Breve storia dello Stato d'Israele 1948-2008 8843044842, 9788843044849

Scarsa è la conoscenza che si ha delle vicende che sono all'origine dello Stato d'Israele, nel 1948, e dei suc

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Breve storia dello Stato d'Israele 1948-2008
 8843044842, 9788843044849

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11,

229

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Claudio Vercelli

BREVE STORIA DELLO STATO D'ISRAELE 1948-2008

Carocci editore

4' ristampa, giugno 2015 l'edizione, marzo 2008

© copyright 2008 by Carocci editore S.p.A., Roma ISBN 978-88-430-4484-9 Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. m della legge 22 aprile 1941,

n.

633)

Senza regolare autorizzazione,

è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

I.

«Lo Stato d'Israele è nato»: il 1948, le sue premesse e i suoi effetti

II

La nascita di una nazione

II

L'ebraismo e il sionismo Le generazioni dei padri fondatori e i temi culturali del sionismo Il "nuovo" yishuv e gli anni del mandato britannico

I6 I8

Le strutture antecedenti il nuovo Stato

23

La Guerra d'indipendenza ( 1948-49)

27

Israele, i paesi arabi e il problema dei profughi pale­ stinesi Il rapporto con le grandi potenze

2.

La costruzione di una società: una comunità d'immi­ grati ( 1949-55)

35

L'economia autoctona e gli mutl esterni: tra dipendenza, autonomia e cooperativismo

35

Lo spirito sabra e la "legge del ritorno"

40

Le dinamiche tra secolarizzati e religiosi e il problema della laicità dei poteri in Israele

44

L'esercito, tra funzioni di difesa e di integrazione sociale La struttura politica e istituzionale del nuovo paese I partiti e la politica

7

50 54 58

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE



Israele e la post-colonizzazione: dalla crisi di Suez alla svolta degli anni sessanta (I956-72) Nella crisi di Suez: tra consolidamento economico e tensioni politiche

6I

Gli arabi israeliani fra integrazione e identità palestinese

64

La Guerra dei sei giorni e la conquista dei Territori palestinesi Tra euforia e angoscia La nascita del Gush Emunim e i primi insediamenti Il problema del terrorismo



67 70 73 76

La crisi dello Yom Kippur e l'ascesa della destra al potere (I973-8I)

8I

La Guerra del Kippur: la sorpresa e lo smacco

8I

La crisi del governo Meir e il declino della leadership

84

laburista La difficile strada verso gli accordi di Camp David con l'Egitto Aschenaziti e sefarditi: verso una democrazia etnica?



89 9I

Gli anni del conflitto con i palestinesi: dalla guerra in Libano agli accordi di pace (I982-94)

95

Israele tra Siria e Libano

95

L'Operazione Pace in Galilea e la politica israeliana in Libano Israele e il problema dei Territori palestinesi L'inti/ada e il dibattito sui rapporti con i palestinesi

98 I03 I o6

Dagli anni ottanta agli anni novanta: verso gli accordi di pace Il percorso degli accordi L'ultima grande immigrazione: gli ebrei russi

8

I09 I I3 II6

INDICE

6.

Gli anni della disillusione: dalla morte di Rabin ai

rr9

giorni nostri (r995-2oo8) L'assassinio di Rabin e i governi della transizione: da Peres a Barak

II9

L'islamismo radicale come attore politico nello scacchiere mediorientale

L'inti/ada al-Aqsa Le nuove minacce dopo l'II settembre 2ooi Il paese dinanzi alle sfide del mercato globale La politica israeliana e la guerra in Libano nel 2oo6 Una società in cambiamento e la crisi della politica



I23 126 I29 I3I I34 I38

Tra storia e mitografia: Israele reale, Israele immaginata

143

Israele è un principio ideologico? Tra eccezione e desiderio di normalità I nuovi storici israeliani: una nazione allo specchio

q3 I45

Bibliografia

149

Cronologia

r53

Indice dei nomi

I6 5

9

I

«Lo Stato d'Israele è nato»: il 1948, le sue premesse e i suoi effetti,.,

La nascita di una nazione La comprensione dei tratti peculiari dello Stato d'Israele, della sua storia, delle culture che vi confluiscono e di ciò di cui esso è diventa­ to espressione nel corso del tempo, richiede di ragionare sul passato, ossia sugli antecedenti, come non di meno sulle prospettive, più o meno ravvicinate. Passato, presente e futuro si intersecano, creando una miscela unica nel suo genere. Un paese di poco più di 7 milioni di abitanti è al centro di tensioni, aspettative, paure e speranze nelle quali si raccolgono non una ma tante, tantissime storie. Israele è fonte di numerosi fraintendimenti, costituendo per alcu­ ni una specie di paradigma ideologico, nei confronti del quale si chie­ de di pronunciarsi. Un prisma, quest'ultimo, che filtra e a volte de­ forma lo stato delle cose e dei fatti. La concreta realtà del paese, le vicende storiche che hanno portato alla sua costituzione in comunità politica, così come la sua presenza nel consesso delle nazioni, trasco­ lorano dinanzi al fatto che per molti la sua stessa esistenza costituisce di per sé un elemento di tensione se non di scandalo. In buona so­ stanza, la materia del contendere rimane la sua legittimità storica, non meno che l'accettabilità nel presente. Il Medio Oriente è una regione dove la definizione dei confini precede la formazione di identità nazionali, di contro a quanto è in­ vece avvenuto in Europa o in altre parti del mondo. L' intero assetto regionale è, da questo punto di vista, il risultato di scelte esercitate dall'esterno, ben poco rispettose delle organizzazioni sociali, delle pe­ culiarità etniche e delle unità politiche preesistenti. Lo Stato d'Israele

'' Per rendere più agevole la lettura e la comprensione del testo per molti termi­ ni in lingua ebraica e araba si è adottata la traslitterazione e la grafia correnti nella pubblicistica italiana di maggior diffusione.

II

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

è invece il prodotto di un percorso storico dove al formarsi di uno spirito nazionale segue il costituirsi di istituzioni collettive e, in ulti­ mo, il dotarsi di un ordinamento istituzionale. Il 1 948 è quindi il punto di arrivo di una comunità nazionale, quella sionista, che di­ venta "israeliana" ; mentre è il punto di partenza per quella arabo­ palestinese, la quale solo in anni a noi più prossimi prenderà atto di esistere come entità a sé. Una frattura si consuma, giocata sulla sfasa­ tura tra i diversi tempi di maturazione dei nazionalismi. Dagli anni ottanta del XIX secolo, infatti, era cresciuta, passo dopo passo, in un'area appartenente all' Impero ottomano, oramai in via di progressivo disfacimento, una nuova comunità ebraica, alimen­ tata da una costante immigrazione e animata da propositi di autoge­ stione. Da ciò derivava la sua vocazione a sentirsi e a viversi come entità nazionale, sia pure ancora in via di formazione. La spinta era fornita da più motivazioni, in parte ideologiche, culturali e politiche, in parte legate alle condizioni materiali intolle­ rabili in cui molti dei migranti si trovavano nei loro paesi d'origine. L' obiettivo era quello di dotarsi di istituzioni proprie ma, soprattut­ to, di riuscire a costruire un'entità stabile, autosufficiente, in grado di permettere ai suoi membri di scegliere del proprio destino. Si ori­ ginò quindi, per passi progressivi, un percorso che nel secondo do­ poguerra portò alla nascita dello Stato d'Israele. Il quale non occupò territori appartenuti a un'altra entità statale, non usurpò l' altrui giu­ risdizione ma produsse senz' altro una frattura tra la locale comunità araba - che si pensava come parte di una più generale unità, quella dei popoli della regione mediorientale - e la comunità ebraica pale­ stinese, che da quel momento poté contare invece su istituzioni indi­ pendenti. Israele, peraltro, al suo interno, pur annoverando una maggioran­ za di cittadini ebrei, incorporò fin da subito anche individui apparte­ nenti ad altre confessioni. L'elemento religioso, che pur ha caratte­ rizzato sul piano simbolico e culturale l'identità del nuovo paese, non è stata la sola discriminante di fondo, come invece frettolosamente si è portati a pensare. Per questo, quando parliamo d'Israele, è meglio riferirsi allo " Sta­ to degli ebrei " piuttosto che a uno " Stato ebraico " poiché, quanto meno sul piano istituzionale, si ha a che fare con una realtà laica o secolarizzata, dove le leggi non sono dettate da un clero o da un testo sacro bensì discusse e decise dal Parlamento nazionale. Inoltre, come in ogni moderna democrazia, a fondamento della vita associata vi è la divisione dei poteri, secondo la triplice ripartizione tra legislativo, esecutivo e giudiziario. Un complesso sistema di pesi e contrappesi 12

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LE SUE PREMESSE E I SUOI EFFETTI

regola il modo in cui si arriva alle decisioni di comune rilevanza. Non di meno, come si avrà modo di spiegare, la società israeliana ha una sua originalità che le deriva dall'essere il prodotto di più immigrazio­ ni. Circa un terzo dei cittadini del paese è nato fuori dai confini na­ zionali. La matrice ebraica del gran numero di immigrati ha significati e pesa in misura molto differenziata. L'essere ebrei, infatti, non indica una condizione univoca né - necessariamente - un comune sentire, ma il pensarsi come componenti di una collettività che trova nel ri­ chiamo a una tradizione culturale e nella memoria di una storia con­ divisa due importanti radici.

L'ebraismo e il sionismo Per fare ulteriore chiarezza, fin da subito, va quindi fatta qualche di­ stinzione terminologica. Con il termine " ebreo " definiamo colui o co­ lei che praticano la religione ebraica o che sono figli di ebrei. Secon­ do le diverse accezioni, per certuni è tale solo il figlio o la figlia di madre ebrea o di entrambi i genitori o, ancora, il convertito all'ebrai­ smo secondo i crismi dell'ortodossia. Per altri, invece, basta uno dei due genitori, indifferentemente. Il richiamo all'esistenza di un "popo­ lo ebraico " non vuole evocare una presunta unitarietà di caratteri e di ceppi, non trattandosi di una questione biogenetica, e neanche di una mentalità precostituita, condivisa da persone tra di loro molto diver­ se, per storia, abitudini, atteggiamenti. Men che meno indica una na­ zionalità: gli ebrei sono cittadini dei paesi in cui sono nati e in cui vivono, né più e né meno dei non ebrei. Piuttosto è il riconoscimen­ to, su un piano affettivo e culturale, dell'importanza di una apparte­ nenza, che deriva dalle tradizioni demandate dalla famiglia di origine e divenute parte della propria identità personale. T al e identità non è mai rigida, ma si plasma e si trasforma nel costante contatto con l'ambiente circostante. Con la parola " sionista" si indicano invece i militanti del movi­ mento politico e culturale che dalla fine dell'Ottocento ha sostenuto il ritorno degli ebrei nella terra dei padri, concepito come unica solu­ zione ai p roblemi che molti di essi vivevano nei paesi di origine. Il sionismo non è una dottrina religiosa ma un' espressione del moderno pensiero politico. Con la parola " israeliano " , da non confondere con "israelita" (equivalente di ebreo), si indicano coloro che sono cittadini dello Sta­ to d'Israele, indipendentemente dalla loro religione. Un ebreo può es­ sere israeliano oppure italiano, mentre un arabo può essere israeliano;

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

ma un ebreo italiano non è un israeliano. Da dò si comprenderà come non vi sia equivalenza tra "nazione israeliana" e "popolo ebrai­ co " se non sul piano delle idealità: chi appartiene alla prima non ne­ cessariamente è componente del secondo. Del pari, chi è ebreo non è detto che sia israeliano a meno che non ne acquisisca la nazionalità, secondo le leggi vigenti in Israele. Sul piano più strettamente storico, l'assunzione del problema del­ la cosiddetta " questione ebraica " , e la sua riformulazione in chiave di risorgimento nazionale, stava alla base dell'impresa sionista. L' espres­ sione è ambigua, dai tanti significati, anche perché il richiamo ad essa veniva perlopiù fatto da quanti erano o si dichiaravano apertamente "antisemiti " , avversi, a vario titolo, agli ebrei in quanto tali, ossia per il fatto stesso che esistessero. Più in generale potremmo dire che con tale locuzione si intendeva definire la persistenza di una o più specifi­ cità ebraiche - di ordine culturale, religioso, sociale - malgrado il rapporto di scambio, e a tratti di simbiosi, che veniva intrattenuto da coloro che ne erano portatori, con la modernità. Per l'antisemita la permanenza di un gruppo di individui che si qualificava come "ebrai­ co " era un problema in sé, che richiedeva una risposta netta, attra­ verso l'assimilazione più o meno forzata o la separazione dal resto del consesso umano. Nell'appartenenza a questo gruppo si celavano, in­ fatti, caratteristiche deteriori, di cui i singoli erano portatori perma­ nenti e che minavano l'integrità della società non ebraica. La connotazione di ebraicità diveniva quindi una manifestazione dei limiti dell'evoluzione umana e dei rischi ai quali questa era espo­ sta. Gli ebrei erano un problema, ovvero costituivano una "questio­ ne" aperta, finché la loro presenza non fosse venuta meno grazie al progredire della storia. Se così non doveva essere, necessitava un in­ tervento nella storia medesima, affinché vi si ponesse rimedio (così come fecero i nazisti, per intenderei ) . Tra il xvm e il xrx secolo, soprattutto per effetto della Rivoluzio­ ne francese, gli ebrei dell'Europa occidentale avevano condiviso un processo d'integrazione nelle società dei rispettivi paesi d'appartenen­ za. Si trattava di quel percorso conosciuto come "emancipazione" che fece sì che progressivamente i vincoli giuridici, di costume e di con­ suetudine, che rendevano le comunità israelitiche realtà a sé, isolate dal contesto sociale, perlopiù segregate in ghetti urbani, venissero su­ perati . Ciò avvenne in tempi e con modalità diverse, a seconda dei singoli paesi europei, ma all'interno di un più ampio processo, gene­ ralizzato, di comune indirizzo, che permise che essi diventassero citta­ dini come gli altri. Decaddero quindi le interdizioni che per legge fa­ cevano degli ebrei un gruppo isolato, stigmatizzato socialmente, iden-

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LE SUE PREMESSE E I SUOI EFFETTI

tificato per una diversità (religiosa o meno che fosse) non accettabi­ le ma come tale neanche ovviabile. Si trattava di un fenomeno di li­ beralizzazione che comportò non solo il superamento dei vincoli im­ posti dall'esterno, dalle società a maggioranza cristiana, ma anche la revisione della propria identità, indotta ora a misurarsi con un nuo­ vo orizzonte di vita, non più riconducibile alle mura dei quartieri ebraici. Nei paesi occidentali l'antigiudaismo moderno diventò antisemiti­ smo, fondando le sue pretese non più sulla base del solo pregiudizio antireligioso bensì sulle dottrine di autori come Arthur de Gobineau e, più in generale, sull'adozione delle categorie concettuali che le mo­ derne scienze, piegate ad un discorso su basi razziali, offrirono a quanti intendevano dire che gli ebrei, nella loro presunta pericolosità sociale, erano una " razza " . L'ebraismo europeo, peraltro, uscì profondamente trasformato dal confronto con il XIX secolo. La modernizzazione culturale lo aveva attraversato, solcandolo al suo interno e avviando processi di profon­ da secolarizzazione. Molti dei suoi esponenti, finalmente liberi di po­ tersi confrontare con la società circostante, ne diventarono parte inte­ grante, impegnandovisi attivamente e assurgendo così a posizioni di rilievo. Diverso è invece il discorso per gli ebrei dell'Europa dell'Est, laddove notevole era la loro presenza nella popolazione locale. Nel­ l'Impero russo le condizioni alle quali erano costretti buona parte di essi erano al limite dell'insostenibilità. Relegati nella zona di residenza coatta, che occupava i territori occidentali, dal Baltico al Mar Nero, furono costretti ad adattarsi ad un regime di vita al limite dell' abie­ zione. Lo sfruttamento della manodopera locale nei grandi opifici, la mancanza di risorse proprie, l'interdizione da attività lavorative che non fossero quelle in cui venivano brutalmente sfruttati resero senza orizzonte la loro esistenza. Un anno spartiacque è il I 8 8 I quando, a seguito dell'assassinio dello zar Alessandro n, le comunità ebraiche furono fatte oggetto di una serie di efferate violenze, i pogrom, nel corso dei quali persecu­ zioni e omicidi si susseguirono a più riprese. All'azione antisemita dal basso, peraltro fomentata dalle stesse autorità, si legava la martellante campagna propagandistica che queste ultime facevano, per mezzo di libelli ad ampia diffusione come I protocolli dei Savi Anziani di Sion dove si sosteneva la tesi che gli ebrei complottassero contro gli inte­ ressi dell'umanità per assicurarsi il dominio mondiale. Da questa si­ tuazione, apparentemente senza vie di uscita, ci si poteva sottrarre in un solo modo, ovvero emigrando. Almeno 2 . 6oo.ooo persone, nel giro di poco più di tre decenni, a cavallo tra il I 88o e il I 9 I 5, abban-

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

donarono la Russia, andando perlopiù negli Stati Uniti. Settantamila di questi, però, si incamminarono verso la Palestina. Un fattore de­ terminante nella loro scelta fu l'intervento dell'ideale sionista. Il sioni­ smo, prima ancora che un movimento politico, costituiva una corren­ te di pensiero, originatasi nella seconda metà dell'Ottocento tra alcu­ ni pensatori e studiosi, che riteneva che la costituzione di una società ebraica fosse la soluzione ai problemi che la modernità poneva agli ebrei. Per alcuni si trattava di dare corso alla ricostruzione di qualco­ sa che era andato perduto nel tempo, dopo la distruzione del Secon­ do Tempio, nell'anno 70 dell'era volgare. Per altri, invece, si doveva dare vita ad un'esperienza del tutto nuova, ispirata, più che al passato storico e religioso, al presente dei processi di costituzione degli Stati nazionali. È tra coloro che sostenevano questa seconda ipotesi che venne affermandosi quel che sarà poi conosciuto come " sionismo po­ litico" . Rispetto agli approcci più culturali, e quindi maggiormente focalizzati sul recupero della tradizione (lingua, religione, costumi), il sionismo politico, promosso da Theodor Herzl e Max Nordau, co­ stituì una profonda innovazione. Esso si proponeva come una rispo­ sta diretta e definitiva ai problemi del tempo corrente. Partendo dalla minaccia rappresentata dall'antisemitismo, identificava la risposta non nel ritorno ad un arcadico passato ebraico, ritenuto molto spesso una visione mitologica dei propri trascorsi, ma in un investimento verso il futuro, seguendo l'esempio delle unificazioni nazionali in corso in tut­ to l'Occidente. Pertanto, «la costruzione di una nazione ebraica, che forma un corpo politico che vuole la creazione di uno Stato sovrano in Terra d'Israele (Eretz Israe[)» (Greilsammer, 2 007, p. 7) costituiva l'obiettivo fondamentale di questa dottrina e di questo movimento. Le anime sioniste furono molteplici e la dialettica al loro interno fu spesso molto accesa. Tuttavia, dopo il Primo congresso sionista mon­ diale, tenutosi a Basilea tra il 29 e il 3 I agosto del I 897, la compo­ nente politica, che puntava alla soluzione territorialista (una patria su di un territorio dai confini circos critti) divenne sempre più predomi­ nante, orientando le scelte successive.

Le generazioni dei padri fondatori e i temi culturali del sionismo Una generazione, nata perlopiù alla fine del xrx secolo e cresciuta in quello successivo, concorse alla formazione e al consolidamento in Palestina di una nuova comunità ebraica, completamente diversa da quella preesistente. Alla base del sionismo vi era il confronto che gli

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LE SUE PREMESSE E I SUOI EFFETTI

ebrei andavano facendo con la nascita degli Stati nazionali nell'epoca della crisi dei grandi imperi multietnici. Non meno dell'emancipazio­ ne liberale venivano a contare l'emancipazione nazionale e quella so­ ciale. Se la prima prometteva agli individui lo statuto di cittadini in quanto eguali, la seconda stabiliva un legame di reciprocità tra gli ap­ partenenti alla stessa nazione, mentre la terza indicava nel lavoro la fonte della ricchezza collettiva come delle fortune individuali. Per il sionismo "emancipazione" non voleva più dire integrazione nelle so­ cietà d'origine ma creazione di una nazione indipendente. «Il sioni­ smo va considerato parte integrante di un generale processo di politi­ cizzazione dell'ebraismo europeo» (Brenner, 200 3 , p. I 5 ) che in que­ gli anni si confrontò con le trasformazioni materiali e culturali che coinvolgevano l'Europa ma anche il Mediterraneo. Tra il I 904 e il I 9 I 5 arrivarono in Palestina coloro che avrebbero costituito i vertici del futuro Stato. Si trattava di un gruppo di persone caratterizzato da una sostanziale omogeneità sociale e culturale. Nati in maggioranza in Ucraina e nella Russia bianca degli anni ottanta, erano uomini e don­ ne ispirati alle idealità socialiste, allora correnti, e cresciuti in un am­ biente dove forti erano le suggestioni intellettuali. Molti di loro erano giornalisti o scrittori; tutti erano attratti dall'impegno politico. Una volta giunti a destinazione si occuparono soprattutto di agricoltura, poiché nel lavoro della terra vedevano i presupposti di una società indipendente. Così David Ben Gurion ( I 886- I 9 7 3 ) , Levi Eshkol (I895-I969), Moshe Sharrett (I894-I965 ), capi di governo; Yitzhak Ben-Zvi ( I 884- I 96 3 ) e Zalman Shazar ( I 889- I 974), entrambi capi di Stato; Berl Katznelson ( I 877- I 944l e Yitzhak Tabenkin ( I 887- I 9 7 I ) , intellettuali e dirigenti politici. Nel giro di pochi anni si sarebbero aggiunte ulteriori figure eminenti, come Golda Meir ( I 898- I 9 7 8 ) e al­ tri ancora. Prima di tutto occorreva creare un "uomo nuovo " , un mo­ dello di ebreo estraneo alle consuetudini della diaspora. Il sionismo politico identificava nell'antichità i propri fondamenti, svalutando i quasi duemila anni di Esilio. L'ebreo diasporico era considerato un individuo perdente poiché incapace di prendere nelle proprie mani la sua vita. Scriveva Ben Gurion: «Galut [diaspora] significa dipendenza - materiale, politica, spirituale, culturale e intellettuale - perché sia­ mo stranieri, una minoranza, priva di patria, senza radici, staccata dalla terra, dal lavoro dei campi e dall' attività industriale. Il nostro compito è ora troncare questa dipendenza e diventare padroni del nostro destino» (Ben Gurion, I 95 9 , p. 6o9 ) . I l lavoro, i n particolare quello agricolo, era quindi considerato come il motore della rigenerazione nazionale ebraica. Il rapporto con la natura era inteso come un momento fondamentale poiché in esso

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' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

l'individuo avrebbe misurato le sue autentiche potenzialità. Lavorare in gruppo voleva inoltre dire imparare a cooperare, ovvero a stare insie­ me per un obiettivo preciso, costituito dalla condivisione non solo di un progetto ma anche dei mezzi con i quali realizzarlo. Da ciò deriva­ rono le colonie agricole, vera e propria ossatura della società ebraica antecedente la nascita dello Stato d'Israele. Al lavoro rurale si accom­ pagnava la sua difesa e quella dei suoi prodotti. Il tema della forza si coniugava così a quello del coraggio. Come si doveva avere determina­ zione per cambiare il corso della propria esistenza, così ci si doveva impegnare per difenderne i risultati. L'ostilità araba si era manifestata fin dalla nascita dei primi insediamenti. E tuttavia la necessità di prov­ vedere da sé, con proprie armi, alla tutela dei beni, dei raccolti, degli immobili divenne rilevante solo a fare dagli anni della Prima guerra mondiale, quando la spaccatura con la popolazione autoctona andò approfondendosi. Ne nacquero le prime organizzazioni armate, dalle quali, per passaggi successivi, sarebbe derivato l'esercito d'Israele. Un ulteriore elemento era la lingua ebraica, da sottrarre alla sua funzione di idioma liturgico, usato nelle preghiere. La secolarizzazio­ ne della lingua, la sua attualizzazione, diveniva il suggello di una co­ munanza, il superamento delle distinte origini nazionali (russi, tede­ schi, polacchi e tanti altri) nel percorso di costruzione di una nuova nazione. Negli anni venti e trenta, poi, subentrò una spinta all'urba­ nizzazione. Tel Aviv era nata già nel 1 909 ma con l'arrivo degli ebrei polacchi, a partire dal 1 924, e poi di quelli tedeschi, crebbe note­ volmente di dimensioni e d'importanza. Il modello implicito di riferi­ mento erano le città americane, ma forti erano anche gli influssi ar­ chitettonici ed urbanistici dei movimenti modernisti come il Bauhaus. La nascita e l'evoluzione di centri abitati al di fuori dei luoghi tradi­ zionali dell'ebraismo palestinese, maggiormente ancorati alla religiosi­ tà, comportò un'ulteriore articolazione e diversificazione della nuova società che veniva costituendosi. Una componente borghese si conso­ lidò, dando origine a nuove attività commerciali e mercantili.

Il "nuovo" yishuv e gli anni del mandato britannico Nella Palestina ottomana da sempre era esistita una comunità ebrai­ ca. La sua consistenza numerica variò nel corso del tempo, non supe­ rando però mai le poche migliaia di componenti, concentrati nelle aree urbane delle città sante di Gerusalemme, Hebron e Safed. Si trattava perlopiù di famiglie che erano nate e cresciute in quei luo­ ghi, o di credenti che vi si erano trasferiti per poter vivere osservan-

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do rigorosamente i precetti religiosi. L'intreccio tra la diffusione del­ l'ideale sionista e l'emigrazione dall'Est mutò nel volgere di pochi anni il quadro della situazione. Se durante buona parte dell'Ottocen­ to per ogni ebreo vi erano 40 arabi (6.7oo a 2 6 8 .ooo), la relazione con la componente araba diventa di I a 22 nel I 88o (24 .ooo a 5 2 5 .ooo ) , di I a 7 nel 1 9 1 5 (85 .ooo a 5 9o.ooo) , di r a 5 nel 1 9 3 1 ( I 7 4 . ooo a 8 3 7 .ooo) e, infine, nel I 947 di I a 2 ( 6 3 o . ooo a r.3 r o.ooo). Una crescita demografica che si basava sull'immigrazione, ma anche sulla stabilizzazione progressiva di quanti si trasferivano in quelle terre. Affinché ciò potesse avvenire necessitava la creazione di un insie­ me di istituzioni e di infrastrutture del tutto assenti in origine. Il sio­ nismo, oltre a costituire un movimento di pensiero, era anche un'or­ ganizzazione che fin da subito andò adoperandosi affinché i suoi obiettivi potessero essere tradotti in fatti. I processi migratori, orien­ tati verso la Palestina, s'inserivano quindi dentro un quadro in co­ stante evoluzione. La nascita e la crescita di una stabile comunità, il "nuovo " yishuv ( "insediamento " , termine che convenzionalmente in­ dica la comunità ebraica in Palestina durante il periodo ottomano e quello del mandato britannico) , comportò il definirsi, progressiva­ mente, di un complesso di strutture permanenti di natura residenziale (presidi rurali, villaggi agricoli, quartieri urbani) , sociale (un circuito di enti collettivi in grado di soddisfare i bisogni comuni come l'edu­ cazione, la sanità) , economica (piccole imprese e attività artigianali e commerciali) e, infine, politica (istituzioni rappresentative, decisionali ed esecutive dove tutte le componenti locali fossero in qualche modo presenti). Si trattava di fare sì che all'incremento del numero dei pio­ nieri (così come gli immigrati si consideravano) si accompagnasse la capacità di gestirsi in proprio . Tra gli anni ottanta del xrx secolo e la prima metà di quello successivo andò quindi strutturandosi una nuo­ va società, i cui originali caratteri sarebbero confluiti nello Stato d'I­ sraele. Mano a mano che l'yishuv cresceva di funzioni e importanza, aumentavano i flussi di migranti. Così, se nel tardo periodo ottoma­ no (tra il I 8 8 I e il I 9 I 8 ) gli immigrati si aggiravano intorno ai 6 5 . ooo-7o.ooo, nel periodo mandatario ( I 9 I 9-48) furono invece ben 487 .000. Un impulso alla legittimazione dell'intero processo derivò dalla Dichiarazione Bal/our, dal nome del ministro degli Esteri britannico, che il 2 novembre I 9 I 7 riconobbe il diritto per gli ebrei alla creazio­ ne in Palestina di una sede nazionale, a national home. La rilevanza era indiscutibile, trattandosi di un riconoscimento politico da parte

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di quella che stava per diventare la potenza mandataria su quei ter­ ritori. Nel variegato mondo della diaspora, la galut ( " dispersione" ) , le reazioni a quanto i sionisti andavano facendo non furono unanimi. Lo spirito di fondo dell'impresa si richiamava alla necessità di arriva­ re alla ricomposizione di tutte le comunità ebraiche in un'unica socie­ tà, quella che si stava costruendo in Palestina. Per le componenti reli­ giose più ortodosse si trattava di una violazione palmare della tradi­ zione dei padri, laddove il superamento della diaspora si sarebbe avu­ to solo con l'avvento del messia. I sionisti, secondo questo approccio, erano degli iconoclasti che infrangevano un codice fondamentale, le­ gato a un lascito plurimillenario. Per le componenti più secolarizzate, invece, i dinieghi o comunque le perplessità erano frequentemente le­ gati al timore che i benefici derivati dai processi nazionali di emanci­ pazione potessero subire una repentina interruzione. In altre parole, scarsa o nulla era l'intenzione di seguire quanti, per i più svariati mo­ tivi, si incamminavano verso una terra ritenuta agra e brulla, animati da idee considerate spesso al limite della visionarietà, senza una soli­ da base materiale. Nel 1 92 2 la Gran Bretagna, in base agli assetti geopolitici derivati dalla conclusione della Prima guerra mondiale e in virtù della sua funzione di potenza coloniale, si vide assegnare dall'allora Società delle nazioni il mandato sui territori palestinesi. Il mandato era un istituto giuridico del vecchio diritto internazionale in virtù del quale una nazione sviluppata riceveva l'incarico di esercitare la tutela e l'amministrazione temporanea dei territori di quei paesi la cui popo­ lazione era ritenuta incapace di governarsi da sé. Francia e Gran Bre­ tagna condivisero quindi in condominio il controllo delle porzioni di terra dalle quali sarebbero poi emersi molti degli attuali Stati medio­ rientali. La Gran Bretagna, peraltro, fu a lungo la potenza occidentale più importante nell'intero Medio Oriente. Il problema che fin da su­ bito il governo londinese dovette affrontare fu quello del rapporto con le popolazioni locali e con le istanze indipendentiste che un po' ovunque venivano avanzate. Londra, per garantirsi il sostegno degli ebrei e degli arabi durante gli anni della guerra, aveva promesso sia agli uni che agli altri la medesima cosa, ovvero la creazione di uno Stato nazionale sulla stessa terra. Alla Dichiarazione Bal/our si affian­ cavano così le speranze che il territorio della Palestina divenisse parte di un più ampio Stato arabo indipendente. Di fatto, nel 1 9 2 2 i terri­ tori ad est del fiume Giordano si costituirono in un principato auto­ nomo, sotto la direzione dell'emiro Abdullah. La Transgiordania come si sarebbe chiamato il regno che divenne indipendente nel r 946

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FIGURA I La Palestina sotto il mandato britannico

SIRIA

sotto il mandato francese

ARABIA SAUDITA

Territorio restante destinato all'insediamento degli ebrei

scisse così parte del suo destino dalla Palestina mandataria, nella quale gli inglesi, per tutta la durata del loro incarico, si trovarono a dover fronteggiare una marea montante di proteste e di ribellioni. L'ingresso massiccio di immigrati ebrei da dopo la Prima guerra mondiale costituì un fattore di crescente attrito con la popolazione autoctona. L'immigrazione in Palestina, infatti, si andò caratterizzan­ do in quanto serie in successione di grandi flussi, conosciuti in ebrai­ co come aliyòt (ossia "ascese" nella terra dei progenitori, il cui singo­ lare è aliyà) . La prima serie ebbe corso tra il 1 8 8 1 e il 1 903 , con l'arrivo di circa 2o.ooo-3 o.ooo persone provenienti dall'Impero russo, a ciò spinte dal violento e rozzo antisemitismo che attraversava il pae21

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se. Molti di questi migranti erano animati da un profondo idealismo, intenzionati a mutare radicalmente il proprio modo di vita. Arrivava­ no nella Palestina ottomana, priva di infrastrutture e povera di risor­ se, trovandosi a dover fronteggiare situazioni difficili se non insosteni­ bili. Il tasso di abbandoni fu quindi piuttosto elevato. La seconda mi­ grazione di massa avvenne tra il I 9o4 e il I 9 I 4, quando tra i 35 .ooo e i 4o.ooo ebrei, provenienti ancora una volta dai paesi dell'Est euro­ peo, scelsero la Palestina come meta per la costituzione di una "nuo­ va società", ispirata ai principi della vita comunitaria. Lo stesso può dirsi della terza migrazione, tra il I 9 I 9 e il I 92 3, con un saldo di 3 5 .ooo migranti. La quarta aliyà, tra il I 924 e il 1 9 3 1 , raccolse una massa composita di oltre So.ooo elementi, provenienti - questa volta - anche dai Balcani e dal Medio Oriente. La quinta si consumò tra il I 9 3 2 e il I 9 3 9 , coinvolgendo ben 2 1 7 .ooo persone, quasi tutte origi­ narie della Germania, della Polonia e dell'Europa centrale, in fuga quindi dal montante nazismo. La sesta e ultima, tra il I 9 3 9 e il I 948, era composta da I 53 .ooo fuggitivi, perlopiù clandestini, provenienti dall'Europa centrale, quindi dai luoghi epicentro dello sterminio nazi­ sta. A queste ondate migratorie i britannici tentarono, in più riprese, di porre vincoli e limitazioni. In particolare, fu adottata la politica dei cosiddetti Libri bianchi, documenti ufficiali del governo di Sua Mae­ stà nei quali si stabilivano severi contingentamenti all'ingresso di ebrei nei territori del mandato non meno che all'acquisto di terre . Con i libri del I 9 2 2 , del I 9 3 o e del I 9 3 9 drastiche furono le prese di posizione inglese sull'immigrazione. Tuttavia questo strumento, se da un punto di vista legale permetteva alle autorità di controllare gli ac­ cessi ufficiali, poco poteva rispetto agli ingressi clandestini. E meno ancora poteva rispetto al fatto che la comunità ebraica palestinese an­ dasse prendendo forma sempre più come un organismo autonomo, capace di provvedere da sé alle sue esigenze. Più in generale, il man­ dato si rivelò per i britannici uno strumento inadeguato rispetto alle loro ambizioni, prima tra tutte quella di concorrere a perpetuare il controllo coloniale sul Medio Oriente. Durante gli anni venti e gli anni trenta si succedettero violente sollevazioni, preordinate e orga­ nizzate da parte araba, contro gli insediamenti ebraici. Per Londra ben presto la Palestina mandataria si trasformò quindi in un proble­ ma di ordine pubblico, al quale non sapeva quale risposta dare se non attraverso il ricorso alla forza. Ma lo stalla, in realtà, era di natu­ ra politica, misurandosi sull'inanità inglese dinanzi a opposte richie­ ste. Con la fine della Seconda guerra mondiale, poi, la presenza bri­ tannica si rivelò di fatto anacronistica. L' Impero era oramai declinan­ te, sostituito dal sistema di relazioni bipolari tra usA e URSS, e le ri22

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sorse a disposizione scarse se non nulle. La presenza in Palestina ven­ ne mantenuta fino alla data ufficiale della conclusione del mandato, il 14 maggio 1 948, per ragioni di prestigio così come per un calcolo residuo, che intendeva cercare di ottenere i favori del movimento panarabico .

Le strutture antecedenti il nuovo Stato La peculiarità del nuovo yish uv, lo si è già detto, non stava solo nel­ l'immigrazione in massa ma nella costruzione di una comunità dotata di risorse proprie e in grado di autosostenersi. Rispetto alla logica del vecchio insediamento ebraico in Palestina, costituito da un limitato numero di ebrei dediti allo studio delle sacre scritture, costretti in maggioranza dall'indigenza, era una rivoluzione copernicana. Per il sionismo politico non si trattava di rafforzare quel che già c' era ma di costruire qualcosa di completamente nuovo. La frattura con le conce­ zioni quietistiche e attendiste di un certo conservatorismo religioso non poteva essere più netta. Con il Congresso di Basilea del 1 897 vennero così poste le basi per la costituzione della World Zionist Or­ ganization (Organizzazione sionista mondiale) , l'organismo che da al­ lora in poi avrebbe coordinato gli sforzi tra le molteplici istanze nelle quali il movimento andava strutturandosi. Venne così determinan dosi una sorta di doppio binario tra le attività di sostegno politico, di rac­ colta di fondi e di promozione dell'ideale sionista nella diaspora e l'insediamento ebraico in Palestina. Nel 1 92 1 fu costituito l'Esecutivo sionista palestinese, un organismo interno all'yish uv che operò come un governo de facto, articolando i suoi diversi interventi attraverso di­ partimenti di attività che coprivano l'insieme delle competenze pro­ prie a una comunità autogestita (sanità, educazione, lavoro, immigra­ zione, colonizzazione delle terre). La Gran Bretagna, all'articolo 4 del suo mandato, prevedeva l'esistenza di una Agenzia ebraica, ente di diritto privato, che doveva intrattenere i rapporti con le autorità in­ glesi in Palestina. L'Agenzia, istituita nel I 92 9, incorporò anche il Consiglio nazionale ebraico, che fungeva da organismo di rappresen­ tanza, sulla base del voto periodicamente espresso dall'Assemblea dei delegati deli'yishuv. Si trattava di un circuito di strutture laiche che, anno dopo anno, andarono consolidandosi, istituendo un abbozzo di autogoverno, verso l'obiettivo della Knesset Israel ( " Assemblea d'I­ sraele" ) , da intendersi come comunità unitaria, integrata, dotata di istituzioni proprie. L' acquisto delle terre, altro elemento fondamenta­ le nella strategia di colonizzazione, era assegnato al Fondo nazionale 23

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ebraico e al Fondo per la ricostruzione, le due agenzie finanziarie co­ stituite ad hoc per raccogliere capitali e convogliarli verso quella de­ stinazione. Le funzioni essenziali del sionismo palestinese (acquisizione di ter­ re, loro messa a frutto, accoglimento e inserimento degli immigrati, politiche a favore dell'impiego della manodopera, coordinamento or­ ganizzativo degli insediamenti) richiedevano, per essere realizzate, an­ che il concorso di altri fattori. Uno degli elementi cardine erano le scelte in campo economico e, in particolare, l'impegno per quello che era chiamato avodà ivrit, il "lavoro ebraico " . Questo consisteva non solo nell'immissione in attività degli immigrati ma anche nella creazio­ ne di un circuito economico separato, completamente autonomo da quello arabo. Per i sionisti l' autosostentamento economico era non meno importante dell'autogoverno politico, costituendo, l'uno e l'al­ tro, le due architravi sulle quali si sarebbe costruita una nuova nazio­ ne e, quindi, lo Stato. Il lavoro ebraico era quello svolto collettiva­ mente dagli ebrei per gli ebrei, soprattutto in ambito manuale. Una forte enfasi era posta sulla trasformazione del terreno agro e impro­ duttivo in terra fertile e ricca. Tra il 1 9 2 0 e il 1 940 il mercato del lavoro palestinese e il sistema produttivo autoctono vennero quindi rapidamente trasformati dall'energica azione della parte ebraica. A metà degli anni trenta il reddito procapite della componente ebraica era già il doppio di quello della componente araba della popolazione palestinese. Di fatto si creò un fenomeno di separazione tra due eco­ nomie che si resero indipendenti, con la crescita della prima e la pro­ gressiva marginalizzazione della seconda. Fondamentale fu, in tal sen­ so, la nascita dell'Histadrut ( "Federazione" ) , il sindacato dei lavoratori ebrei, che nel corso del tempo sviluppò attività molteplici come socie­ tà di mutuo soccorso, un sistema di assistenza sanitaria e di sostegno previdenziale, un circuito di cooperative e, infine, un vero e proprio Konzern, un gruppo integrato di imprese a gestione pubblica. Non meno importante era, nell'ottica del pionierismo che doveva animare i nuovi arrivati, la questione dell'autodifesa. Nessun insedia­ mento avrebbe avuto vita lunga se non si fosse dotato di una milizia propria. Il più delle volte erano gli stessi lavoratori dei villaggi rurali ad assumersi il compito di proteggere sia i raccolti che le abitazioni. Nel 1 920 nacque l'Haganà ( ''Difesa " ) , che raccoglieva e coordinava i gruppi di uomini e donne che se ne occupavano. Si trattava di una piccola struttura di coordinamento tra le diverse unità di addetti, suddivise un po' per tutto il territorio nel quale erano presenti colo­ nie ebraiche. In quegli anni gli attriti con la popolazione araba anda­ vano facendosi sempre più intensi. Da atti di sporadica violenza o di

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vandalismo si passò ad aggressioni generalizzate, in un clima di esa­ cerbazione del confronto tra le due comunità. Negli anni trenta l'Ha­ ganà si trasformò da organismo di difesa e di coordinamento in una struttura in grado di colpire gli avversari. All'attività di comunicazio­ ne tra i diversi gruppi andò affiancandosi la produzione illegale di armi e munizioni, il vettovagliamento, l'addestramento, la specializza­ zione in reparti di pronto intervento, il lavoro di intelligence. L' aspi­ razione di questo esercito in fieri era quella di svolgere sì attività clandestina, nella misura in cui i britannici vietavano formalmente ogni forma di organizzazione armata, evitando tuttavia gli atti terrori­ stici o di deliberata e gratuita violenza. In contrapposizione a questo atteggiamento, e per una valutazione politica diversa da quella opera­ ta dalla parte maggioritaria dei vertici del movimento sionista, nel 1 9 3 1 la destra ebraica si scisse, costituendo una propria struttura pa­ ramilitare, l'Irgun Zvai Leumi ( "Organizzazione militare nazionale" ) , alla quale andò a d affiancarsi l a New Zionist Organization ( ''Nuova organizzazione sionista " ) , istituita nel 1 9 3 5 a Vienna da Vladimir Ze'ev Jabotinsky ( 1 8 8o- 1 94o), leader della componente cosiddetta "revisionista" . Questa separazione non verrà mai più ricomposta, consegnando la destra sionista ad un'opposizione che la vedrà ai mar­ gini della storia dello Stato d'Israele per i primi trent'anni della sua esistenza. La Seconda guerra mondiale fu per l'yishuv il "Rubicone" , varcato il quale nulla sarebbe stato più come prima. L a minaccia del­ l'invasione tedesca della Palestina, almeno fino alla battaglia di El Alamein nel 1 94 2 , e lo sterminio in massa dei correligionari in Euro­ pa segnarono indelebilmente la comunità ebraica locale. La conclu­ sione del conflitto mondiale coincise anche con l'esaurimento degli equilibri colonialistici in tutto il Medio Oriente e, di riflesso, con la consunzione del mandato britannico. Tra il 1 945 e il 1 94 8 il confron­ to tra ebrei e arabi nella Palestina mandataria si trasformò in una vio­ lenta guerra civile che coinvolse tutta la popolazione. Gli stessi ingle­ si, che durante la guerra avevano ottenuto l'appoggio dell'yishuv allo sforzo bellico, si trovarono tra due fuochi incrociati. Se la leadership sionista ufficialmente condannava gli atti di terrorismo, i membri del­ la destra ebraica, ovvero l'Irgun e il LEHI (acronimo di Lohamei Herut Israel, "Combattenti per la libertà d'Israele" ) , conosciuto anche come "banda Stern " (nata da una costola dell'organizzazione revisionista) , si adoperarono in una serie di attentati contro le autorità e le truppe britanniche. Il gesto più eclatante fu compiuto il 16 luglio 1 946 con la distruzione dell'hotel King David di Gerusalemme, sede del Co­ mando inglese in Palestina, quando 9 1 persone (tra cui 17 ebrei) pe­ rirono nell'esplosione di un potente ordigno. L' attività di opposizione 25

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armata si protrasse fino al settembre del 1 948, con l'assassinio del mediatore delle Nazioni Unite, il conte Bernadotte, accusato dalla de­ stra sionista di essere colluso con gli arabi. Dinanzi ad una situazione divenuta ingestibile la scelta fatta dalla Gran Bretagna fu di dichiarare, per bocca del ministro degli Esteri Bevin, il r4 febbraio 1 947, che si sarebbe ritirata dal paese non appe­ na si fosse esaurito il mandato medesimo. Fu quindi deciso di de­ mandare la soluzione del problema dei futuri assetti palestinesi ai la­ vori di una commissione costituita appositamente, l'uNSCOP (lo Uni­ led Nations Special Committee an Palestine), alla quale venne richiesto di arrivare alla definizione di una via d'uscita definitiva. Ne derivò la proposta di dividere la terra tra i due contendenti, permettendo la creazione di due distinti Stati, uno arabo e l'altro ebraico . Il 29 no­ vembre 1 947 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite votava quindi a maggioranza assoluta ( 3 3 Stati a favore, 1 3 contro e r o astenuti) la risoluzione r8 r che conteneva il piano di spartizione. Gli ebrei pale­ stinesi accolsero con entusiasmo il risultato della votazione mentre gli arabi lo rifiutarono. Peraltro, i mesi successivi si rivelarono pieni di inquietudini, mano a mano che la data della conclusione del mandato andava avvicinandosi. Il rapporto numerico tra le due comunità pen­ deva decisamente a favore degli arabi, che erano r .2oo.ooo contro i 6 3 o.ooo ebrei. Il nuovo Stato nacque quindi dall'yishuv in una condizione di ge­ nerale incertezza. A decidere di procedere in tal senso fu il Direttorio del popolo (!'esecutivo della comunità ebraica palestinese), attraverso un voto (6 favorevoli e 4 contrari) che metteva in rilievo la titubanza della stessa dirigenza sionista. All'atto della conclusione del mandato britannico e dell' aggressione araba, nel maggio del 1 948, il Diparti­ mento di Stato americano aveva consigliato di mettere la Palestina sotto la tutela dell'oNo, di fatto rinviando o bloccando sul nascere qualsiasi tentativo di dare seguito alla sua effettiva divisione in due. Alcuni dirigenti sionisti, tra cui Nahoum Goldmann ( r 895 - 1 9 8 2 ) e Moshe Sharrett, particolarmente attenti alle sollecitazioni provenienti da Washington, erano dell'avviso di soprassedere da decisioni troppo vincolanti. Ben Gurion, a rischio di forzare la volontà altrui, il 1 2 maggio 1 948 ottenne, con il risicato margine d i due assensi, il pro­ nunciamento dell'esecutivo, pensando che ciò che ad alcuni pareva una rischiosa forzatura fosse in realtà l'unica strada percorribile se si voleva raggiungere la meta di uno Stato indipendente. La conclusione della presenza britannica in Palestina coincise quindi con la nascita della nuova comunità politica. Alle ore r 6 di venerdì 14 maggio 1 948, mentre venivano ammainate dai pennoni le bandiere inglesi, a Te!

