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Italian Pages 360 Year 2019
CLINICA DEL TRAUMA NEI RIFUGIATI UN MANUALE TEMATICO A CURA DI EMILIO VERCILLO E MARIA GUERRA
MIMESIS / CLINICA DEL TRAUMA E DELLA DISSOCIAZIONE
“...riuscire a leggere attraverso le diversità culturali l’impatto universale del trauma, ricondurre le presentazioni cliniche nei pazienti di difforme cultura ai quadri patologici già familiari, in cosa esse varino, che errori possiamo conseguentemente commettere per incomprensione, sia nel momento della diagnosi che in quello dell’intervento terapeutico e come orientarsi...”
Mimesis Edizioni Clinica del trauma e della dissociazione www.mimesisedizioni.it
28,00 euro
ISBN 978-88-5755-511-9
9 788857 555119
MIMESIS / CLINICA DEL TRAUMA E DELLA DISSOCIAZIONE N. 7 Collana diretta da Giovanni Tagliavini e Maria Paola Boldrini
CLINICA DEL TRAUMA NEI RIFUGIATI Un manuale tematico A cura di Emilio Vercillo e Maria Guerra
MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it [email protected] Collana: Clinica del trauma e della dissociazione, n. 7 Isbn: 9788857555119 © 2019 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383
Indice
Presentazione 7 1. Introduzione Emilio Vercillo
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2. I numeri della diversità Filippo Gnolfo
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3. Migrazione e salute Mentale Maurizio Bacigalupi
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4. I pregiudizi del trauma. fenomenologia dei “fenomeni” post-traumatici 77 Emilio Vercillo, Maria Guerra 5. Condizioni estreme. Schiavitù e Psicopatologia Emilio Vercillo, Maria Guerra
109
6. Le voci del torturatore e la geopolitica clinica di Sironi Emilio Vercillo
131
7. Incontri terapeutici tra culture diverse. La Mediazione Culturale Emilio Vercillo, Martino Volpatti, Marjan Shalchian
153
8. Variazioni culturali nella prescrizione farmacologica. Etnopsicofarmacologia 173 Emilio Vercillo
9. Farmacoterapia nei disturbi post-traumatici. Una risorsa strategica nella terapia dei rifugiati Emilio Vercillo, Rossella Carnevali, Giancarlo Santone
187
10. Tra il dire e il fare. lo Psicologo nei centri di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati Maria Guerra, Maurizio Bacigalupi
203
11. EMDR e approccio corporeo nella psicoterapia con migranti e rifugiati Viola Galleano
219
12. Interventi di gruppo con i migranti forzati e rifugiati in Italia e all’estero Cristina Angelini, Paola Castelli Gattinara
255
13. Lavoro con i profughi all’estero Cristina Angelini, Edoardo Pera
279
14. La violenza sessuale e di genere Cristina Angelini
309
Note biografiche
335
Bibliografia 339
Presentazione
Questo libro è figlio di una mancanza e della unione di alcune capacità ed esperienze. Infatti l’insieme delle necessità che si sono imposte con l’arrivo in Italia della migrazione, arrivata dalle parti più disparate del mondo, non ha riguardato solo l’esigenza di una adeguata organizzazione nell’accoglienza, a tutti i livelli, ma ha dimostrato anche una carenza in quella conoscenza che deve essere alla base di una adeguata clinica, per casi e condizioni cui la clinica corrente non ci aveva abituato. Si sono mescolate aspettative errate di quadri esotici, come quelli studiati in medicina tropicale, e reali differenze di presentazione clinica, in superficie difformi da quelli consueti nel mondo occidentale. L’agire clinico è stato reso difficile dalle incomprensioni linguistiche e insieme culturali, oltre a richiedere metodi di lavoro non neutri nel loro occorrere, come la presenza di un interprete/ mediatore all’interno della stanza di visita. A questa carenza si è cercato, dal punto di vista psichiatrico, di supplire in Italia con il ripescaggio di quanto si era sviluppato già anteriormente seguendo altre esigenze culturali. È il caso ad esempio dell’etnopsichiatria italiana, di radici francesi, che dalla posizione marginale in cui si trovava negli anni passati all’interno del mondo psichiatrico, è passata ad apparire la risposta adeguata alle domande generate dalla incomprensione della realtà clinica, nata al confrontarsi con le nuove e difformi realtà. Invece non si è sentita altrettanto alta la voce di altri modelli della psichiatria transculturale, meno dominate da preoccupazioni politiche anticolonialiste e da una posizione antropologica relativistica, e più interessate alla clinica nelle sue versioni più scientificamente radi-
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cate e perciò universalmente più condivise. Così un po’ dovunque in Italia la fame di conoscenza degli psicologi è stata soddisfatta con le considerazioni anticolonialiste che informano l’origine e la ragione d’essere della etnopsichiatria, lasciando gli affamati partecipanti al simposio probabilmente con una serie di informazioni generali importanti, ma non tali da facilitare loro la digestione in qualcosa di nutritivo e adatto per il lavoro quotidiano. Mancano soprattutto in quella prospettiva, che mira a rimarcare le diversità e anzi a mantenerle, indicazioni utili per non perdersi in una serie di difficoltà, come ad esempio ricondurre le presentazioni cliniche nei pazienti di difforme cultura ai quadri patologici già familiari nella popolazione cui siamo abituati, e cui sono connessi; in cosa esse varino, che errori possiamo conseguentemente commettere per incomprensione, sia nel momento della diagnosi che in quello dell’intervento terapeutico, e come orientarsi. O ancora come si differenzia un colloquio, quali modificazioni comporta l’introduzione di parametri come la partecipazione di un traduttore nell’esame clinico, la cui presenza non è ovviamente fattore inerte, come si diceva. La necessità di raccapezzarsi in un menù di piatti che appaiono non familiari non deve peraltro far perdere di vista il fatto che i loro costituenti base sono gli stessi (come per gli alimenti lo sono carboidrati, proteine, lipidi), e anche che i processi di formazione psicopatologica sono gli stessi (similmente ai modi di cottura mediante bollitura, frittura, in forno). Da ciò, fuori di metafora, discende la necessità di non perdersi nelle presentazioni di superficie per riuscire invece a trovare quelle caratteristiche che sono comuni a tutta la comunità umana nelle declinazioni patologiche. Se quanto detto sopra è vero in generale per tutto il campo della patologia mentale, è anche vero che, nella popolazione dei rifugiati che ci si presenta negli studi, il problema del trauma si pone con particolare evidenza. Può trattarsi di traumi evolutivi che la persona ha vissuto nel suo paese di origine per le caratteristiche culturali familiari o sociali, oppure di singoli eventi violenti e drammatici (anche ripetuti) che l’hanno portato a fuggire, o ancora, anche in caso di migranti per soli motivi economici, di vicende estreme in cui si sono trovati vittime nel corso del viaggio. Rispetto a una popolazione clinica italiana non c’è dubbio che la quota
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maggiore di patologia riscontrata tra i migranti appartiene alla ampia famiglia dei disturbi post-traumatici. Nell’ambito della clinica psichiatrica e della psicologia clinica, si è sollevata da qualche tempo sul campo del trauma la cortina che lo nascondeva, e un rinnovato interesse si registra in tutto il nostro settore, con un fiorire di studi sulle conseguenze traumatiche degli eventi di vita, e la nascita di un florilegio di tecniche atte a trattare con i differenti quadri clinici che ne conseguono. Ma anche qui nasce una domanda: la clinica del trauma è differente sorgendo in culture, presupposti e per agenti traumatici differenti? Qui si pone il problema della unione di capacità e saperi differenti che si indicava all’inizio. Manca nella letteratura italiana un testo che unisca indicazioni sulla clinica post-traumatica in questa popolazione con informazioni sulle disparate influenze che gli eterogenei fattori culturali realizzano sui quadri post-traumatici, e sul loro trattamento. A queste mancanze tenta di rispondere questo libro, frutto delle competenze di varie persone, in differenti contesti e pratiche diversificate. Anche se in maniera non sistematica, esso aspira ad essere un manuale, un manuale tematico appunto, centrato sui punti emergenti di difficoltà teoriche e soprattutto pratiche, che affiorino nell’incontro con persone per la cui patologia possono apparire a una distanza smisurata. È pensato prevalentemente per un professionista del settore, così come per gli operatori che a diverso titolo lavorano con i rifugiati, ma anche un lettore interessato al tema del trauma nei rifugiati può trovare spunti e argomenti utili alla sua riflessione. Ogni capitolo può essere letto indipendentemente, con i rimandi ad argomenti trattati negli altri capitoli, ed è accompagnato da una serie di vignette cliniche di esemplificazione. Il capitolo 1 di introduzione è una sintesi di alcuni argomenti che non hanno trovato svolgimento autonomo nei capitoli del libro, ma che risultano necessari come premessa e inquadramento del problema. Temi diversi tra loro come: i nessi tra evento violento e trauma (una relazione non scontata); i rapporti tra trauma complesso e disturbo post-traumatico complesso, e la loro presenza nella popolazione dei rifugiati; questioni come resilienza e stabilizzazione; una presentazione dell’influenza dei fattori culturali sulla
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clinica; e infine il tema del trauma vicario, cui sono esposti tutti gli operatori che lavorano con questi pazienti. Nel capitolo 2 e nel capitolo 3 si presenta lo scenario generale all’interno del quale la clinica del trauma trova posto. Nel primo viene sinteticamente presentato da parte di un esperto di medicina delle migrazioni il quadro epidemiologico sanitario della migrazione in Italia, al fine di evitare alcune trappole e pregiudizi, come la “sindrome di Salgari”. Il capitolo 3 è invece una riflessione generale, a partire dagli studi finora effettuati sulla patologia mentale dei migranti e dei rifugiati, su alcuni punti in cui la ricerca epidemiologica inciampa, con qualche interpretazione utile per ulteriori investigazioni. Nel capitolo 4, a partire da una definizione di ‘pregiudizio’ non limitata al campo morale, si descrive una fenomenologia generale dei disturbi post-traumatici, che comportano ben più dello schema sintomatologico delineato dai rispettivi criteri del DSM. Le trasformazioni nel vissuto del tempo, dei modi e dei contenuti del pensiero su di sé e sul mondo, e nell’esperienza del corpo, saranno gli oggetti di questo capitolo. Nel capitolo 5 si prende spunto da una condizione specifica ed estrema, la schiavitù nella società mauritana, per affrontare il tema delle differenti presentazioni patologiche a partire da eventi simili, ma in contesti diversi; si parlerà della “finestra di tolleranza”, uno degli strumenti utili a comprendere e a trattare il trauma nei pazienti (che sviluppa le sue conseguenze principalmente nel corpo), e si proporrà una ipotesi di tipo patoplastico alla base della scelta, nel ristretto possibile campionario di sintomi post-traumatici, di alcuni raggruppamenti sindromici, dominati dalla passività e dalla ipoattivazione. Il capitolo 6 è dedicato al confronto tra due visioni se non opposte, certo assolutamente distanti, dello sviluppo dei disturbi posttraumatici, e della pratica terapeutica atta a trattarli. Prendendo spunto da un sintomo come le voci dei torturatori, si mettono a contrasto la visione psicogeopolitica clinica della Sironi con la psicotraumatologia della dissociazione strutturale. La prima trova in settori europei – come l’opera di Medici senza Frontiere – un ambito di utilizzo vasto, e abbiamo quindi pensato che valesse la pena met-
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terla in contraddittorio con quanto nel mondo scientifico della psicotraumatologia si pensa a riguardo. Come sopra riportato, uno dei fattori che modificano radicalmente l’incontro con i pazienti è la presenza di un interprete o di un mediatore culturale nella stanza di consultazione. Cosa questo comporti, i vari modelli presenti, e i diversi modi di utilizzo vengono elaborati nel capitolo 7, e precedono una indicazione pratica sequenziale del da farsi in un colloquio con mediatore, così come attuato nel servizio degli estensori del capitolo. I due seguenti capitoli si occupano di farmacoterapia. Il primo dei due, il capitolo 8, si centra sulle difformità culturali ed etniche che rendono differente nell’area dello scambio medico la prescrizione farmacologica, e si accenna anche alle peculiarità farmacocinetiche e farmacodinamiche in diversi gruppi etnici che rendono necessaria una modulazione farmacoterapica in questa popolazione. Nel secondo invece, il capitolo 9, si affronta in termini di letteratura e di categorie farmacologiche il tema della farmacoterapia dei disturbi post-traumatici, cui segue la descrizione dei principi che guidano la terapia nella pratica clinica del servizio degli estensori del capitolo. Nei centri di accoglienza a vario livello predisposti in Italia è prevista la figura dello psicologo. I problemi posti da questa presenza, le richieste proprie ed improprie che premono su di loro, il dominio d’intervento possibile, e i suoi limiti vengono trattati nel capitolo 10. Tecniche che si discostano dalle consuete talk-therapies sono di fondamentale importanza nel trattamento del trauma in generale, e ancor di più lo diventano con pazienti il cui orizzonte linguistico e culturale registra una lontananza maggiore da noi rispetto a quella che rileviamo nel campo somatico, in cui invece le similarità di risposta sono evidenti. Nel capitolo 11 si parlerà tra l’altro di EMDR e sensorimotor therapy come strumenti utili nella pratica con questi pazienti. Uno dei possibili modi e tecniche utili per lavorare nelle comunità di rifugiati è quello del lavoro di gruppo. Nel capitolo 12 le autrici descrivono, sulla base della loro ampia pratica in centri di rifugiati in Italia e all’estero, la loro esperienza di lavoro in gruppi in
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contesti differenti, e con finalità differenti, senza nascondere i limiti degli interventi attendibili. Quello che è possibile osservare, e quello che è possibile fare, variano nelle differenti condizioni in cui i pazienti e i terapeuti si trovano. Ad esempio, una situazione tutta diversa è quella che viene delineata nel capitolo 13, che ci fa entrare nel contesto dei campi profughi, da parte di chi da molti anni ha avuto esperienze in questi campi in Medio Oriente e in Asia. Le differenze di contesto e culturali che ci fanno da guida nel nostro agire sono presenti anche in forma marcata quando si affronta il problema della violenza di genere. Che siano le donne ad avere la maggiore varietà e il maggior tasso di violenze subite e traumi, è scontato, per cui il capitolo 14 si occuperà del tema, da un punto di vista eminentemente esperienziale. Un manuale tematico, si diceva, cui manca la sistematicità, e anche la descrizione organizzata didatticamente della psicopatologia di tutte le forme cliniche affrontate, o delle singole tecniche e psicoterapie utilizzate e utilizzabili nelle condizioni post-traumatiche. Ovviamente sarebbe stato impossibile essere esaustivi in tutti gli argomenti toccati dalla rapida disamina che costituisce questo libro; il lettore troverà però tutti i rimandi bibliografici per sostanziare e informarsi su quanto nel testo del libro viene solo accennato, se vorrà formarsi e approfondire i molti temi che abbiamo provato a sintetizzare in questo lavoro
1. Introduzione Emilio Vercillo
In questo capitolo si proverà a esporre in maniera succinta e sommaria una serie di temi e problematiche disparati ed eterogenei, che non saranno trattati specificamente nei capitoli del presente libro, ma la cui conoscenza risulta propedeutica e in qualche modo necessaria. Si tratterà in successione a) di precisare, per chi non è addentro al gergo usato nel mondo dell’assistenza ai richiedenti asilo e rifugiati, alcuni termini peculiari usati in maniera singolare nella normativa di questo settore. b) di definire alcuni problemi connessi con il tema del trauma in questa popolazione che sollevano a volte equivoci, come il nesso causale tra l’evento traumatico, la sua natura e la patologia traumatica. c) di accennare al problema diagnostico del Disturbo post-traumatico complesso nella popolazione in esame, distinguendolo da quello del trauma complesso. d) di segnalare la necessità che ne consegue di una fase di stabilizzazione all’inizio del lavoro terapeutico, in cosa consiste e quali ne sono le componenti. e) di tracciare il complesso e importante campo delle relazioni tra quello che concisamente indichiamo con il termine fattori culturali e la psicopatologia, vale a dire il tema della psichiatria trans-culturale o, come sarebbe meglio denominarla, psichiatria culturale. E infine si segnala f) il problema del trauma vicario, rischio presente per le professioni di aiuto, non solo per psichiatri e psicologi, insieme ad alcuni accorgimenti necessari per proteggersene. La trattazione che se ne farà in questo capitolo sarà una semplificazione di questioni che meriterebbero ognuna da sola un volume, che saranno qui riassunte per lettori a digiuno del rispettivo tema, ma che non possono essere taciute in via preliminare alla lettura del volume.
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1. Termini confondenti Ci si riferisce qui a una serie di parole diventate di uso comune tra il personale di assistenza dei richiedenti asilo, inclusi gli psicologi deputati al lavoro nei centri d’accoglienza, termini designativi che, nati nel contesto di disposizioni legislative e circolari ministeriali, hanno assunto nel linguaggio corrente degli scambi clinici un valore – che si vuole addirittura tecnico – confondente per il professionista non informato del linguaggio nella normativa specifica. Non si parla qui di parole burocratiche di dubbio gusto come beneficiario, con cui vengono indicate le persone ospiti dei centri d’accoglienza per richiedenti asilo anche nelle segnalazioni allo specialista, quanto soprattutto delle espressioni vulnerabile, vulnerabilità, ed emersione, che si sono trasformate addirittura nella pratica in categorie attraverso cui osservare clinicamente la realtà. Capita così di ricevere richieste di consulenza per un “beneficiario, la cui vulnerabilità è emersa”, se non direttamente la “richiesta di presa in carico per un vulnerabile”, aggettivo sostantivato di nuovo conio con cui, nel nominalismo che caratterizza la cultura italiana, si crea una realtà ontologica nuova per una persona. Orbene, la parola “vulnerabilità” indicherebbe evidentemente una condizione di rischio per qualcosa non ancora avvenuto, non in atto, e “vulnerabile” andrebbe quindi a designare quello che comunemente nel linguaggio scientifico non burocratico è una popolazione a rischio per una qualche caratteristica propria. Ma così recita il D.L. 18 agosto 2015 n.142 – art.17 comma 1: Accoglienza di persone portatrici di esigenze particolari: Le misure di accoglienza tengono conto delle specifiche situazioni delle persone vulnerabili quali, minori, minori non accompagnati, disabili, anziani, donne in stato di gravidanza, genitori singoli con figli minori, vittime della tratta di esseri umani, persone affette da gravi malattie o disturbi mentali, persone per le quali è stato accertato che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale o legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere, le vittime di mutilazioni genitali.
Da cui si inferisce non solo che è fallace la logica per cui i minori non accompagnati farebbero parte già della categoria dei mino-
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ri, ma anche che persone evidentemente già vulnerate (ferite), come sono quelle affette da “gravi malattie o disturbi mentali”, risultano al tempo stesso vulnerabili Vale a dire che lo stesso motivo che fa riconoscere una persona come sofferente di una malattia lo fa definire a rischio di averla1. Perciò, per traslato, ricevere la richiesta di visita psichiatrica per un vulnerabile permette di comprendere che presumibilmente una persona con patologia mentale viene inviata a consulenza. Emersione invece è il termine con cui viene in gergo designata la rilevazione del problema di vulnerabilità all’interno della popolazione dei richiedenti asilo: far emergere la vulnerabilità vuol dire, se tradotto, rendersi conto che qualcuno sta male in un gruppo, come ad esempio nella popolazione di un centro di accoglienza. 2. Eventi e trauma Probabilmente allo stesso dominio delle normative legali e burocratiche si deve un altro problema. Come si è visto sopra, vulnerabili sono anche le persone “per le quali è stato accertato che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale o legate all’orientamento sessuale o all’identità di genere, le vittime di mutilazioni genitali”. Lasciando da parte anche qui come sopra la logica per cui vadano categorizzate come un insieme separato, ri1
Campionari o liste come queste fanno ricordare la logica classificatoria dell’“Emporio celeste di conoscimenti benevoli” immaginato da Borges, ne “L’idioma analitico di John Wilkins”: “Gli animali si dividono in (a) appartenenti all’Imperatore, (b) imbalsamati, (c) ammaestrati, (d) lattonzoli, (e) sirene, (f) favolosi, (g) cani randagi, (h) inclusi in questa classificazione, (i) che s’agitano come pazzi, (j) innumerevoli, (k) disegnati con un pennello finissimo di pelo di cammello, (l) eccetera, (m) che hanno rotto il vaso, (n) che da lontano sembrano mosche” (Borges 1952). Questo vale a ricordarci quanto tenue è la forza del pensiero logico scientifico occidentale, e quanto facilmente si scivola in una logica premoderna. Foucault usò questo stesso brano di Borges in un altro senso, per indicare la relatività della nostra conoscenza occidentale, rispetto a logiche ‘altre’, in altri contesti culturali: “Il fascino esotico di un altro pensiero suggerisce il limite del nostro” (Foucault 1966). Tale posizione foucaultiana di relativismo antiscientifico è assolutamente pertinente al nostro tema, come si vedrà.
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spetto alle violenze psicologiche fisiche o sessuali per qualsiasi motivo, quelle avvenute per motivi legati all’identità sessuale o di genere, il D.L. 142/2015 segnala correttamente il fatto che sia a rischio psicopatologico la popolazione. che abbia subito violenze di vario tipo, soprattutto forme gravi. La formulazione della norma nella fattispecie porta spesso lo psicologo del centro di accoglienza (cfr. capitolo 10) a richiedere una presa in carico da parte del professionista clinico, motivandola solamente con la narrazione di violenze gravi subite dal richiedente asilo, senza altre giustificazioni che motivino un intervento terapeutico specialistico. Questo tipo di condotta è solo una delle possibili causate da un equivoco che confonde eventi violenti anche oggettivamente orribili, e tali da suscitare una reazione profonda in noi che ne ascoltiamo il racconto, con quello che si definisce trauma in ambito clinico. Trauma infatti vuol dire ferita, lesione, vulnus. L’evento quindi causa un trauma, non è in sé un trauma; anzi, come vedremo, sarebbe più corretto affermare che può causare un trauma. In fondo non è diverso, a ben considerare, quello che accade nel campo della traumatologia fisica, in cui non è l’incidente a dover essere curato dall’ortopedico, ma la frattura causata dall’incidente2. Se un gravissimo incidente causa la morte di una persona, ma lascia un’altra apparentemente indenne da lesioni, appare adeguato per quest’ultimo procedere a un esame generale con delle prove strumentali, e a un’osservazione attenta dello stato del soggetto nel corso di alcuni giorni dall’incidente. Ma nulla di più: se non ha riportato danni non diventa un problema sanitario bisognoso di assistenza terapeutica per il solo fatto di aver subito un incidente, per quanto grave esso sia stato. O ancora: se nell’esplorazione o nel periodo di osservazione seguito all’evento scopriamo che quella persona soffre di un tumore o una tubercolosi, non si vincoleranno queste malattie all’incidente occorso, dato che evidentemente non hanno relazioni causali con quello. Ritornando alla psicotraumatologia, definiamo trauma la reazione che accade nell’individuo, quando l’evento (o la serie di eventi): 2
La metafora ortopedica del trauma psicologico viene ripresa ad esempio da Rotschild 2017
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1. supera la capacità di usare normali meccanismi di coping per adattarsi alla situazione, e sopravanza i suoi modi di resilienza (v. infra); e 2. scompagina il quadro di riferimento individuale del soggetto (cfr. cap. 4). Entrambi questi fattori possono essere rivelati dalla comparsa di sintomatologia specifica. La metafora ortopedica della frattura ci verrà utile, come si vedrà nel prosieguo del libro, visto che non solo l’evento traumatico (l’evento capace di provocare in quel soggetto un trauma3) opera una frattura nel corso vitale dell’individuo, ma nel senso proprio di fratturare, dividere la persona con un disturbo post-traumatico in parti, o compartimentazioni del Sé. Diverso sarà il caso di vissuti traumatici infantili continuativi e ripetuti (come è anche una infanzia trascorsa nel contesto di una guerra), e/o in presenza di un neglect da parte delle figure di accudimento: qualora ciò porti a una condizione di disturbo dissociativo, si tratterà, invece che di una frattura di un osso sano, di qualcosa equivalente a un deficit di ossificazione, del fallimento di quel processo relazionale che a partire da nuclei separati porta a un funzionamento integrato della persona, a un senso unitario del sé. In fondo continuiamo a pensare con Janet (1889) che “la salute mentale si caratterizza per un’alta capacità di integrazione, valido ad unire un’ampia gamma di fenomeni all’interno di una personalità”. Con lo stesso autore definiamo con la parola integrazione quel processo adattativo che permette di assimilare nel corso del tempo e di contesti diversi le esperienze nel mondo esterno, e il senso dell’io del soggetto. E è proprio l’integrazione che supporta e rende possibile la regolazione delle emozioni e la capacità riflessiva. Senza questa frattura della capacità integrativa non c’è patologia traumatica; neanche un Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) semplice, che vede una parte della persona vivere ancora in un tempo passato (il tempo del trauma), per lo meno a livello corporeo e per reazioni riflesse del sistema nervoso autonomo. 3
Quando da qui innanzi si userà sinteticamente la parola trauma riferita a un evento, si intenderà proprio questo: evento traumatico, un evento che è stato capace di provocare un trauma nella persona in cui vediamo la sintomatologia risultante, la ferita
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Inoltre, così come nell’esempio riportato sopra sul tumore o la tubercolosi riscontrati in qualcuno che ha fatto un incidente, non è patologia psichica post-traumatica quella che non corrisponde ai quadri clinici specifici di tale patologia. Cosa che risulta d’altronde ben chiara nei pazienti rifugiati, in cui si è visto che la presenza di eventi traumatici trascorsi correla con disturbi post-traumatici, ma non correla con la prevalenza di disturbi depressivi, laddove altri fattori correlati con il lutto migratorio (tra cui il cosiddetto trauma post-migratorio) correlano con quadri depressivi, ma non con patologia post-traumatica. Contrariamente a una visione pan-traumatologica della psicopatologia, pensiamo che il nesso patogenetico tra l’evento traumatico e il quadro clinico post-traumatico vada conservato, pena conseguenze confondenti e pericolose. Una classica tecnica di mascheramento da servizi segreti è quella di annegare l’elemento informativo importante in mezzo a molti elementi simili, e dichiarare tutto di origine traumatica equivarrebbe a dire che in conclusione niente lo è, visto che si tratta di un fattore aspecifico, come accade ad esempio nel DSM-5, in cui per ben 43 diagnosi si invocano come antecedenti fattori stressanti gravi o traumatici. Se ora passiamo ad esaminare le esperienze che hanno avuto conseguenze traumatiche nei nostri pazienti, vi troviamo eventi violenti che vanno dal vivere costantemente sotto una condizione di guerra nell’infanzia, fino alla tortura da adulto, passando attraverso abuso/violenza fisica e/o sessuale, perdite traumatiche improvvise e violente, prigione, neglect severo, e molte altre. Ma quello che è importante sottolineare è il fatto che non è necessario che il soggetto sia stato direttamente vittima di tali violenze per sviluppare una patologia post-traumatica: basta che abbia assistito come testimone diretto a quanto è accaduto, o che in particolari condizioni abbia anche solamente ascoltato il racconto di tali violenze. Quest’ultimo è quello che si chiama trauma vicario, la forma di trauma cui siamo esposti tutti noi nell’esercizio del lavoro, e tutto il personale che spesso con scarsa formazione viene arruolato nei campi di accoglienza ed esposto al trauma e alla sua narrazione (v. infra). Un’altra distinzione che può farsi negli eventi traumatici, a partire da Terr (1991) è quella tra traumi di tipo 1 e traumi di tipo 2.
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Il tipo 1 è costituito da un trauma singolo, insorto all’improvviso e inatteso, come disastri naturali, attacchi terroristici, incidenti drammatici. Il trauma di tipo 2 invece si riferisce a trauma complesso ripetitivo: abusi continuati, violenza domestica, violenza di gruppo nella comunità, guerra, genocidio. Normalmente comporta un tradimento fondamentale della fiducia all’interno di relazioni primarie, e compromette lo sviluppo bio-psico-sociale ed emozionale. All’interno del tipo 2 si distingue il tipo 2a (traumi multipli esperiti da individui provenienti da backgrounds relativamente stabili, che hanno risorse sufficienti per gestire meglio gli eventi traumatici), e il tipo 2b in cui i traumi multipli sono così soverchianti che la persona quasi non può distinguerli l’uno dall’altro, e in cui la resilienza risulta danneggiata: nel tipo 2b(R) vengono messi gli individui che possiedono capacità di resilienza al principio, mentre nel tipo 2b(nR) risorse di resilienza in loro non sono mai state presenti. Le caratteristiche del trauma complesso sono insomma il fatto che avvenga durante l’infanzia o l’adolescenza, in una finestra d’età sensibile per lo sviluppo dell’identità personale e della relazione con gli altri e col mondo; e soprattutto che distrugga o distorca il fondamentale senso di sicurezza offerto da parte delle figure deputate a fornirlo (creando un fallimento delle relazioni di attaccamento), e il tradimento della fiducia nelle stesse (Cortois & Ford 2009). Se questo è evidente in caso di violenza intrafamiliare, si è visto che è anche vero in caso di crescita in una atmosfera continuata di guerra o ostilità sociale, in cui il fallimento della funzione rassicurante dei genitori avviene a dispetto delle loro intenzioni o condotte. Qualunque sia il tipo di evento potenzialmente traumatico, resta il fatto che il trauma è specifico della persona: due persone che vedono o sperimentano lo stesso evento o trauma possono non reagire nella stessa maniera. Di fatto risulta accertato che quello che è traumatico per una persona può non esserlo per un’altra, e le percentuali di patologia traumatica risultante dopo l’esposizione diretta o indiretta a un’esperienza di abuso sono sorprendenti. È qui il caso della spesso citata frase di Allport “The same fire that melt the butter hardens the egg”, lo stesso fuoco che scioglie il burro rassoda l’uovo.
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Infatti l’incidenza di patologia post-traumatica che segue a un’esperienza potenzialmente traumatica non supera il 50% in molte rilevazioni. È vero che tra trauma di tipo 1 e trauma di tipo 2 le percentuali aumentano considerevolmente, tra il 10-20 % del tipo 1 e il 33-75 % del tipo 2 nelle varie indagini (Copeland et al. 2007, Kessler et al. 1995), ma come si vede le stime differiscono molto nell’intervallo delle rilevazioni (che sono in genere di prevalenza e non di incidenza), e non coprono il 100% dei casi. Prendiamo per esempio una condizione estrema di violenza subita come la tortura4. Anche nel caso della tortura, che è il maggiore singolo determinante per una patologia post-traumatica, il risultato da un punto di vista psicologico non sarà uguale per tutti (Schubert, Punamäki 2016), e le stime di prevalenza nella popolazione di torturati si aggirano tra il 31% (Steel et al. 2007), e il 45% (Johnson & Thompson 2007). Se ne parlerà più estesamente nel capitolo 6 sulle Voci del torturatore, ma quello che risulta evidente da questi dati clinici è che l’attenzione si sposta dalla semplice rilevazione di patologie causate da violenza (più propriamente dalla diade abuse/neglect, abuso/trascuratezza), alla domanda di cosa allora ha altrettanto o maggior rilievo rispetto all’esperienza traumatica (viste le stime percentuali mostrate sopra) per favorire o proteggere dagli esiti clinici. O, se si preferisce, il fuoco si sposta da una serie di considerazioni morali e politiche sulle conseguenze dell’azione crudele dell’uomo sull’uomo, a ragionamenti di natura scientifico clinica: è opinione dei curatori di questo libro che la confusione tra i piani morale-politico e quello scientifico abbia portato più limitazioni e incomprensioni che vantaggi in questo settore, per non parlare di quanto ha allontanato da una pratica terapeutica utile per il paziente. 4
Per evitare, come nel caso di evento traumatico, di confondere tutto in una congerie non distinguibile, la parola tortura non designa tutti i trattamenti disumani, crudeli e degradanti, ma solo quelli messi in opera a) per uno scopo preciso, come ottenere informazioni, o fare pressione sui familiari per ottenere altri soldi – come accade in Africa da parte dei trafficanti di uomini del Sahel o della Libia su chi fugge -, e b) con una modalità ripetitiva, con una certa continuità (tale che anche l’attesa angosciosa della prossima seduta di tortura abbia in sé effetto torturante).
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2.1 Resilienza Se tra i fattori favorenti l’insorgere della patologia post-traumatica l’unico per il quale ci siano certezze è il building block effect (Schauer et al 2003, fig. 1) – fatto salvo per una serie di fattori personologici di base tra cui preminente svetta un attaccamento disorganizzato –, un tema su cui varrebbe la pena soffermarsi in questa introduzione è il tema della resilienza, su quali sono i fattori o le risorse che vengono in aiuto prima dell’evento traumatico, come fattori di protezione, o dopo, come fattori di recupero.
Per riassumerli in maniera sistematica, si userà la concettualizzazione di Mooli Lahad, uno psichiatra israeliano che se ne occupa da tempo, e che li ha sintetizzati nella formula B.A.S.I.C.-Ph. (Belief-Afective-Social-Imaginative-Cognitive-Physiological), come sintetizzato in Tab.1.
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Tabella 1 TABELLA 1: BASICPh (Mooli Lahdad) 1. BELIEF: CREDENZE e VALORI (religiosi, politici, il senso di una missione, un senso della vita, la necessità di autorealizzazione e forti espressioni del sé) 2. AFFECTIVE: Altri hanno strategie EMOZIONALI O AFFETTIVE: espressione di emozioni, piangere, ridere, parlare con altri delle loro esperienze, oppure metodi non verbali (disegnare, musica) 3. SOCIAL: Strategie SOCIALI: ricevere supporto dall’appartenenza a un gruppo, avere assegnato un compito stabilito, avere un ruolo, facendo parte di una organizzazione 4. IMAGINATIVE: Un altro gruppo userà l’IMMAGINAZIONE a) per mascherare la brutalità dei fatti, mediante sogni ad occhi aperti, pensieri piacevoli, o usando immaginazione guidata b) per tentare e immaginare altre soluzioni al problema al di là della improvvisazione 5. COGNITIVE: Alcuni preferiscono strategie COGNITIVE: raccogliere informazioni, problem solving, conversazioni interiori, o liste di attività 6. PHYSIOLOGICAL: Tipo Ph: reazioni usando ESPRESSIONE FISICA, insieme con MOVIMENTO. Rilassamento, esercizio o attività fisiche. Scaricare energia è la caratteristica principale
I punti riassunti nel sistema BASIC Ph possono sia rendere ragione dei motivi per i quali vari soggetti non sviluppano patologia post-traumatica a dispetto di eventi violenti subiti, sia indicarci dei modi tramite i quali aiutare i pazienti in fase 1 di terapia, quella di stabilizzazione. Il fattore B (belief, credenze) supporta per esempio il riscontro clinico di come anche il fanatismo sia un fattore di protezione dal PTSD, mentre la perdita di struttura sociale e/o familiare (fattore S, sociale) all’arrivo in Italia da parte dei nostri pazienti faccia venir meno un fattore di recupero essenziale, e questo proprio nel momento in cui un PTSD sta prendendo forma, ossia nel momento del raggiungimento della salvezza in Europa. O ancora come riunirsi con la comunità etnico-culturale in Italia, sebbene vada a costituire un problema per una possibile integrazione, o per motivi
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sociali di ordine pubblico, ci venga invece in aiuto dal punto di vista della salute mentale, per il punto 3 del modello. Le difficoltà linguistiche, nel caso dell’inclusione in centri in cui la persona non condivide lingue comuni con altri ospiti, finiscono per incidere, ben oltre le difficoltà comunicative intuibili, anche su vari fattori di resilienza, come quelli A, S, e anche I ed C, per quanto attiene alla possibilità di usare quelle risorse nell’interazione con altri. Similmente il modello di Lahdad con i suoi punti agevola al terapeuta il suo compito di trovare nella fase di stabilizzazione quali siano le risorse proprie di quella persona con patologia traumatica che lo abbiano aiutato in passato, e di cercare con lei quali sono e come funzionano al momento, visto che evidentemente hanno fallito il loro compito di protezione e recupero. D’altra parte, ben al di là dei fattori di resilienza descritti, e forse alla loro stessa base, il fattore protettivo più potente risiede nelle fondamenta stesse dell’edificio, nello stile di attaccamento che edifica la nostra relazione con il mondo e con gli altri conspecifici, e su cui si fonda la nostra sicurezza. Il campo della psicopatologia post-traumatica non può prescinderne, e non solo in quei casi in cui è proprio all’interno della relazione di attaccamento-accudimento che si è sviluppato il trauma: anche quando il/gli eventi traumatici vengono riconosciuti come causativi, lo stile di attaccamento personale del paziente è sempre una concausa, similmente a come i danni che un terremoto causa su una costruzione dipendono dalla struttura di quell’edificio. Quello che nella letteratura scientifica comincia ad essere più evidente è il legame, all’interno della variata sintomatologia post-traumatica, della sintomatologia dissociativa con le forme di attaccamento disorganizzato (Liotti, Farina 2016) (cfr. Capitolo 5). 3. Trauma complesso e PTSD complesso. Alcuni problemi diagnostici e loro ripercussioni sull’intervento terapeutico. Stabilizzazione Come sopra riportato, il trauma complesso o di tipo 2 è quello che ha caratteristiche continuative e/o ripetute. Ovviamente nessun
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trauma è semplice nel senso di causato unicamente da un solo elemento, dato che per ogni tipo di trauma l’esito è il risultato di molteplici fattori con una dinamica complessa che si svolge all’interno dell’individuo. Ma i fattori messi in gioco da quello che chiamiamo trauma complesso implicano un ambito molto più vasto, avendo la capacità di interferire con lo sviluppo della persona, delle sue relazioni e della capacità di autoregolarsi sui piani affettivo, cognitivo o comportamentale. Il building block effect cui si accennava sopra interferisce con la capacità di ripresa della vittima dal singolo evento traumatico, tanto da poter arrivare a ostacolarne il senso stesso di continuità personale, e la relazione della vittima con l’idea di sé, degli altri, e in genere del mondo. Vale però ricordare di nuovo che, pur aumentando il rischio di sviluppare una patologia con il trauma complesso, la relazione non è comunque lineare. Ad esempio, Cloitre et al. (2014) nella ricerca su 310 pazienti che avevano subito abusi fisici o sessuali nell’infanzia, trovò che accanto a diagnosi di PTSD, C-PTSD (PTSD complesso), disturbi dissociativi, o disturbi borderline di personalità, erano anche presenti consistentemente persone senza alcuna diagnosi clinica. Una confusione che a volte avviene è quella di confondere o sovrapporre i due concetti di trauma complesso e di PTSD complesso: quest’ultimo non è un evento ma un quadro clinico, e non ha neanche relazione causale biunivoca con il trauma complesso. Infatti se in un C-PTSD possiamo trovare come antecedente un trauma complesso, non si dà il reciproco, cioè che a ogni trauma complesso segua un C-PTSD, come si è visto appena sopra. Detto questo, cosa distingue dunque un Disturbo da Stress PostTraumatico da un Disturbo da Stress Post-Traumatico Complesso? Nel C-PTSD sono presenti i raggruppamenti sintomatologici del PTSD (devono esserci i sintomi del normale PTSD per permettere la diagnosi di C-PTSD), ma sono presenti in più una serie di alterazioni del rapporto con sé e con gli altri, nonché una difficoltà nella modulazione della rabbia e degli affetti in generale, e un’instabilità emozionale, non presenti nel PTSD semplice. Questo spiega l’apparenza spesso simile a un Disturbo di Personalità che un CPTSD può mostrare come tratto più evidente; può trattarsi di una forma “clamorosa” e instabile, ad apparenza borderline, o una for-
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ma al contrario inibita ed evitante di apparenza schizoide. Ma non si confonderà (come una corrente di pensiero pan-traumatica vorrebbe) un D. borderline di personalità con un C-PTSD, dato che nel primo non sono presenti i sintomi del PTSD, nelle 4 categorie richieste per la sua esistenza: a) sintomi intrusivi di reviviscenza (flashbacks, o solo incubi a tema ricorrente sull’evento traumatico); b) evitamento di situazioni e persone associate con il trauma; c) hyperarousal sia in forma continua, che in forme fasiche come le reazioni di allarme; d) hypoarousal (apparenza ‘depressiva’, deficit di concentrazione e attenzione, sonnolenza, astenia). Senza questa sintomatologia tipica (che comprende elementi di tutte, non solo di alcune delle categorie definite sopra), non esiste un PTSD complesso, ma solo un Disturbo di Personalità. Il che peraltro non esclude purtroppo che una persona abbia entrambi, ricevendo così la peggiore prognosi che si attenda per il PTSD. Ancora meno si confonderà un Disturbo borderline con un Disturbo Dissociativo, non essendo presenti in quello parti dissociate, senzienti e agenti, ma solo stati dell’Io che occupano imperiosamente il campo a turno. Il differente inquadramento diagnostico non ha solo un valore teorico, di ossessione tassonomica, ma corrisponderà a differenti necessità terapeutiche e differenti interventi: in questo campo non esiste da tempo una terapia one-tool-fits-all, buona per ogni cosa come la mitica panacea. 3.1 C-PTSD nella popolazione di rifugiati Nell’esperienza con la popolazione in esame possono darsi ovviamente evenienze di diagnosi di PTSD, C-PTSD, così come anche di franchi Disturbi Dissociativi, secondo la tipologia di trauma e l’insieme di predisposizioni individuali. Ma nella nostra esperienza i PTSD semplici non sono la categoria più frequente di disturbo post-traumatico, notandosi più spesso una ripercussione importante sul rapporto con il mondo e soprattutto con se stessi (cfr. capitolo 4). Non si giunge a questa conclusione, per quanto affermato sopra, solo per aver ascoltato storie di trauma complesso; anzi, seguendo la nostra prassi, nei primi interventi non cerchiamo per nulla, per quanto possibile, di sollecitare il paziente alla narrazione dell’acca-
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duto. È la raccolta della sintomatologia del paziente che ci orienta verso il PTSD complesso. Ad esempio se esplorando i modi in cui il paziente sente di essere cambiato rispetto a prima, o chiedendo cosa mette in atto come strategie per difendersi dai momenti in cui sta male, esce fuori che si isola, evita qualsiasi rapporto umano per quanto possibile (non un evitamento specifico connesso a elementi che possano rimandare alla situazione traumatica, che sarebbe solo un sintomo di PTSD), ci troviamo sul sentiero per esplorare anche altre trasformazioni nel suo modo di essere al mondo, o disregolazioni emozionali, che ci portano a formulare la diagnosi di PTSD complesso. Sempre, lo ripetiamo, in presenza di tutta la sintomatologia del PTSD semplice, esplorata in precedenza. La differenza non è banale al momento di operare, né in quello diagnostico e ancor meno in quello terapeutico. Tutta una serie di terapie su disturbi post-traumatici si basano sulla esposizione, o sulla narrazione sistematizzata e contestualizzata dell’evento traumatico, dalla terapia cognitivo-comportamentale (Foa 2008), alla NET (Schauer, Neuner, Elbert 2011), e anche il protocollo standard EMDR si centra sull’elaborazione diretta della memoria nelle sue connessioni associative. Vengono consigliate come necessarie anche in caso di PTSD semplice alcune cautele, e si raccomanda l’apprendimento in via preliminare di alcune tecniche di stabilizzazione, (per esempio nell’EMDR il “posto sicuro” o il “posto tranquillo” (Luber 2009), o “l’esercizio dei 4 elementi” (Shapiro 2009)), ma ben presto si può procedere a lavorare direttamente sulla memoria del trauma. Nel caso del PTSD complesso invece la necessità di un lavoro più pausato, e di un periodo non breve di terapia centrata sulla stabilizzazione, risulta praticamente inevitabile. Innanzitutto perché qualsiasi rimando al trauma (ai traumi) esita in questi casi per il paziente in un nuovo e angoscioso risperimentare traumatico, con intensi stati di flashback anche in stanza di terapia. Ciò non è solo crudele per la persona che viene da noi per stare meglio, e che potrebbe con qualche ragione in seguito rifuggire da ogni ulteriore contatto con noi, ma anche inutile terapeuticamente, e dannoso: è ormai lontano il tempo in cui si pensava che l’“abreazione” avesse qualche valore drammaticamente e teatralmente risolutivo. Si tratterebbe in tal caso solo di un altro episodio
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traumatico che va ad aggiungersi a quelli che hanno causato la sua condizione attuale, dato che viene vissuto dall’organismo, a partire dal corpo del paziente, come identico in termini di realtà all’episodio cui si riferisce, vista la deficitaria capacità di realizzazione del paziente. “…un aspetto ulteriore è costituito dal rispetto della dignità dei nostri pazienti (Reddenam, 2008; Piedfort_Marin & Reddenam,2016). Sembra perciò opinabile raccomandare solo quei metodi terapeutici che lavorano sul principio di un elevato arousal. Dipendendo dal paziente, abbiamo bisogno di metodi che concedano tempo, e la possibilità di procedere con piccoli ma sicuri passi avanti… …Sfortunatamente, quanto più ci si concentra all’inizio esclusivamente sulle esperienze traumatiche, tanto più tempo il trattamento può richiedere…” Reddemann, Piedfort-Marin 2017
Così si esprimono in un articolo recente due esperti in trauma complesso; peraltro questi stessi autori evidenziano come negli studi di efficacia delle terapie vengano arruolati solo pazienti già relativamente stabili. In psichiatria purtroppo non solo nel campo psicotraumatologico accade che un bias nell’arruolamento dei pazienti renda dubbiosi sui risultati delle ricerche. E anche nelle anodine linee del NICE (2005) si indica come controindicata l’esposizione in caso di patologia traumatica quando esista il rischio di ripetizione dell’esperienza traumatica, o se il paziente non può sufficientemente distanziarsi dagli eventi traumatici. Nella versione del 2018, si ripete ancora, in termini generali e senza legarlo a terapie: Attenzione ai rischi di esposizione continuata a situazioni ambientali che inducano trauma. Si eviti di esporre i pazienti a triggers che possono peggiorare i loro sintomi, o bloccare il loro coinvolgimento nel trattamento (NICE 2018)
Non si ripeterà mai abbastanza quindi quanto sia importante, in caso si rilevi la presenza di sintomatologia post-traumatica (anche se non ancora definita in una diagnosi) evitare che il paziente rivada alle memorie del trauma. Per questo motivo il nostro intervento come clinici finisce per andare in senso contrario alle necessità
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legali della richiesta d’asilo, da parte di assistenti legali o avvocati (per la preparazione all’audizione), o della commissione d’esame o del giudice (nel corso della valutazione della richiesta). In questi contesti è indispensabile una narrazione completa, dettagliata e ben contestualizzata della storia migratoria, cosa che se non rappresenta un grave problema nei casi in cui non si sia sviluppata patologia post-traumatica (nonostante il dolore e l’intensità sollevati dalla testimonianza), può al contrario con pazienti post-traumatici risultare impossibile per episodi di dissociazione, o drammatica in casi di reviviscenza in sede di giudizio. Non è infrequente nella nostra esperienza che sia proprio la commissione d’esame o il giudice a richiedere la nostra opera, anche fosse solo per permettere una successiva audizione una volta ristabilito il paziente. Inutile dire che tali episodi di scompenso, sollecitati a volte in tempi impropri da parte di personale non edotto del rischio, non sono privi di conseguenze negative sulla salute del richiedente asilo. Rothschild in “The body remembers 2”, il suo libro del 2017 scritto a 17 anni dal primo, scrive: “Avete pazienti che durante o tra le sedute si scompensano? Si dissociano facilmente? Continuano ad avere attacchi di ansia o panico? Soffrono di ripetuti flashbacks? Perdono contatto con loro stessi? Perdono contatto con voi? Etc. Sempre di più negli ultimi 15 anni ho ricevuto pazienti e terapisti che cercavano consulenza a causa di esperienze avverse con molti tipi e modelli di terapia del trauma. A volte ho potuto aiutarli facilmente. Ma spesso le difficoltà erano più complesse. In ogni caso tra questi casi, emergevano alcuni temi comuni: a) La terapia era prematuramente focalizzata sul processamento delle memorie traumatiche b) La direzione della terapia non era chiara c) Il piano del terapeuta sostituiva quello del paziente d) Lo scopo della terapia era “rivivere” le esperienze traumatiche e) qualunque fosse il focus del terapeuta, era chiaramente troppo per il paziente f) Il motivo che aveva portato il paziente dal terapeuta era stato messo da parte o dimenticato g) la stabilizzazione del paziente non era stata la priorità, o non le si era concesso abbastanza tempo”
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Come si vede dalle parti evidenziate, buona parte della ragione che l’autrice rileva come fattori alla base degli errori in terapia riguardano lo spostamento precoce dell’attenzione sugli eventi traumatici, il mettere da parte i motivi per cui il paziente viene a consultazione – cioè i suoi sintomi di malessere -, e la mancanza di una adeguata stabilizzazione. 3.2 Fase 1: Stabilizzazione Si è accennato sopra alla fase 1 delle terapie e alla stabilizzazione del paziente. Nei vari capitoli, in relazione ai vari temi trattati, si amplierà il concetto, ma qui in maniera sommaria e semplificata si esporranno i concetti principali, per chi non ha formazione in psicotraumatologia. A partire da Janet, e poi di nuovo dalla Judit Herman (1992), si distinguono in tutte le terapie per i disturbi posttraumatici complessi e dissociativi tre fasi distinte, per quanto embricate. La prima è centrata sulla stabilizzazione del paziente, sulla risoluzione delle sue condotte e dei suoi sintomi più disabilitanti, come gli episodi dissociativi, o gli stati di hyper- e hypo-arousal; la seconda si centrerà sull’elaborazione delle memorie traumatiche, e la terza sull’integrazione interna e esterna della persona (nel senso del suo sviluppo nella vita). Per affrontare l’elaborazione delle memorie traumatiche sarà prima necessario che la persona possa affrontarle senza rischio di destabilizzarsi e precipitare in reazioni terapeutiche negative, ma anche che superi quelle che da Janet in poi vengono designate come fobia dei ricordi, delle emozioni e delle parti (Van der Hart, Nijenhuis, Steele 2006; Steele, Boon, Van der Hart 2016; Gonzàlez, Mosquera 2012). Il concetto di stabilizzazione viene dalla medicina: prima di sottoporre ad esempio un paziente ad una operazione chirurgica, o ad altro intervento specifico, il paziente deve essere considerato stabilizzato -tranne che non si tratti ovviamente di urgenza da pronto soccorso. Tale prassi deriva dalla attenta valutazione delle complicazioni possibili, che devono essere valutate preliminarmente e previste, per poter predisporre come trattarle. Nel nostro caso, un paziente stabilizzato è un paziente capace da una parte di una certa gestione pratica nella vita, che sia capace di
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tollerare affetti dolorosi, memorie traumatiche e memorie somatiche senza dissociarsi, ma anche senza andare in iper- o ipo-attivazione, avere condotte autolesive, e che non faccia abuso di sostanze o alcool; ovviamente non deve trovarsi attualmente, nel tempo della terapia, ancora in situazione di rischio per la sua sicurezza, e deve essere capace in qualche misura di realizzare una alleanza di lavoro con il terapeuta. Con questi obiettivi in mente si lavora per la stabilizzazione del paziente. Questo principio della terapia per fasi è per l’appunto una linea tendenziale, non uno schema rigido cui attenersi: memorie o frammenti di memorie emergono e non è sempre evitabile il doverci lavorare, così come frammenti di lavoro di fase 3 accadono in tutto il corso della terapia. Quello che è bene avere in mente è che 1) Non si può andare direttamente a trattare le memorie del trauma 2) Non si può andare dalla stabilizzazione e dalla sicurezza direttamente alla fase 3 di inserimento e riabilitazione Primo Contatto e Prima Relazione Il primo contatto con il paziente non è necessariamente quello dello specialista che porterà avanti la terapia, e risulterà assolutamente fondamentale che il primo contatto abbia un esito positivo nel contesto di prima accoglienza e comunicazione, da parte del medico generalista ad esempio, o dello psicologo del centro di accoglienza. Lo stile di comunicazione deve essere tranquillo e rilassato, ed è fondamentale rispettare le distanze fisiche così come la libertà di movimento; queste misure sono soggette a variazioni culturali, ma nei casi dei nostri pazienti prevalgono motivazioni di ordine post-traumatico nel determinare questi parametri di distanza fisica ed emozionale e anche la mobilità necessaria. Se in tutte le terapie i modi cooperativi nella relazione di lavoro sono importanti per l’esito (Liotti, Monticelli 2014), qui lo sono ancora più. Il metodo di trattamento (per es. il trattamento manualizzato) è meno cruciale per il successo della terapia rispetto alla relazione tra paziente e terapeuta. Qui è soprattutto la correlazione tra l’approccio terapeutico, gli obiettivi
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terapeutici e il modello esplicativo dei sintomi -di cui sia il terapeuta che il paziente devono essere convinti- a contribuire al successo. Wampold et al., 2010
Non si sottolineerà mai abbastanza nella terapia del trauma la necessità di un più esteso lavoro di psicoeducazione, in cui gli obiettivi non solo generali, ma anche quelli di ogni singola seduta o intervento, e i modi del lavoro comune siano chiari al paziente. Ma questo vale ancor di più con persone di culture differenti, con teorie della malattia e illness behaviors (comportamento di malattia) ben dissimili (v. infra): nel mondo africano per esempio è assente nel pensiero, nella pratica e anche nella lingua la pratica psicoterapeutica, o la parola stessa psicologia e psicologo. Già nel contesto della prima relazione, qualora si sia certi della natura post-traumatica dei sintomi, se da un lato è fondamentale validare i vissuti, il dolore e i sintomi di allarme e terrore, evitando di minimizzarli (“sono cose temporanee, passeranno”, “sì, ma guarda come sei capace di fare cose, di andare a scuola, di stare con gli altri, etc”), dall’altro è importante in termini psicoeducativi un compito di normalizzazione per quello che sta accadendo al paziente: per molti pazienti anche se non è presente l’idea di essere matto, esiste una importante vergogna per quello che sta vivendo, o perché è manifesto agli altri, o ancora per dover comunicare quanto gli accade. Spesso un atteggiamento culturalmente motivato accentua questa vergogna, come per esempio con la popolazione afghana, in cui l’espressione emozionale o il pianto è condotta vergognosa e sanzionata socialmente, una debolezza. Conviene in questo caso fornire al paziente chiarimenti su quanto gli accade, usando formule come “ci sono reazioni che sono normali, davanti ad eventi anormali”, “quello che ti succede ora è la conseguenza di quello che hai vissuto, è un sintomo che ho visto in molte persone passate per le stesse cose”. Un ostacolo grande, capace di generare conseguenze nefaste, è provare -o peggio manifestare- un senso di pietà per quello che il paziente ha sofferto. Provare empatia (cognitiva, non emotiva nel senso di vivere su di sé le stesse emozioni del paziente) e validare vissuti non vuol dire da parte del professionista generare e comunicare pietà per quello che ascolta. Percepire che chi ti ascolta pen-
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sa di te “poverino…” fa sì che il paziente o si allontani, oppure in termini manipolativi se ne approfitti. Il che rende inservibile qualsiasi relazione di aiuto, non solo di terapia. Contesto ambientale Ma cosa contribuisce in fase 1 a stabilizzare il paziente, vale a dire ad aumentare il suo senso di sicurezza nel presente, a ridurre la sintomatologia disabilitante, e preparare il lavoro sulle memorie traumatiche? Una serie di fattori eterogenei, che vedono al primo posto temporalmente e per importanza il contesto ambientale, che per funzionare ai nostri fini deve essere logisticamente stabile e sicuro. Non è possibile far star meglio nessuno se ancora si trova in condizioni traumatiche, in qualunque grado. Non possiamo curare ad esempio un minore abusato in famiglia, se ancora rimane in quel contesto a vivere. Similmente non potremo intervenire sul malessere di una donna vittima di tratta, se la sera si assenta dal centro dove è ospitata per andare probabilmente a prostituirsi sotto il controllo di chi organizza il suo lavoro. O è difficile stabilizzare una persona che nel centro assista a risse e violenze tra altri ospiti, che risvegliano ovviamente in lui tutte le memorie causando flashbacks allucinatori. Non accade di rado di venire a conoscenza di situazioni di scarso controllo delle condotte nei Centri di accoglienza, un chiudere un occhio per impossibilità pratiche di controllo di ordine pubblico; in queste condizioni spesso si chiede un intervento per persone con evidente malessere, a cui non è possibile dare risposta adeguata finché il pericolo e le condizioni traumatiche del contesto ambientale non siano risolte. In altri casi nei centri è piuttosto l’isolamento linguistico a sfavorire la ripresa del paziente, conflitti interetnici all’interno stesso dei centri, o contesti di risposta burocratica e indifferente; o ancora al contrario contesti iperinvadenti, in persone le cui distanze interpersonali culturali e personali sono state cambiate dalla patologia traumatica. Al contrario, quando si realizza un contesto di accoglienza ottimale, non esiste fattore di stabilizzazione più decisivo e importante.
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Farmacoterapia Anche se non esiste una terapia specifica mirata sui disturbi post-traumatici, pur tuttavia la farmacoterapia è fattore strategicamente fondamentale. (Per i dettagli si legga il capitolo 9). Qui si sottolineano alcuni aspetti. Innanzitutto l’isomorfismo della prescrizione farmacologica con molte delle relazioni di cura in contesti di medicine ‘tradizionali’; al paziente si consegna qualcosa che avrà una funzione nel suo star meglio, si tratti di una sostanza, di una bevanda magica, o di un amuleto (cap. 8). Deve essere sin da ora sottolineato che appartiene a una ideologia tutta occidentale -dominata da un certo esotismo- pensare che esistano pazienti di qualche parte del mondo che non siano arrivati in contatto con la medicina scientifica, e per i quali questa non conviva con forme di medicina non scientifica. Quello che ci si attende dalla farmacoterapia è ad esempio, una riduzione dei sintomi di hyperarousal adrenergico, che domina buona parte del quadro di PTSD, oppure una normalizzazione del sonno, o ancora la riduzione degli incubi notturni. Ma al di là di questi importanti risultati, la farmacoterapia contribuisce sin dal primo momento all’edificazione della relazione di fiducia e di lavoro con il paziente. A questo scopo converrà chiedere al paziente quale dei sintomi risulta per lui più disturbante, dove lui vorrebbe che si intervenisse principalmente, visto che da parte nostra non si dispone di nessun rimedio generale e magico che cacci il male. Si introduce cioè il paziente in un differente stile di relazione, in cui i limiti del medico siano evidenti, così come sia evidente la necessità di collaborazione del paziente alla cura anche nel caso di farmacoterapia. Una volta concordata con il paziente la terapia, gli si spiegherà cosa funziona per cosa, cosa ci si aspetta e in quanto tempo (gli antidepressivi necessitano di un tempo non in linea con l’idea di terapia di rapido effetto per molte culture). Si chiede al paziente di notare per favore fino al prossimo controllo cosa è cambiato e cosa no, “così la prossima volta ce lo dici”. Chi scrive usa spesso la formula: “Se sono stato bravo o fortunato, già mi aspetto che starai un po’ meglio la prossima volta. Ma se anche non sono stato bravo, vuol dire che sarà necessario più tempo, abbiamo tanti di quei farmaci che provando troveremo cosa ti funzio-
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na meglio. E tu me lo saprai dire di volta in volta”. Chi pensa che la psicofarmacoterapia non sia di fatto una psicoterapia farmacologica sta solo seguendo ideologie, per giunta piuttosto datate. Risorse Ogni persona ha un repertorio di risorse personali cui far fronte in situazioni di stress, una raccolta di accorgimenti, rimedi e ricchezze pratiche più o meno ampia a seconda delle dotazioni innate, o di quanto appreso per via culturale, familiare, o personale. Se si guarda per esempio alla classificazione di Lahdad ci si rende conto della abbondanza di modi che la nostra mente ha per autocurarsi da una ferita. Lo stesso autore (Lahdad 2013) sottolinea le somiglianze con il sistema immunitario: una volta venuto in contatto con un antigene, la risposta immunitaria viene serbata in una memoria immunitaria, pronta ad attivarsi al ripresentarsi del contatto con la stessa molecola, o lo stesso agente patogeno. Similmente accade per le risorse e le strategie apprese in precedenza in una situazione di difficoltà, e risultate vincenti, che vengono mobilitate in situazioni successive consimili: il trauma insomma crea risorse. L’altra faccia della moneta è rappresentata dal fatto che le stesse misure risultate utili un tempo e in contesto specifico, possono trasformarsi per rigidità di risposta e inadeguatezza al contesto attuale in sintomi invalidanti. La sintomatologia post-traumatica indica il fallimento delle risorse di resilienza impiegate, ma costituisce al tempo stesso la partenza per la mobilitazione di altre risorse o strategie per far fronte ai vissuti della sintomatologia. Il nostro obiettivo è potenziare quelle risorse che il paziente già possiede, permettergli di acquisirne di nuove, e al contrario ridurre quelle risorse trasformatesi in difese disadattive. Ali era un bambino piccolo quando il padre dal Mali lo portò lontano, in Senegal per lasciarlo in una famosa scuola coranica, ove fu vittimizzato per anni, come accade spesso in queste istituzioni, e assistette alla morte di altri bambini per le stesse violenze che furono inferte a lui, e di cui conserva ancora le cicatrici su corpo. In cambio gli fu insegnato a leggere e a pregare, e farlo bene era un modo per evitare ulteriori violenze. Quando ormai trentenne lo conosco, ha sviluppato un Disturbo dissociativo di una certa entità,
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con le voci del capo della Madrassa che lo tormentano, e una “rabbia” – così la chiama – che si impossessa di lui, e lo obbliga a fuggire e isolarsi evitando qualsiasi contatto finché non si recupera. È ugualmente difficile, anche parlando nella sua lingua con il mediatore, comprendere di più dei fenomeni che gli accadono, dato che il paziente parla pochissimo, e spesso in seduta si assenta. Le notti, da quando era bambino, sono tormentate da incubi che lo svegliano. A un certo punto notiamo che a seconda del giorno della settimana dell’appuntamento le condizioni sono variabili: più si tratta di giorni successivi al venerdì, più i fenomeni patologici sono intensi, laddove ad esempio una visita di giovedì ci mostra un Ali più interattivo. La differenza lo faceva la visita alla moschea; pregare, anche al di fuori del venerdì, era una strategia che il paziente aveva per sentirsi meno in pericolo, ma nello stesso tempo attivava per un’ovvia catena associativa la fonte del suo trauma. Suggerirgli con cautela che quello che era buono per altri (e giusto nei termini religiosi), a lui risultava dannoso, come poteva accertare, e che dio certo sapeva di questa difficoltà sua, risultò in un evidente sollievo e in moti di ringraziamento, come se gli avessimo levato un peso.
Nello stesso momento in cui esploriamo con il paziente i modi del suo star male, (chiedendogli dettagli concreti, esempi puntuali di come sono le notti dal momento in cui va a letto a quando decide di alzarsi, come sta male di giorno, in che momenti precisi, cosa lo scatena, etc), gli chiediamo anche: cosa fa quando arriva il momento del malessere? Cosa mette in atto per stare meglio (qualunque cosa questo voglia dire, dal cercare di non pensare, al distrarsi, al sentire musica, allo scaricarsi correndo, etc)? Gli funziona? In che misura e per quanto tempo? Cosa potremmo mettere in atto per potenziarne l’effetto? C’è qualcos’altro che usa, qualche altra strategia? Ha visto altri compagni del centro cosa fanno? Ha provato anche lui? Le risposte sono tanto variate come tutti gli items del BASICPh, e l’efficacia della strategia spontanea del paziente in genere limitata. Ma le cose più interessanti da esplorare con il paziente sono quelle che emergono dal suo passato: in passato sicuramente si sarà trovato in alcune difficoltà che ha superato, probabilmente prima della serie di episodi traumatici che l’hanno portato da noi. Senza per ora approfondire di cosa si tratti (il pericolo è di scoperchiare precocemente traumi antichi, nascosti dietro quelli recenti, e verso cui è necessaria ancora maggior cautela), cerchiamo di capire con il paziente cosa ha messo in atto, quali sono state le sue risorse utili
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in quel tempo. Nel caso che ora non siano disponibili, ecco un’altra direzione di lavoro comune: cosa lo impedisce? Possiamo rimuovere l’ostacolo? Aisha aveva come sua abitudine privata sin da bambina di scrivere; scrivere le era arrivato come un regalo da parte della sua padroncina, la figlia dell’uomo che la possedeva come schiava. La sua padroncina, una bambina di pochi anni più grande, la voleva a fianco mentre imparava a leggere e scrivere, e la invitava a scrivere tutto quello che le accadeva durante le sue assenze, per poterla proteggerla al suo arrivo. Da molto tempo Aisha non scrive più, ora potrebbe farlo anche in un italiano che parla bene, ma qualcosa non glielo permette. Nel suo caso è un profondo senso di auto discredito, messo in atto dalle sue voci identificate con l’aggressore, che a qualsiasi tentativo di avanzamento rispondono insultandola e dicendole che tanto fallirà, non è capace, etc.
Non sempre la patologia è di tale gravità dissociativa, come in Aisha, e un banale vissuto depressivo non dissociato, ad esempio, è cosa più facilmente risolvibile. Il lavoro di esplorazione delineato sopra ha in sé vari obiettivi contemporaneamente, oltre quello specifico dichiarato. Propone al paziente uno spazio di lavoro cooperativo, impostando l’alleanza di lavoro; cerca di aumentare la sua capacità riflessiva attraverso l’osservazione di quanto gli capita, contemporaneamente di attenzione al presente e di mentalizzazione (creando nessi interni); e suggerisce un passaggio da un modo totalmente passivo a uno più coscientemente attivo nelle sue risposte ai sintomi emozionali. A questo proposito tutta l’attività terapeutica di messa in sicurezza dei sintomi si compie valorizzando il ruolo attivo della persona; favorire la cooperazione, esplicitando tutte le occasioni in cui al contrario si decide PER lui, vuol dire elicitare il suo potenziale attivo. Un’altra serie importantissima di risorse personali che si vogliono potenziare o sviluppare allo scopo di stabilizzare il paziente, sono quelle che gli permettono di instaurare una corretta regolazione emozionale e interpersonale, insieme con la gestione degli affetti, e la capacità di autocalmarsi, di prendersi cura di se stesso. Questo compito terapeutico è fondamentale, in quanto la disregolazione dei sistemi emozionali causa la fuoriuscita dai limiti della
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finestra di tolleranza (Window of Tolerance, Siegel 1999, 2011; Ogden, Minton, Pain, 2006), di cui si parlerà nel capitolo 5, e con questo la riattivazione di quei sistemi fisiologici che causano la natura traumatica del vissuto, oltre che l’impossibilità di lavorare terapeuticamente, per l’inattivazione delle necessarie zone integrative del cervello. Come sempre, la validazione di emozione e vissuti viene invece e prima del lavoro di correzione. Un approccio similare può provarsi per le condotte distruttive, un atteggiamento esplorativo e non giudicante: quando accadono? quali sono le conseguenze? Si possono pensare alternative possibili? Che cosa ha funzionato per il paziente in passato? Il messaggio di fondo che deve trasmettersi sempre lo stesso: “Ti aiuto ad aiutarti. Mi aiuti ad aiutarti?”. In questo ambito esistono tutta una serie di tecniche tra il corporeo e il mentale che si possono insegnare al paziente, come le molte versioni di grounding, tecniche di respirazione, auto-stimolazioni bilaterali alternate, spingere sul muro, etc. Per queste si rimanda a testi specifici, per es. per le tecniche di Sensorimotor Therapy il libro di Ogden & Fisher 2015. Ma l’elemento fondamentale non è consegnargli qualcosa che sicuramente funzionerà, non si tratta di favorire l’atteggiamento dell’uomo di medicina magico, o sfruttare la posizione dominante per suggestionare e indurre ipnoticamente una remissione dei sintomi. Per questo ogni esercizio deve essere fatto in seduta insieme al paziente, come qualcosa che si prova, si sperimenta, e di cui è importante avere i riscontri dal paziente. Usiamo accompagnare ogni nuova tecnica con un “Ora ti insegno un’altra cosa. Provala, prima qui con me, poi anche fuori. La prossima volta mi dirai come ha funzionato e su cosa, e se era meglio quella dell’altra volta”. Dove è più difficile agire, non solo farmacologicamente, è sugli stati di hypoarousal, e su quelle alterazioni della coscienza che avvengono in ipoattivazione, quei buchi neri che sembrano a volte risucchiare il paziente, che si assenta in netto, senza neppure riapparire in nessuno spazio del passato nella sua coscienza. Non si registrano solo stati completi, ma anche e soprattutto stati intermedi, in cui il paziente è qui e contemporaneamente non è qui. Knipe (2010) ha sviluppato una semplice tecnica con cui il paziente
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può indicarci quanto è presente nel momento che sta con noi (BHS, v. in cap. 5). Alcune misure possono favorire la presentificazione del paziente in seduta, dal richiedere a questi di guardarci negli occhi e di non perdere il contatto oculare (potente centro di attenzione, ma anche potente potenziale fonte di pericolo), al chiedere che ci enumeri le cose nella stanza di un determinato colore, al tendergli un oggetto con l’intenzione che lo afferri, o lanciarglielo, o ancora invitarlo a mettersi in piedi e camminare con noi. Per una serie di pazienti, in cui concorreva probabilmente anche uno stato di ipoglicemia per non aver fatto colazione (evento da prevedere se il centro da cui provengono è distante, come accade per arrivare a Roma al nostro servizio), abbiamo usato la accortezza di offrire un cappuccino caldo con molto zucchero una ventina di minuti prima dell’intervista: il glucoso, lo stimolo sensoriale, o l’offerta sortivano un qualche risultato. Come si immagina dalle esemplificazioni offerte, tutto il lavoro di stabilizzazione, tra le componenti relazionali, di sviluppo di risorse, e il lavoro sulle fobie specifiche verso emozioni, memorie e parti (in caso di disturbi dissociativi), necessita non solo di competenze specifiche, ma di estrema adattabilità alle particolari esigenze ambientali, culturali e personali del paziente, con una certa dose di creatività e sperimentalismo da parte del terapeuta, oltre che della collaborazione, in caso di permanenza del paziente in centro di accoglienza, del personale di detto centro. Perché in fondo infatti si tratta di una co-terapia. 4. Differenze culturali e patologia post-traumatica L’arrivo e il contatto con i servizi di pazienti arrivati da tutto il mondo ha portato in primo piano l’interesse per la psichiatria transculturale, cross-culturale o culturale tout court, come da vari settori è stata designata con sfumature differenti; o soprattutto in Italia verso l’etnopsichiatria, come si denomina in Francia la corrente di pensiero che si occupa delle relazioni tra cultura e psicopatologia. La posizione degli estensori di questo libro viene illustrata con chiarezza da quanto scritto da Wolfgang Jilek, che fu Chair della
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Transcultural Section della World Psychiatric Society prima del 1999: La grande maggioranza degli psichiatri transculturali rigetterà la posizione ideologica di un relativismo culturale radicale, che licenzi le categorie diagnostiche psichiatriche come categorie culturali Euro-americane, scoraggi gli sforzi per una classificazione universale, e anche definisca la moderna psichiatria come un sistema culturalmente costruito su costrutti popolari occidentali. La maggioranza di noi, lavorando nel campo della psichiatria transculturale, è sempre stata orientata verso un relativismo culturale, quantunque non radicale, dato che sostiene la nozione di fattori culturali che influenzino il funzionamento mentale, così come la natura e il decorso dei disturbi psichiatrici. Nello stesso tempo la maggioranza di noi ha anche una posizione universalista, nel senso che percepiamo elementi universali nel comportamento umano, normale e patologico, che trascende l’individuo, ed anche le differenze etnico-culturali. Jilek, 1998
Il punto di polemica di Jilek era verso la “nuova” psichiatria transculturale che, a partire da Kleinman (1988) “enfatizza il significato culturale e il contesto dei fenomeni psichiatrici, e richiede pieno riconoscimento delle nozioni di causalità indigena e dei modelli esplicativi basati sulle credenze popolari sulla salute e la malattia” (Jilek 1998).Vale a dire richiede un atto di fede preliminare di natura ideologica, che esige di mettere sullo stesso piano il sapere scientifico e le credenze del paziente; questo non sul versante strategico o strumentale, vale a dire per riuscire a comunicare e comprendere, quanto in termini di verità affatto relative: la tua teoria spiritistica essendo vera per te, devo riconoscerla vera anch’io, altrimenti si tratta di un colonialismo culturale. Un posizionamento ideologico preliminare simile si pensa necessario nelle correnti francesi che si rifanno a Franz Fanon, richiamandosi a una visione della psichiatria che si voglia a priori anticolonialista per essere efficace. (Per quanto riguarda il campo del trauma in questa prospettiva si legga il capitolo 6 in questo libro). Chiarito il nostro punto di vista transculturale, che si situa in una via mediana tra universalisti e relativisti, in una ottica che si voglia scientifica, passiamo a vedere alcuni termini che definiscono i modi in cui la cultura può influire sulla psicopatologia.
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4.1 Patogenetico, patoplastico, patoselettivo, patofacilitativo, patoreattivo Per effetto patogenetico della cultura si intende quelle situazioni in cui specifiche condizioni o credenze culturali costituiscono il fattore causativo della condizione patologica. Nel senso più ampio ad esempio una serie di credenze su maledizioni voodoo contribuisce a creare uno stato di stress sull’individuo, tale da generare in questi un qualsiasi scompenso psicopatologico; oppure l’anomia culturale o lo shock culturale risultano essere fattori di stress che sollecitano il coping dell’individuo, causando un possibile stato psicotico breve, depressivo, o ansioso, o ancora una infelicità tale da portare al suicidio. In questa accezione patogenetico comprende tutti i fattori a monte, come fattori scatenanti recenti, su una predisposizione individuale, di una forma patologica che non avrà nulla di specifico. Ma nel senso ristretto si intende per effetto patogenetico quello che, avvenendo in una data cultura su un sistema di credenze specifiche, dà origine a una forma psicopatologica non assimilabile alle forme occidentali, e specifica solo di quella cultura. È il caso delle sindromi etniche, o più propriamente sindromi culture-bound (secondo la formula di Ray Prince 1985), in cui “la cultura contribuisce allo sviluppo di una specifica psicopatologia osservata solo in alcuni ambienti culturali, e non può fenomenologicamente essere categorizzata (o anche correlata stretta) all’internodi nessun gruppo diagnostico presente nei sistemi correnti di classificazione (occidentali).” (Tseng 2001). Queste pittoresche sindromi come il koro, il latah, e simili con la globalizzazione sono osservate con sempre maggiore rarità, se non sono addirittura scomparse; al contrario quella che potrebbe essere considerata finora la nostra sindrome etnica, l’anoressia mentale, dimostra di essere facilmente esportabile in territori ove era finora sconosciuta, con l’arrivo di modi culturali occidentali. Per effetti patoselettivi della cultura si intende il fatto che il soggetto sceglie tra le possibili soluzioni una “consentita” nel repertorio previsto dalla cultura cui appartiene. È il caso del suicidio per debiti nella società giapponese, in cui di fronte al fallimento economico, che comporta in quella società un massimo di disonore, il soggetto si trova offerta questa soluzione estrema, attuata a volte in-
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sieme a tutta la famiglia, per evitare il disonore che potrebbe ricadere sugli altri membri durante la loro vita. O ancora potremmo considerare nell’ambito patoselettivo il comportamento omicidasuicida del terrorista islamico (o l’arruolamento come foreign fighter per l’ISIS) negli immigrati di seconda generazione in Europa, in cui il malessere sociale e personale incontra questa possibilità all’interno della sua comunità culturale. Come si vede dagli esempi riportati, non si tratta tanto di vera patologia, quanto di condotte, di comportamenti che per quanto estremi non sono veri quadri di patologia mentale. Il capitolo degli effetti patoplastici è quello che principalmente interessa la clinica: si intende con il termine patoplastico come e quanto la cultura del soggetto può plasmare, dare una forma differente al quadro psicopatologico di un disturbo mentale. Questo può avvenire in due differenti maniere. Nella prima la cultura mette a disposizione il contenuto (a livello cognitivo) della forma clinica. Può trattarsi del contenuto di un delirio persecutorio, in cui il persecutore può essere un agente segreto, il diavolo, un jinn, lo spirito di un antenato; o di una fobia ossessiva, in cui il contenuto può variare tra i germi, le scie chimiche, le mestruazioni, un individuo stregato, costituito insomma da ciò che viene considerato sporco o pericoloso in quella società. O ancora, nella depressione, la componente cognitiva può essere un pensiero di colpa o rovina, oppure di vergogna sociale, oppure, come appare spesso fuori dall’ambito occidentale, essere assente come contenuto mentale. Ancora più evidente può essere la differenza di contenuto mediato dalla cultura nel caso di fobie sociali, in cui il motivo di vergogna su cui la fobia si appunta è fornito interamente da quello che in quel gruppo culturale si considera vergognoso. Come si vede il quadro della patologia resta intatto, anche nella sua componente emotiva (ansia, tristezza, agitazione, etc) ma cambia il modo in cui cognitivamente si sostanzia nell’individuo. Non dovrebbe questo essere un gran problema, non fosse che la clinica psichiatrica a matrice statunitense si è tanto allontanata dalla psicopatologia fenomenologica classica, da essersi perso il fatto che a determinare una diagnosi è la forma complessiva, la struttura nucleare che regge tutto il quadro, e non la superficie di presentazione sintomatica. Per chiarire i termini del pro-
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blema, nel caso del delirio ad esempio non è l’inverosimiglianza o la non veridicità del contenuto a fare di un delirio un delirio, ma la forma con cui si è generato e si mantiene e arricchisce: posso avere un delirio di gelosia anche in presenza della reale infedeltà di mia moglie. La credenza che la mia vita sia disturbata da uno spirito degli antenati va testata con il resto della modificazione del mio essere rispetto al prima, o della forma del mio pensiero, delle mie capacità cognitive di base, del quadro di sonno, del decorso nel tempo, etc. prima di formulare una diagnosi di psicosi. Altrimenti dovremmo considerare psicotici tutti i credenti nella azione salvifica di Lourdes e della Vergine; la differenza non la fa solo o tanto il numero di persone che in una cultura condividono la credenza, ma la maniera in cui l’idea si forma, come viene usata dal soggetto, la rigidità delle conseguenze che per il soggetto ne derivano, la pervasività nella sua vita quotidiana, come si sostiene e si argomenta la idea, e soprattutto il senso assolutamente personale e autoriferito della lettura degli eventi. Su questa base di errore diagnostico si sostanzia ad esempio la difficoltà di consistenza delle ricerche epidemiologiche sulle patologie dei migranti (vedi il capitolo 3). Ma all’effetto patoplastico si deve anche un modellamento culturale delle forme patologiche per i disturbi conosciuti. Il caso più noto è dato dalle varietà sintomatologiche che può prendere la depressione endogena nelle diverse culture; risale addirittura a Kraepelin e ai suoi studi in Indonesia la scoperta che l’ideazione di colpa non era presente nella depressione in quei paesi, differentemente che in Germania. Questo è quello che osserviamo nella depressione nelle popolazioni africane, in genere: l’idea di colpa è sostituita da lamentele somatiche, o da idee persecutorie o di possessione. In altre culture in cui la tenuta sociale è alimentata dalla vergogna, sarà la vergogna per qualcosa presumibilmente commesso ad alimentare la componente cognitiva della depressione. Ovviamente non viene toccato il centro della sindrome depressiva, la perdita di energia vitale, il rallentamento psicomotorio e la scarsa reattività agli stimoli. Qualcosa di simile accade per la schizofrenia, in cui rimanendo intatto il core della malattia, il deficit cognitivo specifico, e l’andamento progressivo, la prevalenza di forme agitate o inibite, impoverite, o la bilancia superficiale tra sintomi
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positivi e negativi, varia tra le varie popolazioni. Nel capitolo sulla schiavitù in questo libro si esamina come le condizioni apprese in quelle condizioni favoriscono forse una presentazione con prevalenza dei fenomeni di hypoarousal, con tutte le caratteristiche di passività che la legano all’esperienza vissuta. In Cina l’anoressia mentale si presenta spesso senza la convinzione di essere grassi (Lee, Ho & Hsu, 1995), tanto che si parla di non fat-phobic anorexia. Ray Prince (1960) descrisse in africani la brain fag syndrome, o sindrome del cervello stanco, lamentele di scarsa concentrazione o difettosa memoria, accompagnate a dolori nella testa o al collo; ma non si tratta di una sindrome culture-bound, di una sindrome etnica, infatti l’autore lo considera una forma di disturbo d’ansia, con caratteristiche ipocondriache. Come si vede, i fattori culturali agiscono spesso con un effetto patoplastico, ponendo a prova la nostra capacità di psicopatologi, ma si tratta solo della vernice, della superficie che ricopre un disturbo identico a quello del mondo occidentale. La difficoltà sarà solo nel dover andare oltre la superficie, per percepire quegli elementi universali nel comportamento umano, che trascende l’individuo, ed anche le differenze etnico-culturali, per dirla con Wolfgang Jilek. Come fattori patofacilitativi si intendono quelli che rendono una forma patologica più frequente in determinati contesti. Non si tratta in questi casi delle patologie maggiori, come la schizofrenia, che ha distribuzione di incidenza omogenea per tutto il mondo; laddove ad esempio questo viene contraddetto come nell’isola di Belau in Micronesia, sono i matrimoni tra consanguinei ad aver aumentato la segregazione genetica dei portatori (Dale, 1981). Anche qui, nel campo degli effetti patofacilitative, si tratta di comportamenti con successive conseguenze patologiche ad essere in causa: condotte suicidarie (rare nel mondo musulmano, frequente in quello protestante), uccisioni di massa stile USA (facilitato dalla disponibilità delle armi), consumo di sostanze (ugualmente facilitato dalla disponibilità all’acquisto), alcoolismo (facilitato da un atteggiamento permissivo verso il suo uso), sono tutte condizioni la cui frequenza varia nelle varie società dipendendo dal contesto socio culturale di quella società. Ma come si vede, si tratta di condotte più di patologie mentali.
