Cahiers du cinéma. La politica degli autori. Le interviste [Vol. 1] 887521249X, 9788875212490

La "politica degli autori" è la straordinaria, provocatoria teoria critica che negli anni Cinquanta e Sessanta

186 24 10MB

Italian Pages 330 [33] Year 2010

Report DMCA / Copyright

DOWNLOAD PDF FILE

Recommend Papers

Cahiers du cinéma. La politica degli autori. Le interviste [Vol. 1]
 887521249X, 9788875212490

  • 0 0 0
  • Like this paper and download? You can publish your own PDF file online for free in a few minutes! Sign Up
File loading please wait...
Citation preview

CAHIERS DU CINÉMA

LA POLITICA DEGLI AUTORI PRIMA PARTE: LE INTERVISTE CONVERSAZIONI CON ANTONIONI, BRESSON, BUNUEL, DREYER, HAWKS, HITCHCOCK, LANG,

RENOIR, ROSSELLINI, WELLES

mi nini uni fax

INDICE Ieri e oggi di Goffredo Fofi Dopo tutto di Serge Daney La politica degli autori

Prima parte: le interviste

Intervista con Jean Renoir di Jacques Rivette e Francois Truffaut Intervista con Roberto Rossellini di Eric Rohmer e Francois Truffaut Nuova intervista con Roberto Rossellini di Fereydoun Hoveyda ed Eric Rohmer

Intervista con Fritz Lang di Jean Demarchi e Jacques Rivette Intervista con Howard Hawks di Jacques Becker. Jacques Rivette e Francois Truffaut Intervista con Alfred Hitchcock di Claude Chabrol e Francois Truffaut

Lettera a Jacques Rivette di Francois Truffaut Nuova intervista con Alfred Hitchcock di Jean Demarchi e Jean Douchet

Intervista con Luis Bunuel di André Bazin e Jacques Doniol-Valcroze Intervista con Orson Welles di André Bazin, Charles Bitsch e Jean Demarchi Intervista con Cari Theodor Dreyer di Michel Delahaye Intervista con Robert Bresson di Michel Delahaye e Jean-Luc Godard Intervista con Michelangelo Antonioni di Jean-Luc Godard

Filmografie

IERI E OGGI di Gcffredo Fofi

Per spiegare la «politica degli autori» e la svolta da essa rappresentata nella storia del

cinema, o quantomeno nel modo di capire il film («leggerlo»: vederlo) e di concepire la

figura del regista, i Cahiers du cinema che l’avevano proposta, in più modi inventandola e

imponendola, hanno creduto giusto riproporre nelle loro eclettiche edizioni dieci interviste che la esemplificassero. Vennero fatte da critici destinati a diventare i registi di

punta della Nouvelle Vague, Rivette e Rohmer, Truffaut e Chabrol e naturalmente

Godard, e da critici che sarebbero rimasti prevalentemente o esclusivamente tali come Delahaye e Douchet, Domarchi e Hoveyda e Bitsch, oltre che da due nomi della «vecchia guardia», da due «anziani» maestri o fratelli maggiori di tutti loro, come Bazin (il critico e

teorico all’origine della nuora intelligenza del cinema, nel dopoguerra) e Becker (il regista che, allievo di Renoir, dimostrò nella sua opera la possibilità di essere «autore» anche dentro il sistema produttivo contro il quale la Nouvelle Vague si pose, pur se dovette

scendere anche a duri patti).

Gli «autori» prescelti sono diversissimi tra loro, ma ciò che più li distingue è, dice Serge Daney nell’asciutta prefazione a questo libro (ed è probabile che sia stato proprio lui a scegliere, tra le tante, le interviste e gli «autori» da antologizzare), la doppia linea, la contraddizione da affrontare e, se possibile, da sanare, quella principale e centrale tra un

«cinema d'autore» all’europea e un «cinema d'autore» alla statunitense. Se allora, tra fine Cinquanta e primi Sessanta, lo scandalo maggiore fu nel rifiuto di riconoscere statuto di

autore (per esempio alla stregua di quello che veniva riconosciuto agli scrittori) ai réalisateurs, ai metteurs en scène, ai registi meri coordinatori di un lavoro di gruppo, lo «scandalo» più duraturo rimane l’altro, quello del confronto tra autori europei che sanno

restare tali anche nelle more del film d’occasione e di commissione (Rossellini e Renoir

sono gli esempi portati da Daney) e autori americani che hanno cercato di imprimere

sempre il loro marchio personale su opere realizzate e determinate dentro le politiche dei grandi studios, dentro la macchina del cinema più macchina di tutte, ma che in definitiva, agli occhi di certa critica, non furono mai del tutto estranei alla macchina, liberi dalla

macchina (le due H, Hawks e Hitchcock, in testa). Le generazioni successive di critici hanno a\ruto buon gioco, esaurita la spinta

propulsiva della «ricetta Cahiers», a ricuperare nella logica d’autore tutto e il contrario di tutto, fino a certi abomini recenti, permettendo così a mezze calzette italiane o francesi o a

qualche altro «occidentale avanzato» di presentarsi sempre e comunque come Autori, addirittura con la maiuscola, anche quando il loro cinema altro non è che lo sciatto

risultato dell’ultima massificazione delle intelligenze - quella degli Autori come quella dei

Critici come quella degli Spettatori. Ma il «ricupero» è norma di sempre, e non staremo a insistere sull'attuale miseria della critica nei suoi strettissimi legami di gusto, unificati da tempo, con chi produce e realizza, diffonde e consuma.

Se vogliamo andare in fondo all’oggi, essendosi il cinema fatto tv o superspettacolo, ed essendo diventata la tv (dice Daney) lo spazio del sociale (preciserei: della manipolazione del sociale), al cinema non dovrebbe restare, per esclusione, che lo spazio del

superspettacolo (l'apparecchio televisivo, necessariamente piccolo e casalingo, non può contemplarne l’efficacia, rispettarne gli effetti) e quello, nientemeno, dell’Arte, questa sì

con la maiuscola, cioè del non dicibile altrimenti che con i mezzi, con i linguaggi dell’arte

che, da tempo, sono diversi da quelli della comunicazione e sono, nella società di massa,

suoi oppositori. Ogni «comunicatore», grazie alle mistificazioni cresciute nella seira delle soggettività critiche degli anni Settanta-Novanta, può ormai credersi autore, e non c’è

critico in grado di contrastare questa sua convinzione, tanto più che la soggettività della critica si è voluta altrettanto «autoriale» o al contrario decisamente «comunicativa», cioè pubblicitaria...

Degli esiti di una teoria non ha colpa la teoria, bensì coloro che ne hanno fatto abuso e che l’hanno tradita a loro indebiti fini. Per giudicare della «politica degli autori» occorre

tornare al tempo in cui essa è sorta, e allora la sua valenza rivoluzionaria resta intatta e

formidabile. Nel cinema-merce, nel cinema mezzo di comunicazione di massa, l’autore era costretto a servirsi, come in altri tempi poeti e scrittori, dei «generi» codificati, delle

regole fissate da altri venuti prima di lui e dai modi di diffusione e ricezione. I romanzi di cavalleria erano stati opera di Eschenbach o di Ariosto ma anche di anonimi imitatori, e così i western potevano essere esercizio di grandi (Ford per tutti) o di minimi e dimenticabili. Eccetera. Ma era più delicato e difficile per i critici, tutti piuttosto

«idealisti» e «formalisti», degli anni Venti-Trenta, scoprire l’Autore là dove il suo nome

non era scritto a chiare lettere nella eccezionalità e intellettualità dell’opera; e tanto più nell’epoca in cui il ricamo, diciamo così, oppure «la cifra sul tappeto», era obbligato dalle strettoie dell’industria o dai dettami delle censure. Stupisce lo stesso che i critici degli anni Cinquanta fossero così condizionati dalle

vecchie teorie anteguerra o, ancora di più, dalle imposizioni ideologiche, poiché davvero era finita l’epoca eroica del cinema «classico» che, dice Daney, rispondeva all’ambizione

di stabilire una sorta di «enciclopedia del mondo», e costruiva storia fino a essere divorato dalla storia (Hitler e Stalin come massimi registi del mondo!). E si era andata imponendo un’era «modernista», che sotto altri aspetti si potrebbe definire «manierista»,

nella quale i segni dell’autore erano ben leggibili, se autore c’era, anche dietro i prodotti di genere e di scuola e di studios. Ma i film venivano giudicati - erano anni di guerra fredda e di divisioni ideologiche, di super-io politici e di diktat estetici - più per il loro

«contenuto» che per la loro «forma», secondo distinzioni estremamente abusive. La novità portata dall’ondata di risveglio delle arti a partire dagli ultimi anni Cinquanta è stata quella di una soggettività che è legittimo definire giovanile, insofferente dei ricatti

degli schieramenti e dei «dover essere» ereditati dagli anni Trenta, mossa dal bisogno di

una liberazione interiore dai dogmi della politica e di una riconquista dei modi dell’espressione, nelle arti, come anticipazione e preannuncio, come promessa di una

libertà dei comportamenti, nella vita. Lo sapessero o no, i Godard e i Truffaut, i Bene e gli

Schifano, i Tarkovskij e i Penn, i Grotowski e i Beck, i Polanski e i Rocha erano tutti figli del dopoguerra. Ed erano più o meno coetanei dei Beatles e di Marion Brando, di Clift e di

Bob Dylan... Un’altra musica, altri colori. Un’esplosione di irrequietezza e di vitalità come

le arti non ne vedranno altre, nel restante tempo del secolo...

Questo crea uno scarto, una discrepanza sulla quale anche i più attenti dei membri e dei cultori delle «nouvelle vague» non hanno voluto riflettere a sufficienza: quella tra i registi

di «prima», i sab ati, come Autori, e loro medesimi, critici diventati registi Autori, o anche giovani diventati artisti Autori. Se i primi precisavano nelle loro opere, dentro i

meccanismi e le costrizioni della macchina, ciascuno un modo di raccontare, diciamo così, trasversale, coscientissimo della macchina ma anche dei modi di utilizzarla e di opporlesi

o perfino di ingannarla, i secondi uscivano, per il momento almeno, dalla macchina, nelle circostanze di mutazioni sociali e tecniche insieme, e ricominciavano a inventare nel poco,

e nella libertà.

La loro libertà non poteva essere eterna, e con la macchina avrebbero dovuto prima o

poi fare di nuovo i conti, nella macchina avrebbero dovuto ritornare, dalla macchina avrebbero dovuto difendersi, la macchina avrebbero dovuto usare e raggirare... E però una rivoluzione c’era stata, e una libertà che fu di quella generazione straordinaria ma

servì anche alle precedenti e alle successive, almeno fino a quando la macchina non operò altre trasformazioni e la restaurazione succedette pienamente alla rivoluzione. E stavolta, capita l’antifona, la macchina avrebbe lentamente perfezionato le sue strategie e bloccato

ogni possibile futura rivoluzione.

Oggi nella società del consumo e del consenso, che bisogno c’è di rivoluzioni? Le comunicazioni di massa diventano il segno distintivo della democrazia, bastano a se stesse, e chi è dentro è dentro e chi è fuori aspira a entrare. L’Autore vero, sempre più

raro, è sempre più cosciente dei suoi mezzi; certo, ogni immagine ormai entra nelle altre, dentro l’immagine non c’è altro che immagini, un’altra immagine e un’altra ancora, ma

questo può comportare anche una grande ricchezza (e talvolta chiarezza) nei rimandi,

nell’uso, nelle «aperture» divisione e perfino di messaggi

Checché ne pensino i critici, nella macchina più che mai l’autore ha bisogno oggi di giocare o fuggire il mercato, e l’arte di non preoccuparsi della comunicazione che, se verrà, sarà per sovrappiù, per dono della grazia o delle muse... Sì, è certamente vero quello che Daney presentando queste interviste concludeva: «In

un’arte impura com’è il cinema, fatta da molte persone e cose tra loro eterogenee, sottoposta alla ratifica del pubblico, non è ragionevole pensare che non ci sia un autore -

un’individualità - altro che in rapporto a un sistema, e cioè a una norma? L'autore dunque non sarebbe soltanto colui che trova la forza di esprimersi davanti a tutti e contro

tutti, ma colui che, esprimendosi, trova la giusta distanza per dire la verità sul sistema da cui si strappa. (...) L’autore sarebbe, al limite, la linea difuga grazie alla quale il sistema

non è chiuso, respira, ha una storia». Ma... e se piuttosto che preoccuparsi del respiro del sistema ci si preoccupasse di mettersene ai margini o perfino fuori, e contribuire all’invenzione di altro - altri spazi, altri modi, altra lingua? L’utopia del 2000 non

potrebbe essere per l'autore, invece dell’aspirazione a essere riconosciuto da un sistema, il

contributo alla crescita di un anti-sistema, di un margine o quasi-margine vivibile il cui scopo non è, alla Sundance, di essere riconosciuti dal sistema e invitati a farne parte, ma

di stabilire le stanze e gli angoli di un nuovo territorio? Come che sia, il discorso Sull’Autore si pone oggi in modi molto diversi e molto più

«traumatici» anche di quelli daneyani; e Daney medesimo ci ha ormai lasciati da tempo.

Nell’orfanità degli Autori, che hanno Padri indiretti e lontani per quanto formidabili e luminosi ma non hanno Famiglia perché non possono più averla, i riferimenti e i modelli concreti possono e debbono essere altri. Gli eredi-traditori dei Daney di appena ieri e dei critici registi della politique des auteurs del lontano ier l’altro non hanno più molto da

insegnare agli aspiranti Autori secondo i canoni della libertà dei Maggiori - ultimi dei

quali, scomparsi a poca distanza l’uno dall’altro a fine di secolo, Kubrick e Bresson, così diversi e però così vicini nella concezione finale della loro qualità di Autori. La prefazione di Daney la fa troppo semplice, la politica dei Cahiers è oggi tremendamente «ricuperata» (quanto quella dei loro rivali di un tempo, quanto quella di

tutta o quasi la critica) e però la lettura delle bellissime interviste fatte a questi grandi da

altri grandi può essere ancora immensamente istruttiva, oltre che appassionante. Un pezzo di storia, e che storia! Sappiamo che la storia non ammaestra più nessuno, ma

sappiamo anche che i Maestri (gli Autori veri) sempre mantengono qualcosa di attuale, classici «parlanti» proprio in ragione delle difficoltà e traversie sopportate dalla loro

vocazione. Le difficoltà e traversie di oggi sono, io credo, ancora più gravi, e ancora più brutto è il

contesto in cui un giovane artista del cinema deve crescere - qui in Italia più che altrove, a causa dello sfascio di un sistema culturale tutto legato alla politica, che ha rinunciato a

qualsiasi autonomia - tra compromissioni ciarle menzogne e le facilità che premiano chi si conforma, cioè i non-autori della presunta comunicazione. Ma proprio per questo, se

una vocazione c’è in giro sostenuta da talento e cultura, essa trarrà benefìcio dalla lettura di questi testi alla cui lettura i senza-vocazione, gli aspiranti comunicatori, i critici­ pubblicitari, i fanatici d’idoli dovrebbero, pagina dopo pagina, continuamente arrossire.

DOPO TUTTO di Serge Daney

La generazione della Nouvelle Vague fa fortunata, seppe farsi dei nemici e li conservò a lungo. Avere dei nemici non è un privilegio concesso a tutti: per esempio, la generazione successiva non ne ebbe e questo, in qualche modo, le è sempre pesato. La Nouvelle Vague si fece avanti e venne respinta, insultò e venne odiata, dettò legge e fa seguita. Se fosse

stata solo una vaga lobby di arrivisti, sarebbe svanita velocemente nel nulla. A ben vedere, avre\a il tempo dalla sua. Sette anni di meditazione, all’inizio, a partire dal 1953, sulle pagine dei Cahiers gialli di André Barin, per farsi una certa idea del cinema. Poi un quarto di secolo per sottoporla alla prova della realtà. E se oggi ci fa così tanto piacere stare a sentire Godard, Truffaut o Rivette che parlano di cinema, il loro e quello di cui

sanno di essere gli eredi, non è per caso: questi registi sono rimasti dei critici, ed è stato per loro molto più facile in quanto, da critici, già parlavano da registi.

E così quella che sarebbe divenuta, da allora in poi, la regola un po’ dappertutto, cominciò con l’essere, in Francia, l’eccezione: la Nouvelle Vague è la prima generazione di

cineasti cinefili nella storia del cinema. Data la situazione dell’industria cinematografica francese negli anni Cinquanta, era destino che ci fossero dei giovani a pensare che il

cinema si poteva imparare facendo mestieri diversi. La professione di aiuto regista era la

più lenta e la più istupidente; molto meglio quella di topo di cineteca, insieme iconoclasta e devoto, povero e generoso.

Per chi divenne, a quei tempi, lettore assiduo dei Cahiers du cinema - sempre gialli, almeno fino al 1964 - sembrava che si fosse appena finito di combattere una grande

battaglia, in cui certi giovani turchi si erano contrapposti a una qualità, dettafrancese. Una battaglia in cui tutti, chi più, chi meno, avevano perso il loro sangue freddo. E se a

vìncere furono quelli dei Cahiers, non fa tanto perché si finì col dargli ragione sulla loro idea di cinema, sui loro gusti o sulla loro macchina da guerra chiamata politique des auteurs - questo sarebbe accaduto più tardi - quanto perché, passando «dietro la

cinepresa», avevano dimostrato come il loro modo di ammirare certi cineasti piuttosto

che altri non impedisse loro - anzi, tutfaltro - di fare molto presto un loro cinema, evidentemente un cinema d’autore. Diciamo a riprova che un giovane entusiasta di René

Clair nel i960 non avrebbe mai tratto da quel sentimento di ammirazione l’energia

necessaria, in quel momento storico, per diventare regista. Segno dei tempi. Questa generazione ha avuto un’altra fortuna: si è creduta giustiziera. La storia del cinema, con i suoi valori prestabiliti, la storia che raccontavano Sadoul e Mitry, era

ingiusta, piena di idee preconcette, di buchi, di approssimazioni. Grazie a Henri Langlois, si poteva ogni sera scoprire e riscoprire, valutare e rivalutare. Il pantheon della settima

arte non era ancora quel monumento in cui si accetta, in anticipo e senza ribellione alcuna, di perdersi. Il compito della generazione precedente - quella di Bazin e del

movimento dei cineclub - era stata di far proprio il cinema come se la sua storia fosse una sola. Era stato necessario, al tempo della guerra fredda, servirsi del neorealismo italiano

come di una leva, mantenere aperto un occhio teorico sul cinema sovietico, rimproverare al cinema francese il suo accademismo tutto dedito agli «adattamenti letterari». Ed essere

pronti a scoprire dell’altro e altrove, per esempio in Giappone.

È su questo sfondo che, verso la metà degli anni Cinquanta, sotto la penna di Truffaut,

Rohmer, Chabrol, Godard e Rivette scoppiò la scandalosa politique des auteurs. Quattro nomi e due iniziali ne furono gli emblemi: le due R, Renoir e Rossellini, le due H

americane, Hawks e Hitchcock. Ma lo scandalo fu subito triplice. Ci sono sempre stati almeno tre modi di dire no alla politique des auteurs.

Gli scandalizzati del primo tipo non concepiscono, in nessun caso, che un film possa avere un solo autore, dato che tutti sanno che il cinema «non si fa da soli». Per loro un

film è la fusione più o meno armonica tra vare specialità professionali e il regista, il

réalisateur, non è che colui che realizza e rende reali le potenzialità contenute nei nomi nei titoli di testa. Questa visione del cinema è tipica dei momenti in cui l’industria cinematografica è abbastanza forte per accogliere - in più - nel suo seno una vera esigenza artigianale. È la visione del cinema come mestiere, ogni volta che essa si

autoattribuisce un riconoscimento plebiscitario nei film che in Francia possono aspirare al Cesar e negli Stati Uniti ottengono la nomination all’Oscar.

Gli scandalizzati del secondo tipo non arrivano a capire come, se pure un film può

arere, a volte, un autore, si possa affermare che questi lo sia per diritto divino di tutti gli

altri suoi film. Un autore è qualcuno abbastanza libero da poter assumere su di sé, dalla stesura della sceneggiatura alla scelta degli attori, tutte le grandi decisioni che precedono la realizzazione. Oppure è un uomo, o un gruppo, sorretto da un movimento - sociale, politico, estetico - abbastanza forte da far sì che il film ne rifletta le istanze. Per questo nessuno ha mai rifiutato la qualifica di autore al Lang tedesco, al Renoir d’anteguerra o al

Rossellini neorealista. Lo scandalo scatta quando i giovani critici della Nouvelle Vague

iniziano a prendere molto sul serio il periodo americano di Lang o di Renoir, o i film di Rossellini con la Bergman, vuoi perché si tratta di film girati su commissione xaioi perché

somigliano troppo a film d’occasione. Gli scandalizzati del terzo tipo non afferrano come mai, una volta che ci si è decisi a studiare gli autori, non ci si debba accontentare di quelli che lo sono da sempre,

vistosamente e talora drammaticamente. Il concetto di autore si addiceva al limite a una galleria di mostri troppo singolari per la macchina hollywoodiana, che infatti li respìnse: da Griffith a Welles, passando per Chaplin, Sternberg o Stroheim. E calzava ancora

meglio, davvero come un guanto, a quei cineasti che si erano affermati nel quadro della vecchia Europa lacerata e semidistrutta. Nessuno ha mai dovuto dar battaglia perché

fossero riconosciuti come autori Bresson, Fellini, Tati o Antonioni A Cannes, nel i960, tutta la critica degna di questo nome fa con Antonioni per L'avventura. H vero scandalo dei Cahiers gialli era stato quello di andare a cercare nel cuore stesso del cinema

americano di intrattenimento e lontano da ogni aura culturale i due registi meno

romantici del mondo, Hawks e Hitchcock, e di aver detto: costoro sono autori, e non mestieranti. Lo scandalo, più che essere renoir-rosselliniani, era essere hitchcock-

hawksiani. Scandalo era anche approfittare della possibilità, inscritta nella natura stessa del cinema, di convocare direttamente gli autori in questione, «in carne e ossa». Per poter dare corpo a questa politique, per poterne fare una storia di filiazioni, di legami e testimoni. È quanto accade nel 1963 con II disprezzo di Godard, affondo geniale di scandaglio e illustrazione

premonitrice della futura condizione del cinema. Si ricordino ì quattro personaggi del film: un produttore (Jack Palance), un regista, uno sceneggiatore (Michel Piccoli) e sua

moglie. E in quest’ultimo ruolo una diva: Brigitte Bardot. Il produttore è americano e

volgare, il regista un vecchio signore tedesco, lo sceneggiatore e la moglie sono francesi: devono girare un film sul mondo classico, a Capri, nientemeno che l’odissea. Ebbene,

cosa succede nel Disprezzo? Il produttore e la star (0 almeno il personaggio interpretato

dalla star) muoiono in un incidente d’auto, a bordo di un’Alfa Romeo rossa che più godardiana non si può, e per concludere il film, per portarlo «a buon fine», non restano

che il vecchio, lo sceneggiatore e un aiuto regista occhialuto che alla fine del film dice qualcosa come: «Siamo pronti, signor Lang!» Perché se Fritz Lang recita la parte di se

stesso, l’aiuto regista non è altri che Jean-Luc Godard.

Niente più divi, niente più produttori. Com’è possibile continuare a fare del cinema senza di loro? Un cinema che un pubblico sempre più esiguo possa aver voglia di vedere? Un cinema che faccia concorrenza alla tv? Queste domande diventeranno evidenti - e

quanto crudeli! - solo nel corso degli anni Settanta. In un primo tempo, l’indebolimento

delle grandi imprese produttive, del «sistema» del divismo e degli studios, la rinuncia dei produttori «all’antica» sembrano gran cosa, di fronte all’euforia nata dallo sbocciare, un

po’ dovunque nel mondo, delle «nouvelle vague». Forse l’autore del Disprezzo era uno dei

pochi a non rallegrarsi troppo e a sospettare che ci sarebbe voluto comunque un produttore per filmare l’odissea. Nel 1984, a distanza di tempo, è lecito pensare che è la crisi delfilm di serie a rendere

contemporaneamente possibili ifilm prototipo. E che cosa c’è di più prototipico, anzi atipico, di un film d'autore? Al punto che, sempre alla distanza, si può dire che i Cahiers

gialli, lanciando la loro famosa politique, non hanno fatto altro che mettere a punto un processo iniziato da tempo: l’accettazione del cinema come arte e del regista come artista, secondo la concezione romantica dell’autore-demiurgo-padrone della propria opera che già era corrente in letteratura.

Questa vittoria, troppo totale, ha tutte le apparenze di una vittoria di Pirro. Una volta

generalizzata, la parola autore perde, oltre al suo significato, il suo valore polemico e non scandalizza più nessuno. Anche quando la critica degli anni Sessanta si mette a scavare

nella storia del cinema con la salda volontà di esumare, contro ogni buon senso, una massa di autori sconosciuti, particolarmente nel cinema americano di serie, confondendo

gli stilisti, i manieristi, i piccoli maestri con ì veri autori. Nei paesi anglosassoni, d’altronde, la cosa era stata esportata a titolo di curiosità, ma

sotto il più decente appellativo di author theory. Teoria, non politica. Non c’era stata altra politica che quella della scelta di autori fatta dai Cahiers. Se Godard, Truffaut, Rohmer e

Rivette fossero stati, diciamo, fellinian-ejzenstejniani, il futuro non li avrebbe certo sconfessati, ma - per mimetismo d’identificazione - si sarebbero sentiti obbligati ad

avere un mondo proprio e una visione personale prima ancora di lanciarsi nell’avventura del cinema. Invece, lottando duramente per il Renoir del dopoguerra e per il Rossellini

dei film con la Bergman imparavano già parecchio - e forse senza saperlo - sui rischi del

mestiere di regista, sulle sue astuzie e sui suoi compromessi, sulle sue irregolarità e su

quel desiderio difare con ciò che si ha a disposizione piuttosto che di cercare di ottenere a tutti i costi il controllo su ciò che non si ha. E difendendo caparbiamente Hawks e

Hitchcock, già riflettevano (il libro-intervista di Truffaut e Hitchcock è del 1966) su cosa è

il pubblico, quali sono gli effetti e qual è la morale del cinema. Imparavano, in entrambi i

casi, a essere umili. Al punto che, quando l’euforia della Nouvelle Vague si smorzò, lasciando il posto all’inquietudine dei mercanti e alla solitudine degli artisti, gli inventori della politique des auteurs seppero spesso organizzarsi meglio di altri, di modo che da questa politica sono

stati solo loro a trarre davvero vantaggio. Salvo che, per un bello scherzo della dialettica,

uomini come Godard, Truffaut 0 Rohmer, se non gli è stato mai negato, a differenza di coloro che hanno ammirato e difeso, il titolo di «autori», sono però stati costretti ad

arrangiarsi, durante gli aridi anni Settanta, con piccoli stratagemmi da produttori. Diventarono, più 0 meno, dei piccoli imprenditori.

