Che cosa rispondono gli animali... se facciamo le domande giuste? 8871068599, 9788871068596

Ci sono animali che sanno dipingere? Le scimmie sanno scimmiottare i comportamenti umani? Gli animali si vedono come li

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Italian Pages 229 [233] Year 2018

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Che cosa rispondono gli animali... se facciamo le domande giuste?
 8871068599, 9788871068596

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Se ti è piaciuto questo libro, ti consigliamo anche: Leonardo Caffo, Il maiale non fa la rivoluzione Lori Gruen, La terza via dell'empatia Melanie Joy, Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali

e indossiamo le mucche

Annamaria Manzoni, In direzione contraria Annamaria Manzoni, Sulla cattiva strada Roberto Marchesini, Contro i diritti degli animali? Jim Mason, Un mondo sbagliato Jeffrey M. Masson, Le bestie siamo noi Corine Pelluchon, Manifesto animalista Tom Regan, Gabbie vuote

Dal 1988 Sonda si è sempre impegnata a pubblicare libri che rispecchiassero i propri ideali e il proprio impegno

sui temi dei diritti animali, della scelta vegan, dell'impegno civile,

dell'educazione libertaria e creativa, dell'innovazione tecnologica, dell'internazionalismo e della responsabilità verso la natura. Anche attraverso

la scelta della carta certificata FSC G

per la stampa di questo volume,

nel rispetto dell'ambiente e del pianeta. MISTO Cal'U da fonU gestUt In m111lere 1"11ponsablS.

FSC" C021883

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L'esperienza suggerisce che è praticamente impossibile pubblicare un libro senza errori. Ringraziamo i lettori che vorranno segnalarceli scrivendo a: [email protected]

Vinciane Despret

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Titolo originale: Que diraient les animaux, si ... on leur posait les bonnes questions? © Éditions LA DÉCOUVERTE, Paris, France 2012, 2014 © 2018 by Edizioni Sonda srl, Casale Monferrato (Al) per l'edizione italiana Prima edizione italiana: aprile 2018 Tutti i diritti riservati

ISBN 978 88 7106 859 6

Traduzione dal francese di Marinella Correggia

Deposito Boifava

Ullllll RIII T2227147

EDIZIONI SONDA corso Indipendenza 63 15033 Casale Monferrato (Al) Tel. 0142461516 E-mail: [email protected] Web: www.sonda.it

r 11

-ISTRUZIONI PERrUSO

A come ARTISTI

Stupido come un pittore?

17

B come BESTIE Le scimmie sanno davvero scimmiottare?

24

C come CORPI Va bene urinare davanti agli animali?

30

D come DELINQUENTI Gli animali si possono ribellare?

36

E come ESIBIZIONISTI

Gli animali si vedono come

li vediamo noi?

43

F come FARE GIUSTIZIA Gli animali scendono a compromessi?

53

G come GERARCHIE La dominanza dei maschi potrebbe essere un mito?

60

H come HAPPY

67

Come si può fare amare uno specchio agli elefanti? I come INGANNATURI L'inganno è una prova del saper vivere?

75

J come Joe

Perché si dice che le mucche non lavorano?

82

K come KG Ci sono specie che si possono uccidere?

89

L come UBORATORIO A che cosa sono interessati i topi durante gli esperimenti?

97

M come MORALITÀ Gli animali sono modelli affidabili?

106

N come NECESSITÀ Si può indurre un ratto all'infanticidio?

116

O come OPERE Gli uccelli fanno arte?

122

P come PRESTIGIO

Gli animali hanno il senso della celebrità? 130

O come 0UEER I pinguini fanno coming out?

13 7

R come REAZIONE Le capre sono d'accordo con le statistiche?

144

S come SEPARAZIONI Si può mandare in tilt un animale?

151

T come TEMPLE GRANDIN

Con chi tratteranno gli extraterrestri?

156

U come UMWELT

Gli animali conoscono le tradizioni del mondo?

163

V come VERSIONI

171

W come WATTANA

178

X come XENOTRAPIANTI

186

V come VouTueE

193

l come ZDDERASTIA

203 228 229

Approfondimenti bibliografici Vautrice Ringraziamenti

Gli scimpanzé sono morti come noi?

Chi ha inventato il linguaggio e la matematica?

Si può vivere con il cuore di un maiale?

Gli animali sono le nuove star?

I cavalli dovrebbero essere consenzienti?

Tutti gli indirizzi Web citati nel libro sono stati controllati fino al 04.03.2018.

(ff�,\-uesto À. libro non è un dizionario. Ma può essere utilizzato \�.- -� come un abbecedario. hi ama fare le cose seguendo un ordine, può seguire quello alfabetico. Ma possiamo anche cominciare da un tema che ci interessa o ci stuzzica particolarmente. Com'è prevedibile, i lettori saranno forse sorpresi, mi auguro, di non trovare quello che immaginavano. Potete iniziare da metà, affidarvi alle dita o ai desideri, al caso o ad altri elementi; o anche perdervi nei rimandi disseminati nel testo ·� . Non c'è un senso unico, né ci sono chiavi di lettura uniche.

Artisti

Stupido come un pittore?

« Bete comme un peintre ("Stupido come un pittore"). Questo modo di dire francese risale almeno all'epoca della

vita dei bohème di Murger,

intorno al I 880, ed è tuttora utilizzato in modo scherwso. Perché l'artista dovrebbe essere considerato meno intelligente di Tizio, Caio e Sempronio?».

/

S

Marce! Duchamp, L'artiste doit-il aller à l'université?

\, . 11 celebre quadro Coucher de soleil sur l'Adriatique, presentato al

j può dipingere con un pennello attaccato in fondo alla coda?

Salon des Indépendants di Parigi nel 1910, dà una risposta alla domanda. È l'unica opera di Joachim-Raphael Baronali. In realtà, si chiamava Lolo. Era un asino. In questi ultimi anni, in seguito alla diffusione su Internet ( è> YouTube) di opere realizzate da animali, è tornato in auge un antico dibattito: è possibile attribuire loro lo status di artisti? L'idea che gli animali possano creare o partecipare a opere artistiche non è nuova, mettendo da parte Baronali: l'esperimento, piutto­ sto scherzoso, non aveva realmente l'ambizione di porre questa do­ manda. Nondimeno, da lungo tempo diversi animali hanno, bene o male (spesso male), collaborato agli spettacoli più vari, il che ha indotto alcuni addestratori a riconoscerli a pieno titolo come artisti ( E::> Esibizionisti). Per quel che riguarda le opere pittoriche, oggi i candidati sono numerosi, benché assai controversi. Anni Sessanta del secolo scorso: Congo, lo scimpanzé del ce­ lebre zoologo Desmond Morris, suscita la polemica con i suoi quadri impressionisti astratti. Congo, morto nel 1964, ha fatto scuola e

oggi, allo zoo di Niter6i- città brasiliana che si trova di fronte a Rio de Janeiro, sul lato opposto della baia-, si può assistere all'esibizione quotidiana di Jimmy, uno scimpanzé che si annoiava, finché l'addet­ to che si occupava di lui non ha avuto l'idea di portargli dei colori. Più famoso di Jimmy, e soprattutto più impegnato sul merca­ to dell'arte, ecco il cavallo Cholla (nel Nevada, usA), che dipinge opere astratte con la bocca. Cheddar de Tillamook, invece, è un Jack Russel statunitense che esegue performance in pubblico grazie a un procedimento che ben si adatta alle sue abitudini di cane «da topi» (e soprattutto nervoso): il suo istruttore copre una tela bianca con un foglio di alluminio, impregnato di colore sul lato interno; il cane lo attacca a zampate e a morsi. La performance è accompagna­ ta da un'orchestra jazz. Cheddar de Tillamok vi si accanisce una de­ cina di minuti, poi l'addestratore ritira la tela e toglie il rivestimen­ to, svelando una figu ra costituita da tratti convulsi e concentrati in uno o due punti del quadro. Su Internet circolano video di esibizioni analoghe. Senza esprimere giudizi sul risultato, dobbiamo riconoscere che si può porre la domanda: c'è effettivamente l'intenzionalità di produrre un'opera? Ma è la domanda giusta? Di primo acchito, risulta più convincente l'esperienza porta­ ta avanti nel nord della Thailandia con alcuni elefanti. Da quando per legge è stato vietato il trasporto di legname da parte degli ele­ fanti domestici, questi ultimi si sono trovati disoccupati. Essendo impossibile riadattarli all'ambiente naturale, sono stati accolti nei santuari. Fra i video che circolano in Rete, i più popolari sono stati girati al Maetang Elephant Park, a una cinquantina di chilometri dalla città di Chiang Mai: alcuni mostrano un elefante che realizza ciò che gli autori dei filmati hanno definito un autoritratto: un ele­ fante molto stilizzato che regge un fiore nella proboscide. Rimane da chiarire che cosa autorizza i commentatori a con­ siderarlo «autoritratto»; un extraterrestre userebbe lo stesso termi­ ne, se assistesse al lavoro di un uomo che disegna a memoria la figu­ ra di un essere umano? Nel caso dei nostri commentatori si tratta di una difficoltà a riconoscere le individualità, o di una reazione istintiva? Propen­ do per quest'ultima ipotesi. Il fatto che un elefante dipinto da un elefante venga automaticamente percepito come un autoritratto dipende certamente dalla strana convinzione per la quale tutti gli elefanti sono fungibili. L'identità degli animali si riduce spesso alla loro appartenenza a una specie.

Osservando l'elefante all'opera, non possiamo non rimanere colpiti: la precisione, l'esattezza, la grande attenzione per ciò che sta facendo, tutto sembra rivelare una sorta di intenzionalità artistica. Ma se approfondiamo, se ci interessiamo al modo in cui il meccanismo è stato avviato, possiamo capire che questo lavoro è il risultato di anni di addestramento: gli elefanti hanno dovuto pri­ ma imparare a disegnare su schizzi fatti dagli umani, e continuano instancabilmente a riprodurre gli schizzi che hanno appreso. A ben vedere, sarebbe stato strano il contrario. Anche Desmond Morris si è interessato al caso degli elefanti pittori. Nel corso di un viaggio nel sud della Thailandia, decide di vederli da vicino. Il tempo a disposizione non gli permette di recarsi a nord, nel santuario della città di Chiang Mai che ha reso celebri gli elefanti artisti; ma può assistere allo stesso spettacolo nel parco dei divertimenti Nong Nooch Tropical Garden. Ecco le riflessioni di Morris al termine dell'esibizione: «Per la maggior parte degli spettatori, quello che hanno visto è miraco­ loso. Gli elefanti devono essere dotati di un'intelligenza quasi umana se possono dipingere immagini di fiori e alberi in questo modo. Ma il pubblico non fa attenzione a una cosa: i gesti dei custodi mentre gli animali sono al lavoro».

Infatti, continua Morris, osservando attentamente, si vede che, per ogni riga disegnata dall'elefante, il custode gli tocca l'orec­ chio, dall'alto in basso per le linee verticali, e da destra a sinistra per le linee orizzontali. Quindi, conclude M01Tis, «purtroppo, il disegno che l'elefante esegue non è il suo, ma quello dell'umano. Non c'è intenzione elefantina né creatività, solo una do­ cile copia».

Ecco una notizia da guastafeste. Mi stupiscono sempre lo zelo con cui certi scienziati assumono in fretta e furia questo ruolo e l'ammirevole eroismo di cui danno prova facendosi carico del triste dovere di dare le brutte notizie; a meno che non si tratti della virile fierezza di chi non si fa ingannare come gli altri. Ma in questa storia c'è dell'altro, come sempre quando gli scienziati si dedicano ad aprire gli occhi altrui alla verità: il profumo seducente del «non è che ... » caratterizza la crociata del disincanto. Un disincanto che però si compie solo a prezzo di un pesante (e forse non molto oriesto) malinteso a proposito di ciò che incanta

e dà gioia, ovvero ritenere che le persone credano con ingenuità al miracolo. In altri termini, ci possiamo disincantare cosl facilmente solo se veniamo ingannati sull'incanto. In effetti, negli spettacoli proposti al pubblico c'è un po' di incanto. Ma non per le ragioni che sostiene Oesmond Morris. È qualcosa che riguarda piuttosto la natura di una certa grazia, una grazia percepibile nei video e in modo ancora più evidente quando si ha l'occasione di assistere di persona - com'è accaduto a me dopo un primo abbozzo di queste pagine. L'incanto dipende dalla grande concentrazione dell'anima­ le, da ciascuno dei segni tracciati dalla proboscide, sobri, precisi e decisi, e tuttavia come sospesi, dopo qualche secondo di esitazione che si traduce in un sottile mix di decisione e misura. L'animale, si dirà, è completamente a proprio agio. Ma, soprattutto, risalta la grazia dell'intesa fra quegli esseri. Persone e animali che lavorano insieme e sembrano felici, direi perfino fieri di farlo. È questa grazia che il pubblico incantato riconosce e applaude. Per chi assiste allo spettacolo, non è importante che ci sia o no un trucco, come il fatto di indicare all'elefante il senso della linea che va disegnata. Interes­ sa che quanto sta avvenendo rimanga deliberatamente indetermi­ nato, che si possa mantenere l'esitazione, sia essa richiesta oppure liberamente consentita. Nessuna risposta ha il potere di stabilire il senso di ciò che si sta producendo. E questa stessa esitazione, simile a quella che può caratterizzare uno spettacolo di magia, fa parte di ciò che ci rende sensibili alla grazia e all'incanto. Non approfondirò quindi la discussione, sostenendo che nel­ lo spettacolo di Maetang, a differenza di quello di Nong Nooch, i custodi non toccano le orecchie degli elefanti; del resto, avrei avuto difficoltà a sostenerlo, se non mi fossi rimessa a guardare le foto scat­ tate. La cosa ha poca importanza, tanto più che un altro guastafeste potrebbe rispondermi che ci deve pur essere un altro trucco, varia­ bile da un santuario all'altro, a cui evidentemente non ho prestato attenzione. Dovremo forse accontentarci di dire che gli elefanti del sud, al contrario di quelli del nord, per dipingere hanno bisogno di ca­ rezze sulle orecchie? O che alcuni dipingono con le orecchie, così come si dice anche degli elefanti del sud, del nord nonché dell'Afri­ ca, che ascoltano con la pianta delle zampe? Quindi, la tristezza accennata da Desmond Morris quando dice che «purtroppo il disegno che l'elefante esegue non è il suo», è

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una tristezza di cui rihuto l'otterta. Certo che il disegno dell'elefante non è il suo. Chi ne potrebbe dubitare? Trucco, o docile apprendimento grazie a cui l'elefante non farebbe che copiare quello che gli è stato insegnato, si torna allo stesso problema, quello dell'«agire per conto proprio». Ho imparato a diffidare del modo in cui questa domanda viene posta. Nel corso delle mie ricerche, ho constatato che gli animali sono sospettati di non essere autonomi ancora più rapidamente ri­ spetto agli umani, in particolare quando si tratta di comportamen­ ti a lungo considerati peculiari dell'essere umano: comportamenti culturali come nel caso davvero sorprendente del lutto, osservato di recente in un santuario del Camerun, da parte di un gruppo di scimpanzé, alla morte di una compagna particolarmente amata. Poi­ ché il comportamento era stato indotto da un'iniziativa dei custodi, i quali avevano mostrato il corpo della defunta ai suoi amici, sono piovute le critiche: non è vero lutto, gli scimpanzé avrebbero do­ vuto manifestarlo spontaneamente, in un certo senso «per proprio conto» (�Versioni). Come se avessimo creato da soli il nostro dolore di fronte alla morte, e come se diventare pittore o artista non richiedesse l'apprendimento dei gesti di chi ci ha preceduti, e la ripresa, di volta in volta, di temi ideati prima di noi e che ogni artista porta avanti. Certo, la questione è molto più complicata. Ma il modo di affrontarla in termini di «o è così oppure» non la arric­ chisce né la rende interessante. Nelle situazioni di cui ci occupiamo, risulta evidente che non si tratta dell'agire di un solo essere, umano (come alcuni sostengo­ no, «tutto dipende dalle intenzioni degli umani») o animale (autore dell'opera). Abbiamo infatti a che fare con situazioni complicate: si tratta al tempo stesso di un insieme che «costruisce» un atto in­ tenzionale, un atto che coinvolge una rete eterogenea, dove si me­ scolano - per riprendere il caso degli elefanti - santuari per animali «in pensione», il personale che se ne prende cura, turisti stupiti che scatteranno foto da far circolare in Rete e porteranno a casa i dipin­ ti, associazioni che vendono le stesse opere a sostegno degli elefanti, elefanti «disoccupati» in seguito a una legge che impedisce loro di trasportare il legname ... Di conseguenza, non riesco a decidere quale risposta dare alla domanda se gli animali sono artisti, in un senso affine o diverso dal nostro (�Opere). Preferirei piuttosto parlare di riuscita. E propenderei allora per le parole che si sono proposte, e poi imposte, mentre scrivevo queste pagine: animali e umani lavorano insieme. E lo fanno nella grazia e nella gioia per l'opera da realizzare.

Se ricorro a questi termini, è perché ho la sensazione che sia­ no in grado di sensibilizzarci a questa grazia e a ogni sua espressione. Alla fine, non è questo ciò che conta? Accogliere modi di dire, di descrivere, di raccontare che ci fanno rispondere, con sensibilità, a questi fatti.

Bestie

Le scimmie sanno dawero scimmiottare?

( . · J\:·.

lungo è stato difficile per gli animali non essere bestie o ,,,Uaddirittura bestioni. Certo, ci sono sempre stati pensatori generosi, appassionati, stigmatizzati però come antropomorfi impe­ nitenti. In questa fase di riabilitazione, la letteratura oggi li fa uscire dal loro relativo oblio, mentre istruisce un processo contro tutti co­ loro che hanno fatto dell'animale un congegno meccanico senz'a­ nima. Ed è un bene. Ma se oggi è utile smontare i meccanismi che rendono bestie le bestie, sarebbe anche istruttivo interessarsi alle piccole macchi­ nazioni, forme meno esplicite di denigrazione che si presentano sot­ to spoglie spesso nobili: scetticismo, obbedienza a regole di rigore scientifico, economia, obiettività ecc. Secondo la celebre regola del Canone di Morgan, quando un'azione può essere interpretata come il risultato dell'esercizio di una facoltà di livello inferiore, non è lecito interpretarla come il risultato dell'esercizio di una facoltà di livello superiore, più complessa. Non è altro che un modo di bestia­ lizzare, rispetto ad altri molto più diplomatici e talvolta identifica­ bili solo con laboriosa attenzione o sospetto assoluto, al limite della paranoia. Le controversie scientifiche sulle competenze attribuibili o no agli animali sono gli ambiti privilegiati per iniziare una simile ricerca. Da questo punto di vista, la questione dell'imitazione negli animali è esemplare. E tanto più istruttiva in quanto sfocerà, dopo una lunga storia e una discussione alquanto animata, in una doman­ da abbastanza bizzarra: le scim�ie sanno scimmiottare? Do apes ape?

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La storia ci mostra che la questione, nei conflitti in materia di attribuzione di competenze sofisticate agli animali, può spesso essere letta, se mi si perdona il barbarismo, in termini di «diritti di proprietà su delle proprietà»: quel che è nostro, i nostri «attributi ontologici» - il ridere, la coscienza di sé, il sapersi mortali, il tabù dell'incesto ecc.-, deve rimanere a noi. Ma da lì a sottrarre agli ani­ mali ciò che era stato loro attribuito ... Si potrebbe sospettare che gli scienziati siano particolarmente suscettibili in materia di rivalità sulle competenze - i filosofi sono già stati oggetto di tale accusa, di loro si è detto che diventano completamente irrazionali, quando si tratta di capire se gli animali abbiano accesso al linguaggio. Nel loro caso, l'imitazione sarebbe per gli scienziati quello che il linguaggio è per i filosofi? Un'altra ipotesi, empiricamente più fondata, prende in con­ siderazione la sciagurata predilezione degli scienziati per le cosiddet­ te «esperienze di privazione», per cui la domanda: «Come fanno gli animali questa o quella cosa?» diventa: «Cosa bisogna togliere agli animali perché non la facciano più?» . Konrad Lorenz ha parlato di «modello della deprivazione». Cosa succede se priviamo un topo o una scimmia degli occhi, delle orecchie, di una parte del cervello, o se li priviamo di ogni contatto sociale? ( G Separazioni). Sono ancora in grado di correre in un labirinto, di controllarsi, di avere delle relazioni? Senza dubbio, la decisa tendenza verso questo tipo di metodologia contagia soprat­ tutto alcuni ricercatori e assume attualmente l'aspetto di una strana forma di amputazione ontologica: le scimmie non saprebbero più scimmiottare. Ma la storia non era cominciata esattamente così. La questio­ ne dell'imitazione fa il suo ingresso nelle scienze naturali quando un allievo di Darwin, George Romanes, riprende un'osservazione del maestro. Darwin aveva notato che uno sciame di api, che si nutriva­ no regolarmente dalla corolla aperta dei fiori di fagiolo nano, aveva modificato il proprio comportamento all'arrivo dei bombi. Questi ultimi utilizzavano una tecnica completamente diversa: facevano piccoli buchi sotto il calice del fiore e raccoglievano il nettare suc­ chiandolo. Il giorno dopo, le api hanno fatto lo stesso. Se Darwin cita questo esempio en passant, per testimonia­ re le capacità comuni a esseri umani e animali, per Romanes c'è un'altra implicazione teorica: l'imitazione ci fa capire come, quando l'ambiente cambia, un istinto possa lasciare spazio a un altro, che si afferma. Il passaggio teorico non è male: l'imitazione diventa l'ele­ mento che può suscitare lo scarto o la variazione - fare «altro» con

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lo «stesso». Fin qui, la storia non ha ancora imboccato la strada del­ la contrapposizione. Ma la biforcazione non si fa attendere, perché Romanes aggiunge un commento: è più facile, scrive, imitare che inventare. Ammette che l'imitazione è indice di intelligenza, ma di un'intelligenza di secondo piano. Certo, sostiene, questa facoltà dipende dall'osservazione, quindi più l'animale è evoluto, più è capace di imitare. Ma la con­ cessione di Romanes è ridimensionata da un altro argomento: nel bambino, man mano che aumenta l'intelligenza, la facoltà di imi­ tazione diminuisce, tanto che la si può considerare inversamente proporzionale «all'originalità o alle facoltà superiori dello spirito. Fra i ritardati men­

tali gravi l'imitazione è ugualmente molto potente e mantiene la sua supremazia tutta la vita, e anche fra i ritardati mentali meno gravi o i "deboli mentali", si osserva, come particolarità davvero costante, una

tendenza esagerata all'imitazione. Lo stesso fatto si rileva facilmente

presso molti primitivi».

Come si vede, la facoltà di imitare, anch'essa gerarchizzata, fa parte di un'operazione di classificazione degli esseri che va ben oltre il problema dell'animalità. La doppia forma di gerarchizzazione proposta da Romanes dei modi di apprendimento e dei comportamenti intelligenti - pro­ seguì dopo di lui, complicandosi un po', soprattutto per risolvere questa difficoltà: come mettere sullo stesso piano il comportamento «pecorone» delle pecore, fedeli imitatrici con o senza il loro Panurgo, i pappagalli, che si pensava fossero senza cervello, e le scimmie che scimmiottano? Allora, si distinse l'imitazione istintiva da quella ri­ flessiva; il mimetismo dall'imitazione intelligente; e, per operare la distinzione fra gli uccelli e gli altri, le imitazioni vocali dalle imita­ zioni visive: tutti i naturalisti si trovarono d'accordo sul fatto che le prime richiedano un livello di intelligenza molto meno elevato rispetto alle seconde. La componente antropocentrica di questa ge­ rarchizzazione, stabilita da esseri - umani - per i quali la vista è il senso privilegiato, rimane una questione aperta. Allo stesso tempo, si sono distinti i processi di educazione intenzionale attivi e che rispondono a un progetto, insieme all'imi­ tazione che opera in un apprendimento non volontario, passivo. Ma questa distinzione, proprio perché ci è familiare, perché fa parte del­ le nostre evidenze, andrebbe messa in discussione. L'imitazione non sarebbe solo la metodologia di chi sta più in basso, ma si inscrive­ rebbe nelle grandi categorie del pensiero occidentale, categorie che,

a loro volta, gerarchizzano i concetti di attività e passività. Queste categorie, lo sappiamo, non si limitano ad assegnare tipologie di esperienze o di comportamenti, ma classificano gli esseri ai quali tali comportamenti vengono attribuiti in modo prevalente. La distinzione abbozzata da Romanes, fra un'intelligenza rea­ le che è indice di un apprendimento intenzionale e un'intelligenza povera, viene ben delineata con la valorizzazione dell'insight, frutto delle ricerche di Kohler con gli scimpanzé. Il termine, che possiamo tradurre con «comprensione» o «discernimento», indica la capacità grazie a cui l'animale scopre all'istante la soluzione a un problema, senza passare per una serie di tentativi ed errori, il che indicherebbe un apprendimento vicino al condizionamento. Va precisato che l'insight non è stato teorizzato per stabilire una differenza rispetto all'imitazione, ma è stato piuttosto l'arma di un bastione di resistenza contro la riduzione imposta dalle teorie comportamentiste, che vedevano l'animale solo come un automa, la cui capacità di intendere si limiterebbe a semplici associazioni, che dovevano esaurire tutte le spiegazioni sull'apprendimento. Del resto, i comportamentisti si occupavano molto poco dell'imitazio­ ne, e non a caso: salvo poche eccezioni, i loro metodi sono concepiti per studiare un animale che agisce da solo. L'imitazione è quindi rimasta relegata ai margini della psicologia animale e dell'etologia. Quando è di interesse per i ricercatori, l'imitazione viene definita l'espediente del povero, che permette all'animale di simu­ lare capacità cognitive che in realtà non possiede. Un «trucco» a buon mercato, in mancanza d'altro, una finta, una strada facile per dare l'apparenza di avere competenze reali. L'imitazione è l'antitesi della creatività, benché ad alcuni possa risultare come una scorciatoia verso l'eccellenza, e quindi dimostrare la presenza di una certa for­ ma di intelligenza. Negli anni Ottanta del secolo scorso assistiamo a un cambia­ mento radicale. In seguito all'influenza congiunta della psicologia dello sviluppo del bambino e delle ricerche sul campo, l'imitazione non solo torna a essere oggetto di interesse, ma cambia status. È una competenza cognitiva che non richiede soltanto capacità intellet­ tive complesse ma, soprattutto, attiva competenze cognitive molto elaborate. Da una parte, presuppone che l'imitatore abbia compreso il comportamento dell'altro come un comportamento diretto che esprime desideri e credenze. Dall'altra, il suo esercizio produce fa­ coltà ancora più nobili; prima di tutto, la possibilità di comprendere le intenzioni altrui ha come conseguenza lo sviluppo della coscienza

di sé; inoltre, la modalità di trasmissione mediante imitazione sa­ rebbe un vettore di trasmissione di tipo culturale. Insomma, quando entrano in gioco la coscienza di sé e la cultura, la faccenda si fa seria. Da questo momento in poi, l'imitazione farà parte delle «for­ mule magiche» del paradiso cognitivo dei mentalisti - ovvero di chi è capace di pensare che quello che gli altri hanno in testa è diverso da ciò che ha nella propria, e di fare ipotesi plausibili al riguardo ( qì> Ingannatori) - e del pantheon sociale degli intellettuali. Il seguito è prevedibile. L'aver promosso l'imitazione allo sta­ tus di competenza intellettuale sofisticata si è accompagnato a un numero incredibile di prove sul fatto che gli animali, in effetti, non imitano o non sarebbero capaci di imparare per imitazione. Ritorniamo cosl alla nostra domanda, che dà il titolo a un celebre articolo: Do apes ape? Le scimmie sanno scimmiottare? La discussione si infiamma. Si formano due fazioni, la cui linea di de­ marcazione è facile da individuare; i ricercatori sul campo moltipli­ cano le osservazioni a sostegno dell'imitazione; gli psicologi speri­ mentalisti le demoliscono a colpi di esperimenti. I sostenitori della teoria dell'imitazione tirano in ballo l'os­ servazione di gorilla che scortecciano in modo molto meticoloso piante ricoperte di spine. La tecnica si trasmette per imitazione e possiamo riscontrare comportamenti simili fra gli individui che si nutrono insieme. Poi è il turno degli orangutan. Nel sito di riabilitazione dove i ricercatori osservano il loro progressivo ritorno alla natura, li ve­ diamo lavare i piatti e fare il bucato, spazzolarsi, lavarsi i denti, tentare di accendere un fuoco, travasare la benzina da una tanica, persino scrivere, benché in modo illeggibile - tuttavia, detto en pas­ sant, sembrano stranamente privi di entusiasmo al progetto del loro ritorno in natura. «Sono aneddoti», rispondono tranquillamente gli sperimentalisti. Oppure: ognuno dei vostri esempi può avere un'altra interpretazione, se si osserva il Canone di Morgan. Sotto la lente del laboratorio passano anche le famose cincia­ relle, che negli anni Cinquanta del secolo scorso riuscivano a stap­ pare le bottiglie di latte consegnate sulle soglie delle case inglesi, e la cui tecnica si era diffusa - costernando chi lo imbottigliava - in una maniera che mostrava la forza dell'imitazione. Il fatto che quel­ le stesse cinciarelle fossero riuscite a modificare la propria tattica, in seguito all'adozione di altri sistemi di chiusura delle bottiglie, e che anche questa nuova pratica si fosse diffusa, non aveva colpito più di tanto gli sperimentatori. C'era bisogno che le cinciarelle dessero prova di un vero talento da imitatrici. In un esperimento con un

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gruppo di controllo, vengono facilmente smascherate: le cinciarelle che si trovano di fronte a una bottiglia già aperta, e che non hanno visto come è stata aperta, fanno bene quanto quelle che hanno il modello da imitare della compagna che apre la bottiglia. Dunque non è imitazione, è piuttosto emulazione. Gli sperimentalisti mettono a confronto anche le scimmie. Anche questo verdetto è senza appello: non si tratta di vera imita­ zione, bensl di semplici meccanismi di associazione che assomiglia­ no al comportamento imitatore, ma non gli appartengono. In effet­ ti, è pseudo-imitazione. Ecco, è cosl: Le scimmie imitano l'imitazione. Ma, evidentemente, non riescono a ingannare i ricercatori, sempre a caccia di falsificazioni. Solo gli esseri umani imitano davvero. Si moltiplicano gli esperimenti di laboratorio per testare que­ sta ipotesi, che alla fine non è che la traduzione di una tesi più gene­ rale: la differenza fra umani e animali. Ecco allora chiamati in causa gli umani. Per essere «generosi», si ricorre ai bambini: saranno loro ad assumersi la responsabilità del confronto con le scimmie. Sulla base degli esperimenti condotti, queste ultime perdono su tutta la linea. Lo psicologo Michael Tomasello ha chiesto agli scimpanzé di osservare un modello di riferimento che raccoglieva del cibo con un rastrello a forma di T. Gli scimpanzé hanno poi svolto il compito con successo ... ma ricorrendo a una tecnica diversa. Verdetto: gli scimpanzé non imitano, perché non possono interpretare il com­ portamento originale come un comportamento orientato a uno sco­ po. Non comprendono l'altro come un agente intenzionale simile a sé stessi come agenti intenzionali. Messi alla prova con l'esperimento del «frutto artificiale» (dentro una scatola chiusa con un chiavistello si trova un frutto per il primate non umano, e un dolce per i cuccioli umani), i bambini si dimostrano molto fedeli a tutti i gesti dello sperimentatore, arri­ vando a ripeterli più volte. Gli scimpanzé aprono la scatola senza problemi, ma senza utilizzare la tecnica adottata dal modello di rife­ rimento né i dettagli importanti dell'operazione. Non è imitazione: come per le cinciarelle, è emulazione. Che possiamo dire di questa esperienza, se non quello che sapevamo già? Che i piccoli umani sono più attenti alle aspettative degli adulti umani rispetto agli scimpanzé ... Tuttavia, le cose si complicano quando la ricercatrice Ale­ xandra Horowitz decide di rivedere alcuni termini del problema, mettendo a confronto bambini e soggetti adulti, ossia studenti di psicologia. La scatola è identica a quella utilizzata per i piccoli, ma stavolta il cibo è una tavoletta di cioccolato. È un disastro: gli stu-

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denti fanno peggio delle scimmie, usano una propria tecnica senza curarsi di ciò che è stato loro mostrato, alcuni addirittura richiu­ dono la scatola, a differenza del modello di riferimento. La ricer­ catrice conclude laconicamente che gli adulti si comportano più come scimpanzé che come bambini. E allora, spiega, se Tomasello ha ragione, se ne deve dedurre che gli adulti non hanno accesso alle intenzioni degli altri. Tornando a quanto è stato chiesto agli scimpanzé, è inte­ ressante capire il funzionamento dei meccanismi che «rendono bestia». Occorre stare attenti a ciò che resta il punto cieco di Mari­ otte (una zona dell'occhio del tutto priva della capacità di vedere, NdT) di questo genere di esperimenti. Il meccanismo indica solo la relativa incapacità delle scimmie coinvolte a conformarsi alle nostre abitudini, o meglio alle abitudini cognitive degli scienziati. Scienziati che non hanno voluto impegnarsi nel difficile lavoro di seguire gli esseri nelle loro abitudini rispetto al mondo e agli altri; che hanno imposto alle scimmie le proprie, senza chiedersi nemme­ no per un attimo come le scimmie stesse interpretino la situazione che viene loro proposta ( rò Unwelt). È sconcertante che proprio quei ricercatori siano i più accaniti nel denunciare, nei loro oppo­ sitori, l'antropomorfismo che indurrebbe questi ultimi ad attribui­ re agli animali competenze simili alle nostre. Eppure, non ci sono meccanismi più antropomorfici di quelli che hanno proposto alle scimmie! Esperimenti del genere, insomma, non possono pretendere di confrontare ciò che confrontano nel modo in cui lo fanno, perché non misurano la stessa cosa. Pretendendo di mettere alla prova le capacità imitative, i ricercatori in realtà hanno tentato di ottenere la sottomissione. Come si fa a definire in altro modo la richiesta di imitare il nostro modo di imitare? E hanno fallito, attribuendo il fallimento alle scimmie. Tuttavia, il fatto che i bambini abbiano imitato fin troppo bene avrebbe dovuto suonare come un campanello d'allarme: i bambini hanno colto l'importanza, per il ricercatore, che le loro azioni fossero fedeli a quelle del modello di riferimento. Le scimmie hanno avuto un atteggiamento meno compiacente e soprattutto più pragmatico. Non perseguivano gli stessi obiettivi. Forse però, le scimmie non hanno mai immaginato che da loro ci si aspettasse una cosa tanto stupida come imitare, gesto dopo gesto e senza variazioni, degli umani dispensatori di leccornie? Ecco allora cosa manca a questi animali: l'immaginazione.

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Corpi

Va bene urinare davanti agli animali?

essuno sa cosa può un corpo, scriveva Spinoza. Non so se \': · ..::.·; il filosofo avrebbe approvato gli epigoni che gli propongo, Ìna Ìni sembra di ritrovare una versione sperimentale molto interes­ sante dell'indagine su questo enigma nelle pratiche di certi etologi: «Non sapevamo di cosa fossero capaci i nostri corpi, finché non lo abbiamo imparato con i nostri animali». Molte primatologhe hanno verificato come il lavoro sul campo possa incidere, in misura davvero sensibile, sullo stesso ciclo mensile. )anice Carter, per citarne una, racconta che il suo era diven­ tato del tutto irregolare quando viveva con le femmine di scimpanzé che reinseriva nella vita naturale. Lo shock per le nuove condizioni di vita le aveva provocato dapprima un'amenorrea di sei mesi, sfo­ ciata poi in una periodicità insolita che, negli anni seguenti trascor­ si sul campo, si era regolata con quella delle scimpanzé, con un ciclo di 35 giorni. I riferimenti ai corpi degli etologi non sono molto numerosi: nella maggior parte dei casi si tratta di cenni en passant, in genere presentati come un problema pratico che va risolto. Ma in alcuni casi, esplicitamente o implicitamente, il loro corpo si mobilita at­ tivamente in una forma particolare: quella di un meccanismo di mediazione. Uno degli esempi più espliciti viene preso in esame dalla filo­ sofa Donna Haraway, a proposito della primatologa esperta di bab­ buini, Barbara Smuts. All'inizio del suo lavoro sul campo a Gambe in Tanzania, Smuts volle fare come le avevano insegnato: per abi­ tuare gli animali, bisogna imparare ad avvicinarsi a loro in modo

progressivo. Per evitare di influenzarli, bisogna agire come se si fosse invisibili, come se non si fosse là ( r::ç, Reazione). Si tratta di essere «come una roccia, sen:ia interazioni, in modo che alla fine i babbuini arrivino

a occuparsi deUe loro cose, come se l'umano che raccoglie i dati non fosse presente».

I ricercatori bravi sono quindi quelli che, imparando a essere invisibili, possono vedere la scena in natura a distanza ravvicinata, «come attraverso una fessura nella parete». Tuttavia, praticare l'a­ dattamento rendendosi invisibili è un processo molto lento, fatico­ so, spesso votato al fallimento: tutti i primatologi concordano. Per una semplice ragione: perché punta sul fatto che i babbuini siano indifferenti all'indifferenza. Ma durante i suoi sforzi, Smuts poteva notare che le scim­ mie la guardavano spesso, e più lei ne ignorava gli sguardi, più loro sembravano insoddisfatte. L'unica creatura per cui la scienziata, se­ dicente neutrale, era invisibile era sé stessa. Ignorare i segnali sociali è tutto salvo che neutrale. I babbuini dovevano percepire qualcuno fuori di ogni categoria - qualcuno che fa finta di non esserci - e chiedersi se fosse o no educabile secondo i criteri che nei babbuini definiscono se un ospite è educato. In effetti, tutto dipende dalla concezione che abbiamo de­ gli animali e che guida le ricerche: il ricercatore è colui che pone le domande, spesso lontano mille miglia dall'immaginare che gli animali si facciano altrettante domande su di lui, talvolta le stesse! Possiamo chiederci se sono o no soggetti sociali, senza pensare che i babbuini forse si pongono esattamente la medesima domanda, da­ vanti a queste strane creature dal comportamento così bizzarro: «Gli umani sono animali sociali?»; per rispondersi che, visibilmente, non lo sono. E agire in funzione di questa risposta, per esempio sfuggire all'osservatore o non agire, come fanno abitualmente; oppure, an­ cora, agire in modo strano perché disorientati dalla situazione. Smuts ha risolto il problema in una maniera semplice da de­ scrivere, ma molto meno da mettere in pratica; ha adottato un com­ portamento simile a quello dei babbuini, il loro stesso linguaggio del corpo, ha imparato quello che si fa e quello che non si fa presso di loro. Scrive: «Cercando di guadagnare la loro fiducia, ho cambiato quasi tutto di me,

compreso il modo di camminare e di sedermi, di atteggiarmi e di uti­

lizzare la voce e lo sguardo. Ho imparato un modo del tutto diverso di

stare al mondo - il modo dei babbuini».

La primatologa ha copiato il modo in cui i babbuini si rivol­ gono l'uno all'altro. Di conseguenza, scrive, il fatto che a un certo punto i babbuini abbiano cominciato a rivolgerle sguardi ostili, co­ stringendola ad allontanarsi, è stato un progresso enorme: non era più trattata come un oggetto, da evitare, ma un soggetto di cui fidar­ si, con il quale potevano comunicare, un soggetto che si allontana quando glielo si fa capire, e con cui si possono mettere in chiaro le cose. Haraway collega questa esperienza con un articolo più recen­ te di Smuts, in cui la primatologa riporta i rituali che crea e mette in atto con il suo cane Basmati - una forma di comunicazione in­ corporea; una coreografia, commenta Haraway, che esemplifica un rapporto di rispetto, nel senso etimologico del termine, nel senso cioè di restituire lo sguardo, imparare a rispondere e a rispondersi, ed essere responsabile. Ma possiamo anche leggerla nel quadro, molto empirico e al tempo stesso speculativo, di ciò che il sociologo Gabriel Tarde chiamava iperfisiologia, una scienza sulla disposizione dei corpi. In questa prospettiva, il corpo ristabilisce un legame con l'affermazio­ ne di Spinoza: diventa il luogo di quello che può colpire ed essere colpito. Un sito di trasformazioni. In primo luogo, sottolineiamo che ciò che Smuts mette in atto è la possibilità di diventare non esattamente l'altro nella me­ tamorfosi, ma con l'altro; non per sentire quello che l'altro pensa o sente, come vorrebbe l'ingombrante presenza dell'empatia, bensl per ricevere e creare in qualche modo la possibilità di entrare in una relazione di scambio e prossimità che non ha niente a che vedere con una relazione di identificazione. In effetti, c'è una sorta di «agi­ re come se» che sfocia nella trasformazione di sé, un artificio deli­ berato che non ha né può avere pretese di autenticità o di fusione romantica, spesso evocata nelle relazioni uomo-animale. Smuts insiste su un fatto che conferma quanto siamo distanti dalla versione romantica di un piacevole incontro: il momento in cui i babbuini hanno iniziato a farle comprendere la possibilità del conflitto, lanciandole sguardi ostili. La possibilità del conflitto, e del relativo negoziato, è la condizione stessa della relazione. Sempre nell'ambito della primatologia dei babbuini, ritrovia­ mo una declinazione diversa dell'uso del corpo negli scritti di un'al­ tra studiosa, Shirley Strum. Come racconta nel suo libro Umano o quasi, uno dei problemi che ha riscontrato fin dall'inizio del suo la­ voro sul campo era sapere cosa potesse o non potesse fare con il pro­ prio corpo, in presenza dei babbuini: per esempio, quando si trattai��--

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va di rispondere a un bisogno urgente, come urinare. Allontanarsi, nascondersi dietro il camioncino parcheggiato abbastanza lontano, poneva un dilemma vero e proprio: è quasi matematicamente sicuro (ho sentito parecchi ricercatori esprimere gli stessi timori all'inizio delle loro attività sul campo) che proprio mentre si è via, si verifica­ no cose interessanti e speciali. Alla fine Strum decide, non senza qualche timore, di non andare più dietro il camioncino. Si spoglia con molta cautela, guar­ dandosi intorno. Ebbene, i babbuini, racconterà poi, sono stupiti dal rumore. In effetti, fino ad allora, non l'avevano mai vista man­ giare, bere o dormire. Ovviamente, conoscono gli umani ma non si avvicinano a loro e probabilmente, suppone Strum, li credono privi di bisogni fisici. Nel momento in cui hanno scoperto che non è così, ne hanno tratto alcune conclusioni. E la volta successiva, non hanno mostrato alcuna reazione. Partendo dalle descrizioni di Strum, possiamo solo avanza­ re ipotesi. I suoi successi dipendono certamente da un numero di elementi sul campo, dal suo lavoro, dalle sue qualità di osservatri­ ce, dalla sua immaginazione, dalla sua capacità di interpretare e di mettere in relazione eventi che non risultano collegati. Un successo dovuto anche al tatto che ha sempre manifestato nell'organizzare l'incontro con gli animali, come dimostra quando si chiede: va bene urinare davanti ai babbuini? Ma non posso fare a meno di pensare che la sua riuscita - la relazione straordinaria che è riuscita a costru­ ire con loro - abbia a che fare, anche, con ciò che gli animali hanno scoperto quel giorno: che anche lei, come loro, aveva un corpo. Dagli scritti di Shirley Strum e di Bruno Latour sulla società dei babbuini e sulla complessità delle loro relazioni, si capisce che probabilmente la scoperta non era insignificante per le scimmie. Poiché non vive in una società materiale, poiché nessun aspetto delle relazioni sociali può essere stabilizzato e ogni piccolo sconvol­ gimento in una relazione si ripercuote sulle altre in modo impre­ vedibile, ogni babbuino deve compiere, di continuo, un lavoro di negoziato e di rinegoziato per tessere e ritessere il filo delle alleanze. Il ruolo sociale richiede creatività: si tratta di costruire quotidiana­ mente un fragile ordine sociale, poi di reinventarlo, di ristabilirlo. Per farlo, il babbuino ha a disposizione solo il proprio corpo. Quello che poteva sembrare un aneddoto, forse per i babbuini è stato un evento: questo essere strano, di un'altra specie, da certi punti di vista ha un corpo simile al loro. Ma questa interpretazione regge? Strum si sarebbe «socializ­ zata», nel senso di Smuts, cioè sarebbe diventata un essere sociale

agli occhi dei babbuini, mostrando un corpo in parte simile al loro? Ovviamente, si tratta di ipotesi. Questi due episodi ne ricordano un altro, raccontato dal bio­ logo Farley Mowat. Ma non rientra nella letteratura propriamente scientifica - del resto, i suoi scritti sono oggetto di pesanti contesta­ zioni - e inoltre presenta una serie di rovesciamenti di ruolo. Da una parte, questa storia rivela più una trasgressione delle buone maniere che un'effettiva volontà di essere un ospite accettabile; dall'altra, considerando la testimonianza di Smuts, capovolge completamente la domanda: non sono gli ospiti che chiedono di essere gentilmente tenuti in considerazione come esseri sociali, ma è l'osservatore. La storia di Mowat comincia alla fine degli anni Quaranta del secolo scorso, quando il biologo viene invitato a guidare una spedizione per valutare gli effetti della predazione dei lupi sui ca­ ribù. La prova si rivela assai dura. Mowat passa un periodo piutto­ sto lungo, da solo nella tenda, a osservare i lupi, nel bel mezzo del territorio del loro branco. Come prescrivono le regole stabilite da Smuts, il biologo cerca di essere il più discreto possibile. Tuttavia, man mano che passa il tempo, gli diventa sempre più difficile ac­ cettare che i lupi lo ignorano completamente. Per loro non esiste; passano quotidianamente davanti alla sua tenda senza manifestare alcun interesse. Mowat cerca quindi un modo per obbligarli a riconoscere la sua esistenza. Diventa necessario, sostiene, ricorrere al metodo dei lupi e rivendicare un diritto di proprietà. E così, una notte passa all'azione, approfittando del fatto che si erano allontanati per cac­ ciare. Ha bisogno di tutta la notte ... e di litri di tè. Ma all'alba, ogni albero, ogni cespuglio e ogni ciuffo d'erba, che erano stati marcati dai lupi, ora lo sono da lui. Mowat attende il ritorno del branco, non senza apprensione. Come sempre, i lupi passano davanti alla sua tenda come se non ci fosse, finché uno non si ferma, attonito. Dopo alcuni minuti di esitazione, il lupo torna indietro, si siede e si mette a fissare l'osser­ vatore con un'intensità inquietante. Il biologo, angosciato, decide di girargli le spalle, per fargli capire che questa insistenza viola le più elementari regole di cortesia. Allora il lupo si mette a percorrere tutto il terreno e a propria volta lo marca meticolosamente. Da quel momento, sostiene Mowat, il suo territorio viene riconosciuto dai lupi, e tutti - lupi e umano - passano regolarmente uno dietro l'altro per rinfrescare le tracce, ciascuno sul proprio lato del confine. Al di là dei rovesciamenti di ruolo, questi episodi si inquadra­ no in una tipologia molto simile: quella che caratterizza le situazioni

in cui degli esseri imparano a chiedere che ciò che è importante venga tenuto in considerazione, oppure a rispondere a tale richiesta. E lo apprendono con un'altra specie. Ecco cosa rende particolar� mente interessanti e speciali i progressi scientifici, per cui imparare a conoscere l'oggetto delle nostre osservazioni è subordinato al fatto di imparare, prima di tutto, a riconoscersi.

Delinquenti

Gli animali si possono ribellare?

/-·· --, / i&Ue spiagge di un'isola dei Caraibi, Saint Kitts, umani e cer, �-:::::. 'copitechi verdi (Chlorocebus pygerythrus) condividono il sole, s la sabbia e ... i cocktail al rum. Il verbo «condividere» traduce nel modo più efficace la comprensione che le scimmie sembrano avere della situazione, rispetto a quella degli umani che cercano, quanto più possibile, di proteggere le proprie bevande. Senza riuscirci più di tanto; i loro rivali sono seriamente motivati. L'abitudine dei cercopitechi è ben radicata: si ubriacano da oltre trecento anni, da quando arrivarono sull'isola insieme agli schiavi destinati a lavorare nelle fabbriche di rum. I cercopitechi vi presero gusto, raccogliendo nei campi le canne da zucchero fermen­ tate. Oggi le scimmie da raccoglitrici sono diventate scroccone e gli umani hanno a che fare con esseri che aggiungono un significato inedito a quello che da molto tempo viene chiamato il «flagello della società». Non tutto è perduto. Quelle scimmie dovevano pur inse­ gnarci qualcosa, oppure risolvere l'uno o l'altro dei nostri problemi. I commenti ai video sulla loro vicenda ci portano in qualche modo a questa conclusione. Il Consiglio sanitario del del Canada e la Fon­ dazione delle scienze del comportamento dell'isola di Saint Kitts hanno lanciato un programma di ricerca con mille cercopitechi in custodia, ai quali sono stati distribuiti diversi tipi di bibite. Sul­ la base dei dati raccolti, i ricercatori hanno concluso che la per­ centuale del consumo di alcol da parte delle scimmie si allinea a quella degli umani: da un lato, buona parte dei cercopitechi sembra preferire i succhi e le bibite non alcoliche; dall'altro, il 12% sono bevitori moderati, mentre il 5% si è spinto fino all'ubriachezza to-

tale, rotolandosi letteralmente sotto i tavoli. Le femmine sembrano presentare una tendenza all'alcolismo inferiore e quando, malgrado tutto, si danno a questa cattiva abitudine, preferiscono comunque le bevande zuccherate. Anche i comportamenti sotto l'effetto dell'alcol hanno una suddivisione analoga a quella degli umani: nei contesti sociali, al­ cuni bevitori sono allegri e vivaci; altri diventano malinconici, altri ancora litigiosi. I bevitori moderati hanno abitudini che i ricerca­ tori hanno definito da «bevitori sociali»: preferiscono consumare fra mezzogiorno e le 16, piuttosto che di mattina - a differenza degli alcolisti - e presentano una spiccata preferenza per l'alcol mescolato all'acqua, piuttosto che per le bevande zuccherate. E se i ricercatori rendono disponibile l'alcol solo in un orario ridotto, si intossicano in men che non si dica, fino al coma. È anche stato osservato che monopolizzano la bottiglia, impedendo a chiunque di avvicinarvisi. Si tratta, ci dicono, di modalità di fruizione simili alle nostre. I ricercatori concludono che esisterebbe una predisposizione genetica al consumo di alcol. Ecco una buona notizia: finalmente abbiamo una spiegazione che ci libera da tutti i dettagli che compli­ cano inutilmente le situazioni, come i bar, i weekend, i fine mese e i dopo cena, il bere per dimenticare, le occasioni di festa, la solitu­ dine, la miseria sociale, l'ultimo bicchiere e il penultimo, l'industria del rum, la storia della schiavitù, delle migrazioni e della colonizza­ zione, il tedio della prigionia e tanto altro ancora. Tornando alla delinquenza, un po' dappertutto si moltipli­ cano i casi di animali che creano problemi. Può essere divertente, o tragico. In Arabia Saudita i babbuini hanno ormai la reputazione dei topi d'appartamento: si introducono nelle case per svaligiare i frigoriferi. Quanto alle rapine, il 4 luglio 2011 il quotidiano «Guar­ dian» ha riportato la notizia che in un parco nazionale dell'Indo­ nesia un cinopiteco (Macaca nigra) aveva rubato l'apparecchio del fotografo David Slater e l'aveva restituito solo dopo aver scattato un centinaio di foto, principalmente autoscatti. Racket ed estorsioni: sempre in Indonesia, leggiamo, i maca­ chi del tempio di Uluwatu, a Bali, rubano le macchine fotografiche e le borse ai turisti, restituendole solo in cambio di cibo. In generale, i furti perpetrati da animali in luoghi frequentati da turisti sono in­ numerevoli. Talvolta si accompagnano ad aggressioni.

È più drammatico il fatto che, da qualche anno, assistiamo a un mutamento piuttosto brusco nel comportamento degli elefanti.