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Per ultimo si parla di effetti patoelaborativi, in riferimento alla elaborazione che una cultura o una società fa di una patologia esistente, rendendola un tema culturale diffuso. Vale per esempio l’ampio discorso ideologico che in Italia si è fatto sulla follia con il movimento basagliano, o della maniera come temi sull’anoressia o sulla vigoressia vengono elaborati, e non solo facilitati nelle nostre società. Di maggiore importanza sono gli aspetti patoreattivi, che si riferiscono a come una patologia viene recepita in ambito socioculturale, e le conseguenze che ne derivano da parte della famiglia e dell’intorno verso chi è colpito da patologia mentale. La cosa non è senza rilievo sul decorso, probabilmente anche per patologie maggiori come la schizofrenia, visto che vari studi confermano che la prognosi per tale patologia sarebbe peggiore nei paesi a sviluppo socioeconomico maggiore, a parità di esordio acuto o subdolo, e di terapie farmacologiche attuate. A questo aspetto di patoreattività del contesto si lega probabilmente la tendenza in atto in alcuni paesi occidentali da parte di pazienti con diagnosi di disturbo borderline di personalità a voler cambiare la loro diagnosi in quella di un Disturbo dissociativo o Post-traumatico, che incontra più comprensione e simpatia in ambito sociale. Dove invece il fattore culturale risulta fondamentale è in tutto il campo dei Disturbi di Personalità. La cosa risulta perfettamente comprensibile se si pensa che quei disturbi già classificati in Asse II dalle precedenti edizioni del DSM indicano tratti, componenti di personalità distribuiti in un continuum con la normalità, in cui il cut-off che determina la natura ‘patologica’ viene determinato dalla cultura in cui insiste, e varia con il variare anche nel tempo di questa. Aspetti come stabilità emotiva, impulsività, aggressività, condotte oppositive, chiusura e isolamento, distanza relazionale, timidezza e vergogna, sono tutti elementi che vengono definiti nella loro appropriatezza solo in un contesto culturale. Una persona dai modi aggressivi, che parla a voce alta, con uno stile confrontativo, che dà libero sfogo alle sue emozioni, che facilmente passa da una amichevolezza a sensi di ostilità e persecuzione (senza essere inquadrabile in un dist. Bipolare o Delirante) può o no essere inquadrato in un disturbo di Cluster B a seconda della popolazione e della cultura
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cui appartiene. Nel caso per esempio della cultura nigeriana tali aspetti potrebbero essere assolutamente congrui socialmente. A ben pensare anche nelle nostre società nel corso del tempo stili comportamentali uguali sono stati considerati patologici o adatti: lo stile di condotta e di combattimento di un Achille viene considerato eroico nel contesto dell’Iliade, ma sarebbe stato considerato da codardo nella Grecia oplitica classica. In casi come quello dei disturbi di personalità non si sopravvaluterà mai il giudizio di un mediatore fidato che possa darci informazioni sulle sue percezioni (vedi capitolo 7), e nel caso che non sia disponibile un mediatore fidato, di altri membri della stessa comunità. La questione dipende dal fatto che mentre per i disturbi che per intenderci classifichiamo in Asse I, in cui esiste una soluzione netta di continuità con la normalità (non posso infatti essere un poco schizofrenico, o conversivo: posso avere al più un disturbo schizofrenico o conversivo lieve o severo), per tutti i disturbi di personalità, seguendo il pensiero di Karl Schneider sussunto nel sistema DSM, questa continuità esiste. Figura 2 Influenza culturale sulle patologia (adattamento da Tseng 2001)
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4.2 Illness behaviour Con il termine generale di illness behaviour (alla lettera comportamento di malattia) si indicano tutti quei momenti da parte del soggetto infermo e del suo ambiente che vanno dalla maniera in cui si percepisce il malessere, come lo si interpreta (quali sono le teorie culturali di malattia), come si reagisce ad esso (incluso come si cerca o no aiuto), quale ruolo gli viene assegnato socialmente in quanto malato, e qual è la aderenza alle terapie e agli esiti della malattia. Un campo in cui le differenze tradizionali delle diverse culture tra loro e con la medicina scientifica sono notevoli, e che costituisce il campo privilegiato della antropologia medica. Qui si accennerà solo ad alcune componenti, rimandando a testi specifici per approfondimenti. Per esempio, la percezione di un malessere, che già incontra variazioni individuali consistenti, è soggetta a differenze culturali notevoli; tra i fattori da cui si può far dipendere tale varianza, ne citeremo due, la filosofia generale rispetto la sofferenza e la felicità nella vita, e la vergogna sociale. Nel caso della “depressione” (nel senso di sindrome depressiva non endogena) si è visto come nel mondo sia differentemente percepita dipendendo dalla recezione culturale, per esempio il mondo occidentale si è orientato verso la percezione della infelicità come una alterazione dalla normalità, una patologia, mentre altrove potrebbe essere recepito ancora come un normale possibile stato all’interno della generale sofferenza del vivere. O ancora, lo stigma che si porta verso il malato mentale (di qualsiasi tipo), o comunque una diminuita tolleranza porta il soggetto e il suo ambiente a percepire con maggiore sensibilità la presenza di una anomalia: una intolleranza sociale si traduce quindi in una intolleranza soggettiva del malato verso il suo problema, un aumento della sua percezione di essere infermo. Il che non è detto che si traduca in una più facile richiesta di aiuto (helpseeking behaviour), ovviamente, visto il discredito che comporterebbe nel suo mondo circostante. Ma anche in fase diagnostica, nel momento della presentazione dei problemi, un fattore culturale di selezione dei sintomi riferiti è all’opera: nella maggior parte dei casi di pazienti post-traumatici, soprattutto con pazienti africani, ad esempio è l’insonnia che vie-
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ne riferita come problema, e costituisce la porta di ingresso all’esame clinico, sia per sviluppare una alleanza di lavoro, che per la necessità del clinico di valutare il valore dissociativo della sintomatologia del paziente. Probabile che la scarsa rilevanza in quelle culture dei fattori emozionali giochi un ruolo nella scelta dei sintomi presentati al clinico; lo stesso si è osservato con pazienti cinesi. Un sintomo cardine per noi, come per esempio episodi di depersonalizzazione, con visione dall’esterno del proprio corpo, o la sensazione di “non essere io”, non viene quasi mai riferito, e come la presenza di voci dissociative, deve essere esplorato attivamente dal clinico. Un argomento importante è quello delle diverse teorie culturali di malattia, vale a dire della interpretazione causativa dell’infermità, e quindi della aspettativa dei modi terapeutici previsti per venirne a capo. Intorno a questo punto si è sviluppata una forma di Sindrome di Salgari (Colasanti, Geraci 2000) da parte dei professionisti italiani. Con il termine Sindrome di Salgari, riferito al noto scrittore che descrisse ambienti lontani senza aver mai viaggiato, si intende quell’atteggiamento spinto da esotismo che induce nel professionista l’aspettativa di trovare malattie rare e ‘tropicali’ nel migrante, tranne poi imbattersi solitamente in comunissime patologie nostrane. Se questo atteggiamento è stato da decenni facilmente descritto e svelato in ambito medico, pur tuttavia persiste nell’ambito psichiatrico e psicologico, dove le differenze linguistiche e di modi culturali inducono il professionista a cercare, e spesso a vedere, differenze ed esotismi anche dove non ci sono. Il fatto che nel mondo esistano e persistano teorie prescientifiche della malattia basate su fattori soprannaturali, su sbilanciamento di energie, o disarmonia tra caldo e freddo, non dovrebbe sorprendere, visto che anche in occidente tali atteggiamenti sono di sempre maggiore diffusione. Il ricorso a tecniche di guaritori, marabutti e sciamani non dovrebbe stupire in un paese in cui omeopatie, terapie “naturali”, o ricorso a veggenti e pranoterapeuti coinvolge una parte non piccola del comportamento di malattia della popolazione. Si dirà che nel caso di un paziente africano esso ha radici lontane nella cultura tradizionale della sua gente, laddove da noi è un fenomeno recente nato da molti motivi propri delle società con-
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temporanee; ma questo non modifica il fatto che il professionista è abituato a leggere al di là delle teorie personali o di gruppo la natura della patologia di cui è portatore. Quello che i sostenitori di questo esotismo (ben mascherato dalle argomentazioni ideologiche) non dicono è che nei luoghi stessi d’origine dei pazienti ormai il contatto con la medicina scientifica è cosa avvenuta da tempo, e il ricorso a entrambi i sistemi terapeutici (in maniera seriale o contemporanea) viene praticato con un vissuto non contraddittorio da parte dei sistemi sociali (Draicchio, Vasconi 2018). Questo convivere di due teorie differenti dà adito a numerosi compromessi; in India e Cina ad esempio esiste la credenza che i farmaci occidentali siano troppo forti per bambini e vecchi, o per patologie non avvertite come severe, e solo con l’aumentare della gravità si ricorre in certi ambiti alla medicina scientifica (Keh-Ming Lin 2001): non differentemente, da noi si ricorre alla medicina omeopatica con i bambini o quando si avvertono fastidi minori, ma si ricorre al medico in caso di cose interpretate come “serie”, o anche esiste il pregiudizio che gli antibiotici facciano stare soggettivamente male. Per rendersi conto dell’esistenza di un pregiudizio in questo campo verso chi condivide altre teorie della malattia, basta osservare la folla che riempie il nostro servizio ogni mattina per richiedenti asilo, con richieste mediche che vanno dal medico generale agli specialisti dei vari campi. Il che non vuol dire che non si generino problemi all’incontro delle teorie contrastanti. Come è noto maggiore è la differenza culturale tra le teorie del medico e del paziente, minori sono la adesione al trattamento e l’effetto ‘aspecifico’ della terapia, così come è conosciuta la riluttanza ad assumere una terapia in cronico per una malattia cronica, di fronte a una teoria che vede l’intervento terapeutico necessario solo in caso di disturbo soggettivo: passato questo, la terapia viene interrotta. (per altri aspetti relativi alle differenze culturali (vd capitolo 8) Nella nostra esperienza una sensibilità al punto di vista culturale del paziente è fondamentale, e vale sempre esplorare quello che pensa in merito, cercando di adattare reciprocamente i due punti di vista, e ingaggiando il paziente a sperimentare i risultati e commentarli. Il tema verrà ripreso nel capitolo di questo libro sulla me-
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diazione culturale, ove sul concetto del mediatore come co-terapeuta si danno alcune conseguenze pratiche di questo approccio cooperativo nel lavoro diagnostico e terapeutico, e si delinea anche un modello di colloquio clinico con l’utilizzo del mediatore. Non poche volte ci è accaduto che il paziente avesse la convinzione che i sintomi presenti fossero causati da voodoo o altre magie africane, tanto che solo un marabutto avrebbe potuto risolvere il problema; e nello stesso tempo il paziente era disposto ad assumere la terapia proposta e a lavorare con noi, sia pure con riserva; tranne poi trovare che nel momento del miglioramento sintomatologico l’ipotesi magica e di terapie tradizionali svanivano in secondo piano. Maggiore attenzione, in caso di terapia farmacologica, andrà posta al caso di terapie “naturali” concomitanti, per tutti i rischi connessi a interazioni con sostanze sconosciute e non studiate. Anche qui, non diversamente da quello che purtroppo accade in Europa. Su questa tematica delle teorie e terapie a fondamento soprannaturale vale anzi la pena sottolineare come la componente recente di maggiore turbamento negli equilibri sanitari delle zone ove si è presentato, è costituito dal fattore assolutamente nuovo della presenza in Africa di missioni di gruppi fondamentalisti protestanti, con pratiche di guarigione fideistica contro la malattia vista come possessione demoniaca, e questa costituisce molto più che nel caso di guaritori tradizionali, con cui sono entrati in competizione, un elemento di preoccupazione per tutte le politiche sanitarie. 4.3 Fattori culturali e trauma Vediamo ora come nel campo post-traumatico si registra l’azione di fattori di natura culturale specifica. Nella patologia psichiatrica post-traumatica l’influenza di fattori socioculturali è largamente riconosciuta, e non solo per la natura degli eventi che la causano (ovviamente a forte determinazione socio-culturale). Infatti, fattori di forte influenza sulla genesi e sul decorso di tali patologie sono stati descritti in letteratura. Nella fig. 3 tentiamo di riassumerne graficamente l’influenza, prima e dopo il manifestarsi della patologia. Precedentemente alla
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loro formazione giocano per esempio un ruolo (al di là di varianti individuali, genetiche e di stile di attaccamento) gli eventi traumatici: per la loro natura, durata e ripetizione, coinvolgimento familiare e gruppale, il grado di attesa e la preparazione al trauma, piene di interpretazioni culturalmente mediate, e i fattori di resilienza culturali e comunitari.
Similmente dopo l’instaurarsi di un disturbo variano culturalmente gli stili di comunicazione, (i contenuti ritenuti degni di comunicazione al medico, secondo lo stile comunicativo culturale), la teoria culturale di malattia (illness theory, illness behaviour), nonché l’influenza culturale determinante su decorso e prognosi. Ma rimangono fuori da una influenza culturale -secondo la visione vigente nella clinica post-traumatica- le manifestazioni cliniche, la struttura sintomatologica dei disturbi post-traumatici e dissociativi, determinati più dal bios dei sistemi di allarme e difesa iperstimolati in cronico che da meccanismi di diversificazione su base culturale, differentemente da altri capitoli della psicopatologia. La cosa non stupirà, dato che i sistemi in gioco sono non solo comuni ai membri della specie umana, ma a tutti i mammiferi. Sono i sistemi di difesa, quelli deputati alla sopravvivenza, che vengono sollecitati oltremisura dal trauma, ed è a partire dalla loro di-
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sregolazione che originano, e si possono dedurre, tutti i sintomi primari del PTSD. Si tratta del sistema riassunto nelle 4F in inglese -fight, flight, freezing, fainting- con cui l’individuo deve fare i conti, nel bilanciamento tra sintomi adrenergici simpatici, e attivazione dei nuclei dorsali del vago parasimpatici; dal gioco relativo di queste funzioni opposte del sistema nervoso autonomo si genera la sintomatologia (Porges 2001, 2011, v. anche capitolo 5). La sopravvivenza e i modi basilari di far fronte al rischio per la vita non vedono differenze tra lingue e culture. 5. Trauma vicario Ultimo argomento di questo capitolo introduttivo è il trauma vicario, quello cui siamo esposti anche noi che ascoltiamo le storie dei nostri pazienti. Il trauma vicario è anche chiamato trauma terziario, essendo il trauma secondario quello dei testimoni diretti; si registra oggi anche un trauma quaternario, quello sviluppato dopo aver rievuto l’informazione traumatica tramite i mass media. Il personale di assistenza è ovviamente esposto a un overdose di dolore da parte della vittima, nel corso della sua narrazione -ma non solo per questo-, risultandone a volte una sofferenza. Si parla in questi casi di compassion fatigue, una forma di distress cronico, che non è ancora il trauma vicario. Svilupperà invece un vero trauma vicario quel personale di assistenza che seppure in forma attenuata presenterà i sintomi del PTSD, nelle sue varie componenti. Una serie di fattori di rischio facilitano questo sviluppo patologico, come ad esempiouna eccessiva sensibilità o una malintesa empatia, che porta a internalizzare il dolore altrui. Conviene a questo punto enfatizzare la differenza tra una empatia che si svolge a livello principalmente cognitivo, permettendoci per identificazione speculare comprendere cosa l’altro sta sentendo, e una empatia emotiva (o simpatia) in cui siamo noi stessi a sentirci colpiti e nel caso anche sopraffatti dall’emozione dell’altro; ovviamente questo secondo processo, oltre a impedirci di agire con libertà nel processo di aiuto, con tutta la lucidità necessaria, costituisce un fattore importante di rischio quando una dopo l’altra storie dolorose ven-
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Clinica del trauma nei rifugiati
gono accolte nel nostro lavoro. Nel training del clinico il raggiungimento della distanza ottimale con il paziente, differente per ogni paziente, salvaguarda lui e noi stessi. Nella stessa direzione puntano aspettative non realistiche nei confronti dell’assistito, riguardanti il suo benessere o il suo percorso diintegrazione. Altri fattori di rischio concernono aspetti generali come l’eccesso di fatica e di stress nel lavoro, e la tendenza all’isolamento, senza ricerca di aiuto nell’ambito del lavoro. Si sta parlando in generale di differenti professioni di aiuto, da quella specialistica di psichiatri e psicologi, ma anche di tutto quel personale di assistenza che a vario titolo è mobilitato intorno ai rifugiati. Come in tutte le condizioni di lavoro, le condizioni di distress sono favorite dalla scarsa o nulla organizzazione del lavoro, che lascia spesso alla improvvisazione e all’estro del singolo di trovare soluzioni non previste e non protocollate in qualche modo: in questo campo il rischio è maggiore che un normale burnout, comportando appunto una sindrome post-traumatica secondaria. Poca attenzione alle esigenze personali, la tendenza ad esporsi senza preparazione specifica apericoli o condotte rischiose, agevolanoper motivi personali il pericolo. Probabilmente il fattore che più crea rischi e complicazioni è costituito da quelle condotte che creano confini lassi tra vita professionale e personale, come purtroppo accade nelle relazioni personali – di qualunque tipo – tra personale e assistiti. Visto il coinvolgimento del volontariato, non è inutile sottolineare come non ci si dedica a professioni di aiuto per risolvere problemi personali, anche per il rischio che comporta. A conclusione, riassiumiamo nelle tabelle 2 e 3 una serie di presupposti, personali e di gruppo, per lavorare con pazienti traumatizzati, e ridurre il rischio di conseguenze traumatiche su chi dovrebbe al contrario avere un ruolo fondamentale nel processo di stabilizzazione dei pazienti.
E. Vercillo - Introduzione 53
Tabella 2 PRESUPPOSTI PERSONALI PER LAVORO CON PAZIENTI POST-TRAUMATICI Riconoscere in se stessi i sintomi di un eccessivo stress Porre limiti alle aspettative Incontrare la giusta distanza emotiva personale per lavorare Porsi chiari obiettivi di vita personale Apprendere a conoscere i propri limiti nel lavoro e nei carichi di lavoro Sapere ‘ricaricare le batterie’ non quando è necessario, ma con regolarità Aumentare la presa cognitiva sull’oggetto di lavoro Focalizzare obiettivi di lavoro, mezzi e verifiche chiaramente formulati Fare esercizio fisico, rilassamento Meditazione
Tabella 3 PRESUPPOSTI DI GRUPPO PER LAVORO CON PAZIENTI POST-TRAUMATICI Organizzazione del gruppo di lavoro é fondamentale: scopi, obiettivi, mezzi e verifiche periodicamente riaffermati e nel caso modificati Riunioni periodiche come gruppi di lavoro (non gruppi terapeutici mascherati), ma non eccessivi tanto da risultare fagocitanti Chiedere supporto, consiglio o aiuto al gruppo di lavoro Rotazioni tra gruppi di lavoro per conoscere altre esperienze Supervisioni esterne GRUPPO E COMUNITÀ PERSONALE, DISTINTI DAL LAVORO
2. I numeri delle diversità Filippo Gnolfo
L’Italia per gran parte della sua storia recente è stato un paese di emigrazione, tra il 1876 e il 1976 sono partiti oltre 24 milioni di persone. Per tutto questo periodo, il fenomeno dell’immigrazione era stato invece pressoché inesistente. Nel 1973, l’anno della crisi petrolifera e dell’austerity economica, l’Italia ha per la prima volta un leggerissimo saldo migratorio positivo (101 ingressi ogni 100 espatri). In realtà, il flusso di stranieri comincia a prendere consistenza solo verso la fine degli anni Settanta, aumentando in modo costante negli anni a venire. Sono migranti economici, persone che emigrano nel nostro paese alla ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro. Il trend è stato in costante crescita, se nel primo censimento (1981) l’ISTAT calcolava la presenza di 321.000 stranieri (1981), nel 2017 risultavano 5.047.000 stranieri residenti in Italia. Addirittura negli ultimi 15 anni, la percentuale di stranieri residenti si è quadruplicata, dal 2,4% al 8,3%. Attualmente la maggior parte degli stranieri residenti è presente da lunga data1, a dimostrazione che la presenza di immigrati è diventato un fenomeno strutturale della società italiana. Ma la situazione è andata cambiando rapidamente, negli ultimi anni il numero degli immigrati è rimasto pressoché costante, infatti dal 2011 l’Italia registra il minor numero di nuovi arrivati in rapporto alla popolazione. La flessione del numero dei permessi di soggiorno ha riguardato soprattutto quelli per lavoro, a causa degli effetti della crisi economica e della riduzione delle
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Fonte: Migration Observatory’s Report: Immigrants’ integration in Europe (2017). L’80% dei migranti presenti in Italia risiede nel nostro Paese da oltre 5 anni.
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quote annue di ingresso dei lavoratori stranieri (12.873 minimo storico 2016).2 Dall’altro le crisi nell’Africa Subsahariana e nel Medio Oriente hanno provocato l’arrivo massiccio di profughi, di migranti forzati che richiedono protezione nel nostro paese, crescono infatti i permessi di per asilo e protezione umanitaria (77.927 massimo storico nel 2016).3
Gli studiosi delle migrazioni hanno differenziato chi parte per necessità da chi lo fa per scelta, attratto da migliori prospettive economiche (Kunz, 1973), così gli epidemiologi hanno distinto il profilo di salute di migranti economici/forzati in relazione all’effetto migrante sano. Negli anni ’80-‘90 in Italia dilagava la Sindrome di Salgari. Gli operatori fervidi di fantasia erano convinti che gli immigrati fossero portatori di malattie esotiche e gravissime. Esattamente come l’autore delle Tigri di Mompracem e del Corsaro Nero il quale, senza mai aver visitato la Malesia o i Caraibi, descriveva un universo meraviglioso e fantastico, che alimentava l’immaginario dei lettori italiani. La sindrome di Salgari è quindi l’inconsapevole convincimento che gli immigrati siano portatori di malattie inconsuete, in particolare tropicali, infet-
2 3
Nel decreto flussi 2017 è previsto un numero irrisorio di ingressi per lavoro subordinato non stagionale: – 500 ingressi per lavoratori subordinati non stagionali che hanno completato in patria dei programmi di istruzione e formazione nel Paese d’Origine, attivati ai sensi dell’art. 23 del Testo Unico sull’Immigrazione; – 100 ingressi per lavoratori subordinati non stagionali o autonomi di origine italiana per parte di almeno uno dei genitori fino al terzo grado in linea diretta di ascendenza residenti in Argentina, Uruguay, Venezuela e Brasile; Fonte: Rapporto sulla protezione internazionale in Italia 2017; Asylum in the EU MemberStates 1.2 million first time asylumseekersregistered in 2016. Eurostat Newsrelease 46/2017 – 16 March 2017 Asylum in the EU member states. Record number of over 1.2 million first time asylum seekers registered in 2015 EUROSTAT Newsrelease 44/2016 4 March 2016. Nel 2014 si è registrato in Italia un aumento delle richieste d’asilo pari al 143%, in nessun altro paese UE si è rilevato un aumento così considerevole. Nel 2016, le richieste d’asilo sono aumentate del 32%. Negli ultimi tre anni sono fortemente aumentati i permessi per asilo e motivi umanitari, hanno raggiunto il massimo storico del 34%. Ministero dell’Interno. I numeri dell’asilo.
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tive e trasmissibili; un’alterità clinica su cui “cimentarsi” sul piano individuale e da cui “difendersi” sul piano collettivo. Geraci 2018
Il fenomeno riguardava l’aspettativa di trovare tali quadri, ma anche l’interpretazione di quanto osservato sintomatologicamente in quella direzione, la convinzione di avere davanti un paziente con una malattia rara ed esotica, e cercandone conferme nelle ricerche strumentali e di laboratorio. Quando ho iniziato a lavorare al Naga, circa 20 anni fa, non avevo idea di quello che ciò significasse. Solo dopo qualche anno ho scoperto di essere stato affetto dalla sindrome di Salgari…. Affetto dalla sindrome ho visitato 10, 15 pazienti ogni lunedì pomeriggio. Qualcuno l’ho anche operato. Ho ascoltato tanti stranieri irregolari che raccontavano le loro malattie (mentre io ero) alla caccia della malattia rara. Ma più passava il tempo e meno questa si trovava e poco a poco calava la voglia di andare tutti i lunedì al Naga. Desideravo incontrare la patologia rara e non trovarla mai mi creava noia, a volte ostilità verso i pazienti che più o meno avevano sempre gli stessi problemi. Passava il tempo e cresceva la consapevolezza di non capirci niente. Non capivo perché gli stranieri venissero a farsi visitare per il raffreddore, per la forfora, per i calli. Erano persone giovani, avevano bisogno di lavorare, non di riempire il pomeriggio dal medico, ma passavano ore in attesa, per ben poca cosa.4
Alla Sindrome di Salgari si contrappose l’effetto migrante sano. Le persone che emigrano per un progetto di lavoro scelgono di farlo perché hanno un migliore stato di salute(Spadea et al 2014), che tende a deteriorarsi nel corso del tempo a causa delle condizioni sociali e ambientali (discriminazione, precarietà lavorativa e abitativa), alle quali si aggiungono il disagio psichico e le barriere di accesso ai servizi (effetto migrante esausto). I dati dei ricoveri ospedalieri, infatti, riportano alcune aree critiche che confermano lo schema (elevati tassi di ricovero per traumatismi e disturbi psichici (uomini), per interruzioni volontarie di gravidanza (donne) (Geraci, Baglio 2017). La narrazione sui migranti forzati invece parla di una dimensione di sofferenza, psichica e fisica, provocata da un trauma 4
Testo tratto da Nagazzetta, Sindromi. La testimonianza di un medico volontario del Naga, n. 15, marzo 2010
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prolungato nel tempo, iniziato con le persecuzioni e le violenze nel paese di origine, proseguito nella fuga e continuato nel paese di accoglienza. Lo stato di salute è descritto come compromesso, spesso con segni di violenze e torture sui corpi, le ferite invisibili che causano patologie stress-correlate, oltre a malattie trasmissibili. In questi ultimi anni, in realtà la distinzione tra coloro che scelgono di partire in cerca di condizioni di vita migliori e coloro che sono costretti a fuggire da conflitti e persecuzioni non è più così netta, ma riconduce a una fragilità sociale diffusa. Evidenze dimostrano che l’effetto migrante sano riguarda anche i profughi che sbarcano sulle coste italiane, almeno per quanto riguarda le malattie infettive (Baglio et al. 2017). I dati del sistema di sorveglianza epidemiologica, realizzato dall’Istituto superiore di sanità in collaborazione con le Regioni nei centri accoglienza per immigrati, rimandano a segnalazioni di casi di infestazioni, malattie febbrili respiratorie e malattie esantematiche, con la maggior parte degli allarmi dovuto ad un aumento dei casi registrato al momento dello sbarco in Italia e legato alle difficili condizioni di viaggio (Bella et al 2014, 2016). Ulteriori conferme sono giunte dalle rilevazioni epidemiologiche condotte nell’ambito del piano di intervento sociosanitario messo in atto dall’INMP, ASL RM/A e RM/B in collaborazione con diverse organizzazioni del privato sociale, sui migranti transitanti, che proseguivano il viaggio verso i paesi del nord Europa, dopo lo sbarco in Italia. Infatti sono state riscontrate in maggioranza patologie dermatologiche (soprattutto scabbia, foruncolosi e impetigine), comuni infezioni delle prime vie aeree e sindromi influenzali (Napoli et al 2016, Baglio et al. 2016). La combinazione degli sbarchi e della chiusura delle frontiere dei paesi europei ha creato, in questi anni, una situazione complessa in Italia.
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Tabella 1 Migranti in Italia – anno 20175 Persone sbarcate in Italia
119.369
Maschi Femmine Minori accompagnati Minori non accompagnati
88.911 13.121 1.558 15.779
Richieste protezione
130.119
Maschi Femmine Minori accompagnati Minori non accompagnati
109.066 21.053 6.327 9.782
74,5% 11,0% 1,3% 13,2% 83,82% 16,17%
Domande esaminate Rifugiati Protezione sussidiaria Protezione umanitaria Diniego Altri esiti
81.527 6.827 6.880 20.166 46.992 662
8% 8% 25% 58% 1%
Nigeria Bangladesh Pakistan Gambia Senegal Costa D’Avorio Guinea Mali Ghana Eritrea Altri
25.964 12.731 9.728 9.085 8.680 8.374 7.777 7.757 5.575 4.979 29.469
20,0% 9,8% 7,5% 7,0% 6,7% 6,4% 6,0% 6,0% 4,0% 4,0% 22,6%
Persone ricollocate in altri paesi UE
11.464
MSNA censiti e identificati Maschi Femmine MSNA irreperibili
18.303 17.056 1.247 6.561
5
93.2% 6,8%
Fonte: Dati Ministero dell’Interno, 2017; Elaborazioni ISMU su Dati Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, 2017.
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Clinica del trauma nei rifugiati
Siamo in presenza di una diversificazione dei migranti, caratterizzati soprattutto da provenienze multiple (Tab.1), differenziati a seconda della distribuzione di età e di genere, della condizione socioeconomica, dello status giuridico, spesso caratterizzati da condizioni di vulnerabilità sociale/sanitaria a causa dei limiti del sistema di accoglienza e dei percorsi di autonomia(MSF Italia 2018). Complessità delle migrazioni che i sociologi chiamano superdiversità (super-diversity, Vertovec 2007), una concentrazione di differenze che rischia di accrescere la folla senza nome di chi non accede alla pienezza dei diritti di soggetto e, nella sanità, ostacola l’identificazione di veri e propri gruppi target. Questa complessità ci chiede sempre più di considerare le forme multiple di disuguaglianza, di identificare le loro cause, mostrandoci i limiti organizzativi dei servizi sanitari. Un contesto che ri/chiede un impegno nel rivendicare politiche di contrasto alle disuguaglianze di salute, nel promuovere l’equità nei servizi sanitari, prestando particolare attenzione a una serie di barriere nell’accessibilità/fruibilità. Impegno/attenzione che appaiono tanto più doverosi, visto che “la distinzione tra migrazioni economiche e migrazioni politiche, soprattutto nel discorso pubblico europeo degli ultimi anni, tende ad essere presentata, sempre più spesso, non solo come una definizione giuridica o analitica ma come una distinzione sulla base della quale differenziare i migranti “meritevoli” da quelli “non meritevoli”, quelli da accogliere dai migranti da respingere” (Ciniero 2016); impegno/attenzione che andranno messi in campo perché, al momento dell’uscita del volume, i discorsi pubblici si sono tradotti in politiche precise, nel Decreto “Immigrazione e Sicurezza”, provvedimento che avrà notevoli implicazioni sulla salute dei richiedenti protezione internazionale.
3. Migrazione e salute mentale Maurizio Bacigalupi
La letteratura L’International Pilot Study of Schizophrenia, storico studio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, documentò che, almeno per quanto riguarda la schizofrenia, non vi sono diversità nella distribuzione e nell’incidenza della malattia nel mondo, ma queste caso mai riguardano gli esiti a distanza (Leff et al. 1992). Da questo punto di vista prevalenze di malattie mentale diverse tra le popolazioni autoctone e quelle immigrate dovrebbero essere riferite quindi non tanto a diversità della salute mentale per motivi etnici, ma o alle caratteristiche di chi emigra (in genere la popolazione che cerca fortuna in altri paesi è quella più sana: v. cap. 1 su migrante sano), o ad eventi intercorsi dopo l’arrivo nel nuovo paese. Due sono i quesiti che ci si pone in questi casi; il primo è quale sia lo stato di salute di chi arriva e se questo si discosta sensibilmente dalla condizione sanitaria della popolazione ospitante; il secondo è relativo all’evoluzione nel tempo dello stato di salute. In particolare per quanto riguarda i temi della salute mentale ci si chiede se lo sradicamento dalle proprie origini, etniche e culturali, l’impatto con nuove regole, nuove culture possano essere uno dei determinanti di condizioni psichiatriche diverse tra la popolazione generale e quella immigrata. Per orientarci su questi temi abbiamo utilizzato il motore di ricerca di PubMed selezionando le pubblicazioni che nell’ultimo biennio (giugno 2016-giugno 2018) rispondevano ai criteri di ricerca migrant and mental health. In questo modo sono stati selezionati 120 lavori che in un primo momento sono stati tutti presi in considerazione quantomeno per un’attenta lettura dell’abstract e da cui è stata fatta una selezione che ha finalmente estratto 15 studi.
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Come si evince la nostra non è e non ha nessuna ambizione di essere una review completa sul tema, ma piuttosto un approfondimento aggiornato solo rispettoso di alcuni criteri. Infatti seppure non sia stato utilizzato alcun parametro di grading per selezionare i lavori, non per questo non esistono dei criteri che, seppur soggettivi, ci hanno portato alla nostra scelta. Un primo criterio è stato quello di accogliere gli unici due studi prodotti in Italia per una descrizione scientificamente accurata di quanto avviene nel nostro Paese. Con un secondo criterio si è cercato di avere una buona rappresentazione della realtà europea tenendo conto di elementi di buona qualità (dimensioni dei campioni, accuratezza delle rilevazione e delle analisi dei dati), senza trascurare esperienze di altri continenti (Stati Uniti, Canada, Australia) Infine con un terzo criterio si è cercato di avere una rappresentazione dei diversi modelli di studio del fenomeno: studi di coorte (longitudinali e trasversali), review, analisi da registri di popolazione o di servizio, indagini sullo stato di salute percepito. È stato infine usato un criterio di esclusione: non sono stati presi in considerazione i lavori che si occupavano esclusivamente del Disturbo Da Stress Post-Traumatico. Sembra questa una decisione paradossale in un manuale che si occupa di trauma e di disturbi postraumatici, ma la scelta ha una duplice motivazione: innanzitutto il tema è abbondantemente affrontato in diverse altre parti del presente volume, e secondariamente perché un eccesso di patologia post-traumatica rispetto agli autoctoni è un atteso, in popolazioni che si muovono e scappano per sfuggire situazioni di persecuzione o comunque di pericolo per l’incolumità personale, o per la possibilità di vivere un futuro sicuro. Nostro obiettivo è il tentativo di cercare di capire cosa la letteratura ci dice sulle condizioni di salute mentale delle persone prima della loro migrazione, e come la nuova condizione di immigrato possa essere un determinante sull’incidenza delle malattie mentali di questi nuovi cittadini. Per affrontare questo percorso vogliamo iniziare dai due studi realizzati nel contesto italiano. Il primo è uno studio trasversale basato sui campioni rappresentativi della popolazione residente in Italia selezionati dalle indagini dell’Istituto Centrale di Statistica “Condizioni di salute e ricorso ai servizi sanitari” (Istat 2005 e 2013).
M. Bacigalupi - Migrazione e salute mentale 63
I ricercatori (Petrelli A. et al. 2017) hanno confrontato per i due anni della ricerca 2005 e 2013, attraverso modelli di regressione logistica, i tassi di prevalenza dei punteggi di salute globale disaggregati per i punteggi di salute fisica e salute mentale, ed aggiustati per i fattori di confondimento età, livello di istruzione, stato occupazionale, risorse economiche percepite, indice di massa corporea. La valutazione e l’assegnazione dei punteggi è stato effettuato dall’Istat secondo il modello dello ‘stato di salute percepito’, in cui attraverso un’intervista si raccolgono informazioni direttamente dal soggetto campionato. Questo modello è oramai ampiamente accreditato come una buona affidabile stima del reale stato di salute delle popolazioni, soprattutto per quanto riguarda le prospettive a lungo termine sulle abilità funzionali (Ferraro KF et al.1997). I risultati dello studio ci dicono che nel 2005 gli immigrati avevano una minore probabilità di sperimentare peggiori condizioni di salute fisica percepita, sia nella popolazione maschile che in quella femminile, rispetto agli italiani, e questa differenza era statisticamente significativa. Nel 2013 il vantaggio di salute percepita si riduceva in entrambi i generi, ma restava comunque migliore di quello degli italiani. Si evidenzia quindi un peggioramento nella percezione dello stato di salute nella popolazione residente in Italia, in particolare nella componente riferita alla salute mentale, ma, nonostante questo peggioramento, gli immigrati, in particolare le donne, mostrano una percezione più positiva della propria condizione mentale rispetto alle italiane. Questo studio sembra andare quindi nella direzione della conferma del fenomeno del cosiddetto migrante sano di cui si parla nel capitolo precedente. Il secondo studio prodotto in Italia è stato realizzato dall’equipe dell’Università di Verona, Centro di riferimento per la salute mentale del WHO, utilizzando il loro registro dei casi psichiatrici dove sono identificati tutti gli immigrati e i nativi con un primo contatto psichiatrico tra il 2000 e il 2015 (Cristofalo D. et al. 2018). Sono stati inoltre raccolti durante i dodici mesi successivi al primo contatto l’uso fatto dei servizi sanitari fatto da parte di ogni paziente con un primo contatto nel periodo finestra. Le popolazioni studiate sono considerevoli perché
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Clinica del trauma nei rifugiati
si parla di 2.610 e 28.860 primi casi psichiatrici rispettivamente di immigrati e nativi, e durante il periodo dello studio la popolazione immigrata che richiedeva assistenza psichiatrica è aumentata dal 2,5% al 14%. Durante i 12 mesi successivi al primo contatto la proporzione di pazienti con una singola consultazione non differiva tra i migranti e i nativi che si erano ristabiliti. Tuttavia i migranti erano più spesso alti o altissimi utilizzatori dei servizi psichiatrici rispetto ai nativi, fatto assolutamente evidente in un’analisi di regressione lineare che confrontava le popolazioni più giovani. La definizione di alto utilizzatore veniva espressa attribuendo un punteggio per ogni accesso ad un servizio, ponderato secondo la tipologia della struttura. Anche qui come nello studio precedente si evidenzia che il fenomeno del migrante sano tende ad esaurirsi (cfr. cap. 2), e che i migranti mostrano una più intensa utilizzazione dei servizi, probabilmente legata all’assenza di quei punti di riferimento sociali e familiari di cui i nativi dispongono. Gli studi europei non confermano queste osservazioni tendenzialmente più ottimistiche sullo stato di salute mentale dei migranti. Uno studio longitudinale svedese di coorte (Hollander AC. et al. 2016) ha indagato se e quanto i rifugiati siano ad un più elevato rischio di schizofrenia e di altre psicosi non affettive, rispetto ai migranti non profughi provenienti dagli stessi paesi e la popolazione nativa svedese. Utilizzando il registro dei dati del sistema nazionale svedese sono stati reclutati 1.347.790 nativi, 24.123 rifugiati e 132.663 migranti non-rifugiati. I rifugiati dimostrano in questo studio un tasso grezzo d’incidenza per 100.00 abitanti per la schizofrenia e altre psicosi non affettive quattro volte superiore a quello della popolazione nativa svedese (38,5 versus 126,4), e persino superiore una volta e mezzo a quello dei migranti non rifugiati (80,4 versus 126,4). Gli Autori concludono che i clinici e i gestori del sistema sanitario devono essere consapevoli di questo aumentato rischio, che oltretutto si associa ad altre diseguaglianze fisiche mentali e sociali che già colpiscono queste popolazioni svantaggiate. Questo svedese è uno dei più completi e voluminosi studi prodotti negli ultimi anni, il cui risultato verrà commentato più avanti nella discussione finale.
M. Bacigalupi - Migrazione e salute mentale 65
Confermano i dati della Svezia lo studio canadese di Beiser M. &Hou F. (2017) che, utilizzando il metodo della valutazione self-reported, hanno confrontato, a partire dai rilievi dello studio statistico generale del Canada del 2013, lo stato di salute di 651 rifugiati, 309 immigrati economici e 448 familiari immigrati. I rifugiati sono quelli che hanno dimostrato il tasso più basso di salute mentale positiva rispetto agli altri migranti, con una condizione peggiore per gli uomini rispetto alle donne. Le conclusioni degli Autori sottolineano come incidano consistentemente in questo risultato gli aspetti di discriminazione e di ostilità contro i rifugiati, mentre buoni elementi protettivi risultano il progetto (quando esiste) che ha dato origine alla migrazione, ovviamente assente in chi fugge e chiede asilo, e la presenza di relazioni familiari che accrescano il senso di appartenenza al nuovo contesto. Contraddicono queste evidenze, sempre in Canada, il lavoro di Salami B. et al (2017) che esaminano i dati di tre successivi studi statistici sulle misure di salute della popolazione canadese, che integravano oltre alle valutazioni self-reported l’evidenza di diagnosi di disturbi dell’umore. Gli Autori hanno usato una regressione logistica pesata per valutare in funzione del tempo d’inizio della migrazione l’età, il sesso, il reddito, il senso di appartenenza alla comunità, l’educazione e l’occupazione. Con questo metodo risulta che i migranti con meno di 5 anni di permanenza riportano una autoriferita condizione di salute mentale migliore di quella della popolazione generale, fenomeno che si attenua con il trascorrere del tempo. Lo stesso basso livello numerico di diagnosi di disturbi dell’umore si registra nei migranti di recente arrivo per cui gli Autori categoricamente concludono che “i migranti in Canada non hanno livelli peggiori di salute mentale in generale”; evidentemente opposta allo studio precedente. Due studi nordeuropei ci pongono di fronte alla stessa contraddizione appena osservata. Gli studi sono entrambi derivati da registri dei casi psichiatrici: dell’Olanda uno (Hogerzeil SJ. et al. 2016) e della Finlandia (Markkula N. et al. 2017) l’altro. Lo studio olandese valuta il rapporto d’incidenza relativo della schizofrenia fra tre popolazioni migranti (prima e seconda generazione caraibica, turca e marocchina) e i nativi olandesi nella regione dell’Aia. La va-
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lutazione del fenomeno è stata realizzata sia conteggiando dal registro psichiatrico dei casi i primi contatti, sia seguendo poi ogni primo caso di contatto longitudinalmente. Entrambi i metodi documentano un indice di incidenza più alto per i migranti rispetto ai nativi con valori di Odds Ratio di 1,70 (95% Cl 1,30-2,21) nell’analisi longitudinale e 1,91 (95% Cl 1,15-3,25) nell’analisi dei primi contatti. Così gli Autori concludono che l’incidenza della schizofrenia appare essere di valore doppio nei migranti rispetto ai nativi, anche se la valutazione solo dei primi contatti sembra sopravvalutare il dato. Viceversa lo studio finlandese confrontando da un registro di popolazione una coorte di 184.806 immigrati con 185.184 controlli di nativi finlandesi arriva a conclusioni opposte. L’incidenza di ogni malattia mentale (diagnosi ICD 10) è risultata più bassa negli immigrati, sia maschi (OR 0,76, 95% Cl 0,72-0,81) che femmine (OR 0,76 95% Cl 0,72-0,81), rispetto ai nativi, osservazione che si conferma anche nei disturbi bipolari e depressivi e i disturbi psicotici delle donne, mentre l’incidenza dei disturbi psicotici dei maschi è equiparabile a quella dei maschi finlandesi, ma non più alta. L’incidenza del Disturbo da Stress Post Traumatico viceversa appare nei maschi immigrati con un valore quasi cinque volte superiore a quello dei nativi. Due studi francesi si occupano dei disturbi dell’umore nella popolazione migrante e dei problemi di salute mentale delle donne nel periodo perinatale, con la particolare caratteristica di risalire nell’osservazione sino ai migranti di terza generazione, opportunità possibile in questo paese grazie la lunga storia di rapporti, anche coloniali, che la Francia ha avuto e continua a tenere con i paesi africani in genere e del nord africa in particolare. Pignon B. et al. (2017) nella loro ricerca estraggono dalle interviste di un campione di 38.694 soggetti, effettuate nell’ambito di uno studio sulla salute mentale nella popolazione generale, le informazioni relative ai disturbi dell’umore nelle prime seconde e terze generazioni di migranti. Nella loro analisi la prevalenza lifetime dei disturbi dell’umore è più alta nel migrante rispetto alla popolazione generale, e questo valore è particolarmente significativo per il disturbo depressivo unipolare (OR 1,44 95% Cl 1,34-1,54), ma non per la distimia o il disturbo bipolare, che appare significativamente su-
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periore alla popolazione generale solo per i migranti di terza generazione. I migranti inoltre mostrano una maggiore comorbidità per i disturbi psicotici per l’abuso di cannabinoidi e di alcool, tanto che gli Autori concludono che non solo i disturbi dell’umore sono più comuni tra i migranti, ma soprattutto che si presentano con un profilo di maggiore severità, legato soprattutto alle comorbidità. Nel lavoro sulla salute delle gestanti (El-Koury F. et al. 2018), a partire dall’evidenza che problemi di salute mentale sono comuni durante questo periodo, misurano l’associazione tra cinque categorie di migranti, la regione di provenienza e le condizioni di salute mentale durante la gravidanza e i primi due mesi del puerperio. Le 17.988 donne della coorte sono state divise in cinque categorie: popolazione generale, discendenti con un genitore migrante, discendente con due genitori migranti, migranti naturalizzati e donne migranti non naturalizzate. Da un’analisi logistica multivariata, dopo un aggiustamento per diverse covariabili, è risultato che la condizione di migrante non è associato a difficoltà psicologiche durante la gravidanza. Le discendenti di migranti hanno condizione di salute mentale comparabili a quelle della popolazione generale, mentre le donne migranti non naturalizzate sono più facilmente affetta da depressione (OR 1,66 95% Cl 1,272,20) e da un basso livello di salute autoriferito durante il post partum (OR 1,45 95% Cl 1,06-1,98). Gli Autori concludono che la prima, ma non la seconda generazione sembra avere alti livelli di difficoltà psicologiche durante il post-partum, ed ipotizzano che la presenza di condizioni più stressanti come la scarsa integrazione e l’assenza di un tessuto sociale di sostegno aumentano il rischio di disturbi depressivi post-partum. Questo studio mostra degli aspetti interessanti perché fa riferimento ad un evento fisiologico quale la gravidanza, ma ci fornisce poche notizie, soprattutto per quanto riguarda le donne appena arrivate, su come sia stato vissuto ed accettato il concepimento. La differenza della prevalenza dei disturbi mentali e della disabilità tra la prima e seconda generazione è l’oggetto di uno studio australiano. Liddell BJ et al. (2016) si pongono due quesiti se la prevalenza dei disturbi mentali si modifica tra una generazione e l’altra e se i tassi di prevalenza correlano con la disabilità nei gruppi di im-
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migrati. Per dare una risposta a questi quesiti gli Autori hanno utilizzato l’indagine nazionale australiana sulla salute mentale e il benessere. Come indicatori sono stati utilizzati la prevalenza ad un anno e la prevalenza lifetime di 8.841soggetti con diagnosi di disturbi affettivi, disturbi d’ansia e abuso di sostanze. La coorte è stata analizzata poi disaggregando tra prima generazione (nati fuori dal paese), seconda generazione (entrambi i genitori nati fuori dal paese) e i nativi australiani, inoltre le generazioni migranti sono state ulteriormente disaggregate in base alla provenienza da un paese con o senza un background di lingua inglese. La prima generazione anche quando non proveniente da paesi con background di lingua inglese evidenziava una prevalenza per i disturbi mentali comuni ridotta rispetto a quella della popolazione nativa (OR 0,5 95% 0,38-0,66), fenomeno che non si osserva più nelle seconde generazioni; mentre i livelli generali di disabilità erano uguali tra tutti i gruppi (la significatività si fermava a p >0,05), la disabilità correlata alla salute mentale viceversa risultava estremamente elevata nei migranti di prima generazione provenienti da paesi senza un background anglosassone rispetto a quella dei nativi australiani (p = 0,012). Questa osservazione fa rivedere agli Autori il concetto di “migrante sano” per cui consigliano di rivalutare sempre le misure di salute mentale congiuntamente alla disabilità specifica: solo l’insieme di questi due elementi è in grado di darci una valutazione accurata del livello di problematicità psicologica e psichiatrica di un migrante giunto da poco in un nuovo paese. Tale affermazione risulta ancora più cogente se si considera che lo studio degli Autori australiani era rivolto a disturbi mentali comuni, generalmente meno invalidanti dei disturbi schizofrenici o di altre psicosi non affettive. Nella nostra selezione di articoli abbiamo voluto riservare uno spazio al tema drammatico del suicidio che riguarda generalmente giovani, come le popolazioni migranti per lo più sono. Così due studi sono stati scelti per questo scopo. Il primo è uno studio multicentrico europeo (McMahon EC et al. 2017) che analizza la prevalenza di difficoltà emozionali e comportamentali, l’ideazione suicidaria, e i tentativi di suicidio tra i migranti adolescenti e i loro pari non migranti. La ricerca è stata realizzata a livello europeo con un’indagine svolta in ambito scolastico dove sono stati ascoltati
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11.057 adolescenti, tra cui un 3,6% (386 casi) avevano messo in atto un precedente tentativo di suicidio. Al confronto tra adolescenti migranti di prima generazione e non migranti, i primi presentavano un’alta prevalenza di tentativi di suicidio (OR 2,08 95% Cl 1,32-3,26 se migranti europei OR 1,86 95% Cl 1,06-3,27 se migranti non europei). Più alti livelli di problemi di condotta e di iperattività erano presente nella popolazione migrante non europea. Le conclusioni dello studio non appaiono così chiare in quanto si riferiscono ad una popolazione che, seppur composta da adolescenti migranti, è comunque scolarizzata e forse particolare rispetto ai flussi di migranti che oggi osserviamo. Tanto è vero che nelle loro conclusioni gli Autori si limitano ad osservare la necessità di servizi di salute mentale e di supporti scolastici in grado di affrontare in maniera appropriata i complessi bisogni degli adolescenti migranti. Più selettivo è il lavoro di un gruppo di ricercatori canadesi dell’Università di Toronto che, a partire dall’osservazione che il suicidio è un’importante causa di morte nei pazienti schizofrenici, specula sul rischio di suicidio in schizofrenia anche in relazione alla condizione di migrante, all’etnia e alla provenienza geografica (Hettige NC 2017). In un campione di 276 partecipanti con diagnosi di disturbi dello spettro schizofrenico sono state raccolte informazioni cliniche puntuali sia attraverso un questionario autocompilato sia con interviste, al fine di conoscere l’etnia e la storia suicidaria dei soggetti, la razza fu definita invece in base a test genetici. Con l’uso di un’analisi di regressione si è testato se una storia di migrazione, l’etnia o la razza erano predittivi di un eccesso di tentativi di suicidio. Sebbene dallo studio sia emerso che l’etnia era significativamente associata con il numero di ospedalizzazioni psichiatriche, le ulteriori analisi non confermarono alcuna relazione tra storia suicidaria, migrazione, etnia o razza. In questi casi il determinante più forte sembra essere la malattia mentale piuttosto che la condizione di straniero che vive in un altro paese ed in un’altra realtà culturale. Per concludere il nostro excursus sulla letteratura relativa all’argomento migrazione salute mentale abbiamo infine selezionato le tre review sull’argomento che erano presenti nella nostra selezio-
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ne di 120 pubblicazione, anche con l’obiettivo di cercare di orientarci meglio nella contraddittorietà che ci ha presentato sin qui la lettura di lavori, pur nel loro rigore dal punto di vista scientifico. Tutte e tre i lavori qui proposti sono delle revisioni sistematiche rigorose, sia per l’ampiezza del numero degli studi selezionati, sia per i criteri di inclusione utilizzati. Il primo di questi tre studi è stato realizzato in Croazia (Ilić B. et al. 2017) ed aveva come obiettivo quello di identificare nelle seconde o successive generazioni immigrate fattori socio culturali che predispongono allo sviluppo di malattie mentali. Gli Autori hanno valutato 2.036 record di database dai quali, dopo il processo di selezione hanno estratto 5 studi che sono stati inclusi nell’analisi e da cui hanno tratto le seguenti conclusioni. Tutti gli studi confermano un innalzamento dei tassi di schizofrenia e delle psicosi correlate nei migranti a confronto con le popolazioni autoctone, tuttavia la relazione tra migrazione e disturbi psicotici rimane inspiegata. Finora fattori biologici come l’uso di cannabinoidi o le complicazioni ostetriche non spiegano il rischio di schizofrenia nei migranti, i fattori socioambientali sono attualmente studiati come potenziali fattori in grado di contribuire all’insorgenza dei disturbi psicotici nei migranti, ma al momento non hanno trovato ancora forti evidenze. La review realizzata all’Università di Infermieristica di Cadice (Spagna) si pone obiettivi analoghi a quella precedentemente presentata (Bas-Sarmiento P et al. 2016), vuole cioè determinare se esiste una maggiore incidenza di malattie mentali negli immigrati, descrivere le differenze nosologiche tra immigrati e popolazione nativa ed identificare i fattori di rischio coinvolti nella immigrazione. Degli 817 studi trovati hanno soddisfatto i criteri di inclusione 21: di questi 13 hanno mostrato una maggiore prevalenza di malattia mentale negli immigrati 8 non hanno confermato questa evidenza. Nella scelta che gli Autori fanno di accogliere come più probabile la tesi di una più alta prevalenza dei disturbi mentali nei migranti, pongono però un’importante specificazione: i migranti manifestano problemi di depressione, ansia, e disturbi somatici patologie che sono direttamente correlate con lo stress patito e con i percorsi migratori vissuti, e pertanto richiedono la presenza di risorse competenti di cui i sistemi di assistenza sanitaria si devo-
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no attrezzare, nella medicina di base e nella medicina di comunità. Close C. et al. (2016) infine nel terzo ed ultimo lavoro ci presentano una review di review che vede coinvolti autori di diversi paesi, non solamente europei. Lo studio parte dall’affermazione che i migranti di prima generazione sono a più alto rischio di patologia mentale rispetto alle popolazioni autoctone. Per verificare tale assunto sono stati estratti dai database scientifici 1820 articoli ma solo otto hanno incontrato i criteri d’inclusione. L’analisi sistematico-narrativa di queste otto rassegne ha evidenziato la depressione come la più frequente patologia mentale nei migranti di prima generazione, dato che si conferma anche nei rifugiati/richiedenti asilo quando analizzati separatamente. Se questa è l’evidenza, vi è però una grande variabilità dei tassi di prevalenza nei diversi studi e per le diverse patologie: la depressione raggiunge tassi dal 5% al 44% per i migranti rispetto all’ 8-12% della popolazione generale, il disturbo da stress post traumatico ha prevalenze di 9-36% nei migranti a fronte del 1-2% nella popolazione generale. La prevalenza dell’ansia, che per altro gli Autori affermano essere una patologia meno studiata, ha valori dal 4% al 40% nei migranti a fronte di valori del 5% nella popolazione generale. Due delle rassegne selezionate dagli Autori misurano un rischio di disturbi psicotici che risulta da due a tre volte più grande nei migranti adulti di prima generazione rispetto alla popolazione generale. Viceversa una terza rassegna, sul rischio di schizofrenia, documenta valori simili di prevalenza tra i rifugiati (2%) e la popolazione nativa (3%). Come si vede, in generale, la variabilità dei dati è talmente ampia che non possono non sorgere dubbi sulla qualità delle misure e sul metro utilizzato nei diversi studi. In effetti a conclusione della loro rassegna delle rassegne gli Autori affermano “in questo settore c’è urgente necessità di ricerche di alta qualità così come di specifici strumenti di misura culturalmente validati per accertare lo stato di salute mentale dei migranti”.
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Discussione I lavori che abbiamo qui presentato sembrano con la loro contraddittorietà non facilitare un orientamento certo. Cerchiamo di capire e per quanto possibile meglio definire i punti critici. Il primo è la definizione di migrante: rifugiato, richiedente asilo, migrante economico, migrante irregolare, soggetto dislocato, straniero, sono persone con storie di vita completamente diverse con visioni del futuro a volte antitetiche e con o senza progetti migratori. È chiaro che una popolazione così eterogenea non può rappresentare in un’analisi statistica un denominatore comune, e questo è un primo elemento di confondimento. Una seconda difficoltà è riconoscere dove sono presenti i migranti e come rintracciarli. Molte delle ricerche fanno riferimento alla popolazione residente, ma la maggioranza dei richiedenti asilo e dei rifugiati hanno residenze virtuali, e se non vivono in Centri di accoglienza sono difficilmente rintracciabili; per non parlare degli immigrati irregolari che sono per definizione dei fantasmi. Spesso i migranti vengono confusi con gli stranieri, il che per una città come Roma, ad esempio, vorrebbe dire considerare sullo stesso piano un richiedente asilo che scappa dal proprio paese per una persecuzione personale, insieme con i diplomatici e il personale diplomatico che, presenti in gran numero in città, lasciano il proprio paese per svolgere qui un ruolo di rappresentanza nelle sedi diplomatiche presso lo stato Italiano e quello Vaticano. Sia l’eterogenea definizione di migrante che il suo status e la sua collocazione nel paese di accoglienza rendono conto in quali errori si può incorrere in studi che, utilizzando registri di popolazione, registri di servizio che possono non comprendere molti migranti, o indagini statistiche che hanno come base campionaria i residenti tra i quali i migranti possono non essere censiti. Un altro elemento di confondimento negli studi è dato dall’uso di strumenti di valutazione e di misura che, seppure validati, non sono culturalmente testati per tutti i gruppi, le etnie, le provenienze dei migranti. Altrettanto dicasi per le interviste e le schede autocompilate invalidate dalla barriera linguistica e culturale. Chiunque abbia un minimo di esperienza clinica nel lavoro con i
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migranti sa con quanta cura e pazienza, anche con l’ausilio di un mediatore linguistico culturali, si debbano dare indicazioni ai pazienti su come, quando e quali terapie assumere, e su come sia importante che il paziente dimostri di aver compreso le prescrizioni terapeutiche. Nonostante questo impegno non infrequentemente è possibile constatare che, per non dispiacere il terapeuta, il paziente mostri di comprendere cose di cui in realtà non è completamente consapevole. Questo confondimento che potremmo definire il bias del compiacimento (acquiescence response bias) non è così infrequente, ed è capace di inficiare studi basati sul colloquio e l’intervista, o l’uso di strumenti autocompilati. Un ultimo rilevante elemento di confondimento è negli studi la definizione di caso che, per quanto riguarda gli aspetti clinici, è la definizione di una diagnosi clinica. Tutti gli studi cosiddetti trasversali hanno l’obiettivo di definire in maniera puntuale una condizione clinica: di formulare cioè una diagnosi. Innanzi tutto c’è la questione di definire il sistema categoriale di riferimento, la classificazione internazionale delle malattie (ICD) dell’Organizzazione Mondiale della Sanità o il manuale diagnostico e statistico (DSM) dell’Associazione Psichiatrica Americana o altri sistemi non categoriali, ma dimensionali, e secondariamente capire come e se espressività di disagio e sofferenza espresse con un linguaggio legato alla cultura del paese di origine del paziente non possano trarre in inganno il clinico nel momento in cui tende ad attribuire segni e sintomi ad una diagnosi. Esempi tipici sono il riferimento da parte del paziente a dolori somatici vaghi e migranti a fronte di preoccupazioni ansiose che non vengono espresse, o la descrizione della sofferenza e del dolore come un animale (frequentemente un verme o un serpente) che è entrato nel corpo, o la certezza di essere posseduti da spiriti maligni capaci di influenzare le condizioni di salute, cose che possono far pensare a dimensioni deliranti o la presenza diveri sintomi allucinatori, ma che invece nulla hanno a che vedere con la schizofrenia o le psicosi funzionali. È questo il tema delle misdiagnosi, cioè di diagnosi che in senso stretto sono degli errori diagnostici dovuti ad una semeiotica che mima quella di un’altra patologia, e che induce il clinico in errore: tipico in questo caso è l’attribuzione ad un disturbo psicotico di
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sintomi che sì sono psicotici dal punto di vista semeiologico, ma che in realtà sono riproposizioni di immagini, suoni, profumi, sensazioni tattili allucinatorie, che riattualizzano le esperienze traumatiche dal paziente, all’interno di una dimensione dissociativa che nulla ha a che vedere con una psicosi. Sul tema della misdiagnosi si rimanda infine all’Appendice del Report del Centro SaMiFo (2015), con l’indicazione di riservare un’attenzione particolare, tra gli altri, al paragrafo sulla diagnosi nella pratica clinica psichiatrica. Quanto sin qui detto in questa discussione finale sulla definizione di chi è un migrante, sulla sua rintracciabilità, sulle sue barriere linguistico culturali, sulla sua diagnosi clinica quando malato, ci sembra possa dare sufficiente ragione del perché esiste una così alta variabilità nelle evidenze degli studi presentati, e anche perché una così importante ricerca come quella effettuata in Svezia che ha coinvolto più di 150.000 “migranti” debba tuttavia essere accolta con un’attenta discrezione nei suoi risultati conclusivi. Ci piace infine riservare un’ultima riflessione al ruolo che la medicina di base deve avere nella presa in carico del paziente migrante, anche quando portatore di una malattia mentale. Alcuni degli studi che abbiamo presentato hanno sottolineato questo aspetto segnalando come la medicina delle cure primarie è chiamata ad un ruolo importante, non solo nella capacità di proporre cure per le patologie somatiche di cui un migrante può essere portatore, non solo per l’attenzione alle malattie acute o trasmissibili, ma anche per l’attenzione da riservare all’alta prevalenza nelle popolazioni migranti, nonostante la giovane età, di patologie croniche quali il diabete o l’ipertensione, con non trascurabili ripercussioni sulla fenomenologia psichica. Inoltre la medicina di base deve far crescere sempre di più dentro di sé le competenze per prendersi cura di disturbi psichiatrici comuni come ansia, depressione e disturbi del sonno. In conclusione vorremmo fornire un ultimo apporto per cercare di riordinare la contraddittorietà delle osservazioni scientifiche qui presentate sullo stato di salute mentale dei migranti, aggiungendo alcune considerazioni non sistematiche e come tali non scientificamente basate su prove, ma basate sull’esperienza clinica di diversi anni di lavoro in una struttura sanitaria specificamente dedicata alla cura, non solo psichiatrica, di migranti forzati, rifugia-
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ti e richiedenti asilo. La nostra osservazione conferma che si sta esaurimento il fenomeno del cosiddetto “migrante sano”, sempre più osserviamo prime generazioni di migranti con seri problemi di salute mentale non solo riferibili alle esperienze traumatiche vissute. Sempre più spesso osserviamo patologie psichiatriche con evoluzioni in cronicizzazione e con forti elementi di disabilità secondari alla malattia mentale, dove allo stigma per la malattia si associa il rifiuto dello straniero e del diverso. Di fronte a queste situazioni i servizi territoriali si trovano impreparati non solo per una carenza di risorse, ma anche per una sorta di difficoltà a riconoscere nella lingua dei migranti gli elementi propri della psicopatologia classica che ha costituito il fondamento della nostra cultura clinico professionale. Un’ulteriore considerazione riguarda la consapevolezza, a partire dalle osservazioni che facciamo nel nostro lavoro clinico, dell’importanza del contesto socioambientale in cui i migranti vivono il loro tentativo d’integrazione in un tessuto sociale difficile per motivi oggettivi (le barriere linguistiche, i modelli assistenziali estranei), ma a volte anche ostile. Le condizioni sociali difficili assumono allora la rilevanza di fattori di rischio capaci di porsi come fattori scatenanti, se non determinanti, di una patologia psichiatrica rilevante. L’indeterminatezza legata al lungo processo di riconoscimento del diritto di protezione internazionale ad esempio può in alcuni momenti essere un fattore protettivo perché lascia il tempo alla stabilizzazione del quadro clinico e all’evoluzione del processo terapeutico (quando al paziente ne sia data la possibilità), ma altrimenti può essere l’ineffabile esperienza di un’alienità che predispone pericolosamente verso un’evoluzione psicotica. Per cui se vogliamo risponder ai due quesiti che ci eravamo posti all’inizio del nostro lavoro: a) quale sia lo stato di salute della popolazione migrante a confronto della popolazione ospitante, e b) come questa condizione evolva nel tempo, possiamo dire che sempre più lo stato di salute mentale dei migranti presenta tassi d’infermità simili a quelli della popolazione autoctona, ma che sempre più frequentemente osserviamo evoluzioni in cronicità della patologia mentale ed incontriamo pazienti già con disturbi psichici cronici stabilizzati.
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Tutt’altro discorso è quello che riguarda le patologie post-traumatiche, oggetto del presente libro, e che invece presenta nel gruppo dei migranti da un punto di vista epidemiologico una forte disparità rispetto alla popolazione autoctona, tanto da costituire, come si è accennato, un problema rilevante nelle misdiagnosi (soprattutto per le manifestazioni “psicotiche” o “affettive”), nonché probabilmente il gruppo di patologie più frequenti nella popolazione in arrivo.
4. I pregiudizi del trauma. Fenomenologia dei fenomeni post-traumatici Emilio Vercillo, Maria Guerra
Introduzione Esiste un pregiudizio contro il pregiudizio. Non solo il concetto riceve una connotazione negativa, nel senso di ‘giudizio falso’, ma anche viene in qualche modo costretto in un ambito puramente morale nel linguaggio non tecnico (insieme al suo fratello ‘giudizio’). Eppure, anche gli illuministi, nemici giurati del pregiudizio, devono ammettere con Voltaire che esistono dei préjugés légitimes. In effetti il pregiudizio si costituisce in sé solo come “un giudizio che viene pronunciato prima di un esame completo e definitivo di tutti gli elementi obiettivamente rilevanti” (Gadamer 1960). È questo stesso autore a sottolineare come siano proprio i pregiudizi a definirci come uomini, cioè esseri appartenenti a un contesto storico-sociale da cui mutuiamo valori e credenze: “non tanto i nostri giudizi quanto i nostri pregiudizi costituiscono il nostro essere”. Del valore e ruolo del pregiudizio come motore del metodo scientifico ha trattato per esempio Popper, per il quale dietro ogni giudizio scientifico esiste un pregiudizio, sottoposto alla verificabilità – o falsificabilità, come si esprime l’autore – tramite le prove adeguate. Il valore del pregiudizio, nella accezione di cui sopra, risulta ancora più evidente nel dominio dell’evoluzione biologica. È il campo del bias adattativo, studiato ad esempio dalla Error Management Theory (Haselton & Buss 2003): il cervello si è evoluto privilegiando la capacità di ragionamento focalizzato sull’adattività, piuttosto che sulla veridicità o ‘razionalità’. Vale a dire in questo caso che l’evoluzione ha privilegiato di fronte a una situazione di incertezza l’economicità del processo di decisione, piuttosto che focalizzarsi sul ri-
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durre semplicemente gli errori cognitivi. Se devo acquisire tutte le prove che mi diano la certezza che quelle macchie gialle su sfondo verde percepite dal mio campo visivo siano una tigre, è probabile che finisca bellamente divorato: meglio sbagliarsi per eccesso di cautela, che di precisione. Di fatti secondo Haselton e Buss (2003) i vantaggi di un pregiudizio adattativo sarebbero stati evolutivamente selezionati in casi in cui: 1. La decisione deve avvenire anche se in condizioni di problematico rilevamento del dato (incertezza, non chiarezza, dubbiosità nella situazione in cui operare) 2. Un tipo dato di soluzione al problema è risultato evolutivamente utile nella maggior parte dei casi precedenti nella vita del gruppo (o del singolo; una sottovariante operante nel nostro campo e per il nostro tema è: la soluzione X è risultata utile nella esperienza antecedente del soggetto traumatizzato) 3. Il rischio o le conseguenze di un “falso positivo” (o di un falso negativo) superano abbondantemente quelli della scelta contraria. Non si pensi d’altronde che uscendo fuori dal compito evolutivo della sopravvivenza (il settore che ovviamente è di principale interesse per la psicotraumatologia, visti gli elementi neurofenomenologici in ballo nella sintomatologia traumatico-dissociativa), il ruolo importante del pregiudizio cambi, avviandosi la nostra ragione verso campi pianeggianti e limpidi in cui la verità provata vera venga facilmente riconosciuta come tale. È dell’aprile 2017 il libro di Hugo Mercier e Dan Sperber “The Enigma of Reason”, in cui gli autori con giusti argomenti puntano il dito sul principale obiettivo evolutivo dei primati (e non solo): riuscire, appoggiandosi al sistema cooperativo, a mantenersi in coesione nel gruppo, e manipolare l’ambiente co-specifico a proprio favore. La Ragione, nell’ottica di questa finalità, non è apparsa nella storia della specie come Pensiero critico (basato su provabilità -evidence- chiarezza e precisione), o come mezzo per sciogliere problemi astratti con logico rigore, bensì per risolvere problemi legati allo stare in gruppo, e quindi “giustificare le nostre convinzioni ed azioni di fronte agli altri, convincerli tramite argomentazioni, e valutare le giustificazioni e le argomentazioni che gli altri
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indirizzano a noi” Mercier H., Sperber D. (2017). Una Ragione che nasce quindi dalla retorica, e con propositi manipolativi sociali. Se si accetta questa teoria, la ragione scientifica è un punto di vista evolutivo ovviamente in sé meno vincente evolutivamente, ed è sostanzialmente anti-naturale, come gran parte delle migliori buone produzioni umane. Infatti la ragione scientifica non ha espansione come pratica al di là di gruppi limitati di soggetti umani peculiari e in contesti dati, non è patrimonio dell’intera popolazione della specie, e fa fatica a diffondersi al di fuori dei sottogruppi specifici. Questa deriva del discorso esula ovviamente dal tema di questo lavoro, ma quello che è importante verificare è se quello che nell’ambito della specie si è dimostrato adattativamente vincente, risulti poi nel singolo adeguato comunque alla situazione con cui si confronta. È infatti questo il caso del gruppo di pre-giudizi che marcano la modificazione della lettura del mondo nelle condizioni post-traumatiche. Ribadiamo che usiamo il termine pregiudizio per indicare quello che in altri contesti e autori è stato pensato nelle categorie dei pre-supposti, preconcezioni, ipotesi; forme a priori cioè dell’avvicinarsi al mondo che necessitano di una datità, di una realizzazione per farsi quindi pensiero o atto in un individuo. Le forme a priori della conoscenza, i pregiudizi formali con cui leggiamo la nostra esistenza risultano infatti modificati in maniera sostanziale dall’esperienza traumatica, e influenzano i modi in cui il soggetto affetto da patologia post-traumatica legge la propria esistenza. Esamineremo questa modificazione seguendola secondo vari assi, o temi; vedremo come il vissuto del tempo, dello spazio, del proprio corpo, del concetto di sé, o del mondo – soprattutto il mondo delle relazioni umane – vengano modificati, tanto da rendere l’esistenza del paziente post-traumatico non collimante con la nostra, illustrandola con esempi tratti dalla nostra pratica con i richiedenti asilo. Il testo di cornice per questo articolo è il ricchissimo libro di Frewen e Lanius (2015), che inserisce la fenomenologia clinica post-traumatica nella corrente di ricerca neuroscientifica, e ha il pregio di ordinare i fenomeni clinici in un gradiente per ognuno
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di loro, lungo una scala che a partire da una sintomatologia non dissociativa va fino al versante dissociativo (fig.1); i preconcetti sul Sé possono ad esempio andare da una serie di idee negative su se stessi, fino alla compartimentazione dissociativa della persona in vari Sé più o meno autonomi e separati (il soggetto sente di avere dentro di sé più persone), o il vissuto del tempo andare dall’idea che il tempo personale si sia interrotto al momento del trauma, fino al ripresentarsi ciclico dell’evento come nella complessa sintomatologia allucinatoria dei flashbacks. Useremo pertanto la stessa impostazione per connettere i pregiudizi dell’esperienza dei pazienti post-traumatici dell’uno e dell’altro versante.
Si tratta ovviamente di una disamina delle forme dell’esperienza post-traumatica che precede qualsiasi definizione diagnostica, delle trasformazioni riscontrabili in tutti i soggetti con patologia posttraumatica, di qualunque tipo di patologia si tratti. Uno sguardo fenomenologico insomma, puramente di semeiotica, ma utile per il lavoro successivo di inquadramento, e anche per l’utilizzo di accorgimenti tecnici particolari mirati al tipo di preconcetto nel corso della terapia, indipendentemente dalla strategia terapeutica generale.
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1. Pregiudizi sul tempo (e sullo spazio1) Che la nostra coscienza del tempo sia una cosa separata dal tempo fisico, quello scandito dall’orologio, è una constatazione che da William James a Eugène Minkowski ha ricevuto l’importanza dovuta. Modernamente Tulving (2002) ha coniato il termine chronesthesia per indicare proprio il senso del tempo soggettivo, o tempo vissuto. Di fatto di tutte le forme in cui si cala a stampo il nostro vivere quotidiano, il tempo è forse la più scontata, la più ferrea, il pregiudizio da cui meno si può prescindere per organizzare l’esperienza. Farne a meno, alterare questo stampo in cui si cala la nostra esperienza -sto vivendo adesso, e solo in questo adesso-, infatti dà origine alle storie più perturbanti nella letteratura e nella fantascienza, nelle numerose varianti dei giochi sul tempo; facendo una comparazione con la corrispettiva alterazione della normale forma d’esperienza nello spazio -‘sono qui, e solo qui’- non si generano possibilità narrative altrettanto inquietanti. Se immaginiamo quindi una realtà in cui sia scompaginato il nostro senso, la nostra pre-concezione del tempo, ci rendiamo conto che viene sconvolta tutta la nostra organizzazione della coscienza, e che è impossibile strutturare la nostra esperienza quotidiana. Infatti è questo quello che accade a quei nostri pazienti rifugiati che si trovino davanti -oltreché a tutti i problemi pratici e culturali di adattamento- all’impossibilità di gestire l’esperienza attuale, in questo scombinamento dei piani temporali che vivono. Ma quali sono le caratteristiche principali del nostro sperimentare nel tempo, come si compone il pregiudizio abituale della nostra esperienza nel tempo? Le dimensioni principali del tempo vissuto vengono descritte secondo le caratteristiche di velocità, direzione e continuità del nostro tempo. Il tempo può essere (1) più rapido o lento, secondo il contesto emozionale del momento che viviamo; (2) possiede comunque una direzione, non si ripete, 1
Nel caso dei nostri pazienti richiedenti asilo avviene in effetti che i fenomeni patologici che alterano la percezione e il vissuto del tempo viaggino in contemporanea con la coscienza spaziale, l’allora o l’adesso si muovono in contemporanea al lì o al qua.
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sappiamo che alle spalle c’è un passato che inevitabilmente procede verso un futuro; e (3) questa marcia non viene fatta a balzi, ma è un fluire continuo, veloce o lento che sia. O almeno questo è quanto accade nell’esperienza normale. Il trauma modifica queste dimensioni, nel senso di (1) dilatazione o contrazione del tempo, (2) impressione di rivivere un evento -un tempo bloccato o circolare-, e (3) discontinuità temporale. 1.1 Velocitá: dilatazione o contrazione Si tratta della modificazione più comprensibile. Infatti anche nella nostra esperienza, e in dipendenza dai vissuti emotivi, viviamo il tempo con velocità differenti: un evento sgradevole appare non finire mai, una situazione piacevole vola via in fretta. Un orologio interno regola la velocità del battito che scandisce gli eventi che viviamo, può accelerare –e sentiremo l’evento più lungo, il tempo si rallenta-, o rallentare –e il tempo dura meno, si accelera. Gli studi mostrano che la durata media di quello che definiamo ‘adesso’ è di un paio di secondi (Pöppel 2004, in Frewen & Lanius 2015), ed a questa unità vengono come un quantum riferiti tempi maggiori o minori. Gli stati di hyperarousal o di hypoarousal (che sono una determinante dei sintomi post-traumatici) alterano la frequenza del battito del tempo interno, e con questo accelerano o rallentano il nostro senso del tempo (Gil & Droit-Volet 2012). D’altra parte la psicopatologia del tempo vissuto è stata da molto tempo studiata per le patologie che hanno proprio nella velocità del vissuto e dell’agire il loro nucleo principale: la mania e la depressione vera (o endogena, melancolia). Sono stati 3 giorni ma sono passati 3 anni Ève è una giovane donna congolese, che si trova in mezzo a problemi politici per via di suo marito (un matrimonio forzato): militare, viene usato in qualche azione non pulita dal governo, e poi deve scappare. I militari lo cercano a casa, ma trovano solo E. e il di lei fratello, andato a visitarli. Le violenze fisiche e sessuali sui due iniziano a casa, ma si accentuano nei tre giorni di detenzione di E., prima che un conoscente la aiuti a scappare dall’ospedale dove è finita per quello che le hanno fatto. All’inizio, per i vissuti riportati il terapeuta aveva inteso che la paziente aveva subito una detenzione lunga, oltre che traumatica. Solo in seguito fu chiaro (col rischiararsi delle condizioni
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di coscienza della paziente) che era durata 3 giorni, ma per esplicita dichiarazione di E. ‘erano stati come 3 anni’.
Citiamo il caso di Ève per mostrare che l’esperienza della dilatazione del tempo può estendersi ben al di là del momento stesso in cui si sta vivendo il trauma, visto che questa modificazione temporale è causata lì dallo stato di iperattivazione. Questa alterazione può essere osservata ad esempio anche nella nostra esperienza di un incidente automobilistico, in cui l’evento di durata brevissimo appare scomporsi in molti attimi, andare al rallentatore anche nella memoria, permettendo a volte una reazione adeguata a far fronte a quanto sta accadendo: è probabile che alla base di questo fenomeno esista un fattore evoluzionisticamente favorevole alla sopravvivenza. Va detto però in linea generale che uno dei pochi fattori con valore predittivo sullo sviluppo di un PTSD in seguito a un trauma è proprio il rilevamento di fenomeni dissociativi peritraumatici, tra cui quello menzionato; rispondere in termini positivi agli item riguardanti le alterazioni temporali nel momento del trauma nei test appositi costituisce un indice affidabile di allarme per PTSD futuro. In casi consimili a quello di Ève invece tale alterazione del pregiudizio sul tempo si estende per un periodo ben lungo, costituendo una esperienza facilitatrice di alterazioni della coscienza di tipo dissociativo di lunga durata. Il tempo si è fermato Marie è un’altra giovane donna congolese, che facendo parte dell’etnia di un ex-presidente viene presa nel corso di una manifestazione politica nella capitale, e inviata in un carcere non ufficiale, praticamente un campo di sterminio per tutti quelli che vi entrano. Lì rimane 9 mesi, come scoprirà dopo. Le giornate sono scandite dai quotidiani stupri da parte dei carcerieri (sotto effetto di droghe), e quando M. sanguina troppo per poter essere presa, le viene comminata una dose diaria di percosse. Ogni giorno la porta si apre, e di fronte alle scheletrite ospiti delle celle viene letto il nome di quelle da portare via, e che non torneranno mai. Quello è l’unico momento in cui il tempo si ravviva per l’allarme (‘stavolta sarò io?’), gli altri momenti (violenze incluse) spariscono in una uniformità che li rende indistinguibili e li appiattisce in un tempo senza tempo. Quando in questo spazio di vita sospeso, segnato solo dal pensiero di quando e come finirà la vita, irrompe un evento che la salva -proprio nel momento in cui è avviata alla sua fine- dovrà passare ancora mol-
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to tempo prima che M. possa dire in che giorno dell’anno si trova, e quanto tempo ha passato nel carcere.
L’esperienza di perdita del tempo di Marie è comune nelle situazioni carcerarie o di lunghe prigionie, e il suo scopo ai fini della sopravvivenza risulta chiaro. Si può discutere se si tratta di una alterazione della velocità del tempo, accelerato tanto da scomparire come sequenza di eventi, o piuttosto di un suo fermarsi, del suo cessare di esistere, di essere entrati in uno spazio di atemporalità (‘non succede nulla’...!!) in cui l’unico pensiero è quando tutto finirà, in un modo o in un altro (per M. era ‘quando e come morirò?’); in questo ultimo senso tale concetto del tempo ha diritto di rientrare di più nelle alterazioni della continuità del tempo, nel 3° tipo di alterazioni delineate in precedenza. Di sicuro lo stato di alterazione in questi casi è una permanenza in hypoarousal (diversamente da quello descritto nel paragrafo precedente), una ipoattivazione prolungata che di fatto crea danni più permanenti e cronici. Non è infrequente per noi vedere nel nostro servizio in Italia tale tipo di pazienti rallentate, iporeattive, distaccate, e ‘strane’, che corrisponde al vissuto “il tempo si è fermato” – come sono in grado di descriverlo solo dopo che un lavoro di stabilizzazione ha migliorato lo stato di coscienza. Per quanto sopra scritto, consideriamo solo le esperienze di rallentamento del tempo o di atemporalità come sintomi dissociativi, comportando queste un’alterazione di coscienza persistente e di notevole entità. 1.2 Direzione: tempo circolare o bloccato È il capitolo in cui rientrano i fenomeni di flashbacks o reviviscenza, il fenomeno più vistoso del PTSD, nel sottotipo dissociativo. In questi casi la concezione direzionale del tempo è alterata, non c’è un passato nettamente separato dall’adesso. Si badi bene: non ci si riferisce alle conseguenze sull’adesso del passato, alla sua ombra, ma al fatto che il paziente viva ora il suo passato. Il tempo diviene così un tempo circolare, in cui il passato ritorna immodificato inserendosi nel presente e scalzandolo, o un tempo bloccato, in cui non
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procede innanzi nella mente del soggetto, restando questi impantanato allora e lì. È a questo proposito che è necessario operare una chiara distinzione tra ricordi stressanti e intrusivi da una parte, e flashbacks dall’altra. I primi sono comuni in questi pazienti traumatizzati; di fatto sono comuni anche nella nostra esperienza normale quando affiorano nella nostra mente eventi negativi o perdite, in maniera ripetitiva, ma con la chiara coscienza della loro natura di ricordi, di fatti accaduti in un tempo passato, che non si sta ripresentando nel momento in cui lo rammemoriamo: non esiste quindi un’alterazione della coscienza, un sintomo dissociativo. La costruzione dell’esperienza, per quanto doloroso sia ricordare, non è scalfita, è integra. Di fatto quando in psichiatria parliamo di alterazione di coscienza non ci riferiamo solo a quelle categorie di sintomi che un anestesista o un neurologo normalmente considera (alterazioni di vigilanza e orientamento), ma alla capacità più importante della coscienza: integrare in un insieme coerente l’esperienza. Ricordi di eventi traumatici che intrudono indesiderati nella coscienza, e che causano emozioni intense congrue con il momento del ricordo, con noi stessi situati a noi stessi nel qui ed ora in cui ricordiamo, possono essere spiacevoli, invalidanti e disturbano il procedere della nostra vita, ma non sono flashbacks, non sono sintomi dissociativi. Laddove invece cambia la preconcezione del tempo, ecco che abbiamo davanti un sintomo di valore dissociativo. È importante sottolineare che anche gli incubi notturni tipici in un PTSD non hanno valore di alterazione di coscienza, e non sono equivalenti dei flashbacks, se il soggetto una volta sveglio recupera in un tempo ragionevole le coordinate del qui-ed-ora2. Va comunque annotato che per il DSM flashbacks e incubi notturni vengono considerati equivalenti, a dispetto del pensiero psicopatologico. Sono di nuovo in quel tempo lì Mariama è una ragazza senegalese che ha vissuto un’esperienza traumatica legata a più episodi di violenza sessuale durante il viaggio di fuga dal paese in Italia. M. era stata affidata ad un uomo che avrebbe dovuto aiutarla e proteg2
Diversi sono quegli incubi che innescano un prolungato periodo crepuscolare onirico o oniroide di flashback
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gerla e invece ha abusato di lei. Durante gli incontri era sempre apparsa sofferente, triste, riferiva disturbi del sonno incubi ricorrenti, pianti improvvisi, basso tono dell’umore, pensieri intrusivi. Dopo alcuni mesi di terapia nei quali non erano mai emersi sintomi dissociativi, durante la visita medico legale, quando aveva dovuto denudarsi per mostrare le ferite, improvvisamente è scivolata in un altro tempo, il tempo della violenza. Per circa mezz’ora non era più nel presente, non riconosceva più le persone che da mesi la curavano, era di nuovo in quel tempo lì, stava rivivendo la violenza a volte immobilizzandosi, a tratti piangendo disperata. Solo quando la violenza è terminata in quel tempo lì M è potuta ritornare in questo tempo presente.
L’episodio di flashback è esperienza comune nel lavoro con i richiedenti asilo, e nella forma tipica il soggetto si distacca dal contesto attuale per rivivere letteralmente come un sogno da sveglio quanto gli è accaduto; il contesto che lo circonda viene interpretato all’interno di questa esperienza pseudoallucinatoria complessa, e la responsività agli stimoli reali è a volte soppressa. Non è inutile sottolineare la necessità medica di distinguere tali episodi da crisi epilettiche, e altri stati confusionali acuti per cause organiche o tossiche: spesso esiste un pregiudizio interpretativo del professionista che segue un bias basato sulla popolazione in oggetto, o l’esistenza di storie traumatiche: avere una storia di traumi non esime dal poter avere una malattia medica, o dall’abuso di droghe o alcool che alterino la coscienza. Vivo in due tempi differenti Angèle ha vissuto numerose violenze personali da parte di militari (“quelli che erano lì per proteggerci”), ed ha assistito al massacro della famiglia dello zio ad opera dei ribelli. Mentre aspettava nella sala d’attesa del servizio, nel pomeriggio di visita della ginecologa, osserva delle donne incinte, che le fanno da trigger, essendo la zia incinta quando fu sgozzata dai ribelli. Entrando nello studio il corpo rigido, lo sguardo fisso e le mani che si tormentano, insieme con una reattività ridotta alle domande rendono evidente il suo trovarsi in uno stato di alterazione di coscienza. E in effetti A. (che ha buone capacità personali cognitive) riesce con precisione a descrivermi quello che sta vivendo. Vede e sente me e il mediatore, ma allo stesso tempo vede la scena cui si trovò davanti a casa dello zio tornando dalla chiesa (motivo per cui si salvò): soprattutto il corpo della zia in terra, il colore e l’odore del sangue intorno. Le due scene sono come sovrapposte l’una all’altra, come per piani trasparenti (nel caso di un altro paziente la visione della moglie morta si proiettava alla mia destra, nello spazio di campitura libera del muro). Per tentare di riportarla nel presente le chiedo di far caso a tutte le cose di colore giallo che
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osserva nella stanza e nominarle, ma è in difficoltà: il tavolo, i muri, la poltrona che sono gialli li vede invece bianchi. Le chiedo di che colore sia la giacca che indossa; rimane stupita: sa che è blu, ma la vede nera! La scena del piano dissociativo è quindi a vividi colori, e quella del presente in bianco e nero; solo quando gli elementi del presente hanno potuto acquisire per lei la vividezza del colore è stata capace di rientrare dal tempo passato.
Non bisogna infatti immaginare che il flashback sia ogni volta un totalizzante stato crepuscolare che sottrae al presente, un tempo che ritorna in maniera esclusiva: il paziente può pensare infatti di vivere contemporaneamente nei due tempi. E può essere in qualche modo tanto abituato a questa contemporaneità da non comunicarlo o rivelarlo alle persone intorno. Rapidi cambi nel discorso, apparire improvvisamente distaccato, modificazioni repentine della mimica, irrigidirsi della postura, ripetitività nelle parole o nel discorso, alzarsi d’improvviso per uscire: sono tutti indicatori del fatto che il paziente sta vivendo in più tempi. Mentre guardo l’agenda per fissare il prossimo appuntamento (dopo una seduta in cui l’atmosfera era stata di collaborazione, fiducia, e il paziente aveva manifestato la sua gratitudine per come dopo tanto tempo si sentiva in terapia), Abdul (un africano con una storia di schiavitù dall’infanzia) strabuzza gli occhi con una espressione terrorizzata. Lo chiamo un paio di volte, prima che ritorni, e solo con ritrosia mi dice che al posto del mio viso ha visto quello del bianco responsabile della sua condizione, l’arabo, suo padrone per una vita. Fa freddo, un freddo mortale Yawa è una ragazza Togolese vittima di numerose violenze da parte del suo datore di lavoro e di violenze e torture da parte di coloro che avrebbero dovuto difenderla e tutelarla in seguito alla denuncia da lei fatta alle locali forze dell’ordine. Già durante i primi colloqui era evidente lo stato di grave malessere che non permetteva a Y. di raccontare e raccontarsi. Le crisi dissociative a tipo flashback (a volte totali, a volte parziali –con co-coscienza del presente-) seguivano ogni tentativo di raccogliere informazioni anche relative al qui e ora, crisi dissociative che continuavano fuori dalla stanza di terapia e a volte iniziavano sulle sedie della sala d’aspetto. Durante uno di questi episodi, mentre ricordava i giorni in cui era chiusa in una cella piccola, buia e freddissima Y. ha incominciato a tremare, si è seduta per terra in un angolo rannicchiata: sapeva di essere qui a Roma, all’“hopital”, così definisce il nostro Centro, ma il suo corpo era in quella cella e sentiva lo stesso freddo.
