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Italian Pages 144 [73] Year 2010
Storie di cinema
italiana
Un ringraziamento a Francesco Pitassio e a David Bruni, che hanno seguito l’elaborazione e la stesura del volume, dando un contributo fondamentale. Grazie a Leonardo Quaresima per il conforto della sua lettura. A vario titolo ringrazio Marco Comar, Fabrizio Natalini e Gianandrea Sasso. Un ringraziamento speciale ad Arturo, insostituibile consigliere.
Mariapia Comand
Alla memoria di mio padre.
Commedia all’italiana Italiana Comitato scientifico: Silvio Alovisio, David Bruni, Mariapia Comand, Mariagrazia Fanchi, Giacomo Manzoli, Francesco Pitassio, Veronica Pravadelli, Federica Villa
Mariapia Comand Commedia all’italiana
© 2010 Editrice Il Castoro
viale Abruzzi 72, 20131 - Milano [email protected] www.castoro-on-line.it In copertina: Il boom (1963) Nell’impossibilità di rintracciare tutti gli aventi diritto, l’Editore si dichiara disponibile ad assolvere ai propri impegni e a regolare eventuali spettanze per quanto riguarda le immagini e i testi pubblicati nel presente volume. ISBN 978-88-8033-565-8
commedia all’italiana
QUEI PERDENTI CHE FANNO RIDERE. I PERSONAGGI
Passi che il colpo del secolo non vada a segno, c’è ben di peggio. I soliti ignoti (Mario Monicelli, 1958) si consolano con un piatto di pasta e ceci, ma gli altri? A uno gli cavano un occhio, un altro ci rimette il lavoro, per non dire di quello che perde addirittura la vita: parlo del poveraccio che crede ciecamente agli idola di Il boom (Vittorio De Sica, 1963), di quell’impiastro di Il vigile (Luigi Zampa, 1960) e di quello sventurato che ha avuto la brillante idea di accettare un passaggio da uno sconosciuto in Il sorpasso (Dino Risi, 1962). I personaggi della commedia all’italiana sono dei perdenti. Ancor prima di essere catapultati sulla scena della storia, sono delle comparse della Storia, figure marginali prima ancora che emarginati: ladruncoli, impiegatuncoli, militi ignoti o comuni mariti, tutti comunque provenienti dalle regioni dell’anonimato. Una volta consegnati al racconto, ai nostri personaggi tocca un destino infausto. Non gliene va mai bene una perché non sono in sintonia con l’universo in cui si muovono, che sia l’edonismo del miracolo economico, la religione della patria di La grande guerra (Mario Monicelli, 1959) o il precapitalismo di I compagni (Mario Monicelli, 1963). Cambia scenario ma la storia resta la stessa: se siamo durante il fascismo i nostri premono per entrarci ma sbagliano i tempi (Il federale, Luciano Salce, 1961) o i modi (La marcia su Roma, Dino Risi, 1962); se i tempi sono quelli delle Crociate (L’armata Brancaleone, Mario Monicelli, 1966), i nostri sono dei crociati tapini e inconcludenti. Non va male a tutti. Ma anche quelli che ce l’hanno fatta e sono perfettamente integrati nel sistema, non sembrano soddisfatti: vogliono più soldi come Il vedovo (Dino Risi, 1959) che vorrebbe essere tale per godersi i quattrini della moglie, come Il medico della mutua 7
(Luigi Zampa, 1968) famelico di pazienti. I perdenti sono perdenti, i vincenti sono infelici. O sono sconfitti secondo il mondo ideologico del racconto (e non ottengono i soldi, la macchina, il successo, cioè l’oggetto concreto del desiderio, l’obiettivo esteriore), o sono sconfitti entro i termini del racconto, perché non raggiungono quella felicità narrativa che placa il personaggio e la sua azione quando si realizza lo scopo sostanziale della vicenda, cioè il traguardo interiore. Né obiettivo esterno nel sistema ideologico sotteso al racconto, né interiore nel sistema narrativo. Silvio Magnozzi (Alberto Sordi), protagonista di Una vita difficile (Dino Risi, 1961) non sfugge alle regole: partigiano prima e spiantato giornalista di sinistra poi, persegue nobili ideali non accettando di vendersi al capitale; ma quando la moglie stanca di privazioni lo abbandona, si arrende diventando lacchè di un biechissimo industriale, per poi – alla fine – tornare sui propri passi. Il suo è un conflitto tra la “pagnotta” e la “bandiera”, tra i valori degli altri e i suoi. Narrativamente parlando Magnozzi vince, ma sul piano ideologico perde: non sarà un venduto, però resta uno spiantato. Stanno stretti nei loro panni. I padri non fanno i padri (e il pensiero corre al Perozzi/Noiret di Amici miei, Mario Monicelli, 1975), anche se ci provano (Il giovedì, Dino Risi, 1964). I celibi non vogliono sposare; i mariti bramano le “altre”. Spesso e volentieri si spacciano per quello che non sono: se colpevoli si professano innocenti (I soliti ignoti); qualora innocenti si sentono un po’ colpevoli (Crimen, Mario Camerini, 1960); le prostitute millantano di essere delle timorate di Dio (Bello onesto emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, Luigi Zampa, 1971); i ricchi, poveri (come Gianni/Gassman in C’eravamo tanto amati, Ettore Scola, 1974). E capita anche che siano gli altri a equivocare, come in Gli anni ruggenti (Luigi Zampa, 1962) dove un assicuratore viene scambiato per un gerarca in incognito. L’identità non è chiara né cristallina: è un rischio, un ingombro, un problema. In queste commedie in effetti sono in molti a fingere. In Il mantenuto (Ugo Tognazzi, 1961) un corteo funebre accompagna mestamente un feretro: ma quando ci avviciniamo ai convenuti, scopriamo che, per niente contriti, parlano di lavatrici e di calcio, del tutto presi dalle minutaglie della vita e nient’affatto compresi nel mistero della morte. Ancor più palesemente Il mattatore (Dino Risi, 1959) mette in scena – attraverso le tante identità assunte dal 8
protagonista, un truffatore istrione – l’idea dell’identità come pura rappresentazione. Alla base delle commedie all’italiana ci sarebbe dunque il nucleo problematico dell’identità sociale, il conflitto tra il singolo e il suo ingresso nell’arena pubblica, sia essa la collettività o l’autorità, che pure è sempre vissuta come cerbera e vessatoria. D’altronde questa lettura del genere ha trovato presso gli studiosi grande credito1. Non sono solo gli italiani piccolo-borghesi a essere doppi: film come L’incredibile avventura di Mr. Holland (The Lavender Hill Mob, Charles Crichton, 1951) o Monsieur Verdoux (Id., Charlie Chaplin, 1947) fanno pensare a una generale riflessione critica del cinema sui destini del singolo nei più ampi neo-scenari sociali, già a partire dal dopoguerra. Ma perché queste commedie – da Divorzio all’italiana (Pietro Germi, 1961) in poi – sono state qualificate con l’epiteto “all’italiana”2? Questo “disagio dell’identità” ha a che fare con l’italianità? Dietro gli stereotipi c’è un tentativo – a volte grossolano, a volte più raffinato – di raccontare un tratto profondo, noumenico del carattere nazionale, fondamentalmente negativo? Che poi, esiste? Se “all’italiana” significa invece approssimativo, impreciso e arruffato, non è questo il caso dei nostri personaggi (o almeno di molti di loro), che sono tecnicamente solidi, decisamente strutturati sul piano della sceneggiatura. Se il neorealismo invocava un personaggio in stretto rapporto con il tempo e con l’ambiente, oltre che con gli altri elementi narrativi (personaggi e oggetti), gli scrittori della commedia all’italiana onorano quella lezione poiché immergono il personaggio in una fitta rete di relazioni, all’interno del film e tra il film e il mondo a cui esso appartiene. La vicenda di I soliti ignoti non potrebbe prendere vita al di fuori dell’ambiente che descrive, quell’inedito skyline delle borgate romane con i palazzi in costruzione sullo sfondo. E non potrebbe prescindere dalla ragnatela di rapporti che si creano tra i personaggi e gli oggetti, volani e battiti del racconto: la “commare” (in gergo la cassaforte) è l’oggetto del desiderio ma il piano fallisce perché uno scambio di mobili (cioè altri oggetti) indirizza i ladri sulla parete sbagliata. I tre oggetti (ogni volta tre) che Mario/Renato Salvatori compra, indirettamente raccontano la sua condizione di orfano, “adottato” da tre badanti del brefotrofio. La chiave dell’appartamento in cui si deve svolgere il furto, cambia 9
di mano segnalando un diverso quadro dei rapporti, che da strumentali diventano affettivi: Peppe/Gassman la prende con l’inganno alla servetta ma la riconsegna al legittimo proprietario quando se ne innamora. Animare gli oggetti significa rendere palpitanti gli avvenimenti. Significa anche instaurare un rapporto di consonanza tra il personaggio e il suo intorno, facendolo risuonare attraverso le cose. In Una vita difficile Silvio Magnozzi torna al paese della moglie per riconquistarla, in occasione del funerale della suocera; è un arrivo piuttosto cafone, a clacson spiegato su un macchinone plateale; Silvio scende dall’auto e guarda con espressione triste e compiaciuta ora il corteo ora la capote dell’auto che lentamente sale, andando a tempo con la musica funebre: la capote è il paesaggio interiore di Sordi, esprime il lievitare del suo narcisismo a dispetto dell’apparente afflizione; e visualizza l’avvenuta reificazione del personaggio, il suo trasmutarsi in cosa, palesando la sua resa a quel mondo materialistico a cui in principio si opponeva. Questi fili che legano il personaggio al suo intorno, non si fermano al film, ma si irradiano al di fuori, raggiungendo la quotidianità degli spettatori, incorporando nella materia narrativa la cronaca del tempo, appoggiando (neorealisticamente) il fare e l’essere del cinema a un dato di realtà. È abbastanza frequente trovare visualizzato questo rapporto tra cinema e cronaca nei film, disseminati come sono di pagine di riviste e quotidiani del tempo: prendiamo a caso il fotogramma di A cavallo della tigre (Luigi Comencini, 1961) che riporta una pagina di «La tribuna illustrata» (fot. 1).
Anche l’ultimo fotogramma di I soliti ignoti è una pagina di quotidiano, su cui appare il titolo «I soliti ignoti», mentre il sommario recita «Col sistema del buco rubano pasta e ceci» (fot. 2).
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In effetti il soggetto nasce – sì dalla parodia di film celebri come Rififì (Du Rififi chex les hommes, Jules Dassin, 1955) – ma anche dalla cronaca dei tempi, dall’esplosione di microcriminalità che rimbalzava sulle pagine dei giornali. Un riferimento nel film “all’equipe milanese” – inserito in fase di ripresa e non presente nella sceneggiatura originale3 – sembra rimandare alla vicenda meneghina della banda di via Osoppo, che occupò le pagine dei giornali del tempo. L’immagine fotografica riportata dal settimanale «Epoca» (n. 388 del 9 marzo 1958, fot. 3) potrebbe essere scambiata per un fotogramma del film (fot. 4), tante sono le affinità d’ambiente, quasi citando l’ultima scena del film il quadrivio di strade che intersecava via Osoppo; d’altro canto il sequel del film, l’Audace colpo dei soliti ignoti (Nanni Loy, 1959), verrà ambientato proprio a Milano, ricalcando la tecnica del colpo utilizzata dalla banda meneghina. Il caso è un segno della spirale intermediale che si va facendo più stringente: i giornali del tempo – a proposito della rapina milanese – colpevolizzavano alcuni precedenti cinematografici (La rapina del secolo, Six Bridges to Cross, Joseph Pevney, 1955; La signora omicidi, The Ladykillers, Alexander MacKendrick, 1955), perché perniciosi modelli di ispirazione per i delinquenti.
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Certo è che le commedie all’italiana ripercorrono abbastanza fedelmente la cronaca di quegli anni: dietro il treno bloccato in galleria in Tutti a casa (Luigi Comencini, 1960) si intravede il disastro ferroviario di Balvano degli anni Quaranta; la tragedia dei minatori di Ribolla degli anni Cinquanta è un momento fondamentale di La vita agra (Carlo Lizzani, 1964); Il vedovo adombra il delitto Fenaroli; la frode miliardaria compiuta dall’ispettore dogale Mastrella e lo scandalo dell’aereoporto di Fiumicino del Sessanta si affacciano nei dialoghi di Il successo (Mauro Morassi, 1963); la vicenda Marzano è rievocata da Il vigile, anche se le autorità imposero di non fare espliciti riferimenti ai fatti4; i delitti d’onore motivano Divorzio all’italiana; per 12
arrivare ai riferimenti ai servizi segreti Sifar in Straziami ma di baci saziami (Dino Risi, 1968) girato a ridosso dell’inchiesta pubblicata su «L’Espresso» che portò alla luce il tentativo di colpo di stato noto come Piano Solo; come pure Vogliamo i colonnelli (Mario Monicelli, 1973) fa il verso al golpe Borghese, fallito nei primi anni Settanta. Riferimenti tanto precisi alla cronaca potenziano lo spazio di proiezione dello spettatore, che ritrova nel chiuso della finzione dei punti di fuga verso la propria realtà. Tra l’esperienza davanti allo schermo e quella della vita quotidiana si stabilisce un rapporto di continuità, ma è la pluridimensionalità emotiva e psicologica del personaggio che assicura l’identificazione dello spettatore. Come si è detto, il personaggio si sviluppa generalmente lungo un percorso scontato, lungo una linea orizzontale progressiva in realtà biforcuta, dove narrativo e ideologico vanno in parallelo, a volte si intrecciano e confliggono, ma approdano a un esito fallimentare, sempre il medesimo. È un paradigma drammatico, che la tipica mancanza di lieto fine della commedia all’italiana conferma. Su questa orizzontalità drammatica si innesta la verticale del comico, con piccoli sussulti, brevi interruzioni della corrente. A volte è uno scarto di saperi: lo spettatore vede quello che non vede il personaggio, per esempio l’incongruenza di certi comportamenti: in I soliti ignoti Cosimo/Carotenuto salta su un autoscontro a fianco di un bambino e gli intima perentorio «Segui quella macchina!», senza rendersi conto di essere su una giostra. La momentanea sincope del personaggio – una perdita di conoscenza e di coscienza rispetto al proprio contesto – risveglia il riso dello spettatore e gli affida una gratificante posizione di superiorità a danno, se così si può dire, del personaggio. Ma poi la stessa sorte tocca anche allo spettatore. Il nostro Magnozzi trascorre una notte insonne chiedendosi se sia il caso di pubblicare uno scottante articolo rischiando un’accusa per diffamazione. Dopo aver deciso di darlo alle stampe, euforico annuncia alla moglie: «Gli dò una botta a quelli che se la ricorderanno per tutta la vita». Stacco. Scena successiva, interno, giorno, aula di tribunale: lettura della sentenza di condanna per Magnozzi Silvio. Questa giustapposizione brutale di due enunciati in scene contigue, di cui il secondo rappresenta la secca negazione del primo – le “ultime parole famose” delle vignette, tipica antifrasi comica delle sceneggiature di Age e Scarpelli – sorprende lo spettatore quanto il personaggio, non solo perché 13
accade l’imprevisto ma perché si afferma il negato. Questa tecnica deve molto all’esperienza di vignettista di Furio Scarpelli, maestro del tempo e dell’antitesi comica: è evidente per esempio nella sua vignetta pubblicata sul «Marc’Aurelio» del 30 ottobre 1949, a p. 2. (fot. 5), in cui la frase «Su tutta la regione cielo serè…» viene negata/interrotta dal classico fulmine a ciel sereno.
Fot. 5
A dire il vero il modello strutturale della commedia è ancora più complesso: un impianto “largo”, ricco di echi e riferimenti, suscettibile di innescare identificazioni laterali: lo approfondiremo nell’analisi di Il sorpasso. Ha detto Corrado Alvaro: «L’italiano aspetta sempre una grande fortuna o avventura che non arriva. Ma non dispera»5. Sono un po’ così i personaggi della commedia all’italiana6, indomiti inseguitori di sogni che non si realizzano. Ma ci credono veramente? Magnozzi per esempio quand’è partigiano non ci pensa due volte ad abbandonare i propri compagni di lotta per rintanarsi nel mulino con la bella Elena. Finita la guerra però non ci pensa un secondo a tornare a Roma abbandonando l’amata. Non sembra insomma così convinto nella pratica di quello che professa in teoria. Come lui, anche gli altri. Non disperano, dice Alvaro, ma ci sperano veramente? Non sembrerebbe, forse per questo girano a vuoto. 14
MEZZI/MOVIMENTI
Fra il 1955 e il 1970 quasi 25 milioni di italiani si spostano da un comune a un altro, circa 10 milioni lasciano la propria regione. Ci si sposta prevalentemente dal Sud al Nord o dai piccoli centri alle grandi aree urbane. Le automobili sono 2 milioni nel 1960 e 5 milioni e mezzo nel 19657. Con la Fiat Seicento di Dante Giacosa, immessa sul mercato nel 1955, gli italiani accedono alla motorizzazione di massa. Luciano Emmer dedica al fenomeno un’inchiesta televisiva – la tv è nata da pochi anni – dal titolo Noi e l’automobile (1962). Lo spot della Nuova Cinquecento propone come testimonial una perfetta mammina e si conclude con il pay off: «Tutti possono dire ora della Nuova Cinquecento: è per me», slogan significativo, secondo Zucconi, dell’individualismo italico riveduto e corretto «in chiave consumistica e prefemminista»8. La straordinaria mobilità che caratterizza il lavoro va di pari passo con quella del tempo libero. Lo schermo è invaso dai luoghi inediti della modernità, i “nonluoghi”, territori dell’anonimato dove tutti siamo estranei e stranieri, come l’autogrill (“Il pollo ruspante”, Ugo Gregoretti, episodio di RO.GO.PAG, 1963) o i grandi magazzini (La vita agra); ma accanto a questi resistono o si riplasmano anche i “luoghi terzi”9, spazi pubblici non istituzionali, paesaggi della socialità libera, come i bar, i ristoranti, i club o i saloni di bellezza (L’ombrellone, Dino Risi, 1965). I nuovi spazi ridiscutono il mondo: cambiano gli orizzonti, cadono antiche divisioni (frontiere, culture, identità) ma nel contempo resistono vecchie abitudini. Nella scelta dell’habitat si esprime l’habitus: ecco che il bar (quello di Il vigile e dei bischeri di Amici miei) è ancora uno spazio placentare e avvolgente, epicentro di un microcosmo identitario. Se il vitalismo è una delle coordinate che meglio definiscono il periodo, la commedia all’italiana ne registra tanto l’euforia quanto l’alea. 15
L’automobile è icona della conquista di nuovi spazi, geografici e sociali (è lo status symbol per eccellenza); è vettore fisico e metaforico di istanze moderniste, ne identifica gli aneliti e le ansie più profonde. Porta in sé un germe di inquietudine: in Il diavolo (Gian Luigi Polidoro, 1963) lugubri limousine nere danzano un rischioso valzer sopra un lago ghiacciato. Ma è anche un’opportunità per viaggi iniziatici come in Il giovane normale (Dino Risi, 1969). L’automobile è a immagine e somiglianza di un presente individualista ed esuberante; ma specialmente nella prima metà degli anni Sessanta racchiude in sé ancora un potenziale ampio di significati e valori: è slancio, conquista, è volubilità e instabilità. Risi, in particolare, restituisce il “sentimento del possibile” proprio del tempo: non c’è nel suo cinema nessuna mistica della nostalgia, una sensazione che invece avvolge di frequente la produzione, non solo cinematografica, del periodo. Via via però l’automobile si trasforma da simbolo ambivalente in mostro di lamiera che impedisce ogni movimento: in “La traversata” (episodio di Made in Italy, Nanni Loy, 1965) una famigliola che vuol attraversare la strada per andare a mangiare un gelato, sembra dover compiere un’impresa impossibile, quasi fosse il passaggio del Mar Rosso (per fortuna alla testa dell’impresa c’è un’agguerrita Anna Magnani). Amaramente conclude Oreste/Mastroianni in Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) (Ettore Scola, 1970): «Abbiamo trasformato il cuore di una città storica in un carosello infernale per le macchine di Gianni Agnelli». L’aereo è l’immagine avveniristica di un futuro che sembra una brutta copia del passato; è visto come l’arrivo di una ricchezza che non appartiene (Lo scopone scientifico, Luigi Comencini, 1972) o come il ritorno di un trascorso di cui non ci si può liberare: in aereo i mafiosi mandano l’ex picciotto a saldare il suo debito d’onore in Mafioso (Alberto Lattuada, 1962), in aereo La ragazza con la pistola (Mario Monicelli, 1968) viene spedita all’estero per incastrare – oppure uccidere – il “fetuso” che non la vuole sposare. Verso la fine del decennio, quando la commedia all’italiana si intride di umori neri, l’aereo diventa un cavallo di Troia cattivo, imbottito di esplosivo, attraverso cui si fa sentire lo spettro del terrorismo (“Senza parole”, episodio di I nuovi mostri, Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola, 1977). Sembrano viaggi immobili quelli della commedia all’italiana, mez16
zi-viaggi, c’è spesso una sostanziale stasi narrativa dietro l’apparente movimento diegetico. Molti sono per esempio gli arrivi carichi di attese che andranno deluse: con l’arrivo di un treno iniziano La vita agra, Divorzio all’italiana e La visita (Antonio Pietrangeli, 1963), le cui vicende poi non genereranno un sostanziale cambiamento di vita per i protagonisti. In I compagni il treno porta e porta via le speranze di cambiamento, ed è spartiacque tra i due momenti: da un treno scende il professor Senigallia (Marcello Mastroianni) con i suoi propositi rivoluzionari; sotto a un treno finisce l’operaio Pautasso (Folco Lulli) segnando la svolta drammatica della vicenda e l’affievolirsi delle rivendicazioni proletarie; e infine un treno si porta via anche Raoul (Renato Salvatori), in una chiusa sentimentale agrodolce girata come se fosse cinema muto complice lo sferragliare del treno sovrastante. Un’associazione inevitabile nel periodo è quella del treno con l’emigrante: in questo caso la metafora diventa terreno di conflitto, può essere usata a servizio di una visione favolistica dell’esodo o al contrario. Il botta e risposta in musica tra Sergio Endrigo e Bruno Lauzi ne è un esempio: Lauzi canta nel 1965 La donna del Sud: Una donna di nome Maria/ È arrivata stanotte dal Sud/ È arrivata col treno del sole/ Ma ha portato qualcosa di più/ Ha portato due labbra di corallo/ E i suoi occhi son grandi così/ Mai nessuno che l’abbia baciata/ A nessuno ha mai detto di sì. A questo ritrattino oleografico, Endrigo risponde a pochi anni di distanza con Il treno che viene dal Sud, citando per ribaltarlo il testo del collega: Il treno che viene dal Sud/ Non porta soltanto Marie/ Con le labbra di corallo/ E gli occhi grandi così/ Porta gente nata tra gli ulivi/ Porta gente che va a scordare il sole/ Ma è caldo il pane/ Lassù nel Nord. La querelle intorno al treno è un piccolo indice dell’utilizzo sempre più strategico del narrativo di massa. Il confronto tra visioni diverse della realtà si svolge ora con maggiore frequenza attraverso e dentro lo spazio dei media. Per tutti gli anni Sessanta il cinema mantiene un ruolo leader nell’interpretare le spinte più progressive, al contrario della televisione percepita dal pubblico come organo della cultura più retriva e codina10. Nel 1961 va in onda un’inchiesta televisiva di Vittorio Zincone e Giuliano Tomei, Verso la metropoli che, volendo uscire dal pedagogismo convenzionale della Rai, si sforza di raccontare l’altra faccia del boom esplorando il fenomeno 17
dell’emigrazione interna: gli autori seguono il viaggio in treno dei meridionali che salgono al Nord, il tono è comunque consolatorio e rassicurante, l’accento posto sulle speranze di un futuro migliore. La commedia all’italiana invece, tra tutti i possibili viaggi ferrioviari di emigrazione, sceglie quelli del ritorno dell’emigrante – come in Mafioso – dove domina la negazione assoluta della speranza di riscatto, sia esso un cambio di mentalità o di condizione di vita. Senza dubbio i temi e i toni realistici della commedia all’italiana testimoniano la volontà transitiva del genere. Il pubblico ritrovava il proprio mondo quotidiano nell’universo della finzione; e spesso ritrovava nei film anche se stesso in quanto spettatore. Saltando di film in film, di commedia in commedia, mettendo insieme i ritratti dello spettatore in sala, si può documentare l’evoluzione dell’homo cinematographicus nazionale: dallo spettatore adorante del cinema muto che nutre una cieca devozione per la stella del muto Francesca Bertini (La grande guerra), allo spettatore “simbiotico” che cerca il buio della sala per lasciarsi andare alle effusioni al riparo dalle limitazioni paterne (fot. 6, Straziami ma di baci saziami), al cinefilo politicizzato dei primi cineclub (Stefano Satta Flores in C’eravamo tanto amati); La dolce vita di Fellini (1960), citata in Divorzio all’italiana, rappresenta una cesura profonda (fot. 7); in seguito tanto rapimento davanti allo schermo è difficile trovarlo, non certo nello spettatore distratto di “Scenda l’oblio” (episodio di I mostri, Dino Risi, 1963) e neppure in quello solipsistico degli anni Settanta raccontato da Il comune senso del pudore (Alberto Sordi, 1976) (fot. 8).
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Fot. 8
La commedia all’italiana sembra voler dire al suo spettatore che il film è qualcosa che gli appartiene. Così, in C’eravamo tanto amati mentre sullo schermo scorrono le immagini di Schiavo d’amore (Of Human Bondage, Ken Hughes, 1964) gradualmente le voci dei protagonisti dello schermo vengono “doppiate” dai pensieri degli spettatori in sala (Antonio/Manfredi e Luciana/Sandrelli), che si “parlano” attraverso i volti dei divi, ma per raccontarsi in realtà la loro storia.
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IL COMICO ALL’OPPOSIZIONE, L’OPPOSIZIONE AL COMICO
Nel 1977 Mario Monicelli e Nanni Moretti si incontrano nella trasmissione televisiva, Match: Alberto Arbasino modera il contraddittorio. A confronto sono due generazioni di cineasti, due diverse idee di cinema e di pubblico; a un certo punto Arbasino chiede se la commedia all’italiana abbia contribuito alla maturazione della coscienza politica e del costume degli italiani o se al contrario abbia finito con l’assolverli proprio da quei vizi che intendeva stigmatizzare. Si sa come la pensi Moretti: proprio in quel periodo stava realizzando Ecce bombo (1978) in cui il suo alter ego scenico aggredisce un tipo qualunquista gridandogli: «Te lo sei meritato Alberto Sordi!», implicitamente tacciando Sordi di aver favorito una sostanziale sanatoria dei difetti nazionali, all’insegna di un consolatorio “così fan tutti”. La domanda di Arbasino è un eterno ritorno, è una costante fissa nella critica e nella storiografia, una fissazione che ha polarizzato il discorso intorno alla commedia all’italiana riducendolo a un ragionamento binario. Al manicheismo ha contribuito molta critica militante degli anni Cinquanta e Sessanta, vittima di un dogmatismo ideologico che difendeva a oltranza il cinema d’autore rifiutando aprioristicamente le pratiche ritenute più “basse”, come quelle comiche, tradendo di fatto una visione direttiva e pedagogica del cinema. Ma quella linea critica è sopravvissuta anche in seguito. Italo Calvino ha detto a proposito della commedia di costume degli anni Sessanta: «Nella più parte dei casi la trovo detestabile, perché quanto più la caricatura dei nostri comportamenti sociali vuol essere spietata tanto più si rivela compiaciuta e indulgente»11. Richiama giustamente ai distinguo Goffredo Fofi, affermando che «talvolta la commedia ha troppo perdonato, raramente ha davvero condannato, ma quando lo ha fatto ha lasciato 20
un segno nel processo di civiltà e non di viltà che il Paese voleva affrontare. Più che non il cinema d’autore»12. Per non limitarsi al caso per caso, cercando di individuare delle dinamiche più generali, converrà allargare il raggio di analisi e prendere in considerazione il contesto complessivo dell’epoca (la situazione nella quale l’industria si trovava, ma anche la formazione e la personalità intellettuale dei quadri), oltre a ragionare sulle forme e le possibilità del comico. Qual è il quadro nel quale si muovono gli autori della commedia all’italiana? La guerra fredda degli anni Cinquanta crea in Italia un clima conservatore: la Democrazia Cristiana occupa gli apparati chiave dello stato, inclusi quelli culturali. Il controllo governativo sulla produzione cinematografica è pressante, tanto che Nanni Loy parla addirittura di una linea ždanoviana13. La censura degli anni Sessanta non è più quella del decennio precedente (però i funzionari del Ministero sono invece spesso ancora quelli del fascismo…); tuttavia la compiuta libertà d’espressione stabilita dalla Costituzione è ancora lontana, come dimostra la vicenda censoria di Rocco e i suoi fratelli (Luchino Visconti, 1960). Dopo i fatti del luglio Sessanta e la caduta del governo Tambroni, con l’avvio dell’esperienza del centrosinistra, il clima si fa più libertario. È per esempio curioso che l’adattamento di un racconto di Calvino, Furto in pasticceria, alla metà degli anni Cinquanta venisse respinto a Blasetti, che lo voleva includere in Tempi nostri (1954), perché la ruberia si concludeva con ladri e celerini che mangiavano insieme bignè; e di lì a pochi anni invece diventa senza problemi fonte di ispirazione per I soliti ignoti14. Non che I soliti ignoti sfugga ai tagli della censura, a partire dal titolo originario Le madame (nello slang malavitoso, i poliziotti) che deve essere modificato perché i censori ritengono che possa costituire un’indiretta offesa al decoro della polizia. Il titolo verrà cambiato, con un notevole danno per la produzione che l’ha già utilizzato per il lancio pubblicitario, come spiega il produttore Cristaldi scrivendo al referente De Pirro della Direzione Generale dello Spettacolo. La produzione si rifiuta invece di sottoporre il copione al parere della P.S.. E fortunatamente non arretra davanti agli altri rilievi dei catoni, che puntano il dito contro scene giudicate pericolose perché potrebbero costituire «una vera e propria scuola di delitto»: 21
viene così portata a termine la sequenza in cui Mastroianni mostra col proiettore un filmato ballonzolante realizzato sul luogo del crimine, mentre Totò e gli altri delinquenti di mezza tacca cercano di darsi un tono da professionisti del crimine15, predicando un colpo “sss-scientifico” come ripete ossessivamente Peppe/Gassman. Accanto alla censura governativa e a quella degli organismi preposti dalla legge, va considerata anche quella cattolica, esercitata dal Centro Cattolico Cinematografico (C.C.C.), che ha un peso non trascurabile: oltretutto le sale cinematografiche parrocchiali tenute a rispettare le indicazioni del C.C.C. costituiscono una parte consistente del circuito distributivo. Nonostante le aperture conciliari del periodo, l’ostracismo a certa produzione cinematografica resta inalterato. Solo per citare alcune bocciature delle Segnalazioni cinematografiche: I mostri viene bollato come film gravemente immorale «per un certo tono di cinismo e di ineluttabilità che pervade tutto il film»; I compagni sconsigliato «perché abile tentativo di insinuante apologetica marxista»; su Il boom pesano forti riserve morali perché «la malignità zavattiniana – che non risparmia sentimenti e cose sacre – diventa ingiusta e crudele nelle frecciate antireligiose e nella mescolanza di sacro e profano»16. La commedia all’italiana si afferma in mezzo a queste strettoie, tra le aperture e le chiusure del periodo. Un punto di equilibrio in un traffico di compromessi, in cui il comico svolge un ruolo rilevante. Il caso di Divorzio all’italiana insegna. La sceneggiatura arriva alla Direzione Generale del Cinema, con il titolo provvisorio di Capriccio all’italiana: i censori esprimono preoccupazione «per il sottinteso polemico, che si schiera a favore di un più aperto accoglimento delle istanze divorzistiche nel nostro Paese» ma nel contempo sembrano rassicurati dal «carattere farsesco e paradossale», su cui i produttori molto insistono17. Il carattere grottesco dell’opera sembra ai loro occhi essere garanzia di inoffensività. In un certo senso la commedia all’italiana ha trovato nel comico una protezione? È stata, usando le parole di Furio Scarpelli «un’offesa e anche una difesa»18. Difesa nel senso che il comico sembra aver funzionato da “riduttore” delle resistenze, istituzionali o spettatoriali che siano. Questo non implica un’intenzione programmatica, né un discorso ex cathedra. Niente di più lontano dal modo di essere 22
e pensare dei Risi, dei Monicelli, degli Age e Scarpelli, degli Scola e Maccari, un gruppo poco incline a teorizzazioni dogmatiche, che vede nel comico invece la possibilità di un rapporto non professorale o pedante con il pubblico. Anzi, il cinema impegnato è uno dei loro bersagli prediletti: in Il sorpasso Bruno/Gassman dice di essersi fatto una pennichella con L’avventura di Antonioni (1960), mentre La terrazza (Ettore Scola, 1980) disegna una caricatura del regista engagé, il dottor Campi autore del film L’apostata, il cui titolo è piuttosto eloquente di una certa criptica pretenziosità. E non si può dimenticare l’episodio “Presa dalla vita” di I mostri. Non è ovviamente il cinema d’autore in quanto tale a essere dileggiato: si
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pensi agli omaggi intertestuali verso un “classico d’autore” come La dolce vita, citata nel titolo di Una vita difficile, in Divorzio all’italiana e in C’eravamo tanto amati; ma una certa spocchia dottrinale, certi pregiudizi intellettualistici che al fondo tradiscono una visione paternalistica del pubblico. Ecco che allora lo sberleffo colpisce soprattutto gli schematismi critici, come dimostrano le vignette di Scarpelli pubblicate sul mensile «La fiera del cinema»: nella prima (fot. 9), pubblicata nel gennaio 1960, a p. 30, il critico, nutrito di imponenti letture, si trova a dover sostenere impossibili equilibrismi “di penna”; nella seconda (fot. 10), uscita nel marzo 1960, a p. 37, si ironizza su come le medesime beceraggini (sparatorie,
donnine discinte, eccetera) vengano discrezionalmente sdoganate assurgendo senza motivo al rango di “cinema impegnato”. Le esperienze di questi scrittori, registi e attori nelle retrovie goliardiche dello spettacolo italiano, li ha allenati alle pratiche di demitizzazione. E lo stesso mondo del cinema non può sfuggire al gioco. Nelle commedie all’italiana sono i set scalcinati a essere oggetto del racconto (Risate di gioia, Mario Monicelli, 1960), la noia delle comparse nell’attesa del ciak (Io sono fotogenico, Dino Risi, 1980), i momenti morti (C’eravamo tanto amati), le pause della troupe intorno al “cestino” (Una vita difficile). Dietro l’irriverenza si fa strada la predilezione per certo cinema: quello popolare ben identificato da Domenica d’agosto (1950) di Luciano Emmer (citata in Camera d’albergo, Mario Monicelli, 1981), il neorealismo chiamato in causa a più riprese da Ettore Scola o ancora il cinema muto omaggiato di continuo da Monicelli. E c’è anche un’analisi lucida del qualunquismo (di ritorno) di molta intellighenzia, che Nanni Loy così sintetizza: «Gli è che ormai, contagiati dai mali cronici della nostra cultura erudita, provincialismo, onanismo, libertinismo intellettuale, abbiamo ricominciato a tollerare e ad avallare i soliti equivoci ed errori di fondo: una concezione elitaria, snobistica della cultura monopolio di pochi chierici, pochi addetti privilegiati che – privi di ogni contatto con le esigenze, con le tensioni, la domanda del Paese reale – decidono per tutti; il trapianto e l’applicazione meccanica al cinema (…) di codici e modelli soltanto grafici e letterari; numerose pretese crociane come la pretesa distinzione fra opere “artistiche” e altre “non artistiche”. La capacità artistica di “fabbricare” è diventata una colpa, la parola professionismo è diventata sinonimo di degradazione commerciale»19.
