in seguito analizzeremo più accuratamente, Socrate aveva distinto la capacità di prendere decisioni relative all’amministrazione della città, da quelle relative, per esempio, alla costruzione di edifici o di navi, che richiedono una competenza specifica, cioè “tecnica”, ed altri esempi di competenza tecnica si trovano in altre parti del dialogo, per esemplificare le peculiarità della tšcnh politica rispetto a tutte le altre. Nonostante una continuità terminologica accomuni il medico e l’architetto antico ai loro eredi attuali, sarebbe tuttavia errato ritenere le tšcnai di cui parla Platone come equivalenti a ciò che oggi si intende per “tecnica”37. Infatti, la fiducia nella tecnica, che, almeno a partire dalla Rivoluzione Industriale è un vettore di progresso irrinunciabile, non ha alcun riscontro nel mondo greco: secondo Vernant, pur a fronte di una documentata centralità delle tecniche, a Platone come a qualsiasi altro cittadino, «nessuno degli aspetti psicologici della funzione (…) pare presentare un valido contenuto umano», e anzi «al contrario si trova in lui la cura di separare e d’ opporre l’intelligenza tecnica e l’intelligenza, l’uomo tecnico e il suo ideale d’uomo, così come egli separa e oppone nella città la funzione tecnica e le altre due»38. Non solo: technitai e dai demiour-
Plat. Prot. 321 d-e. La traduzione, salvo diversa indicazione, è quella di M. Dorati, in Platone, Protagora Milano 1993. 36 Plat. Prot. 322. 37 Sulla techne platonica, vd. Battegazzore 1972. Molto interessante il tentativo di Sennett 2008 di ripensare l’idea di tecnica recuperando alcune suggestioni arendtiane. 38 Vernant 19843, 281. 35
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goi suscitavano in genere sentimenti misti di timore e di disistima, come si evince dal dialogo platonico e da numerose altre fonti39. Senofonte non fa che esporre un’idea largamente condivisa quando afferma, per esempio, che coloro che esercitano una techne sono deboli nel corpo e non in grado di occuparsi degli amici e della città, in quanto privi del tempo e delle risorse necessarie40. I technitai, per la loro condizione, per le loro pratiche ed anche per il modo in cui esercitano la propria tšcnh, pur essendo accettati in assemblea e ascoltati nelle questioni che investivano direttamente le loro competenze, sembrano insomma oggetto di una certa cautela e la loro frequentazione da parte dei cittadini doveva avvenire entro certi limiti. Nel dialogo, Socrate distingue due modi di entrare in relazione con i tecnici: accanto ad una semplice frequentazione ™pˆ paide‹a, per la propria formazione personale, esiste anche una frequentazione di tipo diverso, per diventare demiurghi, cioè per apprendere da costoro quella che chiameremmo la “professione”. Nel primo caso il tecnico rende il frequentatore “abile nel parlare” su ciò che è oggetto della sua arte, nel secondo caso il frequentatore diventerebbe egli stesso padrone della tecnica di colui al quale si accosta in qualità di allievo41. Naturalmente alcune technai consentono solo un tipo di fruizione, altre entrambe: per esempio, si può frequentare il citarista o il maestro di grammatica senza necessariamente voler diventare citaristi o maestri di grammatica, ma si frequenta il medico o lo scultore soltanto se si vuole diventare a propria volta medici o scultori: al buon cittadino, nell’opinione comune, si addiceva una frequentazione non certo per scopi professionali, ma soltanto per completezza di educazione42. A fronte di questo isolamento sociale dei portatori di tšcnh che da altre fonti emerge con uguale forza e talora con virulenza, non sono poche – né meno prestigiose di Platone – le voci che parlano in favore delle tšcnai: in Eschilo, per esempio, non appare alcuna riserva nei confronti dei tecnici ed anzi il campo della competenza tecnica è allargato a sfere che appaiono distanti da essa43.
Hdt., II 167, testimonia il generale disprezzo dei Greci – minore presso i Corinzi, maggiore presso gli Spartani – nei confronti di coloro che esercitano una tšcnh. Su Sparta, vd. Plut., Lic. 4,7 e 24,2. 40 Sen., Oec. 4, 2-3 e 6, 5-7. Altre fonti in Gilli 1988 che analizza i progetti di soluzione del problema costituito dai technitai in Falea di Calcedone (proprietà pubblica dei technitai), Plat., Leg., 846d (divieto per i cittadini di esercitare attività demiurgiche, espulsione periodica dei demiourgoi stranieri) e Aristot., Pol. 1329a35-38 (i technitai sono necessari ma non «parti costitutive» della polis). Sul cittadino nella città platonica, vd. Bertrand 2000. Non bisogna confondere il disprezzo verso i technitai con quello verso i lavoratori manuali, essendovi attività tecniche in cui il lavoro manuale era ridotto al minimo e ciò proprio in ragione della loro maggiore tecnicità. Sul lavoro manuale, vd. Aristot., Pol. 1337b8-15, che sembra implicitamente ammettere l’esistenza di technai non “manuali”. Le due sfere, del lavoro manuale e delle technai, benché talora sovrapposte, non coincidono del tutto: vd. Gilli 1988: 49-55. 41 Plat., Prot. 311b e ss. 42 Plat., Prot. 312b. 43 L’appoggio dato da Eschilo alle technai e la solidarietà verso Prometeo ai danni di Zeus ha spesso indotto gli studiosi a ipotizzare una riconciliazione fra i due personaggi nei drammi perduti della trilogia. Le 39
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Su un punto, tuttavia, ben espresso dal mito del Protagora, fonti anche molto diverse, convergono: cioè sul carattere non del tutto coincidente della tšcnh con il lavoro, sia esso manuale o meno. Benchè molte tšcnai fornissero ai loro portatori l’opportunità di esercitarle come mestiere, con una retribuzione, esse non coincidono mai totalmente con questa dimensione “lavorativa”: non solo perché vi sono tšcnai senza risvolti professionali, ma soprattutto perché il rapporto fra il lavoratore/professionista e la sua tšcnh è molto più profondo e complesso di quello che oggi comunemente si intende44. Il technites dei tempi di Socrate rappresenta infatti l’evoluzione e la sopravvivenza nella polis di una figura che il mito presenta come precedente la polis stessa: l’uomo prometeico. Il mito dice a chiare lettere quell’insufficienza e anche ostilità delle technai rispetto alla cittadinanza che il contemporaneo di Socrate sperimentava nei limiti che erano posti alla frequentazione del technites45. Dunque per comprendere meglio la relazione esistente fra il cittadino e l’uomo prometeico che lo ha preceduto, occorre – a mio avviso – partire da quei dati dell’esperienza tecnica che ne costituiscono la base, il nucleo più profondo. L’esercizio della tšcnh La possibilità, per i cittadini, di frequentazione del technites per l’apprendimento di una professione non deve far dimenticare un aspetto molto importante dell’attività technica. Un sostanziale accordo vi era infatti sul fatto che le technai fossero “innate” e addirittura, secondo Empedocle, biologicamente determinate: «come se la lingua fosse la causa dell’oratoria, o le mani dell’abilità artigiana»46. Nessun insegnamento poteva, da solo, fare di un individuo un technites. Se Platone riconosce una predisposizione naturale per l’esercizio di una techne47, altre attestazioni ricostruiscono un’opinione abbastanza diffusa che fa della techne qualcosa di più, una attività quasi senza soggetto o, potremmo dire, costitutiva del soggetto o ancora che il soggetto subisce. Nelle technai, avviene come se non fosse l’uomo a scegliere una tecnica ed un percorso professionale, ma il contrario, e il soggetto non
technai giungono per Eschilo a colmare i bisogni degli uomini: esse sono presentate come razionali, coerenti, ordinate e atte a illuminare e ordinare la confusione della vita “originaria”. 44 Non ha alcun risvolto “lavoristico” o commerciale, la techne della navigazione dei Feaci in Od. VIII 555563, e molte altre descrizioni di technai, anche non mitiche, sono, come vedremo, del tutto esenti da preoccupazioni economiche. 45 Non è un caso che tutto il discorso di Socrate sulla frequentazione corretta del technites sia indirizzata ad Ippocrate, un giovane ateniese che si appresta ad entrare nella vita politica, cioè ad acquisire pienamente la cittadinanza: il problema che si pone, e a cui Socrate darà risposta nell’Alcibiade I, è anche quello della valenza educativa, in una prospettiva politica, delle technai: esse sembrano inadatte – sia nella versione “tradizionale” sia nella versione “sofistica” a fornire questo tipo di insegnamento. 46 Teophr. De sensu, 1,24, DK 31a86. 47 Vd. per esempio, Plat., Rep. 455bc.
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fosse che un mezzo. Questo aspetto è messo bene in luce dagli studi di Vernant. Le technai sovrastano i loro portatori: l’artigiano è per gli antichi, un uomo che ordina una materia, opaca allo spirito, incarnandovi una Forma, che è superiore al suo spirito. L’opera ha più perfezione dell’operaio; l’uomo è più piccolo del suo lavoro. Così, superato dall’opera stessa che fabbrica, l’artigiano non comanda alla natura, bensì si sottomette alle esigenze della Forma48.
Questa priorità della techne rispetto all’individuo che la esercita comporta uno schiacciamento del technites sull’attività che compie ed una conseguente “smisuratezza” nell’esercizio stesso dell’attività technica49. Questi aspetti possono essere analizzati prendendo in esame due technai molto diffuse e ampiamente documentate come quelle del pastore e del medico. Tracciando la sua geografia dell’Egitto, Diodoro parla diffusamente e con ammirazione dei pastori egiziani. Essi, ricevono la cura degli animali domestici dai propri padri come per una legge di eredità e passano tutto il tempo della vita ad allevare il bestiame. Hanno ricevuto molte informazioni dagli avi a riguardo della cura e dell’alimentazione migliori per gli animali da pascolo, però, con il loro entusiasmo in questo campo, fanno non poche scoperte loro stessi, e la cosa più mirabile è che per l’estremo impegno in queste attività gli allevatori di polli e oche, oltre a far nascere i suddetti animali nel modo naturale, così come si fa negli altri paesi, ne mettono insieme un numero indicibile con la loro particolare abilità (…)50.
Questi pastori diodorei trascorrono la loro intera esistenza nella dedizione all’allevamento, in parte recependo l’insegnamento technico (le informazioni a riguardo della cura e della nutrizione migliori) degli antenati, in parte “inventando” essi stessi nuove tecniche. Fra la techne posseduta e l’identità dei pastori egizi non vi è differenza: l’identità personale del pastore si risolve interamente nell’attività compiuta, descritta in termini di cura (™pimšleia), sollecitudine (spoud») e zelo (zÁloj) straordinari. Nel mondo omerico, il possesso di una techne connota il suo portatore in modo irrevocabile. Restando alla pastorizia, è notevole l’esempio dei Ciclopi, l’identità dei quali è insistentemente ed esclusivamente connotata come pastorale51. Essi non conoscono assemblee né riti, né solidarietà reciproca: la loro vita si svolge fra boschi, monti e grotte in un contatto intenso e frequente soltanto con gli animali.
Vernant 19843, 339. Vd. per es. la descrizione della navigazione feacia in Hom. Od. VII 34-36; VIII 557-63, analizzata da Gilli 1988: 131-134 e passim per altri esempi di “smisuratezza”. 50 Diod. I 74, 3-5. 51 Hom. Od., IX 106-15. In altre tradizioni i Ciclopi sono presentati come metallurghi, costruttori di armi, di mura, capentieri. Vd. fonti in Eitrem 1922. 48 49
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Polifemo, nel quale le caratteristiche ciclopiche sono concentrate ed enfatizzate, è chiaramente un technites. Egli ha qualità di costruttore: ha infatti edificato per i suoi animali un recinto alto intorno alle stalle, fatto di pietra e di giganteschi tronchi; ma è soprattutto un pastore: all’interno del suo antro, Odisseo nota i graticci per il formaggio, gli steccati per separare gli animali a seconda dell’età, i boccali, i secchi e i vasi per la mungitura52. È presente dunque tutta la strumentazione contrassegno dell’attività del pastore, ma questa non si esaurisce semplicemente nell’uso, sia pure scrupoloso e attento, di una serie di strumenti. Polifemo condivide lo spazio dell’antro con le bestie, con le quali dorme durante la notte, chiudendo l’apertura della grotta con un macigno, e nutre per i suoi animali quei sentimenti di partecipazione che non prova per gli altri Ciclopi53. Dopo l’accecamento, quando fa uscire le bestie dall’antro, toccandole una per una per assicurarsi che Odisseo e i suoi compagni non fuggano su di esse, Polifemo nota che il suo montone prediletto esce per ultimo. Ciò sorprende il ciclope, che mostra di conoscere le abitudini dell’animale, al quale è legato da un rapporto “affettivo” di cura e conoscenza reciproca: egli attribuisce infatti al dispiacere del montone per lo sfregio subito dal padrone il suo insolito comportamento. Tale ”affettività” è sottolineata dalla cura stilistica con cui è reso il discorso diretto che egli rivolge all’animale, un discorso articolato e affettuoso (“caro”, “mi esci”) che contrasta con la maldestra stringatezza con cui si rivolge ai compagni per invocarne l’aiuto54. La cura pastorale di Polifemo potrebbe apparire mero frutto di espedienti letterari volti a favorire il dispiegamento della metis di Odisseo; tuttavia l’Odissea non è priva di altri riferimenti di analogo tenore al mondo pastorale. Molto interessante per esempio la figura di Eumeo, il fedele servo di Odisseo. Anche Eumeo ha costruito un eccelso recinto per i suoi animali, i porci55; anche questo è diviso in parti, ben dodici, e anche lui trascorre la notte insieme ai suoi animali, benché potrebbe riposarsi nel casolare56.
Hom. Od., IX 218-23 Vd. Hom. Od., IX 187-89: «greggi pasceva,/solo, in disparte, né mai fra altri/ si aggirava, ma stando da parte sapeva cose ingiuste». 54 Hom. Od., IX 447-53. 55 Hom. Od., XIV 5-16. 56 Hom. Od., XIV 524-25. 52 53
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In tutte queste descrizioni di recinti, di strumenti di lavoro, di tecniche, traspare il compiacimento del technites nei confronti della propria techne; la cura nei confronti della quale va ben al di là di ciò che potrebbe essere necessario o utile, quasi vi fosse insito un piacere che rimanda ad una dimensione puramente estetica57. La techne del medico Nella società omerica, il medico, guaritore di mali, è un demioergos58, termine con cui sono indicati i lavoratori specializzati, non necessariamente artigiani né lavoratori manuali. Demioergos significa letteralmente “colui che opera per un demos”, e individua la destinazione sociale dell’attività di un lavoratore (anche se va detto che non tutti i lavoratori esercitano una techne). Essi erano molto spesso stranieri e itineranti: Democede di Crotone, dopo aver esercitato la sua techne a Egina e a Samo, a Susa diventa medico del re persiano Dario59. Tale connotato del medico era a tal punto comune da generare il tipo comico del “medico straniero” di aspetto esotico e fare ciarlatano60. La techne del medico è annoverata da Solone, nella celebre “elegia alle Muse”, fra le “speranze leggere” e gli “affanni” che colpiscono gli uomini. Si tratta di una elencazione che comprende un primo gruppo di portatori di speranze molto generiche: il malato che spera di guarire, l’inetto che crede di valere, il brutto che ritiene d essere bello etc.; un secondo gruppo invece annovera alcuni portatori di technai specifiche: la navigazione, l’agricoltura, la tessitura, la metallurgia, la poesia, la divinazione e, infine, la medicina. Altri, possedendo l’opera di Peone dai molti farmaci, sono medici e anche per loro non c’è esito; spesso da un piccolo dolore nasce una grande sofferenza, e nessuno potrebbe lenirlo, pur dando farmaci calmanti; un altro invece gravemente tormentato da malattie terribili col tocco delle mani subito lo rende sano61.
Questo passo di Solone riveste una notevole importanza nella storia delle technai. Se in Omero ogni techne veniva descritta con un lessico altamente specifico e con atten-
Un «livello estetico dell’esperienza» Gilli 1988: 110-114, ravvisa nella figura di Epimeteo. De Fidio 1969-70. 59 La “carriera” di Democede illustrata da Erodoto in III 129-30 è per molti versi indicativa di un percorso tipico e rivela l’esistenza di una gerarchia tra lo statuto di medico privato, pubblico e di corte. Vd. Jouanna 1997; Pellegrin 1997. 60 Vd. Gigante 1969. 61 Sol. Fr. 1 Diehl, 57-62. Vd. Allen 1949. 57 58
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zione, diremmo quasi sociale, al contesto in cui essa si svolge – si veda per esempio il cenno pur fugace, alla techne del carpentiere in Od. 17 339: Si mise a sedere sulla soglia di frassino, di qua dalla porta, appoggiandosi allo stipite di cipresso, che un carpentiere polì con arte, e lo squadrava a livella.
- in Solone manca ogni cenno alla tecnica propria di ciascuna arte, come manca ogni menzione di scopi o bisogni che sarebbero soddisfatti da tali technai: le quali sono invece presentate come ‘doni degli dèi’, che non potrebbero, anche volendolo, essere rifiutati. Sono piuttosto, viste nel loro esplicarsi come pulsioni interne, impulsi irrinunciabili, anche quando comportino incertezza del risultato o solitudine nel loro esercizio62. Di analogo tenore è la considerazione di Sofocle nell’Antigone, il cui primo stasimo, un pezzo giustamente famoso e commentatissimo, presenta un elenco di technai molto simile a quello dell’elegia: navigazione, agricoltura, medicina. Esse sono per Sofocle l’espressione della straordinarietà dell’uomo, che si esplica tuttavia, come già in Solone, in un continuo e ripetitivo affannarsi, senza scopo e senza una motivazione esplicita. I technitai vi sono raffigurati nell’atto di esprimere la propria competenza, senza curarsi di limiti o di bisogni altrui da soddisfare. Questa sorta di smisuratezza nell’esercizio delle technai, questo avanzare cieco che conduce, in Sofocle, alla sottomissione di ogni altro essere incontrato sul proprio cammino, e perfino della Terra «la più eccelsa delle divinità», coinvolge tuttavia anche la techne politica63: «E parola, e pensiero alato e impulsi a fondare città ha appreso; e a difendersi dal gelo e dalle piogge, moleste per chi non ha riparo». Questa apparente contraddizione, ci dà modo di verificare un aspetto importante del mito di Prometeo nella sua variante platonica. Infatti, fra le technai donate da Prometeo agli uomini sembra esservi anche la capacità di fondare poleis, che tuttavia non possono resistere alla combinazione fra la guerra esterna (l’assedio) condotta contro gli uomini dalle fiere e la discordia interna generata dalla ingiustizia reciproca degli uomini prometeici. Vedremo meglio questo aspetto del mito del Protagora in seguito, intanto osserviamo che in Sofocle l’uomo ha appreso anche ¢stunÒmouj Ñrg¦j, gli «impulsi fondatori/ordinatori di città». Con la parola, il pensiero alato, le difese dal gelo e dalle piogge, i rimedi alle malattie invincibili, la fondazione/ordinamento di città fa parte delle technai che l’uomo possiede, e che possono essere orientate al bene o al male, come viene detto subito dopo: «Se rispetterà insieme le leggi della terra e la giustizia giurata degli dèi, sarà alto sulla città; bandito quando il male sia con lui per l’audacia».
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Vd. Gilli 1988: 136-142. Soph. Ant. 353-60.
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Ecco dunque che si precisa un orizzonte prevalentemente arcaico in cui le technai e i loro saperi, compresi quelli “politici” quali la giustizia e la fondazione di città, sono impulsi naturali dell’uomo, presenti in esso senza misura o limite o scopo, e ne costituiscono il deinÒj fonte talora di piacere e talaltra di profonda solitudine64; nella polis, vedremo, mentre le esperienze techniche restano caratterizzate da smisuratezza, etc, le technai politiche diventano “virtù” possibili da acquisire per tutti cioè “distribuite a tutti”. L’isolamento dell’uomo delle technai Benchè naturalmente questi tecnici vengano presentati spesso come individui, (non di rado nella forma dell’elenco o del catalogo) non è raro il caso in cui essi formino invece, come i pastori egizi o i Ciclopi omerici, una comunità. Si tratta di comunità dai tratti abbastanza peculiari e si direbbe, antitetici a quelli invece sono caratteristici della polis. Una prima importante caratteristica del pastorato dei Ciclopi è il suo collocarsi in un mondo non solo senza città, ma senza alcun tipo di comunanza. I Ciclopi, e Polifemo più di tutti, vivono sparsi, isolati. I Ciclopi, non solo, «l’uno dell’altro non curano», ma, quando Polifemo avrà bisogno dell’aiuto degli altri, essi non superano il confine che delimita l’isolamento di ciascuno: «stando intorno alla caverna chiedevano cosa volesse». Tale condizione è connotata come bestiale e selvaggia e caratteristica del mondo primitivo precedente la polis. L’isolamento, il vivere sporaden, sono inequivocabilmente esperienze pre o extra- politiche. I Ciclopi, infatti, non hanno alcun ritrovato dell’uomo della polis: coltivazioni, assemblee, leggi comuni; la loro vita si svolge in uno scenario del tutto dis-umano e lo stesso Polifemo appare a Odisseo simile «a picco selvoso di eccelsi monti, che appare isolato dagli altri». Senza moglie, né figli, né cani con cui condividere il lavoro del pastore, il ciclope riassume in sé in massimo grado le caratteristiche del technites. Si è detto come in questa attività non si debba vedere semplicemente un “lavoro”, ma un modo di vita, qualcosa che fornisce identità65. L’isolamento dei portatori di techne è confermato anche per altre categorie di artefici mitici, quali per esempio i Calibi o i Cabirii, che sono spesso anche isolani: esso risulta anzi condizione dell’espressione della techne e occorre vedervi – secondo Gilli – una condizione spontanea e congruente con la specificità dei technitai. Nella pratica pastorale dei Ciclopi, «si esprime e si esaurisce la loro identità: altri comportamenti attraverso i quali si articola l’identità dell’uomo societario (...) sono per essi impensabili»66.
Non è possibile qui rendere conto della varietà di posizioni degli studiosi su questo passo sofocleo, la cui storia della critica è, ovviamente, assai ampia. Che lo stasimo esprima una posizione “arcaica” è generalmente ammesso. Sulla contraddizione fra le richieste della polis, e i valori di cui Antigone è portatrice, vd. Segal 1981. 65 Essa può appartenere all’uomo come all’animale, come attesta la techne pastorale del cane. 66 Gilli 1988: 319. 64
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Nelle comunità di technitai, all’isolamento degli uni rispetto agli altri come condizione di identità fa riscontro un rapporto verticalizzato di ciascuno rispetto a colui – il dio, la musa, il maestro – che incarna la fonte del sapere tecnico. Questo rapporto, secondo Brisson, gioca su vari registri: anzitutto si tratta di far risalire l’origine di una techne ad una divinità; inoltre si fa di questa divinità la custode dei segreti di un gruppo di specialisti, infine le divinità assicurano dell’efficacia della techne: il vasaio “chiede” ad Atena di assisterlo nella sua opera, indicando i tempi e allontanando i demoni67. Questa forma verticalizzata di “comunità” ispira alcuni modelli di polis “alternativi” che può essere interessante analizzare. Uno di questi è il modello pitagorico68. Governanti e governati: il legislatore pastore Nella lezione del 8 febbraio 1978 al Collège de France, Michel Foucault introducendo la nozione di gouvernement, nota come, prima di assumere una valenza propriamente politica nel XVI secolo, la parola “governare” abbia bensì ricoperto un vastissimo campo semantico ma sempre in riferimento a «persone, individui, collettività»: «in altre parole – conclude lo studioso – si governano gli uomini». Subito dopo, Foucault precisa che a suo parere non si tratta di un’idea di origine greca e che invece «l’idea di un governo degli uomini ha avuto origine piuttosto in Oriente (...) con l’idea e l’organizzazione di un potere di tipo pastorale»69. Nella lezione successiva, forse in seguito all’obiezione di qualcuno a tale asserzione, Foucault approfondisce il problema del rapporto pastore-gregge nella letteratura e nel pensiero greci, discutendo alcuni riferimenti testuali e pronunciandosi, sulla scorta di Gruppe e di Delatte, sulla loro natura marginale e circoscritta o, nel caso del Politico di Platone, sul rifiuto della tematica del potere pastorale da parte del pensiero greco70.
Utili osservazioni sul rapporto fra technitai e divinità, in termini di “doni divini” in Brisson 2005: 53. Molto interessante l’osservazione di Brisson sul ruolo dello “specialista”, che interviene nei momenti di crisi o di sconvolgimento, non tanto per permettere di uscire dalle difficoltà, quanto per aiutare ad inquadrarle e comprenderle meglio. 68 Mi riferisco ad un modello di società, definibile in senso lato “pitagorico” ma difficilmente collocabile da un punto di vista cronologico: sia nel suo primo apparire nel mondo coloniale del VI secolo, che nella sua ripresa ellenistica e poi imperiale, ad esso sono pertinenti: un richiamo più o meno esplicito al mondo egizio e “orientale” e una sostanziale estraneità (almeno fino al V secolo) alla pratica e alla teorizzazione politica greca: vd. su ciò Virgilio 1998 e Hidalgo de la Vega 1998. Sulla “resistenza” della “leggenda” pitagorica ad ogni sistemazione cronologica e sul carattere “agglutinante” delle varie tradizioni, vd. Musti 2005: 156. 69 Foucault 2004: 97-98 e 99. Vd. Assmann 2002: 211- 15, che collega l’idea del pastore al concetto di “socialismo verticale”: quest’immagine del sovrano si sarebbe sviluppata in Egitto intorno ai nomarchi del primo periodo intermedio e poi trasmessa al faraone. 70 Nella lezione del 15 febbraio 1978, l’idea di Foucault si articola meglio: fermo restando che «la riflessione greca sulla politica esclude la valorizzazione del tema pastorale», in piccoli ambiti come le comunità filosofiche o religiose, le comunità pedagogiche è possibile cogliere – secondo Foucault – alcune configu67
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Le osservazioni di Foucault, per quanto cursorie, indirizzano verso una tematica tanto rilevante quanto scarsamente indagata, in primo luogo per la natura frammentaria delle fonti in cui il problema è trattato, trattati pitagorici o neopitagorici e lo stesso insegnamento orale di Pitagora riportato in fonti tarde e sospette, ma anche per il sostanziale fraintendimento della natura “tecnica” dell’attività pastorale in letture “etiche” o “economico-lavoristiche” del tema71. Iniziamo dunque col verificale l’attinenza del tema del governo degli uomini con l’idea e l’organizzazione di un potere pastorale nelle fonti greche, riprendendo da Foucault la suddivisione dei riferimenti in tre gruppi principali, ma prendendo le mosse dalla seconda serie di testi: quelli che si riferiscono alla tradizione pitagorica72. Il corpus delle fonti sul pastorato nel pitagorismo consiste essenzialmente nei frammenti del Perˆ nÒmou kaˆ dikaiosÚnhj attribuito anticamente ad Archita di Taranto, ma quasi certamente apocrifo73. In uno di essi si sostiene che la legge, nÒmoj, proviene da nomeÝj, il pastore: bisogna che la legge penetri i costumi e le abitudini dei cittadini: solo a questa condizione essa li renderà indipendenti attribuendo (dianšmei) a ciascuno quel che gli spetta.
razioni, tecniche e riflessioni che in seguito hanno permesso la diffusione nel mondo ellenistico di un tema di derivazione orientale come il pastorato. 71 Camassa 1986 e 1996: 567 riconduce il tema del pastorato a quello della legislazione, richiamandosi alla figura di pastore-legislatore di Zaleuco di Locri (Aristot. fr. 555 Gigon) e offre una puntuale documentazione sui testi orientali in cui il re viene definito “pastore”. Molto suggestiva anche l’ipotesi di Camassa, suggerita da una battuta di Socrate nel dialogo pseudoplatonico Minosse, di vedere in Creta, «sede ancestrale della legislazione per il pensiero greco» il luogo in cui il legislatore, sulle orme di Minosse e Radamanto, assume i caratteri del pastore. Zaleuco era associato a Licurgo come discepoli del cretese Taleta (da una tradizione che Aristotele, Pol. II 1274a rifiuta) e anche Eforo (FGrHist 70 F 139) considerava la legislazione di Zaleuco come derivata da leggi spartane, cretesi e areopagitiche. La tradizione sulla fondazione di Locri e su Zaleuco mostra una forte impronta pitagorica: se alcune fonti insistono per un collegamento diretto Zaleuco-Pitagora, altre rivelano l’assenza del pitagorismo da Locri, come pare doversi desumere dall’episodio narrato da Dicearco su Pitagora e i gerontes locresi. Un riflesso della nozione dilatatrice dell’efficacia del pensiero pitagorico nella legislazione occidentale è forse in Platone, Rep. X 599 d-e. Su tutte queste tradizioni, vd. Musti 2005. 72 Foucault 2004: 106 e ss. si serve di tre gruppi di testi nella sua argomentazione: Omero, in cui Agamennone, ma anche altri eroi, sono definiti come “pastori di popoli”; la tradizione pitagorica; il lessico politico classico (che si riduce poi al solo Platone del Politico). Su poim»n laîn vd. Louis 1945: 162. 73 Sono frammenti scritti in dialetto dorico e conservati da Stobeo, sui quali vd. Giangiulio in c. di s. e Centrone 2000. Su Archita possediamo scarse informazioni. Alcuni aneddoti riguardano la morale, il tipo di vita che egli pensava fosse meglio condurre. Il fr. 3DK riguarda l’utilità del calcolo. La fama di Archita è legata alle ricerche che egli condusse in particolari ambiti scientifici e nella meccanica. La maggior parte dei commentatori non crede alla paternità architea del frammento. Giangiulio, sulla base dell’analisi interna del trattato (presenza di temi etico-politici aristotelici) e dei rapporti intertestuali con gli pseudopithagorica dorici e la lettera pseudo architea a Platone ipotizza come possibile contesto la Taranto del III sec. a. C. Il testo è quello di Thesleff 1965, la traduzione è di M. Giangiulio. Sulla regalità ellenistica vd. Virgilio 1998 e Hidalgo de la Vega 1998, oltre a Thesleff 1961, 1965 e 1972. Per quanto concerne i trattati pseudo pitagorici (Ecfanto, Diotogene e Stenida in Stobeo IV 7 61-66), vd. Goodenough 1928 (datazione tradizionale, ellenistica); Delatte 1942 (datazione al II sec. d. C.) e Squilloni 1991.
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Come il Sole che, avanzando nel cerchio dello Zodiaco, distribuisce (dianšmei) a tutti gli esseri terrestri la parte di nascita, nutrimento e vita che spetta loro, producendo una bella sintesi di stagioni come un’eunomia. Anche per questa ragione Zeus è chiamato NÒmioj e Nem»ioj e chi distribuisce (Ð dianšmwn) il cibo alle pecore si chiama nomeÚj. Analogamente si chiamano nÒmoi i canti dei citaredi, perché anche loro mettono ordine nell’anima visto che cantano seguendo un’armonia, dei ritmi e dei metri74.
La connessione fra legge e pastore ritorna anche in un altro frammento, in cui si afferma che il magistrato: «vero, per comandare bene deve essere non solo saggio e potente ma anche umano: infatti sarebbe strano che il pastore odiasse il suo gregge e fosse maldisposto verso esso»75. La connessione stabilita dallo pseudo-Archita fra la sfera della legge e della magistratura e quella del pastorato rimanda alla prolificità semantica della radice *nem, che comporta la nozione di spartizione codificata e non arbitraria76. L’aspetto essenziale dell’azione di governo, del magistrato e del pastore, è nello pseudo-Archita, come si ricava anche dal tertium comparationis costituito dal Sole, quello di «sostentare», «distribuire i mezzi di sostentamento», garantire, attraverso l’esercizio del comando, la cura di ciascuno, secondo quelli che sono i suoi bisogni77. Questa idea della legge come regolatrice di ogni aspetto della vita umana non è assolutamente peregrina o marginale, essendo invece un tratto distintivo delle legislazioni arcaiche in cui il legislatore appare in qualche modo come “divino”78. Il potere del magistrato, come quello del pastore, è caratterizzato dalla capacità di fare il bene degli individui che gli sono affidati provvedendo essenzialmente alla loro sussistenza, al nutrimento: «la parte di nascita, nutrimento e vita»79.
Archytas, De leg. 4, 21-30, Stob. 4, 1, 138; p. 35 Thesleff. Archytas, De leg. 4, 4-5, Stob. 4, 5, 61; p. 36 Thesleff. 76 Vd. Laroche 1949; Benveniste 2001: 62. Il doppio significato di nÒmoj, giudiziario (legge) e musicale (melodia, nomo) si ritrova anche nel Minosse dello Pseudo-Platone 317a-318d. Entrambi derivano da nšmw, distribuire. Vd. Shipp 1978 e Svenbro 1988. La derivazione di nomeÚj, pastore e nomÒj pascolo, da nÒmoj era tipicamente pitagorica. Per i rapporti fra pitagorismo e platonismo, vd. Musti 2005 (specialmente il capitolo II). 77 Eur. Phoen. 528-585 documenta il valore esemplare dell’ordine cosmico, in cui paradigma di una equa distribuzione è il ciclo del sole. Vd. Vlastos 1947: 156. Il riferimento al sole sembrerebbe chiamare in causa anche un influsso, diretto o mediato, dell’Egitto. Su questi rapporti, vd Assmann 2001: 435 e ss. Questo aspetto dell’azione di governo, come altri di questa tradizione sono commentati da Delatte 1979: 121. In polemica, con Gruppe 1840, che vi vedeva una chiara influenza ebraica, Delatte riteneva che il tema del pastore fosse un luogo comune della retorica politica che non denunciava alcuna influenza orientale. 78 Musti 1989: 137. 79 In ciò Pseudo-Archita si avvicina molto all’ideologia ebraico-orientale del potere pastorale di cui Foucault 2004: 100-104 riassume i tratti specifici nel modo seguente: il potere del pastore si esercita su una molteplicità in movimento; è un potere che fa del bene e il cui obiettivo è la salvezza/sussistenza del gregge; è un potere individualizzante. 74 75
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Tale azione di cura e sostentamento è in un certo senso gratuita: il pastore non è mosso da fini utilitaristici o di dominio, egli non può odiare il suo gregge, deve invece assisterlo e guidarlo in ogni momento80. Il carattere oblativo del pastorato ci introduce ad uno degli aspetti più peculiari dell’azione del pastorato “originario”, quello della gratificazione dell’ordinatore rispetto alla sua opera e della gratuità del suo operare. «Bello e grande» è il recinto di Eumeo ed egli, ci viene detto, lo ha costruito senza un esplicita richiesta da parte di Laerte, ottemperando soltanto al proprio desiderio; il criterio della “bellezza” è anche richiamato dal paragone pseudo-architeo fra il pastore e il citaredo, che col suo canto mette ordine nelle anime, destando harmoniai con ritmi e metri81. La bellezza, frutto di un gesto gratuito e non legato ad alcuna preoccupazione che non sia affettiva, sembra prioritaria in un tipo di attività che, in origine, pare estetica ed artistica assai più che politica82. L’idea di distribuzione illustrata nel frammento citato è tuttavia più complessa, come dimostra la varietà dei riferimenti messa in campo: si tratta anzitutto di una distribuzione legittima, autorizzata, come dimostra il riferimento a Zeus Nomios; si tratta inoltre, come risulta dal doppio riferimento al Sole e al citaredo, di una distribuzione che segue una precisa modalità, orientata al conseguimento di un certo risultato. Tale risultato è chiamato dallo Ps. Archita eunomia e il concetto è precisato dal richiamo all’avvicendamento delle stagioni83. Il riferimento al sole sottolinea una caratteristica della distribuzione pitagorica e cioè una certa individualizzazione nella cura84. Se infatti la cura del sole è rivolta a tutti gli esseri umani, nondimeno essa non è indifferenziata: attraverso il richiamo alle stagioni, ossia alla regolazione di luce e calore nei differenti periodi dell’anno, si fa strada l’idea di una azione differenziata di governo che tenga conto delle differenze individuali, dando a ciascuno ciò che gli spetta. L’idea di una “spettanza” di ciascuno, di un dovuto che è in serbo per il singolo individuo e lo differenzia dagli altri è peculiare della morale greca fin dall’età arcaica. Mo‹ra è il termine con cui fin da Omero è designata la sorte o il destino che tocca ad ogni uomo, ma anche la parte, la porzione di una distribuzione. Il destino e la vita stessa dell’individuo appaiono come il frutto di una distribuzione. Non diversamente, in una spartizione originaria, alle divinità era stata “assegnata” una parte del mondo – il mare, il cielo, i boschi i fiumi e persino le singole località – una competenza, un ambito specifici. Anche in un universo più laicizzato, alla natura compete un ordine che è
Il potere pastorale è un potere che cura, il pastore è colui che veglia: egli è al servizio del gregge: così Foucault 2004: 102. 81 Harmonia è un termine chiave del lessico pitagorico: vd. su ciò Minar 1942; Lambropoulou 1995-96; 1997 e 1998; L’Homme-Wery 1996; 82 Questo aspetto dell’opera del pastore di anime non è indagato da Foucault e non risulta presente nelle fonti orientali ed ebraiche, pertanto mi sembra un aspetto originale, legato proprio al pitagorismo. 83 Su eunomia, vd. Andrewes 1938; Myres 1947; Mele 2004. 84 Vd. supra, p. 27 e nn. 80
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dato dall’alternanza del giorno e della notte, dall’avvicendarsi delle stagioni, secondo “parti” e competenze specifiche85. Il Sole, nel frammento dello ps. Archita, è il garante ultimo di questo sistema di spettanze e di parti, il cui buon funzionamento è chiamato eunomia. Eunomia è parallela ad armonia: entrambe esprimono l’ordine raggiunto mediante una spartizione andata a buon fine, cioè in grado di salvaguardare e tutelare ciascuno. «L’idea e l’organizzazione di un potere di tipo pastorale» nella Grecia arcaica e il sottostante paradigma «di governo degli uomini» sono dunque connessi con uno dei dispositivi più antichi ed interiorizzati della cultura greca: il meccanismo distributivo. In Omero, e veniamo dunque al primo dei gruppi di riferimenti di cui tratta Foucault, la distribuzione è un valore profondamente assimilato: a livello individuale la mancata distribuzione lede il thymos, come dimostra l’episodio celebre della contesa fra Agamennone e Achille che verte proprio sulla lesione derivante dal mancato godimento del geras, frutto di spartizione legittima86. L’idea di spartizione è contigua, in Omero, al concetto di “gruppo di pari”, di uguaglianza fra soggetti. Si distribuiscono parti uguali a soggetti uguali. L’esempio di Achille sopra citato illustra bene questa caratteristica della distribuzione. I criteri possibili di distribuzione sono due: quello della porzione uguale e quello della porzione gerarchica87. Nel primo caso, il distributore si preoccuperà di dividere ciò che deve essere distribuito in parti uguali, tante quanti sono gli individui destinatari della distribuzione; nel secondo il distributore terrà conto anche dell’adeguatezza della porzione al destinatario, cui potrà andare un “di più” in ragione della sua posizione gerarchica. Nulla ci dice lo pseudo-Archita circa il sistema di distribuzione adottato dal legislatorepastore, se non che esso avviene kat' ¢x…an. A differenza del più arcaico e poetico mo‹ra, ¢x…a indica il valore stimato e, di conseguenza, ciò che è dovuto per esso, il prezzo. Più propriamente ¢x…a è il peso esercitato da una merce su un piatto della bilancia, al quale deve corrispondere un peso uguale, il dovuto per quella merce, per ottenere un bilanciamento88. 'Ax…a è dunque un valore che può di volta in volta cambiare, differenziandosi in ciò anche dal geras, che è sì un “di più” rispetto alla porzione uguale, ma è legato ad una condizione gerarchica ormai standardizzata, che riguarda un certo numero di pari cui il geras tocca anche in assenza del merito personale, come Achille rinfaccia ad Agamennone. Geras è una porzione uguale spartita ad un gruppo ristretto di uguali che è un sottogruppo del gruppo più grande al quale è stata già assegnata la porzione. Axia è invece una porzione individualizzata che tiene conto soltanto delle caratteristiche, del “peso”, del singolo individuo non inserito in altra “rete” se non in quella di altri individui portatori di altrettante axiai.
Vd. Gilli 1988: 143-46. Vd. Gilli 1988: 150-53. Su qumÒj vd. Sullivan 1980; Sul “danno morale” in questo episodio, vd. Cavallero 2000. 87 Vedremo infra, che tipo di parità sia quella degli eroi omerici. Su “porzione uguale” e “porzione gerarchica”, Gilli 1988: 150 che fa riferimento a Bottin 1979. 88 Sul tema dell’uguaglianza in base al merito (¢x…a) vd. Grimaudo 1988. 85 86
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Questo tipo di spartizione basato sulla ¢x…a è dunque lontano tanto dall’idea della porzione uguale, quanto dall’idea della porzione gerarchica. Nel concetto di geras rispetto al quale sia Achille sia Agamennone si relazionano, l’axia è attribuita ad un certo numero di persone in base a caratteristiche standardizzate (età, condizione sociale), a prescindere dal merito effettivo. L’episodio già ricordato di Achille e Agamennone mostra la in-differenza del geras alle differenze reali, per cui vale formalmente di più chi nella realtà ha minori meriti. Non sorprende dunque che ad Agammennone non venga attribuito da Omero alcun tratto del pastore, di cui egli conserva soltanto la denominazione rituale89. I governati, come i membri del gregge, non ricevono né una porzione uguale, né una porzione gerarchica, piuttosto essi ricevono una porzione che tende il più possibile ad essere individualizzata, in un rapporto di conoscenza personale fra magistrato e cittadino come fra singolo animale e pastore, e persino di predilezione. È una relazione che potremmo definire ‘epimeteica’. Non diversamente, infatti, nel Protagora, la spartizione epimeteica, disattendendo le intenzioni egualitarie di Zeus, assegna ad ogni stirpe, partendo dagli animali, caratteristiche e comportamento specifici, diversi da quelli di tutte le altre. Nella sua distribuzione, Epimeteo, agisce in modo ingegnoso e creativo; egli riesce a difendere gli animali dalle intemperie, assegna a ciascuno il suo cibo, controbilancia vantaggi e svantaggi, penalizzando chi ha troppo e facilitando chi ha poco, dando a ciascuno pregi e difetti, qualità positive e negative con attenzione e benevolenza, più che con lungimiranza. Crea, potremmo dire, una serie di “pesi” diversi, irrelati l’uno dall’altro e in rapporto ciascuno solo con la benevolenza del distributore. Alla diversità fra le creature, ognuna dotata armoniosamente di qualità diverse, fa riscontro la diversità fra le creature e il distributore, il quale è diverso tanto da loro quanto da Zeus dalla cui volontà è partito il progetto di distribuzione. È un mondo, quello di Epimeteo, in cui ciascuno ha una sua “specializzazione” e in cui la stessa operazione del distribuire è presentata come specializzazione. Non diversamente dagli animali ai quali ha dato velocità e lentezza, prolificità e bellezza ma anche bruttezza e bassa prolificità, Epimeteo ha in sé qualità di segno opposto, previdenza e imprevidenza90. Il modello del pastorato riveste infine un ruolo notevole nel pensiero politico di Platone, che lo articola secondo una dialettica mito/attualità91. In illo tempore un dio guidava gli uomini al pascolo e li amministrava in modo che questi non avessero bisogno di riprodursi, ma potessero liberamente nutrirsi dei frutti che la terra produceva spontaneamente. Questo tema, già presente nel Crizia, torna nel Politico, in cui, come aveva già visto Foucault, Platone pone la questione se la politica possa corrispondere alla forma del rapporto pastore-gregge, rispondendo in modo negativo. Sarebbe com-
Agamennone ha anzi tratti del “cattivo pastore”, vd. Carlier 1996: 288-89. Vd. Gilli 1988: 110 e ss. 91 Vd. Plat. Critias, 109b-c; rep., I 343a-345e, III 416a-b, IV 440d; leg., 735b-e. 89 90
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plesso e ci porterebbe troppo lontano seguire l’argomentazione di Platone sulla tecnica dell’allevamento del gregge umano, limitiamoci a ricordare che il filosofo non la considera come una tecnica politica possibile nel mondo attuale92. Per concludere: l’idea di un “pastore di uomini”, di un individuo dotato della techne specifica della cura degli altri, che riponga la fonte della sua identità personale e della sua gratificazione nella distribuzione della legge agli esseri umani, distinguendone prerogative e doveri, caratteristiche e peculiarità, è un’idea che percorre – talora sotterraneamente, talaltra apertamente – parte della riflessione politica greca fino a Platone. Essa è di volta in volta dichiarata obsoleta, mitica, impossibile ma mai rifiutata del tutto o dimenticata93.
Plat. Pol., 275c e ss. Una prima parte dell’analisi conduce all’esito che l’uomo politico è il pastore degli uomini, cioè di quel gregge di esseri viventi che costituisce la popolazione della città. La parte successiva dell’argomentazione, tuttavia, serve precisamente a smantellare questa opinione: viene dapprima dimostrato che non esiste una specificità del potere del pastore in rapporto all’oggetto su cui viene esercitato; inoltre mentre la pratica pastorale prevede un solo pastore per ogni gregge, nella città le competenze del pastore sono divise fra molte figure professionali (rivali del re nell’opera pastorale). Ecco che si giunge al punto nodale: la modalità pastorale del potere appartiene al mito, al mondo che ruotava su se stesso nel senso naturale e della felicità. Illo tempore era la divinità in persona che faceva da pastore al gregge umano, ma in seguito, quando il mondo cominciò a ruotare al contrario, la divinità/pastore si ritirò lasciando agli uomini l’incombenza della politica. 93 È notevole che, il ritiro del dio/pastore lasci il posto alle technai di Prometeo: gli dèi, nel mondo dei tempi difficili, non governano direttamente gli uomini ma indirettamente attraverso le technai, vd. Pol. 274c-d. Le technai mostrano qui tutto il loro spessore originario essendo ordinate in sostituzione dell’attività pastorale del dio. Poco oltre, in 275b-c Platone conclude che il modello pastorale è ormai impossibile: «penso invece – afferma lo Straniero – che i politici che vivono adesso in questa epoca siano molto più simili (Ðmo…ouj) nelle loro nature ai loro sottoposti e ai sudditi e che ne condividano più da vicino educazione e allevamento». È l’uguaglianza fra gli uomini che rende impossibile l’esistenza del pastore; dunque è un’altra la tecnica cui occorre fare riferimento, e questa è la tecnica della tessitura. su ciò vd. Breglia in c. di s. 92
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CERCARONO DI RIUNIRSI….