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Consideriamo equivalenti di flashback (in quanto alterazione della coscienza del tempo) anche l’affiorare improvviso di emozioni non congrue con il momento attuale in cui la persona ricorda, o sintomi somatici con lo stesso valore di rivissuto nell’adesso di avvenimenti passati, in quanto si tratta di emersioni parziali nel presente di tali eventi. Il valore psicopatologico dissociativo in questi casi è anche raddoppiato dal fatto che una parte del Sé è nel presente, ma un’altra rivive.3 Per quanto attiene alle preconcezioni del tempo bloccato, esse appartengono (quando non si tratta dei casi esposti in precedenza di atemporalità) al versante non dissociativo della sintomatologia, indicando una credenza di fondo in cui la vita e il tempo del soggetto non hanno modo di procedere per motivi d’umore, affettivi (e non per un pregiudizio causato dall’alterazione della percezione del tempo), a causa del cambio repentino di prospettiva vitale originato dal trauma. Posso solo attendere la morte e quello che verrà dopo Fatima è una donna Oromo, una etnia perseguitata da sempre nell’Etiopia. Vive in Italia abbastanza anni da parlare bene la lingua, e ha vissuto una esperienza marginale e semischiavizzata come badante in una famiglia, fino alla morte della signora che assisteva. Da allora vive senza pretese, con una florida sintomatologia post-traumatica, e i suoi modi infantili di parlare e muoversi, che generano sorpresa per il contrasto a volte con il contenuto dei suoi discorsi. Si è stabilizzata soprattutto mantenendo una distanza da ogni possibile avvicinamento interpersonale, per questo anche l’offerta di terapia le risulta destabilizzante (nonostante le sia stato chiarito che non si parlerà dei suoi traumi) per un motivo relazionale. Ha preferito vivere in uno stabile occupato, piuttosto che nelle situazioni abitative che le sono state offerte in centri o residenze: lì può continuare una esistenza anonima per quanto possibile, ricorrendo alle relazioni per quello che possono esserle utili, ma senza coinvolgersi troppo. In una delle sedute esplicita con chiarezza la sua necessità di non muovere il tempo, e la convinzione senza emozione che niente può cambiare, che la sua vita è “la disgrazia che è”, e l’unica speranza può averla nella decisione di Allah nel dopo vita.
1.3 Continuitá: il tempo scompare Il fluire lento o rapido del tempo forma nella nostra coscienza il senso di una continuità senza fratture, neanche quando la nostra 3
Cfr. anche infra sulle alterazioni del corpo
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distrazione o l’avere la testa altrove ci sottraggono dei periodi: rimaniamo con il senso che a dispetto della nostra poca mindfulness la nostra vita abbia continuato a scorrere da un istante e da un minuto all’altro. Invece nei pazienti dissociativi la linea continua del tempo viene fratturata in corrispondenza di buchi, lacune della giornata (anche della durata di varie giornate), in cui appare che il tempo sia come uno di quei fiumi carsici che scompaiono nel sottosuolo per affiorare più in là. A questa categoria psicopatologica appartengono i Disturbi della Amnesia Dissociativa (e del suo correlato Fuga Dissociativa), ben conosciuti e per questo non esaminati in questa rapida rassegna. Vale la pena ricordare come a volte l’amnesia di un periodo corrisponde alla presenza di un alter dissociativo, e quindi comporti da parte del clinico la necessità di ricercare la presenza di un Disturbo dell’Identità Dissociativo. Nella via della scuola…e poi? Sempre lì… “Vado a scuola …..” “….e poi?” Domando ad una ragazza molto sofferente e che chiede aiuto con la sua presenza puntuale e costante, il corpo dolorante e poche parole “Non lo so….” “Non sai o non ti ricordi?” “Non so ...penso di stare male non ricordo, all’improvviso qualcuno mi urta o mi parla allora vedo che sono lì….. “ “Lì dove ? ...”Nella via della scuola…” “..e quando finisce la scuola?” “ A mezzogiorno…….” “e poi?” “…..non lo so….torno al centro per mangiare, ma a volte è già tutto finito…. Se è finito allora vuol dire che sono le tre….. ma non ricordo, non ricordo dove sono stata tutto quel tempo, non so cosa mi è successo, cosa ho pensato o sentito, quando mi sento nuovamente è sempre molto tardi e io sono ancora lì….,” “lì ….lì dove ?” “…. Nella via della scuola…….”
Ma al di fuori di questi Disturbi codificati, esiste una fenomenologia legata alla perdita della continuità del tempo meno marcata, come un fenomeno discreto nell’esperienza della giornata normale, senza che assurga al livello di diagnosi di un disturbo in sé. Le mie giornate non hanno pomeriggi Alia è una mauritana ex-schiava, con una prevalenza di sintomatologia di ipoattivazione; per aiutarla nel compito di aumentare la sua presenza nel quied-ora, oltre a una serie di esercizi basati sul corpo e le sue sensazioni, proviamo a ricostruire le sue giornate, fuori dal tempo della consulta. Così ci rendiamo conto che nella sua mente solo le mattine esistono, quando va a
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scuola di italiano, o viene qui. Il pomeriggio passa nella sua stanza, ma l’unica cosa che è rimasta nella sua memoria è che piange. Ma non si tratta della narrazione di un pianto puntuale, per dire: ‘quello di ieri pomeriggio’. No, è un piangere semantico, l’idea che piangere è quello che occupa il tempo dei suoi pomeriggi, insieme al ricordo dei figli. Ma anche qui non ricordi puntuali, concreti: ricordi dell’assenza. Pianto e figli sono difatto contenuti mentali con valore di confabulazioni, atti a riempire un buco fatto di un tempo che scompare, ogni pomeriggio.
2. Pregiudizi sul pensiero di Sé e del mondo Su come il trauma trasforma estesamente il modo in cui il soggetto pensa di Sé, e di come la visione del mondo gli si modifica da quel momento, esiste una vasta letteratura, e perciò il tema viene qui solo sommariamente delineato, nell’ottica del pregiudizio oggetto di questo articolo. Ma per comprendere quanto peso possa avere un pregiudizio su di sé nella struttura della patologia, vale la pena di citare un lavoro non più recente di Foa et al (1999). Nella messa a punto dell’inventario Posttraumatic Cognitions Inventory sulle cognizioni capaci di differenziare una popolazione con PTSD da una di controllo normale, gli autori trovarono tre fattori distinguenti, tra varie culture e linguaggi. Il primo riguarda un preconcetto di pericolosità del mondo, il mondo come luogo pericoloso; tale fattore spiegava però solo un 4% di differenza tra le due popolazioni. Ma passando al secondo fattore, l’esistenza nei soggetti con PTSD di cognizioni negative rispetto se stessi, la percentuale di differenza significativa saliva al 50%. Il terzo fattore, importante, riguardava il concetto di sé come colpevole di azioni o omissioni rispetto alla responsabilità in quanto è avvenuto. In conclusione insomma a pesare sulla patologia è in misura molto maggiore la cognizione negativa o la condanna morale del Sé, che il fatto di vedere negativamente il mondo per l’esperienza violenta vissuta. Quello che cambia dopo le esperienze traumatiche è da una parte l’idea (non dissociativa) che si ha di Se stesso, un contenuto del pensiero che influenza grandemente (in quanto pregiudizio) tutti gli ambiti della vita del soggetto; e dall’altra può ingenerare (sul
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versante dissociativo) una modificazione nella stessa percezione di sé, nel senso di sentirsi ‘abitato’ da altre ‘entità’ o voci. Si perde in tal caso l’unitarietà del soggetto pensante e agente, fino ad arrivare ad affermare, nelle parole di una paziente in un momento in cui si percepiva totalmente impotente, “io non esisto, loro decidono”. In questo ultimo caso vediamo ad esempio come un pregiudizio di contenuto del sé (‘sono impotente’) favorisca l’altro pregiudizio di altri sé coabitanti (o forse non-sé, dalla prospettiva del soggetto parlante): sentirsi impotente (o colpevole, o fragile, o rovinato) favorisce l’affiorare e il potere delle parti dissociative. Per comodità – e non solo- possiamo catalogare i preconcetti negativi sul Sé nei capitoli “sono rovinata per sempre, sono una persona sporca”; “io sono una persona impotente, non ho risorse personali”; “sono una persona costantemente in pericolo (nel senso che è connaturato con la mia natura esserlo), sono fragile”; e “sono responsabile, sono colpevole”. “Tu sei sporca” L’esperienza fortemente traumatizzante di Yawa ha determinato oltre alla sintomatologia dissociativa già descritta, un cambiamento dell’immagine di sé che si è tradotto proprio per la natura delle violenze subite in un pregiudizio cognitivo negativo riferito all’essere sporca. “Tu sei sporca” ripetono come un mantra le voci degli aguzzini nella sua testa, “io sono sporca” ripete a se stessa continuamente “e gli altri possono vederlo”. Questo la fa vergognare, rimanere isolata, nascondersi e lavarsi per ore inutilmente, poiché è quello il momento in cui le voci si fanno più forti.
Nel caso di Yawa non è solo il contenuto dei pensieri a rivelare il pregiudizio, ma è in atto una divisione del Sé, tanto più evidente in quanto si consideri che una delle frasi ripetute dalle sue voci è “Non ti chiami più Yawa!” (v. infra Pregiudizi sul Sé pensante e agente). Non posso telefonare alla mia famiglia. Non mi sento più un marito, un padre un uomo che lavora. Non sono più nulla Laminè un uomo di 45 anni, con una diagnosi di PTSD. In Gambia aveva un buon lavoro, viveva insieme alla moglie e al figlio in una famiglia caratterizzata da forti legami affettivi e improntata secondo i valori del lavoro, della responsabilità e dell’onestà, valori che aveva fatto propri e che erano costitutivi della sua identità. Gli eventi che lo hanno portato a fuggire hanno
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fatto irruzione violentemente nella sua esistenza, lasciandolo immobile. L’immagine del fratello in carcere insieme a lui alla cui morte ha assistito impotente ritorna continuamente nei sogni e nei flashback. Il viaggio verso l’Italia, l’avere vissuto per molto tempo per strada lo hanno più che spaventato, umiliato. Riferisce che dell’uomo di prima rimangono solo il sorriso e la gentilezza, tanto cari a sua madre, il resto non c’è più. Non si sente più padrone delle sue azioni, non riesce a telefonare alla moglie o a sentire il figlio poiché non si sente più né marito né padre: è diventato un uomo impotente e incapace, è diventato nulla.
È importante clinicamente aver presente che il preconcetto che trasforma il soggetto in una persona impotente e incapace avviene al di fuori di un quadro sintomatologico depressivo, che lo giustificherebbe senza ricorrere a diagnosi di patologia post-traumatica. È frequente peraltro in questi pazienti un errore diagnostico di prospettiva, l’estrapolare da questa idea di sé l’esistenza di una ‘depressione’, non supportata da aspetti clinici più essenziali alla sindrome. Il tempo della depressione è di fatto in genere un tempo successivo rispetto alla patologia post-traumatica, diventa possibile quando la mente è in grado di differenziare maggiormente dal presente il passato con le sue perdite. Non posso respirare Per Xia, una cinese aderente a una setta perseguitata nella Repubblica Cinese, è incomprensibile sentirsi anormale come si sente ora. Arriva sempre come ripiegata su se stessa, e così rimane seduta, con le mani strette sulla borsa che porta sulle gambe; parla basso, gli occhi non guardano se non raramente, tesa e rigida. Era diversa prima, lavorava con la famiglia in una attività commerciale, e non ha mai provato il terrore che ora la accompagna sempre. Non ha subito direttamente nessuna violenza, ma per un anno ha dovuto nascondersi e scappare di luogo in luogo. Gli eventi più rilevanti sono l’arrivo al negozio di famiglia della polizia che la cerca, le minacce anche ai familiari (lei non era presente, il padre glielo ha raccontato all’inizio della sua fuga), e l’assistere all’irruzione della polizia nella casa di riunione della setta, sentire i suoni delle percosse, vedere uscire sanguinanti e ammanettate le sue correligionarie. Qui in Italia non riesce a pensarsi come una persona sicura, anche se si ripete che l’Italia è una ‘repubblica democratica’. Nella fase pre-elaborativa di una seduta EMDR è questa l’idea negativa che ha di sé, “sono una persona in pericolo”, diversa da quella persona “tranquilla” che vorrebbe essere, e che fa fatica a pensare dopo la mia richiesta. Ma non è possibile l’elaborazione: si contrae al ricordo ancor più, e si paralizza: non può muoversi, e non può respirare. “Mi sento anormale nel non poter respirare
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normalmente”, dice quando riesce a parlare. Una leggera stimolazione bilaterale sulle spalle operata dalla mediatrice donna, e la paziente riesce a ricordare quando, chiusa in uno sgabuzzino oscuro nel sottosuolo –durante la sua fuga-, al sentire sopra del rumore non solo si immobilizzava, ma ha imparato a respirare in una maniera ‘anormale’, perché non potessero sentirla.
Per Xia, come per molti dei pazienti con sintomatologia posttraumatica, è difficile superare questo pregiudizio su di sé fintanto che si trova nella condizione instabile del richiedente asilo, prima del giudizio, o come nel suo caso difronte a un diniego e in attesa del ricorso. Come risulta evidente, ogni pensiero su di sé come “io sono una persona in pericolo” si accompagna a un complementare pensiero sul mondo -per lo meno umano- come esclusiva fonte di pericolo, di cui sospettare; e questo a dispetto di ogni evidenza presente contraria, almeno per la parte dissociata del paziente che vive nel terrore del trauma. Sono irreversibilmente colpevole Dai racconti di Sayd riguardanti la sua storia familiare e personale appare chiaro come il senso di responsabilità nei confronti della famiglia che manteneva attraverso un lavoro di commerciante che “tutti apprezzavano e invidiavano”, fosse un elemento fondante della sua identità di capofamiglia e di primogenito. Questo essere responsabile, unico punto di riferimento lo faceva sentire utile, amato, necessario, un uomo che poteva andare a testa alta, senza vergogna. Oggi non può dormire, poiché durante il sonno il padre, ammalatosi gravemente dopo la sua fuga, lo guarda in silenzio. Sayd non riesce a raccontare i dettagli della sua storia, che viene interrotta da assenze ed episodi dissociativi ogni qualvolta il ricordo di quello che era ed ora non è più a causa sua lo pervade. Quanto prima si sentiva responsabile, tanto adesso si sente colpevole, e questo sentirsi colora di colpa ogni sua azione: anche arrivare con dieci minuti di ritardo alle sedute di psicoterapia gli appare una riprova della sua colpa.
La colpa ha un termine necessario nell’altro verso cui sentirsi colpevole, per essere davvero colpa: è un affetto squisitamente relazionale, e nella sua base si rapporta con il sistema motivazionale dell’accudimento, del prendersi cura. Per questo (al di là del caso riportato, in cui si mescola con la vergogna (aver agito male, aver provocato un rimprovero), nei nostri pazienti è soprattutto presente nei vissuti di madri che scappando hanno lasciato i loro figli nel
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paese di origine, e magari non possono averne notizia. Questi vissuti non sono in sè sintomi post-traumatici, e consideriamo invece interno alla costellazione sintomatologica post-traumatica il concetto di colpa solo se relativo proprio all’evento traumatico (“sono colpevole di quanto è successo, in un modo o un altro”), qualora accompagnato dagli altri elementi diagnostici. 2.1 Potevo essere io. Non sono né vivo né morto. La colpa del sopravvissuto. Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? Ed in specie, di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere: ti esamini, passi in rassegna i tuoi ricordi […]. È una supposizione, ma rode; si è annidata, profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride. […] Potrei essere vivo al posto di un altro, a spese di un altro; potrei aver soppiantato, cioè di fatto ucciso… Primo Levi “I sommersi e i salvati”
Dal secondo dopoguerra ad oggi molto si è scritto intorno alla colpa del sopravvissuto, a partire dall’esperienza di chi si è salvato dai campi di concentramento nazisti. Un altro nome per il fenomeno è infatti KZ syndrome, sindrome dei campi di concentramento (tedesco Konzentrationslager). Da allora è stata descritta in molti soggetti scampati a disastri naturali o terroristici, veterani di guerra, etc. Se alcune sue radici possono essere rintracciate nella colpa per omissione, per azioni specifiche o in una colpa ontologica (Ascoli 2005), il nucleo centrale si trova nella colpa (in effetti Primo Levi parla spesso e più propriamente di vergogna) per essere vivi laddove altri sono morti, per il privilegio o la sorte favorevole che è toccata loro; indipendentemente cioè da qualsiasi relazione di responsabilità tra la sorte dell’altro e la propria, senza neppure aver desiderato o pensato la morte dell’altro. Se di fatto definiamo la colpa come “il dispiacere provato per aver compromesso il perseguimento di uno scopo a un soggetto X, per essere stati causa di un suo disagio o malessere” (Castelfranchi, D’Amico, Poggi, 1994), è evidente l’improprietà o la particolarità della colpa del sopravvissuto. Dopo l’inizio della stagione terroristica in occidente inaugurata con l’episodio delle Torri gemelle, numerosi sono stati i reports e le riflessioni su que-
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sto fenomeno, confermato così nelle coscienze occidentali, al di là dell’esperienza dei campi nazisti. È ovviamente fuori dal campo di questo lavoro la disanima delle differenze proprie tra la colpa (intesa biologicamente come l’emozione connessa al fallimento del sistema di accudimento, del prendersi cura), dalla vergogna. Si dirà solo molto brevemente che questa si origina insieme all’umiliazione in chi perde la sfida in caso di formazione di gerarchie nel gruppo, e viene poi trasformata in una dinamica interna tra sottosistemi intrapsichici (cfr. ad es. il Superego freudiano): una emozione ben diversa (nella sua forma pura) dalla colpa, in quanto nata in un contesto di competizione, regole, relazione dominante-sottomesso, dinamiche giusto-sbagliato, valerenon valere, o maggiore-minore nell’ambito del giudizio (Gilbert 1992). Nel concreto caso clinico colpa e vergogna si mescolano, dando origine a emozioni con differenti vissuti. Quello che ci ha colpito nel nostro lavoro è stato non ritrovare nella popolazione che abbiamo trattato la presenza della colpa del sopravvissuto, nonostante il bias positivo che avevamo. Abbiamo trovato sentimenti di colpa per omissione, o per azioni specifiche: “sono una persona colpevole, perché ho fatto o non ho fatto questo”; spesso colpa -questa volta in senso proprio, non vergogna- è quella che acutamente soffrono le donne i cui figli sono rimasti nei paesi di origine. Ma non colpa o vergogna per essere vivi. Le ipotesi che formuliamo, senza per ora aver potuto verificarle in maniera più che osservazionale, sono due. La prima prosegue nella scia degli studi antropologici che a partire dalla Mead e dalla Benedict distinguono tra le società della colpa e le società della vergogna: è possibile che la colpa del sopravvissuto sia una elaborazione che avviene principalmente in ambito giudaico-cristiano, e quindi occidentale (in cui riecheggia ancora il dubbio e la perplessità di Giobbe), ma non sia estendibile al mondo africano o asiatico che costituisce il nostro campione. La seconda è che il fatto che osserviamo solo un periodo precoce della storia post-traumatica -si tratta di persone al momento della richiesta di asilo, all’interno di un periodo di un paio d’anni dall’arrivo in Europa, in genere- può farci mancare uno sviluppo sintomatologico che avvenga in fasi successive della storia naturale del trauma.
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Come che sia, la domanda centrale nella colpa del sopravvissuto -“perché a me e non a lui/loro?”-, viene formulata differentemente nei nostri pazienti, senza il fondamentale apporto di una elaborazione successiva indicata già dalla preposizione ‘perché’ nella domanda, formulazione differente che sottende forse un processo più profondo, un pregiudizio basilare che emerge dall’esperienza della morte a lato, prima di venire elaborato in ‘colpa’ in culture come quelle occidentali, con un ‘perché’ già nella domanda. Potevo essere io Bouba aveva nove anni quando gli arabi irruppero nella casa di famiglia, una famiglia di etnia senegalese in Mauritania, e massacrarono suo padre e sua madre. Lui era scappato sotto il letto, lo tirarono fuori e stavano per uccidere anche lui. La scena in cui il machete che stava per colpirlo si ferma alle parole di un altro, “No, lui no”, ricorre come scena traumatica nei suoi flashbacks anche ora che si avvicina ai 40. Da allora visse come schiavo in una famiglia, finché non riuscì a fuggire in Marocco. L’immagine dei suoi 9 anni si alterna nel presente con quella in cui il suo amico fraterno (il primo amico che avesse avuto, dato che nei decenni da schiavo non era possibile averne), un altro schiavo fuggito con cui aveva condiviso le traversie dei due anni in Marocco, non sopravvisse alla malattia, dopo che la polizia marocchina li abbandonò nel deserto. Gli altri faticarono un’ora o più a convincere Bouba a staccarsi dal luogo dove frettolosamente era stato seppellito. “Potevo essere io… Potevo essere io…” è l’espressione che accompagna questi ricordi durante la loro elaborazione in EMDR, il concetto che connette i due ricordi. La patologia post-traumatica di Bouba è strettamente connessa a questo pregiudizio, ed è caratterizzata da prevalenza di alterazioni di coscienza, continui flashbacks in cui ritorna sempre a quei 2 eventi, una passività e inattività nella sua vita quotidiana. Per questo motivo, e per cercare di capirne la natura, esploriamo con Bouba di cosa è fatto “potevo essere io”, scoprendo che non c’è colpa, senso di vergogna o responsabilità qualunque nel suo essere sopravvissuto. C’è piuttosto il senso di essere morto in quelle occasioni, con le persone care rimaste lì, o per dirla con lui “sono vivo, ma sono anche morto lì”.
Ci è sembrato che questo forse è il preconcetto, il vissuto alla base di quella sintomatologia dolorosa di mancanza di vitalità che ha fatto confondere in alcuni clinici il residuo del trauma con la depressione: “non sono né vivo né morto”, con tutte le conseguenze sul piano della impossibilità a vivere completamente nella vita dopo il trauma, se parzialmente si è morti.
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3. Pregiudizi sul Sé pensante e agente Le manifestazioni dissociative più evidenti e bizzarre sono quelle in cui è proprio l’Io del paziente ad essere frammentato, e vissuto dalla persona come composto da più ‘soggetti’, o ‘abitato’ da altre ‘persone’. Differente è il caso in cui l’alternarsi di più ‘personalità’ in momenti della giornata del paziente lascia nella sua coscienza solo il buco della amnesia, ma non il senso di una frammentazione al suo interno. Nella nostra esperienza con vittime di tortura e violenze nella popolazione di richiedenti asilo sono infrequenti i casi di alternanza di personalità in assenza di coscienza (quelli per cui un alter ignora quanto fatto dall’altro), ma il presentarsi in momenti successivi di stati della mente distinti e diversamente caratterizzato non è raro. Il soggetto può riconoscere ‘non sono più io’, o ‘non ero io in quella occasione’, vivendo questa constatazione con un corteo emotivo fatto di perplessità, vergogna, o tutti gli affetti congrui con la relazione che una parte del Sé intavola con le altre. Il sintomo più frequente delle alterazioni del Sé è la presenza delle ‘voci’, e si riscontra non solamente nei casi con diagnosi di Disturbo Dissociativo, ma anche in casi di PTSD. Le voci non si presentano solo negli stati crepuscolari onirici e nei flashbacks (in cui i fenomeni allucinatori sono all’interno della definizione stessa), ma sono presenti in pazienti in stato di coscienza non alterato in quanto al parametro della lucidità e della ‘presenza’. Non ci dilungheremo qui sul dibattito riguardo la separazione tra allucinazioni vere e pseudo-allucinazioni, e neanche sulle differenze tra allucinazioni psicotiche e allucinazioni dissociative. Sommariamente affermiamo che le allucinazioni dissociative sono fenomeni clinicamente distinti da quelle presenti nella schizofrenia (contrariamente alla posizione odiernamente sostenuta da alcuni autori – es. Moskowitz et al. 2017) non tanto per le caratteristiche percettive o formali delle stesse, quanto per come si inseriscono strutturalmente nel vissuto, e perché le voci rappresentano per i soggetti persone distinte, con caratteristiche distinte, carattere distinto, finalità distinte, filosofie distinte, funzioni e maniere distinte: sono insomma ‘parti’ o ‘personalità’ che il soggetto riconosce come tali, e con
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cui si relaziona (o più spesso cerca di non relazionarsi) (van der Hart et al. 2006, González Vázquez 2010). Caratteristiche che sono ben diverse nella loro fenomenologia dalla disorganizzazione degli schizofrenici, che si pongono anche in maniera totalmente differente rispetto alle loro voci; quelle dissociative sono infatti delle ‘pseudo-allucinazioni’, sia per il loro frequente presentarsi in un campo interno (Jaspers 1946), quanto soprattutto per il fatto che i pazienti sanno della loro natura patologica, e infatti spesso le nascondono. Qui ci interessano per una credenza che ne deriva, quella per cui il soggetto pensa che le voci nella testa corrispondenti alle persone della loro esperienza passata, siano proprio le stesse persone in carne ed ossa che vivono sulla terra. Mi cercano anche qui. Non mi libererò mai di loro Ouria ha iniziato a sentire solo arrivata in Italia la voce dell’uomo bianco (arabo) che la prese dai genitori ai suoi 12 anni, per trasformarla in una schiava di piacere; sentire questa voce la terrorizza. Me ne accorgo per il suo distrarsi durante un colloquio, e con una certa ritrosia me ne parla. Dopo qualche incontro decido di esplorare il suo sistema interno, e le disegno un cerchio, che rappresenta lei, e al suo interno pongo C, la voce che sente (Fig. 2). Le chiedo che altro ci sia, e lei disegna i cinque segni nella parte superiore della figura, spiegandomi che sono marito e moglie con i tre figli: la famiglia di cui è proprietà, di tutti sente le voci. E chi altri? domando. Fanno seguito tutta la serie di punti a sinistra, ma con furia marca un punto nero, una macchia, spiegandomi che è il più cattivo di tutti, quello che le ha fatto le cose peggiori, un cugino del padrone: quando le parla la sua voce… fa una smorfia di terrore, ha iniziato a sentirla proprio ora. Ouria fa fatica a pensare che le sue voci non siano proprio le persone fisiche del suo passato lì in Africa, e per questo disegno a lato, fuori dal circoloOuria i membri della famiglia del padrone, quelli in carne ed ossa, in Africa. Mi guarda perplessa, incredula. Le chiedo se secondo lei quelle persone invecchiano, se soffrono malattie, e se un giorno possono morire. Alla risposta positiva le richiedo se lo stesso accade alle sue voci, e lì si rischiara: ma certo!, le parlano ancora con la stessa voce di quando le hanno fatto le violenze, non sono invecchiati, non sono loro dunque, quelli veri. Le volte dopo le domando delle voci: fa un gesto con le spalle ad indicare che è cosa senza importanza, e spiega che da quando ha scoperto che non sono loro le lascia parlare, e stanno via via scomparendo.
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Vale la pena di sottolineare che questa facilità di scioglimento del sintomo dipende dal fatto che la paziente è persona con una vitalità che resta non rovinata dalla sua storia, una capacità di impegnarsi sul presente notevole, e senza che la congerie di sintomi post-traumatici riesca ad intaccare in lei le capacità di presentificazione (diversamente da altre pazienti in cui il deficit di presentificazione e realizzazione alimenta il combattimento con le presenze al loro interno per un tempo ben più lungo). Non posso guardare la bambina Il sistema delle parti di Angèle (già conosciuta sopra) ci permette di capire la specificità di funzioni in cui si divide il soggetto che sente le voci dei persecutori. FIG.3 Angèle sente al suo interno tre tipi di voci, o meglio presenze, perché la parte Angèle bambina non parla, solo sente il terrore e causa le reazioni di paralisi ogni volta che la paziente incontra qualche stimolo che scatena una paura: nel centro dove sta è sufficiente che le nigeriane litighino animatamente tra loro –come è nel loro stile- perché Angèle si paralizzi tremando, con le mani sulle orecchie. Nel circolo che rappresenta lei, la bambina è F –faible, debole- perché è la parte di Angèle che conserva le emozioni di terrore e impotenza. V ed L sono le voci dei persecutori; ma sono differenziate innanzitutto come funzione. V sono le voci dei militari che l’hanno sequestrata e torturata ai suoi 20 anni, e compaiono sulla scena ogni volta che lei si sente contenta, o cerca di avere una vita normale (quando si sente ‘normale’, ad esempio conversando con un uomo). L sono le voci dei militari che la violentarono quando aveva 12 anni, e soprattutto intervengono contro F, la bambina, non tollerando la debolezza e l’impotenza di questa, il suo piangere e non reagire. La bambina sta normalmente in un angolo, ignorata da lungo tempo dalla paziente. Il lavoro terapeutico, seguendo quanto nelle terapie del trauma si fa per diminuire quella che viene definita ‘fobia delle parti’, ha permesso che 1. progressivamente Angèle potesse riconoscere L e V
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come parti proprie (e non delle presenze reali dei persecutori, per difetto di realizzazione); 2. riconoscesse il ruolo protettivo che queste parti cercano di avere nei confronti del sistema, sia pure con gli unici modi della ‘forza’ che conoscono, quelli appresi dalle esperienze traumatiche con i persecutori. (cfr capitolo 6)
Come riconosciuto dalla clinica ormai secolare del trauma, le parti interne aggressive identificate con il persecutore, sono le depositarie della capacità difensiva e aggressiva del paziente, e per questo sorgono; odiano la debolezza del paziente, spesso agiscono contro di questi nel pregiudizio che non si tratti della stessa persona. È quindi fondamentale per la terapia riuscire a superare il reciproco rigetto ed odio tra le parti, comprendendo il ruolo positivo e il contributo necessario proprio di queste parti aggressive identificate con il violentatore.
Si riesce con Angèle a superare la fobia verso V e L, le parti ostili, ma il punto difficile della terapia è la sua relazione con F, la bambina. Quando provo ad avvicinare la paziente a questa, non riesce a guardarla: “se la guardo mi sento malissimo, non ce la faccio”. Solo a questo punto della terapia, accompagnato da un vivo senso di vergogna, emerge un episodio precedente, una violenza sessuale a 7 anni da parte di un familiare, ma di cui la paziente ancora non vuole parlare. È lì che la parte bambina si è formata, ha di fatto 7 anni, e da allora è stata relegata nel suo angolo, perché la paziente potesse so-
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pravvivere. “Penso che non ho potuto essere più bambina da allora”. Non può guardarla, non può parlarle, ma può sentire come si sente, se è agitata e terrorizzata (quel terrore e paralisi che la invade tutta nei momenti di crisi), o se è tranquilla e sola nel suo angolo. Nel momento in cui scrivo, la narrazione di cosa è successo allora è lontano da venire, ed ha in questa fase poca importanza; importante è conoscere quali sono state le conseguenze nella vita di Angèle, come è cambiato il suo vedersi e sentirsi: quali sono i pregiudizi che si sono formati da allora nel suo stare al mondo.
Purtroppo, fuori dall’ambito professionale della psicotraumatologia, esiste tutta una corrente, interessata soprattutto alle vittime di tortura, che pratica come terapia un duello con le voci del persecutore attraverso il paziente, rinforzando presso il paziente l’identificazione di quelle con il torturatore, e aumentando così quella fobia delle parti che costituisce proprio una delle resistenze più potenti al percorso di guarigione della persona (es. recente articolo di Camilli 2017 su Internazionale, o in generale le idee di Françoise Sironi, 1999; verranno discusse nel cap. 6). In questa ottica la terapia della tortura comporta entrare in battaglia con il persecutore, insistendo dal primo momento sul paziente, perché identifichi le intenzioni del torturatore, affinché sviluppi una reazione di rabbia (supposta curativa) contro di questi. Eticamente ci sembra pratica in sé non rispettosa per il paziente (scavalcato nel suo malessere per concentrarsi sull’avversario), e clinicamente ci sembra potenzialmente dannosa (rinforza nel paziente la credenza che la voce nella testa sia il soggetto in carne ed ossa, acuisce il suo rigetto verso una parte di sé, e conseguentemente la dissociazione); inoltre sembra ignorare più di un secolo di letteratura scientifica sul trauma psicologico, e mancare così la comprensione della psicopatologia degli effetti della tortura come fenomeni post-traumatici. Evidentemente in queste visioni prevale la dimensione politica di intervento su quella clinico-scientifica, cosa in sé comprensibile nelle giustificazioni ed intenti, ma che finisce per mancare il bersaglio da un punto di vista conoscitivo e pratico terapeutico.
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4. Pregiudizi sul corpo Il nostro corpo è il luogo privilegiato in cui ci riconosciamo come un Io, ed è indice di sanità mentale il viversi questo corpo come “Io”, molto più di “questo corpo è mio” (pregiudizio in cui si sta trasformando il vissuto nella società post-moderna: un corpo di cui posso disporre e che posso cambiare). Il senso di appartenenza a questo corpo, chiamata ownership, e il senso di agency – che sono Io ad agire in questo corpo sono i presupposti normali di fondo in cui caliamo la nostra esperienza normale in stato di veglia, basata su una idea di essere incarnati – la letteratura parla infatti di embodiment per questo pregiudizio della coscienza in stato di normalità. Ma è proprio il corpo il bersaglio principale delle violenze e dei traumi, e i preconcetti che ne derivano sono molti, psicopatologicamente di differente valore, e tra i più invalidanti. Sorgono nel momento dell’evento traumatico, o si instaurano successivamente, per cui li vediamo nell’immediato post-traumatico, oppure anche in forme croniche. Anzi, è proprio “il corpo ad accusare il colpo” (Van der Kolk 2014), e a conservarlo; per questo motivo oggidì non si concepisce terapia per il trauma che non consideri interventi somatici, in una delle tre fasi in cui si dipana per consenso comune il trattamento post-traumatico. Accenneremo solo brevemente in questo lavoro alle modificazioni sul corpo indotte dalla violenza. Come nel caso degli altri capitoli, i sintomi del corpo si svolgono secondo un continuum che va da un estremo non-dissociativo fino a uno dissociativo, costituito in questo caso dai due sottocapitoli della depersonalizzazione e della dissociazione somatoforme, o conversione. In generale in seguito al trauma il corpo va soggetto a una trasformazione negativa, che produce una serie di esperienze negative sentite proprio sul corpo. Innanzitutto non c’è paziente rifugiato che non abbia una polarizzazione dell’attenzione sui segnali che dal corpo provengono, innescando una cascata di richieste di visite ed esami medici, condotte facilmente dismesse sotto il termine di ipocondria. Ai fini propriamente psicopatologici è conveniente fare chiarezza tassonomica nel versante non-dissociativo dei pregiu-
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dizi sul corpo. Questo vuol dire in primo luogo sgombrare il campo da tutte quelle patologie effettivamente indotte dalla disregolazione neuroendocrina causata dal trauma: si è osservato largamente nella letteratura che una serie di patologie come ipertensione essenziale, o forme diabetiche, hanno più probabilità di instaurarsi come conseguenza medica del trauma, e probabilmente il loro elenco è ancor più vasto. Il che non ne fa ovviamente patologie psichiche o ‘psicosomatiche’. Il mio corpo è un luogo di pericolo È il vissuto comune a tutti gli stati di hyperarousal, le iperattivazioni parossistiche che hanno un corrispettivo mentale nello stato di allarme. I sintomi del sistema simpatico come la frequenza cardiaca in corsa, il respiro affannoso, i tremori agli arti o tutto il corpo squassato dalle scosse, la sudorazione profusa, le mani e i piedi freddi, le parestesie, vertigini, nausea, ronzio, brividi, tensione, esaurimento, pesantezza, tutto ciò viene vissuto nell’ottica di un corpo pericoloso, che per conservare in sé iscritta l’esperienza passata diviene nell’adesso un luogo temuto, una fonte in sé di pericolo attuale che si trasforma in richiesta di difesa medica dalle sue minacce. Il ‘mal di testa’ è lamentela costante e universale nella nostra popolazione di pazienti, e va letta, va interpretata da un punto di vista medico e psicopatologico, per evitare facili dismissioni del problema, con larga distribuzione di antidolorifici (peraltro utili). I sintomi somatici dolorosi (qualora non giustificati da noxae fisiche…), ben al di là della categoria grossolana di Disturbo Somatoforme dei DSM, possono avere un valore aspecifico di una sindrome di attivazione, un valore di scambio (posso richiedere aiuto e riceverlo per quello che non ho ricevuto), riflettere il pregiudizio traumatico il mio corpo è fragile, ma anche essere semplicemente una memoria somatica, un ritorno del tempo parziale, solo nel corpo. Bilal è un uomo pakistano con costanti mal di testa, nel lato destro del capo, con un importante consumo di paracetamolo. I suoi mal di testa si accentuano in occasione delle notti con incubi sulla sua prigionia tra i talebani. Esplorando ricorda che quando presero il suo amico per giustiziarlo, a lui regalarono un forte colpo col calcio del fucile in testa. A destra naturalmente. In casi come questi è legittimo chiedersi se il sintomo post-traumatico è di
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natura psichica, o una sequela fisica di un trauma cranico, che lascia sindromi dolorose senza che la clinica strumentale trovi nulla di significativo.
Il mio corpo è una cosa sporca e disgustosa, per sempre contaminato e rovinato Si tratta ovviamente del pregiudizio comune a tutte le donne per cui l’esperienza di violenza sessuale è risultata traumatica. Un corpo che viene cercato e utilizzato indipendentemente dal Sé che lo abita, è un corpo che cambia agli occhi del soggetto, per come è stato rovinato e usato. È importante sottolineare che questa affermazione ha un versante di ‘giudizio morale) (e in tal caso rientra nelle categorie dei pregiudizi dei contenuti del Sé); ma ha un versante in cui dichiara un’esperienza concreta, un vedersi e sentirsi sporco e orribile, una trasformazione nel campo sensoriale operata dall’evento traumatico. Questo pregiudizio può andare incontro a una serie di vicissitudini nella successiva elaborazione mentale e comportamentale, dipendendo dall’affettività dominante e dalle capacità reattive del soggetto in quella particolare fase. Può portare a condotte autolesive, a trascuratezza e mascheramenti, o a condotte che uno psicoanalista definirebbe formazioni reattive. Quando Angèle riesce a scappare dal compound dove i militari l’avevano imprigionata (e ripetutamente abusata) è in condizioni miserabili, lurida di tutto e scalza si aggira per i villaggi, dove la prendono per matta e nessuno le si avvicina o la soccorre. Qui in Italia viene a visita ben curata e di una eleganza semplice, con i capelli e le mani in ordine; quando la mediatrice le fa un complimento per il suo aspetto, Angèle si giustifica raccontando l’episodio della fuga, è importante per lei contrastare la sua maniera di vedersi, perché gli altri non la vedano come è apparsa nei villaggi del Congo. Ma più in là nella terapia emerge la sua convinzione di essere fisicamente detestabile, rovinata, guastata, e di pensare spesso che anche gli altri possono così vederla, perché evidente nel suo corpo.
4.1 Pregiudizi sulla proprietà del corpo o di sue parti Qui ci troviamo ovviamente sull’estremo dissociativo della fenomenologia, nel campo della depersonalizzazione o della conversione.
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I miei piedi e le mie gambe non esistono Salman è un giovane ragazzo somalo, che fin dai suoi 9 anni ha vagato con la famiglia sperimentando da vicino la morte, è stato testimone dell’uccisione di suo zio e poi di suo padre. La sua sintomatologia è dominata da uno stato di allarme perenne, accompagnato in contraddizione da un senso di morte già avvenuta. Quando facciamo per la prima volta un esercizio di grounding per diminuire lo stato di hyperarousal, e inizio chiedendogli di sentire le sensazioni dei piedi, mi guarda stupito: non li sente, non ci sono, e neanche le gambe, fino al ginocchio. Non che li senta poco, proprio non ci sono. Provo a fargli battere i piedi, lo fa, ma non sente. È parte dell’esercizio immaginare che il peso e l’“energia” del corpo scendano in basso, verso l’ancoraggio dei piedi sulla terra; ma anche il peso, Salman –che è un ragazzone alto- non sente di avercelo. Decidiamo di fare un esperimento: a braccia stese in basso mentre sta in piedi, con le mie mani esercito una forza verso l’alto sulle sue mani come a sollevarlo, e lui contrasta il mio movimento per aumentare la sensazione di peso. Ma quasi si sbilancia e vola (chi scrive non è per dimensioni, forza ed età particolarmente atletico): “sei troppo forte”, mi fa, ridendo. Non ha solo una anestesia cenestopatica degli arti inferiori, è il suo corpo che ha perso consistenza fisica e peso.
In questo caso la sua coscienza non si è delocalizzata come in una depersonalizzazione, ma si è quasi decarnalizzato, è diventato più incorporeo. Potrebbe definirsi quasi una allucinazione negativa nel campo sensitivo. Le mani che si muovono non sono le mie Adji è una ragazza con una storia di violenze di gruppo e torture. Durante i colloqui, quando frammenti di ricordi traumatici irrompevano nel qui e ora, chiude fortemente la mano destra a pugno iniziando a muoverla su e giù e a dondolare sulla sedia. Questo movimento o accompagna l’inizio di un pianto disperato durante il quale A. rimane comunque presente all’interno della relazione terapeutica, o di una vera e propria crisi dissociativa oniroide che si conclude nel momento in cui A. riapre la mano e si accascia sulla sedia spossata. Inizialmente non ricorda quel movimento: la mano che si muove non è la sua, è la mano di un’altra A.che durante le violenze avrebbe voluto reagire, brandire un bastone e picchiare. Mi cammino spesso dietro o a lato: quel corpo che cammina non sono io Asif racconta che ormai da tempo, ma solo da quando è arrivato in Italia, dopo il lungo viaggio dall’Afghanistan, si trova fuori di sé stesso a osservarsi mentre cammina, e a volte mentre parla con altri. La cosa lo spaventa solo al raccontarmelo, perché in quei momenti si sente totalmente freddo e impassibile, distante.
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È importante che il clinico domandi al paziente se ha esperienze come quella di Asif, dato che i pazienti tendono a non riferirlo per la stranezza percepita, per non apparire matti, ma anche perché in sé difficile da descriversi. Nella nostra esperienza esiste una reticenza a manifestare al medico le esperienze di depersonalizzazione anche maggiore della presenza delle voci. Per descrivere questa esperienza di non sentirsi nel corpo, di non essere i proprietari di questo corpo, che viene vissuto come estraneo, e a volte come cosa estranea, si usa infatti il termine depersonalizzazione. Posso situarmi al suo interno, osservarlo da dentro, o anche delocalizzarmi: osservarmi da sopra o dal lato. In ogni caso quello che questo corpo fa, o quello che gli fanno, non è cosa che mi appartiene. Spesso (come nel DSM-5) vengono fatti rientrare nel termine depersonalizzazione anche fenomeni che appartengono ad altre categorie come l’ottundimento emotivo, e il senso di irrealtà ed estraneità all’ambiente. L’esperienza di depersonalizzazione è esperienza frequente durante abusi sessuali e fisici, ed è forse l’esempio più chiaro del caso 2) di pregiudizi adattivi, secondo il modello di Haselton e Buss (2003), citato all’inizio dell’articolo: una soluzione che ha funzionato in precedenza nell’esperienza, se ripetuta si fissa come strategia cerebrale per situazioni anche distanti dalla originaria. Sentire che il corpo che viene violentato non è il tuo, che “si sta facendo qualcosa a quel corpo” presenta un indubbio vantaggio, e rappresenta una delle strategie di regolazione emozionale conosciuta, il decentramento (qualora non abbiano funzionato la soppressione – non sento nulla -, la distrazione, o la repressione o rimozione -non ne sono cosciente o non ricordo-). Ma in seguito il cervello risponderà per la stessa via nota anche in caso di trigger minimi, o innocui, mostrando come un pregiudizio una volta instauratosi possa essere mantenuto anche in condizioni di evidente non adattività. Conclusioni L’esperienza traumatica, quando esita in una patologia post-traumatica, causa il sorgere nella mente della vittima di cognizioni tipi-
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che, che hanno il valore di pregiudizi, veri presupposti formali dell’esperienza nella vita successiva al trauma. La loro adattività in circostanze date (come è a volte è verificabile anche in casi concreti di pazienti), va persa nella rigidità della ripetizione in contesti diversi e modificati, ed è questa rigidità a costituirne il carattere patologico. Nell’articolo sono stati presi in esame alcuni dei pregiudizi del trauma, suddivisi per comodità -ma anche per ambiti essenziali della coscienza- in pregiudizi sul tempo, su di sé, sugli altri, sul proprio corpo. Abbiamo di proposito tralasciato di trattare direttamente il campo dei pregiudizi sulle emozioni, ma solo perché tutti quelli di cui abbiamo parlato suppongono alla base una dinamica alterata delle emozioni, che genera le alterazioni del tempo soggettivo, del senso di sé e del mondo, e della percezione del proprio corpo. Senza una alterazione emozionale tutto questo non avverrebbe. Abbiamo anche tralasciato di esaminare quanto attiene ai pregiudizi che il trauma ingenera nel mondo intorno alle vittime, che a volte è speculare al vissuto interno loro. Nessuno dei temi o delle argomentazioni trattate è originale, appartenendo a una letteratura sul trauma ormai estesa; quello che abbiamo voluto fare è leggere con metodi fenomenologici la presenza e la particolarità della sintomatologia della popolazione di rifugiati (di diversa origine e cultura di provenienza), che costituisce il lavoro quotidiano nel nostro servizio.
5. Condizioni estreme Schiavitù e psicopatologia
Alcune riflessioni sulla patologia post-traumatica nella schiavitù femminile in Mauritania Emilio Vercillo, Maria Guerra
La schiavitù si distingue dalle altre forme di violazione dei diritti umani per alcune caratteristiche che si possono sintetizzare nella possibilità di essere comprati o venduti come proprietà, essere privi di libertà di movimento, costretti al lavoro sotto la pressione di minacce o violenze subendo restrizioni fisiche. Amnesty International 2014 «Moulkheir Mint Yarba ritornò dal suo quotidiano occuparsi delle capre del padrone nel deserto, per trovarsi davanti a qualcosa di inimmaginabile: la sua bambina, capace appena di gattonare, lasciata fuori a morire. La madre, dall’usuale atteggiamento stoico, – i cui occhi nerissimi e le mani incartapecorite trascinano decenni di tristezza – scoppiò a piangere vedendo il viso della sua bambina senza vita, occhi aperti e coperta da formiche, immobile sulla sabbia color arancio del deserto mauritano. Il padrone, che aveva violentato Moulkheir per generare la bambina, voleva punirla. Disse che senza la figlia sulle spalle avrebbe lavorato più velocemente. Cercando di ricomporsi, Moulkheir chiese di poter fare una pausa per dare a sua figlia una sepoltura appropriata. Il padrone rispose: toma al lavoro. “Ha un’anima da cane”, lei dice ricordando. Più tardi quel giorno, al cimitero “Scavammo una fossa superficiale e la seppellimmo con i suoi vestiti, senza poterla lavare o fare i riti di sepoltura”. Slavery’s Last Stronghold, CNN, 2012
1. Schiavitù Moderne Esistono paesi in cui il tempo sembra essersi fermato, in cui sussistono forme di schiavitù antiche, quasi bibliche, che offrono anche minore mobilità sociale o fuoriuscita dalla condizione di schiavo rispetto alla società romana antica, rispetto a questa basato sulla razza, forse anche più crudele. Non si tratta in questi paesi delle cosiddette “nuove schiavitù”, legate alla modernizzazione della pro-
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duzione su scala mondiale, o al mercato della prostituzione, ma di una schiavitù vista quasi come una legge di natura da entrambe le parti, catene invisibili costruite nel corso di secoli e determinate dai forti vincoli che si creano tra schiavi e padroni. È soprattutto nella fascia del Sahel, al confine sud del Sahara, il luogo dove possono osservarsi queste vestigia di relazioni umane. Di fatto il termine schiavitù viene impiegato per definire diverse condizioni, e si parla estesamente di ‘nuova schiavitù’ per alcune. Escludendo le accezioni più estensive, confondenti e inadeguate (1), si parla attualmente (UN Commission on Human Rights, 2000) di lavoro forzato (mediante esercizio o minaccia di violenza sui soggetti o sulla loro famiglia), schiavitù sessuale (di fatto una sotto categoria di lavoro forzato), schiavitù per debiti (la più diffusa, soprattutto nel sudest asiatico), schiavitù infantile (rientra in tutte le altre categorie), servitù domestica, matrimonio forzato. A lato di queste, esiste la forma tradizionale, chiamata nei paesi anglosassoni chattel slavery (schiavitù di beni mobili), termine utilizzato ad esempio per designare la forma tipica dell’economia statunitense ante guerra civile. In paesi come la Mauritania è presente un residuo di questa schiavitù antica, con alcune caratteristiche distintive. Innanzitutto –differentemente dalle società classiche, in cui lo schiavo è un prigioniero di guerra, o la sua discendenza- presenta caratteristiche etniche definite e stabili nel tempo: ad essere schiavi sono solo persone di pelle nera, sub sahariani, e il loro padrone appartiene al gruppo dei Beidane, i ‘mauri bianchi’, casta di origine mista araboberbera, o Hassaniya (dalla lingua da loro parlata, un arabo con influenze berbere). Questo accade anche se la Mauritania ha dichiarato l’abolizione della schiavitù nel 1981, ultimo paese ad averlo fatto nel mondo, una abolizione dichiarata ma non fattuale (a cui si è aggiunta nel 2004 una legge che comminerebbe una pena a chi la infrange), sicché la schiavitù rimane un segreto negato e attivamente celato da parte della classe dirigente del paese (John Sutter, CNN, 2012), e appoggiato dai religiosi islamici. Nel nostro lavoro con i richiedenti asilo nel SAMIFO ci siamo imbattuti in alcuni casi di schiavi mauritani, le cui caratteristiche di fenomenologia e psicopatologia presentavano elementi distinti-
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vi rispetto alla consueta sintomatologia post-traumatica di altri pazienti, provenienti da esperienze traumatiche non così radicate come eventi ‘naturali’ nella struttura sociale, o precoci. Oltre queste peculiarità etiologiche, esistono caratteristiche patoplastiche propriamente culturali connaturate con la natura della schiavitù, che ci hanno portato a voler approfondire il tema. Descriveremo sommariamente al principio alcune caratteristiche della società maura e la natura della schiavitù in questo paese, con particolare attenzione al versante femminile. Seguiranno quindi delle note e riflessioni psicopatologiche sulle peculiarità osservate, accompagnate dalla breve vignetta di due casi esemplari. 1.1 La schiavitù nella società maura A journalist asked whether slavery existed in Mauritania, and the imam said no. Then why, the journalist asked, had the imam recently given the journalist’s boss a slave girl as a gift? The imam simply smiled. (The New Yorker, 2014 sept 8, FREEDOM FIGHTER: A slaving society and an abolitionist’s crusade). “We don’t pay them”, he said, “They are part of the land.” (Slavery’s Last Stronghold, CNN, 2012).
Per descrivere in cosa consista nella vita quotidiana questa schiavitù, e nella sua realtà traumatica soprattutto per le donne schiave, ci baseremo sulla ricerca di Kevin Bales, professore al Wilberforce Institute for the Study of Slavery and Emancipation di Hull in Inghilterra, che nel suo “Disposable people: New Slavery in the Global economy” (originariamente del 1999, ultima edizione rivista 2013) racconta della sua ricerca sul campo in Mauritania, oltre che su inchieste più recenti. La Mauritania rappresenta nello scenario mondiale l’unico paese in cui viene praticata la schiavitù di vecchio tipo. Nel 2016 il Global Slavery Index, basandosi su un’indagine a livello nazionale intrapresa nel 2015, stima che 43.000 persone, l’1,06% della popolazione totale di 4.068.000 abitanti, viva in condizioni di schiavitù tradizionale in Mauritania. “La società maura …. è costituita da tre gruppi principali: gli arabi mauri, spesso chiamati “mauri bianchi” (di cui fanno parte la ca-
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sta guerriera degli hassanya, la casta sacerdotale degli harabout e i vassalli zenga); gli schiavi e gli ex schiavi detti haratin; e gli afromauri, che costituiscono circa il 40 per cento della popolazione e che arrivano dal Sud del paese, dove finisce il Sahara arabo e comincia l’Africa nera, principalmente dal Senegal e dal Mali” (Bales K. 1999). I mauri bianchi sono la minoranza che controlla la Mauritania sia dal punto di vista politico che economico, e sono organizzati in grandi famiglie allargate unite in tribù. Tutte queste famiglie sono state proprietarie di schiavi ereditati di generazione in generazione; le origini della proprietà degli schiavi nel paese potrebbe risalire perfino all’epoca romana, pre-islamica, anche se l’arrivo degli arabi ha probabilmente irrigidito il sistema. La casta degli Haratin sono gli schiavi ma anche gli ex-schiavi liberati, a volte figli di madri schiave e di padri mauri bianchi, per questo motivo vengono chiamati mauri neri. La schiavitù è quindi profondamente radicata nella società mauritana, e si basa sulla divisione per etnia, origine, caste e classi. (Human Rights Council 2013) Gli schiavi tradizionalmente abitano con la famiglia del padrone, lavorano tutto il giorno occupandosi delle attività necessarie al mantenimento delle case e delle attività commerciali e agricole, non vengono pagati, non hanno libertà di movimento e di scelta, possono essere donati senza tenere conto dei loro legami familiari e affettivi, ma il fatto che da generazioni vivano insieme ha fatto sì che si costruisse un legame molto difficile da sciogliere, un legame interno fatto di quotidianità, abitudine, rassegnazione. La loro vita è molto dura, non sono liberi, ma non sono considerati merce usa e getta come invece accade nelle nuove forme di schiavitù. Il paradosso della schiavitù in Mauritania è proprio il fatto che sia vissuta da parte della vittima con una acquiescenza che ha a che fare con la convinzione di essere membri della famiglia cui appartengono, e di essere in una condizione al suo interno inferiore che ha a che fare con una legge naturale e divina. Anche in questo senso la differenza con la società schiavistica nord-americana è marcata, visto che nel ‘paese della libertà’ (‘l’uomo è nato libero per natura’) i teorici dello schiavismo furono costretti a funambolismi concettuali per giustificarne l’esistenza, tradendo la falsa coscienza alla sua base (Wa-
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shington e Jefferson furono padroni di molti schiavi per tutta la loro vita). Nella servitù romana lo schiavo non era frutto di natura, ma un risultato di una conquista e di una violenza, prigioniero di guerra, e perciò stesso la sua trasformazione in liberto era possibile e non difficile. In Mauritania l’asservimento si basa su ‘catene interne’ molto più che su catene esterne, e nel caso soprattutto delle donne le catene vengono triplicate dall’applicazione della sharia nel paese (v. infra). La schiavitù in Mauritania quindi più che una realtà politica ed economica sembra essere parte integrante della cultura, anche se negli ultimi anni l’evolversi se pur lento della società sta portando ad un cambiamento del fenomeno, quantunque come si vedrà non sempre in senso positivo. Passate edizioni del Global Index Slavery hanno notato che il Corano è stato utilizzato da alcuni leader religiosi per motivare l’esistenza della schiavitù moderna in Mauritania. Gli attivisti delle associazioni più importanti contro la schiavitù dicono che alcuni imam continuano a parlare a favore della schiavitù nelle moschee, in particolare nelle aree rurali. (Sutter 2012) Tuttavia, dal dicembre 2014, 1.000 moschee sono ufficialmente impegnate a diffondere messaggi anti-schiavitù rivelando un crescente impegno per la lotta contro la schiavitù (Jemal Oumar 2014). L’evoluzione in corso, favorita anche dalle leggi che ufficialmente vietano la schiavitù, passa comunque attraverso forme di nuova schiavitù ancora peggiori, poiché la maggior parte degli ex schiavi che si affranca e lascia la casa del padrone non ha vere alternative: la loro nuova vita è fatta di espedienti, abitano ai margini della capitale, in casupole fatiscenti, in condizioni di miseria, aspettando che i loro vecchi padroni li vengano a chiamare per lavorare alla giornata. Non hanno documenti, non possono usufruire di nessun piccolo aiuto governativo, sono analfabeti e non conoscono altri mondi che quello chiuso della casa del padrone che hanno abbandonato. Trovare un altro lavoro è quasi impossibile perché considerati inaffidabili proprio per il fatto di essersi affrancati. Di fatto negli agglomerati fatiscenti la differenza tra schiavo e emancipato è flou: spesso si tratta ancora di schiavi, che il padrone chiama per lavori non pagati, ma senza neanche più ospitarli in casa
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con l’obbligo morale di alloggio e vitto: hanno perso anche lo stato di ‘famigli’. In questo scenario di isolamento culturale e povertà è possibile ad una minoranza continuare a mantenere lo status quo quasi inalterato trasformando una parte di ex schiavi e poveri in nuovi schiavi: il passaggio da merce di proprietà a merce usa e getta solleva dall’onere della sopravvivenza. Se la situazione su delineata descrive la casta degli schiavi in Mauritania tradizionalmente tale da generazioni, è anche vero che nuove acquisizioni vengono fatte tra le popolazioni immigrate nel paese dal sud, il gruppo degli Afromauri provenienti dal Senegal e dal Mali. Bouba, un nostro paziente, è un mauro 35 enne di origini senegalesi. Aveva nove anni quando irruppero nella sua casa, uccisero la sua famiglia e lo presero come schiavo, per il resto della sua vita. Khalil era un giovane quando portando al pascolo gli animali venne accusato da un mauro bianco di aver danneggiato i suoi campi, e con questa motivazione venne schiavizzato per alcuni anni finché non riuscì a fuggire.
1.2 Essere schiava e donna La condizione femminile di schiavitù comporta alcuni elementi distinti e ancor più crudeli. Un tempo, nella società maura la ricchezza veniva appunto calcolata secondo il numero di schiave possedute. Il valore non è comparabile a quello della società romana, o nordamericana, in cui uno schiavo è merce preziosa e cara, deve durare ed essere mantenuto per ammortizzare le spese e produrre; ma comunque in Mauritania una donna ha un valore maggiore di un uomo schiavo. I loro figli erano e sono a tutt’oggi proprietà del loro padrone, nonostante la schiavitù sia stata ufficialmente abolita, e d’altronde le donne raramente vengono tutelate dai tribunali, i cui giudici spesso hanno a loro volta delle schiave. I padroni possono ricorrere alla forza o dominarle proprio mantenendo il controllo sui figli, che spesso vengono loro sottratti e affidati ad un altro componente della famiglia in un’altra zona del paese; questo accade spesso se il figlio è meticcio, frutto non di un altro schiavo,
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ma del padrone o dei suoi amici. Il fatto che la religione permetta di avere più mogli fa sì che i padroni dichiarino la paternità dei bambini in ogni caso, e la donna che fugge e reclama i figli potrebbe essere un’altra moglie. Vale la pena ricordare che nei paesi islamici la giurisprudenza fa prevalere i diritti del padre sui figli rispetto a quelli della madre, anche in situazioni più lineari di quella di cui parliamo. L’esistenza delle donne e dei bambini è sempre controllata. È abituale l’uso sessuale delle schiave da parte del padrone, e delle persone a cui viene offerta da questi. Si tratta di un uso giustificato dal Corano: le regole dettate dalla Sharia, adottate nello stesso periodo in cui veniva ufficialmente abolita la schiavitù nel paese, hanno applicazioni pratiche anche nella relazione con schiavi e ex schiavi. L’uomo deve secondo le leggi coraniche controllare i suoi desideri sessuali, tranne con mogli e schiave, permettendo così quell’uso sessuale delle schiave che è un elemento chiave del loro asservimento, oltre che un punto chiave della loro storia traumatica. Così il potere riconosciuto dalla legge islamica all’uomo libero su mogli e sorelle si estende automaticamente alle schiave e ai loro figli, chiunque sia il padre. I figli di queste donne appartengono di fatto a lui, sia che sia il reale padre o no (è spesso impossibile sapere la paternità, e in Mauritania è cosa molto scorretta domandare chi sia il padre di una persona (Quirico 2016) Spetta sempre al padrone decidere se una schiava può sposarsi e con chi, così come annullare il matrimonio se questo non è più di suo gradimento. Fuggire significa spesso abbandonare i figli nella casa del padrone o farli diventare ragazzini di strada senza certificati di nascita o fissa dimora. Questo del destino dei figli, spesso sottratti dopo l’allattamento (la consuetudine è un allattamento di due anni) e regalati o venduti, è un altro punto nodale dei vissuti traumatici delle nostre pazienti. Vale la pena sottolineare come tra le mansioni di una schiava della famiglia sia fondamentale occuparsi della casa e dei figli del padrone prima di occuparsi dei propri, nel caso le rimanga tempo. Non abbiamo però parlato dei movimenti antischiavistici che all’interno della società maura si sono comunque sviluppati, pur nella loro debolezza, ma vale la pena aggiungere in questo quadro
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generale della società maura due particolari annotazioni che ci aiutino a comprendere le condotte culturalmente diverse delle nostre pazienti, nonché le dinamiche psichiche interne, e che per quanto descritto sopra non meraviglieranno. La prima è che spesso sono i genitori schiavi stessi a trasmettere la logica della passività dell’asservimento, insegnando alle loro figlie i limiti delle loro possibilità, e la somma dei doveri connaturata al loro stato: non puoi andare a scuola, non puoi fare come hai visto fare con i bambini con cui giochi, i figli del padrone, non puoi ribellarti o ne patirai le conseguenze, etc. Ne consegue che una fuga, anche quando favorita da familiari, viene vissuta come una colpa, un ribellarsi a un genitore protettivo nel suo insegnamento. D’altronde se per gli uomini lasciare la famiglia del padrone è andare spesso incontro ad una vita di stenti e vivere di accattonaggio, per alcune donne è diventare prostitute, vendere couscous per le strade o fare qualche lavoro manuale infimo, con un esito sociale ancora più infamante che per gli uomini. La seconda annotazione riguarda una condotta comune a tutte le nostre pazienti ex-schiave, che al principio ingenera sconcerto e anche dubbi diagnostici: l’incapacità a guardare chicchessia negli occhi. Non è o non è solo timore, è buona educazione. Non possono guardare se non chi si trova in un rango inferiore anche per età, perciò non lo si può pretendere facilmente, come accade per tutte le condotte tanto basilarmente radicate. Riuscire a guadagnare il loro sguardo durante un incontro è prova di un passo compiuto verso la loro libertà interna. 2. Specificità cliniche: tra PTSD e Disturbi Dissociativi Per uno psicopatologo muoversi in avanti da una condizione e una storia di esperienze fino a una struttura psicopatologica è come percorrere un cammino a ritroso dall’abituale cui è esercitato. Mentre normalmente, trovandosi alla presenza di una sintomatologia già configurata, va alla ricerca di complessi di elementi che ne giustifichino l’origine e la forma finale, qui ci si trova nel percorso inverso: dato un insieme di condizioni di formazione delle
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sindromi, osservare la ricorrenza ed eventualmente la specificità delle strutture in cui esita. Nel campo della psichiatria, quello della psicotraumatologia è per lo meno un settore in cui si ha il privilegio di muoversi in un ambito etiologico certo, rispetto ad altri capitoli della disciplina molto più ipotetici ancora oggi, per quanto non sia globale nella sua esplicabilità e nonostante tutto controverso. Proprio questo permette un ragionamento psicopatologico nel percorso dai presupposti agli esiti, laddove qualsiasi altro simile percorso nella psichiatria ha solo il valore di un lavoro statistico che supporti una tesi. Detto ciò, nel campo della psicopatologia post-traumatica ci si trova di fronte a due grossi capitoli, (anche considerando la grossolanità delle classificazioni a modello DSM): i Disturbi da Stress Post-Traumatico (PTSD) da una parte, e il campo dei Disturbi Dissociativi dall’altra. Se in tutti insiste l’effetto di scomposizione della continuità dell’esperienza, è altrettanto vero che nei primi si tratta di un effetto traumatico di disaggregazione di un’esperienza già data, più o meno integrata nel campo della coscienza, laddove nei secondi è proprio l’esperienza traumatica ad aver reso impossibile l’integrazione. Ne conseguono, nell’età adulta a cui ci riferiamo, sintomatologie con strutture molto diverse. Nel primo caso (la casistica più diffusa nel SaMiFo, il Servizio di assistenza ai rifugiati in cui lavoriamo), il trauma o i traumi generativi sono avvenuti in età adulta, in un tempo che per quanto prolungato ed estremo ha avuto una durata definita, sebbene possa aver cambiato per sempre le condizioni di vita e la persona. Scontri a fuoco, carcerazione, tortura, viaggi tormentati e pericolosi, pericolo di vita per un tempo prolungato, scenari di morte cui si è assistito, tutto questo dà forma a una sintomatologia propria del PTSD, con il suo tipico misto di sintomi dissociativi di flashback, prevalenza di sintomi di attivazione adrenergica, e sintomi negativi di apparenza depressiva. Vale la pena qui mettere in evidenza che una vera sindrome depressiva infatti potrà apparire più oltre nella vita di un rifugiato, quando i settori cerebrali che sovraintendono alla sopravvivenza, tuttora attivati dal PTSD potranno lasciar spazio al senso di perdita personale, anche culturale. I problemi riguardanti gli effetti psicologici del cosiddetto shock culturale pos-
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sono insorgere solo in seguito, in una persona che già non si dibatte nel gorgo della lotta per la sopravvivenza, come invece accade nei disturbi post-traumatici. Alcune distinzioni sono importanti da un punto di vista psicopatologico La prima nasce dal tenere separati concettualmente i sintomi dissociativi dalla dissociazione strutturale che costituisce l’ossatura dei Disturbi Dissociativi: in medicina distinguere sintomi, sindromi e malattie garantisce chiarezza alla comprensione, la presenza di una febbre o di un dolore non viene confuso con una patologia, laddove l’ideologia DSM ha favorito questo tipo di logica clinica. Nel PTSD sono presenti sintomi dissociativi (flashbacks diurni e notturni, depersonalizzazione –nel senso proprio di estraneità del corpo), ma la struttura del sé non è caratterizzata dalla presenza strutturata e di varie parti con caratterizzazioni proprie (‘personalità’), che rispondono a molteplici figure e funzioni, così come invece accade nei Disturbi Dissociativi; al più si può ipotizzare la presenza di una parte che rimane fissata al tempo e allo spazio del trauma puntiforme, che ritorna ogni volta nella rottura della continuità della coscienza. E da un punto di vista terapeutico questi sintomi dissociativi non costituiscono neanche i punti di attacco o di entrata, dipendendo come sono dagli stati di iperattivazione (cfr. sotto). La seconda riguarda il frequente malinteso del dare una importanza clinica assoluta alla storia traumatica, nel senso di dare per scontato che esista una relazione biunivoca tra storia traumatica e patologia post-traumatica. Se è vero che una storia di abuso e neglect infantile è prevalente nel 90% dei casi di Disturbo Dissociativo, soprattutto di Disturbo Dissociativo dell’Identità (come riconosciuto anche dal DSM-5), però è anche vero che nel caso di storie infantili con traumi ripetuti e continuati, sono molti i casi in cui non si danno nell’età adulta sintomi o disturbi dissociativi (Briere 2006). E se questo è allo stato attuale quello che sappiamo per i Disturbi Dissociativi, la mancata corrispondenza è ancor più vera nel caso di PTSD: se è vero che l’esperienza traumatica giustifica la sintomatologia di PTSD, non è verificato il contrario, che una clinica segua necessariamente all’esperienza traumatica, anche estrema come la tortura (cfr. capitolo 6). Come corollario non solo
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pratico, non separare lo sguardo clinico dall’impegno politico è non solo metodologicamente scorretto in generale, ma sarebbe confondente al momento di comprendere la persona che abbiamo davanti con la sua sofferenza, pena il rischio di vedere il nostro ombelico invece di ascoltarla e rispondere alle sue necessità; ciò per quanto giusto possa essere impegnarsi contro l’ingiustizia nel mondo, e la schiavitù come caso estremo. Di fatto una serie di fattori antecedenti della persona, a partire da fattori genetici fino ai pattern di attaccamento come antecedenti, e fattori esterni garanti e supportivi di resilienza come susseguenti, giocano evidentemente un ruolo importante. Di fatto non è solo il personale laico di assistenza ai rifugiati a cadere in questa trappola, ma a volte anche personale di formazione professionale psicologica: per quanto sembri banale ripeterlo, non si dà clinica post-traumatica senza clinica specifica, solo per aver vissuto fatti traumatici. Si attivi tutta l’umana comprensione e solidarietà, oltre all’impegno politico, ma non risorse terapeutiche inadatte per obiettivi clinici mal definiti. Orbene, nel percorso a ritroso di ragionamento di cui si diceva, ci si aspetterebbe che per le condizioni descritte per la schiavitù in Mauritania, visti i traumi continuativi durante l’infanzia (l’ambiente di estrema deprivazione, la separazione precoce e gli obiettivi abusi fisici e anche sessuali in età minorile nel caso del genere femminile, etc.), i quadri dissociativi propriamente detti, con l’esistenza di dissociazione secondaria e terziaria (Van der Hart et al. 2006), costituiscano la prevalenza delle presentazioni cliniche. Uno degli scriventi (E.V.), che prima di lavorare nel SaMiFo si è occupato in precedenza prevalentemente di Disturbi Dissociativi in una popolazione europea in Spagna e Italia, sorprendentemente ha dovuto costatare che non costituivano la maggioranza. Se pure esistono nel nostro campione, effettivamente non statisticamente significativo (il caso di Aisha descritto a seguire lo è), essi sono pochi. Aisha Aisha è una ragazza mauritana di 32 anni (ragazza, perché così appare, e così si definisce lei stessa), rifugiata. La sua storia è una storia di schiavitù nella quale ancora dopo quattro anni dal suo arrivo in Italia è completamente immersa. Incontrare Aisha è incontrare prima di tutto la sua Parte Apparen-
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temente Normale (APN, Van der Hart et al. 2006), quella che le ha permesso di orientarsi nella complessità del percorso di richiedente asilo, di lavorare, di studiare e imparare prestissimo l’italiano. Sorridente, educata, dolce, timida, tranquilla, non si lamenta di nulla, non chiede, non pretende, non si mostra mai arrabbiata, non ha problemi di convivenza all’interno delle varie strutture di accoglienza che la ospitano. Purtroppo quella stessa Parte Apparentemente Normale è stata nel contempo complice dei ripetuti fallimenti vissuti durante il suo percorso di autonomia, a causa dei fraintendimenti all’interno delle relazioni che implicavano coinvolgimento emotivo e intimità: le aspettative degli operatori e di coloro che hanno cercato di aiutarla erano altissime, vista la sua apparenza e le sue risorse, così come spaventosa, devastante la sua caduta (e la delusione risentita degli operatori), ogni qual volta i fantasmi che la abitano, e che da sempre l’accompagnano, prendevano il sopravvento. Anche le sedute di terapia seguono lo stesso modello e iniziano con un’Aisha sorridente, contenta di come stanno andando le cose, grata per tutto ciò che viene fatto per lei e finiscono con un’Aisha disperata a volte accovacciata sulla sedia o in un angolo della stanza. Piangendo racconta dei suoi incubi notturni in cui il padre morto, nei confronti del quale prova forti sensi di colpa, le parla e le ricorda le sue origini e il suo immutabile destino: non ce la farà, questa vita non è per lei. Il padre, unica figura di attaccamento familiare e affettivo, le ha insegnato l’obbedienza, la sottomissione, l’impossibilità di vivere una vita differente da quella vita che stava nella natura delle cose, era volontà di Dio. Il padre che da una parte con la sua presenza in qualche modo la proteggeva dagli abusi e dalle violenze sessuali (iniziate inesorabilmente dopo la morte di lui), dall’altra avallava senza speranza la condizione di trascuratezza, isolamento, abusi, sottomissione, non riconoscimento che Aisha viveva. Importante per comprendere la condizione di deficit di relazioni fondanti primarie (v. infra) è per esempio notare che della madre non abbia nessun ricordo, fu donata dal padrone ad un’altra famiglia quando aveva tre anni (così le è stato raccontato), ed è morta dopo poco senza che Aisha riuscisse più a vederla. E questo vissuto di assenza più che di mancanza della madre, insieme alla relazione così contrastatamente ambivalente con il padre, che qualifica in Aisha i fenomeni dissociativi che descrive. Ha dentro di sé una voce maschile non riconosciuta come voce nota, che le parla spesso in maniera dura, a volte in maniera premurosa; la giudica se qualcuno nella vita reale la invita ad uscire, la spinge a ritirarsi, la confonde quando deve affrontare l’ennesimo colloquio di lavoro, la spaventa, ma allo stesso tempo la protegge dai rischi dell’affrontare una vita di libertà che implica scelte e rapporti paritari, e la fa sentire anche una traditrice nei confronti degli insegnamenti e del modello di vita proposto dal padre. La ‘voce’ – o più correttamente la parte – è quella che prende il sopravvento nelle occasioni in cui Aisha si ritira, scompare, fallisce, o ha idee autolesive (nei pazienti africani o asiatici, soprattutto di religione musulmana, le franche condotte autolesive o suicidarie sono estremamente rare, diversamente che nella popolazione europea). Oltre a questa presenza maschile, è presente anche una voce di donna, dal tono roco, le cui caratteri-
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stiche non sono chiare in terapia; meno violenta dell’altra nelle espressioni, a volte provvede a consigli, ma genera nella paziente comunque un senso di diffidenza marcato. Esplorando con lei le sue fantasie sulla madre, si scopre che l’idea che conserva è che si dovesse trattarsi di una persona deprecabile, credenza basata sul fatto che il padre non ne parlava mai… Il suo percorso terapeutico è costellato di sedute intense di emozioni, assenze, abbandoni, ritorni e di nuovo abbandoni. Ad ogni piccolo movimento esplorativo, di esposizione o di possibile cambiamento, Aisha si ritira, diventa immobile, si nasconde, cercando di diventare invisibile così come ha imparato a fare di fronte al pericolo quando era in Mauritania, e come è tipico della fobia per le emozioni e per le parti (Van der Hart et al. 2006). Le regole di sottomissione, assimilate nel vivere quotidiano della sua infanzia e tramandate di generazione in generazione, funzionano ancora. “Vorrei tanto trasformare le mie catene in sorrisi, ma ho molta paura di non farcela perché anche se adesso sono in Italia libera, mi sento sempre schiava, schiava di me stessa”.
Se Aisha presenta i classici sintomi di un Disturbo di Identità Dissociativa, la caratteristica dominante della presentazione clinica nei casi di ex-schiave, rispetto ai quadri più frequenti di PTSD della casistica del nostro servizio, è invece un’altra, legata all’importante concetto in Psicotraumatologia di Finestra di Tolleranza (Window of Tolerance, Siegel 1999, 2011), basata sulla Teoria Polivagale di Stephen Porges (Porges 2001, 2011). Come illustrato in Fig. 1, esiste un campo ottimale di attivazione nel quale le nostre emozioni possono essere elaborate e processate nella nostra esperienza, una finestra di benessere in cui secondo Porges è attivata una parte filogeneticamente recente del nostro sistema nervoso autonomo, il “sistema parasimpatico ventrale o ventro-vagale”, la base neurologica del Social Engagement System. L’ampiezza dei margini superiore e inferiore di questo campo di sicurezza è variabile tra individuo e individuo, ma in caso di pazienti con patologia post-traumatica la finestra risulta ristretta (Fig. 2): i limiti in cui le emozioni sono tollerabili si restringono considerevolmente, e ci si ritrova per il minimo stimolo trigger (interno o esterno che sia) nella zona superiore di hyperarousal, o in quella inferiore di hypoarousal. In entrambi questi casi, si trova attivato il Sistema Motivazionale di Difesa, o Sopravvivenza, il sistema basico che si innesca in caso di pericolo di vita nei mammiferi, disattivando tutti gli altri sistemi superiori, rendendo così impossibile qual-
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siasi forma di pensiero elaborativo, e l’interazione relazionale di qualsiasi tipo che non sia dedicata alla difesa dell’integrità fisica.
È il sistema delle 4-F in inglese (fight, flight, freeze, faint), attacco-fuga-congelamento-svenimento, dalle condotte possibili che attiva. Non si tratta necessariamente di condotte in sequenza (differentemente da quanto riportato in Schauer et al. 2011), differendo tra
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individui e contesti differenti, ma tutte esse appartengono al repertorio di comportamenti possibili in caso di pericolo estremo. Le prime tre – attacco, fuga, congelamento tonico – appaiono sotto il dominio del sistema simpatico, adrenergico, in un contesto di iperattivazione che sottende sintomi come ipervigilanza, allarme, aumentata tensione, aumentata frequenza cardiaca, iperpnea, tremori, immagini intrusive, un pensiero di tipo ossessivamente ciclico, fisso su un tema, e condotte iperreattive, esplosioni emotive e aggressive, o condotte caotiche. L’ultima F, quella di faint, viene più correttamente descritta come stato di ipoattivazione, e si basa sulla parte filogeneticamente più antica del sistema parasimpatico, quello ‘dorso-vagale’. In questo caso siamo di fronte alle ultime difese, quando solo la passività e l’immobilità atonica di fronte all’aggressore può sperare qualche risultato, non fosse quello di staccare la coscienza dagli ultimi eventi mortali. In caso di stato di ipoattivazione assistiamo a sintomatologia come affettività e reattività ridotta, incapacità a pensare chiaramente, obnubilamento mentale, sintomi dissociativi di tipo negativo come disconnessione dal qui-e-ora, senso di separatezza da sé e dalle proprie sensazioni, assenze, uno spegnersi della coscienza che può giungere fino allo svenimento. Una distinzione utile all’interno di queste condizioni di hypoarousal viene da Rothschild (2017). L’autrice separa da una parte le reazioni dell’organismo corrispondenti a quanto sopra descritto nella sequenza di attivazione dei sistemi di sopravvivenza, la f di faint, che implica uno stato non solo di morte apparente, ma anche di vera preparazione alla morte (da lei denominata PNSIII, uno stato estremo, pericoloso anche medicalmente nel suo presentarsi, visibile spesso in condizioni di trauma appena accaduto, o nei pronto soccorso ospedalieri), da una condizione sempre di ipoattivazione ma differente, descrivibile come letargia, ritiro e apatia iporeattiva. La prima sarebbe conseguente a una stimolazione eccessiva del sistema simpatico, che finisce con determinare uno shift rapido e improvviso verso il parasimpatico, con tendenza al collasso; in questi casi misure volte ad aumentare da parte dell’ambiente terapeutico una riattivazione va solo nella direzione di causare un sovrappiù di richieste al sistema, come un crash del computer sottoposto a un eccesso di richieste. Si tratterebbe insomma dell’esito di un
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hyperarousal over-the-top. Il secondo tipo di ipoattivazione, designato da Rothschild come PNSI, – che è quello in causa nei casi di questo articolo – sarebbe invece il risultato cronico di una situazione cronica di stresses non non necessariamente solo traumatici, caratterizzato comunque da un ipertono parasimpatico, ma di apparenza meno drammatica e improvvisa, con apatia, letargia, scarsa presenza e attenzione nella alterazione di coscienza tendente al detachment. Una specie di desistenza ed arrendersi, con passività; diversamente dal precedente questo tipo di stato si giova di manovre attivanti e energizzanti per contrastarlo. In ogni caso di disregolazione emozionale, hyper- o hypo- esterne alla finestra di tolleranza, riesce comunque impossibile al soggetto elaborare l’esperienza del presente (o condurre una seduta terapeutica), per inibizione delle funzioni cerebrali deputate alla integrazione, nel primo caso per troppo arousal, nel secondo caso per scarso arousal. Questa costruzione psicopatologica, fondata sulla neurofisiologia e sulla etologia, rende ragione a livello patogenetico di una larga congerie di sintomi presenti in tutto lo spettro post-traumatico, dal PTSD ai Disturbi Dissociativi. Indipendentemente dalla Dissociazione Strutturale (l’esistenza di ‘parti’ separate del Sé e indipendenti dentro la stessa persona), risulta vero per tutti i pazienti post-traumatici che la loro Finestra di Tolleranza è ridotta, che si trovano spesso in uno stato esterno ai limiti della zona di buona integrazione della esperienza, che non è possibile lavorare sulle memorie traumatiche, o fare qualsiasi lavoro psicoterapeutico finché si trovano iper- o ipo-attivati, e che è perciò necessario un periodo di stabilizzazione come prima fase necessaria delle terapie per ampliare previamente la finestra di tolleranza, la capacità di tollerare ed elaborare le emozioni. Nella nostra esperienza con i richiedenti asilo, la maggioranza dei pazienti che ci arrivano per un intervento psicologico o psichiatrico si presenta, come si è detto, in una condizione di PTSD, e il problema più urgente e dominante è uno stato di iperattivazione (cfr. capitolo 9), con tutti i correlati – diverso da persona a persona – di uno stato di allarme in cui i pazienti sono rimasti bloccati, a dispetto delle condizioni di sicurezza per la vita in cui ora si trovano nel nostro Paese. Non che manchi del tutto una oscillazione
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dall’altra parte dello spettro, ma i fenomeni di ipoattivazione sono meno rilevanti nel quotidiano psicopatologico del paziente. E per quanto incerte possano essere le prospettive di futuro, o le perdite subite a tutti i livelli, questi temi non sono importanti o dominanti nel loro psichismo in questa fase. Una quota minore dei pazienti hanno invece quadri con prevalenza di assenze, disconnessioni dal contatto con il presente senza attivazione angosciata di scenari di flashback delle violenze, uno spegnersi più o meno improvviso e più o meno totale della coscienza del presente, che fa sparire interi periodi di tempo (a volte intere giornate) dalla esperienza del paziente. È esperienza della clinica dissociativa che quando si scoprono questi ‘buchi’ della memoria nell’esperienza del paziente, si debba investigare del loro riempimento da parte di entità dissociate, la cui azione non viene registrata da parte della personalità ‘normale’ (o meglio ‘Parte Apparentemente Normale’ (ANP), come viene denominata Van der Hart et al. 2006): in questo caso ci si trova di fronte a una dissociazione terziaria, un Disturbo Dissociativo di Identità. Alia Alia, donna mauritana di 27 anni, è in Italia da un paio di settimane quando viene indirizzata al Servizio. Durante la visita medica, dopo aver cominciato a raccontare alcune cose frammentarie della sua storia, si blocca a testa bassa, e per molto tempo piange silenziosa, dello stesso pianto che si vuole prodotto dalle statue miracolose dei Santi: un traboccare liquido in un viso immoto, senza la mimica di dolore che si accompagna al pianto. Alia dimostra ben di più di 27 anni, è stata schiava da tutta la vita, ha avuto 3 figli, tutti portati via al momento dello svezzamento. Quando siamo stati capaci di fare la Linea della Vita1 (FIG. 3; Schauer, et al. 2011), la sua infanzia non è segnata dalle pietre, e i fiori sono ricordi del suo giocare con altri bambini, portare gli animali al pascolo. E verso i 12 anni che arriva la pietra: viene violentata dal padrone, cui è seguita la storia tipica di una schiava di piacere con varie altre pietre, alcune di esse senza etichetta, altre sicuramente mancanti (fa due tentativi di fuga, viene ripresa e punita violentemente). All’inizio del trattamento non dorme la notte quasi per nulla, e quando è da sola i suoi pomeriggi passano piangendo, scomparendo dal tempo del suo orizzonte di coscienza (cfr. capitolo 4). Le sue se1
Nella “Linea della Vita” il paziente è invitato a posizionare sulla linea di una corda che rappresenta la sua vita gli eventi positivi e negativi, ponendo rispettivamente un fiore o una pietra, designandolo con un nome rispondente all’evento che viene annotato su un’etichetta. FIG.3
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dute hanno avuto per molto tempo un andamento uniforme: a un certo punto della seduta ricade nella condizione di disconnessione, e fatichiamo a farla riemergere da questa ipoattivazione. Qualsiasi stimolo può scatenare la reazione: una domanda sulla famiglia di origine, la voce di un bambino che si senta fuori dalla stanza, un’osservazione su come siede sulla sedia (all’inizio mantiene sempre una postura tutta serrata, un po’ inclinata in avanti come per alzarsi e scappare, stringendo la borsa e tutto quello che ha tra le braccia). Alia è molto intelligente, spiritosa, e adattabile alla sua nuova vita, ma solo nella sua parte adeguata al mondo della realtà (APN). Possiede risorse personali e relazionali cui fatto ricorso durante la fase di ambientamento, già aveva imparato a parlare francese – diversamente da quanto accade nella sua casta – e qui rapidamente impara italiano, risultando la migliore del suo corso (lo racconta ridacchiando compiaciuta). Non si sono mai fatte presenti parti dissociate strutturate, né sono affiorate condotte attive, voci, o pensieri imposti che le facciano presagire. Ancora oggi, dopo 8 mesi di terapia, una Alia sorridente, spigliata, ironica, abile relazionalmente, e con proiezioni sul futuro (cucina bene, ha voluto fare un corso di cucina, ma ha anche pensato di chiedere un corso per elettricista, vuole fare l’elettricista), fa spazio spesso a un’Alia assopita e immota che, anche se non assente come al principio (è riuscita a spiegare che la sua testa è totalmente vuota in quel momento, non pensa e non sente nulla), certo è in contatto con il presente solo con una coscienza parziale. Usando la BHS di Knipe2 (Knipe 2010), Alia indica in questi casi col gesto di essere a metà, la mano a lato della sua testa. La facilità di caduta in questo stato rende ovviamente impraticabile in questa fase anche solo parlare sommariamente delle memorie, ed è appena possibile lavorare sulle sensazioni somatiche presenti (Ogden e coll. 2006), cercando di tenersi lontano da qualsiasi stimolo trigger che la disattivi di nuovo.
Fig.3: La Linea della vita di Alia
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La Back-of-the-Head Scale (BHS) è una indicazione gestuale da parte del paziente di quanto sia orientato al presente, da una posizione ‘dietro la testa’= assente, a una davanti agli occhi = presente al 100%.