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EREDITÀ, INFLUENZE, PERCORSI. GLI AUTORI
La commedia all’italiana porta a sintesi esperienze di natura e provenienza diverse: fonde il tragico nel comico, innesta nelle forme popolari dello spettacolo una sostanza culturale (si pensi a L’armata Brancaleone), volge in commedia la lezione e il metodo d’inchiesta del neorealismo. Tutto ciò non accade in astratto ma dentro un ambiente fluido che favorisce l’incontro e lo scambio, in un’industria – per sua debolezza o per sua ricchezza – non rigidamente strutturata, che rende naturali per chi vi opera i passaggi tra un comparto e l’altro. Le dinamiche si rendono evidenti quando si seguono i percorsi dei protagonisti. Nella genesi della commedia all’italiana, oltre al cinema, vi sono alcuni ambienti nevralgici: la rivista satirica, l’illustrazione, la radio, l’avanspettacolo e il teatro di rivista. La rivista satirica «Marc’Aurelio»20 raccoglie nella propria redazione romana giornalisti e vignettisti tra i quali Vittorio Metz, Marcello Marchesi, Steno, Fellini e figure che diventeranno fondamentali per la commedia all’italiana come Age e Scarpelli o Maccari e Scola (due tra le coppie di sceneggiatori più titolate). Tra il «Marc’Aurelio» e il cinema è un viavai frenetico fin dai primi anni Quaranta, un passaggio continuo dalle vignette agli instant-script, tanto che Steno ironizza: «Oh famoso sceneggiatore cinematografico, guardiamoci un momento negli occhi. Mi affascini (…) quando scrivi quarantaquattro sceneggiature contemporaneamente correndo rudemente in tassì da un grande albergo all’altro dove quarantaquattro celebri registi aspettano avidi delle tue eschilee scene e dei tuoi michelangioleschi gag»21. Steno lavora come regista e sceneggiatore con Monicelli; dal loro sodalizio nascono molti dei più riusciti film di Totò, come Totò cerca casa (1949), Guardie e Ladri (1951) e Totò e i re di Roma (1952), ritenuti da più parti anticipatori della 26
commedia all’italiana: se si vanno a guardare gli sceneggiatori che vi prendono parte il legame è evidente. Anche la radio arruola le penne del «Marc’Aurelio»: Scola22 scrive i testi radiofonici per Alberto Sordi, Maccari23 instaura un fortunato sodalizio radiofonico con Fellini. Parallelamente scrivono testi e gag per l’avanspettacolo e per il teatro di rivista, altro luogo decisivo di formazione e di passaggi, rievocato in Vita da cani (Steno, Monicelli, 1950). Tra gli sceneggiatori del film figura anche Sergio Amidei, noto in genere per il suo contributo al neorealismo, meno per il ruolo carismatico esercitato nell’ambiente, una vera “stella polare”. Nel cinema dai tempi del muto, Amidei esprime molto presto una spiccata inclinazione al realismo24, che si manifesterà compiutamente nelle opere scritte per Rossellini; nel tardo dopoguerra scrive insieme a Vitaliano Brancati i film di Zampa, Anni difficili (1948) e Anni facili (1953) in cui convivono scrupolo realistico, satira e attenzione al mondo piccolo-borghese; lo stesso interesse per il popolo minuto è avvertibile nei suoi copioni per Emmer, oltre a Le ragazze di piazza di Spagna (1952), Domenica d’agosto, spaccato di vita quotidiana che si contraddistingue per l’abile struttura narrativa, componendosi di episodi intrecciati. Sarà poi uno degli scrittori di punta della commedia all’italiana, disegnando alcuni dei ritratti di maggior successo dell’italiano piccolo-borghese, come Il medico della mutua. Intorno ad Amidei si formano e consolidano sceneggiatori come Rodolfo Sonego25 (poi sceneggiatore di fiducia per Sordi), o come Age e Scarpelli, che con Amidei scrivono per Gianni Franciolini Racconti romani (1955) e Racconti d’estate (1958), proprio mentre stanno sceneggiando Totò e Carolina (Mario Monicelli, 1955) e La banda degli onesti (Camillo Mastrocinque, 1956), concomitanza significativa per comprendere il processo delle influenze. Forse è più facile comprendere i legami tra la commedia all’italiana e le esperienze che la precedono, seguendo le tracce della scrittura, ripercorrendo attraverso i percorsi degli autori la germinazione degli interessi, la messa a fuoco dei modi e delle forme: questa rapida panoramica vuole tratteggiare le dinamiche più che coprire il fenomeno nella sua ampiezza. I titoli che sono andati affiorando non sono casuali né privi di significato, anzi disegnano una direttrice che percorre gli anni Quaranta e Cinquanta e che 27
porterà al fiorire della commedia all’italiana: si scorgono in controluce tensioni, tradizioni e contaminazioni. Se zoomiamo sul caso specifico, quello della coppia principe della commedia all’italiana, cioè Age e Scarpelli, il tutto si fa ancora più nitido. Furio Scarpelli è figlio d’arte: il padre Filiberto Scarpelli, antifascista e anticlericale, umorista e illustratore, attraversa il teatro futurista, diventando direttore della rivista satirica «Il Travaso», a cui collaborerà lo stesso Furio, a sua volta abile vignettista e giornalista (per «Tifone», «Bertoldo», «Settebello», «Cantachiaro», «Avanti!», «Vie nuove») prima di diventare scrittore per il grande schermo. La capacità fulminante di Furio Scarpelli di coniugare satira di costume e spirito civile muovendosi nel territorio del popolare, affonda dunque le radici in una tradizione lontana. Age (Agenore Incrocci) è figlio di attori del varietà, la madre recitava a fianco di attori come Ettore Petrolini o Ferruccio Benini; l’esperienza del palcoscenico si rivela essenziale per carpire le propensioni del pubblico e per appropriarsi dei meccanismi segreti dello spettacolo: le accelerazioni, le pause, il climax, insomma le cause e gli effetti dei congegni drammaturgici. Ancor più, attraverso il proprio girovagare, sperimenta l’esperienza esistenziale e sociale degli italiani di quegli anni, contraddistinti da un forte dinamismo e da una profonda riconfigurazione del sentimento di appartenenza al proprio territorio. «Imparavo con facilità tutti i dialetti, e parole nuove, apprendevo atteggiamenti, abitudini, costumi di bambini tanto diversi tra loro e con loro mi misuravo, oggi a Torino, due giorni dopo a Palermo»26. Nei ricordi di Age bambino si intravede in embrione quell’identità “diasporica”27 che accompagnerà gli italiani del miracolo economico, alle prese con un processo di rimappatura del presente, costretti a negoziare tra culture, abitudini e realtà molto diverse rispetto a quelle del passato. La lingua filmica che Age e Scarpelli inventeranno sarà proprio riflesso ed effetto di quell’identità plurale, frutto di ibridazioni e contaminazioni, che costituisce una delle essenze più profonde dell’italianità. La commedia all’italiana è dunque intimamente legata alla nuova Italia nata dallo choc del boom; il che ci porta a fissare una cesura chiara rispetto ai precedenti cinematografici, pur nel solco della continuità: ha certo un valore simbolico che il «Marc’Aurelio» – 28
fucina di tanti protagonisti della commedia all’italiana – chiuda proprio nel 1958, anno in cui esce I soliti ignoti e che in quegli stessi anni anche il teatro di rivista vada in sofferenza. Attraverso quelle esperienze però – e quelle parallele nel cinema popolare – si è formato il gruppo produttivo e artistico più attivo; un gruppo fortemente unitario, come attestano anche i lavori scritti e diretti in forma collettiva come Signore e signori, buonanotte (1976) o I nuovi mostri (1977); un gruppo coeso ma aperto (che includerà anche Risi, Scola, Germi, Loy, Luigi Comencini, Leo Benvenuti e Piero De Bernardi, Luciano Salce, eccetera), affine dal punto di vista umano, morale e ideologico, accomunato da una formazione simile da cui discende un’idea antielitaria del cinema, uno spirito di servizio allo spettacolo maturato sul campo e convinzioni radicali sulle possibilità del comico: «l’umorismo nasce dalla libertà e la libertà dall’umorismo, dove manca l’uno manca l’altro», si dice nel film A cavallo della tigre. Di certo tutte le ascendenze si sciolgono in un universo compatto e originale, in un discorso coerente e compiuto, in cui si avverte il dialogo anche attraverso le riprese e i rimandi interni, non necessariamente all’interno della filmografia del singolo: Questa volta parliamo di uomini (Lina Wertmüller, 1965) è una risposta a Se permettete, parliamo di donne (Ettore Scola, 1964); La ragazza con la pistola di Monicelli (1968) si rifà a Sedotta e abbandonata di Germi (1964); Una vita difficile sembra iniziare dove era terminato Tutti a casa e proseguire in C’eravamo tanto amati. Questo discorso si precisa dentro e grazie a un contesto storico inedito: la spinta economica (il 1958 è l’anno di inizio del boom) e il processo di modernizzazione del Paese determinano trasformazioni epocali; nuovi costumi si impongono rendendo obsoleti antichi quadri mentali (nel 1958 per esempio viene approvata la legge Merlin; è di quello stesso anno lo spogliarello della ballerina turca Aiché Nanà al Rugantino di Roma, gesto che inaugura la “dolce vita” romana); nuove esigenze si fanno strada e la politica sembra ora volergli dare risposta, ora voler resistere alla cultura del presente. Il cinema italiano fa il suo ingresso in un decennio – quello degli anni Sessanta – che è uno degli zenit della sua storia.
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UN SUCCESSO ITALIANO. PRODUTTORI, DIVI E SPETTATORI
La commedia all’italiana rappresenta uno dei momenti aurei della produzione nazionale. Il cinema italiano è dalla fine degli anni Cinquanta in rapida ascesa e nella stagione 1961-1962, nel mercato delle prime visioni, la quota di mercato dei film italiani e delle coproduzioni sopravanza per la prima volta i film marcati Usa28. Il sistema misto pubblico-privato funziona anche grazie alla capacità di interlocuzione dei produttori. Dino De Laurentiis, cresciuto alla scuola della Lux, è tra quelli che danno un contributo decisivo al genere, importando nella commedia una concezione spettacolare del cinema, incrementando il livello qualitativo del prodotto medio come dimostra La grande guerra. Franco Cristaldi, con la Vides, impone una visione illuminata rischiando in proposte tematicamente innovative come nel caso di I soliti ignoti, di I compagni, o dei più noti film di Germi (per esempio Divorzio all’italiana, che vince l’Oscar per la migliore sceneggiatura). Mario Cecchi Gori, negli anni precedenti direttore di produzione alla Ponti-De Laurentiis, fonda nel 1960 la Fair Film e grazie a un contratto decennale con Gassman29 miete un successo dietro l’altro, producendo i fortunati film della coppia Risi-Gassman o la serie di L’armata Brancaleone e consente tra l’altro l’esordio di Scola alla regia. Si affacciano sulla scena nuovi produttori: Pio Angeletti per esempio, entrato giovanissimo alla Lux e poi segretario di produzione per Cecchi Gori, fonda nella seconda metà degli anni Sessanta con Adriano De Micheli la International Dean Film, produttrice di molti dei film di Scola e Risi. C’è una certa mobilità dentro l’industria: Cecchi Gori subentra a De Laurentiis nella produzione di Il sorpasso, Petri doveva fare I mostri, Risi Il maestro di Vigevano poi realizzato da Elio Petri nel ’63; 30
Risate di gioia era una sceneggiatura scartata da Comencini che dirigerà invece Monicelli30… Nello stesso tempo molti segni rendono il grado dell’avvenuta professionalizzazione delle routine produttive. Scorrendo i contratti si nota una regolamentazione strutturata e nel contempo declinata secondo le esigenze del singolo attore; per La grande guerra, per esempio, il contratto di Sordi (retribuito intorno ai 17 milioni di lire) prevede una serie di clausole molto specifiche come la possibilità di intervenire sulla sceneggiatura, l’obbligo di presenziare a un dato numero di première o la definizione dei parametri di citazione del nome del divo nei titoli di testa del film e nel materiale pubblicitario. Il contratto di Totò per I soliti ignoti è ancora più definito, includendo il numero delle “pose”, l’impegno giornaliero (non superiore alle sei ore a partire dalle ore 14.00, inclusi preparazione e trucco), l’assoluzione dai “raccordi” e “dai rifacimenti”, le clausole relative alla salute31. Si va affermando una figura di derivazione hollywoodiana, quella del press-agent: è curioso però che uno dei primi, Enrico Lucherini, venga ingaggiato da Ponti per “ripulire” l’immagine della Loren, considerata “una rovinafamiglie” per la sua relazione sentimentale con lo stesso produttore, all’epoca sposato e sotto accusa di concubinaggio32. Le modernissime pratiche di Hollywood vengono messe al servizio del vetustissimo moralismo italiano. Il pubblico si trasforma, si va concentrando nelle sale di prima visione; lo spettatore è tendenzialmente inurbato, maschio, giovane, benestante e colto33, il cinema resta ancora il primo svago degli italiani e le motivazioni al consumo sono ancora molto eterogenee. Un’indagine sugli operai torinesi condotta nel 1960 evidenzia quanto la televisione ancora non sia penetrata nelle abitudini del tempo libero, mentre il cinema resta l’attività prediletta: vanno al cinema almeno una volta alla settimana, «per farsi andar via i pensieri»34. Questo tipo di pulsione al consumo verrà soddisfatta nel decennio successivo dalla televisione, ma nel contempo si va instaurando un nuovo modo di andare al cinema, sempre meno passatempo rassegnato e sempre più esperienza simbolica al centro dei processi di rielaborazione del vissuto generazionale, sociale e identitario. Le ricerche di Mariagrazia Fanchi hanno dimostrato quanto la commedia all’italiana abbia svolto un ruolo fondamen31
tale in questo senso, imprimendosi indelebilmente nella memoria collettiva: «prima e più dei titoli dei film o delle storie, sono alcuni dei suoi personaggi ad ancorare il ricordo. Da Fefè Cefalù di Divorzio all’italiana (…), ai mostri dell’omonimo film di Risi (…) fino al dottor Tersilli di Il medico della mutua (…), questi personaggi mettono in scena vizi e virtù dell’Italia del boom e li cristallizzano in stereotipi e in immagini destinate a diventare emblematiche, icone di una generazione e di un periodo»35. Oltre ai personaggi, sono i divi che li interpretano – Sordi, Gassman, Tognazzi, Manfredi e Mastroianni – uno degli elementi di maggiore riconoscibilità del genere: un gruppo di attori che raggiunge la massima affermazione in questo periodo e (a esclusione di Mastroianni, alter ego fellinano in quegli anni e che fa caso a sé) proprio attraverso commedie all’italiana. Il loro è un divismo che ha caratteristiche inedite e originali. Da una parte mitologizza la mediocritas, mettendo in scena antieroi; dall’altra si connota per una marcata intermedialità, essendo risultato di esperienze professionali che attraversano diversi ambiti mediali. Tognazzi, ad esempio, dopo una carriera nel teatro di varietà, guadagna ampia fama prima in televisione con Un, due, tre (1954) a fianco di Raimondo Vianello e solo in un secondo momento, con una certa fatica, nel cinema grazie a Il federale. «Con Tognazzi assurge a livello di protagonista l’italiano del nord, dignitoso positivo lavoratore (…) una esemplificazione del moderno uomo massa (…). Il suo dramma sta (…) nella fedeltà inconcussa ai principi, cioè nella assoluta mancanza di spirito critico (…); perciò il suo destino è di rimaner vittima di un mondo che credeva fatto a sua perfetta misura e invece lo tradisce»36. È d’obbligo menzionare la “sequenza della claquette” in Io la conoscevo bene (Antonio Pietrangeli, 1965) dove Tognazzi/Biagini si consegna fiducioso e pusillanime allo scherno generale, esibendosi in una performance comica che via via si inabissa in una voragine drammatica. Anche Gassman subisce alcune decisive metamorfosi – a cui corrispondono altrettanti passaggi in media diversi – prima di stabilizzare definitivamente la propria immagine divistica: in una prima fase della carriera è prim’attore in teatro e nel contempo “cattivo” al cinema; grazie a Monicelli poi – vincendo le perplessità del produttore – comico in I soliti ignoti, mascherando la ieraticità del 32
volto col trucco, la sonorità della voce tramite una goffa balbuzie. È un passo decisivo per far accettare questa trasmutazione – da antipatico a simpatico, da altero istrione a divo popolare –, che in teatro si era già compiuta con la pièce comica I tromboni (1956) di Federico Zardi, diretto da Luciano Salce. Per arrivare alla comicità nature di Il sorpasso è necessaria una svolta ulteriore, rappresentata dal programma televisivo Il mattatore (1959), che precede di pochi mesi il film omonimo, in cui Gassman propone una galleria pirotecnica di personaggi – il comiziante romagnolo, il commendatore obeso, il ciclista ottuso, il bullo di Trastevere, – che sembra anticipare I mostri. La forza d’urto di questo passaggio televisivo risulta evidente nel romanzo Gassman su Marte (1961), esilarante apologia fantastica intorno alla figura dell’attore nata dalla penna di un fan; nel romanzo, due opposti “Gassman fan-club” – uno cattolicissimo, l’altro sinistrosissimo – si combattono a colpi di furti di autografi fino a che il programma televisivo fa crollare la devozione dei sanfedisti: «Donna Mafalda era rimasta scandalizzatissima, nell’assistere, durante la prima puntata di Il mattatore televisivo alla folle e mostruosa (secondo lei) degradazione del suo iddio: sceso dalle altezze nivee e dorate della grande tragedia antica, fino alle bassezze della farsa più plebea, piazzesca, deteriore, infamante. Al termine della seconda puntata aveva pianto istericamente. Al termine della terza aveva invocato Iddio di far luce allo spirito accecato del suo pupillo. Al termine della quarta (…) urlò: “Mi dimetto da presidentessa! Sciolgo il club. Vergogna!”»37. Forse per alcuni, come per Donna Mafalda, questa presa di distanza dalla nobile maschera dell’attor tragico fu un gesto troppo ardito. Eppure è proprio la televisione, l’arena plebea per eccellenza, che si rivelerà necessaria per eliminare quel tratto aristocratico dell’originario connotato divistico di Gassman, consentendogli di approdare a quella scioltezza recitativa “borghese” propria dei personaggi della commedia all’italiana. Il divo per antonomasia è ovviamente Alberto Sordi, vera epitome dell’“italiano-medio”: l’attore, partito da macchiette radiofoniche di personaggi odiosi, approda dopo una lunga gavetta alla piena maturità artistica proprio con le commedie all’italiana, in particolare con La grande guerra quando per la prima volta raggiunge il vertice della classifica dei film campioni d’incasso. Le sue 33
connotazioni divistiche, nella prima fase della carriera, sembrano trasformarsi a seguito di passaggi in media diversi: virtualmente attraversa la radio (portando uno dei suoi bozzetti radiofonici nel film Mamma mia che impressione!, Roberto Savarese, 1951), il fotoromanzo (ambiente di sfondo di Lo sceicco bianco, Federico Fellini, 1952), la televisione (che fa da scenario al film Domenica è sempre domenica, Camillo Mastrocinque, 1958), conquistando quel tratto di medietà passiva, suo tratto distintivo. Ruoli e stile recitativo vanno modificandosi di pari passo. Un’identica situazione narrativa che Sordi si trova a interpretare nel giro di pochi anni in tre film differenti – cioè l’esame davanti a una commissione – palesa il percorso e segna le differenze. In Totò e i re di Roma, Sordi è tra gli esaminatori del povero Totò (il quale aspira alla licenza elementare) e incarna un maestro arrogante e vile, ciuffo a banana in testa, postura rigida, gestualità trattenuta, risolini sadici: è una stilizzazione del tratto tutta farsesca (fot. 11). In Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo (Mauro Bolognini, 1956) Sordi non è più esaminatore ma esaminato: ora il suo volto viene esibito senza camuffamenti (fot. 12) ma la recitazione è dominata dagli ammicchi, dai soprassalti, dalle smorfie, dalle piroette verbali e gestuali. In Una vita difficile Sordi è un uomo adulto, che ritorna sui banchi universitari per un esame (obiettivo ben più arduo della licenza elementare di Totò e della licenza di francese della guardia Sordi): l’opposizione tra i professori e lo studente è assoluta, l’esito dell’esa-
me è scontato ma drammatizzato dal contesto; la recitazione di conseguenza è al servizio del realismo, asciutta e lineare, lavorando attraverso la fissità del volto, il silenzio, le pause penose sottolineate da rapidi controcampi tra i commissari muti e l’esaminato muto (fot. 13). L’effetto comico non discende qui – come in precedenza – da un voler dire represso o dall’eccesso del fare e del dire, quanto piuttosto dalla sottrazione, dal non poter o non saper che dire.
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Alla commedia all’italiana viene imputata una certa misoginia, poiché esclude dal mondo della rappresentazione (fatta eccezione per Pietrangeli e Lattuada) il nuovo volto del femminile38, che per 35
esempio andava affermandosi sul piano internazionale con Brigitte Bardot. Osserva Stephen Gundle come sia significativo che fossero attrici straniere a interpretare i ruoli di giovani donne disinibite e provocatorie: l’affermazione dell’attrice belga Catherine Spaak è in questo senso paradigmatica. Tra le attrici italiane che si imposero va annoverata sopra tutte Stefania Sandrelli, espressione dei fermenti giovanili e anticonformistici, da lei identificati sia per i ruoli cinematografici sia per le sue vicende personali (ancora minorenne ebbe nel ’64 una figlia dal cantante Gino Paoli, sposato e in attesa di un figlio dalla moglie). La Sandrelli passa dai ruoli di adolescenti in dissidio con i costumi italioti (Sedotta e abbandonata) a donne travolte dalle contraddizioni del mondo contemporaneo (Io la conoscevo bene). «La sua rapida trasformazione da Lolita a donna moderna, e la perdita in questo processo di alcuni aspetti della donna mediterranea, illustravano il modo in cui l’Italia sperimentava l’arrivo del moderno mondo neocapitalistico: desiderabile e desiderato, sembrava possibile abbracciarlo soltanto a prezzo di una serie di rotture culturali ed estetiche con un passato ancora determinante per l’elaborazione dell’identità italiana»39.
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GLI ITALIANI, UNA COMUNITÀ IMMAGINARIA?