Babilonia: Il destino impolitico dell’uomo prometeico La comunità generata dal legislatore-pastore è una comunità in cui la trasmissione dei comportamenti è verticale94: la relazione normativa non avviene fra tutti i membri della comunità ma fra ciascuno di essi e colui il quale (il padre, gli antenati) è depositario, o meglio intermediario rispetto alla fonte divina, del nomos95. È autorevole soltanto Così anche Assmann 2002: 211- 15 (relativamente alla società egizia). Si tratta di un tipo di società analoga a quella antico-egizia, che infatti Brunner-Traut 1990 definisce «aggregata», un agglomerato di individui, una somma di singoli esseri umani senza «connessioni trasversali» o rapporti sociali «orizzontali». In un tale tipo di società l’insieme gerarchico non si compone, secondo Brunner-Traut in un corpo organico in cui tutte le parti siano in vicendevole rapporto. Contra Assmann 2002: 201 e ss. ritiene che esistesse una riflessione su un comune senso di appartenenza e di giustizia, annoverando fra le idee di solidarietà, giustizia e uguaglianza, i continui appelli alla beneficenza, alla solidarietà nei confronti del povero, dell’orfano, della vedova. Quand’anche significativi, questi comportamenti rientrano comunque in una trasmissione verticale di modelli di comportamento e dunque la mano soccorrevole e altruista non costruiscono le «connessioni trasversali» o i rapporti sociali «orizzontali» di cui parla Brunner-Traut. Rapporti «orizzontali» sono naturalmente possibili ovunque, anche nella “città orientale” ma essi non sono “normativi”: la distanza fisica fra gli individui a Babilonia non era probabilmente di molto superiore a quella esistente ad Atene: la differenza era nella possibilità di colmare tale distanza. Sull’Egitto come modello di una costituzione improntata all’ordine “alternativa” a quella greca democratico/radicale, nel Pitagorismo, in Platone e nell’Isocrate del Busiride, vd. Assmann 2001: 418. 95 Il re-pastore è anche, nello pseudo Archita, «legge animata» nÒmoj œmyucoj (Ogni comunità si compone di un magistrato che comanda, di un comandato e, come terzo, delle leggi. Di queste, quella vivente è il sovrano (basileÚj), quella inanimata è la lettera (gr£mma). La legge essendo l’elemento primo, il re è legale, il magistrato è conforme, il comandato è libero e l’intera città è felice; ma se vi è deviazione, il sovrano è tiranno, il magistrato non è conforme e la comunità è infelice). Su nÒmoj œmyucoj vd. Aalders 1969. Nello pseudo Archita, come anche in Ecfanto, il re svolge un ruolo di intermediario fra dio e il popolo: la regalità deve imitare il governo divino, così come i sudditi devono imitare i loro re; nella variante stoicizzante di Ecfanto è il logos del re ad agire sulle menti umane come il logos divino, agendo sulla materia inerte, la trasforma in vita animale e umana. Perciò è l’imitazione del re a garantire ai sudditi la salvezza. La comunità architea è soggetta interamente alla legge, nelle sue due varianti: basileÚj e gr£mma: l’individuo si limita a replicare il comportamento di un unico paradeigma. Già a partire dal V secolo a. C. si comincia a trovare nella letteratura greca l’idea di un nomos che prende il posto di un sovrano mortale e, se Eraclito sembra paragonare la sottomissione alle leggi alla sottomissione alla volontà di uno solo (fr. B 33 94
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la parola di colui (magistrato, pastore, interprete della legge) che ha un rapporto diretto con la fonte stessa della normatività. Anche nel mito del Protagora, l’unica relazione di cui sono capaci gli uomini “prometeici” è quella con gli dèi, non, ritengo, come forma generica di religiosità, ma in quanto origine e fonte di quei “doni” – le technai – che costituiscono la loro identità96. Nel mondo epimeteico-prometeico la politica non è del tutto assente, è possibile aggregarsi e forse fondare poleis97; nel pensiero pitagorico e neopitagorico la comunità è pensata secondo le stesse modalità che regolano il rapporto fra gli animali ed Epimeteo o fra gli uomini prometeici e gli dèi. Questo tipo di comunità è poi alla base di vari stereotipi ed è di volta in volta assimilato alla comunità del tempo di Crono, o anche la “città orientale”98. Il problema che mette a nudo la debolezza di queste forme di aggregazione è quello della salvezza: nel mito l’incapacità di salvarsi, e la minaccia delle fiere rendono impossibile lo status-quo del mondo Prometeico. Benché in possesso della perˆ tÕn b…on sof…an essi Venivano uccisi dalle belve, dal momento che erano più deboli di queste sotto ogni aspetto, e la tecnica artigianale costituiva per loro un valido aiuto per il sostentamento, ma insufficiente per la lotta contro le fiere (…)
DK), è Pindaro, fr. 152 Bowra, a presentare senza ambiguità un nomos che occupa il posto del re: un frammento citato, con o senza il nome di Pindaro, da Erodoto, da Platone, da Giamblico, da Plutarco. Il tema è affrontato in modo articolato da Platone e da Aristotele, che nella Politica, dopo essersi chiesto se sia preferibile essere governati da un uomo eccellente o da leggi eccellenti in III 1287 a 17-20 afferma: «è dunque preferibile che regni la legge piuttosto che un solo cittadino». Il nomos aristotelico non ha preferenze, né desideri, né gusti personali e ciò per poter essere imparziale. Chiunque pretenda di incarnare la giustizia vi aggiunge, insieme alla propria yuc», una debolezza. Vd. su questa tematica Svenbro 1991: 123-128. Nel Politico di Platone, 295 b-d troviamo un riferimento assai importante: in quanto incarnazione del nomos – sostiene lo Straniero di Elea – il re può opporsi alla lettera morta del nomos scritto per dirimere nuovi casi non previsti dal codice. Le leggi scritte sono tutto ciò che resta nel posto lasciato vuoto dal re. 96 Interpreto così la “religiosità” degli uomini prometeici. Questi vengono definiti da Protagora «partecipi di sorte divina» in quanto hanno avuto la loro spettanza in una distribuzione che procedeva da fonte divina, dagli dèi (secondo Gilli 1988: 283 “divino” «non qualifica il contenuto del dono, bensì, semplicemente, la fonte»); in base a ciò unici fra gli esseri viventi, credono negli dèi ed erigono loro altari e statue. Mi sembra che questa forma di religiosità sia avvertita come una relazione verticale, affine a quella fra padre e figli, come adombrato dal richiamo alla parentela fra uomini prometeici e dèi. 97 Gilli 1988: 303 ritiene che parlando di poleis, il mito non intenda riferirsi alla polis come formazione storica concreta, o ad una nozione generica di “stato”, ma che le poleis simboleggino la Società tout court; se questo è vero, mi chiedo se non sia possibile anche che la non-società fosse simbolizzata, oltre che dalla mitica non-società dei Ciclopi anche da (supposte) non-società storiche, quali appunto Babilonia, «miti storici» negativi, funzionanti come schermi su cui proiettare la riflessione sulla polis storica. Aggregazione e isolamento sono le due opzioni che gli uomini prometeici sperimentano incessantemente. La vita aggregata esprime l’idea di una socialità non societaria che è avvertita talora come barbarica, talora come primitiva. In altri termini, si può vivere sporaden pur all’interno di una aggregazione, qualora non si sia impegnati in una attività comune, e questo è forse il caso della “città orientale”. 98 Lo stereotipo del “dispotismo orientale”, originariamente limitato ai popoli asiatici finì per includere, senza molti “distinguo”, mondo egizio e mondo mesopotamico. Vd. Nippel 1996.
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Vollero allora fare il tentativo di riunirsi e salvarsi fondando città. Ma, una volta riunitisi, continuavano a commettere ingiustizie reciproche, dal momento che non possedevano una tecnica politica, sicché, disperdendosi nuovamente, riprendevano ad essere uccisi99.
La salvezza chiama in causa la scienza politica, cioè la trasformazione dell’individuo prometeico in cittadino. Il tratto che accomuna Babilonia alla polis prometeica è la minaccia esterna, il suo stato d’assedio, e di conseguenza il suo inevitabile sciogliersi. Resistere allo straniero è infatti un tratto che distingue per i Greci la propria esperienza politica da tutte le altre e che è spesso qualificato come l’esperienza politica tout court100. La guerra concorde (pÒlemoj Ðmofronšwn) Vi è un uso dell’aggettivo “politico” che spesso causa l’incertezza dei traduttori e degli interpreti: nel corso di una analisi critica della paradoxologia di Timeo, Polibio cita come esempio di essa il trattamento riservato dallo storico siceliota ad un episodio assai noto, ma riportato in modo erroneo da Timeo: il sincronismo fra le battaglie di Imera e di Salamina e la serie di trattative diplomatiche che avevano coinvolto, da un lato i rappresentanti dei Greci che avevano deciso di resistere ai Persiani e, dall’altro, Siracusa. La critica polibiana si appunta in particolare sulla composizione dei logoi in Timeo, giudicati inverosimili e inadeguati101. Si tratta di ciò: Gelone, il tiranno di Siracusa, si era dichiarato pronto ad aiutare i Greci contro i Persiani, con un contingente di ventimila fanti e duecento navi fornite di ponte, a condizione di avere il comando delle operazioni di terra e di mare. La richiesta viene portata dagli ambasciatori di Gelone a Corinto, dove i rappresentanti dei Greci rispondono che il comando sarebbe stato dato ai più valenti. Risposta che Polibio definisce “assai politica”. In che senso la risposta data dai Greci a Gelone si può definire “assai politica”? Continuando la lettura dell’excerptum, troviamo una affermazione di Polibio che fornisce una chiave di lettura. Con riferimento all’atteggiamento dei Greci, egli afferma: «Questo comportamento è proprio non già di uomini che ripongano tutte le loro spe-
Plat. Prot., 322b. Il motivo della resistenza al Barbaro, com’è noto, è formulato durante le guerre persiane e diventa poi uno dei perni intorno ai quali la memoria della polis articolava tutta una serie di imprese gloriose, guerre mitiche, episodi esemplari di ospitalità e assistenza, “omicidi giustissimi”. Tombe, culti, dipinti, fregi e sculture, feste ricordavano al cittadino ateniese come la propria identità fosse saldamente ancorata alla resistenza al barbaro: così Loraux 19932. Sull’identità greca quale emerge dalle immagini, vd. Hölscher 1997, che mette in relazione all’esperienza delle guerre persiane e all’ebbrezza della vittoria le immagini di Menadi in estasi e satiri festeggianti su idrie e psykteres attorno al 490-80. 101 Pol. XII 26b ed. Teubner (FGrHist 566 F 94) sul quale mi permetto di rinviare a Caserta 1999: 148 e ss. 99
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ranze nei Siracusani, bensì di uomini che hanno fiducia in se stessi e che sfidano chiunque alla gara del coraggio e alla corona del valore». Benedetto Bravo, che ha studiato questi frammenti, si mostra giustamente perplesso di fronte alla definizione della coscienza del proprio valore come “molto politica”102. Tuttavia, analizzando l’intera tradizione, il significato del termine appare chiarissimo. La tradizione sui contatti fra Gelone e i rappresentanti dei Greci, riuniti a Corinto ha la sua prima attestazione storiografica in Erodoto, che in VIII 2,2 dopo aver illustrato la composizione della flotta alleata schierata all’Artemisio, afferma: Il comandante supremo lo dettero gli Spartani, Euribiade filgio di Euricleide (…). Si era discusso, fin dall’inizio, ancora prima dell’invio dell’ambasceria in Sicilia, della necessità di affidare la flotta agli Ateniesi. Ma, di fronte all’opposizione degli alleati, gli Ateniesi avevano ceduto, poiché avevano a cuore la salvezza della Grecia.
Le ambizioni ateniesi di comando della flotta erano state rese esplicite nel corso delle trattative con Gelone alla vigilia della battaglia di Salamina, trattative che Erodoto afferma essersi svolte a Siracusa (e non a Corinto, come appare in Polibio). In quell’occasione, come poi ricorderà Polibio, Gelone, in un primo discorso, aveva subordinato la propria partecipazione alla guerra a fianco dei Greci alla possibilità di avere il comando delle operazioni. In un successivo discorso, a fronte del diniego spartano, Gelone aveva chiesto allora il comando della flotta e, ricevuta risposta negativa anche a questa istanza, con un terzo discorso conclusivo aveva negato ai rappresentanti degli Elleni il proprio appoggio. È chiaro che il comportamento dei Siracusani è presentato da Erodoto come esattamente speculare a quello degli Ateniesi, e l’impressione di specularità è rinsaldata dalla caratterizzazione, anacronistica, di Siracusa come egemone, politicamente e culturalmente, sulla Sicilia greca e come detentrice di ambizioni navali, quasi che essa si candidasse a svolgere in ambito siceliota e magno greco quel ruolo che Atene svolgeva, e avrebbe svolto, in Grecia. Il giudizio negativo su Siracusa, che emerge dalla menzione erodotea dell’ambasceria inviata da Gelone a Delfi per sottomettersi ai Persiani, faceva emergere, per distinzione, il comportamento degli Ateniesi. La sensazione che il lettore doveva trarre dalla lettura dei discorsi era quella di una scena fondante dell’egemonia ateniese. Infatti, non solo era stato proprio il ruolo giocato da Atene nelle guerre persiane a costituire il cardine del sistema geopolitico impostato da Atene con la lega di Delo, e a legittimarne l’egemonia ma, come in un negativo, la scena poneva un interrogativo su ciò che sarebbe accaduto se Atene si fosse anch’essa irrigidita su posizioni di ricerca del vantaggio “personale”.
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Bravo 1993: 449 e ss. Per l’accezione di “politico” come rinuncia alla conflittualità, vd. Loraux 1997.
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La «gara del comando e del valore» menzionata da Polibio si rivela dunque sostanzialmente un fraintendimento, forse già presente in Timeo, dal momento che rinunciare al comando della flotta per Atene equivaleva proprio alla rinuncia all’idea di una gara con Sparta103. «Cedere sulla questione del comando» era invece «molto politico» in quanto funzionale alla «salvezza della Grecia». In una prima e immediata accezione, come salvezza nella guerra contro i Persiani, ma anche come preludio all’arche di Atene, che nella difesa dai Barbari riponeva la sua prima giustificazione. Questa e non altra è l’origine della risposta «molto politica» data a Gelone. Gli Ateniesi sapevano, secondo Erodoto: che, se si fossero trovati in disaccordo riguardo al comando, la Grecia sarebbe andata perduta; e pensavano bene perché una discordia intestina è di tanto peggiore di una guerra condotta con unità di intenti di quanto la guerra e peggiore della pace104.
Di contro, assolutamente impolitico è il comportamento di Gelone. Anticipando un’analisi che sarà condotta in seguito, possiamo ricollegare l’impoliticità di Gelone al carattere “prometeico” della tirannide105. Il formato narrativo Non è privo di significato il fatto che, nel perorare il proprio diritto a guidare la coalizione degli alleati contro i Persiani, gli ambasciatori spartani a Siracusa si fossero appellati all’autorità del “Pelopide Agamennone”: «Certo a gran voce gemerebbe il Pelopide Agammennone apprendendo che gli Spartani si sono fatti strappare il comando da Gelone e dai Siracusani106». Il modello cui Sparta fa riferimento è l’unico che poteva valere in una riunione come di quella di Corinto fra soggetti di pari dignità: la contesa fra Agamennone e Achille nel campo acheo sotto le mura di Troia, in cui Agamennone è il modello del
Vd. Caserta 1999: 138. Molto interessante lo spunto di Moggi 1999: 67, secondo cui, nel processo di «affermazione delle singole poleis, come entità statuali distinte e reciprocamente antagonistiche all’interno di un Hellenikón caratterizzato da comunanza di sangue e da omogeneità culturale, (…) la polis si configura come elemento di divisione e di frazionamento nei confronti dell’unità etnico-culturale degli Hellenes così come la stasis svolge un ruolo di rottura nell’ambito della polis». In direzione opposta ad una possibile “stasis panellenica” va il comportamento molto politico di Atene. 104 Hdt. VIII 4,3. 105 I «mali della Grecia» provenivano in parte dai Persiani, «ma anche dai suoi stessi capi che lottavano tra loro per l’egemonia» è ribadito in Herodot. VI 98, vd. su ciò Stadter 1992. Sulla connessione tra tirannide e filomedismo, vd. infra, p. 163 e ss. 106 Hdt. VII 159. 103
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potere che Sparta107 quasi naturalmente detiene, come primus inter pares. La vicenda cui si fa riferimento a Siracusa, notissima, è questa: all’esplodere della peste in campo acheo, la comunità è posta di fronte ad una scelta: occorre che l’ira di Apollo sia placata attraverso la restituzione di Criseide al padre Crise, sacerdote del dio, rapita da Agamennone. Agamennone acconsente a restituire la schiava, ma esige di essere risarcito attraverso un dono da parte dell’assemblea affinché egli non rimanga agerastos, indonato. Tale risarcimento è individuato da Agamennone nella schiava di Achille, Briseide. Achille, benché karterÒj e benché generato da una dea, è costretto a cedere ad Agamennone108. Gli Spartani, detenendo un potere analogo a quello di Agamennone, non possono cedere a Gelone, come Agamennone non può cedere ad Achille. Ma perché il precedente mitico viene chiamato in causa in una trattativa diplomatica? Una possibile risposta chiama in causa l’oralità. Gli studi degli oralisti, a partire dai due contributi fondamentali di Eric A. Havelock, hanno messo in luce come le forme concettuali dell’oralità siano rimaste operanti molto a lungo, anche dopo l’invenzione dell’alfabeto109. La prima età della scrittura fu spesa per documentare il passato orale e per tradurre i meccanismi dell’oralità nei meccanismi dell’alfabetismo. Questo fenomeno che si può definire di “oralità residua” spiega molte caratteristiche dei testi greci, anche di V secolo110. Un principio mediante il quale l’informazione orale veniva tesaurizzata in forma durevole è quello da Havelock definito del “formato narrativo”: a differenza di quanto avviene nei testi pensati per la scrittura, in quelli composti per la fruizione orale, pensieri riflessioni asserzioni non vengono esposti sotto forma di relazioni fra entità astratte, ma come personaggi – sia persone sia “personificazioni” – che compiono azioni. Questo “formato”, ancora ben visibile nel teatro, fa sì che ciò che il pensiero testuale concepisce come un soggetto collegato ad un predicato, si presenti come una persona specifica, “Achille” o “Odisseo”, che compie un’azione111. Erodoto, Tucidide, Platone mostrano che frasi come quella dell’ambasciatore spartano a Siracusa («certo a gran voce gemerebbe il Pelopide Agammennone apprendendo che gli Spartani si sono fatti strappare il comando da Gelone e dai Siracusani») non solo facevano parte del
Lo stesso che è usato del resto da uno storico moderno per spiegare il ruolo di Sparta: «è un comando ad hoc, come quello di Agamennone a Troia» vd. Asheri 1997: 171. Sulla rappresentazione della guerra di Troia come impresa collettiva (e sulla ambiguità che tale rappresentazione proietta sulla società omerica, vd. Vegetti 1990: 20 e ss. 108 La vicenda è narrata nel primo libro dell’Iliade. Sulle “costanti” che questo “inizio” mette in gioco, vd. Vegetti 1990: 13-35 (il cui primo capitolo ha il titolo Gli inizi e le costanti). Vd. anche Dodds 2003, 43-70. 109 Havelock 1963 e 2005. 110 Havelock 2005: 96 e ss; 126 e ss. 111 Havelock 129 e ss. 107
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comune modo di pensare dell’individuo medio, ma costituivano anche un sistema interpretativo delle relazioni internazionali112. È abbastanza sorprendente che anche Tucidide presenti il conflitto fra Atene e Sparta servendosi del modello mitico del conflitto fra Agammenone e Achille. Al lettore moderno di Tucidide che cerca una causa, uno scopo razionalmente argomentabile della guerra del Peloponneso, il testo tucidideo pare incredibilmente reticente113. Nella rappresentazione tucididea, Sparta, come un eroe omerico, subisce un’offesa da parte degli Ateniesi, che hanno trattato ingiustamente i Corinti, suoi alleati, ed ha diritto di vendicarsi e di impedire che i nemici diventino più potenti; essa teme che la potenza di Atene diventi più grande e non tiene in alcun conto gli argomenti avanzati dal saggio Archidamo: si tratta infatti di tutelare l’onore, impedendo che altri possano offendere impunemente114. Gli Spartani, esigendo che gli Ateniesi levino il campo da Potidea, lascino autonoma Egina e consentano nuovamente a Megara di servirsi dei loro porti e mercati, ovvero più semplicemente che lascino liberi i Greci, sono presentati come Agamennone nell’atto di esigere che i propri possedimenti restino inviolati. Alla time di Sparta, Atene contrappone una forza, una time, non inferiori. Nel suo primo discorso agli Ateniesi, Pericle cerca di convincere l’uditorio che la guerra, se si decidesse di farla, non avverrebbe per una ragione insignificante, e questa ragione non insignificante è l’omerica difesa dell’onore: Se cederete subito, i Lacedemoni vi ordineranno qualcosa di più grande ancora, nella convinzione che la paura vi ha fatto dire di sì anche a questo primo punto, mentre se vi rifiuterete con decisione farete capire chiaramente che dovranno rivolgersi a voi solo da pari a pari115.
Pericle non entra affatto nel merito della questione, mantenendola invece su una linea di principio: come Achille al cospetto di Agamennone, Atene non può cedere, deve essere trattata da pari a pari. Il comando, l’ordine imposto da Sparta a riparazione del danno da essa indirettamente subito – del tutto a prescindere dai contenuti – espropriano Atene della propria time. Secondo Pericle:
Nel “formato narrativo” non si tratta soltanto della possibilità/impossibilità di assegnare ad un soggetto una serie di predicati: la differenza fra “Achille fa” e “l’uomo fa” – che Havelock 2005: 129 e ss. vede all’opera nel primo stasimo dell’Antigone di Sofocle, implica anche la caduta, o il forte ridimensionamento, del valore paradigmatico di “Achille”. Nel riferimento ad Agamennone da parte dell’ambasciatore spartano a Siracusa c’è anche una volontà di conferire autorità alle proprie asserzioni, assumendo un modello, quello mitico, come vincolante. 113 Naturalmente possono essere stati molteplici e di vario ordine i motivi che hanno indotto Tucidide a dare la rappresentazione del conflitto che conosciamo, ma sta di fatto che, almeno per ciò che concerne l’inizio del conflitto, esso è presentato – come aveva visto Cornford 1907 – secondo schemi omerici. Non è fuori luogo ritenere che esso fosse impostato così dallo stesso Pericle che, secondo Ione di Chio, sosteneva orgogliosamente che, menntre Agamennone aveva impiegato dieci anni ad espugnare Troia, a lui erano bastati nove mesi per vincere i Sami. Vd. Plut. Per. 28,7. 114 Sulla tim», vd. Vegetti 1990: 16-19. 115 Thuc. I 140,5. 112
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Se obbedirete subito vi saranno dati ordini ancora più pesanti, poiché si penserà che per paura voi accetterete anche questi. Se invece terrete duro, renderete loro manifesto che debbono agire con voi su un piano di parità116.
È notevole l’analogia con le parole con cui Agamennone, prendendo Briseide per sé, si rivolge al rivale Achille117: mi prendo Briseide guancia graziosa, andando io stesso alla tenda, il tuo dono, sì, che tu sappia quanto sono più forte di te, e tremi anche un altro di parlarmi alla pari, o di levarmisi a fronte.
Anche per Atene cedere vorrebbe dire perdere il proprio “dono” (Tucidide fa dire a Pericle: «quello che abbiamo acquistato», § kekt»meqa) È infatti vergognoso essere privati di un possesso più che fallire nell’intento di ottenere qualcosa. L’impero, cioè le città sulle quali Atene esercita il suo potere, è spesso designato da Tucidide con lo stesso termine, ktÁma, che nell’Iliade è usato per indicare i beni, i doni che ciascun eroe possiede nelle sue case118. Un possesso, quello di Epidamno in Tucidide, quello di Briseide nell’Iliade, è ugualmente all’origine dei due conflitti. Sparta e Atene sono dunque presentate dagli storici come subordinate nel loro agire alla logica della time, alla stregua di individui che, come eroi omerici, non scelgono la qualità e lo scopo delle proprie azioni ma piuttosto sembrano subire una costrizione119. E come Achille è nell’Iliade apolis, così Atene è tyrannos, figura dell’apolitico di pari forza120.
Thuc. I 139, 5 Hom. Il., I 184-87. 118 KtÁma è vocabolo prettamente omerico: nelle case degli eroi omerici giacciono tesori, ricchezze infinite (ple‹sta kt»mata). Queste ricchezze sono oggetti preziosi, tripodi, vasi d’oro o d’argento, di cui occasionalmente ci si priva per donarli ad ospiti illustri, oppure anche beni di consumo come vino, olio o greggi di pecore e buoi come quelli di proprietà di Odisseo con cui banchettano i pretendenti durante l’assenza dell’eroe. Vd. Per es. Hom. Il. III, 72 (nel solo libro terzo sono ben otto le occorrenze di ktÁma). Kt£omai, acquisire, acquistare è un verbo che Tucidide usa soprattutto in riferimento alle conquiste territoriali di Atene. La locuzione più comune per definire «l’impero» è § kekt»meqa, «ciò che abbiamo conquistato». 119 Vegetti 1990: 26-27. Sempre fondamentali, per tutta questa problematica, Dodds 2003 e Snell 1963. La rappresentazione “omerica” del conflitto in Tucidide rispecchia probabilmente l’intenzione originaria dello storico di porsi come continuatore dell’opera di Erodoto: in quest’ottica, poi superata, la guerra del Peloponneso appariva “più grande” ma non sostanzialmente diversa rispetto alla guerra di Troia e alle guerre persiane che ne costituivano il precedente. In seguito, il conflitto sarà letto dallo storico come “diverso” rispetto a qualsiasi precedente. 120 Il potere degli Ateniesi è definito «quasi una tirannide» da Pericle in Thuc. II 63,2. Ellinger 1997: 861, ha suggestivamente accostato la relazione fra il disastro di Sicilia e la distruzione di Atene, in Tucidide, a quella fra la morte di Patroclo e quella di Achille, nell’Iliade. Sull’espressione polis tyrannos vd. Raaflaub 1979. 116 117
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Ciò è vero anche a livello delle singole poleis, all’interno delle quali, colui che è portatore di un pensiero dissonante, assume la connotazione anche mitica della polis rivale: così non stupisce che la raffigurazione di Nicia rimandi ad Agamennone e quella di Brasida ad Achille121, in un continuo sdoppiarsi del modello mitico che si rifrange in altri conflitti, ripetendo su scala diversa l’identica struttura dell’archetipo. I re scettrati: comunicazione e regalità nel mondo omerico Vediamo dunque di comprendere meglio in cosa consista precisamente l’impoliticità, che potremmo definire “prometeica”, della contesa per il comando, incarnata dalla Siracusa geloniana (e poi dall’Atene periclea), cercando al contempo di definire il modello di comunicazione in cui tale contesa si inserisce. Torniamo quindi (ancora una volta) alla contesa fra Agamennone ed Achille nel primo libro dell’Iliade122. Il luogo in cui si svolge la contesa è l’assemblea degli Achei a Troia: essa è composta da un consiglio ristretto cui partecipano i re più potenti, coraggiosi o saggi, che hanno seguito volontariamente Agamennone sotto le mura di Troia e che condividono pasti e riti. La composizione di questo consiglio non è fissa, potendosi esso ampliare in circostanze particolari. L’assemblea di tutti gli Achei, che occupa una posizione importante nel racconto dell’Iliade, non è dotata di analogo potere decisionale: essa pare composta di piccoli contadini liberi legati agli aristocratici, di cui sono al seguito, da rapporti esclusivamente politici. Può manifestare il proprio consenso o dissenso con acclamazioni e grida, ma in ultima istanza la decisione spetta ad Agamennone. Nelle assemblee, possono prendere la parola soltanto i consiglieri che fanno parte del gruppo ristretto, tenendo lo scettro in mano nel momento in cui prendono la parola davanti all’assemblea. Pierre Carlier ha contato quarantadue scene di assemblea, di consiglio e di discussione degli anziani davanti all’assemblea: la discussione assembleare è un aspetto fondamentale della vicenda narrata nell’Iliade e anzi, in particolare i primi due libri, molta parte di essa sembra essere una variazione sul tema dell’assemblea, del comunicare,
Vd. Rood 1998, che rimanda fra l’altro ad un articolo in formato elettronico di G. Howie – Thucydides’ Treatment of Brasidas and Cleon: A Homeric Approach – che non ho potuto consultare né reperire. 122 Si è molto discusso se il mondo omerico descrivesse l’organizzazione sociale e la vita politica delle società micenee, o in ultima analisi, di una società storicamente datata. È parso infatti a molti storici e archeologi che l’universo di regalità e consuetudini descritto da Omero fosse da considerare puramente una finzione poetica. D’altra parte, negare aprioristicamente ogni coerenza nella descrizione omerica di pratiche sociali e politiche, e ogni verosimiglianza non costituirebbe, secondo altri studiosi, operazione più accorta o proficua. La bibliografia sull’argomento è molto ampia: imprescindibili Finley 1978 e Murray Origini (vd. anche Murray 1996). La questione è stata poi resa più complessa dall’arricchimento della documentazione archeologica, la cui interpretazione e, conseguentemente, il rapporto con la testimonianza omerica, non è sempre univoca. Vd. Snodgrass 1974 e 1996. 121
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dell’autorità, del diritto a possedere e utilizzare lo scettro123. Proprio da questo oggetto è utile partire per comprendere alcuni meccanismi della comunicazione assembleare. Skšptron, sostantivo strumentale del verbo skšptw, indica – secondo Benveniste, che ne ha sottolineato l’importanza per l’idea stessa di regalità – sostanzialmente un bastone, cui ci si appoggia, pesandovi sopra con tutto il proprio peso. Skštpw vale infatti “pesare”, “abbattersi su”, “poggiare con forza”, “piombare su” (detto per esempio di tempesta). Scartando altre spiegazioni proposte che vedono nello scettro l’insegna del potere, l’emblema dell’autorità, la bacchetta “magica”, Benveniste identifica il solo tipo di bastone sul quale ci si appoggia e che impedisce di cadere nel bastone del pellegrino: la funzione primordiale dello skeptron ci sembra essere il bastone del messaggero. È l’attributo di un itinerante che si avanza con autorità, non per agire ma per parlare (…) qualifica il personaggio che porta la parola, personaggio sacro, la cui missione è di trasmettere il messaggio d’autorità. Così è da Zeus che parte lo skeptron che, attraverso la catena dei detentori successivi, arriva ad Agamennone. Zeus lo dona come insegna di legittimità a quelli che egli designa perché parlino in suo nome.124
Lo scettro è dunque, secondo Benveniste, l’oggetto che qualifica il suo portatore come latore di un messaggio autorevole che giunge da lontano. Queste indicazioni possono essere ulteriormente svolte. Anzitutto cominciamo col notare che lo straniero, il viaggiatore, il mercante, colui che intraprende un viaggio in terre lontane per consultare un oracolo o un luogo di culto, sono figure cui compete il ruolo di portatori di informazione e di scambio fra comunità diverse. La notizia portata da lontano godeva di un prestigio che le assicurava validità anche se non era sottoposta a controllo. Il messaggero, professionale o volontario, appariva portatore fedele di un messaggio veritiero in quanto orale: la fedeltà del messaggero garantisce della veridicità del messaggio125. Sia il bastone del pellegrino che lo scettro operano una connessione e una distinzione fra il luogo in cui sta avvenendo la comunicazione, in cui questi oggetti sono presenti, branditi dai loro portatori, e un luogo potremmo dire “distale” in cui è posta l’origine di una notizia, di un messaggio, o una parte consistente della sua storia. Fra i due luoghi viene evocato, attraverso lo scettro, un camminare, un transitare. Cammi-
Sullo scettro, la trattazione più completa è Easterling 1989; altri contributi: Fernández Canosa 1991; Bouvier 2002. L’etimologia del termine è fornita da Benveniste 2001: 307-309. 124 Benveniste 2001: 309. 125 Vd. Longo 1997: 658. Dal messaggero volontario si differenzia il messaggero che agisce all’interno di una circolazione dell’informazione controllata e organizzata. Questa figura, che è un tramite per così dire passivo, può essere l’¥ggeloj, il kÁrux o a volte anche il pršsbuj, l’ambasciatore. Il kÁrux che a Sparta era un professionista per privilegio ereditario, discendente dal mitico araldo Taltibio, in tempo di guerra godeva di intangibilità se insignito del caduceo. Le sue caratteristiche erano la velocità, lo stato subalterno nei confronti dell’emittente del messaggio, la capacità di memorizzare il testo del messaggio per poterlo poi ripetere, “recitare”. 123
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nare talora rischioso, per il pellegrino, e che ha richiesto qualcosa cui appoggiarsi con forza. La parola autorevole è una parola che viaggia, che poggia con forza su qualcosa, che ha una storia. Zeus in persona ha fatto dono dello scettro, forgiato da Efesto126, al genos di Agamennone, all’interno del quale esso è stato trasmesso per via ereditaria: (…) lo scettro che Efesto sudò a lavorare. Efesto lo diede al sire Zeus Cronide, Zeus al messaggero Argheifonte lo diede; il sire Ermete lo diede a Pélope pungolator di cavalli, e Pélope lo diede ad Atreo pastore d’eserciti, lo lasciò Atreo morendo a Tieste, il ricco d’agnelli, Tieste ad Agamennone lo lasciò da portare, su molte isole, sull’Argolide intera a regnare.
Dunque dobbiamo pensare che Agamennone, in quanto portatore di scettro, ripeta fedelmente il messaggio di Zeus, indirizzandolo a coloro che sono presenti nel suo spazio ‘prossimale’. Se pensiamo al funzionamento di una assemblea omerica, possiamo dunque affermare che Zeus è la fonte di autorità “distale” che viene evocata ogni qual volta un parlante prenda in mano lo scettro e che l’assemblea stessa funziona come un luogo “prossimale” in cui i re scettrati achei sono controparti dell’unica autorità “distale” che è Zeus. Nella comunicazione assembleare omerica occorre dunque tenere in considerazione tanto il comportamento dei parlanti nel momento della comunicazione, quanto il tipo di autorità “distale” che essi riescono ad evocare. Il tipo di rapporto che si instaura con questa autorità rende il parlante emissario ma al tempo stesso vettore di una autorità capace di conferire valore normativo al suo comportamento. I due doni Lo scettro indica che esiste una differenza fra la fonte distale dei proferimenti, e i prossimali vettori di volta in volta di questa autorità. Esso però indica che il rapporto fra parlante e autorità normativa può anche essere semplicemente “citato”. Mi spiego meglio. Che cosa rende un individuo capace (o presunto tale) di intendere e ripetere il messaggio di Zeus? Al contrario dei re antico-orientali, modello di ogni virtù, nel mondo dell’Iliade al portatore dello scettro non è necessaria una particolare qualità o
Lo scettro è un artefatto di Efesto: come ha illustrato recentemente Musti 2008: 18-28, Efesto è nell’Iliade un dio artefice di automi, oggetti metallici dotati di movimento, cioè dotati di voce, mente e movimento. Lo scettro non differisce da essi poiché, in effetti, ha la capacità di rendere autorevole, automaticamente, la parola dei suoi portatori. 126
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virtù: egli non ha bisogno di una particolare educazione, o di un “apprendistato” o di istruzioni specifiche. Per Agamennone lo scettro, e dunque la possibilità di rivestire un ruolo di parlante “nomico” nell’assemblea dei pari, è un “dono divino”, egli è colui «cui diede il figlio di Crono, pensiero complesso, e scettro e leggi, ché agli altri provveda». Ciò che vale per Agamennone, vale anche per tutti gli altri eroi. L’identità è, di norma, nell’Iliade, frutto di un dono degli dèi. La formulazione generale dell’ideologia dei due doni è contenuta in un discorso in cui Achille ricorda a Priamo la sorte di suo padre Peleo il quale aveva avuto in sorte doni magnifici dagli dèi ma anche mali127. La tematica “un bene e un male’” viene proposta come schema di interpretazione del destino individuale per Demodoco (cecità e divinazione); Epeo (abilità nel pugilato e inettitudine alla guerra), Nireo e Paride (bellezza e debolezza), Eurialo (bellezza e mancanza di eloquenza); di altri è ricordato un solo dono: Autolico (abilità nel furto). Questi “doni” sono dynameis, technai che contraddistinguono coloro che ne sono portatori e ne costituiscono la fonte di identità. Essi sono anche connessi con specifiche divinità che “proteggono”, “amano” l’individuo cui hanno fatto dono di qualche techne connessa con le proprie prerogative. “Doni” sono anche quelli che Prometeo ed Epimeteo hanno fatto ad uomini ed animali. Gli eroi omerici sono dunque presentati come technitai, nell’accezione di Gilli, con tutte le implicazioni di smisuratezza, di isolamento degli uni rispetto agli altri, di costruzione di identità che ciò comporta. Lo scettro rientra pienamente in questo schema128. È un “dono”, e come le altre “specializzazioni” di cui abbiamo detto, è anch’esso bilanciato da un dono “negativo”: inettitudine o mancanza di valore. In IX 39, infatti, Diomede apostrofa violentemente Agamennone, dicendogli: Metà dei doni ti diede il figlio di Crono, pensiero complesso; per lo scettro ti diede che fossi onorato su tutti, ma non ti diede valore, ch’è la forza più grande 129.
Siamo dunque all’interno della tematica dei due doni. Per Agamennone l’esercizio della parola “nomica” esaurisce tutta l’identità.
Hom. Il, XXIV 538. È vero che si tratta in questo caso di un dono di Zeus: ma ciò che è importante è la modalità di distribuzione irregolare, che ricalca perfettamente quella epimeteica e prometeica: un singolo technites basta per molti. 129 La difficoltà di tradurre di£ndica, che Rosa Calzecchi Onesti rende con «metà dei doni», non chiarisce se la mancanza di valore fosse per Agamennone un “dono negativo” o piuttosto se il dono dello scettro fosse stato fatto da Zeus in modo incompleto. Vi è chi traduce di£ndica con «due doni contrastanti». Secondo Carlier 1996: 288 e n.125, la manchevolezza di Agamennone è una contropartita per la sua regalità. Molto interessante l’osservazione di Carlier sui “doni” di Achille valore/non- regalità che sembrano l’inverso di quelli di Agamennone regalità/non-valore. 127 128
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Per gli altri membri del consiglio, le cose stanno diversamente: già dotati di loro specifiche specializzazioni – valore in guerra, metis, bellezza, eloquenza – e relative relazioni con autorità divine, fonti di identità permanente, essi prendono lo scettro nel momento in cui serve loro per parlare in assemblea, cioè acquisiscono e perdono la capacità di esemplificare un’autorità distale diversa da quella cui abitualmente si riferiscono, in funzione della necessità momentanea130. Il loro rapporto con lo scettro è del tutto differente da quello di Agamennone: per questo Nestore può dire ad Achille: E tu non volere, Pelide, contendere col re Faccia a faccia, non ebbe in sorte onore comune un re scettrato, a cui Zeus diede la gloria131.
Il re scettrato non ha niente in comune con nessun’altro. Non si può parlare a lui “faccia a faccia”132. Nel luogo “prossimale” in cui svolge la comunicazione, presente lo scettro, il suo passare di mano in mano indica allora la sovrapposizione momentanea, nella persona dell’oratore di turno, di due differenti fonti di autorità: una permanente, che presiede al “dono” specifico che costituisce l’identità dell’individuo; l’altra, temporanea, che rimanda direttamente a Zeus. Lo scettro indica che colui che lo brandisce, a prescindere da quale sia il suo “dono” fuori dall’assemblea, è in quel momento “collegato” con Zeus. La comunità dei capi achei è dunque una comunità dal carattere assai particolare: composta da individui “prometeici”, in quanto dotati ciascuno di una peculiare identità specializzata, essa evoca un mondo pre-politico in cui gli uomini non possono che vivere sparsi e isolati gli uni dagli altri133; tuttavia essa esprime anche, ma solo per un tempo delimitato e in circostanze particolari, una forma di uguaglianza, di parità, in virtù della capacità che i suoi componenti hanno di assumere la specializzazione altrui (di Agamennone), che lo scettro simboleggia, detenendola per un certo tempo.
Nei poemi omerici, pare che ogni assemblea – degli Achei, dei Troiani, degli Itacesi – sia regolata da uno scettro: Odisseo e Menelao in ambasceria a Troia parlano prendendo lo scettro (verosimilmente di Priamo): Hom. Il., III 218. Telemaco prende lo scettro (di Odisseo?) dall’araldo, nell’accingersi a parlare agli Itacesi: Hom. Od., II 37; ma soltanto Agamennone possiede quello di Zeus. 131 Hom. Il., I 278-79, dove la diseguaglianza di Agamennone rispetto agli altri è conferita dallo scettro, che rimanda ad un rapporto privilegiato con Zeus. 132 Questa impossibilità di parlare faccia a faccia non mi pare un’esclusiva di Agamennone: in Omero, in realtà, ciascuno, avendo una sua propria personale “faccia”, non può rivolgersi direttamente a nessun altro, può soltanto “mettere alla prova” gli altri, osservare (quasi di nascosto) i suoi comportamenti per vedere quale regola essi seguano. 133 Secondo Vegetti 1990: 19-20 «I rapporti trasversali fra eroi, oikoi e comunità sono in qualche modo marginali: possono essere attutiti dalla distanza (…) ma in ogni caso non costituiscono un problema». L’Iliade tuttavia pone al centro del proprio intreccio ciò che avrebbe dovuto restare marginale: l’esercito greco sotto Troia impone «un vincolo collaborativo a gruppi e individui che sono invece agonali». L’esercito finisce per costituire un “quasi sinecismo”, «una polis impossibile, tuttavia». Il carattere prepolitico del mondo “eroico” è colto con lucidità da Tucidide I 3,4 che vede nell’Ellade primitiva il contrassegno della «debolezza» (¢sqšneia) e dell’«assenza di contatti reciproci» (¢meix…a). 130
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In questi frammenti di tempo, gli scettrati danno luogo a segmenti di polis134. Quando si realizza, questa comunità è differente da quella “verticalizzata” che abbiamo analizzato nel primo capitolo e si avvicina invece a quelle comunità “temporanee” che garantiscono ai partecipanti l’uguaglianza sotto forma di uguale trattamento in caso di spartizione: guerrieri che spartiscono il bottino, commensali che consumano la “parte uguale”. Si tratta tuttavia di un’uguaglianza che, come abbiamo visto, non investe l’identità individuale, si consuma nel momento preciso in cui è esercitata, senza estendere i suoi effetti oltre l’occasione che l’ha determinata. Se volessimo definire la differenza fra il modo “arcaico” in cui ciascun eroe è portatore di una sua specifica techne/dynamis e il modo in cui si impadronisce temporaneamente della dynamis di Agamennone, prendendo in prestito il lessico della filosofia dei linguaggi di Goodman, diremmo che l’oratore di turno, impossessandosi dello scettro “cita” un gesto-campione per essere riconosciuto come ammesso a prendere la parola. Molto diversa la codifica del messaggio di Zeus fatta da Agamennone, per il quale lo scettro fa parte della vita quotidiana come fosse parte del suo stesso corpo. Lo scettro, che egli non potrebbe, anche volendo, non portare, lo definisce profondamente e lo lega alla parola di Zeus. Possiamo ora cercare di definire meglio lo scontro fra Agamennone e Achille: esigendo in assemblea il dono di Achille, cioè un dono che ad Achille era stato conferito in quanto “uguale” rispetto agli altri eroi col privilegio dello scettro, Agamennone lede Achille in un campo, quello della parità assembleare, in cui il Pelide non può far valere la propria identità individuale permanente, quella di fšrteroj. Se Agamennone avesse sottratto ad Achille qualcosa al di fuori dell’assemblea, Achille lo avrebbe ucciso: avrebbe usato la sua techne, superiore a quella di Agamennone, per difendere la propria identità, i propri “doni”. Agendo in assemblea invece, Agamennone usa e incrementa, con un solo movimento, il suo ruolo assembleare e la sua specializzazione individuale, che coincidono, mentre Achille non può far convergere la sua specializzazione e il suo ruolo assembleare. La specializzazione di Achille non viene “letta” da Agamennone, che agisce come se Achille, al di fuori dell’assemblea, non avesse alcuna specializzazione. Il “troppo pieno” del potere di Agamennone, in cui si sommano lo scettro come dono e lo scettro come facoltà di parola in assemblea, genera il “troppo vuoto” della facoltà di parola di Achille che non può essere sostanziata da alcuna specializzazione. Egli resta, letteralmente “indonato”. Non resta ad Achille che scagliare a terra lo scettro. E sedersi. Disse così il Pelide e scagliò in terra lo scettro disseminato di chiodi d’oro. Poi egli sedette.
Vegetti 1990: 20 afferma: «L’Iliade fa dunque precipitare le sue figure esemplari, i suoi eroi, in una situazione politica, senza che essi possiedano la minima attrezzatura morale e sociale per farvi fronte». 134
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Le peripezie dello scettro I primi due libri dell’Iliade riflettono su aspetti diversi della fragilità della comunità degli scettrati. Nel primo libro, lo scettro è scagliato a terra da Achille; nel secondo Odisseo ne fa un uso che ha lasciato sconcertato più di un lettore135. Mi riferisco all’inganno ordito da Zeus ai danni di Agamennone. Zeus, cui Teti si è rivolta supplice affinché egli onorasse il figlio, non può ignorarne la richiesta136, anche se il contenuto di questa collide con l’appoggio che egli deve ad Agammenone. Ne scaturisce un messaggio contraddittorio, il cui contenuto – un’esortazione alla battaglia data già per vittoriosa – collide, mascherandola, con la reale intenzione di Zeus che ormai vuole, per la sua supplice Teti, la sconfitta degli Achei. Egli manda dunque ad Agamennone il Sogno cattivo, che, sotto le spoglie di Nestore, il più saggio e ascoltato dei consiglieri, esorta Agamennone a armare in fretta l’esercito per prendere la città di Troia137. Agamennone è colui che Omero ci presenta come “specializzato” nel ricevere e reindirizzare i messaggi di Zeus attraverso un’oggetto-automa, e dunque – io ritengo – nel suo comportamento non può che rigenerarsi la stessa contraddizione che era presente nel suo “distale”. Svegliatosi, Agamennone sente ancora la presenza di Zeus, «gli echeggiava attorno la voce divina». Convoca dunque l’assemblea, brandendo lo scettro, e riferisce al consiglio degli anziani il sogno ricevuto. La themis gli impone tuttavia di mettere alla prova l’esercito: dirà cioè di volere ritirarsi dalla guerra, volendo invece il contrario. I consiglieri dovranno trattenere l’esercito138. In assemblea, dunque, sempre brandendo lo scettro, con un lungo discorso, esorta i soldati a ritornare a casa, benché ciò sia vergognoso, essendo impossibile ormai per loro prendere la città139.
Questa scena è stata di recente analizzata da Lincoln 2000: 19-43, il quale ritiene l’assemblea “anomala” in quanto non convocata da Agamennone ma dalla Fama. Secondo lo studioso, Agamennone, – di cui al v. 50 si dice chiaramente: «agli araldi voci sonore ordinò/di bandir l’assemblea degli Achei dai lunghi capelli: / gli araldi bandirono e quelli si radunarono in fretta» – convoca soltanto gli anziani mentre i soldati semplici avevano ricevuto la convocazione da parte della Fama in persona e conclude: «avremo dunque non una, ma due assemblee diverse, anche se simultanee». Concordo sulla simultaneità fra il radunarsi degli Achei («fra loro ardeva Fama, messaggera di Zeus,/ che li spingeva ad andare») e il consiglio ristretto che si tiene presso la nave di Nestore ma non capisco da cosa Lincoln arguisca che Agamennone conduce egli stesso i nobili in assemblea, e che questa assemblea era stata convocata dalla Fama e dunque da Zeus, cosa che fa «intravedere un nuovo livello, più complesso, negli atti che seguono». 136 Zeus è, com’è noto, il protettore dei supplici: vd. Hom. Od., XIII 213. Dodds 2003, 75 e n. 20 vede però una differenza fra lo Zeus dell’Iliade e quello dell’Odissea. 137 Hom. Il., II 1-47. In generale, sul sogno in Omero, vd. Dodds 2003, 151-53. 138 Hom. Il., II 47-83. 139 Hom. Il., II 110-141. «Discorso astuto» lo definisce Lincoln 2000: 23. Agamennone definisce la messa alla prova dell’esercito q»mij: molti commentatori hanno dubitato di ciò, ritenendo l’episodio frutto di una manipolazione. L’originale avrebbe previsto una esortazione alla fuga ed una ribellione dei soldati. Ciò non mi pare necessario: che in alcuni frangenti particolarmente difficili, in cui l’autorità di qualcuno è messa fortemente in dubbio si possa cercare di influenzare la voce del popolo, inducendola a confermare 135
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Questa scena, non diversamente spiegabile e infatti sospettata di interpolazioni, ha un senso soltanto se, a prescindere dal contenuto, intendiamo Agamennone come uno specchio fedele della volontà contraddittoria di Zeus; come se il messaggio consegnato dal Sogno cattivo collidesse in Agamennone con un altro ordine, di natura comunicativa, mediato dallo scettro. Agamennone sembra vittima di una sorta di ordine di “dire il contrario di ciò che realmente si vuole”, come se fosse stato contagiato da una malattia delle parole che appaiono, sia in lui sia in Zeus, come non destinate a compiersi. Come in un gioco linguistico, in cui i partecipanti dicono l’opposto di quello che pensano (o che vogliono o che sono), Agamennone e Zeus (collegati dallo scettro) sembrano “giocare lo stesso gioco”, anche al di là della volontà di entrambi. I messaggi palesi dei due ne contraddicono le reali intenzioni, ma ne confermano la perfetta synousia 140. Agamennone è vincolato al suo “dono” pur in presenza di una diversa (e sopraggiunta) volontà di Zeus. Ma, mentre Agamennone, suo malgrado, “gioca lo stesso gioco” di Zeus (dire ciò che non avrà compimento), l’assemblea non sembra disposta a seguire il gioco di Agamennone (non c’è nulla che la “colleghi” ad Agamennone), e resta alla lettera del messaggio dell’Atride141. Questo episodio, mentre mostra come lo scettro sia indifferente al contenuto del messaggio di cui garantisce la trasmissione ma non ne rende possibile la verifica, introduce una singolare performance di Odisseo. Il finto discorso di resa di Agamennone ha prodotto la disgregazione dell’esercito: ciascuno si prepara a partire, desideroso di tornare a casa e di porre fine alla guerra. I consiglieri non provano neppure a fermare i guerrieri in disarmo, come invece aveva chiesto Agamennone. Odisseo allora, su consiglio di Atena, prende di mano lo scettro ad Agamennone. Non si tratta del normale passaggio dello scettro da un oratore all’altro, ma di una sorta di usurpazione, un uso “emergenziale”. Odisseo infatti compie il gesto di “portarsi avanti” ad Agamennone che – sappiamo – egli considera un gesto di insubordinazione. Egli dunque, portandosi avanti all’Atride Agamennone, gli tolse lo scettro avito, indistruttibile sempre: corse con esso alle navi (…)142
per acclamazione un potere già conferito, è mostrato dalla condotta di Pericle, nella circostanza della rendicontazione delle somme spese per i lavori architettonici sull’Acropoli e in quella di Cesare nel 44 a. C, analizzata da Lincoln 2000. Agamennone fa appello alla vergogna e, indirettamente, alle buone possibilità di vittoria: argomenti idonei allo scopo che si prefigge, e che, tuttavia, non coglieranno nel segno. 140 Per un tentativo di spiegazione di questa analogia sostanziale dei comportamenti comunicativi di Zeus e Agamennone, vd. infra, 58 e ss. 141 La reazione dell’assemblea è efficacemente descritta da Omero: il movimento che era scomposto nell’adunarsi (come api che volteggiano qua e là) è ora composto e uniforme nel disperdersi (come onde, come messi piegate dal vento). 142 Hom. Il., II 185-87.
