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Italian Pages 144 Year 2013
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CIAK SI SCRIVE / I PROTAGONISTI
a cura di Giovanni Ciofalo e Silvia Leonzi
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Giada Fioravanti
BRYAN SINGER
Il cacciatore di successi
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Indice
Introduzione di Silvia Leonzi Capitolo primo Chi ha paura di Keyser Söze?
7 11
Non sottovalutare il potere di una buona storia Questioni di stile: il genere L’ombra di Verbal: Keyser Söze
13 17 26
Un ragazzo sveglio Enfants prodiges crescono Il seme del male La co-incidenza degli opposti: Puer e Senex
33 35 37 40
Capitolo secondo Il fascino indiscreto del male
Capitolo terzo La diversità eccezionale
In principio erano gli X-Men (poi tutti gli altri) Homo Sapiens Superior: X-Men di carta Mutatis mutandis To be continued: X-Men after Singer
31
50
55 62 67 69
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Capitolo quarto Ritorno a Metropolis
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Capitolo quinto L’uomo che sfidò Hitler
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Il primo supereroe non si scorda mai Alla fine arriva Superman (returns) Se questo è un (super)uomo Gli eroi (della Resistenza) sono tutti giovani e belli? Un war movie d’altri tempi Da testo a contesto: l’Olocausto come genere
74 77 79 87 90 93
Capitolo sesto Once upon a time
102
Singer tra i giganti Favole, miti e altri racconti... C’era una volta, anzi c’è ancora
106 109 112
Filmografia Bibliografia
117 139
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Introduzione
Ci sono personaggi (attori o registi che siano) che, malgrado il passare del tempo, saranno sempre considerati “giovani promesse” e per loro si continueranno ad usare parole che richiamano questo stato prodigioso e acerbo insieme, come se tutta la loro carriera rimanesse una rincorsa verso una meta ancora da raggiungere. Bryan Singer probabilmente rientra in questa categoria. Sarà per il suo viso da bambino cresciuto, per il suo sguardo da alieno incuriosito, per la scelta di cimentarsi con mostri e supereroi, ma Singer sembra rimanere l’eterno enfant prodige del cinema di Hollywood, nel bene e nel male. Nasce a New York il 17 settembre del 1965 e si stabilisce nel New Jersey quando è ancora un bambino. Il suo amore per il cinema si dimostra sin dall’infanzia: in quel periodo infatti comincia a realizzare pellicole in 8mm. Si diploma alla West Windsor-Plainsboro High School per poi proseguire gli studi alla Scuola di Arti Visive di New York. La sua passione innata per il cinema, però, lo porta a lasciare New York per trasferirsi a Los Angeles dove si laurea presso l’Università della Southern California. Durante il suo percorso di studi Singer fa il primo dei tanti incontri fortunati che daranno vita a fruttuose collaborazioni artistiche. In questo caso si tratta del compositore-montatore John Ottman e del produttore Kenneth Kokin, con i quali inizierà un lungo sodalizio artistico. Nel 1988 dirige il cortometraggio Lion’s Den, in cui compare Ethan Hawke, al tempo ancora uno sconosciuto attore di bell’aspetto, destinato a rimanere uno dei suoi migliori amici. Cinque anni dopo, nel 1993, Singer realizza il suo primo lungometraggio, Public Access, che gli vale immediatamente il plauso della critica, un premio al Deauville Film Festival e il premio speciale della giuria al Sundance Film Festival. È l’inizio di tutto. Come in un film dalla trama fin troppo scontata Bryan Singer riuscirà da questo momento in poi, film dopo film, a costruirsi una carriera a prova 7
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di urto, capace di resistere all’oscillante benevolenza di pubblico e critica. Perché anche nei momenti meno fortunati una cosa non verrà mai messa in discussione: il suo talento. Dopo due anni da Public Access, nel 1995, arriva la consacrazione definitiva con I soliti sospetti, uno dei film noir più originali e riusciti, che oltre al consenso del pubblico ottiene due prestigiosi riconoscimenti: l’Oscar a Kevin Spacey come migliore attore non protagonista e a Christopher McQuarrie per la miglior sceneggiatura originale. Malgrado il titolo di “maestro del noir” guadagnato sul campo, Singer decide di non focalizzarsi su un solo genere e decide di esplorare nuovi orizzonti espressivi iniziando nel 1998 la lavorazione de L’allievo, trasposizione di una novella di Stephen King, incentrata sul rapporto morboso tra un ragazzo incuriosito dal nazismo e un ex SS. Forse anche per reazione alle polemiche suscitate dai forti interrogativi morali posti dalla pellicola, Singer decide di abbandonare (solo per un attimo) il tema del nazismo, molto vicino alla sua sensibilità date le sue origini ebraiche, e di dedicarsi a lavori dall’impronta più action. Nel duemila fa il suo ingresso nel mondo della Marvel, dirigendo XMen e dando l’avvio al fortunato filone dei cine-comics che invaderà le sale. Nel 2003 Singer prosegue la storia del gruppo di mutanti da dove l’aveva interrotta, firmando la regia anche del secondo capitolo della saga fumettistica, X-Men 2. Una volta ottenuto un ampio successo sia al botteghino, sia presso la critica, anche per la presenza di temi importanti come l’integrazione razziale e l’affermazione dell’identità, Singer rinuncerà alla realizzazione del terzo episodio, per dirigere un’altra pellicola ancora a tema supereroistico: Superman Returns (2006). Purtroppo, però, con l’abitante di Krypton non riesce la stessa prodezza degli X-Men e il tentativo di rilanciare Kent/Superman come eroe non solo d’altri tempi almeno in parte fallisce. Malgrado i pareri discordanti del pubblico, il film riscuote il plauso della 8
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critica e fa registrare alla Warner Bros un discreto successo economico, tanto che la casa di produzione vorrebbe mettere subito in cantiere un sequel. L’offerta però non si concretizza e Singer ne approfitta per tornare a trattare il tema del nazismo, accennato sia ne L’allievo che nel suggestivo prologo di X-Men. Nel 2008, così, esce nelle sale Operazione Valchiria, pellicola che racconta il più importante attentato fallito ai danni di Adolf Hitler, pianificato dal colonnello della Wermacht Von Stauffenberg, interpretato da Tom Cruise. Nel 2013, dimostrando ancora una volta la sua versatilità, Singer passa con disinvoltura da un genere all’altro: così dopo il noir, il drammatico, il supereroistico e lo storico, approda al fantasy, sulla scia della moda hollywoodiana di adattare le fiabe classiche al grande schermo, dirigendo Il cacciatore di giganti, ovvero il racconto rivisto e corretto (a modo suo) della celebre storia inglese di Jack e il fagiolo magico. Eclettico e poliedrico, in questi anni Singer ha affiancato all’attività di regista quella di produttore esecutivo, realizzando serie tv di straordinario successo come Dr. House - Medical Division (di cui ha diretto anche tre episodi) e Dirty Sexy Money, e del prequel di X-Men (X-Men: l’inizio), collaborando anche in qualità di co-sceneggiatore. Di nuovo ai mutanti della Marvel è rivolta in questo momento l’attenzione del regista, che da mesi condivide attraverso il suo profilo twitter la lavorazione del prossimo numero della saga: Giorni di un futuro passato, una sorta di cross-over tra i membri del gruppo originale e la loro versione giovane. Questo volume, attraverso l’analisi dei suoi film, delle sue scelte stilistiche e del suo particolare punto di vista, punta a spiegare perché Singer può essere considerato un regista da tenere d’occhio, di cui osservare le tendenze e le inclinazioni. Perché se davvero la piena maturazione di questo eterno enfant prodige deve ancora arrivare, considerando tutto quello che è già riuscito a fare finora, vale sicuramente la pena rimanere seduti in sala e continuare a godersi lo spettacolo. SILVIA LEONZI
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Capitolo primo
Chi ha paura di Keyser Söze? «Hai presente Kevin Spacey? Bene, è lui Keyser Söze nei Soliti Sospetti!» Kevin S pacey, C APAREZZA, 2012
I soliti sospetti
Titolo originale: The Usual Suspects Anno: 1995 Paese: Usa Durata: 105 min Sceneggiatura: Christopher McQuarrie Personaggi e interpreti: Kevin Spacey: Roger “Verbal” Kint / Keyser Söze Gabriel Byrne: Dean Keaton Chazz Palminteri: David Kujan Kevin Pollak: Todd Hockney Pete Postlethwaite: Kobayashi Stephen Baldwin: Ray McManus Benicio Del Toro: Fenster Peter Greene: Redfoot Suzy Amis: Edie Finneran
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Trama
In seguito all’incendio di una nave sospettata di trasportare droga, il piccolo truffatore Roger “Verbal” Kint viene portato in centrale per degli accertamenti sulla dinamica dei fatti. A essere sopravvissuti all’esplosione sono solo in due: Verbal (illeso) e un marinaio ungherese, ricoverato in ospedale e ridotto in fin di vita a causa delle gravi ustioni riportate. Anche se già prosciolto dal procuratore, che gli ha garantito l’immunità, Verbal viene costretto a subire un ultimo interrogatorio dall’agente di polizia doganale David Kujan, il quale, in realtà, è convinto che dietro i fatti ci sia una sua vecchia conoscenza: l’ex poliziotto corrotto Dean Keaton. Da qui inizia la storia del film che si articola nell’arco della deposizione rilasciata da “Verbal” che parte da alcune settimane prima, quando a New York viene rubato un camion di fucili e la polizia ferma un gruppo di pregiudicati per un confronto all’americana. Tra questi c’è appunto Dean Keaton, Verbal, lo scassinatore Todd Hockney e due ricettatori McManus e Fenster. In attesa di capire il motivo per cui sono stati fermati, i cinque, che si conoscono solo superficialmente, cominciano a familiarizzare e si delinea la possibilità di eseguire un colpo, proposto da McManus, in grado di mettere nei guai il dipartimento di polizia di New York, e ottenere quindi una piccola rivalsa per il trattamento ricevuto. All’uscita della centrale, dopo essere stati liberati per insufficienza di prove, comincia l’attività dei cinque per rapinare due poliziotti corrotti che offrivano un illegale servizio di scorta a un trafficante di pietre preziose. Il colpo riesce e la banda si reca in California per rivendere i gioielli, ma il ricettatore conosciuto da McManus propone ai cinque un altro colpo ai danni di un commerciante di pietre preziose. Questa volta, però, non tutto fila liscio e i rapinatori uccidono il bersaglio che, invece dei gioielli, trafficava in cocaina. Furiosi per la trappola in cui erano caduti tornano dal ricettatore, il quale si difende sostenendo di non essere l’ideatore del colpo, ma di essere stato ingaggiato da un misterioso personaggio: l’avvocato Kobayashi. L’avvocato si presenta al cospetto dei cinque dichiarando di lavorare per Keyser Söze, un boss criminale che nessuno ha mai visto o conosciuto, e sul quale aleggiano misteriose leggende. Secondo Kobayashi ognuno dei presenti, nello svolgimento delle loro attività criminali, ha in qualche modo interferito nelle attività di Söze ed ora devono rimediare al torto compiendo un colpo su commissione.
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Fenster si rifiuta di collaborare, e anche gli altri sono molto dubbiosi, ma quando pochi giorni dopo viene rinvenuto il cadavere di quest’ultimo, ucciso dai sicari di Söze, i quattro rimasti decidono di collaborare. Il piano consiste nell’assaltare una nave carica di droga nel porto di Los Angeles, sorvegliata da un gran numero di uomini ungheresi, armati e addestrati. Il piano si rivela da subito estremamente rischioso, tanto che Keaton chiede a Verbal di non prenderne parte poiché la sua disabilità fisica e la scarsa esperienza in missioni del genere lo condannerebbero a morte certa. Inoltre, Keaton chiede a Verbal di recarsi dalla donna amata, in caso di un esito nefasto, e consegnarle un ultimo messaggio d’amore. Durante l’assalto alla nave, nel quale muoiono tutti, Keaton, prima di essere ucciso a sua volta, scopre che in realtà a bordo non c’è droga, ma il motivo di tutta l’operazione è l’uccisione di un uomo: l’unico testimone in grado di identificare Keyser Söze. Alla fine della dichiarazione di Verbal, Kujan arriva alla conclusione che, se Keyser Söze esiste veramente, deve essere Keaton: l’unico in grado di creare un confronto con i contatti che si è creato lavorando con la polizia e l’unico capace di tenere a bada gente come Fenster e McManus. Avendo scoperto ciò che gli interessava, Kujan lascia andare Verbal, ma mentre questo si allontana dal commissariato Kujan si rende conto di essere stato manipolato: le dichiarazioni di Kint, infatti, sono frutto di una totale invenzione usando come spunto frasi e parole trovate nell’ufficio del commissario. Kujan a questo punto capisce che Verbal è Keyser Söze, ma quando corre fuori per catturarlo ormai è troppo tardi: Keyser Söze è già sparito.
Non sottovalutare il potere di una buona storia
Al suo secondo film, Bryan Singer si cimenta in un’intricata vicenda popolata da criminali, poliziotti, furti, esplosioni, assassini e con un finale destinato a diventare un cult della cinematografia recente. L’estetica minimalista, pulita ed essenziale del regista si dimostra perfetta per dare forma a una trama, invece, particolarmente complessa: le scene d’azione sono ridotte al minimo e senza retorica o eccesso di spettacolarità, viene invece fatto 13 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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ampio uso di inquadrature ad effetto e giochi di luce per puntare sulla suspense, sull’intreccio e sui dialoghi incalzanti. Anche per questo secondo lungometraggio, Singer si avvale della collaborazione del suo amico sceneggiatore, Chris McQuarrie, che gli propone di rimaneggiare un vecchio copione in cui si parla di un uomo misterioso, un criminale senza scrupoli dall’identità sconosciuta, ma grazie al contributo di Singer, prenderà forma quella che è ormai diventata un’immagine simbolo del film: cinque criminali, in fila davanti alla macchina fotografica dell’ufficio “schedati” della polizia come nella locandina. Da questa scena si dipana poi la trama, scritta e riscritta in cinque mesi dallo sceneggiatore, fino alla revisione finale del regista, che la invia immediatamente a Kevin Spacey, già individuato dallo scrittore come attore ideale per interpretare lo storpio Verbal Kint. Spacey non solo accetta, ma va oltre le più rosee aspettative di Singer, coinvolgendo nel cast altri suoi colleghi, alcuni già quotati come Gabriel Byrne, altri all’epoca semisconosciuti come Benicio del Toro, che rimangono colpiti dal copione. Chazz Palminteri, per interpretare il ruolo dell’agente Kujan, chiede al regista di poter condensare tutte le scene che lo riguardavano in una sola settimana, l’unica disponibile per poter partecipare al film, dopo aver chiarito quanto ci tenesse a prenderne parte. Le riprese, effettuate tra Los Angeles, San Pedro e New York, durano solo 35 giorni. A rendere il film di Singer un prodotto di qualità pesa certamente il valore del cast, in cui ogni attore svolge con misura e maestria la sua parte, anche se su tutti spicca l’incredibile interpretazione di Kevin Spacey che, in accordo col regista, sceglie di paralizzare il lato sinistro del corpo, e per padroneggiare meglio il finto handicap e rendere più verosimile l’interpretazione si rivolge a medici ed esperti. Il film viene presentato fuori concorso nel 1995 al 48° Festival di Cannes, ottenendo un successo di critica e di pubblico inaspettato, trasformando in breve tempo un cast di attori di nicchia in vere e proprie star. La pellicola riceve inoltre due importanti riconoscimenti: l’Oscar alla migliore sceneggiatura originale per Christopher McQuarrie, e l’Oscar al migliore attore non protagonista per Kevin Spacey, che raggiunge così il suo primo apice della carriera, bissato nel 2000 con l’Oscar al migliore attore protagonista per la performance in American Beauty di Sam Mendes. Grazie al successo del film, Bryan Singer raggiunge la notorietà e ha la 14
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possibilità di cominciare a far valere il suo peso nell’industria di Hollywood. Nietzsche sosteneva che non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Spesso gli aforismi dei grandi autori, estrapolati dal loro contesto, più che delle verità assolute potrebbero sembrare delle provocazioni perché scardinano il senso comune e ribaltano il punto di vista, apparendo geniali. In una società come quella in cui viviamo gran parte della nostra conoscenza è il frutto di una mediazione, la porzione di realtà che possiamo esperire direttamente è sempre più limitata a fronte del bacino di informazioni e versioni della realtà potenzialmente infinite offerte dai mezzi di comunicazione, che moltiplicano le visioni del mondo. Se da una parte questa accresciuta possibilità ha messo a disposizione degli individui la grande libertà di costruirsi percorsi esperienziali fino a poco tempo fa inimmaginabili, dall’altro ha effettivamente reso molto più difficile distinguere tra mille voci in contraddizione quella da ascoltare, la più veritiera in senso oggettivo ed assoluto. Il concetto di Verità si fa sempre più labile, i mezzi di comunicazione raccontano una stessa storia da infiniti e inediti punti di vista, allora, in questo contesto, come è possibile capire di chi potersi fidare? Come possiamo credere che ciò che vediamo o ascoltiamo sia realmente accaduto e non sia il frutto di una manipolazione se non possiamo verificare personalmente? Il motto “vedere per credere” ha diminuito la sua efficacia nel momento in cui la vista non basta più nella conoscenza sensibile, e l’immagine sembra essere falsa apparenza, quindi capace di ingannare anche il testimone oculare. A fronte di questo spaesamento, il soggetto reagisce cercando di recuperare il controllo perduto e lo fa raccogliendo e accumulando informazioni, verificando le fonti, registrando contraddizioni e idiosincrasie. In mancanza di verità certe, l’individuo si muove come un investigatore sul luogo del delitto, che tenta di ricostruire i fatti dagli indizi che gli si parano davanti. 15
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Quella che si presenta davanti agli occhi dello spettatore de I soliti sospetti è una sfida: ricostruire la verità mettendo insieme le tessere del mosaico, proprio come farebbe un agente della polizia. Allora partiamo dai fatti. È un fatto che una nave è stata messa a ferro e fuoco e che all’interno siano stati trovati 27 cadaveri. È un fatto che al massacro siano sopravvissuti solo in due, un ungherese in fin di vita, immediatamente ricoverato nell’ospedale della contea di San Pedro (California) e Verbal Kint, un piccolo truffatore zoppo di New York. È un fatto che il pericoloso criminale Dean Keaton sia coinvolto nell’accaduto. È un fatto che Verbal, Keaton e altri tre delinquenti si trovavano nella stessa cella pochi mesi prima dell’accaduto e tutto questo non può essere un caso. Questi sono i fatti, tutto il resto sono supposizioni. «Convincimi, dimmi ogni minimo dettaglio» – sono le parole che l’agente della polizia doganale rivolge a Kint durante l’interrogatorio. Ma quello che né lo spettatore, né l’agente Kujan sanno è che si sono seduti al tavolo di un baro, che stanno giocando con un mazzo di carte truccato e che per loro non c’è nessuna possibilità di vincere la sfida. Perché in un universo narrativo che non è questo, ma gli somiglia molto, in mancanza di verità assolute la ragione non è del più arrogante (l’agente speciale David Kujan, così sicuro della sua arguzia da peccare di superbia), non è del più intelligente (il criminale gentiluomo Dean Keaton, avvolto dalla sua aura di antieroe romantico) e non è neanche del più forte (lo spauracchio dei criminali Keyser Söze, l’uomo nero delle leggende metropolitane), ma la ragione, come spesso accade non solo al cinema, è di chi racconta la storia migliore. I soliti sospetti è un inganno che tradisce dichiaratamente il patto comunicativo tra narratore e spettatore, è un prestigio da illusionisti, è lo sguardo miope di chi invece di guardare la luna si sofferma sul dito che la indica e in questo sta il motivo del suo successo. Perché come nell’Odissea, Omero fa indossare a Ulisse le vesti di un vecchio debole e malato prima di tendere l’arco e uccidere i suoi nemici, così, sul finale del film, Singer fa spogliare Kevin Spacey dei panni dello stupido e storpio Verbal per mostrarne la vera natura solo un attimo, giusto il tempo di far capire allo spettatore di non aver capito e poi, come niente, sparisce. 16 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Questioni di stile: il genere
Facendo una rapida ricognizione tra i maggiori dizionari e siti di cinema è possibile notare che il film di Singer viene classificato tra due generi diversi del crime: il giallo e il noir. L’incertezza terminologica però, quando si parla di crime, non appartiene solo a questo film nello specifico, ma è una sorta di ambiguità di genere che accompagna molte delle produzioni a carattere investigativo degli ultimi dieci anni. I motivi principali di tale indecisione sembrano essere attribuibili a due cause principali: da una parte l’ibridazione dei generi che si è resa più evidente dalla metà degli anni ’80 in poi (per venire incontro sia ai gusti del pubblico sia alle esigenze produttive di creare nuove formule narrative), dall’altra fattori più “sociali” che hanno traslato quella sorta di spaesamento e alienazione tipica delle atmosfere noir dentro e fuori le narrazioni cinematografiche, provocando quella che può essere definita con un neologismo una noirizzazione. Per meglio spiegare quest’ultimo passaggio è utile ricorrere alla definizione di noir che dà Fabio Giovannini: «Il noir non può essere ridotto ad una categoria di libri o film. È una tendenza dell’immaginario che può attraversare generi e sottogeneri. Tuttavia si sono codificati nel tempo alcuni tratti essenziali che, quando sono presenti, permettono di definire un libro o un film come noir. Su questi tratti, e quindi sulla validità della definizione, si confrontano però opzioni diverse. Nell’incertezza di oggi finisce per prevalere una lettura estensiva del concetto di noir. Noir diventa così un’etichetta elastica che può coprire tutte le storie violente, cupe (ma mai soprannaturali), e con personaggi centrali ambigui o negativi, spesso prive di lieto fine» (F. Giovannini, Storia del noir). Nel cercare di capire quanto ci sia di giallo e quanto di nero ne I soliti sospetti faremo dunque un passo indietro, passando in rassegna le caratteristiche principali dei due generi che hanno ispirato il lavoro di Singer. Qualcosa di giallo
«Il giallo racconta storie costruite sull’intrigo, sull’enigma. Nell’economia generale, lo spazio preponderante è occupato dalla soluzione, che mette sulla 17 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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storia il timbro: caso risolto. Il giallo sta dalla parte dell’ordine. Nel nero, invece, l’elemento decisivo è il modo di raccontare. La storia vive unicamente delle sue contraddizioni, dei suoi errori, della sua libertà d’iniziativa. Il nero sta dalla parte del disordine. Il giallo è una costruzione, una logica. Il nero è un tono, uno stile» (L. Grimaldi, Il giallo e il nero). Erede del romanzo poliziesco di scuola anglosassone, il giallo cinematografico mette in scena la storia di una investigazione, in cui il delitto è già compiuto, perciò l’intera narrazione si basa sul meccanismo di indagine e sulle prodigiose capacità deduttive e intuitive dell’investigatore. In genere, nel giallo classico, i sospetti sono molteplici e a tutti si applica simultaneamente il basilare trinomio mezzo, modo, movente. L’intreccio è sempre particolarmente intricato e generalmente si arriva ad identificare il colpevole solo alle ultime battute della storia. La cronologia degli eventi è lineare e consequenziale: prima il delitto (in genere un omicidio), quindi la ricerca del colpevole da parte del detective e infine il trionfo della giustizia, quando il criminale viene smascherato. Nella definizione più letteraria di questo genere di film tutti i sospettati sono individuati e in qualche modo confinati in un luogo ben preciso (una casa, un appartamento, un aeroporto, un treno, una nave, un albergo etc.), dove vengono via via commessi i delitti, lasciate le tracce e poi rilevati gli indizi. Il giallo, così come è appena stato descritto, è il frutto di quel pensiero positivista alla base della società moderna che presuppone un legame di causa ed effetto, in un tempo lineare e all’interno di uno spazio definito che egli può circoscrivere e controllare. La razionalità e i meccanismi logici costituiscono le chiavi privilegiate per entrare nella mente del criminale e neutralizzare i suoi tentativi di mettere in atto il delitto perfetto. Non ci si preoccupa quindi di descrivere il caso, ma ci si lascia affascinare piuttosto dai ragionamenti logici e dagli insight che conducono l’ispettore alla deduzione finale. In una struttura lineare, in cui fabula e intreccio combaciano, al delitto segue l’indagine, che sfocia nell’individuazione e nella cattura del colpevole che, nei gialli più riusciti, è spesso il più insospettabile. Sulle orme de Il viaggio dell’eroe di Campbell, l’investigatore, muovendosi tra nemici e alleati, alla fine raggiunge lo scopo ultimo: sconfiggere il male e ripristinare l’equilibrio violato della comunità. Nel romanzo giallo l’intreccio coinvolge inevitabilmente tre figure essenziali: il detective, una o più vittime e 18
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il colpevole. Le strutture narrative basate sull’avvenimento di un crimine, lo svolgimento dell’indagine e la conseguente scoperta del colpevole sono state codificate già nel 1928 dallo scrittore americano Van Dine nel suo Twenty Rules for Writing Detective Stories, una sorta di bibbia per chi vuole approcciare la stesura di un giallo. A partire da una macrostruttura principale, Van Dine individua alcune distinzioni fondamentali tra i diversi tipi di gialli/polizieschi: il “misterioso”, che sostanzialmente si identifica con la scuola inglese, «basato su un crimine apparentemente inspiegabile che vede nella figura del detective l’unico personaggio in grado di smascherare il reale colpevole del misfatto» (S. Leonzi, La fiction); quello “d’azione” che coincide maggiormente con la scuola americana e si basa, invece, sulla narrazione delle vicende avventurose e rocambolesche, che si sviluppano nel corso della storia; il giallo di tensione con una forma basata sul colpo di scena. La regola più importante in questo caso fa sì che tutti i personaggi possano essere sospettati e tutti siano potenzialmente gli autori del delitto, avendone l’ipotetico movente e l’occasione. Il romanzo giallo delle origini, basato sull’investigazione razionalistica che riflette in modo paradigmatico la filosofia della Modernità, si consoliderà con autori come Gilbert K. Chesterton, creatore del prete-investigatore Padre Brown che sconfigge i criminali attraverso i buoni sentimenti e la ricerca della verità; George Simenon il cui realistico e bonario commissario Maigret sarà protagonista di decine di libri e in seguito di film e telefilm; Agatha Christie che, dando vita all’investigatore Poirot, raccoglierà idealmente l’eredità del genio investigativo di Sherlock Holmes. Negli Stati Uniti, gli investigatori gialli degli anni Venti e Trenta avranno delle sfumature più mondane e brillanti dei loro colleghi europei: Rex Stout crea Nero Wolfe che, oltre a risolvere enigmi, coltiva orchidee, ama la buona cucina e legge libri di cultura alta; S.S. Van Dine dà vita a Philo Vance che si dichiara investigatore “per amore dell’arte”; Ellery Queen, almeno nei primi romanzi di cui è protago19
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nista, è pronto, oltre che ad aiutare il padre poliziotto, a correre dietro alla bellezza femminile. Appare chiaro, dunque, che nel Novecento il poliziesco non tramonta, anzi si consolida ma allo stesso tempo comincia a dar vita alla sua filiazione nera. Infatti, le controparti dei poliziotti/detective della letteratura popolare risultavano altrettanto efficaci dei loro inseguitori, fino a meritarsi il ruolo di protagonisti: dalla penna di Maurice nasce, tanto per citarne uno, Arsenio Lupin, il ladro gentiluomo, l’esatta antitesi del detective, ma per la cui eleganza e modi di fare da viveur il pubblico simpatizzava. Il lato oscuro della società e le sue contraddizioni si fanno largo sulla carta stampata, dando forma a un profondo rinnovamento stilistico che getterà le basi per la successiva proliferazione di generi e sottogeneri che andranno dal thriller all’hard boiled. Il giallo dunque, pur continuando a produrre storie e personaggi, a contatto con la crisi della società e la sfiducia nel metodo razionale come nei saperi esperti (in questo caso le forze dell’ordine) perde di “realismo” e dall’ombra delle metropoli prende forma l’altra faccia del crime: il noir Qualcosa di nero
Se la narrazione del giallo conduce lo spettatore al di fuori di un mistero, guidato dalla luce della ragione, la letteratura e il cinema noir fanno sprofondare il pubblico nel lato oscuro del mondo assieme ai protagonisti delle loro vicende, immersi in un ambiente minaccioso su cui tentano disperatamente di ristabilire un controllo. È un mondo di disperazione, annegato nello squallore della città, dove si respira angoscia e gli individui sono spesso condannati a pagare con la vita i loro errori. I confini sono incerti, vige la precarietà, domina il dubbio. Tutti gli elementi concorrono a mettere in discussione la realtà apparente; la stessa modalità di narrazione del genere, spesso frammentata, ribadisce questo immaginario dell’insicurezza e dell’inquietudine. Quasi sempre l’incipit per entrare nel mondo noir è fornito dal destino: un investigatore privato viene chiamato a svolgere un’indagine, un cittadino qualsiasi incontra una donna seducente e pericolosa che lo trascinerà in un vortice di eventi dai quali non avrà possibilità di scampo. Il caso è una forza propulsiva che agisce in modo misterioso e irrazionale, che domina gli individui schiacciandoli malgrado i loro sfor20
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zi. Perché dall’incubo, dalla notte, dal lato d’ombra, non si esce senza restarne feriti o uccisi. L’happy end è una speranza che non si verifica nelle narrazioni noir, l’ordine non si ricompone o, forse, non c’è mai stato. Entrare nell’universo noir equivale, quindi, ad entrare in un incubo in cui la veglia ed il sonno si confondono. Denominatore comune delle narrazioni appartenenti al noir è la complessità del mondo interiore dell’antieroe, in cui convivono sentimenti contrastanti in un continuo oscillare tra ricordo e coscienza, lotta e abbandono, personaggi segnati dall’inquietudine del loro inconscio, individui dal passato tormentato, spesso svelato solo attraverso la dimensione onirica. Si tratta di soggetti paranoici che sviluppano proiezioni ostili dei propri impulsi, avvolti da ossessioni dalle quali non riescono a districarsi: tutto è intrigo, persecuzione, claustrofobia. Il panorama del noir è un mondo dominato dal nero e dal dubbio: ciò che vediamo e leggiamo o ciò che crediamo di leggere e vedere non è attendibile o è opinabile. La stessa struttura del racconto noir riflette queste sensazioni di smarrimento e claustrofobia: trame a labirinto, storie senza via di uscita e senza soluzione concorrono a creare un contesto di confusione dove si insediano intrecci complicati e arditi subplot. È un genere che nasce dalla crisi e ne riflette la cultura e la situazione sociale portando sullo schermo la denuncia dell’american dream nel difficile momento a cavallo della Seconda Guerra Mondiale fino alle tensioni della Guerra fredda, sottolineando situazioni di disagio come le disparità economiche e sociali e la frustrante condizione femminile. Nell’industria culturale i generi del mainstream hollywoodiano, come i musical o le commedie sofisticate, lasciano il posto a generi meno rassicuranti in cui mettere in scena rapporti tormentati, spesso al di fuori della famiglia tradizionale, pietra angolare dell’epoca. Non è un caso, infatti, che la censura prima e la repressione poi, con l’avvento del maccartismo, si scaglieranno duramente contro il noir accusato di offrire un ritratto eccessivamente pessimistico della società, in cui il male non viene dall’esterno (come nel western classico), ma dall’interno della società, dalle metropoli americane violente e selvagge. Ed è il lato nascosto delle metropoli, notturno ed inquietante che fa da sfondo alle storie noir: non solo strade e grattacieli, ma tutti i luoghi della notte, dai night club ai caffè di periferia, contesti ideali per collocare sto21
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rie violente ed enfatizzare i drammi delle solitudini che vi si incontrano. Avvolti nel buio, immersi nella nebbia, bagnati dalla pioggia, i personaggi del noir si muovono in luoghi oscuri che rispecchiano il loro stato d’animo. Questi spazi coincidono, nella maggior parte dei casi, con le città, con scenari urbani che fanno da sfondo ad infelicità e violenza. Qui i detective trovano indizi e incontrano quel sottobosco umano con il quale spesso si confondono. Nei film noir sono gli ambienti esterni a predominare perché meglio rappresentano il mondo insidioso, pieno di rischi e pericoli, in cui i protagonisti si muovono smarriti e da cui tentano di fuggire. Tutti i luoghi delle metropoli sono, comunque, dominati dalle ombre che, prevalendo sulla luce, contribuiscono a creare una sensazione di incertezza; l’uso del bianco e del nero accentua il realismo e lo stile documentaristico, le luci, nelle strade notturne sono opache e intermittenti, come le insegne al neon di locali notturni. La fotografia claustrofobica e a bassa definizione, viene ulteriormente esasperata da angolazioni oblique e da composizioni di inquadrature in cui gli ambienti sembrano opprimere i personaggi. Il tempo della storia è spesso estremamente breve, tanto da estendersi, non di rado, lungo l’arco di qualche giornata, quando non di sole ventiquattro ore. Ovviamente, la notte è la vera protagonista temporale dei film noir costituendo un universo a sé stante, uno spazio dominato da forme e regole proprie, irriducibili alle logiche della vita diurna. Altra condizione temporale che contraddistingue il noir è l’ingombrante e incombente presenza del passato che grava su uomini che cercano invano di cambiare il corso della propria vita: le colpe commesse si ripresentano all’improvviso, chiedendo il conto dei propri misfatti al protagonista e obbligandolo ad assumersi le proprie responsabilità. La supremazia del passato sul presente è stilisticamente espressa attraverso l’uso massiccio del flashback, che determina una con-fusione del presente nel passato e viceversa: il risultato è una temporalità caotica, contorta, labirintica in cui i protagonisti hanno difficoltà ad orientarsi, facendo fatica a separare il piano dei ricordi da quello delle aspettative, a dipanare il filo delle vicende personali da quelle del caso a cui stanno lavorando o, in alcune circostanze, da quelle della comunità in cui sono inseriti. Sono altrettanto frequenti personaggi vittime di amnesie, che non ricordano la propria vita anteriore o che vivono nella costante paura di ciò che li aspetta. Questo ordine cro22
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nologico di grande complessità è solitamente basato su una percezione soggettiva del tempo, quella del protagonista, voce narrante, che interrompe il flashback con una serie di scene in cui viene inquadrato nel presente; tempo e spazio si contaminano reciprocamente, il secondo traduce in termini figurativi il primo, lo cristallizza e contribuisce a dare risonanza al rapporto fra il personaggio e la successione degli eventi. Politicamente scorretto per definizione, il noir estremizza la realtà in cui viviamo, effettuando a suo modo una critica al sociale; in un mondo di amoralità e violenza i protagonisti sono assassini e vittime, ma i confini tra i due ruoli sono molto sfocati, non c’è un personaggio del tutto innocente e spesso chi commette un delitto provoca un sentimento di empatia. Uomini e donne che hanno visto il male fin troppo da vicino e rivolgono oramai uno sguardo disincantato verso il vivere comune, fino al momento in cui sono chiamati ad affrontare il loro destino, che quasi sempre si rivela tragico. Qualcosa di nuovo (anzi di antico)
Se il giallo è positivista e il protagonista principale è un investigatore che applica la logica nell’analizzare gli indizi e raggiungere la soluzione dell’enigma, il noir è decadente e il suo protagonista, il detective privato, è una figura ambigua, in bilico tra legalità e illegalità, i cui metodi hanno più a che fare con la forza e la violenza che con l’intuizione e la sagacia. Se i detective del giallo appartengono alla ricca borghesia, sono generalmente colti e intellettuali, eccentrici e snob anche nelle fattezze e nell’abbigliamento, quelli del nero sono ruvidi nei modi e nell’aspetto spesso trasandato e sdrucito, conducono una vita solitaria fatta di eccessi e abitudini malsane, non sono necessariamente alfieri del bene e non operano in collaborazione con la giustizia. Se nel giallo la distinzione tra bene e male è netta e dicotomica, nel noir l’ombra si allunga a sommergere gli spazi, le azioni e i personaggi, contaminando anche la giustizia e la legalità. Se il finale nei film gialli è sempre rassicurante e positivo, nel noir spesso permane un senso di inquietudine che nasce dalla consapevolezza dell’impossibilità di poter sconfiggere un male che non è circoscrivibile, ma endemico e sistematico. Se nel giallo il viaggio dell’eroe si svolge al di fuori dei personaggi, nel noir la narrazione si sposta all’interno del soggetto nel quale convivono non solo luce e ombra, ma molteplici Sé, spesso in contrasto tra loro. 23
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La pervasività della dimensione onirica che nelle storie noir degli anni ’50 creava un’atmosfera rarefatta e misteriosa, diventa col tempo un luogo della narrazione in cui è possibile creare una dimensione che fuori dalla mente dell’assassino non esiste. In questo tipo di intreccio lo spettatore viene posto in una condizione di perenne incertezza, poiché egli non sa mai con sicurezza se ciò che il personaggio vive e vede appartiene alla sfera delle sue esperienze concrete oppure a quelle della sua immaginazione. Si smarriscono i confini tra realtà e finzione, tra veglia e sonno, tra percezione e allucinazione, si vive in un mondo intorpidito, dove è possibile, se non probabile, passare da una verità “reale” ad una deformata, senza soluzione di continuità. Quindi, quali sono gli elementi che fanno definire il film di Singer sia giallo che noir? Del giallo classico, I soliti sospetti ha la costruzione narrativa fatta principalmente di dialoghi e poco d’azione, infatti tutto il film non è altro che un lungo racconto; c’è la separazione netta tra bene e male incarnata dagli ispettori di polizia contro la banda di criminali a cui danno la caccia; c’è la predominanza degli interni, altro tratto tipico del giallo in cui il setting fa da cornice come il palco di un teatro (qui la scena è totalmente ambientata all’interno di un distretto di polizia); c’è la perfezione degli incastri che girano come gli ingranaggi di un orologio in cui ogni pezzo è esattamente al suo posto e combacia nella totalità del quadro più ampio; e in ultimo c’è una pluralità di sospetti, tutti potenzialmente artefici del fatto criminoso, tutti potenzialmente attori principali della vicenda. A tal proposito, un aneddoto curioso racconta che Bryan Singer, in accordo con lo sceneggiatore Christopher McQuarrie, per aumentare la suspance e rendere ancora più realistica la recitazione degli attori, abbia distribuito ai membri del cast cinque copioni diversi sui quali risultava che ognuno di loro fosse in realtà Söze, pare inoltre che questo sia stato motivo di scontento da parte di Gabriel Byrne che convinto di essere il motore dell’azione si sia ritrovato poi a svolgere il ruolo di ingranaggio. Se questi elementi possono far apparire I soliti sospetti un film giallo, c’è da dire che nell’universo narrativo raccontato da Singer la perfezione dell’incastro non è garanzia di verità e l’individuazione di un colpevole corrispondente con l’identikit dell’investigatore non è sinonimo di giustizia, e in questo sta il lato noir del film: Singer costruisce un film giallo nei meccanismi e noir nella morale.