Il 27 febbraio 2003 viene celebrato per Alberto Sordi il funerale di stato, rito solenne destinato alle massime autorità della Repubblica. Qualche anno prima la televisione pubblica aveva mandato in onda il programma Storia di un italiano (Alberto Sordi, 1979) in cui la storia del Paese coincideva con sequenze interpretate dall’attore alternate a filmati d’archivio. Che il più noto esponente della commedia all’italiana sia diventato un simbolo nazionale con tanto di sigillo istituzionale è un fatto che trascende gli straordinari meriti artistici: è indice intanto di una distinzione sempre più sottile tra realtà e rappresentazione; è ancor più un segno inequivocabile della saldatura tra il genere e l’identità degli italiani. Ma in che termini? Cominciamo col dire che l’identità italiana è una vexata quaestio, tutt’oggi al centro del dibattito pubblico40. In linea di principio la nazione – ogni nazione – è un costrutto simbolico41; esiste in quanto gli si riconosce legittimità: un riconoscimento – che può riguardare memorie, narrazioni, principi ideali o concettuali – tanto più efficace quanto più condiviso. Per una serie di ragioni – tra cui una memoria storica non partecipata e spesso usata strumentalmente – questa condivisione non è un dato pienamente acquisito dagli italiani. Come vedremo, il legame tra identità, storia e memoria è centrale nel caso di La grande guerra. E infatti la politica intervenne. Nel ’60, per esempio, il deputato Romualdi (ex repubblichino, poi esponente del Msi) presentò un’interrogazione parlamentare a proposito dei film vincitori al festival di Venezia del ’59, La grande guerra appunto e Il generale Della Rovere (Vittorio De Sica); nella stessa seduta parlamentare dell’8 febbraio, il deputato avanzò un’ulteriore interrogazione a proposito della recente trasmissione 37
da parte della Rai di Roma città aperta (Roberto Rossellini, 1945), accusandola di falsità storiche e faziosità politiche, a vantaggio dei comunisti. L’episodio dimostra quanto il viluppo storia-memoriapolitica fosse intricato e quanto il cinema ne costituisse un nodo importante. C’è una chiara consapevolezza nei cineasti della commedia di questa tendenza a leggere i fatti storici a fini propri, particolari (politici o economici), giacché il cinema è uno strumento potente per piegare la memoria opportunisticamente. Ettore Scola ce ne dà prova con una sua vignetta pubblicata nella rivista «La fiera del cinema» del giugno 1960 (a p. 60), in cui si possono riconoscere il produttore Angelo Rizzoli e lo sceneggiatore Sergio Amidei, impegnato all’epoca nella stesura del copione di Viva l’Italia, prodotto proprio dalla Cineriz di Rizzoli e realizzato nel 1961 da Rossellini nel quadro delle celebrazioni dell’unità d’Italia; nella vignetta (fot. 14) il produttore dice: «La sceneggiatura mi piace perché l’è anche patriottica. Però lo sbarco me lo dovete fare a Ischia»; chiedendo cioè allo sceneggiatore di adattare la vicenda della spedizione dei Mille, cambiando la destinazione dello sbarco da Marsala a Ischia, patria elettiva di Rizzoli e uno dei suoi core business. Una piccola freccia ironica, assai eloquente. Questa memoria sepolta o strumentalizzata ha di certo avuto un peso nell’indeterminare l’identità collettiva. In un certo senso l’affezione del pubblico alla commedia all’italiana – e in generale l’equivalenza data per assiomatica tra il personaggio tipico della commedia all’italiana e il profilo dell’italiano medio –, sono sintomi da una parte di un bisogno scoperto, dall’altra di un vuoto simbolico, di cui il genere rappresenta un surrogato immaginario. Bene osserva Adriano Aprà, quando a proposito di Tutti a casa, afferma che la domanda «cosa siamo noi italiani» marca la differenza tra la commedia italiana degli anni Cinquanta e la commedia all’italiana degli anni Sessanta: è un rimosso nella prima (e dell’intero decennio), che invece precipita nella seconda42. Gli italiani degli anni Sessanta immemori del passato, e alle prese con un presente incerto, finiscono per ritrovarsi in una «dimora narrativa»43? Non è un caso che questa commedia così dichiaratamente votata all’italianità, si affermi in coincidenza di una vera e propria metamorfosi della nazione (il miracolo, il boom, i flussi migratori, eccetera), da cui discende 38
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un’esigenza di ripensamento e rielaborazione del vissuto identitario: nel ’65 esce il saggio di Luigi Barzini Gli italiani. Vizi e virtù di un popolo e nel ’63 il romanzo di Alberto Arbasino Fratelli d’Italia44. La richiesta di chiarezza – di cui la pubblicistica è un’avvisaglia – presume l’oscurità del tema. D’altro canto l’acceso scontro politico divampato intorno alle celebrazioni dell’unità d’Italia del 1961, ci fa intuire quanto la questione risultasse problematica in primis ai più alti livelli istituzionali. La narrazione della patria poi prodotta dalle istituzioni – ideologizzata e gradita al partito dominante – risultò forzosa e parziale; prova ne fu la polemica sorta intorno alle trasmissioni televisive pensate per le celebrazioni come la serie Tempo di musica incentrata sulla storia italiana: la puntata “Tempo della divisa” (curata da Luciano Salce ed Ercole Patti) – un racconto grottesco del fascismo che anticipava il tono di Il federale dello stesso Salce nei cinema a pochi mesi di distanza – provocò violenti 39
contrasti politici e drastici interventi censori. In effetti la pedagogia della patria promossa dal governo preferiva tacere su un passato “politicamente incontrollabile” ed enfatizzare trionfalisticamente il presente. I cinegiornali commissionati per l’occasione dalla presidenza del Consiglio e proiettati nei cinema fin dal 1958, – Italia in cammino (Giovanni Paolucci), Volto d’Italia (Tavor) o Il domani non fa paura (Vittorio Sala) – decantavano la nuova Italia, mirabile fusione di modernità e tradizione, esaltando il ruolo del governo nel gestire con efficacia la transizione. Ne emergeva «un’Italia del boom a tinte rosee, vero coronamento di cent’anni di unità, letti tutti in termini di uno sviluppo progressivo e inarrestabile, culturale, istituzionale e anche economico e sociale»45. A completare il quadro della raggiunta unità e ricchezza, i cinegiornali davano spazio anche alla scuola: Scuola viva (Franco Venier, 1962) magnificava una scuola moderna, simboleggiata da un insegnante che girava tra i banchi non più isolato nell’autoritarismo della cattedra. Un docente molto lontano da quello patologicamente morboso, intepretato da Ugo Tognazzi in “Il professore”, di Marco Ferreri (episodio di Controsesso, 1964)… Un clima molto distante da quello che si respira in Il maestro di Vigevano, dove è evidente quanto il neo-pensiero economico travolga una cultura (e i suoi servitori), impigliata in un modello scolastico ottocentesco rigidamente gerarchico e dai toni marziali («In piee-dì!» urla il maestro Modelli/Sordi agli scolari all’arrivo del preside). È una scuola molto diversa da quella raffigurata nei cinegiornali anche quella raccontata da Made in Italy con l’aula collocata in una stalla e i bambini con le scarpe rotte. Non erano solo le commedie all’italiana a smontare la vulgata ufficiale raccontando le arretratezze della scuola italiana, ma anche la musica leggera; cantava infatti in quegli anni Luigi Tenco: «Cara maestra, / un giorno m’insegnavi / che a questo mondo noi, noi siamo tutti uguali; / ma quando entrava in classe il direttore / tu ci facevi alzare tutti in piedi, / e quando entrava in classe il bidello / ci permettevi di restar seduti...» Come si può ben capire da questi esempi, accanto al racconto ufficiale della nazione corrono i controcanti “illegittimi” della produzione popolare, anticorpi spontanei più o meno efficaci. In Il mantenuto un tizio chiede: «Sai che differenza c’è tra il 1861 e il 40
1961? Che allora c’erano gli squilli di tromba e oggi ci sono le squillo». Una boutade da avanspettacolo che nella demitizzazione qualunquistica palesa una distanza siderale dall’immagine della patria promossa dal governo; rispetto a essa il discorso identitario portato avanti dalla commedia all’italiana è proprio antinomico. In termini più generali la commedia all’italiana abbraccia – nella maggior parte dei casi – l’archetipo antropologico, il cosiddetto ritratto dell’italiano-medio, rivitalizzando il cliché del carattere nazionale salito alla ribalta, non a caso, in concomitanza col processo di nazionalizzazione46. Ridurre l’identità nazionale al tema del carattere nazionale è una banalizzazione interpretabile in una logica di deresponsabilizzazione secondo Silvana Patriarca47: è comodo ricondurre i fatti alla sedicente immutabilità del carattere italiano piuttosto che analizzare lucidamente precise e circoscritte responsabilità storiche (il che non esclude che certi tratti facciano parte del DNA degli italiani). Bisogna anche dire che questo tipo di semplificazioni, queste fughe nello stereotipo (per esempio nelle commedie sul fascismo, in cui le vicende sono scorporate dalla problematica storica e riportate a racconti di caratteri), sono parte di un processo, per così dire, difensivo, abbastanza tipico di un momento storico in cui l’immagine identitaria risultava ancor più complessa e sfuggente rispetto al passato. Nondimeno la commedia all’italiana lavora in modo ambivalente con lo stereotipo, con ma anche contro di esso. A volte problematizza un cliché per il solo fatto di ricorrere al comico, di per sé demistificatorio di certa enfasi declamatoria, come quella che avvolgeva la Prima guerra mondiale o il Medioevo: è il caso di La grande guerra o di L’armata Brancaleone. In altri casi la commedia all’italiana utilizza tatticamente lo stereotipo, perché la semplificazione permette un allargamento delle potenzialità di partecipazione al proprio discorso, rappresenta una stilizzazione utile a innescare processi di identificazione più vasti, comprensivi di subculture tendenzialmente emarginate dalla cultura più convenzionale. Il genere è per esempio attraversato da uno spirito laico (basti pensare al racconto sempre carnevalesco del funerale), capace di comprendere nel suo racconto certi umori che avevano in Italia ben poca voce pubblica all’epoca. Una volta trovato il necessario punto di convergenza all’insegna della tipizzazione 41
e sotto la protezione del comico, le argomentazioni della commedia all’italiana (di alcune commedie all’italiana) agiscono in maggiore profondità, mettendo in discussione i luoghi comuni più radicati. Pensiamo all’identità territoriale e alla sua prima identificazione, cioè il dualismo tra Nord e Sud; come ha illustrato la letteratura revisionista più recente che ha messo in questione stereotipi fissatisi in una geografia fantastica48, si tratta di due territori che nell’immaginario si sono andati definendo, fin dai tempi dell’unificazione, per opposizione stereotipica: l’operoso Nord vanta una lunga storia (un mito edificante per tutti, la Firenze medicea), mentre il sonnacchioso Sud è descritto e percepito come un luogo “altro”, un’entità mitica priva di storia e di diversità interne, di fatto escluso da molti dei miti fondativi della nazione, ultimo in ordine di tempo quello della Resistenza. E invece sulla resistenza napoletana torna Tutti a casa. Ma il caso più significativo è rappresentato dal cinema di Pietro Germi, in particolare da Divorzio all’italiana e Sedotta e abbandonata: il tono grottesco e l’universo dei cliché (la famiglia patriarcale, il tema dell’onore, la rappresentazione dei fatti a uso e consumo del palcoscenico sociale) sono dei grimaldelli che Germi utilizza per affrontare i problemi del Paese nella sua interezza e concretezza, perché è il sistema legislativo nazionale a essere messo sotto accusa, sono le arretratezze giuridiche a motivare il discorso, sono alcuni precisi articoli del codice italiano – ripetutamente citati nei film – a dare corpo e sostanza all’aggressione satirica. Considerazioni analoghe valgono per un’istituzione fondamentale nella mitizzazione dell’italianità, cioè la famiglia: secondo alcuni antropologi effetto ed espressione dell’alienazione tipicamente italica verso le istituzioni, unica cellula sociale capace di arginare l’instabilità politica; ma elemento generatore di una mentalità che informa i propri comportamenti a vantaggio proprio, della famiglia o della propria corporazione a discapito degli interessi collettivi49. Si potrebbe obiettare che sono valutazioni non generalizzabili, ma è proprio la riduzione a cliché a rendere interessante il discorso, lavorando la commedia all’italiana per l’appunto intorno agli stereotipi. La famiglia è infatti uno dei suoi temi centrali: «Non sai che la famiglia è l’unica istituzione rimasta in Italia?» si dice in Il padre di famiglia (Nanni Loy, 1967). Eppure, a ben pensarci, è pro42
prio il luogo comune della famiglia come baricentro della solidità affettiva e sociale che il genere mette in crisi. Non è un mondo compatto quello familiare, ma al contrario è attraversato da dissidi e tensioni: a partire dai sopracitati titoli di Germi (dove la famiglia è furente teatro di guerriglia interna, con tanto di aggressioni, piani di battaglia, tattiche aggressive e difensive) la famiglia è piuttosto epicentro di coercizioni (L’ape regina, Marco Ferreri, 1963), di conflitti (Signore e signori), oltre che di ossessioni (Il magnifico cornuto, Antonio Pietrangeli, 1964) e ipocrisie (Scusi, lei è favorevole o contrario?, Alberto Sordi, 1966), se non di vere e proprie perversioni (Venga a prendere il caffè... da noi, Alberto Lattuada, 1970). Non è un ambiente edificante, dietro la facciata si consumano turpitudini: onorate mogli si vendono sotto lo sguardo compiacente dei mariti (“Coincidenze”, episodio di Se permettete parliamo di donne; “Il frigorifero”, Mario Monicelli, episodio di Le coppie, Monicelli, Sordi, De Sica, 1970); premurosi genitori istigano alla prostituzione (“Pornodiva”, episodio di I nuovi mostri; In nome del popolo italiano, Dino Risi 1971); zelanti padri allevano all’immoralità (“L’educazione sentimentale”, episodio di I mostri); figli solleciti mollano le madri in ospizi-lager per andarsene in vacanza (“Come una regina”, episodio di I nuovi mostri). Dietro una narrazione apparentemente rassicurante perché stereotipica, il discorso sotterraneo della commedia all’italiana percorre le faglie e le fratture della vita nazionale. Per esempio il bisogno di dipendenza del maschio – tipico del “mammone” impersonato da Sordi o dell’inetto messo in scena da Mastroianni (su cui torneremo nell’analisi di Divorzio all’italiana) – racconta secondo alcuni la complessa rielaborazione dell’immagine della mascolinità italiana, molto distante dalla virilità aggressiva promossa dal fascismo andata in crisi con la sconfitta bellica. La commedia all’italiana dunque celebrerebbe la sconfitta del tanto decantato maschio italico, del latin lover per antonomasia, raccontando piuttosto un processo di femminilizzazione in corso50. A fronte di questo “racconto fratturato”, vengono messi in campo decisivi processi di mediazione e di sintesi: uno su tutti il processo di unificazione delle polifonie linguistiche (che corrispondono all’effettiva identità plurale nazionale) che si compie nella lingua 43
filmica. Se l’italiano televisivo dei primi anni Sessanta – la lingua tecnologica su cui Pasolini scagliava i propri strali51 – imbocca la strada di una purezza artificiosa, il cinema assume mimeticamente come proprio idioma una lingua meno anchilosata, cioè «quell’italiano segnato da tratti soprattutto fonetici, ma anche morfosintattici e lessicali di matrice dialettale, che stava allora imponendosi come codice nazionale di comunicazione individuale e talora collettiva». Quest’italiano «cominciò a imporsi dapprima in quella produzione agrodolce di costume detta commedia all’italiana (…) per poi, solo poi, dilagare nella cosiddetta produzione d’autore»52. La lingua filmica della commedia all’italiana assume la pluralità dei linguaggi dialettali e dei linguaggi settoriali, manifestando anche in questo i legami con l’avanguardia del neorealismo. Non solo: rende sensibili i conflitti che si celano dietro i linguaggi, smascherandoli attraverso un uso funzionale del comico. Bersaglio primo è la lingua del sapere istituzionalizzato che diventa nelle commedie all’italiana luogo principe della mistificazione: si pensi alle arringhe degli avvocati (Divorzio all’italiana), alle prediche del clero (“Tantum ergo”, episodio di I nuovi mostri), agli arzigogoli dei burocrati (“Il cittadino, lo stato, la Chiesa”, episodio di Made in Italy), in cui il potere nelle sue varie forme esprime il proprio volto manipolatorio. Questo italiano altisonante e criptico – l’antilingua di cui parla Italo Calvino53 – palesa un uso anticomunicativo e specioso della lingua, utilizzato a difesa di interessi particolari. Praticato dai potenti e dagli impenitenti: come il Sordi fedifrago che si trasforma in abile retore per negare con la moglie l’evidenza dell’amante nel letto (“La famiglia”, episodio di Made in Italy); come l’industriale amorale di In nome del popolo italiano (Gassman) che dichiara di amare «un linguaggio aderenziale e desemplicizzato», dietro cui insabbia in realtà verità di comodo e falsità. Che sia però un modello difensivo, addirittura nevrotico, risulta chiaro quando viene assorbito dal volgo e usato – come fa la protagonista ignorante di La visita (lo vedremo) – a protezione delle proprie paure e insufficienze emotive e affettive. Quello che la commedia all’italiana sembra dirci è che nella finzione della lingua si nascondono verità inconfessate che riguardano tanto l’immagine pubblica quanto l’intimità più privata. È forse per questo che si cerca la rassicurazione dello stereotipo? 44
QUALCHE NUMERO, CINQUE TRATTI, TRE FRASI
La commedia all’italiana è stata definita un genere “aperto”54, un contenitore suscettibile di contenere in sé elementi disparati. Eppure, come abbiamo visto, i segni di una precisa riconoscibilità sono molteplici: un chiaro quadro divistico e più in generale artistico e produttivo che include non solo registi, ma anche musicisti (Carlo Rustichelli sopra tutti ma anche Piero Piccioni o Piero Umiliani che esordisce proprio con I soliti ignoti); montatori (Ruggero Mastroianni chiamato spesso da Monicelli, ma anche Roberto Cinquini, Tatiana Casini Morigi, eccetera), direttori della fotografia (Alfio Contini che collabora molto con Risi, Leonida Barboni in particolare con Germi, eccetera), scenografi (Piero Gherardi, scenografo prediletto da Fellini, che realizza gli ambienti dei più importanti film di Monicelli, da La grande guerra a L’armata Brancaleone), fino ai caratteristi, alcuni dei quali – come Tiberio Murgia o Carlo Pisacane – “nascono” artisticamente proprio con la commedia. Il contributo degli sceneggiatori è fondamentale nell’assicurare uniformità di contenuti e toni al genere, che per quanto li riguarda è intriso anche di un forte autobiografismo: Tutti a casa è per esempio la storia di Age, Una vita difficile quella di Sonego, Signore e Signori deriva direttamente dalle vicende trevigiane di Vincenzoni55. Ma l’uniformità si esplica anche attraverso ricorrenze di temi, personaggi, iconografie e ambientazioni. Perché – a dispetto di questi tratti unificanti – al genere viene imputata una certa incertezza di “statuto”, una sua indeterminatezza? Perché la mobilità della commedia all’italiana è un principio regolatore generale che può avere declinazioni diverse. Si insinua nel tessuto narrativo, esprimendosi nelle metaformorfosi dei personaggi, nell’instabilità degli universi descritti o nei capovolgimenti 45
rapidi del racconto; ma diventa anche un fatto discorsivo quando imprime nelle storie quel tipico tratto tensivo: il senso del tracollo (le verità che stanno per venire a galla o i crimini che stanno per essere compiuti), ha per esempio una inequivocabile corrispondenza negli scrosci di pioggia improvvisa che interrompono le feste, negli scoppi di risa che richiamano l’attenzione, nelle esplosioni di armi o di clacson. È un indice di dinamismo anche il fatto che la commedia all’italiana si muova sì nel terreno del comico ma incorpori altri registri (il tragico o il grottesco) e altri generi: il giallo (Crimen; Il commissario, Luigi Comencini, 1962), il gangster movie (Mafioso, I soliti ignoti, Il vedovo), il western (Sedotta e abbandonata) fino a includere il fantastico (Fantasmi a Roma, Antonio Pietrangeli, 1960) o la fantascienza (Il disco volante, Tinto Brass, 1964). Tutto ciò è reso possibile grazie alla capacità di sintesi del genere, che opera sia diacronicamente (con i precedenti cinematografici) sia tra universi narrativi e discorsivi. Va da sé che queste aperture risultino più semplici nel territorio dell’ironia, caratterizzata costitutivamente dall’inversione dei termini del discorso, da accostamenti di enunciati a volte antitetici (come nelle antifrasi comiche), e più in generale dalla connessione delle cose secondo rapporti inusitati. Si guardi l’immagine conclusiva di “Il mostro” (fot. 15), episodio di I mostri, dove due carabinieri beoti e sdentati sorridono ai flash dei giornalisti: tra di loro il “mostro” – in realtà molto meno deforme di loro – appena arrestato. Il dato estetico scatena per associazione l’allusione metaforica, dal figurativo al traslato il passo è breve: qui le gerarchie dell’ufficialità istituzionale vengono sovvertite, rendendoci incapaci di stabilire quali siano le creature veramente mostruose (non solo in senso fisico) tra i tutori dell’ordine e i trasgressori. La dimensione politica della commedia si muove secondo una prospettiva precisa, individua bersagli chiari (il potere governativo ed ecclesiastico, quello economico), dando voce a una cultura borghese, illuminata e laica, quella da cui provengono in ultima analisi i suoi autori. Se dunque cinque sono i tratti che sintetizzano le caratteristiche della commedia all’italiana (riconoscibilità, mobilità, sintesi, ironia e politica), tre sono le fasi che essa attraversa. 46
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Il 1958 – uscita di I soliti ignoti – è una data, come abbiamo visto, significativa per l’Italia: è una coincidenza sintomatica del legame profondo che il genere intrattiene con i fatti del Paese. Non a caso la commedia all’italiana di questo periodo – dal 1958 al 1964 – viene definita “commedia del boom”. È l’età d’oro del genere, la più felice per toni e ambizioni: lo spirito critico si sposa con la grazia dell’ironia, riuscendo al contempo a restituire quel tono ottimistico di fondo proprio del tempo. La formula di genere è talmente forte da potersi aprire alle contaminazioni con altri generi e registri senza perdere di identità. È anche la fase di maggiore sintonia con il pubblico. Nella stagione 1959-’60 La grande guerra è il secondo film italiano più visto, dopo La dolce vita; in quella successiva ben tre commedie all’italiana (Tutti a casa, Crimen e Il vigile) figurano nella classifica dei dieci film più gettonati dal pubblico; nella stagione 1960-’61 Divorzio all’italiana è il film italiano più visto e anche Una vita difficile si colloca in un’ottima posizione; negli anni successivi i dati segnalano la forte armonia tra i gusti degli italiani e il genere, Il sorpasso, Mafioso, I mostri entrano nella top ten dei maggiori incassi. Il 1964 è l’anno di inizio della congiuntura economica e di avvio della cosiddetta “commedia della congiuntura”: il genere sembra perdere terreno nei gusti del pubblico, dovendo confrontarsi con l’ascesa degli spaghetti western di Sergio Leone. Addirittura nella classifica del 1967-’68 non figurano commedie all’italiana; il ge47
nere si riscatta nella stagione successiva con Il medico della mutua, titolo che vanta il maggiore incasso assoluto56. Certo lo scenario è cambiato, fuori e dentro ai cinema e anche nei film. Si affacciano – in film come Il profeta (1968) di Dino Risi o negli episodi di Contestazione generale (1970) di Luigi Zampa – i primi vagiti del ’68. Nei primi anni Settanta il contesto si incupisce e la commedia all’italiana imbocca la fase del “declino”: non solo perché si registra una perdita di contatto col pubblico (nonostante alcune commedie entrino nella classifica dei maggiori incassi) ma anche perché le tematiche si muovono tendenzialmente in questa direzione: cult movie del periodo – e incasso maggiore del ’75-’76 – è infatti Amici miei, epigrafe dolce-amara intorno a una vecchiaia che vuol restare bambina, apologia della resistenza del comico contro le angherie della vita, inno a una libertà che passa attraverso l’invenzione del linguaggio. Nondimeno il potere di riscatto del comico – ancora presente in Detenuto in attesa di giudizio (Nanni Loy, 1971) – si azzera in Un borghese piccolo piccolo (Mario Monicelli, 1977), ormai puro dramma. Il genere si allarga a registri che prima avevano un peso marginale, come il grottesco che domina Brutti, sporchi e cattivi (Ettore Scola, 1976) e il delicato equilibrio proprio della formula si incrina. Il mondo sembra confondersi e gli autori della commedia con esso. È Monicelli a riconoscerlo quando afferma: «Il ’68 fu il primo impiccio, era difficile sfuggire a schematizzazioni o a schieramenti ideologici (…); il terrorismo segnò poi una cesura»57. Argomento, quello del terrorismo, tuttavia non eluso da Dino Risi che lo affronta in termini edipici con Caro papà (1979). Ettore Scola con C’eravamo tanto amati (su cui torneremo) e con La terrazza, firma due opere fortemente analitiche ma l’autopsia presuppone il cadavere. D’altronde negli anni Settanta cambia tutto: l’avvento delle televisioni private sottrae definitivamente il grande pubblico popolare ai cinema, complice anche l’aumento del costo dei biglietti e il crollo del circuito delle sale di seconda e terza visione, mentre Hollywood sferra una nuova politica di aggressione dei mercati europei che darà i suoi frutti. Nei primi anni Ottanta in vetta alle classifiche si trova ancora qualche commedia all’italiana come Amici miei, atto III (Nanni Loy, 1985) tuttavia sono gli ultimi fuochi. Si vanno affermando i nuovi comici – Francesco Nuti, Massimo 48
Troisi, Carlo Verdone –, però l’egocentrismo dei loro universi discorsivi li distanzia nettamente dalla commedia all’italiana, perlomeno nella formula primigenia. A titolo esemplificativo: i maestri della commedia all’italiana avevano eletto il dialogo a forma primaria dell’espressione filmica, affermando implicitamente una possibilità ancora aperta di relazione, tra il mondo che li aveva preceduti e quello che si intravedeva all’orizzonte, e tra visioni diverse del mondo. Molti dei nuovi autori, viceversa, prediligono il monologo, di fatto disegnando mondi chiusi, metaforicamente denunciando lo scacco dell’individuo nel suo relazionarsi con l’esterno. Certo, nelle opere della coppia Bruni-Virzì, per esempio Tutta la vita davanti (2008) – che cita esplicitamente C’eravamo tanto amati) – o La prima cosa bella (2010), in cui la protagonista femminile sembra evocare quella di Io la conoscevo bene, si avverte la lezione dei maestri della commedia all’italiana, ma sono i tempi a essere cambiati. La commedia all’italiana è frutto dell’euforia e della sua disillusione, della speranza di cambiamento del Paese e del suo affievolirsi; è conseguenza di una metamorfosi e artefice di un linguaggio che ne portava i segni. Dicono infatti Antonio Piotti e Marco Senaldi58 che la commedia all’italiana si colloca nell’interstizio tra il crollo del potere nelle sue forme istituzionali classiche e l’avvento del potere massmediale, fase che in Italia si afferma appunto tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta: e la commedia all’italiana sarebbe il racconto intorno a un soggetto nudo, non più protetto nelle strutture del passato, non ancora ingabbiato in quelle di un futuro ormai prossimo.
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Note
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Si veda in particolare: Maurizio Grande, La commedia all’italiana (a cura di Orio Caldiron), Bulzoni, Roma, 2003. La genesi dell’epiteto è ricostruita con precisione da Claudio Camerini, in “I critici e la commedia all’italiana”, in Riccardo Napolitano, Commedia all’italiana. Angolazioni, controcampi, Gangemi, Roma, 1986, pp. 179-192. Il termine “all’italiana” per tutti gli anni Sessanta viene usato alternativamente a “commedia di costume” e prende il sopravvento nei primi Settanta, quando vuole indicare una fase esaurita del cinema italiano. Lorenzo Quaglietti è tra i primi, nel ’63 su «Cinema 60», a cercare di definire le caratteristiche di questo tipo di commedia (p. 181 del testo citato). Vedi p. 98 della sceneggiatura originale, edita a cura di Alberto Pallotta, Un mondo a parte, Roma, 2002. L’arresto dei ladri di via Osoppo avviene proprio mentre le riprese sono in corso, come risulta dal fascicolo consegnato all’Ufficio del Cinema per la revisione preventiva, CF 2816, depositato all’Archivio Centrale dello Stato di Roma, fondo Ministero Turismo e spettacolo. Divisione Cinema. Sull’ispirazione del soggetto ai fatti di cronaca, si veda l’intervista a Suso Cecchi d’Amico a p. 274 della sceneggiatura. Censura e spettacolo in Italia, «Il ponte», anno XVII, n. 11, La Nuova Italia, Firenze, 1961, p. 1553. Corrado Alvaro, Quasi una vita, Club degli Editori, Milano, 1968, p. 307. Sui personaggi della commedia all’italiana vedi anche Edoardo Zaccagnini, I “mostri” al lavoro, Sovera, Roma, 2009. Guido Crainz, Storia del miracolo italiano. Cultura, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma, 1996, p. 116. Per un quadro del periodo si veda anche: Valerio Castronovo, L’Italia del miracolo economico, Laterza, Roma-Bari, 2010. Vittorio Zucconi, Il caratteraccio. Come (non) si diventa italiani, Mondadori, Milano, 2009, p. 121.
La definizione di “non-luoghi” è di Marc Augé: Nonluoghi: introduzione ad una antropologia della surmodernità, Elèutera, Milano, 1993 (tit. orig.: Non-Lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Seuil, Parigi, 1992). Il neologismo di “luoghi-terzi” è del sociologo urbanista Ray Oldenburg, The Great Good Place: Cafes, Coffee Shops, Community Centers, Beauty Parlors, General Stores, Bars, Hangouts, and How They Get You Through the Day, Paragon House, New York, 1989. I “Third-Places” sono tali rispetto ai luoghi della socialità istituzionale, come l’ambiente lavorativo o domestico. 10 La percezione della paleo-televisione come “organo di regime” è evidente nelle ricerche svolte sull’audience da Francesco Casetti e Mariagrazia Fanchi, “Le funzioni sociali del cinema e dei media: dati statistici, ricerche sull’audience e storie di consumo” in Mariagrazia Fanchi, Elena Mosconi (a cura di), Spettatori. Forme di consumo e pubblici del cinema italiano 1930-1960, Bianco & nero, Marsilio, Venezia, 2002, pp. 135-171. 11 Italo Calvino, Autobiografia di uno spettatore, Einaudi, Torino, 1974, (oggi in Federico Fellini, Fare un film, Einaudi, Torino, 2006, p. XIX). Una posizione particolarmente oltranzista nei confronti del genere è quella di Lino Micciché. In Cinema italiano: gli anni ’60 e oltre (Marsilio, Venezia, 1998), Micciché individua nel genere il frutto di un’ideologia «monoliticamente e trionfalmente piccolo-borghese» (p. 91), piegata a interessi mercantili e perciò incapace di realizzare un reale contraddittorio con la cultura e col potere dominante. Su una linea simile Gianni Canova, anche se il suo giudizio è più articolato, identificando nel sedicente qualunquismo della commedia all’italiana una forma di esorcismo nei confronti di ogni forma di negatività, propria della tradizione culturale nazionale, atavicamente minata dall’incapacità di affrontare il conflitto: Gianni Canova, L’occhio che ride. Commedia e anti-commedia nel cinema italiano contemporaneo, Modo, Milano, 1999. Brunetta invece riconosce un ruolo fondamentale della commedia nel sistema produttivo degli anni Sessanta e più in generale il ruolo svolto dal genere nella società italiana: «è il primo genere capace di porre con continuità e al grande pubblico il problema dell’identità nazionale». Gian Piero Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo. Da “La dolce vita” a “Centochiodi”, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 360. Si occupano di commedia all’italiana anche testi più generali sul comico (Giorgio Cremonini, Playtime. Viaggio non organizzato nel cinema comico, Lindau, Torino, 2000; Augusto Sainati, Il visto e il visibile: sul comico nel cinema, ETS, Pisa, 2000). 12 Goffredo Fofi, Alberto Sordi. L’Italia in bianco e nero, Mondadori, Milano, 2004, p. 137. 9
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13 Nanni Loy, Quale cinema per gli anni ’80? I meccanismi della produzione e della distribuzione cinematografica: dalla crisi ai progetti di riforma, Guaraldi, Firenze, 1977, p. 43. La censura si esercitava attraverso il controllo dei finanziamenti, erogati dalla banca di stato, Banca Nazionale del Lavoro. La concessione era nella prassi subordinata al beneplacito dell’Ufficio Centrale per la Cinematografia (dipendente dal primo ministro), che operava soprattutto preventivamente attraverso il controllo delle sceneggiature, piuttosto che nella postproduzione o nella concessione dei visti di produzione. Le strategie della censura si esplicavano anche con il rifiuto dei “premi di qualità” (per esempio negato a I soliti ignoti) o con la negazione del visto di esportazione; oltre ad alcuni interventi di ostruzionismo per i film sgraditi, come la mancata selezione per le mostre cinematografiche. 14 Il racconto di Calvino, Furto in pasticceria, appartiene alla raccolta Ultimo viene il corvo, Torino, Einaudi, 1949. La vicenda Blasetti-Furto in pasticceria è citata in Censura e spettacolo in Italia, «Il ponte», cit. p. 1542. Sul racconto di Calvino come fonte di ispirazione per I soliti ignoti ci informa lo stesso Monicelli: «L’idea era divertente. Non mi convincevano però i dolci. Volevo una soluzione meno legata a un aspetto voluttuario. Cercavo più concretezza, qualcosa di carattere sociale. La pasta e ceci, quella sì». Sebastiano Mondadori, La commedia umana. Conversazione con Mario Monicelli, il Saggiatore, Roma, 2005, p. 35. 15 Tutte le informazioni sulla valutazione censoria sono tratte dal fascicolo ministeriale di I soliti ignoti, cit.. 16 Segnalazioni cinematografiche, vol. LIV, 1963, C.C.C., Roma, p. 279; p. 269; p. 257. Il C.C.C nasce nel 1934; le Segnalazioni cinematografiche nel 1936; nel 1956 gli Uffici Nazionali sono ventisette in Italia. Informazioni al riguardo si trovano in Giuseppe Fossati, Il cinema e l’uomo, Vita e Pensiero, Milano, 1963, p. 124. Sugli interventi della Chiesa: Dario E. Viganò, Cinema e Chiesa. I documenti del magistero, Effatà, Torino, 2002. 17 Fascicolo Divorzio all’italiana, CF 3597, Archivio Centrale dello Stato di Roma, fondo Ministero Turismo e spettacolo. Divisione Cinema. 18 Paolo D’Agostini, I soliti ignoti. Scarpelli: così nacque la commedia all’italiana, «la Repubblica», 22 luglio 2008. 19 Nanni Loy, Quale cinema per gli anni ’80? cit., p. 50. 20 Oltre al «Marc’Aurelio», bisogna ricordare anche la rivista satirica milanese il «Bertoldo», fondata da Zavattini nel ’37, dove lavorò anche Dino Risi, giornalista e documentarista prima di trasferirsi a Roma. Al «Bertoldo» Risi arriva grazie a
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Walter Molino (il poi celebre Beltrame della «Domenica del Corriere»), suo compagno di classe insieme a Luciano Emmer al Liceo Berchet, dove studia anche Alberto Lattuada. Dino Risi, I miei mostri, Mondadori, Milano, 2004, p. 34. Steno, «Marc’Aurelio», n. 82, 1942, oggi in Bruno Ventavoli, Al diavolo la celebrità, Lindau, Torino, 1999, p. 23. Su Scola: Ettore Scola, Il cinema e io. Conversazione con Antonio Bertini, Officina, Roma, 1996. Vito Zagarrio (a cura di), Trevico-Cinecittà. L’avventuroso viaggio di Ettore Scola, Marsilio, Venezia, 2002. Su Maccari: Gian Maria Zanier, Ruggero Maccari. Commedia italiana e teatro di rivista, Falsopiano, Alessandria, 2003. Il soggetto Ruote (1936) per cui Amidei si reca da Torino a Roma è la storia di un camionista ed è una vicenda esemplare degli interessi in nuce neorealistici dell’autore. Su Amidei: Ilaria Borghese, Mariapia Comand, Maria Rita Fedrizzi, Sergio Amidei, sceneggiatore, Transmedia, Gorizia, 2004. Sono Amidei e Rossellini che chiamano Sonego a Roma, Tatti Sanguineti (a cura di), Il Cinema secondo Sonego, Transeuropa, Bologna, 2000, p. 17. Andrea Garibaldi, Roberto Giannarelli, Guido Giusti (a cura di), Qui comincia l’avventura del signor…, La casa Usher, Firenze, 1984, p. 40. Negli ultimi decenni l’ambito dei Diaspora Studies si è ampliato, prendendo in considerazione sia gli studi sulla diaspora che quelli che analizzano la condizione diasporica (quella per esempio derivata dalla necessità di spostarsi per cercare lavoro e che implica una negoziazione tra culture differenti e la messa in crisi dei concetti identitari classici). Si veda: Cohen Robin, Global Diasporas, An Introduction, UCL Press, Londra, 1997. Barbara Corsi, Con qualche dollaro in meno. Storia economica del cinema italiano, Editori Riuniti, Roma, 2001, p. 82 (tab. 2). Barbara Corsi, op. cit., p. 163. Sugli “scambi” tra Risi e Petri: Aldo Viganò. Commedia all’italiana in cento film, Le Mani, Genova, 1995, p. 109. Su Risate di gioia: Sebastiano Mondadori, La commedia umana, cit., p. 36. Si fa riferimento ai fascicoli relativi a La grande guerra (CF 3001) e a quello già citato di I soliti ignoti, Archivio Centrale dello Stato di Roma, fondo Ministero Turismo e spettacolo, Divisione Cinema. Garibaldi, Giannarelli, Giusti (a cura di), Qui comincia l’avventura del signor…, cit., p. 128. Il cinema e il suo pubblico, a cura della Co.di.s. italiana, Torino, 1962. Leone Diena, Gli uomini e le masse, Einaudi, Torino, 1960, p. 116.
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35 Mariagrazia Fanchi, “La trasformazione del consumo cinematografico” in Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, volume X – 1960/1964, Marsilio Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma, 2001, pp. 344-357, p. 352. Sugli stessi temi, della stessa autrice anche Identità mediatiche. Televisione e cinema nelle storie di vita di due generazioni di spettatori, Franco Angeli, Milano, 2002. Anche Pierre Sorlin ha dedicato all’argomento il recente: Gli italiani al cinema. Immaginario e identità sociale di una nazione, Tre Lune, Mantova, 2009. 36 Vittorio Spinazzola, Cinema e pubblico. Lo spettacolo filmico in Italia 19451965, Bulzoni, Roma 1985, pp. 310-311. 37 Marco Campini, Gassman su Marte, Tipografia Longo e Zoppelli, Treviso, 1961, pp. 87-88. 38 L’osservazione è di Giorgio De Vincenti, “Il cinema italiano negli anni del boom”, in Giorgio De Vincenti (a cura di), Storia del cinema italiano, volume X – 1960/1964, Marsilio Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma, 2001, pp. 3-27. 39 Stephen Gundle, Figure del desiderio. Storia della bellezza femminile italiana, Laterza, Roma-Bari, 2009, p. 290 (tit. or.: Bellissima. Feminine Beauty and the Ideas of Italy, Yale, University Press, New Haven e Londra, 2007). Sul divismo “atipico” di Stefania Sandrelli, espressione dei fermenti del periodo: Ruggero Eugeni, “Nuovi volti/corpi attoriali”, in Gianni Canova (a cura di), Storia del cinema italiano, vol. XI, 1965-69, Marsilio Edizioni di Bianco & Nero, VeneziaRoma 2002, pp. 180-189. 40 Su questi temi si veda: Ernesto Galli della Loggia in L’identità italiana, il Mulino, Bologna, 1998; Walter Barberis, Il bisogno di patria, Einaudi, Torino, 2004. Oggi gli scenari della globalizzazione sollecitano un generale ripensamento della questione, estendendo il dibattito allo stesso destino dello stato-nazione. Al proposito: Judith Butler, Gayatri Chakravorty Spivak, Che fine ha fatto lo stato-nazione?, Meltemi, Roma, 2009 (Who sings the Nation-State?, Seagull Books, Londra, New York, Calcutta, 2007). 41 Sul tema dell’identità in quanto patrimonio simbolico: Stuart Hall, “The Question of Cultural Identity” in Stuart Hall, David Held, Tony McGrew (a cura di), Modernity and its Futures, Polity Press, Cambridge, 1992. John Dickie dedica al tema dell’identità italiana un’analisi stimolante: “Imaginated Italies” in David Forgacs, Robert Lumley (a cura di), Italian Cultural Studies, Oxford University Press, New York, 1996, pp. 19-33. 42 Adriano Aprà, “Comencini e Risi: elogio del mestiere” in Giorgio Tinazzi (a cura di), Il cinema italiano degli anni ’50, Marsilio, Venezia, 1979, pp. 201-209. Nel-
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lo stesso volume, sulle distanze tra la commedia italiana degli anni Cinquanta e quella all’italiana degli anni Sessanta: Francesco Casetti, Enrico Ghezzi, Enrico Magrelli, “Appunti sulla commedia italiana degli anni Cinquanta”, pp. 178-190. La definizione proviene da Paolo Jedlowski, Il racconto come dimora. Heimat e le memorie d’Europa, Bollati Boringhieri, Torino, 2009. In realtà il libro di Barzini esce prima in America (The Italians, Atheneum, New York, 1964) e poi in Italia per Mondadori nel 1965. Fratelli d’Italia di Arbasino esce da Feltrinelli, Milano, nel 1963: dietro al cosmopolitismo, si agita continuamente la questione italiana. Alle celebrazioni del 1961 è dedicato lo studio dettagliato di Marilisa Merolla, Italia 1961. I media celebrano il Centenario della nazione, Franco Angeli, Milano, 2004, p. 201. Giulio Bollati, L’italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino, 1983. Silvana Patriarca ricostruisce i processi discorsivi (cui partecipa anche la commedia all’italiana) all’origine del cliché del carattere nazionale in Italianità. La costruzione del carattere nazionale, Laterza, Bari, 2010. In particolare si veda: “Mammone e opportunista: l’antieroe della commedia all’italiana”, pp. 242-252. Si fa qui riferimento in particolare ad alcune osservazioni di Gabriella Gribaudi, “Images of the South” in David Forgacs, Robert Lumley (a cura di), Italian Cultural Studies, cit., pp. 72-87. Sull’argomento sono fondamentali due testi di ambito Cultural Studies; John Dickie, Darkest Italy. The Nation and Stereotypes of the Mezzogiorno, St’ Martin Press, New York, 1999; Nelson Moe, Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno, L’Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2004 (tit. or.: The View from Vesuvius: Italian Culture and the Southern Question, University of California Press, Berkeley, 2002). Il riferimento obbligato è alla nozione di “familismo amorale” coniata da Banfield (Edward C. Banfield, Le basi morali di una società arretrata, Bologna, 1976; tit. or.: The Moral Basis of a Backward Society, University of Chicago, Chicago 1958). Carlo Tullio-Altan (La nostra Italia, Feltrinelli, Milano, 1986) ha rimodulato il concetto tramite la definizione di «morale albertiana». Sull’immagine della mascolinità: Ruth Ben-Ghiat, Unmaking the Fascist Man: Masculinity, Film and the Transition from Dictatorship in «Journal of Modern Italian Studies», 10, 2005, pp. 336-365. Lo stereotipo del mammismo, funzione di un’immagine materna della nazione postbellica, è stato messo a fuoco da Marina d’Amelia in La mamma, il Mulino, Bologna, 2005.