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Con lo scettro in pugno, Odisseo parla agli anziani e tiene unito l’esercito, agli uni ricordando il piano di Agamennone, agli altri intimando di sedere e ascoltare l’opinione dei consiglieri. Ai primi parla «con parole serene»143. Diversamente, «Chiunque poi del volgo (d»mou) vedeva e trovava ad urlare/ con lo scettro batteva, con parole sgridava».144 Il testo presenta poi, nell’ordine, le parole di rampogna di Odisseo e l’intervento di Tersite: in realtà il contenuto del discorso di Odisseo non si comprende se non come risposta puntuale alle obiezioni di Tersite145 . L’anticipazione (che sembrerebbe una conferma dell’impossibilità di parlare faccia a faccia) può essere spiegata tenendo conto che Tersite diceva le stesse cose di coloro che urlavano, collettivamente rimbrottati da Odisseo, dunque Odisseo sa già cosa dirà Tersite perché egli dice ciò che già il demos ha urlato. Egli infatti, quando gli altri erano ormai zittiti, «solo (…) vociava ancora smodato». Nel suo discorso sentiamo argomenti ai quali Odisseo ha già risposto collettivamente. Tersite è dunque la voce del demos, l’unica udibile tra le tante voci, “urlate”, che rinfacciano ad Agamennone l’avidità e l’errore della offesa ad Achille, e a cui Odisseo risponde dunque ribadendo la necessità del comando di colui «cui diede il figlio di Crono, pensiero complesso/ e scettro e leggi, ché agli altri provveda». Chi è Tersite? La “specializzazione” di Tersite è così descritta: molte parole sapeva in cuore, ma a caso vane, non ordinate, per sparlare dei re: quello che a lui sembrava che per gli Argivi sarebbe buffo146
Egli è dunque, come Odisseo dirà fra breve, “oratore arguto”, non ratificato tuttavia, dal momento che non parla tenendo lo scettro, cui in ogni caso non avrebbe diritto. Guardandolo bieco, Odisseo lo apostrofa con dure parole, e infine lo percuote con lo scet-
L’asimmetria del comportamento di Odisseo è analizzata da Lincoln 2000: 24 e ss. che vede in ciò un riflesso della scarsa integrazione fra i due gruppi di partecipanti all’assemblea – anziani e soldati – convocati da due autorità diverse. 144 Hom. Il., II 198-99. 145 Hom. Il., II 200-206. Il discorso che Odisseo, usando lo scettro come randello, rivolgeva ai soldati in fuga contiene, oltre a vari improperi, e l’affermazione della necessità di un comando unico: «No, non è un bene il comando di molti: uno sia il capo, / uno il re». Il discorso di Tersite, in 225-43, insieme ad una serie di accuse ad Agamennone ed ai soldati stessi accusati di vigliaccheria, lamenta l’ingiustizia «che un capo immerga nei mali i figli degli Achei», dopo aver offeso Achille, «un uomo migliore di lui». Lincoln 2000 30, sottolinea le somiglianze fra il discorso di Tersite e quello di Achille contro Agamennone sulla base di Cairns 1982. 146 Su Tersite esistono molti studi: l’etimologia del nome è fornita da Chantraine 1963; il suo personaggio è da molti collegato alla Commedia: vd. Lowry 1991; Thalmann 1988; vd. anche Rose 1988. Analisi del personaggio e ulteriore bibliografia in Lincoln 2000: 27-36, 87-88, 100-102, 158, n.4. 143
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tro, lasciandolo dolorante. Tersite «(…) con aria stupida si asciugò la lacrima: gli altri scoppiarono a ridere di cuore di lui, benché afflitti».147 I commentatori hanno sempre mostrato un certo imbarazzo per questa performance violenta di Odisseo. Cerchiamo di evidenziarne alcuni tratti. Anzitutto, Odisseo agisce in quanto specialista: ce lo dice il fatto che egli sta obbedendo ad un preciso richiamo di Atena. Come ogni volta in cui manifesta le sue capacità, la sua metis, Odisseo agisce in perfetta synousia con la dea Atena: tale synousia si esplica nell’ascolto e nell’applicazione dei piani concepiti di comune accordo148. Il comportamento di Odisseo risulta dunque legittimo da ogni punto di vista, “nomico” in quanto contenente un riferimento, riconoscibile dall’uditorio, ad uno spazio distale divino ben definito. Gli spettatori infatti riconoscono il consiglio di Atena nell’operato di Odisseo e vedono in tale operato la sua techne specifica, derivante dalla sua storia personale. Infatti commentano: Ah, davvero mille cose belle ha fatto Odisseo, dando buoni consigli e primeggiando in guerra; ma questa ora è la cosa più bella che ha fatto tra i Danai149.
Benchè compiuta in assemblea, la sua è dunque una delle mille cose belle fatte, un’impresa tipicamente odissiaca, la migliore addirittura. Essa è fatta tuttavia brandendo lo scettro. Anzi, usando lo scettro come un randello per colpire Tersite, cui «un gonfio sanguinolento si sollevò sul dorso sotto lo scettro d’oro». Si tratta di un uso dello scettro diverso, a dir poco, sia da quello che normalmente fa un oratore, il quale lo esibisce per il tempo della sua orazione come garanzia esteriore del suo diritto di parola, sia dall’uso che ne fa Agamennone. Il gesto di Odisseo, unito alle parole che rivolge a Tersite, ha come scopo quello di tenere costui fuori dall’assemblea: «se ancora a far l’idiota come adesso ti colgo (…)», cioè in ultima analisi a presidiare il confine stesso dell’assemblea da elementi indesiderati150. C’è però qualcosa nel tono di Odisseo, nelle parole che usa, e che sono usate per descrivere Tersite, che dà da pensare. Qualcosa di caricaturale, di clownesco che la traduzione di Rosa Calzecchi Onesti coglie bene: uno che siede «con aria stupida», l’altro che minaccia di «acciuffarlo» e «spogliarlo» e che poi lo «percuote». Pare una scena circense della peggiore specie, un comportamento assembleare che è assimilabile, in peggio, solo a quello posteriore di molti secoli dei demagoghi, i cui discorsi – ce lo di-
Hom. Il., II 269-70. Lincoln 2000: 33-38 ha analizzato i passi omerici in cui appare la locuzione ¹dÝ gšlassan, «risero dolcemente» (Rosa Calzecchi Onesti traduce invece «scoppiarono a ridere di cuore»): in particolare la scena risulta molto somigliante a Hom. Od., XVIII 1-116, in cui Odisseo ha un violento scontro col mendicante Iro. Lo studioso identifica come «ingredienti del dolce riso», fra gli altri, la sofferenza fisica, subita dalle mani di un superiore, che coinvolge in particolare i piedi e che comporta l’emissione di sostanze corporali. 148 Vd. Carlier 1996: 291 e Gigante 2003: 184-87. 149 Hom. Il., II 271-74. 150 Così anche, per vie diverse, Lincoln 2000: 32. 147
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ce anche Tucidide – erano fatti per essere visti. È una caricatura del normale “tenere lo scettro”151. E infatti, come ogni caricatura o moderno spettacolo di clown, l’effetto che ottiene e che vuole ottenere è quello del riso. Lo scopo di Odisseo, possiamo concludere, non è di comunicare con Tersite, ma di evitare proprio la comunicazione con costui. La presenza di Tersite in assemblea è letta da Odisseo come possibile rivendicazione “territoriale”, appropriazione dello spazio, cui egli reagisce usando lo scettro come un tipo di contrassegno che marca il suo (e non di Tersite) rapporto con l’assemblea e il suo (e non di Tersite) possesso del diritto di parola. Ma perché marcare il confine dell’assemblea? Questo atteggiamento mette in evidenza la debolezza, palese in quel momento ma evidentemente strutturale nella comunità dei re scettrati: Achille ha svelato come la parità dei capi achei in assemblea sia falsa ed esteriore, e come l’assemblea non possa ritenere accettabili, “legiformi”, comportamenti che rimandino ad un’autorità diversa da quella a cui rimanda Agamennone. Questa stessa assemblea è ora sorda alle decisioni di Agamennone e non ne esegue gli ordini: si tratta dunque di restituirle autorità. Odisseo dà vita ad una forma imperfetta e parodica di – mi si perdoni l’invenzione – “scettratura”, egli cerca di imitare (d’altronde il travestimento è uno dei campi in cui egli eccelle) un proferimento assembleare “legiforme” senza tuttavia poterne attingere la fonte (lo scettro non è il suo “dono”) e restando prigioniero della propria techne. Ne deriva la parodia e il travestimento, difesa preventiva rispetto all’aggressività temuta nei confronti di chi svolge il ruolo di guardiano dell’autorità152. Ricapitolando L’assemblea, come forma di liturgia politica, richiede la produzione di comportamenti, azioni e parole che oltre ad avere un significato preciso, rimandino anche ad altro, siano in un certo senso simbolici. Ad essere in questione è qui la fonte dell’autorità. Nel caso dell’oratore diverso da Agamennone, l’oratore stesso, tenendo lo scettro, qualifica il suo parlare e il suo agire come “autorevoli”, sebbene la sua autorevolezza sia temporanea e accessoria rispetto alla sua identità, come accessorio rispetto al suo corpo è lo scettro che brandisce. Questa autorevolezza condizionata e contingente è condizione necessaria e sufficiente al suo agire assembleare. Egli, potremmo dire, non
Odisseo è così descritto da Priamo nell’atto di parlare in assemblea (l’assemblea dei Troiani): «ogni volta che Odisseo abilissimo si levava, /stava in piedi, guadando in giù, fissando gli occhi in terra/ e non moveva lo scettro né avanti né indietro,/ lo teneva immoto, sembrando un uomo insipiente». Vd. Hom. Il., III 216-19. 152 L’aggressività di Tersite è, secondo Lincoln 2000: 101, quella del discorso corrosivo. Questi discorsi di solito sono prodotti da una «comunità invisibile ed anonima», sono «la “voce del popolo”: in apparenza la voce di tutti, in realtà essi non sono pronunciati da nessuno». 151
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è autorevole, ma “autorevole” (o anche: è autorevole solo formalmente ma non sostanzialmente). Nel caso in cui è Agamennone a parlare in assemblea, lo scettro invece indica un legame più stretto, i suoi comportamenti sono derivati da Zeus del tutto a prescindere dalla sua volontà o dalla sua eventuale convinzione che siano giusti o sbagliati: a riconoscerli come autorevoli o meno sono gli altri, gli astanti. In alcuni casi, essi sono in grado di riconoscere nei comportamenti di Agamennone il modo di darsi della sua soggettività (è il caso di Odisseo, abile nel mascherare e smascherare, quando comprende la vera natura della “messa alla prova”) e dunque reputano quei comportamenti “veri”: agli occhi di Odisseo dunque Agamennone è autorevole. Uno sia il capo, egli ha appena detto. In altri casi questa soggettività non viene riconosciuta, come avviene per Tersite, con conseguenze di corrosione aggressiva (o, in altri casi, di invidia, persecuzione). Infine, nel caso in cui lo scettro è usato da Odisseo per percuotere Tersite ciò che si produce è una commistione: in apparenza sembra un uso “alla Agamennone”, ma di fatto è soltanto un uso esteriore. È un fenomeno di automarcatura.
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FARSI INGIUSTIZIA
Stasis e comunicazione Il primo libro dell’Iliade si conclude, per quando concerne le vicende degli uomini, con la celebrazione del sacrificio ad Apollo e con la “secessione” di Achille: Seduto presso le navi che vanno veloci, era irato Il figlio divino di Peleo, Achille piede rapido. Mai all’assemblea si recava, gloria degli uomini, mai alla guerra; e consumava il suo cuore, lì fermo (…)153
La scena conclude, come in un lungo ainos, l’evocazione della eris fra Agamennone ed Achille, iniziata in I 6 quando prende avvio il canto della Musa invocata dall’aedo, il canto dell’ira di Achille. L’ira si traduce nel “rimanere” presso le navi. Non faremmo violenza al testo, interpretando il restare di Achille come una stasis: stasis è infatti ogni contesa per il comando, nel lessico diplomatico che cita, talvolta occultamente, infinite volte questa scena fondante. Così, gli Ateniesi che rinunciano volontariamente a comandare la flotta alleata all’Artemisio, lasciando il comando allo spartano Euribiade, lo fanno «sapendo che la Grecia sarebbe andata perduta se, riguardo al comando, stasi£sousi»; dove stasi£zw vale “dividersi”, “accendere una disputa”154. La contesa per il comando, in un contesto che si richiama fortemente al precedente mitico, è, in modo esplicito st£sij, cioè fattore paralizzante e inibente del corretto fluire delle cose. Se quanto abbiamo osservato sul mondo omerico come comunità di
Hom. Il., I 488-92 Achille e Agamennone invece, in Hom. Il., I 6, diast»thn, «si divisero», da di…sthmi che dà anche di£stasij, usato come sinonimo di st£sij in Thuc. VI 18: è il termine omerico più vicino al lessico classico della stasis. 153 154
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pari ha un fondamento, ne dobbiamo dedurre che all’origine della stasis vi è una nuova situazione di inferiorità, avvertita come lesione della propria tim», vulnus inflitto alla parità dei membri di un consiglio ristretto. In tale situazione di inferiorità Achille si è venuto a trovare per aver ceduto il suo dono, Briseide, ad Agamennone. Non cedere avrebbe significato voler «stare al di sopra di tutti, comandare su tutti, signoreggiare su tutti, dare a tutti degli ordini». Perdendo il suo dono, conquistato in virtù del suo essere f»rteroj, cioè della sua identità specializzata (che è fondamento del suo essere un “re scettrato”), Achille perde al contempo lo scettro, cui non ha più diritto. Questa impotenza comunicativa è dunque stasis. La stasis è dunque l’interruzione della comunicazione fra pari – di cui è segno lo scettro scagliato a terra – causata dal venir meno della condizione stessa di parità fra gli interlocutori (infatti Achille scaglia a terra lo scettro, che di quella parità era, in un certo senso, l’artefice). Ciò non vuol dire che, prima della contesa, vi fosse una totale parità – Agamennone era infatti già il capo della spedizione – ma adesso, con lo “stralcio” di Briseide dai doni di Achille, la superiorità di Agamennone produce l’inferiorità di Achille rispetto ai pari e quindi la sua impossibilità di partecipazione155. Come ho avuto modo di argomentare in altra sede156, la sfera della stasis, della contrapposizione violenta fra fazioni che avvelenò la vita politica delle poleis greche con la massima intensità durante la guerra del Peloponneso, è sempre stata considerata dagli studiosi in relazione al movimento, alla sommossa, alla “azione”, più o meno violenta. Ciò, in aperto e inspiegato contrasto con l’etimologia del termine, stasis, che riporta invece alla sfera dell’immobilità, dell’inazione, della calma157. Le interpretazioni più recenti, pur nella differenza di sfumature e di impostazioni teoriche, non si discostano dal presupposto burkhardtiano della stasis come “agone”, come gara, guerra civile per il controllo della polis158. Tale divaricazione fra filologia e società, per riprendere la distinzione di Finley, che esortava a cercare nella seconda e non nella prima l’evoluzione semantica di stasis, non sembra così inevitabile159. Tenendo fede al significato originario di “sospensione” presente tanto nella radice di œsthn, tenere dritto (dalla radice indoeuropea *stha, “stare fermo”, “sussistere”, “tenersi a”; da cui il greco †sthmi e il latino sto, statua, status, sisto, etc.) che indica propriamente il collocamento in verticale, la posizione160 (presente in altre accezioni del ter-
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re.
La logica del “dono”sottesa alla contesa è analizzata da Vegetti 1990: 20 e ss. Ho affrontato alcuni aspetti dell’etimologia di stasis in Caserta 2004-2005, cui mi permetto di rimanda-
Loraux 1997: 20. La bibliografia su stasis è molto ampia: fondamentali Gehrke 1983 e 1997; fra gli ultimi contributi vd. Intrieri 2002; Moggi 1999; Manolopoulos 1991; aspetti particolari della stasis, anche legati all’immaginario in Cagnetta 2001 e in Loraux 1987. 159 Mi riferisco a Finley 1985. 160 Così risulta da uno spoglio dei lessici: Chantraine 1983-84; Ernout-Meillet 1965; Fatouros 1966; Frisk 1960-62; Liddel-Scott 1986 e 1996; sulla formazione del nome col morfema -sij Chantraine 1933, 275. 157 158
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mine stesso stasis), è possibile scoprire all’interno del fenomeno alcuni aspetti sottovalutati, che fanno da “ponte”, per così dire, fra l’immobilità della stasis in senso etimologico e il movimento della stasis in senso storico, lasciando individuare nella stasis la sospensione di un movimento, o meglio, di un normale funzionamento. Normale funzionamento che dovrebbe riguardare, se le osservazioni su Achille sono valide, la comunicazione assembleare. Per verificarlo cerchiamo, dunque, di ripercorrere uno dei resoconti più completi e dettagliati che possediamo dell’evolversi di una stasis: il resoconto tucidideo sulla stasis di Corcira161. Il racconto è molto lungo e occupa i capitoli 70-85 del libro III. Una costruzione sapiente fa sì che, man mano che si procede nella narrazione, il ritmo si faccia più incalzante, parallelamente al susseguirsi degli eventi, che diventa via via incontrollato fino a sfociare nella violenza finale, in un crescendo che raggiunge il culmine nella riflessione amara dello storico sulla guerra “maestra di violenza”. Questa immagine della stasis come germe di violenza che si espande, dapprima lentamente contagiando poi tutta la polis e condannandola alla rovina, è amplificata e ulteriormente rinforzata dal successivo racconto dell’insorgere della peste ad Atene, in un gioco di specchi che invita a pensare i due fenomeni – stasis e malattia – in stretta correlazione162. Vedremo come sia possibile interpretare l’aspetto di “inevitabilità” e di “irresistibilità” che la stasis condivide con la malattia; intanto può essere utile sottolineare che nel mito di Prometeo narrato da Protagora è definito nÒson pÒlewj l’individuo che non «è in grado di rendersi partecipe del rispetto e della giustizia»163. Analogamente Tucidide, attraverso il continuo raffronto fra la città malata e la città in preda alla stasis, mette in luce come sia lo scarto fra l’emergere dell’individuo con le sue motivazioni “private” e le esigenza della collettività, a far piombare la polis nella stasis. La quale è dunque l’effetto devastante di tale mozione privatistica sullo “stato”164. Se poniamo in relazione il “privato” di Tucidide con il “prometeico” di Protagora, la genesi della stasis ci pare meno oscura, consistendo in una mancanza (nel mito) e in una sorta di revoca (nella realtà storica) dei due “doni” salvifici di Zeus: rispetto e giustizia. È questa revoca, questa sospensione, a mettere in moto le fazioni e a produrre il
Si tratta, com’è noto, di un passo molto studiato: per l’analisi puntuale e l’inquadramento delle varie problematiche che esso presenta, vd. Intrieri 2002 con ampia documentazione bibliografica. 162 Vd. su ciò Cagnetta 2001. 163 Plat. Prot. 322d. 164 In questa direzione Moggi 1999: 64 e ss., 70, il quale, fra le due (apparenti) alternative di considerare sedizione e tradimento fenomeni fisiologici (benché moralmente condannabili) ovvero patologici (ancorché difficili da individuare e sanzionare nella prassi), afferma: «forse esiste la possibilità di una soluzione più soddisfacente, in quanto non presuppone alcun tipo di contraddizione: si tratta di quella che consiste nel rapportare gli episodi di stasis e di prodosia non tanto alla polis, con tutto ciò che un rapporto di questo genere comporta in termini di amor di patria e di doveri civici, quanto al polites». Dagli interessi del polites ha origine la formazione delle fazioni e lo scontro fra fazioni. La stasis sarebbe dunque «espressione degli interessi personali e di gruppo elevati al ruolo di obiettivo». 161
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conflitto. Ne deriva che comunicazione, da un lato, e rispetto e giustizia dall’altro devono in qualche modi essere collegati. Per verificare questa ipotesi, analizziamo III 69, dove Tucidide interrompe il racconto, assai dettagliato, dell’itinerario delle navi peloponnesiache partite per soccorrere Lesbo e intenzionate a raggiungere Corcira stasi£zousan, per illustrare gli avvenimenti che nel frattempo avevano portato Corcira alla stasis165. L’uso dell’imperfetto ™stas…azon in III 70, riallacciandosi al precedente stasi£zousan serve a sottolineare la “durata” della stasis e la contemporaneità fra gli avvenimenti di Corcira e le peregrinazioni delle navi peloponnesiache, ma lascia nell’imprecisione la determinazione del momento esatto in cui la conflittualità, latente a Corcira per il ritorno dei prigionieri catturati dai Corinzi, si evolve in stasis vera e propria166. Un momento di svolta nel racconto mi sembra dover essere posto fra il paragrafo 3 e il paragrafo 4 del capitolo 70, laddove, dopo aver dato conto, usando il passato, dell’azione di persuasione svolta dai prigionieri rimpatriati, dell’arrivo delle navi con gli ambasciatori di Atene e di Corinto e del successivo dibattito, Tucidide passa al presente per illustrare le fasi successive della vicenda. Il voto assembleare con cui i Corciresi votarono di mantenere l’alleanza con Atene, tenendo fede all’accordo in vigore, e di restare però amici dei Peloponnesiaci come per l’innanzi167, mi sembra dunque il momento che separa l’antefatto (ritorno dei prigionieri, persuasione occulta svolta da costoro, esposizione delle tesi di Ateniesi e Corinzi) dalla vicenda vera e propria. È il momento in cui le tensioni provocate dalla manovra occulta dai Corinzi, che avevano rilasciato i prigionieri con lo scopo preciso di staccare Corcira da Atene, vengono riassorbite nel normale funzionamento degli organi decisionali della polis168. Il voto, a seguito di dibattito su tesi opposte, perorate dai due ambasciatori in condizioni di perfetta parità (ognuno era giunto con una nave) esprime il funzionamento corretto e normale dell’assemblea. Alla persuasione dei singoli operata dai filocorinzi, la polis risponde con la legalità della propria techne politike. Nell’alveo della legalità e del corretto funzionamento è pure il successivo scontro giudiziario fra il prostates del demo, Pitia, e i filo corinzi, il cui esito – la condanna dei cinque ricchi a pagare un’ammenda per il reato di cui erano stati riconosciuti colpevoli
Le aitiai della stasis, una delle quali era lo scontro con Corinto per il possesso di Epidamno, sono ricostruite da Intrieri 2000: 11-65. 166 Molto probabilmente si tratta dell’inverno del 428/27. A questa indeterminazione contribuisce l’uso di ™peid¾ in cui la determinazione temporale e quella causale coesistono. Sull’arte narrativa di questi capitoli, «un percorso dall’indeterminatezza alla precisione» vd. Intrieri 2000: 69 e 72, n. 17. 167 Thuc. III 70,2. Si tratta di una conferma dell’™pimac…a stipulata nel 433, cfr. Thuc. I 44,1, perché altrimenti non sarebbe stato giuridicamente possibile mantenere la fil…a con gli Spartani. La decisione dei Corciresi pare frutto di un vero e proprio “equilibrismo diplomatico” volto a non scontentare né Atene né Corinto e al contempo a non acuire le tensioni interne, vd. Intrieri 2000: 78. 168 Non vi è accordo fra gli studiosi circa la collocazione politica di questi prigionieri che Tucidide definisce «fra i primi della città, in quanto a mezzi». Una valutazione equilibrata in Intrieri 2000: 69-70. 165
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– viene riconosciuto come legittimo dagli stessi imputati169. Fin qui, gli oligarchi hanno sviluppato la loro strategia di allontanamento di Corcira da Atene, con mezzi inclusi nel funzionamento della polis, la persuasione e l’azione legale. D’ora in poi invece scelgono un’altra strada. Di fronte al fallimento dei precedenti tentativi, non solo non essendo riusciti a modificare la politica estera della polis, ma avendo anche messo a repentaglio i propri personali patrimoni, gli oligarchi scelgono una mossa del tutto differente: siedono supplici nei templi, chiedendo la dilazione del pagamento dell’ammenda170. La mossa non è peregrina: Aristotele171 afferma che ad Atene veniva indetta una sessione dell’assemblea «per le suppliche, nella quale chi vuole, portando in mano il ramoscello del supplice, parla dinanzi all’assemblea popolare degli affari pubblici e privati che intende trattare». La testimonianza di Aristotele è molto utile, perché mette in evidenza come la supplica potesse essere inclusa fra le procedure decisionali della polis. Ciò non sorprende: la supplica, il mezzo usato con successo da Teti per perorare la causa del figlio davanti a Zeus, ha un’origine politica. Essa è in origine una pratica di guerra: incalzato dal nemico, colui che vuole essere risparmiato deve toccare le ginocchia del suo avversario prima di essere ferito: diventa in tal modo suo supplice172. La supplica implica un comportamento fortemente ritualizzato, caratterizzato da elementi costitutivi “fissi”: 1. la provenienza, lo spostamento (il supplice è anche etimologicamente “colui che viene, che raggiunge”); 2. il comportamento dell’individuo supplice, che deve esprimere umiltà, e che può coinvolgere eventuali oggetti che egli esibisce; 3. la richiesta verbale contenente il messaggio di supplica. È estremamente significativo che ciò che governa il rapporto istituito mediante la supplica è la dike. La dike garantisce che colui che presenta una supplica sia ascoltato
Vd. Intrieri 2000: 86. Thuc. III 70 3-5: «C’era un tale, di nome Pitia, che era prosseno degli Ateniesi e capo del partito popolare. Orbene, questi mestatori lo trascinano in giudizio con l’accusa di voler asservire Corcira ad Atene. Pitia viene assolto e trae a sua volta in giudizio i cinque più ricchi di costoro, accusandoli di tagliare i pali delle viti dei recinti sacri di Zeus e di Alcinoo (l’ammenda prevista era di uno statere per palo)». 170 Thuc. III 70 5: «Vengono riconosciuti colpevoli, e siedono supplici nei templi, per ottenere di concordare un pagamento a rate, dato l’ammontare esorbitante dell’ammenda; ma Pitia, che si trova ad essere anche membro del Consiglio, ottiene che si applichi la legge». 171 Aristot. Ath. Pol. 43,6. Destinataria della supplica è dunque la comunità civica, nella cui giurisdizione rientra la materia della supplica. Secondo Diodoro XII 53, 7, infatti, gli oligarchi si appellarono «al popolo e agli dèi», questi ultimi in qualità di garanti. 172 Hom. Il., XXI 65. Su questi argomenti vd. Benveniste 2001: 469-76; Gould 1973, (ora anche in Gould 2003) nota come l’Iliade inizi e finisca con una supplica e sottolinea la reciprocità (ritualizzata) della supplica rispetto a pratiche affini quali la proskynesis; Giordano 1999. Sulla supplica nell’Iliade, vd. Crotty 1994. 169
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da colui al quale viene rivolta173. Il destinatario fà giustizia nel momento in cui acconsente alla supplica: in caso contrario egli commetterebbe ingiustizia. La reciprocità fra il supplice e il destinatario della supplica è dike174. Una dike, quella del destinatario della supplica, orientata alla salvezza del supplice. Se compiuta secondo il rituale dovuto, la supplica non può dunque essere respinta: l’unica cosa che un destinatario può fare per respingere il supplice è impedirgli di compiere il rituale correttamente, interrompendo la richiesta stessa175. Torniamo al resoconto tucidideo: gli oligarchi non negano l’esistenza della legge o l’illiceità delle proprie azioni, e si dichiarano anche pronti a pagare l’ammenda. Chiedono però che tale pagamento venga rateizzato, possibilità probabilmente non prevista dalla legge stessa e che spiega il ricorso alla supplica. A prescindere dal contenuto della supplica, ciò che importa è che essa, spostando il piano del confronto dall’assemblea e dal tribunale, cioè dai luoghi della deliberazione pubblica, al luogo della religione (santuario) ottiene in primo luogo l’effetto di riformulare i termini della comunicazione in senso ‘prometeico’176, cioè sbilanciato, non più faccia a faccia come nella comunicazione assembleare della polis classica, ma dal basso del supplice all’alto del supplicato. A questo punto, l’assemblea ha due scelte: ricevere la supplica, ponendo una parte del corpo civico in condizione subordinata; rifiutarla, sciogliendo il corpo civico nei singoli individui che lo compongono. Comunicare verticalmente o non comunicare. Il mancato accoglimento della supplica da parte della assemblea, su consiglio di Pitia, configurandosi come adikia, genera una sospensione dei fondamenti della techne politike, una sospensione di dike177. Sospesa la techne politike, ecco entrare in scena la violenza.
Questo aspetto emerge anche dall’etimologia di lit» supplica, che designa propriamente la preghiera proferita dal supplice. Questo tipo di preghiera, che differisce dalla preghiera di devozione, eÙcwl», è inserita in un circuito di reciprocità, per cui chi ha accolto in passato una preghiera di supplica sarà ascoltato quando a sua volta ne presenterà una; diversamente la preghiera stessa si rivolgerà a Zeus affinché invii un castigo al trasgressore (che consiste proprio nel far sì che la sua preghiera resti inascoltata). vd. Benveniste 2001: 471-72; Aubriot 1984. 174 Esch. Eum., 85-87 su cui vd. Gilli 1988: 332-35. 175 Gilli 1988: 335 n. 14 vede in quest’ottica la “fretta” del supplice in Hom. Od., VII 135 e ss. – dove Odisseo si presenta supplice alla regina dei Feaci – e la preoccupazione di Atena di rendere invisibile Odisseo finché egli non sia giunto a toccare le ginocchia della regina. Gould 1973 registra un solo di mancato accoglimento di una supplica regolarmente presentata, sui 53 casi presenti nei poemi omerici. 176 Vd. Gould 1973. Sulla connessione fra violenza e mancato accoglimento della supplica, vd. Naiden 2006. 177 Il principio secondo il quale “la giustizia tiene il mondo in movimento”, che modella la reciprocità delle azioni umane al corso “cosmico” degli eventi, pare essere un concetto di origine orientale, vd. Assmann 2002: 202-203, che mette anche in evidenza come «in questa concezione i turbamenti dell’ordine sociale siano correlati a turbamenti cosmici». Questa sospensione di movimento, in cui consiste la stasis, mi sembra evincersi anche dal lessico dello stare seduti, che richiama il restare di Achille presso le navi. Si tratta di un momento precedente alla violenza vera e propria, cioè alla sollevazione, insurrezione, rivolta (tutti termini con cui molti traduttori rendono stasis) dalla quale è spesso oscurato. Quello della violenza è sì un movimento ma nuovo e del tutto diverso da quello sospeso dalla stasis. 173
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Sebbene il testo tucidideo non sia chiarissimo su ciò, sembra che la successiva azione degli oligarchi, irruzione nel consiglio e uccisione di Pitia e di altri consiglieri e privati cittadini, non debba essere cronologicamente distante dalla precedente delibera del consiglio circa la necessità dell’applicazione della legge (il sostanziale no alla richiesta di rateizzazione). Addirittura sembra che il consiglio interrotto violentemente dagli oligarchi sia lo stesso che aveva già deliberato sulla questione del debito. Senza voler forzare il testo, si possono ipotizzare due riunioni molto ravvicinate: la prima in cui si delibera circa l’ammenda, la seconda in cui probabilmente Pitia cercava di proporre un avvicinamento di Corcira ad Atene. Questa seconda riunione viene interrotta brutalmente dai congiurati178. L’uccisione di Pitia è già stasis. Ciò che segue descrive la stasis nei suoi effetti più comuni e al tempo stesso ne conferma il carattere ‘prometeico’: gli atti emanati dalla assemblea controllata dagli oligarchi non ricevono riconoscimento internazionale; agli ambasciatori inviati ad Atene non viene riconosciuto alcuno status ed essi vengono anzi incarcerati; gli scontri armati che seguono a Corcira vedono coinvolti donne e schiavi, secondo una modalità assolutamente tipica delle guerre pre-politiche179. È come se l’individuo non (più) capace della dose minima di dike necessaria per accogliere una supplica, aprisse una sorta di vaso di Pandora, dando origine ad un contagio violento che fa precipitare la comunità nel mondo Prometeico, cioè nel mondo delle pulsioni individuali e delle fazioni180. Seguendo lo snodarsi del conflitto, appare chiaro come a scandire l’alternarsi di stasis e normalità sia il meccanismo che ripristina e sospende dike. Gli oligarchi sono stati sconfitti sul campo, con la mediazione dell’ateniese Nicostrato si giunge ad un accordo: Viene stipulato un patto fra le due fazioni e un’alleanza con Atene, sembra dunque ripristinata la legalità. Ma, anche stavolta l’evolversi della vicenda poggia su uno spostamento dello scontro politico sul terreno della supplica. Infatti, di fronte alla prospettiva di essere imbarcati sulle navi che, secondo un accordo strappato all’ultimo momento dai capi corciresi a Nicostrato, avrebbero dovuto seguire costui ad Atene, gli oligarchici si rifugiano nel tempio dei Dioscuri e nuovamente
Thuc. III 70 6: «E poiché la legge escludeva per loro tale possibilità, e al tempo stesso venendo essi a sapere che era intento di Pitia, finché era ancora membro del Consiglio, indurre il popolo a condividere on Atene amici e avversari, ordirono una congiura: armatisi di pugnali, penetrarono all’improvviso nel Consiglio e uccisero Pitia ed altri, sia consiglieri che privati cittadini, sessanta persone circa». 179 O, per meglio dire, anti-oplitiche. Il carattere anti-oplitico delle modalità con cui, alla fine della stasis i Corcirei uccidono i propri concittadini, descritto da Thuc. IV 47,3 è sottolineato da Moggi 1999: 71-72, secondo il quale si tratta di «un vero e proprio rovesciamento delle norme comportamentali che informavano l’oplitismo». È pienamente condivisibile la posizione di Moggi che considera la stasis di Corcira meglio spiegabile se la si considera «scaturita da istanze vitali (…) e capaci di incidere in maniera rilevante nell’esistenza» dei cittadini, che non riconducendola a «contrasti di tipo puramente politico-ideologico». 180 La fazione è espressione degli interessi individuali e di gruppo elevati al ruolo di obiettivo primario: i membri di una fazione non riconoscono nei membri dell’altra né dei concittadini ne dei simili. Così Moggi 1999: 72 n.106, che si serve del lessico dell’etologia, richiamandosi ad Eibl –Eibesfetldt 1983. Vd. anche Eibl –Eibesfetldt 2002. 178
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“si siedono”181. Alla luce del precedente sbocco violento dello spostamento del teatro di scontro, i democratici interpretano la “seduta” come incipit di un nuovo scontro armato: decidono dunque di armarsi e di disarmare gli avversari, sottraendo loro le armi. La disobbedienza si estende ed altri quattrocento «si siedono», stavolta nel tempio di Era182. Il patto aveva sanato il mancato accoglimento della supplica; altre trattative saneranno temporaneamente questa nuova stasis, ma alla fine la violenza avrà la meglio e lo scontro si concluderà con un bagno di sangue183. Comunicare: un problema di giustizia La stasis, l’ira, l’impossibilità di riunirsi: tutti questi fenomeni rimandano a dike: abbiamo già visto come la stasis sia connessa all’ingiustizia, implicita nel mancato accoglimento di una supplica, occorre dunque chiedersi che cosa sia precisamente dike e a quali aspetti della comunicazione essa rimandi. D…kh secondo la definizione che ne dà il Benveniste, è “il diritto tra le famiglie della tribù”184. Tratto dalla radice *deik- che dà, oltre a d…kh, de…knumi, “mostrare” e il latino dico, dire, il termine dike indica un “mostrare verbalmente, con la parola” e anche un “mostrare con autorità”. Esso è dunque l’agire verbale che non esaurisce il suo senso nel semplice proferimento, come è nel dicere, ma rimanda anche ad altro, come nel “mostrare” di de…knumi. Dike implica dunque un processo, che usando il lessico della teoria dei linguaggi, potremmo dire esemplificazionale185.
Thuc. III 78 4. Thuc. III 78 5. Spesso la sospensione di dike è soltanto una stratagemma per potersi armare e, a propria volta, sospendere la legalità: Pisistrato in Hdt. I 59,3-6 si finge scampato ad un attentato per farsi assegnare una guardia del corpo, che gli serve in realtà per occupare l’acropoli: per Erodoto è stasis il gruppo di persone che Pisistrato raccoglie al fine di sospendere la legalità. “Armarsi” è un gesto non compatibile con la polis e che dunque deve essere in qualche modo giustificato. 183 «Il grado assai elevato di accanimento e di efferatezza che si riscontra nelle guerre intestine trova – secondo Moggi 1999: 70 – scarsi paralleli nella conflittualità interstatale». Ciò si spiega, a mio avviso, con il carattere primordiale della violenza della stasis, che è la violenza degli animali, la cui legge è l’allelofagia e ai quali Zeus – secondo Hes. Op., 276-79 – non ha concesso dike. Ciò non significa, come ritiene Loraux 1995 «depoliticizzare» la stasis: il rapporto fra cittadino e uomo prometeico non è infatti di semplice opposizione polare, quanto piuttosto di “immunizzazione”. Tornerò più diffusamente su ciò nel capitolo dedicato ad Aristofane. 184 Benveniste 2001: 357-66. In ciò d…kh si differenzia dal diritto che proviene dagli dèi, qšmij. Vd. Loenen 1948; De Romilly 2001. Jellamo 2005; un taglio che tiene conto della sociologia della comunicazione in Havelock 1981. Sulla dialettica fra dike e themis, vd. Bosco 1967; Coscolla 1998 (in Aristofane). Su dike in Omero, vd. Janik 2000 e 2003; Lévy 1998; in Solone, Lewis 2001; altri aspetti di dike: Marques 1997; Martano 1987; Martina 2007. 185 “Esemplificazione” è termine introdotto da Goodman 1976: 53-56 e posto da La Matina 2007 alla base di una riformulazione dell’approccio tradizionale ai problemi del linguaggio. L’esemplificazione è una forma di riferimento («qualcosa sta per qualcos’altro agli occhi qualcuno») la cui forma logica è data in termini di possesso più riferimento: rosso esemplifica (metaforicamente) “stop”. 181 182
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Il valore avverbiale di d…khn, “come”, “a guisa di”, induce a ritenere che nel mostrare di d…khn fosse comunque insito il rinvio, lo “stare per”, rispetto a qualcos’altro che viene evocato186. Nelle Coefore, Elettra mostra al Coro un bÒstrucon toma‹on una ciocca recisa dei capelli di Oreste: incerta sul da farsi, ella desidererebbe che la ciocca fosse dotata di fon» per esprimere con maggiore chiarezza il messaggio di cui è portatrice: se cosi fosse, la ciocca parlante si comporterebbe come un messaggero, ¢ggšlou d…khn187. La mancanza di voce è ciò che rende imperfetto il rinvio di “ciocca” a “messaggero” (cioè la possibilità di connettere la ciocca di capelli di Oreste all’etichetta “messaggero”). Elettra sta qui indicando la possibilità di una relazione per cui qualcosa (nel nostro caso l’oggetto di fantasia “ciocca parlante”), sta per qualcos’altro (un messaggero), agli occhi di qualcuno (di Elettra). In questo processo di rinvio d…khn indica che la relazione, stabilita da Elettra in quel momento 188 , va dall’oggetto verso ciò cui l’oggetto si riferisce. D…khn fa emergere le proprietà simboliche della ciocca di capelli, che, se dotata di voce, rimanderebbe interamente, avrebbe in sè, tutti i tratti di un messaggero. Un messaggero che – cosa molto importante – direbbe ad Elettra cosa fare in quella specifica circostanza. Se, in senso avverbiale, dike può assicurare il rapporto simbolico fra “oggetti”, usata come sostantivo, dike è generalmente connessa ai rapporti fa persone e segnala la presenza, in un comportamento verbale, di qualcosa che lo oltrepassa, rinviando ad altro. Questo “altro” è in genere un modello o un ambiente che ispira/detta i comportamenti del parlante. Dike è una sorta di scettro interiore. In questo senso dike può esprimere la connessione, l’adeguamento, la conformità ad un certo comportamento identificato come modello o fonte. Quando per esempio, nell’Odissea, Penelope parla della dike dei “re divini”, sostenendo che essa consiste nell’amare qualcuno e nell’odiare qualcun altro; o quando viene detto che la dike dei mortali consiste nella consumazione di carne e ossa e nella liberazione dell’anima; o infine quando Penelope lamenta che la dike dei pretendenti non è quella che si segue di solito nel corteggiare una donna; in tutte queste occasioni e in altre simili, dike esprime
Questo valore di d…khn come “capacità di rimandare a qualcosa di cui si mostrano i tratti” rimanda a ius, un termine per molti versi parallelo, pur nella diversa vicenda etimologica. Nel’avvertire il lettore della specificità arcaica di ius, rispetto sia all’uso del termine nel lessico giuridico moderno, sia allo stesso uso medio e tardo repubblicano, Schiavone 2005: 52-56, sottolinea come fosse indistricabilmente connessa allo ius la rappresentazione di uno stato di conformità, che attraverso il rito, si stabiliva fra le parole pronunciate e lo stato di cose su cui quelle parole intervenivano. Ius era dunque, e ciò è evidente nel giuramento, ius iurandum, una parola stereotipata, in cui la cosa evocata si “mostrava”, in virtù dello stesso processo con cui, negli indigitamenta, il numen nominato nella litania evocava direttamente il segmento specifico della realtà cui era preposto. 187 Esch. Coeph. 195. Tutta la scena verte sui ragionamenti induttivi: poco dopo infatti Elettra vedrà delle orme, deÚteron tekm»rion, «secondo indizio» della presenza di Oreste, che di lì a poco si paleserà. Su tekm»rion vedi Hankinson 1997. 188 È molto importante sottolineare come l’esemplificazione non coinvolga un codice prestabilito (nessun codice infatti annovererebbe fa gli i significati di “ciocca parlante” – se questo termine esistesse – quello di “messaggero”): è Elettra, in quel particolare frangente, a collegare induttivamente i due ambiti. Vd. La Matina 2007: 116 e ss. 186
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il rinvio di un dato comportamento verbale e non verbale ad un comportamento analogo cui viene assegnato carattere normativo, ad un modello. Tale rinvio non è però mostrato dal parlante (come accadeva per colui che brandiva lo scettro) ma è fatto dall’osservatore esterno, il quale è in grado di connettere un comportamento ad un modello che riconosce come valido. Non si tratta di un codice rigido o prestabilito, ma di ciò che è lecito aspettarsi in certe circostanze189. In d…kh c’è, in questi casi, un rapporto che prevede (almeno) tre soggetti: il modello di comportamento (personificato o astratto), colui che esemplifica quel comportamento, l’osservatore che ricostruisce il processo e connette i due fatti190. D…kh può rimandare ad una themis, una regola, ma il collegamento non è meccanico. Nei casi incerti o nuovi il processo di collegamento fra comportamento e regola viene operato da un terzo qualificato, che «giudica», dik£zei, assegnando la dike, cioè ricostruendo un collegamento che, per qualche motivo, si era interrotto. In quest’uso, Omero usa spesso il plurale, d…kai. Che sono dunque delle pronunce, dei giudizi, delle formule che realizzano riferimenti. Quando gli anziani, nella raffurazione dello scudo di Achille, giudicano, essi, molto probabilmente, emettono delle sentenze che altro non sono se non precedenti, formule che possono essere “dritte” o “storte”, citate male o applicate in modo inappropriato191. In questo caso è implicato anche un senso performativo, per cui la dike detta dal giudice ha effetto immediato sul colui che riceve il “diritto” (o il “torto”). Occorre notare che, in dike, non è soltanto in questione il contenuto di un comportamento, bensì il suo grado di formalità, il suo “mostrare” qualcosa. Ora, questo qualcosa mostrato può essere un modello “verticale” rispetto ad un soggetto che mostra (un dio, un superiore), ma anche un modello “orizzontale”, un individuo con cui si condivide uno spazio di comunicazione. È questo il caso in cui dike si riferisce ad un accordo non fra un comportamento ed un modello generale, ma ad un accordo fra due persone, cioè fra i rispettivi comportamenti verbali. È questo il caso della dike ricostruita da Menelao in occasione dei giochi funebri per Patroclo, nell’Iliade. La vicenda è questa: Antiloco è giunto secondo nella gara dei carri: il suo comportamento però è stato scorretto perché egli ha volontariamente ostacolato il carro di Menelao. Menelao si alza dunque e, tenendo lo scettro, annunzia che farà giustizia e che la sua sarà una giustizia retta, „qe‹a. In che cosa consiste questa dike? Me-
Hom. Od., IV 690 e ss; XI 217 e ss.; XVIII 275 e ss. Vd. Havelock 1981: 221-225. Nelle pieghe di questi rapporti mi pare vada collocata la polemica omerica ed esiodea sulle d…kai skolia… “storte” o eÙqeiai “dritte”. Non ritengo che la “stortura” di una sentenza sia da intendersi come puramente linguistica: una sentenza “storta” non è “contorta”, cioè costruita con parole speciose o poco perpicue, ma è storta o dritta rispetto ad modello che incarna la norma. Può essere significativa la presenza della radice di de…knumi in par£deigma, “modello”, “esemplare” (letteralmente: “che mostra accanto a sé”). Il concetto di paradigma è stato studiato soprattutto per le sue implicazioni di epistemologia della storia, vd. Canfora 1982; Ginzburg 2000 e Ginzburg dibattito, mentre non mi sembra si siano valutate le sue connessioni con la sfera di d…kh. 191 Hom. Il., XVIII 497 e ss. su cui vd. Havelock 1981: 165-168. 189 190
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nelao invita Antiloco a giurare, toccando i suoi cavalli, che non ha usato la frode per vincere la gara. Antiloco si arrende: non è in grado di fare questo giuramento. Menelao lo perdona e i due si riconciliano. Questo caso di dike è diverso da quelli già esaminati: qui infatti, attraverso la procedura, si arriva ad un accordo fra persone, cioè fra proferimenti. Questa dike è una procedura che accorda due proferimenti, i quali, riverberandosi l’uno nell’altro, diventano “veri” nella procedura stessa (infatti, prima di essa, Menelao temeva che si pensasse di lui che «con menzogne avesse fatto violenza ad Antiloco»)192. L’analisi di adikia mette in luce questo aspetto, che non si coglie immediatamente e che riguarda proprio l’interazione verbale e non verbale fra gli individui: è un comportamento “ingiusto” quello che non tiene conto dell’interlocutore e non si adegua correttamente ad esso, non lasciandosene contagiare empaticamente. Fare ingiustizia equivale infatti nel lessico amoroso, a non intendere correttamente quanto l’innamorato dice all’amante, sfuggirgli con l’inganno, evitare il confronto amoroso, non contraccambiare. Non rende “giustizia” chi, non compiendo una adeguata ricezione del messaggio amoroso, non si dispone al contraccambio193. Abbiamo già visto come trascurare una richiesta di supplica significhi commettere ingiustizia e, in concreto, rivelarsi indifferente alla salvezza del supplice; al contrario fare giustizia significa, nella supplica come in altre di comunicazione, lasciarsi contagiare dal suo desiderio di salvezza e così salvarlo. Giustizia è dunque un dispositivo di reciprocità necessaria, un valore relazionale, presente in ognuno, che consente agli uomini di non essere indifferenti l’uno alla salvezza dell’altro, di “farsi giustizia” vicendevolmente194. Ecco perché, soltanto la distribuzione egualitaria, fatta per volere di Zeus, delle due technai politiche, rispetto e giustizia, consentirà la salvezza degli uomini prometeici rendendoli in grado di vivere nelle città che hanno fondato e di opporsi alle fiere195. La salvezza chiama in causa la dotazione di capacità responsionali orizzontali, cioè la scoperta delle potenzialità di ciascuno in ordine alla reciprocità: il rapporto che prima era possibile soltanto nei confronti del “donatore” dell’identità si scopre possibile fra ciascuno e molti (o tutti) gli altri.
