Comunione e solitudine. Atti del convegno (Bose, 8-11 settembre 2010) 8882273407, 9788882273408

Atti del XVIII Convegno ecumenico di spiritualità ortodossa(Bose 8 - 11 settembre 2010).Gli uomini di oggi vivono spesso

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Comunione e solitudine. Atti del convegno (Bose, 8-11 settembre 2010)
 8882273407, 9788882273408

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Irinej Bulovic´, Serafim Joanta˘, Athanasios Papathanassiou, Konstantin Sigov, Michel Van Parys, Kallistos Ware e Aa. Vv.

COMUNIONE E SOLITUDINE EDIZIONI QIQAJON COMUNITÀ DI BOSE

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COMUNIONE E SOLITUDINE

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Nella stessa collana SPIRITUALIT‘ ORIENTALE O. Clßment, Il respiro dell’oriente. Il volto dell’ortodossia nella storia Ignazio IV, L’arte del dialogo Matta el Meskin, Comunione nell’amore Aa.Vv., Il Cristo trasfigurato nella tradizione spirituale ortodossa Aa.Vv., La paternitÜ spirituale nella tradizione ortodossa

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CURATORE: TITOLO: COLLANA: FORMATO: PAGINE: IN COPERTINA:

Konstantinos Agoras, Elena V. Beljakova, Irinej Bulovic´, Sabino ChialÜ, Kriton Chryssochoidis, Kirill Hovorun, Serafim Joanta˘, Tat’jana B. Karbasova, Adalberto Mainardi, Athanasios N. Papathanassiou, Tat’jana R. Rudi, Konstantin Sigov, Michel Van Parys, Petros Vassiliadis, Armand Veilleux, Kallistos Ware, Gleb Zapal’skij Sabino ChialÜ, Lisa Cremaschi e Adalberto Mainardi Comunione e solitudine SpiritualitÜ orientale 21 cm 375 Teofane il Cretese, Morte di Sant’Efrem, affresco (xiv secolo), chiesa di San Nicola, Meteore, Grecia

Volume pubblicato con il contributo della Regione Piemonte e della Compagnia di San Paolo Prima edizione digitale: 2016 ß 2011, 2016 EDIZIONI QIQAJON COMUNITA` DI BOSE 13887 MAGNANO (BI) Tel. 015.679.264 - Fax 015.679.290

isbn 978-88-8227-731-4

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K. AGORAS, E. V. BELJAKOVA, I. BULOVIC´, S. CHIAL‘, K. CHRYSSOCHOIDIS, K. HOVORUN, S. JOANTA˘, T. B. KARBASOVA, A. MAINARDI, A. N. PAPATHANASSIOU, T. R. RUDI, K. SIGOV, M. VAN PARYS, P. VASSILIADIS, A. VEILLEUX, K. WARE, G. ZAPAL’SKIJ

COMUNIONE E SOLITUDINE Atti del XVIII Convegno ecumenico internazionale di spiritualitÜ ortodossa Bose, 8-11 settembre 2010 a cura di Sabino ChialÜ, Lisa Cremaschi e Adalberto Mainardi monaci di Bose

EDIZIONI QIQAJON COMUNITA` DI BOSE

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PREFAZIONE

“È difficile vedere Cristo in mezzo alla folla – scriveva Agostino –; ci è necessaria la solitudine. Nella solitudine, infatti, se l’anima è attenta, Dio si lascia vedere. La folla è chiassosa; per vedere Dio ti è necessario il silenzio”. Imparare ad abitare la solitudine – quel porsi faccia a faccia con se stessi che ogni uomo conosce – significa al tempo stesso imparare ad abitare lo spazio delle relazioni con gli altri, acquisire un cuore ospitale che sappia ascoltare l’altro. La solitudine è correlativa alla comunione. “Comunione e solitudine” è anche il binomio attorno a cui si sono svolti i lavori della XVIII edizione del Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, che si è tenuto presso il Monastero di Bose, dall’8 all’11 settembre 2010. L’itinerario del convegno, in quattro intense giornate di studio e confronto fraterno, ha riflettuto su come l’esperienza spirituale della chiesa d’oriente può ancor oggi offrire una parola di senso alla ricerca e alle attese degli uomini contemporanei. Nel suo caloroso indirizzo di saluto ai partecipanti, il patriarca di Costantinopoli Bartholomeos I ha ricordato la qualità profetica per l’unità dei cristiani della vita cenobitica ed eremitica, che non cessa di essere presente in tutte le chiese. Il monaco, colui che è “separato da tutti e unito a tutti”, secondo il detto di Evagrio, e che è sempre “con gli altri pur non essendo insieme agli altri” (Barsanufio e Giovanni di Gaza), è una memoria vivente dell’insegnamento che “la solitudine e il silenzio” offrono per “entrare in relazione ed essere in comunione con gli altri”. 5

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Prefazione

Il messaggio del patriarca di Mosca Kirill I ha rilevato a sua volta come le dimensioni di solitudine e comunione trovino un modello di armonica compenetrazione nella vita stessa di Gesù come ci è consegnata dalla narrazione evangelica. Papa Benedetto XVI, nel messaggio pervenuto al convegno per il tramite del cardinale Tarcisio Bertone, ha invitato “a contemplare in Cristo il perfetto modello di armonia tra comunione e solitudine, in cui personalmente sussiste Dio uno e trino”. I numerosissimi messaggi inviati dai capi ed esponenti delle chiese ortodosse, dal catholicos di tutti gli armeni Karekin II, dall’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, dal segretario del Consiglio ecumenico delle chiese di Ginevra, Olav Fykse Tveit, e da presidenti di importanti organismi della chiesa cattolica, sono stati in gran parte convergenti nel sottolineare la dimensione universalmente umana di un equilibrio spirituale tra solitudine e comunione, che nell’esperienza cristiana, e in particolare monastica, trova una possibile realizzazione. Un valore particolare ha rappresentato sul piano ecumenico la presenza al convegno delle delegazioni ufficiali delle chiese d’oriente e d’occidente. Il percorso tracciato dal convegno ha voluto così offrire uno spazio di incontro fraterno tra le diverse chiese cristiane, di comunione e condivisione delle loro multiformi tradizioni spirituali, come ha mostrato anche la straordinaria adesione di numerosi monaci e monache, provenienti da monasteri ortodossi e cattolici. Ponendosi in ascolto della Scrittura e dell’insegnamento dei padri (da Basilio a Isacco il Siro, dai padri del deserto a quelli del monachesimo bizantino e russo), ma anche interrogando la riflessione del pensiero filosofico e teologico dell’oriente cristiano e la sapienza di alcune grandi figure spirituali dell’ortodossia, i diversi contributi hanno cercato di riscoprire la relazione feconda tra comunione e solitudine quali poli costitutivi del vivere umano. La relazione di apertura del vescovo Irinej di Ba™ka (Novi Sad) ha sottolineato il radicamento ecclesiale del movimento monastico. La compenetrazione tra solitudine e comunione, ha osservato Petros Vassiliadis, è una costante nella Scrittura da un lato, e nel cor6

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Prefazione

so della storia della chiesa dall’altro; nella storia due tendenze sembrano contrapporsi, sull’asse orizzontale del popolo chiamato da Dio (ekklesía-liturgia-comunità/comunione) e sull’asse verticale del rapporto del singolo con Dio (monachesimo-anacoresi-eremitismo). Un punto di equilibrio tra spinta spiritualistica (e individualista) e dimensione ecclesiale (il senso teologico della comunione) dell’esperienza monastica (ma più in generale della stessa spiritualità cristiana) è rappresentato indubbiamente nel IV secolo dalla riflessione teologica di Basilio il Grande (Michel Van Parys). Le coordinate di “comunione e solitudine” costituiscono così lo spazio di comprensione non solo del fenomeno monastico, ma della spiritualità cristiana stessa, con modalità diverse in oriente e in occidente. Un dato emerso abbastanza chiaramente, su cui si è registrata una sostanziale convergenza delle diverse relazioni, è l’arbitrarietà di una contrapposizione troppo rigida tra “eremo” e “cenobio”, tra vita solitaria e vita in comune. Gli schemi classificatori – che pure ricorrono anche negli scrittori antichi – sono astratti e inadeguati se intesi come il rispecchiamento rigido di una realtà spirituale sempre pronta a mettere in discussione nel concreto della vita ogni approssimazione teorica. Questo vale per il monachesimo bizantino (studiato da Kriton Chryssochoidis) e per il monachesimo russo, analizzato da Tat’jana Karbasova e Tat’jana Rudi sulla base dei testi agiografici e da Gleb Zapal’skij in relazione all’esperienza storica di Optina pustyn’. Ma è altresì vero per un padre dell’oriente non bizantino che ha avuto un’enorme importanza nella storia della spiritualità sia orientale sia occidentale: Isacco il Siro (presentato da Sabino Chialà). La stretta interdipendenza tra eremo e cenobio è infine una costante nel monachesimo d’occidente, come ha ricordato padre Armand Veilleux, abate di Scourmont, nella sua relazione. Le due dimensioni di solitudine e comunione non devono essere disgiunte, se non si vuole rischiare una pericolosa deriva. È la nozione cristiana di “persona” a permettere un’armonica composizione delle due istanze della “libertà soggettiva” e dell’“essere comu7

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Prefazione

nionale”. L’approfondimento che il pensiero personalistico ortodosso riserva alla concezione di persona e comunione (Konstantinos Agoras; Konstantin Sigov) ha così introdotto la riflessione sull’oggi, proseguita con la lettura dell’esperienza spirituale di due straordinarie figure di solitari contemporanei, padre Cleopa di Siha˘stria (1912-1998) e padre Porfirio di Kafsokalyvia (1906-1991), capaci di una comunione universale e cosmica, presentati al convegno dal metropolita Serafim di Germania e da Athanasios N. Papathanassiou. La tavola rotonda, dedicata all’esperienza monastica, ha completato questo itinerario con l’ascolto dell’esperienza concreta della vita dei monaci contemporanei. In quei paesi che hanno vissuto fino a tempi recenti la drammatica esperienza dell’ateismo di stato, la ricostituzione della comunione ecclesiale può incorrere nel rischio di un isolamento autosufficiente, nella chiusura settaria del ghetto. I cristiani devono saper aprire quei sistemi di relazioni interumane che tendono a chiudersi su di sé, per lasciare spazio all’energia trasfigurante dello Spirito santo che in loro e attraverso di loro vivifica il cosmo (Kirill Hovorun). È l’energia della speranza che splende anche nell’inferno dell’isolamento e della lontananza da Dio – come hanno mostrato santi quali Serafim di Sarov o lo starec Silvano del Monte Athos. “Diventando fiamme ardenti di preghiera” ha concluso suggestivamente il metropolita Kallistos Ware, “i solitari trasformano il mondo circostante già solo con la loro esistenza, con il semplice fatto della loro segreta presenza”. Infine, vogliamo ricordare qui una figura che per molti anni ci ha accompagnato in questo itinerario di conoscenza e ascolto della spiritualità ortodossa, dom André Louf († 2010), silenzioso testimone di una solitudine con Dio che si fa amore fraterno e comunione universale.

Bose, 24 giugno 2011 Nascita di san Giovanni il Precursore 8

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Il Patriarca ecumenico, Bartholomeos I

Costantinopoli, 15 luglio 2010

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Caro priore Enzo, amati membri della Comunità di Bose, relatori e partecipanti radunati per il convegno, è con grande piacere e sincera soddisfazione che rispondiamo al cortese invito del priore della vostra santa comunità di fratelli e sorelle, organizzatori del raduno internazionale, di rivolgere un messaggio in occasione del convegno intitolato “Comunione e solitudine” che dovrà essere presenziato ufficialmente da Sua Eminenza il Metropolita Kallistos, in qualità di nostro formale rappresentante in questa assemblea foriera di buoni auspici. Poiché siete una comunità che è monastica nella sua natura ed ecumenica nel cuore, riconosciamo che i due elementi che saranno discussi in questo convegno annuale sono allo stesso tempo le vostre esperienze e aspettative, nella misura in cui conducete una vita di fraternità e di preghiera. In molti modi la vostra vita monastica dimostra l’ardente amore e la comprensione di monaci e monache nel corso dei secoli, dagli antichi padri e madri del deserto, ai cenobiti e agli eremiti di professione della Chiesa indivisa del primo millennio, fino ai priorati e ai monasteri che travalicano i confini confessionali nei nostri giorni. Inoltre, il vostro inestimabile contributo monastico nella nostra epoca e nel nostro travagliato mondo riflette la definizione del monaco data, nel iv secolo da Evagrio Pontico, come un essere “separato da tutti, mentre è compartecipe di tutti” e realizza l’esortazione espressa nel vi secolo da Barsanufio e Giovanni a essere “con gli altri come non essendo insieme a loro”. La solitudine e il silenzio, infatti, in ultima analisi ci insegnano il giusto modo di relazionarci e di essere in comunione con gli altri. Quest’anno il convegno di spiritualità ortodossa della vostra comunità si raduna in meditazione e riflessione senza una persona che era un partecipante regolare e una presenza orante in mezzo a voi, il defunto dom André Louf (1929-2010), presbitero e abate trappista, studioso e autore monastico dal cuore ecumenico e gentile. Eterna sia la sua memoria!

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Amici diletti, dal caldo abbraccio del Patriarcato ecumenico estendiamo a tutti voi le nostre fervide preghiere e, con tutto il cuore, i nostri auguri per un convegno riuscito e memorabile.

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✠ Bartholomeos I Arcivescovo di Costantinopoli fervente intercessore presso Dio

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Il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Kirill I Mosca, 16 agosto 2010

Onorabile padre Enzo Bianchi! Pregiati organizzatori e partecipanti al simposio!

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Saluto cordialmente tutti i partecipanti al XVIII Simposio internazionale di spiritualità ortodossa, organizzato dalla Comunità monastica di Bose e dedicato al tema: “Comunione e solitudine”. Tanto la solitudine, l’allontanamento dal mondo, quanto l’apertura alla comunione con il prossimo sono da sempre considerate necessarie pratiche spirituali sul cammino della salvezza. Il Salvatore stesso ci diede esempio di armonica unione di vita comune e solitudine quando, predicando il vangelo con i suoi discepoli, si allontanò in un luogo desertico per una preghiera personale (cf. Lc 6,12). Anche agli apostoli il Signore consigliò di pregare in solitudine: “Quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto” (Mt 6,6). La dialettica di comunione e solitudine si è manifestata in modo chiarissimo nella storia del monachesimo cristiano. Come sappiamo, la vita monastica germogliò all’inizio del iv secolo in forma eremitica, e la stessa parola “monaco” significa “solitario”. I primi monaci – come i santi Paolo di Tebe, Antonio il Grande, Macario il Grande, Simeone lo Stilita – furono solitari asceti del deserto, allontanatisi dal mondo per l’ascesi spirituale e la contemplazione divina. Ma quella luce della grazia divina cui miravano questi santi attirava ad essi migliaia di seguaci alla ricerca della perfezione spirituale. La stessa definizione di servizio monastico già nei tempi antichi ebbe qualcosa di paradossale: “Il monaco è colui che, staccandosi da tutti, resta in unità con tutti”. Il monachesimo comunitario, sorto dopo quello eremitico, ebbe grande diffusione in Russia. L’eremitismo era praticato anche nella Chiesa russa, e molti santi russi iniziarono la loro ascesi in severa solitudine. Però i santi Sergio di RadoneΔ, Pafnutij Borovskij, Sergio e German di Valaam, Zosima e Savvatij delle Solovki non ritennero mai questa forma di vita spirituale come l’unica possibile, ma, volendo condividere la propria esperienza ascetica con i fratelli, fondarono dei monasteri con statuto comunitario. Nel monache-

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simo russo vi è sempre stata la ricerca di un equilibrio tra vita comune e solitudine, a motivo della consapevolezza che sia l’allontanamento dalle seduzioni del mondo, sia il servizio comunitario hanno pari importanza nella vita del cristiano. Le vite di san Serafim di Sarov, di Teofane il Recluso e degli starcy di Optina pustyn’ rappresentano grandi esempi di sintesi armonica tra solitudine e comunione, e questa sintesi è stata benefica e salvifica per molte anime. I grandi pensatori russi Chomjakov, Kireevskij, Dostoevskij e Solov’ev visitarono Optina pustyn’ alla ricerca di saggi consigli spirituali. Tramite loro gli starcy influirono su tutta la cultura russa, imbevendola di pure immagini di santità cristiana. I tesori spirituali della letteratura, della filosofia, della musica russa, che ancora oggi attirano persone in tutto il mondo, sorsero anche sul terreno dell’ascetismo e dell’apertura comunitaria del monachesimo russo. Riteniamo che anche la cultura contemporanea, di fronte al pericolo di una completa secolarizzazione, priva di principio spirituale, abbia bisogno del benefico influsso degli asceti cristiani dei nostri giorni. Il mondo deve vedere che i doni dello Spirito santo, trasfiguranti la vita umana, anche oggi abbondano tra coloro che cercano di vivere secondo il vangelo, come tra gli uomini di preghiera dei secoli passati. La loro esperienza spirituale, costituitasi nella comunione con Dio e con gli uomini, è capace di ispirare tutti coloro che cercano la verità e tendono al perfezionamento spirituale. Auguro ai partecipanti al XVIII Simposio internazionale di spiritualità ortodossa un lavoro proficuo e benedetto. ✠ Kirill I Patriarca di Mosca e di tutta la Russia

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Segreteria di stato della Città del Vaticano

Città del Vaticano, 28 agosto 2010

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Pregiatissimo signore, dall’8 all’11 settembre prossimo avrà luogo in codesto monastero il XVIII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, organizzato, come di consueto, in collaborazione con le Chiese ortodosse e dedicato quest’anno al tema “Comunione e solitudine”. Sono lieto, con la presente, di far giungere per tale significativa circostanza il saluto di Sua Santità Benedetto XVI, il quale desidera esprimere il suo apprezzamento, anzitutto, per la lodevole e promettente perseveranza di tali appuntamenti di carattere ecumenico; inoltre, per la crescente adesione all’iniziativa, che questa volta vedrà intervenire numerosi metropoliti e vescovi, oltre a monaci, presbiteri e fedeli laici; infine, per l’interesse della tematica scelta, ricca di spunti per l’approfondimento e anche di grande attualità pastorale e culturale. Mentre assicura la sua spirituale vicinanza, il Santo padre invita a volgere lo sguardo alla beata vergine Maria e, da lei guidati, a contemplare in Cristo il perfetto modello di armonia tra comunione e solitudine, in cui personalmente sussiste Dio uno e trino, mentre di cuore invoca per lei, per gli eccellentissimi presuli, gli illustri relatori, i membri della comunità e tutti i partecipanti l’abbondanza delle celesti benedizioni. Nell’unire il mio personale augurio, profitto della circostanza per confermarmi con sensi di distinto ossequio, devotissimo nel Signore. ✠ Tarcisio cardinale Bertone Segretario di stato

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Il Patriarca di Alessandria e di tutta l’Africa, Theodoros II

Alessandria, 15 aprile 2010

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Reverendissimo padre Enzo Bianchi, priore del sacro Monastero di Bose, grazia e misericordia da parte del Risorto dai morti, Cristo salvatore. Con molto piacere abbiamo ricevuto la vostra lettera del 30 marzo del presente anno e il programma allegato del Convegno intercristiano internazionale di spiritualità ortodossa e vi ringraziamo di cuore per avercene gentilmente messo al corrente. Per questo motivo vogliamo informarvi, nell’amore, che molteplici motivi di obblighi pastorali non consentono la nostra personale presenza. Tuttavia saremo spiritualmente vicini a voi e nella preghiera invocheremo per voi i doni migliori da parte di Dio. L’impegno e l’operosità del vostro sacro monastero sono splendidi e la dinamica apostolica che caratterizza gli eventi e le manifestazioni che con prodigalità, zelo e amore del Signore vi sono organizzate inducono la nostra modesta persona ad averne vanto nel Signore. Auguriamo e preghiamo che la grazia del Cristo risorto sostenga e rafforzi il vostro servizio e la vostra lotta spirituale nel mondo e nella sua Chiesa. Cristo è risorto! Tanti auguri: ad multos annos! ✠ Theodoros II, Patriarca di Alessandria e di tutta l’Africa

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Il Patriarca di Romania, Daniel I

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Bucarest, settembre 2010

Abbiamo ricevuto con gran gioia l’invito del reverendissimo padre Enzo Bianchi, priore del Monastero di Bose, a partecipare ai lavori del XVIII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, organizzato tra l’8 e l’11 settembre 2010 dal monastero guidato da padre Bianchi. Il tema del convegno, “Comunione e solitudine”, è uno dei più attuali per la vita spirituale e l’attività pastorale e missionaria delle Chiese. In modo paradossale, la spiritualità ortodossa, in genere, e quella monastica, in particolare, portano le impronte della relazione tra solitudine e comunione. L’abbandonare la vita mondana e l’assumere i voti di povertà, castità e obbedienza, hanno come scopo la liberazione dell’uomo dalle passioni egoiste, per una totale dedicazione a lui, alla comunione con Dio sorgente di amore illimitato e insuperabile. Cristo Dio afferma che “chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o moglie, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredita la vita eterna” (Mt 19,29). “Riceverà cento volte tanto” significa la ricchezza della grazia di Cristo presente nelle anime di coloro che amano lui “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta la loro mente” (cf. Mt 22,37). Soltanto la preghiera incessantemente trasformerà la solitudine in comunione. È meritevole porre l’accento sull’approccio di questo tema a partire dall’esperienza di tante tradizioni cristiane. Nel mondo d’oggi, così minacciato d’isolamento e solitudine come individualismo materialista e consumistico che distrugge la comunione d’amore tra gli uomini e con Dio, approfondire la relazione tra solitudine e comunione potrebbe costituire una luce in più per l’attività pastorale, missionaria e sociale della Chiesa. In conclusione, preghiamo la santissima Trinità, sorgente primaria e modello supremo della comunione di vita e amore eterni, secondo il volto di colui secondo cui è stato creato l’uomo (cf. Gn 1,26), di benedire tutti i partecipanti a questo convegno e di illuminare i lavori che vi si svilupperanno. ✠ Daniel I Patriarca di Romania

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L’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Ieronymos II

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Atene, settembre 2010

È una gioia particolare per noi salutare il XVIII Convegno che ha per oggetto la spiritualità ortodossa e che ha luogo nel santo Monastero di Bose e ciascuno degli eletti invitati separatamente, in quanto è chiamato a riflettere e a discutere due degli aspetti più importanti della spiritualità ortodossa: comunione e solitudine (esichia), temi che, anche se a prima vista appaiono opposti, costituiscono due fattori che si completano e si arricchiscono a vicenda e insieme contribuiscono alla pienezza della vita spirituale. Questi due aspetti della vita spirituale dovranno essere studiati in prospettiva biblica, monastica, ecclesiastica, personale, un ampio e variegato spettro di approcci. Inoltre anche in questi due elementi noi distinguiamo le due dimensioni della venerabile croce: quella verticale, cioè la relazione dell’uomo con Dio, e quella orizzontale, cioè la relazione con il suo compagno in umanità, cioè il suo prossimo. Così in questi due elementi, comunione e solitudine, si riflettono i due grandi comandamenti: quello di amare Dio con tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la forza e tutta la nostra intelligenza e di amare il nostro prossimo come noi stessi. Se facciamo obbedienza a questi due comandamenti, come assicura il Signore nostro Gesù Cristo, noi vivremo (cf. Lc 10,28). Proprio come senza queste due dimensioni non c’è croce, così anche senza questi due elementi non può esserci autentica vita spirituale. Come Primate della Chiesa ortodossa di Grecia, vorrei cogliere questa occasione, come contributo alle importanti discussioni e riflessioni, per sottolineare, molto brevemente, l’importanza del fatto che il vostro convegno inizia il giorno in cui la nostra santa Chiesa onora la memoria della nascita della Madre di Dio, la quale, dal punto di vista cristiano ortodosso, è l’assoluta espressione della vita spirituale. In lei vediamo l’uomo divinizzato, l’uomo come era prima della caduta, come saremmo noi stessi se egli non fosse caduto, e la gloria che noi gusteremo se crediamo nel suo Figlio, Dio e salvatore nostro, e se viviamo in accordo con i suoi comandamenti. La quiete solitaria della santissima Madre di Dio, quale si riflette nella sua permanenza nel tempio del Signore e nel suo silenzio eloquente nelle pagine del Nuovo Testamento, e la sua comunione, in qualità di fervida mediatrice per noi davanti al trono di suo figlio, raggiungono la loro perfezione, reciproca complementarietà e pienezza.

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È dunque nostra speranza e preghiera che, attraverso le intercessioni della santissima Madre di Dio, l’opera e le riflessioni di questo importante convegno, siano coronate da successo e diano ulteriore raffigurazione di quelle realtà che possono solo essere significate e indicate fino alla loro concreta esperienza nella vita della Chiesa.

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✠ Ieronymos II Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia

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Il Metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina, Volodymyr

Kiev, settembre 2010

Amatissimi fratelli e sorelle in Cristo!

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A nome della Chiesa ortodossa ucraina rivolgo a voi tutti il saluto nel giorno inaugurale dei lavori del convegno “Comunione e solitudine”. L’attività scientifica ed evangelizzatrice del Monastero di Bose è ben conosciuta sia nella Chiesa cattolica sia nelle Chiese ortodosse. Lo sforzo dei monaci di Bose, sotto la guida del loro priore padre Enzo Bianchi, di cogliere in profondità la tradizione cristiana orientale e farla conoscere in tutta la sua ricchezza al mondo occidentale contemporaneo costituisce un contributo importante per il dialogo teologico tra le nostre Chiese. Un aspetto particolare di questa feconda comunione di studio e conoscenza tra i rappresentanti dell’oriente e dell’occidente cristiano sono i tradizionali convegni internazionali dedicati alla spiritualità ortodossa, che il monastero organizza in stretta collaborazione con le diverse Chiese ortodosse. Il tema della presente conferenza, “Comunione e solitudine”, è straordinariamente profondo, forse addirittura inesauribile. La comunione è un aspetto inseparabile dell’essere della persona umana, che implica l’apertura verso l’altro. Nel contesto biblico, la nostra comunione gli uni con gli altri è un passo verso la comunione con Dio. Il santo apostolo Giovanni il Teologo parla della missione apostolica come dell’accoglienza in quella comunione che è il mistero della partecipazione alla vita divina: “Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1Gv 1,3-4). Così parla il discepolo amato di Cristo. E tuttavia lui stesso osserva che questa comunione di grazia gli uni con gli altri è possibile solo se noi camminiamo nella luce, proprio come anche il Signore è nella luce (cf. 1Gv 1,7). Così si ristabilisce il legame tra il tentativo di aprirsi alla comunione e la purificazione del cuore necessaria affinché questa comunione sia perfetta. Così si manifesta la necessità di sradicare il peccato dal proprio cuore, la necessità della lotta spirituale, che si combatte nel segreto della solitudine. Tra questi due poli “comunione e solitudine” si stende anche la via regale della vita in Cristo.

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Il programma dei lavori del convegno di quest’anno, come sempre, è molto denso. Sono persuaso che, nel corso delle relazioni e dei dibattiti, i partecipanti saranno in grado di sviscerare i diversi aspetti di questo tema straordinariamente complesso. Auguro a tutti un lavoro ricco di risultati nell’approfondimento della tradizione della Chiesa d’oriente. Spero che il dialogo teologico nel quadro del convegno sia costruttivo e fecondo.

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✠ Volodymyr Metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina Primate della Chiesa ortodossa ucraina

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Il Catholicos di tutti gli armeni, Karekin II

Etchmiadzin, settembre 2010

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Cari partecipanti al XVIII Convegno ecumenico internazionale, con piacere vi saluto dal centro religioso del popolo armeno e vi invio la mia benedizione e l’augurio patriarcale. Di cuore vi porgo la mia solidarietà, a voi che quest’anno vi siete radunati nel Monastero di Bose in occasione del convegno che ha per titolo “Comunione e solitudine”. Con questo tema intendete discutere di due esperienze della vita di preghiera, l’interrelazione e la solitudine dei monaci, presentando le tradizioni della vita monastica nelle varie Chiese. Nella sacra Scrittura, come negli scritti dei padri della Chiesa, nonché nelle tradizioni monastiche orientali ed occidentali, sono presentate come importanti per ogni credente l’armonia nella vita interiore, la forza che proviene dalla contemplazione e dal sentimento di preghiera con cui l’uomo, parlando sinceramente con Dio, viene illuminato dai doni spirituali dell’Altissimo rendendoli benedizione nella propria vita. Ecco come descrive quell’esperienza il patriarca Nerse¯s \norhali (che significa “pieno di grazia”), uno dei beati padri della Chiesa armena nella sua enciclica generale: “Con le vostre preghiere e la vostra buona condotta siete pilastri del mondo, mura contro il nemico, angeli nel corpo e stelle luminose sulla terra, e con la vostra buona e luminosa condotta viene glorificato il vostro Padre celeste”. Quest’esperienza della vita di preghiera è stata una parte importante del monachesimo della santa Chiesa, la cui rivalutazione oggi sarà un grande contributo al ristabilimento della verità consegnata dal Signore e alla rivitalizzazione dei comandamenti evangelici nella società attuale. Accanto alla vita cenobitica, la forma della vita eremitica, iniziata nel periodo del cristianesimo primitivo e largamente diffusa, è testimonianza del progresso spirituale. Essa porta al mondo odierno e all’uomo del xxi secolo la coscienza che persino l’uomo in solitudine non è solitario, perché Dio, che ha sacrificato il proprio Figlio unigenito per la salvezza dell’uomo, sempre lo custodisce e bada alla propria creatura con amore smisurato. La peculiarità del sentimento spirituale e del servizio del cenobita e dell’eremita è descritta in modo figurativo da sant’Atanasio, uno dei padri

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della Chiesa, che scrisse la vita di sant’Antonio l’Eremita: “Quando giunse il tempo di operare, gli fu ordinato di uscire per prestare servizio ai credenti. Uscito, egli si ritrovò abbellito dai molti doni dello Spirito santo di cui poterono beneficiare gli altri”. Infatti, la migliore conferma di questo detto è la realizzazione, in questo nostro mondo pieno di sfide, di progetti di beneficenza e umanitari per amore di Cristo da parte dei nostri fratelli e sorelle che abitano nei monasteri. I padri eremiti stessi incoraggiavano l’amore verso il servizio, e come sant’Antonio il Grande dice: “Coloro che vogliono prestare servizio ai fratelli, lo facciano da servi del loro Signore”. Tali discussioni che si svolgono nel Monastero di Bose, le quali hanno come principio la valutazione reciproca dei valori religioso-culturali delle Chiese sorelle e la ricerca dettagliata dei valori spirituali, portano il proprio contributo nella missione comune della santa Chiesa di Cristo. Dal profondo del cuore innalziamo preghiere al Signore altissimo e auguriamo che la missione del XVIII Convegno ecumenico internazionale produca buoni frutti con nuove acquisizioni e abbia successo sotto la guida e la protezione di Gesù Cristo. La grazia, l’amore e la pace del nostro Signore Gesù Cristo siano con voi e con tutti. Amen. ✠ Karekin II Supremo Patriarca Catholicos di tutti gli armeni

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L’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams

Londra, 8 settembre 2010

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Mio caro fratello Enzo, fratelli e sorelle in Cristo, sono molto lieto di inviare i miei auguri e le mie benedizioni per il simposio su “Comunione e solitudine” a Bose, pregando che sia abbondantemente benedetto da Dio e che i suoi lavori divengano una significativa risorsa nelle Chiese per l’approfondimento della vita contemplativa. La vocazione solitaria per il cristiano non è mai un rifiuto, un ritiro nell’isolamento. Poiché è innanzitutto risposta alla più profonda comunione possibile con Dio, è apertura a una più profonda condivisione di comunione che è la vita stessa di Dio. Il solitario cristiano è appunto la persona che volge le spalle all’isolamento della pura individualità per scoprire la vita personale e quindi comunitaria e scambievole, che è la sorgente di ogni vita. Il solitario, entrando nella comunione della santa Trinità, in questa relazione si scopre aperto come mai in precedenza ai bisogni e alle sofferenze del mondo; il solitario entra in una più profonda comunione con ogni essere umano, e certamente, come testimoniano molte vite di santi, anche in una più profonda comunione con la creazione non umana. Si parla spesso di comunione come della realtà fondamentale della Chiesa del Dio triuno (per riprendere il titolo della recente dichiarazione comune di Cipro della Commissione teologica anglicano-ortodossa), il che ha costituito un’accentuazione vitale e vitalizzante in tutti gli incontri ecumenici degli ultimi decenni. Ma riconsiderare questo dato in relazione alla vocazione solitaria significa sentirsi ricordare che se non siamo pronti a morire alle nostre limitate lealtà abituali e ai nostri programmi finalizzati a noi stessi, a mettere a tacere i nostri desideri non convertiti e la nostra dipendenza dall’approvazione umana, non possiamo davvero scoprire il cuore della comunione. Il solitario, che si avventura al di fuori del mondo sicuro della convenzionale routine e dei prevedibili compensi, è un dono di Dio alla Chiesa intera, cui è donato perché non dimentichiamo mai la profondità di quanto è richiesto a noi, discepoli di Gesù chiamati a vivere nella Verità. Una Chiesa priva della testimonianza dei solitari è una Chiesa che rischia di sentirsi soddi-

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sfatta di una semplice sensazione di umana familiarità invece che della trasfigurante comunione della stessa vita divina condivisa con noi nel corpo di Cristo. Possa quest’incontro suscitare una rinnovata gratitudine per questo dono e una rinnovata disponibilità ad accoglierlo.

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✠ Rowan Williams Arcivescovo di Canterbury

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Consiglio ecumenico delle Chiese

Ginevra, 8 settembre 2010

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Caro priore e cari membri della Comunità monastica di Bose, cari partecipanti al convegno, amati fratelli e sorelle in Cristo, ho l’onore e la grande gioia di rivolgermi alla Comunità monastica di Bose per la prima volta dopo la mia elezione a capo del Consiglio ecumenico delle Chiese in qualità di Segretario generale. Sono perfettamente cosciente, però, che esistono – ormai da diversi anni – legami di amicizia e di collaborazione fra la comunità e il Consiglio ecumenico delle Chiese. Senza alcun dubbio, si tratta di legami tessuti sulla trama del nostro impegno comune per la stessa causa e sul medesimo cammino verso l’unità delle Chiese. A questo proposito vorrei affermare ancora una volta che la preghiera di Gesù in Giovanni 17, “perché siano una cosa sola”, resta il fondamento del Consiglio ecumenico delle Chiese e, ad un tempo, il suo fine. La questione dell’unità non è affatto superata; anzi, più che mai è e deve restare all’ordine del giorno del Consiglio ecumenico, delle Chiese stesse, e del movimento ecumenico nel suo insieme. Così, i nostri legami di collaborazione, le nostre relazioni ecumeniche, le nostre sinergie con un gran numero di Chiese, di istituzioni e di movimenti acquistano un’importanza capitale. È in questo spirito che vorrei esprimere il nostro grande apprezzamento per il fatto che la Comunità monastica di Bose sia divenuta uno strumento prezioso per lo sviluppo e il rafforzamento delle relazioni ecumeniche, per l’incoraggiamento e l’avanzamento del dialogo teologico, per vivere l’esperienza concreta della condivisione spirituale. Il XVIII Convegno di spiritualità ortodossa, che cercherà di approfondire il tema “Comunione e solitudine”, offrirà senza dubbio a diversi teologi di fama l’occasione di attingere ai tesori teologici e spirituali dell’oriente e dell’occidente, e di presentare nuove piste di riflessione e nuove risorse che daranno nuovo vigore ai nostri sforzi. Personalmente, vorrei suggerire la croce, la croce del nostro comune Signore e Salvatore Gesù Cristo, come possibile chiave di lettura per il tema del convegno “Comunione e solitudine”. Non vi è solitudine più tragica di quella di Gesù sulla croce: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Sal 22,1). Eppure, nel profondo del suo

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significato, questa solitudine è condivisa con l’umanità intera. Non c’è dubbio che i grandi maestri spirituali siano coloro che si sono sentiti interpellati da questa immagine di Gesù abbandonato e che hanno deciso di portare la loro croce e di seguirlo, perché hanno compreso che la croce è, in realtà, il segno per eccellenza che Dio è con noi. Questo significa che non c’è vera solitudine per quanti decidono di seguire il cammino della croce, poiché essi vedono la loro esistenza colmata da Dio. Non sono mai più soli. L’amore incondizionato di Dio li accompagna, li rafforza, li sostiene. La croce permette loro di vivere l’amore di Dio verso ogni essere umano e verso la creazione, anche nella solitudine, in un modo radicalmente altro, profondo, reale, irriducibile. Vivere l’amore di Dio potrebbe essere sinonimo di ricevere con gratitudine il dono della croce, questo dono che lega i cristiani gli uni agli altri e li unisce nel ricordo della loro chiamata a portare la croce gli uni con gli altri. Questa vocazione costituisce, infatti, il fondamento della comunione, l’imperativo di impegnarsi gli uni con gli altri e di operare insieme per assicurare quella comunione che è il nostro fine ultimo. Nel deserto o nella loro cella monastica, i grandi spirituali hanno vissuto questo desiderio ardente della comunione con i fratelli e le sorelle, per i quali hanno pregato incessantemente, che hanno accolto con delicatezza e disponibilità, che hanno sostenuto e con i quali hanno a volte anche condiviso le loro croci. Sono felice che, anche quest’anno, una mia collega sia presente in mezzo a voi. Sarà lei a trasmettervi i nostri saluti più cordiali e l’assicurazione delle nostre preghiere per il buon esito del vostro convegno. Vostro nel Signore, Pastore Olav Fykse Tveit Segretario generale

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Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani

Città del Vaticano, 2 settembre 2010

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A fratel Enzo Bianchi, priore di Bose, ai fratelli e alle sorelle di Bose e ai partecipanti al XVIII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa. Sono lieto, all’inizio del mio ministero come presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, di poter farmi presente con questo messaggio a lei, alla comunità e ai partecipanti al convegno. A nome del Pontificio consiglio e a nome mio personale voglio rivolgere a tutti i miei cordiali saluti in Cristo. Sin dall’inizio, nell’ormai lontano 1993, il nostro Pontificio consiglio ha guardato con vivo interesse i Convegni ecumenici internazionali di spiritualità ortodossa promossi dal Monastero di Bose. Particolarmente felice mi sembra la scelta di dedicare la propria attenzione alla spiritualità. Al centro della vita cristiana, infatti, vi è sempre la dimensione spirituale che illumina poi tutti gli altri aspetti dell’esperienza ecclesiale. Approfondire la spiritualità della Chiesa ortodossa è la chiave giusta per imparare a conoscere meglio la vita di questa Chiesa. Anche per questo motivo, credo, nel corso degli anni i convegni hanno rappresentato uno straordinario spazio di incontro e di scambio, di studio e di riflessione per cristiani provenienti da diverse Chiese e Comunità ecclesiali. Quest’anno il convegno celebra la sua XVIII edizione e rivela una maturità sempre crescente, come ognuno può giudicare considerando la ricchezza del programma, l’autorevolezza dei relatori e la rilevanza del tema “Comunione e solitudine”. La dialettica insita nei due termini del titolo del convegno rimanda immediatamente al rapporto, a volte non privo di tensioni, tra vita cenobitica e vita eremitica, che esiste nella tradizione monastica. Al tempo stesso, però, è chiaro che comunione e solitudine sono aspetti che riguardano non solo l’esperienza monastica, ma anche l’esistenza cristiana in generale e perfino l’uomo stesso. Da questo punto di vista, la tematica

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del convegno è di estrema attualità. Nella società contemporanea, infatti, tanti uomini e donne sembrano aver risolto tragicamente questa tensione dialettica, provando a sopprimerla. Assistiamo così ad una diffusa incapacità di vivere positivamente l’esperienza della solitudine, ma anche alla difficoltà di vivere esperienze di vera comunione. Ritengo, pertanto, davvero prezioso lo scopo di questo convegno, che aiuterà a comprendere in modo più approfondito come la Chiesa ortodossa, sia greca che slava, ha cercato e continua a cercare di conciliare comunione e solitudine e permetterà di cogliere il contributo che il cristianesimo nelle sue diverse tradizioni può offrire all’uomo di oggi per uscire dalla crisi nella quale sembra essere sprofondato. Sono sicuro che il convegno impartirà in tal modo un ulteriore slancio nel cammino verso l’unità dei cristiani secondo la volontà del nostro Signore Gesù Cristo. A lei, fratel Enzo, e a tutti i partecipanti formulo i miei migliori auguri per il pieno successo di questo convegno, assicurando la mia preghiera perché il Signore vi conceda l’abbondanza dei suoi doni e vi faccia sperimentare la gioia dello stare insieme come fratelli. ✠ Kurt Koch Presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani

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Saluto del Cardinale Achille Silvestrini

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Bose, 11 settembre 2010

Da anni i convegni ecumenici di spiritualità ortodossa sono diventati un luogo di incontro tra le Chiese d’oriente e quelle d’occidente. Qui vescovi, presbiteri, monaci e monache si incontrano nel nome di Cristo Gesù. È lui che sta in mezzo a noi per lo scambio dei doni. I doni che scambiamo tra noi sono doni ricevuti da Dio nostro Padre, non sono nostri. Questi doni li riceviamo gli uni per gli altri. In altre parole: ormai non possiamo più considerarli gelosamente come un possesso esclusivo della nostra propria tradizione spirituale. Un dono di Dio non condiviso con gli altri cristiani inaridisce. È proprio quello che ci offre anche questo XVIII Convegno di Bose su “Comunione e solitudine”. Viviamo una comunione nello Spirito santo imparando gli uni dagli altri, ringraziando il Signore per i doni che lui ha fatto e fa alle Chiese di Dio per la sua gloria. La vita consacrata, come ogni vita cristiana, comporta una necessaria solitudine. Per tanta gente, anziana e giovane, la solitudine è oggi una sofferenza. Sarebbe bene non dimenticare questa sofferenza dell’uomo che non trova più senso nella vita, perché ha l’impressione di non essere più utile e amabile per nessuno. Qui noi cristiani siamo chiamati a mostrare concretamente che la solitudine può maturare in una presenza di Dio Padre nel suo Figlio, una presenza che ci apre alla vita condivisa nelle nostre Chiese, nelle nostre comunità religiose, nelle nostre famiglie. Grazie alla Comunità di Bose di offrirci un esempio di solitudine e comunione. ✠ Achille Cardinale Silvestrini

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Saluto dell’Arcivescovo Antonio Mennini

Bose, 10 settembre 2010

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Eccellenze reverendissime, cari amici, organizzatori, relatori e ospiti di questo convegno, è con gioia e riconoscenza che rivolgo il mio saluto a voi tutti, nel corso di queste giornate di intenso lavoro, che quest’anno – ormai il diciottesimo – vede il vostro tradizionale appuntamento ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa dedicato al tema “Comunione e solitudine”. Un tema certamente caro alla tradizione della Chiesa d’oriente, che sente profondamente l’antinomia di ogni realtà come riflesso dell’inesauribile pienezza del Vero sotteso ad ogni realtà umana. Vorrei dunque provare a offrire alcuni spunti per la comprensione di questo “inesauribile” tema. Un tema eminentemente monastico, ma che è paradigmatico per la vita cristiana, in un’epoca in cui è evidente la priorità di una missione di testimonianza, del compito di riedificare la Chiesa non come strutture, ma come persone. Tale urgenza era stata sottolineata, tra l’altro, dal Santo padre Benedetto XVI durante la visita nella Repubblica ceca, osservando che “la fede e la speranza, nell’epoca moderna, hanno subito come uno ‘spostamento’, perché sono state relegate sul piano privato e ultraterreno, mentre nella vita concreta e pubblica si è affermata la fiducia nel progresso scientifico ed economico … L’uomo ha bisogno di essere liberato dalle oppressioni materiali, ma deve essere salvato, e più profondamente, dai mali che affliggono lo spirito. E chi può salvarlo se non Dio, che è amore e ha rivelato il suo volto di Padre onnipotente e misericordioso in Gesù Cristo?”. Ora questo “spostamento” cui accenna il Papa Benedetto XVI, dalla fede in Cristo alla fiducia nelle sole capacità dell’uomo, in un progresso scientifico ed economico, è un cambiamento del metodo originario del cristianesimo, presumendo di rimpiazzarlo con le proprie capacità. Al dato originale, che consiste nel fatto che l’uomo non si fa da sé, si è sostituita la pretesa che l’uomo possa farcela da sé. Questo implica un tradimento della natura dell’uomo, che è fatto per Dio, e genera una deformazione in tutti gli aspetti della vita cristiana.

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Non di rado si può vedere un cristianesimo senza Cristo; Cristo viene relativizzato come uno dei tanti geni religiosi dell’umanità. Ma c’è anche un cristianesimo senza Chiesa. In questo caso, non essendo immanente l’oggettività di Cristo, si scade in un soggettivismo che tende a esasperare gli aspetti profetici ed escatologici. Se poi si assolutizza una giusta lotta contro la mentalità mondana, il cristianesimo rischia di apparire come “rifugio”, preservato dalle fatiche e dal dramma della vita quotidiana. Si rischia così un infantilismo o uno spiritualismo. D’altro canto, se il cristianesimo asseconda la cultura mondana, che ha distrutto il valore dell’appartenenza, e non affonda più le sue radici nella bellezza della tradizione, si generano nella comunità persone che hanno il respiro corto, sole, vuote e infelici, definite da una incompiutezza e quindi bisognose di appoggi sostitutivi. Ora, in queste circostanze, come riprendere il metodo originario? Come essere contemporanei all’avvenimento di Cristo? È impossibile con le nostre sole forze: noi non possiamo creare l’avvenimento cristiano, esso è un puro dono, è una grazia, possiamo solo riconoscerlo lì dove è. Per questo occorre un cuore povero di spirito, mendicante, attento ai segni dei tempi, attento ai carismi che lo Spirito santo suscita nel tempo della Chiesa. La “comunità-comunione” è fondamentale nella concezione del soggetto, nella concezione della persona. Perché la comunità non è nient’altro che l’espressione oggettivata di quella comunionalità che è parte della persona, che è una dimensione della persona. La comunità, cioè, è prima “dentro” la persona, non fuori dalla persona. La comunità è un fattore che definisce che cosa sono io, che io appartengo! “Io appartengo” vuol dire che il rapporto con l’Altro è definitivo della mia persona. La “comunità”, dunque, non è intesa come la “propria compagnia”, ma come “parte di sé”, come parte originante della propria persona, e perciò parte di quella devozione che dobbiamo a Cristo. Il rapporto tra me e Cristo è costitutivo della mia persona; allora la comunionalità attraverso cui si realizza il rapporto di Cristo con me è una dimensione della mia persona. È per questo che san Paolo diceva: “Tutti voi che siete stati battezzati in Cristo vi siete immedesimati con Cristo. Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né uomo né donna, ma tutti voi siete uno, una persona sola, in Cristo Gesù” (cf. Gal 3,27-28). E anche: “Anche noi, pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e, ciascuno per la sua parte, siamo membra gli uni degli altri” (Rm 12,5).

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Allora la comunionalità è fondamentale nel modo di percepire e di conoscere, è una conoscenza nuova dell’io. Perché l’io si ricompone, si riunifica, trova la sua verità davanti al tu di Cristo presente che si dona infinitamente a noi, e che pur permanendo nella forma della comunità ecclesiale la supera continuamente e infinitamente. In altre parole, l’antinomia “comunione-solitudine” è quella che i padri orientali chiamavano “via regale”. Un’espressione strana, che potrebbe sembrare addirittura inappropriata se non fosse che richiama le porte regali dell’iconostasi, attraverso le quali ci vengono incontro il vangelo, l’eucaristia e cioè quel Cristo che è via e meta del nostro cercare, e se non fosse soprattutto che “via regale” è un’espressione entrata nella tradizione cristiana per definire – come dice Leclercq – la ricerca dell’uomo al fine di superare la dissipazione di chi non sa cosa cercare per indurlo a unirsi a Dio solo. ✠ Antonio Mennini Nunzio apostolico Rappresentante della santa Sede presso la Federazione russa

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Saluto in apertura del Convegno

Bose, 8 settembre 2010

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Amatissimi metropoliti e vescovi, amatissimi padri, amici e ospiti, con la benedizione del Signore nostro, benedizione che è grazia e aiuto, ci ritroviamo ancora una volta numerosi per questo convegno, per meditare insieme su temi della vita spirituale. Molti di voi hanno partecipato ai convegni passati, altri sono venuti qui nel Monastero di Bose per la prima volta. Non possiamo far altro che innalzare il nostro ringraziamento al Signore che ci dà la possibilità di incontrarci nella fraternità e nella comunione, nella ricerca di una comunione ancora più forte, di una fedeltà perseverante al vangelo. Il nostro ringraziamento si indirizza anche al Patriarca Bartholomeos I di Costantinopoli e al delegato metropolita Kallistos di Diokleia, che è qui in mezzo a noi, al Patriarca Kirill I di Mosca e di tutta la Russia, al metropolita Ilarion presidente del dipartimento delle relazioni estere e alla delegazione inviata dal Patriarca, all’arcivescovo Feognost di Sergiev Posad e a Feofilakt di Brianskij e Sevs, al vescovo Nazarij di Vyborg, superiore della Lavra di Alexandr Nevskij: li ringraziamo per il patrocinio di questo convegno, per le delegazioni che hanno inviato e perché è grazie alla loro benedizione che, ormai da anni, possiamo ritrovarci in occasione di questi convegni ecumenici internazionali. La nostra gioia si accresce di anno in anno soprattutto perché le Chiese presenti sono molte e con fedeltà mandano i loro delegati. Io voglio ricordarle non per farne semplicemente un elenco ma per far risuonare il loro nome nella comunione ecclesiale, nella comunione dei santi della terra e del cielo e sentire che in questo convegno siamo veramente avvolti da una grande nube di testimoni che sulla terra rendono testimonianza all’unico nostro Signore Gesù Cristo. Sono presenti tra di noi: il Patriarcato di Antiochia, rappresentato da vari monaci; la Chiesa ucraina con Vladimir di Robinski inviato da Sua Beatitudine Volodymyr di Kiev e padre Kyrill Hovorun; l’esarcato di Bielorus-

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sia, presente nella persona del vescovo Stefan di Turov, inviato dal metropolita Filaret di Minsk; l’Orthodox Church of America, presente con alcune monache; il Patriarcato di Serbia con il vescovo Irinej di Ba™ka della diocesi di Novi Sad che è accompagnato da quattro monaci di Kovilj e padre Vassilije Grolimund, sempre fedele ai nostri convegni; il Patriarcato di Romania con il metropolita Serafim di Germania, delegato del Patriarca Daniel; il Patriarcato di Bulgaria rappresentato dal metropolita Grigorij di Veliko Ta˘rnovo e dal vescovo Kiprian di Traianopol, accompagnati da una delegazione di presbiteri e professori della Facoltà teologica di Sofia; l’arcidiocesi ortodossa di Italia del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli con l’archimandrita Atenagora; la Chiesa di Grecia, con Ignatios di Dimitriados, delegato del Santo Sinodo e dell’Arcivescovo Ieronimos di Atene e di tutta la Grecia; il metropolita Daniel di Kessariani e il vescovo Ioannis di Thermopyli; la Chiesa apostolica armena, con padre Ruben Zagarian inviato dal Catholicos supremo Karekin II; la Chiesa di Inghilterra con il canonico Jonathan Sutton, delegato dell’Arcivescovo di Canterbury Rowan Williams, e il canonico Hugh Wybrew; il Consiglio ecumenico delle Chiese presente con la delegata del Segretario generale Tamara Grdzelidze; il cardinale Achille Silvestrini, prefetto emerito della Congregazione delle Chiese orientali; il Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani con il segretario Brian Farrell, padre Milan æust, don Andrea Palmieri, suor Barbara Matrecano; l’arcivescovo Piero Marini, presidente del Pontificio comitato per i congressi eucaristici internazionali; monsignor Mansueto Bianchi, vescovo di Pistoia e delegato della Conferenza episcopale italiana per l’ecumenismo; Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea, in rappresentanza dell’episcopato piemontese; monsignor Massimo Giustetti, vescovo emerito della nostra diocesi di Biella; monsignor Gabriele Mana, ordinario del luogo; monsignor Luigi Bettazzi, uno dei primi vescovi che ci ha amati e ci ha compresi. La presenza di monaci d’oriente e d’occidente anche quest’anno è significativa e ce ne rallegriamo perché questa comunione tra monaci d’oriente e d’occidente può essere uno strumento in vista dell’unità della Chiesa e per approfondire la spiritualità cristiana di cui il nostro tempo ha bisogno. Ci sono monaci provenienti dalla Russia, dalla Siria, dalla Grecia, dalla Serbia, dalla Romania, dal Belgio, dalla Francia, dall’Inghilterra, dall’America, dall’Italia, dall’Ungheria, dalla Germania e dalla Svizzera. Il tema comunità e solitudine interessa i monaci, ma interessa tutta la Chiesa e interessa gli uomini di oggi i quali vivono una situazione di solitudine non feconda, di isolamento per mancanza di comunione e soffrono di una massificazione che

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impedisce loro quella sinfonia della comunicazione che può portare a un’umanizzazione e a una vita spirituale interiore intensa. Il nostro più sentito ringraziamento va anche al comitato scientifico che nel corso dell’anno si raduna per organizzare questo nostro convegno. Questa è la composizione della nostra assemblea; preghiamo gli uni per gli altri nella comunione dei santi del cielo e della terra. Un caloroso benvenuto a tutti. La comunità vi accompagna con la sua diaconia e prega perché il convegno porti frutto secondo la volontà di Dio.

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Enzo Bianchi Priore di Bose

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CHIESA ED ESPERIENZA MONASTICA

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Irinej Bulovic´ *

Nel monachesimo antico l’eucaristia era celebrata da un vescovo o anche da un presbitero che avesse ricevuto la benedizione del vescovo e allora si manifestava che anch’essi, come gli altri cristiani, erano membri della comunità ecclesiale. Dal iv secolo in poi, però, sorgono i grandi cenobi; il deserto egiziano si popola di monaci e i rapporti tra monaci e chiesa diventano più difficili. I vescovi cominciano a inviare uno o più presbiteri a celebrare l’eucaristia per le esigenze delle comunità monastiche. In tal modo si mantiene la comunione con la chiesa locale. Più tardi sorge l’esigenza di ordinare alcuni monaci perché possano celebrare la divina liturgia. Fino ad allora esisteva la pratica della comunione al corpo e al sangue di Cristo in assenza del presbitero, ma a partire dal iv secolo ci sono ordinazioni di presbiteri tra i monaci. Non fu facile, perché i monaci non amavano essere ordinati. Il patriarca Teofilo talvolta cercava di imporre la sua volontà con la forza e alcuni monaci, poiché chi aveva difetti fisici non poteva essere ordinato, si mutilavano naso e orecchi pur di sfuggire all’ordinazione. I vescovi della chiesa ordinavano monaci per una reale necessità della chiesa. Durante la grave crisi ariana, che sconvolse la chiesa per più di un seco* Metropolita di Ba™ka, della chiesa ortodossa serba. Traduzione dall’originale greco. Testo non rivisto dall’autore.

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Irinej Bulovic´

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lo, anche Atanasio il Grande chiamò numerosi monaci all’episcopato. Al monaco Draconzio – che, come venne a sapere di essere stato eletto vescovo, si nascose –, indirizzò uno scritto supplicandolo di rivedere il proprio atteggiamento, di volgere gli occhi ai bisogni della chiesa. Ritrarsi significava lasciare spazio agli ariani. Scrive: Pensa alla chiesa: non avvenga che a causa tua molti piccoli abbiano a patire scandalo e altri trovino la scusa per ritrarsi … Se tutti avessero ragionato come quelli che ora consigliano te, come avresti potuto diventare cristiano in mancanza di vescovi? Se poi quelli che verranno dopo avranno anch’essi lo stesso modo di pensare, come potranno sussistere le chiese1?

Gli ricorda l’esempio dell’apostolo Paolo che pur dicendo: Non sono degno di essere chiamato apostolo (1Cor 15,9), consapevole del dono ricevuto e non ignaro di colui che glielo aveva donato, scriveva: Guai a me se non evangelizzo! (1Cor 9,16)2.

E prevenendo le sue obiezioni sul valore dell’ascesi e della lotta spirituale proprie della vita monastica, ammonisce: Anche essendo vescovo puoi patire la fame e la sete come Paolo (cf. 1Cor 4,11), puoi non bere vino come Timoteo (cf. 1Tm 5,23), digiunare di frequente come Paolo (cf. 2Cor 11,27) … Conosciamo infatti vescovi che digiunano e monaci che mangiano; conosciamo vescovi che fanno prodigi e monaci che non ne compiono affatto … Ma ovunque vi è da lottare. La 1 Atanasio di Alessandria, Non disertare il ministero. Epistola ad Dracontium 3-4, a cura di L. Cremaschi, Bose 1995 (Testi dei padri della chiesa 16), pp. 24-25. 2 Ibid. 4, p. 25.

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Chiesa ed esperienza monastica

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corona non dipende dal luogo, ma viene attribuita secondo le azioni3.

Il monachesimo fa parte della comunità eucaristica locale, è come una sorta di parrocchia sotto l’autorità del vescovo. Ancor oggi al Monte Athos la maggioranza dei monaci non sono ordinati, ma nel corso della storia, con l’aumento del prestigio di chi conduceva vita monastica, si crea l’idea che il monachesimo rappresenti il terzo ceto tra i laici e i presbiteri. Questa visione certamente non è corretta. I monaci, se sono ordinati appartengono al clero, altrimenti al popolo di Dio. In occidente la stima nei confronti dei monaci porta alla richiesta che tutti i presbiteri siano celibi e tale tradizione esiste tuttora. In oriente i monaci acquisirono un prestigio ancor maggiore durante l’iconoclasmo. Il concilio in Trullo chiese che i vescovi della chiesa fossero celibi. Tra i semplici fedeli la popolarità dei monaci crebbe talmente che ancor oggi è al di sopra degli onori tributati ai vescovi. La gente ritiene che un vescovo sia bravo se ama i monaci. È una mentalità assai diffusa. Nella chiesa occidentale l’evoluzione è andata ancora più avanti; abbiamo il fenomeno di una generale esenzione dei monaci dalla giurisdizione del vescovo con la creazione di ordini monastici indipendenti che finiscono per costituire organismi che obbediscono a Roma e non sono più sotto la giurisdizione della chiesa locale, rimanendo tuttavia in comunione con essa. In tal modo i religiosi esercitano l’attività pastorale nella diocesi pur senza essere sottomessi al vescovo. È una prassi che talvolta porta ad attriti, come accade ad esempio tra i francescani e il vescovo nella chiesa locale di Erzegovina. Ma anche nella chiesa ortodossa, dove abbiamo il Monte Athos, che costituisce una regione autonoma: rientra nella diocesi di Ieris-

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Ibid. 9, p. 29.

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Irinej Bulovic´

sos, ma dipende dal patriarcato di Costantinopoli. Questo può creare problemi se non c’è serietà e maturità tra i monaci. Al Monte Athos questa maturità c’è tranne che ad Esphigmenou. A parte casi rari e storicamente giustificati, la dipendenza dal vescovo locale è oggi un’esigenza. Del resto la tensione tra clero e monaci rappresenta un aspetto della tensione generale tra istituzione e carisma. Tra l’esigenza di disciplina di una chiesa locale e il fervore dell’ascesi monastica si deve trovare una soluzione. A volte i monaci in nome dell’obbedienza al padre spirituale negano l’autorità del vescovo, e ciò è grave. D’altra parte, i vescovi devono rispettare l’autonomia interna del monachesimo; a volte questo non succede, i vescovi si intromettono nelle questioni del monastero e finiscono per essere di danno più che di aiuto. Il monachesimo autarchico si distacca dal vescovo locale, è indifferente alla comunione con la chiesa. Al Monte Athos, ma anche nella chiesa cattolica credo, ci sono fenomeni analoghi; i monaci si considerano una santa inquisizione, si ergono a giudici di tutta la chiesa. Ma che senso ha digiunare e vegliare se si diventa giudici di tutti gli altri? Questi circoli monastici affermano che la gerarchia scivola nell’eresia. Altri circoli vivono una sorta di rinascita della predicazione catara. Il mondo di Dio è composto da puri, tutti gli altri sono impuri. È diffuso anche il fenomeno del culto della personalità; alcune guide monastiche seguite da discepoli immaturi diventano dei guru e, invece di stroncare alla radice questo pericoloso culto, lo alimentano e si compiacciono di essere visti come grandi padri spirituali. Come già è accaduto in tempi antichi, finiscono per formarsi delle chiese parallele, gruppi di cristiani che non riconoscono l’autorità della gerarchia. Vi sono numerosi gruppi di questo genere in Russia, ma anche in Serbia dove purtroppo hanno anche il sostegno di un nostro vescovo. Alcuni si propongono come adoratori dell’ultimo zar. Sarebbe utile ripensare alle decisioni emanate nel concilio di Gangra (340 ca) per ca38

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Chiesa ed esperienza monastica

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pire come far fronte a questi fenomeni. Cito, a titolo esemplificativo, alcuni canoni di Gangra: Canone 5: A proposito di quelli che non tengono in alcun conto le riunioni nelle chiese. Se uno afferma che la casa di Dio merita disprezzo, così come le riunioni che si tengono in essa: sia anatema. Canone 6: A proposito di quelli che celebrano liturgie al di fuori delle chiese. Se uno si ritiene chiesa per conto suo, al di fuori della chiesa, disprezzando la chiesa, e pretende di compiere gli atti propri della chiesa in assenza del presbitero approvato dal vescovo: sia anatema. Canone 7: Circa le offerte di frutti ecclesiastici contro la decisione del vescovo. Per le offerte dei frutti dovuti alla chiesa, se uno le vuole ricevere o offrirle contro la decisione del vescovo o di chi è incaricato di questo servizio, se non vuole sottomettersi alla decisione di quest’ultimo: sia anatema4.

Chi, fosse pure in nome della preghiera continua e dell’ascesi, disprezza la chiesa è meritevole di anatema, cioè di scomunica. L’anatema non è una maledizione o una punizione da parte dell’autorità ecclesiastica, ma è semplicemente l’esplicitazione e la conferma della scelta compiuta da chi da se stesso si esclude dalla chiesa. L’autentica santità è l’unico antidoto per superare queste crisi e queste deviazioni spirituali. I veri grandi esponenti del monachesimo ortodosso specialmente dell’Athos difendono sempre la piena comunione con la chiesa locale e quella con le chiese, senza mai porre se stessi come criterio di giudizio per quanto avviene nella chiesa. Ricordo, ad esempio, Porfirio, Paisio, Sofronio dell’Athos, Justin di Serbia e molti altri che non avrebbe-

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J. Gribomont, Saint Basile. E´vangile et église, Bellefontaine 1984, pp. 23-24.

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ro mai pensato di minacciare la comunione ritenendo che, sentendosi parte di una chiesa ideale, in nome della difesa della fede si potesse interrompere la comunione. L’ascesi, se si fossilizza e si isola e non è intesa come parte inscindibile della vita eucaristica e sacramentale, porta pericoli per la comunione tra chiesa e monachesimo. L’ascesi non giova a nulla se non introduce chi fa vita ascetica alla vita di comunione. A sostegno di quanto ho detto consentitemi di citare alcuni fatti del monachesimo antico. Di Pacomio si racconta che indirizzava a Dio delle preghiere per la pace della sua chiesa cattolica, afflitto com’era per il popolo di Dio così maltrattato e privato dell’arcivescovo Atanasio, il Cristoforo 5.

E al discepolo Teodoro che, affascinato da un rigorismo non sempre evangelico, vorrebbe aumentare i giorni di digiuno previsti per la settimana santa, risponde: La regola della chiesa è che noi digiuniamo solo due giorni, affinché conserviamo le forze per eseguire ciò che è comandato senza venir meno, cioè: la preghiera incessante, le veglie, la meditazione della legge di Dio e il nostro lavoro manuale6.

Palladio nella Storia lausiaca ci narra la vicenda di Valente, monaco nel deserto egiziano, che pervenne a un tale grado d superbia da essere ingannato dai demoni … tanto si gonfiò di alterigia da disprezzare perfino la partecipazione ai misteri.

5 Vita boairica di Pacomio 96, in S. Pachomii vita bohairice scripta, a cura di Th. Lefort, CSCO 89, Louvain 1925, p. 165. 6 Ibid. 35, p. 105.

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Chiesa ed esperienza monastica

Un giorno in cui il presbitero Macario gli inviò parte dei dolci che aveva ricevuto in offerta,

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afferrò colui che li aveva portati e lo ingiuriò e lo percosse, aggiungendo: “Va’, e di’ a Macario: ‘Non sono un tuo inferiore, perché tu mi debba mandare un’offerta’”.

Per inganno del demonio si convinse di aver visto Cristo avvolto di luce e accompagnato da miriadi di angeli. Si presentò allora in chiesa dichiarando davanti alla comunità radunata: “Io non ho bisogno di comunicarmi: oggi ho veduto Cristo”. I padri lo curarono fino a guarirlo, “eliminando la sua presunzione con le preghiere”7. Questo non vuol dire che non esistano reali esperienze carismatiche, ma costui era preso da follia. Lo scopo del demonio era di staccarlo dalla comunione con la chiesa; non ci riesce perché, per quanto l’uomo cada, se rimane in comunione con gli altri cristiani ha sempre la possibilità di pentirsi e il pentimento è la virtù cristiana per eccellenza.