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51 Pier Paolo Pasolini, La lingua tecnologica, «Vie nuove», n. 7, 18 febbraio 1965; ora in Saggi sulla politica e sulla società, Mondadori, Milano, 1999, pp. 10491050. 52 Sergio Raffaelli, “Il cinema in cerca della lingua. Vent’anni di parlato filmico in Italia” in Gian Piero Brunetta (a cura di), Identità italiana e identità europea nel cinema italiano, Fondazione Agnelli, Torino, 1996, pp. 309-335, p. 329330. Su questi aspetti molto utile è anche: Pietro Trifone (a cura di), Lingua e identità. Una storia sociale dell’italiano, Carocci, Roma, 2006. 53 La definizione di Italo Calvino è apparsa sul quotidiano «Il Giorno», 3 febbraio 1965, ora in Italo Calvino, Una pietra sopra, Einaudi, Torino, 1980, pp. 122124. 54 Adriano Aprà, Patrizia Pistagnesi, Comedy Italian Style 1950-1980 (Rai-Eri), Torino, 1986, p. 17. 55 Luciano Vincenzoni, autore tra gli altri del soggetto di La grande guerra e di molte commedie all’italiana tra cui quelle di Germi, scrive le sue prime sceneggiature a fianco di Maccari, quando questi collabora con Aldo Fabrizi. 56 I dati sul consumo sono rielaborazioni dei dati Agis, tratti da «Il giornale dello spettacolo» (“La borsa film”), ora disponibili nei volumi della Storia del cinema italiano, Marsilio Edizioni di Bianco & Nero, Venezia-Roma; nello specifico si vedano le tabelle relative ai maggiori incassi nelle sale di prima visione nei volumi: vol. X, 1960-64, tab. VII, p. 662; vol. XI, tab. VI, p. 625; vol. XII, 1970-76, a cura di Flavio De Bernardinis, 2008, tab. VI, pp. 648-650; vol. XIII, 1977-1985, a cura di Vito Zagarrio, 2006, tab. VI, pp. 656-659. 57 Sebastiano Mondadori, La commedia umana, cit., p. 47. 58 Antonio Piotti, Marco Senaldi, Maccarone, m’hai provocato! La commedia italiana del Piccolo Sé, Bulzoni, Roma, 2002.
LA CADUTA DEL MITO: LA GRANDE GUERRA (1959)
«Non esiste alcuna comunità storica che non sia nata da un rapporto che senza esitazioni può essere assimilato alla guerra. Quelli che noi celebriamo sotto il titolo di eventi fondatori, sono essenzialmente atti violenti legittimati retroattivamente da uno stato di diritto precario. Quella che per gli uni fu gloria, per gli altri fu umiliazione. Alla celebrazione su un versante corrisponde l’esecrazione sull’altro. Negli archivi della memoria collettiva sono, così, immagazzinate ferite simboliche, che postulano la guarigione.» Paul Ricoeur1
Con il taxi che lo aspetta in strada e senza i soldi per pagarlo, Luciano Vincenzoni irrompe nello studio di De Laurentiis, sciorina il soggetto di La grande guerra, quello entusiasta glielo paga sull’unghia, lo sceneggiatore può pagare il tassista e offrirgli pure un pranzo luculliano. Così Vincenzoni racconta la genesi del film2. È una leggenda avvincente. In realtà lo sceneggiatore alla metà degli anni Cinquanta scrive il soggetto Due eroi?, ispirandosi al racconto I due amici (Deux amis, 1883) di Guy de Maupassant: è la storia di due imboscati anarcoidi, Toni e Bepi, amanti della pesca, del vino e delle donnine allegre; fallito ogni tentativo di essere riformati, i due vengono mandati in trincea dove partecipano alla battaglia del Piave, riscossa dell’esercito italiano. Un giorno, ottenuto un permesso, vanno a pesca: incautamente dismessi gli abiti militari, in borghese, vengono imprigionati dagli austriaci, che gli promettono salva la vita in cambio di delazioni. Si fa strada in loro uno scrupolo di coscienza, più pensando agli amici del plotone che 59
all’onore e allo spirito di sacrificio. E decidono di andare incontro alla fucilazione. Il soggettino resta nel cassetto per lungo tempo; ma il successo di Orizzonti di gloria (Paths of Glory, 1957) di Stanley Kubrick lo riporta all’attenzione. Lo compra Antonio Cervi, figlio dell’attore, che non riesce a concretizzare la produzione. Per intercessione di Sergio Amidei, Giuseppe Amato se ne interessa: René Clément accetta di dirigere il film. Ma il progetto si arena nuovamente, finché Vincenzoni ne parla a Monicelli, reduce dall’affermazione di I soliti ignoti. De Laurentiis rileva il soggetto da Amato, affida la regia a Monicelli, affianca alla sceneggiatura Age e Scarpelli, assegna a Gassman e Sordi i ruoli dei due protagonisti e a gennaio del ’59 annuncia alla stampa il film. Si scatena il pandemonio. In particolare è un articolo apparso su «La Stampa» ad attaccare il film: lo pseudonimo Simplicissimus nasconde la firma di Paolo Monelli, autore del diario di guerra Scarpe al sole (1921) da cui Marco Elter trasse l’omonimo film nel 1935. Stupisce un po’ che sia proprio Monelli ad accendere i fuochi della polemica, dal momento che aveva dimostrato una certa ironia firmando La guerra è bella ma scomoda (1929), scanzonato diario di guerra illustrato da Luigi Novello e presentato – dallo stesso Monelli – come «epopea degli eroi meschini»3. I due deridono la prosopopea che avvolge la guerra: per esempio nella tavola Veci, ocio a le bale! (Fot. 16) in cui un fortuito evento militare – “Come fu che (…) io catturai un tognino” – viene ingigantito nel tempo dalle iperboli della retorica guerresca. Perché Monelli se la prende tanto? Il problema non può essere l’uso del comico nel racconto della guerra, considerata la sua produzione letteraria. Non è nemmeno una questione politica: in fin dei conti il suo mito della Grande Guerra è mitologia dello spirito di corpo, difesa di una comunità autosufficiente – quella degli Alpini – «in cui i moventi e le modalità di comportamento della società civile appaiono estranei e improbabili»4. In effetti nel dibattito che circonda l’annuncio del film si intersecano ed esplodono i tanti miti sedimentati intorno alla Prima guerra mondiale, un nodo scoperto e una cassa di risonanza degli umori del momento. Nelle diatribe giornalistiche del tempo si paventa l’umiliazione del sentimento nazionale, l’antipatriottismo, il vilipendio dell’eserci60
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to, il delitto di lesa patria; si accusa il cinema di gettare fango sulla nazione, come in passato ha fatto il neorealismo; di aggredire la sola guerra che la nazione unita abbia combattuto e vinto. Si punta il dito contro la canonica pratica italica dell’autodenigrazione. Si ventila il rischio di opporre alla retorica del fascismo l’antiretorica del qualunquismo. Serpeggia negli articoli lo spettro di Caporetto – pagina buia di quella guerra, punta d’iceberg di 61
un discorso evaso –, nonostante il soggetto di Vincenzoni non vi faccia alcun cenno. Lo scontro si fa esplicitamente politico, quando a febbraio gli onorevoli Calabrò e Roberti del Msi presentano un’interrogazione parlamentare contro il film di là da venire e a difesa del prestigio nazionale; alcuni commentatori mettono sotto accusa i socialisti e i comunisti (che sarebbero rei di un appoggio indiscriminato alla libertà d’espressione), criticano il silenzio dei democristiani, in quel momento impegnati a loro volta nelle lotte intestine tra sostenitori e oppositori dell’accordo con le sinistre. La controversia intorno al film solleva questioni lontane e accende i conflitti del presente. La Grande Guerra è un nuovo campo di battaglia: palesa l’uso politico della memoria, dietro cui baluginano le oscurità del Paese. È il solo nominare “la grande guerra” in quanto possibile titolo a provocare preoccupazione tra i censori, che – nel giudizio della revisione cinematografica preventiva – così si esprimono a proposito del soggetto iniziale: «Questo titolo è indubbiamente troppo grosso, impegnativo e altisonante (…). La “grande guerra” fu un evento ben più ampio e trascendentale (…). Come poter identificare e ritrovare lo spirito della Grande Guerra nella vicenda dei due nostri protagonisti? Basti pensare alle giornate radiose dell’Intervento, alla battaglia dell’Isonzo e sul mare, al Monte Grappa e alle giornate del Piave e di Vittorio Veneto (…). Dubitiamo fortemente circa l’opportunità di intitolare a “la grande guerra” un episodio che, per quattro quinti del suo svolgimento descrive soltanto stati d’animo di indifferenza e menefreghismo, di vigliaccheria e di rinuncia di fronte all’epopea 1915-18». Chiosa a mano il funzionario governativo della Direzione Generale dello Spettacolo, Nicola De Pirro: «Siamo d’accordo; speriamo che il produttore lo comprenda da sé e che l’Anica glielo faccia considerare, così noi non interveniamo»5. La logica è chiara: nelle parole dei funzionari – la guerra viene definita un evento trascendentale – quei fatti bellici devono rimanere confinati in un’astrazione sovrumana, quasi agiografica, così da evitare il possibile rischio di sostanziarsi nella concretezza di fatti umani, di eventi politici. La politica non deve proprio apparire, aggiunge De Pirro, ispirando una strategia di accerchiamento al produttore. Ma gli sceneggiatori si muovono con abilità: presentano una nuova versione del soggetto in cui gli 62
atteggiamenti assenteistici e rinunciatari dei due soldati vengono smorzati, ma ampliano e specificano il quadro storico, che ora si allarga al novembre del 1917; nel finale accennano – per parziale risposta alle istanze censorie – alla riscossa di Vittorio Veneto, d’altro canto già presente nel soggetto iniziale. A marzo De Pirro chiede il nuovo copione a De Laurentiis, segnalando gli allarmi degli ambienti militari, paramilitari e delle associazioni patriottiche. Il clima è rovente, gli sceneggiatori lavorano alacremente: nella nuova versione del 28 marzo inseriscono la ritirata di Caporetto, durante la quale i due protagonisti vengono fatti prigionieri dagli austriaci mentre eseguono un servizio di pattuglia (la scena incriminata dei due soldati in borghese viene quindi soppressa con buona pace dei militari). Ed eliminano i riferimenti cronologici – ma non quelli toponomastici –, rendendo meno circostanziata la vicenda e non direttamente riconducibile la riscossa finale alla battaglia di Vittorio Veneto. Il progetto è ambizioso, come dimostra l’inserimento nella vicenda della rotta di Caporetto, punctum dolens del mito della Grande Guerra. Giulio Andreotti – da poco ministro della Difesa – scrive il 2 aprile a De Laurentiis di fatto autorizzando il film, raccomandando però delicatezza nella messa in scena, chiedendo tra l’altro cautela nei confronti della figura del cappellano di guerra, presente nel copione. La preoccupazione di Andreotti – vicino agli ambienti clericali – è comprensibile; qualche interrogativo invece lo pone il suo sostegno al film (mentre negherà la collaborazione del ministero della Difesa a Tutti a casa). Forse che – anche se in quel momento la destra Dc sembrava vincente – l’approssimarsi del centro-sinistra era nei fatti inevitabile? Forse che l’appoggio dei missini ai governi Dc, iniziato nel ’57, è ormai vicino alla conclusione? Forse è un segnale alle forze armate? In fondo in quegli anni il generale De Lorenzo sta acquisendo un grande potere occulto tramite la raccolta dei dossier Sifar. Fantapolitica? Può essere, però a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina, diceva qualcuno. Gli aiuti promessi dal ministero della Difesa tardano comunque ad arrivare, anche se in aprile si sono già svolti i sopralluoghi in Friuli. De Laurentiis contrattacca: prende contatti con la Bosna Film di Sarajevo allo scopo di realizzare il film in Jugoslavia (l’an63
nuncio viene dal giornale «Primorski Dnevnik» del 7 maggio); appresa la notizia il ministero della Difesa annuncia la propria disponibilità alla collaborazione. Alcuni ufficiali di Stato Maggiore hanno mosso delle critiche al copione; non piace la frase ipocrita di un generale sul rancio («ogni tanto bisogna pur dare qualche soddisfazione a questi ragazzi, si accontentano di così poco»); la figura del capitano Bollotondo, militare burocrate poi costretto al combattimento al fronte; il carattere mercenario del soldato Bordin. Gli sceneggiatori non accolgono le richieste. Il 25 maggio iniziano comunque le riprese. Lo scenografo Mario Garbuglia e Monicelli hanno accuratamente visionato materiali originali dell’epoca, soprattutto le piccole raccolte di foto dei soldati, il cui racconto di miseria e squallore si oppone radicalmente alle gloriose, patinate immagini ufficiali propagandate dai giornali e dalla pubblicità. Scenografo e regista cercano di ricreare «la crudezza di quelle luci, (…) quell’accozzaglia di contadini semi-analfabeti, con scarpe sfondate, le mantelle sdrucite, le brache infangate»6. Innaffiano terreno e comparse di grandi quantità di acqua per riprodurre quel fango che intride le pagine di Un anno sull’altopiano (1938) di Emilio Lussu o di Trincee, confidenze di un fante (1924) di Carlo Salsa, tra i testi letterari studiati nella fase preparatoria7. Monicelli dà indicazioni al direttore della fotografia Giuseppe Rotunno di avvicinarsi al tono irreale, alla fotografia dei vecchi documentari girati dagli operatori della guerra mondiale. Per ottenere quel tono dimesso e desolato delle immagini d’epoca, si sottopone la pellicola a un leggero viraggio color seppia. Blasetti viene chiamato a girare alcune scene in esterno8. «Il set era quasi sempre vastissimo, si attestava fra i monti e le pianure del Friuli (…). Il maresciallo delle operazioni, un Monicelli in gran forma, alternava le cazziate con gli scherzi magniloquenti (…). A sera si mangiava e beveva come veri alpini, nelle tambe (…) scovate dall’infallibile fiuto dei macchinisti; scorreva il cabernet, il Merlot (…). E giù racconti (…). Sordi. Un grande comico e un partner stimolante: Vittorio se la spassava a girare con lui, dialogando e improvvisando con una perfetta scelta di tempi, una tecnica esemplare. Ma stava anche con gli occhi aperti, era un combattimento, Sordi è un professionista con la zampata sempre in agguato»9. 64
A settembre il film viene presentato al festival di Venezia, dove vince il Leone d’oro ex aequo con Il generale Della Rovere di Rossellini. Nel distretto militare i coscritti vengono visitati e se abili, arruolati. Il piantone Oreste Jacovacci (Alberto Sordi), romano, fa intendere al milanese Giovanni Busacca (Vittorio Gassman) che dietro compenso lo farà riformare. Non è così. I due si ritrovano in guerra, tra loro si stabilisce una certa affinità, all’insegna di una comune estraneità alla guerra e della voglia di salvarsi la pelle. A Tigliano attendono d’essere mandati al fronte. Giovanni conosce Costantina (Silvana Mangano), una prostituta con la quale scambia piccoli inganni, solitudine e affetto. Al fronte i due scansafatiche riescono a cavarsela, non brillando per ardore militaresco. La dura vita di guerra è scandita dalle lunghe attese, dai rimbrotti dei soldati, dalla distanza dei generali. Nelle trincee si intrecciano le storie e i dialetti dei commilitoni: Nicotra (Tiberio Murgia) fan di Francesca Bertini, Bordin (Folco Lulli), sempre pronto a sostituire gli altri soldati in cambio di poche lire da inviare alla famiglia, Giacomazzi (Luigi Fainelli), analfabeta costretto a inseguire il tenente per farsi leggere le lettera della fidanzata. All’umanità del tenente Gallina (Romolo Valli) si contrappone la durezza del tenente Loquenzi (Mario Valdemarin), che minaccia processi e dispensa gratuiti biglietti di punizione. Nella notte durante la quale si consuma la sconfitta di Caporetto, Busacca e Jacovacci si trovano in un distaccamento. Mandati in missione ne approfittano per riparare in una stalla, postazione italiana che nella notte viene abbandonata e occupata dagli austriaci. Scoperti dai nemici, i due vengono minacciati di morte se non danno informazioni. Quando stanno per cedere, l’offesa dell’ufficiale che li interroga spinge Giovanni a un moto d’orgoglio. Sarà fucilato sotto gli occhi di Oreste, il quale tenta fino all’ultimo di salvarsi la vita negando di avere le informazioni richieste. Intorno ai corpi esanimi dei due, l’esercito italiano passa al contrattacco.
Perché tanto scandalo? Perché l’America ha prodotto film critici verso il primo conflitto mondiale (come All’Ovest niente di nuovo, All Quiet on the Western Front, Lewis Milestone, 1930; Addio alle 65
armi, A Farewell to Arms, Frank Borzage, 1932), così come la Francia (a titolo esemplificativo: La grande illusione, La grande illusion, Jean Renoir, 1937; Il diavolo in corpo, Le diable au corps, Claude Autant-Lara, 1947); mentre in Italia, nell’Italia repubblicana, la produzione cinematografica resta sclerotizzata intorno all’immaginario patriottico più retorico e corrivo, qual è quello di Il caimano del Piave (Giorgio Bianchi, 1950), di Fratelli d’Italia (Fausto Saraceni, 1952) o di I cinque dell’Adamello (Pino Mercanti, 1954)10? D’Agostini osserva che La grande guerra rompe con «gli schemi di nazionalismo ancora saldamente ancorati alla mentalità di destra»11. È un segno del fatto che la repubblica non è riuscita a opporre all’idea di patria qualificata come fascista un’alternativa condivisa e capace di agglomerare il sentimento nazionale. Il mito diventa un rifugio, assoluzione dalle responsabilità storiche; evita i confronti e costituisce una semplificazione rispetto alla difficile composizione della pluralità delle memorie comunitarie in un quadro unico. «Fino a La grande guerra, il conflitto ’15-’18 era considerato una sorta di lotta di liberazione contro lo straniero. In realtà è stata una carneficina programmata da politici senza scrupoli, industriali avidi e generali ottusi»12. Riflettere su La grande guerra significa dirimere un groviglio di questioni: la Grande Guerra sembra essere stato un vaso di Pandora che una volta aperto ha sprigionato le patologie nazionali. Oggi gli storici riconoscono al film il merito di aver sfatato un monolite interpretativo, anticipando i revisionismi storiografici: «la memoria cinematografica del primo conflitto mondiale (…) deve molto (…) a La grande guerra» perché ha contribuito «a far emergere e a diffondere punti di vista assai diversi rispetto all’oleografia dell’interpretazione patriottica della guerra, un’interpretazione ancora in vigore quando [il film] fu girato»13. Non si tratta soltanto di fornire un’immagine realistica della guerra: di raccontare la morte – che fa letteralmente a pezzi uomini e cose – attraverso una mano conficcata nel terreno; di ricordare la quotidianità brutale delle trincee, che capovolge il senso delle cose, inducendo Sordi a usare il fuoco dei cecchini al di sopra della trincea per forare la padella, come Charlot aveva fatto in passato per accendersi il sigaro in Charlot soldato (Shoulder Arms, Charles Chaplin, 1918). La grande guerra 66
non è un generico atto d’accusa contro la crudeltà della guerra. Entra nel merito dei fatti bellici, consegnando al sapere pubblico elementi circostanziati, individuati in seguito dagli storici come responsabilità precise e ancor prima denunciate da certi romanzieri. I bersagli sono l’assurdità dei comandi, come quello che il sottotenente Loquenzi impartisce a un soldato, facendogli perdere la vita solo per recapitare un telegramma d’auguri (e che ricorda la follia omicida del generale Leone nel romanzo di Lussu); la lontananza degli alti comandi («Noi siamo qui» dice un maggiore a un colonnello che gli intima di andare all’attacco); le condizioni miserevoli in cui venivano tenuti i soldati (infestati dai pidocchi, affamati o sfamati con un rancio inadeguato); l’eccessiva burocrazia militare e il ruolo operativo affidato a militari burocrati; la mancanza di mezzi («Devo portare i miei uomini al macello senza artiglieria», dice un colonnello). «Non erano i soldati l’obiettivo dei nostri strali, piuttosto i superiori, gli ufficiali dell’esercito, lo Stato italiano»14. La grande guerra – attraverso le vicende dei due antieroi – smitizza sopratutto il sedicente fatalismo rassegnato e docile dei soldati: è in particolare la figura di Busacca che deplora di continuo la guerra, a esprimere una dimensione politica anche se approssimativa, a incrinare il luogo comune dei fanti passivi e acquiescenti, insinuando nelle pieghe del discorso la motivazione reale di tanta rassegnazione, cioè il ferreo autoritarismo, il consenso basato sulla repressione15. «Ma lo sai che se i nostri vengono a sapere che lo abbiamo detto per lo meno ci fucilano?», dice Busacca a Jacovacci poco prima di essere ucciso dagli austriaci. Se il gesto finale di Busacca è imputabile all’orgoglio personale, quello di Jacovacci resta inspiegabile: è in questa sua indeterminatezza che La grande guerra rifugge ogni mistica eroica, lasciando in sospeso un gesto che non è motivato da nessuna parabola del personaggio (che era e resta un vigliacco), quanto piuttosto dalla paura di finire fucilato in ogni caso. Si profila qui la dimensione sociale e politica del conflitto su cui la storiografia si è focalizzata a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, il cui obiettivo polemico era lo schema della truppa prona, utilizzato tanto dalla propaganda fascista quanto dalla lettura liberale. Toccare il mito della Grande Guerra significava allora 67
portare alla superficie profonde e antiche spaccature: la natura minoritaria del conflitto, la mancata nazionalizzazione delle masse, i limiti e le colpe della classe dirigente scaricati sugli antagonisti politici e sul popolo accusati di disfattismo. Ogni diverbio di tipo storico venne annullato nella memoria mitica reinventata dal fascismo, la cui narrazione fondeva una chiara dialettica sociale (la “truppa sacrificale”) in una simbologia mistica. Per esempio il Sacrario Militare di Redipuglia (1938) – una delle narrazioni visive fasciste del primo conflitto più grandiose16 – assembra le salme dei caduti su ampi gradoni (alla base la tomba del Duca d’Aosta, comandante della III Armata) alla cui sommità si trova una cappella sormontata, come il Golgota, da tre grandi croci. Il “Presente” scolpito su ogni gradone indica la volontà del milite ignoto di rispondere a un comando, di servire la patria: ma evoca anche una narrazione simbolica che si basa strumentalmente sull’enfasi demagogica del presente, scalzando così dal racconto ogni passato problematico (Fot. 17).
Ma il mito della Grande Guerra – anzi i miti, perché quello di Monelli è diverso da quello del fascismo, come da quello dei giornalisti repubblicani che intervennero contro il film, pur nella inconsapevole continuità – facevano comodo anche all’Italia repubblicana, che in questo palesava il mancato affrancamento rispetto al ventennio nero. In un certo senso il primo dopoguerra attiva gli stessi meccanismi di dimenticanza e d’oblio (e di mitizzazione) che saranno propri del secondo dopoguerra, investendo in quest’ultimo caso un’altra pietra fondativa – quella della Resistenza – e svelando ancora una volta il difficile rapporto tra la fragilità della memoria e l’incertezza identitaria dell’età repubblicana. Portando alla luce quel “noi diviso” di cui parla Remo Bodei17. E di cui ci parla anche la commedia all’italiana.
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Fare i conti con il mito della Grande Guerra significava abbattere anche le mistificazioni e gli squilli di tromba del regime. In questo senso sono importanti le canzoni popolari di guerra – poste in testa ai vari capitoli della vicenda – che ribaltano l’epica della propaganda patriottica fascista, dando voce al racconto anonimo del popolo. 68
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Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano, 2003, p. 114 (tit. or.: La Mémoire, l’histoire, l’oubli, Seuil, Parigi, 2000). È lo stesso Vincenzoni che fornisce questa versione, più convincente, dei fatti in La grande guerra, Cappelli, Bologna, 1979, p. 50. Il volume, curato da Franco Calderoni, contiene il soggetto originale di Vincenzoni e il trattamento, oltre a ricostruire la genesi del film e le polemiche che ne anticiparono l’uscita, di cui riferiamo nel seguito del testo. Si fa riferimento all’introduzione, firmata da Monelli, della riedizione del 1978: La guerra è bella ma scomoda, Garzanti, Milano, p. 8. Mario Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, il Mulino, Bologna, 1989, p. 215. Fascicolo La grande guerra, CF 3001, Archivio Centrale dello Stato di Roma, fondo Ministero Turismo e spettacolo. Divisione Cinema; foglio del 27/1/59. Anche la ricostruzione delle varie fasi della sceneggiatura a cui faccio riferimento è desunta dal fascicolo in questione. Mario Monicelli, “Quando li arrotolai nel fango” in Renzo Renzi con Gian Luca Farinelli, Nicola Mazzanti (a cura di), Il cinematografo al campo. L’arma nuova nel primo conflitto mondiale, Transeuropa, Bologna, 1993, p. 137. Dice Monicelli: «Posso citare alcuni libri che prendemmo in considerazione: Con me e con gli alpini di Jahier, Giorni di guerra di Comisso, Vent’anni di Alvaro, La vita militare di De Amicis e Il fuoco di Barbusse, poi Il fango delle fiandre
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di Deville, (…), Pagine polemiche di Cadorna. E pochi altri, perché l’argomento difficilmente veniva trattato con un’ottica non falsata dal mito», Sebastiano Mondadori, La commedia umana. Conversazione con Mario Monicelli, cit., p. 108. Tullio Kezich, Alessandra Levantesi, Dino. De Laurentiis, la vita e i film, Feltrinelli, Milano, 2001, p. 144. Vittorio Gassman, Un grande avvenire dietro le spalle, Longanesi, Milano, 1981, pp. 139-140. Si veda al proposito: Nicola Bultrini, Antonio Tentori, Il cinema della Grande Guerra, Nordpress, Brescia, 2008. Sul cinema della Grande Guerra anche: Andrea Giaime Alonge, Cinema e guerra. Il film, la grande guerra e l’immaginario bellico del Novecento, Utet, Torino, 2001. Paolo D’Agostini, Romanzo popolare. Il cinema di Age e Scarpelli, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1991, p. 57. Mario Monicelli (a cura di Steve Della Casa e Francesco Ranieri Martinotti), Il mestiere del cinema, Donzelli, Roma, 2009, p. 13. Nicola Labanca, Caporetto storia di una disfatta, Giunti, Firenze, 1997, p. 118. Sebastiano Mondadori, La commedia umana. Conversazione con Mario Monicelli, cit., p. 109. Il carattere ferocemente repressivo delle corti marziali è stato analizzato da Enzo Forcella, Alberto Monticone in Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Laterza, Bari, 1968. Un contributo fondamentale alla messa a fuoco dell’ideologia della rassegnazione dei soldati si deve a Mario Isnenghi, Il mito della Grande Guerra, cit.. «La legittimazione storica del regime e la formulazione di una sua religione civile si costruirono sull’affermazione di una continuità tra esperienza della guerra ed esperienza fascista (…), tra il sacrificio dell’italiano soldato e quello dell’italiano fascista». Patrizia Dogliani, “Redipuglia”, in Mario Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria. Simboli e miti dell’Italia unita, Laterza, Bari-Roma, 1996, pp. 375-389, p. 381. Remo Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, Einaudi, Torino, 1998.
TUTTI A CASA (1960), IL TEMA DEL RITORNO
«L’8 settembre del 1943, il momento in cui le istituzioni mostrano la loro fragilità, frantumandosi o semplicemente dissolvendosi. È questa l’ora in cui ciascuno si trova generalmente più solo davanti a se stesso, poiché si sgretola il conglomerato di realtà plurime e di “convergenze sentimentali” su cui, in genere, i più avevano fino ad allora fatto affidamento: affetto per la propria famiglia, devozione per la dinastia dei Savoia, fedeltà allo Stato e adesione al Partito Nazionale Fascista. Ma è anche la pietra di paragone per valutare l’attitudine etica degli italiani – pur nelle diverse motivazioni dei singoli – dinanzi a improvvisi e catastrofici avvenimenti.» Remo Bodei1
Galeotto fu un treno: Age e Comencini sono in viaggio per lavoro, di notte, verso Milano e si mettono a chiacchierare, esperienze passate, vecchi ricordi. Il discorso cade sull’8 settembre del ’43, i rispettivi flashback s’incrociano. Si dicono: fu un evento incredibile della storia italiana apprendere da un disco radiotrasmesso la sterzata delle vicende belliche, il cambio delle alleanze, il nemico diventato alleato e l’alleato nemico, senza spiegazioni, senza consegne. Una storia da farci un film. Il progetto prende forma, insieme a Scarpelli stendono un trattamento: l’idea è quella di raccontare il viaggio dal Nord al Sud di un sempliciotto, anzi meglio un piccolo-borghese, uno che dovrebbe comandare ma è così imbevuto di propaganda da non capire – una volta fuori dai binari – cosa si deve fare. Si pensa a Sordi, dopo La grande guerra sotto contratto con De Laurentiis. La storia entusiasma il produttore che spera di bissare il successo di La grande guerra con il seguito La guerra continua!. Non è quella 71
l’idea dei tre, Comencini però abbozza. La faccenda si complica, De Laurentiis nicchia avendo saputo che Gianni Puccini dirigerà un film sullo stesso argomento, Il carro armato dell’8 settembre (1960). Invece, alla fine, il film parte; non lo ferma nemmeno il rifiuto del ministro della Difesa Andreotti di prestare i carri armati dell’esercito. Si gira in varie parti d’Italia, da Livorno ad Adria, da Gaeta a Napoli. La troupe è allegra. Sordi però si rifiuta di girare il finale previsto dal copione: immagina il suo personaggio talmente annichilito da non accorgersi neppure dell’arrivo degli americani. Tuttavia il regista insiste per la presa di coscienza finale e la spunta. Riesce anche a convincere Eduardo De Filippo a interpretare un ruolo che da principio non lo convinceva, quel padre sordo ai capovolgimenti della Storia. Il film è un successo. Viene inviato al festival di Mosca, dove si aggiudica un premio speciale. Sordi vince il David di Donatello per la migliore interpretazione, De Laurentiis quello come miglior produttore. Comencini però si dispiace che la copia originale del film subisca qualche cambiamento, compromettendo il significato politico dell’opera. Per lui doveva essere un film didattico, comprensibile anche a quei giovani che di quei fatti non ne sapevano niente, perché erano un tabù, a scuola non venivano insegnati2. Coste venete, 8 settembre 1943: mentre il tenente Innocenzi (Alberto Sordi) svolge il consueto addestramento del suo plotone, la radio trasmette la notizia dell’armistizio. L’ambiguità del proclama di Badoglio e la mancanza di ordini superiori precipitano i soldati nel caos, mentre i tedeschi – fino a quel momento alleati – aprono il fuoco sulle postazioni italiane. Chi è contro chi? Il tenente Innocenzi in un primo momento crede che i tedeschi si siano alleati con gli americani. Poi cerca di condurre il suo plotone al raggruppamento, ma i segni dello sfaldamento sono evidenti, i graduati disertano, un soldato dice: «Signor tenente, qui se ne vanno tutti» e quello risponde: «Tutti chi? Siamo tutti qui». Invece Innocenzi resta solo con il geniere Ceccarelli (Serge Reggiani). La visione di un treno tedesco carico di prigionieri italiani gli chiarisce la situazione. I due raggiungono un casolare, si uniscono ad altri commilitoni lì rifugiati; in borghese il nuovo gruppo intra72
prende il viaggio di ritorno. Dice il tenente: «Andiamo a casa», grida un soldato: «Tutti a casa fradei!». Il loro capitano (Mario Feliciani) si unisce ai partigiani. Il tenente, Ceccarelli, il sergente Fornaciari (Martin Balsam) e Codegato (Nino Castelnuovo) proseguono in treno; conoscono una ragazza ebrea (Carla Gravina) che ha perduto tutto e racconta scorata: «Non ho più casa». Un disastro ferroviario scompagina il gruppo; Innocenzi si allontana per cercare aiuto; ma poi accetta la proposta di un passaggio sul camion di una contrabbandiera diretta a Roma; a lei il tenente confessa, quasi a giustificarsi con se stesso: «il re (…) se n’è andato a Brindisi, allora io me ne vado a casa mia». Un guasto li costringe a fermarsi in un paesino bombardato, sui muri diroccati si leggono le scritte: «Per noi fascisti le frontiere tutte le frontiere sono sacre non si discutono si difendono», «Senza casa possiamo vivere senza patria no!». Arrivano anche i soldati del tenente, con i quali scoppia un duro alterco. Innocenzi si separa da loro, ma li ritrova poco dopo sul traghetto per passare il Po. I dissapori spariscono davanti ai tedeschi, che vogliono la ragazza ebrea. Per difenderla Codegato muore. Gli altri tre trovano riparo a casa di Feliciani, dove è ospitato anche un soldato americano. La simpatia e le confidenze prendono il posto dell’iniziale diffidenza; «Per me è finita, io me ne vado a casa» dice il tenente; e all’americano che chiede perché gli italiani tutti insieme non hanno rifiutato la guerra se non la volevano, il tenente risponde: «Tutti insieme (…) ma ormai?». Quella stessa notte arriva una retata fascista. Ceccarelli e il tenente riescono a fuggire. Finalmente arrivano a Littoria, a casa Innocenzi, dove il vecchio padre (Eduardo De Filippo) per un malinteso senso dell’onore, per la fame, li vorrebbe costringere a ripresentarsi al comando. Così, di soppiatto, alle prime luci dell’alba il tenente se la svigna insieme al geniere dalla finestra. La fuga dura poco, i due disertori vengono spediti ai lavori forzati; Innocenzi riesce a scappare, Ceccarelli viene ucciso dai tedeschi morendo tra le braccia del tenente. Sono a Napoli, è il 28 settembre 1943, data di inizio delle Quattro Giornate; intorno a loro infuria l’insurrezione popolare, Innocenzi imbraccia il mitra di un partigiano e inizia a sparare.