Hom. Il., XXIII 579-95. Traggo questa analisi di adikia nel lessico amoroso da Gilli 1988: 328-31. Vd. Gentili 1972 e 1975; Pellizer 1979; Prato 1969-1971. 194 Il valore relazionale di dike è ben espresso da Aristot. Et. Nic., 1129b25-1130a5. Gilli 1988: 391-397, vede una testimonianza del valore relazionale-reciprocativo di dike nella formula «non fare né subire ingiustizia» che si trova in Plat. Res 358e-359b e in Epic. Rat. Sent. XXXII e che rifletterebbe una teoria contrattualistica (perduta) del V secolo. 195 Quale possa essere il significato di questa guerra contro le fiere è spiegato da Gilli 1988: 511 e ss. sulla base dell’analogia, proposta da Isocrate, Panat. 163, fra la guerra contro i barbari e quella contro le fiere, paradigma di guerra naturale e giusta. La contiguità fra sfera della caccia e guerra è messa in evidenza da Shnapp 1979. La caccia è poi strettamente connessa alla pratica dal forte significato politico del sacrificio: vd. Vidal-Naquet 1969; Burkert 1981. 192 193
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La connessione fra giustizia e salvezza spiega molti aspetti del mito del Protagora: l’ingiustizia degli uomini “prometeici” è la mancata reazione dell’uno alla richiesta dell’altro, inadeguamento (adikia) che preclude ogni possibile forma di relazione fra gli individui connotabile in termini di salvezza196. Il corpo dell’altro Avevamo ipotizzato che il corpo fosse centrale nella comunicazione politica: un primo passo in questo senso lo si compie riflettendo sul ruolo del corpo nella comunicazione fra supplice e supplicato e fra amato e amante. Vediamo cosa accade nella comunicazione politica, assembleare. Il passaggio dall’ingiustizia della stasis alla giustizia della salvezza è narrativizzato dall’Iliade nell’episodio della sospensione dell’ira di Achille. Dall’analisi di questo episodio si coglie con chiarezza come dike abbia a che fare con la reazione di un individuo ad una persona che ricade entro la sfera della sua responsabilità e con la presa in carico della salvezza altrui. Insensibile a vari tentativi di farlo recedere dalla sua decisione, è solo alla notizia della morte di Patroclo che Achille, che ancora sedeva in disparte accanto alle navi, viene colto da disperazione: egli soffre ora per non essere stato presente a fianco dei compagni, non averli difesi, ™ta…rw kteinomšnw ™pamànai. L’ira gli ha impedito di essere per Patroclo ¢rÁj ¢lktÁra, «difensore dal male» e, più avanti, f£oj, «luce»197. Su consiglio di Iri, che illustra all’eroe la ressa accesasi intorno al corpo di Patroclo: essi l’un l’altro si uccidono, questi in difesa del corpo del morto, quelli di trascinarlo verso Ilio ventosa, i Teucri, avidi198
Achille, per reazione al corpo morto dell’amico, accetta di apparire sul fossato, ancora disarmato, dando respiro alla battaglia. Qui, per l’intervento di Atena, egli appare come «vampa splendente». Vale la pena riportare per intero la similitudine che accompagna l’epifania di Achille perché essa condensa molti dei temi fin qui toccati. Come il fumo salendo da una città giunge al cielo, da un’isola lontana, che i nemici circondano; quelli per tutto il giorno in lotta tremenda si provano,
Salvezza va qui inteso come sopravvivenza materiale in relazione ai bisogni della specie: alimentarsi, ripararsi e difendersi dalle intemperie e dalle belve. 197 Hom. Il., XVIII 98-126. 198 Hom. Il., XVIII 170-180. 196
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fuori dalla città; ma col calar del sole pire fiammeggiano fitte; alto il chiarore sale e risplende, così che i vicini lo vedano, se mai sulle navi accorressero, a scongiurar la rovina; in questo modo andava in cielo la vampa d’Achille199.
Nella “città assediata”, fosse pure un’isola (la più attrezzata per respingere l’assedio) non c’è salvezza, a meno che non si erga una luce, a richiamare l’aiuto dei vicini ai vicini, «a scongiurare la rovina», ¥rew ¢lktÁrej200. Questa luce, che non ha bisogno di armi, è Achille. Il corpo di Patroclo è centrale nello svolgimento della vicenda201. Il primo gesto di Achille, deposta l’ira, è quello di rendere gli onori funebri al compagno morto, facendone lavare il corpo e rivestire di morbide stoffe. Perfino quando Achille è ormai in procinto di armarsi con le armi forgiate per lui da Efesto202 e portategli dalla madre Teti, il suo pensiero corre al corpo del morto, nel timore che entrino mosche per le piaghe aperte dal bronzo e facciano nascere vermi, sfigurino il corpo – la vita è stata uccisa – marcisca tutta la carne203.
Hom. Il., XVIII 207-214. La radice di ¢lkt»r, “difensore”, “soccorritore” è la stessa di ¢lk», il “valore” di cui Diomede rinfacciava ad Agamennone la mancanza (Hom. Il., IX 39): la resistenza davanti al pericolo, la forza difensiva. 201 E tuttavia il cambiamento di Achille non è – a mio avviso – generato da pietas nei confronti del morto: la morte di Patroclo è un memento della sorte che attende tutti gli assediati. La vendetta, che pure vi ha una parte notevole, non è che un corollario della riflessione di Achille sulla inutilità sociale della propria techne (vd. Hom. Il., XVIII 104-106: «siedo qui presso le navi, inutile peso della terra,/ io che sono forte quanto nessuno dei Danai chitoni di bronzo/ in guerra»). Dove “utile” è valore fortemente politico. Un’evoluzione che progressivamente lo allontana dagli schemi più arcaici della sua techne, ravvisa in Achille Gilli 1988: n. 480 n.9. 202 Non credo sia una mera coincidenza che al nuovo atteggiamento di Achille corrispondano nuove armi e che queste siano fabbricate da Efesto. L’identità di Achille è profondamente legata alle armi, come mostra l’episodio in cui Odisseo riesce a smascherare la sua vera identità (Achille era travestito da fanciulla per evitare la partecipazione alla guerra di Troia, in cui avrebbe trovato la morte) mostrandogli delle armi: vd. Filostr. Im. 1; Apoll. Bibl. III 13,8; Schol. Hom. Il., XIX 326. Efesto, che nell’Iliade svolge sempre il ruolo di pacificatore, di mediatore, è secondo Delcourt 1957: 50-53, costruttore di armi difensive: scudi, corazze, elmi, schinieri. I suoi interventi diretti in battaglia sono anch’essi difensivi: così egli lotta contro lo Scamandro (Hom. Il., XXXI 342 e ss.) per proteggere – una protezione ulteriore – quell’Achille “nuovo” per cui aveva fabbricato lo scudo. Infine, ma il tema richiederebbe maggiore spazio e documentazione, sul nuovo scudo di Achille sono effigiate la polis nell’atto di amministrare la giustizia e la polis assediata: gli cui abitanti «il muro, le spose care e i piccoli figli/ difendevano impavidi, e gli uomini che vecchiaia spossava» (Hom. Il., XVIII 514-15). Una guerra, quella effigiata nello scudo, che non ha più nulla di epico, ma è descritta nella sua crudezza. Di Donato 1996 sottolinea come manchi nello scudo «l’ideologia che sostiene per intero il vivere e l’operare di cloro che assediano Troia» e conclude: «rispetto al narrato iliadico, alla sua sostanza, alla sua ideologia, lo scudo è lo specchio dell’avvenire (…)». Sullo scudo di Achille, vd. ora Musti 2008. 203 Hom. Il., XIX 25-27. 199 200
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Deve intervenire Teti a istillare a Patroclo ambrosia e nettare per conservarne intatto il corpo. Ed è parimenti corporea la reazione di Achille che, oltre allo strazio e al pianto, resta digiuno e affamato, e sordo ai numerosi inviti a nutrirsi che i compagni gli porgono in tal senso: anche stavolta deve intervenire Zeus affinché Atena gli istilli nel petto nettare e ambrosia per non farlo vincere dalla fame. La fame e gli altri segni del lutto, dicono la presa in carico della morte di Patroclo e della vita dei compagni da parte di Achille, nel suo corpo. Ma il corpo di Achille, in cui è iscritta ormai la reazione all’altro, è anche segnale, luce. Il suo gesto, la sua epifania, mette in moto un contagio positivo, si pone in qualche modo come “un precedente”, è una performance che fa testo, legittima e orienta un comportamento successivo, illumina chi lo vede compiersi. Ciò è mostrato dall’incontro pacificatore fra Achille e Agamennone: di fronte alla decisione di Achille di cedere dalla contesa, Agamennone non può fare altro che lasciarsi contagiare empaticamente (illuminare) dal mutato atteggiamento di Achille e cedere anch’egli. La relazione che si instaura fra i due è del tutto nuova e, si direbbe, primigenia. Ad Achille, che ha appena illustrato il suo proposito di interrompere l’ira, Agamennone risponde infatti con un discorso molto lungo, che ha inizio con un ragionamento sull’ascolto degli altri. certo è bello stare a sentire un uomo ritto; pur non bisogna interrompere, perché è difficile anche per uno esperto. Tra molto chiasso d’uomini come potrebbe uno sentire o parlare? Vien disturbato anche un sonoro oratore. Io dunque al Pelide mi rivolgerò: ma voi altri comprendetemi, o Argivi, capite bene la parola ciascuno204.
Di che, o di chi, parla Agamennone? All’inizio, di Achille, indubbiamente: è Achille l’oratore «che sta ritto in piedi» mentre Agamennone non interrompe. Poi però sembra che Agamennone si metta nei panni di Achille, ne avverta la difficoltà, senta per la prima volta il rumore dell’assemblea, difficoltà che ora egli sente anche come sua: è difficile parlare e farsi ascoltare! È difficile ascoltare, ma è anche bello e ciascuno deve partecipare a questo nuovo parlare e ascoltare, ciascuno deve ascoltare, anche se la voce di Agamennone è – adesso – una voce fra le altre. Tutto avviene come se Agamennone, che parla ora dal suo posto, seduto, stesse ascoltando e parlando per la prima volta. Egli parla e spiega le sue ragioni. È Odisseo a esporre in che modo la riconciliazione debba avvenire e la comunicazione interrotta riavviarsi: sciolto l’esercito, occorre preparare il pasto; Agamennone deve portare in mezzo alla piazza i doni per Achille, giurare di non essersi unito a Briseide ed invitare Achille a cena nella sua tenda. Questa liturgia in cui Agamennone
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Hom. Il., XIX 78-84.
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prende atto finalmente di Achille, gli restituisce doni e identità, è dike: compiendola – dice Odisseo – «niente sarà tralasciato di dike» e anche in futuro Agamennone potrà essere «più giusto», dikaiÒteroj, verso gli altri205. Dike è la riattivazione della reciprocità, e questa può esprimersi nell’iscrizione entro il confine corporeo della reazione al corpo altrui, come nel lutto, ma può anche prendere forma di riattivazione del carattere “performativo” della parola. Avevamo ipotizzato che, interrottasi la comunicazione per l’offesa fatta ad Achille, Agamennone fosse stato quasi contagiato da una sorta di malattia delle parole che “non andavano a compimento”, parole “vane”. Esse provenivano sì da Zeus (attraverso il sogno), ma uno Zeus in cui la dike verso Teti e la synousia con Agamennone erano venute in contrasto, uno Zeus dimidiato, in preda – potremmo dire – alla stasis, che non pensa di comune accordo con se stesso. L’andare a compimento delle parole è il loro carattere performativo: è performativo un enunciato che realizza immediatamente il suo significato, produce un fatto; non denota, non descrive stati di cose o proprietà di oggetti o azioni di soggetti. Per dirlo con le parole dell’epos, è mÚqoj che giunge istantaneamente al suo tšloj. L’enunciato performativo rimanda, secondo Benveniste, ad una realtà che è l’enunciato stesso a costituire e che è costituita sospendendo il valore denotativo dell’enunciato stesso206. Ciò può essere verificato analizzando il giuramento. Nel giuramento, “io giuro” ha l’effetto di sospendere il valore denotativo del dictum cui si riferisce, per es. “non combatterò contro i Troiani”. Cosicché, nel sintagma performativo “giuro che non combatterò contro i Troiani” si pone come significativa la relazione autoreferenziale fra le parole e le cose. L’altra faccia del giuramento è lo spergiuro, le parole vane, dove ciò che è detto non giunge a compimento e le parole letteralmente “cadono nel vuoto” 207. Nella stasis, le parole perdono il loro carattere “performativo”. Non ci sorprende a questo punto il tenore del discorso con cui Agamennone interrompe a sua volta l’ira: egli, che ha già manifestato il piacere del tutto nuovo dell’ascolto che ha provato alle parole di Achille, sostiene la sua incolpevolezza («che potevo fare?»). Colpevole fu Ate la figlia maggiore di Zeus, che già una volta indusse il padre a “errare”. Ma che cos’è l’errore di Zeus (e di Agamennone)? Altro non è se non la parola che non si compie, lo spergiuro. Ate ha il preciso effetto di impedire che il parlante dia compimento alle proprie parole208.
Hom. Il., XIX 181. Benveniste 1971. 207 Tengo conto in questa analisi dei risultati cui perviene Agamben 2008. Vd. anche, su posizioni diverse, Loraux 1997: 121-146 208 Su Ate, vd. Dodds 2003: 43 e ss.; Aubriot 1984. Se prendiamo per buone queste parole di Agamennone, dovremmo concludere che questo e non altro – la sua incapacità di dar compimento alle parole – era all’origine dell’episodio della messa alla prova dell’esercito in II, 110 e ss. Questa “malattia della parola” ha reso la parola di Agamennone priva di presa sulla realtà: ciò si manifesta sia nella apparente disobbedienza degli anziani che non fanno ciò che Agamennone aveva ordinato loro – trattenere i soldati con parole – sia nella reazione dei soldati stessi che non danno compimento all’intenzione di Agamennone. 205 206
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È, dunque, come reazione alla nuova attitudine di Achille, all’emozione prodotta dall’ascolto della sua parola, che Agamennone è ora in grado di giurare. Per cooptazione, la reciprocità si estende formando comunità sempre più grandi. Ma cosa lega il giuramento alla reazione all’altro? Azzardiamo una spiegazione. Nel linguaggio orale, il giuramento – come lo spergiuro, la blasfemia e l’eufemia – ha spesso la forma di un’interiezione: nell’interazione verbale “giuro” si manifesta spesso come un’esclamazione, “giuro!” (o, meglio ancora, “ti giuro!”), ed ha la sintassi delle interiezioni. Se intendiamo la lingua orale come una dimensione comunicativa originaria, ed estendiamo al giuramento ciò che Benveniste dice delle esclamazioni (più precisamente della blasfemia), possiamo definirlo come una parola che si pronuncia «sotto l’impulso di un sentimento vivo e improvviso»209. Ci troviamo qui in uno strato linguistico – quello della interazione verbale orale – in cui le parole non designano le cose, ma le reazioni dell’individuo a oggetti, altri individui, stati di cose che producono timore, ammirazione o in generale “emozione”: i nomi, secondo i linguisti, nel loro statuto originario costituiscono anch’essi un elemento non semantico ma esclamativo210. Il giuramento pertanto sembra il gesto con cui un parlante designa un altro parlante come “seconda persona”, la presenza della quale fa si che le proprie parole possano andare a compimento. Questo carattere performativo della parola è proprio un effetto del ripristino dello spazio comunicativo creato da dike, e rende possibile un nuovo giuramento di Agamennone. Come nella stasis di Corcira era stato il patto a sospendere la stasis, così ora la sospensione della stasis è sancita dal giuramento (ciò non significa che durante la stasis il giuramento fosse impossibile, ma che esso si risolveva nello spergiuro, a causa della mancanza di potere performativo delle parole)211. È opportuno insistere sul carattere mimetico di dike: per Agamennone, dike significa tenere conto di Achille e reciprocarlo e ciò gli apre lo spazio del ‘compimento della parola’ attraverso il giuramento; per Achille dike significa prendere in carica la morte di Patroclo attraverso il lutto, nei suoi segni esteriori e interiori, per entrambi significa interrompere la precedente stasis. Partendo da Achille, dike si propaga per contagio mimetico. Dike produce un circuito comunicativo che differisce notevolmente da quello prodotto dalla circolazione dello scettro: quello procedeva da Zeus ad Agamennone in senso verticale e poi, da questi agli altri parlanti; dike crea un circuito orizzontale in cui la comunicazione circola liberamente e l’individuo ‘prometeico’ entra in relazione con
Benveniste 1971: 256. Agamben 2008 19 e ss. 211 Una problematica per molti versi affine è quella segnalata da Tucidide III 82,3-4: Cambiarono a piacimento il significato consueto delle parole in rapporto ai fatti. E poco più avanti: e se mai vi erano giuramenti di riconciliazione, erano pronunciati da entrambe le parti perché non si vedeva via d’uscita e non valevano che per il momento. Su questo passo, molto commentato, vd. Loraux 1986. 209 210
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una seconda persona, faccia a faccia. L’idea di dike esprime la reazione alla seconda persona che è sottesa, “mostrata”, ad ogni dicere, cioè ad ogni comportamento verbale. È solo ad una seconda persona che possiamo fare giustizia, dove “fare giustizia” è allora prendere in carico la salvezza altrui. La differenza fra i due tipi di comunicazione sta nel tipo di relazione che è possibile istituire orizzontalmente: non che prima tale relazione non fosse possibile, ma essa non era “normativa”. La “seconda persona” esisteva naturalmente anche prima, ma non suscitava altra reazione se non un generico piacere o dispiacere, non vi era alcun dialogo, nel senso che l’ascoltatore non modificava in nulla le proprie teorie alla luce del nuovo proferimento212. Mentre la time non rendeva obbligatorio per Agamennone tenere conto di Achille e viceversa, ma imponeva a entrambi un comportamento atto sostenere le rispettive prerogative, la giustizia impone a ciascuno di tenere conto dell’altro e di reciprocarlo. Attivatosi una prima volta, il rapporto di dike si propaga: colui che è stato fatto oggetto di giustizia non può che essere a sua volta giusto nei confronti di un altro. Nel mito di Prometeo, la distribuzione di dike compiuta per volere di Zeus traduce in termini narrativi la consapevolezza della capacità di conformarsi alle attese altrui e che gli altri si conformino alle proprie – e dunque del carattere circolare della comunicazione, come mostrarsi reciproco – come minimo comune denominatore degli individui. La dike distribuita da Zeus è dunque collegata alla responsabilità nei confronti di qualcuno, implica un mostrare l’altro nel proprio parlare, un munus reciproco. Essa inoltre, poiché produce un accordo transitorio, consente di superare tutte quelle situazioni in cui lo status dei
Le parole pronunciate, in un simile contesto comunicativo, sono in un certo senso superflue: è lo status del parlante – età, ruolo, tipo di “specializzazione” e conseguente relazione con una divinità protettrice – a valere, prima ancora che egli parli. «La parola – secondo Cozzo 2001: 38 – (…) vale quanto vale chi la pronuncia, giudicato sulla base del suo potere e del suo status». Non concordo invece con Cozzo quando collega Il. XIX 79-82, il passo sull’ascolto di Agamennone, allo schema generale della comunicazione omerica del «dire e ascoltare la parola detta», perché, come ho già detto, in questo caso non si tratta né di dare compimento alla parola di un altro, cioè di autorizzare, né di scegliere una parola o un parere gradito, né di ricevere un’informazione, ma di accettare il contagio empatico, al di fuori dal proprio ruolo istituzionale. Prova di ciò è la necessità di una terza persona, Odisseo, che dia compimento alle parole di Achille e di Agamennone. Se la comunicazione avesse rispecchiato anche in questo caso lo schema Superiore-Inferiore che Cozzo ravvisa giustamente nella comunicazione omerica, l’intervento di Odisseo sarebbe stato superfluo: Achille avrebbe obbedito ad Agamennone o viceversa. La comunicazione orizzontale della riconciliazione rende invece possibile e necessaria una composizione unitaria, comune, quale quella fatta da Odisseo. Una certa vulgata “oralista” vuole che non sia data, all’interno dei poemi, la possibilità di un cambiamento dei personaggi e lo stesso concetto di “personaggio” viene considerato un prodotto “testuale” sconosciuto nell’oralità, le indagini più recenti mostrano invece che l’oralità si concilia anche con la gestione di una narrativa complessa e pienamente “testuale”: vd. Scoditti 2003. 212
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parlanti sia disequilibrato (non a caso essa garantisce il supplice rispetto al destinatario della supplica). Finché le azioni sono determinate da ciò che fa di ciascuno un pari in un consesso di pari, la comunicazione può essere interrotta ogni qualvolta che questo statuto (artificiale) viene violato, ma se ad essere chiamato in causa è il munus, anche nei confronti di chi non è (o non è più) pari, la comunicazione ridiventa possibile.
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AUREA MEDIOCRITAS
La a-technicità della politica Le comunità fondate sulla competenza technica, cioè sullo svolgimento di attività quali la medicina, la navigazione, la pastorizia, si differenziano nettamente dalla comunità politica. Nella quale non sono ammessi molti dei tratti distintivi dell’esperienza technica. Questa estraneità della politica all’esperienza technica è sottolineata con forza dal Protagora. Abbiamo finora analizzato il mito di Prometeo che vi è contenuto senza considerare la sua funzione all’interno del dialogo; cerchiamo invece adesso di valutarlo in una più stretta relazione con le altre parti del discorso. Il problema cui il testo cerca di dare risposta è se l’arte politica sia più o meno insegnabile, come l’architettura o la carpenteria; una questione verosimilmente dibattuta ad Atene durante la guerra del Peloponneso, poiché (anche) da essa dipendeva la valutazione che bisognava dare dell’operato dei sofisti, i quali si presentavano apertamente come technici dell’insegnamento e il cui oggetto era anche la techne politike213. La contrapposizione tra le technai e la techne politica attraversa il dialogo fin dall’inizio: infatti essa si precisa a poco a poco come l’oggetto dell’insegnamento di Protagora, che il giovane Ippocrate vorrebbe assicurarsi. Mentre Socrate aveva messo in guardia il giovane, sostenendo che dal sofista egli avrebbe appreso niente di più di una professione, cioè ad essere un sofista, cosa di cui avrebbe dovuto di certo vergognarsi214, Protagora definisce diversamente l’oggetto del suo insegnamento, spingendo
Secondo numerose fonti, fu proprio Protagora ad introdurre la prassi delle lezioni a pagamento: vd. Philostr. V. soph., I 10. Vd. anche Plat. Men., 91d. Per un inquadramento del problema vd. Kerferd 1988: 169-178. 214 La differenza fra il punto di vista di Platone e la consuetudine ateniese rispetto al lavoro libero viene messa giustamente in evidenza da Meiskins Wood 1996; ma l’osservazione di Socrate non pare avere di mira il lavoro in quanto tale bensì riguardare proprio la professione del sofista, avversata dagli Ateniesi sia per il fatto di pretendere un compenso laddove sarebbe più idoneo accontentarsi di amicizia e riconoscenza, vd. Xenoph, Mem., I 2,7, sia in quanto tale sistema consentiva di impartire lezioni a gente di tutti i tipi, Plat. Hipp. Ma. 282 d1. 213
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lo stesso Socrate ad affermare che esso consiste nella techne della politica e nella formazione del buon cittadino215. Ma questa, secondo Socrate non è insegnabile, non essendo una techne al pari di altre quali la carpenteria o l’architettura: all’obiezione di Socrate Protagora risponde con il racconto del mito che abbiamo già analizzato216. L’ arte politica, dunque, nel pensiero di Protagora, è una techne al pari delle altre, si differenzia però sostanzialmente da esse per il modo in cui è posseduta dai singoli individui. Mentre infatti le technai sono state distribuite agli uomini in modo irregolare, in modo tale che, non soltanto non tutti possiedono la stessa techne, ma anche non tutti posseggono techne in assoluto, la techne politica è stata divisa da Ermes, per volere di Zeus, fra tutti ed in modo che tutti ne abbiano parte217. Occorre sottolineare che la divergenza rispetto alla posizione di Socrate non è poi così cospicua: entrambi infatti ammettono che tutti siano partecipi dell’arte politica – tutti possono prendere la parola in assemblea – e divergendo invece sulla possibilità (e
Dodds 2003: 233-234, rileva come l’atteggiamento di Protagora sull’insegnabilità della virtù («un atteggiamento ottimistico che oggi può far sorridere ma che è tuttavia storicamente comprensibile») sia da collegare con il clima generale di quegli anni, con la fiducia di una generazione per la quale «l’età dell’oro non era il paradiso perduto di un nebuloso passato, come aveva creduto Esiodo; per loro l’età dell’oro era nell’avvenire, e in un avvenire non troppo lontano». Tuttavia può risultare fuorviante ritenere che l’oggetto della discussione sia in un senso molto vasto «il problema psicologico della condotta umana» – come ritiene Dodds – quando ciò da cui prende le mosse il dialogo è: «come essere idonei a trattare gli affari dello stato». Si tratta cioè, almeno all’inizio del dialogo, di questioni molto concrete, di cui discutere in assemblea. È pur vero che la discussione attinge anche, in certi momenti, a questioni più ampie che chiamano in causa il piacere e il dolore, e che – indubbiamente – «i Greci hanno sempre sentito l’esperienza delle passioni come un fatto misterioso e pauroso», ma non concordo sul fatto che «quel che a noi sembra strano è che ambedue mettono da parte tanto facilmente il contributo delle emozioni», perché è proprio della normatività della politica che si sta discutendo, come sottolinea Meiskins Wood 1996: 624, e non della sua patologia (argomento, beninteso, degnissimo). Quanto alla polemica antisocratica portata avanti da Euripide, che afferma per bocca di Fedra l’impotenza morale della ragione, è giusto ricordare che è la scelta di campo – la morale – che rende inservibile il criterio socratico. Nessun intento etico, ma «regole di comportamento pubblico sempre mediato dallo sguardo altrui» vede, nel mito del Protagora, Cassin 2005: 564. Il tema è, ovviamente, molto più vasto di quanto sia possibile rendere conto. 216 Secondo Jaeger 1961: 274-75, il mito si rifaceva allo scritto del sofista Per… tÁj ™n ¢rcÍ katast£sioj Diog. Laert. IX 55, DK 80a 1. 217 Ermes è chiamato in causa dal mito non solo in quanto messaggero, ruolo che tradizionalmente gli compete, ma anche per la sua connessione – ritengo – con la sfera degli accordi, dei patti, dei giuramenti, della comunicazione in generale. Vd. Vernant 19843, 147-200. Ermes appare, anche nella favola esopica – di cui Gilli 1988: 172-181 osserva il valore documentario per la ricostruzione del processo di trasformazione delle dynameis originarie in virtù – come portatore di eguaglianza. Dei logoi arcaici di Esopo, gli studi più recenti sottolineano l’aspetto demegorico e pubblico: vd. Luzzatto 1996. Zeus è invece – nel mito – il detentore del sapere politico – che sta «nella sua dimora». Anche nel Prometeo eschileo, Zeus è colui che «ha presso di sé il giusto». Questo aspetto di Zeus è l’esito di un processo che trasforma il re di una società eroica in principio di giustizia cosmica: vd. Vegetti 1990 27-29. 215
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modalità) di insegnarla al livello ‘alto’ confacente allo status sociale di giovani quali Ippocrate o Alcibiade218. Su questo preciso punto si apre un fronte interessante del dibattito: Socrate, nel ritenere che la virtù politica (spesso dagli interlocutori definita soltanto virtù) non fosse insegnabile, sembra avere in mente il metodo di insegnamento delle technai: con un oggetto specifico ed una metodologia specifica per ciascun campo219. Protagora invece mostra come l’insegnamento della techne politica non abbia un campo specifico ben delimitato, ma sia in un certo senso trasversale a tutti gli altri campi, specializzati e non, come pertinente ad ogni parola ed azione di colui che vuole apprenderla e come, nella pratica corrente, vi concorrano varie figure pedagogiche, il padre la madre e perfino la nutrice. Il modello cui pensa Protagora è quello dell’insegnamento/apprendimento della lingua madre: «se tu cercassi chi possa essere il nostro insegnante nella lingua greca, non lo troverensti credo (…) così è della virtù»220. Analogamente, nell’Alcibiade I, Alcibiade sostiene di aver imparato «il giusto e l’ingiusto» dalla «maggioranza delle persone» e all’obiezione di Socrate sul non essere costoro maestri validi, Alcibiade risponde che da loro ha imparato a parlare il greco: «non potrei indicarti un maestro che mi ha seguito personalmente, ma mi riferisco a coloro che tu definisci maestri non validi»221. Il comportamento “politico”, verbale e non verbale, è quasi un prolungamento naturale dell’appredimento linguistico222. Anche le figure pedagogiche specializzate, accanto all’insegnamento dell’oggetto della propria techne – la lettura e la scrittura, suonare la cetra etc. – insegnano la techne politica in modo indiretto nel momento in cui educano il fanciullo all’armonia e alla mitezza223. In seguito sono le leggi a insegnare a vivere politicamente224.
Vd. Dodds 2003: 233-34, che però giudica entrambe le posizioni lontane dall’opinione comune dei Greci del tempo. ‘Insegnare’ ha per Protagora una duplice valenza: indica un processo continuo di insegnamento/apprendimento che si svolge nella polis e che ha come modello quello dell’apprendimento della lingua madre e anche il perfezionamento, operato dal sofista, che si sovrappone a questa base di apprendimenti “spontanei”. Molto interessante l’accostamento proposto da Meiskins Wood 1996: 625 fra l’apprendimento della techne politica e l’apprendistato. Il tema dell’insegnamento/apprendimento della techne politica viene ripreso da Socrate nell’Alcibiade I alla luce della formulazione del principio della “cura di sé”. L’idea di insegnamento/apprendimento proposto da Socrate nell’Alcibiade I recupera in un certo senso il modello di trasmissione verticale delle technai – dal divino all’anima – conservando per il filosofo un ruolo “prometeico” di “governo” dell’anima. Il tema è naturalmente assai più ampio di quanto sia qui possibile rendere conto. 219 Un possibile parallelo è quello con le scuole mediche, su cui possediamo qualche notizia. Vd. Natali 2005: 231. 220 Plat. Prot. 327e. 221 Plat. Alc. I 111. 222 Il tema è di estremo interesse e, direi, scarsamente indagato: vd. l’unico cenno che ho trovato è Cassin 205: 564. 223 E questo ha permesso – in passato – una sorta di travestimento del sofista, che per sfuggire al discredito della polis, si sarebbe, secondo Protagora, fatto scudo di insegnamenti specifici per nascondere il proprio insegnamento. Vd. Plat. Prot., 316 c5-e 5, su cui Szelazák 1992: 228-249. Sugli attacchi ai sofisti come attacchi indiretti a Pericle vd. Giangiulio 2005. 224 Sul valore “educativo” delle leggi, vd. De Romilly 2005: 203-225. 218
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Questa trasversalità della virtù politica si traduce per Protagora in una analoga trasversalità del suo apprendimento/insegnamento: tutti possono/devono apprendere e insegnare la techne politica: sebbene Protagora non escluda l’esistenza di una predisposizione naturale all’insegnamento o all’apprendimento della virtù. Qui si inserisce infatti la possibilità di un insegnamento “specializzato”225. Ora, proprio questo scarto di Protagora, cioè l’ammissione di un “secondo livello”, di una sorta di specializzazione nella virtù politica, sembrerebbe contraddire l’assunto precedentemente affermato dal mito, che cioè la virtù fosse stata data a tutti in modo uguale. Qui Protagora inserisce un elemento molto importante: ciò che conta nell’arte politica – egli sostiene – non è, come nelle altre technai, essere in possesso della virtù in massimo grado, quanto essere abbastanza capaci fra i due estremi del possessore massimo e di quello minimo, l’inesperto o il “selvaggio”226. Il possesso della techne politica non è dunque caratterizzato dal “tutto o niente” delle altre technai: esiste un livello “zero”, di carattere diciamo etnologico, che connota i popoli senza politica (prometeici, potremmo dire); un livello “medio”, che è quello richiesto dalla polis e che avviene attraverso canali di educazione e figure pedagogiche spontanee, ambiente familiare, nutrice, insegnante di ginnastica, e infine un livello “alto”, che è quello che si attinge (sulla base di una predisposizione naturale) attraverso l’apprendimento specializzato. Ciò che emerge dalle parole di Protagora è la tendenza ad una sorta di canonizzazione della virtù politica, sulla quale torneremo dopo avere analizzato il discorso di Socrate. Ciò che fin qui sappiamo è che per essere un buon cittadino non occorre eccellere nel possesso della techne relativa: tale eccellenza, che tuttavia esiste, può essere preclusa da una insufficiente predisposizione o da un insegnamento non specializzato. Il livello medio risulta dalle parole di Protagora come lo svolgimento naturale delle premesse già contenute nella dotazione di partenza, l’esplicazione di un’attitudine che l’uomo possiede in quanto tale e che nella semplice interazione quotidiana con altri uomini del pari dotati produce il risultato atteso di una virtù politica unitaria, ancorchè sfaccettata227. Su questo punto si innesta l’obiezione di Socrate. Nel mito la distribuzione egualitaria riguarda giustizia e rispetto, nell’argomentazione di Protagora invece sembra che
C’è dunque un doppio livello dell’apprendimento/insegnamento della virtù che fa perno sullo scarto, come suggerisce Cassin 2005, fra i due sensi di arete, che può voler dire “virtù” ed “eccellenza”. 226 Potrebbe esservi una relazione di influenza reciproca fra questa affermazione di Protagora, e alcuni aspetti dell’etnografia erodotea, che aveva diffuso l’immagine di popoli, come gli Androfagi, «che non praticano giustizia, né si servono di alcuna legge» (Hdt. IV 106). Vd. Corcella 1984: 239. 227 Si tratta qui – secondo Gilli 1988: 360 e 361 n.3, di «enucleare l’individuo come unità di misura». Gilli afferma poi che «esistono significative analogie fra questo schema socio-politologico che il dialogo riferisce a Protagora e che si riallaccia indubbiamente alle sue riflessioni sulle Origini (su cui cfr. Diogene Laerzio, 9.55) e la sua concezione gnoseologica». Molto utili in questo senso anche le osservazioni di Grimaudo 1988. 225
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la virtù politica comprenda anche altre virtù: quali la saggezza, la santità etc. Socrate naturalmente non manca di rilevare questa contraddizione228. La sua argomentazione è molto complessa e procede per tentativi molti dei quali apparentemente lasciati cadere. Schematicamente possiamo enucleare quattro fasi della dimostrazione. 1. In una prima parte dell’argomentazione si conviene sul fatto che fra le varie virtù o parti della virtù vi è una certa somiglianza e che esse invece si differenziano rispetto all’azione opposta, così che si generano una serie di coppie, sul tipo coraggio/viltà, in cui un polo è positivo e orientato al bene e un polo è negativo e orientato al male. La discussione a questo punto si interrompe e si trasferisce sul piano della poesia 2. L’analisi di un carme di Simonide, il quale affermava di lodare la via di mezzo, l’uomo non cattivo né del tutto inetto, mostra la desiderabilità delle qualità intermedie, t¦ mšsa. 3. Dopo questo intermezzo, l’argomentazione ricomincia, sempre vertendo sulle virtù e sulla somiglianza fra le varie parti della virtù, che a questo punto appaiono non più come parti del volto ma come parti dell’oro. Socrate e Protagora convengono sull’importanza della scienza e sull’arte della misurazione come il mezzo per mettere a nudo la verità e proteggere la vita. 4. La conclusione è a questo punto vicina: la coppia decisiva è quella composta da scienza e ignoranza, in relazione alla vita e alla protezione di essa. La scienza fondamentale è quella della misurazione che consente di scegliere correttamente il piacere e il dolore, il bene e il male. La sapienza consiste nel dominare se stessi, nel misurare esattamente il difetto e l’eccesso e tenersene dunque lontani. Una breve disamina dell’argomentazione può facilmente dare l’impressione che il dialogo non intenda seguire coerentemente e fino in fondo l’analisi di un problema preciso229. Invece, considerando in modo unitario il punto di vista di Socrate come una necessaria integrazione di quanto, attraverso il mito di Prometeo, Protagora ha affermato sulla presenza in ogni uomo di rispetto e giustizia, i risultati a cui si perviene sono diversi.
Questo spostamento dell’asse della discussione da parte di Socrate, dall’apprendimento della techne verso la “conoscenza” della virtù è funzionale (anche) all’attacco sistematico di Platone alla democrazia, quale sarà condotto nel Politico e nella Repubblica. Vd. Meiskins Wood 1996: 626. 229 Questa è l’opinione corrente fra i commentatori del dialogo. All’aporia nei dialoghi platonici è dedicato lo studio di Erler 1991. Lo studioso interpreta le asserzioni del tipo: «per adesso», «per ora», indicanti la provvisorietà delle affermazioni fatte nei dialoghi come indizio di oralità, cioè come cenni ipomnemonici che offrono al lettore la possibilità di meditare e ripensare i problemi discutendoli in gruppo, nella dimensione dell’oralità. I dialoghi andrebbero intesi come esempi-campione orali in contrapposizione agli esempi-campione scritti usati dai sofisti. Essi dunque: presuppongono l’oralità dei circoli platonici, dipendono dal guardare le cose nell’ottica della teoria delle idee, inscenando lo scontro fra il pensiero platonico e il pensiero “mondano”. L’argomentazione di Socrate è analizzata nel dettaglio da Szelazák 1992. 228
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Rispetto Il dono di Zeus consentiva ad ogni uomo di mettersi in relazione con ogni altro uomo, senza fare ingiustizia, cioè accettando la richiesta di contatto e rispettando gli aspetti formali dell’autopresentazione dell’individuo. Vorremmo fare un passo avanti in questa direzione definendo il nuovo status come costituzione della seconda persona. La nuova modalità del rapporto con l’altro, instaurata dai doni di Zeus, è improntata alla giustizia; ma anche al rispetto, aidos. Sulla prima abbiamo già a sufficienza insistito; conviene adesso cercare di comprendere cosa sia il rispetto230. Gli uomini prometeici conoscevano ben poche modalità di interazione. Quella di gran lunga prevalente era la lotta contro le fiere. In essa si trattava di vincere, salvando la vita, o di perdere, morendo. Alterità era, per l’uomo prometeico, essenzialmente la morte. Aidos, al contrario è ciò che pone ciascuno al cospetto dell’altro, senza sopraffarlo ne essendone sopraffatti, ma impegnandosi alla sua salvezza, cioè al suo restare “altro”231. Avere aidos l’uno dell’altro, significa che «i salvi sono più degli uccisi»232. Aidos esprime proprio la giusta misura da tenersi nel comportamento verso l’altro: fra i due estremi della fusione (la fanciulla ha aidos di nominare le nozze al padre) e dell’indifferenza o rifiuto (gli Achei provano aidos a rifiutare la sfida fra campioni proposta da Ettore) aidos consente una sorta di bilanciamento fra due interlocutori. Bilanciamento anche fra le storie personali presenti e passate degli interlocutori: Ettore deve mostrare aidos nei confronti della madre, se questa lo ha nutrito da piccolo. Il suo comportamento verso la madre deve cioè bilanciare ora quanto già precedentemente fatto dalla madre nei suoi confronti233. Aidos esprime la giusta distanza da tenere nei rapporti interpersonali, laddove l’eccesso e l’annullamento sono opzioni entrambe sbagliate. Dunque una capacità minima di conformarsi all’altro (dike) restando alla giusta distanza da lui (aidos) sono i dati di partenza della techne politica: ad essi, secondo Prota-
Su aidos, vd. Gilli 1988: 379-86; Biasutti 2004; La Matina 2004bis; fra i contributi più recenti vd. Errecalde 2000 e 2000bis; Morales Ortiz 2000; Muñoz Llamosas 2001; Ricciardelli Apicella 1994. 231 Anche per aidos, come già per dike, è molto utile il lessico amoroso: nel noto racconto erodoteo su Candaule e Gige, (Hdt. I 7,13), la “spudoratezza” di Candaule consiste nell’aver “tradotto” il corpo amato della moglie in un corpo da altri visibile. La bellezza della regina, che egli con l’inganno mostra a Gige, «non è più in relazione personale con lui, ma viene trasformata in pura informazione visiva, capace di viaggiare attraverso una modalità sensoriale che viene disaffiliata dall'etica della relazione personale. Ciò fa della comunicazione tra Candaule e Gige una comunicazione spudorata. Non tanto perché l'oggetto di esso sia un nudo di donna, quanto piuttosto perché la relazione conoscitiva viene disaffiliata dalla relazione amorosa e quindi personale (...) il soggetto conoscente non è più capace di custodire la relazione personale con altri. Il pudore segnerebbe, quindi, il confine tra due modi del conoscere, designandone uno come termine marcato dell'opposizione». Così La Matina 2004 in c. di s. 232 Hom. Il., V 531. 233 Hom. Il., XXII 82-85. 230
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gora, non occorre aggiungere altro se non la generica educazione che è frutto della consuetudine a vivere con gli altri. Perché Protagora sceglie proprio queste due virtù? Una possibile risposta deve tenere conto del fatto che esse sebbene possano essere possedute in modo specialistico234, hanno tuttavia la peculiarità di essere più produttive, più utili se si attestano ad un livello medio. Giustizia è infatti, prima di (o oltre che) essere una virtù, una techne, o, nel lessico arcaico, un “dono” degli dèi. In un passo importante in cui analizza la giustizia, Aristotele si chiede se giustizia e ingiustizia siano o meno “alla portata di tutti”. Mentre è facile – argomenta – commettere occasionalmente delle ingiustizie, non lo è altrettanto esserne all’altezza internamente: esiste infatti una saggezza nelle cose giuste e ingiuste235. Per chiarire meglio il concetto, Aristotele introduce il paragone (e la differenza) con la techne del medico: il medico, oltre a conoscere le proprietà dei farmaci e le tecniche della cauterizzazione e dell’incisione, deve poi saper compiere le azioni entro un quadro generale in cui esse siano finalizzate alla salute del paziente; e ciò lo accomuna al giusto, che deve non solo compiere azioni giuste ma anche inserirle in uno schema complessivo236. La giustizia (ma anche l’ingiustizia) è dunque anch’essa una techne, ma più grande di quella medica, che pure è giudicata favorevolmente da Aristotele. Anche aidos ha una dimensione technica: cioè di possesso nel senso della smisuratezza e dell’assolutezza237. Il fatto che aidos e dike si possano disporre in modo da coprire i
“Specializzato” in aidos sembra Ippolito nella tragedia omonima di Euripide: vd. Gilli 1988 404-417; Detentori “specializzati” di giustizia sono gli Abii, in Hom. Il., XIII 5 sono «i più giusti fra gli uomini». Più calzante risulta il caso si Cadmo di Cos. Costui viene ricordato da Erodoto in V 164 per aver «rimesso al popolo» volontariamente la tirannide su Cos che aveva ricevuto «ben salda» dal padre. Erodoto precisa che il gesto di Cadmo non fu dettato da alcuna necessità ma soltanto da dikaiosyne. Giuffrida 1999, 271 notando le contraddizioni presenti nel curriculum di Cadmo – a Cos, rimette al popolo il governo; a Zancle, esercita un dominio tirannico ma si dimostra giusto nei confronti di Gelone; a Delfi, è pronto a rendere omaggio ai Persiani – vede il comune denominatore dei suoi atti nel disinteresse personale e nella lealtà nei confronti dei suoi referenti, configurando un esercizio della giustizia che si potrebbe ben definire “specializzato”, cioè ancora una volta smisurato, dimentico di convenienza o utilità e non inserito in un piano complessivo. Havelock 1983 ritiene che questo come altri racconti erodotei esemplificativi della dikaiosyne provenissero da una raccolta sofistica. 235 Arist. Et. Nic. 1137a4-17. 236 Arist. Et. Nic. 1137a17-26. Che il medico debba operare “per il bene del malato” sembra un’ovvietà (per esempio a Edelstein 1943: 33) soltanto in un’ottica di forte integrazione fra le technai e la società: in un orizzonte technico somministrare un farmaco o prescrivere un regime dietetico possono esprimere una vocazione profonda e iscriversi per esempio in una pratica quale la sperimentazione. 237 Della possibile “smisuratezza” di dike si è già detto. La smisuratezza è connotata negativamente anche per quanto concerne aidos: la rigidità di Ippolito, in quanto portatore di aidos eccessivo, scatena l’amore “tragico” di Fedra, come lo scarso pudore di Candaule ne provoca la morte per mano della moglie. Nella vicenda di Candaule, come analizzata da La Matina 2004bis si può vedere una conferma dell’osservazione di Gilli 1988 sulla natura iper-relazionale dell’aidos di Ippolito: come questa ha bisogno di una cassa di risonanza, che adombra la presenza di un pubblico, così Candaule deve costruire un “teatro scopico” che consenta la visione delle nudità della moglie: «Fatti animo, Gige, (…) ti metterò nella stanza dove dormiamo, dietro la porta aperta; dopo che sarò entrato, anche mia moglie verrà a letto. Vicino all'ingresso c'è un seggio; su questo seggio ella deporrà, uno ad uno, gli abiti che si toglie, e tu potrai guardarla molto 234
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gradi di una scala e che il livello desiderabile sia il medio ci spiega perché esse siano scelte per esemplificare la virtù politica e perché Socrate introduca all’interno della costruzione protagorea lo sdoppiamento di ogni virtù in due controparti: il polo positivo e il polo negativo. Che Zeus abbia donato a tutti gli uomini aidos e dike, significa che non ha reso un individuo “specialista” in aidos o in dike (a fronte di molti del tutto privi di esse) come era avvenuto per le technai distribuite da Prometeo. Ciò vuol dire – e qui siamo allo svolgimento delle posizioni di Protagora fatto da Socrate – che ciascuno deve considerare desiderabile e acquisibile ciò che è medio fra due poli opposti. Ciò che conta è dunque la capacità di misurazione di ciascuno, in base alla quale ciascuno sceglierà il livello intermedio fra i due poli di ogni “parte” della virtù238. Achille in mezzo alla battaglia Torniamo ancora un momento ad Achille. Fino ad un certo punto la fonte di legittimazione del suo comportamento è stata la sua origine divina: la madre Teti ha pianificato per lui ogni aspetto della sua vita ed egli ha semplicemente preso atto della sua “specializzazione”: «io sono forte in guerra, altri sono migliori in consiglio»239. Dal momento in cui decide di agire non sulla base della sua specializzazione – che lo aveva portato all’ira e alla secessione – ma in base alla reazione provocata in lui dalla morte di Patroclo e dunque in base alla capacità minima di reciprocazione e di giusta distanza dagli altri, Achille torna in battaglia. Ma quale può essere ora la nuova fonte della legittimità dei suoi comportamenti? Come essere sicuri di fare ciò che è giusto al di fuori della propria techne?240 In due modi. Il primo concerne il versante della dote mancante, cioè per ammissione di Achille il “consiglio”, il comportamento da tenere in assemblea. Nella lunga scena della riappacificazione241, alla proposta di Agamennone – attendere nella propria tenda i doni o andare a prenderli direttamente nella sua tenda – A-
tranquillamente». La giusta misura di aidos è, secondo Plat. Leg., 771e-772a, quella in cui, nelle feste religiose cittadine, i giovani devono «guardare e lasciarsi guardare, nudi, fin dove permette a ciascuno un’assennata aidos, in limiti ragionevoli». 238 Dodds 2003: 234 si stupisce del fatto che nel Protagora si fa parlare Socrate «come se il metodo adatto fosse un calcolo preciso dei futuri dolori e piaceri». Pur ritenendo verosimile che egli credesse realmente in questa «aritmetica morale scientifica», Dodds ritiene opportuno controbilanciare questo intellettualismo ricordando come egli prendesse sul serio sogni e oracoli e obbedisse ad una “voce interna”, che chiamava “voce di Dio”. L’eccessivo intellettualismo della posizione socratica è – a mio avviso – temperato da una analoga “aritmetica prassica” per cui egli cercava la mediazione anche nell’interazione fisica con l’interlocutore. Tornerò più diffusamente su questo aspetto infra., p. 74 e ss. 239 Hom. Il., XVIII 105. 240 Si noti che in tutta questa scena Achille non asseconda la madre, alla quale anzi intima di non cercare di dissuaderlo: Hom. Il., XVIII 126.