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Nel nostro campione di pazienti femminili ex-schiave l’evaporare della funzione integrativa della coscienza non è seguito in genere dall’affiorare di personalità seconde (direttamente o indirettamente, che appaiano sulla scena, o che agiscano attraverso la paziente), ma sostituito da un vuoto di pensiero, quasi da ‘assenze’ senza automatismi, se non a volte, come nel caso di Alia, da un piangere sommesso senza pensieri. Insomma, una peculiarità comune alle pazienti è la scarsità di stati di iperattivazione, e la predominanza di quei fenomeni rubricati sotto il predominio del parasimpatico dorsale, la difesa estrema dell’organismo, e questo sia nelle poche nostre pazienti ex-schiave con disturbo dissociativo franco, che in quelle con PTSD. La constatazione di questa particolarità comporta una serie di problemi. Perché rispetto a pazienti europee che hanno una storia sovrapponibile di abuso infantile, è meno frequente lo stabilirsi di Disturbi dissociativi? In questi casi non possiamo neanche sempre appellarci al ruolo stabilizzatore del contesto che svolga una funzione di resilienza e riparazione, quei contesti culturale, religioso, familiare e sociale che giocano un ruolo fondamentale positivo nel caso degli altri rifugiati. Ma nel caso della popolazione di ex-schiave, per quello che si è cercato di descrivere all’inizio, un tale ruolo riparativo del contesto è inesistente, a posteriori. Perché in questa popolazione i fenomeni di ipoattivazione sono più frequenti di quelli iper? La cosa tra l’altro comporta una difficoltà molto maggiore nel momento terapeutico, visto che disponiamo di strumenti farmacologici e psicoterapeutici per aiutare il paziente in hyperarousal, ma di quasi nulla per aumentare le risorse utili in caso di hypoarousal. Possiamo giusto rilevare ed evitare situazioni (per esempio relazionali nella terapia) che scatenino questa reazione, e lavorare perché la paziente ne sia consapevole. Le risposte che possiamo dare sono solo parziali e ipotetiche. Non c’è dubbio che nelle condotte apprese nella condizione di schiavitù la passività e la disconnessione siano difese diffuse, utili relazionalmente (socialmente) e anche personalmente (a livello intrapsichico): per tollerare gli abusi quotidiani disconnettere la co-
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scienza di fronte alla impotenza di una qualsiasi reazione può essere una maniera estrema che ha un senso, in un contesto in cui non solo attacco e fuga sono impossibili, ma reazioni clamorose di break- down avrebbero ripercussioni importanti socialmente. Per altri versi abbiamo di proposito trascurato, finora, l’altro termine che svolge una funzione importante nella genesi di questi disturbi, elemento che vede anzi sempre più aumentare la sua importanza, man mano che, dall’evidenza della crudeltà esercitata negli abusi patenti, ci si approfondisce all’interno delle relazioni primarie dell’infante. Stiamo parlando del neglect, della trascuratezza non tanto materiale, quanto intersoggettiva, nell’ambiente di attaccamento primario, delle capacità emotiva di scambio e di empatia con le figure di attaccamento deficitarie. È stato notato come ciò giochi un ruolo fondamentale nella psicopatologia adulta dissociativa (Liotti, Farina 2011). Di fatto non è improbabile che lo sviluppo di relazioni primarie che non siano fallimentari in termini di neglect fungano da fattore protettivo nelle nostre pazienti, rispetto alla disorganizzazione dissociativa, impedendo che a dispetto dei traumi estremi si strutturino entità inconciliabili all’interno della loro mente adulta. Per usare le parole di Ellert Nijenhuis, «le funzioni integrative della mente umana possono essere ostacolate da eventi soverchianti specialmente quando tali eventi cominciano precocemente nella vita, sono ricorrenti, implicano minaccia al corpo e alla vita stessa e sono accompagnati da un attaccamento compromesso e da una mancanza di riconoscimento e di sostegno sociale» (E.R.S. Nijenhuis, J.A. den Boer 2008). Quando si ha questo ‘accompagnamento’, o meglio quando il neglect genera un tipo di attaccamento disorganizzato, allora la fenomenologia psicopatologica si dispone secondo un disturbo dissociativo, come nel caso di Aisha. Ovviamente le ipotesi di risposta formulate richiederebbero ben altre esplorazioni e ricerche, rispetto alle semplici osservazioni fenomenologiche sul campo che abbiamo proposto, dalla prima linea del nostro operare clinico quotidiano, indagini che ci auspichiamo poter realizzare in futuro. A conclusione di questo capitolo sulla schiavitù riportiamo un brano da Sangue giusto, di Francesca Melandri (2017), per mostra-
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re come la schiavitù continui ad essere un problema (e non solo pratico o politico), anche quando si abolisce: Gli ex schiavi erano tanti. Avevano fame e trovavano naturale lavorare dall’alba al tramonto in cambio di una manciata di teff. Alla fine di aprile, poche settimane prima della vittoria, il generale Badoglio aveva emanato un bando. Genti del Tigrè, dell’Amara, del Goggiam, udite. La schiavitù è avanzo di antica barbarie che vi espone al disprezzo del mondo civile. Ma dove è la bandiera italiana non può essere la schiavitù. La schiavitù è quindi soppressa. È bandita la compera e la vendita di schiavi. Gli schiavi che sono nei vostri Paesi sono liberati. Chi contravverrà alle disposizioni del presente bando sarà punito secondo la legge. Nei crocicchi dei villaggi e delle cittadine si organizzarono cerimonie pubbliche in cui interi gruppi di schiavi furono affrancati. Quasi tutti chiesero, “E ora chi mi darà da mangiare?”. Nessuno però tradusse in italiano le loro parole. Ce n’era uno senza denti, la pelle che gli pendeva dalla schiena come un vestito sformato. Attilio l’aveva scortato via dalla casa dove lavorava tra le proteste dei suoi padroni. Il vecchio gli si prostrò ai piedi, afferrò tra le mani uno dei suoi stivali e cercò di metterselo sopra la testa, senza smettere di biascicare. Attilio lo prese per un eccesso di gratitudine e con imbarazzo magnanimo se lo scrollò dal piede. Poi si allontanò, senza curarsi di capire le parole del vecchio. Non seppe mai che gli stava dicendo “Comprami, non farmi morire di fame”. Per le schiave liberate fu più facile trovare di che nutrirsi: molte presero a gravitare intorno all’esercito italiano mettendo in offerta i loro servizi. La domanda tra i soldati non venne a mancare. Talvolta furono pagate, più spesso no.
6. Le voci del torturatore e la geopolitica clinica di Sironi Emilio Vercillo
“Questo predatore dell’interiorità non è per niente ciò che sembra: uno sguardo più attento ci fa scoprire che è una guida per la sopravvivenza, installata nel corpo, e creata da un bambino: un’armatura a scaglie che protegge un ventre morbido e vulnerabile. questa armatura è formata da un mosaico di dolorose lezioni tratte dal feroce mondo (Steele 2009) “Il terapeuta deve rendersi dichiaratamente complice del paziente, il suo ruolo è diventare l’antidoto al carnefice attaccando il colpevole» (Sironi 1999)
Si confronti il seguente brano: Le parti che imitano l’aggressore spesso vivono letteralmente loro stesse (e vengono vissute dalle altre parti) come l’aggressore del passato: è comprensibile che inducano paura e vergogna all’interno del paziente nella sua totalità, e, a volte, paura nel terapeuta. …È essenziale che i terapeuti comprendano il ruolo delle parti che imitano l’aggressore nello sviluppo del sé e della personalità complessiva del paziente. Non sono qualcosa di cui “sbarazzarsi” (come spesso desidera il paziente), non sono il vero aggressore del passato e i loro sentimenti e pensieri non sono esclusivamente quelli di tale persona. …. La capacità del terapeuta di accogliere queste parti e queste emozioni -senza tollerare comportamenti violenti- può portare queste parti estremamente difensive a diventare uno dei migliori alleati della terapia (Blizard, 1997; Boon et al.2011; Kluft 2006; Schwartz 2013; Van derHart et al 2006)
con questo che segue: “Il torturatore non usa sempre le stesse tecniche: cerca di individuare i punti di forza della vittima per disattivarli. All’inizio della terapia si cerca di capire perché è stata usata una tecnica [di tortura] invece di un’altra”, .... La prima fase della terapia è come un corpo a corpo con il torturatore, una partita a scacchi. “Il torturatore interiorizzato continua a essere una voce che par-
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la nella mente del torturato, anche dopo che la persona è stata liberata dal carcere”, …A volte la dottoressa prende una sedia vuota e la mette vicino al paziente per evocare il carnefice. “Che gli diresti se fosse qui?”, chiedo. “Il pensiero della vicinanza con l’aguzzino scatena delle reazioni fisiche di paura”. Scoprire la logica del torturatore e stimolare la rabbia nella persona che ha subìto violenza è il compito della riabilitazione [Nota dello scrivente: per riabilitazione l’autrice intende terapia]. La rabbia, quando arriva, è positiva: è il primo segnale che la persona sta per espellere la logica violenta che ha interiorizzato.
Il primo è estratto da Treating Trauma-Related Dissociation. A Practical, Integrative Approach, di Steele, Boon, Van derHart (trad it. 2017 a cura di Giovanni Tagliavini), un sintetico, ma denso e completo compendio dello stato dell’arte clinica in tema di trauma e dissociazione, da parte di autori largamente riconosciuti nell’ambito della Psicotraumatologia. Il secondo (tratto da “I medici che curano le ferite invisibili della tortura”, un articolo su Medici senza Frontiere di Internazionale, 25 luglio 2017) è una buona sintesi da parte di Lilian Pizzi (la psicologa di Medici senza Frontiere intervistata) dei concetti terapeutici base della Psicologia Geopolitica Clinica, una disciplina inventata dall’autrice francese Françoise Sironi, che con le sue idee costituisce da anni un punto di riferimento per molte persone che si interessano di temi come la tortura o le violenze politiche di massa, in contesti al di fuori dal settore specialistico internazionale che si occupa di clinica del trauma in psicologia e psichiatria. Come appare fin troppo evidente dal confronto, nell’occuparsi delle ‘voci dell’aggressore’ le posizioni e l’idea stessa di cosa porta alla guarigione dalle conseguenze del trauma (se non proprio l’dea di guarigione) non potrebbero essere più lontane. Proveremo in questo capitolo a spiegarne le premesse, i modi e le distanze. Non è questa la sede per trattare in maniera adeguatamente completa quello che si sa nel mondo scientifico intorno alle conseguenze delle esperienze traumatiche, ma vale sottolineare che per il mondo della psicotraumatologia il trauma è tale in quando induce nella persona una perdita di quella capacità integrativa dell’esperienza che costituisce in sé un sinonimo di sanità (Janet, 1889). È proprio sin dall’epoca di Janet (le cui idee, che oggi si trovano alla
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base della psicotraumatologia e della clinica della dissociazione, furono oscurate dalla fama di Freud persino nel suo paese di origine, la Francia) che si riconosce nella frattura operata dal trauma all’interno della persona il meccanismo patogenetico basilare delle manifestazioni sintomatologiche. Questa rottura interna dell’esperienza di sé (come entità percepita unica nel contenuto della coscienza, come processamento coordinato delle informazioni del mondo nella forma del pensiero, o persino come corporeità definita) si riflette nella frattura percepita del mondo, dai suoi parametri essenziali come il tempo e lo spazio, fino al mondo relazionale, umano (cfr. capitolo 4). Quanto più le basi fondative dell’individuo (cioè la sua storia di attaccamento), o lo sviluppo infantile sono stati compromessi (per esempio non solo da un neglect genitoriale -vero trauma d’attaccamento- o da traumi diretti nell’epoca infantile, ma anche dal crescere in una atmosfera perdurante di guerra, di instabilità permanente per la sicurezza), tanto più esiste il rischio di una strutturazione frammentata della persona (Liotti, Farina 2011). In queste ultime evenienze non si tratterà di una frattura che avviene in una struttura più o meno integra, ma dell’impossibilità del formarsi stesso di una struttura integrata nel corso dello sviluppo, o, per riprendere la metafora ortopedica, di un deficit di ossificazione più che di una frattura, con il formarsi quindi di nuclei strutturati separati tra loro. Questo è naturalmente il caso dei Disturbi dissociativi, ma anche per i Disturbi post-traumatici semplici vale il modello della presenza di più Sé nella stessa persona. I fenomeni di flashbacks, gli incubi, le reazioni di soprassalto e i terrori improvvisi sono l’evidenza di una parte del paziente che è rimasta intrappolato nel tempo del trauma, e cerca una e un’altra volta una soluzione per uscire, laddove la Parte del paziente orientata alla vita quotidiana (già chiamata Parte Apparentemente Normale (ANP)) sa benissimo in che tempo è e dove si trova, e vorrebbe sbarazzarsi totalmente e presto dell’altra. Questo nei casi più semplici di disturbo post-traumatico. Ma nei casi di PTSD di sottotipo dissociativo, e ancor più nei casi di PTSD complesso, i nuclei più o meno strutturati in cui la persona si trova ad essere divisa possono essere molteplici, e possono svolgere vari ruoli. Ad esempio ognuno può incarnare uno dei vari sottosistemi motivazionali
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che sono alla base degli esseri umani: il sistema di difesa di base (quello addetto alle risposte al pericolo per la sopravvivenza), il sistema di ricerca sessuale, il sistema di attaccamento (la ricerca di intimità e protezione), o il sistema di rango (quello deputato alla competizione per un potere gerarchico, ma anche al giudizio di bene-male, superiore-inferiore, giusto-sbagliato), con varie commistioni tra queste nella stessa parte. E per fare questo, per incarnare questi ruoli, le parti si basano su modelli tipici desunti dall’esperienza, dai personaggi reali che nella vita hanno incarnato proprio quell’aspetto. Ora bene, non sorprenderà il fatto che durante l’esperienza della tortura la coscienza sia alterata, e lo stato alterato di coscienza, di tipo ipnotico, registra in maniera alterata i dati dell’esperienza in atto, facilitando ad esempio la logica ‘ipnotica’ con cui la parte identificata con il torturatore pensa realmente di essere quegli. Inoltre l’esperienza della tortura possiede quel carattere di ripetitività (è definita tortura quel tipo di violenza che ha uno scopo preciso esterno all’atto violento in sé; e che ha caratteristiche di ripetitività se non continuità, non è puntiforme) che impedisce il recovery dalla coscienza alterata, e anzi amplifica nell’attesa il terrore del ritorno della violenza. Vale a dire essa costituisce nell’età adulta l’evenienza più simile a quella dei traumi cumulativi, ripetitivi che troviamo nelle storie infantili dei Disturbi dissociativi, e non sorprende pertanto che le corrisponda un’alta possibilità di sviluppo di fenomeni dissociativi, come appunto è l’esistenza di una parte identificata con il torturatore. Anche la conseguenzialità di disturbi patologici, di incidenza della patologia, è curiosamente più o meno simile. Se “la tortura è il fattore determinante singolo di maggior forza per il PTSD” (Steel et al. 2009), è anche vero che “ogni vittima di tortura sperimenta la sofferenza in maniere differenti, e anche il dolore fisico inflitto dalla tortura non produce lo stesso esito psicologico in tutti” (Schubert, Punamäki 2016). Infatti la prevalenza di disturbi posttraumatici nella popolazione di torturati si aggira intorno al 45% nella estesa review di Howard Johnson & Andrew Thompson (2007), o al 31% nella meta-analisi di Steel et al. del 2009. Numeri simili si trovano nelle ricerche retrospettive o prospettiche, su po-
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polazione con abusi infantili -più difficili da realizzarsi- (per es. Cloitre et al. 2014). Questa incidenza, ben lontana dal 100%, apre un discorso vasto sui fattori determinanti della patologia post-traumatica (oltre ai traumi), mostrando spazio per fattori genetici forse, e sicuramente per le basi di stile d’attaccamento dell’individuo: nel determinare la resistenza di un edificio al terremoto le fondamenta giocano un ruolo essenziale, e un attaccamento disorganizzato mina la stabilità dalla base, oltre a fornire i nuclei intorno ai quali si struttureranno le parti dissociate dell’individuo. Nel capitolo di questo libro sulla schiavitù in Mauritania, si parla di come queste considerazioni generali teoriche confortino l’osservazione clinica. Inoltre, la questione si sposta sui fattori di resilienza personali e gruppali, su quali fattori pre- e post-traumatici possono favorire il recovery dalla violenza del trauma (v. cap. 1). Riprenderemo più avanti quali sono le funzioni della parte identificata con il torturatore, e le conseguenze terapeutiche che procedono da questo modello, ma è importante sottolineare subito come ogni parte provi una repulsione verso l’altra (designata con il termine fobia delle parti), e come cerchi di sopprimerla o sbarazzarsene, e come il trattamento di questa particolare fobia tra le parti sia un obiettivo prioritario in terapia, per favorire -come accennato nel primo brano riportato- un’alleanza dei suoi sottosistemi proficua per la persona, e procedere verso una futura integrazione. Dedichiamoci ora a comprendere e riassumere il sistema di pensiero tutto differente della Sironi, dalle sue premesse alle sue conseguenze tecniche nell’intervento terapeutico. Innanzitutto, il progetto che la guida è quello di “restaurare la dimensione politica nella pratica psicologica” (Sironi 2004, 2010). Il mondo politico generale della storia collettiva cerca sempre e innanzitutto di cambiare la psicologia degli individui; alcuni rivoluzionari l’hanno capito bene, come per esempio i khmer in Cambogia. Per cui, ne deduce Sironi, l’azione psicoterapeutica deve avere come funzione quella di contrastare tale volontà politica. Per dirla con le sue parole: Cambiare per essere liberato dalla teoria, dal modo di pensare di un altro, cosa che mi sembra essere l’obiettivo della psicoterapia [sottolineatura dello
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scrivente]. Allora restaurare significa integrare attraverso il lavoro terapeutico diversi aspetti …, e darsi la possibilità tecnicamente di restaurare la dimensione collettiva.… [È] una necessità, perché tutto è politico nel mondo e i professionisti della salute e gli psicoterapeuti devono saperlo. (Sironi 2004)
Per questo motivo ha battezzato la sua pratica Psicologia Geopolitica Clinica. La geopolitica riguarda l’apparizione di nuovi Stati, le rivendicazioni di indipendenza, il tracciato e l’analisi di nuovi confini. La geopolitica tratta anche della scomparsa di popoli e di nazioni, dei conflitti territoriali, e della espansione di nuove ideologie politiche, economiche o religiose. La geopolitica concerne anche i problemi politici all’interno di uno Stato, e le rivendicazioni territoriali, culturali e religiose che nascono all’interno di esso, a livello pan-nazionale o pan-regionale. […] Nella pratica clinica l’approccio geopolitico significa prendere in conto, lavorare clinicamente e concretamente coll’impatto normale o patogeno della storia collettiva sulla storia individuale. (Sironi 2010)
Orbene, sarebbe errato pensare che oggetto di questa nuova disciplina siano solo le conseguenze sull’individuo di quei regimi che hanno esplicitamente voluto influenzare la mente dei cittadini; infatti “La geopolitica clinica concerne anche l’impatto del liberalismo totalitario sulla psicologia delle persone”, vale a dire in ogni caso corrente di sofferenza mentale è doveroso vedere l’azione politica che vale a determinarla, a compiere, nei termini dell’autrice, l’effrazione. Il primo passo pratico della psicologia geopolitica clinica è infatti “sistematizzare l’analisi dell’impatto degli avvenimenti politici sull’individuo e sulla famiglia”, pena il rischio di non comprendere la realtà di quanto ci si presenta nella psicopatologia del soggetto. È fondamentale chiarire che questa posizione della Sironi viene giustificata per contrapposizione a quella che lei chiama “psicoanalisi”, vale a dire una teoria per la quale tutto ha origine all’interno dell’individuo, come sistema chiuso, senza influenze esterne in nessuna fase della vita; l’autrice pare all’oscuro dell’esistenza di altri modelli nel mondo oltre che quella forma di psicoanalisi di cui parla, o anche della stessa esistenza di una disciplina chiamata psicotraumatologia. Delineato così l’avversario teorico con l’utilizzo di un argomento straw man, Sironi contrappone alla psicoanalisi la sua tecnica, che consi-
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ste nel combattere l’influenza nefasta del sistema politico (o del suo strumento, il torturatore, come vedremo più avanti) attraverso il soggetto vittima. Alcuni esempi, di cui è ricca la pubblicistica della Sironi, valgono a illustrare la sua tesi patogenetica, e la sua tecnica di ‘sistematizzazione’ dell’impatto della politica sulla vita dei singoli; per esempio i due casi riportati in Sironi (2004), che, per non essere di migranti forzati da zone di violenza collettiva, si prestano meglio (cioè senza possibili mascheramenti dati da violenze politiche manifeste) a chiarire la sua posizione. Nel primo caso una donna che da giovane segue il marito in una comunità hippie ad Ibiza, ma, anche se totalmente dipendente da lui, non si adatta ai tradimenti del marito, ideologicamente giustificati da tutta la comunità: la fedeltà infatti è cosa borghese; lei conseguentemente si sente “diversa”, anomala, sbagliata. Passati molti anni, uscita ormai da molti decenni da quella comunità con i due figli, sviluppa una “depressione”, mentre allo stesso tempo è iperattiva nel campo dell’impegno sociale. La “depressione” attuale viene quindi letta dalla Sironi come esempio del risultato della ideologia escludente la persona nella comunità della sua giovinezza, che ancora oggi fa sentire la sua influenza sulla mente della paziente. Il tema del tradimento della fiducia in quella lontana relazione matrimoniale, il danno personale, e la stessa storia di attaccamento non vengono esplorati nella storia della paziente, la cui depressione è invece “il risultato di tentativi falliti di costruzione su un mondo ideologico”. Un secondo caso riportato come esempio di come influisca la politica sul corpo è ancor più esemplificativo della lontananza dal mondo scientifico del pensiero di Sironi. Si tratta di un uomo di 85 anni, che per la sua origine alsaziana ha attraversato tutte le traversie di quella zona contesa tra Germania e Francia (la Sironi condivide la stessa origine alsaziana). Orbene in età avanzata sviluppa una demenza, e l’autrice ne parla in questi termini: Da quel momento si evidenzia un principio di demenza sotto forma di Alzheimer e può darsi anche una patologia di Parkinson. Sono, queste, patologie che hanno in comune il fatto di andare ad intaccare il tessuto neuronale, centrale o periferico, del sistema nervoso: un rallentamento, una disorganizzazione nel funzionamento dell’intelligenza degli organi non è senza rapporto con gli avvenimenti della vita.
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Vale a dire che riesce addirittura a leggere la demenza e il Parkinson di un soggetto 85enne come il risultato del suo problema d’identità risalente alla sua origine alsaziana di “reietto”, un altro modo in cui la politica ha invaso il campo della salute individuale. “Da qui la proposta della seduta di psicoterapia come spazio di accoglienza, di testimonianza”; evidentemente come terapia della demenza di quel vecchio alsaziano. Di fatto anche la dissociazione è conseguenza della azione politica del potere, come difesa operata dal soggetto per sopravvivere. Qui si nota il persistere del concetto di dissociazione come difesa di marca psicoanalitica, ma interpretato in chiave di dissociazione “politica”: “Per poter adattarsi a un sistema politico psicotico (cioè che nega la realtà per privilegiare una società ideale), la personalità si “atomizza”. Le diverse parti di sé vivono per conto proprio: dare il cambio da una parte, e cercare di non essere distrutto psichicamente dall’altra. Lo “splitting” (scissione mentale) diventa una regola d’oro per sopravvivere psichicamente. Stati di depersonalizzazione, di dissociazione e di confusione dell’identità si verificano in queste situazioni. È preferibile rinunciare ad avere un’identità propria per difendersi meglio contro l’annientamento.”. (Sironi 2010). Anzi dalla persecuzione politica, o violenza politica -così come da lei definita- derivano tutte le patologie, che lei enumera nella seguente lista: 1. Traumi intenzionali e psicosi traumatiche. 3. Paranoia indotta. 4. Stati schizoidi e schizofrenie, indotte dal sistema politico. [sic] 5. Depressioni gravi e cicliche. 6. Sofferenza da lavoro e disturbi psico-somatici. 7. Condotte ossessive. 8. [ed anche] la normalità vista [da lei] come patologia, o “normosi”
Delineata l’effrazione politica sul soggetto, compito della pratica clinica è “rendere il paziente capace di affrancarsi dai condizionamenti e dalle catene interiori. Altrimenti la terapia rimane uno strumento di adattamento sociale” (Sironi 2010). Ovviamente l’adattamento sociale è visto in termini negativi come un’altra forma
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di effrazione da parte del sistema, la “normosi” di cui al punto 8. Asserisce chiaramente: “Si deve lavarli dalla violenza collettiva indotta.”, e questo lavaggio comporta l’escissione dell’effrattore all’interno del sistema stesso del paziente, come la voce del torturatore che deve essere espulsa. In questa visione generale è chiaro che l’obiettivo dell’intervento, il nemico contro cui scendere in campo armati di tutte le tecniche psicogeopolitiche, non è il malessere del paziente, ma il vero autore di questo, il sistema politico o la violenza del suo agente torturatore, con cui infatti, così nel brano riportato all’inizio del capitolo, il terapeuta “ingaggia un corpo a corpo”, attraverso il paziente e il suo corpo, come diffusamente spiegato dalla Sironi nel suo libro più noto, Bourreaux et victimes. Psicologie de la torture (Sironi 1999). Membro di una cultura ossessionata dalla Parola, la Sironi vede proprio nella parola e nel pensiero del torturatore la causa traumatica: “Sono parole che tormentano e rendono questi pazienti muti, ripiegati su se stessi, bloccati, spesso irritabili e sempre stanchi, incapaci di pensare o anche di ricordare con precisione”. Tutti i sintomi, compreso anche il deficit di concentrazione, sono spiegati con l’inserzione delle parole del torturatore: il corpo estraneo che deve essere combattuto ed espulso. “È l’effrazione violenta di un altro che ci invade, ci influenza e ci modifica: a essere colpite sono le strutture del pensiero, con una serie di disturbi nella sfera cognitiva spesso trascurati rispetto a quelli della sfera affettiva. E invece la tortura è proprio questo: un trauma di ordine intellettuale”. “Noi lavoriamo sul pensiero, piuttosto che sull’emozione”, afferma chiaramente. Si intenda: la Sironi attua una presa di posizione contro il fantasma del predominio psicoanalitico delle emozioni, e il ribadire che è il pensiero (per lei questo si identifica con la parola) intenzionale della politica ad essere patogeno, da cui il lavoro ‘intellettuale’ (non emozionale) della terapia. Anche in questo caso, una posizione opposta al lavoro di stabilizzazione di fase 1 del lavoro sul trauma, e a tutte quelle tecniche che lavorano sull’ampliamento della finestra di tolleranza alle emozioni (cfr. capitolo 5), come preliminare a qualsiasi lavoro sulle memorie (Judith Hermann 1992, Van der Hart et al, 2006); un lavoro su un trauma di ordine intellettua-
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le sarà poi ancor meno disposto a vedere il corpo come il destinatario della violenza e soprattutto come il custode e il continuatore del trauma, come osservato ormai da tempo nella ricerca sugli effetti del trauma (cfr. ad es. Van der Kolk 2014). Nel libro citato, ricco di esperienze cliniche e dei vissuti personali dell’autrice, questa descrive in termini chiari le manifestazioni sintomatologiche del disturbo post-traumatico, inclusi quei fenomeni di depersonalizzazione, e di “non sono io” che indicherebbero chiaramente una natura dissociativa, ma per l’autrice si tratta solo dell’effetto diretto delle intenzioni del torturatore. Anche l’uso di una diagnosi come PTSD viene sdegnosamente respinto, perché indicherebbe qualcosa di statico, rispetto al processo trasformativo della tortura (afferma che per lei le diagnosi della psicopatologia sono enti immobili, senza decorso…), e soprattutto perché la diagnosi di PTSD introdurrebbe nel lavoro la persona del paziente, cosa che la psicologia geopolitica respinge come inutile e fuorviante, come si vedrà più avanti. In maniera contraddittoria e incerta Sironi si smarca tuttavia dal modello relativista etnopsichiatrico (il suo punto di riferimento generale, avendo diretto il Centro Devereux) laddove afferma con chiarezza in più di una sede che qualunque sia la provenienza culturale, i racconti e anche le parole sono sempre gli stessi (Sironi 1999, tradit. Pg 44, p. 46). Però più avanti (Ibidem, p.72) esplicitamente dichiara a contrasto che i pazienti “si ammalano in maniera culturalmente conforme”. Peccato che come esempio dell’ammalarsi in modo culturalmente conforme riporti una questione di parole e concetti, non una fenomenologia differente della sofferenza della persona: un paziente curdo che usa un termine della sua lingua per esprimere il suo malessere, un termine che non trova una corrispondenza nel francese, da cui il differente ammalarsi culturale: di nuovo è la Parola differente che crea la realtà differente. Questa confusione non sempre ingenua tra il dito e la luna, tra la presentazione di superficie e la struttura, informa spesso le teorie relativistiche radicali dell’etnopsichiatria, e a volte anche di qualche psichiatra transculturale. Come risulta chiaro a chi si occupa di linguistica, i termini che designano i vari colori nei vari idiomi possono essere molteplici, e corrispondono a categorie conoscitive differenti: il nostro verde può essere
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un tipo di ‘giallo’ in altre lingue, ma ciò non toglie che la frequenza delle radiazioni di quel verde sia sempre la stessa in Russia come in Senegal. La teoria della tecnica terapeutica è enunciata chiaramente: il principio cardine è “l’attacco al colpevole” (p.114); e quindi il problema che le si pone è “come considerare la responsabilità dell’altro e come includerlo nello svolgimento della terapia”, vista la necessità di introdurlo essendone la causa. È proprio in quanto la sintomatologia “è la conseguenza dell’interazione con l’altro”, che questi, il torturatore, deve pertanto essere incluso in terapia. Con un salto logico che ha una sua oscurità, ne deduce che interessarsi a cose come l’angoscia del pericolo e della morte, la colpa del sopravvissuto, o altri affetti del paziente è deviante e incorretto, in quanto individualizzerebbero le sofferenze del paziente (Ib.p.114): queste sono invece la conseguenza diretta della volontà e dell’azione del torturatore, e non avrebbero niente a che fare con le emozioni della vittima (p.115). Di conseguenza al centro dell’interesse del terapeuta e del suo agire non bisogna porre il paziente, ma la terapia “deve spostarsi e focalizzarsi sull’azione del carnefice, per ritrovarne la traccia”. Perché bisogna ignorare il paziente? E perché è inutile e pericoloso chiedergli “mi parli di te?”? Ma perché “il carnefice non si rivolge mai alla persona che tortura, ma al gruppo di appartenenza …. facendo credere al paziente di voler colpire lui come individuo”. Da qui deriva il rifiuto di qualsiasi atteggiamento di ascolto del paziente (p. 119), e di ogni tipo di intervento che possa soggettivizzare la sua esperienza e il suo sentire: interessarsi direttamente al vissuto e alla sofferenza della vittima varrebbe infatti come continuazione e perfezionamento dell’azione del carnefice. Lo ha affermato con nettezza al principio del libro: il peccato originale della psicopatologia “occidentale” è occuparsi delle conseguenze nella persona dei danni prodotti, invece di occuparsi di chi quei danni ha prodotto. Per Sironi la tortura è patogena perché 1. il soggetto non capisce l’intenzione del suo torturatore, o quanto meno “la sua teoria del torturatore”, 2. perché si identifica con lui [eppure aveva criticato le teorie della identificazione con l’aggressore]. Per questo ogni volta che il paziente vuole parlare di se stesso, bisogna rinviare al carnefice (p.131): “L’azione del terapeuta deve spostarsi e focalizzarsi sull’azione del carnefice”. E infatti la terapia psicogeopolitica
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ha come obiettivo distogliere la persona dal suo star male, per cooptarlo in una caccia al torturatore, in cui consisterebbe di fatto il lavoro terapeutico, sotto la sua apparenza di occuparsi del paziente. Le tappe della campagna sono ben designate: 1. “isolamento del frammento di alterità” (i pezzi del carnefice lasciati all’interno della vittima come un horcrux di Voldemort in Harry Potter); 2. le induzioni attive e la mobilizzazione della violenza della vittima, che porta a 3. l’espulsione del torturatore. Da una parte questa pratica identifica la terapia con una pratica esorcistica (che l’autrice rivendica per orgoglio etnopsichiatrico: il lavoro terapeutico corrisponde al lavoro dello stregone p.119), e il vero obiettivo del suo interesse è il carnefice, o per lo meno il suo horcrux, che sembra per l’autrice essere la stessa cosa, vale a dire il torturatore è entrato senza processo di assimilazione nel sistema proprio di quella persona vittima. Non c’è dubbio che l’oggetto della sua terapia geopolitica, il torturatore, eserciti un indubbio fascino su di lei; e di fatto le pagine più avvincenti e interessanti sono proprio quelle scritte da Sironi sul torturatore e la sua formazione. Dall’altra la sua teoria ricorda da vicino quella dell’unguento armario o polvere simpatetica, una teoria del primo ‘600 ricordata da Umberto Eco nel suo libro “L’isola del giorno prima”. Secondo questa teoria medica dell’epoca alchemica, esiste una corrente magnetica di ‘simpatia’ a unire la causa e l’effetto, per cui una medicina utile a curare una ferita non va apposta sulla carne malata, bensì sull’arma che l’ha procurata, per poter agire pienamente secondo un modello che si voglia etiologico, e non puramente sintomatico, perché lavori su cosa ha causato il danno e non sulle sue conseguenze nella vittima. Questo perché l’arma nel ledere la carne ha lasciato qualcosa di sé, permettendo così di preparare il magico unguento con il sangue del ferito. (Digby 1989). Come si vede l’argomento è assolutamente sovrapponibile a quello di Sironi: per guarire bisogna intervenire sull’agente lesivo, sul torturatore, ignorando le ferite sul paziente, usando quello che il carnefice ha lasciato nella vittima. Per intraprendere questo blitzkrieg, il terapeuta deve svolgere un’azione uguale e simmetrica a quella del torturatore, una azio-
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ne improvvisa di cattura e rottura che definisce la seconda effrazione. E se era stato il potere della Parola del seviziatore a compiere la prima, sarà la Parola a compiere il secondo miracolo, la Parole Active con valore sciamanico (p.131). Con la parola deve sorprenderlo, e forzarlo ad allearsi con lei; per far questo (che nella clinica psicotraumatologica costituisce la pericolosa alleanza del terapeuta con la ANP, la parte apparentemente normale, contro un’altra parte dissociata del paziente) il terapeuta deve dimostrare di conoscere bene il carnefice, le sue tecniche, le sue intenzioni, i suoi effetti sulla persona che ha davanti; e necessariamente deve anche dimostrare di conoscere il gruppo politico o etnico di appartenenza del paziente, e sapere perché questi è stato oggetto di sevizie: avvenute non in quanto persona, sia chiaro, ma in quanto membro di quel gruppo. Questo svelamento di sapienza da parte del terapeuta faciliterà l’alleanza, che deve necessariamente includere i “riferimenti teorici” dei due alleati, che devono essere condivisi. Compiuto questo, può iniziare la caccia al carnefice e alle sue intenzioni. Il fine di tutta l’operazione è “la mobilizzazione della violenza feconda, della capacità di rivolta” (p.157), una “esplosione risolutiva, dopo la quale i pazienti non sono più come prima”, una violenza che ha come risultato la chiusura della effrazione e l’ingresso in una nuova vita, il tutto tramite “l’espulsione” dell’horcrux. Tanto fondamentale è questa violenza nel processo di “guarigione”, che Sironi, nonostante sia ben consapevole della ri-traumatizzazione dei flashbacks (che lei chiama abreazioni), permette lo stesso che questi quadri allucinatori facciano il loro corso per intero senza tentativi d’interruzione da parte del terapeuta, nel caso in cui il paziente ha una risposta di ribellione o contrasto al torturatore, anche se avvengono in uno stato alterato di coscienza, non integrabile e forse anche non memorizzato (p.68, p. 126); per una terapia che svaluta emozioni e sensazioni a favore della parola (pensiero formato e cosciente), sembra attribuire un valore salvifico alla rabbia, solo se si tratta di sacro furore rivoluzionario. In realtà Sironi è assolutamente coerente nella sua pratica con le sue premesse e il suo contesto. Da una parte infatti, dichiarando di voler fare una terapia che si identifichi con la politica, ambisce a
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creare un militante attivo, non più piagato dalle sevizie, e a rimandarlo quanto prima in prima fila nel combattimento. In più di una occasione e con coerenza, nel corso degli anni questa autrice ha manifestato disprezzo verso le capacità di adattamento ai contesti, lette come una patologia della normalità. Dall’altra parte, appartenendo a una cultura che non usa nascondere sotto finti pudori il narcisismo, si vive e si definisce nel corso del libro con varie immagini, utili a comprendere il processo che si mette in atto nella sua mente. Parla di sé di volta in volta come un ‘duellante con il torturatore’, un ‘militante politico alleato del gruppo del paziente’, un militare insomma nell’esercito della giustizia mondiale; ma anche ‘uno Sherlock Holmes’, uno ‘scalatore alpinista’, in un compito eroico che non nasconde il suo lato aggressivo e invasivo nei confronti del paziente: “Rompere, rompere la testa, vecchio mio, entrare, entrare, non lasciarli lì dentro, ne hanno approfittato abbastanza” (p.125), o un ‘picador che aizza il paziente senza tregua, fino all’esplosione risolutiva’ (p.158). Prevalgono le visioni belliche di sé stessa nel lavoro terapeutico: una ‘combattente che lotta contro il nemico interiorizzato’, e un alleato del paziente (p.136) (non nel senso comunemente accettato di alleanza terapeutica, alleanza di lavoro; ma nel senso bellico, ancor più che politico); ‘un’avventuriera’ (p.136); un ‘guerriero che non si lamenta mai, che sa che non può vincere se non si assume il rischio di perdere tutto’; un guerriero che si “colloca da subito, nella terapia, contro il nemico, e che obbliga [sottolineatura dello scrivente] il paziente a posizionarsi al fianco del terapeuta” (p.137), per combattere una guerra lampo (p.139). Quanto meno il suo compito è stanare e cacciare (p.153), un rapimento del paziente, una captazione “sotto controllo” (p.139). In fondo sono loro [i pazienti] a costringere il terapeuta ad agire in questa maniera, sono loro che la vogliono, questa cattura da parte del terapeuta, conformemente alla prima effrazione subita: chi l’ha provata costringe l’altro ad agire “secondo il modello che lo ha plasmato come cera”; la terapia psicogeopolitica deve conseguentemente evitare la soggettività e il vissuto del paziente (al fine di scongiurare la somiglianza del terapeuta con il carnefice che finge di interessarsi alla vittima), e deve invece “riplasmarlo – ma per ‘riumanizzarlo’” –, usando le stesse tecniche del torturatore. Una sacra violenza quindi, buona e giusta, il
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cui campo di operazioni belliche o la cui riserva di caccia è il paziente, ovviamente. *** Scendiamo ora dal campo eroico della psicologia geopolitica alla clinica del trauma, per leggere le voci del torturatore all’interno del sistema della vittima, e accennare al loro trattamento in corso di terapia. Come si diceva in maniera sintetica più sopra, come conseguenza del trauma si formano divisioni all’interno della persona, ‘parti’ della stessa persona con caratteristiche differenti tra loro, e con funzioni differenti, che a volte –come nel caso delle voci del torturatore- prendono le sembianze di persone del passato del paziente. In quelle che hanno subito ripetutamente violenze, è possibile che uno di questi frammenti autonomi parli e “si comporti” proprio come i torturatori. O quasi. Infatti, non essendo effettivamente persone reali, esse non sono soggette ai limiti della realtà. Non invecchiano, non si ammalano, non sono vulnerabili, non hanno un ventaglio di emozioni possibili al di là di quelle di rabbia, sdegno, riprovazione; e sono forti e invincibili. Ricordano insomma un personaggio di un B-movie, senza sfumature. Contengono in realtà sequestrate alcune delle caratteristiche o delle risorse del paziente, risorse di cui questi risulterà quindi sprovvisto nelle sue altre parti. D’altronde, se volessi incarnare in un modello questo estremo di forza e potenza, chi più del mio torturatore si presta a farlo? Si consideri per esempio quanto, in una situazione di violenza subita, il soggetto si senta impotente e imbelle; questo stesso vissuto si ripete nella sua vita anche dopo, ogni volta che uno stimolo ne attiva le reti neurali corrispondenti. Accade proprio in queste situazioni di sentire attivarsi le voci del torturatore, per insultare il paziente e il suo essere inerme e inetto. È possibile osservare a volte in seduta la trasformazione in una statua di sale di una persona capace di interagire fino a poco prima in maniera più o meno abile con il mondo, mentre sta ascoltando le voci del carnefice. Si può vedere in questi casi all’opera la dinamica di tre strutture all’interno della persona: 1) la prima che conserva la sua abilità di mano-
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vra nel mondo -sebbene impoverita-, cede la scena a 2) una parte ‘debole’ e terrorizzata priva di ogni capacità di risposta (che incarna una risposta del sistema motivazionale di sopravvivenza, hyperarousal e/o freezing) ; che a sua volta dà la stura alla reazione irosa della 3) parte con la voce (o le voci) del torturatore, che proprio quella ‘debolezza’ non tollera e attacca. Questa parte è quella depositaria di tutta la ‘forza’ del paziente, ne ha per così dire l’esclusiva, si vive, come si diceva sopra, sempre giovane, invincibile, invulnerabile, e odia le altre, soprattutto l’inetta paurosa che si paralizza appena le attaccano. Qui il plurale ‘le’ è d’obbligo, perché in genere la differenza di reazione delle due parti b) e c) corrisponde però a una identica percezione del trigger come pericoloso. Potrebbe non essere così per la ANP (la parte apparentemente normale, quella che si occupa della vita quotidiana del paziente), capace di percepire lo stimolo come neutro, non pericoloso, senza confondere i tempi e i fatti (non condividendo il pre-giudizio di un tempo circolare; vedi cap. 4); vale a dire che la ANP potrebbe essere in grado di non cedere all’emozione che fa dell’evento attuale una ripetizione del trauma. La ANP è insomma più capace di realizzazione, per usare l’espressione di Janet, ma viene sbalzata fuori dalla posizione di guida dalla veemenza delle reazioni emozionali scatenatesi nel paziente. La conseguenza di questa disuguale distribuzione di ruoli e funzioni nelle parti della persona è il fatto che effettivamente “il circolo vizioso degli abusi del passato si perpetua internamente nel paziente” (Steele, Boon, Van der Hart, tradit. 2017), abusi provenienti dalla parte identificata con chi ha commesso la violenza e che possiede tutta la forza, verso le altre, che rimangono passive e vittime. Eppure, non è questa la sua funzione. Per riassumere il senso generale del perché si formano e si mantengono queste parti, riportiamo la formula sintetica riportata in Steele, Boon, Van der Hart 2017: Le funzioni delle parti che imitano l’aggressore sono: (1) proteggere il paziente dalle (passate) minacce dell’aggressore, intimidazioni che continuano a essere vissute come vere; (2) difendere il paziente dall’insopportabile realizzazione di essere stato impotente e inerme […]; (3) ricostruire, dal punto di vi-
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sta dell’aggressore, i ricordi traumatici cosi come furono mentalizzati […]; (4) fungere da difesa contro la vergogna attaccando il paziente ed evitando le esperienze interne di vergogna; (5) fornire uno sbocco per le tendenze sadiche e punitive del paziente, che egli stesso disconosce; (6) contenere ricordi traumatici intollerabili
Per proteggere il sistema ad esempio è come se dovessero prevenire la ricorrenza di quello che sicuramente sentono che risuccederà, precedendolo. Che cosa vogliono? Liberarsi della parte debole, per saper rispondere e difendersi in maniera adeguata; evitare che il soggetto si esponga ancora a rischi che rendano possibile di nuovo il trauma, a costo di insultarlo, accusarlo delle sue colpe, o criticarlo per tutte le qualità negative che gli sono proprie: non ce la può fare, stia al sicuro nella tana, senza correre o pretendere troppo; prevenire che si attacchi a persone che potrebbero tradirlo e farlo di nuovo trovare esposto: da cui gli attacchi al terapeuta e alla terapia. Certo: non si rendono conto (non-realizzazione) che il pericolo è nel passato. Certo: non si rendono conto che la violenza è stata anche subita da loro, perché trattengono ricordi solo come dalla parte dei violentatori. Certo: pensano di essere proprio loro i violentatori, e questa convinzione è condivisa dalle altre parti del sistema, anche dal paziente. Come si comprende, in questa ottica la cosa peggiore sarebbe allearsi con un frammento del sistema, fosse pure la parte adeguata alla vita quotidiana, la ANP, per espellere l’altra -ammesso che sia possibile-. E il paziente già sta cercando di farlo da tempo, nel gioco di repulsioni, paure, rabbie delle voci e contro-rabbie della persona contro le voci. Senza riuscirci. Se l’obiettivo è l’integrazione interna della persona, il primo passo è la negoziazione per ottenere un compromesso e successivamente una coordinazione tra le parti, superando la reciproca fobia. È quello che in psicotraumatologia si chiama il lavoro sulle parti (preliminare a qualsiasi lavoro sulle memorie del trauma occorso, a qualsiasi dover ricordare la tortura da parte del paziente), che si basa sul principio di rimuovere gli evitamenti delle parti tra loro, ed evitare gli atti distruttivi messi in opera da qualcuna delle parti. Infatti, nel caso delle parti identificate con il torturatore, se da un lato queste vanno accettate, comprese e coinvolte, dall’altro devo-
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no aver ben chiaro che si pongono loro dei limiti alle possibili condotte distruttive verso il paziente, verso terzi e anche verso la terapia. Ovviamente, in maniera circolare, per questo lavoro di negoziazione dei limiti è necessario aver ottenuto almeno in parte la collaborazione della parte in causa, ed è in questa direzione che si muovono i primi passi del nostro lavoro: senza prendere posizione – come il paziente vorrebbe – da una parte o dall’altra, il primo compito è riuscire a sviluppare in lui una certa curiosità verso il ruolo di quelle parti. Senza dubbio è cosa difficile, per il terrore che ispirano (anche al terapeuta), e perché la cosa è in sé contro logica: se qualcosa è disturbante e minaccioso, perché non dovrei liberarmene, o chiedere che il medico me ne liberi? Di fatto anche questa posizione del paziente non va criticata, e va accettata, nella sua giustezza: ci sono aspetti minacciosi e pericolosi nel modo di fare delle parti che si credono il torturatore, il cui superamento va posto come obiettivo nella trattativa con loro. Come controvalore bisogna offrire qualcosa, per esempio ammettere il ruolo e la funzione positiva che svolgono almeno nelle intenzioni, e la rassicurazione da parte del terapeuta che non si vuole espellerle (ripetiamo, ammesso che fosse possibile). Si comincerà dalla psicoeducazione per spiegare quello che sappiamo di come si formano queste voci, cercando contemporaneamente con il paziente sia di comprenderne ruoli e funzioni, che di rintracciare tutte le prove che mostrino la natura personale, interna delle voci. Quest’ultimo passo –la non corrispondenza della voce con la persona del passato – va svolto con cautela, per evitare una reazione violenta da parte di quella, convinta come si è detto nella logica ipnotica della sua identità con la persona concreta e reale del torturatore. Prima di questo e necessariamente, il terapeuta deve aver stabilito un’alleanza di lavoro con il paziente, avendo dimostrato per esempio di essergli utile nella stabilizzazione di alcuni sintomi particolarmente disturbanti come l’iperattivazione o l’insonnia, tanto da permettergli di proseguire il lavoro di stabilizzazione lavorando sulla fobia delle parti. L’approccio migliore è come sempre quello sperimentale insieme al paziente; sono appropriate domande come: hai notato quando la voce esce fuori, in che circostanza o contesto? Mi fai un esempio? Secondo te perché proprio in quel-
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la occasione è intervenuta? Come è intervenuta, cosa ha detto? Si tratta di sviluppare curiosità per il momento e l’occasione in cui sorgono le voci, e di guidare l’investigazione comune del paziente e del terapeuta verso il riconoscimento della sua funzione. Nel caso di Angèle visto sopra (capitolo 4), le voci dei violentatori sono all’inizio divise in due gruppi: quelle dei militari che la violentarono ai 12 anni, e quelle dei militari che la torturarono ai 20 anni. La paziente riconosce le voci come distinte. Il primo lavoro avviene cercando con lei quando intervengono le une, e quando le altre. [Inutile dire che anche nel caso di questo lavoro rimanere sul piano semantico, generale, è poco utile, e portare il paziente sul piano dei singoli episodi ha il doppio valore di sviluppare la sua curiosità diminuendo l’avversione, e creare un modello collaborativo di lavoro, oltre a permettere di comprendere la dinamica dei fatti]. Si scopre così che mentre le più antiche entrano in scena quando la paziente è paralizzata dal terrore, quando la sua parte debole non si difende, le altre intervengono quando la ANP si comporta ‘normalmente’, avvicinandosi e fidandosi di persone e situazioni, che le voci ritengono potenzialmente pericolose. Le une insomma vorrebbero che Angèle si difendesse con energia, le altre che sia prudente. Man mano che procede la comprensione delle sue voci, e inizia la trattativa per una espressività meno violenta da parte loro, si perde la distinzione dei due gruppi separati. Diminuisce anche la loro frequenza, e iniziano a collaborare con l’ANP come ‘consulenti’. Per esempio, in una occasione in cui sostiene un colloquio di lavoro per essere assunta come babysitter, Angèle fa per avvicinarsi al bambino, ma la madre del bambino la blocca; Angèle nota un moto di diffidenza e repulsione da parte di chi dovrebbe contrattarla, e che di fatto decide poi di farlo. In questo caso non si paralizza come in passato le sarebbe successo, e questo permette l’intervento in un tono non aggressivo della parte militare, a consigliarle di non accettare un lavoro in una casa con un inizio tanto poco promettente.
A volte è necessario anche smontare credenze culturali tradizionali, quando vengono utilizzate dal paziente come rafforzamento e mantenimento della sintomatologia (non come fattore causale, vedi cap.1): Alassane è un paziente ivoriano che è dovuto fuggire perché secondo la linea familiare avrebbe dovuto ‘prendere il feticcio’, cosa che non voleva fare ‘per le cose orribili che avrebbe dovuto fare’, secondo quello che racconta. Come conseguenza fu acchiappato, portato nella foresta, legato a un albero e torturato. Riuscito a fuggire (per un solito viaggio non indolore dal punto di vista traumatico), a distanza di anni la voce degli uomini del feticcio lo spaventa e lo aggredisce. Anche con lui si scopre che accade nei momenti di ‘de-
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bolezza’, o quelli in cui la sua difesa è inadeguata. Su di lui (importante sapere che Alassane è persona istruita, non disposta, prima delle esperienze traumatiche e dell’insorgere dei sintomi, ad aderire alle credenze magiche tradizionali) l’effetto è misto: infatti in parte è anche presente come un autorimprovero, insieme di tradimento delle tradizioni e di ‘non essere un uomo’. Essersi ribellato comporta una punizione, un non poter essere più capace di difesa e resistenza, come ha confermato la sua esperienza successiva in Libia. Questa interpretazione va a rafforzare la struttura di base post-traumatica, fornendole un cemento che mantiene e stabilizza il sintomo. Solo quando ripetutamente confrontato con vari esempi che dimostrano il tentativo delle voci di volerlo proteggere in concrete situazioni in cui sono intervenute, (laddove gli uomini del fetiche certo non avrebbero interesse a chè potesse difendersi, o a proteggerlo dagli attacchi presenti), Alassane comincia a dubitare della natura ‘magica’ delle voci. La riprova la avrà quando, dopo una seduta, la voce cambierà di tono, cominciando ad accusarlo di volersi sbarazzare di lui; infatti ecco che quella settimana negli incubi sono ritornati tutta una serie di dettagli traumatici che il paziente non ricordava. Evidentemente una delle funzioni della parte identificata con il torturatore era quella di mantenere una serie di memorie, perché il paziente non ne fosse sopraffatto. Ora, nel pericolo di sentirsi scaricato, espulso, li libera per dimostrare ad Alassane quanto non possa fare a meno di lui.
A volte (quantunque raro), come nel caso di Ouria (cfr. capitolo 4), è addirittura sufficiente che il paziente riesca a riconoscere la diversità della voce come fenomeno interno alla persona, dall’aggressore in carne e ossa, per far recedere il fenomeno. Questo sembrerebbe contraddire direttamente la teoria della possessione formulata dalla Sironi. Rimandando per approfondimenti ai testi specifici sulla terapia del trauma, a conclusione vale la pena accennare che preferiamo parlare al paziente, per fare arrivare le nostre parole alle parti identificate con l’aggressore, e non direttamente con loro; ne accettiamo al principio la diffidenza, lavorando per guadagnarsene almeno un atteggiamento neutrale, se non la fiducia. Come diceva la citazione al principio del capitolo da Steele, Boon, Van der Hart (2017), queste parti, depositarie della forza e della capacità di difesa del paziente, possono diventare le nostre più preziose alleate. In conclusione, non c’è dubbio che questa attività di avvicinamento cauto, proposta di lavoro in comune, coordinamento e cooperazione delle parti sia fatto in vista di quella integrazione della persona che costituisce la meta del nostro lavoro terapeutico. Così
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come non c’è dubbio che si tratti di un lavoro più modesto, ingrato per la sua complessità, e difficile per la competenza necessaria, rispetto all’esaltante caccia e all’eroico duello della psicogeopolitica clinica militante della Sironi.
7 Incontri terapeutici tra culture diverse. La mediazione culturale, modi di utilizzo e problemi Emilio Vercillo, Martino Volpatti, Marjan Shalchian
L’efficacia delle consultazioni terapeutiche con persone di culture differenti si basa principalmente sull’azione di interpreti nelle varie lingue o di mediatori culturali (tra questi due termini esistono differenze non indifferenti, come si vedrà). Nel SaMiFo, il servizio in cui operano gli scriventi, si lavora a stretto contatto con mediatori selezionati appartenenti organicamente al servizio, secondo un modello improntato a reciproco rispetto dei ruoli, collaborazione, formazione e soprattutto esperienze di lavoro ripetute nel tempo; tutta l’attività di servizi simili al nostro si fonda sulla cooperazione tra le figure dei professionisti medici specialisti o psicologi ed i mediatori. Di fatto essa non solo si rende necessaria per comunicare in lingue differenti, ma è un fattore che garantisce efficacia agli interventi. Non solo la fiducia reciproca e la pratica rodata permettono l’adeguatezza degli interventi, ma anche la messa in opera di un setting specifico che permetta di usufruire per ogni mediazione e mediatore in maniera ottimale delle utilità di tale configurazione terapeutica. In questo capitolo, prima di dettagliare i possibili modi d’uso della mediazione, e i problemi che possono sorgere, si accennerà ad alcuni fattori che intervengono nelle relazioni terapeutiche all’incontro tra culture differenti. 1. Incontri terapeutici interculturali Con questo titolo generale intendiamo in generale l’incontro tra due persone di differente background culturale, a fini diagnostici o terapeutici, non solo in caso di psicoterapia. Infatti conver-
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genze e divergenze tra le due persone possono sollevare alcune complicazioni ulteriori rispetto a un incontro intraculturale, o quanto meno presentare delle componenti di complessità in più. Oltre a divergenze possibili su credenze generali o specifiche in tema di teorie sulla malattia o sulle pratiche terapeutiche, esistono differenze nella comunicazione verbale e non verbale; possono sollevarsi problemi di razzismo o di pregiudizio da entrambe le parti; si aprono questioni di identità etnica o culturale tra i membri della relazione; sono possibili questioni di rigidità o cecità interculturali da parte del professionista; e infine vanno considerati il transfert e il controtransfert culturali, come vengono chiamati. Tra i fattori in gioco importante è la relazione che il paziente per cultura ha con le figure dotate di autorità, come per ruolo può avere il medico. Se la cultura cui il paziente appartiene possiede un forte senso delle gerarchie, il paziente tenderà a porsi in un ruolo passivo, di prona obbedienza al medico (almeno verbale: il paziente dirà ad esempio di aver adempiuto a tutte le terapie prescritte, anche se non lo ha fatto, obbligato come si sente da un imperativo di non contrapporsi all’autorità); al contrario se appartiene a società più oppositive o negoziative, un atteggiamento di sfiducia e scetticismo che aspetta al più di essere corretto è quello che a priori si forma nel paziente. La relazione tra i sessi ha un’influenza nel momento dell’incontro, e da parte di soggetti in cui l’uomo ha una posizione dominante culturalmente, potrebbe essere un problema relazionarsi con un professionista donna (medico, psicologa, o infermiera che sia). Il transfert culturale si presenta come una serie di atteggiamenti impliciti segnati da sospetto, diffidenza, se non ostilità; o relativi ad esempio a una negazione di problematiche relative alla cultura o a differenze etniche; oppure a una postura ipercompliante, eccessivamente vicina e/o fiduciosa. Nel capitolo dei fenomeni di controtransfert culturale si rubricano ugualmente una cecità alle differenze culturali ed etniche; sentimenti dominanti e impliciti di colpa, rabbia o ostilità verso il paziente (sempre per motivi di gruppo etnico-culturale); o ancora, rilevante da considerare, il clinico può avere una eccessiva curiosità per gli aspetti culturali dissimili, affascinato dalle differenze antropologiche, e per correre dietro a
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questi esotismi può perdere il cammino principale verso l’obiettivo terapeutico: si parla in questo caso in psichiatria transculturale di una “sindrome clinica antropologica” (Hsu & Tseng 1972). Altri aspetti impliciti della relazione sorgono in caso di minoranze rispetto a maggioranze etniche; o tra gruppi con problemi storici di conflitto. Ma non sempre le relazioni sono come ci si aspetta: per esempio un paziente di una comunità minoritaria potrebbe preferire non avere un terapeuta della sua stessa comunità, e non solo per problemi di riservatezza e vergogna (perché le sue debolezze si conoscerebbero), ma per un’implicita disistima; o il caso in cui il paziente non riesce ad avere fiducia nel terapeuta della sua stessa cultura o etnia, proveniente da una probabile condizione sfavorevole, ma preferisce un terapeuta appartenente al gruppo etnico maggioritario. Ad esempio molti pazienti arabi in Israele preferiscono clinici ebrei (Bizi-Nathaniel e coll., 1991); questi autori ritengono ciò avvenga per la sopravvalutazione delle capacità del terapeuta, l’odio verso se stessi, o per “identificazione con l’aggressore”. Al contrario nella comunità spagnola insulare in cui uno di noi ha lavorato, da parte di membri indigeni spesso si esprime il concetto “meglio un medico dei nostri anche se non bravo, che uno forestiero anche se bravo”. Infatti la questione identitaria gioca un ruolo implicito forte nelle relazioni di aiuto. Griffìth (1977) per gli USA arrivò alla conclusione che il fattore principale nel rapporto tra un terapeuta bianco e un paziente nero risultava essere la “fiducia”, mentre nel rapporto tra un terapeuta nero e un cliente nero si trattava dell’“identità”; ma in caso di rapporto terapeuta nero-cliente bianco, lo “status sociale” era la questione dominante. Per altri versi, in caso di società plurietniche, non si ritiene che sia ottimale la scelta di omogeneità etnica di terapeuta e paziente (ma lo stesso potrebbe dirsi per minoranze e gruppi particolari in una società): come dicono Kareem e Littlewood (1992), questa combinazione vincola il professionista e il cliente alle loro identità etniche o culturali, sminuendo l’elemento umano. Difatti soluzioni di questo tipo favoriscono in questo e altri campi la chiusura ghettizzante dell’esperienza. Quanto sopra accennato in caso d’incontro interculturale vale in una relazione a due, se le due persone possono comunicare sen-
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za difficoltà linguistiche, ma gli stessi problemi possono proporsi anche nella relazione a tre che si determina in caso della presenza del mediatore. 2. Scelta del mediatore linguistico-culturale Nonostante gli sforzi di identificare un abbinamento adeguato, il paziente e gli interpreti possono avere reazioni non previste in anticipo l’uno all’altro, che devono essere negoziate nel setting clinico (Leanza et al, 2015).
Etnia, religione, zona geografica, lingua, sesso, status sociale, livello di studi, e orientamento politico del mediatore rispetto al paziente sono tutte variabili che possono facilitare o ostacolare il lavoro clinico. Il genere dell’interprete può essere fondamentale in varie culture, una paziente di sesso femminile può trovarsi in difficoltà a parlare delle violenze subite (magari in famiglia) con un uomo della sua stessa etnia; e se poi anche il clinico è di sesso maschile, la difficoltà è raddoppiata: in questi casi anche se non si è chiesto preventivamente, conviene scegliere di default una mediatrice qualora si sospetti la possibilità di violenze di genere. Ma vale per molte culture, soprattutto musulmane, anche il contrario: con un paziente uomo potrebbe essere problematico avere una interprete donna. Anche in questo campo della scelta della mediazione, come in altri (come estesamente si è proposto in altri capitoli di questo libro), la parola fondamentale è ‘negoziazione’, chiedere al paziente e con lui scegliere la soluzione migliore tra quelle possibili. Infatti, anche se nel parlare con il paziente si ottiene il profilo del mediatore ideale per lui, questi potrebbe non essere disponibile, e toccherà esporre al paziente le soluzioni disponibili, perché il paziente sappia che la sua fiducia in questo caso dovrà determinarsi sulla base dell’unica soluzione possibile, perché a decidere sarà lui. In generale lasciare aperta la possibilità di una negoziazione è fondamentale per l’imprevedibilità delle scelte strategiche che il paziente può fare rispetto ai temi della fiducia e della confidenzialità.
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Una paziente congolese, vittima di numerose esperienze estremamente traumatiche nel suo paese, un giorno decide di confessare una violenza che considera particolarmente infamante a un operatore maschio che non aveva mai partecipato al setting terapeutico, composto da una psicologa e una mediatrice. Successivamente, alla domanda dell’operatore sul perché avesse scelto proprio lui per confidare quel vissuto così doloroso, la paziente risponde: perché le donne parlano troppo.
Per alcuni pazienti è possibile una doppia scelta, usare la lingua della loro etnia, o una lingua veicolare, usata al di là della loro etnia in una zona più ampia; è il caso del francese per molte zone d’Africa, o dell’inglese (Africa, Pakistan, Bangladesh), o del farsi, parlato al di là dell’Iran da parte di curdi o afghani. Anche qui, non è neutro scegliere a favore di una lingua o un’altra, dato che vuol dire spesso avere un mediatore della stessa etnia, o invece un mediatore ‘esterno’ alla sua comunità. Ugualmente, la scelta da parte del paziente non è neutrale, ci comunica un atteggiamento verso la propria comunità, o nel campo dell’identità personale. Un altro problema è quello che si pone nel caso che sia un familiare (o un amico) a fungere da interprete. Questo tipo di pratica deve essere fortemente scoraggiata, tranne che una urgenza non obblighi all’unica soluzione possibile al momento; infatti anche in buona fede è fortemente pregiudizievole il filtro che da un lato e dall’altro un parente può esercitare, non comunicando al clinico informazioni del paziente che ritiene non importanti o vergognose, e viceversa tradurre al parente quello che ritiene possa ad esempio mantenere il potere su di lui (magari tradizionalmente previsto, come un marito nei confronti della moglie). Problemi anche maggiori pone il caso di un figlio magari minore che traduca per un genitore, come accade come effetto della scolarizzazione nel paese di arrivo; in questa evenienza, in cui si realizza una inversione del ruolo parentale, è oggettiva una presa di responsabilità precoce da parte del minore rispetto a ruoli familiari tradizionali, con il rischio di effetti negativi insiti nel contenuto della comunicazione, ad esempio in caso di dover tradurre traumi e violenze sulla madre, ma anche nel conflitto implicito con i ruoli intrafamiliari che comporta.
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Una giovane sposa di etnia pular inizia i colloqui per un PTSD con la traduzione del marito, che parla francese, non avendo trovato un mediatore nella sua lingua. Tutti i sintomi intrusivi riguardavano l’esperienza in mare e il naufragio della barca su cui stavano, con una forte attivazione, e dispercezioni nei momenti di crisi, anche in seduta, in cui sentiva la parte inferiore del suo corpo immerso nell’acqua. La sintomatologia non recede al principio, e solo quando riusciamo a trovare un mediatore e a condurre i colloqui nella sua lingua, emerge un risentimento verso il marito, che ha un’età ben maggiore di lei, e che l’ha costretta a questo viaggio drammatico, laddove lei non era mai uscita dal villaggio in cui era nata e vissuta. Solo dopo questa comunicazione della rabbia la paziente ha potuto migliorare visibilmente.
Non sempre tuttavia l’abbinamento che può sembrare il più adatto per uniformità con la cultura e la lingua del paziente è invece il migliore. In caso di piccole comunità in cui tutti si conoscono avviene che il paziente preferisca non avere qualcuno anche indirettamente in contatto con la sua comunità etnica presente alla manifestazione delle sue difficoltà; si pone in questi casi un problema di confidenzialità. Il rischio riportato sopra in caso di lavoro clinico tra professionista e paziente dello stesso gruppo culturale, con i rischi di chiusura identitaria, ovviamente non si dà con il lavoro a 3, in cui il professionista appartiene a cultura altra dal paziente, ma facilmente potrebbe, in caso di interprete inesperto, e soprattutto non affiatato con il terapeuta, realizzarsi una complicità identitaria tra i due, con una relazione sbilanciata, come si descriverà in seguito. Accade ovviamente anche che il paziente non voglia un mediatore del suo gruppo etnico. Pazienti cinesi affluiti al nostro servizio perché appartenenti a sette di chiese domestiche perseguitate dal governo cinese evitano tutti i membri della comunità cinese in Roma, spaventati anche per le loro famiglie in quel paese. Gli interpreti che è stato necessario reperire per il lavoro clinico sono quindi italiani con conoscenza del mandarino.
A volte più che ragioni politiche sono ragioni proprio culturali a far rifiutare al paziente un mediatore della sua terra. Una paziente azera, di religione musulmana e dall’intelligenza vivace, con alle spalle una storia di maltrattamenti da parte di uomini (padre, marito), ha assistito all’assassinio del marito, per motivi politici nel suo paese. I primi colloqui si svolgono in russo –con una mediatrice russa che lavora nel suo cen-
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tro di accoglienza-, lingua che la paziente parla non bene (oltre alla inadeguatezza di utilizzare personale che ha rapporti con lei al di fuori della situazione di terapia, e non rodata al lavoro con il clinico). La sua lingua materna è una variante del turco, ma la mediatrice con cui lavoriamo in turco non è disponibile per alcuni mesi. Cercando troviamo un mediatore uomo azero che potrebbe tradurci, ma la paziente rifiuta, e non perché sia uomo –un uomo le andrebbe bene-, ma non una persona della cultura che le ha causato tutte le limitazioni di vita, oltre che comunicarle continuamente il suo poco valore e l’inutilità per essere donna.
Questioni di status sociale, casta, ed età hanno una rilevanza che bisogna considerare, soprattutto in paesi in cui le differenze sono rimarchevoli. Un interprete di status sociale alto può vivere una vicinanza sbilanciata con il professionista, e agire anche implicitamente una denigrazione verso il paziente. Nei primi anni ’90 uno degli scriventi, con poca esperienza transculturale, che lavorava in un reparto psichiatrico per pazienti acuti, ricoverò un paziente somalo, la cui patologia risultava poco comprensibile nella sua sintomatologia, con condotte bizzarre. Era stato portato in ospedale perché vagava nudo e assente per le strade di Roma. Si contattò l’ambasciata somala (era ancora in carica il governo di Siad Barre, prima del crollo del paese), e per aiutarci a comunicare con il paziente arrivò un funzionario con un elegante abito di lino color tabacco, e una cravatta intonata. Nel corso dell’intervista si notava un atteggiamento di superiorità e disprezzo da parte del funzionario, che si ingaggiava in dialogo con il paziente senza che potessimo comprendere. Quando esplicitamente gli fu chiesto che ci traducesse quello che il paziente raccontava, risultò che faceva parte di un gruppo etnico isolato dalla vita cittadina della capitale, e con modi critici e svalutanti ci fu detto che diceva di essere come uno ‘sciamano’ nella comunità della sua tribù. Questo ci permise di comprendere gli stati di trance del paziente (perché di questo si trattava), ma non fu possibile in quelle condizioni un intervento adeguato.
In altri casi lo status sociale superiore, l’appartenenza a una etnia maggioritaria nel paese di origine, svolgono un ruolo favorevole, se attivano nel paziente un senso di maggiore fiducia, come già sopra si diceva in caso di interventi interculturali. Anche l’età maggiore può svolgere una funzione facilitante, come nel nostro servizio abbiamo visto nel caso di un esperto mediatore africano, che oltre a conoscere sette lingue dell’Africa occidentale e avere vissuto in vari pae-
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si, era una persona assimilabile a un ‘anziano’, la cui autorità veniva sentita dai pazienti come una garanzia di fiducia.
Come si vedrà infra più chiaramente, parlando di come si può mettere in opera un colloquio con un interprete o un mediatore, risulta fondamentale la formazione specifica del mediatore in ambito sanitario, e una ancor più specifica in caso di interventi nel campo della salute mentale. La questione è ancora più importante dal punto di vista emozionale: in caso di disturbi post-traumatici la narrazione di eventi drammatici o violenti, o anche in genere il vissuto di migrazione e di inserimento, possono far risuonare esperienze simili nel mediatore, e indurre emozioni potenti in lui, se non veri e propri acting-out in seduta (come quello descritto in Leanza et al 2015), con il mediatore che intrude con suoi vissuti nella consultazione); una forma apparentemente meno distruttiva può essere anche semplicemente che se ne esca con manovre di conforto o incoraggiamento al paziente: “tranquillo che passerà, le cose andranno meglio, molte persone ci sono passate, etc”, ovviamente senza coinvolgere il terapeuta nella decisione di esprimersi in questi termini, e magari anche senza tradurre il suo intervento. Questa possibilità di attivazione di vissuti emotivi non tollerabili nel mediatore, comporta da un lato la selezione di mediatori che non abbiano avuto eventi traumatici nel loro passato, o di cui si sia sicuri che siano ben ricomposti riguardo le loro conseguenze. In primo luogo, quindi, si rende necessaria una formazione specifica sul trauma all’interno della loro formazione generale come mediatori. Anche per loro si pone comunque la necessità, come per chiunque lavori nel campo della psicotraumatologia, di misure che prevengano il trauma vicario (vedasi Introduzione in questo libro). In un lavoro (Teegen & Gonnenwein, 2002) in Germania si trovò una prevalenza significative di PTSD tra interpreti usati nel lavoro con rifugiati, la maggioranza non aveva formazione, o erano rifugiati essi stessi, o avevano essi stessi subito esperienze di abuso infantile o depressione, come conseguenze delle esperienze traumatiche. Come Leanza et al. (2015) riassumono, per i possibili rischi di un trauma vicario vanno previsti 1) un legame stretto di organizzazione nel servizio tra mediatori, medici, psicologi, e altre figure che gravitano nel servizio: una
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buona organizzazione di lavoro, con legami di lavoro (non personali) che permettano di discutere le difficoltà con spirito orientato alla loro soluzione, oltre a fornire il supporto necessario, costituisce sempre il fattore primario che evita qualsiasi stress nel lavoro; 2) un training nel servizio stesso che si indirizzi alla gestione delle emozioni che possano sorgere nel lavoro (ad esempio nel nostro servizio abbiamo implementato un programma di mindfulness di sei settimane); 3) supervisioni regolari per interpreti alle prime armi; 4) eventuale invio a servizi di trattamento specifico individuale, in caso di gravità delle manifestazioni. Un esempio drammatico di come la selezione di un mediatore possa avere conseguenze importanti è stato mostrato in un corto danese proposto a Cannes nel 2014, Listen, presente su youtube: https://youtu.be/uXGO5wT-DGU 3. Ruoli e modi diversi di lavoro. Interprete, interprete informato culturalmente, mediatore culturale Ci sono tre modi di usufruire dell’interpretazione nel contesto clinico, secondo prospettive differenti a) Interprete nel ruolo del semplice traduttore. In questo caso quello che si vuole privilegiare è la neutralità del ‘tramite’, un modello che cerca di riproporre una relazione a due, minimizzando il fattore di disturbo causato dalla presenza della terza persona. È il concetto di ‘presenza assente’, scatola nera, robot, come una macchina non pensante, non senziente, e abile nella traduzione cui si tende in questa modalità. Nel reparto di psichiatria di cui sopra ebbi modo di vedere all’opera, grazie all’interessamento di Goffredo Bartocci, un noto psichiatra transculturale, Ronald Wintrop, che si prestò a un colloquio diagnostico con un paziente africano che avevamo ricoverato, tramite un interprete. Le istruzioni che vidi dare all’interprete riflettevano questa modalità di comunicazione: quest’ultimo avrebbe dovuto parlare in prima persona nel tradurre l’enunciato dello specialista, così come in prima persona avrebbe riferito la risposta del paziente
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Lo scopo è chiaro: in assenza di familiarità di lavoro in team con il mediatore, e non conoscendo le sue capacità e le sue modalità professionali e personali, ci si garantisce il minimo di interferenza possibile, anche da un punto di vista linguistico. Il paziente sente che è il clinico a parlare, sia pur per bocca dell’interprete, e il medico sente in maniera meno mediata possibile (possibilmente con una traduzione punto per punto) le parole e i modi di espressione del paziente. b) Interpretazione culturale Ma non è possibile spesso realizzare una traduzione punto per punto dell’enunciato del paziente, innanzitutto per l’esistenza di espressioni idiomatiche e/o metaforiche che veicolano un senso preciso solo in quella lingua. Oppure perché il contenuto di quanto detto è comprensibile solo in un contesto ideologico, o culturale. In questo caso il clinico chiede spiegazione di quanto non comprende, o delucidazioni all’interprete; oppure è questi che nel tradurre chiarifica i termini della questione, svolgendo così un ruolo di mediazione culturale. Già una serie di problemi clinici che si porrebbero senza questo lavoro, possono trovare qui un chiarimento. Facciamo il caso che il paziente, un africano, parli della presenza di spiriti di antenati come spiegazione di quello che gli sta accadendo; avremo bisogno della mediazione per sapere se quella interpretazione è normativa nella cultura data, laddove sta poi a noi di inserire quella accentuazione culturale nel contesto degli altri segni e sintomi che rileveremo, prima di formulare una diagnosi. Oppure del paziente sempre africano che afferma di avere “un animale nello stomaco”: sarà compito del mediatore spiegare che in quell’area ci si esprime in questi termini, spesso si ha la sensazione, se si è in condizione di distress, di un animale nello stomaco, laddove starà a noi interpretare la sensazione una condizione di stress somatico (Qureshi et al. 2010). c) Mediatore come co-terapeuta junior Il modello della presenza assente del mediatore, volto a garantire la permanenza della relazione duale, mantenendo una neutrali-
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tà al limite trasparente, di fatto non può realizzarsi, e non accade infatti nella realtà. La presenza di una terza persona non è un fattore minimo d’interferenza in quello che accade in stanza di consultazione, quantunque stia silente. Ancora di più se consideriamo che per motivi non foss’altro linguistici (per il fatto che il paziente comprende lui, e non noi) è naturalmente la persona a cui viene di riferirsi da parte del paziente; se a questo aggiungiamo il fatto che sia di cultura uguale o più vicina alla sua, il legame che viene naturale è con lui. Lo testimonia il fatto che, sebbene il clinico guardi il paziente sia parlandogli, sia mentre è quest’ultimo a parlare, lo sguardo del paziente sarà soprattutto negli incontri iniziali quasi sempre sul mediatore. Risulta insomma una presenza impossibile da neutralizzare. Per questa ragione si è fatto strada un altro modello, quello del mediatore come co-terapeuta minore, o junior. Elaine Hsieh e coll (2007, 2010) ha sviluppato una linea di ricerca che identifica la possibilità che il mediatore in ambito sanitario assuma un ruolo di “co-diagnosta”. In questi casi il mediatore va ben al di là del ruolo di interprete, assumendo nella realtà della consultazione responsabilità proprie del personale medico, mediante un ruolo più attivo. Magari è proprio il medico a sollecitarlo, chiedendogli di convincere il paziente ad avere fiducia in lui o nella terapia, o direttamente chiedendo di identificare qual è il problema del paziente. Inutile dire che tali condotte interferiscono nel processo clinico, introducendo un’ambiguità di ruoli che nuoce al suo sviluppo. La cosa, registrano gli autori citati, può andare ancora oltre, conil mediatore che assume il controllo della situazione, traduce solo parzialmente, e sostanzialmente non comunica al clinico cosa stia succedendo nell’interazione. Quando si parla di modello di co-terapia non ci si riferisce a quanto rilevato da Hsieh, quanto piuttosto al fatto che, consci della presenza del mediatore, questo entri come un fattore -non indipendente- nel processo. Si tratta insomma di un sistema triadico, che vuole vedere sviluppato il lavoro cooperativo, normalmente base del processo diagnostico-terapeutico nella situazione duale, in un sistema triadico. Il controllo generale di quanto accade rimane del clinico, che ha uno strumento in più per focalizzarsi su quanto accade nel tempo della seduta: l’attenzione agli scambi a tre, le
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emozioni e le relazioni che si stabiliscono sono parte integrante del materiale disponibile al clinico per la sua comprensione. E anche per il suo intervenire: quelle condotte di cui prima si è parlato come acting-out o come agire indipendente del mediatore, possono tutte essere lecite, qualora pensate dal clinico, e concordate con le altre due persone presenti nel qui-ed-ora della seduta. Si potrà incoraggiare il mediatore alla rassicurazione, se necessario secondo il punto di vista del terapeuta, ad esempio; oppure il mediatore potrebbe esprimere il dubbio sulla liceità in termini culturali di quella condotta rassicurativa, per esempio perché non sarebbe culturalmente corretto un contatto fisico. È accaduto a volte che, in caso di pazienti di sesso femminile con stati di ipoattivazione e sensi di isolamento e abbandono, fosse utile avvolgerle con uno scialle per favorire sensazioni corporee di holding; essendo chi scrive di sesso maschile, l’avvicinamento e la manovra sarebbero state più rischiose. In tal caso, chiedendo alla mediatrice se potesse a sua volta domandare alla paziente il permesso, è stata lei ad avvolgere la paziente nello scialle.
O ancora in un caso di un paziente di sesso maschile, che spesso si “assenta” in seduta, l’opportunità di toccargli il braccio per richiamarlo presente è cosa che si negozia con il mediatore del suo stesso paese. In questa visione in cui viene riconosciuta l’esistenza, e il ruolo facilitatore del mediatore nella stanza di terapia, risulta anche più facile, e assolutamente meno rigida, la possibilità di osservazioni chiarificatrici da parte di questi, e il tutto poi va tradotto per il paziente. Quella misura atta a promuovere la cooperazione del paziente in seduta, l’uso frequente del “noi” da parte del terapeuta, in questo caso si amplia a comprendere un “noi” fatto di tre persone. Così ugualmente, come accennato sopra, è proprio la negoziazione a tre che sviluppa la possibilità di elicitare nel paziente gli elementi del sistema cooperativo, necessario per ogni lavoro terapeutico (ed anche diagnostico). Gli stessi spostamenti delle reciproche relazioni, come i cambi nell’uso della lingua, segnano punti di passaggio in terapia. Non è infrequente che dal guardare il mediatore nei primi incontri, il paziente passi in seguito a guardare con interesse il clinico, di cui
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pure non comprende le parole: evidentemente il paziente ha ora maggiore libertà di cogliere tutti quei valori comunicativi provenienti dal non verbale, che sopravanzano quantitativamente il denotativo linguistico, ma che prima a lui non erano accessibili. Così anche ci saranno delle volte in cui, in caso di lingue veicolari, il medico che pure non domina il francese o l’inglese preferirà esprimersi al paziente in quella lingua, per arrivare direttamente al paziente; un mediatore affiatato nel lavoro con quel clinico seguirà nello slittamento della lingua (pronto a correggere linguisticamente il medico nei suoi errori, poco comprensibili al paziente). O viceversa arriva a un certo punto il momento in cui sarà il paziente che si arrischierà a esprimere una frase in italiano, per raggiungere direttamente il terapeuta. Sono momenti importanti nella terapia, non solo perché indicano avanzamenti del paziente nelle sue capacità di apprendimento, ma anche di aumentate capacità di gestione emozionale evidentemente rientrata all’interno della finestra emozionale. Segnalano inoltre un cambio nelle relazioni triadiche in seduta, non foss’altro per il desiderio del paziente di comunicare nella lingua del terapeuta per l’orgoglio di mostrare le sue capacità. Come può facilmente comprendersi, un lavoro di co-terapia con il mediatore suppone una esperienza di familiarità e consuetudine nel lavoro comune, che ha alle spalle un’organizzazione dei servizi efficace e flessibile, con la dotazione fissa di mediatori fidati e stabili con cui lavorare. Ogni mediatore ha il suo stile personale, oltre che le caratteristiche culturali proprie, e così ogni clinico ha il suo modo proprio di lavorare, oltre alle tecniche che, secondo la sua formazione, adopererà; il che comporta anche una selezione della coppia terapeutica, un adeguamento reciproco, differente per ogni coppia clinico-mediatore, e una conoscenza preliminare delle tecniche che il professionista chiederà al mediatore di tradurre o di attuare. Deve essere sottolineato che non solo il mediatore va educato al lavoro clinico, ma lo stesso deve accadere al clinico, abituato ad un setting duale (o di coppia, familiare, o di gruppo in caso di una formazione sistemica o gruppale), ma per il quale la peculiare struttura di lavoro con il mediatore risulta nuova, e per la quale dovrà formarsi.