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Aviv Davi d Ben Gurion, presidente dell'Esecutivo dell'Agenzia ebrai­ ca, leggeva dinanzi al parlamentino dell'yùhuv la Dichiarazione d'indi­ pendenza dello Stato d'Israele, dando poi corso ai primi adempimenti formali.

La Guerra d'indipendenza (1948-49) Il primo conflitto arabo-israeliano scoppiò nelle ore immediatamente successive. All'alba del 15 maggio 1 948 gli eserciti del Regno di Tran­ sgiordania, dell'Egitto e della Siria, appoggiati da rilevanti contingenti libanesi e iracheni, entrarono in guerra contro le milizie della neonata comunità politica. Si trattava di una forza d'urto composta da 1 o.ooo egiziani organizzati in due brigate, 8.ooo iracheni, 7 .ooo siriani, 3 .ooo libanesi e 4 . 5 00 appartenenti alla Legione araba transgiordana, ben armati, adeguatamente preparati alla guerra e dotati di un comando unificato. A questi andavano poi aggiunti un numero imprecisato di volontari. In realtà gli scontri erano iniziati già da tempo, risalendo almeno all'anno precedente, quando una serie di manifestazioni di forza erano culminate in veri e propri conflitti armati. Alla latente guerra civile tra gli arabi autoctoni e l'yishuv si erano aggiunte le ag­ gressioni condotte da elementi appartenenti alle truppe dei paesi ara­ bi limitrofi, fino alla battaglia in campo aperto. Le motivazioni di fon­ do della guerra, per parte araba, erano molteplici. La prima di esse era il rifiuto integrale del piano di spartizione. La seconda derivava dalla convinzione che la capacità degli israeliani di resistere ad un at­ tacco di grosse dimensione fosse scarsa. Da ciò l'erronea idea che il tutto si sarebbe risolto con una spallata. Inoltre, le forze in campo nutrivano ambizioni e obiettivi tra di loro conflittuali rispetto al de­ stino del territorio palestinese. «La situazione in campo riflette fedel­ mente le rivalità e gli interessi che lacerano la Lega araba. Il mu/tt' di Gerusalemme, Hadj Amin el-Husseini, vuole gettare gli ebrei in mare e costituire una Palestina araba indipendente; i siriani sognano una grande Siria che dovrebbe inglobare la Palestina e il Libano; Abdul­ lah [re di Transgiordania] non chiede di meglio che intendersi con gli israeliani, a condizione che ciò gli permetta di accorpare al suo emirato i territori ad occidente del Giordano (la Cisgiordania) e Ge­ rusalemme. Sarà il solo capo a raggiungere i suoi obiettivi. Quanto agli altri alleati, non hanno interessi diretti nella regione, se non d'i­ deologia, di prestigio e di natura domestica (l'agitazione dei Fratelli Musulmani in Egitto)» (Barnavi, 2ooo, p. 7 67 ) . All'epoca la locale po­ polazione araba aveva ben poca voce in capitolo, limitandosi a segui27

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re quello che gli esponenti del notabiliato andavano dicendole. Da parte della comunità ebraica palestinese, invece, gli intendimenti era­ no chiari. Si sapeva che si era giunti al riscontro finale, dopo più di cinquant'anni di edificazione delle strutture di una società che si sta­ va trasformando in Stato. Fino al marzo del 1 94 8 i combattimenti, perlopiù schermaglie an­ che molto intense, volsero a favore degli arabi. Tre erano le direttrici d'azione adottate: l'interruzione delle vie di comunicazione, per impe­ dire i contatti tra i diversi nuclei ebraici; l'accerchiamento dei villaggi agricoli sionisti e il loro isolamento; il controllo delle aree urbane, a partire da Gerusalemme. Le milizie dell'y ishuv scontavano originaria­ mente una minore capacità offensiva, dovuta alla scarsità di armi. La compensavano, in genere, con una maggiore motivazione al combatti­ mento da parte dei loro appartenenti. Tuttavia, nella primavera di quell'anno iniziarono a giungere aiuti da parte della Cecoslovacchia, che permisero alle forze ebraiche di riprendere l'iniziativa bellica in chiave offensiva. L' Haganà liberò così la strada per Gerusalemme. A metà aprile fu conquistata Tiberiade; Haifa il 2 1 dello stesso mese; Safed ai primi di maggio; l'intera Galilea, occidentale e orientale, a metà dello stesso mese. All' atto della proclamazione dello Stato d'I­ sraele, il 14 maggio 1 94 8 , una parte importante del territorio era già sotto il controllo ebraico. La trasformazione dell'Haganà in Tsahal (acronimo ebraico di Tsva Haganah Le-Israel, "Forze di difesa di Israele" ) e un'intensa attività di reclutamento portarono al raddoppio degli effettivi, dagli originari 3o.ooo a circa 6o.ooo, con un incremen­ to anche del grado di professionalizzazione. La formale entrata in guerra degli eserciti arabi non riuscì quindi a invertire l'andamento delle cose. Sia pure tra vicende altalenanti, e con due tregue di mezzo, a partire dal luglio del 1 94 8 l'iniziativa fu quasi sempre in mano israeliana. Rilevante fu, a tale riguardo, il con­ tributo che l'Unione Sovietica offrì al nascente Stato - avendo già vo­ tato a favore della risoluzione 18 I -, con il quale stabilì fin dal 1 7 maggio relazioni diplomatiche. Gli inglesi, scaduto il mandato, nutri­ vano il proposito di mantenere un'area d'influenza, quanto meno in­ diretta. Le loro aspettative si erano rivolte nei confronti del Regno hashemita della Transgiordania, sperando che esso potesse esercitare il controllo sui territori che il piano di spartizione delle Nazioni Unite assegnava al futuro Stato palestinese. Non di meno, la politica bri­ tannica intendeva contenere l' espansione territoriale dello Stato d'I­ sraele. Il quadro che alla data della cessazione dei combattimenti si pre­ sentò agli osservatori era radicalmente diverso da quello conosciuto

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ancora pochi mesi prima. La situazione era mutata di segno. I paesi arabi uscivano sconfitti ma non in eguale misura: se la Transgiordania aveva conquistato la Cisgiordania e Gerusalemme Est, l'Egitto ora controllava la striscia di Gaza. La sconfitta comune, semmai, era di ordine politico, avendo dimostrato sui campi di battaglia la propria inanità di fronte a Israele. Ovvero, dinanzi al fatto che lo Stato degli ebrei era ora una tangibile realtà. Gli accordi di cessazione delle osti­ lità vennero quindi firmati a Rodi, tra il 2 3 febbraio e il 20 luglio I 949· Il territorio dello Stato d'Israele, compreso dentro le linee ar­ mistiziali, passava dagli originari I 6.ooo chilometri quadrati, previsti dalla risoluzione I 8 I, a 20.2 55 chilometri quadrati. In esso erano compresi la Galilea, il deserto del Negev, fino all'estremità meridiona­ le di Eilat, sul mar Rosso, e un corridoio verso Gerusalemme, città divisa in due. Per dare un'idea delle proporzioni, l'originario manda­ to britannico si estendeva per circa 9 1 .ooo chilometri quadrati ( di cui 2 7 .0 I I nell'attuale Cisgiordania) . Non era la pace ma solo una tem­ poranea sospensione del confronto armato in campo aperto al quale si sostituì, fin da subito, la guerra clandestina, di logoramento, con­ dotta per mezzo delle infiltrazioni di commandos di guerriglieri den­ tro il territorio del giovane paese.

Israele, i paesi arabi e il problema dei profughi palestinesi La firma degli accordi armistiziali fotografò la situazione del momen­ to, ovvero i concreti rapporti di forza, lasciando irrisolti i problemi che erano venuti maturando nei cruciali mesi precedenti. La questio­ ne più rilevante era quella del destino delle popolazioni coinvolte nel­ la guerra. Tra gli arabi palestinesi più di mezzo milione di individui avevano abbandonato le terre d'origine. Secondo le stime dell'oNo la cifra era di 726.ooo; per parte araba si parlò di 90o.ooo mentre gli israeliani quantificarono i fuggitivi in 5 3 9.ooo. Impossibile definire con assoluta certezza il numero esatto, anche perché gli abbandoni, motivati da più fattori tra cui l'effetto delle opposte propagande, si succedettero nel corso del tempo, a partire dal I 947 per poi conti­ nuare fino al I 949· Se nel I 947 poco meno di 1 . 3oo.ooo arabi viveva­ no nell'intera Palestina mandataria, circa 7oo.ooo di essi erano origi­ nariamente residenti nei territori che dal I 949 divennero parte inte­ grante d'Israele. Alla fine della Guerra d'indipendenza, non più di I 5 6 .ooo erano però rimasti in quelle terre. Tra di loro in maggioranza gli abitanti di villaggi e i beduini, al 7 5 % musulmani e per il resto cristiani e drusi. La popolazione dei territori controllati dallo Stato 29

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d'Israele era costituita, alla data della cessazione delle ostilità, da 7 82 .ooo persone: di queste 7 I 3 .ooo erano ebrei, la parte restante ara­ bi, i quali salirono per l'appunto alla cifra di circa I 5 6 . ooo in seguito ai ricongiungimenti familiari concessi dalle autorità del nuovo Stato. Nel complesso, i non ebrei israeliani nel I 949 erano suddivisi tra un 74,2 % di musulmani, un I 7 , 8 % di cristiani e un 8 % di drusi. La vicenda, per la popolazione araba, nel suo insieme fu drammatica tanto da essere ricordata come nakba, " catastrofe" (Vercelli, 2005 ) . D a essa s i originò il problema dei profughi palestinesi. Non di meno ebbe a contare il fenomeno dell' espulsione in massa degli ebrei dai paesi arabi. L'evento si consumò anch'esso per ondate successive. Nel I 948 vivevano nei paesi dell'area mediorientale, comprendendovi i territori che vanno dal Marocco all'Iraq, circa 856.ooo ebrei, stabil­ mente insediati in secolari comunità autoctone. Da quell'anno, in uno stillicidio di espulsioni o di abbandoni, durato in maniera pressoché continua fino al I 954· il 95 % emigrò forzatamente verso Israele (6oo.ooo) o le Americhe e l'Europa (2oo.ooo ) . I l fenomeno della fuga delle secolari comunità ebraiche dalle terre arabe derivò essenzialmente dall'azione congiunta di due fattori: la deliberata volontà delle autorità di espellere gli ebrei insieme all'ado­ zione di norme e disposizioni discriminanti. Tali misure ricaddero su quelli che erano spesso dei fiorenti gruppi, integrati nel tessuto civile e sociale del paese del quale erano parte da molti secoli, a volte ben prima della conquista musulmana nel VII secolo. Già si erano verifica­ ti casi sporadici di espulsione coatta o di abbandono volontario pri­ ma del I 948; tuttavia, con la conclusione della Guerra d'indipenden­ za il sentimento antiebraico si manifestò in maniera sempre più acce­ sa, venendo accolto dalle autorità attraverso l'emanazione di legisla­ zioni restrittive o punitive nei confronti degli ebrei. Se nel I 94 8 la componente ebraica degli undici paesi di lingua araba costituiva l' I , 5 % della popolazione (tra i 7 5 8 .ooo e gli 8 8 I .ooo elementi) , nel I 9 9 I non superava lo o,o8 % (meno di 6 . 5 oo persone). Nel medesimo lasso di tempo nei paesi musulmani non arabofoni, l'Iran, l'Afghani­ stan, il Pakistan e la Turchia, si passò dai 2 3 o.ooo ebrei del I 94 8 ad una cifra oscillante tra i 29 .ooo e i 7o.ooo (Mendes, 2002 ) . Già con l' Operazione Tappeto volante, tra il I 949 e il I 950, entrarono in Israe­ le circa 43 .ooo yemeniti. Fu poi la volta dei I I o.ooo irakeni dell'Ope­ razione Ezra e Nehemiah, tra il marzo del I 9 5 0 e l'agosto I 95 I . E così di seguito, sia attraverso l'ingresso di grandi gruppi sia per mez­ zo dell'immigrazione individuale. Alla fine del I 95 3 la popolazione ebraica d'Israele era raddoppiata, arrivando alla cifra di I -484.000 elementi. L'assorbimento e l'integrazione di questa gran massa di

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profughi non fu semplice. Il giovane Stato poteva contare su fragili strutture di accoglienza e l'impatto con un gran numero di ebrei se­ farditi, ovvero di origine orientale, abituati agli usi e ai costumi delle loro comunità d'origine, frequentemente derivati o incrociati in una sorta di meticciato culturale con quelli delle popolazioni arabe, si ri­ velò spesso problematico . Centinaia di migliaia di essi furono tempo­ raneamente raccolti in ma'abarot ( " campi di transito " ) , la cui esisten­ za si protrasse fino al I 96 3 . I loro abitanti furono progressivamente integrati nei nuovi centri urbani e residenziali che lo Stato andava co­ struendo, senza il concorso delle organizzazioni di sostegno ai rifugia­ ti dell'oNu. Israele - peraltro - dinanzi al fatto compiuto dell'espul­ sione degli ebrei arabi e alla risoluzione 194 dell'oNo, che sosteneva il ritorno di «tutti i profughi» nei paesi d'origine, caldeggiò il fenomeno dell'immigrazione in massa nei propri territori come soluzione di rie­ quilibrio rispetto al problema dei profughi palestinesi. Sul piano eco­ nomico la presenza sefardita soddisfaceva la forte richiesta di mano­ dopera, soprattutto in campo agricolo. Molti dei profughi avevano perso, nella fuga, la quasi totalità dei loro beni. Da ciò derivò la ne­ cessità di adattarsi a quanto il paese di accoglienza offriva loro. Sul versante demografico, l'integrazione dei nuovi arrivati servì nella pro­ secuzione della politica di colonizzazione residenziale del territorio d'Israele, incrementando la percentuale di popolazione ebraica rispet­ to a quella araba. Molti immigrati, in particolare modo quelli prove­ nienti dal Nord Africa, dopo un non sempre facile percorso di ade­ guamento agli usi modernisti del nuovo Stato, andarono a risiedere nelle aree considerate di rilevanza strategica, in particolare quelle di confine. Più della metà della popolazione israeliana odierna discende dai ceppi sefardita, mizrahi ( "orientale" ) e tema n ( '' remoto Sud " , ov­ vero della Penisola arabica) .

Il rapporto con l e grandi potenze Lo scenario internazionale, all'epoca della nascita d'Israele, sembrava oramai essere consegnato ad un netto bipolarismo tra Est e Ovest. Questo fatto, lungi dal costituire un elemento di staticità, avrebbe fat­ to sì che a fronte della immutabilità di alcune aree come l'Europa centrale, in altre zone, relativamente più periferiche, si verificassero continui attriti. Il Sud-Est asiatico ne fu, per molti versi, il catalizza­ tore, ma anche l'area del Mediterraneo e, più in generale, quella me­ diorientale conobbero trasformazioni intense. Per un periodo iniziale, dalla conclusione della Seconda guerra mondiale ai primi anni sessan-

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ta, si misurarono gli effetti della decolonizzazione, con la creazione e il consolidamento del sistema degli Stati nazionali. Israele si inseriva all'interno di questo quadro, pur segnalandosi per la sua "anomalia" , non essendo il prodotto d i uno dei nazionalismi arabi né, tanto meno, il portato di quel movimento panarabista che caldeggiava la riunificazione dei diversi popoli della regione. Rispetto alla fine degli anni quaranta e fino alla guerra di Suez, quale fu l'effettivo ruolo di Israele in questo contesto di movimentazione? L'Unione Sovietica e le costituende " democrazie popolari" dell'Est, a partire dalla Ceco­ slovacchia, avevano concorso attivamente alla nascita dello Stato e alla sua affermazione. I futuri dirigenti d'Israele, che durante la con­ ferenza all'Hotel Biltmore di New York, nel 1 942, avevano optato per un rapporto privilegiato con l'Occidente, nei fatti propendevano però per un posizionamento mediano. Più che per una scelta ideolo­ gica di campo, la ragione di tale comportamento andava ascritta ad un motivato calcolo di circostanza. Israele era ben consapevole della sua fragilità, malgrado la vittoria sui campi di battaglia. Tutta la re­ gione era costituita da paesi ostili e potenzialmente in grado di mi­ narne non solo la sicurezza ma anche l' esistenza. Era impossibile per il giovane Stato affidarsi alla mera politica "muscolare" , dovendo cer­ care invece, laddove possibile, soluzioni diplomatiche, svincolate dagli oggettivi rapporti di forza. Inoltre, la politica estera d'Israele, dal 1 948 in avanti, se sul piano delle concrete azioni fu scandita dalle guerre con i paesi vicini e, in successione, dal rapporto conflittuale con i palestinesi, sul piano simbolico e morale fu dominata dalla me­ moria dello sterminio degli ebrei. Da ciò derivarono una serie di ri­ flessi condizionati (a partire dal timore che la catastrofe europea po­ tesse ripetersi in Medio Oriente) che contribuirono ai diversi posizio­ namenti che il paese assunse rispetto alle grandi potenze nel corso del tempo. Gli anni immediatamente successivi al 1 948 videro quindi uno sforzo di equilibrio, il cui obiettivo principale era di fare sì che dinanzi alla dichiarata intenzione araba di distruggere l"' entità sioni­ sta " , Israele non scontasse un pericoloso isolamento internazionale. Fino al 1 95 2 fu quindi dato corso ad una politica estera di non alli­ neamento, nella speranza di riuscire a mantenere rapporti proficui sia con l'Occidente che con l'Est comunista, evitando di essere chiamati in causa nei conflitti tra le due superpotenze. Inoltre, la perdita di ruolo della Gran Bretagna nella regione costituì, per un certo perio­ do, un fattore non secondario nell' evoluzione delle cose, creando in­ certezza intorno ai destini dell'area mediorientale. L' attenzione ameri­ cana era infatti rivolta perlopiù verso l'Iran, non reputando priorita­ rio l'impegno nei confronti di Gerusalemme. La progressiva accen32

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tuazione della politica filoaraba da parte dell'Unione Sovietica, atten­ ta a quanto andava muovendosi soprattutto in Egitto, con l'ascesa al potere nel I 9 5 2 di Gamal Abdel Nasser ( I 9 I 8-7o), se da un lato im­ pedì a Israele di mantenere il proprio ruolo in equilibrio nel sistema di relazioni tra blocchi contrapposti, dall'altro rese sempre più impor­ tante un rapporto di collaborazione con l'Occidente. Per Israele, infatti, la minaccia strategica derivava non tanto da un singolo paese arabo quanto dal sodalizio che tra di essi si sarebbe potuto formare. L' Egitto di Nasser, insieme al Movimento dei paesi non allineati, che cercavano di porsi come terza forza nell'agone in­ ternazionale, costituiva in prospettiva un rilevante pericolo. Dal con­ corso di questi fattori, quindi, ossia il declino britannico, il lievitante panarabismo, la scelta sovietica a favore del mondo arabo, andò deli­ neandosi un rapporto con le grandi potenze dove ad essere privilegia­ to era il blocco occidentale e in particolare gli Stati Uniti. Già nel I 9 5 I , dinanzi al conflitto coreano, Israele si era espressa a favore di Washington. Da ciò erano poi derivati rapporti bilaterali, soprattutto sul versante economico. Fino al I 95 6 , tuttavia, i partner più impor­ tanti furono quelli europei, e in particolare sul piano politico la Gran Bretagna, la Francia e la Repubblica federale tedesca. Gli Stati Uniti, che pur avevano avviato intense relazioni, nei primi dieci anni di esi­ stenza di Israele si rifiutarono di effettuare vendite dirette di armi, offrendo invece un importante contributo diplomatico. L'ammissione del paese alle Nazioni Unite, che data all' I I maggio I 949, fu il ri­ sultato dell'azione statunitense così come, in seguito, il complesso di iniziative volte a legittimarne l'esistenza nel consesso internazionale, malgrado la ferma opposizione araba. Non di meno, l'aiuto economi­ co americano fu fondamentale per Israele. Senza di esso avrebbe po­ tuto fare fronte con grande difficoltà ai flussi migratori che la inve­ stirono dal I 948 in poi. L'impegno e la reciprocità militare si sareb­ bero sviluppati invece più tardi, soprattutto a partire dalla presidenza Kennedy e dalla Guerra dei sei giorni.

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La costruzione di una società: una comunità di immigrati ( ! 949 -5 5 )

L'economia autoctona e gli aiuti esterni: tra dipendenza, autonomia e cooperativismo L'economia del nuovo Stato si è dovuta confrontare da subito con una serie di problemi strutturali, che ne hanno condizionato gli svi­ luppi fino ai giorni nostri. In particolar modo hanno esercitato una grande influenza le successive ondate d'immigrazione nel paese, la ne­ cessità di mantenere un elevato grado di preparazione militare per fare fronte alle minacce esterne e le guerre che hanno caratterizzato la sua storia. Nei primi anni la popolazione ebraica andò raddoppian­ do per via delle intense immigrazioni. Ciò comportò effetti rilevanti poiché una crescente forza-lavoro costituita da persone provenienti da paesi stranieri - molto spesso profughi espulsi dai luoghi di origi­ ne - priva di una formazione professionale adeguata, estranea alla realtà israeliana, doveva essere inserita in un mercato del lavoro in rapida espansione quantitativa ma scarso di opportunità proprie, ov­ vero di offerte in grado di soddisfare adeguatamente il surplus di domanda. Per un paese privo di risorse naturali, in cui una parte consistente del bilancio statale era consumato nelle esigenze legate alla difesa (in percentuali variabili dal 30 al 6o% della spesa pubblica complessiva, a seconda degli anni considerati ), lo sviluppo economico e l'assorbi­ mento della manodopera non potevano essere soddisfatti solo con la ricchezza prodotta a livello locale. Gli aiuti provenienti dall'esterno e i contributi offerti dalle comunità ebraiche della diaspora risultarono quindi imprescindibili. A questo quadro si aggiungeva il cronico pro­ blema della persistenza di un alto livello di inflazione e di un perenne deficit della bilancia dei pagamenti, due fenomeni ereditati dal perio­ do mandatario. Nel 1 94 8 , all'atto della costituzione dello Stato, furono quindi in­ trodotte misure di emergenza per il controllo e la regolazione dei 35

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prezzi e il razionamento dei beni. Dov Yosef, ministro per gli Ap­ provvigionamenti, il Razionamento e l'Agricoltura, avviò una politica di rigorosa austerità (tzenath ) , informata al principio di controllare la crescita del deficit di bilancio e l'espansione monetaria. Il regime di prezzi controllati, peraltro, fu all'origine del mercato nero di molti prodotti, insieme alla penalizzazione delle esportazioni e al sovvenzio­ namento di alcune importazioni, reputate strategiche per l'economia nazionale. L'una e l'altro crearono ben presto una secca riduzione delle già scarse riserve di divisa straniera, che rapidamente scemarono verso lo zero. Entro il I 9 5 I la politica di austerità di fatto collassò, richiedendo una netta correzione di rotta. L'anno successivo il mini­ stro delle Finanze Eliezer Kaplan introdusse quella che è ricordata come la "Nuova politica economica" . I suoi effetti si misurarono nel­ la secca svalutazione della moneta israeliana (di circa il 6oo % in due anni, tra il I 9 5 2 e il I 95 4 ) accompagnata dall'abolizione del controllo dei prezzi. In buona sostanza, si decise di abbandonare un approccio dirigista per favorire le fluttuazioni di mercato. Questo criterio permi­ se di sostenere le esportazioni, allentando la pressione inflattiva. Una severa politica fiscale e monetaria sostenne il complesso della mano­ vra. Gli sforzi, orientati a portare in equilibrio la bilancia dei paga­ menti, partivano dal presupposto che Israele fosse in grado di finan­ ziare il notevole livello di importazione di beni, che all'epoca supera­ va il r o % del suo prodotto interno lordo. Tale obiettivo fu raggiunto con il concorso congiunto di istituzioni come l'Organizzazione per il prestito internazionale e l' United Israel Appeal, che moltiplicarono i flussi di contributi e di prestiti provenienti dal mondo ebraico . A ciò si aggiunsero gli aiuti statunitensi che, dal 1 9 5 2 , furono garantiti e rinnovati con costanza e le risorse offerte dalla stipulazione con la Repubblica federale tedesca del controverso accordo per gli indenniz­ zi dovuti a causa delle persecuzioni naziste. La politica di aiuto economico e finanziario da parte dei capitali esteri, ottenuti sia attraverso accordi tra governi sia per tramite di agenzie internazionali di assistenza, fu anche il prodotto delle logiche derivanti dai nuovi rapporti che si andavano istituendo tra paesi di recente costituzione e potenze internazionali, così come della com­ plessa evoluzione del quadro mediorientale. Gli Stati Uniti furono e rimangono il maggior sovvenzionatore del paese. Già pochi giorni dopo la nascita d'Israele l'allora presidente americano Truman espresse a Chaim Weizmann ( r 874- 1 9 5 2 ) , primo presidente dello Sta­ to d'Israele, l'interesse americano nel concorrere allo sviluppo della giovane e fragile economia e a garantire, in prospettiva, l' autosuffi­ cienza difensiva sul piano militare. Da quel momento l'impegno sta-

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tunitense per Israele divenne una costante nelle linee di politica este­ ra perseguite da Washington, sia pure con accenti diversi a seconda delle amministrazioni succedutesi nel corso del tempo. Va comunque detto che almeno fino alla Guerra dei sei giorni del I 967 i maggiori fornitori di mezzi e assistenza militari rimasero la Francia e la Repub­ blica federale tedesca, pur con il tacito appoggio statunitense. Mentre i primi aiuti americani per la difesa datano a partire dal I 95 9 , quelli economici risalgono al biennio I 949-5 I , quando furono concessi due prestiti per complessivi 1 3 5 milioni di dollari. Metà di queste risorse furono investite nello sviluppo agricolo, la parte restante per l'indu­ stria e la costruzione di infrastrutture. Nel I 9 5 2 gli Stati Uniti avvia­ rono uno specifico programma di sostegno per i nuovi immigrati, provenienti dall'Europa e dai paesi arabi, ai quali s'intendeva garanti­ re il soddisfacimento dei bisogni elementari (casa, alimentazione, edu­ cazione) , la formazione professionale e l'inserimento stabile nel nuovo paese. Sotto l'egida del programma Food /or Peace, gli USA trasferiro­ no tra il I 9 52 e il I 9 8o l'equivalente di 6 3 8 milioni di dollari in beni agricoli e alimentari, sia sotto forma di sovvenzioni che, soprattutto, di prestiti a lungo periodo, restituibili in divisa locale, a sua volta poi reinvestita in progetti produttivi approvati da entrambi i paesi. Gli accordi di risarcimento per le persecuzioni naziste, firmati il IO settembre 1 9 5 2 , furono oggetto di una lunga e aspra discussione, in Parlamento come nelle piazze israeliane, prima che si pervenisse alla decisione finale. L' accusa mossa al loro principale sostenitore, David Ben Gurion, era quella di voler barattare la memoria delle vit­ time con una somma di denaro. In particolare il partito di destra He­ rut ( ''Libertà " ) , capitanato da Menachem Begin ( I 9 1 3 - 9 2 ) , si oppose strenuamente a ogni genere di contatto con i tedeschi, ritenendo che lo sterminio degli ebrei costituisse una responsabilità inemendabile. Vinse infine la posizione del premier la quale sosteneva, fondatamen­ te, che non vi fosse alcuna relazione tra risarcimento civile e respon­ sabilità politica per quanto era capitato. Non si trattava di monetizza­ re il dolore ma di chiedere una contropartita per tutti i beni materiali che erano stati sottratti agli ebrei dai nazisti. La Germania occidenta­ le si impegnava a pagare il corrispettivo della cifra di 3 miliardi di marchi in beni e servizi, assumendosi la responsabilità storica e mora­ le per gli «indicibili atti criminali perpetrati contro il popolo ebraico durante il regime di terrore nazionalsocialista». A ciò si aggiungeva la somma di 450 milioni di marchi, devoluta nell' ambito della Con/eren­ ce an Jewish Materia! Claims against Germany come ulteriore com­ pensazione, sia pure parziale, per le violenze subite dagli ebrei. Ri­ spetto poi alle richieste individuali, avanzate dai singoli sopravvissuti, 37

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non meno di 8 miliardi di dollari vennero liquidati nel corso di qua t­ tro decenni, tra il 1 9 5 0 e il 1 990, di cui almeno un miliardo e mezzo a cittadini israeliani. La materiale realizzazione di quanto previsto da­ gli accordi implicò la creazione di un' agenzia, la Restitution Compa­ ny, conosciuta anche come Israel Mission, che si adoperò per il rag­ giungimento degli obiettivi sottoscritti. Durante il periodo in cui l' en­ te funzionò, non meno di 7 4 I milioni di dollari in beni durevoli furo­ no importati quindi in Israele (per un valore corrispondente a circa il 9 % delle importazioni di quel periodo ) . Peraltro, se gli accordi co­ stituirono un passo in avanti nel tentativo di istituire relazioni con la Germania occidentale, i rapporti diplomatici furono ristabiliti ufficial­ mente solo nel maggio 1 965 . A seguito di questo complesso di misure l'economia israeliana andò verso una stabilizzazione che, superati i primi anni dell' emer­ genza, permise al paese di entrare in un lungo periodo di crescita, durato circa una ventina d'anni, con un tasso di sviluppo che in alcu­ ni casi toccò anche il 1 0 % annuo. Gli aiuti stranieri, pur proseguen­ do, persero l'importanza assoluta che avevano rivestito precedente­ mente. Di fatto, però, per ancora un lungo periodo di tempo più del 2 o % delle importazioni israeliane continuò ad essere finanziato con l'aiuto degli Stati Uniti. All'economia privata, così come al settore pubblico, dominato in quest'ultimo caso dalla presenza del sindacato, si affiancò un'espe­ rienza unica nel suo genere, fondata sul collettivismo socioeconomico. I kibbutzim ( "assemblee" , il cui singolare è kibbutz) sono l' esemplifi­ cazione, nonché la traduzione in concreto, dell'ideologia sionista della rigenerazione dei caratteri ebraici attraverso il lavoro. Si tratta di in­ sediamenti collettivi, di natura rurale, nati durante la seconda migra­ zione di massa, all'inizio del Novecento. I kibbutzim svilupparono fin da subito una complessa rete di attività, non solo in campo rurale ma anche industriale e nei servizi, all'interno di strutture stanziali, ossia di veri e propri villaggi. Quattro erano i principi fondamentali che li ispiravano : la proprietà comunitaria dei mezzi di produzione; l'orga­ nizzazione comune dei servizi per il soddisfacimento dei bisogni dei membri; la soppressione del denaro nelle transazioni interne; l'eguali­ tarismo civico. Le relazioni di base erano fondate sul presupposto che ogni membro dovesse avere voce in capitolo rispetto alle scelte collettive: l'assemblea generale, che sceglie al suo interno un segreta­ rio, era la sede decisionale per eccellenza. A partire dagli anni venti, i kibbutzim, sempre più organizzati in reti d'affiliazione per il reciproco sostegno, costituirono una delle punte di lancia nel processo pionieri­ stico di acquisizione e colonizzazione del territorio, a partire dalla

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Galilea, richiamandosi al principio della priorità del lavoro ebraico nella costruzione di una patria. Dopo la nascita dello Stato d'Israele i kibbutzim ebbero una qualche fortuna politica (e molta notorietà, an­ che all'estero), in quanto verace espressione dei principi solidaristici ai quali voleva informarsi il paese, ma non pochi problemi sul piano economico. Pur arrivando alla ragguardevole cifra di circa 26o inse­ diamenti, una parte di essi conobbe fin da subito difficoltà, derivanti sia dalle discrasie organizzati ve interne sia dall'oggettiva difficoltà ad inserirsi e a tenere il passo con un' economia mista, dove però l' ele­ mento di mercato tendeva a prevalere. Raccogliendo non più dell' r % della popolazione israeliana e costituendo delle autentiche isole di so­ cialismo realizzato in un contesto altrimenti capitalistico, furono e in parte rimangono la fucina di élite culturali, politiche e militari. Il tas­ so di scolarizzazione, in un paese dove la media è già di per sé eleva­ ta, è ancora più alto tra quanti vi sono nati e cresciuti. Non di meno, la propensione all'impegno e all'altruismo, maturata attraverso l'edu­ cazione alla vita collettiva e a una socializzazione ispirata al cooperati­ vismo, fa sì che i loro membri, una volta inseriti nella società, offrano migliori prestazioni un po' in tutti i campi. I kibbutzim hanno co­ stituito l'ossatura dell'egualitarismo israeliano, la d dove questo è stato praticato come regola di vita. Ad essi si sono affiancate altre espe­ rienze, meno connotate sul piano ideologico. I moshavim ( "villaggi" , il cui singolare è moshav) s e dal punto di vista della struttura urbani­ stica e architettonica ricordano il kibbutz, sul piano dell'organizzazio­ ne interna si basano su regole diverse. Si tratta, infatti, di insedia­ menti cooperativistici dove alla condivisione degli strumenti di lavoro e alla mutua assistenza si accompagnano forme di privatizzazione de­ gli utili. Inoltre, di contro alle originarie regole praticate nei kibbut­ zim, nei moshavim la famiglia fu considerata l'unità produttiva per ec­ cellenza. Ancora alla fine degli anni ottanta non meno di 4 8 8 villaggi di tal genere erano presenti in tutta Israele. In generale, in Israele le forme associative e partecipative in cam­ po economico sono sempre state incentivate, sia pure all'interno di un'economia mista che contempera l'azione dei privati con l'interven­ to del capitale pubblico. In questo quadro, la rilevanza dell' Histadrut (contrazione di "Federazione generale dei lavoratori nella terra d'I­ sraele " ) è da sempre notevole, trattandosi, nel medesimo tempo, di un sindacato, ovvero di un'associazione per la tutela contrattuale di interessi collettivi; di una struttura economica autonoma, ossia di un complesso di imprese facenti capo ad amministrazioni e direzioni al cui interno sono collocati esponenti dell'organizzazione; di una forza in grado di concorrere ad orientare gli indirizzi politici del paese, at39

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traverso la sua presenza e il suo impegno nei partiti della sinistra e in particolare di quello laburista, al potere fino al I 977. L' Histadrut ha concorso attivamente alla formazione dell' econo­ mia dell'yishuv prima e dello Stato poi. Nata nel 1920, come sindaca­ to ebraico, si impegnò nel sostegno dei suoi associati all'interno del mercato del lavoro palestinese, alla protezione degli occupati e alla collocazione dei disoccupati. Non di meno, contribuì alla diffusione del sistema cooperativistico che andava prendendo piede. I suoi obiettivi prioritari erano quelli di federare tutti i lavoratori ebrei pre­ senti nella Palestina mandataria, di promuovere gli insediamenti rura­ li, di tutelare la manodopera nella contrattazione con i datori di lavo­ ro. Nel giro di pochi anni crebbe in adesioni e funzioni. Se nel 1 920, all'atto della costituzione, poteva contare su 4 .400 membri, nel 1 927 gli aderenti erano già 2 5 .ooo, circa il 75 % della forza-lavoro attiva. Con la nascita dello Stato d'Israele il sindacato divenne una delle isti­ tuzioni più importanti e maggiormente influenti nell'economia nazio­ nale. Di fatto, per non pochi anni si tramutò anche nel principale datore di lavoro per molti israeliani. L'Hevrat Haovdim ( '' Società dei lavoratori" ) ne costituì il braccio economico, affiancando ad essa quella che era la maggior banca nazionale, la Bank Hapoalim ( ''Banca dei lavoratori" ) . Insieme a questi enti nel corso del tempo istituì un efficiente sistema sanitario, condiviso con le istituzioni pubbliche del paese. Negli anni ottanta gli iscritti erano circa I . 6oo.ooo, quasi un terzo della popolazione, di cui 1 7o.ooo arabi israeliani. Dal 1 95 9 , in­ fatti, la loro iscrizione è stata ammessa.