Ebbero più fortuna di tutti i loro coetanei che per affermarsi come autori avevano avuto bisogno del sostegno di un produttore. E, a maggior ragione, di coloro che debuttarono dopo di loro e si ritrovarono addosso, bell'e pronta, l’etichetta di autore. Lusingati dalla

definizione, molti di loro dimenticarono che forse avrebbero lavorato anche meglio in un quadro più costruttivo e senza il peso di questo marchio castrante. Tanto che, verso la fine degli anni Settanta, si cominciò a sentire un po’ dovunque un vago mormorio: «Non avevamo niente contro i produttori...» I grandi circuiti produttìvo-distributivi nel

frattempo ricomposti, Gaumont in testa, ne raccolsero i frutti. Ma il risveglio, più tardi,

sarebbe stato duro, e questo risveglio vale per l’oggi. Molti ego sono già stati calpestati. Nel frattempo si era persa la domanda relativa a questa parolina, «autore». Come definire un autore? Si trattava semplicemente di colui che firmava il film? O di colui che, in

condizioni avverse, faceva in modo che il suo desiderio (il suo desiderio di cinema) trionfasse su tutti gli altri e li assoggettasse? 0 di colui che era diventato tutto per il suo film: ideatore, promotore, sceneggiatore, regista, attore, ufficio stampa? O ancora

dell’artista salariato dallo Stato, come nei paesi comunisti? O del pioniere franco tiratore di un paese senza cinema, come in Africa, autore per definizione di un film che

nessun’industria avrebbe voluto, 0 avrebbe rifiutato di fare al suo posto? Un po’ di tutto questo, naturalmente, ma soltanto un po’.

Dato che qui si discute non del concetto di autore in sé, ma della politique des auteurs dei Cahiers di trenfanni fa, possiamo azzardare un’ipotesi Eccola. In un’arte impura

com’è il cinema, fatta da molte persone e cose tra loro eterogenee, sottoposta alla ratìfica del pubblico, non è ragionevole pensare che non ci sia un autore - un’individualità - altro

che in rapporto a un sistema, e cioè a una norma? L’autore dunque non sarebbe soltanto colui che trova la forza di esprimersi daxanti a tutti e contro tutti, ma colui che,

esprimendosi, trova la giusta distanza per dire la venta sul sistema da cui si strappa. Come faceva Godard nel Disprezzo e Hitchcock nella Finestra sul cortile. I film d’autore ci

informerebbero sul divenire del sistema che li ha prodotti meglio dei ciechi prodotti del

sistema stesso. L’autore sarebbe, al limite, la linea difuga grazie alla quale il sistema non è chiuso, respira, ha una storia. (traduzione di Goffredo Fofi e Laura Pugno)

LA POLITICA DEGLI AUTORI

PRIMA PARTE: LE INTERVISTE

INTERVISTA CON JEAN RENOIR di Jacques Rivette e Francois Truffaut Un’arte provvisoria Prima di tutto, vorremmofarle qualche domanda sui suoi vecchifilm. Sappiamo che ha avuto modo di rivederne la maggior parte perfarli conoscere ai suoi attori, durante

la messa in scena di Orvet. Che impressione le hanno fatto? Be’, fa sempre piacere rivedere vecchi film, perché ormai i conflitti che hanno suscitato si sono spenti. Sono stati classificati, non c’è più niente da vincere o da perdere e, per

quanto uno cerchi di cucirsi addosso una corazza, non c’è dubbio che siamo tutti estremamente sensibili all’opinione pubblica - o perlomeno io lo sono - nel senso

dell’opinione che il pubblico, e la critica, hanno di not Noi registi siamo molto vulnerabili, e per questo fa bene rivedere film che hai un po’dimenticato. Ci sembrano nuovi, o

almeno li percepiamo come tali, come se avessimo appena finito di girarli, e senza

quell’angoscia terribile che viene dalla consapevolezza che il film che hai appena finito di girare sta per essere giudicato. Le resta l’angoscia di scoprire trasformazioni impreviste. Per esempio, il primo piano

di Simone Simon morta, nell’Angelo del male, si è perduto.

Ed è una cosa terribile. Siamo costretti a constatare, una volta di più - io

personalmente l'ho dovuto constatare ogni volta che ho rivisto un vecchio film - quanto siano fragili le nostre opere. Quando ho iniziato a fere cinema, pensavo che una delle

caratteristiche che rendevano il cinema superiore al teatro fosse il fatto di essere come un oggetto, dotato di qualità plastiche, capace di durare, come dura nel tempo un quadro, una statua, buona o cattiva che sia: non mi riferisco al valore artistico ma semphcemente alla durata nel tempo. E invece non è vero, il cinema non dura. Il cinema, adesso lo so, è

un’arte provvisoria proprio come il teatro, perché, nonostante gli sforzi incredibili e appassionati di molte cineteche, le copie vanno perdute o si deteriorano. Ad esempio, poco tempo fa sono riuscito a ricostruire La grande illusione così come l’avevo girato, grazie a qualche controtipo recuperato qui e là. Adesso abbiamo una copia

di buona qualità, è il film completo, tale e quale; ma si è trattato di un lavoro faticosissimo

e, comunque sia, il negativo originale, completo, è andato perduto. Non ha molta importanza, perché oggi si fanno controtipi di ottima qualità, ma essere riusciti a rimettere insieme tutto il film è stato un vero miracolo, e sarebbe bastato poco a compromettere il risultato. In America, ad esempio, mi sono reso conto che il Museo di

Arte Moderna possiede una copia piena di tagli, arrangiata alla beD’e meglio per le

necessità commerciali, e basta. Quando si sarà rovinata, non resterà più nulla, nemmeno un controtipo.

La carta e il marmo In realtà un film è qualcosa di provvisorio. Rivedere i miei vecchi film mi ha fatto cambiare completamente la vecchia concezione dell’eternità della nostra arte, del nostro mestiere, e l’idea che sia possibile assimilarlo alle arti plastiche. Un film è un po’ meno provvisorio di un articolo di giornale, ma di certo non è solido e durevole come un libro.

Anche un quadro sbiadisce: i colorì si modificano con il tempo e il pittore deve tenerne conto. È vero, ma per l’appunto i pittori ne tengono conto; i registi non ci pensano. Si crede

che il film, una volta uscito, una volta decisa la versione definitiva del montaggio, resterà

sempre com’è. E dal punto di vista meccanico è anche vero. Con il Technicolor, il film non cambia. Si possono continuare a stampare copie in Technicolor per secoli e secoli, e teoricamente

parlando saranno sempre le stesse. Il fatto è che sono i laboratori a scomparire, e poi ci

sono avvenimenti molto fastidiosi come le guerre, che fanno sparire un sacco di cose, distruggono molte vite umane e - ma questo è decisamente meno importante - anche molti film.

A dire la verità, sono arrivato persino a chiedermi - e da parecchi mesi - se tutte le opere umane non siano in fondo provvisorie: anche i quadri, le statue, le opere architettoniche, persino il Partenone. Quale che sia la solidità del Partenone, non ne resta

granché e non abbiamo idea di che aspetto avesse quando era appena stato costruito. E

comunque anche tutto quello che ne resta adesso è destinato a scomparire. Forse, a furia di fare iniezioni di cemento alle colonne, riusciremo a farlo durare altri cento, duecento, forse cinquecento, forse addirittura mille anni. Ma arriverà il giorno in cui il Partenone

cesserà di esistere. Mi chiedo se non sia in fondo un approccio più onesto verso quelle che continuiamo a chiamare opere d’arte tenere a mente che l’opera d’arte in sé è provvisoria e destinata a scomparire, e dato che, in fondo, tutto è relativo, non c’è poi una gran

differenza tra una costruzione in marmo massiccio e un articolo di giornale stampato su carta che non durerà che un giorno. E sono arrivato a chiedermi se la sola scusante

dell’opera d’arte non sia il bene che può fare agli uomini: intendendo per «bene» non l’esposizione di una teoria - conoscete il mio timore del «messaggio» - ma un certo grado

di partecipazione a quello che dovrebbe essere il lavoro di ogni uomo, e che è il vero

significato della cultura: il miglioramento dell’essere umano, in senso fìsico, morale, e soprattutto metafìsico.

Anche quando il Partenone sarà ormai interamente distrutto, ne resterà il ricordo.

L'idea di Partenone rimarrà, come anche l'idea di Fidia, di cui pure non si è conservata nessuna scultura. Ma certo. È per questo che mi domando se il ricordo, l’idea di un’opera non sia in fondo

più importante dell'opera in sé, e se, a sua volta, l’importanza di questa idea non si fondi sul bene che questa idea ha saputo fare agli uomini: un bene di cui è impossibile dare una

definizione, e che mi rifiuto di classificare. Mi rifiuto di fere affermazioni del tipo: «Questo è bene, questo è male». Ma il bene e il male esistono, non c’è dubbio. Esiste, è certo, una sorta di elevazione metafìsica: da che mondo è mondo, l’uomo ha tentato di

sfuggire alla materia e di entrare in una dimensione più spirituale, e questo suo tentativo è evidente: e secondo me, ogni opera d’arte che riesce a farti fare anche solo un piccolo

passo, anche pochi millimetri in direzione di questa spiritualità, è un’opera d’arte che ha dell’interesse.

Perché, anche nel caso in cui l’opera d'arte venga distrutta, il passo è statofatto. Sì. E poi si fanno anche passi indietro, e bisogna ricominciare: la storia del mondo è

cosi

Un litro di vino Leggendo la sua intervista su Le Monde, siamo stati colpiti dal pessimismo quanto meno apparente delle sue convinzioni sull’avvenire della cultura occidentale. Abbiamo ripensato a quello che scriveva cinque o sei annifa, quando ha girato II fiume: sembrava convinto che stessimo per entrare in un’epoca migliore, un’epoca di bontà. Continuo a credere nella bontà e a crederci completamente, ma mi chiedo se la bontà

sarà sufficiente a contenere i disastri prodotti nello spirito umano dal progresso materiale, che, dai tempi del Fiume, ha fatto passi da gigante.

A mio avviso, ad esempio, certi paesi, come l’india, vivranno tempi durissimi nel tentativo di assimilare un progresso che non rifiutano affatto - al contrario, sembra che

l’invochino a gran voce - e che rischia di radere al suolo la loro cultura, che si basa su principi, sentimenti e sensazioni del tutto opposti a quei principi e a quelle sensazioni che

vanno d’accordo con il progresso meccanico, fisico o chimico.

Si ritorna, ancora una volta, all'eterno conflitto tra lo spirito e la materia, e sembra che qualche spirito malvagio voglia distruggere nell’uomo tutti i tentativi fatti per liberarsi

dalla materia, dato che, in principio, il progresso dovrebbe liberarci stornando da noi una gran quantità di incombenze materiali. Il progresso ci solleva dalla fatica di accendere il

fuoco come prima cosa al mattino, o di farlo accendere a qualcun altro; al giorno d’oggi

basta premere un pulsante e il riscaldamento elettrico compie egregiamente il suo dovere. Pare che d sia una specie di legge che fa sì che ogni passo che sembra allontanarci dalla

materia ci riporti poi di nuovo a lei, in modo tortuoso, e più vicino di quanto non ce ne

fossimo allontanati. A mio avviso, il problema principale, il più importante problema del nostro mondo, è il problema della diffusione: è il modo in cui concepiamo la diffusione a fard rischiare di sprofondare in una vera catastrofe, tanto che ci si arriva a chiedere se l’idea della massa che è stata la nostra religione - l’idea, diciamolo pure, del suffragio universale, in arte come in politica - se questa idea della massa non debba, insomma,

essere in qualche modo rivista, o quanto meno impiegata in un altro modo, perché nel modo in cui ce ne stiamo servendo adesso, non significa altro se non una risuddivisione di certe risorse. Prendiamo ad esempio un litro di vino: se è destinato a essere bevuto da tre

o quattro persone, è un qualcosa di forte, di generoso: ma se quello stesso litro di vino vogliamo dividerlo tra mille, dovremo allungarlo con l’acqua, e non saprà più di niente. E

dovremmo chiederci se anche per l’idea della diffusione le cose non vadano più o meno allo stesso modo.

E poi, allo stesso tempo, il mondo si va concentrando intorno a conventicole di specialisti. È ormai chiaro che al giorno d’oggi la fìsica atomica - che è la grande

questione - si trova nelle mani di pochissime persone e, anche se queste poche persone dovessero andare in giro a raccontare tutto ciò che sanno, la gente non le starebbe a

sentire e nemmeno capirebbe quello che dicono. Può darsi quindi che si faccia ritorno all’esoterismo egiziano, che, d’altra parte, non ha dato poi una cori cattiva prova di sé,

dato che l’Egitto è andato avanti per cinquemila anni e ha costellato le rive del Nilo di non

pochi capolavori. 0 anche al Medioevo... ...che pure aveva una cultura di tipo esoterico. Comunque sia, quando mi permetto di

far udire un’eco pessimista, penso soprattutto alla tradizione culturale a cui appartengo, che è quella del Rinascimento. Sono passati secoli, abbiamo distrutto la tradizione culturale medioevale, e forse abbiamo fatto male: il Medioero era una gran cosa. 0 forse,

chissà, non abbiamo aroto torto, dato che non si può mai distruggere nulla, e le cose si distruggono da sole, gli elementi distruttivi si trovano all’interno degli individui e dei

gruppi, che sono composti da individui. Ci raccontano che la Rivoluzione Francese e il popolo, nel 1789, hanno abbattuto la monarchia, ma non è così: la monarchia si è abbattuta da sola, perché aveva in sé i germi

della propria distruzione. Con il Medioevo dev’essere successa fa stessa cosa. Il Medioevo è stato rimpiazzato dallo stato di cose in cui viviamo adesso, e in cui sono cresciuto io, che

consiste nel suddividere il mondo in nazioni non troppo grandi e di lingua diversa, e nel

dare a ciascuna di esse fa possibilità di avere una propria forma di espressione artistica,

letteraria, musicale e umana, piuttosto appassionante.

In altri termini, questa tradizione culturale, che ha originato Mozart e anche mio padre, mi sembra in pericolo, e il mio pessimismo nasce da queste constatazioni. Mentre l’altro polo, quello della bontà, sarebbe al di là...

Il polo della bontà si trova al di là di questa constatazione, perché, comunque sia, resto

convinto del fatto che l'umanità ce fa farà. A che cosa stiamo assistendo, in questo momento? A un nuovo tentativo di costruzione della Torre di Babele. E costruirla, la

Torre di Babele, non dev’essere stato affatto male: parlavano tutti fa stessa lingua, d si

capiva a perfezione. E forse assisteremo proprio a questo: ma prima di arrivare alfa posa della prima pietra dì questa nuova Torre di Babele, temo che ti saremo già messi nei guai. Del resto, non sono il solo a pensarla così, è quello che pensiamo tutti.

La natura cambia Ritorniamo al passato. Prima della guerra, aveva scritto un articolo rimastofamoso

in cui affermava di considerare Nana il suo primofilm. La pensa ancora così? Sì, continuo a pensarla così. Nana è stato il primo film che mi ha fatto scoprire che non si può copiare la natura ma che bisogna ricostruirla, che ogni film, ogni opera che abbia

delle pretese artistiche dev'essere un atto di creazione, buona o cattiva che sia. E poi ho scoperto che era meglio inventare, creare, anche qualcosa di cattivo, piuttosto che contentarsi di copiare la natura, per quanto brillantemente uno sia capace di farlo. C’è un abisso tra La Fille de l’eau e Nana, ma non si può certo dire che La Fille de l’eau

sia unfilm realista o naturalista. Stava già cercando qualcos'altro. È verissimo. È stato proprio dall’esame di questo mio primo lavoro, una volta realizzato, che mi è sembrato di poter trarre degli insegnamenti Mi è sembrato di capire che le parti del film in cui ero stato miglior regista erano proprio quelle in cui mi ero allontanato dalla riproduzione esatta della natura. Per natura non intendo soltanto gli

alberi e le strade, ma gli esseri umani e tutto il resto, tutto il mondo. Quello che abbiamo deciso di chiamare realismo è stato, almeno in parte, una comodissima fonte d'ispirazione per noi francesi, negli ultimi centocinquanfanni. Ma questo realismo non è affatto

realismo, è solo un altro modo di rendere e di tradurre fa realtà. Sono del tutto convinto che fa tecnica di riproduzione del reale di un Zola o di un Maupassant fosse tanto complessa ed elaborata quanto quella di un Marivaux. Per esempio, dalla mia infanzia in

poi, ho visto cambiare completamente l’aspetto delle colline, in Borgogna, semplicemente perché le nuove vigne sono state piantate in maniera tale da poter essere lavorate con un

piccolo aratro meccanico: tutte dritte, con i vitigni appoggiati a un’anima di fìl di ferro, invece che tutti in disordine. E così il paesaggio è cambiato completamente. Sono stati anche adottati nuovi metodi di rimboschimento. L’aspetto della natura, in Francia, è

cambiato notevolmente dai tempi di Luigi Filippo in poi, pervia di queste nuore tecniche di fertilizzazione dei terreni. Per esempio, c’è un albero che oggi è molto comune in Francia e che allora non c’era o era rarissimo: il pino. Luigi Filippo ha fatto piantare pini

nelle Lande, nella foresta di Fontainebleau, che prima era una zona brulla. In questo modo, l’aspetto naturale di un paese può cambiare notevolmente. E per questa ragione, a sopravvivere, dell’opera di un artista, non sarà la parte che copia la natura, dato che la

natura stessa è mutevole e provvisoria: ciò che vi è di eterno nell’artista è fa sua maniera di assorbire la natura e, come dicevamo all’inizio di questa nostra breve conversazione, ciò che della sua opera sarà utile agli uomini, ciò che la sua opera apporterà all’umanità

attraverso questo lavoro di copia, 0 anzi di ricostruzione, della natura. In realtà, spesso mi diverto a tirare fuori un paradosso, e mi ci diverto perché il pubblico protesta e lo trova

insostenibile, e forse ha anche ragione. Mi diverte sostenere che tutta la grande arte sia astratta, che Cézanne, Renoir 0 Raffaello siano astrattisti, e che non si possa giudicare il

loro valore sulla base di un criterio di somiglianza delle loro opere ai modelli ai quali si

sono ispirate. D’altro canto, non credo che si possa affermare che tutta la grande arte è soggettiva Per l’artista, credere che il suo lavoro sia puramente soggettivo è una cosa molto pericolosa. È un concetto che ho ripetuto spesso. I grandi artisti sono sempre stati assolutamente convinti di essere oggettivi, di non essere che copisti della natura, ma la

forza della loro arte era talmente grande che, loro malgrado, finivano sempre col fare il

proprio ritratto e non quello di un albero.

Mentre ipittori che sin dall'inizio vogliono essere astratti rischiano di commettere un peccato contro lo spirito. Sì, molto spesso finiscono col creare qualcosa di arido, e col non mostrarsi affatto nella

propria opera, proprio perché, volendo trasparire da essa, cominciano a nascondersi a se

stessi, a farsi una certa idea di quello che sono. Un ritratto fedele non può essere che inconsapevole. Deve succedere quello che succede quando si paria di fotografia. Se

qualcuno ti dice: «Adesso ti faccio una foto», ti metti subito in posa, prendi

un’espressione artificiosa e la foto finisce col non somigliare affatto all’originale. Se non siamo consapevoli del fatto che ci stanno facendo una fotografìa, spesso fa foto viene

bene, ed è anche somigliante.

La passione dei contrasti Dal punto di vista commerciale, Nana è stato un fallimento?

Nana è stato un fiasco totale. Dopo Nana ho fatto alcuni film molto commerciali e devo confessare di non averli più rivisti. Sono scomparsi.

Marquitta è andato perduto, ma abbiamo avuto modo di vedere Le Bled e Le Toumoi dans la citò, quest'ultimo in una copia, a quanto pare, incompleta. Ci è sembrato che le

interessassero soprattutto i problemi di tipo tecnico. Sì, adesso ricordo. All’epoca di Toumoi, ero fissato con l’ubicazione della macchina da

presa e i movimenti di macchina. Per la scena del banchetto, avevo fatto costruire un marchingegno che aveva lasciato stupefatti tutti i miei collaboratori, i produttori e i tecnici: una specie di tavola o di pianale issato su un sostegno verticale a rotelle. La macchina da presa era stata sistemata lì sopra, abbastanza bassa per essere al livello dei

piatti e delle candele sulla tavola, mentre ai lati il pianale si rialzava per poter passare sopra le teste dei convitati, senza rovinare l’acconciatura delle signore. Per Verso la vita

avevo utilizzato un apparecchio simile.

Anche in Le Bled abbiamo avuto molte difficoltà tecniche che siamo riusciti a risolvere

solo perché ci trovavamo in Algeria: le riprese sono state lunghissime. Ho dovuto lavorare moltissimo per quel film. Abbiamo dovuto costruire un percorso per il carrello attraverso le vigne servendoci soltanto di assi di legno, e a dire il vero è venuto molto bene. In questo

modo ho avuto l’opportunità di conoscere le persone che facevano quel genere di lavori. Era un gruppo di arabi capitanati da una specie di caposquadra che credo avesse, nel suo

villaggio, una qualche carica religiosa. Era un’équipe veramente deliziosa, composta da

persone piacevolissime. Tire-au-flanc è stato molto maltrattato dagli storici del cinema. Di solito viene

presentato come uno dei suoi pochifilm a carattere esclusivamente commerciale. Noi

abbiamo avuto invece la sorpresa di trovarci davanti unfilm di altissima qualità, un film libero e selvaggio...

Quando ho girato Tire-au-flanc avevo già realizzato Le ToumoL Nel girare Tire-auflanc ero più padrone dei miei mezzi, cominciavo ad avere un’idea di dove stavo andando.

Non lo sapevo ancora con certezza, dato che non lo si sa mai con certezza - ancora adesso

non lo so - ma, insomma, avevo un’idea della direzione. Cominciavo a capire che non potevo fasciare liberi certi lati del mio carattere senza scioccare troppo il pubblico. Ho un certo gusto del paradosso e sapevo che potevo lasciarmi andare a questa mia passione. Sapevo anche di potermi abbandonare alla mia passione per i contrasti, senza

sentirmi obbligato a creare sempre passaggi eleganti e armoniosi E a dire il vero è un film con motti contrasti: un po’ troppo triste, un po’ troppo

allegro... L'idea difare Tire-au-flanc è stata sua, ole è stata suggerita? Non ricordo più bene. So che eravamo un gruppo di amici e che volevamo lavorare

insieme. C’era anche Braunberger con noi. Avevamo scelto Tire-au-flanc perché ci dava la possibilità dì fare qualcosa di divertente, e poi, dato che si trattava di un titolo molto

conosciuto, sarebbe stato facile venderlo. Va sempre così con i film. Non bisogna credere che si decida di fare un film per ragioni puramente artistiche, sarebbe un errore. Si tratta

comunque dì un prodotto che bisogna vendere, per cui hanno un peso anche considerazioni di altro genere. Credo che lasciarsi trascinare a fare un film da cui non ci si

sente affatto attratti sia un errore, ma è ugualmente un errore accanirsi a fare un film assolutamente privo di interesse commerciale. Bisogna pure che il pubblico vada a

vederlo, altrimenti perché farlo?

È stato detto che le riprese di questofilm furono in larga parte improvvisate... Più che improvvisate... Un’altra ragione per fare questo film era la mia ammirazione per un ballerino di nome Pomiès. Non era solo un bravo ballerino, era un uomo molto

perbene, quasi un asceta nella vita, un vero altruista. Pomiès era un uomo che aveva fascino, ed è stato in gran parte a causa sua che ho girato Tire-au-flanc.

E poi c’era Michel Simon... Ma certo! Michel Simon è un attore per cui provo qualcosa di più che una semplice ammirazione: sembra il teatro o il cinema incarnato. È un personaggio incredibile, con un talento incredibile. E poi, sapete, io sono stato molto fortunato in vita mia: quello che vi sto dicendo di Michel Simon potrei dirlo, ad esempio, anche di Gabin. In Francia abbiamo

personaggi come questi che sono stati inventati unicamente per permetterci di fare del grande cinema.