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Infine va notato quanto sia fondamentale il fatto per cui, per quanto riguarda il paziente, il modello a tre implichi la costanza del mediatore, il fatto che sia sempre lo stesso in tutte le sedute: tranne in casi urgenti, è preferibile rimandare le sedute, o per lo meno le sedute dense di lavoro psicologico, se non può essere presente quel mediatore che lavora con quel paziente. 4. Relazioni implicite nel lavoro con mediatore culturale Alcuni dei fattori che abbiamo esaminato al principio parlando degli incontri interculturali vanno ripensati nella situazione a tre del lavoro con un mediatore culturale. Parliamo di quegli atteggiamenti impliciti che possono essere presenti già prima degli incontri, o svilupparsi nel corso delle sedute (Leanza et al. 2015). Nel caso del mediatore, questi può nella relazione del paziente con il clinico identificarsi con il paziente, soprattutto se la storia di migrazione è simile, e assumere ad esempio una posizione protettiva nei suoi confronti (evidente in caso di terapie di esposizione o testimonianza, che espongono a forte tensione emozionale il paziente, oppure per questioni e difficoltà pratiche). O ancora può, come nel caso del funzionario somalo del caso sopra descritto, provare vergogna per la psicopatologia del suo conterraneo, magari normalizzando la sintomatologia. O provare ammirazione per il professionista con cui lavora, ed esprimere indirettamente, senza esserne cosciente un certo disprezzo per il paziente e la sua povertà mentale. Parliamo qui di elementi non espliciti, coscienti, che devono essere rilevati e con delicatezza discussi, per poter decidere il da farsi, se è impossibile continuare con il team con cui si è iniziato, o se è possibile risolverli una volta esplicitati. Da parte del paziente si realizzano due differenti transfert, verso il clinico e verso il mediatore. Questo può essere visto facilmente attraverso un processo di identificazione, per la comune appartenenza linguistica e culturale, come un protettore, una persona che intercede presso il professionista o il sistema. O ancora come un migrante che ha avuto successo, da idealizzare come modello di inserimento in una nuova vita (Piret 1991). Ma anche può avvenire
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un moto negativo, per un paziente che è dovuto fuggire dal suo paese, origine delle sue sofferenza ed esperienze di violenza, cui la presenza di un conterraneo o della sua lingua rimanda a vissuti negativi, che vuole allontanare (Aubert. 2008). Oppure anche è possibile che a rendere difficoltoso il lavoro sia la vergogna della sua ‘debolezza’ di fronte al compatriota, oltre a già citate questioni di privatezza davanti alla comunità nel paese d’arrivo. Da parte del terapeuta nei confronti del mediatore avvengono anche moti emotivi, che si tratti di emozioni positive legate a sistemi di attaccamento o cooperativo, (visto che il peso del lavoro e le emozioni che muove la narrazione di violenze vengono condivise con il mediatore), o negative se sente una perdita di potere terapeutico per dover agire mediatamente attraverso un’altra persona, o di controllo pieno della situazione in seduta (Raval& Smith2003). Le interazioni implicite delineate sopra sono solo quelle determinate dai rispettivi ruoli culturale e sociale, ma a queste vanno aggiunte quelle derivanti dalle normali fonti personali di transfert e controtransfert, che giocano un ruolo potente come in qualsiasi processo di cura, qui reso più complesso dalla situazione triadica. 5. Alcune indicazioni su come condurre l’incontro Si definiscono di seguito alcuni dei passi che si mettono in opera, secondo la nostra esperienza, al momento di un incontro clinico. Il lavoro inizia prima del colloquio, quando si concorda con quale mediatore verrà condotto il colloquio, in caso di prima visita; nel caso che si possano utilizzare più mediatori, di diversi paesi, o di differenti lingue, il clinico, sulla base delle informazioni ricevute sui problemi del paziente, cercherà il match migliore a suo giudizio, secondo l’esperienza che ha dei mediatori possibili, e una volta contattato il mediatore, gli esporrà quanto si sa della storia e della sintomatologia del paziente. Sulla base dell’ipotesi formulata potrà anche anticipargli che tipo di lavoro intende fare, e quindi che tipo di intervento di traduzione e mediazione si aspetta. Questo incontro preliminare è ancor più necessario in caso di un mediatore con cui il clinico non abbia in precedenza lavorato; in tal
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caso ricorderà le regole di confidenzialità, il tipo di mediazione che richiede (se una traduzione più letterale o più sintetica, se più ‘spiegata’ o secca), se vuole che il mediatore comunichi anche la natura delle emozioni espresse non verbalmente dal paziente. È importante esplicitare il fatto che in genere il clinico sia avvertito dei momenti di oscurità o di dubbia comprensione di quanto dice il paziente: l’interprete è portato naturalmente a dare una struttura e un senso agli enunciati del paziente, e se ci sono sfasature o incoerenze nel linguaggio del paziente, è meglio non attendere il commento comune a fine seduta per saperlo. È possibile ovviamente che si tratti di una difficoltà linguistica del paziente, che sta usando una lingua non sua originariamente, e per questo i suoi enunciati appaiono frammentati: solo il mediatore ci può chiarire il dubbio. Ovviamente si chiede se il mediatore si trova a suo agio rispetto alla proposta di lavoro su quel paziente, o se ci sono (o potrebbero esserci) problemi a condividere il colloquio. Come è stato detto per la psicoterapia, anche un incontro clinico ha qualcosa in comune con gli scacchi, di cui si possono descrivere l’inizio e il finale, ma non la fase mediana. Così avviene anche nel nostro caso, in cui il gioco della partita a tre può avere sviluppi che solo l’inventiva e l’esperienza dei partecipanti possono portare avanti. Alcuni elementi o indicazioni tuttavia possono essere date. Innanzitutto la posizione delle sedie: si preferisce una posizione a triangolo, con il mediatore più vicino al paziente, al suo lato, in modo che paziente e terapeuta possano guardarsi. Ci si presenta, spiegando brevemente il rispettivo ruolo, e si esamina se per il paziente la situazione va bene, o ci sono problemi (vedi sopra tutti i motivi che possono rendere scomoda la posizione del paziente verso il mediatore). Si specificano le regole di confidenzialità; quello che si dirà in quella sede non verrà comunicato altrove, tranne che, per esplicita richiesta del paziente, si prenderà in considerazione la possibilità di farlo; fa parte di questo spiegare nel caso di richiedenti asilo che il ruolo di chi lo visita ha puri scopi sanitari, e non ha nulla a che fare con le commissioni o tribunali esaminanti. Spesso a questo punto si scopre che il centro inviante non ha spiegato al paziente cosa veniva a fare, qual era il motivo della visi-
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ta, e a questo punto il mediatore si trova a dover tradurre a pazienti che, per alcune culture non conoscono il ruolo dello psicologo, quanto gli spieghiamo sul nostro ruolo. Il colloquio andrà fatto con frasi brevi, ma non tanto che il mediatore non intenda il senso di quello che vogliamo chiedere o esprimere. Converrà a volte spiegare al mediatore cosa si vuole per intero, e poi guardando il paziente formulare le domande o gli interventi con frasi brevi, che il mediatore possa tradurre. Nel caso che lo scambio tra mediatore è paziente sia lungo, conviene interrompere e chiedere di tradurre cosa sta accadendo. Spesso per essere certi di aver capito quello che il paziente ha comunicato, è il caso di fare un riassunto di quello che si è capito, e chiedere conferma o correzione al paziente; questa tecnica è una buona prova o conferma di non aver perso il senso di quanto ha detto. La misura di guardare il paziente mentre si parla, e di rivolgersi a lui anche nel linguaggio in seconda persona è la regola. Ma in caso di disturbi post-traumatici può essere importante non guardare direttamente il paziente, così come stabilire con lui una distanza ottimale, in cui aumenti il suo senso di sicurezza. In questi casi (il mediatore deve conoscere che il terapeuta usa queste tecniche) chiedere al paziente cosa preferisce, e invitarlo a sistemare la sua sedia alla distanza che ritiene più comoda introduce nella seduta insieme la libertà di poter esprimersi, e il potere di determinare gli eventi che accadono nella stanza. Queste come altre tecniche basate sul corpo devono essere condivise e spiegate al mediatore perché ci aiuti nel suo compito di co-terapeuta, così come altre che usiamo in seduta con pazienti post-traumatici, come la Linea della Vita (vedi capitolo su Schiavitù), o l’EMDR. Il momento in cui il mediatore traduce è un ottimo momento per osservare il paziente nelle sue reazioni alla comunicazione. La necessità di tempo maggiore di una normale seduta discende dal tempo necessario per la traduzione, ma per il terapeuta, se si perde in prontezza di risposta, è tuttavia un fattore favorevole alla osservazione e alla riflessione su quanto vede. Si osserva per esempio come il paziente risponda spesso già al messaggio non verbale e al tono di voce mentre gli stiamo parlando, come attende la traduzione (se la attende, o se al contrario è indifferente e torpido), e come
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sono le sue reazioni immediate all’arrivo del significato nella traduzione. Spesso, come si diceva, il paziente per lungo tempo guarda il mediatore mentre questi traduce, solo a terapia avanzata magari mantiene lo sguardo su di noi anche durante la traduzione, soprattutto se ha iniziato a comprendere l’italiano e quindi la traduzione gli serve da conferma. Il fatto invece che il paziente non ci guardi può tradurre, invece che un atteggiamento patologico, solo un atteggiamento culturale: in molte società africane sarebbe segno di irrispettosità guardare direttamente chi per status sociale o per funzione è in una posizione superiore; comprendere quanto giochi un fattore o un altro è uno di quei dubbi che solo un mediatore può aiutarci a comprendere. Il rallentamento degli scambi insomma è un elemento positivo per notare posture, atteggiamenti generali del corpo, e modalità relazionali del paziente. Altro fattore su cui conviene interrogare il mediatore è sulla presenza nella lingua che usa di termini diversi per indicare le emozioni: in molte non esistono corrispondenze se non generiche, nei termini usati per indicare emozioni non basiche, e a volte anche quelle. Chiedere al mediatore come percepisce lo stato emotivo del paziente, o anche come legge quella gestualità è un modo di co-terapia che stimola la capacità e la sensibilità del co-terapeuta. Anche interrogando direttamente il paziente sulle emozioni, per esempio se prova più ansia e paura, o più tristezza o debolezza (come è necessario volendo confermare in casi post-traumatici l’impressione che abbiamo dalla sua espressività corporea) può essere utile farlo esemplificando le sensazioni fisiche corrispondenti, mimando i rispettivi stati con la postura o con i gesti per sapere cosa i paziente prova (per es. le mani che si alzano lungo il corpo verso il viso e gli occhi sbarrati per paura o angoscia; spalle ricurve, espressione triste nel viso e occhi abbassati per tristezza o debolezza fisica). O fare attenzione nella traduzione ad espressioni metaforiche del vissuto emotivo: nei pazienti africani il “calore” si associa con stato di malessere, mentre “fresco” con sollievo e rilassamento. Dopo l’incontro o la seduta ci si trattiene con il mediatore, commentando quello che si è fatto, e sollecitando da parte sua ulteriori osservazioni sia sul paziente che sulla seduta. Questo è un momento fondamentale, perché una serie di impressioni cliniche su
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cui non è stato possibile soffermarsidurante l’incontro, anche chiedendo al mediatore, possono chiarirsi ora, con conferme o precisazioni culturali. È anche il momento in cui si gettano le basi per il successivo incontro con il paziente, le cose da chiarire, le ipotesi da verificare, eventuali linee alternative da prendere. Rimane la annotazione della seduta, che deve comprendere il nome del mediatore con cui la si è fatta, perché anche altri colleghi che la leggano, in caso di possibili interventi in nostra assenza, possano ricorrere all’aiuto dello stesso mediatore che conosce il paziente.
8. Variazioni culturali nella prescrizione farmacologica. L’Etnopsicofarmacologia Emilio Vercillo
Verso il termine dell’incontro, l’uomo al di là della scrivania apre un cassetto, ne estrae un foglietto di carta, quindi inizia a scrivere. Si intravedono in cima alla carta una serie di righe stampate, il nome dell’uomo, e altre notazioni. È un momento di tensione, i due non parlano, l’uomo è chino sul foglio, concentrato su quello che scrive. Alla fine, l’uomo si solleva, gira il foglio perché l’altro lo legga, e spiega quello che ha scritto. Non vi è probabilmente tra noi chi non riconosca nella scena il momento della prescrizione farmacologica tra un medico e un paziente. Eppure questo scambio, questo comportamento di comunicazione tra i due non è scontato per nulla, comprende al suo interno un codice preciso di comportamenti attesi e di ruoli, un codice soggetto a variazioni nel tempo, nei luoghi e nelle circostanze, così come nelle differenti culture. 1. La prescrizione farmacologica come comunicazione. La psicologia della farmacologia. Fu Thomas Gutheil nel 1982 a proporre il termine di “psicologia della farmacologia” per riassumere i presupposti significativi spesso sottaciuti dello scambio farmacologico tra psichiatra e paziente, che, partita dai problemi della compliance spesso difficile dei pazienti alla farmacoterapia, meriterebbe un capitolo a parte (Gutheil 1977, 1978, 1982; Levy 1977; Appelbaum e Gutheil 1980). Molto di quello in questo ambito è stato osservato e descritto è esportabile dall’ambito specialistico psichiatrico all’intero settore della prescrizione medica.
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Con Gabbard potremmo riassumere che da parte del paziente, la decisione di conformarsi o meno alle raccomandazioni farmacoterapiche del medico attiva tematiche inconsce di aspettative genitoriali: così pazienti depressi possono vivere l’assunzione di un antidepressivo come un fallimento empatico da parte dello psichiatra, perché in questo modo chiederebbe al paziente di mettere a tacere i suoi sentimenti; pazienti dominanti possono vedere il farmaco come una sottomissione alla figura genitoriale che minaccia il loro atteggiamento controdipendente; pazienti sottomessi possono sentire che, attraverso il farmaco, qualcuno li nutre e si prende cura di loro, senza assumersi responsabilità; pazienti manipolatori annullano qualunque tipo di intervento terapeutico, anche farmacologico, ritenendolo inutile; rifiutando l’aiuto offerto, si vendicano nei confronti dei genitori ritenuti carenti nel fornire nutrimento; pazienti paranoici interrompono l’assunzione denunciando effetti collaterali che nascondono il timore di essere avvelenati. In questa prospettiva il terapeuta dovrebbe evitare un atteggiamento autoritario con il paziente in quanto può esacerbare la disposizione transferale a vedere il medico come un genitore severo, richiedendo invece la collaborazione del paziente nell’esplorare le sue preoccupazioni. Sempre in questa ottica il transfert verso il farmaco diventa un fattore importante: il farmaco prende il posto del medico assente, e può fungere da oggetto transizionale permettendo ai pazienti di mantenere un contatto con il medico anche quando non lo vedono frequentemente. Nello scambio comunicazionale tra medico e paziente assume un ruolo cruciale quindi l’alleanza terapeutica: le misure per favorirla comportano alcune modalità specifiche (il terapeuta deve spiegare i motivi della scelta farmacologica, gli obiettivi scelti prima con il paziente che si propone di affrontare con i differenti farmaci prescritti, deve assumere un tono adeguato della voce, un linguaggio corporeo adeguato, chiamare il paziente per nome e favorire una prescrizione partecipata, un esperimento che vede paziente e terapeuta uniti nelle verifiche). È possibile schematizzare, nell’ottica della psicologia della farmacoterapia, alcune modalità tipiche dello scambio medico-paziente.
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Una prima modalità presuppone una coppia conformata secondo un modello figura-autorevole/figura passiva: il paziente non prende parte attiva al trattamento e perciò si affida alla intera responsabilità delle arti guaritorie del medico, con una sfumatura magico-fantastica della figura sciamanica potente. Un secondo stile di interazione presuppone un modello didattico: il medico è l’esperto che guida e spiega il percorso terapeutico, il paziente svolge il ruolo di allievo. Anche qui, sebbene in grado minore, è presente una dipendenza passiva. Un terzo modello, quello sempre più presente nel mondo della medicina occidentale, presuppone un rapporto di partecipazione tra i due costituenti della coppia: la terapia viene in qualche modo contrattata, in seguito a una condivisione dei vari elementi di conoscenza da parte del medico. Anche qui è utopistico pensare a un reale piano di parità, ma questo stile comunicativo della prescrizione ha il vantaggio di ottenere una maggiore compliance da parte del paziente, oltre che di alleviare il peso di responsabilità medico-legale del medico. Per inciso, lo scrivente pensa che questo sia stata la motivazione prima che ha spinto nel mondo occidentale allo sviluppo di tale modello: non è più socialmente sostenibile il grado di responsabilità che un vecchio clinico era abituato a sopportare, giacché storicamente si è modificato il ruolo e le aspettative che la società poneva nella figura del medico. 2. Il contributo della psichiatria transculturale. La etnofarmacologia Per l’appunto su questioni quali le modificazioni dell’assetto comunicativo del rapporto medico-paziente, nonché su altri fattori in campo riesce a gettare nuova luce la psichiatria transculturale. Questa disciplina, denominata anche psichiatria comparata, cross-culturale, o etnopsichiatria, o culturale tout-court (Tzeng 2001), risale agli sforzi del fondatore stesso della psichiatria moderna, Emil Kraepelin, interessato a dimostrare la tenuta anche in ambiti culturali lontani del quadro clinico da lui descritto, che prenderà il nome di schizofrenia. Per questo scopo viaggiò fino a Giava nel 1904, e mentre confermò la sua ipotesi, riscontrò anche l’esistenza lì di forme clini-
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che non esistenti nel nostro mondo culturale. Ecco così già delineati alcuni capitoli della psichiatria transculturale, che ha come suo scopo identificare, verificare e spiegare i legami tra il disturbo mentale e le vaste caratteristiche psicosociali che differenziano nazioni, popoli, e culture (Murphy 1982). A questi ambiti vanno aggiunti lo studio di terapie culturalmente differenti, delle teorie mediche che le sottendono, delle specificità di efficacia, e dei fattori terapeutici in causa. Alcune correnti al suo interno propugnano un allontanarsi dalla medicina, e un confluire quasi, nei metodi stessi della ricerca, all’interno della antropologia e della etnografia. In maniera appena tratteggiata potremmo schematizzare come segue quattro aree problematiche in cui ha potuto espandersi e fornire risultati (vedi cap. 1): 1. Il capitolo delle sindromi culture-bound, una volta chiamate sindromi etniche, o esotiche. È nota da tempo l’esistenza di alcune patologie psichiatriche che si sviluppano solo in certi ambiti culturali. Solo tali patologie possono essere definite a pieno titolo Sindromi Culture-bound, e i loro sintomi e le loro manifestazioni sono strettamente correlati per genesi e fenomenologia alla cultura in cui si sviluppano. Alcune di queste forme sono praticamente scomparse, laddove altre nuove sorgono, come l’Hikikomori, una sindrome adolescenziale di recente individuazione in Giappone. Per alcuni la sola sindrome etnica individuabile nel mondo occidentale è costituita dai Disturbi Alimentari, forse più specificamente dalla Bulimia. 2. Fenomeni patoplastici. Non vanno confuse con le sindromi etniche tutte quelle modificazioni di presentazione fenomenologica di forme psicopatologiche presenti ubiquitariamente: per esempio contenuti particolari, culturalmente mediati, del delirio schizofrenico, modalità somatiche di presentazione dei temi depressivi, etc. Non solo però le patologie psicotiche maggiori con forti determinanti organiche, pur presenti con la stessa prevalenza in tutto il mondo, possono presentarsi con modalità sintomatologiche differenti, ma anche il decorso e la prognosi appaiono variare in ambiti culturali differenziati, senza essere determinati dalla possibilità di ricorso alle terapie (Jablensky et al 1994; Kulhara, Parmanand 1994).
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3. Effetti patogenetici, esercitati da stresses acculturativi, che causano la malattia, effetti che producono specifici tipi di patologia psicosociale in una popolazione in cui non esistevano precedentemente. È il caso delle reazioni psicotiche brevi da trans-culturazione, o stress acculturativo: in questo caso il brusco cambiamento innestato dal contatto fra culture differenti può diventare causa efficiente o scatenante di patologie mentali. 4. Ed infine, l’aspetto che riguarda più da vicino il nostro tema, cioè le nuove condizioni create dall’interazione tra terapie differenti, con un impatto sulla malattia mentale, sia positivo che negativo. Questo è più specificamente il dominio della etnopsicofarmacologia, una branca all’interno della psichiatria transculturale, che studia le eventuali differenze nell’ambito della farmacoterapia all’interno di gruppi etnici, e, ove presenti, cerca di determinare le ragioni di tali variazioni. Nell’ottica definitoria di tale concetto, i fattori in campo sono evidentemente a cavallo dell’orizzonte biologico e di quello psicoculturale, e sia aspetti pratici che aspetti speculativi possono essere rivisti e arricchiti in termini di etnopsicofarmacologia. Infatti la Psichiatria Transculturale permette, da un vertice culturale osservativo, di gettare luce su alcuni problemi speculativi generali del campo medico e psichiatrico Tab. I. Tabella I • fattori terapeutici in psichiatria; • interazione dei farmaci con substrati biologici; • psicologia della farmacologia; • il concetto vasto e vago di effetto placebo; • ruolo di suggestione e altro nel non-biologico in farmacoterapia
La etnopsicofarmacologia apre nuovi orizzonti allo sguardo del ricercatore poiché arricchisce tali interrogativi con altre problematiche derivanti da differenti culture, diversi concetti di malattia, di cura, di terapia, disuguali modi di fornirla, a volte dissonanti fra domanda e risposta quando le culture diverse si incontrano, come accade spesso nel caso della farmacoterapia. Per quanto segue ci ri-
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feriremo principalmente alla farmacoterapia psichiatrica, ma le considerazioni possono agevolmente valere per l’intero campo della farmacoterapia. 3. Presupposti ed equivoci. Fattori biologici e culturali 3.1 Aspirazione all’universalità di concezione e applicazione Che i farmaci psichiatrici non avessero una omogeneità di utilizzo ed efficacia in tutto il mondo fu chiaro subito, appena che, dopo la loro scoperta negli anni ’50, nel decennio successivo fu possibile osservare le differenze tra le due sponde dell’oceano, in Europa e negli Stati Uniti, differenze nei dosaggi e negli effetti collaterali conseguenti, registrate nella letteratura di allora, che ancora oggi in qualche modo sussistono sia pure con notevoli attenuazioni, e che di fatto non si sa se attribuire a differenze biologiche tra le differenti popolazioni, o a differenze culturali riflesse nelle aspettative e nelle scelte delle differenti psichiatrie nazionali. Eppure il concetto di “diversità etnica” ha fatto fatica a prendere piede: in fondo, se la malattia riconosce una causa organica biologica, perché la terapia non deve essere per tutti uguale? Per certo nessun altro tipo di terapia non solo ha aspirato alla universalità della concezione e della applicazione, ma ha di fatto potuto diffondersi per tutte le società del globo, e sicuramente non solo perché prodotto e portato dalla cultura occidentale dominante. Testimonianza di ciò è l’evidenza che altri prodotti della cultura Occidentale, come per esempio la psicoanalisi, non hanno goduto per motivi i più vari della stessa sorte. 3.2 Equivoco Biologico I motivi per cui il concetto di “diversità etnica” ha fatto fatica ad affermarsi sono molteplici e di molteplice natura, ma è evidente, in primis, che ha funzionato un equivoco per cui biologico è stato considerato automaticamente causativo di omogeneo per tutta la specie, a dispetto del polimorfismo genetico sempre più evidente
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man a mano che la ricerca genetica e farmacogenetica in specifico sono andate avanti. Eppure uno stesso farmaco somministrato in soggetti con la medesima patologia darà necessariamente risposta terapeutica ed effetti collaterali diversi da soggetto a soggetto, se il corredo enzimatico, di carriers, recettori e altre strutture biologiche necessarie per la metabolizzazione di quel farmaco, è differente per ognuno, e tale concetto è un’evidenza. D’altronde, le considerazioni di quanto abbiamo in comune con la drosofila non oscurano quanto di differente c’è tra noi. 3.3 Diversità Biologiche e Diversità Culturali Un altro fattore che di certo non ha aiutato l’affermarsi del concetto di “diversità etnica” è stato il timore di sollevare un tema delicato, quello del razzismo. Riferirsi al concetto di etnia, meno biologicamente confinato, piuttosto che a quello di razza umana, permette invece un ritratto più veritiero delle non biologicamente omogenee unità di popolazione, senza peraltro negare le particolarità. Di segno complementare il timore che dare rilievo a differenti fattori culturali possa favorire una scarsa tolleranza al multiculturalismo, laddove l’osservazione di elementi culturali diversi e la determinazione del peso che possono avere sul decorso di una patologia costituisce semplicemente un fattore necessario dell’osservazione e della pratica scientifica. Avendo ben presente che la etnofarmacologia si interessa sia dei fattori biologici alla base delle diversità, che di quelli culturali, la disamina che seguirà si occuperà solo dei fattori culturali, meno studiati da un punto di vista scientifico, più soggetti ad essere riportati in lavori aneddotici e speculativi, ma più centrati sul tema della comunicazione nel rapporto farmacoterapeutico. Fondamentale è tenere presente che è però l’insieme di tali fattori, fattori culturali e fattori biologici, che interagisce e porta al risultato che spesso si osserva, e cioè differenti dosaggi, differente efficacia e differenti effetti collaterali dei vari farmaci nelle diverse etnie. 3.3.1 Differenti ‘Illness behaviours’. Il problema della Compliance Per Illness Behaviour si intende come è noto la modalità con cui gli individui reagiscono agli aspetti della propria funzionalità
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fisica valutati in termini di salute e malattia, attitudini e i sentimenti del paziente rispetto alla malattia, sin dalla sua percezione, alla sua percezione delle reazioni di persone significative (compreso il medico curante) e la visione della propria situazione psicosociale (Pilowsky I. (1993): Aspects of illness behaviour. Psychotherapy and Psychosomatics, 60, pp.62-74). Il tema quindi della compliance ne costituisce quindi un capitolo, oltre che un elemento rilevante nel determinare differenze di efficacia. Di fatto una serie di lavori in letteratura mostra come ampie variazioni nell’adesione ad un regime prescritto avvengano nell’ambito di sistemi dissimili di credenze e comportamenti legati a culture ed etnie. In paesi plurietnici come gli Stati Uniti, ad esempio, è possibile notare una differenza nella compliance tra i neri e i ‘caucasici’, che non è totalmente attribuibile a fattori economici, e che porta alla più facile scelta da parte dei medici di somministrazione di preparati depot. In un interessante lavoro Kroll et al. 1990 trovarono, come altri ricercatori, che un dosaggio ematico di anti depressivi prescritti a soggetti appartenenti a comunità del sudest asiatico rivelava mancata compliance alle terapie del 53,5% dei soggetti, parziale (livelli sub-terapeutici) nel 31,5%, e sufficiente solo nel 15%, ripetendo dati simili anche più drammatici di un precedente lavoro di Kinzie e coll. 1987. Una ricerca con dati di confronto tra gruppi di pazienti psichiatrici dimessi da Ospedali psichiatrici di etnia bianca, ‘coloured’ (indiani), e nera in Sudafrica forniva tassi di non-compliance rispettivamente di un quarto, una metà e due terzi (Gillis et al. 1987, cit in Lin, Poland Anderson 1995). Vari fattori possono essere considerati implicati: 1. fattori economici riguardanti il costo dei farmaci; 2. fattori genericamente educazionali, includenti difficoltà derivanti da comunicazione con i curanti difettosa o insufficiente. In tale punto possiamo includere il costume di non consultare un unico medico e assumere la terapia da questi prescritta, ma di consultare più medici e scegliere poi tra le varie terapie consigliate; 3. fattori culturali specifici: ad esempio, in taluni ambiti culturali esiste l’abitudine che il farmaco prescritto ad un paziente venga assunto invece da tutta la famiglia, ovviamente a dosaggi sub-terapeutici;
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3.3.2 Distanza tra teorie della malattia Teorie reciproche sulla malattia del paziente differenti all’interno delle diverse culture, quella di appartenenza e quella del medico cui il paziente si è rivolto per chiedere cure. Maggiore è la discordanza tra le teorie minore sarà la adesione al trattamento e l’aspetto “aspecifico” (Ahmed, 2001). Ecco 2 esempi di quanto detto: Percezione della malattia, che è diversa nelle varie culture. In alcune culture la ‘diminuzione della vitalità’ è considerato sintomo di malattia, per cui un farmaco come un neurolettico viene visto come un fattore che aumenta la malattia. In altre culture, tra l’altro, una paura specificamente legata agli psicofarmaci è che diminuiscano lo stato di allerta, in sé un elemento di valore evoluzionistico importante in luoghi della terra non sicuri. Ancora in altre culture la teoria delle malattie concettualizza queste come uno squilibrio caldo/freddo, e quindi il farmaco costituisce lo strumento per riportare tale equilibrio nell’organismo. Esiste quindi un sistema che classifica i medicamenti tradizionali come ‘caldi’ o ‘freddi’, per combattere lo squilibrio rispettivamente freddo o caldo nell’organismo. Il farmaco occidentale prescritto necessita quindi di entrare all’interno di tale categorizzazione, nella percezione del pz. 3.3.3 Soggettivo vs Curativo. Acuto e Cronico In alcune società non occidentali (India, Cina) le medicine servono solo per brevi periodi, allo scopo di alleviare immediatamente i sintomi. Sorge quindi la difficoltà di considerare la possibilità di terapie in cronico, come una antibioticoterapia al di là dei tempi di malessere soggettivo, o una terapia antidiabetica o, nel campo psichiatrico, ortotimica; Altre teorie particolari nascono dall’incontro tra la medicina occidentale e i suoi rimedi farmacologici con le medicine ‘tradizionali’. 4. Credenze su medicine occidentali. Confusioni tra effetti del farmaco e della malattia Le medicine degli occidentali sono ritenute ‘forti’ o capaci di dare dipendenza, e per questo sconsigliate per i bambini e i vecchi,
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o per un uso cronico; in questi casi si preferisce ricorrere alle medicine tradizionali, considerate più ‘gentili’. Peraltro il fatto che spesso popolazioni, come quelle asiatiche, siano più sensibili agli effetti collaterali, porta ad alcuni fraintendimenti, in cui sintomi della malattia già precedentemente presenti vengano attribuiti ai farmaci (un po’ come accade anche nella nostra società se pensiamo, ad esempio, alla debolezza causata da un processo infettivo che viene invece considerata conseguenza dell’uso di un antibiotico), o viceversa che sintomi collaterali, ad esempio secchezza delle fauci, o rigidità muscolare conseguenza di una terapia neurolettica possano invece essere presi come segni di aggravamento di malattia, in quanto tradizionalmente considerati come segni in sé di malattia. Curiosamente la polidipsia e la poliuria causati dal litio sono stati interpretati da un gruppo di pazienti cinesi di Hong Kong come aventi un valore positivo piuttosto che negativo (Lee 1993), dato che di fatto questi sintomi sono considerati tradizionalmente segni di benessere. Nello stesso lavoro vengono riportati altre variazioni nella percezione culturalmente mediata degli effetti collaterali: ad esempio, in tali pazienti non c’è presenza delle lamentele di ‘appiattimento’, perdita di creatività, aumento di peso, o sapore metallico, rispetto agli occidentali sotto la stessa terapia, a dimostrazione di quanto possano essere differenti i sistemi valoriali, o le soglie di percezione dei disturbi. 4.1 Pregiudizi nella prescrizione Differenti modalità prescrittive in uso nei vari paesi con disparità di dosaggi e di tipo di farmaci utilizzati, e diverse aspettative sulle terapie e sul decorso delle forme patologiche da parte dei curanti sono altri elementi che evidentemente incidono sulla risposta terapeutica. Su queste differenze nelle modalità prescrittive giocano un ruolo i pregiudizi diagnostici nei confronti di gruppi etnici, cui consegue una determinata prescrizione passibile di differente efficacia (Littlewood 1992). Così fu notata la maggiore tendenza a formulare diagnosi di schizofrenia negli afroamericani rispetto a caucasici, più favorevolmente diagnosticati come bipolare; questa tendenza risulta essere stata corretta, secondo studi più recenti,
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dall’uso di strumenti di valutazione standard. Sarebbe il caso, per esempio, se diagnosticassimo, forti della conoscenza della letteratura, buona parte delle forme psicotiche che ci si presentano in persone immigrate dall’Africa come reazioni psicotiche brevi, o reazioni acute da transculturazione, e ci aspettassimo una rapida risoluzione del quadro con l’aiuto di leggere dosi di Neurolettici, o anche senza, per poi scoprire che esistono anche forme schizofreniche o maniacali in Africa, che richiedono ben altra terapia. 4.1.1 ‘Effetto placebo’ Sotto questo termine vengono classificati nei trial clinici tutti quegli effetti positivi in genere, non attribuibili alla diretta azione farmacologica del farmaco. Che il termine designi una categoria troppo ampia e confondente di fattori i più diversi è stato largamente affermato, ma di fatto al di là di sofisticati metodi statistici per considerarne il peso –notevole- nelle ricerche farmacologiche, e per escluderlo, seri studi per esaminarne le diverse componenti non sono stati effettuati, soprattutto per quanto attiene gli studi transetnici e transculturali. Fa eccezione ad esempio uno studio condotto sul valore simbolico dei colori delle pillole in differenti popolazioni (Buckalew e Coffield 1982), che si inserisce nel vasto numero di studi sulla percezione differente dei colori nelle varie culture; così, le pillole bianche sono viste da bianchi come analgesici e dai neri come stimolanti, laddove l’opposto avviene per pillole di colore nero. Sono invece presenti studi che confrontano il differente peso che l’effetto placebo ha nelle stesse terapie su gruppi etnici diversi, per esempio le fenotiazine su bianchi e afroamericani nel 1966 (Goldberg et al.), o di alcuni Antidepressivi su colombiani rispetto a nordamericani (Escobar e Tuason 1980), entrambi mostranti una maggiore rilevanza nei neri e nei latini dell’effetto placebo. Si ritiene che questo campo sia meritevole di maggiore approfondimento nelle future ricerche. Scriveva nel 1999 Ileana Taddei in un suo acuto pezzo intitolato “Placebo?”: «È piuttosto difficile trovare, nella letteratura scientifica (che magari pullula di pubblicazioni bizzarre, oppure ridondanti ed inutili) idee originali e approfondimenti riguardo a modalità e metodologie di studio specifiche per l’effetto placebo; oppure confronti tra i sessi, tra età, tra diverse culture.»
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4.1.2 Il problema delle terapie tradizionali, alternative, naturali Non bisogna sottovalutare l’azione di farmaci tradizionali nelle differenti culture nella interazione con le terapie prescritte. Infatti molte volte vengono assunti sequenzialmente o contemporaneamente alle medicine occidentali, e spesso all’insaputa del medico, non essendo dal paziente considerati vere medicine Molti dei prodotti erbacei anche delle nostre erboristerie sono tutt’altro che sostanze neutre (si pensi, per esempio all’ erba di san Giovanni (l’hypericum), o all’alga fucus che induce aumento della funzione tiroidea), e possono interferire con tutti gli altri farmaci a livello sia farmacocinetico (assorbimento, metabolismo, trasporto plasmatico e proteico, escrezione), che farmacodinamico (agendo in competizione o sinergismo sugli stessi o differenti siti recettoriali). L’hyperico ad es. possiede capacità anti-MAO, o alcuni medicamenti erbacei della medicina cinese hanno potere anticolinergico, capace di precipitare una psicosi atropinica in caso di associazione con un farmaco con proprietà anti-Ach. Inoltre tali preparati sono il più delle volte sconosciuti nella composizione e nella consistenza dei principi attivi, e costituiscono substrato naturale per enzimi metabolici come i CYP450, causando quindi una modulazione in più o in meno dei moderni agenti terapeutici associati. 4.1.3 Rete sociale di supporto e stile familiare. Emozioni Espresse: variazioni culturali È stato dimostrato come differenti livelli di stress sociale, così come l’influenza di differenti stili familiari anche allargati sulla rete di supporto al malato mentale, svolgano un effettivo ruolo sulla frequenza di ricadute, sulla prognosi e gli esiti, sulla compliance alle terapie, ed anche sul dosaggio di farmaci necessario per l’efficacia. Dobbiamo a Lieberman e a Faloon aver dimostrato con rilevazioni epidemiologiche questa ipotesi nelle terapie con ortotimici nei bipolari, e con neurolettici negli schizofrenici, nonché l’averlo concettualizzato nella teoria delle Emozioni Espresse. Alcuni studi successivi hanno confrontato famiglie Nordamericane e Britanniche, o Nordamericane e Ispaniche in rapporto a questo fattore, (riassumibile grossolanamente come tendenza alla ostilità, alla critica frequente e puntigliosa, all’ipercoinvolgimento emotivo), trovando
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notevoli differenze nelle culture esaminate. In un altro studio del 1991 Lin et al. hanno esaminato invece famiglie Asiatiche e famiglie Caucasiche di pazienti curati con farmaci neurolettici, mettendo in evidenza come le famiglie Asiatiche fossero coinvolte più intimamente e fossero più disponibili al supporto. Tale studio ha messo in evidenza sia come quantitativamente il supporto familiare incida sulla risposta farmacologica al neurolettico, sia come, le famiglie Caucasiche, proprio a causa della struttura culturale, siano più difficilmente predisposte a farsi coinvolgere nel processo terapeutico di un congiunto. Una interessante review pubblicata nel 1993 mette in evidenza come anche il contesto sociale incida sulla risposta terapeutica. Lin e coll (1993), hanno infatti raccolto la letteratura esistente rispetto alle malattie psichiatriche all’interno delle Comunità Ebree Ortodosse, e ciò che emerge è che l’assunzione di psicofarmaci è vissuta come uno stigma intenso a causa dell’importanza che in tali Comunità riveste sia la lucidità intellettiva che l’attività sessuale all’interno del matrimonio. Pertanto, i pazienti affetti da disturbi psichici tendono a rivolgersi a pratiche alternative come, ad esempio, particolari restrizioni dietetiche. 4.1.4 Tratti personologici culturali È esperienza psichiatrica comune, ed è – più importante – documentato scientificamente, che i tratti personologici individuali costituiscano una variabile importante nella farmacoterapia, laddove venga considerata la singola prescrizione. In fondo il modello del trial randomizzato in doppio cieco sorge per escludere queste componenti, che invece sussistono nella pratica clinica. È inevitabile che le modificazioni psicologiche indotte dal farmaco interagiscano con la particolare psicologia dell’individuo, dando origine a variabili esiti tra quelli possibili previsti del farmaco. Esistono una serie di studi che correlano ad esempio una maggiore probabilità di effetti ‘paradossi’ in presenza di tratti, individuali e di gruppo, caratterizzati da tendenza all’individualismo, all’affermazione personale, all’indipendenza, di contro all’attesa di effetti più ortodossi in presenza di aspetti legati ad una cultura fondata sulla interdipendenza, sull’adattamento sociale e sulla fiducia reciproca dei
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membri: si potrebbe dire che più una cultura è caratterizzata da aspetti paranoidei, più facilmente ci si può attendere una minore risposta o una reazione paradossale al farmaco, ai dosaggi abituali. Ovviamente, come per i tratti individuali di personalità, è possibile, ma non dimostrato, che aspetti psicobiologici come quelli culturali siano sottesi a tali differenze di gruppo, magari evoluzionisticamente selezionate. Conclusioni L’incontro tra medico e paziente nella prescrizione, la semplice scrittura di un fogliettino di carta mediatore verso la farmacia, si rivela un crocevia complesso di comunicazioni esplicite ed implicite, personali e culturali, soggetto a variazioni individuali, storiche, geografiche. Considerarne tutte le implicazioni nel momento fattivo della prescrizione è pressoché impossibile, ma questo breve lavoro vorrebbe sintetizzare una serie di stimoli per la sensibilità del medico al lavoro, perché non ignori la complessità di un gesto semplice, aumentato ancor più quando incontra, come accade sempre più di frequente, una persona di cultura e presupposti differenti da quelli in cui si è formato ed è cresciuto.
9. Farmacoterapia nei Disturbi Post-Traumatici. Una risorsa strategica nella terapia dei rifugiati Emilio Vercillo, Rossella Carnevali, Giancarlo Santone
Differentemente che nella farmacoterapia della depressione o dei disturbi bipolari, parlare di farmacoterapia dei disturbi posttraumatici pone una serie di problematiche aggiuntive, che vanno da quelle legate alla ricerca di efficacia nelle investigazioni e nella letteratura, al ruolo specifico che essa può avere nel trattamento globale della patologia. Se poi aggiungiamo il fatto che la popolazione dei nostri pazienti proviene dalle culture più disparate, con la varietà genetica (è il campo etnofarmacologico della farmacodiversità nella cinetica e nella dinamica) e culturale che comporta (cfr. capitolo 8; Poole 2010), e insieme il fatto che il quadro clinico spazia dal semplice PTSD acuto a disturbi dissociativi di lunga durata, ci si rende conto di come la questione si complica. In questo capitolo esamineremo in primo luogo il senso, la possibilità e il valore complessivo della farmacoterapia nelle patologie post-traumatiche, chiarendo il valore strategico che deve avere. Quindi passeremo in rassegna, utilizzando la letteratura aggiornata, i vari principi e le categorie farmacologiche che si utilizzano, per poi infine indicare alcune linee di intervento – non solo farmacologiche in senso stretto – che nella nostra esperienza si sono rilevate utili ed efficaci. 1. La farmacoterapia delle patologie traumatiche non è una terapia mirata alla diagnosi, ma una terapia strategica Ci si trova infatti in una di quelle frequenti situazioni in cui non è la diagnosi in sé il target della terapia (come nel caso della schizofrenia, o della depressione), anche a volersi limitare al PTSD sem-
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plice, quanto la gestione di specifici sintomi o gruppi sintomatologici (Mohamed, Rosenheck 2008). Quando parliamo di terapia strategica intendiamo non solo il fatto che le psicofarmacoterapie adoperate non sono correlate alla categoria tassonomica, ma che la scelta e l’utilizzo dei farmaci va adeguato alla strategia terapeutica globale sul paziente. Non intendiamo con questo dire che la tassonomia non abbia ovviamente la sua più che robusta validità, e anzi constatiamo giornalmente la netta consistenza e uniformità di struttura dei quadri patologici nei singoli casi, a dispetto delle geografie e culture differenti. D’altronde anche per altri capitoli della psicopatologia si pone lo stesso problema, di una terapia non mirata alla diagnosi, ma strategica: per esempio nel caso dei disturbi di personalità. Nel caso dei PTSD, come per i disturbi di personalità, si registrano grandi variazioni nel grado di risposta in termini di efficacia delle farmacoterapie, mentre limitati risultano i fattori predittori della risposta (Ravindran & Stein 2009). Ci troviamo insomma in uno di quei casi (non infrequenti in psicofarmacologia, a differenza di altre branche della farmacoterapia) in cui la ricerca con RCTs (randomized controlled trials, lo standard della investigazione scientifica, usato largamente nella investigazione di efficacia farmacologica)è poco utile, e diventerebbe di maggiore utilità l’utilizzo di multipli trials con N=1 (alternanza di protocolli sulla stessa persona, ad esempio secondo lo schema A-B-A-B) per determinare fondatamente l’efficacia di un farmaco (Lillie et al 2011). Recentemente ad esempio un articolo del NEJM (Raskind et al 2018) conclude la ricerca su un campione numeroso di soggetti, affermando l’inefficacia della prazosina sul PTSD. Questa ricerca sta sollevando una serie di critiche accese da parte della comunità di esperti, visto che la prazosina, così come altri alfa-bloccanti come la doxazosina, sono farmaci usati largamente con pazienti di tutto il mondo, con una efficacia empirica comprovata dai vari clinici, ma anche la cui efficacia sui sintomi di iperattivazione è stata non solo testata in passato in vari RCT. Si accennerà più avanti alle critiche portate al risultato di questo studio nel paragrafo dedicato ai farmaci antiadrenergici. Un altro rischio della farmacoterapia dei disturbi post-traumatici è il fatto che scegliendo come target i vari sintomi di cui i pazien-
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ti soffrono, ci si trova nella necessità di una politerapia (Mohamed, Rosenheck 2008), con il rischio – frequente nella psichiatria al di fuori delle patologie maggiori, in cui non si sottolineerà mai abbastanza la necessità di monoterapie – di una dispersione prescrittiva confusa, in cui ogni farmaco viene prescritto per un determinato sintomo; è nostra opinione che questo in fondo avvenga solo come conseguenza della perdita dello sguardo psicopatologico, alla struttura del quadro clinico, a favore della ideologia criteriale del modello DSM, che guarda a sintomi slegati tra loro se non dal loro eventuale ricorrere statistico congiunto, e che consente diagnosi multiple contemporanee per lo stesso quadro clinico complesso presente. Si tratta di un modello molto lontano dal corrente modello della medicina, in cui il rasoio di Occam la sua economia sono ancora misure empiricamente valide. Uno dei non secondari meriti delle teorie sui disturbi post-traumatici è costituito dal fatto che, almeno in questo settore, si sono ridotte le distanze ideologiche tra lo psichico e il biologico, e un sostrato neurobiologico sostiene molte psicoterapie, senza dover incarnare ancora una volta la scena di conflitto tra psichiatri e psicologi. Questo cambio di atteggiamento comporta infatti, rispetto al tema della farmacoterapia, il punto di vista secondo cui con farmacoterapia strategica non ci si riferisce tanto al fatto che sia una terapia sintomatica invece che nucleare (vedi altrimenti le politerapie dispersive di cui si parlava), quanto al fatto che si tratti di una visione terapeutica generale a guidare le scelte. Si tratta infatti di una psicoterapia farmacologica come uno dei fattori in campo, insieme con altri, nella terapia globale del soggetto. A guidare il piano di trattamento sono i principi generali che reggono la terapia dei disturbi post-traumatici, come il concetto di terapia per fasi, o quello di finestra di tolleranza, al cui interno si decide il trattamento generale, e le priorità di scelta nel singolo caso e nella singola fase della sua terapia. Altro elemento generale comune è costituito dal concetto di alleanza di lavoro o alleanza terapeutica, per il cui sviluppo, nel gioco dello scambio e della costruzione, la prescrizione farmacologica costituisce un potente fattore, soprattutto nel settore di cui si interessa questo libro, i rifugiati. Rimandiamo al capitolo 1 di introduzione, e al capitolo 8 per quello che riguarda le specifici-
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tà transculturali (differenze nelle teorie della malattia -illness behaviour, o nelle aspettative di quello che ci si attende dalla figura deputata alla cura, etc). Qui accenneremo solo al fatto che offrire una sostanza che aiuti a risolvere il problema è qualcosa molto più isomorfo alle medicine non scientifiche di quanto sia qualsiasi lavoro psicoterapeutico nel mondo occidentale. 2. Breve rassegna della letteratura sui farmaci utilizzati nella terapia dei disturbi post-traumatici Gli antidepressivi serotoninergici (SSRI) sono la categoria di farmaci usati da più tempo, come si può evincere dalla documentazione del database Cochrane del 2006 (Stein et al 2006), o in quella recente aggiornata al gennaio 2018 di UpToDate (Stein et al 2018). Gli studi sui serotoninergici si diversificano secondo la qualità della ricerca, e nei loro risultati non sono concordi, secondo quanto riportato (Committee on Treatment of PTSD 2007). Non è ben chiaro per cosa siano utili i farmaci di questo gruppo, su quali dei fattori patologici inciderebbero. Infatti le ricerche condotte propongono il disegno investigativo tipico, per cui la sintomatologia complessiva del PTSD migliora in maniera statisticamente significativa dopo la somministrazione di SSRI, così come viene registrato dalle varie scale utilizzate. I farmaci più studiati sono paroxetina e sertralina, anzi la FDA segnala quest’ultima come farmaco d’elezione. Non essendo presente depressione clinica nei pazienti con PTSD degli studi, la possibile efficacia d’azione, per meccanismo e modalità dovrebbe essere similare a quella registrata per gli SSRI nei disturbi d’ansia, a cui dovrebbero compararsi, ed essere quindi una conseguenza psicologica del distanziamento e appiattimento dell’impatto affettivo causato dai serotoninergici come effetto secondario. A posteriori questa ipotesi verrebbe confermata dalle indicazioni di titolazione consigliate (Stein et al 2018) -start low and go slow, iniziare con piccoli dosaggi e proseguire aumentando lentamente le dosi, assolutamente simili ai modi prescrittivi necessari per i disturbi di panico, ad esempio, al fine di eludere effetti temuti di attivazione nelle prime somministrazioni. Altri antidepressivi
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presenti in letteratura cono quelli ad azione mista serotoninergicanoradrenergica (SNRI) quali la venlafaxina (Davidson et al 2006); il loro uso può essere più arrischiato, per l’effetto adrenergico a dosi maggiori di 75mg, nei casi di pazienti che presentino fenomeni di hyperarousal. Riguardo poi l’effetto sul sonno, bisogna ricordare che, se gli SSRI sopprimono il sonno REM nella prima fase del sonno, rendono però vividi i sogni (come sanno tutte le persone che hanno assunto, per qualsiasi motivo, serotoninergici), probabilmente per un meccanismo di rebound anticolinergico (Kierlin & Littner 2001). Nel caso di pazienti post-traumatici alle prese con incubi questo effetto può risultare disturbante, e conviene interrogare il paziente sulla sua occorrenza, prima che si pensi a un aggravamento della patologia. Sono stati studiati anche gli antipsicotici di seconda generazione (SGAP), con ricerche in RCT, ma di fatto hanno mostrato scarsa evidenza di efficacia globale sul PTSD (vedi sopra quanto si diceva sui limiti di ricerche condotte sulla efficacia globale); il che non vuol dire, come si vedrà, che debba essere scoraggiato l’utilizzo degli antipsicotici in una terapia strategica. I farmaci su cui si è investigato sono quetiapina, olanzapina, e risperidone, ma in maggioranza su popolazioni di veterani ex-combattenti con PTSD cronico, il che rende difficile l’estrapolazione ad altra popolazione. È stato infatti osservato che molte indicazioni farmacologiche dimostratesi efficaci nella popolazione civile, per patologie che vanno dall’alcolismo alla schizofrenia, passando per i disturbi post-traumatici, non sono state confermate in vari trial effettuati nella popolazione della Veterans Administration. In ogni caso il risperidone (Veterans Affairs Cooperative Study No. 504 Group 2011) e olanzapina (Stein et al 2002) mostrerebbero una piccola ma statisticamente significativa efficacia nella riduzione dei sintomi di reviviscenza (intrusioni ideiche e flashbacks) e di iperattivazione, utilizzati come potenziamento di terapie con SSRI. Se stabilizzatori dell’umore e antiepilettici sono risultati decisamente inefficaci negli studi (Ravindran, Stein 2009), l’uso di benzodiazepine viene sconsigliato e considerato abbastanza unanimemente arrischiato in questi pazienti. Non solo esiste il pericolo, basato su ampie constatazioni, di condotte di abuso in questa popolazione di
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pazienti (similmente a quanto accade con l’abuso di alcool o altre droghe), ma l’azione degli ansiolitici favorisce le alterazioni di coscienza già presenti nei sintomi dissociativi dei PTSD, con il rischio di trovarsi di fronte a un aggravamento della patologia, per un effetto invece iatrogeno1. È stato anche osservato come il loro uso comprometta l’effetto terapeutico delle psicoterapie basate sull’estinzione delle risposte apprese (Rothbaum et al 2014). Sia benzodiazepine che l’alcool, come anche alcuni altri farmaci (che anche lo psicologo deve conoscere per gli effetti che possono provocare, visto che vengono prescritti ai rifugiati con infezione HIV, o epatite, ad es.) -antibiotici, antivirali, antiretrovirali per l’HIV, e antimalarici –per es. ciprofluoxacina, eritromicina, evafirenz, ganciclovir, o meflochina-, causano un aumento compensatorio del sonno REM, sia in fase di assunzione, e ancor più in fase di ritiro, aumentando in questo modo tutti i fenomeni notturni di incubi e i flashbacks. Anche qui non si tratta di un aggravamento della patologia nel suo decorso, e i mezzi per risolvere il problema non sono psicoterapeutici. Nel settore specifico della farmacoterapia dei disturbi post-traumatici si fa largo uso (assolutamente fuori delle anguste schede tecniche2) di farmaci antiadrenergici, sia alfalitici che betabloccanti. Il propranololo, un betabloccante, aveva mostrato aspetti promettenti, essendo stato notato che, se somministrato in fase precoce, inibiva il consolidamento delle memorie traumatiche, svolgendo così una azione preventiva sullo sviluppo del PTSD; basterebbe la somministrazione di dosi basse di propranololo nella vicinanza del tempo del trauma, per impedire lo sviluppo in seguito di PTSD. Purtrop1
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A questo proposito ci si trova clinicamente nella stessa difficoltà di dover trattare un soggetto con patologia post-traumatica che abusa di alcool o cannabis; non solo ci si trova nella condizione, comune a tutte la patologie, di non poter lavorare psicoterapeuticamente con una mente alterata per le droghe, ma anche in questo caso si è catturati nel vortice del circolo vizioso di dover trattare qualcuno che con i suoi tentativi di autoterapia causa i sintomi che vorrebbe combattere; in questi casi è adatto pensare ai fenomeni dissociativi provocati con le sostanze come difensivi. La prescrizione fuori dalla scheda tecnica è possibile in questi casi, essendo farmaci per i quali esiste una larga letteratura internazionale, e non terapie sperimentali, con l’accortezza di darele informazioni adeguate sull’uso del farmaco al paziente, e ottenerne il consenso
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po gli studi successivi sembrerebbero non confermare questa ipotesi (Steenen et al 2016). Anche in questo caso è necessaria una certa cautela nella lettura dei dati; se una attivazione abnorme del sistema simpatico sostiene la sua disregolazione futura, nello sviluppo di un hyperarousal incapace di inattivarsi, ha senso bloccare l’accesso al corpo delle prime attivazioni, della risposta di allarme per il pericolo di vita; se gli studi si riferiscono a sintomatologia post-traumatica di elaborazione differente, all’interno del paziente secondo la sua storia precedente, allora non sarebbe razionale pensare in una azione preventiva del betabloccante. Di nuovo, la carenza di una lettura psicopatologica complessa nel momento della ricerca farmacologica rende i risultati degli studi meno significativi, non bastando somministrare una scala ed elaborare dei numeri con algoritmi scientifici. L’altra categoria di farmaci antiadrenergici usata è quella degli alfalitici come la prazosina (attualmente ritirata in Italia, era il Minipress) e la doxazosina (Cardura). La loro efficacia è stata dimostrata in cari studi e in metanalisi (Raskind et al 2013, Singh et al 2016), particolarmente nell’azione contro gli incubi (infatti questi farmaci vengono usati per gli incubi anche al di fuori della patologia post-traumatica; si suppone che la loro azione dipenda da quella sui centri adrenergici cerebrali implicati nella genesi degli incubi (Nadorff et al 2014)); aiutano anche a ripristinare il sonno, nonostante non abbiano in sé effetto sedativo. Anche nelle ore diurne comunque la loro capacità di mitigare l’azione del sistema adrenergico consente un effetto sull’hyperarousal dei pazienti. Come nel caso del propranololo, si noterà che si tratta di vecchi farmaci dismessi dalle terapie cardiologiche per la loro scarsa selettività; infatti è proprio questa che è necessaria per la nostra azione, dovendo passare la barriera ematoencefalica, ed essere lipofili per raggiungere i recettori adrenergici cerebrali, cosa impossibile per i nuovi farmaci della loro categoria. Si accennava sopra allo studio del 2018 pubblicato sul New England Journal of Medicine, condotto su oltre 300 pazienti; questa ricerca arriva a una conclusione che non conferma l’efficacia della prazosina nei PTSD (Raskind et al 2018). Sono state sollevate molte critiche a questo studio (o più in generale a questo tipo di studi)
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nella comunità di chi si dedica ai pazienti post-traumatici; le principali critiche riguardano il reclutamento dei pazienti (Roy-Byrne2018, Ressler 2018). Come si è detto, questa categoria di farmaci è attiva soprattutto sul gruppo di sintomi derivanti da un hyperarousal adrenergico, e quindi essi si dimostrano efficaci nei casi di PTSD che abbiano una predominanza di sintomatologia di iperattivazione, mentre in altri pazienti, soprattutto con PTSD cronico, sono inattivi, o essenzialmente non modificano il quadro clinico. Il gruppo della School of Medicine di Washington si occupa da tempo di delineare le caratteristiche tipiche dei pazienti con disregolazione adrenergica, la cui risposta agli alfabloccanti possa essere predetta (Hendrickson 2017, Hendrickson & Raskind 2016, Raskind et al 2016). Come si è osservato nei forum internazionali da parte di vari colleghi a riguardo della ricerca di cui sopra, questo tipo di paziente acuto (che è anche quello che usa con finalità auto terapica l’alcool, per spegnere il malessere acuto) è proprio il tipo di paziente che viene scartato in uno studio che comporti il dover rimanere con placebo per 6 mesi (!); infatti vengono subito trattati per ridurre lo stato acuto, fuori da protocolli controllati di ricerca. Per lo studio rimarranno pazienti cronici, per cui il rischio immediato è minore, ma che sono spesso refrattari ai trattamenti... Seguendo l’interesse suscitato dal possibile uso della ketamina in psichiatria, esiste anche uno studio RCT che valuta nel PTSD il risultato dell’infusione intravenosa di ketamina (Feder 2014), testata vs midazolam, registrando il giorno seguente miglioramenti nella sintomatologia specifica. In uno studio come questo -e molti altrisorgono dubbi sulla lettura delle conclusioni, partendo dalla osservazione che, di nuovo, la valutazione di efficacia viene testata nella globalità della diagnosi, a fronte dell’uso strategico e mirato della farmacoterapia su sintomi o gruppi di sintomi collegati, usando scale generali. Nel caso dello studio citato, ad esempio, sono state usate l’IES-R (Impact of Event Scale-Revised), e poi delle generiche Montgomery-Asberg Depression Rating Scale, CGI-S e CGI-I (Clinical Global Impression-Severity and –Improvement), BPRS (Brief Psychiatric Rating Scale), e la Clinician-Administered Dissociative States Scale. Ma queste due time solo per stimare l’effetto avverso dissociativo della ketamina, non per fare una stima di presenza di
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sintomatologia dissociativa, e valutarne la variazione dopo l’intervento terapeutico, e magari anche a distanza di tempo congruo. Da alcuni anni si registra nel mondo un interesse per l’uso del naltrexone, un antagonista non selettivo degli oppioidi, già usato nella terapia dell’alcolismo e delle tossicodipendenze. Nella letteratura si incontrano lavori, con studi non controllati, sul disturbo da depersonalizzazione, o sintomatologia dissociativa in personalità borderline, pazienti con PTSD e abuso di alcool (prescritto per questo), e anche su disturbi dissociativi. Visto il ruolo importante degli oppioidi endogeni nella disregolazione della coscienza nei disturbi post-traumatici, ci si può aspettare una funzione interessante del naltrexone nella terapia dei disturbi post-traumatici, particolarmente in quelli in cui è prevalente il numbing, o magari più in generale quelli caratterizzati da hypoarousal3. Eppure, anche nel caso del naltrexone non appare che l’esperienza d’uso consenta di prevedere per quali pazienti è prevedibile una risposta positiva. Citando le parole di Anabel Gonzalez, una psichiatra spagnola con una larga esperienza di terapia con pazienti dissociativi, che lo sta utilizzando nella clinica, ci sono stati “molti pazienti con poca risposta o con nessuna, alcuni si bloccavano nel processamento, per vari altri questo era più fluido, ma con maggiore connessione con le memorie traumatiche (cosa non sempre gradita). Per alcuni si è registrato un netto miglioramento, ma per un paziente ha sicuramente marcato un prima e un dopo”. Nel caso del naltrexone gli scriventi non hanno purtroppo esperienza diretta del suo uso nei pazienti, per la difficoltà di somministrazione fuori dalla scheda tecnica, e per il regime di dispensazione ospedaliera. 3. Alcune osservazioni cliniche basate sulla nostra esperienza nella popolazione di rifugiati con disturbi post-traumatici. Come si accennava sopra, consideriamo la farmacoterapia parte integrante e non accessoria (o collaterale) del trattamento. Non in3
Esiste poi tutta una corrente di esperienze con naltrexone a basse dosi (LDN) per una serie di patologie, anche autoimmunitarie, e descrizioni del suo uso anche nel nostro campo.
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tendiamo con questo dire che non esistano casi in cui una terapia farmacologica non sia necessaria, quanto piuttosto che nei casi in cui sia necessaria la prescrizione avviene all’interno di una idea psicopatologica degli eventi patologici non puramente confinata alla misura ‘biologica’ o ‘chimica’. Innanzitutto, va chiarito il tipo di popolazione cui provvede il nostro servizio. La maggior parte dei casi inviati arriva per segnalazioni dei Centri di accoglienza da parte di operatori, dai legali che seguono i casi, o per consulenza da altri servizi di salute mentale, essendo in sostanza il nostro un centro di secondo livello. Quindi sono pazienti arrivati da poco in Italia, che non superano i due anni di presenza sul nostro suolo, ma non sono pazienti appena sbarcati. In ogni caso non è probabile la presenza di PTSD cronici, e la sintomatologia, pur non essendo ASDs (Disturbo acuto da Stress), essendo trascorso più di un mese dal trauma, si presenterà in genere con caratteristiche più o meno acute, e un decorso d non lunga durata. Infatti nella quasi totalità l’esordio avviene in Italia, una volta ristabilite le condizioni di sicurezza del paziente sul suolo italiano. Fanno eccezione un piccolissimo numero di pazienti sintomatici già prima della partenza nel loro paese. Così come anche in caso di disturbi dissociativi (Disturbi di Identità Dissociativo inclusi) seguiti, questi esordiscono in tempi recenti, hanno spesso il loro esordio (con voci, etc) in tempi recenti. E si tratta ovviamente di una popolazione in gran prevalenza giovane. Come si è detto già a partire dal capitolo introduttivo di questo libro, tutta la prima fase del lavoro è volto a stabilizzare il paziente, (evitando il lavoro sulle memorie nella prima fase), e la terapia farmacologica gioca un ruolo pertinente all’interno di questa prima fase, al fine di ridurre i sintomi più disturbanti, e restituire maggior spazio alle parti cognitivamente orientate al presente del paziente, e alle sue risorse personali. Nella scelta ci guidano 1) il sintomo soggettivamente più disturbante per il paziente, e 2) il concetto di finestra di tolleranza di Siegel, secondo la teoria polivagale di Porges (Siegel 1999, Porges 2001, 2011; vedi figure in Capitolo 5). L’area sintomatologica più spesso portata in primo piano dal paziente, e la più disturbante in genere, è quella del disturbo del sonno, che sfortunatamente è anche quello più difficile a risolvere e il
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più tardivo a rientrare totalmente nella normalità. Da lì iniziamo l’esplorazione delle sue caratteristiche. Anche in questo caso vale esplorare se l’insonnia è iniziale, o mediana e terminale. Può essere presente una difficoltà a prendere sonno, per uno stato di iperattivazione diurna che non si placa, o si esacerba di notte, senza stimoli esterni distraenti. Ma più spesso sono gli incubi a risvegliare i pazienti, incubi che possono proseguire da svegli modificandosi in flashbacks, o lasciare comunque al risveglio un’attivazione che impedisce di riprendere sonno. In questo caso usiamo proporre una dose di doxazosina prima di dormire, rinforzata nel caso da un farmaco induttore di sonno, secondo le indicazioni d’uso della prazosina (American Academy of Sleep Medicine 2010, George et al 2016, Khachatryan et al 2016). Uno di noi ha potuto usare la prazosina in Spagna -dove è ancora disponibile-, verificandone gli effetti, e ha comparato una uguale efficacia della doxazosina in Italia, su cui esiste minore letteratura, ma che ha similare profilo farmacologico. Cominciamo in genere con una dose di 1 mg (le compresse di minor dosaggio in Italia sono di 2 mg), testando la tolleranza del paziente, titolando la dose a salire, fin dove la tolleranza del paziente lo consente (basta misurare la pressione arteriosa), fino a scomparsa dei sintomi; in genere 2-4 mg sono sufficienti. Sebben possano anche osservarsi rapidi miglioramenti, in genere per valutarne l’intera efficacia si richiedono in genere alcune settimane, necessarie all’azione del farmaco per dispiegarsi (Taylor et al 2002). Come ipnotico evitiamo di usare benzodiazepine, preferendo l’uso di composti ad azione antistaminica, di diversa famiglia, per esempio promazina, amitriptilina o trazodone. A volte, se l’attivazione anche diurna è rilevante, usiamo 2,5-5 mg di olanzapina in somministrazione serale, la cui azione si prolunga durante il giorno seguente; o nel caso di buona tolleranza della doxazosina da parte del paziente, la prescriviamo a dosi ridotte (1mg) anche per il giorno. Gli altri sintomi che i pazienti lamentano come soggettivamente disturbanti durante il giorno sono la difficoltà di concentrazione (i richiedenti asilo ospitati nei centri frequentano classi di lingua italiana); o “i pensieri” (come vengono genericamente riferiti una se-
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rie di fenomeni che vanno da pensieri intrusivi fino a veri e propri flashbacks in stato oniroide); o ancora la ‘rabbia’ (una rabbia egodistonica che li porta ad evitare il contatto con gli altri). Molto spesso attacchi di paura e reazioni di soprassalto a stimoli neutri. In questi casi a guidarci è la constatazione di una iperattivazione e disregolazione adrenergica, non tanto solo per quanto riferito del paziente, ma proprio perché possono essere osservate nel loro apparire psicomotorio nella stanza di consultazione. Conviene comunque investigare sulla presenza di sintomi fisici, anche con pazienti come quelli africani che hanno culturalmente la tendenza a riferire al corpo malesseri psichici: il mal di testa è una costante riportata sempre. Se corrisponde a un aumento pressorio, abbiamo un indice oggettivo della disfunzione adrenergica (Hendrickson & Raskind 2016), rivelato dal costante stato di attacco-fuga-congelamento tonico in cui il paziente vive. In questi casi conviene anche per il trattamento diurno rivolgersi di nuovo ai farmaci antiadrenergici, dovendo scegliere tra beta- e alfa-bloccanti, che ovviamente non possono essere prescritti insieme. Una serie di valutazioni sparse ci fanno strada: la pima, nell’ottica collaborativa con il paziente, è indagare cosa sia più importante per lui, cosa gli darebbe il senso di interrompere un circuito negativo di blocco nel terrore? nelle sue preoccupazioni è principalmente problematica la notte o il giorno con le sue paure? Come si diceva sopra, la doxazosina può esser prescritta anche durante il giorno, ma può non essere tollerato l’abbassamento pressorio diurno che causa; in questi casi diamo l’indicazione di aumentare il sale nella dieta, e spesso un dosaggio di 1 mg al mattino e 2 mg alla sera di doxazosina viene tollerato. Si tollera maggiormente il propranololo di giorno, sfruttandone anche l’effetto contro l’ansia, e sulle condotte aggressive, ma ha lo svantaggio (come tutta la categoria dei betabloccanti) di poter aumentare gli incubi notturni, cosa che va ovviamente comprovata interrogando il paziente. Inoltre, non esiste per il propranololo (diminuendo la frequenza cardiaca) un facile correttivo al calo pressorio come è il sale. Prima di prescriverlo a controllata la frequenza cardiaca a riposo del paziente, e indagata la presenza di asma, anche se la dose necessaria ai nostri fini è molto bassa.
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In genere, non avendo -come più volte ripetuto- criteri certi di previsione della risposta, la cosa più conveniente è provare l’alternanza dei protocolli (anche senza cieco). Per esempio, un mese con propranololo 10 mg due o tre volte al dì, più un farmaco sedativo per la notte, e in caso di risposta insoddisfacente passare il mese seguente alla doxazosina; al termine del secondo mese (o prima in caso di scarsa tolleranza di uno dei due protocolli) si decide insieme con il paziente quale ha funzionato meglio, e con quale continuare. Spesso insieme alla reviviscenza delle memorie, o dei ricordi intrusivi si accompagna una condizione emotiva di dolore sordo, angosciante. In questi casi usiamo utilizzare basse dosi di neurolettico, come 1-3 mg di aloperidolo distribuiti durante il giorno, o un equivalente di risperidone, che si dimostrano ugualmente utili in caso di irritabilità o rabbia soggettiva. Va da sé che in caso di impulsività manifesta o di idee francamente paranoidi le dosi andranno aumentate. Invece siamo purtroppo inermi farmacologicamente -e non solonei casi di preminenza nella sintomatologia del paziente di hypoarousal, iporeattività, disconnessioni della coscienza, o numbing. Spesso è presente un misto dei sintomi delle due serie iper- e ipoattivazione: in questi casi si lavora nell’ipotesi che agendo sul versante iper- possa comunque registrarsi un miglioramento del sistema globale; ma laddove prevale il sistema dorsovagale –per dirla con Porges- abbiamo pochi strumenti, tranne forse la possibilità del naltrexone. Ultimamente stiamo provando con l’utilizzo della venlafaxina a dosi di 75-150 mg, con qualche risultato positivo di risposta, corrispondente ai tempi previsti per l’azione del farmaco (a testimoniare del suo ruolo nel miglioramento riscontrato). Per quanto riguarda invece l’uso degli antidepressivi in casi di PTSD, abbiamo osservato che aumenta dopo il superamento di una prima fase acuta, quando, aumentandola capacità di presentificazione del paziente, questi può inizia per questo motivo ad essere più cosciente delle perdite, e delle difficoltà attuali, e sviluppa una capacità di deprimersi che precedentemente gli è negata dalla sua condizione mentale e somatica di allarme per la sopravvivenza.
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Come note finali va segnalato quanto abbiamo visto che avviene con il prosieguo della farmacoterapia. La prima notazione è che con l’approfondirsi del lavoro psicoterapeutico, quando il paziente lo consente e ne ha bisogno, l’aspetto farmacologico passa in secondo piano, e questo accade anche quando è lo stesso professionista a gestire entrambi gli aspetti. Curiosamente si corre il rischio di dimenticare, nel paziente maggiormente stabilizzato, che sta prendendo ancora la terapia prescritta, o di controllare che la stia assumendo Arriva a volte la sorpresa di scoprire che l’ha abbandonata da tempo, (in altri capitoli del libro si è parlato di come sia inconcepibile in molte culture la nozione di dover continuare ad assumere farmaci quando si stia anche relativamente bene, senza rilevanti sintomi disturbanti. Accade piuttosto il contrario, che il paziente esprima la preoccupazione di esserne diventato dipendente, o di diventarlo in futuro: “non potrò smetterla mai?”, “se la lascio ristarò male?”. Ovviamente questa paura va letta nel contesto della relazione terapeutica, di cui spesso costituisce un test. Esiste poi un certo rischio per l’abuso, al fine di stordirsi e non “pensare”, anche per i neurolettici. In un paio di casi, in cui le capacità di coscienza del paziente non erano tali da intendere o conservare memoria delle avvertenze sui farmaci prescritti, è capitato che assumessero in dosi maggiori i farmaci antiadrenergici, erroneamente presi per ‘sonniferi’, con le conseguenze che ci si immagina di collasso pressorio. Nei casi in cui si teme, o si ha riscontro di un tale abuso, una possibile strategia è prevedere la durata della quantità di farmaco prescritta, e appuntare sull’agenda la prevedibile data di nuova prescrizione o di dispensazione, per evitare almeno di fornire inconsapevolmente dosi eccessive a richiesta del paziente. O nel caso che il personale del centro che ospita il paziente sia disposto, prendere contatto direttamente con loro spiegando la somministrazione prescritta. È fattore insito nel concetto di terapia strategica la necessità di un adeguamento costante e di una ristrutturazione della terapia a secondo delle fasi. Nel momento ad esempio in cui si inizia il lavoro sulle memorie, (o quando questo è sollecitato prematuramente dall’audizione in commissione o, in caso di diniego dal ricorso al tribunale), converrà prevedere una rimodulazione del trattamento, adeguato al
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maggiore sollecito emozionale, senza però arrivare ad ottundere la capacità di rielaborazione. In conclusione si sottolinea proprio il fatto che usare i pochi, anche se diversi, strumenti farmacologici di cui si dispone, è necessario ricavare la terapia a misura individuale del paziente, delle sue necessità e dei vari momenti vitali e della terapia, per cui più che di linee guida protocollari toccherà fondarsi sull’esperienza e sull’artigianato psicofarmacologico.
10. Tra il dire e il fare Lo Psicologo nei centri di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati Maria Guerra, Maurizio Bacigalupi
In questo capitolo prenderemo in esame il lavoro dello psicologo nei centri di accoglienza, l’indeterminatezza delle cui funzioni richieste può indurre a una serie di fraintendimenti e conseguenze negative. Infatti la mente corre rapidamente a pensarlo in funzioni cliniche, ma come si vedrà potrebbe non essere questo il compito principale necessario o possibile. Si inizierà da una breve rassegna della normativa in esame nei vari tipi di centri che, anche se probabilmente noiosa, fornisce alcune linee generali interpretative su quale dovrebbero essere il ruolo e le mansioni richiesti. Questa verrà seguita da uno schematico promemoria dei possibili ruoli che uno psicologo può avere in generale, per intendere all’interno di essi quale può essere il compito nei centri di accoglienza. Nella seconda parte gli equivoci e i fraintendimenti derivanti da una non chiara definizione vengono esaminati, insieme ad alcune indicazioni sulle cose da farsi o da non farsi nel contesto delle comunità di rifugiati. Non sarà inutile notare che tutte le considerazioni formulate di seguito si basano sul fatto che gli estensori del lavoro hanno lavorato nell’ambito l’una come psicologa interna a centri e l’altro come supervisore. Perché la presenza degli psicologi in un centro di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. Uno sguardo alla normativa In tutte le situazioni in cui si pensa all’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati, dai CPSA1 ai centri del sistema dello 1
I CPSA (Centri di Primo Soccorso e Accoglienza) – Sono strutture che ospitano gli stranieri al momento del loro arrivo in Italia. Alcuni di questi centri, come
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SPRAR2 è formalmente previsto, a volte con indicazioni generali, a volte in maniera più precisa, un ambito d’intervento di natura psicologica3. Ma questo perché? Una prima indicazione possiamo averla dalla lettura del testo del decreto del Ministero della Salute4 sulle “Linee guida per la programmazione degli interventi di assistenza e riabilitazione nonché per il trattamento dei disturbi psichici dei titolari dello status di rifugiato e dello status di protezione sussidiaria che hanno subito torture, stupri o altre forme gravi di violenza psicologica, fisica o sessuale”. Nel testo si legge: “I richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria, da qui in avanti RTP, sono una popolazione a elevato rischio di sviluppare sindromi psicopatologiche a causa della frequente incidenza di esperienze stressanti o propriamente traumatiche. Sono persone costrette ad abbandonare il proprio paese generalmente per sottrarsi a persecuzioni o al rischio concreto di subirne. Possono anche fuggire da contesti di violenza generalizzata determinati da guerre o conflitti civili nel proprio Paese di origine. Inoltre, durante il percorso migratorio, sono sovente esposti a pericoli e traumi aggiuntivi determinati dalla pericolosità di questi viaggi che si possono concretizzare in situazioni di sfruttamento, violenze e ag-
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quello di Lampedusa, sono stati utilizzati nel programma Relocation come Hotspot. Gli Hotspot sono un modello organizzativo preposto alla gestione di grandi arrivi di persone che consentono le operazioni di prima assistenza, identificazione e somministrazione di informative in merito alle modalità di richiesta della protezione internazionale o di partecipazione al programma di Relocation ll Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR) è costituito dalla rete degli enti locali che col supporto delle realtà del terzo settore garantiscono interventi di “accoglienza integrata”, che oltre alla distribuzione di vitto e alloggio, prevedono in modo complementare anche misure di informazione, accompagnamento, assistenza e orientamento, attraverso la costruzione di percorsi individuali di inserimento socio-economico. La normativa sull’accoglienza è in rapida trasformazione, secondo le direttive governative. Rimane ancora al momento della stesura valido il Manuale operativo del sistema SPRAR, di cui alla nota 5 Il documento pubblicato sulla gazzetta Ufficiale del 2 maggio 2017 è stato predisposto da un Tavolo tecnico, istituito il 12 settembre 2014 con Decreto Dirigenziale del Direttore generale della prevenzione, integrato con D.D. 12 maggio 2015, al fine di dare attuazione a quanto previsto all’articolo 27 comma 1 bis del Decreto legislativo n.251/2007, modificato dall’articolo 1 del Decreto legislativo n.18/2014
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gressioni di varia natura compresa quella sessuale, la malnutrizione, l’impossibilità di essere curati, l’umiliazione psicofisica, la detenzione e i respingimenti. Gli eventi traumatici che colpiscono i RTP determinano gravi conseguenze sulla loro salute fisica e psichica con ripercussioni sul benessere individuale e sociale dei familiari e della collettività.” (p. 6). Quindi anche se “Come per altre tipologie di immigrati, i richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria non rappresentano un gruppo omogeneo, essendo portatori di differenti esperienze e aspettative di salute e di assistenza” (Linee Guida Ministero Salute p. 29) vengono considerati una popolazione a elevato rischio di sviluppare sindromi psicopatologiche a causa della frequente incidenza di esperienze stressanti o propriamente traumatiche. Prioritaria è perciò la valutazione precoce clinico diagnostica, che indirizzi verso un’appropriata e tempestiva presa in carico medica, psicologica e sociale. L’attività psicologica è quindi prevista sin dalle primissime fasi dell’arrivo dei migranti tanto che, sempre nelle Linee Guida, si richiede l’impiego di personale specializzato nella psicologia dell’emergenza, per un’adeguata e tempestiva assistenza a coloro che sbarcano sulle coste italiane. Sembrerebbe quindi che l’attività clinica debba essere l’attività principale dello psicologo che lavora con i richiedenti asilo e i rifugiati. Ascolto, osservazione, valutazione, diagnosi, definizione di un piano di trattamento, presa in carico o invio: è questo il ruolo che chi progetta piani di intervento relativi all’accoglienza o gestisce i centri ha in mente? Nel Manuale operativo per l’attivazione e la gestione di servizi di seconda accoglienza integrata in favore di richiedenti e titolari di protezione internazionale e umanitaria dello SPRAR, le indicazioni d’intervento rimandano inevitabilmente alla definizione dell’obbiettivo principale del sistema di accoglienza e cioè “... la (ri)conquista dell’autonomia individuale dei richiedenti/titolari di protezione internazionale e umanitaria accolti, intesa come una loro effettiva emancipazione dal bisogno di ricevere assistenza (in questi termini si parla di “accoglienza emancipante”)”5. 5
Manuale operativo per l’attivazione e la gestione di servizi di accoglienza integrata in favore di richiedenti e titolari di protezione internazionale e umani-
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Questo obiettivo che mira ad essere universale per tutti i richiedenti asilo e rifugiati, siano essi giovani o vecchi, donne o uomini, nuclei familiari o minori non accompagnati, è perseguibile se si favorisce lo sviluppo del processo di empowerment “inteso come un processo individuale e organizzato, attraverso il quale le singole persone possono ricostruire le proprie capacità di scelta e di progettazione e riacquistare la percezione del proprio valore, delle proprie potenzialità e opportunità.” (Manuale SPRAR, v. nota 4). Perciò gli interventi, anche in casi di “specifiche vulnerabilità” come il disagio mentale e la fragilità psicologica, non si devono quindi focalizzare sulla sola assistenza psicologica e psichiatrica, ma su un progetto personalizzato e integrato con gli altri servizi previsti. Pertanto “lo psicologo non è una figura professionale necessariamente inserita in maniera stabile all’interno dell’équipe, ma un suo coinvolgimento nel lavoro di presa in carico – anche in termini di collaborazione con i locali servizi psico-socio-sanitari del territorio – è importante per far incontrare le esigenze e le istanze del singolo nella sua complessità, nonché per l’eventuale intervento in casi di supporto specifico di particolari fragilità o di difficoltà ad accettare le nuove condizioni di vita” (ibidem). La figura dello psichiatra non è prevista all’interno dell’equipe tranne che, come per la figura dello psicologo, nel caso delle misure di accoglienza appositamente dedicate a persone con disagio mentale e disabilità. L’attività richiesta alla figura professionale dello psicologo, calata nel contesto della seconda accoglienza, sembrerebbe orientata nella direzione della prevenzione, delle azioni di empowerment, del counselling e dell’assessment del grado di adattamento al gruppo o alla comunità di cui il richiedente asilo o rifugiato fa parte, azioni che competono quindi più alla figura dello psicologo di comunità che a quella dello psicologo clinico. Chiaramente l’attività di valutazione e diagnosi è necessariamente sottesa e indispensabile per un’adeguata lettura dei comportamenti e dei sintomi, e per la contaria, Versione aggiornata agosto 2018 online sito ufficiale SPRAR pag. 6-7 e 12: https://www.sprar.it/wp-content/uploads/2018/08/SPRAR-ManualeOperativo-2018-08.pdf
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seguente elaborazione di piani di intervento, mentre la presa in carico e l’attivazione di percorsi clinici quali la psicoterapia rimandano a contesti molto differenti da quelli possibili all’interno dei centri di accoglienza. Una riflessione va fatta sulla discrezionalità dell’inserimento della figura professionale dello psicologo in maniera stabile all’interno dell’equipe, poiché il tipo di decisione in merito cambierà comunque le aspettative della committenza, dei colleghi, degli utenti, o “beneficiari” (così vengono chiamate le persone inserite nel sistema SPRAR…). La figura dello psicologo si ritiene importante e come tale non discrezionale, non tanto per lo svolgimento di attività cliniche o psicoterapiche -che anzi come si diceva è opportuno si svolgano in contesti diversi da quelli di vita degli ospiti-, ma per un’osservazione, una valutazione ed un ascolto di persone ad alto rischio di essere portatori o di sviluppare problematiche di rilevanza psicopatologica. La ricerca di indicazioni e definizioni riguardanti il ruolo dello psicologo diventa più difficile quando ci si addentra nella complessità della primissima e prima accoglienza, ordinaria e straordinaria, normata , a tutt’oggi, come la seconda dal Decreto Legislativo n.142/2015, ma la cui gestione viene affidata dallo stato ad enti pubblici o privati che operano nel settore dell’assistenza ai richiedenti asilo o agli immigrati o nel settore dell’assistenza sociale, secondo le procedure di affidamento dei contratti pubblici. Nei Centri il Decreto prevede “servizi speciali di accoglienza delle persone vulnerabili”, che possono essere assicurati anche in collaborazione con la ASL competente per territorio e devono garantire oltre alle misure assistenziali particolari un adeguato supporto psicologico e l’accesso all’assistenza e alle cure mediche e psicologiche appropriate per le persone che hanno subito danni in conseguenza di torture, stupri o altri gravi atti di violenza (art.17)6. Inoltre per quanto riguarda i centri di prima accoglienza per i minori non accompagnati si prevede l’intervento di figure professionali specializzate, tra le quali lo psicologo dell’età evolutiva, con il compito di seguire il minore nella fase di identificazione, di co6
Al momento della stesura la normativa è stata modificata, ed è attualmente in attesa di attuazione in base alle nuove norme, e successive procedure
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noscenza e di individuazione di esigenze particolari di accoglienza (art. 18) Nonostante la legislazione a riguardo, mancano in questi casi linee guida certe e concordate, come invece per la seconda accoglienza del sistema dello SPRAR, e negli schemi di convenzione pubblicati dalle prefetture la figura dello psicologo viene inserita genericamente nel servizio sociopsicologico affidando la definizione del ruolo e dei compiti alla responsabilità degli enti gestori, a buone prassi o alle esigenze del momento. In tanti altri casi, anche per questo servizio, ci si limita a meri enunciati: “Il gestore, qualora vi sia la necessità, provvede a fornire le seguenti prestazioni: sostegno socio psicologico” (I° RAPPORTO -2018/2019 “STRAORDINARIA ACCOGLIENZA, Giugno 2018 A cura di In Migrazione SCS , WWW.inmigrazione.it). L’importanza della definizione La gestione di interventi di accoglienza integrata richiede un forte lavoro di équipe e, al tempo stesso, una puntuale e chiara suddivisione di ruoli degli operatori. Per una definizione precisa dei ruoli e una efficace suddivisione degli stessi, all’interno del gruppo di lavoro, occorre tenere presente quali dovrebbero essere le competenze specifiche per ricoprirli, quali compiti dovranno essere svolti, quali strumenti verranno messi a disposizione, quali sono i criteri di valutazione. I ruoli devono essere assegnati con chiarezza (Manuale SPRAR p. 11).
Il primo passo per un’azione efficace è sempre quello della definizione. Come tutte le parole usate e abusate che rientrano nel campo di intervento di cui trattiamo (trauma, relazione, empatia, disturbo da stress post–traumatico, ascolto, etc.) anche il termine psicologia in parte per la sua storia, in parte per l’assenza di rigore che c’è nella definizione della disciplina, può prestarsi a interpretazioni personali o confusive. Gli stessi psicologi a volte sono incerti sulla propria identità professionale e tendono a uniformarsi alle richieste del committente o agli schemi culturali dei contesti in cui operano. La cosa appare più complessa quando ci si trova di fronte a più committenze, come ad esempio quella statale che indica i
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processi di integrazione e che richiama più le competenze di psicologia dell’organizzazione; o quella dell’ente gestore, che è anche il diretto datore di lavoro dello psicologo, che richiama più le competenze di psicologia di comunità; o quella che deriva personalmente dall’utente nel momento in cui con lui si è instaurato un rapporto di fiducia, e che richiama più competenze dell’area valutativa e di intervento clinico. Questo genera una serie di pregiudizi, che diventano corredo a fraintendimenti sui compiti e le attività degli psicologi, e nel nostro caso degli psicologi che operano nei centri di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati. La definizione chiara dell’identità lavorativa permette quindi di potere sgombrare il campo da false aspettative, da richieste inattuabili, da pregiudizi che possono, altrimenti, diventare corredo a fraintendimenti sui compiti e le attività degli psicologi. A volte lo si individua come un certificatore o un consolatore, o come colui che può determinare il comportamento futuro o prevedere in maniera esatta l’andamento di un progetto di vita, un santone, un confessore … Per esempio, è possibile che vengano fatte richieste che hanno a che fare più con una funzione contenitiva e di controllo dei comportamenti anomali e disturbanti all’interno dei centri, o comunque di interventi riguardanti problematiche che esulano dall’ambito delle proprie competenze. Queste richieste, che possono essere un’occasione di ragionamento e di chiarificazione per ampliare attraverso il dialogo e l’ascolto il terreno della comprensione e della fiducia, non debbono portare lo psicologo a colludere con chi pensa che è il solutore di ogni problema, e questo è possibile se questi invece si muove nell’ambito della competenza che gli appartiene. Anni fa uno di noi il primo giorno di lavoro all’interno di un grande centro di accoglienza venne chiamato per aiutare il personale a sedare una rissa scoppiata durante la distribuzione dei pasti. La risposta di un operatore ai suoi tentativi di comprendere la situazione fu la seguente “Allora a che serve la sua presenza qui? Lo avevamo aspettato tanto, ma inutilmente”. Questo è stato il filo rosso che lo ha accompagnato nel lavoro che, pensato inizialmente come esclusivamente clinico, ha richiesto parallelamente una parte informativa e formativa importante, così che nel definirsi agli altri ha potuto definirsi e definire a se stesso le coordinate in cui muoversi.
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Molto spesso questi pre-giudizi attivano relazioni inadeguate che mettono in pericolo il progetto di cura del paziente e la salute mentale degli operatori, generando conflitti più di quanto cerchino di risolverne. Anche la modalità con cui in alcuni casi si invia un paziente può indicare qual è il modello di riferimento che l’inviante utilizza quando pensa al lavoro dello psicologo. Un esempio è l’uso del termine “chiacchierata” per definire il colloquio psicologico termine molto distante dall’ aspetto clinico e professionale. Da dove cominciare per mettere ordine? Probabilmente conviene incominciare da qui, dalla definizione del ruolo e dell’identità professionale, e da come questi si declinino nel contesto lavorativo. Il definirsi diventa, così, un atto di responsabilità soprattutto nei confronti dei migranti forzati, che non solo vivono la perdita improvvisa dei sistemi di riferimento e di senso, ma spesso hanno vissuto esperienze di violenza fisica e psicologica nel loro paese o durante il viaggio di fuga, tali da minare la fiducia nell’altro e quindi la possibilità di affidarsi, presupposto indispensabile in una relazione che ha come cornice la cura e il sostegno psicologico. Se la relazione con l’altro ci dà il senso di chi siamo (e ci permette l’esplorazione del mondo, del nuovo, dello sconosciuto), una relazione indefinita e confusa non permetterà la costruzione di nuovi significati e il riconoscimento di punti di riferimento sicuri. Un paziente afghano A. B. di vent’anni durante la prima visita medica presso il centro Samifo dove lavoriamo, ebbe una forte crisi di pianto e un episodio dissociativo durante la raccolta anamnestica. Era arrivato da alcuni mesi da un Paese del Nord Europa dove era rimasto per tre anni in un centro per Richiedenti Asilo dopo un viaggio terribile quando era minorenne. Presentava una sintomatologia post-traumatica e depressiva importante. Durante il periodo di accoglienza in Italia non aveva mai manifestato comportamenti tali da preoccupare gli operatori, né aveva fatto richieste di aiuto. Dopo alcuni mesi di terapia durante un colloquio raccontò la sua esperienza di cura in Norvegia esprimendo il desiderio di incontrare il “Dottore della testa” che lo aveva seguito, a cui era rimasto molto legato e che era sempre stato per lui un punto di riferimento importante. “È per questo che quando sono venuto qui e ho visto i dottori ho pensato che potevo dire quanto stavo male, così forse anche qui mi potevano aiutare”.