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Perché nel mondo noir niente è come sembra e l’inganno, il male, l’ombra non rispondono alle logiche della verosimiglianza, non si fanno ridurre nell’incastro di una buona spiegazione, ma esondano i confini entro i quali si cerca di incanalarli. Il tempo della narrazione è un tempo frammentato che si ricompone nel racconto di Verbal attraverso (finti) flashback e salti temporali accompagnati dalle didascalie che guidano lo spettatore lungo gli spostamenti.
1. San Pedro, California – la scorsa notte. Singer parte dalla fine, quello che doveva succedere è già successo e siamo sul luogo degli omicidi: il porto e la nave che continua a bruciare sullo sfondo. 2. New York – sei settimane fa. È il segmento in cui viene collocato l’incidente scatenante: l’arresto dei cinque protagonisti e il confronto all’americana da cui si sviluppa l’intero plot. 3. San Pedro – oggi. Si torna all’hic et nunc, il momento dell’interrogatorio in cui si passa dal passato al presente senza bisogno di puntualizzazioni. In questa assenza di didascalie all’interno della ricostruzione di Verbal si trova il primo vero indizio a favore del pubblico in sala: una ricostruzione temporale totalmente inventata non può ancorarsi a nessun riferimento specifico. Kint, infatti, mente su tutto, tranne che su una cosa: il tempo, perché nel suo racconto ci sono un inizio e una fine certi, il resto è invenzione, una libertà lasciata alla smania di Kujan di mettere i fatti in ordine, quell’ordine lineare che lo tradirà per eccesso di logica. Quello del noir è un mondo dove prevale il lato oscuro della mente umana, dove tutti sono potenzialmente criminali, dove la risoluzione dell’enigma non solo è fallace, ma procura un senso di smarrimento che non consola né i protagonisti della vicenda, né lo spettatore in sala.
“Convocate i soliti sospetti” – dice il capitano Renoir nel cult movie Casablanca, e non è un caso che anni dopo i soliti sospetti si trovino allineati uno a fianco all’altro per un confronto all’americana, perché nelle intenzioni di McQuarrie c’è l’idea di rifarsi ai film della vecchia Hollywood, ai noir americani degli anni d’oro (’40/’50) e lo fa, nello specifico, attraverso una caratterizzazione dei personaggi che potremmo definire da manuale. 25
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C’è il leader, il capo carismatico Dean Keaton (Gabriel Byrne) che rappresenta l’eroe vittima di un passato ingombrante che tornerà a tormentarlo e da cui non potrà sottrarsi, malgrado l’aiuto e la protezione della donna al suo fianco (l’avvocato Edie Finneran), che in un primo momento sembra rappresentare per Keaton una possibilità di redenzione. Ma come nella maggior parte dei film noir, il passato non è solo una condizione temporale, ma una sorta di deus ex machina che innesca gli eventi, così nel momento in cui gli agenti vengono a prelevare Keaton da una cena di lavoro riportandolo alla sua condizione di ex poliziotto corrotto e criminale, è chiaro che per lui ad essere segnato non è solo il passato, ma anche il futuro. C’è il trickster, McManus, interpretato da Stephen Baldwin, un personaggio instabile e ironico, cinico e fragile. È lui a proporre il piano iniziale da cui si dipanano le vicende, pur non avendo il carisma e la lucidità per imporsi a guida del gruppo, rimane comunque fino in fondo uno dei capisaldi dell’azione. C’è il duro, il granitico Todd Hockney (Kevin Pollack) brusco e di poche parole, e il Narciso (Fred Fenster / Benicio Del Toro), distaccato, disadattato, spesso fuori dalle dinamiche del gruppo, più interessato al suo tornaconto che alla buona riuscita dell’operazione: sarà il primo a ribellarsi alla volontà di Söze e a pagarne le conseguenze. E infine c’è l’inetto, l’uomo senza qualità, l’outsider storpio e apparentemente stupido, Roger “Verbal” Kint che dal suo cono d’ombra tira le fila di tutta la narrazione, dimostrando come il male possa celarsi anche dietro il più insolito dei sospetti.
L’ombra di Verbal: Keyser Söze
Quando Chris McQuarrie inventò Keyser Söze, probabilmente non si sarebbe mai aspettato che dopo l’uscita del film questo nome dal suono duro e minaccioso sarebbe entrato così prepotentemente a far parte del linguaggio e dell’immaginario collettivo, tanto da essere considerato un sinonimo del male, del diavolo, o meglio dell’Ombra. Ma, al di là di Söze, su cui ci soffermeremo più avanti, l’intero film di Singer può essere considerato un vero e proprio trattato sull’Ombra, intesa 26 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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come la parte oscura sia dell’individuo, sia della comunità, come del resto il genere crime racconta. Per analizzare nello specifico, dunque, gli aspetti più bui della trama di Singer partiamo da qualche nozione preliminare presa in prestito dalla psicanalisi (senza la pretesa di esaustività) e riportiamo una prima classificazione dello studioso Mario Trevi che nel suo Studi sull’Ombra, individua tre significati principali: 1) Ombra come parte inferiore della personalità; 2) Ombra come archetipo; 3) Ombra come immagine archetipica.
Nel primo caso l’Ombra è intesa globalmente come parte non accettata dall’inconscio personale, come la somma di tendenze, caratteristiche, atteggiamenti e desideri inaccettabili da parte dell’Io. A questo punto è possibile distinguere nell’Ombra, concepita come lato oscuro della personalità, due ulteriori aspetti: l’Ombra conscia e l’Ombra inconscia. I contenuti dell’Ombra inconscia sono i prodotti della rimozione, mentre quelli dell’Ombra conscia sono, tendenzialmente, soggetti a repressione. L’Ombra, in quanto archetipo, è invece una forma strutturante della psiche e, in altre parole, una sorta di matrice innata nell’uomo in cui si struttura il rapporto tra coscienza e negatività etica. In questo caso, l’Ombra esiste solo in funzione di una “luce”, e viceversa, ogni luce esiste in funzione della propria Ombra. Tale dualità contrapposta è strutturale e si articola nella psiche, secondo il modello prefigurato dallo psicanalista svizzero Jung, in un’opposizione tra questo archetipo oscuro e quello che lui definisce la “Persona”, ovvero il ruolo che ogni individuo assume nel rapporto con gli altri. Per quanto riguarda l’accezione di Ombra come immagine archetipica è possibile considerarla come il risultato dell’attività dell’archetipo che è universale nella forma, ma dinamico nel contenuto, quindi si articolerà di volta in volta in simboli, immagini e rappresentazioni differenti. Dal punto di vista narrativo, oltre che storico e psicanalitico, il rapporto tra l’Ombra e il Sé si può dispiegare in cinque modalità diverse, tutte rintracciabili nella pellicola di Singer: 27
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Proiezione Ricognizione Scissione Identificazione Integrazione
La Proiezione dell’Ombra è un tentativo di razionalizzare e circoscrivere gli aspetti negativi, le contraddizioni e tutto ciò che sfugge al proprio controllo, al di fuori di se stessi e riversarlo su un gruppo sociale o un singolo individuo allo scopo di stigmatizzarlo come capro espiatorio. A questo tipo di meccanismo sono riconducibili tutti i fenomeni di razzismo e pregiudizio nei quali si definiscono portatori di stigma individui ritenuti arbitrariamente diversi o devianti. Il “capro espiatorio” è dunque qualcuno a cui è attribuita tutta la responsabilità di malefatte, errori o eventi negativi e che deve subirne le conseguenze ed espiarne la colpa. In questo caso, a ricoprire tale funzione è Dean Keaton, individuo scelto da Kujan come motore principale dei fatti e come alter ego di Keyser Söze, a lui quindi vengono addossate colpe e responsabilità inesistenti, allo scopo di individuare socialmente un colpevole riconosciuto e riconoscibile. La seconda modalità di interazione con l’Ombra è la Ricognizione, una sorta di catarsi che Jung nel saggio Problemi della psicoterapia moderna (1929) distingue in due piani differenti: quello della confessione e quello della messa in luce; il primo è legato alla parte conscia della personalità, il secondo alla parte inconscia. In termini giuridici la confessione indica una dichiarazione svantaggiosa per se stessi, resa in sede processuale, mentre nell’accezione religiosa consiste nell’ammissione davanti a Dio dei peccati commessi per ottenerne l’assoluzione. La “messa in luce” dell’Ombra invece è legata alla parte inconscia della personalità inferiore e si manifesta attraverso un meccanismo mentale spontaneo in cui, partendo dalla stimolazione di un ricordo oppure da una maggiore consapevolezza acquisita grazie a un processo sinestetico, viene sollecitata una parte rimossa, o non inquadrata, che viene in primo piano. Nel film troviamo entrambi questi aspetti: il primo sotto forma di finta confessione offerta da Verbal all’inquisitore, che si pone in un ruolo di superiorità (anche fisica, dalla scrivania su cui è seduto guarda Kint dall’alto verso il basso) nei confronti dell’interrogato peccando di hybris (si 28
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erge a detentore di una verità che non possiede); il secondo, invece, emerge con forza nelle ultime scene del film in cui, attraverso rapidi stacchi di montaggio, Singer rende visivamente questo momento catartico attraverso i dettagli che permettono a Kujan di raggiungere l’illuminazione e capire ciò che fino a quel momento aveva avuto sotto gli occhi senza riuscire a vederlo. La fase successiva del rapporto tra l’Io e l’Ombra è la Scissione. In questo caso, la mancata accettazione della propria parte oscura, si cronicizza così tanto da portare, nelle sue estreme conseguenze, a casi di bipolarismo e sdoppiamento del personalità. Dal punto di vista narrativo la scissione dell’Ombra si identifica con la figura del doppio, che, a seconda del genere, può tradursi nel gotico come ad esempio in Dr. Jeckill e Mister Hide, nel crime, come nel personaggio della fiction americana Dexter, oppure, nel genere supereroistico, in tutti gli alterego dei protagonisti, il caso più esemplificativo è sicuramente Batman, non a caso, soprannominato il Cavaliere oscuro. Tornando all’interno della pellicola di Singer, appare dunque evidente che Keyser Söze altro non è che il doppio di Verbal Kint. Infatti, egli è descritto, nel racconto di Verbal, come una sorta di supereroe nero, in cui tutte le componenti della forza, dell’astuzia, e del coraggio sono presenti all’ennesima potenza, ma a differenza dei supereroi classici Söze ha scelto di mettere questi talenti al servizio del male, contro il bene. Se nel genere supereroistico è facile individuare chi sia l’originale e chi l’alterego, ne I soliti sospetti, anche per diversità di genere, è impossibile definire se nasca prima Verbal o Söze. In Kill Bill, David Carradine, descrivendo Superman, sostiene che: «Superman è nato Superman; quando Superman si sveglia al mattino è Superman, il suo alterego è Clark Kent. Quella tuta con la grande “S” rossa è la coperta che lo avvolgeva da bambino quando i Kent lo trovarono, sono quelli i suoi vestiti; quello che indossa come Kent, gli occhiali, l’abito da lavoro, quello è il suo costume, è il 29
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costume che Superman indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? È debole, non crede in se stesso ed è un vigliacco». Quindi, quando Roger Kint si sveglia al mattino è Verbal o Söze? «Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana» – continua Bill. Parafrasando Tarantino, questa è la morale alla base de I soliti sospetti: Söze rappresenta la critica di Singer alla razza umana, che si ferma alle apparenze, che giudica dall’esterno, che ragiona per categorie e pregiudizi, che ha bisogno che a una sostanza corrisponda una forma adeguata e su questa analogia fonda ogni ragionamento e verità. Allora Singer fornisce allo spettatore (e a Kujan) una rappresentazione del male da fumetto: gli dà un nome altisonante, un’origine misteriosa, e un passato tormentato. Lo rende iconograficamente credibile attraverso la silhouette nera che si staglia tra le fiamme come un diavolo all’inferno e per renderlo più crudele di tutti i criminali lo de-umanizza facendogli compiere l’atto più atroce per un essere umano: gli fa uccidere a sangue freddo i suoi stessi figli. In questa accezione, Söze rappresenta la quarta fase del rapporto con l’Ombra, l’Identificazione, che può essere considerata la somma delle pulsioni negative dell’individuo, il male tout court, il demoniaco, la negatività sia etica che metafisica. Al contrario, Verbal, paradossalmente, rappresenta l’ultima fase, l’Integrazione dell’Ombra, ovvero il raggiungimento di uno stato di equilibrio attraverso l’accettazione del lato oscuro della propria personalità, ma se in psicanalisi questa fase rappresenta la guarigione, nel mondo noir non c’è salvezza o sanità (mentale), quindi la guarigione si traduce nella realizzazione di una condizione di equilibrio, di “normalità”. Verbal è la normalizzazione di Keyser Söze, il Clak Kent della nostra storia: è debole, non crede in se stesso ed è un vigliacco. È il costume che Singer fa indossare a Roger non tanto per mimetizzarsi, quanto per prendersi gioco di noi: perché Verbal accetta di farsi interrogare da Kujan anche se ha già avuto l’immunità? Perché non chiede di avere un avvocato o non si rifiuta di rispondere? Non perché è debole e vigliacco, ma al contrario, perché è il narratore di questa storia e come un dio, o un demonio, è onnisciente quindi vede e sa ogni cosa: esattamente come Singer. 30
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Capitolo secondo
Il fascino indiscreto del male
L’allievo
Titolo originale: Apt Pupil Anno: 1998 Paese: USA Durata: 100 min Sceneggiatura: Brandon Boyce Personaggi e interpreti: Brad Renfro: Todd Bowden Ian McKellen: Kurt Dussander Bruce Davison: Richard Bowden David Schwimmer: Edward French Joshua Jackson: Joey
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Trama
Adattamento cinematografico del racconto di Stephen King, Un ragazzo sveglio*, il film narra la storia di Todd Bowden, studente sedicenne, che affascinato dalle vicende legate al regime nazista, studiate a scuola, un giorno scopre che nella sua tranquilla cittadina, a pochi isolati dalla sua abitazione, da moltissimi anni si nasconde un criminale nazista: Kurt Dussander. Intenzionato a farsi raccontare ogni dettaglio sui campi di concentramento e sulle atrocità commesse dal gerarca durante la guerra, Todd comincia a ricattarlo, costringendolo a rievocare il suo oscuro passato e rivivere gli agghiaccianti anni delle sue angherie, in cambio della tutela di quest’orribile segreto. Col passare del tempo, il rapporto tra i due comincia a dare i primi segni di squilibrio: Todd assume atteggiamenti sempre più violenti e il suo rendimento scolastico diventa sempre più scarso. Di questi cambiamenti prende atto il consulente scolastico Edward French, che convoca a scuola i genitori del ragazzo. All’appuntamento, però, si presenta Dussander che finge di essere il nonno del ragazzo. Per un patto stipulato con il consulente, Todd si impegna a prendere il massimo dei voti in tutte le materie, altrimenti verrà bocciato e i suoi genitori messi al corrente. Costretto dall’evidenza dei fatti e dal ricatto del gerarca, Todd si getta a capofitto nello studio riuscendo a ottenere i risultati sperati. A questo punto, il gioco si è fatto poco divertente e Todd vorrebbe spezzare il suo legame col vecchio, pensando, in un primo momento, anche di eliminarlo fisicamente, ma a questo punto il gerarca ribalta l’equilibrio di potere e informa Todd che, in caso di morte, il contenuto di una cassetta di sicurezza verrà reso pubblico e con esso anche la rivelazione che Todd era a conoscenza dell’identità del criminale nazista. Una sera, Todd viene chiamato da Dussander che ha appena avuto un infarto. Quando il ragazzo arriva nella cantina di Kurt trova un vagabondo ferito che il vecchio ha aggredito poco prima. Chiuso nella cantina insieme al senza tetto, Todd è costretto a uccidere l’uomo che gli si scaglia contro e prima di chiamare un’ambulanza per Dussander si libera del corpo. Una volta in ospedale tra Dussander e il ragazzo sembra tutto chiarito, ma nella stanza della clinica l’ex gerarca viene riconosciuto dal vicino di letto, scampato all’orrore dei lager. La situazione precipita: Todd viene 32
* S. King Un ragazzo sveglio, in Stagioni diverse, 1982, Sperling & Kupfler, Milano, 1982
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interrogato dalla polizia e, mentre Dussander si toglie la vita per evitare il processo, French, il consulente scolastico, capito l’inganno in cui è caduto, viene ricattato da Todd affinché occulti tutto quello che sa.
Un ragazzo sveglio
Todd Bowden è un tredicenne di buona famiglia con ottimi voti a scuola. Un giorno, frugando in garage, trova con un amico delle vecchie riviste di guerra con storie di campi di concentramento e il ragazzo ne rimane affascinato. Inizia quindi ad informarsi e ad approfondire, leggendo tutto quello che riesce a trovare circa la Seconda Guerra Mondiale ed i lager, fino a quando incontra un uomo anziano su un autobus e in lui riconosce il gerarca nazista Kurt Dussander. Il ragazzo, convinto della sua scoperta, si reca a casa dell’uomo che all’inizio nega tutto, ma infine ammette la sua vera identità. Dussander rimane sorpreso quando scopre che in realtà Todd non è lì per denunciarlo, ma vuole ascoltare tutte le storie circa i campi. L’uomo è riluttante ma, ricattato dal ragazzo, alla fine cede. Il rapporto tra i due si fa sempre più intenso e morboso, un giorno Todd arriva ad acquistare una finta uniforme delle SS e costringe il vecchio ad indossarla e a marciare a comando. Todd spende sempre più tempo con Dussander e i risultati scolastici ne risentono. Ai genitori dice che sta aiutando un anziano a leggere libri. Nel frattempo comincia anche ad avere incubi sui lager ed i voti peggiorano ancora finché non decide di truccare la pagella prima di darla ai genitori per poter nascondere la verità. Sempre più vicino alla bocciatura, e non volendo coinvolgere i suoi genitori, Todd convince Dussander a parlare con il responsabile dell’orientamento, Ed French, spacciandosi per suo nonno, Victor, ed inventandosi una storia di crisi familiare tra i genitori di Todd. A questo punto, però, anche Dussander ha qualcosa con cui ricattare Todd e ora è l’ex-nazista ad avere il controllo: può evitare di raccontare le vecchie storie che gli hanno causato il ritorno degli incubi e obbliga Todd a passare il tempo a studiare, piuttosto che ascoltare. Con grande sforzo, Todd riesce a recuperare i voti. Giacché Dussander non gli serve più, decide di ucciderlo in casa facendolo sembrare un incidente. Ma Dussander lo informa di aver depositato una lettera in una cassetta di sicurezza in cui lo incastra. Dopo questo colloquio con Dussander, su tutte le furie, il giovane esce ed 33 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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uccide un senzatetto alcolizzato e scopre che, in qualche modo, questo lo fa stare meglio. Intanto le sue visite a Dussander diventano meno frequenti. E nei momenti morti si apposta e finge di sparare alle macchine che transitano sulla superstrada con il suo fucile da caccia. Intanto anche Dussander ha ripreso le sue vecchie attività e ha iniziato anche lui ad uccidere i senzatetto: pur non conoscendo gli atti l’uno dell’altro i due si ritrovano a commettere gli stessi delitti. Una notte, mentre il vecchio sta scavando una tomba per la sua ultima vittima, ha un attacco di cuore. Riesce a telefonare a Todd che arriva, pulisce il sangue dalla scena dell’omicidio e finisce di seppellire il corpo prima di chiamare un’ambulanza. All’ospedale Dussander viene riconosciuto da un vecchio ebreo, Morris Heisel, che sa di aver già visto “Mr. Denker” ma non ricorda dove. Todd visita Dussander all’ospedale e questi gli confida che la lettera nascosta in banca è in realtà una menzogna. Pochi giorni dopo, Heisel capisce che Denker è Dussander, il comandante di camp Patin cui è sopravvissuto. Poco dopo arriva in ospedale un ebreo cacciatore di criminali di guerra di nome Weiskopf che fa visita a Dussander dicendogli che il suo passato è stato scoperto. Il vecchio allora ruba alcuni medicinali dall’ospedale e si suicida. La mattina dopo i genitori di Todd leggono sul giornale la notizia e sotto la foto di Dussander. Todd cerca di far credere ai genitori di essere all’oscuro di tutto, ma pochi giorni dopo anche la polizia si interessa al ragazzo. Un senzatetto fa visita all’agente Bozeman, un collega di Richler ed identifica Todd come il ragazzo visto per l’ultima volta in compagnia di un amico morto. Nel frattempo, Ed French telefona al vero nonno di Todd, cita il loro incontro precedente e si stupisce di scoprire che non ne ricorda nulla. Diventa sospettoso e controlla le vecchie pagelle di Todd scoprendo gli imbrogli. Dopo aver letto l’articolo su Dussander lo riconosce in fotografia. A questo punto Ed visita Todd che sta pulendo il fucile nel proprio giardino, gli chiede una spiegazione e questi lo uccide. Poi prende il fucile e torna alla sua postazione sopra l’autostrada. Verrà ritrovato, cinque ore dopo, morto suicida. 34
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Enfants prodiges crescono
A tre anni dall’uscita de I soliti sospetti Singer torna alla regia con L’allievo, adattamento di una novella di Stephen King (Un ragazzo sveglio, 1982). Se da un lato il film precedente aveva avuto il pregio di consacrare Singer come l’enfant prodige del cinema americano, dall’altro aveva anche creato intorno alla sua prossima uscita curiosità e aspettative difficili da soddisfare, soprattutto in un ambiente come quello hollywoodiano, dove la scalata al successo è tanto repentina quanto effimera e spesso passare dall’acclamazione al dimenticatoio è un passo piuttosto breve. Consapevole di questo, il trentaduenne Singer non sfrutta il credito guadagnato puntando su un film stellare, ad alto budget, come ci si sarebbe aspettato, date le possibilità che gli si erano offerte in termini di consenso ma, al contrario, si cimenta in un film dalle tinte e dalle atmosfere più autoriali e intimiste, rivolgendosi, anche questa volta, ad attori poco noti al grande pubblico come Ian McKellen, all’epoca ancora un attore shakespeariano, ricordato per il suo Riccardo III, e il giovane Brad Renfro già protagonista del legat-thriller Il cliente. Diverso per stile, ma non per tematiche, L’allievo riprende uno dei temi forti della cinematografia singeriana, che lo accompagnerà in tutta la sua produzione, l’indagine del lato oscuro del genere umano e del potere di fascinazione e seduzione di cui è capace. Se ne I soliti sospetti, Singer aveva catalizzato sul personaggio inventato da McQuarrie tutte le più oscure pulsioni dell’Ombra, in questo caso sceglie di non fare ricorso alla fantasia e al mito, ma di affrontare direttamente il lato d’ombra della storia dell’umanità, la pagina probabilmente più tragica che l’Occidente abbia mai vissuto: l’Olocausto. Singer apre così una finestra su quello che sarà un argomento ricorrente in molti dei suoi film, da X men (2000) a Operazione Valchiria (2008), tema che sente particolarmente vicino anche per educazione ed appartenenza religiosa, essendo egli di fede ebraica. In questo film, quindi, Singer sembra voler trovare risposta a una domanda che in tanti, come lui, si sono posti: come è stato possibile coinvolgere un’intera nazione in tale barbarie? Come accade che il male può sostituirsi al bene e da comportamento deviante diventare la norma? E proprio di que35
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sto parla L’allievo, del fascino del male che contagia lo spirito umano, lo permea fino a mutarlo dall’interno, facendo diventare anche l’uomo più normale ed equilibrato un potenziale aguzzino. Alla sua uscita il film viene accolto tiepidamente e riceve critiche contrastanti sia dagli esperti di settore che dal pubblico. Singer si conferma il regista di talento che ha dimostrato di essere nelle pellicole precedenti, tanto nella direzione degli attori quanto nelle scelte stilistiche (le atmosfere oscure, i primissimi piani dei personaggi, l’attenzione per i dettagli), ed ancor più nella capacità di manovrare la tensione facendola crescere o scemare a seconda delle esigenze narrative, ma la perdita del suo sceneggiatore di fiducia, Christopher McQuarrie, fa la differenza. Al suo posto Singer sceglie un compagno di studi alla sua prima esperienza nella scrittura di lungometraggi, Brandon Boyce, che purtroppo non si dimostra sempre all’altezza del compito affidatogli. Il soggetto, come anticipato, si basa su un racconto del pluriadattato “Re del brivido” Stephen King, a cui Boyce non rimane del tutto fedele: si prende la libertà di alzare l’età del protagonista e di tagliare alcuni risvolti maggiormente macabri e scabrosi, ampiamente presenti nel racconto. Due cambiamenti necessari anche per non incorrere nel rischio della censura e per evitare di urtare la sensibilità degli Studios che non avrebbero gradito un eccesso di “maliziosità” nella storia, con il rischio di far diventare un film pensato per un vasto pubblico (con un regista campione di incassi), un titolo di nicchia. Lo stravolgimento maggiore rispetto alla novella originale lo troviamo però nel finale che, seppur meno cruento, forse risulta maggiormente drammatico: Todd infatti non viene scoperto e non si suicida, ma consegue il diploma e, dopo aver eluso, tramite minaccia, i sospetti del consulente psicologo, si prepara per il suo ingresso in società al termine del suo addestramento al male. Ancora una volta, il talento di Singer dà il suo meglio nelle scene “a due” come ne I soliti sospetti, in cui il duello intellettuale tra Verbal e Kujan diventa il palcoscenico privilegiato dello scontro tra bene e male a colpi di dialoghi. Ne L’allievo l’angusto spazio di una cucina si trasforma in un luogo oscuro dell’anima, un inferno privato in cui i due protagonisti si addentrano credendo, a turno, di essere al sicuro ed avere il controllo della situazione, ignorando che quando si scende nelle profondità del male l’unica certezza sta nel perdersi e non nel ritrovarsi. Singer coordina con la maturità di un veterano, sorprendente per la sua giovane età, il peso emozionale della vicenda, centellinando con precisione 36
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chirurgica il pathos emotivo che progressivamente si instaura tra i due: Todd, più attratto dal male che dal comprensibile desiderio di evasione e trasgressione tipico della sua età, prende Arthur/Kurt come una sorta di modello, a metà tra il mentore e il compagno di giochi e, allo stesso tempo, viene scelto da questo come allievo, il più “adatto” a diventarne l’erede.
Il seme del male
Che faccia ha il demoniaco? Chi è veramente l’incarnazione del male? È un truffatore storpio dallo sguardo provocatorio? È un criminale ungherese dalla lunga chioma corvina? O è un vecchio malconcio che si trascina in una cittadina di provincia con il suo bastone? Chi è davvero il pericolo pubblico numero uno? Roger “Verbal” Kint? Arthur Denkel? Keyser Söze? Per capire veramente il senso dei film di Singer forse bisognerebbe rispondere a queste domande: come facciamo a distinguere il bene dal male? Come facciamo a sapere se la persona che ci parla mente o dice la verità? Se possiamo fidarci di lui, e se lui può fidarsi di noi? Perché se chiunque può essere il male, il diavolo, Keyser Söze o un gerarca nazista in incognito, come possiamo essere al riparo dalla contaminazione dell’Ombra? Forse non possiamo. Perché l’assunto alla base del film di Singer è che il malefico non solo è immortale, ma è addirittura una sorta di morbo, capace di trasmettersi da individuo a individuo come attraverso un contagio. Quando le truppe degli alleati entrarono nei campi di concentramento si trovarono di fronte a un orrore così grande da ritenerlo inumano, i sopravvissuti all’Olocausto non erano in grado di raccontarlo ai loro stessi famigliari perché era troppo grande il dramma che avevano vissuto, alcuni di loro, come lo scrittore Primo Levi, ne furono così sopraffatti da non riuscire a conviverci. Davanti a tanta insensata brutalità si cercò di capire, di trovare una giustificazione al fallimento stesso della ragione e poi, subito dopo, alla fine dei processi, al ritorno della normalità e della civiltà si disse che una cosa del genere non sarebbe mai più accaduta, che non sarebbe stata più possibile, cercando di relegare quell’esperienza a una pagina di storia. Ma è davvero così? 37 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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In un bellissimo film del 1961, Vincitori e vinti, il regista Stanley Kramer decide di raccontare uno dei procedimenti minori legati al famoso Processo di Norimberga e lo fa senza la retorica inneggiante alla superiorità morale dei liberatori, ma scegliendo di concentrarsi sul dramma umano sia delle vittime della persecuzione (a tal proposito è da ricordare la memorabile scena in cui un superbo Montgomery Clift, nei panni del garzone Rudolph Petersen, racconta l’umiliazione e il dolore di essere stato condannato a subire un’operazione di sterilizzazione perché ritenuto mentalmente incapace), sia del popolo tedesco, incarnato dall’orgogliosa e dolente Marlene Dietrich, vedova di un generale tedesco, e dai domestici della sua casa, che dichiarano più volte di non sapere quanto è accaduto, pur rendendosi conto di quanto sia difficile da credere adesso che la spropositata gravità dei fatti è sotto gli occhi di tutti. Le vicende del film si svolgono nel 1948, quando i grandi nomi della leadership tedesca sono già stati incriminati e giustiziati, il protagonista del film è il giudice americano Dan Haywood (Spencer Tracy), chiamato a Norimberga per giudicare quattro colleghi tedeschi accusati di aver applicato leggi palesemente inique e favorito la persecuzione del popolo ebreo. Spencer Tracy in questo caso non rappresenta solo la Giustizia, ma l’uomo giusto, che incarna l’esigenza di ogni individuo di capire come sia stato possibile che tale orrore si sia potuto compiere ad opera di esseri umani a danno di propri simili. Dall’altra parte, sul banco degli imputati, siede il giudice Hernst Janning, ex Ministro della giustizia del Reich, la figura sicuramente più tragica di tutto il film, poiché in esso risiedono tutte le virtù etiche e morali per connotarlo non solo come un eccellente giurista, ma come un uomo retto. Eppure, quelle stesse virtù di cultura e sensibilità che l’avvocato difensore osanna sono quelle che lo rendono maggiormente colpevole e complice agli occhi del giudice. «Se tutti i capi del Terzo Reich fossero stati dei sadici, dei maniaci, allora i loro misfatti non avrebbero più significato morale di un terremoto o di qualsiasi catastrofe naturale, ma questo processo ha dimostrato che in tempi di crisi nazionale le persone normali, e perfino quelle capaci ed eccezionali, possono indurre se stessi a condurre dei crimini così grandi e odiosi da sfidare qualsiasi immaginazione» – dichiarerà il giudice Haywood nella sua sentenza. Ed è esattamente questo il principio alla base del film di Singer: qualunque individuo, anche un ragazzo giovane, non ancora toccato da esperienze negative o da fatti traumatici, può essere contaminato dal fascino del male e compiere gesti inumani. 38
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Per dirlo con le parole di Hannah Arendt: «non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tutt’ora, terribilmente normali». In un certo senso, Singer è stato tra i primi a portare sullo schermo uno dei temi, purtroppo, tragicamente noti dei nostri giorni: quello della violenza e del fascino del male che può sedurre i giovani. Diverse sono le pellicole che negli ultimi anni ne hanno messo in scena le conseguenze come il pregevole film tedesco del 2008, L’onda (Dennis Gansel), che ricollegandosi al tema dell’Olocausto racconta di un esperimento avvenuto in un liceo di Palo Alto nel 1967 e sfuggito tragicamente di mano, in cui, per studiare il fenomeno dell’obbedienza alla base della genesi del nazismo, l’insegnante di storia del Cubberley High School, Ron Jones, indusse una classe di una trentina di studenti ad adottare particolari forme di cameratismo attraverso l’uso della disciplina e dell’uniforme. L’esperimento, che doveva durare solo un giorno, finì per estendersi a tutta la scuola e per sfuggirgli di mano quando il movimento acquistò vita propria: gli studenti non aderenti furono picchiati, mentre gli stessi membri erano diventati paranoici e sadici. Nel quinto giorno il docente si vide costretto a sospendere la prova rendendosi conto di quanto fosse facile far salire l’odio e la violenza nei suoi giovani studenti, esattamente come un’onda, ma a quel punto, uno dei ragazzi, vedendo distrutta l’unica cosa in cui crede, prima spara ad un membro dell’Onda, poi si uccide. Come il film di Gansel, anche quello di Singer parla della presa che il male e la violenza possono avere sulla personalità di ragazzi nel pieno del loro percorso di crescita e formazione, riportando alla mente molti casi di cronaca in cui dei giovanissimi si sono resi colpevoli di inspiegabili azioni criminose. In queste trame traspaiono tutte le contraddizioni della società americana in cui convivono, non sempre pacificamente, un eccesso di libertà ma anche di controllo, un ampio accesso alle informazioni, alla cultura e all’istruzione ma anche una forte disparità sociale, una politica dell’inclusione e dell’accoglienza ma anche uno spiccato senso di paranoia e diffidenza, 39
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tutti aspetti colti perfettamente da Stephen King nel suo racconto, e resi sullo schermo da Singer che intuisce l’aberrante normalità di vedere nel vicino di casa un potenziale massacratore e lasciarlo vivere in pace finché non arriva a turbare la tranquillità del proprio giardino. Più che una riflessione sull’efferatezza del nazismo e di ogni dittatura, il film diventa così uno “studio” sul fascino del male, sul lato negativo dell’animo umano che alberga in ognuno di noi e sulla fragilità della costruzione del Sé. L’ideologia nazista è quindi trattata non con un approccio storico, ma come una possibile faccia del male tra tante possibili. Todd, aspetto pulito, ragazzo “normale”, è un’altra di queste facce, forse una delle peggiori perché nascosta dietro le sembianze di un tranquillo ragazzo sveglio.