Adoro Andersen Durante il suo periodo muto lei ha girato anche un altro film importante, La Petite

marchande d’allumettes. Sì, l’ho girato, anzi, l’abbiamo girato al Vieux-Colombier con Jean Tedesco. Ci facevamo da soli la corrente elettrica. Avevamo acquistato il motore di un’automobile Farman che aveva avuto un incidente e lo raffreddavamo con l’acqua del rubinetto. E ci siamo creati

da soli anche le lampade, o meglio i portaferri pade, i riflettori. Devo dire che il personale

della Philips ti ha dato una grossa mano. La Philips si interessava al nostro film perché in

quel periodo il cinema, in tutto il mondo, si faceva in ortocromatico, mentre La Petite marchande d’allumettes è in pancromatico: ci servivamo di questo nuovo standard solo per gli esterni, perché il pancromatico richiede una luce di un certo tipo, e le lampade ad

arco non erano sufficienti e nemmeno le Mercure, che servivano di solito per l’illuminazione in studio. Nessuno aveva ancora pensato ai riflettori. Ho girato anche Le Bled e Le Toumoi con un’attrezzatura fabbricata al Vieux-Colombier, che consisteva in una specie di telaio di legno. Tre pezzi di legno, uno in basso, due sui lati, di altezza variabile tra il metro e mezzo e i due metri e mezzo, con un peso in basso per far stare

dritto il tutto e, dietro ai tre montanti, del ferro bianco che a\-evamo comprato e che serviva da riflettore. Lo tagliavamo con delle forbici per i metalli e lo fissavamo con i chiodi. Seguendo i consigli della Philips, ci eravamo fabbricati da soli le resistenze con del

filo di ferro che arrotolavamo a mo’ di cavatappi intorno a un sostegno. Poi abbiamo fatto delle prove. Ho avuto la fortuna di avere tra i miei collaboratori un tipo che si chiamava Raleigh,

come Sir Walter Raleigh, quello che ha importato il tabacco in Inghilterra. Questo Raleigh era stato uno dei primi a lavorare in laboratorio a Hollywood, proprio agli inizi. Adesso è

morto, purtroppo. Era un mio carissimo amico e sento molto la sua mancanza. Raleigh abitava a Parigi, aveva dei risparmi e una casetta a Neuilly, era un signore molto anziano. Viveva a Parigi perché preferiva il modo in cui i francesi trattavano le donne, gli sembrava migliore, più logico. Non amava il modo in cui trattavano le donne nei paesi anglosassoni, e per quella ragione si era trasferito a Parigi. Abbiamo costruito il nostro laboratorio nella

cucina della casa di Raleigh, montando tendaggi neri e tutto il resto. Abbiamo costruito alcune vasche di legno con un’intelaiatura: del resto, è molto facile. E così, abbiamo potuto sviluppare La Petite marchande d’allumettes nella cucina di Raleigh. Poi abbiamo fatto le prime stampe con una vecchia cinepresa. Sono venute fuori ottime copie, e solo

allora abbiamo affidato il film a un laboratorio. Anche le scenografie sono state dipinte sul posto. È stato il solo tentativo di lavoro davvero artigianale che io abbia compiuto in vita mia, ed è stato fatto insieme a un gruppo di tecnici che si divertivano a risolvere quel genere di problemi. Eravamo tutti veramente entusiasti e molto felici.

Dev'essere stato divertente...

Ah, è stato meraviglioso, appassionante, e tanto più appassionante perché i risultati

erano davvero belli. La fotografìa del film era una novità, c'erano dei toni di grigio che non era possibile ottenere in ortocromatico, e noi ne eravamo deliziati.

Ma lei non ha scelto la storia della Petite marchande d’aDumettes solo perché le avrebbe permesso difare questo genere di esperienza...

Quella storia è stata scelta per due ragioni. In primo luogo, amo moltissimo Andersen e anche adesso, se potessi, girerei volentieri un film tratto da una sua favola. Non lo faccio

perché il modo in cui girerei io un film del genere probabilmente non piacerebbe alle persone che potrebbero avere un interesse commerciale in questo tipo di film. Ma,

altrimenti, se potessi girare, ad esempio, delle storie come I quattro venti... Ricordate la favola? C’è una strega che abita in una grotta su una montagna. I suoi figli sono i quattro venti: il vento dell’ovest, il vento del Nord, il vento del Sud... tornano a casa carichi dei

profumi di tutti i paesi che hanno attraversato, e la madre è molto severa con loro, li rimprovera, li picchia quando si comportano male. È una storia meravigliosa. Adoro

Andersen. E poi, in secondo luogo, un film con effetti speciali si può girare anche in studi di produzione di dimensioni molto limitate. Con gli effetti speciali, i trucchi, personaggi di dimensioni superiori al normale, anche in un piccolo spazio si può realizzare un film che

pretende di essere di più di quello che è. Eravamo veramente affascinati dagli effetti speciali Oggi è ancora più focile, perché i procedimenti di laboratorio e la qualità dei

controtipi permettono di modificare i frammenti di pellicola e di aggiungere qualsiasi cosa, mentre allora bisognava girare direttamente. Bisognava mettere una mascherina e

sapere esattamente che cosa avremmo messo dall’altra parte, sul lato nascosto.

Ma, allo stesso tempo, al giorno d’oggi gli effetti di laboratorio sono molto meno impressionanti rispetto a quelli che si ottenevano una volta... È vero, è molto curioso, ma in fondo era proprio questo l’argomento della nostra

conversazione all’inizio dell’intervista, non è cori? Prima mi parlavate del mio atteggiamento pessimista, e io ho cercato di rispondervi, ma mi sono dimenticato di fore un confronto, per quanto riguarda il cinema. Si può anche

affermare che il progresso tecnico non ha arrecato alcun beneficio al cinema. Non so se gli abbia arrecato danni. Forse danni no, ma nemmeno beneficL Non penso che si possa pretendere che 11 giro del mondo in ottanta giorni sia migliore di Chariot soldato, per

esempio.

n gusto del giocattolo La Petite marchande è stata la sua sola esperienza completa nel campo degli effetti speciali?

No; d’altro canto, io ho cominciato a fore cinema proprio per amore degli effetti

specialt All’inizio, non avevo affetto l’intenzione di scrivere, o di essere un autore, di inventare delle storie. La mia vera ambizione era fere gli effetti speciali, e sin dall’inizio ne

ho realizzati non pochi. Nella Fille de l’eau?

Anche nella Fitte de l’eau. In Marquitta, ad esempio, mi era venuta l’idea (è strano, si è

sempre in tanti ad avere la stessa idea tutti insieme: credo che ci avesse pensato, proprio in quel momento, anche Schuftan, in Germania, ma non sapeva di me come del resto

nemmeno io sapevo di lui) di rappresentare un angolo di strada, all’esterno, con la metropolitana. Abbiamo ottenuto quest’effetto grazie a degli specchi di cui avevamo

raschiato il retro lasciando giusto lo spazio per i personaggi, mentre le scenografie, che

erano dei modellini, si riflettevano nella parte di specchio rimasta. Mi sono sempre divertito molto con questo genere di trucchettì. È davvero appassionante. Solo che non si

va oltre il gusto del giocattolo, e a mano a mano che si diventa sempre più bravi nd proprio mestiere si diventa anche sempre più ambiziosi, e il lato «giocattolo» della

professione diverte sempre meno. Oggi avrebbe ancora voglia difare un film tutto basato sugli effetti speciali?

Certo che sì. C’è un mio amico, del resto, un mio collaboratore, che ci si è dedicato completamente: è Lourié. Ha fatto un film in cui si vede un mostro marino che sta per divorare New York, e adesso sta per realizzare un altro mostro marino, a meno che

stavolta non sia un uccello mostruoso, che sta per divorare Londra, credo... L’emozione che si prova quando si gira un film realizzando qualcosa di nuovo con elementi piccolissimi, con oggetti che si hanno sottomano, è davvero appassionante: il gusto che si prova nel fotografare una scatola di fiammiferi e farla passare per un grattacielo... È uno

degli aspetti più divertenti del nostro mestiere. C’è un personaggio che conosce questo lato del mestiere a perfezione e che io ammiro moltissimo: è Man Ray. È incredibile quello che riesce a fare con la macchina fotografica. Il suo lavoro mi piace moltissimo.

Una cosa che pure riesce sempre ad appassionarmi, quando giro a colori, è creare degli

effetti speciali con la natura. Nel Fiume, ad esempio, con Lourié, che cosa non abbiamo

combinato con i colori, con la vegetazione, gli alberi del Bengala! Ce ne andavamo in giro con dei grandi barattoli di vernice e cambiavamo completamente la sfumatura di verde!

Anche in Eliana e gli uomini ci sono inquadrature truccate: il tramonto con i

braccianti... Certo, è chiaro...

È così bello che sembra quasi vero. Anzi, viene da dire: *È troppo bello per essere vero». L’effetto tramonto è venuto perfettamente, e prima, con Claude [Renoir, l’operatore, n.d.c.], ci siamo divertiti come pazzi a fere un’illuminazione con le luci rosse. Abbiamo

sistemato direttamente le lampade rosse in studio, con tutti intorno che ci dicevano: «Ma è una pazzia!» Certo, certo, è una pazzia. Ma poi, dopo... Speriamo che anche questo film sia una pazzia.

È il caso anche di Lola Montès di Ophuls. Non l'ho ancora visto. Speravo di vederlo in America...

Ma la versione americana sarà probabilmente terribile... Faranno quello che hanno fatto con Eliana, un vero massacro. Hanno rimontato tutto il film e hanno addirittura girato un inizio e una fine con Mel Ferrer. Non so nemmeno

come siano quelle scene, non ho voluto vedere il film. Queste cose non le sopporto, è stato

un brutto colpo, per me! Credo che tutto questo si spieghi con il timore che il pubblico

non capisca il film, e immagino che l’inizio e la fine abbiano un carattere esplicativo. Il film è uscito in America nel momento in cui Ingrid Bergman aveva appena ricevuto

l’Oscar per Anastasia. Il pubblico, secondo gli agenti pubblicitari, voleva da lei storie

sentimentali e dato che Eliana non è un film sentimentale hanno cercato di modificarlo,

di scusarsene in qualche modo. H fatto è che le storie sentimentali non mi interessano affetto.

L’epoca degli Hoff Quello che è successo a Eliana in America mi ha depresso al punto che per sei mesi non

sono stato più in grado di andare al cinema e di guardare un film. Ci sono rimasto malissimo.

L'America fa scherzi strani... Non è l’America, pensateci: è il mondo della produzione, il mondo del cinema. In fondo,

non si può dare la colpa a nessuno. Ne Le Grand couteau, ad esempio, Hoff, il produttore, mi stava molto simpatico. Difendeva il suo punto di vista e lo difendeva molto bene. Quando diceva: «Ho fabbricato questi studi con le mie mani», era vero: aveva fabbricato quegli studi con le sue mani, e probabilmente erano molto belli e vi si producevano film

più che dignitosi. Ne sono convinto. Ma il fatto è che si tratta di un insieme di circostanze. Improvvisamente qualcuno dice: «Ah, scusate, ma si tratta di una commedia, di una satira alla francese, forse bisognerebbe dare delle spiegazioni». E per dare queste

spiegazioni si aggiunge una scena. Non so come sia potuto succedere tutto dò, io non c’ero, ma Eliana è stato completamente rovinato, ed è un vero peccato perché è un film

che avrebbe potuto avere molto successo in America. La colpa è dell’incapacità di chi ci ha messo le mani. Didamo pure che l’epoca degli Hoff è finita, ormai; oggi i produttori non hanno più passione per il cinema. Mettiamo che a qualcuno come Thalberg fosse stato

presentato Eliana: poteva rovinarlo completamente, vale a dire cestinarlo, o, al contrario, abbondare a modo suo, for aggiungere ancora altre cose, nello stesso spirito. Oggi, al contrario, si tende a minimizzare, a fere prodotti di gusto medio. Va di moda la cucina

insipida. All’inizio si fa tutto solo per pubblidtà. Ci si deve poter dire: «Faremo un film che darà

scandalo». Così prima si riescono a trovare i soldi, e poi s’incuriosisce il pubblico. A questo punto, però, in genere, il produttore si mette paura. Si crea il panico, e di questo particolare tipo di panico non si può incolpare nessuno. È il nostro tempo che vuole

questo, non è un periodo di coraggio artistico. Anche il pubblico in qualche modo ne è responsabile, dato che il cinema è il risultato della collaborazione di molti, pubblico compreso... Vedete che le sfumature pessimistiche che vi era sembrato di cogliere

nell’intervista che ho rilasciato a Le Monde non erano poi esagerate... Ma è anche possibile che il pessimismo di quest’intervista non sia che il frutto degli ultimi sussulti,

degli ultimi spasimi delle mie disavventure con Eliana. Non siamo fatti di acciaio

inossidabile, siamo fatti di carne, di ossa e di nervi, e siamo influenzabili. Personalmente,

io sono molto influenzabile, e il fatto di vedere un film a cui tenevo moltissimo - per il quale avevo lavorato moltissimo, ed era stato girato in circostanze difficilissime, sia dal punto di vista fìsico sia da quello morale, perché sono stato esigentissimo... - e poi, dopo

tanta fatica, vedere la versione inglese completamente rovinata, non è certo un’iniezione

di ottimismo. Hanno voluto far rientrare Eliana a forza in una categoria, e parlare di categorie significa parlare di meccanizzazione. Prima che venissi a sapere che il film era

stato «riaggiustato» e che la critica americana non gli avrebbe riservato un’accoglienza favorevole, docenti universitari mi avevano detto: «Se si tratta di una commedia, e se non è stato interpretato da attori spedalizzati in questo genere di film, probabilmente riceverà

una cattiva accoglienza, perché oggi ben poca gente ha immaginazione sufficiente per accettare che un attore interpreti un ruolo diverso dal solito». D’altra parte, dobbiamo

abituarci a vivere in una sodetà meccanizzata, o non riusciremo a sopravvivere. In

macchina, bisogna fermarsi ai semafori rossi, altrimenti ci si fa ammazzare. I semafori rossi sono veramente odiosi. Per me, i semafori rossi sono il simbolo di tutto quello che non mi piace della nostra dviltà contemporanea. Scatta il rosso e tutti si fermano, come se

qualcuno gli avesse dato un ordine. Diventano tutti dei soldati che marciano al passo, poi c’è un ufficiale che dà l’alt, e tutti fanno alt! Scatta il semaforo rosso, ed ecco che tutti si

fermano. Per me è un insulto. Eppure, bisogna accettare questo stato di cose, perché passare col rosso equivarrebbe, con tutta probabilità, a farsi ammazzare... È questo che bisogna cambiare. Quelli come me, nati in un’epoca in cui una certa sregolatezza fìsica era ancora permessa, trovano molte difficoltà ad adattarsi Ma parliamo d’altro.

Parliamo allora dell’arrivo del sonoro. Il sonoro è arrivato durante le riprese della Petite marchande d'aUumettes, e non è stato affatto un bene per il film, alla sua usata. La Petite marchande d’aUumettes non ha avuto fortuna. La produzione che aveva fatto uscire il film ha voluto fare ima spede di

sonorizzazione musicale che esiste ancora, ma il pubblico voleva che gli attori parlassero, che aprissero la bocca e ne uscissero dei suoni. La Petite marchande è stata stroncata

dall’arrivo del sonoro. Il suo primofilm sonoro è On purge bébé.

C’è un attore formidabile in quel film, che è Femandel. L’intera produzione era

contraria. Lui non l’ha dimenticato, e ogni volta che m’incontra viene a stringermi la mano e mi dice: «È stato lei a farmi debuttare». Le riprese sono state velocissime...

Sì, è vero. Io ho girato quel film per una ragione fondamentale, molto semplice: volevo

girare La cagna, che era un film con un certo budget Gli ultimi film che avevo fatto erano sullo stile di Le Bled, di Toumoi dans la àté, dei film dalle riprese molto lunghe.

Bisognava dunque che dessi prova della mia rapidità agli studi Braunberger-Richebé. Il film era tratto da una pièce di Feydeau, una commedia divertentissima. Ho dovuto

scrivere la sceneggiatura in una settimana. Ho girato il tutto in meno di una settimana, in quattro o sei giorni II film è stato montato in una settimana. Insomma, a tre settimane

dall’inizio, era già in programmazione all’Aubert Palace, e alla fine della quarta d aveva già procurato degli incassi...

Questo tipo di operazione non è più possibile oggi...

No, ed è un vero peccato. Innanzitutto, si sta troppo tempo a discutere. La qualità di un

progetto viene esaminata per mesi e mesi, a volte anni Col risultato che l’ispirazione muore, e con essa quella spontaneità che permette di girare improvvisando...

Ero molto soddisfatto di On purge bébé. Essendo stato girato in fretta e furia, era un po’

carente per quanto riguarda i primi piani, la varietà delle riprese, questo sì. A volte avrei

voluto spaziare un po’ di più con la macchina da presa, ma per poter girare trenta o quaranta scene al giorno dovevo pormi dei limiti. Ma andava bene cori, ero molto contento. E poi, e questa era la cosa che mi dava più soddisfazione, era un film con ottimi

attori, recitato benissimo. Ha fatto esperimenti anche con il sonoro? Certo. Devo aver raccontato almeno un migliaio di volte l’esperimento che abbiamo fatto con lo scarico dell'acqua nelle toilette, che mi ha fatto subito passare per un grande artista. Prendere il microfono, recarsi sul posto e tirare l'acqua... sembrava una grande

idea, un’innovazione quasi scabrosa. E d’altra parte, rendetevi conto che era molto più

difficile di quanto non si potesse pensare, perché il missaggio non esisteva ancora. Serviva un secondo microfono, un segnale luminoso, e aver studiato prima la densità del tipo di

rumore prodotto dallo scarico in questione, in modo tale da creare il tappeto sonoro direttamente durante le riprese. Eh già... All’epoca, anche quando c’era la musica, veniva

registrata in studio, contemporaneamente alle riprese. Neanche quando ho girato La

cagna era stato ancora inventato il missaggio. Per quel film ho avuto dei problemi al

montaggio, e questo spiega i difetti del sonoro nella scena della canzone: il sonoro

registrato in strada, con dei rumori bellissimi, i clacson e tutto, e che si sentiva venire dal basso, dalla strada, è andato perduto.

Un piccolo scarto Il successo di On purge bébé le ha permesso di girare La cagna con grande libertà di

movimento? Con la massima libertà.

È stato solo in seguito die le cose hanno cominciato a peggiorare? Sì. La cagna ha avuto dei problemi di distribuzione. Il pubblico non ne voleva sapere, e questa era la cosa più fastidiosa. Le prime proiezioni, a Nancy, avevano avuto un esito

disastroso. Credo che il pubblico in sala abbia addirittura distrutto le poltrone. Il film è rimasto in cartellone due giorni La produzione aveva deciso di farlo uscire a Nancy prima

che a Parigi, e a salvarmi, dico sul serio, in quella circostanza, è stato Siritzki, un esercente

che era il proprietario di parecchi cinema in provincia, tra cui due a Biarritz (il Marivaux e

il Max Linder, dove hanno dato Verso la vita, non c’erano ancora). Io ammiravo molto Siritzki per una ragione che non aveva niente a che vedere col cinema: perché era stato un

marinaio della marina turca. Essere stato marinaio nella flotta turca era una cosa

straordinaria. Era un uomo di una forza enorme. Con un martello da fabbro e un’incudine

riusciva a fare cose eccezionali, e facendo uscire La cagna quando nessuno sembrava

volerne più sapere mi ha veramente salvato. Ha fatto uscire il film nel suo cinema di Biarritz con una campagna pubblicitaria molto intelligente che diceva: «Non venite a vedere questo film, è orribile». Naturalmente tutti sono andati a vederlo e per la prima volta nella storia del suo cinema è riuscito a tenere un film in programma per tre

settimane invece che per quattro giorni, e la cosa si è risaputa a Parigi Allora, Jacques

Haik, il proprietario del Colisée, mi ha fissato un appuntamento e mi ha detto: «Senta, Jean Renoir, se ai suoi produttori va bene, io sono disposto a proiettare il suo film». È andata così ed è andata bene, anzi, il film è stato anche un grande successo.

E allora, com’è potuto succedere che dopo La cagna le cose per lei si siano fatte molto diffìcili?

Nella mia vita i periodi difficili non sono mai mancati. Questa è sempre stata la regola, per una ragione molto semplice - anzi, non poi così semplice: credo che la vera ragione sia il fatto che i film da me prodotti e girati non lo sono mai al momento esatto in cui

dovrebbero esserio. C’è sempre un piccolo scarto tra il mio lavoro e quello che pensa l’opinione pubblica. I produttori se ne accorgono e si dicono: «Non bisogna

commissionare altri film a questo tizio, perché magari farà anche cose bellissime, ma poi ci saranno sicuramente difficoltà per la distribuzione». È così, e dato che La cagna aveva

avuto grosse difficoltà di lancio, e anche il successo era arrivato solo dopo mesi e mesi di

problemi, di lotte e trattative, i produttori non si sentivano certo incoraggiati a commissionarmi altri film. Adesso poi c’è anche un’altra ragione, che è stata data da René

Clair, e alla quale io credo ciecamente, perché René Clair è uno splendido analista dello stato di cose del cinema nella nostra società. Clair sostiene che il successo economico non viene mai perdonato ai registi. Sostiene che il solo modo di avere incarichi buoni e ben pagati, con un ottimo stipendio, è fare film che siano un completo fiasco al botteghino.

Allora tutti si precipitano da voi e vi coprono d’oro: il fallimento li incanta, è una cosa che adorano. E difatti, l’esperienza di Eliana mi ha fatto un gran bene. Le sue disavventure

americane mi hanno fatto stare malissimo, ma paradossalmente, in America, i produttori

sanno benissimo che certi errori pubblicitari non possono essere imputati a me, e da allora ho sentito come una corrente di simpatia commerciale verso di me, di cui forse non sarei nemmeno capace di approfittare, ma che è forte e palpabile. In questo momento, se

sapessi che cosa voglio fare, mi sarebbe molto facile trovare i mezzi per girare un film.

La cucina di Lucullo La cagna era un film a cui teneva molto?

Volevo fare quel film per le stesse ragioni per cui ne ho fatti molti altri: per via della mia grande ammirazione per Michel Simon. Pensavo che, nel ruolo di Legrand, Simon sarebbe stato prodigioso. Ho rivisto il film neanche tanto tempo fa, ne ho una copia in 16

mm che ho prestato a certi amid Questo film ha rappresentato una svolta netta sua carriera.

Sì e no. In realtà era da molto tempo che pensavo a una storia del genere. Non ero ancora riuscito a portarla sullo schermo, ma a dire la verità sono certo che anche in Nana ci siano delle cose che preparano La cagna. Ci sono questi strani pallini, questi amori

segreti per certe forme d’espressione e addirittura per certe forme fìsiche. Per quanto riguarda Michel Simon, sognavo di vederlo sullo schermo con certe espressioni, con la

bocca atteggiata in un certo modo: volevo riprenderlo con quella specie di maschera che è altrettanto appassionante delle maschere della tragedia antica, e sono riuscito a realizzare questo mio sogno. Vi chiedo scusa per la digressione, ma ho appena letto un articolo a proposito

dell’anteprima del Grand couteau, in cui un giornalista dichiara di aver notato uno spettatore che bisognerebbe invitare a tutte le anteprime, perché si divertiva tantissimo,

ed ero io. Ma questo giornalista, che mi fa la cortesia di descrivermi in questi termini, di

certo non sa una cosa, e cioè che io mi diverto sempre. Se non mi divertissi, non farei questo mestiere. È chiaro che, per me, il fatto di vedere i miei attori proprio come sognavo di vederti

recitare nella mia immaginazione, è una cosa divina, è semplicemente il paradiso. Non vedo perché mai non dovrei trarre la mia felicità da questo spettacolo. Potrei citare a quel giornalista una firase, certamente apocrifa, di un generale romano che ammiro più di tutti gli altri, perché ha introdotto il ciliegio in Europa. Si tratta di Lucullo: «Lucullo è a cena

da Lucullo». Non vedo perché mai Lucullo non dovrebbe apprezzare la cucina di Lucullo. Non c’è motivo. Ma, attenzione, non è perché io creda che la cucina di Lucullo sia la migliore, non è cori. È solo perché è bello cucinare da sé, e poi mettersi a tavola con alcuni

amid È uno dei più grandi piaceri della vita, anche se lo chef del ristorante accanto probabilmente se la caverebbe molto meglio. In tutta modestia, dedicarsi alla cucina è

divertente, non c’è dubbio. Per tornare a La cagna, quello che succede con i grandi attori, e di conseguenza con Michel Simon, è che con la loro bravura ti rivelano a te stesso, ti

svelano sogni che avevi, ma che non sapevi di avere. In realtà, si tratta dell’eterno mistero della creazione. Arriva un momento in cui non siamo più responsabili della nostra creazione che ci sfugge di mano, e il grande attore è grande proprio nella misura in cui ci

sfugge, e proprio nello sfuggirci di mano finisce nondimeno col corrispondere al sogno che avevamo fatto e che è lui stesso a rivelarci È per questa ragione che tendo a diffidare delle sceneggiature troppo minuziose e rigidamente prefissate, perché mi sembra che

rischino di tagliare via dalla realizzazione dei nostri sogni la parte che si spinge oltre la nostra coscienza: ed è proprio questa parte inconscia a costituire la sorpresa e la bellezza di questo mestiere. Al contrario, capita anche spesso di lasciarsi andare all’ammirazione per certe prove di recitazione che non la meritano affatto. Naturalmente non sto parlando

di Michel Simon, ma di attori meno importanti e meno straordinari di lui. Mi è capitato spesso di essermi lasciato convincere ad adottare soluzioni che non andavano bene solo a

causa di un sentimento d’ammirazione passeggero e illusorio.

In piena fiaba Abbiamo rivisto, recentemente, La Nuit du carrefour. La cosa che più ci ha colpito è che si tratta di un noirfiabesco. La sua ricerca non mira mai al terrore, ma a una specie di straniamente, e, allo stesso tempo, si tratta di unfilm prodigiosamente realista. La fiaba è venuta fuori mio malgrado, dal fatto che un incrocio a trenta chilometri da

Parigi, su una strada che va a nord, è un luogo fiabesco. Andando in giro di notte in

automobile per le strade vicino Parigi, si è in piena fiaba. E poi, la realtà è sempre fiabesca. Per arrivare a far ri che non sembri fiabesca, ci sono certi autori che ri danno un gran da fare, e alla fine ci mostrano quella stessa realtà sotto una luce decisamente

bizzarra. La realtà, lasciata a se stessa, così com’è, è fiabesca.

È così in tutti i suoifilm anteguerra, in Toni, in Verso la vita, nel Delitto del signor Lange. Questa caratteristica viene unicamente dal mio desiderio di cercare di vedere la realtà.