7 Palladio, La storia lausiaca 25, a cura di G. J. M. Bartelink, Milano 1974, pp. 135-137.

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COMUNIONE E SOLITUDINE: I DATI BIBLICI E I LORO SVILUPPI NELLA CHIESA

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Petros Vassiliadis*

Il tema che mi è stato assegnato certamente risponde a numerosi parametri. In una serie di miei studi1 ho messo mano a descrivere lo sviluppo dell’autocoscienza ecclesiologica del cristianesimo dai suoi primi passi nella storia fino all’epoca odierna, in cui l’espressione comunitaria e collettiva per eccellenza dell’evento eucaristico si è gradualmente trasformata in una questione di salvezza individuale (da qui sorge la necessità di un rinnovamento liturgico); come anche la testimonianza della chiesa ad extra si è trasformata in lotta contro le conquiste dello spirito umano (da qui la necessità di un “mutamento del modello missionario”). Uno dei parametri del nostro tema è quello del rapporto tra “individuo” e “comunione”. Un altro è quello del rapporto tra spiritualità “liturgica” e “monastica”. Cercheremo dunque di toccare ambedue le contrapposizioni menzionate. L’individuo, come è noto, costituisce uno degli elementi portanti fondamen* Teologo ortodosso, insegna Nuovo Testamento presso l’Università “Aristotele” di Tessalonica. Traduzione dall’originale greco. 1 Cf. P. Vassiliadis, Lex orandi. Λειτουργικ θεολογα κα λειτουργικ ναγννηση, Athinai 2005; Id., Παλος. Τομς στ θεολογα του I, Thessaloniki 2005; Id., Τ λγια το Iησο. Τ ρχαιτερο ε"αγγλιο, Athinai 2005; Id., Εντητα κα Μαρτυρα, Thessaloniki 2007.

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Petros Vassiliadis

tali della modernità, mentre la comunione è la pietra angolare del cristianesimo, che tuttavia può slittare nel “comunitarismo”, vanificando completamente il soggetto e sottostimando o mostrando indifferenza per i diritti umani e la libera formazione della personalità umana a livello individuale e collettivo. Per la chiesa ortodossa in particolare, che purtroppo è dominata per lo più da concezioni premoderne, il problema è ancora più grave poiché la sua incapacità – e, in certi casi, il suo rifiuto – di pervenire a un dialogo fecondo e a un rapporto chiaro con i dati e gli ideali della modernità – come l’individuo, la ragione, il soggetto, la scienza, e anche la secolarizzazione nell’accezione sociologica del termine – comporta in prospettiva che l’ortodosso viva una situazione di schizofrenia ma, fatto ancor più serio, che la sua testimonianza nel mondo risulti inefficace e soprattutto non corrispondente all’autentica tradizione cristiana. Indubbiamente tale problematica ha a che fare con la coesistenza nella vita spirituale della chiesa di comunione e solitudine, dal momento che fin dalle origini il cristianesimo ha fatto esperienza di questo rapporto dialettico tra comunione e solitudine. Chi legge il manuale di spiritualità cristiana in tre volumi Christian Spirituality 2 constata immediatamente come, tra le varie espressioni della spiritualità cristiana, quella monastica e quella liturgica occupino un posto di primaria importanza. Del resto, sono due le tendenze che molto presto si svilupparono nell’ecclesiologia cristiana: quella terapeutica o purificatrice e quella eucaristica o liturgica, che bene o male sono state storicamente 2 Cf. Christian Spirituality I-III, a cura di J. Raitt et al., New York 1985-1989. Quest’opera in tre volumi fa parte di una serie di venticinque volumi che trattano della spiritualità universale: World Spirituality. An Encyclopedic History of the Religious Quest, a cura di E. Cousins. Essa si aggiunge a una serie di altre simili, come Histoire de la spiritualité chrétienne I-III, a cura di L. Bouyer et al., Paris 1960-1966. Si veda anche per la spiritualità orientale L. Gillet, Introduction à la spiritualité orthodoxe, Paris 1983, e T. √pidlík, La spiritualité de l’Orient Chrétien I-II, Roma 1978-1988.

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Comunione e solitudine: i dati biblici ...

legate con le due espressioni di spiritualità cristiana sopra ricordate3. E queste due tendenze ruotano attorno a tre termini o assi che a prima vista sembrano, per lo meno concettualmente, diametralmente opposti: chiesa-liturgia-comunione, da una parte, termini a evidente carattere collettivo; monachesimo-anacoretismo-eremitismo, dall’altra parte, termini che si richiamano al polo della solitudine. Di conseguenza, solo attraverso la relazione dialettica e la contrapposizione di queste tre componenti basilari del cristianesimo si può giungere a una piena conoscenza del tema in questione4. Tenterò, dunque, molto brevemente, di analizzare criticamente lo sviluppo delle due espressioni essenziali della spiritualità cristiana, come anche il rapporto dialettico tra comunione e individuo, a cominciare dalla presentazione dei termini biblici “solitudine” e “comunione”; quindi passerò ai parametri teologici del concetto di comunione nell’at e nel nt e del successivo sviluppo della spiritualità orizzontale (comunitaria) e verticale (individuale) così come esse si esprimono nella realtà ecclesiale eucaristico-liturgica e monastico-eremitica.

3 Cf. I. Zizioulas, “The Early Christian Community”, in Christian Spirituality, I. Origins to the Twelfth Century, a cura di B. McGinn e J. Meyendorff, New York 1985, pp. 23-43; Id., Θματα &κκλησιολογας, Thessaloniki 1991, pp. 25 ss. 4 Proprio per questo motivo in un altro studio sull’argomento ho affermato che l’autentica spiritualità cristiana – nonostante per definizione si riferisca “alla dimensione interiore dell’essere umano, che nelle diverse tradizioni si chiama ‘spirito’ … là dove la persona è aperta alla dimensione trascendente e sperimenta la più alta spiritualità” (dalla definizione di World Spirituality, in Christian Spirituality I, p. xiii) – si ricollega molto di più allo Spirito santo, senza certamente che questo significhi che misconosciamo il significato della persona umana (cf. P. Vassiliadis, “La pneumatologia ortodossa e la contemplazione”, in Vedere Dio. Incontro tra Oriente e Occidente, a cura di Y. Spiteris e B. Gianesin, Bologna 1994, pp. 83-97).

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Il termine “solitudine” nella Bibbia

Il primo utilizzo dei termini éremos, eremía, eremóo nell’at 5 è geografico: alludono a un luogo solitario. Nel Pentateuco leggiamo: “Dall’Egitto Abram risalì, con la moglie e tutti i suoi averi; Lot era con lui, nel deserto” (Gen 13,1). E ancora al momento dell’esodo dall’Egitto: “Il Signore disse ad Aronne: ‘Va’ incontro a Mosè nel deserto” (Es 4,27). Qui, certamente, è sottintesa anche la dimensione dell’esichia. Anche nel nt troviamo che Gesù cerca un luogo disabitato per incontrare il Padre e i suoi discepoli nella solitudine e nell’esichia (cf. Mt 14,13; Mc 1,45; 6,31 e passim), principalmente per pregare: “Al mattino presto si alzò quando era ancora buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava” (Mc 1,35). L’evangelista Luca riporta significativamente: “Ma egli si ritirava in luoghi deserti a pregare” (Lc 5,16). La peregrinazione di Israele nel deserto del Sinai viene tuttavia definita come un tempo di disobbedienza (cf. Eb 3,8-9; At 7,41-43), ma anche come tempo dell’agire di Dio (cf. At 7,36; Gv 3,14; 6,31.49: “I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti”) e tempo di insegnamento (cf. At 7,38), mentre parallelamente il deserto costituisce anche una delle regioni geografiche della missione apostolica. L’apostolo Paolo riferisce: “Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto” (2Cor 11,26), mentre a proposito dei martiri della fede l’autore della Lettera agli Ebrei ricorda: “Vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra” (Eb 11,38). 5 Per le citazioni dell’Antico Testamento facciamo riferimento alla versione dei lxx [N.d.T.].

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Comunione e solitudine: i dati biblici ...

Come nel giudaismo, così anche nel nt la solitudine è vista come il luogo dal quale inizia la nuova epoca escatologica (cf. At 21,38 e anche Mt 24,26; Ap 12,6.14). Questo, per molti esegeti, è il significato delle tentazioni di Gesù per quaranta giorni nel deserto che non sembra debbano essere messi in relazione con i quarant’anni nel deserto (cf. Dt 8,2), perché qui non si può parlare di tentazione, ma di un tempo di disobbedienza6. L’elemento principale nel nt è dato dal fatto che Giovanni Battista comincia la sua missione nel deserto: “Vi fu Giovanni che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per la remissione dei peccati” (Mc 1,4 e par.) come “voce di uno che grida nel deserto: preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri” (Is 40,3)7. Il dato più significativo è tuttavia che nei grandi profeti il deserto e la solitudine sono generalmente segni del castigo di Dio. Ezechiele, ad esempio, profetizza: “Ridurrò le tue città a una solitudine, e tu diventerai un deserto; così saprai che io sono il Signore” (Ez 35,4); e: “In solitudine perenne ti ridurrò e le tue città non saranno più abitate e saprai che io sono il Signore” (Ez 35,9). Così anche Isaia: “Le genti e i re che non vorranno servirti periranno e le genti saranno rese deserte a causa della solitudine” (Is 60,12). E altrove: “Riduceva il mondo a un deserto e distruggeva le città” (Is 14,17)8. L’era messianica è inoltre caratterizzata dall’abolizione del deserto nella nuova Gerusalemme: “Fiorisca e si rallegri il deserto del Giordano. Le è data la gloria del Libano e lo splendore del Carmelo. Il mio popolo vedrà la gloria del Signore e la magnificenza di Dio” (Is 35,2); e, in un altro passo: “Prorompete 6 Sono caratteristiche le somiglianze con il digiuno di Mosè (cf. Es 34,28) e quello di Elia (cf. 1Re 19,5-8) nonostante le differenze, particolarmente nel caso di Elia in fuga. 7 Per ulteriori approfondimenti, cf. G. Kittel, s.v. “ρημα”, in Grande lessico del Nuovo Testamento III, a cura di G. Kittel e G. Friedrich, Brescia 1967, coll. 889-898. 8 Qualcosa di simile è presupposto anche negli Atti degli apostoli da parte di Luca in occasione dell’elezione di Mattia: “Sta scritto infatti nel libro dei Salmi: ‘La sua dimora diventi deserta e nessuno vi abiti, e il suo posto sia preso da un altro’” (At 1,20).

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insieme in esultanza, deserti di Gerusalemme, perché il Signore ha avuto compassione di essa e ha liberato Gerusalemme” (Is 52,9); e: “Non sarai più chiamata abbandonata, e la tua terra non sarà chiamata deserto” (Is 62,4)9.

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Il temine “comunione” nella Bibbia

Il senso prevalentemente negativo di solitudine nella letteratura biblica è controbilanciato dall’autocomprensione positiva del “popolo di Dio” come comunione. Nonostante le scarsissime ricorrenze del termine koinonía nella traduzione dei lxx (tre in tutto – Lv 5,21; 3Mac 4,6; Sap 8,18 – quando Filone, ad esempio, ne ha centotre)10, nel nt l’uso del termine è frequente (circa venti ricorrenze) e polisemantico. Nell’apostolo Paolo, in almeno tre casi, il termine ha chiaramente valore comunionale, essendo in rapporto alla colletta. Nella lettera originariamente indipendente costituita dai cc. 8-9 della Seconda lettera ai Corinti, l’Apostolo alterna i termini teologicamente pregnanti “grazia”, “comunione”, “diaconia” con l’eccellente organizzazione della colletta purtroppo sottovalutata dalla scienza biblica contemporanea: “… domandandoci con molta insistenza la grazia e la comunione a questa diaconia a vantaggio dei santi” (2Cor 8,4); “A causa della bella prova di questa diaconia renderemo gloria a Dio per la vostra obbedienza e accettazione del vangelo di Cristo e per la generosità della comunione con 9 Dove vi è un riferimento positivo, come per esempio in Geremia, ha a che fare con l’esodo dalla schiavitù e la peregrinazione nel deserto. Cf. M. V. Fox, “Jeremiah 2:2 and the ‘Desert Ideal’”, in Catholic Biblical Quarterly 35 (1973), pp. 429-440. 10 Si trovano invece i termini paralleli koinonéo (2Cr 20,35; Gb 34,8; Pr 1,11; Qo 9,4; Sap 6,23; Sir 13,1-2; 2Mac 5,20; 14,25; 3Mac 4,11); koinonós (2Re 17,11; Is 1,23; Mal 2,14; Pr 28,24; Est 8,12) e akoinónetos (Sap 14,21).

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Comunione e solitudine: i dati biblici ...

loro e con tutti” (2Cor 9,13). La stessa cosa egli ripete nella Lettera ai Romani: “La Macedonia e l’Acaia hanno voluto realizzare una forma di comunione con i poveri tra i santi che sono a Gerusalemme (Rm 15,26)”11. Nella maggior parte dei casi, certamente, il termine conserva l’abituale significato di relazione e partecipazione. Ad esempio: “… alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro” (1Cor 1,9); “Quale comunione fra luce e tenebre?” (2Cor 6,14); “Diedero a me e a Barnaba la destra in segno di comunione” (Gal 2,9); “A motivo della vostra comunione per il vangelo, dal primo giorno fino ad ora” (Fil 1,5), ma anche: “la comunione alle sue sofferenze” (Fil 3,10); “La tua comunione alla fede (cioè: alla fede che ci unisce) diventi operante” (Fm 6). A tali ricorrenze, tutte provenienti dalla letteratura protopaolina, dovremmo aggiungere anche quelle della letteratura giovannea che si limitano alla sola Prima lettera di Giovanni: “Affinché anche voi abbiate comunione con noi e la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo Gesù Cristo” (1Gv 1,3); “Abbiamo comunione con lui … abbiamo comunione gli uni con gli altri” (1Gv 1,6-7). Maggiormente significativo e singolare è l’utilizzo del termine comunione nella rara formula trinitaria “eucaristica” – parallelamente a quella “battesimale” degli ultimi versetti del Vangelo secondo Matteo (cf. Mt 28,19) –: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito santo siano con tutti voi” (2Cor 13,13; cf. anche “comunione di spirito” in Fil 2,1), indicativo del fatto che la terza persona della santissima Trinità è per eccellenza portatrice di comunione. L’uso più caratteristico nell’apostolo Paolo della parola “comunione” è quello che lega la comunione con l’eucaristia: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione

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Cf. P. Vassiliadis, Παλος.

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con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?” (1Cor 10,16). Qui abbiamo davvero uno sviluppo del concetto di comunione puramente ecclesiologico, cosa che sicuramente costituì un fattore deleterio per l’elaborazione dell’ecclesiologia di comunione, la quale ha sostanzialmente plasmato, nella storia della chiesa, la teologia eucaristica, come anche la moderna communion ecclesiology.

Parametri teologici del concetto di comunione nell’at

Dopo l’arida analisi terminologica e concettuale che abbiamo succintamente presentato, è ora certamente indispensabile anche un approfondimento teologico del concetto di comunione nella sacra Scrittura. Dobbiamo anzitutto rilevare che gli elementi basilari del concetto di comunione nel nt sono connessi con i dati fondamentali dell’at. Il cristianesimo primitivo comprese le sue origini storiche alla luce della continuità della comunità credente in quanto chiesa, come anche alla luce dell’idea di alleanza: in altre parole, in quanto comunità tenuta insieme da un’alleanza vincolante dei suoi membri con Dio e tra di loro, fondata sul ricordo degli eventi dell’esodo, durante il quale Israele visse come “popolo” la grazia liberatrice di Dio e il popolo di Israele si sentì in dovere di rendere culto a Dio che nella concreta congiuntura storica lo aveva guidato alla liberazione, alla salvezza e alla pace (shalom)12. Se il concetto di comunione del popolo di Dio nell’at si esprimeva originariamente come rendimento di grazie cultuale per la liberazione dall’oppressione, contemporaneamente aveva anche 12 Cf. P. D. Hanson, The People Called. The Growth of Community in the Bible, San Francisco 1986, p. 28.

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Comunione e solitudine: i dati biblici ...

la funzione di vincolo nella vita concreta del popolo, al fine di contrastare qualsiasi oppressione e sfruttamento del prossimo. In base a tale concetto la comunità celebrante era contemporaneamente anche comunità confessante in senso missionario. Ma quando le condizioni sociali e politiche in Israele mutarono e assunsero i tratti della monarchia, lo stesso accadde anche al concetto di comunione. Così, durante l’epoca della monarchia, l’esistenza carismatica del popolo di Dio come comunione e la modalità federale di governo furono sostituiti da canoni dominanti che influirono anche sul concetto di comunione. La legge di Dio e l’alleanza sinaitica furono sostituite dalla legge della monarchia e dalla mediazione dell’alleanza davidica e la struttura federale che si manifestava soltanto nel culto dell’unico Dio fu rimpiazzata dal concetto di nazione, il cui destino era affidato piuttosto ad alleanze politiche e sociali e a sincretismi religiosi, di solito a scapito della comunione del popolo con Dio e della sua fiducia in lui e nella sua Legge. Tra Dio e il popolo si frappose come mediatore il re di Israele. Questo ebbe come conseguenza anche l’istituzionalizzazione del culto tradizionale come espressione esclusiva di comunione del popolo con Dio. Con l’edificazione del tempio di Salomone la vita cultuale della comunità si trasformò in culto istituzionalizzato con l’indispensabile mediazione del sacerdozio, che il più delle volte collaborava con il re, mediatore di Dio in terra. È stato giustamente affermato13 che Israele sotto il dominio dei re si ritrovò in tre situazioni pericolose: l’avidità dei potenti condusse a uno sfruttamento dei più deboli; la classe gerarchica imposta dall’alto portò a una politica di oppressione dei deboli a vantaggio del potere emergente; e, infine, cosa più importante, la consacrazione ufficiale (e in molti casi, sincretistica) del culto che fu adottato per servire il re e i suoi alleati politici (eccettuato il popolo dei credenti in Dio) portò alla paga13

Cf. W. Brueggemann, The Prophetic Imagination, Philadelphia 1978.

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nizzazione di Jhwh. In questo modo il concetto di comunione cominciò a perdere il suo carattere universale ed ecumenico e a essere definito da legami tribali. Come l’alleanza davidica, con il conseguente concetto di comunione, era centrata sul rapporto individuale (quello del re) con Dio, e gli interessi collettivi erano sostituiti da quelli individuali, lo stesso accadde anche nella tradizione sapienziale14. I sapienti dell’at, come singoli individui con le loro azioni virtuose, si assumono la responsabilità davanti a Dio di provvedere alla sicurezza del re e del suo potere15. Il concetto di comunione nella sapienza dell’at fu di conseguenza trasformato in mondano, proprio perché gerarchico e istituzionalmente vincolato. I suoi interessi, come anche quelli della monarchia, si limitarono a “legge e ordine”, e all’eliminazione della corruzione che conduceva al caos sociale, allo sfruttamento economico e all’instabilità politica. Tutte queste realtà, certamente, erano la specifica conseguenza del predominio della proprietà individuale, la quale provocò la protesta e l’attività dei grandi profeti nell’ultimo terzo dell’viii secolo e, successivamente, del vii16. Amos e Osea nel regno del nord – prima del suo dissolvimento nel 722 a.C. – Isaia, Michea, Sofonia, Geremia, Abacuc ed Ezechiele in Giudea parlarono di diritto (mishpat) e di giustizia (tsedaqà), valori che si erano persi a causa della nuova legislazione sulla proprietà privata che aveva mutato, come abbiamo visto, il concetto tradizionale di comunione. Ma, oltre a tutto questo, la soppressione della giustizia e l’eliminazione dei diritti dei poveri indica per i profeti un assoluto rigetto dello stesso Dio 14

Cf. Id., In Man we Trust. The Neglected Side of Biblical Faith, Richmond 1972. La logica generale di tale individualità, certamente, non deve essere collegata con la moderna ricerca del soggetto e il sottile concetto di individualità. Qui tutto Israele non è altro che l’insieme di singoli individui, specialmente quelli provenienti dalle sue classi più ricche (cf. R. Gordis, “The Social Background of Wisdom Literature”, in Hebrew Union College Annual 18 [1944], pp. 77-118). 16 Cf. U. Duchrow, F. J. Hinkelammert, Property for People, Not for Profit. Alternatives to the Global Tyranny of Capital, Genève-London 2004. 15

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di Israele. Per il profeta Geremia, ad esempio, conoscere Dio significa essere giusti nei confronti del povero (cf. Ger 22,16). Il profeta Isaia nel vii secolo esercitò una critica infuocata sia nei confronti dei tentativi di confisca dei campi delle famiglie, sia nei confronti dell’accumulo di terra: “Guai a voi che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più spazio e così restate soli ad abitare nella terra” (Is 5,8). Sempre Isaia non esita a chiamare “ladri” (Is 1,23) gli avidi proprietari terrieri e a definire “rapina a danno del povero” (Is 3,14) la confisca delle terre dei contadini indebitati. Tale critica sociale dei profeti si unì all’appello al ritorno alla Legge di Mosè, come concezione alternativa di società, dal momento che la fede e la vita di peregrinazione nel deserto erano profondamente radicate in un’economia di uguaglianza, in una politica di giustizia e nel culto di un Dio che è trascendente (e che contemporaneamente interviene nella storia). Ciò ricordava chiaramente come il concetto di comunione che era stato plasmato dai re e dai loro consiglieri si trovava in aperta contraddizione con la volontà di Dio, quale era stata manifestata a Mosè durante l’esodo.

Parametri teologici del concetto di comunione nel nt Passando ora al nt constatiamo che qui è dominante la concezione profetica della comunione. Per questo anche nell’annuncio programmatico di Gesù a Nazaret all’inizio del suo ministero pubblico, secondo l’evangelista Luca, l’epoca messianica si identifica con l’ideale del giubileo escatologico17: “Lo Spirito del 17 Cf. M. Goutzioudis, Iωβηλα)ο *τος, Μελχισεδεκ κα / πρς Εβραους &πιστολ1. Συμβολ στ διαμορφ4ση τ5ς χριστιανικ5ς σωτηριολογας, Thessaloniki 2008.

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Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione, e mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19). È significativo che non appaia mai una proposta di Gesù di formare una comunità separata. Al contrario, la sua missione messianica si manifesta nella linea della classica tradizione jahwista come annuncio rivolto a una comunità di discepoli che credevano nel regno di Dio e nella promessa della salvezza che l’avrebbe accompagnato (cf. Mc 1,14-15 e par.), che egli definiva – in opposizione ai criteri mondani dominanti – come rinuncia ai piaceri terreni (cf. Lc 9,57-62) e culto dell’unico Dio (cf. Mt 4,9-10; 6,24). Ciò esattamente in accordo con la tradizione primitiva dello shema (“Ascolta, Israele”) e del successivo comando profetico isaiano di aver fede in Dio18. È questo il concetto di comunione che condivise anche la prima comunità cristiana, concetto che viene parallelamente interpretato sulla base dell’insegnamento, della vita e dell’opera di Cristo. Di certo l’insegnamento e soprattutto la vita e l’opera di Cristo non possono essere compresi se non alla luce delle attese escatologiche di Israele, nella sicura attesa della venuta del messia, che negli “ultimi” giorni della storia instaurerà il suo regno. Un regno, però, fondato più sulla tradizione profetica che su quella regale (e direi anche sapienziale), il cui scopo estremo era il raduno in un solo luogo del popolo di Dio disperso per formare un’unità, una comunità attorno alla sua persona, sull’etica dei precetti del giubileo messianico-escatologico. Vi è disseminata nel nt la concezione che Cristo si identificò con quel messia dell’éschaton, il quale avrebbe costituito il fulcro del raduno del popolo di Dio disperso. Nel Vangelo secondo Giovanni c’è un’importantissima testimonianza sul ruo18

Cf. P. D. Hanson, The People Called, p. 399.

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lo del messia, nella quale il suo redattore – spiegando le parole del sommo sacerdote: “È conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina il popolo intero” – sostiene che questi “profetizzò che Gesù doveva morire per il popolo, e non soltanto per il popolo, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11,50-52)19. Qui appare chiaro il superamento della concezione regale della comunione a favore di quella profetica. In sintesi, è comune convinzione di quasi tutti i teologi della chiesa primitiva che con la resurrezione di Cristo, e soprattutto con la pentecoste, l’éschaton è innestato dentro la storia poiché la comunità messianica escatologica diventa realtà tangibile tutte le volte che la chiesa, il nuovo Israele, il popolo di Dio disperso, si raduna insieme (epì tò autó), in un luogo come comunità, formando in altre parole, una comunità soprattutto per la celebrazione della divina liturgia. Con i diversi titoli messianici che scelse di applicare a sé, come per lo meno mostrano le testimonianze della tradizione cristiana antica (“Figlio dell’uomo”, “Servo di Dio”, eccetera, che per la maggior parte avevano originariamente un significato collettivo da cui deriva la cristologia della “personalità corporativa”), con il suo insegnamento compendiato nelle parabole del Regno, poiché con la sua venuta è ormai inaugurato il nuovo mondo del regno di Dio (vedi anche il profondo significato della preghiera del Signore20) e soprattutto con le sue azioni intenzionali (scelta dei dodici, eccetera), Gesù di Nazaret fu identificato con quel messia degli ultimi tempi che avrebbe costituito il centro del raduno del popolo di Dio disperso. Costituì, 19 Il concetto di riunione “insieme” (epì tò autó) del popolo di Dio disperso lo incontriamo anche in Is 66,18; Mt 25,32; Rm 12,16; Didaché 9,4 (in Padri apostolici, Agli inizi della chiesa. Didaché, A Diogneto, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Bose 1999, p. 21); Martirio di Policarpo 22,3 (in I padri apostolici, a cura di A. Quacquarelli, Roma 1978, p. 172); Clemente di Roma, Prima lettera ai corinti 12,6 (in I padri apostolici, p. 57). 20 Su questo tema, cf. S. Agouridis, 6Η &π το 8Ορους Ομιλα, Athinai 1975, pp. 88 ss.

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in altri termini, una comunione ideale, perché fosse lievito di tutta la creazione. Prima di procedere al contributo catalittico dell’apostolo Paolo per quanto concerne la comprensione del concetto di comunione, consentitemi di riferire in sintesi le peculiarità della tradizione evangelica. È quasi universalmente ammessa in ambito accademico l’esistenza di un testo protocristiano – la fonte dei detti (fonte Q), con statuto semicanonico –, dal quale era assente non solo la dimensione storica della vita e dell’opera di Gesù, così come la si incontra nei vangeli canonici, cioè come racconto della passione e della resurrezione, ma anche qualsiasi riferimento al significato salvifico della morte di Gesù. Questa, rispetto a qualsiasi altra tradizione protocristiana, si trova in corrispondenza diretta con la tradizione profetica dell’at, anche se nella forma del suo stadio primitivo (Q1) questo testo non seguiva i modelli della letteratura profetica. Secondo la fonte Q, Gesù chiama i suoi discepoli a una vita comune virtuosa in piena obbedienza alla sua interpretazione della Legge (cf. Mt 5,17-48; 7,21-24; Lc 6,20 ss.). Nell’evangelista Matteo questa nuova comunità “ecclesiale” della Legge mosaica si presenta con un ordinamento concreto e regole concrete (cf. Mt 18,15-20); significativamente essa si contrappone al supposto antilegalismo dell’apostolo Paolo. La più profonda logica dei precetti etici del Vangelo secondo Matteo si fonda sulla teologia dell’alleanza, dal momento che i nuovi membri di questa nuova alleanza devono mostrare amore per Dio, perdonando e aiutando il loro prossimo (cf. Mt 18,1-35). L’evangelista Luca sottolinea con forza due aspetti dell’insegnamento escatologico di Gesù, con i quali prende le distanze sia dagli insegnamenti apocalittici antistorici allora dominanti sia dalle visioni messianiche secolarizzate dell’epoca della monarchia. Innanzitutto il fatto dell’esperienza qui e ora della comunità di salvezza, dal momento che l’anno del Signore, il giubileo escatologico che aspettavano i profeti e che si trovava al 56

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centro della letteratura apocalittica, era ormai iniziato (cf. Lc 4,21; 19,9; 23,43). Invece di aspettare la salvezza di Dio, dunque, in un futuro indeterminato, separandosi di conseguenza dal mondo circostante, la comunità dei discepoli di Gesù è chiamata a una vita di attività comunitaria, alla quale sono invitati a partecipare anche i nemici (cf. Lc 10,25-42; 6,36). In secondo luogo, la qualità di membro del popolo di Dio si estende chiaramente anche a quelli “di fuori” (gli zoppi, i greci, i figli perduti della casa di Israele, eccetera), senza cioè le esclusioni “ufficiali” che derivavano dall’interpretazione teologica corrente di popolo eletto e finivano per determinare limitazioni comunitarie, religiose ed etniche che costituivano il presupposto alla partecipazione alla comunità dell’alleanza (cf. Lc 4,16-30; 7,36-8,21; 14,12-24; 19,1-10; 23,39-43)21. Negli Atti degli apostoli Luca, presentando la storia della chiesa, sviluppa ulteriormente il concetto di comunione. Innanzitutto la chiesa è definita come comunità missionaria; in secondo luogo come apostolica, dal momento che gli apostoli come dodici guide delle nuove dodici tribù escatologiche assumono la responsabilità del nuovo Israele; e in terzo luogo la chiesa estende la missione del Gesù storico non solo ai samaritani e ai proseliti, ma anche ai pagani. Tale comunità escatologica è caratterizzata da una composizione plurietnica. Il Vangelo secondo Giovanni rappresenta un caso particolare in quanto lega il genere letterario epistolare, cronologicamente precedente, della letteratura protocristiana con quello storico-narrativo della tradizione sinottica di dieci o quindici anni più tardi. L’autore, che segue il genere letterario creato da Marco, lo arricchisce tuttavia con gli elementi che incontriamo nel genere epistolare (prevalentemente paolino). Mette insieme le tradizioni storiche degli evangeli sinottici relative a Gesù di Na21 Cf. R. W. Wall, s.v. “New Testament Koinonia”, in Anchor Bible Dictionary I, a cura di D. N. Freedman et al., New York 1992, coll. 1103-1110.

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zaret, con i resoconti kerigmatici relativi a Cristo delle lettere paoline. Per la prima volta, nei testi giovannei (sia nel vangelo che nelle lettere) il Gesù della storia annuncia egli stesso il Cristo della fede, come faceva Paolo nelle sue lettere. Al di là del carattere mistico del quarto vangelo, il Gesù che questo presenta dà l’impressione di circoscrivere il concetto di comunione, poiché l’amore dei discepoli è circoscritto all’interno della comunità (cf. Gv 13,34; 15,12-17), concepita in forma settaria. Nonostante questo, è caratteristico il fatto che l’amore dei membri della comunità giovannea appaia come conseguenza dell’esperienza del regno di Dio, più che come presupposto per l’ingresso in esso, cosa che lo distingue dalla rappresentazione più generale della contemporanea letteratura apocalittica giudaica. La seconda generazione, dopo la pentecoste, è indubbiamente caratterizzata dall’imponente presenza dell’apostolo Paolo. Paolo assume la concezione carismatica della chiesa come popolo di Dio di cui si è detto, ma le attribuisce parallelamente un carattere universale ed ecumenico. Alla chiesa appartengono in potenza tutti gli uomini, giudei e pagani, poiché i secondi sono stati innestati sul medesimo ceppo del popolo di Dio (cf. Rm 11,11-24). La chiesa come nuovo Israele non si costituisce su elementi esterni (circoncisione, eccetera), ma sulla base della fede in Gesù Cristo. “Non tutti i discendenti di Israele sono Israele” (Rm 9,6). È qui che viene universalmente riconosciuto il contributo sostanziale offerto dall’apostolo Paolo all’ecclesiologia cristiana: la caratterizzazione della chiesa come “corpo di Cristo”22. In generale, tutti i riferimenti ecclesiologici dell’età apostolica e subapostolica prendono avvio dall’ecclesiologia paolina e non sono altro che elaborazioni dell’immagine della chiesa come corpo di Cristo. Con la comprensione escatologica e paral22 Lo stesso accade anche con i termini ámpelos e klémata dell’ecclesiologia giovannea (cf. Gv 15,1 ss.).

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lelamente collettiva del mistero della chiesa, la comunità cristiana voleva mostrare come non era semplicemente una comunità religiosa gerarchicamente costituita, ma il riflesso della manifestazione escatologica del regno di Dio, cioè essenzialmente il corpo del Cristo vivente, come afferma l’apostolo Paolo. Parallelamente, tuttavia, in seno alla chiesa cominciò a svilupparsi un’altra concezione a partire dall’autore della Lettera agli Ebrei (cf. Eb 10,1: “La Legge infatti … possiede soltanto un’ombra dei beni futuri e non la realtà stessa delle cose”). Anche se questa concezione rappresenta un importante sviluppo positivo per quanto riguarda il concetto di comunione, in seguito divenne pretesto per la svalutazione della dimensione profetico-comunitaria del giubileo escatologico, che significativamente solo l’autore della Lettera agli Ebrei spiega indirettamente. Tale concezione fu sviluppata dettagliatamente negli scritti di Massimo il Confessore, dove gli eventi dell’at sono considerati come ombra della verità (dei beni futuri) e la presente condizione della chiesa non è altro che un’immagine della verità, la quale dovrà essere rivelata soltanto negli ultimi tempi. In questo modo la “verità” nel cristianesimo smise di essere collegata al passato, come avveniva nella filosofia greca classica (si veda il termine a-létheia come condizione di a-léthe, di “non-oblio”), ma è collegata al futuro, cioè all’éschaton, vale a dire al regno di Dio, il quale soltanto può essere ritenuto come reale verità23. La spiritualità che deriva dalla coscienza dell’identità escatologica della chiesa come comunione ha un carattere dinamico, radicale e collettivo. I credenti sono chiamati a diventare 23 È significativo che nell’epiclesi della divina liturgia i credenti facciano memoria non solo degli eventi passati della divina economia, “della croce, del sepolcro, della resurrezione dopo tre giorni, dell’ascensione ai cieli, della sessione alla destra”, ma anche della futura condizione escatologica “della seconda e gloriosa parusia” (cf. Liturgia di Giovanni Crisostomo, in Liturgia eucaristica bizantina, a cura di M. B. Artioli, Torino 1988, p. 98).

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santi, non come singoli individui, ma come entità ecclesiale collettiva; sono chiamati “santi”, perché appartengono a quella porzione eletta del popolo di Dio; sono visti come “sacerdozio regale”, perché tutti indistintamente (non solo qualche particolare classe con funzione mediatrice, come i sacerdoti, i leviti, eccetera) godono di una condizione santa e spirituale, adempiono nella diaspora l’opera della classe sacerdotale e sono chiamati con la vita e le opere a mostrarsi degni della loro elezione24, a camminare verso l’unità (“Perché siano perfetti nell’unità”: Gv 17,23), a rigettare le opere della tenebra e a giungere alla perfezione, diventare cioè santi, perché colui che li ha chiamati è santo e perfetto: “Io santifico me stesso affinché anch’essi siano santificati nella verità” (Gv 17,19; si veda anche Mt 5,48: “Sarete dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”). La chiesa, dunque, in base ai dati biblici (ma anche postbiblici) di cui sopra, non si fonda sull’individualità e la solitudine, ma procede dalla presa di coscienza della sua identità escatologica; in altre parole, possiede un carattere eminentemente collettivo, comunitario, è cioè una correlazione di comunione. Inoltre, la chiesa non si definisce in base a ciò che essa è nel presente, né in base a ciò che le è stato dato nel passato in quanto istituzione, ma in base a ciò che essa diverrà nell’éschaton, nel futuro. Essa indica, in altri termini, il cammino del popolo di Dio come collettività, come comunione (o comunità) verso l’éschaton. Per questo da secoli la sua liturgia domenicale, l’eucaristia, ha un’importanza estrema e determinante per la sua identità. La pressoché completa svalutazione del concetto di individualità – eccezione degli eremiti, come vedremo più avanti – in 24 Con l’opera classica di J. H. Elliott, The Elect and the Holy. An Exegetical Examination of 1 Peter 2:4-10 and the Phrase Basileion Ierateuma, Leiden 1966, fu ristabilito dal punto di vista della teologia biblica protestante il reale contenuto della definizione “sacerdozio regale”, tanto discusso fin dall’epoca di Lutero. Cf. R. E. Brown, Il prete e il vescovo: riflessioni bibliche, Fossano 1971.

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tutto lo spettro del giudeo-cristianesimo risulta chiara anche da altri aspetti della teologia biblica. Il Dio dell’at entra in rapporto con il mondo conversando, quasi esclusivamente, con la comunità nel suo insieme; il suo interesse per i singoli si mostra soltanto nella misura in cui essi si trovano ad essere membri della comunità. L’alleanza decritta dal libro dell’Esodo ha luogo tra Dio – con il suo esclusivo diritto di iniziativa – e il popolo eletto nel suo insieme. Il singolo non ha responsabilità personale immediata per le sue opere davanti a Dio, neanche se trasgredisce singolarmente le clausole dell’alleanza con Dio. L’idea di “personalità collettiva” indica che se un singolo individuo o una grande parte del popolo pecca, tutto il popolo, senza esclusione degli innocenti e dei pii, viene castigato indistintamente; ma anche, inversamente, ogni israelita singolarmente non ha responsabilità morale personale davanti a Dio, poiché non si dava l’eventualità di un rapporto personale con Dio ma solo collettivo. La nota frase di Geremia: “I padri hanno mangiato uva acerba e i denti dei figli si sono allegati” (Ger 38,29; tm 31,29) è un indice di tale concezione. Certamente dall’epoca dei profeti, sulla base soprattutto del loro insegnamento relativo alla giustizia sociale (tsedaqà), che abbiamo descritto sopra, comincia un intervento correttivo relativamente alla responsabilità di ciascuno e al rapporto personale tra Dio e l’uomo25. Questa svolta e l’interesse per il singolo appare anche nel Gesù storico; nella ripetizione-assunzione del detto profetico “amore voglio e non sacrificio” (Os 6,6, in Mt 9,13; 12,7); nei comandi correttivi del Signore nel discorso sulla montagna, eccetera. Da un punto di vista ecclesiale tuttavia la concezione della collettività e della comunione ebbe il sopravvento su quella dell’individualità. Tale concezione della comunione diventa ancora più manifesta se si analizzano i termini prettamente ecclesiologici tanto 25

Cf. G. E. Wright, The Biblical Doctrine of Man in Society, London 1954, pp. 22 ss.

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nell’at quanto nel nt. Non è casuale il fatto che il popolo eletto di Dio sia definito in ebraico come am e in greco come laós in contrapposizione con il mondo esterno per il quale nella Scrittura vengono impiegati i termini gojim, in ebraico, e éthne, in greco26. È significativo che nel racconto lucano degli Atti degli apostoli, per narrare l’accaduto nel sinodo apostolico, dopo il resoconto di Paolo e di Barnaba, si dica che “riferivano quali grandi segni e prodigi Dio aveva compiuto tra le genti per mezzo loro. Quando essi ebbero finito di parlare, Giacomo prese la parola e disse: ‘Fratelli, ascoltatemi. Simone ha riferito come fin da principio Dio ha voluto scegliere dalle genti un popolo per il suo nome’” (At 15,12-14). La stessa verità emerge anche nel passo della Prima lettera di Pietro, in cui i credenti sono definiti come “una volta non popolo, ora popolo di Dio” (1Pt 2,10). Questa coscienza che Dio quando ha chiamato Israele nell’at – e il “nuovo Israele”, la chiesa, nel nt – ha formato una comunione, un’identità collettiva, un “popolo”, nasceva dal fatto che la chiesa nei suoi primi passi era compresa come distinta dalle diverse corporazioni e organizzazioni religiose o sociali, entità ben note nell’epoca romana, come del resto anche nell’epoca odierna27. In conclusione, è assai significativo il fatto che la comunità cristiana primitiva utilizzò il termine “chiesa” non nel senso che esso possiede nel greco classico, ma sulla base della terminologia veterotestamentaria. Il termine, certo, etimologicamente risale al verbo composto ekkaléo (lett.: “chiamo, convoco, raduno”), che nella letteratura classica (Platone, Aristotele, Tucidide, Polibio, eccetera) indica una riunione di cittadini per formulare una sentenza o prendere una decisione su argomenti importanti. La comunità cristiana primitiva, tuttavia, utilizzò il ter26 Cf. ibid., pp. 78 ss.; vedi anche R. N. Flew, Jesus and his Church, London 1938, pp. 139 ss. 27 Cf. G. E. Wright, The Biblical Doctrine, p. 79.

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mine ekklesía nel senso che aveva nell’at, ove corrispondeva alla parola ebraica qahal; un termine cioè che esprime l’idea di comunità, di popolo di Israele, sia quando è radunato in assemblea, sia in generale. I lxx, del resto, non traducono mai con il greco ekklesía l’ebraico edà, che di solito corrisponde al termine synagoghé 28. In questo periodo primitivo senza alcun dubbio i membri della comunità cristiana si identificano con la chiesa, sono la chiesa, non sono semplicemente dentro la chiesa, non costituiscono cioè singole membra di un organismo o di un gruppo, fosse puro religioso29. Ekklesía e koinonía devono essere dunque considerati sinonimi.

Sviluppo della spiritualità in senso orizzontale e verticale Questa antica escatologia storica orizzontale che è definita dal concetto di comunione e caratterizza la spiritualità e la lotta dell’uomo per la perfezione, nel senso di un cammino dinamico del popolo di Dio come insieme verso l’éschaton, si intreccia fin dai primi anni di vita della chiesa con una concezione verticale e maggiormente personalistica della salvezza. Tale spiritualità ha come punto di riferimento non l’éschaton, il punto omega, ma la creazione, l’alfa, il principio degli esseri, la condizione originaria dell’uomo, la beatitudine paradisiaca che regnava all’inizio30. 28 Cf. W. Schräge, “‘Ekklesia und Synagoge. Zum Ursprung des urchristlichen Kirchenbegriffs”, in Zeitschrift für Theologie und Kirche 60 (1963), pp. 178 ss.; K. L. Schmidt, s.v. “καλ ω”, in Grande lessico del Nuovo Testamento IV, a cura di G. Kittel e G. Friedrich, Brescia 1968, coll. 1453-1580. 29 Cf. K. Stendahl, s.v. “Kirche und Urchristentum”, in Die Religion in Geschichte und Gegenwart III, a cura di G. Hermann et al., Tübingen 20073, pp. 129 ss. 30 Cf. quanto scrivono A. Schmemann, J. Meyendorff, e altri.

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Se è indiscutibile la base biblica di questa seconda concezione, parimenti indiscutibile è il fatto che in tutti i passi del nt e della letteratura cristiana primitiva la concezione teologica dominante è l’escatologia orizzontale con l’ecclesiologia centrata principalmente sul concetto di comunione. La soteriologia verticale è sempre compresa all’interno del quadro dell’escatologia orizzontale e dell’ecclesiologia della comunione come suo prolungamento e completamento. Per questo anche l’esperienza liturgica della chiesa primitiva è inconcepibile senza la dimensione comunitaria31. Tale esperienza spirituale della chiesa primitiva si riflette con chiarezza nella struttura liturgica della chiesa; da Ignazio di Antiochia in poi assistiamo al trasferimento dell’immagne escatologica dell’assemblea del popolo di Dio, radunato insieme (epì tò autó) intorno a Cristo e agli apostoli, alle celebrazioni liturgiche della chiesa, con il vescovo “al posto e come tipo di Cristo” e i presbiteri come tipo degli apostoli. Il sacramento della chiesa si esprime cioè autenticamente nell’assemblea eucaristica della comunità intorno al vescovo, la quale non va alla ricerca di una liberazione misterico-sacramentale dai mali del mondo, né della perfezione personale e della salvezza individuale, ma costituisce un’immagine e una manifestazione anticipata del regno di Dio escatologico32. L’ecclesiologia della comunione, dunque, e la spiritualità eucaristico-liturgica hanno come scopo e come meta la conformazione, per quanto è possibile, delle comunità cristiane storiche locali con l’autentica espressione della gloria escatologica del regno di Dio. 31 Cf. At 2,42 ss.; 1Cor 11,17 ss.; 2Cor 9,11 ss.; Eb 13,10-16; Giustino, Apologie 1,67, in Gli apologeti greci, a cura di C. Burini, Roma 1986, pp. 147-148; Ireneo di Lione, Contro le eresie III,18,1, a cura di E. Bellini, Milano 19972, p. 273 e passim. 32 L’orientamento collettivo-ecclesiologico della spiritualità appare in Ignazio di Antiochia, Lettera agli efesini 13: “Cercate di riunirvi più di frequente per rendere grazie a Dio e per lodarlo. Se infatti voi convenite in unità (epì tò autó) spesso, le potenze di Satana vengono abbattute” (Ignazio di Antiochia, Ora comincio ad essere discepolo. Le lettere, a cura di S. Chialà, Bose 2004 [Testi dei padri della chiesa 68], p. 17).

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Questa ecclesiologia e questa spiritualità fondate sulla Bibbia proprie della chiesa antica, sotto le forti pressioni del cristianesimo gnostico e soprattutto del neoplatonismo, cominciarono a retrocedere progressivamente a partire dal iii secolo d.C. o, nel migliore dei casi, a coesistere con un’altra spiritualità (ma anche con un’altra ecclesiologia) che ha le sue radici nella teologia mistica neoplatonizzante evagriana e in quella messaliana dello Pseudo-Macario, e che trovò anche un fondamento scientifico nella scuola catechetica di Alessandria. I principali esponenti di tale scuola, Clemente di Alessandria e soprattutto Origene, impressero all’ecclesiologia, e per estensione anche alla spiritualità, un cambiamento, che il metropolita di Pergamo Ioannis Zizioulas definisce efficacemente “non un semplice cambiamento (tropé ), ma un rovesciamento (anatropé )”33. La chiesa smise di costituire un’immagine dell’éschaton e lo divenne delle realtà delle origini. Su influsso dell’antica filosofia greca, gli alessandrini considerano la condizione iniziale della realtà come la perfezione e tutto quello che è accaduto dopo come una qualche forma di caduta. Il contributo del mistero dell’incarnazione a tale sistema è minimo o nullo 34; Cristo viene considerato la fonte dell’unione dell’uomo con Dio e la restaurazione in certo modo della natura corrotta. Culmine della divina economia non è più la comunione dell’éschaton, ma il ritorno alla perfezione degli inizi, meta che essenzialmente è raggiunta da ogni singolo, per lo più nel deserto. Abbiamo così un approccio cosmologico alla chiesa, e non più storico come è quello della sacra Scrittura. Non abbiamo più a che fare, in altre parole, con una comunità Cf. I. Zizioulas, Θματα &κκλησιολογας, p. 28. È significativo che Origene, e con lui in generale i teologi alessandrini, abbiano sviluppato una soteriologia che dà grande importanza alla potenza trasfigurante nell’incarnazione dell’unione con l’archetipo, lasciando meno spazio alla libera azione salvifica della natura umana di Cristo. Su questo tema, cf. A. Grillmeier, Gesù il Cristo nella fede della chiesa I-II, Brescia 1982-2001; R. Taft, “The Liturgy of the Great Church. An Initial Synthesis of Structure and Interpretation on the Eve of Iconoclasm”, in Dumbarton Oaks Papers 34-35 (1980-1981), pp. 45-75; in particolare p. 62, n. 79. 33 34

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storica, ma con un’idea perfetta e preeterna, con la conseguenza che i fondamenti tradizionali del concetto di comunione (jahwistici, profetici, gesuani e della primitiva comunità cristiana) vengono emarginati. È naturale, dunque, che l’interesse per la storia sia vanificato e che vi sia una presa di distanza sempre più grande dalla realtà ecclesiastica istituzionale, dalla comunione eucaristica. La chiesa, nel migliore dei casi, è definita casa di cura delle anime35. Storicamente, e anche cronologicamente, tale spiritualità si collega con la solitudine e con il monachesimo anacoretico, in cui gli scritti di Origene erano letti con grande venerazione anche dopo la sua condanna da parte del concilio36. È bene segnalare come le opere teologiche attribuite a Dionigi l’Areopagita funzionarono da catalizzatore per la marginalizzazione del concetto dominante di comunione37. Gli scritti areopagitici interpretarono i riti liturgici ecclesiastici con il metodo anagogico con il quale si attua l’innalzamento dalla lettera allo spirito, dalle azioni visibili dei sacramenti della chiesa all’unico sacramento della divinità38. Anche i movimenti del ve35 Lo slittamento dell’ecclesiologia e della spiritualità eucaristico-liturgiche in terapeutico-purificatrici può essere parallelamente messo in relazione con lo slittamento nell’apocalittica della teologia e della letteratura profetica dell’at. 36 Cf. anche G. Mantzaridis, “Spiritual Life in Palamism”, in Christian Spirituality, II. High Middle Ages and Reformation, a cura di J. Raitt, New York 1988, pp. 208-222, in particolare p. 216. 37 Questa dimensione rifiutano di riconoscerla i paleoimerologhiti ieromonaco Auxentios e James Thornton, i quali, mentre giustamente riconoscono che i commenti liturgici bizantini toccano il cuore della spiritualità ortodossa, cercano di confutare la posizione negativa di Alexander Schmemann sul valore di tal genere di letteratura, schierandosi con quello che dicono altri studiosi ortodossi come Georgij Florovskij, I. M. Phountoulis, I. Popovic´ (Ieromonaco Auxentios, James Thornton, “Three Byzantine Commentaries on the Divine Liturgy. A Comparative Treatment”, in The Greek Orthodox Theological Review 32 [1987], pp. 285-308, in particolare p. 288). Se in Origene troviamo i germi della smaterializzazione e della spiritualizzazione della comprensione della divina liturgia, negli scritti areopagiti incontriamo la loro compiuta elaborazione. Cf. L. Lies, Wort und Eucharistie bei Origenes. Zur Spiritualisierungstendenz des Eucharistieverständnisses, Innsbruck 1978. 38 Cf. E. Boulard, “L’eucharistie d’après le Pseudo-Denys l’Aréopagite”, in Bulletin de Littérature Ecclésiastique 58 (1957), pp. 193-217; 59 (1958), pp. 129-169.

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scovo all’interno della chiesa vengono visti come divino ritorno all’origine degli esseri. Con questo metodo, tuttavia, viene completamente vanificata la prospettiva escatologica dell’eucaristia, poiché la sola utilità di tali celebrazioni cultuali è l’elevazione mistica (mistagogia) dell’anima alle realtà spirituali del mondo invisibile39. Di conseguenza, è assolutamente necessario un genere di “gerarchia” mediatrice, che non solo ricorda, mutatis mutandis, l’epoca del re nella storia di Israele e gli avversari di Paolo nella Lettera ai Colossesi, ma rappresenta anche l’inizio della ricostituzione nell’ecclesiologia cristiana – tanto in oriente quanto soprattutto in occidente40 –, certamente in una forma larvata, del sacerdozio mediatore41, che secondo l’insegnamento fondamentale della Lettera agli Ebrei era stato abrogato una volta per tutte, ephápax, dal sacrificio di Cristo sulla croce. Secondo l’indimenticabile John Meyendorff, Grandissima influenza esercitarono gli scritti dello PseudoDionigi nel promuovere questa concezione simbolica dell’eu39 Cf. Pseudo-Dionigi l’Areopagita, La gerarchia ecclesiastica 2,3, a cura di S. Lilla, Roma 2002, pp. 60-61. Stupenda analisi in R. Bornet, Les commentaires byzantins de la Divine Liturgie du VIIe au XVe siècle, Paris 1966. Alexander Golitzin, certamente, insiste sul fatto che le allegorie areopagitiche “non sono completamente atemporali, ma sono collegate con la sua escatologia e la sua cristologia”! (Alexander [Golitzin], Et introibo ad altare Dei. The Mystagogy of Dionysius Areopagita, with Special Reference to its Predecessors in the Eastern Christian Tradition, Thessaloniki 1994, p. 391). Robert Taft afferma giustamente che “nel sistema dionisiano non è dato il minimo spazio alla tipologia biblica; l’allegoria anagogica è dominante. La liturgia non è altro che un’allegoria del cammino dell’anima dalla disgregazione e dalla divisione del peccato verso la comunione divina, per mezzo di un processo di purificazione, di illuminazione e di perfezionamento, che vengono rappresentati nelle celebrazioni. Vi è una relazione minima con l’economia terrena di Cristo e assolutamente nulla con la sua mediazione teantropica, o la sua morte datrice di vita e la sua resurrezione” (R. Taft, “The Liturgy”, pp. 61-62). Una visione decisamente critica della visione dell’eucaristia di Dionigi l’Areopagita si trova nell’opera di R. Roques, L’univers dionysien. Structure hiérarchique du monde selon le Pseudo-Denys, Paris 1954. 40 Cf. P.-M. Gy, “Sacraments and Liturgy in Latin Christianity”, in Christian Spirituality I, pp. 365-381. In occidente, soprattutto nel medioevo, le opere di Dionigi l’Areopagita costituirono l’utero del successivo sviluppo del misticismo. 41 Cf. H. Wybrew, The Orthodox Liturgy. The Development of the Eucharistic Liturgy in the Byzantine Rite, London 1989.

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caristia. Riducendo la sinassi eucaristica a un richiamo morale, l’Areopagita invita i suoi lettori a una più alta contemplazione42.

Perciò non vi è motivo per l’auto-offerta di Cristo, né per la sua qualità mediatrice e sacerdotale43; questo è opera della gerarchia terrena e dei riti che essa, e non la comunità nel suo insieme, celebra. Il punto in cui il sistema dello Pseudo-Dionigi raggiunge i suoi confini più alti è il rovesciamento della dimensione escatologica dell’eucaristia come comunione. Non vi è alcuna allusione alla fondamentale interpretazione paolina secondo la quale in ogni assemblea eucaristica annunciamo “la morte del Signore, finché egli venga” (1Cor 11,26). Anche la prassi dominante della comunione non è altro che simbolo dell’unione e dell’assimilazione degli uomini con la divina ipostasi44. Dalla comunione con il corpo di Cristo (il Verbo incarnato) e nel corpo di Cristo (la chiesa), si passa quindi alla comunione con il Logos preesistente. Secondo questa interpretazione mistica, la salvezza non consiste nell’attesa di un mondo nuovo, di una nuova comunione escatologica con una nuova struttura più autentica, ma nell’unione dell’anima con il Logos e, di conseguenza, nella purificazione dell’anima da quanto le impedisce di unirsi con il Logos preesistente, cioè dalla materia, dalle realtà sensibili, dalla corporeità, dalla storia. Il Marana thá delle comunità paoline (cf. 1Cor 16,22) e il “Vieni, Signore Gesù” del profeta dell’Apocalisse (cf. Ap 22,20) sono sostituiti dalla preghiera continua e 42 J. Meyendorff, La teologia bizantina. Sviluppi storici e temi dottrinali, Casale Monferrato 1984, p. 245. 43 Cf. R. Taft, “The Liturgy”, p. 62. Si veda, a questo proposito, la convinzione di A. Golitzin che negli scritti areopagitici dice che “Cristo è il centro assoluto” (Alexander [Golitzin], Et introibo ad altare Dei, pp. 398 ss.). 44 Cf. Pseudo-Dionigi l’Areopagita, La gerarchia ecclesiastica 3,13, pp. 94-95.

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dalla lotta contro i demoni e contro la carne, e in seguito dalla preghiera monologica45. A questo punto è assolutamente necessario ricordare che tale tendenza generale non dovrebbe essere identificata con l’autentica comprensione del monachesimo. Sarebbe deplorevole non ricordare i diversi interventi teologici correttivi con i quali il movimento monastico venne “ecclesializzato”46 (struttura cenobitica di Pacomio, redazione della Vita di Antonio da parte di Atanasio il Grande, orientamento comunitario ed ecclesiologico del monachesimo impresso da Basilio, escatologizzazione dell’ecclesiologia terapeutica47 e “audace sintesi di tutta la precedente esperienza teologica”48 da parte del monaco Massimo il Confessore). Non dobbiamo ignorare neppure le diverse interpretazioni teologiche nelle quali è accentuata la dimensione escatologica della vita monastica, elemento tipico del monachesimo orientale49, che si presenta come “segno del Regno”50, come “vita di conversione”, concetto prettamente escatologico che ha le sue radici nel primo annuncio di Cristo sulla terra: “Il regno di Dio è vicino, convertitevi” (Mc 1,15 e par.). Il monachesimo si presenta anche come “vita angelica”, definizione con 45 È significativo il contributo di Origene all’abbandono dell’interpretazione storica dell’Apocalisse dominante nella letteratura ecclesiastica fin a quel tempo con la motivazione che l’attesa e la speranza del regno millenario costituisce una concessione ai desideri della carne! (cf. Origene, I principi II,11,2-5, a cura di M. Simonetti, Torino 1968, pp. 345-352). 46 Su questo cf. A. Papadopoulos, 6Ο μοναχισμς *ναντι τ5ς α:ρσεως, Thessaloniki 1980. Ben informato sul nostro tema è anche l’articolo di S. Agouridis, “Τ ναχωρεν π τ ν κσμο ς χαρακτηριστικ τς λληνιστικς φιλοσοφικς σκ ψης”, in 8Αραγε γιν4σκεις < ναγιν4σκεις, Athinai 1989, pp. 366-380. 47 Cf. I. Zizioulas, “The Early Christian Community”, pp. 42 ss.; vedi inoltre N. Loudovikos, 6Η ε"χαριστιακ =ντολογα. Τ ε"χαριστιακ θεμλια το ε>ναι, ?ς &ν κοινονα γγνεσθαι, στ ν &σχατολογικ =ντολογα το @γου Μαξμου το 6Ομολογητ1, Athinai 1992. 48 Cf. N. Matsoukas, Κσμος, 8Ανθρωπος, Κοινωνα κατ τν ΜCξιμο 6Ομολογητ1, Athinai 1980, p. 290. 49 Cf. A Spirituality for our Times. Report of a Consultation on Monastic Spirituality, a cura di J. Puls, Genève 1986, p. 27. 50 Cf. ibid.

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la quale, secondo Pacomio, la verginità è collegata con il Regno che viene in base alle parole del Signore: “Alla resurrezione infatti non si prende né moglie né marito, ma si è come angeli nel cielo” (Mt 22,30); e: “Vi sono eunuchi che si sono resi tali per il regno dei cieli” (Mt 19,12 e par.)51. Infine, cosa principale: la dimensione cenobitica del monachesimo non è altro che un aspetto dell’ecclesiologia della comunione. Segnaliamo semplicemente che l’asse centrale di questa concezione teologica di cui l’eremitismo è storicamente impastato, si distanzia dall’antica radicale escatologia del nt, e spesso si trova ai suoi antipodi52. Le conseguenze per l’ecclesiologia di comunione, ma anche in generale per la spiritualità, di una simile concezione teologica, come si può facilmente comprendere, furono enormi, poiché il culto comune della chiesa53, come pure le celebrazioni e le sue istituzioni come immagini delle realtà future cominciarono a non 51 È significativo che nell’interpretazione del monachesimo come vita angelica gli ultimi tempi non sono compresi nella loro dimensione storica dinamica (e in ultima analisi, ecclesiologica), ma esclusivamente come una realtà futura. 52 Nello studio di S. Agouridis, 6Η διαμCχη μεταξD Πελαγου κα Α"γουστνου. Σκψεις &νς θεολγου περ τ5ς κρσης τ5ς σοσιαλιστικ5ς ο"τοπας σ1μερα, Athinai 1993, p. 9, l’autore, analizzando la classica controversia soteriologica tra Agostino e Pelagio, estende anche all’occidente la dialettica della spiritualità eucaristica (la chiama “biblico-storica”) e terapeutica: “La prospettiva biblico-storica non sembra influenzare seriamente i due tradizionali maestri … Ambedue pensano sulla base di un’ontologia antropologica. La storia li lascia piuttosto indifferenti. Pelagio, ispirato dal pensiero ascetico della chiesa, in particolare di quella orientale, accentuò più del dovuto l’elemento umano, mentre Agostino da parte sua, sotto l’influsso della sua esperienza personale, della conoscenza del platonismo e della lotta contro i donatisti, evidenziò l’elemento divino”. 53 È noto che tale presa di distanza dalla spiritualità primitiva creò anche nuove forme e una nuova concezione del culto soprattutto mediante la creazione di quello che fu più tardi chiamato “typikón monastico”. In questa grande corrente della spiritualità cristiana il culto non è caratterizzato dalla prospettiva escatologica dell’eucaristia, ma viene concepito anzitutto come strumento per far scaturire dallo spirito del monaco e della monaca la preghiera personale incessante. Come annota significativamente W. Jardine Grisbrooke, “non si tratta di culto collettivo, ma di una manifestazione ausiliaria della preghiera personale che viene celebrata in comune” (W. Jardine Grisbrooke, “The Formative Period-Cathedral and Monastic Offices”, in The Study of Liturgy, a cura di C. Jones et al., New York 19922, pp. 403-420, in particolare p. 405). Oltre a ciò, nell’ottica di ciò che abbiamo osservato più sopra si veda anche G. Philia, “Η λειτουργικ# ζω# τ%ν πρ&των μοναστικ%ν κοινοβων”, in Σναξη 35 (1990), pp. 33-42.

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avere più senso54. La cosa più importante secondo tale concezione era l’unione degli uomini con il Logos preesistente, il ritorno dell’anima alla beatitudine paradisiaca precedente la caduta, quasi sempre priva di comunione. Non a caso nello stadio primitivo dello sviluppo del monachesimo cristiano, in cui la solitudine costituì la sua espressione più significativa, i monaci si separarono coscientemente dal culto comune, nel tentativo di dedicarsi ininterrottamente alla preghiera incessante 55.

La realtà eucaristico-liturgica e monastico-eremitica

Mentre la primitiva ecclesiologia di comunione contribuiva a plasmare, all’interno del cristianesimo, come del resto accadde anche alla maggior parte delle religioni, identità collettive chiaramente orientate nel senso della comunione, la solitudine, come proprio della spiritualità monastica, portava a una spiritualità soteriologica individualista. Nel primo caso la chiesa svolge il suo ministero non con quello che di solito fa (né con quello che dice), ma principalmente con quello che è. Questo “essere”, in altre parole questa identità e autocoscienza della chiesa non sono nient’altro che la visione di un mondo nuovo, diverso da quello corruttibile e convenzionale nel quale vivia54 Secondo W. Jardine Grisbrooke, il monachesimo primitivo (Antonio, Pacomio, eccetera) in quanto movimento laico ma anche in quanto ritiro dal mondo e presa di distanza non solo dal mondo, ma anche dalla chiesa, credeva che l’ordinazione presbiterale fosse incompatibile con la professione monastica (W. Jardine Grisbrooke, “The Formative”, p. 404). 55 Certamente l’idea della preghiera incessante non era nuova (cf. 1Ts 5,17); ciò che era nuovo nel monachesimo era la sua interpretazione. Mentre nella coscienza dei primi cristiani ogni manifestazione poteva essere vista come preghiera, nel monachesimo la preghiera, e più tardi la preghiera mentale, costituiva la sola manifestazione che sostituiva tutte le altre. Cf. A. Schmemann, 6Η Εκκλησα προσευχομνη. ΕFσαγωγ στ Λειτουργικ θεολογα, Athinai 1991, p. 160.

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mo, la visione cioè del regno di Dio atteso, che è composto da esseri collettivi non individualistici. Questa visione tuttavia, al di là della sua entità trascendentale e attesa per gli ultimi tempi, costituisce in se stessa anche una realtà storicamente tangibile, una proposta di vita alternativa, che trascende il quotidiano e la corruzione, espressi dalla vita convenzionale. Da qui anche la responsabilità missionaria della chiesa come “liturgia dopo (e in determinati casi prima) la liturgia”. Nel secondo caso viene chiaramente affermata la dimensione etica e ciò che John Meyendorff chiama, riferendosi al palamismo, retour en soi56, anche se molte volte essa rimase individuale, senza dilatarsi come avrebbe dovuto alla dimensione comunitaria (o anche ecumenico-comunitaria). Il tema del rapporto individualità-comunione è stato rimesso in auge dal noto pensatore greco-ortodosso Stelios Ramphos. Nella sua opera 6Ο Καημς το Ενς per la prima volta egli pose l’importante questione in che misura trova posto nell’annuncio evangelico la prospettiva individuale; in che misura il cristianesimo incoraggia, a partire da una visione comunitaria, l’individualità, poiché è questa un elemento organico della dinamica del suo messaggio.

Per Ramphos fondamento dell’insegnamento di Gesù era l’amore e la responsabilità nei confronti dell’altro uomo; qualcosa in ogni caso di individuale. La responsabilità per gli altri è responsabilità verso noi stessi e per estensione parte dell’idea che abbiamo, in quanto autocoscienti, della nostra persona.

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Cf. S. Ramphos, 6Ο Καημς το &νς, Athinai 2000, p. 400.

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Ramphos, riconoscendo la serietà della sua responsabilità personale nei confronti di ogni uomo nella formazione della sua identità, concludeva il suo libro con le seguenti affermazioni:

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L’identità autentica la offre e la custodisce l’autoriconoscimento dell’uomo, la sua apertura all’interiorità. Questo era fin da principio il desiderio dell’uno.

L’essenza, cioè, della problematica di Ramphos era se e in che misura i presupposti della modernità trovano posto all’interno del sistema teologico ortodosso e, naturalmente, nel generale orientamento dell’ellenismo moderno. Nel volume successivo della sua trilogia, Τ μυστικ το Iησο, tentò di documentare le sue affermazioni percorrendo i risultati della ricerca scientifica biblica degli ultimi due secoli. Per Ramphos, chiave ermeneutica per la comprensione del messaggio biblico degli evangeli è l’“individualità-interiorità”. Scrive significativamente: Gesù porta una nuova interpretazione del messia biblico, un nuovo tipo di uomo come possibilità di esistenza aperta, il quale incarna il “dentro di voi” (Lc 17,21) del Regno e apre e rinnova le anime, liberandole dai legami dell’identità collettiva.