Il manifesto del film è opera di Enrico De Seta, giornalista disegnatore e cartellonista, in forze al «Marc’Aurelio»3. Per l’affissione 73
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l’illustratore concepisce un titolo graficamente originale (Fot. 18): i bordi smangiucchiati, i caratteri insaturi, l’andamento irregolare della frase, sembrano ricalcare una scritta fatta a mano, alla bell’e meglio, su un muro. Sembra un graffito artigianale, prodotto da un impulso del momento: la vernice non è nemmeno sufficiente a riempire tutte le lettere. Sembra parlarci di un desiderio improvviso di fissare un lampo emotivo, una sensazione impellente che si vuole rendere pubblica, uno scarabocchio sui muri per farne partecipi tutti. Quella scritta racconta una gioia improvvisa: la fine della guerra, il ritorno a casa. Però c’è qualcosa che non torna, un elemento stonato: una esse sbagliata, rovesciata. Un errore? Un segno che ci dice – letteralmente – che qualcosa è andato storto. Le cose non sono come si credeva. Chi sono “tutti”? All’inizio del film quel “tutti” è un’unità molto chiara. Sono i soldati del plotone capeggiato dal tenente Innocenzi, impegnati nelle azioni di tutti i giorni, organizzati in una gerarchia precisa, collocati in uno spazio proprio, quello della caserma. Sono lì per difendere la patria: sono lì per tutti gli altri, anche quelli che sono rimasti a casa, li proteggono oltre a rappresentarli. Oltre a essere un “tutti” chiaro a tutti, è anche molto ampio, comprende molte cose: la caserma, il presidio, l’esercito, la nazione, anzi l’Asse, quella degli italiani con i tedeschi, contro gli americani. Con l’annuncio di Badoglio, si consuma la prima scissione, l’Asse va in pezzi. Il contraccolpo scuote i quadri mentali del tenente – Tutti chi? Chi è contro chi? – il gruppo perde insieme alle certezze, il proprio spazio fisico (la caserma), ma lo spazio istituzionale non è compromesso: la gerarchia interna regge e il tenente continua a comportarsi come ha imparato, lo afferma imperioso quando dice a un soldato che vuol disertare: «Siamo tutti qui». Sarà un treno “epifanico” a mandare in crisi le consolidate abitudini mentali: si 74
rende conto che l’alleanza di cui era parte non c’è più. Un altro treno, un nuovo gruppo: i quattro soldati italiani si uniscono alla ragazza ebrea. Non sono proprio tutti quelli di prima; però sono un crocchio di persone che pur avendo perso la propria appartenenza nel presente, ne intravede un’altra nel futuro: la casa di ognuno, a cui ognuno vuol ritornare. “Tutti a casa” per la prima volta si dice nel film, lo dice il tenente, lo ripete un soldato. Il proprio guscio diventa compensazione e sostituzione di un’appartenenza allargata ormai impossibile. La “casa” ha sostituito nelle aspirazioni il “tutti” (ma per qualcuno – la ragazza ebrea che non ha più casa – anche questa è una via ormai preclusa). Tra le macerie del sogno collettivo si fa strada la speranza del focolare, del privato. Non è un cambiamento privo di rischi: caduta ogni barriera, tenute su da volontà passive – le frontiere non di discutono ma si difendono, dice la scritta fascista sui muri – non c’è più argine al “liberi tutti”. Quando la Storia grida “rompete le righe”, gli uomini abituati a obbedire se ne vanno per i fatti propri. Questa volta sarà infatti il tenente a infrangere il tacito patto stretto con tutti gli altri. Li abbandona, come lui è stato abbandonato dal suo re: perduta l’adesione supina a ogni senso collettivo, salta dall’altra parte della barricata dove si apre lo spazio dell’individualismo più assoluto. Alle scissioni subite e ormai interiorizzate, Innocenzi risponde cedendo alla tentazione della disgregazione. Ma l’aggressione dall’esterno – i tedeschi – rende impossibile fronteggiare da soli il corso degli avvenimenti. Il gruppo giocoforza si ricompatta, sono di nuovo tutti insieme quando arrivano alla meta agognata, la casa di Feliciani. Ma si è al sicuro? Ci si può fidare dell’americano? Saranno i fascisti a spaccare la ritrovata unità degli uomini, a far vacillare l’idea della casa come luogo sicuro a cui ritornare. Restano soli, il tenente e Ceccarelli, ultimi superstiti del “tutti” perduto. A casa del tenente si consuma l’ultima separazione, quella del nucleo per eccellenza, la famiglia: nella cecità del padre si commette il tradimento dell’idea stessa di casa. Con la morte di Ceccarelli va in pezzi anche l’ultima parvenza di gruppo. L’unità iniziale si rompe, nuovi nuclei si compongono e si dissolvono; il privato subentra al collettivo, ma è solo un’altra illusione. Sconfitte sul campo tutte le convinzioni precedenti, frantumata la 75
loro accettazione acritica che rende impreparati ai rovesci della Storia (visualizzati dalla esse rovesciata del titolo), si apre finalmente lo spazio della scelta. È quello che fa Innocenzi, non più tenente, non più figlio. Il tema del film è – denunciato nel titolo – quello del ritorno; ma il suo nucleo drammatico è la sconfessione di un’appartenenza subìta servilmente, origine di un’identità instabile. In un certo senso il discorso storico si allarga alle tensioni del presente, interpretando sentimenti e interrogativi propri della contemporaneità degli anni Sessanta. L’8 settembre, una data simbolica delle fratture italiane, assume allora un significato duplice. D’altro canto, «perché la memoria popolare si risvegli politicamente occorre un rapporto attivo, occorre che il presente bussi alla porta»4. Non è infatti un caso che altri film nel periodo – Il generale Della Rovere, La lunga notte del ’43 (Florestano Vancini, 1960) – ritornino su questi temi. Guido Crainz5 spiega come il ripensamento del passato prossimo nazionale (in particolare il paradigma antifascista e la Resistenza) siano da porsi in relazione con una trasformazione più complessiva della società e dello stato e con un mutato clima politico interno e internazionale. Tutti a casa esce nell’ottobre del 1960. Nel luglio di quello stesso anno i drammatici scontri di Genova e Reggio Emilia vedono scendere in piazza nuovi protagonisti politici (i giovani) a fianco degli ex partigiani, in una manifestazione antifascista che presto assume i contorni di protesta politica contro il governo. Dopo la caduta del governo Tambroni, una circolare del nuovo ministro della Pubblica Istruzione dispone che l’insegnamento della storia alle superiori non si arresti alla Prima guerra mondiale ma sia portato fino alla Costituzione, di fatto superando l’oblio che avvolgeva quel periodo della storia nazionale. Il presente bussa alla porta del passato. Questo ponte tra passato e presente è del resto insito nel tema stesso del ritorno (poiché un ritorno presuppone un movimento trascorso), invocato nella prima sequenza del film, quando il tenente Innocenzi, ancora ignaro dei disegni della Storia, porta in giro il suo battaglione facendogli cantare – come da ordine impartitogli – un inno patriottico. La marcetta è Il ritorno del legionario di Nino Ciavarro, l’unico inno che il tenente dichiara di conoscere. L’associazione tra il ritorno e il reduce è profondamente radicata 76
nell’immaginario comune, tanti sono i film che mettono in scena il ritorno del reduce associando implicitamente i due termini: da I migliori anni della nostra vita (The Best Years of Our Lives, William Wyler, 1946) a Sentieri selvaggi (The Searchers, John Ford, 1956). È l’archetipo – l’Odissea di Omero, il poema del ritorno per antonomasia – che stabilisce questo connubio, e che determina anche il collegamento tra passato e presente, tra conoscenza e ricordo dell’avvenuto. D’altro canto “tornare”, etimologicamente, significa girare al tornio, lavorare il tornio, compiere un movimento ciclico; questa declinazione del lemma è infatti assunta dalla filosofia attraverso la nozione dell’“eterno ritorno” (Pitagora, Platone e Nietzsche) che identifica la storia come ripetizione ciclica, dunque necessaria all’intellegibilità del presente. Tutti a casa interpreta il tema e l’archetipo in modo personalissimo: il ritorno apre lo spazio a una serie infinita di possibilità; considerati gli elementi dati e la quantità di bivi narrativi, altre cose sarebbero state possibili rispetto a quelle che si sono realizzate e «nel pensare la realtà storica come una selezione dei possibili esiti (…) si costruisce anche uno spazio presente di possibile presente»6. L’aleatorietà del carattere grafico del titolo, la sua mancanza di pienezza e determinazione, non è solo dunque dettata dall’urgenza emotiva dell’istante, ma è anche apologo delle sconfinate potenzialità del racconto, memento di quei passati che non si sono compiuti, monito a scegliersi – criticamente – un presente.
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Remo Bodei, Il noi diviso. Ethos e idee dell’Italia repubblicana, cit., p. 3. Le informazioni sono tratte da Franca Faldini, Goffredo Fofi, L’avventurosa storia del cinema italiano raccontata dai suoi protagonisti, 1960-1969, Feltrinelli, Milano, 1981, pp. 91-93. Fabrizio Natalini ricostruisce precisamente la vicenda della copia modificata del film in “Tutti a casa” in Adriano Aprà (a cura di), Luigi Comencini. Il cinema e i film, Marsilio, Venezia, 2007, pp. 154-160. De Seta nasce a Catania, nel 1908. Quindicenne fonda con Flaiano il settimanale studentesco «Il cerino». È l’inizio di una lunga carriera che lo porterà a far parte delle redazioni di «Sancio Pancia», «Gente nostra», «Il tifone»; dal 1930 è
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a «Il Travaso». Nel 1937 fonda il giornale a fumetti «Argentovivo!» e dal 1938 collabora con il «Marc’Aurelio», dove crea il leggendario Mago Bacù. Dal dopoguerra inizia a dipingere per il cinema, diventando uno dei più noti cartellonisti italiani: suoi, tra gli altri, i manifesti per I vitelloni, L’arte di arrangiarsi, Il medico della mutua, Mafioso. Sui cartellonisti: Il cinema dipinto, Anica, Roma, 1995. Michel De Certau, Jean Chesneaux, “Il film storico e i suoi problemi” in Gianfranco Miro Gori (a cura di), La storia al cinema, Bulzoni, Roma, 1994, pp. 381395, p. 382. Guido Crainz, Storia del miracolo italiano, cit. pp.163-188. Michel De Certau, Jean Chesneaux, Il film storico e i suoi problemi, cit., p. 387.
IL CORPO DELLA NAZIONE: DIVORZIO ALL’ITALIANA (1961)
«Il matrimonio (…) è una cosa seria. Alla donna spetta solo di obbedire: padrone onnipotente è colui che porta i calzoni (…). A queste cose le donne del giorno d’oggi mal si adattano (…). Ricordatevi che facendo di voi la mia metà, è il mio onore (…) che io affido a voi; che questo onore è delicatissimo, e poco basta a ferirlo.» Molière1 «La vita del Barone siciliano Ferdinando Cefalù è giunta, proprio sulla soglia dei 40 anni, a un punto pericolosamente critico: il patrimonio familiare è ormai, da generazioni, in pieno dissesto, la voglia di vivere, l’impulso vitale, sempre più fievole, nel sordo ambiente provinciale che lo circonda, la sua stessa vita familiare ormai alle soglie del fallimento. Rosalia, sua moglie, è una brava donna, ma, un matrimonio in piedi ormai da dodici anni l’ha privata di ogni attrattiva e di ogni segreto; e questo legame sarebbe di per sé abbastanza pesante per il barone Ferdinando anche se non avvenisse, in una certa estate, l’arrivo in città di una cugina, Angela, di cui Ferdinando s’innamora (…). Si accende per quella fanciulla timorosa e riservata di una passione inconfessata ma cieca, che un giorno divampa più alta quando egli scopre che anche Angela è innamorata di lui. Da quel momento il vincolo con Rosalia diventa per Ferdinando insopportabile. La sua mente elabora e scarta uno dopo l’altro vari progetti, tutti aventi lo scopo di liberarlo dalla moglie (…). Ma quando proprio sembra che a nessuno di questi progetti si possa dare corpo arriva in città Carmelo Patanè, un pittoruncolo che in gioventù è stato il grande amore di Rosalia (…). Ferdinando è abbastanza abile da saper manovrare e 78
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riavvicinare i due innamorati di un tempo (…): il che puntualmente avviene (…). L’opinione pubblica pone Ferdinando in una situazione di schiacciante, intollerabile inferiorità, alla quale non si può reagire che in un modo: facendo giustizia, ripristinando l’onore della famiglia infangata, facendo vendetta sulla moglie pubblicamente fedifraga. Ed è per puro caso che questa catarsi intesa a restaurare l’onore della famiglia Cefalù consente nello stesso tempo a Ferdinando, ormai vedovo, di sposarsi e di godersi l’incantevole cugina.»
Questo il soggetto originale del film del marzo del ’61, consegnato dalla produzione Lux-Galatea-Vides alla Direzione Cinema per la revisione preventiva. Rispetto alla sceneggiatura definitiva2 ci sono, ovviamente, solo i nuclei fondamentali della storia. Manca per esempio il cappello introduttivo, in cui il barone Ferdinando detto Fefè (Marcello Mastroianni), torna a casa dopo aver scontato la pena detentiva e che configura tutto il racconto come un lungo flashback. Non sono specificati alcuni episodi satellitari, come la morte di don Calogero per infarto, causato dalla scoperta della liaison del barone con la figlia Angela (Stefania Sandrelli); né la relazione tra la sorella di Ferdinando e Rosario Mulé (Lando Buzzanca); e non appaiono alcune articolazioni narrative interne riguardanti la tresca tra Rosalia (Daniela Rocca) e l’amante (Leopoldo Trieste). Eppure il soggetto è molto diverso rispetto alla sceneggiatura e al film, dove il barone ha un ruolo decisamente più attivo. Pure il titolo è diverso, nel soggetto è Capriccio all’italiana; ma nello stesso periodo in cui la pratica è al vaglio della commissione, il film viene invece pubblicizzato sulla stampa specializzata con il titolo definitivo, come risulta dalla locandina di lancio apparsa nella copertina interna di «La Fiera del Cinema» del maggio 1961 (fot. 19). Il produttore aveva anzi diramato un comunicato tattico nel quale «si precisava che Germi aveva rinunciato a girare Divorzio all’italiana e che iniziava invece un film dal titolo Capriccio italiano (…), mossa diversiva per distogliere la sempre vigile attenzione della censura»3. I censori sembrano rassicurati: confidano che il tono umoristico del copione ammortizzi il portato critico; anche se si chiedono quanto il sottinteso polemico relativo al divorzio sia «accessibile alla massa degli spettatori», sembrano più che altro innervositi dalla supposta 80
Fot. 19
derisione dei carabinieri (nella prima scena in attesa davanti a un poco edificante W.C.), dalla propaganda politica fatta dal parroco dal pulpito; segnalano stizziti il riferimento preciso all’arcivescovo di Genova Siri, al tempo sostenitore di La dolce vita; ma quello che più di tutto li allarma sono i riferimenti sessuali. Il benestare preventivo viene così rifiutato, rimandando il giudizio all’eventuale nulla osta di proiezione in pubblico4. Si può ben comprendere perché Germi – impegnato nelle riprese in interni a Roma dalla fine di marzo – circondi il set del segreto più assoluto, consentendo l’accesso ai giornalisti dietro presentazione di richieste scritte e permessi vistati, inserendo nelle clausole degli attori la consegna al silenzio5. Certo è che il regista, senza il beneplacito anticipato, rischiava grosso. Nel ’53 Visconti non poté realizzare Marcia Nuziale proprio perché il soggetto si occupava del tema del divorzio. L’argomento era nell’orbita del dibattito pubblico 81
fin dal ’47 – da quando la Costituente aveva ammesso la teorica possibilità dell’istituto – ma già da allora trovava forti resistenze, patenti nel controllo sulla produzione audiovisiva; per esempio la Settimana Incom “Le nostre inchieste: il divorzio in Italia” (del 9 agosto ’47) è una smaccata propaganda antidivorzista sotto le mentite spoglie di indagine. Tuttavia le istanze liberali si andavano facendo strada: nel ’58 il socialista Luigi Renato Sansone ripresentò alla Camera, dopo un tentativo andato a vuoto, un progetto di legge sul divorzio (illustrato dal film I fuorilegge del matrimonio di Taviani e Orsini del 1963)6. Nello stesso anno, il ’58, Germi si candida alle elezioni politiche nelle liste del socialdemocratico Giuseppe Saragat7. La sua militanza socialdemocratica gli procura la diffidenza degli intellettuali di sinistra: non piace per nulla per esempio L’uomo di paglia di quello stesso anno, ritratto di un operaio alle prese col più classico dei drammi borghesi – un adulterio –, rappresentazione in forte contrasto con l’iconografia ufficiale comunista, in cui l’identità di classe era contemporaneamente ideologica e di genere, definibile cioè in quanto mascolinità vigorosa, virile e moralmente superiore, per opposizione a quella fiacca e viziosa degli avversari (clericali, borghesi e nobili)8. Germi si dimostra un anticipatore anticonformista: intuisce prima di altri l’evoluzione del proletariato, svincolandone la lettura dai cliché di classe, e affronta certe tematiche – il matrimonio, la famiglia, la posizione subordinata della donna nella società – risalendo alle ataviche radici religiose e culturali che le determinano, aggravate dai problemi del presente: l’analfabetismo, la disoccupazione e l’influenza della Chiesa, implicitamente denunciati nell’incipit di Divorzio all’italiana. Su questa piattaforma d’interessi, fa breccia la sollecitazione della cronaca: «Ricordo che (…) lessi di un ingegnere siciliano, che da Roma dove abitava, era andato a Milano per ammazzare la moglie che lo tradiva. Poi invece ammazzò l’amante della moglie (…) per la strada, in pieno centro (…). Son cose che sanno di favola (…). Anziché ricoverarlo in manicomio per tutta la vita i giudici milanesi l’han condannato a una pena modestissima (…) ed è uscito tra gli applausi della folla»9. Germi non cita un delitto avvenuto al Sud, nonostante i giornali fossero pieni di vicende meridionali del genere: anche Un delitto d’onore di Giovanni Arpino – che esce nel 1960 –, è ispirato a un omicidio d’onore siciliano. Perché Germi elegge la Sicilia a teatro privilegiato del racconto? Non solo 82
perché lì più che altrove permaneva un’incultura barbarica; ma anche perché, per l’autore, «il paesaggio è anche “mitologia collettiva”»10 e un immaginario, rigidamente codificato e largamente condiviso, consentiva di far fruttificare più agilmente il lavoro intorno al paradosso, denudando l’anacronismo amorale proprio grazie al suo incontro con la modernità (quel progresso evocato all’inizio del film). In questo conflitto il grottesco «poteva riuscire là dove erano fallite l’eloquenza e la riflessione sentimentale e spingere gli spettatori a riflettere su argomenti che in fondo ridicoli proprio non erano», in virtù di quella che Germi definisce la legge della “minor resistenza” opposta al registro del comico e del grottesco11. Non si tratta solo di vincere la censura. Gli italiani di quegli anni – molti almeno – sono ancora arroccati in vetuste fortificazioni mentali, attaccati a rigidità ancestrali, quasi agnostici in campo affettivo e sessuale: basta guardare il film-inchiesta di Pasolini Comizi d’amore, che è del 1965, si badi bene. Sul finire del decennio precedente, alcuni indicatori restituiscono l’immagine di un Paese assai restio al progresso in campo civile, e in larga parte contrario al divorzio12. A un “sentire comune” che oggi appare medioevale, fa riferimento anche una sentenza della Corte Costituzionale del 1961, che ribadiva la colpevolezza dell’adulterio della moglie e non quella del marito. «Che la moglie conceda i suoi amplessi a un estraneo è apparso al legislatore, in base, (…) alla prevalente opinione, offesa più grave che non quella derivante dalla isolata infedeltà del marito»13. In quest’Italia arcaica, travolta da una modernità che incrina antiche immobilità e chiusure (ma perpetua vecchie gerarchie, identità e discriminazioni), Germi si muove con lucida circospezione: affonda il proprio racconto nella materia mitica, applica il rigore della logica al dominio dell’assurdo facendo esplodere i paradossi, tirando fuori dal fondo del cliché le contraddizioni del Paese; percorre fino in fondo i luoghi comuni facendoli deflagrare dall’interno. Fefè è un latin lover, anzi un “gallo”, perché lo sciupafemmine per eccellenza – Brancati insegna – è siciliano: basta guardare i casanova di “Gli italiani si voltano” (episodio di L’amore in città, Alberto Lattuada, 1953), associati – non appena entrano in azione – al ronzio del “marrazzano”, tradizionale strumento folclorico e metonimia della sicilianità. E il mondo sonnacchioso e accidioso in cui Fefè vive – rigidamente strutturato da una distinzione di genere sessuale tra sfera pubblica (ma83
schile) e privata (femminile) – è imbevuto di valori primordiali, come l’onore (maschile) e la vergogna (femminile)14. Valori che sembrano appartenere a mondi favolistici e invece appartengono al Codice Penale vigente: «Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni» recita l’art. 587 del Codice Penale allora in vigore: e Germi inquadra proprio la pagina del Codice, quasi a tradurre visivamente la propria incredulità. Si può sorridere dell’onore: lo fa anche Nanni Loy in “Usi e costumi” (episodio di Made in Italy), dove un fidanzato non si scompone davanti alle peggiori informazioni ricevute sulla nubenda (ladra, simulatrice, di carattere violento, con tendenze criminali) e accoglie invece con un sospiro di sollievo l’unica informazione che veramente gli sta a cuore, che ella è illibata. Ma che l’“onore” sia una figura giuridica che legittima l’omicidio, non fa ridere. Se l’onore del maschio – la sua rispettabilità – plasma il sistema sociale stabilendo una disparità nelle gerarchie di genere (in palese contraddizione con i principi egualitari più elementari, tra l’altro sanciti dalla Costituzione), è nel corpo maschile che questa contraddizione identitaria si manifesta in modo evidente. Il corpo di Fefè merita perciò qualche attenzione. L’associazione tra prestanza fisica del maschio e codici morali in cui la rispettabilità gioca un ruolo centrale si stringe in concomitanza con l’affermazione dei nazionalismi novecenteschi, come ha spiegato George L. Mosse, individuando in questo cortocircuito simbolico anche un invisibile vincolo con l’identità di patria – fascista – immaginata come communitas maschile15. Questa egemonia della mascolinità «di massa (in quanto supera le distinzioni di classe) e nazionale (in quanto sovralocale)»16 sopravvive al crollo delle dittature, in quanto prodotta non solo da rapporti di potere, ma anche da un fitto reticolo di implicazioni morali. Ma Fefè è la negazione vivente di questo idealtipo del maschio italiano, possente e rispettabile. Fisicamente non è per niente tonico (Mastroianni dovette infatti ingrassare vistosamente per ricoprire questo ruolo). La sua mollezza fisica – più vicina allo stereotipo dell’aristocratico decadente, femmineo e licenzioso, quello, come dicevamo, assunto dai comunisti come termine negativo – tradisce 84
una contraddizione generatrice di verità: l’incongruenza (rispetto allo stereotipo nazionale) del suo corpo travolge anche l’altro termine del cliché, la rispettabilità, che in effetti – nel caso del barone – è finta, strumentale; Fefè se ne infischia dell’onore suo e della famiglia, come dimostra il suo disinteresse per le calorose trasgressioni della sorella. Che la verità di Fefè sia nel suo corpo lo dicono anche i tic facciali – in termini comici, sussulti dell’inconscio che si verificano «quando il corpo (…) prende il sopravvento sull’anima», ricorda Bergson17 – che svelano le sue vere intenzioni. Secondo Jacqueline Reich il tic – che appare per esempio quando Fefè perde il controllo della situazione perché incapace di maneggiare il registratore – rivela anche il suo status reale: si crede “furbo” ma in realtà è un “fesso” e un “inetto”. La studiosa illustra il percorso narrativo di Fefè come continuo capovolgimento di immagini stereotipiche prodotte dalla cultura dell’onore. All’inizio Fefè si presenta come un “gallo”: elegantemente fasciato in uno smoking, sigaretta a mezz’asta, occhiali da sole dietro cui gli occhi scivolano lascivamente sulle giovani donne che incontra; ma entro le mura di casa il nostro seduttore abbandona l’immagine pubblica e si svirilizza: da tacchino impettito diventa quasi una chioccia scarmigliata e gonfia, trascorrendo il tempo nella cova di fantasticherie. Poi eccolo diventare finalmente un “cornuto”: sembra “cornuto e contento” – come gli urla contro la sorella - perché incapace di reagire all’onta (in realtà noi lo sappiamo contento perché artefice delle sue stesse corna). Tuttavia, affinché si possa attivare quel riconoscimento collettivo che giustifica l’offesa all’onore e l’omicidio, deve dimostrarsi “cornuto e mazziato”. Il funerale – con la pubblica umiliazione al barone – decreta il suo successo: è un “fesso” (per gli altri), quindi un “furbo” (per noi). Ma nel finale – quando diventa veramente cornuto – è un “fesso” anche per noi spettatori. Non è un latin lover, è solamente un inetto, conclude Reich18. È il solo spettatore a conoscere quest’ultima – fondamentale –, verità (proprio come accade in quel rebus sulla verità che è Quarto potere, Citizen Kane, Orson Welles, 1941). Anzi, oltre allo spettatore, è il personaggio femminile – fino ad allora esclusivamente appendice dello sguardo maschile – ad avere il potere della conoscenza. Fino a lì il gioco degli sguardi e dei punti di vista si/ 85
ci confonde: il regista gioca a rimpiattino col punto di vista del personaggio (mescolandosi a esso) e il personaggio strumentalizza il punto di vista degli altri per affermare la propria cinica visione delle cose. In realtà è lo stesso personaggio a vivere un dissidio. Mario Sesti afferma che il conflitto comico si realizza «tra la concezione romantica e drammatica che il personaggio vuole accreditare di sé e l’aspetto paradossale che invece finisce per assumere»19. Il barone si vive come un eroe cavalleresco che combatte per l’amore della sua pulzella: è chiuso autisticamente dentro a un suo mondo, gli sfugge la realtà oggettiva. Cosa vede? Dove guarda?
il soggetto), non guarda lo spettatore. Guarda da qualche parte, in un altrove sfuggente. E in quell’altra locandina, prodotta per le riviste (fot. 21)20?
Fot. 21
Fot. 20
Nel manifesto del film disegnato da Averardo Ciriello (fot. 20) la direzione dei suoi occhi è un enigma: non guarda la pistola, non guarda la donna da lui amata (che ama di una passione “cieca”, dice 86
L’amante della moglie guarda la sua amata, l’amata guarda lo spettatore (un’altra donna che stabilisce un rapporto di complicità con lo spettatore). Fefè legge – insensatamente – la lettera anonima che lui stesso ha fabbricato, il suo sguardo è senza ritorno di conoscenza, come quello di un cieco. Dunque non è solo un inetto: è un uomo cieco. E, se è vero che il corpo del maschio identifica – secondo una lontana associazione – quello della patria, allora è la nazione che vive in una cieca inettitudine.
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Molière, La scuola delle mogli (1662), Rizzoli, Milano, 1978, p. 127. Il soggetto è contenuto nel succitato fascicolo ministeriale per la revisione preventiva. La sceneggiatura originale si trova in: Giorgio Moscon (a cura di), “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, Edizione FM, Roma, 1961, volume corredato da una corposa documentazione. Contenute risultano le modifiche apportate da Germi in fase di ripresa: qualche sequenza è stata soppressa, altre vengono ricollocate dal montaggio in posizione diversa rispetto a quella prevista. 3 Luigi Costantini, I segreti del barone Marcello in «La Fiera del Cinema», maggio 1961, anno III, N. 5, p. 62. 4 Le informazioni sulle indicazioni censorie – così come il soggetto originale del film – si trovano nel già citato fascicolo di Divorzio all’italiana. Praticamente tutte le situazioni scabrose segnalate dai censori vengono conservate nel film; cadrà invece il riferimento all’arcivescovo Siri. Il film riceverà comunque il nulla osta il 18 dicembre, permettendo la prima del film due giorni dopo al cinema Corso di Roma. 5 Luigi Costantini, I segreti del barone Marcello, ivi. 6 La legge sul divorzio arriverà solo nel 1970, debitamente “registrata” dalla commedia all’italiana Il divorzio (Romolo Guerrieri, 1970). 7 Lo annuncia il servizio Nuovi candidati, in «L’Europeo Ciac», 24 aprile 1958 (visibile sul sito dell’Istituto Luce: http://www.archivioluce.com/archivio; E1106; ultima visita: 19 aprile 2010). Anche la Settimana Incom succitata è visibile sullo stesso sito. 8 Si fa riferimento all’analisi di Sandro Bellassai, “Mascolinità e relazioni di genere nella cultura politica comunista (1947-1956)” in Sandro Bellassai, Maria Malatesta (a cura di) Genere e mascolinità, Uno sguardo storico, Bulzoni, Roma, 2000, pp. 265-301. Sulla rappresentazione dell’operaio si veda: Andrea Sangiovanni, Tute Blu. La parabola operaia nell’Italia repubblicana, Roma, Donzelli, 2006. 9 Giorgio Moscon (a cura di), “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, cit., p. 43. 10 L’osservazione è di Mario Sesti, che individua in una concezione “larga” del paesaggio una delle peculiarità di Germi. Mario Sesti, Tutto il cinema di Pietro Germi, Baldini & Castoldi, Milano, 1997, p. 50. 11 La considerazione di Germi è contenuta in un’intervista televisiva rilasciata alla Rai, ora contenuta nel documentario di Sandro Lai, Pietro Germi. Un uomo all’antica (visibile sul sito Teche Rai: http://www.teche.rai.it/sitepages/canali.html; ultima visita: 19 aprile 2010). Si chiede a Germi come mai il cinema italiano sembra essersi allontanato dall’impegno del dopoguerra. Germi replica che, a causa del clima censorio, «è naturale e comprensibile che l’inventività (…) si sia indirizzata verso la strada che offriva la minor resistenza». 12 Così risulta dai sondaggi Doxa effettuati tra il 1947 e il 1965, riportati in 1 2
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Pierpaolo Luzzato Fegiz, Il volto sconosciuto dell’Italia, 1956-1965, Giuffrè, Milano, 1966, pp. 347-366. Sentenza n. 64, anno 1961, relativa all’art. 559 del Codice Penale (http://www. giurcost.org/decisioni/1961/0064s-61.html; ultima visita: 19 aprile 2010) Dal secondo dopoguerra in poi l’antropologia anglosassone ha elaborato un modello teorico di Onore e Vergogna suscettibile di descrivere l’area del Mediterraneo, basato sul sistema patriarcale e strutturato su una serie di dicotomie socio-culturali (la sfera pubblica e quella privata) e di genere (si veda: David Gilmore [a cura di], Honour and Shame and the Unity of the Mediterranean, American Ethnological Association, Washington, 1987). In seguito molti dei concetti espressi dai mediterraneisti sono stati messi in discussione, individuando un contesto molto più eterogeneo, mettendo a fuoco il ruolo della classe dominante e dello Stato e situazioni sociali e di gender molto più articolate (al proposito: Victoria Goddard, “Honour and Shame: The Control of Women’s Sexuality and Group Identity in Naples” in Pat Caplan [a cura di], The Cultural Construction of Sexuality, Routledge, Londra, 1986). George L. Mosse, Sessualità e nazionalismo: mentalità borghese e rispettabilità, Laterza, Roma-Bari, 1996 (tit. or.: Nationalism and Sexuality: Respectability and Abnormal Sexuality in Modern Europe, Fertig, New York, 1985); L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Einaudi, Torino, 1997 (tit. or.: The Image of Man: the Creation of Modern Masculinity, Oxford University Press, New York, 1996). Sandro Bellassai, Mascolinità e relazioni di genere nella cultura politica comunista (1947-1956), cit., p. 268. Henri Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, Bur, Milano, 2001, p. 67 (tit. or.: Essai sur la signification du comique, «Revue de Paris», 1° e 15 febbraio, 1° marzo, 1899). Jacqueline Reich, Beyond the Latin Lover. Marcello Mastroianni, Masculinity, and Italian Cinema, Indiana University Press, Bloomington, Indianapolis, 2004. Nell’analisi dedicata a Marcello Mastroianni, Reich osserva che dietro il mito dell’ipermascolinità si fa strada in realtà la figura dell’inetto (che può assumere tra gli altri la “forma” dell’impotente, del cornuto o della vittima della donna-ribelle), riflesso dell’instabilità politico-sociale del dopoguerra italiano, caratterizzato da una trasformazione dei ruoli di genere. Mario Sesti, Tutto il cinema di Pietro Germi, cit. p. 233. La locandina è tratta da «La Fiera del Cinema», settembre 1961, anno III, N. 9, p. 5.