La co-incidenza degli opposti: Puer e Senex
Come all’interno del film precedente abbiamo fatto ricorso alla psicanalisi per analizzare le varie declinazioni dell’Ombra presenti nella trama, in questo caso utilizzeremo l’asse archetipico Puer/Senex per spiegare la natura e le dinamiche del rapporto tra Todd e Arthur messe in scena da Singer ne L’allievo. Il Puer è un’altra delle figure archetipiche individuate dallo psicanalista svizzero Carl G. Jung e può essere considerato, per certi versi, il più eccezionale tra gli archetipi perché rappresenta la vitalità e la forza libidica tipica della giovinezza, ovvero quel momento della vita in cui l’individuo ha ancora aperte davanti a sé tutte le possibilità di scelta e quindi non si è ancora definito in un’identità precisa. Con l’ingresso nell’età adulta, dunque, il soggetto perde a mano a mano i tratti del Puer per acquistare, progressivamente, quelli del Senex, ovvero il vecchio saggio che ci aspetta alla fine del nostro percorso di individuazione. Come tutti gli archetipi anche quelli del Puer e del Senex sono caratterizzati da una natura ambivalente e ambigua che, a seconda delle situazioni e delle esperienze, può manifestarsi con caratteri positivi, oppure, al contrario può assumere aspetti più duri e negativi. In particolare, per quanto riguarda il Puer, esso può incarnare, contemporaneamente, i tratti dell’esuberanza oppure quelli dell’indolenza e della vanità. In entrambi i casi, se portati alle estreme conseguenze, queste propensioni
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possono degenerare nell’annichilimento del Sé, ovvero in una sorta di autodistruzione frutto dell’incapacità di mediare tra poli opposti. A tal proposito, due esempi significativi possono essere considerati Icaro e Narciso: il primo, secondo la mitologia greca, è il figlio di Dedalo, l’architetto del labirinto in cui è rinchiuso il Minotauro, imprigionato insieme a suo padre in una torre da Minosse, per evitare che uno dei due svelasse i segreti della struttura del labirinto. Per riuscire a scappare, Dedalo costruisce delle ali con penne d’uccello tenute insieme con la cera delle candele. Malgrado gli avvertimenti del padre di non volare troppo alto, Icaro, una volta in cielo, si fa prendere dall’ebbrezza del volo e si avvicina al sole; ma, come preannunciato dal padre, il calore dei raggi fonde la cera, facendolo cadere nel mare e morire. Icaro rappresenta dunque l’aspirazione del Puer ad elevarsi sopra le proprie possibilità, senza rendersi conto dei pericoli ai quali va incontro. Al contrario, Narciso trova la morte per un eccesso di indolenza e vanità, poiché, secondo la versione di Ovidio, egli era un giovane di tale bellezza che chiunque se ne invaghiva seppur non corrisposto. Un giorno, durante una battuta di caccia, la ninfa Eco lo vede e se ne innamora, decide dunque di seguirlo nel bosco per poi mostrarsi ed abbracciarlo con passione. Narciso, però, allontanata in malo modo la ninfa se ne va, lasciandola sola con il cuore infranto a piangere per il suo amore non corrisposto. Nemesi, ascoltando questi lamenti, decide allora di punire il crudele Narciso con la sua stessa moneta condannandolo ad innamorarsi di qualcuno senza essere ricambiato. Il ragazzo, quindi, mentre è ancora nel bosco, si imbatte in una pozza d’acqua e una volta inginocchiatosi per bere vede la propria immagine riflessa e se ne innamora perdutamente, senza rendersi conto di essere lui stesso a rispecchiarsi nell’acqua. Ma quando, dopo un po’, si accorge che l’immagine riflessa appartiene a lui e comprende che non potrà mai appagare quel desiderio d’amore, decide di lasciarsi morire, affogando. Dunque per evitare che il Puer disperda la sua energia positiva inseguendo fini irrealizzabili (Don Chisciotte) o giocando con la propria mortalità (James Dean), è necessario che gli si affianchi, nell’equilibrio della psiche, una parte più saggia e razionale, che corrisponde al Senex, perché solo così è possibile ricostituire un’identità molteplice ma coerente, che nel suo punto di equilibrio sia in grado di coniugare sapienza ed imprevedibilità, storia e acronia, follia ed equilibrio, dando vita a un individuo completo e non mutilato di uno dei due aspetti fondamentali della psiche. Il concetto di eterno fanciullo (Puer aeternus) compare in un breve lavoro di Jung dal titolo Psicologia dell’archetipo del fan41
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ciullo, ma la sua riflessione aveva già preso avvio tempo prima, per la precisione nel 1938, quando lo psicoanalista si era soffermato nella lettura dei Vangeli di Luca e Matteo. In queste riflessioni, Jung parla di un’interpretazione errata nella lettura dei Vangeli nei quali si descrive l’intera umanità come “infantile” e quindi bisognosa di una guida, ovvero la Chiesa, a cui viene attribuito il duplice ruolo sia di madre che di padre. Da questo spunto, Jung comincia a ragionare sulla dialettica fanciullo/adulto, che si risolve nella dinamica di connivenza della condizione di puer e senex all’interno dell’inconscio collettivo. Successivamente Hillman, uno psicologo americano, riprenderà ed attualizzerà le riflessioni junghiane, eliminando quelle parti in cui la teoria originale si mostrava più debole: nei suoi scritti il puer aeternus non si limita ad un singolo archetipo, ma si amplia individuando un vero e proprio asse archetipico ai cui estremi si dispongono, appunto, il puer ed il senex. Se lo spirito puer si riflette nella ricerca di autonomia dalle catene degli Dei, le qualità senex invece si concretizzano nella sua preveggenza, saggezza e misura. Tale distinzione si fonda su di una diversa concezione del rapporto che il bambino instaura con i propri genitori. Se infatti, nella rappresentazione junghiana il puer veniva spesso associato alla figura della madre, con la quale ha un rapporto privilegiato, nel bene o nel male, per Hillman è il padre ad acquisire un ruolo di primo piano: il vagabondare dell’eroe (eterno figlio) non esprime, in realtà, il desiderio nascosto di un ritorno alla tutorialità materna, bensì il tentativo di un riconoscimento da parte del padre (ad esempio le prove di Ercole per essere riconosciuto come figlio di Giove). Le due figure di puer e senex si trovano in una speciale relazione reciproca, formando, per così dire, una sorta di archetipo bifronte, in cui il primo è per antonomasia fuori dalla cornice del tempo, non procede in avanti né indietro, la sua è una dimensione acronica (Dorian Gray dell’omonimo romanzo di Wilde o il più comune Peter Pan del romanzo di Barrie); il secondo, invece, incarna la storia, la porta sulle spalle come un peso ed una risorsa, per questo ha conoscenza del passato e prevede il futuro (Tiresia della mitologia greca, oppure, nella più recente cinematografia, Benjamin Button che pur morendo bambino ha dentro di sé il peso di una vita vissuta intensamente). Tra le differenze più significative che si possono osservare tra le due figure, il puer si relaziona con la realtà attraverso il suo spirito vivace; il senex ne prende le distanze in attesa di un momento migliore. L’una ispira il fiorire delle cose, l’altra presiede al raccolto. L’una si muove 42
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entro una dimensione di ascesa, lontana dagli ostacoli del mondo terreno, in una verticalità che tuttavia può rivelarsi fallimentare (abbiamo già citato Icaro), l’altra ha i piedi ben piantati in terra, entro un tempo già definito. L’una è disordinata e si muove entro un universo privo di frame, l’altra, proprio perché possiede il dono del sapere quale conoscenza acquisita e prevista, ha un grande potere terreno. Quel che emerge, insomma, sono le peculiarità simboliche espresse dal puer e dal senex, i quali si contraddicono e si scontrano. Per chiarire la dinamica delle relazioni tra le figure prese in considerazione è necessaria un’ulteriore differenziazione, che mostra la definizione del puer e del senex considerati nella loro accezione negativa. Temperamento Tempo
Psiche
Figure Azione Proprietà
Puer negativo
Senex negativo
Presente
Passato
Passivo Chiuso Iperattivo
Paura di invecchiare
Giovani suicidi Falso allievo
Ripetizione inconscia Autodistruttività Gioventù
Arido Dispotico Cinico Nostalgia
Monarca assoluto Falso mentore Conoscenza della storia Vecchiaia
Tab. 1. – Negatività del puer e del senex Fonte: Lo spettacolo dell’immaginario, S. Leonzi, 2009
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La scissione archetipica produce un temperamento e una personalità che potremmo considerare deviate, infatti, quando il senex viene completamente separato dalla parte puer diviene negativo, per esempio, quindi, il vecchio re si trasforma in un monarca dispotico, con un’autorità priva di idealismo ma che mira solo alla perpetuazione del proprio potere. In tal caso, l’aridità dello spirito spinge lo sguardo del soggetto verso un tempo che viene vissuto attraverso sentimenti di malinconia e di nostalgia. Improvvisamente, ci si sente invecchiati e si accresce il sentimento di invidia nei confronti dei giovani; ciò si riflette in un cinismo esasperato e in un dispotismo che non ammette repliche. Un personaggio cinematografico che esprime con forza questo status è Anakin Skywalker, che secondo la trama della saga Star Wars, è un leggendario Cavaliere Jedi e un grande Comandante durante le Guerre dei Cloni, addestrato nelle vie della Forza dal maestro Obi-Wan Kenobi (il Mentore per eccellenza), ma durante l’addestramento, a causa della sua arroganza, impazienza, immaturità e alla paura di perdere le persone care, viene lentamente corrotto dal Lato Oscuro della Forza. Anakin cessa quindi di esistere diventando Dart Fener, Signore Oscuro dei Sith e apprendista di Sidious, per riemergere dall’oscurità solo al termine della sua vita tra le braccia del figlio Luke. La tabella mostra come il processo di reciproca influenza tra il puer negativo e il senex negativo proceda in maniera speculare. Il giovane può subire l’irruenza ed il potere del vecchio o della Grande Madre, essere insomma attratto da una visione del tempo già corrotta dall’esperienza (spesso negativa) o, al contrario, avviluppato da un materno castrante che lo relega ad una infantilità eterna. Ecco allora che il fanciullo, divenuto anch’egli negativo, può smarrire la propria effervescenza e giungere a una condizione insana. O, all’opposto, diventare iperattivo, mosso da una ricerca spasmodica e bulimica del nuovo e del sorprendente. Il rischio, in entrambi i casi, è che le azioni di cui si rende protagonista non siano frutto di un reale processo di apprendimento, finalizzato alla consapevolezza e alla completezza, ma un’escalation di scelte immotivate, condizionate da un presente che lo tiranneggia senza una progettualità futura, e che può degenerare nella vertigine e nella follia. È questo il caso del rapporto tra puer e senex portato sullo schermo da Singer, in cui entrambi i personaggi racchiudono al loro interno le espressioni negative dei due archetipi appena illustrati. Dussander rappresenta una sorta di Mentore che interpreta alla perfezio-
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ne il suo ruolo di educatore: affascina il proprio interlocutore fino a farlo diventare coscientemente un educando, asseconda le indicazioni del ragazzo, gli permette di sperimentarsi in maniera protetta, lo forma e lo lascia camminare con le sue gambe affinché l’educando possa diventare non solo educato ma anch’egli, a sua volta, un educatore e possa succedere a lui. L’unico problema è che il percorso seguito da Todd non porta verso l’acquisizione di un’etica, ma, al contrario, di un’anti-etica, non conduce verso un inserimento quieto nel contesto civile, ma verso un arbitrario e utilitaristico uso delle regole sociali come nella scena finale in cui Todd ricatta lo psichiatra della scuola, minacciandolo di rivelare a tutti la sua presunta omosessualità. La figura di Dussander, nel suo ruolo di Senex Ombra, capovolge il consolidato assunto secondo il quale gli anziani, grazie alla loro saggezza, dovrebbero essere portatori di un sicuro e saldo sistema di regole morali, mentre i giovani, ancora privi delle più importanti esperienze di vita, avrebbero bisogno di un percorso articolato per sviluppare i giusti anticorpi contro la corruzione e la malvagità. Come è stato già detto in precedenza, L’allievo non è quindi un film sull’Olocausto o sulla fine di un gerarca nazista scampato alla giustizia, ma la storia di un rapporto insano tra due individui che, attraverso la parola, il ricordo e le suggestioni dei racconti (in questo caso storici) creano un legame forte quanto inspiegabile che li segnerà a vita. L’Olocausto, in questo caso, è una sorta di pretesto, uno spunto narrativo su cui innestare altre dinamiche. In tal senso, non sono poche le pellicole che hanno fatto ricorso al contesto della Seconda Guerra Mondiale o del Nazismo per giocare coi generi o rappresentare sentimenti universali, come ad esempio La vita è bella (Benigni, 1997) che utilizza lo sfondo di un campo di concentramento per raccontare l’amore profondo di un padre verso il proprio figlio. Educazioni sentimentali: L’allievo vs The Reader
Un altro film che, usando lo sfondo dell’orrore dell’Olocausto, si concentra sul rapporto di educazione/suggestione tra Puer e Senex è The Reader (Stephen Daldry, 2008) in cui la linea narrativa legata alle vicende della Germania nazista si unisce con una componente romance.
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Il film racconta la relazione amorosa tra Michael Berg, studente quindicenne, e Hanna Schmitz, all’epoca trentaseienne, che lavora come controllore sulle linee tramviarie di Neustadt, nella Germania Ovest del 1958. I due si conoscono casualmente ma ben presto cominciano una relazione fatta di incontri quotidiani nell’appartamento di lei. Ad ogni incontro, su richiesta di Hanna, Michael legge ad alta voce un’opera letteraria, prima di consumare il loro rapporto sessuale. Quando però nel suo lavoro viene proposta per una promozione ad impiegata di ufficio, Hanna scompare e Michael non avrà più traccia di lei. Passano alcuni anni e Michael è uno studente di giurisprudenza all’università di Heidelberg. Nell’ambito di un corso di specializzazione assiste nel 1966, con il suo docente, a più sedute di un processo di ex guardie delle SS nei campi di concentramento: con sorpresa riconosce Hanna tra le sei donne imputate di aver lasciato morire, durante la grande marcia di spostamento dei prigionieri dai campi, nel 1945, oltre trecento donne ebree in una chiesa. Durante il processo, Hanna viene accusata dalle altre sorveglianti di essere l’unica responsabile della strage sulla base di un documento che la donna avrebbe redatto all’epoca come rapporto ai suoi superiori: Hanna riconosce tale responsabilità e viene perciò condannata a vita, mentre le altre ad una pena risibile. Michael sa però che ciò non poteva essere vero, in quanto, e se ne rende conto solo allora, la donna durante la loro breve relazione aveva dimostrato più volte di non saper né leggere né scrivere. Passano ancora gli anni e Michael, ormai già sposato, divorziato e padre di una figlia, ricordandosi della sua giovanile storia d’amore e conoscendo la sorte di Hanna, decide di inviarle periodicamente delle registrazioni nelle quali egli legge ad alta voce dei romanzi, come aveva fatto tanti anni prima durante la loro relazione. La donna, ormai invecchiata, si procura i testi scritti di ciò che riceve registrato a voce ed impara in questo modo a leggere e a scrivere. Alcuni anni dopo, un’assistente del carcere contatta Michael in quanto Hanna, prossima a uscire dal carcere, non ha rapporti con altre persone se non con lui. Egli si reca a trovarla una settimana prima della scarcerazione ma alla domanda di lui, se abbia mai pensato al suo passato di carceriera e criminale di guerra, Hanna risponde con durezza: «Cosa sarebbe cambiato? I morti sono morti». Michael si irrigidisce e conclude freddamente l’incontro, senza peraltro comprendere un’altra frase pronunciata dalla donna: «Che cosa ho imparato? Ho imparato a leggere», che riassume la tragicità della sua esperienza e offre una parziale ma impietosa rilettura di
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sé. Il giorno prima della data prefissata per la scarcerazione Hanna si suicida nella sua cella. Al di là delle vicende processuali e storiche, il film mette in scena il rapporto di complicità e seduzione tra un ragazzo (Michael) e una donna adulta (Hanna) e le ripercussioni che questa relazione avrà nel loro sistema eticovaloriale. Come L’allievo, seppur con toni meno macabri e inquietanti, anche The Reader racconta di un passaggio di testimone, di una condivisione dell’Ombra che non si trasforma in salvezza. Il film, infatti, narra l’elaborazione di una colpa collettiva e storica che ricade anche sulle generazioni successive le quali, seppur innocenti per non aver preso parte alle vicende belliche e agli stermini ebraici, sono destinate a portare il peso di un marchio infamante, come se il seme del male, che ha offuscato la mente e i cuori della generazione che li ha preceduti si fosse tramandato ai posteri, che pagano il peso della consapevolezza.
Temperamento Tempo Figure Azione
Proprietà
Todd
L’allievo
Chiuso Iperattivo Presente Puer
Allievo
Autodistruttività
Gioventù
Arthur/Kurt
Michael
Passato
Passato
Arido Dispotico Senex
The Reader
Serio Allegro
Puer/Senex
Mentore
Allievo/Maestro
Vecchiaia
Gioventù
Contemplazione del passato
Impotenza
Hanna
Sterile Cinico
Presente
Grande madre Seduttrice
Accettazione del presente Vecchiaia
Tab. 2. – Comparazione Puer/Senex – L’allievo/ The Reader Fonte: elaborazione nostra da Lo spettacolo dell’immaginario, S. Leonzi, 2009
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Todd rappresenta nel bene e nel male il motore dell’azione e si assume la responsabilità di aver innescato un gioco pericoloso, anche se nella convinzione di avere le capacità per non esserne sopraffatto, appare chiuso nel suo mondo interiore fatto di incubi e fantasie morbose, Michael invece è serio, ma non cupo, allegro, ma non iperattivo in modo compulsivo e isterico. Queste caratteristiche lo rendono un Puer non del tutto negativo, ma predisposto all’annichilimento una volta venuto a contatto con il suo Senex che, essendo una donna, ricopre per lui il doppio ruolo di Grande madre (nel suo accudirlo e comandarlo), ma anche di Seduttrice nella gestione del rapporto fisico. L’aspetto negativo della figura di Hanna risiede nel suo essere sterile, nel non riuscire a creare legami con gli altri e nel non essere capace di dare in modo disinteressato, senza ricevere qualcosa in cambio (una lettura in cambio di sesso). Dussander, per certi versi, è l’esasperazione dei tratti presenti in Hanna che, seppur cinica, si dimostra per alcuni aspetti permeabile all’energia di Michael, malgrado il finale tragico che la porterà al suicidio. Arthur/Kurt, invece, è arido, in lui tutto ciò che attecchisce è il male e la sua fascinazione, l’unico modo che conosce per relazionarsi agli altri è il dispotismo, l’inganno e la coercizione, per cui il solo contatto che può avere con il giovane allievo è di mutua regressione morale, senza slancio e senza possibilità di recupero. Michael rappresenta il Puer impotente, che osserva senza agire lo svolgimento dei fatti, che potrebbe far cambiare il corso del processo portando, con tutta probabilità, a una forte riduzione della pena per Hanna, ma sceglie di tacere perché vive nel passato ed è tormentato dal senso di colpa, mentre il suo Mentore, al contrario, ha rimosso il proprio passato (riversandolo sul giovane) e vive solo nel presente. Nel film di Singer, invece, il passato è rivitalizzato nel rapporto tra i due protagonisti e diventa, per quanto scomodo, una cosa viva e quindi mutevole: per Todd, infatti, l’ombra del passato non è scomoda o incombente, ma rappresenta una luce diversa con cui guardare i suoi giorni d’adolescente; per Dussander invece è un tempo lontano in cui si sentiva parte di qualcosa che, anche se drammaticamente, lo qualificava e lo appagava. Ed è in questo che Singer dimostra di avere un talento non comune: nel rendere anche visivamente l’asse archetipico che lega i due personaggi in modo vincolante e misterioso, come un vero e proprio seme del male impiantato in entrambi, espresso anche da una serie di rimandi simbolici dis48
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seminati nella narrazione come ad esempio il cerchio che ritorna, come forma ossessiva in differenti contesti, a ricordare la ciclicità dei ricorsi storici ma anche l’impossibilità di sfuggire alla magnetica contingenza delle affinità elettive; come il cerchio disegnato sulla lavagna che apre la narrazione contrapposto a quello del canestro che viene sovrimpresso al volto ormai senza vita di Dussander, per una circolarità strutturale del film e del tema esposto in esso, oppure come l’occhio, inquadrato in stretti primi piani per tutto l’arco della pellicola, che rimanda all’impossibilità di distinguere il male sotto l’apparenza placida e tranquilla di un anziano dall’aspetto innocuo, o di un ragazzo apparentemente sveglio e normale.
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Capitolo terzo
La diversità eccezionale «Vorrei essere come quella ragazza degli X-Men, quella che passa attraverso i muri…» Monty Brogan, La 25ª ora, S PIKE LEE, 2002
X-Men
Titolo originale: X-Men Anno: 2000 Paese: USA Durata: 100 min Sceneggiatura: David Hayter Personaggi e interpreti: Patrick Stewart: Prof. Charles Xavier Hugh Jackman: Logan / Wolverine Ian McKellen: Eric Lensherr / Magneto James Marsden: Scott Summers / Ciclope Halle Berry: Ororo Munroe / Tempesta Famke Janssen: Jean Grey Tyler Mane: Victor Creed / Sabretooth Anna Paquin: Marie D’Ancanto / Rogue Ray Park: Toad Rebecca Romijn: Raven Darkholme / Mystica Bruce Davison: Sen. Robert Kelly Shawn Ashmore: Bobby Drake / Uomo Ghiaccio Matthew Sharp: Henry Gyrich
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Trama
Il prologo del film si apre con un’ambientazione inaspettata: un campo di concentramento. Durante la perquisizione delle SS che separano gli abili al lavoro da quelli destinati direttamente alle camere a gas, un ragazzo di origini ebraiche, Erik Lehnsherr, nel momento in cui viene separato dai suoi familiari, viene colto dalla disperazione e mentre i soldati tedeschi provano a calmarlo si accorgono che il ragazzo è dotato di poteri sovrumani che riescono a piegare il metallo del cancello del campo. Con un salto temporale si arriva, molti anni dopo, nella camera da letto di una teen-agers, Marie, che, emozionata, sta per dare il suo primo bacio a un ragazzo carino, ma non appena i due si sfiorano accade qualcosa: il giovane ha un malore ed entra in coma. Intanto, nello stesso momento, a New York, il senatore Kelly arringa contro la pericolosità dei mutanti e la necessità di varare una legge per la registrazione di questi ultimi. In quella stessa sede sono presenti la dottoressa Jean Grey, anch’essa intervenuta nel dibattito, ma a difesa dei mutanti, e il professor Charles Xavier. I due vengono avvicinati dall’ormai cresciuto Erik Lehnisherr, che li mette in guardia su ciò che sta accadendo: è l’inizio di una nuova persecuzione, simile a quella subita da bambino, che sfocerà in una guerra, ma questa volta Erik non permetterà a nessuno di rinchiuderlo e torturarlo come era avvenuto in passato. Intanto Marie è fuggita in preda al terrore per l’accaduto, ed è arrivata in Canada dove entra in un lurido bar per trovare riparo. Nel retrobottega del bar si sta svolgendo un combattimento clandestino. Ad avere la meglio è Logan, un mutante capace di rigenerarsi e di estrarre degli artigli di adamantio dalle mani. Logan interviene in difesa di Marie durante una discussione e decide di scortarla fino a un luogo più sicuro. Durante il viaggio, però, i due vengono fermati da un mutante di nome Sabretooth, che aggredisce Logan. Il combattimento tra i due viene fermato dall’arrivo di altri due mutanti, Tempesta e Ciclope, che portano in salvo sia Logan (ferito) che Marie. Quando Logan (soprannominato Wolverine) si risveglia alla X-Mansion incontra Jean Grey e ne rimane affascinato, tuttavia, vuole quanto prima recuperare Mary e andarsene. In quel momento interviene il Professor Xavier; questo gli spiega di essere anch’egli un mutante, un potente telepate, e che ha fondato una scuola per giovani dotati in grado di ospitare i 51
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mutanti spaventati dai loro poteri, tra i quali Marie, soprannominata Rogue. Wolverine quindi viene ufficialmente presentato ai membri degli X-Men: Scott Summers alias Ciclope, il leader del gruppo, che può emettere potenti raggi laser dagli occhi; Ororo Munroe alias Tempesta, che può comandare gli agenti atmosferici; Jean Grey, fidanzata di Scott, telepate e dotata di poteri telecinetici praticamente illimitati. Xavier spiega a Logan che, oltre a loro, c’è anche un altro gruppo di mutanti, chiamati la Confraternita, animati da sentimenti di odio verso gli uomini, e di cui fanno parte Erik Lehnserr alias Magneto, suo ex amico, in grado di manipolare i metalli; Victor Creed alias Sabretooth, potente essere primordiale; Mortimer Toynbee alias Toad, un ranocchio umano; Raven Darkholme alias Mystica, una mutaforme. Secondo Xavier, Magneto vuole Logan per poter attuare qualche piano malefico e lui vuole sapere quale, inoltre, vista la diffidenza del canadese, Xavier gli promette di aiutarlo a recuperare la memoria del suo passato che da tempo non ricorda più. Magneto in realtà non dà la caccia a Wolverine, ma a Rogue per sfruttare la sua capacità di assorbire i poteri di umani e mutanti e dare energia alla macchina che ha costruito (che trasforma gli uomini in mutanti, causandone la morte poche ore dopo) nel centro di New York, infettando milioni di persone. Con l’aiuto degli X-Men di Xavier, Wolverine riuscirà a fermare Magneto e a salvare Rogue, che era precedentemente stata rapita, ma nel finale, Wolverine parte per Alkaly Lake, luogo dove crede di poter trovare indizi sul suo passato, mentre il Professor Xavier va a far visita a Magneto nella sua prigione e si intuisce che la guerra non è finita, anzi, deve ancora cominciare.
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X-Men 2
Titolo originale: X2 Anno: 2003 Paese: USA Durata: 133 min Sceneggiatura: Michael Dougherty, Dan Harris, David Hayter Personaggi e interpreti: Hugh Jackman: Logan / Wolverine Patrick Stewart: Professor Charles Xavier Ian McKellen: Eric Lensherr / Magneto Halle Berry: Ororo Munroe / Tempesta Famke Janssen: Jean Grey James Marsden: Scott Summers / Ciclope Rebecca Romijn: Raven Darkholme / Mystica Anna Paquin: Marie D’Ancanto / Rogue Brian Cox: William Stryker Alan Cumming: Kurt Wagner / Nightcrawler Bruce Davison: Sen. Robert Kelly Shawn Ashmore: Bobby Drake / Uomo Ghiaccio Kelly Hu: Yuriko Oyama / Lady Deathstrike Aaron Stanford: John Allerdyce / Pyro
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Trama
Mentre Wolverine è alla ricerca delle proprie origini, un mutante di nome Nightcrawler si intrufola nella Casa Bianca e cerca di uccidere il Presidente degli Stati Uniti come gesto terroristico per ottenere la libertà dei mutanti, ma fallisce. Intanto Magneto riesce a fuggire dalla sua prigione. Wolverine scopre che nel suo passato un ruolo fondamentale è stato svolto dal colonnello William Stryker, scienziato militare ossessionato dai mutanti che ha sottoposto Logan a dolorosissimi interventi per rivestire il suo scheletro di adamantio rendendolo una vera e propria macchina da guerra. Anche il figlio di Stryker, Jason, è un mutante, il cui potere consiste nel proiettare i suoi pensieri nella mente degli altri. Anni prima Stryker aveva portato il figlio da Xavier per chiedergli una cura contro questi “sintomi”, ma il Professore gli aveva spiegato che i mutanti non sono malati, ma solo diversi, quindi suo figlio non aveva bisogno di cure ma solo di un’adeguata educazione e molta comprensione. Stryker, però, che considera la mutazione un abominio, ha trasmesso al figlio questa convinzione, il quale, a sua volta, sfogando sulla mente della madre tutto il suo rancore e la sua frustrazione, l’ha indotta al suicidio. Intento a vendicarsi di Xavier, che non era stato in grado di aiutarlo, e di annientare i mutanti, grazie alle informazioni ottenute da Magneto, precedentemente interrogato a lungo, Stryker rapisce il Professore, Ciclope ed alcuni ragazzi della X-Mansion. Il suo piano è quello di scatenare una guerra tra mutanti e umani, e il tentato omicidio del Presidente doveva essere la scintilla iniziale del conflitto. Data l’emergenza, gli X-Men e la Confraternita decidono di unirsi contro il nemico comune, quindi Jean Grey e Tempesta rintracciano Nightcrawler e tramite lui scoprono il nascondiglio di Stryker (una vecchia base nella provincia dell’Alberta, in Canada). Magneto, Mystica, Jean, Tempesta, Wolverine, Nightcrawler, l’Uomo Ghiaccio, Rogue e Pyro volano in Canada con il Blackbird e Mystica, fingendosi Wolverine, entra nella base ed apre le porte. Pyro, Rogue e l’Uomo Ghiaccio restano fuori, Tempesta e Nightcrawler cercano i bambini rapiti, Jean, Mystica e Magneto vanno da Xavier. Wolverine, intanto, rintraccia Stryker. Durante la missione Jean si trova davanti il suo fidanzato, Ciclope, che la aggredisce sotto il controllo mentale di Jason e durante il loro scontro
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danneggiano una diga vicino al luogo del combattimento; Magneto ferma Xavier mentre questi, sempre sotto il controllo di Jason, sta tentando di uccidere tutti i mutanti tramite Cerebro, e Mystica assume le sembianze di Stryker per poter dare ordini a Jason. Intanto Wolverine incontra il vero Stryker scortato dalla sua guardia del corpo, Yuriko Oyama (Lady Deathstrike). Dopo una dura battaglia Logan la uccide e insegue Stryker, lo raggiunge e lo incatena a un palo. Mentre Magneto e Mystica si impadroniscono dell’elicottero e prelevano Pyro (che simpatizza per gli ideali della Confraternita), Wolverine arriva in tempo per avvertire gli altri dell’imminente crollo della diga. Rogue pilota il jet, ma l’aereo non decolla; Jean allora decide di scende a terra per deviare l’acqua della diga, che aveva già ucciso Striker. Lo sforzo di Jean riesce a permettere agli X-Men di salvarsi, ma lei finisce per essere travolta dall’acqua. Intanto, alla Casa Bianca, il Presidente sta per fare un discorso alla nazione in cui ripropone la legge di Registrazione per i mutanti, ma l’arrivo degli X-Men, che lo informano sulla verità dei fatti, blocca la messa in onda giusto in tempo. Giorni dopo, la vita sembra riprendere regolarmente all’istituto Xavier ma Ciclope non si rassegna alla morte della sua fidanzata, e in quel momento, in fondo al lago creato dall’inondazione, appare una luce che raffigura l’immagine di una fenice.