Io amo la realtà, la amo moltissimo e mi rallegro di questo amore, perché la realtà mi dà gioie infinite. Ma il fatto è che moltissima gente ha orrore di questa stessa realtà, e la maggior parte degli esseri umani, che faccia o non faccia cinema, che si tratti di operai, di droghieri 0 di drammaturghi, ha la tendenza a interporre una spede di film tra se stessi e

la realtà. E, per fare con comodo, costruiscono questo film con gli elementi che d forniscono la sodetà, l’ambiente, le conversazioni fatte per strada, i giornali, gli spettacoli

che andiamo a vedere. Ne viene fuori un film noiosissimo, dato che è più 0 meno lo stesso per tutti. E non appena qualcuno riesce a perforare questo film protettivo e a far vedere la

realtà che vi sta dietro, ecco che subito si dice: «Ma non è cori, non è questa la verità. La realtà non è così». Mentre è proprio quella, la realtà.

Sì, dopotutto la vera natura della realtà è fiabesca. Ci vuole molta pazienza, molto

lavoro e molta buona volontà per riuscire a trovarla. Sono anche convinto che non sia una

questione di talento o del dono che uno ha: tutto dipende dalla buona volontà. Se si vuole trovare la realtà la si trova. Basta eliminare tutto dò che ti sembra non essere altro che il

prodotto delle abitudini dell’epoca, ed eliminare queste abitudini a priori, per poi ritirare

faori, più tardi, quelle che risultano essere conformi alla realtà, perché ce n’è sempre qualcuna. Per esempio, in un paese come la Francia in cui il cibo è ima cosa

importantissima, è chiaro che la realtà culinaria francese non è una realtà del tutto pura, ma si avvicina abbastanza alla realtà cosi com’è. Al contrario, la realtà degli avvenimenti

quotidiani, ad esempio delle storie d’amore, è completamente distorta, deformata e come riflessa in uno specchio da Luna Park Anzi, credo che sia proprio nelle storie d’amore che la realtà è più tradita, più ancora che nei film, nei romanzi 0 nei giornali È davvero

insensato il modo in cui gli innamorati che litigano riescono a vedere i fatti e il mondo attraverso uno specchio deformante, perdendo completamente il senso della realtà. È la

tradizione romantica. Dobbiamo scontare ben centocinquanfanni di tradizione romantica: a proposito dell’amore, della donna, del corteggiamento, a proposito di quello che chiamiamo «il sentimento». Questa realtà dell’amore, malgrado i merletti che ancora

la rivestono, mi sembra molto, molto più vera in Marivaux; e da allora fino alla fine del

diciottesimo secolo, anche nelle opere scritte durante la Rivoluzione. Le cose devono essere cambiate durante l’impero napoleonico. Forse è stata l’influenza della Germania. In ogni caso, dato che molto spesso le storie d’amore forniscono una base alla letteratura, e che queste stesse storie d’amore sono deformate, il risultato è una produzione letteraria e cinematografica altrettanto deformata.

Si tratta, dunque, di riuscire a percepire nuovamente la realtà così com'è. Credo che sia il lavoro di ogni - non voglio adoperare la definizione troppo impegnativa

di «creatore» - di ogni essere vivente. Anche semplicemente vivendo, e guadagnandosi la vita con un lavoro qualsiasi, mettiamo l’impiegato in un’azienda commerciale, si può

ugualmente cercare di vivere provando ad abolire questa specie di film che ci circonda e

che ci impedisce di vedere le cose così come sono: e più sono belle, più sono fiabesche. Se

solo questo film d regalasse un po’ più di fiaba e ci facesse sprofondare in un piacevole sogno! Al contrario, è la realtà che è il sogno più piacevole. I capolavori letterari, teatrali 0 cinematografici ci regalano di tanto in tanto un nuovo film di qualità, che è al contempo

una fiaba, un’illusione, ma almeno quest'illusione ha il vantaggio di fard avvicinare un po’ di più alla realtà, 0 forse di essere un’illusione di categoria superiore. Forse... D’altra parte, io passo il mio tempo a scrivere storie in cui la mescolanza di incantesimo drammatico e incantesimo tratto dalla vita formano l’essenza della trama. Ancora oggi, la mia ultima opera tratta questi stessi temi. È una pièce che si svolge a Parigi durante

l’occupazione. Ci sono i tedeschi, c’è la Gestapo, c’è gente infelice. C’è tutto questo, ma si tratta sempre e comunque di una pièce in cui si rimette drasticamente in questione il

rapporto tra illusione e realtà. Girando la scena di un film, succede che, quando finalmente si riesce a trovare un’espressione che veramente si avvicina alla realtà, tutta la troupe, tutti quelli che stanno sul set la trovano inadatta e dicono: «Non è naturale».

D’altra parte, bisogna anche essere prudenti per farsi accettare dal pubblico, anche se

neanche l’eccessiva prudenza va bene...

«È il rustico» Tenete presente che questa storia del «film» protettivo di cui stiamo parlando adesso

non è che uno dei mille modi di spiegare il mistero del nostro mestiere: lo si potrebbe

spiegare in mille altri modi. Ciononostante, io credo che sia importante. Una certa scuola, diciamo l'Hollywood degli inizi, trova una certa realtà, se ne stupisce, intorno agli anni 1918-1920, fino al 1925, e dà una rappresentazione dell’America che, anche nei film peggiori, era del tutto esatta. Il pubblico che all’epoca guardava i film americani si faceva

dell’America un’idea che non era poi cori falsa. Per dare un’idea del genere, gli attori

copiavano i gesti delle persone che avevano intorno fuori dal set e si limitavano a riprodurli con una certa innocenza. Per esempio, il teatro leggero, prima ancora del

cinema americano, aveva tutto un repertorio di espressioni che pretendevano di essere naturali e che erano state scoperte da Antoine e da lui imposte, contro il teatro romantico.

Ma, in realtà, questi gesti e queste espressioni erano diventate tanto stereotipate quanto il repertorio della gestualità romantica che a suo tempo avevano rimpiazzato. Quando girai

Madame Bovary, ebbi la fortuna di trovare un regista d’opera molto anziano e un cast di cantanti che conoscevano bene il modo in cui ri cantava prima della rivoluzione di

Antoine, prima del naturalismo e del realismo. E in Madame Bovary c’è un piccolo

stralcio della Lucia di Lammermoor cantata come si cantava all’epoca. Gli attori guardano il pubblico ed evitano di guardarsi tra di loro, e anche la dichiarazione

dell’innamorato alla giovane donna non è rivolta all’amata, ma al pubblico. Il pubblico trovava tutto dò divertentissimo, e diceva: «Dio mio, come redtavano male all’epoca,

com’era tutto poco naturale!» Antoine ha sostituito questa maniera di recitare e ha fatto ri che gli attori ri parlassero tra loro. Anche nei costumi e nella scenografia ha introdotto una spede di copia della realtà. Ma nel giro di venfanni anche questa rappresentazione

della realtà è diventata a sua volta una convenzione. Quando ho cominciato io a fare cinema, questa convenzione era ancora pienamente vigente. Mi ricorderò per sempre di una conversazione che ho avuto con dei falegnami e dei pittori di scena nel primo film a

cui ho partedpato. Stavo spiegando loro che, per la scenografia, d serviva la sala comune

di una fattoria nel sud, e quindi, dato che nel sud si trovano molte pareti fatte di dettoli, ricoperte da una spede di malta irregolare, sarebbe stata una buona idea dare un che di

irregolare alle pareti e imbiancarle a calce. Loro mi ascoltavano con una certa impazienza e trovavano le mie spiegazioni del tutto inutili, perché quel genere di scenografìa era già

noto e classificato. Continuavano a ripetermi: «Ma signor Renoir, sappiamo già di cosa si

tratta, è il rustico». «Il rustico?» «Il rustico ha le pareti irregolari e le travi a vista». «Per l’appunto, io non voglio le travi a vista». «Ah no! Nel rustico, le travi sono a vista».

Succedeva la stessa cosa con il trucco e la recitazione: la recitazione all'americana, che all’inizio era così naturale, a poco a poco è diventata una cosa falsa. È stata catalogata e classificata. L'attore che si siede sul bracdolo della poltrona invece che sulla poltrona va

benissimo, a patto che lo faccia senza rendersene conto. A partire dal momento in cui

deve sedersi sul bracdolo della poltrona, ecco che diviene una convenzione, falsa come la spada di D’Artagnan.

E la stessa cosa è successa, probabilmente, con il neorealismo italiano, che al giorno

d’oggi d sta dando delle opere non meno false della radiazione di Francesca Bertini. In realtà, il «film» non fa che riproporsi, e questa spede di foschia opaca che s’interpone tra

il nostro occhio e la realtà si riforma in continuazione. Ed è il nostro stesso spirito che la ricrea e che l'accetta, perché è una cosa talmente comoda... In fondo, diciamolo pure, il problema è che chiunque sul set, ogni operatore, ogni attrezzista, ogni falegname, pittore

di scena, attore, scenografo, perché il cinema resti una cosa viva, dovrebbe reinventare tutto daccapo ogni volta, il che è molto faticoso. È molto più facile aprire un cassetto e dire: «Il rustico'.» E allora via col rustico, e tutti sono tranquilli

La sola consolazione è che le opere che apportano qualcosa di nuovo non passano di moda come quelle che si limitano a sfruttare le scoperte degli altri. Griffith, per dime

uno, rimarrà. Anzi, io penso che le cose più belle che Griffith ha fatto abbiano addirittura più

importanza oggi di quando sono state girate. Purtroppo, il cinema costa caro, e se i film non incassano non ri fa più cinema. È davvero un problema. Ma d’altra parte per me non ha nemmeno senso pensare di lavorare senza l’idea di un normale sfruttamento

dell’opera. Secondo me, bisogna lavorare in condizioni normali, con l’idea che il film verrà presentato al pubblico, avrà successo e degli utili. Se poi così non è, pazienza. Ma bisogna partire con l’idea - avanzatissima - di fare un cinema popolare. È l’essenza stessa del

cinema che lo richiede, perché il cinema costa, e ri basa proprio sul principio della diffusione di massa, sull’idea che un film verrà proiettato su migliaia di schermi, per cui bisogna che sia apprezzato in migliaia di posti diversi. Quello che sta succedendo adesso è

che forse si sta creando lo spazio per un tipo di cinema i cui prodotti, invece di essere proiettati solo su scala nazionale su centinaia di schermi, saranno proiettati su scala

internazionale in sale specializzate. Forse esiste un modo di mettere insieme il numero

necessario di sale e di schermi in più paesi, in tutto il mondo, invece che in un paese solo. Questo, secondo me, è il grande fenomeno dei nostri tempi.

Una sceneggiatura che era un gioco da ragazzi Madame Bovary è un caso simile a quello di Tire-au-flanc. Questi duefilm, non si sa

perché, hanno fama di essere puri e semplici prodotti realizzati su commissione. Io mi sono andato a rivedere Madame Bovary, o almeno una parte, non troppo tempo

fa. Dev’essere stato due o tre anni fa, credo che fosse alla Cinematheque. In quel film c’è un attore che ho apprezzato moltissimo, mio fratello Pierre. Lo trovo davvero stupendo. E

poi Valentine Tessier è semplicemente deliziosa, adorabile. Ha un modo di muoversi, di far danzare la gonna, di entrare, di uscire, una sicurezza... Posso dirvi che la ragione - ci sono sempre moltissime ragioni per fare un film, ma insomma, la cosa che mi ha spinto, la mia vera motivazione per fare quel film era il desiderio di lavorare con gente di teatro.

Valentine e mio fratello erano essenzialmente attori di teatro, e la nostra troupe era composta per la maggior parte di gente di teatro. In fondo, quest’esperienza somiglia un

po’ a quello che sto facendo adesso, lavorando direttamente a teatro. Solo che era per il cinema. Immaginate un po’ la gioia di sentir pronunciare certe frasi, quelle che devono esserci, da labbra che sono abituate a pronunciare le parole... È un piacere inestimabile. Originariamente, il suo film era molto più lungo della versione attuale.

Sì, era molto più lungo e anche molto migliore. A dire la verità, anche questo film è stato rovinato a furia di tagli; non è stata colpa dei produttori, che anzi hanno fatto tutto il

possibile; ma i distributori non hanno avuto il coraggio di far uscire un film che durava

più di tre ore. Non si faceva. Era l’epoca in cui la doppia programmazione sembrava la risposta alla crisi del cinema, perché c’era già una crisi del cinema, proprio come oggi, e del resto è sempre la stessa. I distributori dicevano: «Il film d piace moltissimo, ma non si può proprio, non è possibile... Bisogna tagliare». Allora ho tagliato. Ma stranamente,

una volta tagliato, il film era molto più lungo - dal punto di vista dello spettatore - di prima: non finiva più. Insomma, questo film, così com’è adesso, io lo trovo un po’ noioso,

mentre quando durava tre ore non lo era affatto. L’ho fatto vedere a qualcuno prima di tagliarlo. Ho fatto fare, mettiamo, cinque o sei proiezioni nella sala degli studi di Billancourt, che contiene almeno cinquanta persone, e tutti quelli che lo hanno visto sono

rimasti incantati. Ad esempio, Brecht l’ha visto e gli è piaduto moltissimo. Purtroppo, la

copia integrale è andata distrutta perché hanno fatto i tagli sulla copia, poi sul negativo, e tutte le parti avanzate sono state gettate via e poi bruciate.

In Madame Bovary c'è molta più pienezza che in tutti i suoifilm precedenti. Più il film andava avanti, più io imparavo a costruire scene con un loro sviluppo

completo. Non credo che sia il solo metodo per fare film che cominciano all’inizio e che

terminano alla fine, e che insomma sono un po’ come un’unica enorme scena. Ma personalmente preferisco il metodo che consiste nel concepire ogni scena come un piccolo film a parte. È quello che fa Chaplin, d’altra parte, e, santo Dio!, i risultati non sono poi cori malvagi.

Forse, nel suo caso, è proprio questo che disorienta il pubblico. Credo che sia veramente disorientante e che, quando questo metodo viene applicato a un film in cui l’azione non è molto coinvolgente, gli spettatori si risentano un po’. Credo

che sia - non si può dire né un difetto né una qualità - diciamo una caratteristica che

probabilmente mi ha danneggiato spesso.

È Usuo gusto per i cambiamenti di tono... Sì. Riuscire a costruire un film con piccole unità complete è la cosa che mi attira di più.

Il fatto è che spesso questa mia inclinazione mi gioca dei brutti tiri a causa dell’altra mia mania, che è di trascurare un po’ l’importanza dell’azione prindpale. Ho la mania di

pensare che, in realtà, la trama non sia poi così importante. Ora, se si riesce ad avere una

storia abbastanza forte... Ad esempio, un tipo di sceneggiatura facile da scrivere è La grande illusione. Scrivere la sceneggiatura della Grande illusione era un gioco da ragazzi,

perché c’è una storia prindpale che è infantile e proprio per questa sua qualità infantile era abbastanza forte da catturare l’attenzione del pubblico. È la storia di alcuni tizi che vogliono evadere: ce la faranno? Non ce la faranno? D’altro canto, è molto comodo avere una storia del genere, e all’interno, uno si può permettere tutti gli sketch che vuole, e

piccole scene a parte di ogni sorta e varietà. Ci si può interrompere bruscamente nel bel mezzo e parlare, ad esempio, del senso della generosità degli ebrei. È una scena che c’è nel film e che non è mai stata tagliata, neanche dagli esercenti più fissati con i tagli, e nessuno ha mai pensato al fatto che quella scena non ha niente a che vedere col film.

Semplicemente, mi è sembrato che, nel bel mezzo del film, una discussione di quel genere fosse interessante.

II giro in carretto E subito dopo cifu l'avventura di Toni

Ho appena rivisto Toni. L’ho rivisto con il suo produttore, Pierre Gaut, che è un mio buon amico e che ha avuto un ruolo importante durante le riprese: bisognava che il

produttore di Toni fosse convinto che era una cosa interessante fere un film in esterni,

senza star, con una vicenda che, essendo tratta da un fatto di cronaca, era necessariamente di una certa brutalità. In quel periodo, non si potevano hr vedere

cadaveri al cinema, a meno che non fossero cadaveri di una certa «nobiltà»: bisognava che la storia si svolgesse in epoca pre-rivoluzionaria e che fossero morti in duello. Il tizio

ammazzato in duello, con poco spargimento di sangue, era accettabile. Ma gli esercenti non accettavano gli omicidi sordidi, come quello di Toni. Abbiamo avuto molte difficoltà a

far uscire il film. Purtroppo, ho perduto alcune scene che riguardavano l’omicidio, ad esempio il giro in carretto, il carretto di biancheria in cui è stato nascosto il cadavere, e il

trasporto del cadavere in carretto, con i carbonai cantanti corsi che passano di lì e, per scherzo, si mettono a seguire il carretto e a cantare. Era una bella scena, almeno credo: abbiamo dorato toglierla durante i tagli ed è andata perduta. È decisamente un peccato.

Era un progetto die aveva da molto tempo? Sì. Ho un amico che si chiama Jacques Mordere che, all’epoca, era commissario di polizia a Martìgues. Scrive molto bene (ha scritto un noir, Le singe veri), ma in quel caso

non si trattava di scrivere un noir. Si è limitato a mettere insieme e a raccontarmi i fatti che si erano svolti intorno a un omiddio veramente accaduto, una vicenda di gelosia tra la

popolazione latina immigrata di Martìgues. Insieme, abbiamo concluso, a partire dal

racconto della vicenda, che sarebbe stato interessante trarne un film in cui l’elemento drammatico non fosse affatto drammatico e scaturisse naturalmente, come un episodio di

vita quotidiana. Ne parlavamo fra noi da molto tempo. La storia in questione - a cui

comunque erano state apportate modifiche sostanziali nel film perché gli eventuali

parenti rimasti della vittima non potessero riconoscerla, ma che, nel suo substrato, è autentica (le case sono autentiche, i locali, i tipi umani) - si era svolta una decina d’anni prima che girassi Toni.

La sceneggiatura è a firma di Jean Renoir e Karl Einstein. Karl Einstein era un amico mio e di Pierre Gaut Era un uomo dallo spirito vastissimo. Secondo me, il contributo che possono dare al cinema persone che non fanno parte di questo mondo, ma che nel loro campo danno prova di grande valore, può, di tanto in

tanto, arricchire un film, dargli una certa nobiltà, come ha fatto Koch con la maggior parte dei miei film d’anteguerra. Karl Einstein era un critico d’arte. Ha scritto alcuni dei

migliori libri che esistano sulla pittura astratta.

Serve Minou Drouet Secondo noi, l'accoglienza tributata a Toni è sfata piuttosto fredda perché ilfilm veniva subito dopo Prigioniera del peccatoci] È chiaro. Ma io credo che il pubblico non fosse pronto per questo genere di storia. Anche se non ci fosse stato Prigioniera del peccato, sono convinto che il pubblico non

avrebbe accettato facilmente Toni. Il pubblico ha il terrore che qualcuno vada a toccare le

sue piccole abitudini, e il mio film era strano e sorprendente per l’epoca. E sembrava

brutale al pubblico, mentre quando l’ho rivisto, l’altro giorno, mi è sembrato dolcissimo, questo film, estremamente delicato.

La cosa che colpisce èfino a che punte siano simpatici i cattivi: «l’arrosto senza sugo...» Dalban, ri, certo. E Andrex: è affascinante, è davvero meraviglioso. D’altra parte, ho

appena rivisto Andrex e Blavette nel corso di una trasmissione alla televisione. Mi ha fatto molto piacere. Sono invecchiati, e secondo me sarà un gran bene per loro. Ho l’impressione che in questo momento, in Francia, sia piuttosto difficile trovare attori di

una certa età, mentre c’è una quantità di attori giovani, tutti belli come adoni, e di

ragazze, tutte dotate di un’attrattiva straordinaria, ila di cinquantenni non ce ne sono

molti. Il pubblico non era pronto, ed è questa la ragione per cui Toni, ai suoi tempi, non è piaduto. È capitato a sproposito, in mezzo a produzioni completamente diverse. Il pubblico è un po’ come le pecore di Panurgo. Si limita a seguire, a fare quello che fanno gli

altri. Per esempio, in questo momento, alcuni registi di grande valore hanno scoperto i giovani, e allora tutti si mettono a scoprire i giovani e non si fanno che film sui giovani Se una ragazza che ha più di sedid anni viene stuprata, la cosa non interessa a nessuno.

Serve Minou Drouet: se è lei, che ri fa stuprare, allora sì, può essere interessante... Poi le cose cambieranno. Presto tutto dò non interesserà di nuovo più a nessuno. Le ragazzine potranno farsi stuprare in fila, in serie, in blocco, nessuno d farà caso. Ci si interesserà

solo ai «problemi» delle anziane signore, a storie sulla menopausa. Il1935 è l'anno del Delitto del signor Lange... Nel Delitto del signor Lange, non bisogna dimenticare il contributo di Jacques Prévert,

che è essenziale. Abbiamo lavorato insieme. Gli avevo chiesto di venire sul set con me, e

lui, gentilmente, ci veniva tutti i giorni, e io gli ripetevo sempre: «Eh, vecchio mio, qui bisogna improvvisare», e il film è stato improvvisato come tutti i miei film, ma con la

costante collaborazione di Prévert.

Sembra che ci sia una conversazione ininterrotta tra voi due, che l’uno finisca lefrasi dell’altro... È proprio cori. Sono sicuro che in questo film è impossibile identificare l’origine di una

certa idea, se sono stato io o se è stato Jacques. Praticamente abbiamo fatto tutto insieme. Ma, ad esempio, le pillole Ranimax?

Quella è stata un’idea di Prévert! E il cagnolino di Brunius? Verrebbe da pensare che sia piuttosto un'idea sua...

Ah ri, certo: il cagnolino di Brunius era il mio cane, e questa è la ragione per cui è stato

inserito nel film.

Che tipo di accoglienza ha ricevuto II delitto del signor Lange? Buona. Non eccezionale, ma decisamente buona. Non credo cheli delitto del signor Lange sia stato un trionfo commerciale - me ne sarei stupito - ma fu sicuramente un

buon affare. Una gita in campagna è, tra i suoifilm, uno di quelli su cui corre la maggior quantità

di voci contraddittorie.

Pensavo che sarebbe stato interessante fare un mediometraggio completo come un film

lungo, e nello stesso stile di un lungometraggio: realizzato con la stessa disponibilità di mezzi di un lungometraggio. Ciononostante, per poter realizzare un mediometraggio con la stessa abbondanza di mezzi di un lungometraggio, bisogna pur trovare un modo di fare

economia, dato che un mediometraggio non può avere grandi incassi Così abbiamo girato il film in collaborazione con Braunberger, e praticamente senza essere pagati.

Ho scritto la sceneggia tura pensando ai posti dove ami girato, perché conoscevo bene

la regione del Loing, vicino Montigny. Pensavo che il Loing, da quelle parti, potesse

rappresentare la Senna come doveva essere stata una volta, anche nelle vicinanze di Parigi Ormai è praticamente impossibile trovarne tratti senza costruzioni e senza

fabbriche, nei dintorni di Parigi E soprattutto, la ragione principale della scelta di quegli

esterni era che io quella zona la conoscevo benissimo, e sapevo esattamente a che ora

sarebbe stato possibile dirigere agevolmente la luce su un certo gruppo di alberi o su un altro. Conoscevo quel paesaggio nei minimi dettagli, e avevo ben presenti anche i suoi

inconvenienti Sapevo che c’era il rischio che piovesse: era l’inconveniente principale, ma

non mi aspettavo una pioggia torrenziale di quel genere. Abbiamo avuto pochissime giornate di sole e molto presto abbiamo sfondato il budget di Braunberger, perché la

pioggia ci costringeva a far durare il tutto molto più a lungo del previsto. Allora, ancora una volta, ho modificato la sceneggiatura e l’ho adattata al cattivo tempo. Per questo

abbiamo avuto alcune sequenze con la pioggia che originariamente la sceneggiatura non

prevedeva, e sempre per questo motivo non ho potuto girare tutte le scene previste. Dal punto divista tecnico, ho avuto dei collaboratori straordinari: mio nipote Claude, che era al suo primo film come capo-operatore, Cartier-Bresson e Visconti come assistenti alla regia e Brunius come attore. H suono era in presa diretta. È un film in cui non abbiamo

voluto fare nessun tipo di trucco col sonoro, e senza doppiaggio. Quando abbiamo finito, ho dovuto cominciare immediatamente a girare Verso la vita, perché la pioggia aveva

prolungato moltissimo la durata delle riprese. Così l’inizio delle riprese di Verso la vita è stato rimandato di quindici giorni, nel corso

dei quali ho dovuto riscrivere la sceneggiatura. Fortunatamente il tardo autunno è stato

clemente e abbiamo potuto girare qualche volta anche in esterni senza troppe difficoltà. Sembrava che tutta la pioggia ri fosse concentrata in Una gita in campagna. Non ho potuto fare io il montaggio perché dopo Verso la vita mi sono subito gettato nella Grande

illusione, un progetto che cercavo di realizzare da tre anni e che improvvisamente era diventato possibile. E poi, ma senza tregua, senza darmi il tempo di respirare, sono venuti

La Marsigliese, L'angelo del male e La regola del gioco. Erano film che mi stavano tutti molto a cuore, e ogni volta mi dicevo: «Insomma, il montaggio di Una gita in campagna lo farò dopo». Poi, ogni volta, mi ritrovavo con l'acqua alla gola, e non riuscivo mai a fare

il montaggio. E poi è scoppiata la guerra...

C’è anche un'altra ragione: secondo me, mancavano alarne scene, ma su questo punto

mi sbagliavo. Quelle scene non erano affatto necessarie. E poi c’è un’altra ragione ancora: è che Braunberger era molto contento del risultato, al punto che progettava addirittura di

trarne un lungometraggio. Aveva anche domandato a Prévert di scrivere la sceneggiatura. Ma è molto difficile, sapete, allungare il brodo, e trasformare in lungometraggio un’idea

che è stata pensata per un mediometraggio. Per cui Prévert ha buttato giù un progettino di cui non era molto contento, e che poi non è stato girato. Oltre a tutti i miei impegni, d sono state anche queste circostanze a far sì che il montaggio si trascinasse fino alla guerra.