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IL CORPO NARRATIVO DELLA DONNA: LA VISITA (1963)
«Lo sguardo dell’uomo (…) si posa freddamente sulla donna come per misurarla, pesarla, valutarla, sceglierla, in altre parole, trasformandola in oggetto. (…) La donna non è del tutto disarmata contro questo sguardo. Se viene trasformata in oggetto, essa osserva l’uomo con lo sguardo di un oggetto. E come se all’improvviso un martello avesse gli occhi e guardasse fisso il muratore che se ne serve per piantare un chiodo. Il muratore vede gli occhi maligni del martello, perde la propria sicurezza e si dà un colpo sul dito.» Milan Kundera1
Le donne non sono certo protagoniste nella commedia all’italiana. Se da una parte il genere registra le trasformazioni dei costumi e dei ruoli sessuali (Vedo nudo, Dino Risi, 1969), denunciando molti tabù (Quelle strane occasioni, Loy, Magni, Comencini, 1976), dall’altra raramente ai personaggi femminili assegna un ruolo fondamentale. Di rado le donne sono, da un punto di vista narrativo, motore dell’azione; spesso inoltre il racconto femminile si riduce a rappresentazioni stereotipate: se belle le donne sono immote, se dinamiche poco avvenenti (Il vedovo). Perché il genere – così attanagliato dalle metamorfosi del sociale – ignora le potenzialità di figure tanto capaci di personificare il rinnovamento del periodo? Una ragione risiede probabilmente nella tipologia dello spettatore, come abbiamo visto prevalentemente maschile: le spettatrici infatti sono l’avanguardia di quell’emorragia di pubblico che – già intuibile negli anni Sessanta – si paleserà chiaramente nel decennio successivo. Basta a giustificare l’assenza? Forse le ragioni sono più profonde. Kathleen Rowe si interroga sul legame che esisterebbe tra la commedia (la commedia tout court) e i valori convenzionalmente 90
associabili al femminile, cioè l’antiautoritarismo, l’attenzione al sociale, la circolarità, il bisogno di trasformazione e la generazione di nuova vita (in quest’ipotesi esisterebbe una relazione fra la tragedia e i connotati culturalmente collegabili al maschile, come la difesa dell’autorità e la focalizzazione sull’individuo, la linearità, la rigidità emotiva, sociale e fisica)2. Se ciò è vero, potremmo dire che la rappresentazione del femminile nella commedia all’italiana avverrebbe tramite l’inclusione del suo portato valoriale convenzionale nella figura di un maschio antieroico, debole e femminilizzato. Il genere sarebbe allora apparentemente maschile ma femminile nelle sue viscere simboliche. Una donna sui generis (rispetto al genere) è la protagonista di La visita, commedia scritta da Scola, Maccari e Pietrangeli3. Come in molte commedie all’italiana, la struttura è circolare. Un uomo arriva in treno, una donna lo va a prendere in auto, trascorrono la giornata insieme, all’alba lei lo riaccompagna in macchina in stazione, dove lui riprende il treno. Un’unità di spazio-tempo-luogo – quasi – compiutamente aristotelica, incrinata da qualche via di fuga, brevi flashback ora di lei ora di lui. Adolfo (François Périer) arriva a San Benedetto Po per conoscere Pina (Sandra Milo), in seguito all’annuncio a scopo matrimoniale da lei pubblicato sulla posta del cuore (primo flashback). In una giornata dovranno decidere se passare la loro vita insieme. Lui è commesso in una libreria romana (secondo flashback), lei contabile al consorzio agrario (terzo flashback), oltre a gestire il piccolo patrimonio terriero ereditato dai genitori. Adolfo ha una relazione con una camiciaia (quarto flashback), Pina con un camionista sposato (quinto flashback). Durante il pranzo a casa di lei, lui inizialmente deferente e cerimonioso, a causa del Lambrusco, si rivela un uomo disgustoso, cosa di cui aveva già dato prova: appena solo infatti si era attaccato alla bottiglia bevendo a garganella, aveva maltrattato gli animali e fatto il cascamorto con la giovane nipote della domestica. È tirchio e chiaramente interessato ai soldi. Il paese gli si rivela ostile: lo scemo del villaggio (Mario Adorf ) lo perseguita con le sassate, gli amici di Pina lo canzonano e lo allontanano a calci nel sedere («portali ad Andreotti!»). Al tramonto i due rientrano in casa dove sorprendono 91
il camionista (Gastone Moschin): Adolfo, ormai totalmente sbronzo, prima lo blandisce poi lo aggredisce, infine gli dichiara perenne amicizia. Rimasti soli, Pina e Adolfo hanno un duro confronto: lei gli dice tutto quello che ha visto e taciuto nel corso della giornata, lui ha un riscatto di umanità ammettendo le proprie colpe, raccontando la propria solitudine. Lei è stupita e intenerita dall’ammissione. Fanno l’amore. All’alba lei lo riaccompagna al treno.
È un po’ fané “la Pina”: ha un nido di ricci in testa, fitti e immobili come quelli di Lucille Ball; porta i guanti come usavano le fanciulle per bene degli anni Cinquanta; in casa indossa delle sagge vestagliette; ha un fisico ancor più sinuoso e improbabile della Signorina Grandi Firme di Pitigrilli. A tratti sembra uscita da La Grande Enciclopedia della Donna, summa di diktat domesticomisogini prodotta proprio negli anni Sessanta4: lavora egregiamente a maglia e prepara un eccellente nocino. Sembra insomma una vittima felice di quella “mistica della femminilità” stigmatizzata dalle femministe oltreoceano in quegli anni5. Cerca marito. Il suo giardino sembra una casa di bambole, con i sette nani e Biancaneve a presidio del vialetto. Si commuove per le frasi melense dei Baci Perugina. Si diletta di grafologia e prende dei granchi mostruosi. Però fa anche cose da maschi: guida, usa la zappa a motore, ci sa fare con la tecnologia, lavora con i numeri6, accende il fuoco nel camino. Ha un cospicuo conto in banca e amministra con successo le sue sostanze. «Fare all’amore le piace»7. Ha una relazione con un uomo sposato, anche se si preoccupa molto delle maldicenze: ma la solitudine in provincia pesa di più delle chiacchiere. La sua casa è il trionfo della sua personalità olistica: tra i tanti arredi modaioli campeggiano dei divani discutibili, all’ultimo grido, ancora (e per sempre) incellophanati, in ossequio al feticismo della merce, come di sicuro avrebbe detto Marx se li avesse visti. In casa troneggiano una Tv ultimo modello, un possente frigo, un pionieristico registratore a nastro, che lei usa con competenza (al contrario di Adolfo e Fefè). Se da fuori la sua casa sembra un vecchio casolare rurale sovrastato dal Po, dentro si viene catapultati in una modernità allo stesso tempo cool e kitsch. Nel salotto però c’è anche un pappagallo sul trespolo, che fa tanto tinello di Nonna Speranza. Ovunque, ninnoli 92
orrendi: c’è perfino Topo Gigio sul camino, ma c’è anche la sua versione femminile, con tanto di trecce. In paese la chiamano “la bella culandrona”, si può immaginare perché. Ha un viso da bambolina di porcellana, con la bocca a cuoricino; e un didietro da bambolona alla Botero. Questa donna è una sempliciotta un po’ ignorante sul viale del tramonto, tutto sommato a proprio agio negli orizzonti limitati in cui vive; civettuola, dinamica, sveglia, solare; allegra con qualche soprassalto di malinconia; pacchiana ma con estremo garbo; solida e sola, compiacente e tuttavia capace d’imporsi. Attratta dalle sirene della modernità, attenta agli obblighi della tradizione. È una donna complessa nella sua semplicità: senza dubbio uno dei personaggi femminili più belli del cinema italiano. Però non è lei che incontriamo nei primi minuti del film, ma Adolfo, la cui voce fuori campo (intervallata da quella di Pina) accompagna le immagini del treno in corsa attraverso gli Appennini, che si infila dentro le gallerie, entrando e uscendo dal buio dei trafori. «Distinta signorina Pina, ho ricevuto ieri la sua graditissima e mi affretto a risponderle. La foto che mi ha fatto pervenire è molto graziosa e posso dirle che rimasi favorevolmente impressionato dalla sua immagine giovanile ed elegante.» «Egregio signor Adolfo, anche la sua istantanea al mare mi sembra ben riuscita, guardandola mi sono commossa, perché la barca nella quale lei è fotografato si chiama Caterina come la mia povera mamma. Penso sarebbe il caso, se anche lei è d’accordo, di incontrarsi per conoscersi di persona.» «Come lei mi ha scritto nella sua del 28 ultimo scorso, incontrarsi onde gettare una qualche base più solida alla nostra reciproca simpatia, mi pare una “conditio sine qua non”, scusi la citazione. Perciò le farò sapere quanto prima la data di una mia venuta costà, subordinatamente ai miei impegni lavorativi, e sempre se ciò continuerà a farle piacere.» Siamo nel pieno del mondo simbolico del maschio; in un’ottica lacaniana, dell’ordine del Padre, della Legge e del Linguaggio8. La 93
metafora fallica del treno circoscrive il perimetro; come pure le immagini simboliche che punteggiano la sua corsa (lugubri silhouette di donne vestite di nero, un funerale: significanti tragici e, secondo l’ipotesi di Rowe, codificati come maschili). Ma è soprattutto l’enfasi sul discorso a determinare questo dominio di gender. Si tratta oltretutto di un discorso smaccatamente maschile, essendo il linguaggio di stile pseudo-burocratico, quello cioè del rigido potere normativo. Adolfo è un’antologia vivente del maschio prevaricatore: arriva per occupare la casa (di cui prende fisicamente le misure) e la donna (di cui prende, metaforicamente, le misure con lo sguardo). Seguendolo – mentre spia voyeuristicamente Pina discinta in camera da letto o quando “scansiona” con gli occhi il corpo della giovane sulla scala – vengono in mente le considerazioni di Laura Mulvey quando, analizzando la gerarchia degli sguardi filmici (replica e riattivazione dell’organizzazione patriarcale), distingueva tra la soggettività attiva dello sguardo maschile e la passività della donna oggetto dello sguardo9. Il fatto è – però – che queste soggettive sono conseguenza ed effetto di primi piani ripugnanti. «Piano piano, girando appena il capo, Adolfo guarda Pina con la coda dell’occhio (…). Senza muoversi, abbassa lo sguardo sul collo di lei, poi sul seno, sulla gonna, sulla gamba tesa verso l’acceleratore», è scritto nel trattamento10. L’effetto repulsivo è rinforzato per via intertestuale, perché nella sua precedente interpretazione italiana François Périer aveva vestito i panni di Oscar, lo spregevole approfittatore della candida prostituta in Le notti di Cabiria (Federico Fellini, 1957). La rigidità di Adolfo, trincerato dietro un linguaggio gelido e impersonale, represso in movimenti calcolati, ce lo fa apparire come un essere privo di vita: un perfetto esemplare di metropolitano affettivamente atrofizzato, che pare uscito fuori dalle celebri pagine di Simmel11. E quando riprenderà vita – grazie al vino, che è “sangue di Cristo”, che “fa buon sangue” – sarà un ritorno a una vita primordiale senza più freni: ormai vinto dal Lambrusco si lascerà scappare un inequivocabile, irreversibile rutto. D’altro canto fino ad allora i suoi rivali, nella conquista e nelle attenzioni di lei, erano gli animali (la tartaruga, il cane, il pappagallo) o il matto del villaggio, espressioni di vita non umana o subumana, certamente 94
istintuale e non civilizzata. E, mollati gli ormeggi, anche quel suo linguaggio difensivo lo abbandonerà. «La ringrento del complimazio, signorella bina» le dice ormai del tutto scoperto, rivelato dal lapsus, consegnato al disordine e all’inconscio, rotte le dighe delle norme verbali e con esse dell’ordine fallologocentrico. Tornando a lei. All’inizio è letteralmente una donna-specchio, accondiscendente protesi del desiderio maschile. Le sue prime parole tradiscono lo sforzo di compiacere, quando cerca di uniformarsi al linguaggio pretenzioso di lui chiamandolo “Egregio”. È un soggetto linguisticamente “espatriato”, ospite di un discorso eminentemente maschile12. La nostra prima immagine di lei è, coerentemente con la sua prima apparizione acustica, lei in quanto immagine in potenza riflessa da lui: quando nella sala d’aspetto collauda, rimirandosi in uno specchio, l’effetto su di lui delle prime battute che intende dirgli non appena l’incontrerà13. La sua recita sembra dirci che una donna non può che desiderare di essere desiderata. Poi – solo allora – vediamo il suo corpo, con quel sedere felliniano, grottesco (fot. 22).
Fot. 22
La sua inverosimiglianza (la Milo indossava una protesi posticcia) lo rende (un) significante, sottolineando la definizione finzionale, narrativa, della rappresentazione femminile14. È un corpo che – come ha magistralmente insegnato Michail Bachtin indagando il corpo grottesco – con le sue iperboli e protuberanze da una parte sfugge ai confini individuali, allacciando rapporti tra il corpo e il 95
mondo (è dunque proposta di relazione con l’altro da sé); dall’altra è «un corpo che dà la vita, prende e restituisce», capace di riassorbire la morte con la promessa di continuità15. Il corpo traboccante di Pina è un segno della prepotenza del desiderio di vita e rinnovamento. E infatti Pina è una donna che desidera e che deve continuamente fare i conti con questo desiderio, cercando una qualche mediazione tra esso e uno “sguardo sociale” repressivo: al telefono ride per le battute audaci di un’amica sul divo del momento, poi la riprende; quando sfoglia l’album dei suoi pretendenti, si abbandona per un attimo con sguardo sognante sulla foto di un giovane piuttosto avvenente, poi torna in sé. Nel film il discorso sessuale femminile è molto presente: c’è la giovane moderna (va in vespa, indossa i blue-jeans) e falsa, che usa il richiamo sessuale in modo allusivo e strumentale. C’è l’amante di Adolfo – una donna deturpata da un labbro leporino, quasi un’immagine orrorifica16 – che impone la sua deformità fisica in cambio di un rapporto; c’è la vecchia domestica di Pina (la vecchia balia, un alter ego materno per Pina), che accoglie un mondo di natura nei suoi riferimenti sessuali (parla di «carni sode e bianche come sassi», sentenzia: «ghiaccio in salotto, fuoco a letto»). Questa centralità del discorso sessuale al femminile – reso attraverso declinazioni diverse – era molto in anticipo sul discorso pubblico del tempo, ma non sui bisogni delle donne: fece molto scalpore per esempio la pubblicazione in quegli anni del libro Le italiane si confessano, a proposito del quale Pasolini desumeva un persistente stato di alienazione della donna italiana, dovuto a una configurazione del discorso sessuale solo in quanto problema sociale17. Ma in La visita le cose si complicano ulteriormente, i contrasti si allargano e disarticolano nella moltiplicazione delle differenze. Inizialmente lo schema del confronto è duale: come in un film western (il riferimento è esplicito nel trattamento) l’uomo e la donna sono uno di fronte all’altro, fronteggiandosi sotto un’accecante solarità (resa da una fotografia sovraesposta). Lo schema binario è enfatizzato dalla regia, che dapprima sottolinea le distanze per poi ridurle. Come abbiamo visto lo schematismo si sposta su un piano pragmatico affidando a lui un ruolo attivo e a lei uno passivo, con un rinforzo sul piano cromatico, determinato dal bianco del vestito di lei e dal nero di quello di lui. Via via que96
sta dialettica tetragona si smaglia, mentre prendono il sopravvento i contrasti chiaroscurali, visivi e narrativi. Pina assume un ruolo platealmente attivo nel corso della gita al fiume, quel fiume vicino a cui lei vive e che parla del suo essere e fluire senza discrezioni. E – come in La scampagnata (Une Partie de campagne, 1936) di Jean Renoir – l’uomo e la donna decidono di lasciare la terra ferma per inoltrarsi in territori ignoti. Però qui è Pina che rema (fot. 23).
Fot. 23
L’identità di genere di Pina non è ridotta a connotazioni monolitiche ma continuamente ridiscussa dagli eventi che prendono forma davanti ai nostri occhi. Per di più la sua soggettività non è riducibile a identità di genere, poiché la storia è immersa in una rete di differenze molteplici: c’è il contrasto tra il Nord e il Sud (con i pregiudizi di lei verso di lui), c’è il contrasto tra la metropoli e la provincia (con i pregiudizi di lui verso lei) che a sua volta annega in quella tra modernità e passato. E c’è anche l’identità politica: lui è un reazionario (si chiama Adolfo, ha degli orribili baffetti hitleriani e alla fine saluta il camionista col saluto romano); lei è una democratica, che stigmatizza il razzismo di lui (dapprima prudentemente nella scena del giardino, poi esplicitamente nel j’accuse finale). Dunque un’identità gravida quella di lei, di categorie di differenze, che si smarcano continuamente dalle convenzioni di gender, proposte nella sintesi della prima sequenza, strutturata su un principio oppositivo. Doveva solamente riflettersi allo specchio 97
e identificarsi con quel riflesso: ma Pina non lo fa18, perché non le va, perché c’è troppo movimento in lei, come in un fiume. Nel finale i due si lasciano in stazione e dalle voci fuori campo apprendiamo che continuano a scriversi. Ma se la prima parola era di lui, l’ultima parola e immagine è dedicata a lei: che dopo averlo lasciato in stazione se ne va, dentro alla sua vecchia auto sgangherata e fuori moda, mentre la sua voce fuori campo racconta che andrà al mare, ancora non sa dove.
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Milan Kundera, Il libro del riso e dell’oblio, Adelphi, Milano, 1991, p. 250-251 (tit. or.: Kniha smíchu a zapomneˇní, 1978). Kathleen Rowe, “The Unruly Woman. Gender and the Genres of Laughter”, in Barbara A. Arrighi (a cura di), Understanding Inequality. The Intersection of Race/Ethnicity, Class, and Gender, Rowman & Littlefield Publishers, Lanham, 2001 (pp. 261-276, 2 ed.). La visita nasce da un’idea di Scola: il film doveva essere realizzato da Giuseppe De Santis, autore con Maccari e Scola del soggetto. Ettore Scola, Il cinema e io. Conversazione con Antonio Bertini, cit., p. 51. La Grande Enciclopedia della Donna esce a fascicoli (dal 27 ottobre del ’62 al 1° ottobre ’66), edito dalla Fratelli Fabbri di Milano. È interessante – per ricostruire il clima mentale e culturale dell’epoca – rilevare la coeva edizione italiana di Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, (tit. or.: Le Deuxième Sexe, Gallimard, Parigi, 1949) uscito per i tipi di il Saggiatore, Milano, 1961. Betty Friedan, Mistica della femminilità, Edizioni di Comunità, Milano, 1963; tit. or.: The Feminine Mystique, Norton, New York, 1963. In una prima stesura del trattamento (oggi disponibile presso l’Archivio Pietrangeli di Cesena) Pina avrebbe dovuto essere una maestrina (p. 7), professione più tradizionalmente femminile. Il cambiamento suggerisce un’intenzionalità chiara di scardinamento degli stereotipi di genere. Con questa frase – presente nella scaletta (Archivio Pietrangeli Cesena, p. 5) – viene così giustificato il fatto che Pina alla fine della giornata faccia l’amore con Adolfo, nonostante lo abbia appena aspramente criticato. Oltre agli Scritti (Jacques Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974; tit. or.: Écrits, Seuil, Parigi, 1966), ai nostri fini risulta utile: Il seminario. Libro II L’io nella
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teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi 1954-1955, Einaudi, Torino, 2006 (tit. or.: Séminaire II, Le moi dans la théorie de Freud et dans la technique psychanalytique, Seuil, Parigi, 1978) per la definizione dell’inconscio come struttura simbolica e per i rapporti tra inconscio e linguaggio. Laura Mulvey, Visual Pleasure and Narrative Cinema, «Screen», n. 3, Autunno 1975; trad. it.: Piacere Visivo e Cinema Narrativo, «Nuova DWF» n. 8, lugliosettembre 1978. Si fa riferimento al trattamento succitato, p. 6, Archivio Pietrangeli di Cesena. Georg Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Armando, Roma, 1995 (tit. or.: Die Großstädte und das Geistesleben, 1903). È in particolare Luce Irigaray che ha analizzato la connotazione maschile del linguaggio nella cultura occidentale e la mancanza di un linguaggio sessuato femminile. Questo sesso che non è un sesso, Feltrinelli, Milano, 1978 (tit. or.: Ce sexe qui n’est pas un, Les éditions de minuit, Parigi, 1977). L’iperbolica presenza di specchi nel film, (che resituisce sempre un riflesso maschile frantumato), spingerebbe ad allargare il quadro di analisi alle dinamiche dell’identificazione spettatoriale, a partire dalla fondamentale associazione metziana della “fase dello specchio” lacaniana con la posizione dello spettatore, poi ampiamente ridiscussa dalla letteratura. Si veda al proposito: Mary Ann Doane, “Identità e misconoscimento” in Giulia Fanara, Federica Giovannelli (a cura di) Eretiche ed erotiche. Le donne, le idee, il cinema, Liguori, Napoli, 2004, pp. 80-92 (tit. or.: Misrecognition and Identity, «Ciné-Tracts», vol. 3, n. 3, 1980, pp. 25-32). Quasi ad anticipare le considerazioni femministe che hanno individuato nella differenza sessuale dei costrutti culturali. Per una sintesi della Feminist Film Theory: Giuliana Bruno, Maria Nadotti (a cura di), Immagini allo schermo. La spettatrice e il cinema, Rosenberg & Sellier, Torino, 1991 (tit. or.: Off Screen: Women & Film in Italy, Routledge, Londra e New York, 1988). Una chiara sintesi è proposta da: Veronica Pravadelli, “Feminist Film Theory e Gender Studies” in Paolo Bertetto (a cura di), Metodologie di analisi del film, Laterza, Roma-Bari, 2006, pp. 59-102. Michail Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino, 1979, p. 372 (tit. or.: Michail Michailovicˇ Bakhtin, Tvorcˇestva Fransua Rable i narodnaja kul’tura srednevekov’ja i Renessansa, Izdatel’stvo «Chudozˇestvennaja literatura», Mosca, 1965). La natura politica del corpo grottesco è esplicitamente dichiarata dall’autore, che lo collega al tema dell’immortalità storica del popolo.
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16 Barbara Creed, riprendendo Kristeva, interpreta il mostruoso femminino come rito simbolico di separazione tra l’autorità materna e la legge del Padre (Barbara Creed, “Kristeva, la femminilità, l’abiezione” in Giulia Fanara, Federica Giovannelli (a cura di), Eretiche ed erotiche. Le donne, le idee, il cinema, cit., pp. 176-183; tit. or.: The Mostrous-Feminine. Film, Feminism, Psychoanalysis, Routledge, Londra e New York, 1993, pp. 8-15). In questo senso l’introiezione da parte di Adolfo del mostruoso femminino segnalerebbe, in una lettura psicanalitica, il suo non compiuto ingresso nell’ordine simbolico. 17 Gabriella Parca, Le italiane si confessano, Parenti, Firenze, 1959. 18 Nel saggio di Teresa De Lauretis, Alice Doesn’t: Feminism, Semiotics, Cinema (Indiana University Press, Bloomington, 1984), il rifiuto dello specchio diventa metafora del rifiuto dell’identificazione con un femminile nato all’interno di costruzioni culturali e simboliche maschili.
IL SORPASSO (1962), IL RACCONTO APERTO
«Corri forte, tieni duro. È questa, la lezione delle lucertole. (…) Osserva quasi tutte le creature viventi, e vedrai più o meno la stessa cosa. (…). Nella capacità di battere come un ciglio, schioccare come una frusta, sparire come il vapore, che è qui adesso e adesso non c’è più, la vita brulica sulla terra (…). Nella velocità c’è la verità.» Ray Bradbury1
Se dico Il sorpasso – ci metto la mano sul fuoco – scatta immediata l’associazione con Gassman, alias Bruno Cortona, o con la sua spider Supercompressa, il suo clacson petulante, le sue battute al fulmicotone. Eppure il protagonista del film non è lui, ma JeanLouis Trintignant, cioè Roberto Mariani. Che storia è questa? La Lancia Aurelia B24, Mina, Antonioni e L’eclisse, Jackie Kennedy, Kruscev, Modugno e L’uomo in frack, il disco Fonit Cetra di Arnoldo Foà, il mangiadischi Mignon della Philips, i voli spaziali, la Seicento, i juke box, il centro-sinistra, Brigitte Bardot e tutti gli altri riferimenti agli anni Sessanta presenti nel film, aprono dei varchi nei confini del mondo della finzione, sono dei punti di fuga verso la realtà e per lo spettatore dell’epoca, materiali del suo presente: sono inviti alla festa del Racconto, perché le storie ci interessano essenzialmente quando ci riguardano. Perciò alzare il livello di realisticità illusoria della storia è una buona mossa iniziale, un primo gesto di seduzione nei confronti del pubblico. Non sufficiente naturalmente, poiché riguarda il corpo del racconto a livello epidermico. Tuttavia Risi con quella sua presenza invisibile, con quel suo tono – a tratti esplicitamente – documentaristico, contribuisce a creare un ambiente finzionale familiare, circostanziato e insieme 100
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collettivo: spesso nel viaggio siamo infatti il terzo passeggero “stando” nel sedile posteriore. Eppure questo pronome personale plurale che il film istituisce – e che sembra parlarci oggettivamente proprio di “noi”, italiani del Boom – è contraddetto dal monologo interiore di Bruno, ingresso smaccato di una soggettività alla prima persona singolare. Ma allora, che storia è questa? Bisognerà andare a fondo; affondare il bisturi nel corpo del racconto, per portare in superficie quello che si muove in profondità, individuare l’impalcatura dell’architettura narrativa con i suoi pilastri e architravi e andare oltre, al cuore, alle pulsioni, alle forze vitali messe in circolo nel corpo narrativo. Cercare quelle energie in cui gli spettatori e i personaggi si ricongiungono e in virtù delle quali tutte le storie sono in fin dei conti la nostra storia. Anche se sembra una contraddizione in termini eseguire un’operazione anatomica su un corpo tanto vivo e palpitante qual è quello di Il sorpasso (forse Risi avrebbe capito, considerata la sua formazione clinica; di sicuro non avrebbe apprezzato, essendo alieno a ogni operazione di anche vago sapore intellettualistico). Bruno Cortona (Vittorio Gassman) gira sulla sua spider per Roma cercando un telefono. Fermo a una fontanella, scorge un’ombra a una finestra. È Roberto Mariani (Jean-Louis Trintignant), studente fuori sede di giurisprudenza. Ben presto Bruno è in casa di Roberto; lo invita per un aperitivo, poi a pranzo. Roberto, incapace di rifiutare, lo segue. Lungo la strada affollata di ferragosto, gli incontri, le corse e i break si succedono freneticamente: inseguendo due tedesche finiscono in un cimitero, incappano in un camion incidentato, si fermano in un distributore di benzina e Roberto rimane chiuso maldestramente dentro al bagno; danno un passaggio a un villico, pranzano in una trattoria di Civitavecchia. Qui Roberto racconta del suo interesse per la vicina di casa, Valeria, cosa che Bruno aveva già intuito. La nuova tappa è la casa avita degli zii di Roberto, nei dintorni di Grosseto: ancora una volta l’intuito di Bruno arriverà dove Roberto non è mai arrivato, scoperchiando gli altarini familiari. Nuovamente in viaggio, i due si dirigono verso Castiglioncello, sostando al Cormorano Night Club: distratto da un “commenda” con cui pare sia in affari, Bruno 102
saluta Roberto, che se ne va da solo alla stazione dei treni. Qui riesce a scambiare con disinvoltura quattro chiacchiere con una ragazza; poi torna al club, giusto in tempo per aiutare Bruno nella scazzottata con due automobilisti offesi. Ormai a tarda notte, i due cercano ospitalità nella casa di quella che Roberto scopre con sorpresa essere la moglie di Bruno (Luciana Angiolillo). La figlia quindicenne (Catherine Spaak) presenta il suo attempato fidanzato (Claudio Gora); Dopo uno sfortunato tentativo di riavvicinamento con la moglie, Bruno, ferito nell’orgoglio, trascina l’amico a dormire in spiaggia. La giornata successiva trascorre tra bagni, canzonette, chiacchiere, partite a ping pong. Roberto chiama Valeria e Bruno si offre di accompagnarlo da lei a Viareggio. Ma il viaggio si interrompe nella curva di Calafuria, in un incidente in cui Roberto muore.