In principio erano gli X-Men (poi tutti gli altri)
Che cos’hanno in comune I soliti sospetti, L’allievo e X-Men? Apparentemente niente. Sono tre film estremamente diversi, sia per genere che per contenuti, sia per stile che per sensibilità narrativa, eppure, un filo conduttore c’è: la presenza di personaggi diversi. Se nei primi due film la diversità è vista in una chiave oscura, a volte perversa, sia che si parli dello spietato Keyser Söze che dell’ombra degli eccidi nazisti, in X-Men Singer vuole raccontare una diversità eccezionale, fatta di giovani dotati i cui poteri, se giustamente impiegati ed educati, possono essere messi al servizio della comunità e del bene. Di questo parla X-Men: del difficile processo di integrazione che coinvolge un gruppo di adolescenti alle prese non solo con il naturale passaggio dal55 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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l’infanzia all’età adulta, ma anche con una realtà esterna che li percepisce come unici, purtroppo non sempre nel bene. Quello della diversità è un argomento estremamente vicino alla sensibilità del regista, la cui esperienza di vita ha reso accomunabile a un XMen, il cui potere sta nel riuscire a creare immagini e narrazioni efficaci a partire dalla sua condizione “speciale” di orfano, figlio unico, ebreo e omosessuale. Un ragazzo quindi dal vissuto sicuramente difficile capace, però, di trasformarlo in un punto di forza, in uno sguardo differente (perché originale) sul mondo che lo circonda e che mette in scena attraverso i suoi film. Per sua stessa ammissione Singer non è un appassionato di fumetti e conosce gli X-Men solo superficialmente, ma quando gli viene proposta la realizzazione del film si appassiona al progetto, comprendendo la possibilità di raccontare una storia sull’integrazione e la crescita, senza indugiare sull’uso di effetti speciali e combattimenti acrobatici. Perché negli X-Men creati da Stan Lee negli anni Sessanta sono contenute molteplici suggestioni e tematiche ancora attuali come l’idea di un prossimo futuro non meglio identificato, in cui, in un’atmosfera alla Blade Runner (Ridley Scott, 1982), i mutanti, così come i replicanti, dotati di poteri sovrumani, lottano (più o meno pacificamente) per il proprio diritto alla cittadinanza, in un mondo andato ben oltre la globalizzazione. Quello che esce nelle sale è uno dei film più noti degli anni Novanta, realizzato con il meglio della tecnologia digitale al momento disponibile, che apre la strada al fortunato filone di pellicole che dagli X-Men in poi popoleranno i cartelloni dei cinema di tutto il mondo fino a oggi. Da questo punto di vista il film di Singer segna uno spartiacque nella “filmografia da fumetto” poiché prima degli anni 2000, e precisamente prima che i fratelli Wachowski utilizzassero in Matrix gli effetti speciali che oggi siamo abituati a vedere impiegati nelle scene d’azione, le pellicole sui supereroi risultavano di scarsa efficacia per l’impossibilità di rendere tridimensionali le spettacolari tavole dei disegni. 56
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Prima degli anni 2000, quindi, il genere dei “cinefumetti” veniva considerato ufficialmente defunto. La Dc Comics aveva sfruttato quanto più le era stato possibile i suoi due personaggi di punta, Batman e Superman, mentre la Marvel di fatto non era mai entrata in partita, non riuscendo a trasformare nessuno dei suoi nomi in eroi da pellicola. Un segno che qualcosa però si sta muovendo arriva nel 1998 con Blade (regia di Stephen Norrington), che andando oltre le migliori previsioni riesce a raggiungere una buona fetta di pubblico e farsi un nome. La Marvel quindi intuisce che ci sono delle possibilità e due anni dopo si gioca il tutto per tutto con l’adattamento di uno dei suoi titoli più noti e apprezzati, X-Men, che può vantare dalla sua un già discreto seguito grazie alle serie animate, i videogames e il merchandise realizzati in precedenza. Gli X-Men, nati dallo stesso team creativo dei Fantastici 4 (anche loro oggetto di adattamento cinematografico nel 2005), si differenziano da questi per un dato naturale, infatti, mentre i quattro acquisiscono i loro poteri in seguito ad un fatto accidentale, gli X-Men hanno già nel loro DNA i geni della mutazione. Inizialmente, il titolo pensato per il fumetto era molto genericamente I mutanti, ma l’impossibilità di definire cosa fosse un mutante ha portato alla scelta di identificare questi personaggi solo con una X, esattamente come quella generazione di giovani che da un certo momento in poi le inchieste sociologiche non sono più state in grado di definire con un’unica etichetta (generazione X). Per la sceneggiatura Singer cambia ancora e, di nuovo, punta su un esordiente, David Hayter, che pur rischiando l’eccesso di zelo nella spiegazione delle dinamiche dell’universo mutante (rischio che si corre in ogni numero zero di una saga) dimostra di saper ben dosare il peso dei singoli personaggi all’interno del gruppo, conferendo a ogni elemento dignità e spessore. Lo scenario è corredato da abiti e ambientazioni più vicini alla moda e all’estetica del 2000, infatti i personaggi di Singer non indossano i costumi classici dei personaggi del fumetto, ma delle tute scure, attillate e sofisticate, sulla falsariga di design già sperimentati in altri film supereoristici, come quelli dedicati a Batman. Anche in questo caso, Singer si premura di scegliere un cast di pregio, soprattutto considerando il livello generale degli attori impiegati in film d’azione, le cui punte di diamante sono il già citato (nel film precedente) Ian McKellen, nei panni dell’antieroe Magneto, e l’idolo della saga di Star Trek Patrick Stewart, in quelli di Xavier. 57
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Particolarmente efficaci i primi 20 minuti del film, in cui entrano in scena, ad uno ad uno, tutti i personaggi che andranno a comporre l’XUniverse; soprattutto si dimostra molto suggestiva l’idea di ambientare il prologo all’interno del lager nazista per spiegare in pochi fotogrammi l’origine del dolore di un bambino che si trasformerà in odio e potere: il mix di elementi che daranno vita al personaggio di Magneto, sicuramente uno dei più carismatici antieroi dei comics. A rendere maggiormente credibile la sotto-trama dell’odio razziale e della persecuzione, oltre alla regia di Singer che non si sofferma su eccessi patemici o retorici, è sicuramente la perfetta interpretazione di Ian McKellen, che da X-Men in poi verrà identificato con il suo personaggio. Nel cast, destinato a diventare uno dei beniamini dell’action movie (e non solo) troviamo nel suo primo ruolo importante l’attore australiano Hugh Jackman, nei panni del rude e misterioso Wolverine, il mutante che dalla sua comparsa nell’universo X-Men, a opera dello storico sceneggiatore Claremont, catalizzerà l’attenzione dei lettori e degli appassionati, tanto da meritarsi pubblicazioni a lui dedicate (stessa sorte che toccherà al suo alterego cinematografico con X-Men le origini – Wolverine del 2009 e Wolverine – L’immortale del 2013). Jackman, grazie a questo personaggio, vedrà decollare la sua carriera, anche se per i panni di Wolverine in un primo momento Singer aveva optato per il gladiatore Russell Crowe, che avrebbe rifiutato a causa del compenso troppo basso, mentre la produzione puntava sul Keanu Reeves o Gary Sinise ma, dopo un’iniziale incertezza, dovuta principalmente all’eccessiva avvenenza dell’attore chiamato a svolgere il ruolo di un personaggio non propriamente “bello”, si capisce già dalle prime inquadrature che Jackman è perfetto nella parte, soprattutto nel dare vita allo sguardo di Wolverine, a metà strada tra la bestia e l’uomo d’altri tempi. Tra gli altri nomi spiccano Anna Paquin (Rogue), Halle Berry (Tempesta), Famke Janssen (Jean Grey) e Rebecca Romijn-Stamos (Mystica). L’unico a sembrare poco nella parte, a detta sia degli appassionati della saga, che della critica cinematografica, è l’attore James Mardesen inadatto a ricoprire i panni di Ciclope, leader carismatico del gruppo nonché compagno di Jean Grey-Famke Janssen, sia per la sua giovane età sia per la mancanza di “physique du rôle” che nel confronto con il roccioso Logan/Wolverine perde completamente di credibilità.
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L’obiettivo di Hayter e di Singer (che collabora alla scrittura del copione) è quello di realizzare una storia che sia fruibile anche dai “non addetti ai lavori”, ovvero coloro che non hanno mai letto nemmeno un numero del fumetto originale, quindi i due decidono di focalizzarsi su aspetti universali, sicuramente tipici dei comics, ma non di prerogativa esclusiva: il disagio provato della diversità e la necessità del controllo sui propri poteri e i propri istinti. Da qui nasce il personaggio di Rogue, adolescente problematica il cui potere la separa dal contatto con il resto del mondo, il “mutantofobo” senatore Kelly, che considera la diversità una minaccia paragonando i mutanti a delle armi da fuoco pronte a sparare e le due visioni “politiche” che contraddistinguono le fazioni mutanti, quella pacifista di Xavier e quella bellicosa di Magneto, già reduce della persecuzione razziale durante il regime nazista, fortemente intenzionato a non rivivere una seconda segregazione, ingiusta e irrazionale. Anche nel film di Singer il personaggio di Wolverine, se non il protagonista indiscusso, è sicuramente da considerare tra i più carismatici e in qualche modo il risolutore, la chiave di volta della narrazione, sia per gli innumerevoli misteri che il suo passato nasconde (una miniera d’oro per gli sceneggiatori a caccia di trame), sia per il ruolo svolto all’interno di questa specifica storia, una sorta di ago della bilancia tra le due fazioni. Lo spettatore entra nella scuola dei ragazzi dotati del dottor Xavier attraverso gli occhi di Logan, che scopre una realtà in cui essere diverso non significa necessariamente combattere una guerra e sfuggire il contatto con gli altri, ma in cui la normalità significa accettarsi e non fingersi diversi. Se i film tratti dai fumetti di ultima generazione sembrano al servizio degli effetti speciali, forse anche a causa di una ridotta potenzialità del digitale rispetto a oggi, X-Men è un film che usa gli effetti speciali e non si fa usare da essi. Per certi versi, per come è costruita la storia e per le intenzioni dichiarate del regista, i volti avrebbero potuto fare a meno degli effetti di morphing, usati per cambiare i connotati agli attori, le macchine della polizia avrebbero potuto non fluttuare in aria sotto la forza di Magneto, i proiettili avrebbero potuto non fermarsi a poco meno di un centimetro dalla fronte delle vittime, e il film non avrebbe perso la sua efficacia e il suo fascino. Fatta eccezione per il prologo sull’infanzia di Magneto nel campo di concentramento di Auschwitz, Singer mantiene una sostanziale analogia con il 59
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fumetto, restituendo il sentimento di appartenenza dell’in-group (i mutanti), incapaci di integrarsi in una società percepita come estranea e ostile (outgroup). A suo agio con narrazioni noir o comunque ricche di tensioni e pathos, Singer applica lo stesso stile anche al fumetto della Marvel, descrivendo i corpi dei mutanti come una sorta di gabbia all’interno della quale è rinchiuso l’individuo, come un peccato o una colpa da cui è impossibile fuggire. La figura malinconica e dolente di Wolverine è per molti versi simile a quella dei detective privati duri e alcolizzati del noir classico, come anche la descrizione dell’antieroe Magneto non risulta del tutto negativa ma, al contrario, molte delle sue motivazioni tendono a giustificarlo nelle azioni e a rendere la sua personalità maggiormente sfaccettata, proprio come nelle migliori storie nere in cui il bene e il male sono spesso compresenti in un unico personaggio. All’interno dell’Istituto del Professor Xavier, malgrado il clima sereno da college americano, si avverte un senso di malinconia dovuto alla consapevolezza che, seppur dorata e confortevole, la scuola per allievi dotati non è altro che una sorta di ghetto, simile alle cliniche psichiatriche in cui per lungo tempo venivano confinati individui sopra le righe o eccessivamente “sensibili”. Da questo punto di vista X-Men è un’opera pop, in grado di miscelare elementi diversi in un’unico amalgama: dalla lotta fisica all’introspezione psicologica, dal fumettone al trattato sociologico, dalla fantascienza all’Olocausto. Bryan Singer, dunque, firma il numero zero di una delle saghe meglio riuscite degli ultimi anni, e inaugura il fortunato filone dei cinecomix. A distanza di oltre dieci anni, il film di Singer non sembra risentire del passaggio del tempo, ma regge il confronto con titoli di ultima generazione. Nel complesso, colpisce l’estetica delle scenografie e il design della pellicola, come nelle riprese della villa del professor Xavier e del sottostante laboratorio segreto, iper-asettico e iper-tecnologico. 60
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Se in un primo momento, senza i successivi capitoli, il film di Singer potrebbe apparire un po’ acerbo, con il proseguo della saga si esplicitano e si condividono le scelte di regia e di sceneggiatura, soprattutto quella di non basarsi su scene specifiche del fumetto, ma di creare e modernizzare, in una sorta di puzzle, una storia originale funzionale per gettare le basi del mondo degli X-Men, con il rischio di deludere i fan, ma necessario per agganciare tutti coloro che non sono patiti di fumetti e che sono attratti da una storia semplice, ma accattivante da seguire. Tre anni dopo Singer continua sul cammino intrapreso e prosegue la storia riprendendola da dove si è interrotta. In questo secondo numero, liberato dal vincolo della contestualizzazione narrativa, può divertirsi maggiormente con i propri personaggi, lasciandosi andare a toni da commedia nella prima parte del film e spingendo di più sull’azione e l’adrenalina nella seconda. Allo sceneggiatore David Hayter vengono affiancati Michael Dougherty e Dan Harris, la cui collaborazione sembra ottenere i risultati sperati riuscendo a calibrare bene la spettacolarità e la trama: vengono introdotti personaggi nuovi come i camei di Colosso, Bestia, Gambit e Jubilee – figure cult del fumetto –, viene accennato il passato di Wolverine, con la presenza del colonnello Stryker, e sviluppati i ruoli delle giovani leve come l’Uomo ghiaccio, Kitty “Shadowcat” Pryde, dotata del potere dell’intangibilità (nel film ha ancora un ruolo marginale mentre nei comics è la vicepreside della Jean Grey School for Higher Learning, fondata da Wolverine e nei prossimi capitoli della saga diventerà un personaggio centrale) e Pyro, un mutante in grado di plasmare il fuoco secondo la sua volontà, che nella versione originale della saga, è uno storico nemico degli X-Men e membro originale della Confraternita dei Mutanti Malvagi rimessa in piedi da Mystica. Anche in questo caso, il film di Singer risulta convincente sia agli occhi di un pubblico inesperto e non acculturato sulla saga sia a quelli degli appassionati dell’X-Universe. Fin dalla prima scena appare chiaro che il tono di questo secondo capitolo è ben diverso rispetto al prologo del film precedente: non siamo nel campo di concentramento da cui prende avvio la storia tragica di un bambino che diventerà Magneto, ma in una stanza della Casa Bianca, in cui un mutante (Nightcrawler) si teletrasporta da una parete all’altra con balzi felini per uccidere il Presidente degli Stati Uniti d’America. In questo caso è il ritmo a farla da padrone. 61
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Inoltre, se nella pellicola sceneggiata da Hayter l’attenzione narrativa si era focalizzata essenzialmente sulla coppia Rogue/Wolverine, lasciando in secondo piano il resto del gruppo, in questo caso, Dougherty e Harris si concentrano maggiormente sull’idea del team, visto dall’esterno come “ghetto” in seguito alla persecuzione governativa contro i mutanti, rendendo ancor più chiara la differenza tra uomo comune e homo superior generando un’ulteriore frattura all’interno degli X-Men in buoni e cattivi, tra chi sceglie di convincere gli umani a convivere pacificamente e chi, invece, sceglie di combatterli per sottometterli, dando corpo ai pregiudizi. Anche in questo caso la realizzazione tecnica è la migliore a disposizione, i personaggi sono convincenti e la storia è sviluppata al punto giusto da essere chiara e godibile, ma abbastanza aperta da lasciare ampi spazi di manovra per inserimenti successivi o precedenti, come poi avverrà con il sequel del 2006 (X-Men – Conflitto finale) e il prequel del 2011 (X-Men – L’inizio).
Homo Sapiens Superior: X-men di carta
Negli anni Settanta probabilmente sarebbe stato impossibile pensare che una serie di fumetti di secondo piano, rispetto a più noti personaggi della Marvel come l’Uomo Ragno, sarebbe stata in grado, negli anni Novanta, di vendere otto milioni di copie ogni albo, perché i comics dedicati alle avventure dei mutanti del Professor X, seppur longevi, hanno attraversato momenti di profonda crisi e grandiosi rilanci, coinvolgendo oltre tre generazioni di eroi e altrettanti lettori, che si sono rivisti in quei teenager dal corpo in evoluzione, con la paura di non essere accettati e amati, terrorizzati all’idea di essere additati come diversi. Ed è questa la chiave del successo degli X-Men a distanza di oltre trent’anni: la consapevolezza che diventare eroi non è un dono, ma un percorso di crescita difficile che richiede consapevolezza e coraggio. La storia degli X-Men nasce nel settembre del 1963, quando la casa editrice americana Marvel Comics inaugura una nuova collana i cui protagonisti sono una squadra di mutanti, per lo più adolescenti, che grazie a un’alterazione del DNA sono dotati di poteri eccezionali. La serie, che dall’ottobre 1978 assumerà il titolo di Uncanny X-Men, nasce dalla penna di Stan Lee e dalle visioni di Jack Kirby, una ben assorti-
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ta e collaudata coppia creativa che aveva già dato i natali a beniamini dei comics come Hulk e i Fantastici quattro. Tuttavia, il vero successo arriva nel 1975 quando Chris Claremont rilancia la serie, infarcendo le storie originali di relazioni amorose e approfondimenti psicologici e aggiungendo progressivamente nuovi personaggi. Gli X-Men nascono come risposta della Marvel al gruppo di supereroi targato DC Comics (la diretta concorrente della Marvel in materia di fumetti), che qualche anno prima aveva pubblicato Doom Patrol, una serie incentrata su tre ragazzi dotati di superpoteri alle prese con il pregiudizio e la diffidenza della società, esattamente come i protagonisti di X-Men. In entrambi i fumetti a guidare i ragazzi nel loro percorso di crescita è presente una figura di Mentore, incarnata da un adulto saggio e carismatico su cui i ragazzi possono fare affidamento: nel caso degli X-Men parliamo del dottor Charles Xavier, in Doom Patrol di Niles Caudler, ingegnere senza più l’uso delle gambe e costretto a muoversi su una sedia a rotelle, molto simile a Xavier. La differenza più significativa tra i due prodotti è data dall’età dei protagonisti, che per i supereroi della Marvel viene abbassata per farla rientrare appieno nella fascia adolescenziale, con la dichiarata intenzione di associare lo stato di estraneità tipico dell’adolescenza a quello provato dai mutanti che non si sentono parte né del mondo degli uomini né di quello degli eroi (status che, come ricorda Ben Parker, lo zio di Spiderman, non richiede solo l’esibizione dei propri poteri, ma anche molta responsabilità). Un corpo e una mente in trasformazione, l’incapacità di comunicare ed essere compresi, la sensazione di alienazione e costante persecuzione sono gli ingredienti che faranno di X-Men un successo, mentre il fumetto della DC Comics finirà nel dimenticatoio. Oltre alle tematiche sopra citate, la discriminazione e l’odio razziale sono gli altri due motori principali dell’azione che, per un maggior realismo e coinvolgimento, non si limitano a fatti riguardanti l’universo diegetico della narrazione fictional, ma si ancorano a episodi di storia realmente accaduti, come l’esplicito richiamo all’Olocausto e alla segregazione degli ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale ricordata da uno dei personaggi chiave di X-Men, Magneto, che oltre ad essere ghettizzato in quanto mutante, ha conosciuto anche gli orrori del campo di concentramento essendo di origine ebraica. Il cast originario del primo numero della serie era composto in primis dal professor Charles Xavier (Professor X), uno scienziato generoso e saggio 63
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dotato di poteri telepatici che, per scopi umanitari, decide di accogliere presso la sua dimora un gruppo di mutanti per offrirgli riparo, accoglienza e soprattutto un adeguato addestramento alla vita da diverso. Tra i primi mutanti a far parte del team del Professor X troviamo Ciclope, alias Scott “Slim” Summers, il leader operativo del gruppo grazie al suo sangue freddo e le sue doti strategiche. La sua peculiare mutazione gli ha trasformato lo sguardo in una potente arma distruttiva: i suoi occhi, infatti, emettono raggi laser simili alle spade dei guerrieri Jedi di Star Wars, che Scott riesce a controllare e indirizzare grazie ad una sorta di mascherina al quarzo di rubino. Un altro personaggio del team originario è Bestia, ovvero Henry “Hank” McCoy, la cui mutazione è soprattutto fisica, infatti è dotato di una forza e di un’agilità sovrumana, graficamente resa con mani e piedi sproporzionati rispetto al resto del corpo. Nel corso del tempo le sue fattezze fisiche cambieranno in seguito a sostanze radioattive e manipolazioni indotte, facendolo somigliare prima a una grande scimmia e poi a una sorta di felino. Angelo, il terzo membro della squadra, è Warren Worthington III la cui caratteristica, come anticipa lo stesso nome, è quella di essere dotato di grandi ali d’uccello, che diventeranno metalliche quando verrà catturato da Apocalisse, uno dei cattivi della serie, che lo convertirà ribattezzandolo Guerra. L’unica donna del team originario è Marvel Girl, alias Jean Grey, i cui poteri inizialmente sono esclusivamente telecinetici, ma col tempo, anche grazie agli insegnamenti dei professor Xavier, si accrescono e potenziano fino a farne uno dei personaggi più forti e determinanti della serie. L’ultimo componente del gruppo è anche il più giovane, l’Uomo ghiaccio, ovvero Robert “Bobby” Drake, capace di congelare l’umidità dell’aria e di manipolare la sua stessa massa corporea tramutandola in ghiaccio. Successivamente, a questi personaggi si aggiungono Havok, Alex Summers, il fratello minore di Ciclope, in grado di manipolare l’energia solare; Polaris, Lorna Dane, fidanzata di Alex, e figlia di Magneto di cui ha ereditato i poteri; Mimo, Calvin Rankin, inizialmente un nemico degli XMen poi convertito alla missione del gruppo la cui dote è quella di imitare i poteri dei mutanti. Nel 1966 Lee e Kirby lasciano la serie e da quel momento in poi viene a mancare un team che lavori con costanza al fumetto. Questa incertezza autoriale si ripercuote nella creazione degli albi comportando un calo delle vendite e la scelta, da parte della Marvel, di chiudere la serie con il n. 66 nel 1969. 64
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Gli X-Men, però, non vogliono morire, infatti continuano ad apparire come ospiti e guest-stars in altri titoli della casa editrice come Avengers, fin quando, la Marvel si convince, nel 1975, a concedere una seconda possibilità al team di Xavier, per tornare sul mercato e fare i conti con il pubblico dei lettori. Len Wein e Dave Cockrum si assumono la responsabilità di questo ritorno e lavorano a un numero speciale intitolato Giant Size X-Men n. 1, in cui gli adolescenti vengono sostituiti dagli adulti e la diversità diventa più razziale che anagrafica poiché i protagonisti del nuovo team sono di etnie e culture diverse. La storia dell’albo riprende le vicissitudini del gruppo originario, mostrando il dottor Xavier alle prese con una missione di salvataggio in seguito alla cattura dei suoi ragazzi. Non riuscendo nell’impresa da solo, Xavier comincia a reclutare nuovi mutanti in giro per il mondo tra cui Tempesta, alias Ororo Munroe, mutante keniota, in grado di manipolare le condizioni meteorologiche e perciò venerata come una dea nel suo paese d’origine e Wolverine, alias James “Logan” Howlett, un ex-agente governativo canadese dall’oscuro passato dotato di un eccellente fattore di guarigione, uno scheletro d’adamantio, tre artigli retrattili per mano e sensi super sviluppati: il personaggio destinato a diventare l’icona degli X-Men e il fulcro centrale nel team dei mutanti. Il coinvolgimento dei nuovi eroi porta alla buona riuscita dell’operazione ma, alla fine della storia, tutti i vecchi membri decidono di non tornare alla scuola di XMen, fatta eccezione per Jean Grey e Ciclope. Il successo di questo primo numero originale, dopo l’interruzione, determina la definitiva rinascita della saga X-Men a cui seguono alcuni tra i titoli più celebri della serie, come Giorni di un futuro passato (da cui è tratto il prossimo capitolo della saga cinematografica, che vede il ritorno di Singer alla regia) e Inferno. Al cast vengono aggiunti ulteriori personaggi, come la giovane Shadowcat, Kitty Pryde, capace di rendersi invisibile e attraversare la materia, e Fenice, ovvero la seconda vita di Jean Grey, caduta morta durante una missione e resuscitata con nuovi e accresciuti poteri. 65
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Negli anni Ottanta gli X-Men, diventati Uncanny X-Men dopo la rinascita editoriale, vivono il loro periodo più florido, grazie soprattutto a un team di lavoro di pregio. In questi anni, la composizione del cast inizia a prendere le forme del gruppo di eroi che ora il grande pubblico conosce soprattutto grazie al film di Singer: viene data maggiore rilevanza al personaggio di Wolverine e il leader carismatico del gruppo diventa Tempesta, al posto di Ciclope. Tra gli altri personaggi “secondari” che si aggiungono alla formazione citiamo in questa sede solo Rogue, alias Anna-Marie, una giovane mutante capace di assorbire la forza, le visioni e i poteri di altri esseri umani o mutanti attraverso il semplice contatto fisico. Dato il successo riscosso dalla categoria dei mutanti, la casa editrice, sotto l’impulso della gestione Claremont, crea numerosi altri titoli dedicati a personaggi simili agli X-Men come New Mutants (1983), X-Factor (1986), Excalibur (1988), che danno vita a sinergie e crossover chiamati XOver come La caduta dei mutanti, Massacro mutante, Programma Extinzione. Nel 1991 avviene la seconda frattura, dopo quella del 1975, nel mondo X-Men in seguito all’abbandono dell’uomo che per sedici anni ne aveva tenuto le redini, Chris Claremont. Ne consegue una nuova ridefinizione delle trame e dei personaggi che vengono divisi in due squadre: il Gold Team (Squadra Oro) protagonista di Uncanny X-Men, composta da Tempesta, leader della squadra, Colosso, Jean Grey, Arcangelo e l’Uomo Ghiaccio e il Blue Team (Squadra Blu) protagonista di X-Men, composta da Ciclope, Rogue, Gambit, Psylocke, Bestia, Wolverine. Le due serie spesso venivano scritte dallo stesso autore e le storie progredivano da una testata all’altra con soluzione di continuità. Nel Duemila, i dati di vendita del mondo mutante cominciano a calare progressivamente, la Marvel corre ai ripari cambiando diverse volte il team di lavoro e tentando di rafforzare le uscite con miniserie di scarso successo. Per tentare un ritorno di fiamma, viene anche riconvocato in sede Claremont, l’autore che più di ogni altro aveva saputo dare lustro e splendore agli X-Men. Il primo numero da lui curato, dal titolo Revolution, riuniva tutti i mutanti sparsi nelle varie testate e prevedeva un gap narrativo di sei mesi tra due numeri consecutivi, escamotage che serve all’autore sia per azzerare le trame, sia per creare suspance nel lettore. Operazione che gli riesce solo in parte perché l’uscita del film di Singer nel 2000 attira l’attenzione di nuovi
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e inesperti lettori che, ignorando le complesse trame precedenti, non hanno né la competenza né la pazienza per comprendere la sottigliezza narrativa di Claremont, ma in un certo senso pretendono di ritrovare negli albi i personaggi e le dinamiche viste al cinema. Attualmente, in America, le testate che vedono come protagonisti gli XMen sono nove (All-New X-Men; Astonishing X-Men; Cable and X-Force; Uncanny X-Force; Uncanny X-Men; Wolverine and the X-Men; X-Factor; XMen; X-Men: Legacy), in Italia, invece, la saga degli X-Men è pubblicata dalla Panini Comics-Marvel Italia ed è composta di quattro testate (Gli incredibili X-Men; Wolverine; Wolverine & gli X-Men; X-Men Deluxe presenta).
Mutatis mutandis
Il gran numero di narrazioni che hanno come protagonisti eroi tecnologici dai poteri sovrumani, che grazie a mutazioni genetiche o apparecchiature hitech riescono ad andare oltre i limiti della natura, dimostra l’interesse da parte del pubblico verso una sorta di riscoperta del mito classico che se prima era popolato da divinità e personaggi epici, ora si anima di nomi presi da comics e graphic novel, anche grazie alle possibilità offerte dalle innovazioni digitali. L’eroe tecnologico, dunque, si dimostra portatore di un nuovo epos, quello del mito della civiltà tecnologica, basato su elementi narrativi ricorrenti quali uno scienziato/ricercatore, un Prometeo/Frankenstein frutto dell’esperimento e un mondo circostante fatto di spettatori della magia tecnologica, come un moderno coro greco chiamato a commentare e per certi versi giudicare. Date queste premesse, è dunque possibile individuare una sorta di percorso evolutivo che va dal supereroe degli anni Quaranta, tendenzialmente infallibile e immortale, compensazione della mediocrità della condizione umana, agli eroi contemporanei, complessi e sofferenti, in crisi d’identità e in conflitto con i loro stessi poteri. Le tappe principali di questa evoluzione, come ben chiarito da Gino Frezza nel testo di Brunetta Metamorfosi del mito classico nel cinema sono le seguenti: • anni ’30/’40, nascono Superman e Batman come eroi positivi: l’uso della forza e delle competenze fisiche e tecnologiche rispecchiano l’ottimismo
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del paradigma positivista basato sull’accumulo delle conoscenze e sulla fiducia nel progresso. L’eroe è di conseguenza al servizio dell’ordine contro il male della società, relegato ai bassifondi della metropoli e lì ricacciato dai guardiani della civiltà. Il cinema e i fumetti, parallelamente, restituiscono questa rappresentazione solare del mito dell’eroe tecnologico e ne fanno una grande narrazione; • anni ’50/’60, nel panorama mediale nasce e si consolida il mezzo televisivo, fagocitando l’attenzione del pubblico e determinando la sua centralità nell’immaginario. I supereroi non fanno eccezione a questo processo di assorbimento e finiscono per essere rimediati dal piccolo schermo, adattando i poteri al formato: diventano dunque più quotidiani e meno divini, più pop(olari) e meno maestosi. Cominciano ad affacciarsi sulla scena i primi mutanti ma, come detto in precedenza, hanno sembianze e caratteri adolescenziali sia nel disegno sia nella maturità narrativa, il cui sviluppo reale si vedrà solo in seguito; • anni ’80/2000, è il periodo in cui i personaggi delle narrazioni supereroistiche muoiono super e rinascono mutanti, ormai maturi e compiuti nella personalità e nelle caratteristiche, portatori di una nuova sensibilità che mixa insieme superpoteri e crisi d’identità, ascesa e caduta, morte e resurrezione (es. Jean Grey che rinasce Fenice), natura e cultura (es. Wolverine).
Questa rinascita degli eroi tecnologici corrisponde, a livello mediale, con una rinascita anche delle possibilità offerte al cinema dal digitale, che dopo un periodo di crisi creativa e produttiva, attraversata negli anni Novanta, torna a occupare il ruolo di fabbrica dei sogni per eccellenza. In questo scenario di convergenza mediale e narrativa i mutanti si rivelano i personaggi più adatti ad esprimere lo spirito del tempo, perché racchiudono sia il vitalismo e la potenza creativa in atto nell’industria culturale e nella società tutta, sia la fatica e il travaglio insito nella condizione umana e in ogni percorso di crescita sia individuale che collettivo. Se eroi come Superman e Iron Man mostrano una divisione tra forze opposte come il bene e il male, l’eccezionalità e una vita normale, la natura e la tecnologia, pur rimanendo integri nella loro identità corporea (di cui fanno la loro forza e il loro punto fermo), gli X-Men sono caratterizzati da una convergenza degli opposti, in cui la forza tecnologica non è esterna al 68
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proprio corpo, ma è “naturalmente impiantata” in esso: la tecnologia fa parte del proprio patrimonio genetico. Questo tipo di ibridazione può dare vita sia a condizioni semidivine, come nel caso di Tempesta, oppure determinare un senso di alienazione e non accettazione della propria condizione di diverso, come nel caso di Rogue. Inoltre, dal punto di vista metaforico, se il supereroe classico comprende la fusione tra tecnologia e corpo che potenzia ma non contamina l’Io del soggetto, con i mutanti questa ibridazione permea l’anima e l’identità del personaggio la cui unica certezza è il cambiamento (la mutazione appunto). Questo tipo di rappresentazione descrive, per certi versi, anche il cambiamento della relazione tra soggetto e mezzi di comunicazione, che fino allo sviluppo della rete determinava un accrescimento delle esperienze di visione dell’individuo senza entrare nel merito della sua identità, mentre adesso, con l’esplosione dei social media, i soggetti si trovano di volta in volta a doversi reinventare e rimodellare in accordo e con l’ausilio delle tecnologie, proprio come Mystica, il bellissimo mutante che cambia aspetto a seconda del proprio volere.
To be continued: X-Men after Singer
Titolo: X-Men – Conflitto finale Anno: 2006 Regia: Brett Ratner Cast: Patrick Stewart, Hugh Jackman, Halle Berry, Famke Janssen, Ian McKellen, Rebecca Romijn, Kelsey Grammer, Shawn Ashmore, Ellen Page, Ben Foster, Shohreh Aghdashloo
Trama: In questo ultimo episodio della trilogia si scopre che una medicina è in grado di far perdere i poteri ai mutanti e farli diventare come tutti gli altri esseri umani. Meno azione e più riflessione socio-politica sulle diversità. Gli opposti modi di vedere la diversità di Magneto (la legge del più forte) e Professor X (fautore della convivenza) portano alla guerra finale. Titolo: X-Men le origini – Wolverine Anno: 2009 Regia: Gavin Hood
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Cast: Hugh Jackman, Ryan Reynolds, Taylor Kitsch, Will i Am, Liev Schreiber, Dominic Monaghan, Lynn Collins, Danny Huston, Daniel Henney, Kevin Durand, Scott Adkins, Stephen Leeder
Trama: È il primo spin-off tratto dalla saga. Al centro della storia troviamo il personaggio più amato degli X-Men, Wolverine, che va alla ricerca delle sue origini mutanti per vendicarsi del suo creatore.