Non è stato, dunque, perché non era soddisfatto delfilm? Assolutamente no, anzi, è vero il contrario. Sono sempre stato orgoglioso di Una gita in

campagna. Solo che, d’altro canto, le ragioni di Braunberger per fame un lungometraggio

erano molto convincenti. Si sbagliava, ma era un gran bello sbaglio. E d’altra parte, anch'io avrei voluto, nel caso in cui avessi deciso di farlo uscire così com’era, mettermid

seriamente e non solo nei tempi morti. Poi, avevamo dei dubbi sulle musiche. La colonna sonora è stata fetta da Kosma in seguito, e in modo magnifico, devo dire; ma, sul

momento, non avevamo idea di cosa fare. Non ricordo tutte le scene in più che avevo previsto, ma sicuramente prevedevo una

spiegazione, o quanto meno un’esposizione dei sentimenti dei personaggi, tra la scena

della tempesta e il ritorno finale: una scena in cui d sarebbe dovuta essere Sylvia Bataille a Parigi con suo marito. Ciononostante, dato che ero un po’ scettico e pensavo che non

saremmo mai riusdtì a girarla, ho girato invece l’ultima scena in modo tale che fosse comprensibile anche da sola. Sono sicuro che la scena a Parigi sarebbe stata inutile. Ma quando si fa un film si girano

sempre delle scene inutili Forse è il solo film che ho girato (anche se non giro molto, in generale, non sono un divoratore di pellicola, ma nei film d sono sempre tempi morti) che

non abbia tempi morti. Ogni scena ha un suo scopo.

Ricreare la Russia Ed eccoci a Verso la vita. Verso la vita è stato una produzione senza storia. Sapete, Spaak è un collaboratore

meraviglioso, e con lui si parte - malgrado la sua mania dell’improvvisazione - con un'armatura su cui le mie improvvisazioni non rischiano di fere danni Prima che

arrivassimo io e Spaak, Companeez awa scritto un trattamento, ma noi non ne abbiamo

tenuto conto. Il soggetto mi era stato proposto da Kamenka, e mi è piaduto subito. Ho chiesto di apportare una sola modifica al progetto originale - non parlo della sceneggiatura, che ho cambiato completamente, ma del progetto generale - e cioè che

non si cercasse di riprodurre la Russia autentica. Mi sembrava che cercare di ricreare la Russia autentica a Parigi fosse un’impresa votata al ridicolo, al carnevalesco.

Infatti è proprio su questo punto che la critica ha avuto qualche riserva sul suo film. Eh sì. Sempre la Russia sulle rive della Marna! Ma secondo me, avevo ragione io - la Russia senza le rive della Marna sarebbe stata molto più falsa. Almeno, in questo modo,

non abbiamo avuto la pretesa di ricreare la Russia, ma nemmeno di ricreare Parigi. Abbiamo fatto parlare i nostri attori nel francese corrente del ventesimo secolo, ed è

molto meglio.

Era anche il suo primofilm con Jean Gabin... Gabin è un vero attore di cinema, è l’Attore di cinema con la A maiuscola. In vita mia ho girato con un sacco di gente ma non ho mai ritrovato una simile potenza cinematografica; è una ’.'era forza del cinema; è fantastico, è incredibile. Deve venire da una profonda

onestà. Gabin è senza dubbio l’uomo più onesto che io abbia incontrato in vita mia... Ah

sì, conosco anche un’altra persona onesta, Ingrid Bergman. In lei non c’è nessuna

furbìzia. E sono sicuro che la presa che Ingrid ha sul pubblico - la gente dira che è per via

della sua bellezza, troverà mille ragioni, ma io sono sicuro che il segreto è nella sua profonda onestà.

Ci vuole uno sprone Ci è stato detto che La grande illusione è nato da uno scambio di sceneggiature tra lei e

Duvivier. All'inizio, lui doveva girare La grande illusione e lei La bella brigata. No. Ecco che cos’è successo. Io lavoravo con Spaak, stavamo scrivendo non so più cosa,

Verso la vita, probabilmente, e ci eravamo scambiati le nostre opinioni a proposito della Bella brigata. È anche possibile che avessimo cominciato insieme a immaginare la storia

della Bella brigata. E poi, Spaak e io abbiamo pensato che avremmo dovuto presentare la sceneggiatura a Duvivier perché sarebbe stata perfetta per lui. Era decisamente il suo

stile. Poi Duvivier ha modificato la storia, l’ha assimilata e ha riscritto la sceneggiatura con Spaak. Ma non si è mai discusso della possibiltà che la girassi io. Quanto alla Grande

illusione, l'origine di questo film è in una storia che mi ha raccontato un commilitone che si chiamava, durante la guerra, aiutante Pinsard, poi capitano Pinsard e che, quando ho

girato Toni, comandava la base di Istres ed era diventato il generale Pinsard. E il generale

Pinsard era stato un vero eroe di guerra, uno che era riuscito a evadere sette o otto volte, ed era un uomo per cui io provavo una riconoscenza infinita, perché, quando ero anch’io in aviazione e stavo scattando delle fotografie - vale a dire, mi trovavo su un aereo non molto veloce e nemmeno bene armato - venivo attaccato spessissimo dai tedeschi; e se

non sono stato abbattuto è perché un caccia della squadriglia vicina interveniva sempre e abbatteva l’aereo tedesco, e la maggior parte delle volte era Pinsard! In quel periodo stavo girando Toni. C’erano degli aerei militari che rombavano sopra di noi tutto il tempo. Allora il produttore, Pierre Gaut, mi disse: «Andiamo a parlare col comandante*. E chi ti ritrovo? Pinsard! Ci siamo rivisti e mi sono ricordato di quando mi raccontava le sue

evasioni. Allora dissi a Pinsard: «Bene, vecchio mio, raccontami un’altra volta la storia

delle tue evasioni. Forse potrei farne un film». E lui mi raccontò delle storie che io

trascrissi, e che non hanno niente a che vedere col film così come lo conoscete voi, ma che per me sono state un punto di partenza indispensabile. Ci vuole sempre qualcosa che ti

scuota, per cominciare, una specie di puntura: d vuole uno sprone. Lo sprone furono i miei incontri con Pinsard. Allora scrissi una sceneggiatura... insomma, misi giù una storia e dopo averta un po’ elaborata la portai a Spaak e gli dissi: «Mi devi aiutare, vecchio mio.

Devi scrivere una sceneggiatura a partire da questa vicenda. Credo che d sia dentro una buona storia». Lui fu d’accordo, trovò la storia molto interessante e la riscrisse insieme a me. Dopodiché, la portammo al produttore che aveva girato Verso la vita, che non l'ha

apprezzata affatto. Per cui andammo in giro per tutta Parigi a cercare un produttore.

Fortunatamente, a Gabin il soggetto era piaduto molto, e poi eravamo veramente grandi amid. Ecco come ho fatto a girare La grande illusione: è stato grazie a Gabin. Io e Gabin

andammo negli uffici e negli studi di non so quante produzioni: francesi, italiane, americane, di qualsiasi nazionalità. Rifiutarono tutti, dicevano tutti: «Ah! Una storia di guerra, ma stiamo scherzando, e poi così solleveremmo una quantità di problemi, di questioni delicate, non bisogna fare una cosa del genere...» Alla fine trovammo un ragazzo

che, a mio avviso, ha rivelato in tutto questo un talento enorme e che d aiutò moltissimo.

Si chiamava Albert Kinkewitch ed era l’assistente, il segretario generale, il factotum insomma di un finanziere, Rolmer, che voleva fare affari nel cinema. Forse aveva anche

investito dei soldi in alcuni film, non lo so. Sia come sia, Kinkewitch, che amava molto il

cinema anche se non faceva parte di questo mondo, e Rolmer, che anche non aveva niente a che spartire col mondo del cinema, produssero La grande illusione, e io sono sicuro che sia stato unicamente per questo motivo, perché non erano uomini di cinema. Tutti i

professionisti erano contrari alla nostra sceneggiatura. Tutti gli specialisti della

distribuzione, tutti quelli che avevano un nome nel campo delle professioni commerciali del cinema rifiutarono la nostra sceneggiatura con orrore. Riuscii a girare solo grazie al

sostegno di Gabin. £ una volta uscito ilfilm ebbe un grande successo? Una volta uscito fu un successo inaspettato.

Non era stato prigioniero anche lei durante la guerra? No. Girai questo film sulla base di testimonianze, tra cui i racconti di Pinsard e quelli di

moltissimi prigionieri che intervistai La cosa che più mi ha aiutato è che la mia prima occupazione, nella vita, era stata quella di ufficiale di cavalleria per cui, di conseguenza,

riuscivo a indovinare quali sarebbero state le reazioni degli uomini, di cui conoscevo bene lo stato d’animo, in certe circostanze. Comunque, gli esterni non furono girati in

Germania ma in Alsazia, in alcune zone dell’Alsazia dove l’influenza tedesca nel periodo che seguì la guerra del 1870 è stata fortissima. Per esempio, le caserme in cui girammo

erano caserme dell'artiglieria fette costruire da Guglielmo II a Colmar. L’ultimo castello era un castello fatto costruire da Guglielmo II, l’Haut-Koenigsburg. Sono edifìci di pura

tradizione tedesca. Con La Marsigliese, lei cercò difare unfilm modificando le condizioni abituali di

produzione e di distribuzione?

Sì. Solo che, in corso d’opera, il film si trasformò in una produzione del tutto normale

ed è stato distribuito normalmente.

Ciononostante quello spirito resta. Ci è stato detto che il nuovo sistema di produzione prevedeva die gli spettatori dovessero pagare il biglietto in anticipo. Credo che a un certo punto ci sia stata una cosa del genere, sì.

Dal punto di vista dei mezzi, della messa in scena, è il più importante dei suoifilm francesi di prima della guerra?

Alcuni film muti, come Le Toumoi e Le Bled, erano ancora più ricchi I mezzi della Société des Romans Historiques Filmés, 0 meglio della Société des Films Historiques,

erano enormi Aveva girato unfilm molto più lungo della versione definitiva?

Mi feci prendere di sorpresa dalla lunghezza della sceneggiatura. Ho rivisto in America una copia in 16 mm che circola nelle Università. C’era una sfilata di tamburi, di cui andavo molto fiero, che purtroppo è stata tagliata; mi dispiace molto, i tamburi erano

bellissimi.

A dire il vero, uno dei miei ricordi più netti di questo film, e anche una delle più grandi

soddisfazioni, mi è stata data dalle scene tra mio fratello e la Deiamare. Scrivere e girare le scene alle Tuileries è stato molto appassionante. Girando quelle scene ho avuto

l’impressione di trovarmi molto vicino alla realtà, e che le cose potevano essere andate in

quel modo: quando nel film si ha improvvisamente quell’aria di «bassa cucina» che sommerge completamente le grandi occasioni e i grandi personaggi di questo mondo; quando nel film ci si perde nelle piccole cose: i pomodori... In Toni, i personaggi hanno

un’aria talmente quotidiana che ci si può permettere di fargli parlare una lingua poetica, dato che l’opposizione alla poesia emana dalla loro persona, dal comportamento, dal modo in cui sono vestiti. Mentre in un film in cui, appunto, l’apparenza è molto lontana

dalla realtà, bisogna servirsi del dialogo per cercare di riavvicinarsi alla vita quotidiana. È il sistema dell’equilibrio. Da un punto di vista tecnico - non sto parlando né di ispirazione, né di valore intrinseco - riuscire a mantenere in equilibrio i piatti della

bilancia, e quando uno si abbassa, far abbassare immediatamente anche l’altro è la cosa

più importante. La vera difficoltà è che l’equilibrio artistico è differente per ciascuno e, personalmente, io non sono mai riuscito a convincermi che si tratti soltanto di un

equilibrio di tipo narrativo. Passo il mio tempo a cercare di ristabilire l’equilibrio in un

film, ma non mi sfiora nemmeno l’idea di doverlo fare solo dal punto di vista dell'azione.

Si può ristabilire l’equilibrio grazie a un oggetto messo su un tavolo, a un colore se il film è a colori, o con una frase che non vuol dire un bel niente ma che ha meno peso, o ne ha di più, della frase precedente.

Per cui una storia squilibrata, per dirla con parole sue, la stimola perché la obbliga a

trovare delle soluzioni Sì, mi obbliga a mettere in continuazione delle zeppe, come sotto un tavolo sbilenco.

Purtroppo, credo che questo modo di procedere tenda a sviare il pubblico. D’altra parte, se mi lasciassi andare, comincerei con certi protagonisti, poi mi disinteresserei

completamente di loro e sposterei la storia su altri personaggi e poi su altri ancora. Mi

sono sempre chiesto perché mai in un film bisogna seguire sempre gli stessi personaggi

Faremo un bambino benissimo Ci eravamo giustamente chiesti se ipromotori del progetto della Marsigliese non

avrebbero voluto qualcosa di schematico. È possibile. Non ne so niente. Comunque sia, ho girato il film nel modo che sapete e che corrisponde esattamente ai miei sentimenti e alle mie convinzioni. Il «gioco d’equilibrio» di cui parlava dovrebbe proibirle nel modo più assoluto difare

opera di propaganda. Sì, è cosi È chiaro. È una cosa spaventosa: ma alla fine, si è obbligati ad ammettere che hanno tutti buone ragioni, ragioni veramente convìncente È terribile, non credete? È

veramente terribile, e credo che il mio caso, che è assai grave, sia il caso di molti francesi, e forse questo spiega le incertezze del nostro paese in questo momento. Dubbi di questo

tipo assalgono in genere i popofi dotati di una civiltà avanzata. E le civiltà molto avanzate,

evidentemente, si difendono a stento. La Marsigliesefa pensare che marsigliesi e realisti condividano lo stesso ideale, e si

scontrino, più che altro, a causa di un malinteso.

Al di là dei malintesi, si scontrano per qualcosa di molto evidente, che è essenziale nella storia del mondo: l’essere o meno in accordo con i tempi Succede che dei princìpi

eccellenti, indiscutibili e difendibilissimi scompaiano, 0 diventino assolutamente nocivi e nefasti, per il solo fatto di non adattarsi più a una certa epoca. È una questione di accordo tra gli esseri umani, le loro idee, le loro abitudini, iloro costumi e il momento presente, ed è una questione essenziale nella storia del mondo. Luigi XVI è stato sconfìtto perché non

aveva più nulla da spartire con la sua epoca. La monarchia non aveva più nulla da spartire

con quell'epoca. D’altra parte, si può anche sostenere che, durante le rivoluzioni, non

sono i rivoluzionari a vincere, ma i reazionari a perdere. Si tratta di due cose completamente diverse. Anche se non ci fossero i rivoluzionari, i reazionari perderebbero, scomparirebbero lo stesso, da soli. Non è assolutamente una questione di superiorità o di

inferiorità. In un certo momento della storia del mondo il diplodoco - o il popolo ebreo si estingue, e viene sostituito dal dinosauro che vive febee con una diversa densità

dell’aria, un tipo di nutrimento diverso che si trova nelle foreste e che per lui va benissimo. E poi, in un altro dato momento, anche il dinosauro si estingue. Come le

specie animali, anche i sentimenti e le idee, buoni 0 cattivi che siano, si estinguono. Semplicemente non trovano più di che alimentarsi nel loro ambiente. Io credo che sia una

questione di alimentazione, del nutrimento che ricevono i sentimenti e le idee. Il senso della storia? Semplicemente, il mondo funziona in modo tale che non hanno veramente successo, in un certo senso, mettiamo nel fere un film, se non quelli che non sanno di avere il senso

della storia, che non sanno nemmeno che ce la faranno e perché. C’è una specie di legge che governa gli esseri umani e anche gli alberi: l’albero che crescerà fino a diventare

enorme non sa che diventerà enorme. Lo ignora nella maniera più assoluta. E questa legge secondo me è spietata. Mi direte che moltissime persone destinate ad avere successo dal punto divista individuale ne erano consapevoli, ma la realizzazione individuale non

conta nella storia, non è che una piccola cosa. E d’altro canto, la realizzazione individuale è solo apparente: chi d dice che quel signore, solo perché è proprietario di trenta società

di produzione cinematografica e di una certa quantità di automobili, sia veramente un uomo realizzato? Forse non è vero, forse è l’uomo più infelice del mondo, più infelice

anche di un barbone.

L’inconsapevolezza è assolutamente necessaria alla creazione. Le coppie che fanno l’amore dicendosi: «Faremo un bambino bellissimo» non d riusciranno, non

concepiranno nessun bambino proprio quella sera... Il bambino bellissimo viene per caso, un giorno in cui abbiamo riso moltissimo: abbiamo fatto un pic-nic, d siamo divertiti in

giro per il bosco, poi d siamo rotolati sull’erba... ed ecco il bambino bellissimo!

La musica indiana Subito dopo La Marsigliese, ha girato L’angelo del male.

Non scelsi io il soggetto dell’Angelo del male. Sono veramente felice di aver fatto quel film, il che prova che non si ha ragione a credere di doversi sempre scegliere i soggetti da

soli Fu Robert Hakim a parlarmi di quel soggetto e a convincermi che avrei dovuto girarlo. Scrissi la sceneggiatura in quindid giorni. Poi la lessi ai fratelli Hakim [2] che mi chiesero di apportare piccole modifiche senza importanza. Ma non fin io a scegliere il

soggetto. Non avendolo scelto (dato che avevo letto La bestia umana.3 da ragazzo, e non lo

rileggevo da forse vent’anni), il mio lavoro dì sceneggiatore era stato piuttosto superficiale. È successa una cosa che poi si è ripetuta anche a proposito di Verso la vita.

Mentre giravo, ho modificato la sceneggiatura nel senso di Zola. Mi sono ricordato di questo fatto l'altro giorno, alla televisione, perché Simone Simon mi aveva chiesto di darle

in anticipo il copione. Io non avevo più copie della sceneggiatura dell’Angelo del male, e ne ho trovata una a casa di Mar,' Meerson, che molto gentilmente me l’ha prestata. Purtroppo era la prima versione della mia sceneggiatura, e non c’era il dialogo che mi

serviva. C’era un dialogo che avevo scritto io stesso e che era pessimo, mentre quello che

diedi a Simone Simon era copiato quasi parola per parola dal testo di Zola, ed è

magnifico. Lo modificai il giorno stesso in cui fu girato. Dato che avevo dovuto lavorare molto velocemente, ogni sera rileggevo qualche pagina di Zola, per vedere se non mi stesse per caso sfuggendo qualcosa. E poi mi ero messo in testa un’idea che, del resto, non

ho più abbandonato - continuo a crederci - e cioè che il lato realista 0 naturalista di Zola

non è poi così importante, e che Zola è prima di tutto un poeta, e un grande poeta. Era quindi necessario che mi sforzassi di trovare nel suo stile gli elementi che mi avrebbero permesso di portare la sua poesia sullo schermo.

Ciononostante, questo film in qualche modo sembra più pianificato dei suoi precedenti.

Il mio modo di procedere è stato lo stesso di tutti i miei film. La mattina arrivo sul set, leggo il copione, se è possibile ho qualcuno degli attori con me - non tanto spesso, a dir la

verità: intanto si devono truccare, preparare, vestire. In generale, dunque, mi preparo da solo con un assistente o due, la segretaria di edizione o l’operatore. Immagino le scene e le

formo a metà nella mia testa, ma non deddo ancora l’angolo delle riprese. Secondo me, l’angolo di ripresa va deciso una volta che gli attori hanno provato. Comunque, è solo in

quel momento che mi faccio un'idea complessiva della scena, che diventa una linea guida da seguire molto rigorosamente, in modo tale da lasciare la massima libertà agli attori. In

altri termini, credo che tra il mio modo di procedere e quello che consiste nell’attenersi fedelmente alla sceneggiatura d sia la stessa differenza che passa tra la musica indiana e la musica ocddentale dopo Bach e Vivaldi, dopo la scala temperata. Nella musica indiana c'è un tema di fondo. Questo tema ha quattromila anni e bisogna seguirlo. E poi c'è una

nota di fondo che viene data da uno strumento a corde, che del resto possiede una corda sola. Prima di cominciare, d si mette d’accordo, e questa nota viene ripetuta

costantemente, in modo tale da indurre gli altri strumenti a seguire una tonalità unica. C’è

il tema e la tonalità, e per il resto si è liberi. Secondo me è un sistema meraviglioso, ed è un po’ quello che cerco di fare al cinema.

Un semaforo rosso tutto per me C’è un’altra cosa. Sapete che io ho la mania di girare delle storie che hanno per me una valenza personale, che sono basate su osservazioni che io ho fatto su me stesso, sulle

avventure che io stesso ho vissuto o che hanno vissuto i miei amici, e a dire la verità, non so se sia uno sbaglio, perché richiede molto lavoro, e sempre e comunque molto tempo,

per cui si finisce col produrre ben poco. Quando si ha già un romanzo come La bestia

umana, è molto più facile fare l’adattamento. Dopotutto, è quello che hanno fatto i più grandi autori: Shakespeare, e tutti gli autori classici I classici francesi hanno ripreso i classici latini, che a loro volta riprendevano i classici greci È di grande aiuto non doversi

preoccupare di inventare una storia, ma solo di dare una struttura drammatica a una

storia che è già stata inventata. Allora ci si può permettere di applicare una struttura molto più rigorosa. Nelle storie originati, dato che si dubita di se stessi, bisogna lasciare un certo margine d’incertezza, che permetta di riaggiustare costantemente le cose. Neba

Regola del gioco, dovevo sempre dare un colpo al cerchio e uno alla botte per mantenere l’equilibrio (ancora il gioco dell’equilibrio!), spingendo un po’ da un lato un po’ dall’altro e

poi raddrizzando il tutto: «Adesso cade, adesso cade e si spacca la faccia». Sembra sempre di essere su una corda tesa, come un funambolo, con la sbarra e i pesi. Ma bisogna dire

che è anche molto appassionante. In questo momento, è molto difficile fare film, e quando vedo un film venuto bene (Dio solo sa se ce ne sono!) provo una fortissima ammirazione.

Ci rivolgiamo a un mondo che è fondamentalmente instabile, e anche noi siamo instabili Chiaramente, si ha il diritto di essere pessimisti, di perdere un po’ quella specie di

ottimismo che avevo quando ho girato IIfiume.

L’altro giorno, un mio amico, molto giovane, mi ha detto una cosa meravigliosa. Secondo me, è in quella direzione che si può fere qualcosa. Stavamo parlando, come

prima, di quanto sia stressante guidare la macchina nelle grandi città, Parigi ad esempio, e di quanto i tassisti, a fine giornata, siano nervosi e irritati. Anzi, c’è da chiedersi come

mai non lo siano ancora di più, dato che fanno una vita tremenda, sempre con un piede sul freno, rischiando sempre di investire un ciclista, sempre a un passo dall’omicidio, dall’incidente, o anche da una semplice e fastidiosissima contravvenzione. E se non manifestano ancora di più questo loro nervosismo è perché sono persone educate e si

controllano. E il mio giovane amico, che gira spesso in macchina a Parigi, mi diceva: «Be’, io mi sforzo - non ci sono ancora riuscito, ma prima o poi credo che ci riuscirò - di considerare gli impedimenti alla circolazione stradale come un calmante per i nervi Per

esempio, il semaforo è rosso e uno si deve fermare? In genere, si è nervosi, impazienti, d si dice: “Ma quanto dura, questo semaforo rosso, non finisce mai? Quando scatta il

verde?’ Io, invece, mi dico: “Che fortuna, un semaforo rosso tutto per me’. Tolgo i piedi dai pedali, stendo le gambe e guardo la gente intorno a me. Mi distraggo guardando

quello che succede perla strada, e quando scatta il verde, mi dico: “Che fortuna! 11 rosso è durato pochissimo! Sarò in antìcipo e non in ritardo’».

Non male, eh? Io mi chiedo se non bisognerebbe cercare di fare La stessa cosa al

cinema! A dire il vero, è la continuazione del Fiume, è quello che Radha, quando spiega i

suoi problemi all’americano ferito e nervoso, chiama «il consentire». Ancora una volta, è perfettamente possibile che la pratica della filosofia orientale venga in aiuto agli

occidentali In India, quelli che praticano veramente questa filosofia (in realtà non è una

filosofia, è semplicemente un atteggiamento che si ha nella vita) arrivano a questo risultato: se sono molto poveri, si mettono a vivere. mettono su casa sul davanzale della

finestra di un grande edificio, come per esempio una banca. Lì racimolano una coperta per dormire (dato che può fare anche molto freddo, la notte, e durante la stagione dei

monsoni piove) e l’occorrente per cucinare qualcosa, se sono riusciti a procurarselo. Ci

sono moltissimi tram che fanno un gran rumore, c’è un gran vociare per le strade, ma loro riescono a isolarsi completamente e a concentrarsi sulle loro piccole faccende con la stessa intensità che se si trovassero in una casa di campagna perfettamente solitaria e

circondata da grandi spazi verdi. E questo è un gran bel risultato ed è un sistema che bisognerebbe apprendere, perché ci sarebbe molto utile.

H musetto un po’ a punta Se ce lo permette, vorremmo lasciare da parte tutto quel periodo della sua vita che va

dalla Regola del gioco alla Carrozza d’oro, e continuare col film successivo, vale a dire French Cancan.

French Cancan corrispondeva a un mio grande desiderio di fere un film dallo spirito molto francese e che potesse stabilire un contatto semplice e facile, gettare un piacevole

ponte tra me e il pubblico francese. Sentivo che il pubblico francese mi era molto ricino, ma volevo verificare questo contatto. Anche questo soggetto le è stato proposto?

Sì: solo che il soggetto che mi è stato proposto non ha, in questo caso, nessun rapporto con il film che poi ho girato. Solo il titolo è rimasto uguale, mentre nell’Angelo del male, c’era il romanzo di Zola. Nel soggetto che mi aveva proposto Deutschmeister si trattava

sempficemente di fornire un certo genere di spettacolo e di mantenere il titolo. Mi ha

lasciato una grandissima fibertà per tutto ciò che riguardava la sceneggiatura, che ho

scritto proprio come volevo.