Alcuni, per esempio, hanno assaltato villaggi nell'Uganda occidentale e a più riprese hanno bloccato completamente le strade. I conflitti fra umani ed elefanti hanno sempre avuto luogo, soprat­ tutto per via della competizione per lo spazio e il cibo. Ma in que­ sto caso c'è dell'altro, perché il cibo era abbondante e i pachidermi poco numerosi. Oltretutto, episodi simili si sono verificati un po' ovunque in Africa e tutti gli osservatori hanno constatato che gli elefanti non si comportano più come negli anni Sessanta. Alcuni scienziati evidenziano l'emergere di una generazione di «adolescenti delinquenti», a causa del degrado dei processi di so­ cializzazione che, normalmente, avvengono in ogni branco; un de­ grado dovuto, a sua volta, agli ultimi venti anni di intenso bracco­ naggio, e ai programmi di soppressione attuati dai responsabili della gestione della fauna. In questi programmi, detti di prelievo, e secon­ do una scelta che rimane discutibile - ma tutte lo sono -, in diversi branchi sono state eliminate le femmine più anziane, senza rendersi conto delle conseguenze catastrofi.che per il gruppo. Hanno avuto effetti simili altre strategie, con il medesimo obiettivo di contrasta­ re la sovrappopolazione locale, che prevedevano lo spostamento di alcuni esemplari giovani per ricostituire un branco altrove. In effetti, nei gruppi le matriarche hanno un ruolo fonda­ mentale. Sono la memoria della comunità; regolano le attività; trasmettono ciò che sanno ma, soprattutto, sono essenziali all'e­ quilibrio del gruppo. Quando il branco incontra altri elefanti, la matriarca può riconoscere, dalla «firma vocale» di questi ultimi, se sono membri di un clan più ampio o se sono molto distanti; e indica il modo appropriato per organizzare l'incontro. Una volta presa la decisione e trasmessa agli altri, il gruppo si tranquillizza. Praticamente, dei branchi che erano stati ricostituiti in un parco in Sudafrica all'inizio degli anni Settanta del secolo scorso, non ne sopravvive nessuno. L'autopsia sui cadaveri ha mostrato ul­ cere allo stomaco e altre lesioni, correlate in genere allo stress. Gli animali sono incapaci di farvi fronte in assenza della matriarca, l'u­ nica in grado di assicurare uno sviluppo e un equilibrio nella norma. Quando gli elefanti hanno iniziato ad attaccare gli umani senza una ragione apparente, si è quindi ipotizzata la perdita dei punti di riferimento e delle competenze acquisite in passato, nel lungo percorso di socializzazione tipico di questa specie. Alcuni ri­ cercatori hanno anche sostenuto che gli animali soffrirebbero, come gli umani, di sindromi post traumatiche, una patologia che li ren­ derebbe incapaci di gestire le emozioni, di affrontare gli stress e di

controllare la violenza. Ipotesi, come possiamo vedere, che tessono una rete sempre più stretta di analogie con i comportamenti umani. Sulla base del recente libro di Jason Hribal, si potrebbe avan­ zare anche un'altra ipotesi. Lo storico si sofferma su episodi che ne­ gli zoo e nei circhi hanno coinvolto gli elefanti e che a lungo sono stati definiti «incidenti». Questi «incidenti», nel corso dei quali gli animali attaccano, feriscono o uccidono esseri umani, sarebbero atti di rivolta e ancora più precisamente di resistenza di fronte agli abusi di cui gli animali stessi sono vittime. Hribal si spinge oltre: tali atti indicherebbero, dietro la loro apparente brutalità, una coscienza morale negli animali ( � Giustizia). Vediamo anche qui che il metodo delle analogie alimenta le narrazioni. Quello che in passato era qualificato come incidente, oggi appare il risultato di atti intenzionali i cui motivi si possono indicare, e comprendere. Non dimentichiamo ciò che il termine «incidenti» occultava, nel caso dei circhi e degli zoo; e anche, ov­ viamente, il fatto che in tal modo si rassicurava il pubblico sull'ec­ cezionalità di un determinato evento: l'incidente identifica le si­ tuazioni prive di intenzionalità. Ma si definivano così anche quei comportamenti che venivano attribuiti all'istinto dell'animale, il che escludeva altrettanto certamente l'idea che quest'ultimo potes­ se avere un'intenzione o un motivo ( r,;l;;, Fare scienza). L'interpretazione che la tesi di Hribal dà degli «incidenti» - in termini di disapprovazione, indignazione, rivolta o resistenza attiva - non è una novità. Meno diffusa fra gli scienziati dalla fine del diciannovesimo secolo, la si ritrova tuttora presso i «profani appassionati»: addestratori, allevatori, addetti, guardiani degli zoo. Tuttavia, essa è riuscita a imporsi in una situazione recente che, inequivocabilmente, ha lasciato pochi dubbi sul modo di essere in­ terpretata. Se ne è parlato molto agli inizi del 2009, quando in Rete sono circolate le immagini e alcuni giornali vi hanno dedicato spa­ zio: Santino, uno scimpanzé dello zoo di Furuvik, a nord di Stoccol­ ma, prende regolarmente a sassate i visitatori che passano 11 vicino. La cosa più sorprendente è che i ricercatori che si sono interessati a questa storia hanno constatato che Santino programma i colpi e.on cura. Ammassa le pietre sul lato della gabbia su cui si affacciano i turisti; lo fa la mattina, prima che arrivino, e le nasconde. Invece non lo fa nei giorni in cui lo zoo è chiuso al pubblico. E quando non ha più pietre da lanciare, fabbrica proiettili con pezzi di cemento

che trova nel recinto. Secondo i ricercatori, tutto questo dimostra capacità cognitive abbastanza sofisticate: la possibilità di anticipare e soprattutto di pianificare il futuro. Non c'è alcun dubbio che San­ tino abbia messo le proprie competenze al servizio dell'espressione della propria disapprovazione. Il fatto che gli scimpanzé utilizzino proiettili come armi si era già osservato negli incontri fra gruppi. Molto spesso sono stati visti utilizzare le proprie feci - ed è vero che nei recinti degli zoo si tratta magari dell'unica arma a disposizione, ma accade anche in natura. È cosl che talvolta accolgono un loro congenere estraneo, o un uma­ no sconosciuto. Vari ricercatori l'hanno imparato a proprie spese. Robert Musi! diceva che la scienza ha trasformato i vizi in virtù: cogliere le occasioni, adottare piccole astuzie, tener con­ to dei dettagli più infimi per trame vantaggio, coltivare l'arte del voltafaccia e delle reinterpretazioni opportunistiche. Una ricerca che rientra a pieno titolo in questa descrizione è quella condotta da William Hopkins e dai suoi colleghi. Non so se è davvero necessario aggiungere che testimonia un notevole senso di dedizione alla causa del sapere; è facile rendersene conto leggendo il protocollo e consi­ derando la durata dell'esperimento: oltre vent'anni. La domanda che guida Hopkins «ci» riguarda - notiamo che di rado va in modo diverso, quando si interrogano gli scimpanzé nell'ambito di un esperimento. Rientra nel grande progetto di chia­ rire le nostre origini e, più modestamente, l'origine di certe nostre abitudini acquisite nel corso dell'evoluzione. In questo caso, si trat­ ta di capire per quale ragione la maggior parte degli umani privilegia la mano destra. E un «dettaglio», a partire dal quale però sono state formulate varie ipotesi. Secondo quella su cui si concentra Hopkins, l'uso della mano destra si sarebbe sviluppato con i gesti di mira orientati alla comu­ nicazione. Lanciare verso un bersaglio, e quindi prendere la mira, non coinvolge solo i circuiti responsabili dei comportamenti inten­ zionali di comunicazione, ma richiede anche di sincronizzare con precisione dati parziali e temporali. Il gesto, quindi, attiverebbe cir­ cuiti neuronali che potrebbero rivelarsi essenziali nell'acquisizione del linguaggio. In altri termini, la pratica di lanciare cose potrebbe essere stata un fattore determinante a favore della specializzazione dell'emisfero sinistro nelle attività di comunicazione. Ed ecco il problema in cui gli scimpanzé sono coinvolti: poi­ ché vengono «proprio prima di noi» nel cammino evolutivo, sono

destrorsi? Come convincerli a rispondere a questa domanda? Lo si è indovinato, semplicemente, dalla loro tendenza a lanciare cose. In­ fatti, agli scienziati non era sfuggito che, nel corso dei primi incontri con gli scimpanzé, questi ultimi avevano la riprovevole abitudine di gettare le proprie feci addosso ai visitatori. Riprovevole, certo, finché proprio quest'abitudine non è diventata una strada maestra verso la conoscenza. Vent'anni! Per vent'anni i ricercatori si sono prestati a fare da bersaglio al lancio di escrementi, raccogliendo con ammirevole abnegazione tanti dati che, certamente, un giorno chiariranno uno dei misteri dell'umaniz­ zazione. Lo studio, iniziato nel 1993 con gli scimpanzé dello Yerkes National Primate Research Center, dieci anni dopo ha coinvolto quelli del Centro di ricerca contro il cancro dell'università del Te­ xas - en passant, quando sappiamo quello che devono subire gli scim­ panzé in un centro ricerche, possiamo immaginare che la proposta sperimentale dei ricercatori abbia goduto della loro approvazione. 58 maschi e 82 femmine sono stati osservati lanciare almeno una volta; ma lo studio è proseguito solo con 89 di loro perché, per avere risultati concreti, era necessario che le scimmie mostrassero questo comportamento almeno sei volte. Con un punteggio mini­ mo di sei lanci a scimpanzé in vent'anni, si va ben oltre il quadro dei primi incontri - a meno di pensare che i ricercatori abbiano reclutato un esercito di umani disponibili a impersonificare il ruolo dell'individuo sconosciuto, il che non viene però riportato. Certo, gli scimpanzé possono ricorrere a questo metodo in altri contesti, per esempio negli scontri, oppure quando vogliono attirare l'atten­ zione di uno scimpanzé o di un umano distratto. Gli scienziati han­ no quindi avuto a disposizione più strategie. Però possiamo avanzare anche un'altra ipotesi: gli scimpanzé hanno capito cosa i ricercatori si aspettavano da loro, e hanno edu­ catamente eseguito, senza essere troppo rigidi sulla regola della non familiarità. Chissà, fra tutte le buone ragioni, quale li ha motivati. .. Fra il 1993 e il 2005 sono stati osservati 2.455 lanci - ma i ricercatori sono stati bersaglio di un numero superiore, perché nel loro calcolo non si è tenuto conto dei tentativi delle scimmie meno costanti, le lanciatrici occasionali. Di sicuro, ne è valsa la pena; i risultati sono convincenti: in questo campo, gli scimpanzé sono in maggioranza destrorsi.

Esibizionisti

Gli animali si vedono come li vediamo noi?

;:;:· ·• n)m bellissimo articolo in�itol�to Il caso degli o�angutan disobbe­ . _ 1 'v----4ienn, la filosofa ed educatrice d1 cani e cavalli V1cky Hearne rac­ .èèiiita che, quando hanno chiesto a Bobby Berosini cosa motivasse i suoi orangutan a lavorare, la sua risposta è stata: «Siamo attori. Noi siamo attori, capite?». In primo luogo, c'è questo «noi». È vero che la forma stessa dello spettacolo di Berosini potrebbe agevolarne l'utilizzo, perché il copione continua a mescolare ruoli e identità. All'inizio dello show, Berosini racconta al pubblico che spesso gli chiedono come riesca a far fare delle cose ai suoi orangutan. E lui risponde: «Bisogna mo­ strare loro chi è il capo». Si offre di darne una dimostrazione: chia­ ma l'orangutan Rusty e gli chiede di salire su uno sgabello. Rusty lo guarda, mostrando di non comprendere. Berosini gli spiega facendo grandi gesti. L'espressione di Rusty si fa sempre più perplessa. Alla fine Berosini decide di fargli vedere, salta sullo sgabello... e l'oran­ gutan invita il pubblico ad applaudire l'umano. Lo spettacolo pro­ cede cosl, con una serie di scambi di ruoli e di posizioni, soprattutto quando gli orangutan si ostinano a rifiutare i dolci che ricevono a ogni azione correttamente eseguita e cercano di distribuirli al pub­ blico, oppure di indurre Berosini a mangiarli. «Noi siamo attori». Ci sono molti modi per costruire un «noi», come continuiamo a sperimentare ogni giorno. In che modo possiamo comprendere questo «noi» che sembra giustificato dallo spettacolo di Berosini e degli orangutan? In primo luogo, potremmo pensare che la relazione di domesticazione sia una condizione privi­ legiata per acquisire questa competenza condivisa. L'ipotesi sarebbe

pertinente in altri contesti, ma qui non è applicabile. La domesti­ cazione implica che esseri umani e animali si siano trasformati a vicenda nel lungo processo che ha come risultato umani addomesti­ catori e animali addomesticati. Ma gli orangutan non sono animali addomesticati. Anche l'aggettivo selvatici non sembra appropriato. Potrebbero essere con­ siderati, insieme al loro addestratore Berosini, come specie compagne, per riprendere la bella espressione di Donna Haraway, e potrebbero anche dare un nuovo significato all'etimologia su cui quest'ultima si basa: non solo sono specie cum-panis, specie che condividono il pane, sono specie che insieme si guadagnano il pane. Il «noi» che li riunisce potrebbe allora consistere nel «fare delle cose» insieme ( e:> Job) e probabilmente è così. Ma la condizione di Berosini e dei suoi oranghi presenta un'ulteriore dimensione. Non li unisce un lavoro qualunque, bensì un lavoro di spettacolarizzazione, un'esibizione. Di conseguenza, ciò che Berosini mette in scena e crea con lo spettacolo sarebbe una figura particolare di questa possibilità di dire «noi», quella frutto dell'esperienza particolare dell'esibizione: la possibilità di scambiare prospettive. Attenzione, procediamo per gradi. Prima di tutto, quella che io attribuisco come caratteristica propria all'esibizione in generale potrebbe essere solo una conseguenza del tipo di scenario scelto da Berosini. Lo spettacolo degli orangutan disobbedienti radicalizza questa esperienza di scambio di prospettive, perché ognuno dei pro­ tagonisti viene continuamente invitato, nel corso delle gag e dello scambio dei ruoli, ad adottare il ruolo dell'altro: le scimmie quello dell'addestratore, e viceversa, senza che si sappia bene chi controlla chi. Ognuno si presta al gioco, palesemente di fantasia, di vivere l'esperienza dal punto di vista dell'altro mettendosi, letteralmente, nei loro panni. Tuttavia, ci possiamo chiedere: non potremmo immagina­ re che Berosini, con il suo spettacolo, abbia solo portato al limite estremo una delle possibilità dell'esperienza stessa dell'esibizione, ossia la capacità di adottare il punto di vista di uno o degli altri? La prospettiva del soggetto che si finge di essere, del soggetto per cui lo si fa, e di colui che chiede di farlo. Inoltre, cosa parecchio più problematica, è -evidente che molti animali - la maggior parte - messi in mostra negli zoo o nei circhi vivono ogni giorno l'esperienza tragica della separazione fra «loro» e «noi» ( mi> Delinquenti; � Gerarchie). È perché sono animali e non umani, che vengono esibiti, rinchiusi, esposti agli

sguardi e costretti a eseguire una quantità di azioni che visibilmente non hanno alcun interesse per loro e li rendono infelici. In queste storie, non c'è né «noi» né, ancor meno, la possibilità di scambiare prospettive, e se noi ne fossimo attivamente capaci, gli animali non sarebbero dove sono. Lo riconosco. Ma non vorrei che si dimenticassero le situazioni, senza dub­ bio più eccezionali, che all'opposto rendono questi eventi possibili, situazioni in cui si creano «noi» e si scambiano prospettive: sono riconoscibili dal rovesciamento delle conseguenze a cui ho appena accennato en passant: gli animali vi trovano interesse e sono visibil­ mente a proprio agio, un'altra espressione per dire che sono conten­ ti in un'accezione non troppo distante da ciò che definiamo «essere contenti». In che modo un'esibizione potrebbe favorire gli scambi di prospettive e sfociare in questa possibilità di costruire dei «noi» certo, parziali, circoscritti e sempre provvisori? Leggendo le testimo­ nianze di allevatori, addestratori, persone che praticano l'agility con gli animali, mi è parso che la spettacolarizzazione possa provocare, suscitare o implicare una competenza particolare: quella di immagi­ nare di potersi vedere con gli occhi dell'altro. Faccio notare che questa possibilità attiene a un significato limitato del prospettivismo che caratterizza il nostro modo di vedere i rapporti con il mondo e con gli altri. Altre tradizioni hanno inven­ tato altre figure e, in particolare, in riferimento agli studi dell'antro­ pologo Eduardo Viveiros de Castro presso le popolazioni amerindie, una forma secondo cui gli animali si percepirebbero come si per­ cepiscono gli umani stessi: il giaguaro si vede come un umano e, per esempio, quello che per noi è il «sangue» della sua preda, lui lo considera birra di manioca; quello che per noi è il suo manto, lui lo considera un abito. Vedere gli animali come prospettivisti in questo senso ristret­ to ci fa valutare in modo completamente diverso il vecchio proble­ ma del cosiddetto «mentalismo». Gli animali mentalisti sono capa­ ci di attribuire intenzioni agli altri ( � Bestie; e;,.'> Ingannatori). Gli scienziati concordano sul fatto che questa capacità si fonda su un'altra: quella di avere coscienza di sé che, sempre secondo questi scienziati, può essere verificata sulla base di una prova - riconoscersi allo specchio ( � Happy). Per riassumere, gli scienziati (stavolta) possono affermare che gli animali capaci di riconoscersi allo specchio hanno coscienza di sé; e si possono quindi candidare alla prova, superata la quale otterranno il titolo di «detentori» di una competenza gerarchica-

;à} Opere).

Tomo a parlare dell'esibizione in quanto situazione che atti­ va capacità prospettiviste: da che cosa si riconosce il fatto che un animale si esibisca attivamente? La mia risposta potrebbe sorpren­ dere: dal fatto che chi se ne occupa la descrive come tale. In particolare, è quanto risulta dalla lettura degli scritti di Vicki Heame sul lavoro di istruttore, nonché dall'inchiesta che abbiamo condotto con Jo­ celyne Porcher presso alcuni allevatori, dove abbiamo notato che la tematica dei concorsi per gli animali attivava, negli allevatori intervistati, una tipologia di descrizioni non solo chiaramente pro­ spettivista, ma in un senso che sembra avvicinarsi a quello definito da Viveiros de Castro. Infatti secondo certi allevatori, in queste situazioni i loro ani­ mali sono capaci di vedersi come ci vedremmo noi stessi se fossimo al loro posto. Alcuni, come i portoghesi Acacia e Antonio Maura, del resto non esitano ad affermare che la loro mucca, a forza di concorsi, «finirà per credere di essere davvero speciale e unica». Il primo, un po' più serio, aggiunge che «forse finirà per credere di essere bella, una vera diva». La parola passa agli allevatori belgi e francesi: «Avevo un toro che partecipava a concorsi, credo che sapesse di essere

bello perché quando gli scattavano una foto, subito alzava un po' la testa. Sembrava che si mettesse in posa, praticamente una star!».

Bemard Stephany e Paul Marty lo confermano - l'animale sa e partecipa attivamente alla messinscena: «Quella mucca era una star e come tale si comportava, come se fosse

una persona che partecipava a una sfilata di moda, cosa che ci aveva

impressionati[ ... ]. Sul podio, la mucca ha guardato, si è messa in posa, davanti alla tribuna, così, e là c'erano i fotografi. Li ha fissati e, lenta­ mente, mentre il pubblico applaudiva, ha girato la testa nella sua dire­

zione[ ... ]. Si sarebbe detto che capiva che doveva fare così. Oltretutto era magnifica, perché molto spontanea».

Ciò che riferiscono gli allevatori - ma l'ho sentito anche da addestratori di cani - si può riassumere così: animali e persone sono riusciti a mettersi d'accordo su quello che è reciprocamente impor­ tante, hanno fatto sì che ciò che importa ai primi importi anche alle seconde. So che queste testimonianze potrebbero suscitare commenti ironici, che si aggiungeranno alla lunga storia di denigrazione ri­ servata dagli scienziati ai loro «antagonisti» nella conoscenza de-

gli animali: appassionati, allevatori, addestratori, i loro aneddoti e l'inscalfibile antropomorfismo ( 9 Fare scienza). Queste ironie, inoltre, sottolineano l'imprecisione con cui io stessa ho posto il pro­ blema, affermando che una situazione di esibizione attiva e prospet­ tivista si riconosce dal fatto che chi si occupa del!' animale lo descrive come tale. È vero che sono pochi gli scienziati di laboratorio che attri­ buiscono ai propri animali la volontà di mostrare, attivamente, che vogliono davvero fare ciò che viene loro proposto, e sanno farlo bene. E non è un caso. Infatti, se gli psicologi sperimentali ne tenes­ sero conto, sarebbero obbligati ad ammettere che gli animali non stanno semplicemente «reagendo», non vengono semplicemente condizionati, ma mostrano ciò di cui sono capaci perché è stato loro richiesto (�Reazione). Nella maggior parte dei laboratori, si mostra qualcosa a proposito degli animali; gli animali non mostrano niente. E per questo motivo che la pratica del condizionamento, per esempio, ha a che fare con la dimostrazione, non con lo spettacolo. Ed è per questo motivo che non esiste un soggetto di prospettive in questo tipo di pratiche. Ecco ciò di cui Berosini si prende gioco, con i suoi orangutan che redistribuiscono i dolci. La sua parodia del condizionamento che gli si ritorce contro riapre la questione del rafforzamento come motivazione. Infatti, la ricompensa alimentare, nel meccanismo del condizionamento, chiude definitivamente la questione: «Per­ ché fanno questo?». La ricompensa, insomma, riduce notevolmen­ te la prospettiva, cancellando la gamma di spiegazioni complicate, o di spiegazioni che obbligherebbero a tenere conto delle ragioni per cui l'animale si può interessare a quanto gli viene proposto (,-,--::,,,Laboratori). La ricompensa alimentare, per dirlo in un altro modo ancora, è la motivazione capace di tagliare l'erba sotto i piedi della prospettiva. Quindi, affermando che possiamo riconoscere una situazio­ ne caratterizzata da esibizione e prospettivismo dal fatto che chi si occupa dell'animale lo desèriva come tale, non suggerivo affatto di pensare che tutto è unicamente questione di soggettività o di inter­ pretazioni. Proprio il descrivere non riflette solo l'impegno di chi propo­ ne questa descrizione, ma vincola e modifica coloro che si lasciano vincolare da essa, coloro che la descrizione armonizza in un registro inedito. In questo senso, ciò che la mia formulazione indica come «descrizione» corrisponde a una proposta che è stata accolta e che, a questo punto, può caratterizzare la riuscita di tale accoglienza.

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Forse i laboratori ne guadagnerebbero, se gli scienziati li con­ cepissero come luoghi in cui gli animali si esibiscono. Così torne­ rebbero a una definizione letterale della dimensione pubblica della pratica scientifica (dimensione che, in genere, viene assicurata dalla pubblicazione degli articoli) e al tempo stesso le darebbero una di­ mensione estetica. Alla routine dei protocolli ripetitivi, gli scienziati sostitui­ rebbero prove inventive attraverso cui gli animali potrebbero mo­ strare di che cosa sono capaci quando ci si prende la briga di fare loro proposte in grado di interessarli. I ricercatori esplorerebbero temati­ che inedite che avrebbero senso solo se accolte dai destinatari. Ogni sperimentazione diventerebbe quindi una vera performance, che ri­ chiede tatto, immaginazione, sollecitudine e attenzione, le qualità dei buoni addestratori e forse degli artisti (�Opere). Utilizzando il condizionale, come ho appena fatto, potrei dare a intendere che questi laboratori debbano ancora essere inven­ tati. Invece esistono già, e lungo questo alfabeto ne troveremo degli esempi. Alcuni coincidono con la mia descrizione; ma non posso garantire che i loro scienziati vi si riconoscerebbero. Però è pro­ prio questo lo status che attribuirei alle descrizioni: proposte sempre condizionate dall'accoglienza che riceveranno .

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Fare giustizia

Gli animali scendono a compromessi?

U

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·',,.

no dei guardiani del parco nazionale dei monti Virunga, ori\· ... . . ginario della tribù dei Lega nella zona centrorientale della Repubblica Democratica del Congo, tempo fa ha riferito a uno dei miei colleghi, Jean Mukaz Tshizoz, che in certi villaggi era stato concluso un accordo fra i leoni e gli abitanti; Jean ha risposto che non gli era sconosciuta, la nonna gliene aveva parlato; e che se ne possono trovare forme simili presso i Lega di altre regioni, presso i Lunda del Katanga e altri bantu. Secondo questo tipo di accordo, fra gli umani e i leoni regna la pace finché questi ultimi non attaccano i bambini. In caso con­ trario, si organizza subito la vendetta. Gli umani escono con i tam­ tam e vanno alla ricerca del colpevole scandendo un ritmo specifi­ co, destinato a informare i leoni che è in corso una caccia punitiva. Quando incontrano un felino isolato, generalmente il primo che vedono, lo abbattono. Il crimine è punito. Ovviamente, ci possiamo chiedere se sia il vero colpevole a essere ucciso, trattandosi del «primo venuto». La risposta parrebbe affermativa. Da una partè, se un leone è solo, lontano dal gruppo, spiegano gli abitanti, ci sono forti probabilità che sia un individuo desocializzato e che la sua condizione spieghi la trasgressione bruta­ le dei codici. Dall'altra, sostengono, il colpevole non è mai lontano dal villaggio, prova decisiva della sua colpevolezza, perché indica che ha preso gusto al sangue umano. Inoltre, segnala che sarà per sempre un deviante. Quindi, la punizione si rivela doppiamente ap­ propriata, sia come misura punitiva, sia come misura preventiva. Una volta castigato il colpevole, l'incidente non dovrebbe ripetersi,

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tanto più che, sempre secondo Jean, il suono dei tam-tam ha espli­ citamente l'obiettivo, per usare le sue stesse parole, di «lasciare una traccia negli spiriti», degli animali s'intende. Altri tempi, altri luoghi. Nella primavera del 1457, un crimi­ ne orribile sconvolse la popolazione del paese di Savigny-sur-Étang, quando venne rinvenuto il corpo di un bambino di 5 anni, ucciso e in parte divorato. I testimoni denunciarono all'autorità giudiziaria i sospettati, una madre e i suoi sei figli. Erano maiali. Ogni dubbio sulla loro colpevolezza fu fugato quando sugli animali si scoprirono tracce di sangue del bambino ucciso. I maiali assassini si ritrovarono in tribunale, l'aula gremita. Poiché erano indigenti, venne nomina­ to un avvocato d'ufficio. Esaminate le prove, davanti all'evidenza dei fatti il dibattimento si incentrò su problematiche legali. Alla fine, la madre fu condannata all'impiccagione. La sen­ tenza dei figli beneficiò invece dell'argomentazione convincente avanzata dall'avvocato: non avevano le capacità mentali necessa­ rie, agli occhi della legge, perché quell'atto si potesse definire un crimine. Furono dunque affidati alla tutela dello Stato, che dovette provvedere ai loro bisogni. Certo, le due storie non hanno molto in comune, se non il fatto che esseri umani e animali si ritrovano a gestire conflitti secondo regole che rientrano nella sfera della giustizia. Potremmo insistere sulle differenze: sono importanti e numerose, ma l'aspetto che mi interessa è che queste modalità di risolvere i conflitti pre­ suppongono che l'animale sia responsabile dei propri atti e si possa chiamare a risponderne. Sia per quanto riguarda i leoni che per i maiali, lo conferma il fatto che non si punisce chiunque e in un modo qualsiasi: è quel particolare leone ad aver trasgredito e non un altro; è la madre a essere ritenuta colpevole, non i figli. Molti animali, in Europa e nell'America colonizzata, sono stati oggetto di processi veri e propri. Ne ritroviamo tracce fino agli inizi del diciottesimo secolo. La Chiesa processa gli animali quando distruggono i raccolti, quando sono coinvolti in attività sessuali con umani e anche quando sono imputati di stregoneria o di possessione diabolica. I tribunali secolari si fanno invece carico dei casi di danni fisici a terzi. Pratiche che ci sembrano esotiche, irrazionali, antropomor­ fiche. Spesso sono oggetto di incredulità e scherno. Tuttavia, questi processi testimoniavano una saggezza che, qua e là, riprendiamo a coltivare: la morte dell'animale non può essere automatica. Per de­ ciderla, doveva intervenire la giustizia, con tutto il rallentamento e la problematizzazione che le forme stesse della procedura giudiziaria

comportavano. Inoltre, i processi incentrati sul danneggiamento di raccolti o di beni umani da parte di animali, sovente passavano at­ traverso la ricerca di un compromesso. Lo dimostra questa sentenza del 1713, a Piedade no Maranhao in Brasile. Le termiti erano state ritenute responsabili della distruzione di una parte di un monastero, crollata dopo che ne avevano rosicchiato le fondamenta. L'avvoca­ to che venne loro assegnato ne perorò la causa in modo ingegnoso: le termiti, sostenne, sono creature industriose; lavorano duramente e Dio ha dato loro il diritto di nutrirsi. L'avvocato ne mise anche in dubbio la colpevolezza: secondo lui, la distruzione era stata piuttosto lo sciagurato risultato della negligenza dei monaci. Sulla base dei fatti e delle argomentazioni, il giudice obbligò i monaci a offrire una determinata quantità di legno alle termiti, che invece ricevettero l'ordine di lasciare il monastero e di «circoscrivere» la loro lodevole industriosità a quel mucchio di legno. Sotto certi aspetti, questi compromessi ricordano quelli che stiamo reinventando con gli animali. Sono evidenti quando si tratta di specie protette con cui dobbiamo imparare a scendere a patti: avvoltoi che piombano in numero davvero eccessivo sui carnai che prepariamo per loro; lupi con cui non è facile coabitare; lontre, mar­ motte ... Le risposte di questi animali alle nostre proposte di protezio­ ne dimostrano un «eccesso di riuscita», quindi dobbiamo immagi­ nare soluzioni, sempre arrangiate, rispetto alle conseguenze: come convinciamo gli avvoltoi a lasciare un po' di posto ad altre specie? Come negoziamo con le marmotte che approfittano a tutto spiano dei campi che gli agricoltori vorrebbero coltivare? Impedire ai primi l'accesso ai carnai, chiedere che se la sbrighino da soli, rende questi siti meno appetibili, e poi dovremmo affrontare altre conseguenze: alcuni avvoltoi, abbandonate le pratiche necrofile, attaccherebbero gli agnelli. Bisognerebbe di conseguenza trattare con gli allevatori. Quanto alle marmotte, per un po' squadre di volontari si sono mobilitate per catturarle e spostarle altrove. Poiché col tempo i vo­ lontari sono diminuiti e'si sono resi meno disponibili, si è pensato di offrire alle marmotte soluzioni contraccettive. Il che, però, pone problemi a sua volta, in particolare per gli ecologisti che insorgono contro trattamenti cosl poco naturali. Eppure, è proprio questa la forza del compromesso, come ha ben analizzato la filosofa Émilie Hache. Non si tratta, come l'in­ terpretazione riduttiva ha lasciato pensare a lungo, di scendere a patti con la morale, semmai con i nostri principi, quando si rivelano troppo limitati per «tener davvero conto di»:

«Quello che conta, per chi fa compromessi, non è tanto giudicare il mondo sulla base dei principi quanto trattare i diversi protagonisti con i quali si coabita e, per questo, essere pronti ad aggiustamenti nei loro confronti».

Questo nuovo modo di ricorre ai compromessi sembra con­ tagiare da qualche tempo i rapporti con altre specie che, pur non beneficiando di leggi a loro tutela, suscitano considerazioni abba­ stanza simili. Alcuni anni fa, un gruppo di corvi aveva scelto come domicilio un grande giardino abbandonato, nel centro di Lione. La coabitazione si era fatta sempre più difficile. Gli uccelli erano trop­ po numerosi e rumorosi, e le loro deiezioni causavano un grosso fastidio. Le lamentele di chi viveva in zona si moltiplicavano. La municipalité decise di mandare i cacciatori. Ma gli abitanti prote­ starono: non volevano che i corvi venissero uccisi. Ed ecco quale soluzione escogitarono: subito dopo la deposizione delle uova, in­ tervennero addestratori di uccelli rapaci, con poiane e falchi: dove­ vano «convincere» i corvi a fare il nido altrove - prendersela con le covate sembrava l'azione più decisiva. Nessuno pretende che la soluzione fosse giusta o ideale, e ri­ cordo bene il disagio, nel sentire i corvi gridare disperati, perché dovevano abbandonare le uova per sfuggire agli attacchi dei preda­ tori. Potevamo solo sperare che riuscissero a trovare una residenza dove la coabitazione fosse meno problematica; ma non potevamo garantirlo. La soluzione non era affatto innocente; non lo eravamo noi e non ci aspettavamo che lo fossero i corvi; stavamo imparando la difficile arte del compromesso. Tornando alle pratiche dei processi con cui pare che si pos­ sano individuare alcune analogie, resta la stranezza, ai nostri occhi, di situazioni in cui le bestie sono difese da avvocati, il che per certi aspetti conferisce loro lo status di persone. Soprattutto, vengono loro attribuite razionalità, volontà, motivazioni e, in particolare, l'intenzionalità morale. In altri termini, processarle significa accet­ tare l'idea che gli animali potrebbero avere il senso della giustizia. Idea che non è mai del tutto scomparsa, ma la sua applica­ zione è rimasta a lungo relegata fra i cosiddetti «aneddoti», termine che al tempo stesso nega ogni importanza e affidabilità agli even­ ti osservati ( I'.:$> Prestigio), cioè alle testimonianze di allevatori, proprietari di cani, addetti negli zoo o addestratori. Oggi la ritro­ viamo con maggiore insistenza nei saggi, sempre più numerosi, che chiedono un trattamento migliore per gli animali, oppure la loro liberazione. Gli animali che fuggono, si ribellano o aggrediscono gli umani agirebbero deliberatamente, attestando, attraverso la ri-

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bellione della loro coscienza, l'ingiustizia di cui sono vittime ( ,::> Delinquenti). Nel mondo scientifico, l'idea ci ha messo tempo ad affermar­ si, per numerose ragioni: mi limito a segnalare che, nel 2000, lo psi­ cologo lrwin Bemstein ricordò, ad alcuni colleghi che sembravano scettici, che la moralità nell'animale sembrava condannata a rima­ nere esclusa dall'ambito delle tecniche di misurazione disponibili nelle scienze. Un'idea vicina al senso della giustizia - o dell'ingiustizia inizia a fare capolino in qualche ricerca solo nel 1964, e in modo ancora relativamente timido, anche se ne trovo l'intuizione in un esperimento condotto nei primi anni Quaranta del secolo scorso dal biologo Leo Crespi: egli spiegò che la sua ricerca originariamente era incentrata sulla propensione dei ratti bianchi ai giochi d'azzardo - il che, sosteneva, gli era valsa la reputazione di colui che promuo­ veva roulette e vizio presso i roditori. Poiché i risultati non erano molto convincenti, Crespi spo­ stò l'attenzione su un altro problema che sembrava emergere dalle ricerche: l'effetto della variazione degli incoraggiamenti offerti ai ratti - di solito vengono definiti rinforzi, ma lo studioso li chiama «incitamenti». Quando si fanno correre i ratti nei labirinti, raggiun­ gono una velocità media che mantengono costante finché non rice­ vono l'attesa ricompensa. Se però, una volta confermati i risultati, si aumenta la ricompensa per una delle prove, i ratti corrono alla prova successiva molto più velocemente, anche di quelli ai quali, fin dalla prima prova, è stata offerta la stessa quantità di cibo. Quindi è importante la differenza fra ciò che il ratto si sen­ te in diritto di ricevere e ciò che effettivamente riceve, e non la quantità di incentivi. Possiamo anche osservare l'inverso: se si di­ minuisce la ricompensa durante l'esperimento, i roditori rallentano notevolmente alla prova successiva. Crespi dedusse che questi ratti nel primo caso manifestava­ no quella che egli chiamava l' «ebbrezza del successo» e, nel secon­ do, una reazione di delusione. In alcuni scritti utilizzava il termine «frustrazione», in altri «depressione»: sospetto che, alla scelta di quest'ultimo, non fosse indifferente il suo potenziale molto più pro­ mettente per le ricerche sulle patologie umane ('=>Moralità). La ricerca ovviamente non giunge all'audace conclusione secondo cui i ratti «delusi» sentirebbero che «non è giusto», ma il fatto che oggi venga citata di frequente nei lavori sul benessere animale è indi­ ce del suo potenziale speculativo: gli animali sarebbero in grado di «giudicare» situazioni che vengono loro proposte.

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Nel 1964, Jules Masserman e i suoi colleghi mostrano, dal canto loro, che i macachi rhesus, posti di fronte alla scelta fra «man­ giare e infliggere dolore a un compagno» o astenersi, scelgono la seconda opzione. L'esperimento consiste nel metterli da soli in una gabbia a due comparti separati da un vetro a specchio. Nella prima fase, un solo lato della gabbia viene occupato da un macaco, e i ricercatori gli insegnano a tirare una catena quando si accende una luce rossa e un'altra quando la luce è azzurra, azione che determina l'arrivo di cibo. Nella fase successiva, i ricercatori mettono un compagno nell'altro comparto, orientando il vetro a specchio in modo che questo secondo macaco possa essere visto dal primo, nel suo com­ parto. Dopodiché, una delle due catene continua a somministrare cibo, ma al tempo stesso dà una scossa elettrica al compagno che si trova dalla parte opposta del vetro. La scimmia che tira le catene vede le conseguenze della propria azione sul compagno. I risultati sono chiari: la grande maggioranza delle scimmie, a partire da questo momento, evita di toccare la catena che pro­ voca le scosse elettriche. Alcune smettono del tutto di farlo, non ricevendo più cibo. Le scimmie preferiscono soffrire la fame che infliggere dolore a un compagno. Ovviamente, le conclusioni dei ricercatori non richiamano sempre questioni di giustizia o di equità; avanzano l'ipotesi di con­ dotte «altruistiche» - le virgolette sono prudenziali; e, stavolta senza virgolette, parlano di comportamenti protettivi, sottolineando che questi ultimi si possono osservare in molte altre specie e suggerendo l'utilità di continuare le ricerche in tal senso. Suggerimento accol­ to: si sottoposero alla prova molti altri animali, compresi i ratti, che confermarono la tesi di Masserman. Negli ultimi tempi però, l'idea che gli animali possano avere il senso della giustizia e dell'ingiustizia è emersa in modo esplicito in laboratorio e ha dato il via ad alcuni lavori, grazie al rinnovato interesse che le ricerche sulla cooperazione hanno recentemente suscitato. Nel 2003, la psicologa Sarah Brosnan pubblica su «Nature» i risultati di un esperimento destinato a diventare celebre. Sottopo­ ne un gruppo di femmine di scimmie cappuccine ( Cebus) a un test per valutarne il senso della giustizia. Gli sperimentatori propongono ai partecipanti di scambiare, in cambio di pezzi di cetrioli, pezzi di pietra che sono stati loro offerti in precedenza. Questo genere di prove rientra nella tipologia generale dei test detti di «cooperazio­ ne», poiché lo scambio è considerato un atto cooperativo. La scelta

di fare l'esperimento solo con scimmie di sesso femminile si spiega con l'organizzazione sociale delle cappuccine: in natura, le femmine vivono in gruppo e condividono il cibo, mentre i maschi sembrano più solitari. Gli scambi si svolgono senza difficoltà nelle condizioni nor­ mali dell'esperimento. Le scimmie cappuccine sembrano desidero­ se di cooperare - e senza dubbio pensano lo stesso dei ricercatori. Tuttavia, una di loro rifiuta di farlo dopo aver visto che una delle compagne ha ricevuto un pompelmo, cibo molto più apprezzato del cetriolo. Ancora di più se lo ha ottenuto senza dover offrire nulla in cambio - «senza sforzi», dicono i ricercatori. Di conseguenza, alcune scimmie rifiutano il cetriolo e voltano le spalle allo sperimentatore; altre, invece, lo accettano ... e glielo tirano in faccia. La conclusione è che le scimmie possono giudicare le situa­ zioni, riconoscerle come eque oppure no, e che per alcune specie la cooperazione probabilmente è evoluta sulla base di questa possibi­ lità. Questa conclusione potrebbe valere anche per altri animali, ma non è così semplice. Da tempo le scimmie sono avvantaggiate dallo «scandalo gerarchico» definito dalla primatologa Thelma Ro­ well: i ricercatori attribuiscono loro maggiori capacità, poiché sono nostri parenti prossimi. E più attribuiamo alle scimmie competenze sociali e cognitive sofisticate e più le sperimentiamo con loro, più sembrano meritare il credito che accordiamo loro, e più i ricercatori sono stimolati a sottoporre le scimmie a condizioni ancora più com­ plesse. Gli altri animali, ritenuti più primitivi, meno intelligenti, meno dotati, spesso non hanno diritto a simili attenzioni da parte degli scienziati - benché le cose stiano progressivamente cambiando per diverse specie, a cui via via si attribuisce l'appellativo gentile di «primati onorari» ( � Happy; rr$> Ingannatori). Mark 'Bekoff, biologo specialista in neuropsicologia cogni­ tiva, è consapevole delle difficoltà che incontrano, per vedersi ri­ conosciuti come moralmente o socialmente dotati, gli animali che non appartengono alla specie delle scimmie né alle poche altre privilegiate che hanno conquistato il titolo di «primati onorari». Come dimostrare, in modo accettabile dal punto di vista scientifi­ co, che gli animali si comportano in maniera «giusta», mettono in atto un intero repertorio di regole sociali e sanno riconoscere molto bene il comportamento «ingiusto»? La moralità non è affatto evidente, non viene evidenziata chiaramente negli esperimenti. Ma, sostiene Bekoff, non nel caso del gioco. Si riesce a capire facilmente quando un animale gioca. E

se lo osserviamo con attenzione mentre lo fa, vediamo chiaramente che questa attività mette «in gioco» un senso molto vivido, da parte dello stesso animale, di ciò che è giusto e di ciò che non lo è; di ciò che è accettabile e di ciò che è oggetto di disapprovazione; insom­ ma, degli usi e dei codici della moralità. Quando giocano, gli animali utilizzano il registro compor­ tamentale che appartiene ad altre sfere di attività: attaccano, mor­ dono, si rotolano, si buttano a terra a vicenda, si spintonano, si inseguono, fanno versi, minacciano, scappano. Sono gli stessi gesti delle relazioni di predazione, di aggressione e di conflitto, ma cam­ bia il significato. I malintesi sono rari, perché il gioco si fonda su un accordo, espresso e attualizzato di continuo: «Adesso è per gioco». È questo accordo a dare senso ed esistenza al gioco. I gesti ripetono le abitudini da cui gli animali vengono distolti per giocare, ma sono diversi, continuamente accompagnati da un codice esplicativo - e dallo scambio di molteplici sguardi, per accertarsi che la spiegazione venga recepita, e che connotano l'ambito dell'azione. I giochi, sottolinea Bekoff, si inscrivono nell'ambito del­ la fiducia, dell'eguaglianza e della reciprocità. La fiducia deriva in particolare dal fatto che il tempo del gioco è caratterizzato dalla sicurezza: le trasgressioni e gli errori vengono perdonati, le scuse facilmente accettate, il gioco segue delle regole ma non è definito da esse. L'eguaglianza deriva dal fatto che, nelle regole del gioco, nessun animale approfitta della debolezza altrui, se non per metterla al servizio dell'attività. La reciprocità ne è la condizione: nessun animale gioca controvoglia, né con un altro che non iiocherebbe, se non per un malinteso che si risolve velocemente. E quel che si chiama un rischio, e c'è sempre. Il gioco mette in atto principi di giustizia e gli animali fanno la differenza fra chi vi si conforma e chi no, o lo fa male. Un animale che non sa trattenere la propria forza o non sa cambiare molo, uno che imbroglia, che interrompe il gioco senza avvertire, che aggredi­ sce, che insomma non pratica il fair play, dopo un po' non troverà più compagni con cui giocare. Il gioco, però, non è la semplice applicazione delle regole di un protocollo. Richiede qualcosa di più, che non si manifesta sotto forma di regole e difficilmente sotto quella delle parole, ma che è perfettamente riconoscibile quando alcuni animali giocano. Esiste, continua Mare Bekoff, un «umore del gioco», che corrisponde al gioco stesso e lo rende divertente. In effetti, il gioco esiste solo per suscitare e prolungare questo «umore del gioco». Un umore che, al tempo stesso, rende il gio-

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co quello che è, offre ai gesti il loro contesto esplicativo, stabilisce l'accordo fra i partner. Non solo lo crea ma, al tempo stesso, ne viene creato; si tratterebbe piuttosto di sintonia, che sta a indicare la condizione in cui si stabiliscono e sintonizzano ritmi, affetti, flussi di vitalità. «Questo, malgrado le apparenze, è sempre gioco»: i gesti e le loro peculiarità, il loro «umore», gli sguardi incessanti che i gioca­ tori si scambiano sono altrettanti atti che, al tempo stesso, «dicono» quanto sta succedendo (il «facciamo che io ero ...» dei bambini) e «fanno» in modo che ciò accada e si prolunghi (giochiamo ancora). In altri termini, quando gli animali dicono quello che fanno, fanno quello che dicono. Non si potrebbero definire in modo più chiaro le basi di un rapporto di fiducia. Bekoff non utilizza questi ultimi termini, ma non ho alcun dubbio che sarebbe d'accordo. In effetti il gioco, che a lungo è stato interpretato a livello funzionale - avrebbe un valore di addestramen­ to ai gesti che l'animale dovrà fare in seguito; introduce i giovani ai conflitti legati alla gerarchia ecc. - è, secondo Bekoff, il momento privilegiato per imparare quello che si può fare e quello che è inam­ missibile; per imparare a comportarsi in modo «giusto», in funzione delle aspettative, e a giudicare il modo in cui gli altri rispondono a questo ideale pragmatico di «appropriatezza». Il gioco rende possibile la fiducia. Insegna a «fare attenzio­ ne», altrimenti «non è più gioco». Insegna altri ruoli, altri possibili modi di essere - per esempio, fare finta di essere piccoli quando si è grandi; deboli quando si è forti e si gioca con un partner più giovane o più esile; in collera quando si scherza - e lo fa in relazione a un al­ tro. Il gioco permette e approfondisce molteplici modalità di essere sintonizzati con gli altri, secondo i codici di ciò che è giusto e nella grazia della gioia. Quindi, significa - e riprendo il concetto di Donna Haraway per integrarlo alle ricerche di Bekoff - che gli animali imparano, nel gioco, a essere responsabili, cioè a rispondere a sé stessi; impa­ rano a rispettare: secondo l'etimologia (da re-spicio, guardare indie­ tro, NdT}, a restituire lo sguardo con sincerità. È quello che fanno gli animali. Concretamente. La moralità è molto scherzosa e molto seria, è profondamente gioiosa e profondamente severa. Questo si impara, negli animali, ridendo di un riso animale. Naturalmente, il significato che si dà a questi termini - giu­ sto, accordo, risposta, rispetto - va ben oltre l'ambito della loro ac­ cettabilità scientifica. Mark Bekoff ha avuto tutta una carriera per impararlo dalle numerose discussioni e polemiche con i colleghi:

quante volte si è sentito dire che «non è scientifico»? Che i termini escano dall'ambito di ciò che è scientificamente accettabile, a pro­ posito del gioco, in fondo non è sorprendente. Infatti, il gioco cam­ bia i significati, esula dal senso letterale. Il paradiso dell'omonimia: un gesto che, in altri contesti, esprime paura, aggressività, rapporti di forza, si riaggiusta, si disfà e si rifà in modo diverso; non significa più quello che sembra significare. Il gioco è lo spazio dell'invenzione e della creatività, della metamorfosi in altro, canto per gli esseri che per i significati. È lo spazio stesso dell'imprevedibile, ma sempre secondo regole che gui­ dano questa creatività e i suoi aggiustamenti. Insomma, la giustizia nella grazia della gioia.

Gerarchie

La dominanza dei maschi potrebbe essere un mito?

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n branco di lupi, spiegava il sito FranceLoups alla fine di '\.- �: settembre 2011, «è spesso costituit� da una coppia dominante che ha il ruolo di

capogruppo: il maschio e la femmina Alfa. Questa coppia prende tut­ te le decisioni per la sopravvivenza del branco: spostamenti, caccia,

confini del territorio; è l'unica a riprodursi. Nell'ordine gerarchico del

branco, i Beta seguono gli Alfa e ne prenderanno il posto in caso di

necessità (morte). Dopodiché troviamo gli Omega, con una posizione assai poco invidiabile (sic) nel branco, perché subiscono aggressioni

quotidiane e continue. A causa della loro posizione nella gerarchia,

sono per esempio gli ultimi a mangiare, quando il branco cattura una

preda».

Una descrizione abbastanza simile a questa si trovava nella letteratura degli anni Sessanta del secolo scorso riguardo ai babbuini. Il primatologo Sherwood Washbum affermava che «le caratteristiche principali dell'organizzazione dei babbuini derivano

da un modello complesso di gerarchia fra i maschi adulti che normal­ mente assicura la stabilità e una relativa pace nel gruppo, la massima

protezione per le femmine e i piccoli, e la probabilità più elevata che i figli vengano concepiti con i maschi ai livelli gerarchici più elevati».

Qualche dettaglio distingue i due modelli; per esempio, gli specialisti dei babbuini insistono sul ruolo dei dominanti nella dife­ sa del gruppo. La primatologa Alison Jolly, autrice nel 1972 di una

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rassegna delle ricerche compiute, rileva che la difesa del gruppo è una prerogativa dei maschi più alti in grado, nonché il segno più chiaro della dominanza: «Quando incontra un grande felino, un gruppo di babbuini della savana arretra in formazione di battaglia: dietro le femmine e i giovani, davan­ ti i grossi maschi con i loro formidabili canini, che si interpongono fra

il gruppo e la minaccia».

Tuttavia, conclude Jolly, questo superbo modello di organiz­ zazione presenta un'eccezione: alla vista di un predatore, i babbuini della foresta di Ishasha in Uganda, osservati dalla primatologa Thel­ ma Rowell, fuggivano in modo disordinato, ciascuno alla propria velocità; quindi, i maschi ben più rapidamente delle femmine, che invece rimanevano indietro, dovendo trasportare i piccoli. Questa evidente mancanza di eroismo - come l'ha definita Thelma Rowell - non era che una delle anomalie nel comporta­ mento di questi particolari babbuini, che non conoscevano la gerar­ chia. Nessun maschio domina sugli altri, né sembra potersi assicura­ re privilegi legati al rango. Al contrario, nel branco regna un'atmosfera tranquilla, le ag­ gressioni sono rare e i maschi paiono molto più attenti a cooperare che ad alimentare quella competizione tipica di altri gmppi. La pri­ matologa fa un'osservazione ancora più sconcertante: non sembra esserci una gerarchia fra maschi e femmine. Queste osservazioni vennero accolte con scetticismo dai col­ leghi di Rowell. Nessun babbuino si era mai comportato così; quelli di Ishasha erano una infelice eccezione nel bell'ordine che la natura aveva offerto a questa specie. Doveva certamente esserci una spie­ gazione: si finì per trovarne una che non infastidisse nessuno, senza sostenere che la primatologa «aveva osservato male» o che i babbu­ ini non erano tali - come era accaduto, agli inizi degli anni Sessanta, a quelli neri (Papio ursinus) del Sudafrica, che avevano pagato cara la propria temerarietà: all'epoca, Ronald Hall aveva osservato che non erano gerarchizzati. Ebbene, vennero esclusi dalla specie: quelli non sono babbuini! Alle anomalie di quelli di lshasha si trovò una soluzione meno drastica: probabilmente erano dovute alle condizioni ecolo­ giche eccezionali di cui avevano sempre goduto - la foresta soprat­ tutto, un vero paradiso terrestre che, con i suoi alberi, offriva rifugio dai predatori, dimore per la notte e soprattutto cibo abbondante. Il mito del paradiso terrestre e della caduta non è molto diverso da

quello delle origini che questi animali dovevano aiutare a ricostru­ ire: i babbuini di Ishasha erano rimasti sugli alberi; non avevano compiuto il salto evolutivo come i congeneri delle savane. Poiché ogni progresso ha un costo, lo pagavano con condizioni di vita ben più dure che sfociavano in un'intensa competizione, all'origine di un'organizzazione molto gerarchizzata. Questa spiegazione in termini ecologici emarginava i babbu­ ini di Ishasha, ma senza estrometterli dalla specie né screditare le osservazioni della ricercatrice. Una volta risolte queste problemati· che, le ricerche continuarono ad accumulare prove dell'universalità di un'organizzazione gerarchizzata fra i babbuini delle savane e tante altre specie. Del resto, il modello era diventato a tal punto inevitabile che orientava immediatamente ogni ricerca sul campo, ricerca che doveva sempre avere inizio con la scoperta della gerarchia e l'in­ dividuazione del rango di ogni individuo. E quando tale gerarchia non risultava evidente, i ricercatori tiravano in ballo un concetto «comodo»: la «dominanza latente». La dominanza doveva essersi affermata cosl tanto, da non riuscire più a percepirla. Qualche tempo dopo, nei primi anni Settanta, Thelma Ro­ well non accetta più la marginalità cui sono stati relegati i suoi bab­ buini. Sì, quelli di Ishasha beneficiano di condizioni particolari che possono spiegarne la devianza. Ma bisogna mettersi d'accordo su queste «condizioni»: non sono quelle ecologiche nel senso tradizio­ nale del termine, sono le condizioni stesse dell'osservazione. In altri termini, i suoi babbuini sono un'eccezione al modello solo perché sono stati osservati in condizioni che non li obbligavano a obbedire al modello stesso. Rowell ha messo a confronto tutte le ricerche compiute pri­ ma della sua, classifi'candole in due gruppi: da una parte, gli animali che visibilmente non sono molto interessati alla gerarchia, per i quali è stato necessario richiamare il concetto di dominanza latente, quelli che si pensava fossero stati sottoposti a pressioni selettive di tipo diverso - i babbuini di Ishasha, o ancora gli scomunicati della specie, i babbuini neri. Dall'altra parte, tutti i babbuini che si sono comportati nella maniera prevista, tanto sul campo che in cattività, secondo il modello. Emergono due costanti: in tutte le ricerche in cattività, i babbuini sono gerarchizzati in modo ben definito; nell'ambiente naturale, la dominanza è emersa chiaramente quando osservandoli i ricercatori hanno nutrito gli animali, per attirarli. Una coincidenza? Non proprio.

Le ricerche in cattività ricalcano tutte lo stesso modello. Per studiare la dominanza, gli scienziati accoppiano due scimmie (di solito, perfette estranee) e le mettono in competizione per un po' di cibo, per lo spazio o per evitare uno shock elettrico. Alla prima prova una delle due vince, il che è lo scopo dell'esperimento. Alla prova seguente, l'altra anticipa il risultato prevedibile e, se lotta, non lo fa con tutta la convinzione necessaria. Ogni ripetizione dell'esperimento conferma una previsione sempre più attendibile, tanto per lo sperimentatore che per le scim­ mie. Alla lunga, in presenza del bene conteso o dello shock da evi­ tare, chi ha perso ogni speranza cerca di nascondersi e di non intral­ ciare chi è diventato «dominante». Il fenomeno si sviluppa in modo identico quando si compongono dei gruppi. La mancanza di spazio e di cibo provoca immancabilmente conflitti fra scimmie che non si conoscono e vengono riunite in un insieme sociale la cui struttura è, per certi versi, determinata dal meccanismo stesso della cattività. Sul campo, le cose sono certamente diverse. Gli individui si conoscono; in linea di principio, non sono sottoposti agli stes­ si vincoli. Però esistono quelli della ricerca. Infatti, se gli studiosi hanno attirato i babbuini con il cibo, invece di farli adattare spon­ taneamente, lo hanno fatto in genere con quantità insufficienti e concentrate in un solo posto, scatenando così vere e proprie bagarre, al termine delle quali i dominanti erano chiaramente identificabili. I ricercatori hanno quindi riprodotto sul campo le condizioni della cattività. Il verdetto di Rowell è senza appello: la gerarchia risulta evidente e diventa fissa solo quando gli studiosi l'hanno provocata e mantenuta attivamente. Questo modello continua comunquea essere alla base delle ricerche. Tuttavia, qua e là, si verificano casi di babbuini recalci­ tranti. Quelli della giovane antropologa statunitense Shirley Strum sembrano voler tenere alta la fiaccola della resistenza, a Kitui Pum­ phouse in Kenya, alla metà degli anni Settanta. La ricercatrice con­ clude che la dominanza dei maschi è un mito. Tutte le sue osser­ vazioni concordano su questo punto: i maschi più aggressivi, che occupano i livelli più alti della gerarchia se si assume il criterio della risoluzione dei conflitti, vengono scelti meno sovente come compa­ gni-consorti dalle femmine e hanno un accesso molto più limitato a queste ultime durante i periodi di estro. Contro ogni aspettativa, quando un maschio esce vincitore da un conflitto, è il perdente a essere trattato meglio: ottiene le attenzioni delle femmine ricettive, viene omaggiato con i cibi più apprezzati, gli si fa la toilette. La risoluzione del conflitto, spiega

Strum, mostra che non si tratta di un semplice problema di domi­ nanza o di accesso alle risorse; questi concetti vanno messi seria­ mente in discussione per comprendere l'intreccio delle relazioni. Le tesi di Strum vengono accolte malissimo: la si accusa di aver compiuto errori nell'osservazione, nonché di aver truccato i dati. «C'è necessariamente una gerarchia fra i maschi di Kitui Pum­ phouse», ripetono senza sosta i maschi dominanti che insegnano nelle università. Il rifiuto drastico di queste ricerche, la scarsa eco data alle critiche di Rowell rendono ancora più tangibile la difficoltà dei ri­ cercatori ad abbandonare il sentiero tracciato. Con Thelma Rowell, possiamo richiamare la pregnanza, in primatologia, del mito della tradizione naturalistica vittoriana e romantica, di un maschio do­ minante che combatte per le femmine, insomma di una certa forma di ·antropomorfismo o di «accademico-morfismo»: la gerarchia non sarebbe forse la caratteristica delle relazioni esistenti fra chi scrive di più sul soggetto stesso.della gerarchia? Possiamo anche pensare che le ragioni della predilezione un po' maniacale per questo modello siano collegate alle ambi­ zioni della maggioranza dei primatologi di conferire alle proprie ricerche una base scientifica in una prospettiva naturalistica ( �

Fare scienza).