Lo spirito sabra e la "legge del ritorno" Insieme alla costituzione di un complesso di istituzioni collettive, alla nascita di uno Stato, alla formazione di una società, la leadership di Israele si era posta fin da subito il problema della creazione di un ethos nazionale, ovvero di un sentimento condiviso, un insieme di simboli e idee capaci di dare armonia ad una collettività che, pur avendo origini tra le più diverse, doveva potersi identificare in valori comuni. Come già si è avuto modo di affermare, gli elementi ai quali fare riferimento li aveva trovati nel complesso di idee che ruotavano intorno all'ideologia socialista che, insieme al nazionalismo di origine ottocentesca, erano divenuti gli assi portanti della cultura sionista. Tutta la storia che precede il 1 948 ruota intorno a due baricentri: la costituzione, attraverso il lavoro, di una nuova identità ebraica, basata sul principio dell"'uomo nuovo " ; la formazione di una collettività ba-

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sata sull'autogestione, la quale derivava, inevitabilmente, dalla capaci­ tà di dotarsi da sé dei mezzi per potere vivere. La costruzione dello Stato sarebbe divenuta, nel corso del tempo, la sintesi di tali premes­ se. A coloro che accettavano la Palestina come meta si chiedeva di investire su di sé e su un progetto che intendeva essere innovativo rispetto alla secolare storia degli ebrei. Il sionismo, e di riflesso Israe­ le, si presentavano così come eventi di rottura rispetto sia alle con­ suetudini ebraiche che, più in generale, agli equilibri della regione mediorientale. L' uomo nuovo, del quale si andava vaticinando, si trasfuse nella formazione di una generazione ispirata ai valori del pionierismo, i quali implicavano la ricerca, attraverso l'esperienza diretta, di un di­ verso modo di vivere: era un progetto di redenzione morale attraver­ so l'emancipazione materiale, in buona sostanza. Da queste premesse, in parte soddisfatte e in parte incompiute o non realizzate pienamente, nacque l'identità israeliana. È lo spirito cosiddetto sabra o tsabar dal nome del frutto del deserto che è capace di resistere alle intemperie, poiché provvisto di una pelle ro­ bustissima che protegge una polpa succosa. Così lo descrive Claude Klein : «La parola ha un'origine curiosa: in ebraico significa il fico di Barberia. Ufficialmente lo Tsabar (il giovane nato in Israele) è, come questo frutto magico, ricoperto di spine fuori ma dolce dentro. Lo Tsabar, simbolo dell'uomo israeliano, è spesso considerato duro e privo di buone maniere. Rifiuta le convenzioni sociali e i modi gentili, percepiti come sopravvivenze dell'Esilio, e [ . . . ] assume volentieri un comportamento anti-intellettualistico, proprio perché l'intellettualismo ha caratterizzato una parte dell'atteggiamento ebreo della Golà. La religione gli è totalmente estranea, in quanto anch'essa segnata dalla malattia dell'Esilio . Lo Tsabar è un patriota, un soldato di élite, che parla poco delle sue imprese militari. È poco espansivo, e si veste in modo semplice (pantaloni corti e sandali ) . [ . . . ] Verso il Paese d'Israe­ le manifesta una grande curiosità, che sfocia nel culto per la sua ar­ cheologia e per la sua natura» (Klein, zooo, pp. r o9- I I ) . In verità lo scarto tra desiderio e realtà, tra mitologizzazione dei pensieri e con­ cretezza dei fatti, si rivelò a più riprese. Insomma, non tutto filò li­ scio, a partire dal conflitto con le popolazioni arabe autoctone, ma qualcosa di nuovo, di autenticamente inedito era nato. Il 1 948 fu quindi solo l'anello terminale di una catena di fatti e di scelte, di eventi e di condotte. La contraddittorietà di alcune delle premesse che fecero da corni­ ce agli anni della costruizione dell'insediamento sionista in Palestina si ritrovarono, dopo la costituzione dello Stato, nel problema di fon-

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do dell'identità nazionale, del modo di essere e di viversi in quanto "israeliani " . L'elemento più significativo, poiché introiettato all'inter­ no della legislazione del paese, è la "legge del ritorno " , l' Hok Havsh­ vut, approvata dal Parlamento is raeliano il 5 luglio 1 9 50, che forma­ lizza il principio, come recita il primo articolo, per il quale «ogni ebreo ha il diritto di venire nel suo paese come oleh». Dietro la for­ mulazione un po' criptica sono quattro gli aspetti fondamentali di tale norma: il riconoscimento dell'esistenza degli ebrei come "popo­ lo" , sia pure disperso nelle comunità dell'Esilio; il diritto, maturato per il fatto stesso di essere ebrei, di recarsi - nel senso di andare a risiedervi stabilmente - nel nuovo Stato; l'identificazione del nuovo Stato come il "paese degli ebrei " per antonomasia, ovvero come il luogo nel quale si sarebbe compiuta la riunificazione, dopo una bi­ millenaria diaspora; la qualifica, agli immigrati ebrei, di olim ( " coloro che ascendono " verso la terra dei padri, plurale di oleh ), cioè di per­ sone che " ritornano alla terra natia" , esercitando con ciò un diritto ancestrale. Ne deriva una sorta di corsia preferenziale per quanti, es­ sendo ebrei giunti in Israele, chiedano di assumerne la cittadinanza, concessagli immediatamente. L'impostazione di fondo della legge del ritorno non è quella di istituire trattamenti separati per quel che con­ cerne la fruizione dei diritti derivanti dall'essere cittadini d'Israele, ma di agevolare l'immigrazione ebraica nel paese. Il suo impianto ideologico sancisce che Israele è il paese non solo di coloro che vi risiedono, essendovi nati o avendone acquisita la nazionalità, ma an­ che di tutti i membri del popolo ebraico, ovunque essi si trovino. Ra­ gion per cui, un ebreo che metta piede anche solo per la prima volta nel paese è, in virtù dell'antico legame sancito dai testi della tradizio­ ne ebraica e recepito dalla legislazione israeliana, un elemento che «ritorna» al luogo di origine (degli antenati) . Da tale prerogativa gli può quindi derivare, se ne fa espressa richiesta, il conferimento della cittadinanza. Ciò non fa automaticamente di un ebreo un israeliano ma fa d'Israele la patria, quanto meno elettiva, di tutti gli ebrei. Nel 1 9 52 fu inoltre approvata la legge sulla nazionalità che disciplinava l'insieme delle materie riguardanti l' acquizione della cittadinanza (per nascita, residenza, "ritorno " o naturalizzazione) per ebrei e non ebrei. Se la legge del ritorno sanciva giuridicamente il principio sionista di fare d'Israele lo Stato di tutti gli ebrei, di fatto la sua concreta funzio­ ne è stata quella di mantenere maggioritaria nel corso del tempo la componente ebraica nella popolazione. Tuttavia, il suo recepimento non ha raccolto consensi unanimi. La discussione fin da subito si orientò, oltre che sulla legittimità della norma, da alcuni considerata in contrasto con i presupposti di una moderna democrazia, soprattut-

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t o sui suoi contenuti, reputati da molti controversi. L'oggetto stesso della legge, l'" ebreo " , è lungi dal costituire qualcosa su cui sussista un accordo. Chi è ebreo ? Ovvero, in base a quali criteri si riconosce ad una persona tale qualificazione? L' accezione incorporata nella legi­ slazione israeliana è quella cosiddetta "halachica" , ovvero che si rifà all' Halachà (la "legge" ma anche la "via da seguire " , ossia la giuri­ sprudenza rabbinica relativa alle obbligazioni religiose) , che identifica come ebreo colui che «è nato da una madre ebrea o si è convertito al giudaismo e che non è membro di altra religione». Per certuni si trat­ ta di un'interpretazione restrittiva dell'ebraismo, una concessione alle richieste avanzate dalle componenti religiose più ortodosse. Il Parla­ mento ha ripetutamente affrontato dibattiti in materia, tanto più do­ vendo accogliere ondate di migranti la cui ebraicità era messa in di­ scussione dalle autorità religiose nazionali. Nel 1 970 il governo di Golda Meir emendò e integrò il testo della legge estendendo le pre­ rogative dell'immediata acquisizione della cittadinanza ai coniugi non ebrei di immigrati ebrei. La querelle, tuttavia, rimase aperta sia per quanto concerneva le conversioni riformate e conservative, non rico­ nosciute dal Gran rabbinato israeliano, sia per quel che riguardava le accuse di un'inaccettabile tendenza all'esclusione verso chi ebreo non è. Se nel 1 9 5 8 su questi temi si arrivò ad una crisi di governo, ai giorni nostri la contesa è ancora aperta, poiché le definizioni di "ebreo" e di "ebraismo" sono sottoposte ad un' evoluzione, in parte legata a fattori interni al mondo ebraico, in parte derivanti da stimoli esterni. Le modifiche introdotte dopo i dibattiti parlamentari alle nor­ me che regolano la rilevanza dell'identità ebraica in Israele riflettono, quindi, sia i cambiamenti che si sono verificati in sessant'anni di sto­ ria del paese sia, più prosaicamente, i mutevoli rapporti di forza tra i partiti che si fanno sostenitori di istanze tra loro anche molto diffe­ renti. Caso rilevante è quello della capacità di condizionare le scelte delle maggioranze parlamentari da parte dei partiti religiosi, che si reputano i veri depositari della nozione di "identità ebraica " . A ciò si aggiunge poi il legame, dialettico e problematico, tra Israele e la diaspora ebraica. Anche altri organismi sono stati chiamati in causa: il ministero degli Interni si è dovuto più volte pronunciare riguardo alla concreta applicazione della legge, esprimendo, caso per caso, pareri e giudizi tra loro contrastanti; del pari le sentenze emesse dalle corti giudiziarie, chiamate a risolvere diatribe e contenziosi. L'elemento più significativo di questo confronto sta nella sovrappo­ sizione che viene fatta tra l'identità religiosa, derivata dalla famiglia di origine, e l'appartenenza ad uno Stato. Per i fondatori d'Israele l'ebraismo era soprattutto una dimensione culturale. La religione ve43

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niva dopo, in quanto elemento della tradizione e non come discri­ minante assoluta. Peraltro, ciò che ruota intorno alla complessa defi­ nizione di un'identità nazionale è in Israele un problema che chiama in causa non solo i criteri di giudizio ma anche e soprattutto chi è chiamato a formularli. Proprio la questione delle conversioni, e della loro accettazione, ha aperto un conflitto che non si è ancora risolto . Il Gran rabbinato d'Israele, sotto la supervisione del ministero degli Affari religiosi, ne è arbitro . Tuttavia, tale primazia è da molti vista con perplessità, conferendo ad un'autorità religiosa il potere di sta­ bilire chi possa acquisire la cittadinanza con procedure agevolate. L'opposizione si è espressa non solo in campo laico ma anche tra quei religiosi che non appartengono alla componente ortodossa, i quali si sentono esclusi dai diritti riconosciuti invece ai primi. Anco­ ra alla fine degli anni novanta i tentativi di pervenire ad una defini­ zione del problema che potesse soddisfare un po' tutti, attraverso i lavori della Commissione Ne' eman, si sono tradotti in un nulla di fatto.

Le dinamiche tra secolarizzati e religiosi e il problema della laicità dei poteri in Israele La natura dello Stato d'Israele, la sua origine e la sua storia hanno fatto sì che il richiamo all' ebraicità assumesse fin da subito un'indi­ scutibile importanza. La Dichiarazione d'indipendenza del 14 maggio 1 948 demanda esplicitamente all'ebraicità della comunità politica che si andava costituendo. Ad un certo punto, infatti, afferma: «Quindi noi, membri del Consiglio del popolo, rappresentanti della Comunità ebraica in Eretz Israel e del Movimento sionista, siamo qui riuniti nel giorno della fine del mandato britannico su Eretz Israel e, in virtù del nostro diritto naturale e storico e della risoluzione dell'Assemblea ge­ nerale delle Nazioni Unite, dichiariamo la fondazione di uno Stato ebraico in Eretz Israel, che avrà il nome di Stato d'Israele». Subito dopo aggiunge che tale Stato «assicurerà completa uguaglianza di di­ ritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzione di religio­ ne, razza o sesso, garantirà libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura, preserverà i luoghi santi di tutte le religioni e sarà fedele ai principi della Carta delle Nazioni Unite». Ebraismo e democrazia sono così uniti in una sorta di binomio. Da ciò sono nate tante speranze ma anche infiniti equivoci. Poiché è intorno al concet­ to di ebraismo - in sé parola-chiave - non meno che intorno alle sue implicazioni che gli animi si sono ben presto divisi, essendo assai po44

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chi gli accordi riguardo ai suoi significati. Si parla di una religione o di una storia collettiva? È da intendersi come una cultura o come un credo? Esiste un unico modo di " essere ebrei " , così come sostengono i gruppi ortodossi (peraltro divisi al loro interno) , o più possibilità? Insomma, non c'è nulla di evidente e neanche di scontato in ciò che è posto alla base del nuovo Stato. Se di certo Israele è tutto fuorché una teocrazia, tuttavia i simboli della religiosità sono presenti un po' ovunque. Sulla natura d'Israele in quanto "Stato ebraico " , su cosa ciò voglia dire - e, soprattutto, implichi - la discussione è sempre stata aperta, dividendo coloro che sostengono la supremazia della religione da quanti intendono lo Stato come un'entità rigorosamente laica. Per i primi ciò che si è intrapreso con il 1 948 è la concreta ricostruzione di Eretz Israel, il ritorno alle origini, secondo il dettato biblico e la tradizione. Per gli altri, invece, è la ricomposizione di una diaspora che, peraltro, permane ed è lungi dal concludersi con la nascita di una comunità politica. La legge del ritorno, come già si è avuto modo di osservare, sconta in sé questa contraddittorietà di visioni e di pro­ spettive. Il paese, inoltre, non è religiosamente omogeneo mentre sul piano etnico è un autentico crogiolo, in ragione soprattutto del gran numero di stati di provenienza degli immigrati. La vera specificità d'Israele, a ben vedere, è da ricercarsi nel fatto che è l'unico paese al mondo in cui la maggior parte dei cittadini sia costituita da ebrei. E tuttavia questi non sono (e, prevedibilmente, mai saranno) la totalità degli abitanti. All'interno di tale mainstream subentrano inoltre ulte­ riori suddivisioni: in un recente sondaggio il 7 % degli ebrei israeliani si autodefinisce Haredi (da Charada, "ansietà, paura " , ovvero " colui che teme Dio " ) , la componente più conservatrice dell'ebraismo ul­ traortodosso; un altro r o % si compone di " religiosi " , ovvero di " cre­ denti" ; un 1 4 % si qualifica come " religioso tradizionalista" (ossia aderente alla ortoprassi); un 25 % come "non religioso tradizionali­ sta " ; il restante 44 % come " secolarizzato " . Tra gli ebrei israeliani, inoltre, il 6 5 % afferma di credere in Dio e l' 8 5 % partecipa alla cena rituale della Pasqua ebraica. Il margine di oscillazione tra quanti si qualificano come agnostici o atei varia dal minimo del r 5 % al massi­ mo del 3 7 % (così in The Largest Atheist/Agnostic Populations in www .Adherents.com, 27 marzo 2005 ) , ponendo di fatto Israele tra i paesi con il più elevato tasso di secolarizzazione. Segno, quest'ultimo, che indica l'impossibilità di un'esatta coincidenza tra ciò che è chia­ mato religione e quanto è considerato tradizione. Se la prima deman­ da ai convincimenti profondi e la seconda alle abitudini, allora lo scollamento è netto. Sono di più le cose che si fanno per consuetudi­ ne di quelle in cui si dichiara di credere. L'ebraismo costituisce per 45

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FIGURA 2

Il piano di spartizione del I 94 7 e le linee armistiziali del I 949 Risoluzione I 8 I, piano di spartizione votato dalle Nazioni Unite

Linee armistiziali stabilite a Rodi I 949

I 94 7

Mar Mediterraneo

Mar Mediterraneo

D •

D •

Area attribuita allo Stato arabo Area vincolata al regime di amministrazione internazionale

Territori arabi Territori incorporati da Israele con la guerra d 'indipendenza

Fonte: Palestinian Academic Society for the Study of lnternational Affairs (PASSIA) .

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molti israeliani una radice identitaria che, dalla nascita dello Stato, è parte della " religione civile" nazionale, ovvero dell'ethos profondo della cultura del paese, sulla scorta del quale si costituiscono e si rin­ novano i legami di cittadinanza, intesa come appartenenza ad una co­ munità. Non c'entra il sacro ma, piuttosto, i significati intorno a cui una società rimane unita. Rilevante a tale riguardo che, contrariamen­ te all'ebraismo americano (dove la suddivisione in congregazioni e movimenti risulta fondamentale nel modo in cui gli ebrei definiscono se stessi), in Israele l'elemento di distinzione sia invece dato dal di­ verso grado di pratica religiosa. Questa complessa e composita strati­ ficazione si riflette, inevitabilmente, nell'esercizio dei poteri e nel fun­ zionamento dell'amministrazione pubblica. Già alle elezioni per la prima Knesset ( I 949 ) , il Parlamento nazionale, i quattro partiti reli­ giosi che vi concorrevano si erano presentati in un unico cartello, quello dell' United Religious Front, ottenendo I 6 seggi ed entrando nell'esecutivo. Dalla partecipazione ai diversi governi e, più in genera­ le, dalla presenza in Parlamento e negli organismi rappresentativi de­ riva il potere di condizionamento che essi da sempre esercitano sulle materie di ordine religioso non meno che su quelle concernenti la sfera della vita privata. L' assenza di una Costituzione scritta, che pure era nell'agenda delle priorità politiche dei primi governi, è quindi an­ che e soprattutto il risultato del secco rifiuto opposto dai partiti reli­ giosi, i quali obiettarono da subito che un documento di tale natura non avrebbe potuto chiaramente esprimere il carattere del popolo ebraico e del suo Stato. Sotto questo profilo la risposta alle richieste avanzate dai laici fu che «è la Torah a costituire la costituzione degli ebrei» . Naturalmente questa affermazione non solo non poteva ba­ stare alle altre forze politiche, ma era in netto contrasto con il ca­ rattere di moderna esperienza politica dello Stato d'Israele, così come la intendeva la maggioranza degli israeliani. La soluzione adottata fu comunque, in omaggio agli equilibri di potere tra le diverse forze po­ litiche e sociali, di non procedere alla stesura di una carta costituzio­ nale. Purtuttavia, malgrado le permanenti conflittualità tra amministra­ zione civile e autorità religiose per la determinazione delle reciproche sfere di competenza, l'ordinamento dei poteri in Israele si andò fon­ dando su una netta suddivisione dei ruoli. Fu istituito un ministero degli Affari religiosi, responsabile per i rapporti con il Gran rabbina­ to e le Corti rabbini che. N el I 9 5 3 alla Knesset fu approvata la legge sulla giurisdizione delle Corti rabbiniche in materia di diritto civile ed in particolare sul matrimonio e il divorzio, stabilendone l'esclusivi­ tà dell'operato. L'unico matrimonio riconosciuto in Israele divenne 47

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quello religioso, celebrato secondo le regole previste dal rabbinato. In linea generale le competenze ascritte ai rabbini e ai loro organismi di coordinamento, come il Consiglio rabbinico centrale dove sono pre­ senti in eguale misura membri elettivi sia della comunità aschenazita che di quella sefardita, sono legate alle materie di più stretta natura religiosa. Tuttavia, fondandosi l'ebraismo su di una rigorosa ortopras­ si, l'incidenza di certe decisioni andò fin da subito ben oltre la sfera dei convincimenti spirituali, per chiamare in causa la condotta pub­ blica. Se le istituzioni religiose sono chiamate a pronunciarsi sull' ap­ plicazione dei precetti (soprattutto in campo alimentare e per quanto concerne il rispetto delle festività), sulle ordinazioni di rabbini, sulle licenze matrimoniali, sulle questioni di interpretazione dell'Halakah , è in discutibile che il loro ruolo sostanziale sia il prodotto dell' autorevo­ lezza della religione in Israele, ovvero del suo grado di rilevanza nella determinazione delle scelte di fondo del paese. L'influenza, da questo punto di vista, ha travalicato gli aspetti formali per divenire una delle questioni prioritarie dell'identità nazionale, legata ai sentimenti preva­ lenti tra la popolazione in Israele. Una spaccatura tra quanti vengono definiti "laici" e coloro che si riconoscono come " religiosi" accompa­ gna quindi l'evoluzione del quadro politico e culturale, dal r 948 ad oggi. Quanto possono e debbono contare i rabbini (che, peraltro, non sono sacerdoti) nella vita quotidiana? Qual è il giusto confine tra istituzioni secolari e religiosità in uno Stato che si richiama, nei suoi simboli essenziali, alla seconda? La maggioranza degli israeliani si è comportata da sempre secondo i criteri della non osservanza. Even­ tuali tentativi di restingere gli spazi di autonomia individuale, deri­ vanti dall'imposizione collettiva di norme di natura religiosa, sono stati fatti oggetto di critiche serrate se non di netti rifiuti. Peraltro, gli osservanti da sempre hanno manifestato la tendenza all'isolamento, preservando i propri costumi in ambienti separati, come ad esempio in alcuni quartieri di Gerusalemme. I momenti di maggiore attrito si sono avuti soprattutto quando la questione ha coinvolto le scelte di budget operate dalla Knesset. Di fatto è proprio sul problema del fi­ nanziamento con denaro pubblico delle attività religiose che si sono riscontrate le più ampie divisioni, lungi dall'essersi sanate a tutt'oggi. La vittoria militare del r 967, con i suoi riflessi simbolici dovuti alla conquista di terre menzionate nella Bibbia, ha poi intensificato l'im­ patto del discorso religioso sulla società israeliana, polarizzando anco­ ra di più la divisione tra laici e credenti ortodossi. Uno snodo critico è costituito dalla scuola: la legge sull'educazione pubblica del r 9 5 3 prevede l'esistenza d i due tipi d i circuiti formativi, quello propria­ mente pubblico e quello religioso. Entrambi, tuttavia, sono soggetti al

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controllo del ministero dell'Educazione. In generale nello Stato d'I­ sraele si è sempre applicato il diritto israeliano, l'insieme delle norme nazionali di diritto positivo, di contro al lascito del diritto ebraico, le­ gato alla religione e circos critto all'ambito delle discipline di compe­ tenza delle Corti rabbiniche. Ma la permanenza di un contenzioso sulla giurisdizione tra l'uno e l'altro campo è indice, nel suo perpe­ tuarsi, di un'irrisolta conflittualità tra l"'essere israeliani" e il "sentirsi ebrei " . Conflittualità che aumenta mano a mano che il riferimento al­ l' ortodossia diventa più rilevante per definire la propria identità per­ sonale. La presenza religiosa musulmana è a sua volta regolata dal mini­ stero degli Affari religiosi. Con il 1 94 8 molte delle istituzioni islami­ che in Palestina erano collassate. I leader erano fuggiti e per la prima volta nella plurisecolare storia dei rapporti tra ebrei e musulmani i primi avevano assunto la responsabilità di organizzare la vita religiosa dei secondi. Fu quindi istituito nel ministero un apposito dipartimen­ to per le questioni islamiche, provvedendo a ricostruire e a finanziare la vita delle comunità. Benché sottoposto agli attriti derivanti dalle circostanze, l'adattamento dei musulmani divenuti cittadini d'Israele fu relativamente agevole. La legge israeliana fissò alcune regole inde­ rogabili in materia di usi e costumi (il divieto per parte femminile di contrarre matrimonio prima dei 1 7 anni; l'eguaglianza di diritti tra uomo e donna; l'interdizione della poligamia; l'obbligatorietà del ci­ clo di educazione primaria; la regolamentazione del divorzio) , lascian­ do spazio all'esercizio delle attività religiose e ai servizi ad esse con­ nessi attraverso i finanziamenti che derivavano dall'amministrazione dei fondi concernenti la legge sulla custodia della "proprietà assente" , che regolava la destinazione di beni e terre abbandonate dagli origi­ narii proprietari arabi. Prima del I 967 esistevano in Israele circa un centinaio di moschee, venti delle quali costruite dopo il 1 94 8 . Quat­ tro Corti islamiche esercitavano la loro giurisdizione sulle materie di propria competenza (matrimonio, divorzio, eredità) nei confronti di tutti i cittadini israeliani di religione musulmana. Peraltro, come avve­ niva anche nelle altre comunità, per almeno un paio di decenni dopo la fine della Guerra d'indipendenza il ricorso alla religione fu vissuto da molti musulmani, soprattutto da coloro che avevano un tasso di scolarizzazione elevato e vivevano in città, più come un elemento d'i­ dentità culturale che non come una piattaforma per avanzare rivendi­ cazioni di ordine politico. Una parte del clero e del funzionariato re­ ligioso riceveva lo stipendio dalle autorità governative. Dopo la Guerra dei sei giorni i rapporti che si stabilirono tra mu­ sulmani israeliani e abitanti dei Territori conquistati, maggiormente 49

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propensi all'osservanza religiosa e più inclini a seguire le indicazioni dei leader locali, portarono ad un progressivo mutamento d' atmosfe­ ra. Pur mantenendo il legame di fedeltà ad Israele, i primi s'impe­ gnarono a coltivare una ritrovata religiosità. Da ciò derivarono nuove richieste riguardo al soddisfacimento dei bisogni legati alla sua mani­ festazione, come luoghi di culto e officianti. Negli anni settanta di­ verse leggi furono approvate dalla Knesset per regolare lo status per­ sonale dei musulmani in Israele. Il problema, come nel caso degli ebrei, ancora una volta riguardava soprattutto il potere decisionale e il grado di discrezionalità delle Corti religiose riguardo alla sfera dei diritti civili. Nei due decenni successivi la crescita demografica della componente arabo-musulmana, che è arrivata a superare il 2 o % della popolazione, ha fatto emergere ulteriori necessità e bisogni. Le Corti islamiche sono passate a sette, ma il contrasto tra le loro sentenze e la giurisdizione esercitata dalle Corti distrettuali civili ha ingenerato ri­ petuti conflitti di competenze. Sulle questioni d'eredità e di diritti di accesso al patrimonio dei congiunti, sulla condizione della donna, sul­ lo statuto della famiglia si sono registrate rilevanti frizioni tra chi, in ambito islamico, difendeva concezioni tradizionaliste e depositarie dell'ortodossia e chi, tra le autorità israeliane, ribadiva la primazia del diritto positivo. Alla fine degli anni novanta le moschee presenti in Israele erano comunque non meno di centottanta.

L'esercito, tra funzioni di difesa e di integrazione sociale Istituite il 26 maggio r 948 dal governo provvisorio, le Forze di difesa d'Israele (Israel De/ense Forces, IDF; Tseva Haganà le-Israel, Tsaha[) furono concepite come il naturale prosieguo delle forze di autodifesa di cui si erano dotati gli insediamenti dell'yishuv, mantenendo in ciò lo spirito di istituzione collettiva formata perlopiù da civili. In accor­ do con questa impostazione di principio, David Ben Gurion cercò di evitare sia i rischi connessi alla costituzione di un esercito professio­ nale sia i problemi derivanti da una eccessiva politicizzazione dei re­ parti. L'obiettivo era quello di fare sì che l'esercito non costituisse un'entità separata rispetto alla vita quotidiana della maggior parte dei cittadini del nuovo Stato, ma fosse parte integrante dell'esistenza del­ la comunità. Non di meno, a fronte delle diverse culture di origine dei nuovi immigrati, occorreva un'istituzione capace di integrare nella società in via di costruzione persone tra di loro molto diverse. Se la scuola era uno strumento essenziale per le classi di età più giovani, la

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restante parte della popolazione attiva rischiava di rimanere abbando­ nata a sé. L' esercito, per la sua natura di milizia collettiva e istituzione po­ polare, assurse fin da subito a tale ruolo, raccordandosi con la scuola e con il mondo del lavoro, in quanto fondamentale luogo di socia­ lizzazione. Nei primi anni d'Israele garantì di fatto che a tutti fosse permesso di raggiungere uno standard formativo di base, soprattutto nella conoscenza della lingua ebraica, ovvero un'educazione in grado di permettere ai nuovi arrivati di entrare a far parte, a pieno titolo, della comunità nazionale. L'ipotesi di fondo era che all'acquisizione della capacità di difendersi dovesse accompagnarsi l'introiezione di valori comuni. Non di meno, all'impegno per omogeneizzare persone culturalmente diverse si accompagnarono una serie di attività di so­ stegno sociale ed economico, soprattutto nei campi di raccolta dei nuovi immigrati. Fin da subito si provvide quindi affinché tutti i giovani, maschi e femmine, in età di leva, fossero coscritti. Non di meno si optò per fare in modo che l'ossatura fosse costituita dai riservisti, creando così tre distinti - ma interconnessi - livelli di partecipazione, che nel cor­ so del tempo andarono perfezionandosi. A chi era chiamato ad assol­ vere ai lunghi obblighi di leva (tre anni per gli uomini, due per le donne) si affiancava quella parte della popolazione che per età (fino ai cinquant'anni per i maschi, oltre i trenta per le femmine) era consi­ derata ancora in grado di compiere periodicamente un servizio di ag­ giornamento. Alla conclusione del servizio attivo, ogni persona veniva automaticamente collocata in un'unità della riserva, nella quale sareb­ be stata chiamata a svolgere l'aggiornamento richiesto, in genere una volta l'anno o nei casi di emergenza nazionale. A questi due ambiti si legò il servizio permanente svolto dai militari professionali, perlopiù ufficiali e specialisti, un gruppo relativamente ristretto, selezionato tra i coscritti, e posto in servizio permanente effettivo dopo la conclusio­ ne della leva. L'età di pensionamento, soprattutto per gli ufficiali di carriera che avessero raggiunto i gradi superiori, fu stabilita ad una soglia relativamente bassa, per evitare che si creassero gruppi d'inte­ resse e di pressione in grado di condizionare corporativamente le scelte in materia di difesa, la quale per molti anni arrivò ad impe­ gnare una cospicua parte degli investimenti pubblici. Inoltre, le inter­ connessioni tra le IDF e il mondo produttivo furono fin da subito così robuste da agevolare il passaggio dei militari di professione alle fun­ zioni civili. Anche da ciò derivò l'eccellenza nel campo della ricerca e dell'innovazione che caratterizza tuttora il settore high tech del paese, originando quel complesso militar-industriale che è sempre stato, per

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i suoi prodotti, una delle voci in attivo della produzione nazionale. Proprio perché i militari sono una componente imprescindibile della società israeliana, non sono mai stati una realtà da essa separabile, dipendendo in tutto e per tutto dai poteri civili, di cui sono conside­ rati diretta emanazione. Se Israele fu fin da subito impensabile senza un esercito, non meno inaccettabile era l'ipotesi di una struttura mili­ tare indipendente, in grado di decidere di sé senza il vaglio dei pote­ ri politici, che si trattasse del governo come del Parlamento. Il lega­ me che intercorre tra gli ufficiali dello Stato maggiore generale e il mondo della politica ne è un esempio: più che indicare la sudditanza degli uni dagli altri, o gli effetti di un permanente spoil system, è l'in­ dice della reciprocità che intercorre tra i luoghi della decisione (affi­ dati ai civili) e quelli della messa in esecuzione (affidati ai militari ) . Non è quindi infrequente che gli ex comandanti assumano ruoli in politica. C'è una lunga tradizione in tal senso, soprattutto nel partito laburista. Il capo di stato maggiore delle IDF è nominato dal governo. Un comitato di gabinetto permanente coordina e monitora le decisioni relative alla politica in materia militare e agli indirizzi da attribuire all'esercito. Sia pure con rilevanti eccezioni (tra il I 9 54 e il I 9 55 e dal I 967 in poi) il portafoglio della Difesa è stato tenuto dallo stesso pri­ mo ministro, contribuendo così allo sviluppo delle intense relazioni tra organismi civili e apparato militare. In questo senso, proprio per­ ché strettamente legato ai poteri, l'esercito ha assunto una connota­ zione rigorosamente apolitica, non potendo costituire un gruppo di pressione a favore di questo e quel partito ma una sorta di area fran­ ca, dove possono formarsi opinioni che però, per essere espresse, ne­ cessitano del riconoscimento dei canali ufficiali della politica. Una questione che si pose fin da subito era quella della presenza delle minoranze nell'esercito . Poteva la forza armata di una comunità politica che si autodefiniva "ebraica" accettare non ebrei? Più in ge­ nerale, se l'esercito - e la partecipazione ad esso - costituiva uno dei fattori più importanti nel processo di integrazione nazionale, come avrebbero potuto coesistere identità particolari, non ebraiche, con un'istituzione connotata in senso altrimenti opposto? Inoltre, cosa avrebbe comportato la loro eventuale esclusione? Di fatto a questi quesiti si decise di rispondere con scelte operate di caso in caso. Se la comunità drusa partecipò fin da subito alla costituzione della polizia di frontiera, e se i cristiani furono accettati nei ranghi delle IDF sulla base di una richiesta volontaria, la componente araba della società israeliana ne fu invece inizialmente esclusa. Tale misura fu poi atte52

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nuata dalla creazione di alcuni reparti misti, dove anche agli arabi fu concesso di accedere. Attualmente il servizio militare è obbligatorio per gli ebrei e i drusi, facoltativo per i beduini e i circassi, e volonta­ rio per i musulmani non beduini nonché per i cristiani. Dal primo momento della loro costituzione le IDF dovettero inol­ tre confrontarsi in campo aperto con avversari tra di loro diversi: so­ prattutto gli eserciti arabi ma anche il terrorismo, un fenomeno che con il passare del tempo assunse un'importanza crescente, manife­ standosi come fatto endemico. Fino alla fine degli anni settanta nes­ sun paese confinante con Israele sottoscrisse trattati di pace. Ragion per cui le linee confinarie erano - e in parte rimangono a tutt'oggi il risultato degli accordi armistiziali intercorsi alla conclusione delle diverse guerre combattute. Ben lontane dal costituire stabili confini, fotografano piuttosto i rapporti di forza territoriali nel momento della cessazione del confronto armato. Da ciò sono derivati continui con­ tenziosi con i paesi limitrofi su chi avesse il diritto ad esercitare la propria sovranità su lembi di terra strenuamente contesi. Permanendo questo stato di cose, l' esercito israeliano ha fatto ruo­ tare la sua dottrina sui presupposti della prevenzione e dell'anticipa­ zione delle mosse degli avversari. Il principio di base al quale le IDF si ispirano afferma che Israele non può permettersi di perdere nessuna guerra poiché una sconfitta militare comporterebbe un risultato cata­ strofico per l'intero paese, data la sua conformazione geografica. Israele fu quindi conosciuto fin da subito come uno Stato la cui eccellenza si misurava sulle qualità militari. Tra di esse va menzionato anche lo sviluppo di un'industria della difesa, le cui radici si trovava­ no nelle diffuse attività dei molti laboratori artigianali che, durante gli anni dell'yishuv, rifornivano le forze di autodifesa delle armi necessa­ rie per svolgere il loro compito. Già nel 1 9 3 3 erano state poste le premesse per un' embrionale industria militare che poi, con il trascor­ rere del tempo, si sarebbe trasformata in un vero circuito d'imprese. Agevolava questa evoluzione il concorso dei molti tecnici e scienziati di origine ebraica che si erano trasferiti nella Palestina mandataria, raccoltisi poi intorno ai centri di ricerca istituiti dall'Università ebrai­ ca di Gerusalemme e dal Technion di Haifa. Non di meno, la stretta correlazione tra il momento della progettazione e quello dell'uso per­ mettevano una sorta di ciclo continuo tra domanda e offerta. La cen­ tralità delle politiche di sicurezza e di difesa fu poi alla base della continua sollecitazione all'innovazione. Esauritosi il periodo della clandestinità, durato fino alla conclusione del mandato britannico, la necessità di non dipendere più dai rifornimenti stranieri stimolò l'e53

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voluzione delle industrie militari israeliane, perlopiù costituite con ca­ pitali misti, in parte pubblici e in parte privati, ma coordinate dal ministero della Difesa. Sul piano politico il timore che ispirò i diversi governi succedutisi dal I 948 in poi era che nel momento del bisogno, nel caso di un'aggressione dall'esterno, potessero venire a mancare gli aiuti necessari. Molti sistemi d'arma autonomi, soprattutto nel campo dell'aviazione e della marina, furono progettati e introdotti dopo gli embarghi alle vendite imposti dai paesi proprietari delle licenze di produzione. Di fatto, comunque, le infrastrutture occorrenti allo svi­ luppo delle grandi aziende militari furono tutte realizzate nei primi dieci anni d'esistenza d'Israele. Oltre alle necessità della sicurezza na­ zionale, anche precisi calcoli d'interesse entrarono in causa nel de­ terminare l'espansione del circuito : ben presto ci si rese conto, infatti, che lo sviluppo tecnologico era un elemento importante nel ruolo che il paese avrebbe assunto nel consesso mediorientale. Il valore econo­ mico, inoltre, sarebbe risultato rilevante, facendo da traino anche al­ l' esportazione e alla vendita di altri prodotti, in un paese in erom co disavanzo nella bilancia dei pagamenti.

La struttura politica e istituzionale del nuovo paese Con la Dichiarazione d'indipendenza del 14 maggio I 948 venivano istituiti il Consiglio provvisorio di Stato e il governo provvisorio, che in parte recepivano l'attività già svolta nell'y ish uv ma, soprattutto, da­ vano corpo alla struttura del nuovo Stato. Le elezioni per l'Assemblea costituente si tennero il 25 gennaio I 949· Due settimane dopo il Par­ lamento così costituito mutò la sua denominazione in prima Knesset, provvedendo alla definizione e al varo di tutte le componenti del si­ stema istituzionale, governativo e amministrativo, e regolando inoltre la questione dei poteri del presidente dello Stato, della funzione ese­ cutiva, del legislativo insieme alle loro mutue relazioni. Come già si è avuto modo di osservare non fu discussa né tanto meno varata una Costituzione. Ad essa si sostituì nel corso del tempo, invece, un si­ stema di Leggi Fondamentali che inquadrano le più importanti mate­ rie di pertinenza pubblica: il Parlamento ( I 95 8 ) ; le terre demaniali ( I 96o) ; il presidente dello Stato ( I 9 64) ; il governo ( I 9 68; I 992; 20o i ) ; il bilancio pubblico ( I 97 5 ) ; l e forze armate ( I 97 5 ) ; Gerusalemme ca­ pitale d'Israele ( I 9 8o); il potere giudiziario ( I 984); il controllore dello Stato ( I 9 8 8 ) ; la libertà di occupazione ( I 99 2 , I 994); la dignità e la libertà della persona ( I 992 ) . Da ciò è derivato il peculiare caso di un 54

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paese che non ha Costituzione ma possiede un sistema e un diritto di natura costituzionale ( così in Toniatti, I 9 7 7 ) . Fin dai suoi esordi Israele s i è caratterizzata per essere una repub­ blica parlamentare, connotata da un sistema sì multipartitico ma con un partito in posizione dominante e una forte tendenza alla centra­ lizzazione politica ed amministrativa. La leadership dell'esecutivo si è spesso connotata per la presenza di figure forti, ovvero di uomini e donne con un robusto carisma, capaci di imprimere alle scelte del governo un impatto deciso, spesso anche in contrapposizione dialetti­ ca alla volontà della Knesset. Di prassi il capo del partito di maggio­ ranza relativa della coalizione vincente alle elezioni diventa il premier. Il governo, Memshalah , è sempre stato, infatti, un organismo di coali­ zione con la prevalenza, almeno fino agli anni settanta, del Mapai, al­ trimenti conosciuto come Israel Labor Party o A lignment. L'unica ec­ cezione a tale regola si ebbe durante la Guerra dei sei giorni, quando, all'interno di un "governo di unità nazionale" , anche all'allora leader dell'opposizione di destra Menachem Begin fu assegnato un dicastero senza portafoglio. La Legge Fondamentale sul governo del I 968 regola le attribuzioni e il funzionamento dell'esecutivo. Per fare fronte alle crescenti richieste politiche e alle difficoltà di costituzione delle coali­ zioni, in vent' anni il numero dei membri del governo passò dai I 2 del I 949 ai 24 del I 969. Nei decenni del suo potere il partito laburista formò le coalizioni partendo sempre dal presupposto di essere in pari­ tà di voti o in maggioranza all'interno dell'esecutivo, evitando così l'e­ ventuale coalizzarsi dei partiti minori e l'instabilità permanente che da ciò sarebbe derivata. La qual cosa ha implicato la formazione di picco­ le coalizioni nelle quali, però, i laburisti, sia pure di orientamento pragmatico, hanno sempre escluso l'accordo con le formazioni consi­ derate estremiste, come i comunisti e la destra di Begin . Benché nei primi vent'anni della storia d'Israele si siano succeduti ben I 6 governi, di fatto l'indirizzo politico dell'esecutivo si è mantenuto costante, gra­ zie alla persistenza dei medesimi partiti, alla lunga durata degli incari­ chi assegnati ai ministri (che vedevano rinnovarsi le deleghe di go­ verno in governo) e al sostegno ripetuto degli alleati minori di coali­ zione. Solo con gli anni settanta la stabilità sarebbe quindi declinata. All'interno dell'esecutivo il primo ministro, Rosh Hamemshalah ( ''testa del governo " ) , pur non godendo di attribuzioni formali che lo privilegino rispetto ai suoi colleghi, è al centro della complessa mac­ china decisionale. Il suo potere d'azione è strettamente connesso alla sua figura, ovvero al modo in cui interpreta il ruolo che gli è attribui­ to. Leader determinati, come Ben Gurion, hanno condizionato enor55

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memente le scelte politiche di fondo del paese. Ma essenziale è sem­ pre stato il sostegno offertogli dal partito di appartenenza. Quando all'autorevolezza si è sostituita la vocazione all' autoreferenzialità, il ve­ nire meno del consenso partitico ha causato la caduta del leader, più di quanto non abbia potuto la stessa opinione pubblica. L'Hayoetz Hamishpati La'memshalah (ovvero l'Attorney Genera! cioè l'avvocato generale dello Stato e consigliere legale del governo) è figura collegata all' esecutivo, per cui svolge attività sia di consulenza giuridica (all'atto della formulazione del contenuto dei disegni di leg­ ge o nel caso di questioni giuridiche attinenti i trattati internazionali e i rapporti diplomatici) sia di promozione dell'azione penale da parte del governo medesimo, in un paese dove non ne sussiste l'obbligato­ rietà. La Knesset ( " Assemblea " ) è l'organo monocamerale che assolve alla funzione legislativa. Costituita da 1 2 0 membri, si riunisce in ses­ sioni plenarie ma svolge una parte rilevante del suo lavoro all'interno delle commissioni permanenti. La durata del mandato è quadriennale. La Legge Fondamentale del 1 9 5 8 prevede un sistema elettorale pro­ porzionale puro, con un collegio elettorale nazionale unificato . Il rigi­ do proporzionalismo (sia pure attenuato negli anni novanta con la co­ siddetta "Legge sui partiti" ) così come anche la tendenza alla prolife­ razione delle liste sono un'eredità degli anni pionieristici dell'yishuv, quando tutte le tendenze politiche erano rappresentate dentro gli or­ ganismi comunitari. I sostenitori di questo sistema ne hanno enfatiz­ zato a più riprese la rappresentatività, mentre i detrattori denunciano da sempre l'incentivazione alla moltiplicazione dei partiti e alla fram­ mentazione del consenso. Il presidente dello Stato d'Israele, Nasi, il cui mandato è quin­ quennale, assolve alle classiche funzioni attribuite ad una tale figura istituzionale in un sistema a democrazia parlamentare. Eletto a mag­ gioranza semplice dalla Knesset, ha un ruolo costituzionale e politico limitato, simbolizzando l'unità della nazione e non esercitando poteri di veto. Di fatto, quanti hanno ricoperto questo incarico, a partire da Chaim Weizmann, presidente dal 1 949 al 1 9 5 2 , erano e sono tutti leader politici di una certa notorietà, perlopiù alla conclusione della loro carriera. Una figura istituzionale particolare è quella del Mevaker HaMedi­ na, il " controllore di Stato " , il cui mandato è di 7 anni. Elemento peculiare del sistema istituzionale d'Israele, regolato da una Legge Fondamentale (del 1 9 5 8 , poi integrata e promulgata nel 1 9 8 8 ) , assol­ ve ad un duplice e delicato compito, trattandosi, nel medesimo tem-

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po, del revisore dei conti pubblici (di tutti gli organi dello Stato come delle istituzioni che, a vario titolo, sono investite di una qualche responsabilità verso l'elettorato) e dell' ombudsman (al quale vengono inoltrati gli esposti dei cittadini nel merito di presunte irregolarità o illeciti commessi dalla pubblica amministrazione). Si tratta di una fi­ gura istituzionale completamente indipendente dal governo, rispon­ dendo del suo operato solo alla Knesset. Non di meno la Beit HaMishpat ha 'Elyon, ossia la Corte suprema di giustizia, istituita sul modello americano, è un organismo con am­ pie facoltà. Tecnicamente svolge una duplice giurisdizione, in qualità di Corte d' appello, sia civile che penale, e come Alta corte di giu­ stizia, alla quale spettano competenze rilevantissime, riguardanti le li­ bertà fondamentali degli individui, la supervisione sul rispetto della legge da parte di altre corti e di enti con potere giuridico, la revisione di atti della pubblica amministrazione, la limitazione del campo di azione delle corti religiose e l' annullamento di procedimenti e di sen­ tenze da parte di queste ultime. Di fatto la Corte suprema, che ha sede a Gerusalemme e ha giurisdizione su tutto il territorio dello Sta­ to, è l'organismo a capo del sistema di corti giudicanti e costituisce la più alta istanza di giudizio. Le sue deliberazioni sono vincolanti, se­ condo la regola dello stare decisis, creando un precedente al quale i giudicanti devono poi attenersi. Più in generale, rispetto ad una società dove la rilevanza dei parti­ ti è pressoché esclusiva, «il prestigio delle corti, e quindi il loro pote­ re e la loro autorità, trova radici nel rispetto per la rule o/ law. Da questa prospettiva la legge è vista come qualcosa di assolutamente di­ stinto dalla politica. Infatti, mentre in politica i valori ed i principi sono percepiti come strumenti per raggiungere certi risultati, in ambi­ to giudiziario la legge è invece percepita come derivante da un'analisi imparziale dei principi» (Gariglio, 2 003 ) . Nel suo complesso, l'intelaiatura istituzionale e legale israeliana era e rimane vincolata alla decisione di non dotarsi di una Costituzio­ ne scritta ma di procedere attraverso un sistema basato su capitoli costituzionali, ossia le Leggi Fondamentali. Sulla loro natura giuridica è aperto un dibattito ampio, che ruota intorno alla questione se esse debbano intendersi dotate di una forza maggiore delle leggi ordinarie, quindi non emendabili attraverso le ordinarie procedure parlamenta­ ri . Di fatto la formazione del sistema giuridico israeliano ha seguito il modello anglosassone, pur essendo depositario di elementi derivatigli dal vecchio diritto ottomano e avendo integrato con il confronto con altre realtà occidentali il complesso della sua legislazione. 57

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I partiti

e

la politica

Il sistema partitico ricalca e riproduce l'elevata incidenza del Parla­ mento nella formazione del processo decisionale all'interno del circui­ to di poteri presente in Israele. Peraltro esso è anche depositario del­ la lunghissima stagione che ha preceduto la formazione dello Stato, dai primi insediamenti pionieristici al 1 948, un lungo periodo in cui la partecipazione alla vita politica fu sempre estremamente vivace. Le organizzazioni politiche ebraiche, che avrebbero dato poi vita ai par­ titi israeliani, erano nate perlopiù al di fuori della Palestina, ovvero nella diaspora. Della discussione, animatissima, tra le diverse correnti presenti nelle comunità, distribuite in tutto l'Occidente, avevano quindi raccolto indirizzi e suggestioni, traducendole in vere e proprie ideologie di riferimento. La polarizzazione tra sinistra e destra fu quindi fin da subito netta. La sinistra prevalse, almeno fino alla metà degli anni settanta, avendo influenzato in misura pressoché totale l'yishuv prima e lo Stato poi. In Israele la politica ha peraltro sempre goduto di una larga po­ polarità, sia nei luoghi di rappresentanza istituzionale che tra i citta­ dini. Dal punto di vista della partecipazione alle funzioni di gover­ no sono tre i grandi raggruppamenti nei quali i partiti israeliani si sono suddivisi fin dalla nascita dello Stato. Il primo di essi è costi­ tuito dal partito di maggioranza relativa, il Mapai (l' Israel Labor Party), con un forte potere coalizzante, al quale di prassi spettavano la premiership e i dicasteri più importanti (Finanze, Difesa, Affari esteri, Educazione, Agricoltura, Interni) . Il secondo è composto dai partiti minori, che a seconda dei casi entravano nei governi di coali­ zione o si ponevano all'opposizione. Alcuni di essi furono fin dalle loro origini membri della maggioranza, come il National Religious Party ( "Partito nazionale religioso " ) o gli Indipendent Liberals ( " Li­ berali indipendenti" ) . Altri, invece, optarono di volta in volta per il loro posizionamento, in base ad una valutazione di merito sui pro­ grammi di coalizione. Tra di questi sono da annoverare il Mapam (acronimo di "Partito unificato degli operai " ) , l'Ahdut Ha 'avodah ( " Unità del lavoro " ) , i liberali e il Po'atei Agudat Israel ( "Lavoratori dell'unione d'Israele " ) . Infine, il terzo raggruppamento, fino agli anni settanta, è stato composto dai partiti di opposizione sistemica, i quali, pur accettando le regole del gioco democratico, si sono basati su di un programma di netta contrapposizione alla maggioranza laburista e alla sua imposta­ zione non solo politica ma anche istituzionale. Il più importante tra questi è stato l'Herut ( ''Libertà" ) , il depositario ed erede della destra

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revisionista di Vladimir Ze'ev Jabotinsky. Pur essendo diventato il se­ condo partito dopo le elezioni per la terza Knesset ( I 9 5 5 ) , raccoglien­ do non meno di quindici seggi, per lungo tempo si considerò il nu­ cleo di un sistema di governo alternativo. Questa posizione, piuttosto radicale, si attenuò nel decennio successivo, soprattutto con la costi­ tuzione del blocco elettorale del Gahal (acronimo di Gush Herut-Li­ beralism, "Blocco della libertà e del liberalismo" ) , quando l'Herut e i liberali si unirono insieme. All'opposto della destra si poneva la sini­ stra estrema costituita dal Partito comunista: Maki (Miflagah Kommo­ nistit Israelit, "Partito comunista israeliano " ) , Rakah (Reshimah Kom­ monistit Hadashah, "Nuova lista comunista" ) , Hadash (Hazz't Demok­ ratz't Leshalom Ulshivyon, "Fronte democratico per la pace e l'egua­ glianza " ) sono i diversi nomi assunti da una formazione politica che è ripetutamente mutata nel corso del tempo. Nel I 9 84, infine, si è poi presentata alle elezioni la Progressive List /or Peace. Sull'asse del rifiu­ to pregiudiziale si posero anche altre formazioni di diversa collocazio­ ne ideologica come l'Agudat Israel (la "Comunità d'Israele" , all' oppo­ sizione dal I 95 r ) , l'Ha-Olam ha-Zeh ( '' Questo mondo " , entrata per la prima volta alla Knesset nel I 96 5 ) e il Free Center (frutto di una scis­ sione dall'Herut nel I 966). La posizione centrale del Partito laburista nei primi trent'anni di vita d'Israele è stata quindi il perno di tutti gli equilibri di potere. Questa tendenza andò ancora accentuandosi prima con il governo d'unità nazionale della fine degli anni sessanta e poi con la formazio­ ne, nel I 965 alla Knesset, dell'Alignment (lo " S chieramento " tra labu­ risti e Mapam), che alle elezioni successive del I 969 arrivò a sfiorare la maggioranza assoluta con 5 6 seggi. Le opposizioni non hanno mai offerto una valida alternativa di governo, almeno fino al ribaltamento che si verificò nel I 977. Dal punto di vista ideologico, tuttavia, le di­ visioni sono sempre state nette, riflettendo la polarizzazione di posi­ zioni che hanno connotato la vita e l'evoluzione del paese. La frattura tra sinistra e destra, pur andando stemperandosi dalla fine degli anni ottanta, ha connotato per molto tempo la discussione tra gli israeliani e a tutt'oggi costituisce ancora uno dei fattori di maggiore contrappo­ sizione. È peraltro nella storia del paese che la separazione tra una sinistra "istituzionale" e una destra parlamentare, ma inizialmente ben poco proclive ad accettare le regole dettate dalla maggioranza laburi­ sta, fosse così intensa. La frattura data agli anni dell'yishuv, quando la destra si distaccò dal movimento sionista ufficiale, la World Zionist Organization, dissenziendo sia nel merito della politica verso le popo­ lazioni arabe che nei confronti degli inglesi. Le vicende che avevano poi portato alla costituzione dello Stato d'Israele, tra il I 945 e il 59

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1 948, si erano svolte all'interno di un'aperta competizione tra la com­ ponente maggioritaria di sinistra e quella revisionista, fino all' emargi­ nazione e all'esautoramento della seconda. L' andamento degli umori politici è stato condizionato molto an­ che dai processi immigratori. L'ingresso di gruppi con una forte ca­ ratterizzazione "etnica " , ovvero con una forte identità, ha comportato progressivi cambiamenti sul piano degli equilibri interpartitici in ra­ gione del mutamento del voto da questi indotto. È il caso, in partico­ lare modo, della presenza sefardita e, successivamente, di quella rus­ sa. Si avrà modo di ritornare su questi aspetti più avanti.