Titolo: X-Men – L’inizio Anno: 2011 Regia: Matthew Vaughn Cast: James McAvoy, Michael Fassbender, Jennifer Lawrence, Kevin Bacon, Rose Byrne, January Jones, Nicholas Hoult, Edi Gathegi, Lucas Till, Alex Gonzalez, Morgan Lily
Trama: Bryan Singer torna in veste di produttore. Il film racconta l’amicizia giovanile tra Xavier (Il Professor X) e Erik Lensherr (Magneto) e il loro successivo allontanamento a causa delle opposte visioni: Magneto, orgoglioso dei propri poteri non crede nella convivenza pacifica con gli umani, il Professor X invece vuole l’integrazione tra mutanti e uomini. La storia è ambientata negli anni Sessanta, in piena Guerra Fredda, e qui si inserisce il proposito di Magneto di costringere il Cremlino a lanciare missili nucleari contro gli Usa da Cuba. Titolo: Wolverine – L’immortale Anno: 2013 Regia: James Mangold Cast: Hugh Jackman, Will Yun Lee, Svetlana Khodchenkova, Hiroyuki Sanada, Hal Yamanouchi, Tao Okamoto, Rila Fukushima, Brian Tee, Famke Janssen, Patrick Stewart
Trama: Questo film vedrà impegnato Logan a combattere con la propria immortalità fino a che un ricco imprenditore giapponese, al quale Logan ha salvato la vita, gli propone la mortalità grazie a un congegno di sua invenzione. Wolverine accetta ma tutti lo vogliono uccidere essendo un’occasione unica. Logan dovrà combattere per salvarsi la vita. 70 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Capitolo quarto
Ritorno a Metropolis
Superman Returns
«I’m only a man in a silly red sheet digging for kryptonite on this one way street only a man in a funny red sheet looking for special things inside of me. It’s not easy to be me» S uperman (It’s Not Easy), F IVE F OR F IGHTING, 2000
Titolo originale: Superman Returns Anno: 2006 Paese: Usa Durata: 154 min Sceneggiatura: Michael Dougherty, Dan Harris Personaggi e interpreti: Brandon Routh: Superman/Clark Kent Kate Bosworth: Lois Lane Kevin Spacey: Lex Luthor Frank Langella: Perry White Sam Huntington: Jimmy Olsen James Marsden: Richard White Parker Posey: Kitty Kowalski Eva Marie Saint: Martha Kent Kal Penn: Stanford David Fabrizio: Brutus Tristan Lake Leabu: Jason White Ian Roberts: Riley Vincent Stone: Grant Stephan Bender: Clark Kent giovane 71 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Trama Sono passati cinque anni da quando Superman ha lasciato il pianeta Terra per andare alla ricerca di Krypton e in sua assenza il mondo e la sua famiglia hanno dovuto fare a meno di lui. Una volta fallita la sua missione di ricerca Superman decide di tornare grazie a una navicella forgiata da una sofisticata tecnologia a cristalli. Con questa raggiunge la fattoria di Smallville, dove vive ancora Martha Kent, la sua anziana madre terrestre, a cui spiega che ha deciso di tornare alla sua vita precedente e assumere nuovamente l’identità di Clark Kent. Intanto, in una bellissima villa alle porte di Metropolis, Gertrude Vanderworth, dal letto di morte, detta le ultime volontà al suo amante Lex Luthor, che ha aiutato ad uscire di prigione. Luthor diventa così un ricco ereditiere e a bordo dello yacht della donna raggiunge la Fortezza della solitudine, dove Kal-El un tempo era solito ritirarsi per brevi periodi. Qui sono custoditi dei cristalli (gli stessi della navicella) dagli straordinari poteri: il piano di Luthor è quello di creare un nuovo continente permeato di kryptonite sul quale l’Uomo d’Acciaio sia vulnerabile, pur sapendo che questo provocherebbe un innalzamento del livello del mare che potrebbe causare la morte di miliardi di persone. Svestiti i panni di Superman, Clark Kent torna al Daily Planet e lì scopre che Lois Lane si è rifatta una vita insieme a Richard White, nipote del direttore del giornale, e hanno avuto insieme anche un figlio, Jason. In sua assenza, inoltre, Lois ha vinto il Premio Pulitzer per un articolo intitolato “Perché il mondo non ha bisogno di Superman”. Munito della tecnologia kryptoniana Luthor torna a villa Vanderworth dove offre ai suoi scagnozzi una dimostrazione del potere dei cristalli causando effetti devastanti, provocando un black-out in tutta la contea e mandando in tilt il sistema di lancio di un aereo su cui si trova Lois Lane. L’aereo sta precipitado quando interviene Superman a salvare la donna e gli altri passeggeri, acclamato dalla folla circostante. Il giorno dopo, il ritorno di Superman è sulla prima pagina di tutte le testate, attirando l’attenzione di Luthor, che decide di prendere le sue precauzioni rubando una pietra di kryptonite dal museo di Metropolis. Mentre Lois si allontana dalla sua postazione Planet per uscire a fumare, Clark, nei panni di Superman, le com72
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pare davanti per spiegarle i motivi della sua partenza. I due si chiariscono, lei sembra perdonarlo, ma ribadisce che ormai è troppo tardi per loro, che la sua vita è a fianco a un altro uomo. Intanto, a lavoro, Lois indaga sul misterioso black-out che ha determinato l’incidente dell’aereo e seguendo una pista finisce sullo yacht di Lex Luthor, che la prende in ostaggio insieme al figlio. Sullo yacht, però, Luthor si accorge di un fatto curioso: esposto alla kryptonite il piccolo Jason ha le stesse reazioni di Superman. Approfittando di un momento di distrazione del suo carceriere, Lois riesce ad inviare al Planet una richiesta d’aiuto. In quel momento sopraggiunge uno degli scagnozzi di Luthor che inizia a malmenarla, scatenando l’istinto protettivo di Jason che, per salvare la madre, scaglia un pianoforte contro il criminale, uccidendolo e cominciando a far pensare alla madre che il vero padre del bambino sia Superman. Richard e Clark ricevono il messaggio di Lois e si dirigono verso la nave: Richard in idrovolante, Clark in volo come Superman. Nel frattempo però Luthor ha già messo in atto il suo piano, lanciando un cristallo kryptoniano arricchito di kryptonite in mare procurando una reazione che rischia di radere al suolo Metropolis ma sventata grazie all’intervento di Superman. Nel frattempo Richard ha raggiunto la nave e trovato Lois e Jason, ma lo yacht si spezza in due, imprigionando i tre dentro la nave che affonda. Quando tutto sembra perduto, Superman interviene liberando tutti, per poi andare a catturare Luthor. Appena raggiunta l’isola dove è rifugiato il nemico, Superman inizia a perdere i suoi poteri a causa della kryptonite. Il supereroe viene quindi preso e malmenato, fin quando Luthor stesso non lo accoltella con un pezzo acuminato di kryptonite, spingendolo giù dalla scogliera. Superman sembra ormai morto, ma Lois e famiglia sono tornati indietro, salvano l’eroe e gli asportano la maggior parte del materiale radioattivo. Nonostante le ferite l’uomo d’acciaio vuole completare la sua missione, e torna indietro per fermare Luthor. Superman solleva l’enorme isola, portandola in volo nello spazio. Luthor riesce a salvarsi ma finisce in esilo su un’isola deserta. Dopo aver sventato la minaccia, Superman si schianta nel Centennial Park di Metropolis. Grazie all’intervento dei medici che gli estirpano le schegge di kryptonite rimaste in corpo riesce a salvarsi. Una volta dimesso dall’ospedale Superman va a fare visita a Jason e mentre il bambino dorme gli sussurra le stesse parole che suo padre aveva detto a lui. 73
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Il primo supereroe non si scorda mai
Dopo 19 anni di assenza dal grande schermo Superman torna ad essere protagonista di un film, resuscitato dalla volontà di Bryan Singer che tenta di prestare alla DC Comics lo stesso servizio offerto alla Marvel: dare nuova linfa a un evergreen dei fumetti. L’idea di rimettere in volo il supereroe per eccellenza stuzzicava la casa di produzione Warner che già da dieci anni aveva prestato orecchio a molteplici stimoli provenienti da team di lavoro diversi. Sulla scia del successo ottenuto da Nolan con il suo Batman Begins (2005) si pensava a un nuovo reboot sull’adolescenza di Clark Kent a Smallville, oppure, a una storia del tutto nuova che in parte stravolgesse la linea narrativa conosciuta al grande pubblico. Quando la proposta di dirigere un nuovo numero della saga arriva sul tavolo di Singer egli pone una sola condizione: rifarsi al Superman del 1980. La produzione accetta, pur sapendo che in un clima di effetti speciali utilizzati come fuochi d’artificio e supereroi con superproblemi, la riproposizione di un eroe degli anni Ottanta potrebbe sembrare anacronistica e stridere con i gusti del pubblico. Anche Singer ne è consapevole, ma non gli importa. È sua ferma intenzione non assecondare le mode, ma semmai preferisce crearle: non vuole piegarsi all’estetica del momento pompando a dismisura i muscoli del supereroe sotto un costume che somiglia più a un’armatura medioevale che alla classica uniforme/calzamaglia, non vuole fare colpo sul pubblico adolescenziale puntando sul divo di turno, non vuole oscurare il cielo di Metropolis per farlo somigliare alla cupa Gotham City. Singer opta per una riproposizione dell’eroe classica, rifacendosi esplicitamente ai primi due capitoli della trasposizione cinematografica e ignorando totalmente il terzo e il quarto considerati già discordi con lo spirito originale del fumetto. Questa continuità non è solo narrativa, ma anche stilistica. Durante tutta la lavorazione si avvale, oltre alla scrittura degli sceneggiatori Michael Dougherty e Dan Harris, anche del consiglio di Dana Reeve, la moglie di Christopher Reeve scomparso nel 2004, che Singer avrebbe voluto sul set. Insieme alla vedova Reeve, Singer visiona centinaia di candidati per il ruolo del protagonista, tra cui Josh Hartnett, Paul Walker, Matt Bomer, 74
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Brendan Fraser, Ashton Kutcher, David Boreanaz, Ian Somerhalder e Hayden Christensen, ma alla fine ha la meglio su tutti il semisconosciuto Brandon Routh proprio per la sua incredibile somiglianza con il Superman originale (e indimenticabile). Trovato l’eroe bisogna trovare il suo alterego, lo storico nemico, Lex Luthor, ma qui la scelta è meno impervia: chi meglio di Keyser Söze potrebbe minacciare l’uomo d’acciaio? Così, a undici anni dall’Oscar per I soliti sospetti Kevin Spacey torna su un set diretto da Singer, interpretando magistralmente un Luthor ironico e sagace, ispirato dichiaratamente all’interpretazione di Gene Hackman, alla quale aggiunge un tocco più glamour. È Spacey a consigliare per la parte di Lois Lane la giovane Kate Bosworth, con la quale aveva già lavorato sul set di Beyond the Sea. Sia Routh, che Spacey e la Bosworth, sono talmente entusiasti di lavorare con Singer a questo progetto che firmano il contratto senza nemmeno leggere il copione. Trovato il cast adatto, Singer si concentra sul resto: in primo luogo chiede esplicitamente di poter utilizzare la colonna sonora originale riarrangiata per l’occasione dal suo vecchio amico e fidato compagno di lavoro John Ottman, che realizzerà anche il montaggio; poi chiede e ottiene di poter utilizzare delle scene tagliate del film del 1978 in cui compare Marlon Brando nei panni del padre alieno di Superman. Mette insieme il tutto con una scenografia e dei costumi che rispecchiano molto fedelmente le atmosfere dei primi numeri del fumetto e grazie a una regia pulita, impreziosita solo da spettacolari effetti speciali nelle scene più acrobatiche (come quella del salvataggio dell’aereo) offre al pubblico il suo personale omaggio al supereroe 1.0. All’uscita nelle sale la critica apprezzò il film e lodò la direzione di Singer per lo stile elegante e la sapiente costruzione dell’azione, ma il pubblico si divise, malgrado un ragguardevole successo al botteghino 75
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(391.100.000 dollari di cui 5.432.544 solo in Italia). I più nostalgici apprezzarono il richiamo alla saga originale e le numerose citazioni, i più giovani, invece, avrebbero preferito una trasposizione più vicina alle atmosfere noir di Nolan non apprezzando questa sorta di “restauro conservativo” troppo vicino allo stile degli anni Ottanta e chiedendosi, parafrasando il titolo dell’articolo Premio Pulitzer di Lois Lane, se il mondo ha ancora bisogno di un eroe come Superman. Superman è il più classico e apollineo dei supereroi. Lui è il bene senza il male, la luce senza l’ombra. È il predestinato di evangelica memoria, mandato sulla terra dal padre per fornire un esempio di bontà agli uomini e salvarli dalla corruzione e dalla perdizione. Superman non è un eroe empatico, con il quale si può stabilire un rapporto di complicità e immedesimazione, perché non appartiene a questo mondo, non risponde alle stesse leggi, non percorre lo stesso cammino degli altri uomini. Superman è un alieno e come tale è alienato, in crisi d’identità, incompreso nel profondo, sradicato nell’anima e questa è la storia che interessa a Singer: la storia di qualcuno intimamente fragile, ma costretto alla forza e al coraggio per natura. Ma se questo non è il suo mondo, perché Superman torna sulla terra? Questa è la domanda centrale per capire davvero l’uomo d’acciaio. Lo fa per amore. Torna come un genitore a prendersi cura dei suoi cari, sapendo che non solo è la cosa giusta da fare, ma che, in fondo, è l’unica cosa che può renderlo felice. «Happiness only real when shared» scrive il protagonista di Into the Wild (2007) prima di morire solo in Alaska dove era andato per trovare se stesso. È lo stesso messaggio che vuole trasmettere il Superman di Singer: che a volte il mondo può essere un posto faticoso in cui vivere, ma ne vale la pena. Alla fine del film Lois Lane rettifica il suo articolo precedente e scrive che il mondo ha ancora bisogno di Superman, e a giudicare dagli incassi del film di Singer e dall’uscita del successivo capitolo della saga, The Man of Steel (2013), si direbbe che anche il cinema non riesce ancora a farne a meno.
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Alla fine arriva Superman (returns)
Prima di Superman Returns e dopo l’insuccesso di Superman IV, sotto le ceneri di un mondo senza l’uomo d’acciaio qualcosa si stava muovendo per restituirlo all’affetto del suo pubblico. In origine doveva esserci un Superman V che metteva in scena la morte e la resurrezione del supereroe. Il film si sarebbe dovuto chiamare Superman: The New Movie, ne furono scritte due stesure ed entrambe prevedevano di riconfermare Christopher Reeve nel ruolo di protagonista. Parallelamente, ma in modo non concordato, anche la DC Comics aveva avuto la stessa idea degli autori del film e aveva messo in cantiere nel 1992 una serie sulla morte di Superman, ucciso da Doomsday e in seguito resuscitato. Questa svolta narrativa è accolta talmente bene da attirare le attenzioni della casa produttrice Warner Bros. che decide di acquistarne i diritti, buttare lo script di Superman: The New Movie e crearne uno del tutto nuovo. Il nuovo copione, scritto da Jonathan Lemkin raccontava di uno scontro tra Doomsday e il supereroe in cui quest’ultimo perde la vita e di un bambino partorito da Lois Lane che raggiunge i 21 anni in tre settimane diventando il risorto Superman. Il film si sarebbe dovuto chiamare Superman Reborn ma la storia non convince la Warner. Il testimone questa volta passa a Gregory Poirier che lavora a uno script in cui Superman va dall’analista per i suoi problemi sentimentali con Lois, muore, risorge e indossa un’armatura robotica per simulare i poteri che ha perso, ma che riacquisisce grazie alla disciplina mentale del Phin-yar, simile alla Forza di Star Wars. Questa versione della storia non dispiaceva alla Warner, ma non convinceva lo sceneggiatore secondo cui il fumetto originale veniva eccessivamente stravolto da questa rilettura (per esempio, secondo la nuova storia Superman non volava e avrebbe dovuto indossare un costume nero al posto della classica tuta blu e rossa). Continuando a lavorare su alcune idee di Poirier si arriva a Superman Lives, per la cui parte la Warner voleva Ben Affleck, Linda Fiorentino nei panni di Lois Lane e Jack Nicholson in quelli di Luthor. Per la regia viene contattato Robert Rodriguez, il quale però rinuncia all’ingaggio, allora si fa il nome di Tim Burton, già vicino al mondo dei comics per aver diretto Batman. Il film sarebbe dovuto uscire in concomitanza con il sessantesimo anniversario della nascita di Superman, nell’estate del 1998. 77
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Oltre ai tre attori sopracitati, in lizza per il cast c’erano anche Nicolas Cage come Superman, Kevin Spacey come Lex e Courtney Cox per Lois. Nel giugno del 1997 inizia la pre-produzione, la scrittura della sceneggiatura viene affidata a Wesley Strick che elabora una versione più intimista del supereroe, alla ricerca di se stesso e in crisi d’identità. Anche in questo caso l’uomo d’acciaio muore e, in qualche modo, risorge. Le riprese sarebbero dovute cominciare a Pittsburgh, ma la lavorazione viene bloccata a causa dei costi troppi elevati che la sceneggiatura di Strick richiedeva. La produzione quindi lo sostituisce con Dan Gilroy, il budget viene dimezzato e la realizzazione procrastinata a data da destinarsi, portando alla rinuncia di Tim Burton che preferisce uscire dal progetto per dedicarsi alla lavorazione de Il mistero di Sleepy Hollow. Tutto viene rimesso in discussione e si ricomincia da capo. Alex Ford presenta alla Warner il progetto di una saga di sette episodi dal titolo Superman: The Man of Steel. Il progetto era interessante, ma dentro la casa di produzione qualcuno pensa che sia folle buttare all’aria tutto il lavoro fatto in precedenza, così non si arriva a niente. A questo punto riportare Superman sullo schermo sembrava un’impresa impossibile. Nel 2002, però, a interessarsi all’Uomo d’acciaio è J.J. Abrams che scrive una storia dal titolo Superman Flyby, un reboot della serie in cui Jor-El invia sulla terra Kal-El per salvarlo dalla guerra civile scatenata dal fratello malvagio, Kata-Zor. Una volta adulto, Kal-El viene raggiunto dai figli dello zio e ucciso. Nell’aldilà incontra suo padre che gli permette di tornare in vita. Questa idea non dispiaceva alla produzione, ma mai tanto quanto quella di creare un cross-over tra i due supereroi più famosi della Dc Comics, Batman e Superman. Nel soggetto proposto Bruce Wayne ha smesso i panni di Batman da ormai cinque anni ed ha sposato la bellissima Elizabeth Miller che viene uccisa dal Joker e Batman deve rientrare in azione. Clark, intanto, ha divorziato da Lois e inizia una nuova relazione con Lana Lang a Smallville. La sceneggiatura viene scritta da Akiva Goldsman mentre Wolfgang Petersen avrebbe dovuto dirigere il film. Anche questa volta, però, il progetto venne abbandonato per continuare a seguire i due eroi separatamente nei rispettivi mondi. Goldsman allora passa a scrivere la sceneggiatura di Io sono Leggenda in cui, in una scena, compare una locandina del film mai realizzato Superman & Batman. Torna allora in campo Abrams, a cui viene affiancato un regista (Brett Ratner) e si fissa una data d’uscita: giugno 2004. Si fanno i primi nomi per
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il protagonista, come Josh Hartnett e Jude Law, e si ingaggia Christopher Reeve come consulente, che consiglia di puntare su uno sconosciuto come nuovo Superman. Anche questa volta, però, qualcosa va storto: Ratner lascia il set per incompatibilità artistiche, gli subentra McG, che poco dopo rinuncia anche lui. Nel frattempo arrivano gli X-Men e si fanno notare. Si scopre così che Singer aveva lavorato in passato a uno script in cui Superman non muore, ma semplicemente torna sulla terra dopo cinque anni d’assenza. Singer sottopone l’idea al regista del primo Superman, Richard Donner, che lo propone alla Warner. A questo punto, visto lo stallo di Superman Flyby, nel 2004 la Warner dà a Singer l’incarico di far volare l’uomo d’acciaio. La sceneggiatura viene scritta nell’arco di una vacanza alle Hawaii con Michael Dougherty e Dan Harris, gli stessi di X-Men 2. Nel luglio dello stesso anno la Warner approva il copione e Bryan Singer comincia la lavorazione di Superman Returns.
Se questo è un (super)uomo
Il concetto di Superuomo (o Oltreuomo) viene elaborato nel contesto filosofico da Friedrich Nietzsche tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, e viene identificato, nel testo Così parlò Zarathustra (1883), come una figura ideale che conosce i propri limiti e li supera grazie alla conoscenza, esprimendo il bisogno di rinnovamento di un’epoca, profetizzandone la decadenza e al tempo stesso la rinascita. L’atteggiamento superomistico di Nietzsche viene ripreso in letteratura da Gabriele D’Annunzio secondo cui il Superuomo è colui che, seguendo esclusivamente l’istinto, va contro i propri limiti grazie al culto della bellezza, essenziale per l’elevazione dell’uomo. Per Theodor Sturgeon (Nascita del Superuomo, 1952) il Superuomo è un’entità costituita da molti esseri umani incompleti, ma che insieme formano una totalità superiore alla somma delle sue parti. Il punto centrale di questa nuova concezione filosofica sta nella nozione di Sistema, che travalica i singoli e dà vita a nuovi soggetti collettivi. Al cinema e nel fumetto, invece, il Supereore è comunemente inteso come un «personaggio eroico con una 79 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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missione disinteressata ed a favore della società; possiede superpoteri, tecnologia molto avanzata, abilità mistiche o doti fisiche e/o mentali molto sviluppate; [… ] ha una super-identità ed un costume che funge da icona, e che tipicamente esprime la sua storia o personalità, poteri e origine» (P. Coogan, The Secret Origin of the Superhero: The Emergence of the Superhero Genre, 2002). Nel film di Singer Superman e Lois volano insieme nel cielo notturno di Metropolis, lui le chiede: «Cosa senti?». Ma lei, da essere umano, non sente niente. «Tu hai scritto che il mondo non ha bisogno di un salvatore, ma ogni giorno sento qualcuno che lo invoca» prosegue il superuomo dimostrando la differenza tra lui e il resto del mondo. Ogni supereroe ha la sua malinconia, per quello che avrebbe potuto essere e quello che avrebbe potuto fare, ma non è stato: Batman avrebbe voluto salvare i suoi genitori, Spiderman suo zio. Superman, invece, almeno per una volta vorrebbe non essere: vorrebbe non essere sempre in ascolto, vorrebbe non essere in ogni tempo e in ogni luogo, ubiquo ed eterno, vorrebbe lasciarsi cadere, come uno degli angeli di Wim Wenders e, forse, riposare. In Superman Returns l’uomo d’acciaio non muore, ma cade, in una scena estremamente suggestiva ed emozionante: spossato dall’immensa fatica non solo della missione appena conclusa, ma dal peso del mondo portato sulle sue spalle come un moderno Atlante. «Essere, o non essere, questo è il dilemma: se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell’oltraggiosa fortuna o prendere le armi contro un mare di affanni e, contrastandoli, porre loro fine. Morire, dormire… nient’altro, e con un sonno dire che poniamo fine al dolore del cuore e ai mille tumulti naturali di cui è erede la carne: è una conclusione da desiderarsi devotamente. Morire, dormire. Dormire, forse sognare». Questo è uno dei monologhi più celebri della vasta produzione di Shakespeare, in cui il principe di Danimarca, Amleto, deve scegliere di diventare adulto e assumersi la responsabilità di smettere di essere figlio per diventare padre, oppure continuare a vivere in quel limbo di inconsapevolezza e leggerezza che la tutela genitoriale consente. Alla fine del film Superman sussurra al piccolo Jason le parole che suo padre Jor-El aveva pronunciato a lui, in un simbolico passaggio di testimone: «il padre diventa figlio e il figlio diventa padre». Sia nella versione del 1978, che in questa di Singer, è messa in evidenza la centralità della figura paterna richiamando esplicitamente il messaggio cristiano dell’unico figlio 80
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di Dio, sacrificato a soffrire sulla terra per amore degli uomini. Anche in questo caso, Superman rinuncia a crescere suo figlio affidandolo a una madre devota e consapevole: Lois Lane che, come la Madonna, accetta di aver messo al mondo il “prescelto” senza chiedere altro, infatti, in Superman II, Clark rivelava a Lois la sua identità, rinunciava ai suoi poteri per lei e i due avevano una breve relazione finché il supereroe non veniva richiamato al dovere da un attacco nemico. Alla fine, Superman cancellava la memoria a Lois con una sorta di “bacio magico” facendole credere che suo figlio sia realmente nato dalla relazione con Richard. In questo caso Richard rappresenta il migliore tra gli uomini, il più adatto per sostituire il vero padre assente e crescere con dedizione e amore un bambino non suo ed educarlo ai valori di onestà e giustizia. Nel film Richard è interpretato da James Marsden, già Ciclope in X-Men, che in un primo momento era stato preso in considerazione anche per il ruolo di Clark Kent nella versione di Abrams. Secondo questo piano originale a dirigere Superman Flyby sarebbe dovuto essere Brett Ratner che invece si sostituì a Singer nella regia di X-Men 3 quando questi scelse di lavorare a Superman. Marsden, di conseguenza, avendo ottenuto la parte di Richard White dovette rinunciare ad essere Ciclope nel terzo numero della saga dei mutanti, comparendo solo in un cameo. Nel film, Richard e Superman sono volutamente molto simili, sia fisicamente che moralmente, come se il nipote di Perry White non fosse l’alterego minore di Superman ma quello potenziato di Clark Kent. Un altro personaggio fondamentale nel comic originale è quello del direttore del Planet, Perry White, una sorta di padre putativo, burbero ma protettivo, per tutti i giornalisti che lavorano alla testata, soprattutto per il giovane fotografo freelance Jimmy. In un primo momento, per ricoprire quel ruolo Singer aveva pensato a Hugh Laurie, il “suo” Dr. House, ma la popolarità della serie tv ha causato conflitti di pianificazione tali da costringere 81
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Singer ad abbandonare l’idea. A quel punto, il suo amico regista Gary Goddard gli segnala l’attore Frank Langella che aveva interpretato per lui Skeletor nel film Masters of the Universe. Dal cast di Dr. House – Medical Division, però, viene preso in prestito Kal Penn, uno degli scagnozzi agli ordini di Luthor, che insieme alla compagna di quest’ultimo, Kitty Kowalsky, interpretata da Parker Posey, compongono il variopinto team del male. Nello specifico, i dialoghi tra Kitty e Lex sono ripresi quasi letteralmente dalle scene del film del ’78, dal quale viene ripresa anche l’evoluzione psicologica della donna del boss che davanti alla follia di Lex si ravvede, prova ad ostacolarne i piani, ma poi gli resta accanto. Una curiosità: Gertrude Vanderworth, l’anziana signora sedotta da Lex per farsi lasciare in eredità la sua immensa fortuna, è in realtà l’attrice Noel Neill, che interpretava Lois sia nella serie tv che nel serial del ’48. Nel film di Singer Jonathan Kent è già morto e quando Superman ritorna a Smallville trova solo Martha, interpretata da Eva Marie Saint che conserva nel suo salotto di casa la foto di Glen Ford, l’attore che aveva vestito i panni di mister Kent nel film di Donner. Prima di arrivare alla versione definitiva i due sceneggiatori, Dougherty e Harris, avevano lavorato a sei diverse stesure, ognuna delle quali conteneva dei riferimenti all’attentato dell’11 settembre 2001, ma in un’intervista, Singer racconta che è stata una sua ferma volontà togliere questi riferimenti dal film. Secondo il regista, una delle scene originali prevedeva la commozione di Superman sulle macerie del Word Trade Center come a lasciar intuire che quella tragedia non sarebbe mai avvenuta se lui fosse rimasto a vegliare sulla Terra invece di andare alla ricerca di Krypton. La scena, per il regista, sarebbe risultata di cattivo gusto e poco rispettosa del dolore dei famigliari delle vittime. Malgrado queste accortezze, tuttavia, la spettacolare sequenza del salvataggio dell’aereo in picchiata sui cieli di Metropolis non può non richiamare alla memoria i tragici fatti dell’11 settembre. Superman fa atterrare l’aereo in uno stadio mentre è in svolgimento una partita di baseball; una scena simile compare anche nell’ultimo capitolo della trilogia di Nolan dedicata al Cavaliere Oscuro quando Bean interrompe una partita per spiegare il suo folle piano e terrorizzare Gotham City: il campo di baseball è un simbolo classico della cultura americana e non è un caso che molte delle 82
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scene più spettacolari di film d’azione coinvolgano questa location, come fosse un’enorme agorà in cui viene messo in scena lo spettacolo del superuomo, nel bene (come in questo caso) o nel male (come ne Il cavaliere oscuro – Il ritorno). In entrambi i casi, comunque, gli spettatori non possono far altro che prendere visione dei fatti dimostrando la loro partecipazione con l’esultanza, in un caso, e le grida di paura, nell’altro. Un ulteriore legame tra i due eroi della DC Comics è richiamato tra le righe del film quando, nella redazione del Planet, Clark ascolta da un notiziario che Superman è stato avvistato in diverse località del mondo tra cui Gotham City. Per concludere, un apprezzamento speciale va al prologo del film (punto di forza di tutti i lavori di Singer) che cita fedelmente il Superman di Donner: la panoramica di Krypton, la voice-over di Marlon Brando e il tema musicale di John Williams, rilavorato da Ottman, che accompagnano i titoli di testa, e la comparsa della S di Superman, restituiscono un senso di grandezza e di nostalgia estremamente emozionante. In chiusura ancora un ultimo omaggio, questa volta a Christopher e Dana Reeve, venuta a mancare a meno di due anni di distanza dal marito e a pochi mesi dall’uscita del film, a cui Singer dedica il film.
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Capitolo quinto
L’uomo che sfidò Hitler
Operazione Valchiria
«Non sarebbe bello riprendere Berlino, non sarebbe strano prenderla senza eroi? […] Non sarebbe bello non farci più del male, non sarebbe eroico non essere degli eroi?» Riprendere Berlino, AFTERHOURS , 2008
Titolo originale: Valkyrie Anno: 2008 Paese: USA - Germania Durata: 116 min Sceneggiatura: Christopher McQuarrie, Nathan Alexander Personaggi e interpreti: Tom Cruise: colonnello Claus von Stauffenberg Kenneth Branagh: generale Henning von Tresckow Bill Nighy: generale Friedrich Olbricht Tom Wilkinson: generale Friedrich Fromm Carice van Houten: Nina von Stauffenberg Thomas Kretschmann: maggiore Otto Ernst Remer Terence Stamp: generale Ludwig Beck Eddie Izzard: generale Erich Fellgiebel Kevin McNally: Carl Friedrich Goerdeler Christian Berkel: colonnello Albrecht Mertz von Quirnheim David Bamber: Adolf Hitler
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Trama
1943. La Secondo Guerra Mondiale volge al termine e la Germania, fedele a Hitler, sta perdendo. Se ne rende conto perfettamente il colonnello Claus von Stauffenberg, ufficiale della Panzer-Division, che sul fronte tunisino vede la disfatta sempre più vicina. In quel momento, un attacco aereo degli alleati colpisce la sua divisione e il colonnello viene ferito gravemente perdendo l’occhio sinistro, la mano destra e due dita della mano sinistra. In quello stesso anno, il 13 marzo, il generale Henning von Tresckow tenta di uccidere il Führer nascondendo una bomba nell’aereo che lo riporterà in Germania, ma l’attentato fallisce. In quell’occasione uno dei congiurati viene arrestato e, per rimpiazzarlo, il generale Friedrich Olbricht suggerisce il colonnello Stauffenberg che in un primo momento sembra riluttante, ma poco dopo mette a punto un piano che prevede alcune modifiche al codice Valchiria, necessarie per utilizzare e controllare le forze della Riserva contro le SS ed i vertici del partito. Perché questo possa avvenire sono necessari alcuni elementi: l’approvazione del nuovo piano da parte di Hitler, la complicità del generale Friedrich Fromm, comandante della riserva e la morte del Führer. Un primo ostacolo si pone quando Fromm, nonostante l’offerta del posto di comandante supremo dell’esercito, si rifiuta di prendere parte al complotto, ma evita di denunciare Stauffenberg, nel caso l’attentato a Hitler riuscisse. Poco prima di mettere in pratica il piano, il generale von Tresckow viene trasferito al fronte e al suo posto viene designato Stauffenberg come capo della parte militare dell’operazione. Tutto sembra pronto: anche il problema di bloccare le comunicazioni provenienti dalla “tana del lupo” (la sede del comando di Hitler dove avverrà l’attentato) viene risolto con l’intervento del generale Erich Fellgiebel, che si occuperà personalmente di questa parte del piano. Stauffenberg intanto viene nominato capo di stato maggiore della riserva e gli viene affiancato il tenente Werner von Haeften, fedele alla congiura. Insieme a lui, il 7 giugno 1944, si reca al Berghof, la residenza privata di Hitler, e riesce a fargli approvare le modifiche apportate al piano d’emergenza “Valchiria”. Tutto è ormai pronto, ma il primo tentativo di metterlo in atto viene fermato da Carl Friedrich Goerdeler (il Cancelliere designato alla morte di Hitler), che dispone di non procedere se non sarà possibile uccidere, insieme ad Hitler, anche il comandante delle SS Heinrich Himmler. 85
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Poiché la Riserva era stata allertata senza gli ordini di Fromm, questi convoca Olbricht e Stauffenberg e li minaccia d’arresto nel caso allertassero nuovamente la riserva a sua insaputa. Il 20 luglio 1944 Stauffenberg, insieme al tenente von Haeften, si reca nuovamente a Rastenburg ma, una volta arrivati, ricevono la notizia che la riunione è stata anticipata a causa della visita di Mussolini. Con il pretesto del cambio d’abito, i due si appartano per innescare gli esplosivi, ma il colonnello riesce ad innescare solo uno dei due pacchi di dinamite. Inoltre, lo spostamento del luogo dell’incontro dal bunker alla sala riunioni, non amplificherà l’effetto dell’esplosione riducendone di molto l’impatto. Mentre il tenente viene mandato a prendere l’automobile, Stauffenberg viene chiamato al telefono e pochi minuti dopo avviene l’esplosione. I due riescono ad uscire dalla tana del lupo ed imbarcarsi sull’aereo che li riporterà a Berlino mentre Fellgiebel chiama Mertz von Quirnheim per comunicargli l’avvenuto attentato, ma non la morte di Hitler. A questo punto, Olbricht, spaventato e confuso, non allerta la riserva per dare inizio all’Operazione Valchiria, perdendo in questo modo tempo prezioso. Von Quirnheim decide allora di agire di sua iniziativa allertando la riserva e, una volta che Stauffenberg e von Haeften atterrano a Berlino, vengono a conoscenza che l’allarme non è stato dato e che Fromm non è stato avvertito. Stauffenberg è furibondo e intima al generale di dare inizio a “Valchiria” a nome di Fromm, anche senza la sua approvazione. Olbricht esegue le direttive di Stauffenberg, e pochi minuti dopo, nell’ufficio di Fromm, i congiurati mettono di fronte al fatto compiuto il generale, offrendogli ancora una volta di unirsi a loro. Tuttavia Fromm, dopo avere parlato al telefono con Keitel, ha saputo che Hitler è sopravvissuto, si rifiuta di partecipare al complotto e viene arrestato. Il capo della polizia di Berlino, invece, garantisce l’appoggio delle forze dell’ordine ed i primi gerarchi nazisti cominciano ad essere arrestati. Tutto sembra procedere secondo i piani ma la riserva comincia a ricevere ordini contraddittori poiché viene emanato un ordine di arresto contro Stauffenberg. La situazione precipita dopo che il maggiore Otto Ernst Remer parla direttamente al telefono con Hitler, accertando in questo modo che il Führer è vivo. Quest’ultimo ordina all’ufficiale di catturare tutti i traditori e di lasciarli in vita. Le comunicazioni dal comando di Stauffenberg vengono bloccate e rapidamente il controllo della situazione torna al Governo del
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Reich. I congiurati vengono arrestati e Fromm, disattendendo gli ordini di Hitler, ne ordina la fucilazione al fine di cercare di occultare la sua conoscenza dei fatti. Beck si suicida, Stauffenberg, von Haeften, von Quirnheim ed Olbricht vengono immediatamente fucilati nel cortile del palazzo di Bendlerblock e gli altri congiurati verranno giustiziati dopo brevi processi.