Da questo punto di vista, la gerarchia è un buon oggetto. Conferma l'esistenza di invarianti specifici, assicura la possibilità di previsioni affidabili che possono essere oggetto di correlazioni e di statistiche. Ma il concetto di una società ordinata in base al principio della dominanza rivela anche una concezione della vita sociale che i primatologi prendono a prestito dalla sociologia, e secondo cui la società preesisterebbe all'azione degli attori (�Corpi). Questa concezione, secondo Bruno Latour, riesce a imporsi solo occultando il processo incessante di stabilizzazione che richiede il fatto di «fare» società. In un certo senso, la teoria della gerarchia è come un fermo immagine. Certo, esistono prove dell'aggressività presso i babbuini, e prove con cui cercano di mostrare chi è il più forte, ma se si vuole stabilire una relazione gerarchica, non lo si può fare, a meno di li­ mitare il tempo di osservazione a pochi giorni. Una gerarchia che varia ogni tre giorni merita ancora questo nome? Possiamo parlare di una gerarchia, se il maschio che può rivendicare la conquista di una femmina non è lo stesso che si avvale di un accesso privilegiato al cibo e nemmeno lo stesso che decide gli spostamenti del gruppo

( visto che, presso i babbuini, questo ruolo spetta alle femmine più anziane)? Eppure, i concetti di gerarchia e di dominanza rimangono ben presenti in buona parte della letteratura e per alcuni ricercatori continuano a essere ovvi. Certo, ammettono che «è più complica­ to di così», ma ciò non diminuisce la loro ostinazione a utilizzare quei termini e a descrivere questo tipo di relazioni ( r-:::':> Necessità; � Umwelt). Lo conferma la riflessione sul branco di lupi con cui abbiamo iniziato. Il concetto di gerarchia ispira tuttora i manuali di adde­ stramento dei cani: si raccomanda agli addestratori di ricordare al compagno a quattrozampe, qualora tendesse a dimenticarlo, chi è il dominante. È un'idea fissa tanto più stupefacente in quanto i lupi, da que­ sto punto di vista, hanno seguito le orme dei babbuini. Negli anni Trenta, in seguito ai lavori dello specialista Rudolf Schenkel, si era imposta la teoria del lupo Alfa. Alla fine degli anni Sessanta, l'illu­ stre esperto di lupi statunitense David Mech la riprende: continua le ricerche in questa direzione e contribuisce a renderla popolare. Tuttavia, alla fine degli anni Novanta lo stesso David Mech rimette tutto in discussione. Ha seguito diversi branchi in Canada per tredi­ ci estati: quello che viene chiamato branco è in realtà una famiglia, costituita da genitori e figli che, arrivati alla maturità, lasciano la famiglia per formarne a loro volta una propria. Non ci sono rela­ zioni di dominanza, solo genitori che guidano le attività dei figli, insegnando loro a cacciare e a comportarsi appropriatamente. La ragione di questa disparità fra le posizioni teoriche è sem­ plice e prevedibile, ora che conosciamo la storia dei babbuini: prima delle osservazioni di Mech in Canada, le ricerche sue e di Schen­ kel si erano limitate ai «bioparchi» e ai giardini zoologici, a partire da branchi creati artificialmente con individui estranei gli uni agli altri, confinati in spazi da cui è impossibile fuggire, e con cibo for­ nito dagli umani. Per quanto possibile, i lupi tentano di organizzarsi nonostante lo stress continuo dovuto a questi fattori. Gli Alfa si arrogano dunque tutti i privilegi; i Beta si barcamenano; gli Omega cercano di sopravvivere alle continue persecuzioni. È lo spettaco­ lo quotidiano offerto da numerosi parchi. Ed è la descrizione che continua a imporsi in letteratura. La teoria della dominanza sembra quindi destinata a durare finché gli umani continueranno a soste­ nerla e vi si adageranno. Come si vede, tutto ciò non dipende da problematiche esclu­ sivamente teoriche. Le nostre teorie sugli animali hanno conse-

•9-a,., ·�:lit�-

guenze pratiche, se non altro perché modificano la considerazione che possiamo avere nei loro confronti. E questo va ben oltre la sem­ plice considerazione, come testimoniano ampiamente i lupi dei par­ chi e le risposte che si ricevono quando ci si allarma per gli attacchi incessanti ai danni dei lupi Omega: «Fra i lupi è così». La teoria della gerarchia ha tutte le caratteristiche di una ma­ lattia infettiva i cui virus appartengono a un ceppo molto resistente. I suoi sintomi, come la sua virulenza, sono facilmente individuabi­ li e descrivibili: produce esseri determinati da regole rigide, esseri poco interessanti, esseri che seguono la routine senza farsi troppe domande. E contagia sia gli umani che impongono questa teoria sia gli animali a cui viene imposta.

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Happy

Come si può fare amare uno specchio agli elefanti?

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uale potrebbe essere il rapporto fra Happy, Maxine e Patty ;..,> --, · da una parte; e Harvey, Lily, Gerti, Goldie e Schatzi dall'alttOl . p Bugiardi). Anche Povinelli, constatano i miei studenti, cita questa osservazione, ma non la trova credibile. Non è che un aned­ doto, dice. Si delineano quindi due tipi di rapporto con il sapere e non mi stupisco che questa differenza corrisponda proprio a due campi di ricerca: Povinelli sperimenta in laboratorio; Plotnik e i colleghi sono ricercatori sul campo ( � Bestie; ,,.-:;,,',, Laboratorio; d> Pre­ stigio). Poi, i tre ricercatori si interrogano sulle ragioni del fallimento degli elefanti di Povinelli. È possibile che lo specchio fosse troppo piccolo, e il fatto che fosse sistemato all'esterno della gabbia, fuori della portata della proboscide, può ugualmente aver contribuito. Di conseguenza, si procurano uno specchio a dimensione di elefante e lo sistemano non fuori, ma dentro la gabbia. Maxine, Patty e Happy vi si trovano di fronte; nel pre-test, lo esplorano e tentano anche di salirci sopra, allarmando i guardiani e gli stessi ricercatori, che si chiedono se il muro a cui è appoggiato non rischi di crollare. E come le tre gazze che si sono riconosciute, le elefantesse mostrano comportamenti diretti verso sé stesse; si guardano mangiare davanti allo specchio; si esibiscono in movimenti ripetitivi e non abituali della proboscide e del corpo, e muovono ritmicamente il capo. Il giorno in cui viene apposta la macchia, Happy si guarda, la tocca e continua a farlo diversi minuti. Le altre due non sembrano voler seguire il suo esempio. Quindi, due gazze e una elefantessa hanno pienamente supe­ rato il test; due gazze e due elefantesse hanno fallito; una gazza è a metà strada: insomma, l'esperimento è riuscito. Potreste stupirvi di come ho descritto questa riuscita, met. tendo sullo stesso piano tanto il disinteresse di Harvey, Lily, Maxine e Patty, quanto i risultati chiaramente positivi di Happy, Goldie e Gerti. Tutti gli animali, infatti, sia i «riconoscitori» sia i non «rico­ noscitori», sono importanti in questo senso: parlo di riuscita perché c'è stato anche un insuccesso. La possibilità di quest'ultimo, e quello che gli scienziati ne faranno, dimostra la solidità dell'esperimento,

il suo interesse. Se tutte le gazze e tutte le elefantesse avessero su­ perato con successo il test, la prova non consentirebbe di affermare ciò che, appunto, rivendica per gazze ed elefantesse: possono essere «riconoscitrici». In altri termini, dal punto di vista dei ricercatori, i risulta­ ti dell'esperimento sono tanto più convincenti perché alcuni degli animali che vi hanno partecipato hanno fallito. Da parte mia, non potrei sostenere con maggiore convinzione che l'esperimento è dav­ vero interessante e rende i ricercatori, le gazze e le elefantesse più intelligenti. Cominciamo con il risultato più evidente, ovvero ciò che, senza ambiguità, possiamo chiamare «riuscita»: le affermazioni dei ricercatori a tale riguardo. Mi limito ai commenti degli addestratori di gazze; sono abbastanza stupefacenti, nel campo degli uccelli: «Quando vengono valutate sulla base degli stessi criteri usati per i pri­

mati, le gazze mostrano una capacità di riconoscimento di sé e sono

dunque sulla nostra sporula del Rubicone cognitivo».

Questa metafora è molto eloquente: ritroviamo l'epopea, la conquista e la vittoria; i fatti, le prove, le frontiere superate. Il dado è tratto: le gazze (Pica pica) sono i primi uccelli a valicare la frontiera che separa gli esseri che si riconoscono dagli altri. Ma in quest'avventura si delinea anche un'altra storia; una storia che riu­ nisce i corvidi e i primati, 300 milioni di anni dopo la diversificazio­ ne dei loro gruppi tassonomici: ora le gazze sono sulla nost.Ta sponda del Rubicone cognitivo. Dopo aver pensato a lungo che l'umano fosse l'unico depositario del tesoro ontologico della coscienza di sé, eravamo arrivati ad accettare che anche i primati potessero riven­ dicarlo; e dopo di loro - per un effetto di contaminazione dei talenti piuttosto frequente nel campo dell'etologia -, i delfini, le orche e, aggiungiamo, le tre elefantesse che in questa storia hanno preceduto le gazze di due anni. Fino a oggi, si pensava che solo i mammiferi avessero accesso a questa competenza. Ci sarebbe, dicono del resto gli autori nell'in­ troduzione, «un Rubicone cognitivo che pone da un lato le grandi scimmie e al­

cune altre specie dal comportamento sociale complesso, e tutto il resto

del regno animale dall'altro».

A ogni modo, questa gerarchizzazione ha ricevuto una con­ ferma biologica, perché alla fine è stata correlata all'esistenza e allo sviluppo della neocorteccia nei mammiferi.

Ritorniamo al fatto che Harvey, Lily, Maxine e Patty avreb­ bero fallito al test, mentre io cerco di dimostrare che, per me, si trat­ ta della prova della buona riuscita dell'esperimento. In primo luogo, per quanto riguarda gli ideatori, l'insuccesso, lungi dal minare la solidità dei risultati, al contrario li conferma. Di 92 scimpanzé messi alla prova da Povinelli in una ricerca precedente a quella con le elefantesse, solo 21 avevano avuto chiaramente un comportamento esplorativo di sé stessi di fronte allo specchio; per altri 9 le evidenze erano più deboli; fra i 21 animali «esploratori speculari», solo metà aveva superato il test della macchia. Se però ci spingiamo un po' oltre, analizzando questi insuc­ cessi che considero successi, vorrei sottolineare una particolarità che l'esperimento condivide appunto con quelli che definisco ri­ usciti. Come altri di questo genere, è notevole per un aspetto, un indicatore immediatamente leggibile: è un esperimento sulla cultu­ ra delle individualità. Harvey, Lily, Goldie, Gerti e Schatzi, Happy, Maxine e Patty non hanno niente a che vedere con le schiere di anonimi che confermano la specificità di una specie. Il che vuol dire che i fallimenti di chi non si è riconosciuto indicano non solo la necessità di andare cauti con le generalizzazioni: l'esperienza ci insegna che delle gazze - anzi alcune gazze, e più precisamente alcu­ ne gazze allevate - e alcune elefantesse asiatiche di circa trent'an­ ni, allevate in uno zoo, possono sviluppare una competenza inedita in certe circostanze molto precise ed eccezionali per le gazze e le elefantesse ( e> Laboratorio), circostanze elaborate con protocolli (standardizzati e riferiti con precisione nel capitolo sulla metodolo­ gia in aggiunta all'articolo). Ma le gazze e le elefantesse che non si sono riconosciute evi­ denziano anch'esse l'importanza di questo tipo di esperienze. Il mez­ zo impiegato non determina il comportamento acquisito. Ne crea l'occasione. Infatti, se tutte le gazze e le elefantesse avessero superato il test, potrebbe voler dire due cose: che il comportamento è biolo­ gicamente determinato, oppure che è il prodotto di un artificio. Invece, giustamente l'esperimento non ci dice nulla sulla natura della gazza o dell'elefante; non dice «le gazze e le elefantesse hanno coscienza di sé»; ci dice solo quali sono le circostanze favorevoli a questa trasformazione. La competenza non dipende né univoca­ mente dalla natura di questi animali (il fatto di essere gazza o ele­ fante, e non piccione, importa, sì, ma se la capacità fosse inscritta nella natura delle prime due specie, tutti gli animali sottoposti al test si sarebbero riconosciuti), né dalla sola efficacia del metodo spe-

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rimentale (perché allora avrebbe «obbligato» gazze ed elefantesse a riconoscersi); rientra nelle modalità della scoperta in circostanze ecologiche particolari. Ecco perché l'insuccesso è importante! In altri termini, in caso di riuscita da parte di tutti gli anima­ li - e i ricercatori se ne sono resi pienamente conto-, rimarrebbe il sospetto che i risultati dipendano solo da un artificio, la cui ipotesi rientra nell'ambito del successo, cosa diversa dalla riuscita; sì, l'ipo­ tesi è stata validata, l'esperienza è un successo; ma soltanto perché la conformità dell'animale all'ipotesi è il prodotto dei vincoli che gli sono stati imposti. Per definire semplicemente questo tipo di artificio, potremmo dire che l'animale risponde al ricercatore, ma a una domanda completamente diversa da quella rivoltagli. E per tornare alle nostre gazze, gli studiosi sono stati attenti a evitare la possibilità che gli animali validino la propria ipotesi per ragioni riconducibili alla sola imposizione. Da alcuni piccioni è stato possibile ottenere comportamenti molto simili a quelli indotti dal test della macchia allo specchio. Analizzando il procedimento - affermano Prior e i colleghi -, ci si rende conto che questi uccelli sono passati attraverso talmente tanti condizionamenti e prove, che hanno finito per riprodurre il modello comportamentale del ricono­ scimento. I piccioni hanno fatto quanto veniva loro richiesto, però per ragioni del tutto diverse dalla competenza tirata in ballo; hanno risposto a un'altra do�anda. Come si può notare, in questo tipo di procedimenti, il grup­ po dei soggetti spesso deve ripetere all'infinito il test. Gli scienzia­ ti hanno quindi dovuto adottare una precauzione rischiosa con le gazze, che hanno «diritto» a poche prove; il comportamento deve essere, per dirla con i ricercatori, spontaneo, e non il risultato di un apprendimento «cieco», il cui esito non permette di validare l'ipo­ tesi di una sofisticata competenza cognitiva. L'insuccesso di Harvey, Lily, Maxine e Patty conferma quindi la dimensione feconda dell'esperimento. Le gazze e le elefantesse coinvolte hanno potuto fare resistenza alla proposta che è stata loro rivolta. Il fatto che permetta ai suoi soggetti di «essere recalcitranti» espone il metodo sperimentale alla sorpresa, lo espone al rischio. Con i piccioni i rischi erano pochi: sono fra i migliori esempi dell'ef­ ficacia del condizionamento. Davanti allo specchio, tutti hanno mostrato la reazione attesa, una volta che avevano imparato. Ma il prezzo è alto: il ricercatore non può rivendicare l'autonomia dei risultati prodotti. Il metodo li determina completamente. L'insuccesso di Harvey, Lily, Maxine e Patty indica quindi la riuscita per eccellenza. L'autonomia dei risultati - che gli scien-

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ziati chiamano «spontaneità» - prova che il metodo sperimentale è una condizione necessaria, ma non sufficiente, del loro verificarsi. Certo, senza specchio, senza lavoro, senza addomesticamento, senza macchia, senza prove, senza osservazioni, non ci sarebbero state gaz­ ze ed elefantesse in grado di riconoscersi; ma se fossero totalmente vincolate dal metodo, la loro testimonianza non potrebbe stabilire una differenza con quella degli animali condizionati. La differenza passa dunque per questo termine, certo mal de­ finito, ma le cui possibilità di omonimia lasciano aperte molte pos­ sibilità di utilizzo e speculazione: il fatto di essere interessato. Non sappiamo cosa, nella prova, sia stato di interesse per le gazze e le ele­ fantesse che si sono riconosciute, e potremmo fare numerose ipotesi. Ma la domanda è altrettanto interessante anche se la ribal­ tiamo: perché gli animali che non si sono riconosciuti non sono sta­ ti interessati? Porsi questa domanda evoca, per i ricercatori, prospet­ tive che sono al tempo stesso epistemologiche ed etiche, nel senso etimologico carico di ethos, gli «usi» e i «buoni usi». Quindi, nel caso delle elefantesse, gli studiosi ipotizzano che le ragioni dell'in­ successo abbiano a che fare con i comportamenti abituali di questi animali. Una macchia non li impressiona, perché le abitudini dei pachidermi in materia di pulizia non sono le stesse degli uccelli o degli scimpanzé; la loro toeletta non consiste nel rimuovere lo spor­ co: per pulirsi si rotolano nel fango e nella polvere, senza fare troppa attenzione ai dettagli. Quindi, che sarà mai una piccola macchia ... Successivamente, l'analisi comparativa dei metodi condotta da Thibaut de Meyer e Charlotte Thibaut ha fatto emergere una differenza importante fra ciò che avevano proposto Povinelli da una parte, e le équipe di De Waal e di Prior dall'altra. Con queste ultime, gli animali potevano toccare lo specchio con cui, secondo i miei due studenti, avrebbero stabilito un rapporto emotivo. Non sono sicura che utilizzerei questo termine, ma ne richiama un altro, che effettivamente attiene a ciò che tocca: hanno potuto lasciarsi toccare. Poiché gli scienziati hanno prestato attenzione a come ve­ niva utilizzato, gli animali hanno potuto «giocare» con l'oggetto, cioè inventare modi di utilizzarlo molto diversi, in modo creativo, esplorativo, affettivo, emotivo, concreto. Certo, è grazie a questa molteplicità e inventiva, che i loro hanno potuto incrociare il cam­ mino dei nostri. Perché siamo noi, non dimentichiamolo, a utiliz­ zare abitualmente gli specchi. Non possiamo dire se, riconoscendosi nel proprio riflesso, le gazze e le elefantesse si siano incontrate; di sicuro però, ci hanno incrociati.

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.IE , u:

come

Ingannatori

�inganno è una prova del saper vivere?

a cim�nia, �ppesa � un albero all'aria apert�, aveva pres? � � , . v . ": l ab1tudme d1 salire m cima. Quando le veniva portato 11 cibo, i corvi nei dintorni si tuffavano in picchiata su di lei, cercando di rubarglielo. La scena si ripeteva ogni giorno; e ogni giorno la po­ vera scimmia era costretta a fare continuamente su e giù dall'albero a terra, se vedeva arrivare un corvo impudente. Quando scendeva a terra, gli uccelli volav'1no via, ma si posavano a pochi metri. Quan­ do risaliva, tornavano. Un giorno la scimmia mostrò sintomi evidenti di una ma­ lattia debilitante: a stento riusciva a tenersi aggrappata all'albero, in uno stato di penoso abbattimento. Come loro abitudine, i corvi arrivarono in tutta tranquillità per prendersi la loro parte del pasto. La scimmia, malconcia, scese dall'albero con grande fatica. Si lasciò cadere al suolo e rimase distesa, immobile, visibilmente sofferente. I corvi, rassicurati, si ringalluzzirono e si rimisero tranquillamente a banchettare. Di colpo la scimmia parve recuperare miracolosamente tutte le forze; con un balzo si avventò su uno dei volatili, lo afferrò e, trattenendolo fra le zampe, gli strappò le penne, lanciando alla fine in aria la vittima, stupefatta e spiumata. Il risultato fu proporzionato alla reazione; nessun corvo osò più avventurarsi attorno al cibo. Questo episodio è stato riportato da un autore nient'affatto contemporaneo: Edward Pett Thompson, un naturalista degli inizi del diciannovesimo secolo; un creazionista. Leggendo questa storia, si avverte qualcosa di familiare: assomiglia a quelle che raccontano oggi gli scienziati che lavorano con alcuni animali ritenuti privile-

giati dal punto di vista cognitivo e sociale. Ci sembra ancora più attuale perché questo tipo di narrazione era scomparso da molto tempo dal mondo delle ricerche, se non in quanto aneddoto ( 0 Prestigio). Il libro di Thomson ne è pieno. Racconta, per esempio, di un orangutan dello zoo che aveva rubato un'arancia mentre il guardiano fingeva di dormire per spiarlo, e aveva nascosto le scorze per non lasciare traccia della malefatta. A noi questa scena evoca chiaramente due esseri di specie diverse che si danno all'arte della scaltrezza e dell'inganno. Ma non è quello che vi vede Thompson: stranamente, non usa mai tali pa­ role, né parla di menzogna o di imbroglio. Vede altro. La sua inter­ pretazione è guidata dal problema che cerca di risolvere: creare un sentimento di comunità delle intelligenze fra gli animali e gli uma­ ni, per difendere meglio questi ultimi. È davvero difficile costituire una simile comunità, nell'ambito di un'antropologia creazionista che riconosce un universo regolato e gerarchizzato da innumerevoli decreti divini, che negano agli animali di avere un'anima; Thom­ pson, quindi, con un'intuizione molto giusta, tenterà di costruire questa comunità fondandola su una serie di analogie di intelligenze e sensibilità, tali da far pensare alla prossimità. L'episodio dell'arancia rubata verrà ripreso da Darwin alcuni anni dopo. Non è nemmeno l'inganno a qualificare l'atto, ma la vergogna. La scimmia nasconde la scorza, dice il celebre naturali­ sta, perché ha una coscienza di ciò che è vietato; si può pensare di avere a che fare, con questo comportamento così simile a quello dei bambini, a un precursore del sentimento morale. Una stessa storia, un'altra interpretazione: il progetto di Darwin non è più quello di stabilire la prossimità, bensì la continuità, nel contesto dell'evolu­ zione. Le analogie dei comportamenti ne sono gli indici più promet­ tenti. Tanto più se appartengono a un campo chiave dell'ecceziona­ lismo umano: la morale. Questo tipo di animali, e le narrazioni che generano, in seguito scompare completamente dalla scena scientifica. Troppo aneddotiche, troppo antropomorfiche, queste storie vengono rele­ gate nell'ambito del sapere degli appassionati, i quali invece con­ tinueranno a coltivarle e a meravigliarsene. Gli zoo diventano uno dei principali luoghi in cui si concentrano inganni e astuzie, in par­ ticolare nei tiri mancini che alcuni animali, pronti a tutto pur di evadere o di spezzare la noia, giocano ai guardiani. Ci vorrà quasi un secolo prima che gli scienziati riprendano la questione, collegandola esplicitamente a quella degli stati men­ tali. Gli esempi di menzogne e di inganni intenzionali cominciano

a proliferare agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso; meno di dieci anni dopo, entrano nei laboratori. A Gambe, in Tanzania, Jane Goodall osserva gli scimpanzé che vengono a mangiare le banane che ha appositamente lasciato. Un giovane si avvicina e inizia a servirsi, quando arriva un maschio dominante. Il comportamento del giovane cambia immediatamen­ te: assume un'aria distaccata, del tutto indifferente alle banane. Lo scimpanzé più anziano se ne va; il campo è di nuovo libero e il giovane torna verso il cibo. Subito però ricompare il vecchio ma­ schio: insospettito dall'apparente disinvoltura del compagno, si era nascosto per osservarlo. Altri fatti sul campo confermeranno quan­ to si poteva dedurre dalle osservazioni di Goodall: gli scimpanzé sono degli ingannatori. Alla fine degli anni Settanta, a queste osservazioni si dà il significato che scatenerà una serie impressionante di ricerche, che da allora passano dallo status di aneddoti a quello di veri progetti scientifici. Da notare che «ricevere un significato», in questo ambi­ to, ha un senso molto particolare; indica che gli aneddoti diventano «significativi» perché hanno superato la prova sperimentale: è stato possibile dimostrarli'in laboratorio. Di conseguenza hanno avuto accesso allo status di oggetto di ricerca serio. Controverso, ma serio. Nel 1978, David Premack e George Woodruff, che lavorano da alcuni anni con gli scimpanzé decidono di dare un nuovo orien­ tamento ai propri studi. Fino a quel momento, spiegano, hanno in­ terrogato scimpanzé «fisici», a cui si chiede di trovare la soluzione a problemi come afferrare una banana con un bastone, uno sgabello o una cassa. D'ora in avanti si dedicano a interrogare scimpanzé «psicologi». Le scimmie sono mentaliste? Sono capaci, come si dice in gergo, di leggere nella mente altrui? In altri termini, possono mettersi mentalmente al posto di un altro e attribuirgli intenzioni, convinzioni e desideri? Secondo i due ricercatori, l'esperimento è decisivo. Se lo stu­ dioso cerca una ghiottoneria di cui lo scimpanzé conosce il nascon­ diglio, l'animale generalmente lo aiuta, una volta che ha capito che l'umano gliela offrirà. Ma se quest'ultimo la tiene per sé, alla pro­ va successiva l'animale lo ingannerà. Da una parte, questo indica che lo scimpanzé coglie il fatto che l'umano ha delle intenzioni, e dall'altra che quello che lo scimpanzé sa della situazione non corri­ sponde a ciò che sa l'umano. L'animale, quindi, percepisce che lui e l'umano ne hanno una conoscenza diversa.

Certo, concedono i due autori, anticipando la reazione pre­ vedibile dei comportamentisti - fuori dal condizionamento non c'è salvezza - e il loro famoso canone di Morgan (�Bestie), si può sempre ricondurre la spiegazione all'ipotesi, molto più semplice, del condizionamento: gli scimpanzé non farebbero che obbedire alla regola delle associazioni che hanno appreso. Non hanno potuto in­ dovinare le intenzioni di chi li tradisce; non fanno che associare, meccanicamente a forza di confrontarsi, l'assenza di ricompensa con il ricercatore che ne è responsabile. Gatto scottato teme l'acqua fredda. Ciò non richiede alcuna competenza particolare, se non la più elementare facoltà di apprendimento per condizionamento. Premack e Woodruff controbatteranno questo argomento invertendo, non senza ironia, la gerarchizzazione delle facoltà e «ritorcendo» il canone di Morgan contro coloro che generalmente lo invocano: noi attribuiamo spontaneamente intenzioni agli altri perché, sostengono, è la spiegazione più semplice e più naturale, e la scimmia fa probabilmente lo stesso. «Alla fine, la scimmia potreb­ be essere solo mentalista. A meno che non ci sbagliamo di grosso, non è abbastanza intelligente per essere comportamentista». C'è da chiedersi se, alla fine, gli scimpanzé non sperimentino meno diffi­ coltà dei comportamentisti ad attribuire stati mentali agli esseri di un'altra specie. Fuori dal laboratorio dei cognitivisti, la capacità di simulare torna sul campo a sostegno della nuova definizione di scimpanzé «sociale», che tenta di imporsi. In seguito alla scoperta di spavento­ si conflitti, crimini e cannibalismo, questo primate era stato destitu­ ito dalla carica di buon selvaggio pacifico che aveva mantenuto così bene fino a quel momento; le sue capacità di ingannare gli offrono un nuovo ruolo, ovvero lo «scimpanzé machiavellico» dotato di una qualità politica essenziale: poter influenzare, manipolare gli altri. Altri animali rivendicheranno, a propria volta, questa capa­ cità. Le scimmie, ovviamente, tra cui gli scimpanzé, perdono il mo­ nopolio. Gli uccelli di norma non sembrano buoni candidati, dato che lo sviluppo di questa qualità dipende dalle dimensioni della neocorteccia ( e;> Gazze). Tuttavia la notevole socialità dei corvi e un'osservazione sul campo motiveranno il loro specialista Bemd Heinrich a chiedere di rivedere il preconcetto. L'episodio della scimmia di Thompson, che aveva spiumato dolorosamente un rap­ presentante della specie dopo averlo tratto in inganno, riceve qui una contropartita «corvesca», stavolta con un cigno come vittima.

L'uccello sta covando le uova. Una coppia di corvi cerca in­ vano di rubargliele attaccandolo. Il cigno li minaccia, ma non si muove. A quel punto, un corvo fa una cosa mai vista in questi vo­ latili: finge di essere ferito - in riferimento ad altri uccelli, si parla di «finta dell'ala spezzata». Subito il cigno si lancia all'inseguimento dello pseudo-ferito ... mentre il compagno corvo si fionda sul nido e ruba le uova. Fingere di essere ferito, in sé, non ha niente di particolare: lo fanno diversi uccelli che nidificano al suolo, quando tentano di di­ strarre il predatore dal nido, simulando anche una faticosa fuga per attirare su di sé la minaccia. Finora però questo comportamento era stato collegato a un meccanismo pre-programmato, quindi non ave­ va bisogno di ulteriore spiegazione: a motivarlo bastava la selezione, e ciò era in contrasto con la possibilità di attribuire stati mentali. Perché, in questo caso, la spiegazione dell'istinto non è decisiva? Perché i corvi mettono in atto la finzione in un contesto insolito, e per uno scopo del tutto inusuale? Oppure, Heinrich offre ai corvi una spiegazione meno riduttiva perché confida nella loro intelligenza? È difficile decidere, e certo non bisogna farlo. Ma se la questione ci rende dubbiosi, significa che è il momento di riaprirla, riguardo a quegli animàli per i quali la si credeva risolta. L'esempio del corvo è efficace per chi osserva questi uccelli, ma gli sperimentalisti, e all'interno di un contesto di forte com­ petizione fra ricerche sul campo ed esperimenti in laboratorio, lo relegano fra gli aneddoti. Gli eventi rari, secondo la loro stessa defi­ nizione, hanno poche possibilità di ripetersi. Salvo, evidentemente, se si può ricreare una situazione in cui gli animali diano prova della propria affidabilità, cosa che fa Heinrich con i corvi tenuti in catti­ vità. Diversi esperimenti hanno confermato la sua ipotesi: se un cor­ vo si sente osservato da un compagno, fa finta di nascondere il cibo in un posto e poi va a nasconderlo effettivamente altrove, mentre l'altro è occupato a cercarlo nel presunto nascondiglio. Come hanno fatto i ricercatori con le scimmie, Heinrich tenta anche esperimenti che coinvolgono i ricercatori, e che trag­ gono spunto da una pratica abbastanza frequente presso i corvi in cattività, i quali amano nascondere oggetti. Se un osservatore uma­ no ruba uno degli oggetti nascosti in un contesto ludico, in seguito si osserva nel corvo un atteggiamento radicalmente diverso nei suoi confronti, quando quella persona gli somministrerà il cibo. L'uccello prende molte più precauzioni, cerca di restare fuori dal suo campo visivo e dedica più tempo a nascondere il cibo, rispetto a quando è in presenza di uno sconosciuto. Capiamo allora che i corvi non solo 7l

sono consapevoli delle intenzioni dei compagni, ma sanno allargare il cerchio degli esseri che ritengono dotati di intenzionalità, inclu­ dendo gli umani nel grande gioco della socialità. Anche i maiali sono stati arruolati nella grande famiglia de­ gli ingannatori. Nel corso di un esperimento in cui, all'interno di un labirinto, ci sono un maiale «informato» sul nascondiglio del cibo e uno invece «tenuto all'oscuro», è stato dimostrato che, se il maiale «ignorante» si arroga con la forza il privilegio di mangiare, il compagno, alla prova successiva, lo farà semplicemente smarrire nel labirinto. Inoltre, la possibilità che l'animale attribuisca stati mentali e intenzioni ad altri favorirà nuove alleanze fra campi di ricerca re­ lativamente chiusi a compartimenti stagni: quelli dei cognitivisti, che lavorano preferibilmente in laboratorio, in condizioni a volte simili a quelle di un esame scolastico; e quelli dei primatologi sul campo, più preoccupati della socialità degli animali che studiano. L'alleanza assume la forma di un'ipotesi: la finzione, poiché si fonda sulla capacità di comprendere le intenzioni altrui, sarebbe correlata alla cooperazione sociale. Aiuto reciproco e inganno corrisponde­ rebbero a due facce della stessa medaglia, l'intelligenza alla base del­ la socialità. Il mondo si de-moralizza e si ri-moralizza e i ricercatori, rivali in altri circostanze, collaborano. Altri fattori giocano a favore dell'interesse per gli animali così manipolatori e confermano lo sviluppo di questo soggetto di ricerca. Per esempio, i sociobiologi si sono interessati al modo in cui gli animali ricorrono all'imbroglio per risolvere i conflitti di in­ teressi. Come risolvere un conflitto di interessi fra due potenziali ge­ nitori futuri, ciascuno dei quali deve assicurarsi che il partner si as­ suma le responsabilità della nidiata? Secondo i sociobiologi, ognuno deve investire il meno possibile, e al tempo stesso accertarsi che il compagno non sia negligente. E così, propaganda ingannevole e manipolazioni spudorate diventano regole del saper vivere, nel senso letterale del termine. La passera scopaiola (Prunella modularis) ha inventato un sistema piuttosto sorprendente - attribuito, stavol­ ta, alle femmine, e in particolare ad alcune, visto che non tutte si comportano così. In certe situazioni, una femmina il cui territorio è confinante con quello di due maschi si comporta in modo da con­ vincere entrambi che potrebbero essere i padri della covata. Secon­ do gli osservatori, se è abile si ritroverà appunto con due maschi a difendere un territorio più ampio e a nutrire i piccoli. La sua strate­ gia consiste nell'accoppiarsi, con tutta la discrezione possibile, con

l'uno e con l'altro. Prima o poi scopriranno l'inganno, ma nessuno dei due può decidere a colpo sicuro di non essere il padre biologico. E siccome la stagione degli amori sarà a quel punto molto avanzata, non potranno fare marcia indietro e di conseguenza accetteranno il rischio, anziché imbarcarsi in un'azzardata defezione. I modelli di riferimento sono quelli tipici e abbastanza ripeti­ tivi della sociobiologia: conflitti di interesse fra maschi e femmine; animali alle prese in modo maniacale con le problematiche della riproduzione; dilemmi fra investimenti a breve o a lungo termine; capitali riproduttivi oculatamente calcolati, con strategie da far im­ pallidire i trader pii\cinici. Certo, un cambiamento rispetto agli sce­ nari che presentano femmine sottomesse e vittime della dominanza o dell'incostanza dei maschi; tuttavia, rimane l'immagine di una natura assoggettata alle leggi della competizione. La cooperazione sembra essere solo - cosa che non va certo trascurata - il risultato di una oscura macchinazione. Con l'avvio delle ricerche incrociate del cognitivismo e del­ la sociobiologia, è però emersa un'ultima ipotesi interessante. Dal punto di vista evoluzionista, il fatto di mentire, e di doversi difen­ dere dall'inganno, avrebbe scatenato una specie di corsa agli arma­ menti - ed ecco di nuovo il modello privilegiato dai sociobiologi. In un mondo di bugiardi, il problema è arrivare a sviluppare una duplice competenza: da una parte, per mettersi al riparo da chi in­ ganna e imparare a riconoscere l'inganno; dall'altra, per riuscire a ingannare bene. Secondo questo modello, più si sviluppa la capacità di ingannare, più deve evolvere in parallelo quella di individuare gli inganni; di conseguenza, è necessario che questi ultimi diventino impercettibili, i modi per riconoscerli ancora più accorti e cosl via. In tal modo, la competenza nell'ingannare in modo insospet­ tabile verrebbe portata agli estremi e avrebbe come effetto un'inso­ lita capacità di inganno: quella di ingannare sé stessi. In altri ter­ mini, in un mondo in cui si è abili nell'individuare gli inganni e le menzogne, per imbrogliare gli altri non c'è nulla di più efficace che credere da soli alle proprie invenzioni. Diventando così la vittima deliberata delle motivazioni inconsapevoli. Come si vede, l'inganno coinvolge i campi più eterogenei e fa da collante a tipologie cognitive, modelli disciplinari, model­ li psichici che le scienze avevano accuratamente distinto, il che gli garantisce una parte del successo: è legato alla biologia; mette in gioco modelli cognitivi sofisticati, credenze e stati mentali che interessano i cognitivisti e, va segnalato, la filosofia analitica; si intreccia attualmente con i processi inconsci; si aggancia a teorie

sociologiche e politiche; soprattutto, è considerato profondamente connesso all'ambito della morale: andrebbero di pari passo l'ingan­ no e l'empatia, la comprensione dei desideri altrui e la preoccupa­ zione per gli altri. La lettura di quest'ultima, sorprendente alleanza susci­ ta un'osservazione finale, rispetto a questo tratto di storia che ha condotto gli animali sulle strade del camuffamento e dell'inganno. Nelle ricerche di cui ho parlato c'è un paradosso che ha un che di ironico e che ritroviamo in diverse teorie dell'evoluzione: i com­ portamenti che negli esseri umani la morale stigmatizza più chiara­ mente, una volta spiegati alla luce delle teorie della storia naturale e dell'evoluzione, a un certo punto finiscono per essere accostati alle virtù più nobili - o, almeno, ne sono la condizione. In altri termini, quello che l'animale fa, e che la morale tro­ verebbe riprovevole condannandolo senza esitazioni, nell'ambito della natura diventa il cammino più sicuro verso la moralità. La gelosia dei maschi rende stabili le coppie, la gerarchia più rigida e arbitraria diventa garante della pace sociale e, sempre in questa prospettiva, l'inganno si rivela la prova della più alta considerazione per gli altri, alla base della cooperazione. C'è quasi da chiedersi se l'etologia non sia stata inventata da un gesuita amante della casuistica spontanea. A un inferno, le cui vie sono lastricate di «non si sa che", si potrà allora contrapporre l'immagine di un paradiso a cui, alla fine, le peggiori intenzioni ci condurrebbero.

Job

Perché si dice che le mucche non lavorano?

.;'G... .·

' li animali lavorano? La sociologa specialista di allevamenti \. : .·.-: Jocelyne Porcher ne ha fatto l'oggetto delle proprie ricerche. cominciato chiedendo agli allevatori se aveva senso pensare che gli animali collaborassero e lavorassero con loro. li tema non è facile. Né per noi né per buona parte di queste persone. Anche la risposta è perentoria: no, lavorano le persone, non gli animali. In effetti, lo status di lavoratori può essere con­ cesso ai cani guida, agli equidi e ai bovini da tiro e ad altri animali coinvolti in attività svolte da professionisti: cani poliziotto, cani da soccorso, ratti sminatori, piccioni viaggiatori e altri collaboratori. Non è molto accettato che vengano considerati lavoratori gli ani­ mali d'allevamento. Tuttavia, nel corso delle ricerche precedenti al suo studio­ dell'argomento, Jocelyne Porcher ha ascoltato numerosi aneddoti e storie che l'hanno indotta a pensare che gli animali collabori­ no attivamente al lavoro degli allevatori, facendo cose, prendendo iniziative in modo deliberato. li che l'ha indotta a riflettere che il lavoro non sia visibile né facilmente ipotizzabile. Si dice senza dirsi, si vede senza vedersi. Se un'ipotesi non è semplice, spesso significa che la risposta al problema che solleva cambia qualcosa. È il principio alla base della sociologia: se accettiamo un'ipotesi, dovrà cambiare qualco­ sa. Infatti, nella pratica sociologica, una questione non viene posta «per sapere», ma è pragmatica, e la sua risposta ha delle conseguen­ ze ( :-:'> Versioni). Pochi sociologi e antropologi sono stati in grado di supporre

Ha

che gli animali lavorino, osserva Porcher. Per esempio, l'antropo­ logo Richard Tapper, secondo il quale l'evoluzione dei rapporti fra umani e animali avrebbe seguito un percorso simile ai rapporti di produzione fra gli umani. Nelle società di cacciatori, il rapporto fra umani e animali sarebbe stato di tipo comunitario, perché i secondi appartengono allo stesso mondo dei primi. Le domesticazioni ini­ ziali potrebbero essere equiparate alle varie forme di schiavitù. La pastorizia ricorderebbe le forme contrattuali di tipo feudale mentre, nel caso dei sistemi industriali, il tipo di relazione ricalcherebbe i modi di produzione e di relazione capitalistici. Jocelyne Porcher rifiuta questa ipotesi, seppur interessante, perché, se ha il merito di prendere in considerazione l'idea che gli animali lavorano, al tempo stesso riduce le relazioni a un unico schema, quello dello sfruttamento. Di conseguenza, scrive, «è im­ possibile pensare a un seguito diverso». Infatti, la ricostruzione dell'antropologo Tapper tira in ballo la questione di cosa ereditiamo. Ereditare non è un verbo passivo, è un compito, un atto pragmatico. Un'eredità si costruisce, si trasfor­ ma sempre retroattivamente. Ci rende, più o meno, in grado di fare altro rispetto al semplice atto di prolungare l'esistenza di qualcosa: ci richiede di essere capaci di rispondere a - e di rispondere di - ciò che ereditiamo. Un'eredità si realizza, il che significa inoltre che ci si realizza nell'atto di ereditare. In inglese, il termine remember (ricordare) può spiegare questo lavoro, che non è solo di memoria: «ricordare» e «ricomporre» (re-member). Fare la storia è ricostruire, raccontare, in modo da offrire altre possibilità di presente e futuro appena passato. Quali cambiamenti introdurrebbe una storia che riflette sui rapporti che hanno unito gli allevatori e i loro animali? Prima di tutto, modificherà il rapporto con gli animali e quello con gli alle­ vatori: «Porre la questione del lavoro obbliga a considerare gli animali non

come vittime, o idioti naturali e culturali che occorre liberare loro mal­

grado».

L'allusione è chiara. Porcher si riferisce ai movimenti libe­ razionisti, a quelli che, riportando le sue parole, vorrebbero «libe­ rare il mondo animale». Questa critica è indicativa dell'approccio particolare adottato dalla sociologa nel suo lavoro: pensare sempre insieme gli umani e gli animali, gli allevatori e le loro bestie. Smet­ tere di considerare gli animali come vittime significa pensare una

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relazione che può essere diversa dallo sfruttamento; una relazione in cui, dal momento che non sono idioti naturali o culturali, gli animali si coinvolgono attivamente, danno, scambiano, ricevono e in cui, fuori dalla logica dello sfruttamento, gli allevatori danno, ri­ cevono, scambiano, fanno crescere e crescono con i propri animali. Ecco perché la domanda: «Gli animali lavorano, collaborano attivamente al lavoro dell'allevatore?» è importante da un punto di vista pragmatic� In mancanza di storia, bisogna rivolgersi al pre­ sente. Interrogare gli allevatori non è quindi un tentativo di sa­ pere - «Che cosa pensano gli allevatori?» -, ma un vero e proprio esperimento pratico a cui Jocelyne li invita. Quando chiede loro di pensare, e lo fa attivamente, non è per raccogliere informazioni oppure opinioni, ma per esplorare con loro delle ipotesi, sollevare dubbi, provare a fare un'esperienza, nel senso più sperimentale del termine: cosa significa pensare così? E se si provasse a pensare che gli animali lavorano, allora cosa vorrebbe dire «lavorare»? Come rendere visibile e riferibile ciò che è invisibile e poco pensabile? Avevo anticipato che l'ipotesi di pensare che gli animali la­ vorino non era semplice. Tanto più se, come appura Jocelyne, l'u­ nico luogo in cui sarebbe fondata è proprio quello dove a prevalere è solo la componente di sfruttamento. In altri termini, il lavoro degli animali è invisibile, salvo nei posti in cui umani e animali vengono dura­ mente maltrattati. In effetti, i luoghi in cui viene sollevato il problema del lavo­ ro degli animali, dove risulta evidente, sono i posti peggiori dell'al­ levamento, inteso come produzione: quelli industriali. Jocelyne Porcher spiega l'apparente paradosso: in queste realtà gli animali vengono allontanati e privati del proprio mondo a tal punto che «i loro comportamenti risultano pesantemente inscritti in un rapporto di lavoro». Uomini e animali sono impegnati in un sistema caratteriz­ zato dal «produrre a qualsiasi prezzo», in cui la competizione fa sì che l'animale venga considerato un lavoratore: deve «fare il suo lavoro», ed è punito quando si ritiene che lo saboti (per esempio, se una scrofa schiaccia i piccoli). I lavoratori, soprattutto nell'allevamento intensivo dei sui­ ni, si convincono, continua Porcher, che il loro sia un impiego di gestione del personale: l'espressione è poco utilizzata, ma il suo con­ tenuto implicito viene richiamato di continuo. Bisogna dividere le scrofe produttive da quelle improduttive, verificare che gli animali assicurino la produzione richiesta. Rappresentare sé stesso come una specie di «direttore delle risorse animali», scrive la sociologa, «testi-

monia la diffusione del pensiero manageriale e il posto rilevante che esso occupa nelle filiere di produzione animale» ( è,'> Kg). I.:animale corrisponde così a una sorta di proletariato sconosciuto fino a quel momento, ultraflessibile, che si può opprime­ re e distruggere a piacimento. La tendenza tipica dell'industrializza­ zione di fare a meno, il più possibile, di manodopera umana, più costosa e sempre passibile di errore, si riflette anche nell'utilizzo di robot per la pulizia, che sostituiscono gli umani, e di maiali robot che sostituiscono i suini in carne e ossa per individuare le femmine in calore. Al contrario, negli allevamenti non intensivi la possibilità che gli animali lavorino risulta più difficilmente percepibile. Certa­ mente, nel corso della ricerca, a forza di insistere, alcuni finiscono per rispondere a Porcher che sì, forse, «da questo punto di vista», si potrebbe pensare che gli animali lavorino, cosa che prende tempo, richiede di prendere sul serio le omonimie e di attribuire molteplici significati agli aneddoti; è una sperimentazione. Al tempo stesso, rivela che il problema del lavoro animale non è così evidente. La sociologa ha quindi deciso di concentrarsi su questo, sulla possibilità di rendere il lavoro percepibile. Di conseguenza, ha modificato il procedimento, interrogando le mucche. Come ci ha insegnato l'etologia, alcune domande possono ricevere risposte soltanto se si creano condizioni concrete, che non solo permettono alle domande di venire poste, ma rendono chi le pone sensibile alla risposta, in grado di poterla cogliere quando ha la possibilità di emergere. Con una delle sue studentesse, Porcher ha osservato e filmato a lungo le mucche di una mandria nella stal­ la, annotando tutti i momenti in cui dovevano prendere iniziative, rispettare regole, collaborare con l'allevatore, anticiparne le azioni per permettergli di fare il suo lavoro. Ha anche fatto attenzione agli stratagemmi che questi animali inventano per mantenere un clima tranquillo, ai loro gesti di cortesia, alla toilette sociale, al cedere il passo a una compagna. Quanto è emerso è la ragione stessa per cui il lavoro era invisibile: esso diventa percepibile, al contrario, solo quando le muc­ che fanno resistenza, rifiutano di collaborare, proprio perché questa resistenza mostra che, quando tutto funziona bene, il merito è del loro impegno attivo. Quando tutto va bene, il lavoro delle mucche non si vede. Quando vanno tranquillamente al robot della mungi­ tura, non si urtano, rispettano l'ordine di passaggio, si allontanano dal macchinario non appena l'estrattore ha finito l'operazione, spo­ standosi per permettere all'allevatore di pulire la stalla - se fanno

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quanto serve per obbedire a un ordine -, quando fanno tutto ciò che occorre perché ogni cosa si svolga senza intoppi, questo lavoro non viene considerato prova della loro volontà di fare ciò che ci si aspetta da loro. Tutto assume l'aria di qualcosa che funziona, o della semplice obbedienza meccanica ( il termine è particolarmente appro­ priato), tutto si svolge meccanicamente. Solo nei conflitti che turbano l'ordine, per esempio nei turni al robot di mungitura o quando non si spostano per la pulizia, non vanno dove dovrebbero, si sottraggono o, semplicemente, rallenta­ no, insomma quando fanno resistenza, solo allora si cominciano a delineare, o piuttosto a valutare diversamente, le situazioni in cui tutto funziona. Tutto funziona perché le mucche fanno di tutto per­ ché funzioni. Le occasioni prive di conflitto, quindi, non hanno nul­ la di naturale, di evidente o di meccanico, e in realtà sottopongono le mucche a una continua attività di pacificazione in cui scendono a compromessi, si puliscono a vicenda, si rivolgono gesti di cortesia. Una constatazione simile, pur con rilevanti differenze, emer­ ge dalle ricerche condotte dal sociologo Jérome Michalon con gli animali - cani e cavalli - reclutati come assistenti terapeutici di umani in difficoltà. Hanno l'aria passiva di quelli che «lascia­ no fare» ma, quando le cose con loro diventano difficili, quando «reagiscono», ci si rende conto che la collaborazione si fonda su una loro straordinaria capacità di astenersi, su un riserbo attivo, su una determinazione a «contenersi», che non sono percepiti, perché sembra che «vadano da sé». Nelle osservazioni di Porcher, questo «andare da sé» dimo­ stra invece un lavoro di collaborazione con l'allevatore, un lavoro invisibile. Solo prestando attenzione ai numerosi modi con cui le mucche fanno resistenza, aggirano o trasgrediscono le regole, ral­ lentano o fanno il contrario di quanto ci si aspetta da loro, le due ricercatrici hanno potuto vedere chiaramente che questi animali capiscono cosa devono fare e si impegnano attivamente nel lavo­ ro. In altri termini, è nella «cattiva volontà» che, per contrasto, traspaiono la volontà e la buona volontà; nell'opporre resistenza diventa percepibile la cooperazione, in quello che si reputa un erro­ re o un malinteso si manifesta l'intelligenza pratica, un'intelligenza collettiva. Il lavoro diventa invisibile quando tutto funziona bene o, detto altrimenti, quando tutto funziona bene diventa invisibile il coinvolgimento richiesto affinché tutto funzioni bene. Le mucche imbrogliano, fanno finta di non capire, rifiutano di adottare il ritmo che viene loro imposto, mettono alla prova gli umani con i quali lavorano, per ragioni che sono loro proprie ma

che rendono, per contrasto, percepibile il fatto che partecipano, in­ tenzionalmente, al lavoro. In questo senso, mi viene in mente una riflessione di Vicki Heame, l'addestratrice di cani e cavalli diven­ tata filosofa, sul perché i cani riportino sempre il bastone ad alcuni metri di distanza dal punto in cui viene loro richiesto. Secondo lei, è per porre all'umano un limite all'autorità che il cane è disposto a concedere. Una misura quasi matematica che ci ricorda che «non è tutto automatico». Tuttavia, dal punto di vista delle mucche, cosa cambia il fatto di rendere visibile il loro impegno attivo nel lavorare insieme? Pen­ sare che allevatori e mucche condividano le condizioni di lavoro - e, sulla base degli studi di Donna Haraway, potremmo coinvolgere anche gli animali di laboratorio - cambia il modo in cui si agisce e si affronta la questione. Obbliga a pensare che le bestie e le perso­ ne siano come legate nell'esperienza che stanno vivendo e in cui costruiscono, insieme, le proprie identità. E obbliga a riconsiderare il modo di rispondersi reciprocamente, di essere responsabili nella relazione - non nel senso che devono assumersi le responsabilità, ma che rispondono gli uni agli altri nelle conseguenze, e che le loro risposte sono influenzate da tali conseguenze. Se gli animali non cooperano, il lavoro è impossibile. Quin­ di, non esistono animali che «reagiscono»; a meno che non si riesca a vedere altro che un funzionamento meccanico. Con questo cam­ biamento, l'animale non è più, a ben vedere, una vittima perché, di nuovo, essere vittima implica la passività, con tutte le conseguenze; in particolare, il fatto che una vittima suscita poca curiosità. È evi­ dente che le mucche di Jocelyne Porcher ne suscitano molta di più che se venissero trattate come vittime: sono più vitali, più presen­ ti, stimolano più domande; ci interessano e hanno la possibilità di interessare l'allevatore. Una mucca che disobbedisce consapevol­ mente coinvolge in una relazione molto diversa rispetto a una che spezza la routine solo perché è stupida e non ha capito; una mucca che fa il suo lavoro è decisamente più interessante di una vittima dell'autorità dell'allevatore. Se le ricerche di Porcher permettono di affermare che le mucche collaborano nel lavoro, allora si può dire anche che lavo­ rano? Si può sostenere, chiede, «che hanno un interesse soggettivo nel lavoro?». Lavorare ne accresce la sensibilità, l'intelligenza, la capacità di sentire la vita? Bisogna distinguere fra le situazioni in cui solo la costrizione rende il lavoro visibile e quelle in cui gli animali «ci mettono del loro» e rendono il lavoro invisibile. Per mettere a fuoco questa differenza, e per spiegare le caratteristiche degli alleva-

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menti in cui bestie e umani collaborano insieme, Porcher riprende le teorie di Christophe Dejours e dà loro un'accezione inedita. Se il lavoro umano, come propone lo studioso, può essere strumento di piacere e contribuire alla costruzione della propria identità, è perché è fonte di riconoscenza. Dejours ne illustra le ca­ ratteristiche attraverso due tipi di giudizio: quello dell' «utilità» del lavoro, espresso da chi ne beneficia, i clienti e i fruitori; e quello della «bellezza», che qualifica il lavoro ben fatto, e rientra nel rico­ noscimento tra pari. Porcher propone di aggiungere un terzo giudizio: quello del legame. È il giudizio che i lavoratori percepiscono dagli animali, un giudizio, sul lavoro, dato dagli stessi animali. Non riguarda il lavoro compiuto o i risultati della produzione, ma i mezzi del lavoro. Questo giudizio è al centro della relazione con l'allevatore, è un giudizio reciproco, con cui l'allevatore e i suoi animali si possono riconoscere. Ed è qui che viene messa in risalto la differenza fra il lavoro mortifero e distruttivo delle identità negli allevamenti dove tutti soffrono; e, al contrario, i luoghi dove uomini e bestie condivi­ dono cose, si realizzano insieme. Il giudizio del legame, o il giudizio sulle condizioni della vita insieme, fa la differenza fra un lavoro che aliena e uno che costruisce, anche in situazioni radicalmente squili­ brate fra gli allevatori e i loro animali. Dobbiamo ancora fare la storia, ricrearne una che dia senso al presente, per offrirgli un futuro un po' più praticabile. Non la storia idilliaca del ritorno a un'età dell'oro, bensì una che stimoli il desiderio delle possibilità, che apra la porta dell'immaginazione all'imprevedibile e alla sorpresa, una storia di cui volere un seguito. Questo fa intravedere Jocelyne Porcher nelle ultime pagine del suo libro, ricordando quando lei stessa allevava pecore: «Il lavoro era il luogo del nostro incontro inatteso, la possibilità di comunicare tra noi, pur appartenenti a specie diverse, che prima del

Neolitico, prima di Neanderthal, non sembravano poter dire e fare nul­ la insieme».