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3 Israele e la post -colonizzazione: dalla crisi di Suez alla svolta degli anni sessanta ( ! 9 5 6- 7 2 )

Nella crisi di Suez: tra consolidamento economico e tensioni politiche Con il superamento del tornante dei primi anni, ed in particolare dopo il I 95 3 , l'economia israeliana conobbe un lungo periodo di espansione, durato fino alla Guerra di Yom Kippur nel I 973 · Ven­ t'anni circa di crescita, ad un tasso che in alcuni anni raggiunse anche il I O % del PIL . Lo sviluppo fu però accompagnato da una forte infla­ zione e da un cronico deficit della bilancia dei pagamenti dovuto alle elevate importazioni. La politica dei governi israeliani si caratterizzò a lungo per l'obiettivo della piena occupazione, fatto che implicava il coinvolgimento finanziario dello Stato e l'accrescimento del debito, secondo il principio keynesiano del deficit spending. A metà degli anni sessanta fu introdotta quella che è stata conosciuta come slow­ down policy, che implicava un drastico ridimensionamento dell'inter­ vento pubblico. Esaurite le grandi opere in corso di costruzione, come il porto di Ashdod e la connessione dell'acquedotto nazionale tra fiume Giordano e Negev, subentrò una fase di stalla che compor­ tò una temporanea depressione economica. Da ciò derivò un'impen­ nata nel tasso di disoccupazione, che raggiunse il I O % , ma anche il contenimento della spirale inflazionistica e del deficit di bilancio. Le vicende del I 967 rimisero in movimento l'economia is raeliana, soprat­ tutto attraverso gli impegni di spesa che lo Stato assunse. Il deficit fu sostenuto sia da una politica monetaria espansiva che da un migliora­ mento del commercio con l'estero. Di fatto, fino al I 97 3 si ebbero tassi di crescita annuali tra il IO e il I 3 % . Un fattore non secondario fu l'integrazione dell'economia dei territori della Cisgiordania e di Gaza con quella israeliana. La crisi petrolifera del I 973 pose termine a questa fase espansiva. La guerra aveva peraltro dirottato buona par­ te delle risorse sul versante militare, laddove il paese si sentiva mag6I

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giormente minacciato. Dinanzi al riacutizzarsi dei due tradizionali mali dell'economia israeliana, il deficit di bilancio e l'inflazione, es­ senziali tornarono ad essere gli aiuti statunitensi. Nel solo I 974 il concorso americano all' economia israeliana era aumentato di 4 volte rispetto al I 972 e, negli anni successivi, andò costantemente crescen­ do. Il mantenimento di tale livello di contribuzione, che si aggirava tra gli I ,5 e i 2 miliardi di dollari annui, divenne uno dei fattori di maggiore rilevanza nell'economia nazionale. La situazione che andò così creandosi avrebbe infine concorso alla crisi del blocco di potere della sinistra, che a quel punto da ben trent'anni governava le sorti del paese. Ma per meglio comprendere il perché di questa trasforma­ zione occorre fare qualche passo indietro, tornando a due decenni prima, a quella che è conosciuta come la seconda guerra arabo-israe­ liana. Il breve e intenso conflitto del I956 ebbe origine da due fattori, di per sé originariamente autonomi ma intrecciati negli effetti che produssero: il definitivo declino franco-britannico in una regione dove fino a pochi decenni prima entrambi i paesi avevano contato molto; lo sviluppo della politica panaraba di Nasser e l'ascesa del Movimento dei non allineati nell'agone internazionale. I governi occi­ dentali seguivano con preoccupazione gli sviluppi della politica nasse­ riana, soprattutto per quel che concerneva il canale di Suez, articola­ zione fondamentale nelle comunicazioni regionali. Nel I 9 5 5 , insieme agli oleodotti settentrionali della Tapline e della Iraqi Petroleum Company, il canale costituiva lo snodo più importante nel processo di commercializzazione e distribuzione della preziosa fonte di energia. La politica del nuovo leader egiziano Nasser, asceso al potere in que­ gli anni, si qualificò fin da subito per il suo impianto nazionalista e indipendentista. I precedenti indirizzi cooperativi furono rivisti alla luce della nuova e più ambiziosa impostazione. In quegli stessi anni gli israeliani avevano completato la costruzione del nuovo porto di Eilat, nell'istmo meridionale del Negev. Da quel momento quella che costituiva la sua unica via d'accesso, lo stretto di Tiran, divenne og­ getto di azioni restrittive da parte araba. L'obiettivo dichiarato era di sbarrare la navigazione al naviglio mercantile israeliano. Peraltro, tra il I 949 e il I 9 5 6 si erano già succeduti scontri e scaramucce per il controllo delle aree di transito e, più in generale, nelle zone di confi­ ne tra Israele ed Egitto. Se inizialmente l'Egitto non appoggiò i raid dei fedayin (letteralmente, i "devoti" , miliziani arabi appartenenti per­ lopiù a gruppi combattenti non inquadrati in un esercito regolare, de­ diti ad azioni di guerriglia e di terrorismo ) , dopo lo scontro avvenuto il 28 febbraio I 955 a Gaza tra esercito israeliano ed egiziano, nel cor-



ISRAELE E LA POST - COLO � I Z ZAZIONE: DALLA CRISI DI SUEZ ALLA SVOLTA

so del quale perirono non meno di quaranta militari cairoti , e quello successivo a Khan Yunis, l'atteggiamento mutò. Nasser si risolse quindi per una politica più aggressiva. Tra la stessa leadership d'I­ sraele le idee sulla condotta da assumere nei confronti dell'Egitto non erano comunque unanimi. Se David Ben Gurion, primo ministro tra il 1 948 e il 1 95 4 , era dell'avviso che si dovessero anticipare le mosse altrui ricorrendo all'esercito ogni qualvolta lo si reputasse necessario, e se l'allora capo di stato maggiore dell'esercito , Moshe Dayan ( 1 9 1 5 8 I ) , riteneva plausibile nonché accettabile una guerra, il successore Moshe Sharett era di opinioni molto più moderate. Il ritorno al go­ verno di Ben Gurion, nel 1 9 5 5 , impresse quindi una svolta alla politi­ ca israeliana, nella misura in cui venne deciso di rispondere secca­ mente alle provocazioni nasseriane. Per tutto il 1 9 5 6 le tensioni si succedettero: da una parte i fedayin egiziani, perlopiù gruppi di com­ mandas che s'infiltravano in territorio israeliano per colpire obiettivi militari e civili; dall'altra le ritorsioni di Tsahal in territorio egiziano. Il 26 luglio 1 9 5 6 ci fu la svolta decisiva. Nasser annunciò la naziona­ lizzazione del canale di Suez, la cui proprietà era detenuta al 44 % dalla Gran Bretagna. L'intendimento del ra 'is ( '' capo " , "leader " ) cai­ rota, prima ancora che politico, era economico-finanziario. Per finan­ ziare la costruzione della diga di Assuan, dopo che sia gli statunitensi che i britannici avevano cancellato il loro appoggio a causa dell' ac­ quisto di armi dall'Est comunista, in particolare dalla Cecoslovacchia, Nasser aveva deciso di ricorrere alle vie di fatto. Peraltro le potenze occidentali misuravano con preoccupazione l'accresciuta credibilità politica del leader egiziano, sempre più impegnato nel Movimento dei non allineati e in sintonia con la Cina. Nei mesi successivi alla nazio­ nalizzazione del canale le intenzioni dei contendenti si fecero esplici­ te: se Francia e Gran Bretagna predisposero a Sèvres un piano d'in­ tervento, rifornendo Israele di armi, la Giordania aderì al patto mili­ tare tra Egitto, Siria, Arabia Saudita e Yemen . Il 29 ottobre 1 9 5 6 scoppiò quindi una guerra tanto attesa quanto preparata. Israele lan­ ciò l'Operazione Kadesh , con la quale nel giro di sei giorni furono occupate Gaza e il Sinai. Dinanzi al rifiuto opposto da Nasser alla proposta franco-britannica di fungere da forza d'interposizione, i due paesi avviarono un'intensa campagna di bombardamenti, con l'inten­ to di costringere il leader egiziano a riaprire il canale. La risposta di Nasser fu inequivocabile, ordinando di affondare le quaranta navi che vi stazionavano, misura che ne rese impraticabili le acque fino all'an­ no successivo. Benché già il 1 ° novembre l'oNU avesse decretato il cessate il fuoco, il 5 e il 6 dello stesso mese truppe aviotrasportate e

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della fanteria di marina britannica e francese sbarcarono a Port Said e Ismailia. Se sul piano militare la situazione volse fin da subito a favore del­ la coalizione franco-britannica, sul versante politico non si poteva dire la stessa cosa. L' amministrazione americana accolse con perplessità i gesti degli alleati europei. Una perplessità che divenne indisponibilità quando l'Unione Sovietica giunse a minacciare il proprio intervento a fianco dell'Egitto. Pesavano in questo quadro anche le recenti vicende ungheresi, dove l'Occidente aveva sostenuto gli insorti. Gli USA, uti­ lizzando la pressione finanziaria derivante dalla grande quantità di sterline a loro disposizione (di cui fu ventilata la vendita delle riser­ ve) , indussero quindi Londra a rivedere la condotta assunta. Gli effet­ ti furono quasi immediati e si tradussero nel sostanziale fallimento dell'operazione anglo-francese. Il premier britannico Eden si dimise mentre le truppe furono costrette a ritirarsi entro il maggio del r 9 5 7 . L a stessa cosa valse per quelle israeliane, presenti nel Sinai e a Gaza. A Suez fu quindi istituita l'uNEF, le "forze di emergenza delle Nazioni Unite" , la cui funzione di interposizione, soprattutto a Sharm al­ Shaykh, permise comunque a Israele di raggiungere la libera naviga­ zione nel golfo di Aqaba.

Gli arabi israeliani fra integrazione e identità palestinese Gli anni cinquanta e sessanta furono contrassegnati dall'evoluzione del problema palestinese che, progressivamente, da aspetto seconda­ rio della più generale questione dei processi di decolonizzazione nel mondo arabo, andò assumendo una rilevanza a se stante. Se nel caso di coloro che abbandonarono i territori d'origine nel I 948 (e ancora in seguito alla Guerra dei sei giorni, nel I 967) si poteva parlare ora­ mai di una vera e propria diaspora, diversa fu la traiettoria di quanti rimasero nei luoghi che divennero parte dello Stato d'Israele. Pur es­ sendo in qualche modo affettivamente legati gli uni agli altri, i con­ creti destini - infatti - si divisero. Nel primo caso si parlò per lungo tempo di "profughi" o "rifugiati " , riferendosi ad un ampio segmento di popolazione sparpagliato nei paesi confinanti con Israele, unito dalla costrizione a risiedere in campi allestiti all'occorrenza, senza però nessuna garanzia di emancipazione da una condizione di assolu­ ta minorità economica e sociale e di completa assenza di diritti politi­ ci e civili. Si trattava di apolidi di fatto. Nel caso dei I 5 6.ooo arabi rimasti in Israele dopo la conclusione della guerra del I 948 iniziò, invece, un lungo e tortuoso percorso di integrazione, vissuto non sen-



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za difficoltà. Nei primi anni di esistenza del nuovo Stato le continue immigrazioni di ebrei ridussero peraltro la già esigua percentuale di arabi al I o% della popolazione. Le disposizioni legislative vigenti fino al I 966 assoggettavano la popolazione araba d'Israele a diversi vincoli e a numerose limitazioni come il coprifuoco, l'obbligo di ottenere dei permessi per poter viag­ giare, l'impedimento ad accedere a determinate zone del paese e così via. L' amministrazione militare alla quale erano subordinati, in base alle Emergency Regulations ( ''Norme d'emergenza" ) del I 948, generò un'attitudine ambivalente nei confronti del nuovo Stato, sospesa tra l'iniziale spirito di diffidenza, che in alcuni casi diveniva voluta estra­ neità, e la necessità, che con il tempo andò sopravanzando, di entrare a fare parte della società che si stava formando. L'ostacolo iniziale più rilevante fu costituito dalle trasformazioni nel mercato del lavoro. Molti arabi divennero lavoratori alle dipendenze d'ebrei. Questo mu­ tamento colpì non tanto la collocazione dei singoli nella scala sociale quanto il rapporto di dipendenza dal datore di lavoro, che non era più un arabo. Inoltre, da un'economia prevalentemente rurale si pas­ sò progressivamente alla predominanza dell'industria: da salariati agricoli gli arabi si trasformarono in proletariato industriale. A ciò si accompagnò la confisca delle terre abbandonate dai loro proprietari che divennero parte del demanio per essere poi ridistribuite ai nuovi immigrati. Nel I 950, infatti, la legge sulla proprietà assente autorizzò lo Stato ad assumere il controllo delle aree rurali i cui possessori era­ no espatriati o fuggiti all' estero durante la guerra del I 948 . Con la successiva legge sull'acquisizione della terra del I 9 5 3 il ministero del­ le Finanze venne incaricato di espropriare tali terre, attribuendone la proprietà all'autorità pubblica. Un ulteriore elemento di impatto fu il confronto con la cultura occidentale di cui la società israeliana era espressione. Da ciò derivò, per almeno un ventennio, una sostanziale marginalità della componente araba, che faticò molto a trovare op­ portunità d'integrazione. Israele era in perenne stato di mobilitazione contro i paesi circostanti e l'ideologia sionista enfatizzava l'importan­ za della presenza ebraica in tutte le sfere della vita civile e politica. Tra la popolazione ebraica, peraltro, non sussisteva unanimità di opi­ nione riguardo allo status da assegnare alla componente araba. In li­ nea di principio la Dichiarazione d'indipendenza del I 948 garantiva «completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti [gli] abitanti senza distinzione di religione, razza o sesso», facendo esplicita men­ zione dei «cittadini arabi dello Stato di Israele», che venivano chia­ mati a partecipare «alla costruzione dello Stato sulla base della piena e uguale cittadinanza e della rappresentanza appropriata in tutte le

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sue istituzioni provvisorie e permanenti». Tuttavia il paese per diver­ so tempo non si dotò degli strumenti necessari per attuare un' autenti­ ca politica di integrazione della componente non ebraica. Da ciò deri­ varono disparità di trattamento e discriminazioni di fatto. Per alcuni arabi l'implicazione fu il riconoscersi con quell'identità palestinese che andò maturando, soprattutto a partire dagli anni sessanta, tra i «fratelli della diaspora», nei campi profughi come nei Territori a maggioranza palestinese, ad est e a sud d'Israele. Per altri, invece, il fenomeno fu esattamente opposto, maturando uno sforzo aggiuntivo per colmare il divario con gli ebrei israeliani. Tra il 1 948 e il 1 967 i rapporti con la popolazione palestinese della Cisgiordania (in mano giordana) e di Gaza (controllata dagli egiziani) furono pressoché ine­ sistenti . Non di meno, i paesi arabi confinanti trattavano con suffi­ cienza se non con indifferenza gli arabi rimasti in Israele. Dopo la Guerra dei sei giorni, con la conquista dei Territori palestinesi, le cose cambiarono drasticamente. Da un lato, l'ennesima sconfitta get­ tava gli arabi nello sconforto; dall'altro si stabilivano rapporti con la componente dei Territori. Tra gli arabi israeliani andò quindi cre­ scendo l'attivismo politico che sfociò in forme sempre più articolate di rivendicazione dei propri diritti. A seguire, con la Guerra di Yom Kippur, l'infallibilità militare d'Israele fu messa a dura prova, mentre andava crescendo il potere di condizionamento economico dei paesi produttori di petrolio. Da questi due fatti, uniti all' affermazione del­ l'Organizzazione per la liberazione della Palestina come unico rappre­ sentante degli interessi dei palestinesi, gli arabi israeliani trassero mo­ tivi di rinnovata autoconsiderazione. Durante la seconda metà degli anni sessanta, infatti, quella che era nata nel r 964 come un' emanazio­ ne della Lega araba, assunse sotto la presidenza di Y asser Arafat ( r 929-2004) un'importanza e un' autonomia che le erano precedente­ mente sconosciute. L'oLP divenne presto un attore politico della sce­ na mediorientale, facendosi conoscere per il radicalismo della sua condotta politica ma anche per la strenua difesa della via nazionale all'indipendenza palestinese. I due decenni successivi si caratterizzarono così per i processi di integrazione, soprattutto sul piano economico, che coinvolsero la co­ munità araba. Processi ancora in atto ai giorni nostri. Sul piano elettorale, la presenza degli arabi si è tradotta in una rappresentanza parlamentare di 5 seggi, di contro ad un potenziale che li ha collocati, nel corso del tempo, tra i r 2 e i 20 seggi . Ciò implica il fatto che non pochi arabi abbiano votato per candidati ebrei. Sul piano dei comportamenti elettorali le tendenze storicamen­ te dominanti sono identificabili in alcuni grandi gruppi: il primo è 66



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quello costituito dagli elettori fedeli al Partito comunista israeliano, nelle distinte denominazioni che si è dato a seconda delle diverse tor­ nate elettorali (alle ultime elezioni, nel 2oo6, si è presentato con il nome di Hadash ); seguono i partiti della sinistra sionista, della quale gli arabi apprezzano il radicamento istituzionale, confidando così di potere vedere meglio rappresentati i propri interessi; ci sono poi le liste etniche, associate al partito laburista, assorbite dopo il 1 9 84 den­ tro il partito medesimo, che ha presentato da allora candidati arabi (sussiste ad oggi il Ra'am o United Arab List che ha attualmente 4 seggi); gli astensionisti integrali, infine, che non riconoscono legittimi­ tà alla politica israeliana pur essendo cittadini del paese. In più di un'occasione il voto degli arabi è stato determinante nello stabilire gli esiti delle elezioni. Gli arabi israeliani costituiscono a tutt'oggi quasi il 2 0 % della po­ polazione (nel 2oo6 sono state censite I .4 1 3 . 3 00 persone) . Sono per l' 82 % musulmani, per il 9 % cristiani e per l'altro restante 9% drusi. Gli arabi musulmani hanno il più elevato tasso di crescita demografi­ ca all'interno della popolazione israeliana. Circa 4 figli per donna, contro 2 , 7 tra le ebree israeliane (tenuto conto, però, che il dato si differenzia ulteriormente essendo maggiore la natalità nelle famiglie ortodosse) . Circa il 2 5 % dei bambini nati in Israele ai giorni nostri è musulmano. Inoltre, la popolazione musulmana è giovane: l'età media è di 1 8 anni, contro i 3 0 degli ebrei. La percentuale di ultrasessanten­ ni è del 3 % tra gli arabi musulmani e del r 2 % nella popolazione ebraica (Centrai Bureau of Statistics, 2004 ) . Le previsioni demografi­ che dicono che gli arabi diverranno il 25 % della popolazione israelia­ na entro il 2020. Questo a condizione che i Territori palestinesi non siano annessi unilateralmente da Israele. Nel qual caso i rapporti de­ mografici subirebbero un brusco capovolgimento, a netto favore degli arabi.

La Guerra dei sei giorni e la conquista dei Territori palestinesi Che le cose fossero in movimento, dopo l'apparente stabilizzazione derivata dalla guerra del 1 9 5 6 per il canale di Suez, era chiaro ai diri­ genti israeliani. Lo scenario regionale vedeva ora la presenza dell'oLP, la prima organizzazione autonoma palestinese, al cui interno al-Fatah ( " il giovane " , ma è anche acronimo di Movimento di liberazione na­ zionale) di Y asser Arafat andava assumendo un peso crescente. N el 1 963 era intanto asceso al potere in Siria, come in Iraq, il partito

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Ba'th ("Rinascita " ) . Nel caso di Damasco la componente vittoriosa era quella della sinistra rivoluzionaria di Nur al-Din e Salah Jdid, propensa a una contrapposizione radicale nei confronti d'Israele. L' appoggio ai guerriglieri /edayin , e agli atti di terrorismo che questi compivano, fu quindi rinnovato e intensificato. Ne derivò così un in­ cremento delle tensioni. Già la decisione israeliana del I 963 di devia­ re il corso delle acque del Giordano aveva ingenerato una secca ri­ sposta da parte della Lega araba che, a sua volta, si era adoperata per modificare il flusso di alcuni affluenti. La continua ripetizione di aggressioni compiute dai commandos di fedayin in Israele causò la ri­ sposta delle autorità di Gerusalemme che si adoperarono, con una serie di raid e di bombardamenti, per contenere la minaccia. In que­ sto frangente l'Egitto andava pensando che fosse possibile ristabilire l'equilibrio delle forze compromesso dalla conclusione del conflitto del I 95 6 . Si trattava di scalzare le forze dell'oNu, cosa che avvenne nel maggio del I 967, quando queste, su pressante richiesta del Cairo, si ritirarono da Gaza e da Sharm al-Shaykh . Il 2 I maggio l'esercito nasseriano si disponeva quindi sull'intero territorio del Sinai mentre il giorno successivo veniva chiuso al transito del naviglio israeliano il golfo di Aqaba, attraverso lo stretto di Tiran. Di fatto Israele veniva proiettata nella medesima situazione del 1 9 5 6 . Il governo di Gerusa­ lemme, presieduto dal laburista Levi Eshkol ed integrato dalla pre­ senza del leader dell'opposizione Menachem Begin ( I 9 1 3 - 9 2 ) , valutò la gravità della situazione disponendosi per un'azione preventiva. Il problema era quello di ottenere l'assenso da parte degli Stati Uniti che, fino a quel momento, si erano impegnati per il mantenimento dello status qua. Nasser, che lanciava proclami bellicosi, aveva sottostimato la ca­ pacità di risposta israeliana. La sua convinzione era che si potesse ar­ rivare ad un confronto militare coinvolgendo, quanto meno politica­ mente, un po' tutti gli stati della regione intorno ad una piattaforma avversa ad Israele ed isolando l'Iran filo-occidentale di Reza Pahlevi. Il 3 I maggio la Giordania aderì al patto militare siriano-egiziano; così l'Iraq il 4 giugno. Una condotta di questo genere, però, minava alla radice l'equilibrio regionale, chiamando in causa i due "protettori" , gli USA e l'uRSs. D a questa fuga in avanti derivò quindi l'assenso dei primi ad un'azione preventiva da parte di Gerusalemme. La mattina del 5 giugno l'aviazione israeliana, con un'azione ful­ minea, distrusse nel volgere di poche ore le forze aeree egiziane e si­ riane. Seguì un' azione da terra dove le truppe dell'mF, nel giro di sei giorni, si impadronirono della Striscia di Gaza e del Sinai egiziano, della Cisgiordania giordana, di Gerusalemme Est e dell'altopiano del 68

3.

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3 Medio Oriente dopo

FIGURA

Il

il

1 9 67

Territori conquistati e occupati da Israele dopo il ro giugno 1 967

Ma r Medit e r r a n e o •



Amman

Kerak

GIORDANIA •

Ma'an

Sin a i

ARABIA SAUDITA

EGITTO

Ma r R o s s o Fonte: Palestinian Academic Society far the Study of lnternational Affairs (PASSIA) .

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Golan, quest'ultimo fino ad allora in mano siriana. Le ostilità cessaro­ no il Io giugno, consegnando un quadro geopolitico completamente diverso da quello precedente. Le operazioni militari si erano rivelate di una strabiliante efficienza e di una notevole efficacia. A fronte di 676 morti e 2 .563 feriti per parte israeliana, gli Stati arabi lasciavano sul terreno più di 2o.ooo morti e buona parte del loro materiale belli­ co. Il territorio sotto occupazione era più del triplo di quello dello Stato d'Israele: se questo era ampio circa 2o.ooo chilometri quadrati, il Sinai ne misurava 6 I .ooo, la Cisgiordania 5 .7oo, il Golan 1 . 1 5 4 e la striscia di Gaza 3 8 3 . Soprattutto, era stata conquistata la parte orientale di Gerusalem­ me e le regioni della Giudea e della Samaria (corrispondenti alla Ci­ sgiordania) . Alla questione territoriale si aggiungeva un nuovo capito­ lo nel problema dei rifugiati. Le operazioni militari e l'avanzata israe­ liana avevano causato l'esodo di almeno 2oo.ooo persone, rinnovando e acuendo il problema dei profughi palestinesi. Per i cinque mesi successivi si discusse all'oNu su quale soluzione trovare alla situazione che si era venuta così a creare. I tentativi sovie­ tici di ottenere il voto su di una risoluzione che condannasse Israele, imponendole l'immediato ritiro dai territori conquistati, vennero im­ mediatamente rintuzzati e la bozza cassata. Al suo posto, il 22 no­ vembre 1 967, sarebbe stata approvata una risoluzione di compromes­ so, la 242, nella quale si stabilivano le condizioni per pervenire ad una pacifìcazione regionale. A tale riguardo si prevedeva la cessazione degli atti di ostilità reciproca da parte degli Stati della regione; il riti­ ro delle forze armate israeliane /rom territories, «da (non dai) territo­ ri»; il riconoscimento e il rispetto della sovranità, dell'integrità territo­ riale e dell'indipendenza politica di ogni Stato dell'area; la libertà di navigazione nelle vie d'acqua internazionali; il diritto all'esistenza di ciascuno entro frontiere sicure, riconosciute e non minacciate dall'al­ trui pressione politica e militare; la soluzione negoziata del problema, oramai ventennale, dei profughi (da intendersi non solo come pale­ stinesi ma anche ebrei) .

Tra euforia e angoscia La vittoria israeliana era stata non solo incontrovertibile ma anche schiacciante. Si trattava di un triplice risultato, di ordine militare, po­ litico e simbolico. Sul piano militare, Israele riaffermava un principio essenziale del suo decision making strategico, ovvero la capacità di es­ sere autosufficiente dinanzi alla minaccia araba, facendo ricorso alla



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dissuasione e all'azione preventiva. Sul piano politico, la risposta a Nasser, e a tutti i rutilanti proclami nei quali si preconizzava la di­ struzione dell'"entità sionista" , era netta: il mondo arabo usciva scon­ fitto dal braccio di ferro che aveva ingaggiato. Sul piano simbolico, infine, entrava in gioco la questione delle terre conquistate, elemento che avrebbe pesato, e di molto, sui successivi sviluppi del paese. Ad essere stati occupati militarmente erano infatti territori ritenuti da molti parte integrante di Eretz Israel, la "terra d'Israele" , ovvero la patria dei padri e della tradizione. Molto di più del Medinat Israel, lo "Stato d'Israele" , ottenuto con la Guerra d'indipendenza del 1 948-49 e con l'azione della diplomazia. Una nuova pagina nella storia secola­ re dell'ebraismo veniva così scritta attraverso quello che da molti era letto come il risultato del coraggio e della determinazione. Per alcuni era un parziale risarcimento dopo la tragedia dello sterminio, per altri il ristabilimento di un criterio di giustizia che per troppo tempo ave­ va fatto difetto o era mancato nella storia degli ebrei. Per altri anco­ ra, infine, il segno dell' avvento di tempi messianici. Un'ondata d'eufo­ ria pervase l'intero paese e, non di meno, le comunità ebraiche della diaspora. L'orgoglio era alle stelle, tutto sembrava ora possibile. Sul breve periodo, quindi, le cose parvero muoversi nel migliore dei modi. Il Partito laburista vide accrescere la sua popolarità e fu pre­ miato alle elezioni del 1 969, passando da 45 a 56 seggi, sfiorando così la maggioranza assoluta dei mandati. Non di meno l'opposizione di destra, rappresentata da Menachem Begin, che aveva fatto parte del governo di emergenza presieduto da Levi Eshkol, ottenne quella le­ gittimazione politica che dal 1 948, con la sua esclusione dall'esecuti­ vo, le era di fatto mancata. Fu a partire da questa esperienza che ini­ ziò il lungo cammino che dieci anni dopo l'avrebbe portata, con le elezioni del 1 977, a diventare maggioranza nel paese. Ben presto, tut­ tavia, l'amministrazione dei territori conquistati si rivelò fonte di una serie di problemi di non poco conto. In realtà si aprì un nuovo fron­ te nella scena politica israeliana, destinato a condizionarne la successi­ va evoluzione. Se fino al 1 967 ben pochi si erano avventurati nell'ipo­ tesi di modificare i confini del paese oltre le linee armistiziali del 1 949, dopo la Guerra dei sei giorni il tema dello spazio fisico e della sua espansione prevalse. Assumendo, a seconda delle accezioni accor­ datevi, di volta in volta i caratteri di un'opzione politica legata alla sicurezza dello Stato, o di una scelta in sintonia con il messianismo che connotava alcune istanze ideologico-culturali. In buona sostanza, l'ipotesi di un'Israele che si rifacesse alle di­ mensioni bibliche, ovvero di una "grande Israele" , entrò, e a viva for­ za, nell'agenda politica nazionale. Rifiutata dalle componenti laiche e 71

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di sinistra, che in ciò vedevano non solo la manifestazione di una pe­ ricolosa vocazione espansionistica ma anche la messa in discussione delle radici del progetto sionista, basato su di una concezione secola­ rizzata della politica, divenne ben presto il punto di forza di quel complesso di forze nazionaliste, collocate perlopiù a destra, che in ciò riconobbero il fattore propulsivo della propria piattaforma politica. Se per i primi Cisgiordania e Gaza costituivano territori "occupati " , per i secondi, invece, erano "liberati" . S e per i primi sussisteva una " questione palestinese" - che proprio con il I 967 iniziò ad assumere una veste rilevante -, per i secondi lo statuto delle popolazioni arabe autoctone rivestiva un'importanza secondaria. E ancora, se per i laici i territori erano privi di rilevanza simbolica, potendo essere oggetto di una cessione all'interno di un processo di pacificazione generalizza­ ta in tutta la regione, per i religiosizzati la questione del loro destino era subordinata ad una serie di vincoli legati, molto spesso, all' «ebrai­ cità» delle terre medesime, ossia l'essere state teatro della storia del popolo ebraico nel passato e il costituire, in ragione di ciò, il presente (e il futuro) del nuovo Stato. È quindi in tale contesto che nasce il fenomeno degli "insediamenti ebraici " , che a partire dalla fine degli anni ottanta divenne una delle questioni dirimenti in ogni trattativa di pace. Il successo militare, e la stabilizzazione della presenza israeliana sui nuovi territori, dovette confrontarsi con la presenza di una popo­ lazione araba che all'epoca era costituita da non meno di I .2oo.ooo persone. Nel volgere di poco tempo l'indeterminazione rispetto al cosa fare di questa porzione di terra andò trasformandosi in un peri­ coloso stalla politico. I governi laburisti, succedutisi fino al I 977, " decisero di non decidere " , ovvero di astenersi dall'assumere iniziati­ ve che non fossero di m era gestione dell'esistente. Fino alla fine degli anni settanta i territori non furono colonizzati, poiché la presenza permanente di israeliani in Cisgiordania e a Gaza non superò la sin­ gola decina di migliaia . Il piano Allon, formulato a ridosso della con­ quista militare, preconizzava l'annessione di alcune aree sul Giorda­ no, intorno a Gerusalemme e nel Golan, mentre demandava al con­ trollo arabo la parte restante. La prima versione del piano, presentata il 26 luglio 1 9 6 7 , intendeva offrire al governo le linee guida rispetto alle terre acquisite. Di fatto fu reso oggetto di continui aggiustamenti, fino al I 977, quando la sinistra perse le elezioni e, mutando radical­ mente il panorama politico-parlamentare, cambiò anche il modo di porsi rispetto al problema. Dal I 967 al I 973 furono quindi creati quarantacinque punti di popolamento. Ci sarebbero voluti però una decina d'anni per passare dalla marginalità di alcune scelte all'avvio 72



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di un vero e proprio processo di proliferazione residenziale. Nacque in questo periodo il movimento dei " coloni" che, da struttura sponta­ nea e autogestita, sarebbe diventato, nel corso dei due decenni suc­ cessivi, una potente figura nello scenario politico israeliano. Nell'ambito internazionale l'immagine d'Israele mutò. Da piccolo Davide che si contrappone al Golia arabo si giunse ben presto ad una sorta di capovolgimento delle parti . Diversi paesi le contestarono l'unilateralismo adottato nelle scelte relative alle questioni territoriali, a partire dalla politica annessionista nei confronti di Gerusalemme Est. A ciò ben presto si aggiunsero le severe critiche riguardo al trat­ tamento riservato alle popolazioni palestinesi, sottoposte ai vincoli e alle limitazioni proprie di un regime di occupazione. Si iniziò quindi a parlare di eccesso d'intransigenza ma anche di calcolo d'interessi. Israele perse l'aura di vittima e divenne un paese " conquistatore " . Uno dei primi effetti della Guerra dei sei giorni fu l a rottura delle relazioni diplomatiche con l'Unione Sovietica e i suoi satelliti (a parte la Romania) , insieme alle ulteriori frizioni che derivarono nel rappor­ to con molti dei paesi appartenenti al Terzo Mondo. Nella diaspora ebraica, dopo un primo momento d'entusiasmo, le preoccupazioni ebbero il sopravvento. L'identificazione con i destini di Israele si fece senz' altro più intensa, producendo un rapporto d'empatia che non aveva precedenti. Non di meno lo status del pae­ se, agli occhi di molti ebrei, mutò, trasformandosi da espressione del pionierismo sionista in un patrimonio da preservare; come tale, quin­ di, perennemente sottoposto al ricatto arabo e alla minaccia dell'an­ nientamento totale. Non si trattava più di costruire qualcosa ma di difendere l' esistente. Sul versante arabo, infine, già il I 0 settembre, nella Conferenza di Khartum, i leader dei paesi arabi avevano enunciato la dottrina del "fronte del rifiuto " consistente nei "tre no " : no alla pace con Israele, no al suo riconoscimento, no ai negoziati.

La nascita del Gush Emunim e i primi insediarnenti Fino alla Guerra dei sei giorni i territori conquistati da Israele erano stati sottoposti a sovranità e status legali tra di loro differenziati: Ge­ rusalemme Est, catturata dai giordani nel I 948, era stata incorporata nello Stato hashemita, così come la Cisgiordania; le alture del Golan erano territorio siriano, derivante dalla estensione della linea armisti­ ziale stabilita nel I 949; Gaza e il Sinai erano territorio dell'Egitto. Il I 967, nello scompaginare l'ordine costituito delle giurisdizioni t erri t o73

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riali, produsse un'onda lunga, destinata a riflettersi sul paese per un lungo periodo di tempo. Se sul piano politico la questione del futuro dei Territori pale­ stinesi - ma, più in generale, il problema di quanta e quale terra do­ vesse essere parte d'Israele - da allora costituì sempre di più un fat­ tore dirimente nella definizione degli schieramenti politici, sul piano culturale i cambiamenti furono ancora più netti. La destra storica, ov­ vero quella revisionista di Begin, presente in Parlamento, arrivò a stringere rapporti con quella nazional-religiosa. Di fatto ciò comportò che forze di ispirazione laica trovassero interlocutori in gruppi carat­ terizzati per la loro matrice messianica. Tuttavia il cambiamento, pri­ ma ancora che sul versante istituzionale, si misurò nei comportamenti e negli atteggiamenti dei gruppi extraparlamentari . Data al febbraio del r 974 la nascita del Gush Emunim ( ''Blocco dei fedeli " ) , il movi­ mento politico che divenne ben presto la maggiore espressione non istituzionale di questo processo che, a vario titolo, coinvolgeva una parte rilevante della società israeliana. Il Gush affondava le sue radici nella vittoria del r 967, quando si pose il problema di definire un pre­ sidio israeliano nei Territori palestinesi. Ai quesiti su quale dovesse essere la sua natura ( civile o militare) e sui tempi della sua durata (temporanea o indeterminata) , che avevano a che fare con il proble­ ma dell'esercizio di una qualche forma di sovranità, rispose, tra gli altri, il rabbino Moshe Levinger che insieme ad un gruppo di sosteni­ tori già nel r 9 6 8 aveva fondato l'insediamento di Kiryat Arba nei pressi di Hebron . Si trattava di insediarsi stabilmente. Fino allo shock della Guerra di Yom Kippur del r 97 3 le iniziative di civili israeliani o ebrei nei Territori furono perlopiù il frutto di scelte maturate indivi­ dualmente. L' anno successivo, tuttavia, gli adepti del rabbino Tzvi Y ehuda Kook decisero di formalizzare l'esistenza di un movimento politico a favore della colonizzazione integrale delle terre palestinesi. Il Gush Emunim si caratterizzò fin da subito come un'as sociazione extraparlamentare, evitando di essere coinvolto direttamente nei mec­ canismi della mediazione politica. Tuttavia strinse uno stabile sodali­ zio con il Ma/dal (acronimo di Mijlega Datit Leumit, "Partito nazio­ nale religioso" ) , espressione della componente religiosa del movimen­ to sionista, rappresentato alla Knesset da una decina di parlamentari. Questa sorta di delega di rappresentanza che, di volta in volta, si è estesa anche ad altre formazioni politiche ha permesso al movimento di muoversi per parte sua con la massima libertà, giocando a proprio favore le contraddizioni esistenti tra i diversi partiti e nelle coalizioni di governo, senza doversi sottoporre al vaglio degli elettori. Il potere di condizionamento che ne è derivato gli ha permesso di "influenzare 74



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senza essere influenzato " riguardo a quello che è stato il principale obiettivo della sua azione, la costituzione e l' ampliamento degli inse­ diamenti ebraici in Cisgiordania e a Gaza. I fondamenti ideologici del Gush Emunim sono basati sugli inse­ gnamenti del rabbino Abraham Kook e di suo figlio Tzvi Y ehuda. La costituzione nel 1 94 8 dello Stato d'Israele, secondo la loro dottrina, aveva avviato i tempi dell'era dell'avvento, che si sarebbero conclusi con la comparsa del vero messia. I sionisti laici avevano inconsape­ volmente posto le condizioni affinché la promessa inscritta nei testi della tradizione si potesse finalmente realizzare. Per fare ciò, tuttavia, occorreva andare oltre gli angusti confini dello Stato, cercando di ri­ costruire l'originaria Eretz Israel, la "terra d'Israele " , nella sua inte­ rezza. La costituzione di insediamenti, quindi, si inscriveva non all'in­ terno di un progetto di controllo del territorio e delle sue risorse ma in ottemperanza al disegno della volontà divina. A questa connotazione ideologica, rifacentesi ad una lettura attua­ lizzante e fondamentalista del patrimonio religioso ebraico, i militanti del Gush Emunim, quasi tutti residenti negli insediamenti che dalla seconda metà degli anni settanta iniziarono ad essere costituiti, uniro­ no anche una particolare connotazione culturale, caratterizzandosi per un atteggiamento anticonvenzionale. Pur sentendosi legati ad una concezione tradizionalista dell'ebraismo, il tipo di vita da essi condot­ to, inteso come espressione di un nuovo pionierismo consacrato alla realizzazione del progetto di estensione della sfera di controllo terri­ toriale d'Israele - indipendentemente dall'assenso delle autorità -, li indusse ad assumere condotte politicamente militanti, assai distanti da quelle proprie ai religiosi quietisti. Nel modo di vestirsi, di compor­ tarsi, di parlare sembravano infatti più prossimi ai loro accesi avversa­ ri, i militanti della sinistra pacifista, propensi invece ad abbandonare i Territori e a difendere fino in fondo la laicità dello Stato. Nel feno­ meno del Gush Emunim si coglievano molti degli aspetti del montan­ te fondamentalismo religioso: ad un background fondato sul richiamo alla centralità della religione nella vita quotidiana e al superamento della sua separazione dalla politica nella sfera pubblica, si sommava un'estrema adattabilità a quelli che sono gli imperativi della moderni­ tà. In buona sostanza, Torah ( "Insegnamento " , "Legge" , il Pentateu­ co o Antico Testamento) e jeans, kippà (il copricapo usato dai prati­ canti) e computer. Dopo la guerra del 1 9 6 7 , pertanto, il problema della destinazione dei Territori palestinesi conquistati da Israele divenne, insieme alla si­ curezza, la questione per eccellenza nel mondo politico israeliano. A seconda dei punti di vista si trattava di "amministrazione" tempora75

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nea, di "occupazione" illegittima, di "annessione" lecita, di terre " di­ sputate" o " contese" , " riconquistare" o "sottratte" e così via. Il lin­ guaggio non faceva che registrare il contenzioso giuridico, la diatriba politica, la frattura culturale e sociale che le conquiste del I 967 ave­ vano innescato. Gli insediamenti, che soprattutto a partire dalla fine degli anni settanta, su impulso del governo Begin, vennero costruiti sempre più diffusamente, da temporanee installazioni si trasformarono in veri e propri centri abitati fino a trasmutare in agglomerati urbani. Quindi, non solo unità residenziali ma entità provviste di tutti i servizi occor­ renti ad un'esistenza autonoma. Più che fortilizi, ancorché rigorosa­ mente separati dal circostante ambiente palestinese, divennero delle municipalità a se stanti. Il processo riguardò un po' tutte le terre conquistate: la Cisgiordania, la striscia di Gaza, il Sinai, Gerusalemme Est e le alture del Golan. In alcuni casi si sarebbe pervenuti ad una successiva soluzione, negoziata o unilaterale. La restituzione della pe­ nisola del Sinai, nel I 9 8 2 , avrebbe decretato lo smantellamento degli insediamenti presenti. Così come, in anni più recenti, con il ritiro israeliano da Gaza. Non la stessa cosa sarebbe invece avvenuta a Ge­ rusalemme Est, la cui municipalità sarebbe stata estesa di molto, comprendendo una vasta porzione di terre palestinesi, per essere poi annessa nel I 9 8o con una Legge Fondamentale; o, ancora, come nel caso delle alture del Golan , con la legge del I 98 I che trasformava i suoi abitanti in cittadini israeliani.