E altrove: “La fede nel Messia-Cristo si interiorizza come esperienza vissuta di una nuova vita … tutto esiste per l’interiorità”57. Ci troviamo cioè di fronte all’eterno problema del rapporto individualità-comunione, come pure del rapporto comunione-solitudine. 57 Questo certamente è giusto, ma non è tutta la verità. Del resto il passo classico al quale fa riferimento Ramphos (“Il regno di Dio è in voi”: Lc 17,21) non viene più interpretato dalla scienza biblica contemporanea come un riferimento all’interiorità

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Giunse a delucidare tale problematica l’ultima opera della trilogia di Ramphos così importante per l’ortodossia moderna58. Analizzando dettagliatamente gli sbocchi nichilistici del programma filocalico antimoderno di Nicodemo-Macario, ma anche la concezione contemporanea di individuo e di soggetto responsabile, si chiede se sia pensabile nel cristianesimo ortodosso orientale una sintesi equilibrata tra comunione e individualità-solitudine, una sintesi nella quale, “nella prospettiva del passaggio dalle tradizionali comunità medievali alle nuove comunità democratiche”, la solitudine e il ritiro ascetico dal mondo in ricerca di una libertà e salvezza individuale svolsero un ruolo decisivo59. “Là dove il singolo era consegnato alla collettività fino a scomparire a motivo di molteplici indissolubili legami di sangue, di fede e di appartenenza geografica, nel deserto trovò se stesso solo davanti al Dio inafferrabile”60. Tuttavia nella tradizione orientale, dalla fine del primo millennio, il monaco e a grandi linee anche il cristiano ortodosso medio si sono chiusi nella loro comunità convenzionale “e sono rimasti fuori dalla comunione, dimenticando il loro primo slancio rivoluzionario”, “hanno custodito la solitudine e hanno rinunciato alla loro entità personale”61.

(“dentro di voi”), ma come un riferimento alla comunione (“tra di voi”). Nella nostra versione in demotico traduciamo questo classico versetto come segue: “Il regno di Dio è già in mezzo a voi”. Abbiamo pubblicato un’ampia presentazione dell’opera di S. Ramphos, Τ Μυστικ το Iησο, Athinai 2006, in Δελτον ΒιβλικJν ΜελετJν 24 (2006), pp. 253-259. 58 S. Ramphos, Τ διανητο τποτα. Φιλοκαλικ ριζ4ματα το νεοελληνικο μηδενισμο. Δοκμιο φιλοσοφικ5ς νθρωπολογας, Athinai 2010. 59 Cf. ibid., p. 383. 60 Ibid., p. 384. 61 Ibid.

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COMUNIONE E SOLITUDINE SECONDO BASILIO DI CESAREA

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Basilio il Grande nasce in Asia Minore qualche anno dopo il primo concilio ecumenico di Nicea del 325. Muore due o tre anni prima del concilio ecumenico di Costantinopoli del 381. Nato in una famiglia della nobiltà provinciale cappadoce, profondamente cristiana, Basilio è segnato dalla storia della sua famiglia: i nonni furono confessori e martiri; suo padre esercitava la professione prestigiosa di retore e morì prematuramente; sua madre e sua sorella maggiore Macrina la Giovane insieme alle sue ancelle, dopo la morte del padre, si dedicarono a una vita d’ascesi in una proprietà della famiglia nel Ponto. Basilio segue con risultati brillanti le scuole a Costantinopoli e ad Atene, dove si lega d’amicizia con un altro studente cappadoce, Gregorio di Nazianzo. Al ritorno dagli studi, il futuro vescovo di Cesarea, nel 356 o nel 357, riceve il battesimo. La decisione di richiedere il battesimo include l’adesione all’ideale ascetico cristiano. Dopo un viaggio in Egitto e in altre regioni per conoscere il monachesimo, Basilio opta per un ascetismo vissuto in comunità, dedito al lavoro e allo studio, consacrato al servizio di Dio e del pros* Monaco benedettino, è stato abate del Monastero di Chevetogne (Belgio) e consultore della Congregazione per le chiese orientali. Traduzione dall’originale francese.

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Michel Van Parys

simo, ispirato al modello proposto da Eustazio, futuro vescovo di Sebaste, amico di famiglia. Non è questa la sede per seguire nei dettagli la carriera di Basilio: vita d’ascesi, ordinazione presbiterale, episcopato. Abbiamo ricordato che tutta la sua esistenza è compresa tra i primi due concili ecumenici. È segnata da due questioni fondamentali al cuore della vita della chiesa del iv secolo: la corretta espressione della fede battesimale nella santa Trinità e l’autenticità cristiana del movimento ascetico o monastico. Basilio non le dissocia mai. Ai suoi occhi la comunione di carità che deve regnare nelle comunità di asceti deve promuovere la comunione in seno alle chiese locali e più in generale la comunione delle chiese a livello di oikoumene. E ugualmente, la comunione d’amore nella chiesa e tra le chiese costituisce il programma della carità per le fraternità ascetiche (caritas fraternitatis)1. Ai suoi occhi non c’è distinzione tra precetti e consigli. L’obbedienza alla parola di Dio è richiesta indistintamente a tutti2.

Comunione tra le chiese e ascesi cristiana

Durante gli ultimi anni di vita, Basilio pubblica un’edizione arricchita, oggi si direbbe rivista e aumentata, dei suoi scritti ascetici. Essa comprende le Regole morali e le Domande e risposte (chiamate indebitamente Regole). Queste ultime sono orga1 Cf. Regola di Benedetto 72,8, in Regole monastiche d’occidente, a cura di E. Bianchi e C. Falchini, Torino 2001, p. 263. 2 Questa indissociabile reciprocità è ottimamente messa in luce dallo studio fondamentale di K. Koschorke, Spuren der alten Liebe. Studien zum Kirchenbegriff des Basilius von Caesarea, Freiburg im Üchtland 1991. Si veda anche L. Cremaschi, “La vita comune secondo Basilio”, in Basilio tra oriente e occidente. Convegno internazionale “Basilio il Grande e il monachesimo orientale”, Cappadocia, 5-7 ottobre 1999, a cura della Comunità di Bose, Bose 2001, pp. 93-110.

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Comunione e solitudine secondo Basilio di Cesarea

nizzate in due parti: cinquantacinque Risposte, particolareggiate o lunghe, e più di trecento Risposte brevi o concise. Fa precedere questo corpus ascetico (Asceticon magnum) da numerosi scritti di circostanza più brevi, che devono chiarire il contesto nel quale intende collocare quest’opera. Lo scritto che Basilio pone in testa al suo Asceticon è un testo che risale ai primi anni della sua vita ascetica, dopo il suo battesimo (357-358) o la sua ordinazione presbiterale (362-364/365). Vi descrive il suo stato d’animo, o meglio il suo scoraggiamento dinanzi ai dissensi che lacerano la chiesa di Dio. Egli stesso chiama questo scritto di giovinezza Lettera sulla concordia (in greco, symphonía): Riguardo a “se la disubbidienza a ogni parola sia degna d’ira e di morte”, s’è detto più ampiamente nella Lettera sulla concordia 3.

Abitualmente questo testo porta il titolo Il giudizio di Dio. Il Cappadoce, al di là della sua tristezza e del suo sgomento, cerca di capire le cause profonde di tale situazione e di trovarvi dei rimedi. L’anarchia che prevale nella chiesa, per Basilio, è causata dall’abbandono dell’obbedienza alla parola di salvezza di Dio a cui si sono sostituite interpretazioni e regole personali. Sottraendosi così all’autorità sovrana della Parola, le chiese hanno scambiato il buon ordine (eutaxía) e l’accordo armonioso (symphonía) con il disaccordo (diaphonía) e i dissensi (diástasis)4. L’unico rimedio possibile consiste nel ristabilire il legame vitale con il capo della chiesa, il Cristo. La concordia (homónoia) tra i membri del corpo di Cristo è frutto del loro attaccamento al capo: 3 Basilio di Cesarea, Il battesimo 2,5, in Id., Opere ascetiche, a cura di U. Neri, Torino 1980, p. 586. 4 Cf. Id., Lettera sulla concordia 1, a cura di L. Cremaschi, Bose 2008 (Testi dei padri della chiesa 92), pp. 13-14.

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Presso quelli nei quali non si realizza la concordia, non viene mantenuto il vincolo della pace (cf. Ef 4,3) e non è custodita la mitezza nello Spirito (cf. Gal 6,1), ma si trovano discordia, contesa e invidia. Ci vorrebbe molto coraggio a chiamare costoro membra di Cristo o a dire che sono governati da lui5.

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Gesù Cristo stesso ha scelto la via dell’obbedienza assoluta al Padre (cf. Gv 6,38; 8,28; 12,49). Lo Spirito santo dice ciò che ha udito dal Signore (cf. Gv 16,13), lui che distribuisce i carismi per il bene di tutti. E Basilio conclude: Per queste ragioni e altre che taccio è nata in me la chiara e inconfutabile convinzione che la concordia è necessaria per tutta la chiesa di Dio secondo la volontà di Cristo nello Spirito santo e che è pericoloso e mortifero disobbedire a Dio dividendoci gli uni dagli altri6.

Alla fine del suo ministero, nell’ultimo capitolo del trattato Lo Spirito santo, scritto negli anni 374-375, Basilio deplora ancora la stessa situazione confusa e conflittuale in seno alla chiesa7. Si tratta di pagine che al di là dello stile oratorio analizzano le cause profonde e gli effetti disastrosi dei dissensi. Se in parte sono cambiati gli attori, non è cambiato lo spettacolo. Perché si è arrivati a questo punto? Basilio risponde: Perché la carità si è raffreddata sotto tutti gli aspetti; l’accordo fraterno è sparito ed è ignorato perfino il nome della concordia; sono scomparse le ammonizioni piene di carità; non c’è più sentimento cristiano, non vi sono più lacrime di compassione8.

5

Ibid. 3, p. 18. Ibid. 4, p. 20. 7 Cf. Id., Lo Spirito santo 30,76-79, a cura di G. Azzali Bernardelli, Roma 1993, pp. 197-201. 8 Ibid. 30,78, p. 200. Aubineau aveva consacrato uno studio all’esegesi patristica di Mt 24,12 (“Per il dilagare dell’iniquità, si raffredderà l’amore di molti”) in M. Aubi6

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Alla fine del trattato Il giudizio di Dio (o Lettera sulla concordia) Basilio richiama agli asceti il fine che si era proposto con l’Asceticon (o Abbozzo per l’ascesi: HypotØposis askéseos): raccogliere dalle sante Scritture le testimonianze su ciò che piace e ciò che dispiace a Dio, sulla rinuncia alle volontà proprie e alle tradizioni umane, sulla condotta di vita conforme all’evangelo, sull’accoglienza del regno di Dio9. Segue poi il discorso La fede10, che respira la stessa preoccupazione: enunciare l’ortodossia della fede trinitaria per assicurare l’autentica obbedienza alla parola di Dio. Le Regole morali poi, organizzate in ottanta capitoli, non sono altro che centoni di passi del Nuovo Testamento sulla condotta di vita dei cristiani, dalla conversione iniziale, passando per il comandamento dell’amore fino al magnifico ritratto finale del cristiano. Le Regole morali sono certamente agli occhi di Basilio il pezzo forte dell’Asceticon e già attraverso il loro genere letterario indicano la sua preoccupazione fondamentale: riformare il movimento ascetico attraverso l’obbedienza alla parola di Dio. È noto come Basilio non attribuisca mai agli asceti il nome di monaci. Si rivolge ai fratelli in Cristo, ai cristiani. Questa scelta consapevole indica che per lui l’asceta cristiano è chiamato a diventare un cristiano autentico. Il capitolo 80 traccia un magnifico ritratto del cristiano. Un breve estratto permette di cogliere la radicalità dell’obbedienza cristiana alla parola di Dio: Che cosa è proprio del cristiano? La fede operante mediante l’amore (Gal 5,6). Che cosa è proprio della fede? Piena e indubbia certezza della verità delle parole ispirate da Dio, non neau, Recherches patristiques. Enquêtes sur des manuscrits, textes inédits, études, Amsterdam 1974, pp. 333-349. Curiosamente omette di commentare il ruolo importante che questa parola di Gesù ha in Basilio il Grande. 9 Cf. Basilio di Cesarea, Lettera sulla concordia 8, pp. 28-31. 10 Cf. Id., La fede, in Id., Opere ascetiche, pp. 86-97.

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soggetta a oscillazione dovuta a qualsiasi pensiero, sia esso indotto da necessità fisica o camuffato sotto aspetto di pietà. Che cosa è proprio del fedele? Il conformarsi con tale piena certezza al significato delle parole della Scrittura, e non osare togliere o aggiungere alcunché (cf. Gal 3,15). Se infatti tutto ciò che non è dalla fede è peccato (Rm 14,23), come dice l’Apostolo, ma la fede è dall’udito e l’udito poi mediante la parola di Dio (Rm 10,17), allora tutto ciò che è al di fuori della Scrittura ispirata, non essendo dalla fede, è peccato. Che cosa è proprio dell’amore di Dio? Osservare i suoi comandamenti allo scopo di rendergli gloria. Che cosa è proprio dell’amore per il prossimo? Non cercare le cose proprie, ma quelle di colui che si ama (cf. 1Cor 13,5), a beneficio tanto del suo corpo che della sua anima11.

Quale ascesi cristiana?

Quando Basilio, verso la metà del iv secolo, rientra ad Atene dopo un breve soggiorno in patria, decide di chiedere il battesimo e desidera al tempo stesso realizzare il suo desiderio di una consacrazione totale a Dio, a lungo carezzata con il suo amico Gregorio il Teologo. Basilio cerca una guida sul cammino dell’obbedienza radicale all’evangelo. Visita gli asceti e i monaci del suo tempo in Egitto, in Palestina, in Siria, in Mesopotamia12. 11

Id., Regole morali 80,22, in Id., Opere ascetiche, pp. 207-208. Cf. Id., Lettere 223,2, in Id., Lettres III, a cura di Y. Courtonne, Paris 1966, pp. 10-11. La lettera, tristissima, fu scritta nell’autunno del 375 al momento della rottura tra Basilio ed Eustazio di Sebaste. L’anziano vescovo in quel momento appoggiò l’eresia pneumatomaca, rifiutando di confessare la divinità dello Spirito santo. La sintesi di J. Gribomont, s.v. “Eustathe de Sébaste”, in Dictionnaire d’Histoire et de Géographie Ecclésiastique VI, Paris 1967, coll. 26-33 resta ancora valida. Si veda anche J. Gribomont, s.v. “Eustathe de Sébaste”, in Dictionnaire de Spiritualité IV/2, a cura di M. Viller et al., Paris 1961, coll. 1708-1712. 12

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Comunione e solitudine secondo Basilio di Cesarea

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Non sembra che il neofita abbia veramente trovato il padre spirituale che cercava. Lo trova alla fine, gli sembra, nella propria patria. Fin dall’infanzia ha sentito parlare di un personaggio particolare, Eustazio l’Asceta, eletto vescovo di Sebaste nel 35713. Eustazio, in effetti, intratteneva contatti stretti con la famiglia di Basilio. Quante volte ci hai fatto visita nella casa sulle rive dell’Iris, quando ero là con il fratello molto amato da Dio, Gregorio, che cercava di realizzare il mio stesso ideale di vita? Quanti giorni abbiamo trascorso nel villaggio dell’altra riva, da mia madre, dove come amici ci intrattenevamo vicendevolmente, discorrendo giorno e notte14?

Così ricorda Basilio. Era stato l’irradiamento ascetico di Eustazio a incoraggiare diversi membri della famiglia – la madre, Macrina la Giovane, il fratello minore Naucrazio – a condurre vita ascetica15. Che cosa attirava Basilio verso Eustazio? Non è facile rispondere. È lecito supporre che oltre alla sua radicalità nell’ascesi, l’esempio dell’impegno ecclesiale e diaconale di Eustazio abbia avuto pari importanza. Dopo la consacrazione episcopale, negli anni 370-372, Basilio chiamò tre discepoli di Eustazio, il presbitero Eleusinio e i fratelli Basilio e Sofronio, ad aiutarlo a organizzare il centro di ospitalità che intendeva fondare sul modello di quello di Sebaste16. Agli occhi di Basilio, Eustazio appare come il vescovo-asceta, disinteressato nel ministero, fedele alla fede di Nicea, privo di ambizioni mondane o dispotiche. 13

Cf. Basilio di Cesarea, Lettere 244,1, vol. III, pp. 73-74. Ibid. 223,5, p. 14. 15 Si veda il giusto apprezzamento di Pierre Maraval in Grégoire de Nisse, Vie de sainte Macrine, a cura di P. Maraval, SC 178, Paris 1971, pp. 51-52. 16 Cf. Basilio di Cesarea, Lettere 223,3, p. 11 e Id., Lettere 119, in Id., Lettres II, a cura di Y. Courtonne, Paris 1961, pp. 24-25. 14

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Ci si deve tuttavia porre la domanda: Eustazio e Basilio avevano lo stesso ideale ascetico ed ecclesiale? Anche se le testimonianze indirette che possediamo della visione di Basilio su questo tema sono successive alla rottura tra i due e dunque influenzate da essa, è lecito dubitarne. Basilio, di fronte a certe derive monastiche contemporanee ha sviluppato una visione personale, riformatrice. Si potrebbe riassumerla con la felice formula di Anfilochio di Iconio “vivere da monaco in modo ecclesiale” (monázon ekklesiastikôs)17. Due testimonianze possono aiutarci a trovare una prima risposta a questa domanda. Gregorio di Nazianzo ci offre una descrizione della vita ascetica che lui stesso aveva condotto insieme a Basilio al momento del loro primo ritiro ad Annesi in un tempo in cui Eustazio di Sebaste restava il punto di riferimento fondamentale. Chi potrebbe farmi tornare “ai giorni di un tempo” (cf. Gb 29,2), quando con te godevo nel soffrire? Poiché la sofferenza accettata volentieri ha più valore del piacere provato controvoglia. Chi mi darà quelle salmodie, quelle veglie, quei viaggi fino a Dio nella preghiera e quella vita estranea alla materia e al corpo? Chi mi darà quell’unione di natura e d’anima con i fratelli da te divinizzati ed elevati? Chi mi darà quell’emulazione e quell’incitamento alla virtù, che noi abbiamo rinsaldato con regole e leggi scritte18? Chi lo zelo per le parole divine e questa luce che scoprivamo, guidati dallo Spirito? O, per parlare di cose più piccole e ordinarie, chi mi darà i servizi quotidiani e i lavori manuali? La legna da trasportare e le pietre da tagliare? Le piante da curare e da innaffiare19? 17 Anfilochio di Iconio, Contro gli eretici 15, in Amphilochii Iconiensis opera. Orationes, pluraque alia quae supersunt nonnulla etiam spuria, a cura di C. Datema, CCSG 3, Turnhout 1978, p. 199. 18 Si tratta delle Regole morali. 19 Gregorio di Nazianzo, Lettere 6,2-5, in Id., A un amico. Lettere a Basilio ed Epigrammi, a cura di L. Cremaschi e B. Mariano, Bose 2003 (Testi dei padri della chiesa 62), p. 15. Robert Pouchet situa questa lettera nel 359, nel contesto degli scambi epi-

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Comunione e solitudine secondo Basilio di Cesarea

Il Teologo sottolinea diversi tratti fondamentali della loro comune ricerca della perfezione evangelica: lo spirito di penitenza, la ricerca delle virtù, le celebrazioni liturgiche, la preghiera e la meditazione della parola di Dio, i lavori manuali, la composizione di regole di vita secondo l’evangelo tratte dalla Scrittura20. Gregorio di Nissa, dal canto suo, evoca alla fine del suo trattato La verginità la figura di suo fratello, cosa che la dice lunga sulle preoccupazioni causate ai vescovi dalle comunità monastiche e sulla nebulosa di asceti, uomini e donne, che vivevano la loro conversione nel quadro della propria famiglia o nell’entourage dei vescovi o dei corepiscopi ormai onnipresenti nelle chiese dell’Asia Minore21. Quali erano le deviazioni del movimento ascetico che Basilio, stando a quel che ci dice Gregorio, doveva affrontare? Non senza una certa enfasi retorica il Nisseno le denuncia alla fine del suo trattato22. Indica la mancanza di esperienza e di intelligenza di certi giovani candidati alla vita ascetica. Privi di una guida spirituale si perdono facilmente23. Questi ingenui nutrono illusioni sul loro progresso spirituale. Altri confondono il loro sincero desiderio di perfezione con la realtà e si gonfiano d’orgoglio. Tralasciano il lavoro e si abbandonano all’ozio, tralasciastolari tra i due amici a proposito del loro ritiro: cf. R. Pouchet, Basile le Grand et son univers d’amis d’après sa correspondance. Une stratégie de communion, Roma 1992, pp. 93-100. Il passo citato presenta i tratti fondamentali del proposito ascetico di Basilio. 20 Cf. F. Gautier, La retraite et le sacerdoce chez Grégoire de Nazianze, Turnhout 2002, pp. 281-291. 21 Cf. Gregorio di Nissa, La verginità, in Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo, La verginità, a cura di S. Lilla, Roma 1976. Il testo viene collocato tra il 371 e il 378. Saremmo inclini a collocarlo dopo la rottura tra Eustazio e Basilio, poiché quest’ultimo è presentato come la guida ideale delle fraternità ascetiche. I monaci, a motivo di uno zelo spesso cieco, si mostravano facilmente turbolenti e inclini a rompere la comunione con il loro vescovo, come prova il discorso 6 di Gregorio di Nazianzo in Id., Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini, Milano 2000, pp. 225-249. Il “discorso irenico” di riconciliazione va datato probabilmente al 364. 22 Cf. Gregorio di Nissa, La verginità 23, pp. 113-114. 23 Cf. Basilio di Cesarea, Regole diffuse 27, in Id., Le regole. Regulae fusius tractatae. Regulae brevius tractatae, a cura di L. Cremaschi, Bose 1993, pp. 156-157.

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no l’obbedienza ai comandamenti per inseguire sogni24. Gregorio stigmatizza poi degli asceti “che scambiano per virtù il loro modo di vivere appartato e selvaggio, che non rispettano il comandamento dell’amore e che non conoscono i frutti della magnanimità e dell’umiltà”25. Continua evocando le cadute deplorevoli dovute a errori di discernimento: austerità disumane e mortifere o lassismo morale, qualificato con il bel nome di “fraternità”26. Infine Gregorio propone il ritratto dell’autentico maestro spirituale. Senza che sia esplicitamente nominato, il lettore capisce che Gregorio fa riferimento a suo fratello Basilio il Grande, ancora in vita27. Questo corifeo si trova alla testa di una fraternità esemplare di cui Gregorio loda l’emulazione mistica. Ma non si tratta della stessa vena d’amore di Dio che si legge in certi passi delle Omelie sui Salmi di Basilio, che normalmente è molto sobrio? Ecco il contesto nel quale possiamo collocare l’opera riformatrice del vescovo di Cesarea. Le iniziative di Basilio il Grande per la riforma della vita religiosa hanno destato critiche. Gli si è rimproverato di emulare Eustazio di Sebaste. Ma ancora di più. Atarbio, un suo cugino che era vescovo di Neocesarea, gli rimprovera di innovare nell’organizzazione delle comunità da lui guidate (siamo nel 376)28. Basilio si difende descrivendo gli usi liturgici da lui introdotti: introduzione delle ore canoniche, salmodia a due cori su diversi toni musicali, eccetera. Aggiunge tuttavia: Noi ci gloriamo di avere dei gruppi (syntágmata) di uomini e di donne la cui vita è quella dei cittadini del cielo (cf. Fil 3,20),

24

Cf. ibid. 37, pp. 175-182. Gregorio di Nissa, La verginità 23, p. 113. 26 È il caso di pensare alle virgines subintroductae? 27 Cf. Gregorio di Nissa, La verginità 23, p. 110. 28 Cf. Basilio di Cesarea, Lettere 207,2-4, vol. II, pp. 184-187. Si veda R. Pouchet, Basile le Grand, pp. 347, 473-479. 25

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che hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri (cf. Gal 5,24), che non si preoccupano né del cibo né del vestito. Non si lasciano distrarre, restano assidui nel Signore e perseverano notte e giorno nelle preghiere. La loro bocca non parla di opere umane, ma canta continuamente inni al nostro Dio. Lavorano con le loro mani per poter condividere i loro averi con i bisognosi29.

Notiamo qui due elementi essenziali agli occhi del Cappadoce. L’asceta, al pari di ogni cristiano, deve lavorare per poter provvedere ai bisogni dei suoi fratelli e delle sue sorelle in umanità. Attua così quella comunione voluta da Dio nella creazione e nella redenzione. Questo equilibrio dell’ora et labora è ampiamente esposto nelle Regole diffuse 30. Basilio, poi, preoccupato di far custodire il buon ordine nelle comunità ascetiche, introduce nuovi usi liturgici31. La comunità radunata attorno a Macrina ad Annesi, secondo la testimonianza di Gregorio di Nissa, conosce anch’essa una vita liturgica strutturata, senza che sia possibile sapere in che misura si tratta di uno sviluppo interno a partire da usanze ecclesiastiche locali o di un’adesione alle disposizioni volute da Basilio32, o le due cose insieme. Le testimonianze invocate confermano fondamentalmente quelle della duplice prefazione del Grande Asceticon.

29

Basilio di Cesarea, Lettere 207,2, pp. 185-186. Cf. Id., Regole diffuse 37, pp. 175-182 (“Bisogna trascurare il lavoro con il pretesto della preghiera e della salmodia? E quali sono i tempi opportuni per la preghiera? E, prima ancora, bisogna lavorare?”). 31 Si veda J. Mateos, “L’office monastique à la fin du ive siècle: Antioche, Palestine, Cappadoce”, in Oriens Christianus 47 (1963), pp. 53-88; R. F. Taft, The Liturgy of the Hours in East and West. The Origins of the Divine Office and its Meaning for Today, Collegeville 1985, pp. 84-88. 32 Cf. le pagine che Maraval consacra all’introduzione di Grégoire de Nysse, Vie de sainte Macrine, pp. 68-89. La Vita è stata scritta alla fine del 381 o nel 382. 30

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Le prime sette “Domande e risposte” del “Grande Asceticon”

Se vogliamo scoprire le intime convinzioni di Basilio su “comunione e solitudine” dobbiamo volgerci alle prime sette Domande e risposte del Grande Asceticon. Esse ci offrono l’indiscutibile vantaggio di poter essere paragonate alle prime tre Domande e risposte del Piccolo Asceticon, che risale al ministero presbiterale di Basilio presso comunità di asceti. La redazione degli scritti ascetici di Basilio si estende su una ventina d’anni, dal 357-358 alla sua morte. A più riprese le ha ampliate, rielaborate e rimaneggiate in funzione della sua maturazione personale e dei problemi sorti dalla vita delle comunità. Sessant’anni fa padre Jean Gribomont ha chiarito le linee di forza della loro genesi e del loro sviluppo33. Abbiamo già parlato della duplice prefazione che introduce la redazione definitiva degli scritti ascetici (elaborata tra il 372 e il 378)34. Abbiamo ricordato anche l’importanza di questa duplice prefazione per comprendere il legame costitutivo tra la comunione ecclesiale e la comunione fraterna in seno alle comunità ascetiche. Uno stato anteriore degli scritti ascetici è dunque attestato dalla traduzione latina che ne ha fatto Rufino di Aquileia nel 39735. Una forma di questo primo stato esiste anche in una versione siriaca36. La complessità dei diversi stati dell’Asceticon non impedisce tuttavia, in attesa delle edizioni critiche del greco e 33

Cf. J. Gribomont, Histoire du texte des Ascétiques de S. Basile, Louvain 1953. Il Grande Asceticon è suddiviso in 55 Regole diffuse, o meglio Domande-risposte e 313 Regole brevi, o meglio Domande-risposte. In attesa dell’edizione critica di P. J. Fedwick citiamo secondo il testo edito in PG 31 (tr. it. in Basilio di Cesarea, Le regole, a cura di L. Cremaschi, Bose 1993). 35 Edizione critica in Basilii regula a Rufino latine versa, a cura di K. Zelzer, CSEL 86, Wien 1986. Cf. A. de Vogüé, Histoire littéraire du mouvement monastique dans l’Antiquité, III. Jérôme, Augustin et Rufin au tournant du siècle (391-405), Paris 1996, pp. 247-294. 36 Cf. É.Baudry, “Apports de la tradition manuscrite syriaque du Petit Ascéticon. Pour une meilleure connaissance de l’histoire du texte de l’Ascéticon de s. Basile le Grand”, in Studia Monastica 50 (2008), pp. 41-68. 34

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Comunione e solitudine secondo Basilio di Cesarea

del siriaco, di discernere l’evoluzione globale delle convinzioni di Basilio37. Si impone un’osservazione d’insieme sull’evoluzione del pensiero e della pratica del Cappadoce. Da una parte, la convinzione di Basilio sul necessario inserimento ecclesiale delle comunità ascetiche si rafforza e si argomenta nella sequenza di rimaneggiamenti con un numero maggiore di testimonianze bibliche; ma, d’altra parte, la dinamica interna delle comunità ascetiche, siano esse rurali o suburbane, come ad esempio gli asceti che prestavano servizio nella “Basiliade” presso Cesarea, li spinge a un’organizzazione interna più gerarchica, in altri termini a un’istituzionalizzazione che rischiava di farne un’élite cristiana o anche un’autorità parallela nella chiesa38. Le prime sette Domande e risposte formano un insieme fortemente strutturato. Basilio comincia a rispondere alla domanda se esista un ordine (táxis-akolouthía) nei precetti salutari di Dio. Con Gesù (cf. Mt 22,3-39) pone come primo e fondamentale l’amore di Dio e del prossimo. La seconda Domanda e risposta tratta di conseguenza dell’amore di Dio. Basilio afferma che l’amore di Dio è spontaneo nella natura umana; si tratta di un’inclinazione innata, di un desiderio naturale, di uno spermatikós tis lógos, in termini attuali fa parte del nostro dna. Conviene coltivare questo buon seme del verbo (Verbo?) e portarlo a maturità. Si sarebbe tentati di avvicinare tale affermazione alla posizione stoica la quale ritiene che ogni essere obbedisce alla sua natura e che l’uomo, essere do37 Disponiamo di una traduzione inglese recente che, a prezzo di un notevole sforzo tipografico, consente di cogliere facilmente le variazioni tra il Piccolo e il Grande Asceticon: A. M. Silvas, The Asketikon of St. Basil the Great, Oxford 2005. Si consulterà con profitto la recensione di quest’opera a cura di B. Gain pubblicata in Revue des É´tudes Augustiniennes et Patristiques 56 (2010), pp. 111-115. 38 Per una buona presentazione globale, cf. J.-R. Pouchet, “L’expérience, le rayonnement et l’originalité ascétique de saint Basile. Histoire et actualité”, in Collectanea Cisterciensia 54 (1992), pp. 43-65.

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tato di ragione, deve vivere secondo la sua natura di essere razionale, cosa che lo conduce a vivere in accordo o in armonia con la natura universale, che è il logos universale. A un esame più attento constatiamo una differenza radicale. Questo desiderio di amare Dio e di essere amati da lui è voluto da Dio; corrisponde al suo disegno creatore. Egli ha posto in noi la capacità di amare e il suo comandamento dell’amore è conforme alla nostra natura profonda, originale. Quando questa capacità è stata ferita dal peccato, il Figlio di Dio incarnato ci ha mostrato in azioni e in parole come vivere e realizzare la nostra umanità dotata di ragione. Gesù Cristo ci ha rivelato in lui e desta in noi questo amore (contemplazione della bellezza di Dio e stupore dinanzi a essa), un amore travolgente, che è il motivo ultimo dell’ascesi battesimale cristiana. Bisogna amare Dio e ricordarsi di lui come i bambini stanno attaccati al seno della madre. Questa pagina stupenda è centrale: ciò che muove, mantiene e orienta l’universo è l’amore di Dio, dalla creazione alla venuta del Regno. Quest’amore di Dio è razionale (loghikós) e folle. Il nostro amore per Dio deve assomigliare sempre di più all’amore di Dio per l’umanità. Si fraintende il cosiddetto “rigorismo” di Basilio se si fa astrazione di simili sviluppi. La severità di Basilio non è che l’espressione dell’esigenza assoluta del suo desiderio d’amore per Dio, la sua gelosia per l’Amato39. Egli enumera poi i motivi per i quali dobbiamo amare Dio: è nostro Padre e benefattore; ci ha creati, ci ha dato l’intelligenza e la libertà; dopo la caduta ci ha riscattato; ci destina alla felicità eterna. Basilio ritorna allora al tema della serietà dell’amore: non rispondervi equivale a offenderlo (óneidos). Quest’offesa è l’esatto opposto della glorificazione di Dio40. 39 Alla domanda: “Qual è la misura dell’amore per Dio?”, Basilio risponde: “Quella di protendere sempre l’anima verso la volontà di Dio, al di là delle nostre forze (cf. Fil 3,13), cercando e desiderando la sua gloria” (Basilio di Cesarea, Regole brevi 211, in Le regole, p. 355). 40 “D. Con quale disposizione d’animo bisogna servire Dio? E, in generale, in che cosa consiste questa disposizione? R. Ritengo che una buona disposizione d’animo

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Comunione e solitudine secondo Basilio di Cesarea

La terza Domanda e risposta tratta dell’amore del prossimo. Se l’amore di Dio è innato nell’uomo, ne consegue che lo sarà anche l’amore per il prossimo41.

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Chi non sa che l’uomo è un essere mite e socievole (hémeron kaì koinonikón), e non solitario (monastikón) e selvaggio (ágrion)? Nulla, infatti, è così specifico della nostra natura quanto l’entrare in rapporto gli uni con gli altri (tò koinoneîn allélois), l’aver bisogno gli uni degli altri e l’amare il nostro simile42.

Nella nona omelia Sull’esamerone Basilio aveva spiegato che ogni animale, in virtù della creazione, possiede un carattere proprio alla sua natura. Offre alcuni esempi, tra i quali quello del leone: Nacque con il leone il suo coraggio, e il suo modo di vita solitario, la sua indole asociale con quelli della sua stessa specie.

consista nel vivo desiderio di piacere a Dio (cf. Eb 11,5; Gal 5,24), desiderio insaziabile, incrollabile, immutabile. La si ottiene mediante la sapiente e costante contemplazione della maestosa gloria di Dio, mediante pensieri di gratitudine e il ricordo incessante dei beni ricevuti da Dio. E questo fa nascere nell’anima l’Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutte le tue forze, con tutta la tua mente (Mc 12,30), a imitazione di colui che disse: Come la cerva anela alle fonti delle acque, così l’anima mia anela a te, o Dio (Sal 42,2). Con tale disposizione d’animo bisogna servire Dio, compiendo quello che ha detto l’Apostolo: Chi ci separerà dall’amore di Cristo? La tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la nudità, il pericolo, la spada? (Rm 8,35) e il seguito” (Id., Regole brevi 157, pp. 325-326). 41 “D. Con quale disposizione d’animo dobbiamo servire i fratelli? R. Come se prestassimo servizio al Signore stesso, che ha detto: Tutto quello che avete fatto a uno di questi più piccoli dei miei fratelli, l’avete fatto a me (Mt 25,40). Il fatto che anche quelli che ricevono le nostre cure si comportino da fratelli del Signore contribuisce a custodire tale disposizione d’animo. Perciò coloro che presiedono devono aver cura di loro con particolare sollecitudine affinché per amore del corpo non diventino schiavi del loro ventre e dei piaceri, ma invece per amore di Dio e di Cristo, tramite una perfetta pazienza, diventino vanto del Signore a scherno del demonio, come il giusto Giobbe (cf. Gb 42,10)” (Id., Regole brevi 160, p. 327). 42 Id., Regole diffuse 3,1, p. 85.

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Quale tiranno degli animali, per la sua naturale alterigia, non accetta di stare alla pari con gli altri43.

Ecco un punto chiaro: il cristiano non è un “animale monastico”! Basilio prosegue mostrando la mutua inclusione dell’amore di Dio e del prossimo. Il Signore Gesù ne è la prova, lui che ha versato il suo sangue per noi sulla croce. La quarta Domanda e risposta costituisce un momento di transizione e tratta del rapporto tra il timore e l’amore di Dio. Come vivere l’amore di Dio e del prossimo? Ecco la sfida essenziale agli occhi di Basilio. Le tre Domande e risposte seguenti tentano di rispondere. Il cristiano non deve lasciarsi distogliere dalla presenza di Dio e dal ricordo costante dei suoi benefici (Domanda e risposta 5). L’uomo-peccatore è diventato un uomo distratto, dissipato, egoista, e dunque dimentico dell’amore di Dio e del prossimo. Bisogna dunque creare condizioni propizie al raccoglimento, all’attenzione, al ricordo di Dio. Il nostro spirito deve tendere verso la non-dissipazione (ameteóriston)44. Basilio non può essere più esplicito: E così, quell’esercizio per piacere a Dio45, secondo l’evangelo di Cristo, si realizza con il ritrarsi dalle preoccupazioni del mondo e l’abbandonare assolutamente ogni distrazione46.

43 Id., Sull’Esamerone IX,3,2-3, in Id., Sulla Genesi, a cura di M. Naldini, Milano 1990, p. 277. 44 Cf. la nota alla riga 170 in Basilio di Cesarea, Il battesimo, a cura di U. Neri, Brescia 1976, pp. 144-145. 45 “Piacere a Dio” è una categoria fondamentale della vita cristiana per Basilio e proviene dal registro dell’amore di cui ha trattato in Id., Regole diffuse 2, pp. 78-85. Si veda M. Simon, “Plaire à Dieu selon les Règles monastiques de S. Basile”, in Collectanea Cisterciensia 39 (1977), pp. 239-249. 46 Basilio di Cesarea, Regole diffuse 5,1, pp. 89-90.

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Il fine perseguito è quello di vivere nel ricordo incessante di Dio e di obbedire ai suoi precetti: Dobbiamo custodire con ogni cura il nostro cuore (cf. Pr 4,23) perché non ci accada di scacciare il pensiero di Dio o di infangare con fantasmi di cose vane il ricordo delle sue meraviglie; dobbiamo piuttosto perseverare nel santo pensiero di Dio mediante un ricordo incessante e puro, impresso nelle nostre anime come sigillo indelebile. In questo modo resta vivo in noi l’amore di Dio che ci incita all’adempimento dei comandamenti del Signore e, a sua volta, viene custodito e reso duraturo e saldo per mezzo loro47.

Vivere in presenza di Dio è associato al ricordo di Dio (mnéme toû Theoû), frutto della meditazione assidua delle sante Scritture e della preghiera. Ecco un altro pilastro dell’ascesi cristiana48. È il caso di domandarsi se Basilio esortando alla non-divagazione (tò ameteóriston) non si rivolga ai numerosi asceti, uomini e donne, che conducevano vita “monastica” in seno alla loro famiglia di cui condividevano inevitabilmente le preoccupazioni. La Domanda e risposta successiva consoliderà la sua raccomandazione. Questo porta a interrogarsi su quali fossero gli ascoltatori e i lettori del santo. Nelle Domande e risposte 5-7 ci troviamo in presenza delle tre specie di asceti di cui parla Gregorio di Nazianzo, i “migadi” (Regole diffuse 5), 47 Ibid. 5,2, p. 92. Cf. anche Id., Regole brevi 202, p. 350. Nell’omelia Veglia su di te, Basilio ricorre a un paragone: “Atleta, veglia su di te per non trasgredire nessuna delle regole atletiche. Nessuno riceve la corona se non ha lottato secondo le regole (2Tm 2,5). Imita Paolo nella corsa, nella lotta, nel pugilato (cf. 1Cor 9,26) e, come un atleta esperto, custodisci scevro da distrazioni (ameteóriston) lo sguardo dell’anima tua. Protendendo le mani, proteggi le parti vitali; il tuo occhio prenda di mira l’avversario. Nelle corse guarda a chi sta davanti (cf. Fil 3,13)” (Id., Veglia su di te 4, a cura di L. Cremaschi, Bose 1993 [Testi dei padri della chiesa 6], p. 18). 48 Cf. M. Van Parys, “Memoria di Dio e preghiera in Basilio di Cesarea”, in Basilio tra oriente e occidente, pp. 111-125.

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gli eremiti e i cenobiti che vivono in disparte dal mondo (Regole diffuse 6 e 7)49? La Domanda e risposta 6 si apre con la frase: “Anche il vivere in un luogo appartato aiuta l’anima a non disperdersi”50. Il vocabolario scelto da Basilio “vivere in un luogo appartato” (idiázo) non è casuale. Filone di Alessandria lo aveva già impiegato per parlare della solitudine contemplativa di Isacco (cf. Gen 24,63) e di Mosè51. Gregorio di Nazianzo, da parte sua, lo utilizza nel suo elogio del “filosofo” (il monaco) cristiano, che è dedito alla cura di sé, al raccoglimento contemplativo e al bene comune52. Basilio esorta non solo al distacco da un ambiente che espone al peccato, ma anche a un ritiro che evita le sollecitazioni del peccato. Solo così l’asceta si metterà alla sequela di Cristo portando con lui la croce. Un simile ritiro favorisce maggiormente la presa di coscienza del peccato, ma soprattutto favorisce il ricordo di Dio e la ruminazione della parola di Dio. La Domanda e risposta 7, infine, si trova al cuore della nostra analisi. Ecco la sintesi del contenuto che precede la domanda: “Bisogna vivere insieme a chi prova lo stesso desiderio di piacere a Dio. È difficile e pericoloso vivere da soli (monázo)”53. Segue la domanda degli asceti: Poiché le tue parole ci hanno convinto che è pericoloso vivere insieme a quelli che disprezzano i comandamenti del Signore, vorremmo allora apprendere se chi si è allontanato da costoro debba vivere solo (idiázein kath’heautón) o debba inve-

49 Si veda la ricerca di F. Gautier, La retraite et le sacerdoce chez Grégoire de Nazianze, pp. 54-69. 50 Basilio di Cesarea, Regole diffuse 6,1, p. 96. 51 Cf. Filone di Alessandria, Le allegorie delle leggi 3,14, in Id., Tutti i trattati del Commentario allegorico alla Bibbia, a cura di R. Radice, Milano 2005, p. 209; Id., Vita di Mosè 2,161.163, a cura di P. Graffigna, Milano 1998, p. 211. 52 Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi 25,5-6, pp. 603-605. 53 Basilio di Cesarea, Regole diffuse 7, p. 98.

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ce unirsi a dei fratelli che provano lo stesso desiderio e si sono proposti lo stesso fine di vivere cristianamente54.

Ascoltiamo la risposta di Basilio. Comincia con il porre la conclusione che argomenterà in dettaglio: “Io trovo che per molti aspetti è più utile vivere insieme”55. Il vocabolario qui impiegato è capitale perché situa l’argomentazione che seguirà nella categoria del chrésimon (cf. 2Tm 2,14), dell’utile, di ciò che è vantaggioso e utile. “Ciò che è utile” è frutto di un discernimento. Così il Cappadoce nel suo Discorso ai giovani cercherà di stabilire ciò che è utile nell’antica letteratura pagana. “Ma riprendiamo l’argomento di cui parlavo all’inizio, che cioè non si deve accogliere tutto indistintamente, bensì quanto è utile (chrésima)”56. Basilio, su questo punto, si mostra erede di Origene e di Clemente di Alessandria. Gregorio il Taumaturgo, al momento di rivolgere il saluto ad Origene dice: “Sceglieva con cura e ci proponeva tutto ciò che era vero e utile di ciascun filosofo. Scartava, invece, quanto era falso, soprattutto a proposito dell’umana pietà”57. Notiamo il comparativo della Regola diffusa 7: “più utile”. Non siamo dunque in presenza di una presa di posizione radicale. Basilio vuol dire: è molto meglio… Ciò che è utile, infat54

Ibid., pp. 98-99. Ibid., p. 99. 56 Id., Discorso ai giovani 8,1, a cura di M. Naldini, Firenze 19902, p. 110; cf. ibid. 4,10, p. 94 e i commenti alle pp. 46-49, 144. Questo atteggiamento di Basilio è riscontrato da Gregorio di Nazianzo, Discorsi 43,11, pp. 1041-1043. Ugualmente Anfilochio d’Iconio nei Giambi a Seleuco vv. 39.43, in Id., Iambi ad Seleucum, a cura di E. Oberg, Berlin 1969, pp. 30, 53. 57 Gregorio il Taumaturgo, Discorso a Origene 14,172-173, a cura di E. Marotta, Roma 1983, p. 86. Si noterà ugualmente il titolo dato dai filocalisti, Basilio e Gregorio, alla Lettera di Origene a Gregorio: “Quando e a chi gli insegnamenti della filosofia sono utili per la spiegazione delle sacre Scritture, con una testimonianza della Scrittura” (Grégoire le Thaumaturge, Remerciement à Origène. La lettre d’Origène à Grégoire, a cura di H. Crouzel, SC 148, Paris 1969, pp. 186-187; si veda il commento di M. Harl in Origène, Philocalie, 1-20 sur les E´critures. La lettre à Africanus sur l’histoire de Suzanne, a cura di M. Harl e N. De Lange, SC 302, Paris 1983, pp. 399-404). 55

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ti, lo si valuta in base a un discernimento che concerne la vita concreta dell’uomo. Più importante ai suoi occhi sarà l’accordo profondo tra l’ordine della creazione all’origine e quello della redenzione, testimoniati dalla parola di Dio. Il primo motivo avanzato da Basilio è che l’uomo è una creatura che non è autosufficiente, a immagine del suo corpo le cui membra hanno bisogno le une delle altre. Così anche la vita solitaria contravviene a questa solidarietà iscritta in noi dal Creatore e infrange il precetto della carità. La vita solitaria poi è privata dell’indispensabile correzione fraterna. Il solitario si espone all’illusione spirituale perché non si accorge più delle proprie colpe. Si trova, del resto, nell’impossibilità di obbedire all’insieme dei comandamenti del Signore: come è possibile contemporaneamente curare i malati, accogliere gli ospiti, provvedere ai bisogni dei poveri? In altre parole non possiamo vivere l’evangelo se non in comunità58. Questa osservazione si apre allora a un terzo argomento, quello dell’unico corpo, di cui Cristo è la testa, con i suoi carismi diversi. L’argomentazione si appoggia su Paolo: Se non prendiamo parte concordemente all’edificazione di un unico corpo nello Spirito santo, ma ciascuno di noi sceglie la solitudine, senza servire l’interesse generale a utilità comune, come è gradito a Dio, ma appagando la propria passione di autocompiacimento, come potremo, separati e divisi, custodire la mutua connessione delle membra e il servizio reciproco o la sottomissione al nostro capo, cioè a Cristo59? 58 Possiamo vedere come la celebre “Basiliade” alle porte di Cesarea prenda naturalmente posto nella funzione diaconale della chiesa locale e delle comunità ascetiche di ispirazione basiliana. Centro di accoglienza, centro di ospitalità, monastero per gli asceti che ne assicurano l’animazione spirituale e l’organizzazione, laboratori, case per i poveri, orti… la “Basiliade” è un villaggio che si ispira alla chiesa primitiva di Gerusalemme. Cf. A. Müller, “‘All das ist Zierde für den Ort…’. Das diakonische-karitative Grossprojekt des Basileios von Kaisareia”, in Zeitschrift für Antikes Christentum 13 (2009), pp. 452-474. 59 Basilio di Cesarea, Regole diffuse 7,2, pp. 101-103.

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Il carisma che ciascuno riceve dallo Spirito diventa il carisma di tutti. L’eremita al contrario possiede forse un unico carisma, ma rischia di renderlo inutile (áchrestos, non utile)60. Basilio, in seguito, dopo questo argomento centrale, enumera i vantaggi della vita cenobitica e gli svantaggi dell’eremitismo. L’ascesi in una comunità fraterna presenta molteplici vantaggi: la condivisione dei doni di Dio, l’appoggio vicendevole nella lotta spirituale, la correzione fraterna, l’incoraggiamento degli altri. La vita “monastica” invece si espone all’autosoddisfazione, all’ignoranza delle colpe e dei progressi, alla mancanza di umiltà, di bontà, di magnanimità61. In conclusione il Cappadoce comincia con il rifiutare un’obiezione: l’insegnamento delle Scritture può bastare a dirigere la nostra vita. Risponde che il Signore stesso ha dato l’esempio dell’umiltà cristiana lavando i piedi ai discepoli. “Chi, dunque, laverai? Di chi ti prenderai cura?”62. L’abitare insieme tra fratelli è un stadio ove lottare, una via sicura di progresso, un continuo esercizio e un’ininterrotta meditazione dei comandamenti del Signore. E il fine di questa vita comune è la gloria di Dio, secondo il comandamento del Signore nostro Gesù Cristo, che ha detto: Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e diano gloria al Padre vostro che è nei cieli (Mt 5,16). Questa vita conserva quei caratteri propri della vita dei santi di cui si parla negli Atti e dei quali sta scritto: Tutti i credenti stavano insieme e avevano tutto in comune (At 2,44), e ancora: La moltitudine dei credenti era un cuore solo e un’anima sola e nessuno diceva sua proprietà ciò che possedeva, ma ogni cosa era fra loro comune (At 4,32)63. 60

Cf. ibid., p. 104. Cf. ibid. 7,4, pp. 105-106. Ibid., p. 105. 63 Ibid., pp. 106-107. 61 62

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Quando si confronta la prima stesura della Regola diffusa 7 nel latino di Rufino con il testo greco disponibile del Grande Asceticon si constata innanzitutto un’amplificazione degli argomenti biblici. La vita comune inoltre permette di realizzare le opere di misericordia (assistenza di poveri, malati, stranieri). Per Basilio si tratta del più grande comandamento e di quello indispensabile per la salvezza. La vita in comunità favorisce poi l’attesa del ritorno del Signore. Diverse Domande e risposte rafforzano la convinzione che non si può vivere l’evangelo se non in comunità. Infine, ultimo complemento capitale: la vita comune ha quale fine la gloria di Dio secondo il comandamento di nostro Signore Gesù Cristo. Le Regole morali consacrano il quarto capitolo alla gloria di Dio, subito dopo quello consacrato all’amore di Dio e del prossimo, amore che si vive nell’obbedienza ai comandamenti64. Un rapido confronto della conclusione con la versione anteriore attestata dalla traduzione latina di Rufino mostra la maturazione del pensiero di Basilio65. Lo stadio della lotta è diventato ora la comunità fraterna, con un rinvio al salmo 133, citato poco prima. Il rinvio alla comunità primitiva di Gerusalemme è rafforzato dalla citazione di Atti 4,32. L’articolazione della conclusione stessa evidenzia due motivi essenziali della teologia basiliana: la glorificazione di Dio66 e la koinonia ecclesiale, il cui modello è la chiesa di Gerusalemme67. 64 Cf. Id., Regole morali 4, p. 110. Cf. anche: “D. In che modo si fa tutto a gloria di Dio (cf. 1Cor 10,31)? R. Quando si fa tutto per Dio, secondo il comandamento di Dio e senza cercare in nulla le lodi degli uomini, e quando dovunque ci si ricorda del Signore che ha detto: Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli (Mt 5,16)” (cf. Id., Regole brevi 195, p. 347). 65 Cf. Id., Piccolo Asceticon 3,37, in Basilii regula, pp. 31-32. 66 Un solo esempio ancora: “Unico è il modo di vivere la vita cristiana, poiché ha un unico scopo: la gloria di Dio” (Id., Regole diffuse 20,2, p. 143). 67 Un esempio tra tanti altri: “Perché per grazia di Dio, accogliendoci vicendevolmente, possiamo governare le chiese sull’antico modello della carità” (Id., Lettere 191, vol. II, p. 144). La lettera è indirizzata ad Anfilochio, vescovo di Iconio.

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Una conferma: la “Lettera” 295 La Lettera 29568 di Basilio è vicina per spirito e vocabolario impiegato alla Regola diffusa 7. Essa ci permette di cogliere la situazione concreta di una comunità ascetica dopo la rottura tra Basilio ed Eustazio di Sebaste69. La lettera è indirizzata, nel 376 o nel 377, a una comunità di asceti stabilita nel Ponto, ed è portata probabilmente dal fratello di Basilio, Pietro. Il vescovo di Cesarea ha personalmente reso visita a questa comunità e la sua lettera riassume l’essenziale degli insegnamenti dati a viva voce. La comunione nella fede professata e la comunione fraterna vi sono strettamente collegate. L’una e l’altra sono messe in pericolo dal comportamento dei discepoli di Eustazio. Ritengo che, per grazia di Dio, non abbiate bisogno di una nuova esortazione dopo le parole che vi abbiamo rivolto noi stessi esortandovi ad abbracciare la vita comune al fine di imitare la condotta degli apostoli (cf. At 1,14; 2,1). Le avete accolte come un buon insegnamento e ne avete reso grazie al Signore. Non sono semplici parole quelle che vi abbiamo fatto ascoltare, ma insegnamenti che devono essere messi in pratica, sia per la vostra edificazione, poiché ci sopportate pazientemente, sia per la nostra tranquillità poiché vi abbiamo presentato il nostro parere e questo a gloria e lode di Cristo (cf. Fil 1,11), il cui nome è stato invocato su di noi (cf. Gc 2,7; At 15,17). Per questo motivo ho inviato il nostro fratello molto desiderato perché riconosca ciò che mostra sollecitudine, incoraggi ciò che è negligente e ci comunichi ciò che oppone resistenza. Grande, infatti, è il mio desiderio di vedervi riuniti e raccolti70, e di sentirvi dire che non amate la 68

Cf. Id., Lettere 295, vol. III, pp. 168-170. Seguiamo l’interpretazione di R. Pouchet, Basile le Grand, pp. 573-574. 70 Cerco di rendere il duplice senso del greco synegménos, che significa contemporaneamente raduno in un luogo e raccoglimento interiore. Cf. Grégoire de Nysse, Traité de la virginité 6,2, a cura di M. Aubineau, SC 119, Paris 1966, p. 345, n. 4. 69

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vita privata dei testimoni, ma che piuttosto accettate tutti di essere i custodi della vostra vicendevole osservanza e i testimoni delle vostre belle azioni. Così ciascuno riceverà per sé la perfetta ricompensa e quella per il progresso del suo fratello; dobbiamo procurarcela gli uni per gli altri con la parola e con l’azione, grazie ad assidui incontri ed esortazioni. Prima di tutto vi esortiamo a custodire il ricordo della fede dei padri71 e a non lasciarvi smuovere da quelli che tentano di sviarvi a causa del nostro silenzio. Sappiate che né una condotta di vita osservante da sola è utile, a meno di essere illuminata dalla fede in Dio, né una retta confessione può raccomandarci presso il Signore a meno di essere partecipe di opere buone. Questo affinché l’uomo di Dio sia perfetto (cf. 2Tm 3,17) e perché la nostra vita non sia zoppicante per ciò che le manca. È la fede, infatti, che ci salva, dice l’Apostolo, quando essa opera attraverso la carità (cf. Gal 5,6)72.

Questa lettera ci riporta alla duplice prefazione del Grande Asceticon: la più grande preoccupazione di Basilio è quella di ritrovare la comunione ecclesiale attorno alla fede confessata a Nicea e di integrare pienamente il movimento monastico, con il suo sviluppo a volte incontrollato, in questa koinonia.

Basilio esclude la vita eremitica? Il carattere “più utile” della vita comune sembra corroborato da quello che Gregorio di Nazianzo riferisce nel panegirico del suo amico73, che menziona degli eremi vicino alle case dei 71

Quella del concilio di Nicea (325). Gal 5,6 è citato da Basilio anche alla fine della Lettera sulla concordia 8, p. 31 e apre la sezione sull’identità cristiana in Regole morali 80,22, p. 207. 73 Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi 43,52, pp. 1085-1087. 72

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cenobiti costruite da Basilio. Ma quali erano i rapporti tra questi eremi e la comunità? Gregorio non lo dice. Si può pensare che gli eremiti vivessero nell’obbedienza al priore della comunità. Nell’omelia consacrata ad Atanasio di Alessandria (nel 379), descrive la vita del papa di Alessandria nascosto tra i monaci, che univa nella sua persona i vantaggi del ritiro in solitudine e quelli della vita comune74. La Regola breve 74 conferma che il problema era ben lungi dall’essere teorico per le comunità ascetiche visitate da Basilio. D. Vorremmo apprendere dalla Scrittura se bisogna mandare via quelli che escono dalla comunità con l’intenzione di condurre vita solitaria (monére bíon) di vivere con pochi altri la vita cristiana. R. Poiché il Signore ha detto spesso: Il Figlio non fa nulla da se stesso (Gv 5,19), e: Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà del Padre che mi ha mandato (Gv 6,38), e l’Apostolo attesta: La carne ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito desideri contrari alla carne; si oppongono l’una all’altro, cosicché non facciamo ciò che vorremmo (Gal 5,17), tutto ciò che viene scelto per volontà propria è estraneo a quelli che temono Dio. Ma a proposito di questi tali abbiamo risposto più estesamente nelle Regole diffuse75.

La comunione con la chiesa

La chiesa, per Basilio il Grande, è in un certo senso “programmata” dalla comunità primitiva di Gerusalemme e dalla meta74 75

Cf. ibid. 21,9-12, pp. 515-519. Basilio di Cesarea, Regole brevi 74, p. 285.

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fora paolina del corpo di Cristo. Le due “note” principali della chiesa sono la carità (cf. Gv 13,35) e la pace (cf. Gv 14,27). Al papa di Roma, Damaso, scrive:

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Rinnovare i legami dell’antica forma della carità e ricondurre alla fioritura la pace dei padri, il dono celeste e salvifico di Cristo, appassito con il tempo, questo appare necessario, utile e dolce, lo so bene, anche al tuo cuore amante di Cristo76.

E in un’omelia svela l’afflizione del suo cuore di cristiano e di vescovo: Il ricordo dei mali mi trattiene dal parlare quando si insinua nel mio cuore. Le lacrime che scorrono soffocano la mia voce quando mi rendo conto che il Signore ci ha lasciato la carità (cf. Gv 13,35) e la pace (cf. Gv 14,27) e che noi non ci mettiamo alla ricerca di ciò che è perduto. Questo dono è diventato invisibile e non lo si trova in nessuno. La carità è stata abbandonata e la lotta prevale tra di noi. L’unione è stata abbandonata e l’odio acceso. Abbiamo acceso un gran rogo di odio gli uni contro gli altri. Ciascuno si lamenta per conto suo, ma non ci lasciamo riconciliare … La carità, la radice dei comandamenti è stata abbandonata. Ciascuno è divenuto come un grano di sabbia, non uniti gli uni agli altri ma separati. Non è possibile che un edifico resti in piedi quando le strutture che lo legano sono state tolte. Non è possibile che la chiesa cresca se essa non è stata legata dal vincolo della pace (cf. Ef 4,3) e della carità (cf. Col 3,14)77.

La comunità cristiana primitiva di Gerusalemme è il modello che ogni comunità cristiana deve imitare e cercare di raggiun76 Id., Lettere 70, in Id., Appello alle chiese d’occidente, a cura di L. Cremaschi, Bose 2001 (Testi dei padri della chiesa 50), p. 11. 77 Id., Omelie 29,1, PG 31,1488-1489.

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gere. L’insistenza su questo tema non varia tra la prima e la seconda redazione dell’Asceticon, ma il Grande Asceticon amplifica e rafforza la citazione dei sommari degli Atti degli apostoli78.

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Fin dagli inizi della sua vita ascetica Basilio si mostra preoccupato dell’unità della chiesa. La comunità monastica deve essere un modello per la riforma delle chiese e questa comunità deve costruirsi sulla descrizione che gli Atti degli apostoli danno della chiesa primitiva di Gerusalemme79.

Per tutti, asceti e cristiani nel mondo, la chiesa è “lo spazio-comunione” creato da Gesù Cristo nella forza sempre attuale dello Spirito santo per la gloria del Padre80. Bisognerebbe rileggere le Omelie sui salmi e il trattato Il battesimo, per cogliere questa mistica della chiesa di Cristo che lo spinge a riformare incessantemente la chiesa, le chiese, le comunità ascetiche nella gelosa obbedienza alla parola di Dio, Gesù Cristo. La koinonia è un dono di Dio, dalla creazione alla resurrezione finale. Tutto nella creazione è segno della comunione voluta da Dio. Dapprima l’uomo stesso, come ci aveva insegnato la Regola diffusa 2, fin nella comunione tra la sua anima e il suo corpo. Se vegli su di te (cf. Dt 15,9) non avrai bisogno di cercare le tracce del Creatore nell’ordinamento dell’universo, ma riconoscerai in te stesso, come in un piccolo mondo, la grande sapienza di colui che ti ha creato … Ammira in che modo l’artista seppe congiungere al tuo corpo un’anima con una 78 Cf. P. C. Bori, Chiesa primitiva. L’immagine della comunità delle origini – Atti 2,42-47; 4,32-37 – nella storia della chiesa antica, Brescia 1974, pp. 159-165. 79 E. Lanne, “Deux serviteurs de la communion des Églises: saint Irénée de Lyon et saint Basile de Césarée”, in Agapè. E´tudes en l’honneur de Mgr Pierre Duprey, a cura di J.-M. R. Tillard, Chambésy-Genève 2000, pp. 271-296, qui p. 290. 80 Cf. Y. de Andia, “La koinônia du Saint-Esprit dans le traité Sur le Saint-Esprit de saint Basile”, in Irénikon 77 (2004), pp. 239-270.

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forza tale da giungere fino alle sue estremità, come seppe unire le membra più distanti con perfetta armonia e accordo. Considera qual è la forza data alla carne dall’anima; quale sensibilità è comunicata dalla carne all’anima; in che modo il corpo riceve vita dall’anima mentre l’anima da esso non riceve che dolori81.

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Questa comunione armoniosa esiste anche nel mondo creato da Dio: Con un legame indissolubile di amicizia strinse in perfetta unità e armonia tutta la massa del mondo composta di parti diseguali, così che anche gli esseri più distanti fra loro apparissero reciprocamente uniti mediante la “simpatia”82.

Questa stessa comunione deve presiedere l’agire del cristiano. Basilio nella prima omelia sul salmo 14 esclama: Dà a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle (Mt 5,42). Questa parola ci invita a mostrarci uomini di comunione, di amicizia, e ad agire secondo la nostra natura. L’uomo, infatti, è un vivente comunitario (zôon politikón) e socievole. Nella vita in società e nella mutua frequentazione è necessaria la generosità per aiutare i bisognosi. Dà a chi ti chiede. Si vuole che a causa della carità tu ti mostri aperto con semplicità a chi ti chiede, ma che nello stesso tempo tu rifletta per discernere il bisogno di ciascun richiedente83.

Segue a questo punto la citazione di Atti 4,34-35 come per mettere in luce la continuità profonda tra l’ordine della creazione e quello della “ri-creazione” in Cristo Gesù. In questo 81 82 83

Basilio di Cesarea, Veglia su di te 7, p. 23. Id., Sull’Esamerone II,2,8, p. 45. Id., Omelia I sul salmo 14 6, PG 29,261-264.

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Comunione e solitudine secondo Basilio di Cesarea

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“ora” della salvezza offerta e della libera risposta dell’uomo si gioca anche il giudizio escatologico dell’uomo e il suo ingresso nel Regno84. Piuttosto che citare per esteso il lungo capitolo 80 delle Regole morali, manifesto di ogni cristiano battezzato – e ricordiamo che i cristiani-catecumeni formavano ancora la maggioranza nella chiesa – lasciamo la parola a Basilio stesso. In uno sviluppo sull’operazione dello Spirito santo nel sacramento dell’iniziazione cristiana, scrive: Così il Signore, preparandoci alla vita che scaturisce alla resurrezione, ci propone tutto il comportamento evangelico, prescrivendoci di non adirarci, di essere miti, di rimanere puri dall’amore del piacere, di tenere un comportamento distaccato dal denaro, cosicché noi ci conserviamo, per una scelta deliberata, sulla retta via, impegnandoci fin d’ora in quel che è possesso proprio e naturale della vita eterna. Se dunque qualcuno, volendolo definire, dicesse che l’evangelo è una prefigurazione della vita che scaturisce dalla resurrezione, non mi sembra che si allontanerebbe dal giusto85.

84 Cf. K. Koschorke, Spuren der alten Liebe, pp. 334-343. Lo si sarà capito: la comunione è la vocazione dell’uomo e la solitudine corre il grave rischio di trasformarsi in isolamento (mónosis: cf. Basilio di Cesarea, Regole diffuse 7,2, p. 102). 85 Basilio di Cesarea, Lo Spirito santo 35, pp. 136-137.