Tutto è detto, e niente è ancora detto.

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Ci sono specie che si possono uccidere?

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\i' , el 2009, a livello mondiale sono morti 2 miliardi e 389 mi­ ,.,,, �.;::., lioni di chili di animali d'allevamento. Sono stati mangiati. Se �ogliamo valutare il peso totale degli animali morti, a questa cifra aggiungiamo quelli uccisi dalle attività di caccia e dagli inci­ denti automobilistici, morti per vecchiaia o malattia, soppressi con l'eutanasia, mangiati da predatori che non erano umani, eliminati per ragioni sanitarie o «rottamati» perché non produttivi. Ne di­ mentico certamente molti. Nel corso dello stesso anno, quanti chili di umani sono scom­ parsi? È una domanda che non viene mai posta o, più precisamen­ te, non in questa maniera. Quando si tratta di umani il numero di morti è calcolato su una media, o è stimato oppure attribuito a diverse cause; in nessun caso è misurato in chili o in tonnellate, ma in «persone»: 25 mila persone muoiono ogni giorno di malnutrizio­ ne; 8 mila di AIDS; 6.300 per incidenti sul lavoro. Potrei allungare la lista e trovare senza troppe difficoltà le cifre relative alle vittime degli incidenti stradali, alle morti violente, ai decessi per droga ... La distribuzione di queste cifre e la modalità di raccoglierle indicano qualcosa del nostro rapporto con questi morti: i numeri non veicolano solo un'informazione, non si limitano a tradurre il mondo in statistiche. Dietro tutto il lavoro di raccolta e catalogazione, c'è l'im­ pronta di una causa, non solo nel senso delle causalità ma soprat­ tutto nel senso che Luc Boltanski e Laurent Thévenot hanno dato a questo termine. La causa, secondo i due sociologi, risulta da un lavoro collettivo di costruzione di un'identità che ha l'obiettivo di

mobilitare, per denunciare e far cessare un'ingiustizia. Così queste morti, siano dovute all'AIDS, agli incidenti sul lavoro o alla mal, nutrizione, condividono una serie di caratteristiche: sono ingiuste dalla prima all'ultima perché evitabili; non si sarebbero verificate se tutti avessero fatto qualcosa, avessero tenuto conto di chi ne è poi stato vittima, avessero cercato di agire sulle cause con programmi di prevenzione, con una diversa distribuzione delle ricchezze o una differente organizzazione del lavoro ... Per Boltanski e Thévenot, per far diventare «causa» una pro, blematica occorre «de,singolarizzare» le vittime, che sono definite mediante il loro decesso. Rientrano in questa operazione i 2 miliardi e 389 milioni di chili di animali d'allevamento morti, presentati nei siti che pubblicano queste cifre. La semantica è evidentemente un po' diversa da quella che ho utilizzato: in un anno sono stati con, sumati 2.389 milioni di tonnellate di carne. Chili e tonnellate non muoiono; vengono consumati. Dietro questa cifra, non ci sono solo una o più cause, ma conseguenze che richiedono una mobilitazione: l'ambiente, la sorte dei Paesi emergenti, i cambiamenti climatici, la salute dei consumatori di carne e gli animali stessi. Gli animali morti pesano, ma hanno un peso diversificato: nelle emissioni di metano dei bovini, nelle malattie cardiovascolari per i mangiatori di carne, nelle tonnellate di cereali che hanno nu, trito gli animali, negli alberi abbattuti nei processi di deforestazione necessari a far spazio alle coltivazioni di cereali ... Bisogna poi ricordare che la de,singolarizzazione non opera allo stesso modo: gli animali uccisi vengono tradotti in chili di car, ne, gli umani morti in persone. È vero che, nel caso degli animali, sono le logiche di consumo e la loro denuncia a guidare il senso del, la traduzione, traduzione che consente di aderire alla causa a tutte le persone che potrebbero essere colpite dagli effetti dell'allevamento intensivo nello specifico, che si preoccupino o no degli animali: se non siete sensibili al loro destino, lo siete forse alle conseguenze che la pratica agricola necessaria ad alimentarli produce sulle foreste; e se non vi importa della deforestazione, magari potete preoccuparvi degli effetti del metano sul clima; e se siete scettici sul clima, forse sarete colpiti dall'impatto sulla vostra salute. Tuttavia, ci possiamo interrogare sugli effetti pratici di que, sto genere di argomentazioni. Infatti, la de,singolarizzazione, che fa «causa» e opera attraverso l'unità di misura del peso, non solo sembra essere un'arma piuttosto pericolosa da maneggiare , secondo gli stessi attivisti, consapevoli che i fatti richiamati si prestano a pe, ricolose discussioni che potrebbero esporli a critiche ,, ma prolunga

in un certo senso quelli che potrebbero essere chiamati effetti di rottura ontologica: gli uomini e gli animali sono a tal punto onto­ logicamente diversi, che i loro morti non possono nemmeno essere pensati insieme. Gli esseri umani sono corpi, spoglie; gli animali sono carcas­ se o cadaveri, se non vengono destinati al consumo. Certo, esiste anche il cadavere umano, ma è una definizione che si riferisce a situazioni molto particolari. Più in generale, se pensiamo per esem­ pio ai racconti o ai film polizieschi, i cadaveri indicano situazioni transitorie, in «attesa» di risoluzione. Se ne parla a proposito di un corpo ritrovato senza vita e che non è ancora stato «affidato» - o non può esserlo - a quanti lo hanno conosciuto come persona viva. Il cadavere è tale solo finché non viene «affidato», il tempo insom­ ma di renderlo ai suoi cari, che faranno del cadavere il «corpo» di un «defunto»: un morto «per gli altri», un morto che a quel punto inizia a esistere come morto sotto la protezione dei vivi. Parlare in termini di tonnellate o di chili significa partecipare a quella che Noelie Vialles descrive come un'operazione di tradu­ zione, concreta e semantica, del consumatore di carne animale in «sarcofago». Un'espressione che, ad analizzarla, indica la tendenza sempre più accentuata a cancellare tutto quello che potrebbe ricor­ dare l'animale vivo, che «ricorda in maniera troppo netta l'animale, la sua forma, la sua vita individuale e la sua messa a morte». Oggi l'occultamento dell'uccisione è evidente: i mattatoi sono scomparsi dalle città, insieme a ciò che potrebbe ricordare l'a­ nimale vivo, l'animale come essere. I suoi tratti più riconoscibili vengono dissimulati. Come possono ricordare le persone nate prima degli anni Settanta, sono state tolte man mano dalle vetrine delle macellerie le teste di vitello che troneggiavano in passato, oppure i corpi ancora interi, talvolta nemmeno spiumati, dei polli o della selvaggina. Il parossismo di un simile occultamento adesso è l'ham­ burger, che corrisponde a quasi la metà del consumo di carne bovina negli Stati Uniti. La trasformazione dell'essere morto in un'altra cosa che non ne ricorda affatto l'origine deriva da un'operazione che la socio­ loga Catherine Rémy chiama «de-animalizzazione» dell'animale. Funziona al contrario di quanto ho scritto per gli umani: nel matta­ toio, l'animale passa dalla condizione di corpo a quella di carcassa. Le pratiche di consumo guidano le metamorfosi successive. D'ora in poi si parla, sottolinea Vialles, del maiale, del bue, del vitello. Le parti del corpo dell'animale si traducono in tipologie di cottura: l'ar­ rosto, il bollito, la brace.

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La dissimulazione opera anche nella concretezza del fare a pezzi, pezzi indicati con termini che non sono, in genere, quelli usa­ ti in anatomia: fesa, filetto, prosciutto, costina, carré, petto, lom­ bata, geretto, braciola. I pezzi di carne sembrano dunque usciti da un processo che Rémy chiama di «smontaggio», come se il nuovo ordine loro assegnato - arrosto, braciola, filetto - fosse naturale. E quindi evidente e non problematico. Di conseguenza, il processo di smontaggio del mattatoio è il risultato di una trasformazione «senza strappi». Tanto più in quanto cancella, materialmente e nell'imma­ ginario, la violenza necessaria per quella trasformazione. Ricordia­ mo un episodio delle Avventure di Tintin, in cui il protagonista resta stupefatto quando assiste, in un mattatoio, alla trasformazione di una mucca viva in comed beef, salsicce e grasso per friggere. Attraverso il consumo dell'animale si cercano, scrive Vialles, «effetti di vita»; però devono essere «separati dall'essere vivente che ha fornito la materia prima». Insomma, le nostre sono pratiche di oblio. In nome di cosa condannare queste pratiche fondate sull'i­ gnoranza? Se il fatto di sapere ha come obiettivo solo di modificare il nostro rapporto con noi stessi, senza cambiare nulla del nostro rapporto con le cose, la denuncia è inutile. Ha senso soltanto se ci obbliga a pensare, a mettere in dubbio e a rallentare. Ed è a questo punto che il parlare in termini di tonnellate di carne consumate mi sembra problematico. Se, strategicamente, ciò consente di rag­ gruppare gli interessi più svariati, di «fare causa comune», di indur­ re una diminuzione dei consumi e quindi una messa in discussione dell'industrializzazione degli allevamenti - il famoso ossimoro -, al tempo stesso è indice di una prossimità problematica al modo in cui, appunto, questi animali sono diventati: non più allevati, bensl prodotti come beni di consumo. Infatti, parlare della loro morte in questi termini avvicina pericolosamente il linguaggio di denuncia a quello utilizzato pro­ prio nelle pratiche che concorrono a de-soggettivizzare l'animale, chiamate - con una frase davvero eloquente - «sistemi di produzione animale». Il modo in cui denunciamo quello che mangiamo utiliz­ za, e quindi ratifica, il modo in cui viene prodotto quello che noi mangiamo. Basta una semplice visita a uno dei siti della filiera suinicola: troviamo cifre e ancora cifre, tonnellate e percentuali, grafici com­ parativi e colorati diagrammi circolari che ripartiscono visivamente queste stesse cifre, chiamati familiarmente «torte» nella statistica applicata.

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Nei sistemi di produzione, la performance - sottolinea Jo­ celyne Porcher - è diventata il fattore che dà senso al lavoro. La sociologa constata che, a partire dagli anni Settanta del secolo scor­ so, periodo in cui venne attuato il piano di razionalizzazione della produzione, «la filiera del maiale ha accumulato una quantità straordinaria di cifre,

che dovevano dar conto del lavoro compiuto». E aggiunge: «La produ­ zione di cifre finisce per sostituire il pensiero».

Le cifre hanno insomma un ruolo simile a quello che presiede alla logica sarcofaga: impedire di pensare, far dimenticare. La filosofa Donna Haraway rileva che, statisticamente, la forma più frequente di relazione fra un umano e un animale consi­ ste nell'atto di uccidere quest'ultimo. Chi è scettico ha certamen­ te dimenticato la serie di massacri degli ultimi anni, dalle mucche pazze all'influenza aviaria, dalle stomatiti aftose alla scrapie. Non prendere sul serio questi episodi, dice, significa non essere in questo mondo persone serie, responsabili. Sapere come farlo, aggiunge, è ben lontano dall'essere chiaro. Qualunque sia la distanza che siamo tentati di mantenere tra noi e questi eventi, «non c'è alcun modo di vivere che non sia, al tempo stesso, per qualcuno, non per qualche cosa, un modo di morire diversamente». Per qualcuno e non per qualche cosa: non è stato uccidere ad averci portato agli stermini, bensì il fatto di aver reso

ammazzabili degli esseri.

Certo, continua, il veganismo etico riconosce una verità ne­ cessaria, ovvero la brutalità estrema delle nostre relazioni, cosiddet­ te normali, con gli animali; tuttavia, un mondo «multi-specifico» richiede, per avere una possibilità di esistere, «verità simultanea­ mente contraddittorie», quelle che emergerebbero prendendo sul serio non la regola che è alla base dell'eccezionalismo umano «Non uccidere» -, quanto piuttosto un'altra regola, che ci mette di fronte al fatto che nutrire e uccidere rientrano inevitabilmente nei legami che uniscono le specie compagne mortali: «Non renderai ammazzabile». Quello che dobbiamo trovare, dice ancora Haraway, e tro­ varlo fuori dall'eterna logica del sacrificio, è un modo di onorare gli animali. Ovunque vivono, soffrono, lavorano, muoiono e si nutro­ no gli esseri delle «specie compagne», dai laboratori che uniscono umani e animali, agli allevamenti, fino alle nostre tavole. Poiché dobbiamo ancora inventare come rendere onore agli

animali, dobbiamo fare attenzione alle parole, ai modi di dire che indicano modi di fare e di essere; dobbiamo metterci in dubbio, ideare tropi - come ci ricorda l'etimologia, oscillare -, approfondire le omonimie che ci ricordano che niente è scontato, che «niente è automatico» ( re-> Versioni). Mi piace, in questo senso, la proposta di Jocelyne Porcher, che suggerisce di considerare l'animale ucciso, per diventare cibo o per altri motivi, un defunto del quale dobbiamo imparare a rende­ re conto in modo responsabile. Un defunto, non una carcassa, dei chili, un prodotto alimentare: un essere la cui esistenza continua diversamente fra i viventi che nutre e a cui assicura la sopravviven­ za. Un defunto la cui esistenza si prolunga, se non nei nostri ricordi, nei nostri corpi. Ci resta da imparare a fare memoria, a «ereditare nella carne», come propone Haraway; imparare a fare la storia in­ sieme, specie compagne le cui reciproche esistenze sono a tal punto intrecciate che, l'una attraverso l'altra, vivono e muoiono in modo diverso. Il filosofo Cary Wolfe amplia la proposta di Jocelyne Porcher quando riprende l'interrogativo posto da Judith Butler dopo la tra­ gedia dell'll settembre: A chi spetta una buona vita?». La domanda delle vite che contano, o che chiedono di contare, si traduce in un'altra, molto concreta: «Quali morti sono degne di lutto?». Certo, dice Wolfe, Judith Butler non comprende gli animali, in queste vite che reclamano il dolore della perdita. Ma ritiene di non tradirla, quando estende la domanda a questi ultimi. Sostiene infatti che, per Butler, l'interrogativo si impone a noi perché vivia­ mo in un mondo i cui esseri sono interdipendenti e, soprattutto, sono vulnerabili da parte degli altri e per gli altri. La vulnerabilità, tut­ tavia, non rinvia l'animale allo status di vittima passiva o sacrifica­ le. Ed è la difficoltà che, mi sembra, Wolfe evita ricollocando «le vite degne di lutto» nelle dimensioni concrete e quotidiane delle relazioni interspecifiche, dimensioni che rendono reale una forma molto particolare di «vulnerabilità comune» evocata da Butler: «Perché vite non umane non potrebbero contare come vite degne di

lutto, se si prende in considerazione il fatto che milioni di persone pro­ vano un dolore profondo per il loro compagno animale morto?».

La domanda non è posta per ricordarci la banalità di un'e­ sperienza; è, credo, decisiva nell'approccio di Wolfe. Infatti, così la vulnerabilità non si allinea sullo status di vittima, non è una semplice individuazione delle fragilità; emerge dall'impegno attivo in una relazione responsabile, in cui ciascuno degli esseri impara a

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rispondersi e di cui essi imparano a rispondere: è con il dolore su cui ci si impegna, che la vita potrà contare; è con l'accettazione di questo dolore che essa conta. Assumere il rischio della vulnerabilità di fronte al dolore affinché vite vulnerabili «contino come vite», assumere un divenire vulnerabile insieme e in maniera diversa con gli animali, mi sembra un modo di rispondere alla proposta di Hara­ way di fare la storia con le specie compagne. Ne sono un esempio alcuni allevatori che Jocelyne Porcher e io abbiamo intervistato; per loro nessuna scelta è facile e ne cono­ scono la sofferenza. Ce lo raccontano le foto di alcune loro mucche che tengono appese ai muri di casa; nonché i nomi dati agli anima­ li, sapendo che proprio quei nomi cristallizzeranno la tristezza e il ricordo. Ed è anche quello che vogliono dire quando rispondono di non dover chiedere scusa ai loro animali, ma piuttosto di doverli ringraziare. Pensare in questo modo non dà senso, non più di quanto lo dia onorare i morti o chiedersi che cosa li onori, ma chiede di cercarlo, questo senso. E di imparare a crearlo, anche se non è auto­ matico - non deve essere automatico!

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Laboratorio

A che cosa sono interessati i topi negli esperimenti?

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a filosofa Vicky Earne riporta di aver sentito sperimentatori ';;:, ·" esperti consigliare ai giovani ricercatori di non lavorare con i gatti. En passant, segnalo che è anche vivamente sconsigliato, nei laboratori, lavorare con i pappagalli, non solo perché non fanno nulla di quanto viene loro chiesto, ma anche perché ne approfittano per distruggere con cura meticolosa tutto il materiale disponibile. Stando ai criteri degli sperimentatori statunitensi, sono totalmente incivili. I motivi possono essere molteplici: curiosità irrefrenabile, noia tipica, predisposizione di carattere. Quanto al gatto, secondo gli sperimentatori esperti, da quan­ to riferisce Vicky Heame, in certe situazioni se gli si dà un problema da risolvere o un compito da eseguire per trovare cibo, lo farà ab­ bastanza rapidamente, e il grafico che indicherà la misura della sua intelligenza negli studi comparati presenterà una curva ascendente piuttosto ripida. Tuttavia - e Heame cita uno degli sperimentatori-, «il problema è che i gatti, non appena capiscono che il ricercatore o il tecnico vogliono che essi tirino la leva, smettono di farlo, e alcuni si lascerebbero morire di fame piuttosto che continuare l'esperimento». La filosofa aggiunge, laconicamente, che questa teoria mar­ catamente anticomportamentista, per quanto ne sa, non è mai stata oggetto di pubblicazione. La versione ufficiale diventa: non utilizza­ te i gatti, mandano all'aria i dati. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, questi animali non hanno come regola quella di rifiutarsi di piacerci, spiega He89

ame. Anzi, è il contrario. Ai loro occhi, le aspettative degli umani sono molto importanti, ed è un compito che prendono sul serio. Però, proprio perché è una cosa seria, il gatto rifiuta, semplicemente, che non gli si lasci la scelta di rispondere o no a queste aspettative. Per alcuni di noi, simili considerazioni potrebbero avere un vago sentore di antropomorfismo, facilmente riconoscibile: in que­ sto caso, al gatto vengono attribuiti una volontà propria, desideri, voglia di collaborare, ma non a qualunque costo. Si riconosce, qui, l'impronta di una «non scienziata» (�Prestigio). In effetti, Vi­ cky Heame, prima di essere filosofa, è un'addestratrice di cani e di cavalli; ha voluto studiare filosofia per la preoccupazione di trovare il giusto modo di «tradurre» le esperienze che gli addestratori condi­ vidono in un linguaggio adeguato che potesse dame conto. Tuttavia, se Heame può sostenere, a buon diritto, che affer­ mare che i gatti non vogliono spingere la leva perché sono obbligati a farlo è una teoria decisamente anticomportamentista, in realtà non ha del tutto ragione. Se seguiamo gli studi compiuti dal sociolo­ go delle scienze Michael Lynch, la battuta con cui i comportamenti­ sti riassumono l'insuccesso in laboratorio - «I gatti mandano all'aria i dati» - non ha nulla di inconsueto o di strano. In laboratorio se ne ascoltano molte altre. Lynch ha constatato che in questi ambienti coesistono due visioni della cavia: la prima per cui è un «oggetto tecnico analitico»; la seconda per cui è una «creatura naturale olistica». Quest'ultima visione racchiude un corpus di saperi impliciti che non compaiono mai nelle relazioni ufficiali, ma che vengono utilizzati liberamente nel corso dei lavori, spesso sotto forma di aneddoti curiosi. Secondo il sociologo, l'umorismo terrebbe a distanza ciò che non può essere inquadrato nel «fare scienza». I due atteggiamenti, infatti, sono in contrapposizione, perché il secondo è un atteggiamento naturale, che si manifesta quando esseri dotati di intenzioni si incontrano; mentre il primo risponde alle esigenze comportamentiste di negare ogni possibilità di contatto fra lo sperimentatore e il proprio og­ getto-soggetto. Di conseguenza, l'antropomorfismo, che è continua­ mente «in agguato» nella pratica, dovrebbe sparire una volta che lo scienziato esce allo scoperto e dà conto dei risultati. Dire, come ho appena fatto, «di conseguenza», significa cor­ rere un po', e supporre che, quando si passa a scrivere la relazione, l'antropomorfismo scompaia, grazie al ricorso all'humour. In realtà, la faccenda è più complicata e comincia parecchio prima del lavoro di stesura degli articoli scientifici. Innanzitutto, la negazione non è il semplice prodotto di un esercizio ascetico di scrittura; inoltre, non

si tratta solo di negazione; infine, l'antropomorfismo non è né rele­ gato dietro le quinte, né assente: non è percepibile. In altri termini, è reso invisibile. La sua invisibilità deve la propria efficacia a una serie di ope­ razioni e di routine che hanno accompagnato la nascita del labora­ torio di psicologia animale. Queste operazioni sono principalmente di due tipi. Da un lato, in pratica, l'intero esperimento viene pre­ parato in modo da impedire che l'animale manifesti il suo modo di prendere posizione su quanto gli viene richiesto. Detto altrimenti, la domanda «In che senso questo gli può interessare?» non viene mai posta seriamente. Ai ricercatori conviene quindi non essere an­ tropomorfici, non lasciare che gli animali cedano alla tentazione, né si facciano trascinare. D'altro canto, se l'antropomorfismo non si rivela, è perché gli scienziati ci invitano a esercitare tutta la nostra attenzione proprio là dove è più facile da controllare: negli scritti e nelle interpretazioni dei risultati degli esperimenti. «In che senso questo gli può interessare?» è in effetti una domanda duplice. Da una parte, molto semplicemente, riguarda ciò che viene sperimentato, non l'animale. Tuttavia, per il modo in cui gli esperimenti vengono concepiti in genere, la prima versione della domanda non ha chance di essere posta. Il motivo principa­ le di tale impossibilità è l'imperativo della sottomissione che guida i procedimenti. Non c'è alcuna ragione di chiedersi se un ratto affamato possa o no essere interessato a correre in un labirinto per trovare cibo nei corridoi, di cui deve imparare il percorso: non può fare altrimenti. Non è interessato, è motivato o sollecitato. Non è la stessa cosa. Che un animale resista o manifesti attivamente il proprio disinteresse potrebbe certamente indurre ad analizzare questa pos­ sibilità: forse non è interessato? Di solito, la soluzione è più sem­ plice: gatti, pappagalli ecc. si vedono semplicemente escludere dall'addestramento. Nella maggior parte dei casi, vengono definiti «condizionabili», proprio come i pappagalli nei laboratori dei com­ portamentisti. Siccome non riuscivano a insegnar loro a parlare, gli scienziati che li avevano sottoposti agli esperimenti hanno finito per concordare con Skinner, il quale aveva sostenuto che il linguag­ gio è istintivo e che non si possono condizionare né gli istinti né i riflessi, a eccezione della salivazione - come aveva mostrato Pavlov con il cane e il campanello. Vale la pena soffermarsi sul modo in cui i ricercatori hanno tentato di insegnare a parlare agli uccelli ritenuti parlanti: hanno messo in gabbia pappagalli e merli indiani, poi hanno fatto ascoltare

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loro di continuo parole e frasi registrate, abbinate alla sommini­ strazione automatica di cibo. Normalmente, secondo la teoria del condizionamento, i soggetti avrebbero dovuto imparare a ripetere lo «stimolo condizionato», ma non l'hanno fatto. E i ricercatori hanno concluso che Skinner aveva ragione. Invece, lo psicologo Orval Mowrer fa notare che si sarebbe­ ro potuti trovare indizi di altre ragioni, osservando quanto era suc­ cesso dopo l'esperimento: gli assistenti avevano adottato due merli indiani come animali da compagnia, che si erano messi a parlare speditamente. Si torna al problema di «come far interessare l'animale?», considerandone un altro aspetto: l'analisi della maniera in cui il soggetto dell'esperimento esprime il proprio modo peculiare di inte­ ressarsi al problema che gli viene sottoposto. In questo tipo di test, infatti, l'animale non deve semplicemente rispondere alla domanda che gli viene rivolta, deve soprattutto farlo nella modalità in cui la domanda è stata rivolta. I merli indiani adottati dagli assistenti non sono mai sta­ ti oggetto di un articolo o di una ricerca: non hanno seguito il protocollo o, se preferite, hanno parlato per «cattive ragioni». Se l'animale risponde secondo le proprie abitudini, secondo ciò che lo interessa, gli studiosi ritengono che, per certi aspetti, «compia un'astuzia» - sì, ha fatto quello che gli è stato chiesto, ma lo ha fat­ to per «cattive ragioni». Il lavoro di ricerca consiste allora nell'in­ dividuare queste astuzie e, ovviamente, nell'impedirle. Da questo punto di vista, il caso degli animali parlanti è esemplare: l'utilizzo di nastri registrati non è il semplice effetto di una meccanizzazione del lavoro e queste registrazioni «depurano» la condizione in cui si verifica l'apprendimento. Se l'animale impara con un procedimen­ to simile, potrà parlare in tutte le circostanze e il fatto di parlare non sarà dovuto a una relazione particolare, con tutte le influenze, le attese del ricercatore «che fa parlare» ... Insomma, la competen­ za dell'animale sarà abbastanza astratta da permettere ogni tipo di generalizzazione. Le strategie per impedire le astuzie possono assumere le forme più diverse, dalla più banale attività casalinga alle mutilazioni più crudeli. Per limitarci a quelle meno «distruttive», sappiamo che gli scienziati puliscono a fondo i labirinti in cui i topi corrono. Dopo anni di studi meticolosi sulle teorie dell'apprendimento mediante condizionamento, non è loro sfuggito che questi roditori furbetti non memorizzano i percorsi premiati e quelli senza via d'uscita: sem­ mai, marcano con il proprio odore ciascun tragitto. I segni non sono

neutri, perché indicano chiaramente, per il topo, che «qui c'è una impasse» (magari un odore di frustrazione, chi lo sa?) oppure che «qui va bene». Adottando questi accorgimenti, i topi non danno prova di un apprendimento fondato sulla memoria, ma di altro, qualcosa che ha a che fare con il loro talento che però non interessa né agli uma­ ni né ai teorici del condizionamento. Detto altrimenti, poco impor­ ta come il topo sia interessato a risolvere il problema che gli è stato posto: lo deve risolvere nei termini voluti dai ricercatori. Il che, in effetti, traduce l'impossibilità dell'altra versione della domanda: «Che cosa può interessare all'animale?». Come si vede infatti, se l'animale risponde utilizzando il modo in cui arriva a gestire il problema, non risponde più alla do­ manda «in generale», quindi la sua risposta non ha più niente di ge­ neralizzabile. Ancora peggio se risponde per ragioni collegate al suo rapporto con il ricercatore, o per ragioni che gli sono proprie ma che hanno a che vedere con la situazione particolare a cui è assoggetta­ to: la «non indifferenza» di questa risposta compromette ancora di più il processo di generalizzazione. Non che la risposta assoggettata sia, dal canto suo, «indifferente» - in nessun caso può esserlo -, ma gli scienziati si sentono in diritto di pensare che essa sia indistingui­ bile da tutte le risposte derivanti da operazioni di quel tipo. L'assoggettamento assume così la propria condizione essen­ ziale: l'invisibilità. Tutti i topi, in tutti i labirinti, corrono perché hanno fame: questione tranquillamente risolta. A condizione, ov­ viamente, di aver pulito molto bene l'ambiente. Altrimenti si do­ vranno ipotizzare altre cause: che il topo prosegue non perché sti­ molato dall'obiettivo del cibo ma perché, passo dopo passo, in cui ciascuno causa il successivo, legge messaggi, si lascia guidare: «Qui no»; «Là sì»; «Forse più in là»; «Riconosco quest'odore, il terreno mi è familiare». Possono esserci altri motivi per cui il topo potreb­ be dimenticarsi della fame, e riprendere le proprie abitudini. Cosa possiamo sapere delle sue motivazioni? Ancora peggio, come mi ha suggerito un giorno una giovane ricercatrice: i topi corrono più ve­ loci in presenza di spettatori. Questa disastrosa moltiplicazione dei motivi possibili si ag­ grava se ci riferiamo all'esperienza di Leo Crespi, il quale affermava che i topi, in certi esperimenti, modificano le performance se sono delusi dalla ricompensa, o provano l'ebbrezza del successo quando essa è superiore all'aspettativa ( r:::> Fare giustizia). Infine, il peggio del peggio, come ha dimostrato l'esperimento oggi celebre di Ro­ senthal: i topi imparano più velocemente il tragitto se lo sperimen-

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tatore pensa che siano brillanti nel compiere la prova, e per questa ragione ha rapporti migliori con loro. È vero che, evitando il difficile problema di chiarire, sup­ porre, tenere conto delle ragioni che l'animale potrebbe avere per collaborare, si evitano i rischi dell'antropomorfismo. Il mio primo impulso sarebbe rifiutare questo argomento: l'antropomorfismo c'è sempre, perché cosa c'è di più antropomorfico di un esperimento che esige dall'animale di rinunciare ai propri comportamenti usuali per privilegiare quelli attraverso cui i ricercatori pensano che gli umani sperimentino l'apprendimento? Salvo che i ricercatori non «pensano» che gli umani facciano esperienza in questo modo, anzi non lo ipotizzano; non è il loro problema. Il loro problema è che l'apprendimento avvenga per «buone ragioni», cioè che si prestino alla sperimentazione. Di conseguenza, la forma particolare di an­ tropomorfismo della sperimentazione è percepibile con maggiore difficoltà. Corrisponde ali' «accademico-centrismo». Non vale solo per la questione degli odori nel labirinto: del resto, l'approccio accademico-centrico è più comprensibile quando si tratta di apprendimento del linguaggio, un apprendimento che si fonda su una concezione limitata del linguaggio come sistema pura­ mente referenziale, utile solo a indicare cose: una concezione molto accademica, in cui l'apprendimento passerebbe solo per la memoriz­ zazione - il che corrisponde, grosso modo, allo studio a memoria. Né gli umani né gli animali imparano a parlare così. Tuttavia i primi, dopo un lungo percorso disciplinare, possono in effetti «imparare» secondo questo procedimento. Potreste rimproverarmi un'incoerenza nella polemica. Bol­ lo come antropocentrico un procedimento che consiste nel lavare un labirinto o nel «depurare» un apprendimento dei propri aspetti relazionali e concedo a Crespi, con malcelata simpatia, che i topi possano essere entusiasti o delusi perché si risponde bene, o male, alle loro aspettative. Non ho intenti polemici, al contrario. Cerco di far uscire la questione dell'antropomorfismo dalla polemica, ren­ dendola meno schematica. Il che chiede di riesaminare le procedure e di reintrodurle nel contesto di ciò che può interessare all'anima­ le, che può rendere l'animale interessante e che può interessarci ( r:='> Umwelt). La domanda «Cosa interessa all'animale?» ci spinge a esplo­ rare diverse ipotesi, a fare congetture, a supporre, a prevedere con­ seguenze inattese non come ostacoli ma come vincoli. È rischioso: non si tratta di semplice speculazione, ma di ricerca attiva, impe-

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gnativa, perfino scaltra. È una questione pratica e pragmatica. Non si limita a comprendere o a mostrare un interesse, lo produce, lo modifica, lo negozia con l'animale. Come facciamo a far parlare un pappagallo? In che modo gli può interessare? Ovviamente, non possiamo utilizzare le procedure comportamentiste, cioè i messaggi registrati accompagnati da ri­ compense alimentari. Altri ricercatori, fra i quali Orval Mowrer, avevano capito la lezione. Il pappagallo ha bisogno di relazioni... e di una ricompensa. Fatica sprecata. Il pappagallo di Mowrer è riusci­ to solo a imparare a dire «Hello» e neanche a proposito, dal punto di vista dei criteri della conversazione. Infatti, aveva ipotizzato che la parola significasse «noccioline», visto che le riceveva ogni volta. La relazione non bastava e le noccioline nemmeno. La ricercatrice Irene Pepperberg inizia le ricerche da lì. Un interesse si costruisce, si modifica, anche giocando d'astuzia: lo farà con Alex, il pappagallo cenerino (Psittacus erithacus) del Gabon che ha adottato. Gli addestratori di pappagalli conoscono bene un aspetto di questi uccelli: hanno uno spiccato senso della competi­ zione. Quindi, la ricercatrice non cerca di insegnare nulla ad Alex, ma lo fa assistere alle lezioni che dà a uno dei suoi assistenti-compli­ ci. A un certo punto, il pappagallo lo vuole «battere». Alex parla. E parla tanto meglio poiché capisce che, così facendo, può ottenere cose - diverse dalle noccioline - e negoziare le relazioni con l'équipe dei ricercatori. E ben altro. Lo racconto in modo un po' semplice, come se fosse un pro­ cesso automatico: è stato un lavoro lungo, rischioso e impegnativo. Pepperberg ha considerato che ciò che era in ballo aveva un caratte­ re doppiamente eccezionale: da una parte, perché la lingua imparata dall'uccello appartiene a una specie diversa; dall'altra, perché tale apprendimento va decisamente oltre la cosiddetta «fase sensitiva dell'apprendimento», cioè il periodo in cui, in condizioni normali, il pappagallo impara dai compagni di specie. L' «eccezionalità» implica al tempo stesso, scrive la ricercatri­ ce, che si tenga conto, con maggiore attenzione, di tutte le possibili­ tà di fare resistenza a questo apprendimento. Il che rende l'esercizio ancora più impegnativo; astuzia e tatto, astuzia e attenzione: l'in­ tesa fra il tutore e l'allievo dovrà essere tanto più sottile, tanto più perfetta - rallentare quando è difficile, accelerare per scongiurare la noia, intensificare le interazioni, fare in modo, dice Pepperberg, «che gli effetti dell'apprendimento siano il più possibile vicini alle conseguenze del mondo reale»: poter ottenere delle cose, influen­ zare le altre.

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In effetti si è, checché ne dica la ricercatrice, in un mondo laboratorio, certo eccezionale, in cui es­ seri di specie diverse lavorano insieme, un mondo reale in cui ogni sera un pappagallo dice alla sperimentatrice che si prepara a tornare a casa: «Arrivederci. Adesso mangio. A domani».

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Moralità

Gli animali sono modelli affidabili?

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urante la mostra Betes et hommes allestita nella Grande Halle \"' .. . de la Villette di Parigi nel 2007, alcune otarde, cinque corvi ne-ri e una cornacchia, due varani, cinque avvoltoi e due lontre fratello e sorella - furono ospitati fra opere, video e testi. Negli intenti degli organizzatori tra i quali c'era anche la sottoscritta, questi animali «in trasferta» erano gli ambasciatori dei loro congeneri; in quanto rappresentanti, richiamavano l'attenzione sulle problematiche del vivere insieme e dei conflitti che questa vo­ lontà genera fra gli umani, fra gli umani e gli animali, fra gli animali ( c'> Fare giustizia). Si trovavano lì per mostrare le difficoltà legate al fatto che sono ormai, esplicitamente e collettivamente, coinvolti nelle nostre storie; noi siamo quindi tenuti a ricercare e a negoziare con loro il modo in cui si possono interessare a tale coinvolgimento. Con questa scelta, le curatrici dell'esposizione si assumeva­ no consapevolmente il rischio di venire criticate per la presenza di animali in gabbia. Avevano quindi preparato con cura una serie di motivazioni e, soprattutto, si erano assicurate che il trattamento degli animali fosse impeccabile. Ma le lontre le hanno prese alla sprovvista. Tutto era cominciato per il meglio. Giorno dopo giorno, le lontre sembravano acclimatarsi al nuovo ambiente; anzi, sembrava­ no moltiplicare i segnali di benessere, accogliendo favorevolmente le proposte e rispondendo alle attese delle curatrici dell'esposizione. Queste ultime, tuttavia, non si aspettavano che le lontre prendes­ sero l'iniziativa di andare oltre le loro aspettative. Né certamente si aspettavano che le lontre mostrassero il loro benessere con un comportamento sessuale diverso da quello solito.

In effetti, i biologi lo hanno confermato: oggi tutti gli scien­ ziati concordano nel dire che nelle lontre, come in molte altre spe­ cie, alcune predisposizioni genetiche fanno sì che individui cresciuti insieme non provino attrazione l'uno per l'altro. Ma, evidentemen­ te, la lontra fratello e la lontra sorella avevano deciso di dare il loro contributo, o più precisamente di riaccendere il vecchio dibattito sull'incesto. Sembravano voler confutare gli etologi contemporanei e tornare alle ipotesi di Sigmund Freud e Claude Lévy-Strauss, i quali, pur non essendo specialisti del mondo animale, avevano idee ben precise in materia, che elaborarono nel concetto di «proprio dell'umano»: gli uomini conoscono il tabù dell'incesto, gli animali no. Le organizzatrici dell'esposizione non si sentivano coinvolte in questa diatriba, ma il fatto che le loro lontre contraddicessero così impunemente gli scienziati faceva loro temere il peggio. In ef­ fetti, si sa che gli zoo e le situazioni di cattività a lungo hanno avuto la reputazione di «snaturare» gli animali residenti; nel campo della sessualità, l'accusa si riferisce in genere ai comportamenti sessuali depravati, definitivamente bollati, in questo contesto, come «con­ tro natura». Teniamo presente che buona parte di quanto sappiamo sul­ la sessualità degli animali deriva da ricerche condotte in cattività. Prima di tutto, è abbastanza difficile osservarla in condizioni na­ turali: gli animali tendono a essere relativamente discreti, soprat­ tutto perché tale attività li rende molto più vulnerabili. Tuttavia sovente negli zoo, a meno di imporsi un'astinenza punitiva ( il che accade spesso), gli animali non hanno altra scelta e contribuiscono all'educazione sessuale degli spettatori - e alla conservazione della biodiversità, ci dicono, ma è un'altra faccenda. Inoltre, conosciamo meglio la sessualità nelle condizioni artificiali perché lì è stata stu­ diata, oppure provocata: molte ricerche hanno seguito o avviato le carriere riproduttive di milioni di topi, scimmie e tanti altri. In ogni caso, lungi da me pensare che gli scostamenti rispetto alla norma osservati in cattività siano esclusivamente il risultato di patologie. Le cose sono più complicate e le generalizzazioni non sono mai utili. In effetti, possiamo notare che gli animali in condi­ zioni di relativa sicurezza, poco preoccupati per la presenza di preda­ tori e non pressati dai problemi di sopravvivenza, approfondiscono, o manifestano, altre modalità di relazione. Per molto tempo si è pensato che il concetto di piacere fosse fuori luogo se riferito agli animali. Tutto veniva ricondotto al dop­ pio imperativo dell'urgenza e della riproduzione ( c.'> Necessità;

""? Queer). Ma gli animali hanno davvero in mente la riprodu­ zione? Evidentemente per molti di loro, le cose sono differenti. Da questo punto di vista, i bonobo sono diventati famosi. Anche per quel che riguarda gli uccelli, si comincia a pensare che gli accoppia­ menti si verifichino per i motivi più diversi. Il piacere viene sempre affrontato con molta difficoltà dagli scienziati, e del resto la rapidità della maggior parte delle prestazioni sessuali incoraggia questa reti­ cenza. Ma tutto cambia se si ipotizza che gli animali possono fare altrimenti, qualora ne abbiano la possibilità. E talvolta lo fanno. La filosofa e artista Chris Hertzfeld, che ha trascorso molto tempo con gli orangutan del Jardin des Plantes a Parigi ( � Wattana), ha os­ servato una femmina prolungare l'accoppiamento per circa mezz'ora e con la deliberata volontà di continuare. Questo indicherebbe che gli animali possono mettere in atto un diverso repertorio comporta­ mentale, se le condizioni sono favorevoli. Le condizioni di cattività sono certo diverse da quelle naturali, ma non sono meno reali. Per certi aspetti, costituiscono un'altra serie di proposte e, come tali, possono essere ritenute favorevoli o no (�Gerarchie) e sempre da certi punti di vista.

Comunque, tornando alle due lontre, le curatrici della mo­ stra non erano molto a loro agio e immaginavano che sarebbe sta­ to difficile ricorrere a una simile argomentazione, una volta che i giornalisti, e poi quanti hanno a cuore gli animali e il pubblico, si fossero accorti di quanto era successo. Sapevano che, solo qualche decennio prima, nessuno avreb­ be avuto niente da ridire. Sarebbe stato ritenuto normale che gli animali, in quanto tali, non rispettano le regole valide per gli uma­ ni. Il tabù dell'incesto e il controllo della sessualità sono stati a lun­ go tra i criteri decisivi dell'eccezionalismo umano. Riguardo alle preoccupazioni, i biologi che collaboravano alla mostra avevano tenuto a rassicurare gli animi. Spiegarono in­ fatti che, quando gli animali si trovano in condizioni piacevoli, può accadere una cosa del genere, ma che, per processi ormonali, questo «folleggiare» non avrebbe avuto conseguenze indesiderate. Le responsabili si erano fidate tanto dei biologi quanto delle lontre. Ma gli animali non sono sempre concordi con gli scienziati; quanto alla fiducia, non si può imporre a senso unico. Poco dopo, la femmina di lontra aveva iniziato a ingrassare in modo impressio­ nante e ben presto inequivocabile. I processi ormonali, a quanto pareva, non erano stati all'altezza delle speranze dei biologi e delle organizzatrici.

Il 18 novembre 2007, il sito della mostra annunciava il lieto evento, senza precisare il legame di parentela fra i genitori. Alla luce di questa storia, ecco che ciò che in passato sembrava tipico della natura viene definito come l'esatto contrario: è diventato con­ tro natura. Il fatto che si declini nell'ambito della sessualità non è privo di importanza. Se, per esempio, le lontre avessero scoperto come usare uno schiaccianoci o si fossero messe a danzare nel re­ cinto, le curatrici della mostra ne sarebbero state entusiaste, e non contrariate. Notate che questa riprovazione si manifesta di rado, nel caso di animali domestici o da laboratorio. Proprio incrociando i consanguinei più stretti si sono creati ceppi puri di ratti e topi, per diminuire la variabilità comportamentale o fisiologica che tende accidentalmente a rendere discordanti tutti i risultati degli esperi­ menti. Per altre ragioni, si è agito nello stesso modo con gli animali d'allevamento e con i cani, relativamente ai quali il valore della razza pura - o di certe caratteristiche particolarmente apprezzate - è stato un principio guida nella selezione. Tutto il processo di dome­ sticazione è stato guidato da criteri che non sono necessariamente (anzi!) quelli che gli animali adotterebbero, se fossero lasciati liberi di scegliere. Ma oggi si ritiene che in natura l'endogamia - l'accoppia­ mento con parenti prossimi - venga generalmente evitata. Le ec­ cezioni riguardano alcune popolazioni dalle possibilità limitate, magari perché vivono nelle isole. Di certo esistono altre eccezioni, per esempio un piccolo pesce monogamo e molto colorato che abita nelle insenature e nei fiumi del Camerun e della Nigeria, il Pelvica­ chromis taeniatus. Le femmine della specie preferiscono accoppiarsi con i fratelli, i maschi con le sorelle. I ricercatori hanno cercato di comprendere cosa possa aver indotto questi pesci a trasgredire una regola che è molto seguita nel regno animale. Pensano che la sele­ zione naturale possa aver spinto gli animali a preferire parenti stretti per la riproduzione, perché la sorveglianza delle uova e dei giovani, soprattutto contro i predatori, richiede un lavoro che è efficace solo se i genitori collaborano appieno. E pare che la collaborazione sia molto migliore se i genitori si conoscono bene. In ogni caso, que­ sto tipo di ricerche mostra bene il recente cambiamento dei modi di pensare. Adesso sono gli animali che non rispettano la regola dell'esogamia a dover fornire una spiegazione. E con le dovute giu­ stificazioni! A lungo la sessualità degli animali ha avvalorato la tesi dell'eccezionalismo umano ( «proprio degli esseri umani»; chi usa 100

questa espressione si riferisce esattamente a questo aspetto della questione) e ha sempre dato luogo a un'ampia casistica di accuse ed esclusioni - di quelli che, appunto, si comportano come bestie lungo una linea di confine abbastanza tortuosa fra ciò che la natura tollera (l'incesto) e ciò che ha virtuosamente impedito (l'omoses­ sualità). Le bestie si sono quindi comportate da bestie finché non si è cambiato parere su ciò che significa comportarsi da bestia. La sessualità animale oggi risulta sempre un modello, da seguire o da cui prendere le distanze, per accedere alla cultura. La preoccupazio­ ne rimane attuale, anche se ha subito cambiamenti. In questo senso, è esemplare il caso del topo campagnolo mo­ nogamo, studiato dal giovane ricercatore svizzero N icholas Stiicklin; tanto più interessante perché il topolino non ha smesso di oscillare tra un lodevole atteggiamento di adesione al modello che doveva rappresentare per i ricercatori, e una deprecabile disinvoltura. L'arvicola delle praterie (Microtus ochrogaster), dalle piccole orecchie e il ventre giallo, è un roditore che vive nel Midwest del Canada e degli Stati Uniti. Nel mondo delle neuroscienze, questo topo di campagna ha ottenuto una certa notorietà grazie a un com­ portamento sociale che alcuni zoologi gli attribuirono verso la fine degli anni Settanta: sarebbe, si diceva, monogamo e monoparen­ tale, un comportamento che si attribuisce solo al 3% dell'insieme della popolazione dei mammiferi. La storia, ripercorsa da Stiicklin, inizia nel 1957 quando uno zoologo, Henry Fitch, in occasione delle operazioni di cattura per il censimento delle arvicole nelle praterie del Kansas, osserva che sovente dalla stessa trappola si raccolgono un maschio e una fem­ mina che erano già stati trovati insieme in una precedente cattura. Ma l'ipotesi della monogamia che si imporrà successivamente non è di Fitch. Durante la cattura, si constata che la femmina non ha l'estro; quindi, secondo lo studioso non si tratta di un legame sessua­ le: sarebbero compagni di nido che hanno preso l'abitudine di stare insieme. Se uno si fa catturare, l'altro cerca di forzare l'entrata della gabbia e lo raggiunge. A volte si tratta di due femmine. Poiché Fitch non riesce a farle accoppiare in cattività in laboratorio, non può né escludere né avallare l'ipotesi di un eventuale legame sessuale fra i partner «amici». Tuttavia nel 1967, altri zoologi riprendono queste osserva­ zioni e si interessano a un'altra caratteristica a cui Fitch non aveva quasi prestato attenzione. I maschi partecipano molto attivamente all'allevamento dei piccoli. Sono passati dieci anni e l'interesse per l'arvicola è cambiato: i ricercatori prendono in considerazione l'i-

dea di candidarla al ruolo di modello di laboratorio, inteso come modello dei comportamenti umani. La monogamia diventa una questione seria. Due scienziati, Gier e Cooksey, si dedicano allo studio del comportamento paterno, elemento chiave della monogamia - in ge­ nere, quando le coppie sono stabili, entrambi i genitori si occupano della cura della prole. Si scopre così un maschio premuroso, colla­ borativo e docile nei confronti di quella che è diventata la «sua» femmina. La pulisce e· la nutre, assumendo perfino, e in maniera lo­ devole, dicono i ricercatori, il ruolo di ostetrica, incaricandosi, dopo il parto, del nido e dei neonati. Solo un monogamo mostra una tale dedizione! La reputazione di questo roditore è assodata: i ricercatori continuano a osservare i padri per i successivi vent'anni. L'arvicola ormai monogama inizia quindi a interessare le neuroscienze, alla ricerca di modelli di attaccamento. I topi di laboratorio vengono detronizzati: potevano dare di­ mostrazione di affetto materno, ma sono del tutto inadatti quando si tratta di coppie. L'arvicola delle praterie diventa il modello della fisiologia dell'amore - umano, ovviamente - e della formazione delle coppie - eterosessuali, ovviamente. La ricerca neuroendocrinologica riceve un nuovo slancio. Il mammalogo Lowell Getz e la comportamentista Sue Carter pensa­ no allora a un altro destino per questo topo di campagna. Se può confermare la chimica dei legami, deve anche essere in grado di diventare il modello delle patologie di questi stessi legami negli umani e quindi svolgere la funzione di «catalogo» davvero notevole delle sindromi più svariate delle disfunzioni sociali. A condizione, però, che l'arvicola rimanga monogama ... Tuttavia, il modello sembra meno perfetto rispetto alle pro­ messe. I ricercatori scoprono dapprima l'esistenza di «campagnoli vagabondi». Per un periodo della vita, un numero non trascurabile di roditori, ritenuti monogami e fedeli, andrebbe a zonzo e frequen­ terebbe altri congeneri. In seguito, studi sul DNA confermano i primi sospetti: il campagnolo sembra infedele. Secondo le ricerche, dal 23% al 56% dei piccoli sarebbe frutto di un accoppiamento fuori della coppia. E questi padri così meritevoli si occuperebbero di fatto della prole di un altro, cosa che, dal punto di vista delle regole della selezione, non è consigliata. Una notizia davvero imbarazzante che, come sottolinea a ragione Nicholas Sti.icklin, compromette seriamente l'investitura dell'arvicola delle praterie a modello della coppia umana.

Eppure... Facciamo qualche riflessione. D'accordo, quel topo campagnolo forse non è monogamo; ma cosa significa essere mo­ nogamo? E, in fondo, gli umani lo sono? Stabiliscono legami a così lungo temine? Condividono la cura dei figli? Non siamo lontani dalla storia del paiuolo di Freud: «Non ho mai preso in prestito il tuo paiuolo, e poi te l'ho restituito intatto, e del resto era già bucato». A quel punto, il concetto di monogamia viene notevolmen­ te ampliato, e si fa distinzione fra fedeltà sessuale e attaccamento sociale. In questo modo, la monogamia dell'arvicola, certamente sociale, rimane intatta. Il problema è risolto, tanto più che ai ricer­ catori delle basi neuronali del comportamento umano interessano soprattutto l'attaccamento e le patologie che derivano dalla sua ini­ bizione. Tuttavia, in laboratorio, questa grande diversità rischia di compromettere l'affidabilità della riproducibilità del comportamen­ to. Se il campagnolo si diverte in natura, la sua monogamia in cat­ tività sarebbe il risultato dei vincoli imposti dal laboratorio, quindi un artificio. Da questo punto di vista, i ratti si dimostravano più affi­ dabili e prevedibili; del resto, i ricercatori si erano impegnati molto per ridurre il più possibile la variabilità, in particolare imponendo loro le scelte sessuali. Tuttavia, siccome i ratti non sembrano dare prova di attaccamento, non vi si può fare affidamento. Quindi, gli studiosi modificano la definizione di ciò che in­ teressa: cosa c'è di comune fra le arvicole delle praterie e gli umani? Proprio la variabilità dei loro comportamenti! Così il topo campa­ gnolo può rimanere il modello per eccellenza. Ci dovremmo rallegrare. Non vogliamo forse un mondo ca­ ratterizzato dalla diversità? Non è, un mondo così, più interessante, più curioso, non attira forse più attenzione, non rende possibili più ipotesi? Certamente, verrebbe da dire ( � Queer). Al contrario, credo che le arvicole ci chiedano di nutrire dei dubbi. Infatti, la varietà sta diventando una risposta morale, astratta e che va bene per tutto: ci segnala che corriamo troppo e che stiamo facendo della varietà, appunto, una generalità. In altri termini, la varietà sta diventando una risposta, anziché la formulazione di un problema. Non ce ne rendiamo conto, se affrontiamo la vicenda dei topi campagnoli secondo gli schemi diventati abituali per questo tipo di episodi. In effetti, le modifiche dei comportamenti « interessanti» di questi animali - nel senso di una maggiore varietà dei modi in cui organizzare il rapporto coniugale - si potrebbero benissimo conside-

rare come calco fedele dell'evoluzione dei modi in cui ci organizzia­ mo noi. Lo si poteva già sospettare quando i ricercatori avevano an­ nunciato - nello stesso periodo in cui emergevano i movimenti fem­ ministi, che mettevano in discussione la distribuzione tradizionale dei compiti in materia di figli - che le arvicole campagnole sono padri eccellenti, nel nuovo senso del termine: non devono più solo mettere la pentola sul fuoco, devono anche mescolare. Tuttavia, non bisogna tralasciare le condizioni pratiche associate a questi nuovi comportamenti: l'arvicola, che rifiutava ostinatamente di ri­ prodursi in condizioni di cattività con Fitch, ha finito per accettarlo con i ricercatori successivi. Se guardiamo agli studi più recenti, è anche vero che la sco­ perta della variabilità delle pratiche coniugali riconosciute all'ar­ vicola assomiglia incredibilmente alle innovazioni nelle pratiche contemporanee occidentali - senza dimenticare che, fin dall'inizio, il piccolo topo doveva confermare le abitudini di questa parte del mondo. Si tratta allora di prendere atto di tale varietà di compor­ tamenti e di legittimare altre forme di coppie e altre definizioni di famiglia? E di fare di tale varietà la prova di una variabilità naturale? Possiamo prenderlo in considerazione. Ma Nicholas Sti.icklin avanza un'ipotesi diversa, che ci invita a non correre troppo: dob­ biamo prendere atto che questo nuovo topo campagnolo introduce dei cambiamenti nei programmi e nelle agende delle ricerche. Non dimentichiamo che l'arvicola è stata «precettata» so­ prattutto per questioni legate alla psicopatologia dei legami. In questo senso, l'attaccamento può essere sottoposto a molteplici esperimenti a dimostrazione che lo si può inibire, provocandone il fallimento, e se ne possono misurare le conseguenze, secondo il modello detto della mancanza: in altri termini, ricreare situazio­ ni «senza attaccamenti» o situazioni di attaccamento disturbato, traumatizzato, inibito ... i cui risultati rispecchiano i disturbi men­ tali e le patologie sociali ( � Necessità; s Separazioni). Più cambia l'attaccamento, più piste di esplorazione si posso­ no aprire, più si possono ipotizzare condizioni patologiche. In altri termini, se mi lascio guidare dal modo in cui Isabelle Stengers ci invita a prestare attenzione alle trasformazioni imposte dal «fare scienza», la «varietà» che il topo campagnolo esibisce si è tradotta nel sistema di possibili «variazioni»: ciò che, dal momento che è variabile, può diventare «oggetto di variazione». Ovvero, in questo contesto, una variabile da manipolare.