Il problema del terrorismo La sconfitta araba nel I 967 non fece recedere gli avversari d'Israele dai loro intendimenti bellicosi. Dal I 968 al I 970 l'Egitto combatté un'intensa "guerra d'attrito " . Si trattava di creare condizioni più favo­ revoli a sé, nel tentativo di recuperare la penisola del Sinai e ritornare al pieno controllo della riva orientale del canale di Suez. Si inserì in questo frangente la proposta di mediazione americana, avanzata con il piano Rogers, che prevedeva il ritiro d'Israele entro i precedenti confini con l'Egitto. Gli status della striscia di Gaza e di Sharm al­ Shaykh sarebbero stati fatti oggetto di negoziazioni. Gerusalemme sa­ rebbe rimasta unita ma sotto una gestione condominiale da parte del­ le tre comunità religiose maggioritarie. Ad Israele sarebbe stata ga­ rantita la libertà di navigazione nelle acque del canale di Suez. Il pia­ no fu rigettato dall'Egitto ma accolto con molta freddezza anche da Israele. In generale, tutti i tentativi diplomatici fallirono. Nasser con-



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fidava, grazie anche ai copiosi aiuti sovietici, di potere ripristinare la capacità bellica che era andata distrutta. La presenza di consiglieri militari mandati dal Cremlino rischiava, in prospettiva, di alterare l'equilibrio della situazione creatasi con la conclusione della guerra. Già nel giugno del I 968 l'artiglieria egiziana aveva intrapreso canno­ neggiamenti delle postazioni israeliane, le quali erano state fortificate nella linea Bar Lev, una serie di trentacinque fortini distribuiti dal nord al sud del canale e presidiati dalla fanteria. Ne derivò un enne­ simo cessate il fuoco e poi ancora altri atti di ostilità, tra i quali bombardamenti aerei egiziani seguiti da risposte israeliane. Il ra'is cairota non faceva segreto con nessuno delle sue intenzioni: ripren­ dere il conflitto in campo aperto, definito come una "guerra di libe­ razione", non appena avesse raggiunto un soddisfacente dispositivo d'offesa. Per ottenere questo risultato gli occorreva il pieno sostegno di Mosca, mentre Washington andava disapprovando l'effetto di escalation che i continui duelli di artiglieria stavano innescando in­ torno al canale di Suez . L'impegno diretto dei militari sovietici, pe­ raltro, si spinse alla partecipazione ai combattimenti aerei. La guerra di attrito ebbe termine solo con la morte del leader egiziano, il 2 8 settembre 1 970, al quale succedette i l suo vice Anwar al- Sadat ( I 9 I 8- 8 I ) . Nel complesso si calcola che ad Israele questo conflitto non dichiarato sia costato 367 morti e più di 3 .ooo feriti (il bilancio egiziano fu di non meno di I o . o oo deceduti, tra militari e civili) . En­ trambe le parti considerarono una vittoria l'esito del confronto. Israe­ le riteneva di essere riuscita a contenere l'offensiva egiziana, senza dovere subire mutamenti territoriali . Una convinzione, rivelatasi poi tragicamente erronea, che spinse l'allora gruppo dirigente dell' eserci­ to a credere che il dispositivo difensivo, costituito dal sistema di forti­ ni stanziali, fosse sufficiente a far fronte ad un' eventuale spallata egi­ Ziana. Alla fine degli anni sessanta il fenomeno del terrorismo medio­ rientale assunse toni d'inusitata eclatanza, divenendo un fenomeno con un forte impatto mediatico. Dirottamenti di aerei, raid operati da commandos clandestini, rapimenti e assassinii costituivano i diversi atti di una guerra non formalmente dichiarata ma costantemente combattuta. L' azione dell'oLP, da questo punto di vista, fu fonda­ mentale, essendo la centrale organizzativa e la struttura politica che tirava i fili di una complessa attività. Se da una parte l'obiettivo era quello di sollecitare l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale sul destino dei profughi palestinesi, dall'altra l'intenzione era quella di sfiancare Israele, dimostrando che la sua superiorità sui campi di bat­ taglia poteva essere contrastata efficacemente solo attraverso la lotta 77

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clandestina. Di quest'ultima si offriva una visione romantica, molto attenta a raccogliere il consenso dell'opinione pubblica internaziona­ le, ponendo in secondo piano i costi umani e sociali delle violente azioni armate. Un caso emblematico, in tal senso, fu il rapimento e la morte di undici atleti israeliani durante le Olimpiadi di Monaco, nel settembre del 1 9 7 2 . La dinamica degli eventi, la dilettantesca gestione da parte delle autorità tedesche, la spasmodica attenzione dei mezzi di comunicazione, gli effetti di amplificazione al limite della spettaco­ larizzazione, la tragedia consumatasi nell'indifferenza dei più, defini­ vano - nella loro essenzialità - i caratteri del fenomeno terroristico nell'età contemporanea. A quei terribili fatti altri se ne sarebbero an­ cora aggiunti, come il massacro di ventuno allievi di una scuola ele­ mentare di Ma'alot, nel nord d'Israele, il 15 maggio 1 9 74 ad opera del Fronte democratico per la liberazione della Palestina, organizza­ zione di orientamento marxista radicale, aderente all'oLP. Peraltro, sul significato stesso da attribuire al concetto di terrori­ smo non vi è mai stato un assenso generale. A quanti contestavano alle organizzazioni palestinesi, allora come oggi, di farvi ricorso c'è chi ha risposto che la politica israeliana costituiva e costituisce un esempio di " terrorismo di Stato " , esercitandosi contro civili perlopiù indifesi. La diatriba tra i primi e i secondi è destinata a non esaurirsi, avendo a fondamento non una sobria e serena analisi delle circostan­ ze ma una preventiva presa di posizione, fondata perlopiù su motivi ideologici. La posta in gioco era e rimane la delegittimazione etica dell'avversario. Le due questioni, in sé irrisolvibili, su dove debba es­ sere posta la linea discriminante tra legittimità e illegittimità nell'uso della forza, e su quali siano i soggetti abilitati a potervi ricorrere, sono alla radice della netta contrapposizione tra chi ha giustificato l'operato d'Israele e chi si è riconosciuto, invece, in quello delle orga­ nizzazioni armate palestinesi. È tuttavia assodato il fatto che quando si parla di terrorismo ci si riferisca ad una serie di azioni coordinate, di natura violenta, impre­ vedibili nei luoghi, nei tempi e nei modi di manifestarsi, condotte contro i civili da persone o gruppi di persone appartenenti ad orga­ nizzazioni perlopiù non governative. A fondamento di esse vi è l'in­ tenzione non tanto di procurare danni materiali quanto di ingenerare uno stato permanente di insicurezza, se non di paura, tra i potenziali destinatari. Per ottenere questo risultato, fondamentale è l'amplifica­ zione che può essere fatta degli atti più eclatanti attraverso il ricorso ai mass media, cassa di risonanza dei gesti a forte contenuto simboli­ co. Ogni atto di violenza assume così il carattere di performance pub­ blica, i cui effetti si dilatano in proporzione all' eco mediatica. Si è



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quindi in presenza non di un movimento sociale o di una ideologia ma di una tattica e di un metodo che si alimentano di obiettivi politi­ ci. Il terrorismo mediorientale, pur praticato sempre da gruppi politi­ ci non immediatamente identificabili con stati o autorità governative, ha spesso ottenuto la silenziosa collaborazione di questi ultimi, i quali hanno così cercato di modificare lo status quo con il ricorso alla vio­ lenza.

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4 La cns1 dello Yom Kippur e l'as cesa della destra al potere ( I 97 3 - 8 I )

La Guerra del Kippur: la sorpresa e lo smacco Il 6 ottobre 1 9 7 3 , giorno del Kippur ( " espiazione" , " riparazione " ) per gli ebrei, rischiò di passare alla storia come la giornata della catastro­ fe per Israele. Una coalizione di forze tra Egitto e Siria intraprese un attacco congiunto, effettuato a sorpresa, impegnando le forze dell'e­ sercito israeliano nel Sinai e nel Golan . Nei primi due giorni l'avanza­ ta da parte degli aggressori fu costante, incontrando un'opposizione fragile e scoordinata, dopo di che subentrò una fase di stalla alla qua­ le seguì, infine, la risposta israeliana. Già nella seconda settimana del conflitto Gerusalemme aveva recuperato non solo l'iniziativa, ma era riuscita a respingere gli attaccanti al di fuori dei territori nei quali erano avanzati. Se le alture del Golan erano di nuovo passate in mano israeliana le truppe di Tsahal avevano diviso con un cuneo of­ fensivo le armate egiziane, proseguendo fin oltre il canale di Suez, penetrando in territorio egiziano e giungendo a wo chilometri dal Cairo . Le vicende belliche, tuttavia, ancora una volta non rendono idea delle ragioni e degli effetti di una guerra che ufficialmente si concluse con la risoluzione 338 del Consiglio di sicurezza delle Nazio­ ni Unite, votata il 22 ottobre, accettata dai contendenti ed entrata in vigore il giorno successivo, malgrado il proseguimento di alcuni spo­ radici combattimenti. La guerra fu progettata per almeno un anno da parte araba. La coalizione tra Egitto e Siria, con il sostegno di Gior­ dania e Iraq, nasceva dalla convinzione che ciò che era stato perso con la Guerra dei sei giorni potesse essere recuperato sul campo di battaglia. Già negli anni precedenti al conflitto si era avuta una serie continua di incidenti militari sulle linee armistiziali. Anwar al-Sadat, successore di Nasser, era convinto della necessità di rafforzare la sua leadership con una vittoria militare, non necessariamente di grosse di­ mensioni. Essenziale era il recupero del Sinai e di Gaza, nel mentre Sr

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l'ipotesi di un accordo negoziato con Israele non trovava riscontri . Da una parte, vi era l'indisponibilità siriana, che riteneva di poter in­ fliggere, grazie alla ricostruzione delle proprie forze armate, un colpo secco a Gerusalemme. Dall'altra, vi era la convinzione israeliana, rive­ latasi poi fallace, di poter resistere, contando su una superiorità mili­ tare non tanto numerica quanto operativa e tattica. I territori conqui­ stati nel r 967 davano l'idea, in sé assai poco fondata, di possedere finalmente quella "profondità strategica" che era precedentemente mancata. La costruzione della linea fortificata Bar-Lev si inscriveva in questa concezione dei rapporti di forza, attribuendo all'esercito israe­ liano una funzione di difesa stanziale, basata su postazioni fisse. Ma la vera risorsa delle IDF era costituita dalla mobilità, in terra come in cielo. Sadat era impegnato a consolidare la sua leadership in un Egitto in gravi difficoltà, economiche e sociali. La sconfitta nella Guerra dei sei giorni pesava come un'onta, una vergogna nazionale che doveva essere superata, a qualsiasi costo, per poi procedere ad alcune indero­ gabili riforme interne, soprattutto sul versante economico. Per pun­ tellare il proprio potere, altrimenti fragile, una vittoria o comunque un'iniziativa sui campi di battaglia avrebbe senz' altro raccolto l' assen­ so della popolazione. Gli altri Stati arabi, tuttavia, sia pure con l'ecce­ zione della Siria, erano invece riluttanti rispetto a operazioni militari per le quali intravedevano i numerosi rischi e gli scarsi ricavi. L'o­ biettivo di Sadat e di Hafez Assad ( r 9 3 0-2ooo) era quello di mutare repentinamente gli equilibri nella regione per poi, eventualmente, trattare con Gerusalemme da posizioni di forza. La Guerra del Kip­ pur si svolse nel volgere di meno di tre settimane. Sul piano militare si tradusse, ancora una volta, in un risultato sostanzialmente favore­ vole agli israeliani, che mantennero le posizioni acquisite nel conflitto precedente mettendo in difficoltà gli eserciti avversari, a partire dall'i­ solamento e dall'accerchiamento della m armata egiziana. Ma la vera partita, come spesso capita in tali circostanze, si giocava su altri piani. Intanto il bilancio delle perdite era, per gli standard abituali di Geru­ salemme, notevolmente elevato: 2 .656 morti, 7 . 2 5 0 feriti, 400 carri ar­ mati distrutti e almeno altrettanti danneggiati, oltre a un centinaio di velivoli abbattuti o seriamente colpiti ( così in Rabinovich, 2004 ) . Sul fronte arabo le cifre erano molto più alte, con non meno di r o.ooo morti e 3o.ooo feriti, ma l'impatto sulle opinioni pubbliche nazionali nettamente diverso. In Israele, infatti, iniziò un lungo esame collettivo sulle responsabilità e sulle inefficienze che avevano causato lo scacco iniziale. Si era verificata una grave sottovalutazione del potenziale of­ fensivo degli avversari ma, soprattutto, ci si era presentati impreparati



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dinanzi alla prova delle armi. Benché l'aggressione fosse stata sferrata nel giorno del Kippur - quando l'intero paese si fermava per 25 ore, momento quindi in cui prevedibilmente i riflessi erano maggiormente allentati - risultava comunque inconcepibile che le IDF non avessero manifestato capacità d'iniziativa. L'intelligence si era fatta sviare dai piani disinformativi messi in atto dalla controparte egiziana, predicendo la non imminenza di un attacco. A ciò si era aggiunta la dipendenza completa dai rifornimenti americani, essendo venuti a mancare quelli dei paesi europei, sotto­ posti al ricatto per parte araba di un boicottaggio commerciale e di un embargo petrolifero. A novembre, dopo la cessazione delle ostili­ tà, venne istituita la Commissione Agranat, la cui funzione era di indagare sulla dinamica degli eventi e sulle cause dell'iniziale défail­ lance. Ne emerse un quadro dove al severo giudizio nei confronti del­ la condotta della leadership politica e militare d'Israele si accompa­ gnavano dure critiche rispetto allo stato di impreparazione e alla mancanza di coordinamento tattico tra le unità dell'esercito. Il pre­ cetto fondamentale per il quale Israele non può permettersi di per­ dere una guerra sembrava, in questo caso, essere stato messo in di­ scussione. Quindi, se la situazione antecedente al conflitto era stata ristabilita sul campo di battaglia grazie soprattutto ai generosi e cele­ ri aiuti dagli Stati Uniti, che attraverso l'Operazione Nickel Grass avevano dato vita fin dal r 2 ottobre ad un ponte aereo, sul piano politico le cose andarono ben diversamente. Quella che costituiva per i paesi arabi una sconfitta militare - nessuno di essi era riuscito a riconquistare anche solo parte delle terre perse nel r 967 - fu inve­ ce celebrata come una vittoria morale e simbolica. L'avere preso in contropiede Israele era vissuto come un successo. Il mito della inat­ taccabilità del paese sembrava ora essere messo in discussione. Ma un altro fattore entrava prepotentemente in gioco ed era quello del destino dei Territori sui quali Gerusalemme esercitava una giurisdi­ zione temporanea: la Cisgiordania e Gaza, oltre al Sinai egiziano, sta­ vano per diventare l'oggetto delle pretese politiche palestinesi e dello scambio che di lì a non molto avrebbe portato ad un accordo di pace con l'Egitto. Non di meno, la Guerra di Yom Kippur ebbe modo di riflettersi su tutto l'Occidente in ragione del rinnovato potere di contrattazione sul quale i paesi produttori di petrolio sapevano ora di potere conta­ re. Il conflitto armato era stato condotto da due protagonisti arabi, Egitto e Siria, ma sostenuto da molti comprimari che, pur non vo­ lendo risultare sulla scena, avevano abbondantemente aiutato i due attori principali. Benché a tutt'oggi sia impossibile determinare l' am-

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montare dei sostegni finanziari e militari, si sa per certo che vi con­ corsero l'Arabia Sa udita, il Kuwait, il Marocco, la Libia, l'Algeria, la Tunisia, il Sudan ma anche Cuba e l'Uganda. Si trattò perlopiù di forniture di materiale da combattimento, di consiglieri militari e di contingenti operativi che parteciparono agli scontri ma in posizione defilata. Tale impresa, infatti, sarebbe stata impossibile per sola mano cairota o damascena, ovvero se non avesse potuto contare su un re­ troterra finanziario e politico di ampia collaborazione. Quel che deri­ vò dalla crisi del r 9 7 3 fu quindi la rinnovata capacità di condizionare l'andamento dei mercati assunta dall'oPEC, il cartello dei produttori di greggio. Di fatto il prezzo del petrolio quadruplicò nel giro di po­ chi mesi e decuplicò nel volgere di pochi anni. Lo shock petrolifero, così come viene ricordato, fu anche la conseguenza della vittoria mili­ tare d'Israele, "fatta pagare " , a caro prezzo, all'intero Occidente. In questo modo si sapeva di avere un ottimo strumento per condiziona­ re le scelte europee (ma anche americane) nei confronti del Medio Oriente oltre, ovviamente, a poter ottenere notevoli ritorni in termini finanziari. In tale modo i paesi arabi, che sancirono l'avvio di tale po­ litica con il vertice del Kuwait del r 7 ottobre r 9 7 3 , superarono la divisione tradizionale, intercorrente al loro interno, tra paesi moderati e paesi radicali rispetto alla condotta da assumere nei confronti d'I­ sraele. La frattura ideologica, ora, veniva meno trovando nel petrolio, come arma di mediazione ma anche di ricatto, un formidabile stru­ mento di pressione.

La crisi del governo Meir e il declino della leadership laburista Gli effetti della Guerra di Yom Kippur si fecero sentire in Israele per un lungo periodo, accompagnando di fatto tutti gli anni Settanta. In tempi brevi ebbero ripercussioni politiche, comportando nel giro di pochi mesi un cambio di governo, con il passaggio del testimone da Golda Meir a Yitzhak Rabin ( r 922-95 ) . In tempi più ampi, ovvero nel volgere di poco più di tre anni, portarono al declino del partito laburista (diviso al suo interno anche da un dilacerante conflitto tra i due " cavalli di razza " , Rabin e Peres) e alla sua sostituzione con la leadership della destra di Menachem Begin. Quella che andò in crisi, con i fatti del r 9 7 3 , era la convinzione che il rapporto con il mondo arabo potesse essere risolto con il solo confronto militare. Il senso d'insicurezza, che si era sottilmente insinuato già con la vittoria del r 967, quando l'orizzonte spaziale si era dilatato ben oltre gli angusti



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limiti delle originarie linee armistiziali, diveniva ora un sentimento preponderante tra la popolazione. Molte delle spinte al cambiamento manifestatesi negli anni successivi trassero da questa lacerazione la loro origine. L'esercito, istituzione nazionale di prima grandezza, usciva ridimensionato nel suo ruolo di garante dei fragili equilibri alle frontiere. Al suo interno la polemica accese gli animi, vivacizzando quella che fu conosciuta come la "guerra dei generali" . La discussio­ ne pubblica sulla condotta tenuta in battaglia dalle IDF divise i co­ mandanti. In particolare andarono emergendo frizioni tra chi, come Ariel Sharon (nato nel I 9 2 8 ) , aveva assunto ruoli operativi, propen­ dendo per soluzioni basate sull'azione preventiva e di grandi dimen­ sioni contro gli avversari e quanti, soprattutto nello Stato maggiore, ritenevano preferibile una politica militare basata sulla stabilizzazione territoriale e la difesa. Gli uni non lesinarono contro gli altri le accu­ se d'incapacità e d'inefficienza. Il dibattito, ben lontano dall'essere un mero confronto tecnico tra distinte tattiche di combattimento, richia­ mava alcune domande di fondo che, ben presto, coinvolsero l'intero paese: quale politica doveva essere assunta nei confronti dei paesi arabi che non avevano riconosciuto Israele? Cosa si sarebbe dovuto fare dei Territori palestinesi, egiziani e siriani, conquistati nel I 967? Le opzioni si ridussero in buona sostanza a due: acquisire forza per trattare; in alternativa, trattare per acquisire forza. Era l'ordine di priorità a dividere in due gli schieramenti. Il primo, nel quale si rico­ nosceva un composito insieme di soggetti, era sostenuto dalla destra che da sempre andava denunciando l'impossibilità di stabilire accordi con il mondo arabo. Di esso si diceva che "l'unica lingua che riesce a capire è quella della forza" . Il ragionamento, in coerenza con questo presupposto, sosteneva che qualsiasi trattativa con i paesi vicini impli­ casse prioritariamente l'acquisizione di una posizione d'indiscutibile superiorità. Quindi, non solo la capacità di mantenere l'iniziativa mi­ litare nelle proprie mani ma anche quella famosa "profondità strategi­ ca" , costituita dal controllo di uno spazio adeguato ad un margine di manovra ampio, che ad Israele era venuto a mancare fino al I 967. In quest'ottica, le rivendicazioni che i palestinesi venivano progressiva­ mente avanzando, a partire dalla costituzione di uno Stato proprio, erano considerate non solo inaccettabili ma anche prive di fondamen­ to. I palestinesi, come popolo, non esistevano, trattandosi semmai di un'appendice dei paesi arabi già esistenti. A questo indirizzo si ricollegavano poi quelle componenti, non necessariamente solo della destra religiosa, che rivendicavano da sem­ pre una espansione territoriale d'Israele, sia per ragioni pragmatiche

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che nell'ottica di un disegno ricollegato ad istanze metafisiche (il compimento della ricostruzione dello Stato di biblica memoria). La sinistra, al potere ininterrottamente dal I 948, si riconosceva in­ vece nell'ipotesi che si dovesse mettere mano alla situazione attraver­ so una trattativa per consolidare i confini storici derivati dalla Guerra d'indipendenza. Si trattava, tuttavia, dell'opzione meno praticabile, poiché implicava l'identificazione di interlocutori tra avversari che continuavano a sostenere di avere a che fare non con un soggetto po­ litico, lo Stato d'Israele, ma con quell"' entità sionista" che, prima o poi, sarebbe scomparsa. C' era inoltre il problema dell'economia che, dopo il I 9 7 3 , era tor­ nata in crisi. Inflazione e deficit nella bilancia dei pagamenti, insieme all'espansione del debito pubblico, si stavano di nuovo manifestando, creando scontento tra larga parte dell'elettorato. Il partito laburista concordò con il sindacato nazionale, l'Histadrut, e le associazioni de­ gli industriali una politica di contenimento dei prezzi, delle retribu­ zioni e dei profitti che calmierò la domanda di beni e servizi per un certo periodo di tempo. Seguì ancora una svalutazione della moneta nazionale, misura che, sommata alle precedenti, se servì a contenere gli effetti perversi in campo macroeconomico, ingenerò tuttavia disoc­ cupazione e sottoremunerazione dei lavoratori. Nel I 976 il tasso di inflazione si era ridotto a meno del 3 0 % annuo, mentre le importa­ zioni erano state nettamente ridimensionate. Tuttavia, la compressio­ ne dei redditi e la perdita di posti di lavoro giocarono politicamente contro la maggioranza laburista. Alle elezione politiche del I 7 maggio I 977 il partito che era stato di Ben Gurion fu clamorosamente sconfit­ to, passando da 5 I a 32 deputati, mentre il Likud ( ''Unione" o "Coali­ zione" ) saliva da 39 a 43 · Più che la vittoria della destra era la sconfit­ ta della sinistra. In Israele si parlò di ma 'apakh (il " cambiamento" nel senso di rovesciamento degli equilibri preesistenti e di costituzione di nuove egemonie) , una svolta netta che portava al potere, in una coali­ zione che escludeva per la prima volta la sinistra riformista (quella che aveva affermato l'impossibilità di governare con i «comunisti del Maki e i fascisti dell'Herut»), i nipotini di Jabotinsky. Il vero vincitore era Menachem Begin, estromesso nel I 948 dalla scena politica e costretto a trent'anni di opposizione. Sul piano sociale in quegli anni erano pe­ raltro giunte a maturazione alcune trasformazioni di lungo periodo. Il radicamento in Israele degli ebrei sefarditi e orientali , nati nei paesi del Maghreb ( " Occidente " ) e del Mashreq ( ''Oriente " ) mediorientale e immigrati durante la fine degli anni quaranta e gli anni cinquanta, a causa delle espulsioni in massa dai paesi d'origine, iniziava a produrre 86



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i suoi tangibili effetti. «Un grande numero di immigrati ebrei non eu­ ropei, economicamente e socialmente svantaggiati in rapporto ai loro compatrioti askenaziti arrivati dall'Europa con i flussi immigratori precedenti, aveva trasferito i suoi voti dalla sinistra alla destra, deci­ dendo così del risultato delle elezioni. Si comprese, allora, per la pri­ ma volta che la maggioranza dell'elettorato di destra era costituito da ebrei d'origine orientale» (Ezrahi, in Barnavi, Friedlander, 2ooo, p. 7 8 3). Si trattava di un netto segno di etnicizzazione del voto, dove alla preesistente frattura tra sinistra e destra veniva a sovrapporsi sempre di più quella tra ebrei occidentali e orientali. Di quanto la destra veniva proponendo gli elettori raccolsero sia il richiamo all'orgoglio nazionalista sia, all'interno di questo, l' attenzio­ ne dedicata alle "fasce deboli " della società israeliana, che venivano coinvolte nella politica attraverso la rivendicazione di spazi di rappre­ sentanza e di visibilità. Il Likud accusava i laburisti di avere praticato un indirizzo politico elitario ed esclusivista, rivolto a soddisfare i bi­ sogni del suo elettorato, perlopiù costituito da ebrei di origine asche­ nazita, occidentale, di contro agli interessi di tutta la collettività. Il partito di Begin precorreva temi che stavano per alimentare la lunga stagione !iberista, oramai alle porte. Si avvicinavano gli anni di Ro­ nald Reagan e Margareth Thatcher, quando si rivendicò apertamente la primazia dell'iniziativa privata su quella pubblica, cercando di dare spazio al mercato e riducendo l'intervento dello Stato. Per la destra vincitrice alle elezioni del 1 977 si trattava soprattutto di aggredire alla radice il potere e il radicamento economico dell' Histadrut, il vero ser­ batoio di consensi della sinistra. Già molto prima delle elezioni era iniziata una martellante campagna contro lo "statalismo " laburista, l'elevato prelievo fiscale, la discrezionalità nelle spese, la farraginosità dei meccanismi amministrativi. Temi tipici del neoconservatorismo, che avrebbero caratterizzato poi tutti gli anni ottanta e che solo in parte fotografavano la realtà d'Israele, dove già nel lungo quindicen­ nio di espansione economica, tra il 1 9 5 8 e il 1 9 7 3 , si erano avviate riforme strutturali, con l'apertura ai mercati e il contenimento della spesa pubblica. La filosofia di fondo della nuova maggioranza politica si caratterizzò quindi per una netta discontinuità rispetto agli indirizzi laburisti, anche se non riuscì ad aggredire permanentemente nessuno dei problemi strutturali che attanagliavano l'economia del paese. Le drastiche misure di liberalizzazione dei mercati produssero effetti di­ seguali. L'inflazione riprese a correre ancora di più che negli anni precedenti, raggiungendo nel 1 9 7 8 il 7 0 % per poi passare, nel 1979, al 1 00 % , fino alla clamorosa impennata del 4oo% annuo nel 1 9 84.

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Anche gli altri indici si rivelarono più che insoddisfacenti: il debito estero lievitò, minacciando la credibilità finanziaria del paese e la sua solvibilità, mentre il debito interno, non di meno, crebbe ancora. Più in generale nel paese si produsse una trasformazione profon­ da. Sul piano politico veniva a mancare un partito di maggioranza relativa, in grado di essere il perno costante delle coalizioni di go­ verno (nel r 9 84 si sarebbe inaugurata la politica dei governi di " unità nazionale" tra destra e sinistra). Sul versante diplomatico si giunse in­ vece ad un accordo-quadro, a Camp David, con l'Egitto di Anwar al­ Sadat, nell'ottica di una progressiva stabilizzazione dei rapporti con i maggiori paesi arabi. La questione del futuro dei palestinesi, destinata a divenire nel decennio successivo il problema per eccellenza, veniva invece temporaneamente accantonata. Cisgiordania e Gaza, conqui­ state nel r 967, divenivano così i territori dove procedere alla costru­ zione di insediamenti ebraici, dando corso ad un' annessione di fatto di parte di essi. La piattaforma politica di Begin fu peraltro sempre fedele «alle indicazioni del nume tutelare, Ze' ev Jabotinsky, ruotando intorno al concetto di "integrità dello Stato ebraico " , intesa come continuità territoriale comprendente le due rive del Giordano. A chi gli chiedeva riguardo alla possibilità di raggiungere dei compromessi Begin era abituato a rispondere che permettendo l'esistenza della Transgiordania, considerato politicamente ed etnicamente uno Stato palestinese ma storicamente ebraico, gli ebrei avevano già concesso il 7 4 % della "loro terra "» (Vercelli, 2007, pp. 3 0 8 - 9 ) . Il governo della destra chiuse quindi l'epoca delle guerre arabo-israeliane per avviare il lungo periodo, ancora aperto ad oggi, del conflitto israelo-palestine­ se. A ciò si accompagnarono trasformazioni anche nel carattere pub­ blico delle istituzioni laddove una rinnovata intesa con i religiosi, pur essendo il Likud un partito a fondamento laico, fece sì che le istanze di questi avessero maggiore accoglienza tra i poteri pubblici e nel­ l' amministrazione. Alla base di questa sensibilità, assente nei laburisti, che avevano assecondato le richieste dei gruppi di pressione religiosa solo e unicamente in funzione della tenuta delle coalizioni, vi era tan­ to un calcolo d'interessi quanto una spinta ideologica, che orientava verso una concezione messianica della politica. In altre parole, i prin­ cìpi d'Israele venivano identificati non più nel periodo dell'yishuv, nel pionierismo laico e socialisticheggiante, ma nel ritorno al dettato della tradizione ebraica, investendo la terra di un significato che travalicava la sfera delle cose mondane, della politica, per assumere le vesti di un'impresa che aveva i suoi fondamenti nella missione testimoniale assegnata al "popolo d'Israele" . 88



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La difficile strada verso gli accordi di Camp David con l'Egitto Gli anni settanta si chiusero con un evento epocale, la firma dei pri­ mi accordi di pace con un paese arabo, l'Egitto. Gli accordi di Camp David del I 7 settembre I 97 8 , così conosciuti perché sottoscritti negli Stati Uniti, mentore dell'intero processo di pace (allora come succes­ sivamente), avevano come presupposto gli esiti della Guerra di Yom Kippur. Egitto e Siria erano riuscite nell'obiettivo di mettere in diffi­ coltà Gerusalemme, politicamente isolata sia nei confronti dei paesi afro-asiatici che di quelli europei. Il costo della guerra, 9 miliardi di dollari, pesava inoltre come un macigno sulle finanze del piccolo pae­ se. Mentre la Siria proseguiva sulla strada della guerra di attrito per le alture del Golan, il presidente egiziano Sadat era invece pervenuto alla conclusione che l'equilibrio con Israele non potesse essere muta­ to per via militare. Peraltro questa opinione era avvalorata dalle mos­ se americane, volte a garantirsi se non l'alleanza almeno la "benevola indifferenza" dell'Egitto nel Medio Oriente post-bellico. Fu l'allora segretario di Stato Henry Kissinger a formulare la prassi politica dello step-by-step, del passo dopo passo che, attraverso una serie piccola ma continua di ripetuti accordi, avrebbe dovuto portare dallo stato di tensione ad una qualche soluzione negoziata dei diversi problemi. La politica kissingeriana si tradusse nel cessate il fuoco del 22 ottobre I 9 7 3 , ispirato alla risoluzione 3 3 8 delle Nazioni Unite, che invitava le parti ad intraprendere negoziazioni dirette per implementare la prece­ dente risoluzione 2 4 2 del 22 novembre I 967 . Il passo successivo fu l'accordo in sei punti dell' I I novembre, sottoscritto al chilometro I O I della strada Cairo-Suez dai capi d i stato maggiore dei due eserciti in guerra. Seguì poi la conferenza di pace di Ginevra del dicembre I 9 7 3 , la quale generò il meccanismo di mediazione a partire dal quale si sarebbero poi realizzati i successivi passi. Il I 8 gennaio I 97 4 veniva firmato l'accordo di separazione tra le truppe dei due eserciti: gli israeliani iniziavano il ritiro dalla riva occidentale del canale di Suez. Si trattava, per l'appunto, di una serie di iniziative che, nel loro com­ plesso, se non modificavano il quadro generale della situazione, tutta­ via concorrevano a creare un clima di fiducia, indispensabile per ogni futura azione. In questo contesto s'inseriva anche la presenza di per­ sonale delle Nazioni Unite nei diversi punti caldi, Sinai e Golan, dove vennero create delle aree cuscinetto, zone di interposizione tra i belli­ geranti. Anche la Siria sottoscrisse con Israele, nel maggio del I 974, un accordo di separazione tra gli eserciti, accettando la presenza di forze dell'oNo. Gli Stati Uniti avevano identificato nell'Egitto l'anello

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forte per l' avvio di una politica di pacificazione regionale. Nell'ottica kissingeriana si trattava di dare corso a una diplomazia bilaterale, in­ troducendo il principio della "pace in cambio di terra " . Ciò che gli israeliani avevano conquistato ai paesi arabi sarebbe stato ceduto in cambio di un riconoscimento del diritto all'esistenza dello Stato degli ebrei e, in prospettiva, di un trattato di pace definitivo. Il passo suc­ cessivo fu quindi la firma di un ulteriore protocollo d'intesa tra Egit­ to e Israele, l'Accordo ad interim del I 0 settembre I 9 7 5 , che stabiliva nuovi assetti di gestione per i territori del Sinai per un periodo tran­ sitorio di tre anni, alla conclusione dei quali si sarebbe dovuti perve­ nire ad un vero e proprio accordo di pacificazione tra i due paesi. Mentre con la Siria non si segnalarono ulteriori passi in avanti e se per un breve periodo, tra il I 976 e il I 977, il processo di pace subì un congelamento momentaneo, dovuto alla guerra civile in corso nel Libano, riprese poi il suo cammino dopo la vittoria del Likud alle elezioni del I 977 e la nomina di Menachem Begin a premier. L'ipote­ si dell'allora presidente statunitense Carter di una conferenza regiona­ le di pace lasciava molto perplessi alcuni degli interlocutori, a partire dallo stesso Sadat. Si temeva il coinvolgimento sovietico ma, soprat­ tutto, l' azione dei paesi radicali, capeggiati dalla Siria. Il presidente egiziano si decise, quindi, a fare una mossa d'anticipo, annunciando e poi compiendo un viaggio a Gerusalemme tra il I 9 e il 2 I novembre I 97 7 · Si trattava di un colpo che spiazzò sia il mondo arabo che la stessa Israele. A questa veniva offerta l'occasione, unica nel suo gene­ re, non solo di essere riconosciuta come nazione, accettandone il di­ ritto all'esistenza in sicurezza, ma anche di pervenire ad una norma­ lizzazione delle relazioni con il più importante paese del Medio Oriente. L'entusiasmo tra gli israeliani era alle stelle, benché il go­ verno di destra nutrisse posizioni lontane da quelle proposte da Sa­ dat. Begin era a capo di una coalizione che, in linea di principio cre­ deva in Eretz Israel intesa come "grande Israele" . L'interesse per la Giudea e la Samaria andava oltre l' aspetto tattico, sconfinando nel­ l' opzione ideologica ed emotiva. Per Sadat, nel medesimo tempo, era improponibile un accordo che escludesse i palestinesi, a rischio, altri­ menti, di sentirsi accusare di tradimento. Gli israeliani prospettavano un'autonomia limitata per le popolazioni palestinesi; gli egiziani pro­ pendevano per la costituzione di uno Stato sovrano. Tuttavia, nulla ostava ad un primo sforzo rispetto al Sinai. Ne derivò un fitto calendario di negoziazioni, durate circa un anno, consumatesi tra Gerusalemme, il Cairo e Washington, a con­ clusione delle quali Carter invitò Sadat e Begin a un summit a Camp David. Il I7 settembre I 97 8 fu quindi firmato un accordo- quadro, os-



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sia due documenti cornice, o /ramework ( " struttura di base " ) , che re­ cepivano le risoluzioni 242 e 3 3 8 dell'oNo per il raggiungimento della pace in Medio Oriente. Quelli che da allora sarebbero stati conosciu­ ti come gli Accordi di Camp David prevedevano la stipulazione, entro pochi mesi, di un trattato di pace tra Israele ed Egitto in base al qua­ le al ritiro integrale degli israeliani dai territori egiziani si sarebbe ac­ compagnata la completa normalizzazione delle relazioni tra i due pae­ si. Rispetto ai Territori palestinesi si prevedeva un periodo transitorio di cinque anni, nel corso dei quali si sarebbe dovuti addivenire a una qualche forma di autonomia delle popolazioni locali. Il 26 marzo 1 979 veniva infine firmato alla Casa Bianca il definitivo trattato di pace tra il Cairo e Gerusalemme. Per Israele questo comportava il primo riconoscimento ufficiale da parte araba dal 1 94 8 , ma anche un non indifferente risultato sul piano della sicurezza. Il confine meridio­ nale, da sempre area problematica, veniva sollevato dall'onere della minaccia incombente, mentre con gli Stati Uniti venivano consolidate promettenti relazioni di reciprocità. Lo stretto di Tiran cessava di es­ sere una zona a rischio . In cambio Israele cedeva il Sinai, tre volte più grande della propria superficie, dovendo provvedere, entro il 25 aprile I 982, all'evacuazione integrale degli insediamenti civili formati­ si nel frattempo, dove circa 5 .ooo israeliani si erano oramai installati.