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ISACCO DI NINIVE E IL SUO INSEGNAMENTO, TRA SOLITUDINE E COMUNIONE

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Sabino Chialà*

In memoria di padre André Louf Isacco il Siro, noto anche come Isacco di Ninive, visse durante la seconda metà del vii secolo in regioni oggi comprese negli stati di Qatar, Iraq e Iran1. Fu monaco (ihida¯ya¯ ) e vescovo – ordinato tra il 676 e il 680 – della chiesa siro-orientale, rimasta, per ragioni politiche prima che teologiche 2, al di fuori dalla comunione con le altre chiese cristiane già a partire dalla metà del v secolo3. Quando dunque Isacco nacque, la sua chiesa non *

Monaco di Bose. Per una presentazione globale del nostro autore, del suo ambiente di origine, del pensiero e dell’irradiamento, rimando al mio Dall’ascesi eremitica alla misericordia infinita. Ricerche su Isacco di Ninive e la sua fortuna, Firenze 2002 (con bibliografia relativa); sul pensiero in particolare, si veda anche I. Alfeev, La forza dell’amore. L’universo spirituale di Isacco il Siro, Bose 2003. 2 Il tema è stato adeguatamente illustrato in studi recenti, storicamente ben fondati. Si veda ad esempio: S. Brock, “The Christology of the Church of the East in the Synods of the Fifth to Early Seventh Centuries. Preliminary Considerations and Materials”, in Aksum-Thyateira. A “Festschrift” for Archbishop Methodios of Thyateira and Great Britain, London 1985, pp. 125-142 (ried. in Id., Studies in Syriac Christianity, Variorum 1992); Id., “L’Église de l’Orient dans l’Empire sassanide jusqu’au vie siècle et son absence aux conciles de l’Empire romain”, in Istina 40 (1995), pp. 25-43; B. Soro, “La théologie de l’Église de l’Orient est-elle nestorienne?”, ibid., pp. 121-139. 3 Attualmente è divisa in chiesa assira d’oriente, di due diverse giurisdizioni, e chiesa caldea, per la parte unita alla chiesa di Roma. 1

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era più in comunione canonica con le comunità cristiane dell’impero romano. Il nostro “padre”, quindi, ci viene da una tradizione ecclesiale particolare e non sempre vista con occhio benevolo dalle altre chiese. Eppure il suo insegnamento è stato da sempre accolto e apprezzato: egli è espressione di una santità da tutti riconosciuta ma che ci viene da altrove. Per questo, Isacco rappresenta ancora per noi oggi anche una sfida, lanciataci forse da quel medesimo Spirito santo che operò in lui. La sfida viene proprio dalla sua origine unita alla sua santità: una santità che viene dal di là dei nostri recinti teologici e che mette in discussione i nostri confini forse troppo netti e certi. Isacco è dunque una voce che viene dal di fuori del coro, ma che ha saputo farsi apprezzare da tutte le tradizioni cristiane, costituendo in ciò un caso probabilmente unico, poiché nessun padre della chiesa, d’oriente e d’occidente, è mai stato letto e apprezzato in modo così capillare ed ecumenico da tutte le tradizioni cristiane: dalle antiche chiese orientali precalcedonesi (siro-occidentali, copti ed etiopici4); dalle chiese di tradizione bizantina, dove gli scritti di Isacco furono tradotti fin da subito in greco e arabo, e quindi in georgiano, slavo e rumeno; dalle chiese occidentali, dove il Ninivita fu tradotto in latino, a partire dal greco, probabilmente già nel xii-xiii secolo, e di qui, qualche decennio più tardi, in italiano, francese, castigliano, catalano e portoghese5. Ovunque egli è diventato uno dei pilastri della spiritualità cristiana e soprattutto monastica, alimentandone vari momenti cruciali di rinnovamento e di rinascita. Per il mondo greco, si pensi alla sua importanza durante l’affermarsi 4 Unica eccezione è rappresentata dalla tradizione armena che non sembra conservare traduzioni nella propria lingua degli scritti del Ninivita. Sarebbero però da condurre studi più approfonditi per verificare se scritti del nostro autore non abbiano circolato sotto nomi di altri padri più affermati, come ad esempio quello di Efrem il Siro. 5 Su questo e sull’irradiamento del suo pensiero, cui si accenna di seguito, si veda: S. Chialà, Dall’ascesi eremitica alla misericordia infinita, pp. 283-364; S. Brock, “From Qatar to Tokyo, by Way of Mar Saba. The Translations of Isaac of Beth Qatraye (Isaac the Syrian)”, in Aram 11-12 (1999-2000), pp. 475-484.

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dell’esicasmo (xiii-xiv secolo) e ancora nel rifiorire del monachesimo athonita del xx secolo, a partire da padre Iosiph l’Esicasta (1898-1959) che aveva fatto di Isacco “il suo manuale”, come ricorda uno dei suoi discepoli6. Per il mondo copto, si pensi all’enorme contributo che Isacco ha offerto alla rinascita spirituale del deserto di Wadi el-Natrun, l’antica Scete, nel secolo scorso. Anche nel mondo latino il suo pensiero fu particolarmente apprezzato, come attestano i molti manoscritti ed edizioni a stampa delle sue opere – soprattutto di origine italiana – tra xiv e xviii secolo. La popolarità degli scritti del Ninivita raggiunse un livello tale che alcune di queste tradizioni, in maniera più o meno consapevole, ne “trasformarono” l’autore in un padre fiorito nel loro mondo: dai greci, Isacco fu creduto un “bizantino” proveniente da una non meglio precisata regione ai confini dell’impero; dai copti fu presentato come un monaco vissuto nel deserto egiziano di Scete; per i latini, divenne un eremita “orientale” vissuto nei pressi di Spoleto, in Italia centrale. Convinzione, quest’ultima, incredibile quanto profondamente radicata; al punto che, quando il dotto monaco camaldolese Ambrogio Traversari (1386-1439) trovò a Roma tra i manoscritti papali un codice di Isacco “in greco”, in una lettera al fratello espresse il suo stupore per la scoperta: non pensava, infatti, che Isacco fosse mai stato tradotto in greco (per lui, egli aveva scritto in latino!)7. Ma cos’è che lungo i secoli ha così tanto attirato e affascinato del suo pensiero? Nelle tre collezioni di discorsi giunte sino a noi8, egli tratta un po’ di tutti gli aspetti della vita spirituale; 6

Joseph de Vatopaidi, L’Ancien Joseph l’Hésychaste, Paris 2002, p. 134. Cf. C. Somigli, T. Bargellini, Ambrogio Traversari, monaco camaldolese. La figura e la dottrina monastica, Bologna 1986, p. 223. 8 Secondo le fonti, Isacco avrebbe scritto o dettato ai suoi discepoli, che poi avrebbero messo per iscritto, vari “tomi” o “parti”, vale a dire collezioni di discorsi. Allo stato attuale delle ricerche ce ne sono note tre: la Prima collezione, composta di 82 discorsi, è la più conosciuta ed è quella che fu tradotta fin dalle origini in quasi tutte le lingue parlate da cristiani (testo siriaco: Mar Isaacus Ninivita, De perfectione religiosa, a cura di P. Bedjan, Parisiis-Lipsiae 1909; traduzioni integrali in inglese: Mystic Treati7

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è dunque l’insieme che, certo, ha fatto la sua fortuna. Un insieme che, nonostante una certa disorganicità apparente, si rivela di una coerenza ermeneutica assoluta, come ricorda uno dei suoi più grandi estimatori athoniti contemporanei, padre Basilio di Iviron, che dice: Se vuoi sottolineare una sua frase, devi farlo con tutte ... Se a un primo studio vuoi sottolineare qualcosa, a una seconda lettura ti accorgi che quanto hai tralasciato di sottolineare è più importante del resto. Con lui perdi la testa. E ti trovi in un altro clima, in un’altra logica e in un altro mondo, in cui tutto è stato affratellato. Ha esattezza matematica, melodiosità musicale, integrità architettonica, profondità filosofica, intuizione profetica e umanità divina. Tutto il corpo del suo discorso è giunto alla stessa maturità. Esala lo stesso profumo di compunzione. Quando lo leggi e lo ami, non puoi leggere nient’altro9. ses by Isaac of Nineveh, a cura di A. J. Wensinck, Amsterdam 1923, e The Ascetical Homilies of Saint Isaac the Syrian, a cura del Holy Transfiguration Monastery, Boston 1984, quest’ultima condotta sulla versione greca confrontata con l’originale siriaco; le traduzioni in francese di J. Touraille e P. Deseille sono state realizzate a partire dalla versione greca; in italiano è disponibile solo una versione parziale: Isacco di Ninive, Discorsi ascetici/1. L’ebbrezza della fede, a cura di M. Gallo e P. Bettiolo, Roma 1984); la Seconda collezione, composta di 41 discorsi di cui il terzo consiste in quattro Centurie di conoscenza (testo siriaco dei discorsi 4-41, con traduzione inglese: Isaac of Nineveh (Isaac the Syrian), ‘The Second Part’, Chapters IV-XLI, a cura di S. Brock, CSCO 554-555, Lovanii 1995; traduzione francese integrale: Isaac le Syrien, Œuvres spirituelles, II. 41 Discours récemment découverts, a cura di A. Louf, Bellefontaine 2003; traduzione greca: (Iσα)κ το* Σ,ρου, AσκητικC, a cura di N. Kavvadas, Thira 2005-2006; traduzione romena: Isaac Sirul, Cuvinte ca˘tre singuratici despre via¸ta duhului, taine dumnezeies¸ti, pronie s¸i judecata˘. Partea a II-a recent descoperita˘, a cura di I. I. Ica˘, Sibiu 2003; in italiano è disponibile una traduzione delle Centurie: Isacco di Ninive, Discorsi spirituali, a cura di P. Bettiolo, Bose 1985 [ed. riveduta e ampliata nel 1990]); la Terza collezione, composta di 17 discorsi, di cui tre gia presenti nelle precedenti collezioni (il testo siriaco è in corso di pubblicazione; traduzione italiana: Isacco di Ninive, Discorsi ascetici. Terza collezione, a cura di S. Chialà, Bose 2004; traduzione francese: Isaac le Syrien, Œuvres spirituelles, III. D’après un manuscrit récemment découvert, a cura di A. Louf, Bellefontaine 2009; traduzione romena: Sfântul Isaac Sirul, Cuvinte ca˘tre singuratici. Partea a III-a recent rega˘sita˘, a cura di S. Chialà e I. I. Ica˘, Sibiu 2005). 9 Basilio di Iviron, “L’abba Isacco esiste”, in Aa.Vv., Voci dal Monte Athos, Milano-Schio 1994, pp. 223-224.

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Ma scrutando più da vicino i suoi estimatori ci si accorge che, tra tutto, ci sono due elementi del suo pensiero che hanno maggiormente attratto l’attenzione e per i quali Isacco è stato considerato un maestro: la vita nell’esichia e la compassione verso ogni essere creato, vale a dire i due poli della nostra meditazione: solitudine e comunione. Di ambedue Isacco è considerato un indiscusso punto di riferimento; e non solo dei due elementi in se stessi, ma anche – e soprattutto! – della loro compaginazione, cioè della loro stretta interrelazione: la solitudine come un esercizio alla comunione e la comunione universale come l’esito di una solitudine autentica. Solitudine e comunione, infatti, per Isacco non solo non si escludono a vicenda, ma devono assolutamente coesistere perché l’una attesta l’autenticità dell’altra. La solitudine può e deve coesistere con una compassione piena, profonda e anche visibile; anzi tale compassione è la ragione ultima della solitudine. Custodire l’esichia non significa rinnegare la solidarietà universale, bensì coltivarla a un livello ancora più profondo. Solo se si parte da tale presupposto è possibile comprendere Isacco quando esorta: Sii amico di ogni uomo, e solitario nel tuo pensiero. Unisciti alla sofferenza di ognuno, e nel tuo corpo sii lontano da ognuno10.

Di seguito ripercorreremo dunque brevemente gli scritti del Ninivita, cercando di mettere in evidenza non tanto il valore della solitudine-esichia e della comunione considerate in se stesse, bensì la loro stretta interrelazione e interdipendenza. Ma prima di passare agli scritti di Isacco, sarà utile gettare uno sguardo 10 Isacco di Ninive, Prima collezione 50, p. 350 (per la Prima collezione, non essendo i discorsi divisi in paragrafi, faccio seguire al numero del discorso la pagina dell’edizione siriaca curata da P. Bedjan; cf. supra, p. 107, n. 8).

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alla sua vita concreta, vale a dire al tipo di monachesimo in cui egli si inserisce, perché, a mio avviso, vi è già lì un’importante esemplificazione di quanto egli matura a livello di pensiero e quindi propone nei suoi scritti.

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1. La forma monastica vissuta da Isacco

Nella tradizione siriaca il monachesimo si è espresso in una grande varietà di forme: dai “figli del patto” del cosiddetto protomonachesimo (celibi raccolti in piccole comunità urbane, in stretta connessione con le chiese locali), a quelle forme ascetiche estreme quali furono ad esempio gli stiliti, i dendriti e i reclusi, fiorite soprattutto nelle regioni settentrionali dell’attuale Siria. Sono inoltre anche attestate, fin dai primi secoli, espressioni monastiche che, secondo le nostre classificazioni tradizionali, definiremmo come “cenobitiche”, “eremitiche” o “semieremitiche”11. All’epoca di Isacco, tuttavia, il monachesimo siriaco di tradizione orientale aveva appena conosciuto una riforma, o una vera e propria rinascita, grazie al monaco-fondatore Abramo di Kashkar († 586) che, soprattutto tramite le Regole da lui redatte, impresse al monachesimo siro-orientale un’impronta particolarissima12. Isacco, e insieme a lui buona parte degli esponen11 Sull’argomento si vedano in particolare i tre volumi di A. Vööbus, History of Asceticism in the Syrian Orient I-III, CSCO 184, 197, 500, Louvain 1958-1988; cf. anche Sh. AbouZaid, Ih.idayutha. A Study on the Life of Singleness in the Syrian Orient. From Ignatius of Antioch to Chalcedon 451 A.D., Oxford 1993; S. Brock, “Early Syrian Asceticism”, in Numen 20 (1973), pp. 1-19 (ried. in Syriac Perspectives on Late Antiquity, Variorum 1984). 12 Su Abramo e il suo monachesimo, cf. S. Chialà, Abramo di Kashkar e la sua comunità. La rinascita del monachesimo siro-orientale. In appendice le “Regole” di Abramo, Dadisho e Babai, l’“Epitome della vita di Abramo” e le altre fonti sul Grande monastero del Monte Izla, Bose 2005; e F. Jullien, Le monachisme en Perse. La réforme d’Abraham le Grand, père des moines de l’Orient, CSCO 622, Lovanii 2008.

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ti della stagione d’oro della mistica siro-orientale, è figlio di questo “nuovo” monachesimo13. Abramo reagisce a precise derive ascetiche che egli osserva nel monachesimo a lui contemporaneo, e che troviamo anche stigmatizzate nei sinodi della chiesa siro-orientale dell’epoca14. Il modello che egli propone e che tenta di attuare nel suo monastero, il “Grande monastero” del monte Izla, è dunque un tentativo di correzione. Non è questo il luogo per soffermarsi sui particolari di tale riforma ma, semplificando all’estremo, potremmo dire che, da una parte, Abramo propone una “forma monastica” che sappia vivere più intensamente e più autenticamente la solitudine-quiete-esichia (la shelya¯), reagendo così a un monachesimo troppo turbolento e immischiato nelle faccende secolari e dunque impossibilitato a vivere concretamente la dimensione solitaria; e dall’altra, raccomanda la centralità della vita comune, vale a dire la dimensione cenobitica del monachesimo, come anche la comunione con la chiesa locale e con i suoi sacramenti, altro aspetto che alcune correnti ascetiche del tempo, normalmente raccolte sotto la denominazione di “messaliani”, mettevano in discussione15. Ne risulta una “forma monastica” che si propone decisamente come “cenobitica”, ma che secondo i nostri schemi tradizionali sarebbe piuttosto “semi-anacoretica”. Questi monaci, infatti, dopo i primi tre anni trascorsi nel cenobio, vale a dire nella parte centrale del complesso monastico, si ritiravano a vivere in 13 Il monastero di Rabban Shabur, dove Isacco trascorse l’ultima parte della sua vita dopo l’abbandono della sede episcopale di Ninive, fu attratto nell’orbita della riforma di Abramo sin dall’epoca del suo fondatore, Shabur, che ne ammirò le Regole; cf. S. Chialà, Abramo di Kashkar, pp. 99-100; F. Jullien, “Rabban-√a¯pu¯r. Un monastère au rayonnement exceptionnel. La réforme d’Abraham de Ka∫kar dans le Be¯th-Hu¯ za¯ye”, ¯ in Orientalia Christiana Periodica 72 (2006), pp. 333-348. 14 Cf. Synodicon Orientale ou recueil de Synodes Nestoriens, a cura di J. B. Chabot, Paris 1902. 15 Cf. S. Chialà, Abramo di Kashkar, p. 61; si veda anche P. Hagman, “St. Isaac of Nineveh and the Messalians”, in Mystik – Metapher – Bild, Beiträge des VII. Makarios-Symposiums. Göttingen 2007, a cura di M. Tamcke, Göttingen 2008, pp. 55-66.

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celle situate a non grande distanza dal centro, ritornando al cenobio per la sinassi del sabato sera e il pasto della domenica, ed eventualmente per altre celebrazioni infrasettimanali. Il carattere solitario di tale forma è prevalente, ragione per cui secondo le nostre classificazioni si tratterebbe di un monachesimo “semi-anacoretico” o “lavriotico”, ma evidentemente le nostre classificazioni, che tentano di incasellare le espressioni monastiche antiche e moderne in cenobitiche, eremitiche, anacoretiche, semi-anacoretiche, e via dicendo, qui più che mai mostrano tutta la loro inadeguatezza. Beninteso la classificazione è antica, ma nella realtà dei casi concreti essa mostra tutti i suoi limiti, come si evince dall’esperienza del Grande monastero. I monaci di Abramo si sentono, infatti, a tutti gli effetti dei cenobiti. Più tardi, proprio questo monachesimo si “creerà” una filiazione pacomiana, facendo risalire la fondazione del monachesimo siro-orientale a un discepolo di Pacomio, Mar Awghin, venuto dall’Egitto sulle pendici del monte Izla16. Avremmo dunque dei sedicenti “pacomiani” che vivono in solitudine, fatto che crea un problema non di poco conto alle nostre classificazioni. Ma forse quelle medesime classificazioni andrebbero in crisi anche in altri contesti, occidentali e orientali, se guardassimo più da vicino i fenomeni concreti, senza fermarci alle etichette. Per fare un esempio occidentale, mi chiedo se san Bruno il Certosino abbia davvero “fondato” un ordine eremitico (come sarà poi classificato) o se, più semplicemente, abbia tentato di riportare nell’occidente benedettino l’esichia, ricordando la centralità della cella, cioè la “dimensione solitaria della vita comune” che, per varie ragioni su cui qui non insisto, il monachesimo benedettino all’epoca prevalente aveva messo da parte; e gli esempi, soprattutto occidentali, potrebbero continuare. 16 La storia è tarda e quasi certamente inventata, ma il tentativo resta interessante; cf. S. Chialà, Abramo di Kashkar, pp. 13-20; F. Jullien, “Aux sources du monachisme oriental. Abraham de Kashkar et le développement de la légende de Mar Awgin”, in Revue de l’Histoire des Réligions 225 (2008), pp. 37-52.

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Sono molti i sintomi che si potrebbero rilevare circa l’autopercezione che questi monaci hanno di essere dei “solitari-cenobiti”, o dei cenobiti che vivono parte del loro tempo in solitudine. Mi limito a un unico caso: alla morte di Abramo, gli succede alla guida della comunità Dadisho il quale, pochissimo tempo dopo la sua elezione, redige una serie di Regole in aggiunta a quelle del fondatore. Il prologo di queste Regole è una lunga excusatio in cui l’autore giustifica tali nuove norme, ripetendo che con ciò egli non intende correggere le disposizioni di Abramo, né insinuare che quelle fossero insufficienti, ma – e qui è il dunque – egli deve intervenire “perché le esigenze di una comunità sono diverse da quelle di chi vive da solo”17. La forma monastica del Grande monastero non è mutata, siamo ancora al ritmo settimanale di cui si diceva, ma appunto per Dadisho quella “forma” è comunitaria. Isacco appartiene a questa tradizione e non possiamo comprendere esattamente il suo messaggio se non abbiamo presente tale complessità. Si tratta, dunque, di un eremita, di un semi-anacoreta o di un cenobita? Egli è semplicemente un ihida¯ya¯, termine già esso ambiguo, perché utilizzato sia per il generico “monaco” (infatti corrisponde al greco monachós), sia per il “solitario”. Certo vuol dire “solitario”, ma non in opposizione a “cenobita”, come si suole ripetere con una certa approssimazione. Potremmo riassumere dicendo che quella prospettata da Abramo e vissuta da Isacco è un’esperienza monastica “comunitaria” che fa ampio spazio alla solitudine, cioè che ritiene la solitudine un elemento imprescindibile e organico alla vita di comunione. Comunione e solitudine, dunque, non sono due forme distinte, due vie parallele e che si escludono a vicenda (o si è l’uno o si è l’altro), ma le due componenti essenziali – variamente composte, a seconda dei luoghi e anche dei momenti! – di ogni vita monastica. Le varie esperienze concrete sapranno dosare 17

Regole di Dadisho, Prologo, in S. Chialà, Abramo di Kashkar, p. 170.

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diversamente comunione e solitudine, dando vita a espressioni originali, difficili da rinchiudere in una casella precisa e durevole; inoltre, anche l’osservazione attenta delle vite dei singoli monaci rivela quanto essi risultino spesso di difficile classificazione, passando dal cenobio a una vita più solitaria e poi magari ritornando al cenobio e, quando se ne presenti l’occasione, ad attività di tipo missionario. Non si dà un monachesimo che sia solo “comunitario”, senza un’esperienza reale di solitudine cui corrisponda anche uno spazio fisico; né una vita solitaria che manchi di relazioni autentiche, che vadano al di là di un’annessione nominale canonica con una realtà comunitaria. In altri termini, l’esperienza concreta vissuta da Isacco mostra come la solitudine sia organica alla vita di comunione e la comunione essenziale alla solitudine. È quello che vedremo affermato a chiare lettere nei suoi scritti.

2. L’insegnamento di Isacco su solitudine e comunione Visto quello che abbiamo detto della “forma monastica” vissuta da Isacco, è chiaro a tutti che la solitudine ha un ruolo fondamentale, la maggior parte del tempo essendo da questi monaci trascorsa nelle proprie celle. Lungo tutta la sua opera, infatti, sono innumerevoli i passi dove egli esalta la solitudine e tratta del modo in cui la si deve “abitare” e dei suoi molti benefici. Grande attenzione a questo tema è riservata anche da altri autori siro-orientali suoi contemporanei; si pensi in particolare a Simeone di Taibuteh che, con il suo Discorso sulla consacrazione della cella, ci ha lasciato un preziosissimo manuale per la vita in solitudine18. In questo excursus, mi limiterò dunque solo ad 18 Il testo siriaco è ancora inedito. Sono disponibili due traduzioni italiane: Simeone di Taibuteh, Violenza e grazia. La coltura del cuore, a cura di P. Bettiolo, Roma

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alcuni rilievi, concentrandomi su quei punti in cui la solitudine è più chiaramente connessa con il tema della comunione.

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Necessario discernimento: tutto può degenerare Innanzitutto, come per ogni pratica ascetica, anche per la quiete-solitudine, Isacco raccomanda il discernimento. Egli ripete a più riprese lungo i suoi scritti che non è la pratica in sé a portare frutto, ma il discernimento che la accompagna, vale a dire la consapevolezza con cui essa è vissuta e la chiarezza circa l’obiettivo che si intende raggiungere; diversamente, la solitudine o sarà vana o sarà addirittura dannosa; egli afferma: Se tu desideri trovare la vita imperitura nella brevità dei tuoi giorni, o fratello, che la tua entrata nella quiete avvenga con discernimento, affinché tu trovi il profitto atteso dai sapienti, nelle condotte della quiete. Scruta il tuo lavoro e non correre dietro a un nome; entra, approfondisci, sii impudente, impara, acquisisci, spingiti in tutte le distinzioni meravigliose e libere delle vie della pratica della quiete, affinché tu comprenda con tutti i santi qual è l’altezza, la profondità, la lunghezza e la larghezza di questa condotta che non ha limiti; perché non ha limite la ricchezza che i suoi mercanti cercano di acquistare … Ma colui che all’inizio della sua entrata nella quiete, non pone questo fine come profitto del suo lavoro, ma lavora a casaccio, è come uno che percuote l’aria; costui non riuscirà mai durante la sua vita a liberarsi dallo spirito dell’acedia. E gli accadrà una di queste due cose: o non perseverando nell’insopportabile fardello sarà vinto e lascerà del tutto la quiete; oppure, se vi rimane, la sua cella diventerà una prigione, 1992, pp. 134-169; Simone di Taibuteh, Abitare la solitudine. Discorso per la consacrazione della cella, a cura di S. Chialà, Bose 2004 (Testi dei padri della chiesa 72); e una traduzione francese: A. Louf, “Discours sur la cellule de Mar Syméon de Taibouteh”, in Collectanea Cisterciensia 64 (2002), pp. 34-55.

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nella quale sarà crogiolato, perché non sa più attendere la consolazione che è generata dal lavoro della quiete19.

Il discernimento deve necessariamente accompagnare ogni pratica ascetica. Non è infatti la pratica in se stessa, nella sua esteriorità pur necessaria, che porta al frutto sperato, ma la consapevolezza di ciò cui quella pratica mira; consapevolezza che potremmo definire come la dimensione interiore di ogni esercizio corporeo. Capire il perché e avere ben chiaro l’orientamento: ecco quello che fa maturare il frutto. Questo vale anche per la solitudine che, se si riducesse a pura pratica esteriore smarrendo il suo orientamento, diverrebbe un luogo di angoscia oppure, rendendosi insopportabile, sarebbe abbandonata. Ancora connesso alla mancanza di discernimento vi è poi un altro rischio cui va incontro l’asceta: banalizzare e svuotare di significato i propri comportamenti. Nessun aspetto della vita monastica, come anche della vita spirituale, è infatti garantito, secondo il Ninivita: ci si può perdere nella solitudine e ci si può perdere vivendo insieme agli altri. Egli, dunque, raccomanda la vigilanza e il giusto equilibrio, mettendo in guardia sia dai pericoli di una solitudine vissuta male, sia anche da una comunione “fuori luogo”. Per il primo caso, il Ninivita ricorda che anche la cella può essere vanificata, come egli dice di aver osservato in molti casi concreti. Vale a dire in coloro che all’inizio hanno custodito le loro celle, ma in seguito le hanno trasformate in luogo di incontri e di commerci, magari anche a fin di bene, cioè per accogliere chi si presentava per chiedere consigli e istruzioni. Dice di costoro: Le loro celle sono diventate case d’affari e luogo di raccolta di gente dei villaggi, e al posto della mortificazione di prima 19 Isacco di Ninive, Prima collezione 66, pp. 466-468; cf. anche ibid. 69, pp. 479480; 81, pp. 573-574.

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si sono scelti una vita tumultuosa e costumi che li hanno condotti all’accecamento20.

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Ma Isacco sa bene che anche la vita in comune può degenerare e che vi è un momento in cui si devono rompere gli indugi e si deve partire per la cella, si deve ricercare la solitudine. In questo, egli ha uno sguardo meno positivo sulla vita cenobitica rispetto ad altri autori che invece raramente ne mettono in luce le possibili degenerazioni. Dice: Non conviene che chi [ne] ha la statura e ha l’anelito verso Dio, dopo essere uscito dal mondo resti a lungo nell’assemblea, nel vai e vieni con molti, ma dopo un po’, una volta appreso il corso della fraternità, l’ordine e lo scopo dell’abito e il modo della sua umiliazione, si decida a stare da solo nella cella, perché non acquisisca l’abitudine a stare con la gente e la semplicità del suo inizio non si cambi in astuzia per la consuetudine con i fratelli ignavi presenti tra noi. Ho visto molti che all’inizio del loro esodo dal mondo, appena giunti alla casa fraterna, erano limpidi e innocenti e che, dopo un [certo] tempo, per un’eccessiva vita di comunità, sono divenuti astuti e temerari, e non hanno più ritrovato la loro precedente innocenza21.

Qui, molto probabilmente, Isacco si riferisce a un caso particolare, vale a dire a chi, terminato il tempo di preparazione nel cenobio, ritarda la sua partenza per la cella, a causa di un eccessivo attaccamento alla vita comune. Ma al di là del caso concreto, emergono con chiarezza l’istanza della vita solitaria come parte essenziale dell’esperienza monastica e, per contro, i li20

Id., Centurie 2,97 (cf. Id., Discorsi spirituali, p. 113). Ibid. 4,71 (cf. Id., Discorsi spirituali, p. 179). Altrove, ibid. 2,44 (cf. Id., Discorsi spirituali, pp. 92-94), rimprovera quegli igumeni che impediscono, chi ne fosse capace, di ritirarsi nella solitudine. Il testo è polemico e dunque Isacco vi s’impegna in una difesa convinta della superiorità della vita nella quiete rispetto alla vita in mezzo alle folle. 21

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miti da cui anche la vita comune è segnata. Come dice Isacco, anche quest’ultima può essere “eccessiva” (un’eccessiva vita di comunità…). Una vita comune che non faccia spazio all’esigenza della solitudine può degenerare, può svuotarsi di significato. Una vita comune in cui non vi sia, come dimensione “organica” e “ordinaria”, l’esperienza della solitudine rischia di ripiegarsi su se stessa e dunque di vanificarsi.

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La solitudine come esercizio alla relazione Nel testo appena citato, Isacco indica tre criteri in base ai quali un monaco può considerarsi maturo per vivere in cella. Il primo dei tre mi pare fondamentale per il nostro itinerario. Isacco dice: “Una volta appreso il corso della fraternità”. Può dunque ritirarsi in solitudine solo chi abbia già imparato cosa significhi vivere con gli altri. Ma l’affermazione potrebbe contenere anche altro: può ritirarsi in solitudine solo chi “ha interiorizzato” la sua capacità di relazione; vale a dire, chi è capace di rimanere in comunione con gli altri, anche facendo a meno della loro frequentazione fisica. La solitudine, dunque, resta per Isacco innanzitutto esperienza di relazione ed esercizio a essa. Egli precisa che la vita esicasta non è un percorso di autoperfezionamento solipsistico. Dice ad esempio: “Noi solitari non ci siamo rinchiusi dietro una porta per coltivare la virtù, ma per essere morti anche alla virtù. La virtù, infatti, la coltivano i vivi”22. L’esercizio del solitario non è volto a coltivare se stesso, la propria immagine e neppure il proprio uomo interiore in quanto tale, concepito cioè come qualcosa di “proprio”, il proprio orticello spirituale! Essa è in realtà esercizio all’uscita da sé, dalla philautía, e al ristabili-

22

Ibid. 2,43 (cf. Id., Discorsi spirituali, p. 92).

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mento-guarigione di una molteplicità di relazioni; relazioni che una vita troppo tumultuosa in realtà distrugge, anche quando dà l’impressione di coltivare e mantenere. Il primo genere di relazioni che la solitudine mira a coltivare e guarire sono quelle con Dio e con se stessi. Dice Isacco: L’anima del solitario è simile a una fonte di acqua, secondo la similitudine impiegata anche dagli antichi padri. Infatti, ogni volta che si acquieta da tutti i moti dell’udito e della vista, il solitario vede, in modo luminoso, Dio e se stesso, e attinge da essa acque limpide e dolci, che sono i soavi pensieri della saldezza23.

Quindi essa è anche esercizio a guardare e scrutare l’opera di Dio, la bellezza delle creature; esercizio a riscoprire l’esatto valore che ogni cosa ha per Dio: Quando, per una lunga permanenza all’interno della tua cella, per mezzo di pratiche faticose, per la segreta custodia e per la restrizione dei tuoi sensi da ogni incontro, scende su di te la forza della quiete, come prima cosa tu incontrerai quella gioia che, senza motivo, di tanto in tanto, regna nella tua anima; e allora si apriranno i tuoi occhi per vedere la potenza dell’opera di Dio e la bellezza delle creature, secondo la misura della tua purezza24.

Altrove egli dice che la solitudine “ci rende partecipi della mente divina”25, cioè capaci di ragionare come Dio ragiona, di valutare come lui valuta, di avere i suoi stessi pensieri, i suoi stessi occhi: di vedere gli altri e la creazione intera come lui stes23 24 25

Ibid. 3,61 (cf. Id., Discorsi spirituali, p. 137). Id., Prima collezione 66, p. 471. Id., Centurie 2,31 (cf. Id., Discorsi spirituali, p. 88).

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so li vede. Qui per Isacco è davvero la pienezza della vita cristiana, e il monaco, con ogni sua pratica ascetica e dunque anche con la sua solitudine, non mira ad altro obiettivo che a questo: avere gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù, direbbe Paolo (cf. Fil 2,5). La solitudine pone una distanza; ma una distanza per una relazione più profonda e soprattutto più sana. In alcuni casi si ha l’impressione che Isacco veda nella solitudine quel necessario esercizio, di cui ogni essere umano ha bisogno e il monaco in particolare, a discernere e a mantenere una distanza critica rispetto a tutto ciò che lo circonda, mostrando così che la solitudine, oltre che una situazione fisica, pian piano deve diventare una “dimensione interiore”. Dice ad esempio: Dovunque tu sia, sii solitario nella tua intelligenza, e solo e straniero nel cuore, e non immischiato26.

Solitudine è qui capacità di distanza, che consenta un’elaborazione interiore, personale e libera, in vista di una relazione che non sia frutto di istinto, di attrazione o di seduzione, ma che sia secondo il volere del Creatore. Essa è esercizio alla libertà, propria e degli altri, in cui solo è possibile una carità vera secondo l’evangelo.

In vista della carità L’obiettivo per eccellenza della solitudine – e qui tocchiamo il cuore del messaggio del Ninivita, per cui da sempre egli è stato letto e amato – è infatti il maturare nella compassione per ogni essere creato. Il vedere con occhi nuovi Dio, se stessi, le crea26

Ibid. 2,40 (cf. Id., Discorsi spirituali, p. 91).

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ture e l’altro, è ordinato all’ingresso in un movimento di compassione che abbracci l’universo intero. Nella sua argomentazione Isacco innanzitutto precisa, contro chi si sottraeva alle esigenze dell’amore fraterno opponendo come scusa le necessità della vita ritirata, che la vera carità non contraddice mai la solitudine. In un discorso in cui egli difende la legittimità della vita solitaria da chi la riteneva “antievangelica”, Isacco, dopo aver dimostrato che essa non contraddice i comandamenti del Signore, ribadisce che la carità resta comunque il criterio massimo anche per i solitari: Nessuno di noi, quando si presenta il tempo per l’opera e la necessità delle cose, si sottragga dal mostrare con i fatti, manifestamente, quel suo amore che è dentro di lui27.

L’ultima affermazione dice bene la differenza che Isacco individua tra la carità del solitario e quella di chi vive in mezzo agli altri: essa è nella “visibilità”. Anche il solitario è chiamato a vivere la comunione e la carità, ma in altro modo, in un’altra dimensione, che possiamo definire “interiore”. Tali sentimenti, però, coltivati nell’intimo, devono rendersi visibili ogni qualvolta se ne presenti l’occasione, altrimenti quella solitudine sarebbe ipocrita. L’esercizio alla compassione è spesso associato da Isacco alla purificazione del cuore, che per lui ha come effetto il “vedere belli tutti gli uomini”28. La solitudine autentica rende capace chi la pratica di non fare più distinzioni tra buoni e cattivi, tra chi è degno e chi non lo è: Non distinguere tra ricco e povero e non cercare di conoscere chi è degno e chi non è degno. Per quanto sta in te, ritieni 27 28

Id., Prima collezione 81, pp. 566-567. Ibid. 35, p. 250.

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degni di bene tutti gli uomini; soprattutto perché in questo modo tu li spronerai alla verità … Perciò ritieni tutti gli uomini degni di bene e di onore, siano essi giudei, o pagani, o omicidi; soprattutto se si tratta di tuo fratello e del figlio della tua stessa natura, che per ignoranza si è allontanato dalla verità29.

La compassione, anche per “chi si è allontanato dalla verità”, per chi è considerato “eretico”, è quanto Isacco ritiene il frutto autentico della solitudine, come ricorda in un altro passo, tra i più celebri della sua opera: Cos’è un cuore misericordioso? È l’incendio del cuore per ogni creatura: per gli uomini, per gli uccelli, per le bestie, per i demoni e per tutto ciò che esiste. Al loro ricordo e alla loro vista, i suoi occhi versano lacrime, per la violenza della misericordia che stringe il cuore a motivo della grande compassione. Il cuore si fa piccolo e non può sopportare di udire o osservare un danno o una piccola sofferenza di qualche creatura. E per questo, egli offre preghiere con lacrime in ogni tempo, anche per gli esseri non dotati di ragione, e per i nemici della verità e per coloro che la avversano, perché siano custoditi e fortificati; e perfino per i rettili, a motivo della sua grande misericordia che nel suo cuore sgorga senza misura, a immagine di Dio30.

Frutto maturo della solitudine è questo sguardo largo, che sa abbracciare ogni frammento della creazione e sa portarlo nel proprio cuore e presentarlo al Signore. Il solitario è un intercessore, per il quale nessun essere creato è indegno o escluso: neppure i rettili, neppure i nemici della verità. Tutti sono da lui abbracciati e tutti sono da lui presentati a Dio. Non sta a lui giudicare e 29 30

Ibid. 4, p. 55; cf. anche Id., Seconda collezione 10,36. Id., Prima collezione 74, pp. 507-508.

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fare distinzioni, sua unica responsabilità è crescere nella compassione e nella speranza. Il giudizio, la salvezza o la condanna spettano a Dio, che resta il solo giudice; compito del solitario è invece quello di “portare” e “intercedere”. Dice infatti a chi si erge a giudice: Ricorda questo a proposito di colui che porta tutto: le azioni di ogni uomo sono davanti ai suoi occhi e davanti a lui risplendono più del sole; e se vuole, egli è capace di distruggere ogni uomo con il soffio della sua bocca. Tu, invece, non sei stato stabilito per pronunciare la vendetta contro le azioni e coloro che le hanno fatte, ma per invocare sul mondo la misericordia, per vegliare per la salvezza di tutto, e per unirti alla sofferenza di ogni uomo, dei giusti e dei peccatori31.

Autentica è quella solitudine che non coltiva acredine e giudizio, ma capacità di compassione per ogni cosa e per ogni essere creato. Per Isacco, nulla, neppure il peggiore dei peccati, potrà mai giustificare sentimenti di odio e di rigetto verso chicchessia. Tutto potrebbe però esaurirsi in un sentimento intimo: provare in sé compassione per ogni frammento della creazione e anche pregare e intercedere presso Dio, nel proprio cuore. Ma per Isacco non basta ancora. Egli ritiene che quello sguardo largo deve farsi visibile e che il solitario ha da diventare un segno di incoraggiamento. Quest’ultimo punto è anche molto importante. Il Ninivita, che pure invita spesso a un ritiro autentico e totale, parla anche di una “visibilità del solitario”: egli vive ritirato, ma appare, e dunque deve preoccuparsi di come appare, di quale messaggio egli offre a chi lo vede. Dice, ad esempio, che il solitario deve essere “per chi lo guarda una visione che incoraggia” a vivere 32. Spesso egli vede intorno a sé monaci che con31 32

Ibid. 65, p. 457. Ibid. 11, p. 119.

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fondono la solitudine con l’asocialità, o l’ascesi con la mancanza di umanità. Egli polemizza con alcuni solitari che si presentano come dei “selvaggi” e dice:

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Se qualcuno è particolarmente selvaggio, significa che si tiene nella quiete [solo] davanti a se stesso e agli occhi degli uomini. Infatti noi sappiamo che, senza amore del prossimo, non è possibile che l’intelletto sia illuminato, neppure per mezzo della consuetudine con Dio e dell’amore di lui33.

Il “selvaggio”, con il suo atteggiamento, mostra che la solitudine da lui perseguita è “per se stesso” e per farsi ammirare dagli uomini, non è secondo Dio. Per Isacco, invece, vera solitudine, di cui ogni essere umano – e non solo il monaco – ha assoluto bisogno, è quella che conduce a una più grande e più profonda compassione. Fine ultimo della solitudine è dunque una carità sincera, autentica, rivolta a tutti indiscriminatamente e visibile. Ecco quello che il monaco cerca nella sua esichia: non diventare un selvaggio, ma convertire in dolcezza l’acredine che lo attanaglia. Viene qui in mente un passo di un altro grande padre della tradizione siriaca, Efrem il Siro, il quale, parlando di Giovanni il Battista, tradizionalmente considerato prototipo dei monaci, afferma: Giovanni non si ritirò nel deserto per diventarvi un selvaggio, ma per addolcire nel deserto il selvaggio della terra abitata34.

Il deserto e la cella del solitario possono e devono aprire a un’esperienza di vera comunione e di vera compassione, dove 33

Ibid. 81, p. 567. Efrem il Siro, Commento al Diatessaron 3,9, in Id., Commentaire de l’E´vangile Concordant ou Diatessaron. Traduit du syriaque et de l’arménien, a cura di L. Leloir, SC 121, Paris 1966, p. 87. 34

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l’altro – e ogni altro! – non è escluso e rigettato, ma è accolto, portato e presentato al Signore. Qui dunque l’articolazione tra solitudine e comunione, di cui si diceva in apertura, manifesta tutta la sua legittimità e coerenza.

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CENOBIO E DESERTO NELLA TRADIZIONE MONASTICA BIZANTINA

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Kriton Chryssochoidis*

“A quanti desiderano che i loro nomi siano scritti nel Libro della vita, il presente libro indica in modo chiaro la via migliore da seguire!”1. Così comincia il breve prologo all’inizio dell’edizione della Scala di Giovanni Climaco. “Chi legge il libro – continua – sale una scala che dalle realtà terrene si eleva verso quelle celesti e sulla cui sommità si trova il Dio della carità … il suo inizio è la rinuncia alle cose terrene e il suo fine il Dio della carità”2. Il cammino di graduale ascesa al paradiso e al “Dio della carità”, che viene sviluppato in questo libro e che potremmo definire “il vangelo” dei monaci, presuppone la rinuncia e l’ascesi. E per un esito favorevole di questo cammino i monaci, dall’epoca paleocristiana a quella tardobizantina, com’è noto, scelsero diverse condizioni o diversi metodi di lotta personale. Fino al vi secolo, specialmente nelle province orientali dell’impe* Esperto di storia del monachesimo bizantino, è direttore di ricerca presso l’Istituto di ricerche bizantine di Atene. Traduzione dall’originale greco. 1 Giovanni Climaco, La scala, Prologo, a cura di L. d’Ayala Valva, Bose 2005, p. 65. L’estesa documentazione bibliografica, che potrebbe introdurre il tema e contemporaneamente convalidare le affermazioni della presente relazione, supererebbe l’estensione del testo stesso; per tale motivo la bibliografia presentata è puramente indicativa e mira soltanto a orientare il lettore. 2 Ibid.

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Kriton Chryssochoidis

ro romano d’oriente, erano state sperimentate tutte le forme di vita monastica. Nella patria per eccellenza del monachesimo, l’Egitto, con l’immagine mitica del “grande deserto” come luogo di solitudine assoluta e di severa ascesi, sorse l’anacoretismo di Antonio il Grande († 356). Quasi parallelamente, e certamente non in antagonismo con l’anacoretismo di Antonio, apparvero gli affollati cenobi di Pacomio. Per Pacomio la vita cenobitica non rappresenta una preparazione alla fuga nel deserto, ma, avendo circoscritto l’anacoresi nella cinta di un monastero, come scrive nella sua regola, egli riuscì a conciliare l’ideale del deserto con lo spirito comunitario. Elemento comune dell’anacoretismo di Antonio il Grande e del cenobio di Pacomio è il primato che viene attribuito all’ascesi e alla spiritualità di ciascuno. Il monaco dell’oriente cristiano che tanto viene ammirato dai credenti non offre nient’altro se non l’esempio della propria esperienza ascetica. I racconti dei Gherontiká e delle altre raccolte di narrazioni simili sottolineano e mostrano proprio questo spirito di “testimonianza” nei confronti del mondo esteriore. In altre parole, il contributo offerto dal monaco, tanto cenobita quanto anacoreta, alla primitiva comunità bizantina consistette nel fungere innanzitutto da catalizzatore per la trasformazione della spiritualità personale dell’uomo bizantino3. Basilio il Grande valorizzò le ricche esperienze dei centri monastici dell’oriente. Sarebbe temerario considerare le due raccolte di Domande e risposte, le cosiddette Regole diffuse e Regole brevi, come una codificazione o un perfezionamento della regola di Pacomio, che probabilmente non conobbe nei suoi dettagli. D’altronde la sua opera monastica matura nei monasteri basiliani dell’Asia Minore in condizioni diverse da quelle dell’Egitto 3 Per una proficua introduzione al monachesimo egiziano, cf. O. Meinardus, Monks and Monasteries of the Egyptian Deserts, Cairo 19993. Si veda anche: A. Veilleux, Pachomian koinonia I-III, Kalamazoo 1980-1982; P. Rousseau, Pachomius. The Making of a Community in Fourth Century Egypt, Berkeley-Los Angeles-London 1985.

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Cenobio e deserto nella tradizione monastica bizantina

ed è in stretto collegamento con la sua concezione del ministero episcopale nel mondo. Le regole di Basilio il Grande, oltre alla povertà, alla vita comune, al lavoro, all’obbedienza ai superiori e alla vita contemplativa, che sono elementi comuni con il sistema pacomiano, sembrano prevedere la partecipazione delle comunità monastiche a servizi di pubblica utilità, come la cura dei malati, l’elemosina e l’ospitalità: la famosa “Basiliade” è il luogo per eccellenza di sviluppo e di realizzazione dell’ideale ascetico del grande vescovo cappadoce4. Oltre che in Egitto e in Cappadocia, all’incirca negli stessi anni e in modo indipendente, il monachesimo conobbe un grande sviluppo nei dintorni di Antiochia, in Celesiria e in Mesopotamia, con forme peculiari che non erano propriamente cenobitiche, ma piuttosto espressioni di forme ascetiche austere ed estreme, come gli stiliti, di cui il più famoso è Simeone lo Stilita che trascorse quarantasette anni della sua vita in cima a diverse colonne5. La vita monastica conobbe una grande diffusione anche in Palestina; a Gerusalemme e altrove vi furono dei cenobi, mentre il deserto della Giudea ospitò “la via di mezzo” tra l’eremo e il cenobio, la lavra, tra cui le famose lavre di Eutimio il Grande (428) e del suo discepolo Saba (483)6. 4 Su Basilio il Grande, cf. P. Humbertclaude, La doctrine ascétique de saint Basile de Césarée, Paris 1932. Vedi anche P. Rousseau, Basil of Caesarea, Berkeley-Los Angeles-London 1994. 5 Sul monachesimo in Siria, cf. A. Vööbus, History of the Asceticism in the Syrian Orient I-III, CSCO 184, 197, 500, Louvain 1958-1988. Si veda anche P. Canivet, Le monachisme syrien selon Théodoret de Cyr, Paris 1977; Ph. Escolan, Monachisme et église. Le monachisme syrien du IVe au VIIe siècle: un monachisme charismatique, Paris 1999. Sugli stiliti, cf. H. Delehaye, Les saints stylites, Bruxelles-Paris 1923; I. Peña, P. Castellana, R. Fernandez, Les stylites syriens, Milano 1975. Sulle Vite dei due stiliti di nome Simeone, cf. La Vie ancienne de s. Syméon Stylite le Jeune I-II, a cura di P. Van den Ven, Bruxelles 1962-1970; H. Lietzmann, Das Leben des heiligen Symeon Stylites, Leipzig 1908, pp. 1-18. 6 Sul monachesimo in Palestina, cf. J. Binns, Ascetics and Ambassadors of Christ. The Monasteries of Palestine 314-613, Oxford 1994; J. Patrich, Sabas, Leader of Palestinian Monasticism. A Comparative Study in Eastern Monasticism. Fourth to Seventh Centuries, Washington 1995; Id., “The Sabaite Heritage. An Introductory Survey”, in The Sabai-

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Kriton Chryssochoidis

Il movimento monastico orientale in breve tempo conquistò la capitale dell’impero. Negli ultimi decenni del iv secolo alle forme di ascesi individuale succedettero istituzioni monastiche organizzate che, durante l’epoca di Giustiniano, divennero parte della vita e del funzionamento della capitale stessa. Il primo monastero di Costantinopoli a noi noto risale al 382. Si tratta del monastero di Dalmazio, che fu fondato dal senatore Saturnino per il monaco Isacco di origine siriaca. Isacco diresse il monastero fino alla sua morte avvenuta nel 396; gli succedette il suo discepolo Dalmazio, che diede il nome alla fondazione. I monasteri della capitale crebbero rapidissimamente, si ingrandirono e le attività dei loro monaci si diversificarono. Nel 448 ventitré igumeni di monasteri costantinopolitani ratificarono la deposizione dell’eresiarca Eutiche7. Secondo Peter Brown, in oriente, specialmente in Siria e un po’ meno in Asia Minore e in Egitto, il rapporto del monaco con la società deve essere visto come un dialogo soprattutto tra l’anacoreta – non il cenobita – e la società agricola. Per questa società l’asceta era l’unico che poteva non avere legami familiari e interessi economici; era anche un uomo che non doveva niente alla società, per il fatto che attingeva la sua forza da un luogo al di fuori della terra e delle realtà umane. Per questo poteva fungere da giudice, da fattore di imparzialità, da protettore e intercessore per la città e per la potenza che essa rappresentava8. te Heritage in the Orthodox Church from the Fifth Century to the Present, a cura di J. Patrich, Leuven 2001, pp. 1-27; L. Di Segni, “Monk and Society. The Case of Palestine”, in The Sabaite Heritage, pp. 31-36. 7 Un prezioso inventario generale dei monasteri di Costantinopoli in epoca bizantina si trova in R. Janin, La géographie ecclésiastique de l’empire byzantin, I. Le siège de Constantinople et le patriarcat œcuménique, III. Les églises et les monastères, Paris 19692. Per i monasteri del periodo più antico, cf. G. Dagron, “Les moines et la ville. Le monachisme à Constantinople jusqu’au concile de Chalcédoine (451)”, in Travaux et Mémoires 4 (1970), pp. 229-276. Per una splendida sintesi sul monachesimo della capitale fino alla fine dell’iconoclasmo, cf. P. Hatlie, The Monks and Monasteries of Costantinople, ca. 350-850, Cambridge 2007. 8 Sul ruolo dell’antico santo-asceta in oriente, cf. P. Brown, “The Rise and Function of the Holy Man in Late Antiquity”, in Journal of Roman Studies 61 (1971), pp.

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Cenobio e deserto nella tradizione monastica bizantina

Inoltre, cenobiti e anacoreti, fino all’viii secolo, esercitano la loro influenza sulla vita ecclesiale. Oltre alla testimonianza da essi offerta al mondo della loro esperienza ascetica e al loro servizio sopracitati, i conflitti cristologici e la lotta contro le eresie consacrarono i monaci a custodi della purezza del dogma. Ripercorrendo brevemente e schematicamente le vicende del cenobio e dell’eremo nei primi secoli vorrei, altrettanto succintamente, commentare l’antica teoria degli stadi di sviluppo del monachesimo: l’affermazione cioè che il monachesimo sarebbe passato da uno stadio “primitivo” eremitico alla fase più sviluppata della lavra per passare poi alla fase cenobitica con l’istituzione di monasteri organizzati. La teoria degli stadi successivi è stata superata da molto tempo. Fin dall’epoca in cui Pacomio fondò i primi monasteri cenobitici in Egitto e fin dalle fondazioni di Basilio possiamo parlare di coesistenza e non di sviluppo successivo. In Egitto, in Palestina, in Siria, in Asia Minore, accanto e contemporaneamente ai monasteri, gli anacoreti e gli asceti conservano il loro lustro e la loro autorità. Conformemente alle proprie inclinazioni, ciascuno si indirizza verso il genere di vita che gli è più confacente. La concezione degli stadi successivi, tuttora accolta da certi ambienti “praticanti” (detti “pii”), ma non dagli ambienti accademici, favorisce l’idea distorta che “ciò che è più antico è migliore”, cioè che il genere di vita anacoretico, vale a dire il più antico, sarebbe anche una forma di vita più autentica di quella cenobitica. Tale mitizzazione crea sentimenti di nostalgia o confronti di valore fuori luogo. E ancora, in senso contrario ma parimenti erroneo, si crea l’impressione che vi sia una progressione da una forma di vita ascetica severa ma “libera”, in cui ven80-101 (rist. in Id., Society and the Holy in Late Antiquity, London 1982, pp. 103-152); Id., “Town, Village and Holy Man. The Case of Syria”, in Assimilation et résistance à la culture gréco-romaine dans le monde ancien. Travaux du VI e Congrès international d’études classiques, Madrid, septembre 1974, a cura di D. M. Pippidi, Bucarest 1976, pp. 213-220 (rist. in Id., Society, pp. 153-165).

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gono osservate alcune regole, verso un’altra che consiste in una dura vita di sottomissione. Le fonti sono chiare: per i bizantini il grado di durezza di vita è esattamente di senso contrario. Il cenobitismo, sebbene richieda obbedienza all’igumeno, una severa adesione al typikón e un programma quotidiano prestabilito, lascia spazio a un regime di vita più mite, in cui viene proibita ogni forma di ascesi individuale estrema e di eccessivo affaticamento fisico. Il controllo del grado di durezza dell’ascesi è meno austero nelle lavre e di certo non vale per gli anacoreti9. La situazione del monachesimo cambia a partire dal ix secolo, con la fine dell’iconoclasmo che di fatto equivale al trionfo dei monaci. Contemporaneamente i grandi centri del monachesimo si spostano definitivamente dall’oriente verso il nord-ovest, cioè verso l’Asia Minore occidentale, nei dintorni di Costantinopoli, nei Balcani e nell’Italia meridionale. Il nuovo cenobio aveva già preso forma negli ultimi anni dell’iconoclasmo, nel clima spirituale delle fondazioni monastiche dell’Olimpo in Bitinia e dei suoi insigni rappresentanti. Si tratta di una regione che possiamo considerare un Monte Athos prima del Monte Athos10. In questo clima emerge alla fine dell’viii secolo la figura di Teodoro Studita, un colto aristocratico di Costantinopoli, che sarebbe diventato il fondamentale riformatore del monachesimo bizantino. Dopo persecuzioni ed esili, nel periodo iconofilo dell’imperatrice Irene, si stabilì nel vasto monastero di Studios al riparo dalle persecuzioni e qui realizzò il suo ideale di vita monastica. 9 Fondandosi esclusivamente sulle fonti agiografiche e rifuggendo da approcci teologici, discute ampiamente il tema D. Papachryssanthou, “La vie monastique dans les campagnes byzantines du viiie au xie siècle: ermitages, groupes, communautés”, in Byzantion 153 (1973), pp. 158-180; Ead., Ο θωνικ ς μοναχισμς. Αρχς κα ργνωση, Athinai 1992, pp. 54-81. 10 Cf. R. Janin, La géographie ecclésiastique de l’empire byzantin, I. Les églises et les monastères des grands centres byzantins (Bithynie, Hellespont, Latros, Galèsios, Trébizonde, Athènes, Thessalonique), Paris 1975, pp. 127-191; M.-F. Auzépy, “Les monastères”, in La Bithynie au Moyen âge, a cura di B. Geyer e J. Lefort, Paris 2003, pp. 431-458. Ancora utile per una panoramica sul monachesimo in Bitinia è il libro di B. R. P. Menthon, Une terre de légions: l’Olympe de Bithynie. Ses saints, ses couvents, ses sites, Paris 1935.

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Cenobio e deserto nella tradizione monastica bizantina

I principi della vita monastica, quali sono descritti nelle Grandi e nelle Piccole catechesi e nel Typikón del monastero da lui composto, mirano a un perfetto ordine nelle celebrazioni liturgiche e nella vita quotidiana. L’igumeno è il capo assoluto della comunità. Non è soltanto il padre spirituale dei monaci ma è anche il principale responsabile dell’organizzazione, delle questioni economiche, del funzionamento regolare del monastero, dell’osservanza delle regole del cenobio. Nel suo ufficio è aiutato dai monaci anziani, provati per la loro pietà, che svolgono il ruolo di consiglieri. Ai beni del monastero provvede l’economo sotto la guida dell’igumeno. I monaci sono tenuti all’assoluta obbedienza in ogni dettaglio della vita quotidiana. Vengono stabiliti con precisione assoluta i digiuni e gli uffici che devono ricoprire almeno sei ore ogni giorno. Il lavoro, in forme diverse, è obbligatorio per tutti. Così, accanto a quelli che svolgono lavori manuali e artigianali, ci sono i calligrafi (cioè quelli che copiano i manoscritti – è famoso lo scriptorium del monastero nel quale lavorarono come esperti calligrafi lo stesso Teodoro e suo zio Platone –), gli iconografi (che dipinsero moltissime icone in questo momento critico), ma anche scrittori e architetti11. Progressivamente il monastero di Studios diventa un centro di riferimento dei monasteri della capitale sotto la guida di Teodoro. I principi e le usanze studite eserciteranno in seguito una profonda influenza sull’organizzazione del monachesimo cenobitico orientale nel suo insieme12. L’affermarsi del nuovo tipo di cenobio coincide con il ristabilimento dell’unità ideologica e 11 Sul monachesimo studita, cf. le recenti pubblicazioni di Th. Pratsch, Theodoros Studites (759-86) - zwischen Dogma und Pragma, Frankfurt 1998; J. Leroy, E´tudes sur les Grandes catéchèses de S. Théodore Studite, Città del Vaticano 2008. Per il Testamento di Teodoro Studita e il Typikón del monastero, cf. Byzantine Monastic Foundation Documents. A Complete Translation of the Surviving Founders’ “Typica” and Testaments I, a cura di J. Thomas e A. C. Hero, Washington 2000, pp. 67-119. 12 J. Leroy individua influenze sull’organizzazione del monachesimo athonita: cf. J. Leroy, “La conversion de saint Athanase l’Athonite à l’idéal cénobitique et l’influence studite”, in Le millénaire du Mont Athos 963-1963. E´tudes et Mélanges I, Chevetogne

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la progressiva riorganizzazione dello stato bizantino. Vengono stipulati contratti politici e sociali; guerre vittoriose in oriente e in occidente riportano sotto il dominio bizantino terre che erano state perdute. Popoli non organizzati si rivolgono all’impero chiedendo istituzioni sociali e politiche. La chiesa rinnovata, aggiogata al carro della civiltà, è chiamata a svolgere nuovi ruoli. Il patriarca Fozio persegue ora la nuova politica egemonica della chiesa e i monaci, soprattutto gli anacoreti, sono chiamati a svolgere attività con più ampie dimensioni politiche. Questo si traduce, fino al x secolo, in attività missionarie su vasta scala e nella fondazione di grandi monasteri. Il fenomeno deve essere direttamente collegato agli sforzi dell’amministrazione bizantina per la riorganizzazione politica ed ecclesiastica dei Balcani, all’estensione dell’influenza bizantina sulle popolazioni circostanti e alla neutralizzazione dei tentativi della chiesa di Roma di infiltrarsi nello spazio vitale dell’impero cristiano d’oriente. In questa strategia spirituale si inscrive l’attività di asceti quali Simeone e Teodoro (ix secolo), definiti “illuminatori della Grecia” (poi fondatori del monastero del Mega Spileon), Nicon il Metanoita, Atanasio l’Athonita, Luca Stiriotis e più tardi ancora Cristodulo di Patmos13. I nuovi ruoli che il monachesimo è chiamato a svolgere inseriscono gli anacoreti, e in seguito i cenobiti, nel sistema di potere dell’impero ( power system) e i monasteri che fondano si sviluppano in organismi potenti con un irradiamento spirituale e sociale ma anche con una forza economica. Così vengono progressivamente inglobati tra i grandi proprieta1964, pp. 101-120; N. Oikonomidis, “Ο Αθως κα τ στουδιτικ πρτυπο κοινοβου”, in Διεθνς Συμπσιο τ !Αγιον "Ορος. Χθ$ς, Σ%μερα, Α&ριο (Θεσσαλον)κη 29 Οκτ.-1 Νοεμ. 1993), Thessaloniki 1996, pp. 239-245. 13 La dispersione geografica degli asceti-santi dell’epoca è descritta in J. Nesbitt, “A Geographical and Chronological Guide to Greek Saint Lives”, in Orientalia Christiana Periodica 35 (1969), pp. 443-489. Per una regione in particolare, cf. A. Lamproupoulou, Ο σκητισμ ς στ+ν Πελοπννησο κατ0 τ+ μ$ση βυζαντιν+ περ)οδο, Athinai 1994. Per una ricca descrizione del loro molteplice ruolo, cf. N. Sboronos, “Η σημασα τς δρσης το Αγου Ορους γι! τ"ν #ν$πτυξη το &λλαδικο χ)ρου”, in Δελτ)ο τ5ς Εταιρε)ας Σπουδ7ν Νεοελληνικο8 Πολιτισμο8 6 (1984), pp. 17-47.

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Cenobio e deserto nella tradizione monastica bizantina

ri terrieri, con tutto quello che ciò significa per i loro rapporti con le comunità locali14. Bisogna sottolineare che le proprietà del cenobio mediobizantino differiscono da quelle del monachesimo pacomiano. In Egitto monasteri enormi possedevano terre, le facevano fruttare, disponevano di una forza lavorativa di migliaia di monaci organizzati “militarmente”, fatto che li rese potenti fattori della vita economica agricola. Tuttavia le proprietà pacomiane erano manifestamente più piccole e ospitavano un grandissimo numero di monaci, cosa che impediva l’accumulo di ricchezze. Che cosa accade con il deserto mediobizantino? Certamente esiste un deserto mediobizantino, ma non è sterile, arido, inospitale, quasi mortifero, cioè un luogo ai limiti della sopravvivenza per gli esseri umani. Il deserto per l’anacoreta, ad esempio sull’Olimpo in Bitinia o sull’Athos, non è una terra arida, ma la boscaglia fitta e selvatica o le pendici dirupate e i valloni in cui l’asceta deve lottare contro avverse condizioni naturali. Tuttavia la principale caratteristica della vita monastica dai tempi mediobizantini in poi non è data né dai nuovi ruoli che lo stato e la società bizantini affidarono ai monasteri e agli anacoreti, né dal diverso ambiente naturale in mezzo al quale si sviluppa l’anacoretismo, ma dallo stretto legame e dal vicendevole rapporto tra deserto e cenobio. Nelle Vite della maggior parte dei santi del periodo mediobizantino i riferimenti ad asceti che prima di dedicarsi alle lotte ascetiche della vita monastica sono chiamati a trascorrere un breve o lungo periodo in un cenobio sono numerosi e costituiscono un tema fondamentale del racconto. È tipica la risposta che diede un anziano monaco all’ancor 14 Cf. K. Smyrlis, La fortune des grands monastères byzantins (fin du Xe-milieu du XIVe siècle), Paris 2006. Vedi anche: M. Kaplan, “Les moines et leurs biens fonciers à Byzance du viiie au xe siècle: acquisition, conservation et mise en valeur”, in Revue Bénédictine 103 (1993), pp. 209-223; Id., “L’économie des monastères à travers les Vies des saints byzantins des xie-xiiie siècles”, in Monastères, images, pouvoirs et société à Byzance, a cura di M. Kaplan, Paris 2006, pp. 27-42; R. Morris, Monks and Laymen in Byzantium, 843-1118, Cambridge 1995. Resta ancora utile la rassegna di P. Charanis, “The Monk as an Element of Byzantine Society”, in Dumbarton Oaks Papers 25 (1971), pp. 61-84.

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giovane Ioannikios il Grande dell’Olimpo, in Bitinia, quando questi gli confidò l’intenzione di vivere la vita anacoretica: Figlio mio, la tua intenzione è buona, tuttavia il desiderio di entrare nella palestra atletica (così definisce la vita monastica) conviene soltanto a quelli che hanno una formazione preliminare nelle cose di Dio e che hanno trascorso anni nell’ascesi. Perciò conviene che dapprima tu entri in un cenobio, impari a lodare Dio e a conoscere il tempo e l’ordine delle preghiere e le lotte contro i demoni, poi con pace e dopo essere stato provato tu proceda a lottare contro i nemici, perché, se ti schieri contro di loro senza aver prima imparato, c’è il pericolo che invece di colpirli sia tu ad essere colpito e che, invece di vincere, riporti una miserabile sconfitta15.

Accade anche che asceti giunti a uno stadio avanzato di lotta lascino il deserto per vivere nella sottomissione in un monastero. Significativo è il caso di Antonio il Giovane. Quando lesse il quarto discorso di Giovanni Climaco “Sulla beata e sempre memorabile obbedienza”, lasciò la vita eremitica dove si era dato all’ascesi per molti anni e andò a vivere nella sottomissione in un monastero nei pressi di Chio di Bitinia, correggendosi così dall’errore di aver cominciato la vita monastica dal deserto e non dal cenobio. È significativo un anonimo e audace commento di epoca mediobizantina al summenzionato discorso di Giovanni Climaco che forse Antonio aveva letto: Noi che ci troviamo nel cenobio preferiamo l’obbedienza all’ascesi, perché l’obbedienza professa l’umiltà mentre l’ascesi l’orgoglio16. 15 Saba, Vita di Ioannikios A, in Acta Sanctorum. Nov. III, a cura di H. Delehaye, M. Coens e P. Peeters, Bruxelles 1910, p. 339 (BHG 935). 16 Si tratta dello scolio 97 alla quarta omelia “Sulla beata e sempre memorabile obbedienza” della Scala di Giovanni Climaco. Cf. D. Papachrysanthou, Ο θωνικ ς μοναχισμς, p. 57, n. 9.

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Cenobio e deserto nella tradizione monastica bizantina

Il monaco deve vivere dapprima, o a un certo stadio della vita monastica, nel cenobio per obbedire alle sue dolci ma assolute regole e deve esercitarsi principalmente nella virtù dell’obbedienza. Deve anche imparare il typikón e l’ordine delle preghiere che vengono celebrate con diligenza e assoluta precisione. Dopodiché l’aspirante asceta, con il consenso dell’igumeno, seguirà la sua via eremitica. Nelle nostre fonti l’anacoresi non è una situazione duratura. Raramente incontriamo asceti che trascorsero l’intera vita in solitudine. Le Vite storiche concordano su un elemento: non appena l’anacoreta giunge a livelli di perfezione spirituale e di apátheia, ristabilisce i contatti con altri monaci e laici e accoglie discepoli con i quali condivide il luogo della sua ascesi. Quanto più cresce la sua fama, tanto più si moltiplica il numero dei discepoli e, tutto sommato, sono pochi gli asceti che non fondarono un cenobio per accogliere il loro gruppo di discepoli. L’asceta in questione assume lui stesso il compito di igumeno o mantiene per sé la guida spirituale della comunità. Non è raro che, dopo la fondazione del monastero, il fondatore proceda alla redazione di un typikón e alla consegna dell’igumenato a un monaco di sua scelta e quindi si ritiri in disparte cominciando una nuova vita eremitica. Questa stretta relazione tra anacoretismo e cenobitismo, in altre parole la facilità con cui il monaco bizantino passa da un genere di vita monastica a un altro, senza separarsi dai suoi compagni se non in vista di una maggiore perfezione spirituale, è un segno distintivo del monachesimo bizantino. Lo schema “cenobita, poi anacoreta, quindi fondatore di un cenobio e di nuovo anacoreta” è particolarmente frequente e forse è per lo più responsabile dell’assenza in epoca medio e tardobizantina di un genere di vita intermedio, detto lavra. È già stato sostenuto, e sembra esatto, che lo schema della lavra che fiorì in oriente, particolarmente in Palestina, non ebbe seguito nelle regioni bizantine dopo la conquista del bacino 137

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del Mediterraneo orientale ad opera degli arabi. Dalle numerose Vite dell’viii secolo e dei secoli successivi e anche da altre fonti non risulta l’organizzazione di una vita monastica sul genere della lavra. Invece di solito si fa riferimento a cenobi piccoli o grandi che ricevono il nome di phrontistérion, moné, monastérion e più raramente koinóbion. Il termine lavra, tuttavia, riferito a una specifica istituzione monastica non è sconosciuto anche in quest’epoca. Gli insediamenti monastici di Paolo il Giovane a Latros o di Michele Maleinos in Bitinia, ad esempio, sono definiti dalle fonti come lavre; in realtà si tratta di cenobi, accanto e intorno ai quali sorgono celle di anacoreti con l’autorizzazione dei loro fondatori e dei loro igumeni, spesso in un numero prestabilito dal typikón del monastero principale. Come si è visto, cenobio ed eremo coesistono armonicamente e, oserei dire, completandosi e interagendo (interactive). Tuttavia in epoca mediobizantina osserviamo anche l’unico conflitto istituzionale, a quanto mi risulta, tra anacoretismo e cenobitismo. Si tratta di quello tra i gruppi anacoretici dell’Athos e Atanasio l’Athonita. Come si è ricordato in un precedente convegno17, fin dall’inizio del x secolo si stabilirono sull’Athos un gran numero di monaci i quali o conducevano vita eremitica, oppure erano organizzati in piccoli raggruppamenti anacoretici, o ancora in piccoli monasteri con un forte carattere anacoretico. Sull’Athos stesso, nel 963, Atanasio, un colto aristocratico con stretti legami con l’imperatore Niceforo Foca, edificò il primo grande cenobio. È la prima volta che viene fondato qui un monastero strettamente cenobitico con una regola austera e con una concreta politica economica. La nuova fondazione costituiva una grande innovazione per il luogo e turbò la quiete degli asceti. Fu vista come una minaccia che avrebbe tra17 Cf. Atanasio e il monachesimo del Monte Athos. Atti del XII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione bizantina), Bose, 12-14 settembre 2004, a cura di S. Chialà e L. Cremaschi, Bose 2005.