Ed è proprio a partire da qui, che c'è da preoccuparsi per l'ar­ vicola delle praterie. Le sue azioni disinibite e la sua infedeltà sono riuscite a sollevarla dall'incarico di trasformare un modello di con­ formità sociale in un modello naturale: la creativtà dei suoi modi di essere o meno fedele fa sl che venga nuovamente coinvolta nelle nostre sperimentazioni. Senza che queste ultime, temo fortemente, possano suscitare il suo interesse.

IJcome

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Necessità

Si può indurre un ratto all'infanticidio?

s

·econdo sempre più numerose osservazioni presso le specie •poligame, un maschio che prende possesso dell'harem di un pre.clec�ssore estromesso può uccidere tutti i piccoli, il che accelera l'e­ stro delle femmine e gli permette di fecondarle. I piccoli saranno quindi portatori dei suoi geni».

Bestie; !"":::::> Ingannatori). L'infanticidio conosce una travolgente ascesa e, a partire dal­ la metà degli anni Ottanta del secolo scorso, si moltiplicano gli arti­ coli degli sperimentatori: il che probabilmente si spiega con l'affini­ tà di tale comportamento con i problemi sociali delle donne e degli uomini dell'epoca - e il fatto che in questo caso siano stati tirati in ballo i ratti conferma la mia impressione. I ratti, che fino ad allora avevano testato tutti i farmaci possibili, assunto alcol e cocaina, percorso avanti e indietro i labirinti dei comportamentisti, inalato il fumo di milioni di sigarette, conosciuto la depressione o la nevrosi sperimentale e imparato a misurare il tempo, questi fedeli servitori della scienza, a un certo punto sono diventati degli infanticidi! In difesa del roditore, vanno ammesse alcune cose: come vedremo, non è particolarmente appassionato a questo genere di comportamenti, così come non è particolarmente contento di fu­ mare sigarette, testare farmaci e correre affamato nei labirinti. Se viene coinvolto in simili ricerche, e non solo, è perché si tratta dell'animale da esperimento più pratico, relativamente economico, molto facile da sostituire e, senza dubbio, il più manipolabile. Cosl, d'accordo o meno - visto che il loro parere non è stato richiesto-, i topi diventeranno infanticidi. La letteratura scientifica ci insegna che questo comporta­ mento può essere messo in atto dalla madre, da un maschio o da una femmina estranea, e dovremmo aggiungere alla lista dei colpe­ voli il ricercatore o i tecnici di laboratorio che si incaricano dell'eu­ tanasia quando i piccoli sono troppo numerosi ( ma ciò creerebbe scompiglio nelle pubblicazioni). Quanto alle madri, si è constatato che possono uccidere i piccoli quando presentano malformazioni, se

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sono stressate e percepiscono l'ambiente come ostile e anche quan­ do sono affamate, il che le spinge a nutrirsi dei neonati. Per quel che riguarda il maschio, si ripropone l'ipotesi che, uccidendo i piccoli, stimoli il ritorno dell'estro nella femmina, quin­ di possa riprodursi più rapidamente. Tuttavia è stato rilevato, spie­ gano i ricercatori, che l'infanticidio viene inibito se il maschio si è trovato vicino alla femmina durante la gestazione o spesso accanto ai topolini, cosa che gli fa esibire comportamenti di tipo parentale. Ultima categoria di potenziali colpevoli, le femmine estranee alla madre, che praticherebbero l'infanticidio per nutrirsi o pren­ dere possesso del nido. Ma si è osservato che, fra femmine allevate insieme, non solo l'infanticidio è raro, ma si aiutano a vicenda nelle cure ai piccoli. Comunque, riguardo alle condizioni che determinano un comportamento, si capisce che le condizioni che rendono possibile l'infanticidio sono generate in modo attivo dai ricercatori. Chi ha l'idea di affamare le ratte? Chi assume l'iniziativa di mettere maschi estranei in una gabbietta, a stretto contatto con madri che han­ no appena partorito? Chi organizza la disposizione delle gabbie in modo tale da affiancare femmine estranee, e fornendo tra l'altro ma­ teriale sufficiente a un solo nido? In che maniera l'ambiente diventa ostile e fonte di stress? Non possiamo ignorare che sono condizioni di cattività estre­ me o manipolate in modo sperimentale per provocare stress, fame, ostilità, paura ecc. Insomma, sono condizioni patologiche portate all'eccesso, con l'ambizione di condizionare il comportamento; i ri­ cercatori ripetono e fanno variare la prova finché il comportamen­ to desiderato non si verifica. Si tratta di un'operazione tautologica: l'infanticidio si verifica quando si mettono insieme tutte le condi­ zioni giuste per indurlo! Il passo successivo, chiaramente rilevabile dalla lettura degli articoli, consiste nel ritenere che tali condizioni siano esplicative. Quando i ricercatori registrano le circostanze in cui l'infanticidio non si verifica, possiamo leggere, testualmente, che si tratta di con­ dizioni che impediscono l'infanticidio, non di condizioni in cui non avviene, ma di condizioni che lo neutralizzano. li che significhereb­ be che tanto il comportamento infanticida quanto quello «non in­ fanticida» vengono attivamente indotti, visto che, in assenza delle condizioni che li causano, non si verificano. In conclusione, i ricercatori hanno finito per pensare che l'infanticidio è il comportamento atteso, quindi normale, mentre per ottenere il «non infanticidio» occorre ricreare diverse condi-

zioni. Un capovolgimento bizzarro. Nelle condizioni sperimentali, l'eccezione diventa la regola e ciò che dovrebbe avvenire normal­ mente diventa eccezionale. Tempie Grandin, specialista di animali d'allevamento, obiet­ terebbe senza dubbio con il giudizio laconico a cui ricorre quando gli allevatori non si turbano davanti ai galli che violentano e uc­ cidono le galline o ai lama che mordono i testicoli dei compagni: «Non è normale», spiega. Se lo fosse, prosegue, in natura non esi­ sterebbero più galli o lama. Il ragionamento si può estendere ai topi che si nutrono della prole. Il capovolgimento fra normale e patologico riproduce quanto accaduto in laboratorio: i ricercatori agiscono come se non facesse­ ro che rilevare qualcosa di preesistente ai loro esperimenti, senza considerare che l'infanticidio viene reso concretamente possibile dalla situazione predisposta, e dipende da un lavoro di ricreazione delle condizioni necessarie, un lavoro occultato nell'esposizione dei risultati. Ciò autorizza gli sperimentatori a rivendicare la possibi­ lità di generalizzare i risultati stessi, fuori dal laboratorio: ecco le condizioni, in generale, che causano l'infanticidio, ed ecco quelle, in generale, che lo inibiscono. L'infanticidio è diventato un comportamento spontaneo, «naturale», ovviamente tacitando il fatto che, in questi contesti, la natura viene «fabbricata» meticolosamente. La riprova? Affinché l'infanticidio non si verifichi, bisogna evitare le azioni che lo hanno causato. Non vuol dire, ovviamente, che l'infanticidio non si verifi­ ca in condizioni naturali. Le ricerche sono state condotte proprio perché erano stati osservati dei casi. Alla fine degli anni Settanta, le prime rilevazioni sconvolgono e incuriosiscono gli studiosi, e in poco tempo si fa strada la teoria di cui ho parlato: il maschio infan­ ticida, uccidendo i piccoli di un altro maschio del cui harem si è appropriato, stimola il ritorno dell'estro nelle femmine, può quindi fecondarle e trasmettere i propri geni. Questa spiegazione si fonda sulla teoria sociobiologica della competizione intrasessuale e riguarda le strategie adottate da en­ trambi i sessi nei rapporti con le rivali e con i rivali nella corsa alla riproduzione. È stata formulata a proposito di leoni, gabbiani, pongidi, langur ecc. ed è caratterizzata da una forma di ossessione maniacale, il cui sintomo principale è una sorprendente tendenza alla stereotipia. Tutti i comportamenti sono stati esaminati con lo stesso criterio; gli animali avrebbero in testa un'unica preoccupazio­ ne; assicurare la trasmissione dei propri geni. 109

La loro esistenza è confinata entro i limiti ristretti della ne­ cessità; non solo nulla è esente da una motivazione selettiva, ma ne prevale una soltanto, che rientra nello schema generale delle strategie di adattamento. Non ci sarebbe spazio per dedicarsi a stra­ vaganze motivazionali come cantare, spulciarsi, giocare, copulare, guardare l'alba, per il semplice piacere di farlo, perché rientra nelle consuetudini sociali nel gruppo, o perché prestigio, bravura e legami sono importanti. Per citare giusto un esempio, i primatologi hanno osservato che, in un gruppo, femmine scimpanzé si sono accoppiate con tutti i maschi sessualmente iperdotati presenti. E ne hanno dedotto che ... si tratta di una strategia per evitare l'infanticidio, perché ognuno di questi maschi potrebbe essere il padre dei futuri piccoli. Ecco un'in­ terpretazione virtuosa: la depravazione sessuale sarebbe, in realtà, una previdente saggezza materna ... Questo genere di ipotesi indica la connivenza di automatismi derivanti dalle scienze naturali e di pregiudizi machisti o vittoriani sulla sessualità femminile. Cercare sempre l'utilità del comporta­ mento, una specie di morale borghese dell'evoluzione che non si disperde nelle inutilità stravaganti e induce i ricercatori a ricercare il valore adattativo di ogni comportamento, a rifiutare le ipotesi che non sono a sostegno di un interesse selettivo a lungo termine, come quelle del piacere, della forza delle pulsioni o di una sessualità estroversa. Riguardo ai maschi, quest'ultima ipotesi potrebbe an­ cora reggere - si dirà che cercano di assicurare la discendenza-, ma riguardo alle femmine, non bisogna nemmeno pensarlo.

Torniamo ai langur: il primo caso osservato che apre la strada alla ricerca viene riferito da un ricercatore giapponese che lavorava in India, Yukimaru Sugiyama. L'infanticidio si verifica in occasio­ ne di importanti cambiamenti sociali nel branco, che, va precisato, sono dovuti all'iniziativa dello studioso, attraverso una «manipola­ zione sperimentale» nel branco stesso: Sugiyama trasferisce l'unico maschio di un branco - il sovrano dominante che aveva protetto e guidato l'harem - in un altro gruppo, composto da scimmie di en­ trambi i sessi. Certi primatologi usavano spesso simili procedimenti, soprattutto quelli che sembravano affascinati dalla gerarchia (Ge, rarchie). Dopo questa manipolazione sperimentale, continua Su­ giyama, un secondo maschio entra nel branco da cui il primo è stato allontanato, prende possesso dell'harem e uccide quattro piccoli. Poco dopo, un'altra ricercatrice, la sociobiologa Sarah Blaffer Hrdy, osserva infanticidi compiuti da maschi a Jodhpur, sempre tra

po

i langur. E conferma la tesi secondo cui, in questo modo, il ma­ schio interviene sull'estro delle femmine tramite l'infanticidio, così da assicurare la perpetuazione dei propri geni. Nello stesso periodo, anche un'altra ricercatrice, Phyllis Jay, lavora sul campo presso i langur, in una diversa regione dell'India. Non osserva alcun com­ portamento simile, ma commenta le altre ricerche (ci torneremo fra un po'). Credo sia utile soffermarsi un attimo sulla maniera in cui le os­ servazioni di Sugiyama sono state formulate. La semantica utilizzata non. è neutra: non solo tradisce un teorico partito preso, ma ammanta la scelta di determinati significati. Evocare i fatti parlando del ma­ schio che «prende possesso dell'harem» e si sostituisce a un «sovrano dominante», il quale «proteggeva e guidava l'harem» - mi limito ad allinearmi alle scelte semantiche di Sugiyama, che a sua volta ha adottato i termini in uso - incanala già su un certo tipo di narrazione. Non si tratta di criticare le parole utilizzate, ma di muoversi in una prospettiva pragmatica. A che tipo di resoconto porta questo genere di termini? O, più concretamente, potremmo riformulare il concetto utilizzandone altri? Parole differenti lo renderebbero meno ovvio? «Harem» generalmente indica un gruppo formato da un ma­ schio che si accoppia con più femmine. La scelta semantica implica uno scenario particolare: quello di un maschio dominante che eser­ cita un controllo sulle sue femmine. Ma chi ci dice che il maschio le scelga, le faccia proprie, ne prenda possesso? Nessuno: è solo il termine «harem» a indurre tale significato. Un'altra descrizione per questo tipo di organizzazione è stata proposta principalmente da alcune ricercatrici femministe che la­ vorano nell'ambito dell'ipotesi darwiniana della selezione sessuale, secondo cui sono le femmine, nella maggior parte dei casi, a sceglie­ re i maschi. Per descrivere questo tipo di organizzazione poligama, le studiose hanno proposto il seguente scenario: se un solo maschio è sufficiente per assicurare la riproduzione, e dal momento che i maschi si occupano ben poco dei piccoli, perché prenderne diversi? Poiché uno solo è sufficiente e permette di tenere a distanza gli altri maschi, le femmine hanno tutto l'interesse a sceglierne uno soltan­ to, anziché accollarsene più di uno. Ecco dunque una spiegazione completamente diversa da quella dell'harem, anch'essa verosimile, e che è in linea con la prospettiva darwiniana. Essa però non si limita a ribaltare la prospettiva della narra­ zione; obbliga a cambiare la stessa struttura narrativa: la descrizione degli effetti conseguenti alla sostituzione del maschio non è più cosl lll.

prestabilita. Non si tratta più semplicemente della conquista di un maschio esterno che si impone, prende possesso e interviene sull'e­ stro delle femmine ricorrendo all'infanticidio. Possiamo allora iniziare a immaginare un'altra interpretazio­ ne che ha un doppio merito: rende la questione più complessa, esce dal registro univoco e monocausale della necessità e, di conseguen­ za, non fa più gravare tutto il peso della spiegazione sull'infantici­ dio, che non è più quindi il motivo o il movente, l'obbedienza a un'imperiosa necessità biologica, ma potrebbe essere la conseguenza collaterale di un'altra circostanza, che richiede l'attenzione che l'i­ potesi «terra terra» si risparmia. Il merito dell'apertura a uno scenario alternativo per i langur va a Phyllis Jay che, come abbiamo già detto, studiava queste scim­ mie in un'altra regione dell'India. Non ha osservato alcun infantici­ dio, ma la sua conoscenza degli animali studiati la spinge a prender parte al dibattito teorico: ha analizzato i dati sul campo di ciò che succedeva. Ha tenuto conto delle manipolazioni sperimentali e, per i gruppi non manipolati, dei contesti in cui sono state raccolte le osservazioni. Un'analisi minuziosa delle teorie, delle scelte semantiche fatte dai colleghi e di quanto accaduto ai langur la porta alla con­ clusione che è pertinente vedere nell'infanticidio non una strategia, ma una conseguenza. Da una parte, sostiene Jay, non va interpretato nel contesto di una presa di potere, perché questi termini segnano in maniera troppo marcata la spiegazione. Ed è qui, ci ricorda Donna Haraway, a cui devo perlopiù le linee guida del mio ragionamento finora, che si capisce come le parole e i modi di dire sono importanti e non hanno nulla di neutrale. Le strutture narrative spostano l'attenzione su certi aspetti e la deviano da altri. Finché ci si focalizza sui concetti di harem e conquiste, non si presta attenzione a ciò che è potuto accadere in seguito alle manipolazioni sperimentali. Il fatto che l'unico maschio del branco sia stato vittima di un rapimento. Forse era sovrano, ma che vuol dire: suscitare deferenza, legami affettivi, far regnare un clima di fiducia? Se i langur hanno opzioni diverse, come è evidente, visto che possono vivere in gruppi di entrambi i sessi o poligami; se l'ipote­ si della scelta da parte delle femmine è corretta, e hanno stabilito legami molto particolari con quel maschio e non con un altro, pos­ siamo immaginare il trauma subito dal gruppo. «Il nostro maschio è stato rapito da umani che non smettono di osservarci». A quel punto può succedere di tutto.

In questa luce le cause dell'infanticidio diventano molto più contestualizzate. Obbligano a tener conto del fatto che una società si costruisce e si assesta man mano, e se degli umani irresponsabili si mettono di mezzo, può andare a finire molto male. Concorda con tale interpretazione l'analisi di Phyllis Jay sui gruppi non manipo­ lati, da cui si può dedurre che gli infanticidi hanno avuto luogo in occasione di cambiamenti sociali troppo rapidi, in contesti di gran­ de densità di popolazione, cioè in condizioni di stress già abbastanza patogene di per sé. Un buon numero di infanticidi osservati, fa no­ tare Jay, è stato accompagnato dall'uccisione delle stesse femmine: l'aggressività non controllata del maschio non si è quindi orientata solo sui piccoli. L'infanticidio non è un adattamento, è piuttosto il segnale di un disadattamento a contesti troppo nuovi e a cambiam­ neti troppo bruschi. La spiegazione di Phyllis Jay non si è imposta e la teoria so­ ciobiologica è rimasta predominante. Negli ambienti scientifici è sembrata apparentemente in grado di attuare il cambiamento di prospettiva a cui mirava, e lo testimonia l'impressione di automa­ ticità che sottolineavo, negli scritti divulgativi. Tuttavia, non è del tutto così: la polemica non si è mai del tutto placata. Dopo Phyllis Jay altri si sono opposti a questa spiegazione. Dopo un periodo di bonaccia che è in genere indice della fine della polemica, il primatologo Robert Sussman riapre il dibat­ tito; analizza il contesto specifico di ognuno dei casi riportati nelle ricerche della primatologia: a ben vedere, gli attacchi infanticidi sono molto meno numerosi di quanto stimato. Se ne sono contati 48, di cui quasi la metà nel sito di Johpur; inoltre, solo 8 avvalorano l'ipotesi adattazionista. Quindi è realistico, chiede il primatologo, considerare come esempi di una strategia di adattamento episodi così rari, e che sembrano perlopiù confinati a un luogo particola­ re? Inoltre, va tenuto presente che nell'area di studio di Hrdy, a Jodhpur, alcuni ricercatori tedeschi, anch'essi alle prese con i langur agli inizi degli anni Ottanta, non hanno mai assistito a casi di morte violenta dei piccoli. Un'altra scienziata, Anne Dagg, alla fine degli anni Novanta riprende lo stesso metodo con i leoni. Tutte le ricerche su questi grandi felini fino ad allora avevano sostenuto l'ipotesi della compe­ tizione sessuale. Dagg constata che, in realtà, nessun caso di infanti­ cidio corrisponde a una «situazione tipo» che combaci con l'ipotesi adattazionista. Le sue ricerche scatenano ostilità nei colleghi. Phyllis Jay partecipa al dibattito con un articolo in cui dimo­ stra che i piccoli langur sono in effetti molto coinvolti nei conflitti

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fra adulti: gli incidenti sarebbero spesso dovuti non al fatto che i cuccioli sono, come si credeva, bersaglio di attacchi violenti, ma piuttosto al fatto che si vengono a trovare «ll in mezzo». Come fa notare la sociologa Amanda Rees che ne ha riper­ corso le tappe, nell'ambito dell'etologia è molto raro che una con­ troversia non conosca, prima o poi, una risoluzione. Quella sull'in­ fanticidio è in tal senso molto particolare: le discussioni continuano e quando si crede che siano risolte, uno scienziato rifiuta la «con­ versione» alla teoria sociobiologica e la rilancia. L'impossibilità di chiudere la diatriba stupisce, tanto più che in definitiva i casi osser­ vati sono rari e tendono inoltre a diventare meno frequenti, via via che le analisi riaccendono il dibattito. È vero, come ho segnalato, che il problema è collegato a questioni politiche, è direttamente correlato a problematiche umane gravi e che la maniera di spiegarle e di rispondervi è anch'essa molto controversa. Come sottolinea Rees, stando sul campo si è potuto notare da subito che le interpretazioni hanno sollevato il dubbio di un'in­ terferenza della politica nella scienza. Considerare l'infanticidio come una strategia di adattamento rivela un'ideologia maschilista, lo si è colto nel modo in cui i sociobiologi descrivono gli episodi. Ma se si utilizza questo argomento politico, non ci si deve chiedere anche, e del resto lo rivendicano gli stessi sociobiologi, se la volon­ tà di considerare l'infanticidio come un incidente non traduca un giudizio morale sulla natura - del tipo: «In linea di principio, questo non dovrebbe succedere»? Non sono sicura che questo tipo di argomenti ci possa essere di aiuto, in ogni caso non in questo modo decostruttivo e critico; certamente, rientrano nel dibattito, ma la decostruzione ci fa perde­ re di vista le questioni più importanti. In gioco ci sono due modalità diverse di fare scienza, due modalità contrapposte nel campo dello studio degli animali. Da una parte, c'è un metodo, ereditato dalla biologia e dalla zoologia, che cerca le similitudini e le invarianti, nell'ambito di ogni specie e più generalmente fra le specie, chiedendo agli animali di obbedire a leg­ gi suscettibili di generalizzazioni e a cause relativamente univoche inscrivibili in una routine interpretativa. Questa pratica al tempo stesso delocalizza, estendendola, un'abitudine di laboratorio: allesti­ re, sul campo, la ripetibilità degli eventi (considerandoli, nel quadro di riferimento, tutti identici), come in laboratorio ci si sottopone al vincolo di ripetere gli esperimenti. Esigenza che si fonda sulla con­ vinzione che tutti i contesti sono, in definitiva, equivalenti. Questo metodo richiede l'assoggettamento della natura - come il laborato-

rio richiede l'assoggettamento dei propri soggetti - al fare scienza (=�Laboratori). D'altra parte, con tale pratica entra in concorrenza un'altra, erede delle teorie e delle pratiche dell'antropologia, che esplora le situazioni singolari e concrete capitate agli animali, punta sulla loro flessibilità, considera ogni evento un problema particolare di cui gli animali fanno esperienza e a cui cercano di far fronte ( r:::> Re, azione). Si tratta ancora di politica, ma di politica scientifica e di politica delle relazioni con i non umani. Inoltre, se per i primi - i sociobiologi - tutti gli ambienti, a priori, sono equivalenti, perché le strategie di adattamento e i motivi programmati sovradeterminano i comportamenti, i secondi invece - il che indica altrettanto bene che sono gli eredi delle me­ todiche dell'antropologia - hanno preso in considerazione il fatto che gli stessi processi di industrializzazione e di globalizzazione che permettono loro di viaggiare e fare ricerca in zone lontane sono esattamente gli stessi a cui vengono messi di fronte i loro animali. I processi hanno effetti sulle loro vite e le modificano notevolmente, con la distruzione degli habitat, il turismo, l'urbanizzazione. Non si tratta di negare che, come tutti gli esseri viventi, que­ sti animali hanno a che fare con necessità biologiche, ma di prende­ re in considerazione concretamente anche le condizioni della loro esistenza reale, condizioni intese non in senso causale, ma in ciò che rende le loro vite quello che sono. Vite che, attualmente e più che mai, nel caso di ognuno di questi animali, sono con noi, vite della cui vulnerabilità siamo una componente. Ed è anche in questo sen­ so che la problematica dell'infanticidio è una problematica politica.

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li animali possono creare opere d'arte? La domanda non è molto diversa da un'altra: gli animali sono artisti? ( Ar,

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A livello speculativo, sperimentarlo risolleva quindi la do­ manda sull'intenzionalità che, in linea di principio, deve essere a fondamento di ogni opera. Ci deve essere l' « intenzione» di fare un'opera, e se sl, è l'intenzione dell'artista a determinare ciò che lo rende o meno l'autore dell'opera? Porre il problema occupandoci degli animali ha il merito di farci venire dei dubbi e di soffermarcisi. Bruno Latour ci ha sensibilizzati a queste incertezze e propone di riconsiderare l'attribuzione dell'azione nei termini del «far fare». Prendiamo in esame, e ne vale la pena, gli splendidi archi co­ struiti dagli uccelli giardinieri maggiori (Chlamydera nuchalis), tanto più interessanti perché recuperano, a beneficio delle loro opere, rea­ lizzazioni umane che integrano nelle loro composizioni. Se guardia­ mo con attenzione al risultato finale - basta fare qualche ricerca su Internet-, noteremo che la composizione non lascia niente al caso; tutto è organizzato per ricreare un'illusione prospettica che, secon­ do i biologi, avrebbe lo scopo di far sembrare più grande di quello che è l'uccello nel proprio arco. Abbiamo dunque a che fare con una scena, una messinscena, una vera composizione artistica su più livelli: architettura sofisti­ cata, equilibrio estetico, creazione di illusioni destinate a produrre effetti, e coreografia che conclude l'opera; insomma, quello che il fi­ losofo Étienne Souriau avrebbe senza dubbio riconosciuto come una

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poetica del movimento. Questa illusione prospettica così abilmente orchestrata ci fa pensare al senso che proponeva di dare ai simulacri, ovvero «siti di speculazione sui significati» che indicano in natura, nel modo più chiaro possibile, la capacità di fare dell'essere con il nul­ la, nell'altrui desiderio. Fare dell'essere con il nulla nell'altrui desiderio: si tratta di un'opera nel senso in cui la intendiamo, di conseguenza, in tal sen­ so, l'uccello sarebbe il vero artista, autore dell'opera in questione? ( c..'> Versioni). Per il momento lascio da parte i dibattiti sterili e noiosi che si sforzano di ricondurre l'animale all'istinto ( r.:;'> Prestigio) e che ci fornirebbero la quota di spiegazioni causali deterministe e biolo­ giche, per concentrarmi sul lavoro compiuto. Giusto en passant, a proposito di spiegazioni del genere notiamo che i sociobiologi han­ no anche tentato di includervi gli umani: ogni azione, ogni opera tradurrebbe solo un programma a cui saremmo sottoposti dai nostri geni, allo scopo di «meglio perpetuarci» ( c.> Necessità). Lascio al lettore il compito di interpretare in termini meno eleganti. Il fatto che queste spiegazioni siano così di cattivo gusto, e producano un tale impoverimento, dovrebbe impedirci di utilizzarle per i non umani, che sono già abbastanza esposti ai maltrattamenti teorici! Al contrario, potrei riproporre il modo in cui l'antropologo Alfred Geli ha presentato la questione, non a proposito degli ani­ mali ma delle produzioni artistiche nelle culture che non le conside­ rano tali. In breve, il problema di Geli è il seguente: se si considera arte ciò che viene ricevuto e accettato come tale dal mondo istitu­ zionalizzato dell'arte, come trattare le produzioni di altre società che noi consideriamo come produzioni artistiche, quando quelle società non danno agli stessi oggetti tale valore? Non farlo significherebbe relegare gli altri, come è successo per molto tempo, allo status di primitivi, che esprimono in maniera spontanea e infantile i propri bisogni elementari. Farlo però, continua Geli, obbliga l'antropologo che studia la creazione degli oggetti in altre culture a imporre a queste ultime un quadro di riferimento totalmente etnocentrico. In effetti, ricollo­ care ogni produzione nell'ambito culturale che le attribuisce regole di gusto proprie, e propri criteri, non risolve il problema, se si tiene conto che alcuni oggetti non hanno valore estetico né per chi li pro­ duce né per le persone per cui vengono prodotti. Più semplicemen­ te, per esempio, uno scudo non è arte per «loro», ma lo è per «noi». Come uscire dall'impasse? Gel! propone di ridefinire il pro­ blema in altro modo. L'antropologia è lo studio delle relazioni so-

ll7

ciali; bisogna quindi studiare la produzione degli oggetti nell'ambito di queste relazioni. Ma per evitare di ricadere nelle impasse di cui sopra, gli oggetti stessi vanno considerati agenti sociali, dotati delle caratteristiche che attribuiamo agli agenti sociali. Lo studioso cer­ ca dunque di estrapolare la questione dell'intenzionalità dal quadro ristretto in cui la nostra concezione l'ha relegata, e attribuisce il concetto di agente - cioè di «essere dotato di intenzionalità» - ad altri diversi dagli umani. Uno scudo decorato, per riprendere il problema degli oggetti portatori di un valore estetico, dal nostro punto di vista non ne ha nell'ambito del combattimento in cui viene utilizzato. Spaventa, affascina, cattura il nemico. Non significa niente, non simboleggia niente, agisce e fa agire; coinvolge e trasforma. Di conseguenza, è un agente, mediatore di altre agentività. È quindi un agente, mediatore di altre agentività. Il concetto di agentività non viene più posto come una maniera di classifica­ re gli esseri (quelli che sarebbero ontologicamente agenti, dotati di intenzionalità, e quelli che sarebbero ontologicamente pazienti, privi di tale intenzionalità). L'agentività è relazionale, variabile e si inscrive sempre in un contesto. Non solo l'opera può affascina­ re, catturare, stregare, intrappolare il destinatario; ma è l'agentività contenuta nella materia prima dell'opera da fare che controlla l'ar­ tista, il quale, a quel punto, assume il ruolo di paziente. L'opera, per comprendere Geli secondo il pensiero di Bruno Latour, fa fare; lo scudo fa fare all'artista (si fa fare da lui), fa fare a chi lo utilizza (per esempio, può renderlo più temerario nel com­ battimento) e fa fare al guerriero nemico (lo affascina, lo spaventa, lo cattura). Nel nostro rapporto con le opere, dice Geli, siamo ab­ bastanza simili agli autoctoni descritti dall'antropologo Tylor alle Antille: essi sostenevano che sono gli alberi a chiamare gli stregoni e a ordinare loro di scolpirne il tronco sotto forma di idolo. Dando questa attribuzione all'intenzionalità, Geli arriva, in un certo senso ma con una prudenza speculativa nettamente più marcata, alla proposta di Étienne Souriau, secondo cui l'opera si impone sull'artista ovvero, per utilizzare la terminologia di Geli, «è l'opera a essere l'agente», sono le sue intenzioni ad avere una conti­ nuità, e l'artista è il paziente. Se però voglio porre la questione della possibilità di un'arte presso gli animali, e farlo seriamente, devo abbandonare Geli e af­ fidarmi a Souriau. Infatti, il primo può certo ridistribuire l'intenzio­ nalità o l'agentività ma, malgrado qualche lodevole tentativo, ridu­ ce tale ridistribuzione al rapporto fra l'opera e il destinatario. Scrive:

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«Gli antropologi hanno da tempo constatato che le relazioni sociali

durature sono fondate sul "non concluso". L'essenziale nello scambio, in quanto creatore di legame sociale, è il differire, il rinviare le tran­

sazioni; se si vuole che la relazione persista, non deve mai raggiungere

una perfetta reciprocità, ma deve mantenere un certo squilibrio». E

continua: «Lo stesso vale per i motivi [decorativi]: rallentano l'atto di

percezione, possono anche fermarlo, così che non si possiede mai com­ pletamente un oggetto decorato, non si smette mai di appropriarsene.

È uno scambio non compiuto, che a mio parere fonda la relazione bio­

grafica fra il motivo decorato [nel senso di oggetto "opera" portatore di

intenzioni] e il destinatario».

In breve, il salto speculativo che suddividerebbe le inten­ zioni fra l'opera e l'artista non è portato a conclusione, e Gell è visibilmente titubante nel fare di noi degli abitanti delle Antille, dell'artista uno stregone e dell'opera un agente convocatore. La questione si pone in tutt'altro modo per Souriau quando descrive, nella conferenza del 1956 Du mode d'existance de l'oeuvre à {aire (La modalità di esistenza del!'opera da fare) e in termini in ap­ parenza simili, il non compimento esistenziale di ogni cosa. Tutta­ via, il non compimento dell'opera, per Souriau, si inscrive prima di tutto non nel rapporto fra l'opera e il destinatario, ma in quello fra l'opera da fare e chi vi si dedicherà, chi dovrà «risponderne»: il suo responsabile. Le opere da fare sono esseri reali, la cui esistenza però richie­ de di venire promossa su altri piani. Hanno un'esistenza non piena, non fosse altro perché godono di un'esistenza fisica unicamente tale. In altri termini, l'opera è in cerca, per il proprio il compimento, di una diversa modalità di esistenza. Considerato ciò che propone, possiamo ritornare al proble­ ma degli animali artisti? Souriau l'ha anticipato nel libro Il senso artistico degli animali. Fin dalle prime pagine, descrive il senso che assumerà la sua risposta: «Ma è davvero una bestemmia pensare che l'arte abbia fondamenti cosmici e che nella natura si trovino grandi poteri instauratori?».

Il termine «instauratore» non è casuale. Souriau non ha usa­ to «creatore» o «costruttore» (benché talvolta li consideri equiva­ lenti, ma siamo ben prima dell'arrivo del costruttivismo, e il ter­ mine «costruire» non è ancora saturo di accezioni). «Instaurare» significa altro.

L'opera, abbiamo appena detto, richiede il proprio compimento su un altro piano di esistenza. Un compimento che richiede a sua vol­

ta un atto instauratore. In questo senso, se si può dire che il creatore

opera la creazione, tuttavia l'esistenza dell'opera ha inizio prima che l'artista l'abbia fatta. Ma questo essere non potrà avvenire da solo. Prosegue Souriau:

«Instaurare è seguire una strada. Determiniamo l'essere futuro seguen­ do la sua strada. L'essere in boccio, continua, reclama la propria esi­ stenza. In tutto questo, l'agente deve inchinarsi alla volontà dell'opera, indovinarla, dimenticare sé stesso a favore di quest'essere autonomo che proclama il proprio diritto all'esistenza».

Quindi, dire che l'opera d'arte viene instaurata, non significa né cercava altrove la causalità, né negarla. Significa insistere sul fatto che l'artista non è la causa dell'opera, ma che questa non basta alla propria causa; l'artista ne porta la responsabilità, la responsabi­ lità di chi accoglie, raccoglie, prepara, esplora la forma dell'opera. In altri termini, l'artista è responsabile, nel senso che ha dovuto imparare a rispondere dell'opera, e a rispondere del suo compimento o del suo fallimento a realizzarsi come opera. Quindi, tornando alla nostra domanda: possiamo immagina­ re di parlare degli esseri della natura come autori di opere? Certo, quando si occupa dell'argomento nel libro sul senso artistico degli animali, talvolta Souriau sembra trincerarsi dietro una forma di vita­ lismo; lo si percepisce soprattutto nei commenti che accompagnano le immagini: «La vita è l'artista, il pavone è l'opera». D'altra parte però, sempre sugli uccelli, leggiamo un'affermazione stupefacente a corredo di una foto di un diamante mandarino (Taeniopygia guttata) mentre costruisce il nido: «L'appello dell'opera». Evidentemente, non si tratta più di una natura astratta, ma di un essere instauratore, che risponde (responsabile) alla richiesta imperiosa di compimento di un'opera. Al proposito, Souriau spiega: «Sovente il nido si fa in due e la costruzione è la parte essenziale della parata nuziale. Ma talvolta è un maschio ancora celibe a iniziare da solo». Una femmina potrà raggiungerlo e aiutarlo, precisa, e in questo senso il nido è opera d'amore o piuttosto, corregge Souriau, «è creatore di amore: l'opera è mediatrice».

Questa considerazione dell'amore alimenta il desiderio di far­ lo durare. L'opera ha davvero il potere di catturare chi agisce perché si compia. Siamo quindi arrivati a una teoria dell'istinto completa120

mente diversa. Una teoria che, lungi dal meccanicizzare l'animale rimandandolo ai determinismi biologici, dal punto di vista specula­ tivo offrirebbe analogie ben più feconde. Torniamo un momento ai nidi degli uccelli giardinieri e ri­ prendiamo la domanda là dove l'avevamo lasciata, incastrata fra l'i­ stinto e l'intenzionalità. Non risponderò all'interrogativo se questi animali siano artisti, non è il problema che mi interessa. Volendo riprendere uno degli esempi di Gel! (quello dello scudo), per ana­ logia si potrebbe affermare che questi nidi catturano, trasformano, generano esseri innamorati o li fanno innamorare, li affascinano, hanno conseguenze. Ma solo se seguo la via aperta da Souriau, e mi concentro non sulla relazione con il destinatario, ma su quanto l'atto instauratore di quel nido manifesta, posso anche suggerire che il giardiniere maggiore è proprio catturato dall'opera che deve fare, ed è l'opera a imporre la propria esigenza di esistere. «Così deve essere». Certo, le nostre preferenze tendono piuttosto a favorire l'i­ dea che l'opera sia appannaggio di pochi, che venga distribuita in misura minore, perché è così che consideriamo l'arte: una specie di status di eccezionalità. Senza dubbio, è proprio la mancanza di ec­ cezionalità a giustificare il ricorso così invasivo all'argomento: «Se lo fanno tutti, è l'istinto». È vero, per questi uccelli realizzare opere è una questione vitale, ed è la condizione per la continuità di sé. Niente opera, niente discendenza che, a sua volta, realizzerà opere. Ma non confondiamo questa condizione con quella per esi­ stere; non confondiamo quello che l'opera rende possibile con la sua motivazione. Oppure, abbandoniamo il concetto di istinto ma manteniamo gelosamente il modo in cui ci fa sentire: come una forza davanti a cui l'essere deve inchinarsi, come talvolta faccia­ mo di fronte all'amore. Qualunque sia l'obiettivo utilitaristico che possiamo attribuire a queste opere, sappiamo che gli uccelli non ce l'hanno in mente (si tratta sempre di motivi individuabili a poste­ riori, una razionalizzazione di comodo che, per quanto pertinente dal punto di vista della biologia, non corrisponde a ciò che questi animali considererebbero importante). Quello che l'istinto esprime e al tempo stesso nasconde è la richiesta della cosa che va fatta. Qualcosa va oltre di noi. È la sen­ sazione del sentirsi catturati, che alcuni artisti conoscono. Va fatta. Punto.

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Gli animali hanno il senso

della celebrità?

l, comportamento dei pavoni finora ha attirato ben poco l'inte\, , --resse degli scienziati, più attenti alla loro coda che alle abitudini ;ociali e alle competenze cognitive. Certo, la responsabilità è anche del pavone, che ha «imposto» ai ricercatori le proprie preoccupazio­ ni. Oltre alle questioni di fisica, relative alla cattura della luce che produce colori così scintillanti, la coda ha suscitato accesi dibattiti: come mai l'evoluzione non ha sfavorito un ornamento tanto in­ gombrante che, dopotutto, avrebbe dovuto nuocere seriamente al proprietario? È uno dei paradossi dell'evoluzione. Darwin, che non metteva in dubbio la presenza di un senso estetico negli animali, risponde che i maschi con gli attributi più belli sono privilegiati dalle femmi­ ne e di conseguenza trasmettono queste caratteristiche alla discen­ denza. I ricercatori successivi, più prosaici, rifiutano l'idea che, per quanto belli siano, gli attributi possano suscitare qualche emozione estetica. Ma dal momento che devono pur avere un'utilità, immagi­ nano che la loro vivacità informi le femmine sul vigore e la buona salute di chi li possiede ( r-0 Necessità). L'etologo israeliano Amotz Zahavi riprende il problema da un altro punto di vista: sostiene che bisogna ripartire dall'idea che questa ruota così ingombrante sia un handicap bello e buono; è si­ curamente un peso, può favorire il riconoscimento di chi la porta da parte dei predatori e comprometterne le possibilità di fuga. Se quindi un maschio in possesso di una ruota impressionante, e che costituisce un grosso handicap, è riuscito a sopravvivere, significa che è ben dotato. 122

E se le femmine sono provviste di buonsenso, avranno tutto l'interesse a scegliere, come padre della prole, un individuo dal forte handicap, come a dire: non c'è niente di meglio di un paradosso per risolvere un altro paradosso. Detto altrimenti, un handicap cosl vistoso, come una coda appariscente, è una forma di propaganda affidabile e senza ambiguità per i destinatari. Darwin racconta un episodio particolare: un pavone esibi­ va la ruota davanti a un maiale, e lo commenta sulla base della convinzione personale che esista un senso estetico negli animali: i maschi adorano mostrare la propria bellezza (sic), l'uccello vuole palesemente uno spettatore, si tratti di un pavone, di un tacchino o di un maiale. Negli anni seguenti, questo tipo di ipotesi sparisce del tutto dalla scena della storia naturale. E quando ritroviamo la stessa os­ servazione negli scritti del fondatore dell'etologia, Konrad Lorenz, si impone un'interpretazione completamente diversa. Fare la ruo­ ta viene definito un pattern innato di azioni, associato a specifiche energie endogene. Detto più chiaramente, il comportamento è in­ nato e rientra in una sequenza di azioni e reazioni che si succedono secondo un ordine programmato. L'animale, assoggettato a specifi­ che energie interne, entra in una fase di appetenza e si mette istinti­ vamente alla ricerca di un oggetto; quest'ultimo, una volta trovato, agisce da «meccanismo innato di scatenamento» di comportamenti stereotipati. In assenza di stimoli appropriati, l'energia si accumula e infine «erompe» (il pavone fa la ruota), in vacuo - e in vacuo in questo caso indica il maiale. La sociologa Eileen Crist ci invita a prestare attenzione a questo modello e, soprattutto, al contrasto fra le due interpretazioni. Da un lato, con Darwin, si ha un animale autore a pieno titolo delle proprie stravaganze, che ha senso della bellezza, motivi e intenzioni, un animale che prende iniziative, che magari si perde anche, che in ogni caso ci riserva sorprese; dall'altro, ritroviamo una silente mec­ canica biologica retta da leggi incontrollabili, le cui motivazioni possono essere mappate come un sistema idraulico quasi autonomo. L'animale viene «agito» da forze, certo interne, ma su cui non ha alcun controllo. La differenza fra le due descrizioni sembra ricalcare quella che il naturalista estone Jakob von Uexkull ( è> Umwelt) indivi­ dua fra un riccio di mare e un cane: quando il primo si sposta, sono le sue zampe a muoverlo. Quando lo fa il secondo, è lui a muovere le proprie zampe. Il contrasto fra Darwin e Lorenz può essere utilizzato per altri,

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non è esclusiva di questi due autori. Nei confronti degli animali, i naturalisti del diciannovesimo secolo manifestavano una genero­ sità, nell'attribuzione della soggettività, che in seguito sarà bollata come sfrenato antropomorfismo. La maggior parte dei testi dei natu­ ralisti di quell'epoca è ricca di episodi che attribuiscono agli animali sentimenti, intenzioni, volontà, desideri e competenze cognitive. Nel ventesimo secolo, queste storie si ritrovano relega­ te ai racconti di non scienziati - gli «appassionati»: naturalisti, curatori, addestratori, allevatori, cacciatori. Quanto agli scienziati, le loro posizioni sono caratterizzate principalmente dal rifiuto degli aneddoti e dall'esclusione di ogni forma di antropomorfismo. Il disaccordo fra le pratiche scientifiche e quelle dei non scien­ ziati rispetto agli animali è quindi relativamente recente, ed è stato elaborato in due tempi e in due campi di ricerca. Il primo si colloca agli inizi del ventesimo secolo, quando gli psicologi specialisti del mondo animale fecero entrare gli animali nei laboratori e si sbarazzarono di quelle spiegazioni nebulose come la volontà, gli stati mentali o affettivi, oppure che l'animale possa avere un parere sulla situazione e interpretarla ( f:i> Laboratorio). Il secondo momento viene elaborato un po' più tardi, prin­ cipalmente con Konrad Lorenz. È vero che l'immagine che si ha dell'etologo è quella di uno scienziato che adottava i propri animali, nuotava con le oche e le anatre e parlava con le cornacchie; tutta­ via, corrisponde più al suo lavoro pratico che a quello teorico. A partire dalle teorie di Lorenz, l'etologia si incammina lungo un percorso rigorosamente scientifico; gli studiosi successivi hanno imparato a guardare agli animali come a esseri che si limita­ no a «reagire», invece di «senzienti e pensanti», e a escludere ogni possibilità di tenere conto dell'esperienza individuale e soggettiva. Gli animali perdono così quella che era una condizione essenziale della relazione, la possibilità di sorprendere chi li esamina. Tutto di­ venta prevedibile. Le cause si sostituiscono alle motivazioni dell'a­ zione, siano esse ragionevoli o bizzarre, e il termine «iniziativa» scompare, sostituito da «reazione» ( � Reazione). Com'è possibile che, al tempo stesso, Lorenz venga ricordato, giustamente, per una pratica che si è fondata su - e ha dato luogo a - belle storie di addomesticamento, di sorprese, e sia all'origine di un'etologia così arida e meccanicista? In parte, la risposta si può trovare riandando a quando l'e­ tologia è nata come disciplina scientifica autonoma. Lorenz voleva fondare una disciplina universitaria, scientifica, di cui potesse riven­ dicare la competenza solo chi ne avesse seguito i corsi.

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Tuttavia, altri non accademici possono legittimamente di­ chiararsi competenti in materia: sono gli «appassionati» - caccia­ tori, allevatori, addestratori, curatori, naturalisti - che, dal punto di vista pratico, sono vicini agli animali e li conoscono bene anche se non padroneggiano la teoria. Per affermare la legittimità del campo del sapere che cerca di costituire, Lorenz «dà scientificità» alla conoscenza dell'anima­ le. L'etologia diventa una «biologia» del comportamento; da qui l'importanza dell'istinto, dei determinismi e dei meccanismi innati, fisiologicamente spiegabili in termini di cause. E questa differenzia­ zione è tanto più imperativa quanto più è forte la vicinanza con il rivale, ritenuta pericolosa anche perché gran parte del sapere scien­ tifico si è ampiamente alimentata delle conoscenze degli appassio­ nati. Si tratta, insomma, di far uscire l'animale dal sapere comune. Gli eredi di Lorenz seguono fedelmente il programma cosl stabilito. Il «fare scienza», come strategia di presa delle distanze da chi potrebbe pretendere di sapere (e avere pretese sul sapere) si traduce, man mano, in una serie di regole. Così, il rifiuto degli aneddoti (che punteggiano in modo evidentissimo i discorsi degli appassionati) e soprattutto il sospetto maniacale verso l'antropo­ morfismo risulteranno il segno della vera scienza. Di conseguenza, gli scienziati che ereditano questa disciplina sono molto diffidenti sul fatto di attribuire motivazioni agli animali, tanto più se sono complesse o, ancor peggio, assomigliano a quelle che un umano po­ trebbe avere in circostanze analoghe. In questo quadro, l'istinto è la causa perfetta; è al tempo stesso causa biologica e motivo, un motivo che sfugge totalmente alla conoscenza del suo soggetto. Non si poteva sognare un oggetto migliore. Di conseguenza, l'accusa di antropomorfismo si riferisce blan­ damente (o non si riferisce punto) all'attribuzione di competenze umane agli animali; piuttosto, mette sotto processo il procedimento con cui si determina tale attribuzione. In altri termini, l'accusa di antropomorfismo, prima di qualificare un procedimento cognitivo, è un'accusa politica, di «politica scientifica», che mira innanzitutto a screditare una modalità di pensiero o di conoscenza di cui la pra­ tica scientifica ha cercato di sbarazzarsi: quella dell'appassionato. L'ipotesi ci stimola a rianalizzare i casi di accusa di antro­ pomorfismo, per porre altri interrogativi: con questa accusa, chi si vuole proteggere? L'animale al quale si attribuirebbe troppo, o male, e del quale non si riconoscerebbero i comportamenti abituali ( e> Umwelt)? Oppure si tratta di difendere posizioni, modi di fare, identità professionali?

Per sostenere la possibilità di questa seconda ipotesi e render­ la più articolata, riprendo l'esempio dell'etologo israeliano Amotz Zahavi, di cui ho riportato brevemente il contributo per risolvere l'enigma della stravagante coda del pavone. In realtà, lo studioso non lavora con questi uccelli, ma con altri molto particolari, i garru­ li arabi (Turdoides squamiceps). Li osserva da oltre cinquant'anni nel deserto del Negev e grazie a loro ha formulato la teoria dell'handi­ cap, di cui «beneficiano» ormai, oltre ai pavoni, diversi animali che ostentano comportamenti stravaganti. Questa teoria presuppone che certi animali affermino il proprio valore (la propria superiorità, dice Zahavi) in situazioni di competizione, esibendo un compor­ tamento impegnativo. Per la precisione, è un comportamento im­ pegnativo, un handicap, avere attributi che fanno dell'animale in oggetto il primo bersaglio dei predatori; chi sopravvive, vuol dire che è ben dotato. I garruli sono uccelli piuttosto misteriosi; il loro handicap non sta nell'aspetto, ma nelle attività quotidiane: come osserva Za­ havi, non smettono mai di compiere atti impegnativi, per acquisire prestigio agli occhi dei compagni. Infatti, nella loro comunità il pre­ stigio è importante: consente di raggiungere posizioni gerarchiche invidiabili, cosa che, soprattutto nei gruppi dove un'unica coppia si riproduce, garantisce la possibilità di imporre la propria candidatura come riproduttore. Gli atti impegnativi e prestigiosi assumono diverse forme; i garruli si fanno regali sotto forma di cibo; si offrono volontari per il ruolo di sentinella; nutrono senza apparente tornaconto la nidiata della coppia che si riproduce e possono dar prova di grande coraggio, mettendosi a rischio nelle lotte contro altri gruppi o quando un pre­ datore minaccia un compagno. Certo, gli uccelli che nutrono una nidiata che non è la loro non sono rari, in particolare nelle specie subtropicali, e gli etologi lo hanno documentato in molte situazioni. Anche allearsi contro il nemico non è eccezionale. Meno frequenti invece sono i regali, almeno al di fuori dei rapporti di coppia. Ma i garruli non si comportano come gli altri uccelli; da una parte, lo fanno con l'esplicita volontà di esibirsi: vogliono essere visti dagli altri e segnalano ognuna di queste attività con un piccolo fischio in codice, caratteristico. Dall'altra, si contendono aspramen­ te il diritto di farlo. Un individuo di rango poco elevato che tenti di offrire un regalo a un compagno di rango superiore passerà un brutto quarto d'ora, anche molto brutto. Una mole di osservazioni sul campo ha quindi indotto Zahavi a ritenere che i garruli abbia­ no inventato una risposta originale al problema della competizione

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all'interno di gruppi per i quali la cooperazione è una necessità vita­ le: sono in competizione per il diritto di aiutare e di dare. Ho avuto modo di accompagnare lo studioso sul campo per un po' e ho imparato, insieme a lui, a osservare e a cercare di com­ prendere i comportamenti di questi uccelli così straordinari. Mi sono inoltre interessata al modo in cui li osservava, costruiva le ipo­ tesi, decifrava i segnali e dava un significato alle azioni. Nello stes­ so periodo, un altro etologo, Jonathan Wright, stava conducendo ricerche sui garruli. Zoologo formatosi a Oxford, aderisce ai postu­ lati della teoria sociobiologica; in questa prospettiva, i garruli non aiuterebbero i congeneri per questioni di prestigio, come sostiene Zahavi, bensì perché sono programmati dalla selezione naturale ad agire nel modo più idoneo ad assicurare che i loro geni vengano trasmessi. Basandosi sul fatto che i garruli di uno stesso gruppo sa­ rebbero apparentati, la teoria sostiene che aiutare una nidiata altrui è un modo per favorire il proprio patrimonio genetico, perché ci sono forti probabilità che la nidiata sia composta da fratelli, sorelle, nipoti che condividono in parte lo stesso patrimonio genetico. I metodi di ricerca sul campo di Zahavi e di Wright sono agli antipodi. Il primo si è formato come zoologo, ma la sua pratica è sta­ ta a lungo subordinata al progetto di conservazione dei garruli, ed è paragonabile piuttosto a quella dei naturalisti. Mentre lo osservavo, non riuscivo a non associare il suo modo di procedere alle pratiche degli antropologi: una sequenza di osservazioni che inizia con una specie di rituale di benvenuto. I territori di tutti i gruppi sono vasti e non si sa mai dove li si potrà trovare, quindi è più semplice chia­ marli. Ed è appunto ciò che fa Zahavi: fischia e aspetta. E i garruli arrivano. L'etologo dà loro il benvenuto offrendo pezzi di pane. Poi, dal punto di vista delle modalità di lettura dei comportamenti, for­ mula le proprie spiegazioni ( che cosa fanno e perché?) basandosi su ragionamenti analogici: «Se fossi al suo posto, che cosa farei? Che cosa mi spingerebbe ad agire così?». Jonathan Wright è in totale disaccordo con questo modo di procedere. Non si può sostenere nulla se non si sperimenta, ecco le condizioni di una vera scienza obiettiva. Occorre provare e, per pro­ vare, occorre sperimentare. Secondo lui, il metodo interpretativo di Zahavi rivela chiaramente una pratica antropomorfa e aneddotica - per aneddoto, si intende generalmente in questo campo un'os­ servazione non controllata, cioè non accompagnata da una «buona» chiave interpretativa. Ed è per evitare tale rischio, che Jonathan propone ai garruli gli esperimenti più vari, finalizzati, in ultima ana-

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lisi, a costringerli a mostrare che sono davvero un caso particolare della teoria sociobiologica. Tuttavia, un episodio ha gettato una nuova luce su quello che Wright chiama, in questo contesto, antropomorfismo. Un giorno, ci trovavamo davanti a un nido e osservavamo il viavai degli uccelli che aiutavano i genitori a nutrire la nidiata. I garruli erano intenti nelle proprie occupazioni, che si trattasse di aumentare il prestigio o di rispondere al programma dettato dalle imperiose necessità dei geni. A un certo punto, vediamo un aiutante che si china ai lati del nido ed emette il breve segnale, a indicare che sta per nutrire i piccoli. I beccucci pigolanti si tendono verso di lui. Ma l'uccello non dà niente. La nidiata pigola a tutto spiano. Ho visto bene? È un truffatore? l:etologo conferma: non ha dato cibo ai piccoli. Sul perché, avanza una spiegazione: l'uccello aveva emesso uno stimolo che doveva giocare il ruolo di variabile, in seguito a cui (l'uccello) ha verificato l'intensità della reazione a questa variabile che, secondo lui (cioè Wright, ma forse anche l'uccello), doveva permettergli di dedurre l'effettivo livello di fame della nidiata. l:uccello lo aveva controllato empiricamente. Conosceva la metodologia del procedi­ mento sperimentale. Detto in altro modo, il comportamento del garrulo «che te­ stava» esprimeva la diffidenza rispetto a quanto osservava (i piccoli sostengono sempre di essere affamati); gli occorreva non solo una prova, ma una prova misurabile. Quindi, per interpretare corretta­ mente una situazione, niente è più importante che assumersene il controllo. Non si raccontano storie ai garruli, ed essi stessi non se ne raccontano. Non c'è alcun bisogno di insistere sull'analogia fra le inter­ pretazioni di Jonathan Wright e le sue osservazioni, e i metodi che ritiene gli unici pertinenti e che, di conseguenza, privilegia. Se però percorriamo questa strada, allora notiamo come, in un certo senso, Zahavi procede secondo una coerenza simile. La vita di un garrulo consiste in un'osservazione incessante degli altri per interpretarne e prevederne i comportamenti. Ovvero, il modo di stare al mon­ do da parte di questo uccello è ininterrottamente punteggiato di aneddoti; o meglio, no, perché se dico così prendo in prestito il linguaggio dell'altro campo: la carriera sociale del garrulo consiste nel rilevare una pletora di dettagli importanti e nell'interpretarli. Ognuno costringe sé stesso a un incessante lavoro di previsione e interpretazione delle intenzioni degli altri. È questa la vita degli es­ seri molto sociali.