Ha ripreso di proposito molti dei temi della Carrozza, 0 le si sono imposti? Non mi sembra di averli ripresi di proposito. Mi si sono imposti durante la stesura della

sceneggiatura. Dato che i soggetti erano vagamente simili, sono stato condotto alle stesse

conclusioni. C’era un’altra cosa che mi tentava moltissimo in French Cancan. Era l’idea di avere la musica in un film, perché, dal 1924 in poi, l’idea di fare l’opera al cinema mi ossessiona. E nel 1924 la mia idea era irrealizzabile, perché non c’era il sonoro. Così, per

French Cancan ho dovuto scrivere due 0 tre canzoni. Era una cosa che mi piaceva molto, un piccolo passo verso la realizzazione di un vecchio sogno che non si è ancora realizzato, e forse non si realizzerà mai.

All'inizio aveva previsto un finale con un «French cancan» fulminante? Sì, ma studiando la coreografìa con le ballerine mi sono reso conto che l’effetto era

molto diverso da come me l’ero immaginato. Più di tutto, a spiccare era il lato insieme

poetico e terra terra di quel tipo di ballo: il lato molto fisico della cosa, l’attacco abbastanza faticoso, i movimenti ginnici piuttosto rudi e quasi brutali, e insieme lo slancio straordinario. Un film del genere, secondo me, non poteva essere girato che in Francia. Quel genere d’innocenza, soprattutto nelle ragazze, si trova soltanto a Parigi:

quel carattere aperto, ingenuo e non troppo sicuro di sé. L’altro giorno quella trasmissione in televisione di cui dicevo mi ha fatto ritrovare Claudie. È un personaggio davvero interessante. Potrebbe essere un’ottima attrice, ed è l’incarnazione del tipo

parigino. Impersona stupendamente lo spirito del cancan, con quegli occhi sgranati, il musetto un po' a punta e la fronte ostinata, buttata all’indietro.

La cosa che più ci ha colpito è quella specie di esplosionefinale che nel cancan di oggi è scomparsa. È diventato una routine, una specie di abitudine parigina. In quel periodo era furioso,

straordinario, e poi adesso è successo un po’ quello che dicevamo dello stile di Antoine.

Tutto si logora con l’uso, e il «film» che divide la realtà dalla convenzione si ispessisce. Allora anche il cancan diventa una convenzione, e si tirano su le gambe perché bisogna

tirare su le gambe, mentre all’inizio si tiravano su le gambe per creare un movimento che doveva eccitare gli uomini in un certo modo o per permettere di fere un certo passo

acrobatico piuttosto che un altro. Grazie alle mie ballerine, credo che qualcosa di quella verità originaria del cancan sia stata ritrovata. È lo stesso per tutto, per le abitudini sociali

come per le religioni. Tutto si fìssa rapidissimamente in movimenti il cui significato originario si perde, e a volte viene completamente dimenticato. La gente non sa più

perché d si dà una stretta di mano, è diventato un gesto rituale. I riti sostituiscono molto velocemente la realtà.

Conversazioni intime con Venere L'ultimofilm che lei ha girato, al momento, è Eliana e gli uomini. Qual era in questo caso l'idea originale?

Si fe sempre un film per qualche ragione. In genere, la ragione è che un produttore ti propone di fere proprio quel film e ti convince che si tratta di una buona storia, e si è

sempre felici di girare una buona storia. Ma la verità vera, in questo caso, è che morivo dalla voglia, e da un sacco di tempo, di girare una commedia con Ingrid Bergman. Avevo voglia di vederla ridere e sorridere sullo schermo, e di godere io per primo, e di far godere

il pubblico, di quella specie di pienezza carnale che è una delle sue caratteristiche. Per dirla in un altro modo - d’altra parte, ho fatto anche un piccolo disco su questo tema pensavo moltissimo a Venere e all’Olimpo, ma forse a una Venere un po’ rivista da Offenbach.

E forse è proprio questo - la salute del personaggio - che ha avuto un effetto scioccante. Sì, è decisamente possibile. Non credo che il mondo moderno sia pronto per avere delle

conversazioni intime con Venere. Oppure bisogna essere più furbi di quanto non sia stato

io. Bisognerebbe fare dei film in cui Venere si scopre a poco a poco, in cui si aiuta il pubblico a scoprirla. Comunque sia, la sola ragion d’essere di Eliana è la donna, e la donna rappresentata da Ingrid Bergman. Intorno all’idea di donna ho costruito una satira

e mi sono divertito con vicende politiche e con storie di generali. Ho cercato di mostrare la futilità delle imprese umane, compresa quella che prende il nome di patriottismo, e di

divertirmi facendo il giocoliere con certe idee che al giorno d’oggi sono diventate seri princìpi. Ma tutto questo è solo la guarnizione, il condimento. Ero talmente preso dal

personaggio della protagonista femminile che forse ho un po’ tralasciato gli altri lati della questione.

Cè un personaggio che ci intriga molto, ed è quello interpretato da Mel Ferrer.

Secondo la sceneggiatura, è il personaggio positivo, ma, poi, nei dettagli, lo vediamo

spesso in situazioni imbarazzanti. Di primo acchito, il pubblico vorrebbe simpatizzare con lui e non può.

Credo che sia stato un mio sbaglio. C’è anche da dire che, durante le riprese di questo film, sono stato bloccato da ragioni puramente materiali. Non mi rendevo conto di quanto

fosse difficile girare due versioni con un cast che non parlava inglese. All’inizio, si era deciso con la produzione che a girare la versione inglese sarebbero stati degli inglesi o

degli americani, ma poi il cast inglese o americano non è stato trovato. Così abbiamo girato facendo recitare le frasi in inglese a bravissimi attori francesi che non capivano

niente di quello che stavano dicendo. Io, che non sono inglese, posso dirigere un attore

inglese, ma a patto di avere una partecipazione da parte sua (e lo stesso in francese, ho bisogno che gli attori francesi partecipino; la mia non è una regia tirannica, è

bidirezionale). Ora, questo contributo io non lo ricevevo affetto dagli attori francesi, che si

accontentavano di buttare lì firasi che non gli erano affatto familiari, che non evocavano

niente nel loro spirito, solo suoni e un significato, ma nient’altro. Girare le due versioni è stata veramente un’esperienza penosa e faticosissima sia per gli attori sia per i tecnici, e

anche per me. Tutto queste circostanze hanno fatto sì che a poco a poco io abbia allentato la presa, e non mi hanno indotto a sviluppare tutte le situazioni fino in fondo come avrei

potuto fere. Anzi, sono arrivato al punto di cercare di semplificarle per poterle presentare

in un linguaggio più schematico. E tuttavia ilfilm non è affatto schematico... Piano piano sono riuscito a rimettere le cose a posto, sempre grazie al mio principio

dell’equilibrio. Vi dirò che alla fine ho deciso di girare il film come se si trattasse di un film muto. Era la mia ultima speranza, la mia sola ancora di salvezza. Dunque non si trattava di un'ambiguità voluta?

Ho finito per accettarla e per servirmene, perché le circostanze non mi permettevano di fare altro. L’ambiguità del personaggio la conosco, sono stato io a crearla: ma se ne avessi

avuto la possibilità, avrei preferito dar vita a un personaggio trasparente.

Vedendo ilfilm si ha anche la sensazione che il pubblico parteggi a tal punto per il personaggio di Jean Marais da desiderare che la storia si risolva a suo favore.

Devo confessarvi che ho cercato un modo per giungere a un risultato del genere e non l’ho trovato. Girare Eliana è stata un’esperienza spaventosa, e ne sono uscito bene solo perché gli attori sono stati deliziosi con me. Ingrid è stata meravigliosa, e questo è stato il mio sostegno e il mio conforto. Ma lanciarsi nell’impresa di girare due versioni senza avere due troupe diverse è impossibile. È stato un miracolo che sia riuscito a finire Eliana.

Sono riuscito a finirlo perché conosco bene il mio mestiere e ho fatto ricorso a un sacco di

trucchi. Il solito gioco dei contrasti e dell’equilibrio, Dio sa se serve sempre. Tutti i giorni

c’erano un mucchio di difficoltà, e sono riuscito a uscirne solo grazie a piroette e giochi di

prestigio. È proprio questa ricchezza di piroette a incantarci... Ah, ma era come ritrovarsi tutti i giorni sul bordo dell’abisso, fosse stata anche solo la fine, che ho dovuto improvvisare nel giro di un giorno solo, con la canzone di Juliette Greco, perché la fine che avevo previsto originariamente richiedeva dei dialoghi che non

sarei mai riuscito a far recitare agli attori. No, ero con l’acqua alla gola, non c’erano più soldi, bisognava sempre che tirassi fuori delle scorciatoie... Eliana deve la sua unità solo a un certo spirito che sono riuscito a conservare per tutto il film, aggrappandomi al personaggio principale. È lei il collante, il cemento che amalgama il tutto.

Ci sono i tre atti, e - cosa che il pubblico trova particolarmente diffìcile da capire -

questi tre atti sono trattati come tre pièce differenti: il primo è una commedia dalla

messinscena molto sfarzosa, il secondo è un vaudeville satirico, mentre non sapremmo

bene come definire il terzo... Un terzo atto di confusione sentimentale.

Sì, ma con le canzoni. Che i conflitti drammatici vengano risolti da canzoni ci sembra

meraviglioso. Non avevo altri mezzi.

Ma bisognava lo stesso essere molto audaci per servirsi di mezzi del genere... E poi, c’era Juliette Greco. E quando si ha il piacere di lavorare con lei, perché non

approfittarne? Era anche una bellissima occasione per scrivere una canzone il cui testo non volesse dire niente - e questo, comunque sia, è sempre molto piacevole - 0 meglio volesse dire qualcosa solo in un senso molto generale, nel senso di suscitare sensazioni,

ma senza raccontare una storia.

La scena della canzone era molto ben riuscita anche dal punto di vista plastico. Ad

esempio, l'inquadratura della Greco tra i bohémien. Si ha l'impressione di trovarsi improvvisamente davanti a un Picasso del periodo blu. Sì. D’altra parte anch’io ci ho molto riflettuto, perché l’idea che la storia si riavvolga su

se stessa mi fa orrore. E, a parer mio, non si può trattare la storia se non a condizione di renderla attuale.

La fine delfilm è ottimista, pessimista, 0 un po' l’una e un po' l’altra cosa? Su carta, il fatto che Ingrid Bergman cada tra le braccia di Mel Ferrer sembrerebbe un lieto fine.

Ma la scena in cui lei strappa la margherita e quella in cui la margherita cade a terra

hanno qualcosa di straziante. È proprio a questo che pensavo. Ho pensato che questa creatura, fetta per dare gioia alla strada, a tutti, sarebbe finita banalmente tra le braccia di quel signore, e dato che le sue funzioni ormai erano terminate, il sipario sarebbe calato sulla meravigliosa

rappresentazione che regalava al mondo. Tutte cose che normalmente non fanno sì che un film abbia un grande successo di pubblico. Ma le idee che ti vengono quando sei costretto a improvvisare si impongono con grande forza. Hanno un che di penetrante, sono come

aghi che ti si piantano sotto la pelle. Non so se siano idee migliori di quelle che si hanno nella tranquillità del proprio studio, ma sicuramente sono diverse, e le opere che vengono

fuori sono diverse. E non è nemmeno che lei abbia voluto fare della psicologia, in questofilm. La

protagonista ha un certo carattere, ma si definisce soltanto in rapporto a quelli che le

stanno intorno. È così: siamo parte di un mondo. In effetti, qui siamo all’opposto delle tendenze letterarie, teatrali e cinematografiche di oggi. Avete visto il film di Kazan, Baby Doli?

Avvincente, non vi sembra? Neanche quello è un film psicologico, ed è un bellissimo film,

recitato molto bene.

Se avessi potuto far sposare Leslie... Negli ultimi anni, lei si è dedicato, oltre che al cinema, alla letteratura e soprattutto al teatro. Prima delle guerra, non aveva mai avuto dei contatti diretti con il teatro?

No. Avevo solo alcuni progetti che non sono andati in porto. 11 mio primo contatto con il teatro è stato il Giulio Cesare; è stata un’esperienza un po’ particolare, dato il tipo di pubblico che va alle Arene di Aries. È stata un’esperienza appassionante: non

dimenticherò mai la partecipazione della gente della città che recitava nella pièce.

In quel periodo, lei aveva già scritto Orvet, eforse aveva già terminato anche la versione definitiva...

Avevo già scritto Orvet, sì. Poi l’ho forse modificato in seguito, ma l’avevo già scritto.

Era la prima pièce che scriveva?

No, avevo già cominciato a scrivere pièce altre due volte, ma 0 erano diventate

sceneggiature, 0 non le avevo portate a termine. A un certo punto avevo pensato di

ricavare una pièce teatrale dal Signor Lange, da cui, secondo me, si potrebbe tirare fuori anche una bella opera. Ci sono molte occasioni per arie interessanti. L’aria dei tipografi, il

canto delle lavandaie, la grande aria del portiere, in mezzo ai bidoni della spazzatura...

.4 quando risale la prima stesura di Orvet? Avevo cominciato a dargli una forma, molto vagamente, in America: ho scritto

soprattutto in viaggio. Quell’anno feci il viaggio in nave, e la nave è un posto meraviglioso per scrivere. Infatti è quello che farò anche adesso per rimettere a posto la pièce che ho

appena scritto. Prenderò la nave, e una nave non troppo veloce. Per Orvet, il suo incontro con Leslie Caron è stato decisivo?

Sì. Ecco che cos’è successo: la prima volta che ho incontrato Leslie Caron eravamo in

una stazione (credo che fosse la Victoria Station a Londra), lei doveva avere tredici 0 quattordici anni, era giovanissima, e io stavo già preparando IIfiume. Sono stato lì lì per rivolgerle la parola pensando che sarebbe stata perfetta nel ruolo dell’inglesina del Fiume

- dato che naturalmente pensavo che fosse una ragazza inglese. Molto dopo, l’ho rivista insieme ai suoi compagni della troupe di Roland Petit Abbiamo fatto conoscenza e abbiamo simpatizzato moltissimo. La cosa che mi ha colpito di lei è che ha una forma

della testa e un profilo che mi ricorda certe modelle di mio padre. E poi, quando ho avuto modo di conoscerla, l'ho più che apprezzata. Trovo che sia una ragazza straordinaria. Per

Orvet, avevo dei ricordi di certe storie di bracconieri del periodo in cui abitavo nella foresta di Fontainebleau, dei ricordi di una ragazza che è un po’ il personaggio di Orvet. Non vi dirò di aver modellato, come in Toni, il mio personaggio su qualcuno di realmente

esistente, ma qualcuno di realmente esistente mi ha ispirato a scrivere Orvet ed è stato molto vicino al personaggio di Orvet Ho pensato che sarebbe stata una cosa meravigliosa se avessi potuto far sposare Leslie con questo personaggio. Le ho proposto di accettare, e la cosa è andata così.

L'idea le si è presentata subito come una pièce teatrale?

Sì. Una volta scritta la pièce, ho cercato di farne un film e non ci sono riuscito. Ho provato a girarla e a rigirarla in tutti i versi e non ne è venuto fuori niente. C’è alla base una convenzione teatrale. Il linguaggio adoperato dai personaggi per comunicare non è di

tipo cinematografico. .4 un certo punto lei aveva pensato di adattare Primo amore di Turgenev per lo

schermo, e sembrava che ilfilm si sarebbe dovuto chiamare Les Braconniers, o si tratta ancora di un altro progetto? Si tratta di un altro progetto. Ho scritto la sceneggiatura con la collaborazione di Dudley Nichols, ma il film non è mai stato girato: si incentra tutto sull'idea di un castello nel bosco e di una ragazza che vive insieme ai personaggi della foresta, ma che non ha

nessun rapporto con Orvet. E poi c’è un’altra idea di foresta. C’era in quella sceneggiatura un personaggio secondario che si chiamava Orvet, e ho chiesto a Dudley Nichols il

permesso di chiamare Orvet il personaggio principale della mia pièce.

L’impressione di ripartire da zero .Ve ha quindi scritte diverse versioni? Avevo progettato una versione con personaggi immaginari. Avevo anche buttato giù un

abbozzo, ma ho abbandonato questa versione quasi subito. Nella penultima versione, i

personaggi erano reali e il protagonista maschile non era un autore. Avevo paura che la

vicenda avesse un che di sordido, ed è per questo che ne ho voluto fare una vicenda immaginaria. E ormai quest’avventura immaginaria è talmente legata a Orvet che non posso più estrarla, ed è la ragione per la quale non ne verrebbe fuori un buon film. Credo

che sia molto difficile fere accettare, al cinema, una fiaba che sia una fiaba pura e semplice. C’è un altro modo di trattare il fantastico al cinema, ne stavamo parlando

prima: è il tentativo di toccare la realtà vera, ma il fiabesco, stile Perrault, non credo che sia nelle mie corde cinematografiche.

Inoltre, ho apportato delle modifiche alla mia pièce, perché volevo avere un attore che ammiro immensamente, Paul Meurisse, mentre il mio personaggio originario era molto

più vecchio. Si trattava in sostanza della vicenda di un signore molto anziano e di una ragazzina.

L'idea, peraltrofondamentale, di Orvet che balla con le scarpe le è venuta all'ultimo

momento? L’ultimo giorno delle prove. Durante la sua prima regia teatrale, ha avuto l'impressione di poter approfittare

della sua esperienza di regista cinematografico 0 di star ripartendo da zero? Ho avuto l'impressione di ripartire da zero, e di star facendo un altro lavoro, almeno in

Orvet. Nel Giulio Cesare, al contrario, la mia esperienza cinematografica mi è stata

utilissima. Per prima cosa mi sono giovato del fatto di essere, come regista di cinema, avvezzo a girare le mie storie non in ordine, e di dover avere, per questo, il soggetto chiarissimo in testa. Ora, io non ho mai fatto provare il Giulio Cesare nella sua interezza: la prima prova è stata la prima rappresentazione in pubblico. E ciò per una buona

ragione: una parte degli attori erano abitanti di Arles che lavoravano tutto il giorno, per cui ho dovuto fare le prove pezzetto a pezzetto, e non in ordine; in questo, l’abitudine a procedere allo stesso modo al cinema mi è stata di grande aiuto. È un aspetto pratico,

molto semplicemente, ma anche questo conta, e molto. Un’altra cosa; o meglio,

approfondiamo quanto abbiamo appena detto. Al cinema si acquisisce l'abitudine di

classificare molto chiaramente le varie parti di una storia, per poterle girare non in ordine, e si acquisisce anche come un istinto che valuta l’intensità delle scene in rapporto

alla loro successione in fase di montaggio. E poi, sono stato molto aiutato, nel Giulio Cesare, dal fatto di non essere stato io a scriverlo, ma un tale di nome Shakespeare. E diciamocelo, si tratta di una grande facilitazione, 0 no?

In Orvet, al contrario, le mie preoccupazioni erano preoccupazioni da autore e, quando provavo una scena con gli attori, se le prove non davano i risultati sperati, mi veniva da chiedermi se la mancanza di buoni risultati non fosse dovuta al testo 0 alla situazione e

non alla regia. Mentre nel Giulio Cesare, se qualcosa non andava, sapevo benissimo che era colpa mia e non di Shakespeare. Sapevo che le soluzioni dei problemi che mi si presentavano erano di tipo puramente registico, mentre in Orvet mi domandavo se non

dovessi trovare soluzioni «d’autore». Era la cosa più notevole di Orvet In genere, in una rappresentazione teatrale si riesce

a separare scrittura e regia, mentre in questo caso era impossibile dissociare le due cose. Oggi la regia occupa uno spazio sempre maggiore, ma io credo che sia colpa degli autori. Molti drammaturghi moderni portano al regista un progetto un po’ abborracciato,

e contano su di lui per terminare il lavoro e dare un senso finale all’opera. Molte pièce

sono scritte in modo confuso, impreciso.

Ventanni dopo Eccoci arrivati alla domanda rituale sui suoi progettifuturi. In questo momento, sta scrivendo contemporaneamente una pièce e un film?

Il film è ancora molto vago. Ci sto lavorando, e ogni giorno modifico il progetto. Anzi, in realtà, ne ho due, di progetti: il primo è di ritornare a Simenon, trenfanni dopo, e di fare un film su Tre camere a Manhattan^ e di girarlo per le strade di New York: vorrei

provare a mescolare intimamente Leslie Caron e il protagonista maschile, che è

innamorato di lei, alle strade e a New York, in bianco e nero, con molte riprese dirette. Quanto all'altro progetto, ci sto lavorando e non posso parlarne se non molto in generale,

perché tutti i giorni faccio qualche modifica. Sto tentando di scrivere una pochade

parigina. Ritorno alla mia idea di Paris-Province, ma un Paris-Promnce molto

modificato: non si svolgerà più in un viale come l’avenue Frochot, ma in una strada come se ne trovano dalle parti della porte de ChàtìHon. Sapete, da quelle parti parecchie delle case più misere sono ancora fette di legno; ci sono molti atelier di artisti, dove si fanno

calchi in gesso, o di decoratori... La mia protagonista femminile, che vive in questo

ambiente, che è un piccolo mondo, trova molte difficoltà ad adattarsi al mondo esterno. Sarà ancora una volta una cosa come se ne stanno facendo sempre più spesso di questi

tempi: per esempio, L'Oeuf, che è una pièce notevole, tratta da un romanzo da cui mi sarebbe piaciuto fare un film. È un soggetto straordinario, che parte da ima serie di temi su cui rifletto da molto

tempo, e da molto prima di aver letto Chair et Cuir: un’idea che si ritrova nello Straniero

di Camus e anche nella Cagna, e che è tremendamente drammatica: «Come sono, quando sono fuori? Come mi vede la gente? Come mi accetta?» Ecco tutto...

Infine, ho lavorato molto alla mia pièce, molto più che al film, e ormai è finita: credo di aver scritto tre atti classici. È troppo lunga, ma la scorterò più avanti. Danielle Darrieux, se le circostanze lo permettono, farà la parte di un’attrice francese durante l’occupazione, e Paul Meurisse quella di un generale tedesco. È un esame il più onesto possibile dei vari sentimenti che si scontrano nella mente di ciascuno quando si è occupanti e «occupati». Non posso dire che sia un vero seguito della Grande illusione: ma insomma, anche a

ventanni di distanza, fa parte dello stesso insieme di temi. Metto in scena tedeschi,

francesi, collaborazionisti e altri che fanno parte della Resistenza, altri ancora che non

hanno nessuna idea in proposito... La cosa più difficile è trovare un contesto ridotto. Di storie che si svolgono in un

contesto ampio se ne trovano a bizzeffe, ma una storia che si tenga insieme, che voglia

dire qualcosa e che sia racchiusa in un «uovo», non è altrettanto facile da trovare. In

questo caso, sono riuscito a racchiudere la mia storia in un uovo, dato che la pièce si svolge in tre ore - giusto il tempo della rappresentazione, intervalli compresi, dalle nove a mezzanotte - in un camerino d’attrice, in un teatro. È per questo che sono molto contento.

(Intervista con Jean Renoir apparsa sul numero 78 dei Cahiers du cinema, dicembre

1957, numero speciale interamente dedicato a Renoir; traduzione di Laura Pugno) [i] Angele di Marcel Pagnol (Francia 1934). [n.d.t.] [2] I fratelli Hakim erano importanti produttori cinematografici.

INTERVISTA CON ROBERTO ROSSELLINI di Eric Rohmerts] e Franqois Truffaut

Il messaggio contenuto negli ultimifilm di Roberto Rossellini ha dato adito a

interpretazioni così diverse che una messa a punto da parte dell'autore ci è parsa

opportuna. L’intervista che ci ha accordato elimina qualsiasi malinteso sul significato

morale della sua opera. Rossellini conquisterà un ammiratore in più? Non lo sappiamo, ma i suoi detrattori non potranno più accusarlo di insincerità o di incoerenza.

Una posizione morale Un collaboratore dei Cahiers, Jacques Rivette, scriveva di recente: «Da una parte c'è il

cinema italiano, dall'altra l'opera di Rossellini*; intendeva dire che lei si tiene al difilari del movimento neorealista, nel quale si schiera la stragrande maggioranza dei registi

italiani... Sì, di un certo neorealismo; ma che cosa si intende con questa parola? Saprete che a

Parma si è svolto un congresso sul neorealismo; U]ci sono state molte discussioni e questo termine rimane confuso. Per lo più è solo un’etichetta. Per me è soprattutto una posizione

morale da cui guardare il mondo. Diventa poi una posizione estetica, ma il punto di partenza è morale.

Si dice in genere che c’è una rottura nella sua opera a partire da Stromboli Forse è vero. È difficile giudicare se stessi; quanto a me - e non è che dia tanta importanza alla cosa - mi considero molto coerente. Credo di essere lo stesso essere

umano che guarda alle cose allo stesso modo. Ma si è indotti a trattare altri argomenti, l’interesse si sposta, bisogna intraprendere altre strade: non si può continuare a girare in

eterno nelle città distrutte. Troppo spesso commettiamo l’errore di lasciarci ipnotizzare da un certo ambiente, dall’atmosfera di un certo momento. La vita è cambiata, la guerra è

finita, le città sono state ricostruite. Bisognava rappresentare il dramma della ricostruzione: forse non ero in grado di farlo...

È il tema che tratta in Germania anno zero e in Europa *51; non c’è, in questi duefilm, un pessimismo - totalmente assente in Roma città aperta, ma che già trapelava in Paisà?

Non sono un pessimista: vedere anche il male è, a mio parere, una forma di ottimismo. Mi si è rimproverato di essere presuntuoso in Europa ’51; persino il titolo ha fatto scalpore. Nelle mie intenzioni c’era molta umiltà; volevo dire molto umilmente ciò che

sentivo nella nostra vita di oggi Sono un padre di famiglia? dunque la vita di tutti i giorni mi deve interessare. Mi si è anche rimproverato di non aver dato una soluzione, ma questo è un segno di umiltà. Del resto, se fossi stato in grado di trovare una soluzione,

non avrei fatto film, ma altro... Eppure, quando in Stromboli lei propone una soluzione la critica smania...

Non ho capito perché; ma deve essere colpa mia se non sono riuscito a convincere gli altri.