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Cenobio e deserto nella tradizione monastica bizantina

sformato l’Athos da luogo di rifugio per gli eremiti e gli anacoreti in un centro di monachesimo cenobitico. Gli eremiti lanciarono pesanti accuse contro Atanasio incolpandolo di distruggere i fondamenti dell’ascetismo athonita; dicevano che costruiva edifici lussuosi, innalzava muri, edificava chiese, allestiva porti e impiantava opere di irrigazione, acquistava coppie di buoi e di muli, seminava campi e piantava vigne, in altre parole trasgrediva le antiche consuetudini trasformando “il monte in mondo”. Gli asceti si rivolsero all’imperatore chiedendo la sua protezione e il suo intervento e, come è noto, il conflitto si risolse con il Typikón di Giovanni Zimisce nel 973. Il Typikón, sebbene protegga l’antica condizione degli anacoreti, sembra riconoscere chiaramente la superiorità del sistema cenobitico come metodo di vita ascetica sull’Athos. Del resto la scelta di un monaco studita, Eutimio, come arbitro della contesa, sembra mostrare le reali preferenze e le intenzioni dell’imperatore18. Nonostante la crescita del cenobitismo, la vita anacoretica sull’Athos non si spense. Del resto lo stesso Atanasio, come emerge dall’HypotØposis e dal Testamento, credeva nella superiorità della vita esicasta, osservava però che pochissimi erano in grado di viverla. Credeva piuttosto che sarebbe stata una fortuna per la lavra se tra tutti i monaci se ne fossero trovati anche solo cinque in grado di dedicarsi a tale vita. Perciò i suoi consigli e le sue ammonizioni sollecitavano i monaci a perseverare nella propria ascesi. Permetteva soltanto a un piccolo numero di monaci di dedicarsi a un regime di vita ascetica che rappresentava una via di mezzo tra il cenobio e l’anacoresi: il monaco viveva nel monastero, ma isolato nella sua cella. E ancora, in quegli anni appaiono kathísmata monastici, cioè celle a breve di18 Cf. D. Papachrysanthou, Ο θωνικ ς μοναχισμς, pp. 253-262. Per un’analisi di differenti aspetti del monachesimo del Monte Athos si vedano gli atti dei seguenti convegni: Mount Athos and Byzantine Monasticism. Papers from the Twenty-Eighth Spring Symposium of Byzantine Studies, Birmingham, March 1994, Aldershot 1996; Atanasio e il monachesimo al Monte Athos.

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stanza dal recinto del monastero, dove vivevano in regime anacoretico monaci scelti, dipendenti tuttavia dal monastero19. All’incirca negli stessi anni anche il monastero di Studios, il monastero di Teodoro Studita, araldo appassionato della superiorità della vita cenobitica sulle altre forme di vita monastica e avversario della dura ascesi fisica individuale, accoglieva monaci che vivevano in disparte dal resto della comunità seguendo metodi d’ascesi che egli rifiutava. Ai tempi dei paleologi, soprattutto dalla metà del xiv secolo, qualcosa comincia a cambiare nel modo di vivere dei monaci nei monasteri bizantini. Le istituzioni cenobitiche si indeboliscono e progressivamente cominciano a prendere il sopravvento elementi idioritmici. Il fenomeno è registrato chiaramente nelle antiche fonti documentarie dell’epoca. Fino ad allora, poiché tutti i monasteri erano cenobi, non era assolutamente necessario operare distinzioni tra di essi sottolineando il modo della loro organizzazione. Per questo motivo il termine koinóbion come termine legale e tecnico si incontra raramente nelle fonti. Vengono invece utilizzati, come già si è ricordato, i termini phrontistérion, moné, monastérion. È significativo che nei documenti di fondazione dei monasteri che cominciano a comparire nel xiv secolo vi sia un riferimento specifico al termine cenobio, nel senso legale-tecnico del termine, e venga sottolineata l’ingiunzione che nella nuova comunità si conduca vita cenobitica. Contemporaneamente il termine koinóbion comincia a sostituire il termine moné. I fenomeni di idioritmia sono registrati anche nelle funzioni amministrative ed economiche dei monasteri, tuttavia non ci dilungheremo ulteriormente sul tema20.

19 Per i typiká del Monte Athos nel x e xi secolo, cf. Byzantine Monastic Foundation Documents, pp. 193-293. 20 Non disponiamo finora di nessuno studio sintetico sulla comparsa, lo sviluppo e il consolidamento dell’idioritmia nei monasteri bizantini.

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Cenobio e deserto nella tradizione monastica bizantina

La comparsa dell’idioritmia nel xiv secolo emerge contemporaneamente alla crescita dell’aspirazione dei grandi monasteri a essere riconosciuti come stavropegiaci, cioè monasteri dipendenti direttamene dal patriarca. Il privilegio della dignità stavropegiaca di un monastero comporta indipendenza dalla giurisdizione spirituale del vescovo locale, autonomia nell’amministrazione economica e per estensione distanziazione dalla vita della chiesa locale. Tale tendenza alla fuga è già nota per il xii secolo, al tempo del patriarcato di Giorgio II Xiphilinos (1191-1198)21, tuttavia non sembra assurgere a dimensioni considerevoli per più di un secolo e mezzo. Il fenomeno sarà più intenso nel xv secolo, creando spesso un clima conflittuale tra monasteri e chiesa locale22. Diversamente da quanto accade nelle fonti documentarie, nei testi agiografici che trattano di asceti contemporanei non viene messo in discussione, almeno in apparenza, lo stretto legame tra monasteri e anacoreti. L’asceta è chiamato a cominciare le sue lotte in un monastero. È tipico l’esempio dell’asceta rappresentativo dell’epoca, Massimo il Kafsokalyva († 1365). Il tirocinio e la sottomissione vissute accanto ad asceti provati sul monte Ganos e accanto ad anziani nei piccoli monasteri del monte Papikios non bastarono a completare la sua formazione monastica. Si recò all’Athos e, volendo imitare la vita di Pietro l’Athonita e di Atanasio, comprese le sue mancanze e ricominciò quasi dall’inizio. Le indicazioni che gli offrivano i monaci lavrioti non differivano da quelle offerte al giovane Ioannikios sull’Olimpo in Bitinia nel ix secolo, quattrocento anni prima, ma erano per lo più supplementari: 21 Cf. S. Troianos, “Κανονικ! δικαι)ματα &π πατριαρχικ+ν σταυροπηγιακ+ν μον+ν”, in ΚΗ’ Δημ%τρια Ζ’ Επιστημονικ Συμπσιο, Χριστιανικ+ Θεσσαλον)κη. Σταυροπηγιακς κα ς κα$ βιογραφα, Athinai 1979, pp. 86-88, 271-272. “Armatoli” sono chiamati quelli che seguirono la via dello scontro armato; hármata sono le armi, da cui “armatolo”, colui che è armato. 22 Cf. Ierondas Porfirio, Ανθολ2γιο Συμβουλν, pp. 60, 234. 23 Cf. G. A. Vernikos, ?Οταν θ(λαμε ν= λλ&ξουμε τ ν Ελλ&δα, Athinai 2003, p. 469. 24 Cf. G. Kroustalakis, Γ(ρων Πορφριος, @ πνευματικ0ς πατ(ρας κα$ παιδαγωγ2ς, Athinai 20069, pp. 87-88. Simile è la testimonianza secondo la quale lo iéron-

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di attribuirgli una concezione dell’uomo priva di adesioni ideologiche, allora si potrebbero aggiungere molte cose circa le testimonianze relative ai tempi di sofferenza che ho ricordato. E forse illuminerebbero la sola adesione esigita dal cristiano: quella ai sofferenti. Porfirio non si illudeva circa l’esistenza di nemici della fede né ignorava le differenze specifiche tra il cristianesimo e le altre religioni, principalmente quelle orientali e il neopaganesimo; non nascondeva neppure che avrebbe desiderato l’incontro di tutti in Cristo25, ma contemporaneamente insegnava l’etica del rispetto e della convivenza: Qui … avete persone di altre religioni e di altre fedi. Con tutti comportati con delicatezza, con amore. Non offendere nessuno. Sentili tutti come fratelli e chiamali con questo nome, anche quelli che appartengono ad altre religioni. Siamo tutti figli del medesimo Padre. A quelli che appartengono ad altre religioni non fare osservazioni sulla loro religione26. Il fanatismo non ha nulla a che fare con Cristo … Ci sia rispetto per la libertà dell’altro27.

das “vedeva” gli scontri tra il popolo e le forze governative che avevano luogo in Romania nel dicembre del 1989. La reazione di Porfirio era il lamento. Scoppiò in pianto per la sofferenza che “vedeva”. Cf. K. Ioannidis, Ο γ(ρων Πορφριος, p. 172 (racconto di Gh. Papazachos). 25 Cf. Wounded by Love, pp. 89, 94, 97. 26 I. Bulovic ´ , “Η πνευματικ σχση”, p. 297. 27 Wounded by Love, p. 187. A questo proposito egli sottolineava come Dio rispetta la libertà, anche quella del diavolo (Cf. Ierondas Porfirio, Ανθολ2γιο Συμβουλν, p. 148), dissentiva dalla persecuzione dei millenaristi (cf. ibid., p. 444) e ribadiva la responsabilità del credente per quanto riguarda la scelta del padre spirituale (cf. ibid., pp. 337-344).

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Un esicasta del Monte Athos al cuore della città …

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I due amori

Convinzione basilare dello iérondas Porfirio era che la tenebra viene scacciata dall’accensione della luce, in altre parole che l’essenza della vita cristiana è la pratica dell’amore. L’amore è l’elemento fondamentale della vita cristiana, mentre tutti gli altri suoi elementi – per quanto meravigliosi e straordinari – ricevono senso dall’amore e acquistano valore solo se ricevono senso dall’amore28. Secondo il mio umile parere, è evidente che l’amore fu la struttura fondamentale della vita e della teologia dello iérondas Porfirio; nonostante ciò è impressionante imbattersi in alcuni racconti di persone che gli vissero accanto ove prevale lo stupore per le profezie, le visioni, i miracoli e non il primato dell’amore! Eppure, d’altro canto, abbiamo anche i racconti che ci ricordano il suo amore, ma lo elencano semplicemente come una delle sue virtù al vertice delle quali vi sarebbe il carisma dioratico! Un simpatico episodio raccontato dalla ieróndissa Eufemia di Corfù mostra il suo fondamentale orientamento verso l’amore. Lo iérondas nutriva grandissima venerazione per la vita liturgica e per la sua forza santificante e tuttavia qualche volta, in modo un po’ infantile, espresse il suo disaccordo con Andrea di Creta perché nella sua somma opera innologica, il Grande canone, domina il lamento, lo sguardo rivolto al castigo e alla morte, mentre Porfirio preferiva guardare verso l’amore di Cristo. Quando la sua interlocutrice gli portò l’esempio opposto del canone composto da Andrea per Ignazio il Teoforo, lo iérondas Porfirio se ne uscì con queste espressioni stupende: “Oh, ma quello non è un canone, è fuoco. In quel canone l’innografo è 28

Cf. Wounded by Love, p. 95.

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Athanasios N. Papathanassiou

partito, si è perso! Il santo Ignazio l’ha inghiottito, l’ha travolto”29. Ricordo che sono di Ignazio le tremende parole: Il mio desiderio è crocifisso … Voglio il pane di Dio, cioè la carne di Gesù Cristo … e voglio come bevanda il suo sangue, cioè l’amore incorruttibile30.

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Per lo iérondas Porfirio l’amore è inseparabilmente amore per Dio e amore per l’uomo: L’amore per Cristo non conosce limiti, e così anche l’amore per il prossimo31. L’amore per Cristo è anche amore per il prossimo, per tutti, anche per i nemici … Per mezzo dell’amore per il fratello riusciremo ad amare Dio. Nel momento in cui lo desideriamo, nel momento in cui lo vogliamo e ne siamo degni, la grazia divina viene per mezzo del fratello. Quando amiamo il fratello, amiamo la chiesa, e dunque Cristo. Dentro la chiesa ci siamo anche noi e dunque quando amiamo la chiesa, amiamo anche noi stessi32. 29 Ierondissa Euphimia, “Η πνευματικ μριμνα το γροντος Πορφυρου γι% τ% γυναικεα μοναστ&ρια”, in Ορ2σημο ;γι2τητος, p. 328. Porfirio spiegava anche che il

detto di molti padri neptici, “Custodisci sempre il ricordo della morte”, che provoca timore del castigo, non va assolutizzato, ma compreso nel suo contesto come primo passo dei principianti che devono passare dal timore all’amore. Cf. Wounded by Love, pp. 104-105. È superfluo dire che neppure le espressioni dello stesso Porfirio devono essere assolutizzate. A un certo punto, ad esempio, parla di castigo impassibile da parte di Dio (cf. ibid., p. 59), mentre altrove assicura che Dio non castiga (cf. Ierondas Porfirio, Ανθολ2γιο Συμβουλν, p. 66; Ο Χριστ0ς εBναι τ0 πCν. Απομαγνητοφωνημ(νη π2δοσις μιCς συζητ/σεως με τ0 γ(ροντα Πορφυρο, Kiphisia s.d., p. 6). Ugualmente in un altro punto sottolinea la serietà dell’obbedienza e altrove il ruolo catastrofico di certi padri spirituali (Ierondas Porfirio, Ανθολ2γιο Συμβουλν, pp. 337-344). 30 Ignazio di Antiochia, Lettera ai romani 7,2-3, in Id., Ora comincio a essere discepolo. Le lettere, a cura di S. Chialà, Bose 2004 (Testi dei padri della chiesa 68), p. 36. 31 Wounded by Love, p. 188. 32 Ibid., p. 97; cf. anche ibid., pp. 181-182.

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Una cosa ci è chiesta nella vita: l’amore, la venerazione per Cristo e l’amore per i nostri simili … Nessuno può raggiungere Dio se non passando per gli uomini, perché chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede (cf. 1Gv 4,20)33.

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Secondo lo iérondas il fratello è condizione per la salvezza. Ogni sacramento della chiesa è connesso al sacramento del fratello, altrimenti finisce per degenerare in una celebrazione meccanica; annega, potremmo dire, nel ritualismo. Dice: La minima mormorazione contro il prossimo turba la vostra anima e vi impedisce di pregare. Lo Spirito santo, quando trova l’anima in questo stato, non osa avvicinarsi … Le nostre preghiere non sono ascoltate perché non ne siamo degni. Devi diventarne degno se vuoi pregare34.

Che cosa ci si aspetterebbe dopo l’ultima frase? Forse che si definisse l’essere degni attraverso un processo personale di purificazione, di pura illuminazione? Porfirio, invece, continua come segue: Non siamo degni, perché non amiamo il prossimo come noi stessi (cf. Mt 19,19; cf. anche 22,9 e par.). Lo dice Cristo stesso: “Se porti la tua offerta all’altare e là ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te …” (Mt 5,23 ss.)35.

33 Ibid., p. 180. Kathigumena Ekaterina, Ο Eσιος γ(ρων Πορφριος, pp. 61-63, ricorda un passo di Simeone il Nuovo Teologo, molto amato da Porfirio, che sottolinea la domanda dell’apostolo: “Se non ami il tuo fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi?” (1Gv 4,20). Questo passo, insieme ad alcune sue parole, lo dava fotocopiato alla gente (cf. Wounded by Love, p. 184). 34 Ibid., pp. 115-116. 35 Ibid., p. 116.

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Questa consegna evangelica la troviamo riflessa anche in una testimonianza: Porfirio riconobbe l’incapacità di un credente a comunicarsi perché aveva commesso ingiustizia contro un suo operaio e dunque aveva bisogno di fare ammenda36. Per il nostro tema è particolarmente significativo il fatto che Porfirio considerava profonda e importante la preghiera mentale, cioè la preghiera di Gesù, nella misura in cui era fondata sull’amore diretto, vivo e sincero di colui che prega Cristo e non condivideva l’insegnamento di tecniche (sedersi su un panchetto basso, controllo del respiro, eccetera) che trasformano il rapporto vivo e personale con Cristo in un procedimento tecnico37. Sotto il tema del primato del sacramento del fratello si possono raccogliere una serie di racconti. Porfirio rinarrò il racconto dell’Everghetinos che, a sua volta, aveva rinarrato la parabola del buon samaritano adattandola all’ambiente monastico. Il racconto parla di due giovani monaci che non entrarono nel regno di Dio per non aver aiutato un uomo ferito con la scusa di non poter venir meno ai doveri liturgici che aveva assegnato loro lo iérondas38. Se osserviamo gli insegnamenti di Porfirio, vedremo, penso, che l’amore è frutto della vita spirituale; tuttavia, paradossalmente, è anche un suo presupposto. Il vero amore è dono di Cristo, è irraggiungibile senza la grazia. E tuttavia, l’iniziativa di Cristo non si dispiega se non vi è “qualcosa” da parte dell’uomo. Questo “qualcosa” Porfirio lo definisce poeticamente con una serie di espressioni. È l’umiltà, l’apertura dell’uomo, la richiesta di una visita di Dio39. In questo approccio vi è una specie di Cf. K. Ioannidis, Ο γ(ρων Πορφριος, p. 152. Cf. Wounded by Love, pp. 117-126; Ierondas Porfirio, Ανθολ2γιο Συμβουλν, pp. 359, 379. 38 Cf. Wounded by Love, pp. 188-189. 39 “Cristo non lascia che il suo amore si manifesti se la mia anima non ha qualcosa che lo attragga” (Wounded by Love, p. 98). Per l’umiltà, cf. ibid., pp. 109, 111, 232. Eppure l’umiltà è anche un dono: cf. ibid., p. 193. Per l’apertura dell’uomo alla grazia, cf. ibid., p. 110. Per la richiesta da parte dell’uomo della venuta di Dio, cf. ibid., p. 123. 36 37

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apofatismo esistenziale, vale a dire che l’umiltà a volte appare come presupposto, altre volte invece è considerata un dono40. Avviene qualcosa di simile nella preghiera. Dice Porfirio:

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La preghiera ha luogo soltanto con lo Spirito santo. Questi insegna all’anima come pregare … Prima della preghiera l’anima deve prepararsi con la preghiera. Preghiera per preghiera41.

L’essere umano, insomma, non può ottenere da solo il vero amore, ma quello che può fare è orientare decisamente ad esso il proprio io. Ciò che è richiesto all’essere umano è di voler amare, di ammettere che, lasciato a se stesso, non è in grado di farlo. Questo è il punto di partenza dell’amore. E per questo, da una parte, l’essere umano rimane inadeguato; dall’altra, è decisivo il suo orientamento, vale a dire a quale prospettiva, apre il suo essere e che cosa accoglie favorevolmente nella sua vita.

L’amore è partecipazione alla sofferenza

Potremmo dire che Porfirio concepisce l’amore così com’è stato manifestato dall’incarnazione di Cristo: non come un sentimento a basso prezzo, ma come partecipazione al dolore dell’altro. “Ama e soffri; – diceva – soffri per colui che ami. L’amore fa soffrire per l’amato”42. Parlando in termini moderni, il professore Ghiorghios Kroustalakis individua in Porfirio l’em40

Cf. ibid., pp. 238, 111, 193, 232. Ibid., p. 113. 42 Ibid., p. 107. Ugualmente diceva che nella chiesa increata, cioè nella vita della Trinità, entriamo attraverso i misteri e l’amore per “ogni infelice, sofferente, peccatore” (ibid., p. 89). Credo che fu questa logica dell’incarnazione e dell’assunzione della sofferenza dell’altro che lo spinse a chiedere alla Vergine di prendere su di sé il cancro di un padre che aveva due figli piccoli. Cf. P. Machariotis, “Η ε'λ(βεια το Κυ41

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patia43, la capacità, cioè, di mettersi al posto dell’altro. Ma anche le sue sofferenze personali le vedeva come partecipazione alla sofferenza di Cristo, come un modo particolare di entrare nel mistero del suo amore44. Porfirio era orientato alla gioia del Regno sebbene non dimenticasse la croce. Qui, credo, si trova una verità fondamentale. In un certo senso, con la croce si è completata l’incarnazione di Cristo. Se Cristo non fosse morto nel modo in cui è morto, cioè nella sofferenza e nel disprezzo, non avrebbe incarnato in pienezza e fino in fondo l’umana esistenza, sarebbe semplicemente passato attraverso la vita degli uomini. L’avrebbe osservata ma non l’avrebbe assunta come sua carne e, dunque, non l’avrebbe condotta alla resurrezione. Nell’ospedale policlinico di Atene, al cuore della capitale, al confine tra dignità ed emarginazione, Porfirio, su suo desiderio45, servì per trentatré anni (1940-1973). Ricordava questi anni come “anni benedetti, dedicati al malato e alla sofferenza”46. Metteva così in dubbio la solidità di quelle concezioni che contrappongono la vita liturgica a una vita di solidarietà con i sofferenti, pur non appartenendo a quelle correnti teologiche che criticano il sistema sociale e le sue strutture. E in questa ricerca fu un innovatore. Del resto aveva un particolare interesse a mettere alla prova il suo sogno relativo alla fondazione di un nuovo monastero. Come si è detto, il monastero in cui era stato incardinato il santo amato da Porfirio, Giovanni Kafsokalyvita, era quello degli acemeti a Costantinopoli, dove la divina liturgia e gli uffici πριακο λαο πρς τ πρσωπο το Γροντος Πορφυρου το Καυσοκαλυβτου”, in Ορ2σημο ;γι2τητος, p. 427. 43 Cf. G. Kroustalakis, “ Ο γροντας Πορφ+ριος ,ς παιδαγωγς”, in Ορ2σημο ;γι2τητος, p. 196. 44 Cf. Wounded by Love, pp. 224-225; K. Ioannidis, Ο γ(ρων Πορφριος, p. 17

(racconto di Gh. Papazachos). 45 Questo desiderio nacque in lui a Kafsokalyvia, quando sentì leggere il commento di Niceforo Theotokis all’evangelo della domenica e l’importanza che egli accordava alla cura dei malati. Cf. Wounded by Love, p. 49. 46 Ibid., p. 53.

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venivano celebrati incessantemente dai monaci che si turnavano nelle ventiquattro ore47. Il monastero che lo iérondas Porfirio sognava di costruire era anch’esso acemeta non soltanto a motivo di un’applicazione letterale dell’esortazione di Paolo “pregate incessantemente” (1Ts 5,17), ma a motivo dell’amore per il mondo. Porfirio sognava un monastero in cui sofferenti e infelici potessero trovare rifugio ad ogni ora del giorno48. Il ritmo della vita monastica sarebbe stato liturgico e contemporaneamente orientato al servizio, alla preghiera per i sofferenti49. Nel suo sogno, in altre parole, i sofferenti non apparivano né come tentazione, né come oggetto di un interesse secondario. Apparivano come la ragione stessa d’esistenza del monastero. Segnaliamo, en passant, che il fondatore del monastero degli acemeti, Alessandro, considerava una tentazione e aborriva il lavoro manuale e redditizio50, che invece Porfirio stimava e praticava51.

Tutti gli uomini sono fratelli

Ho l’impressione che l’antropologia di Porfirio renda possibile il riconoscimento di una santità nascosta che una mentalità religiosa angusta non potrebbe neppure sospettare. Dice: Cf. I. M. Phountoulis, Η ε!κοσιτετρ&ωρος Ακομητος Δοξολογα, Athinai 1963. Cf. Wounded by Love, pp. 70, 75, 79-80. Cf. Ierondas Porfirio, Ανθολγιο Συμβουλ/ν, p. 80. Contemporaneamente il monastero sarebbe diventato anche un centro teologico. Cf. G. Kroustalakis, “Ο γροντας Πορφ+ριος”, p. 46. 49 “Questo di certo sarebbe semplice, senza stress né sforzo, per le monache. Questa, penso, è la migliore missione” (Wounded by Love, p. 80). Cf. parallelamente la sua convinzione che le ondate di preghiera che salgono dalla cella del monaco rappresentino un’offerta più grande di quella del più degno predicatore (cf. ibid., p. 171). 50 Cf. I. M. Phountoulis, Η ε!κοσιτετρ&ωρος, p. 45. 51 Cf. Wounded by Love, pp. 15-16, 59-60. Cf. anche Kathigumena Ekaterina, Ο Eσιος γ(ρων Πορφριος, pp. 146-148. 47 48

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Le anime sofferenti, infelici, che patiscono a causa delle loro sofferenze, guadagnano in abbondanza l’amore di Dio e la sua grazia. Alcuni di costoro diventano santi e molte volte noi li giudichiamo52.

Questa apertura all’azione nascosta di Dio e all’esistenza di cittadini del Regno, i quali suscitano meraviglia nei cristiani ordinari, allarga in maniera eccezionale la fratellanza umana. Per Porfirio la chiesa è la stessa vita trinitaria e, contemporaneamente, la possibilità per l’uomo di partecipare a questa vita. Perciò insisteva nel chiamare la chiesa increata e preesistente53. Tutte le creature partecipano a tale potenza, comprese per sempre nella mente di Dio come sue creazioni. È superfluo evidenziare quanto questa visione richiami la teologia di Massimo il Confessore sui lógoi degli esseri. Con l’opera di Cristo prende avvio la realizzazione della comunione cosmico-universale54. Per Porfirio la chiesa è fonte di vita; questo non annulla, tuttavia, l’azione segreta di Cristo che agisce in ogni cosa. Diceva: La grazia di Dio, senza far violenza a nessuno, ha modo di salvare anche quelli che si sono completamente sviati e noi dobbiamo aiutarla in questo processo55.

In questa visione i cristiani non sono esattamente missionari, sono servi del missionario per eccellenza, cioè Dio. Mantenendo le analogie, qui abbiamo una visione simile a quella che in ambito ecumenico viene chiamata missio Dei e che evidenzia 52 Wounded by Love, p. 185. Si veda la discussione avuta da Porfirio con la “responsabile” di un bordello, la quale sosteneva che alle prostitute non era permesso baciare la croce che teneva in mano Porfirio. Lo iérondas invece permise loro di baciarla e concluse: “La loro povera anima ne ha guadagnato qualcosa” (cf. ibid., pp. 64-65). 53 Cf. ibid., p. 87. 54 Cf. ibid., pp. 87-89. 55 I. Bulovic´, “Η πνευματικ σχση”, p. 289.

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come la missione è opera di Dio, ma i credenti sono chiamati a diventare suoi collaboratori56. Si tratta di visioni di ampio respiro. Porfirio insisteva nel dire che tutti gli uomini sono fratelli, assolutamente tutti e non soltanto i battezzati57; e aveva la capacità di discernere una sana esperienza di Dio anche nelle opere dell’antico mondo pagano58. Così, seguiva la teologia giovannea – che Cristo è “la luce vera, che illumina ogni uomo che viene nel mondo” (Gv 1,9) – e l’intuizione del martire e filosofo Giustino, nonostante Porfirio avesse formulato la sua posizione prima ancora di conoscere l’insegnamento di Giustino relativo al lógos spermatikós59. Dire che tutti gli uomini sono fratelli è semplicemente un’evidente verità cristiana. Tuttavia Porfirio sentiva il bisogno di sottolinearla. Sentiva il bisogno, cioè, di scardinare la coscienza religiosa chiusa in se stessa che ancora gli capitava di incontrare. Per questo, del resto, in un altro momento, sentì il bisogno di sottolineare un altro fatto evidente: che quanti commettono crimini non sono necessariamente malvagi, ma spesso sono persone buone che stanno soffrendo60. 56 Si veda, ad esempio, T. Stransky, s. v. “Missio Dei”, in Dictionary of the Ecumenical Movement, a cura di N. Lossky et al., Génève 2002, pp. 780-781. 57 Si racconta che un suo figlio spirituale aveva sentito dire da un predicatore che sono fratelli tra di loro soltanto i cristiani. Quando riportò questo sul luogo di lavoro, lo stesso giorno gli telefonò Porfirio e gli disse: “‘Tutti sono figli di Dio. Tutti gli uomini sono figli di Dio’ e mi chiuse il telefono” (S. Tzavaras, Αναμν/σεις, p. 118). Cf. anche I. Bulovic´ , “Η πνευματικ σχση”, p. 297. 58 Durante una visita al museo archeologico di Atene commentò con queste parole l’antica statua di Zeus: “Provo stupore dinanzi all’opera dell’artista, ma anche dinanzi all’opera di Dio che l’ha creato così perfetto. E capisco che l’artista che l’ha fatta aveva un forte senso del divino. Osservate Zeus: mentre scaglia il fulmine sugli uomini, ha un volto sereno, non è adirato. È impassibile” (Wounded by Love, p. 59). Altre volte però ricordava le furie del culto dionisiaco come culti satanici. Cf. Γ(ροντος Πορφυρου Καυσοκαλυβτου Βος κα$ Λ2γοι, Chanià 20089, pp. 185-187, 559 (questa testimonianza si trova nella nuova edizione del testo greco e non nella sua traduzione inglese che è stata fatta sulla prima edizione). 59 Cf. K. Papadopoulos, “Η 0νθρωπολογα κα1 2 0σκητικ διδασκαλα το Γροντος Πορφυρου το Καυσοκαλυβτου”, in Ορ2σημο ;γι2τητος, p. 211; Giustino, Seconda apologia 13,3-6, in Gli apologeti greci, a cura di C. Burini, Roma 1986, p. 165. 60 Cf. Ierondas Porfirio, Ανθολ2γιο Συμβουλν, pp. 232-233.

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Kafsokalyvita fino alla fine

Trovo di particolare importanza un contributo dello iérondas Porfirio che non escludo sia di difficile lettura. A Porfirio sono attribuite molte guarigioni e tuttavia credo che, sebbene egli fosse ritenuto un guaritore, ciò non doveva essere facilmente comprensibile. Che cosa voglio dire? Vi è un tipo di racconti di guarigioni da lui operate, ove si respira l’imperturbabile certezza che la salute costituisca il massimo valore e che opera fondamentale della chiesa sia la guarigione dei malati. In tale visione chi possiede o raggiunge un corretto rapporto con Dio viene guarito. La visita di Dio si identifica con la guarigione la quale è supposta come la sola meta della vita di fede. Ma, guarda caso, in racconti di questo tipo non sembra avere alcuna importanza il fatto che Porfirio stesso fosse gravemente malato e che sia rimasto tale fino alla fine! A mio modesto parere è evidente che per gran parte della religiosità odierna la mancanza di efficacia costituisce uno scandalo. Per questo si esaltano le guarigioni e con esse il vanto per la procreazione di figli, il successo negli esami scolastici, la soluzione di problemi economici, il raggiungimento di una vita agiata, l’ascesa nella scala sociale! A mio parere il Gospel of Health and Wealth ha preso piede nella vita ecclesiale. Ritengo che Porfirio non abbia mai esaltato la salute. Ha esaltato l’amore. Questo era il suo messaggio, e non le guarigioni in quanto tali! Rimase con la sua malattia come Paolo non fu liberato dalla spina nella carne (cf. 2Cor 12,7-10) e Mosè non entrò nella terra promessa (cf. Dt 34,4-5) ed erano tutti e due uomini di Dio! Sono santi che si trovano in un rapporto sincero e puro con Dio a motivo del loro amore per colui che amano e non a motivo di qualche buona opera da loro compiuta. Per questo nella vita di Porfirio colpisce un elemento che sembra contraddittorio: pregava per i problemi di migliaia di persone eppure, 250

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contemporaneamente, osservava che noi facciamo violenza a Dio quando gli chiediamo di liberarci dai nostri problemi! Egli diceva: “La perfezione sta nel non pregare per la propria salute. Non chiediamo nella preghiera di stare bene, ma di diventare buoni”61. Per quanto capisco, Porfirio non si disinteressava dei problemi umani; ciò però non perché pensasse che la soluzione dipendesse da lui o fosse una conferma religiosa, ma perché vedeva il pericolo che chi era inchiodato alla sofferenza o imprigionato nella miseria crollasse psicologicamente. Il fondamento di questa sua posizione stava nel “non chiediamo nella preghiera di stare bene, ma di diventare buoni”. È una tesi avvertita come estrema e che sembra non tener conto del fatto che lo stesso apostolo Paolo aveva chiesto per tre volte la sua guarigione (cf. 2Cor 12,8). Evidentemente, tuttavia, ciò che voleva fare Porfirio con questa preziosa sentenza era collocare chiaramente il centro di gravità nel sistema di valori del credente. Perciò qui il punto non è l’individuazione di quali siano i diversi elementi e i diversi beni che compongono la vita umana, ma quale è il suo centro di gravità. Ho la sensazione che l’esaltazione della salute e dei valori sociali borghesi formino una specie di escatologia intramondana che misconosce il fatto che la storia è una lotta incessante tra la vita e la corruzione e che l’esito finale si trova nel Regno escatologico, il quale ha come criterio l’amore, non il benessere e la riuscita sociale. Questo particolare anarchismo ascetico relativizza tutto e assegna un’importanza decisiva all’orientamento dell’esistenza umana. E così, come la non-guarigione di Porfirio di solito non diviene fonte di teologia, così anche nei racconti trionfalistici di guarigioni non vi è spazio per il mistero, per il miracolo di un miracolo non av61 Wounded by Love, p. 229; cf. anche ibid., pp. 116-117, 225, 227-228; A. I. Kalliatsos, Ο πατ ρ Πορφριος, @ διορατικ2ς, @ προορατικ2ς, @ !αματικ2ς, Athinai 1993, pp. 103-107.

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venuto, per gli infiniti casi in cui la fede è fiorita senza togliere la malattia, senza porre fine alla sterilità e senza sfuggire alla morte improvvisa62. Porfirio porta il nome di Kafsokalyvita dalla sua madrepatria spirituale, la Kafsokalyvia sulla Santa montagna63. Se consideriamo il luogo del suo servizio, lo si potrebbe chiamare piuttosto “Omoniatis”, poiché Omonia è la piazza centrale di Atene in cui visse per anni, oppure “Atticokalyvita”, dal momento che l’Attica è il dipartimento cui appartiene Atene. Tuttavia è rimasto sempre Kafsokalyvita non semplicemente perché voleva morire nella sua cella di provenienza, ma anzitutto per il suo modo di vivere. Durante tutta la sua vita terrena mise a fuoco l’assolutizzazione di ogni capanna mondana, di ogni valore che tendesse ad autocostituirsi in valore autonomo. E ancora, anche nell’ultimo istante osò “dare fuoco” anche ai propri resti mortali. Ebbe cura che il luogo ove riposavano le sue ossa rimanesse sconosciuto: Chiese di essere sepolto nella tomba in cui prima era stato deposto un monaco grasso e allegro per poter prendere qualcosa della sua santità. Dopo che padre Porfirio fu riesumato, fu sepolto nello stesso luogo lo iérondas papa Nikanor. Quindi anche questi fu riesumato. Ora non vi è da nessuna parte una tomba personale dello iérondas Porfirio. E le sue ossa, secondo il suo ordine, furono nascoste nel bosco di Kerasià64.

62 In mezzo a una gran quantità di persone che si vantano per le guarigioni, appare sconvolgente l’accorato racconto di Ghiorghios Papazachos sul dolore di Porfirio durante il funerale di una ragazza. Cf. Ierondas Porfirio, Ανθολ2γιο Συμβουλν, pp. 201-202. 63 Kafsokalyvia è probabilmente tra le prime regioni in cui, già verso il ix secolo, si è praticata l’ascesi sul Monte Athos. Il luogo prende il nome da Massimo, che era “Kafsokalyva” (ossia “Brucia-capanne”) in senso letterale perché dava fuoco alle capanne da lui stesso costruite. Cf. Patapios, monaco Kafsokalyvita, Αγιασμ(νες μορφ>ς τν Καυσοκαλυβων, π0 τ0ν Eσιο Μ&ξιμο #ς τ0ν γ(ροντα Πορφριο, Monte Athos 2007, pp. 23-30. 64 Arch. Vassilios, “Ο Γροντας Πορφ+ριος ,ς Αγιορετις”, in Ορ2σημο ;γι2τητος, p. 78.

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A mio modesto parere le principali testimonianze del suo “kafsokalyvitismo” sono due. La prima è la sua confessione circa la propria concezione e consapevolezza che di molte persone che in realtà hanno annunciato Cristo e hanno operato miracoli nel suo nome sarà manifestato alla fine che non avevano alcuna relazione con Cristo e si sentiranno dire le parole tremende: “Non vi ho mai conosciuti. Andate via da me, operatori di iniquità!” (Mt 7,23). Tale preziosa convinzione spezza ogni comprensione burocratica della chiesa, ogni ascesi narcisistica della teologia, ogni certezza luciferina che tutto quello che porta un’etichetta ecclesiastica è automaticamente secondo Dio. Al contrario essa pone tutto sotto il giudizio ultimo di Cristo. Porfirio affrontava questa evangelica incertezza nel modo più evangelico: con la fiducia nell’amore e nella misericordia di Dio65. La seconda testimonianza – in realtà un’esplicitazione della sua summenzionata consapevolezza – è lo straordinario dialogo che ci ha raccontato il suo beatissimo medico Ghiorghios Papazachos. Una testimonianza che costituisce un vero vangelo e che essa sola basterebbe, anche in assenza di tutte le altre, a renderci sospetti nei confronti degli insostenibili sentieri della santità. Si tratta del dialogo in cui Porfirio manifestò che la grande insidia non è solo l’assenza di virtù, ma le virtù stesse le quali, in modo curioso e contraddittorio, possono ergersi tra l’uomo e Dio! Ecco la testimonianza: Un pomeriggio mi telefonò nel mio ambulatorio subito dopo una manifestazione di affetto da parte di una coppia di malati che avevo in cura. Riferisco le sue parole: “Ghiorgakis, sono lo iérondas. Noi due ce ne andremo insieme all’inferno. Ci sentiremo dire: ‘Stolto, stolto, questa notte ti richiedo la tua anima … I beni di cui hai goduto nella vita, che hai prepara65 Cf. Wounded by Love, pp. 28, 242. Cf. anche K. Ioannidis, Ο γ(ρων Πορφριος, p. 111 (testimonianza di Nikolaos Sotiropoulos).

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to, di chi saranno?’ (cf. Lc 12,20)”. Lo interruppi: “Di che cosa, iérondas, abbiamo goduto in questa vita? Di un catorcio di macchina, di un libretto vuoto, del sonno inesistente?”. Rispose seccamente: “Che cosa dici? La gente non ti dice: Che bravo medico! Ci vuoi bene, hai cura di noi, non ci spenni. E tu le accogli queste cose, te le bevi. Eh! Hai perso la tua ricompensa! Patisco anch’io la stessa cosa. Mi dicono che possiedo molti carismi, che posso sostenerli e far miracoli, che sono santo. E io me le bevo, tonto e debole come sono. Eh! Per questo ti ho detto che ce ne andremo insieme all’inferno!”. Gli risposi: “Se ci andiamo insieme, andiamocene anche all’inferno!”. E quello chiuse il telefono dicendo: “Io ti parlo seriamente e tu scherzi sempre. Auguri di buona conversione a tutti e due!”66.

66 Gh. Papazachos, “Δεκατσσερα χρνια κοντ( του”, in Σναξη 41 (1992), p. 96; nuovamente pubblicata con diversa punteggiatura in K. Ioannidis, Ο γ(ρων Πορφριος, p. 174.

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COMUNIONE E SOLITUDINE NELLA TEOLOGIA GRECO-ORTODOSSA CONTEMPORANEA

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Konstantinos Agoras*

La tematica di questo colloquio su “comunione e solitudine” richiama alla mente di ciascuno la storia dell’avventura dell’uomo, di ogni realtà umana singola o comune, di ogni espressione dell’umano; in modo paradigmatico, la vicenda dell’uomo con se stesso e i suoi simili, con Dio e il mondo. Ma per chi si radichi nella storia biblica raccontata dagli apostoli, tale tematica mi sembra rinviare innanzitutto al mistero pasquale di Cristo e di ogni realtà e situazione umana in Cristo vissuta nella profondità pneumatica del suo corpo misterico (ecclesiale) situato nel contesto globale del disegno d’amore del Padre per noi. Rispondendo all’invito della Comunità di Bose, per il quale mi sento profondamente riconoscente, e nella speranza di non deludere troppo le vostre aspettative, cercherò di esporre brevemente alcuni punti significativi della riscoperta della tematica della comunione nella teologia greco-ortodossa (dagli anni sessanta-settanta) nei suoi maggiori esponenti, quali Christos Yannaras e Ioannis Zizioulas (attuale metropolita di Pergamo), in pri* Teologo ortodosso, direttore del programma “Studies in Orthodoxy” della Greek Open University (Milton Keynes, Gran Bretagna), docente invitato presso la facoltà teologica pugliese di Bari. Testo non rivisto dall’autore.

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mis, ma anche Panayotis Nellas e altri. È da notare che in questi autori la problematica della comunione è stata accostata dal punto di vista teologico-sistematico, in chiave ecclesiologica e prosopologica e dal punto di vista storico-ermeneutico in un contesto epocale neopatristico. Parlare di una determinata problematica (“comunionale” nel nostro caso) e della sua “riscoperta” o “rinascita” in un determinato contesto epocale (neopatristico in ultima analisi) significa da una parte reperire le sue origini intellettuali nella storia del pensiero, quella più vicina a noi prima, e dall’altra contestualizzare la sua riscoperta in una situazione storico-teologica precisa; riconoscere cioè in questa riscoperta non solo i debiti (storici) ma anche i limiti (contestuali), senza per niente minimizzare con ciò l’importanza storica della riscoperta, la grandezza spirituale dei suoi autori e la fecondità straordinaria delle loro opere. Ora in ciò che segue non intendo tanto riferirmi a delle tesi concrete prosopologiche ed ecclesiologiche dell’uno o dell’altro, quanto piuttosto alle strutture di pensiero sottostanti alle loro tesi (e che ne determinano i contenuti), strutture che in fondo mi sembrano comuni. Non vorrei qui esporre i vari approcci della problematica prosopologica ed ecclesiologica sulla comunione dei pionieri di questa riscoperta. Tale cosa sarebbe impossibile, visti i limiti del tempo, e caricaturale, data la ricchezza e la complessità delle opere e delle sintesi dell’uno e dell’altro. Mi propongo invece, in un primo tempo, di contestualizzare la riscoperta accennando alla situazione storico-teologica di allora (e quindi ai suoi limiti epocali). In seguito, mi soffermerò sugli antecedenti storici della problematica ecclesiologica e prosopologica della comunione, sul significato spirituale della sua rinascita in Grecia come pure su alcune tra le questioni che una certa struttura ermeneutica, probabilmente ereditata e perpetuata forse inconsciamente in Grecia, lascia aperte. Ciò facendo allargherò in un certo senso lo status quaestionis sulla comunione nella teologia ortodossa contemporanea. 256

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Comunione e solitudine nella teologia greco-ortodossa contemporanea

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Situazione storico-teologica

Sembra difficilmente negabile il fatto che la teologia ortodossa del xx secolo nel suo insieme, oltre che dalla presenza profetica della diaspora russa in Europa occidentale e dal coinvolgimento panortodosso al Movimento ecumenico, sia stata profondamente segnata anche dal I Convegno internazionale di teologia tenuto ad Atene nel 1936. Tra le varie voci presenti in quella circostanza, determinante per noi è quella di Georgij Florovskij con la sua duplice tesi storica ed ermeneutica: la tesi sulla “pseudomorfosi” della teologia ortodossa postbizantina, ossia sulla sua occidentalizzazione (parte storica), e la tesi sull’“ellenismo cristiano” come categoria eterna della teologia (parte ermeneutica). Da allora in poi, Florovskij si fece pioniere dell’urgenza quasi apocalittica per un ripristino immediato dell’ethos patristico in teologia, attraverso una sintesi “neopatristica”. In ciò fu seguito quasi dappertutto, sovente in maniera semplificatrice e poco consona alle sue intenzioni profonde. Ed è ben nota l’ideologizzazione di un “ellenismo eterno dei padri”. Benché queste cose siano ben conosciute da tutti, mi permetterò di soffermarmi brevemente per richiamare all’attenzione alcuni aspetti della tesi florovskiana; non tanto per se stessa ma in quanto determinante la situazione storico-teologica della riscoperta in Grecia della problematica prosopologica ed ecclesiologica della comunione (dagli anni sessanta-settanta e forse fino ad oggi). Al centro della tesi storico-ermeneutica florovskiana si trova, pare, una duplice aporia della stessa fattura: l’aporia sull’identità ortodossa in piena modernità (in diaspora), insieme a quella sul senso della tradizione ecclesiale nell’oggi della teologia ortodossa. Per essere compresa e situata, la duplice tesi di Florovskij, benché irriducibile alla genealogia, non potrebbe esserne certo dissociata. Mi riferisco qui alla famosa “scuola di Parigi” di quegli anni, che chiamerei per convenzione “neo-or257

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todossa”, all’ambiente teologico-spirituale della diaspora russa in occidente (di Bulgakov in primis, ma anche di Florenskij e di Berdjaev per non citare che i più illustri). La diagnosi di una “pseudomorfosi teologica” (cattività occidentale della teologia ortodossa), la teorizzazione di un “ellenismo eterno dei padri” e l’appello ad una “sintesi neopatristica” urgente rappresentano in un certo senso la replica, o meglio la controproposta critica di Florovskij alla scuola neo-ortodossa di Parigi riguardo alla questione sull’autocoscienza dell’ortodossia in piena modernità, sul suo obiettivo e sul suo metodo teologico e spirituale. Pare insomma che il progetto neopatristico florovskiano, focalizzato su una forma premoderna di pensiero (l’ellenismo cristiano che delimiterà in seguito i migliori tra i nostri in Grecia) sia stato fortemente condizionato (e quindi delimitato) in senso dialettico dal progetto neo-ortodosso della scuola di Parigi dell’epoca, quest’ultimo focalizzato sul carattere postmedievale della modernità occidentale. Ora l’appello a un ritorno sull’ellenismo diacronico dei padri, anche se prospettato nel futuro (“Avanti con i padri”, diceva Florovskij) – o forse proprio a causa di questa specie di futurismo (aionismós) – in quanto progetto neopatristico, resterà essenzialmente un progetto neobizantino per così dire, premoderno più che postmedievale (moderno). Da qui forse viene il suo rapporto ambiguo per lo meno con la modernità cattolica, protestante e secolare; con il nostro oggi culturale e la storia reale in breve e nonostante le sue intenzioni. Ma non è questo ciò che mi sembra più significativo. Essendo finalmente neopatristico (centrato sulla storia della teologia e della spiritualità) e non prima di tutto “neoapostolico” per così dire (centrato sulla storia della salvezza stessa), tale progetto di rinnovamento rischierà di favorire un’inversione del rapporto tra storia della salvezza (economia trinitaria) e storia delle teologie (storia delle chiese e tradizioni); inversione del rapporto tra gli eventi salvifici stessi (secondo la testimonianza aposto258

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Comunione e solitudine nella teologia greco-ortodossa contemporanea

lica, Bibbia nella celebrazione misterica) e i commenti soteriologico-esistenziali più o meno autorevoli su questi stessi eventi salvifici (tradizione e teologie). Se poi tale progetto di ressourcement teologico viene assolutizzato, rischierà di restare non solo bloccato su alcune parti della storia della teologia e della spiritualità nel suo insieme multiplo ma di svolgersi senza rapporto organico con la stessa storia della salvezza, l’economia trinitaria in Cristo, secondo la testimonianza biblico-apostolica, unica in maniera paradigmatica e fondatrice di ogni tradizione ecclesiale susseguente. La tradizione rischierà di inghiottire l’unicità esemplare e fondante del kerygma (testimonianza apostolica) ignorandola ( facta dogmatica-dicta probantia). Ora il passaggio da una tale visione di tradizione ai tradizionalismi è spesso impercettibile, lo sappiamo tutti. Riassumendo: nel suo intento di impedire sia la dissoluzione della chiesa nel mondo sia l’alienazione della teologia dalla cultura – della teologia ortodossa dalla cultura occidentale, direbbe Florovskij –, senza aver sufficientemente problematizzato la questione di un’articolazione ermeneutica corretta tra l’euanghélion del Regno e le culture della storia, il progetto florovskiano tornerà quasi fatalmente contro se stesso provocando un corto circuito. Quando si tenta di esorcizzare un occidentalismo teologico-culturale – in solidum, è da notare – con un ripristino neopatristico di simile fattura, neobizantina per l’appunto, tale bloccaggio tra teologia e cultura (nella storia del mondo) rischia di identificare in maniera idealista, atemporale, la tradizione ecclesiale con la stessa “storia della salvezza” (“economia trinitaria”), e quindi la tradizione – multipla e unica – con una parte della storia culturale del mondo nella chiesa, per salvare quest’ultima da un’altra parte della sua storia (culturale) e della sua “altra” tradizione: quella dell’occidente, che bene o male è la nostra di oggi quasi dappertutto. È forse in tale contesto di ritorno a un “ellenismo cristiano” paradigmatico, e alle sue strutture concettuali supposte eterne 259

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– più che agli stessi fatti della storia della salvezza (o economia trinitaria) a partire dal suo evento centrale ed unico (ephápax), la Pasqua di Cristo – che la riscoperta della problematica della comunione personale, nella libertà come amore, si effettuerà nella teologia greca. Fino ad oggi forse, la riscoperta della tematica comunionale in chiave prosopologica ed ecclesiologica sembra imprigionata in una situazione storico-teologica di tipo neomedievale; e ciò nonostante l’immenso sforzo di Ioannis Zizioulas, per non citare che un solo nome, di inquadrare l’“ellenismo cristiano” patristico in una prospettiva biblico-apostolica, “storico-salvifica”. Detto questo non intendo minimamente mettere in discussione la grandezza sistematica e l’importanza spirituale delle sintesi comunionali degli illustri pionieri greci. Mettere in risalto una situazione epocale (e i suoi limiti) ci incita anzi a riprendere delle riletture rinnovate di opere, come le loro, straordinariamente ricche in intuizioni teologiche e spirituali; e per noi comunque preziose.

Antecedenti storici e limiti della riscoperta

Nessuno o quasi negava in Grecia, per lo meno dagli anni sessanta-settanta, il bisogno di un autentico rinnovamento teologico nella fedeltà alla tradizione ecclesiale e al servizio dell’uomo contemporaneo. Secondo il paradigma neopatristico (dell’ellenismo cristiano) tale rinnovamento era però inteso grosso modo come traduzione attualizzante o meglio come trasposizione al presente storico-culturale delle intuizioni dell’ellenismo patristico: un rinnovamento come cambiamento a livello di linguaggio in teologia (esistenziale), a livello di presupposti e di contenuti (neopatristici). In un breve periodo, il linguaggio esistenziale soppianterà rapidamente quello scolastico di Trembelas, di 260

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Comunione e solitudine nella teologia greco-ortodossa contemporanea

Karmiris (e molto prima di loro di Andrutsos) nelle opere di Yannaras e di Zizioulas, per non citare che questi due pionieri illustri. Si potrebbe forse dire, schematizzando certo, che a un accademismo scolare centrato su una metafisica astratta delle essenze, succede allora un approccio esistenziale e mistico centrato sulla persona concreta e l’evento di comunione, sul mistero profondo della chiesa, sulla sua testimonianza nel mondo e la sua presenza nel cuore dell’uomo contemporaneo. Dal fisiocentrismo al prosopocentrismo: ma basterebbe solo questo per un autentico rinnovamento in Cristo della teologia? Come è stato osservato con pertinenza, l’ecclesiologia è stata la tematica dominante della teologia ortodossa del xx secolo. Ora, la questione sulla natura profonda della chiesa e il tipo della sua unità organica – in base alla comunione nella libertà e nell’amore reciproco – era già stata sollevata, in Russia a metà del xix secolo, dagli slavofili (Aleksej S. Chomjakov in particolare). Sotto l’influsso profondo del romanticismo tedesco (cf. Johann-Adam Möhler e la scuola cattolica di Tubinga) la chiesa era allora pensata come un vivo miracolo di unanimità, nella libertà e nell’amore mutuo, a immagine della pericoresi delle persone della Trinità ove esiste eternamente, in prospettiva slavofila, una riconciliazione autentica tra libertà e unità, archetipo dell’unità organica di tipo comunionale della chiesa. Mi permetto di attirare qui la vostra attenzione sulla struttura iconologica nel ragionamento idealista russo e di notare per inciso, anticipando il seguito, la corrispondenza di tipo speculare (iconologia in chiave idealista) tra chiesa e santa Trinità (immagine ed archetipo), tra comunione ecclesiale e comunione trinitaria. Una tale corrispondenza di tipo speculare si ritroverà malgrado tutto a livello ecclesiologico per esempio in Zizioulas (probabilmente via i residui slavofili di Afanas’ev, come contesto comunionale della struttura ecclesiale), come pure a livello prosopologico per esempio in Yannaras (in seguito forse a Berdjaev e come contesto comunionale della personeità uma261

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na). La realtà ecclesiale nella sua profondità (escatologica) e quella umana nella sua verità (eucaristica) saranno pensate come intrinsecamente relazionali e comunionali a immagine della realtà trinitaria (increata). Su questa struttura speculare, essenzialmente binaria della realtà – ove la mediazione di Cristo tra increato e creato non è strutturante (superflua?) – e sull’importanza della questione iconologica in teologia cristiana ritornerò in seguito. Sarebbe completamente sbagliato e fuorviante passare direttamente dall’idea di comunione secondo l’ecclesiologia idealista degli slavofili russi del xix secolo alla riscoperta della comunione ecclesiologica e prosopologica nei pionieri greci degli anni sessanta-settanta (esistenzialismo cristiano). Questo vale in primis per Zizioulas ma anche per Yannaras, per non citare che due tra i più noti. Ciò nonostante, come è stato recentemente osservato, “non è accidentale che il riconoscimento positivo di gran parte dei contributi slavofili, alla fine del xx secolo, avvenga con una nuova ondata di reazione estesa alla cultura dell’illuminismo, alla sua scienza, individualismo e teologia”. L’importanza del pensiero russo ortodosso della diaspora per la generazione teologica degli anni sessanta in Grecia non potrebbe essere abbastanza sottolineata. La problematica slavofila sulla comunione, accompagnata da una struttura speculare di iconologia filosofica (idealista) – ed è ciò che mi sembra importante – arriva e si impone da noi, nella sua duplice forma ecclesiologica e prosopologica. Da parte ecclesiologica, arriva mediata per il tramite della rilettura di Afanas’ev (in Zizioulas); da parte prosopologica, è mediata da quella di Berdjaev (in Yannaras, attraverso una rilettura della prosopologia triadologica di Lossky, prolungata in maniera creatrice – o meglio proiettata in maniera anti-losskiana – in antropologia, con il contributo decisivo, per il nostro, dell’ontologia heideggeriana via Sartre). Non si può negare, credo, l’influsso dell’“eucaristiologia ecclesiologica” (e pneumatocentrica) di Afanas’ev su Zizioulas. 262

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Comunione e solitudine nella teologia greco-ortodossa contemporanea

Quest’ultimo, è noto, effettua una doppia correzione in ecclesiologia: da una parte tenta di equilibrare il pneumatocentrismo di Afanas’ev “dialettizandolo” con il cristocentrismo di Florovskij in una specie di cristo-pneumatocentrismo ecclesiologico; e dall’altra tenta di sintetizzare l’eucaristiocentrismo carismatico di Afanas’ev con un episcopocentrismo istituzionale. L’ecclesiologia comunionale di Zizioulas, essendo cristo-pneumatica, non potrebbe essere chiamata semplicemente “eucaristica”, ma – mi sembra – “eucaristica-e-conciliare”. Malgrado tutte le correzioni dialettiche equilibranti in ecclesiologia (cristologia-pneumatologia, istituzione-carisma, storia-escatologia) e nonostante i suoi lavori interessanti sull’iconologia, la struttura ermeneutica binaria, speculare della realtà, dell’icona e dell’iconismo – alle origini filosofiche (idealiste) della quale abbiamo sopra accennato – resta sempre presente nella sua sintesi condizionandola; o meglio contestualizzandola. Ed è qui, a mio modesto parere, tutta l’importanza di un approfondimento rinnovato della questione su un’iconologia veramente teologica – e correlativamente su una misteriologia veramente trinitaria – in chiave decisamente cristica, vale a dire storico-salvifica.

Articolazioni iconologiche e questioni aperte

Per capire questa mia affermazione sull’importanza delle strutture ermeneutiche e della questione iconologica in regime cristiano mi permetterò di formulare qui alcune delle mie aporie prosopologiche ed ecclesiologiche sull’idea di comunione e di partecipazione alla comunione. Prima di passare all’ecclesiologia eucaristica comincio con la prosopologia relazionale. Quest’ultima sembra quasi più urgente come questione. Sottoscrivo in pieno l’ipotesi di monsignor Kallistos Ware secondo il quale, 263

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in ambito teologico, il nostro nuovo millennio sarà quello dell’antropologia, senza che per questo venga meno l’interesse per l’ecclesiologia. Come dice bene l’illustre autore, la questione centrale non sarà più soltanto “che cosa significa essere chiesa” (per le nostre comunità) ma anche – e più profondamente – “che cosa significa essere persona” (per l’uomo come tale), segnalando comunque la connessione intima per noi cristiani delle due questioni. Ora la mia aporia prosopolgica è la seguente: l’uomo-creatura di Dio è stato creato “finalmente” – in senso ontologico ed escatologico – “a immagine” della Trinità oppure a immagine di Cristo? Tale aporia, che non è solo mia, non mi sembrerebbe banale o scolastica bensì profondamente soteriologica. Poiché nel primo caso, se non sbaglio, la struttura del dono di personeità (nell’uomo) sarebbe triadologica (ossia relazionale, comunionale, eccetera); mentre nel secondo caso sarebbe strettamente cristica, per l’appunto cristo-misterica in senso trinitario (filiale per grazia, davanti al Padre e in attesa della cristificazione escatologica). In quale direzione va effettivamente la testimonianza apostolica è da tutti conosciuto. A ragione Nellas osservava che l’uomo non può essere detto semplicemente immagine di Dio ma “immagine dell’immagine” (unica) di Dio, perfettamente somigliante (increata) a lui (il Padre) per natura, incarnata per noi (per grazia) come suo dono personale: come dono “paterno” stricto sensu, trinitariamente dispensato (cf. il Padre “trinitario”). Secondo quest’ultimo approccio (biblico-cristico) abbiamo un altro tipo di iconologia, non filosofica né di struttura binaria (immagine-prototipo) ma storico-salvifica; e per così dire ternaria, anzi misterico-trinitaria (cf. il mistero di Cristo, punto focale e ricapitolazione dell’economia paterna). L’uomo non è immagine di Dio se non in Cristo ed attraverso lui (nello Spirito). E dunque Dio, in tale contesto, significa Padre. Venendo adesso all’aporia ecclesiologica mi domando: la chiesa comunionale (eucaristica, eccetera) costituisce “finalmente” 264

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Comunione e solitudine nella teologia greco-ortodossa contemporanea

– nel doppio senso ontologico ed escatologico del termine – l’immagine della Trinità oppure quella del Regno escatologico? (Notate che nell’opera di Zizioulas, per esempio, è sostenuta sia l’una sia l’altra iconicità e noi cerchiamo di capire la struttura iconologica…). Di nuovo, nel primo caso la struttura del dono sacramentale di ecclesialità (nella chiesa) sarebbe triadologica (relazionale, comunionale, eccetera), mentre nel secondo caso sarebbe cristo-misterica in senso trinitario: vale a dire materna per grazia, davanti al Padre, in attesa della ricapitolazione escatologica in Cristo e nello Spirito. Non vorrei stancarvi di più con queste mie aporie soteriologiche. Modestamente ritengo che in prospettiva storico-salvifica (di economia trinitaria) la chiesa non può che essere in via, essendo innanzitutto cristo-misterica; seguendo cioè Cristo nella sua pasqua verso il Padre, il Regno escatologico ed eterno. E che, in quanto comunionale ed eucaristica, la chiesa non potrebbe essere detta in campo teologico come semplicemente immagine della comunione trinitaria, bensì come immagine dell’immagine (escatologica) della comunione trinitaria, nel (del?) Regno venturo di Dio. Tutto ciò suppone ovviamente che la storia della teologia (cf. la tradizione ecclesiale) non si confonda, non soppianti ma sottostia alla storia della salvezza (cf. l’economia del Padre); e soprattutto che non si perda il senso (orientamento, prospettiva) del “fondamento” (storico-salvifico) in teologia (ecclesiale) invertendo l’ordine del chi fonda che cosa e chi interpreta che cosa… Parlando di “economia trinitaria” o “dispensazione paterna” in modo trinitario – da non confondere con il modo triadologico di una coesistenza panoramica, parallela – faccio qui riferimento all’economia della rivelazione del Padre in Cristo e nello Spirito, alla storia della salvezza, quella dell’autodonarsi di questo Dio a noi nell’umanità di Cristo per mezzo dello Spirito; quella dell’autodonarsi del Padre in Cristo e per mezzo dell’umanità “cristica” e “sacramentale” (ecclesiale) dell’autodonar265

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si di Dio all’intera sua creazione, al nostro mondo. Le categorie soteriologiche dunque di “rivelazione” e di “economia” vanno intese in modo trinitario (non “panoramico-triadologico”) e si riferiscono rispettivamente al mistero della presenza e dell’azione salvifica di Dio (il Padre, in Cristo e nello Spirito) a noi e per noi nella storia per la vita del mondo. Per la fede biblica – almeno nella sua rilettura apostolica – l’economia di Dio per noi (in Cristo) e l’“economia della rivelazione” di questo Dio (nella storia) si implicano a vicenda; esse sono “finalmente” lo stesso mistero (cf. Ef 1,3-14).

Storia delle teologie e delle culture / storia della salvezza (economia e rivelazione)

In regime biblico-ecclesiale e per la fede apostolica si tratta di “economia trinitaria” e di “rivelazione trinitaria”, dell’agire e dell’autodonarsi trinitario di Dio e Padre (in Cristo e nello Spirito) a noi e per tutti; per l’intera umanità travagliata fin dall’inizio e per l’insieme della creazione, abusata in modo persistente. Se dunque i termini comunione e solitudine richiamano la storia dell’avventura umana (in Adamo nella solitudine della separazione: delle tradizioni teologiche e delle chiese…), per noi cristiani richiamano prima di tutto la storia dell’“economia e rivelazione” trinitaria di Dio e Padre (in Cristo e nello Spirito: la salvezza in Cristo delle tradizioni teologiche e delle chiese…). E quindi, a partire dal mistero pasquale di Cristo Gesù (nello Spirito e verso il Padre) ci spingono a meditare sul mistero personale in modo ecclesiale di Gesù di Nazaret (nella storia e verso il Regno venturo), verso il compimento escatologico dell’“economia e rivelazione” del nostro Dio. 266

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Comunione e solitudine nella teologia greco-ortodossa contemporanea

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Conclusione

Cari amici: quando la storia (della chiesa) e l’ermeneutica (della tradizione) in teologia, quando la storia delle teologie (cf. tradizione delle chiese) e la storia della salvezza (cf. mistero di Cristo) non mantengono continuamente le loro alterità reciproche l’una verso l’altra, come un dialogo aperto sul futuro di Dio, ossia all’avvenire del Regno – inteso quest’ultimo come un terzo, come giudice definitivo – allora in teologia cristiana l’ermeneutica (storico-salvifica) rischia di essere bloccata dalla e nella storia (delle teologie); ciò per un corto circuito ermeneutico che rischia di confondere lo storico-teologico plurale (peggio, una parte dello storico-teologico) con lo storico-salvifico in Cristo (nella sua cattolicità escatologica). La costatazione storica di una “pseudomorfosi” non-ortodossa in piena ortodossia, al dire di Florovskij, e il suo plaidoyer ermeneutico per un’urgente sintesi neopatristica sono strettamente collegati. A mio modesto parere la questione sul cerchio ermeneutico tra storia, mistero e salvezza in teologia cristiana, la questione di un’articolazione pertinente tra storia della salvezza, storia della cultura e tradizione ecclesiale (nella storia e verso il Regno) non è stata finora sufficientemente problematizzata in campo ortodosso. L’articolazione tra storia ed ermeneutica in teologia sistematica coram Deo, tra teologia e cultura nella chiesa davanti al Regno venturo, resta sempre un punto delicato, direi il punto debole di ogni progetto di tipo neopatristico; in quanto appunto progetto tendente a omogeneizzare la storia delle teologie e, confondendola con la storia della salvezza, a idealizzare la tradizione patristica o una parte di essa (cf. l’ellenismo patristico come “categoria eterna dell’esistenza cristiana”) erigendola a fondamento al posto della testimonianza apostolica. Dal punto di vista storico-salvifico e in contesto teologico, la storia (e la tradizione ecclesiale nella storia) non è omogeneiz267

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zabile, per il fatto che è costituita in modo paradossale sia nella pluralità ecclesiale ma soprattutto come continuità nella discontinuità: non solo in continuità con il passato ma anche nella discontinuità rispetto al passato (in apertura alla novità del futuro di Dio). Ed è costituita nell’“oggi di grazia”, la storia, non a partire da se stessa (come autopossesso del suo passato nell’oggi) ma a partire dal Regno venturo, dal futuro sempre nuovo e assolutamente imprevedibile del Dio-con-noi, come suo dono. Da questo punto di vista escatologico (o meglio escato-misterico), il tradizionalismo teologico, come pure il modernismo teologico, avendo perso di mira il fondamento (storico-salvifico), convergono nella semplificazione del paradosso (cioè del mistero) del dono ecclesiale (e della tradizione ecclesiale) di Cristo nella storia. Il modernismo punta sulla discontinuità culturale a scapito della continuità (il “finalmente” dell’ephápax paolino) e il tradizionalismo in senso inverso tenta di esorcizzare la discontinuità culturale sostituendola con una continuità artefatta, idealizzata e proiettata nell’assoluto (o nel futuro) come categoria eterna della teologia. Mi sembra però che tutti e due, sebbene in modo opposto, tentino di autoporsi, di autofondarsi nella storia – a partire dalla sola storia (modernismo) o dalla sola traditio (tradizionalismo) – anziché di riceversi sempre di nuovo nella storia a partire dal fondamento stesso della storia: a partire dall’Altro della storia, dal regno venturo di Dio e come suo dono (dono del Regno) per noi e la nostra storia.