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chille risponde in un primo tempo, come sua consuetudine, in modo liquidatorio: «i doni (…) consegnali oppure tienili», ribadendo invece la sua volontà di andare subito a combattere. Interviene a questo punto Odisseo, che fa da cerimoniere di questa assemblea di riconciliazione. Achille non è nuovo a questi tentativi di mediazione: ma, in precedenza, essi non avevano sortito alcun risultato. Ora, invece, la nuova attitudine dialogica di Achille gli rende possibile accogliere le motivazioni dell’eroe e giungere a patti. In una prima risposta ad Odisseo, Achille conviene sull’opportunità espressa da costui di celebrare un banchetto, ma propone a sua volta che il pasto sia consumato al cadere del sole, e che Agamennone consegni i doni durante una pausa della guerra; al reiterato tentativo di mediazione di Odisseo, che si traduce in una immediata esecuzione del banchetto, cede infine parzialmente e accetta che i soldati si nutrano prima della battaglia. Il nuovo comportamento di Achille si traduce in un parziale acquisizione della dote precipua dell’altro con cui sta reciprocando: Odisseo. Dalla “carenza di consiglio” esibita all’inizio della discussione, Achille giunge ad accettare, man mano che si discute, di essere contagiato da Odisseo, raggiungendo, al termine del confronto verbale, un livello medio di “consiglio”. Achille scende a patti con la propria debolezza, il cui contraltare è Odisseo, giungendo a metà strada rispetto a lui. Sul versante della dote posseduta in massimo grado, si tratta invece di continuare ad esercitarla, ma stavolta su richiesta dell’altro e ponendosi come esempio da imitare. Abbiamo visto come questo aspetto sia reso dalla metafora della luce. Possiamo affermare che, in regime di dike e di aidos, la nuova fonte di legiformità è il medio. Colui che si pone in mezzo agli altri si media, cioè si offre come modello di comportamento, ma nel farlo egli deve ridimensionarsi, commisurarsi all’altro: l’eroismo smisurato, inimitabile, condanna alla morte colui che cerca di essere a sua volta “Achille”; ciò che occorre è invece che il contenuto di ogni comportamento divenga medio, perché a metà strada fra due opposte polarità242. Colui che si media e-
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Hom. Il., XIX 40-275 La scena si può segmentare come segue: 40-53 convocazione dell’assemblea 54-73 discorso di Achille 74-143 discorso di Agamennone, all’interno del quale, 91-133, si colloca la vicenda di Ate 145-153 risposta liquidatoria di Achille ad Agamennone 154- 183 discorso di Odisseo 184-197 risposta di Agamennone a Odisseo e nuova proposta ad Achille 198-214 risposta conciliante di Achille ad Agamennone 215-237 nuovo discorso di Odisseo 238-68 preparazione del pasto, sacrificio del verro e giuramento di Agamennone 268-75 discorso conclusivo di Achille e congedo dei soldati.
È a Solone che in genere si fa risalire l’idea “politica” della medietà, vd. Vegetti 1990: 41 e ss., in rapporto con l’ideologia delfica del “nulla di troppo”. Non è certo il luogo per addentrarsi sul terreno dei rapporti fra politica e morale, però non è senza significato che sul terreno del confronto assembleare si 242
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semplifica una qualità media che ciascuno può apprendere, che ciascuno può esercitare (senza morirne). Mediare la propria specializzazione significa renderla idonea ad essere imitata, distribuirla agli altri rendendola interamente manifesta, in un modo tale che gli altri possano prenderne parte; per tutto il resto, che manca, occorre guadagnare il centro, posizionarsi in un punto medio fra gli estremi del negativo e del positivo. Il medio è il punto in cui ci si pone per essere guardati dall’altro e il punto a cui si arriva faticosamente per andare incontro all’altro243. Esiste dunque uno scarto, ed una diversa consapevolezza, fra l’esercizio smisurato e ineludibile di una techne e la costituzione di un modello politico, in cui la stessa techne è riformulata ed immessa in un circuito comunicativo. Il ritorno di Achille alla battaglia produce nell’Iliade la “battaglia degli dèi”, che occupa i libri XX e XXI, cioè i due libri successivi all’interruzione dell’ira. Il carattere specifico di questa battaglia è proprio la partecipazione obbligata di tutti gli dèi (cioè di tutte le fonti di autorità) al confronto: Zeus stesso esorta più volte gli dèi a prendere parte, a mostrarsi, cioè in ultima analisi costringe le technai di ciascuno a “misurarsi” reciprocamente. Il momento culminante di questo scontro totale (politico) è la lotta fra Achille e Ettore: si tratta in realtà di una lotta fra le vecchie armi di Achille (indossate da Ettore che le aveva prese a Patroclo) – le armi impolitiche dell’ira, della stasis, dell’inutilità – e le nuove, forgiate da Efesto, che portano la polis in effigie. La comunità politica come comunità a norma orizzontale Fuori dal mito, nell’argomentazione di Socrate, la dotazione minima di capacità di rapporto con l’altro che è in ogni uomo, necessita poi non dell’insegnamento specializzato ma di una scienza della misurazione, di un criterio generale permanente che orienti verso le cose medie244. Sollecitato da Socrate a dichiarare quale sia il contenuto esatto del suo insegnamento, Protagora afferma che esso consiste nella «facoltà di prendere decisioni accorte nelle questioni private – come possa cioè amministrare nel modo migliore la propria casa
esercita la nuova identità di Achille e che in esso faccia una delle sue rare apparizioni omeriche il termine dike. 243 Fra le molte analisi del valore politico del meson non ne trovo nessuna che contempli entrambi i versanti, del contenimento e dell’implementazione: esso è descritto come uno spazio neutro metaforico cui tutti possono sempre accedere, mentre a me sembra che la sua creazione sia sempre stata, fuor di metafora, faticosa e “costosa” (e talora “tragica”) in termini di identità personale. In un senso molto vicino a quello qui ricostruito, M. Santucci in Musti 2008: 204. 244 Il carattere permanente o transitorio della misurazione mi sembra costituire una differenza importante fra Socrate e i Sofisti: per questi ultimi l’accordo e il consenso si realizzano di volta in volta nel confronto, come nel linguaggio; per Socrate la conoscenza del bene, di cui la scienza della misurazione è parte, è un fattore unitario e situato a monte dei singoli atti di confronto: nell’Alcibiade I questa conoscenza verrà fatta derivare dal dialogo fra l’anima e il divino.
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– e in quelle pubbliche – come possa cioè essere più idoneo a trattare gli affari dello stato con la parola e con l’azione». Questo insieme di competenze – pubbliche e private, riguardanti azioni e parole – sono sintetizzate da Socrate nell’espressione, cui ci si atterrà poi nel corso del dialogo, politike techne cioè formazione del “buon cittadino”. Non deve stupire la presenza di competenze private, quale quella dell’amministrazione della casa: come testimonia Plutarco, essa era infatti ritenuta indispensabile per l’uomo politico, che non doveva essere (o mostrare di essere) dominato dalla necessità o dall’avidità nella sua attività politica. La riuscita nella conduzione degli affari familiari costituiva, potremmo dire, una sorta di prerequisito alla techne politike vera e propria, in quanto come Plutarco ci dice a proposito di Pericle, la dÒxa perˆ tÕn b…on, la reputazione di un uomo costituiva parte della sua autorità nel momento in cui egli si proponeva come uomo politico. Dopo aver definito techne politike l’oggetto dell’insegnamento di Protagora, volendone dare un esempio concreto, Socrate pensa subito alla riunione dell’assemblea: «E vedo che quando ci riuniamo in assemblea, se la città deve prendere qualche decisione….». Ecco che la techne politike si precisa come la capacità di prendere una decisione relativa all’amministrazione della città: questo è il nocciolo dell’insegnamento di Protagora e dunque della techne politike. La prima titolarità della cittadinanza è esercitata dall’assemblea ed essere un buon cittadino significa parteciparvi attivamente, prendendo decisioni. L’assemblea, come abbiamo visto, è anzitutto una comunità di parlanti dove è dato un certo comportamento caratterizzante regolato da un’idea di normatività, che rende nomici certi proferimenti: nell’assemblea omerica, è lo scettro a conferire temporaneamente ai parlanti la nomicità di cui hanno bisogno. “Parlante” non deve essere inteso in senso limitativo ma ha una valenza più ampia che include anche tutta una serie di comportamenti non verbali: la partecipazione all’assemblea coinvolge anche il linguaggio prassico-gestuale. La normatività, che rendendo legittimi i comportamenti di un insieme di individui dà luogo ad una comunità, consiste nel riferimento ad una stessa fonte di autorità, evocata dall’emissario e riconoscibile dall’ascoltatore245. Nell’assemblea cui fanno riferimento tanto Protagora quanto Socrate, a dettare i comportamenti legiformi è non tanto un’autorità predisposta (il re scettrato, la legge vivente) o una fonte di nomicità precostituita (un Codice), quanto un criterio generale e sovraindivuale. Vale forse la pena riflettere su ciò: individuando nella medietà il criterio che rende legiformi i comportamenti verbali e non verbali dell’individuo nell’atto di partecipare all’assemblea, da un lato si colloca la nomicità degli individui allo stesso livello di vita degli individui medesimi, che non ne sono dunque soverchiati; dall’altro la norma stessa è sovraindividuale. Essa non consiste nell’osservanza esteriore ma scaturisce dalla reazione La Matina 2004: 389-456 e 473-485, distingue comunità – permanenti e/o transitorie – a norma orizzontale, in cui la nomicità degli individui e/o dei proferimenti è collocata «allo stesso livello di vita degli individui medesimi» e comunità a norma verticale in cui il modello è assoluto e distaccato rispetto ai membri della comunità. 245
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all’altro rispetto al quale (e per rispetto del quale) ci si impegna di giungere ‘a metà strada’ e al quale si fa giustizia prendendone in carica la salvezza. Occorre chiarire, per non limitare la portata dell’argomentazione di Socrate, che tutti i concetti ai quali egli fa riferimento, il mšson, la misurazione, hanno una storia che li radica fortemente nell’immaginario e nella prassi politica dei Greci. Ciò anche in accordo col procedere di Socrate, per il quale la ricerca filosofica consisteva nello svolgere e nel portare alla luce premesse che erano già implicite nella storia individuale o sociale con cui di volta in volta si confrontava246. In termini meno logicizzati, anche Protagora intende indicare un criterio di medietà come fonte di omogeneità dei parlanti in assemblea. Con la differenza che il criterio protagoreo ha un formato mitico e narrativo247. Questa omogeneità dei parlanti, derivata da una dotazione minima presente in ognuno e dunque dalla possibilità per ciascuno di aderire ad una stessa norma, è ciò che consente l’isonomia248. Isonomia Composto da ‡soj, “uguale” e nÒmoj, “legge”, il termine „sonom…a249 ha un significato che si colloca fra quello di “uguaglianza di fronte alla legge” e quello di “uguaglianza mantenuta attraverso la legge” esprimendo più di ogni altro termine greco la nozione moderna di “diritti”250. Alla famiglia di „sonom…a appartengono pure „sÒnomoj 251 , “con uguali diritti”, “democratico”; „sonomikÒj 252 , “desideroso dell’uguaglianza dei diritti” e „sonomšomai253, “vivo nell’uguaglianza dei diritti”.
Dodds 2003: 234 rileva il carattere “tradizionale” della strumentazione concettuale cui fanno riferimento gli interlocutori. 247 Le forme di apprendimento indicate da Protagora – l’apprendistato, l’esempio – sono situazioni comunicative in cui l’apprendimento si genera per mimesi. Nulla distingue queste forme di mediazione dal rapporto che l’individuo instaurava, nel modello pastorale, con il magistrato-pastore, se non che – per Socrate (con caratteristiche peculiari) e (soprattutto) per Protagora – chiunque può essere “esemplare” per chiunque altro, mentre nelle comunità “pastorali” – mitiche o reali – è esemplare soltanto il modello incarnato dal pastore (oppure, ma questo è altro discorso che merita ben altro spazio, il nomos disincarnato, cioè il “Codice” nelle “culture del Libro”). 248 La bibliografia su isonomia è molto vasta: fondamentali Ehremberg 1927; 1950 e 1956; Vlastos 1953 e 1964; Ostwald 1969. Per quanto segue, mi rifaccio a Gilli 1988, di cui vd. soprattutto il capitolo quinto: La diseguaglianza originaria. 249 Fonti letterarie: Hdt. III 80,6; III 142,3; V 37,2; Thuc. VI 62, 3-4; Isocr. Panath. 178; Plat. Menex., 239a; Ep. VII, 326d, 336d. 250 Vd. Gilli 1988: 156 e n.1 che rimanda a Ostwald 1969: 113 n.1. 251 Athen. 15, 694c-695f, Page PMG 893 e 896; Plat. Ep. VII 326d. 252 Plat. Res. 8, 558c 253 Thuc. VI 38,5. 246
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Nonostante la apparente trasparenza, l’etimologia di „sonom…a non è chiara. Alcuni tentativi di far derivare „sonom…a da nšmw254, non sembrano aver convinto la maggior parte degli studiosi che preferiscono considerare il termine come un composto di nÒmoj. Un consenso più ampio, se non unanime, vi è invece sulla derivazione di nÒmoj dalla stessa radice di nšmw, che rimanda all’idea della distribuzione e della assegnazione legittima255; idea presente in altri derivati quali nom», nomÒj, nomeÚj, nom£j. È anche attestata l’espressione ‡son nšmein256. La varietà delle posizioni degli studiosi sull’etimologia di „sonom…a, – focalizzata soprattutto sull’alternativa di far derivare l’uguaglianza dalla legge ovvero di radicarla nei soggetti che sarebbero uguali già prima di essa – può essere ridimensionata, se si riconduce la sfera dell’ isonomia a quella della distribuzione. All’uguaglianza, sia a quella originaria poggiata sulla natura, sia ad una uguaglianza artificiale garantita o mantenuta dalla legge, si accede sempre attraverso una distribuzione. Nel primo caso essa è frutto di una distribuzione di “virtù” uguali da parte degli dèi, nel secondo è la legge che, distribuendosi, rende “uguali” soggetti che prima non lo erano257. Il legame dell’uguaglianza con la prassi della spartizione/distribuzione, sia che esso provenga direttamente da nšmw sia che invece vi giunga tramite la mediazione di nÒmoj, è indubbio. Da Omero in poi, ogni campo dell’esperienza umana pare, nel pensiero greco, suscettibile di spartizione. Non solo i grandi reami naturali come il mare e il cielo si presentano come “parti” risultanti da una divisione originaria di ambiti fra le divinità, ma anche il destino individuale è frutto di una operazione distributiva, come implicano i termini moira e aisa258. In Omero abbiamo visto come la mancata spartizione all’interno di una cerchia di uguali provochi una reazione individuale psico-fisica: è il qumÒj dell’individuo ad esserne leso 259 e la lesione può condurre alla st£sij. Spartizioni guidate da principi estetici, incomplete o inesatte, come quella di Epimeteo, costituiscono causa di discordia e di pericoli e l’antefatto o la premessa per una spartizione definitiva, attuata da Zeus e presentata come vigente nel mondo «storico» delle poleis greche260.
Quali Stier 1928, Myres 1947, Laroche 1949. Benveniste 1948 Noms 79. 256 Hdt. VI 11,3; Plat. Prot. 337a; Rep. VIII, 558c. 257 In nÒmoj l’idea della distribuzione è stata tradizionalmente ricollegata alla prassi delle distribuzione di terre, una pratica che il nÒmoj avrebbe cominciato a regolare dal VII sec. a. C. Secondo Laroche 1949 la radice *nem è legata alla distribuzione e non alla divisione, nel senso, originariamente pastorale, di distribuzione di mezzi di sussistenza. Svenbro 1988 109-121 ha proposto che il significato della distribuzione cui rimanda nÒmoj sia quello della citazione o della lettura di un testo scritto. NÒmoj indicherebbe una “distribuzione vocale” di una formula memorizzata o, in seguito, di un testo scritto. 258 Benveniste 2001: 323; Dodds 2003: 48-50. Vd. anche Lewis 2001. 259 Vd. per es. Hom. Il., I 602. Su qumÒj in Omero vd. Sullivan 1980. 260 L’apologo di Protagora con il “rimedio definitivo” offerto da Zeus è per Vegetti 1990: 38 «il mito di fondazione della polis greca». 254 255
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Più concretamente, l’esperienza decisiva nello sviluppo del principio di uguaglianza fu quella, frequente nella fondazione di colonie, della spartizione della terra261. È in questo ambito che si afferma la preoccupazione di una spartizione ugualitaria, „somoir…a, e si elabora una pratica fondata sull’uguaglianza, sia facendo in modo che i lotti da assegnare fossero quanto più possibile uguali fra loro e cioè composti da appezzamenti diversi con caratteristiche combinabili (per es. estensione/fertilità262), sia assicurando un uguale trattamento ai destinatari attraverso lo strumento del sorteggio. La „sÒthj è strettamente connessa con il calcolo e la misurazione, come mostra un passo di Archita di Taranto, che attribuisce all’invenzione del calcolo numerico, in quanto artefice di uguaglianza („sÒtaj), un ruolo notevole nell’accrescere la concordia (ÐmÒnoia): La scoperta del calcolo fece cessare le liti, accrebbe la concordia; col suo avvento non v’è preponderanza ma eguaglianza; con esso infatti ci riconciliamo relativamente ai patti che ci uniscono. (…) In quanto regola e impedimento al fare ingiustizia, il calcolo trattiene coloro che sanno calcolare prima ancora che facciano ingiustizia, persuadendoli che non sarà loro possibile celarsi, quando si fa ricorso ad esso; trattiene dal fare ingiustizia anche coloro che non sanno, mostrando che, alla luce del calcolo, fanno ingiustizia263.
Troviamo, in questo passo di Archita, una configurazione che abbiamo già visto: da un lato la «preponderanza»264, l’ingiustizia che produce le liti; dall’altro il «non fare ingiustizia», che si traduce in misurazione produttrice di uguaglianza e di concordia. Anche il contesto in cui Archita pone la scoperta del calcolo è di estremo interesse: esso è quello di una discordia “originaria” dal sapore prometeico, priva di caratterizzazione politica. È un contesto in cui, per garantire la concordia, occorre semplicemente «saper contare»: per non commettere ingiustizia e per non subirla265. È dunque chiaro, come molti studiosi hanno notato, che in Archita il calcolo (logismÒj) è inteso nel senso tecnico di “calcolo matematico”, criterio oggettivo di conoscenza esatta e strumento di equa spartizione. La nozione di isonomia è collegata strettamente al costituirsi di una comunità come comunità politica: essa non implica una specifica forma costituzionale ma, applicata a
Il riferimento fondamentale è Asheri 1966. Vd. Plat. Leg. 745 d3. 263 DK 47 B 3 su cui vd. le osservazioni di Grimaudo 1998. 264 Preponderanza è pleonex…a: uno stato di pienezza eccessiva, come quella che abbiamo attribuito ad Agamennone nell’atto di prendere per sé il dono di Achille. Il termine è molto interessante: in Aristot. Et. Nic. 1129a31-33 il pleonškthj è anche ingiusto. In Thuc. III 82,6 pleonex…a si oppone a çfšleia, utilità, configurando così una convergenza della coppia antitetica opheleia/pleonexia in quella più generale dikeadikia: vd. Gilli 1988: 534. 265 Grimaudo 1998; Gilli 1988 che evidenzia fra l’altro il lessico contrattualistico del passo di Archita. 261 262
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contesti sia democratici sia oligarchici, differenzia questi contesti dalla tirannia. Tucidide, come Erodoto, collega strettamente isonomia e democrazia senza tuttavia proporre una identificazione totale266: isonomia è un principio politico, un valore più che
Fino almeno alla seconda metà del V secolo, isonomia e democrazia costituiscono un ampio cerchio di soluzioni contrapposte alla tirannide. Una nuova connotazione dell’ isonomia può essere registrata solo a partire dalla metà del V secolo quando il concetto viene connotato ideologicamente in senso costituzionale e democratico. L’appropriazione del valore isonomico come pilastro del regime democratico è attestata da Erodoto nel celebre dibattito sulle costituzioni e precisamente nel discorso di Otane, sostenitore della democrazia. Sostenendo, in III 80, 6, che «il governo del popolo ha il nome bellissimo di isonomia», Otane sottrae l’emblema dell’isonomia all’oligarchia, facendone una bandiera della parte democratica: vd. Ehrenberg 1950. L’isonomia democratica è presentata da Otane come isonomia tout court e così diventa il discrimine fra democrazia e oligarchia, che invece facevano blocco comune nel discorso del monarchico Dario. Da questo momento, l’isonomia non è più un valore unitario, ma si connota diversamente a seconda della parte politica che lo “pratica”. Il carattere talora puramente demagogico della rivendicazione dell’ „sonom…a è affermato da Tucidide con nettezza in III 82, 8 all’interno della famosa narrazione della st£sij di Corcira. I capi delle fazioni – osserva lo storico – parlano di „sonom…a politikÁ e di governo moderato dell’aristocrazia, “belle parole” con cui dicono di serivire la polis, mentre in realtà la considerano come il premio di una gara, commettendo azioni atroci e senza riguardo per il bene e l’utile della città. Fitto di riferimenti alla sfera dell’uguaglianza è il discorso di Atenagora, in VI, 36-40. Dopo una disamina degli aspetti strategici e operativi che una spedizione navale ateniese contro Siracusa comporterebbe, Atenagora si rivolge ai giovani stigmatizzando la loro ambizione a governare, nonostante i limiti imposti dalla legge ed il fatto che essi vogliono m¾ met¦ pollîn „sonome‹sqai, «godere di pari diritti non con i molti». L’affermazione, come la contestazione immediatamente successiva della democrazia come «non sensata, né equa (‡son)», rimanda all’idea aristocratica di „sonom…a limitata ad una cerchia ristretta di pari, che sembrerebbe, nelle mire degli oppositori di Atenagora, scelta con criterio censitario. Alla logica timocratica che vede nei beltistoi, i dententori della ricchezza, coloro che sono capaci di governare nel modo migliore, Atenagora risponde usando la medesima terminologia, e sostenendo che «le migliori delibere vengono prese dagli uomini intelligenti e i migliori giudizi vengono emessi, dopo aver ascoltato le parti, dalla maggioranza. Queste categorie – aggiunge Atenagora – in democrazia hanno parti uguali („somoire‹n)», mentre invece l’oligarchia divide equamente soltanto i pericoli, accaparrandosi i benefici. L’ „sonom…a democratica contempla dunque tanto ciò che è una parte, quanto l’intero che contiene varie parti. Con un leggero slittamento semantico rispetto a Erodoto, per il quale il plÁtoj è il popolo nel senso “comprensivo” di vari strati sociali, per Tucidide esso sembra identificare un segmento specifico, il “common people” distinto dai ceti superiori e connotabile come maggioranza in virtù della superiorità numerica. Vd. Ostwald 1969. L’ „sonom…a democratica si configura dunque come l’uguaglianza della maggioranza rispetto all’aristocrazia. L’isonomia democratica viene poi condannata esplicitamente da Platone nella Republica: in 558c la democrazia è definita come quel regime «che dispensa (dianšmousa) uguaglianza a chi è uguale e a chi non lo è»; l’esistenza dell’uomo democratico, b…on „sonomikoà tinoj ¢ndrÒj (561e), è descritta come priva di ordine e di costrizione, in preda ai piaceri del bere e della musica, incapace di direzione e di interessi solidi. L’eccessiva libertà conduce – secondo l’argomentazione di Platone – alla rovina dello stato democratico, inquinando i rapporti fra privati e diffondendosi persino tra gli animali: tutti i rapporti sociali ne escono stravolti ed il limite estremo della libertà eccessiva è da vedersi nella parità e isonomia fra uomini e donne (563b). Per le diverse posizioni degli studiosi sui concetti di democrazia e isonomia in Erodoto, quali emergono dal “dibattito sulle costituzioni”, vd. Lasserre 1976; Evans 1981; Lateiner 1984; Cataldi 1997; Musti 19992 Lanzillotta. Il concetto di isonomia prima di giungere ad Atene dove divenne la parola-chiave delle riforme di Clistene, era probabilmente usato in Ionia, come attesta Erodoto V 37,2, il quale, esponendo i fatti del266
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una forma di governo: essa implica l’uguaglianza di diritti politici e il loro esercizio effettivo. In Tucidide, isonomia si oppone alla dunaste…a di pochi uomini, che contrasta tanto con la democrazia, quanto con l’oligarchia „sÒnomoj. Quest’ultima formulazione, che ha suscitato non poche perplessità, si trova in un discorso con cui i Tebani cercano di discolparsi dall’accusa di filomedismo durante le guerre persiane. Essi ritenevano che fosse stato l’assetto della loro polis durante le guerre persiane a non aver favorito un loro ruolo nella difesa della Grecia: (…) la nostra città allora non era retta né da un’oligarchia che garantisse uguaglianza di diritti („sÒnomon), né da una democrazia, ma era al potere il regime che più contrasta con le leggi e il sistema più equilibrato, il più vicino alla tirannia, vale a dire il dominio era tutto nelle mani di pochi individui267.
È stato ipotizzato che i Tebani intendessero riferirsi con l’espressione Ñligarc…a „sÒnomoj alla costituzione che aveva reso possibile alla stessa Sparta, cui è rivolto il discorso con chiari intenti di riabilitazione, la partecipazione vittoriosa alla guerra contro i Persiani: se così fosse, Ñligarc…a „sÒnomoj connoterebbe quella miscela di democrazia e oligarchia che Aristotele considerava realizzata da Sparta per la prima volta e in cui l’elemento democratico consisterebbe nelle pratiche educative egualitarie, nell’istituto dei sissizi, nell’uniformità dell’abbigliamento, nella partecipazione di tutti all’elezione della Gerousia e nell’eleggibilità all’eforato 268. D’altra parte, secondo altri studiosi, con la formula Ñligarc…a „sÒnomoj i Tebani potrebbero riferirsi alla propria costituzione nel momento in cui essi pronunciano il discorso: costituzione che, pur non potendosi definire una democrazia, garantiva una certa rotazione delle cariche e l’eleggibilità di tutti i cittadini alle cariche politiche269. Ma, poiché i Tebani hanno fatto riferimento, nella parte del discorso precedente, a Beoti e Ateniesi che si vantano della posizione da loro assunta in quelle guerre, e poiché il discorso sulla Ñligarc…a „sÒnomoj comincia appunto con l’esortazione a considerare «la situazione in cui gli uni e gli altri agirono», ritengo probabile che i Tebani si riferissero, con l’ espressione Ñligarc…a „sÒnomoj, ai Beoti (gli uni), e con dhmokrat…a agli Ateniesi (gli altri) e che dunque la definizione di «regime che più contrasta con le leggi e il sistema più equilibrato, il più vicino alla tirannia, vale a dire il dominio era tutto nelle mani di pochi individui» designasse la propria costituzione. L’ „sonom…a poteva dunque essere una qualità inerente a qualsiasi regime politico, compreso quello oligarchico, e poteva anche connotare la “buona” democrazia antica rispetto a quella moderna, come dimostra Isocrate critica la parrhs…a dei suoi tempi
le rivolta di Aristagora contro Dario, afferma che per trascinare i Milesii nella rivolta Aristagora finse di rinunciare alla tirannide e istituì l’isonomia a Mileto. 267 Thuc. III 62,3. 268 Vd. Aristot. Pol. 4 9, 1294b 14-34. 269 Hell. Ox. 16,2.
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contrapponendo ad essa la „sonom…a dei tempi passati270. Sempre in Isocrate271, è il modello spartano ad essere caratterizzato dalla „sonom…a, la quale concorre a delineare il quadro di una forma politica idonea a mantenere la concordia, in contrapposizione all’oligarchia. Secondo la maggior parte degli studiosi, a partire da Vlastos e da Ostwald, isonomia non designa in questa fase una “costituzione” e anche minoranze al potere potevano praticare in modo convincente l’uguaglianza dell’isonomia se riuscivano a limitare l’arbitrio e a tutelare la libertà dei cittadini272. Questo suo aspetto trasversale è dovuto al fatto che la nozione di „sonom…a esprime la condizione della città pacificata e priva di tirannide (che rende la polis oÙk aÙtokr£twr ˜autÁj, «non padrona di sé»); ma anche del corpo in salute, come afferma Alcmeone di Crotone, secondo il quale lo stato di benessere del corpo consiste nella „sonom…a e sÚmmetroj delle forze, il prevalere di una delle quali darebbe luogo alla malattia ed equivarrebbe alla monarc…a273. Parlare del dialogo o dialogare? Analizzando il contenuto dell’argomentazione di Socrate, non ci siamo fermati neppure a metà di ciò che il dialogo ha da dire274. Infatti, Socrate non vende ‘cognizioni’, come i sofisti. Egli offre campioni concreti di mediazione275. Vediamo cosa vuol dire, analizzando la dinamica della discussione. All’inizio del dialogo Socrate incontra un amico al quale racconta l’incontro appena conclusosi con Protagora, il sapiente di Abdera arrivato da poco in città. A persuaderlo a recarvisi era stato, nottetempo, il suo giovane amico Ippocrate. Il racconto ha inizio dunque con Socrate che convince Ippocrate ad aspettare che si faccia giorno e intanto lo “esamina” sul motivo per il quale vuole recarsi dal sofista. Egli ha infatti affermato, scherzosamente, che Protagora «gli fa ingiustizia» perché «egli solo è sapiente, ma non rende tale anche lui», vuole dunque che Socrate parli in suo favoreaffinché sia
Isocr. Areopag. 20. Isocr Panaten. 178. 272 Vlastos 1953 e 1964; Ostwald 1969. 273 Su questo frammento, vd. Ebner 1969; Mc Kinney 1994; Mele 1982. 274 La maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che tanto Socrate quanto Protagora espongano nel dialogo opinioni realmente da loro professate: vd Dodds 2003: 248 nn. 32 e 33. 275 Intendo per “mediazione” la condizione-base della comunicazione socratica, cioè la mancanza di un accordo preliminare preesistente al dialogo, che si presenta dunque come lo strumento per costruire questo accordo di significati e di significanti: vd. La Matina 2004: 396. I dialoghi “socratici” di Platone secondo La Matina non fanno che registrare l’attività giornaliera di Socrate che consisteva, in obbedienza ad una prescrizione divina, nell’esaminare, interrogare qualsiasi persona incontrasse al fine di incitarlo ad occuparsi della propria anima: cfr. Apol. 30-33. Sui dialoghi socratici come campioni del metodo socratico, vd. La Matina 2001: 106. Sulla scorta di Davidson 1992, La Matina considera il dialogo socratico «una forma felice di comunicazione, forse la forma più vicina alla conoscenza come incontro personale». Un ritorno di interesse sul dialogo socratico si riscontra a partire da Vlastos 1998. 270 271
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accettato come discepolo. Socrate mette in guardia il giovane facendo una serie di esempi di prestazioni professionali e relativi oggetti di insegnamento: Ippocrate riceve un compenso per l’insegnamento dell’arte medica; Policleto e Fidia per quello della scultura. Se dunque Ippocrate vuole pagare Protagora significa che desidera diventare un sofista, cosa che il giovane nega recisamente. Altri tipi di insegnamento vengono invece impartiti anche per la semplice formazione culturale, come la grammatica, la ginnastica, la musica. In queste, come in altre discipline, oltre all’insegnamento vero e proprio (quello rivolto a chi vuol diventare grammatico, ginnasta, musicista) l’esperto può “rendere abili nel parlare” (di quel contenuto specifico, beninteso). Ipotizzando che sia questo il tipo di insegnamento che Ippocrate si appresta a ricevere da Protagora, ma senza aver ancora stabilito quale sia l’argomento sul quale il sofista possa “rendere abili nel parlare”, Socrate e Ippocrate si recano dal sofista276. Fin dall’inizio, come si vede, il dialogo offre come argomento di discussione la figura del sofista, che da Socrate viene definito come «venditore di nutrimenti per l’anima», cioè «cognizioni», maq»mata. Questa attività del sofista, mentre si differenzia dalla pratica della medicina, della scultura, dalla grammatica, dalla ginnastica e dalla musica, che Socrate ha citato, si connota come un trasportare in giro le cognizioni da una città all’altra277, magnificandole tutte ma senza sapere quale giovi e quale sia dannosa. Ciò non vuol dire una svalutazione in toto del sofista. Come nei confronti di un qualsiasi venditore e di qualsiasi merce, è possibile – dice Socrate – acquistare con sicurezza le cognizioni da Protagora purché si sia «medici della propria anima», cioè si conosca cosa le giovi e cosa le sia dannoso: nel seguito del dialogo Socrate precisa meglio il concetto definendo questa medicina dell’anima come la scienza della misurazione. Del sofista vengono poi presentate varie modalità di comportamento: la “passeggiata” filosofica di Protagora e dei suoi discepoli e amici nel portico, con i discepoli attenti a non porsi mai di fronte al maestro; la discussione di problemi astronomici con i discepoli seduti su bassi sgabelli intorno a Ippia, seduto su uno sgabello più alto; la discussione fra Prodico e altri astanti seduti sui letti, in una stanza dall’acustica infelice e non adatta al tono grave di Prodico278. Questa panoramica dei possibili modi sofistici di comunicazione mi pare abbia uno scopo ben preciso: anzitutto mostra una dissimetria fra i diversi interlocutori, enfatizzata nel caso di Protagora e Ippia dalla diversa posizione del sofista rispetto agli altri – davanti, Protagora; più in alto279, Ippia – inoltre essa evidenzia il carattere “spettacolare” delle prestazioni che i sofisti offrono, nelle quali ad essere privilegiati sono più gli aspetti esteriori che non quelli di una buona comprensione, come dimostra l’esempio
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Plat. Prot., 309a- 314c. L’immagine qui offerta del sofista come “itinerante” è confermata da altre fonti: vd. Kerferd 1988 27 e
ss.
Plat. Prot., 314c-316a. È un aspetto, questo della attenzione alla “posizione” dei dialoganti, che torna anche in altri dialoghi: cfr. Plat. Res. 544b. Traggo questa informazione da La Matina 2001: 107. 278 279
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di Prodico che non coordina il tono della sua voce con la sua posizione (disteso a letto) e con l’ambiente. Modi di comunicare in cui il comunicare stesso è subordinato ad alcuni aspetti esteriori che diano l’impressione di una discussione. Questa discussione “recitata” dei sofisti di primo acchitto non si distingue dalla discussione che genera significato, come spiega l’episodio della malagrazia del portinaio di Callia. Costui in un primo momento rifiuta di far entrare Socrate e Ippocrate che stanno discutendo dietro la porta della abitazione di Callia dove Protagora è ospite: il portiere infatti, collegando la discussione udita – senza neanche sapere chi stia discutendo e di cosa – ai “sofisti”, apostrofa sgarbatamente Socrate e Ippocrate. Il sofista è, nella communis opinio “colui che (a quanto pare) discute”. Questo aspetto di “recita”, di “citazione”, del parlare del sofista si può estendere alla sua pretesa di insegnare la virtù attingendo in modo esteriore al mito. Affermando che «tutti devono apparire giusti, lo siano o no»280, il sofista non si comporta diversamente da Odisseo, che percuotendo Tersite con lo scettro di Agamennone, ne mette in parodia l’autorità. Egli, nella migliore delle ipotesi, si limita a “citare” le virtù di cui parla, senza che queste ne penetrino il comportamento comunicativo. Di dike e di aidos, Protagora può soltanto parlare, ma è ben lontano dall’andare a metà strada rispetto all’altro o dal mostrare agli altri la propria virtù. Egli smentisce col corpo quanto afferma a parole: non ponendosi davanti all’interlocutore, ma passeggiando in modo da lasciarlo qualche passo indietro, a fianco, non lasciandosi interrogare, non commisurando la lunghezza del suo discorso alle caratteristiche (età, posizione etc.) dell’interlocutore, adoperando diversi modi argomentativi (il mito, il discorso lungo) in modo indifferente rispetto alla fungibilità del contenuto, ma soltanto per il loro grado di “visibilità”, egli si rivela ingiusto e irrispettoso281. Ciò tuttavia – paradossalmente – non toglie nulla al suo discorso: si è detto infatti come il sofista sia un venditore di cognizioni, e che può giovarsene, come di qualsiasi merce, colui che possegga già la scienza di ciò che è nocivo e ciò che benefico per l’anima: ecco perché Socrate può asserire di aver tratto giovamento dall’incontro con Protagora282. E Socrate? Di fronte alla rigidità di Protagora che afferma di non volere discutere nel modo in cui l’avversario vuole (altrimenti non sarebbe apparso migliore di lui), Socrate afferma: Tu infatti, come si dice al tuo riguardo e come tu stesso affermi, sei in grado di tenere una conversazione con discorsi sia lunghi che brevi – poiché sei sapiente -, io, invece quelli lunghi non sono in grado di farli, anche se vorrei davvero esserne capace. Sarebbe
Plat. Prot., 323c. Plat. Prot., 328d: Protagora crea artificiosamente l’impressione di avere altro da dire, “ammaliando” Socrate; 333d Protagora acconsente a rispondere ma mostra ritrosia; 335a Protagora non modifica il modo di discutere adeguandolo all’interlocutore; 334c Protagora, irritato e in difficoltà, risponde con un discorso lungo guadagnandosi l’applauso degli astanti. 282 Plat. Prot., 9a-10a. 280 281
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stato necessario che tu, che sei abile in entrambi i generi di discorso, mi venissi incontro, perché potesse aver luogo la discussione.
Questa rappresentazione “spaziale” delle posizioni di Socrate e Protagora rende palese come essi non siano differenti, in partenza, da due technitai arcaici; l’uno è sapiente oratore l’altro è abile nell’esame283: perché vi sia synousia è necessario un processo, un movimento che consenta loro di trovarsi a metà. Ma Protagora non vuole muoversi e Socrate non sa farlo: allora Socrate offre un esempio concreto di mediazione, cioè di quel che Protagora dovrebbe fare, e propone che sia Protagora a fare le domande in modo che egli, rispondendo, possa mostrare come ritiene che si debba rispondere: Socrate non riesce (o non vuole) a implementare la sua carenza (saper fare discorsi lunghi), ma media la sua techne rendendola disponibile a Protagora. Protagora, per contagio mimetico, non può a questo punto tirarsi indietro284. Anche altre modalità del dialogo socratico confermano la sua volontà di mediazione. Mi limito a pochi cenni: 1. Socrate usa la modalità condizionale, per non costringere l’interlocutore ad accettare o rifiutare una asserzione, in frangenti particolarmente “pesanti” per l’interlocutore: «se uno chiedesse a me e a te: “Protagora e Socrate, ditemi, questa cosa che avete appena nominato, la giustizia, è in sé stessa giusta o ingiusta?”, io gli risponderei che è giusta. E tu (…)?». 2. Socrate “si mostra” per primo nella risposta, cautelando l’interlocutore, con la modalità condizionale, da una eventuale difficoltà285; 3. Socrate adegua il tenore dell’argomentazione (uso della poesia, del mito, del discorso breve) alle aspettative dell’interlocutore e in generale alla sua autopresentazione; 4. Socrate rispetta e si fa rispettare, cioè chiede esplicitamente che anche l’interlocutore si adegui alle sue aspettative286;
Cioè l’arte di interrogare e di rispondere, definita talvolta come elenchos. Sul problema dell’elenchos socratico, vd. Vlastos 1998: 7-35 e Santas 69-200. In realtà, com’è noto, Socrate considerava la sapienza riconosciutagli dall’oracolo delfico sostanzialmente come un non-sapere, cfr. Apol., 21D, che certamente non va inteso come ignoranza ma che, come tutte le testimonianze mettono in luce, sposta l’attenzione da un contenuto specifico e rimanda piuttosto all’idea dell’esame: vd. Canto-Sperber 2005. 284 Il carattere technico della vocazione dialogica di Socrate, su cui vd. Szelazák 1992: 247, emerge da molte testimonianze, che sarebbe tuttavia impossibile discutere in questa sede: mi limito a ricordare come dialogando con chiunque Socrate ritenesse di ottemperare ad un ordine divino, secondo una modalità che abbiamo visto caratterizzare l’attività technica. 285 Mi pare una modalità che, nella forma tipicamente socratica, dell’interrogazione è sorprendentemente affine all’imperativo condizionale di Foucault 2005: 15 che al discorso imperativo «battetevi contro questo in tale o talaltro modo» sostituisce il discorso condizionale «se volete lottare, ecco dei punti chiave, delle linee di forza (…)». Allo stesso modo Socrate non dice «rispondi su questo» ma «se qualcuno chiedesse, io risponderei così e tu?». 286 Plat. Prot., 334d. 283
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5. Socrate passa dal ruolo di interrogante a quello di interrogato, senza accaparrarsi uno dei due ruoli287; 6. Socrate non fa asserzioni di convenienza288, al contrario di Protagora; 7. Socrate adatta il tono della voce allo stato d’animo dell’interlocutore289.
Plat. Prot., 338d Plat. Prot., 331c-d. 289 Plat. Prot., 333e. 287 288
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PROMETEO VITTORIOSO
Andare ai corvi Lo schema di civilizzazione fin qui delineato, sulla scorta di una lettura analitica del mito del Protagora, può riferirsi tanto alla comunità nel suo complesso, quanto al singolo 290 . Esso consiste sostanzialmente nel riconoscimento di due modalità dell’individuo: la modalità prometeica e quella politica. La prima comporta la ricognizione della propria attitudine, l’isolamento rispetto agli altri, l’esperienza di un conflitto per il quale il soggetto è inattrezzato, il tentativo di fondare città e il fallimento. La seconda, parte dall’individuazione della propria capacità comunicativa minima e giunge all’applicazione del criterio di medietà e alla costituzione della comunità politica. La dinamica dei due momenti è l’oggetto del mito di Prometeo nelle sue varianti e dunque possiamo assumerla come valida a prescindere dall’identificazione della cronologia – per altro ignota – del Protagora291. Questo schema, come si diceva, ha valore a più livelli: esso è mito, cioè storia dell’umanità illo tempore, ma è anche vicenda che non si è conclusa una volta e per tutte, ripetendosi ad ogni generazione e in ogni individuo, quando si tratta di attingere la dimensione politica abbandonando o riorganizzando le identità precedenti292. Vediamo in questo capitolo come il suo stravolgimento dia luogo al comico, semplicemente attraverso l’inversione del criterio di desiderabilità e l’ipotesi di un approdo, negli Uccelli di Aristofane, anzicché alla polypragmosyne dell’uomo politico, alla apragmosyne degli animali293.
Gilli 1988: 219 sottolinea come «L’avvento della Società, e l’istituzione di meccanismi assecondanti tale avvento non possa mai considerarsi un fatto concluso. Ogni evoluzione storica, ogni individuo può rappresentare l’occasione o la sede per una riattivazione di questo antichissimo evento». 291 Se ammettiamo che il mito illustrato nel dialogo rispecchiasse temi effettivamente trattati dal sofista, come pare ormai pacifico, dobbiamo pensare che tali temi dovettero circolare ad Atene almeno dalla metà del secolo. Sulla cronologia dell’attività di Protagora e dei suoi soggiorni ad Atene, vd. Kerferd 1988: 60. 292 Esso infatti viene proposto al giovane Ippocrate nel momento in cui si affaccia alla vita politica. 293 Nello schema protagoreo, gli animali erano senz’altro i nemici contro cui l’uomo combatteva la sua prima battaglia, i primi titolari dello status di nemico, esteso da Isocrate, Panaten. 163, in seconda istanza, ai 290
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L’azione comica degli Uccelli è fondata sulla risemantizzazione in senso realistico e comico della espressione popolare «andare ai corvi» cioè: «alla malora, a quel paese» (che Sommerstein efficacemente traduce: «to go to birdition», giocando con l’inglese perdition294). Il corvo è l’animale che si nutre dei corpi umani abbandonati. Essere lasciati insepolti ed in pasto agli uccelli – come Creonte vorrebbe che fosse Polinice – è la forma ‘politica’ di esclusione e di rifiuto più radicale che si possa invocare295 ed è assurdo, quindi comico, che si scelga volontariamente di essere esclusi ed abbandonati. È appena il caso di notare il peso che, nella decisione di Achille di abbandonare l’ira, aveva avuto il timore che il corpo di Patroclo morto restasse abbandonato in pasto alle mosche. Non solo, se il mito e l’epos presentano la techne politica come rimedio alla malattia del mondo prometeico, la commedia propone la fuga volontaria dalla polis come malattia di cui non si desidera la guarigione: Pisetero ed Euelpide, che volontariamente si sono allontanati da Atene, si dichiarano “malati”. La loro malattia (al contrario – dice Pisetero – di Saca, il quale «non è cittadino ateniese e vuole diventarlo per forza») si manifesta nel voler spontaneamente deporre la condizione di cittadino ed è generata dal “disgusto” per la mania dei processi che imperversa nella città296.
barbari; e al contempo rappresentavano la faglia preumana dalla quale l’uomo preometeico si era emancipato attraverso l’istituzione di “altari e statue”. L’inimicizia fra uomini e uccelli è evocata dal coro degli uccelli, 327- 351: per gli uccelli gli uomini sono «l’empia razza che da quando è al mondo vive per essermi nemica». Fra il coro e Pisetero ed Euelpide si scatena infatti una guerra in cui gli uomini, assediati, si “armano” con una panoplia comica di pentole-scudo, spiedi-lance e salsiere-elmi. Sulla doppia valenza, positiva e negativa, di apragmosyne vd. Carter 1986. 294 Sommerstein 1987. La commedia fu presentata alla Dionisie del 414, mentre era in corso la spedizione in Sicilia, con cui i critici hanno cercato, pare invano, di metterla in relazione. Due Ateniesi, in fuga da Atene, cercano una città in cui sia possibile vivere in pace. Si stabiliscono presso Upupa, un uccello che un tempo era stato re. Pisetero decide allora di fondare una città degli uccelli nelle regioni intermedie del cielo, che possa ridurre alla fame gli dei e renderli docili. Il coro degli uccelli, in un primo tempo considera i due intrusi come nemici e soltanto dopo un serrato dialogo accetta il piano di Pisetero. La trasformazione avviene durante la parabasi, dopo la quale la città prende il nome di Nefelococcigia («Città delle nuvole e dei cuculi»), si costruisce un muro di sbarramento e si prepara il sacrificio inaugurale. Segue una parte della commedia dedicata all’arrivo di una serie di individui che a vario titolo vogliono partecipare al progetto comico e che vengono cacciati in malo modo. Il piano procede: gli dèi – è la messaggera Iride a riferirlo – sono alla fame. Giungono frattanto nuovi personaggi e anche Prometeo che consiglia a Pisetero una transazione con gli dèi, rappresentati dagli ambasciatori Poseidone, Eracle e Triballo (un dio straniero). La trattativa si conclude con le nozze fra Pisetero e Basilia, che Zeus ha dovuto consegnare. 295 Dunbar 1995: 145-146. Ai morsi delle bestie, oltre che alle intemperie, venivano abbandonati, saldamente attaccati ad un palo, i condannati a morte ad Atene (traditori, ladri, omicidi): vd. Cantarella 2005: 29. Al gesto dell’abbandono del cadavere Plat., Leg. 837b, attribuisce anche un carattere rituale. Sull’oltraggio al cadavere, vd. Vernant 2005: 73. 296 Aristoph. Av. 30-32. Sull’abuso della giustizia, vd. Bearzot 2008: 95-120. Aspetti importanti di tale abuso sono la sicofantia e i processi “politici”. Il sicofante – letteralmente il “denunciatore di fichi” ma al tempo di Aristofane il “denunciatore di cose di poco conto”, cioè colui che si presta a intentare accuse infondate e pretestuose, su cui vd. Harvey 1990 – rappresenta alla fine del V secolo a. C. una nuova fattispecie del fare ingiustizia: Aristofane lo contrappone nel Pluto al dikaios aner in un dibattito che mostra
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La ricerca della non-cittadinanza comporta dunque il percorrere lo schema di civilizzazione in senso opposto: ciò per reazione allo stravolgimento della giustizia, degenerata nella forma iper-politica della mania giudiziaria. L’esclusione, la condizione di profugo, di malato, di straniero – come scelta volontaria – che sembrano essere l’idea comica di base degli Uccelli, comportano una valorizzazione della modalità prometeica, e un ingresso nel mondo epimeteico degli animali297. Abbiamo già visto come la techne politica costituisse, secondo Protagora, una sorta di seconda natura, che rendeva l’uomo atto a dar vita ad una comunità politica secondo modalità del tutto naturali298. Questa estrema naturalizzazione della politica è proprio il bersaglio di questa commedia. Sappiamo che in altre commedie Aristofane aveva trattato il tema dei processi, che qui è al centro del meccanismo drammatico; per descrivere la litigiosità degli Ateniesi, usa un paragone non immediatamente chiaro: «le cicale cantano sui fichi un mese o due, gli Ateniesi sui processi sempre, per tutta la vita»299. La “malattia” della città, potremmo dire – è una forma di ipertrofia o di pervasività della legge che ha perso il suo potere di vietare o di prescrivere ed è diventata indiscernibile dalla vita naturale, come per le cicale è il cantare. Alla legge pervasiva e insignificante corrisponde una vita che si risolve interamente nella legge quale è quella degli Ateniesi, che non sono più capaci di distinguere fra nomos e physis300. La non cittadinanza è ferinità ed esclusione: Pisetero ed Euelpide trovano accoglienza in un mondo, quello di Tereo e degli Uccelli, che è connotato dell’emarginazione. Gli uccelli, che già Euripide descrive come «meteci del cielo», sono bersaglio degli uomini ed emarginati: essi sono «schiavi incauti e sciocchi», colpiti a sassate come «folli, cacciati, palpeggiati» e «cotti» come «carogne». Anche nei santuari, ove è lecito per gli uomini trovare rifugio, gli uccelli possono essere uccisi: privi di un
tutta la carica destabilizzante; meno probabile mi pare che Aristofane intenda qui riferirsi ai processi politici, alle procedure di eisanghelia, o ai processi all’entourage di Pericle; mentre nella raffigurazione dell’abuso della giustizia come malattia un peso notevole sembra avere il fenomeno dell’ “imperialismo giudiziario”, cioè la serie di processi contro gli alleati. Su quest’ultimo argomento vd. Cataldi 1984 e Prandi 1998. Sulla commedia come smascheramento della «crudeltà serpeggiante nelle dinamiche sociali e negli istituti preposti alla concordia politica» vd. Beltrametti 2004: 40. 297 Il mondo animale è una presenza costante nell’utopia, fino alla contemporaneità: vd. Agamben 2002: 80, per il quale di fronte all’eclissi del destino storico-politico dei popoli «il solo compito che sembra ancora conservare qualche serietà è la presa in carico e la “gestione integrale” della vita biologica, cioè della stessa animalità dell’uomo (…) L’umanizzazione integrale dell’animale coincide con una animalizzazione integrale dell’uomo». 298 Faccio rientrare nella categoria del naturale l’apprendimento “medio” di cui parla Protagora e che avviene per contagio mimetico, cioè per trascrizione del comportamento dell’adulto o di individui con cui vi sia synousia. 299 Aristoph. Av., 39-41. Il senso è forse questo: come le cicale, gli Ateniesi di un tempo erano in grado di non abusare della legge e di servirsene misuratamente (un mese o due). 300 La legge come «vigenza senza significato» è al centro di Agamben 1995: 57-76
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diritto minimo quale quello dell’asilo, sono impunemente uccidibili da chiunque ed in qualunque luogo. Trattamento riservato fra gli uomini soltanto ai folli301. Ciò è conseguenza del fatto che questo primo sguardo al mondo animale conserva le tracce del mondo politico dal quale i due ateniesi provengono: visti dalla città, gli animali appaiono come schiavi o meteci, sono coloro dai quali ci si è differenziati attraverso l’istituzione della religione e del sacrificio. Come i Ciclopi, essi non conoscono dike e themis. Da questo punto di vista, la vicenda di Tereo è esemplare. Nel mito che lo riguarda, trattato da Sofocle nella tragedia omonima, l’ornitomorfismo cui è condannato segna l’uscita dalla condizione umana, dalla quale è allontanato per il suo essere adultero, bigamo e cannibale, e il regresso verso quella ferina302. Anche l’animalità degli uccelli non è – per così dire – originaria, ma derivata da una privazione: essi erano un tempo divinità e sono ora meno che uomini303. Dunque, ex divinità, ex sovrani ed ex cittadini ricreano la condizione prometeica precedente alla polis. Condizione di cui sono sperimentati i vari aspetti: l’assenza degli aspetti oppressivi e iper-politici della polis, la debolezza “arcaica”. Quando Tereo descrive alcuni tratti della vita degli Uccelli, l’orniton bios si configura subito come un desiderabile “stato di natura” contrapposto a quello del nomos, della polis304. Ma, se il carattere pre-monetario e pre-cerealicolo della vita zoologica per l’ingenuo Euelpide sintetizza la serena felicità del numphion bios, della vita da sposi, a Pisetero esso appare invece come il segno dell’esclusione, del barbarico, del primitivo e dell’impotenza305.