Gli eroi (della Resistenza) sono tutti giovani e belli?
Dopo aver contribuito a rilanciare il genere supereroistico con i tre film precedenti (X-Men, X2, Superman Returns), Singer decide di cambiare e cercare altrove il prossimo personaggio eccezionale da portare sullo schermo. Per passione e interesse personale, sceglie di tornare ad approfondire un tema già trattato ne L’allievo – l’Olocausto e il Terzo Reich – anche se in una chiave molto diversa. Infatti, se nel film del 1998 la domanda a cui il regista cerca di dare una risposta è “come è stato possibile?” – presupponendo quel pensiero comune secondo cui tutti i tedeschi fossero nazisti – in questo caso Singer rovescia il punto di vista dandosi idealmente una risposta e raccontando la storia di coloro che hanno cercato di ribellarsi al regime sfatando il mito del totale consenso della Germania alle idee politiche di Hitler. Se ne L’allievo la chiave di accesso a questi interrogativi viene dalla penna di uno scrittore di fama come Stephen King, che rielabora in una novella il materiale storiografico per farne un plot del tutto nuovo, qui Singer decide di bypassare gli intermediari e lavorare direttamente la materia grezza, strappando dall’oblio una pagina della troppo spesso dimenticata Resistenza tedesca. Come protagonista della narrazione viene scelto il colonnello Claus Von Stauffenberg, ideatore ed artefice di uno degli attentati falliti ai danni del Führer, sicuramente il tentativo con le maggiori possibilità di riuscita ma, poiché la storia è fatta dagli uomini, il calcolo delle probabilità lascia il posto al destino che a volte non premia gli sforzi e nemmeno i migliori, ma segue le vie imperscrutabili di quella che Manzoni chiama Provvidenza, i greci, Fato, i contemporanei, semplicemente Fortuna. Secondo la versione singeriana, lo scopo della missione di Stauffenberg è salvare l’anima del popolo tedesco, dimostrando al resto del mondo che 87 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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non tutti si sono lasciati compromettere dal regime e dai suoi orrori. Per poter liberare la Germania, e riscattarla agli occhi dell’opinione pubblica, è necessario uccidere Hitler, ma non sufficiente, infatti, come ben spiegato nel film, bisogna evitare che alla morte del Führer un altro dei folli generali delle SS erediti il comando e continui le operazioni militari. Da questo doppio vincolo nasce l’Operazione Valchiria: ovvero la contraffazione del codice d’emergenza da mettere in atto in caso di morte di Hitler, che consegna il potere non alle truppe fedeli al Führer, ma alla Riserva, controllata da alleati di Stauffenberg nel piano sovversivo. Una volta liberata la Germania, secondo i piani, Stauffenberg l’avrebbe consegnata al generale Ludwig Beck, capo di stato maggiore dell’esercito tedesco dal 1933 al 1938, da sempre oppositore del regime, il quale avrebbe negoziato la pace con le truppe alleate ormai alle porte. Singer, dunque, ci racconta la storia di quello che sarebbe potuto essere ma non è stato, ci racconta di un meccanismo a orologeria perfettamente congegnato che si inceppa, più volte e in più punti, determinando la differenza – netta come quella tra la vita e la morte – tra il successo e il fallimento. Negli ultimi minuti del film, quando i membri della missione ribelle vengono tutti catturati e uccisi, solo un pensiero sembra rasserenare gli occhi e l’animo di questi uomini: la consapevolezza che l’eroismo non presuppone vittoria. Si può entrare nella storia anche da sconfitti, anche solo per aver provato a cambiare le cose, anche solo per aver detto no quando era più facile restare a guardare, anche “solo” per essere morti tentando: la morte di Leonida e dei trecento spartani non rende meno eroica l’impresa delle Termopoli, come la morte dei congiurati non rende meno virtuosa la loro missione. Operazione Valchiria è la storia di un bellissimo fallimento che da tempo Singer desiderava raccontare per il suo significato morale profondo, ovvero l’importanza del singolo nel corso della storia, la necessità per ciascuno di impegnarsi personalmente, anche di fronte all’ipotesi di una sconfitta quasi certa, anche di fronte a un sistema così perverso e pervasivo come quello del Terzo Reich per cui spesso si è parlato di responsabilità collettiva, soprattutto per i militari tedeschi che erano animati da un profondo, quanto cieco, senso dello Stato. Nelle intenzioni di Singer c’è questo obiettivo: puntare i riflettori sui singoli individui e non sul regime, far emergere le figure eroiche della Resistenza tedesca, diventata oggetto di narrazione solo di recen88
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te con film come La rosa Bianca (Marc Rothemund, 2005), in cui si racconta la tragica storia di Sophie Scholl, una studentessa universitaria che vive con il fratello Hans in un appartamento di Monaco di Baviera durante la Seconda Guerra Mondiale. Dopo la disfatta di Stalingrado, che mina di molto il consenso nazista, Sophie aderisce all’associazione studentesca “La Rosa Bianca”, per la quale scrive e distribuisce volantini contro il nazismo e la guerra, insieme al fratello e altri membri dell’organizzazione. Purtroppo, però, la sua attività ben presto attira l’attenzione della Gestapo che la conduce in una caserma dove viene interrogata dall’investigatore Robert Mohr che, malgrado le resistenze della ragazza, riesce a farle confessare la sua appartenenza alla “Rosa Bianca”, ma non i nomi degli altri membri dell’organizzazione clandestina. Poco dopo la firma della confessione, la giovane viene condotta in tribunale, condannata a morte e giustiziata. La storiografia ufficiale più volte ha deliberatamente offuscato episodi di questo genere come i fatti dell’Operazione Valchiria, i cui protagonisti erano ritenuti dallo stesso Wiston Churchill solo degli strateghi desiderosi di liberarsi del passato nazista in vista dell’imminente tracollo del regime. Come spesso accade nel racconto di fatti storici, avere una visione univoca e non contraddittoria è un’utopia, soprattutto in tempi recenti in cui la storia non è appannaggio solo dei vincitori e dei conquistatori ma, anche grazie ai mezzi di comunicazione, è possibile raccontare punti di vista differenti su uno stesso periodo, storie dunque di singoli individui, mossi da valori e ideali diversi, che moltiplicano di fatto le visioni possibili su uno stesso accadimento, «non deve stupire dunque che dallo strumento comune ciascuno non tragga lo stesso spartito» (M. Halbwachse, La memoria collettiva). Tornando al nostro caso specifico, sicuramente tra i cospiratori non tutti erano mossi esclusivamente da alti fini morali, e una delle motivazioni più forti era di certo la volontà di non perdere la guerra in modo tanto disastroso, ma altrettanto sicuramente molti volevano evitare al popolo tedesco di portarsi nella storia il marchio infamante di complice del genocidio. 89
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Per questa occasione Singer richiama al suo fianco l’amico Chris McQuarrie, autore de I soliti sospetti, abile nella costruzione di trame a orologeria e nel sapiente dosaggio della suspense in stile hitchcockiano seguendo fantomatiche valigette dal contenuto sconosciuto (ai personaggi, non al pubblico) e sintetizzando in poche battute gli antefatti preparatori alle vicende, lasciando ampio spazio invece al racconto dell’attentato il cui esito, seppur ampiamente noto, a tratti sembra volgere a vantaggio di un catartico happy end. A dare spessore alla storia, in cui le vicende personali dei personaggi vengono lasciate sullo sfondo per concentrarsi sull’azione, viene scelto un cast di ottimo livello composto da caratteristi di mestiere e attori di lignaggio come Terence Stamp, Bill Nighy, Tom Wilkinson, Eddie Izzard e non ultimo il sempre notevole Kenneth Branagh. In questo caso, però, una menzione particolare merita l’interpretazione di Bill Nighy, perfetto nei panni di Friedrich Olbricht, un eroe di guerra decorato con la croce di ferro e leader dell’Alto Comando dell’esercito, che nel 1940 si unisce alla Resistenza e inizia a lavorare segretamente per rovesciare Hitler. A lui è affidata la responsabilità di mettere in atto l’Operazione Valchiria il 20 luglio, ma nel momento di agire esita, compromettendo in buona parte la missione. Si tratta di uno dei momenti più interessanti del film, anche per la scelta di McQuarrie di non descrivere Olbricht come una sorta di capro espiatorio sul quale far cadere la responsabilità del fallimento, ma come un essere umano che, al di là del senso dell’onore e della dedizione, è attraversato anche da paure e incertezze. L’interpretazione di Bill Nighy, con la sua umanità fragile, nel suo imporsi un coraggio che non ha, lascia emergere tutta l’ansia e lo stress provato da Olbricht in quei momenti, rendendolo di fatto uno dei personaggi più tragici del film. Tuttavia, l’ unica parziale eccezione, in un cast di tutto rispetto, sembra essere proprio il protagonista, Tom Cruise, scelto per interpretare il ruolo di Stauffenberg, la cui interpretazione eccessivamente lineare non riesce a dare spessore al gioco di luci e ombre del personaggio, rendendolo più simile a un eroe da fumetto piuttosto che a un interprete tragico del suo tempo.
Un war-movie d’altri tempi
«In guerra non tutto riesce perfettamente. Tutti i piani hanno i loro imprevisti. Quello che conta è l’azione», dice il colonnello Stauffenberg ai suoi 90 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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compagni, interpretando in qualche modo anche il pensiero di Singer, che non potendo contare su un finale a sorpresa si impegna nel restituire quel misto di tensione e speranza che provarono gli autori dell’azione sovversiva, in un climax ascendente di concitazione nella parte centrale del film (quella dell’ottimismo), fino all’inevitabile punto di non ritorno: la voce di Hitler che nel momento stesso in cui si preoccupa di rassicurare il popolo sulla sua sorte determina invece quella dei congiuranti. Nella costruzione della tensione positiva, incoraggiata da un ritmo crescente e sempre più sincopato, fino all’epilogo tragico, in caduta libera verso gli ultimi minuti del film, sta il talento registico di Singer e il pregio maggiore della pellicola la cui ambizione è quella di risultare un buon thriller prima ancora che un documento storico. Della scelta di Singer si apprezza, dunque, soprattutto lo stile elegante e distaccato con cui mette in scena un thriller politico-militare avvincente e rigoroso. Nelle previsioni degli autori, infatti, Operazione Valchiria voleva essere un film d’azione senza intenti pedagogici, tuttavia l’interesse mediatico suscitato, amplificato dalla presenza di un divo come Tom Cruise, e la delicatezza dei temi trattati hanno procurato al film di Singer non poche critiche: la sceneggiatura, infatti, è stata accusata di eccessiva semplificazione, al limite del revisionismo storico. Secondo tali tesi non è storicamente corretto descrivere tutti i membri della congiura come eroi totalmente positivi, come martiri della Resistenza e difensori della patria, poiché, lo stesso Stauffenberg, come molti altri ufficiali nazisti provenienti da famiglie aristocratiche di alto lignaggio, non tolleravano di essere comandati da un uomo come Hitler e questa intemperanza, più che reali ideali di giustizia e onore, è alla base del piano omicida. Questo aspetto nel film non traspare, come non emerge in molte altre pellicole che, anche per esigenze produttive e di mercato, tendono a dividere la storia in buoni e cattivi tracciando un confine netto tra le due parti. Certamente la sceneggiatura avrebbe potuto mettere maggiormente in evidenza le sfumature caratteriali e le motivazioni personali che spingevano i congiurati all’azione, sicuramente si sarebbe potuto scendere nel lato d’ombra di chi prima di opporsi al regime l’ha servito, ma sarebbe stata un’altra narrazione, un altro film e non è questa la visione di Singer. Operazione Valchiria è un film che mette in scena la vera storia di un tentato golpe militare ai danni di Hitler e come tale si potrebbe prestare a numerose declinazioni ideologiche, ma Singer compie la scelta di 91
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raccontare una vicenda politico-militare, lasciando i giudizi morali sul nazismo e su Hitler nel sottotesto, nel già detto, nel già scritto, nel già conosciuto. Operazione Valchiria non si presenta con i tratti di un’agiografia laica, ma di una sapiente spy story, basata sull’amletico dilemma tra il dovere verso la patria e quello verso la causa. Singer sceglie di rappresentare Stauffenberg come una sorta di supereroe convertito, che mette al servizio del bene le sue doti solo dopo aver provato sulla sua pelle le conseguenze nefaste di scellerati piani di conquista. L’incidente che l’ha mutilato nel corpo, ma non nell’animo, per Stauffenberg ha lo stesso effetto di una folgorazione sulla via di Damasco: non si può più continuare a servire la Germania e il Führer, bisogna fare una scelta e, da uomo d’onore, Stauffenberg sa perfettamente qual è. Metaforicamente, nell’incidente, il colonnello perde la mano destra (quella del saluto romano) e l’uso di un occhio costringendolo a guardare la realtà da un solo punto di vista: quello giusto, che gli indica una strada chiara da percorrere come non ci fossero altre possibilità. Il manipolo ristretto di gerarchi alla corte di Hitler, sul fronte opposto, viene descritto come una sorta di confraternita di cattivi, autoproclamatasi esseri superiori, in azione per impadronirsi dei destini dell’umanità, esattamente come in un fumetto supereroistico. Per quanto riguarda lo stile registico, Singer si ispira esplicitamente ad una lunga e nobile tradizione di cinema di guerra hollywoodiano che raggiunge il suo massimo splendore negli anni Sessanta con titoli come The Guns of Navarone (J. Lee Thompson, 1961), Cast a Giant Shadow (Melville Shavelson, 1966), The Dirty Dozen (Robert Aldrich, 1967) o Where Eagles Dare (Brian G. Hutton, 1968). Il richiamo a questa tradizione di film, dove un piccolo manipolo di uomini coraggiosi si trova alle prese con una missione quasi impossibile contro il nemico nazista, è evidente non solo nella costruzione della storia, ma soprattutto a livello formale scegliendo di girare le scene in maniera tradizionale, con estrema semplicità, lasciando da parte virtuosismi o effetti speciali, optando per una messa in scena in cui la mano del 92
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regista si fa volutamente anonima. Anche l’uso delle didascalie, tornato in auge solo di recente, sono un omaggio a film classici in cui l’azione è spesso più evocata che effettivamente mostrata. Il film arriva nelle sale dopo una lavorazione travagliata, la cui completezza narrativa ha risentito di alcune sofferte scelte di montaggio che hanno sacrificato scene di complemento (come quelle dedicate al rapporto tra Stauffenberg e la moglie) a vantaggio di una durata accettabile; altre scene invece sono state girate dopo la conclusione ufficiale delle riprese, per riempire degli spazi lasciati vuoti dalle precedenti eliminazioni. Questi tagli, purtroppo, coinvolgono in particolare la primissima parte, determinando un’eccessiva contrazione della descrizione e presentazione dei personaggi al di fuori della loro mera partecipazione al piano. Nella seconda parte del film, quando l’Operazione Valchiria viene messa in atto, anche la narrazione e le riprese ne risentono positivamente, facendo partire gli ingranaggi della sceneggiatura. Il nazismo, e più in generale il Male, affascina Singer da sempre, non è un caso, infatti, che una delle sequenze più suggestive del primo X-Men è proprio il prologo ambientato nel campo di concentramento del giovane Magneto, e anche in questo caso, com’è ne I soliti sospetti e ne L’allievo, il male non si lascia sconfiggere e Hitler (Söze, Dussander o il diavolo stesso) non muore, lasciandoci con la sensazione che sarebbe bello un mondo in cui gli eroi vincono sempre o, ancora meglio, sarebbe bello un mondo in cui non si ha più bisogno di eroi. «‘Vivi, come se il giorno fosse giunto’. Non è la società che deve guidare e salvare l’eroe, ma precisamente il contrario. E così ognuno di noi partecipa alla prova suprema – porta la croce del redentore – non nei momenti gloriosi delle grandi vittorie della sua tribù, ma nei silenzi della sua disperazione» (F. Nietzsche, in J. Campbell, Il viaggio dell’eroe).
Da testo a contesto: l’Olocausto come genere
Quando un film si confronta con una pagina di storia, come in questo caso, non bisogna mai dimenticare che, per quanto l’opera di documentazione sia accurata e la ricostruzione degli eventi possa essere fedele, non siamo 93 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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mai di fronte a un prodotto “innocente” e neutro, ma davanti a un processo di selezione che ha determinato la scelta di un particolare punto di vista e un particolare approccio ai fatti narrati. Un film, dunque, mette in scena una realtà che può essere considerata né vera né falsa, ma bensì verosimile. Ogni avvenimento storico trasposto sul grande schermo, così come per gli adattamenti da romanzi o opere teatrali, è il frutto di una traduzione in cui necessariamente qualcosa va perduto nel passaggio da un medium all’altro. Nello specifico, questo carattere “narrativo” della storia è il frutto di un processo di traduzione funzionale e necessario per dare al testo una forma che sia trasmissibile, condivisa e accessibile ai membri di una comunità. Applicando agli adattamenti audiovisivi le regole che Steiner individua nella traduzione delle opere letterarie, possiamo dire che le operazioni preliminari per trasformare una pagina di storia in un prodotto narrativo sono: la fiducia: all’interno del testo viene riconosciuto e identificato un valore universale che si intende comprendere, affermare e comunicare agli altri. Nell’atto di fiducia, dunque, si dichiara che il testo racchiude un significato da cogliere; l’aggressione: ogni atto di comprensione, traduzione e adattamento è un atto violento, poiché se ne prende possesso entrandoci all’interno; l’incorporazione: il testo, attraverso questa operazione, viene (re)incarnato, consumato e addomesticato nel significato; la restituzione: il traduttore restituisce il senso delle vicende, aggiungendo un surplus di senso nel corso del lavoro. In tal senso, quando ci approcciamo all’analisi di un prodotto filmico che affronta tematiche storiche dobbiamo sempre considerare il documento cinematografico in tutta la sua complessità, tenendo conto, cioè, della sua ambivalenza tra reale e fantastico, del legame con la sua epoca, dell’ottica particolare degli autori e dell’involucro ideologico che avvolge il connubio tra cinema e storia. Un film, dunque, nella sua valutazione a posteriori, non può mai essere svincolato dallo spirito del tempo, e dunque dal clima culturale e sociale entro cui è stato prodotto, come anche dalle possibilità tecniche ed espressive a disposizione del regista durante la lavorazione. Questo vuol dire, per esempio, che prima degli anni Novanta non sarebbe stato possibile concepire un film come La vita è bella (1997) di Roberto Benigni poiché non era 94
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stato compiuto quel processo di metabolizzazione collettiva, avviato negli anni ’70, del senso di profonda tragicità legato all’Olocausto, così come prima del 2000 non sarebbero state possibili le spettacolari scene dell’attacco aereo dei giapponesi a Pearl Harbor nell’omonimo film di Michael Bay del 2001, per mancanza di un adeguato supporto tecnologico nella resa visiva. La centralità acquisita dai mezzi di comunicazione e una nuova accezione della storia che valorizza e riscopre fatti e avvenimenti a partire da percorsi individuali ha portato a una proliferazione di narrazioni, non solo cinematografiche, i cui eroi sono presi in prestito da un passato “minore”, considerato una fonte inesauribile di trame e personaggi. In questa rivalutazione della storia, alcuni periodi più di altri sembrano meglio prestarsi all’adattamento cinematografico, sia per densità narrativa che per la presenza di elementi valoriali forti. Uno di questi è sicuramente legato alle vicende della Seconda Guerra Mondiale e all’Olocausto, in cui il teatro della storia mette in scena sentimenti universali come l’onore e la gloria, il coraggio e la barbarie, la vita e la morte, attraverso le vicende sia dei grandi nomi che hanno determinato il corso degli eventi, sia la riscoperta di personaggi comuni che si sono trovati, loro malgrado, a essere eroi di un quotidiano spesso tragico. Dopo aver visto, attraverso l’analisi de L’allievo, come l’accesso a questa pagina di storia può avvenire anche attraverso gli occhi di un ragazzo curioso che decide di approfondire un compito scolastico, oppure attraverso un flashback che spiega la nascita di un personaggio dei fumetti (Magneto, in X-Men), cercheremo ora di descrivere in che modo il secondo conflitto mondiale si sia fatto narrazione “diretta” (senza intermediari temporali) attraverso la comparazione di tre pellicole (Tab. 3) molto diverse da loro ma esemplificative per descrivere i processi di selezione e rielaborazione della memoria ad opera del cinema: Schindler’s List (Spielberg, 1993), Operazione Valchiria (Singer, 2008) e Bastardi senza gloria (Tarantino, 2009).
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Il monumento di Spielberg
Titolo: Schindler’s List Anno: 1993 Regia: Steven Spielberg Cast: Liam Neeson, Ben Kingsley, Ralph Fiennes, Caroline Goodall, Jonathan Sagall, Embeth Davidtz, Malgoscha Gebel.
Trama: L’affarista Oskar Schindler, dopo aver guadagnato un patrimonio con l’ultima guerra mondiale, decide di salvare la vita di 1100 ebrei portandoli a lavorare nelle sue fabbriche.
Schindlers’List è da molti considerato il film più rappresentativo in tema di Olocausto, realizzato da Steven Spielberg nel 1993, tratto dal romanzo La lista di Schindler di Thomas Keneally, che ha riscosso settantasette premi internazionali, tra cui sette Oscar (Miglior Film, Miglior Regia, Migliore Sceneggiatura Non Originale, Migliore Fotografia, Miglior Montaggio, Miglior Colonna Sonora). La pellicola ripercorre l’arrivo a Cracovia dell’industriale tedesco Oskar Schindler, spregiudicato uomo d’affari che grazie al suo fascino e alla sua vicinanza con i vertici nazisti riesce a rilevare una fabbrica per produrre pentole e tegami da fornire all’esercito tedesco. L’idea imprenditoriale di Schindler è quella di utilizzare come manodopera i reclusi nel ghetto di Podgorze pagandoli con utensili da scambiare e sottraendoli al campo di lavoro. Con l’aiuto del contabile ebreo, Itzhak Stern, Schindler stila una lista di operai “specializzati” da impiegare nella sua fabbrica, scegliendoli tra quelli ritenuti inadatti o non necessari dalle autorità naziste (insegnanti, scrittori, intellettuali), salvandoli dalla morte certa e riservando loro un trattamento migliore rispetto alle condizioni disumane del campo di concentramento. La situazione si aggrava particolarmente con l’arrivo del temibile Amon Göth, incaricato di disfarsi della manodopera eccedente ammassatasi a Cracovia, iniziando a sterminare e massacrare sotto gli occhi impotenti di Schindler gli ebrei ritenuti superflui e costringendo l’imprenditore all’arresto della sua attività per sequestro di manodopera non autorizzata. Davanti a tanta barbarie Schindler decide così di convertire la sua attività da civile a militare, conquistando la benevolenza delle SS e il permesso di riprendere la produzione con il personale ebreo 96
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già acquisito e con possibilità di aggiungere nuovi operai. Con le truppe sovietiche alle porte, però, viene dato ordine al comandante Göth di uccidere o trasferire tutti gli ebrei di Cracovia, compresi quelli di Schindler, il quale, invece di scappare, stila una lista di 1100 nomi da “comprare” alle SS, determinando coloro che si salveranno dalla soluzione finale. Al termine della guerra Schindler è ormai sul lastrico e deve lasciare il paese per non essere arrestato dalle truppe sovietiche, ma prima della partenza gli operai gli consegnano una lettera da esibire nel caso venisse catturato, in cui spiegano che egli non è un criminale nazista ma che, al contrario, è stato l’autore della loro salvezza. Oltre alla lettera, gli operai gli donano un anello d’oro forgiato di nascosto, su cui è incisa una citazione del Talmud: «Chi salva una vita salva il mondo intero». Schindler’s List può essere considerato un vero e proprio monumento dell’Olocausto, che a distanza di venti anni dalla sua realizzazione mantiene una forza espressiva e un’attualità stilistica notevole, anche per la scelta di girare il film in bianco e nero (fatta eccezione per il rosso del cappotto della bambina che si aggira tra le macerie – scena diventata un cult ed entrata nella memoria collettiva – e delle luci di alcune candele) offrendo un taglio documentaristico alla narrazione. Nelle scelte stilistiche di Spielberg, a cui la storia sta particolarmente a cuore, vista la sua origine ebraica, si evince un profondo rispetto e un’empatia drammatica con il personaggio di Schindler, la cui evoluzione psicologica e umana delinea un arco di trasformazione perfettamente compiuto: da cinico imprenditore a eroe salvifico, mettendo in evidenza proprio la riluttanza con cui Schindler si trova a vestire i panni del filantropo, prima di capitolare davanti all’orrore dei massacri e sacrificare tutto quello che ha a disposizione per salvare quante più vite possibili. Dall’altra parte, la descrizione del nemico è costruita in modo tale da mettere in evidenza l’assoluta assenza di umanità nelle azioni della milizia nazista, qui incarnata dal comandante Göth che, se da un lato è capace di commuoversi per la bellezza di una sinfonia o 97
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un’opera d’arte, dall’altro non sembra provare alcun sentimento (né positivo né negativo) nei confronti degli ebrei del campo che vengono utilizzati come bersagli d’allenamento, come fossero sagome di cartone. In questo caso, l’obiettivo di Spielberg è creare un film che sia un monito per le generazioni future e che esorti a non dimenticare (a questo allude la sequenza finale con il cast e la troupe che rendono omaggio alla tomba del vero Oskar Schindler, nel cimitero francescano di Gerusalemme). La storia, dunque, in Schindler’s List fa da testo di riferimento rappresentando il punto di partenza e di arrivo della narrazione, la conditio sine qua non del film stesso. In quest’ottica, il chiaro intento pedagogico della pellicola presuppone un tono enfatico, per certi versi retorico, sicuramente rispettoso della gravità degli eventi narrati e della funzione che il cinema è chiamato a svolgere. I Bastardi di Tarantino
Titolo: Bastardi senza gloria (Inglourious Basterds) Anno: 2009 Regia: Quentin Tarantino Cast: Brad Pitt, Christoph Waltz, Samuel L. Jackson, Diane Kruger, Eli Roth, Mike Myers, B.J. Novak, Cloris Leachman, Julie Dreyfus, Mélanie Laurent, Daniel Brühl, Michael Fassbender, Samm Levine, Til Schweiger
Trama: Sullo scenario della Seconda Guerra Mondiale, nel territorio francese, un manipolo di ebrei, guidati dal tenente Aldo Raine, si organizza per ripagare i tedeschi con la stessa moneta per tutto il male che hanno fatto. Il loro obiettivo è quello di fare male ai nazisti. Loro complice sarà un’attrice tedesca, Bridget Von Hammersmark, che in realtà è un agente segreto, che complotta contro Hitler.