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Ma questa prassi, così descritta, corrisponde alla maniera in cui lo stesso Zahavi li osserva e dà un senso ai loro comportamenti: prestare attenzione ai dettagli importanti, interpretare intenzioni, attribuire un insieme complesso di motivi e significati. Certo, nessuno ci autorizza a chiarire cosa dia inizio a que­ sta analogia. Zahavi ha fondato la propria pratica e le proprie in­ terpretazioni cosl che corrispondano - nel senso di «rispondere a», in maniera pertinente - al modo di vivere di questi uccelli, oppure attribuisce loro gli schemi che privilegia nella propria pratica? La domanda potrebbe essere girata a Wright: attribuisce agli uccelli la maniera in cui ha imparato a «fare scienza»? Oppure dobbiamo adottare la risposta che ci darebbe, ovvero che il suo modo di com­ prendere corrisponde ai comportamenti abituali che osserva? Qualunque sia la risposta generosa o critica che si darà a que­ ste alternative, si può notare che il significato dell'accusa di antro­ pomorfismo è cambiato e si intreccia con il problema del rapporto degli scieruiati rispetto agli appassionati. Non indica più il fatto di comprendere gli animali alla stregua delle motivazioni degli umani. Non c'è più l'umano nel cuore della faccenda, bensì la pratica, e quindi un certo rapporto con il sapere. In definitiva, l'antropomorfismo che Wright rimprovera a Zahavi non eonsiste nell'attribuire al garrulo motivazioni propria­ mente umane nella risoluzione dei propri problemi sociali, ma nel pensare che l'uccello utilizzi i procedimenti cognitivi degli appassio­ nati come la raccolta di aneddoti, l'interpretazione, l'elaborazione di ipotesi sulle motivazioni e sulle intenzioni. .. Rimane ovviamente aperta la questione di stabilire chi si accordi ai comportamenti abituali dell'altro, degli uccelli e degli scienziati. E la risposta che si potrebbe proporre a uno dei due ri­ cercatori non vale necessariamente per l'altro - forse l'uno si è «ben accordato» e l'altro ha «attribuito»? Ma non concluderei dicendo che «non importa», perché invece importa, dal momento che cambia il modo in cui imma­ giniamo non solo cosa può essere il «fare scienza» con gli animali, ma soprattutto cosa possiamo imparare insieme a loro sulla maniera giusta di procedere.

• tl.ii.it

Queer

I pinguini fanno coming out?

«Queer: chi si mette di traverso, di sguincio. Insolito, strano, inquietante.

Uso: in un primo tempo, agU inizi del ventesimo secolo,

il termine fu utilizzato con il sign ificato di «omosessuale»[ .. .].

Ma negli ultimi anni, persone gay hanno ripreso il termine

e vi fanno ricorso deliberatamente

al posto di gay oppure di omosessuale, nella speranza

che quest'uso positivo alleggerisca il termine del suo potere negativo».

New Oxford American Dictionary

(� J\:") llo zoo di Edimburgo, fra il 1915 e il 1939, visse un gruppo di

:..D,..pinguini. Nel corso di tutti quegli anni un gruppo di zoologi li. osservò con pazienza e attenzione, dando un nome a ognuno di loro. Prima però, ogni animale venne inscritto in una categoria ses­ suale: in funzione delle coppie che si erano formate, alcuni furono chiamati Andrew, Charles, Eric ... altre Bertha, Ann, Caroline e così via. Tuttavia, man mano che passavano gli anni e si accumula­ vano le osservazioni, episodi sempre più inquietanti seminavano la confusione in questa bella storia. In primo luogo, si dovette rico­ noscere che le attribuzioni di identità erano state fatte sulla base di un presupposto un po' semplicistico, dato che alcune coppie erano formate non da un pinguino e una pinguina, ma da pinguini dello stesso sesso. A quel punto i cambiamenti di identità - da parte degli osservatori umani, non degli uccelli - finirono per sconfinare nella complessità shakespeariana. I pinguini decisero di metterci del loro e di complicare le cose, cambiando gli accoppiamenti. Dopo sette anni di tranquille osservazioni, ci si rese quindi

conto che tutte le attribuzioni, salvo una, erano sbagliate! Di con­ seguenza, gran parte dei nomi vennero cambiati: Andrew diventò Ann; Bertha Bertrand; Caroline Charles; Eric Erica; Dora rimase Dora. Eric e Dora, che trascorrevano giornate piacevoli insieme, erano diventati Erica e Dora; Bertha e Caroline, invece, da tempo ritenute omosessuali, da allora in poi furono Bertrand e Charles. Comunque, queste osservazioni non avrebbero «minacciato» l'immagine della natura. L'omosessualità continuava a essere rara nel mondo animale e certamente quei pinguini dovevano rientrare nei casi patologici osservati qua e là negli allevamenti e negli zoo, e che si potevano spiegare con le condizioni di cattività, in perfetto accordo con le teorie psicopatologiche umane che riconducevano l'omosessualità alla malattia mentale. L'omosessualità era contro natura, la natura stessa poteva te­ stimoniarlo. Tuttavia, pare che la natura, a partire dagli anni Ottan­ ta del secolo scorso, abbia cambiato idea. I comportamenti omoses­ suali sono diventati innumerevoli e ci sarà chi ha immaginato che gli effetti disastrosi, in quegli stessi anni, della rivoluzione queer e dei movimenti omosessuali statunitensi abbiano contaminato quel­ le creature innocenti. Ma la domanda va posta in un altro modo: perché fino ad allora l'omosessualità in natura non era stata individuata? Il sag­ gista Bruce Bagemihl, nel libro Natural Exuberance, scritto al ter­ mine del lungo studio di classificazione delle specie che da poco avevano fatto coming out, avanza diverse ipotesi. Prima di tutto, l'omosessualità non era individuata perché non ci si aspettava di vederla. Non c'era alcuna teoria a disposizione per interpretare fatti del genere. I comportamenti omosessuali risultavano un paradosso dell'evoluzione perché, in linea di principio, gli animali omosessuali non trasmettevano il proprio patrimonio genetico. In effetti, ciò rivela una concezione molto ristretta della sessualità da un lato e dell'omosessualità dall'altro. In primo luogo, gli animali dovrebbero accoppiarsi solo per riprodursi: un dio severissimo sarebbe riuscito a ottenere da loro una virtù che non era riuscito a ottenere da nessuno dei suoi fedeli umani. Gli animali farebbero solo cose utili alla sopravvivenza e alla riproduzione ( e> Necessità; r-:) Opere). In secondo luogo, gli animali omosessuali sarebbero esclusi­ vamente orientati verso partner dello stesso sesso e nel merito da­ rebbero prova di una rigidità ortodossa. Inoltre, una spiegazione funzionalista - e in grado di non li­ mitare il comportamento alla sfera della sessualità - poteva giusti-

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ficare l'osservazione di comportamenti orientati verso un partner dello stesso sesso. All'università, nel corso di etologia ci insegnava­ no che, quando una scimmia mostra i genitali a un'altra e si lascia «montare»- l'ho sentito dire anche per le mucche-, non c'è niente di sessuale; è solo un modo per affermare la propria dominanza o sottomissione, a seconda della posizione adottata. Infine, altra ragione che deve aver pesato in maniera consi­ derevole, i ricercatori osservavano pochissimi comportamenti omo­ sessuali in natura perché se ne vedono molto di rado: non che siano rari, ma non si vedono. Così come molto di rado si possono osservare comportamenti eterosessuali, perché gli animali, assai vulnerabili in quei momenti, cercano luoghi nascosti per evitare occhi indiscreti, tanto più che gli umani sono considerati potenziali predatori. Sicco­ me ogni anno si contavano nuovi piccoli, nessuno ha mai messo in dubbio che gli animali avessero una sessualità, anche se la si poteva osservare solo in rare occasioni. Però, rare non vuol dire «del tutto assenti», cosa che vale anche per i comportamenti omosessuali. Come mai, allora, per così tanto tempo non sono stati mai menzionati nei rapporti di ricerca? Alla fine degli anni Ottanta, la primatologa Linda Wolfe chiese spiegazioni ai colleghi. Molti di loro, chiedendo di mantenere l'anonimato, risposero di averne osservati, tanto fra i maschi che fra le femmine, ma che avevano temuto reazioni omofobiche, e di venire accusati essi stessi di omo­ sessualità. Quindi, sulla base di queste ragioni, si può dire che la rivolu­ zione queer ha cambiato qualcosa. Ha sdoganato l'idea che potevano esistere comportamenti non strettamente eterosessuali, spronando i ricercatori a cercarli e a parlarne. Adesso la rivoluzione coinvolge centinaia di specie, dai delfini ai babbuini passando per i macachi, le gallinelle della Tasmania, le ghiandaie dal petto grigio messicane, i gabbiani, gli insetti, e naturalmente i famosi bonobo. Al tempo stesso, la sessualità degli animali ha beneficiato di quella che vorrei chiamare la loro «rivoluzione culturale». Dopo esserne stati esclusi, gli animali possono attualmente rivendica­ re di organizzarsi secondo la cultura. Hanno tradizioni artigianali (gli arnesi e le armi), canti diffusi (le balene, per esempio), pra­ tiche di caccia, alimentari, farmaceutiche, dialettali, specifiche di gruppi ormai definiti «culturali»; pratiche che si acquisiscono, si trasmettono, si abbandonano, conoscono alti e bassi, invenzioni e reinvenzioni. La sessualità, compresa la sua variante omosessuale, è ormai candidata a rientrare in questo ordine di cose. Ha anch'essa il marchio dell'acquisizione culturale.

Il modo in cui avvengono gli atti, per esempio presso le fem­ mine di macaco giapponese, presenta delle differenze: alcune prati­ che sembrano piì:1 diffuse in alcuni gruppi ed evolvono nel corso del tempo; nuove scoperte tendono a sostituire le precedenti. Alcune «tradizioni» - o modelli di attività sessuale - possono essere ideate e trasmesse attraverso una rete di interazioni sociali, all'interno dei gruppi e delle popolazioni e fra un gruppo e l'altro, fra aree geogra­ fiche e generazioni. Secondo Bagemihl, i cambiamenti sessuali in un contesto non riproduttivo hanno contribuito allo sviluppo di altri aspet­ ti importanti dal punto di vista dell'evoluzione culturale, soprat­ tutto nello sviluppo della comunicazione e del linguaggio, come nella creazione di tabù e rituali sociali. Presso i bonobo sono stati individuati venticinque segni del linguaggio delle mani indicanti l'invito, la posizione desiderata ecc.: possono essere cristallini e dal significato immediatamente leggibile, ma alcuni sono più codificati e comprensibili dal partner solo se li conosce già. Per esempio, in un determinato gruppo il gesto che invita a voltarsi si compie fa­ cendo girare la mano su sé stessa. L'enigmaticità e la stilizzazione dei simboli fanno pensare che siano astratti e, altrettanto importante, l'ordine dei gesti induce a ipotizzare che gli animali possano padro­ neggiare la sintassi. Quanto all'organizzazione delle relazioni, sembra caratteriz­ zata da codici complessi; secondo Bagemihl, le regole che guidano gli incontri presso certe specie sarebbero relativamente diverse a seconda della tipologia eterosessuale oppure omosessuale degli in­ contri; ciò che non sembra permesso con un tipo di partner può diventarlo in altre relazioni. Considerare importanti le differenze fra queste pratiche, come fa Bagemihl, è una questione politica, in modo esplicito e per numerose ragioni. Da una parte, questa diversità sposta la ses­ sualità dall'ambito naturale a quello culturale. È una problematica importante e rappresenta una scelta: non si tratta solo di far uscire l'omosessualità dalla sfera delle patologie mentali o da quella giuri­ dica - in alcuni Stati degli USA viene ancora perseguita per legge, come vedremo. Bagemihl respinge la mano che gli è stata tesa, gli alleati che strategicamente potevano contribuire a depatologizzare e a depena­ lizzare l'omosessualità. La «mano tesa» porge questa semplice pro­ posta: se l'omosessualità è naturale, allora non è né patologica né penalizzabile. Dopotutto, l'argomento della non naturalità venne tirato in ballo da un giudice della Georgia in occasione di un pro-

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cesso, il caso Bowers. Colto in flagrante delitto di omosessualità, Bowers era stato condannato e la non naturalità dell'atto era stata presentata fra gli argomenti a favore dell'accusa. Naturalizzare l'omosessualità metterebbe a posto varie cose. Ma per Bagemilh, anche se l'omosessualità può essere naturale, non può rientrare nell'equazione: «Quello che è naturale è giusto». La natura non ci dice che cosa deve essere. Può nutrire il nostro imma­ ginario, ma non costringere i nostri atti. Vonei far notare, en passant, l'ironia della storia. Malgrado questo rifiuto, il libro di Bagemihl viene citato nel 2003, nel corso di un processo in un tribunale del Texas contro due omosessuali, Lawrence e il compagno, trovati dalla polizia a letto insieme in seguito a una denuncia per schiamazzi notturni. Nel processo per omosessualità, istruito sulla base del giudizio di cui ho parlato pri­ ma, nel caso Bowers contro la Georgia, i giudici texani rifiutano di seguire la giurisprudenza imposta dalla sentenza precedente e confutano, fra l'altro sulla base del libro di Bagemihl, l'argomento della naturalità. Alla fine del processo, la legge sulla sodomia viene dichiarata anticostituzionale. L'autore di Natural Exuberance ha poi un'altra ragione, meno teorica, per rifiutare di far rientrare l'omosessualità tra i fatti della natura. Bagemihl non è solo omosessuale, è queer. Quello che gli in­ teressa è, sono le sue parole, «un mondo incorreggibilmente plura­ lista, che accetta la differenza, rispettando l'anormale e l'irregolare senza ridurli a qualcosa di familiare o gestibile». Non si può trovare una definizione migliore di cosa significa essere queer. È una volontà politica che non coinvolge solo gli esseri umani, ma anche il mondo che ci circonda. Coinvolge i modi in cui entriamo in relazione con questo mondo e, così facendo, lo conosciamo, pratichiamo il sapere. Bagemihl valuta i rischi dell'accettare l'idea che l'omosessua­ lità sia naturale, perché diventa così oggetto di studio da parte dei biologi che cercheranno di risolvere il paradosso, e conosce bene quelli già sulla breccia: i sociobiologi. I quali, in effetti, si sono but­ tati sul nuovo problema con un appetito bulimico: ecco un altro caso che esemplificherà e amplierà la teoria, che diventerà ancora più «a tutto campo»: il mondo sarà sociobiologizzato. Per spiegare infatti l'omosessualità, la teoria della parentela ha una soluzione pronta, che del resto si basa sulla convinzione che esista una omosessualità ortodossa. Certo, gli omosessuali non tra­ smettono i geni alla discendenza e di conseguenza di norma si sareb­ bero dovuti estinguere, proprio per la mancanza di discendenti che ne portassero il gene - perché, ovviamente, l'omosessualità sarebbe

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genetica. Invece, non avendo famiglia, gli omosessuali investono tempo e attenzioni sui nipoti, con cui condividono parte del patri­ monio genetico. Grazie a quest'ultimi, il gene quindi garantisce la propria trasmissione. Questo tipo di biologia è politico, non nel senso che di solito le si rimprovera - le teorie possono essere facilmente reinterpreta­ te in teorie misogine, razziste, eugenetiche, capitalistiche ecc.- ma perché, per dirla in parole povere, esse sminuiscono, insultano e depauperano i soggetti di cui pretendono di dar conto. In altri termini, la teoria sociobiologica - e qui condivido il suggerimento della psicologa Françoise Sironi - è brutale: ogni comportamento viene ridotto a una poltiglia genetica; gli esseri diventano imbecilli, ciechi, determinati da leggi che sfuggono al loro controllo - e che si rivelano di una semplicità desolante. Niente invenzioni, niente diversità, niente immaginario; e se rimangono nonostante tutto, è perché sono stati selezionati per permetterci di trasmettere i nostri geni. Non si può essere queer e sociobiologo.· Tuttavia, possiamo dire che gli animali sono «davvero» omo­ sessuali, nella stessa accezione che usiamo per noi? Bagemihl rispon­ de: si può dire che noi lo siamo? Con questo termine ci riferiamo alle stesse realtà - dall'antica Grecia, con l'amore per i giovani efebi, ai più svariati modi di essere di oggi? E si può dire che lo sia «dav­ vero» la gamma di forme che declina i rapporti tra individui dello stesso sesso negli animali? ( c$- Versioni). Qui trovo la logica del progetto di Bruce Bagemihl. La bio­ logia deve rispondere della diversità e dell'esuberanza della natura e degli esseri; deve essere all'altezza di ciò che essi richiedono. Con­ ferma la propria posizione con il giudizio che dà del compito degli scienziati: moltiplicare i fatti per poter così moltiplicare le interpre­ tazioni. C'è una certa presa di distanza dalle teorie «a tutto campo»; la diversità delle cose arricchirà la diversità delle interpretazioni. È del resto quello che Bagemihl chiama «rendere giustizia ai fatti». La natura viene spinta a un processo politico. Un progetto queer. Non ci insegna nulla su quello che siamo o che dobbiamo fare. Ma può nutrire l'immaginario e suscitare l'interesse per la plu­ ralità delle abitudini, dei modi di essere e di esistere. Non cessa di ricombinare le categorie e, partendo dalla multidimensionalità di ciascuna di esse, di ricreare nuovi modi identitari. L'essere maschio o femmina, per esempio, in molti animali si declina in maniere cre­ ative, legate a una molteplicità di modi di «abitare» il genere. In certi uccelli - a volte anche nei membri della stessa spe­ cie - assistiamo a due situazioni tipiche: da una parte, due femmine

che vivono in coppia per tutta la vita, costruiscono insieme ogni anno un nido insieme, covano uova che una delle due ha fecon­ dato accoppiandosi con un maschio, mettono regolarmente in atto comportamenti di corteggiamento reciproco, ma mai di copulazio­ ne. Dall'altra, un maschio che per tutta la vita fa coppia fissa con la stessa femmina, con la quale copula regolarmente e alleva i piccoli, ma che di tanto in tanto si accoppia con un maschio ( una volta sola). Come categorizzare queste situazioni? Si tratta di relazioni omosessuali o bisessuali? Questi uccelli sono maschi e femmine in maniera stabile? Si tratta ancora di categorie in grado di rendere conto di quello che fanno e che sono? In queste domande riconosco un approccio che ho potuto ritrovare negli scritti di Françoise Sironi, la quale lavora con per­ sone transessuali e transgender. Il progetto queer che sostiene trova terreno fertile nelle questioni relative a generi e identità sessuali, ma il suo obiettivo politico è ancorato a una pratica che obbliga a pensare e che stimola il ragionamento. I due approcci intendono comunque trasformare le abitudini, dai rapporti alle norme, per sé e per gli altri, ed essere aperti alle potenzialità. Sironi infatti, se nel lavoro clinico cerca di aiutare coloro che si rivolgono a lei a lottare contro il «maltrattamento teorico» che i colleghi esercitano nei loro confronti, a «liberare il genere dai vincoli normativi» e a sostenerne «la straordinaria vitalità creatri­ ce», conta poi anche su questi esperti della metamorfosi per aiutarci a pensare e a immaginare altre «costruzioni identitarie contempo­ ranee». «I soggetti trans-identitari e transgender hanno una funzione nel mon­ do moderno[ ... ]. La loro funzione è permettere dei divenire, è mostrare diverse espressioni della molteplicità in sé stessi e nel mondo». De-territorializzarsi, essere aperti a nuove modalità di deside­ rio, coltivare l'appetito per la voglia di metamorfosi e di costruire sé stessi attraverso molteplici appartenenze.

Relazione

Le capre sono d'accordo con le statistiche?

.N -:--- __

· i ella maggior parte delle ricerche», scrivevano nel 1992 Oanid E,,ep , Su�nn< H,u,, •gli "imiaNecessità; ,.....� Versioni). Il termine «reazione», familiare agli etologi, non è privo di conseguenze. Nell'ambito della ricerca sui legami, fa fare un passo indietro rispetto a ciò che si ambisce scoprire. Da una parte, ridu­ cendo a una «reazione» il modo in cui l'animale tiene conto della presenza dell'osservatore, gli autori sostengono il concetto di un animale passivo, completamente determinato da cause più grandi e a cui non è in grado di sottrarsi. Dall'altra, e la questione è connessa alla prima, concependo l'abitudine allo stimolo come un metodo per ridurre la «reattività» degli animali in presenza dell'osservatore umano, si tralascia il fatto che gli animali ricoprono un ruolo anche molto attivo nell'incontro. Tale riduzione della reattività, in realtà, è solo l'effetto più evidente di tutt'altro; non spiega niente ma va spiegata. Di con­ seguenza, per ogni gruppo bisognerà prevedere una serie di ipotesi, non solo contestualizzate ma anche a seconda di come esso si orga­ nizza e considera l'intruso, dalle opportunità che ne derivano ecc. Insomma, ogni etologo si ritrova in una posizione simile a quella degli antropologi, nel momento in cui si pongono (o cercano di rispondere a) una questione inevitabile quando si lavora sul campo: coloro che interrogo capiscono ciò che ho fatto? Quali intenzio­ ni mi attribuiscono? Come interpretano ciò che cerco? Valutano il mio contributo come un fastidio o come un vantaggio, e perché? Quando i primatologi si pongono questo genere di domande, le cose prendono un'altra piega. In questo senso, partendo da una banale constatazione, la primatologa Thelma Rowell ha proposto di rivedere il significato del termine «abituazione», ossia di adatta­ mento allo stimolo. Pare che avvengano alcuni cambiamenti demo­ grafici nei gruppi di scimmie che hanno beneficiato della presenza di un osservatore il quale aveva praticato l'abituazione, rispetto ai gruppi recensiti soltanto occasionalmente (oppure osservati a di­ stanza). Il verbo «beneficiare» non è scelto a caso, perché i cam­ biamenti demografici sarebbero piuttosto favorevoli. Studiando le condizioni in cui si stabilisce il processo di abituazione, Rowell si 138

rende conto che la presenza ravvicinata dello scienziato scoraggia i predatori, obbligati a rivolgersi altrove per la caccia. Il che la porta a ipotizzare che un buon numero di animali permetta deliberatamen­ te all'osservatore di avvicinarsi, quando capisce che la sua presenza in qualche modo li protegge. Non si tratta quindi di adattarsi, ma di interagire, o anche di utilizzare l'osservatore. Tuttavia, non si può generalizzare: alcune scimmie non hanno grossi problemi con i predatori; altre sono seriamente dan­ neggiate proprio dagli umani; altre ancora, meno sociali come gli orangutan, devono imparare ad adattarsi all'intruso che fa fuggire i compagni - e le femmine. Qualcosa di molto diverso dalla reattività. Tutta un'altra storia, un modo completamente diverso di raccon­ tarla: implica che degli esseri sperimentino l'incontro, gli uni e gli altri interpretino le eventuali sfide e il gioco di scambi e, su questa base, negozino con intelligenza. Evidentemente, tutto ciò va contro le esigenze del «fare scienza» a cui obbediscono diversi ricercatori ( e'> Laboratorio). Per uno studioso, non è affatto semplice rinunciare alla reat­ tività e farlo seriamente, cioè trarre le conseguenze a cui tale scelta obbliga. È una scelta difficile, che spesso comporta vedersi scredi­ tare i lavori e rifiutare gli articoli. Significa anche pensare che gli animali prendano attivamente in considerazione una proposta che viene loro rivolta e rispondano, cosa che coinvolge diversamente il ricercatore. Infatti, se rispondere significa trovarsi di fronte a un possibile bivio, reagi.re implica invece che il modo in cui il problema viene posto sovradetermina quanto seguirà e il suo significato. Di conseguenza, per il ricercatore che accetta di ascoltare la risposta dei propri animali, il controllo della situazione viene distribuito di­ versamente. Per riprendere la spiegazione di lsabelle Stengers, pos­ siamo dire che lo scienziato sarà vincolato dalla risposta, dovrà a sua volta rispondere e risponderne. Il ricercatore Michel Meuret ha fatto proprio questa scelta: si è lasciato guidare perché gli animali che osservava gli rispondevano, il che, in ultima analisi, ha compromesso ogni possibilità di campio­ natura, con intuibili conseguenze sulle chance di pubblicazione del lavoro. La situazione è tanto più interessante perché è abbastanza insolita: è certamente un caso di abituazione allo stimolo ma in am­ bito sperimentale, non con scimmie bensì con capre. Quel che è ancora più sorprendente è che Meuret non studia i comportamenti sociali ma le preferenze alimentari, argomento che in genere non induce i ricercatori a prestare grande attenzione alla socialità degli animali.

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Il suo progetto di ricerca si propone di valutare ciò che, in condizioni non abituali, un gruppo di capre mangia, precisamente, in che quantità e come, in una boscaglia. Effettivamente, nell'insie­ me l'esperimento somiglia semmai a una situazione di ricerca analo­ ga a quella degli etologi sul campo, ma le «condizioni non abituali», cioè gli alimenti diversi da quelli dati agli animali d'allevamento, giustificano l'uso del termine «sperimentazione»: alle capre è pro­ posta una «prova» e si valuta come rispondono. L'esperimento inizia con una prima fase di adattamento reci­ proco fra gli animali osservati e gli osservatori. Quando l'adattamen­ to sembra avvenuto, i ricercatori, guidati dai consigli del pastore, cercheranno di individuare le capre da seguire fra quelle che pre­ vedibilmente non saranno troppo disturbate dalla loro presenza co­ stante. Dopodiché, ha inizio la ricerca: ciascun membro dell'équipe segue quotidianamente l'animale selezionato e per tutto il giorno osserva cosa mangia. Ogni dettaglio, ogni masticata vengono ac­ curatamente annotati; ogni specie di pianta viene inventariata. La vicinanza è assoluta ed è forte l'interesse per chi viene osservato. Il metodo scientifico prevede che gli animali siano scelti a caso, per rappresentare un campione casuale. Ma, appunto, ed è la ragione della seconda fase, la scelta non può essere casuale, perché ciò potrebbe rivelarsi disastroso. Per esempio, la continua presenza dell'osservatore può contribuire a modificare lo status sociale di un individuo: un aspirante leader può interpretare come un incoraggia­ mento il suo interesse. Infatti, in alcune capre questo atteggiamento fa sì che vogliano scavalcare le altre, sottrarre loro il cibo o attac­ care briga. Altre invece verranno aggredite dalle compagne, come se l'interesse dell'umano significasse che la capra osservata voglia cambiare posto nella gerarchia. Il rischio non è solo creare disordine nel gruppo, ma anche di non sapere più con precisione cosa si sta osservando: ciò che mangia una capra in condizioni non abituali oppure, al contrario, ciò che mangia una capra che vuole mostrare alle altre la propria superiorità perché improvvisamente pensa che il suo status sia cambiato? Il numero di ovini che si possono seguire corrisponde a circa il 15-20% del gregge. Non è un campione: gli animali osservati non sono rappresentativi del gregge, e meno che mai delle capre in ge­ nerale. Possono però fornire alcune conferme su di esse: sulla qualità di ciò che viene loro offerto in condizioni non abituali, sulla loro approvazione o disapprovazione. Potremo allora pensare che non sono rappresentative, bensì rappresentanti, per i ricercatori e le altre persone che volessero chiedere loro di prendersi cura, nelle regioni

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a rischio di incendio, delle aree a vegetazione incolta. E saranno

rappresentanti affidabili se gli scienziati avranno fatto correttamente

le proprie scelte. Questa terminologia, anche se nell'esperimento non viene esplicitata, spiega bene ciò che si verifica e le relazioni che si sta· biliscono. Per quanto implicita, rende le generalizzazioni molto più vaghe e i ricercatori molto più attenti alle conseguenze delle pro­ prie scelte e del proprio lavoro, nonché a come rispondono questi animali. Se, mentre viene osservata, una capra mostra troppo interes­ se, ansia o disagio per la presenza ravvicinata e costante dell'osser­ vatore, spiega ancora Meuret, bisogna smettere di osservarla. Essere rappresentante vuol dire essere quella che garantisce l'affidabilità dell'esperimento e la solidità dei risultati; non presuppone né l'in­ differenza né la reattività all'attività di osservare, ma un'approvazio­ ne (probare): ciò che costituisce una prova. Ai ricercatori viene quindi richiesto di supporre che gli ani­ mali reagiscano alle loro proposte, le giudichino e ricevano una ri­ sposta a tale giudizio. La prova è: «Quando l'animale ti spinge via è un buon segnale per iniziare l'osser­ vazione, perché ti trovi tra lui e ciò che desidera: vuol dire che è capace di manifestare che lo stai disturbando».

Alcune ricerche sperimentali iniziano a prendere in conside­ razione l'idea che sia molto più interessante rivolgersi a un rappre­ sentante affidabile, che a uno poco interessato. Sono rare, e tra esse rientrano gli studi con gli animali parlanti che hanno avuto esito positivo ( cd> Laboratorio). Gli animali che non vogliono parlare non collaborano. I ricercatori sono quindi tenuti a lavorare solo con quelli che si mostrano interessati e a sollecitarli attivamente in tal senso, in modo che lo diventino. Esistono peraltro altre iniziative di questo tipo; recente­ mente ho scoperto che alcuni primatologi dello Yerkes National Primate Research Center, negli Stati Uniti, avevano condotto un esperimento con scimpanzé in cattività, allo scopo di valutare l'in­ fluenza della personalità sul venire imitati nell'uso degli attrezzi. Se due scimpanzé dalla personalità molto diversa - uno giovane e uno più anziano e dominante - mostrano entrambi ai compagni il modo in cui manipolare strumenti che consentono di aver accesso a lec­ cornie, le scimmie spettatrici quale dei due scimpanzé tenderanno a imitare? Le due manipolazioni insegnate sono leggermente diverse,

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così da capire quale delle due verrà privilegiata. La ricerca, detto en

passant, ha l'obiettivo di comprendere i meccanismi della diffusio­

ne culturale di una nuova modalità d'uso: in genere i giovani sono quelli che li inventano, mentre i dominanti di solito godono di un maggiore prestigio. Nel caso degli strumenti dell'esperimento, sembrerebbe che il prestigio abbia la meglio, il che lascia aperto un paradosso: non si sa ancora come un'innovazione viene trasmessa. Comunque, ciò che volevo far notare in questa ricerca è altro, né del resto è se­ gnalato nell'articolo, bensì negli allegati metodologici, come spesso succede. I ricercatori scrivono: «Gli scimpanzé riconoscono il proprio nome e sono "chiamati" a par­ tecipare alla ricerca, sia che li chiamiamo per entrare, quando sono nel recinto esterno, sia che mettiamo lo strumento dell'esperimento vicino al cancello del recinto, dando loro la possibilità di interagire con esso».

Non è che un piccolissimo passo, ma forse è la premessa di altri. Certamente, il fatto che gli scimpanzé vengano reclutati in condizioni che stimolano il loro interesse non indica che trovino interessanti questo tipo di problematiche; ma fa dubitare che il con­ cetto di dominanza sia ancora al centro delle preoccupazioni dei ricercatori ( r"'> Gerarchie). Tuttavia questo piccolo passo, se compiuto da qualcuno come Michel Meuret, mi fa pensare che una certa idea di obiettività stia sostituendo quella che definisce il sapere come un atto di potere tanto più forte perché pretende di costituire un punto di vista og­ gettivo. Come suggerisce la filosofa Donna Haraway, l'obiettività non è più questione di disimpegno, ma di «strutturazione reciproca e in genere diseguale». Questo nuova concezione impone, scrive la studiosa, «di descrivere l'oggetto da conoscere come un attore e un agente, non come uno schermo, una motivazione o una risorsa [ ... ]. Questa osser­ vazione è di una chiarezza paradigmatica per un approccio critico nel campo delle scienze sociali e umane, dove proprio la capacità di azio­ ne della popolazione studiata trasforma radicalmente la definizione di una teoria sociale. Accettare la capacità di agire degli "oggetti" studiati è l'unico modo per evitare ogni sorta di grossolani errori e false co­ noscenze in questi campi. Vale anche per gli altri progetti del sapere chiamati scienze[ ...). I loro attori hanno forme diverse e meravigliose. E le descrizioni di un mondo "reale" non sono più funzione di una lo­ gica di "scoperta", ma di un temibile rapporto sociale detto "dialogo". Il mondo non "si" parla, il dialogo scompare, sostituito dal traduttore automatico».

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E conclude: «Fare spazio all'azione del mondo nella conoscenza crea delle prospet­ tive inquietanti, in particolare l'idea che il mondo ha un proprio senso dello humour. .. ».

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Separazioni

Si può mandare in tilt un animale?

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uando studiavo i babbuini selvatici in Kenya», scrive la primatologa Barbara Smuts, «mi imbattei in un piccolo d; b,Ì.bm ,ann;cch;a Gerarchie). Ma, secondo la filosofa Donna Haraway, spiega al tempo stesso una con­ cezione funzionalista di tipo fisiologico del corpo politico. Il gruppo sociale delle scimmie funziona come un organismo (e l'organismo funziona come un corpo politico): sottraendo la testa, si neutralizza ciò che assicurava la legge e l'ordine. Tuttavia, perché i ricercatori sottoponevano gli animali stu­ diati a questo esperimento? La risposta è molto semplice: per vedere che cosa succedeva, come fanno gli adolescenti maleducati. Si può dire anche in maniera meno semplice: perché gli effetti permettono di dedurre le cause. 149

Salvo che non si potrà mai sapere, se non negando gli effetti del proprio intervento, che cosa costituisce una «causa». Se Harlow, Carpenter, Sugiyama, Watson e tanti altri aves­ sero anche solo ipotizzato che fra ciò che «causa» smarrimento, di­ sperazione e disorientamento negli animali studiati, bisognerebbe includere l'effetto dell'intenzione malvagia che accompagna tutto il processo, nelle loro ricerche non avrebbero potuto affermare nulla. Alla fine, le loro teorie si riducono solo a un esercizio sistematico e cieco dell'irresponsabilità.

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Tempie Grandin

Con chi tratteranno gli extraterrestri?

a m��a è u� e�bivoro che ha del te�po per fare le cose: quest� \ . ·•· · definmone e d1 un allevatore, Ph1hppe Roucan. La mucca e uri· essere della conoscenza, scrive Michel Ots. Sostiene che questi animali conoscono il segreto delle piante; ruminano meditando contemplano le metamorfosi della luce dagli spazi siderali alla fibra della materia. Del resto, alcuni allevatori hanno detto a Jocelyne Porcher che le corna delle mucche le mettono in contatto con la potenza del cosmo. Talvolta rifletto - ma certo ci avranno già scritto un romanzo di fantascienza - che abbiamo un'immaginazione davvero scarsa o egocentrica, se pensiamo che, nel caso gli extraterrestri sbarcassero qui sulla Terra, si metterebbero in contatto con noi. Quando leg­ go le parole degli allevatori sui loro animali, mi piace fantasticare che magari gli alieni prenderebbero i primi contatti con loro. Per il rapporto che hanno con il tempo e la meditazione, per le cor­ na - antenne che le collegano al cosmo -, per ciò che sanno e che trasmettono, per il senso dell'ordine e delle priorità, per la fiducia che sanno esprimere, per la curiosità, per il senso dei valori e delle responsabilità; o, ancora, per quello che un altro allevatore sostiene su di loro e ci sorprende: sono più avanti di noi nella riflessione. Se l'ipotesi degli extraterrestri che ci snobbano a vantaggio delle mucche può avere un senso per qualcuno, si tratta certamente di Tempie Grandin. È vero che quando cita questi extraterrestri, è per sostenere piuttosto che percepisce noi come tali e che si sente spesso, per usare una sua espressione, come un antropologo su Marte. Grandin è autistica, nonché la scienziata statunitense più famosa nel campo degli animali d'allevamento. Le due cose sono collegate.

Infatti, se è diventata così esperta, se è riuscita a progettare le stalle e i sistemi di contenzione per animali più ingegnosi, se può svolgere il mestiere che ha scelto con tale successo, è perché, dice, può percepire il mondo come lo percepiscono le mucche. Quando deve risolvere un problema sul campo, per esempio se il bestiame rifiuta di raggiungere un posto dove invece va portato di frequente, o crea problemi che sfociano in conflitti con gli umani che se ne occupano, Tempie Grandin cerca di rendere comprensi­ bile il modo in cui le mucche vedono e interpretano la situazione. Capire cosa può aver spaventato l'animale e che noi non perce­ piamo, perché oppongono resistenza alle nostre richieste - entrare in un edificio e attraversare una strettoia - le permette di risolvere problemi e conflitti. A volte basta un dettaglio - un pezzetto di tes­ suto colorato che sventola su una sbarra, un'ombra a terra che non vediamo o che per noi non significa la stessa cosa - e l'animale si trova ad agire in modo incomprensibile. Il suo essere autistica, spiega, la rende sensibile all'ambiente circostante, con una sensibilità molto simile a quella degli animali. La sua acuta comprensione di questi ultimi e la sua capacità di adot­ tarne la prospettiva si basano in fondo su una specie di scommessa. Gli animali, sostiene, sono esseri eccezionali, come lo è lei stessa, in quanto autistica: «L'autismo mi ha consentito di avere sugli animali una prospettiva di­

versa da quella di quasi tutti gli altri professionisti, e tuttavia condivisa

da molte persone comuni: la mia idea è che siano più intelligenti di

quel che pensiamo. [ ... ] Chi ama gli animali e passa con loro molto tempo spesso capisce intuitivamente che in essi c'è molto più di quel che sembra. Solo, non sanno bene di che cosa si tratti, né sono in grado

di descriverlo».

Alcuni autistici, spiega, sono molto ritardati mentalmente, ma capaci di fare cose che gli umani normali sono incapaci di im­ parare: per esempio, partendo dalla data di nascita, dedurre in una frazione di secondo che giorno della settimana era. Gli animali sono come i savant autistici. «Hanno talenti particolari che gli esseri umani non hanno, proprio

come le persone autistiche hanno talenti che gli individui normali non hanno; certi animali, poi, proprio come certi savane autistici, presen­ tano forme speciali di genio che le persone normali non possiedono».

Gli animali possiedono La notevole capacità di percepire cose che gli umani non possono percepire e una facoltà altrettanto

incredibile di ricordare informazioni molto dettagliate di cui non potremmo ricordarci: «Trovo sempre un po' buffo che la gente normale continui a dire, a proposito dei bambini autistici, che "vivono in un piccolo mondo tutto loro". Lavorando con gli animali, ci si rende conto che si può dire al­ trettanto della gente normale. C'è un mondo grande e meraviglioso, là fuori, che moltissima gente normale coglie a malapena».

Così, il genio degli animali consiste nella loro formidabile capacità di prestare attenzione ai dettagli, mentre noi privilegiamo una visione globale perché tendiamo a «fondere» tali dettagli nel concetto che ci dà la percezione. Gli animali sono pensatori visiva­ mente orientati, noi siamo pensatori verbali. «Lo dico sempre: quando avete un problema con un animale, cercate di vedere quello che sta vedendo lui e di provare quello che sta provando lui».

Temple Grandin entra nel recinto, percorre il corridoio cur­ vo e osserva: le pale del ventilatore oscillano leggermente quando gira; la zona d'ombra proiettata sul terreno sembra un burrone senza fondo; l'abito giallo spaventa perché è troppo luminoso; il contrasto «salta agli occhi» come il riflesso abbagliante della luce sulla placca di metallo. Si potrebbe pensare che, descrivendo il procedimento del mettersi al posto degli animali per pensare, vedere e sentire come loro, Grandin si riferisca a quella che in genere viene definita come empatia. Ma se lo è, il termine è un ossimoro: ciò con cui abbiamo a che fare è un'empatia senza pathos. Sarebbe quindi una forma di empatia tecnica, che non si fon­ da sulla condivisione di emozioni ma piuttosto sulla creazione di una condivisa sensibilità visiva, su un talento ben più cognitivo che emotivo, poiché è così che categorizziamo questo tipo di processo. Se trovo poche parole per spiegare questo fatto - io, che ap­ partengo a una tradizione per cui l'empatia rientra nella sfera delle emozioni condivise-, posso tuttavia rimandarvi a quella piccola me­ raviglia sperimentale che è il romanzo di fantascienza Straniero in un mondo straniero di Carolyn ]anice Cherryh. In un universo lontano nel tempo e nello spazio, un ambasciatore terrestre viene inviato su un pianeta dove strani esseri, molto simili a noi, vivono, stringono legami, parlano e tentano di risolvere i conflitti. Ciò che li rende particolari è che conoscono sentimenti che non hanno niente a che

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vedere con i nostri: non hanno niente di interpersonale. Fra loro non c'è né amore, né amicizia, né odio, né affetto. La difficoltà dell'ambasciatore umano è riuscire a capire un sistema relazionale tanto simile al nostro - in cui le persone si aiu­ tano o si trucidano, coltivano legami -, mentre è sempre tentato di interpretarlo in termini emotivi interpersonali. Quello che lega fra loro le persone, quello che ne spiega i comportamenti, si basa infatti su relazioni di fedeltà e di lealtà che prescrivono, come un insieme di regole, i codici di condotta. E ciò produce un tipo di società e di relazioni a tal punto simili alle nostre, che il protagonista continua a equivocare i motivi e le intenzioni di chi lo aiuta e di chi si com­ porta in modo ostile. Sbaglia, ma comunque riesce a cavarsela, e se gli errori dovuti alla confusione hanno conseguenze, l'autrice fa in modo che non siano irreparabili. Si tratta di un esperimento che costringe il protagonista a defamiliarizzarsi dalle proprie abitudini, a pensare e ad avere dei dubbi, e non di una lezione di morale. Analogia richiama analogia, si dirà. Ma il percorso della fan­ tascienza, con l'esempio di Straniero in un mondo straniero, ci invita a rallentare. Gli animali sono «davvero» come gli autistici? Tempie Grandin lo sostiene, con una sicurezza che chi non è né animale né autistico avrà difficoltà a condividere. Ma il sistema di verità che accompagna quest'affermazione rientra in quello della scom­ messa narrativa; ristabilisce il pragmatismo: comportandosi come se avesse a che fare con esseri che vedono anch'essi il mondo in un certo modo, sono attentissimi nei dettagli e hanno il talento della percezione, riesce a ottenere da loro l'obiettivo della scommessa: conciliare meglio le intenzioni degli allevatori e degli animali. In effetti, in seguito al suo lavoro negli allevamenti c'è meno violenza. In altri termini, Temple Grandin insegna agli allevato­ ri statunitensi a vedere e a pensare il mondo con il talento che è proprio dei loro animali. Sottolineo la loro nazionalità e il fatto che la maggior parte, al contrario di coloro che ho citato all'inizio, ha pochi contatti con gli animali, salvo in occasioni molto preci­ se, come le operazioni di accudimento e il trasporto al mattatoio. Detto altrimenti, l'allevamento con cui Temple Grandin ha a che fare esprime solo molto parzialmente il significato che può avere per alcuni dei nostri allevatori, per i quali l'essenza del lavoro sta nella coabitazione con gli animali, nel conoscerli e nell'amarli. Gli animali sono geni. Tempie Grandin offre un buon «anti­ doto» alla tesi dell'eccezionalità umana, capovolgendola. Sono gli animali a essere eccezionali, come lo sono gli autistici, esseri unici e irripetibili. L'analogia, certo, descrive delle apparenti equivalenze,

ma lo fa problematizzandole, invertendo i fattori; non ha nulla di immediato, si fonda sulla costruzione e sul mettere in relazione due differenze, quella fra esseri umani e animali e quella fra autistici e persone normali. È ancora più interessante il fatto che l'analogia si basa sulla ritrascrizione di queste differenze in differenze qualificanti, cosa che le conferisce la funzione appunto di «antidoto». Ciò che corrispon­ deva alla bestialità nelle bestie e all'handicap negli umani diventa un talento particolare, eccezionale, il talento nell'uso del mondo. Così ridefinito, il confronto reinventa le identità e propone altri modi in cui può realizzarsi. Non si tratta quindi di mettere a con­ fronto, ma di ridefinire. Di fare altro con lo stesso, di riorientare il divenire. Di costruire sé stessi attraverso storie che fanno crescere, raccontandole. Certo, non è per caso che Tempie Grandin, quando ripercor­ re il suo lungo cammino e il ruolo della madre, che ha lottato per risparmiare alla figlia diagnosticata «schizofrenica» il destino di una vita in istituto, ricorda le storie che la madre le raccontava da picco­ la: di notte, nelle case dove è appena nato un bambino, a volte arri­ vano le fate, che lo sostituiscono con un bimbo loro. Così gli umani si ritrovano con esserini bizzarri che non capiscano e che sembrano non capirli, bambini la cui mente si assenta in modo davvero strano e che rimangono sempre degli esuli, bambini che l'universo della nostra lingua e dei nostri legami accoglie a stento, bambini che ve­ dono cose appassionanti o spaventose che non vede nessun altro. Bambini, insomma, che, come fa Tempie Grandin, aprono la porta, nel nostro mondo, a mondi invisibili e favolosi.

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Umwelt

Gli animali conoscono le tradizioni del mondo?

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lÙilosofo statunitense William James fa propria una frase di He, \�:;: :::"gel, quando scrive che «lo scopo della conoscenza è spogliare il mondo oggettivo della sua estraneità, e far sì che in questo mondo ci sentiamo più a casa nostra». A mo' di introduzione alla teoria dell'umwelt, si potrebbero capovolgere i due termini della frase: la teoria dell'umwelt avrebbe lo scopo di spogliare il mondo oggettivo della sua familiarità, e far sì che in questo mondo noi ci sentiamo un po' meno a casa nostra. Tornerò su questa argomentazione per correggerla ulterior­ mente; per ora la mantengo così perché ha il merito di offrire alla teoria dell'umwelt un appiglio pragmatico. Chiede di rispondere all'invito molto concreto di Donna Haraway: dobbiamo imparare a incontrare gli animali come se ci fossero estranei, per disimparare tutte le ipotesi idiote che abbiamo formulato su di loro. La teoria dell'umwelt venne proposta da Jakob von Uexki.ill, naturalista estone nato nel 1864. Questo termine, che indica l'am­ biente, il mondo circostante, nel suo lavoro assume un significato tecnico, cioè di ambiente «concreto e vissuto» dell'animale. L'intuizione di partenza della teoria è in apparenza semplice: l'animale, dotato di organi sensoriali diversi dai nostri, non può per­ cepire lo stesso mondo. Le api non hanno la nostra percezione dei colori; noi non percepiamo i profumi che invece captano le farfalle, così come non siamo sensibili all'acido butirrico secreto dall'appa­ rato pilo-sebaceo dei mammiferi quanto la zecca, che aspetta in ag­ guato su un filo d'erba o un ramoscello.

La teoria assume un tono decisamente originale nel modo in cui definisce la percezione: è un'attività che riempie il mondo di oggetti percettivi. Per van Uexkiill, percepire vuol dire attribu­ ire significati, e viene percepito solo ciò che ha un significato, così come riceve un significato solo ciò che può essere percepito, e che è importante per l'organismo. In nessun mondo animale esiste un oggetto neutro, privo di qualità vitale; tutto quello che esiste per un essere, è un segno che ha un impatto, o un impatto che ha significa­ to. Ogni oggetto percepito - e qui riprendo l'espressione utilizzata da Deleuze sulla teoria - «esercita il potere di essere coinvolto». Il fatto che von Uexkull definisca, come equivalenti, «am­ biente concreto» e «ambiente vissuto» è significativo: entrambi rinviano a delle «influenze», la cui direzione appare indeterminata; da una parte, l'ambiente circostante «influenza» l'animale, lo «toc­ ca»; dall'altra, l'ambiente esiste solo grazie alle «influenze» di cui è oggetto, nel modo in cui l'animale dà all'ambiente in questione il potere di toccarlo. Perché Tschock, la taccola di Lorenz, improvvisamente non si interessa più alla cavalletta che puntava qualche minuto prima? Perché è immobile; e in quanto tale, non significa più, non esiste più nel mondo percettivo delle taccole. Solo se salta esiste, colpisce. Una cavalletta immobile non ha il significato di «cavalletta». Per questa ragione, del resto, spiega von Uexkiill, cosl tanti insetti si fingono morti davanti ai predatori. Ispirandoci al natu­ ralista estone, potremmo dire che come la tela di ragno è «per la mosca», è «moschiera», la cavalletta è «per la taccola» e ha integra­ to nel suo modo di essere alcune caratteristiche del predatore. Dal momento che ogni avvenimento del mondo percepito è un avveni­ mento che «significa» e che viene percepito solo in quanto signifi­ ca, per von Uexkull ogni percezione fa dell'animale un «prestatore» di significato, cioè un soggetto. In modo più conciso, ogni percezione di significato implica un soggetto, così come ogni soggetto si defini­ sce in quanto dà significato. Mi sono interessata alla teoria dell'umwelt principalmente per due ragioni: perché mi sembrava in grado di mostrare gli animali sotto una luce meno idiota e perché prometteva di rendere gli scien­ ziati più interessanti. Dopo Donna Haraway, mi aspettavo che que­ sta teoria invitasse a considerare gli animali come estranei, come «qualcuno» il cui comportamento incomprensibile spinge non solo alla sospensione del giudizio, ma anche al tatto e alla curiosità: in che mondo vivrà mai questo estraneo per presentare tali consuetu­ dini? Cosa lo colpisce? Quali precauzioni vanno prese a riguardo?