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PERSONA E COMUNIONE: PER UN’ANTROPOLOGIA DELLA FIDUCIA. GERUSALEMME E ATENE ANCORA INSIEME?

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Konstantin Sigov*

Introduzione

La persona nasce dal ringraziamento e tende all’eucaristia. Le scienze contemporanee si affollano presso una porta chiusa, dietro la quale si cela il mistero dell’uomo, il mistero della persona umana; per quella porta chiusa vorremmo offrire la chiave del ringraziamento, dell’antropologia eucaristica. La tesi che vede nella gratitudine il nucleo dell’antropologia del futuro è un argomento per un grosso libro, che non potrebbe essere trattato in una breve comunicazione. Per far luce su questo tema non bastano certo le forze di un uomo solo, ma si richiede un impegno conciliare par définition; per questo motivo un’introduzione pertinente, qui e ora, a questa tematica, non sarà una teoria astratta, ma la práxis, l’atto concreto del ringraziamento, il binomio performativo di parola-azione. * Docente di filosofia presso l’Università nazionale “Accademia Moghiliana” di Kiev, direttore del Centro ecumenico San Clemente di Kiev. Traduzione dall’originale russo.

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Konstantin Sigov

Faccio appello alla vostra comprensione, affinché non resti come vuoto luogo comune ciò che intendo dire. Non so come poter esprimere una parola di gratitudine alla Comunità di Bose cancellando da essa la più piccola sfumatura di convenzionalità. Con il dovuto rispetto per il rituale dei convegni, ben noti ai veterani del genere, non parlerò ora di convenzioni né per cortesia convenzionale. Ancora una volta vi chiederei di accogliere questo pensiero con serietà, senza ironia. Come ricorderanno i lettori di Aristotele, la filosofia inizia dallo stupore (tò thaumázesthai). Vi invito tutti insieme a condividere ad alta voce lo stupore per quel che accade qui a Bose da quasi vent’anni. Coloro che giungono a Bose non per la prima volta conoscono il mistero della naturalezza con cui qui si compie ogni cosa. Nel secondo giorno di permanenza a Bose sorge la sensazione di essere nati qui, dove tutto e tutti sono familiari. Che cosa c’è di così sorprendente? Sapete da quali lontani luoghi del pianeta giungono qui gli ospiti, da quali diverse comunità, da quali disparati contesti culturali, confessionali, sociali e politici. E noi siamo con voi testimoni di questo fatto straordinario, ossia della rapidità con cui si crea tra di noi la naturalezza nello stare insieme, nel vivere insieme, nel meditare insieme, nel pregare insieme, nel ristorarci insieme alla stessa tavola. Com’è possibile questo in un mondo dove solo i pigri non parlano dello scontro di civiltà, dei cosiddetti clashes of civilizations? Sono pronto all’incomprensione dello stupore da due prospettive opposte. Per alcuni qui a Bose è davvero tutto così naturale, da chiedersi: “Perché mai dovremmo meravigliarci?”. All’opposto di questa reazione troppo fiduciosa, “ingenua”, c’è l’antica abitudine alla diffidenza: che cosa mai ci sarà dietro le quinte di questo splendido teatro, quali saranno le nuove mosse dell’ecumenismo? Una terza possibilità è legata a una domanda diversa: che cosa c’è tra questi estremi, quale spazio si apre tra questi due poli opposti? Vogliamo supporre che questo spazio di 270

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Persona e comunione …

mezzo non sia troppo stretto, anzi la cosa essenziale è proprio che esso si spalanchi allo stupore creativo nei confronti di ciò che sta avvenendo qui. L’originalità e la portata di tale questione ci risulterà più chiara se ricordiamo la classica domanda di Tertulliano: c’è dunque qualcosa in comune tra Atene e Gerusalemme, tra l’accademia e la chiesa1? Alla questione è stata data una risposta negativa sia – ahimè – da parte cristiana, sia dagli oppositori della dottrina di Cristo. Quanti non sono sospetti di aver studiato a fondo l’opera di Tertulliano (e per ragioni di carattere tutt’altro che esclusivamente teologico e dogmatico), sono inclini a contrapporre il vettore accademico, da un lato, a quello ecclesiale dall’altro. Le recidive della radicalizzazione di quest’opposizione nel medioevo sono ben note agli storici. Ma non furono esse le dominanti della grande tradizione cristiana fino alla rivoluzione dell’era moderna. La rivoluzione scientifica, l’epoca dell’illuminismo, ma anche la rivoluzione francese, e poi quella bolscevica, mutarono radicalmente la situazione. Oggi non c’è bisogno di soffermarsi sui luoghi comuni della cultura di massa, secondo i quali le tecnologie scientifiche contemporanee non desiderano avere nulla in comune con i circoli dei teologi. Voci solitarie si levano a protestare contro l’opinione dominante. Ma il problema non è soltanto che le menti solitarie non hanno la forza di far cambiare opinione alla maggioranza. Il problema è che queste menti solitarie sono divise tra loro. Ahimè, a parte rare eccezioni, esse non formano gruppi coesi, e tanto meno comunità stabili. D’altra parte, in quelle compagini umane che portano la croce della comunità, gli interessi della teologia accademica non sono certo al primo posto. Le ricerche fondamentali raramente figurano nei bilanci degli economi di grandi e piccole comunità.

1

Cf. Tertulliano, Contro gli eretici 7,9, a cura di C. Moreschini, Roma 2002, p. 39.

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Spesso non si parla nemmeno d’incoraggiare gli studi specialistici di questo o quello; sarebbe già molto non impedirli (espressamente o implicitamente). Altre sono le priorità che stanno dinanzi alla comunità nel suo insieme; mentre l’aspirazione personale agli studi dipende dalla disposizione dei superiori, e tale dipendenza implica particolari limitazioni. Non ci soffermeremo tuttavia su questa triste circostanza del resto ben nota. Sullo sfondo di questa situazione brevemente tratteggiata, come non stupirsi dei convegni di alto livello teologico, che anno dopo anno, e per così tanti anni di seguito, ha organizzato la Comunità monastica di Bose? Atene e Gerusalemme: l’accademia nella chiesa qui si sente a casa! Non voglio porre l’accento solo sull’audacia spirituale di questa intuizione (la Comunità di Bose è stata fondata nel 1968, l’anno delle rivoluzioni universitarie). La cosa che più sorprende è la naturalezza della sua realizzazione quotidiana: davvero non è forse questa un’eccezione alla regola mondana? Non si delinea forse qui una possibile regola di vita? Di più, non solo possibile, ma reale ed effettiva: già qui e ora come ospite del futuro, pegno di quel che speriamo… L’esempio della forza vitale della comunità e della comunione che essa pratica integra in sé il meglio di ciò che offrono le università europee e del mondo. Qui avviene un ponderato vaglio critico del frumento e del loglio dell’areopago accademico contemporaneo. Singolare anche la formazione del comitato scientifico del convegno. Accanto ai fratelli di Bose, incontriamo un benedettino di Chevetogne, un domenicano di Parigi, e accanto ai monaci, dei laici: professori delle Università di Torino e Venezia. Quest’anno in particolare rievochiamo la memoria di due colonne e attivi partecipanti di questi simposi: padre André Louf e la professoressa Nina Kauchtschischwili. In questi due nomi ci sono dati al tempo stesso due singoli partecipanti dei convegni e due rappresentanti della chiesa e dell’accademia, di “Gerusalemme” e “Atene”. L’indissolubilità di questa associazione è 272

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rafforzata dai nomi degli amici di Bose: frère Roger Schutz e il metropolita Antonij Blum, l’accademico Sergej Averincev e il cardinale Tomas √pidlík, padre Emmanuel Lanne e molti altri, che oggi abbiamo evocato. Essi formano, se un tale accostamento ci è concesso, un “comitato scientifico” nel mondo migliore, che non ci ha lasciato grazie alle loro preghiere e al lavoro che hanno svolto sulla terra, alla loro partecipazione alla vita della tradizione. A questa “nube di testimoni” ciascuno di noi è legato da fili particolari. Permettetemi di ricordare che oggi, 9 settembre, ricorrono esattamente vent’anni dal giorno del martirio di padre Aleksandr Men’, assassinato il 9 settembre 1990. Il cammino solitario di padre Aleksandr intersecò un paese e un’epoca nei quali il solo pensiero di un incontro nella comunione come lo viviamo qui a Bose sarebbe parso un’irrealizzabile utopia: scandalo per la nomenklatura e follia per i dissidenti. Ma l’accento sulla solitudine non esclude, piuttosto sottolinea nell’esperienza concreta di padre Aleksandr il suo ministero a servizio della partecipazione, dell’unità e della comunione. Consentitemi di dedicare alla sua luminosa memoria le riflessioni che seguono.

Tradizione (in)interrotta?

Sergej Averincev tenne un’importante relazione per il nostro tema qui a Bose nel 1999, sulla storia della chiesa ortodossa in Russia dopo la guerra. L’articolo di Averincev è dedicato alla personale conversione al cristianesimo negli anni sessanta-settanta negli ambienti dell’intelligencija di Mosca e Leningrado. Una distanza storica immensa separava quest’inaspettata ondata di conversioni dalla precedente epoca dell’inizio del xx secolo, quando entravano nella chiesa gli intellettuali della generazione di Sergej Bulgakov e Nikolaj Berdjaev. 273

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Averincev non nega la “fatale cesura” che separa l’esperienza della sua generazione da quella degli anni venti, descritta dallo storico Georgij Fedotov. Ma è di estrema importanza la precisazione che Averincev introduce in questo schema: “… e tuttavia la cesura, grazie a Dio, non fu assoluta”2. Non è un caso che dopo la sua morte si sia scritto di lui come dell’“ultimo rappresentante del secolo d’argento”. Probabilmente lui stesso non sarebbe stato d’accordo con l’aggettivo “ultimo”. Il suo rifiuto di porre l’accento sul tema dell’uscita di scena degli “ultimi” rappresentanti dell’Atlantide spirituale scomparsa non era per nulla l’effetto di una personale discrezione emotiva, ma il risultato di una ponderata riflessione sulla tradizione. Ritornerò tra breve sul problema più generale della critica al discorso moderno circa la “rottura della tradizione”. Permettetemi invece ora di riportare un passo dalla citata relazione di Averincev a Bose (così attuale per il tema che ci ha riunito qui dieci anni dopo): Legame vivente tra l’epoca descritta da Georgij Fedotov e i nostri giorni furono alcune figure solitarie … come per esempio la celebre pianista Marija Veniaminovna Judina … A cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta iniziava la sua attività padre Aleksandr Men’ … già solo la decisione di impegnarsi in un’attività missionaria in quel tempo e in quella società, nella quale le persone migliori si erano ormai rassegnate all’idea che non era possibile una cosa simile per il semplice motivo che una cosa simile era impossibile, era di per sé degna di stupore e meraviglia. Senz’alcuna posa eroica, senza rinunciare ad esser prudente, ma vietandosi persino l’ombra della 2 S. S. Averincev, “Ricerca di Dio e ritorno alla chiesa. L’intelligencija sovietica e il problema religioso”, La notte della chiesa russa. Atti del VII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa, Bose, 15-18 settembre 1999, a cura di A. Mainardi, Bose 2000, p. 184; cf. S. S. Averincev, “Oupyt bor’by iz vnu∫enijami vremeni: christianskie nastroenija rysskich intelligentov v 60-e – 70-e godu”, in Puti prosve∫™enija i svideteli pravdy: Li™nost’. Sem’ja. Ob∫™estvo, a cura di K. Sigov, Kiev 2011, p. 332.

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capitolazione, senza abbassare nemmeno un istante le mani levate, padre Aleksandr rese l’impossibile possibile3.

L’impero sovietico andò oltre gli altri nella maniaca aspirazione a “recidere il legame con il vecchio mondo”. Ma in una prospettiva storica più ampia possiamo costatare quanto l’occidente si sia distinto in questo campo. Il discorso sulla “rottura della tradizione” ha dominato in Europa in ideologie così diverse come il comunismo, il liberalismo o il postmodernismo nel secolo scorso; ma rimane anche oggi una sfida cruciale per la riflessione sulla persona e la comunione. Dopo la caduta del comunismo nei paesi dell’Europa orientale è diventato evidente per tutto il mondo la devastante desolazione cui hanno condotto le ideologie della rottura della tradizione. La loro crisi solleva il problema della distinzione tra le reali distruzioni, cui sono sottoposte le forme della trasmissione socioculturale da un lato, e dall’altro i confini della retorica della “rottura”, le cui pretese alla totalità si sono rivelate chiaramente esagerate. Dall’epoca dell’illuminismo la reazione a forme riduttive di cristianesimo si trasmuta gradualmente in “tradizione a rovescio” ovvero “antitradizione”. Come ha dimostrato MacIntyre, essa nasconde, anzitutto a sé medesima, il proprio carattere di tradizione4. Il suo decadimento spontaneo in nichilismo è condizionato dalla tendenza alla frammentazione delle forme d’interrelazione e all’atomizzazione degli individui. L’esperimento sovietico ha reso manifesta l’invivibilità della versione comunista dell’antitradizione. Questa esperienza è in gran parte dimenticata o esclusa dalla discussione contemporanea di altre versioni di paratradizioni secolari, come il liberalismo o il post3

S.S. Averincev, “Ricerca di Dio e ritorno alla chiesa”, p. 334. A. MacIntyre, After Virtue. A Study in Moral Theory, Notre Dame 1984; Id., Whose Justice? What Rationality?, Notre Dame 1988; Id., Three rival Versions of Moral Enquiry. Encyclopedia, Genealogy and Tradition, Notre Dame 1990. 4

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modernismo. Così, in particolare, il silenzio sulla storia delle repressioni del regime ateo in Urss è un inconfessabile a priori delle attuali mode ateistiche negli Stati Uniti e in Europa. Rowan Williams rileva l’attualità dell’individuazione operata da Sergej Bulgakov di due tendenze eterogenee in seno all’illuminismo: la proclamazione dei diritti dell’uomo e l’emancipazione dall’autoritarismo; il determinismo storico e l’ostilità verso la religione5. La seconda tendenza ha privato di prospettiva storica l’interpretazione della prima: la comprensione della genealogia cristiana dell’idea di diritti dell’uomo e del personalismo. Sergej Bulgakov, Nikolaj Berdjaev, Semen Frank, Boris Kistjakovskij, Petr Struve e gli altri autori della raccolta Vechi (1909) svilupparono in Russia la critica alle forme semplificate di prestito della “dialettica dell’illuminismo”6. Dopo la rivoluzione del 1917, il sistema sovietico diresse ogni sforzo ad annullare la tradizione dei suoi oppositori. Ma la generazione di padre Aleksandr Men’ e di Sergej Averincev in epoca poststaliniana testimoniò che questa tradizione non era stata annientata. L’esperienza di questa generazione ha la più stretta attinenza con le sfide chiave dinanzi alle quali sta oggi la nostra società e la chiesa. Un banco di prova cruciale è quello della riforma del sistema di formazione superiore laico ed ecclesiastico. Per rispondere a questa sfida è necessario rivolgersi all’esperienza internazionale e interconfessionale. Reinterpretando L’idea di università del cardinale John Henry Newman, lo storico americano contemporaneo Jaroslav Pelikan afferma: 5 R. Williams, “Heroism and Spiritual Struggle” (1909), in S. Bulgakov, Towards a Russian Political Theology, Edinburgh 1999, pp. 55-68; R. Williams, Bogoslovie V. N. Losskogo: izloΔenie i kritika, Kiev 2009. Cf. A. Mainardi, “Evropejskij gumanizm, prava ™eloveka i christianskaja koncepcija li™nosti”, in Ωelove™eskaja celostnost’ i vstre™a kul’tur, Kiev 2007, pp. 135-153. 6 Cf. La svolta. Vechi. L’“intelligencija” russa tra il 1905 e il ’17, Milano 19902; sulla rilevanza attuale di questa raccolta si vedano i saggi di Antoine Arjakovsky, Enzo Bianchi, Walter Kasper, Iossif Loss, John Milbank, Georges Nivat, Ol’ga Sedakova e Paul Vallière in Les Jalons. Cent ans après, s.l. s.d. (ma Paris 2009).

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La più preziosa di tutte le risorse naturali (in particolare quando le risorse naturali sono in pericolo) è la ragione critica; il più importante di tutti i prodotti della produzione nazionale (soprattutto oggi che qualsiasi produzione è in forse) è la mente con una formazione completa. In ultima istanza, si tratta della risorsa dalla cui presenza dipende lo sviluppo e la custodia delle altre risorse. È anche la possibilità che predispone il contesto intellettuale e sociale per altre opportunità. In tal modo qui, nel pieno senso della parola, sta il “fondamento della speranza nel futuro”7.

Come fare senza università?

La persona e la solitudine: è questo un tema attuale per la comprensione della specificità dei problemi legati alla formazione nella nostra tradizione8. Nella Rus’ questo tema ha una sua preistoria. Dalla fondazione delle Università di Bologna, della Sorbona e di Oxford nel medioevo, noi vediamo chiaramente i dotti intellettuali sullo sfondo dell’ambiente istituzionale dei “colleghi”, delle dispute e degli studi delle lingue classiche. Per la Rus’ questo quadro, a motivo dell’assenza di università, è completamente diverso. Nel saggio sull’ascetismo russo, Averincev parla dei lavori di traduzione di santo Stefano di Perm’ e di san Nil Sorskij e rileva che “il ruolo dello slancio personale, cioè in buona parte solitario, ‘ritirato nel deserto’, che non si colloca 7 Il “fondamento della speranza” è stato ripensato in profondità nella monografia di Ja. Pelikan, The Idea of the University. A Reexamination, New Haven-London 1992, qui p. 152. 8 Un panorama e la bibliografia sono forniti nella miscellanea Universytets’ka avtonomija, Kiev 2008.

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in nessun contesto dato di tipo istituzionale o corporativo, è evidentemente molto grande”9. Più oltre Averincev evidenzia il vivo contrasto tra un circolo sviluppatosi fuori dalle mura dell’università come quello degli slavofili, da un lato, e dall’altro movimenti universitari contemporanei quali il Movimento di Oxford o la scuola di Tubinga di Johann-Adam Möhler, Zeiler, Antonio Rosmini Serbati. Il contesto istituzionale e corporativo degli ordini monastici e delle università occidentali si rivela la tela essenziale per le iniziative individuali. Averincev nota che i padri del movimento vecchio cattolico “conducevano il dialogo con il Vaticano in nome … dei professori tedeschi (e oggi, Hans Küng non regola forse allo stesso modo le proprie relazioni con il medesimo Vaticano?)”10. Del tutto diverso il caso russo: Nobili colti, ufficiali in congedo, uomini liberi, uniti da relazioni nient’affatto collegiali, ma prettamente private all’interno di una sorta di circolo familiare allargato … Dotati di profonda fede e personale rettitudine, e pur tuttavia laici, e per di più non appartenenti al milieu dei seminari e delle accademie ecclesiastiche; portatori di una cultura filosofica perfettamente al livello della propria epoca, e tuttavia non appartenenti all’ambiente universitario… ecco chi – senza diplomi, senza gradi accademici né titoli – intervenne audacemente con un’iniziativa che avrebbe determinato uno sviluppo originale del pensiero religioso russo per molti decenni a venire11.

Averincev sottolinea le particolari difficoltà per lo sviluppo del pensiero dei suoi compatrioti, il suo “contenuto”, al di fuori delle “forme” delle università europee: “Chomjakov e i fra9 S. S. Averincev, “Russkoe podviΔni™estvo i russkaja kul’tura”, in Id., Svjaz’ vremen, Kiev 2005, p. 190. 10 Ibid., p. 193. 11 Ibid., p. 192.

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telli Kireevskij: in occidente ne sarebbe venuto fuori qualcosa del tipo della scuola di Tubinga; bisogna sentire questo contrasto. Là una tradizione corporativa; da noi persone singole, che lanciano la loro sfida alle abitudini della burocrazia e allo spirito del tempo”12. I trasparenti riflessi all’attualità nel discorso di Averincev illuminano le solitarie iniziative degli uomini della sua generazione in lotta con l’estraniamento delle università sovietiche e l’“autoisolamento” del “sistema”.

La persona e la fiducia

Tra le intuizioni più feconde dell’attuale volgere di secolo vanno annoverate due tesi complementari: la verità non si trova nella solitudine, al di fuori delle relazioni con gli altri; il vero contrario della comunione e della condivisione non è la solitudine, la vita solitaria, ma la disunione e l’isolamento. Le due tendenze dell’isolazionismo, individualistica e politica, sono state le malattie più gravi del xx secolo. L’impero sovietico ha introdotto nella storia del nostro pianeta la forma più imponente per dimensioni dell’isolazionismo, il suo regime si estendeva da Berlino a Vladivostok. Questo regime ebbe un ruolo non secondario anche nelle vicende dell’isolazionismo di Cina e Cuba, come anche di altri paesi dell’Eurasia, dell’America latina e dell’Africa. Una tale estensione geopolitica è stata la manifestazione macroscopica dell’isolazionismo più radicale e propriamente metafisico: il progetto titanico di strappare quei fili che legano il cielo e la terra secondo la tradizione biblica. Con la dissoluzione dell’Urss un immenso “specchio” ideologico si è infranto in una moltitudine di piccoli frammenti. In12

Ibid.

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vece del muro di Berlino e della “cortina di ferro” sono comparsi altri attributi dell’isolazionismo. Ma qui non ci occuperemo di politica. Dall’epoca della caduta dell’impero romano la chiesa ha attraversato un gran numero di fasi di scomparsa di alcuni stati e di formazione di altri. Specifico del nostro tempo è la complessa interazione dell’individualismo contemporaneo e di nuove forme di isolazionismo etnoculturale. I loro virus minacciano la società dell’informazione contemporanea. D’altra parte devo fare una precisazione: non ho per nulla intenzione di unire la mia alla voce di chi tira l’acqua al mulino della demonizzazione della tecnica, senza affrettarsi a rinunciare alle comodità quotidiane che essa ci procura… L’onestà intellettuale esige una demarcazione più sfumata e la ponderazione dei fattori pro et contra. Perorando oggi la causa di un’antropologia della comunione, non si possono non ricordare i cambiamenti tumultuosi delle forme di comunicazione. Per esempio grazie ai cellulari. Convenzione del genere letterario della conferenza pubblica è lo spegnimento dei telefonini: anzitutto del conferenziere, poi del moderatore, infine degli ascoltatori. Ma se improvvisamente a qualcuno in sala suona il cellulare, rischiano subito di essere recisi i fragili fili dell’attenzione che legano il relatore ai suoi ascoltatori. D’altra parte non tutti i mali vengono per nuocere: qualcuno del pubblico che aveva fatto in tempo ad assopirsi fino a quel momento, viene risvegliato dalla suoneria… Ma qualsiasi atto d’interazione con la varietà delle culture della comunicazione è in grado di ridestare l’attenzione. Agli stranieri sono subito evidenti le differenze di cui parla l’esperienza personale di ciascuno di noi. Per esempio, permettetemi di condividere qualcosa dell’esperienza di un fuoriuscito dalla chiusa società sovietica, capitato a Parigi nel 1991. Dopo aver vissuto sei mesi nella conclamata capitale europea della cultura, io non vidi nessun telefono cellulare (è difficile immaginarselo oggi, che i telefonini – nelle 280

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mani dei cittadini, sulla bocca, nelle orecchie, sul petto, dappertutto – hanno così pervasivamente cambiato l’aspetto sociale della città). Ma non appena sbarcato dall’aereo in Italia per un congresso, m’imbattei per la prima volta in questa scoperta, che ha rivoluzionato il mondo della comunicazione. All’aeroporto di Milano, davanti a un’enorme parete di vetro, mentre guardava gli aeroplani decollare, stava un felice possessore di uno dei primi modelli di cellulare europei. Ci rivolgeva la schiena e gridava per tutto l’aeroporto la sua felicità a qualche innamorata lontana: “Io sono con te!”. Allora io non sapevo dove dovesse volare, ma ora lo so: volava nel vero senso della parola in quel nuovo mondo della comunicazione dove voliamo oggi noi tutti… (Persino un rigoroso asceta, quando prende l’aereo per recarsi a un convegno sulla persona e la solitudine, facilita il compito di chi lo attende in aeroporto chiamando dal suo cellulare). Dopo questa breve illustrazione, ritorniamo alla nuova svolta del nostro tema. La comprensione del mistero della persona umana apre la possibilità di superare una serie di contrapposizioni, che a metà del xx secolo divisero i teologi ortodossi: in particolare, da un lato gli inflessibili fautori della “neopatristica”, e dall’altro i seguaci della sofiologia e i teologi sensibili ai problemi etici della cultura contemporanea. La polarizzazione delle posizioni dei partigiani della neopatristica e dei loro avversari, ahimè, rafforzò la frammentazione del campo della teologia ortodossa nel xx secolo (accanto a una moltitudine di fattori non concettuali ma pratici dell’epoca prima e dopo la seconda guerra mondiale). La fissazione di una delimitazione di diversi “partiti” negli istituti superiori e nei corsi nei seminari non favorì in epoca postsovietica la rinascita di un sistema di formazione teologica. La via per oltrepassare le contrapposizioni menzionate si associa oggi a un paradigma interpretativo della persona. Per sviluppare questo paradigma teologico, un passo importante fu la relazione del metropolita Kallistos Ware “A imma281

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gine e somiglianza: il mistero della persona umana”13. Ampia risonanza ebbe la tesi secondo cui, dopo la problematica ecclesiologica del xx secolo, l’incipiente xxi secolo avrebbe visto al centro dell’interesse la teologia della persona umana. “Lo spostamento del fuoco delle ricerche teologiche dall’ecclesiologia all’antropologia” secondo l’opinione dell’autore è provocato da quattro cause fondamentali:

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1) lo smarrimento della personalità nelle megalopoli e nella società globalizzata pone in primo piano l’imperativo di “confermare l’unicità e il valore perenne di ciascun uomo preso singolarmente”; 2) la dominanza della tecnologia informatica costringe sempre più le stesse relazioni in uno spazio virtuale. Questa sfida ricorda l’importanza prioritaria dell’incontro non mediato da persona a persona, faccia a faccia; 3) i progressi nell’ambito dell’ingegneria genetica e la revisione delle questioni di bioetica, delle convinzioni tradizionali riguardo al matrimonio e alla relazione tra i generi, acuiscono l’attualità di una riflessione creativa sulla persona umana; 4) la catastrofe della crisi ecologica non può essere ridotta a problemi d’ordine tecnico ed economico: si tratta anzitutto di una crisi antropologica. L’immagine del mondo si deteriora sempre più, poiché l’immagine e l’autocoscienza umane sono snaturate.

L’autore invita tutti noi a completare questo elenco di argomenti e a precisare quelli già nominati. Così io ho intenzionalmente riformulato la seconda causa, che l’autore definisce la 13 Questa conferenza d’ampio respiro fu tenuta per la prima volta nel 2003 a Kiev, durante le “Letture per la Dormizione”, e in seguito pubblicata in inglese e in russo a Kiev (Episkop Kallist Dioklijskij, “Po obrazu i podobiju: tajna ™elove™eskoj li™nosti”, in Puti prosve∫™enija i svideteli pravdy, Kiev 2004, p. 128-145), e in francese sulla rivista Irénikon: K. Ware, “La théologie orthodoxe au vingt et unième siècle”, in Irénikon 2-3 (2004), pp. 219-238.

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Persona e comunione …

“dominanza delle macchine”. Negli ultimi dieci anni, infatti, si è verificato un impetuoso sviluppo dei programmi d’insegnamento a distanza tramite internet, che riducono al minimo gli incontri diretti faccia a faccia. La massima mediazione dell’ambiente informatico virtuale diviene il nuovo tramite della vecchia relazione maestro-allievo. Se prima metteva sul chi vive “il tasso d’occupazione dei colleghi in discorsi sui propri computer”, adesso ormai quegli stessi discorsi dall’effettiva aula professori si sono trasferiti nella rete virtuale, indifferente alla localizzazione degli interlocutori in un punto o l’altro del pianeta. Nuove forme di relazione e formazione integrano gli incontri “faccia a faccia” con l’aiuto della chat “foto a foto” (per esempio nei social networks come Facebook). Il fattore nuovo che ha posto in risalto il tema di persona e comunione è stata la crisi economica, che negli ultimi anni ha toccato tutto il mondo economico e finanziario. Al suo nocciolo sta la crisi della fiducia, che esige che s’interpretino di nuovo i fondamenti antropologici del fenomeno della fiducia dell’uomo verso l’uomo. Nella cultura contemporanea del sospetto raramente l’inclinazione a non fidarsi è sottoposta ad analisi razionale. La diffidenza acquisisce effettivamente un’ampiezza irrazionale. Il problema dei limiti della fiducia verso l’altro viene posto molto più spesso e stringentemente del problema dei limiti della diffidenza. L’uomo si sente dire fin dall’infanzia: “Fidarsi è bene, ma verificare è meglio”. Ma nessuno gli suggerisce un proverbio simmetrico sulla necessità di mettere alla prova anche ogni atto di diffidenza. È curioso: in quali lingue l’esigenza di verificare la diffidenza si è trasformata (o si trasformerà?) in proverbio?

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“Homo credens”

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Coltivare la fiducia non fa parte della norma di educazione alle buone maniere. Si tratta di far emergere una sostanziale qualità dell’uomo, decisiva perché l’uomo sia uomo. Nel suo saggio “Per una definizione dell’uomo”, Averincev formula due fattori decisivi per il nostro tema: L’uomo è un essere che, in primo luogo, possiede per definizione l’idea dell’intero e persino parole per esprimere questa idea: tó pân, universum, das All, “l’edificio del mondo” (mirozdanie) e altre ancora, e inoltre in modo tale che la sua sostanza umana è radicalmente condizionata dalla serietà che queste parole e questa idea hanno per lui; e in secondo luogo, pure per definizione, non può conoscere questo intero, cioè renderlo oggetto d’informazione precisamente in quanto intero. L’uomo è destinato simultaneamente a conoscere solo una parte dell’intero – a “conoscere in parte”, come si esprime l’apostolo Paolo (cf. 1Cor 13,12) –, e ad essere indubitabilmente sicuro che l’intero esiste e che solo all’interno dell’intero le parti acquisiscono un senso vero, degno dell’uomo, cioè che trascende i limiti dell’uso immediato14.

Ne consegue che “l’intero è del tutto obbiettivamente ‘assegnato’ all’intelletto. E tuttavia esso non gli è ‘dato’. Ciò significa che l’uomo è in modo necessario un homo credens, un essere che crede”. Da questa definizione dell’uomo derivano le conseguenze più sostanziali per il nostro tema della comunione: le relazioni più importanti per l’essere della persona come l’amicizia e il matrimonio presuppongono un atto di fiducia pienamente consapevole. 14 S. S. Averincev, “K definicii ™eloveka”, in Ωelovek. Istorija. Vest’, Kiev 2006, p. 398.

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Persona e comunione …

Io mi fido di lui e decido di prenderlo come mio amico. Io mi fido di lei e decido di prenderla come mia sposa. In entrambi i casi io certo so qualcosa di quella persona, forse non così poco; ma sempre la mia conoscenza è “in parte”, secondo l’espressione di Paolo. Ma in realtà io prendo la persona non “in parte”, ma come un tutto, “interamente”, “integralmente”. E ciò che qui è sostanziale non è la quantità di informazioni l’uno sull’altro (come potrebbe intenderle, diciamo, qualsiasi Intelligence Service, il cui nome stesso suona così “intellettualistico”), quanto qualcosa di completamente diverso: guardarsi gli uni gli altri negli occhi. Altrimenti la fiducia non si chiamerebbe fiducia, ma in qualche altro modo15.

Argomenti e contrario sono stati forniti dalla recente esperienza storica dei regimi totalitari. La diffidenza sistematica disseminata in tali sistemi politici era diretta alla distruzione del principio personale nell’uomo e alla manipolazione di ogni forma di relazione umana (incluse le più intime). Averincev conferma con una testimonianza personale l’analisi di questo problema: Noi, nati nell’atmosfera della delazione totale, ancora sotto Stalin, conosciamo questa “pelle” più di qualsiasi altro. Dalla prima infanzia ci è noto che se si parla apertamente, si rischia di far perire se stessi e il prossimo; ma se non si ha mai e in nessun caso fiducia di nessuno, si finisce per rinchiudere la propria anima in un ergastolo solitario dietro mura invisibili più tremende di eventuali repressioni statali. L’errore, l’errore fatale, è possibile; ma rinunciare alla fiducia è rinunciare alla vita. Ecco una scommessa non inferiore a quella di Pascal16!

15 16

Ibid., p. 401. Ibid., pp. 400-401.

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La scommessa a vantaggio della fiducia potremmo oggi a buon diritto chiamarla “scommessa di Averincev”. Nella realtà dei fatti essa fu sofferta con tutta la vita e la croce portata dalla sua generazione. E l’elaborazione filosofica della definizione dell’uomo come homo credens fu al tempo stesso un atto di fiducia verso l’irriducibilità della persona umana e una profonda penetrazione nel mistero della forma umana dell’essere. La combinazione di forza esistenziale e intellettuale nella “scommessa di Averincev”, formulata per la nostra epoca, non a caso è associata alla “scommessa di Pascal”, lanciata all’alba dell’era moderna.

Per un’antropologia della fiducia

Per la società dell’informazione, che oggi si sviluppa tumultuosamente, assume un’attualità particolare l’argomento dell’antropologia della fiducia: Solo decisioni puramente tecniche possono essere accettate sulla base scientifica di una fondazione formalizzata. Una vita umana degna di essere vissuta, come dicevano gli antichi, necessariamente implica atti di scelta vitale, fondati sulla fiducia da uomo a uomo; e la fiducia può avere motivi talvolta, in certa misura, razionali (quali alcuni teologumeni), e talvolta puramente “intuitivi”, ma non può essere dall’inizio alla fine motivata da un calcolo formale che deduce le conclusioni dai principi17.

Il calcolo domina nella società dell’informazione, ma non è in grado di salvaguardare dall’instabilità e dalla crisi globale nem17

Ibid., p. 400.

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Persona e comunione …

meno la sfera economica. Ancor meno le sfere della vita sociale e della cultura possono essere regolate dalla logica del calcolo. La logica della fiducia ha un diritto sovrano in questi ambiti. L’orizzonte della fiducia amplia i limiti temporali delle relazioni tra gli uomini, liberandoli dalla pressione della mancanza di tempo, dalla tirannia dei contatti urgenti ed effimeri, destinati a estinguersi come si gettano i piatti monouso. Aprendo l’orizzonte di relazioni durevoli, la fiducia fa emergere in esse quelle possibilità di cui abbiamo parlato a proposito dell’amicizia e del matrimonio. Gli atti di fiducia connettono tutto il cammino dell’uomo nel tempo, negli anni contati della sua sorte terrena. Ma dagli atti di fiducia dipende anche il destino dell’uomo oltre la cornice del tempo, nell’eternità. L’atto di fiducia nell’uomo e in Dio è la condizione necessaria del sacramento della confessione. Qui l’uomo è chiamato a fidarsi totalmente e passare attraverso l’acuta esperienza dell’incompletezza del proprio sapere, attraverso la pratica di elaborare un “ritratto informativo” del proprio interlocutore. Ancora una volta il “conoscere in parte” di Paolo apre alla persona le tappe successive di una fiduciosa comprensione dell’altro. E grazie a lui, di se stesso. Ho menzionato la confessione perché proprio nelle questioni a suo riguardo s’imbattono i lettori della “letteratura del sospetto” da Freud e Nietzsche fino a Foucault e gli attuali “ateologi”. Ma consapevoli forme di atti di fiducia sono la necessaria preparazione a ciascuno dei sacramenti ecclesiali, a cominciare dal battesimo. Portando il nostro bambino in chiesa per il sacramento del battesimo, noi lo affidiamo completamente, affidiamo chi ci è massimamente prossimo, chi ci è più caro di noi stessi. L’antropologia della fiducia entra nella teologia sacramentale come sua dimensione sostanziale e ineliminabile. All’uomo non è dato un sapere esauriente per risolvere il proprio destino nell’eternità. Con altre fondamenta egli è chiamato ad accogliere il Creatore, “quale Re e Dio” e anche, aggiunge Averincev – cosa che è forse ancora più difficile – “quale 287

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amico”. La massima della comunione divino-umana è risuonata nell’ultima cena: “Io vi ho chiamato amici” (Gv 15,15). La libertà ci è stata donata e la fiducia è la manifestazione paradossale di questa libertà. Infatti, se noi sapessimo tutto, se avessimo tutta la pienezza delle informazioni su tutto, sull’intero, non ci resterebbe altro che accogliere forzatamente la regalità del Re e la divinità di Dio, accoglierle come un fatto. Secondo l’apostolo Giacomo, in tale condizione si trovano i demoni, che “credono e tremano” (Gc 2,19). Non lo vorrebbero, ma credono. Ai fatti non si resiste. E così il privilegio della nostra condizione – sappiamo dell’intero, ma non sappiamo, non conosciamo ancora l’intero – ci offre la possibilità di accogliere l’Amico, allo stesso modo in cui noi accogliamo tra gli amici un uomo come noi: con un atto di libera fiducia, non “estratto” a forza da dati formalizzati, non determinato da procedimenti deduttivi. Semplicemente “guardando negli occhi”. Nel linguaggio tradizionale lo si definiva “atto di fede”. Ma non è un peccato talvolta chiamarlo tra sé più semplicemente con qualche altra parola18.

Questo getta una nuova luce sulla ricerca dell’unità dei cristiani. Da quando sono apparsi documenti come l’Unitatis redintegratio o il Tomos agapis, nella letteratura è utilizzata molto spesso l’espressione di “clima di fiducia”. Questa combinazione di termini si è persa, e ci si chiede se non sia giunto il tempo di intraprendere passi concreti per restituirle la parola, e soprattutto il suo senso preciso. Quanto si è ora detto sulla teologia e l’antropologia della fiducia ci aiuta a riconoscere che non si tratta di un’agevolazione opzionale lungo il duro cammino di superamento degli sci-

18

Ibid., pp. 401-402.

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Persona e comunione …

smi e delle divisioni. Non stiamo parlando di menu raffinati, o dei brani musicali che dovrebbero accompagnare i colloqui di lavoro. È in gioco la possibilità stessa di essere dell’uomo, la capacità di comunione della persona con gli altri uomini e con Dio. Recentemente, in uno studio sulla teologia di padre Sergij Bulgakov, è stato giustamente fatto osservare il legame diretto tra i suoi fondamentali lavori teologici sull’ontologia trinitaria e le audaci iniziative per l’avvicinamento dei cristiani. Tali iniziative anche oggi hanno un acuto bisogno di approfondire (e allargare) il contesto teologico. In caso contrario avviene come per Bulgakov, il cui tentativo – scrive Ljubomir æak – di “trasferire il nocciolo del problema ecumenico in prospettiva ontologica rimane purtroppo incompreso e inefficace”19. Ma anche adesso i passi concreti per l’avvicinamento dei cristiani dipendono in gran parte dall’ampliamento del contesto teologico. Nel secolo scorso erano gli studi di ecclesiologia e ontologia che aspiravano a giocare questo ruolo. La prospettiva di trasporre gli accenti nell’ambito dell’antropologia eucaristica può diventarne ora il vettore creativo. La fecondità dell’antropologia della fiducia consiste anche nel ripensamento del nostro vocabolario. In particolare le vecchie, ma per nulla obsolete, metafore del tipo “clima di fiducia”. La precarietà del clima naturale sul nostro pianeta è oggi come non mai evidente. Il caldo senza precedenti di questa estate e gli incendi che hanno devastato gran parte della Russia hanno introdotto la preoccupazione per il clima nella nostra vita quotidiana. Questa esperienza non c’era negli anni sessanta, quando la metafora del “clima di fiducia” accompagnava l’apertura delle finestre per far entrare l’aria fresca delle sedute conciliari. Per coloro che sono destinati a partecipare al concilio futu19 L. æak, “Aktual’nost’ bogoslovija S. Bulgakova v dialoge s Zapadom”, in Pravoslavnoe bogoslovie i Zapad v XX veke. Istorija vstre™i, Moskva 2006, p. 142. Cf. A. Dell’Asta, “Russkaja religioznaja filosofija i Zapad”, ibid., pp. 209-224.

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ro sarà di nuovo attuale l’apertura di un “secondo respiro” del tema della fiducia. In diretto rapporto a questo compito è la pratica conciliare in miniatura che permette il clima fiducioso che ci ha radunato qui. Questa esperienza collega la conclusione con il principio, ritornando all’iniziale stupore e… alla gratitudine.

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L’INIZIAZIONE ALLA COMUNIONE ECCLESIALE OGGI: DALL’ISOLAMENTO ALL’APERTURA TRASFIGURANTE Kirill Hovorun*

Nel xx secolo, che come aveva predetto Vladimir Lossky è stato il secolo dell’ecclesiologia, una delle definizioni più frequenti di chiesa è stata quella di chiesa come mistero o sacramento. Mistero sia in senso proprio, sia nel senso del carattere sacramentale della sua natura. La teologia contemporanea ha permesso di evidenziare lo stretto legame tra la natura della chiesa e i sacramenti, anzitutto l’eucaristia. Molti hanno parlato e parlano della chiesa come spazio sacro, ma occorre subito chiedersi: che cos’è questo spazio? Che relazioni intrattiene con lo spazio empirico del mondo che ci circonda? Sono due spazi tra loro in antagonismo, in sinergia, o forse coincidono del tutto? Chi entra nell’ambito santo della chiesa deve isolarsi dal resto del mondo, o è tenuto a uscire dai confini ecclesiali per allacciare rapporti con il mondo e così santificarlo? Trovare una risposta a queste domande non è un compito così semplice come potrebbe apparire a prima vista. Sia nella tradizione cristiana antica, sia tra i cristiani contempo* Presidente del Dipartimento per le relazioni esterne della chiesa ortodossa ucraina (patriarcato di Mosca). Traduzione dall’originale russo.

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Kirill Hovorun

ranei incontriamo modi diversi di accostare il problema, a volte mutuamente escludentisi. Uno dei possibili approcci ritiene che lo spazio sacro della chiesa debba essere nettamente demarcato e separato dallo spazio esteriore profano. Nella storia cristiana più di una volta sono stati fatti tentativi di innalzare un’alta barriera tra la chiesa e il mondo: alcuni più radicali, altri meno. Tra i primi esempi di radicalismo si potrebbe addurre la città di “Nuova Gerusalemme”, recentemente scoperta in Frigia in Asia Minore: una grande pólis per le dimensioni dell’epoca, edificata sulla base dei due centri di Pepusa e Timion. Fu costruita come spazio sacro, dove i fedeli potevano trovare rifugio da questo mondo. Occorre osservare che alla costruzione di questi spazi sacri, di regola, ricorrevano le guide di movimenti carismatici. È questo il caso anche della città frigia di “Nuova Gerusalemme”, fondata dai montanisti. Tendenze analoghe esistevano anche nelle comunità cattoliche. Già prima di sant’Agostino, ma soprattutto dopo di lui, la chiesa era considerata da molti come una delle “due città”. E anche se per l’autore di questa dottrina la città ecclesiale aveva essenzialmente una natura spirituale, molti dei suoi prosecutori furono pronti a concepire questa città come qualcosa del tutto sensibile, con un’infrastruttura propria, istituzioni di potere, specifici interessi politici, eccetera. Nel medioevo, questa concezione fece sì che in Europa occidentale la chiesa cattolica divenisse un soggetto politico ipertrofico, con molte funzioni politiche e quasi statali. La tendenza all’autoisolamento si riscontra spesso anche nella Rus’. A livello locale, si manifestò nella fondazione di comunità chiuse, che nel momento dell’accentuarsi delle inclinazioni apocalittiche si ritiravano nel profondo delle foreste; a livello nazionale, nelle ricorrenti tendenze all’autarchia politica e culturale, che in ultima istanza conduceva al periodico acuirsi dei processi di autoisolamento, di separazione e opposizione con il 292

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L’iniziazione alla comunione ecclesiale oggi …

resto del mondo. Tali tendenze, per fortuna, non prevalsero mai definitivamente, e venivano infine sostituite dall’apertura nei confronti del mondo esterno. Negli ultimi vent’anni, la tendenza all’autoisolamento è divenuta di nuovo sensibile in quelle chiese ortodosse che stanno rinascendo dopo il regime ateo sovietico. Il processo di ricostruzione è legato all’arrivo nella chiesa di un enorme numero di adulti, molti dei quali nel passato erano stati profondamente penetrati dall’ideologia comunista, o erano semplicemente funzionari di partito. Da un lato, è bene che gli uomini vengano alla verità e rinuncino agli errori del passato. Giunti nello spazio santo della chiesa, cercano di modellare su di esso la loro nuova vita. D’altro canto, dopo essersi sufficientemente ambientati nel nuovo contesto, alcuni di loro incominciano a plasmarlo secondo i propri gusti e abitudini. Coscientemente o inconsciamente, portano con sé quegli schemi ideologici o concezioni di fondo che avevano confessato nel loro passato. Attraverso di loro nella chiesa penetra un elemento ideologico, e persino politico, che le è estraneo. Quello che persone di vecchia formazione non ricevono più dalla società, che diviene sempre più aperta, spesso lo recuperano nella chiesa. Qui trovano un ambiente conservatore, che permette loro di difendersi dal resto del mondo e abbandonarsi alla nostalgia per “i buoni vecchi tempi”, non raramente restaurando artificialmente la loro atmosfera nell’ambito ecclesiale. Con la paradossale conseguenza che l’ambiente ecclesiale, che in epoca sovietica era per sua natura all’opposizione del regime comunista, talvolta diviene la riserva per i nostalgici di quel passato. Io penso che non sia onesto incolpare di questo la chiesa. Essa tiene aperte le sue porte per tutti coloro che desiderano entrarvi. Più semplicemente, ci sono persone che, entrate nella chiesa con una mentalità formata nel passato sovietico, se ne servono, da un lato, per la sua apertura, e dall’altro per il suo conservatorismo, e vi introducono il proprio atteggiamento negativo verso una società in cui non trovano più posto. Si tratta, a mio avviso, di un fenomeno sociolo293

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gico, ed è anche una delle cause delle tendenze isolazionistiche del milieu ecclesiale postsovietico. Nell’epoca dell’attuale industria dello spettacolo e della realtà virtuale, simili tendenze assumono forme bizzarre. Coloro che si avvicinano di nuovo alla chiesa spesso ristabiliscono al suo interno le condizioni abituali del mondo profano, con la differenza che in questo caso, essendo ristabilite nello spazio santo della chiesa, le ritengono di per sé santificate e permesse. Ne deriva quella che definirei un’infrastruttura pseudosacra, che copia l’infrastruttura cui i catecumeni sono abituati nella vita comune. Sorgono così iniziative a dir poco singolari come l’apertura di caffè e ristoranti ortodossi, persino di night-club ortodossi, di riviste glamour ortodosse, di fogge ortodosse negli abiti, inclusi per esempio costumi da bagno: vale a dire, tutto quel che c’è nel mondo profano, semplicemente divenuto “ortodosso”. Si può guardare con condiscendente ironia o con rammarico a questo curioso fenomeno sociale, che si è sviluppato sul terreno religioso, e tuttavia ha un preciso fondamento spirituale. Che cosa muove i cristiani, che cercano di nascondersi dal mondo dietro l’etichetta degli spazi sacri? Evidentemente, anzitutto il desiderio di fuggire dal mondo, che giace nel male. Il mondo della chiesa e il mondo profano sono recepiti da costoro con toni dualistici. La natura del primo mondo è “ontologicamente” buona, mentre quella del secondo “ontologicamente” cattiva. L’uomo cerca di liberarsi dal male, fuggendo quanto più è possibile lontano dal mondo profano e penetrando il più a fondo possibile nell’altro mondo: il mondo della chiesa. Ciononostante l’uomo non sempre si rende conto che di per sé il cambio di luogo – dal profano al sacro – non necessariamente significa la liberazione dal male che si radica nell’anima e nella volontà. Spesso, anche se non sempre, il tentativo di trovare rifugio in uno spazio sacro sembra rendere liberi nel modo più facile dalla vita precedente e collocare sulla via della giustizia. E tuttavia questa facilità è solo apparente, poiché il semplice cambio di am294

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L’iniziazione alla comunione ecclesiale oggi …

biente non è sufficiente perché l’uomo sperimenti un cambiamento interiore. Per questo con il tempo la persona che cerca di nascondersi dietro le alte mura della chiesa, ma che come prima porta dentro di sé un principio mondano, farà sì che questo principio emerga. È così che appaiono il “glamour ortodosso” e lo “show business ortodosso”. Ne deriva il paradosso che i tentativi di isolare artificialmente la vita dell’uomo in un determinato “spazio sacro” chiuso conducono alla desacralizzazione di questo spazio, alla sua mondanizzazione. Perché soltanto l’apertura della comunità ecclesiale al mondo esterno, cioè la capacità di tessere relazioni con questo mondo, è il presupposto necessario per la custodia della dimensione sacra propria allo spazio ecclesiale. La chiesa, nella coscienza delle persone che cercano di chiudersi nei confini dello “spazio sacro”, si trasforma in una sorta di copia del grande mondo, soltanto una copia “sacra”. In termini contemporanei, diremmo che lo “spazio sacro” della chiesa, compreso precisamente in questo modo, decade in subcultura. Una subcultura che si rivela chiusa e, di conseguenza, secondaria in rapporto alle culture aperte. È per questo, ad esempio, che persino le buone intenzioni di creare proprie opere d’arte all’interno di questa subcultura chiusa sono destinate nella maggior parte dei casi al fallimento. Il cinema ortodosso o la letteratura ortodossa, creati nell’ambito di una subcultura ortodossa chiusa, raramente si rivelano interessanti persino per gli stessi ortodossi, senza parlare di circoli più ampi. Il modello d’interrelazione dello spazio sacro della chiesa con il mondo esterno, costituito sulla segregazione e sull’autoisolamento, io lo definirei “differenziale”, nella misura in cui è costruito sul presupposto di differenziare radicalmente lo spazio sacro della chiesa e lo spazio del mondo esterno, ovvero su un’opposizione dualistica. Accanto a questo modello esiste un altro approccio, che chiamerei “integrazionista”. A differenza dell’approccio differenziale sopra descritto, esso trae origine dalla con295

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vinzione che tutto il mondo sia uno spazio sacro. Questo spazio deve essere rinnovato e trasfigurato, ma non rigettato: non c’è nessuna necessità di ritagliarvi specifici ghetti sacrali. Un eloquente indicatore dei due approcci è l’attitudine nei confronti degli edifici di culto. Per il modello differenziale è caratteristico concepire la chiesa come una sorta di perimetro sacro, che traccia la regione sacra e la separa dal mondo esteriore profano. L’elemento più importante della chiesa sarebbero così le mura. Per l’approccio integrazionista l’elemento architettonico più importante della chiesa è la cupola, che simbolizza il mondo intero, e riceve la santificazione dai doni eucaristici che stanno sull’altare. La chiesa, con la sua cupola a immagine del cielo, non è un perimetro che delimita “un luogo sicuro”, ma un microcosmo, che riflette l’universo in miniatura. Come ho già accennato, l’approccio differenziale comparve già nei primi secoli cristiani. Aveva come sfondo la concezione dualistica diffusa soprattutto nei movimenti gnostici. I padri della chiesa già allora si scontrarono con il problema dell’autoisolamento dei cristiani, con la volontaria chiusura in specifici ghetti, e furono costretti a contrapporre a tali tendenze un modello di relazioni con il mondo capace d’integrazione. L’approccio integrazionista è stato elaborato e formulato nel modo più profondo da sant’Ireneo di Lione. Per Ireneo tutto il mondo e tutta la sua storia non sussistono separatamente da Cristo, ma si riunificano in lui e attraverso di lui fanno ritorno a Dio. Il Figlio di Dio, capo di tutto il mondo visibile, incarnandosi, è divenuto egualmente capo di tutto il mondo visibile, e in primo luogo di tutta l’umanità. L’uomo come specie, come “ogni carne di tutta l’umanità”, è ricapitolato sotto la signoria di Cristo. Cristo, assumendo la carne umana, con le sue ali ha ricoperto tutta l’umanità. Insieme all’umanità egli ha preso sotto la propria signoria anche tutto il creato. Cristo come capo di tutta la creazione è il tema preferito di Ireneo. Nello sviluppo di questa idea il pun296

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to di partenza sono le parole dell’apostolo Paolo: “Affinché ogni cosa del cielo e della terra sia ricapitolata (anakephalaiósasthai) in Cristo” (Ef 1,10), e la nozione chiave è quella di anakephalaíosis (in latino recapitulatio), che in questo caso si può tradurre come ricapitolazione in Cristo, che è a capo di tutto il creato. La concezione di sant’Ireneo è la risposta alle tendenze isolazionistiche interne alla chiesa, introdotte innanzitutto dal dualismo gnostico. Se si dovesse tradurre il linguaggio cristologico di Ireneo in termini ecclesiologici moderni, si potrebbe presentare la sua concezione di chiesa come realtà che abbraccia e santifica tutto il mondo. Tutto l’universo diviene uno spazio santificato, all’interno del quale scompaiono le linee di demarcazione tra il sacro e il profano. I cristiani non devono temere il mondo ed edificare per se stessi ghetti artificiali, ma al contrario santificare il mondo con la propria vita e le proprie azioni. Questa relazione verso il mondo e il posto dei cristiani nel mondo ha trovato espressione anche in altri documenti della letteratura cristiana antica. In particolare nel Pastore di Erma, un testo scritto nel ii secolo, noi troviamo quest’immagine straordinaria: [Il Pastore] mi mostrò molti alberi senza foglie che mi sembravano quasi secchi. Erano tutti uguali. Mi dice: “Vedi questi alberi?”. “Li vedo tutti uguali e secchi”. Mi risponde: “Gli alberi che vedi sono gli abitanti di questo mondo”. “Perché sono come secchi e uguali?”. “Perché in questo mondo non si vedono né i giusti né i peccatori, ma sono uguali. Questo mondo è un inverno per i giusti e non si vedono perché abitano con i peccatori. Come nell’inverno gli alberi perdono le foglie e sono uguali e non si vedono quali sono secchi e quali sono vegeti, così in questo mondo non si vedono né i giusti né i peccatori, ma sono tutti uguali1.

1 Il Pastore d’Erma 52,1-3, in I padri apostolici, a cura di A. Quacquarelli, Roma 19948, p. 294.

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In tal modo il ruolo dei cristiani nel mondo non consiste nello stabilire un proprio stile nel vestire o nel propagandare la propria subcultura, ma nell’essere lievito per tutto il mondo. Questo è possibile solo se la comunità cristiana rimane, per esprimerci con il linguaggio della sociologia contemporanea, un sistema sociale aperto, capace di un’effettiva comunicazione con il mondo esterno e con gli altri sistemi sociali. Se ne parla molto chiaramente in un’altra opera della prima letteratura cristiana, la lettera A Diogneto: I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini, infatti non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. La loro dottrina non è nella scoperta del pensiero di uomini multiformi, né essi aderiscono a una corrente filosofica umana, come fanno gli altri. Vivendo in città greche e barbare, come a ciascuno è capitato, e adeguandosi ai costumi del luogo nel vestito, nel cibo e nel resto, testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono distaccati come stranieri, ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera2.

L’uomo, incontrando lo spazio sacro della chiesa, deve trasfigurarsi. Il dualismo iniziale con il quale molti vengono nella chiesa e che si rivela la causa delle tendenze centripete che conducono alla segregazione e all’autoisolamento, deve essere superato e sostituito da un atteggiamento verso il mondo quale sorge dall’originaria bontà del creato, dal fatto che il mondo non è l’incarnazione del male ma l’opera di Dio, della quale Dio disse che “era cosa molto buona” (Gen 1,31). Quest’attitudine verso il mondo fu espressa da un altro autore, nascosto sotto il nome 2

A Diogneto 5,1-5, in I padri apostolici, p. 356.

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di Dionigi l’Areopagita. Cercando di risolvere il problema del male nel mondo, egli respinse la soluzione offerta dai sistemi dualisti. Il male non è la materia né il mondo. Il male è la negazione del bene. Se il mondo, che ci circonda, è buono per sua natura, ne consegue che il male non ha natura propria. È un vuoto, una nullità, che si forma dall’assenza del bene e che deve essere riempita dal bene: Il male, in quanto male, non produce alcuna sostanza o generazione, ma soltanto rovina e distrugge, per quel che può, la sostanza degli esseri … In se stesso il male non è né essere né bene, né produce alcunché, né è causa di esseri o di beni … Nel novero degli esseri non c’è il male … Ma neppure negli animali privi di ragione esiste il male … E neppure in tutta la natura esiste il male. Se, infatti, tutte le ragioni naturali derivano dalla natura presa nel suo tutto, nulla è a essa contrario … Il male per la natura è ciò che è contro natura, ossia la privazione dei beni secondo natura. Dunque, la natura non è cattiva, ma il male proprio della natura è il non poter realizzare perfettamente ciò che è proprio di ciascuna natura … Ma non è vero neanche quello che assai spesso si dice. “Il male – affermano – è nella materia in quanto materia”. Infatti, anch’essa partecipa dell’ordine, della bellezza e della forma … Rimane dunque che il male sia debolezza e privazione del bene … Il male è senza via, senza scopo, senza natura, senza causa, senza principio, senza fine, senza limite, senza volontà e senza sussistenza. Dunque, il male è privazione e difetto, debolezza, mancanza di misura, peccato, mancanza di scopo, di bellezza, di vita, di intelligenza, di ragione, di perfezione, di fondamento, di causa, di limite, di produzione, di azione, di attività, di ordine, di somiglianza, e inoltre non definito, tenebroso, privo di sostanza, e non è nulla in nessun modo e in nessun luogo3. 3 Dionigi Areopagita, Nomi divini 4,20-32, in Id., Tutte le opere, a cura di P. Scazzoso ed E. Bellini, Milano 2009, pp. 433-451.

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Kirill Hovorun

Nella teologia dello Pseudo-Dionigi noi abbiamo a che fare con il superamento delle tendenze dualistiche dell’epoca, legato a sua volta a quella radicale revisione del platonismo che diede vita al neoplatonismo cristiano. Com’è noto, proprio sotto l’influenza di un platonismo cristianizzato sant’Agostino sarebbe riuscito a liberarsi dal dualismo manicheo. Il cambiamento dell’atteggiamento verso il male, considerato adesso come non essere, gli fece mutare anche la relazione verso il mondo, che cessò di essere per lui l’incarnazione del male, divenendo lo spazio in cui doveva effondersi la grazia santificante per il tramite della chiesa. Il cristiano nella chiesa è chiamato a percorrere il cammino che a suo tempo fece sant’Agostino: dal dualismo manicheo all’affermazione della bontà di tutto l’essere; dall’aspirazione a isolarsi in un ghetto “sacro” al desiderio di comunione con tutto il mondo, estendendo i confini della chiesa a tutta l’ecumene; dai tentativi di conservare piamente la propria rettitudine, alla trasfigurazione di tutto ciò che ci circonda. Il cristiano deve saper aprire il sistema di una visione del mondo chiusa su di sé, liberandosi con ciò stesso dalla paura del mondo esterno, con tutte la sua complessità e le sue sfide. Solo così il cristiano può riempirsi dell’energia dello Spirito, che vivifica lui e, attraverso di lui, il mondo intorno a lui. È l’energia che fa risorgere l’anima già in questo secolo e dona la speranza della pienezza di vita nel secolo futuro. È un’energia al tempo stesso di speranza e di santificazione, in quanto energia trasfigurante, energia di sperare contro ogni speranza: Mi mostra ancora molti alberi, alcuni verdeggianti, altri secchi e mi dice: “Vedi questi alberi?”. “Vedo i verdeggianti e i secchi”. “Gli alberi verdeggianti sono i giusti che abiteranno nel mondo futuro. Il mondo futuro è un’estate per i giusti e un inverno per i peccatori. Quando risplenderà la misericordia del Signore allora si vedranno i servi di Dio e si manifeste300

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L’iniziazione alla comunione ecclesiale oggi …

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ranno a tutti. Come nell’estate si vedono i frutti di ogni albero e si riconoscono quali sono, così saranno manifesti i frutti dei giusti e si riconosceranno tutti quelli che sono validi in quel mondo4.

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Il Pastore d’Erma 53,1-3, pp. 294-295.

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EREMITA E CENOBITA: CONFLITTO O ARMONIA?

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Il regno dei cieli subisce violenza

“Il regno dei cieli – dice Gesù – subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12). Queste parole si possono applicare in modo diretto alla vita del solitario. Noi esseri umani siamo creati da Dio a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26-27), siamo cioè creati a immagine della santa Trinità, secondo la somiglianza di un Dio che non è soltanto uno ma uno in tre, di un Dio che è mutuo amore. Siamo icone di un Dio il cui essere è relazionale, di un Dio che è un essere sociale e comunitario, anche se in un modo che trascende infinitamente qualunque società e comunità umana. Gli uomini dunque, formati come sono a immagine di questa divina Triunità, sono creati per la relazione e per l’amore e il servizio reciproci. Sono creati come membra di un corpo unico, ed è precisamente questa interdipendenza che è riaffermata nella vita della chiesa (cf. 1Cor 12,12-27; Ef 4,25). Proprio la parola che in greco indica la persona, prósopon, sottolinea questa idea, poiché significa letteral* Metropolita di Diokleia, del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, ha insegnato presso l’Università di Oxford. Traduzione dall’originale inglese.

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mente “volto”, o “fisionomia”. Io non sono veramente persona finché non sto di fronte agli altri, guardando i loro occhi e lasciando che essi guardino i miei. Se tutto questo è vero, non ne deriva forse che la vita solitaria contraddice ciò che significa essere una persona secondo l’immagine trinitaria divina? La vita in solitudine non è un atto di violenza contro il carattere relazionale della nostra natura umana? Questo è un problema che preoccupa particolarmente Basilio il Grande. Egli afferma: Chi non sa che l’uomo è un essere mite e socievole, e non solitario e selvaggio? Nulla, infatti, è così specifico della nostra natura quanto l’entrare in rapporto gli uni con gli altri, l’aver bisogno gli uni degli altri e l’amare il nostro simile1.

La parola che Basilio usa qui per dire “solitario” è monastikón, che significa letteralmente “monastico”. Ciò che inquieta Basilio è il fatto che al solitario manchi l’opportunità di dimostrare agli altri quella compassione concreta che è fondamentale per il nostro essere uomini. Dice Basilio: Ecco che il Signore nel suo immenso amore per gli uomini non si è accontentato di un insegnamento fatto soltanto di parole, ma volendo donarci in modo preciso e chiaro l’esempio dell’umiltà nella perfezione dell’amore, si cinse i fianchi e lavò i piedi ai discepoli (cf. Gv 13,1-15). Chi dunque laverai? Di chi ti prenderai cura? Di chi ti farai ultimo, tu che vivi solo con te stesso2?

Non bisogna concludere dalle parole di Basilio che egli fosse avverso per principio alla vita solitaria. Al contrario, secondo 1 Basilio di Cesarea, Regole diffuse 3,1, in Id., Le regole. Regulae fusius tractatae. Regulae brevius tractatae, a cura di L. Cremaschi, Bose 1993, p. 85. 2 Ibid. 7,4, p. 105.

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Eremita e cenobita: conflitto o armonia?

Gregorio di Nazianzo Basilio lottò per riconciliare e armonizzare la vita comunitaria con quella eremitica mediante la fondazione di celle per anacoreti non lontano dalle sue case cenobitiche3. E qui certamente possiamo trovare l’abbozzo di una risposta alle difficoltà da lui sollevate. Solitudine e comunione, si può sostenere, non si escludono a vicenda, ma sono interdipendenti e complementari. È questa una verità che Cicerone evidenzia quando parla di se stesso come di persona “mai meno sola di quando è sola” (nec minus solum quam cum solus esset)4. Una persona, in altri termini, può essere sola nel senso che non si trova nell’immediata compagnia di altri, e tuttavia, se vive un’intensa e creativa vita spirituale, scopre nelle proprie profondità un indissolubile vincolo di comunione con gli altri. Ritiro non significa necessariamente isolamento, e la solitudine non implica isolamento e disinteresse. Quanti sono compartecipi della nostra umanità possono essere fisicamente assenti, ma sono spiritualmente presenti. La comunione può esistere a molti livelli diversi. Dal deserto cristiano, Evagrio Pontico afferma la stessa cosa quando dice che il monachós – termine con cui forse intende non tanto il monaco quanto il solitario – è “separato da tutti e unito a tutti”, o “lontano da tutto e tuttavia parte del tutto”5. Queste parole descrivono esattamente la situazione dell’anacoreta, uomo o donna che sia: “separato da tutti” esternamente, in termini spaziali o topografici, ma interiormente e spiritualmente “unito a tutti” attraverso la preghiera, “parte del tutto” attraverso l’unità che sgorga dalla contemplazione interiore.