301Aristoph.
Av., 523-38. L’esclusione dal diritto di asylia, la destinazione alimentare, l’assimilazione a cadaveri sono tutti tratti che connotano il mondo animale come emarginato. 302 Soph. frr. 581, 589. L’Upupa è l’animale più selvaggio e crudele. 303 La teogonia e la archeologia degli uccelli sono esposte all’interno dell’agone (470-522) fra l’eroe e il coro. Sul riferimento a Esopo, vd. Luzzatto 1996; è rilevante che il recupero della originaria potenza si configuri secondo il modello omerico del re scettrato: esso passa per la restituzione dello scettro (480), cui anzi gli uccelli sono strettamente legati (510: «sullo scettro stava ritto un uccello»). 304 L’adesione di Pisetero a questi valori avviene più tardi: Aristoph. Av., 611-26. La comunità degli uccelli ha in sé, nella commedia, i tratti del mondo prepolitico: è una comunità di tipo omerico in cui Upupa/Tereo riveste una posizione di primus inter pares come Agamennone nell’Iliade: l’osservazione è di Zanetto- Del Corno 1987. Lo stato di natura contrapposto alla sfera del nomos era un tematica tipicamente sofistica. Vd. Heinimann 1945 e De Romilly 2005. 305 È infatti la dÚnamij che egli vuol subito far riconquistare agli uccelli. Nell’antode, (343-51), nell’antepirrema (354-63) e nelle scene successive, la lotta fra il coro degli uccelli e Pisetero mette in parodia il combattimento oplitico: a dispetto dell’armamentario lessicale (cumulo di imperativi, nozioni militari: kÚklwsai, tax…arcoj e democratiche: fulšta) e comportamentale messo in campo, gli uccelli si rivelano radicalmente incapaci di combattere, arrendendosi con rapidità inversamente proporzionale all’enfasi guerriera esibita.
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Una città come Babilonia Con l’ingresso di Pisetero ed Euelpide nel mondo degli Uccelli la polarizzazione fra physis e nomos, fra la vita iperpolitica degli Ateniesi e la vita im-politica degli Uccelli, si risolve nell’adesione alla physis. Ma l’alleanza fra Pisetero e gli uccelli è fin da subito finalizzata ad un recupero della potenza306. Essa infatti prelude ad una fondazione, cioè alla auto-organizzazione degli elementi espulsi dalla polis – gli ateniesi fuggiaschi e gli uccelli privati della sovranità – sotto un capo307. La fondazione comprende due momenti: anzitutto, gli uccelli devono smettere di svolazzare, riunirsi e fondare una città fra le nuvole, fortificando la “cinta degli uccelli” con una muraglia di mattoni, come Babilonia308, e dandosi una legislazione. La nuova città poi, una volta fondata, consentirà di comandare sugli uomini e affamare gli dèi, sostituendosi infine a loro. Non si tratta di riattivare il meccanismo della civilizzazione cercando di indirizzarlo verso un fine diverso: la commedia cerca invece di immaginare il mondo senza il processo di civilizzazione, con animali e “banditi” – cioè i residui, gli scarti del processo di formazione del politico – non più differenziati dagli uomini, come appare nelle pratiche sacrificali della polis, ma alleati, e insieme animali e uomini in guerra non fra loro ma con gli dèi. Lo schema sembra lo stesso che troveremo nel Protagora, ma – per così dire – con le caselle spostate. La città delle nuvole e dei cuculi, suggello dell’alleanza inedita fra animali e uomini, sia nel progetto sia nella attuazione, spogliata delle negatività della vita politica, appare come una terra promessa per gli ateniesi e per gli uccelli, un luogo di ricchezza e prosperità e anche di una nuova religione. L’avvento degli uccelli si preannuncia come avvento del trascendente e del non-violento: non si costruiranno templi, non si faranno sacrifici309.
“Recupero della potenza” non coincide – a mio avviso – con “ripristino del politico” appena lasciato. La questione della “politicità” degli Uccelli è stata molto dibattuta: vd. Paduano 1973; l’alternativa è parsa a molti quella fra l’interpretazione in chiave di “evasione” e quella in chiave “storica” (sebbene non nel senso di coincidenze precise fra particolari storici e discorso teatrale). Paduano 1973 identifica nel rinnovamento – rivoluzionario – della vita sociale il fulcro della commedia: si tratta, secondo l’autore, «di un’ipotesi politica affermativa e costruttiva» che si risolve infine nell’affermazione dei valori del passato che la società attuale aveva negato. 307 La fondazione della polis è di competenza del mondo prometeico: essa necessita dell’apporto “specializzato” dell’individuo, della smisuratezza e della dedizione anche al di là di quei limiti di dike e di aidos che pure saranno necessari alla vita politica nella città fondata. 308 Aristoph. Av. 552. 309 Si tratta cioè di neutralizzare lo scarto fra la vita prometeica e quella politica, potenziando il prometeico tout-court, senza le limitazioni e gli adattamenti che l’adozione di dike e aidos comportava. Della medietà civica è qui l’aspetto limitante e sacrificante che si avverte e che dunque si rifiuta. 306
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Quella che viene fondata è dunque una città che – poiché è fondata da individui radicalmente impolitici, o per natura o per degradazione da un precedente status – si presenta come un monde renversè: essa è l’opposto di ciò che è la polis, le sue leggi sono dunque il contrario di quelle in vigore fra gli uomini: è lecito picchiare il padre, tradire e fuggire e quant’altro è vietato dalle leggi della polis310. La nuova comunità è portatrice di valori religiosi e pratiche politiche specularmente antitetiche rispetto a quelle vigenti ad Atene e di una aperta e violenta ostilità nei confronti dei vecchi valori e delle vecchie pratiche, secondo quella che è stata definita “inversione normativa”311. È stata vista da alcuni commentatori una contraddizione fra i tratti precedentemente emersi della vita degli uccelli – la loro avversità nei confronti degli uomini, la loro teologia e le loro leggi – e il progetto politico di Pisetero312: la fondazione politica smentirebbe l’adesione alla vita naturale. Il mito di Prometeo, e anche l’analisi dei meccanismi comunitari dell’Iliade ci dicono tuttavia che riunirsi e fondare una città non è ancora un atto politico. Da un certo punto di vista, negli Uccelli non c’è il “politico” nel senso soloniano e protagoreo del termine. La scommessa di Pisetero è quella di potenziare313 la vita epimeteica e prometeica senza varcare la soglia della comunità, facendo a meno dei “doni” egualitari di Zeus. Potenziare la vita antipolitica degli uccelli,
È il contenuto della sigizia epirrematica della parabasi (753-768): l’auspicio di una vita liberata dalla soggezione alle leggi. Il rovesciamento del sistema assiologico della polis coinvolge il rispetto per i genitori (ma non – come si vedrà – il parricidio); la cittadinanza, nel duplice aspetto dell’integrazione dei non cittadini – ora possibile – e della caduta di ogni sanzione nei confronti dei cittadini indegni e degeneri. 311 Vd. infra , p. 83 e nn. 312 Paduano 1973 individua una serie di incongruenze fra le esigenze che avevano provocato la fondazione della città e la normalizzazione e moralizzazione dei contenuti che smentisce alcune di quelle esigenze rivoluzionarie: un esempio di ciò sarebbe la cacciata del sicofante, Aristoph. Av., 1410-1479, che denuncerebbe le preoccupazioni moralistiche di Pisetero. Atene, cacciata all’inizio della commedia, tornerebbe a insediarsi sulle rovine del monde renversé. A me sembra che la cacciata del sicofante non sia motivata da alcun moralismo ma proprio dal rifiuto radicale di dike in tutte le sue forme. Ma è soprattutto nel rifiuto del parricida che Paduano vede una retractatio della nuova etica, una riapparizione di famiglia e società. Questo sarebbe vero se l’opposizione riguardasse soltanto gli animali e il cittadino: il parricidio insanzionabile fra gli animale è rilevato come tale dal cittadino. Ma lo status che Pisetero intende restaurare è quello prometeico, non animale né politico: per l’uomo prometeico il parricidio è altamente sanzionato perché l’autorità paterna è il modello dei rapporti verticalizzati che egli concepisce come gli unici possibili. Non si tratta dunque di ripiegare verso le posizioni tradizionali, ma di affermare le modalità prometeiche dell’autorità. Infine, la cacciata del ditirambografo vacuo e artefatto Cinesia pone in questione quale tipo di musica e di esecuzione sia in armonia col mondo prometeico: azzarderei l’ipotesi che il bersaglio polemico di Pisetero sia qui il legame fra istituzionalizzazione del ditirambo e regime democratico. L’esecuzione del ditirambo era fortemente connessa alle tribù clisteniche, e la battuta di Pisetero sulla tribù Cecropide per cui Cinesia potrebbe comporre a Nubicuculia potrebbe confermare l’intento di Pisetero di bandire dalla neofondazione simili forme poetiche politicizzate e istituzionalizzate. 313 È significativa l’insistenza sulla regalità (basile…a) per tutta la commedia ed è proprio con le nozze fra l’eroe e Bas…leia che termina la commedia. Sull’identità di Bas…leia, Regina, gli interpreti hanno opinioni divergenti. Che sia da identificarsi o meno con Era, la moglie legittima di Zeus, il matrimonio suggerisce l’acquisizione da parte di Pisetero di una sorta di techne basilike, come suggerisce anche l’appropriazione dello scettro: invece del dono di dike e aidos, la commedia mette in scena l’appropriazione, corporea, di Regina/regalità, giocando, mi sembra, proprio sulla terminologia. 310
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come alternativa alla iperpoliticità di Atene, è l’unico modo per conservarla, per assicurarle un nutrimento che la mantenga in vita in modo permanente, laddove il mondo epimeteico e prometeico è per definizione un segmento concluso, uno stadio provvisorio della vita umana. È per questo che è necessaria una guerra contro i vincitori dello scontro che ha dato luogo alla precedente comunità politica – la polis – cioè contro coloro che hanno decretato la fine della vita prometeica, e in primo luogo contro Zeus314. Ciò avviene in due modi: anzitutto, la priorità di Nubicuculia è di impedire che i sacrifici arrivino agli dèi, farli “morire di fame” (assediarli); inoltre il super-nutrimento di cui godevano gli dèi e di cui d’ora in poi godranno gli Uccelli consentirà loro di imporre la nuova religione che è al tempo stesso, l’antica e la vera religione315. Senza la fondazione e senza la guerra contro gli dei, il nomos degli uccelli resterebbe emarginato e inapplicato, non avrebbe alcuna salienza per gli uomini e non ne assicurerebbe la salvezza. Inoltre, sul momento prometeico del processo di civilizzazione incombe sempre lo spettro della città da fondare, poiché esso è un mondo esposto alla violenza esterna, degli animali nel mito e degli dèi nella commedia. Ma in ciò non vi è alcun tradimento dell’apragmosyne del mondo animale, perché la sapienza degli uccelli in materia di pace e di concordia coincide perfettamente con l’indifferenza degli uomini delle technai alla guerra e con la loro imperizia a difendersi e salvarsi la vita316. Più che una aspirazione alla pace quella degli uccelli è una resistenza all’integrazione che rende la loro esistenza precaria ed esposta alla violenza. Non mi pare dunque contraddittorio il progetto di Pisetero rispetto al mondo antipolitico degli uccelli: esso è sempre fedele all’idea di fondo di potenziare e di rendere permanente il mondo prometeico con le sole risorse del mondo prometeico stesso, con le technai e contro la techne politica. Prometeico è infatti il modo di procedere di Pisetero: egli assedia e affama gli dèi, rubando loro il nutrimento. La costruzione di Pisetero si
Infatti è proprio Prometeo che interviene per consigliare Pisetero sugli sviluppi della guerra contro Zeus, esortandolo a chiedere lo scettro di Zeus e la mano di Bas…leia. Prometeo è presentato con le sue caratteristiche mitiche di previdenza, attenzione per il futuro, benevolenza nei confronti degli uomini. Riecheggiamenti del Prometeo eschileo sono sparsi per tutta la trama degli Uccelli: vd Zanetto- Del Corno 1987: 300. 315 La guerra contro gli dèi è l’inverso del rapporto di donazione che invece legava gli dèi – Atena Efesto e Zeus – agli uomini nel mito del Protagora. Si tratta infatti di privarli di quella stessa «scienza della vita» di cui essi avevano fatto dono agli uomini permettendo loro di sopravvivere; e di poter di conseguenza riformulare «altari e statue» sulla base di nuovi rapporti di potere. 316 L’indistinzione originaria fra le dynameis animali e le technai umane, e dunque fra Epimeteo e Prometeo è sostenuta da Gilli 1988 220-2171. Negli Uccelli, un confine fra gli animali e gli uomini è tracciato soprattutto nel confronto fra la nuova città e la seconda serie di visitatori molesti: il parricida, il ditirambografo, il sicofante. Sebbene la demarcazione più netta sia quella fra l’uomo prometeico e il cittadino, fra uomo e animale le barriere e le distinzioni non vengono mai, nella commedia, del tutto abolite. 314
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rivela una revisione della spartizione sacrificale inventata da Prometeo, che diventa ora un modo per fornire agli uccelli i “rifornimenti” di cui essi necessitano317. Programmaticamente, questo nuovo ordine non esce fuori dall’esperienza prometeica e non attinge una dimensione comunitaria. Pur fondata, Nubicuculia, non è tuttavia una città perché non vi è, e pour cause, la techne politike. Il «mondo alla rovescia» e l’ambiguità Il mondo degli Uccelli è un mondo al contrario. La cifra della commedia è – come sottolineato da vari studiosi – il renversement, l’inversione normativa. Abbiamo a che fare – si può affermare – con una riflessione comica sul monde renversé318. Quella del “mondo alla rovescia”, che appare spesso raffigurato nella letteratura e nell’arte, è anzitutto una esperienza reale delle comunità, inscenata in modo rituale in alcuni momenti fondamentali della vita sociale, quali l’iniziazione giovanile, il carnevale, il lutto319. I suoi caratteri principali sono il capovolgimento di abitudini e costumi (liceità dell’illecito, sospensione dei divieti), il riferimento ad una dimensione spaziale “marginale” rispetto a quella dell’abitato (foresta, zone liminali o paludose), la consapevolezza di un rischio e di una minaccia incombente320. Una delle interpretazioni più accreditate della commedia aristofanea, quella “ritualista”, vede in essa la presenza di numerosi elementi ereditati dal rito. La presenza di questi elementi renderebbe possibile creare sulla scena un “mondo alla rovescia”, in cui per esempio il potere fosse detenuto da categorie di persone assolutamente marginali ed escluse nel mondo reale321. Ma l’idea stessa di renversement porta con sé elementi di ambiguità che infatti finiscono, secondo alcuni interpreti, col connotare il progetto comico di Pisetero322. Le contraddizioni non risiederebbero pertanto nella commedia, quanto nella stessa idea di renversement.
Cioè i sacrifici compiuti dagli uomini: in questa redistribuzione delle parti del sacrificio, Pisetero agisce come nuovo Prometeo, un Prometeo tuttavia vittorioso, perché riesce laddove il suo mitico predecessore – e ora consigliere – aveva fallito. 318 Sul concetto di “inversione normativa” vd. Assmann 2000: 57, 101-105 che mette in evidenza l’analogia di questo procedimento con quello dello “straniamento” su cui vd. anche Ginzburg 1998: 1539. 319 Vd. su questi aspetti Versnel 1993: la crisi politica, il lutto, certe forme festive sono accomunate dalla sospensione e alterazione dei rapporti normali. La morte di un sovrano o di un capo politico, (ma, in misura diversa, qualsiasi morte) sembrano – secondo Versnel – far precipitare la vita ordinata verso l’anomia, e lo stesso accade durante un’insurrezione o un sollevamento. Eventi e situazioni marginali o liminali, nel senso sia di eccezionali e innaturali che di relativi alla morte, risveglierebbero pertanto sentimenti di disorientamento e di scardinamento del mondo conosciuto. 320 La bibliografia sull’argomento è molto vasta anche per la parziale sovrapposizione di questa tematica con quella dell’iniziazione, che prevede la sosta dell’iniziando in una dimensione liminale che ha i tratti del monde renversé. Vd. Burkert 1991. 321 Vd. status quaestionis e nuove prospettive in Satta Cottone 2005: 42-51. 322 Vd. soprattutto Paduano 1973. 317
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L’ambiguità come elemento “strutturale” del renversement è stata recentemente ribadita da Versnel323 . Graf, Bremmer, lo stesso Burkert 324 hanno usato il concetto di “marginalità” come strumento di analisi per miti e riti altrimenti oscuri; tuttavia le contraddizioni che – secondo Versnel – emergono da questi studi, inerenti soprattutto la ambiguità e la genericità del concetto stesso di margine, cui mancherebbe una coerenza interna, conducono l’autore a postulare l’ambiguità dei periodi di caos e di reversal come loro caratteristica strutturale. Il concetto di ambiguità lascia tuttavia aperti più problemi di quanti ne risolva325: l’aver affermato che il mondo alla rovescia degli uccelli è strutturalmente ambiguo e cioè connotato sia positivamente sia negativamente non fa fare grandi passi avanti nella interpretazione del testo drammatico, molti aspetti del quale restano problematici, in ordine soprattutto al problema della violenza, presente nel progetto comico degli Uccelli e di cui non si vede nel finale alcun superamento. Una posizione più focalizzata sul rapporto fra esperienza religiosa e politica è quella dell’antropologo M. Bloch, la cui teoria della “violenza di ritorno” consente di superare quella che a Versnel pareva una mancanza di coerenza interna nello schema della marginalità326. Nel vecchio modello dei riti di passaggio, classicamente attribuito a Van Gennep, e adoperato da Turner327, si evidenziava il passaggio degli attori da uno stadio in cui erano separati dalla società verso un stato liminale – dove sperimentavano il renversement –
Versnel 1993, soprattutto il secondo capitolo, in cui l’autore ricostruisce un “paradigma della marginalità” a partire dall’analisi dei due grandi “complessi” – quello del “Dio che muore” e quello di iniziazione – individuati da Jane Harrison (rispettivamente nei Prolegomena e in Themis) per arrivare alle ricerche moderne sulla marginalità, di cui vengono di volta in volta analizzati i presupposti teorici e i “rischi” metodologici. Ciò che appare comune ai due “complessi” studiati a suo tempo da Harrison – nota Versnel – è la nozione di una “no man’s land”, un periodo di transizione, di minaccia, di rischio. Questa nozione, spesso rappresentata ritualmente attraverso segnali di anarchia, illegalità, anomia e – nel mito – come la minaccia del caos primigenio precedente il kosmos, è presente sia nel complesso che Versnel chiama «New Year myth and ritual», sotto forma di periodo di transizione fra il vecchio e il nuovo anno, sia nei rituali di iniziazione maschili e femminili che prevedono rites de marge. In essi i giovani, separati ritualmente dal contesto della fanciullezza e non ancora aggregati al mondo degli adulti, vivono in una sorta di sospensione, un periodo di minaccia, caos e morte. 324 Le ricerche dei filologi e degli storici delle religioni – da Jeanmaire a Dumézil a Brelich a Eliade fino a Burkert e a Vidal-Naquet – si sono concentrate soprattutto sull’iniziazione, anche sotto l’influsso della ricerche antropologiche sulla marginalità di Victor Turner, vd. Turner 1972, molto interessante l’intersezione, focalizzata da Versnel, fra studi storico-religiosi e ricerche moderne, di taglio antropologico e sociologico, sul margine. Se Burkert ha ripreso alcune intuizioni della Harrison, indagando il significato del mondo alla rovescia nella “tragedia della fanciulla”, cioè nell’iniziazione femminile; Turner ha esteso il concetto di reversal anche a periodi o situazioni non strettamente rituali (l’epidemia, la crisi di identità) in cui individui o gruppi rompono temporaneamente i loro normali rapporti sociali. È noto come feste anomiche quali le Tesmoforie analogamente comportassero una liberazione da ruoli e rapporti sociali normali, ma anche alcune particolari situazioni, quali l’assedio o la stasis nelle città antiche erano vissute come periodi di anomia e di caos. 325 Vd. Agamben 1995 che definisce l’ambiguità un “mitologema scientifico”. 326 Bloch 2005: 13-17 e 35-42. 327 Van Gennep 1909; Turner 1972. 323
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fino ad un ultimo stadio in cui erano reintegrati nella società; Bloch, pur accogliendo per alcuni aspetti tale modello e partendo da una medesima idea di tre stadi (separazione; margine; aggregazione), attribuisce ad essi significati diversi. Nel mondo dall’altra parte, gli individui (iniziati etc.) vivono temporaneamente – come Van Gennep e Turner evidenziavano – un’esistenza alternativa e speculare: ma quando da questo essi tornano alla vita quotidiana, vi è qualcosa di profondamente diverso in loro. Non si tratta di un semplice ritorno alla condizione abbandonata in un primo momento – ritorno, come sostengono i “ritualisti”, necessario perché lo stato liminale è o deve essere transitorio, oppure, come sostiene Versnel, perché le sue attrattive sono strutturalmente ambigue – ma si tratta invece di un “trionfale progresso”, di una nuova condizione frutto della conquista di nuove e trascendenti fonti di vitalità, che precedentemente mancavano loro. Nel caso dell’iniziazione, il più studiato da Bloch, da “prede” che erano al momento della partenza, gli iniziati tornano “cacciatori” e “consumatori” di prede: una caccia rituale e un banchetto con consumo di cibi carnei sancisce la nuova condizione. L’ultimo stadio vede dunque l’affermazione aggressiva di una vitalità nuova, diversa da ciò che era stato inizialmente perduto, e che si è ricevuta nel momento della separazione328. Prometeo vittorioso Se riprendiamo lo schema di van Gennep e Turner, tenendo conto delle modifiche introdotte da Bloch, possiamo isolare negli Uccelli: 1. un allontamento iniziale: una separazione dalla comunità di una parte malata (o, dalla comunità malata di una parte sana); 2. un momento di lontananza in una realtà “altra” – il mondo alla rovescia, mondo dei morti, mondo degli esclusi –; mentre manca il momento n. 3. il nuovo contatto con la vecchia realtà. È presente, tuttavia, un comportamento aggressivo nei confronti di coloro da cui ci si differenzia, i vecchi dèi. Lo schema può essere trascritto nei seguenti termini: 1. Allontanamento/regressione. Pisetero ed Evelpide decidono di “andare alla malora”, rinunciano alla cittadinanza per l’avversione alla “mania dei processi”; 2. mondo alla rovescia: è il mondo degli uccelli (dove le seccature sono inviti a pranzo, dove è favorito il rapporto omoerotico, non c’è la moneta, l’economia è basata sulla raccolta; è lecito picchiare il padre etc.). All’interno di questo mondo alla rovescia è consumata la violenza di ritorno: la guerra contro gli dèi e la sottrazione dei sacrifici, il banchetto a base di uccelli ribelli, le nozze con Basilia.
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Bloch 2005: 103 e ss.
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Il concetto di “violenza di ritorno” rende conto della apparente eterogeneità dell’esito brutale della neofondazione e della battaglia contro gli dèi rispetto all’evocazione iniziale del monde renversè, come mondo pacifico e apragmon. La permanenza nel monde renversè rappresenta infatti per Bloch la separazione da una identità che si perde (prede) e la preparazione ad una identità nuova (consumatori di prede). Nell’iniziazione, l’iniziando rinuncia all’infanzia, sperimentando la polarizzazione fra due modi antitetici di vivere uno dei quali dovrà essere sottomesso e secondarizzato all’altro; nella commedia invece, paradossalmente, la rinuncia riguarda la condizione di cittadino (la nuova identità degli iniziandi) e la condizione “nuova”, acquisita, è quella dell’uomo prometeico. È questa nuova identità dunque ad essere violentemente affermata, ma ciò avviene all’interno del mondo alla rovescia che acquisisce lo spessore di realtà tout court. La violenza non è casuale né evocata per poi condannarla: è invece un prodotto del processo di formazione dell’uomo prometeico e del suo potenziamento. Ciò spiega perché, mentre nel processo rituale di Bloch il ritorno alla comunità comporta l’abbandono del monde renversè e delle sue pratiche, negli Uccelli esso diventa il mondo reale (come la preda diventa cacciatore) in modo definitivo. Nel modello di Bloch, non si tratta tanto di abbandonare il monde renversè quanto di disciplinarne l’insegnamento, integrandolo nella comunità in cui si rientra: nella commedia si tratta di integrare il cittadino nel mondo prometeico. Non si tratta, a mio avviso, come vogliono le teorie per così dire “didattiche”, di mettere in scena il renversement per ammonire gli spettatori su ciò che potrebbe accadere se esso non fosse limitato nel tempo e nello spazio, ma di esprimere le paure o i dubbi attinenti la reale desiderabilità della techne politike. La commedia mette in scena l’esplorazione delle varianti più impensate della strutturazione della persona, invertendo l’ordine fra il momento prometeico e l’acquisizione dello status di cittadino e immagina un mondo in cui il processo di civilizzazione e di formazione della persona, anziché produrre, partendo da esseri prometeici, cittadini in grado di esercitare diritti sugli animali e sacrificare agli dèi, trasforma i cittadini in individui prometeici, che devono essere risarciti della rinuncia fatta attraverso il consumo di nuovi alimenti e l’esercizio di nuova sovranità. Gli orrori della controreligione L’idea della polis prometeica – Babilonia – non è tuttavia solo aristofanea. Nell’accingersi a narrare la guerra di Pompeo contro i Giudei, Diodoro ritiene opportuno esporre per sommi capi una trattazione, che riprende da Ecateo di Abdera, circa le origini del popolo giudaico. L’excursus si caratterizza per il fatto di considerare la
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fondazione di Gerusalemme come un episodio della storia dell’Egitto, luogo da cui sarebbero – secondo Diodoro – partiti i coloni fondatori della illustre città329. Il racconto ha inizio con un periodo di calamità: un’epidemia infuria in Egitto. Gli Egizi giungono alla conclusione che gli dèi sono adirati a causa dei molti forestieri che vi risiedono e hanno introdotto culti e costumi stranieri. Decidono dunque di cacciarli. Gli espulsi fondano colonie, parte in Grecia, sotto la guida di Danao e Cadmo330; parte in Palestina, guidati da Mosè, fondatore e legislatore della colonia di Gerusalemme. Secondo Ecateo, egli proibì le immagini degli dèi, proponendo l’adorazione monoteistica e aniconica di un unico Dio celeste che abbraccia ogni cosa331. Lo stesso racconto, con alcune varianti, esiste in molte altre versioni. Questi testi sono stati di recente analizzati da Jan Assmann332 che ha evidenziato come vi sia sotteso un medesimo schema generale: 1. 2. 3. 4. 5.
situazione di partenza: una mancanza (un contagio); misure per porre rimedio alla situazione; organizzazione sotto un capo, legislazione; orrori della controreligione; cacciata.
Lo schema di Assmann è per alcuni versi l’inverso di quello di Bloch, infatti in questi testi non si tratta di integrare ma di allontanare una parte della popolazione: l’ultimo momento del processo (il punto 5 dello schema) vede l’allontanamento definitivo di un gruppo di individui. Soffermiamoci brevemente su alcune delle varianti dell’excursus diodoreo che presentano delle analogie sorprendenti con il plot comico degli Uccelli. In Manetone, apud Ioseph. I 228-52 troviamo questo racconto: il re Amenophis volle un giorno vedere gli dèi, come era stato concesso al suo predecessore. Su consiglio di un saggio, fa radunare nel deserto ottocentomila lebbrosi, fra cui anche sacerdoti, presenti nel paese e li sottopone ai lavori forzati nelle cave di pietra. Il saggio è pero assalito da una visione di sventura e teme l’ira degli dèi: annota la sua profezia e si uccide. I lebbrosi ottengono di potere istituire una colonia ad Avari, l’antica capitale degli
Diod. LX 3. Lo stesso Diodoro, alla fine del capitolo, indica Ecateo come fonte di questo capitolo di storia egizio-giudaica. Sulla conoscenza della storia egizia da parte degli storici greci, vd. Hartog 2002: 82: e ss. il quale sottolinea come l’opera di Ecateo fosse in piena consonanza con la politica di Tolomeo I di valorizzazione dell’ Egitto come primo stato civilizzatore. All’Egitto Ecateo riconduce una grande quantità di istituzioni e fenomeni: dall’organizzazione dei sacerdoti caldei, alle fondazioni di Argo e Atene, alle origini dei misteri di Eleusi. Su questi temi vd. anche Assmann 2001. 330 L’origine egizia dei due personaggi è precisata anche in Diod. I 23 e 28. 331 Diod. LX 3: Non eresse alcuna immagine di dèi, ritenendo che il dio non abbia caratteri antropomorfici e che il cielo che circonda la terra sia l’unico dio e signore dell’universo. 332 Vd. Assmann 2000: 55-59. Si tratta di: Strab. XVI 2,35; Tac. Hist. V 3-5; Ioseph. Ap. 1 228-52. Giuseppe Flavio nella Contra Apionem riporta due lunghi estratti di Manetone, su cui vd. Schäfer 1997. 329
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Hyksos ed eleggono come capo un sacerdote di nome Osarsiph. Costui dà loro delle leggi che prescrivono tutto ciò che in Egitto è vietato, e vietano ciò che in Egitto è prescritto: gli dèi non devono essere venerati, i tabù alimentari non devono essere rispettati, non bisogna avere alcun rapporto con chi non appartiene al gruppo. La città viene fortificata e gli Hyksos, che avevano in precedenza dominato sull’Egitto e ne erano stati scacciati, vengono invitati a partecipare ad una sollevazione. Gli Hyksos ritornano. Il faraone si ricorda della profezia e fugge in Etiopia. I lebbrosi e gli Hyksos dominano l’Egitto: i templi sono distrutti, i santuari trasformati in cucine dove si arrostiscono animali sacri. Infine Amenofi ritorna e caccia i ribelli. Secondo Strabone, un sacerdote egizio di nome Mosè decide di abbandonare il paese perché insoddisfatto della sua religione ed emigra in Giudea con un folto stuolo di simpatizzanti. Egli rifiuta la tradizione egizia che raffigura gli dèi in forma di animali e riconosce che Dio è un essere unico non riproducibile da nessuna immagine Anche per Lisimaco, anch’egli citato da Giuseppe Flavio333, autore di un racconto particolarmente polemico, redatto non prima del IV sec. a. C. il racconto inizia con una carestia. Un oracolo ordina al re Boccori di purificare i templi dalle persone «impure ed empie». Il riferimento è agli Ebrei, i quali, colpiti dalla lebbra e da altre malattie, avevano trovato rifugio nei templi. Boccori ordina di annegare i lebbrosi e scacciare gli altri nel deserto. Un certo Mosè si preoccupa di organizzare gli esuli secondo i dettami di una controreligione, li conduce fuori dal paese e ordina loro di non essere benevoli con nessuno e di distruggere tutti i templi e gli altari. In Ecateo e in Lisimaco appare finalmente con chiarezza la connessione fra i due aspetti che connotavano come eccezionale la situazione iniziale: la malattia, in un caso epidemia nell’altro carestia, fa tutt’uno con l’assenza degli dei. Gli dèi sono distanti, adirati: ed è il corpo degli uomini (la pelle soprattutto) a risentirne. Una versione un po’ differente è in Cheremone, precettore di Nerone, vissuto ad Alessandria nella prima metà del I sec. d.C.334. La situazione di partenza è qui una rivelazione della dea Iside, che appare in sogno ad Amenophi e lo rimprovera per aver distrutto un tempio. Lo scriba e sacerdote Phiribantes lo consiglia di placare la dea ripulendo l’Egitto dai lebbrosi. Il re dunque raduna i lebbrosi in numero di duecentocinquantamila e li bandisce dal paese. Essi si radunano sotto la guida di Mosè e Giuseppe (Tisithen e Peteseph): a loro si uniscono altri emigranti a cui Amenophi aveva negato l’uscita dal paese. Gli espulsi si danno una legislazione ispirata ai dettami di una controreligione e, insieme agli emigranti, conquistano l’Egitto costringendo il Re a fuggire in Nubia. Il successore Ramses riesce a cacciare i ribelli e a rimpossessarsi del paese. Infine, la versione più polemica di tale leggenda si trova nelle Historiae di Tacito335. Anche qui la situazione di partenza è costituita da un’epidemia che infuria in Egitto e causa malformazioni fisiche: il re Boccori consulta l’oracolo e apprende che deve puri-
Ioseph. Ap. I 304-11. Vd. Schäfer 1997 e Stern 1974-84, vol I 383-86 e n.158 per la cronologia e uleriori notizie. 334 Vd. Schäfer 1997: 30-31. 335 Tac. Hist. V 3-5 su cui Schäfer 1997: 31-33. 333
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ficare il paese e mandare in altre terre gli Ebrei, razza invisa agli dèi. Gli Ebrei vengono cacciati nel deserto. Mosè li organizza secondo i dettami di una controreligione e li conduce in Palestina dove fonda Gerusalemme. La nuova religione di caratterizza per il monoteismo e aniconismo. È davvero singolare l’attenzione alla corporeità che da questi testi viene fuori: non malattie qualsiasi sono all’origine di tutto, ma malattie che si manifestano come deformazione e malformazione del corpo, e che coinvolgono tutta la collettività336. Ad una tale situazione tutti questi testi danno, si è visto, la stessa risposta: occorre separare, dividere, isolare. Ma ciò che è stato separato può dare origine ad una “controcomunità”, ad una inversione normativa: tutto ciò che prima era proibito ora è prescritto e viceversa. Tale inversione normativa riguarda in primo luogo la religione: la nuova comunità sembra portatrice di valori religiosi specularmente antitetici rispetto a quelli vigenti e di una aperta e talora violenta ostilità nei confronti dei vecchi valori e delle vecchie pratiche. Vi è un altro elemento su cui conviene fermare l’attenzione, e cioè il divieto di contatto con estranei: il comandamento di Mosè proibisce ai lebbrosi di avere rapporti con tutti coloro che non appartengono al proprio gruppo. La fondazione avviene sotto il segno della negazione e dell’inversione: un gruppo si isola capovolgendo i valori altrui e proibendo il contatto con l’altro da sé. A conferma della propria identità “negativa”, vengono accolti coloro che nell’ordine precedente erano identificati come “nemici”: ad Avari ritornano gli Hyksos. Jan Assmann ritiene che questi testi conservino la “memoria egizia” di Mosè, un Mosè iconoclasta, distruttore delle tradizioni religiose337. Accantonata la questione della sua esistenza storica, Assmann ha indagato su Mosè come “figura della memoria”, come colui al quale la tradizione collega “la distinzione tra vero e falso in ambito religioso”. Tale tentativo nel versante egizio della tradizione è vissuto e ricordato come
Sembra centrale in questi racconti il concetto di “contaminazione”. Di tale contaminazione sarebbero responsabili gli empi, gli impuri, i lebbrosi o secondo alcuni gli stranieri. Proprio il collegamento con gli stranieri, che si trova in Ecateo e che dunque pare una traduzione “in greco” di un più vasto ambito di impurità/empietà, potrebbe indurre a collegare questi agenti della contaminazione ai techitai/demiourgoi di cui Platone propone analoga segregazione. Senza dimenticare che l’individuo mancante di dike e aidos è detto da Zeus nÒsoj della polis in Plat. Prot. 322d. 337 Il concetto di “figura della memoria” è stato messo a punto da Assmann 1992; 2000 e 2002 sulla base delle ricerche sociologiche di M. Halbwachs, lo studioso francese, morto nel 1945 nel campo di concentramento di Buchenwald che negli anni Venti elaborò il concetto di “memoria collettiva”. Halbwachs sosteneva che per potersi fissare nella memoria di un gruppo, una verità deve presentarsi nella forma concreta di un evento, di una persona, di un luogo. D’altra parte, anche un evento, personaggio, fatto storico per poter entrare nella memoria deve essere trasposto in una teoria, in una nozione, in un simbolo. Studiare le “figure della memoria” da parte dello storico è importante, secondo Assmannn che ha coniato per questo tipo di studio il termine “mnemostoria” non tanto per determinare il grado di verità che queste tradizioni conservano in rapporto all’ esistenza storica del personaggio a cui ci si riferiscono, quanto per la luce che gettano sulle epoche in cui sono state prodotte. 336
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renversement, eccezione conclusa e (parzialmente) cancellata; nel versante ebraico come fondazione, inizio, purificazione. Ciò che accomuna questi testi fra loro e agli Uccelli è, possiamo affermare, la riflessione sul corpo politico come corpo malato. La comunità è affetta da malattie, o pseudo tali, che si diffondono per contagio: ciò che occorre, in questi casi, è un strumento discriminante che consenta di separare il sano dal malato: impuro, straniero, lebbroso sono tutte “etichette” che definiscono la parte che deve essere separata chirurgicamente affinche l’intero possa sopravvivere. La memoria mosaica rientra dunque in una serie di miti e di riti, studiati dagli antropologi, che inscenano la rinuncia alla vitalità da parte di un segmento “malato” della popolazione affinché la parte sana possa essere rivitalizzata338. Ma il consenso sul concetto discriminante può non essere totale, così come la parte dichiarata malata può invece sentirsi sana e reputare malato il corpo da cui si stacca: individui o gruppi espulsi ritualmente possono fondare spazi politici rivendicando una propria “controidentità”. Una fondazione può essere il luogo inospitale e remoto dell’esilio forzato o la ‘terra promessa’ di un gruppo di innovatori o di rivoluzionari339. Alla domanda: ‘di quale malattia soffre il corpo politico?” la commedia risponde non chiamando in causa la distribuzione diseguale di dike (Protagora) né la mancanza di scienza della misurazione (Socrate) ma revocando in dubbio proprio la politicizzazione: la differenza con i testi “egiziani” di Assmann non potrebbe essere più evidente. In un corpo politico “aggregato” quale quello dell’Egitto faraonico o di Babilionia si può separare il sano dal malato: le parti che lo compongono sono giustapposte; al contrario, il corpo politico della polis, se malato, lo è nel suo insieme: il rimedio non può essere chirurgico. Solo una rifondazione globale può risanare il corpo malato della polis.
Vd. Bloch 2005: 73-99. Esposito 2004: 115-157 ha analizzato in questa chiave il nazismo e lo sterminio degli Ebrei. Secondo l’autore, il razzismo «una volta inscritto nelle pratiche del biopotere, (…) assolve a una doppia funzione: quella di produrre una separazione, all’interno del continuum biologico, tra coloro che devono restare in vita e coloro che, invece, vanno respinti nella morte; e quella, ancora più essenziale, di fissare una relazione diretta tra le due condizioni, nel senso che è appunto la morte dei secondi a consentire la sopravvivenza agevolata dei primi». Questo fu possibile soltanto a partire da un’idea di corpo politico non come somma dei cittadini, ma come corpo etnico, totalità organica del popolo tedesco in cui ciascun corpo singolo si trova incorporato attraverso la mediazione della sostanza razziale a patto che «abbia la forza di espellere da sé tutto ciò che ad essa non appartiene». 339 Ho affrontato alcuni di questi argomenti, con particolare riferimento al tema della colonizzazione forzata, in due saggi in corso di stampa cui mi permetto di rimandare: vd. Caserta 2005 e 2006. Sul “mito” della terra promessa come vicenda di liberazione rivoluzionaria dall’oppressione vd. Walzer 2004. 338
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Un’ottica immunitaria La commedia sfrutta evidentemente un sapere e una mitologia dell’espulsione340 di cui si serve per fini che invece le sono suoi propri, per liberare quegli aspetti individualistici e prometeici – smisurati, violenti, eccessivi – che la città cerca di contenere e sottomettere ad un idea di misura e controllo. Lo smascheramento prodotto dalla commedia ci induce a chiederci quale sia la natura del rapporto che si instaura, nel mito e fuori di esso, fra la parte prometeica della persona e quella politica, fra le technai e la techne politike. Essa non sembra consistere in una semplice opposizione polare o di una mera successione cronologica o ancora di una somma di capacità omogenee. Tutto ciò che è attribuito all’uomo prometeico non viene isolato ed espulso come accade nei miti di espulsione studiati da Assmann. Il bandito, l’esule, l’escluso, l’homo sacer che tanta parte hanno nella dinamica della sovranità medievale e moderna non hanno lo stesso rilievo nel mondo greco. L’uomo prometeico, anche quando è connotato come “escluso”, non è una “non-persona”: e proprio il Protagora attesta anzi come nelle decisioni relative all’amministrazione della città «si alzano in piedi e danno consigli su questi problemi all’assemblea, senza alcuna distinzione, il falegname, il fabbro, il calzolaio, il mercante e l’armatore, il ricco e il povero (…)»341. Contro l’opinione della maggior parte dei commentatori del Protagora, che technai e arte politica siano i due ingredienti della società e che la seconda abbia una funzione integrativa della prima, Gilli sostiene che la società si costituì malgrado le technai e, per alcuni aspetti, contro di esse342. La sua posizione dà ragione del conflitto e della tensione che continuano a sussistere fra le due esperienze e anche dell’aspetto “traumatico” della recezione delle technai che l’autore ricostruisce con precisione e abbondanza di documentazione. Forse tale rapporto potrebbe essere spiegato ancora meglio ricorrendo alla categoria di “immunizzazione”: anziché sovrapporsi o giustapporsi in una forma che comporta necessariamente il prevalere di un termine sull’altro, nel paradigma immunitario teorizzato da Roberto Esposito343, due modalità – struttura e supplemento, identità e
Per altro negli Uccelli vi sono molte tematiche comuni a questi testi e alcuni accenni al mondo egizio che potrebbero deporre per una conoscenza da parte di Aristofane del racconto ecataico. Fra le tematiche comuni, oltre alla già segnalata analogia generale del plot narativo: il motivo dell’assenza o distanza degli dèi (Aristoph. Av. 726-30: gli Uccelli, nuovi dèi, dicono di sé: «non scapperemo a sederci nella gloria dei cieli, in mezzo alle nuvole come Zeus. Vi staremo vicini»); il tema del monoteismo (adombrato scherzosamente in Av. 899 dove il coro chiama i beati al sacrificio, non tutti: «ma uno soltanto, se pure il cibo gli basti»); il tema della riforma del sacrificio (Av., 611 e ss.: «non più a Delfi né ad Ammone porteremo sacrifici»). 341 Plat. Prot. 319d. 342 Gilli 1988: 357 e n. 2, 358 contra Vlastos 1946 e Cambiano 1971. 343 Esposito 2004: 42 e ss. e 2002. 340
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alterità, munus e immunità – risultano costituenti di un insieme che ha senso solo a partire dal loro rapporto. L’immunizzazione rimanda alla «situazione di rottura di un precedente equilibrio e all’esigenza della sua ricostituzione» e dunque alla «necessità di una risposta protettiva nei confronti di un rischio». Si parla di immunizzazione quando “il luogo in cui si situa la minaccia è quello del confine fra l’interno e l’esterno, il proprio e l’estraneo, l’individuale e il comune. In questo contesto, se “immunità” è una condizione di refrattarietà nei confronti del “contagio” da parte di un organismo vivente, ad essa inerisce tuttavia una “negatività”: infatti è una protezione della vita che “salva, assicura, conserva l’organismo sottoponendolo ad una condizione che nega, riduce, frena la potenza dell’organismo stesso”, identificando e separando in esso un “supplemento” non indispensabile, un intruso344. La techne345, mi pare, è proprio ciò da cui il cittadino deve essere immunizzato. Ciò che cambia è la direzione: non dal munus verso l’immunitas, ma viceversa. Il cittadino è infatti colui che è qualificato dalla presa in carico dell’altro, dalla responsabilità del confronto, della mediazione; un munus, quello del cittadino, che confligge con le esigenze dell’immunitas, dello «star seduto presso le navi» di Achille adirato.