Confesso di essere rimasta delusa. Forse dipende anche dal fatto che la teoria dell'umwe!t si riferisce soprattutto ad animali re­ lativamente semplici, con una lista limitata di sensazioni che li defi­ niscono, senza dubbio quelli che ci sono più familiarmente estranei. Poiché questa teoria invita i ricercatori a scovare i segnali che sca­ tenano le sensazioni, li ha indotti a focalizzarsi sui comportamenti istintivi e quindi più prevedibili. Si è rivelata controproducente ri­ spetto a quanto mi aspettavo, salvo poche eccezioni - i cui ideatori mi scuseranno, se non li nomino. Senza dubbio mi aspettavo trop­ po: mi è sembrato che gli animali si siano limitati a seguire routine inevitabili. Quanto agli sperimentatori, «l'educazione» nei confronti delle abitudini che non si conoscono ha mostrato rapidamente i propri limiti. In questo caso non dipende certo dalla teoria, ben­ sì dalle routine sperimentali che essa chiaramente non è riuscita a neutralizzare. A conferma, segnalo il carattere paradossale di una ricerca relativamente recente: nella prospettiva, in sé molto interessante, di studiare come le scimmie percepiscono e vengono coinvolte dal proprio ambiente, sono state sottoposte a test cognitivi nelle varie zone del recinto. Gli studiosi hanno notato che gruppi in cattività, nella fattispecie di cappuccine, organizzano molto rapidamente i propri spazi distinguendo quelli sociali da quelli per il riposo e l'a­ limentazione. L'ipotesi dei ricercatori è che ognuno di questi spazi potrebbe rivelarsi «capacitante» o «invalidante» per alcuni compiti cognitivi. L'idea è interessante: prevede che si mettano in discussione le generalizzazioni frettolose e richiede tempo. I risultati delle ricerche sulla competenza negli animali non potranno ambire a insegnarci qualcosa, se non vengono minuziosamente contestualizzati - e con­ testualizzati dall'esperienza che l'animale fa di quanto gli viene pro­ posto. Se già all'interno dello stesso recinto nessuna generalizzazio­ ne è scontata, immaginiamo le profonde incertezze dei ricercatori quando passano da una situazione sperimentale a un'altra; ancora di più, nella generalizzazione su uno stesso gruppo di animali, per non parlare di quella dagli animali agli umani. Ma torniamo all'esperimento. L'ipotesi che guidava la ricerca si è rivelata pertinente, almeno dal punto di vista dei ricercatori: di fronte a un compito identico come la manipolazione di strumen­ ti (prelevare dello sciroppo dal fondo di tubetti chiusi dentro una scatola, servendosi di lunghi bastoncini), le cappuccine si rivelano molto più dotate quando si trovano nello spazio dove compiono

abitualmente attività di manipolazione, e nello spazio da cui sor­ vegliano l'ambiente e in cui si dedicano alle interazioni sociali. Il che mi sembra abbastanza prevedibile, e potrebbe del resto avere interpretazioni diverse da quella di una facilitazione dovuta alla di­ sposizione degli strumenti nel contesto - per esempio, le scimmie nello spazio sociale sarebbero più distratte. I risultati alla fine non invitano a mettere un freno alle ge­ neralizzazioni, perché la questione stessa della «percezione del con­ testo», senza dubbio troppo generica, trasforma le cappuccine in figuranti su una scena che le riguarda poco. Se si tratta del loro mondo vissuto, temo però che non ci si trovino bene quanto spera­ no i ricercatori. Lo dimostra ancora meglio il modo in cui la ricerca è organiz­ zata. Inizia, in una prima fase, con una procedura classica nel campo e che - incredibile ma vero - non è mai stata messa in discussione: si stabilisce il rango gerarchico delle scimmie sottoponendole all'e­ sperimento di un'unica bottiglia di latte, sulla base del fatto che la variabile potrebbe avere un ruolo negli esperimenti successivi. Bisogna sapere chi è il «dominante» e chi il «subordinato», perché potrebbe avere un effetto sui risultati ( è> Gerarchie). Quindi, le scimmie si affollano intorno alla bottiglia, entrano in competizione come i ricercatori vogliono e, molto rapidamente, emerge la gerarchia di dominanza come risultato della competizio­ ne. Si crea uno strano mix di mondo vissuto, variabili e gerarchia; soprattutto, c'è un punto cieco: le scimmie come fanno esperienza di ciò a cui vengono sottoposte attraverso questa prova gerarchi­ ca? Quanto è importante per loro, e come saperlo, considerato che vi sono state costrette? Perché se c'è una questione che la teoria dell'umwelt solleva, e in modo pertinente, è conoscere cosa importa agli animali. Palesemente, qui non ce n'è traccia. Ma la teoria può assumere risvolti più interessanti, se seguia­ mo l'argomentazione di Jocelyne Porcher: «Come caratteristica pe­ culiare, l'obiettivo dell'allevamento è far coabitare due mondi nel modo più intelligente possibile». Affinché mantenga le promesse però, occorre dislocare la teoria dell'umwelt fuori dal suo spazio abi­ tuale. Inoltre, senza dubbio il fatto che le promesse della teoria ven­ gano mantenute non è estraneo a questa dislocazione che sottrae la teoria agli scienziati assoggettati alle parole d'ordine del «fare scien­ za» e al dogma dell'istinto. La proposta di Porcher, infatti, ci invita ad analizzare le condizioni di domesticazione o di allevamento come luoghi di reciproca cattura, al cui interno si creano e si sovrappon­ gono nuovi umwelt, e che renderebbero percepibili la permeabilità

dei mondi e la flessibilità di chi li popola. Far coabitare due mondi con intelligenza presuppone non solo di pensare e di dedicarsi a ciò che la convivenza richiede, ma anche di interessarsi a ciò che inventa e trasforma. In questo senso, Deleuze a ragione insisteva sul fatto che gli animali non si trovano né nel nostro mondo né in un altro, bensì con un mondo associato. Con la coabitazione degli umwelt di esseri as­ sociati a mondi che inventano modalità di coesistenza, ci si trova ad avere a che fare con un mondo mobile, variabile, dai confini aperti e non definiti. Riguardo a questa possibilità, potremmo definire la domesticazione come la trasformazione di quello che era il mondo peculiare in un essere tramite un altro o, per dirlo con più precisio­ ne, la trasformazione di un essere-con-il-proprio-mondo tramite un altro essere-con-il-proprio-mondo. Le mucche non solo non sono più selvatiche, ma oggi sono legate a un mondo fatto di stalle, fieno, mani che mungono, do­ meniche, odori umani, carezze, parole e grida, staccionate e solchi tracciati dai macchinari agricoli; sono legate a un mondo che ha modificato la lista di ciò che le tocca e che ha fatto parte di loro. La stessa esistenza della mucca che guida le altre - sulla quale fa affida­ mento l'allevatore affinché la mandria lo segua negli spostamenti - esprime probabilmente il carattere più articolato della coesistenza: l'animale leader è il perno di una rete fondata sulla fiducia che si stabilisce fra le compagne e l'allevatore; ne è il fulcro. Le mucche di una mandria con una leader fanno affidamento nella fiducia che quest'ultima dimostra nei confronti dell'allevatore. Se lei lo segue, loro la seguiranno. Allo stesso modo, possiamo esplorare ciascuno degli universi della domesticazione. I cani hanno imparato a seguire lo sguardo degli esseri-con-un-mondo in cui lo sguardo è importante e toccan­ te; hanno imparato ad abbaiare agli esseri-con-un-mondo che non smettono di parlare. Inoltre, possiamo spiegare il comportamento del gatto che «se ne andava da solo», come diceva Kipling; dei ma­ iali che sono tanto sensibili ai desideri, come sostiene Porcher; e ancora dei cavalli che, in quanto esseri-con-un-mondo dove il cor­ po fa da mezzo di trasporto ed è importante, si sono organizzati con esseri-con-un-mondo con i quali sono una cosa sola. Pensare questi «esseri-con-un-mondo-associato» che si tra­ sformano a vicenda nell'avventura della domesticazione ci riporta a William James. In effetti, se ogni essere si trova nel contesto del proprio mondo associato, l'umwelt del mondo degli allevatori e dei loro animali si struttura allora come un'associazione di mondi as-

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sociati, una composizione di esseri-con-dei-mondi-associati che si associano. James lo definiva pluriverso. Mondi la cui coesistenza si crea, si mette alla prova, si inventa, si declina talvolta come una combinazione, talaltra come una semplice compresenza. Ciò significa che il ribaltamento che proponevo all'afferma­ zione di James regge solo a condizione di sottoporre ognuno dei ter­ mini a una comprensione decisamente diversa, una comprensione che, giustamente, ce li fa recuperare. La teoria dell'umwelt avrebbe lo scopo di spogliare il morula oggettivo della propria familiarità e di farci sentire un po' meno a casa: il «sentirci un po' meno a casa» acquista un senso nuovo, che dà conto del compito di costruire un «noi» e un «dove», una domus per esseri che, insieme, si combinano. E se devo prendere seriamente in considerazione che gli esseri non sono né in un mondo né in un altro ma con un mondo, di conseguenza il termine «mondo oggettivo» va anch'esso precisato o, piuttosto, ridefinito. Infatti, nelle strutture di pensiero che usiamo, tale «mondo oggettivo» potrebbe far supporre l'esistenza di un mondo oggettivo in sé, preesistente tale e quale, e unificato malgrado e dietro le ap­ parenze. Questo mondo non è oggettivo in quel senso, è molteplice. Non è nemmeno soggettivo - una «tentazione» che oggi la teoria potrebbe far nascere - perché l'idea stessa dello sbocciare del­ le soggettività supporrebbe che, al di qua, esista un mondo su cui esse si fondano e che ne è la base stabile. Quindi, in questo mondo molteplice non è in gioco il fatto che una specie impari come l'altra vede il mondo - come vorrebbe il «soggettivismo» -, ma che impari a scoprire quale mondo viene espresso dall'altra, di quale mondo l'altra costituisce il punto di vista. Alla luce di tali precisazioni, devo allora tornare alla prima argomentazione di James: conoscere significa spogliare della loro estraneità mondi che costituiscono il mondo oggettivo, e lo si fa imparando ad abitarli bene, a costruirli in un «a casa nostra». E se si tratta di un mondo oggettivo, è perché il mondo è, di continuo, in via di oggettivazione. Ogni vissuto è concreto perché vissuto, e ogni concretezza viene vissuta in quanto concreta. Il mon­ do oggettivo è in un costante processo di molteplici oggettivazioni, alcune consolidate, perché riattualizzate in modo routinario - come il mondo della zecca, i cui comportamenti sono «affidabili» -, altri sempre in via di sperimentazione, con le sensazioni e i modi in cui si viene toccati in via di trasformazione, come nel caso di questi umwelt parzialmente connessi, e la cui coesistenza provoca meta­ morfosi negli esseri che ne sono l'espressione. James lo definirebbe

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un successo, quando i mondi sono ben associati, «intelligentemente associati», e allevatori e animali sono felici, insieme. Altri mondi ancora sono destinati a scomparire, facendo ca­ dere nell'oblio ontologico «un intero segmento di realtà». In un romanzo che racconta le conseguenze per il mondo della scomparsa degli orangutan, Éric Chevillard scrive: «Il punto di vista dell'orangutan, che aveva non poco a che fare con

l'invenzione del mondo e che faceva stare su in aria il globo terracqueo, con i suoi frutti carnosi, le termiti e gli elefanti, questo punto di vista

unico a cui si dovevano la percezione dei trilli di tanti uccelli canori e quella delle prime gocce dell'acquazzone sulle foglie, questo punto di vista non c'è più, vi rendete conto [ ... ]. Il mondo si è di colpo impo­

verito [ ... ]. Viene meno un pezzo intero della realtà, una concezione completa e articolata dei fenomeni che ormai mancherà alla nostra filosofia».

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Versioni

Gli scimpanzé sono morti come noi?

«Ogn i parola ha molti usi e potenzialità;

ogni volta si tratta di gestirli,

di utilizzarli tutti».

Francis Ponge

.·/r _J �

articolo del «Nat!onal Geographic» corredato da una foto _ _ '>:� e circolato parecch10 sul Web nel novembre 2009, suscitan­ do un acceso dibattito. Alcuni scimpanzé di un centro di riabilita­ zione in Camerun si erano comportati in modo del tutto inusuale quando gli addetti avevano mostrato loro il corpo di una femmina anziana appena deceduta, e che era stata particolarmente amata: erano rimasti a lungo muti e immobili, il che è sorprendente e del tutto improbabile per esseri così rumorosi. Questa reazione è stata interpretata come il comportamento di chi è triste di fronte alla morte. Gli scimpanzé conoscono il lutto? Presto la discussione si è infiammata e le possibili versioni da dare a questa storia si sono moltiplicate. «Non è lutto; solo gli esseri umani conoscono questo sentimento, che richiede la coscienza della morte». Il cadavere può aver commosso o spaventato, niente consente di affermare che ciò implichi una piena consapevolezza del fatto che quella scimpanzé non c'è più. Sul fronte opposto, alcu­ ni hanno richiamato il caso degli elefanti che rimangono vicino al corpo di una compagna morta, vi depongono fiori o erbe e agiscono seguendo un rituale. Altri partecipanti alla discussione hanno espresso una critica abbastanza ricorrente in questo genere di problematiche ( :-..'> Arti, sti): gli scimpanzé non lo hanno imparato da soli, perché erano stati i responsabili del rifugio a voler mostrare loro il cadavere, affinché,

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come del resto era stato spiegato, «comprendessero quella scompar­ sa». Il comportamento, quindi, non è una reale manifestazione di lutto degli scimpanzé, bensì una reazione a un tipo di sollecitazione. Tuttavia, si può rispondere - come ho fatto partecipando al dibattito -, che «sollecitare» è un termine che dovrebbe farci venire dei dubbi. Questa iniziativa è riuscita a suscitare la pena, non l'ha causata. È stato possibile «sollecitare» il cordoglio degli scimpanzé, proprio come il nostro dolore di fronte alla morte, quando dobbia­ mo imparare che cosa significa, è sollecitato da chi ci circonda in quel momento, il che ci porta a non dimenticare il legame fra solle­ citare e sollecitudine. E se si adotta la teoria delle emozioni di William James, si potrebbe ipotizzare che il cordoglio davanti alla morte sia possibile perché esistono delle consolazioni, una sollecitudine al ri­ guardo. Quindi, gli addetti del centro sono effettivamente «respon­ sabili» del lutto degli scimpanzé, nel senso che si sono assunti la responsabilità di guidare il loro modo di essere colpiti in maniera tale da permettere loro di rispondere; la responsabilità non è una causa, è una maniera di far rispondere. Sapere se si tratta di «vero» lutto non è così interessante e del resto da domande del genere non si sa bene in che modo usci­ re. In compenso, nella tradizione pragmatica di William James, la situazione è ideale per porre un interrogativo più importante: quali conseguenze comporterebbe per noi una risposta positiva alla do­ manda? La contrapposizione fra le due: «È vero lutto?» e «Quali con­ seguenze comporta una risposta affermativa?» si allinea a due forme di traduzione: quella letterale e la versione. Sapere se è «vero lutto», se «vuole dire proprio la stessa cosa», rimanda a una traduzione il cui valore fondamentale è la fedeltà, la conformità a un testo origi­ nale. È «vero» nel senso esatto in cui lo intendiamo? La traduzione letterale, per come la definisco, dà la prefe­ renza alla sinonimia rispetto all'omonimia: i due termini «lutto­ degli-umani» e «lutto-degli-scimpanzé» devono dire precisamente la stessa cosa, devono essere intercambiabili. Si può passare da un universo all'altro senza strappi, a condizione di farlo in modo line­ are, senza deviazioni. In compenso, la traduzione che si fa a partire dalla domanda «Quali conseguenze comporta per noi?» rientra nel­ la seconda tipologia, quella particolare delle versioni. La risposta, più ancora che una versione, è vettrice, o anche creatrice. La versione, in quanto traduzione da un'altra lingua nella propria, come ogni traduzione presuppone delle scelte. Al contrario però della traduzione letterale, tali scelte si fondano sul principio

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della molteplicità di accezioni possibili, nel ventaglio di possibilità offerto dalle «omonimie»: uno stesso termine può rendere possibili una quantità di significati anche tra loro discordanti. Se riprendo la proposta della filosofa Barbara Cassin su come rendere la lingua greca nella lingua francese, in una traduzione non solo ogni termine e ogni struttura sintattica della lingua di parten­ za possono rivestire diversi significati, ma verranno tradotti, nella lingua di arrivo, con termini e strutture sintattiche che ugualmente possono avere diversi significati. La versione fa uso queste divergen­ ze e variazioni, in maniera controllata - ma è come se dicessimo che camminare è un modo controllato di cadere. Di conseguenza, alla domanda in questione - cioè il «lut­ to-degli-umani» si sovrappone esattamente al «lutto-degli-scim­ panzé»? - la versione sostituisce un altro modo di procedere, che è duplice. Quali sono i molteplici significati, le omonimie possibili in grado di rendere conto del lutto presso gli umani? E la domanda può essere girata agli scimpanzé: quali significati potrebbero esserci dal loro punto di vista? Non c'è dunque traduzione da un termine all'altro, ma un doppio movimento di confronto, nell'ambito di ogni universo di possibili significati influenzati da quanto l'altro induce. Al riguar­ do, l'antropologo Eduardo Viveiros de Castro ricorre al termine di «equivocità»: sostiene che tradurre è presumere che un'equivocità ci sarà sempre; è comunicare per differenze, differenze nella lingua tante cose possono rivendicare una rispondenza con questo termine -, differenze nella lingua dell'altro e differenze nella stessa opera­ zione di traduzione - perché le due equivocità non sono sovrappo­ nibili. Questo fa sostenere a Viveiros de Castro che «il confronto è al servizio della traduzione», non il contrario. Non si traduce per confrontare, si confronta all'unico scopo di riuscire a tradurre. E si confrontano differenze, equivoci, omonimi. L'equivocità è insita nelle versioni. La traduzione letterale conferma la rivendicazione di un si­ gnificato unico e che ha, di per sé, il potere di imporsi. Al contrario, la traduzione sotto forma di versione consiste nel legare mettere in connessione significati differenti. Mentre scrivevo Penser camme un rat, alcuni scienziati, ai quali ho presentato il risultato della ricerca a cui mi sarei ispira­ ta per il libro, mi suggerirono di precisare il significato di «pensa­ re», prima di applicarlo all'animale. Tale suggerimento - credo che questa fosse la loro intenzione - avrebbe dovuto convincermi o a cambiare termine per quanto riguarda il ratto, o a ridimensionare i

significati che gli attribuivo, affinché i due riferimenti - il modo in cui pensa un ratto e quello in cui pensa un umano - fossero perfetta­ mente sovrapponibili. Entrambe le soluzioni rientrano nell'ambito della traduzione letterale. Ho fatto delle resistenze. Sapevo che era centrale il termine problematico «come», perché dà per acquisita la similitudine e stabiliti i significati. Del resto, durante la stesura del libro, ho pensato di eliminare il «come» e di intitolarlo Pensare con un ratto. Non l'ho fatto e, guardandomi indietro, penso di aver avuto ragione. Infatti, è l'avverbio «come» a mettere appunto a disagio. La preposizione «con» avrebbe rappresentato una soluzione, perché lascia supporre una coesistenza senza difficoltà. Ma le difficoltà ci spingono a «stare in guardia». «Pensare con» comporta certamente obblighi, etici ed epistemologici, e questi obblighi per me contano. Però il termine rischiava di non rendere percepibile la diffi­ coltà dovuta al fatto che, nel migliore dei casi, i significati si sovrap­ pongono solo parzialmente, in seguito a un'operazione sulle possibili omonimie, un'operazione che costringe a far proliferare tali omoni­ mie per accordarle parzialmente; un'operazione che presuppone di rendere evidente la stessa traduzione, le scelte fatte, gli slittamenti di senso necessari per fare dei confronti e gli aggiustamenti per ga­ rantire passaggi sempre impropri. Il «come» quindi non indicava affatto un'equivalenza data, di cui cercare le rappresentazioni concrete. Ma doveva generare di­ ramazioni dai nostri stessi significati, creare connessioni parziali e di parte. Cosa che, in definitiva, rimanda al «pensare con un ratto», locuzione che indica non il pensare approssimativamente come o con i ratti, ma il lavoro a cui ci costringono i ratti: pensare «come pensare "come"». La traduzione letterale segue una successione, parola per pa­ rola; la versione tratteggia una ramificazione ad albero. «È proprio lo stesso "vero" lutto?»: è questa la domanda della traduzione let­ terale. «A cosa ci vincola?» non è propriamente una versione, ma la domanda porta lì: quali sono i molteplici significati che utilizzo nella mia lingua o nella mia esperienza, e quali sono i significati che possiamo pensare abbiano senso nell'esperienza degli scimpanzé? A cosa ci vincolano le discordanze fra le loro esperienze e quelle che conosciamo noi? Quale lavoro di traduzione siamo costretti a fare per metterle in connessione? Scrive ancora Viveiros de Castro: «Una buona traduzione è quella che autorizza i concetti altri a forzare

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e a stravolgere gli strumenti del traduttore, in modo che la lingua di partenza possa essere tradotta nella nuova».

Tradurre non è spiegare, e ancor meno spiegare il mondo degli altri: è mettere a confronto ciò che pensiamo o ciò che speri­ mentiamo con ciò che gli altri pensano e sperimentano. Vuol dire sperimentare «come pensare "il pensare come un topo"?». Allora, di fronte alla domanda: «Quali sono i molteplici si­ gnificati utilizzati nella mia lingua e nella mia esperienza?» per tra­ durre il lutto degli scimpanzé, per esempio, posso scoprire che que­ sti significati, messi a confronto, sono problematici. Gli scimpanzé fanno sl che mi confronti con la mia lingua e con il mio universo esperienziale, perché le definizioni del lutto su cui apparentemente «noi, umani, siamo d'accordo» non consentono di passare dal no­ stro universo al loro. Non è lo stesso lutto. Ma è proprio a questo punto che dobbiamo lasciare aperta la domanda, anziché dare una risposta. È il momento di considerare il fallimento del mettersi in relazione come un problema non degli scimpanzé, bensì delle nostre versioni. Affermare che «non è lo stesso significato che ha per noi» non indica la povertà di significato da parte degli scimpanzé, bensl dalla nostra. Nel mio universo culturale il lutto è diventato una tra­ duzione letterale. Una traduzione «orfana» e solitaria, un termine privo di omonimi, una traduzione troppo povera per poter stabi­ lire collegamenti, che circoscrive la nostra esperienza. Quindi se vogliamo considerare seriamente la domanda: «Sostenere che gli scimpanzé conoscono una versione del lutto, a cosa ci vincola?» dobbiamo sottoporre le nostre concezioni alla prova delle versioni, salvo escludere di primo acchito gli scimpanzé. Di conseguenza, il lavoro di traduzione diventa lavoro creativo, di narrazione, che si oppone alla traduzione letterale assegnata. Non possiamo che constatare che il lutto è un futuro cupo per i morti. E lo è anche per i vivi. Le teorie del lutto elaborate dagli psicologi e nei corsi di filosofia o di morale laica sono estremamente normative e prescrittive. Si tratta di un «lavoro», da svolgere per tappe, in cui le persone devono imparare a confrontarsi con la real­ tà, ad accettare il fatto che i loro morti sono morti e a separarcene; ad accettare che non esistono più e a sostituirli con altri legami. Di fatto, si tratta di una conversione, ma di natura faziosa, una conver­ sione che esclude ogni altra versione. Una conversione letterale. Quindi dobbiamo effettivamente convenire che il «lutto», come lo intendiamo, non può andar bene per gli scimpanzé. Il «lut-

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to» affida i morti al nulla, obbliga a scegliere fra relazioni «reali» e relazioni «immaginarie» o «credenze». Attribuisce alla realtà ciò che la nostra tradizione culturale definisce come reale. Di conse­ guenza, per poter riconoscere la consapevolezza del lutto negli scim­ panzé, questi ultimi dovrebbero essere consapevoli del fatto che, quando i morti sono morti, non esistono più da nessuna parte e per sempre, salvo nella mente dei vivi. Gli scimpanzé non hanno alcuna ragione di accogliere que­ sta ipotesi. Non perché non riescano a essere consapevoli di «non essere più», da «nessuna parte» e «per sempre» (non se ne sa nul­ la), ma perché non c'è alcuna ragione storica che dovrebbe indurli a pensarlo. Detto ciò, possiamo iniziare a interrogarci su certe versioni non espresse apertamente, versioni represse che circolano sottoban­ co. Versioni che si ritrovano là dove sono autorizzate come «imma­ ginarie» - la condizione perché vengano accettate - nei romanzi, nei film, nelle serie televisive. E se approfondiamo, ci rendiamo anche conto che molte persone hanno teorie completamente diverse sulla natura della scomparsa e dell'afflizione, e rifiutano l'idea che i morti non abbiano più niente da chiedere a loro, e da chiedere a noi. Però non esistono luoghi veri e propri per approfondire questa versione. Le persone imparano quindi a rinunciarvi per seguire le uffi­ ciali e sagge «istruzioni per l'uso» e, diciamolo, per non venire con­ siderate bizzarre, superstiziose, credulone o fanatiche. Oppure non vi rinunciano e lo fanno da sole, chiedendosi se non siano bizzarre, superstiziose o fanatiche. O ancora, trovano altri che la pensano più o meno come loro, come spiritisti o medium, sapendo comunque che verranno considerate superstiziose, bizzarre, credulone. Perciò sostenere che gli scimpanzé non sono consapevoli della morte può farci passare dalla traduzione letterale alla versione, dal fallimento di una traduzione letterale (ciò che possiamo dire di noi non lo possiamo dire degli scimpanzé) alla sperimentazione di una versione (e se dicessimo altrimenti di noi?). Non sto suggerendo che gli scimpanzé ci proporranno la nuova teoria del lutto che ci darà le risposte giuste di cui abbiamo bisogno; hanno già sopportato anche troppo il ruolo di modelli che abbiamo imposto loro. Questo non sarebbe tradurre, ma appropriarsi. Semmai ci invitano a riattivare le nostre versioni spente, ci obbligano a ripensare, sottopongono le nostre traduzioni letterali e le nostre versioni alla prova della tra­ duzione. Se chi lavora in un rifugio si è assunto la responsabilità di creare un'afflizione che potrebbe consolare, questo non ci racconta 168

una storia sull'origine - ecco come è nato il lutto - ma ci coinvolge nel rendere possibile un'altra versione, che spiega come la maniera di rispondere al lutto dia a esso la sua forma particolare, lo susciti, ma al tempo stesso determini le forme della risposta: siamo rasse­ gnati a concepire il lutto in maniera letterale, in quanto ciò che dà la possibilità di tradurre la pena dell'assenza può ricevere altre tra­ duzioni solo surrettiziamente, in modo trasgressivo. Gli scimpanzé possono farci cambiare strada rispetto alle nostre stesse possibilità di cambiare strada. Tradurre, secondo le modalità della versione, ci spinge quin­ di a moltiplicare le definizioni e le possibilità, a far conoscere un maggior numero di esperienze, ad analizzare gli equivoci, insomma a far proliferare le storie che ci rappresentano come esseri sensibili, legati agli altri e toccati dagli altri. Tradurre non è interpretare, è sperimentare le equivocità. Da un lato, come ho già detto, traducendo letteralmente in una lingua diversa dalla propria si è responsabili della scelta del ter­ mine più esatto; dall'altro, nel caso della versione, si è responsabili delle possibili conseguenze che questa scelta implica ( r-'> Lavoro; � Necessità). Così, dire di un animale che è il dominante può ri­ chiedere la verifica che l'animale sia il «vero» dominante in tutte le situazioni e l'assicurazione che il termine ricalchi bene il significato che la letteratura gli attribuisce ( '-"'> Gerarchie). Nel campo delle versioni, la domanda verte sul sapere a cosa ci vincola il fatto di chiamare l'animale «dominante»: privilegia un certo tipo di spiegazione, suscita l'attenzione su alcuni compor­ tamenti e non su altri, rende impercettibile la connessione con di­ verse versioni possibili. li termine «dominante», troppo carico di significati, rimane nel campo della versione, ma di una versione che tende al letterale; è sempre la stessa storia che si racconta all'inizio di quella voce, che rientra nel copione. Pensare la traduzione in termini di versione garantisce a chi deve scegliere il termine pertinente la libertà di metterlo da parte e quella di trovarne, nell'ambito dei mezzi della propria lingua, un altro in grado di rendere una narrazione più interessante - termi­ ni come deferenza, carisma, prestigio, «più anziano», come hanno proposto rispettivamente Thelma Rowell per i babbuini; Margareth Power per gli scimpanzé di Jane Goodall; Amotz Zahavi per i garruli arabi; e, infine, Oidier Demorcy per i lupi, che osservavamo insieme in un parco della Lorena. E ancora, nel caso di maschi che si impongono con la forza e il terrore, il termine «socialmente inesperto», coniato da Shirley

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Strum, a dimostrazione che questi atteggiamenti indicherebbero so­ prattutto, in quei babbuini «dominanti» che affascinavano tanto i primatologi, l'incapacità di negoziare abilmente La propria posizione nel gruppo. Come si capisce dall'utilizzo di queste parole, L'obiettivo delle versioni non consiste nel fare tabula rasa degli altri, bensì di creare, rendere percepibili Le connessioni che Le altre versioni tacevano, o a cui davano un altro senso. Cerco insomma di studiare le versioni, in questa forma un po' bizzarra di successione di testi che si presentano scollegati l'uno dall'altro, e che si possono Leggere secondo L'ordine che si preferisce un po' come facciamo con gli abbecedari, i dizionari, le raccolte di poesie per bambini o adulti. Ogni storia riceve, o a volte non rice­ ve, una luce particolare nel contesto in cui viene accolta o citata. Ma è anche illuminata dalle altre, che le rispondono sulla base del proprio contesto di enunciazioni e nel modo fortuito con cui essa vi si collega. I collegamenti fra le versioni potrebbero rendere percepibili diversi modi di immaginare queste storie di esperimenti e di ani­ mali, di valutarne l'interesse, la ripetitività, le contraddizioni che sollevano e La creatività - talvolta, non ne dubito, contro i miei stessi modi di affrontarle. Ma la riuscita di tale tipo di procedimenti consisterebbe proprio nel rendere le cose meno semplici, al punto da suscitare durante la lettura - come mi accade mentre scrivo - un sorriso o un moto di irritazione. Insomma, nell'approfondire, come fa Donna Haraway egregiamente, irritandosi o divertendosi, versio­ ni contraddittorie e impossibili da concordare.

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Wattana

Chi ha inventato il linguaggio e la matematica?

\VTattana è una matematica preconcettuale, intuitiva. Mal­ '·

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grado la giovane età, è già stata oggetto di articoli scienti­ fici e servizi, e il suo lavoro esposto nella Grande Halle de la Villette di Parigi. È nata nel 1995 ad Anversa in Belgio. Rifiutata dalla ma­ dre, era stata adottata da operatori dello zoo. In seguito ha trascor­ so un periodo a Stoccarda in Germania, fino all'arrivo a Parigi nel maggio 1998, alla Ménagerie (zoo) du Jardin des plantes. [Nel 2008 è stata trasferita nel parco zoologico di Apenheul, ad Apeldoom nei Paesi Bassi, NdT]. Appartiene alla specie degli orangutan, che fino­ ra non ha fornito grandi nomi alla storia della matematica. Nessun animale l'ha fatto, malgrado i tentativi di fame entrare qualcuno almeno nel mondo dell'aritmetica. Negli scritti di Charles-Georges Leroy, un naturalista del diciottesimo secolo, leggiamo le testimonianze di alcuni cacciatori che cercavano di ingannare una gazza per rubarle le uova ricorrendo a una strategia: uno si allontanava, mentre l'altro restava nascosto; l'uccello si lasciava catturare solo se il numero di cacciatori era su­ periore a quattro. Di conseguenza, le gazze riuscirebbero a distingue­ re fra tre e quattro, ma non fra quattro e cinque. Nel corso del ventesimo secolo, questa capacità di «contare» è stata verificata nei laboratori dei cognitivisti. In particolare, corvi e pappagalli - ma non sono affatto gli unici - possono distinguere fogli su cui è disegnato un certo numero di punti. I risultati vengono talvolta contestati: gli animali non sa­ prebbero contare, bensl riconoscerebbero una sorta di gestalt for­ mata dall'insieme. L'etologo Rémy Chauvin risponde che facciamo

così anche noi nella maggior parte dei casi, e che alcuni geni della matematica non hanno materialmente il tempo di fare il calcolo proposto. Quindi deve trattarsi di altro. Del resto, non si dice dei proprietari giapponesi di carpe koi che non sanno quanti pesci vivo­ no nel laghetto, ma sono immediatamente in grado di accorgersi se ne manca anche solo una? Pure riguardo ai ratti ci si è posti la questione se possano «contare», ricorrendo alla tecnica del «rinforzo». Per esempio, il roditore deve mostrarsi in grado di trattenersi dal tirare una leva finché non avrà ricevuto un certo numero di segnali-stimoli. Qualcuno di voi ricorderà il famoso caso di Hans, il caval­ lo berlinese che si riteneva riuscisse a fare addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni, nonché estrarre radici quadrate. Per un po', nume­ rosi fattori avevano in effetti favorito questa ipotesi, dal momento che nel settembre 1904 il cavallo, di fronte a una giuria imparziale, mostrò di poter risolvere questo tipo di problemi, rispondendo con dei colpi di zoccolo. Lo psicologo Oskar Pfungst venne incaricato di dare delucidazioni. Lo fece in fretta: per la nascente psicologia scientifica, difficilmente era ipotizzabile che gli equidi sapessero contare. Nel corso dei test, Pfungst scoprì che il cavallo riconosce­ va il momento in cui doveva interrompere il conteggio, in base ai segnali corporei involontari di chi gli rivolgeva le domande. L'argomento fu considerato chiuso, anche se tuttora c'è chi, come Rémy Chauvin, mette in dubbio la pertinenza di quei risultati e ipotizza che il cavallo avesse doti telepatiche. Certo, attribuire competenze tanto umanamente connotate a un cavallo può sembra­ re poco credibile. Ma alcuni sono convinti che, anche se il cavallo certamente non contava come noi, la sua capacità non si limitava a leggere i movimenti degli umani. Nelle argomentazioni esposte rientra un'osservazione, fatta in un'altra occasione, da minatori che avevano notato, osservando nelle miniere i cavalli che trainavano i carrelli sui binari, che gli animali si rifiutavano di ripartire se dietro non erano stati fissati tutti i 18 vagoncini usuali. Alcuni autori ritengono che anche le performance delle scimmie, negli esperimenti sulle attività di scambio, possono con­ fermarne le competenze in materia di calcolo: gli scimpanzé hanno imparato a maneggiare denaro o gettoni con cui pagare cibo ex­ tra o altre cose. Può far sorridere o dispiacere il fatto che anche loro siano stati catturati dall'ingranaggio commerciale, oppure in fondo è apprezzabile che vengano «retribuiti» per la loro presta­ zione ( e:> }oh). Peraltro, nei test sperimentali di cooperazione si sono osservate scimmie cappuccine (Cebus) che si rifiutavano di

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cooperare, se avevano l'impressione che lo scambio non fosse equo ( e> Fare giustizia). Gli animali potrebbero inoltre mettere a confronto ordini di grandezza: non è aritmetica, ma ne è comunque la premessa. Ricer­ che recenti volte a mettere in discussione il modello dell'animale come «attore economico razionale» mostrano che le scimmie - sem­ pre cappuccine - possono utilizzare denaro nelle transazioni, ma che sembrano «calcolare» a volte razionalmente, altre no. Quando il prezzo di una derrata scende, optano per la meno cara. Però le loro scelte diventano «irrazionali» - almeno secondo una certa concezio­ ne della razionalità adottata dagli sperimentatori - se questi ultimi propongono transazioni in cui le scimmie cappuccine possono gua­ dagnare o perdere una parte dell'acquisto; a parità di beneficio, privi­ legiano le transazioni che danno loro l'impressione di guadagnare. Wattana viene considerata una matematica preconcettuale in un altro campo. Il suo talento si eserciterebbe nella geometria, cosl pensano due ricercatori che l'hanno studiata alla Ménagerie du Jardin des plantes: un filosofo, Dominique Lestel, e un'artista filoso­ fa, Chris Herzfeld. Tutto inizia quando quest'ultima rimane colpita dal comportamento della giovane orangutan che sta fotografando. Wattana gioca con un pezzo di corda su cui sembra stringere dei nodi. Un'osservazione più attenta lo conferma: è proprio così. Il guardiano Gérard Douceau fornisce la prova: dice che Wattana è sempre stata attirata dai lacci delle sue scarpe, e non appena se ne presenta l'occasione, tenta di scioglierli. Herzfeld a quel punto consulta la letteratura scientifica, alla ricerca di altri casi. Ne esiste uno, un unico caso di scimmie che fan­ no i nodi. Tuttavia, in cattività le testimonianze sono più incorag­ gianti. Sia nei santuari di riabilitazione che negli zoo si sono viste scimmie disfare nodi e anche stringerne, di tanto in tanto. Queste osservazioni hanno però poche probabilità di venire prese in consi­ derazione dagli scienziati: si tratta di aneddoti. Così, la ricercatrice decide di approfondire per e-mail. Nell'articolo sulle loro ricerche, Dominique Lestel e Chris Helzfeld precisano che oggi, cioè dopo la ricerca pubblicata da Byrne e Whiten sull'inganno tattico nei primati nel 1988, tale approccio metodologico è ormai considerato attinente. A questo punto è necessario fare una parentesi: il fatto che gli autori si siano sentiti in dovere di precisare quanto sopra, è segno del cammino percorso negli ultimi cento anni - a condizione di con­ siderarlo non un progresso continuo, ma a un ritmo di «due passi avanti, tre indietro». Basta tale precisazione a spiegare un aspetto

della storia delle scienze animali: come le rivalità fra «modi di sa­ pere» abbiano portato a screditare una parte importante di quello che avrebbe potuto costituirne il corpus ( c0 Fare scienza). Dar­ win aveva condotto la maggior parte delle ricerche in questo modo, tralasciando la tecnica e inviando ai quattro angoli del globo ri­ chieste del tipo: «Avete potuto osservare ... ?». Principalmente, le osservazioni che forniranno argomenti alla sua teoria provengono da naturalisti amatoriali, cacciatori, proprietari di cani, missionari, guardiani di zoo e coloni. L'unica precauzione era specificare che la testimonianza gli sembrava affidabile, perché fatta da una persona degna di fiducia. All'epoca, questa garanzia era ancora sufficiente. Ma la precisazione dei due autori dell'articolo su Wattana segnala anche un altro aspetto, che si percepisce in tutti i contributi scientifici ed è un obiettivo della pubblicazione: ogni scienziato si rivolge a colleghi che «controllano». La precisazione esprime uno dei modelli di riflessività tipici degli scienziati che devono costruire i propri oggetti di ricerca e, quindi, da una parte occuparsi delle metodologie, come in questo caso; dall'altra, garantire l'affidabili­ tà delle proprie interpretazioni, che possono sempre finire esposte alla confutazione di un'interpretazione contrapposta: «Si potrebbe obiettare che» oppure, per esempio, «Un simile condizionamento potrebbe spiegare» ( F.$ Gazze; � Ingannatori). Prima ancora di sottoporre il proprio lavoro alla critica dei colleghi, ogni scienziato deve prevedere un dialogo immaginario con loro, in cui anticipa tutte le obiezioni, in una sorta di «riflessione allargata». Tornando all'inchiesta di Herzfeld, riceve 96 risposte. Fra gli adepti dell'annodamento, ci sono scimmie parlanti, bonobo e scimpanzé; ma la palma va agli orangutan: sette, contro tre bonobo e due scimpanzé. Sono stati tutti allevati da umani, negli zoo o nei laboratori. La sovrarappresentanza degli orangutan non sorprende; in natura intrecciano il nido sugli alberi e in cattività pare che ami­ no maneggiare oggetti e usarli per giochi solitari. Wattana non è un'eccezione, ma è particolarmente dotata, quindi Leste! ed Herzfeld le propongono di mettere alla prova i suoi talenti. L'esperimento consiste nel fornirle, in condizioni control­ late e registrate, materiale per annodare e per altre attività di bri­ colage: rotoli di carta, cartoni rigidi, pezzi di legno, fusti di bambù, cordicelle, funi, lacci, tutori per piante e lembi di tessuto. Non ap­ pena li riceve, Wattana comincia ad annodare, usando le mani, i piedi e la bocca. Unisce i due capi della cordicella, li annoda, poi realizza una serie di nodi e asole, infila queste ultime una nell'altra, e inserisce pezzi di cartone, di legno o di bambù. Se ne fa una collana

doppia e se la mette al collo, poi la lancia in aria più volte. Infine raccatta il tutto e scioglie i nodi, con cura. In altri casi, utilizza i fili colorati, oppure attacca le corde a sostegni fissi nella gabbia e con esse traccia delle forme da un punto all'altro nello spazio. Quasi sempre, disfa il lavoro compiuto: è un'attività impor­ tante quanto annodare. Gli orangutan compromettono seriamente la possibilità di un'eventuale archeologia dei nodi; del resto, non è questo il problema dell'archeologia degli animali? In modo analogo ai problemi affrontati dall'archeologia delle invenzioni femminili panieri per la raccolta o marsupi di tela - i manufatti degli animali hanno lasciato poche tracce, il che non aiuta a conquistare un posto nella storia, o anche di avere una storia propria. Meglio inventare armi! Leste! e Herzfeld si sono interrogati sulla ragione dei compor­ tamenti di Wattana. Non si tratta, sostengono, di strumenti, perché in genere vengono creati per un utilizzo, e non è questo il caso. L'ipotesi del gioco potrebbe essere convincente, poiché l'attività rientra tra i comportamenti disinteressati. Ma Wattana si rifiuta di fare i nodi con Tubo, il compagno di gabbia, con cui di solito gioca. Il fatto che Wattana abbia avuto l'idea di utilizzare gli infissi della gabbia per esporre le proprie creazioni, e il modo in cui ha sperimentato tale possibilità, ha orientato l'ipotesi dei ricercatori. Wattana fa delle forme. Ed esse indicano che non è in gioco solo il piacere; segnalano, traducono un atto che genera forme. Si tratta, spiegano, di una specie di sfida che lei deve accettare. Non prende le cordicelle a caso, ma pensa a ciò che può fame. «Dà un senso a quello che fa e prova interesse nel farlo». Lungi dall'eseguire i lavori in maniera casuale e distratta, dà prova di grande attenzione, a tratti si interrompe per osservare a che punto è arrivata e decidere quanto ancora proseguire. Quindi, secondo i due autori, mette in atto una «logica esplorativa», nel senso che esplora, in modo sistematico, le proprie­ tà fisiche e logiche dell'attività dell'annodamento. In questo senso, Leste! ed Herzfeld hanno potuto affermare che Wattana è entrata nell'universo della matematica attraverso la porta della geometria preconcettuale. Ovviamente non dimostra te­ oremi; esplora le proprietà pratiche e geometriche dei nodi in quanto tali. Li identifica come il risultato di azioni reversibili, ne ha una rap­ presentazione funzionale. Li esplora con il proprio corpo, mettendo cosi in atto quella che gli autori chiamano una «matematica incor­ porata». Per i due ricercatori, .

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«l'interesse per le forme in quanto tali e la ricerca di manipolazioni pertinenti per progredire nell'esplorazione delle loro proprietà sono le origini reali (true beginnings) dell'attività matematica».

Ho scelto di tradurre l'inglese beginnings con «origini» (auto­ rizzata dal dizionario), anziché con «fondamenti», presentato come equivalente. Le due traduzioni hanno significati molto simili, ma se opto per «origini» è perché ricorre con insistenza nell'ultimo pa­ ragrafo dell'articolo: torna infatti a più riprese, come quello di una «filogenesi della ragione». Certo, il progetto di un'epistemologia non umana è allet­ tante - e non sono certo fra coloro che, come temono gli autori, potrebbero esserne turbati - tanto più che ci obbligherebbe a inte­ ressarci a una «storia dei gruppi animali». Ma non sono sicura che sia esattamente il tipo di argomentazione che li rispetta. Si tratta, ancora e sempre, della nostra. Gruppi di scimpanzé, macachi e bab­ buini ormai vengono osservati da più generazioni - il che fa dire a Bruno Latour che pochi gruppi umani hanno goduto di altrettanta attenzione da parte degli antropologi - e credo che sia il loro modo di entrare nella storia: dalla porta sul retro. Talvolta è il migliore: non bisogna presentarsi con le braccia cariche di promesse e regali né mettersi in ghingheri. Volere che Wattana si faccia carico della nostra origine non è dare alle scimmie una storia, è obbligarle a seguire la nostra e ad essere le nostre antenate. A discolpa di Lestel ed Herzfeld, direi che sono dovuti scen­ dere a compromessi con le leggi che regolano la materia e che la loro ricerca appassionante, condotta in modo creativo e con molta auda­ cia, ha poi dovuto fare alcune concessioni ai vincoli che regolano le pubblicazioni e gli accreditamenti nella ricerca. Evidentemente, la tematica dell'origine rientra nelle norme che regolano tale mate­ ria, sembra rispondere a un'esigenza implicita. Interessatevi a quello che volete; se è in ballo la questione dell'origine dei nostri compor­ tamenti, diventa interessante per noi. Così sono state affibbiate alle scimmie numerose storie sulle origini, di cui ci dovevano fornire la sceneggiatura. Di conseguenza, i babbuini delle savane hanno finito per dimostrare una prima «discesa dagli alberi»; gli scimpanzé l'ori­ gine della moralità, del commercio ecc. Pensiamo al linguaggio: sono stati studiati moltissimi com­ portamenti, perché ritenuti alla base della sua origine. Messe una di seguito all'altra, queste ricerche suscitano una certa ilarità. An­ che gli autori per i quali provo la più viva simpatia non sfuggono al fascino dell'origine della parola; per esempio, Bruce Bagemihl

( c.'> Queer) sostiene che la gestualità simbolica che accompagna gli inviti sessuali abbia favorito l'acquisizione del linguaggio, ne sa­ rebbe una delle origini. Gli scimpanzé che tirano le proprie feci in testa ai ricercatori ( e:::;, Delinquenti) vengono esaminati nello stesso contesto: lan­ ciare intenzionalmente pietre o armi (che gli studiosi però non si sono azzardati a fornire agli scimpanzé) avrebbe favorito lo sviluppo dei centri neuronali responsabili del linguaggio. Last but not least, e mi fermo qui, nel 1996 l'antropologo Ro­ bin Dunbar ha avanzato l'ipotesi che il linguaggio abbia avuto ini­ zio per sostituire lo spulciarsi come «cura sociale», con la funzione, sostengono gli scienziati, di mantenere il legame sociale. Potendo essere praticata solo fra animali fisicamente vicini però, la toelet­ tatura reciproca può garantire la coesione sociale solo in gruppi di dimensioni ridotte. La parola l'avrebbe sostituita non tanto come veicolo di contenuti informativi, bensl come una pragmatica atti­ vità di «chiacchiericcio», l'attività di mantenimento del legame: parlare per non dire nulla consente di creare o mantenere il contat­ to - senonché, ed è evidentemente il punto debole della teoria, bi­ sogna considerare il chiacchiericcio come precedente di ogni forma di linguaggio parlato e trascurare il fatto che, per «cianciare», c'è già bisogno di tutta l'immaginazione linguistica. Mi fa sorridere questa ossessione un po' maniacale per ricer­ care I.: origine del linguaggio, per la quale provo anche la magnani­ mità divertita che suscitano, quando non si è obbligati a sopportarle troppo spesso, le persone che ripetono continuamente la stessa cosa: è la forza comica dei fumetti, dei saggi umoristici - Jean-Baptiste Botul e la sua Métaphysique du mou -, del cinema di Tati e della let­ teratura. A questo e a ogni altro proposito, cosa diceva il pappagallo eroe di Zazie nel metrò? «Chiacchieri, chiacchieri, non sai far altro».

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Xenotrapianti

Si può vivere con il cuore di un maiale?

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al-ko è un essere strano. Lo conosco solo attraverso la lette­ \. �: ratura scientifica, ma immagino a cosa assomiglia. Quando penso a lui, mi tornano in mente quei pequeninos dei quali i terre­ stri di un lontano futuro scoprono l'esistenza quando sbarcano sul pianeta Lusitania, ne Il riscatto di Ender, secondo volume del Ciclo di Ender di Orson Card. I pequeninos non sono umani: sono metà uomini e metà ma­ iali. Ma pensano, ridono, provano tristezza, amano, hanno paura, si affezionano e si preoccupano dei compagni e anche degli uomini e delle donne con i quali hanno a che fare (gli xenologi e gli xe­ nobiologi che hanno ricevuto l'incarico di imparare a conoscerli). Parlano più lingue - a seconda che si rivolgano alle femmine, a un compagno o a un umano che parla portoghese - e non è un caso che sia stata assegnata ai terrestri proprio questa lingua coloniale. Né umani né animali, i pequeninos sottopongono gli esse­ ri umani all'esperimento delle categorie delle specie e dei regni. Conversano con gli alberi e questi rispondono, ma senza quelle che chiamiamo parole. Gli alberi sono i loro antenati. In ogni peque­ nino c'è infatti il nucleo di un albero, ciò che diventerà quando il suo corpo verrà smembrato secondo il rituale al termine del quale spunterà un albero. Ecco come inizia un nuovo ciclo vitale. Vorrei collegare su un piano immaginario - uno degli ele­ menti essenziali della fantascienza - la storia di Gal-ko con quelle che i pequeninos creano insieme agli umani. Sono storie difficili, in cui la vita degli uni significa la morte degli altri, storie in cui umani e pequeninos si incontrano, cercano di essere onesti ma non sempre

possono esserlo, vivono e muoiono insieme e gli uni attraverso gli altri, tentano di combinarsi e ricombinarsi. A un livello interplane­ tario sono specie compagne. Gal-ko invece vive sul nostro pianeta; appartiene al nostro presente, ma di lui si dice che è il nostro futuro. Assomiglia a un maiale perché lo è. Ma nella storia che ha unito maiali ed esseri umani, il termine «specie compagna» per lui si declina in modo inedito; è parzialmente umano: è stato da poco inventato così. È stato geneticamente modificato affinché i nostri corpi non rigettino gli organi che un giorno egli ci cederà. È stato geneticamente modi­ ficato affinché il confine biologico e politico attraverso cui i nostri corpi distinguono ciò che è «noi» da ciò che è «non noi» non sia più un ostacolo al suo dono. Come scrivono i ricercatori, sono stati «disattivati» gli an­ ticorpi «xenogenici» responsabili, nei casi di «combinazioni» di specie, del rigetto dell'organo trapiantato - ecco spiegata una parte del nome di Gal-ko: il gene disattivato è quello codificante per la N-acetillattosaminide 3-alfa-galattosiltransferasi. Del legame con i pequeninos rimane solo quest'ultimo anel­ lo: il nucleo di Gal-ko che sopravviverà alla sua morte entrerà quin­ di a far parte della vita di un umano: in questo consiste lo xenotra­ pianto. Per il momento, l'operazione viene effettuata a titolo speri­ mentale, solo sullo scimpanzé. Prima che venga praticata sugli uma­ ni, le scimmie sottoposte all'intervento dovranno restare in vita al­ meno un anno. Per una strana ironia della sorte, due esseri che non hanno molto in comune, si ritrovano uniti dallo stesso destino nei laboratori di fisiologia. A lungo lo scimpanzé ha occupato il posto che oggi è stato preso da Gal-ko. Negli anni Sessanta era ritenuto il donatore pri­ vilegiato, data la sua prossimità con l'essere umano. Ma il fallimen­ to dei tentativi di trapianto ne ha messo in discussione l'utilizzo; proprio la prossimità, su cui sembravano fondarsi le possibilità di riuscita, è diventata il motivo che lo ha impedito. Lo scimpanzé è davvero troppo simile: meglio il babbuino. Secondo l'indagine condotta da Catherine Rémy però, il fal­ limento del trapianto del cuore di un babbuino in una neonata di dieci giorni, nel 1984, riaccese la polemica. La piccola, nata con la sindrome del cuore sinistro ipoplasico, morì poco più di una setti­ mana dopo l'operazione. La polemica, fa notare Rémy, si sviluppò quasi esclusivamente fra giornalisti e professionisti del campo sani­ tario; gli unici a partecipare dall'esterno furono i militanti dei grup-

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pi per la difesa degli animali, i quali non contestarono unicamente il sacrificio dell'animale, perché anche la piccola era stata vittima del trapianto. Seguirono poi altre critiche, in particolare quando ci si rese conto che fino a quel momento i trapianti - tutti senza successo - erano stati effettuati su persone vulnerabili o disabili, come un senzatetto sordocieco che viveva in una roulotte, un afroamericano senza reddito, un condannato a morte. Quando ci si riferisce all'u­ manità borderline, gli interrogativi su ciò che è umano e ciò che non lo è sembrano meno importanti. Il concetto di sacrificio può guadagnare facilmente spazio. Tuttavia, questa scoperta ha pesato sul dibattito; e il babbuino ha smesso di essere un donatore. Il fatto che oggi sia lo scimpanzé a sostituire l'umano nella fase preclinica è indicativo delle sorprendenti contraddizioni fre­ quenti in questo tipo di ricerche. Quando l'analogia fisiologica si unisce all'analogia morale, la pratica diventa problematica; e si ri­ configura su altri modelli di differenza e prossimità. Lo scimpanzé quindi non può più essere un donatore perché è troppo simile all'u­ mano; in virtù di tale somiglianza però, può diventare il sostitu­ to del ricevente umano. Ci sono molti modi di essere lo «stesso» dell'altro, che non si sovrappongono; e certamente ce ne sono molti di più nell'essere il «diverso». Proprio in questo gioco complicato dello «stesso» e del «di­ verso» possiamo cogliere il significato che Gal-ko assume come in­ termediario. Infatti, dal punto di vista fisiologico, la sua prossimità all'umano è maggiore di quella dello scimpanzé: sia rispetto alla di­ mensione degli organi - quelli dello scimpanzé sono troppo piccoli per gli umani adulti - sia alla tolleranza all'organo trapiantato - e questo grazie alle manipolazioni genetiche. In compenso, almeno in apparenza la vicinanza morale sem­ bra non essere stata presa in considerazione. Ma questa categorizza­ zione non è così semplice; non è caratterizzata dalla distinzione fra corpi ed esseri. Da una parte, gli scienziati interpellati da Rémy, a proposito del loro lavoro di manipolazione, dicono che Gal-ko si è «umanizzato», termine che si ritova anche nell'articolo dei ricerca­ tori che hanno modificato geneticamente il maiale. In questo con­ testo, non si fa riferimento a quello che il maiale «è», ma a una con­ dizione tecnica, pratica: la qualità non si basa sull' «essere come», bensì sulla «continuità», autorizza il passaggio da una categoria all'altra. Il termine «umano» permette l'azione, non la vincola. Dall'altra parte, l'indagine sul campo condotta da Rémy in quei laboratori aggiunge altri elementi alle contraddizioni sui limiti

delle categorie. Il significato di «prossimo» ( quasi simile o umano) riferito a Gal-ko assume un significato diverso, a seconda se viene utilizzato dai ricercatori o messo in pratica dai tecnici addetti agli animali, e a seconda delle situazioni. I diversi significati coesistono, però separatamente. Un tipo di coesistenza evidente soprattutto nel contrasto fra le pratiche degli addetti di laboratorio da una parte e degli scienziati dall'altra. Il che vuol dire che è soprattutto percepi­ bile nei gesti. Per esempio, Rémy osserva che, quando si preleva un organo da un animale, il corpo di quest'ultimo viene accuratamente ricuci­ to dagli addetti dopo l'eutanasia. In questo modo l'animale mantiene un «corpo», non diventa né carcassa, come gli animali da macello, né un rifiuto da gettar via. Lo si tratta come un essere «prossimo». Ovviamente il corpo verrà eliminato, ma dopo un trattamento che ne conserva lo stato di corpo, direi di «defunto» ( r$ Kg). In una simile condizione, l'animale obbliga, e in particolare obbliga a gesti che rallentano, che spezzano la routine. Altri gesti attestano questa volontà di «attenzione». Rémy ha osservato che gli addetti talvolta si rivolgono all'animale che sta per essere sottoposto agli esperimenti in modo compassionevole: «Vecchio mio», dice uno di loro al maiale portato in sala operato­ ria, «che cosa ti faranno!». Secondo una suddivisione del lavoro stabilita piuttosto nettamente, i ricercatori delegano ai tecnici le preoccupazioni in materia di «benessere» e, in particolare, si aspet­ tano da loro che «sappiano quel che c'è nella testa dell'animale». Il minimo «imprevisto», quando gli animali hanno comportamenti inaspettati, sconcerta gli scienziati, che subito delegano agli addetti la gestione del problema. Questa organizzazione del lavoro si osserva anche nei rappor­ ti che intrattengono ricercatori e addetti e, con ancora più evidenza, quando si possono esprimere in modo umoristico. I primi talvolta ri­ conoscono, talvolta si fanno apertamente beffe delle preoccupazio­ ni dei secondi, degli affetti e della cura che manifestano, e del fatto che «vedono nella mente degli animali»; i secondi fanno notare, non senza ironia, l'assenza di buonsenso da parte dei ricercatori. Evidentemente, il disaccordo fra quanto si dice non è chia­ ro come nelle interazioni, tanto più che ciò che ho appena riferi­ to potrebbe essere attenuato dal fatto che i ricercatori dichiarano e spesso rivendicano la volontà esplicita di offrire all'animale un «trattamento rispettoso»... delegando l'incarico appunto ai tecni­ ci. Insistono anche sulla necessità di considerare gli animali da un punto di vista etico, di un «trattamento umanitario», che mira ad

avvicinarlo a quello stabilito per gli esseri umani. Scrive Catherine Rémy: «li paradosso è che questo approccio ai non umani è il risultato, almeno in parte, degli "eccessi" prodotti da certi esperimenti. In altri termini, una strumentalizzazione senza precedenti ha creato le condizioni per definire l'animale una creatura sensibile e innocente».

Una vittima la cui morte è un sacrificio. Si può dibattere sull'argomento a partire da questo parados­ so? Non credo, perché non posso fare affidamento sulla scelta di considerare l'animale come una vittima per obbligarci a pensare, così come non credo che il sacrificio in questo contesto possa aiutar­ ci a farlo. Le ragioni correlate al sacrificio sono troppo pesanti, col­ locano la problematica in un'alternativa inevitabile, in cui del resto verrà sempre tirata in ballo l'argomentazione del bene superiore. La tradizione del sacrificio può essere interessante, ma non ci autorizza a citarla nelle nostre riflessioni su Gal-ko. Quale tipo di intelligenza dobbiamo coltivare per vivere con Gal-ko, adesso che esiste? E come possiamo farlo? Ho parlato di fantascienza e dei pequeninos che mettono alla prova gli umani in base alle loro categorie per esprimere la mia difficoltà. Ma l'ho fatto prima di tutto perché l'incontro fra gli umani e i pequeninos pone agli xenologi, molto concretamente, una serie di problemi; proble­ mi che richiedono soluzioni e che non consentono a nessuno dei soggetti coinvolti di sentirsi esonerati. Come ci possiamo rivolgere a quegli esseri? Come essere onesti con loro e con i nostri simili, in situazioni in cui gli interessi sembrano inconciliabili? Come trattarli bene? Questo su Lusitania non esclude conflitti, violenze, tradimen­ ti, ma non sono automatici. Non c'è un «bene superiore» che possa essere invocato e, ancora meno, il bene dell'umanità, che i peque­ ninos potrebbero non considerare come loro problema finché non si intreccia con i loro problemi, e dal momento che l'unico elemento di «superiorità» degli umani è la gestione del potere. La nostra vicenda con Gal-ko di quale storia potrebbe essere il seguito? Quale storia da ereditare possiamo immaginarci e di cui saremmo responsabili? Dobbiamo ancora scriverla. Non ho la sceneggiatura, né una traccia. Ma se dovessi cercarle, il punto di partenza di questa storia mi pare sia il concetto di metamorfosi. Infatti il destino di Gal-ko può evocare questa possibilità coltivata dal nostro immaginario: la metamorfosi, cioè la trasformazione degli esseri mediante la trasfor­ mazione dei corpi.