Aschenaziti e sefarditi: verso una democrazia etnica? L'incontro in Israele tra aschenaziti e sefarditi, lo si è già detto, non fu facile. Distinti ebraismi dovettero condividere i medesimi spazi, in­ tegrandosi vicendevolmente. I conflitti che ne derivarono, pur trovan­ do occasioni di mediazione, sono in parte ancora aperti e trovano nel­ le affiliazioni politiche, nelle preferenze di voto ma anche in stili di vita e condotte differenziate la loro concreta manifestazione. Da que­ sto punto di vista la ricomposizione culturale che Israele ha cercato di realizzare - il melting pot che, un po' sulla scorta dell'esempio ameri­ cano, si è data come obiettivo - è riuscita solo in parte. L"'israeliani­ tà", soprattutto se intesa come prevalenza del carattere sabra sulle preesistenti identità, è ancora lontana dal potersi affermare come un dato compiuto. Peraltro il paese da sempre costituisce, nelle sue intrinseche dina­ miche, un laboratorio sociale e demografico dove si possono leggere, in controluce, fenomeni d'ampia portata, in parte anticipatori di ten­ denze che anche in altre realtà, a partire dalle società occidentali, po­ trebbero prima o poi verificarsi (Bidussa, 2002 ) . Tra il 1 94 8 e il 2005

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il numero di immigrati è stato di 2 .993 .007 (secondo il Centra! Bu­ reau o/ Statistics d'Israele) . Ai ripetuti flussi in ingresso di un così ele­ vato numero di persone e al problema del loro inserimento, Israele ha risposto proponendo una politica dell'integrazione basata su ciò che è stata chiamata "fusione delle diaspore" . L'elemento cardinale era costituito dal rapporto con la terra, un luogo fisico dove integrar­ si condividendo l'appartenenza ad una società basata sul lavoro. Ma «l'idea che l'appartenenza nazionale potesse sopperire alle differenze di origine si è rivelata solo in parte praticabile. Israele, da questo punto di vista, ha funzionato più come un frullatore che non come un impastatore. Ha messo in contatto culture diverse ma non le ha sintetizzate e superate una volta per sempre. All'interno del paese sussistono più enclave, gruppi sociali molto diversi tra di loro» (Ver­ celli, 2007, p. 2 2 8 ) . S e nel 1 946 l a popolazione ebraica del mondo residente in Israele ammontava a non più del 6 % , attualmente costituisce il 3 7 % . Le proiezioni demografiche inducono a ritenere che la soglia del 5 0 % sarà superata entro i prossimi dieci anni. Questa tendenza d i fondo si presta a molte interpretazioni: un'analisi circostanziata rivela, infatti, la persistenza delle diversificazioni nella composizione interna al pae­ se. Un primo dato con il quale confrontarsi è quello relativo alle mo­ tivazioni dell'immigrazione, dove al criterio dell'identificazione ideo­ logica, proposta dal sionismo, si è sostituito progressivamente quello dell'investimento personale. In altre parole - e non diversamente da tanti altri flussi migratori - il più delle volte si va in Israele se e quan­ do si ritiene che da ciò possa derivarne un beneficio economico e sociale, ovvero un accrescimento di opportunità e di status. Un se­ condo fattore da considerare è l'estrema stratificazione della popola­ zione. I due principali ceppi di riferimento sono quello aschenazita e quello sefardita. Se indicano provenienze geografiche diverse (il pri­ mo è relativo agli ebrei dell'Europa occidentale e orientale, il secondo agli ebrei originari della Spagna che, dopo l'espulsione in massa del 1492 , ripararono nei paesi del Mediterraneo), sono anche espressioni di culture e tradizioni differenti. Le strutture di base dello Stato d'I­ sraele e, più in generale, l'intero percorso che ne precedette la fonda­ zione, sono il risultato dell'azione di persone che condividevano co­ muni origini, essendo nati perlopiù nei paesi dell'Europa centrale e in Russia. L' impronta aschenazita, manifestatasi nel pensiero sionista, fu netta. Le istituzioni, così come la società, furono impostate sul calco delle esperienze compiute nei paesi d'origine, che si trattasse di de­ mocrazie liberali o dell'autocrazia zarista. L'ingresso in massa di ebrei provenienti dai paesi arabi, dal r 949 in poi, comportò il confronto 92



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con individui che avevano invece vissuto in contesti sociali e politici molto diversi da quelli europei . La frizione fu quindi forte e si tra­ dusse, fin da subito, in un conflitto interno alla società israeliana, fon­ dato su basi etniche. L'arrivo degli ebrei sefarditi seguì l' andamento, sussultorio, dell'antisemitismo in campo arabo. Se entro il 1 9 5 0 con l' Operazione Tappeto volante entrarono nel paese 43 .ooo yemeniti, nello stesso anno fu la volta anche di r r o.ooo iracheni. Poi seguì una serie di ingressi individuali e familiari portando, entro il 1 9 5 3 , al rad­ doppio della popolazione israeliana (che in quell'anno arrivò a conta­ re quasi r . 5 oo.ooo di persone) . Negli anni sessanta giunserono altri 25 o.ooo ebrei sefarditi. L'ondata era da attribuirsi alle rinnovate ma­ nifestazioni di antisemitismo che si erano prodotte in paesi come la Libia, l'Iraq e la Siria, dove le élite dirigenti locali legavano al nazio­ nalismo la "lotta contro il sionismo" . Il confronto tra la cultura na­ zionale e quella delle comunità orientali fu quindi, nel medesimo tempo, complesso e sofferto. La "fusione delle diaspore " , ovvero l'in­ tegrazione e l'assorbimento dei nuovi venuti, doveva fare i conti sia con i caratteri e i costumi di questi che con i rigidi vincoli di risorse e di bilancio dello Stato. Passare dalle abitudini di vita maturate, nel corso di più generazioni, nei quartieri ebraici delle città arabe, ai rit­ mi e ai tempi di una società modernizzata, in rapida espansione, ri­ sultò molto difficoltoso. Negli anni sessanta si diffuse il fenomeno delle development towns, comunità urbane di modeste dimensioni, edificate in aree originariamente non abitate. Come frequentemente è capitato anche in Europa, l'istituzione di insediamenti residenziali ai margini o a distanza dalle grandi città, nei quali venivano fatti con­ fluire segmenti omogenei di popolazione, caratterizzati dalla precarie­ tà economica, sociale e culturale, non fece che accentuare la divarica­ zione tra integrati e marginali. In alcuni casi il degrado si spinse alla loro trasformazione in piccoli ghetti. L' esigenza dominante in Israele, in quel periodo, era decongestionare i grandi agglomerati urbani di Tel Aviv, Haifa, Gerusalemme, evitando di concentrare ancora di più le popolazioni in ingresso verso gli stessi luoghi. Le soluzioni adotta­ te, pur concepite in termini di provvisorietà, si tradussero in una esa­ cerbazione delle differenze. Per la maggioranza degli israeliani i nuovi venuti, con il loro carico di tradizioni e atteggiamenti estranei alla cultura occidentale, costituivano uno sgradevole retaggio del passato. Di essi si mettevano in rilievo gli elementi negativi (superstiziosità, conservatorismo mentale, incapacità di adattarsi) , che avrebbero mag­ giormente inciso contro una loro integrazione, auspicata semmai come assimilazione totale, ossia come perdita di tutti i caratteri pro­ pri. La risposta delle comunità sefardite ed orientali fu tuttavia ben 93

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lontana dalla condiscendenza. Molti dei loro componenti si trovavano collocati nei gradi più bassi della scala sociale, svolgendo perlopiù la­ vori manuali e soffrendo di una forte marginalizzazione culturale. La difficoltà nell' apprendere la lingua ebraica (usata solo come idioma liturgico) , l'abitudine a svolgere attività di piccola imprenditoria e di commercio, ora impedite nel nuovo paese, il contatto con stili di vita del tutto estranei a quelli di un tempo fecero sì che l'integrazione ri­ chiedesse non solo molto tempo ma l'acquisizione di un potere che in origine i nuovi immigrati non avevano. Se ancora nei primi anni set­ tanta la leadership aschenazita, espressa dal governo Meir, continuava a pensare agli ebrei sefarditi in termini perlopiù di un problema di "marginalità sociale" , la trasformazione di questi in gruppo di pres­ sione, all'interno della società israeliana, fu agevolata non solo dalla crescita dell'autoconsapevolezza ma anche dai mutamenti della politi­ ca di quel decennio. Risale a quegli anni il fenomeno extraparlamen­ tare delle Pantere nere, sul calco del Black Panther Party americano. Si trattava di piccoli gruppi di sefarditi impegnati ad avanzare riven­ dicazioni politiche ed economiche sulla base di una forte connotazio­ ne etnica delle ragioni della propria protesta. Le vicende delle guerre del 1 967 e del 1 973 introdussero nello scenario politico nazionale elementi tali da favorire l'integrazione dei mizrahim, gli "orientali " , ma a costo di decretare il ribaltamento degli equilibri, con lo storico passaggio dei laburisti all'opposizione. La politica dei matrimoni misti, infine, rompendo i crismi dell' en­ dogamia culturale, ha facilitato ulteriormente tale percorso. Che tut­ tavia non si è concluso, anche se si è pervenuti oramai alla seconda o alla terza generazione, assai più inserite dentro il reticolo delle rela­ zioni di quanto non lo siano stati i genitori o i nonni. A tutt'oggi le statistiche dicono che il reddito medio delle famiglie di origine orien­ tale può essere inferiore anche di un terzo rispetto a quello delle fa­ miglie di origine europea, mentre il tasso di scolarizzazione risulta co­ munque assai più basso.

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5 Gli anni del conflitto con i palestinesi: dalla guerra in Libano agli accordi di pace ( r 9 82 - 9 4 )

Israele tra Siria e Libano La presenza dell'oLP in Libano costituiva per Israele un grosso pro­ blema al quale risultava difficile dare una soluzione. Dal 1 9 6 8 l'orga­ nizzazione di Yasser Arafat, insieme anche ad altri gruppi della ga­ lassia militante palestinese, aveva costituito un' area franca, nel sud del paese. Da lì conduceva i suoi attacchi contro il territorio israeliano. Gli atti terroristici si erano così susseguiti, causando un elevato nu­ mero di vittime e ottenendo una forte risonanza nell'opinione pub­ blica. Ulteriore motivo di apprensione, dopo i fatti del settembre 1 970 in Giordania, era stata la trasmigrazione in Libano di buona parte dei miliziani combattenti di al-Fatah . Peraltro, il conflitto tra le fazioni dell'oLP e Israele alimentava anche quello tra i gruppi confes­ sionali presenti nel paese dei cedri; tra di essi, nel 1 9 7 5, si accese una guerra civile destinata a durare non meno di quindici anni. Nel marzo del 1 97 8 l'esercito israeliano aveva dato corso all ' Ope­ razione Litani, con il dichiarato intento di spingere i gruppi della guerriglia palestinese verso il nord, proteggendo così i villaggi di frontiera dal fuoco di artiglieria. S'intendeva con ciò creare una stri­ scia di sicurezza nel sud del Libano, fino al fiume Litani, controllata sia dalle truppe di Tsahal che dalle milizie alleate dell'Esercito del Libano del Sud comandate dal maggiore Saad Haddad. A seguito dell'avanzata israeliana e del suo consolidamento territoriale, l' ONU istituì l'uNIFIL (United Nations Interim Force in Lebanon) , una forza d'interposizione. Poco tempo dopo Israele si ritirava, lasciando il controllo dell'area meridionale del paese in mano alle truppe di Haddad. L'instabilità era tuttavia la nota dominante in quei territori, nei quali al fragile equilibrio interconfessionale si sommavano sia le pre­ tese siriane che la presenza, in gran numero, di rifugiati palestinesi (le 95

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stime indicavano circa 3 5 o.ooo individui) causando così una situazio­ ne di tensione pressoché permanente. Dopo gli accordi di Camp Da­ vid del 1 9 7 8 la Siria si era inoltre fatta patrocinatrice della causa anti­ israeliana, cercando così di sostituirsi all'Egitto, vittima dell' ostraci­ smo arabo. Le tensioni tra Damasco e Gerusalemme datavano peral­ tro al momento stesso in cui erano nati i due Stati. La mancata defi­ nizione di confini stabili, derivante dal mantenimento di una condi­ zione di guerra permanente, fece sì che raid e scontri tra i due eserci­ ti, soprattutto attraverso il fuoco dell'artiglieria, l'azione d'infiltrazio­ ne da parte di com mandas e il ricorso all'aviazione, fossero una co­ stante anche nei periodi non contrassegnati da veri e propri conflitti armati in campo aperto. Un susseguirsi di ostilità, più o meno dichia­ rate, contrassegnò pertanto i rapporti tra due paesi che non intratte­ nevano legami diplomatici. Il terreno degli scontri erano sia le aree demilitarizzate, istituite con gli accordi armistiziali, sia i territori della Galilea in Israele e la regione damascena in Siria. Il regime bathista si era contraddistinto fin dalle sue origini per un rigido antisionismo. Israele, nelle parole della leadership siriana, era non solo una delle "creature artificiali " del " colonialismo occidentale" , ma anche e so­ prattutto la punta di diamante di un "progetto di penetrazione stra­ niera" che avrebbe minato l'unità del mondo arabo, mettendone in discussione l'integrità territoriale, il sistema di valori, le legittime am­ bizioni territoriali. La vicenda palestinese era considerata paradigma­ tica, riguardando peraltro un popolo e una porzione di terra, definita come " Siria meridionale" , sui quali Damasco rivendicava una sorta di patrocinio politico se non di primazia giurisdizionale. Per queste ra­ gioni la Siria, per tutti gli anni sessanta e settanta, si considerò come il cuore pulsante della "lotta contro l'entità sionista" , della quale au­ spicava la totale distruzione. Prima ancora che per convinzione ideo­ logica, in questo atteggiamento entrava in gioco un calcolo di inte­ resse, legato al bisogno da parte della dinastia alawita al potere di consolidare il proprio debole status nei confronti dell'intero mondo arabo. Le organizzazione dell'oLP, a partire da al-Fatah , avevano così goduto, fin dal 1 9 6 5 , di ampia ospitalità e di un rilevante sostegno. La sconfitta siriana nella Guerra dei sei giorni quando, con l'ac­ quisizione delle alture del Golan, Israele si trovò a godere di una condizione di vantaggio tattico, potendo posizionare le sue truppe a circa cinquanta chilometri di distanza dalla capitale siriana, causò un mutamento di condotta militare nel paese. Dall'opzione, fino ad allora caldeggiata, per il sostegno alla "guerra popolare di libera­ zione" palestinese, con l' ascesa di Hafez Assad si passò all'ipotesi di uno scontro armato diretto con Gerusalemme. Il regime si

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impegnò fin da subito in tal senso, sia pure non rigettando in linea di principio quanto contenuto nella risoluzione 2 4 2 delle Nazioni Unite. Nel febbraio del 1 9 7 1 l'ingresso nella Federazione delle Repubbliche arabe, con Egitto e Libia, contribuì a incrementare i legami con Sa­ dat. Il risultato fu la Guerra di Yom Kippur, dalla quale Assad emer­ se come una sorta di eroe nazionale, malgrado gli esiti militari ben poco confortanti, un accordo armistiziale non premiante e il disimpe­ gno egiziano che portò ben presto alla firma dei trattati di Camp Da­ vid con Israele. Fu quindi nella seconda metà degli anni settanta, a fronte di un isolamento crescente, che il regime damasceno optò per il progetto di una "grande Siria" . Nelle intenzioni di Assad si trattava di far sì che Libano e Giordania fossero parte attiva in un confronto militare con Israele, da Tiro ad Aqaba, obbligando l'avversario ad una guerra di nervi sempre più spossante. L' accordo tra i tre Stati e con l'oLP era nei fatti impraticabile, ma Assad riuscì comunque a consolidare la sua leadership nello scacchiere regionale. L'intervento siriano nella guerra civile libanese scatenatasi nel 1 9 7 5 , quando si schierò a fianco della destra cristiano-maronita per poi, con un re­ pentino cambio di alleanze, passare con i musulmani, era parte inte­ grante di questo disegno geopolitico. Dopo di che è comunque certo che la posizione strategica della Siria si sia fortemente indebolita con gli accordi israelo-egiziani di Camp David. L'uscita dell'Egitto dal no­ vero dei paesi nemici d'Israele, la scelta giordana di rivedere il rap­ porto con Damasco, l'avvio del conflitto tra Iran e Iraq e le minacce da parte del movimento islamista dei Fratelli musulmani alla stabilità del regime laico di Assad concorsero ad un'ulteriore revisione della condotta siriana nei confronti di Gerusalemme. Dalla fine degli anni settanta si iniziò a parlare di "bilanciamento strategico " , intendendo con ciò la capacità della Siria di fare fronte, da sola, ad un eventuale confronto armato con Israele. Oltre ad una politica di riarmo, perse­ guita attraverso un rinnovato accordo militare con l'Unione Sovietica, elemento che permise di ammodernare i sistemi d'arma, le attenzioni si rivolsero ancora una volta alle alture del Golan, il cui possesso continuava ad essere rivendicato, per mezzo di un'azione militare o di un accordo, ma comunque da posizioni di forza. La presenza siriana in Libano, quindi, s'inscriveva all'interno di questo quadro, sommando alle antiche ambizioni territoriali i nuovi propositi derivati dalla strategia anti-israeliana. Israele, non di meno, ponendosi il problema di Fatah-land, ovvero della presenza stanziale delle milizie di Arafat nei territori compresi al di sotto della "linea rossa" Jezzine- Sidone, non poteva non considerare l'incidenza dei propositi siriani nella mutevole definizione degli assetti regionali.

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L'Operazione Pace in Galilea e la politica israeliana in Libano Come si è visto, i destini del Libano erano strettamente legati alla politica siriana e all'esplosiva questione, in sé irrisolta, della perma­ nenza di un grande numero di profughi palestinesi nel paese, all'in­ terno di campi di raccolta nei quali gli spazi per una vita dignitosa erano pressoché nulli (cfr. al riguardo Mancusi Materi, 2007 ). Secon­ do le statistiche dell'oNo, ancora al 2003 la cifra complessiva dei pro­ fughi palestinesi in tutto il Medio Oriente era di 4.082 . 3 3 0 individui, ripartiti in quasi 85o.ooo nuclei familiari. Il 3 0 % di questi era a quel­ la data ancora stabilmente insediato in 59 campi. La suddivisione era la seguente: in Cisgiordania 654 97 r persone vivevano in campi pro­ fughi o venivano registrate come rifugiati mentre a Gaza erano 907 . 2 2 1 (su una popolazione totale, nei Territori palestinesi, di 3 ,7 milioni di abitanti) ; in Libano 3 9 r .679; in Siria 409 .662; in Giordania, infine, r . 7 r 8.767. A queste cifre andavano aggiunti i circa r oo.ooo pa­ lestinesi presenti in Egitto, i 4o.ooo dell'Iraq e i 45o.ooo dei Paesi del Golfo. Si stima che al 2005 l'intera popolazione palestinese, tra pro­ fughi e non, ammontasse a r o,5 milioni di persone. La guerriglia del­ l'oLP trovava nell'ambiente dei campi il suo humus naturale, legando le proprie rivendicazioni nazionali ad una più generale proposta clas­ sista, quella di una lotta dei ceti più poveri della società libanese (so­ prattutto gli appartenenti alla componente sciita) contro i "ricchi e i potenti" del Medio Oriente. Israele, in questa raffigurazione, assume­ va così la fisionomia di una sorta di nazione-classe, intesa come un "parassita" che alimentava le proprie fortune grazie alle altrui sven­ ture. Dalla fine degli anni sessanta il Libano era divenuto la patria di elezione per gli uomini di Arafat. La collocazione territoriale del pae­ se si rivelava strategicamente premiante per quanti intendessero intra­ prendere azioni contro Israele: un'ampia costa, aperta a tutto il Medi­ terraneo e capace di accogliere naviglio nei diversi porti del paese; la vicinanza al nemico giurato di Gerusalemme, la Siria, la quale mette­ va a disposizione i suoi aeroporti per rifornire le milizie; la suddivi­ sione etnico-confessionale del territorio che, mentre rendeva debole il governo di Beirut, faceva sì che il sud del paese costituisse un'enclave sottratta alla giurisdizione delle autorità centrali; la possibilità di co­ municare, attraverso i passaggi siriani, con i paesi dell' area medio­ dentale. Israele, peraltro, da tempo coltivava relazioni con le comumta maronite, nell'ambito di un'impostazione politica che considerava le -

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GLI ANNI DEL CONFLITTO COI" l PALEST ! N ES!: DALLA GUERRA IN LIBANO

minoranze non arabe come potenziali alleate in tutto il Medio Orien­ te. In linea di massima, dal 1 949 fino all'inizio degli anni settanta i confini israelo-libanesi erano stati relativamente tranquilli. Il Libano si era tenuto fuori dai conflitti che avevano coinvolto i paesi vicini mentre in Israele il convincimento dominante era che se la compo­ nente cristiana avesse incrementato la sua presenza nelle istituzioni, ben presto il paese dei cedri sarebbe stato il primo tra gli arabi fir­ matari di un durevole accordo di pace. Il declino numerico dei ma­ roniti fu tra i fattori che contribuirono, invece, a un ben diverso esito . L' arrivo in massa degli uomini dell'oLP, dopo la loro espulsione dalla Giordania a seguito dei fatti di Settembre nero, comportò non solo l'espansione delle attività dell'organizzazione di Arafat ma anche un ulteriore indebolimento delle autorità del governo di Beirut, oltre che un pericoloso rimescolamento negli equilibri interconfessionali. Già nell'autunno del 1 975 Israele aveva dovuto prendere atto che l'e­ quilibrio dei decenni precedenti era definitivamente compromesso. Il governo di Yitzhak Rabin finì con l'accettare la presenza siriana in Libano, ponendo come vincolo che essa non superasse la cosiddetta "linea rossa" del fiume Litani. Parimenti, si adoperò per incrementare i rapporti con le milizie antipalestinesi. Nei primi anni del successivo governo Begin, tra il 1 977 e il 1 979, ci s'impegnò per irrobustire e migliorare le fortificazioni confinarie, insieme alla elaborazione di un complesso sistema di difesa e all'aumento della capacità offensiva del­ le forze a disposizione del maggiore Haddah. L'Operazione Litani del 1 978 non raggiunse l'ambizioso obiettivo di neutralizzare la presenza dell' OLP nel sud del Libano, nel mentre il conflitto tra siriani e il Fronte libanese, composto dall'alleanza tra milizie cristiane, vedeva Israele impegnata a sostenere le seconde. La condotta israeliana mutò all'inizio degli anni ottanta, con l'a­ scesa dell'astro di Bashir Jemayel ( 1 947- 8 2 ) , il nuovo leader del Fron­ te libanese. Particolare impulso alla collaborazione fu impresso dal­ l'allora capo di stato maggiore delle IDF Rafael Eitan ( 1 929-2004 ) , fautore d i una condotta maggiormente interventista. I l quadro sem­ brava infatti in movimento: la presidenza Assad pareva in difficoltà rispetto alla politica di impegno in Libano, gli attacchi dell'oLP si susseguivano mentre le posizioni della nuova amministrazione statuni­ tense di Ronald Reagan lasciavano intravedere una possibile evoluzio­ ne negli assetti mediorientali. Gli israeliani si domandavano se Je­ mayel avrebbe potuto assurgere al ruolo di interlocutore forte anche da un punto di vista istituzionale. Di tale avviso era Ariel Sharon, 99

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nominato ministro della Difesa nel giugno del I 98 I . Di fatto istituì un rapporto preferenziale sia con Jemayel che con il suo movimento politico-militare, la Falange. Maturò quindi in questo quadro la pro­ posta di un Grande piano, formulato dallo stesso Sharon, che inqua­ drava la questione libanese con un'ottica diversa da quella adottata dai governi precedenti. La premessa era data dal fatto che una nuova operazione militare nel sud del Libano sembrava divenuta oramai inevitabile. Da ciò conseguiva che l'unica opzione praticabile fosse un intervento a largo respiro, all'interno però di un più ampio obiettivo, quello di concorrere attivamente alla soluzione della crisi libanese, che si stava trascinando oramai da più anni. Da ciò sarebbe derivato per Israele un beneficio notevole, costituendo la premessa per ulterio­ ri cambiamenti negli equilibri regionali . Continuare ad operare all'in­ terno di un'area che riduceva ai pochi chilometri della gittata delle artiglierie palestinesi il campo d'azione delle IDF non aveva più senso. Si trattava, invece, di passare dalla linea del contenimento a quella della distruzione delle basi dell'oLP. Da ciò poteva derivare, in pro­ spettiva, l'estromissione della Siria dal Libano e l'elezione di J emayel a presidente, il quale si sarebbe adoperato per la firma di un trattato di pace con Israele. L'Operazione Pace in Galilea iniziò quindi sotto questi auspici, il 6 giugno I 9 8 2 . Si trattava, nelle intenzioni, di una Blitzkrieg, di una "guerra-lampo" . Le operazioni d'Israele in Libano sarebbero invece durate fino al giugno del I 98 5 . Il target originario era dato dalle bat­ terie di razzi Katyusha, disseminate nel sud, ma Sharon non nascose che se si voleva porre termine alla minaccia palestinese occorreva rag­ giungere Beirut, distruggendo tutte le numerose infrastrutture di cui si era nel frattempo dotata l'oLP. Seguendo tre direttrici (costiera, montana e orientale) l'esercito israeliano iniziò così ad avanzare rapi­ damente in territorio libanese. Il 9 giugno il confronto si estese alle truppe e all'aviazione siriane. L' I I giugno, quando fu sottoscritto un cessate il fuoco tra Damasco e Gerusalemme, Tsahal era a due miglia da Beirut . Benché gli scontri in campo aperto tra opposti eserciti fos­ sero così terminati, iniziò una guerra parallela contro le milizie del­ l'oLP. L' accerchiamento di Beirut fu ultimato tra il I 3 e il I4 giugno, città nella quale si cinsero d'assedio i " santuari" palestinesi e dei loro alleati, collocati nei quartieri occidentali. A fianco dei reparti israelia­ ni operavano i falangisti di J emayel che, astenendosi dal combattere apertamente insieme a loro, si limitavano a dare man forte laddove possibile. Nelle settimane successive, ad una ripresa del confronto ar­ mato con i siriani si accompagnò l'assedio di Beirut, realizzato con il I OO

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deliberato intendimento di costringere l'oLP e le truppe di Assad ad abbandonare la città. Bombardamenti aerei e navali si succedettero ad operazioni di terra fino a quando, con la mediazione americana, non si pervenne ad un accordo per il ritiro delle milizie palestinesi. Tra il 25 agosto e il 4 settembre 1 9 82 palestinesi e siriani abbandona­ rono la capitale sotto il vigile controllo di un contingente di militari francesi e italiani. Seguì un periodo convulso: il 14 settembre Bashir J emayel veniva assassinato; le truppe israeliane entravano nei quartieri di Beirut ovest; il 17 settembre la Falange maronita penetrava nei campi palestinesi di Sabra e Chatila assassinando diverse centinaia di civili . Ancora una volta fu decisivo l'intervento americano che impose il ritiro israeliano da Beirut il 19 dello stesso mese e il ridispiegamen­ to di una forza multinazionale d'interposizione. La situazione che andò in seguito determinandosi per Israele im­ plicava il far fronte a tre tipi di minacce. La prima di queste era co­ stituita dalla persistenza di una forza militare siriana, disseminata nel­ la valle della Beka' a e intorno alla superstrada che collega Beirut a Damasco. Il secondo problema era dovuto all'intenso conflitto tra la destra cristiano-maronita e la sinistra drusa di Walid Jumblatt in cor­ so nel massiccio montagnoso dello Shouf. Dalla fine di giugno del 1 9 82 e per oltre un anno il controllo territoriale esercitatovi dalle for­ ze armate israeliane fece sì che frequentemente venissero coinvolte negli scontri tra opposte fazioni. Da ultimo, gli israeliani dovettero confrontarsi con una vera e propria escalation delle attività di guerri­ glia e di terrorismo . Se l'Operazione Pace in Galilea aveva alleviato la morsa terroristica sulle città del nord della Galilea, era ora l'esercito stanziato in Libano a dover far fronte ad un vero e proprio guerrilla war/are, incentivato dalla Siria. Nel settembre del 1 9 83 le truppe di Gerusalemme si ritirarono sotto la linea del fiume Awali ma le opera­ zioni contro le sue unità e i presidii proseguirono, causando un eleva­ to numero di morti. Solo con l'aprile del r 9 8 5 , quando il ritiro dal sud del Libano venne completato, con l'eccezione di una limitata porzione di terra nelle immediate adiacenze settentrionali del confine israelo-palestinese, si pervenne ad una relativa stabilizzazione della si­ tuazione, con un decremento degli atti di ostilità. Le IDF completaro­ no ufficialmente il rimpatrio delle loro unità nell'estate del 1 9 8 5 , di­ chiarandosi però libere di svolgere operazioni di vigilanza e preven­ zione nelle aree libanesi a ridosso del confine, laddove peraltro già operavano le milizie del maggiore Haddad. Le conseguenze politiche della guerra in Libano furono per Israe­ le sofferte e contraddittorie. Degli obiettivi iniziali solo quello di alIOI

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

lentare l'ondata di violenze contro le città della Galilea settentrionale era stato raggiunto. Sul piano internazionale l'immagine del paese ne uscì peggiorata. Le corrispondenze dei giornalisti, inviati sui fronti di guerra, avevano tratteggiato l'operato delle forze armate in termini estremamente severi. L'isolamento del paese si misurava nei fatti, at­ traverso i moti di riprovazione espressi da una parte della comunità internazionale, con la sola eccezione degli Stati Uniti. Peraltro, un movimento d'opinione pubblica contrario al conflitto e favorevole al ritiro totale delle truppe si era sviluppato fin da subito nella stessa Israele, dove una parte dello schieramento politico, soprattutto a sini­ stra, giudicava duramente la scelta operata nel giugno del I 9 8 2 . Si diceva che Israele, per la prima volta nella sua storia, era entrata in guerra non perché obbligatavi ma per una precisa scelta. I cui esiti, per l'appunto, risultavano a dir poco modesti: l'oLP, trasmigrato a Tunisi, continuava ad esistere e a minacciare il paese; il Libano rima­ neva quel ginepraio di gruppi e fazioni in lotta tra di loro che il pia­ no promosso da Sharon avrebbe dovuto invece contribuire a supera­ re; la Siria non aveva abbandonato il paese dei cedri; nessuna pace era stata raggiunta. Ma più che l'insufficiente risultato strategico, quel che maggiormente colpì l'opinione pubblica israeliana erano le criti­ che che si svilupparono all'interno dello stesso esercito, dove a più rip rese emersero voci dissonanti rispetto alla condotta dei vertici mili­ tari. Si contestavano soprattutto tre questioni, reputate fondamentali: l'elevato numero di perdite, del tutto inaccettabili secondo gli stan­ dard delle IDF; il difficile rapporto con la popolazione libanese, ed in particolare con i civili palestinesi; la sostenibilità morale, per uno Sta­ to come Israele, di una guerra da certuni considerata di "offesa" e non di difesa. I massacri falangisti nei campi di Sabra e Chatila, pur non compiendosi con il diretto coinvolgimento israeliano, costituiro­ no per la coscienza nazionale un tornante dolorosissimo. Su di essi indagò la Commissione di inchiesta Kahan che individuò nel ministro della Difesa Ariel Sharon, in quello degli Esteri Yitzhak Shamir (nato nel I 9 I 5 ), nel capo di stato maggiore Rafael Eitan e nei dirigenti dei servizi di informazione militari i responsabili di una colposa indiffe­ renza e di gravi negligenze nei confronti dell'operato vendicativo del­ la Falange libanese. Sharon si dimise così dal suo dicastero . Intanto, un altro fattore entrava in gioco e nel corso del decennio successivo avrebbe rivelato la sua crescente forza. Infatti, un nuovo attore politi­ co andava affermandosi nel sud del Libano. Si trattava di Hezbollah, il "Partito di Dio " . Lo si ritroverà molto presto, protagonista della scena locale. 1 02

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GLI ANNI DEL CONFLITTO COI" l PALEST ! N ES!: DALLA GUERRA IN LIBANO

Israele e il problema dei Territori palestinesi Gli anni ottanta, avviatisi con governi di destra, proseguiti con go­ verni di coalizione tra destra e sinistra e conclusisi ancora con esecu­ tivi di destra, furono dominati dalla «questione palestinese», sempre più legata al destino dei Territori conquistati nel r 967. La contro­ versa politica sugli insediamenti residenziali ebraici si inserisce all'in­ terno di questa cornice, caratterizzando, per il peso che andò pro­ gressivamente assumendo, il decision making dei diversi governi che si succedettero e, in ultimo, le stesse trattative di pace che sarebbero state condotte negli anni novanta. In particolare, due erano le aree contese: i territori della Cisgiordania e la striscia di Gaza. Il Sinai en­ tro il 1 9 82 fu restituito agli egiziani; Gerusalemme Est venne annessa nel r 9 8o; le alture del Golan furono stabilmente "amministrate" (estendendo su di esse la giurisdizione nazionale israeliana) in attesa di eventuali evoluzioni del rapporto conflittuale con la Siria. Dal r 9 67 in poi furono complessivamente 32 3 i centri ebraici istituiti nei di­ versi territori amministrati da Israele. Le tipologie mutavano a secon­ da dei luoghi e delle circostanze, variando da occasionali presidii, co­ stituiti da camper o roulotte, a vere e proprie aree urbane, cittadine di fatto autosufficienti. Non infrequente era il caso di quartieri, già preesistenti, che andavano aumentando di dimensioni, mutando così l'originaria composizione demografica del luogo. Ad esempio, questa fu la politica seguita a Gerusalemme Est per "ebraicizzarne" la muni­ cipalità, estendendone anche l'area catastale e amministrativa. I dati sull'evoluzione della presenza ebraica nei Territori palestinesi, pur es­ sendo anch' essa materia di controverse e opposte valutazioni, indica­ no tuttavia in maniera incontrovertibile una sua crescita corposa ol­ treché progressiva. In Cisgiordania a fronte dei 48o ebrei residenti nel 1 948, si è passati agli 8oo del 1 97 2 , ai 2 2 . 8oo del 1 9 8 3 , ai r r r . 6oo del 1 99 3 , ai 2 6 7 . 8oo del 2004, per giungere ai 2 75 . 1 5 6 del 2007 . Nel­ la striscia di Gaza la successione storica parte con i 30 residenti nel 1 948 (a Kfar Darom), passa ai 700 del 1 972 ( comprendendo in que­ sto caso anche il Sinai), ai 900 del 1 9 8 3 (tutti nell'area di Gaza), ai 4 . 8oo del 1 9 9 3 , per finire con gli 8.ooo del 2 004 . Infine, nella parte orientale di Gerusalemme, si è passati dai 3 00 del 1 94 8 ai 9.2oo nel 1 97 2 , per crescere ai ben 75 .ooo nel 1 9 8 3 e ai 1 3 o.ooo del 1 9 9 3 , fino ai 2oo.ooo del 2007 . Un dato emerge tra gli altri: dalla firma degli accordi di Oslo (nel 1 9 9 3 ) ad oggi gli israeliani residenti nei Territori sono più che raddoppiati. Se per parte palestinese ciò costituisce il segno in controvertibile di una volontà di " colonizzazione" delle terre sulle quali dovrebbe sorgere il futuro Stato di Palestina, le autorità 103

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

israeliane hanno a più riprese replicato adducendo varie motivazioni. Sul piano giuridico e diplomatico, non sussisterebbero vincoli poiché il paese non ha sottoscritto accordi che limitino o impediscano la dif­ fusione di aree residenziali nelle quali siano presenti cittadini israelia­ ni (questa valutazione è però indipendente dalle ripetute prese di po­ sizione in materia delle Nazioni Unite) . Sul piano della difesa nazio­ nale, quanto meno fino alla firma del trattato di pace con la Giorda­ nia nel 1 994, la funzione di una parte degli insediamenti era da inten­ dersi anche in chiave militare, costituendo degli avamposti nei con­ fronti di eserciti di paesi formalmente in guerra con Israele. Sul piano culturale e morale, poi, alcuni israeliani pensano che la preesistenza all'Israele contemporanea di nuclei stanziali di ebrei su quelle terre costituisca un plausibile motivo per porre sullo stesso piano la persi­ stenza degli insediamenti ebraici con le rivendicazioni nazionaliste pa­ lestinesi. Da ultimi, una parte degli ebrei religiosi rivendica l ' " ebraici­ tà" dei Territori contesi in ragione della loro appartenenza alla "terra d'Israele " di biblica memoria. Sul versante opposto a quello dei sostenitori del processo di diffu­ sione degli insediamenti si collocano quanti vedono in ciò una mi­ naccia sia per la pace che per la democrazia in Israele. Data al 1 977 la prima manifestazione pubblica di un movimento pacifista che avrebbe avuto successivamente larga diffusione, conosciuto come Sha­ lom Akhshav ( "Pace adesso" ) . Nel luglio di quell'anno, infatti, una lettera sottoscritta da trecento ufficiali della riserva di Tsahal e inviata al primo ministro Begin chiedeva il ritiro dalla Cisgiordania e da Gaza. La motivazione addotta era che tale scelta avrebbe costituito «la migliore pace possibile per l'intera terra d'Israele». L'organizza­ zione che venne così costituendosi si caratterizzò fin da subito per la sua indipendenza dai partiti, pur non nascondendo le simpatie di molti dei suoi militanti per la sinistra. In realtà la sua nascita, che colse ad occasione la richiesta avanzata dal gruppo di militari, rispon­ deva ad uno spontaneo bisogno, espresso da ampi settori della socie­ tà israeliana, di pervenire ad una soluzione negoziata dei contenziosi aperti con i paesi arabi, a partire da quello territoriale. In ciò Shalom Akhshav intercettava le speranze di molte persone, soprattutto dinan­ zi agli spiragli che l'iniziativa di Sadat offriva, per un futuro non più segnato dalle cupe ombre della guerra. La risposta ai primi appelli per la mobilitazione furono infatti promettenti. Nella prima manife­ stazione di massa, tenutasi a Tel Aviv il r 0 aprile 1 9 7 8 , non meno di trentamila persone vi presero parte. Così come nei mesi successivi, il movimento di opinione, costituito perlopiù da membri delle classi medie e dei circoli intellettuali, riuscì a raccogliere sempre un seguito 1 04

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GLI A N N I DEL CONFLITTO CON I PALESTINESI : DALLA GUERRA I N LIBANO

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FIGURA

Il conflitto arabo-israeliano

EJ

1948-85

Territori siriani occupati nel r967 da Israele da dove ve­ niva cannoneggiato il nord dd paese. Kuneitra fu resti­ tuita alla Siria nel ' 974- n ' 4 dicembre r 9 8 1 i l Parlamen­ to israeliano (la Kenesset) votò l'applicazione della leg­ ge, della giu risdizione e dell'amministrazione israe­ liane alle alture del Golan. el 1 9 8 3 nel Golan vive­ vano B.ooo israeliani e r . ooo drusi

Territori occupati da Israele dal r982 al 1 9 8 5 (precedentemente basi dell' Organizzazione per la Liberazione della Palestina per attentati a ��obiettivi" civili nel nord di Israele)

��� Territori occupati nel r967

da Israele con la Guerra dei sei giorni (precedente­ mente occupati dall'Egitto)

Kuneitra ., Tiberiade

Ma r Medit e r ra n eo

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Nablus ' , / GIORDANIA j.. _ _ _ _ 7 - . ..... -../ ...... . -- - · - · - ·-· • Amman -· · Gerusalemm_,·' ARABIA ·, Hebron ·, SAUDITA ·, ·,

>

n Cairo

Territori occupati nel 1967 da Israele dopo la Guerra dei sei giorni (precedentemente in mano della Giordania)



EGITTO --

� Territori occupati da

Israele nel 1 9 5 6 dopo la guerra con l'Egitto e nuo­ vamente nel 1967 dopo la Guerra dei sei giorni. Israe­ le si è ritirata da questa re­ gione due volte: prima nel 1 9 5 7 e poi nel 1 982 a segui­ to degli accordi di Camp David del 1978

POPOLAZ10NE N E L EG ITTO ,

(in milioni) 47

1 947 Frontiere della spartizione dell'ONU (rifiutata dagli arabi) r 949 Linea del cessate il fuoco (frontiere di Israele dal 1 949 al 1 967)

Lo Stato di Israele fu fondato nel maggio 1948. Fu attaccato dagli Stati arabi nell'Egitto del r948, 1 967 e 1 9 7 3 e fu in guerra con l'Egitto nel r 9 5 6 . Nel 1978 il presi­ dente dell'Egitto, Sadat, fu il pri­ mo leader degli Stati del "fronte del rifiuto" a firmare un trattato di pace con Israele.

1 9 84

SIRIA

[Q

I SHAELE, GIORDANIA,

4 ( 3 ,5 ebrei) 2 ,5

o

LIBANO,

2,}

o

miglia

1 00

chilometri 1 5 0

Fonte: Martin Gilbert, Atlante di storia ebraica, L a Giuntina, Firenze

1 05

1993.

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

robusto a tutte le iniziative, volte a sostenere il rispetto degli accordi di Camp David. La piattaforma politica si basava su cinque principi: la divisione delle terre in base a criteri di equità e non sulla scorta di rivendicazioni ideologiche o teologiche; il riconoscimento, per parte araba, del diritto d'Israele ad esistere all'interno di frontiere sicure; il riconoscimento, per parte israeliana, del diritto dei palestinesi ad uno Stato indipendente; l'adozione di una politica di sicurezza per Israele non fondata sull'espansione territoriale; l'in divisibilità di Gerusalem­ me, pur nel riconoscimento dei diritti delle religioni presenti e degli interessi di altre comunità nazionali. In seguito, l'impegno fu profuso contro la guerra in Libano e per il disimpegno dai Terri tori. Il 2 5 settembre 1 9 8 2 , dopo i massacri nei campi di Sabra e Chatila, una folla gigantesca, calcolata intorno al mezzo milione di persone, si riu­ nì a Tel Aviv, oramai eletta capitale del movimento pacifista. La ri­ chiesta più pressante era quella di una radicale revisione dell'agenda delle priorità dell'azione del governo in Libano . Negli anni successivi il confronto con la destra nazionalista, che accusò a più riprese il mo­ vimento di " disfattismo " e "tradimento " , si fece più duro, al limite dello scontro fisico. La spaccatura che correva tra il «campo della pace» e il «blocco nazionale», così come sempre più spesso la stampa prese a definire i due diversi schieramenti, sia extraparlamentari che parlamentari, era alimentata anche dalle diverse origini etniche e cul­ turali dei militanti. I pacifisti raccoglievano intorno a sé perlopiù per­ sone di cultura elevata e di origine aschenazita. Forte era l'insedia­ mento nelle università. I nazionalisti, invece, potevano contare su un discreto seguito tra i sefarditi e nelle classi meno abbienti. Questa frattura riproduceva la polarizzazione molto forte presente all'interno dell'elettorato israeliano negli anni settanta e ottanta, proiettando sul piano delle opzioni ideologiche e politiche le differenze etniche che attraversavano il paese.