Bastardi senza gloria è un film del 2009 del provocatorio e geniale Quentin Tarantino, che mette in scena gli orrori della guerra attraverso il suo personalissimo sguardo visionario. Bastardi senza gloria, infatti, rientra nel genere “ucronia”, ovvero quelle narrazioni (soprattutto fantascientifiche) che presuppongono un andamento della storia diverso da quello realmente accaduto. In questo caso Tarantino ipotizza l’esistenza di un gruppo di guerriglieri americani ebrei capitanati da un macchiettistico tenente Aldo Raine 98
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(Brad Pitt), che si aggira nella Francia occupata alla ricerca di nazisti da trucidare; ipotizza l’esistenza di una ragazza ebrea di nome Shosanna, che medita vendetta dopo l’uccisione della sua famiglia ad opera del perfido colonnello Hans Landa; e in ultimo, ipotizza che uno degli attentati ai danni di Adolf Hitler abbia un esito positivo e il Führer muoia con i suoi gerarchi nell’incendio di un cinema durante la prima del film Orgoglio della nazione. La pellicola di Tarantino, per ovvie ragioni, è estremamente diversa da Schindler’s List, in primo luogo per la sensibilità che contraddistingue i due autori e i percorsi individuali di vita e di carriera che ne determinano visioni per certi versi opposte. Spielberg, infatti, si sente personalmente toccato dalla tragedia dell’Olocausto e si approccia all’argomento come farebbe con il racconto di un lutto personale: con rispetto e compostezza; Tarantino, dal canto suo, ideatore del genere pulp e rappresentante della cultura pop, applica alla storia lo stesso trattamento che applicherebbe a una qualsiasi narrazione: la scompone e ricompone, rimescolando stili e linguaggi. Bastardi senza gloria è un insieme di elementi presi da generi e riferimenti diversi: c’è la tradizione del cinema di Sergio Leone nell’intensità dei primi piani, l’ironia e la stravaganza dei personaggi da fumetto e c’è il ritmo dei dialoghi, brillanti ed “estenuanti” tipici dei film di Tarantino (come nel prologo gestito dal contadino Perrier LaPadite e dal colonnello Landa, più simile all’inizio de Le iene che all’antefatto di un film di guerra). Rispetto a Schindler’s List sono passato circa 15 anni e siamo quasi letteralmente in un altro mondo, sia dal punto di vista storico-narrativo che socio-culturale, in cui l’ironia e la satira hanno ormai contagiato tutto e tutti, comprese le grandi tragedie dell’umanità e i personaggi storici più intoccabili. In Bastardi senza gloria non c’è una figura eroica che spicca sugli altri, ma ognuno porta avanti la sua particolare missione e compie il suo viaggio nel bene o nel male: i bastardi, per esempio, come dice il nome stesso, non sono degli alfieri del bene, mossi da un sentimento di umanità e pietas ma, 99
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al contrario, andando contro le regole dell’onore militare si divertono a massacrare il nemico con la punta dei loro coltelli e il tacco dei loro stivali. Il cattivo della situazione, d’altro canto, con il suo sorriso sardonico e la sua cortesia sagace, incarna una nuova rappresentazione del male che, seppur nello svolgimento delle sue truci mansioni, non manca di suscitare sentimenti di “simpatia”, al contrario del comandante Göth di Ralph Fiennes che, privo di ironia o arguzia, suscita nello spettatore sentimenti di immediata “antipatia”. Per Tarantino, in questo caso, il ricorso alla storia è solamente un pretesto per giocare con i meccanismi narrativi, per divertirsi a smontarli e rimontarli come i pezzi di un Lego il cui risultato finale non è sempre scontato e predefinito. In medio stat Singer
In mezzo, tra Spielberg e Tarantino, sta Bryan Singer, che con Operazione Valchiria si pone in una posizione mediana non solo temporalmente, ma anche stilisticamente rispetto ai primi due. Come Spielberg, anche Singer è ebreo e sente particolarmente forte il richiamo a quei fatti storici. Entrambi scelgono di raccontare le vicende di due eroi positivi per offrirli agli onori del pubblico e della memoria, ma se il primo ha come obiettivo educare, Singer, invece vuole prima di tutto intrattenere e in secondo luogo informare. In Operazione Valchiria, dunque, è il ritmo dell’azione ad avere la meglio rispetto all’approfondimento psicologico dei personaggi e alle motivazioni individuali e da questa impostazione deriva la scelta di descrivere il colonnello Stauffenberg come un eroe classico, senza incertezze o perplessità, il cui arco di trasformazione è minimo, rimanendo dall’inizio alla fine fermo sulle proprie posizioni, esattamente come un agente governativo o un poliziotto infiltrato di un qualsiasi film d’azione (James Bond di 007 è l’esempio più immediato). In questa costruzione narrativa, però, davanti a un eroe tanto determinato, forse sarebbe stato utile, ai fini di una maggiore resa emotiva, delineare un personaggio antagonista più riconoscibile che incarnasse i valori del Reich: probabilmente, il ricorso alla storia avrebbe dovuto di per sé bastare per giustificare le scelte e le motivazioni di Stauffenberg e degli altri, ma di fatto, davanti a un Hitler più vittima che carnefice (nella funzione narrativa) e una schiera di personaggi secondari poco definiti, la figura del nemico/antagonista finisce per annullarsi 100
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facendo perdere di pathos alla vicenda. Il tono utilizzato da Singer, come detto, è quello del realismo distaccato e minimalista, privo dell’enfasi retorica di Spielberg come anche dell’ironia “irriverente” di Tarantino e il ricorso alla storia fa da contesto all’azione: uno scenario in cui mettere in moto un meccanismo a orologeria perfettamente congegnato (quello della sceneggiatura) che si mette alla prova con i meccanismi della storia ma che, come nel cinema, non sempre garantisce la riuscita di un capolavoro. Il genere
Schindler’s list Operazione Valchiria Bastardi senza gloria Drammatico
Azione/Thriller
Ucronia/Azione
Il tono
Retorico
Neutrale
Ironico
Il nemico
Disumano
Assente
Sadico
L’eroe
La storia
Eroe riluttante Testo
Eroe classico
Contesto
Tab. 3 - Fonte: elaborazione nostra
Antieroi
Pretesto
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Capitolo sesto
Once upon a time
Il cacciatore di giganti
«Nessuno può fare a Disney ciò che Disney ha fatto ai fratelli Grimm» LAWRENCE LESSIG
Titolo originale: Jack the Giant Slayer Anno: 2013 Paese: Usa Durata: 114 min Sceneggiatura: Darren Lemke, Christopher McQuarrie, Dan Studney Personaggi e interpreti: Nicholas Hoult: Jack Eleanor Tomlinson: principessa Isabelle Ewan McGregor: Elmont Stanley Tucci: Lord Roderick Ian McShane: re Brahmwell Bill Nighy: generale Fallon John Kassir: generale Fallon testa piccola Ben Daniels: Fumm Raine McCormack: gigante Eddie Marsan: Crawe Warwick Davis: vecchio Hamm Ewen Bremner: Wicke
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Trama
Nel regno di Cloister, governato dal re Brahmwell, vivono la principessa Isabelle e il contadino Jack, fin da bambini affascinati dall’avventura e mossi da un’innata curiosità. Entrambi crescono con il racconto di una leggenda che si tramanda di generazione in generazione, che narra di un gruppo di monaci che, mossi dalla volontà di raggiungere il cielo e avvicinarsi al Signore, avrebbero creato dei fagioli magici in grado si generare una pianta alta fino al Paradiso. Ma, una volta arrampicatisi in cima, i monaci trovano una terra abitata da giganti mangia-uomini. Grazie alla via offerta dai monaci, i giganti riescono a discendere sulla terra e cominciano a saccheggiare e uccidere, fin quando, re Eric, ormai prossimo alla disfatta, non riesce a forgiare una corona magica creata dal sangue di un gigante, capace di soggiogare i terribili nemici e convincerli a tornare nel loro mondo. Una volta abbattuta la pianta, e alla morte del re, si decide di seppellire i fagioli restanti e la corona in luogo sicuro. Con un salto temporale ritroviamo Jack e la principessa, ormai cresciuti, alle prese con le rispettive sorti: il ragazzo, rimasto orfano, vive in povertà con lo zio contadino; la fanciulla, invece, è stata promessa sposa, contro la sua volontà, al consigliere del re, suo padre, l’ambiguo lord Roderick. Ridotti ormai sul lastrico, lo zio ordina a Jack di andare in città per vendere il cavallo e il carretto, gli ultimi beni rimasti, per ricavarne qualche soldo. Una volta in città, però, la spiccata curiosità di Jack lo spinge a distrarsi dietro i vari stimoli che la vita cittadina offre, finché, suo malgrado si ritrova coinvolto in un’aggressione ai danni di una fanciulla: Jack interviene in sua difesa, finché, con l’arrivo della guardia reale si rende conto di essere al cospetto della principessa Isabelle, uscita di nascosto dal castello per cercare avventure. Nel frattempo, Roderick, sempre più subdolo, scopre che il piano che sta tramando rischia di andare in fumo per colpa di un monaco che, penetrato nelle sue stanze, è riuscito a sottrargli un sacchetto dal contenuto misterioso. Immediatamente Roderick dà l’ordine di chiudere i cancelli della cittadina e trovare il monaco, il quale, vedendosi braccato, convince Jack a vendergli il suo cavallo in cambio del contenuto del sacchetto: una manciata di fagioli. Malgrado l’acquisto del cavallo, però, il monaco viene catturato e 103
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condotto da Roderick, mentre Jack torna dallo zio che, una volta vista la manciata di fagioli, va su tutte le furie, accusa il ragazzo di essere una delusione costante e butta i fagioli per terra. Intanto, tornata al castello, Isabelle litiga con suo padre e non riuscendo a convincerlo ad annullare le sue nozze, fugge nel cuore della notte. La fuga della ragazza, però, è interrotta da un improvviso e violento temporale che la costringe a cercare rifugio proprio nella casa di Jack. Mentre i due ragazzi cominciano a familiarizzare, uno dei fagioli caduti a terra si bagna e in pochi istanti comincia a ramificarsi e dare vita a un’enorme pianta che sradica l’intera casa di Jack e la porta fino al cielo. Nella violenza della crescita, però, la principessa viene spinta fino in cima, mentre Jack viene sbalzato fuori e cade a terra. Una volta scoperta la fuga della figlia, re Brahmwell comincia a cercarla finché non arriva nel luogo dove è cresciuta la pianta e, ragguagliato sull’accaduto, incarica i suoi uomini più valorosi, capitanati dal primo cavaliere Elmont, di arrampicarsi sulla pianta e riportare indietro la principessa. Alla missione si uniscono anche Jack e Roderick che si offre volontario per dimostrare il suo attaccamento alla futura moglie. Durante l’arrampicata Roderick comincia a mostrare la sua vera natura e taglia la corda che tiene insieme le guardie del re facendole precipitare a terra e, una volta in cima, sottrae i fagioli a Jack con la forza. Il ragazzo, tuttavia, riesce a tenere un fagiolo per sé. Durante l’esplorazione della terra misteriosa il gruppo di avventurosi viene ulteriormente dimezzato in seguito allo scontro con alcuni giganti che senza difficoltà hanno la meglio sui soldati. Intanto Jack, Elmont e uno dei soldati vengono catturati da un gigante, ma Jack riesce a nascondersi e a inseguirlo fino al covo dove è rinchiusa la principessa. Qui il capo dei giganti ingoia in un sol boccone il soldato e mentre sta per fare la stessa cosa con Elmont sopraggiunge Rederick con in testa la corona magica di re Eric. L’entusiasmo dei prigionieri alla vista di 104
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Roderick viene immediatamente soffocato quando comprendono le reali intenzioni del lord: mettersi a capo dei giganti, condurli sulla terra, e grazie a loro usurpare il trono di Colister. Mentre i giganti, dunque, si preparano alla battaglia, i prigionieri vengono portati in cucina per essere serviti come pasto, ma grazie al coraggioso intervento di Jack i tre riescono a fuggire. Una volta tornati al ciglio dove si aggrappa la pianta di fagioli, la principessa e Jack cominciano a discendere a terra, mentre Elmont rimane indietro per uccidere Roderick. Mentre i due ragazzi stanno scendendo, però, cominciano a capire che da terra il re ha dato ordine, per il bene del regno, di abbattere la pianta di fagioli che progressivamente comincia a cedere. Prima che la pianta venga recisa del tutto Elmont riesce a uccidere Roderick e saltare su uno degli ultimi rami rimasti e raggiunge il suolo. Il pericolo sembra ormai rientrato, la principessa riabbraccia suo padre e tutti possono tornare alle proprie vite. In realtà, però, il peggio deve ancora arrivare: infatti Fallon, il capo dei giganti, è riuscito ad impadronirsi della corona magica e ha trovato il sacchetto dei fagioli perso da Roderick, grazie ai quali riesce a creare nuove piante che dall’alto scendono verso il basso. I giganti cominciano quindi a calarsi indisturbati sulla terra, ma Jack, accortosi dell’accaduto corre a dare l’allarme. Inizia quindi una sanguinosa battaglia tra il regno e i giganti: le guardie e i cittadini si barricano nelle mura del castello e tentano una coraggiosa, quanto disperata difesa dei confini, capitanata da Elmont e il re stesso. Jack intanto cerca di portare in salvo la principessa ma viene raggiunto da Fallon, che quando apre le fauci per inghiottire il ragazzo sente qualcosa cadergli in gola: è l’ultimo dei fagioli magici che a contatto con i succhi gastrici del gigante dà vita a un’enorme pianta che uccide il mostruoso Fallon. Jack riesce così a impadronirsi della corona magica e la utilizza per soggiogare e vincere i giganti, stavolta definitivamente. Jack e Isabelle si sposano e regnano insieme; la corona magica di re Eric viene riforgiata e diventa quella che oggi tutti conoscono come la Corona di sant’Edoardo, conservata nella Torre di Londra. 105 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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Singer tra i giganti
Sulla scia dell’ultima tendenza hollywoodiana, che porta sullo schermo le fiabe più note al pubblico, Singer decide di cimentarsi con il fantasy e sceglie di trasformare in immagini una delle leggende inglesi più famose: Jack e la pianta di fagioli. Christopher McQuarrie si trova quindi a cimentarsi con il gravoso compito di trasformare una breve narrazione moraleggiante in una grande epopea fantasy. In realtà, per l’occasione, McQuarrie rimaneggia due racconti diversi Jack e la pianta di fagioli e Jack and the Giant Killer, entrambi immersi nel contesto delle leggende di re Artù. Il soggetto che deriva dalla fusione di questi due vecchi racconti popolari inglesi, rivisitati e adattati molto liberamente, è in sostanza una favola nuova. Nella sua versione cinematografica Singer non opta per una rilettura “adulta” della fiaba, ma mantiene il tono scanzonato, e per certi versi grottesco, del racconto originario, non risparmiando gag da avanspettacolo e scene splatter, senza snaturare il tono (ironico e immediato) del racconto originale, come era successo invece con altri prodotti di registi più “autoriali” come Tim Burton o Sam Raimi che avevano piegato la storia al loro personale punto di vista, trasformando, nel caso di Burton, il Cappellaio matto di Alice in un Edward (mani di forbice) più eccentrico e colorato, come il potente Oz, nel film di Raimi, si tramuta in un supereroe da fumetto. Il film di Singer è diretto, pieno di azione e avventuroso, con l’unica ambizione di intrattenere il pubblico in sala. Il cacciatore di giganti è quindi una favola in 3D, all’avanguardia nella resa, ma classico nei contenuti e nella struttura del racconto, confermando la predilezione di Singer più per la storia che per gli effetti speciali. Mister X-Men, come è stato rinominato dopo il successo del suo cinecomix numero zero, è in realtà un nostalgico del cinema classico, pulito e lineare, come si può facilmente dedurre anche dalla visione di questo film: Singer non spinge sull’acceleratore degli effetti, ma si riserva la facoltà di utilizzarli solo quando necessario per enfatizzare le sue scelte di regia. Una scena esemplificativa, in tal senso, è quella del primo incontro tra Jack e i giganti, in cui il nostro eroe – in una sequenza che omaggia le indimenticabili vibrazioni di Spielberg a preannunciare l’arrivo dei dinosauri in Jurassic
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Park (1993) – sentendo arrivare il nemico si nasconde sotto uno specchio d’acqua e da lì vede comparire la sagoma incombente del gigante. La ripresa in soggettiva e l’utilizzo del 3D amplificano il senso di terrore e maestosità provato da Jack e perfettamente compreso anche dallo spettatore. Altra scena pregevole è quella della sequenza-flashback della prima guerra contro i colossali mostri la cui resa visiva ricorda la grafica della prima Playstation: un effetto che volutamente simula l’imperfezione di un’immagine incompleta come la fantasia di un bambino o il ricordo di un adulto. Se paragoni sono stati fatti con altri titoli del genere, forse il riferimento più diretto di Singer può essere a Shrek (2001), il film di animazione della Dreamworks, un prodotto di enorme successo per la sua capacità di ribaltare gli stereotipi pur mantenendo l’impianto classico del viaggio dell’eroe di Vogler. Infatti, sia in Shrek che ne Il cacciatore di giganti ritroviamo la più classica delle situazioni fiabesche: una principessa da salvare, rinchiusa in un luogo impervio, sequestrata da nemici invincibili e salvata da un eroe improbabile. Fin qui tutto nella norma ma, guardando i due prodotti, lo spettatore si accorge ben presto che le cose non sono così semplici come sembrano: in primo luogo né Fiona né Isabelle sono due principesse fragili e indifese, ma entrambe, connotate anche visivamente da una folta chioma rossa, rappresentano una femminilità in cerca di emancipazione, forti e ribelli, non accettano di sottomettersi pacatamente all’autorità genitoriale e desiderano un uomo che lotti con loro e non per loro. Altro punto di contatto si ritrova nella rappresentazione del cattivo, reso decisamente meno inquietante e più ridicolo sia nelle sembianze che nelle esternazioni. Nel film della Dreamworks queste caratteristiche di Lord Farquaad, l’usurpatore del regno, vengono rese graficamente sia con la scarsa statura (simbolo della sua poca levatura morale) che da un improbabile taglio di capelli da paggio che viene ripreso dal look di Roderick, interpretato dal sempre impeccabile Stanley Tucci, perfetto nel dare vita a un antieroe da fiaba cinico e farsesco. Infine, nella scelta del suo eroe, Singer punta su Nicholas Hoult, che seppur reduce dal successo di Warm Bodies (Jonathan Levine, 2013) in cui interpreta uno zombie innamorato, non è considerato esattamente un sex symbol. Infatti, non volendo dare troppo risalto alla linea romance, Singer 107
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non opta per un cast di idoli delle teenagers, ma sceglie attori talentuosi che sappiano adattarsi al personaggio della fiaba e non, viceversa, che adattino la fiaba al loro personaggio (un esempio in questo caso è rappresentato da Kristen Stewart la cui interpretazione di Biancaneve non è altro che una “gita fuori set” del personaggio di Bella Swan nella saga di Twilight). Nicholas Hoult, in questo senso, è lo Shrek di Singer: un ragazzo di umili origini e il cuore da principe. Una menzione speciale va al generale dei giganti interpretato in performance capture da Bill Nighy (già al servizio di Singer in Operazione Valchiria), e al primo cavaliere Ewan McGregor a cui Singer mette in bocca la sua personale morale della favola: «Non sarò l’eroe di questa storia, ma almeno saprò come finisce», ricordandoci, come aveva già fatto in precedenza, che al mondo sicuramente non siamo tutti eroi, ma ognuno riveste un ruolo determinante nel corso della storia. Come già anticipato, Singer mantiene il genere più vicino alla fiaba originale, ovvero quello d’avventura, confermandosi maestro nella costruzione del ritmo e nella resa del mondo esotico in cui i personaggi approdano, richiamando alla memoria quei film degli anni Quaranta in cui eroici esploratori andavano all’avanscoperta di luoghi misteriosi e primitivi. Il mondo dei giganti, sospeso a mezz’aria e accessibile attraverso un’arrampicata sulla pianta di fagioli, ricorda per atmosfere l’isola tropicale in cui abita King Kong (M.C. Cooper, 1933) dove la troupe di Carl Denham si aggira in un misto di stupore e paura. Realizzato con un budget elevato che sfiora i duecento milioni di dollari, Il cacciatore di giganti regala momenti d’azione e di resa visiva notevoli, come le sequenze dell’epico scontro finale che per allestimento e tensione ricorda la battaglia sul Fosso di Helm de Il signore degli anelli – Le due torri (P. Jackson, 2002). In definitiva Il cacciatore di giganti è un film per famiglie godibile, caratterizzato da personaggi e dialoghi brillanti, in grado di coinvolgere sia un pubblico adulto che infantile. Purtroppo, però, almeno in America, la critica non è stata della stessa opinione e, con una scelta che appare un po’ anacronistica, considerando l’offerta media dei contenuti per bambini, ha giudicato le scene più “cruente” del film di Singer non adatte a un pubblico al di sotto dei 13 anni. Questa limitazione ha determinato un inefficace lancio promozionale e una campa108
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gna di marketing poco chiara, che nell’intento di non rivolgersi specificatamente ad un target ha finito per non arrivare di fatto a raggiungerne nessuno in particolare. Sulla gestione della campagna pubblicitaria si esprime negativamente anche lo stesso Singer che, riferendosi al poster del film, in un tweet si premura di specificare: «Scusate per queste brutte immagini photoshoppate. Non rendono giustizia al film». Come non rendono giustizia al film le critiche troppo severe e i commenti eccessivamente snobistici, ma Il cacciatore di giganti non è un colosso dai piedi d’argilla e può contare su un involontario effetto sorpresa: il pubblico che entra in sala con aspettative tiepide ne esce con la soddisfazione di non aver sprecato il soldi del biglietto. E non è poco.
Favole, miti e altri racconti….
«I simboli della mitologia non si fabbricano, non si possono inventare, controllare, o abolire per sempre: sono produzioni spontanee della psiche e ciascuno ne conserva intatto il potere germinativo [...] In questo stesso momento, l’ultima incarnazione di Edipo, i moderni protagonisti della favola della Bella e la Bestia, attendono all’angolo della Quarantaduesima Strada con la Quinta Avenue che il semaforo cambi colore» (J. Campbell, L’eroe dai mille volti). La letteratura, la televisione, il cinema hanno sostituito alcune forme di risposta mitica all’esistenza, come la religione o il racconto popolare. Le narrazioni cinematografiche tendono a riattualizzare, e dunque ricreare, i miti universali, rintracciabili nei prodotti audiovisivi sotto forma di motivi costanti e ricorrenti, che danno forma ad aspetti fondamentali della vita umana. Per questo i testi audiovisivi sono spesso in relazione con un modello paradigmatico di origine mitologica, che nasce dall’elaborazione dell’immaginario a cui attinge la memoria collettiva di una società. Con il cinema – in quanto macchina industriale complessa che si fa carico di creare forme in cui il pubblico possa riconoscersi attraverso la centralità dei simulacri collettivi, andando oltre la relazione interpersonale – ha 109 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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inizio un modo di produrre e consumare storie e narrazioni essenziale per lo sviluppo dell’immaginario collettivo. La sala cinematografica, come la tana del Bianconiglio, fa da porta d’accesso ad un mondo in cui si materializzano le fantasie, non solo individuali, ma anche e soprattutto collettive, grazie anche al meccanismo di visione immersivo facilitato dal buio, dai suoni e dalla maestosità dello schermo: la visione di un film al cinema è un atto condiviso che rafforza il senso di comunità. I film, in quanto opere d’ingegno, non sono altro che proiezione di proiezioni, che riproducono da un lato lo spirito del tempo che li produce, dall’altro conservano la memoria dell’estetica, dei valori e dei sentimenti della società che li hanno preceduti. I miti, o in questo caso le favole, svolgono all’interno dell’industria culturale, soprattutto cinematografica, un insieme di funzioni che ne giustificano il ricorso costante. In primo luogo i racconti mitici costituiscono una valida fonte d’ispirazione per scrittori e sceneggiatori che fanno confluire nel grande schermo archetipi e topoi narrativi, innestandoli in una struttura aggiornata secondo i gusti e le sensibilità del tempo, trasformandoli in stereotipi e metafore di valori e vicende antiche. Uno degli esempi più classici di questo meccanismo di rilettura e traduzione è sicuramente la celebre commedia rosa Pretty Woman (Garry Marshall, 1990) il cui plot narrativo riprende esplicitamente la trama della fiaba Cenerentola i cui capisaldi sono il riscatto sociale attraverso il coronamento del sogno d’amore, la forza interiore e la dignità anche di fronte alle avversità. Di film che riproducono lo stesso impianto narrativo ne esistono un numero pressoché infinito (Sabrina - 1954, Cinderella Story - 2004, Un amore a cinque stelle - 2002, Il re ed io - 1955) a dimostrazione della forza e del radicamento di questo tipo di racconto nei gusti del pubblico. Il cinema, fin dalla sua nascita, si è accreditato come macchina mitografica per eccellenza, 110
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capace di agire a livello globale, andando a toccare corde profonde della psicologia individuale e collettiva. Oltre all’evidente presa sul pubblico, il ricorso a miti e favole è un utile strumento per legittimare culturalmente il mezzo cinematografico. Soprattutto il cinema delle origini si occupava di trasferire sullo schermo le grandi opere letterarie e teatrali, allo scopo sia di alfabetizzare un’ampia fetta di pubblico a prodotti che fino a quel momento erano stati appannaggio di un’élite borghese, sia di accreditarsi come mezzo non solo del disimpegno e dell’intrattenimento, acquistando una dimensione culturale più ampia. I racconti di carattere mitologico, inoltre, hanno un ruolo fondamentale per quanto riguarda la costruzione e il mantenimento di un epos nazionale. In questo, l’industria cinematografica americana, più di qualunque altra, risulta maestra creando dei veri e propri generi allo scopo di raccontare le gesta di eroi ed epopee nazionali. Ad esempio, il western e i film di guerra degli anni ’50 e ’60 utilizzavano la costruzione mitologica degli eroi per raccontare lo scontro con gli indiani oppure contro i giapponesi a Pearl Harbor o contro i tedeschi nella Francia occupata. Il cinema americano utilizza il mito classico per costruire il monumento del proprio passato, il cui denominatore comune è il ricorso a un patrimonio di valori morali e spirituali da consegnare a un mondo sempre più privo di eroi e valori di riferimento. In questo caso, il ricorso attuale alle fiabe è lapalissiano: solo nelle favole è possibile ritrovare una divisione tanto manichea tra bene e male, ed eroi tanto quotidiani quanto eccezionali, capaci di schierarsi contro un nemico apparentemente imbattibile solo per il bene di una donna o di una nazione. Inoltre, per un meccanismo ciclico di creazione e riproduzione seriale dell’aura, il mito genera miti, così, l’interpretazione di personaggi dal fascino mitico contribuisce ad offrire una forma mitica anche all’attore che interpreta quel personaggio, alimentando, grazie al divismo, quella fabbrica dei sogni che è Hollywood. Tra gli esempi più celebri del passato ricordiamo le “mitiche” interpretazioni di Elizabeth Taylor in Cleopatra (1963) e Marlon Brando nei panni di Marco Antonio, nella versione cinematografica del Giulio Cesare (1953) di Shakespeare, fino ad arrivare, in tempi decisamente più recenti (e forse meno mitici) alle interpretazioni della perfida Grimilde da parte di due dive dello star system, Julia Roberts e Charlize Theron; a tale proposito colpisce la scelta di far interpretare il ruolo della regina invidiosa della bellezza della giovane Biancaneve a due donne dal111
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l’indiscutibile fascino: una metafora – e per certi versi una critica – nei confronti della società che costringe le donne alla condanna della giovinezza eterna, ritenuta ancora oggi il valore fondamentale della femminilità e considerato l’ultimo dei falsi miti da sfatare, anche con l’aiuto del cinema.
C’era una volta, anzi c’è ancora
Come già detto, gli schemi narrativi tendono a “pescare” in una matrice universale, presente nella struttura psichica dello spettatore, favorendo l’attivazione della “sospensione dell’incredulità”, ovvero quel meccanismo per il quale è possibile immedesimarsi ed emozionarsi per una storia pur sapendo che si tratta di finzione. Infatti, per Umberto Eco, l’obiettivo della finzione non è quello di simulare la realtà sostituendosi a essa, ma di costruire un mondo che potrebbe esistere e al quale, se ben fatto, si accetta di credere, anche se presenta delle proprietà lontane dal nostro. Eco, a tal proposito, parla della forza del falso per descrivere quei fatti o situazioni che seppur falsi riescono ad avere un’influenza sul mondo reale, mostrando l’esistenza di un legame radicato tra immaginario e realtà. Il falso, dunque, se viene immaginato come reale, produrrà conseguenze reali. Come sosteneva Eco, le storie false sono storie legittime a tutti gli effetti, perché in quanto racconti e narrazioni, hanno un potere di persuasione al pari del mito. Gli esempi proposti da Eco sono molteplici, come le Terre Australi, un continente che si pensava esistesse davvero, ma era in realtà immaginario, anche se molti navigatori si misero in viaggio nella speranza di raggiungerlo. Qui la creazione fantastica riguarda richiami archetipici legati all’esplorazione, al viaggio, alla sfida, che rappresentano ed hanno rappresentato aspetti tipici della natura umana. Queste storie vengono definite da Eco narrazioni verosimili: racconti completamente immaginari, che hanno riflessi di realtà. Lo scarto tra la messa in scena e la realtà contribuisce a determinare anche la categorizzazione dei generi, per cui i film storici o di guerra avranno una maggiore adesione al contesto narrato, mentre i film fantastici risponderanno a regole che possono comprendere fatti magici o inspiegabili. Nel caso dei film fiabeschi, in genere, il compito di contestualizzare tempo e luogo è affi112 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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dato al prologo e ai titoli di testa come nel film di Singer in cui, attraverso l’escamotage della meta-favola (il racconto nel racconto), vengono illustrate le premesse della narrazione successiva e la presentazione dei due attori principali della vicenda. Più l’universo della finzione si allontana da quello dello spettatore, maggiore sarà la necessità di esplicitarne i suoi postulati. Partendo da questo assunto si possono dividere le narrazioni a “scostamento massimo” (in cui le azioni e gli avvenimenti sono regolati da proprietà molto diverse da quelle del mondo reale), da quelle a “scostamento minimo” (dove gli avvenimenti rappresentati si svolgono in un paesaggio semantico vicino al nostro mondo). L’accettabilità delle proposte narrative è legata direttamente alla coerenza del mondo inventato. La legge generale della finzione è quindi la coerenza: in quanto per essere giudicati veri, un’azione o un avvenimento non devono per forza corrispondere alla realtà, ma devono obbedire alle leggi che governano la diegesi, ovvero le relazioni tra i personaggi e gli eventi, permettendo allo spettatore di capire gli avvenimenti. Il fantastico è dunque un genere narrativo basato soprattutto su elementi di fantasia, all’interno del quale si possono distinguere una schiera di generi differenti, tra i quali l’horror, la fantascienza, il fantasy, il gotico. I miti e le credenze sono frutto della visione magica dell’universo che pervade ogni società in ogni epoca. «In un mondo che è sicuramente il nostro, quello che conosciamo, senza diavoli né silfidi, né vampiri, si verifica un avvenimento che, appunto, non si può spiegare con le leggi del mondo che ci è familiare. Colui che percepisce l’avvenimento deve optare per una delle due soluzioni possibili: o si tratta di un’illusione dei sensi, di un prodotto dell’immaginazione, e in tal caso le leggi del mondo rimangono quelle che sono, oppure l’avvenimento è realmente accaduto, è parte integrante della realtà, ma allora questa realtà è governata da leggi a noi ignote […] Il fantastico occupa il lasso di tempo di questa incertezza». (T. Tzvetan, La letteratura fantastica). Il fantastico, fin dalle origini del cinematografo, ha costituito uno dei generi più rappresentati proprio per la sua natura cangiante, a metà strada tra realtà e sogno. Dal Viaggio nella luna di Georges Méliès 113
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(1902) a Il cacciatore di giganti di Singer il fantastico, con le sue mille sfaccettature, ha interpretato i gusti e i cambiamenti della società, raccontando attraverso la sua lente deformante le paure e le aspirazioni del tempo. Basti ricordare il filone degli anni Settanta dedicato alle invasioni aliene che richiamavano la guerra alla conquista dello spazio tra Usa e Urss e la paura del diverso (i comunisti), oppure il filone vampiresco, attivo negli anni Ottanta ma ritornato in auge con la saga di Twilight, oppure, ancora le saghe fantasy popolate di stregoni, fate e folletti (Il signore degli anelli, Harry Potter, Le cronache di Narnia). La tendenza più recente del cinema fantastico, da qualche anno a questa parte, vede un’ inedita attenzione per fiabe e favole, che subiscono sistematicamente processi di attualizzazione e ibridazione con altri generi, come, soprattutto l’horror/gotico e il teen drama. Tra i titoli più noti, solo per citarne alcuni, ricordiamo: Alice in Wonderland (Tim Burton, 2010), Cappuccetto rosso sangue (Catherine Hardwicke, 2011), Il grande e potente Oz (Sam Raimi, 2013), Beastly (Daniel Barnz, 2011), due film dedicati a Biancaneve, uno omonimo del 2012 per la regia di Tarsem Singh e l’altro intitolato Biancaneve e il cacciatore (Rupert Sanders, 2012), Hansel & Gretel - Cacciatori di streghe (Tommy Wirkola, 2013) e ovviamente Il cacciatore di giganti. Le motivazioni di questa passione per i fratelli Grimm e Co. deriva dalla congiuntura di elementi diversi:
1. la tecnologia digitale, che permette la resa spettacolare di ambienti e personaggi; 2. la notorietà delle storie, che garantisce un naturale ed economico ritorno d’immagine e richiamo alla memoria; 3. l’espandibilità dell’universo narrativo sia all’interno delle singole fiabe (sfruttando sottotrame e personaggi secondari), sia nel ricco bacino di leggende e favole tradizionali dei diversi paesi; 4. la presenza di archetipi e valori universali; 5. l’appeal verso un target pregiato quale quello dei teen agers, che da Twilight in poi ha catalizzato l’attenzione delle case produttrici facendo abbassare di qualche anno l’età dei protagonisti delle vicende trasformando storie classiche in teen-drama da multisala (es. The Amazing Spider-man, 2012, Warm Bodies, 2013). 114 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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L’insieme di queste componenti ha determinato una vera rincorsa alla fiaba, con case di produzione cinematografiche a caccia di principi e principesse da adattare sullo schermo e la televisione che applica lo schema narrativo di Lost (salti spazio-temporali, misteri e una moltitudine di personaggi) alla fortunata serie Once Upon a Time (ABC, 2011), una sorta di cross over di tutte le fiabe più famose. La serie Once Upon a Time e il film di Singer hanno alla base del proprio meccanismo narrativo l’utilizzo della fiaba (o meglio, del racconto orale) come una sorta di zona grigia, a metà strada tra un passato remoto, ma realmente accaduto, e un mondo parallelo, dove gli eventi narrati si stanno realmente svolgendo. La nuova frontiera nella narrazione è data dalla capacità di creare universi complessi, in cui volutamente disseminare sottotrame non completamente sviluppate, che possano dare vita ad ulteriori percorsi narrativi su più piattaforme. In questo caso, ad esempio, il finale a sorpresa con l’aggancio alla realtà e al tempo presente, con la ricomparsa (in qualche forma) dell’antieroe della fiaba lascia presagire la possibilità di un seguito in cui la storia, prima o poi, possa ripetersi. Il fantasy epico si dimostra, dunque, adatto a soddisfare la caratteristica su cui sempre più spesso si ragiona nelle produzioni hollywoodiane: per saga e non per storia. A tal proposito uno sceneggiatore intervistato da Jenkins dichiara: «Quando ho iniziato il mio lavoro, bisognava creare una storia perché senza una buona narrazione non ci sarebbe stato nessun film. Poi con la diffusione dei sequel, divenne importante inventare un buon personaggio che potesse reggere più storie. Oggi invece si inventano mondi che possano ospitare molti personaggi e molte storie su più media». Gli atavici conflitti, dove le sorti del singolo s’intrecciano a quelle della comunità porta alla creazione di trame ampie con possibili implementazioni narrative: puntare sull’annuncio di colossali guerre imminenti (o passate) e prolungate contrapposizioni tra casati e dinastie getta le basi, sia nel passato che nel futuro del mondo descritto, strategia utile per eventuali prequel, sequel o spin off. Ne Il cacciatore di giganti il piano del fantastico e quello della realtà storica si fondono attraverso il racconto che, di generazione in generazione, sfuma i confini tra i due aspetti. Il racconto dei giganti letto ai bambini prima 115
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di addormentarsi somiglia da un lato alle leggende su un temibile uomo nero, e dall’altro ai racconti dei vangeli che uniscono insieme storia e fede.
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Filmografia
1902 – Le voyage dans la Lune (Viaggio nella Luna) Regia: Georges Méliès; Soggetto: Jules Verne, H.G. Wells; Sceneggiatura: Georges Méliès; interpreti: Georges Méliès (presidente Barbenfouillis), Henri Delannoy (capitano), Victor André (Luna), Bleuette Bernon (ragazza sulla Luna), Victor André (Re dei Seleniti); durata: 16 min. 1933 – King Kong (id.) Regia: Merian C. Cooper, Ernest B. Schoedsack; Soggetto: Merian C. Cooper, Edgar Wallace; Sceneggiatura: James Ashmore Creelman, Ruth Rose; interpreti: Bruce Cabot (John “Jack” Driscoll), Robert Armstrong (Carl Denham), Fay Wray (Ann Darrow), Frank Reicher (capitano Englehorn), James Flavin (secondo ufficiale Briggs), Sam Hardy (Charles Weston), Noble Johnson (capo indigeno), Steve Clemente (stregone); durata: 100 min.
1953 – Julius Caesar (Giulio Cesare) Regia: Joseph L. Mankiewicz; Soggetto: William Shakespeare; Sceneggiatura: Joseph L. Mankiewicz; interpreti: Marlon Brando (Marco Antonio), James Mason (Bruto), John Gielgud (Cassio), Louis Calhern (Giulio Cesare), Greer Garson (Calpurnia, Ian Wolfe (Ligario), Deborah Kerr (Porzia), Alan Napier (Cicerone); durata: 120 min. 117 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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1954 – Sabrina (id.) Regia: Billy Wilder; Soggetto: Samuel A. Taylor; Sceneggiatura: Samuel A. Taylor, Billy Wilder, Ernest Lehman; interpreti: Audrey Hepburn (Sabrina Fairchild), Humphrey Bogart (Linus Larrabee), William Holden (David Larrabee), Walter Hampden (Oliver Larrabee), Martha Hyer (Elizabeth Tyson), John Williams (Thomas Fairchild), Joan Vohs (Gretchen Van Horn), Marcel Dalio (Barone St. Fontanel), Nella Walker (Maude Larrabee), Francis X. Bushman (Sig. Tyson); durata: 113 min.
1955 – The King and I (Il Re ed io) Regia: Walter Lang; Soggetto: Richard Rodgers e Oscar Hammerstein II; Sceneggiatura: Ernest Lehman; interpreti: Deborah Kerr (Anna Leonowens), Yul Brynner (re Mongkut del Siam), Rita Moreno (Tuptim), Martin Benson (Kralahome), Terry Saunder (Lady Thiang), Rex Thompson (Louis Leonowens), Carlos Rivas (Lun Tha), Patrick Adiarte (Principe Chulalongkorn), Alan Mowbray (Sir John Hay), Geoffrey Toone (Sir Edward Ramsay); durata: 133 min.
1961 – Judgment at Nuremberg (Vincitori e vinti) Regia: Stanley Kramer Soggetto e sceneggiatura: Abby Mann; interpreti: Spencer Tracy (giudice Dan Haywood), Burt Lancaster (Ernst Janning), Richard Widmark (colonnello Tad Lawson), Marlene Dietrich (signora Bertholt), Maximilian Schell (Hanhs Rolfe), Judy Garland (Irene Hoffmann), Montgomery Clift (Rudolph Petersen); durata: 186 min.
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1961 – The Guns of Navarone (I cannoni di Navarone) Regia: J. Lee Thompson; Soggetto e sceneggiatura: Alistair MacLean; interpreti: Gregory Peck (capitano Keith Mallory), David Niven (caporale John Anthony Miller), Anthony Quinn (colonnello Andrea Stavrou), Stanley Baker (soldato ‘Butcher’ Brown), Anthony Quayle (Maggiore Roy Franklin), James Darren (soldato Spyros Pappadimos), Irene Papas (Maria Pappadimos), Gia Scala (Anna), James Robertson Justice (Commodoro Jensen); durata: 158 min.
1963 – Cleopatra (1963) Regia: Joseph L. Mankiewicz; Soggetto: Carlo Maria Franzero; Sceneggiatura: Joseph L. Mankiewicz, Ranald MacDougall, Sidney Buchman; interpreti: Elizabeth Taylor (Cleopatra), Richard Burton (Marco Antonio), Rex Harrison (Giulio Cesare), Roddy McDowall (Ottaviano), Martin Landau (Rufio), George Cole (Flavio), Hume Cronyn (Sosigene), Cesare Danova (Apollodoro), Kenneth Haigh (Bruto), Andrew Keir (Agrippa); durata: 244 min.
1966 – Cast a Giant Shadow (Combattimenti nella notte) Regia: Melville Shavelson; Soggetto: Ted Berkman; Sceneggiatura: Melville Shavelson; interpreti: Kirk Douglas (colonnello David ‘Mickey’ Marcus), Senta Berger (Magda Simon), Angie Dickinson (Emma Marcus), James Donald (maggiore Safir), Frank Sinatra (Vince Talmadge), Yul Brynner (Asher Gonen), John Wayne (generale Mike Randolph), Winston Churchill (se stesso); durata: 146 min.
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1967 – The Dirty Dozen (Quella sporca dozzina) Regia: Robert Aldrich; Soggetto: E.M. Nathanson; Sceneggiatura: Nunnally Johnson, Lukas Helle; interpreti: Lee Marvin (maggiore John Reisman), Ernest Borgnine (generale di divisione Worden), Robert Ryan (colonnello Everett Dasher Breed), Charles Bronson (Joseph T. Wladislaw), Jim Brown (Robert T. Jefferson), John Cassavetes (Victor P. Franko), Telly Savalas (Archer J. Maggott), Donald Sutherland (Vernon L. Pinkley), Clint Walker (Samson Posey), Richard Jaeckel (sergente Clyde Bowren), George Kennedy (maggiore Max Armbruster); durata: 145 min.
1968 – Where Eagles Dare (Dove osano le aquile) Regia: Brian G.Hutton; Soggetto e sceneggiatura: Alistair MacLean; interpreti: Richard Burton (magg. Jonathan Smith), Clint Eastwood (ten. Morris Schaffer), Patrick Wymark (col. Turner), Michael Hordern (ammiraglio Roland), Brook Williams (Harrod), William Squire (Philip Thomas), Mary Ure (Mary Elison), Donald Houston (James Christiansen), Peter Barkworth (Edward Berkley); durata: 158 min. 1977 – Star Wars (Guerre stellari) Regia: George Lucas; Soggetto e sceneggiatura: George Lucas; interpreti: Mark Hamill (Luke Skywalker), Harrison Ford (Ian Solo), Carrie Fisher (principessa Leila Organa), Alec Guinness (Obi-Wan “Ben” Kenobi), Peter Cushing (gov. Wilhuff Tarkin), Peter Mayhew (Chewbecca), David Prowse (Dart Fener), Anthony Daniels (D-3BO), Kenny Baker (C1-P8); durata: 121 min.