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L’esperienza migratoria aveva generato in A. nuovi modelli culturali, e la definizione chiara della nuova esperienza di cura aveva permesso la costruzione di significati capaci di attivare e di riconoscere in un altro stato, con persone che parlavano un’altra lingua lo stesso contesto sicuro in cui era possibile chiedere aiuto. Definirsi significa stabilire chiaramente i limiti, i confini oltre i quali non si è più dei professionisti ma si diventa amici, confessori, figure parentali. Cosa fare e cosa non fare: due facce della stessa medaglia La letteratura suggerisce quanto sia rilevante ai fini di un buon esito il riconoscimento precoce di sintomi post-traumatici, e di conseguenza come nel lungo percorso dallo sbarco all’integrazione sia cruciale il ruolo dello psicologo per individuarli il più tempestivamente possibile. La valutazione è senza dubbio l’attività principale dello psicologo, che deve avere, oltre alle competenze di base sulla psicotraumatologia, la conoscenza del modo in cui le varie culture di provenienza dei rifugiati e dei richiedenti asilo attribuiscono significato ai sintomi, alla malattia e alla cura, e come questo contribuisca a declinare le espressioni e i contenuti della sofferenza e del malessere. Gli spazi e i tempi dedicati all’intervento psicologico, previsti da chi organizza e gestisce l’accoglienza, condizionano e indirizzano le modalità in cui si esercita il ruolo professionale. Essere quotidianamente presente, soprattutto nei centri che accolgono alti numeri di migranti, necessita un costante impegno nel rimarcare la definizione del proprio ruolo, sia nei confronti degli ospiti che in quelli dei colleghi nel lavoro del centro, per evitare la confusione con gli ambiti di intervento delle altre figure impegnate nell’accoglienza (si pensi quanto questo possa essere difficile e conflittuale quando gli psicologi giovani accettano per necessità un contratto con il ruolo formale di operatore). Essere quotidianamente presente, d’altro canto, consente di avere un punto di osservazione diretto che permette di acquisire informazioni sul carattere della persona, sul tipo di relazioni che costruisce, sulle dinamiche che mette in atto nei confronti degli
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operatori o dei compagni, e anche sull’insorgenza del malessere, la sua manifestazione e la sua evoluzione. Permette di riconoscere sofferenze che si manifestano in maniera discreta e silenziosa in pazienti peraltro collaborativi (spesso in maniera passiva), che difficilmente, non creando problemi, verrebbero segnalati, come è il caso dei pazienti con un disturbo post-traumatico grave, ma con una sintomatologia sul versante dell’ipoattivazione, ma anche su quello dell’iperattivazione che spinge il paziente a ritrarsi e isolarsi. I primi colloqui sono determinanti per la costruzione di una relazione di fiducia di buona qualità affettiva nella quale sia chi ascolta sia chi viene ascoltato percepisca una condizione di sicurezza e di chiarezza. Il ruolo del mediatore in questa fase è indispensabile anche solo a livello consulenziale (a volte accade che i pazienti rifiutino la presenza del mediatore nel setting per vari motivi legati alla loro storia migratoria (v. cap. 7)). Il primo colloquio deve sempre essere di presentazione sia del lavoro che del ruolo dello psicologo, in generale e in quel contesto, e contenere informazioni sulla motivazione dell’incontro e sulla sua riservatezza. Essendo alta la probabilità di lavorare con soggetti che abbiano subito abusi o violenze estreme, fisiche e psicologiche, e che possano quindi manifestare una sintomatologia post-traumatica più o meno grave, è sconsigliato, soprattutto nei primi colloqui, raccogliere informazioni sugli eventi traumatici, o insistere sulla raccolta della storia qualora vi siano resistenze o evidenti manifestazioni di sofferenza. I tempi di stabilizzazione del paziente, indispensabili per potere accedere alle sue memorie traumatiche, non corrispondono ai tempi amministrativi, che possono richiedere l’accesso alle vicende personali e traumatiche del soggetto in maniera anticipata: per esempio appuntamenti in questura per la formalizzazione della richiesta di protezione internazionale, audizione in commissione per il suo riconoscimento, e anche visite medico-legali al fine di certificare gli esiti dei maltrattamenti. Una paziente seguita da alcuni mesi nel nostro servizio, ebbe per la prima volta una crisi dissociativa durante la visita medico legale: ciò che il corpo raccontava era stato per lei intollerabile, più delle parole che fino a quel momento aveva usato per descrivere la sua storia sia nel setting terapeutico che nei colloqui con l’operatore legale.
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In questi casi il compito dello psicologo è quello di accompagnare e tutelare il proprio assistito in questi passaggi che potrebbero configurarsi come veri e propri nuovi eventi traumatici, e facilitare la comprensione e la comunicazione delle dinamiche che si mettono in gioco in questi frangenti. A volte accade che comportamenti e sintomi legati ai traumi vengano fraintesi, provocando reazioni e atteggiamenti iper-protettivi o espulsivi, sicuramente inadeguati e che innescano un circuito perverso che si autoalimenta e autosostiene, in cui il paziente rischia di essere considerato ad esempio l’eterno malato “poverino”, o viceversa colui che non si impegna, che lo fa apposta, etc. Al contrario può accadere il fraintendimento secondo cui comportamenti derivanti da difficoltà contestuali, di integrazione, di inserimento sociale, di non adesione al progetto proposto, o che abbiano a che fare con le caratteristiche personali e culturali del richiedente asilo, vengano invece collocati in una cornice di lettura psicopatologica traumatica, e inviati al professionista clinico senza altre giustificazioni che motivino un intervento terapeutico. In questi casi lo psicologo deve essere in grado di gestire la pressione che spesso viene fatta dagli invianti o dagli altri operatori che lavorano sul caso e che chiedono al professionista semplicemente una legittimazione della loro valutazione e con difficoltà accettano una consulenza che differisca da quella. È importante qui la ridefinizione della domanda spostando l’accento dal paziente, diventato un sintomo di una criticità relazionale o organizzativa più complessa al sistema in cui è inserito. Una menzione particolare meritano i comportamenti aggressivi degli ospiti, che sono quelli più segnalati da parte degli operatori dei centri di accoglienza allo psicologo, sia interno che esterno, a causa dei problemi che provocano nella gestione del centro, e nelle relazioni con gli altri ospiti e con gli operatori. Questi comportamenti possono essere letti come sintomi di iperreattività in un PTSD nella fase di iperattivazione, possono essere atti conseguenti a deliri psicotici o disturbi dissociativi (“le voci mi hanno detto che mi voleva uccidere, dovevo difendermi”, “era il diavolo”), esprimere solo tratti di personalità, essere la conseguenza di assunzione di sostanze, o anche solo una reazione ad un evento vissuto come ingiusto, pericoloso, frustrante, il tutto da leggersi secondo i modi e i limiti di condotte previsti nel-
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le culture di origine, in cui potrebbero essere non inappropriati. L’adeguata valutazione e lettura del comportamento avrà come conseguenza da una parte l’attivazione di percorsi di intervento ben differenti, che non rientrano in un ambito di cura o terapia, e dall’altra il ridimensionamento di aspettative non realistiche nei confronti dell’assistito, riguardanti il suo benessere o possibilità di integrazione. Infatti favorire la lettura dei comportamenti e dei processi psicologici degli ospiti all’interno dell’equipe è un compito determinante, dopo quello valutativo, perché permette di dare indicazioni con una finalità preventiva, non solo rispetto alle modalità di comunicazione e di relazione con la persona in difficoltà o sofferente, ma anche rispetto a interventi inerenti il contesto ambientale e di vita quotidiana. È infatti importante sottolineare che, quando questo contesto è ottimale, esso diventa un decisivo fattore di stabilizzazione per il paziente, e dall’altra parte aiuta anche gli operatori ad essere più consapevoli del loro lavoro, e conseguentemente meno stressati. Favorire la lettura dei comportamenti significa anche dare voce e tutelare le richieste di aiuto (e “non”) di colui (singolo o nucleo familiari) che accede al setting psicologico, per non correre il rischio che sulla committenza della persona prevalga la committenza degli operatori, degli operatori legali, degli enti gestori, delle prefetture e delle questure. La costruzione dell’invio è questione tutt’altro che secondaria, se si considera che difficilmente si può attivare un intervento di cura e di psicoterapia all’interno di un centro di accoglienza. Invii malfatti o impropri creano false aspettative, confondono, destabilizzano, non favoriscono la costruzione di una relazione di fiducia o l’adesione ad un intervento di sostegno o di cura, mettendo in primo piano richieste strumentali (le certificazioni per esempio) e lasciando sullo sfondo i sintomi e gli stati di sofferenza autentici. Quindi la valutazione, il sostegno, la realizzazione di invii efficaci, e soprattutto il favorire la lettura dei comportamenti all’interno del centro in cui si lavora, così come nella relazione con le strutture esterne territoriali che fanno parte della rete dell’accoglienza e non, sono attività fondamentali che si inseriscono nella cornice sia della prevenzione del disagio psicofisico sia di quella di promozione della salute e del benessere, e hanno quindi a che fare più con le competenze dello psicologo di comunità che del clinico.
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Peraltro come azione terapeutica ha senso in quest’ambito, se gli spazi e i tempi lo consentono, elaborare e attuare progetti d’intervento riguardanti la gestione dell’ansia, utilizzando tecniche di rilassamento o corporee con piccoli gruppi, e favorire esperienze di socializzazione attraverso l’attuazione di laboratori di attività espressive comuni (v. cap. 12). Incontri informativi sui servizi di psicologia e di sensibilizzazione sul tema della salute mentale, possono svolgere una funzione di orientamento e psicoeducazione e iniziare a favorire la costruzione di un terreno comune, di reciproca competenza, su cui iniziare a lavorare. Un altro livello che ha a che fare con sentire di dovere metter insieme i pezzi di tutti, è quello di trovarsi coinvolto in dinamiche e richieste che riguardano gli operatori o il gruppo di lavoro in cui lo psicologo è inserito. L’eccesso di fatica e di stress nel lavoro, il contatto e il vivere quotidiano con situazioni problematiche e di grande sofferenza, possono far sorgere dinamiche conflittuali e difficoltà emotive, relazionali, progettuali e organizzative con conseguenze nelle relazioni con gli ospiti e nella qualità del lavoro svolto. In questi casi lo psicologo non può intervenire come supervisore del gruppo di lavoro se è egli stesso inserito nell’equipe, ma può migliorare i livelli di comunicazione, attivare azioni di problem solving e processi di empowerment delle persone e della comunità, cogliere i segnali di sofferenza ed evidenziarli, proponendo e favorendo attività di supervisione se necessario. Il supervisore deve essere assolutamente esterno al contesto, ed è anche un’opportunità per lo psicologo presente nei centri, che come gli altri operatori condivide la necessità di una supervisione. Questa va intesa come uno strumento di “manutenzione” dell’équipe -diverso dalla formazione-, con l’obiettivo primario di stimolare armonicamente il gruppo di lavoro secondo due assi principali: quello del rischio, migliorando i livelli di tollerabilità nei suoi confronti; e quello dell’avventura valorizzandola in quanto elemento motivante. Non sembri azzardato utilizzare il termine avventura quando parliamo di competenze e professionalità che si muovono sulla base di linee guida, protocolli e procedure: significa solo conservare sempre una prospettiva evolutiva anche quando non è così facile, vivendo quotidianamente a contatto con l’angoscia di storie violente, drammatiche e a volte tragicamente disumane.
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Questa specifica sulla supervisione ci porta ad analizzare un altro elemento chiave che orienta il dire e il fare del ruolo dello psicologo, che è la distanza appropriata, sia con il singolo ospite del centro sia con il gruppo degli operatori. Bisogna essere abbastanza dentro per capire e abbastanza fuori per aiutare. Il vivere insieme rende più difficile mantenere distanze che siano professionali; mantenere il corretto distacco non significa peraltro perdere di umanità, quanto evitare la trasformazione di una relazione professionale in relazione amicale, fraterna, genitoriale o sentimentale. In questo caso si perde infatti la possibilità della cura del singolo e dell’equilibrio del gruppo di lavoro, si confondono gli ambiti e si abbandona la funzione di reciprocità protettiva che offre il ruolo professionale. Probabilmente infatti il fattore che più crea rischi e complicazioni è costituito da quelle condotte che creano confini lassi tra vita professionale e personale, come purtroppo accade nelle relazioni personali -di qualunque tipo- tra personale e assistiti nei centri. Anche se per esempio nel manuale del sistema dello SPRAR si sottolinea come la relazione tra operatore e utente debba essere di carattere professionale e non personale, in alcuni casi accade che la distanza diventi inesistente, tanto che l’operatore si sostituisce all’utente, non riconoscendo le risorse e le capacità di questi. Ciò ostacola fortemente il processo di empowerment, non permette il riconoscimento e lo sviluppo di nuove abilità e competenze, non favorisce la capacità decisionale e l’autonomia. Per non parlare delle conseguenze emotive e psicologiche che può determinare un coinvolgimento in personalità fragili, sofferenti e anche, quando non si tratti di nuclei familiari, nella maggior parte dei casi, sole. Emblematico il caso di una famiglia a cui l’intera equipe di lavoro aveva dedicato energie, sia professionalmente che personalmente: erano stati invitati anche in case private di alcuni operatori. Per questa famiglia si era costruito un progetto che era più espressione dell’equipe del centro, che della famiglia stessa. Pochi giorni prima della fine dell’accoglienza e del nuovo inserimento, gli operatori trovano la stanza dove abitavano completamente vuota: erano andati via di nascosto seguendo il loro progetto. La risonanza sugli operatori è stata molto forte: stupore, rabbia, delusione, sensazione di essere stati traditi, di avere sbagliato, di non avere capito, dispiacere, dolore. Si erano messi al posto della famiglia, erano stati troppo dentro e questo non gli aveva permesso di vedere, ascoltare, cioè comprendere.
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Conclusioni In questo capitolo abbiamo cercato di dare risposte ad alcuni quesiti relativi al perché la presenza della figura dello psicologo nei centri per richiedenti asilo e rifugiati sia un’opportunità. Data la possibilità dei migranti forzati di avere vissuto nel loro paese di origine o durante il viaggio migratorio violenze, torture o altre esperienze, che potrebbero avere conseguenze traumatiche, è una opportunità per individuare gravi patologie pregresse tra coloro che arrivano; è una opportunità per intervenire sulle difficoltà di adattamento al contesto in cui si trovano improvvisamente inseriti, per gestire i problemi di convivenza all’interno dei centri; una opportunità per gestire le difficoltà degli operatori coinvolti nell’accoglienza, per facilitare la comunicazione. Abbiamo cercato di dare in maniera semplice un’indicazione di una modalità lavorativa che sia di tutela del lavoro dello psicologo e degli operatori, e della salute dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Tale modello è ovviamente valido in molti ambiti di lavoro comunitario, ma in questo contesto chiarezza e organizzazione risultano ancora più necessarie, occupandosi di persone i cui assi di riferimento per navigare nel mondo sono stati scossi: poter usare punti di riferimento di contesto validi reciprocamente, permette la costruzione interna di nuovi assi d’orientamento per la persona. Cominciare dalla definizione del contesto anche attraverso le regole, le norme che regolano l’ambito in cui si lavora può essere un primo passo. Le parole chiave, il filo rosso sono: Definizione (dei compiti, dei ruoli, dei confini, delle aspettative personali ed esterne); Comprensione (studio, ascolto, osservazione, riflessione e confronto con altri); Riconoscimento e facilitazione della lettura dei comportamenti (all’interno del centro, con i componenti dell’equipe, con le strutture territoriali sanitarie e con la rete in cui il paziente è inserito); Distanza ( personale , relazionale, affettiva).
11. EMDR e Approccio Corporeo nella Psicoterapia con Migranti e Rifugiati Viola Galleano
io tegnu nu tormentu intra lu piettu ca me consuma e nu se ferma mai me tremula la terra sutta li peti nu c’è mai fine pe lu miu cadire quiddhu ca mangiu nu tene sapore pe mie nu c’è chiui luce ne culore la gente sapia comu t’i curare ci lu tou male se chiama’ taranta e osce ca li tempi hannu cangiati ci è ca po sentire lu miu dulore e ci me porta l’acqua pe sanare a ci chiedu la grazia pe guarire nu sacciu ci è taranta ca me tene ma nu me lassa e me face mpaccire ci è taranta nu me abbandunare ci balli sulu nu te puei curare ci e’ taranta lassala ballare ci e’ malencunia cacciala fore (lyrics: M. Durante / music: L. Einaudi, M. Durante)
Contesto Negli ultimi anni, presso il Centro Migranti Marco Cavallo (CMMC) di Torino, sono stati avviati e mantenuti percorsi di psicoterapia con persone rifugiate e richiedenti asilo, confrontandosi con realtà di traumatizzazione complessa e quadri di sintomatologia post-traumatica acuta. Le persone con storie di migrazione, dopo drammatici attraversamenti del mar Mediterraneo, giungono in Italia e cominciano spesso a soffrire di disturbi del sonno, somatizzazioni, sensazioni corporee intrusive, dolori cronici, stati di
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agitazione psicomotoria, numbing, disregolazioni emotive quali crisi di rabbia o di pianto, attacchi di panico e fenomeni/sintomi dissociativi. Nell’incontro con l’“altro” in psicoterapia, emergono letture diverse di tali quadri sintomatologici, riconducibili, secondo i sistemi di significato culturale, a possessioni, malefici, riti voodoo e si rileva inoltre una sorta di iniziale prudenza, di resistenza al contatto con gli psicologi, ai quali si rivolgono solo i ‘malati’ o i ‘matti’; il ricorrere agli specialisti con atteggiamenti tendenzialmente passivi o richieste di soluzioni immediate. Il ’togliere’ il sintomo risulta spesso essere il primo obiettivo con cui le persone sofferenti si rivolgono al servizio di psicoterapia transculturale. Per quanto ciò accada frequentemente anche con pazienti italiani, tale modalità potrebbe anche richiamare il ruolo e le strategie di cura dei guaritori, che attraverso procedure misteriose agiscono e ottengono risultati. Come può un clinico, di fronte a ciò che ha imparato a chiamare Disturbo da Stress Post-traumatico (PTSD, F43.10, DSM V) rispondere a richieste legittime di eliminazione della sofferenza? I primi tentativi sono orientati alla costruzione di un’alleanza collaborativa. In tale processo però non possiamo prescindere dal riconoscimento della condizione socio-politica ed economica dei rifugiati e richiedenti asilo. “Gli individui e i gruppi umani sono sempre emigrati in altre terre in cerca di sicurezza, nutrimento, protezione per i bambini, libertà ideologica o religiosa o per sfuggire alla guerra, alla persecuzione politica o alla tortura” (Papadopoulos, 2006, p. 19). Con i migranti si affrontano vissuti di sradicamento, tentativi di ricostituire un senso di ‘casa’ ed esperienze dirette o testimonianze di violenze fisiche ed emotive. Si lavora spesso con persone che ancora non hanno ottenuto una garanzia relativa alla propria sicurezza economica, in termini di lavoro e sistemazione abitativa, che si misurano costantemente con una differenza economica, sociale, culturale e soprattutto politica, rispetto ai cittadini italiani che tentano di costruire insieme a loro un processo di cura. Se intendiamo per casa una “condizione primaria in cui la propria presenza e il proprio diritto a esserci sono dati per scontati” (Papadopoulos, 2006, p. 64), risulta evidente come i profughi e i rifugiati si trovino nella condizione di dover lottare per
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guadagnarsi il diritto di essere a casa e per essere riconosciuti come parte della nostra società. Questo elemento è centrale quando ci si avvia a elaborare le memorie traumatiche: per poter elaborare un trauma bisogna essere “in salvo”, e spesso ciò non è una realtà concreta per molti richiedenti asilo. Si sottolinea inoltre tale condizione, poiché il riconoscimento della dimensione socio-politica, da parte del clinico, favorisce la costruzione dell’alleanza, condizione necessaria ad un percorso di cura, oltre a rendere più comprensibile, accessibile l’entità della sofferenza che portano. La possibilità di tenerla in considerazione sembra spingerci a schierarci, a stare “dalla loro parte”, mandando un messaggio, anche implicito, in primo luogo di solidarietà, di sostegno e di senso di squadra, recuperando in qualche modo la frattura che spesso si crea fra “noi” e “loro”, e rimandando inoltre un senso di forza e stima, che sono particolarmente terapeutici per i sopravvissuti. Un esempio illustrativo può essere un paziente ghanese che si rivolge così al mediatore: “La dottoressa sembra riconoscere i pesi che porto con me nel viaggio, peccato che sia una bianca. E nessun bianco può essere nero come noi”. Anche a partire da tale affermazione, emerge la necessità della mediazione quale risorsa e limite del lavoro terapeutico (si veda il capitolo n.7 sulle risorse e i limiti della mediazione). I mediatori infatti sono spesso strumento di accesso a realtà profonde e a sistemi di significato diversi e a noi inaccessibili, ma possono rappresentare un limite allo svolgimento del processo terapeutico nelle sue diverse fasi. Spesso si tratta di persone che hanno attraversato sofferenze profonde, magari con maggiori risorse in termini economici ed educativi ma con trascorsi traumatici comuni alle persone sofferenti. Il rischio è infatti quello di riattivarle e favorire così una reazione difensiva che si esprime negli atteggiamenti a volte minimizzanti o addirittura giudicanti e colpevolizzanti. Spesso inoltre i mediatori svolgono il loro ruolo in contesti altri, esterni alla terapia o immersi nella quotidianità dei pazienti, e non hanno una formazione psicoterapeutica. Un esempio nell’esperienza clinica, possono essere le difficoltà di un’operatrice-mediatrice che, di fronte al racconto di un paziente, obbligato a compiere torture su animali e umani, ha avuto reazioni di forte disagio e rifiuto. La possibili-
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tà di sostenere il processo di elaborazione si è realizzata quindi solo a partire dalla sua assenza in seduta. Inevitabilmente ciò che avviene in seduta, influenza ed è influenzato da chi è presente. Non possiamo prescindere dalla presenza dei mediatori, che ci traghettano verso i mondi interni delle persone sofferenti, utilizzando come accesso preferenziale la loro lingua madre e portatori, nel corpo e nella loro storia, di odori, sapori, immagini e sistemi di significato che permettono ai pazienti di conoscersi e riconoscersi anche nel loro sguardo o anche solo nella loro presenza. Il problema è quando alcune esperienze drammatiche, in particolare per le donne sopravvissute alla tratta e a violenze sessuali, svegliano le esperienze precedenti dei nostri mediatori, che non reggono e interrompono l’elaborazione. Una donna ivoriana di 24 anni, chiede di essere accompagnata in seduta dalla propria operatrice, anche lei ivoriana, che inizialmente svolge la funzione di mediatrice. Dopo circa tre colloqui di stabilizzazione, prevalentemente volti all’accoglienza di un quadro depressivo con sintomatologia dissociativa, e alla proposta di risorse corporee, la paziente inizia a condividere elementi della propria storia di migrazione. In particolare riporta un matrimonio forzato, con violenze domestiche, e una fuga solitaria fino alla Libia, sopravvivendo a violenze fisiche e sessuali, ed infine ad esperienze di prostituzione forzata in Libia. Durante il racconto, intervallato da validazioni, interventi di presentificazione (anche e soprattutto attraverso le risorse corporee) e rimandi relativi al coraggio e alla forza, volti al rinforzo dell’“essere sopravvissuta”, l’operatrice/mediatrice inizia ad attivarsi fisiologicamente ed inizia a distrarsi, prendere il telefono, fino ad interrompere la paziente, toccandole le braccia, le mani e la schiena e dicendo che doveva fermarsi e che andava bene così. La paziente, che durante il racconto, piangeva disperata, ma appariva presente e connessa alla terapeuta, si blocca, e con un pianto sommesso perde quasi i sensi. In seguito, dopo aver sostituito la mediatrice, riporterà di essersi sentita sbagliata in quel momento e di aver “perso l’emozione” e il momento in cui era, “come se fossi caduta”.
Un lavoro previo, sia in termini psicoeducativi, sia di sostegno, con i mediatori, è risultato di grande efficacia e di prevenzione nei confronti dei blocchi dei processi terapeutici. Un altro elemento utile su cui insistere, e da riprendere spesso, è la proposta di una prospettiva cooperativa. La possibilità di coinvolgere la persona nel processo di cura, con una responsabilità verso di sé e i propri processi interni, richiede spesso un impegno e
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una ripresa e ripetizione frequente. I nostri stessi connazionali spesso chiedono di togliere loro qualcosa magicamente, o di essere curati senza essere toccati, un po’ come se avessimo una bacchetta magica e loro fossero quasi esterni al processo di cura. Nel tempo si impara a non far sì che le persone, a volte per processi d’idealizzazione o di ricerca di una soluzione magica, o di estrema fiducia nel processo terapeutico, tendano a mettersi nelle mani del clinico, riconfermando il proprio senso d’impotenza e trovandosi poi delusi e amareggiati, non sentendo di aver risolto i loro problemi. Si riscontra un’alta frequenza di tale approccio alla cura anche fra le persone provenienti soprattutto dall’Africa sub-sahariana che spesso fanno riferimento a rituali, unguenti e pozioni che in precedenza avevano risolto o arginato il problema. Esistono forme diverse di avvicinare le profondità e il mistero della sofferenza umana, così come è necessario riconoscere i limiti del senso di onnipotenza di chi cura. È quindi importante preservare il contesto terapeutico da tali rischi, tenendo in conto i sistemi di significato con cui si legge la sofferenza in contesti culturali altri, anche e soprattutto con l’obiettivo di costruire un’alleanza con i pazienti, ma allo stesso tempo preservarne la funzione di cura della psicopatologia. In tal senso, e a partire dalle comunanze riscontrate in termini sintomatologici fra le manifestazioni della trance e della possessione e gli effetti del trauma e dei disturbi dissociativi, si può quindi assumere -secondo la visione vigente nella clinica post-traumatica- come la struttura sintomatologica dei disturbi post-traumatici e dissociativi, determinati più dal bios dei sistemi di allarme e difesa iperstimolati in cronico che da meccanismi di diversificazione su base culturale, rimangano fuori dall’influenza culturale, se non per alcune differenze nella scelta dei sintomi e del quadro presentato, presumibilmente determinate da condizioni socio-culturali particolari, per un effetto “patoplastico” (vedi capitolo 1). Lo stesso De Martino (1973) mette in relazione le esperienze di possessione e chiaroveggenza con gli studi sull’isteria di Janet, individuando nel concetto di ‘crisi della presenza’, un’angoscia che “esprime la volontà di esserci come presenza davanti al rischio di non esserci” (p. 73), un collegamento con il trauma psichico. Egli afferma, ri-
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baltando la nostra prospettiva, che “un gran numero di casi in apparenza rientranti nel quadro nosologico dell’isteria sono in realtà fatti di ‘possessione spiritica’ (p. 154), ma riprende il concetto di Janet di ‘caduta della tensione mentale’. Il processo, descritto dall’Autore, secondo cui le presenze cominciano a smarrirsi di fronte a un accadimento angoscioso (la tormenta artica che si prolunga per tre giorni) spesso genera un’“esperienza di un’anima che fugge dalla sua sede, che è insidiata, vulnerata, sottratta, rubata e simili” (p. 123), ricorda il riferimento di Herman (1992) alle vittime rese inermi da una ‘forza soverchiante’, che declina in opere della natura (disastri) e opere dell’uomo (atrocità). Considerando qui come le descrizioni di De Martino (1973) possano essere associate ad una sintomatologia dissociativa post traumatica, risulta evidente come i concetti di sopravvivenza, difese animali, dissociazione e fenomeni di depersonalizzazione e derealizzazione si riflettono nella descrizione dello stato di angoscia, il sentimento di incompletezza, di estraneità della persona e di ‘stranezza’ del mondo circostante. “Il malato si sente ‘estraneo’, ‘dominato’, ‘spersonalizzato’, ‘duplice’ o ‘multiplo’, senza sufficiente realtà, e anche il mondo perdere rilievo e naturalezza” (De Martino, 1973, p. 155). Escludendo la logica del ‘tutta la sofferenza è trauma’, così come quella del “tutti i rifugiati hanno storie traumatiche”, l’esperienza clinica evidenzia come la maggior parte delle persone che si rivolgono al Centro Migranti abbiano storie di traumi acuti, traumi complessi e sintomatologia dissociativa. Nel capitolo si evidenzia inoltre il prevalere di una casistica di situazioni in cui le esperienze traumatiche generative sono avvenute in età adulta, in un tempo che per quanto prolungato ed estremo ha avuto una durata definita, sebbene possa aver cambiato per sempre le condizioni di vita e la persona. Si condivide infatti l’impressione che i traumi in età adulta prevalgano rispetto ai traumi relazionali precoci e alle ferite dell’attaccamento, perlomeno nei primi incontri con i pazienti, considerando però come il vissuto delle dinamiche relazionali sia profondamente influenzato dai sistemi di significato culturali e sociali, a volte misteriosi per un clinico italiano. Nell’iniziale tentativo di considerare ogni sintomo nella prospettiva culturale del luo-
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go di provenienza della persona che lo incarna, si nota sempre di più ciò che è comune in quanto esseri umani e mammiferi piuttosto che ciò che differenzia. Naturalmente è importante essere flessibili ed assumere anche una prospettiva clinica ‘altra’ nel considerare la salute mentale dei migranti, ma, per orientarsi nel misterioso territorio della sofferenza umana e condurre un lavoro clinico efficace con i sopravvissuti, non si può prescindere dalle teorie sul trauma complesso e sulla dissociazione strutturale. Un breve cenno, lontano dal voler essere esaustivo, sulla teoria della dissociazione strutturale quale cornice del lavoro clinico con migranti e rifugiati. Van der Hart et al. (2011) teorizzano la dissociazione quale fenomeno di compartimentazione funzionale al momento del trauma. La dissociazione è, infatti, un fenomeno posttraumatico (Gonzalez Vasquez, 2013) utile a superare la sofferenza estrema dei traumi relazionali che implica la frammentazione, o compartimentazione dell’identità in parti dissociative. Le persone che attraversano esperienze soverchianti possono sopravvivere grazie alla separazione delle sensazioni corporee, delle emozioni, ed eventualmente dei pensieri, che hanno caratterizzato le esperienze interne durante eventi terribili, dal sé che affronta la vita quotidiana. La “Parte (orientata ad occuparsi) della vita quotidiana” procede nella vita, lasciando ‘intrappolate’ le memorie implicite all’interno di parti dissociative chiamate Parti Dissociate, che sembrano non crescere mai, come se fossero riconducibili a reti neurali separate. Nell’esperienza clinica ci troviamo di fronte a Parti Dissociate bloccate nel passato traumatico e quindi in modalità fisse di difesa (pianto d’attaccamento, fuga, attacco, congelamento, collasso). Quando le esperienze traumatiche relazionali sono molteplici e ripetute, possono presentarsi numerose Parti Dissociate (parti bambine, parti adolescenti, parti femminili in uomini e maschili in donne) o addirittura possono crescere e svilupparsi più Parti della vita quotidiana. In quest’ultimo caso si parla di Disturbo Dissociativo dell’Identità (DID). La separazione fra le parti del sé è sostenuta dalle diverse fobie (fobie dell’esperienza interna, dei ricordi traumatici, delle parti dissociative ecc.) che ci si trova ad affrontare in terapia.
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Nella casistica che si presenta al Centro Migranti Marco Cavallo di Torino, si rileva la prevalenza di PTSD acuti, ma anche l’emergere, durante l’approfondimento dei percorsi, di storie di traumi relazionali e ferite dell’attaccamento. La sintomatologia dissociativa, che non rientra nei criteri dei Disturbi Dissociativi, inoltre, come rilevato da altri colleghi (Onofri et al., 2014), è alquanto frequente. Rischiando di essere riduttivi rispetto all’enorme complessità dell’esperienza umana, ma tentando anche di essere semplici in termini di efficacia clinica, si ha l’impressione che nel momento in cui un sintomo viene riconosciuto, nominato e gestito attraverso l’ascolto, la comprensione della sofferenza e l’attribuzione di una causa esterna, riconducibile ad un sistema di significato condiviso dal gruppo di appartenenza (per esempio la possessione da parte di uno spirito o il malocchio da parte di un nemico o di un amico invidioso), che porta intrinsecamente con sé la soluzione rituale o medicinale, esso tende inizialmente a ridursi, e a volte anche a scomparire, per poi ripresentarsi in altre forme. La combinazione di ingredienti (quali, ad esempio, l’attribuzione esterna -il sintomo è altro da me-, che scagiona completamente la persona, annullando ogni colpa, ma anche la responsabilità relativa a qualcosa di proprio; il netto passaggio da una malattia -qualcosa che non va in me- ad una normalità condivisa e spesso quasi ad un onore, un essere speciali, in particolare contatto con una dimensione invisibile) sembrano avere apparentemente e inizialmente un effetto di riduzione della sofferenza acuta e dell’espressione sintomatologica. Si tratta però di un effetto che risulta spesso temporaneo, e può essere letto come un rinforzo delle difese dissociative: la parte del paziente che genera il sintomo viene letta e considerata come altroda-sé. Perciò il paziente si sente momentaneamente meglio, ma la sofferenza tende a ripresentarsi poi in altre forme. Ciò che evidenzia Nathan (1995), rispetto al nostro approccio psicoterapeutico occidentale, che tende a lasciare i pazienti soli, di fronte allo ‘scienziato’, mentre nelle società a universi multipli lo stesso sintomo (per esempio lo svenimento di una donna), si può leggere come intervento di uno spirito che si è impadronito di lei, è di per sé funzionale quindi a rinforzare la dissociazione e quindi non a curare il pa-
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ziente, bensì in parte ad alleviare la sua sofferenza in acuto, facendola momentaneamente rientrare nella finestra di tolleranza, e a preservare forse anche l’ordine sociale. Il disturbo diventa infatti utile al gruppo sociale per informarsi sui propri ‘invisibili’ e la donna assume un ruolo centrale, riconosciuto, e rientra a pieno titolo nella comunità. Le persone si sentono contenute, comprese e hanno anche una soluzione offerta dall’esterno (Nathan, 1995), a volte d’immediata efficacia. Molti sono i casi clinici riportati da Nathan (1995) che illustrano tale processo e molte le situazioni di grande sofferenza che si sono temporaneamente ridotte presso il Centro Clinico Marco Cavallo. Inoltre, è da evidenziare una controindicazione riscontrata nei tentativi di approfondimento delle letture tradizionali del sintomo: spesso, ed in particolare nel caso di una donna Camerunense e di una donna ivoriana, si crede che sia meglio non parlare di questi temi, non mettere in parole ciò che accade (la sintomatologia) o le credenze a riguardo (in entrambi i casi precedenti possessioni di spiriti), per non rischiare di peggiorare la condizione di sofferenze e per non mancare di rispetto alle forza occulte. I tentativi di accesso a tali contenuti, sembravano aumentare il senso di allarme, piuttosto che diminuirlo. Il fenomeno può essere letto, nell’ottica della dissociazione strutturale, come l’attivazione delle fobie ai ricordi traumatici e alle parti del sé. La possibilità di sospendere la ricerca di un sistema tradizionale di lettura della sintomatologia, grazie all’introduzione dell’approccio orientato al corpo, ha reso possibile lo sblocco del processo terapeutico e il lavoro con l’EMDR proprio con le fobie che mantengono la dissociazione (per approfondimento vedi approccio progressivo). Il tentativo di ricostituire un gruppo sociale intorno ai pazienti, composto da uno o più terapeuti e da uno o più mediatori, muove il processo terapeutico anche nella direzione di ricostruire un sistema di cura familiare alla persona sofferente, con lo scopo di costruire un’alleanza terapeutica e un senso di accoglienza e validazione, con la disponibilità di muoversi all’interno dei sistemi di significato propri della persona, ma solo nel momento in cui risulta buono e utile al paziente per procedere e consolidare il senso di squadra e la cooperazione. La condivisione dei sistemi di significato tradizionali può essere strategicamente orientata alla costruzione di una
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cornice per la psicoterapia del trauma, ma non risulta una terapia di per sé. Infatti, nonostante i primi effetti regolatori rilevati a volte, purtroppo si riscontra spesso successivamente, a medio o lungo termine, il ripresentarsi della stessa sofferenza, magari con sintomatologie diverse, trovando altri canali attraverso i quali esprimersi e riemergere alla luce. I nostri sistemi sembrano così saggi a volte, nel riportare alla luce sofferenze irrisolte, azioni di difesa bloccate, energie immagazzinate in termini di tensioni all’azione, che ritornano e cercano compimento. Per tali ragioni, assumere una prospettiva che parta dalla cornice della traumatizzazione complessa, comune a tutti gli esseri umani, sia nella lettura del problema clinico, sia nella strutturazione di un intervento psicoterapeutico, sembra essere l’approccio più condivisibile ed efficace. Consideriamo quindi le forme dell’espressione della sofferenza nei diversi contesti culturali quali sintomi patoplasticamente modificati dalla cultura di appartenenza, e quindi sostanzialmente abbordabili da una prospettiva terapeutica comune e condivisa. In tale direzione, la formazione in EMDR e terapia Sensomotoria permette la costruzione di una relazione con i corpi delle persone con cui si lavora, anche attraverso il corpo dei terapeuti e dei mediatori, sorprendendosi nel trovare molti più elementi in comune rispetto a ciò che ci si potrebbe aspettare. A livello applicativo, infatti, l’approccio progressivo (Gonzalez e Mosquera, 2005), che combina l’utilizzo dell’EMDR e della Psicoterapia Sensomotoria, all’interno della cornice clinica della dissociazione strutturale e delle linee guida per il trattamento degli effetti della traumatizzazione, ha nel lavoro psicoterapeutico riscontri di grande efficacia in termini di benessere dei migranti e dei rifugiati con cui si ha l’onore di lavorare. Una donna marocchina di 20 anni con disturbi del sonno, sensazioni corporee intrusive, fobia all’acqua e ritiro sociale, arriva in seduta in uno stato di ipoattivazione, con la schiena ricurva e lo sguardo verso il basso. Quando, già in prima seduta, la mediatrice introduce la possibilità che la ragazza sia tormentata da un jinn/djinn, quest’ultima alza lo sguardo, che esprime una sorta di sorpresa e le si intravede una luce negli occhi, e sospira di sollievo dicendo di sentirsi compresa. Racconta poi che la madre si era sposata, dopo la morte del primo marito, padre della paziente, con un jinn. Questi sembrava essersi innamorato di lei, che però lo rifiutava. Anche per tale ragione, dopo
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un rituale di liberazione dal legame forzato attraverso il sacrificio di una gallina, la ragazza era partita alla volta dell’Italia. Arrivata a Torino, comincia a soffrire della stessa sintomatologia precedente al rituale, con in aggiunta un ritiro sociale che la portava a rimanere per giorni chiusa nella sua stanza senza curare neppure l’igiene personale e l’alimentazione (spesso disordinata e con tendenza ad accumulare il cibo in camera). L’esplorazione delle soluzioni possibili, in termini tradizionali, ha inizialmente coinvolto la paziente, rinvigorendola anche a livello somatico, e coinvolgendola in un processo collaborativo. La remissione dei sintomi, ed in particolare del ritiro sociale, è inizialmente notevole: la paziente torna a lavarsi, a cucinare insieme alle altre ospiti della comunità, a parlare e anche a condividere i propri vissuti e le proprie esigenze agli operatori. Dopo un paio di colloqui però, non avendo ancora trovato una soluzione rituale percorribile, la ragazza inizia ad innervosirsi e a rifiutarsi di riprendere a parlare del tema. La mediatrice spiega che non sono temi di cui parlare a lungo, e che anche lei si sente a disagio per questioni di protezione personale. Il rischio è quello di innervosire il jinn e peggiorare il quadro sintomatologico. Ci si trova di fronte ad una sostanziale impossibilità di procedere, ma si ha la sensazione che il problema sia ancora completamente da affrontare. La proposta efficace, che emerge dopo alcuni tentativi e un lieve peggioramento della situazione clinica, risulta essere quella di sospendere la comunicazione relativa ai contenuti, in modo da ridurre l’allarme connesso all’attivazione delle fobie traumatiche, e concentrarsi sul corpo e sulla sintomatologia. Attraverso l’introduzione di alcuni strumenti dell’approccio progressivo all’EMDR (vedi paragrafo EMDR), compresa la tecnica del “tip of the finger” sulle sensazioni somatiche intrusive e il lavoro con le fobie dissociative, dopo un anno di lavoro, la paziente ha avuto accesso alle memorie di abusi sessuali da parte del secondo marito della madre. Attualmente siamo tornate ad una fase di stabilizzazione, volta a facilitare, nel tempo, l’integrazione delle memorie traumatiche.
Il trauma nella prospettiva transculturale Quando si parla di Trauma, si fa riferimento alla percezione soggettiva di pericolo per la propria sopravvivenza, accompagnata dall’impotenza, l’impossibilità di portare a compimento sequenze di azioni difensive. “Il Trauma è il dolore degli impotenti”, scrive Herman (1992, p. 51). Per quanto tale esperienza possa naturalmente essere declinata alla particolarità di ogni individuo, di ogni storia di vita e di ogni sistema di significato culturale, nell’esperienza clinica si ritrovano elementi sintomatologici comuni, una sorta di effetti sul funzionamento del sistema, che rientrano in molti dei criteri del disturbo da stress post-traumatico (PTSD, F43.10, DSM
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V). Nel considerare le molteplici espressioni della sofferenza infatti, si ritrovano elementi comuni all’essere umano, da cui sembra necessario partire, per poter poi integrare le differenti modalità di lettura che naturalmente influiscono sui processi di cura. Ai fini della comprensione clinica, si riprende qui la distinzione fra le eredità traumatiche e le eredità dell’attaccamento, benché naturalmente siano intrecciate in modo inestricabile (Ogden, 2009). Si considerano i ‘traumi irrisolti’ quali esperienze soverchianti, impossibili da integrare, che attivano le difese autonomiche sottocorticali di iper e ipo-attivazione volte alla sopravvivenza (Ogden, Fisher, 2015). Le ferite dell’attaccamento invece portano con sé sofferenza emozionale legata a esperienze con altri significativi, ma non necessariamente evocano sistemi di difesa volti alla sopravvivenza e quindi disregolazione autonomica estrema. Infine il trauma relazionale include esperienze interattive accompagnate da un profondo senso di pericolo e quindi di arousal disregolato, connesso all’attivazione di difese animali. Spesso i nostri pazienti sono portatori di esperienze traumatiche, di ferite dell’attaccamento e di traumi relazionali e la possibilità di distinguerle rende il lavoro del clinico più funzionale ed efficace. La rilettura della possessione in termini di manifestazione di parti dissociative, con scopi protettivi per il sistema, può essere strumento di comprensione, costruzione di alleanza terapeutica e avere l’effetto di favorire la collaborazione interna. La riformulazione delle esperienze dissociative in quanto strategie funzionali alla sopravvivenza, spesso costituisce il primo passo per intraprendere processi di cura e stabilizzazione. L’integrazione con i sistemi di lettura della sofferenza tradizionali può essere a volte la chiave per poter comprendere meglio il mondo interno dei pazienti, affiancare alla nostra lettura un’altra possibile e trovare uno spazio d’incontro da cui partire con l’intervento clinico. Ma allo stesso tempo si ritiene che gli strumenti psicoterapeutici dell’approccio della dissociazione strutturale, dell’EMDR, dell’approccio corporeo, siano i maggiormente efficaci nel trattamento della sofferenza post-traumatica. Gli interventi di monitoraggio dell’arousal e di costruzione di risorse somatiche possono a volte anche assumere un significato rituale. Gesti che vengono ripetuti assumono una funzione regolatoria e il compimento di mo-
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vimenti bloccati può diventare strumento di comunicazione alle parti dissociative. Un esempio di integrazione di letture differenti è il lavoro clinico con una paziente ivoriana che chiameremo Habibi. Habibi si presenta con una sintomatologia che potrebbe essere classificata come crisi dissociative: quando la donna si arrabbia, entra in uno stato di trance, durante il quale vede e parla con un uomo vestito di bianco, a volte accompagnato da altri quattro uomini. Le accade di svenire, avere convulsioni o avere comportamenti di fuga improvvisa e lamenta inoltre disturbi del sonno e una tendenza all’evitamento e all’isolamento sociale. Nella storia di vita della donna emergono più riferimenti a tentativi di abuso sessuale, mai però portati a termine e di rifiuto del suo corpo ad avere rapporti sessuali, anche dopo il matrimonio. Habibi è stata curata da un Marabou, attraverso rimedi tradizionali ed è riuscita a superare più volte le crisi. Indagando il senso che questa sintomatologia ha nel mondo della paziente, abbiamo capito che questi segnali possono essere ricondotti a un matrimonio con uno spirito, il cosiddetto ‘marito di notte’ che potrebbe aver avuto accesso a lei fin da piccola, passando per il lignaggio della madre. Questi mariti, nelle credenze ivoriane, possono mettere dei limiti alla quotidianità delle donne, essendo innamorati di loro e volendole sposare. All’interno di questo sistema di significati, abbiamo avuto in colloquio l’impressione di connetterci alla paziente e ‘danzare’ le sue stesse note. Il processo di comprensione si è svolto a partire dal riconoscimento del sintomo in quanto effetto della presenza di uno spirito, dal tentativo di identificare l’essere invisibile, di riconoscerne l’intenzionalità e di trattare con lui. Da questa porta d’accesso abbiamo cominciato a ragionare insieme alla paziente, accompagnate da due mediatrici, sulle possibili modalità di intervento. Abbiamo compreso come fosse necessario stabilire delle sedi permanenti di scambio con il mondo dell’invisibile e abbiamo considerato le ipotesi più variegate, passando dal farsi spedire elementi rituali o recuperare informazioni sull’oggetto portatore dello spirito.
Il sollievo evidente della paziente nel sentire che stavamo capendo di che cosa si trattasse, o quantomeno ci stavamo impegnando a farlo, è stato utile anche a poter introdurre qualche intervento di dialogo fra le parti del sé, di validazione del loro ruolo e della possibilità di proporre una negoziazione. A differenza della paziente precedente, Habibi apriva autonomamente, e con evidente sollievo, l’eccesso ai contenuti relativi alle credenze tradizionali. Il clinico non necessariamente assume la credenza della donna nella natura di quanto le accade, ma cerca di trovare un modo per introdurre il lavoro con le parti, che risulta efficace nella psicotera-
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pia del trauma, non evitando di entrare nel suo linguaggio e nel suo sistema di significati, ma facilitandone l’integrazione con gli strumenti terapeutici del lavoro con le parti. Queste ultime possono essere considerati spiriti che la abitano e, come con le parti dissociative, se ne favorisce e promuove la comprensione, l’empatia, e sostanzialmente la co-esistenza. Un ulteriore vantaggio è che la rappresentazione della donna cambia: da ‘malata’ passa ad essere un’‘eletta’, un’‘interprete’, anche all’interno di un contesto per lei straniero. Tali elementi permettono di costruire un’alleanza solida con la paziente, passando attraverso la condivisione del suo sistema di significati, ma non portano ancora all’effettiva risoluzione del quadro sintomatologico. Infatti si sta ora procedendo con un lavoro volto all’autoregolazione corporea, focalizzandoci sui segnali somatici dei momenti che precedono le crisi. L’obiettivo integrativo del processo di cura si rifà necessariamente alla teoria della dissociazione strutturale, senza escludere la molteplicità delle etiologie emergenti, ma riproponendo una nuova riorganizzazione degli elementi culturali propri della manifestazione sintomatologica, intorno al nucleo comune della traumatizzazione complessa. È proprio attraverso il lavoro volto all’identificazione e all’integrazione delle parti dissociative della paziente, che si comincia a notare una riduzione della sintomatologia (Van der Hart et al., 2011). Interventi psicoeducativi e mediazione La psicoeducazione, in quanto condivisione di informazioni e mappe di lettura della sofferenza umana, pone le basi per qualsiasi intervento volto a favorire l’elaborazione di esperienze traumatiche, poiché è orientato, soprattutto inizialmente, a validare e a normalizzare, due passi essenziali nel percorso dicura. Spesso le persone migranti ospitate nelle strutture di accoglienza, come già accennato, presentano modalità di approccio allo psicologo estremamente prudenti: la loro sofferenza è accompagnata frequentemente dalla convinzione che rivolgersi a uno psicologo
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sia per i ‘pazzi’, cosa che comunque non è nuova neppure per i membri della nostra società. Risulta di grande utilità la rilettura della sintomatologia post-traumatica in termini di effetti dell’essere ‘sopravvissuti’ e non ‘pazzi’ o ‘deboli’ o ‘stupidi’. Gli occhi delle persone spesso di illuminano quando si trasformano le loro fragilità in testimonianze della forza che li aveva sostenuti nell’attraversare esperienze terribili. Attribuire l’intollerabilità all’esperienza esterna e rivolgersi alla loro sintomatologia in termini di tentativi coraggiosi del sistema di rielaborare un’esperienza di per sé non elaborabile, in quanto intollerabile, sembra avere un effetto di restituzione del potere e dell’autoefficacia. La metafora delle cicatrici, o delle ferite da riconoscere e disinfettare in modo che comincino a trasformarsi in cicatrici, si è rivelata spesso utile, soprattutto con persone provenienti dall’Africa sub-sahariana. Tale riferimento, anche connesso ad una dimensione rituale, è risultato molto efficace per incrementare la motivazione, risaltare le risorse e avviare una buona alleanza terapeutica. Quando si lavora con i sopravvissuti, spesso emerge naturalmente una stima profonda verso di loro, che favorisce il cogliere la solennità della loro sofferenza, l’esserne in parte fieri e anche il sentirsi ragionevolmente increduli e arrabbiati. La loro sintomatologia, come per tutti i reduci, non parla della loro fragilità, bensì delle atrocità che hanno attraversato, e il solo fatto che siano riusciti a farcela, parla più che altro della loro forza. La reciprocità della psicoeducazione sembra acquisire la sua massima espressione proprio nel contesto interculturale, poiché la condivisione delle informazioni sul funzionamento del sistema umano, alla luce della teoria del trauma e della dissociazione strutturale (Van der Hart et al., 2011; Gonzalez e Mosquera, 2012), espresse in termini di occhiali con cui osservare la realtà, è sempre accompagnato dalla proposta di condividere i loro occhiali. L’incontro con un altro da sé è sempre un incontro con qualcosa che non si conosce, e ogni persona è portatrice della propria storia, unica e diversa da ogni altra, ma nel caso del lavoro con migranti e rifugiati questo è ancora più evidente, più lampante. Quando si domanda come avrebbero letto e affrontato tali problematiche nel loro paese d’origine, nei casi in cui la condivisione
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è permessa e non attiva le fobie dissociative, oltre a scoprire mondi invisibili affascinanti, si aprono gradi di libertà sulla gestione iniziale di ciò che disturba o interferisce con la quotidianità, per poi avviare un percorso terapeutico efficace. Come già illustrato, a volte, quando una sintomatologia dissociativa è letta in termini di possessione di uno spirito, probabilmente proveniente dalle profondità del mare, l’allarme rispetto a se stessi e il sentirsi ‘malato’ o ‘pazzo’ tendono inizialmente a ridursi. In alcuni casi, il tentativo di costruire una soluzione rituale, pratica, può avere la funzione di riconnettere la persona con il proprio sistema familiare e sociale d’origine, insieme al portarla a termine, e può essere il primo passo per costruire un’alleanza volta alla riduzione dell’espressione sintomatologica. La sofferenza prende altre forme, si trasforma, ma può essere affrontata nel processo terapeutico, alla luce delle teorie su trauma e attaccamento. Le nostre finestre su quei molteplici ed affascinanti mondi sono rappresentate dai mediatori, spesso necessari quindi, non solo per l’essenziale lavoro di traduzione delle lingue materne dei paesi d’origine dei pazienti. Perciò forse la mediazione è proprio uno degli elementi più complessi da gestire. Ci si limita qui a riportare osservazioni, lungi dal voler affrontarne l’immensità. Le difficoltà principali, per quanto riguarda il lavoro con il trauma, sembrano essere relative alla riattivazione dei ricordi, spesso impliciti, dei mediatori stessi. Spesso con storie di vita simili, in condizioni socio-economiche non corrispondenti all’energia investita e alla complessità del loro lavoro, e non sempre seguiti a livello psicologico, si trovano a gestire livelli di sofferenza intensi, che inevitabilmente riattivano ricordi traumatici a volte inconsapevoli. Ci si può trovare con mediatori che mettono in atto meccanismi difensivi, intervengono interrompendo o distraendosi o tralasciando o modificando la comunicazione (vedi primo caso clinico). È difficile riuscire a trovare un equilibrio, benché la competenza e l’impegno siano indiscutibili. Allo stesso tempo il mediatore, proprio nella psicoterapia del trauma, è la più grande risorsa per la riparazione di un vincolo di appartenenza, un punto d’incontro fra due mondi. È condiviso che una delle più profonde ferite di un sopravvissuto a traumi sia la rottura dell’appartenenza, quel sentirsi non completamente umani, non sentirsi parte, di avere qualcosa di
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rotto, di irreparabile e solo, dentro. La presenza del terapeuta, ma anche e soprattutto del mediatore, può essere in questo caso testimonianza della re-inclusione nel genere umano, della ricostituzione di quel legame sociale, di quell’appartenenza al gruppo. La presenza di un rappresentante (per quanto per molti forse distante e approssimativo) del proprio gruppo sociale sembra contribuire in modo essenziale alla cura di quel profondo senso di esclusione e diversità dei sopravvissuti. Permette inoltre al terapeuta di accedere a un mondo a lui pressoché sconosciuto, di entrare in logiche a volte misteriose e di cercare insieme al paziente un luogo d’incontro. Ed è proprio il luogo d’incontro condizione necessaria all’avvio di un processo integrativo, terapeutico. EMDR Il primo approccio terapeutico che sembra aver rivoluzionato il lavoro con le persone migranti e i loro traumi è l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing). L’EMDR si basa su un modello di elaborazione adattiva dell’informazione, secondo il quale in tutti noi esseri umani esiste una tendenza all’autocura (Dworkin, 2005). Il modello offre la possibilità di focalizzarsi sul ricordo dell’esperienza traumatica e di applicare la metodologia completa che utilizza i movimenti oculari o altre forme di stimolazione alternata destra/sinistra per trattare disturbi legati direttamente a esperienze traumatiche o particolarmente stressanti dal punto di vista emotivo. Gli effetti di tali esperienze sono quindi ridotti (desensibilizzazione), grazie alla riattivazione del processo fisiologico di elaborazione delle informazioni (riprocessamento), avviando così la ristabilizzazione del sistema. L’EMDR considera tutti gli aspetti di un’esperienza stressante o traumatica, sia quelli cognitivi ed emotivi sia quelli comportamentali e neurofisiologici. Questa metodologia utilizza proprio la stimolazione alternata destra/sinistra, per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, provocando così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali. Si basa su un processo neurofisiologico naturale, legato all’elaborazione accelerata dell’informazione.
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L’applicazione di tale metodo psicoterapeutico ha spesso favorito la rielaborazione degli episodi traumatici che riemergono costantemente nell’esperienza quotidiana dei pazienti, di giorno e di notte. Grazie all’applicazione del protocollo EMDR, lo spazio terapeutico inizia ad essere sempre più occasione di miglioramento sintomatologico rapido e durevole nel tempo. Se consideriamo i migranti, i sopravvissuti del nostro secolo (Papadopoulos, 2006), possiamo comprendere come l’EMDR possa essere un approccio efficace, benché non privo di difficoltà applicative. EMDR nella dimensione di cura dei migranti e rifugiati Punti di debolezza e punti di forza Iniziando ad introdurre l’approccio EMDR presso il CMMC, sono emersi molteplici dubbi, relativi alla possibilità di applicare il protocollo standard, soprattutto per quanto riguarda la comprensione dei passi da seguire. Bisogna tenere conto che, nel lavoro con mediatori culturali, i contenuti verbali dello spazio terapeutico possano subire almeno due livelli di traduzione, il che a tratti potrebbe anche arricchirli, ma sicuramente riduce il controllo del clinico sul messaggio trasmesso al sistema nervoso del paziente e quindi anche sul suo effetto. Oltre alle difficoltà a cui si accennava precedentemente, comuni ad ogni approccio terapeutico, quali per esempio la richiesta di togliere il sintomo, ci sono ostacoli specifici che si rilevano quando si tenta di applicare la metodologia EMDR standard. In primo luogo, come spesso accade anche nei quadri di dissociazione strutturale e trauma complesso (Gonzalez e Mosquera, 2012), il posto al sicuro si trasforma facilmente in un film dell’orrore. Insetti che escono dal terreno, uccelli che volano dall’alto; tutto, a sorpresa, sembra attaccare il sistema. Inoltre, accade che si presentino durante le brevi stimolazioni bilaterali, eventi drammatici a cascata (esplosioni, annegamenti, violenze). Questi fenomeni sono spesso connessi a sviluppi traumatici, sostanzialmente alla quantità, frequenza e ripetizione di esperienze traumatiche nell’infanzia, l’alto tasso di trascuratezza e realtà concrete di emarginazione, maltrattamenti, che spesso si riflettono nel presen-
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te attraverso amnesie e fenomeni di dissociazione somatoforme. E molteplici ferite dell’attaccamento che, per quanto siano gestite in modo diverso a livello culturale, sono comunque portatrici di dolore incorporato. Bisogna anche tenere conto, come illustrato in precedenza, che i richiedenti asilo non sono nella condizione giuridica né economica che possa sancire la fine dell’esperienza di migrazione e di alcuni traumi ad essa connessi. Possiamo considerare un marinaio in salvo, se sbarca in un’isola instabile, dove non può legalmente svolgere alcun ruolo e dove il suo soggiorno è precario e ha una scadenza, il cui risultato è imprevedibile? Dobbiamo tenere conto che il loro viaggio non è finito, nell’attesa del verdetto della Commissione territoriale per il riconoscimento della Protezione Internazionale. Risulta di grande utilità ed efficacia, anche in tal senso, l’installazione delle risorse, poiché sono molto meno frequenti le intrusioni e più fluido e meno disturbato il processo. Rinforzare esperienze di autoefficacia, momenti anche minimi e semplici, in cui le persone si sono sentite competenti e forti, sembra essere uno dei primi passi nel processo di stabilizzazione. La stabilizzazione non può che essere l’obiettivo principale dell’intervento. Come possiamo ricostituire una condizione di sicurezza percepita a livello interno se a livello esterno ciò non ha un riscontro? Come riorientare la persona su un presente di stabilità e sicurezza, se nessuna delle due caratteristiche è effettivamente riscontrabile? Non solo manca la stabilità economica, giuridica e quindi psicologica, ma si è privati di un riconoscimento sociale, di un senso di appartenenza al gruppo, di accoglienza e validazione, che i clinici del trauma complesso sanno essere condizioni necessarie al processo di cura e di elaborazione delle esperienze traumatiche. È anche vero che spesso il processo di stabilizzazione coinvolge e necessita dell’elaborazione di alcune esperienze traumatizzanti. Spesso ci si trova ad utilizzare l’EMDR per affrontare episodi drammatici tendenzialmente molto antichi o molto recenti. Le persone tendono a portare, risalendo al passato, eventi dell’infanzia da cui riconoscono di essere disturbati: le scuole coraniche, gli addestramenti dei bambini arruolati, le separazioni familiari, i lutti. Oppure tendono a ricordare gli eventi più recenti, molto più
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frequentemente legati a esperienze di persecuzioni politiche, torture, prostituzione e violenze sessuali, violenze fisiche, minacce, rapine. Tutte esperienze che hanno spesso come scenario la Libia. Un terapeuta si trova a volte a dover intervallare il lavoro di stabilizzazione con elaborazioni, a volte anche parziali, di episodi di tale intensità che cominciano a introdursi nelle sedute e tormentare anche il sonno dei suoi pazienti. Risulta di grande utilità la strategia del “tip of the finger/punta del dito”, elaborata da Dolores Mosquera (Gonzalez e Mosquera, 2012) che parte dall’orientare l’attenzione sulle sensazioni corporee, mettendo fra parentesi i ricordi. Sembra che questo agisca sulla regolazione dell’arousal e renda più ampia la finestra di tolleranza, promuovendo il processo di stabilizzazione. Un ragazzo ivoriano di 21 anni, si presenta in seduta riportando flashback diurni, incubi notturni, irrequietezza, disturbi del sonno, inappetenza e anedonia. Grazie anche alla collaborazione con un mediatore camerunense disponibile e rispettoso, il paziente riporta con lucidità e precisione, le esperienze che lo tormentano. Sin dalla prima seduta appare molto consapevole della propria storia e connette la sintomatologia odierna all’intrusione di ricordi del passato. In particolare parla delle esperienze di violenza e maltrattamenti in una scuola coranica a partire dall’età di 4 anni. Aggiunge inoltre dettagli terribili relativi al viaggio a piedi verso la Libia, in condizione di sostanziale sfruttamento e/o solitudine, e alle aggressioni subite in territorio libico. Il ragazzo sembra molto motivato a lavorare sulle esperienze del passato. Dopo una fase di stabilizzazione attraverso risorse prettamente corporee e un intervento di psicoeducazione sull’EMDR con il mediatore, alla luce anche della remissione sintomatologia, si avvia, in linea con le richieste del paziente, l’elaborazione di un ricordo antico dell’infanzia. Durante l’applicazione del protocollo EMDR, caratterizzato da non poche difficoltà nell’identificare le cognizioni, emerge chiaramente l’inefficacia dell’ancoraggio alla situazione di sicurezza presente, che sembra contribuire al blocco del processo elaborativo. I tentativi di recupero delle risorse somatiche, portavano il paziente ad uscire completamente dal ricordo, e quindi dall’attivazione fisiologica, ma a non essere più disponibile a riprendere le stimolazioni
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bilaterali. Il ragazzo ripete spesso che adesso non si sente al sicuro, che è preoccupato per gli esiti della commissione, che non ha un lavoro, non ha una casa e ha paura che lo rimandino indietro. Si sceglie quindi di tornare alla fase di stabilizzazione, per contenere l’allarme, e di proporre l’installazione delle risorse con l’EMDR. La seduta che è risultata maggiormente efficace nella riduzione della sintomatologia, nonostante i ricordi antichi non siano tuttora stati ancora elaborati, consiste nell’istallazione della risorsa di forza, potenza e competenza percepite al momento dell’allenamento di un’arte marziale. La possibilità di rinforzare il senso di sicurezza personale, per poi approfondire il lavoro corporeo con i confini e le spinte, ha stabilizzato il quadro clinico del paziente, permettendo l’applicazione del tip of the finger sulle sensazioni corporee intrusive. Dopo circa 8 sedute di lavoro il paziente riporta una completa remissione della sintomatologia, che fino ad ora si mantiene. La disponibilità a procedere nel lavoro resta comunque, e in accordo con il ragazzo e il mediatore, sempre aperta. L’applicazione del protocollo standard dell’EMDR per l’elaborazione dei ricordi completi sembra spesso presentare non poche difficoltà. In primo luogo generalmente risulta quasi impossibile riuscire ad utilizzare le cognizioni. La cognizione negativa, con grande insistenza e molteplici interventi di mediazione, che spesso si estendono anche all’intera seduta, qualche volta emerge, ma non quella positiva che sembra essere sostanzialmente impossibile da utilizzare. Forse l’influenza di sistemi di significato così diversi può aver costruito canali di condivisione di senso a noi misteriosi, così come i nostri a loro potrebbero apparire. Si rileva la sostanziale mancanza di “incontro cognitivo” nel momento in cui si tenta di utilizzare il protocollo standard, che influisce inoltre sul clima della seduta, incrementando il timore e il senso d’inadeguatezza. Un’opzione percorribile potrebbe essere la scelta di tralasciare la cognizione negativa dopo pochi tentativi, e di concedersi la libertà di ignorare quasi completamente la positiva, soprattutto se il processo di ricerca della stessa risulta fonte di disagio per i pazienti. Anche l’identificazione delle emozioni non risulta un processo semplice, ma a poco a poco può diventare più familiare attraverso la presentazione di menù, esempi e interventi dei mediatori. Sicuramente l’accesso al corpo risulta la via di ela-
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borazione preferenziale, soprattutto con le persone che arrivano dall’Africa subsahariana, ma anche dall’Europa dell’Est e dal Centro-Sud America. L’ascolto delle sensazioni corporee sembra a volte più immediato, più diretto e meno soggetto a intrusioni o a blocchi. Senza pretese di esaustività, e limitandosi a riportare semplici osservazioni su un campione femminile non rappresentativo, si possono evidenziare alcune caratteristiche di accesso alle sensazioni corporee e di reazione alla proposta di notarle e condividerle, che si differenziano anche a partire dalle culture di provenienza. Prendendo in considerazione prevalentemente le pazienti donne provenienti dall’africa sub-sahariana, si rileva un accesso tendenzialmente spontaneo e naturale, accompagnato anche da un’evidente regolazione fisiologica, una sorta di sollievo, alla proposta di concentrarsi sulle sensazioni corporee, come se quel territorio di esplorazione fosse disponibile, semplice, e privo di rischi. Anche le donne di origini slave tendono ad accedere in modo abbastanza fluido al proprio corpo, concentrandosi prevalentemente sulle tendenze all’azione, ma generalmente reagiscono con sorpresa e un iniziale senso di estraneità, forse più simile ai nostri connazionali. In particolare con due donne rumene, di età diverse, il lavoro con i confini e con le spinte, è risultato di grande efficacia in termini di riconoscimento e regolazione della rabbia. La legittimità conferita alla difesa del territorio ha inoltre facilitato, in entrambi i casi, la condivisione delle esperienze di maltrattamento e umiliazione nel contesto familiare e scolastico. Infine si osserva nelle donne di provenienza sud-americana, con le dovute distinzioni, una connotazione emotiva intensa rispetto alle sensazioni corporee, che sembrano intrise di emozione e possono essere rapidamente trasformate anche in parole. Una donna peruviana di 48 anni, quando invitata all’ascolto delle proprie sensazioni corporee e delle tendenze al movimento, si connette in pochi secondi all’emozione, che emerge in seduta con grande intensità (nello specifico un pianto di disperazione e un’intensa rabbia). La possibilità di ritornare al corpo, mettendo momentaneamente fra parentesi la sfera emotiva, da un immediato sollievo e facilita l’espressione, con grande concentrazione e solennità da parte della paziente, di un messaggio di promozione della cura di sé, delle proprie esigenze e dei progetti futuri. Grazie a questo passaggio in terapia, si apre la possibilità di lavorare con il sistema interno della donna, favorendo esperienze di co-coscienza con le sue parti bambine.
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Numerose donne con sintomatologie consistenti, soprattutto espresse a livello corporeo (dermatiti, dolori cronici, paralisi, crisi epilettiche, insonnia, ecc.), si sono ristabilizzate in poche sedute grazie all’installazione delle risorse e all’elaborazione esclusiva delle sensazioni corporee, strumenti offerti dall’approccio Emdr e sensomotorio. In alcuni casi, l’applicazione dell’intero protocollo standard, comprese le cognizioni, è risultata efficace, soprattutto quando si presentano grandi traumi singoli e circoscritti, buone risorse relazionali pre-traumatiche e il riconoscimento dello status di rifugiato. Se si considera un attimo la sola sintomatologia, e si pensa alle sindromi isteriche dei veterani di guerra associabili all’isteria nervosa delle donne sopravvissute ad abusi (Herman, 1992), sorge spontaneo associarla alla forma della sofferenza degli eroici sopravvissuti del nostro secolo (Papadopoulos, 2006), scampati a guerre, torture, condizioni economicamente vergognose, violenze e sfruttamento. Le loro imprese, spinte dal tentativo di sopravvivere, non possono non lasciare tracce nei loro corpi. In questo processo, deve quindi essere incluso anche il corpo dei terapeuti, così come il corpo dei mediatori. La mediazione, prima difficoltà e forse anche prima grande occasione di crescita e d’integrazione, come già evidenziato, prevede un processo di preparazione all’uso dell’EMDR. Infatti quando si preparano i mediatori all’uso del protocollo, si notano miglioramenti soprattutto nella fase 3 (fase in cui si identificano cognizioni, emozioni e sensazioni corporee relative al ricordo traumatico, costruendo così il target da elaborare con le stimolazioni bilaterali), momento spesso critico. Anche durante l’elaborazione sembra sperimentino maggiore senso di efficacia e siano meno sopraffatti. Inoltre, anche i momenti di feedback successivi sono spesso utili ad accogliere i vissuti disturbanti e rinforzano l’alleanza terapeutica. Molte sono, in effetti, le difficoltà di applicazione del metodo, ma senza dubbio prevalgono i punti di forza. Per quanto riguarda i protocolli più utilizzati, quando ci si trova a gestire memorie di grandi traumi, di T, senza dubbio il protocollo eventi recenti è la scelta più efficace di stabilizzazione e nello specifico della remissione della sintomatologia intrusiva. L’istallazione di risorse, come illustrato nel caso clinico precedente, è anch’essa parte integrante
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della prima fase della terapia. Il senso di competenza e di autoefficacia risultano essere i target più funzionali, scene di sport, di forza fisica, ma anche semplici momenti di piacere quotidiano, cucinare, visitare un luogo che sia piaciuto o anche solo ascoltare una canzone. Un’altra strategia di grande efficacia è, come già illustrato, la procedura del tip of the finger dell’approccio Emdr progressivo (Gonzalez e Mosquera, 2012). In generale il modello dell’approccio progressivo è particolarmente adatto a fare da cornice all’intervento clinico con i profughi e i richiedenti asilo. Gli interventi volti alla stabilizzazione neurofisiologica e relazionale del paziente, si alternano a momenti di elaborazione di episodi puntuali, ma anche e soprattutto di sensazioni corporee. L’introduzione degli strumenti d’intervento dell’approccio corporeo arricchisce e potenzia ulteriormente la pratica psicoterapeutica in tale contesto, conferendole maggior delicatezza, precisione ed efficacia, nonché eleganza, secondo quanto riportano alcuni mediatori. È proprio grazie all’integrazione dei due metodi, come si approfondirà successivamente, e agli insegnamenti di Dolores Mosquera, che il lavoro psicoterapeutico con i migranti e rifugiati assume un’efficacia evidente. L’ordine di elaborazione dei ricordi traumatici spesso non rispetta l’ordine temporale: le persone tendono a portare in seduta T comuni, condivisi, per quanto drammatici (es. traversata in mare o nel deserto), piuttosto che violenze sessuali, fisiche che generano vergogna intensa. In particolare, si riscontrano di difficile elaborazione i traumi della dimensione intima, come del resto vale per tutti gli esseri umani. Spesso però tale sofferenza si declina per le donne migranti in esperienze di prostituzione, di lavoro nelle Guest House, case chiuse molto diffuse in Libia. In tali casi il problema è che la rete di minacce e sfruttamento non si è interrotta. La tratta degli esseri umani e delle donne spesso africane costruisce reti di sfruttamento che perdurano nel tempo e ha effetti drammatici sul mondo interno ed esterno delle donne che vi sopravvivono. È da aggiungere infine una nota che, benchè circoscritta ad una minima porzione dei percorsi clinici, ha il potere di sollevare alcu-
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ne domande, che rimangono aperte. Fra i pazienti che afferiscono al centro, coloro che hanno avuto accesso a livelli d’istruzione superiore, presentano meno difficoltà nel processo di stabilizzazione cognitivo-comportamentale, nel seguire il protocollo standard EMDR, nella condivisione di prospettive e informazioni durante la psicoeducazione e nel lavoro di integrazione/stabilizzazione con delle parti dissociative (Gonzalez e Mosquera, 2012). Quanto e come il condividere lo stesso modello educativo, in questo caso definibile come “occidentale”, possa o meno facilitare la condivisione e l’applicazione dei nostri strumenti pscioterapeutici? Psicoterapia a orientamento corporeo L’approccio della terapia orientata al corpo e alla cura del trauma rappresenta, anche se ancora ascrivibile a una terapia ad orientamento corporeo, una rivoluzione nella psicoterapia con i migranti e i rifugiati, sia in termini di concettualizzazione dei casi che di percorsi di cura. La possibilità di cominciare a considerare il corpo quale attore e parte attiva nel dialogo terapeuta-paziente, spinge a considerare quanto le abitudini fisiche, implicite e automatiche siano fondanti almeno quanto i processi espliciti, verbali e linguistici. Proprio in tale cornice, si ripensa l’incontro transculturale, corpo-a-corpo (Ogden, Fisher, 2015), attraverso un linguaggio comune, quello del nostro sistema neurobiologico e dunque anche relazionale. Ed è proprio in tale ascolto e nuovo incontro che si disvela una certa predominanza dei processi non verbali, impliciti e basati sul corpo (Kurz, 1990; Ogden et al. 2006; Van der Kolk, 2006). L’affrontare la complessità di sistemi di significato differenti e reciprocamente misteriosi, per quanto affascinanti e profondi, può essere parte della mia pratica clinica, ma è diventa centrale il partire da un punto in comune, il corpo quale canale effettivamente comune, anche a detta dei mediatori culturali. È come se si evincesse che in fin dei conti siamo tutti prima di tutto corpo. È come se il corpo avesse aperto un universo condiviso e quindi un terreno di terapia di grande delicatezza ed efficacia. La storia raccontata dalla “narrativa somatica” (Ogden e Fisher, 2015) – postura, movimenti, gesti,
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prosodia, sguardo, espressioni facciali – diventa terreno di esplorazione terapeutica del ruolo del corpo nella cura del trauma e nelle ferite di attaccamento. La Psicoterapia Sensomotoria è un metodo fondato nel 1981, presso il Sensorimotor Psychotherapy Institute, che include interventi centrati sul corpo integrando psicologia somatica, neurobiologia interpersonale, neuroscienze e ricerca sul trauma e attaccamento. La commistione di teorie e tecniche delle terapie cognitive, affettive e psicodinamiche, con interventi somatici diretti, promuove la consapevolezza somatica e il movimento quali strumenti di stabilizzazione, rinforzo delle risorse e di cura. Il corpo viene qui considerato come erede delle esperienze traumatiche e delle ferite di attaccamento, lo stesso sistema neurobiologico riflette il passato e influenza il futuro: il movimento, la postura e la fisiologia del corpo possono essere infatti considerate una finestra sul nostro passato, poiché si adattano automaticamente all’ambiente per assicurare la sopravvivenza e massimizzare le risorse. Le posture e i movimenti si mantengono per lungo tempo, anche dopo che le circostanze sono mutate, contribuendo alla costruzione di situazioni e relazioni attuali. L’intervento con i migranti si arricchisce così di punti di partenza comuni e di prospettive di lavoro, seguendo l’intelligenza naturale del corpo (Ogden e Fisher, 2015). Questo permette inoltre di lavorare sostanzialmente nel qui e ora, senza dover affrontare contenuti soverchianti o esperienze solo parzialmente concluse per i pazienti profughi e richiedenti asilo. Si evita il rischio o l’allarme relativo al dover raccontare eventi o dettagli, e sostanzialmente si saltano o si aggirano le differenze in termini di sistemi di significato culturali, partendo dal corpo e dalle sue reazioni fisiologiche post traumatiche, che risultano, fino a prova contraria, comuni al genere umano e universali. Psicoterapia a orientamento corporeo con i migranti e i rifugiati Punti di forza e di debolezza Come appena anticipato, il corpo messo al centro del colloquio clinico assume un valore terapeutico pratico, oltre che teorico. Spesso infatti i pazienti migranti, soprattutto provenienti dall’Afri-
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ca sub-sahariana, sembrano essere maggiormente connessi al proprio corpo rispetto ai nostri conterranei. In primo luogo, l’approfondimento dei meccanismi di regolazione dell’omeostasi (ciclo sonno-veglia, stato dell’arousal, alimentazione), permette ai terapeuti una valutazione clinica più approfondita e focalizzata alle necessità primarie e ai pazienti, offrendo così uno spazio di condivisione e promozione di strategie di autoregolazione e di auto-cura. In secondo luogo, propone un intervento terapeutico di stabilizzazione efficace, pur sospendendo pensieri ed emozioni. Il ristabilimento di condizioni neurofisiologiche di maggior sicurezza risulta un presupposto che non solo favorisce lo scambio clinico, anche in termini di sistemi di significato differenti, ma che soprattutto ha un effetto tangibile nella vita quotidiana delle persone sofferenti. Molte donne con traumi multipli, in genere nella sfera della sessualità, arrivano in seduta con costellazioni di sintomatologie riconducibili ad un PTSD, spesso complesso. La disregolazione del sistema nervoso implica spesso il loro continuare a sopravvivere pur essendo già sopravvissute: i sistemi di difesa ancora attivi nel corpo condizionano la loro vita presente attraverso somatizzazioni, flashbacks, disturbi del sonno, ritiro relazionale, sintomatologie dissociative, anestesie, apatia, disturbi alimentari e sessuali, tratti paranoici. Si tratta di quadri sintomatologici associabili alle nevrosi isteriche di Charcot e alle isterie dei veterani riportate da Herman (1992). Attraverso l’implementazione degli strumenti dell’approccio corporeo, tali sintomatologie tendono a rientrare in tempi considerevolmente brevi (la media si aggira fra le 5 e 10 sedute), proprio attraverso interventi che coinvolgono il processo di promozione della consapevolezza corporea e soprattutto della costruzione di risorse corporee di autoregolazione. La colonna centrale dell’intervento di stabilizzazione, e anche di preparazione alle audizioni in commissione, possono essere le risorse corporee. La proposta e la costruzione di risorse corporee di regolazione dell’arousal durante la riattivazione di memorie traumatiche risulta utile infatti non solo nella quotidianità (in particolare riduce la sintomatologia relativa alle funzioni di omeostasi), ma anche durante il racconto della propria storia. Quando si parla di risorse, ci si riferisce alle competenze personali, abilità, relazioni e tutto ciò che pos-
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sa facilitare l’autoregolazione e fornire un senso di competenza e resilienza al paziente (Giannantonio, 2013 b). Nello specifico dell’intervento clinico, si può tendere a rivolgersi prevalentemente a risorse comportamentali e soprattutto somatiche. ”Esse comprendono le funzioni e le capacità fisiche che sostengono l’autoregolazione e procurano una sensazione di benessere e di competenza a livello somatico e psicologico” (Ogden, Minton, Pain, 2006). Alla luce di quanto detto finora, infatti, le risorse somatiche svolgono un ruolo centrale, soprattutto per la loro efficacia, nella costruzione di processi di autoregolazione, molto utili quando le persone attraversano esperienze di migrazione caratterizzate da stress traumatico. I primi obiettivi sono l’autoregolazione quale capacità di rientrare all’interno di una finestra di tolleranza emotiva, che permetta di gestire le emozioni e la promozione di un senso di autoefficacia e di fiducia nell’esplorazione del proprio mondo somatico (Fisher e Ogden, 2009). Puliatti e Giannantonio (2015-2016) illustrano magistralmente le risorse autonome che si propongono e si costruiscono nella pratica psicoterapeutica con i migranti e i rifugiati. Sembra infatti che alcune strategie di regolazione corporea, sia in termini di incremento della regolazione emotiva quotidiana, sia a detta dei mediatori, abbiano un effetto quasi immediato, come se ci fosse una via di accesso preferenziale disponibile nell’incontro interculturale. Il primo passo di ogni intervento somatico consiste nella promozione della consapevolezza dell’attivazione che, attraverso l’orientamento dell’attenzione focalizzata alle sensazioni corporee, permette al paziente di “riconoscere e percepire come il disagio per una situazione specifica si manifesti nel corpo” (Puliatti e Giannantonio, 2015-2016, p. 1). Successivamente si può proporre, quando in seduta si lavora ai margini della finestra di tolleranza, una serie di possibili risorse, partendo dal tracking del corpo dei pazienti quando tendono ad uscirne. Le prime due in termini di frequenza ed efficacia sono spesso il Grounding, utile a “radicare il corpo nel qui e ora, attraverso la percezione della schiena, del bacino e dei piedi sul pavimento, e che permette di percepire il supporto che viene dalla sensazione di essere ‘con i piedi per terra’ e favorisce una maggiore presenza” (Ibidem), e l’Orientamento. Quest’ultima permette
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di riprendere rapidamente il contatto con l’ambiente e riportare così il corpo nel qui e ora in modo a volte quasi illuminante per alcune pazienti. Quando si propone di nominare gli oggetti della stanza e il loro colore, alternando le indicazioni fra destra e sinistra, i risultati in termini corporei sono visibili e riscontrabili sia dai pazienti stessi che dai mediatori che partecipano: il respiro si calma e si approfondisce, le spalle scendono, il colorito ritorna, gli occhi si illuminano e spesso appare un sorriso. Le sollecitazioni interne sopraffacenti si riducono e i pazienti acquisiscono un senso di autoefficacia e di gestione del corpo che riportano nella quotidianità. Anche l’utilizzo dell’Auto-contenimento, l’appoggio di una mano su una parte del corpo particolarmente attivata con atteggiamento accogliente, e del respiro consapevole, hanno il vantaggio di riportare il corpo nel qui e ora e allo stesso tempo hanno un effetto calmante (Puliatti e Giannantonio, 2015-2016). Favoriscono anche la Centratura e l’Allineamento, altre due risorse somatiche fondamentali per affrontare situazioni di difficoltà, sia interne sia esterne. Tali risorse diventano strategie che le persone ripetono nella vita quotidiana e che rimangono a loro anche nei momenti più duri, come quando si trovano a dover riferire la propria storia di migrazione di fronte a una Commissione che dovrà decidere delle loro sorti. Anche la loro postura cambia durante il processo terapeutico: molte delle donne sopravvissute solitamente si presentano in primo colloquio con le spalle chiuse e la schiena ricurva, con difficoltà a sostenere lo sguardo dell’altro e parlando con un filo di voce. Durante il processo di costruzione di risorse somatiche, affiancate anche dall’installazione di risorse con l’EMDR, le loro spalle tendono ad aprirsi, le loro schiene a raddrizzarsi e il loro sguardo ad essere più presente e maggiormente orientato alla relazione. Il passaggio da posture difensive e protettive a una maggiore disponibilità relazionale è spesso graduale ma inesorabile, in particolare grazie al lavoro con i confini e con le spinte, che in più di due casi sembra essere estremamente utile in tal senso. Alcune pazienti in particolare, proprio dopo il lavoro sui confini e sulle spinte, riportano di essere tornare alle sensazioni corporee di quando erano in Africa, riferiscono di sentirsi dritte, tornate se stesse, e cominciano a partecipare a corsi di danza e teatro. Queste tappe
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sono essenzialmente il primo passaggio fondante del percorso di stabilizzazione della sintomatologia dei profughi, rifugiati e richiedenti asilo, nel tentativo di incrementare, come già accennato, il loro senso di autoefficacia e di autoprotezione (Ogden, Minton, Pain, 2006). I richiedenti asilo sono spesso costretti a ripetere la propria storia traumatica più e più volte, anche come giustificazione della propria presenza e permanenza qui, di fronte ad una Commissione che ne valuta la veridicità, legittimità e verosimiglianza. La Commissione stessa, come già espresso precedentemente, è spesso fonte di allarme per le persone che ancora non hanno completato il proprio viaggio di sopravvivenza. La revisione della propria storia di migrazione con gli operatori delle strutture ospitanti, con i propri avvocati, il frequente confrontarsi fra di loro rispetto ai verdetti e alle caratteristiche delle storie più funzionali, a volte anche alle commissioni anti-tratta o ai medici del servizio sanitario nazionale, porta i pazienti a rivivere costantemente il proprio passato, risperimentandolo con il corpo ogni volta, nel presente. Sin dall’inizio, la proposta, facilitata dall’approccio corporeo, di mettere tra parentesi il racconto degli episodi, genera sollievo sia nei pazienti che nei mediatori. L’esprimere un esplicito disinteresse ai dettagli, ai contenuti, sembra favorire l’orientamento al presente e quindi anche i primi passi verso la stabilizzazione neurofisiologica e quindi corporea. Il lavoro con il corpo, inoltre, sembra essere affine anche ad alcune metodologie della medicina tradizionale. Oltre al sollievo connesso al non dover affrontare ricordi esplicitamente, o, in molti casi, al non dover rispondere a domande riguardanti credenze, convinzioni, pensieri ed emozioni, sembra quindi introdursi un nuovo canale di comunicazione più immediato e disponibile all’incontro. Con molti pazienti, il fare riferimento all’essere tutti mammiferi, in quanto esseri viventi interdipendenti, unito all’esperienza di lavoro con i corpi delle persone migranti, diventa occasione di contatto profondo con l’umanità che ci accomuna. Il riferimento a una comunanza sembra avere anche un effetto sull’alleanza e sulla possibilità di condividere qualcosa di profondo, al di là delle differenze, a volte più superficialmente immediate ed evidenti. La sofferenza che incorporiamo, come illustrato prima, spesso si espri-
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me attraverso sensazioni gestibili attraverso risorse co-costruite in un contesto relazionale di consapevolezza corporea condivisa e accompagnata lentamente nel compimento di azioni o di gesti e movimenti autoregolatori. Anche la loro ripetizione potrebbe avere un ruolo di rassicurazione, di apprendimento e di una qualche ritualità. Spesso i risultati di stabilizzazione della vita quotidiana dei pazienti e il senso di sollievo dei mediatori a fine seduta generano entusiasmo nei partecipanti al processo di cura, che si connota di una certa familiarità, di un contatto profondo. Nello specifico, l’applicazione clinica del sequencing dell’arousal, dopo un lavoro previo di stabilizzazione con le risorse somatiche o con la loro installazione attraverso l’EMDR, risulta di grande efficacia: in particolare molte delle pazienti donne imparano rapidamente a esercitare la propria consapevolezza relativamente alle sensazioni corporee e agli impulsi all’azione. Le azioni regolatorie o di completamento di sequenze di difesa bloccate, hanno quasi naturalmente luogo nel contesto terapeutico, con effetti di stabilizzazione nella vita quotidiana sorprendenti: evidenti e quasi immediati. Una giovane donna ivoriana si presenta in seduta, in seguito ad una segnalazione del servizio sanitario. Durante una visita presso l’ambulatorio delle malattie sessualmente trasmissibili, la paziente rifiuta attivamente di farsi visitare ginecologicamente, irrigidendosi come se fosse congelata, assente, e successivamente scoppia in un pianto disperato e terrorizzato e raccontai presenti la propria esperienza di lavoro forzato in una Guest House in Libia. La donna era stata costretta alla prostituzione, e non ne aveva fatto menzione agli operatori negli ultimi cinque mesi di permanenza nella comunità di accoglienza. L’impossibilità di procedere nelle visite mediche spinge gli operatori a proporle una psicoterapia. Sin dalla prima seduta, la donna, per quanto disponibile ad accedere al servizio e a portare il proprio disagio attuale (sintomatologia riconducibile ad un PTSD complesso), rifiuta esplicitamente di raccontare la propria esperienza e contemporaneamente scoppia in un pianto che sembra spezzarle il corpo. La schiena si curva, lo sguardo si abbassa, e sostanzialmente la paziente si accascia quasi a terra, gira il collo come per dire no con la testa, e rimane
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senza fiato e senza parole. I tentativi di rassicurazione della mediatrice, che interviene anche con il contatto corporeo, e della terapeuta, che tenta di orientarla al quied ora con la voce e con le indicazioni nello spazio, la riportano a fatica dentro la finestra di tolleranza. L’intensità emotiva di difficile gestione, spinge il lavoro direttamente, rinunciando completamente a qualsiasi riferimento alla sua storia, ad orientarsi al corpo. Nello specifico, le risorse somatiche di grounding, allineamento e centratura, sono i primi passi importanti verso a stabilizzazione. Dopo circa 3-4 sedute completamente incentrate sulla gestione delle sensazioni corporee disturbanti, la paziente e gli operatori riportano un netto miglioramento del quadro sintomatologico. Inoltre, procedendo in seduta con il lavoro corporeo sui confini, accompagnato anche dall’espressione verbale di vari “No” a voce alta, e sulle spinte, la donna inizia ad essere disponibile ad accedere alle visite mediche e torna in seduta riportando i propri miglioramenti con grande entusiasmo. In particolare, durante una seduta in ci si lavora sulle spinte, il corpo della paziente sembra assumere un assetto da combattimento, ed emerge una tendenza all’azione volta a dare un pugno. La possibilità di completare l’azione immagazzinata in memoria senso-motoria, che attualmente ci offre solo la terapia sensomotoria, di portare cioè a termine un atto di trionfo, senza dover accedere al ricordo in modo esplicito, si realizza qui pienamente, anche accompagnata da un pianto risolutivo, dal sollievo di avercela fatta. Il corpo della donna, dopo la seduta, assume e mantiene tuttora una postura più eretta e uno sguardo più alto. La stessa mediatrice, che partecipa attivamente alla co-costruzione delle risorse somatiche, riporta un effetto benefico rispetto alla propria regolazione e accede ad un proprio ricordo traumatico. Ciò apre per lei una possibilità di elaborazione attraverso il protocollo EMDR. Le molteplici difficoltà illustrate all’inizio del capitolo, che coinvolgono tutto l’intervento psicoterapeutico, si riflettono naturalmente anche all’interno dell’applicazione dell’approccio corporeo. È importante però evidenziare come le caratteristiche di quest’ultimo, proprio per com’è stato pensato e costruito, tendano a facilitare il superamento di alcune di esse. In particolare mi riferisco alla
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via d’accesso corporea, che sembra essere più diretta, più fluida e più efficace nel percorso di stabilizzazione, alle modalità di accoglienza di tale intervento da parte dei profughi e dei richiedenti asilo, alla struttura psicoeducazionale e alla possibilità di usare canali di comunicazione profondi e comuni al genere umano e alle specie viventi. Quando si promuove lo sviluppo di un atteggiamento di accoglienza e accudimento verso se stessi e verso le proprie attivazioni corporee, emozioni e pensieri, inevitabilmente il nostro mondo interno comunica. Così spesso, durante la prima fase di stabilizzazione, nei momenti di promozione della consapevolezza corporea, emergono memorie implicite e ricordi espliciti di un passato antico. In alcuni casi è risultato funzionale alternare il lavoro di stabilizzazione con alcune elaborazioni puntuali, in altri si presentava la complessa situazione di dover gestire una richiesta di entrare nel passato e la fobia dei ricordi traumatici, anche rinforzata dalla precaria condizione presente, distante da un senso di sicurezza e stabilità ritrovate. Le terapie diventano così il tentativo di coordinarsi in una danza, alternando lavoro di stabilizzazione ed elaborazione di eventi traumatici puntuali, più recenti e drammatici legati al viaggio di migrazione o più antichi e profondi, relativi alle ferite di attaccamento o a traumi relazionali. Conclusioni L’applicazione dell’approccio EMDR, accompagnato dall’approccio corporeo, principalmente volto alla stabilizzazione, sembra essere l’intervento più efficace e completo nelle piscoterapie con profughi e richiedenti asilo. Si possono riassumere, tenendo in conto i limiti delle generalizzazioni e la certezza che ogni percorso sia di per sé unico e irripetibile, i cardini di tale pratica clinica in una sequenza prototipica e quindi ontologicamente rinegoziabile e flessibile. Generalmente durante i primi incontri con le persone migranti sofferenti, si tende a strutturare una cornice di valutazione clinica alla luce del proprio orientamento psicoterapeutico, concentran-
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dosi in particolare sulla comprensione della sofferenza, favorendo la costruzione di un’alleanza terapeutica collaborativa e non perdendo di vista l’attivazione neurofisiologica di chi si ha di fronte. È naturalmente centrale l’accoglienza della sofferenza portata, la raccolta di elementi della storia di vita, quando disponibili, e l’indagine relativa alle funzioni di omeostasi (sonno, alimentazione, attivazione quotidiana), le capacità di regolazione autonome e relazionali e le risorse del presente. Si possono esplorare poi, se vi è apertura, disponibilità o necessità, insieme a pazienti e mediatori, le letture tradizionali del disturbo, ampliando la visione clinica con curiosità e cercando percorsi di lettura e cura possibili. Si può poi procedere generalmente attraverso ristrutturazioni cognitive (strumenti quali l’analisi funzionale, la moviola, ecc.) e sviluppo della regolazione dell’arousal (consapevolezza corporea, monitoraggio dell’arousal, tracking e risorse somatiche), tentando di promuovere soprattutto lo sviluppo di uno sguardo di comprensione e di accoglienza rivolto verso il paziente, sia da parte di quest’ultimo, sia da parte dei mediatori. Gli interventi psicoeducati vi sono di grande utilità per validare, universalizzare e normalizzare. A partire dagli elementi emersi nei primi tre o quattro colloqui, si può procedere poi, a seconda del problema e delle risorse del paziente, a una fase di installazione e/o rinforzo delle risorse attraverso l’approccio corporeo e l’EMDR. Questa fase è anche spesso propedeutica alla preparazione per l’audizione in Commissione. L’alternanza e la combinazione di strumenti di approcci distinti ma attenti al corpo, spesso permette di rispondere a esigenze diverse, nel rispetto della fobia dei contenuti traumatici, che si incontra di fronte all’elaborazione di esperienze terrificanti. Risulta importante offrire spazio anche alla gestione quotidiana, soprattutto relativa alla cura di sé, alle condizioni sanitarie e all’accesso ai servizi dei miei pazienti, che in questo modo possono usufruire di uno spazio esterno alle strutture dove vengono accolti, dove eventualmente affrontare le problematiche di convivenza e di gestione della quotidianità in un paese straniero. Si potrebbe riconoscere come la fase di stabilizzazione non si concluda mai, e a volte l’intervento possa essere circoscritto a tali obiettivi. All’interno di questa cornice, può accadere di trovarsi a elaborare ricordi antichi attraverso il protocollo
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EMDR, con le varianti sopra illustrate o attraverso il Tip of the finger (Gonzalez, Mosquera, 2012) oppure attraverso strumenti dell’approccio corporeo (monitoraggio dell’arousal e completamento delle difese animali attraverso gesti di trionfo) o ancora attraverso l’elaborazione di esperienze terrificanti relative al passato più prossimo della fuga dai paesi di provenienza. In quest’ultimo caso si utilizza prevalentemente il protocollo eventi recenti. I percorsi di cura hanno comunque caratteristiche distinte e peculiari, dal momento che tutti noi siamo unici e irripetibili e così le nostre storie di vita.