Ma dobbiamo rendere possibile questa metamorfosi. Da una parte, sulla base della ricerca di Rémy, gli scienziati non l'hanno mai chiamata in causa per gli esseri umani. Dall'altra, quanto agli animali, mi sembra circoscritta dall'ambito in cui vengono conce­ pite le trasformazioni: l'ibridazione. Un termine carico di promesse nella prospettiva di un procedere della storia che porta a una di­ versità sempre maggiore, ma non mantiene alcuna delle promesse: l'ibridazione rimane nell'ambito della «combinazione», quindi della riproduzione di alcune caratteristiche delle due specie «parenti». Pensare in questi termini condiziona gli esiti successivi e li incanala in un sistema binario - maiali umanizzati, e possibilmente viceversa umani maializzati. La metamorfosi, invece, ritraduce la «combinazione» nel si­ stema delle «composizioni», che rende possibili la sorpresa e l'even­ to: potrebbe nascere «altro» a modificare profondamente gli esseri e i rapporti. La metamorfosi rientra nelle narrazioni e nei miti biolo­ gici e politici dell'invenzione. La mia richiesta è che questa narrazione abbia inizio dal processo biologico chiamato «simbiogenesi», in linea con l'analisi di Donna Haraway sul lavoro dei biologi Lynn Margulis e Dorian Sagan. Confido in questa scelta, tanto più che accetta una sfida si­ mile alla mia: creare altre storie che offrano un futuro diverso alle «specie compagne». Da anni, Margulis e Sagan studiano lo sviluppo dei batteri che, sostengono, non smettono di scambiarsi geni, in un viavai incessante, e questi scambi non formano mai specie ben de­ finite - causando ai tassonomisti, spiega Haraway, momenti di estasi e altri di forti emicranie. Grazie alla forza creatrice della simbiosi, sono scaturite cellule eucariote a partire dai batteri ed è possibile ricostruire la storia di tutti i viventi in questo grande gioco di scam­ bi. Tutti gli organismi, dai funghi alle piante e agli animali, hanno un'origine simbiotica. Tuttavia, tale origine non è l'ultima parola della storia: «La creazione di nuovi esseri per simbiosi non è finita con l'evoluzione delle cellule primitive che posseggono un nucleo. La simbiosi opera tuttora, dovunque». Ogni forma di vita più complessa è il risultato di continui atti di associazione multidirezionali e sempre più intri­ cati con, e a partire da, altre forme di vita. Ciascun organismo, scri­ vono ancora, è il frutto della «cooptazione di estranei». Cooptazione, contaminazione, infezioni, incorporazioni, di­ gestioni, induzioni reciproche, divenire-con: la natura dell'essere umano, sostiene Haraway, al livello più profondo, più concreto, più biologico, è una relazione interspecifica - un processo di coopta-

zione di estranei. È importante ricordare che il termine «xenotra­ pianti» ha origine da xènos, termine che compare per la prima volta nell'Iliade e tornerà nell'Odissea. Per gli antichi Greci, significava lo «straniero» - non il barbaro, ma lo straniero al quale si offre ospita­ lità; lo straniero la cui lingua è comprensibile, che può dire come si chiama e da dove viene. La lingua comune con Gal-ko è quella del codice genetico, come si evince dalla sua etimologia. Gal-ko è il suo nome. Si tratta di una lingua, di un modo di chiamare che ci rende pronti ad ac­ cettare e a pensare le metamorfosi? Di una lingua che ci rende re­ sponsabili e più umani, nel senso di «più impegnati» nelle relazioni interspecifiche? Per il momento temiamo di no. Tanto più che, da una parte, Gal-ko è un essere prodotto in serie, cosa che non stimola la rifles­ sione sulla domanda: «Come si risponde?». Dall'altra, se gli scien­ ziati possono sollevare spesso la questione delle modifiche di quella che chiamano «umanizzazione» per il maiale, la stessa questione - e parlo proprio della stessa questione: l'umanizzazione nel senso di es­ sere altrimenti umano - non viene mai posta a proposito dei pazienti che riceveranno una parte del suo corpo. Una ricerca condotta da uno dei membri dell'équipe di ricer­ catori che hanno fabbricato Gal-ko, con pazienti candidati a rice­ vere uno dei suoi organi, mostra questo punto cieco della ricerca. A partire dai risultati, posso immaginare le domande che sono state rivolte. I ricercatori sostengono che i risultati dell'indagine indicano che una parte di questi pazienti è pronta ad accettare un organo di Gal-ko, ma perché ne hanno urgente bisogno, e nella misura in cui considerano il proprio organo come «un pezzo meccanico da cam­ biare per rimettere in funzione tutta la macchina», poco importa se è di origine umana o animale. Altri rifiutano, in nome di una differenza radicale fra le specie: «Questi pazienti chiedono che la "faccenda" resti fra gli umani». Inoltre, una terza e ultima categoria pone condizioni e chiede informazioni. Non si sa quali e non sono sicura che anch'esse non dipendano in tutto e per tutto dal modo in cui le domande sono state formulate. Non vedo nulla in questa indagine che possa aver suscitato l'interrogativo se questo tipo di ricerche valga la pena. I malati sono ostaggio delle domande che vengono loro rivolte, e da ostaggi rispondono. Le loro reazioni mi fanno pensare che la ricerca sia stata condotta un po' come quelle di mercato ai consumatori, chiamati a dire la loro su un prodotto che «crea problemi», ma il cui

«problema» è già predefinito, il che non stimola necessariamente l'intelligenza. I ricercatori hanno accuratamente evitato domande che po­ tessero far sorgere dubbi, o forse non le hanno nemmeno pensate. Le loro conclusioni mostrano che simili incertezze non rientrano nel protocollo: «Lungi dall'essere un organo vitale, l'organo umano innestato proviene dal dono volontario di un umano a un altro umano e a questo scopo viene investito molto utilmente. Ridotto a una materia vivente anima­

le, di certo ridimensionerà i dilemmi che i pazienti trapiantati devono risolvere, in particolare quello dell'impossibilità di ringraziare la perso­

na alla quale devono la sopravvivenza».

Non so se sia questo il vero dilemma di chi sopravvive grazie al dono di un organo che presuppone la morte di un altro essere. Mi sembra che romanzi e autobiografie che ho potuto leggere e che hanno cercato di spiegare l'esperienza raccontino una storia un po' più complicata. Per queste persone non si tratta di ringraziare, ma di prendere atto del dono e cercare di esserne degne, accettando di prolungare una vita che non è più solo la propria, di andare avanti a partire da ciò che è diventato il sé dell'altro e l'altro in sé. Un nome diverso per una metamorfosi: compimento. Il dono si colloca allora in una storia di retaggi, una storia che si deve compiere. Quindi forse è dalle parti di quelle storie che dobbiamo cer­ care e pensare, di quelle storie che raccontano come diventiamo umani con gli animali. Dalle parti di ciò che, in quanto donato, è diventato e continua a diventare un dato della nostra natura. Un dono da coltivare e onorare oppure, in una versione più impegna­ tiva, un dono che ci vincola: diventare ciò che la metamorfosi ci obbliga a essere. Jocelyne Porcher non ha forse scritto che si è formata come umana insieme al gatto della sua infanzia? «Una parte della mia identità [ ... ] appartiene al mondo animale e la mia amicizia fondamentale con questo gatto me ne ha offerto l'accesso [ ... ]. Infatti gli animali ci educano. Ci insegnano a parlare senza le parole, a guardare il mondo con i loro occhi, ad amare la vita».

Basterebbe questo: amare la vita ...

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VouTube

Gli animali sono le nuove star?

./· l,.primo video postato su YouTube il 23 aprile 2005 mostra alcuni ,,.. r-elefanti dello zoo di San Diego, da dove ha inizio una visita com­ mentata di Jawed Karim, uno dei tre fondatori del sito, della durata di 19 secondi. Davanti ai pachidermi, inquadrato in primo piano, esita e alla fine dice ... che hanno una proboscide molto lunga. «È cool», aggiunge. Dal canto suo, Immanuel Kant, nel descrivere que­ sti animali nella sua Geografia fisica, aveva scritto che hanno anche una coda corta dai grossi peli rigidi, con cui si puliscono le pipe. Non aveva aggiunto «è cool», erano altri tempi. Ma doveva pensare che fosse davvero pratico. Il successo degli animali su YouTube ha continuato a cresce­ re e negli ambienti degli appassionati del Web ho sentito parlare di fenomeno propriamente virale, dal momento che la diffusione dei contenuti aumenta man mano che arriva ai fruitori. Questa metafora epidemiologica non è priva di ambivalenze; il tema della contaminazione può richiamare al tempo stesso sia l'interesse per una «malattia infettiva», sia un'imitazione tardiva ed endemica delle consuetudini, sia ancora la moltiplicazione incontrollabile di un virus resistente e distruttivo. Non prenderei in considerazione l'ultima ipotesi; mi sembra troppo simile a quella sbandierata dai guardiani dell'ordine conservatore, allarmati, nel caso degli umani, da quello che chiamano il culto narcisistico dell'esibizione di sé, e probabilmente prossimi al colpo apoplettico quando l'infatuazione si riferisce agli animali. Ritengo però che le altre due teorie - la contaminazione che trasforma e l'imitazione che diffonde nuove consuetudini - dal punto di vista pratico tracciano una pista interessante da esplorare. YouTube non solo traduce nuove pratiche, ma le inventa e modifica

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i soggetti grazie ai quali si diffondono. Partendo da qui, vorrei pre­ sentare un'altra interpretazione, ispirata da quella di Bruno Latour sulla novità di Internet e sulla creazione degli avatar. Se riprendo la sua analisi e la applico alla proliferazione di video amatoriali in cui gli umani si mettono in mostra, direi che questi filmati sono il vettore di una produzione inedita di nuove forme di soggettivi­ tà - nuovi modi di essere, di pensarsi, di presentarsi e di sapere. Si possono allora ridefinire queste attività da videomaker come le sedi in cui si modella una nuova forma di psicologia intesa come pratica di conoscenze e trasformazioni, così come lo sono stati, per i loro lettori, i romanzi, le autobiografie e i diari: dove abbiamo imparato a innamorarci, se non nei romanzi? Che cosa ci ispirano i racconti di formazione? Come siamo diventati romantici? Tuttavia, per la maggior parte di noi l'influenza di questi testi sulle nostre vite rimaneva relativamente implicito. Non più, sostie­ ne Latour, da quando Internet si è messo di mezzo. L'autopresenta­ zione nei video non solo lascia tracce che si diffondono in modo esplicito, ma suscita commenti che a loro volta resistono nel tempo e inducono ad altri commenti e ad altre produzioni. Si stabilisco­ no nuove pratiche, di cui possiamo seguire la diffusione, come se il mondo degli attori in Rete fosse un grande laboratorio di psicologia sperimentale, in cui si creano e si teorizzano prassi, modi di essere, di entrare in relazione e di presentarsi. Con questo presupposto, potremmo ipotizzare che i video che ci rendono sempre più familiari gli animali costituiscano, in termini di sperimentazione, l'ambiente di una nuova pratica dell'etologia? Ovviamente non utilizzo il termine nel senso usuale e limitato di «scienze del comportamento animale», ma in quello che si riallac­ cia alla sua etimologia: ethos, le pratiche, i costumi, le abitudini che legano esseri che condividono, o creano insieme, una stessa nicchia ecologica. In altri termini, i video che proliferano, oltre ad attestare nuove pratiche, non sarebbero forse ciò che crea nuovi ethos in­ terspecifici, nuove modalità relazionali e che simultaneamente ne elabora il sapere? A questo punto si potrebbe tentare un parallelismo fra i nuo­ vi modi di rendere visibili gli animali, di rivolgersi a essi, e la pratica di diffusione e di sapere che li ha preceduti, nella fattispecie i docu­ mentari naturalistici che, a riprova dell'interesse che hanno susci­ tato, a partire dagli anni Sessanta, si sono moltiplicati praticamente in modo esponenziale. Attraverso questa analogia, mi interessa ve­ rificare le potenziali trasformazioni degli esseri coinvolti e dei saperi che condividono.

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I documentari naturalistici hanno scatenato notevoli trasfor­ mazioni, introdotto nuove pratiche sugli animali e talvolta anche nuovi ethos per i ricercatori. Il filosofo delle scienze Gregg Mitman constata come la diffusione delle nuove tecnologie nella comunica­ zione introduca più approfonditamente gli scienziati non solo nel mondo delle comunicazioni animali, ma anche in quello dell'indu­ stria della comunicazione di massa. Cosa che potrebbe avere diverse conseguenze: da una parte, la possibilità di una comunicazione di massa favorisce la costruzione di reti inedite per promuovere la con­ servazione. Può modificare in profondità il modo in cui gli scienziati presentano i propri studi. Gli animali, come gli eroi di film e tele­ film, sono dotati di «personalità», di emozioni; diventano «perso­ naggi» di cui tutti possono condividere l'esperienza. Dall'altra, il contatto intimo con loro, da quel momento, di­ venta una metodologia di ricerca, sempre ampiamente contestata ma che, in certi casi, può essere considerata legittima. Ancora di più perché proprio il contatto intimo, per l'audience, si rivela uno strumento molto efficace di sensibilizzazione nei confronti degli ani­ mali in pericolo. Questo nuovo modo di «fare» e di presentare le ricerche, un tempo relegato alla nicchia della letteratura divulgativa, contribui­ rà a rendere meno netto il confine fra le pratiche amatoriali e quelle scientifiche (Prestigio). Per molti scienziati non è stato facile, an­ che per chi si prestava al gioco. Parecchi hanno visto con un certo sgomento le proprie pratiche paragonate a quelle degli esploratori e degli avventurieri, e i loro animali antropomorfizzarsi gravemente. Tuttavia, i documentari hanno avuto, come feedback, un effetto non trascurabile sulle stesse pratiche. Non solo hanno ispi­ rato la vocazione di numerosi ricercatori - in particolare, la palma va a Jane Goodall e i suoi scimpanzé-, hanno anche favorito una particolare concezione del lavoro sul campo che si ispira a quanto mettevano in scena. Se, per esempio, prendiamo in considerazio­ ne le ricerche che hanno contraddistinto la storia scientifica de­ gli elefanti, notiamo che, progressivamente, le cifre e le statistiche che attestavano la competenza e l'autorità degli studiosi sono state sostituite da storie personali, film e foto che individualizzavano gli animali e assegnavano loro un vero e proprio status di attori di av­ venture ed esperienze. In un primo momento, si riteneva che tali tecniche peroras­ sero meglio la causa del protezionismo; in seguito, sono diventate un metodo legittimo di ricerca. Inoltre, le pratiche audiovisive han­ no avuto un duplice impatto finanziario: per i ricercatori e la difesa

degli animali. I canali che trasmettevano i documentari hanno am­ piamente contribuito a finanziare le ricerche, e la loro diffusione è stata efficace nello spingere il pubblico a fare donazioni ai program­ mi per la conservazione delle specie animali. Mi sembra corretto collocare i video di YouTube nel solco di analoghe trasformazioni. Certo, in Rete troviamo di tutto, ma potevamo dire lo stesso dei documentari, benché in misura minore. Ll si approfondiscono altri modi di sapere; gli appassionati hanno preso, o piuttosto ripreso, il controllo, stavolta con mezzi di diffusio­ ne impareggiabili. Ancor più che nei documentari, gli animali sono protagonisti. Fanno ormai parte del quotidiano, sono dotati di ta­ lento, encomiabili per eroismo, socievolezza, intelligenza cognitiva e relazionale, arguzia, imprevedibilità e inventiva. I documentari, è vero, non vengono riconosciuti come prove in senso stretto; nessuno o quasi ci casca, i commenti lo dimostrano; non sappiamo nulla delle condizioni in cui avvengono le riprese e possiamo sempre sospettare il trucco o la possibilità di una messin­ scena, con o senza la complicità degli animali coinvolti. Ma quasi tutti si impongono con l'evidenza delle immagini: «Qualcuno ha visto, le immagini lo confermano». Alcuni video sono realizzati da ricercatori o naturalisti, altri no. A volte è difficile distinguerli. Il confine fra il campo degli ap­ passionati e quello degli scienziati sembra confondersi, e in effetti i filmati di alcuni animali presentano una doppia identità. Si ha quest'impressione soprattutto di fronte ad alcuni fra i dieci video più cliccati, come quello postato il 21 ottobre 2011, con protago­ nista un pappagallo di nome Einstein, che potrebbe competere con quello della psicologa Irene Pepperberg ( l'È> Laboratori), benché abbia potuto avvalersi di competenze molto meno accademiche. Fra i numerosissimi commenti, certi ricordano, sia pure in una versione più informale, quelli dei dibattiti scientifici sugli animali parlanti: è condizionamento, addestramento, o al contrario testimonia l'intel­ ligenza; alcuni animali comprendono quello che viene loro detto; oppure ancora, forse è addestramento, ma ogni iterazione del lin­ guaggio risulta «a tono». Un altro video ci mostra orsi polari che giocano con cani; le loro attività sembrano ricalcare direttamente le ricerche di Mark Bekoff, tanto più che i commenti sembrano riecheggiare le teorie scientifiche del ricercatore (�Fare giustizia). Dal canto suo, nella Battaglia al Kruger vediamo l'eroico salvataggio di un piccolo bufalo dalle grinfie dei leoni; per quanto filmato da un gruppo di turisti, è comunque un vero e proprio documentario su alcune carat-

teristiche dell'organizzazione sociale dei bufali. La lotta spettacolare fra due giraffe, invece, è introdotta da un'avvertenza: «In tivù que­ sto non ve lo fanno vedere». Video del genere sono ormai frequenti. Dimostrano e suscita­ no interesse. Talvolta, esprimono interessi diversi più o meno chia­ ramente riconoscibili. Per esempio, alcuni vengono ripresi da siti di argomento religioso come esempi edificanti. Se digitiamo su un motore di ricerca «amore e cooperazione fra gli esseri viventi» (in francese: Amour et coopération parmi les etres vivants, NdT), assiste­ remo al salvataggio, da parte degli adulti, di un elefantino caduto in acqua; o seguiremo la vita ammirevolmente cooperativa di un gruppo di suricati (una varietà di manguste); mentre le termiti ci mostrano come, tutte insieme, sono in grado di costruire un edi­ ficio. I commenti sono fatti in ambito morale (la solidarietà è di vitale importanza) o supportano una concezione teologica (chi, se non Dio, avrebbe potuto creare un mondo in cui avvengono cose simili?). Questo uso strategico degli animali si rifà ad antiche versioni della storia naturale, talvolta anche a versioni più contemporanee, ma mai così esplicite, quando si tratta dell'ambito morale e politico. In qualche caso gli approcci possono verificarsi in maniera differente, per esempio con telecamere nascoste o con altri accor­ gimenti, con cui gli appassionati riversano su YouTube i programmi televisivi con scenette comiche di anni fa: un gatto che gioca a « Un, due, tre, stella!» con il compagno umano; un cane che sfreccia su un hoverboard elettrico; un pinguino in pericolo che chiede asilo a dei navigatori; scimmie che scippano le borse di turisti ingenui ... una crescente diffusione che è il retaggio di quelle trasmissioni. Lo stile di alcune sequenze di YouTube sembra conservarne lo spirito. Forse i link che mi vengono inviati o che trovo nelle mie ricerche non rappresentano un campione rigoroso, ma mi sembra che i video che ripropongono questo retaggio siano via via diventati una minoranza. Molto spesso gli animali filmati oggi non sono più vittime di cadute e di altri incidenti rocamboleschi, oppure veri e propri clown. Se divertono, è perché fanno cose sorprendenti, che non ci aspettiamo da loro. L'inaspettato presenta chiaramente tracce di antropomor­ fismo; gli animali fanno cose che rientrano nelle azioni umane e hanno a che fare con il divertimento: la sorpresa e la meraviglia derivano proprio dal fatto che siano cambiati gli attori. È ciò che rende interessanti le scenette e suscita entusiasmo: gli animali ci insegnano quello che sanno fare e che ignoravamo. Soprattutto,

impariamo di cosa siamo capaci noi con loro, visto che buona parte delle esperienze condivise in Rete è frutto di una collaborazione fra umani e animali, con l'elaborazione di un apprendimento reciproco, una complicità creativa, un gioco sviluppatosi pazientemente - un cane e il compagno umano alle prese con un hoverboard elettrico; un gatto che impara a sorprendere l'umano nascondendosi. Si po­ trebbe raccogliere un'impressionante scorta di conoscenze, che qui utilizzano modi e reti diversi da quelli della scienza, altre modalità di interrogare gli animali e di metterli alla prova. Conoscenze che aggiungono significati inediti alle relazioni con «specie compagne». Comunque, la pratica scientifica non è assente in tale elabo­ razione. Spesso ai margini, per trovarla basta seguire le tracce lascia­ te in Rete. Per esempio, consultando i link sugli elefanti pittori in un rifugio thailandese, arriviamo abbastanza rapidamente al contri­ buto di uno scienziato esperto nella pittura delle scimmie, Desmond Morris, che ha appunto visitato uno di quei rifugi ( ,..,,.:::> Artisti). Il commento al video delle scimmie alcoliste dell'isola di Saint Kitts riporta un dato statistico molto preciso sulla diffusione di quest'abitudine (:=>Delinquenti). Sembra difficile ipotizzare che i ricercatori abbiano monitorato i consumi alcolici di scimmie tanto incontrollabili, osservandone le rapine quotidiane sulle spiag­ ge dei turisti, tuttavia il video è strutturato come se l'osservazione stessa di quelle scimmie in situ permettesse di valutare il loro con­ sumo quotidiano di alcol. Le cifre in realtà non provengono dal campo, ma gli scienziati ne sono stati influenzati per riprodurre le condizioni che traducessero le osservazioni in statistiche. Basta cer­ care online inserendo i termini precisi del documentario: «Mon­ key», il luogo «Saint Kitts» e naturalmente «Drunk». Sulla prima pagina del motore di ricerca compaiono tre articoli, due dei quali si riferiscono al protocollo di lavoro degli scienziati: come hanno fatto bere le scimmie in cattività, quanto, in quali condizioni, con quanti animali e con quali esperimenti. Le statistiche dei ricercatori non hanno quindi la pretesa di riferirsi alle scimmie sulle spiagge, ma a quelle sottoposte al proto­ collo sperimentale, in condizioni ben precise, e senza dubbio molto diverse, come possiamo facilmente immaginare. La generalizzazione è troppo immediata e le prove raccolte non sono poi così solide, un po' come se si volesse stabilire il consumo di sostanze illecite o di farmaci della popolazione umana studiandola all'interno di un carcere. Mi si dirà che possiamo cercare le condizioni all'origine di queste cifre, come ho fatto io. Ma non dovremmo essere obbligati

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a procedere in un modo così complicato. Non è solo un problema di rigore nella trasposizione da un universo all'altro. Se YouTube può diventare un luogo appassionante di produzione del sapere, che mescola pratiche amatoriali e contributi scientifici, questo iato fra il commento dei video e il modo di condurre le ricerche non dovrebbe esistere. Infatti, in questo iato, non si perde semplicemente il rigore, elemento centrale in quella che viene definita una divulgazione di buona qualità. L'interesse e l'importanza di una «familiarizzazione» del sape­ re degna di tale nome consistono nel rendere espliciti i protocolli, le precauzioni della ricerca, le esitazioni dei ricercatori, gli esseri che vi sono coinvolti, i processi che autorizzano la trasposizione delle osservazioni in cifre e delle cifre in ipotesi, e la discussione in cui si approfondiscono le ipotesi. Questi «dettagli» - che non sono mai tali - non solo dimostrano che gli scienziati possono parlare legitti­ mamente a nome di quelli che hanno interrogato, ma rientrano nel genere di narrazione che rende la scienza interessante: quello dei misteri e delle indagini, insomma delle avventure appassionanti e rischiose. Certo, alcune ricerche si riveleranno per quello che sono, non troppo stimolanti né troppo solide; gli scienziati che se ne oc­ cupano hanno quindi tutto da temere da questa esposizione media­ tica, e tutto l'interesse a non renderle di dominio pubblico. Ma le altre potranno rivendicare un bellissimo successo: appassionarci e farci amare, insieme ai loro animali, l'avventura scientifica che li ha coinvolti.

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Zooerastia

I cavalli dovrebbero essere consenzienti?

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luglio 2005, il corpo senza vita del trentacinquenne )\J;Kenneth Pinyan arrivò al pronto soccorso dell'ospedale di Enumclaw, cittadina rurale a una cinquantina di chilometri da Seattle, Washington. I medici constatarono l'avvenuto decesso. La persona che aveva portato Pinyan si era eclissata. Fu necessaria un'autopsia per stabilire le cause della morte: una peritonite acuta dovuta alla perforazione del tratto gastrointenstinale. Un'inchiesta chiarì le circostanze: l'uomo era stato sodomizzato da un cavallo. Si pensò a un incidente, ma nel corso delle indagini le autorità scopri­ rono materiale video che confermava l'esistenza di una fattoria in cui le persone pagavano per avere rapporti sessuali con animali. La scoperta gettò nel panico la piccola comunità. Il procuratore avrebbe voluto rinviare a giudizio l'amico di Pinyan, il fotografo James Tait, che gli inquirenti avevano indivi­ duato nel frattempo. Ma Tait non poteva essere perseguito, per la semplice ragione che la zooerastia non è illegale nello Stato di Wa­ shington. Si accertò inoltre che il fotografo non era il proprietario della fattoria dove era avvenuto l'incidente: apparteneva infatti a un vicino. Tait aveva semplicemente accompagnato Pinyan, e fu infine condannato a un anno di reclusione, con sospensione condi­ zionale della pena, 300 dollari di multa e il divieto di avere contatti con i vicini, in quanto era entrato abusivamente nella proprietà altrui. Nello stesso anno in Francia, Gérard X venne accusato di aver compiuto penetrazioni sessuali non violente sul proprio pony Junior. L'accusa non si riferiva all'atto di zooerastia, ma alla tortura 0

sull'animale. L'uomo fu condannato a un anno di reclusione con la sospensione condizionale della pena, costretto a separarsi dal pony, e dovette versare 2 mila dollari alle associazioni animaliste che si erano costituite parte civile. I due casi suscitarono grande scalpore, molti timori e vivaci dibattiti. Nello Stato di Washington, a livello politico la reazione provocò problemi e complicazioni raramente visti in precedenza. Bisognava rimediare con urgenza alla mancanza di una legge e puni­ re penalmente la zooerastia, tanto più che la vicenda non si riferiva solo a quel cavallo. In Francia, il caso Gérard X mobilitò le associazioni animaliste, che si costituirono appunto parte civile. Tuttavia, negli ultimi anni in Europa si è assistito a una netta tendenza a ritornare alle vecchie leggi. La zooerastia, che era stata depenalizzata in molti Paesi, viene nuovamente perseguita, in particolare attraverso nor­ me recenti che parlano di «maltrattamento di natura sessuale». Entrambe le vicende hanno mobilitato gli scienziati. Negli Stati Uniti il caso di Kenneth Pinyan è stato studiato da due geo­ grafi, Michael Brown e Claire Rasmussen. In Francia si è occupa­ ta dell'argomento la giurista Marcela Iacub, ricercatrice del CNRS (Centre national de la recherche scientifique). Che il diritto se ne interessi, si può capire. Ma la geografia? Dai ricordi liceali, sembra una materia di mappe, suddivisioni in aree, strati geologici, monta­ gne e corsi d'acqua. È perché siamo nati troppo presto! Negli ultimi anni, la geografia ha assunto una configurazione piuttosto sorprendente, fino a diventare competitiva con altri campi del sapere. Nel corso di una recente ricerca ho scoperto che esistono anche gli «spettrogeografi», incaricati di studiare i luoghi infesta­ ti dagli spettri, disegnare mappe ovviamente, ma anche esplorare, in tutta la loro complessità, i fenomeni paranormali. Quando ho chiesto ad Alain Kaufman, un amico dell'università di Losanna che studia le relazioni fra le scienze, in cosa attualmente la geografia si differenzia dall'antropologia, mi ha risposto sorridendo: «I geografi disegnano mappe». Ho potuto verificare l'esattezza della frase in buona parte de­ gli articoli che ho consultato. I due geografi che si sono occupati del caso di zooerastia non fanno eccezione: hanno inserito nel rapporto due mappe con l'indicazione, per Stati, della presenza e dell'assenza di leggi contro la zooerastia, nel 1996 e nel 2005. Le mappe non si sovrappongono. In una decina di anni, le leggi repressive in mate-

ria hanno colonizzato buona parte del territorio nazionale. Ma le mappe non hanno unicamente l'obiettivo di giustificare l'identità professionale dei ricercatori. Sono al centro del loro argomento di interesse: i cambiamenti politici in materia di sessualità. Brown e Rasmussen rivendicano l'appartenenza a un nuo­ vo campo della geografia: la geografia queer ( � Queer) che, nelle loro parole, si occupa di «diversificare i soggetti, le pratiche e le politiche che vengono, tra­

dizionalmente e senza difficoltà, discussi negli studi geografici definiti "sessualità e spazi"».

Tuttavia, in questi ultimi anni, spiegano, uno «sgradevole consenso» accomuna i geografi queer; la geografia non è abbastanza queer. Per essere all'altezza di un progetto davvero queer, i ricercatori devono «superare pudicizia e timidezza e concentrarsi sulla fornicazione e, più

in particolare, su come determinati atti sessuali strutturino relazioni normative di potere; devono inoltre continuare a tener conto dei corpi, dei desideri e dei luoghi marginalizzati, abietti, che le ricerche

focalizzate su gay e lesbiche occultano».

In altre parole, bisogna imparare a parlare di sessualità in ter­ mini di corpi e desideri, e soprattutto resistere alla tentazione di considerare la sessualità con animali unicamente in base ai registri interpretativi dei discorsi umani. Pensare la sessualità con animali è mettere alla prova evidenze e norme che guidano i nostri modi di pensare. È opportuno approfondire il dibattito sulla zooerastia, dal momento che non ha solo provocato molta agitazione ma soprat­ tutto è stato ed è tuttora segnato dalle contraddizioni, dal fastidio e dal disagio che i rapporti sessuali suscitano quando vengono espli­ citamente legati a rapporti di potere. Brown e Rasmussen seguono in questo senso l'appello lanciato dal filosofo Michel Foucault fra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso: non possiamo in maniera coerente dire sì al sesso e no al potere, perché il potere controlla il sesso. Sulla base dello stesso riferimento, la giurista francese Mar­ cela lacub articola la propria critica contro l'esito del caso Gérard X; nella condanna vede una conferma delle parole di Foucault: le ragioni non sono quelle del passato, non è semplicemente una que­ stione di puritanesimo. Cita un passaggio del filosofo, tratto dalla l!G&' '·.-�; .. ,_.•. ,,\..

trascrizione della conversazione alla radio 1979:

La

legge del pudore del

«Si creerà una società dei pericoli con, da un lato, gli individui in pe­ ricolo, e dall'altro, gli individui pericolosi. [ ... ] La sessualità diventerà

una minaccia in qualsiasi relazione sociale [ ... ). Sarà questa ombra, questo spettro, che le autorità cercheranno di catturare, grazie a una legislazione apparentemente magnanima e generica».

L'argomentazione di lacub parte da una contraddizione: l'ar­ ticolo 521-1 del Codice penale francese, sulla base del quale è stato condannato il proprietario del pony Junior, è lo stesso che autorizza corride, ingozzamento forzato di oche e anatre, combattimenti fra galli. Per la legge, Gérard può dunque uccidere e mangiare il proprio pony se gli va, ma non sollazzarvisi - lacub sostiene che l'atto non è stato doloroso per l'animale, e in effetti il giudice ha ritenuto che sia avvenuto «senza violenza». Al cuore della sentenza, prosegue la giustizia, c'è il problema del potere sulla sessualità, il potere che rende la sessualità il peri­ colo, e c'è, collegato, il problema del consenso: infatti, se l'accusa è di penetrazione non violenta, si può fare appello alla tortura solo se si sottolinea che la penetrazione è avvenuta senza consenso. Il che significa che la questione del consenso è al centro dell'impianto accusatorio. Il che, secondo lacub, non è certo privo di contraddi­ zioni, se messo a confronto con la legge utilizzata per condannare Gérard X. Nello Stato di Washington, la controversia giuridica è stata risolta con maggiori difficoltà - eppure, la contraddizione solleva­ ta dalla giurista francese aveva reso più complesso il dibattito in Francia. Prima di giudicare gli inevitabili casi successivi, bisognava legiferare; e per legiferare occorreva un motivo. Il primo per un ag­ giornamento legislativo fu pratico e urgente: in mancanza di leggi, sostenne la senatrice repubblicana Pam Roach che si occupò della questione, lo Stato di Washington rischiava di diventare quello che si potrebbe definire un «paradiso della sessualità» - o meglio, nei termini più coloriti usati dalla senatrice, «la Mecca della bestialità». Grazie anche alla diffusione su Internet, e al clamore suscitato dalla vicenda, il turismo in fattoria in quella tranquilla zona di campagna avrebbe preso una piega davvero bizzarra, attirando pervertiti dai quattro angoli del pianeta. Ma tale motivazione non era sufficiente per legiferare. Ne venne proposta un'altra, che raccolse subito favori unani­ mi. Gli animali non possono dare il consenso all'atto sessuale; sono

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esseri innocenti, non possono volere questo genere di cose. Un ar­ gomento pericoloso, come ha dimostrato in modo esemplare lacub con Gérard X. Ma soprattutto, per ironia della sorte, l'argomento del consenso nel caso di Pinyan si scontrava con i fatti. È necessario che ve li descriva in modo più dettagliato. Kenneth Pinyan, in effetti, aveva un cavallo che viveva sulle terre di Tait, l'amico che lo accompagnò quella fatidica sera; Pin­ yan fece delle avances dapprima al suo cavallo, che però si rifiutò di sodomizzarlo; non era ricettivo, così si espresse lo sceriffo a capo dell'indagine. Pinyan e il compare decisero dunque di recarsi nella fattoria vicina, dove viveva un cavallo il cui soprannome era tutto un programma: Big Dick. All'insaputa del proprietario, i due si in­ trufolarono nelle scuderie e trovarono il cavallo, che si mostrò più compiacente; forse un po' troppo, visto l'esito tragico. Siccome per la senatrice Roach non si trattava di giudicare un episodio già avvenuto, ma di stabilire una legge generale per il futuro, la questione del consenso sembrava l'argomento migliore. La politica però dovette arrendersi all'evidenza: in questo caso, il consenso non trovava posto nel vocabolario giuridico. L'animale è classificato tra le proprietà e, secondo la legge, una proprietà non può consentire; lo può fare solo un detentore di proprietà. Non si può essere non consenziente, se non si rientra nella categoria degli esseri consenzienti. Inoltre, altro problema - e torniamo a lacub -, la questione è particolarmente ambigua: infatti, si può mai sostenere che gli ani­ mali acconsentono a essere tenuti alla catena, rinchiusi negli zoo, usati come cavie per testare farmaci, ingrassati per finire uccisi e mangiati? Se, appunto, nessuno ha bisogno di chiederne il consenso in merito, è proprio perché sono «proprietà», cioè esseri ai quali da un punto di vista legale non si può chiedere il consenso. Di fronte alle difficoltà sollevate da questa argomentazione, Roach cambiò strategia: bisognava ampliare la legge per la preven­ zione delle crudeltà sugli animali e includervi le relazioni interspe­ cie. Ma anche cosl, non si poteva applicare al caso in questione, perché il danno fisico era stato subito dall'uomo, non dall'anima­ le. La senatrice Roach pensò allora di circoscrivere il concetto di violenza, definendo un abuso l'atto sessuale in sé. Ma perché ci sia abuso, va dimostrato che il colpevole ha approfittato della debolezza della vittima, cosa che può avvenire in situazioni che coinvolgono galline, capre, pecore o cani, non cavalli. Si rese quindi necessario abbandonare questa strategia, salvo considerare l'atto sessuale un abuso a priori.

Alla fine, la senatrice Roach decise di basare la linea argo­ mentativa sull'eccezionalismo umano, accettando il suggerimento di un membro eminente del think tank Discovery lnstitute, decisa­ mente conservatore e fautore della teoria neocreazionista Intelligent design. La bestialità contravviene alla dignità umana; se l'ecceziona­ lismo umano è in pericolo, allora la legge deve assumersi il compito di ricordare agli umani il dovere della dignità. L'argomentazione non era nuova, ma in un certo senso fu necessario rispolverarla. Le cose sarebbero state in effetti molto più semplici, se la legge con­ tro la sodomia fosse stata ancora in vigore. Ma era stata abrogata, aprendo la strada alla zooerastia. In effetti, in quello Stato la legge antisodomia si fondava proprio sul fatto che la sodomia fosse un «crimine contro l'umanità», che «viola la natura umana». Comunque, quella lacuna legislativa non impedì la promul­ gazione, alla fine, di una legge che puniva la zooerastia, con una clausola supplementare: il divieto di filmare questo tipo di prati­ che. Il legislatore aveva rinunciato all'argomentazione della dignità umana per recuperare quello della crudeltà. Alcuni mesi dopo in­ fatti, nell'ottobre 2006, un uomo venne arrestato dopo la denuncia della moglie, perché aveva avuto rapporti sessuali con una femmina di Bull Terrier di 4 anni. La sua condanna fu di crudeltà verso un animale. La moglie la ottenne mostrando in tribunale le foto che aveva scattato con il cellulare quando aveva sorpreso insieme cane e marito. A quanto mi risulta, non è stata perseguita per questo ... La questione del consenso era stata tirata in ballo nel caso Pinyan, ma era stato necessario metterla da parte. È invece il per­ no della sentenza francese e le contraddizioni che solleva sono le stesse che hanno messo in allerta Marcela lacub. Non solo perché evidenziano l'arbitrarietà del giudizio e del diritto, ma anche per­ ché l'insistenza su questo concetto è una spia di quello che si sta «cospirando» intorno alla sessualità. La previsione di Foucault si sta avverando. La sessualità è diventata il pericolo onnipresente. La tanto celebrata liberazione sessuale è ormai una dottrina e lo Stato ha il compito, tra gli altri, di difendere la società da ogni tipo di deriva. Il consenso reciproco diventa una pietra miliare del control­ lo da parte dello Stato, nonché l'arma della normalizzazione della sessualità. Infatti l'idea stessa di consenso reciproco, scrive lacub insie­ me al filosofo Patrice Maniglier, avrà come conseguenza la scelta del modello sessuale incentrato sul concetto di vittima, e un corollario obbligatorio: la possibilità che lo Stato si intrometta nella sessualità individuale, allo scopo di difendere le vittime; continua a farlo in

altri ambiti, tutti caratterizzati dallo stesso schema, articolato in­ torno al consenso. Per esempio, definire le persone manipolate, as­ soggettate, psichicamente fragili e influenzabili autorizza lo Stato a proteggerle, contro sé stesse e contro gli altri, e a esercitare il potere in tutte le circostanze che potrebbero riguardare tale fragilità. Così, a differenza che in altre epoche, la vicenda del pony Junior non dipende da una reazione puritana; ci fa capire che la ses­ sualità è diventata una questione di potere, in quanto lo Stato può, attraverso i tribunali, garantire la moralità e reprimere la sessualità in nome della difesa delle vittime. Anche i geografi Brown e Rasmussen hanno ripreso la que­ stione del consenso, che era senza dubbio stata abbandonata dalla senatrice statunitense, e non poteva in quanto tale entrare di diritto nella tematica della zooerastia. Ma le contraddizioni che quest'ul­ tima presenta, fanno osservare i due ricercatori, rendono allo stesso tempo evidente la contraddizione insita nel consenso. La nostra de­ mocrazia è fondata sulla partecipazione di chi può «consentire», che però si rivela anche una formidabile arma di esclusione: chi non può consentire è escluso dalla sfera politica. Nelle teorie del contratto sociale alla base della nozione di consenso, ancora prima di determinare quali gruppi abbiano accon­ sentito a formare la comunità, va stabilito il confine fra chi può dare il proprio consenso - i cittadini - e chi è fuori dall'arena del consenso - donne, bambini, schiavi, animali, stranieri. Le teorie del contratto sociale, proseguono Brown e Rasmussen, tagliano fuori, attraverso una sorta di allucinazione consensuale, questa caratteristica fondamentale e scandalosa delle comunità democratiche: il proces­ so violento e non consensuale che spinge a escludere preventiva­ mente dalla comunità una parte degli esseri sulla base paradossale del consenso. I confini stabiliti secondo questo criterio si impongono non più come arbitrari, ma come normali. Questa evidenza induce allora ad attribuire, in modo del tutto naturale, status ontologici diversi agli esseri che saranno percepiti come autonomi, pienamente uma­ ni, e agli esseri ai quali invece l'autonomia, la volontà, la coscienza, la competenza a «consentire» mancano: «L'incapacità dell'animale di dare il proprio consenso giustifica la con­ danna della zooerastia e, al tempo stesso, quella stessa incapacità costi­ tuisce la giustificazione per escluderla dalla sfera delle considerazioni etiche».

Partendo da due ambiti nettamente distinti, seppur in modi diversi, i geografi e la giurista hanno seguito una motivazione co­ mune. I percorsi non sono gli stessi, ma il loro incrociarsi dimostra, da una parte e dall'altra, il modo in cui concepiscono la pratica di ricerca, e in cui rispondono a quanto richiede: che gli oggetti, i pro­ blemi che incontrano mettano alla prova la loro disciplina e, più in generale, i nostri modi di pensare, facendoci dubitare dell'evidenza e della conoscenza di queste categorie, dei concetti e anche degli strumenti che ci permettono di plasmarli. Sono oggetti che mettono a disagio, in difficoltà, ci distur­ bano e ci gettano nel panico, oggetti per i quali nessuna risposta è semplice. Sono queer o politici per via della loro capacità destabi­ lizzatrice: pensiamo, per esempio, a come il filosofo Thierry Hoquet ne definisce l'efficacia, quando scrive che «la zooerastia distrugge l'antropocentrismo, la tendenza ancestrale», continua strizzando l'occhio a Platone, «delle gru che vogliono sempre stare per conto proprio, a differenza degli altri animali». Rispetto al diritto, la zooerastia rimette in discussione le categorie che sembrano scontate, come l'intimità della sessualità, l'identità che contribuisce a creare, il consenso e anche la defini­ zione di cosa significa essere una persona o un animale. Rispetto al lavoro dei geografi, agisce su ciò che è al centro della loro materia: la questione dei confini. Non si tratta tanto di comprendere o di sapere cos'è la zooerastia, ma di prendere atto degli effetti che ha sulle nostre conoscenze, sui nostri strumenti, sulle nostre pratiche e sulle nostre certezze. Nell'introduzione del suo libro La fin des bétes, Catherine Rémy mette in relazione due situazioni apparentemente molto di­ verse: lo studio etno-metodologico condotto da Harold Garfinkel con il transessuale Agnes, e la ricerca che Rémy stessa ha condot­ to presso gli addetti all'uccisione degli animali nei macelli. Que­ sti studi, sostiene, producono un «effetto lente di ingrandimento» sulla questione dei confini. Agnes, nel suo percorso per cambiare sesso, rende evidente l'azione costante di «esibizione controllata della femminilità» e quindi quella dell'istituzione della sessualità. Uccidere gli animali, d'altro canto, ha un «effetto lente di ingran­ dimento» sull'esistenza e sul tratteggiare dei «confini di umanità». Gli attori continuano a portare avanti un lavoro di categorizzazione che ci ragguaglia sul modo pratico in cui si stabilisce il confine fra umani e animali. La zooerastia è la sede principale del!' «effetto lente di ingran­ dimento», al confine fra la sessualità accettabile e quella ritenuta

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deviante, nonché al confine fra gli esseri umani e gli animali. La sua efficacia non si limita a questi confini. La bestialità ci capire le variazioni in quelli che stabiliscono i rapporti fra campagne e città. Secondo diversi storici, in passato nel mondo rurale la bestialità era praticata di frequente, e parzialmente accettata come iniziazione degli adolescenti alla sessualità; al contrario, le città ne erano pre­ servate; ecco perché, con l'urbanesimo, è scomparsa. Ora i due lati dei confini si presentano invertiti, perché le città sono considerate i luoghi di tutte le dissolutezze. La zooerastia segna inoltre i confini fra natura e cultu­ ra, non solo perché si tratta di atti considerati «contro natura» ( è:'> Queer ), ma soprattutto perché gli animali coinvolti- cavalli, mucche, capre, montoni e cani-, in quanto domestici, continuano a rendere instabile questo confine. Infine, essa segue le linee di confine, ma la lista si potrebbe ancora allungare, fra coloro che sono dotati di consenso e quanti ne sono sprovvisti- i bambini, gli animali, gli anormali ... Le risposte, le sanzioni, le incertezze della morale, dei gesti e delle leggi che la zooerastia provoca, rientrano nel processo che stabilisce, ratifica, sanziona, rende meno chiari, mette in discussione e approfondisce tali confini. Mi disse un giorno Karim Lapp, mentre era alle prese con problematiche di ecologia urbana: «Introdurre un animale in città significa introdurre un elemento sovversivo». Chissà se si ren­ deva conto di quanto aveva ragione.

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A come Artisti Il titolo della voce e la citazione iniziali hanno origine da una conferenza di Marce! Duchamp (Hofstra University, New York, 1960), L'artiste doit,il aller à l'université? (L'artista deve andare all'u, niversità?). Eccone un estratto più completo: «"Stupido come un pittore". Questo modo di dire francese risale alme­ no all'epoca della vita dei bohème di Murger, intorno al 1880, ed è tut­ tora utilizzato in modo scherzoso. Perché l'artista dovrebbe essere con­ siderato meno intelligente di Tizio, Caio e Sempronio? Forse perché la sua preparazione tecnica è essenzialmente manuale e non ha rapporto immediato con l'intelletto? Comunque sia, si pensa generalmente che il pittore non abbia bisogno di un'educazione particolare per diventare un grande Artista. Oggi però queste considerazioni non sono più vali­ de; i rapporti fra l'Artista e la società sono cambiati da quando, alla fine del secolo scorso, l'Artista affermò la propria libertà».

Vedi Mercante del Segno, Ghibli 2016. Ringrazio Marcos Mat, téos,Diaz per il notevole aiuto nella stesura della voce.

I video degli elefanti si trovano sui siti Koreus.com e Youtu­ be.com: raccomando vivamente di guardarli, per capire l'incanto di cui parlo. Nella zona di Chiang Mai i santuari di questi animali sono numerosi. La maggior parte offre ai turisti passeggiate a dorso di elefante, alcuni organizzano saggiami di ecoturismo. Tutti insistono sull'importanza che umani ed elefanti lavorino insieme per assicu­ rare la sopravvivenza degli animali, le cui esigenze alimentari sono ingenti. Durante la stagione turistica, i due elefanti pittori protago­ nisti dei video offrono quotidianamente uno spettacolo al Maeta­ eng Elephant Park, a una cinquantina di chilometri da Chiang Mai. 203

Il commento dello specialista delle attività di pittura negli scimpanzé, Desmond Morris, al quale faccio riferimento, si trova su Dailymail.co.uk

B come Bestie Una parte di questa voce è già stata pubblicata: Vinciane De­ spret, Il faudrait revoìr la copie. L'imitation chez l'anima!, in Thierry Lenain e Danielle Lories (a cura di), Mimesis, La Lettre volée, Bru­ xelles 2007, pp. 243-261. Per la citazione di George Romanes, vedi L'Évolution mentale

chez !es animaux, Reinwald, Parigi 1884.

I riferimenti degli articoli scientifici sono: Richard Byme, Changing Views on Imitation in Primates, in Shirley Strum e Linda Fedigan, Primate Encounters: Models of Science, Gender and Society, University of Chicago Press, Chicago 2000, pp. 296-310. Richard Byme e Anne Russon, Leaming by lmitation: a Hierarchical Appro­ ach, «Behavioral and Brain Sciences», n. 21, 1998, pp. 667-721. Michael Tomasello, M. Davis-Dasilva, L. Camok e K. Bard, Obser­ vational Leaming of Tool Use by Young Chimpanzees, «Human Evolu­ tion», n. 2, 1987, pp. 175-183. Il famoso Do Apes Ape? di Michael Tomasello si trova in Bennet Galef e Cecilia Heyes (a cura di), Social Leaming in Animals: The Roots of Culture, Academic Press, San Diego 1996, pp. 319-346.

Il commento di Alexandra Horowitz secondo cui gli adulti umani rispondono peggio degli scimpanzé è stato pubblicato in Do Human Ape? Or do Apes Human?, «Joumal of Comparative Psycho­ logy», n. 117, 2003, pp. 325-336.

C come Corpi L'inter-fisiologia, secondo Tarde, deve costituire il fondamen­ to della psicologia e, più precisamente, di una inter-psicologia. Uno dei suo i esempi preferiti è quello del convolvolo che si sviluppa con

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la pianta ospite. Che questa inter-fisiologia arricchisca il repertorio delle relazioni ospite-parassita mi sembra di buon auspicio, e ci evita di limitare sia gli esempi ché le loro interpretazioni alle relazioni ar­ moniose in cui l'accordo è ovvio. Vedi L'inter-psychologie, «Bulletin de l'lnstitut général psychologique», giugno 1903. L'analisi del lavoro di Barbara Smuts da parte di Donna Ha­ raway compare nel suo When Species Meet, University of Minnesota Press, Minneapolis 2008. Shirley Strum racconta il suo lavoro sul campo in Umano o traduzione di A. Magherini, Frassinelli, Milano 1989. Vedi anche Farley Mowat, Mai gridare al lupo, a cura di M. Bruni, Orme, Roma 2012. Il lavoro di Shirley Strum e Bruno Latour al quale fac­ cio riferimento a proposito dell'importanza del corpo per i babbuini è stato oggetto dell'articolo Redifining the Socia! Link: from Baboons to Humans, «Social Sciences lnformations», n. 26, 4, pp. 783-802. quasi,

D come Delinquenti Il video delle scimmie bevitrici è disponibile su YouTube. Per gli articoli riguardanti l'alcolismo nelle scimmie potete consultare il sito Noldus.com; per una ricerca più dettagliata, con le caratteristi­ che del protocollo: Ncbi.nlm.nih.gov. Del resto, più avanti trovate una critica al modo in cui vengono presentati i risultati (Youtube). Vedi il libro nel quale viene invocata l'ipotesi di una «rivol­ ta» degli animali: Jason Hribal, Fear of the Animai Planet: the Hidden History of Animai Resistance, Counter Punch e AK Press, 2010. La citazione di Robert Musil è tratta da L'uomo senza qualità, traduzione di A. Rho, G. Marinoni e L. Castaldi, Einaudi, Torino 2005.

E come Esibizionisti La citazione di Vicki Heame che riprende Berosini si trova nel capitolo The Case of the Disobedient Orangutans del suo Animai Happiness, Harper et Collins, New York 1993.

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Eduardo Viveiros de Castro ha scritto diversi articoli sul pro­ spettivismo. Fra i suoi contributi: Les pronoms cosmologiques et le per­ spectivisme amérindien, in Éric Alliez, Deleuze, une vie philosophique, Les Empecheurs de penser en rand, Parigi 1998. Faccio riferimento ad altri lavori dell'autore nella voce V come Versioni. Le testimonianze degli allevatori si possono leggere, insieme a molte altre, nel libro di Vinciane Despret e Jocelyne Porcher, ftre béte, Actes Sud, Arles 2007. Per un esibizionista di prim'ordine - e un laboratorio che prende seriamente in considerazione il gusto per l'esibizione del suo animale e la dimensione spettacolare dell'esperimento - rimando ad Alex, il pappagallo della psicologa Irene Pepperberg (Laboratorio).

F come Fare giustizia Da alcuni anni, l'ingegnere lsabelle Mauz porta avanti un appassionante lavoro sociologico nel campo della protezione. A lei devo la griglia di lettura che mi aiuta a riflettere sulle situazioni di conflitto come situazioni politiche, in cui gli attori umani conside­ rano seriamente che anche gli animali ne sono attori politici. Vedi Gens, Comes et crocs, Quae, Parigi, 2005. Il tema della non innocenza e dei compromessi è stato appro­ fonditamente sviluppato nel testo di Donna Haraway, When Spe­ cies Meet, op. cit. Emilie Hache ha proseguito il suo lavoro in un libro molto bello, Ce à quoi nous tenons, Les Empecheurs de penser en rond/La Découverte, Parigi, 2011. Da qui ho tratto la citazione secondo cui i compromessi sono una maniera di compromettersi e scendere a compromessi con i principi. L'esempio dei processi ad animali è tratto dalla prefazione di Jeffrey St. Clair al libro di Jason Hribal, Fear of the Animal Planet, op. cit. Si troverà una storia molto dettagliata della conclusione di questi processi nell'articolo di Éric Baratay sui contesti e le forme delle pratiche di scomunica ed esorcismo su animali, dove spiega

che questa conclusione corrisponde non a un progresso verso una maggiore razionalità, bensì a una progressiva esclusione delle bestie dalla comunità. A partire da quel momento le scomuniche che, fino ad allora mettevano al bando certe bestie praticamente e caso per caso, non hanno più ragione di essere. Vedi L' exorcisme des animaux aux xvm• siècles. Une négociation entre betes, fidèles et clergé, «Revue d'Histoire Ecclésiastique», Université Catholique de Louvain, Lo­ vanio, n. 107 (1). 2012, pp. 223-254. Riguardo a Crespi e ai topi «delusi» o «ebbri di successo», si trova su Internet un articolo più recente (1981) ma che è, con poche modifiche, lo stesso di quello pubblicato nel 1966 (garfield. library.upenn.edu). L'articolo di Jules Masserman che riprende l'esperimento del­ la scossa elettrica rischiata per il compagno è «Altruistic» Behavior in Rhesus Monl