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1982 – Blade Runner (id.) Regia: Ridley Scott; Soggetto: Philip K. Dick; Sceneggiatura: Hampton Fancher, David Webb Peoples; interpreti: Harrison Ford (Rick Deckard), Rutger Hauer (Roy Batty), Sean Young (Rachael), Daryl Hannah (Pris), Brion James (Leon), Joanna Cassidy (Zhora), Edward James Olmos (Gaff), M. Emmet Walsh (cap. Harry Bryant), Joe Turkel (dott. Eldon Tyrell), William Sanderson (J.F. Sebastian), Morgan Paull (Holden), James Hong (Hannibal Chew); durata: 117 min.
1990 – Pretty woman (id.) Regia: Garry Marshall; Soggetto e sceneggiatura: J.F. Lawton; interpreti: Julia Roberts (Vivian Ward), Richard Gere (Edward Lewis), Ralph Bellamy (James Morse), Jason Alexander (Philip Stuckey), Laura San Giacomo (Kit De Luca), Alex Hyde-White (David Morse), Héctor Elizondo (Barney Thompson), Amy Yasbeck (Elizabeth Stuckey); durata: 119 min. 1993 – Schindler’s List (id.) Regia: Steven Spielberg; Soggetto: Thomas Keneally; Sceneggiatura: Steven Zaillian; interpreti: Liam Neeson (Oskar Schindler), Ben Kingsley (Itzhak Stern), Ralph Fiennes (Amon Göth), Caroline Goodall (Emilie Schindler), Embeth Davidtz (Helene Hirsch), Jonathan Sagall (Poldek Pfefferberg), Adi Nitzan (Mila Pfefferberg), Beatrice Macola (Ingrid), Malgoscha Gebel (Victoria Klonowsk); durata: 187 min.
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1993 – Jurassic Park (id.) Regia: Steven Spielberg; Soggetto: Michael Crichton; Sceneggiatura: Michael Crichton, David Koepp; interpreti: Sam Neill (prof. Alan Grant), Laura Dern (prof.ssa Ellie Sattler), Jeff Goldblum (prof. Ian Malcolm), Sir Richard Attenborough (John Hammond), Bob Peck (Robert Muldoon), Samuel L. Jackson (Ray Arnold), Ariana Richards (Lex Murphy), Joseph Mazzello (Tim Murphy), Wayne Knight (Dennis Nedry); durata: 127 min.
1994 – The Client (Il cliente) Regia: Joel Schumacher; Soggetto: John Grisham; Sceneggiatura: Robert Getchell, Akiva Goldsman; interpreti: Susan Sarandon (Reggie Love), Tommy Lee Jones (‘Reverendo’ Roy Foltrigg), Mary-Louise Parker (Dianne Sway), Anthony LaPaglia (Barry ‘La Lama’ Muldanno), J.T. Walsh (Jason McThune), Brad Renfro (Mark Sway), Anthony Edwards (Clint Von Hooser), Will Patton (sergente Hardy), Kim Coates (Paul Gronke), William H. Macy (dr. Greenway); durata: 119 min. 1995 – The Usual Suspects (I soliti sospetti) Regia: Bryan Singer; Soggetto: Christopher McQuarrie; Sceneggiatura: Christopher McQuarrie, interpreti: Kevin Spacey (Roger “Verbal” Kint / Keyser Söze), Gabriel Byrne (Dean Keaton), Chazz Palminteri (David Kujan), Kevin Pollak (Todd Hockney), Pete Postlethwaite (Kobayashi), Stephen Baldwin (Ray McManus), Benicio Del Toro (Fenster), Peter Greene (Redfoot), Suzy Amis (Edie Finneran); durata: 127 min.
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1997 – La vita è bella (id.) Regia:Roberto Benigni; Soggetto e sceneggiatura: Roberto Benigni, Vincenzo Cerami; interpreti: Roberto Benigni (Guido Orefice), Nicoletta Braschi (Dora), Giorgio Cantarini (Giosuè Orefice), Giustino Durano (Eliseo Orefice), Horst Buchholz (dottor Lessing), Amerigo Fontani (Rodolfo), Sergio Bustric (Ferruccio Papini), Lydia Alfonsi (signora Guicciardini), Pietro De Silva (Bartolomeo), Marisa Paredes (madre di Dora); durata: 120 min.
1998 – Blade (id.) Regia: Stephen Norrington; Soggetto: Marvel; Sceneggiatura: David S. Goyer; interpreti: Wesley Snipes (Blade “il Diurno”/ Eric Brooks), Stephen Dorff (diacono Frost), Kris Kristofferson (Abraham Whistler), N’Bushe Wright (dr. Karen Jenson), Donal Logue (Quinn), Udo Kier (Lord Dragonetti), Arly Jover (Mercury), Kevin Patrick Walls (Krieger), Tim Guinee (dr. Curtis Webb), Sanaa Lathan (Vanessa Brooks), Eric Edwards (Pearl), Kenny Johnson (Dennis), Traci Lords (Racquel), durata: 120 min. 1998 – Apt Pupil (L’allievo) Regia: Bryan Singer; Soggetto: Stephen King; Sceneggiatura: Brandon Boyce, interpreti: Brad Renfro (Todd Bowden), Ian McKellen (Kurt Dussander), Bruce Davison (Richard Bowden), David Schwimmer (Edward French), Joshua Jackson (Joey); durata: 100 min.
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1999 – American Beauty (id.) Regia: Sam Mendes; Soggetto e sceneggiatura: Alan Ball; interpreti: Kevin Spacey (Lester Burnham), Annette Bening (Carolyn Burnham), Thora Birch (Jane Burnham), Mena Suvari (Angela Hayes),Wes Bentley (Ricky Fitts), Chris Cooper (Frank Fitts), Peter Gallagher (Buddy Kane), Allison Janney (Barbara Fitts), Scott Bakula (Jim Olmeyer), Sam Robards (Jim Berkley); produzione: Dreamworks SKG; durata: 122 min.
1999 – Matrix (id.) Regia: Lana e Andy Wachowski; Soggetto e sceneggiatura: Lana e Andy Wachowski; interpreti: Keanu Reeves (Thomas Anderson / Neo), Laurence Fishburne (Morpheus), Carrie-Anne Moss (Trinity), Hugo Weaving (agente Smith), Gloria Foster (l’Oracolo), Joe Pantoliano (Cypher), Marcus Chong (Tank), Julian Arahanga (Apoc), Matt Doran (Mouse), Belinda McClory (Switch), Anthony Ray Parker (Dozer); durata:: 136 min.
1999 – Sleepy Hollow (Il mistero di Sleepy Hollow) Regia: Tim Burton; Soggetto: Kevin Yagher, Andrew Kevin Walker; Sceneggiatura: Andrew Kevin Walker; interpreti: Johnny Depp (Ichabod Crane), Christina Ricci (Katrina Van Tassel), Miranda Richardson (Lady Mary Archer Van Tassel / Crone Archer), Michael Gambon (Baltus Van Tassel), Marc Pickering (giovane Masbath), Casper Van Dien (Brom Van Brunt), Jeffrey Jones (reverendo Steenwyck), Christopher Walken (cavaliere senza testa), Ian McDiarmid (dottor Thomas Lancaster), Michael Gough (notaio Hardenbruck), Richard Griffiths (magistrato Philipse); durata: 110 min.
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2000 – X-Men (id.) Regia: Bryan Singer; Soggetto: Bryan Singer, Tom De Santo; Sceneggiatura: David Hayter; interpreti: Patrick Stewart (Prof. Charles Xavier), Hugh Jackman (Logan/Wolverine), Ian McKellen (Eric Lensherr / Magneto), James Marsden (Scott Summers / Ciclope), Halle Berry (Ororo Munroe / Tempesta), Famke Janssen (Jean Grey), Tyler Mane (Victor Creed / Sabretooth), Anna Paquin (Marie D’Ancanto / Rogue), Ray Park (Toad), Rebecca Romijn (Raven Darkholme / Mystica), Bruce Davison (sen. Robert Kelly), Shawn Ashmore (Bobby Drake / Uomo Ghiaccio), Matthew Sharp (Henry Gyrich); durata: 100 min. 2001 – Harry Potter and the Philosopher’s Stone (Harry Potter e la pietra filosofale) Regia: Chris Columbus; Soggetto: J.K. Rowling; Sceneggiatura: Steven Kloves; interpreti: Daniel Radcliffe (Harry Potter), Rupert Grint (Ron Weasley), Emma Watson (Hermione Granger), Robbie Coltrane (Rubeus Hagrid), Richard Harris (Albus Silente), Maggie Smith (Minerva McGranitt), Ian Hart (Quirinus Raptor), Alan Rickman (Severus Piton) Tom Felton (Draco Malfoy); durata: 172 min.
2001 – The Lord of the Rings: The Fellowship of the Ring (Il signore degli anelli - La compagnia dell’anello) Regia: Peter Jackson; Soggetto: J.R. R.Tolkien; Sceneggiatura: Peter Jackson, Fran Walsh, Philippa Boyens; interpreti: Elijah Wood (Frodo Baggins), Ian McKellen (Gandalf), Liv Tyler (Arwen), Viggo Mortensen (Aragorn), Sean Astin (Samvise Gamgee -Sam), Cate Blanchett (Galadriel), John Rhys-Davies (Gimli), Billy Boyd (Peregrino Tuc - Pipino), Dominic Monaghan (Meriadoc Brandibuck Merry), Orlando Bloom (Legolas), Christopher Lee (Saruman), Hugo Weaving (Elrond), Sean Bean (Boromir), Ian Holm (Bilbo Baggins); durata: 172 min. 125 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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2001 – Pearl Harbor (id.) Regia: Michael Bay; Soggetto e sceneggiatura: Randall Wallace; interpreti: Ben Affleck (Rafe McCawley), Josh Hartnett (Danny Walker), Kate Beckinsale (Evelyn Johnson), Alec Baldwin (Jimmy Doolittle), Cuba Gooding Jr. (Doris Miller), Jon Voight (Franklin D. Roosevelt), Colm Feore (Husband E. Kimmel), Jennifer Garner (Sandra), Jaime King (Betty Bayer), Sara Rue (Martha), Tom Sizemore (Earl Sistern); durata: 183 min.
2001 – Shrek (id.) Regia: Andrew Adamson, Vicky Jenson; Soggetto: William Steig; Sceneggiatura: Ted Elliott, Terry Rossio, Joe Stillman, Roger S.H. Schulman; doppiatori: Mike Myers (Shrek), Eddie Murphy (Ciuchino), Cameron Diaz (Principessa Fiona), John Lithgow (Lord Farquaad di Duloc), Vincent Cassel (Monsieur Hood), Kathleen Freeman (padrona di Ciuchino); durata: 90 min. 2002 – Maid in Manhattan (Un amore a cinque stelle) Regia: Wayne Wang; Soggetto: John Hughes; Sceneggiatura: Kevin Wade; interpreti: Jennifer Lopez (Marisa Ventura), Ralph Fiennes (Chris Marshall), Natasha Richardson (Caroline Lane), Stanley Tucci (Jerry Siegal), Tyler Posey (Ty Ventura), Bob Hoskins (Lionel Bloch); durata: 105 min.
2002 – 25th Hour (La 25ª ora) Regia: Spike Lee; Soggetto e sceneggiatura: David Benioff; interpreti: Edward Norton (Monty Brogan), Philip Seymour Hoffman (Jacob Elinsky), Barry Pepper (Frank Slaughtery), Rosario Dawson (Naturelle Riviera), Anna Paquin (Mary D’Annunzio), Brian Cox (James Brogan), Tony Siragusa (Kostya Novotny), Levan Uchaneishvili (Zio Nikolai); durata: 135 min. 126
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2002 – The Lord of the Rings: The Two Towers (Il signore degli anelli – Le due Torri) Regia: Peter Jackson; Soggetto: J.R.R. Tolkien; Sceneggiatura: Peter Jackson, Fran Walsh, Philippa Boyens; interpreti: Elijah Wood (Frodo Baggins), Viggo Mortensen (Aragorn), Sean Astin (Samvise Gamgee - Sam), John Rhys-Davies (Gimli), Ian McKellen (Gandalf), Bernard Hill (Théoden), Liv Tyler (Arwen), Cate Blanchett (Galadriel), Christopher Lee (Saruman), Billy Boyd (Peregrino Tuc - Pipino), Dominic Monaghan (Meriadoc Brandibuck - Merry), Orlando Bloom (Legolas), Hugo Weaving (Elrond), Miranda Otto (Éowyn), David Wenham (Faramir), Andy Serkis (Gollum / Sméagol); durata: 235 min. 2003 – Kill Bil vol. 1 (id.) Regia: Quentin Tarantino; Soggetto e sceneggiatura: Quentin Tarantino; interpreti: Uma Thurman (Beatrix Kiddo, La Sposa, Black Mamba), Lucy Liu (O-Ren Ishii, Mocassino acquatico),Vivica A. Fox (Vernita Green, Testa di Rame), Daryl Hannah (Elle Driver, Serpente Montano della California), Michael Madsen (Budd, Sidewinder); produzione: Super Cool ManChu; durata: 106 min. 2003 – X2 (X-Men 2) Regia: Bryan Singer; Soggetto: Zak Penn, David Hayter, Bryan Singer; Sceneggiatura: Michael Dougherty, Dan Harris, David Hayter; interpreti: Hugh Jackman (Logan / Wolverine), Patrick Stewart (Professor Charles Xavier), Ian McKellen (Eric Lensherr / Magneto), Halle Berry (Ororo Munroe / Tempesta), Famke Janssen (Jean Grey), James Marsden (Scott Summers / Ciclope), Rebecca Romijn (Raven Darkholme / Mystica), Anna Paquin (Marie D’Ancanto / Rogue), Brian Cox (William Stryker), Alan Cumming (Kurt Wagner / Nightcrawler), Bruce Davison (sen. Robert Kelly), Shawn Ashmore (Bobby Drake / Uomo Ghiaccio), Kelly Hu (Yuriko Oyama / Lady Deathstrike), Aaron Stanford (John Allerdyce / Pyro); durata: 133 min. 127
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2004 – Kill Bil vol. 2 (id.) Regia: Quentin Tarantino; Soggetto e sceneggiatura: Quentin Tarantino; interpreti: Uma Thurman (Beatrix Kiddo, La Sposa, Black Mamba), David Carradine (Bill Gunn, Incantatore di serpenti), Daryl Hannah (Elle Driver, Serpente Montano della California), Michael Madsen (Budd Gunn, Sidewinder), Chia Hui Liu (Pai Mei), Michael Parks (Esteban), Samuel L. Jackson (Rufus, organista in chiesa); produzione: Super Cool ManChu; durata: 136 min.
2004 – Cinderella Story (id.) Regia: Mark Rosman; Soggetto e sceneggiatura: Leigh Dunlap; interpreti: Hilary Duff (Sam Montgomery), Chad Michael Murray (Austin Ames), Dan Byrd (Carter), Julie Gonzalo (Shelby Cummings), Lin Shaye (signora Wells), Madeline Zima (Brianna), Andrea Avery (Gabriella); durata: 95 min. 2005 – Fantastic Four (I fantastici 4) Regia: Tim Story; Soggetto: Marvel; Sceneggiatura: Mark Frost, Michael France; interpreti: Ioan Gruffudd (Reed Richards / Mister Fantastic), Jessica Alba (Susan “Sue” Storm / Donna invisibile), Chris Evans (Johnny Storm / La Torcia Umana), Michael Chiklis (Ben Grimm / La Cosa), Julian McMahon (Victor Von, Doom / Dottor Destino), Kerry Washington (Alicia Masters), Hamish Linklater (Leonard), Michael Kopsa (Ned Cecil); durata: 106 min.
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2005 – Sophie Scholl - Die letzten Tage (La rosa bianca - Sophie Scholl) Regia: Marc Rothemund; Soggetto e sceneggiatura: Fred Breinersdorfer; interpreti: Julia Jentsch (Sophie Magdalena Scholl), Fabian Hinrichs (Hans Scholl), Gerald Alexander Held (Robert Mohr), Johanna Gastdorf (Else Gebel), André Hennicke (Richter Dr. Roland Freisler), Florian Stetter (Christoph Probst), Jörg Hube (Robert Scholl), Maximilian Brückner (Willi Graf), Johannes Suhm (Alexander Schmorell); durata: 117 min. 2005 – The Chronicles of Narnia: The Lion, the Witch and the Wardrobe (Le cronache di Narnia - Il leone, la strega e l’armadio) Regia: Andrew Adamson; Soggetto: C.S. Lewis; Sceneggiatura: Ann Peacock, Andrew Adamson, Christopher Markus, Stephen McFeely; interpreti: Georgie Henley (Lucy Pevensie), Skandar Keynes (Edmund Pevensie), William Moseley (Peter Pevensie), Anna Popplewell (Susan Pevensie), Tilda Swinton (Jadis, La strega bianca), James McAvoy (sig. Tumnus); durata: 144 min.
2005 – Batman Begins (id.) Regia: Christopher Nolan; Soggetto: David S. Goyer; Sceneggiatura: David S. Goyer, Christopher Nolan; interpreti: Christian Bale (Bruce Wayne / Batman), Michael Caine (Alfred Pennyworth), Liam Neeson (Ra’s al Ghul / Henri Ducard), Katie Holmes (Rachel Dawes), Gary Oldman (James Gordon), Morgan Freeman (Lucius Fox), Cillian Murphy (Spaventapasseri / Jonathan Crane), Rutger Hauer (Bill Earle), Tom Wilkinson (Carmine Falcone); durata: 140 min.
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2006 – Superman Returns (id.) Regia: Bryan Singer; Soggetto: Bryan Singer, Michael Dougherty e Dan Harris; Sceneggiatura: Michael Dougherty, Dan Harris; interpreti: Brandon Routh (Superman / Clark Kent), Kate Bosworth (Lois Lane), Kevin Spacey (Lex Luthor), Frank Langella (Perry White), Sam Huntington (Jimmy Olsen), James Marsden (Richard White), Parker Posey (Kitty Kowalski), Eva Marie Saint (Martha Kent), Kal Penn (Stanford), David Fabrizio (Brutus), Tristan Lake Leabu (Jason White), Ian Roberts (Riley), Vincent Stone (Grant), Stephan Bender (Clark Kent giovane); durata: 154 min.
2006 – X-Men: The Last Stand (X-Men - Conflitto finale) Regia: Brett Ratner; Soggetto: Marvel Comics; Sceneggiatura: Zak Penn, Simon Kinberg; interpreti: Patrick Stewart (Charles Xavier / Professor X), Hugh Jackman (Logan / Wolverine), Ian McKellen (Eric Lensherr / Magneto), Halle Berry (Ororo Munroe / Tempesta), Famke Janssen (Jean Grey / Fenice), Anna Paquin (Marie D’Ancanto / Rogue), Kelsey Grammer (Henry “Hank” McCoy / Bestia), James Marsden (Scott Summers / Ciclope), Rebecca Romijn (Raven Darkholme / Mystica), Shawn Ashmore (Bobby Drake / Uomo Ghiaccio), Ellen Page (Kitty Pride / Shadowcat), Ben Foster (Warren Worthington III / Angelo), Aaron Stanford (John Allerdyce / Pyro), Olivia Williams (Moira MacTaggart), Shohreh Aghdashloo (Kavita Rao), Vinnie Jones (Cain Marko/Fenomeno), Daniel Cudmore (Piotr “Peter” Rasputin/Colosso), Michael Murphy (Warren Worthington II), Eric Dane (Jamie Madrox / Uomo Multiplo), Mei Melançon (Elizabeth Braddock/Psylocke), Ken Leung (Quill), Dania Ramirez (Callisto), Omahyra Mota (Arclight), Josef Sommer (il presidente); durata: 104 min.
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2007 – Into the wild (Into the Wild - Nelle terre selvagge) Regia: Sean Penn; Soggetto: Jon Krakauer; Sceneggiatura: Sean Penn; interpreti: Emile Hirsch (Christopher McCandless), William Hurt (Walt McCandless), Marcia Gay Harden (Billie McCandless), Jena Malone (Carine McCandless), Hal Holbrook (Ron Franz), Catherine Keener (Jan Burres), Brian Dierker (Rainey), Kristen Stewart (Tracy Tatro), Vince Vaughn (Wayne Westerberg); durata: 140 min.
2008 – Die Welle (L’onda) Regia: Dennis Gansel; Soggetto: Todd Strasser; Sceneggiatura: Ennis Gansel, Peter Thorwarth; interpreti: Jürgen Vogel (Rainer Wenger), Frederick Lau (Tim), Max Riemelt (Marco), Jennifer Ulrich (Karo), Christiane Paul (Anke Wenger), Karoline Teska (Miri), Jacob Matschenz (Dennis), Cristina do Rego (Lisa), Elyas M’Barek (Sinan), Maximilian Vollmar (Bomber), Max Mauff (Kevin), Amelie Kiefer (Mona), Maxwell Ritcher (Faust); durata: 102 min.
2008 – The Reader (The Reader - A voce alta) Regia: Stephen Daldry; Soggetto: Bernhard Schlink; Sceneggiatura: David Hare; interpreti: Ralph Fiennes (Michael Berg), Kate Winslet (Hanna Schmitz), David Kross (Michael Berg da giovane), Alexandra Maria Lara (Ilana Mather da giovane), Lena Olin (Rose Mather / Ilana Mather), Bruno Ganz (professor Rohl), Karoline Herfurth (Martha), Sylvester Groth (consigliere), Burghart Klaußner (giudice), Jeanette Hain (Brigitte), Susanne Lothar (Carla Berg), Alissa Wilms (Emily Berg), Florian Bartholomäi (Thomas Berg), Friederike Becht (Angela Berg), Matthias Habich (Peter Berg), Linda Bassett (Mrs. Brenner); durata: 123 min. 131 www.torrossa.com – Uso per utenti autorizzati, licenza non commerciale e soggetta a restrizioni.
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2008 – Valkyrie (Operazione Valchiria) Regia: Bryan Singer; Sceneggiatura: Christopher McQuarrie, Nathan Alexander; interpreti: Tom Cruise (colonnello Claus von Stauffenberg), Kenneth Branagh (generale Henning von Tresckow), Bill Nighy (generale Friedrich Olbricht), Tom Wilkinson (generale Friedrich Fromm), Carice van Houten (Nina von Stauffenberg), Thomas Kretschmann (maggiore Otto Ernst Remer), Terence Stamp (generale Ludwig Beck), Eddie Izzard (generale Erich Fellgiebel), Kevin McNally (Carl Friedrich Goerdeler), Christian Berkel (colonnello Albrecht Mertz von Quirnheim), David Bamber (Adolf Hitler); durata: 116 min. 2008 – Twilight (id.) Regia: Catherine Hardwicke; Soggetto: Catherine Hardwicke; Sceneggiatura: Melissa Rosenberg; interpreti: Kristen Stewart (Isabella “Bella” Swan), Robert Pattinson (Edward Cullen), Peter Facinelli (Carlisle Cullen), Elizabeth Reaser (Esme Cullen), Ashley Greene (Alice Cullen), Billy Burke (Charlie Swan), Taylor Lautner (Jacob Black), Jackson Rathbone (Jasper Hale), Nikki Reed (Rosalie Hale), Kellan Lutz (Emmett Cullen), Rachelle Lefevre (Victoria); durata: 122 min.
2008 – Iron Man (id.) Regia: Jon Favreau; Soggetto: Marvel; Sceneggiatura: Mark Fergus, Hawk Ostby, Art Marcum, Matt Holloway; interpreti: Robert Downey Jr. (Tony Stark / Iron Man), Terrence Howard (Jim “Rhodey” Rhodes), Jeff Bridges (Obadiah Stane / Iron Monger), Gwyneth Paltrow (Virginia “Pepper” Potts), Shaun Toub (Yinsen), Faran Tahir (Raza), Sayed Badreya (Abu Bakaar), Leslie Bibb (Christine Everhart), Clark Gregg (Phil Coulson), Bill Smitrovich (gen. Gabriel), Paul Bettany (Jarvis), Jon Favreau (Harold “Happy” Hogan), Samuel L. Jackson (Nick Fury); durata: 126 min. 132
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2009 – Inglorious Basterds (Bastardi senza gloria) Regia: Quentin Tarantino; Soggetto e sceneggiatura: Quentin Tarantino; interpreti: Brad Pitt (tenente Aldo Raine), Christoph Waltz (colonnello Hans Landa), Michael Fassbender (tenente Archie Hicox), Eli Roth (sergente Donnie Donowitz), Diane Kruger (Bridget Von Hammersmark), Daniel Brühl (Frederick Zoller), Til Schweiger (sergente Hugo Stiglitz), Mélanie Laurent (Shosanna Dreyfus); durata: 153 min.
2009 – X-Men Origins: Wolverine (X-Men le origini: Wolverine) Regia: Gavin Hood; Soggetto: Marvel Comics; Sceneggiatura: David Benioff, Skip Woods, interpreti: Hugh Jackman (Logan / Wolverine), Liev Schreiber (Victor Creed / Sabretooth), Danny Huston (William Stryker), Will.i.am (John Wraith / Kestrel), Lynn Collins (Kayla Silver Fox), Daniel Henney (David North / Agent Zero), Kevin Durand (Frederick J. Dukes / Blob), Dominic Monaghan (Chris Bradley / Bolt), Taylor Kitsch (Remy LeBeau / Gambit), Ryan Reynolds / Scott Adkins (Wade Wilson / Deadpool), Tahyna Tozzi (Emma Frost), Tim Pocock (Scott Summers / Ciclope), Patrick Stewart (professor Charles Xavier); durata: 107 min. 2010 – Alice in Wonderland (id.) Regia: Tim Burton; Soggetto: Lewis Carroll; Sceneggiatura: Linda Woolverton, interpreti: Mia Wasikowska (Alice Kingsley), Johnny Depp (Cappellaio Matto), Helena Bonham Carter (Regina Rossa), Anne Hathaway (Regina Bianca), Crispin Glover (Stayne), Mairi Ella Challen (Alice bambina), Marton Csokas (Charles Kingsley), Lindsay Duncan (Helen Kingsley); durata: 110 min.
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2011 – Red Riding Hood (Cappuccetto rosso sangue) Regia: Catherine Hardwicke; Sceneggiatura: David Leslie Johnson; interpreti: Amanda Seyfried (Valerie), Gary Oldman (Padre Solomon), Billy Burke (Cesaire), Shiloh Fernandez (Peter), Max Irons (Henry), Virginia Madsen (Suzette), Lukas Haas (Padre Auguste), Julie Christie (Nonna); durata: 110 min.
2011 – X-Men: First Class (X-Men - L’inizio) Regia: Matthew Vaughn; Soggetto: Bryan Singer, Sheldon Turner; Sceneggiatura: Ashley Miller, Zack Stentz, Jane Goldman, Matthew Vaughn; interpreti: James McAvoy (Charles Xavier / Professor X), Michael Fassbender (Erik Lehnsherr / Magneto), Rose Byrne (Moira MacTaggert), Jennifer Lawrence (Raven Darkholme / Mystica), January Jones (Emma Frost), Kevin Bacon (Sebastian Shaw), Nicholas Hoult (Hank McCoy/Bestia), Jason Flemyng (Azazel), Lucas Till (Alex Summers/Havok), Edi Gathegi (Armando Muñoz / Darwin), Caleb Landry Jones (Sean Cassidy / Banshee), Zoë Kravitz (Angel Salvadore), Alex Gonzalez (Janos Questad / Riptide), Oliver Platt (Uomo in nero), Matt Craven (Direttore McCone), Rade Šerbedžija(Generale russo), Ray Wise (Segretario di stato degli Stati Uniti), Glenn Morshower (Colonnello Hendry), Don Creech (Agente William Stryker senior), Brendan Fehr (ufficiale comunicazioni), Michael Ironside (capitano), Laurence Belcher (Charles Xavier bambino), Morgan Lily (Raven Darkholme bambina), Bill Bilner (Erik Lehnsherr bambino), Hugh Jackman (Wolverine), Rebecca Romijn (Mystica); durata: 126 min.
2011 – Beastly (id.) Regia: Daniel Barnz; Soggetto: Alex Flinn; Sceneggiatura: Daniel Barnz; interpreti: Vanessa Hudgens (Linda Taylor, la bella), Alex Pettyfer (Kyle Kingson, la bestia), Mary-Kate Olsen (Kendra Hilferty, la strega), Neil Patrick Harris (Will Fratalli), Lisa Gay Hamilton (Zola); durata: 95 min.
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2012 – Mirror Mirror (Biancaneve) Regia: Tarsem Singh; Soggetto: Evan Daugherty; Sceneggiatura: Hossein Amini, Evan Daugherty, John Lee Hancock; interpreti: Lily Collins (Biancaneve), Julia Roberts (La regina cattiva), Armie Hammer (Principe Andrew), Alcott Nathan Lane (Brighton), Sean Bean (Il re); durata: 105 min.
2012 – Snow White and the Huntsman (Biancaneve e il cacciatore) Regia: Rupert Sanders; Soggetto: Jakob e Wilhelm Grimm; Sceneggiatura: Melissa Wallack, Jason Keller; interpreti: Kristen Stewart (Biancaneve), Chris Hemsworth (Eric, il cacciatore), Charlize Theron (Ravenna, la regina cattiva), Sam Claflin (principe William), Vincent Regan (Duca Hammond), Noah Huntley (Re Magnus), Liberty Ross (Regina Eleanor); durata: 127 min. 2012 – The Amazing Spider-man (id.) Regia: Marc Webb; Soggetto: James Vanderbilt; Sceneggiatura: James Vanderbilt, Alvin Sargent, Steve Kloves; interpreti: Andrew Garfield (Peter Parker / Spider-Man), Emma Stone (Gwen Stacy), Rhys Ifans (Curt Connors / Lizard), Sally Field (May Parker), Martin Sheen (Ben Parker), Denis Leary (George Stacy), Irrfan Khan (Dr. Ratha), Annie Parisse (Mrs. Ratha); durata: 137 min.
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2012 – The Dark Knight Rises (Il cavaliere oscuro - Il ritorno) Regia: Christopher Nolan; Soggetto: Christopher Nolan, David S. Goyer; Sceneggiatura: Christopher Nolan, Jonathan Nolan; interpreti: Christian Bale (Bruce Wayne / Batman), Gary Oldman (James Gordon), Anne Hathaway (Selina Kyle), Tom Hardy (Bane), Michael Caine (Alfred Pennyworth), Marion Cotillard (Miranda Tate), Joseph Gordon-Levitt (John Blake), Morgan Freeman (Lucius Fox), Nestor Carbonell (Anthony Garcia), Liam Neeson (Ra’s al Ghul), Cillian Murphy (Jonathan Crane), Matthew Modine (Peter Foley); durata: 165 min.
2013 – Warm Bodies (id.) Regia: Jonathan Levine; Soggetto: Isaac Marion; Sceneggiatura: Jonathan Levine; interpreti: Nicholas Hoult (R), Teresa Palmer (Julie Grigio), Dave Franco (Perry Kelvin), John Malkovich (generale Grigio), Analeigh Tipton (Nora), Rob Corddry (M / Marcus), Cory Hardrict (Kevin), Tod Fennell (Armed Patrol), Quinn O’Neil (Emily); durata: 97 min.
2013 – Oz the Great and Powerful (Il Grande e potente Oz) Regia: Sam Raimi; Soggetto: L. Frank Baum; Sceneggiatura: Mitchell Kapner, David Lindsay-Abaire, interpreti: James Franco (Oscar Diggs / Oz), Mila Kunis (Theodora / strega malvagia dell’ovest), Michelle Williams (Annie / Glinda), Rachel Weisz (Evanora / strega malvagia dell’est), Abigail Spencer (May), Zach Braff (Frank), Ted Raimi (Eli Yuri), Bill Cobbs (maestro Stagnino), Tony Cox (Knuck); durata: 127 min.
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2013 – Hansel and Gretel: Witch Hunters (Hansel & Gretel - Cacciatori di streghe) Regia: Tommy Wirkola; Soggetto: Jakob e Wilhelm Grimm; Sceneggiatura: Tommy Wirkola; interpreti: Jeremy Renner (Hansel), Gemma Arterton (Gretel), Famke Janssen (Muriel), Pihla Viitala (Mina), Peter Stormare (Berringer), Thomas Mann (Ben), Zoë Bel (strega), Ingrid Bolsø Berdal (strega), Derek Mears (Edward), Judy Norton (Allyson); durata: 88 min.
2013 – Man of steel (L’uomo d’acciaio) Regia: Zack Snyder; Soggetto: David S. Goyer, Christopher Nolan; Sceneggiatura: David S. Goyer, Zack Snyder, Kurt Johnstad; interpreti: Henry Cavill (Kal-EI / Clark Kent / Superman), Amy Adams (Lois Lane), Russell Crowe (Jor-El), Kevin Costner (Jonathan Kent), Diane Lane (Martha Kent), Michael Shannon (Generale Zod), Ayelet Zurer (Lara Lor-Van), Laurence Fishburne (Perry White), Harry Lennix (Generale Swanwick), Antje Traue (Faora); durata: 143 min.
2013 – The Wolverine (Wolverine- L’immortale) Regia: James Mangold; Soggetto: Chris Claremont e Frank Miller; Sceneggiatura: Christopher McQuarrie, Mark Bomback, Scott Frank; interpreti: Hugh Jackman (Logan / Wolverine), Will Yun Lee (Kenuichio Harada / Silver Samurai), Svetlana Khodchenkova (Viper), Hiroyuki Sanada (Shingen Yashida), Hal Yamanouchi (Yashida), Tao Okamoto (Mariko Yashida), Rila Fukushima (Yukio), Brian Tee (Noburo Mori), Famke Janssen (Jean Grey), Patrick Stewart (Charles Xavier); durata: 120 min.
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2013 – Jack the Giant Slayer (Il cacciatore di giganti) Regia: Bryan Singer; Soggetto: Darren Lemke, David Dobkin; Sceneggiatura: Darren Lemke, Christopher McQuarrie, Dan Studney; interpreti: Nicholas Hoult (Jack), Eleanor Tomlinson (principessa Isabelle), Ewan McGregor (Elmont), Stanley Tucci (Lord Roderick), Ian McShane (re Brahmwell), Bill Nighy (generale Fallon), John Kassir (generale Fallon testa piccola), Ben Daniels (Fumm), Raine McCormack (gigante), Eddie Marsan (Crawe), Warwick Davis (vecchio Hamm), Ewen Bremner (Wicke); durata: 114 min.
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Bibliografia
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