12. Interventi di gruppo con migranti forzati e rifugiati Cristina Angelini, Paola Castelli Gattinara
Il mio posto sicuro è questo gruppo, dove possiamo parlare e stare insieme. A., donna siriana rifugiata in Giordania
Lo scopo di qualsiasi intervento clinico è quello di potenziare, nei soggetti traumatizzati, le capacità resilienti di adattamento positivo agli eventi stressanti attraverso un lavoro sulla regolazione emotiva e sulla costruzione di un senso di “sicurezza”. Il rafforzamento della capacità complessiva di tollerare e regolare gli stati emotivi interni e di potenziare lo sviluppo di sentimenti positivi, nel loro insieme, possono favorire la percezione di autoefficacia e padroneggiamento delle situazioni stressanti, e contrastare la tendenza alla frammentazione dissociativa che costituisce molto spesso una risposta adattiva alle esperienze traumatiche (Briere, Lanktree, 2008). Riteniamo che interventi di gruppo con i migranti forzati possano risultare particolarmente utili per supportare gli individui nel percorso necessario per fronteggiare situazioni di sofferenza e di dolorosa impotenza. Diverse ricerche mostrano come il senso di appartenenza a un gruppo e la cooperazione con gli altri in vista di un obiettivo condiviso siano due sistemi motivazionali interpersonali (SMI) innati che sottendono l’agire umano e organizzano l’esperienza soggettiva. In particolare, la percezione interpersonale paritetica e la condivisione delle esperienze soggettive risultano strettamente collegate con lo sviluppo della consapevolezza autoriflessiva e della comprensione della mente altrui e dunque con quei processi mentali superiori che consentono una buona regolazione degli affetti e la costruzione di un senso di sé coeso e organizzato.
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(Per una trattazione più approfondita sui SMI e sul valore adattivo nell’evoluzione umana della collaborazione paritetica si rimanda agli studi di Tomasello,1999; Liotti et al. 2014, 2017.) Il gruppo, in quanto spazio interpersonale paritetico, favorisce un atteggiamento cooperativo e di condivisione emotiva. È una modalità di lavoro che promuove la creazione di un’atmosfera di sicurezza e di sostegno reciproco, facilitando il recupero del senso di padronanza e di progettualità compromessi dai vissuti traumatici (Dettori et al, 2018, Bello et al, 2018) e aiutando le persone a sviluppare quei vissuti generalmente associati alla capacità di resilienza come il senso di sicurezza, di efficacia personale e di apertura verso gli altri. Nella nostra esperienza sia all’estero che in Italia, il gruppo si è rivelato una eccellente risorsa per diversi motivi: – per il grande numero di rifugiati e richiedenti asilo su cui intervenire e lo scarso personale specialistico a disposizione; come spesso accade sia nei centri di accoglienza in Italia, sia nei campi all’estero; – per la possibilità di condivisione e rispecchiamento in altri che hanno avuto esperienze simili, rompendo il senso di solitudine; – per la possibilità di graduare meglio l’esposizione personale: a volte è troppo elevata nel setting individuale; – per incrementare un’attitudine cooperativa tra persone che partecipano di una stessa condizione di vita; – come opportunità di screening per gli operatori che hanno così la possibilità di individuare precocemente i soggetti più vulnerabili da un punto divista psicopatologico e che necessitano di un intervento clinico più specializzato. L’obiettivo di questi interventi è centrato soprattutto sulla stabilizzazione, più che sulla elaborazione delle esperienze traumatiche vissute; infatti è un prendersi cura, piuttosto che un curare, che favorisce la resilienza andando a lavorare, quando è possibile e necessario, solo su frammenti di esperienze traumatiche, piuttosto che sulla rivisitazione di un passato doloroso (Gonzalez e Mosquera, 2012).
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La formazione del gruppo e i criteri di inclusione Il lavoro di gruppo è stato declinato in modo diverso a seconda dei contesti e dei progetti di intervento, così come Il ritmo e la durata degli incontri. In Sicilia, per esempio, nell’ambito del Progetto UNHCR-AIDOS su Violenza Sessuale e di Genere, sono stati creati gruppi di sensibilizzazione e self-help con i beneficiari e gli operatori dei centri accoglienza. In Giordania è stato necessario superare la diffidenza verso un approccio poco conosciuto, ma che si è rivelato di grande efficacia con le donne sopravvissute a VSdG (Violenza Sessuale o Di Genere, in inglese GBV gender-based violence; v. cap. 14) per la possibilità di rompere il senso di vergogna e isolamento. È utile che il gruppo sia composto da persone che presentano lo stesso problema, come l’essere sopravvissuti a SGBV o a tortura, o l’essere tutti rifugiati della stessa nazionalità (v. i siriani in Giordania e in Libano), o il fatto di vivere nello stesso centro di accoglienza in Italia. Inoltre, è molto importante adottare certi accorgimenti nella formazione del gruppo e valutare con attenzione quando e con chi è utile, in modo da evitare che diventi uno spazio di possibile ritraumatizzazione. Con gli uomini sopravvissuti a violenza sessuale, per esempio, è preferibile un lavoro individuale, anche se in Giordania abbiamo avuto delle esperienze virtuose affiancando gli incontri di gruppo a incontri individuali, dove potevano essere elaborati gli aspetti più difficili da condividere, di solito quelli relativi alle torture sessuali. È bene non includere persone con sintomi psicopatologici importanti, per esempio sintomi post-traumatici molto attivi (sia di ipo- che di iper-attivazione) o sintomi dissociativi, incompatibili con lo stare in gruppo. Va escluso anche chi è sotto l’effetto di sostanze e non è in grado di stabilire interazioni sociali minimamente adeguate. Un aspetto importante per facilitare il senso di affiliazione e appartenenza è la costruzione delle ground rules, cioè di regole per lavorare bene insieme: spegnere i telefoni, avere rispetto reciproco, parlare uno per volta (a volte abbiamo usato un oggetto come se fosse un microfono, e solo con quello in mano si poteva parlare), mantenere la privacy, non giudicare cosa dice l’altro, ecc.
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L’omogeneità linguistica, sia all’interno del gruppo che con il conduttore, (per es. l’inglese o il francese), favorisce il buon funzionamento e la coesione, anche se non è necessariamente la lingua madre dei partecipanti. L’uso di un interprete e/o mediatore può essere facilitante se c’è sintonia con il modo di lavorare del conduttore e una buona comprensione degli obiettivi dell’intervento, altrimenti può arrivare a inficiare seriamente qualunque attività. L’omogeneità culturale, invece, non è risultata necessaria secondo la nostra esperienza. Al contrario, le differenze si sono dimostrate interessanti e arricchenti, come abbiamo riscontrato lavorando nei Centri di Accoglienza italiani in cui frequentemente convivono persone provenienti da diversi paesi. È utile chiarire fin dall’inizio ai partecipanti che non è necessario raccontare le loro storie personali, né le terribili esperienze vissute. Sappiamo, infatti, che la richiesta di ripercorrere ciò che è accaduto può essere ritraumatizzante. Lasciare alla persona la possibilità di decidere cosa dire e non dire è già di per sé un intervento terapeutico che contrasta il senso d’impotenza e di perdita di controllo tipico delle vittime di tortura e violenza intenzionale. Inoltre, è bene tener presente che ciò che ognuno intende per “personale” può variare moltissimo, anche in base alla cultura di appartenenza: B. è un rifugiato nigeriano, riesce a parlare delle torture subite con molta libertà, e ne mostra i segni sulla schiena e sul petto, ma assolutamente non vuole parlare della separazione dalla moglie, che per lui è motivo di grande imbarazzo e mette in crisi il suo ruolo di capofamiglia.
Durante lo scambio interpersonale bisogna prestare molta attenzione all’effetto “contagio” che può verificarsi fra i membri del gruppo. La presenza di un partecipante che inizia a parlare in modo positivo trascina gli altri creando un clima favorevole di apertura e partecipazione. Un solo partecipante svalutante e aggressivo, invece, può contagiare negativamente il resto del gruppo distruggendolo. In questi casi è meglio allontanare quella persona piuttosto che perdere tutto il gruppo.
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In uno SPRAR siciliano è stato fatto un gruppo indirizzato a vittime di tratta ma, eludendo il controllo delle operatrici, si sono inserite di forza anche tre utenti con “vulnerabilità mentale”. Le tre partecipanti, con diagnosi di disturbo borderline, hanno rischiato di distruggere il gruppo, attaccando le operatrici e contestando le regole del centro. Una ha iniziato a parlare male della psicologa che era lì presente, manipolando quanto appena detto da un’altra ragazza che aveva definito violenza “il voler far fare all’altro qualcosa contro la sua volontà”; la psicologa, nella sua visione distorta, le faceva quindi violenza ogni volta che non le faceva fare quello che lei voleva (violare le regole ecc.). La discussione, che stava andando bene e che si stava focalizzando sul riconoscimento delle emozioni e sulla difficoltà a gestirle, ha immediatamente cambiato registro: i volti hanno cambiato espressione, le ragazze hanno ricominciato ad abbassare lo sguardo quando ci stavamo finalmente guardando mentre si parlava del dolore in cui vivevano. Per fortuna alcune partecipanti hanno iniziato a contrapporsi alle tre, dopo che i conduttori hanno messo dei limiti saldi rispetto a quello che si poteva e non si poteva fare in quel gruppo, lasciando la libertà a chi non avesse voluto partecipare di andarsene.
La creazione di un clima di accettazione e sostegno è un elemento indispensabile per rendere il gruppo una base sicura e deve orientare tutti gli interventi del conduttore, soprattutto nei primi incontri. Al termine del primo incontro svolto con un gruppo di donne giordane vittime di GBV, è stato emozionante per il terapeuta notare il fitto scambio di numeri di telefono fra i membri che non si conoscevano fra loro. L’atmosfera di condivisione e riconoscimento reciproco della propria condizione aveva permesso di rompere il senso di isolamento e solitudine in cui ognuna di quelle donne viveva creando una condizione di scambio e solidarietà che ha reso estremamente proficui gli incontri successivi. Poiché la popolazione clinica a cui si rivolge l’intervento di gruppo è composta da persone che hanno subìto, di solito, numerosi eventi traumatici, sarebbe preferibile avere sempre due co-conduttori con una formazione specifica sul trauma, in modo da poter fronteggiare le eventuali intense disregolazioni e i possibili episodi dissociativi che si possono manifestare. Nella realtà ci siamo spesso trovati a formare facilitatori di gruppo senza questa specializzazione per questioni di forza maggiore: la mancanza di personale specializzato, come in Kurdistan; l’altissimo numero di rifugiati presenti, come in Libano e in Giordania (v.
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capitolo 13). In questi casi una buona e costante supervisione, anche a distanza, ha comunque sopperito abbastanza efficacemente alla mancanza di una competenza specifica. In diversi paesi, come in Giordania, Nepal e Siria, abbiamo promosso anche la formazione di alcuni utenti motivati, in modo da renderli soggetti attivi nel processo terapeutico di altre persone e funzionare come passa parola o ambasciatori dei Servizi del Centro tra gli altri membri della comunità di rifugiati, favorendo dunque un processo di self-help. Elementi fondamentali dell’intervento di gruppo Il lavoro di gruppo è incentrato su diversi elementi, due dei principali sono: 1. La stabilizzazione emotiva, attraverso l’accesso e il potenziamento delle risorse presenti nell’individuo. Utilizzando tecniche corporee, immaginative e di Mindfulness, le persone vengono aiutate a sentire il corpo, a costruire risorse somatiche per l’auto-tranquillizzazione e a contrastare gli affetti negativi. 2. La psicoeducazione sulle emozioni connesse alle esperienze traumatiche che comprende sia la normalizzazione delle reazioni emotive, sia la legittimazione dei vissuti, sia un generale aumento della metacognizione. È importante spiegare ai rifugiati/richiedenti asilo che i sintomi da trauma sono una risposta comune a esperienze estremamente pericolose, e che la violenza non causa ferite solo al corpo, ma anche alla mente e all’anima. Il lavoro sul e con il corpo è alla base di tutto l’intervento. Il corpo è la sede delle esperienze traumatiche: reagisce e riproduce nel tempo le stesse risposte difensive avute al momento del trauma (Van der Kolk, 2014). Le persone che hanno subito questo tipo di esperienze hanno paura delle loro sensazioni e non ascoltano i segnali del corpo, ma è proprio questa difficoltà a essere in contatto con le proprie sensazioni e percezioni, una delle cause principali della mancata regolazione emotiva. Per questo è necessario aiutare le persone a riguadagnare una sensazione fisica di controllo esplorando modi di regolare le reazioni fisiologiche, e imparando a conoscere le pro-
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prie sensazioni corporee nel qui ed ora (Ogden et al, 2006). Tutti gli esercizi proposti qui di seguito hanno la funzione di promuovere questa regolazione e sentire il corpo anche come una risorsa. Alcuni si avvalgono maggiormente dell’immaginazione per raggiungere una condizione di sicurezza psicofisiologica, e fanno leva sulla attivazione di risorse positive (cfr. Cap. 1 sulle diverse risorse delle persone), altri lavorano direttamente sull’esperienza corporea. La Stabilizzazione emozionale Il corpo registra le tracce di cosa ci è successo nel corso della nostra vita: quando siamo al sicuro i nostri corpi sono rilassati e possono muoversi liberamente. Quando invece siamo spaventati, i nostri corpi sono contratti; se siamo stati gravemente spaventati e per lungo tempo, lo stato di allarme diventa permanente (Van der Kolk, 2014; Dimaggio et al., 2019). Porges (2011) ha illustrato in modo magistrale i fondamenti neurobiologici della paura e della sua regolazione. Secondo la sua teoria polivagale, il sistema nervoso autonomo ha un ruolo fondamentale nella gestione dell’allarme: quando siamo in una condizione di sicurezza si attiva quella porzione del sistema parasimpatico denominata ventro-vagale che modula gli stati affettivi ed è connesso al benessere e all’ingaggio sociale. In situazioni di minaccia si attiva, invece il sistema simpatico (caratterizzato dalle risposte di attacco o di fuga), ma se il pericolo diventa soverchiante si attiva una risposta estrema di difesa caratterizzata da reazioni di paralisi dell’azione (freezing), di collasso (fainting) e di dissociazione dalla realtà. Le persone gravemente traumatizzate tendono a sperimentare cronicamente queste reazioni di allarme e ad avere reazioni disadattive anche di fronte stimoli innocui. In queste situazioni, cercare di ottenere direttamente un abbassamento dello stato di attivazione mediante esercizi specifici provoca l’effetto contrario. Il rilassamento, infatti, è spesso percepito come una condizione pericolosa, presuppone il lasciarsi andare e dunque la mancanza di controllo, cioè quello che viene più temuto da chi ha ripetutamente subito violenza interpersonale ed ha sperimentato l’impossibilità di sfuggire ad una grave minaccia.
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La possibilità di ritrovare la sicurezza e dunque la capacità di attivare anche risposte di rilassamento deve passare pertanto attraverso l’aumento della sensazione fisica e psichica di controllo sul proprio mondo interiore. È necessario esercitarsi a sentire il proprio corpo nel momento presente ed utilizzare i propri sensi per concentrarsi sulla sicurezza del qui ed ora, diventando consapevoli delle proprie emozioni e percezioni. Ecco un esempio dell’importanza di quanto detto: In uno dei primi gruppi proposti in Giordania nel 2002 con donne vittime VSDG, durante il Training Autogeno erano più frequenti le reazioni cosiddette “paradosso” (cioè quelle che aumentavano l’allarme) che quelle di rilassamento. In seguito abbiamo compreso che il tentativo di far rilassare, e dunque lasciare andare il controllo allarmava queste donne ancora di più. Facendo tesoro di questi effetti, anni dopo a Gaza abbiamo avuto tutt’altra esperienza; all’opposto di quanto facevamo all’inizio, abbiamo lavorato sull’aumentare il controllo della scena presente e questo ha permesso di abbassare un po’ l’allarme. Abbiamo utilizzato la Mindfulness (di cui parleremo successivamente) ed esercizi per aumentare la presenza nel “qui e ora. Le abbiamo invitate a sentire la pressione del corpo sulla sedia, per esempio, il respiro che entra ed esce osservando le reazioni fisiche, e movimenti oculari di rotazione degli occhi nella stanza.
Il “Posto Sicuro” o Safe Place è uno dei primi esercizi di stabilizzazione che favorisce un’esperienza di tranquillità e sicurezza. Viene utilizzato, spesso nel primo incontro, come risorsa a cui ricorrere per gestire i sintomi post-traumatici e le relative emozioni, intense e destabilizzanti. La visualizzazione è semplice ma non banale, richiede esercizio e alcuni accorgimenti differenti nel caso di rifugiati o richiedenti asilo e in generale se si è in contesti emergenziali. L’obiettivo è creare, attraverso un’immaginazione guidata, un luogo interiore in cui la persona possa recuperare la sua sicurezza perduta. L’indicazione è di sedersi comodi, chiudere gli occhi (solo se si può; sappiamo infatti che per molte persone la chiusura degli occhi riattiva la paura di una perdita di controllo), oppure guardare un punto sul pavimento, e respirare consapevolmente sentendo il proprio corpo. Successivamente si chiede di visualizzare un proprio “luogo sicuro” e di immaginarsi lì, di sentire i suoni, gli odori, i colori e concentrarsi sulle sensazioni piacevoli che il posto evoca. Il Posto Si-
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curo può essere reale o immaginario, ma riteniamo sia molto meglio se è scelto da una situazione reale o un ricordo positivo. Quando si lavora con i migranti forzati è bene orientare l’immaginazione sul presente. Nei Centri di accoglienza, per esempio, chiediamo di visualizzare una situazione in cui si sono sentiti bene e al sicuro da quando sono arrivati in Italia. Bisogna, infatti, prestare molta attenzione nel lavoro con questi pazienti: i singoli ricordi che potrebbero fungere da risorsa possono spesso essere strettamente intrecciati ad altri ricordi negativi, soprattutto di perdita. In linea generale sarebbero da evitare tutti i ricordi legati a momenti belli del passato ormai perduti o legati a persone che non ci sono più (familiari morti, figli che sono rimasti in Africa ecc.). Nel 2017 nel Kurdistan siriano, in una zona appena liberata da DAESH, ma gravata da decenni di persecuzioni dal regime di Damasco, abbiamo proposto l’esercizio del Posto Sicuro. Mentre installavamo le memorie positive, ci siamo accorti che, appena attivate, si agganciavano velocemente a memorie legate a eventi luttuosi, di perdita di propri cari (per esempio il fidanzato o il fratello peshmerga morti in battaglia). Il posto sicuro si trasformava pertanto in un momento doloroso, con più persone in lacrime (tra cui lo stesso traduttore, con non pochi disagi per i conduttori del training).
Nel caso dei richiedenti asilo in Italia, il Posto Sicuro emerso più frequentemente è stato il momento in cui sono stati salvati in mare o il momento in cui hanno lasciato il centro di detenzione in Libia. Fig. 1: B. è un ragazzo africano. Per lui il posto sicuro è l’arrivo nel centro accoglienza, dove per la prima volta vede bianchi e neri che giocano a pallone insieme
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M., un altro ragazzo, commuove gli operatori quando racconta che per lui è il momento in cui si leva i sandali e parte sul gommone, e poi vede dei delfini che nuotano accanto alla barca. “Saltavano vicino a noi e sembravano felici per noi!”. Per J., invece, è la sensazione di poter essere libero di girare per la città sapendo di non rischiare di essere rapito come in Libia.
A volte è difficile individuare una situazione in cui ci si è sentiti al sicuro, ed è quasi impossibile immaginarsela. In questi casi è utile la ricerca di piccoli momenti di sollievo e di serenità, come quando si gioca o si fa sport (emerso molto di frequente) dove si sente il corpo libero e in movimento; o quando si suona o canta; o durante la preghiera; o quando si va a scuola; lo stesso gruppo psicologico o il momento del colloquio psicologico sono apparsi come luogo sicuro per molti. Nei casi più difficili, può essere utile invitare la persona a cercare il momento in cui stasi sente meno peggio. Ecco uno stralcio del dialogo con una donna nigeriana i cui figli sono rimasti in Nigeria e che ha subito molteplici violenze vissute nell’anno passato in Libia: “Non c’è nulla di piacevole per me ora. Solo dolore.” “Ma qual è il momento in cui ne provi di meno?” “Mentre prego.” “Ok! Stai lì, sulle sensazioni fisiche che senti quando ti riconnetti a quel momento”.
Durante le sessioni di gruppo bisogna favorire l’aggancio al corpo, alle piccole sensazioni piacevoli provate, aiutarli a cogliere i sottili indicatori di sollievo, farli notare subito e agganciarli. La connessione a stati emotivi e somatici positivi viene poi rinforzata invitando le persone ad autosomministrarsi una stimolazione sensoriale bilaterale. Tale stimolazione, che può essere caratterizzata da movimenti oculari bilaterali o da tapping tattile o uditivo, è una componente specifica dell’approccio EMDR (un approccio evidence-based per l’elaborazione delle esperienze traumatiche) consigliato da WHO e UNHCR tra gli interventi specialistici nei contesti emergenziali quando è disponibile personale specializzato (WHO et UNHCR, 2013) L’immagine del Posto Sicuro viene, infine, collegata ad una chiave verbale in modo da poterla richiamare più facilmente alla mente.
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Si propone di praticare l’esercizio del Posto Sicuro con la Stimolazione Bilaterale tattile almeno una volta al giorno, per allenare la mente a tornare su stati mentali positivi; è bene, infatti, attivare in modo regolare la sensazione di tranquillità e sicurezza in modo da mantenerne l’effetto benefico. Durante il nostro lavoro con i gruppi, abbiamo verificato l’utilità di far disegnare il “posto sicuro” in modo da dare maggiore concretezza alla visualizzazione e favorire lo scambio di esperienze fra i membri. Solo una minoranza di partecipanti si è mostrata reticente, mentre molti sono stati contenti di mostrare e commentare il loro disegno in una atmosfera di condivisione e positività che spesso ha invogliato chi era più restio a farlo. L’installazione di risorse è un’altra utile procedura di stabilizzazione. Il termine “installazione di risorse” è comune nell’approccio EMDR ma deriva dalla Programmazione Neurolinguistica, approccio ispirato anche alle strategie terapeutiche di Milton Erickson (Bandler, Grinder, 1975, 1979). Il presupposto è che l’individuo abbia già in sé molte delle risorse necessarie al superamento dei propri problemi. Il compito del terapeuta è di fare da catalizzatore e rendere fruibili le risorse già presenti potenzialmente nel paziente. L’impiego delle tecniche di installazione di risorse con l’EMDR è orientato alla stimolazione di processi di cura il più possibile autogestiti. (Giannantonio, 2014) Questi esercizi si focalizzano su quei ricordi, caratteristiche personali, relazioni o fattori simbolici che costituiscono strategie di buona gestione degli eventi negativi, rafforzando il senso di capacità e competenza. A differenza dell’esercizio del Posto Sicuro, non promuovono esperienze di tranquillità psicofisiologica, ma attivano una sensazione di autoefficacia, valore e controllo sulla propria vita. Si invitano i partecipanti ad individuare cosa gli servirebbe in questo momento per fronteggiare la situazione attuale, poi si chiede quando nella loro vita hanno utilizzato queste risorse e si procede stimolando l’accesso ai ricordi identificati. È meglio far riferimento a quanto è già disponibile nell’esperienza del migrante; i ricordi reali sono sempre da preferirsi come risorse, rispetto a scenari immaginari o a esperienze mai vissute prima.
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Nel lavoro con i migranti in Italia, è stato particolarmente utile l’istallazione di risorse riguardanti obiettivi di vita e l’apertura di scenari che hanno aperto una finestra sul futuro, cosa cruciale per questa popolazione. Fig 2. Disegno di un partecipante ad un gruppo in Italia che individua le sue risorse nel ricordo del salvataggio in mare, nel gruppo psicologico e nella sua capacità di imparare l’italiano
Il lavoro sulle emozioni: psicoeducazione e metacognizione Un’altra grande parte di lavoro di gruppo con i migranti si focalizza sul riconoscimento delle emozioni fondamentali (rabbia, paura, tristezza, disgusto, ecc.) che Darwin, in “The expression of emotion in man and animals” nel 1872, ipotizzò fossero universali e biologicamente innate, e sulla possibilità di gestirle. L’intervento è prevalentemente di tipo psicoeducativo ed è finalizzato ad attivare il riconoscimento di ciò che ci accade, aprendo poi alla possibilità di ridurre e contenere stati d’animo negativi. La capacità di differenziazione emotiva, infatti, per chi è cresciuto in contesti di grave deprivazione psico-fisica, è spesso molto diffici-
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le. A volte le persone riescono a indicare una sola risposta emotiva o non sono capaci di distinguere tra più emozioni. È importante aiutarli a identificare i propri stati d’animo dal punto di vista dei correlati fisiologici, delle mimiche facciali e posturali, a collegarli ai pensieri, alle immagini ed ai ricordi promuovendo una capacità riflessiva che consenta loro di modulare ciò che provano (Dimaggio et al., 2013). Normalizzare e validare i sentimenti, soprattutto quelli difficili legati agli eventi negativi, è un altro elemento chiave per affrontare adeguatamente le terribili esperienze vissute e poter costruire un futuro. In questo senso, il gruppo rappresenta un contesto facilitante che consente ai partecipanti di non sentirsi diversi dagli altri esseri umani proprio perché rompe una condizione di isolamento mentale che impedisce l’elaborazione di ciò che si sono trovati a vivere. Accanto al riconoscimento delle emozioni negative collegate alle loro dolorose esperienze, è molto utile incrementare le emozioni positive utilizzando esercizi come quelle sopra descritti in modo da promuovere la consapevolezza della sicurezza nel presente. Il disegno è stato un valido strumento per modulare l’intensità emotiva e facilitare la condivisione dei sentimenti negativi e positivi che si provano. In quanto attività espressiva ha aiutato moltissimo a sviluppare la capacità di narrare gli eventi traumatici e i relativi vissuti facilitandone l’elaborazione. Molti disegni che abbiamo visto fare sono davvero impressionanti per la carica emotiva che comunicano, sia quando descrivono gli eventi traumatici, sia quando esprimono le emozioni provate. Nella nostra esperienza soprattutto in Italia, abbiamo incontrato operatori che manifestavano una certa perplessità rispetto al proporre l’uso del disegno a persone che non hanno avuto accesso a questo strumento nel loro percorso scolastico. A questo proposito vogliamo ricordare che l’espressione grafica è primordiale e troviamo graffiti lasciati dai nostri antenati fin dalle epoche preistoriche, quando la scuola non esisteva. Questo è un esempio di come le nostre “fantasie da occidentali” possano condizionarci, non riconoscendo cosa accade davanti ai nostri occhi.
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Clinica del trauma nei rifugiati Fig. 3 rappresentazione grafica del dolore di un partecipante e di dove lo sente: “cuore pesante”.
Il lavoro con il corpo La parte del lavoro di gruppo dedicata direttamente al lavoro corporeo e al riconoscimento della componente somatica delle emozioni si è rivelata fondamentale. Sappiamo che nelle persone gravemente traumatizzate le reazioni di allarme possono cronicizzarsi e manifestarsi di nuovo sotto forma di immagini, emozioni e reazioni fisiche intrusive, anche in situazioni molto lontane dal trauma subito. (Liotti e Farina, 2011; Ogden et al,2015; Van der Kolk, 2014, Porges, 2011). Emozioni intense coinvolgono immediatamente il cuore, il respiro e le viscere facendo sentire le persone in balia delle loro sensazioni. In altre parole, il corpo conserva la memoria del passato e per questo è importante intervenire a questo livello, in linea con tutto il filone delle pratiche terapeutiche orientate sulla corporeità (W. Reich, 1933; A. Lowen, 1958; P. Ogden, 2006; G. Ferri et al., 2012; P. Levine, 2014). L’obiettivo è quello di aiutare le persone traumatizzate a “fare amicizia”, per così dire, con le reazioni che si attivano in loro, invece di rispondere ad esse con allarme, evitamento e interpretazioni negative. Avere consapevolezza dei segnali corporei, sia viscerali che muscolo-scheletrici, aiuta a integrare questa dimensione abitualmente inconsapevole, migliorando la capacità di rendersi conto dei propri stati emotivi ed abbassando di conseguenza le reazioni neurovegetative di paura.
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Il lavoro corporeo può essere svolto utilizzando esercizi che aiutano a riprendere il contatto con sé stessi e a ritrovare la fiducia negli altri, attraverso la consapevolezza del linguaggio non verbale come le espressioni mimiche, la postura e la modalità di respirazione. Durante l’attività di gruppo abbiamo aiutato le persone a cogliere il momento in cui sorridevano, in cui il petto si abbassava o in cui avevano avuto un’espirazione liberatoria. Focalizzare l’attenzione su questi piccoli elementi in maniera mindful, cioè di osservazione non giudicante delle proprie sensazioni, è stato fondamentale per aiutarle a riguadagnare fiducia nel proprio sentire. Importante è anche l’elaborazione verbale delle attività pratiche svolte, per comprenderle e integrarle a livello cognitivo. Tutte le reazioni disregolate legate all’esperienza traumatica possono riaffiorare durante il lavoro corporeo, bisogna quindi procedere a piccoli passi, non forzare mai la persona ad andare oltre la propria soglia di sostenibilità ed essere capaci di creare un clima di fiducia e accoglienza senza il quale l’integrazione non può avvenire. Cruciale appare anche aiutare il migrante a modificare la percezione che ha dell’ambiente circostante e trasformare il senso di minacciosità in senso di sicurezza. Qui entra la peculiarità del lavoro di gruppo, dove si possono sperimentare relazioni di fiducia non solo col terapeuta, ma anche con le altre persone che hanno vissuto le stesse esperienze e che le stanno elaborando. In un centro di accoglienza a Palermo questo clima di fiducia e il passa parola tra gli utenti ha fatto sì che anche chi non aveva fatto i colloqui individuali con la psicologa chiedesse di aggiungersi al gruppo che lei aveva già avviato. Le tecniche corporee che abbiamo utilizzato maggiormente sono state: Il grounding (radicamento) che si può fare sia in piedi sia seduti, è un esercizio che genera spesso un senso di equilibrio e radicamento, favorendo la regolazione degli stati di iper- e/o ipo-arousal. Risulta molto utile con i migranti che quasi sempre, oltre ad aver subito varie esperienze di violenza, hanno perso i loro cari e si sono dovuti allontanamento forzosamente dalla propria terra. Nella forma classica proposta da Lowen (1972), si fa in piedi, chiedendo al paziente di assumere una postura eretta, con le gam-
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be leggermente divaricate e le ginocchia lievemente piegate, in modo che la colonna vertebrale e il tronco siano allineati e scarichino il peso sulle gambe. Gli occhi possono essere chiusi (ma sappiamo che questo è difficile nelle persone traumatizzate che faticano a lasciare il controllo) o altrimenti rivolti verso il basso sul pavimento, al centro della stanza. Nel lavoro di gruppo, invitiamo le persone a portare l’attenzione sulle gambe e sui piedi ben appoggiati a terra, così da percepirne la forza e il sostegno. Chiediamo, poi, di immaginare il corpo come un albero (le gambe come il tronco e i piedi da cui partono le radici che penetrano nella terra) e di percepire un flusso di energia vitale che passa per i piedi/radici e che può essere collegato al ritmo del respiro. Questo esercizio contrasta le sensazioni di distacco dal proprio corpo o dalla realtà circostante, così frequenti in questo tipo di popolazione Altre procedure utili vengono dalla Mindfulness, che possiamo definire come la pratica del prestare attenzione al momento presente, in modo intenzionale e con un atteggiamento non giudicante. Consiste nell’aprirsi alla propria esperienza interna attraverso la consapevolezza del corpo. Focalizzarsi sulle sensazioni corporee permette, infatti, di cogliere l’andirivieni delle emozioni e delle percezioni accrescendo il controllo su di esse e contrastando il senso di esserne sopraffatti. Nelle prime fasi del gruppo proponiamo di portare l’attenzione sui momenti e sulle parti del corpo libere da paura, paralisi o rabbia. Questo aiuta le persone a osservare che le emozioni negative sono transitorie e a notare come si modificano quando cambiano la postura, il respiro o ciò che pensano. Le tecniche Mindfulness possono essere usate per regolare l’arousal e per favorire l’identificazione degli stati interni positivi e la stabilizzazione emozionale. Inoltre, imparare a riconoscere e tollerare ciò che si prova nel qui ed ora, è fondamentale per poter lavorare direttamente, in una fase successiva, sui vissuti traumatici. Un altro approccio corporeo risultato utile nel nostro lavoro è quello analitico-reichiano (Ferri et al., 2012). Seguendo questo approccio, vengono proposti degli esercizi chiamati acting secondo una sequenza flessibile collegata alla specifica situazione della per-
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sona e del gruppo. Il lavoro proposto parte da esercizi di consapevolezza corporea che aiutano progressivamente i membri del gruppo a sentirsi attraverso il respiro, il muoversi nello spazio e la presenza oculare. Gli acting più indicati sono quelli del livello oculare come la convergenza, la mobilità e la rotazione degli occhi che vengono proposti sempre con molta attenzione alla situazione e alla sostenibilità della persona. In particolare si è rivelato importante l’acting dello spostamento della convergenza oculare da un punto fisso alla punta del proprio naso, per la sua capacità di stimolare un ritorno a sé dall’esterno. Tutti questi esercizi oculari stimolano la corteccia prefrontale e favoriscono i processi integrativi aumentando il controllo della scena presente e la capacità di mettere gli occhi senza disgregarsi (Nigosanti, 2017). In alcuni casi, siamo gradualmente passati a esercizi in coppia, come guardare gli occhi dell’altro e poi tornare alla punta del proprio naso, per allenare la propria capacità di sentirsi in contatto con gli altri senza perdersi, ma conservando la capacità di tornare su di sé. Nella nostra esperienza, un altro acting utile a sperimentare una sensazione fisica di forza e solidità, e ad accrescere il senso della propria soggettività, è stato quello di chiedere alla persona di pronunciare ad alta voce la parola “Io” alla fine dell’inspirazione, con un ritmo regolare. In un gruppo di donne vittime di violenza di genere, per esempio, l’esercizio di dire “IO” ha toccato un punto molto delicato che riguarda la possibilità di individuarsi e sentirsi rispettate come persone, all’interno di una società più collettiva e patriarcale in cui per le donne è difficile esistere al di fuori del loro ruolo di madri e mogli. Tutti questi esercizi, ed altri ancora che per ragioni di spazio non descriveremo, costituiscono delle strategie che contrastano stati dissociativi che posso essere attivati dal riproporsi delle sensazioni spiacevoli provenienti da un passato traumatico. Il loro utilizzo in gruppo si è rivelato particolarmente utile per cambiare la memoria somatica del corpo nella direzione di una percezione di sé più positiva e libera. Inoltre, la condivisione dei vissuti che emergevano ha facilitato in molti casi la creazione di una rete di supporto che
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costituisce di per sé un significativo fattore di protezione contro la traumatizzazione (van der Kolk, 2014). La fig. 4 è il disegno di un partecipante ad un gruppo in Italia che disegna il senso di libertà che sente. Scrive: “ma è vero che sono libero e salvo dopo tutto ciò che ho passato? Io mi vedo nella vita, mi sento nella vita”.
EMDR di gruppo in centri accoglienza a Roma e in Giordania Il lavoro di gruppo può comprendere anche l’elaborazione di alcuni frammenti di esperienze traumatiche, facilitando un processo di stabilizzazione e superamento delle esperienze dolorose. Per questo sono stati condotti interventi utilizzando il metodo EMDR con alcuni adattamenti necessari per questa popolazione clinica. L’approccio EMDR utilizza i movimenti oculari o altre forme di stimolazione bilaterale (come il tapping e l’abbraccio della farfalla) per trattare disturbi legati direttamente a esperienze traumatiche o particolarmente stressanti dal punto di vista emotivo. L’intervento si focalizza sulla memoria episodica degli eventi disturbanti, e lavora sui diversi canali, sensoriale, cognitivo ed emotivo. Attraverso una doppia focalizzazione, verso l’esterno e verso l’interno, il paziente ha accesso al materiale disturbante in un modo sostenibile e
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dosato che permette un processo di integrazione dell’esperienza. Con persone che hanno subito traumi singoli e non presentano una sintomatologia post-traumatica complessa, l’utilizzazione della procedura EMDR standard prevede che il terapeuta faciliti il naturale processo di elaborazione intervenendo solo se necessario. Con i migranti forzati, che di solito hanno subito traumi multipli e ripetuti, è fondamentale che il clinico intervenga attivamente, orientandoli alla sicurezza del presente e aiutandoli a mantenere un livello di attivazione basso. Un’esposizione prematura ai ricordi traumatici attraverso l’EMDR può portare, infatti, all’attivazione di emozioni veementi, a stati dissociativi e a comportamenti disfunzionali. Per questo si è scelto, nel lavoro di gruppo, di lavorare solo su frammenti di memorie traumatiche (una sensazione, un odore, un’immagine ecc.), alternando continuamente il momento di desensibilizzazione con un esercizio di stabilizzazione nel presente. L’obiettivo infatti non è l’elaborazione completa delle esperienze traumatiche vissute, cosa impossibile con un intervento che spesso è per necessità breve (e che comunque non è sempre necessario) quanto offrire uno spazio di condivisione e ascolto che permetta in tempi brevi di ridurre l’intensità dei sintomi connessi alle terribili esperienze subite e aiuti le persone a sentirsi al sicuro nel presente. Il lavoro di gruppo è stato strutturato in diverse fasi: 1. Una prima fase di psicoeducazione in cui vengono normalizzate e validate le reazioni fisiche, emotive e cognitive che stanno vivendo collegandole alle esperienze vissute. In questa fase viene anche illustrato con parole semplici e comprensibili il tipo di intervento che si vuole svolgere con il gruppo. 2. Una fase di stabilizzazione nel presente e di regolazione emotiva finalizzata allo sviluppo di risorse somatiche e di mastery. 3. Una fase di desensibilizzazione di una delle esperienze traumatiche subite, scelta da ognuno. 4. Una fase di rappresentazione e condivisione di una progettualità futura. Nel lavoro di gruppo è stato utilizzato un adattamento del protocollo EMDR di gruppo sviluppato da Maslovarich e Fernandez
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(2015), cui sono stati aggiunti alcuni elementi del protocollo EMDR G TEP di E. Shapiro (Lehnung et al. 2017). La durata della procedura di gruppo è stata stabilita in sei incontri di circa novanta minuti. Nel primo incontro l’obiettivo è quello di sviluppare la sicurezza nel presente offrendo uno strumento pratico per autocalmarsi quando si sentono troppo attivati emotivamente e fisiologicamente. Dopo aver spiegato la finalità del lavoro di gruppo, vengono illustrate quali sono le reazioni più comuni alle situazioni di stress estremo, sottolineando sia l’universalità delle reazioni, sia il fatto che è normale averle. Per favorire un’esperienza di stabilità e sicurezza viene insegnato l’esercizio “dei quattro elementi”, una tecnica che coinvolge sia l’aspetto corporeo che l’immaginazione e costituisce una modalità semplice ed efficace di attivare una risposta di rilassamento. (Onofri, La Rosa, 2017; Luber M, 2009). Alla fine dell’incontro viene incoraggiato un momento di condivisione dell’esperienza fatta. Anche il secondo incontro è centrato sulla stabilizzazione e sicurezza nel presente. Oltre ad insegnare l’esercizio del Posto Sicuro, con i dovuti accorgimenti di cui abbiamo parlato in precedenza, vengono spiegate le procedure di attivazione delle risorse che ciascun individuo possiede, e rinforzate attraverso la Stimolazione Bilaterale tattile (tapping) autosomministrata. Le persone vengono aiutate ad individuare momenti in cui sono riusciti ad affrontare le difficoltà (e per chi è arrivato in Italia dopo un viaggio così pericoloso, non è difficile trovarne) e ad evocarli concentrandosi sulla sensazione positiva di capacità e competenza; oppure a immaginare qualcuno in grado di aiutarli, una sorta di guida e sostegno interno. A volte sono simboli spirituali e religiosi a costituire delle risorse importanti per contrastare il senso di impotenza. La Stimolazione Bilaterale lenta, come abbiamo già detto, rinforza queste risorse interne, aiutando la persona a sentirsi più capace di affrontare i suoi problemi. Una volta attivate le risorse, vengono condivise dal gruppo attraverso il disegno. I successivi tre incontri sono dedicati alla desensibilizzazione di un episodio traumatico scelto da ogni partecipante. L’esperienza di sicurezza nel presente, su cui si è lavorato nei primi due incontri,
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consente alle persone di potersi esporre all’esperienza traumatica in modo graduale contrastando il circolo vizioso di flash intrusivi ed evitamento così comune nelle persone traumatizzate (Onofri, La Rosa, 2017). Fig 5 Memoria traumatica di un ospite di un centro di accoglienza in Italia. Rappresenta il viaggio nel deserto: i corpi dei morti abbandonati (ma anche di qualcuno rimasto ancora in vita), mentre “gli arabi ci picchiano”.
È bene ripetere che, soprattutto in questa fase, è opportuno che vi siano due terapeuti a condurre il gruppo, in modo da poter gestire eventuali situazioni di destabilizzazione. All’inizio di ogni incontro viene consegnato ai partecipanti un foglio di carta suddiviso in quattro quadranti e una matita. Si invita ognuno di loro a individuare un episodio che lo disturba emotivamente nel periodo compreso dal momento in cui sono fuggiti dalla loro terra fino all’arrivo in Italia. Si chiede di pensare all’immagine che rappresenta la parte peggiore dell’evento, di osservare il disagio che provano ora e notare in quale punto del corpo lo provano. Poi si chiede di disegnare o scrivere qualcosa che rappresenta questa immagine sul primo quadrante, infine si chiede di misurare su una scala da 0 a 10 l’intensità del disagio. Si procede poi con la Stimolazione Bilaterale autosomministrata dando l’indicazione di osservare senza giudicare ciò che succede nella loro mente e nel loro corpo. I due terapeuti guidano il timing, la modalità e la durata dei set di stimolazione in modo che l’esposizione all’esperienza traumatica sia controllata e protetta. Successivamente si chiede ad ognuno di tornare al ricordo iniziale, di osservare cosa emerge ora e di disegnarlo sul quadrante successivo valutando di nuovo sulla scala da 0 a 10 l’intensità del disagio provato ora.
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Clinica del trauma nei rifugiati Fig. 6 I quattro quadranti dell’elaborazione EMDR di un sopravvissuto a tortura in Italia: l’immagine iniziale rappresenta gli strumenti di tortura, nelle altre fasi disegna il fischietto con cui è stato chiamato per imbarcarsi, poi rappresenta il suo posto sicuro (il salvataggio in mare), e infine la sensazione corporea del “cuore libero”.
Tale procedura si ripete per le sedute successive chiudendo ogni incontro con l’esercizio dei quattro elementi per favorire una esperienza di tranquillità e calma. Nell’ultimo incontro si invita ogni membro del gruppo a disegnare la risorsa o un pensiero o sensazione piacevole che hanno provato durante l’elaborazione e che può essere utile per affrontare l’evento disturbante. Si chiede inoltre di condividere con gli altri l’esperienza fatta e i progetti futuri. Nella nostra esperienza, questa modalità di lavoro in gruppo, che comprende anche una esposizione dosata alle esperienze traumatiche, ha favorito la normalizzazione e la contestualizzazione del disagio. Inoltre, il riconoscimento e la validazione delle reazioni emotive da parte dei terapeuti hanno facilitato l’espressione e la condivisione delle esperienze avverse, in particolare quelle che implicavano vergogna e umiliazione, e ha portato alla diminuzione dei meccanismi dissociativi così frequenti in questa popolazione clinica. Molti dei partecipanti al gruppo hanno sottolineato l’utilità di affrontare i ricordi traumatici perché hanno scoperto la possibilità di gestire le memorie intrusive e di far meno ricorso a comportanti di evitamento. Ecco alcune affermazioni fatte durante il successivo colloquio individuale:
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“Per la prima volta ho pensato alle mie terribili esperienze, e mi sento meno solo”; “Dopo questa esperienza, quando mi sento solo e se emerge il passato penso al gruppo e mi sento al sicuro”
Attraverso un questionario self report, la PCL 5, che valuta i sintomi di PTSD secondo i criteri del DSM 5, è stato fatto un primo e parziale confronto fra i risultati del lavoro con l’EMDR e quelli di gruppi centrati solo sulla stabilizzazione. Dall’analisi condotta, sembra emergere una maggiore riduzione dei sintomi intrusivi e di evitamento nei gruppi in cui è stato utilizzato l’EMDR. Fig. 7 Disegno fatto alla fine di un gruppo in Italia da un partecipante; rappresenta la sensazione della testa che si svuota dei pensieri alla fine delle sessioni di gruppo e che gli permette di dormire.
Conclusioni La sfida nell’intervento con i migranti, che presentano in molti casi una cronicizzazione dello stato di allarme, non è soltanto quella di elaborare un passato fatto di orrori e sofferenze, ma soprattutto quella di aiutarli a migliorare l’esperienza di vita quotidiana, a sentirsi vivi nel presente in modo da aprire una finestra sul futuro. Il gruppo, in questo senso, favorendo una spinta innata negli esseri umani di affiliazione e appartenenza, promuove l’attivazione di quei comportamenti di ingaggio sociale, mediati dalla porzione del Sistema nervoso autonomo chiamata ventro-vagale che, come afferma Porges, calmano e regolano le reazioni di difesa eccessive.
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Riteniamo che il lavoro di stabilizzazione e di psicoeducazione sopra descritti, con una attenzione costante al corpo così come emerge da tutti gli esercizi proposti, quando viene condotto in gruppo facilita il sentirsi in connessione con gli altri e il raggiungimento di uno stato di sicurezza e benessere psicofisiologico. Ci sembra significativo che, nella nostra esperienza, molti dei partecipanti sia in Italia che all’Estero, abbiano scelto proprio il gruppo come Posto Sicuro. Condividere le emozioni, ristabilire funzioni adattive, sia personali che sociali, momentaneamente perdute o impararne di nuove sono dei traguardi che, quando raggiunti, ci confermano nella utilità di questo approccio. Se la ricostruzione verbale del passato traumatico rimane un passaggio importante quando è possibile, il lavoro corporeo, sia pure con la dovuta attenzione ai rischi di riaperture dei vissuti traumatici, è essenziale per uscire dall’esperienza pervasiva di terrore e ricordare al corpo che ne esistono altre. È ovvio comunque che la stabilità dei risultati e l’ampiezza degli obiettivi è strettamente collegata al contesto in cui si opera, alla durata dell’intervento e all’esperienza soggettiva di ogni individuo; resta comunque il fatto, come afferma van der Kolk(2014), che “percepire, nominare, identificare ciò che sta succedendo all’interno di noi è il primo passo verso la guarigione”(Pag. 77), anche se avviene per breve tempo e non porta ad un completo padroneggiamento degli stati d’animo collegati alle esperienze traumatiche.
13. Lavoro con i profughi all’estero Cristina Angelini, Edoardo Pera
Descriviamo in questo capitolo il lavoro fatto all’estero, soprattutto in Medio Oriente, con rifugiati. I mutamenti della situazione politica e sociale in Medio Oriente avvenuti negli ultimi anni, e in particolare lo scoppio della guerra prima in Iraq e poi in Siria, hanno profondamente modificato il tipo di intervento di assistenza alle popolazioni in quelle aree. In Giordania, in Siria e a Gaza il lavoro nei centri di salute creati da AIDOS1 sul modello dei nostri consultori italiani aveva inizialmente lo scopo di accogliere e fornire un trattamento medico, psicologico, sociale e anche assistenza legale alla popolazione locale e a donne vittime di violenza domestica e sessuale. L’intervento degli specialisti era focalizzato soprattutto sulla formazione del personale locale, sia attraverso training formali sia attraverso training on the job, cioè facendo formazione allo staff locale mentre si lavora direttamente sul campo con la popolazione. I cambiamenti indotti dai conflitti hanno fatto sì che i progetti di sviluppo si siano trasformati nel tempo in un lavoro sull’emergenza o sulla post-emergenza, con conseguente spostamento del focus sull’esigenza di mettere lo staff locale in grado di trattare grup1
AIDOS-Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo, è nata nel 1981, come associazione di donne. È un’organizzazione non governativa Onlus, registrata presso l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS), lavora in partenariato con organizzazioni e istituzioni locali, ha status consultivo speciale presso ECOSOC (Economic and Social Council of the United Nations, Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite), ed è implementing partner di UNFPA (United Nations Population Fund, Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione) e di UNHCR Italia. Opera prevalentemente nei settori dell’educazione, della salute, della formazione e della tutela dei diritti di donne e ragazze nei paesi in via di sviluppo
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pi di rifugiati che avevano condizioni post-traumatiche importanti. Durante e dopo la guerra in Iraq il consultorio creato in Siria a Damasco in partnership con SFPA (Syrian Family Planning Association) aveva ampliato il range del suo intervento e aveva trattato molti rifugiati iracheni (fino a che lo scoppio del conflitto nella stessa Siria ha interrotto la cooperazione con enti al di fuori del paese). In Giordania la collaborazione con il partner locale, l’Institute for Family Health della Nour-Al-Hussein Foundation, si è estesa negli anni fino alla creazione di un importante Trauma Center specializzato nel trattamento di diverse situazioni post-traumatiche, sia di violenza sessuale, sia legate all’arrivo dei rifugiati. Per rispondere alla presenza di grandi concentrazioni di rifugiati nel territorio giordano negli ultimi decenni oltre a sviluppare il centro principale sono stati sempre più spesso creati alcuni consultori distaccati anche fuori dai campi di accoglienza in zone a fortissima incidenza di rifugiati. Rifugiati in medio oriente: Dentro e fuori i campi profughi In Medio Oriente i campi profughi sono presenti da molto tempo. Un esempio per tutti, quelli creati in Giordania per i palestinesi a causa del conflitto arabo-israeliano. Negli ultimi anni il numero di campi è aumentato proporzionalmente all’enorme massa di profughi generata dalle guerre, prima in Iraq e poi in Siria, nonché dalle carestie e dalle altre situazioni problematiche dell’Africa subsahariana. Mentre l’Europa s’interroga sulla gestione di alcune migliaia di persone, in Medio Oriente i flussi sono ben più cospicui e hanno un forte impatto su nazioni la cui popolazione a volte è numerosa quanto quella di una regione italiana. Secondo alcuni dati dell’UNHCR solo i rifugiati provenienti dalla Siria sono attualmente circa cinque milioni, di cui circa tre milioni in Turchia, un milione in Libano e un milione in Giordania. In realtà è molto difficile dare numeri precisi. Ad esempio in questo momento in Giordania non c’è concordanza sul numero di rifugiati presenti, proprio perché molti vivono fuori dai campi e spesso non sono registrati. Secondo altre stime si ritiene
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che nel paese ci siano circa due milioni di siriani, tra quelli nei campi (on camp) e quelli fuori (out of camp), che si sono aggiunti a quelli provenienti dall’Iraq che li avevano preceduti. Per dare un’idea delle dimensioni del problema ricordiamo che la popolazione giordana ammonta a soli sei milioni su un territorio molto povero di risorse. Il paragone con il clamore mediatico presente in Italia per l’accoglienza di numero infinitamente inferiore di migranti, su una popolazione di sessanta milioni di abitanti, è inclemente. Va notato comunque che la maggior parte dei rifugiati vive al di fuori dei campi: secondo i dati dell’UNHCR (anche se probabilmente imprecisi per i motivi detti in precedenza) circa un rifugiato su dieci vive nei campi. Per lo più queste persone presentano le conseguenze di traumi da guerra, sono sopravvissute a torture in carcere, a stupri di guerra, e comunque sono dovute scappare abbandonando tutto ciò che avevano. Alcuni campi sono enormi, come quello di Zaatari, nel nord della Giordania in mezzo al deserto e ritenuto il più grande al mondo con un numero stimato di 80.000 rifugiati siriani. Qui le persone hanno una tenda e un pasto caldo, ma non possono uscire dal campo, e all’interno sono sempre presenti rischi di violenze, in particolare sulle donne e sui bambini. In molti campi si creano situazioni disumane. Il conflitto con la popolazione locale è spesso di reciproca diffidenza. Le dimensioni di alcuni campi li rendono territori difficilmente controllabili e agli effetti della guerra o della carestia si sommano quelli generati da segregazione, razzismo, povertà, violenza. Alcune criticità presenti nei campi Una volta che ai rifugiati siano stati assicurati riparo, cibo e assistenza medica di base che cosa si può fare per migliorarne le condizioni e aiutarli a ristabilirsi dagli eventi che li hannno costretti a fuggire? Quali sono le criticità più evidenti che si riscontrano all’interno di queste strutture?
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Elenchiamo di seguito alcuni elementi che non costituiscono di per sé un fattore per lo sviluppo di un disturbo post-traumatico, ma che rendono più difficile il recupero e che producono un ambiente che mantiene un livello elevato di distress. Mancanza di sicurezza: nella maggior parte dei casi i traumi non sono costituiti da un episodio concluso e definito e per gli operatori una delle maggiori difficoltà è quella di lavorare su traumi ongoing, cioè mentre fattori di potenziale traumatizzazione sono ancora in atto: spesso la distanza dalla zona di guerra non è tale da far sentire completamente al sicuro le persone; alcuni familiari sono rimasti in zone di guerra; l’instabilità nel paese d’asilo, etc. Isolamento: i campi sono spesso in zone isolate o addirittura in mezzo al deserto. A volte si trasformano in grandi carceri a cielo aperto. Di fatto soprattutto quando il rapporto tra popolazione ospitante e quella ospite non è facile ed è inquinato dalle memorie storiche dei conflitti (vedi i campi in Kurdistan iracheno allestiti per la popolazione araba proveniente dal centro e dal sud del paese) l’isolamento può essere non solo territoriale e prende la forma di una vera e propria segregazione. Disgregazione sociale: i rifugiati hanno perso contatto con la terra in cui abitavano e in cui spesso erano vissuti fin dalla nascita. Hanno perso contatto con gran parte della loro comunità (anche se nei campi possono ritrovarne alcuni membri), delle loro abitudini, dei luoghi che designavano i valori e scandivano i tempi delle loro giornate. La maggior parte di loro è senza lavoro o con un lavoro diverso o dequalificato rispetto a quello che aveva prima. I comuni luoghi d’incontro, i luoghi di culto, la scuola per bambini e adolescenti, tutti questi elementi di aggregazione vengono spazzati via dalla guerra o comunque si perdono durante la fuga. Quella che veniva percepita come la normalità dell’esistenza, con i suoi punti di riferimento, viene brutalmente lacerata dalla dislocazione, dalla precarietà degli accampamenti e dalla loro estraneità al tessuto sociale. Soprattutto per i bambini la perdita dei riferimenti che derivano dalla scuola e dagli spazi di gioco può risultare particolarmente allarmante e favorire l’insorgere di malessere e disorientamento. Un fattore che può essere invece direttamente traumatizzante anche all’interno dei campi è la violenza di genere: esiste in generale una mag-
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giore promiscuità e quindi maggiori rischi di abusi intra-familiari che, come abbiamo evidenziato nel cap. 14, tendono ad aumentare quando le strutture sociali si disgregano. I campi purtroppo non sono mai costruiti seguendo criteri gender-sensitive: i bagni sono sempre in zone isolate, mettendo così a rischio di aggressione sessuale le donne che spesso raccontano di non mangiare né bere la sera per evitare di dover andare al bagno la notte da sole. Molte famiglie trovano una “soluzione” nel forzare le ragazze a un matrimonio precoce come “prevenzione” della violenza (“meglio far sposare la figlia prima che venga violentata e danneggiata irreparabilmente”). In generale si riscontra anche un’alta incidenza di violenze tra pari, soprattutto tra ragazzini, molte di natura sessuale, incoraggiate anche dalla visione di pornografia on-line, ormai disponibile su tutti i cellulari, e dal difficile clima di disgregazione. Anche il rischio di abusi da parte del personale dei campi (come mostra l’esperienza di psicologi uomini che in Giordania chiedevano prestazioni sessuali alle rifugiate siriane) e dagli operatori umanitari in genere è sempre presente e andrebbe vigilato con grande attenzione. Questo problema d’altra parte si presenta con forza in ogni situazione di disparità di potere. Cosa fare? Si procede ora a raccontare su quali punti è necessario lavorare e le principali attività realizzate paese per paese, insieme con le difficoltà incontrate, evidenziando sia gli obiettivi che si volevano raggiungere che gli strumenti utilizzati nei diversi contesti. La World Health Organization, la War Trauma Foundation e la World Vision (WHO et al., 2013) nelle loro linee guida annotano che a fronte dei diversi tipi di eventi stressanti (guerra, disastri naturali, incidenti, violenza interpersonale) che possono colpire sia i singoli sia intere comunità, e sebbene tutti siano colpiti da questi eventi, la gamma delle reazioni e dei sentimenti che ognuno può manifestare è molto ampia, dipendendo da diversi fattori fisici, psicologici, sociali. La WHO riconosce che ogni persona ha abilità e
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forza che la possono aiutare ad affrontare le sfide della vita, ma anche che alcune persone sono particolarmente vulnerabili in una situazione di crisi e che possono necessitare un aiuto maggiore. L’Inter Agency Standing Commitee (IASC, 2007) indica una piramide d’intervento, che va dal livello di base, il Psychological First Aid, al livello successivo, il lavoro sull’incremento della resilienza, a quello del supporto focalizzato sulla persona (ma non specialistico), fino ai servizi specialistici veri e propri, che sono anche di solito quelli meno reperibili sui territori. Il vantaggio di tale approccio è che l’intervento è stratificato e permette di raggiungere un grande numero di destinatari con l’intervento di base (per tutti), con il lavoro sulla resilienza (per molti), e via via con gli interventi più personalizzati fino a quello specialistico per chi ne abbia bisogno. Immagine modificata e adattata da IASC piramide di intervento e supporto psicosociale in emergenza.
Psychological First Aid Il Psychological First Aid “descrive una risposta umana e supportiva a un altro essere umano che sta soffrendo e che può avere biso-
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gno di supporto (WHO et al., 2011).” Il PFA riguarda i seguenti aspetti: – fornire cure pratiche e supporto, senza essere intrusivo; – raccogliere bisogni e preoccupazioni; – aiutare le persone a soddisfare i bisogni di base (ad esempio, cibo e acqua, infomazioni); – ascoltare le persone, ma senza pressioni per farle parlare; – confortare le persone e aiutarle a calmarsi; – aiutare le persone nel connettersi alle informazioni, ai servizi e al supporto sociale; – proteggere le persone da ulteriori danni; Cosa non è PFA? – non è qualcosa che può essere fatto solo da un professionista; – non è counselling professionale; – non è “psychological debriefing” in quanto il PFA non necessariamente comporta una discussione dettagliata dell’evento che ha causato distress; – non è chiedere a qualcuno di analizzare cosa è accaduto loro o di mettere tempo ed eventi in ordine; – sebbene PFA includa l’essere disponibili ad ascoltare le storie delle persone, non è fare pressione su di loro perché raccontino i loro sentimenti e le loro reazioni all’evento. Il PFA è previsto per tutte le persone che sono state recentemente esposte fattori o eventi di crisi, ma poiché non tutti quelli che sono stati esposti a tali eventi hanno bisogno o vogliono questo supporto, viene data indicazione agli operatori di non forzare mai le persone ad accettarlo, pur rimanendo facilmente raggiungibili se necessario. Il PFA è un’alternativa al “psychological debriefing”(cioè l’analisi e la discussione particolareggiata dell’evento negativo), che da più parti, allo stato attuale del dibattito tra tecnici, è stato considerato addirittura dannoso (Freeman et al., 2003). Al contrario, il PFA coinvolge fattori che sembrano essere i più efficaci nell’aiutare il recupero a lungo termine secondo diversi studi e il consenso di numerosi operatori nell’emergenza (Hobfoll et al., 2007)).
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Il lavoro sulla resilienza Resilienza è un termine che viene dallo studio dei metalli, e indica la capacità di un materiale di tornare allo stato originario dopo essere stato stressato in vari modi. L’American Psychological Association (APA) definisce la resilienza come il processo con cui ci si riesce ad adattare in risposta a significativo stress, trauma e avversità. (cfr. in Capitolo 1). L’APA sottolinea anche come la resilienza non sia un fenomeno straordinario e neanche un tratto di personalità che le persone posseggano o non posseggano, ma un fattore che può invece essere stimolato e incrementato (APA, 2018). I gruppi di resilienza possono avere come target a bambini e adolescenti, e vengono realizzati nei Child Friendly Spaces creati ad hoc nei campi profughi; oppure possono essere diretti ai caregivers (di solito le madri) per rinforzare l’attaccamento sicuro; o ancora possono avere come target generico chi è sopravvissuto a catastrofi di varia natura, e sono in sé ritenuti l’intervento più utile in contesti post-emergenza, avente anche una finalità preventiva (Betancourt et al., 2008). I contenuti dei gruppi vengono adattati al contesto locale e al target, e la formazione agli operatori è finalizzata a metterli in condizione di attivare metodologie per aumentare la resilienza, cioè l’ottenimento di outcomes sociali e aggiustamenti emozionali di fronte all’esposizione a considerevoli avversità o eventi considerati portatori di stress, tali da portare all’interruzione del normale funzionamento psicosociale; l’obiettivo è quindi diminuire potenzialmente il numero di persone che svilupperanno problemi posttraumatici. Gli operatori sociali sono stati riconosciuti da più fonti come in grado di influenzare i processi di resilienza di vittime di stati di emergenza e deprivazione, soprattutto in contesti in cui manchino o scarseggino le figure specializzate, psicoterapeuti e psichiatri, che, anche quando presenti, raramente sono specializzati in psico-traumatologia (Inter Agency Standing Committee, 2007). I Resilience Group sono quindi gruppi creati per tutti coloro che vivono in condizioni di stress significativo (in situazioni di guerra, in campi di rifugiati ecc.). Vi si fanno attività non necessariamente terapeutiche ma tali da promuovere le relazioni, che siano piacevo-
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li e strutturate e che dunque in questo modo promuovano salute, e sono situati al livello dell’intervento non specialistico nella piramide dell’intervento umanitario (v. Fig1). La IASC (Inter Agency Standing Committee), punto di riferimento per il supporto psicosociale e la salute mentale in situazioni di emergenza, evidenzia come i Resilience Group vadano ad agire sul livello del supporto familiare e comunitario, rinforzando le risorse esistenti, con l’obiettivo di cercare di ridurre il numero di coloro che avranno bisogno di aiuto psicologico o psichiatrico specialistico (IASC, 2007). Ma anche chi ha bisogno di aiuto più specialistico beneficia molto dall’essere incluso in questi gruppi d’incontro, gioco, scambio tra pari, che si svolgono settimanalmente in uno spazio strutturato con uno o due facilitatori e con una partecipazione attiva dei partecipanti. La scelta delle attività avviene infatti insieme ai partecipanti stessi allo scopo di renderli parte attiva e dare loro la possibilità di scegliere qualcosa nella loro vita e riguadagnare così un ruolo attivo. L’approccio self-help è vitale per chi è passato attraverso l’esperienza di uno stress soverchiante e permette di recuperare una qualche misura di controllo su alcuni aspetti della propria vita, cosa che già di per sé promuove la salute mentale. Il gruppo, come evidenziato nel cap. 12, funziona inoltre come opportunità di screening secondario per osservare le persone in un contesto “naturale” tra pari, durante attività sociali e per un tempo più lungo, piuttosto che durante un semplice colloquio individuale, spesso senza possibilità di approfondimento: è così più facile individuare chi ha bisogno di aiuto specialistico nel contesto di gruppo. Nell’ambito dei corsi su Child Resilience Group dedicati agli operatori e focalizzati sui minori, sono stati sviluppati argomenti come: stress psicologico; il trauma e correlati psicofisiologici; la resilienza di bambini e adolescenti; l’importanza del lavoro di gruppo; tecniche di comunicazione; disegno e tecniche espressive; costruzione di una narrativa degli eventi traumatici insieme ai genitori; consapevolezza di sé e delle proprie emozioni; network sociali e familiari; abuso psicologico e fisico; l’uso di giochi cooperativi finalizzati al team work e a una migliore comunicazione; tecniche di conduzione di gruppi con genitori.
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Un esempio di gruppo di resilienza in Rojava (Kurdistan siriano) Le criticità incontrate nel creare i Resilience Group sono state spesso la disomogeneità dei partecipanti e la scarsa formazione di base. Fattori che si sono dovuti affrontare ad esempio nel 2017 nel Kurdistan siriano, a Derek, in Rojava, in un progetto per UPP2 in partnership con la Mezza Luna Kurda (HSK), svolto in una situazione immediatamente post-emergenziale, in un contesto ancora instabile e devastato dalla guerra con l’Isis (quell’area era stata appena liberata) ma anche dalle persecuzioni verso i curdi perpetrate per anni dal regime di Damasco. Repressa dal regime di Assad prima e ora in prima linea contro l’Isis, la popolazione aveva un altissimo livello di traumatizzazione; tutti avevano morti in famiglia, martiri di una guerra che cambia avversari ma sembra non finire mai. L’obiettivo è stato organizzare un training per formare personale per servizi di supporto psicosociale, in particolare con lo scopo di realizzare gruppi di resilienza per i bambini del territorio e profughi di Mosul, finanziato dalla Chiesa Valdese. I circa venti operatori della Mezza Luna non avevano uno specifico background psicologico: nessuno psicologo era disponibile sul territorio, perché tutti scappati durante la guerra; nessun assistente sociale o educatore; solo infermiere, paramedici che operano sulla linea del fronte e ex insegnanti. Questo gruppo, eterogeneo e accomunato dal non avere alcuna nozione di psicologia, soprattutto di psicologia infantile, è stato coinvolto nel progetto con un training di formazione con una traduzione dall’inglese al curdo e all’arabo. Il corso in Rojava è servito a individuare potenziali operatori sociali che potessero iniziare l’attività di Resilience Group, attività totalmente nuova in quest’area, nelle cliniche HSK, nei campi profughi ed in organizzazioni basate nel territorio. Pian piano stanno arrivando anche servizi psicologici specialistici per il trattamento 2
Un Ponte Per (UPP) è un’associazione di volontariato nata nel 1991 subito dopo la fine dei bombardamenti in Iraq, e fa ora interventi in molti altri paesi del Medio Oriente e del Mediterraneo. È tra le poche Ong presenti in Rojava lavorando già da tempo in partnership con la Mezza Luna Rossa curda, l’equivalente della nostra Croce Rossa, fornendo farmaci e supportando i servizi di prima emergenza
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dei numerosi casi di traumatizzazione severa con sintomi importanti dovuti ai molti anni di guerra, soprattutto per coloro che arrivano da Raqqa, liberata dall’ISIS da poco, ma per questo occorrerà aspettare che l’area si stabilizzi ulteriormente. Storie dai gruppi di resilienza Sono stati creati gruppi di resilienza per bambini e adolescenti anche in Giordania e in Libano, soprattutto per i rifugiati siriani, a volte nei campi profughi, a volte nei centri di salute. Ci sono molte ricerche internazionali che mostrano come tali gruppi funzionino bene restituendo la possibilità di uno spazio sicuro, regolare e strutturato nel mezzo del caos di un’emergenza, di una migrazione forzata, di perdite e lutti (Betancourt, 2008). Però…C’è un però che abbiamo spesso osservato all’interno dei gruppi. C’è sempre un momento critico, quello in cui un bambino/a, nel mezzo di un gioco, parla del lutto di un genitore (“non ho più la mamma…”) o di qualcuno disperso (“non so più niente di mio papà…”), o di un bombardamento cui ha assistito, ecc. Spesso in questo momento il facilitatore, anche se bravo a relazionarsi coi bambini ed esperto di giochi, non sa come reagire, non essendo uno psicoterapeuta. Si crea d’improvviso un momento di gelo. Questo momento può essere dannoso e può rimandare a quel bimbo o quella bimba la nozione che si tratta di un argomento tabù e che è meglio non parlarne più. Per questo sarebbe importante avere uno psicotraumatologo esperto anche lavorando a questo livello, ma nell’emergenza questo non è quasi mai possibile. Molti credono che all’interno dei gruppi di resilienza non debbano essere sollevate questioni di natura psicologica (lutti, traumi, violenza assistita ecc.) perché rischiano di non essere gestite bene. Il problema però è che queste questioni si sollevano da sole, se chi partecipa ai gruppi le ha vissute: non è qualcosa che si possa controllare. Si è quindi deciso di fronteggiare l’emergenza dando anche agli operatori non specializzati qualche strumento di base per gestire questi momenti, per non lasciare il bambino che li ha solle-
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vati, e anche tutto il gruppo che assiste, con l’idea che ci siano dei temi tabù connessi col dolore, con la rabbia e in genere con le esperienze negative. Vale la pena sottolineare che nessun lavoro sul trauma può essere ben condotto senza una formazione specifica, ma allo stesso tempo in contesti emergenziali è necessario lavorare anche con personale non specializzato se quello specializzato manca, come spesso accade. Anche quando sono presenti e disponibili psicologi e psichiatri, specie in Medio Oriente, spesso non hanno la necessaria formazione in psicotraumatologia, che è branca molto specifica di formazione. In risposta a questa difficoltà la supervisione a distanza ha supportato il personale locale e permesso di seguire insieme i casi più complicati. In generale viene proposto di fare psicoeducazione e prendere contatto con ciò che c’è, in modo mindful. Nelle attività possono essere inseriti momenti di gioco riguardanti le emozioni; come abbiamo raccontato nel cap. 12 sui gruppi è stata utile la visione di pezzi del film “Inside-out” per riconoscere le emozioni fondamentali; faccine con diverse espressioni da riconoscere; giochi di gruppo in cui i bambini devono dire come si sentirebbero in una serie di situazioni (belle e brutte), aiutando così a sviluppare la loro funzione di monitoraggio metacognitivo, cioè la capacità di identificare i propri pensieri e le proprie emozioni. Avere un problema nella capacità autoriflessiva, quindi non riuscire a definire e descrivere pensieri, credenze, immagini e ricordi, ci lascia in uno stato di confusione, anche dovuto al non riconoscere le risposte corporee che sono i correlati corporei dell’emozione. (Dimaggio et al., 2013). È importante ad esempio far dire dove sentiamo le emozioni nel corpo. “Io la tristezza la sento nel pancino”, “Io in gola perché non riesco a parlare”… e così via. Oppure disegnando la sagoma del corpo di ogni bambino, e lui/lei disegna ciò che prova nel punto del corpo in cui lo prova usando i colori: per esempio, il colore rosso se prova rabbia, nero per la tristezza, giallo per la gioia, blu per la paura, ecc. Lavoriamo anche sulla normalizzazione delle emozioni, soprattutto quelle legate agli eventi negativi.
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Cosa fare insieme ai bambini poi con queste emozioni? Si può per esempio disegnare la tristezza per lasciarla andare via o disegnare la rabbia, perché disegnandola non facciamo male a nessuno, e guardandola diminuisce. Ma possiamo anche disegnare la gioia, le cose belle che abbiamo fatto nella nostra vita e le risorse che abbiamo, le nostre qualità, e disegnare un “posto sicuro”, o un bel ricordo cui tornare per riviverne le emozioni. A questo si può aggiungere la stimolazione bilaterale dell’EMDR, anche fatta sotto forma di gioco come nell’“abbraccio della farfalla”, incrociando le braccia e facendo un lieve tapping alternato con le mani, simulando il movimento di due piccole ali. (Cfr. Cap 12) (Shapiro, 2012). Utile anche misurare l’entità delle emozioni: “quanto è forte ciò che senti da 0 a 10?”. Questo anche per poter successivamente misurare le variazioni nel termometro delle emozioni, un abbassamento di quelle negative e magari un innalzamento di quelle positive. Per aiutare l’elaborazione del lutto è stato utile disegnare ciò che si è fatto di bello con la persona che non c’è più; disegnarne un bel ricordo, o cosa avresti voluto fare con lei. E anche riflettere insieme su come possiamo onorare chi non c’è più e onorarne la memoria: per esempio farle un bel disegno, mandarle un pensiero gentile, ecc. (Verardo et al 2006). Tutto questo aiuta a parlare di ciò che è difficile verbalizzare, ma che proprio se verbalizzato può essere compreso meglio e fa meno paura. Bisogna fare amicizia con la paura quando questa è di casa. Imparare a riconoscere la rabbia e a non sentirci sbagliati e cattivi quando la proviamo, perché solo così riusciremo a modularla. E ricordare che le esperienze belle vissute saranno nostre per sempre, e costituiscono i mattoncini su cui costruire il futuro. L’intervento specialistico Successivamente al lavoro sulla resilienza, nella piramide di intervento il primo intervento one-to-one rivolto alla persona in difficoltà prevede che vengano forniti elementi di base di salute mentale da parte di medici e sostegno emozionale e pratico da personale anche non specialistico (counselors e assistenti sociali). In seguito,
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se ritenuto necessario, si passerà agli interventi specialistici da parte di psicologi, psicoterapeuti e psichiatri, di cui si parla ampiamente negli altri capitoli di questo libro e che sono raccomandati anche in contesti umanitari: terapie focalizzate sul trauma, EMDR, e intervento farmacologico se necessario (WHO e UNHCR, 2015). Il lavoro in diversi paesi Giordania Tratteremo più estesamente gli interventi effettuati in Giordania perché si sono sviluppati in un lungo arco di tempo, dal 2002 ad oggi, per utilizzarli come esempio di lavoro all’estero. La Giordania è uno dei pochi paesi in Medio Oriente che gode di una certa stabilità politica ed economica, ed è stata sommersa da un enorme numero di siriani costretti a fuggire dalla loro terra. Privati della prospettiva di poter rientrare presto nella loro terra, molti di loro tentano di entrare illegalmente in Europa o in altri paesi, ma nel frattempo crescono le tensioni fra i siriani e la popolazione che li ospita aggiungendo ulteriore sofferenza. È stato fatto molto lavoro di gruppo sulla resilienza, ed anche specifiche attività per genitori sopravvissuti a tortura, per evitare il passaggio transgenerazionale dei traumi dei genitori ai figli. Sono state create cliniche ad Amman e in altre in zone del paese a grande densità di profughi, gestite da IFH – Institute for Family Health, un Istituto giordano dove gli esperti di AIDOS hanno iniziato nel 2002 a formare gli psicologi locali. Il grande Trauma Center dell’Istituto si è negli anni sempre più specializzato nel trattamento di traumi da guerra e violenza di genere, ed eroga formazione in altri paesi del Medio Oriente. Le cliniche sono rivolte prevalentemente ai rifugiati che vivono fuori dai campi di accoglienza: a loro non è permesso lavorare e i loro figli devono andare a scuola in classi separate dagli altri bambini giordani. Ci sono spazi dedicati ai bambini e spazi dedicati a genitori. Il lavoro con vittime di tortura è stato fatto soprattutto all’interno del Trauma Center, affiancando sedute individuali a incontri di gruppo condotti dagli
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psicologi e anche da un fisioterapista uomo (la maggior parte dei partecipanti sono uomini, e comunque i gruppi sono divisi per genere) che proponeva esercizi corporei soprattutto volti alla gestione del dolore cronico riportato da molti. Gli psicologi avevano già ricevuto una formazione nell’uso della NET, la Narrative Exposure Therapy, proposta nelle sedute individuali. Il problema emerso più spesso con la NET è stata l’insostenibilità a reggere l’esposizione ai ricordi traumatici, soprattutto dei ricordi di tortura, che generavano forti disregolazioni a livello emotivo (Neuner et al., 2004) Abbiamo riscontrato grandi difficoltà utilizzando le terapie basate sull’esposizione, NET o EMDR in protocollo standard, in particolare il rischio di avere un’iperattivazione emozionale fuori dalla finestra di tolleranza. Queste modalità, insieme alla necessità di fare un racconto dettagliato degli eventi traumatici, sono state spesso descritte come necessarie per l’elaborazione del trauma, ma noi non ci troviamo d’accordo su questa necessità. Da più parti questa posizione è oggi contestata (Van Der Kolk, 2014), insieme alla oggettiva crudeltà etica di tali tecniche senza una previa stabilizzazione emozionale, che risulta invece adeguata sia per tempi che per risultati (cfr cap. 1). È all’interno di questo progetto che abbiamo proposto di introdurre l’EMDR per alcuni psicologi del Trauma Center che operano sia nelle cliniche sia nei campi di accoglienza. Nel 2014/16 sono stati implementati training finanziati dall’associazione EMDR Italia, l’Unione Europea e AIDOS. In Giordania non c’erano, infatti, psicologi specializzati in EMDR e questi sono stati i primi training nel paese. Dopo la formazione è quasi subito emersa fra gli psicologi una grande difficoltà ad utilizzare il metodo con la propria utenza. Per questo la dr. Paola Castelli Gattinara, supervisore EMDR con una lunga esperienza con i rifugiati in Italia, ha partecipato alle ultime due missioni di assistenza tecnica, sia facendo supervisione ai colleghi locali, sia partecipando al lavoro clinico con gruppi di utenti insieme agli psicologi locali. Il lavoro svolto si è orientato su due fronti: da un lato cercare di comprendere e superare le difficoltà incontrate dagli operatori giordani, che li avevano portati a diffidare del metodo, dall’altro lavorare
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insieme a loro nell’attività clinica per acquisire una maggiore conoscenza del contesto in cui operano, e valutare in modo più adeguato l’efficacia del trattamento in una situazione così complessa. È stato ritenuto opportuno riadattare il protocollo standard non chiedendo il ricordo peggiore”, ma solo di scegliere “un ricordo brutto che potevano sopportare”, a partire dal quale poi avveniva l’elaborazione. Purtroppo non siamo riusciti ad avere un riscontro statistico con test fatti prima e dopo l’EMDR, per la difficoltà di pazienti così sofferenti a sottoporsi ai test. L’unica misura che abbiamo del risultato è la riduzione del SUD (l’Unità di misura Soggettiva del Disturbo) al termine delle sedute nella maggior parte dei casi. Il lavoro di supervisione Nel raccogliere le difficoltà incontrate dal team di psicologi nell’usare l’EMDR è emerso subito come la popolazione clinica presentasse nella maggioranza dei casi un PTSD complesso con frequenti sintomi dissociativi, il che rende ragione della difficoltà a usare tecniche di esposizione alle memorie traumatiche (v. Cap. 1). Tutti avevano subito numerosi traumi maggiori (quelli con T maiuscola, come violenza fisica e sessuale, tortura, morte violenta di congiunti, bombardamenti ecc.). Era pertanto difficile per lo staff far fronte alle intense reazioni emotive dei pazienti e ai forti meccanismi di evitamento messi in atto. Durante gli incontri di supervisione veniva sottolineato come, appena iniziata l’elaborazione, i terapeuti si sentissero sommersi dalla quantità di traumi che i pazienti riportavano, e dalle reazioni emotive a essi collegate. Quasi tutti avevano smesso di affrontare in seduta le esperienze traumatiche verso cui si sentivano impotenti, nonchè colpevoli di causare una sofferenza inutile. Si è scelto pertanto di approfondire, attraverso esercitazioni pratiche e analisi di casi clinici, la costruzione di una buona relazione terapeutica quale fattore fondamentale preliminare per regolare gli stati di arousal. Per esempio si è dimostrato fondamentale lavorare con gli operatori sui loro pregiudizi e stereotipi rispetto ai siriani. Il tema della diversità non elaborato può infatti pregiudicare un buon lavoro con gli utenti.