3 Cf. Gregorio di Nazianzo, Discorsi 43,62, in Id., Tutte le orazioni, a cura di C. Moreschini, Milano 2000, pp. 1096-1098. 4 Marco Tullio Cicerone, I doveri III,1,1, a cura di E. Narducci e A. Resta Barrile, Milano 1987, pp. 316-317. 5 Nilo l’Asceta, Discorso sulla preghiera 124, in La filocalia I, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Torino 1982, p. 286.

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L’eremita e il monastero principale

Cerchiamo di esplorare due modi in cui tale interazione fra solitudine e comunione si compie nella pratica. Innanzitutto consideriamo con maggior attenzione la situazione indicata da Basilio, nella quale vi sono alcuni solitari che vivono ai margini di una comunità cenobitica e dipendenti da essa. Quindi esamineremo il modo in cui il monastero cenobitico prepara alla vita solitaria. Due monasteri particolarmente importanti durante l’epoca bizantina, la Grande Lavra sul Monte Athos, fondata attorno al 963, e San Giovanni Teologo a Patmos, fondato attorno al 1088, nei loro typiká legiferano sul genere di legame previsto da Basilio fra cenobio e vita solitaria6. Alla Grande Lavra sant’Atanasio stabilisce che tra i centoventi monaci facenti parte della comunità non più di cinque alla volta siano autorizzati a vivere fuori dal monastero come solitari. Questi “kellioti”, come sono chiamati, ricevono il loro cibo dal monastero. Ciascuno di essi può avere un discepolo che vive con lui; dunque la loro solitudine di fatto non è totale. I “kellioti” continuano ad esser tenuti all’obbedienza all’igumeno. Con la benedizione di quest’ultimo, un monaco può anche vivere da recluso nella sua cella entro le mura del monastero. Le disposizioni adottate a Patmos da Cristodulo sono simili. Non più di dodici solitari alla volta sono autorizzati a vivere fuori dal monastero principale. Devono tornare al monastero ogni sabato, rimanere la notte per l’ufficio di vigilia e partecipare alla liturgia della domenica mattina. Poi tornano ai loro eremi la domenica pomeriggio con il cibo sufficiente per la settimana. 6 Cf. P. Dumont, “Vie cénobitique ou vie hésychaste dans quelques Typica byzantins”, in 1054-1954. L’E´glise et les E´glises, neuf siècles de douloureuse séparation entre l’Orient et l’Occident. E´tudes et travaux sur l’unité chrétienne offerts à dom Lambert Beauduin II, Chevetogne 1954, pp. 3-13.

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Eremita e cenobita: conflitto o armonia?

Devono venire al monastero anche per le feste più importanti. Mentre sono in monastero, i solitari mangiano alla tavola comune, ma non hanno il permesso di parlare con nessuno tranne che con l’igumeno. Allo stesso modo, non devono parlare con gli altri quando si trovano nei loro eremi durante la settimana. Durante i giorni feriali, nei loro eremi, essi prendono un pasto al giorno, dopo l’ora nona, e mangiano solo cibo non cotto. I solitari rimangono vincolati a una stretta obbedienza al loro igumeno; se mostrano segni di volontà propria e di insubordinazione, sono immediatamente richiamati a vivere entro il monastero. Questi due esempi mostrano come le disposizioni previste da Basilio circa i solitari che vivono in prossimità di un monastero cenobitico possono essere attuate nella pratica. Ciò che è particolarmente significativo, specialmente nel caso di Patmos, è il modo in cui i solitari continuano a mantenere uno stretto legame con il monastero, ritornandovi ogni fine settimana e rimanendo saldamente vincolati all’obbedienza all’igumeno. Oggi non ci sono solitari a Patmos, mentre sulla Santa montagna la situazione è considerevolmente mutata rispetto a quella stabilita da Atanasio. Tutti i solitari che vivono sull’Athos, è vero, sono in principio dipendenti da uno dei monasteri principali, dato che l’intero territorio athonita è diviso fra venti case che lo governano. Ma in pratica è difficile che il legame dell’eremita con il monastero principale sia molto stretto. Certo, l’eremita può talvolta visitare il monastero principale, ma probabilmente non lo farà ogni fine settimana. Di solito non riceve rifornimenti regolari di cibo dal monastero, e in molti casi non è vincolato a una rigida obbedienza all’igumeno, sebbene possa avere un padre spirituale – magari un altro eremita – che gli fornisce una guida personale. Gli eremiti all’Athos vivono in un ambiente privilegiato e protetto. Per i solitari fuori della Santa montagna, vivere entro il territorio di una casa di ordinamento cenobitico offre ovvi vantaggi. Essi possono ricevere rifornimenti dal monastero princi307

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pale senza dover andare fino alla città o al villaggio vicino per fare le spese, e il monastero può proteggerli da visitatori indesiderati. E viceversa – il che è ben più importante – la presenza nascosta di eremiti nelle vicinanze approfondirà e arricchirà la preghiera quotidiana dei monaci cenobiti.

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Prima impara a vivere con gli altri In secondo luogo, l’interdipendenza tra vita in comunità e vita in solitudine è evidente nel modo in cui la prima opera come preparazione per la seconda. Come dice abba Lucio nei Detti dei padri del deserto: “Se prima non riesci a spuntarla con gli uomini, non riuscirai a spuntarla neppure nella solitudine”7. Il futuro eremita deve prima essere provato e saggiato dall’esperienza della vita nel cenobio. Questo modello della comunità che prepara alla solitudine è chiaramente visibile nel monachesimo palestinese durante i secoli v e vi. Quando il diciottenne Saba chiede di essere ammesso alla lavra semieremitica di sant’Eutimio, quest’ultimo non gli permette di rimanere là ma lo manda nel vicino cenobio di Teoctisto. Eutimio gli dice: “Non conviene, figlio mio, giovane come sei, che resti alla lavra: è meglio per i giovani, vivere in un cenobio”8. Dopo dodici anni di vita cenobitica, Saba ottiene il permesso di trasferirsi in una grotta vicino al monastero, dove passa cinque giorni della settimana in solitudine tornando al monastero per il sabato e la domenica. Poi, dopo altri cinque anni, si 7 Detti dei padri, Serie alfabetica, Longino 1, in Vita e detti dei padri del deserto, a cura di L. Mortari, Roma 20054, p. 297. 8 Cirillo di Scitopoli, Vita di Eutimio 31, in Id., Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, a cura di L. Mortari, Praglia 1990, pp. 152-153.

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ritira nel deserto profondo, senza incontrare nessuno e nutrendosi di piante selvatiche. Quando Saba è alla guida della sua comunità segue la prassi di Eutimio. Non ammette immediatamente i giovani candidati alla vita semieremitica della lavra da lui diretta, ma li invia in un cenobio istituito espressamente per i novizi. Dopo essere stati saggiati nella vita comune, questi possono ricevere il permesso di avere una cella propria alla lavra9. Saba dice a Giovanni l’Esicasta: “Come il fiore viene prima del frutto, così la vita cenobitica precede la vita anacoretica”10. Il modello palestinese è inserito nella legislazione canonica bizantina. Il canone 41 del concilio in Trullo (692 d.C.) specifica che quanti intendono vivere da eremiti devono passare almeno tre anni in un cenobio sotto l’obbedienza di un igumeno. Poi devono essere esaminati dal vescovo diocesano, dopodiché passano un ulteriore anno preparatorio in comunità. Così stabilisce il canone: Quando questi quattro anni sono trascorsi, se essi persistono nella loro intenzione, devono essere reclusi. In seguito non saranno autorizzati ad abbandonare la loro reclusione sotto nessun pretesto, a meno che non sia a beneficio comune o perché ne sono costretti da qualche impellente motivo che mette in pericolo la loro vita; e anche allora devono prima ottenere la benedizione del vescovo locale11.

Oggi le norme del canone 41 del concilio in Trullo non sono più esattamente osservate. Innanzitutto, molti monasteri ortodossi sono stavropegiaci per statuto, e si trovano dunque fuori 9 Cf. Id., Vita di Saba 28-29, in Id., Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, pp. 147-149. 10 Id., Vita di Giovanni l’Esicasta 6, in Id., Storie monastiche del deserto di Gerusalemme, p. 335. 11 Concilio in Trullo, Canone 41, in Conciliorum oecumenicorum generaliumque decreta I, a cura di G. Alberigo et al., Turnhout 2006, p. 260; cf. anche De monachico statu iuxta disciplinam byzantinam, a cura di P. de Meester, Roma 1942, pp. 75-76, 312-313.

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dalla giurisdizione del vescovo diocesano locale. Tale è la situazione dei venti monasteri che governano il Monte Athos. In tal caso la decisione di autorizzare un monaco a ritirarsi in solitudine spetta esclusivamente all’igumeno del monastero che consulta su questo il consiglio dei fratelli anziani. Inoltre, molti monaci vivono in comunità per ben più di quattro anni prima di diventare solitari. Nella Russia del xix secolo, ad esempio, Serafim di Sarov passò otto anni da novizio e altri otto anni da monaco professo nel monastero principale prima di ricevere la benedizione per trasferirsi in una cella solitaria nella foresta alla distanza di quattro miglia. Inoltre: l’atto del recedere dalla vita eremitica è in pratica meno irrevocabile di quanto previsto nel canone 41 del concilio in Trullo. Non è infrequente che dei monaci, dopo aver dimorato in solitudine per qualche tempo, chiedano di essere riammessi al cenobio anche se nessun “impellente motivo che mette in pericolo la loro vita” li obbliga a farlo. Una simile richiesta di tornare al monastero principale è normalmente accolta senza grande difficoltà. Le autorità monastiche possono anche ordinare a un solitario di tornare al cenobio, indipendentemente dai suoi desideri. Così accadde a Serafim di Sarov: dopo sedici anni di ritiro nella foresta, le sue gambe cominciarono a gonfiarsi, ed egli ebbe sempre più difficoltà a raggiungere il monastero per la divina liturgia e la santa comunione. Così l’igumeno gli inviò un messaggio perentorio con l’ordine di abbandonare il suo eremo e ritornare in monastero. Fu però autorizzato a vivere in stretta reclusione nella sua cella, senza partecipare agli uffici della chiesa principale. Bisogna anche tener conto del fatto che, nel monachesimo dell’oriente cristiano, accanto ai due estremi rappresentati dal cenobio e dalla vita eremitica esiste una terza situazione intermedia: la lavra o skiti. Essa può essere considerata come semicenobitica o semieremitica, a seconda del punto di vista da cui la si guarda. Questa terza via si incontra soprattutto al Monte 310

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Athos, nelle skiti di Aghia Anna, Kafsokalyvia, Kerasià e altrove12. La skiti moderna è un villaggio monastico con una chiesa centrale circondata da una serie di casette ciascuna abitata da un piccolo gruppo di monaci, normalmente fra i due e i sei. Spesso un postulante va a vivere direttamente in una skiti, senza essere mai passato per un cenobio pienamente organizzato. La transizione dalla vita semieremitica della skiti a una vita pienamente eremitica può avvenire gradualmente, senza trasformazioni drastiche. Può accadere che i monaci di un determinato kellíon muoiano tutti eccetto uno, per cui quest’ultimo che abita da solo è un solitario de facto. Oppure un monaco può scegliere di abbandonare un kellíon particolarmente centrale e popolato e organizzare la sua dimora da solitario in una casetta più in disparte ai margini della skiti. All’Athos ci sono anche solitari che vivono in maggiore isolamento a una certa distanza dalle skiti. Sovente un monaco che vive in solitudine è raggiunto da uno o più discepoli, e passa così gradualmente da un genere di vita eremitico a uno semicenobitico. L’esistenza nel monachesimo orientale della skiti o lavra accanto al cenobio vero e proprio e alla cella dell’eremita indica che in pratica la linea di demarcazione tra vita in comunità e vita eremitica è alquanto sfocata e indistinta. Fra i due estremi di piena comunità e piena solitudine possono darsi varie possibilità, e un monaco nel corso della sua vita monastica può passare attraverso condizioni di vita diverse. Questa varietà è vista nell’ortodossia non come un difetto ma come arricchimento e benedizione. Comunità e solitudine possono sovrapporsi in maniera positiva e donatrice di vita.

12 Cf. N. F. Robinson, Monasticism in the Orthodox Churches, London-Milwaukee 1916, pp. 14-16.

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Il programma quotidiano del solitario

Come un solitario organizza la sua giornata? Anche qui c’è varietà, ed è giusto che sia così. Come afferma William Blake: “Una sola legge per il leone e per il bue significa oppressione”. Cristodulo, come si è detto, prevede che i suoi eremiti si nutrano di verdure crude e che mangino una volta al giorno, di pomeriggio. Una descrizione un po’ più completa del programma quotidiano dell’eremita e della sua dieta ci è fornita da un testimone del xiv secolo, Gregorio il Sinaita13. Egli divide il giorno in quattro parti di tre ore ciascuno. Partendo dall’aurora, il solitario esicasta impiega la prima ora del giorno in ciò che Gregorio chiama “ricordo di Dio attraverso la preghiera e la vigilanza del cuore”, cioè in primo luogo la recitazione della preghiera di Gesù. La seconda ora è dedicata alla lettura e la terza alla salmodia, la recitazione del salterio. Gregorio probabilmente prevede che il solitario conosca il salterio a memoria. Il secondo e il terzo di questi periodi di tre ore sono consacrati alle medesime tre attività, nello stesso ordine. Quindi, alla decima ora del giorno, il solitario prepara e consuma il suo pasto. All’undicesima ora, se vuole, può prendersi un breve riposo. Alla dodicesima ora recita vespro. Gregorio non menziona le ore minori della giornata, cioè le ore di terza, sesta e nona, ciascuna delle quali occupa una decina di minuti: probabilmente sono dette rispettivamente nei tre periodi assegnati alla salmodia. Non c’è neppure un riferimento alla compieta, che forse va detta attorno al tramonto, non molto tempo dopo il vespro. Per la notte Gregorio propone tre programmi alternativi. I “principianti” devono passare metà della notte svegli e l’altra metà dormendo, con la mezzanotte come punto di divisione; non 13 Cf. Gregorio il Sinaita, Utilissimi capitoli 99; 101, in Nicodimo Aghiorita e Macario di Corinto, La filocalia III, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, Torino 1985, pp. 553-554.

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Eremita e cenobita: conflitto o armonia?

importa quale metà della notte è destinata alla veglia. Quelli “a metà del cammino” (mésoi) devono passare le prime due ore della notte svegli, le successive quattro dormendo e le sei restanti svegli. Il “perfetto”, aggiunge Gregorio con un tocco di pungente umorismo, non ha bisogno di dormire, per cui può passare tutta la notte stando in piedi e rimanendo sveglio. Durante la veglia della notte il solitario recita il mattutino (órthros) e probabilmente, prima di esso, il mesonyktikón, o ufficio di mezzanotte; poi, all’aurora, l’ora prima. Il resto della veglia notturna lo si può passare ancora nella recitazione del salterio, nella lettura, e soprattutto nella pratica della preghiera di Gesù. È significativo che il solitario non sia esentato dalla recitazione dell’ufficio divino. Ma cosa succede se non sa leggere? Gregorio non lo dice; probabilmente in questo caso si prevede che egli dica la preghiera di Gesù, e di fatto esistono regole precise che specificano quante centinaia di preghiere di Gesù devono sostituire le diverse parti dell’ufficio divino14. Come nei regolamenti di Patmos, Gregorio prevede che il solitario mangi solo una volta al giorno, dopo l’ora nona e prima del vespro. Egli non fa menzione di alcun altro pasto prima di questo. Probabilmente durante la quaresima il solitario, seguendo le normali regole ortodosse, non mangiava fino a dopo il vespro. Nella prima settimana di quaresima e nella settimana santa osservava indubbiamente un digiuno più rigoroso, come fanno molti monaci nei cenobi. Gregorio permette al solitario di mangiare una libbra di pane al giorno, di bere due coppe di vino e tre di acqua. Altrimenti si nutra con i cibi che si trovano, non di quelli che la natura cerca per compiacenza, ma di tutti quelli che la provvidenza amministra, perché se ne usi con continenza15. 14

Cf. N. F Robinson, Monasticism, pp. 155-157. Gregorio il Sinaita, Utilissimi capitoli 102, in Nicodimo Aghiorita e Macario di Corinto, La filocalia III, p. 554. 15

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Questo probabilmente comprendeva verdure fresche, quando ce n’erano; perché molti eremiti, e tale è il caso al Monte Athos oggi, hanno un piccolo orto. Gregorio il Sinaita non è molto esplicito sul ruolo del lavoro nel programma del solitario. Dice soltanto: “Tre sono poi le attività gradite a Dio: salmodia, preghiera e lettura; e lavoro manuale, se uno è debole”16. Questo fa pensare che un solitario “forte” non avesse bisogno di lavorare; ma è difficile che questa sia l’intenzione di Gregorio, dato che dal iv secolo in poi viene dato per scontato nell’oriente cristiano che il monaco non deve chiedere l’elemosina ma deve guadagnarsi il cibo. Insieme all’apostolo Paolo il monaco dice: “Alle necessità mie e di quelli che erano con me hanno provveduto queste mie mani” (At 20,34). “Lavoro manuale”, nel caso di un solitario, può significare qualche semplice attività manuale quale la confezione di ceste. Gli attuali eremiti dell’Athos spesso si dedicano all’iconografia, alla lavorazione del legno oppure preparano incenso, o intrecciano rosari per la preghiera (komboskini). I salmi o la preghiera di Gesù possono essere recitati durante queste attività manuali. Ma quando il solitario cerca di dire la preghiera di Gesù con concentrata “vigilanza del cuore” non l’associa a un’attività esterna. Gregorio non solleva la questione del silenzio. Il solitario riceve talvolta dei visitatori? È autorizzato a cercare altri eremiti dei dintorni e a parlare con loro di questioni spirituali? Cristodulo scoraggia simili contatti. Tuttavia, a giudicare dai Detti dei padri del deserto, la maggior parte degli “anziani” del deserto egiziano erano particolarmente socievoli; visite reciproche tra reclusi erano accettate come normali e perfino desiderabili. Questa continua ad essere la pratica sull’Athos oggi. Ma è chiaro che singoli anacoreti possono sentire la chiamata, o per un tempo o per tutta la vita, ad entrare in un totale silenzio. Serafim di Sa-

16

Ibid. 99, p. 553.

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rov durante una fase del suo soggiorno nella foresta non parlò con nessuno; non apriva la porta ai visitatori e se incontrava qualcuno nei sentieri del bosco si sdraiava con la faccia a terra fino a che l’altro non si fosse allontanato. Il programma delineato da Gregorio il Sinaita è indubbiamente severo, anche se non disumano. Più tardi nel xiv secolo, Callisto e Ignazio Xanthopouloi proposero un regime un po’ più leggero. Al tramonto il solitario deve dire la preghiera di Gesù per circa un’ora, e poi recitare compieta aggiungendovi un’altra mezz’ora di preghiera di Gesù. Poi, dopo un tempo di esame di coscienza si ritira per riposare, e dorme circa cinque o sei ore secondo il periodo dell’anno. La restante parte della notte è dedicata alla preghiera di Gesù e all’ufficio divino (mesonyktikón, órthros, prima). La mattina va trascorsa con la preghiera di Gesù e la lettura, specialmente delle Scritture. Le ore minori vengono dette nei tempi previsti. Quando è giorno di digiuno, il solitario mangia una volta sola, all’ora nona. Negli altri giorni può mangiare due volte, prendendo il primo pasto a mezzogiorno. Dopo il pasto di mezzogiorno, può dormire un’ora, se è estate e le giornate sono lunghe. Nel pomeriggio pratica il lavoro manuale, recitando nel contempo la preghiera di Gesù. Al tempo previsto viene recitato il vespro, seguito probabilmente dal secondo pasto nel caso lo si prenda. Si permette una certa flessibilità per quanti trovano difficile dire la preghiera di Gesù a lungo17. Così gli Xanthopouloi, come Gregorio il Sinaita, prevedono che il solitario reciti l’ufficio divino per intero. Le regole degli Xanthopouloi a proposito di cibo e sonno corrispondono più o meno a quanto sarebbe richiesto a un monaco in un cenobio. Qui, nel programma degli Xanthopouloi più che in

17 Cf. Callisto e Ignazio Xanthopouloi, Metodo e canone rigoroso 25-27; 37, in Nicodimo Aghiorita e Macario di Corinto, La filocalia IV, a cura di M. B. Artioli e M. F. Lovato, pp. 188-191, 205-207; K. Ware, A Fourteenth-Century Manual of Hesychast Prayer. The Century of St Kallistos and St Ignatios Xanthopoulos, Toronto 1995, pp. 13-15.

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quello di Gregorio, vi è un modello che potrebbe benissimo essere seguito da un solitario del xxi secolo. Gli Xanthopouloi sottolineano la necessità che il solitario legga la sacra Scrittura, e questo è un punto menzionato spesso anche in altre fonti. Serafim di Sarov, ad esempio, quand’era recluso nella sua cella entro il monastero, era solito leggere ogni settimana i quattro vangeli per intero: Matteo il lunedì, Marco il martedì, Luca il mercoledì, Giovanni il giovedì; nei giorni restanti gli Atti e le lettere18. In tal modo la vita solitaria diviene una vocazione evangelica e scritturistica per eccellenza.

Battersi con leoni e tigri Quanto si diceva sopra sul regime proposto dagli Xanthopouloi come “un po’ più facile” va inteso in termini relativi; perché, di per sé, la vocazione solitaria non è mai facile. Paragonando il genere di vita comunitario con quello solitario, Evagrio dice che quando un monaco dimora con altri i demoni lo assalgono indirettamente, attraverso le molestie causategli dai fratelli e attraverso le varie tensioni esistenti in comunità. Quando invece egli va nel deserto, i demoni non usano più altri uomini come intermediari ma lo assalgono direttamente. Per quanto irritanti i nostri fratelli possano essere, è incomparabilmente più facile affrontare loro che non incontrare i demoni faccia a faccia. Dunque proprio come i demoni sono più terribili degli altri uomini, così la vita solitaria è molto più dura di quella comunitaria19. I santi della tradizione russa confermano questa valutazione. “La 18

Cf. I. Gorainoff, Serafino di Sarov. Vita, Colloquio con Motovilov, Torino 2006. Cf. Evagrio Pontico, Trattato pratico 5, in Id., Per conoscere lui. Esortazione a una vergine. Ai monaci. Ragioni delle osservanze monastiche. Lettera ad Anatolio. Pratico. Gnostico, a cura di P. Bettiolo, Bose 1996, p. 193. 19

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solitudine richiede la fortezza di un angelo”20, dice Nil Sorskij. Serafim di Sarov, che conosceva per esperienza personale la vita del cenobita e quella dell’eremita, non aveva illusioni su quale delle due fosse la più esigente. Era restio a consigliare altri a vivere nel deserto. Uno che vive nel deserto, ammoniva, deve essere come inchiodato alla croce; e aggiungeva che se nella lotta contro il nemico i monaci nel monastero combattono come se si battessero con colombe, l’uomo nel deserto doveva combattere come uno che si batte con leoni e tigri21.

Acquista la pace interiore Prima di concludere occorre dire qualcosa di più sulla difficoltà sollevata all’inizio. Come possiamo rispondere a Basilio quando questi chiede: “Chi laverai … tu che vivi solo con te stesso?”22. Che servizio rende il solitario al mondo che lo attornia? Non è egoista e antisociale ritirarsi in reclusione, volgendo le spalle, come sembra, alle angosce e alle sofferenze degli altri uomini? Si tratta di una critica alla vita solitaria che è stata fatta spesso, già nel passato e più diffusamente nel nostro tempo. Che cosa rispondiamo? È ovviamente possibile replicare con le parole di Cristo: “Quando preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto” (Mt 6,6). Cri20 Citato in G. A. Maloney, Russian Hesychasm. The Spirituality of Nil Sorskij, Mouton 1973, p. 111. In italiano, cf. Nil Sorskij, Vita e scritti, a cura di E. Bianchi, Torino 1988. 21 Cf. G. P. Fedotov, A Treasury of Russian Spirituality, London 1950, p. 248; “Breve racconto della vita e delle fatiche ascetiche del venerabile e luminoso ‘starec’ Serafim, ieromonaco dell’eremo di Sarov e recluso”, in San Serafim da Sarov a Diveevo. Atti del IV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità russa “Da Sarov a Diveevo. San Serafim e il rifiorire del monachesimo in Russia nel XIX secolo”, Bose, 18-21 settembre 1996, a cura di A. Mainardi, Bose 1998, p. 318. 22 Basilio di Cesarea, Regole diffuse 7,4, p. 105.

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sto stesso si ritirava regolarmente “in un luogo deserto” per pregare (cf. Mc 1,35; Lc 4,42). Ma certamente, quando Cristo dice “chiudi la porta”, parla di qualcosa che dobbiamo fare ogni tanto, in modo temporaneo, prima di tornare nuovamente ai doveri e alle necessità della nostra vita quotidiana in società. Non suggerisce di tenere la porta costantemente chiusa. Afferma semplicemente che nella vita di ogni persona attiva nell’opera sociale occorre una dimensione di solitudine. Cosa diremo dunque di coloro per i quali la solitudine è una condizione permanente? Fra tutte le possibili risposte alla domanda di Basilio, la migliore a mia conoscenza è quella fornita da Serafim di Sarov: “Acquista la pace interiore – egli dice – e migliaia attorno a te troveranno la salvezza”23. Il solitario è per eccellenza uno che cerca con la grazia di Dio di acquisire la pace interiore; ed è precisamente in questo modo che è d’aiuto agli altri. Se in ogni generazione ci sono alcune persone, uomini e donne, che nella reclusione hanno acquisito la pace del cuore, essi hanno sull’intera comunità umana che li circonda un effetto creativo che supera ogni calcolo, anche se naturalmente l’acquisizione della pace interiore è possibile anche a quelli che vivono in mezzo alla società. Ora, i solitari che hanno acquisito la pace interiore possono certamente aiutare gli altri uomini direttamente agendo da padri e madri spirituali, dando consigli a quanti vanno da loro di persona cercando aiuto. Una guida di questo tipo fu l’eremita egiziano Antonio il Grande, che nella seconda metà della sua vita divenne, secondo le parole del suo biografo Atanasio di Alessandria, “un medico” dato all’Egitto da Dio24. Ma le parole di Serafim hanno un campo d’applicazione più ampio. Attraverso la loro preghiera nascosta i solitari aiutano anche moltissimi altri ai quali la loro esistenza è totalmente sconosciuta. Diventan23

I. Gorainoff, Serafino di Sarov, p. 57. Cf. Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio 87,3, in Atanasio di Alessandria, Vita di Antonio. Antonio abate, Detti-Lettere, a cura di L. Cremaschi, Milano 1995, p. 210. 24

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Eremita e cenobita: conflitto o armonia?

do fiamme ardenti di preghiera, i solitari trasformano il mondo circostante con la loro sola esistenza, con il semplice fatto della loro segreta presenza. È questo il fondamentale contributo fornito da chi è “separato da tutti e unito a tutti”.

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Il programma quotidiano del solitario Gregorio il Sinaita (Utilissimi capitoli 99; 101-102) Giorno Ora 1a Preghiera 2a Lettura 3a Salmodia (Terza?) 4a Preghiera 5a Lettura 6a Salmodia (Sesta?) 7a Preghiera 8a Lettura 9a Salmodia (Nona?) 10a Pasto 11a Riposo 12a Vespri

Callisto e Ignazio Xanthopouloi (Metodo e canone rigoroso 25-37) Giorno Mattino: Preghiera di Gesù Lettura Terza, Sesta Mezzogiorno: Pasto Lettura Riposo (1 ora) Pomeriggio: Nona Lavoro manuale Preghiera di Gesù Vespri Secondo pasto (Nei giorni di digiuno: un solo pasto alla 9a ora) Notte Notte (per “quelli di mezzo”) 1 ora Preghiera di Gesù 2 ore Veglia (Compieta?) Compieta 4 ore Sonno 1/2 ora Preghiera di Gesù 6 ore Veglia (Ufficio di Esame di coscienza mezzanotte; Mattuti- 5-6 ore Sonno no; Preghiera; Salmo- 1 ora Preghiera di Gesù dia; Prima) Poi Ufficio di mezzanotte Mattutino Prima

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VIVERE IN COMUNIONE, VIVERE IN SOLITUDINE. L’ESPERIENZA MONASTICA OGGI

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Tavola rotonda

Guido Dotti (monaco della Comunità di Bose) – Il fine di questa tavola rotonda è quello di offrire l’approccio monastico al nostro convegno ascoltando l’esperienza di chi la vita monastica la vive nel quotidiano della propria esistenza. Le voci dei monaci provengono da monasteri diversi tra loro per contesti geografici, per antichità di fondazione, per numero di monaci presenti, per attività che vi si svolgono e per appartenenza ecclesiale. Quella che vorremmo potesse emergere è una sinfonia armonica di letture o magari una consapevole dissonanza su come il monachesimo si pone concretamente ancora oggi di fronte al binomio comunione-solitudine. Si tratta infatti molto di più della tradizionale distinzione eremitismo-cenobitismo, per cui la scelta tra comunione e solitudine sarebbe fatta una volta per tutte quando si accoglie come propria vocazione una determinata forma di vita monastica, o quando si passa dalla vita in un monastero al deserto di un eremo. È in gioco la forma mentis e il modus vivendi del singolo monaco ma anche di tutta la comunità di appartenenza. Non a caso tutte le regole antiche, di norma pensate per cenobiti, sono ricche di insegnamenti sulla solitudine, sul silenzio, sulla preghiera personale come anche sui rischi e le sfide che la vita comunitaria comporta, dall’isolamento al non ascolto dell’altro alla chiusura del proprio cuore davanti all’anziano. 321

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Tavola rotonda

Ogni relatore ci offrirà dunque il proprio punto di vista maturato nei lunghi anni trascorsi di vita monastica e vorremmo che ci fossero come delle piste di suggerimento per unificare l’articolarsi degli interventi con un taglio il più possibile concreto e attuale dall’interno del mondo monastico. D’altronde il resto del convegno ci ha già offerto e continuerà a offrirci gli elementi più specificamente biblici, teologici, storici, spirituali che stanno alla radice e alimentano la feconda dialettica di comunione e solitudine. Noi forse ci soffermeremo maggiormente su questo equilibrio concreto e quotidiano tra la dimensione del mónos, del solitario e del cenobita, su come vive la solitudine il cenobita e come vive la comunione l’eremita, e su come combinare nel proprio cammino spirituale da un lato la rinuncia alla volontà propria e l’obbedienza tipiche della vocazione monastica e dall’altro lato e la responsabilità e la soggettività del monaco che compie questo atto di sottomissione alla comunità. Nazarij di Vyborg (vescovo vicario di San Pietroburgo, superiore della Lavra della Trinità Aleksandr Nevskij, San Pietroburgo) – Prima di iniziare, devo chiedere la benedizione al nostro starec qui tra noi, padre Placide: è lui, infatti, il più anziano. È rischioso per chi vive la pratica monastica parlare davanti al mondo accademico, poiché qui si scontrano – come abbiamo sentito – i modi di pensare di Atene e di Gerusalemme. Voi studiosi potete immergervi nell’acqua limpida della letteratura dei santi padri, noi monaci siamo spesso costretti a muoverci nelle paludi, in acque torbide. Viviamo in un mondo strano, quando lo stato tecnologico si avvicina, noi ci allontaniamo gli uni dagli altri; vent’anni fa sapevamo scrivere, ora premiamo i tasti al computer e parliamo al telefonino… Per questo un tema schiettamente monastico, come il rapporto tra vita comunitaria e solitudine, penso possa aiutare anche chi non è monaco a vivere in modo autenticamente umano. Spesso mi scoraggia, e 322

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Vivere in comunione, vivere in solitudine …

talvolta mi fa un po’ arrabbiare, come dei laici, dame eleganti o uomini in giacca e cravatta, dissertino del monachesimo e vengano a dire a noi monaci come dovremmo vivere e stare nel mondo; le persone esterne ci parlano di ciò che dovrebbe essere, mentre noi, se vogliamo essere onesti, dobbiamo raccontare la realtà, parlare della nostra vita così com’è. Non basterebbe un giorno per affrontare questo tema, mi limiterò perciò a scorrere le note che ho preparato. Le regole della vita comunitaria più chiare e luminose, per un cristiano e per un monaco, sono quelle stabilite da Basilio il Grande che, a volte, ci spaventano per la loro radicalità: leggendole, ci rendiamo subito conto di quanto siamo lontani dall’ideale di monaco e cristiano che esse descrivono. Qui forse non mi trovo del tutto d’accordo con quanto ha affermato padre Michel Van Parys nella sua relazione: mi sembra che le regole di Basilio non s’indirizzino a tutti i cristiani, ma siano destinate soprattutto ai monaci, e per una vita monastica molto austera. Penso che Basilio avrebbe ridimensionato le sue esigenze, se avesse saputo quanto siamo distanti dal modello di cristiano che egli s’immaginava. Ai nostri monasteri sono forse più vicine le regole di Teodoro Studita; lì troviamo risposte per i problemi di ogni monastero. Per i superiori dei monasteri russi oggi gli scritti di questo padre sono una vera e propria risorsa, anche se io stesso come igumeno non posso dire di essere in condizione di attuare alla lettera le regole di Teodoro. Quando leggo i santi padri cerco di dimenticare di essere un superiore: un conto è pensare solo alla propria salvezza, un’altra cosa è preoccuparsi della salvezza dei miei fratelli, della concreta comunità che il Signore mi ha affidato. In questo forse l’unico motivo di consolazione che ho trovato nei padri sono le parole di Antonio il Grande, che diceva che negli ultimi tempi i monaci si salveranno per il solo fatto d’essere monaci, e i loro miserevoli sforzi ascetici saranno calcolati come le grandi virtù dei monaci dei tempi antichi. Questa consapevolezza 323

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Tavola rotonda

oggi ci può rincuorare quando vediamo la nostra miseria e le nostre incapacità. Forse esagero, dovete scusarmi se mostro gli aspetti negativi della nostra vita. Nella nostra tradizione ortodossa si dice che lodare i monaci è raccogliersi corone nei cieli: ma preferisco che sia il Signore a prepararci una corona, piuttosto che essere io a lodare me stesso e il nostro monachesimo. Posso considerarmi un rappresentante di quello che si chiama “monachesimo urbano”, e a suo tempo tenni qui a Bose una relazione su questo tema1. Al tempo stesso sono responsabile di tutti i monasteri della diocesi di San Pietroburgo, che attualmente sono diciassette, dodici maschili e cinque femminili; perciò il mio discorso non riguarderà solo la lavra della Trinità di Aleksandr Nevskij – il monachesimo in una grande metropoli è particolarmente difficile, e una “cella” sulla prospettiva Nevskij costa molto cara, perciò dirò subito che da noi non ci sono eremiti –. Quanto racconterò potrebbe sembrare distante dal nostro tema, in realtà ciò che mi preoccupa di più è la qualità umana dei candidati alla vita monastica. Parlo dell’esperienza della chiesa ortodossa russa; il Signore conosce bene la realtà, molto meglio di noi, perciò non è il caso che io nasconda nulla, ma dirò le cose così come stanno. Oggi chiedono di entrare in monastero persone che non solo non conoscono l’eremitismo, ma non sanno nemmeno il Padre nostro. Vengono da noi persone che nella loro vita hanno provato di tutto: matrimoni falliti, alcolismo, droga, quel che volete. Giungono in monastero perché non vedono altra via d’uscita dall’orrore per la propria vita, non sanno in che altro modo vivere. Giovanni Climaco dice che chi rinuncia al mondo per paura è come l’incenso che all’inizio profuma, e poi si trasforma in fumo. 1 Cf. Nazarij (Lavrinenko), “Il monachesimo urbano. Una testimonianza contemporanea”, in Vie del monachesimo russo. Atti del IX Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa (sezione russa), Bose, 20-22 settembre 2001, a cura di A. Mainardi, Bose 2002, pp. 331-345.

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Vivere in comunione, vivere in solitudine …

Ci sono altri casi. Gente che viene dai comizi di piazza, dai luoghi dove sono avvenute le rivoluzioni colorate, che si sente chiamata dall’appello dostoevskijano: “Se sei russo, devi essere ortodosso”, ma dell’ortodossia non sa nulla. Entrano in monastero per salvare la chiesa e non capiscono, né vogliono capire che non siamo noi a salvare la chiesa, ma è il Signore che salva noi nella chiesa. Oppure persone che non hanno la minima idea del monachesimo, che fanno del puro dilettantismo. Potrei raccontare un aneddoto, per mostrare che anche altrove la situazione è simile. Quand’ero giovane monaco, accompagnai un gruppo di cattolici americani; la sera di commiato una bella ragazza si avvicinò a me invitandomi a ballare. Risposi sconcertato ch’ero un monaco, e lei ribatté allegramente: “Oh, anch’io sono monaca, ma sono in vacanza!”. Certo, oggi ci sono le vacanze, i diritti sindacali, i diritti dell’uomo, e tutto quel che è nel mondo si deve assolutamente trasportare in monastero… Uno dei grandi problemi oggi è l’assenza di padri spirituali. Mancano starcy che sappiano accompagnare i giovani che desiderano diventare monaci. Quando è venuto da me un giovane monaco, che non aveva ancora fatto i voti definitivi, gli ho vietato di parlare con le persone che vengono dall’esterno; finirà per credersi uno starec, ma sarà soltanto un mladostarec, come chiamiamo oggi questi “giovani starcy” che pur non sapendo nulla della vita spirituale pretendono di guidare gli altri, perdendo se stessi e quelli che attirano dietro di sé. Spesso manca una maturità umana e spirituale, per questo non di rado io nego la benedizione a esercitare il ministero della paternità spirituale non solo ai giovani monaci, ma anche a certi preti, che non avendo esperienza nelle cose spirituali, possono condurre il popolo di Dio là dove non si deve. Abbiamo un proverbio, in russo, a proposito di questi sedicenti starcy: “Con il rosario nelle mani, e le donne nella mente”. Nell’Unione sovietica c’erano solo quindici monasteri; oggi sono più di settecento. E se anche in quei quindici monasteri si 325

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Tavola rotonda

fossero formati degli autentici starcy, nel migliore dei casi oggi non basterebbero che per una cinquantina di comunità… Perciò accade che si invii un giovane monaco a fondare dal nulla un monastero; e con chi si metterà a costruirlo? Con gente appena uscita dal carcere o alcolizzati e così via. Un altro problema presente in Russia, che nel nostro convegno non è stato menzionato, è quello della non corrispondenza tra canoni ecclesiastici e leggi dello stato. Per esempio un monaco, che avevo benedetto per la vita eremitica, si era ritirato nel fitto della foresta, dove si era scavato un rifugio interrato con tronchi di legno. Che cosa è successo? La gente ha chiamato la polizia. Analogamente, spesso mi accade di sentire in città i commenti sprezzanti rivolti a chi veste l’abito monastico: si pensa che i monaci siano fannulloni, degli incapaci che si sono sottratti alle loro responsabilità nella società (“Non sapete che abbiamo un problema demografico, e voi vi chiudete in monastero?”…). È il problema della secolarizzazione, che naturalmente non riguarda solo la Russia. Le feste cristiane si sono trasformate in feste consumistiche; la costituzione dell’Unione europea non nomina le radici cristiane; non mi meraviglierei che ci venisse chiesto di rinunciare alla fede e alla tradizione dei padri in nome di una religione civile che unisce tutti in una visione unica del mondo… E se qualcuno degli abati in occidente mi dicesse che noi non abbiamo questi problemi, non gli crederei: perché gli uomini sono dappertutto uguali, le passioni e le debolezze sono in ogni luogo le stesse, viviamo insieme nello stesso mondo. Tutto questo naturalmente non significa che da noi non ci siano bravi monaci, che cercano di vivere la loro vocazione secondo il vangelo. E ora qualche conclusione. Eremi e cenobi esistono oggi e penso che continueranno ad esistere nel futuro. Sono profondamente convinto che nel mondo contemporaneo possa essere eremita solo un monaco con molta esperienza, che ha trascorso lun326

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Vivere in comunione, vivere in solitudine …

ghi anni di vita comunitaria in un cenobio; e soltanto con la benedizione dell’igumeno, o di un padre spirituale esperto. Potrà vivere in uno skit, o in una cella isolata nel monastero, mantenendo in misura diversa i legami con la comunità. Chi non sa stare in comunità non potrà vivere da eremita, come non sarà una buona guida chi non ha mai obbedito a un superiore; così afferma san Teodoro Studita. C’è ancora un tipo di eremitaggio, o meglio di solitudine, di cui non si è in sostanza parlato in questi giorni. Come ogni cristiano può vivere la solitudine per Cristo, così un monaco può vivere la solitudine nel cenobio – o addirittura al mercato, si è detto oggi –, per mezzo della preghiera della mente. Ancora centocinquant’anni fa Ignatij Brjan™aninov con grande amarezza sosteneva che il monachesimo viveva in Russia, e dappertutto, i suoi ultimi tempi e aveva ormai perduto la vera comprensione dell’“attività della mente”, la preghiera del cuore: e un monachesimo senza preghiera interiore è come un corpo senz’anima. Voglia il Signore che il nostro santo vescovo Ignatij in questa sua profezia si sia sbagliato! Anna Maria Cànopi (badessa dell’Abbazia “Mater Ecclesiae”, isola di San Giulio d’Orta, Novara) – Sono molto grata per tutto quello che ho udito e visto in questi giorni, perché ho percepito in tutti l’anelito alla sapienza del cuore. Confesso che mi sento confusa nel trovarmi a questa “tavola rotonda” come un sassolino accanto alle montagne. Acconsento, tuttavia, a condividere con voi l’esperienza di vita monastica che sto facendo da trentasette anni su una piccolissima isola, in un piccolo lago prealpino del Piemonte, diocesi di Novara: isola di San Giulio, nel lago d’Orta anticamente denominato Cusius. È un’esperienza di solitudine e comunione che parte proprio dal fatto di essere approdate in sei su un’isola ormai disabitata, ma molto cara alla diocesi per i lunghi secoli di storia ecclesiastica di cui era stata teatro. 327

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Tavola rotonda

Arriviamo, dunque, saltando secoli di storia, all’anno 1973, quando il vescovo di Novara – monsignor Aldo Del Monte – sentì urgente la necessità di salvare il patrimonio di fede e di arte cristiana che si stava perdendo sull’isola abbandonata subito dopo la seconda guerra mondiale. Egli cercò una piccola comunità monastica che vi risiedesse come sentinella vigilante nella preghiera per tutta la chiesa. L’accettare sembrava allora una follia, ma quelli erano gli anni in cui si riproponeva la scelta tra una vita monastica ritirata (strettamente claustrale) o più a contatto con il mondo. Il vescovo trovò nel monastero benedettino di Viboldone, alle porte di Milano, alcune monache disposte alla partenza, accettando la precarietà e la solitudine imposte dal luogo. Papa Paolo VI emise il decreto di erezione del nuovo monastero compiacendosi del titolo “Mater Ecclesiae”. Vi approdammo in autunno: isola deserta, senza riscaldamento, solo un punto esterno a cui attingere acqua potabile; senza telefono, senza molte cose che ci sembravano indispensabili. Occupammo parte dell’edificio addossato alla basilica restaurato solo in parte. Quale fu l’esperienza fondamentale? Silenzio, silenzio e solitudine; ma tra di noi profonda comunione che ci dava forza. Ogni giorno veniva dalla riviera, in barca, un sacerdote per celebrare la santa messa. La liturgia era il nostro impegno centrale; intanto si lavorava a rendere abitabile l’ambiente da noi occupato e decorosa la basilica a noi assegnata per il culto. Cominciammo qualche lavoro per procurarci il necessario per vivere: dapprima un po’ di artigianato, poi paramenti sacri e lavori culturali e, dopo una decina d’anni, il laboratorio di restauro di testi antichi e la scrittura delle icone. Venne la primavera del 1974 e cominciò, con nostra sorpresa, la fioritura della comunità. Mai avremmo osato immaginare che sarebbero venute altre vocazioni fino a diventare, oggi, quasi un centinaio. La nostra vita di solitudine andava acquistando anche una dimensione fortemente comunitaria, con apertura al328

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l’ospitalità. Infatti, pur senza rinunziare alla dimensione di solitudine e di interiorità, coltivando il silenzio, la frequentazione della cella per la preghiera personale, la lectio divina e le periodiche giornate di “deserto”, potevamo accogliere in foresteria laici di ogni età per condividere la preghiera liturgica e la mistica atmosfera dell’isola. Siamo sempre convinte che il peso specifico della vita di comunione consista nell’intensità della vita interiore, ossia dell’esperienza del “a tu per tu” con Dio per lasciarsi svuotare di se stessi e riempire di lui, in modo da potersi relazionare con gli altri nella sua presenza che ci unisce, che ci fa vivere del mistero ineffabile della comunione trinitaria. Questa esigenza di crescita personale nella vita interiore con momenti di solitudine alternati alla vita comunitaria da noi si è fatta ancor più sentire man mano che la comunità diventava numerosa. Non si tratta di isolarsi, ma di raccogliersi sotto lo sguardo di Dio per essere compenetrati dalla sua luce e permeati dalla sua Parola, così da poter vedere i fratelli con il suo stesso sguardo d’amore. La vita cenobitica viene così sorretta e resa forte dal vincolo di amore che unisce ciascun membro della comunità a Cristo Signore. Ecco perché, dopo la lectio e la preghiera personale, viene spontanea la condivisione, la lectio comunitaria e soprattutto la condivisione della vita: la santa koinonia, di cui la sacra liturgia è la più alta espressione. Nessuna tensione, dunque, tra solitudine e comunione, ma armoniosa sintesi secondo il modello che abbiamo in Gesù stesso e nella vergine Maria. Da qui, anche senza uscire dal monastero, anche a nostra insaputa, avviene una irradiazione come missionarietà all’esterno: nella chiesa e nel mondo. Gli ospiti che ci frequentano ormai sono migliaia; molti hanno desiderato legarsi a noi come oblati. Sono circa centotrenta che vivono nella società il carisma benedettino dell’ora et labora. Tanti ci dicono che la nostra isola è bella, che vi si incontra il Signore. Pur essendo consapevoli della nostra umana debolezza e povertà, siamo contente che ancor oggi si dica quello che 329

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disse san Giulio nel iv secolo, contemplandola dalla riva, desideroso di approdarvi: “Questa è la porta del cielo!”. Anche i luoghi hanno una loro specifica vocazione. Dio li chiama, attraverso gli uomini, a trasfigurare la loro bellezza naturale in bellezza spirituale e consolatrice. Molti, infatti, sono i luoghi santi. Pure Bose ha la grazia di questa bella vocazione. Vi si respira Dio. Un pittore del nostro tempo ha dipinto l’isola San Giulio trafitta da un raggio di sole che va dall’altezza del cielo alla profondità del lago. Viene alla mente un verso di Quasimodo che dice: “Ognuno sta solo nel cuore della terra, trafitto da un raggio di sole. Ed è subito sera”. È la solitudine esistenziale dell’uomo. Ma noi che viviamo la realtà del salmo 133 – “Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme!” – possiamo affermare che, essendo Cristo il nostro vero sole, viviamo in un giorno che non tramonta mai. Vorremmo che tutti quelli che soffrono l’angoscia della solitudine potessero sperimentare questa consolazione della bellezza che è la santità! Con Maria che canta: “Ha guardato l’umiltà della sua serva … grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente”, all’unisono con tutte le comunità monastiche vorremmo cantare: “A lui solo la lode e la gloria!”. Placide Deseille (igumeno del Monastero St. Antoine le Grand, Francia) – La relazione tra solitudine e comunione è una questione che mi ha sempre interessato lungo tutta la mia vita. Sono vissuto venticinque anni in una comunità cenobitica, una comunità di ottanta monaci che ritengo fosse esemplare, e da circa quarant’anni conduco vita monastica in una skiti, un piccolo gruppo di monaci (di solito meno di una decina), in cui gran parte della vita è fatta di solitudine. Viviamo in celle individuali in cui trascorriamo una parte della notte nella preghiera personale, ma abbiamo sempre avuto tutti gli uffici liturgici in comune, i pasti in comune, il lavoro in buona parte in comune. Un membro della skiti da una ventina d’anni vive da eremita; è un 330

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Vivere in comunione, vivere in solitudine …

monaco maturo che per più di quarant’anni aveva vissuto la vita cenobitica. Potrei riassumere quello che ho sperimentato in questi anni in due testi: uno che viene da un monaco d’occidente, l’altro da un monaco d’oriente. “È la solitudine che fa il monaco. L’esperienza mostra che la solitudine è molto amica dell’amore divino. Chi si dà all’amore delle cose celesti fugge la folla, evita il rumore e con Maria è restio al servizio assunto da Marta. Più profondo è il ritiro e più potrà ascoltare la voce di Cristo”. Si tratta di un testo di un cistercense del xii secolo, Adam de Perseigne, abate in Francia. L’altro testo è originariamente di Filosseno di Mabbug, un autore siriaco, ma è stato integrato in un documento, che si trova fra le opere di Isacco il Siro; è stato tradotto in greco nel vii secolo da due monaci di origine siriana nel Monastero di San Saba in Palestina. È un testo classico della spiritualità del monachesimo ortodosso apprezzato anche in occidente: “Chi fugge completamente la compagnia degli uomini e per questo anche l’accogliere e il dare ristoro ad estranei, mi sembra che con ciò non cerchi la quiete e il ristoro dell’anima, ma quella del corpo; e prende una cosa per l’altra. Questo è ancora un sottile inganno del Nemico, che, per mezzo di una parvenza di quiete, priva l’uomo dell’amore per gli ospiti”2. Da un lato è vero che è la solitudine a fare il monaco, ma questa è la strada per progredire nell’amore divino. Se si cerca la solitudine senza aver lottato contro le passioni c’è il rischio di essere egoisti, di non cercare l’amore di Dio ma l’amore di sé. Ho constatato che quando i giovani cercano Dio, se questa ricerca è aspra, c’è dietro un’illusione spirituale; la solitudine con Dio è preceduta dalla vita con l’altro, dalla pratica dei comandamenti, da tutto quanto costituisce la vita della comunità. L’obbedienza non deve essere solo gerarchica; se si obbedisce soltanto all’autorità e non si fa obbedienza ai fratelli non si vive un’obbedienza autentica; questo genere di obbedien2

P. Deseille, Fuoco ardente. Guida Spirituale, Bose 1998, p. 88.

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za è solo un mezzo per cercare una vita tranquilla e non avere noie. L’obbedienza ha a che fare con la rinuncia alla volontà propria, anche nei dettagli della vita ordinaria; significa non seguire le proprie voglie, i desideri spontanei che nascono in noi se non corrispondono al sorgere di un vero progresso dettato dallo Spirito. Anni fa c’era un vero padre spirituale, Efrem di Katounakia, morto alcuni anni or sono, il quale diceva che non si entra in monastero per pregare, ma per obbedire. Sembra paradossale; padre Efrem non voleva dire che l’obiettivo della vita monastica non è l’unione con Dio, ma che la via per giungervi è l’obbedienza universale, lo spogliamento della volontà propria. La vita spirituale conosce un progresso continuo. Tutti i padri dicono che ci sono due fasi nella vita spirituale: in una prima fase ci si deve far violenza, andare contro se stessi, ci si deve forzare a digiunare, a praticare la preghiera, l’obbedienza ci si deve forzare comunque, ma se lo facciamo per obbedire a Dio a poco a poco il nostro egoismo, la nostra volontà propria cede e a quel punto inizia un’altra fase della vita spirituale. Si arriva a un punto in cui tutto diventa spontaneo; giunge il desiderio di vivere più profondamente il proprio essere. I padri dicono che nella vita spirituale si va avanti a forza di remi, ma che a un certo punto, come afferma Giovanni Climaco, arriva il vento e bisogna lasciarsi trasportare dal soffio dello Spirito santo. Nei testi spirituali antichi ritorna incessantemente il tema della libertà spirituale. Ho conosciuto un esempio di tale libertà sul Monte Athos, dove ho incontrato un monaco d’origine siriana o libanese, padre Isaak, discepolo di padre Paisios. Quando sono andato a trovarlo aveva appena ricevuto un discepolo, ma solitamente viveva da solo. Gli ho chiesto quale fosse la sua regola e la sua risposta mi ha stupito; mi ha detto che non aveva regola: “Io mangio quando ho voglia di mangiare, prego quando ne ho voglia, lavoro e dormo quando ne ho voglia”. Questo non vuol dire che la 332

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Vivere in comunione, vivere in solitudine …

sua vita vagabondasse a briglie sciolte, ma la vita dell’eremita, se si leggono le fonti, non ha bisogno di regolamenti precisi. Padre Efrem diceva che lo Spirito santo non ha bisogno di essere imbrigliato. Diceva ancora che da due giorni aveva un discepolo e allora doveva definire un programma, un orario preciso per il pasto, per le preghiere, ma chi vive in solitudine con l’accordo del padre spirituale è libero da qualsiasi costrizione. Per poter diventare veri solitari occorre essere pervenuti alla docilità. Una volta giunti a questo stadio si ha il cuore dilatato, come afferma Benedetto nella sua regola riprendendo il salmo 118 (119),323. Gli sforzi degli inizi portano a spogliarsi dell’io, allora il cuore si dilata. Non è detto che tutti i monaci debbano vivere in solitudine. Si può vivere in una vita regolata lasciando spazio al silenzio, servendo gli altri; la cosa importante è salvaguardare la solitudine che è essenziale per la preghiera – come accade al Monte Athos dove viene lasciato ampio spazio alla preghiera notturna – e salvaguardare le relazioni con il prossimo. Per i monaci progrediti si tratta di un’irradiazione spirituale però occorre saper restare al proprio posto. Salome Barzaghal (Monastero della Panaghia, Blemmana, Siria) – Come tutte le comunità monastiche la vita delle sorelle del monastero in cui vivo è dedicata alla preghiera e al lavoro e anche se a volte i servizi sono pesanti, la vita spirituale ha sempre la precedenza. La vita di preghiera è accuratamente regolata con preghiera a mezzanotte e mattutino alle quattro; vi sono inoltre preghiere speciali per la pace nel mondo e per l’umanità di primo mattino. Le altre preghiere comuni sono fatte secondo l’ordine fissato nell’Orologhion. Le monache offrono preghiere a turno durante la notte; ognuna ha il suo programma di preghiera definito in accordo con l’igumena. 3 Regola di Benedetto, Prologo 49, in Regole monastiche d’occidente, a cura di E. Bianchi e C. Falchini, Torino 2001, p. 198.

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La calma prevale nel monastero; non c’è contraddizione tra la presenza dei visitatori e la solitudine richiesta per la vita monastica. Ogni cosa nel monastero è comune ma ogni monaca vive la solitudine nella propria cella, lì si prostra, lì veglia con Gesù, è libera di fare ciò che può della propria salvezza. Monachós in greco significa solo. Dopo la consacrazione, il monaco, o la monaca, viene condotto nella sua cella e qui lo si saluta con le parole “Da qui al cielo”, cioè: con le preghiere nella cella e la vita ascetica guadagnerai il paradiso. Le preghiere sono la massima espressione della vita monastica ortodossa. Padre Paisios del Monte Athos (1924-1994) dice che il monaco dedica tutta la propria vita per raggiungere la purezza di mente e di anima. Dice ancora che l’umile preghiera del monaco che se ne sta solo e non visto nella sua cella ha effetto sul mondo intero; dice anche che è meglio predicare attraverso il buon esempio e l’umiltà. Il monaco diventando pieno dell’amore di Dio si colma di amore per il mondo intero. La nostra vita monastica incide sulla regione in cui viviamo. La gente ha cominciato ad avere un maggiore legame con la chiesa e anche se il monastero è stato fondato solo di recente molti vengono a chiedere consigli e preghiere. Anche i giovani vengono a chiedere come vivere la vita cristiana in questo mondo materialistico e difficile. Chiedono aiuto in questo luogo di preghiere dove è scesa la misericordia divina. Il monaco vive in un vero rapporto con Dio e con i santi e questo lo rende pieno di pace e di amore; è un membro attivo della chiesa, non è fuori dal mondo ma con i suoi consigli protegge la gente. A proposito dell’obbedienza si può dire che la vita monastica non cancella la personalità del monaco; l’obbedienza è una via di vera libertà. Il monaco obbediente non solo ama, ma crede che le parole dell’anziano siano parole di Dio stesso. L’obbedienza salva il monaco dalle tentazioni ma anche dal diavolo. Efrem di Katounakia (1912-1988) dice che il diavolo ha paura della parola monaco perché sa che cosa significa. Il monaco ri334

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tiene che le sue preghiere lo portino a Dio e alla propria salvezza e crede che attraverso l’obbedienza otterrà la grazia di Dio. Efrem dice che l’obbedienza è vita e la disobbedienza morte; chi non è obbediente non riesce a pregare e non è un buon fratello, una buona sorella. Quando l’atto dell’obbedienza è difficile, Dio illumina il monaco nella preghiera perché possa far questo con animo pacificato. Andrej Ωilerdzˇic´ (archimandrita, Monastero dei Santi Arcangeli, Kovilj, Serbia) – La storia dell’evangelizzazione della Serbia è cominciata sul Monte Athos. Saba, monaco della skit russa dell’Athos, diventò primo vescovo della chiesa serba e tutta la storia della chiesa serba è dovuta al monachesimo e alla vita nel deserto. È impossibile capire oggi la vita della chiesa serba senza ricordare che le sue radici sono sul Monte Athos. Poi vi fu l’occupazione turca, vi furono tempi difficili per la chiesa e il popolo; molti monasteri furono distrutti. Dopo la seconda guerra mondiale il monachesimo serbo conobbe grosse difficoltà. Nel 1963, cioè nella ricorrenza del millenario del Monte Athos, i monaci serbi sulla Santa montagna erano pochi, ma poco dopo il monastero serbo diventò rapidamente cenobitico e intorno al cenobio la vita nel deserto cominciò a fiorire. Anche in Serbia si è assistito a un rinnovamento del monachesimo con grande gioia del popolo che ama molto la tradizione monastica. Dostoevskij diceva che la situazione spirituale di un popolo si capisce dallo stato della vita monastica nella sua terra e nei monasteri si capisce la condizione spirituale dell’intero popolo. Negli ultimi anni in Serbia vi è stata una persona che ha portato l’eremo e il monachesimo di nuovo nel cuore del popolo, un monaco di nome Pavle, nato nel 1914. Dopo la seconda guerra mondiale Pavle si ritirò in una skit nella Serbia centrale. Erano tempi difficili; i monaci dovevano lavorare molto duramente a favore dello stato ateo. Eccezionalmente Pavle ricevette la benedizione del padre spirituale e il permesso delle autorità statali 335

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per andare ad Atene a fare gli studi teologici. Conosco un padre dell’Athos, padre Kirill che studiava allora con lui ad Atene attorno al 1958; un giorno il monaco Pavle ricevette un telegramma dal patriarcato di Belgrado in cui si diceva che era nominato vescovo per la regione del Kossovo. Padre Kirill mi raccontò che Pavle si chiuse piangendo nella sua cella, chiedendosi perché fosse stato scelto proprio lui per quel compito, ma dopo una lunga lotta interiore decise di fare obbedienza, andò a Belgrado e divenne vescovo del Kossovo. Continuò tuttavia a vivere come monaco eremita. Il vescovo Pavle non visse mai come un vescovo, fu molto amato dalla gente per il suo stile di vita: non aveva auto, né riscaldamento nella casa episcopale, né telefono. Nel 1991 il patriarca German non era più in grado di assolvere il suo ministero e i vescovi si radunarono a Belgrado per eleggere il nuovo patriarca. Tra i candidati vi erano due vescovi celebri ed era certo che uno dei due sarebbe diventato patriarca, ma secondo la regola della chiesa ortodossa i candidati all’elezione di patriarca devono essere tre: infatti poi si infilano tre foglietti di carta con i nomi rispettivi dentro il libro del vangelo e se ne estrae a sorte uno. Erano presenti altri trentacinque vescovi e nessuno pensava al vescovo Pavle del Kossovo come candidato, ma non si riusciva a trovare il terzo. Si continuò per ore a votare senza successo. A un certo momento un vescovo si dichiarò favorevole alla nomina del vescovo Pavle come terzo candidato; gli altri accettarono. I tre nomi vennero inseriti nelle pagine del vangelo e il monaco più anziano estrasse il foglietto con il nome di Pavle. Fu così che divenne patriarca di Serbia. Quando egli morì, milioni di persone vennero a Belgrado a salutare il patriarca Pavle. L’amore e la venerazione per la sua persona mostrano quant’è importante per la gente che un uomo viva autenticamente la vita monastica. Damaskinos Gavalas (igumeno dello Iera Moni Prophitis Ilias, Santorini, Grecia) – Nella foresteria del monastero abbia336

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mo collocato una copia di un’icona dipinta nel vostro monastero. Rappresenta due monaci in cammino; un monaco si è caricato sulle spalle il più debole, il più anziano stremato dal cammino. Il titolo dell’icona è La santa koinonia. I padri del monastero la vedono ogni giorno quando passano per entrare in chiesa, in refettorio o nei luoghi di lavoro: penso sia il miglior accompagnamento nella nostra lotta quotidiana dopo le preghiere al Dio tre volte santo. Ci ricorda che nella vita monastica non siamo soli, portiamo con noi la responsabilità del fratello che forse soffre, che forse ha bisogno di noi, ha bisogno della comunione con noi. Con questa icona vogliamo ricordare non solo ai fratelli del monastero la profonda e pesante responsabilità che comporta la vita comune con i fratelli. Questa icona è vista anche dai pellegrini che arrivano in monastero e così questa immagine diventa un segno anche per i fratelli che vivono nel mondo, quelli che la grazia di Dio porta come pellegrini al nostro monastero. Quando si trovano davanti all’icona questi pellegrini si interrogano. Le domande che riceviamo sono molte e molto diverse tra loro. Che cosa simboleggia l’icona? Come mai un monaco porta l’altro sulle spalle? Che cosa vogliono dire le parole La santa koinonia? Con questo mio breve intervento voglio parlare delle mie esperienze quotidiane relative alla lotta monastica nel nostro deserto, nella comunione e nell’amore con i fratelli della mia comunità, e relative anche alla lotta in vista della comunione con i miei fratelli nel mondo, che cercano nella pace del nostro monastero quella comunione che sembra mancare nel rumoroso deserto della vita in questo mondo. Credo che queste esperienze assomiglino a molte delle vostre e non mi illudo di dirvi qualcosa di nuovo. Voglio aggiungere semplicemente ai molti passi di fratelli e padri più degni un piccolo gradino sul cammino che sale verso l’unità del regno di Dio che la nostra tradizione ortodossa definisce come comunione con il Dio trinitario e condensa nella parola “deificazione”. Dalla descrizione delle nostre esperienze che è anche descrizione delle no337

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stre sofferenze, mentre cerco la comunione con le comunità che voi rappresentate, desidero attingere anch’io forza e consolazione. Forse sarò così rafforzato nella lotta quotidiana, come pure nella lotta per amare i fratelli e si rafforzerà pure la voce di quanti perseverano nella fede e nella comunione con le sofferenze di Cristo così da diventare partecipi della gloria futura che egli ci rivelerà (cf. 1Pt 5,1). Consentitemi anzitutto di ricordarvi cose talmente note e familiari che molti di voi conoscete e vivete meglio di noi. La lotta monastica è una lotta nel deserto. Noi monaci abbiamo lasciato alle nostre spalle il mondo, ciò che ci legava alla vita politica e sociale in questo mondo. La triplice promessa che abbiamo fatto al momento della nostra professione monastica, la promessa di obbedienza, castità e povertà vuole proprio sottolineare che siamo morti al mondo. Noi monaci non abbiamo una nostra volontà, ma seguiamo gli ordini del nostro anziano nel quale scorgiamo con certezza la volontà di Dio. Non abbiamo una nostra famiglia, non abbiamo più nulla a che fare con l’esistenza in questo mondo, non abbiamo patrimonio né denaro né altri oggetti, a parte il necessario per la vita che ci viene dato dal monastero. Così, liberi da ogni obbligo nei confronti delle cose del mondo, aneliamo a consacrarci interamente alla realizzazione della nostra chiamata monastica: la preghiera e la comunione con la Trinità. Scopo di tale ritiro in disparte dal mondo non è alcuna svalutazione del mondo, non è uno sterile rifiuto di quanto Dio nella sua sapienza ha creato per accompagnare la nostra vita quotidiana. I monaci non distinguono in base a un principio dualistico ciò che è nel mondo in cosa buona o cosa cattiva, peccaminosa o santa. Tutto è “molto buono” (Gen 1,31), è stato creato dalla sapienza di Dio ma contemporaneamente tutto ha bisogno di essere ordinato alla comunione con Dio per acquistare un’esistenza eterna, per superare la mortalità e la corruttibilità della sua natura. La nostra vita nel deserto rappresenta un’altra proposta per la santificazione dell’intera creazione e 338

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per il suo orientamento escatologico. Qualcuno potrà forse trovare soluzioni e proposte più drastiche, più radicali e assolute. Sì, è vero, noi monaci desideriamo la comunione diretta, più rapida possibile con Dio. La rinuncia al mondo con tutto ciò che lo accompagna, è un preannuncio del Regno qui e ora. Non vogliamo che nulla ci separi dall’amore di Dio, sentiamo che esso ha incendiato il nostro cuore, ha infuocato tutta la nostra esistenza. Non vogliamo che l’immediatezza del nostro rapporto con Dio sia ostacolata dagli elementi del mondo che ci possono distrarre, separare dall’esclusività di questo rapporto. La pregustazione del regno di Dio non è costituita da uno severo ascetismo come se noi con le nostre preghiere e la nostra lotta nel deserto fossimo in grado di anticipare di un’ora la venuta del Regno. La tradizione ortodossa vede rappresentato il regno di Dio in ogni celebrazione della divina liturgia. La celebrazione del sacrificio incruento è per tutti i credenti, e quindi anche per i monaci, la festa delle realtà ultime, l’annuncio della venuta del nuovo mondo di Dio, la partecipazione non solo al corpo del Cristo crocifisso, ma anche al corpo risuscitato e glorificato. E attraverso questa azione in cui realizziamo la comunione con il corpo e il sangue del Signore ha luogo l’unione con la Trinità. Non quindi attraverso una conoscenza astratta e intellettuale che ci procurerebbe la nostra vita nel deserto, né semplicemente attraverso la nostra pratica ascetica, ma attraverso la partecipazione al pane e al calice dell’eucaristia sentiamo che si realizza il nostro rapporto con Dio, e viene sigillata la nostra partecipazione al suo nuovo Regno. Questa è la definizione degli apostoli e dei nostri padri: “Il calice della benedizione che noi benediciamo non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo?” (1Cor 10,16). La nostra partecipazione al pane e al vino dell’eucaristia suggella la nostra partecipazione al suo Regno. Per mezzo di questa comunione incontriamo non soltanto il Signore della gloria, ma 339

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anche i nostri fratelli poiché “noi siamo, benché molti, un solo corpo; tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,16). In tal modo la nostra vita si completa perché nell’incontro con Cristo troviamo i nostri fratelli nella fede, con i quali siamo strettamente uniti, diventiamo un solo corpo. Già prima e nel corso delle lotte ascetiche gli altri fratelli non sono assenti. Il monachesimo cenobitico che è la forma di vita del nostro monastero e che, come credo, corrisponde meglio di altre forme anacoretiche al modello della comunione della Trinità che è il regno di Dio, ci offre molte occasioni di mettere alla prova le nostre “resistenze”. L’altro, ancor più quando ha un bisogno immediato di aiuto o per un’infermità fisica – è malato anche se temporaneamente – oppure per un’infermità psichica e spirituale – sta soffrendo per una malattia o è caduto in tentazione – diventa un’occasione per esercitarsi non solo nelle varie virtù, ma anche per vivere la “vita in koinonia”, e può certificare il nostro grado di preparazione a vivere la koinonia con i santi nel regno di Dio. L’icona del monaco che porta sulle spalle l’altro fratello può diventare visibile nella vita quotidiana del monastero quando, ad esempio, dobbiamo crescere nella virtù, quando scopriamo le debolezze degli altri, quando dobbiamo accrescere la conoscenza e il discernimento, quando cerchiamo di inserire nella nostra comunione anche il più immaturo e difficile dei nostri fratelli, quando dobbiamo essere pronti a sopperire alle necessità di altri monasteri, … Non dobbiamo dimenticare che l’icona della comunità trova nella divina liturgia non soltanto il suo fondamento cristologico, ma anche quello pneumatologico, poiché la koinonia in molti testi di teologia biblica e spirituale viene presentata come opera dello Spirito santo (cf. 2Cor 13,13; Fil 2,1). Il nostro deserto non diventa dunque pretesto per dimenticare il fratello a noi vicino, non ci ha resi ciechi dinanzi a ciò che accade attorno a noi. Al contrario, penso che la vita nel deserto ci abbia resi più sensibili, più capaci di comprendere l’altro, di 340

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Vivere in comunione, vivere in solitudine …

avvolgerlo di amore non soltanto nella preghiera, ma nelle attenzioni della vita quotidiana. La nostra vita solitaria ci permette di avere una visione più complessiva della realtà, perché abbiamo lasciato dietro a noi la parzialità e la frammentarietà del legame con le cose concrete e necessarie della vita. Questa “libertà del deserto” non estrania ma libera le forze, la mente e la conoscenza, così è possibile che qualcuno veda più chiaramente le necessità dell’altro. In questo modo si supera la superficie dei fatti e si scoprono profondità spesso ignote allo sguardo sempre frettoloso del mondo. Solo così l’aiuto può diventare sostanziale e superare il semplice ed effimero sollievo del dolore e dare consolazione all’anima dell’altro contribuendo in modo terapeutico alla comunione che non è frammentata dall’abitudine e dalla convenzionalità. Il monastero si trova nel mondo; noi riceviamo pellegrini sempre nel rispetto della nostra vita monastica, poiché non vogliamo venir meno alla regola della preghiera incessante; ci carichiamo di questo peso senza lamentarci perché in quell’icona vediamo l’immagine del nostro Dio. Spesso diventiamo testimoni attraverso incontri di persone che vengono in monastero di quanto soffrono gli uomini nelle città; vivono in centri urbani, vivono il deserto nel vero senso della parola, non riescono a coltivare rapporti veri di comunione e neanche di umanità elementare. Le nostre società attuali sono impersonali e spesso sembrano funzionare con le leggi della giungla. Spesso in molti monasteri, non solo nel nostro, la gente viene per ricevere un caldo abbraccio da persone che nell’esichia del monastero cercano una comunicazione vera con l’altro. Coltiviamo rapporti personali e spirituali con persone che cercano e preferiscono l’atmosfera monastica per scoprire se stessi, per scoprire la fede che c’è in loro e non trova occasione di venire alla luce. Conoscere la verità della comunione con Dio, mantenere vivi questi legami per servire i fratelli che soffrono per varie carenze psichiche e materiali è un grande peso. Tante volte le forze umane non ce la fanno. Possiamo noi deboli e peccatori farci carico 341

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Tavola rotonda

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del peso del mondo? In tali ore ci ricordiamo dell’icona che abbiamo in monastero. Ritroviamo coraggio perché questa non è opera nostra. La nostra vita in monastero non può essere separata dalla vita con i fratelli. Ci consola la speranza che il Signore è il luogo del nostro riposo, il luogo della piena realizzazione della nostra comunione.