Esposito 2004: 44-46 sottolinea come per molta parte della moderna sociologia il conflitto sia necessario al funzionamento di un “sistema” che se ne serve proprio per riattivare e tenere costantemente attivati i propri anticorpi. In ambito sociale, ciò che appare patologico è, in un ottica immunitaria, una polarità non solo ineliminabile, ma anche funzionale del comportamento normale. 345 Si potrebbe spingere oltre questo accostamento, di cui è da segnalare la produttività: esso consente per esempio di spiegare alcuni aspetti della stasis. Considerando la stasis in un rapporto di opposizione polare con la polis, infatti, si corre il rischio di depoliticizzarla; diversamente, situandola in una relazione di immunizzazione essa è ciò da cui la polis deve immunizzarsi, assumendola (come un famaco) a certe condizioni, quali per esempio circostanze (vere o presunte) estreme o con il successivo impegno a dimenticare. Sul nesso fra stasis e oblio, e sull’esigenza di ripoliticizzare la stasis vd. Loraux 1997 344
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TYRANNOPHOBIA
Le cause comiche del bellicismo pericleo Non so se sia da attribuire a una mera casualità il fatto che il filosofo più di ogni altro attento e curioso del fenomeno della paura sia stato anche un lettore di Tucidide; e che di entrambi la lettura sia spesso stata considerata – a detta di molti – attraente e ripugnante al contempo. Mi riferisco, naturalmente, a Hobbes, che di Tucidide fu traduttore ed estimatore346. La paura è in Hobbes, come sottolinea Roberto Esposito, il terribilmente originario, al punto che non ci sarebbe politica senza paura. E la riflessione su di essa costituisce un aspetto imprescindibile della lettura hobbesiana di Tucidide347. Molto è stato detto, in tempi di “guerra fredda”, sul timore reciproco su cui si fondava l’equilibrio fra stati o blocchi di potenze, nel mondo contemporaneo come in quello antico, e passando per l’Ancient Regime. Molta parte ha nel quadro della Guerra del Peloponneso il phobos di Sparta nei confronti della crescente e minacciosa potenza di Atene e non è difficile dimostrare il carattere speculare di tale paura, e cioè la paura, analoga e corrispondente di Atene nei confronti della rivale, qualora questa avesse voluto percorrere la via dell’imperialismo o minacciare gli interessi di Atene348. Meno indagati sono invece i meccanismi interni di Atene in termini di “metamorfosi della paura”. Vi è infatti una paura che rimane in ombra nell’opera tucididea e che, potremmo dire più specificatamente, egli ha “rimosso” dalla sua indagine. Mi riferisco alla paura nutrita dal demos ateniese nei confronti di Pericle e a quella speculare di Pericle nei confronti del demos. Gli storici moderni hanno quasi sempre prestato ben poca fiducia a quelle spiegazioni delle cause della guerra del Peloponneso che chiamano in causa gli interessi personali di Pericle. Queste spiegazioni, fornite principalmente dai commediografi e rac-
Vd. Borrelli 1984. Sulla paura in Hobbes, vd. Esposito 1998: 3-31. La lettura di Hobbes è descritta in questi termini da Elias Canetti in un breve testo in forma di aforisma che si legge in Esposito 1998: 3. 347 Borrelli 1984; Esposito 1998: 5. 348 Su questi parallelismi fra storia contemporanea e “modelli” greci, vd. Chiaruzzi 2004. 346
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colte da storici non eccessivamente affidabili, e comunque non da Tucidide, hanno un sapore aneddotico che le rende praticamente inutilizzabili ai fini di una ricostruzione attendibile o al massimo utili ad integrare la prospettiva tucididea349. Diodoro, rifacendosi a quanto esposto da Eforo, in XII 39 considerava il processo intentato a Fidia come la vera causa del bellicismo pericleo: lo statista, preoccupato dal clima di manifesta ostilità coagulatosi intorno alla sua persona e di cui il processo allo scultore del Partenone era una spia, avrebbe cercato di evitare di essere a sua volta incriminato inducendo gli Ateniesi ad imbarcarsi in un’impresa, quella della guerra contro Sparta, che li avrebbe tenuti occupati ed indotti alla ammirazione del suo valore e della sua abilità strategica350. Pericle era dunque impaurito dalla violenza degli Ateniesi e temeva che essa potesse volgersi contro la sua persona, ricordando forse la sorte del suo primo alleato politico e ispiratore, Efialte351. L’origine di tale spiegazione risale ad Aristofane. Nella Pace, su Pericle e sulle cause della guerra, Aristofane costruisce interamente l’intreccio comico: la commedia ruota infatti intorno alla sparizione della dea Pace, per cercare e recuperare la quale il contadino Trigeo riunisce i “pacifisti” lavoratori dell’Attica, che vengono aiutati nella loro impresa da Ermes. È proprio Ermes a spiegare a costoro le ragioni della scomparsa di Pace: La causa principale fu la disgrazia capitata a Fidia; Pericle poi, temendo di essere accomunato nella stessa sorte – aveva terrore della vostra indole e del vostro carattere! -, prima che capitasse anche a lui qualcosa di spiacevole, mise fuoco alla città attizzando la piccola scintilla del decreto megarese; ed alimentò una guerra così grande che, per il fumo, tutti gli Elleni si misero a lacrimare: quelli di là e questi di qua. E non appena una vite, contro voglia, prese a scoppiettare, e un orcio rotto, per l’ira, prese a dar calci con-
Giuliani 1999, 23 e ss. La valutazione risale a Jacoby FGrHist II C Komm. Il commento di Jacoby è particolarmente duro nei confronti del tentativo di Eforo di integrare Tucidide, inserendo quegli aspetti personali che lo storico ateniese aveva lasciato da parte. Allo storico cumano Jacoby imputava sia un difetto di intelligenza storica, sia una carenza metodologica. Una diversa valutazione della visione eforea in Schepens 2004, che mette in luce come la sua visione delle cause del conflitto dipendesse sostanzialmente da una diversa e peculiare idea di egemonia. 350 Diod. XII 38-40, che dipende da Eforo (FGrHist 70 F169), non si sofferma sull’intervento ateniese a fianco di Corcira, amplificando invece il cenno aristofaneo sulla responsabilità di Pericle nello scoppio della guerra. La differenza fra Diodoro-Eforo e Tucidide non consisterebbe, secondo Giuliani 1999: 3740, soltanto nella sintesi operata sul testo tucidideo ma risponderebbe ad una logica coerente e mirante a considerare il conflitto fra Atene e Corinto come uno scontro in sé concluso. Eforo potrebbe essersi rifatto ad altre fonti, forse biografiche, di Stesimbroto di Taso o a scritti polemici di carattere antipericleo, dando origine ad una tradizione presente poi anche nella Vita di Pericle di Plutarco. Sullo sviluppo dell’intera tradizione sulle cause della guerra del Peloponnneso vd. Stadter 1989, 263-305. Schepens 2004 sottolinea giustamente l’apporto di Diodoro, la scelta selettiva e non semplicemnte riassuntiva del testo di Eforo, come si evince anche da un confronto con Aristodemo. 351 La morte di Efialte, per mano di Aristodico di Tanagra assoldato probabilmente dalla fazione oligarchica, è ricordata da Aristot. fr. 397 Rose e Ath. Pol. 25,4 e da Plut. Per. 10,8. 349
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tro un altro orcio, non c’era più nessuno che fosse in grado di porre fine a quella situazione352.
Alcuni studi recenti hanno mostrato come i riferimenti alle vicende di Fidia e al comportamento di Pericle erano familiari al pubblico e non invenzioni od interpretazioni maliziose di Aristofane353. Le affermazioni di Ermes nella Pace risultano tutto sommato attendibili e consentono di ricostruire una cronologia degli umori e della politica ateniese negli anni intercorrenti fra il processo di Fidia e l’inizio delle ostilità354. È importante sottolineare che altri commediografi in quegli anni insistevano sulle responsabilità di Pericle nello scoppio della guerra, scorgendo significativamente un legame col motivo scatenenante della guerra di Troia: il giudizio di Paride ed il rapimento di Elena355. L’incendio della Grecia è dunque visto nella commedia come una sorta di stratagemma messo in atto da Pericle in risposta ai processi che avevano colpito o erano in procinto di colpire la sua cerchia di amici e consiglieri. Il fuoco come forma di “giustizia” primordiale, come risposta o alternativa alla via processuale si ritrova anche in un'altra commedia. Nelle Nuvole, la statua di Ermes, consiglia a Strepsiade, per vincere l’agone contro Socrate, di non usare l’arma processuale356, cara agli Ateniesi, ma di dare fuoco al più presto al “pensatoio”, dove sono chiusi i “parolai” che, capeggiati da Socrate, hanno convinto Strepsiade a ripudiare gli dèi. Strepsiade accoglie subito il suggerimento e appicca l’incendio, lasciando morire soffocati e bruciati i suoi abitanti, puniti per la corruzione e la bugia che essi hanno divulgato. La commedia finisce con le incitazioni del furibondo contadino ad un servo a inseguire e picchiare il filosofo e i suoi seguaci colpevoli di avere oltraggiato gli dèi357. Indipendentemente dal gradimento del pubblico (che Aristofane nelle Vespe accusa di ottusaggine per non aver capito i sottilissimi pensieri della commedia su Socrate), la
Aristoph. Pax, 605-614. Sulla commedia in genere e sul discorso di Ermes in particolare vd. Cassio 1985. 353 Per la cronologia del processo a Fidia, vd. Prandi 1977. Giuliani 1999: 24 n.2, lo colloca nel 435/4 o poco prima. Nella reazione sorpresa del Coro alle affermazioni di Ermes, Giuliani 1999: 27-30, vede un elemento di caratterizzazione degli abitanti dell’Attica come buoni e semplici, lasciati all’oscuro della verità. 354 L’attendibilità di questa ricostruzione, tenuto conto del carattere comico del discorso, è variamente valutata dagli studiosi. Recentemente tuttavia pare prevalere una valutazione positiva, in ordine anche ad una più diffusa esigenza di valutare l’impatto della Commedia sulla formazione dell’opinione pubblica contemporanea, su cui vd. Bertelli 2001. Nello specifico, la ricostruzione fornita dalla Pace è ritenuta sostanzialmente attendibile da Giuliani 1999 e, per altri motivi, da Prandi 1977. 355 Vd. la ricostruzione delle tematiche e della cronologia in Giuliani 1999. Il riferimento è alle commedie Nemesi e Dionisalessandro di Cratino. Su quest’ultima commedia vd. anche Mc Glew 2002: 43-48. 356Aristoph. Nub. 1481-85. Strepsiade si rivolge a Ermes: «Consigliami tu: presento un’accusa contro di loro e li porto in tribunale? O che altro vuoi tu? Si, si: altro che vie legali, la cosa migliore è metterla subito a fuoco la casa dei ciarlatani (…)». 357 Aristoph. Nub. 1506-1509. Su Socrate, idolo polemico di Aristofane, vd. Canfora 2001: 219- 228. 352
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scena mostra la virulenza, seppure comica e immaginaria, dell’attacco sferrato dal commediografo nei confronti di un certo tipo di indagine filosofica, il cui risultato poteva essere – come sottolinea Luciano Canfora – l’apertura formale ai danni di Socrate di un procedimento per empietà, in base al decreto di Diopite varato in precedenza per colpire Anassagora358. Di Anassagora Socrate era stato discepolo e con il maestro aveva condiviso l’interesse per l’astronomia dileggiato e duramente avversato come “empio” da Aristofane359. L’idea di Ermes si riallacciava anche ad un precedente storico: qualche anno prima infatti, nell’Italia meridionale, i Crotoniati avevano appiccato il fuoco alla casa di Milone dove erano riuniti i Pitagorici, la cui attività politica era invisa ad una parte della cittadinanza che si sentiva esclusa dalla comunità pitagorica360. Se riflettiamo sul fatto piuttosto ovvio, ricordato da Plutarco361, che colpendo Anassagora, Diopite intendeva in realtà colpire Pericle, tutta la scena del fuoco appiccata al pensatoio acquista un diverso spessore362. All’opzione processuale contro i colpevoli di empietà la Commedia preferisce la giustizia “spiccia” dell’appiccare il fuoco; ma anche Pericle all’opzione processuale preferisce il fuoco! Ciò necessita di qualche spiegazione. Si è detto come Pericle venisse paragonato a Paride per aver causato la guerra363. È una conferma ulteriore del ricorso alle vicende mitiche per spiegare i comportamenti dei personaggi politici contemporanei. Ma il riferimento mitico usato per “interpretare” Pericle doveva essere un altro. È noto come Sparta fondasse il suo ruolo panellenico su quello mitico degli Atridi. Ciò poneva Atene di fronte al confronto obbligato con Achille. Ellinger ha suggerito di vedere nella relazione fra la spedizione siciliana e il disastro di Atene in Tucidide, un nesso con quella fra i funerali di Patroclo e quelli di Achille, annunciati e prefigurati, nell’Iliade364. Se ciò poteva accadere – se cioè il fallimento della spedizione siciliana poté essere visto come il preludio ad una catastrofe
Canfora 2001: 221. Sul decreto di Diopite vd. Plut. Per. 32. Plutarco conosceva il decreto attraverso Cratero, vd. Stadter 1989. 359 Su Socrate “anassagoreo”, vd. Canfora 2001: 226-228. 360 L’episodio, centrale nei moti antipitagorici del V secolo a. C., è ripotato da Diog. Laert. 8,39 e da Iambl. V. Pyth. 35, 249; secondo Musti 2005: 155 e ss., ogni singolo episodio di sinedrio pitagorico in fiamme non sarebbe che una variante di un prototipo che si ripete, nella tradizione pitagorica, sempre uguale e senza distinzioni cronologiche rigorose. I moti antipitagorici si disporrebbero invece in due fasi distinte: una dopo la distruzione di Sibari, la seconda intorno al 450. 361 Plut. Per. 32,1. 362 Ad essere presa di mira da Aristofane sembra dunque la physiologia anassogorea, condivisa da Pericle. Giangiulio 2005 analizza l’immagine “anassagorea” di Pericle riconducendola in parte a Platone e soprattutto al Fedro: da Platone, ma anche da altre tradizioni di V e IV secolo, Plutarco avrebbe desunto alcuni dati fondamentali per la costruzione dell’immagine del Pericle della Vita. Gli elementi preplatonici di questa tradizione sarebbero, secondo l’autore, dati della tradizione culturale ateniese di tardo V secolo. 363 Nel Dionisalessandro di Cratino, rappresentata nel 430 o 429, Pericle è rappresentato come Dioniso che, sostituendosi a Paride e ottenendo Elena, attira dietro di sé l’esercito distruttore degli Achei. Vd. KasselAustin PCG IV, p. 141. 364 Ellinger 1997: 861. 358
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ben più grave – era proprio perché nel senso comune degli Ateniesi si poneva, in modo pacifico o problematico, una relazione analogica fra Atene e Achille. Nel libro XVI Achille viene contestato duramente, sia dallo stesso Patroclo, che gli rimprovera di essere ¢m»canoj, insensibile, alla rovina degli Argivi, e dai suoi stessi compagni. È egli stesso a riferirlo: (…) tutti m’accusavate: “Crudele figlio di Peleo, col fiele ti crebbe la madre, spietato, che presso le navi costringi i compagni a malgrado. Torniamo dunque in patria sulle navi marine, indietro, se mala ira così ti cadde nell’animo”365
L’esercito che aveva seguito Achille a Troia, fin dalla contesa con Agamennone, era stato costretto a restare fuori dalla battaglia, sulle navi. Solo se la guerra fosse arrivata fin lí, Achille avrebbe smesso l’ira, per difendere i mezzi che gli avrebbero consentito il ritorno366. Ora, la battaglia volge in favore dei Troiani, che sono giunti a ridosso delle navi con l’intenzione di incendiarle. Si genera una situazione paradossale: gli Achei giunti dal mare per assediare Troia, si trovano ad essere a loro volta assediati, avendo alle spalle soltanto il mare. Achille e l’esercito dei Mirmidoni, fermi presso le navi, sono al centro dell’assedio, l’uno deciso a non mostrarsi, gli altri desiderosi di combattere. Mentre i Troiani appiccano il fuoco alle navi, Achille escogita un piano che rivela la natura “prometeica” della sua ira: Patroclo, vestite le armi di Achille, apparirà ai nemici, volgendoli in fuga, ma poi dovrà lasciare gli altri a combattere e tornare alle navi. Così, si augura Achille, egli soltanto e Patroclo resteranno padroni del campo, morti Argivi e Troiani. Oh se – Zeus padre e Atena e Apollo! – Neppur uno dei Teucri, quanti sono, sfuggisse alla morte, neppur uno dei Danai: noi due soli dalla morte emergessimo, (…)367
Questa scena, che poi porterà alla morte di Patroclo, che non seguirà il piano di Achille, è molto significativa, al di lá di riscontri puntuali o di parallelismi che potrebbero risultare forzati. È significativa perché mostra come un piano come quello di Pericle – consentire ai Lacedemoni di invadere l’Attica senza dare battaglia, al sicuro entro le mura ma con la disponibilità del mare alle spalle – in cui fosse previsto di lasciare giungere il nemico ad assediare la città, potesse essere letto come un gesto di estre-
Hom. Il. XVI, 202-206. La promessa è ricordata dallo stesso Achille in Hom. Il. XVI, 61-63. 367 Hom. Il. XVI, 97-100. 365 366
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ma arroganza368. Di più, come un gesto che salvava il singolo, condannando tutti gli altri. L’auspicio di Achille, di vedere morti indifferentemente Argivi e Troiani, mi sembra riecheggiato dal fumo che fa lacrimare «tutti gli Elleni (…) quelli di là e questi di qua», amici e nemici. Achille è – come poi riconoscerà agli stesso – responsabile dell’assalto alle navi e del relativo incendio che porteranno alla morte di Patroclo. L’incendio è l’arma caratteristica dell’assedio: una città vinta dagli assediati è una città bruciata. Ma, mi sembra di poter affermare, gli assediati sono detti dal mito corresponsabili della sorte che tocca loro. Nel combattimento oplitico è lo scontro in campo aperto, fuori dalle mura, a esemplificare la guerra “giusta”. Ciò è connesso al fatto che vi è una contiguità varie volte ribadita fra assedio e stasis. Alla stasis come modalità di rapporto impolitico fra individui prometeici corrisponde la minaccia come modalità del rapporto con l’esterno369. È stato spesso notato dagli studiosi che fra le varie modalità della guerra, l’assedio è quella che maggiormente si avvicina alla stasis 370 . All’interno della città assediata le regole del combattimento oplitico sono sospese: la partecipazione di donne e schiavi, la litobolia, l’uso di inganni e tranelli sono tutti elementi dell’assedio e della stasis che rimandano a forme di guerra primordiali, primitive. Assedio e stasis – nel mito del Protagora – sono i due volti, all’interno e all’esterno, del mondo prometeico. Indifferenti alla salvezza reciproca perché privi di dike, gli uomini prometeici sono impossibilitati a salvarsi dal nemico esterno. Assedianti e assediati si confondono in un’unica generica condanna: all’efferatezza degli uni corrisponde il disordine degli altri. Entrambi a negare l’ordinata geometria del combattimento oplitico. La carenza di techne politike, come si è già visto, non investe tanto il momento della fondazione delle città371, che evidentemente ricadeva sotto la sfera della perˆ tÕn b…on
Analoga era l’accusa che veniva rivolta a Pericle nel Dionisalessandro: Pericle/Dioniso/Paride aveva attirato contro i suoi concittadini l’ira degli spartani per il rapimento di Elena, causando l’assedio della città e l’incendio delle campagne. Oggetto di critica era l’atteggiamento attendista del dio (Dioniso/Paride) vd. Giuliani 1999: 31, n.17. 369 L’assedio rinforza o provoca la stasis: la coesione interna consente di resistere vittoriosamente. Il meccanismo è esemplificato dall’interruzione della stasis ad Atene in occasione del temuto assedio posto dagli Spartani nel 411: esso non si verificò e ciò provocò la caduta dell’oligarchia dei Quattrocento, smascherando gli slogans degli oligarchi che sull’impossibilità di resistere al pericolo spartano fondavano la necessità del cambiamento costituzionale; su questi argomenti mi permetto di rimandare a Caserta 2004. 370 Stasis e assedio esprimono il volto distruttivo e destrutturante della guerra, relativamente ai due momenti principali di crisi dell’identità collettiva: così Cusumano 2005: 824 e 828. Nell’assedio dei Selinuntini e nel massacro che ne seguì Cusumano rintraccia aspetti di eccezionalità e dismisura di cui sono segno la necessità di ricorrere all’aiuto delle donne, oltre che di anziani e bambini; il rovesciamento dell’hikesia e dell’asylia; lo scempio dei cadaveri. «L’assedio di Selinunte – sostiene l’autore – è al contempo una storia di dissoluzione e di definizione: ruota intorno al concetto di confine e di separazione. I confini vengono dissolti dall’assedio, dalla crudeltà, dall’oltraggio, dalla confusione tra dentro e fuori, tra giovani e anziani, tra donne e uomini, tra cittadini e non cittadini. Tutto è ridotto al silenzio (…) nessuna parola, ma solo espressioni diverse del più articolato territorio del silenzio». 371 La violenza insita nei momenti di “fondazione” è messa in evidenza da Carandini 2006, la cui analisi, partendo dal ciclo mitico di Remo e Romolo, coinvolge di fatto numerosi altri temi, configurandosi come una riflessione sul gesto stesso del “fondare”. Vd. in particolare 397-407 in cui l’intreccio di violenza e purezza presenti nella figura del re-fondatore è analizzato in chiave di comparazione antropologica. La 368
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sof…an quanto il momento successivo, in cui essi «commettevano ingiustizia l’un l’altro», ºd…koun ¢llhouj: infatti, l’intervento successivo di Zeus, riguarda proprio la distribuzione di d…kh. Questa connessione, che è stata varie volte notata, nell’Iliade illustra l’incapacità di difendersi da parte dell’esercito disgregato. L’incendio si pone sulla stessa linea concettuale della stasis e dell’ira per la sua caratteristica di neutralizzare l’opposizione fra amici e nemici, mettendo a rischio la vita tanto dell’innocente, quanto del nemico che si intende colpire e persino dell’incendiario. Come rischia di accedere a Corcira Quando verso sera volsero in ritirata, gli oligarchi, per timore che il popolo attaccasse d’impeto l’arsenale e, impadronitosene, li uccidesse, appiccarono il fuoco alle abitazioni e ai casamenti intorno alla piazza, per bloccare ogni via d’accesso, non risparmiando né le case proprie né le altrui, sicché andò perduta nell’incendio anche una gran quantità di merci, e la città corse il pericolo di andare distrutta se sulle fiamme si fosse levato un vento spirante nella sua direzione372.
La Commedia dunque nel suo complesso sembra dar voce, in questo periodo, più che all’ostilità nei confronti dello statista ateniese, ad un clima di paura derivato dalla lettura “analogica” della politica di Pericle: di questo clima mi pare consapevole lo stesso Tucidide, il quale pur non rilevando le accuse in quanto tali, si sforza di rintuzzarle attraverso una serie di riferimenti indiretti e di allusioni. Il momento in cui la propaganda politica della Commedia, volta a isolare e screditare lo statista, come alimentata dalla paura nutrita dal demos nei confronti di Pericle, catalizza le accuse intorno alla persona dello statista è il 430373.
figura del fondatore violento (con il suo retroterra di predazione, incesto, uccisione di consanguinei) deve poi – come documentano i miti – «sbiadire e il re deve integrarsi (…) Così l’inumanità e la violenza del sovrano si trasformano in legittimità, pluviosità, fecondità, potere nutritivo e dominio, anche su altri popoli». È il tema pitagorico del re-pastore (anche i re di Carandini «sembrano essere stati capi pastore») che si moltiplica e si “individualizza”, come avveniva anche nel Politico. 372 Thuc. III 74,2. 373 Giuliani 1999: 32-33 che intende in questa luce anche l’assimilazione di Pericle a Zeus che ricorre con frequenza nelle commedie databili in questo torno di tempo. Esse riguardano soprattuto la caratterizzazione dell’eloquenza di Pericle, su cui vd. Nicolai 1996: 104 e ss., che sottolinea come lo scopo dei commediografi fosse quello di mostrare lo sconfinato potere di cui, in virtù della sua eloquenza, Pericle era dententore.
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L’equivoco plutarcheo La tradizione biografica antica, e Plutarco in massimo grado, hanno popolato l’immaginario dei moderni di “modelli di virtù” e di “schiavi delle passioni”, di eroi storici o mitistorici che hanno spesso influito sui comportamenti pubblici e privati di esseri umani, anche a distanza di millenni374. È noto, per esempio, come la “virtù” degli Antichi agisse sulla politica francese durante la Rivoluzione: Robespierre identificava la virtù con l’abnegazione e nutriva la convinzione che «il valore di una politica possa essere verificato in base al grado in cui si oppone a tutti gli interessi particolari e il valore di un uomo possa essere giudicato dal grado in cui egli agisce contro il proprio interesse e contro la propria volontà»375. Estremamente pericoloso era per lui – come per Rousseau376 – l’egoismo assai più che la malvagità. In questo – come in altre sue convinzioni – agiva indubbiamente l’esempio degli eroi plutarchei e soprattutto di Pericle. L’incorruttibilità di Pericle, i suoi costumi morigerati, il suo autocontrollo, la dignità e l’integrità, il risolversi del privato dell’uomo interamente nel pubblico dello statista sono dati ricorrenti anche nel bios del rivoluzionario francese. Tuttavia, complice la struttura retorica della pagina plutarchea, l’ethos pericleo viene letto come un prius non necessitante di ulteriore indagine, una qualità di natura che spiega (e non è spiegata da) e talora giustifica le azioni concretamente politiche377. Il bios di un uomo, appare, nella ricostruzione letteraria, così compiuto e perfetto da far passare in secondo piano ogni elemento esterno come se “generosità”, “incorruttibilità”, “doti di stratego”, si esercitassero in una sorta di vuoto. Di Robespierre si è potuto dire che «il male della sua virtù (...) stava nel fatto che non accettava alcuna limitazione» e riconoscere «come la virtù ispirata dalla sua pietà (...) fin dall’inizio del suo governo abbia stravolto la giustizia e calpestato le leggi»378. Di Pericle, Plutarco invece ricorda proprio la giustizia e la moderazione. Sarebbe tuttavia riduttivo ritenere, ribaltando la dimostrazione plutarchea circa le capacità di uomo di stato di Pericle, di aver costruito un’immagine più storicamente
Mi riferisco in particolar modo alla ricezione di Plutarco nel XVIII secolo, sia in ordine ad una riscoperta dell’arte classica identificata in un ideale sovratemporale, su cui vd. Höcker-Schneider 1997; sia in rapporto all’ethos dei rivoluzionari francesi: Vd. Mossé 1989. 375 Arendt 1963: 83-84. 376 Alla riflessione moderna – soprattutto di Montesquieu e di Rousseau – sulla democrazia antica è dedicato un intero capitolo in Musti 1999. Da cui si evince anche l’uso di temi rousseauiani da parte di Robespierre. Le corrispondenze fa il pensiero di Robespierre e quello di Pericle sono notate sia da Mossé 1989 che da Musti 1999. 377 Questo isolamento e costruzione dell’ethos di un personaggio, segnatamente di Pericle, è ottenuto in Plutarco attraverso una serie di accorgimenti retorici, quali la subordinazione dell’ordine cronologico alla figura retorica dell’amplificazione e la selezione accorta degli argomenti: vd. Stadter 1991: 90 e ss. 378 Arendt 1963: 96. 374
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attendibile. Piuttosto occorre ricostruire lo sfondo storico in cui essa poteva essere (o non essere) funzionale. Mi riferisco al clima ostile allo statista, di cui Plutarco mostra di conoscere gli argomenti e i protagonisti, e che pare oggi riduttivo limitare al giudizio platonico. Non erano pochi i contemporanei che giudicavano Pericle un semplice demagogo, un parassita affossatore dell’aristocrazia da cui pure proveniva379. La virtù di Pericle può dunque essere letta in un’altra chiave, che consente anche di spiegare la metabole dello statista che tanto preoccupava lo scaltro Plutarco. Nell’introdurre la coppia oggetto del decimo libro delle Vite parallele, Pericle e Fabio Massimo, Plutarco, prendendo spunto da una battuta rivolta da Cesare ad alcuni ricchi forestieri che giravano per Roma tenendo in braccio cuccioli e scimmiette, si addentra in una lunga discussione su ciò che deve essere oggetto di ammirazione e di imitazione e ciò che invece, pur essendo ammirevole, non deve suscitare analogo desiderio di emulazione. Il passo plutarcheo, molto commentato, potrebbe facilmente aprire l’ampio dossier delle fonti antiche improntate a disfavore nei confronti dei technites. Infatti, mentre la virtù dei personaggi, le cui vite sono oggetto della trattazione del biografo, non solo si offrono alla contemplazione ma forniscono anche esempi da imitare, esistono attività umane che, a detta di Plutarco, pur producendo opere che procurano piacere e godimento – dai profumi e dalle porpore di ignoti artigiani, alle statue di Fidia e ai versi di Archiloco – non si offrono quali modelli di comportamento. Da rifuggire sono demiourgoi e banausoi, “artefici” e “artigiani”, la cui attività è definita da Plutarco spregevole, vergognosa, indegna di un cittadino, di un uomo ben nato e di un re. Quand’anche il risultato di tale attività sia degno di ammirazione, non per questo l’attività stessa dovrà essere imitata da chi voglia essere considerato un buon cittadino380. La apparente marginalità della riflessione plutarchea rispetto all’argomento del libro è stata spesso sottolineata, per poi però sostanzialmente ridimensionarla, attribuendole la funzione di «predisporre il lettore a cogliere l’intento principale della biografia, che è quello di portarlo a riflettere sulle buone azioni e ammirarle»381. Tuttavia, il richiamo alle attività demiurgiche e banausiche non sembra affatto superfluo o meramente aggiuntivo rispetto alla riflessione sulle virtù di Pericle e Fabio Massimo. Il cui tratto distintivo comune consiste – secondo Plutarco – nella “mitezza d’animo” (praÒthj), la “rettitudine” (dikaiosÚnh) e la “capacità di sopportare le stoltezze (¢gnwmosÚnai) del popolo e dei compagni di governo”382. C’è più di un
Mi riferisco in primo luogo all’ambiente cimoniano, cui era forse legato Ione di Chio, la cui politica di equilibrio con Sparta Pericle aveva tentato sempre di osteggiare e che invece tornò in auge al tempo della conferenza di pace tenutasi a Sparta prima di Leuttra. Vd. su ciò Schepens 2007. Sulla tradizione ostile a Pericle vd. Stadter 1991: 84-90. Su un ridimensionamento del ruolo di Platone, vd. Giangiulio 2005. 380 Plut. Per., 1-2. 381 Così Stadter 1991: 79. 382 Plut. Per., 2,5. 379
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motivo per ritenere che tali virtù non fossero affatto né originarie, né prevalenti in Pericle, ma che la loro sottolineatura avesse uno scopo essenzialmente apologetico. La virtù designata come praÒthj, che solitamente si traduce con “dolcezza”, “mitezza”, “bontà” è in realtà qualcosa di meno generico: secondo Aristotele, come ha messo in risalto P. Stadter, essa è il punto medio fra i due estremi della passione e dell’apatia383. Sostantivo (e aggettivo) poco usato, esso sembra evocare, più che una qualità originaria, il risultato di una precedente azione di contenimento della orge: in questo senso praotes è la virtù non già degli animali per natura miti, quanto di quelli “addomesticati”: di chi, controllati gli impulsi, si dispone alla convivenza e alla collaborazione. Mi pare affine a quel sentimento che gli eroi omerici chiamano, con una perifrasi comprimere il cuore nel petto. Un discorso analogo si può fare per dikaiosÚnh: si è già detto del suo valore relazionale, si può citare in aggiunta la definizione di Aristotele in Etica Nicomachea, di dikaiosyne come la virtù perfetta perché chi la possiede può servirsene anche «nei riguardi di un altro,(…) la sola delle virtù che sembra essere un bene altrui, in quanto riguarda gli altri: infatti essa compie ciò che è utile ad altri, sia a chi comanda, sia alla società»384. Si è anche visto come la giustizia non fosse in assoluto esente da quei connotati che, posseduti dalla techne medica, erano considerati come specifici delle technai e delle arti banausiche385. Dunque l’associazione fra la praotes e la dikaiosune si chiarisce come il necessario requisito politico di domesticazione e riduzione di impulsi potenzialmente smisurati. La socializzazione delle orgai consente di temperare l’eccesso eventuale della techne politica di Pericle, indirizzandola all’utile per la polis386. Ci si potrebbe tuttavia chiedere perché una tale riflessione venga accostata alla vita di Pericle e non a quella di altri uomini di governo e mi sembra legittimo chiedersi se ciò non avvenisse proprio in ragione di alcune peculiarità del bios dello statista ateniese. Se così fosse, lungi dall’essere marginale, la contrapposizione fra technai e virtù politica, indicherebbe uno specifico criterio di lettura. Occorre chiedersi insomma se Pericle si presentasse come un technites e quale fosse specificatamente la sua techne.
Aristot. Eth. Nic. 4,5,1 1125 B 26; Vd. Stadter 1989 XXX e passim. Aristot. Eth. Nic., 1129 b 25 – 1130 a 5. anche in Pol. 1283a38 la giustizia è definita koinonike arete. Cfr. Eur. Eracl. 1-5: «il giusto è al mondo per il suo prossimo». 385 Vd. supra, p. 66 e ss.. 386 Plut. Per., 2,5: çfelimwt£twn ta‹j patr…si genomšnwn. La menzione dell’utile è ricorrente in molte descrizioni di technai arcaiche. Vd. Gilli 1988: 467-499 e 531-544: «il lessico dell’utilità si configura come erminologia specializzata per designare il rapporto fra il portatore di techne (o l’esperienza delle technai) e il pubblico dei destinatari». Nei vari dibattiti sull’utilità di ogni singola techne si trova costantemente la protesta della propria utilità dai parte dei technitai contro gli attacchi e le accuse di inutilità provenienti dalla società. Un giudizio di utilità era essenziale ai fini del riconoscimeno sociale della techne e ciò poteva accadere soltanto se la techne in questione veniva ricondotta entro schemi di accettabilità. Nel caso di Pericle, la formulazione plutarchea sembra collegare il giudizio di utilità alla «capacità di sopportare la stoltezza del popolo e dei compagni di governo» cioè alla disponibilità a sottoporsi a tale giudizio in virtù del quale «divennero utilissimi alla patria». Anche la techne di Achille pare inutile al suo stesso portatore, nel preciso momento dell’interruzione dell’ira: vd. Hom. Il., XVIII 104. 383 384
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Un primo campo di indagine per verificare la correttezza di questa congettura è rappresentato dalla familiarietà fra Pericle e alcuni suoi più stretti collaboratori, quali Fidia e Damone387. Essi rientrano a pieno titolo nella categoria dei technitai, ed anzi lo stesso Fidia è indicato da Plutarco come uno di quegli esempi di artefici da non imitare ma proprio Pericle era ben lontano da quel giudizio di spregevolezza e volgarità che Plutarco dava degli artefici di oggetti pur degni di ammirazione. Fidia era dunque diventato amico di Pericle, aveva un certo ascendente su di lui e aveva rappresentato se stesso nei panni di Dedalo e Pericle in quelli di Teseo nell’Amazzonomachia da lui scolpita sullo scudo di Atena, come sappiamo da altre fonti388. La familiarietà fra Fidia e Pericle era dunque una philia che ignorava le prescrizioni di cui Plutarco si fa portavoce circa la frequentazione di artefici e technitai. Tale philia, che nei parametri plutarchei non differirebbe dall’affetto riversato su cagnolini e scimmiette dai ricchi forestieri ammoniti da Cesare, «ascolto e vagheggiamento di cose che non meritano attenzione alcuna», unita alla fama delle opere dell’artefice, destava invece l’invidia degli Ateniesi389. Sia Diodoro sia Plutarco mostrano di aver colto questo aspetto: Plutarco denuncia il «cattivo demone dell’invidia popolare» che i commediografi, sempre pronti a screditare i potenti, nutrivano con le più ingiuriose calunnie. Fra invidia e possesso di qualità techniche esiste una precisa connessione. Il tema dell’invidia è molto diffuso nella favolistica greca390. L’invidioso, nella favola, è colui che si scontra con i limiti della propria conformazione fisica e delle proprie qualità naturali nel vano tentativo di impossessarsi di qualità altrui, altrettanto naturali. Il significato di questi scontri fra portatori di qualità e conformazioni diverse sembra consistere nell’impossibilità, sanzionata da Zeus, di imitare ciò che non può essere oggetto di imitazione, in quanto esito di una conformazione naturale, di una qualità innata e non raggiungibile attraverso sforzi individuali: la tartaruga, desiderosa di volare e insensibile
Vd. su questo argomento Podlecki 1998: 101-117 e 132-158. Adombrando un rapporto peculiare, quello fra sovrano e artefice, il cui modello potrebbe essere Efesto/Achille e su cui mi riprometto di tornare in una prossima pubblicazione. 389 Plut. Per. 31, 2-3. Plutarco affronta la tematica nello scritto De invidia at odio che, come mi suggerisce Marcello La Matina, fu certamente presente a Basilio di Cesarea quando scrisse la sua homilia sull’invidia (De invidia). 390 Aisop., 33: la volpe invidia la lunghezza del serpente e si tende per superarlo fino a morire; 137: il nibbio, sforzandosi di imitare la voce del cavallo, perde la voce che aveva prima; 147: il cammello invidia le corna del toro e Zeus gli mozza la punta delle orecchie; 279: l’asino invidia la voce delle cicale. Traggo gli esempi da Gilli 1988: 196-197, che segnala il fenomeno senza caricarlo di significati. Esso mi sembra invece collegato al problema già citato del giudizio di utilità, identificandosi talvolta con la frustrazione di chi sente l’inaccessibilità del “dono”di cui soltanto alcuni sono portatori. “Inutile” è per l’appunto il dono inaccessibile, che può essere soltanto «contemplato» ma non «spinge all’azione», per usare il lessico di Plutarco (Per. 1,2-3: «bisogna seguire ciò che vi è di più buono, se si vuole non solo vedere (qewre‹n), ma trarre dall’osservazione un nutrimento spirituale». Poco oltre, in 2,1, l’impegno personale in attività quali la musica, la scultura, la poesia, è «prova di indifferenza verso le cose nobili e fatica sprecata in quelle inutili (™n to‹j ¢cr»stoij)». 387 388
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al monito dell’aquila che le dimostrava essere il volo alieno alla sua natura, muore fracassata su una roccia391. Ciò che la sapienza popolare esprimeva nella favola, che l’esistenza di qualità innate si prestava ad essere fonte di invidia per chi (pur possedendone altre) non possedesse tali qualità, è adombrato da Pindaro in una serie di testimonianze: anzitutto il poeta si mostra convinto dell’origine divina delle qualità degli uomini392 (quali l’eloquenza o la forza fisica) e della superiorità di tali qualità innate rispetto alle virtù che possono essere conseguite tramite apprendimento393; inoltre egli mostra come il possessore di tali qualità naturali sia bersaglio di aggressione da parte di chi ne è privo (e deve perciò apprenderle): come l’aquila contro cui gracchiano i corvi. L’invidia è dunque generata dall’impossibilità dell’imitazione di ciò che non è stato appreso ma è invece frutto di dono divino, qualità innata e naturale. Tucidide attribuisce a Pericle queste parole assai significative: Le lodi rivolte ad altri sono infatti sopportate solo fino al punto in cui ognuno ritiene di poter essere in grado a sua volta di realizzare qualcosa di quel che ha udito; ciò che invece supera questo limite stimola l’invidia inducendo anche alla diffidenza 394.
Il contesto di queste parole è molto noto: si tratta dell’elogio dei caduti nel primo anno della guerra del Peloponneso e Pericle sta esprimendo la sua difficoltà nel trovare una giusta misura (tÕ metr…wj) nell’adattare le sue parole alla realtà dei fatti. Alla luce di queste osservazioni anche la prescrizione di Plutarco, di non prestare «ascolto e vagheggiamento alle cose che non meritano attenzione alcuna», assume un significato più chiaro: anzitutto, essa non avrebbe senso se non fosse esistito realmente un risentimento e una conseguente invidia, per l’impossibilità di emulazione, nei confronti delle attività techniche così bene impersonate da Fidia. L’assunto che tali attività non siano da imitare, in quanto vergognose e disprezzabili, e la condanna di chi volge attenzione affettuosa verso gli artefici di tali attività tradiscono la consapevolezza di una difficile integrazione dei portatori di qualità innate nella società e rivelano come tale difficoltà costituisse il filo conduttore del bios di Pericle395. Il Pericle tucidideo mostra di conoscere i meccanismi dell’invidia e dell’emulazione che avevano reso Fidia oggetto di invidia, e questi tratti sono presenti anche nel Pericle di Plutarco. Questa “invidia” è giustamente ricondotta da Plutarco al milieu di Pericle: essa può essere vista e denunciata soltanto alla distanza, da osservatori lontani; mentre i contemporanei non potevano giudicare né vedere la verità396. Questo distanziamento si manifesta nel modo in cui Plutarco tratta alcuni dati del bios di Pericle in
Aisop., 352. Pind. Pyth. I 42-43, 393 Pind. Ol. II 86-88. 394 Thuc. II 35,2-3 395 È significativo che anche la retorica fosse coinvolta in un dibattito sull’utilità. 396 Plut. Per. 13,16. 391 392
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contrasto con l’assunto di base della Vite: che solo la virtù (e non la qualità innata) possa generare il desiderio di imitazione. Occorre chiarire che la prospettiva plutarchea, nel biasimare la qualità innata dell’artefice che plasma l’opera d’arte, non esprime una presa di posizione contro le qualità innate (che anzi Plutarco riconosce a Pericle) ma è determinata dalla opzione verso una partecipazione attiva piuttosto che passiva. Mentre infatti la ricezione dell’opera d’arte confina – secondo Plutarco – lo spettatore nella passività, non potendo egli imitare l’attività dell’artefice, la contemplazione della virtù predispone all’attività in quanto ciascuno – è il presupposto sottinteso dell’intera costruzione – può aspirare (se in possesso dei necessari requisiti di status sociale) ad essa. È dunque corollario di tale assunto la svalutazione di certi elementi della personalità di Pericle a vantaggio di altri e, in conseguenza di ciò, la scelta e il taglio delle fonti. Un esempio di questo “trattamento” delle fonti è costituito dalla notizia della confluenza in Pericle di doti naturali e di acquisizioni intellettuali che Plutarco riprendeva da Platone397, e dell’origine del soprannome “Olimpio” che gli era stato dato398. Plutarco ritiene che esso sia dovuto alla compresenza in Pericle di molte virtù e solo a margine di questa spiegazione egli annovera anche l'altra, offerta dai poeti comici, che consideravano il soprannome dovuto alle sue qualità oratorie399: all’immagine di Pericle technico della parola, Plutarco cerca di sostituire quella dell’uomo pieno di virtù imitabili, servendosi della potente destrutturazione techne sofistica messa a punto da Platone. Possiamo cogliere in trasparenza la volontà di ristrutturare la communis opinio dei contemporanei che attribuivano a Pericle il “dono” dell’eloquenza400 (in cui all’idea del
Plut. Per. 8,2 che cita Plat. Fedro 270a. Altre ipotesi contemplate da Plutarco sono quella che metteva la fama di Pericle in relazione alle realizzazioni artistiche sull’acropoli e quella legata alle imprese militari. Sulla prima vd. Höcker-Schneider 1997; sul valore militare di Pericle, che Plutarco tratta nei capitoli 24-35, le fonti di Plutarco sembrano svariate: a Tucidide, Eforo e Aristotele che egli usa come base, si devono aggiungere Stesimbroto di Taso, Duride di Samo e forse Ione di Chio. In definitiva pare che qui Plutarco accolga la versione tucididea, che Plutarco sembra aver presente all’inizio della sezione con il cenno sulla tregua trentennale e che cita in 28,8 alla fine di una sezione abbastanza unitaria. Le abilità di Pericle illustrate in 18-23 si basano su “prudenza” e “preveggenza” e dunque non mi sembrano atte a essere poste in relazione col soprannome “Olimpio” come pure la questione delle responsabilità di Pericle nelle cause della guerra del Peloponneso, trattata in 29-35. È dunque possibile che Plutarco trovasse il collegamento fra il valore militare e il soprannome “Olimpio” in Stesimbroto di Taso, a cui può ricondursi anche il detto di Tucidide di Melesia circa la vis oratoria di Pericle. Vd. Giangiulio 2005: 164 (per la dipendenza del detto di Tucidide da Stesimbroto) 399 Plut. Per. 8,3. Sulla caratterizzazione “comica” dell’eloquenza di Pericle, vd. Nicolai 1996: 104 e ss.. Plutarco fa riferimento ad Aristoph. Ac. 530-533 in cui Pericle è detto «tuonare, lampeggiare e avere nella lingua un fulmine terribile quando parlava agli Ateniesi». Nella commedia di V secolo, che sfrutta il materiale di Stesimbroto e di Ione, si trova attestato il legame fra Pericle e Anassagora. Vd. Giangiulio 2005: 164-165. 400 Mi sembra originariamente distinta dalla caratterizzazione comica dell’eloquenza periclea la menzione del discepolato da Anassagora. Esso probabilmente era noto ai commediografi che forse sfruttarono in chiave satirica l’immagine di Pericle fisiologo e meteorologo su influenza anassagorea, come i sofisti ram397 398
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“dono” divino è pertinente una naturalità sottolineata dal paragone con il tuono ma è anche contigua alla techne retorica dei sofisti). L’eccezionalità della techne di Pericle è sottesa anche in altri due passi: nel capitolo 15, per definire il tipo di governo di Pericle Plutarco lo paragona dapprima implicitamente ad un addestratore, e poi esplicitamente ad un medico, che prescrive cure ora gradevoli ora drastiche per la salvezza del paziente. Tutto il paragrafo è improntato ad una immagine di Pericle come technites: egli era il solo dotato dalla natura per dominare le passioni degli Ateniesi, la sua
pognati nelle Nuvole (Aristoph. Nub. 331 e ss. e 358 e ss.). La caratterizzazione dell’oratoria periclea come anassagorea che si trova in Plutarco e in Platone non mi pare invece di origine comica, proprio in considerazione del fatto che la meteorologia anassagorea era associata a ciarlataneria e chiacchiericcio. Diversamente Giangiulio 2005 165: ritiene che il rapporto con Anassagora come elemento costitutivo del Pericle oratore fosse presente nella Commedia. Il motivo è attestato in Plat. Fedro 270a: «tutte le technai hanno bisogno di “chiacchiere ed elucubrazioni celesti” sulla natura perché la loro elevatezza di pensiero e la loro capacità di attingere la perfezione sembrano provenire in qualche modo da lì. Questo Pericle ha acquisito in aggiunta alle sue doti naturali. Infatti avendo incontrato Anassagora, che era tale, si riempì di “elevate elucubrazioni”, penetrò la natura dell’intelletto e dell’assenza di intelletto, argomenti dei quali Anassagora si occupava nei suoi discorsi e trasse di lì ciò che fosse utile all’arte oratoria» (Ho virgolettato i termini che Socrate – ritengo – riprendeva, citandoli, dalla Commedia). In questo dibattuto passo di Platone, in cui ricorre la terminologia technica, si tratta di armonizzare la techne (che Pericle è detto possedere) con la conoscenza della natura di ciò a cui la techne è indirizzata: l’anima. L’intento di Socrate in questa parte del dialogo, attraverso vari esempi tratti dalla medicina, dalla poesia e dalla retorica, è quello di distinguere la semplice ™mpeir…a, di chi «si imbatta per caso in una techne», dalla vera techne che attinge la ™pist»mh, l’elaborazione teorica, giungendo ad una definizione del technites molto simile a quella fornita da Aristotele in Etica Nicomachea, 1137a4-26 per il medico e il giusto. Vd. supra, p. 66 e ss. Pericle viene dunque da Socrate distinto da altri retori, quali Trasimaco, possessori soltanto di una ™mpeir…a. Il problema della techne affrontato nel Fedro è quello della sua utilità, vd. Gilli 1988: 497-99. Socrate infatti inserisce nella sua argomentazione un breve racconto (274c-275b) in cui si fa menzione delle technai “intellettuali” – numeri, calcolo, astronomia, geometria, alfabeto – portate dal dio Teuth e distribuite agli Egiziani. Assistendo alla distribuzione, il re Thamus chiedeva per ciascuna techne quale fosse la sua utilità e fornendo un giudizio positivo o negativo. Thamus distingue infatti la «capacità di generare i ritrovati di una techne» (quella del dio) dalla necessità politica di «giudicare l’esito e l’utilità della techne» (giudizio che spetta al re).