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È stato anche necessario lavorare sulla stabilizzazione emozionale dei pazienti, insegnando l’Esercizio dei Quattro Elementi che, unitamente al Posto Sicuro, favorisce l’autoaccudimento e l’autocontenimento abbassando l’iperattivazione fisiologica, e il protocollo sullo Sviluppo delle Risorse (Luber, 2009). Tutto ciò rinforza la capacità di agency cioè la sensazione di padroneggiare la propria vita, stimolando una condizione di sicurezza (Van der Kolk B., 2014). L’evidente necessità di un utilizzo più flessibile e sintonizzato sul paziente del protocollo standard ha portato ad adottare anche il Protocollo degli Eventi Recenti sviluppato da Elan Shapiro (2012) che si sta dimostrando più adeguato con questa popolazione (Castelli et al, 2016) sia a livello individuale che a livello di gruppo, pur sempre preceduto da un’adeguata stabilizzazione emozionale. È stato anche necessario elaborare con gli psicologi i vari aspetti della traumatizzazione vicaria. Il lavoro con l’EMDR è stato integrato anche con esercizi di Mindfulness (Crane, 2009) per aumentare la connessione al presente e sviluppare la capacità di ritornare al qui e ora, soprattutto in presenza di reazioni dissociative. Sono state integrate anche alcune tecniche corporee di regolazione emotiva che si erano già dimostrate efficaci in altri contesti di emergenza, come ad esempio diverse versioni dell’esercizio di grounding per sentirsi radicati e sentire di più il proprio corpo; un lavoro sulla presenza oculare attraverso esercizi specifici con gli occhi per ridare alla persona il controllo sulla sua realtà; esercizi di presenza corporea e di consapevolezza dei propri confini (Ferri et al, 2012). Questi esercizi sono stati già descritti nel Cap. 12. Descrizione di EMDR di gruppo con donne siriane in Giordania I gruppi sono stati rivolti a donne vittime di violenza sessuale durante i conflitti, oltre che rifugiate con traumi di guerra, o vittime di violenza domestica pregressa o esacerbata dalla difficile situazione di rifugiati. Accanto alle classiche sedute individuali, la modalità di lavoro in gruppo è stata incoraggiata, sia per ragioni pratiche (il grosso numero di utenti da raggiungere), ma soprattutto perché è risultata utilissima nel creare legami: il mirroring ha fat-
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to spesso da catalizzatore del cambiamento, soprattutto nell’elaborazione di quei traumi che implicano vergogna perché molto umilianti (la violenza sessuale e domestica, la tortura, in cui quasi sempre è coinvolta una componente di violenza sessuale, oltre alla vergogna di aver ceduto, ecc.). Il gruppo si è rivelato un’eccellente risorsa: accorgersi di non essere i soli ad aver subito certe esperienze aiuta di per sé, insieme allo stabilire legami affettivi con pari che condividono le stesse condizioni di vita. Una donna, il cui figlio ha perso entrambe le gambe, afferma che vuole morire, e il suo posto sicuro è il paradiso. Chiediamo allora di pensare a un’esperienza positiva che hanno avuto da quando sono in Giordania e quasi tutte indicano il Centro (dove sono già venute) e il gruppo stesso. Ci accorgiamo con quanta facilità e rapidità riescono a utilizzare questo spazio come una risorsa dove poter parlare, essere ascoltate e anche piangere ma sentendo il calore delle altre.
Dopo l’esercizio dei quattro elementi e quello del posto sicuro è stato chiesto di intercettare un pezzetto buono di esperienza, una risorsa a cui riconnettersi: una situazione vissuta di efficacia personale (risorsa di mastery), oppure immaginare accanto a sé una persona conosciuta che abbia buone capacità di fronteggiare la difficoltà attuale, o ancora un simbolo, religioso o altro, che dia energia e a cui si possa accedere (risorsa simbolica). Alla fine dell’incontro c’è stata una fase di defriefing e condivisione dell’esperienza. Per quasi tutte il livello di SUD3 era sceso, ma alcune di loro hanno riportato un aumento di tensione durante l’esercizio del respiro (uno degli esercizi compresi nei Quattro Elementi). La respirazione può aiutare alcune persone ad abbassare lo stress, mentre in altre muove emozioni troppo potenti. Il blocco del diaframma è infatti una delle prime reazioni difensive, e la respirazione profonda, che può allentarlo, può provocare anche l’emersione delle potenti emozioni connesse (Ferri et al., 2012). Nell’incontro successivo a distanza di tre giorni, tutte hanno utilizzato gli esercizi fatti nel primo incontro e sono state disposte a la3
Come detto sopra SUD vale per Unità Soggettiva di Disturbo, una scala soggettiva da 0 a 10 per indicare quanto ci si sente perturbati
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vorare sulle esperienze traumatiche, pertanto si è utilizzato il protocollo eventi recenti di gruppo, già impiegato in Nepal. Siamo partiti da un elemento che le accomuna: la fuga dalla Siria e l’arrivo in Giordania fino al presente e abbiamo chiesto di disegnare l’immagine più disturbante (ma comunque sostenibile) insieme al livello di SUD. È chiaro che un incontro non è sufficiente a elaborare le loro terribili esperienze, ma abbiamo aperto la strada perché lo staff possa continuare il lavoro. In alcuni casi è stato necessario svolgere un intervento individuale con le persone che durante il gruppo fuoriuscivano dalla finestra di tolleranza emotiva; in altre situazioni è stato il gruppo stesso ad aiutare la persona a stabilizzarsi. Tutte, al follow-up del secondo incontro con noi, e poi negli incontri successivi, hanno dichiarato di aver tratto beneficio dagli incontri di gruppo e di utilizzare il butterfly hug o il tapping per regolare le loro emozioni. Descrizione di narrativa con bambini siriani rifugiati in Giordania Questi gruppi sono stati rivolti a bambini dai 4 agli 8 anni, testimoni di violenze, bombardamenti, che hanno perduto le figure di attaccamento e che hanno subito la fuga da casa. Nel lavoro con i bambini è stato proposto di disegnare il posto sicuro, e si è fatta l’installazione delle risorse. Alla fine tutti i disegni del posto sicuro sono stati appesi insieme su una parete del centro, e le madri hanno riportato uno stato positivo riferito dai bambini, anche quelli più chiusi e reticenti. In questo primo incontro non si è assolutamente parlato di traumi. Si è poi proceduto alla creazione di una narrativa fatta dalle mamme sull’aver lasciato la casa in Siria, poi visionata ed eventualmente corretta in un incontro individuale con la psicologa e ogni mamma. Le narrative partivano tutte con il ricordo dei bei momenti passati insieme (scampagnate, feste ecc), poi con il racconto dell’inizio della guerra, i momenti di grande paura (un bombardamento particolarmente violento, un episodio specifico significativo), e la conseguente decisione della famiglia di venire in un posto sicuro, dove non ci sono bombe, fino all’arrivo in Giordania. La narrativa finale è stata poi letta da ciascuna mamma al proprio bimbo/a in un altro incontro di gruppo, mentre veniva fatto il tapping (stimola-
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zione bilaterale dell’EMDR) dagli operatori. Le madri hanno riportato di essersi sentite sostenute e alleggerite da questo lavoro fatto insieme, aiutandole a stabilire una comunicazione più adeguata con i loro bambini potendo comunicare cose difficili che da sole non sapevano come affrontare. Questo è stato particolarmente evidente in alcuni casi, come quello di una bimba di cinque anni del cui papà non si avevano più notizie e che era probabilmente morto in carcere: La bambina appariva completamente bloccata e manifestava uno sviluppo inadeguato alla sua età. La mamma aveva scelto finora di tenere nascosta la perdita del papà perché non sapeva come approcciare l’argomento. Inoltre la teneva sempre con sé e spesso agiva al posto suo. In seguito al lavoro fatto, è stato possibile suggerire alla madre un lavoro individuale, per aiutarla a trovare un modo adeguato per dire alla figlia la verità, e iniziare a vederla in modo più consono alla sua fase di sviluppo infantilizzandola di meno. Altri casi complicati sono stati quelli di bambini un po’ più grandi costretti ad andare a lavorare per aiutare la famiglia, mentre i coetanei andavano a scuola. Questi bambini spesso presentavano un livello di aggressività alto verso i genitori, che, sentendosi impotenti e in colpa per non poter rinunciare a questo aiuto economico, rispondevano con altrettanta aggressività o con stati depressivi. Le situazioni sono, com’è evidente, estremamente complesse, e la giovane età di molte colleghe/i locali, unita a formazioni spesso affrettate, non aiuta ad affrontarle in termini adeguati. Per questo, dopo gli interventi in loco, sono state aeffettuale delle supervisioni di gruppo a distanza, via Skype, in cui a turno gli operatori hanno presentato e discusso insieme vari casi. Libano In Libano il progetto è stato focalizzato soprattutto alla creazione di gruppi di resilienza per bimbi siriani e per le loro madri, con una componente sulla violenza sessuale per l’individuazione dei molti casi di abusi presenti. È nato nel 2016, in piena crisi umanitaria, ed è ancora in atto per dare supporto all’enorme popolazione siriana che vive precariamente in tutto il paese.
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Il Libano, paese con 4,4 milioni di abitanti, poco più grande della Sicilia, ospita al proprio interno più di un milione di siriani. È il Paese che ha il maggior numero di siriani per densità di popolazione: attualmente, quasi una persona su quattro in Libano è un esule siriano. In Libano non esistono campi profughi e il centro è stato creato per un progetto finanziato dal Ministero degli Affari Esteri italiano, e realizzato da Arcs in partenariato con Aidos e l’associazione libanese Basmeh & Zaiouneh, che lavora storicamente nel quartiere-ghetto per profughi di Shatila. Il Centro è nel quartiere popolare di Nabaa, abitato da moltissime famiglie siriane e curde, e anche molti profughi di Raqqa, quelli che hanno vissuto il peggio della presenza dell’ISIS, assistendo a decapitazioni pubbliche e altri orrori. È una zona molto povera, e il Centro stesso è all’interno di un edificio quasi fatiscente, dove sono visibili escrementi di topi e altra sporcizia. Molti bambini non vanno a scuola perché lavorano (illegalmente) per aiutare le famiglie. Quelli che ci vanno riferiscono spesso brutte storie, come quella raccontata da un bambino che l’insegnante ha messo in castigo vicino all’immondizia, dicendogli “Tanto voi siriani siete tutti immondizia!”. Molti dei genitori non protestano, perché rischiano di inimicarsi ancora di più i professori e peggiorare le condizioni dei figli, e anche gli operatori, che dovrebbero invece intervenire, sono spesso restii a farlo. Il lavoro comporta anche un continuo confronto tra modelli culturali e sociali. Durante uno dei gruppi di resilienza che si fanno nel centro, mentre si svolgeva un’attività di prevenzione degli abusi, un bambino dice: “I miei genitori hanno il diritto di picchiarmi quanto vogliono, e possono anche decidere di uccidermi…”. Con lo staff locale, durante il follow-up, si è aperta una discussione su com’era opportuno rispondere. La maggior parte degli operatori sosteneva che non bisogna contrapporsi ai genitori, dicendo direttamente che ciò che il padre aveva detto è sbagliato e che nessuno ha mai il potere di uccidere un’altra persona. Il loro timore era di mettere il bambino contro i genitori da cui dipende.
Questa posizione ovviamente non ci ha trovato d’accordo, ma in questo, come in altri casi, ci si è dovuti confrontare con il fatto che il nostro approccio venisse percepito molto “basato sui diritti” e
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troppo “eurocentrico”. È un appunto che ci siamo sentiti spesso fare, soprattutto in contesti internazionali: noi europei siamo noti per avere un approccio rights based, basato sui diritti, in cui molti altri paesi non si riconoscono. Per noi i diritti umani fondamentali non possono essere messi in discussione, ma non è così in tutto il mondo. In particolare in Libano bisogna stare attenti perché gli operatori sono estremamente orgogliosi e rivendicano continuamente la loro autonomia, e per noi è spesso difficile capire la posizione di chi viene da culture in cui ‘diritti’ e ‘libertà’ non sono valori assoluti, e come operatori rischiamo di perdere il contatto con quella realtà. Hanno partecipato alla formazione in Libano psicologhe specializzate, insegnanti di arabo e inglese, coordinatori delle attività e facilitatori dei gruppi di resilienza sia per bambini che per genitori; alcuni sono giovani laureati in psicologia, altri sono attori specializzati nella tecnica del Playback Theatre – particolare forma di improvvisazione teatrale basata sulle storie personali. Altri ancora non hanno un particolare background psicosociale, ma molti sono siriani e lavorano qui per un piccolo rimborso spese mensile. Dato che ai rifugiati siriani è proibito lavorare in Libano, come anche in Giordania, questo è un punto di merito di questo progetto: aver coinvolto dei siriani per lavorare con i siriani. Il Centro accoglie i piccoli siriani divisi per fasce di età una volta o due a settimana. I bambini partecipano ai gruppi, fanno delle attività, per lo più creative e ricreative, e fanno merenda. Il ciclo di incontri dura sei mesi. Alcuni di loro però tornano anche dopo: passano e chiedono se possono fermarsi. Suggeriamo sempre di non mandarli via. Per molti di loro questo è il loro “posto sicuro”. Ma anche su questo lo staff discute e si divide: “È giusto che questo sia il loro posto sicuro? Non dovrebbe essere in casa, con le loro famiglie?”. Ma quali famiglie? Nei gruppi rivolti ai caregivers, i genitori di questi bambini, ci sono quasi esclusivamente madri. Dove sono i padri? La maggior parte di loro, quando non sono morti, sono in giro a fare lavoretti, molti sono sopravvissuti a violenze e torture nelle prigioni siriane e ora sono diventati violenti, o vegetano in casa senza interagire con nessuno.
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Un bambino del gruppo dei piccoli, dall’aria triste e poco interattiva, quando l’operatore chiede com’è andata la settimana, dice: “io non ho fatto niente, non sono mai uscito di casa”. È un bimbo che è stato già segnalato perché sembra non capire bene quando gli si parla o si fanno le attività di gruppo. La psicologa, abbastanza formata in psico-traumatologia e che ha avuto anche una prima formazione in EMDR, dovrebbe approfondire la situazione, ma c’è una lunga lista di attesa. Un altro caso con cui lavora individualmente è una donna con importanti sintomi post-traumatici: uno dei suoi trigger sono i bidoni della spazzatura, perché a Raqqa, da dove proviene, ha spesso trovato dentro di essi delle teste mozzate.
Il training è in parte formale e in parte on the job, su tre temi principali: gruppi di resilienza, come approcciare le memorie traumatiche e violenza domestica. Durante un’attività nel gruppo di resilienza una bimba dice: “Non ho visto più mio papà. Ho chiesto a mamma se è morto ma lei non mi ha risposto e ha pianto…”. Un intervento possibile che discutiamo con lo staff è chiederle: “E tu come ti sei sentita?”, utilizzando anche dei pupazzi che personificano le emozioni per mostrargliele, e poi chiederle di disegnare dove le sente nel corpo. Allora un altro bambino dice:” Anche mia mamma non c’è più, c’è un’altra signora a casa nostra ma non so chi è”.
Quante cose gli adulti tacciono ai bambini pensando di proteggerli e lasciandoli invece nella confusione più totale. Pianifichiamo un lavoro con le madri che sono disponibili per sviluppare una narrativa da fare ai bimbi (V. descrizione fatta della narrativa con bimbi in Giordania). Un altro tema fondamentale è come comportarsi di fronte alla violenza e agli abusi domestici e sessuali. Aidos ha inserito a Nabaa un punto informativo costituito da una psicologa, un’infermiera e una case-manager (cioè un’altra psicologa che ha il compito di fare il primo colloquio e di informare sulla rete di servizi locali disponibili a cui è possibile inviare i casi se non si possono trattare all’interno del centro). La formazione riguarda anche l’approccio ai casi di violenza sessuale, sempre oggetto di grande vergogna in quest’area così tradizionalista, e che creano tanta difficoltà anche agli operatori che non sanno come parlarne. Negli ultimi anni si è aggiunta una nuova difficoltà: non solo le donne sono state vittime di violenza durante la guerra o durante la
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fuga, ma anche molti uomini sono stati abusati sessualmente come forma di tortura durante la prigionia. Su questo, come abbiamo già detto, si sa pochissimo e poche linee guida e pochi programmi internazionali sono stati prodotti su questo argomento. I temi sono molti e sono molto complessi: ci sarebbe bisogno di una base di psicotraumatologia che pochissimi tra gli operatori hanno e che si cerca di fornire (sia pure in modo semplificato). Kurdistan Iracheno Un altro intervento sui resilience group è stato fatto in Iraq, nel governorato di Dohuk, in zona curda non lontano da Mosul, nel 2016, in una fase post-conflitto con Isis per formare ventisei psicologi che lavorassero nei campi profughi dell’area (Bjet Kandala, Khanke, Shariya Camps) e che formassero a loro volta assistenti sociali per strutturare nei campi i Child Friendly Spaces, spazi dedicati ai minori dai 6 ai 17 anni. Anche questo progetto è stato implementato da UPP con UNICEF, seguendo le line guida IASC (IASC, 2007). In questo caso c’è stato anche modo di approfondire le competenze di base su counseling psicologico e su strumenti di screening semplici come il CPDS – Child Psychosocial Distress Screener e la WASSS scale (Jordans et al., 2009). Striscia di Gaza Gaza è un fazzoletto di terra che da oltre dodici anni è di fatto una prigione a cielo aperto. Ha il tasso di disoccupazione più alto del mondo (quasi il 50% secondo la Banca Mondiale). A Gaza sono stati creati due consultori in due campi profughi storici, El Burej e Jabalia, quando le condizioni erano abbastanza stabili, nel 1995 e 1998; poi nel 2000 è iniziata la seconda intifada, e in seguito nel 2006 il partito di Hamas è salito al potere: la situazione della popolazione è cambiata molto in peggio. I due centri sono rimasti attivi ma hanno dovuto adattarsi ai mutamenti politici e sociali. Si è progressivamente assistito a un notevole aumento delle violenze domestiche, sia per la coabitazione di diversi nuclei familiari, sia per il netto peggioramento delle condizioni di vita. Un ulteriore
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fattore, da quando Hamas è al potere, è stato l’aumento di misoginia favorito dall’ideologia religiosa estremista. Anche l’inasprimento del conflitto con Israele ha cambiato fortemente le condizioni della popolazione. Israele ha chiuso i confini, già in precedenza difficili da attraversare, e di conseguenza sono stati aperti dei tunnel clandestini con l’Egitto, attraverso cui avvenivano diverse attività di contrabbando e passaggio di armi, e dove passavano anche molti stupefacenti, cosa che ha avuto un forte impatto sulla popolazione, aumentando ancora di più gli episodi di violenza. Ci sono stati periodi molto difficili sia per gli attacchi di Israele (che secondo l’ONU hanno causato la morte di circa 1.400 civili, di cui molti minori) sia per le fazioni e bande armate presenti sul territorio, che hanno reso molto arduo lavorare in quel territorio. Mentre avvenivano gli attacchi israeliani nei campi profughi si potevano fare solo interventi di PFA (Psychological First Aid). In precedenza era stato fatto invece un lavoro di prevenzione e trattamento della Gender Based Violence, creando gruppi con le donne, seguendo le linee guida indicate sia nel capitolo sui gruppi (cap. 12) che sulla VSDG (cap. 14). Una delle metodologie utilizzate che ha trovato maggiore riscontro a Gaza è stata la Mindfulness. Questo ci ha sorpreso perché apparentemente è molto lontana dalla cultura locale, ma è stata fatta propria da alcune operatrici e le utenti hanno risposto positivamente. Abbiamo lavorato con gli operatori oltre che sulla prevenzione anche sulla creazione di reti di sicurezza tra le partecipanti ai gruppi, in modo che si sviluppasse una rete informale di protezione tra loro. Esiti positivi e ostacoli/difficoltà insolute L’enormità dei bisogni e delle sofferenze in campo può scoraggiare gli operatori e in generale chi si occupa di rifugiati e di migrazioni. Però, nel tempo, gli esiti positivi delle storie individuali di trattamento e i riscontri del miglioramento generale dei servizi alla popolazione ci hanno confortato e ci confermano l’utilità dell’intervento.
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Un esempio: la sede di Amman era stata creata originariamente da un’organizzazione europea, in uno dei quartieri più poveri e tradizionalisti della città. Inizialmente considerato il “centro degli stranieri”, era praticamente inutilizzato dalla popolazione locale. Costruendo piano piano una rete con la comunità locale (anche parlando con i community leader, i capi religiosi, ecc.) il Centro ha cominciato ad essere frequentato da donne, famiglie e, alla fine, anche da uomini. Così un istituto che contava all’inizio non più di una quindicina di operatori ha attualmente circa 500 operatori, di cui 200 psicologi, espandendo il proprio raggio d’intervento alle problematiche post-traumatiche. Attualmente viene considerato un centro di eccellenza in Medio Oriente.
I centri creati nei vari paesi hanno fatto notevole attività di gruppo e di coinvolgimento delle comunità nella salute psico-fisica (approccio community based). Sempre più persone si rivolgono agli operatori che vi lavorano per avere assistenza psicologica, che precedentemente era spesso assente e, quando presente, oggetto di stigma sociale. Fare formazione allo staff locale si è dimostrata una strategia vincente, più che il semplice fornire direttamente servizi alla popolazione. Quando questo è stato fatto, è sempre avvenuto come traing on the job, e dunque all’interno di un progetto di formazione. Le difficoltà rimaste irrisolte riguardano soprattutto la scarsa preparazione di base degli psicologi locali che, in particolare in Medio Oriente, ha risentito dell’isolamento culturale e linguistico delle università. Un altro aspetto critico sono le differenze culturali che fanno diffidare dell’occidente, percepito come portatore di (dis)valori negativi e minacciosi per una società molto basata su valori tradizionali e patriarcali. Nell’intervento nei contesti immediatamente post-emergenziali, come si è detto, è il fatto che l’elemento potenzialmente traumatizzate sia spesso ancora in atto (on going) a rendere il lavoro particolarmente complesso e ad impedire una vera e propria elaborazione. Analisi differenziale: un intervento nel post emergenza del terremoto in Nepal nel 2015 L’intervento in Nepal dopo il terremoto del 2015 ci può aiutare a notare le differenze da un punto di vista post-traumatico tra
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situazioni causate da disastri naturali e quelle raccontate sino ad ora. L’intervento è stato fatto in un contesto dove la popolazione non è di rifugiati, ma di sfollati interni (IDPs – Internally Displaced People), e dunque senza tutto lo stress dello spostamento in un altro paese e in un’altra cultura; ma soprattutto l’evento traumatico non è di natura interpersonale ma è una catastrofe naturale. La situazione presenta quindi problemi e soluzioni differenti. Il trattamento dei traumi non provenienti da violenza interpersonale è di solito meno complicato, comportando in minor grado la formazione nell’individuo di cognizioni negative su se stessi e sugli altri e quindi non va a minare il sentimento di fiducia verso gli altri esseri umani. Inoltre si tratta in genere di un evento unico, anche se nel caso del Nepal forti scosse sono continuate per mesi, dopo le prime due, facendo sembrare il terremoto “infinito” e alimentando fantasie sulla fine del mondo, in un paese ancora medievale e con una cultura magico-superstizioso, complicando così l’elaborazione emozionale. In Nepal interi villaggi sono andati distrutti, e quelli più difficilmente raggiungibili, nelle zone più remote, hanno dovuto aspettare giorni prima che giungessero i primi soccorsi. Inoltre questo terremoto è stato in pratica un doppio terremoto: una prima scossa micidiale in aprile, poi un’altra a maggio fortissima, che ha causato altri crolli importanti, più lo sciame sismico già citato. Da 20 anni AIDOS dà assistenza e formazione ad un centro di salute rivolto alla popolazione che vive nei piccoli villaggi della zona di Kirtipur, nella valle di Katmandu. Dopo qualche mese dal devastante terremoto dell’aprile del 2015, di magnitudo 7,8 scala Richter, è stato richiesto un intervento sulla popolazione, seguendo due linee principali: in primis la formazione degli operatori del consultorio, e l’intervento psicologico sulla popolazione insieme con loro. Contemporaneamente si rendeva necessario un intervento psicologico sugli operatori stessi, in quanto anche loro vittime del terremoto: alcuni avevano perso la casa o visto morire qualche parente, e manifestavano paure e sintomi post-traumatici o da stress acuto. L’intervento con la popolazione è avvenuto in villaggi quasi totalmente distrutti, in scuole dove erano ospitate famiglie senza più
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casa (tra gli alunni di una scuola media erano morti quattro bambini e molti altri erano rimasti sotto le macerie). Sono state applicate diverse tecniche: dalla Mindfulness all’EMDR, e tecniche corporee per elaborare le normali reazioni post-traumatiche. In quasi tutti i casi erano presenti sintomi di intrusione (flashback, incubi e pensieri intrusivi relativi al terremoto), di evitamento (tentativo di non pensarci, evitamento di alcuni luoghi dove erano durante il terremoto) e di iperattivazione (irritabilità, allarme al minimo rumore, insonnia) o ipoattivazione (sonnolenza, ottundimento, scarsa reattività generale agli stimoli) e disturbi generali del sonno e dell’alimentazione. Reazioni normali entro certi limiti in fase acuta, ma che era necessario riconoscere perché non si cristallizzassero in un disturbo vero e proprio. Il primo passo è infatti la normalizzazione, cioè far capire che si tratta di reazioni normali dopo un evento catastrofico. Questo passaggio è importante e rassicurante per sapere che queste reazioni sono previste, e affinché non si inneschi un circolo vizioso di paura ed evitamento dei sintomi che ne provochi una escalation. Se questo si verifica si proporrà un intervento mirato specialistico. Dopo questi primi interventi di psicoeducazione sono stati mostrati gli esercizi di stabilizzazione emozionale per ridurre i sintomi e placare l’ansia e il senso di instabilità. Non si poteva ridare loro una casa, ma era possibile aiutarli a trovare un “luogo” interiore più stabile. È infatti nell’interiorità, nel corpo e nel sistema nervoso che le paure non elaborate si radicano ed è lì che si può operare, cercando un proprio “Posto sicuro”. Abbiamo proposto la meditazione della montagna, una tecnica di Mindfulness. La Mindfulness, come già detto, è un approccio che viene direttamente dalla meditazione buddista Vipassana e aiuta a prendere distanza da emozioni e pensieri disturbanti, ed è particolarmente in linea con la cultura nepalese. Le persone sono state invitate a identificarsi con una montagna, che rimane stabile e unita alla terra, mentre tutto intorno cambia: il giorno e la notte, le stagioni, le condizioni climatiche, aiutando a stabilizzarsi, e a non identificarsi con gli eventi negativi (Kabat-Zinn, 2004). Oltre alla Mindfulness è stato adottato con l’intero staff del consultorio il protocollo EMDR sui gruppi (Luber, 2009): medici, psi-
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cologi, counselor, assistenti sociali, educatrici, l’avvocatessa, l’infermiera, ma anche l’autista e la signora delle pulizie. Il protocollo è partito in questo caso dall’immagine peggiore del terremoto, disegnata sul 1° quadrante di un foglio diviso in quattro parti, misurando il livello di disturbo soggettivo (SUD) ancora presente pensandola ora e eseguendo poi una stimolazione bilaterale veloce. Le associazioni che affioravano durante questa elaborazione con stimolazione bilaterale venivano man mano disegnate sugli altri quadranti del foglio. Dopo cinque sessioni di gruppo lo staff ha mostrava una significativa riduzione del livello di stress, tranne un’educatrice che aveva visto morire il padre sotto le macerie, il cui livello di stress, anche se ridotto rispetto all’inizio, era ancora medio-alto. È risultata fondamentale una prima fase di ricerca di risorse, esterne e interne, che potessero aiutare nell’elaborazione dell’evento traumatico. Un’educatrice ha trovato la propria risorsa nel momento in cui, subito dopo il primo devastante terremoto, nel mezzo del caos totale, è riuscita a coordinare gruppi di persone prese dal panico, orientandole verso i servizi più utili nella comunità. L’avvocatessa invece ha ricordato il momento in cui, nel mezzo della lunghissima scossa, ha visto il marito che rientrava in casa mentre tutti scappavano, perché convinto che lei fosse ancora lì; lo racconta tra le lacrime dicendo che non si è mai sentita così tanto amata. La psicologa monaca buddista dopo la scossa ha meditato insieme al suo gruppo nel monastero dove vive. La dottoressa non riusciva più a salire all’ultimo piano della sua casa dove è la cucina, ma si vergognava a dirlo, e aspettava che salisse qualcuno per farsi coraggio: le è stato proposto di utilizzare l’immagine dei suoi figli, capaci di andare su e giù continuamente senza paura, come esempio di risorsa positiva da modellare e fare propria. Durante l’intervento con la popolazione un’altra storia è stata quella di un ragazzino che non riusciva più a trovare alcun posto sicuro per lui sulla Terra, che dopo il terremoto aveva perso in toto la sua “solidità”: gli è stato suggerito di trovare il suo posto sicuro fuori dalla terra, e lui ha scelto di trovarlo sulla luna.
Va sottolineato che la comunità è in sé una risorsa importantissima. Anche sentirsi di aiuto per gli altri diventa fondamentale in queste situazioni. Molti, sia tra gli operatori che nella popolazione, ci hanno confermato di essere usciti dal senso di paralisi, che spesso segue gli eventi traumatici, proprio impegnandosi a soccorrere e aiutare altre persone coinvolte.
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Deve essere sottolineato ancora una volta che in questo caso si è trattato di un evento traumatico semplice e non complesso, sia pure amplificato dal perdurare delle scosse. È mancata qui tutta la componente della violenza interpersonale intenzionale protratta nel tempo (come nella guerra e nella tortura), che costituisce uno degli elementi che rendono più difficile l’elaborazione del trauma.
14. La Violenza sessuale e di Genere (SGBV) Cristina Angelini
Per la stesura di questo capitolo ci si basa sull’esperienza di lavoro in progetti su Violenza Sessuale e di Genere (d’ora in poi SGBV, Sexual and Gender Based Violence) in Medio Oriente (Giordania, Gaza, Libano, Siria, Kurdistan iracheno), in Nepal, in alcuni paesi africani (Etiopia, Tanzania e Burkina Fasu), e in diversi centri di accoglienza in Italia, soprattutto all’interno del progetto pilota fatto da UNHCR e AIDOS nel 2017/18 per contrastare e far emergere i numerosi casi di SGBV tra i migranti in Italia. Introduzione: concetti e definizioni La SGBV è una violazione dei diritti umani perpetuata e basata su stereotipi di genere che possono negare o denigrare la dignità umana. La grande maggioranza delle vittime sono donne e ragazze e per questo spesso è considerata sinonimo di violenza contro le donne, ma di fatto anche molti uomini e ragazzi ne sono vittime, ma il concetto include molto più dello stupro e della violenza sessuale in genere (che è solo una forma di SGBV). Il termine è usato per distinguere la comune violenza da quella che ha come target individui o gruppi sulla base del genere, e comprende atti che infliggano sofferenza fisica, mentale o sessuale, minacce, coercizione e deprivazione di libertà. È anche radicata in attitudini individuali che accettano la violenza all’interno della famiglia, della comunità o degli stati. Per comprendere le sue radici e le sue conseguenze è essenziale definire e distinguere i termini genere e sesso. Il termine Sesso si riferisce alle caratteristiche biologiche congenite maschili e femminili le
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cui differenze riguardano le funzioni riproduttive. Il termine Genere invece denota le caratteristiche sociali assegnate a uomini e donne, costruite/definite in base a diversi fattori, su base religiosa, etnica e sociale. Queste caratteristiche divergono nelle diverse culture, e vanno a definire identità, status, ruoli, responsabilità e soprattutto relazioni di potere tra i membri di ogni società e cultura. In questa accezione il genere viene quindi appreso attraverso la socializzazione, non è una caratteristica statica o innata, ma cambia e risponde ai cambiamenti sociali, politici e culturali: le persone nascono di sesso femminile o maschile; poi assimilano tramite l’ambiente socioculturale come essere ragazze o ragazzi, e successivamente come diventare donne e uomini e cosa ci aspetta da loro. Il termine genere comprende quindi cosa significa essere donna e uomo in una particolare società, cultura e in un certo tempo. La società ci insegna i comportamenti e i ruoli attesi se siamo nati maschi o femmine; definisce i ruoli, le responsabilità, i vincoli, le opportunità e i privilegi di donne e uomini in quel particolare contesto culturale e sociale: non è quindi una caratteristica innata. Ma non è neanche statico, cambia moltissimo nel tempo, anche nella stessa cultura, e nello spazio (in luoghi diversi nello stesso periodo): nel secolo scorso erano pochissime le donne medico in Italia, oggi le studentesse iscritte alle facoltà di medicina hanno superato il numero degli studenti maschi, tanto per fare un esempio. Così come oggi, in questo tempo, in luoghi diversi troviamo stereotipi di genere completamente diversi: essere timida è un valore atteso e valorizzato per una bimba medio-orientale (come spesso abbiamo personalmente verificato sul campo), mentre nel mondo occidentale viene considerato un problema; non si tratta se sia veramente o no un problema per la persona nel corso della sua vita (potrebbe non esserlo o esserlo in entrambi i contesti, nella contingenza della vita), ma viene reputato come tale solo in un luogo specifico. Chi possono essere i perpetratori I perpetratori della violenza sono spesso, anche nella migrazione forzata, persone vicine, da cui la vittima dipende affettivamente o
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materialmente, e nella maggior parte dei casi sono uomini. Possono essere: partner; membri familiari; membri influenti della comunità(insegnanti o leader, e in questi casi le vittime sono ancora più riluttanti a denunciare la violenza, data la posizione di potere del perpetratore); soldati in contesti di guerra e/o detenzione, anche inclusi peace-keepers in contesti umanitari, che spesso hanno una posizione che può garantire privilegi e immunità; lavoratori umanitari come staff di NGO, UN, ecc. che occupano una posizione autorevole nei contesti dei rifugiati (UNHCR si è dotata di un suo codice di condotta nel 2002); membri di istituzioni aventi pratiche discriminatorie nell’erogazione di servizi, che così contribuiscono a mantenere e incrementare le ineguaglianze di genere. Le condotte di violenza purtroppo sono trasversale a tutte le classi sociali, le culture, le religioni, le razze ed età. Va ricordato che la SGBV è fortemente associata alla rigidità nei ruoli di genere e alla segregazione di genere, cioè separazione dei sessi; il che vuol dire che nelle società più conservatrici, tradizionaliste e patriarcali, in cui la divisione e le aspettative dei ruoli di genere sono più rigide, è stata riscontrata una presenza maggiore di varie forme di SGBV. Fattori di rischio e forme della violenza sessuale e di genere (SGBV) con le sue declinazioni culturali Nonostante la SGBV sia di solito confusa con la violenza sessuale, come si diceva, quest’ultima è solo una delle forme di SGBV, sia pure la più frequente nei contesti di migrazione forzata e in generale nel mondo a qualunque latitudine. Di fatto la violenza sessuale è denunciata molto meno di quante siano la sua occorrenza per le implicazioni di stigma e vergogna che ricadono sulle vittime, in particolare in contesti con rigide norme di genere, e dunque nessuno conosce le esatte dimensioni del fenomeno che in larga parte rimane sommerso. Le forme più comuni di SGBV sono: Violenza Sessuale, che include: stupro, anche all’interno del matrimonio (sia anale che vaginale); tentativi di stupro; abuso sessuale (rea-
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lizzato o minacciato) di intrusione fisica di qualunque tipo di natura sessuale; abuso infantile, incesto, e qualunque atto in cui bambini siano usati a scopo di soddisfazione sessuale; sfruttamento sessuale di chiunque sia in una posizione di vulnerabilità; prostituzione forzata; molestie sessuali; violenza sessuale come arma di guerra e di tortura. Violenza Fisica: ogni tipo di assalto violento fisico; tratta e schiavitù. Violenza Psicologica ed emozionale: violenza verbale, pratiche o epiteti umilianti, isolamento forzato. Pratiche tradizionali dannose: le varie forme di Mutilazioni Genitali Femminili; il matrimonio precoce e/o forzato; l’omicidio d’onore; la trascuratezza sistematica delle bambine (dal minore accesso al cibo, all’accesso negato all’istruzione perpetrato soprattutto dalle famiglie); l’aborto selettivo, detto Gendercide: si stima che più di 100 milioni di bambine manchino nel mondo per questa ragione, soprattutto in Cina e in India e altri paesi dell’area (UNFPA, 2018). In Nepal c’è una legge specifica che vieta il disvelamento del sesso del nascituro per evitar glie aborti selettivi; in realtà si trova spesso nei giornali di lingua inglese annunci tipo: “vuoi sapere il sesso del tuo bimbo? Telefona a questo numero. Privacy e confidenzialità assicurata”.
Violenza Socio-Economica: discriminazione o negazione di servizi anche basata sull’orientamento sessuale (compresa sia la criminalizzazione che tutte le pratiche discriminatorie verso le persone LGTB), tutte le pratiche legislative ostracizzanti come il negato accesso a esercitare e/o usufruire di diritti civili, sociali, economici, culturali e politici, principalmente verso le donne. Citando ancora il Nepal, non c’è il diritto alla cittadinanza per le bambine: quando nasce una femmina non è obbligatorio per il padre iscriverla alla anagrafe, ma è facoltativo. Negli ultimi anni molte battaglie sono state fatte per il citizenship right perché moltissime donne, soprattutto nelle zone rurali e montane del paese, formalmente non esistono per lo stato, e alimentano la tratta di bambine e ragazze per il florido mercato della prostituzione in India.
Il tema di fondo è il valore minore che riveste una figlia femmina in molte culture rispetto al figlio maschio, e che è alla base di molte forme di violenza sulle donne. Questa lista non è esaustiva o
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esclusiva, ma si può vedere come tutte le forme di SGBV possono essere perpetrate all’interno delle famiglie, da singole persone, da intere comunità e anche dagli stati e istituzioni che non le penalizzano ma che al contrario le accettano. Fattori aggiuntivi di rischio (sia per diventare vittima che perpetratore di SGBV) possono essere: – Le situazioni di dipendenza (sia materiale che affettiva) – Le varie forme di disabilità (sono documentati molti casi di disabili, sia uomini che donne, soggetti a violenza sessuale) – Il basso status economico – Situazioni di trauma pregresso che favoriscono la ri-vittimizzazione dei sopravvissuti – La disgregazione familiare e sociale – La non conoscenza dei propri diritti – Le norme e convinzioni culturali, sociali e religiose discriminatorie. Specifici fattori di rischio di SGBV durante il ciclo della migrazione forzata che facilitano la violenza La SGBV di cui ci occupiamo di più nei centri di accoglienza è quella subita dai migranti durante il processo migratorio e nei centri di detenzione (soprattutto in Libia), ma anche nei paesi di origine a causa di guerre e conflitti, povertà e norme sociali fortemente patriarcali e tradizionaliste, spesso connotate da violenza endemica (UNHCR, 2003). Le violenze sessuali sono le più difficili da far emergere, perché fonte di grande vergogna e di stigma sociale, in particolare quando le vittime sono uomini. Per le donne sembra sia più accettabile parlarne, soprattutto in situazioni tutte al femminile. Spesso la violenza sessuale è attesa per le donne, quindi, anche se fonte di vergogna è più comunicabile. Per questo UNHCR ha realizzato in collaborazione con AIDOS in Italia nel 2017-18 programmi pilota specifici su SGBV per la formazione degli operatori dell’accoglienza, e programmi di lavoro in gruppo con i beneficiari dei centri di accoglienza, per facilitare l’e-
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mersione dei casi e proporre alcune strategie di intervento, in particolare basate sull’approccio community based. Bisogna prevenire e rispondere alla SGBV nella migrazione forzata con programmi specifici che ne comprendano cause e conseguenze e che aiutino gli operatori a parlarne. Sono infatti spesso gli operatori stessi che a causa di loro imbarazzi, reticenze, pregiudizi e mancanza di preparazione non favoriscono o anche a volte bloccano l’emersione di queste situazioni. Un esempio sono i casi di tratta, ancora attivi e presenti in alcuni centri accoglienza, e ignorati dagli operatori. Durante i conflitti nel paese d’origine o durante la fuga sono possibili abusi da chiunque in posizione di potere, molestie o aggressioni sessuali; attacchi sessuali da banditi o membri della parte avversa, la cattura da trafficanti di migranti e di schiavi, il rapimento, lo stupro di massa e le gravidanze forzate. Non solamente nelle guerre etniche, ma anche nei comuni conflitti armati lo stupro è usato come arma di guerra (ricordiamo “La ciociara”, il film di De Sica ambientato durante la 2° guerra mondiale in Italia, e l’annosa questione delle violenze operate dalle truppe maghrebine sotto comando francese). Soprattutto dove lo stigma sociale è maggiore, come ad esempio nell’attuale conflitto siriano, la minaccia di violenza sessuale alle donne della parte avversa è pratica molto frequente, perché causa onta non solo alla vittima ma tutta la famiglia. Frequenti sono anche i casi in cui ragazze siriane violentate sono state poi avviate alla prostituzione proprio perché nessuno le avrebbe mai sposate. Anche prima della guerra siriana avevamo riscontrato casi analoghi tra le rifugiate irachene nei centri di salute per le donne fatti da AIDOS in Siria e in Giordania. In questi casi è stato sempre molto difficile e importante cercare di lavorare sugli stereotipi e i pregiudizi degli operatori. Nel 2009 con AIDOS e UNFPA abbiamo realizzato a Damasco un training di formazione su SGBV di due settimane per vari operatori: ginecologhe, ostetriche, psicologhe, assistenti sociali ecc. Accese discussioni di gruppo su casi di stupro e molestie riguardavano soprattutto quanto le donne si erano esposte, e quindi quanta parte di colpa avevano loro.
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Un giorno Maha, psicologa nota in Siria, collaboratrice per UN e altre importanti organizzazioni, che indossava il velo ed era molto religiosa, dichiarò che anni prima era scampata ad un’aggressione sessuale, ma non aveva mai avuto il coraggio di parlarne per paura che la si accusasse di leggerezza.
Lo svelamento fatto da Maha in quella situazione, nel clima di confidenza che si era creato in quel training esperienziale, fu cruciale per il cambio di percezione di molte altre operatrici. Purtroppo abbiamo riscontrato più volte che gli operatori di campi profughi in Giordania lasciavano spesso anche i minori in situazioni di abuso intra-familiari perché levarli alla famiglia avrebbe significato rendere pubblico l’abuso, e quindi provocare la morte sociale per la vittima. Nella loro percezione non svelare l’abuso cui erano soggetti, era una forma di protezione. Metterli in protezione, levandoli dalla custodia del familiare abusante avrebbe significato che tutta la comunità lo avrebbe saputo, mettendo la vittima in una condizione di stigmatizzazione per sempre. Nel paese ricevente, di asilo, sono possibili violenze sessuali anche nei centri di accoglienza, coercizioni, estorsioni da parte di persone di autorità. Anche la prostituzione, forzata o per sopravvivere, e lo sfruttamento sessuale di chi è in attesa di asilo o di assistenza. In un progetto in Medio Oriente è capitato di scoprire che un giovane psicologo dello staff locale a cui veniva fatta formazione, chiedeva prestazioni sessuali alle rifugiate siriane in cambio di aiuti vari. Lo psicologo è stato allontanato e la vicenda non è stata resa pubblica finché non l’ho scoperta per caso durante una missione di follow-up, mesi dopo l’accaduto. La direzione del centro con cui lavorava non ha voluto fare una denuncia formale per paura che questo avrebbe messo in cattiva luce il centro stesso.
La mancanza di protezione legale o la scarsità di accesso a informazioni cruciali anche a causa di barriere linguistiche complica le cose. Il modo in cui sono organizzati e localizzati i campi profughi e le strutture di alloggio, spesso in zone isolate, sovrappopolate, o in aree geografiche ad alta criminalità o comunque esposte all’ostilità della popolazione locale favoriscono ovviamente il fenomeno. I campi profughi in particolare non sono mai costruiti in modo “gender-sensitive”, e la leadership organizzativa è spesso
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basata su stereotipi di genere che possono perpetuare situazioni di violenza. In generale nei campi rifugiati le donne ci hanno sempre riferito di non voler mangiare o bere la sera per evitare il rischio di andare al bagno la notte. I bagni sono sempre in zone isolate e periferiche e la percentuale di aggressioni sessuali è alta in queste evenienze di necessità.
La sicurezza nei campi rifugiati è un grosso problema, e anche l’aumento di matrimoni precoci in questi contesti può essere inquadrato come una forma di “prevenzione” della violenza: Molti genitori siriani in Giordania ci hanno riferito che è importante far sposare presto la figlia, anche ragazzina minorenne, prima che possano “comprometterla”. Almeno la violenta uno solo, il marito, e le dà da mangiare; a lei e possibilmente anche al resto della famiglia. In Giordania l’età legale per il matrimonio è 18 anni, ma sono frequentissimi i casi di deroga, “in the best interest of the child”, cioè nel nome del migliore interesse del minore, che è la formula standard per aggirare molte leggi.
Nei campi rifugiati abbiamo anche registrato molti abusi sessuali tra pari, soprattutto tra ragazzini, ai danni di quello più piccolo o fragile. La disgregazione delle strutture sociali e familiari che fungevano da elementi protettivi è spesso un fattore importante nell’aumento della violenza. A Gaza abbiamo assistito a un grande aumento di violenze e abusi sessuali intrafamiliari nei campi di rifugiati dove lavoriamo da 20 anni, questo sia per la sovrappopolazione e la coabitazione di nuclei familiari aumentata negli anni, ma anche perché in questa situazione estrema, di isolamento, mancanza di lavoro, eccetera, saltano i normali fattori di protezione sociale. Inoltre, ad un certo punto hanno iniziato a circolare molti stupefacenti fatti entrare clandestinamente dai tunnel che collegavano Gaza con l’Egitto, contribuendo all’aumento della violenza.
Altro fattore importantissimo è stato l’aumento del fondamentalismo religioso, da quando Hamas è al potere questo ha causato un conseguente progressivo svilimento del ruolo della donna:
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L’avvocatessa che lavora nei centri ha riferito che molti procedimenti penali attivati per abusi sessuali su minori, sono stati archiviati o annullati perché veniva sottolineato il fattore di provocazione da parte della vittima, anche nei casi di ragazzine di 11/12 anni, abusate dal padre o altri familiari.
La difficoltà di recovery delle vittime è naturalmente molto maggiore nelle culture più tradizionaliste e patriarcali, in cui la vittima è maggiormente stigmatizzata, e in cui lo stigma e la vergogna si estendono dalla vittima a tutta la sua famiglia. In Giordania abbiamo seguito il caso difficilissimo di una rifugiata siriana che in Siria era stata rapita e violentata per 3 giorni da una fazione opposta a quella a cui apparteneva la sua famiglia; aveva riportato danni fisici permanenti per le percosse ed era seguita da una fisioterapista oltre che dalla psicologa. Il marito, quando era riuscita a tornare a casa, le aveva detto: “Puoi stare in famiglia, ma non voglio sentire una sola parola di quello che ti è successo. Mai dovremo parlarne.”. Il messaggio era chiaro: non si poteva parlare di ciò che aveva vissuto, perché era una vergogna, e anche lei stessa era una vergogna per tutta la famiglia e la sua presenza era tollerata come forma di generosità. Quando le abbiamo chiesto di disegnare come si sentiva ha tratteggiato la sagoma di un impiccato.
L’impatto della SGBV I sopravvissuti di SGBV sono sempre ad alto rischio per problemi di salute fisica e psico-sociale, e i potenziali effetti nocivi a lungo termine degli aspetti emozionali e fisici dei traumi da SGBV non devono essere sottostimati. Sono sostanzialmente sovrapponibili ai sintomi di PTSD, ma posseggono in più anche delle particolari declinazioni, soprattutto legate alla vergogna. Quando abbiamo chiesto in Italia nei centri di accoglienza alle sopravvissute a stupri ripetuti in Libia le possibili conseguenze della violenza ci hanno detto: il suicidio (a cui molte dicevano di pensare), la mortalità infantile e materna, le malattie sessualmente trasmesse, e soprattutto la difficoltà a dimenticare; tutte parlano della difficoltà a vivere nel presente: “la testa sempre torna al tempo passato; sempre mi tornano in mente le cose successe”.
Su questo abbiamo proposto esercizi per aiutare la mente e il corpo a ricordare che ora siamo nel presente e non più in quelle si-
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tuazioni di sofferenza. (v. la descrizione del “Posto Sicuro in Italia” fatta nel cap. 12). Le lamentele più spesso riportate dalle vittime rientrano tra i comuni sintomi post-traumatici di iperattivazione e disregolazione emozionale: ipersensibilità ai rumori, difficoltà di sonno, incubi, flashbacks. Enorme è l’impatto sulla capacità di lavorare, di studiare e di concentrarsi, e le conseguenze distruttive sulle famiglie e soprattutto nel rapporto con i figli. Questo tema meriterebbe una trattazione a parte: cosa fare con i figli di donne violentate e sopravvissute a tortura? I traumi si tramandano e l’attaccamento con un caregiver traumatizzato si disorganizza, creando le premesse per numerosi problemi. In Italia questo problema viene spesso ignorato, sia per la mancanza di risorse, sia in nome di un relativismo culturale che arriva a giustificare anche situazioni di attaccamento/accudimento molto disfunzionali difendendole semplicemente come “diverse culturalmente”. È vero che ci sono culture in cui l’accudimento di un bambino è molto più comunitario, ma è vero anche che spesso la differenza culturale viene mitizzata, non riconoscendo così situazioni molto disfunzionali e francamente pericolose. È capitato di lavorare in Italia in un centro in cui era appena morto un bimbo di pochi mesi. Era caduto dal letto. La madre era una donna con lunga permanenza in Libia e conseguente storia di abusi continuati, segnalata per trattamento psicologico per i molti sintomi post traumatici. Molti nel centro avevano notato che aveva difficoltà ad accudire il piccolo, che spesso veniva lasciato solo, ma non è stato ritenuto opportuno definire un intervento.
Spesso l’intervento delle assistenti sociali viene demonizzato, come fossero mostri che levano i figli alle madri. Sono invece molto frequenti le situazioni in cui bisognerebbe dare un aiuto alla madre (quando è possibile), e alla relazione col suo piccolo, oppure mettere in sicurezza i bambini. Non sono poche le evidenze di come un genitore traumatizzato non abbia spesso le risorse per sintonizzarsi sui figli. (Liotti, Farina, 2011) Un’operatrice di un altro centro era arrabbiatissima perché era stato fatto un intervento dei servizi sociali su una madre che non
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guardava mai in faccia il suo bambino: per lei questo era un limite degli psicologi e assistenti sociali della ASL, cioè il non saper leggere le differenze culturali. In realtà il contatto oculare madre-figlio è universale, e la sua mancanza è un forte indicatore di disorganizzazione; anche gli scimpanzé guardano i piccoli quando li allattano. Ci sono elementi universali sia umani che comuni ai mammiferi. L’esperimento della still-face di Tronick ha aperto la strada a molte riflessioni su cosa vuol dire crescere con un genitore traumatizzato, con sintomi post-traumatici o depressivi irrisolti (Tronick, 1989). Il filmato dell’interazione caregiver-bambino, reperibile su youtube, mostra come un bimbo sereno passa in pochi minuti a reazioni evidenti di distress, rabbia e poi chiusura quando la madre cessa di rispondere. Se le rotture all’attaccamento sono protratte e non riparate, possono verificarsi nei bambini risposte dissociative (Putnam, 1997). In Giordania abbiamo dedicato un programma specifico ai figli di genitori torturati, per aiutare i caregivers a ritrovare un po’ di sintonizzazione coi loro figli. (cfr. su questo tema il lavoro fatto sulla resilienza con madri e bambini in Libano e Giordania nel cap. 13). Il rischio di ri-vittimizzazione è generalmente forte nei sopravvissuti a SGBV, e aumenta in relazione alla giovane età e alla ripetizione degli abusi. La ri-vittimizzazione può essere definita come la possibilità, per il sopravvissuto, di trovarsi nuovamente in relazioni abusanti. Può essere ascritto a un’immagine di sé svilita e non degna, che si può sviluppare nella mente di chi sopravvive a violenza interpersonale, e che facilita il perpetuarsi di situazioni abusanti. A parità di durezza degli abusi, minore è l’età delle vittime e maggiore sarà l’impatto della violenza; si veda ad esempio lo studio longitudinale per valutare le conseguenze a lungo termine sulla salute delle esperienze infantili avverse (Adverse Childhood Experiences, Felitti, 1998). L’OMS nel 2013 ha ricordato che l’esposizione a eventi stressanti e traumatici in giovane età è accertato fattore di rischio per lo sviluppo per l’insorgenza disturbi mentali e fisici. Includendo in modo particolare chi sperimenta violazioni dei diritti umani (World Health Organization, 2013).
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Quanto incide il fatto che un evento possa essere prevedibile e atteso? Ci sono casi in cui essere preparato alla violenza sessuale la rende meno traumatica: c’è differenza tra ciò che è atteso e ciò che è completamente inatteso nello sviluppo della sintomatologia posttraumatica. Molte donne migranti, infatti, raccontano di sapere sin dalla partenza che durante il viaggio saranno violentate, e spesso si premuniscono iniettandosi anticoncezionali a lungo rilascio per evitare gravidanze indesiderate. Evidentemente il progetto del viaggio migratorio riveste un significato più importante delle violenze che si subiranno. Il fatto di sapere e prevedere che ciò avverrà, anche se non si sa esattamente quando, rende di fatto gli effetti posttraumatici molto diversi, probabilmente perché si conserva un parziale controllo sull’evento negativo. In realtà spesso le aspettative sono molto inferiori rispetto a ciò che effettivamente verrà incontrato: specialmente la realtà nei centri di detenzione in Libia, ma anche durante il viaggio nel deserto, riportato spesso nei disegni come elemento traumatico che riemerge, e poi nella parte in mare (che emerge spessissimo come l’elemento fortemente traumatizzante). Donne africane di varie etnie riferiscono anche che l’evenienza di uno stupro, in alcuni paesi, è contemplata tra i fatti certi della vita, al punto tale che le madri istruiscono le figlie su cosa fare in caso di violenza sessuale (cercare di non contrarre i muscoli della vagina perché così fa meno male ecc.). Questo lo abbiamo ascoltato nelle zone in cui le condizioni di sicurezza sono talmente basse che l’eventualità di subire violenza è altissima per le ragazze. Possiamo ipotizzare, e di fatto lo abbiamo verificato in diversi casi, che in caso di violenze di tipo tradizionale attese, come ad esempio le mutilazioni genitali femminili (MGF), i matrimoni forzati eccetera, l’impatto traumatico sia minore. Questo ovviamente non vuole giustificare quelle condotte che rimangono violenze e che vanno contrastate, ma altro punto cruciale è la definizione di ciò che è traumatico per il paziente e di ciò che lo è per il terapeuta.
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Nel caso di una donna africana migrante violentata nel suo paese, l’elemento traumatico su cui tornava non era tanto la violenza sessuale subita, come la terapeuta si aspettava, ma le conseguenze sulla sua comunità per il luogo in cui il fatto era avvenuto, in prossimità di un lago sacro che poteva essere stato inquinato da quello che le era successo. Era questo fatto che le occupava la mente e che la faceva star male. Lo stupro era nella sua mente assolutamente periferico.
La percezione del clinico può facilmente andare su ciò che lui stesso percepisce come traumatico secondo i suoi filtri. I segni e gli indicatori per l’individuazione precoce della SGBV e i meccanismi di difesa dei sopravvissuti L’impatto della violenza sessuale sui sopravvissuti comporta conseguenze sulla salute sia fisica che emozionale/relazionale. Sul piano fisico le conseguenze spesso includono danni a retto e vagina, infezioni e disfunzioni sessuali, gravidanze indesiderate, incapacità dei/delle sopravvissute di prendersi cura di sé; Su quello emozionale, relazionale e sociale, spesso difficoltà nelle relazioni affettive e familiari: in molti contesti culturali conservatori i sopravvissuti vengono isolati e stigmatizzati nella loro comunità se la storia di abuso diviene nota, come negli esempi riportati qui e nel capitolo 13. I sintomi psichici, oltre a tutti i sintomi di PTSD, tipicamente associati a SGBV e in particolare a violenza sessuale, possono riguardare in più: l’autostima: tipicamente bassa, unita alla sensazione di non essere veramente degni d’amore. la sessualità: problemi sessuali più tipici (difficoltà o impossibilità a raggiungere l’orgasmo -anorgasmia-, dolore durante i rapporti -vaginismo-, difficoltà a lasciarsi andare, assenza di sensazioni piacevoli o presenza di sensazioni piacevoli assieme a quelle spiacevoli, sensi di colpa e di inadeguatezza eccessivi, sensazione di essere indegni o “sporchi”, assenza di desiderio, disturbi dell’eccitazione). Confusione circa i propri desideri e la propria identità sessuale.
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La promiscuità sessuale: ci sono teorie diverse al riguardo: si può interpretare la promiscuità sessuale delle persone abusate o la loro tendenza a essere abusate nuovamente (rivittimizzazione) come la difficoltà a tenere distinti l’affetto dal sesso, o per la presenza di un’opinione estremamente bassa di se stessi e quindi la tendenza ad un uso promiscuo e non ponderato del proprio corpo. Quest’ultimo fattore è probabilmente solo un elemento di superficie; infatti l’occorrenza della promiscuità è particolarmente frequente in caso di eventi traumatici in età dello sviluppo, e da parte di membri familiari: una confusione nefasta tra gli obiettivi del sistema di attaccamento e quello sessuale rende ragione di queste condotte, causata dal fatto che la stessa figura da cui si cerca protezione e sicurezza è la persona che attiva il sistema sessuale, e per di più con modalità predatorie, aggressive; quest’ultimo punto rende ragione non soltanto della confusione tra ricerca sessuale e di prossimità rassicurante, ma anche delle modalità aggressive nella ricerca stessa, alla base della rivittimizzazione nella storia delle vittime di SGBV. Altra ipotesi che va tenuta presente, se confortata dalla presenza clinica di altri indicatori, è la possibile esistenza di un Disturbo dissociativo, in cui una parte identificata con il predatore-violentatore agisce attivamente una ripetizione del trauma, stavolta a parti invertite. Problemi di ansia e depressione sono molto frequenti e possono essere vissuti come proprie della persona tanto da ritenere che non ci si possa sentire e comportare diversamente. Il corpo: fra le vittime di abusi sessuali sono relativamente frequenti problemi psicosomatici, disturbi del comportamento alimentare, abuso di alcool, farmaci e di sostanze stupefacenti. Problemi interpersonali: la sfiducia, le difficoltà sessuali, insieme a difficoltà nella gestione della rabbia e della distanza fra le persone comportano frequentemente problemi nella gestione delle relazioni interpersonali. La vergogna è il sentimento dominante in forme di SGBV, e in particolare nella violenza sessuale. La maggioranza delle vittime di abuso sessuale pensano di essere in qualche misura responsabili di quanto subito, sono spesso derise e umiliate dai perpetratori, magari anche ricattate con video-riprese della violenza e profonda-
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mente violate nella loro sfera più intima. La vergogna porta a credere che i propri pensieri, emozioni, comportamenti, e tutta la persona nella sua interezza, siano profondamente sbagliati. Le convinzioni sottostanti sono di essere una brutta persona, immorale, sbagliata, difettosa, cattiva, non amabile. E questo accade anche quando il temperamento personale è battagliero e rivendicativo: Come ci ha detto una donna nigeriana durante un gruppo di sensibilizzazione in Italia: “Ti devi vergognare! Ti devi vergognare per forza quando ti violentano, perché ti hanno portato via il tuo orgoglio e la tua dignità!”.
Nel corso di questi gruppi di sensibilizzazione spesso sono seguite lunghe discussioni tra i partecipanti sulla vergogna e sul perché, solo per i crimini sessuali, sono le vittime a vergognarsi, e non gli aggressori. Spesso le donne hanno discusso del loro abbigliamento e della possibilità di essersi esposte anche nelle situazioni in cui ciò è più improbabile, come nei centri di detenzione in Libia. In un gruppo al Cara di Mineo, una ragazza nigeriana sempre silenziosa a un certo punto ha detto: “Ma in Libia ci coprivamo completamente eppure venivamo violentate tutti i giorni!”.
Le particolarità dell’impatto della SGBV sugli uomini (in particolare nei centri di detenzione o durante i conflitti) La violenza sessuale è sempre sotto denunciata, sia nei contesti emergenziali che non, ma nel caso degli uomini fa ancora più fatica ad emergere, e dovrebbe essere sempre indagata. La violenza sessuale è nota come arma di guerra contro le donne, e, almeno teoricamente, è ritenuta centrale nei programmi di protezione di questo tipo, ma è invece trascurata e ancora poco conosciuta nelle sue declinazioni contro uomini e ragazzi. In realtà è spesso usata come arma soprattutto nei contesti culturali in cui le norme di genere sono molto rigide e la legislazione vigente proibisce i rapporti omosessuali. In questi ambienti, nonostante si tratti di atti sessuali non consensuali o di forme di tortura sessualizzata (che venga effettuata dal perpetratore con il proprio
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corpo o attraverso oggetti), si aggiunge il rischio di essere puniti per omosessualità. In generale, laddove le norme e i pregiudizi di genere sono molto rigide, lo svelamento da parte dei sopravvissuti è particolarmente difficile. Gli uomini sono in realtà frequenti vittime di violenza sessuale nei centri di detenzione, perché la violenza sessuale è efficacissima come tortura per distruggere la dignità della persona. Le reazioni più tipiche negli uomini abusati sessualmente. Lo stigma che un uomo abusato deve affrontare è molto forte e legato anche a temi specifici di umiliazione mirata alla compromissione dell’identità sessuale. Dipende anche da alcuni fattori fisiologici; per esempio il fatto che durante l’abuso sessuale possa esserci un’erezione e/o l’eiaculazione da parte della vittima, può essere considerato dall’abusante, dalla vittima stessa, dal sistema giudiziario e dalla comunità medica come un indicatore di consenso all’atto sessuale e di vissuto positivo nei confronti dell’esperienza. Studi sulla fisiologia sessuale dell’uomo e racconti di sopravvissuti a violenza sessuale suggeriscono che possa accadere di avere un’erezione e/o un’eiaculazione anche in una situazione non consensuale (come può essere durante un rapporto anale per la stimolazione meccanica della prostata dall’interno). È stato dimostrato, inoltre, che un uomo può avere un’erezione o un’eiaculazione anche in situazioni di stress estremo (Holstege, Georgiadis, Paans et al., 2003). Questo è particolarmente difficile per i sopravvissuti, che spesso sono derisi e ulteriormente umiliati dai perpetratori e a volte ripresi durante le violenze. Comprendere questo aspetto è di enorme importanza per gli uomini vittime di abuso sessuale affinché possano non colpevolizzarsi e comprendere il perché delle proprie reazioni cercando il sostegno psicologico e/o legale di cui hanno bisogno. I seguenti comportamenti possono, se presenti, aiutare a individuare gli uomini sopravvissuti a violenza sessuale: l’impossibilità di sedere comodamente, la richiesta di stare in piedi, dolori alla schie-
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na o rettali. Anche le cose riferite dal partner o dai familiari possono risultare utili per poter capire cosa è accaduto e aiutare il sopravvissuto. Va data attenzione al fatto che le definizioni legali di stupro sono in alcuni paesi spesso specifiche solo per minori e donne. In questi luoghi è dunque impossibile per uomini adulti la rivendicazione legale di stupro: va ricordato ancora che laddove le relazioni omosessuali sono criminalizzate, i sopravvissuti sono a rischio penale e vengono interrogati sul loro orientamento sessuale, così come abbiamo verificato in Giordania con i rifugiati siriani. Fare una buona psicoeducazione in cui venga spiegato tutto ciò che può avvenire è particolarmente importante per “normalizzare” sia le reazioni psico-fisiologiche che i vissuti dei sopravvissuti e i sintomi successivi, sia nello stupro maschile che femminile. Anche nel trattamento di donne sopravvissute a violenza sessuale, spesso la parte peggiore del ricordo è se si è verificata qualche sensazione piacevole a livello dei genitali (improbabile durante stupri di gruppo e nei contesti di guerra o detenzione, ma abbastanza frequenti negli abusi sessuali meno violenti). Questo fa sentire la vittima in qualche modo consenziente o collusiva con l’abusante. Va spiegato chiaramente che i genitali, quando stimolati, possono provocare sensazioni sessuali anche quando non c’è consenso. Anche la possibilità di Survival sex nei centri detenzione crea grandi difficoltà nell’elaborazione successiva. La mancanza di cibo, lavoro e risorse primarie determinano spesso lo scambio di sesso per cibo o per altri favori documentato da molte organizzazioni umanitarie. Ma nella stessa tipologia psicologica possiamo far rientrare tutte le condotte che suonino agli occhi della vittima come una complicità (tipo aiutare a seppellire i cadaveri perché questo ti garantisce un pasto, eccetera). Mohammed partecipa ad uno dei gruppi di sensibilizzazione sulla violenza in Sicilia; parliamo delle varie forme di violenza e delle conseguenze: a un certo punto scoppia quasi a piangere e racconta che una volta in Libia ha dovuto seppellire i corpi di altri migranti morti di fame e di torture, poi lui e gli altri sono stati costretti a ballare e cantare coi fucili puntati da parte dei carcerieri. Dice che non lo dimenticherà mai.
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In questi casi al tema specifico della violenza sessuale da parte di una figura superiore si associa il tema di colpa per essere state attivamente responsabili, sia pure per sopravvivere. Le vittime di tratta La tratta di esseri umani rappresenta un crimine transnazionale definito dall’art.3 del “Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare donne e bambini”. La definizione di tratta comprende reclutamento, trasporto, trasferimento, l’ospitare persone, tramite l’impiego o la minaccia di forme di coercizione, rapimento, inganno, abuso di potere o diposizione di vulnerabilità, o tramite dare o ricevere somme di denaro o vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra a scopo di sfruttamento. Lo sfruttamento comprende: sfruttamento della prostituzione altrui o altre forme di sfruttamento sessuale, di lavoro forzato, schiavitù o pratiche analoghe, l’asservimento o prelievo di organi. (OIM,2014). Spesso il mantenimento dell’asservimento delle vittime di tratta (in Italia per lo più di nazionalità nigeriana) avviene attraverso l’utilizzo di pratiche tradizionali, magiche e animistiche, facenti parte delle credenze culturali del paese di origine (vudu, Juju ecc.), e spesso per il legame delle vittime con lo sfruttatore/trice. L’associazione Donne di Benin City racconta: “In Nigeria ci sottoponiamo al rito juju, una sorta di rito voodoo che ci costringe a restare legate alla nostra madame e a ripagare il debito che abbiamo contratto prostituendoci nelle strade italiane».
Le “madame” sono spesso ex vittime che si sono trasformate in mediatrici e che vessano le altre donne per indurle alla prostituzione. Il rito juju è uno degli ingredienti della coercizione che tiene migliaia di ragazze nigeriane incatenate alla schiavitù sessuale in Europa, cui sono sottoposte forzatamente non solo da protettori,
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tenutarie e contrabbandieri, ma persino dalle proprie famiglie d’origine. Qui bevono miscugli in cui sono immersi pezzi di unghie, peli pubici, biancheria intima o gocce di sangue. I sacerdoti tradizionali dicono di poter fare in modo che le vittime non riescano più a dormire né a trovare pace finché non avranno saldato il loro debito. De Angelis 2018
È stata documentata in molti casi la connivenza delle famiglie di origine che “sacrificano” una figlia femmina per avere un introito economico, e in questi casi è davvero difficile per la ragazza sottrarsi alla tratta. In un CAS in Sicilia ci è stato riferito il caso di una ragazza che aveva deciso di denunciare; poco dopo la madre l’ha chiamata per dirle che era venuta in Italia per fare quello, e che altrimenti avrebbe messo in grande difficoltà la famiglia.
Spesso le ragazze scelgono di venire in Italia sapendo -sia loro che le famiglie- che le aspetta una vita di prostituzione: anche qui, il fatto che la violenza venga inserita dentro una cornice di utilità economica, prevista ed accolta dalla comunità di origine, come influisce nel dare un senso alla violenza stessa? Infatti grande in questi gruppi è il problema da un lato della non percezione della natura violenta di quanto subiscono, dall’altro del legame stabilito con il perpetratore/trice, con la conseguente fedeltà dovutagli/le. È difficile che si risolvano a denunciare gli sfruttatori e, se accade, è di solito in seguito a violenze particolarmente feroci: In un centro di accoglienza a Palermo dove molte ragazze sono probabili vittime di tratta, l’unica denuncia avviene quando una ragazza, incinta, viene brutalmente picchiata dallo sfruttatore (esterno al centro) e poi trasferita in una casa protetta. Quando viene fatto l’incontro di gruppo con le altre ragazze, subito dopo questo episodio, c’è clima di sconcerto e paura.
Le vittime di tratta sono soggette spesso alle peggiori forme di SGBV, e hanno spesso il disprezzo anche degli operatori. Dobbiamo porre la massima attenzione alle risposte di biasimo che posso-
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no insorgere in noi e che creano un circolo vizioso difficile da rompere. Gli indicatori principali per riconoscerle sono: l’età molto giovane (spessissimo minorenni che dichiarano di non esserlo, rinunciando alla tutela specifica per i minori, per poter stare nei centri di accoglienza per adulti dove hanno poco o nessun controllo); sono di solito sottomesse e silenziose, e in gruppo parla qualcuno al posto loro o per tutte; nel centro d’accoglienza sono controllate da altre/i ospiti; hanno tipicamente bassa istruzione; spesso hanno una breve durata del soggiorno in Libia perché i trafficanti pagano il loro passaggio velocemente, anche per evitare che “la merce venga deteriorata” a causa delle violenze inevitabili in Libia; spesso hanno problemi psicologici e comportamentali rilevanti. La nostra esperienza di gruppi di sensibilizzazione SGBV con queste ragazze è stata difficilissima. Le abbiamo definite “le inespugnabili”. La comunità nigeriana è molto chiusa e viene da un contesto particolarmente violento; è importante non sentirsi falliti come psicologi se falliamo nel lavoro con questo target. È opinione di chi scrive che moltissime siano coloro che continuano ad essere vittime di tratta dentro i centri di accoglienza e, anche se vengono individuati gli indicatori e fatti colloqui con membri dell’OIM, altrettanto spesso sono ignorate dagli operatori che, sentendosi impotenti a controllarne le condotte, preferiscono far finta di non vedere i loro allontanamenti per andare a ‘lavorare’. Un’operatrice a cui abbiamo chiesto, prima di fare un gruppo di sensibilizzazione sulla violenza con ragazze nigeriane, se secondo lei c’erano vittime di tratta nel centro, ha risposto: “forse, non so…”. Poi rispondendo a domande specifiche ci ha detto che spesso non rientrano la sera, o anche per un intero weekend; che riferiscono malattie sessualmente trasmesse; che in diversi casi hanno richiesto IVG. “Forse” ci sono vittime di tratta nel centro…
Spesso nel corso dei gruppi sembrava ci fossero telefoni lasciati accesi, grande via vai da dentro a fuori la stanza, che ci ha fatto pensare che le ragazze probabilmente dovevano essere controllate dai loro sfruttatori, che così potevano ascoltare quello che dichiaravano.
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Quando in questi gruppi abbiamo proposto l’esercizio “Uomo e Donna”1, hanno parlato quasi solo degli aspetti sessuali fisici, senza alcuna inibizione a parlare di genitali maschili e femminili in dettaglio; è stato invece molto faticoso farle riflettere su comportamenti o tratti di personalità associati a Uomo e Donna. L’unico elemento emerso legato alla loro percezione dell’uomo, è stata la violenza (Uomo associato ad aggettivi come “killer, violento, oppressivo, padrone”, eccetera, solo per citare alcuni degli aggettivi emersi più spesso). Durante i gruppi queste ragazze, tutte giovanissime, hanno mantenuto per lo più lo sguardo sfuggente, guardando a terra quando incrociavano il nostro sguardo, e in generale riuscire a farle parlare è stata una sfida. L’atteggiamento predominante è stato svalutante e disprezzante nei confronti di chi non è parte del loro gruppo, completamente chiuso a qualsiasi contatto. Di fatto, insieme con il vissuto autosvalutante di essere rovinata, priva di dignità, nelle vittime che vengono da esperienze di questo tipo si riscontra spesso quello che può sembrare una sorta di senso di superiorità. Lo incontriamo anche nelle adulte che da bambine sono state abusate, legato ad un senso di unicità dell’esperienza fatta. Nel caso della prostituzione coatta il loro atteggiamento allude a qualcosa tipo: “che ne sai tu, che parli di queste cose, di questo mondo che è solo mio?”. Una specie di orgoglio reattivo e di disprezzo per l’altro che rende davvero difficile stabilire un contatto autentico e creare un qualche legame di fiducia. E c’è davvero da chiedersi perché dovrebbero fidarsi di qualche altro essere umano, dopo essere state trattate con tale brutalità e “tradite” anche nelle relazioni primarie e familiari. Gli unici gruppi che nella nostra esperienza abbiano avuto qualche impatto con questa popolazione, sono stati quelli in cui non abbiamo dichiarato che si voleva lavorare sulla violenza, ma quelli in cui abbiamo fatto giochi tipo icebreaker lunghi e divertenti, che 1
È un esercizio in cui si chiede di dare degli aggettivi prima per Uomo e poi per Donna, attributi che vengono poi discussi in gruppo per vedere cosa sia intercambiabile e cosa non lo sia; emerge che solo gli aspetti biologici non sono mai intercambiabili, il resto dipende dalla cultura; l’esercizio serve a far emergere la differenza tra sesso e genere e i conseguenti stereotipi.
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hanno strappato qualche risata e incrinato la corazza difensiva. O quelli in cui abbiamo parlato solo di come poter vivere meglio, e in cui è stato possibile parlare di quali emozioni sentivano più spesso (dolore, rabbia e paura); da qui è partita, a volte, una bozza di programma per gli incontri successivi (per es. come diminuire il dolore e la paura e come gestire la rabbia). Dobbiamo ricordare che nessun intervento terapeutico funziona se il paziente non è già in una condizione di sicurezza, come invece non accade se le ragazze sono ancora vittime di tratta e soggette a violenze. Si può però strutturare un percorso che, aumentando la consapevolezza, possa aiutare a far emergere nuovi scenari possibili di vita. È impossibile trattare la violenza on-going (come facciamo ad esempio nel corso stesso di una situazione di guerra, non avendo alternativa), che in questa fase è innanzitutto una questione di ordine pubblico, da andar trattata in un contesto giudiziale. L’impatto su persone LGTB Particolare attenzione va data alle persone LGTB, che possono essere molto facilmente vittime di SGBV sia nel paese di origine che durante il processo migratorio. Anche in questo caso maggiore è la rigidità delle norme di genere, maggiore è il rischio di SGBV. Alcuni migranti ci hanno raccontato nei gruppi delle violenze terribili che subivano gli omosessuali in Libia, cui raramente sopravvivevano. Ma di solito le persone LGTB già vivono la dimensione sessuale nei paesi d’origine in clandestinità o semi-clandestinità, essendo esposte sia al biasimo sociale che spessissimo a leggi che proibiscono l’omosessualità e i comportamenti sessuali non conformi alle aspettative sociali. Le persone LGTB, quando scoperte, rischiano quindi, oltre alla violenza fisica, l’isolamento e un’ulteriore discriminazione all’interno del gruppo di migranti, che si va ad aggiungere a quella ricevuta nel paese d’origine. Diversi ragazzi del Gambia, parlando di omosessualità, ci hanno riferito di omosessuali messi al rogo come pratica non rara. Particolare attenzione va data in questo caso alla privacy, quando il residente in un centro di accoglienza confida a un operatore
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o allo psicologo la propria omosessualità. Purtroppo abbiamo avuto più volte riprova della totale mancanza di attenzione a questa necessaria cautela, tanto che la storia di omosessualità di una persona in breve tempo diviene nota nel centro anche agli altri ospiti. Le buone norme deontologiche che si applicano ai pazienti italiani dovrebbero applicarsi anche agli ospiti dei centri, e dovrebbero essere però estese a tutta l’équipe degli operatori: spesso finisce che gli psicologi si trincerano dietro il segreto professionale, non condividendo nulla con gli operatori che sono però a contatto giornaliero con gli ospiti, il che può creare conflitti e confusioni. Nella nostra attività di supervisione nei centri di accoglienza abbiamo spesso riscontrato problematiche di questo tipo, unite a quelle che nascono dal fatto di avere a volte rapporti troppo personali con gli ospiti, (soprattutto con operatori di sesso diverso dagli ospiti) che, provenendo da contesti culturali conservatori, possono facilmente fraintendere la natura puramente amichevole del rapporto. In conclusione è importante ricordare inoltre che raramente le varie forme di SGBV vengono riferite immediatamente agli operatori ed anche allo psicologo. Spesso ciò avviene dopo molto tempo e solo in seguito alla sintomatologia non risolta, sia a livello fisico che psichico, a volte anche diversi anni dopo quando le disfunzionalità sono cronicizzate o molto difficili da trattare. Al termine riportiamo alcune schede di indicazioni per facilitare il lavoro degli operatori: Tab. 1: Compiti dello staff COSA FARE PER AIUTARE LO SVELAMENTO DELLA VIOLENZA Creare uno spazio di privacy per parlare di SGBV. Ascoltare e validare. Offrire empatia e soprattutto rispetto, che è molto più importante delle prescrizioniUsare un linguaggio semplice e non giudicante. Dare informazioni CHIARE e CORRETTE rispetto a cosa è violenza, ai diritti e ai servizi disponibili (anche attraverso la diffusione di materiale informativo).
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Lavorare in RETE: assicurare il passaggio di informazioni sensibili ai servizi successivi, inviare ai servizi di competenza e documentare la violenza. Rompere l’isolamento delle vittime: far sentire che non sono soli. Creare un ambiente che comunica: “la SGBV può essere discussa” e far sentire le vittime al sicuro.
Lo svelamento precoce dei casi di SGBV è importantissimo e non va ritardato: basic posters, pensati per persone di altra lingua o analfabete, dovrebbero sempre essere disponibili per comunicare informazioni sui principali tipi di SGBV, le conseguenze possibili e i servizi disponibili (abbiamo a volte utilizzato materiale prodotto da altri utenti, come disegni, frasi in varie lingue, ecc.). Tab. 2: Compiti dello staff COSA NON FARE: Non giudicare, non far sentire biasimati. Non usare un linguaggio formale o troppo tecnico. Non passare le informazioni su eventuale SGBV ai servizi successivi. Non riconoscere le proprie difficoltà e/o sensibilità riguardo SGBV (in caso tenerne conto e chiedere aiuto ed eventuale supervisione). Non tener conto dell’importanza della tempestività dell’intervento necessario (sia medico che psicologico che legale).
La chiave dei programmi di SGBV è che lo staff sappia vedere le proprie credenze limitanti e gli stereotipi rispetto alle vittime, e dovrebbe sempre ricevere un training specifico per riconoscerne i segni e rompere le barriere che impediscono di parlarne. Di fatto accade spesso che la mancanza di formazione specifica degli operatori può bloccare lo svelamento. Allo stesso tempo le domande intrusive dello staff (o la totale mancanza di domande) inibiscono i sopravvissuti nel chiedere assistenza. Tutto lo staff dovrebbe essere sensibilizzato (non solo gli psicologi o assistenti sociali, ma anche mediatori, legali e operatori semplici) e dovrebbe conoscere le principali leggi riguardo al tema. Molti sopravvissuti non denunciano per sfiducia nel sistema giudiziario.
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Il fallimento nei procedimenti legali incrementa il rischio di ripetizione degli abusi e la sfiducia delle vittime. Tab. 3: Messaggi chiave per lo staff, per i sopravvissuti e per i partner La SGBV è un serio rischio e non va trascurata; Lo stupro è stupro a prescindere dal sesso, dall’identità di genere e dall’orientamento sessuale di chi lo subisce; Nessun sopravvissuto a violenza sessuale dovrebbe essere stigmatizzato, marginalizzato o lasciato senza cure.
Note biografiche
Curatori Emilio Vercillo, Psichiatra, Psicoterapeuta. Ha lavorato in Italia e all’estero, occupandosi dagli anni ’90 dello scorso secolo di Psichiatria Culturale, e di Clinica Post-Traumatica e Dissociativa. È stato docente di Psicopatologia presso le scuole di specializzazione in Psichiatria dell’U.C.S.C. a Roma, e dell’HSLL in Spagna. Attualmente Psichiatra nel Centro SaMiFo (Salute Migranti Forzati), ASL Roma 1 – Associazione Centro Astalli JRS Maria Guerra, Psicologa Psicoterapeuta. Dal 2001 ha lavorato in centri di accoglienza per migranti con la Croce Rossa Italiana, dal 2011 collabora come psicologa psicoterapeuta con l’Associazione Centro Astalli JSR presso il Centro SaMiFo ASL Roma 1, e presso i centri SPRAR (Sistema di Protezione per Richiedenti asilo e Rifugiati) gestiti dall’Associazione. Si occupa di formazione al personale operante nella realtà di accoglienza ai migranti forzati Autori dei Capitoli Cristina Angelini, psicologa psicoterapeuta, Roma. Esperta internazionale di GBV per: AIDOS, UPP, UNHCR, UNFPA. Maurizio Bacigalupi, psichiatra, psicoterapeuta, già Direttore del Dipartimento di Salute mentale dell’ASL Roma B e do-
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cente di Epidemiologia alla scuola di specializzazione di Psichiatria dell’UCSC di Roma. Attualmente Psichiatra volontario Associazione Centro Astalli JRS presso il Centro SaMiFo dell’ASL Roma 1. Rossella Carnevali, psichiatra, psicoterapeuta, si occupa di psichiatria transculturale, Centro SaMiFo, Medici contro la Tortura, ASL Roma 4. Paola Castelli Gattinara, psicologa clinica e psicoterapeuta con formazione cognitivo-evoluzionista, Roma. Esperta in Psicotraumatologia, da diversi anni svolge attività clinica e di supervisione in diversi Centri di accoglienza dei Richiedenti Asilo. Viola Galleano, psicologa psicoterapeuta, Milano. Si occupa di terapia dei migranti presso il CMMC Centro Migranti Marco Cavallo, Torino. Filippo Gnolfo, Direttore UOSD Salute Migranti (a valenza interdistrettuale) ASL Roma 1. Edoardo Pera, psicoterapeuta, Roma. Consulente internazionale per AIDOS e UPP. Giancarlo Santone, psichiatra. Direttore UOSD Centro di Salute per Migranti Forzati - SaMiFo ASL Roma 1, Struttura sanitaria a valenza regionale. Alta professionalità in psichiatria transculturale e delle migrazioni. Ha lavorato in Africa e Sua America, oltre che in Italia, per progetti di cooperazione internazionale Marjan Shalchian, nata a Londra, ha vissuto in Iran e laureata in Economia a Teheran. Vive a Roma dal 2007 dove ha lavorato come mediatrice Linguistico-Culturale nei vari servizi del terzo settore. Attualmente è coordinatore del servizio Mediazione Interculturale del Cies Onlus.
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Martino Volpatti, Laureato in filosofia, dal 2003 vive a Roma e lavora come operatore sociale presso l’Associazione Centro Astalli. Attualmente è referente dell’Associazione presso il Centro SaMiFo ASL Roma 1, e coordina la mediazione linguistico-culturale e la formazione sul tema.
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Clinica del trauma e della dissociazione
Collana diretta da Giovanni Tagliavini e Maria Paola Boldrini 1 Kathy Steele, Suzette Boon, Onno Van der Hart, La cura della dissociazione traumatica. Un approccio pratico e integrativo 2 Maria Puliatti, La psicotraumatologia nella pratica clinica. Interventi di stabilizzazione con adulti, bambini e adolescenti 3 Paul Williams, Feccia 4 Elena Simonetta, Il pensiero in trappola. Trauma e disturbi specifici di apprendimento: la teoria multifattoriale dell’origine traumatica dei DSA 5 Dolores Mosquera, Diamanti Grezzi. Manuale psicoeducativo del trattamento del disturbo di personalità borderline. Vol. 1 6 Sandra Baita, Puzzles, Una guida introduttiva al trauma e alla dissociazione nell’infanzia
Finito di stampare nel mese di aprile 2019 da Digital Team - Fano (Pu)