L' intzfada e il dibattito sui rapporti con i palestinesi Con l'oLP esiliato a Tunisi i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza si trovarono di fatto orfani di una leadership politica "di prossimità" . Anche rispetto alla «fratellanza araba» dei paesi dell'area le perplessi­ tà andarono crescendo, non ottenendo alcun risultato concreto dalle ripetute manifestazioni di solidarietà politica. Ne derivò un percorso di autonomizzazione delle popolazioni locali che dovettero fare fronte da sole alle incombenze derivanti dal difficile rapporto con l' ammini­ strazione israeliana. L'intz/ada (il cui significato è " sollevazione " , " riI 06

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GLI ANNI DEL CONFLITTO COI" l PALEST ! N ES!: DALLA GUERRA IN LIBANO

sveglio" ) nasce all'interno di questo mutamento della condizione de­ gli abitanti dei Territori, costretti ad una sorta di apolidia di fatto, ossia dalla mancanza di una cittadinanza reale nel contesto dell'evolu­ zione di un sentimento di appartenenza nazionale che dagli anni ses­ santa era andato spontaneamente maturando. Si trattava di non meno di un milione e settecentomila arabi palestinesi (di cui 9oo.ooo nella West Bank, 63o .ooo nella Striscia di Gaza e I 3o.ooo a Gerusalemme Est ) . L' espulsione dell'oLP dal Libano aveva incrementato un bisogno di leadership sul piano locale, non assolto dal notabiliato tradizionale. Un senso di deprivazione, di umiliazione, di discriminazione domina­ va tra i più. Non era secondario il fatto che una parte della forza­ lavoro palestinese si recasse ogni giorno in Israele, dove doveva misu­ rarsi con il tenore di vita, i costumi e gli usi degli israeliani. Da ciò derivava il convincimento di essere stati oggetto di una grave ingiu­ stizia storica. Le giovani generazioni si dovevano confrontare con quelle più anziane, rivendicando spazio d'azione e riconoscimento. Molti di loro erano nati dopo il I 967 e non avevano conosciuto altro che non fosse lo status quo dell'amministrazione militare israeliana. Come capita nelle situazioni in cui le tensioni si sommano con il pas­ sare del tempo, fu un evento, nella sua singolarità, a costituire la goc­ cia che fece traboccare il vaso. Il 7 dicembre I 9 8 7 , a Gaza, a causa di un incidente stradale con un veicolo israeliano, due lavoratori pale­ stinesi perivano nel mezzo in cui viaggiavano. Due giorni più tardi iniziavano le prime sassaiole, condotte da gruppi di giovani che pren­ devano di mira le pattuglie israeliane. Dal campo profughi di Jabalya nel giro di una settimana gli scontri si estesero un po' per tutti i Ter­ ritori. Le azioni di contrapposizione fisica si accompagnavano ad atti di disobbedienza civile, agli scioperi, al rifiuto di adempiere agli ob­ blighi imposti dal regime di amministrazione militare. In buona parte degli scontri i manifestanti, pur arrivando all'esercizio della violenza fisica, evitarono di ricorrere all'uso delle armi. Il fatto nuovo era che le manifestazioni avevano un carattere spontaneo, nascendo perlopiù sulla base delle spinte provenienti dalle comunità locali ma, lungi dal­ l' esaurirsi nei singoli episodi, tendevano ad espandersi a macchia d'o­ lio e a trasformarsi in una condotta collettiva. A tale riguardo, quindi, si parlò di "sollevazione" , guidata da " comitati popolari " che condu­ cevano la " rivolta delle pietre " . Secondo l'organizzazione umanitaria B'tselem ( " A immagine" ) tra il 1 9 87 e il 1 9 9 3 i palestinesi uccisi da Tsahal furono 1 . 095 , tra i I 5 .ooo e i 2o.ooo quelli feriti con armi da fuoco e dagli sfollagente, 3o.ooo i processati per atti di ribellione. A costoro ne vanno aggiunti 48, colpiti e uccisi dai coloni degli insediamenti ebraici. I palestinesi I 07

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

assassinati da connazionali per " collaborazionismo" sono ben 3 5 9 · Tra gli israeliani 4 8 furono i civili uccisi i n Israele, 3 I quelli morti nei Territori insieme a 65 militari. Sosterrà l'allora capo di stato maggiore delle IDF Ehud Barak (nato nel I 942 ) che «la sollevazione è un tentativo di ottenere quegli obiettivi che gli eserciti arabi e il terrorismo si sono dimostrati inca­ paci di raggiungere» (in un'intervista rilasciata il I 7 febbraio I 9 89 al quotidiano " Ma'ariv" ) . Comunque le si valuti, le ripercussioni dell'in­ tz/ada furono molteplici, investendo a più livelli molti soggetti e con­ correndo a rimettere in moto una situazione altrimenti destinata alla paralisi. Per gli uni e per gli altri costituì un «rompicapo» (Gresh, Vidal, I 990, p. I I 8 ) , avanzando istanze non più eludibili ma, nel me­ desimo tempo, non offrendo risposte facilmente praticabili . La Giordania di re Hussein, il cui nonno, Abdullah, aveva annes­ so la Cisgiordania, il 3 I luglio I 988 annunciò la decadenza delle pre­ tese verso i Territori, dichiarando che essi erano terra palestinese e come tale non costituivano componente "legale e amministrativa" dello Stato giordano. Per parte israeliana, la politica di " amministrazione" dei Territori palestinesi, da molti però qualificata come "occupazione" tout court, era entrata in stallo. Gli anni ottanta registrarono in termini crescenti le difficoltà che Israele andava incontrando rispetto al destino da as­ segnare a quelle terre. Pesava sul paese ancora una volta l'esito, con­ trastato e incerto (quindi oggetto di giudizi contrapposti) , della guer­ ra in Libano. Contava, non di meno, l'erosione del potenziale di de­ terrenza fino ad allora mantenuto dall'esercito . Un processo declinan­ te, quest'ultimo, che era andato maturando con la Guerra di Yom Kippur e che nell'immaginario arabo alimentava l'idea che l'opposi­ zione armata ( che, in seguito, diventerà anche vocazione al "marti­ rio " , ovvero agli attentati suicidi dei kamikaze) potesse contrastare ef­ ficacemente Israele. Ma, ancor di più, contava la mancanza di rispo­ ste ai problemi strutturali che attraversavano la comunità palestinese. Il presupposto dello status quo, caldeggiato dagli israeliani che soste­ nevano che " il tempo lavora per noi " , di fatto introdotto con l' occu­ pazione del I 967, si stava rivelando fallace. Se una parte dello schie­ ramento politico, quello che si riconosceva nella destra nazionalista, continuava a ritenere che la soluzione fosse un "assorbimento " , par­ ziale o integrale, dei Territori nello Stato d'Israele, l'altra propendeva per l'adozione di una politica che portasse al ritiro . I quesiti che veni­ vano avanzati avevano il carattere della dilemmaticità, guardando ad un futuro che si prospettava come sempre più limaccioso. Nell' even­ tualità della costituzione di una "grande Israele" , i rapporti demograIo8

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fici tra la componente ebraica e quella araba avrebbero subito una profonda trasformazione. Nel giro di una generazione la seconda avrebbe superato la prima. Nel qual caso, quale sarebbe stato il de­ stino d'Israele, in un tale quadro socioculturale? Inoltre, nell'ethos sionista l' ebraicità della società doveva incontrarsi con la democratici­ tà delle istituzioni. La cosa in sé implicava il riconoscimento di pari diritti a chiunque, indipendentemente dalle sue origini. Come poteva essere mantenuto questo binomio, dinanzi alle torsioni alle quali era sottoposto nel rapporto con i palestinesi dei Territori? Fino agli anni settanta per l'israeliano medio non era sussistita una " questione pale­ stinese", trattandosi semmai di un problema di profughi arabi non accolti dai paesi ospitanti. Men che meno si poneva l'ipotesi di una comunità politica indipendente. Valeva il principio dell'inesistenza dei palestinesi in quanto tali, diluiti nel contesto delle comunità na­ zionali arabe. Dopo i tornanti del 1 967, delle guerre del Kippur, del Libano e della sollevazione popolare nei Territori, il quadro cambiò drasticamente. In vent'anni le coordinate del problema subirono un mutamento di 1 8o gradi. Non di meno, per gli arabi - e in particola­ re per i palestinesi - iniziò a porsi un «problema israeliano» che non era riducibile al truce slogan della distruzione dell"' entità sionista" . In entrambe le comunità, furono quelli gli anni di un sostanziale ridi­ segno delle posizioni, con fenomeni di scomposizione ideologica al­ l'interno del medesimo campo: da una parte coloro che, esacerbando le proprie posizioni, si espressero per una soluzione radicale, ovvero - alternativamente - annessione o abbandono, equivalente morale del dilemma guerra o pace, distruzione o riconoscimento; dall'altra quan­ ti s'incamminarono sulla strada della negoziazione con la controparte, intesa più come atto di necessità politica che non di virtù etica. Ma pur sempre all'interno di un quadro di realistica revisione degli atteg­ giamenti adottati fino ad allora, nella consapevolezza che il passare del tempo richiedeva l'assunzione, da entrambe le parti, della respon­ sabilità di un confronto non più armato.

Dagli anni ottanta agli anni novanta: verso gli accordi di pace La politica israeliana degli anni ottanta si aprì con i governi della de­ stra, presieduti da Menachem Begin prima e da Yitzhak Shamir poi, per proseguire, in seguito al risultato elettorale per l'undicesima legi­ slatura ( 1 984) - quando nessuno dei due maggiori partiti raggiunse, insieme ai suoi abituali alleati di coalizione, la maggioranza assoluta 1 09

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dei seggi - con i «governi di unità nazionale» tra Likud e laburisti . Si trattava di una scelta di ingegneria politica unica nel suo genere, dove i due storici contendenti si trovavano nella necessità di unire le forze, che si caratterizzò anche per la staffetta tra la presidenza laburista di Shimon Peres (che governò tra il 1 9 84 e il 1 9 86) e quella likudista di Yitzhak Shamir (tra il 1 9 86 e il 1 9 8 8 ) . Ad incidere a favore di questa scelta vi erano più fattori, primi tra i quali la necessità di disimpe­ gnare l'esercito dal Libano e la crisi economica, in un paese dove l'inflazione toccava oramai il 4oo% annuo. I laburisti muovevano al Likud l'accusa di portare l'economia alla rovina, praticando una dis­ sennata politica di liberalizzazioni che aveva collassato i meccanismi dell'intervento pubblico, soprattutto in campo agricolo. A ciò si univa una "indiscriminata proliferazione" degli insediamenti in Cisgiordania e a Gaza. Il Likud rispondeva chiamando in correo l' Histadrut, che avrebbe impedito, con la sua forza di condizionamento, ogni riforma; ma anche i criteri d'indicizzazione automatica dei salari alla crescita dei prezzi e, più in generale, il volume del debito estero, aumentato vertiginosamente sotto i governi della sinistra. Per agevolare l'accordo tra la sinistra e la destra, insieme al ri­ spetto degli impegni assunti, si creò un Consiglio di gabinetto costi­ tuito dai titolari dei cinque dicasteri più importanti, nel contesto del quale venivano discusse le questioni maggiormente impegnative come la politica estera, di difesa e la questione degli insediamenti. Dopo le elezioni per la dodicesima legislatura ( r 9 8 8 ) , che confermarono il calo di seggi a danno dei due maggiori partiti, l'accordo fu mantenuto, optando tuttavia affinché Yitzhak Shamir rimanesse premier per tutta la durata della legislatura. Il governo fu così completato con la pre­ senza di Peres in qualità di viceprimo ministro e di Rabin come tito­ lare della Difesa. Di fatto la durata di questo secondo governo unita­ rio fu di non più di due anni. Pur riuscendo ad ottenere risultati si­ gnificativi sul versante della condotta militare nei confronti del Liba­ no e nell'impostazione di una nuova e draconiana politica economica (con la sostituzione della moneta, il r0 gennaio 1 9 8 6 ) , salvando il paese dal rischio di collassamento, le divergenze in merito ad un pro­ cesso di pace con i palestinesi ebbero il sopravvento. Shamir conti­ nuò tuttavia a governare fino alle successive elezioni, tenutesi nel 1 992 . La faticosa ripresa delle trattative per pervenire ad un accordo di pace, che data alla fine degli anni ottanta, si inserì all'interno di un quadro dove sia la realtà mediorientale che quella internazionale sta­ vano subendo un mutamento profondo. Le vicende legate all' intz/ada costituivano uno spartiacque in campo palestinese, avendone smosso IlO

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le acque e avendo causato seri contraccolpi anche in Israele, senza però riuscire a raggiungere alcun concreto obiettivo. Alla proposta israeliana, avanzata nel maggio I 9 89, di un nuovo piano per l'autono­ mia palestinese, l'oLP aveva risposto negativamente. Peraltro, alla fine degli anni ottanta, alcuni leader arabi erano ora­ mai giunti alla conclusione che non solo Israele fosse destinata a non soccombere alle aggressioni militari ma che una nuova guerra sarebbe stata una disgrazia per l'intera regione. Lo scontro tra Iran e Iraq, con il ricorso alle armi chimiche, stava a testimoniare i rischi ai quali non solo gli eserciti ma anche le popolazioni venivano esposte nel caso di un conflitto armato. Comune era poi il convincimento, mai apertamente smentito dalle autorità di Gerusalemme, che Israele avesse a disposizione un arsenale nucleare. La Guerra del Golfo del I 9 9 I - quando l'Iraq invase il Kuwait, venendo poi sconfitto sul campo dalla coalizione alleata patrocinata dalle Nazioni Unite - ebbe inoltre rilevanti ripercussioni sul sistema delle relazioni tra paesi arabi, i quali si divisero fin da subito tra so­ stenitori Oo Y emen, la Libia, l'Algeria, tacitamente la Giordania e, infine, l'oLP) e avversari ( Siria, Egitto, Arabia Saudita, Kuwait e gli Emirati del Golfo ) . Per la prima volta una guerra interaraba fu com­ battuta con il concorso e la partecipazione attiva degli Stati Uniti e dei paesi occidentali, mentre Israele, su esplicita richiesta americana, ancorché bersagliata dai ripetuti lanci di missili Scud iracheni, si astenne dal rispondere. Il conflitto generò inoltre un gigantesco flusso di rifugiati : almeno 2 5o.ooo palestinesi furono espulsi dal Kuwait; 8oo.ooo yemeniti dall'Arabia Saudita; 40o.ooo egiziani dall'Iraq. As­ sad, avversario storico d'Israele, comprese che il suo nemico aveva i medesimi sistemi d' arma degli Stati Uniti. Non era più possibile, quindi, pensare di risolvere per via militare il contenzioso territoriale, esponendosi altrimenti al rischio di una sconfitta, così come era acca­ duto a Saddam Hussein ( I 9 3 7 -2oo6 ) . La guerra del I 9 9 I poneva in luce, ancora una volta, i cronici problemi che attanagliavano il Me­ dio Oriente: la questione dei profughi, lo sviluppo diseguale delle economie nazionali e la mancata ripartizione dei benefici derivanti dal petrolio, i rischi ambientali e il problema idrico. Come dare una risposta a tutto ciò, escludendo a priori Israele e rinviando, ancora una volta, una qualche soluzione negoziata del conflitto israelo-pale­ stinese? A fronte di questo quadro, per Israele il primo problema era di identificare l'interlocutore con il quale avviare le trattative. Per il Li­ kud era fuori di discussione che potesse essere l'oLP. Nell'estate del I 9 9 I si pervenne quindi ad una formula di mediazione: per parte paIII

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lestinese la delegazione sarebbe stata mista, ovvero costituita da gior­ dani e da esponenti dei Territori . La Siria accettò inoltre di parteci­ pare all'insieme delle trattative, che implicavano la definizione di un accordo sia nel merito del rapporto tra palestinesi e israeliani che dei futuri assetti regionali, in previsione di trattati di pace definitivi tra paesi ancora formalmente in guerra. I due sponsor internazionali, Stati Uniti e la nuova Confederazio­ ne degli Stati indipendenti russi, invitarono quindi le delegazioni a Madrid, dove si tennero più sessioni, bilaterali e multilaterali. Per Israele l'obiettivo prioritario da raggiungere era quello di essere rico­ nosciuta a pieno titolo come soggetto negoziale, in quanto nazione del Medio Oriente, stabilmente inserita nel consesso regionale. In­ somma, un riconoscimento di fatto, che preludesse a quello di diritto, attraverso la successiva firma di trattati stabili e duraturi . Si trattava di una meta non solo politica ma anche culturale (oltre che psicologi­ ca e simbolica), poiché doveva scontrarsi con l'ideologia prevalente nel mondo arabo, che del rifiuto, al limite della demonizzazione, del­ l' esistenza di uno Stato degli ebrei aveva fatto una questione di prin­ cipio . Un secondo fattore inderogabile era il mantenere con gli Stati Uniti un rapporto privilegiato. La stipulazione degli accordi - già lo si era visto con Camp David, nel 1 9 7 8 - implicava il coinvolgimento costante di Washington, che costituiva l'unica potenza garante della loro implementazione. Gerusalemme poteva inoltre contare sui molti amici presenti negli usA . Un terzo elemento era l'indisponibilità ad accettare la prassi e i meccanismi richiamati da una negoziazione con­ dotta, multilateralmente, da organizzazioni internazionali come le Na­ zioni Unite, l'Unione Europa o i paese dell'ex blocco sovietico. A queste si era disposti ad assegnare il ruolo di interlocutori ma non di gestori del processo di pace. Se da un punto di vista politico si dubi­ tava della loro neutralità, sul piano più strettamente operativo si rite­ neva che la farraginosità del loro sistema decisionale, oltre all' assem­ blearismo che ne costituiva l' essenza politica, fossero un vincolo in­ superabile. Inoltre, per Israele era imprescindibile addivenire a collo­ qui bilaterali poiché eventuali trattati di pace, così come la soluzione una volta per sempre del problema del rapporto con i palestinesi, richiedeva una negoziazione diretta con i partner. Da ultimo, era fondamentale cercare di spostare l'attenzione di tutti gli interlocutori dai tradizionali obiettivi politici di un accordo, a partire dalla que­ stione dei confini stabili e sicuri, verso il complesso dei problemi strutturali che attanagliavano il Medio Oriente, legati sia all'ineguale sviluppo tra nazioni sia alla situazione ambientale e alla scarsità di risorse primarie come l'acqua. Ciò chiamava in causa la condotta dei

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regimi arabi, la loro scarsa democraticità, legando in un nesso indis­ solubile i problemi economici a quelli politici . Nessun accordo di pace avrebbe retto alla prova dei fatti se non si fosse confrontato con questo retroterra di questioni aperte, legate al futuro dei popoli della regione. La contropartita di un processo di pace, se ben condotto in por­ to, secondo Gerusalemme avrebbe offerto robusti dividendi a tutti, a partire dalla cancellazione o comunque da una moratoria sui debiti che affliggevano Egitto e Giordania, un piano di aiuti ai palestinesi e così via. Tuttavia vi era un nuovo ostacolo, costituito dalla crescita delle organizzazioni dei fondamentalisti islamici che nei Territori, so­ prattutto per mano di Hamas ( " ardore" , ma è anche l' acronimo di "Movimento di resistenza islamica" ) e ]thad islamico (termine che co­ munemente viene tradotto come "Guerra santa " ) , si impegnarono fin da subito per far tramontare ogni ipotesi di compromesso.

Il percorso degli accordi La conferenza di pace di Madrid dell'ottobre del 1 9 9 1 costituì una pietra miliare nella storia del conflitto israelo-palestinese. Al tavolo di una pubblica discussione, ripresa anche dalla televisioni arabe, si se­ dettero paesi che mai si erano rivolti la parola. Due furono i filoni seguiti. Il primo, basato su colloqui multilaterali, riguardò cinque questioni basilari: acqua, rifugiati, controllo degli arsenali militari, svi­ luppo economico e ambientale. Il secondo si doveva articolare in ne­ goziazioni dirette, ovvero bilaterali, tra Israele, Siria, Libano e con la delegazione giordano-palestinese sui temi della pace, delle frontiere, della sicurezza reciproca, degli scambi commerciali. A fronte del ri­ fiuto siriano di proseguire la discussione, gli Stati Uniti rinnovarono la loro disponibilità ad ospitare una seconda sessione di colloqui a Washington. L' amministrazione americana, pur consapevole delle in­ numerevoli trappole e della intrinseca fragilità dell' intera impalca­ tura della conferenza, intendeva raggiungere un qualche concreto obiettivo . La delegazione israeliana, seguendo le indicazioni restrittive del governo Shamir, rifiutò le richieste avanzate da quella palestinese (ti­ dispiegamento delle truppe nei Territori, concessione dell'autonomia sulle materie amministrative e civili ad autorità locali, limitazione nel­ la costruzione di nuovi insediamenti ebraici) . Con la Siria il fulcro del contenzioso erano le alture del Golan. Damasco chiedeva il ritiro israeliano come premessa a un futuro accordo mentre Gerusalemme 113

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contrapponeva il principio «pace in cambio di pace». Il Libano, non di meno, avanzava la richiesta del ritiro completo dalla fascia di sicu­ rezza nel sud del paese. Le elezioni per la tredicesima Knesset, nel giugno I 992, portarono di nuovo al potere il partito laburista. Il nuo­ vo premier Rabin annunciò la ripresa del processo di pace sulla base di una netta ridefinizione delle priorità israeliane. Ora non erano più i Territori palestinesi a costituire il fuoco dell'attenzione politica ma l'assorbimento nel paese delle ondate migratorie dalla Russia, per le quali si stimava che occorresse, complessivamente, un investimento intorno ai 30 o 40 miliardi di dollari. Una cifra astronomica, per la quale Israele non aveva risorse sufficienti. Il processo di pace occor­ reva - quindi - non solo in sé, per gli obiettivi conclamati, ma anche perché avrebbe concorso a creare un clima favorevole al paese e a quegli investimenti strutturali che, ora più che mai, necessitavano. Ra­ bin riteneva che la conclusione della Guerra fredda costituisse un' oc­ casione unica per intervenire in Medio Oriente, cercando di mutare lo stato delle cose. L'anno successivo, con l' elezione alla Casa Bianca di Bill Clinton, i colloqui, che nel frattempo si erano succeduti se­ gretamente, subirono una notevole accelerazione. Il segretario di Sta­ to Christopher Warren si adoperò nella cosiddetta " diplomazia della navetta" , svolgendo non meno di tredici viaggi in pochi mesi. Il 2 0 agosto I 993 fu segretamente sottoscritta tra Israele e l'oLP una Di­ chiarazione di principi articolata in quattro parti: nella prima Israele e OLP si impegnavano ad una soluzione pacifica del conflitto; la secon­ da conteneva un accordo per la realizzazione dell'autogoverno pale­ stinese a Gaza e Gerico per un periodo transitorio di cinque anni; nella terza si definivano i termini per dare corso a elezioni che avreb­ bero dovuto portare alla creazione di un Consiglio palestinese per il governo dei Territori; nella quarta erano identificati gli aspetti essen­ ziali per un piano economico di sviluppo regionale. Nel mese di set­ tembre i negoziati proseguirono a Parigi e Oslo. Arafat, in una lettera d'intenti, s'impegnò ad accettare le risoluzioni 2 4 2 e 338 dell'oNu, a rinunciare ad ogni atto di terrorismo e a modificare la Carta costituti­ va dell'oLP, dove si parlava di distruzione dell"' entità sionista" . L'in­ sieme di questi passi, che preludevano al riconoscimento reciproco tra Israele e OLP, si concluse con una cerimonia pubblica alla Casa Bianca, celebrata il I 3 settembre I 99 3, durante la quale la Dichiara­ zione di principi fu ufficialmente sottoscritta. L'accordo ad interim che vi era contenuto stabiliva l'assetto dei Territori palestinesi per i successivi cinque anni (autogoverno palestinese, ritiro parziale delle truppe israeliane, elezioni, trasferimento di poteri, cooperazione in campo economico, regimi amministrativi) . La Knesset approvò la Di-

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chiarazione il 2 3 settembre I 9 9 3 , con una risicata maggioranza di 6 I voti e 8 astensioni . Rabin sottolineò che il controllo di Gerusalemme rimaneva in mano ad Israele così come gli insediamenti colonici. Un consesso di cinquanta nazioni si impegnò inoltre in aiuti economici per non meno di 2 miliardi di dollari nel quinquennio a venire. Tra gli effetti positivi, infine, vi fu il consolidamento di stabili relazioni diplomatiche con la Città del Vaticano. Sul piano politico Israele po­ teva ora contare sul riconoscimento di I 39 nazioni e su rapporti di­ plomatici con almeno un centinaio di Stati. Se le premesse erano pro­ mettenti, tuttavia i passi successivi si rivelarono difficili e lenti. I col­ loqui con la Siria e il Libano non portarono a significativi risultati: la prima continuava a chiedere il ritiro dal Golan come premessa e non come esito di un eventuale accordo; il secondo risultava subalterno alle scelte di Damasco. Con la Giordania, invece, si pervenne ad un trattato di pace, firmato il 26 ottobre I 994, che normalizzava definiti­ vamente le relazioni. Peraltro la questione degli assetti da attribuire in via definitiva ai Territori palestinesi, divisi in tre aree di giurisdi­ zione (palestinese, mista e israeliana) , era oggetto di forti tensioni an­ che all'interno d'Israele. Il tema degli insediamenti ebraici era diven­ tato dominante e sul loro destino il paese risultava diviso tra quanti si dichiaravano disponibili ad un parziale o totale smantellamento e co­ loro, invece, che pretendevano l'integrale annessione allo Stato. L'a­ zione omicida di un colono, Baruch Goldstein, che il 25 febbraio I 994 assassinò a Hebron 29 persone di fede musulmana e ne ferì non meno di 90, era la punta di un piccolo iceberg. Ovvero il segno che in alcuni segmenti della società israeliana stavano fermentando tensio­ ni destinate, forse, ad esplodere in maniera incontrollata. Le trattative di pace comunque proseguirono per il loro verso, portando alla firma al Cairo, in maggio, di ulteriori accordi per l'autonomia di Gaza e dell'area di Gerico, meglio conosciuti come Oslo I. Nel luglio del I 994 Arafat ritornava a Gaza dopo decenni di esilio, mentre nell'ot­ tobre dello stesso anno lo stesso Arafat, Rabin e Peres ottenevano il premio Nobel per la pace. L' anno successivo, il 28 settembre, a Taba si pervenne infine alla firma della seconda sessione di accordi, deno­ minati Oslo II. Si prevedeva la definizione di un quadro politico per parte palestinese, nel contesto del quale procedere al trasferimento del controllo delle funzioni civili di tutte le città più popolose della Cisgiordania (ed in particolare Jenin, Nablus, Tulkarem, Qalqilya, Ra­ mallah, Betlemme, Hebron, oltre ad altre 450 municipalità minori) per 5 . 878 chilometri quadrati di territorio . In questo modo si chiude­ va la prima, lunga, sfiancante fase nella trattativa israelo-arabo-pale­ stinese. II5

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

L' ultima grande immigrazione: gli ebrei russi La presenza russa e, latamente, europeo-orientale ha connotato pro­ fondamente l'yishuv prima e lo Stato d'Israele poi, concorrendo a di­ segnarne i profili culturali, politici e sociali più profondi. Le immi­ grazioni provenienti dall'Est sono risultate essere quelle più corpose in termini quantitativi, in ciò seguite solo dall'arrivo dei migranti pro­ venienti dai paesi arabi. Le difficili condizioni politiche ed economi­ che del paese d'origine sono quasi sempre state la motivazione più rilevante nella scelta di espatriare. Se si eccettuano le aliyòt che stan­ no alla base della costituzione dell'insediamento ebraico nella Pale­ stina ottomana, i successivi ingressi in Israele trovavano le loro ragio­ ni, più che nell'adesione al progetto politico sionista, nella necessità di trovare un luogo dove poter vivere senza essere fatti oggetto di discriminazioni. Non di meno, si giustificavano con l'impellente biso­ gno di trovare un soddisfacimento ai bisogni elementari, a partire dal lavoro, l'abitazione, un sistema di tutela sociale e sanitaria e così via. Tuttavia, non va nemmeno sottovalutato l'elemento identitaria, che in alcune comunità ebraiche, a partire da quella russa, con il secondo dopoguerra conobbe una reviviscenza. Da questo punto di vista Israele divenne una meta doppiamente appetibile: come Stato degli ebrei ma anche come sistema liberaldemocratico, alternativo all'auto­ ritarismo orientale. Tra gli anni cinquanta e ottanta uscire dall'Unio­ ne Sovietica, come da tutti i paesi dell'Est, era un'impresa non facile. In particolare, con la Guerra dei sei giorni i rapporti tra Mosca e Gerusalemme si fecero ancora più tesi, e portarono alla rottura delle relazioni diplomatiche con le " democrazie popolari" dell'Europa orientale. L'uRSs - quanto meno ufficialmente - disdegnò di rivestire di accenti antisemiti le sue posizioni avverse alla politica di Israele e tuttavia fece sempre abbondanti riferimenti al sionismo come ad una dottrina in sé negativa. Peraltro l'allusione, neanche troppo implicita, ad un disegno egemonico del «giudaismo cosmopolita» era immedia­ tamente richiamata da tale posizione ideologica. Ai dinieghi opposti dalle autorità sovietiche riguardo alle richieste di espatrio venne così contrapponendosi un fenomeno di opposizione, quella dei re/uznik ( dal russo " rifiuto " ) che, rivendicando libertà di pensiero e di movi­ mento per sé, generarono un movimento per le libertà civili e politi­ che, sia pure underground, che vasta eco raccolse nei paesi occidenta­ li. Le pressioni di questi costrinsero il Cremlino, durante gli anni set­ tanta, a permettere a circa 2oo.ooo ebrei russi di emigrare in Occi­ dente. Di essi r 37 .ooo andarono in Israele. II6

5.

GLI ANNI DEL CONFLITTO COI" l PALEST ! N ES!: DALLA GUERRA IN LIBANO

Con la fine degli anni ottanta e il declino dell'Unione Sovietica le frontiere, prima impermeabili, si aprirono agli espatri . Gli effetti su Israele furono notevolissimi. In un decennio 9oo.ooo persone vi im­ migrarono, contribuendo all'incremento del I 5 % della popolazione. Nel biennio I 990-9 I gli ingressi furono di 3 8 5 .ooo elementi; gli af­ flussi successivi si calcolano tra le 6o.ooo e le 7o .ooo persone per anno, sia pure con un trend progressivamente calante, fino al 2ooo. La liberalizzazione delle frontiere per parte russa fece sì che ad emi­ grare fossero non solo i vecchi oppositori, o chi aveva una forte moti­ vazione culturale e morale, ma anche e soprattutto interi nuclei fami­ liari. In questo caso, più che ad avere a che fare con profughi o fug­ gitivi ci si trovava a dovere trattare, inserendoli nel tessuto nazionale, con persone che sceglievano di abbandonare il paese di origine per migliorare la loro posizione socioeconomica. Le risposte israeliane, che pur si basavano sulla politica delle «porte aperte» e dell' acco­ glienza sistematica, dovettero confrontarsi con alcuni dati di fatto. L'ingresso accelerato di un corposo numero di individui, con un buon livello di formazione professionale e con alti titoli di studio, si ripercosse immediatamente sul mercato del lavoro. Peraltro le aspet­ tative degli immigrati erano in genere elevate, avendo scelto Israele per incrementare il proprio status e non accettando a priori ogni pro­ posta che veniva loro fatta. In un primo momento, quindi, la diffi­ coltà di fare incontrare domanda e offerta di lavoro generò un tasso di disoccupazione piuttosto sostenuto. A conti fatti, tuttavia, l' assor­ bimento dei nuovi arrivati si verificò nel corso di poco tempo. Note­ vole fu il contributo da questi offerto al settore, da sempre capitale in Israele, della ricerca e dello sviluppo. L'afflusso di studiosi, ricercato­ ri e tecnici irrobustì sia il comparto della produzione privata che quello dell'innovazione e della sperimentazione. Non di meno, anche sul versante abitativo s'imposero scelte in parte non predeterminabili. Il governo Shamir adottò perlopiù il criterio di affidare al libero mer­ cato la soluzione del problema di dove e come far risiedere quanti entravano nel paese, pur accompagnandolo con politiche di sostegno, costituite da trasferimenti finanziari e interventi di agevolazione indi­ retta. La speranza nutrita soprattutto dal Likud era che molti degli ebrei russi optassero per gli insediamenti dei Territori palestinesi, dove maggiori erano le concrete opportunità di inserimento. In realtà il flusso si mosse invece per buona parte verso le aree metropolitane, le grandi città. Pochi tra i migranti intendevano avventurarsi in zone contese, coinvolte in un conflitto che non sentivano come loro. Non di meno, fin da subito compresero invece la rilevanza del loro poII7

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

tenziale politico, costituendo ben presto un importante bacino eletto­ rale. Già nel r 9 89 era nato lo Zionist Forum, una vera e propria orga­ nizzazione di mediazione tra gli interessi della comunità russa e le au­ torità israeliane. Negli anni successivi si costituirono alcuni partiti a base etnica. Se alle elezioni del r 992 molti russi votarono per i laburi­ sti di Rabin, nel r 996 la lista di Nathan Sharansky, Israel ba-aliyà ( ''Israele per l'immigrazione" ) , ottenne 7 seggi sui r 2 o della Knesset, divenendo indispensabile forza di coalizione nella creazione del go­ verno di centro destra di Benjamin Netanyahu (nato nel r 949) . Nelle successive tornate elettorali, soprattutto in quelle del r 999 e del 2007, il vero capitalizzatore di questo fenomeno è infine stato Israel Beitenu ( '' Nostra casa Israele" ) , il partito fondato da Avigdor Liberman (nato nel r 9 5 8 ) e collocato, in virtù della sua posizione nazionalista, a de­ stra dello schieramento politico . Gli israeliani di origine russa hanno mantenuto e coltivato molte delle radici originarie. Pur essendosi in­ tegrati nel tessuto sociale e culturale nazionale, preservano molti degli atteggiamenti che avevano maturato nelle loro terre di origine. In Israele è diffusissima la stampa in cirillico, che si affianca ad un' am­ pia rete associativa fatta di gruppi, club, emittenti radio e così via. Non di meno, si calcola che circa il 3 0 % degli immigrati non sia co­ stituito da ebrei o abbia solo lontane ascendenze. L'ingresso di interi nuclei familiari, molto spesso frutto di matrimoni misti, ha infatti comportato l'arrivo di congiunti di diversa origine, i quali si sono do­ vuti confrontare, per la prima volta nella loro esistenza, con un am­ biente ebraico .

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6 Gli anni della disillusione : dalla morte di Rabin ai giorni nostri ( 1 99 5 - 2 008 )

L' assassinio di Rabin e i governi della transizione: da Peres a Barak La sera del 4 novembre 1 99 5 , dopo aver partecipato ad una manife­ stazione per la pace, il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin veni­ va ucciso. Il suo assassino, Ygal Amir, uno studente ebreo di vent' an­ ni, proveniva dal milieu del radicalismo politico di destra. La con­ trapposizione tra destra e sinistra in Israele è sempre stata partico­ larmente animosa. Parallelamente alle forze presenti nelle istituzioni, a partire dagli anni settanta si era sviluppato un ambiente di gruppi e gruppuscoli, più o meno stabili, di natura extraparlamentare, che rac­ coglievano quelle istanze culturali e sociali non rappresentate dal cir­ cuito politico ufficiale. L'incidenza di questi, legata soprattutto ad una lettura messianica dei destini d'Israele (ancorché molti di essi fossero di impronta laica) , seguiva gli andamenti discontinui della questione israelo-palestinese, cercando di trarre a proprio vantaggio le difficoltà che il processo di pace incontrava. Ygal Amir è infatti un giovane estremista la cui formazione si rifaceva al lascito del partito nazional-religioso Kach ( ''Così " ) , fondato nel 1 97 3 dal rabbino Meir Kahane e messo fuorilegge in Israele nel 1 994, dopo la strage com­ piuta da Baruch Goldstein a Hebron. La morte di Rabin, oltre a far emergere la presenza di questo piccolo continente di rabbiosi avver­ sari delle istituzioni democratiche, rivelò anche lo stato di profonda tensione nel quale era collassato il confronto politico. Da tempo, ora­ mai, la destra likudista andava accusando il partito laburista di avere ceduto alle richieste dei palestinesi. Del processo di pace denunciava quello che a suo dire era un vero e proprio "tradimento " del dettato sionista. Secondo i dirigenti del Likud vi erano due principi, conver­ genti, ai quali ispirare le scelte di politica estera e di pace: la costitu­ zione di frontiere sicure attraverso un'espansione territoriale almeno

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in una parte dei Territori palestinesi, quanto meno quelli già " colo­ nizzati " dagli insediamenti ebraici; una politica della forza, sia pure bilanciata, con i paesi arabi e con i palestinesi. Il processo di pace, obiettavano leader come Benjamin Netanyahu e Ariel Sharon, non avrebbe dovuto portare alla costituzione di un altro Stato arabo in terre che erano storicamente appartenute agli ebrei. Si trattava quindi di offrire «pace in cambio di pace». Si faceva poi notare che le deci­ sioni della Knesset di sostenere gli accordi firmati con i palestinesi erano passate con i voti, determinanti, dei deputati arabi. La sinistra al governo rispondeva seccamente a queste accuse, contrapponendovi una concezione dei rapporti regionali antitetica a quella sostenuta dalla destra. I tempi del confronto bipolare si erano oramai esauriti e per Israele esisteva l'occasione, unica nel suo genere, di ottenere il riconos cimento aperto e pieno, una volta per sempre, da parte delle leadership arabe moderate. Il futuro dei Territori, fatte salve tutte le garanzie di sicurezza da riconoscere ad Israele, doveva essere deciso da chi in essi abitava. Le questioni aperte, e spinosissi­ me, di Gerusalemme, dei profughi e del destino degli insediamenti andavano risolte all'interno di un processo decisionale che attuasse il principi di «pace in cambio di terra». Al Likud i laburisti contestava­ no la veemenza delle proteste che avevano accompagnato l' opposizio­ ne ai trattati di pace, quando Rabin e Peres erano stati raffigurati ad­ dirittura come due capi nazisti. Insomma, il clima di opposizione, al limite dell'isteria, aveva in qualche modo favorito la mano assassina di Amir. Alla scomparsa di Rabin fu il vicepremier Shimon Peres (nato nel 1 9 2 3 ) a succedergli, nominando inoltre l'ex capo di stato maggiore dell'esercito Ehud Barak a ministro degli Esteri e il leader dell' Hista­ drut Chaim Ramon a ministro degli Interni. Peres annunciò che le trattative di pace sarebbero proseguite, rispettando l'agenda concor­ data. I successivi colloqui di T aba non produssero effetti significativi anche perché le elezioni per la quattordicesima Knesset portarono alla vittoria, sia pure con uno stretto margine, la destra capitanata da Netanyahu. Peraltro va notato che le elezioni del 1 996 costituirono una novità assoluta in Israele per le regole con le quali si svolsero, non trattandosi solo di un confronto per la nomina dei deputati al Parlamento bensì di una tornata "presidenziale" . A fronte della crisi del parlamentarismo israeliano e alla richiesta di incentivare meccani­ smi correttivi, già nel marzo del 1992 era stata infatti approvata una legge che introduceva l'elezione diretta, a suffragio universale, del primo ministro . Il sistema istituzionale che veniva pertanto a determi­ narsi, se manteneva inalterata la carica del presidente dello Stato, così 120

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come il criterio proporzionalistico d'elezione dei membri della Knes­ set, recepiva e assumeva il principio del premierato . Il premier non veniva più scelto dalla maggioranza formatasi in Parlamento ma di­ rettamente dal popolo, con un sistema a doppio turno, nel caso in cui nessun candidato avesse raggiunto la maggioranza assoluta dei voti al primo. Il governo Netanyahu, durato in carica per quattro anni, dal I 996 al I 999, pur non rifiutando la logica degli accordi sot­ toscritti con i palestinesi, tradusse lo scetticismo montante nell'opi­ nione pubblica riguardo alla loro attuazione in un politica di assoluta cautela. Il 23 ottobre del I 99 8 veniva comunque firmato a Washing­ ton un nuovo accordo-quadro, conosciuto come il Memorandum di Wye Plantation. Nelle condizioni date costituiva il punto più avanza­ to che le due parti potessero raggiungere, tanto più in assenza di fi­ ducia reciproca. Il Memorandum non mutava il quadro di riferimento ma ribadiva la necessità di portare a termine alcune iniziative già pre­ viste dagli accordi precedenti e mai realizzate. Per parte israeliana ci si impegnava nella cessione immediata di alcuni territori, circa il I 3 % della Cisgiordania, all'Autorità nazionale palestinese, l'organismo di autogoverno nato con i precedenti accordi, la quale faceva proprio il vincolo di combattere il terrorismo, sotto la supervisione degli Stati Uniti. Gli aspetti più interessanti riguardavano il comune impegno ad una ripresa dei negoziati rispetto allo status finale dei Territori. Ma era il canto del cigno del dopo Osio. Nel giro di un anno la situazio­ ne politica interna ad Israele portò a nuove elezioni. A seguito di una convulsa campagna elettorale, dove parteciparono 3 I liste con 5 can­ didati premier, le elezioni per la quindicesima Knesset ( I 999) furono vinte, di misura, dai laburisti. Il loro candidato , Ehud Barak, ottenne il 5 6 % dei voti, contro poco meno del 44 % di Netanyahu. Ma la rappresentanza parlamentare risultava così frammentata, con ben I 5 partiti presenti, da rendere estremamente difficile la formazione di una coalizione. La legge elettorale aveva creato una sorta di " mostro bicefalo" , con un premier eletto dal popolo ma senza il consenso nu­ merico in Parlamento. Ne era una foto la sua composizione: la sini­ stra raggiungeva il 40% dei seggi ma i laburisti, nel contesto della vittoria della coalizione, confermavano solo 2 7 deputati, perdendone ben 7. Il Likud subiva un tracollo, scendendo da 3 2 a I 9 seggi. La destra, nel suo complesso, otteneva in tutto il 2 6 % mentre il centro raggiungeva il I 6 % . Da ultimo l'exploit dei partiti religiosi che racco­ glievano il restante I 8 % degli scranni. La scelta fatta da Ehud Barak fu quindi quella di dare vita ad una coalizione ampia, per potere go­ dere di un buon margine di voti alla Knesset, raggiungendo i 75 seg­ gi. Ne derivò tuttavia un'inflazione di richieste da parte degli alleati

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di coalizione. Il processo di pace fu subito rimesso in moto e già il 4 settembre 1 999 a Sharm al-Shaykh fu sottoscritto un memorandum israelo-palestinese conosciuto come Accordo di Wye migliorato. Il pre­ mier laburista riteneva di dover incalzare sia la controparte palestine­ se che la sua stessa maggioranza per giungere a qualcosa di concreto. Dalla cautela e dalla tattica delle dilazioni si doveva passare ora al confronto diretto sulle grandi opzioni. Anche un accordo con la Siria, con la quale s'intrattennero negoziati riservati a Washington alla fine dell'anno, era forse possibile. Ma l'intreccio tra le debolezze interne alla coalizione che sorreggeva il governo di centro- sinistra e l'incapa­ cità di cogliere l'occasione che, forse, si andava offrendo un po' a tutti, fu all'origine di un clamoroso fallimento. Barak voleva passare alla storia come lo statista che avrebbe finalmente firmato la pace de­ finitiva con i palestinesi. Ed invece il contrappasso storico volle che risultasse come colui che non riuscì a raggiungerla. Già tra il maggio e il giugno del 2ooo l'esercito israeliano aveva dato corso al " ridi­ spiegamento" delle sue truppe al confine settentrionale, ritirandole dalla fascia di sicurezza del Libano meridionale, nella quale era rima­ sto insediato per ben diciassette anni. La pressione dell'opinione pub­ blica, che in più casi aveva denunciato l'inutilità di una tale presenza, costosa in termini di vite umane e inefficace dal punto di vista dissua­ sivo, era stata determinante. Il riposizionamento annunciato da tem­ po, tuttavia, si tradusse in un errore politico per la superficiale e ma­ laccorta gestione che ne fu fatta. Mentre le unità dell'Esercito del Li­ bano del Sud, tremila uomini ai quali dovevano essere passate le con­ segne, si disfecero nel volgere di pochi giorni, le IDF furono costrette a ultimare le loro operazioni frettolosamente. Al posto degli alleati di Gerusalemme subentrarono le milizie di Hezbollah che, beffardamen­ te, issarono i loro vessilli a poche centinaia di metri dai confini con Israele. Ancora una volta nel mondo arabo si diffuse l'impressione, incentivata dai mass media locali, che la tenacia di un gruppo di " re­ sistenti" , in questo caso i miliziani islamici, avesse avuto la meglio sul "Golia israeliano" . La vicenda libanese costituiva una pessima pre­ messa per Barak, il cui governo scontava peraltro una divisione netta, al suo interno, tra laici e religiosi, su questioni di politica interna. Tra l' r r e il 24 luglio del 2ooo a Washington si succedette una serie in­ tensa e convulsa di incontri tra le leadership israeliana e palestinese. Il presidente Clinton voleva un accordo ma le premesse erano, ancora una volta, fragili. L' esordio non fu dei più felici, allorché Arafat pose come aprioristica condizione l'accettazione totale ed incondizionata delle richieste palestinesi. Atteggiamento al quale Barak rispose con una serie di netti dinieghi ma avanzando, nel medesimo tempo, la

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proposta più impegnativa che un leader israeliano avesse fatto fino ad allora alla controparte: la restituzione dell' 8 8 % dei Territori; l'auto­ nomia su alcuni luoghi santi; la costruzione di una città, al-Quds, col­ legata ai sobborghi arabi di Gerusalemme Est; un passaggio riservato alla Spianata delle moschee; il rimpatrio di circa w.ooo profughi su basi "umanitarie " . Per sé Israele riservava il mantenimento di 69 inse­ diamenti (pari all'85 % dei coloni) , cinque posizioni militari in Ci­ sgiordania tra di loro collegate, la sovranità ventennale su di una fa­ scia, parallela al Giordano, pari al w % del territorio cisgiordano, il controllo dello spazio aereo palestinese. Non si pervenne a nulla, malgrado sfiancanti trattative.