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eloquenza era incantatrice401. Nel capitolo 33 la sua azione di governo è paragonata invece a quella del pilota che governa una nave in mezzo ai venti, fidando esclusivamente nella propria perizia tecnica402. Infine, l’immagine del medico è evocata per descrivere lo stato d’animo degli Ateniesi fiaccati dalla peste che attaccano Pericle come i malati deliranti attaccano il medico o il padre403. Tirannofobia Questa volontà di ristrutturazione non è certo invenzione di Plutarco: essa pare invece aver inizio già durante la vita di Pericle: Plutarco ci mostra la virulenza e il carattere non occasionale delle critiche rivolte allo statista, la progressiva demonizzazione di cui egli fu oggetto fino alla sua morte e alcuni comportamenti di Pericle stesso possono essere interpretati come tentativi di sottrarsi a tale demonizzazione e come risposte all’attacco rivolto contro la sua persona. La natura degli attacchi è chiarificatrice. Egli somigliava a Pisistrato, fisicamente e nella voce, e pertanto in un primo tempo aveva rinunciato a fare politica: l’accusa che gli si rivolgeva era quella di ambire alla tirannide404. Sotto l’intestazione “tirannofobia” si possono raccogliere tutti quei comportamenti che gli Ateniesi mettevano in atto spesso in modo del tutto sproporzionato rispetto alle reali circostanze per ostacolare individui sospettati di voler ambire alla tirannide. È noto come Tucidide condannasse apertamente questo modo di pensare che, a suo av-
Plut. Per. 15,1: «E se talvolta (il demos) si impennava, egli tirava le redini, e lo convinceva a fare ciò che conveniva: non diversamente da un medico che, in una malattia lunga e di vario andamento, prescrive cure ora gradevoli e innocue, ora rimedi drastici e farmaci salutari». Il carattere technico dell’azione di governo periclea emerge qui dalla subordinazione della somministrazione dei rimedi e dei farmaci (™mpeir…a) ad uno schema complessivo che denota la conoscenza della natura del corpo, in accordo con l’idea espressa da Socrate nel Fedro immediatamente dopo il passo su Anassagora. In Plat. Fedro 270a, sostenendo che la retorica è come la medicina, Socrate infatti afferma: «in entrambe occorre distingue una natura, nell’una la natura del corpo, nell’altra la natura dell’anima, se si intende non soltanto con pratica ed esperienza (™mpeir…a), ma con arte (tšcnh), infondere nell’uno salute e forza, somministrandogli medicine e cibo, e trasmettere all’altra la persuasione voluta e la vitù, rivolgendole discorsi ed esercizi regolari». 402 Plut. Per., 33,6: «come il pilota di una nave, quando il vento si abbatte sul mare, dopo aver provveduto a tutto e teso le gomene, si appella solo alla sua perizia tecnica (tšcnh), senza curarsi delle lacrime dei passeggeri che soffrono il mare e la paura, così Pericle (…) perseguì il suo piano». Vedo, nella menzione della incuranza delle lacrime dei passeggeri, un richiamo esplicito, di sapore platonico e aristotelico, alla conoscenza della natura dell’oggetto della techne da parte del technites, che non lo fa vacillare di fronte a possibili obiezioni. Solo questi perfetti technitai, opposti agli ignari specialisti soloniani e sofoclei, sono per Plutarco accettabili e anzi additabili all’emulazione. 403 Plut. Per., 34, 5: «Come nel delirio della malattia si cerca di aggredire il padre o il medico, così essi cominciarono ad attaccarlo (…)». 404 Plut. Per., 7,1. Erano stati soprattutto i poeti comici ad amplificare questo “sospetto” chiamando i collaboratori di Pericle «novelli Pisistratidi e invitando Pericle a giurare che non si sarebbe fatto tiranno» (16,1). 401
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viso, aveva condotto all’infelice decisione di esautorare Alcibiade, prima che egli potesse portare a compimento l’impresa siciliana che, privata della sua guida, aveva avuto esito catastrofico405. In Alcibiade, come precedentemente in Pericle, gli Ateniesi vedevano qualcosa che richiamava loro l’immagine del tiranno e ciò in modo talmente violento da condurli a deliberazioni che finivano col danneggiare la polis, quasi che la sconfitta o qualsiasi altro esito politico svantaggioso fosse preferibile alla tirannide406. A suscitare sospetto e paura negli Ateniesi non erano atti di illegalità o tentativi di abuso di cariche legittime, ma era qualcosa di assai meno definibile che è detto “ambire alla tirannide” peripese‹n turann…doj 407 . Questa “ambizione” veniva letta nel comportamento non verbale, nei gesti, nella voce della persona sospettata408. L’esercizio della tirannide sembra cioè concepito come frutto di una predisposizione naturale: essa pare una techne prometeica, un dono degli dèi. Per suffragare tale ipotesi occorre prendere in esame, più che specifiche azioni di singoli tiranni, i modelli esplicativi della figura del tiranno elaborati dal pensiero antico. Anzitutto, la natura prometeica del tiranno emerge nella sua incapacità di difendere la polis dalle “belve”, cioè dai Barbari409. Egli manca infatti della techne politike – intesa nel senso del Protagora – di cui quella bellica è parte. Secondo Erodoto, gli Spartani avevano compreso che se Atene fosse stata retta da tiranni sarebbe stata debole a pronta a obbedire410 ed è nota, e dunque non insisto oltre su ciò, come la principale causa della sconfitta dei Persiani fosse additata nel carattere tirannico del loro regime411. Questa carenza di arte politica del tiranno è poi evidente nelle modalità con cui egli prende il potere nella polis: modalità che non si rifanno mai alla guerra oplitica, ma piuttosto alle forme prepolitiche (barbariche, arcaiche, “giovanili”) della guerra. Il tiranno, anche quando non fa uso di violenza, giunge al potere (e lo esercita) con trave-
In questo senso va letta, a mio avviso, la sua “rettifica” dell’episodio di Armodio e Aristogitone in Thuc. VI 54-59. La paura dei tiranni è derisa da Aristofane in Ves., 417, 463 e ss., 498, 506 e ss.; Lys. 616 e ss. 406 Mi permetto di rimandare per l’analisi del passo tucidideo e per le sue connessioni col giudizio sulla spedizione siciliana a Caserta 2004. Circa le valenze che il tema del tirannicidio aveva assunto negli ultimi decenni del V secolo, quando le citazioni di Aristofane dello scolio di Armodio (in Acarnesi 979 e 1093 e poi in Lisistrata 632) provano che esso «come atto fondante era oggetto di un recupero e di un aggiornamento che davano rilievo a questo tema nell’atmosfera politica tesa di quegli anni», vd. Petre 1997: 1217. 407 Plut. Per., 7,4. 408 Plut. Per., 7,4: Era opinione comune che egli ricordasse Pisistrato nell’aspetto, e gli Ateniesi già avanti negli anni restavano colpiti dalla somiglianza della sua voce armoniosa e della sua lingua spedita e pronta con quella del tiranno. 409 Una particolare accezione di questa incapacità di condurre la guerra contro i Barbari da parte del tiranno è il filomedismo. Essa trova un preciso parallelo nell’impossibilità di combattere che è attestata per gli artigiani e in genere per i technitai o nel modo eterodosso in cui essi combattono. È il tema del filomedismo, già accennato riguardo a Gelone. Cadmo, l’emissario di Gelone, benché giustissimo, non aveva esitato tuttavia ad accettare la missione a Delfi di “consegna” ai Persiani. Vd. Gilli 1988: 344-55. 410 Hdt. V, 91. 411 Almeno a partire dai Persiani di Eschilo. 405
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stimenti, stratagemmi, inganni, tranelli, tutti mezzi che, come è stato affermato, rimandano alla “guerra” dei giovani iniziandi412. L’assimilazione platonica del tiranno al lupo, su cui tornerò tra breve, richiama la contiguità dei tiranni, come figure prometeiche, con gli animali dei quali essi condividono lo schema identitario. Un rapporto di non perfetta distinzione con gli animali è attestato per molte figure semi-mitiche di tiranni, si pensi per esempio al toro di Falaride o al mito di Minosse. Infine, molti aspetti che di regola vengono ricordati dell’attività del tiranno trovano riscontro nelle caratteristiche degli uomini prometeici: la dismisura del tiranno e la sua affinità con l’eroe sono noti e studiati, i tiranni sono poi costruttori, riformatori o potenziatori di culti, fondatori di città, consumatori smodati di cibo, di vesti, di suppellettili, protettori di metallurghi e fruitori di oggetti da costoro fabbricati. Al di là di caratteristiche genericamente prometeiche, in che cosa consiste la “specializzazione” del tiranno? Le fonti restituiscono un quadro abbastanza concorde, con qualche significativa eccezione. La tirannide come specializzazione copre un insieme di technai, fra le quali l’adikia, non intesa come carenza di una virtù, ma come una techne a sè stante, una configurazione profonda, una qualità originaria consistente nel produrre e mantenere un rapporto asimmetrico di prevaricazione e di non comunicazione con gli altri. Essa è una pulsione interna, più che l’esercizio imperfetto di una virtù, che fa del tiranno un uccisore di supplici, un incestuoso, un parricida, un individuo dedito alla lussuria oltre ogni limite. Accanto alla adikia, il tiranno può anche essere dotato in eccesso (in modo molto arcaico) di quelle stesse virtù che usate con moderazione diventeranno virtù politiche: ciò per esempio emerge dall’analisi di alcune metafore come quella del pungolo che accomuna il tiranno a personaggi pienamente politici come Solone. Questa immagine eroica e prometeica del tiranno, anche quando contenuta in fonti tarde, sembra molto arcaica: essa non pone il problema di una relazione fra il tiranno e la polis, che invece, come vedremo, è posto da altre fonti. Prima che tyrannos venisse posto su un asse di cui occupava il polo negativo (il polo opposto poteva essere occupato dal basileus) quella del tyrannos appare come una specializzazione in sé conclusa e caratterizzata dall’eccesso e da tutte le altre caratteristiche delle technai e delle dynameis. Non stupisce che uno stesso personaggio possa venire designato basileus e tyrannos: le dynameis che i due termini esemplificano non sono sempre state fra loro contrapposte, come per esempio “lentezza” a “velocità”. Di certi personaggi, non si valutava tanto la positività o la negatività quanto la smisuratezza, la meraviglia che il loro operato poteva suscitare, lo scarto prometeico rispetto alla normalità, che poteva essere espresso sia con l’uno sia con l’altro titolo.
Infatti la presa del potere da parte di tiranni costituisce l’argomento di molti degli Stratagemmi di Polieno: vd. per es. VI 51 sulla presa del potere ad Agrigento da parte del tiranno Terone. Lo stesso stratagemma, il furto di denaro destinato dai cittadini ad altri scopi, con poche variazioni era riferito pure a Falaride. Per giungere al potere, Pisistrato, la prima volta, finge un aggressione; la seconda inscena una processione con una finta-Atena (entrambi gli episodi si trovano in Erodoto I 59-60). 412
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L’uso dell’uno o dell’altro termine riflette allora la posizione personale dell’interlocutore (o della fonte) nei confronti dell’individuo designato come tyrannos o basileus. Un passo ulteriore nella ricezione della tirannide vede invece la costruzione di una scala in cui il polo positivo è occupato dal basileus e quello negativo dal tiranno: questo processo è compiutamente documentato da Aristotele e denuncia l’ormai avvenuta svalutazione della techne del tiranno come di molte altre technai cui non è possibile dare alcun riconoscimento sociale. Vi sono, naturalmente anche voci fuori dal coro. La prima è rappresentata da Pindaro. Egli chiama olbos il dono divino dei tiranni (mentre quello “negativo” può essere di volta in volta la cattiva salute, l’invidia altrui, etc.), intendendo una condizione che è un misto di ricchezza, fortuna, potenza. Ma Pindaro si pone anche il problema dell’integrazione di questo “dono” in un contesto panellenico in cui si vanno affermando i valori dell’isonomia e della libertà. Da questa esigenza non scaturisce una condanna o una svalutazione della tirannide, ma una esortazione ai suoi portatori, che erano anche i destinatari della competenza technica del poeta stesso, a esercitare la loro techne con moderazione. In Pindaro la trasformazione dei “doni” in virtù graduabili dal positivo al negativo è evidente, ma lo sforzo del poeta è teso a recuperare l’ideologia dell’olbos ad una sfera di moderazione: ecco dunque che la tirannide, esercitata senza eccesso si colloca a metà fra la democrazia e l’oligarchia. Pindaro mostra qui tutta la resistenza del poeta come portatore di techne ai meccanismi della polis413. Con Platone, parallelamente alla rivalutazione di certe qualità come innate si assiste ad una ripresa del tema della techne del tiranno: Platone configura una sorta di homo tyrannikos in cui il ferino e il selvaggio prevalgono sul razionale e sull’umano. Il tiranno è per Platone l’uomo smisurato. Significativo in tal senso l’accostamento fra il tiranno e Lycaone, mitico re dell’Arcadia che aveva ucciso, smembrato e bollito il proprio figlio e lo aveva offerto come cibo a Zeus nella Republica414. Lycaone è un personaggio legato ad un mondo primordiale, in cui non c’è ancora una divisione netta fra uomini e dèi e in cui la hybris, la dismisura sembra essere la caratteristica principale415. Un tempo cui pone fine il diluvio provocato proprio dall’ira di Zeus per il sacrificio umano compiuto dal re arcade: «la tirannide viene così definita come forma propria del tempo mitico, dell’epoca delle origini, e dunque destinata a scomparire nel momento stesso in cui si instaureranno le normali condizioni di esistenza»416. Il tiranno è un corpo estraneo alla realtà politica: è un intruso nel corpo politico e la sua eliminazione rende infatti la polis isonoma. Ciò è attestato dall’uso dell’aggettivo „sÒnomoj in uno scolion che celebra l’uccisione da parte di Armodio e Aristogitone del tiranno ateniese Ipparco417. Tale gesto eroico „sonÒmouj t' 'Aq»naj ™poihs£thn.
Sulla nozione di “cittadino” in Pindaro, vd. Cavalli 1994. Plat. Res. 562b e ss. 415 Di Branco 1996: 102-104. Sulla vicenda vd. Paus. VIII 6,2. 416 Di Branco 1996: 103. 417 Aten. XV 694c-695f, PMG, 893 e-896. 413 414
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Questa testimonianza è molto importante perché mostra come prima di diventare, nel V secolo, uno slogan della parte democratica, il principio di uguaglianza potesse essere rivendicato anche dalla parte aristocratica con tendenze oligarchiche. Il contesto dello scolion – il simposio – e gli eroi celebrati sono infatti aristocratici418. Questa „sonom…a aristocratica può significare in concreto una forma di uguaglianza politica all’interno di un gruppo ristretto di pari, come riteneva Ehremberg419, contro la disuguaglianza introdotta dal tiranno, oppure la possibilità di dare leggi uguali a tutti i cittadini, anche non aristocratici; indubbiamente i benefici del tirannicidio sono intesi come ricadenti su tutta la città di Atene, come si può desumere dall’espressione „sonÒmouj t' 'Aq»naj ™poihs£thn. L’autocontrollo come strategia di integrazione L’accusa di ambizione alla tirannide rivela dunque la consapevolezza della natura technica420 del sapere politico di Pericle e spiega in parte l’origine della paura che essa suscitava nel demos, che possiamo indicare come “tirannofobia”. Ciò al contempo spiega la cautela che lo stesso Pericle adoperava nel dosare apparizioni e discorsi421. Cautela cui si accompagna una rigida disciplina finalizzata ad ottenere compostezza ed equilibrio422. Attraverso un ferreo autocontrollo, Pericle ci appare costantemente impegnato
Su questo scolio, che ha peraltro suscitato una serie di problemi di natura cronologica e di interrogativi in ordine al fatto che esso sembra contenere alcuni errori storici, vd. Shear 1994. 419 Ehremberg 1940. In seguito lo studioso mutò opinione. La tesi opposta fu sostenuta da Mazzarino 1947. 420 Anche altri dettagli possono essere riferiti allo schema della techne arcaica ricostruito sulla base del modello fornito da Gilli 1988: l’accostamento di Pericle col leone nel sogno della madre Agariste (Herodot. VI 131, Plut. Per. 3,3); la contrapposizione fra la perfezione di tutte le parti del corpo di Pericle e l’asimmetria della testa (Plut. Per. 3,3), che richiama la dialettica dei due doni. Imperfezione che i commediografi sfruttarono in senso comico, paragonando lo statista a Zeus, e appellandolo come «grandissimo tiranno che gli dei chiamano Cefaloghereta» (Cratino fr. 240 Kock). 421 Plut. Per. 7,7. 422 Plut. Per. 5,1: compostezza del volto, che mai si allentava nel riso, andatura calma del portamento, semplice eleganza della veste, tono pacato della voce. Plutarco mette costantemente queste caratteristiche di Pericle in relazione con la frequentazione di Anassagora: (Plut. Per. 5,1; 8,1-2). Il tema è tratto da Platone, che Plutarco cita in 8,2. Il rapporto con Anassagora è fondamentale per la comprensione di questi aspetti della personalità di Pericle. Giangiulio 2005 ritiene che alla base dell’immagine platonica vi siano la Commedia e altri autori di V secolo citati da Plutarco, fra cui soprattuto Stesimbroto di Taso, autore di un pamphlet su Temistocle, Tucidide e Pericle e di una Vita di Cimone di cui Plutarco si serve più volte. Concordando sulla probabile convergenza di interessi fra gli “intellettuali cimoniani” e i commediografi, mi sembra che l’immagine costruita dal Fedro sia sostanzialente diversa rispetto all’immagine comica di Pericle/Zeus e che anche l’utilizzazione del tipo comico del sofista, dell’intellettuale anassagoreo, meteorologo e “ciarlatano” assolva in Platone a scopi diversi: attraverso l’uso del lessico della satira Platone vuole dimostrare che, laddove gli ignoranti spettatori della commedia vedono ciarlataneria inutile, proprio lì risiede ciò che fa dell’eloquenza di Pericle non una semplice ™mpeir…a, ma una tšcnh autentica (epistemologicamente consapevole). Ed è in virtù di questa consapevolezza che la tšcnh retorica, con cui 418
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a stornare da sé l’invidia del popolo e neutralizzarne la paura, accogliendo l’ammonimento pindarico di attenersi alla condizione media, alle virtù comuni, per sfuggire all’invidia altrui. “Specialista” del governo attraverso la parola e la persuasione, come Achille lo era della guerra423, anche Pericle sa di non poter integrare la sua specializzazione a meno di non compiere la stessa rinuncia di Achille, mediando la propria dynamis e lasciandosi “contagiare” dalla dynamis altrui. Alcuni episodi del bios di Pericle possono essere letti in questa luce: la rinuncia alle occasioni di scontro e di contrapposizione frontale, il mantenimento della calma e della compostezza anche di fronte alle accuse più reiterate e offensive, la sollecitudine nei confronti del molestatore424. Di questi atteggiamenti, che alcuni scambiavano per superbia, Zenone coglieva acutamente la finalità integrativa, saggiamente esortando ad imitarli, in quanto stimoli alla «frequentazione abituale» del bene425. Una esigenza di integrazione sembra governare molta parte del comportamento pubblico di Pericle: la rinuncia alla frequentazione di certi luoghi, che avrebbe messo in dubbio la sua dedizione alla moltitudine e alla vita politica, il suo understatement, una scelta calibrata delle apparizioni pubbliche, la scrupolosa attenzione negli acquisti, la moderazione in ogni aspetto della vita pubblica e privata. Egli sembra aver consapevolmente cercato di forgiare la sua condotta, in modo tale da tenere a freno e usare solo pubblicamente le qualità “possedute in massimo grado”, cioè l’eloquenza, e attenersi alla misura media in quelle qualità civiche che erano il presupposto della cittadinanza. Anche alcuni dati della Vita che parevano estranei alla costruzione del personaggio, come l’aneddoto su Cesare e i vezzeggiatori di cuccioli si armonizzano meglio alla luce del carattere technico del sapere di Pericle. Nell’organizzare il materiale biografico su Pericle, è verosimile che Plutarco, pur non potendo
Pericle si identifica, ha un posto e un’utilità nella polis. Platone utilizza il lessico della satira contro la satira, proprio perché era stata la commedia a formulare quella immagine tirannica e technica di Pericle che nuoceva alla techne e alla retorica (techne e retorica che Platone ha interesse, nel contesto del Fedro, di salvare). La nuova figura di technites che Platone costruisce è un technites “utile” e “filosoficamente orientato”, tale cioè da poter essere integrato nella polis. Ritengo pertanto che l’ancoramento della compostezza e della disciplina periclea ad Anassagora non sia originario ma elaborato da Platone sulla base di due dati – ethos pericleo e discepolato anassagoreo – distinti. 423 Ad Achille, Pericle era accostato, forse, dai commediografi: in Platone comico (fr. 191 Kock) di un personaggio non identificato viene detto: «(…) tu sei infatti, a quel che dicono, novello Chirone, colui che educò Pericle», con riferimento al centauro precettore di Achille. 424 Plut. Per. 5,2. 425 Plut. Per. 5,3.
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omettere del tutto questi tratti del personaggio – guida e ammaestramento del demos attraverso la persuasione fondata sul dono dell’eloquenza -, tratti che facilmente potevano essere scambiati per superbia e convinzione della propria superiorità e che rendevano Pericle oggetto delle critiche dei commediografi, abbia preferito porre l’accento sull’opera di disciplinamento compiuta da Pericle, sulla sua capacità di frenare ogni eccesso, smorzare, diluire, ritardare 426 . In questo anzi Plutarco, seguendo l’indicazione di Platone, vedeva la ragion d’essere del bios427.
Plut. Per. 18,1: ponderatezza in campo militare; 21: freno di Pericle alla smania d’azione degli Ateniesi; 23: volontà di Pericle di rimandare la guerra contro Sparta; 27: azione di temporeggiamento di Pericle a Samo; 33,5 evita la battaglia in campo aperto 33,6 evita la convocazione dell’assemblea. 427 Il giudizio personale di Plutarco su Pericle recupera l’immagine del Pericle Olimpio risemantizzandola nel senso di una responsabilità del bene e incolpevolezza del male. Lo schema platonico, saldamente ancorato alla polemica di V secolo, del buon technites – in cui doti naturali e conoscenza si intrecciano armoniosamente – sfuma in quella dell’indole naturalmente buona di chi paternamente sopporta la stoltezza altrui senza cedere all’ira. Sul potere di Pericle in Plutarco come forma di potere personale, vd. Canfora 1999. Canfora ricostruisce l’opinione di Plutarco su Pericle, in base anche ad altri luoghi plutarchei, mettendo in rilievo la fortuna del motivo “Pericle-princeps” nella tradizione politologica romana. Tale motivo ha radice – a mio avviso – nella percezione dei contemporanei della natura “specialistica” dell’arte di governo di Pericle (percezione per neutralizzare la quale nascono, credo, molti comportamenti dello statista). Poi, dalla diversa valutazione che della techne viene data in diversi periodi storici, nascono le posizioni personali e la fortuna del “motivo” plutarcheo. È significativo, per esempio, che nonostante la consonanza fra Platone e Plutarco su alcuni aspetti, Platone consideri Pericle come incarnazione della techne retorica, Platone invece riconduca sostanzialmente la retorica al potere, potremmo dire, “pastorale” di Pericle. 426
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CONCLUSIONI
La terza persona La logica della persona viene contrapposta da Roberto Esposito al pensiero dell’impersonale428. La prima, seguendo Simone Weil, porta con sé l’ombra di un dispositivo escludente: persona, qualsiasi cosa essa sia, produce contestualmente la nonpersona e configura un particolarismo, delle prerogative da difendere, una protezione accordata soltanto a una categoria (sociale, politica, razziale); il secondo rivela invece immediatamente una attitudine alla giustizia: «ciò che è sacro – afferma Weil – ben lungi dall’essere la persona, è ciò che, in un essere umano, è impersonale. Tutto ciò che è impersonale nell’uomo è sacro, e soltanto quello». L’impersonale è ciò che non è di qualcuno ma di chiunque, è ciò che nell’essere umano è comune a ogni altro429. Ma allora, si chiede Esposito – come può la comunità neutralizzare la potenza escludente della persona custodendone l’impulso relazionale? «Esiste una persona non personale o una non-persona nella persona?» 430. Senza pretendere di fornire una risposta esaustiva a tale domanda, lo studioso, nel proporre al lettore alcune figure della filosofia novecentesca che hanno lavorato sull’impersonale, prende le mosse da un testo di Benveniste sui pronomi personali, in cui il linguista francese evidenzia l’eterogeneità della terza persona, nel pronome e nel verbo, rispetto alle prime due431. Di contro alla contemporaneità e alla reversibilità che lega le prime due persone – per cui l’ “io” parlando definisce la sua momentanea condizione di locutore, destinato ad essere sostituito dal “tu” non appena questi prende la parola, in una dialettica in cui a transitare è il ruolo di soggetto – la terza persona sfugge a tale dialettica. «Poiché non implica nessuna persona (la terza persona) – sostiene Benveniste – può prendere un soggetto qualsiasi o non contenerne alcuno, e questo
Esposito 2007. Esposito 2007: 122-126. Le citazioni di Weil sono tratte da La persona e il sacro, in Esposito 1996: 78. 430 Esposito 2007: 126. 431 Benveniste 1971: 302. 428 429
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soggetto, espresso o no, non è mai posto come “persona”»432 Ciò si rivela nel caso del verbo impersonale, in cui il processo espresso dal verbo non è rapportabile ad un agente, ma a un evento senza soggetto o costitutivo del soggetto. Queste osservazioni di Benveniste si adattano singolarmente alla distinzione che il mito platonico opera fra l’uomo dotato di techne e il cittadino. Ad un primo approccio, si sarebbe tentati di vedere nell’uomo prometeico la nonpersona e nel cittadino la persona. E tuttavia le cose non sono così semplici. Abbiamo visto come al technites si addica l’idea di un processo «costitutivo del soggetto»: egli, come afferma Vernant, è soverchiato da qualcosa (la musa, Zeus, il magistrato/pastore) che agisce in lui e di cui egli è soltanto “animatore”. Il ruolo del soggetto, nel rapporto fra il technites e la fonte della sua techne, non transita ma resta bloccato e concentrato in una sola “persona” che distribuisce doni, ma non si dispone all’ascolto. Resta dislocato in un tempo e uno spazio inaccessibili. Le capacità relazionali date da Zeus instaurano invece la dialettica fra l’io e il tu, rendono orizzontale e quindi reversibile lo scambio del ruolo di soggetto 433 . L’individuo può sospendere la propria identità per accedere a quella altrui. Può essere ascoltato ed ascoltare. E ciò lascia spazio alla terza persona. La terza persona entra in scena soltanto quando si crea uno spazio medio: quando “io” e “tu” si spersonalizzano accettando la mediazione. In questo senso essa non è pertinente al generico ¥nqrwpoj, bensì al pol…thj434. Il cittadino è l’unica figura che entra in rapporto con l’altro soltanto attraverso la terza persona costituita dal “cittadino medio”, caro a Simonide. Proprio per questo egli può dare vita alla comunità politica, se è vero che l’unica ad avere un plurale è – secondo Benveniste – la terza persona. Quando Socrate afferma che la virtù (politica) consiste nel possedere la scienza della misurazione per scegliere il medio fra i due poli opposti435, questo medio – astratto e ideale come l’uomo medio di Simonide436 che orienta e rende nomici i comportamenti dei cittadini – è impersonale. Nell’aspirare alla medietà, si aspira ad un evento senza soggetto, si aspira a ciò che è – appunto – comune. Questa connessione dell’impersonale col medio emerge con chiarezza se si pensa per esempio a come la persona veniva raffigurata nell’arte vascolare o nella scultura. Commentando un cratere attico del ceramografo Eufronio databile intono al 510 a.C. che mostra alcuni giovani intenti alle occupazioni di chi frequenta una palestra, Luca Giuliani afferma:
Benveniste 1971: 273 citato da Esposito 2007: 130. In tal senso Zeus compie un’evoluzione: vd Vegetti 1990: 28-30. 434 Plat. Prot. 221d e 319a. Osservazioni molto utili sulla dialettica, nella polis, fra l’uno e il due, da un lato, e il tre, dall’altro, in Musti 2008: 5-13, e 204. 435 Plat. Prot. 356d-357. 436 La discussione sull’uomo medio di Simonide occupa vari capitoli del Protagora: vd. Plat. Prot. 339a347a. L’ultimo capitolo contiene l’interpretazione di Socrate, su cui si registra un consenso generale. 432 433
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«Se da un ritratto ci aspettiamo degli elementi caratteristici che servano a distinguere e rendere identificabile la persona in questione, per queste immagini vale esattamente il contrario: ogni figura è colta sì in atteggiamento diverso (…) ma a questa varietà dei movimenti e dei gesti fa subito contrasto la perfetta uniformità somatica e fisionomica: i giovani palestriti (…) risultano praticamente indistinguibili l’uno dall’altro. Tutti quanti incarnano senza la benché minima variazione uno stesso standard (…)»437.
Per il ceramografo e i suoi acquirenti, la forma desiderabile comporta «attenersi a una certa norma, la quale praticamente esclude ogni peculiarità dell’aspetto che potrebbe rendere l’immagine distinguibile dalle altre e garantire una qualche somiglianza con l’individuo rappresentato» 438 . La persona è in queste raffigurazioni l’errore, l’impersonale è la perfezione. Ciò si evince e contrario, dal fatto che l’identificabilità è sempre vista (fra la fine del VI e l’inizio del V) come caricaturale, con connotazione comico-negativa439. A questa regola non sfugge naturalmente il ritratto scultoreo di Pericle raffigurato in modo da non deviare da una tipologia generica e rinunciando a ogni nota personale440. Il corpo perfetto e impersonale della statuaria e dell’arte vascolare del V secolo è il corpo politico. Esso può esprimere delle emozioni e farsi animare da sentimenti, ma soltanto emozioni e sentimenti altrui, non propri ma comuni. L’autorità Nel saggio introduttivo ad una monografia di Bruce Lincoln, dal titolo Alle soglie dell’autorità, Maurizio Bettini, prendendo le mosse dalla serie di passi marciani concernenti l’autorità di Gesù (™xous…a), nota poi come nella lingua greca non vi sia un equivalente di auctoritas, da cui proviene l’italiano «autorità» (ma anche le parole analoghe nelle lingue moderne) 441 . Il tema ci riguarda, perché la possibilità di evocare un’autorità in absentia è, come abbiamo visto, centrale nella comunicazione pubblica. Non sarà inutile riprendere brevemente le osservazioni di Bettini, che in parte riformulano un problema che Benveniste, nel suo Vocabolario aveva evitato. Auctoritas deriva da auctor, cioè «colui che dà impulso a un certo processo o una certa azione, spesso, ma non esclusivamente, utilizzando l’arma della persuasione e della parola»442. La capacità o speranza di persuasione deve fondarsi su argomenti, «puntelli». Bettini individua questo «puntello» nella «posizione» della persona che fa da auctor: «è chiaro – afferma infatti – che l’auctor in questione, se viene evocato, dovrà per forza
Giuliani 1997: 985. Giuliani 1997: 988. 439 Giuliani 1997: 990. 440 Giuliani 1997: 995-1000. 441 Lincoln 2000: VII-XXXIV. 442 Bettini in Lincoln 2000: XV 437 438
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occupare una posizione particolarmente rilevata»443. Ma, se è auctor colui che detiene una posizione, occorre chiedersi in virtù di cosa egli detenga quella posizione o, meglio, che cosa fa si che alla sua posizione sia attribuito quel rilievo tale dal renderlo auctor. Se anche, con Bettini, si può rispondere che tale posizione consiste nella nobiltà, eroismo, grandezza, divinità del personaggio in questione, al contempo non ci si può sottrarre dal chiedersi che cosa conferisca a queste «posizioni» l’autorità di cui parliamo, e in che modo le persone che detengono tale posizione, o i loro antenati, l’abbiano ottenuta. Benveniste aveva risolto tale problema ritenendo che auctor derivasse da augeo, che in origine non significava “aumentare” bensì “far nascere, dare origine”444. A questa soluzione Bettini obietta rilevando come allora diventi difficile conciliare le due sfere: quella dell’auctor come persuasore e garante e come colui che mette in moto un processo e quella dell’accrescimento445. Il fatto è che l’idea di persuasione è solo parzialmente adatta al caso: non si tratta tanto di una persuasione, quanto del fatto di qualcuno che aderisce, segue, fa sua l’idea espressa da un altro. Ma se non è la persuasione, che cosa induce qualcuno a seguire un certo comportamento? Da quanto abbiamo fin qui analizzato, si deduce che l’imitazione sia un elemento importante nella costruzione dell’autorità. Di un comportamento verbale o non verbale, è auctor colui che ne è la fonte rispetto ad un altro che ne è stato contagiato, per empatia. Auctor, mi pare, esprime il rapporto fra due o più persone che agiscono o pensano in accordo, ma sulla base di quanto uno dei due ha per primo detto di voler fare o di pensare. Questo carattere di auctor è evidente per esempio nell’auctor di una stirpe, che è colui che per primo l’ha fondata (cioè l’ultimo cui sia possibile risalire), nell’auctor di un testo, che è colui che ha per primo pensato o scritto quelle parole, ma soprattutto nell’auctor di una notizia o di un evento, che è colui che ha udito una notizia o visto un evento per primo, cioè un testimone446. In auctor non c’è soltanto la nozione di “essere il primo a” ma anche quella di “essere il primo a fare qualcosa che avrà successo”: e il successo è la riproduzione. L’auctor è tale in quanto oggetto di imitazione. Ciò vuol dire anche che il collegamento fra un auctor e un qualsiasi stato di cose o proferimento è compiuto induttivamente dall’esterno: è solo un osservatore esterno a poter riferire ad un auctor un fatto, un processo, uno stato di cose. Il processo iniziato da un auctor è visto dalla prospettiva del suo (buon) compimento: in questo senso è possibile definire auctor, ex post, qualcuno che ha fatto andare le cose per il verso giusto. Un capostipite non è auctor in vita bensì dopo alcune generazioni, se sarà stato evidente che i suoi discendenti si sono positivamente segnalati in qualcosa, cioè se si sarà riprodotto.
Bettini in Lincoln 2000: XIX. Benveniste 2001: 396-98. 445 A tale conciliazione Bettini arriva attraverso il riconoscimento nella nozione latina di accrescere di valori e modelli culturali diversi dai “nostri”. 446 Sono queste le accezioni più diffuse di auctor riportate dal TLL s. v. 443 444
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Ciò equivale a dire che nessuno è auctor in solitudine; non si tratta di una condizione dell’individuo, quanto di una relazione ricostruita da un ascoltatore: il quale riterrà valido un comportamento se in esso ritroverà degli elementi che consentano di collegare colui che sta mostrando quel comportamento ad un ambiente di formazione, ad una parentela, ad una frequentazione, ad uno stile di vita (che l’ascoltatore conosce o ai quali ha accesso) che possano esserne la sorgente. Il tipo di autorità che il parlante riesce a evocare in absentia e di cui si fa vettore è alla base della legiformità dei suoi proferimenti/comportamenti447. L’ascoltatore di un aedo è capace di collegare il comportamento verbale e non verbale di costui con l’ambiente in cui l’aedo ha appreso il canto e da questa doppia evocazione, dell’aedo e dell’ascoltatore, nasce l’autorità della Musa. Nella comunità politica, cioè – secondo il pensiero greco, almeno fino al V secolo – nella polis, l’autorità risiede nella relazione che ciascuno riesce a instaurare con l’altro fermandosi a metà strada rispetto a costui, cioè attingendo un livello medio di virtù o scegliendo il medio di una coppia oppositiva (per es. coraggio/viltà). È autorevole nella polis, è cioè ‘politico’, il comportamento di chi va dal personale – dell’ira, della tyrannis, della techne – verso l’impersonale, di ciò che è comune a qualsiasi altro. La comunità: uditorio e autorità Abbiamo incontrato, nel corso dell’analisi, vari tipi di comunità. La comunità in preda alla stasis – quella di Corcira, ma anche quella degli Achei durante l’ira di Achille – è avvertita, nel mito come nella realtà, come una comunità sospesa, in cui ad essere sospeso è appunto quel tipo di interazione fra individui, orizzontale, che costituisce la polis. La stasis non viene descritta come un conflitto fra due opzioni politiche, ma non è neanche il negativo della polis pacificata, in quanto vi trovano spazio oggetti, azioni, sentimenti, che possono far parte della polis se opportunamente integrati. Nelle comunità politiche è nomico il comportamento che deriva da una mediazione, dall’integrazione fra la specificità dell’individuo e il suo munus verso l’altro, fra l’esigenza di autoaffermazione della prima persona e la richiesta di contatto che promana dalla seconda persona. È nomico ciò che è medio fra gli individui. Esiste invece un tipo di comunità che non è né politico, né stasiotico: esso trae origine da un riferimento all’autorità apparente, compiuto perché sia osservato da altri. Ciò che ne scaturisce è una comunità pseudo-politica: quella che ride dolcemente alla vista di Odisseo che usa lo scettro per randellare Tersite; quella degli ascoltatori dei demagoghi o dei sofisti, che citano il mito pomposamente ma non ne intendono il senso e non ne incarnano lo spirito.
447
Vd. La Matina 2004: soprattutto il capitolo 7 su L’evocazione del Distale.
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Della necessità di integrare gli elementi prometeici, mediandoli e rendendoli fruibili nella vita associata, si è già detto abbastanza. Piuttosto conviene ora soffermarsi sulla figura, in senso lato, del sofista e sull’uso che egli fa della autorità. Quando Plutarco racconta episodi della vita che offrono “esempi” di esercizio della cittadinanza (giustizia, moderazione, etc.) Pericle è spesso indicato come “silente”. Il silenzio, da parte di uno specialista della parola può apparire quanto meno strano: egli non accompagna mai il suo comportamento civico con una massima, un commento, una parola di spiegazione o di ammonimento. In silenzio, siwpÍ, sopporta le contumelie del maleducato e il silenzio oppone alle accuse e alle minacce che gli vengono rivolte quando la città è posta sotto assedio dai Peloponnesiaci448. Che cosa significa questo silenzio? Plutarco, come si è detto, sembra trovare l’origine di questi comportamenti nell’indole buona di Pericle, nella sua «capacità di restare puro e immacolato pur nella gestione di un così grande potere»449. Io ritengo invece che si tratti di una precisa volontà di Pericle di incrementare l’efficacia simbolica dei suoi comportamenti lasciando ai suoi interlocutori il compito di “etichettarli” come giusti, moderati, etc. Gli Ateniesi, che Plutarco descrive come «pieni di ammirazione», riconoscevano in questi comportamenti altrettanti modi di darsi della soggettività di Pericle e dunque li reputavano “veri”. Plutarco esprime bene questo carattere del rapporto fra Pericle e gli Ateniesi: Della virtù vera gli aspetti più belli sono quelli che più si manifestano, e degli uomini buoni nulla suscita tanta ammirazione negli estranei quanto la loro vita di ogni giorno in chi vive loro accanto450.
Agli occhi dei suoi concittadini, Pericle non affermava di essere in possesso di una virtù ma lo era e la sua vita di ogni giorno ne forniva la “prova”, rendendo “vere” anche le eventuali asserzioni in proposito. Una diversa relazione autoritativa intercorre fra il contenuto dell’insegnamento dei sofisti, che in quanto non autoprodotto non è di per sé negativo o nocivo, e il metodo con cui lo trasmettono. Essi sono cioè dei technitai della vendita, del trasporto, ma non dei contenuti, cioè dei maq»mata, che essi trovano già “prodotti” da altri. Questa osservazione produce due conseguenze. La prima è una sorta di “liberatoria” sulle cognizioni, sul contenuto dell’insegnamento dei sofisti: “acquistate” da chi è già – come dice Socrate – medico della propria anima, e sappia quale è crhstÕn, esse giovano all’anima, ne sono nutrimento. Socrate può dunque giudicare sapiente Protagora perché in possesso (e venditore agli ascoltatori) di maq»mata buoni; dei quali tuttavia è Protagora stesso a non giovarsi poiché, è la seconda conseguenza, egli ne è sostanzialmente ignaro. Di tali
Plut. Per., 5,2; 34,1 Plut. Per., 39,2. 450 Plut. Per., 7,6. 448 449
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maq»mata Protagora non si nutre: li trasporta soltanto. L’uso che ne fa è solo in apparenza connesso alla vita e alla interazione comunicativa: in realtà tale connessione è soltanto esibita, recitata, teatralizzata: è “per gli altri” e non per sé. Il rischio della sapienza è dunque – secondo Socrate – quello di una frequentazione che ha la parvenza di un apprendimento ma si risolve invece in una scimmiottatura del vero apprendimento, che è “nutrizione” e si rispecchia nella condotta di vita. Così Socrate può giovarsi delle cognizioni portate in giro da Protagora, e integrarle nel proprio modo di rapportarsi agli altri, mentre le stesse cognizioni restano inerti in Protagora. Ma i maq»mata di Protagora vengono corretti, nel senso della de-narativizzazione, da Socrate: nel linguaggio del filosofo non ci sono persone che compiono azioni ma concetti astratti. È un sapere che non si fonda più sull’esempio. Dell’esempio tuttavia, il logos di socrate mantiene il carattere impersonale (e interpersonale): esso viene “trovato” nella relazione con l’altro ed esemplificato nella relazione stessa. Socrate offre modelli di comportamento in accordo con i concetti che espone e discute; discutendo la giustizia e il rispetto egli agisce in modo giusto e rispettoso, rendendo “vero” il contenuto dei suoi proferimenti astratti. Il sofista si colloca allora, più dell’uomo prometeico, al polo opposto rispetto al Cireneo da cui il discorso ha preso le mosse451. A differenza del Ciclope o di Achille in preda all’ira, che non conoscono se non l’isolamento dagli altri o l’incorporazione (per fagocitamento o uccisione degli altri), il sofista è colui che evita il contatto facendo finta di comunicare. E lo storico? Lo storico è – per Erodoto e per Tucidide – colui che conserva memoria di ciò che ha visto e sentito per raccontarlo ad altri. Egli è un “trascrittore” di discorsi altrui, che per qualche motivo gli sono parsi significativi. Questo modo di fare storia non si è affatto concluso: Tucidide non sarà certo “nostro” collega, ma lo è per esempio di storici come Eric Hobsbawn quando, nell’introdurre Il secolo breve afferma: «L’arco della mia vita coincide quasi interamente con il periodo di cui tratta questo libro e per la maggior parte di essa, dalla prima adolescenza fino ad oggi, sono stato consapevole degli avvenimenti pubblici, vale a dire ho accumulato opinioni e pregiudizi che derivano dalla mia condizione di contemporaneo più che da quella di studioso» 452.
La maggior parte degli studi di storia tuttavia ha a che fare con testi scritti. E da questi rimangono fuori molti degli elementi originari della comunicazione, sicché nel
Riferendomi al sofista, intendo ovviamente riferirmi all’immagine che viene offerta di essi da Platone e da Tucidide. 452 Su questa analogia mi permetto di rimandare a Caserta 2004-2005. 451
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chiuso di uno studio, forti di una metodologia, ci sembra possibile assegnare loro un significato, senza farli mai entrare in relazione con forme di vita. Ma questo effetto di “incorporeità” dei testi è soltanto, appunto, un “effetto”. La vera illusione, ritengo, è quella dell’assenza del referente. Il referente, come molti altri elementi del parlato – l’occasionalità, i fattori diacronici, gli effetti mimetici, il contesto in cui l’evento comunicativo si è realizzato – che la scrittura sembra “uccidere” sono in realtà soltanto “narcotizzati”. Il grande vantaggio offerto dai testi greci almeno fino al V secolo è quello di essere pensati come fissazione per iscritto di un discorso (orginariamente) orale. La storiografia non si discosta da questa generale volontà di preservazione dell’orale nello scritto453. Ciò ci permette di riattivare, più facilmente che non con testi “moderni”, quegli elementi di cui dicevo. Di compiere, leggendolo, un tratto di strada insieme ad un testo. Come sia fatta la strada e dove porti nessuno può dirlo o stabilirlo a priori, nemmeno la più analitica delle conoscenze pregresse, perché procedendo ogni nuovo lettore può mutare le sue ipotesi e formularne delle nuove, per reazione alle novità che è capace di accogliere454. Come il Cireneo, volente o nolente, dovette coordinare i suoi passi a quelli di chi portava la croce.
Diversamente ritengono quanti enfatizzano la scritturalità della storiografia antica, a partire da Tucidide .Vd. per esempio Hartog 2007. 454 La strada di questo libro è stata fatta insieme a: Marcello, Raffaella, Raffi, Francesca, Giulio, Piero: a loro i miei ringraziamenti, oltre che ai miei genitori e a tutti coloro dai quali ho appreso la storia e la lingua dei Greci. 453
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BIBLIOGRAFIA
Sono ben consapevole che su quasi ogni argomento di cui tratta questo libro esiste una bibliografia amplissima. Ho cercato di consultarne una buona parte, conscia tuttavia dell’impossibilità di leggere tutto quello che è stato pubblicato su un dato argomento. Ho riportato, per motivi di spazio, soltanto gli articoli e le monografie citati nel testo, indicando al contempo – se possibile – dove reperire ulteriore bibliografia. Lessici, Dizionari. Chantraine, P., Dictionaire étymologique de la langue grecque, Paris, 1983-84. Ernout, A-Meillet, A., Dictionaire étymologique de la langue latine, Paris, 1965. Fatouros, G., Index verborum zur frügriechischen Lyrik, Heidelberg, 1966. Frisk, H., Griechisches Etymologisches Wörterbuch, Heidelberg, 1960-72. Lidell-Scott, H.G., A Greek-English Lexicon, Oxford, 1968; Revised supplement, Oxford, 1996. Opere collettive I Greci. Storia Cultura Arte Società, a cura di S. Settis, Torino, 1996-2001, 3 voll. -, Noi e i Greci, Torino, 1996. -, Una storia greca, I. Formazione, Torino, 1997. -, Una storia greca, II. Definizione, Torino, 1997. -, Una storia greca, III. Trasformazioni, Torino, 1997. -, I Greci oltre la Grecia, Torino, 2001. Brunschwig, J. – Loyd, G. E. R., Il sapere greco. Dizionario critico, I, Torino 2005 (Paris 1996), 2 voll. Adkins 1973, A. W. H., ¢ret», tšcnh, Democracy and Sophists: «Protagoras» 316b-328d , in «JHS» XCIII, 3-12. Agamben, G., Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento (Homo sacer II,3), RomaBari 2008. -, L’aperto. L’uomo e l’animale, Torino 2002. -, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino 1995. Albini, U., I tre volti del potere nel Prometeo, in «PP» XL (1985), pp. 414-418. Allen, A. W., Solon’s Prayer to the Muses, in «TaPhA» LXXX (1949), pp. 50-6.
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Abstract
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converge his specialization and his council role. Achilles specialization is not “read” by Agamemnon, who plays as if Achilles had no specialization outside of the Assembly. He literally remains “ungiven” (ἀGRASTO6). The contention for the command, in a context that strongly refers to the mythical precedent, is explicitly the stasis, i.e., paralyzing and inhibitory factor of the smooth flow of things. Losing his gift, won by virtue of his JRTERO6 being, i.e., specialized identity , Achilles loses also the scepter, which he has not right to posses any more. The stasis is communicative impotence. At the opposite pole to the stasis, there is dike. Dike is a required reciprocity, a relational value, allowing men not to be indifferent to the salvation of the other, and making possible “doing justice” each other. That is why only the egalitarian distribution made for willing of Zeus of two political technai, respect and justice, will enable the salvation of men, making them capable of living in cities they have founded and of opposing to fairs. Salvation calls into question the horizontal capacity of communication, the discovery of the potential of each one in order to reciprocity. The transition from the injustice of the stasis into the Justice of salvation is fulfilled in the suspension of the wrath of Achilles. The analysis of this episode shows clearly as dike has to do with the reaction of an individual to a person, which falls within his scope of responsibility and the taking charge of the salvation of others. Until the actions are determined by what, that makes each one equal in a forum of equals, communication may be interrupted every time, that this Statute (artificial) is violated, but if munus is called in question also towards who is not peer (or is not any more), communication becomes possible again. Political techne – in Protagoras – is a techne like the others, but substantially differs by them for the way in which is owned by private individuals. The possession of the political techne is not therefore characterized by the “all or nothing” of other technai: there is a “zero” level, of a ethnologic kind, characterizing peoples without politics; a “medium” level, which is required by the polis and acquired via education channels and spontaneous pedagogical figures. What matters is therefore the capacity of measurement, according to which each one will choose the intermediate level between the two poles of each “part” of virtue. We can say that, in dike and aidos scheme, the new source of conformity-to-law is “meson”. Person who arises in the middle among other people and offers himself as a behavior model acts as mediator, but in order to do it, he must resize himself, relate to another: inordinate, inimitable heroism condemns to deaths who try “being Achilles”; rather it is necessary that the content of the behavior becomes medium, half way between the two opposite polarity. Identifying in medietas the standard that makes in conformity-to-laws non-verbal and verbal behavior, acted as rulers in Assembly, on the one hand the individual lawfulness is stated at the same level of living of individuals without overwhelm them; on the other hand, law itself is super-individual. It is not an exterior compliance but results from the reaction of someone to someone else, respect to which one undertakes to reach ‘halfway road’. This homogeneity of the speakers, derived from the possibility for each one having a minimum equipment to join a same rule, is what allows the isonomia. 166
The gap between citizen and promethean man is also at the centre of the Aristophanes’ comedy “Birds”. Last chapter is dedicated to Pericles and to the use of mythical model in the 5th century Athens, with particular reference to the sophists. Issue that also relates to the historical context of Protagoras’ scene.
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Finito di stampare nel mese di settembre da Editografica (Bologna)
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