Uno vorrebbe studiare ma poi permette al primo venuto di strapparlo ai libri; pensa che vorrebbe tornarsene a casa sua ma dice che è ben contento di proseguire. Quell’altro si spaccia a ogni piè sospinto per un tombeur de femme ma non fa che “andare in bianco”; vuole fare affari ma lascia per strada ogni possibilità che gli si prospetta. E perché mai dovremmo identificarci con questi due? Se c’è una cosa che li accomuna nella loro palese diversità è proprio la pigrizia dei loro desideri. Evidentemente il desiderio esplicito del personaggio non è necessario per provocare quello dello spettatore. Peter Brooks dice che si potrebbe analizzare l’incipit di quasi tutti i racconti come l’immagine di un desiderio che prende forma. Nel nostro caso la prima immagine è quella di un uomo in macchina, accompagnata da quella acustica del rombo del motore. È sempre Brooks che, piegando le osservazioni di Michel Serres a una prospettiva freudiana, sostiene che l’immagine del motore – capace di generare movimento e basato su riserva e scambi di energia – corrisponde al concetto del desiderio umano, ai cui principi dinamici si rifà la narrazione2. Perciò l’inizio rappresenterebbe – attraverso una condensazione metaforica – l’affermazione dell’urgenza del desiderio tout court: che poi si incarna nel desiderio narrativo, su cui si erge il racconto, nel desiderio come forza motrice della trama e insieme nel desiderio di narrazione dello spettatore. Il desiderio consapevole dei personaggi non è perciò essenziale per mettere in moto il nostro: perché il desiderio esiste comunque, in 103
noi e nei racconti, in quanto contraddittorio motore di vita; preme nell’inconscio – come un motore che spinge – senza poter mai giungere a soddisfacimento, ché sarebbe la sua fine, Lacan ricorda infatti la natura inestinguibile del desiderio3. Allora che Roberto non arrivi al suo obiettivo – raggiungere Valeria –, nonostante il suo volere abbia raggiunto la soglia della consapevolezza, non toglie valore al suo percorso, ma aggiunge significato al suo/nostro desiderio: rendendolo irrealizzabile lo rende eterno, assoluto. Sembra dirci che anche se non possiamo realizzare i nostri desideri, dobbiamo necessariamente averne: è la dinamica stessa del desiderio a imporlo. D’altro canto il desiderio allo stato puro e senza costrizioni di Bruno – scapolone impenitente, refrattario a qualunque norma – conduce al trionfo delle pulsioni erotiche e aggressive, trasferite dal personaggio sulla macchina (che lo rappresenta), alla fine trasformatasi anch’essa da vettore di slancio a veicolo di morte. Poiché subisce una metamorfosi, vien quasi da considerarla un personaggio, dotata com’è di un’identità anagrafica – di nome fa Aurelia –, di un ruolo, di uno spessore affettivo (è amata da Bruno) e appunto di un arco di trasformazione. Ci sarebbe da riflettere sul fatto che la spider si è impressa nella memoria collettiva come uno dei segni di maggior riconoscibilità del film; perché icona dello Zeitgeist, dello spirito del tempo certo, ma non solo: alla luce di quanto detto anche forma dell’ambivalenza del desiderio collettivo, sospeso tra timore ed euforia, nostalgia ed eccitazione, polarità che si incarnano in Roberto e in Bruno. L’incertezza d’altronde è il problema del protagonista, Roberto. «L’espressione preoccupata, i suoi gesti incerti denunciano subito un tratto del suo carattere: una invincibile timidezza, un istintivo timore per ogni novità» si dice di lui nel trattamento originale4. All’inizio parrebbe uno che vuole studiare, sistemarsi, magari accasarsi con la ragazza del palazzo di fronte. Se fosse così però, se ne sarebbe rimasto chino sui libri, non si sarebbe nemmeno sporto da quella finestra. Invece Roberto è proprio uno che vive in quel modo lì, “stando alla finestra”: impalato, ritratto, sulle difensive, quasi uno spettatore della vita, rintanato nella sua casa e in convinzioni praticate senza convinzione. Solo. Se Bruno riesce a stanarlo dal guscio è perché in fondo quel guscio gli andava stretto. Gli ci vorrà un po’ per capirlo – immaginando la storia divisa in tre parti o atti5 –, ci mette tutto il primo 104
atto, alla conclusione del quale Roberto si chiude inavvertitamente nel bagno della stazione di servizio: solo allora si rende conto di essere in trappola, ancor peggio di essersi intrappolato con le sue stesse mani. L’illuminazione – un vero e proprio insight – imprime una nuova direzione alla sua vicenda: all’inizio del secondo atto, Roberto si apre a Bruno senza resistenze, gli racconta di lui bambino e quando arriva nei luoghi della sua infanzia rilegge il passato con occhi diversi (quelli di Bruno), lo zio preferito al padre non era un omone ma un ometto, le stanze sono piccole, il cameriere era gay, il cugino Alfredo in realtà era il figlio del fattore. Sopratutto si sente un estraneo in quello che credeva il suo mondo. Oltretutto Freud avrebbe diagnosticato in questa sua mitizzazione dello zio una sostituzione della figura paterna e un sintomo del rimpianto per il paradiso perduto dell’infanzia6. Comunque, ormai è tutto alle spalle. Adesso Roberto sembra un altro: ride, sfotte Bruno, gli dichiara la sua amicizia. Merito di Bruno? In fondo nel suo tripudio di vitalità e velocità c’è il balzo della verità, quella che Roberto soffocava nel tempo lungo dei suoi pensieri. Tuttavia anche la verità è inaffidabile: Bruno lo congeda sbrigativamente fuori dal Cormorano Night Club. «Mi ha portato in capo al mondo e adesso mi molla», pensa Roberto. È quello che la storia gli chiede, di sperimentare in prima persona le consapevolezze acquisite traducendole in nuove strategie di vita: infatti alla stazione dei treni conduce lui il dialogo con la ragazza, e più tardi, ritrovato l’amico, condurrà lui l’automobile; confessa di essersi sempre sentito come bloccato, sperimenta la vertigine della perdita del controllo (si ubriaca, fa a botte), infine chiama Valeria. Il suo desiderio ormai è chiaro e sicuro, il suo percorso compiuto. Se è vero che le storie ci interessano se e quando ci riguardano, c’è da chiedersi in che modo questa riesca a coinvolgerci così intensamente. Innanzitutto la “spina dorsale” della storia – quella che si compone dei tre movimenti fondamentali, l’inizio, lo sviluppo e la fine – àncora quel bisogno narrativo naturale dello spettatore di cui si diceva, assecondando la termodinamica del desiderio: lo scambio con l’ambiente esterno produce trasformazioni interne e scambi di energia, tendendo però a un nuovo sistema di equilibrio dopo la rottura di quello iniziale. Come il desiderio, anche la struttura narrativa “preme in avanti”, incanalando e subendo la forza propulsiva della 105
are vuole rischi
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3°
In trappola
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sua vita così com’è (linea interiore). D’altronde la resistenza al cambiamento è qualcosa di innato quanto la spinta al cambiamento. Nel secondo atto le cose apparentemente non cambiano perché lui vuole ancora tornare a Roma (linea esterna), anche se quel che è successo nel bagno al distributore di benzina – quando si è accorto di essere in trappola – lo costringe a ripensare a un po’ di cose, deve mettersi in discussione (linea interiore). Dopo tutto già all’arrivo al distributore aveva chiesto a Bruno: «Ma perché hai detto che sto sbagliando tutto?». A ben vedere la sua vita è una somma di doveri, un’addizione di obblighi dettati dall’esterno ma prontamente interiorizzati, a cui si arrende passivamente. Che il suo viaggio interiore sia concluso è evidente nel terzo atto, quando vuole andare (a Viareggio, anche se la meta non gli è subito chiara) perché ha capito di volere rischiare (linea interiore): non solo si realizza una coincidenza tra l’imperativo esterno e interiore (in entrambi vuole qualcosa), segno di un’avvenuta pacificazione nella sua coscienza; sopratutto l’imperativo narrativo ha cambiato di segno – il dovere è diventato un volere – palesandosi ora come determinazione attiva, non più subìta.
de ve difen dersi
trama. In Il sorpasso vi sono poi degli “imperativi narrativi” che potenziano l’urgenza del processo: per esempio l’espediente del time-lock, cioè la determinazione di una scadenza temporale interna alla storia, diegetica, produce un ulteriore obbligo simbolico alla progressione; i due guardano continuamente l’orologio, si sentono perennemente in ritardo sui tempi che stabiliscono (in realtà non hanno nulla di veramente importante da fare, ma ciò non conta). Se all’inizio il film è percorso da un’ansia sottile per il tempo che scorre, in seguito è come se ci dicesse che il tempo non deve scorrere invano. Ci sono poi degli “imperativi narrativi” che investono direttamente i personaggi: per esempio Roberto vuole tornare a casa perché deve difendersi da quell’estraneo che sta portando scompiglio nella sua vita. Questo complesso di precetti impliciti – il volere del personaggio, il suo dovere, quelli che Greimas chiama le “modalità”7 – penetrano nel vissuto dello spettatore che li fa propri. Fanno parte di quella specie di commercio di elementi psichici che si stabilisce tra spettatore e personaggi; riguardano i processi di identificazione e proiezione, in virtù dei quali lo spettatore assorbe in sé atteggiamenti e sentimenti dei personaggi del film e nello stesso tempo attribuisce ai personaggi intenzioni e atteggiamenti che sono suoi personali oppure potenziali8. Tanto più un personaggio è complesso e articolato, tanto più è investito di imperativi narrativi – tanto più assomma in sé una moltitudine coerente di possibilità – tanto più questi processi si mettono in moto. Per esempio possiamo non riconoscerci in Bruno, non voler essere come lui, ma – anche non essendo come lui dei fumatori – presumibilmente speriamo che prima o poi trovi le sigarette se il suo bisogno di fumare è perentorio, come in effetti è (a meno che non siamo dei feroci antitabagisti). Perché indipendentemente dal motivo che lo determina, il bisogno è qualcosa che tutti sperimentiamo nella vita. Il che ci suggerisce che vi sono nel percorso di un personaggio delle linee parallele attraverso cui il suo arco di trasformazione si snoda: una linea narrativa esterna, in cui accadono le cose, e una linea narrativa interiore, in cui gli eventi si trasformano in esperienze affettive o psicologiche9. È su quest’ultima linea che si colloca la partecipazione dello spettatore, si deposita il suo occhio emotivo. Prendiamo Roberto. Si diceva che nel corso del primo atto vuole tornare a casa (linea esterna) perché sente che deve difendere la
Cormorano i dev e discuters
2° AT T O vuo
le tornare
Schema A
Tutto questo però non ci permette di rispondere alla domanda iniziale, e cioè perché nel film Bruno sembra spiccare più di Roberto, se è quest’ultimo il protagonista, come in effetti attesta il fatto che l’arco di trasformazione maggiore è il suo? Non è che Bruno non evolva nel corso della vicenda: ma ci resta sempre il sospetto che i suoi cambiamenti 107
siano dettati dall’opportunismo del momento, e che mai possano generare in lui una trasformazione radicale, perché Bruno è un superficiale ed è attorno a quest’idea che si agglutinano tutte le sue caratteristiche. È un personaggio “piatto” – per usare un’espressione di Edward Morgan Forster – che anche se ambisse alla sfericità non potrebbe raggiungerla, perché le sue sono complessità di superficie. Può essere sintetizzato in una sola frase: la moglie dice di lui che resta sempre come nel momento in cui lo si è incontrato. Vale anche come indicazione allo spettatore. Di questi personaggi Forster dice che sono i più riconoscibili e restano indelebilmente impressi perché fondamentalmente inalterabili, «non scappano mai»10. Bruno è un personaggio disegnato con grande sapienza e straordinariamente efficace; riesce a contenere in sé una serie di attributi – è istintivo, intuitivo, solare, spontaneo, ossessivo, spaccone, smargiasso, inaffidabile, eccetera – ma nessuno di essi va a intaccare l’idea fondamentale che lo plasma. La sua personalità psicologica, una volta messa a fuoco, non presenta sorprese. E tuttavia quella sua forza d’urto, quella sua energia vitale, oltre che mirabili, sono assolutamente necessarie alla storia e a Roberto, e la necessità è una discriminante importante nella narrativa. Va anche detto che – essendo il personaggio immerso in un sistema dinamico ed elemento dinamico esso stesso – la sua definizione dipende dal sistema di pesi e contrappesi messi in opera: e dunque il cinismo di Bruno (“compra incidenti” incurante dei morti o cerca di strappare a degli anziani i loro mobili di famiglia) diventa quasi naïf rispetto a quello degli altri affaristi, come quel Bibì che seduce col conto in banca una quindicenne che potrebbe essere sua nipote o come l’odioso “commenda” del Cormorano. La rete di relazioni in cui i personaggi sono disposti declina i loro connotati agli occhi del pubblico. In Il sorpasso questo procedimento è costante ed esteso a ogni elemento: dai personaggi, agli ambienti fino alla singola scena, tutto prende vita e si specifica in un reticolo di connessioni. La modernità che trapela dallo sfondo e in ogni cosa – e che è uno dei nodi tematici basilari – è accostata a immagini di mondi passati (come la poco bucolica figura del burino col sigaro, famelico di velocità, o la patetica festa campagnola). Istituire continue relazioni produce un effetto di relativizzazione dei significati: in questo caso impedisce di depositare facili nostalgie sul tempo remoto mentre si svolge il racconto del presente. Si diceva che questa tessitura di relazioni riguarda anche 108
la singola scena: si pensi a quella in cui il cugino Alfredo sta blaterando a proposito del centro-sinistra e del fascismo e in primo piano, Bruno bisbiglia a Roberto che Alfredo è chiaramente un figlio illegittimo: la sicumera del cugino in secondo piano è resa ridicola – è sconfessata, compromessa – dalla rivelazione in primo piano. Se l’interesse dello spettatore è incanalato in una ferrea logica narrativa che a velocità supersonica lo conduce dall’inizio alla fine, contemporaneamente questa ragnatela di relazioni schiude il racconto al dominio dell’incertezza (di chi si parla? Di noi? Di Roberto o di Bruno?). Il lavoro sintattico sui significati finisce per spossessare l’assoluto dalle possibilità del discorso, mentre si va affermando l’assolutezza del principio del desiderio. Ma dicevamo di Bruno. Bruno, ci dice la moglie, non può cambiare, è quello che appare quando lo si incontra la prima volta. In effetti quando prova a indossare i panni del padre responsabile, la sua è una recita che dura l’arco di poche battute. Sostanzialmente è monolitico; eppure presenta molte facce. Il suo potente dinamismo narrativo deriva non dai suoi mutamenti intimi ma dal continuo cambiamento delle funzioni che svolge nel percorso di Roberto. Bruno evolve come funzione nel racconto, non come psicologia del personaggio. L’analisi si fa più chiara se pensiamo agli archetipi junghiani (rielaborati dal mitologo Joseph Campbell e applicati al cinema da Chris Vogler)11, cioè quelle categorie interpretative delle energie psichiche, rappresentazioni mitiche dei processi interiori, dotate di un carattere numinoso, e appartenenti all’inconscio collettivo. All’inizio Bruno presenta la faccia archetipica del Messaggero: il suono del suo clacson e la sua scampanellata sono segnali inequivocabili dell’annuncio che recapita a Roberto; come un araldo “consegna” un appello, una sfida all’avventura del cambiamento. «L’appello solleva la cortina (…) su un mistero di trasfigurazione – un rito o un momento di passaggio spirituale (…). Viene superato il consueto orizzonte della vita; i vecchi principi, ideali e sentimenti non sono più validi; è giunto il momento di varcare una soglia»12. L’appello è quindi un richiamo inconscio per Roberto, gli segnala una sua deficienza simbolica, una sua rigidità o immaturità che rendono impossibile il passaggio a una fase ulteriore del suo sviluppo; gli parla della necessità di avventurarsi in territori sconosciuti. Il richiamo al cambiamento 109
è identificato anche dal mito dell’Imbroglione, che nella descrizione dello junghiano Joseph L. Hendersen, sembra proprio il ritratto di Bruno: «figura dominata dagli appetiti fisici: la sua mentalità è quella di un bambino. Privo di ogni scopo che non sia quello della gratificazione dei suoi bisogni elementari, egli è crudele, cinico»13. Nei miti spesso appare in principio come un animale: in effetti nelle prime pagine del trattamento originale Cortona ci viene descritto come «un leone inquieto»14. L’Imbroglione – oltre a essere nemico dello status quo – rappresenta la forza dell’intuito nella forma della scaltrezza e dell’istinto; è la duttilità della mente e della capacità di comunicare. Anche Bruno è veloce nei pensieri come nel suo spostarsi: la sua auto permette di liberarsi dal peso della gravità. Via via però questo eroe velleitario e anarcoide diventa per Roberto una guida, un modello di comportamento, trasformandosi in un Mentore gli fornisce delle istruzioni importanti: gli consiglia di vivere il presente, di parlare a Valeria, gli insegna a guidare, letteralmente e metaforicamente. Motiva il nostro eroe a compiere il suo viaggio e poi lo abbandona: perché anche superare l’influenza dei maestri – come deve fare Roberto – è una fase essenziale della crescita umana.
equivale a mettersi a repentaglio e ci vuole coraggio per lasciare il noto per arrischiarsi nell’ignoto. I processi interiori sono intrinsecamente ambigui, mutevoli, mutaformi. Il Mutaforme – figura catalizzatrice della trasformazione – indica proprio ciò, la mutevolezza che è in noi, la polarità dei sentimenti, l’imperfezione della natura umana, un fascio intricato di qualità sia maschili sia femminili (Animus e Anima per Jung entrambi essenziali all’equilibrio interiore). Quando Bruno si infila una maschera (fot. 25) “comunica” a Roberto la necessità di indossarne una, che sia la sua sorgente istintuale o la sua dimensione femminile. Cosa che Roberto farà, di lì a poco, assumendo così insieme alla sua anche un’altra faccia (fot. 26).
Fot. 25
Fot. 24
Che a tratti il volto del Mentore assuma tratti mefistofelici (fot. 24), non deve stupire, dal momento che nel personaggio del Mentore è insito il tema del pericolo, egli è «colui che attira l’anima innocente nel regno della tentazione»15; vale a dire: affrontare la sfida Fot. 26
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ORDINE
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Volendo schematizzare, si ottiene una quadripartizione17 che comprende i valori profondi su cui si basa il racconto (schema B). Una conferma dell’utilità dell’applicazione del quadrato alla struttura tripartitica, ci viene anche da Dara Marks18 quando osserva che la mancanza (fatal flaw) del personaggio rappresenta il valore opposto a quello del tema. Se qui il tema è la problematizzazione dell’Ordine costituito, ecco che si può desumere il valore finale (l’Istinto) a cui tende il personaggio e con esso il racconto. Incrociando la quadripartizione (schema B) con il percorso del personaggio (schema A), si può osservare come il movimento sotterraneo (le quattro fasi) influenzi l’organizzazione dei tre atti, conferendole un ulteriore dinamismo e ulteriori scarti di significato (schema C).
3°
Sembra piuttosto chiaro a questo punto ciò che la storia chiede a Roberto: di abbandonare il suo mondo dominato dall’Ordine costituito, non cedendo al desiderio regressivo di restare/ tornare allo stato felice dell’infanzia; ricordiamoci che sulla sua scrivania, nel suo fortino, campeggiava la foto della madre. Se Roberto deve rinascere a nuova vita deve impadronirsi di quello che è/ha Bruno, l’Istinto. Ma il percorso non è indolore, richiede passaggi in luoghi dove le antiche regole non valgono più. Per lui significa inoltrarsi nel regno del Caos, «quel caos dove il pensiero diventa impossibile»16. È comprensibile che ci voglia un tempo emotivo per assimilare questa richiesta. Ed è altrettanto ovvio che le abitudini mentali lo portino ad affrontare la nuova situazione con i vecchi arnesi: è abituato a riflettere, ponderare, rimuginare, è quasi immolato all’altare della Ratio. Così la sua vicenda può essere visualizzata attraverso quattro fasi fondamentali, a cui corrispondono altrettanti “campi di valori”: Ordine, Ratio, Caos, Istinto. L’illuminazione che l’Ordine è una trappola lo porta a problematizzare lo status quo, ma gli strumenti da lui impiegati (la ragione) si rivelano insufficienti, come dimostrerà la prova centrale, cioè la visita agli zii. Ciò precipita Roberto nel Caos e nell’assenza di riferimenti ogni cosa deve essere riscritta: lui diventa un estraneo nel suo mondo, il mondo dell’incanto si tramuta in un armadio pieno di scheletri, il futuro non appare così radioso come credeva, il suo mentore lo abbandona, Valeria sembra avere le fattezze di un’altra. La stessa stazione dei treni, gli dice un tipo, potrebbe non essere più dov’era il giorno prima («la stazione è là, almeno ieri c’era»). Nel caos sperimenta l’assenza di norme ma anche la presenza di nuove possibilità: incontra con più facilità i sorrisi delle ragazze, i suoi pensieri non sono più una voce ossessiva. Sarà Bruno a traghettarlo nella regione dell’Istinto, quando cedendo a un impulso del momento lascerà la casa della moglie e lo porterà a dormire in spiaggia. Ormai approdato in quel luogo a lungo da lui temuto e rimosso, Roberto finalmente “impara” l’istinto e d’istinto telefonerà a Valeria.
A dormire in spiaggia!
Cormorano
In trappola
2° AT T O Casa zii
Schema C
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Poiché ogni atto attraversa due diverse zone valoriali, guadagna una maggiore modulazione interna. Ciò ci spiega per esempio perché Roberto al distributore di benzina chieda a Bruno perché secondo lui sta sbagliando tutto, domanda rivelatrice di una sua dinamica interiore, l’insorgenza di un processo evolutivo (il passaggio dall’Ordine alla Ratio), che non trova spiegazione nella struttura tripartitica, giacché siamo sempre nel primo atto. Forse adesso si possono trovare le risposte che cercavamo in apertura. Ripercorrere il corpo narrativo lungo le sue linee principali ci ha permesso di rintracciare le vie di scorrimento in cui si incanala il desiderio narrativo dello spettatore. Negli abissi del racconto abbiamo individuato lo scheletro dei valori fondanti, che raccolgono e sintetizzano le tensioni, le energie, gli impulsi e le resistenze che rendono la storia di Roberto assimilabile a ogni esperienza di metamorfosi individuale o collettiva. Perciò non c’è opposizione vera tra Roberto è l’Italia del Boom. E tuttavia quest’ordine dinamico viene “disordinato” da alcune disposizioni narrative: il personaggio secondario sottrae la ribalta a quello principale attraverso la moltiplicazione delle sue funzioni, ogni assunto rimanda a un altro che ne mina la definitezza. Lo spettatore ha di fronte a sé un “racconto aperto”, con molte porte di ingresso, molte facce in cui specchiarsi, molti percorsi sovrapposti; ma una volta dentro si trova in un mondo ambiguo e pullulante di sensi possibili. Tra le ultime prodezze di Bruno Cortona prima del tragico epilogo, non si può dimenticare la partita a ping pong con l’affarista anzianotto promesso sposo della sua “bambina” quindicenne. Non sembrino due vacanzieri che ammazzano noia e calura dilettandosi in un passatempo giocoso, perché questa è una resa dei conti. Bruno sfida il ricco (che lui non è), il futuro marito della figlia (che lui ha perduto) e l’avversario che nel caso pagherà una vincita (di cui ha disperatamente bisogno). Bruno ci mette l’anima. Suda, si impegna allo spasimo, impreca, si sconforta, si galvanizza, si arrabbia, esulta. È impossibile non parteggiare per lui. Anche la figlia spera che vinca, dimostrando di tifare per l’intatta forza infantile del padre, non per i soldi del vecchio fidanzato, anche se a quelli in fin dei 114
conti si è concessa. Questa scena ci dice perciò che anche se quasi tutti si arrendono al vil metallo, ci sono delle cose che sono più in alto dei soldi: la sfida, la fatica della gara, la tensione dell’agone, il desiderio di farcela, la possibilità di vincere; e che tutti possono vincere, anche i perdenti. È il gioco che ci ricorda tutto questo. I soldi possono essere al massimo la posta in gioco.
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Ray Bradbury, Lo zen nell’arte della scrittura, DeriveApprodi, Roma, 2000, p. 40 (tit. or.: Zen in the Art of Writing, Joshua Odell Editions, Santa Barbara, 1990). Peter Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Einaudi, Torino, 1995 (tit. or.: Reading for the Plot: Design and Intention in Narrative, Vintage Books, New York, 1984). Brooks sovrappone il modello freudiano del funzionamento psichico a quello testuale, in particolare riferendosi ad Al di là del principio di piacere (tit. or.: Jenseits des Lustprinzips, 1920). Michel Serres viene chiamato in causa per Feux et signaux de brume: Zola, Grasset, Parigi, 1975. Jacques Lacan, Scritti, Einaudi, Torino, 1974. Oreste De Fornari, Il sorpasso: 1962-1992. I filobus sono pieni di gente onesta, Edizione Carte Segrete, Roma, 1992, p. 60. La struttura in tre atti è un’intuizione aristotelica (Poetica) poi riformulata e applicata al cinema dai neoaristotelici. In particolare sulla struttura tripartitica (o paradigma) si veda: Syd Field, La sceneggiatura. Il film sulla carta, Lupetti, Milano, 1991 (tit. or.: The Screenwriter’s Workbook, Dell Publishing, New York, 1984). Sigmund Freud, Il romanzo familiare dei nevrotici in Opere, V, Boringhieri, Torino, 1980 (tit. or.: Die kulturelle Sexualmoral und die moderne Nervosität, 1908). Algirdas Julien Greimas, Del Senso 2. Narrativa, modalità, passioni, Bompiani, Milano, 1984 (tit. or.: Du Sens II, Seuil, Parigi, 1983). Sui processi di identificazione e proiezione, Cesare Musatti, Scritti sul cinema, Testo & Immagine, Torino, 2000. Il modello delle due linee narrative (interiore ed esteriore) è proposto da Dara Marks, L’arco di trasformazione del personaggio, Dino Audino, Roma 2007 (tit.
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or.: Inside Story: the Power of the Trasformational Arc, Three Mountain Press, Studio City, 2007). Il modello di Marks è più articolato, comprendendo anche una terza linea (subplot di relazione). Edward Morgan Forster, Aspetti del romanzo, Garzanti, Milano, 2000, p. 77 (tit. or.: Aspects of the Novel, 1927). Carl Gustav Jung, L’uomo e i suoi simboli, TEA, Milano, 2010, p. 63 (tit. or.: Man and His Symbols, Doubleday, New York, 1964). Joseph Campbell estende le suggestioni junghiane al mondo dei miti in: L’eroe dai mille volti, Guanda, Parma, 2000 (tit. or.: The Hero with a Thousand Faces, Bollingen, New York, 1949). Chris Vogler applica il modello campbelliano del viaggio dell’eroe al cinema: Il viaggio dell’eroe, Dino Audino, Roma, 2004 (tit. or.: The Writer’s Journey: Mythic Structure For Writers, Michel Wiese Productions, Studio City, CA, 1992). Secondo tale modello ogni racconto, nella sua struttura archetipica, è un percorso emozionale, un viaggio di cambiamento, una rappresentazione simbolica di esperienze universali, segnato da precise tappe (il richiamo all’avventura, il rifiuto del richiamo, il varco della prima soglia, eccetera) e da ruoli archetipici (indossati dai personaggi) che svolgono sia una funzione narrativa che psicologica. Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, cit. p. 53. Joseph L. Henderson, Miti antichi e uomo moderno, in C. G. Jung, L’uomo e i suoi simboli, cit., p. 96. Oreste De Fornari, Il sorpasso: 1962-1992. I filobus sono pieni di gente onesta, cit., p. 68. Joseph Campbell, L’eroe dai mille volti, cit., p. 72. Gregory Bateson, Mente e natura, un’unità necessaria, Adelphi, Milano, 1984, p. 192 (tit. or.: Mind and Nature, a Necessary Unity, Dutton, New York, 1979). Si tratta di un’applicazione del quadrato semiotico di Greimas (Del Senso 2. Narrativa, modalità, passioni, cit.). Il quadrato semiotico è la struttura elementare, più astratta e profonda, della significazione, dove i termini sono articolati tra loro da relazione di contraddizione (bianco – non bianco), di contrarietà (bianco – nero) e di presupposizione (non bianco – nero). Secondo tali principi abbiamo ipotizzato il quadrato: il termine Ordine è contraddittorio di Non Ordine (cioè Caos), contrario di Istinto (in un senso lacaniano), complementare di Non Istinto (cioè la Ratio). Dara Marks, L’arco di trasformazione del personaggio, cit..
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IL RACCONTO LUDICO: LO SCOPONE SCIENTIFICO (1972)
«Certe persone non capiscono il gioco. Nel gioco non ci sono favoritismi. Il gioco non guarda in faccia a nessuno (…). Nel gioco sono tutti uguali.» Nikolaj Gogol’1
E infatti di gioco ci occupiamo ora. E lo facciamo grazie a Lo scopone scientifico, diretto da Comencini ma pensato e scritto da Rodolfo Sonego e ispirato a una sua esperienza personale. «1947, credo. Ero a Napoli (…). Mi avevano messo a dormire in una pensioncina (…) appena decorosa e con un portiere, Peppino, con il quale mi intrattenevo un poco. Un giorno vedo Peppino che si scappella tutto precipitandosi fuori dal suo antro con un grande inchino e un grande sorriso. “Contessa, s’il vous plaît, s’il vous plaît…”. Era arrivata una Rolls Royce e un autista decrepito aveva spalancato una portiera davanti a una signora con un grande cappello chiaro in testa. Cosa ci faceva una Rolls Royce davanti alla pensione Maurice, dove al massimo poteva alloggiare uno come me? (…) Peppino aveva deciso di chiamarla “la contessa”, ma lei non era contessa manco per un cazzo… Era un’olandese sugli ottanta, sposata a un banchiere americano che viveva perenni vacanze itineranti, spostandosi per il mondo a godersi la primavera. Puntuale, da otto anni, a ogni mese di maggio sbarcava a Napoli. “La prima volta la contessa mi chiese di affittare per lei una villa antica e io gliela trovai. Poi mi chiese se c’era nessuno che potesse giocare a carte con lei e il suo autista. E allora le dissi che sarei andato io, ma che non avevo soldi. E che ci avevo un amico, pure senza soldi, Ciccillo, per fare coppia con me (…). E abbiamo 117
cominciato a giocare tanto per giocare, Peppino e Ciccillo contro la Contessa e l’Autista. Ma in otto anni non ho vinto mai. E se vincevo qualcosa, la contessa mi rimangiava sempre tutto”»2. Sembra una storia troppo accattivante per essere vera. Tra l’altro non si capisce perché mai una pseudo-contessa miliardaria dovrebbe rivolgersi a un portiere disgraziato e sconosciuto per trovare una villa di lusso in affitto! Tuttavia, al di là della veridicità della storia, quel che preme sottolineare è come il film registri il nuovo orizzonte di possibilità sociali connesso al miracolo economico: ricchi e poveri nelle commedie all’italiana sembrano appartenere allo stesso spazio, potenzialmente mescolandosi. Si ricordi la spiaggia recintata e divisa per censo di Domenica d’agosto del 1950 e si pensi a quella di Il sorpasso di dodici anni dopo, dove abbienti e nullatenenti convivono nel tempo e nel luogo della vacanza. Questa coabitazione visualizza gli scenari inediti plasmati dal dinamismo economico e sociale del Boom. È certo vero che Lo scopone scientifico è organizzato in due spazi ben distinti – la bidonville e la villa – cui corrispondono due sfere di classe (una in alto e una in basso); ma è altrettanto vero che il film ammette la possibilità dell’osmosi tra i due ambienti, che si intersecano proprio nello spazio/tempo del gioco. «Il gioco è un piccolo cosmo per conto suo», dice Kurt Riezler3. E Goffman specifica: il gioco è un mondo a sé che ha lo spessore della realtà, è come se tra il gioco e la realtà vi fosse una membrana porosa e vitale, che consente attraversamenti dei confini dal mondo esterno a quello interno e comunicazione tra di essi4. Come la spiaggia, anche il gioco vive nella vacanza dal mondo della realtà, di cui sospende le gerarchie ufficiali: con le carte in mano tutti gli uomini sono uguali, sentenzia Gogol’. Perciò è logico eleggere il gioco a virtuale punto di incrocio tra mondi distanti, territorio libero. È un buon punto di partenza per un film che intende essere politico, un «apologo anticapitalista» per usare le parole dell’autore5. Tuttavia a questo gesto possibilista posto in apertura segue la sua negazione, e quella che Sonego definisce «una partita a carte tra il popolo e il potere»6 sembra una partita persa in partenza. Se ci fermassimo qui, non renderemmo giustizia della molteplicità delle letture possibili. Perché se è chiara la motivazione al gioco dei due derelitti, non è altrettanto ovvia quella della nababba, un personaggio tutto sommato tragico, costretto a sfidare la morte pur
di sentire un brivido di vita fittizia attraverso il gioco. La noia, con cui l’anziana gestisce telefonicamente e cinicamente le sue serissime giocate in borsa, si oppone all’euforia che dimostra al tavolo verde: la prima è un’attività fredda e meccanica, la seconda al contrario piena di attesa ed eccitazione. Goffman sostiene che il gioco è un microcosmo in cui l’uomo può riversare bisogni profondi come l’attrazione del rischio, la sperimentazione dell’incerto, il confronto con le proprie capacità, inevitabilmente repressi nel tempo del lavoro, nello spazio del sistema della produzione moderna. In una vita sociale organizzata pervasivamente, costretta in ruoli rigidi, in identità sclerotizzate, il gioco è un universo limpido ed esaltante, dove trovare contatto con le proprie emozioni7. Questa considerazione induce una lettura non univoca del film: se la chiave politica designa il fallimento dei poveri, quella sociologica sottolinea la disfatta della ricca. La dinamica del gioco, così teoricamente “aperta”, qui invece non lascia scampo a nessuno: come nel quadro del Caravaggio I bari (1594) le posizioni e i giochi di potere sembrano all’inizio scontati, ma a uno sguardo più attento la situazione muta. Nel dipinto (fot. 27) si direbbe di primo acchito che la vittima designata sia una, il candido giovane vestito di nero assorto nelle carte; ma l’espressione sospesa e timorosa del baro, con le carte truccate dietro la schiena e pronto a impugnare il pugnale se qualcosa dovesse andare storto, rivela tutta la sua paura; mentre il guanto logoro del complice svela la sua condizione miserevole. A ben guardare sono tutti sconfitti. Come in Lo scopone scientifico.
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Peppino lo stracciarolo (Alberto Sordi) e Antonia (Silvana Mangano) conducono una vita di stenti e amore insieme ai loro cinque figli, impiegati come la madre nell’impresa di pompe funebri dello zio. La figlia maggiore Cleopatra apprende dalla radio la notizia dell’arrivo della “vecchia” (Bette Davis), una facoltosa speculatrice appassionata di carte, che gira il mondo in compagnia dell’autista, ex amante, George (Joseph Cotten), suo compagno al tavolo. Come ogni anno la miliardaria invita i due borgatari in villa per giocare a scopone scientifico: offre loro la somma di partenza necessaria, ma regolarmente riesce a batterli. Quest’anno però i due sono allenati e, dopo le prime disastrose giocate, vincono un sacco di soldi. Tra fortune e rovesci, interruzioni causate dal collasso della vecchia a seguito di una sconfitta, le partite si susseguono con la partecipazione dell’intera borgata: l’intellettuale marxista fallito il “professore” (Mario Carotenuto) catechizza, il prete strabilia davanti al denaro, la sorella prostituta di Peppino spera che una grossa vincita la liberi dalla strada. Antonia alle carte è un fenomeno, Peppino meno; lui dopo un po’, pago del malloppo conquistato, vorrebbe sottrarsi al gioco ma per amore di lei (ormai posseduta dal demone del gioco) torna al tavolo. Quando Peppino sbaglia per l’ennesima fatale volta, Antonia lo sostituisce con Righetto (Domenico Modugno), un baro suo corteggiatore: una colletta della borgata consegna alla coppia una notevole cifra, ma i due dissipano tutto. Antonia per continuare è costretta a ipotecare la baracca, Righetto tenta il suicidio. Peppino si riconcilia con Antonia; vanno a salutare la vecchia signora all’aeroporto e in una partita alla carta più alta perdono anche la baracca. Sarà l’ultima partita, perché Cleopatra regala alla riccona un dolce fatto con le sue mani e col veleno per i topi.