Personalmente, invece, noi pensiamo che questafine, cristiana, dia significato all'opera.

Questo è il vostro parere. Ma permettetemi di intervistarvi a mia volta. Da qualche

anno nella critica, in genere, c’è stata non proprio un’ostilità, ma una corrente contraria ai

miei ultimi film. Forse perché tratto argomenti che normalmente il cinema trascura, oppure perché utilizzo uno stile che non è cinematografico? Non è il linguaggio ordinario;

rifiuto gli effetti; io «scavo» in una maniera che ritengo personale. Dato che ci piacciono i suoifilm e crediamo di capirli, ci è diffìcile comprendere le ragioni di quelli a cui non piacciono. La novità del suo stile ha potuto sviare inizialmente

alcuni dei nostri colleghi: ma è un fatto che certi hanno cambiato opinione: per esempio, molti di quelli a cui non era piaciuto Europa ’51 a Venezia hanno cambiato parere quando ilfilm è uscito a Parigi. È divertente rileggere quello che i critici hanno scritto sui miei primi film. Roma città

aperta: «Rossellini confonde la cronaca con l’arte, il film è grandguignolesco». A Cannes dove fu proiettato un pomeriggio, nessuno notò il film; poi, a poco a poco, si è cominciato

a prenderlo sul serio, si è perfino esagerato. Mi ricordo lo shock enorme che ho provato

quando è uscito Paisà. Credevo profondamente in quel film: è uno dei miei tre preferitLfs] La prima critica italiana che mi è capitata sotto mano parlava della «mente ottenebrata del regista» e continuava su questo tono. Non credo che si possa dire male di un film più di quanto si sia fatto per Germania anno zero. Oggi lo si cita di continuo. Mi è

molto difficile capire questo ritardo. Tornando al suo stile, ciò che ci può essere di sconcertante è la mancanza dei

cosiddetti «effetti cinematografici»; lei non sottolinea i momenti importanti, rimane sempre non solo obiettivo ma anche impassibile; si ha l’impressione che tutto sia sitilo

stesso piano, per una specie di deliberato proposito.

Cerco sempre di restare impassibile, trovo che ciò che c’è di sorprendente, di straordinario, di commovente negli uomini è proprio che i grandi gesti o i fatti importanti si verificano nello stesso modo, con la stessa pacatezza dei piccoli fatti della vita; e io cerco di rendere gli uni e gli altri con la stessa umiltà: in questo c’è una fonte di interesse

drammatico.

I film che precedono Roma città aperta li ha fatti con lo stesso spirito? Noi non li abbiamo visti. Non hanno avuto più fortuna degli altri, ma erano retti dalle stesse intenzioni.

Nella Nave bianca, che precede di tre anni Roma città aperta, non c'era nessun attore professionista. Era neorealismo antelitteram? Era già lo stesso atteggiamento morale. Sapete cos’è una nave da guerra? È spaventoso: bisogna salvare a ogni costo la vita della nave. Ci sono a bordo piccoli uomini che non

sanno nulla, poveri esseri reclutati nelle campagne, trascinati a manovrare macchine che

non capiscono: sanno solo che quando si accende una lampada rossa bisogna premere un

bottone, se la lampada è verde bisogna abbassare una leva. Tutto qui. Sono imprigionati in questa vita; sono là, inchiodati nel loro settore, inchiodati in senso assoluto, perché se un siluro colpisce la nave una parte verrà inondata ma la nave sarà salva. Questa è la

condizione spaventosa ed eroica di questi poveracci che non sanno nulla: un combattimento, in una nave di questo genere, non lo si sente neppure; si blocca persino la

ventilazione, perché il gas di eventuali esplosioni non si propaghi all’intemo della nave.

Loro sono là, con un clima, un caldo terribile, dietro corazze di acciaio, bloccati, non

rinchiusi, bloccati, assordati da un rumore vago e incomprensibile. Non sanno nulla: devono guardare una lampada rossa o una lampada verde. Ogni tanto un altoparlante

dice qualcosa sulla patria e poi tutto ripiomba nel silenzio.

Ilfilm successivo, L’uomo dalla croce...

...pone lo stesso problema: gli uomini con la speranza, gli uomini senza speranza: qualcosa di piuttosto ingenuo, ma era quello il problema.

Dato che lei pensa, e anche noi siamo dello stesso parere, che non a siano due periodi distinti nella sua opera, bisogna allora ammettere che Roma città aperta e Paisà hanno tratto vantaggio da un malinteso? Sì, ma forse non ero stato in grado di esprimermi bene.

Se ne era stato capace in quei due film, è poco verosimile che non ci sia riuscito negli

altri... noi crediamo piuttosto che si tratti di un malinteso. L’idea cristiana era meno

ravvisabile prima di Stromboli. Certi critici erano seccati che un regista fosse cattolico ed esprimesse apertamente il suo cattolicesimo. Molti cattolici erano contrari. Ne abbiamo avuto la prova con la proibizione del Miracolo da parte del cardinale

Spelhnann.

Secondo meli miracolo è un’opera assolutamente cattolica. Sono partito da una

predica di san Bernardino da Siena su un santo di nome Bonino. Un contadino va sui campi con un figlio di due anni e un cane. Lascia il bambino e il cane all'ombra di una

quercia e va a lavorare. Quando toma, trova il bambino sgozzato, con tracce di denti sulla gola; nel suo dolore di padre uccide il cane, e solo in quel momento vede un grosso serpente e capisce il suo errore. Cosciente dell’ingiustizia commessa, sotterra il cane sotto

delle rocce lì vicino e incide un’iscrizione sulla tomba: «Qui giace Bonino» - era il nome del cane - «ucciso dalla ferocia degli uomini». Passano molti secoli, vicino alla tomba

passa una strada; i viandanti che si fermano all’ombra della quercia leggono l’iscrizione. A

poco a poco si mettono a pregare, a chiedere l’intercessione deH’infelice ivi sepolto: i miracoli si verificano così numerosi che la gente della contrada costruisce una bella chiesa e una tomba per trasferirvi il corpo di Bonino. E allora si rendono conto che si tratta di un

cane.

«Un gran bel film» Come potete capire la storia del Miracolo non è molto diversa: una povera folle, ha,

oltre che una specie di mania religiosa, una fede vera, profonda. Può credere a tutto

quello che vuole. Che può anche essere blasfemo, lo ammetto; ma questa fede è talmente

immensa da ricompensarla. Il suo gesto è assolutamente umano e normale: porgere il seno a suo figlio. Alcuni cattolici sono stati favorevoli al film, altri hanno avuto paura che fosse frainteso; infine ci sono coloro che mi hanno ritenuto in malafede.

Questo stesso malinteso ha riguardato tutti i suoifilm successivi. In Francia i cattolici non sono stati reticenti per ragioni dottrinarie: la stampa cristiana ammira per

disciplina l'iconografia sulpiziana di Monsieur Vincent oppure, per paradosso, il bestemmiatore degli OrgogliosL[6] Forse non mi sono fatto capire con abbastanza chiarezza. Se ci avessi schiaffato dentro

dieci dettagli in più, tutto sarebbe divenuto estremamente chiaro. Ma sono proprio questi dieci dettagli che non posso aggiungere. Niente di più facile di un primo piano: non ne

faccio, per paura di avere la tentazione dì lasciarceli. Quando faccio una proiezione

privata dei miei film (un pubblico ridotto, venti 0 trenta persone), la gente esce sconvolta, con gli occhi gonfi di lacrime... Le stesse persone vanno a vedere il film al cinema e lo odiano. È una cosa che mi è capitata mille volte.

Non potete immaginare quante volte ho incontrato delle persone, soprattutto donne, che mi hanno detto: «Signor Rossellini, da lei ci aspettiamo un grande film, hi a soprattutto non deve ferri vedere delle cose tanto orribili. La prego, feccia un gran bel

film». Un «gran bel film» è difficile. Non sono capace di ferio, probabilmente, e non lo sarò mai. Si ha paura di affrontare i problemi. La lotta politica è diventata così febbrile che la

gente non ha più la possibilità di giudicare liberamente, reagisce solo secondo le proprie idee politiche. Il mondo è pronto per una grande trasformazione. Non so quale sarà, ma

nutro speranze molto profonde, anche se lavoro ben poco nella direzione che vorrei. Ma è

certo, il mondo è maturo per qualche evento. Prendiamo l’esempio di Don Camillo. Non parlo della qualità del film - questa qualità non spiega l’immenso successo che il film ha

avuto; il fatto è che dà l’illusione che ci si può mettere tutti d'accordo. Sono più che

convinto che sia possibile trovare un punto d'intesa, ma non a quel modo: è troppo semplice. È un film che mi ha colpito in modo particolare. In Italia abbiamo conosciuto una fase politica, quella dell’«uomo qualunque»: non diamo peso alle cose... Non sono per

nulla di questo avviso, occorre che l'uomo stia nella lotta, con un’immensa pietà per tutti, per se stesso, per gli altri, con molto amore, ma bisogna rimanere ben saldi nella lotta;

non dico la lotta annata, dico la lotta delle idee e, soprattutto, essere di esempio: e questo è troppo imbarazzante, richiede troppi sforzi; poter dimenticare tutto farebbe molto

piacere, ed è la ragione del grande successo di questo film.

H secolo dominato dalla scienza Molti registi si propongono come campioni della libertà, ma la concepiscono male, è una libertà astratta. Quando si parla di libertà, la prima cosa che si aggiunge è: «La libertà, sì, ma entro certi

limiti». No, si rifiuta persino la libertà astratta, perché sarebbe un sogno troppo bello. Per questa ragione trovo nel cristianesimo una forza immensa: secondo me la libertà è

assoluta, veramente assoluta. Oggi la gente vuole essere libera di credere a una verità che le viene imposta; non c’è più nessuno che cerchi da sé la propria libertà; e questo mi sembra veramente paradossale. Basta dir loro, col dito puntato davanti al naso: «Questa è la verità», per renderli felici; vogliono crederlo, ti seguono, sono capaci di tutto, pur di

poter credere a quella verità. Ma senza il più piccolo sfòrzo per scoprirla. Nel corso della storia è sempre stato così; il mondo ha fatto dei passi in avanti quando ha avuto la vera

libertà. Questa libertà è apparsa nella storia molto raramente, eppure si è sempre parlato di libertà.

È dò che lei esprime in Europa *51. Sapete come mi è venuta l'idea? Stavo girando Francesco giullare di Dio e raccontavo i

Fioretti a Fabrizi; dopo avermi ascoltato fino in fondo, si è voltato verso il suo segretario e ha detto: «Era un pazzo»; e l’altro ha aggiunto: «Assolutamente pazzo». Mi sono anche

ispirato a un fatto accaduto a Roma, durante la guerra: un commerciante di piazza Venezia vendeva stoffe al mercato nero; un giorno la moglie stava servendo una cliente,

lui si avvicina e dice: «Signora, prenda questa stoffa, gliela regalo, perché non voglio partecipare a questo crimine; la guerra è una cosa orribile». Evidentemente, dopo che la cliente è uscita dal negozio, l'uomo ha litigato con la moglie e questa gli ha reso la vita

impossibile in casa; ma il problema morale rimaneva. Dato che le cose non si aggiustavano e che la moglie continuava a perpetrare crimini contro la sua legge morale,

che fa quest’uomo? Va a denunciarsi in questura: «Ho fatto questo e quest’altro, ho

bisogno di scaricarmi da tutte queste cose». La polizia allora lo manda in un ospedale

psichiatrico... E lo psichiatra mi ha detto una cosa piuttosto preoccupante: «L'ho

esaminato e mi sono accorto che quest’uomo aveva solamente un problema morale; ero così sconvolto che di notte ho riflettuto e mi sono detto: devo giudicarlo come scienziato e non come uomo; come scienziato devo vedere se costui si comporta come la media degli

uomini. Non si comportava come la media degli uomini, quindi l’ho fatto rinchiudere in manicomio». È un fatto accaduto veramente e tacerò per discrezione il nome di quel grande scienziato. Ne ho discusso spesso con lui e mi ha detto: «Devo io stesso dissociare in me l’essere umano dallo scienziato, la scienza ha i suoi limiti, la scienza deve calcolare,

misurare, regolarsi su ciò che ha conquistato, che conosce. Tutto ciò che si trova al di fuori dei suoi limiti bisogna assolutamente dimenticarlo».

In un secolo dominato dalla scienza - e noi sappiamo che è imperfetta, che ha dei limiti

atroci - non so fino a che punto dobbiamo fidarcene. Questo è il soggetto del film. La mia

idea era molto chiara: san Francesco, il fatto che ho raccontato e Simone Weil ne sono stati l’origine. Le è stata attribuita l’intenzione difare un Socrate.

Ho sempre avuto questo sogno: Socrate, il giudizio e la condanna, ma dove trovare

l’attore?

E Viaggio in Italia? È un film che amo molto; era per me molto importante far vedere l'Italia, Napoli, quella strana atmosfera in cui si trova mescolato un sentimento molto reale, molto immediato,

molto profondo, il sentimento della vita eterna: è una cosa che è scomparsa del tutto dal mondo. A Eduardo De Filippo è capitata una storia straordinaria. Quando stava scrivendo la sua commedia Napoli milionaria, passeggiava a Napoli per documentarsi. Un giorno ha saputo che una famiglia napoletana mostrava un bambino negro, nato in famiglia; è andato a vedere lo spettacolo: sulla soglia di casa il marito napoletano si faceva pagare

cinque lire. Si entrava, si andava a vedere sua moglie con il bambino negro in braccio. Quando è uscito, dato che a Napoli è molto conosciuto, il marito gli ha chiesto: «È soddisfatto, ha visto bene?», e pare che De Filippo avesse risposto: «Ma ascolta, che razza di uomo sei, non hai vergogna per cinque lire di mostrare a tutti che tua moglie ti ha

messo le corna con un negro?» Allora l'uomo lo prende da parte e gli dice: «Rimanga fra noi, il bambino, di sera, lo laviamo». Era un povero bambino napoletano! Poiché c’era la

corruzione, si voleva la corruzione. Era una povera famiglia che doveva vivere. Si erano messi al pari con i tempi!

Questa innocenza straordinaria, questa purezza, questa non partecipazione al sudiciume degli altri era la cosa miracolosa. Vi ricordate in Paisà? Chiedo scusa se cito me

stesso, ma si tratta di una battuta del dialogo che per me ha un’importanza enorme.

Quando il negro si addormenta, il ragazzo gli dice: «Sta' attento che se ti addormenti ti rubo le scarpe». Il negro si addormenta e il bambino gli ruba le scarpe. È corretto, è

normale, è quel gioco straordinario in cui ci sono i limiti della morale. A Napoli, durante la guerra, ho visto una cosa sensazionale. In città ci sono i «bassi» -

negozi in cui si va a comprare al primo piano; nel basso vive la gente: è molto divertente uscire in strada a chiacchierare; è la gioia più grande del mondo. Dunque in quel basso ci

viveva una famiglia di sedici persone; il più piccolo dei quattordici figli aveva tre anni e il

maggiore diciotto. Erano tutti nel mercato nero; avevano le tasche piene di soldi. Sapete che cosa hanno comprato con quel mucchio di soldi che avevano guadagnato? Non si sono comprati abiti, non si sono comprati scarpe, hanno comprato delle bare, delle bare

stupende, ornate d’argento. Quale era il vero significato di dò? Quei poveracci vivevano una vita spaventosa, sapevano di non essere nulla di nulla quaggiù, avevano questa speranza della vita eterna, la speranza di presentarsi a Dio degnamente, come esseri

umani, una cosa che veramente ti strappa le lacrime. Si dice che sia paganesimo. Ma non era per nulla paganesimo, aveva un senso infinitamente più profondo.

Del resto non bisogna dimenticare che Napoli è l’unica dttà al mondo in cui accade un miracolo a una data fìssa, il 19 settembre, il miracolo di san Gennaro. E guai a san Gennaro! Se il miracolo non si verifica, lo insultano. Succedono delle cose tremende...! È questa fede portentosa che regge tutto. Qui c’è il vero lato eroico degli uomini, non è altro

che questo. Mi ricordo di un’osservazione di mia moglie quando ha cominciato a parlare in italiano: «Che buffo, voi altri italiani dite sempre che tutto è bello 0 brutto, mai buono

0 cattivo»; infatti noi diciamo un bel piatto di spaghetti, mai un buon piatto; una bella

bistecca, e mai una buona bistecca. Se questo accade nel linguaggio, la stessa cosa accade fatalmente nel concetto della vita. Così è tutta l’Italia. Quanta parte ha l'improvvisazione nei suoifilm?

Di norma, si gira secondo il piano prestabilito; io mi riservo una parte di libertà. Sento il ritmo del film a orecchio. Ed è forse ciò che mi rende oscuro; so quanto sia importante un’attesa per arrivare a un determinato punto, allora non descrivo il punto ma l’attesa, e

arrivo di colpo alla conclusione. Sono veramente incapace di fare diversamente, perché quando hai il punto, il nocdolo della cosa, se ti metti ad allargare quel nocciolo, ad annacquarlo, a stiracchiarlo, non è più un nocdolo, ma qualcosa che non ha né forma né

senso né emozione. Ho ricevuto il libro di Claude Mauriac; [7] l’altra sera leggevo quello che ha scritto di Stromboli. Ha detto che in quel film ho intercalato dei documentari, comprati e montati: per esempio la sequenza della pesca del tonno. Quell’episodio non è per niente un documentario; c’è di più, l'ho filmato di persona. Ho cercato di riprodurre

questa attesa eterna sotto il sole; e poi quel momento tremendamente tragico in cui si ucdde: questa morte che si scatena dopo un’attesa straordinaria, abbandonata, pigra, benevola direi, sotto il sole. Era la cosa più importante dal punto di vista del personaggio.

Claude Mauriac è un uomo molto attento, intelligente; per quale ragione un critico può

dire una cosa simile? Dovrebbe informarsi prima. Lei si è fatto la filma di uno che gira senza sceneggiatura, improvvisando

continuamente... In parte è una leggenda. Ho presente, mentalmente, la «continuità» dei miei film; in

più ho le tasche piene di appunti; tuttavia devo ammettere che non ho mai ben capito la necessità di avere una sceneggiatura, se non per rassicurare i produttori. Che c’è di più

inutile della colonna di sinistra: piano americano, carrellata laterale, la macchina riprende in panoramica e inquadra...? È un po’ come se un romanziere facesse un copione del suo libro: a pagina 212, un congiuntivo imperfetto, poi un complemento di termine e così via! Quanto alla colonna di destra, sono i dialoghi; non li improvviso

sistematicamente, sono scritti da tempo, e se li do all’ultimo momento è solo perché non

desidero che l’attore, 0 l’attrice, ci feccia l’abitudine. Questo dominio sull’attore riesco a

ottenerlo con poche prove e girando in fretta, senza troppi ciak Bisogna saper contare

sulla freschezza degli interpreti. Ho girato Europa ’51 in quarantasei giorni e non ho usato

più di 16.000 metri di negativo; per Stromboli, un metraggio ancora inferiore. Certo, sono stati centoventi giorni di riprese, ma eravamo bloccati sull’isola, ostacolati dall’incostanza del tempo, i mutamenti troppo forti del mare e del vento; per quanto riguarda la pesca, abbiamo atteso i tonni per otto giorni. In breve, non mi comporto diversamente dai miei

colleghi; semplicemente, faccio a meno dell'ipocrisia della sceneggiatura.

Aspettavamo con impazienza il film che ha tratto da Giovanna d’Arco al rogo e che doveva girare in cinemascope.

Sì, ma non sono riuscito a girarlo in quel modo. Solo a colori, Gevacolor. Sono molto contento del risultato. È un film molto strano. So bene che si dirà che la mia involuzione è

arrivata al limite massimo, che sono ritornato sotto terra; ma non è per niente teatro filmato, è cinema, e direi persino che si tratta di neorealismo, nel senso in cui l’ho sempre

tentato.

I suoi progetti? Farò un film in Germania con mia moglie, tratto da un racconto di Stefan Zweig, La

paura. Voglio mostrare l’importanza della confessione: la donna è colpevole e non può liberarsi che confessando.

(Intervista con Roberto Rossellini apparsa sul numero 37 dei Cahiers du cinema, luglio 1954; traduzione di Johanna Capra)

[3] L’intervista è firmata con il vero nome di Rohmer, Maurice Schérer. [nxlt.] [4] Dal 3 al 5 dicembre 1953. [n.d.t.]

[5] Gli altri due sono Francesco giullare di Dio e Europa '51. [6] Monsieur Vincent (Francia 1947), di Maurice Cloche, ispirato alla vita di san Vincenzo de* Paoli, e Les orguiUeux (Francia 1953) di Yves Allegret [n.d.t.] [7] L'amour du dnéma, Paris, Albin Michel, 1954. [n.d.t]

NUOVA INTERVISTA CON ROBERTO ROSSELLINI

di Fereydoun Hoveyda ed Eric Rohmer Questa conversazione comprende due parti. La prima registra le lagnanze di Rossellini contro il cinema-verità. La seconda, ampliando il punto di vista, riprende e prolunga le dichiarazioni raccolte esattamente un annofa, nel nostro numero 133 dei Cahiers. Anche se le nostre rispettive opinioni su La punition di Jean Rouch (EJl. è nettamente a favore,

FJi. francamente contro) e sul divenire ddl’arie contemporanea concordano solo di

rado, abbiamofattofronte comune contro il nostro interlocutore del quale apparivamo,

durante tutto il dibattito, come decisi antagonisti. L’Express ha pubblicato alcune sue frasi sul cinema-verità a proposito deifilm di Leacock, deifratelli Maysles e di Rouch. Può darci spiegazioni più ampie

sull'argomento? L’artìcolo dell’Express riassume, senza snaturarle, le argomentazioni che ho sostenuto

al cineclub deH’UNESCO. Ma posso farvi a mia volta una domanda? Che pensate di questo genere di film? La vostra opinione, visto che siete due critici, conta certamente più della mia.

I Cahiers sono aperti a tutte le tendenze e reputano che nessuna debba essere scartata a priori. Sono d’accordo con voi. Ma questo non significa che non si possano fare delle critiche.

E poi, dire che il cinema-verità è una tendenza non prora nulla quanto al suo valore. Poiché d tenete, riprendo dunque quanto ho detto l’altro giorno all UNESCO. È molto

sorprendente che si dia tanta importanza a qualcosa che non è neppure un’esperienza. Io non ho capito e vorrei capire.

L’etichetta e la bandiera Nel caso del cosiddetto cinema «verità» avviene la stessa cosa die capita con la Nouvelle Vague, francese 0 straniera. Sono tendenze che non si possono accettare o

rifiutare in blocco, bisogna distinguere, al suo interno, le varie personalità. Ora, qui ai

Cahiers, La punition piace quasi a tutti, malgrado ciò che ilfilm vuole essere. Poco

importano le sue teorie, l'essenziale è che Rouch sia un artista.

Che sia un artista, d'accordo. Ma non capisco come possa essere un artista in questo film. Voi paragonate il cinema-verità alla Nouvelle Vague. Ma l’etichetta della Nouvelle Vague è stata affibbiata al movimento da chi non ne faceva parte: è servita a raggruppare cineasti di tendenze diverse il cui solo proposito era produrre film con un sistema tecnico

nuovo - e ognuno restara quello che era, con le sue idee, la sua personalità, la sua estetica ecc. Ma quando didamo dnema-verità, non si tratta più di un’etichetta affibbiata da altri:

è un vessillo, brandito dai cineasti in persona. Allora mi chiedo dov’è la verità, che

significa questa verità, dove vuole arrivare. A queste domande ho alcune risposte, che vi

darò tra un istante. Ma in ogni caso non vedo dove sia il proposito artistico.

Questo proposito sembra abbastanza modesto, almeno per quanto riguarda Rouch. Diciamo, prendendo il primo esempio che ci viene in mente, che come i pittori della fine del secolo scorso hanno denunciato la convenzione della luce in studio, Rouch denuncia quella della recitazione dell’attore e quella dei dialoghi scritti in anticipo.

Sono ormai ventanni che lo ferriamo, nel cinema.

Non fino a questo punto. Esatto, non fino a questo punto. Perché? Il vostro paragone con la pittura non è

appropriato, mi sembra. La pittura è il preciso proposito di un signore che, invece di intraprendere la strada di una riproduzione meticolosa, oleografica, fotografica di dò che vede, ne fa una interpretazione. Ecco quindi un signore con una posizione precisa, un sogno artistico proprio, un’emozione personale, che riceve un’emozione da un oggetto e

tenta di riprodurla, costì quel che costi, e che tenta, persino deformando l’oggetto che gli ha fornito una prima solledtazione, di comunicare a qualcun altro, meno sottile, meno

sensibile, la propria emozione. Vedete come l’autore entra in tutto questo, come la sua

scelta è determinata, come il suo linguaggio diventa l’elemento essenziale dell’espressione. Ma qui, niente di tutto dò. Abbiamo una macchina da presa, che ha, secondo me, una qualità: quella di essere una macchina, niente di più. La pellicola è solo pellicola. Oggi è in buono stato, sarà pessima tra sei mesi 0 fra due anni, quando verrà

fuori una nuova pellicola. Ritornerà buona fra trenfanni, perché si vedrà come questa pellicola, che fotografava così male, portava l’impronta di una certa epoca. In ogni caso

tutto dò non ha nulla a che fare con la personalità di un artista, di un uomo che pretende,

che vuole e che deve essere un essere umano che osserva cose e le racconta agli altri, proprio per servire da legame tra le sue emozioni e le loro. Qui siamo tutti in presenza di

un esecutore puramente tecnico che riproduce dò che chiunque abbia un minimo di

spirito di osservazione può vedere. Bene, nel cinema-verità è un dogma che l’autore non intervenga affetto. Ho persino sentito dichiarare: «Noi non vogliamo fare le sceneggiature perché non ne siamo capad». È una dichiarazione piuttosto grave, comunque!

Chi lo ha dichiarato? Rouch e i Maysles. Sono loro ad averlo detto, non io. Quindi significa che Rouch non

vuole mettere in gioco la sua personalità. Ma che una personalità d sia lo so, ho visto i film in cui questa personalità appariva. E qui rinuncia a esercitarla! A questo punto non ci

capisco più niente.