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CONCLUSIONI

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Adalberto Mainardi*

Per consentire un’operazione di sintesi del cammino percorso insieme – un’operazione che rimane affidata alla libertà di ciascuno –, proponiamo alcuni elementi per valutare le idee di fondo e quelli che mi sembrano i risultati salienti emersi dal lavoro di questi giorni, ma anche eventuali lacune e inadeguatezze e possibili vie nuove da esplorare. Queste conclusioni, anche in nome del comitato scientifico, non vogliono avanzare pretese di completezza, ma semplicemente offrire un servizio a una migliore comprensione reciproca. Tre anni fa, alla conclusione del convegno dedicato al Cristo trasfigurato nella tradizione spirituale ortodossa, padre Michel Van Parys sottolineava l’importanza, per questi nostri incontri ecumenici, del “con-venire”, del venire assieme in un luogo di ascolto reciproco e di amicizia, uno spazio di simpatia necessario per superare i pregiudizi e intraprendere un cammino serio di conoscenza dell’altro1. * Monaco di Bose. Le conclusioni sono state lette da Adalberto Mainardi a nome del comitato scientifico del Convegno, composto da: Enzo Bianchi, Lino Breda, Sabino Chialà, Hervé Legrand, Adalberto Mainardi, Antonio Rigo, Roberto Salizzoni, Michel Van Parys. 1 Cf. M. Van Parys, “Conclusioni”, in Il Cristo trasfigurato nella tradizione spirituale ortodossa. Atti del XV Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, Bose, 16-19 settembre 2007, a cura di S. Chialà, L. Cremaschi e A. Mainardi, Bose 2008, pp. 457-460.

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Conclusioni

Il fine di questo “convenire” ha una dimensione ecumenica precisa, quella di consentire una dilatata accoglienza della ricerca spirituale del fratello, per incontrare gli uni insieme agli altri il Cristo che viene; ma riveste anche una dimensione di dialogo con l’umanità contemporanea, le sue ricerche e le sue attese. “Il tuo volto, Signore, io cerco” (Sal 27,8). Questo versetto del salmo 27 indica bene il cammino che si è voluto intraprendere in ascolto della tradizione spirituale delle chiese d’oriente nella multiforme unità delle sue diverse tradizioni (bizantina, slava, romena, armena, siriaca…). Discernere il volto di Cristo è in realtà un’arte che si apprende in un rapporto personale di paternità spirituale come iniziazione alla comunione (lo abbiamo a lungo meditato nel convegno di due anni fa2); un’arte che richiede una dura lotta per attingere la verità di se stessi, e aprire il cuore all’accoglienza dell’altro (questa lotta spirituale in vista dell’agape è stata al centro del convegno dello scorso anno3). In questi giorni abbiamo concentrato il nostro sforzo proprio su questa dinamica che dall’isolamento degli individui conduce alla comunione delle persone, ma che necessariamente passa per un’autentica vita interiore nella libertà. Lo hanno a più riprese ricordato i messaggi dei capi delle chiese qui rappresentate, insistendo sull’insegnamento offerto dall’esperienza monastica, dove solitudine e silenzio introducono “alla relazione e all’essere in comunione con gli altri” (Bartholomeos I di Costantinopoli), e mostrando come le dimensioni di solitudine e comunione trovino un modello di armonica compenetrazione nella vita stessa di Gesù come ci è consegnata dalla narrazione evangelica (il patriarca di Mosca Kirill I e papa Benedetto XVI). 2 Cf. La paternità spirituale nella tradizione ortodossa. Atti del XVI Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, Bose, 18-21 settembre 2008, a cura di S. Chialà, L. Cremaschi e A. Mainardi, Bose 2009. 3 Cf. La lotta spirituale nella tradizione ortodossa. Atti del XVII Convegno ecumenico internazionale di spiritualità ortodossa, Bose, 9-12 settembre 2009, a cura di S. Chialà, L. Cremaschi e A. Mainardi, Bose 2010.

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Conclusioni

Forse abbiamo già qui tracciate le linee di fondo che hanno guidato la nostra riflessione. Da un lato solitudine e comunione sono dimensioni irrinunciabili dell’essere stesso dell’uomo nel mondo, dall’altro vengono illuminate dalla vicenda di Cristo. Nel mistero della chiesa, una e molteplice, si rende manifesto il fondamento cristologico di solitudine e comunione, e insieme la dimensione pneumatologica di questa polarità fondamentale della vita spirituale. Possiamo evocare qui la “doppia economia” di Vladimir Lossky: “L’opera di Cristo unifica, l’opera dello Spirito santo diversifica”4. Questa compenetrazione tra solitudine e comunione è una costante nella Scrittura e nella storia della chiesa. La dimensione del “deserto” (éremos), quale luogo di prova e di incontro con il Dio vivente, tempo e luogo dell’obbedienza e della disobbedienza alla Parola, è fondante per l’esperienza spirituale di Israele, l’evento che lo costituisce quale “assemblea santa”. Prima della parola di comunione (“… [l’uomo] si unirà a sua moglie e saranno una carne sola”), viene la parola di separazione (“l’uomo lascerà suo padre e sua madre”: Gen 2,24)5: acquisire la somiglianza di Dio – la vocazione biblica dell’uomo – significa diventare a somiglianza di un Dio che abita la distanza, il nascondimento; è un Dio che chiama alla comunione, non alla fusione. Gesù stesso approfondisce il senso della sua vocazione nell’éremos, il deserto: la conoscenza di Dio nella solitudine ci apre alla comunione nella verità. Nel Nuovo Testamento, il termine “comunione” (koinonía) indica essenzialmente la partecipazione alla vita divina dischiusa 4 “Il Cristo diviene l’immagine unica appropriata alla natura comune dell’umanità; lo Spirito santo conferisce a ogni persona creata a immagine di Dio la possibilità di attuare la somiglianza nella natura comune. L’Uno presta la sua ipostasi alla natura, l’Altro dà la sua divinità alle persone. Così, l’opera di Cristo unifica, l’opera dello Spirito santo diversifica” (V. Lossky, La teologia mistica della Chiesa d’Oriente, Bologna 1967, p. 159). 5 Cf. J.-P. Batut, “Uno sguardo teologico: separazione e comunione in Dio”, in Aa. Vv., La solitudine: grazia o maledizione?, Bose 2001, p. 50.

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Conclusioni

da Gesù Cristo, che si manifesta in particolare nella sua dimensione eucaristica, “nella comunione al sangue e al corpo di Cristo” (cf. 1Cor 10,16). È nella comunità eucaristica che anche l’esperienza monastica trova il suo radicamento ecclesiale, che la preserva da quelle derive autoreferenziali sempre possibili che contraddicono la comunione. Grazie alla riflessione teologica e spirituale di san Basilio nel iv secolo (non a caso l’epoca delle grandi controversie cristologiche), anche l’esperienza monastica viene ricondotta a quel fondamentale equilibrio umano e cristiano tra libertà interiore del singolo e comunione nella compagnia degli uomini, compiutamente realizzato nel Cristo, che per amore del Padre e degli uomini versa il suo sangue nell’abbandono estremo della croce. “Nella solitudine assoluta della croce Gesù ha fatto nascere la comunione” (Olav Tveit). Fin da subito il nostro convegno ha così rinunciato a leggere le coordinate di “comunione e solitudine” secondo uno schema predefinito da semplificazioni storiografiche quali “eremitismo” e “cenobitismo”, che riducono una dinamica esistenziale e spirituale in continua interrelazione (l’arcivescovo Ieronymos ha parlato di “circumsessione”, alleloperikóresis, nel suo messaggio) all’incongruente contrapposizione di tipi astratti (i cenobiti, gli eremiti). La concretezza del vissuto umano chiede invece che anche l’esperienza comunitaria sia costruita come un tutto strutturato secondo natura, dove il germe logikós seminato nell’uomo (è ancora un’idea di Basilio) conduce al completamento dell’opera creativa di Dio nella bellezza e nella bontà della vita in comunione. Nell’etologia basiliana, l’uomo è naturalmente un essere koinonikós, a differenza del leone, per sua natura animale selvaggio e “solitario”, monastikós… Solo un’autentica antropologia cristiana può in tal modo aprire uno spazio di comprensione del fenomeno monastico e delle oscillazioni della spiritualità cristiana tra vita solitaria e vita in comune, con sfumature e modalità diverse in oriente e in occi346

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Conclusioni

dente. Lo studio diacronico di questa polarità (comunione/solitudine) in contesti dissimili, ha fatto emergere abbastanza chiaramente l’arbitrarietà di schemi classificatori astratti (eremo/cenobio) applicati rigidamente a una realtà spirituale viva e fluida. Poco fa il metropolita Kallistos ci ricordava come nel monachesimo orientale non esiste una netta linea di demarcazione tra vita in comunità e vita eremitica, ma proprio questo confine fluido e poroso è segno di “arricchimento e benedizione”. L’indissolubile circolarità tra le due dimensioni – lo abbiamo sentito nei primi giorni del nostro convegno – è in effetti al cuore stesso del monachesimo bizantino e russo; il legame tra ricerca personale di Dio e apertura a una comunione cosmica è addirittura centrale in un padre fondamentale per la spiritualità dell’oriente come dell’occidente cristiani: sant’Isacco il Siro. La continua interrelazione tra vita solitaria e dimensione comunitaria, tra deserto e cenobio, vale infine per l’occidente, dove si alternano cicli di rinnovamento della vita spirituale caratterizzati dall’accento sulla vita eremitica e di riforma della vita cenobitica. Un’eccezionale testimonianza di questa interazione è stata l’esperienza storica di Optina pustyn’, che significativamente pone, al centro della dinamica tra cenobio e anacoresi, la vita di preghiera, personale e comunitaria. Si apre qui naturalmente un tema molto profondo e ampio, che potrebbe costituire da solo l’argomento di un convegno. La riflessione sugli sviluppi storici introduce alla realtà contemporanea. La ricerca, in tutta la tradizione monastica, di un delicato equilibrio spirituale tra la faticosa scoperta della propria verità e il riconoscimento dell’altro come costitutivo del sé, l’uscita da se stessi e la comunione come pienezza di umanità, indica che l’interazione tra comunione e solitudine costituisce una polarità profonda della vita umana e cristiana. Proprio qui incontriamo il punto di interrogazione che la modernità pone all’esperienza cristiana. Se la grande parabola del moderno può essere descritta come un passaggio dall’eteronomia 347

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all’autonomia – l’uscita da un mondo chiuso gerarchizzato verso un universo aperto basato sul principio di eguaglianza, in cui ognuno è teoricamente artefice del proprio futuro6 –, l’esito paradossale è una radicale solitudine dell’individuo, di cui l’anonimato della massa non è che la faccia nascosta. La sfida comunitaria nell’orizzonte postmoderno è forse quella di realizzare comunità capaci di dare speranza. Non l’utopia della relazione all’altro totalmente trasparente a se stessa, ma la concreta vita comune come vocazione di umanizzazione: nelle relazioni personali, sociali, politiche, economiche, ecologiche… Il sospetto moderno verso ogni coercizione dell’io rischia paradossalmente di annullare la gratuità dell’incontro con l’altro nel mito collettivo dell’ideologia o di disperderla nell’indifferenza dell’individualismo. Un’autentica dialettica tra comunione e solitudine chiede invece di essere realizzata in una dimensione di fiducia e gratitudine verso l’altro: in un sempre rinnovato rendimento di grazie, in una pratica eucaristica. La koinonía non definisce solo il piano orizzontale dei rapporti interumani, ma apre uno squarcio sulla vita delle persone divine: “L’essere significa vita e la vita significa comunione”7. Senza persona non c’è comunione; ma senza comunione non c’è persona. Un pensiero teologico che si lasci guidare dallo Spirito è allora chiamato a un’ascesi creativa per superare la contrapposizione sterile e astratta fra tradizionalismo e modernismo, l’uno e l’altro prigionieri dell’autosufficienza di una storia ripiegata su stessa: su un passato idealizzato o un presente che non attende trasfigurazione. Come discernere nella tradizione dei padri (ma fin dove giunge?) quello che è una ricezione (obbedienza) autentica della parola di Dio e quello che non lo è più? Il problema – che era quello di Basilio di Cesarea – è stato posto con molta nettezza da 6 Cf. M. Gauchet, Il disincanto del mondo: una storia politica della religione, Torino 1992. 7 I. Zizioulas, L’essere ecclesiale, Bose 2007, p. 9.

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Conclusioni

diverse angolazioni. Un monachesimo, una chiesa che non attendono più il Signore della storia, hanno perduto il loro sapore. È sempre in agguato allora la tentazione di far coincidere la comunione ecclesiale con l’isolamento autosufficiente, la chiusura settaria che cerca di differenziarsi isolandosi, invece di aprirsi integrando e interpretando la diversità, divenendo stimolo vivo – il “lievito” della parabola evangelica – che annuncia la trasfigurazione delle relazioni umane e dello stesso cosmo. L’autentica dimensione “ecclesiale” della dinamica tra solitudine e comunione apre invece nell’oggi di Dio l’irruzione della novità escatologica: la comunione definitiva di Dio “tutto in tutti”, che inscrive la comunione al centro del rapporto personale tra l’uomo e Dio. E ciò è tanto più attuale nell’orizzonte postmoderno dell’atomizzazione del soggetto. La nozione cristiana di “persona” – sono stati evocati i nomi di Nikolaj Berdjaev e Sergij Bulgakov, ma anche di Ioannis Zizioulas e Christos Yannaras – costituisce il punto di incontro e il superamento della contrapposizione potenzialmente distruttiva tra le spinte antagoniste del soggetto e l’aspirazione all’uno della collettività. Che cos’è dunque la persona? Uno stupore che è riconoscenza, una meraviglia che si affida. È una libertà che si dona. La libertà profonda – a volte sconcertante – che nasce dall’amore e solo dall’amore; la libertà acquistata a caro prezzo da autentici abitatori del deserto contemporaneo, quali padre Cleopa di Siha˘stria, “uomo per gli altri”, o padre Porfirio di Kafsokalyvia, che nel fuoco del suo amore bruciava ogni consuetudine irrigidita e ferma. Nella loro lotta solitaria contro il male – morale, fisico, spirituale – la profondità dell’amore di Cristo abbraccia la solitudine e la disperazione di ogni uomo. È l’energia della speranza che splende anche nell’inferno dell’isolamento e della lontananza da Dio, come hanno mostrato santi quali Serafim di Sarov o lo starec Silvano del Monte Athos. Una lacuna nel percorso tentato quest’anno è forse stata l’assenza di una riflessione nata dall’apporto delle scienze umane su 349

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Conclusioni

questa tensione molto complessa tra isolamento dell’io e apertura all’intersoggettività; e, parallelamente, di una riflessione puntuale sulle strutture di maturazione – umana e spirituale – che consentono di imparare ad abitare la solitudine e a praticare la comunione. Abbiamo tuttavia potuto ascoltare le voci di monaci e monache d’oriente e d’occidente raccontare il concreto esercizio quotidiano di vivere in comunione e vivere in solitudine: esercizio della ricerca di Dio nel silenzio della cella, discernimento del volto di Dio nell’incontro con il fratello. La solitudine è un’arte che va appresa, esige quell’apprendistato che l’isolamento evita. Essa è sempre una solitudo pluralis; per questo i padri chiedevano che solo dopo una lunga iniziazione alla vita comune si intraprendesse l’arduo cammino della vita solitaria, in cui – abbiamo sentito l’espressione di Serafim di Sarov – il monaco lotta contro leoni e tigri. Il silenzio e la contemplazione fanno spazio alla vita della Parola nella comunione dei fratelli, nell’ascolto dell’altro. Si scopre allora che la solitudine è un’arte agapica, amica e maestra sulla via dell’amore. Un amore da vivere concretamente, quotidianamente, come orizzonte cui tendere, all’interno della fraternità monastica, ma anche e soprattutto all’interno della chiesa e tra la chiese, e per l’insieme della comunità umana. La solitudine è la profondità della vita comune, la comunione è il frutto della purificazione interiore, ma il fine è sempre l’agape.

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SIGLE

BHG

Bibliotheca hagiographica graeca I-III, a cura di F. Halkin, Bruxelles 19573 (Subsidia Hagiographica 8a); Novum auctarium bibliothecae hagiographicae graecae, a cura di F. Halkin, Bruxelles 1984 (Subsidia Hagiographica 65).

BLDR

Biblioteka literatury drevnej Rusi, Sankt-Peterburg 1997 ss.

CCSG

Corpus christianorum. Series graeca, Turnhout 1977 ss.

CSCO

Corpus scriptorum christianorum orientalium, Louvain 1903 ss.

CSEL

Corpus scriptorum ecclesiasticorum latinorum, Wien 1866 ss.

DHGE

Dictionnaire d’histoire et de géographie ecclésiastique, Paris 1912 ss.

DS

Dictionnaire de spiritualité ascétique et mystique, Paris 1932 ss.

GAKO

Gosudarstvennyj archiv KaluΔskoj oblasti.

GIM

Gosudarstvennyj istori™eskij muzej, Moskva.

JaGMZ

Jaroslavskij Gosudarstvennyj muzej Zapovednik.

PG

Patrologiae cursus completus. Series graeca, a cura di J.-P. Migne, Parisiis-Turnholti 1857-1866.

SC

Sources chrétiennes, Paris 1942 ss.

RGB

Rossijskaja Gosudarstvennaja biblioteka, Moskva.

RNB

Rossijskaja nacional’naja biblioteka, Sankt-Peterburg.

TODRL

Trudy otdela drevnerusskoj literatury.

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INDICE DEI NOMI

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Non sono segnalati i nomi dei santi dedicatari di chiese e di monasteri, e i personaggi biblici. In corsivo i numeri di pagina dove il nome ricorre solo in nota.

AbouZaid Sh. 110

Andrea di Cesarea 225

Abramo di Kashkar 110, 112, 113

Andrea di Creta 232

Adamo di Perseigne 331

Andrutsos Ch. 261

Afanas’ev N. 261, 262, 263

Anfilochio di Iconio 82, 93, 96

Agafia, monaca 215 Agapit (Belovidov) 200, 202

Antonie (Pla˘ma˘deala˘), metropolita di Transilvania 220

Agoras K. 8

Antonij (Putilov) 202, 207

Agostino di Ippona 70, 149, 292, 300

Antonij Sijskij 169, 170, 171, 175

Agouridis S. 55, 69, 70

Antonio di Kiev 156, 176

Alberigo G. 309

Antonio il Giovane 136

Aleksandr O∫evenskij 170

Antonio il Grande 11, 21, 71, 128, 143, 156, 318, 323

Aleksandr Svirskij 164, 166, 174 Aleksij, metropolita di Kiev 157 Alessandro l’Acemeta 247 Alfeev I., v. Ilarion di Volokolamsk Allchin A. D. 154 Almazov A. I. 190 Ammone, abba 183, 189

Aristotele 62, 270 Arjakovsky A. 276 Arsenij (Troepol’skij) 206, 207 Artioli M. B. 59, 305, 312, 315 Atanasio di Alessandria 20, 36, 40, 69, 189, 318

Amvrosij di Optina 200, 210

Atanasio l’Athonita 134, 139, 143, 306, 307

Andia Y. de 101

Atarbio, vescovo di Neocesarea 84

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Indice dei nomi Aubineau M. 79, 97

Bezobrazov S. S. 211

Auxentios, ieromonaco 66

Bianchi E. 14, 15, 34, 76, 276, 317, 333

Auzépy M.-F. 132

Bianchi M. 33

Averincev S. S. 273, 274, 275, 276, 278, 279, 284-286

Binns J. 129

Awghin, monaco siriaco 112 Azzali Bernardelli G. 78 Ba˘lan I. 222, 223, 224

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Bargellini T. 107 Barsanufio di Gaza 5, 9 Barsukov N. P. 158 Bartelink G. J. M. 41 Bartholomeos I, patriarca di Costantinopoli 5, 10, 32, 344 Basilio, monaco cappadoce 81 Basilio di Cesarea 6, 7, 69, 75-103, 128, 129, 131, 190, 224, 323, 346

Blake W. 312 Blum A. 273 Boezio 149 Bori P. C. 101 Bornet R. 67 Borovik Ju. V. 197 Boulard E. 66 Bouyer L. 44 Brock S. 105, 106, 108, 110 Brown P. 130 Brown R. E. 60 Broz J. (Tito) 237, 239

Basilio di Iviron 108, 252

Brueggemann W. 51

Batut J.-P. 346

Bruno il Certosino 112

Baudry É. 86

Bulgakov S. 258, 273, 276, 289, 349

Bedjan P. 107, 109

Bulovic´ I., v. Irinej di Ba™ka

Beglov A. 197

Burini C. 64, 249

Beljakova E. V. 172, 183, 185, 187, 194, 195

Callinico di Cernica 230

Beljakova N. A. 194 Bellini E. 64, 299 Benedetto di Norcia 149, 150, 333 Benedetto XVI, papa 6, 13, 29, 344 Berdjaev N. 258, 261, 262, 273, 276, 349 Bertone T. 6, 13 Bettazzi L. 33 Bettiolo P. 108, 114, 316

Callisto Xanthopoulos 315, 316, 319 Canivet P. 129 Cassiodoro 149 Castellana P. 129 Castore, vescovo di Marsiglia 149 Chabot J. B. 111 Charanis P. 135 Chialà S. 7, 55, 64, 106, 108, 110, 111, 112, 113, 115, 138, 242, 343, 344

354

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Indice dei nomi Chomjakov A. S. 12, 261, 278

Deseille P. 108, 322, 331

Chru∫™ev N. 180

Di Segni L. 130

Chryssochoidis K. 7

Dionigi l’Areopagita (Pseudo-) 66, 67, 68, 299, 300

Cicerone 305 Cipriano di Cartagine 148 Cirillo di Scitopoli 308 Clemente di Alessandria 65, 93 Clemente di Roma 55

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Cleopa di Siha˘stria 8, 213, 230 Coens M. 136

Dionisij, monaco 175 Dionisij di Spaso-Kamennyj 186 Dionisij Glu∫ickij 169, 171, 175 Doroteo di Gaza 183 Dosifej di Solovki 189 Dosifeja, monaca 181

Colombano 150

Dostoevskij F. M. 12, 335

Conon (Gavrilescu) 214, 215

Draconzio, monaco 36

Cosma l’Etolico 238, 239

Duchrow U. 52

Courtonne Y. 80, 81

Dumont P. 306

Cousins E. 44

Efrem di Katounakia 332, 333, 334

Cremaschi L. 36, 55, 76, 77, 82, 83, 86, 91, 100, 138, 304, 318, 343, 344

Efrem il Siro 124

Cristodulo di Patmos 134, 306

Eleazar di Anzer 190, 191

Crouzel H. 93

Eleusinio, monaco cappadoce 81

d’Ayala Valva L. 127

Elizaveta Fedorovna 197, 201

Dadisho di Izla 113

Elliott J. H. 60

Dagron G. 130

Em™enko E. B. 192

Dalmazio, monaco 130 Damaso, papa 100

Emiliano, discepolo di Cleopa di Siha˘stria 221

Daniel di Kessariani 33

Erast (Vytropskij) 203

Daniel I, patriarca di Romania 15, 33, 223

Escolan Ph. 129

Daniil (Tudor) 220

Esipov G. 194

Datema C. 82

Eufemia di Corfù 241, 242

Ekaterina, igumena 237, 243, 247

Del Monte A. 328

Eustazio di Sebaste 76, 80, 82, 83, 97

Delehaye H. 129

Eutiche 130

Dell’Asta A. 289

Eutimio di Ta˘rnovo 186

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Indice dei nomi Eutimio il Grande 129, 139, 305

Friedrich G. 47, 57, 63

Evagrio Pontico 5, 9, 305, 316

Gain B. 87

Evfrosin di Pskov 161, 162, 166, 189

Gallo M. 108

Falchini C. 76, 333

Gauchet M. 348

Farrell B. 33

Gautier F. 83, 92

Fasiolo A. 33

Gavriil Pustynnik 208

Fedotov G. P. 156, 157, 274, 317

Gemp K. 180, 198

Fedwick P. J. 86

Gennadij di Novgorod 173, 190

Feodor, archimandrita di Simonov 161

Gerasimo, abba 142

Feofan Soloveckij 158

Gerda A. S. 160, 164, 173

Feofilakt di Brianskij e Sevsk 32

German, patriarca di Serbia 336

Feognost, igumeno 175

German di Solovki 171

Feognost di Sergiev Posad 32

German di Valaam 11

Ferapont di Beloozero 163, 171, 187

Geyer B. 132

Fernandez R. 129

Gianesin B. 45

Filaret, patriarca di Mosca 190

Gillet L. 44

Filaret di Minsk 33

Giorgio II Xiphilinos 141

Filarete (Amfiteatrov) 208

Giovanni Cassiano 149

Filone di Alessandria 48, 92

Giovanni Climaco 127, 136, 324, 332

Filosseno di Mabbug 331

Giovanni Crisostomo 83, 224, 225

Filoteo, patriarca di Costantinopoli 189

Giovanni di Gaza 5, 9

Fleishman L. 160

Giovanni Gualberto 152

Flew R. N. 62

Giovanni il Kafsokalyvita 232, 233, 246

Florenskij P. 258

Giovanni l’Esicasta 309

Florovskij G. 66, 257, 258, 259, 267

Giovanni Mosco 142

Foucault P. M. 287

Giovanni Zimisce 139

Fox M. V. 48

Giulio d’Orta, santo 330

Fozio, patriarca di Costantinopoli 134

Giustetti M. 33

Frank S. 276

Giustiniano, imperatore bizantino 130

Freud S. 287

Giustino, martire 64, 249

356

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Indice dei nomi Golitzin A. 67, 68

Hinkelammert F. J. 52

Gorainoff I. 316, 318

Hovorun K. 8, 32

Gordis R. 52

Humbertclaude P. 129

Gorja™eva M. Ju. 159

Ica˘ I. I. 108

Goutzioudis M. 53

Ieronymos II, arcivescovo di Atene 17, 33, 346

Graffigna P. 92 Grdzelidze T. 33

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Grégoire H. 235 Gregorio di Nazianzo 75, 80, 82, 91, 92, 93, 98, 99, 224, 305

Ignatij (Brjan™aninov) 327 Ignatij Lomskij 173 Ignatios di Dimitriados 33 Ignazio di Antiochia 64, 241, 242

Gregorio di Nissa 81, 83, 84, 85, 97

Ignazio Xanthopoulos 315, 316, 319

Gregorio il Sinaita 183, 185, 188, 189, 312, 313, 314, 315, 319

Iisus (Ioanov) 192

Gregorio il Taumaturgo 93 Gregorio Magno 149, 150 Gregorio VII, papa 151 Gribomont J. 39, 80, 86 Grigorij di Veliko Ta˘rnovo 33 Grigorij Pel∫emskij 169 Grillmeier A. 65 Grolimund V. 33, 189 Gy P.-M. 67 Hagman P. 111 Halkin F. 142 Hanson P. D. 50, 54 Harl M. 93

Ijakim, igumeno 164 Il’inskaja A. 198 Ilario di Poitiers 148 Ilarion di Volokolamsk 105 Ilie A. 215 Ilie M. 215 Ilij (Nozdrin) 211 Ioakim, monaco 173 Ioakim, patriarca di Mosca 193 Ioanichie (Moroi) 216 Ioannidis K. 235, 236, 240, 244, 246, 253, 254 Ioannikios il Grande 136, 141

Hatlie P. 130

Ioannis di Pergamo 45, 65, 69, 255, 260, 261, 262, 263, 265, 348, 349

Herman E. 141

Ioannis di Thermopyli 33

Hermann G. 63

Ioil, igumeno 221

Hero A. C. 133

Iosif di Volokolamsk 172

357

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Indice dei nomi Iosiph di Vatopedi 107

Kazhdan A. P. 233

Iosiph l’Esicasta 107

Kiprian, metropolita di Kiev 186

Ireneo di Lione 64

Kiprian di Traianopol 33

Irinarch, igumeno 191

Kireevskij I. V. 12, 279

Irinej di Ba™ka 6, 33, 237, 238, 240, 248, 249

Kireevskij P. V. 279

Isaak (Attieh) 332 Isaakij (Antimonov) 202

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Isacco, monaco siriaco 130 Isacco di Ninive 6, 7, 92, 105-125, 347 Janin R. 130, 132 Jardine Grisbrooke W. 70, 71 Jones C. 70 Juchimenko E. M. 192 Judina M. V. 274 Jullien F. 110, 111, 112 Justinian, patriarca di Romania 219 Kagan M. D. 158 Kalliatsos A. I. 251 Kallistos di Diokleia 8, 9, 32, 154, 263, 281, 282, 347 Kaplan M. 135 Karakolis K. Ch. 236 Karbasova T. B. 7, 159 Karekin II, catholicos di tutti gli armeni 6, 21, 33

Kirill, monaco 336 Kirill I, patriarca di Mosca 6, 12, 32, 344 Kirill di Beloozero 161, 163, 164, 165, 167, 169, 171, 174, 186, 187 Kirill Novoezerskij 159, 161, 162, 169, 174 Kistjakovskij B. 276 Kittel G. 47, 63 Kliment (Sederholm) 203 Klju™evskij V. O. 176 Kloss B. M. 157 Koch K. 27 Kon™arevi™ K. 160 Koncevi™ I. M. 202 Kornilij Komel’skij 160, 161, 167, 168, 171, 173 Koschorke K. 76, 103 Kourilas E. 142 Kroustalakis G. 239, 245, 246, 247 Kuandykov L. K. 195 Kugener M.-A. 235

Karmiris I. 261

Küng H. 278

Kasper W. 276

Lamproupoulou A. 134

Kassian, v. Bezobrazov S. S.

Lange N. de 93

Kauchtschischwili N. 272

Lanne E. 101, 273

Kavvadas N. 108

Lavrentij, igumeno 167

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Indice dei nomi Leclercq J. 31

Makarij Kaljazinskij 169

Lefort J. 132

Makarij æeltovodskij 172

Lefort Th. 40

Maleinos M. 138, 191

Leloir L. 124

Maloney G. A. 317

Leonid (Kavelin) 203, 209

Mana G. 33

Leonid di Optina 201, 205

Mantzaridis G. 66

Leont’ev K. 203

Maraval P. 81, 85

Leroy J. 133

Marco il Diacono 235

Leskov N. 183

Maria Egiziaca 167

Lev di Optina, v. Leonid di Optina Lies L. 66 Lietzmann H. 129 Lilla S. 67, 83

Mariano B. 82 Marini P. 33 Marotta E. 93

Lisovoj N. N. 157, 158

Martinian di Beloozero 163, 164, 171, 187

Loss I. 276

Martino di Tours 148

Lossky N. 249, 262, 291, 345

Massimo il Confessore 59, 69, 248

Loudovikos N. 69

Massimo il Kafsokalyva 141, 252

Louf A. 8, 9, 105, 108, 115, 154, 272

Mateos J. 85

Lovato M. F. 305, 312, 315

Matrecano B. 33

Lucio, abba 308

Matsoukas N. 69

Lutero M. 60 Macario (Pseudo-) 65 Macario di Corinto 74, 312, 313, 315 Macario il Presbitero 41 Macario l’Egiziano 11, 183 Machariotis P. 245 MacIntyre A. 275 Macrina la Giovane 75, 81, 85 Mainardi A. 274, 276, 317, 324, 343, 344 Makarij di Optina 200, 201, 205, 206, 207, 210

McGinn B. 45 Meester P., de 309 Meinardus O. 128 Men’ A. 273, 274, 276 Mennini A. 31 Menounos I. B. 239 Menthon B. R. P. 132 Merton Th. 154 Meyendorff J. 45, 63, 67, 68, 72 Michele Romanov, zar 191

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Indice dei nomi Miglio A. 33

Nikanor, monaco 252

Milbank J. 276

Nikifor, monaco 174

Möhler J.-A. 261, 278

Nikodim KoΔeozerskij 158

Moreschini C. 83, 271, 305

Nikol’skij N. K. 159

Morris R. 135

Nikolaev N. I. 182

Mortari L. 308

Nikon, patriarca di Mosca 159, 192

Müller A. 94

Nikon il Grande 156

Naldini M. 90, 93

Nil Sorskij 186, 187, 188, 192, 277, 317

Narducci E. 305

Nilo l’Asceta 305

Naucrazio, fratello di Basilio di Cesarea 81

Nivat G. 276

Nazarenko A. V. 156 Nazarij di Vyborg 32, 324 Nellas P. 256, 264 Neri U. 77, 90 Nerse¯s √norhali 20

Oberg E. 93 Ochotina N. A. 158 Ochotnikova V. I. 158, 162, 166 Oikonomidis N. 134, 142 Onorato di Lérins 149

Nesbitt J. 134

Origene 65, 66, 69, 93

Newman J. H. 276

Pachomij, monaco 171

Niceforo Foca 138

Pacomio il Grande 40, 69, 70, 71, 112, 128, 131, 143, 210

Niceforo Theotokis 246

Pafnutij Borovskij 11

Nicodemo l’Aghiorita 74, 233, 312, 313, 315

Paisie (Olaru) 214, 216, 218

Nicodim, patriarca di Romania 219

Paisij Veli™kovskij 213, 217

Nicola I, imperatore di Russia 194

Paisios del Monte Athos 39, 332, 334

Nicone della Montagna Nera 182

Palladio 41, 142

Nicone il Metanoita 134

Palmieri A. 33

Nietzsche F. 287

Pan™enko O. V. 172

Nifone, ieromonaco 142

Paolo VI, papa 328

Nifont Kormilicyn 188

Paolo di Tebe 11, 143

Nifont KoΔeozerskij 171

Paolo Everghetinos 244

Nikandr di Pskov 158, 173

Paolo il Giovane 138

360

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Indice dei nomi Papachryssanthou D. 132, 136, 139

Popovic´ Ju. 39, 66, 222, 237

Papacioc A. 220

Poppe A. 156

Papadopoulos A. 69, 249

Porfirio di Gaza 232, 235

Papathanassiou A. N. 8, 235

Porfirio di Kafsokalyvia 8, 39, 231-254

Papazachos G. 240, 246, 252, 253, 254

Pouchet R. 82, 83, 84, 87, 97

Pascal B. 285, 286

Pozdeeva I. V. 194

Patapios, monaco 252

Pratsch Th. 133

Patrich J. 129

Priluckij D. 157, 160, 171

Pavel Obnorskij 157, 160, 165, 166, 167, 168, 169, 173, 174

Priselkov M. D. 156

Pavle, patriarca di Serbia 335-336

Prochorov G. M. 161, 166, 172, 186, 188, 191

Peeters P. 136

Puls J. 69

Pelagio 70

Pu∫kin A. 182

Pelikan J. 276, 277

Quacquarelli A. 55, 297

Peña I. 129

Quasimodo S. 330

Petr (Pigol’) 185

Radice R. 92

Petrenko N. A. 158

Raitt J. 44, 66

Petronio (Ta˘nase) 220

Ramphos S. 72, 73, 74

Philia G. 70

Resta Barrile A. 305

Phountoulis I. M. 66, 247

Robinson N. F. 311, 313

Picchio R. 160

Romilo di Vidin’ 183, 185

Pietro l’Athonita 141, 143

Romualdo 152

Pietro, fratello di Basilio di Cesarea 97, 304, 305, 306, 317, 318

Ronen O. 160

Pippidi D. M. 131 Platone 62 Ple∫kov I. 187

Roques R. 67 Rosmini A. 278 Rousseau P. 128, 129

Pokrovskij N. N. 180, 181, 195, 196, 197

Rowan Williams, arcivescovo di Canterbury 6, 23, 33, 276

Poletaeva E. A. 158

Rudi T. R. 7, 159

Polibio 62

Rufino di Aquileia 86, 96

Ponyrko N. V. 172, 189

Saba il Grande 129, 136, 308, 309

361

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Indice dei nomi Sartre J.-P. 262

Simeone lo Stilita 11, 129

√arutin T. 192

Simeone Metafraste 233

Saturnino, senatore 130

Simon M. 90

Savvatij di Solovki 11, 171

Simonetti M. 69

Sboronos N. 134

Sinicyna N. V. 155, 156, 157, 159, 161, 172

Scazzoso P. 299 Schmemann A. 63, 66, 71 Schmidt K. L. 63

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Schräge W. 63 Schutz R. 273 Sedakova O. A. 276 Segal D. 160 Semja™ko S. A. 158, 159, 161, 163

√karovskij M. 198 Smirnov P. 194 Smoli™ I. K. 156, 158, 176 Smolitsch I., v. Smoli™ I. K Smyrlis K. 135 Sofronio, monaco cappadoce 81 Sofronio del Monte Athos 39 Sokolova L. V. 158

Serafim di Sarov 8, 12, 310, 314, 317, 318, 350

Solov’ev V. S. 12

Serafim Joanta˘ 8, 33

Somigli C. 107

Serapion 162, 171

Soro B. 105

Sergij Nuromskij 157, 169, 173, 174

Sotiropoulos N. 253

Sergio di RadoneΔ 11, 157, 161, 169, 176, 187, 188

√pidlík T. 44, 273

Sergio di Valaam 11

Stefan di Turov 33

Sevast’janova S. K. 191

Stefano, fratello di Sergio di RadoneΔ 187

√ev™enko E. E. 161

Stefano di Perm’ 277

Shabur, monaco 111

Stendahl K. 63

Sigov K. 8, 274

Stiriotis L. 134

Silvano del Monte Athos 8, 349

Stransky T. 249

Silvas A. M. 87

Struve P. 276

Silvestrini A. 28, 33

Sutton J. 33

Simeone di Mega Spileon 134

Syrku P. A. 183, 185

Simeone di Taibuteh 114, 115

Taft R. F. 65, 67, 68, 85, 233

Simeone il Nuovo Teologo 243

Taganceva N. S. 196

Spiteris Y. 45

362

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Indice dei nomi Talbot A.-M. 233

Turilov A. A. 156

Tamcke M. 111

Tveit O. F. 6, 25, 346

Teoctisto Studita 189, 219, 308

Tzavaras S. 236, 237, 249

Teodorico, re degli ostrogoti 149

Valente, monaco 40

Teodoro, monaco 40

Valentiniano III, imperatore 149

Teodoro di Mega Spileon 134

Vallière P. 276

Teodoro Studita 140, 189, 323

Van den Ven P. 129

Teodosio di Kiev 156, 167,168

Van Parys M. 7, 323, 343

Teodosio di Ta˘rnovo 185 Teodosio il Grande 156 Teodulo, monaco di Veria 142 Teofane di Peritheorion 142 Teofane il Recluso 12 Teofilo, patriarca di Alessandria 35 Tertulliano 148, 271 Theodoros II, patriarca di Alessandria 14 Thomas J. 133 Thomson F. J. 156 Thornton J. 66 Tillard J.-M. R. 101 Tito, v. Broz J.

Varadinov N. 195 Varlaam (Davydov) 209 Varsonofij di Optina 201 Vasilevskaja V. Ja. 181 Vasilij-Varlaam 161, 166 Vasilisk, starec 206, 207 Vassiliadis P. 6, 43, 45, 49 Veilleux A. 7, 128 Verchovskoj P. V. 157 Vernikos G. A. 239 Viller M. 80 Vodolazkin E. G. 161 Vogüé A. de 86 Volodymyr, metropolita di Kiev 19, 32

Tolstoj A. P. 203

Vööbus A. 110, 129

Tolstoj L. N. 203

Wall R. W. 57

Touraille J. 108

Ware K., v. Kallistos di Diokleia

Traversari A. 107

Wensinck A. J. 108

Trembelas P. 260

Winandy J. 154

Trifon (Turkestanov) 204

Wright G. E. 61, 62

Troianos S. 141

Wybrew H. 33, 67

Tucidide 62

Yannaras Ch. 255, 261, 262, 349

363

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Indice dei nomi Zevedej, monaco 175

æak L. 289

Zizioulas I., v. Ioannis di Pergamo

Zapal’skij G. A. 7, 196, 205

Zol’nikova N. D. 180, 181, 195, 196, 197

Zeiler 278

Zosima di Solovki 11

Zelenskaja G. M. 159

æust M. 33

Zelzer K. 86

Zykova N. V. 197

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Zagarian R. 33

364

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PARTECIPANTI AL CONVEGNO

✠ Kallistos di Diokleia, Patriarcato di Costantinopoli (Oxford – Regno Unito) ✠ Feognost di Sergiev Posad, Patriarcato di Mosca (Sergiev Posad – Fed. russa) ✠ Stefan di Turov e Mozyrsk, Patriarcato di Mosca, Esarcato di Bielorussia (Mozyr – Bielorussia) ✠ Nazarij di Vyborg, Patriarcato di Mosca (San Pietroburgo – Fed. russa) ✠ Irinej di Ba™ka (Bulovic´), Patriarcato di Serbia (Novi Sad – Serbia) ✠ Serafim di Germania, Patriarcato di Romania (Nürnberg – Germania) ✠ Grigorij di Veliko Tarnovo, Patriarcato di Bulgaria (Veliko Tarnovo – Bulgaria) ✠ Kiprian di Traianopol, Patriarcato di Bulgaria (Vratza – Bulgaria) ✠ Ignatios di Dimitriados, Chiesa di Grecia (Volos – Grecia) ✠ Daniel di Kessariani, Vironas e Hymettos, Chiesa di Grecia (Kessariani, Athens – Grecia) ✠ Ioannis di Thermopyli, Chiesa di Grecia (Pendeli – Grecia) ✠ Gabriele Mana, vescovo di Biella (Biella – Italia) ✠ Achille Silvestrini, prefetto emerito della Congregazione per le Chiese orientali (Città del Vaticano) ✠ Antonio Mennini, nunzio apostolico presso la Fed. russa (Mosca – Fed. russa) ✠ Piero Marini, presidente del Pontificio comitato per i congressi eucaristici internazionali ✠ Brian Farrell, segretario del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (Città del Vaticano) ✠ Mansueto Bianchi, vescovo di Pistoia, presidente della Commissione episcopale per l’ecumenismo e il dialogo ✠ Arrigo Miglio, vescovo di Ivrea ✠ Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea Milan æust, Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (Città del Vaticano)

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Partecipanti al convegno

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Andrea Palmieri, Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (Città del Vaticano) Barbara Matrecano, Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (Città del Vaticano) Tichon (Zimin), Patriarcato di Mosca, Lavra della Trinità di San Sergio (Sergiev Posad – Fed. russa) Aleksej Dikarev, Patriarcato di Mosca, Dipartimento per le relazioni esterne (Mosca – Fed. russa) Hugh Wybrew, Chiesa di Inghilterra (Oxford – Regno Unito) Ruben Zargaryan, Chiesa apostolica armena (Vagharshapat – Armenia) Tamara Grdzelidze, Consiglio ecumenico delle Chiese (Ginevra – Svizzera) Michel Van Parys, Monastère de l’Exaltation de la Sainte Croix (Chevetogne – Belgio) – Comitato scientifico Antonio Rigo, Università di Venezia (Venezia – Italia) – Comitato scientifico Adalberto Piovano, Monastero SS. Trinità (Dumenza, Varese – Italia) Aemiliane, Holy Monastery of the Entrance of the Theotokos (Washington – Stati Uniti) Amvrosia (Sulte), Monastero della Trasfigurazione del Signore e di Santa Barbara (Montaner, Treviso – Italia) Anastasia Cucca, Carmelo Santo Stefano (Ravenna – Italia) Anna Maria Cànopi, Monastero Mater Ecclesiae (Isola San Giulio d’Orta, Novara – Italia) Antoine Lambrechts, Monastère de l’Exaltation de la Sainte Croix (Chevetogne – Belgio) Antonietta Maria Spanu, Abbazia di Viboldone (San Giuliano Milanese, Milano – Italia) Armand Veilleux, Abbaye Notre-Dame de Scourmont (Forges – Belgio) Arsenij (Sokolov) (Almada – Portogallo) Bertrand-Marie Gilloots, Abbaye Notre-Dame de Cîteaux (Saint-Nicolas-lès-Cîteaux – Francia) Claudio Soldavini, Monastero Santi Pietro e Paolo (Germagno,Verbania – Italia) Devis Rocco, Eremo di Tabiano (Lugagnano Val d’Arda, Piacenza – Italia) Dimitrious (Mansour), Monastery St. George and Cherubim (Saidnaya – Siria) Elie Ruel, Abbaye Notre Dame (Jouarre – Francia) Enzo Bianchi, Monastero di Bose (Bose, Biella – Italia) Ermolaj (Turcan) (Kovilj – Serbia) Gavriil, Iera Moni Metamorphoseos en Dolis (Kalamata – Grecia) Giuseppe Pegoraro, Abbazia di Santa Giustina (Padova – Italia)

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Partecipanti al convegno Ignatia, Holy Monastery of the Twelve Apostles (Karditsa – Grecia) Ioustinos Sinaites (Hicks), Monastero di Santa Caterina (Monte Sinai – Egitto) Irmengard, Holy Monastery of Saint Demetrios (Washington – Stati Uniti) Isaak (Zeina), Monastery St. George and Cherubim (Saidnaya – Siria) Isihije (Rogic) (Kovilj – Serbia) Jerotes (Popovic´ ) (Kovilj – Serbia) Judit Fejérdy, Ciszterci N˝ ovérek Boldogasszony Háza Monostor (Kismaros – Ungheria) Kallinikos (Roussos), Iera Moni Prophitis Ilias (Santorini – Grecia) Maddalena Casneda, Monastero del Santissimo Crocifisso e di Santa Maria (Citerna, Perugia – Italia) Maria Aurora Pierconti, Monastero Mater Carmeli (Biella – Italia) Maria Barbara Stella, Carmelo Santo Stefano (Ravenna – Italia) Maria Betel Papi, Monastero del Santissimo Crocifisso e di Santa Maria (Citerna, Perugia – Italia) Maria Clemente Moro, Abbazia di Viboldone (San Giuliano Milanese, Milano – Italia) Maria Cristiana De Gaspari, Monastero Mater Carmeli (Biella – Italia) Maria Donata Pomini, Monastero Mater Ecclesiae (Isola San Giulio d’Orta, Novara – Italia) Maria Lucia Feverati, Monastero Mater Carmeli (Biella – Italia) Maria Stancher, Monastero del Santissimo Crocifisso e di Santa Maria (Citerna, Perugia – Italia) Salome (Barzaghal), Sayde Monastery (Blemmana – Siria) Marilla Fiumana, Carmelo Santa Maria della Vita (Sogliano al Rubicone, Forlì-Cesena – Italia) Maristella Marchesini, Monastero Santa Maria (Poffabro, Pordenone – Italia) Marja Magdalena (Vrânceanu), Mânâstirea Podgoria Copou (Ias¸i – Romania) Martha Liena (Muceniece), Monastero della Trasfigurazione del Signore e di Santa Barbara (Montaner, Treviso – Italia) Mary, Saint Sunniva Skete (Fetlar – Regno Unito) Matrona, Holy Monastery of Saint George Karaiskake (Mavrommati – Grecia) Maximos (Papaioannou), Iera Moni Aghios Ignatios Anakasia (Volos – Grecia) Mihaela (Tofan), Mânâstirea Podgoria Copou (Ias¸i – Romania) Minke de Vries, Communauté de Grandchamp (Areuse – Svizzera) Nektarios, Iera Moni Metamorphoseos en Dolis (Kalamata – Grecia) Norbert Marie Constance, Petites Sœurs de Nazareth et de l’Unité (Saint-Laurent-lesBains – Francia) Odile Grunenwald, Petites Sœurs de Nazareth et de l’Unité (Saint-Laurent-les-Bains – Francia)

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Partecipanti al convegno Olga Romano, Monastero San Paolo (Massa Lubrense, Napoli – Italia) Parthenios Allati, Abbazia Sant’Anselmo (Roma – Italia) Placide Deseille, Monastère Saint Antoine le Grand (Saint-Laurent-en-Royans – Francia) Prodromos (Karamolegkos), Iera Moni Prophitis Ilias (Santorini – Grecia) Rita Mary Otorho, Monastero Mater Carmeli (Biella – Italia) Rosanna Volpato, Monastero Santa Maria (Poffabro, Pordenone – Italia) Sevastiani Apostolaki, Monastero della Trasfigurazione del Signore e di Santa Barbara (Montaner, Treviso – Italia) Spelaiotissa, Holy Monastery of Saint George Karaiskake (Mavrommati – Grecia) Thavoria, Holy Monastery of the Twelve Apostles (Karditsa – Grecia) Timotheos (Vrettos), Iera Moni Prophitis Ilias (Santorini – Grecia) Varvara Svitlana (Costicova), Monastero della Trasfigurazione del Signore e di Santa Barbara (Montaner, Treviso – Italia) Vasilije (Grolimund), Serbisch-Orth. Skite S. Spyridon (Geilnau – Germania) Zeno Motta, Monastero Dominus Tecum (Bagnolo Piemonte, Cuneo – Italia) Zita Binder, Ciszterci N˝ ovérek Boldogasszony Háza Monostor (Kismaros – Ungheria) Adami Luigi (Colognola ai Colli, Verona – Italia) Agoras Konstantinos (Atene – Grecia) Agosta Cesare (Bisegna, Aquila – Italia) Aidonis Aristotelis (Cernusco sul Naviglio, Milano – Italia) Artemi Eirini (Agios Dimitrios – Grecia) Asparuhov Asparuh (Vratza – Bulgaria) Badanin Mitrofan (S. Varzuga Terskij – Fed. russa) Bagration-Mukhraneli Irina (Mosca – Fed. russa) Bartholdi Paul e Irene (Nyon – Svizzera) Bibikov Mikhail (Mosca – Fed. russa) Boglut¸ Iulian (Bihor – Romania) Bolokhovskiy Nikolaj (Minsk – Bielorussia) Bontron Olivier (Lyon – Francia) Bouvet Danielle (St. Jean-en-Royans – Francia) Brusegan Giovanni (Padova – Italia) Canepa Luigi (Milano – Italia) Caspani Luigi (Costa Masnaga, Lecco – Italia) Cassinasco Ambrogio (Torino – Italia) Castronovo Giuseppe e Napoli Anna (Santa Flavia, Palermo – Italia) Cavaliere Nelly Giuseppina (Torino – Italia) Ωesnokov Aleksej (Guadiaro – Spagna)

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Partecipanti al convegno Charalampidis Konstantinos (Salonicco – Grecia) Chryssochoidis Kriton (Atene – Grecia) ΩilerdΔic´ Andrej (München – Germania) Cini Umberto (Roma – Italia) Coco Carmelo (Venezia – Italia) Dashevskaja Zoja (Mosca – Fed. russa) Dumitru Ioan Andrei (Sibiu – Romania) Fasiolo Athenagoras (Udine – Italia) Fedele Marisa (Milano – Italia) Ferro Maria Chiara (Pescara – Italia) Gagna Gian Maria (Brusnengo, Biella – Italia) Gavalas Damaskinos (Santorini – Grecia) Gavrin Filaret (Kiev – Ucraina) Gennarino Pietro e Marilena (Moretta, Cuneo – Italia) Genoni Gianfranco (Milano – Italia) Giannetto Maria Pia (Barcellona Pozzo di Gotto, Messina – Italia) Gobbi Maria Grazia (Envie, Cuneo – Italia) Gottardi Giovanni (Verona – Italia) Gribodo Carla (Rivoli, Torino – Italia) Gueit Jean e Anne-Marie (Bouc-Bel-Air – Francia) Hovorun Kyrill (Mosca – Fed. russa) Ianboukhtine Rachid (Issy-les-Moulineaux – Francia) Jung André (Ginevra – Svizzera) Kalaitzidis Pantelis (Volos – Grecia) Karakoulakis Evdokimos-Emmanuil (Atene – Grecia) Karbasova B. Tat’jana (San Pietroburgo – Fed. russa) Karmis Athanasios (Atene – Grecia) Kasimova-Zouchra Aikaterini (Atene – Grecia) Kockerols Gabriel (Anlier – Belgio) Konkiov Zahari (Sofia – Bulgaria) Kontoyannis Spyridon (Atene – Grecia) Kostadinov Nikolay (Vrasta – Bulgaria) Koumarianos Pavlos (Glyfada – Grecia) Kouraklis Meletios (Vari – Grecia) Koutsuras Gerbasios (Tessalonica – Grecia) Krasikov Anatolij (Mosca – Fed. russa) Kulikouskaya Tatiana (Sandigliano, Biella – Italia)

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Partecipanti al convegno Kulkova Natalia (Mosca – Fed. russa) Latushko Sergej (San Pietroburgo – Fed. russa) Lauritzen Frederick (Bologna – Italia) Lovera Sereno Maria (Saluzzo, Cuneo – Italia) Makar Mykola (Milano – Italia) Malafronte Giuseppe (Gragnano, Napoli – Italia) Malakhov Viktor (Kiev – Ucraina) Malavolti Gianni (Modena – Italia) Manikas Konstantinos (Atene – Grecia) Martinelli Paolo (Citerna, Perugia – Italia) Mausesian Sergey (Minsk – Bielorussia) Melchiorre Virgilio (Milano – Italia) Michalaga Despina (Atene – Grecia) Mihajlov Vihren (Sofia – Bulgaria) Misser Joan e Françoise (Bailleul – Francia) Mladenov Mladen (Vratza – Bulgaria) Molinier Nicolas (Saint-Laurent-en-Royans – Francia) Morbioli Piergiorgio (Cazzano di Tramigna, Verona – Italia) Movsesian Sergeij (Minsk – Bielorussia) Musina Larisa (Mosca – Fed. russa) Nummela Mikael (Helsinki – Finlandia) Pacini Andrea (Torino – Italia) Paleari Leonardo (Roma – Italia) Pandele Gabriel Dorin (Galat¸i – Romania) Papagheorghiou Fotios (Atene – Grecia) Papapostolou Chryssanthos (Atene – Grecia) Paparidis Anarghiros (Atene – Grecia) Papathanassiou Athanasios ed Eleni (Atene – Grecia) Pavuk Markell (Kiev – Ucraina) Pellegrini Giancarlo (Bologna – Italia) Pentzikis Gavriil e Arghirò (Salonicco – Grecia) Pessotto Zeno (Lutrano di Fontanelle, Treviso – Italia) Philippenko Michel (Nice – Francia) Pricop Cosmin Daniel (Bucarest – Romania) Prisciandaro Vittoria (Roma – Italia) Prochorov Gelian (San Pietroburgo – Fed. russa) Reati Fiorenzo Emilio (Brescia – Italia) Rosso Stefano (Torino – Italia)

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Partecipanti al convegno Rudi R. Tat’jana (San Pietroburgo – Fed. russa) Sangiorgi Maria Cecilia (Milano – Italia) Santomiero Chiara (Roma – Italia) Savova Lyudmila (Sofia – Bulgaria) Scarpa Marco (Venezia – Italia) Serafin Consuelo (Tamai di Brugnera, Pordenone – Italia) Seville Thomas (Mirfield – Regno Unito) Sheko Ekaterina (Mosca – Fed. russa) Sigov Konstantin (Kiev – Ucraina) Simonitto Sebastiano (Venezia – Italia) S¬awin´ska Magdalena (Slawatycze – Polonia) Smirnova Irina (Mosca – Fed. russa) Smytsnyuk Pavlo (Ivano-Frankivsk – Ucraina) Spiliopulos Takis e Maria (Eghion – Grecia) Spokoinyi Natalia (Berlino – Germania) Stathis Georgios e Anastasia-Agapi (Melissia – Grecia) Stavropoulos Evanghelos (Nea Makri – Grecia) Stefanov Krasimir Peev (Vratza – Bulgaria) Sutton Jonathan (Leeds – Regno Unito) Talalay Mikhail (Milano – Italia) Tasopoulos Anastasios (Atene – Grecia) Tchakaloff Katherine (Ginevra – Svizzera) Tsvetanov Vladislav (Vratza – Bulgaria) Tsypin Vladislav (Mosca – Fed. russa) Turco Emilia (Torino – Italia) Turner John (Frinton-on-Sea, Regno Unito) Valkova Milka (Vidin – Bulgaria) Valzania Sergio (Roma – Italia) Van Ael Joris (Gent – Belgio) Vassiliadis Petros (Salonicco – Grecia) Vela José (Timis¸oara – Romania) Veletzas Cherubin (Kerkyra – Grecia) Vlatzas Gheorghios (Salonicco – Grecia) Vodolazkin Evgenij (San Pietroburgo – Fed. russa) Worontzoff Ania (Firenze – Italia) Yakuntsev Vladimir (Mosca – Fed. russa) Zalevskyi Vadyim (Kiev – Ucraina) Zapal’skij Gleb (Mosca – Fed. russa)

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INDICE

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5 9 11 13 14 15 16 18 20 22 24 26 28 29 32

PREFAZIONE Messaggio del Patriarca ecumenico, Bartholomeos I Messaggio del Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Kirill I Messaggio del Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di stato Messaggio del Patriarca di Alessandria e di tutta l’Africa, Theodoros II Messaggio del Patriarca della Chiesa ortodossa romena, Daniel I Messaggio dell’Arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Ieronymos II Messaggio del Metropolita di Kiev e di tutta l’Ucraina, Volodymyr Messaggio del Catholicos di tutti gli armeni, Karekin II Messaggio dell’Arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams Messaggio del reverendo Olav Fykse Tveit, segretario generale del Consiglio ecumenico delle Chiese Messaggio dell’Arcivescovo Kurt Koch, Presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani Saluto del Cardinale Achille Silvestrini Saluto dell’Arcivescovo Antonio Mennini, rappresentante della santa Sede presso la Federazione russa Saluto in apertura del Convegno di Enzo Bianchi, priore di Bose

35

CHIESA ED ESPERIENZA MONASTICA Irinej Bulovic´

43

COMUNIONE E SOLITUDINE: DATI BIBLICI E LORO SVILUPPI NELLA CHIESA Petros Vassiliadis

373

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75

COMUNIONE E SOLITUDINE SECONDO BASILIO DI CESAREA Michel Van Parys

105

ISACCO DI NINIVE E IL SUO INSEGNAMENTO, TRA SOLITUDINE E COMUNIONE Sabino Chialà

127

CENOBIO E DESERTO NELLA TRADIZIONE MONASTICA BIZANTINA Kriton Chryssochoidis

145

COMUNITÀ ED EREMO NELLA TRADIZIONE MONASTICA OCCIDENTALE Armand Veilleux

155

VITA COMUNITARIA E VITA EREMITICA NELLA RUSSIA ANTICA (DALLE AGIOGRAFIE DEI SECOLI XI-XVII) Tat’jana B. Karbasova, Tat’jana R. Rudi

179

LA VITA DELLO “SKIT” NELLA RUS’ Elena V. Beljakova

199

OPTINA PUSTYN’ E L’EREMO DI SAN GIOVANNI BATTISTA: COMUNIONE E SOLITUDINE IN UN COMPLESSO MONASTICO UNITARIO Gleb Zapal’skij

213

UN’ESPERIENZA DI COMUNIONE NEL DESERTO ROMENO: PADRE CLEOPA DI SIHA˘STRIA (1912-1998) Serafim Joanta˘

231

UN ESICASTA DEL MONTE ATHOS AL CUORE DELLA CITTÀ: PADRE PORFIRIO KAFSOKALYVITA (1906-1991) Athanasios N. Papathanassiou

374

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255

COMUNIONE E SOLITUDINE NELLA TEOLOGIA GRECO-ORTODOSSA CONTEMPORANEA Konstantinos Agoras

269

PERSONA E COMUNIONE: PER UN’ANTROPOLOGIA DELLA FIDUCIA. GERUSALEMME E ATENE ANCORA INSIEME? Konstantin Sigov

291

INIZIAZIONE ALLA COMUNIONE ECCLESIALE OGGI: DALL’ISOLAMENTO ALL’APERTURA TRASFIGURANTE Kirill Hovorun

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EREMITA E CENOBITA: CONFLITTO O ARMONIA? Kallistos Ware

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VIVERE IN COMUNIONE, VIVERE IN SOLITUDINE. L’ESPERIENZA MONASTICA OGGI Tavola rotonda

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CONCLUSIONI Adalberto Mainardi

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SIGLE

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INDICE DEI NOMI

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PARTECIPANTI AL CONVEGNO

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