Jean Huizinga, in Homo ludens, sostiene che le grandi attività della società umana sono intessute di gioco8; il che evidenzia il carattere ludico della vita culturale, sottoposta a date regole. Vale la pena di riprendere alcune suggestioni dello studioso olandese per noi particolarmente interessanti, come l’accostamento tra gioco e guerra: banalmente si può dire che una guerra si può vincere o perdere, proprio come un gioco; che le parti combattenti si considerano avversari, e come tali rivendicano una posta, un segno di un predominio sull’al120
tro. Anche in Lo scopone scientifico questa affinità viene evocata a più riprese: si parla del tavolo da gioco come del “campo di battaglia”, della partita come di una “guerra” e del rivale alle carte come “nemico”. Se un film sul gioco può essere letto metaforicamente come una guerra, i film di guerra – come La grande guerra o Tutti a casa – possono essere ripensati per il loro significato ludico, nel senso che rappresentano un riesame di schemi e tensioni, presenti nel più ampio contesto politico e sociale. Ciò può valere in un duplice senso: il meccanismo ludico può svolgere una funzione simbolica di conferma oppure di problematizzazione del sistema normativo vigente. E sembra che il racconto di guerra di entrambi i film – quello di Monicelli e quello di Comencini – vada nella seconda direzione. Busacca e Jacovacci si prendono gioco di quel gioco pesante che è la guerra e cercano di fare il doppio gioco per evitare di mettersi veramente in gioco; Innocenzi sta al gioco finché non viene messo fuori gioco dalle vicende storiche, per un po’ fa buon viso a cattivo gioco, chiedendosi però nel contempo a che gioco si stia giocando. Le loro storie possono essere descritte tatticamente come una messa in discussione delle regole, non come loro esecuzione: se volessimo parlare di gioco, dovremmo intenderlo come play (il gioco come concreto comportamento ludico), non come game (il gioco come insieme astratto di disposizioni e schemi di azione)9. In tutti e due i casi il peso del caso nella determinazione delle azioni è talmente rilevante che lo schema ludico sembra essere quello che Roger Callois definisce l’alea10: un gioco d’azzardo, una partita con la sorte, più che una competizione basata su merito e capacità. Venendo a Lo scopone scientifico. Qui la vicenda si sviluppa attraverso una serie di partite a carte, in cui i contendenti devono dimostrare determinate qualità agonistiche: conoscenza e rispetto delle regole (contenute nel fantomatico manuale del Maestrelli), capacità di calcolo e di memorizzazione del più alto numero possibile delle varianti, in base alle quali individuare la strategia dell’avversario e stabilire la propria. Sembra una situazione di quelle esaminate dalla Teoria dei Giochi, quella scienza matematica che studia le situazioni di conflitto ed elabora modelli di soluzioni competitive, predicando una scelta razionale che tenga conto di tutti i fattori in gioco. Certo ci vorrebbe una “memoria perfetta”11, tale da consentire il 121
ricordo di tutte le mosse proprie e altrui, ma Peppino non ce l’ha. A parte ciò, assegnando alla conoscenza e alla capacità razionale l’esito positivo del gioco e di conseguenza la conclusione felice della vicenda per i nostri eroi, il film sembrerebbe nutrire e suggerire una certa fiducia nel potere della norma e del raziocinio. L’epilogo però viene affidato all’azzardo puro, ed è la carta più alta a decidere dell’ultima cruciale partita, quella in cui i due protagonisti perdono l’unico loro bene, la baracca. È il capriccio della Fortuna che infine ha la meglio, non l’abilità degli uomini. Quest’ultima mossa del film cambia le carte in tavola. E ci porta a Jurij M. Lotman, il quale ha osservato che l’ampia diffusione del tema del gioco d’azzardo nella letteratura russa ottocentesca esprimeva e rifletteva l’alto tasso di conflittualità della situazione sociale e la convinzione profonda dell’imprevisto come meccanismo operante nella vita sociale12. E Sonego è un profondo conoscitore di quella letteratura: lo dimostra il fatto che nella sua arringa il “professore” rievochi un sedicente fatto di cronaca (la storia del principe Glauco Pignatelli che in una notte di gioco nel suo castello di Zagarolo si giocò tutto e alla fine anche la moglie) citando in realtà il motivo tematico dell’amata perduta a carte, frequente nella letteratura russa. Dunque il filo ludico che percorre le commedie all’italiana qui considerate, sembra parlarci di giocatori contro le regole e di giochi senza regole. È la situazione anche di Divorzio all’italiana. Huizinga afferma che «il processo è un gioco d’azzardo, è una gara, è una lotta a parole»13. Ritorna dunque anche qui l’idea del gioco come alea, il ruolo della sorte e del fortuito nella determinazione dei casi umani. Anche in Lo scopone scientifico si improvvisa una sorta di processo, l’accusa è la resistenza a proseguire il gioco da parte del protagonista; l’intellettuale fallito sale su una sedia e improvvisa un’arringa, trasformandosi in pubblico accusatore; viene invocata la necessità di uno schema, di un obiettivo e di una strategia (il raddoppio a oltranza): che precipiterà i due nel disastro. Fefè di Divorzio all’italiana apparentemente sembra più fortunato: prevede il processo in ogni suo dettaglio, elabora una tattica precisa, riducendo il peso delle probabilità a lui contrarie e puntualmente si verifica il presunto. Le scene processuali iperbolizzano la natura competitiva del processo riportandolo alla sua natura ancestrale, a un mondo privo di regole: 122
non è solo (come in La grande guerra o in Tutti a casa) un comportamento ludico che discute e disconosce la norma, qui la norma è mentore – complice – del piano diabolico del “giocatore”. Tuttavia lo schema narrativo sconfessa quello tattico-ludico, riconducendo di nuovo la conclusione della vicenda alla logica del caso: Fefè non aveva nemmeno preso in considerazione la variabile di una donna che si prendesse gioco di lui. Perciò, siamo in un mondo abitato dai paradossi dove il vero principio regolatore è il caso. A un certo punto del film, “il professore” si presenta in casa dei due sfortunati giocatori con un libretto sottobraccio trovato, a suo dire, in una bancarella. Sembra di poter leggere dietro titoli e autori fittizi (il conte Valentino Maestrelli, teorico dell’Ottocento e autore del manuale Lo scopone scientifico) un chiaro riferimento al trattato del Chitarrella14, antica codificazione dello scopone scientifico. Il primo passo letto dal professore – «Lo scopone scientifico è così chiamato…» – ricalca infatti pedissequamente l’incipit del trattato, il suo primo articolo. L’osservazione nasce da una domanda: perché Sonego ha scelto proprio questo gioco tra tutti i possibili? Una prima ipotesi riguarda la sua caratteristica tipicamente italiana: in questo caso la scelta celerebbe la metafora della cultura nazionale soffocata dall’imperialista americana. Tuttavia scorrendo le regole del Chitarrella, se ne trovano alcune che per noi sono ancora più ricche di significato. Regola 42. Chi non abbia buona memoria e non sia capace di un’attenzione continua lasci perdere lo scopone e vada a giocare a palline. Regola 44. Ricordati, o buon giocatore, di giocare non solo con le tue carte ma anche con quelle del tuo socio. Fai attenzione a non realizzare prese che sul momento sembrino buone ma che poi potresti pagare; perché la filosofia dello scopone è di giocare sulla distanza e nel sapere rinunciare all’immediato guadagno, guardando piuttosto all’esito complessivo. Nello scopone, comportati come negli affari.
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Tirando le somme: le proprietà richieste per vincere in questo gioco sono una memoria robusta e durevole, l’attitudine a giocare con l’altro e l’intelligenza di non fermarsi alla presa immediata. Guardare indietro (non lasciarsi incantare dalle vittorie del presente), per poter vedere lontano: è in fondo un pensiero sotterraneo che ritorna spesso nelle commedie all’italiana, è il moralismo del genere. Il tema della memoria, poi, nei film presi in considerazione, è centrale, pur assumendo – come un mutaforme – molte facce: è motivazione al racconto in La grande guerra e in Tutti a casa, è modo del racconto in Divorzio all’italiana e in La visita, è tappa necessaria per il personaggio in Il sorpasso e qualità essenziale per il protagonista di Lo scopone scientifico. Sembra insomma un tema importante, vale forse la pena di rifletterci un po’ su.
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Nikolaj V. Gogol’, I giocatori in Opere, vol. II. A cura di Serena Prina, Mondadori, Milano, 1996, pp. 364-811, p. 778 (tit. or.: Igroki, 1842). Tatti Sanguineti (a cura di), Il cinema secondo Sonego, cit., p. 114. Kurt Riezler, Play and Seriousness, «The Journal of Philosophy», n. 38, 1941, pp. 505-517, p. 505. Erving Goffman, Espressione e identità. Giochi, ruoli, teatralità, il Mulino, Bologna, 2003 (tit. or.: Encounters. Two Studies in the Sociology of Interaction, Bobbs-Merril, Indianapolis, 1961). Goffman, che analizza il gioco come forma di interazione strategica, ritorna sull’argomento anche in: L’interazione strategica, il Mulino, Bologna, 1988 (tit. or.: Strategic Interaction, University of Pennsylvania Press, Filadelfia, 1969). Tatti Sanguineti (a cura di), Il cinema secondo Sonego, ivi. Tatti Sanguineti (a cura di), Il cinema secondo Sonego, cit., p. 112. Erving Goffman, Espressione e identità. Giochi, ruoli, teatralità, cit.. Johan Huizinga, Homo ludens, Einaudi, Torino, 2002 (tit. or.: Homo ludens, Pantheon Akademische Verlagsanstalt, Amsterdam, 1939). L’analisi della “teoria” di Huizinga prescinde dai nostri obiettivi. Tuttavia per una valutazione dello studio, si rimanda alla brillante introduzione di Umberto Eco, Homo ludens oggi, 1973, che correda l’edizione Einaudi del testo (pp. VII-XXVII).
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A proposito della distinzione tra play e game, si veda la succitata introduzione di Umberto Eco, Homo ludens oggi, p. XVIII. Roger Caillois, I giochi e gli uomini. La maschera e la vertigine, Bompiani, Milano, 1981 (tit. or.: Les jeux et les hommes: le masque et le vertige, Gallimard, Parigi, 1958). La memoria perfetta è stata ipotizzata per la prima volta da Harold William Kuhn in “Extensive Games and the Problem of Information” in H. W. Kuhn, A. W. Tucker (a cura di), Contributions to the Theory of Games, vol. 1, Princeton University Press, Princeton (NJ), 1953, pp. 193-216. Jurij Michajlovicˇ Lotman, “Il tema delle carte e del gioco nella letteratura russa dell’inizio del secolo XIX”, in Testo e contesto, semiotica dell’arte e della cultura, a cura di Simonetta Salvestroni, Bari, Laterza, 1980, pp. 151-189 (tit. or.: Kartocˇnaja Igra in Besedy o russkoj culture, Iskusstvo-SPB, San Pietroburgo, 1994, pp. 136-179). Johan Huizinga, Homo ludens, cit., p. 92. Il testo di Chitarrella (De regulis scoponis, fine del XVII secolo) originariamente è in latinetto. Qui si fa riferimento all’edizione: Chitarrella, Le regole dello scopone e del tressette, Dedalo, Bari, 1982, pp. 32-33.
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MENTRE È GIÀ: TEMPO, MEMORIA E RICORDO IN C’ERAVAMO TANTO AMATI (1974)
«In un primo tempo doveva essere soltanto la storia di Nicola, professore di provincia fulminato dalla visione di Ladri di biciclette e talmente conquistato alla causa del neorealismo da considerare un vero e proprio tradimento la successiva involuzione dell’opera di De Sica, in parallelo con il riflusso degli anni Cinquanta e l’affievolirsi delle speranze resistenziali (…). Doveva essere la storia di un lungo pedinamento che durava trent’anni: il personaggio seguiva De Sica e diventava per lui (…) una vera ossessione. De Sica se lo trovava sempre davanti e quest’ultimo lo metteva di fronte a problemi morali, a problemi di coscienza. (…). C’era questo grillo parlante, questa coscienza che lo seguiva, lo rimproverava, lo perseguitava e il film terminava con la stessa frase che è rimasta nella versione definitiva: “Noi pensiamo di cambiare il mondo, ma è il mondo che cambia noi” (…). Poi l’idea di fare un film su un solo personaggio ci è parsa un po’ limitata. (…) Abbiamo allora pensato di allargare il campo e di introdurre altri personaggi emblematici, almeno due, un borghese e un proletario»1. Antonio (Nino Manfredi), sua moglie Luciana (Stefania Sandrelli) e Nicola (Stefano Satta Flores) vanno a casa di Gianni (Vittorio Gassman) per restituirgli la patente: lì restano impietriti davanti alla visione dell’amico (come loro ex partigiano e da loro creduto un avvocato idealista e spiantato), mentre si aggira nel parco di una lussuosa villa prima di tuffarsi in piscina. Sullo stop-frame del tuffo, Nicola riavvolge il nastro della storia, portandola indietro di trent’anni. Dopo la Resistenza, Antonio, Nicola e Gianni, tornano alle rispettive vite. Mentre l’Italia vive i vorticosi anni tra il referendum del ’46 e le elezioni del ’48, Antonio sconta nel lavoro la propria fede ideologica, 126
rimanendo comunista e semplice portantino ospedaliero; si innamora di Luciana, aspirante attrice friulana. Nicola torna a fare il professore a Nocera Inferiore, ma la abbandona presto in seguito a un’aspra discussione coi dirigenti scolastici su Ladri di biciclette, lascia moglie e figlio e va nella capitale. Gianni torna al Nord, diventa avvocato, quindi si trasferisce a Roma. Conosce Luciana, i due si mettono insieme, ma Gianni la lascia per sposare Elide (Giovanna Ralli), figlia di un ricco palazzinaro privo di scrupoli (Aldo Fabrizi). Luciana si consola con Nicola. Siamo nel frattempo approdati negli anni Sessanta; Nicola cerca vanamente riscatto a Lascia o raddoppia?, Antonio ritrova Luciana, comparsa sul set di La dolce vita, Gianni consuma la propria ascesa sociale e la propria discesa morale. Rimane vedovo. Negli anni Settanta, i tre si rincontrano: Gianni lascia che lo credano un poveraccio, trascorrono una serata insieme nella trattoria dei vecchi tempi, poi Antonio li conduce davanti a una scuola, dove la moglie – Luciana – è in coda per assicurare un posto ai figli, mentre qualche giovane intona una vecchia canzone partigiana che i tre riconoscono. Gianni confessa inutilmente il proprio amore a Luciana. La mattina dopo i tre, davanti alla villa di Gianni, apprendono la verità.
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Nello schizzo preparatorio della scena del madonnaro, che segna nel film il passaggio dal bianco e nero al colore e l’ingresso negli anni Sessanta (fot. 28)2, il sole sta sorgendo, alcuni uomini si stanno allontanando, un altro sta disegnando. Movimenti che designano la sovranità del gerundio, il tempo dell’incompiutezza e del passaggio, ma già in sé potenza di irreversibilità. Mentre arriva lentamente il colore, il cambiamento si è già compiuto: negli anni Sessanta l’Italia è come la porchetta stesa sul tricolore a cui viene tagliata la testa. Sembrerebbe un gesto di scrittura retorico, ma non lo è: avevamo lasciato Gianni alle prese con un conflitto – la coscienza a cui sembrava molto sensibile o i soldi che non sembravano interessarlo poi così tanto – e lo ritroviamo un altro uomo, sposato e compromesso. Non sappiamo perché Gianni sposi Elide giacché avviene fuori dall’orizzonte del nostro visibile, quel che importa è che succede: le scelte di ognuno, qualunque siano, comunque accadono, nello spazio di un gerundio, e senza quasi accorgersene trasformano lo scenario di tutti. Alcuni salti nel racconto – per esempio la fine dell’amore tra Luciana e Gianni, che apprendiamo dall’arrivo di lei sola in trattoria – suggeriscono un’impressione di passato presentificato. Nella sequenza delle “lacrime fotografiche” di Luciana – l’avevamo vista entrare nella cabina fotografica e poi era sparita –, ciò che è accaduto in quel vuoto di visibile narrativo, si ri-produce ora sotto i nostri occhi. L’immagine delle lacrime di ora è l’indice del pianto di allora. Il passato è come (un) presente. Ce l’aveva già detto il titolo: il tempo è (l’) imperfetto, incompiuto, continuativo e la durevolezza dei sentimenti pende sul presente quasi sospendendolo. Il ricordo si fa racconto, la memoria Storia, la Storia cede il passo alla memoria, l’illusione trascolora nell’inganno, il tempo gioca brutti scherzi: s’inceppa, torna indietro, salta in avanti, si cristallizza nell’istante. Il futuro è già passato – «senza che ce ne rendessimo conto», dice Gassman alla fine – e il passato è presente; tutti gli eventi, passati, presenti, futuri, sono lì, scorrono come fotogrammi sulla pellicola cinematografica: è un divenire che acquista senso nell’accostamento. Più che indagine sulle azioni, l’edificio della storia è costruito tramite la constatazione degli effetti. 128
All’inizio è un tempo che sembra non procedere; perché la sequenza iniziale si riavvolge su se stessa, non va avanti, non si risolve, non si chiude fino alla fine? «È come se raccontare sia portare a compimento la vita»3. Il film stesso dice la necessità del Racconto, serve un tempo e un movimento incompiuto (tra l’altro, sembrava una cosa, invece era un’altra, il tuffo che nell’incipit era slancio, nell’excipit è caduta). È un desiderio di racconto quello che muove in principio Nicola a condividere direttamente con lo spettatore, senza mediazioni, il ricordo. Anche gli altri personaggi, passandosi il testimone della vicenda, personificano questa fiducia nel racconto e nella sua destinazione. Il punto di partenza sono i giorni della Resistenza, anzi la loro memoria, che è memoria contemporaneamente sociale e individuale4. Poi è la Storia che parla, attraverso le immagini documentarie dell’arrivo degli americani, del referendum monarchiarepubblica del ’46, del viaggio di De Gasperi negli Usa e del successivo defenestramento dei comunisti nel ’47. All’inizio le immagini dei protagonisti sono mescolate a quelle di repertorio, in seguito quest’ultime hanno il sopravvento e i nostri escono di scena. La Storia si appropria della memoria quando questa abbandona la condizione del ricordo5. Se questa “memoria archiviata” in sé attesta una perdita – la dimensione del proprio, del personale –, è per abbracciare la dimensione pubblica. È qualcosa di necessario. Di lì in poi però non ci sono più immagini d’archivio, le vicende si susseguono sulle tracce delle storie singolari, della memoria alternata di ciascun personaggio. Il tempo storico e il tempo biografico non collimano più. La Storia insomma smette di essere di tutti. Cadute le illusioni, si apre lo spazio degli inganni. Gianni mente ad Antonio spacciandosi per guardiamacchine: invece è un palazzinaro infelice. Tuttavia questo passaggio dal ricordo alla Storia e di nuovo dalla Storia alla memoria contiene in sé un valore, poiché rimemora ciò che non è stato, che non si è compiuto: porta alla luce una ricchezza di aspettative inappagate, rendendo il presente solo uno tra i possibili. Quest’elevare a dignità narrativa “ciò che non è stato”, risarcisce attraverso il racconto il passato che non si è realizzato6. È in fondo un modo nobile di intendere il Racconto: dare un’altra possibilità di storia ai fuoriusciti dalla Storia. 129
Il cinema Ladri di biciclette (Vittorio De Sica, 1948), La dolce vita (Federico Fellini, 1960) e L’eclisse (Michelangelo Antonioni, 1962) si stagliano sulla superficie fitta di citazioni di cui è disseminato il film7. Sono veri e propri “luoghi della memoria”8. C’è una corrispondenza precisa – osserva Peter Bondanella9 – tra le epoche storiche, le vicende dei protagonisti che le identificano, le citazioni cinematografiche e lo stile filmico. Il primo flashback dei giorni partigiani è girato in un neorealistico bianco e nero e l’atmosfera tesa del primo dopoguerra (quella ricreata dal film Ladri di biciclette) è rivissuta da Nicola che combatte in difesa proprio di quel film, accusato dai suoi capi reazionari di fomentare la lotta di classe. Aldo Fabrizi, il prete partigiano protagonista di Roma città aperta, è ora un inquietante “pescecane” e il suo corpo gargantuesco è l’immagine devastante della fine delle aspirazioni postbelliche e degli eccessi dell’autoindulgenza italiana (pur affacciandosi dietro di lui, nelle aspirazioni degli sceneggiatori, «un truculento e patetico Emil Jannings»10). Similmente si può dire della sequenza che riguarda Elide, quando diventa una raffinata donna antonioniana: qui lo stile dell’Antonioni maturo viene parafrasato per drammatizzare il fallimento della comunicazione tra Gianni e la moglie.
re un dato momento storico e i conflitti che l’hanno segnato. La memoria intertestuale è qui la memoria interiore, viscerale, del Paese. La visione di Ladri di biciclette si svolge nel tempio chiuso, placentare, della sala, dove esplodono contrapposizioni chiare e nette. La dolce vita è un passaggio en plein air: lo spazio acerbo, aperto, del set segna l’ingresso in un orizzonte più ampio e incomprensibile, i confini si fanno meno chiari, le opposizioni più sfumate e nella confusione Fellini viene scambiato per Rossellini. L’eclisse vive in una dimensione metalinguistica, sviluppandosi attraverso fotogrammi statici in rapida sequenza: i fotogrammi non appartengono più a un fluire, salta così l’illusione del movimento del tempo e con esso l’immaginazione necessaria alla storia. Scola precisa che il riferimento a L’eclisse «non è un giudizio sull’artista, semmai sull’uso snobistico, alla moda, quindi consumistico, che veniva fatto dei suoi film»11. In ogni caso è questa l’ultima citazione cinematografica esplicita del film: qui, quel “gerundio filmico” che è il fotogramma non si compie nel tempo della pellicola, né in quello della sua visione (come nel caso di Ladri di biciclette); nemmeno viene evocato dal set, che è lo spazio del film che si sta facendo (La dolce vita). Sono, quelli di L’eclisse, fotogrammi eternati nell’hic et nunc. È una piccola avvisaglia, una scintilla di sensosecondo nel gioco intertestuale, di quell’egemonia del presente che secondo Augé caratterizzerà sempre più la contemporaneità, eretta sull’assenza di ogni orizzonte storico e orfana del tempo come principio di speranza12. L’eclisse conclude la costellazione delle citazioni. Forse perché se «la letteratura e l’arte (…) si staccano progressivamente dalla loro storia contestuale, cioè dal pubblico più vasto, c’è il rischio concreto che continuino sì a esprimere qualche cosa della società (dei suoi smarrimenti e delle sue incertezze), ma rinunciando a svolgervi un ruolo»?13 Dev’essere così che la pensavano Scola con Age e Scarpelli. Il cinema e la televisione
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Nessun luogo fisico, nessun evento commemorativo nel film, riesce a far vibrare le corde della memoria collettiva, a far rivive130
Il cinema e la televisione sono fatti di una idea di luce diversa. Quella del set è discreta, può giocare a rimpiattino con la realtà (profilmica) irraggiando ora una cosa, ora un’altra; investire e com131
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prendere ora l’uno ora l’altro, puntando alla complessità dell’insieme. Quella dello studio è una luce diffusa, seriosa e monocorde quanto Mike Buongiorno; avvolge luministicamente ogni cosa allo stesso modo, banalizzandola. A Lascia o raddoppia? si consumano grandi semplificazioni e sanzioni definitive: tutti stanno per portare in trionfo il cinefilo ma è la logica binaria (il notaio che dice “sì o no”) che lo frega, che non tiene conto delle tante possibilità e delle complicazioni. Ma in fondo la radicalità ideologica di Nicola non finiva per fare lo stesso?
diavoli ricorrono alle diavolerie della tecnica moderna pensando di risolvere i problemi sentimentali, credendo di poter esprimere le proprie inquietudini, riuscendo solo così a dire quelle verità che non riescono a dire. È curiosa questa aspettativa tanto intima verso la voce fredda della modernità, questa speranza di surrogare l’analfabetismo affettivo con l’alfabetizzazione tecnico-mediatica. Sono degli illusi, chiuso il registratore, tornano tutti alla loro solitudine. Restano così, personaggi irrisolti, “persone” incompiute, al gerundio. Enzo Siciliano afferma che il personaggio di Elide prova che «la felicità è un’ipotesi dai connotati aggressivi e distruttivi»; semmai la felicità è viva nella Luciana di Stefania Sandrelli. «Ma che felicità può essere questa? Appunto, è l’essenziale felicità di un’esistenza vissuta nella sua porzione possibile di vero, la felicità che tocca – e non è detto che tocchi sempre – a chi riconosce, anche soffrendo, che la vita è soltanto quello che è, un crudo esser vivi dove ogni aggettivo è incenerito»14.
I mezzi di comunicazione, verso il corpo mediatizzato Elide è una figura secondaria, un gomitolo di solitudine femminile come Pina in La visita. In principio florida e ignorante, alla fine sofisticata silfide. Tanto più il padre lievita – ingozzandosi in brutali primi piani di pastasciutta, polli e porchette – tanto più il corpo di lei si assottiglia, piegato dalla volontà coercitiva del marito che vuole allontanare da lei l’ombra dei natali ingordi. Non c’è tolleranza per la sua natura semplice, né pietà per la sua ignoranza e il suo corpo abbondante. Anche lei (come Fefè e come Pina) è fissata con il registratore a cui affida i pensieri più riposti. La voce registrata in Divorzio all’italiana tradiva l’inganno degli adulteri e l’inettitudine del marito; in La visita l’isolamento di Pina e la natura infingarda di Adolfo; qui la volontà timorosa di Elide. Questi poveri 132
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Roberto Ellero, Ettore Scola, Il Castoro, Milano, 1995, pp. 51-52. Pier Marco De Santi, Scola, Immagini per un mondo nuovo, Giardino Editori, Pisa, 1988, p. 94. Paolo Jedlowski, Il racconto come dimora, cit., p. 81.
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Sui rapporti tra memoria sociale e individuale nel contesto italiano, si veda il succitato: Mariagrazia Fanchi, Identità mediatiche, cit.. 5 Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, il Mulino, Bologna, 2004 (tit. or: Das Rätsel der Vergangenheit. Erinnern – Vergessen – Verzeihen, Wallstein, Göttingen, 1998). Secondo Ricoeur è questa la prima fase che scandisce la dialettica tra storia e memoria. 6 Sono sempre le suggestioni di Ricoeur che agiscono dietro alle mie considerazioni. «Sapere che gli uomini del passato hanno formulato aspettative, previsioni, desideri, paure e progetti, significa spezzare il determinismo storico, reintroducendo retrospettivamente un elemento di contingenza nella storia», Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, cit., p. 95. 7 La sequenza della scalinata di Odessa di La corazzata Potëmkin (BronenoseÐ Potëmkin, Sergej M. Ejzensˇtejn, 1925) viene riprodotta artigianalmente da Nicola a Trinità dei Monti. Nella stessa sequenza viene citato anche il regista Zampa. L’anno scorso a Marienbad (L’Année dernière à Marienbad, Alain Resnais, 1961) viene ricordato da Antonio. De Sica (a cui il film è dedicato), Fellini, e Mastroianni appaiono nei panni di loro stessi. Queste citazioni hanno una precisa funzione storica o memoriale, al contrario di Schiavo d’amore che è una trovata di linguaggio (cfr. p. 19). Non mancano poi le citazioni extracinematografiche: quelle letterarie, cioè I tre moschettieri (Les Trois mousquetaires, 1844) di Alexandre Dumas e Furore (The Grapes of Wrath, 1939) di John Steinbeck, rappresentano i passaggi della catechizzazione culturale di Elide; quelle teatrali vivono in rapporto osmotico con il cinema: l’espediente della dissolvenza elettrica (utilizzata anche da Orson Welles in Quarto potere) si rifà allo spettacolo teatrale Strano interludio di Eugene O’Neill (Strange Interlude, 1928), nella versione interpretata da Rossano Brazzi e Andreina Pagnani a cui assistette lo stesso Scola. 8 La fortunata definizione è di Pierre Nora, che ha diretto e curato l’opera Les Lieux de mémoire (7 volumi, 1984-1992, Gallimard, Parigi). In Italia è stata ripresa da Mario Isnenghi (a cura di), I luoghi della memoria: simboli e miti dell’Italia unita, cit.. 9 Peter Bondanella, Italian Cinema. From Neorealism to the Present, Continuum, New York, p. 371. 10 Furio Scarpelli, “Perché venne in mente”, in Enzo Siciliano (a cura di), C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Storie di italiani. Storia d’Italia, Lindau, Torino, 2001, p. 109. 11 Ettore Scola, Il cinema e io, cit., p. 123.
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12 Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, Elèuthera, Milano, 2009 (tit. or.: Où est passé l’avenir?, éditions du Panama, Parigi, 2008). 13 Marc Augé, Che fine ha fatto il futuro, p. 57. 14 Enzo Siciliano (a cura di), C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. Storie di italiani. Storia d’Italia, cit., p. 15.
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NOTA BIBLIOGRAFICA
La selezione bibliografica qui proposta comprende le monografie più rilevanti sull’argomento (si è fatta un’eccezione per il saggio di Fofi del 1964, perché è il primo apporto di un certo respiro dedicato all’argomento). Non sono stati presi in considerazione i testi generali, dove pure si trovano contributi importanti; si è cercato di darne conto nel testo e nelle note (cfr. nota 11 della prima parte del volume). A parte alcuni casi sporadici che hanno individuato nel genere l’oggetto circoscritto e specifico delle proprie attenzioni (Aprà, Pistagnesi, 1986; Giacovelli, 1990/1995), in linea di massima si può osservare come la letteratura si sia spesso contraddistinta per la tendenza a inserire il discorso sulla commedia all’italiana nel più ampio contesto della commedia italiana (Serceau, 1987; Viganò, 1996) o del cinema comico (d’Amico 1985/2008). In alcuni casi ciò discende da una finalità programmatica (Bernardi, 1985; Gili, 1980/1983); più spesso deriva dal tipo di approccio adottato, per lo più estetico-critico: vengono indagate le costanti tematiche, estetiche e narrative, ma di rado il genere è stato osservato alla luce delle sue funzioni sociali o per i modi di rappresentazione messi in opera o in relazione alle dinamiche dell’industria culturale (intermediali o interne alla produzione cinematografica). Un primo tentativo non sistematico di allargare il raggio di azione dell’indagine è rappresentato dal volume collettaneo curato da Napolitano (1986), in cui figurano tra le altre, analisi comparative (Roberto Campari), di tipo psicanalitico (Simona Argentieri), linguistiche (Diego Carpitella, Tullio De Mauro, Sergio Raffaelli), oltre al fondamentale saggio di Maurizio Grande, Le istituzioni del comico e la forma commedia (pp. 37-63). Gli studi di Grande sul genere (raccolti e riorganizzati da 136
Orio Caldiron, 2003) rappresentano una delle punte più avanzate della ricerca, animati dalla preoccupazione costante e mai disattesa di leggere il genere in una prospettiva semiotica-psicanalitica, collegandolo ai sommovimenti della società italiana. In questa direzione si colloca anche il libro di Piotti-Senaldi (2002), che in un’ottica hegeliana-lacaniana inserisce questa tipica produzione cinematografica nel quadro dei cambiamenti epocali che investono il sistema simbolico-ideologico nazionale: ne consegue una precisa delimitazione cronologica del genere (dalla fine degli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta), motivata qui scientificamente, anche se da altri già intuita empiricamente. Questa perimetrazione cronologica del genere sembra essere un dato acquisito nella storiografia più recente: è accolta per esempio da Rémi Fournier Lanzoni, che si occupa dei periodi antecedenti agli anni Sessanta e del decennio successivo, ma in quanto prodromi e “atto finale” della commedia all’italiana, di cui esplora le ascendenze culturali (la Commedia dell’arte) e le influenze provenienti da altre forme della cultura popolare (per esempio l’avanspettacolo), assorbite dal genere nei neoscenari del Boom, segnati da un profondo cambiamento che investe la sfera religiosa, economica, politica e sociale. Una vicenda a parte è costituita dai libri che raccolgono le “voci dei protagonisti”, testi meritevoli se non altro perché danno spazio a figure e mestieri in genere lasciati ai margini dalla storiografia: Pintus (1985) intervista, oltre ai registi e attori, alcuni tra i principali produttori, sceneggiatori, scenografi e musicisti che hanno lavorato nelle commedie all’italiana; Pergolari (2003), senza alcuna pretesa enciclopedica, propone una nutrita serie di schede biofilmografiche. Adriano Aprà, Pistagnesi Patrizia, Comedy Italian Style 1950-1980 (Rai-Eri), Torino, 1986. Sandro Bernardi (a cura di), Si fa per ridere… ma è una cosa seria, La casa Usher, Firenze, 1985. Masolino d’Amico, La commedia all’italiana. Il cinema comico in Italia dal 1945 al 1975, Mondadori, Milano, 1985 (2° ed: il Saggiatore, Milano, 2008). 137
Goffredo Fofi, La comédie du miracle, «Positif», n. 60, aprile-maggio, 1964, pp. 14-27. Enrico Giacovelli, La commedia all’italiana, Gremese, Roma, 1990 (2° ed: 1995). Jean-A. Gili, La comedie italienne, Henry Veyrier, Parigi, 1983; Arrivano i mostri. I volti della commedia italiana, Cappelli, Bologna, 1980. Maurizio Grande, La commedia all’italiana (a cura di Orio Caldiron), Bulzoni, Roma, 2003; Il cinema di Saturno. Commedia e malinconia, Bulzoni, Roma, 1992; Abiti nuziali e biglietti di banca, Bulzoni, Roma, 1986. Rémi Fournier Lanzoni, Comedy Italian Style: The Golden Age of Italian Film Comedies, Continuum, New York e Londra, 2008. Riccardo Napolitano, Commedia all’italiana. Angolazioni, controcampi, Gangemi, Roma, 1986. Andrea Pergolari, Dizionario dei protagonisti del cinema comico e della commedia all’italiana, Un mondo a parte, Roma, 2003. Pietro Pintus (a cura di), Commedia all’italiana: parlano i protagonisti, Gangemi, Roma, 1985. Antonio Piotti, Marco Senaldi, Maccarone, m’hai provocato! La commedia italiana del Piccolo Sé, Bulzoni, Roma, 2002. Michel Serceau, La comédie italienne de Don Camillo à Berlusconi, Editions du Cerf, Parigi, 1987. Aldo Viganò, Commedia italiana in cento film, Le Mani, Genova, 1996.
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INDICE
Commedia all’italiana Quei perdenti che fanno ridere. I personaggi Mezzi/Movimenti Il comico all’opposizione, l’opposizione al comico Eredità, influenze, percorsi. Gli autori Un successo italiano. Produttori, divi e spettatori Gli italiani, una comunità immaginaria? Qualche numero, cinque tratti, tre frasi Note
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I film La caduta del mito: La grande guerra (1959) Tutti a casa (1960), il tema del ritorno Il corpo della nazione: Divorzio all’italiana (1961) Il corpo narrativo della donna: La visita (1963) Il sorpasso (1962), il racconto aperto Il racconto ludico: Lo scopone scientifico (1972) Mentre è già: tempo, memoria e ricordo in C’eravamo tanto amati (1974)
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Nota bibliografica
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italiana Storie di cinema
Mariapia Comand, Commedia all’italiana, Editrice Il Castoro, Milano, 2010. Emiliano Morreale, Cinema d’autore degli anni Sessanta, Editrice Il Castoro, 2011.
Questo libro è stampato su carta certificata, proveniente da foreste e piantagioni tutelate e gestite in maniera corretta e sostenibile.
Finito di stampare nel mese di novembre 2010 presso Abbiati - Milano