In terra, una macchina da presa Non vuole intervenire nella costruzione della sceneggiatura tradizionale; ma,

malgrado tutto, nella Punition il suo intervento è estremamente importante. Del resto ha scritto una pagina e ha dato agli interpreti alcune direttive. Ci sono mille modi per dirigere gli attori!

Sì, sappiamo come farlo. Ma voi qui mi dichiarate cose che Rouch non mi ha detto. Se

ho ben capito, rifiuta ogni minimo intervento da parte sua. Se c’è stato un intervento la questione è diversa. Voi mi dite che ha scritto una pagina: una pagina, persino tre righe

sono suffidentì per scrivere una sceneggiatura. In questo caso è diverso.

Rouch, sfortunatamente, non è qui per dirimere questo dibattito. Ma, infine, ci ha

detto di essersi posto qualche domanda: «C’è un intervento, certamente, ma a che titolo, a quale stadio?» Secondo lui, consiste in una ceria preparazione. E anche nel

montaggio. In tal caso cambia tutto. Si tratta di giudicare un’opera voluta da qualcuno, anche se l’autore limita il suo intervento. E il giudizio che ne possiamo esprimere diventa cosa ben

diversa. Si tratta di giudicare l'opera di per sé, non le intenzioni. Non voglio giudicare questo film, e per ragioni molto semplid. Sono cose che non mi

interessano nel modo più assoluto, che mi opprimono e mi infastidiscono terribilmente, perché sono fatte per qualche amico. Non riesco a capirle, sono roba noiosa, pigra e

misera. Dunque lei pensa che l’opera sia brutta. Rouch è un amico troppo caro e un uomo che stimo troppo profondamente perché mi

diverta a parlarne male alle sue spalle. Se mi sono arrabbiato - e vi assicuro che quella sera tremavo di rabbia - è perché lo amo molto.

Consideriamo allora la cosa da un altro punto di vista. Che differenza vede tra il cinema-verità e i suoi documentari? Una differenza enorme. India è una scelta. È il tentativo di essere il più onesto

possibile, ma con un giudizio molto preciso. O se non altro, se non con un giudizio, con un amore molto preciso. Non è indifferenza, in ogni caso. Posso sentirmi attirato da alcune cose, posso sentirmi respinto, ma non posso dire: non prendo posizione. È impossibile!

Però accetta il principio delfilm-intervista? No. Credo possa essere molto interessante per chi voglia mettere insieme una

documentazione sdentifica. No, dal momento che devo fare arte. Per fare arte, bisogna rispettare le regole. Se si fa dclismo, bisogna saper andare in biadetta.

Solo che l'arte non si sa dove comincia e dovefinisce. All'inizio si diceva:

«H cinema riproduce la realtà, dunque non è arie. L’arte si cela altrove». L’arte si cela altrove, d’accordo, ma l’arte non può essere fatta da chicchessia. Un film di questo genere sarà artistico se, per caso, nella strada ti imbatti in un artista!

No, perché il modo in cui il signor X e il signor Yfilmeranno la stessa cosa sarà diverso. Se si paragona, per esempio, La punition con Le joli mai,[8]Za gente non parla nello stesso modo, non «recita» nello stesso modo.

Chiaro, dare una definizione dell’arte è difficile. Tuttavia sappiamo molto bene che cosa è l’arte e sappiamo riconoscerla. E questa, non c’è dubbio, non è arte. Muove gli stessi rimproveri anche agli altrifilm di Rouch?

No. Per esempio ho amato molto Jaguar. Me ne infischiavo completamente di vedere

in un'inquadratura un tizio con un cappello, poi nell’inquadratura successiva senza

cappello, poi di nuovo con il cappello e cose di questo genere! Quello che c’era era vivo,

importante, pieno d’emozione. Rouch era un etnologo che studiava l’Africa, prendeva la gente per la strada, la filmava e, a partire da qui, si formava una concezione, si costruiva

un punto di vista che reintroduceva nel film. Ecco la vera operazione creativa. Siete davvero persuasi che d possa essere arte senza l’intervento di una personalità?

No, affatto. Se amiamo La punition è perché pensiamo che ci sia l’intervento di una personalità.

Mi baso su quello che mi dice Rouch: «Prendo una persona, le do una valigia con dentro un magnetofono. Questa persona paria come più le aggrada. Io non la conosco,

non so assolutamente niente, non voglio sapere assolutamente niente, non c’è nulla di organizzato ecc.».

Rouch non ci ha detto questo. Ci ha detto: «Ho voluto fare un film sul tema dell’incontro, che è un tema surrealista». Si tratta di sapere qual è il punto di partenza. Sono andato a quella serata dicendomi: ecco il cinema-verità. Per terra c’era una macchina da presa,[9]che tutti veneravano, ma

era una mane-bina da presa. Una macchina da presa è una macchina. £ un oggetto, non mi

eccita. Che una macchina da presa possa eccitare qualcuno mi fa andare in bestia. Ma che idiozia! Quella macchina da presa, che ecdtava i sensi e gli organi genitali di quanti erano

presenti, mi lasciava del tutto indifferente. Se non mi ecdto io per una macchina da presa, non posso capire quelli che si ecdtano! Ci sono anche i pederasti, al mondo! Io non sono un pederasta, non posso capire. Non potete immaginarvi l’atmosfera ridicola di quella

serata! Una sovrana ridicolaggine.

Questo genere di frasi Ma insomma, la tecnica è un mezzo necessario. Lei stesso è un tecnico. Ha inventato un sistema di carrello ottico. La tecnica è necessaria, ma non stiamo parlando di questo. È qualcosa che deve

verificarsi del tutto naturalmente, ma nulla su cui eccitarsi. «Guardate questa macchina

da presa!» Non mi interessa guardarla, è di un infantilismo incredibile! Questa

mitomania è infantile. Sono stato il primo a difendere Rouch, mentre voi dei Cahiers gli eravate piuttosto ostili Tutto quello che posso dire di lui, anche se non è presente, e con la stessa violenza,

sarà sempre espressione dei miei sentimenti di grande amicizia. L’altra sera mi è parso molto colpito da quello che gli ho detto e che me ne sia stato molto riconoscente. Spero di essergli stato utile e che le mie critiche lo inducano, non dico ad adottare la mia opinione,

ma a migliorare quello che fa, a riprendere certi dati da cui era partito. E forse ne uscirà

con qualcosa di molto buono.

In ogni caso Rouch ha sempre presentato i suoifilm come esperienze allo stato puro.

Tenta di arrivare alla creazione artistica con mezzi indiretti: «Quando si riprende senza

idee preconcette, si crea qualcosa», dice Rouch. Quanto sto per dirvi spiega perché la mia reazione è così violenta. Sapete come questo genere di espressioni mi sia stato caro. Dicevo le stesse cose. Ma le dicevo senza arrivare

alla distruzione totale. Dicevo: «Parto con un’idea che è chiara nella mia testa. Devo esprimerla. Rifiuto l’attore, perché devo preparargli in anticipo le battute. Dato che sono

alla ricerca di qualcosa di assolutamente sincero, di assolutamente vero, cerco di fare a

meno di un lavoro di preparazione troppo perfezionato. Prendo un individuo che mi

sembra avere l’aspetto fìsico adatto al suo ruolo perché mi permetta di portare la mia storia fino in fondo. E dato che non è un attore, ma un dilettante, lo studio a fondo, me ne

approprio, lo ricostruisco e utilizzo le sue capacità muscolari, i suoi tic, per farne un

personaggio. Dunque il personaggio che posso aver immaginato forse cambierà strada facendo, ma per arrivare allo stesso scopo. Ma non per abbandonare la mia idea originaria e arrivare a qualcosa d’altro se non ho combinato niente».

La mia preoccupazione era quella di riunire, nello stesso tempo, una certa

documentazione umana, fare una ricerca su certi atteggiamenti spontanei dell’uomo, e così via. Vi erano in ciò degli elementi in più per andare alla ricerca della verità, dato che il mio scopo era quello di trovare, molto onestamente, la verità. Ma per trovare la verità

bisogna avere anche una posizione morale. Bisogna avere un giudizio critico. Non posso

farmi condurre dal caso e, volendo arrivare all’aeroporto di Orly, ritrovarmi a Le Bourget!

La scimmia antropomorfa Che intende per posizione morale? Anche i sostenitori del cinema-verità rivendicano questa posizione. Innanzi tutto, una posizione fatta di amore. Dunque di tolleranza, di comprensione.

Quindi anche di partecipazione. Vedete come le cose si mescolano, si complicano e diventano sempre più serrate, più vicine a ciò che tu stesso sei, a quello che vuoi. Se si

allontana da sé ogni giudizio, ogni partecipazione, ogni simpatia, ogni tolleranza e si dice: «Siate come siete, io me ne infischio», non è più una posizione morale, anzi è un

atteggiamento molto cinico.

Per quanto ci riguarda, noi percepiamo una posizione morale nella Punition. Diciamo poetica, se preferisce. Cè un modo difilmare le persone che le ridicolizza, lefissa, le

riduce aU’animahtà. Ce n'è un altro che lefa apparire come esseri liberi. Nella Punition,

i personaggi erano ridicolizzati, certo, ma solo a prima vista. L'idea di libertà (il primo titolo delfilm) appare attraverso il loro comportamento.

Secondo me, no. Ciò che dite è giusto. Si può mostrare una persona come si vuole, è

vero. Ma io non credo che un fette artistico sia un fatto artistico compiuto se non c’è tenerezza. Si può ridicolizzare qualcuno e, al tempo stesso, sentire tenerezza. Lo si può

anche trattare in modo apparentemente molto crudele. La vera posizione morale è la tenerezza. Non so riconoscere come forma artistica qualcosa che sia privo di tenerezza. E in quel film la tenerezza manca, poiché è il caso a condurre tutto.

Cosa mi irrita, cosa mi dà fastidio nel mondo di oggi? Che è un mondo troppo inutilmente crudele. Crudeltà vuol dire violare la personalità di qualcuno, metterlo in condizione di giungere a una confessione totale e gratuita. Se fosse una confessione per

uno scopo determinato Faccetterei; ma è l’esercizio di un voyeur, di un vizioso. Diciamocelo: è crudele. A questo reagisco con violenza, perché sono fermamente convinto

che la crudeltà sia sempre una manifestazione di infantilismo, sempre. Tutta l’arte di oggi

diventa ogni giorno più infantile. Ognuno ha il desiderio folle di essere il più infantile

possibile. Non dico ingenuo: infantile. Dall’infantilismo siamo caduti al gradino più basso della scala umana. Siamo passati alla scimmia antropomorfe; ben presto arriveremo alla rana e all’anguilla. È questo che mi dà fastidio. Questa mancanza totale di pudore. Questo

infantilismo lo abbiamo visto nel nouveau roman. Lo vediamo sotto una forma assolutamente incredibile nella pittura. Siamo giunti alla vanità totale, al morboso. E

questo in un mondo che diventa ogni giorno più serio, più complesso. E visto che questo mondo è fetto per gli uomini, si deve sempre accettarlo, nonostante le lamentele del tipo:

«Andiamo verso la distruzione generale, la bomba atomica e tutto il resto». L’arte di oggi

è lamento o crudeltà. Non c’è altra misura: o ci si lamenta o si fe esercizio assolutamente

gratuito di crudeltà.

Ma così lei attacca tutta l'arte contemporanea, da cent’anni a questa parte. Non c'è tenerezza, poniamo, nell' Educazione sentimentale di Flaubert, oppure, se ce n'è, ce n'è

anche nell’arte odierna. Prendete, per esempio, la speculazione - bisogna pur chiamarla con il suo nome - che si fe sull’incomunicabilità, sull’alienazione ecc. Non ci trovo nessuna tenerezza, ma un’enorme compiacenza. È possibile che questa tenerezza esista e che io non sappia vederla. Forse mi sfugge. Dal momento che non posso percepire i colori al di qua del rosso

e al di là del rioletto, è come se non esistessero. Devo essere un fìsico per sapere che al di

qua del rosso c’è l’infrarosso e, al di là del rioletto, l’ultravioletto. Se non sono un fìsico, se giudico attraverso i sensi, non riesco a percepire la tenerezza. Oggi ci si sente all’avanguardia se ci si lamenta. Ma lamentarsi non significa criticare, che è già una

posizione morale. Dal momento che si è scoperto che si può annegare se si cade in acqua, ogni giorno si getta in acqua della gente per vedere questa cosa terribile e abominevole,

che quelli gettati in acqua possono annegare; lo trovo assolutamente ignobile. Ma se,

quando mi sono accorto che la gente che cade in acqua annega, io comincio a imparare a nuotare per potermi tuffare in acqua e salvarla, allora è un’altra posizione. E questo, ve

l’ho detto l’anno scorso, mi ha spinto a non fere più cinema.

Un alfabeto Sì, ma allora a fare cosa?

A fere altro, lo vedrete presto. Lo so che mi si dirà: «Come! Lei si è vantato di non voler fere cinema, eppure fe cinema!» Ma ciò che farò non rientrerà in alcun modo nell’ambito

abituale del cinema. Mi propongo di girare un certo numero di cose che avranno un valore

soprattutto didattico: credo occorra giungere a questo, quando si è caduti tanto in basso. Il didascalico e l'arte non si sono mai accoppiati bene. Me ne infischio di fere arte. Significa rinunciare a molto. È una posizione morale e

posso arrivare a dire - se mi permettete di usare questa parola - eroica. Istintivamente, ogni uomo cerca di rendersi illustre. Quanto a me, non cerco di rendermi illustre ma di

diventare utile.

Lei dice «utile». Che genere di utilità? Utile dal punto di vista umano. Per riprendere il mio esempio, se vedo che la gente che cade in acqua annega, e che il mondo viene invaso dall’acqua, credo mio dovere, dal momento che ho coscienza del fenomeno, imparare a nuotare e fare il maestro di nuoto.

In genere gli artisti, di cui leifa parte, hanno concepito il dovere in modo

completamente diverso. Per essi I’arte non ha un'utilità immediata, pratica.

Mi spiego. Perché un’arte diventi arte, l’importante è che possieda un linguaggio, che

esprima cose che siano comprensibili alla media degli individui. Altrimenti diventa completamente astratta - non intendo dire che occorra per questo fere film

«commerciali»: dissipiamo il malinteso. Ma sono fermamente convinto che non abbiamo gli elementi di base. Oggi d manca qualcosa di più delle semplid idee o del linguaggio: d

manca un vocabolario e persino un alfabeto. Credo sia necessario, per poter fere opera

utile, ristabilire le lettere dell’alfabeto. Non si tratta di trasformare l’arte ma di ritrovarla. Per ritrovare l’arte - un’arte che è completamente corrotta, che si è volatilizzata in

astrazioni, che d ha fetto perdere non solo l’abitudine del linguaggio ma anche

dell’alfabeto sul quale questo linguaggio si fonda - bisogna compiere il grande sforzo di

ristabilire il linguaggio e, una volta ristabilito, che ogni parola ritrovi il suo significato, il

suo valore, si presenti come il frutto di un pensiero profondo, che dunque il linguaggio diventi un vero linguaggio e non un insieme di etichette incollate su campioni di cose di cui conosdamo appena l’esistenza; allora diventa possibile riprendere tutte le forme

dell’arte. Ecco cosa mi sembra molto importante.

Ma non pensa che l’evoluzione dell'arte sia irreversibile? Credete che al mondo non d siano stati periodi di oscurità e di crollo delle dviltà? È un fetto storico che si è sempre prodotto. E dal momento che c’è il crollo di una dviltà, c’è il

crollo dell’arte, il crollo del linguaggio, e così via.

Strettamente didattico Anche ammettendo che l’arte di oggi sia un’arte di decadenza - o perlomeno che vada

verso una fine - sembra che possa rinascere solo se, prima, questa civiltà sparisce.

Una dviltà porta sempre come frutto la sua arte. Ce ne restano solo i grandi

monumenti: le opere, per esempio, dei poeti, che al loro tempo avevano un ruolo minimo all’interno della dviltà che hanno descritto. Ma quando una civiltà non esiste più, o è in

crisi, l’arte muore nello stesso tempo, o anche prima. Cosa bisogna fere, allora? Per

esistere, una civiltà ha bisogno dell’arte. Per esistere, l’arte ha bisogno di idee molto chiare. Oggi, questo mondo della tecnica, della sdenza, noi lo guardiamo tutti con disprezzo, pensiamo che sia pura vanità, persino qualcosa di funesto che porta il mondo

intero alla rovina. Quindi vi fecdo ancora una domanda. Che sforzo abbiamo fatto per capire, dal punto di vista morale, questo fenomeno - che pure appartiene al nostro

tempo, alla nostra dviltà - per penetrarlo, per partedparvi e per trovarvi tutte le fonti di

emozione necessarie a creare un’arte? C’è un divario enorme fra l’evoluzione dell’umanità da una parte, che è un’evoluzione tecnica, e gli artisti dall’altra; artisti che tuttavia, nel

passato, sono stati capad di partedpare a questa evoluzione, di assimilarla, di farla diventare parte della loro coscienza, di renderla ancora più magnifica. A scoperte

strettamente tecniche si dà allora un significato che è preciso e che a partire da quel momento diventa dviltà. Ecco qual è la funzione dell’artista. Se non è il fecondatore delle cose - in se stesse fatali e irreversibili - l’artista viene meno del tutto al suo compito.

Un’ape vola su un fiore, prende il polline, lo trasforma in miele. Nello stesso tempo feconda anche altri fiori. La sua attività è molteplice, completa: ecco qual è la vera funzione dell’artista. Se l’artista non vola più, rimane seduto, si lamenta che i fiori intorno

a lui non gli piacciono, non accadrà nulla, i fiori non si riprodurranno più, sarà

semplicemente la morte. Si arriverà all’aridità della morte. Ma io credo che l’arte non sia morte, ma vita. L'arte è vita, è il modo di perpetuare la vita, il modo di dare una ragione

alle cose, il modo di esaltare l’entusiasmo, il modo di dare emozioni. Quando l’arte si compiace di ueddere le emozioni, di privare la vita di tutto ciò che è vitale, non è più arte.

Sì, ma un artista contemporaneo le direbbe che ha l’impressione difare ciò che lei sta dicendo.

Il punto massimo, come posizione morale, cui gli artisti pervengono oggi è quello di parlare di incomunicabilità, di alienazione, ossia due dati che sono assolutamente negativi. Capirei molto bene un artista moderno che dicesse: «La tecnica ha provocato

l’alienazione di molti uomini e la loro difficoltà a comunicare, ma si può benissimo non

essere alienati, e si può benissimo anche comunicare». Ecco qual è la funzione dell’artista: vincere le cose, trovare un nuovo linguaggio. Per questo motivo mi sono deciso a fare cose

strettamente didattiche. Perché non sappiamo niente di niente. Per esempio, in Italia Vittorini ha pubblicato un fascicolo dedicato alla ricerca della possibilità di ima

comunicazione fra l’arte e il mondo della scienza. Col risultato che si sono scritte

quattrocento pagine per dimostrare che non c’è assolutamente alcuna possibilità di comprensione! Penso che qui ci sia una mancanza totale di tenerezza. Se un fenomeno

umano esiste, e se lo osservate con tenerezza, è assolutamente impossibile non scoprirvi qualcosa di vitale. Per il semplice fatto che è umano è vitale.

Nascita del Rinascimento Certi pittori o certi musicisti affermano che tra la loro arte e le matematiche moderne

c'è comunicazione. A torto o a ragione, loro lo affermano. Un po’ troppo a torto. Vi racconterò un piccolo aneddoto. L’anno scorso, a Spoleto, ho

fatto la regia dei Carabinieri. A questo festival vengono musicisti di tutto il mondo. Avevo bisogno, per effettuare una concatenazione, di tre minuti di musica. Nessuno mi ha scritto questa musica. Alla vigilia della prova generale, non l’avevo ancora ottenuta. Allora mi

sono messo davanti a un magnetofono: con una forchetta ho fetto «pan pan», con un

piano «tìng tìng», e poi ho fatto venire uno con un violino che ha fatto «zing zing». Ho registrato i miei tre minuti di musica e la gente l'ha presa molto sul serio. È grave. Sulla locandina ho messo: «Musica di Giovanni Pach». È incredibile che si possa barare in questo modo! Ma poi, ho barato? È un rimprovero vecchio. Si diceva di Van Gogh: questa è la pittura di un bambino!

Non si può paragonare l’epoca attuale con il secolo scorso. Alla fine del diciannovesimo secolo eravamo ancora in un mondo di una tale ricchezza, dal punto di vista artìstico, che

qualsiasi esperienza poteva essere utile. Ma oggi, visto che questa ricchezza non esiste più,

occorre almeno ristabilire gli elementi di comprensione. La nostra evoluzione tecnica non è commensurabile con dò che è avvenuto fino adesso. L’umanità ha costruito qualcosa di

piuttosto straordinario, bisogna dirlo, dato che per la tecnica ho un profondo rispetto. Ma la cosa d sfugge, questa è la vera tragedia. E questo il problema più grave: gli uomini

d’oggi non sanno fare uso della dviltà che loro stessi hanno costruito. Com’è nato il Rinascimento? Il Rinascimento è nato nel momento in cui gli artisti hanno preso cosdenza del passo immenso che l’umanità aveva fetto nel campo della

tecnica e della sdenza. Che hanno fetto allora? Sono diventati sdenziatì. Hanno studiato

l'anatomia, la prospettiva. La loro preparazione era strettamente sdentìfica, ma era talmente legata alla loro natura e l’entusiasmo incideva a un punto tale che d hanno dato

grandi capolavori. Il Rinascimento è un fatto enorme nella storia dell’umanità! Gli artisti hanno saputo immergersi in una realtà sdentìfica, farla propria, ripensarla e farla

accedere al rango di arte superiore.

Un solo tratto puro Di recente sono passato da Pisa. Il Camposanto è stato bombardato durante la guerra.

Il tetto, che era di piombo, si è fuso ed è caduto sugli affreschi che risalgono al tredicesimo secolo, li ha cotti e quindi danneggiati enormemente. Lo strato di pittura è stato staccato e

montato su telai, e si è iniziato a fare una ricostruzione. Sul muro sono rimasti i disegni in rosso su cui si era dipinto. L’impressione gigantesca che ne ricevi è che, quando guardi gli affreschi veri e propri, tutto è ridotto all’essenziale, non c’è traccia di anatomia nelle figure, le linee sono di una semplidtà totale, nessuna traoda di prospettiva; ma nel disegno tutto dò esiste, si vedono le gambe di un personaggio con tutti i muscoli ben

disegnati, si può vedere cosa ha fatto il maestro e cosa ha fetto l'artigiano che lavorava con lui - uno faceva il modello, l’altro lo completava. Ecco la semplidtà cui era arrivata questa gente! Era una conquista straordinaria spogliarsi di questa conoscenza per giungere

all’essenziale. Bene, a quell’epoca gli affreschi avevano la funzione che oggi esercita il

cinema. Erano messaggi grandiosi. Sui cartìgli venivano scritte le parole dei personaggi Ma adesso, prendete il novanta per cento dei pittori e ditegli: «Potete dipingere quello che

volete, ma prima fated un disegno ben fatto». Se il pittore non è in grado di farlo, quanto farà dopo è raggiro. Se ne è capace, tutto quello che farà in seguito, anche se arriva all’astrazione assoluta, è una conquista. Conoscete il libro La biologia dell'arte? Alcuni

russi e alcuni inglesi hanno fatto dipingere degli scimpanzé e dei gorilla. Kongo, il Picasso

degli scimpanzé, è un pittore astratto straordinario. Ma se lo si toglie dall’astratto, è assolutamente incapace di fare qualcosa che riproduca la meccanica del pensiero - il

pensiero è la facoltà di analizzare, di avere una cosdenza, quindi la sdenza esatta di tutte le cose che si vogliono esprimere. Voi dite: «Ma è l’espressione di un artista!» Bene,

d’accordo, ma di una scimmia artista. L’uomo possiede l’intelligenza. Che significa etimologicamente? Comprendere le cose da dentro. Se mi presentate una serie di uomini

che non hanno la facoltà di leggere all’interno delle cose, mi presentate una serie di

scimpanzé. Ma io voglio vedere un uomo che ha la facoltà di comprendere e di leggere nelle cose, dunque di avere una coscienza assoluta delle cose. A quel punto può, con un

solo tratto, puro, spoglio, astratto, darvi l’emozione che deriva dalla sua conoscenza.

Jean Paulhan dice che ipittori informali sono dei mistici. Sì, ma di un mistidsmo infantile. Io sono un uomo solidamente ancorato alle cose reati.

Che mi dà la pittura informale? La rappresentazione del tormento che mi causa una malattia della pelle? Mi annoia contemplare le malattie della pelle! Il mondo è talmente grande, diventa talmente complesso, che l’artista è obbligato a conoscere un mucchio di cose. Da anni non leggo che libri sdentifìd.

Che aiuto ne riceve per il suo lavoro di cineasta? Che rapporto c’èfra le due attività? C’è un rapporto molto stretto. Lo vedrete quando avrò comindato il mio prossimo film, ma non posso fare esempi, perché sono ben deciso a non dire nulla in antìcipo a questo

proposito. Si possono trovare fonti straordinarie di emozione dove non avreste mai immaginato che esistessero. Il prossimo film che farò... Ma non voglio chiamarlo film, visto che non deve essere cinema. Diciamo che «metterò su pellicola» una storia del ferro.

Vi sembra ridicolo? Un tizio che si mette a fare la storia del ferro è ridicolo. Non mi propongo di essere un artista, ma un pedagogo. E d saranno tante di quelle cose così

straordinarie, che vi daranno una tale quantità di emozioni che io, io non sarò un artista, ma riuscirò, ne sono sicuro, a condurre qualcuno all’arte.

(Intervista con Roberto Rossellini, apparsa sul numero 145 dei Cahiers du dnéma, luglio

1963; traduzione di Johanna Capra) [8] Di Chris Marker (Frauda 1963). [n.