L'islarnisrno radicale come attore politico nello scacchiere rnediorientale Gli anni novanta furono contrassegnati dall'affermarsi di un nuovo soggetto politico, il radicalismo politico a fondamento religioso che, soprattutto in campo islamico, sostituì progressivamente le più tradi­ zionali e consolidate organizzazioni di matrice laica. Si trattava di un fenomeno complesso, non riducibile alle sue sole manifestazioni ecla­ tanti, a partire dal terrorismo, che pur tanta parte hanno nel suo modo di essere. Di fatto, già con la rivoluzione khomeinista e la crea­ zione, in Iran, di una «Repubblica islamica», tra il 1 97 8 e il 1 979, il baricentro della lotta contro Israele tese progressivamente a spostarsi verso quei gruppi (e quei paesi) che la rivestivano di significati reli­ giosi. L'invasione sovietica dell'Afghanistan e la lotta intrapresa dai gruppi di mujaheddin ( " combattenti" , ovvero coloro che lottano per il jihad, la "guerra santa" contro infedeli, apostati e miscredenti) lo­ cali, sostenuti economicamente dagli americani, concorsero ad esten­ dere un fenomeno che nel giro di un decennio interessò tutto il Me­ dio Oriente. La natura del fondamentalismo islamico, le cui radici culturali datano all'incontro dei musulmani con la modernità occi­ dentale, nel xrx secolo, è essenzialmente politica, trattandosi di un insieme variegato di movimenti, perlopiù all'opposizione dei governi dei paesi in cui operano, che propongono il ritorno ad una rigida tradizione religiosa come risposta ai problemi della contemporaneità. Al di là dei principi ai quali dichiarano di ispirarsi, i gruppi fonda­ mentalisti sono diventati delle ampie organizzazioni, capaci di eserci­ tare forti pressioni politiche non meno che di orientare culturalmente le società.

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A partire dagli anni ottanta l'opposizione ad Israele sempre di più è stata guidata da organizzazioni che si richiamano al Corano, moti­ vandone le ragioni in termini teologici. Partendo da questo approc­ cio, in sé totalizzante, il rifiuto dell'esistenza dello Stato degli ebrei si è fatto ancora più rigido. In Libano a partire dal r 9 82 si andò co­ stituendo, nella regione meridionale, Hezbollah ( "Partito di Dio " ) . Agevolata dalla guerra civile i n corso, dall'evacuazione dell'oLP e da­ gli effetti della presenza israeliana, questa organizzazione sciita si dotò fin da subito di un'ala militare, sostenuta attivamente dall'Iran dell'ayatollah Ruhollah Khomeini ( r 9 02 - 8 9 ) , guida spirituale e leader della Repubblica islamica. Ben presto radicatasi nelle aree a più alta densità sciita del paese, si costituì anche come partito politico, parte­ cipando alle elezioni legislative e alla formazione dei governi con pro­ pri rappresentanti. Di fatto Hezbollah era e rimane una struttura con due facce: da una parte l'ala politica, !egalitaria, che è parte attiva negli affari del Libano . Molto presente in campo sociale, dove gesti­ sce una serie di servizi come ospedali, scuole e tutto quanto il go­ verno centrale di Beirut non è in grado di offrire alla popolazione, si è adoperata anche per garantire sostegno economico alle famiglie più povere e a quelle dei rifugiati. Inoltre, operando nella parte meridio­ nale del Libano, martoriato da una guerra con Israele più che tren­ tennale, mai conclusasi, si è fatta carico della ricostruzione delle in­ frastrutture, come strade e ponti, distrutte nel corso dei diversi com­ battimenti. L'ala militare, conosciuta come "Resistenza islamica " , pre­ senta al suo interno un' organizzazione articolata in più livelli. A quel­ lo visibile, composto da una milizia che è stabilmente presente nei villaggi e nelle cittadine, si affiancano gruppi di combattenti, più o meno ufficiosamente affiliati alla struttura-madre. Attraverso questi ultimi molto spesso Hezbollah porta a termine le azioni terroristiche. In diversi paesi del mondo, a partire da quelli arabi, il movimento sciita è visto come una forza legittima che si adopera contro i "sioni­ sti " , in un'ottica nazionalista oltreché islamista. Pur ponderando il ri­ corso alla violenza in base a presupposti di ordine tattico e a calcoli d'interesse, Hezbollah non ha mai smesso di attuare la sua guerra di attrito contro Israele, soprattutto attraverso il lancio di razzi sulle cit­ tà del nord del paese. Nella striscia di Gaza nel r 987 veniva costituita Hamas, con il so­ stegno finanziario dell'Arabia Saudita e della Siria. Fondata dallo sceicco Ah m ad Y assin ( r 9 3 4 - 2 005 ), è un'organizzazione palestinese, di natura paramilitare e politica, concorrente dell'oLP di Yasser Ara­ fat. Si fonda sul credo diffuso dall'Egitto dal movimento fondamenta­ lista dei Fratelli musulmani, predicando la costituzione di uno " Stato I24

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islamico " palestinese, ovvero di una comunità politica ispirata ai pre­ cetti del Corano e della Legge islamica, su tutto il territorio della Pa­ lestina storica. Da Gaza Hamas si è poi diffusa, negli anni novanta, anche in Cisgiordania. L' attuale leader, dopo la morte di Yassin, è Khalid Mashal (nato nel 1 95 6 ) . Accusata di essere un'organizzazione terroristica anche dall'Unione Europea, avendo compiuto più attenta­ ti contro la popolazione civile israeliana, raccoglie a tutt'oggi un forte consenso tra i palestinesi, in ragione soprattutto dell'intensa attività sociale che svolge tra gli abitanti di Gaza. Come tale anch'essa è un'organizzazione a più livelli: sul piano sociale è un insieme di strut­ tu re " caritative " , la cui funzione è di garantire servizi sociali di base, ovvero un abbozzo di welfare state; sul piano politico si presenta come partito e lista elettorale, avendo vinto le elezioni legislative per il Consiglio nazionale palestinese del 2 5 gennaio 2oo6; sul piano mili­ tare, infine, ha un'ala di miliziani, inquadrati perlopiù nelle Brigate Izz al-Din al-Qassam, che si adopera negli scontri armati e negli atten­ tati suicidi contro obiettivi israeliani. La lista è peraltro molto lunga, contando alcune centinaia di assassinati, soprattutto per mano dei co­ siddetti kamikaze, o "martiri del jihad" , uomini e donne che fanno saltare cariche di esplosivo, indossate come corpetti sotto gli abiti, in presenza di civili. Recentemente Hamas ha fatto ricorso all'uso ripetu­ to di razzi Qassam per colpire le cittadine israeliane in prossimità dei confini con Gaza, ed in particolare modo Sderot e Ashkelon . Dinanzi alle altrui obiezioni il movimento ha risposto che anche i civili israe­ liani sono bersagli militari, in virtu del fatto di "vivere in uno Stato altamente militarizzato " . L'ideologia d i Hamas proclama l'illegittimità storica di Israele e la necessità di fare sì che la Palestina, terra musulmana, sia governata da una teocrazia islamica. Hamas, che ha una visione nazionalista della lotta, esprimendosi a favore di uno Stato palestinese, nella sua carta fondativa si rifà a molti dei tradizionali cliché antisemiti, reputando gli ebrei responsabili della " corruzione" morale derivata dal coloniali­ smo occidentale e sostenendo la negazione dell'Olocausto ebraico, li­ quidato come "leggenda sionista" . L a politica d'Israele nei confronti di Hamas è cambiata nel corso del tempo. Durante il governo di Menachem Begin, nel 1 977, l'orga­ nizzazione, autodefinitasi al-Mujamma al-Islam ( "Associazione islami­ ca" ) , fu riconosciuta come ente con finalità sociali e religiose. Della sua presenza si pensava nei termini di un contrappeso, tra la popola­ zione, rispetto all'egemonia dell'oLP. Solo con l'ascesa dello sceicco Y assin, dieci anni dopo, il quadro mutò drasticamente. Hamas diven­ ne così una struttura fortemente politicizzata e su posizioni di vio-

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lenta e radicale contrapposizione all ' " usurpatore sionista" . Attualmen­ te può contare su una vasta platea di finanziatori , soprattutto privati cittadini appartenenti alla diaspora palestinese. Jihad islamico, infine, presente perlopiù in Cisgiordania, è in com­ petezione con Hamas per l' egemonia sul radicalismo palestinese, avendo però un seguito molto ridotto. Nata a cavallo tra il 1 9 80 e il 1 9 8 1 , a Gaza, come organizzazione armata di osservanza sunnita, nel decennio successivo si è radicata anche a Gerico. Conduce prevalen­ temente attività paramilitari, con l'obiettivo di costituire uno Stato islamico su tutta la Palestina. Le sue fortune, tuttavia, sono condizio­ nate abbondantemente dal fatto di non godere del radicamento delle altre formazioni islamiste.

L' intz/ada al-Aqsa Il fallimento nel 2 ooo del tentativo di pervenire, sia pure in extremis, a un accordo tra Israele e l'Autorità nazionale palestinese degenerò ben presto in una rinnovata serie di scontri nei Territori. Il casus belli fu attribuito alla visita compiuta dall'allora leader del Likud, Ariel Sharon, il 2 8 settembre 2ooo, alla Spianata delle moschee a Gerusa­ lemme. La sua presenza, motivata probabilmente dalla necessità di di­ mostrare al suo elettorato di essere in grado di imporsi anche nei confronti della controparte araba, venne interpretata dalla popolazio­ ne locale come una provocazione. Ne seguirono tafferugli che nei giorni successivi si tradussero in scontri, molto spesso armati, tra esercito israeliano e palestinesi. Esordiva così quella che fu poi chia­ mata "seconda intifada" o inti/ada al-Aqsa (dal nome della moschea che fa parte del complesso di edifici religiosi di Gerusalemme noto sia come Monte Majid che come al-Haram al-Sharzf, "il Nobile San­ tuario" ) , caratterizzata da una particolare violenza: ai sassi si sostuiro­ no sempre di più i proiettili. Rispetto al quadro dell' intz/ada precedente, consumatasi tra il 1 9 87 e il 1 9 9 3 , erano subentrati in campo palestinese numerosi fattori di radicalizzazione, tra i quali la presenza dei gruppi fondamentalisti islamici, la delusione per la mancata attuazione integrale degli accordi di Oslo, le difficoltà economiche e la crisi incipiente dell'oLP, oramai trasformatasi in organizzazione di notabili, frequentemente corrotti, sempre meno credibile agli occhi degli abitanti dei Territori. A fianco della loro sollevazione, in questo caso non spontanea ma meditata da tempo, numerosi furono poi gli episodi di protesta degli arabi israe­ liani, che manifestarono ripetutamente il loro dissenso politico nei

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confronti delle autorità di Gerusalemme. È all'interno di questo qua­ dro di particolare virulenza che si inserisce la lunga stagione degli at­ tentati suicidi da parte dei kamikaze palestinesi che colpirono le prin­ cipali città israeliane, in particolare Tel Aviv, prendendo di mira so­ prattutto luoghi di aggregazione collettiva, come i mezzi pubblici, i locali ricreativi, i mercati. La contabilità dei morti, pur nella sua im­ precisione, al 1 5 agosto del 2 007 attribuisce 4.244 decessi per cause violente in campo palestinese e I .024 in campo israeliano. A ciò van­ no aggiunti i 5 3 cittadini stranieri uccisi da palestinesi, i w uccisi da­ gli israeliani e, soprattutto, i 5 3 8 palestinesi, accusati a vario titolo di essere dei " collaborazionisti " con Israele, assassinati dai loro stessi connazionali (secondo l'attendibile computo di B'tselem) . Se i pale­ stinesi hanno rappresentato il complesso degli scontri come parte di una più generale lotta di "liberazione nazionale" , molti israeliani, ben più che nel caso della prima intz/ada, ne hanno denunciato il caratte­ re tendenzialmente terroristico, attribuendolo alla volontà di Y asser Arafat di non pervenire ad alcun accordo di pace e alle istigazioni da parte di paesi come l'Iran o la Siria. Benché la seconda intt/ada non si sia mai ufficialmente conclusa, un insieme di fattori ha concorso ad attenuare l'intensità del confronto. Tra di essi la morte del capo del­ l'oLP l' I I novembre 2 004, la sua sostituzione con Mahmoud Abbas (conosciuto anche come Abu Mazen, nato nel 1 9 3 5 ) , il relativo suc­ cesso del summit di Sharm al-Shaykh nel febbraio del 2005 tra i lea­ der della regione e il ritiro unilaterale degli israeliani da Gaza sempre nello stesso anno. Peraltro, le successive vicende che hanno portato i Territori palestinesi sull'orlo di una vera e propria guerra civile, con la spaccatura tra Hamas e al-Fatah , la prima insediata a Gaza e il se­ condo in Cisgiordania, hanno ulteriormente mutato il quadro della situazione. Ciò che in Israele ha provocato grande scalpore è stato soprattut­ to il ripetersi di atti terroristici che ha caratterizzato questa lunga tor­ nata di violenze. I gruppi del radicalismo palestinese, e in particolare Hamas, il ]ihad islamico, il Fronte popolare per la liberazione della Pa­ lestina e le Brigate dei martiri di al-Aqsa, hanno dato corso a una lun­ ga campagna di attacchi, ricorrendo al lancio di razzi sulle città israe­ liane, all'uso di esplosivi e mine, alle auto-bomba contro obiettivi mi­ litari e, soprattutto, all'azione di attentatori suicidi. Il ricorso a queste forme estreme di violenza ha conferito connotati diversi alla seconda intt/ada. L' eclatanza degli atti terroristici e la militarizzazione delle di­ mostrazioni hanno alienato le simpatie che, anche tra una parte del pubblico israeliano, erano state espresse nei confronti dei palestinesi durante la prima intt/ada. La risposta d'Israele è stata quindi ancora

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p1U severa, contemplando il ricorso massiccio all'esercito, soprattutto nei centri abitati, dove maggiori sono state le manifestazioni d'ostilità, insieme al sostegno aereo fornito dagli elicotteri e a quello di arti­ glieria offerto dai mezzi blindati. In più di un'occasione si è pervenu­ ti a vere e proprie battaglie, combattute tra i civili. Le misure di pre­ venzione e di punizione, come la pratica dei cosiddetti «assassini mi­ rati» (l'uccisione di militanti, guerriglieri e terroristi palestinesi attra­ verso l'azione di commandos così come con il lancio di missili aria­ terra) o la demolizione delle case dei congiunti dei terroristi, hanno sollevato perplessità e critiche all'interno del paese. Anche la «deten­ zione amministrativa» di prigionieri palestinesi, senza un preciso capo di accusa, è stata fatta oggetto di severi giudizi. Così come la pratica di istituire checkpoint nelle arterie stradali di collegamento presenti nei Territori, l'imposizione del coprifuoco e, più in generale, di vin­ coli alla libera circolazione dei palestinesi. Ancora una volta ci si è posti il problema di quale sia il confine, a volte molto tenue, tra la legittima autodifesa e la violazione dei diritti umani. Da ultimo, a sollevare molte obiezioni è stata la costruzione del cosiddetto "muro" che di fatto divide Israele dalla quasi totalità dei Territori palestinesi. Definito dagli israeliani come geder ha'ha/rada ( "barriera di sicurezza " ) , è una linea divisoria in cemento, dell'altezza media di 8 metri, costituita da un sistema integrato di protezioni e di transiti controllati. La sua lunghezza, ad opera terminata (la data pre­ vista è il 2 0 1 0 ) , dovrebbe superare i 700 chilometri. Attualmente più della metà del tracciato è stato realizzato, seguendo per buona parte la linea armistiziale del I 949 · In alcuni punti, tuttavia, ha incorporato aree palestinesi, inglobando la maggior parte delle colonie israeliane e discostandosi anche di 2 3 chilometri dalla linea verde istituita alla conclusione delle ostilità nella Guerra d'indipendenza. Il suo traccia­ to è stato modificato decine di volte, su domanda dei palestinesi, de­ gli europei e sulla base delle sentenze della Corte suprema di giustizia israeliana. Giustificata come opera per impedire l'infiltrazione dei ter­ roristi, la barriera rientra anche nell'ipotesi avanzata dal governo Sha­ ron di pervenire ad una separazione fisica tra Israele e i Territori, nel tentativo unilaterale di stabilire dei confini definitivi, non concordati al tavolo delle trattative. Non secondari, infine, sono stati i costi eco­ nomici che l'ondata di violenze ha comportato. Per Israele le stime della Camera di commercio nazionale indicano, al 2002 , un danno dell'ordine di una decina di miliardi di dollari (di contro ad un pro­ dotto interno lordo di I 2 2 miliardi di dollari). In campo palestinese, peraltro, la stima è di I , I miliardi di dollari contro un PIL annuo di 4,5 miliardi.

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Le nuove minacce dopo l' I I settembre 2 0 0 I Oltre alla questione della sicurezza derivante dal rapporto conflittuale con i palestinesi e agli irrisolti problemi con una parte dei paesi vici­ ni, dopo i tragici fatti dell' I I settembre 200 1 , quando un'eclatante serie di atti terroristici causò la distruzione delle Twin Towers a New York, Israele deve confrontarsi con uno scenario regionale mutato. Due sono le minacce più rilevanti. La prima di esse è il terrorismo internazionale, nelle dimensioni che esso ha assunto. La seconda è l'I­ ran di Mahomud Ahmadinejad. Il terrorismo internazionale è un at­ tore politico dai confini indefiniti che, per praticare e raggiungere i suoi obiettivi, fa sistematico ricorso alla violenza contro i civili . Una sorta di convitato di pietra che non cerca mediazioni ma solo obietti­ vi da colpire. Per Israele la centralità di questo fenomeno sta nel fatto che essa ne è il bersaglio principale. Lo sviluppo di al-Qaeda ( "la base " ) ha mutato i modi con cui affrontare il problema poiché è cam­ biata la sua stessa natura. La struttura capeggiata da Osama bin La­ den, infatti, fonda la sua forza nel costituire una sorta di network mondiale della violenza. Contrariamente alle organizzazioni più tradi­ zionali, come Hamas ed Hezbollah, il cui radicamento territoriale è la precondizione per potere operare, al-Qaeda, pur essendo anche un movimento paramilitare ispirato ai principi del radicalismo islamista, si basa su un' estrema mobilità. Nato in Afghanistan, negli anni della guerriglia antisovietica, nel corso del tempo ha acquisito la fisionomia di rete mondiale panislamica, diventando una specie di sigla-ombrello alla quale fanno riferimento più gruppi, presenti ed operanti in alme­ no sessanta Stati, a partire dall'Iraq e dalla Somalia. Si tratta della condizione ideale per un'organizzazione che si alimenta della violen­ za, potendo mutare costantemente le forme e i modi dell'azione in base alle esigenze del momento. Questa estrema versatilità fa sì che le sue minacce - oltreché l'aura fantasmagorica che costruisce intorno ai suoi gesti - risultino assai più angoscianti di quelle arrecate dalle or­ ganizzazioni territoriali. Non di meno, la prevenzione e le risposte da dare alle sue aggressioni, più difficili. Il terrorismo islamista non ac­ cetta nessuna possibilità di mediare con quelli che considera i propri nemici poiché è nella sua natura il principio di condurre una guerra assoluta, dove non c'è spazio per la negoziazione. Da ciò deriva an­ che l'ottica transnazionale, che estende il raggio d'azione verso obiet­ tivi lontani, come gli stessi Stati Uniti. All'interno di questa concezio­ ne, apocalittica e totalitaria, il rifiuto d'Israele è integrale, rappresen­ tando la quintessenza di ciò che nell'ideologia di al-Qaeda è il "ma­ le" . Se nell'ampia galassia del radicalismo, arabo prima ed islamista

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poi, mai era venuto meno l'accento antisemita, molto spesso celato sotto le false sembianze di un antisionismo viscerale, gli attuali movi­ menti fondamentalisti non fanno mistero della loro avversione nei confronti degli ebrei in quanto tali. La loro irrimediabile colpa consi­ sterebbe nella costituzione dello Stato d'Israele in terra d'Islam, parte di un più generale " complotto " ordito ai danni del mondo musulma­ no e della sua vocazione a riunificarsi sotto il Califfato, l'unico istitu­ to universale in grado di ripristinare la Sharia (la Legge divina conte­ nuta nel Corano e nella Sunna, la raccolta di atti e detti di Maomet­ to) . Israele è, sotto questo profilo, il tradimento del ruolo storico as­ segnato agli ebrei dall'Islam, in quanto dhimmi, ovvero "gente del Li­ bro " , alla quale era concesso di praticare la propria religione, di go­ dere di una certa autonomia, di vedere garantita la sicurezza persona­ le e la certezza della proprietà come corrispettivo del pagamento di un tributo e del riconoscimento della supremazia musulmana. Ma è anche il segno, in terra, della presenza del maligno, del disegno dia­ bolico, contro il quale tutti i "buoni musulmani" devono impegnarsi attivamente, facendo il jihad (lo "sforzo " propagandato impropria­ mente dagli stessi islamismi come "guerra santa" ) . In questa demo­ nizzazione integrale, anche se partendo da presupposti diversi da quelli che animano i gruppi terroristici, si è inserito Mahomud Ahma­ dinejad, presidente dal 2 005 della Repubblica islamica dell'Iran , che ha costruito il consenso intorno a sé basandosi su posizioni politiche accesamente antiebraiche. La sua piattaforma ideologica si è spinta al punto di mettere in discussione l'evidenza storica dello sterminio de­ gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. A suo dire se un crimi­ ne di massa c'è stato, cosa che è messa comunque in dubbio, questo tuttavia è stato enfatizzato dai "sionisti" che, ricattando la Germania e i paesi europei, hanno cercato di capitalizzarne i benefici in termini politici ed economici. Secondo tale logica Israele è quindi il prodotto "parassitario " di questa strategia, punta di lancia di un progetto dove l'intenzione di fondo è quella di invadere il Medio Oriente, di sradi­ carne le radici religiose e culturali per assoggettarlo alla volontà dei "colonialisti" , dei "nuovi crociati" e dei "sionisti " . Gli ebrei, nell'im­ maginario alimentato da queste invettive, sono di volta in volta i dif­ fusori dell"' immoralità" , della pornografia, dell'omosessualità, del lai­ cismo, del femminismo, del liberalismo. Tutte " creazioni" di una mo­ dernità malata, basata sulla miscredenza e l'apostasia. La risposta che Ahmadinejad formula è quindi di natura bellicosa. L'obiettivo, più volte ripetuto, è quello di fare dell'Iran una potenza nucleare per contrastare Israele sul suo stesso terreno. Non di meno, il sostegno diretto e indiretto a una parte dei gruppi terroristici, così come ad

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Hezbollah in Libano, si inserisce dentro il disegno di costruire ed ali­ mentare un complesso e stratificato movimento di pressione, compo­ sto da più soggetti, in grado di isolare Gerusalemme. Il poter indica­ re nell' esistenza dello Stato degli ebrei l'origine di tutti i mali che at­ traversano il variegato mondo dell'Oriente arabo e musulmano è una potente arma ideologica che permette di convogliare le ansie delle popolazioni locali contro un obiettivo esterno, stornando dalle re­ sponsabilità le classi dirigenti nazionali. Più in generale, dopo l' I I settembre 200 1 , per Israele il problema della sicurezza si è fatto an­ cora più intenso nella misura in cui la sua esistenza è ora messa a rischio non tanto e non solo dall'ipotesi di un attacco militare coordi­ nato da parte dei paesi arabi circostanti, quanto dall'azione di s:fian­ camento che il terrorismo compie nei confronti del paese. Un' azione che è prima di tutto ideologica, volta cioè a delegittimarne il diritto all'esistenza. In questo il radicalismo islamista cerca di intercettare e raccogliere la protesta anche di parte del mondo non musulmano, nel tentativo di dare vita ad una coalizione che nel nome dei " diritti degli oppressi" volga la sua attenzione contro Israele, indicata come " Sata­ na " , al pari degli Stati Uniti.

Il paese dinanzi alle sfide del mercato globale Israele appartiene al novero dei paesi a sviluppo avanzato. La sua economia, a regime misto, ossia in parte legata agli investimenti pri­ vati ed in parte a quelli pubblici, si fonda sulla costante evoluzione del "settore R&S " , ricerca e sviluppo. Basti pensare che l'investimen­ to in questi ambiti, ad altissimo tasso d'innovazione, è pari al 4 , 8 % del prodotto interno lordo, cifra doppia rispetto a quella, già di per sé alta, degli Stati Uniti. Tra gli anni ottanta e gli anni novanta si è consumata una "transizione" nella struttura produttiva del paese. Le basi della ricchezza nazionale si sono spostate dall'agricoltura e dal­ l'industria ai servizi. In particolare modo l'attenzione continua a con­ centrarsi sulle telecomunicazioni, sull'informatica e l'elettronica, le biotecnologie, la difesa e tutto quanto ha a che fare con l'innovazione applicata. Da questo punto di vista lo scarto con i circostanti paesi arabi è gigantesco e, per questi ultimi, incolmabile. Israele è l'unico paese al mondo con un quarto della popolazione in possesso di una laurea. Lo sviluppo dei settori ad alta tecnologia, in una terra povera o pressoché priva di materie prime (e di industrie di lavorazione, a parte il settore agroalimentare), è essenziale affinché i capitali stranie­ ri continuino ad esservi investiti. Senza un flusso in entrata in tal sen-

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so le prospettive di crescita sarebbero drasticamente ridimensionate. Un impatto rilevante è stato offerto dall'immigrazione russa, compo­ sta da personale dotato di alti titoli di studio, di un ottimo back­ ground culturale e di vocazione all' autoimprenditorialità. Se in un pri­ mo tempo ciò aveva generato tensioni nel mercato del lavoro nazio­ nale, a partire dal 1 994 è seguito un assestamento (favorito anche da­ gli accordi di pace) che si è poi tradotto in un circolo virtuoso: au­ mento della domanda di beni di consumo e della correlativa offerta; creazione di una "economia dell'assorbimento" costituita sia dal sod­ disfacimento dei bisogni dei nuovi migranti che dalla messa in opera delle loro competenze professionali; diffusione di una serie di pro­ dotti nazionali, soprattutto nel campo delle tecnologie informatiche e delle comunicazioni. Israele ha non solo accolto ma assecondato e fa­ vorito la diffusione d'internet, inserendosi nel flusso innovativo che la sua espansione ha creato nel modo di fare commercio a livello in­ ternazionale. Il trattamento e l'elaborazione dei dati e delle informa­ zioni è, peraltro, un settore nel quale il paese ha rivelato notevoli competenze, al limite dell'eccellenza. Questo ciclo espansivo ha poi conosciuto invece una contrazione quando, con il 1 996, il processo di pace ha subito un drastico ridimensionamento. A testimonianza di quanto siano correlate politica ed economia, nel momento in cui la prima segnava uno stallo la seconda ne ha recepito gli effetti ne­ gativi. Il mercato del lavoro, alla fine degli anni novanta, risultava così notevolmente modificato anche solo rispetto al decennio precedente. Alla base della piramide sociale, non diversamente dalla totalità dei paesi occidentali, si pongono i lavoratori immigrati clandestini, irre­ golari o in possesso di permessi temporanei. Provenienti perlopiù dai paesi dell'Est, avendo in ciò seguito il flusso dei loro connazionali d'origine ebraica, si sono inseriti negli interstizi dell'economia sosti­ tuendosi ai palestinesi. Non solo svolgono i lavori meno ambiti ma soggiacciono all'aleatorietà della loro condizione giuridica. La presen­ za degli abitanti della Cisgiordania e di Gaza, tradizionale manodope­ ra pendolare, si è drasticamente ridimensionata dopo la recrudescen­ za delle violenze a seguito della seconda intt/ada. Ai vertici della scala sociale, invece, si pongono quelle élite sociali, economiche e culturali che appartengono alla nuova borghesia globalizzata. La supremazia aschenazita, tale fino alla seconda metà degli anni settanta, è andata attenuandosi nel corso degli ultimi tre decenni. Più che nel differen­ ziale etnico, che pur ancora conta nella determinazione dello status delle singole persone, è l'accesso al sapere, ovvero al capitale cultura­ le, che fa la differenza di sostanza, aprendo a coloro che ne sono de-

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tentori porte che per il resto della popolazione rimangono invece chiuse. Gli esponenti delle classi abbienti appartengono perlopiù a quel ceto di operatori economici che volgono il loro sguardo ad oriente, sapendo che dal confronto con l'India e con la Cina (e, più in generale, con il Sud-Est asiatico) deriveranno le fortune proprie. In Israele, paese per sua natura poliglotta, la mobilità verso l'estero, ov­ vero la costruzione di profili di carriera professionale attraverso il ri­ corso agli stages in paesi stranieri, è un fatto comune che ha permes­ so, soprattutto all'ultima generazione, di rom pere l'assedio dettato dall'essere cresciuta in un contesto regionale dove il senso dell' accer­ chiamento ha ancora un peso rilevantissimo e dove l'interscambio con i paesi limitrofi è pressoché nullo. La politica si è impegnata, in questi ultimi decenni, ad introdurre riforme strutturali, rivolte soprattutto ad incentivare l'attività dei pri­ vati e a ridurre il peso dell'intervento statale. La scelta di contenere il debito pubblico interno, di governare l'inflazione, di favorire l'ingres­ so di capitali stranieri si è incontrata con lo spirito !iberista che ha dominato la scena internazionale da Thatcher e Reagan in poi. È sen­ z' altro vero che il sostegno pubblico svolge un ruolo di primaria grandezza nell' agricoltura, dove tra l'altro molte terre sono ancora di proprietà statale. Se essa attualmente arriva ad occupare solo il 2 % della popolazione, è tuttavia una voce importante dell'economia, in­ sieme all'industria alimentare di trasformazione. L'investimento tec­ nologico al suo interno è stato elevatissimo, riuscendo così a soddi­ sfare circa i tre quarti del fabbisogno alimentare del paese. La filoso­ fia dei governi succedutisi dopo il 1 977, anche quelli di centro-sini­ stra, ha accolto la svolta dettata sia dall'impellenza dei problemi in­ terni ( recessione, disoccupazione, inflazione) sia dall'internazionalizza­ zione dei mercati. Peraltro, ancora nella seconda metà degli anni no­ vanta due filosofie di fondo si scontravano: da una parte l'idea di un "nuovo Medio Oriente " , caldeggiata da Shimon Peres, che ipotizzava la possibilità di una sinergia tra capitali provenienti dall' attività pe­ trolifera, sapere tecnologico israeliano e abbondanza di manodopera araba. Dall'altra la posizione promossa da Benjamin Netanyahu, dive­ nuto premier con le elezioni per la quattordicesima Knesset ( 1 996), che sosteneva che Israele dovesse affrontare le nuove sfide della glo­ balizzazione in corso scavalcando l'asfittico contesto regionale, per porsi come interlocutrice dei paesi a sviluppo avanzato al di fuori del Medio Oriente. Al di là delle filosofie di fondo rimane il fatto che all'orizzonte del paese si pongono alcuni problemi la cui impellenza rende la loro soluzione improcastinabile. Il primo ordine di questioni demanda ai tradizionali deficit che accompagnano l'economia del

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paese: la mancanza di materie prime, che impedisce qualsiasi auto­ sufficienza, soprattutto in campo energetico; il pesantissimo deficit della bilancia dei pagamenti, dovendo fare fronte alla carenza di beni lavorabili con le importazioni; la perdurante debolezza della moneta e la tendenza all'ingenerarsi di periodi caratterizzati da forte inflazione. Il secondo livello di problemi ha a che fare con il contesto regionale e la sua più o meno prevedibile evoluzione. Si tratta di una più gene­ rale questione ecologica, intesa come rapporto tra incremento demo­ grafico, livello di consumo (e di rinnovabilità) delle risorse naturali e vivibilità dell'ambiente. Su questo versante, gli interrogativi sono mol­ teplici e non riducibili alla sola variante economica, trattandosi di te­ matiche destinate ad incidere fortemente sulla condotta delle comuni­ tà umane. Una voce sovrasta le altre ed è quella relativa al futuro delle risorse idriche, la cui penuria condizionerà i passi prossimi ven­ turi dei governi regionali, primo fra tutti Israele.

La politica israeliana e la guerra in Libano nel 2 oo6 La sconfitta al tavolo delle trattative comportò, per Ehud Barak, an­ che la perdita della successiva partita elettorale. Alle elezioni per il capo di governo del 6 febbraio 200 1 , tenutesi ancora con la legge elettorale che aveva introdotto il premierato, vinse platealmente, con il 6 2 , 4 % dei voti, Ariel Sharon, candidato del Likud. Più di un israe­ liano su tre, tuttavia, non si era recato alle urne. Tra gli arabi israelia­ ni la percentuale di non votanti era addirittura dell' Bo % . La disaffe­ zione aveva colpito la sinistra, favorendo invece colui che rappresen­ tava, agli occhi di molti, l'unico politico in grado di fare fronte alla montante disillusione e al senso di frustrazione sia per il fallimento del processo di pace che per i molti problemi interni. Sharon è stato, in questo senso, l' ultimo degli esponenti della "vecchia generazione" , legata agli anni della costruzione dello Stato. Malgrado la proposta di un nuovo piano di pace, la Road Map, avanzata dal cosiddetto «quar­ tetto», costituito da Stati Uniti, Russia, Unione Europea e Nazioni Unite (basato sul duplice presupposto di un calendario che avrebbe dovuto portare, in tempi relativamente stretti, alla costituzione di uno Stato palestinese e, dall'altro, sull'adozione del principio «terra in cambio di sicurezza») , la politica del nuovo leader si è contraddistinta per la determinazione nel perseguire una via unilaterale nel rapporto con i palestinesi. Partendo dalla premessa che nessun interlocutore in campo avversario fosse sufficientemente credibile ma anche che oc­ corresse imprimere una svolta netta, Ariel Sharon ha optato per una 134

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separazione fisica tra Israele e i Territori . Per raggiungere tale obietti­ vo, che di fatto contrastava con gli ultimi venticinque anni di politica israeliana nei confronti di Gaza e Cisgiordania, ha seguito due vie: la prima, della quale già si è fatta menzione, è la costruzione di un muro di separazione. Per quanto possa risultare sgradevole esso è di fatto una linea confinaria, che divide definitivamente gli uni dagli al­ tri. A Gaza, invece, nell'estate del 2 005 si è proceduto allo smantella­ mento della quasi totalità degli insediamenti ebraici, completando poi il ritiro entro i confini nazionali. I poli della sua azione si sono quindi articolati nel disimpegno dalle situazioni insostenibili e nel consolida­ mento dei confini. La determinazione di Sharon, legata anche alla consapevolezza che gli equilibri demografici giochino già per l'immediato futuro a sfavore d'Israele, ha avuto seri contraccolpi nella politica, portando ad un vero e proprio scompaginamento dei partiti. Se nelle elezioni per la sedicesima Knesset (2003 ) la destra aveva ottenuto una qua­ rantina di seggi, contro i I 9 del partito laburista, due anni dopo il panorama politico risultava completamento disarticolato. Nel Likud la destra moderata e " realista" si è separata dalla componente più acce­ samente nazionalista, raccoltasi intorno a Benjamin Netanyahu; nel Labour, non di meno, si è verificata la fuoriuscita di una parte del gruppo dirigente, capitanata da Shimon Peres. L'approdo, per gli uni e per gli altri, è stato il medesimo, ossia la costituzione di un nuovo partito, Kadima ( ''Avanti " ) , in posizione centrista, che alle elezioni per la diciassettesima Knesset (2oo6) ha ottenuto una trentina di seg­ gi. Il risultato elettorale gli ha permesso di diventare il partito di maggioranza relativa, intorno al quale si è costituita una coalizione di governo di centro-sinistra insieme ai laburisti. Il nuovo premier, Ehud Olmert (nato nel 1 945 ) , ha sostituito Ariel Sharon , capo cari­ smatico di Kadima, impedito da una gravissima infermità a proseguire nella sua attività politica. In questo contesto, la questione del Libano, dopo il ritiro di Tsa­ hal nel 2ooo, è ritornata in primo piano. Denominata Operazione giu­ sta retribuzione e poi Operazione cambiamento di direzione, l'azione ad ampio raggio condotta dall'esercito israeliano nel sud del paese, nell'estate del 2oo6, è l'ultima di una serie di iniziative belliche intra­ prese per alleggerire le tensioni che a tutt'oggi gravano sul confine settentrionale d'Israele, laddove è stabile e consolidata la presenza del movimento Hezbollah . La sua politica di provocazione, manifestatasi con il lancio ripetuto di razzi e di colpi di mortaio in territorio israe­ liano, insieme al rapimento di giovani militari, costituiscono aspetti di quello che è per Israele il problema strutturale del rapporto con un 135

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v1cmo così scomodo. Dall'escalation è derivata la decisione, espressa dal premier Ehud Olmert, di considerare il governo di Beirut corre­ sponsabile delle iniziative di Hezbollah, procedendo di conseguenza sul territorio libanese. Il quale, a partire dal 12 luglio e fino al 1 4 agosto del 2oo6, è stato sottoposto, soprattutto nella sua regione me­ ridionale, ad una serie di bombardamenti aerei. Ad essi si è affiancata un'offensiva di terra che ha interessato le aree dove stazionano abi­ tualmente i miliziani di Hezbollah . Più che procedere all'eliminazione totale del movimento, cosa di per sé impossibile, dato il suo radica­ mento sociale, per Gerusalemme si è trattato di saggiarne le capacità offensive, stemperandone la forza. I risultati sono stati però ben poco premianti, come ha dimostrato il severo giudizio espresso dalla Com­ missione Winograd, istituita per indagare su quanto è effettivamente accaduto nel corso dei 34 giorni di guerra. Al premier Olmert, al mi­ nistro della Difesa Peretz, al capo di stato maggiore Halutz sono state contestate una serie di condotte, informate ad una grave superficiali­ tà, che hanno portato a ciò che è definito senza mezzi termini un "fallimento" . Più in generale, sembra essere venuto meno quel Quali­ tative Military Edge ( "vantaggio militare qualitativo " ) che è uno degli assunti fondamentali delle IDF, ossia la capacità di reazione che Israe­ le deve sempre saper mantenere rispetto alla controparte araba. Se fino agli anni ottanta si trattava di colmare il divario con la propria competenza tecnologica, ora il terreno del confronto richiede nuove risposte, ancora tutte da pensare. La reazione militare, assai più fles­ sibile e adattiva che nel passato, deve coniugarsi ad una revisione dei criteri di prevenzione e contenimento del fenomeno terroristico. Oggi, più che nel passato, bisogna elevare il livello qualitativo del­ l' azione d'indagine, di raccolta e di elaborazione dei dati operata dai servizi d'intelligence. Ma si tratta soprattutto di mettere mano agli oramai strutturali squilibri, sociali ed economici, che attraversano la società palestinese e, più in generale, quelle mediorientali. Nessuna risposta armata, pur nella sua occasionale necessità, può da sola ba­ stare. In questo senso, il problema della giustizia sociale va ben ol­ tre il ruolo, le competenze e le capacità che sono d'Israele. Purtutta­ via, il persistere di drastici divari nella qualità della vita tra le poche élite arabe e la stragrande maggioranza delle popolazioni nazionali, costituisce, purtroppo, un bacino di coltura per le peggiori manife­ stazioni di violenza. Il terrorismo non è la risposta dei poveri all' ar­ roganza dei ricchi ma comunque si alimenta di questa drammatica cesura . Alla situazione in Libano si salda quella, già richiamata, nei Terri­ tori palestinesi. La vittoria di Hamas alle elezioni legislative del 2 6

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gennaio 2006 e i successivi conflitti tra le leadership politiche locali hanno generato una frattura tra Gaza e la Cisgiordania. Nei territori dove il movimento islamista è predominante, al-Fatah è stato espulso. Per Israele ciò ha costituito, nel medesimo tempo, un pericoloso se­ gnale d'involuzione ma anche un'opportunità, quanto meno nella mi­ sura in cui ha separato i destini delle due organizzazioni palestinesi. Da ciò è derivata la scelta, appoggiata dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea, di riavviare le trattative per un accordo di pace con l'Auto­ rità nazionale palestinese presieduta da Mahomud Abbas, che, tutta­ via, sconta una debole legittimazione politica tra la sua gente. Plausi­ bile che negli anni a venire i destini delle popolazioni palestinesi della Cisgiordania e di Gaza si dividano: i primi integrati all'interno di un assetto politico contrassegnato da una relativa stabilità; i secondi sog­ getti all'isolamento internazionale. Nell'autunno del 2007 il governo israeliano ha dichiarato Gaza "entità nemica" , procedendo al raffor­ zamento delle misure di separazione con i suoi territori e minaccian­ do l'interruzione delle forniture di energia e di beni di prima necessi­ tà. Ciò fa di quello che è stato soprannominato Hamastand un terri­ torio condannato alla più completa marginalità economica, potenziale teatro di continui scontri tra fazioni e clan contrapposti e luogo d'in­ cursioni militari per le IDF. Gerusalemme ha posto ad Hamas tre condizioni inderogabili: la rinuncia alla lotta armata; il riconoscimento del diritto d'Israele ad esistere; la chiara e inequivocabile disponibilità ad appoggiare un processo di pace in tutto il Medio Oriente sulla base degli accordi di Osio. È improbabile che il movimento islamista receda dalle sue rigi­ de posizioni poiché, se facesse ciò, porrebbe in discussione la sua stessa ragion d'essere e perderebbe buona parte della credibilità ri­ spetto ai suoi sostenitori. Tuttavia, nel tentativo di guadagnare spazio di contrattazione, ha proposto ad Israele una hudna, una "tregua" de­ cennale. Tra i molti problemi, tuttavia, vanno annoverati anche i ten­ tativi d'infiltrazione esercitati da elementi aggregati ad al-Qaeda nei Territori palestinesi, dove operano alcune cellule legate soprattutto al gruppo estremista Jaysh al-Islam ( "Esercito dell'Islam " ) . In Libano del nord, invece, per tutta la prima metà del 2 007 ha combattuto Fa­ tah al-Islam ( " Conquista dell'Islam" ) , che ha conteso il controllo dei campi profughi palestinesi all'esercito del paese dei cedri. Sia nell'uno che nell' altro caso si è in presenza di strutture di ispirazione jihadista, che si richiamano all'organizzazione di bin Laden senza esserne ne­ cessariamente componente organica. Dalle risposte che ad essi verranno date, non solo in chiave di repressione delle spinte eversive, dipende parte considerevole della si-

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curezza della regione e d'Israele. Il protrarsi del conflitto civile in Iraq, la nebulosa situazione dell'Afghanistan, la competizione tra or­ ganizzazioni radicali per assicurarsi il predominio nella lotta contro !"'Occidente" , insieme ad un quadro geopolitico dove la Russia è tor­ nata a svolgere un ruolo importante, mentre la Cina è destinata ad assumerlo quanto prima, inducono a pensare che si sia ben lontani da una stabilizzazione nella regione mediorientale. Conterà anche molto l'atteggiamento della futura amministrazione americana, dopo che quella di George W. Bush ha mostrato i limiti della sua azione politi­ ca in Iraq.

Una società in cambiamento e la crisi della politica Lo Stato d'Israele a sessant'anni dalla sua nascita si offre, nelle sue modeste proporzioni, per una superficie complessiva di 2 2 . 145 chilo­ metri quadrati, compresi i territori di Gerusalemme e del Golan, an­ nessi o temporaneamente incorporati di diritto . La popolazione, se­ condo l'ultima rilevazione statistica del dicembre del 2oo6, ha supera­ to la cifra del settimo milione, raggiungendo i 7 . I I 6. 7oo abitanti. Di questi, 5 · 3 9 3 ·4oo sono ebrei (il 75 , 8 % ) , L4 I 3 . 3 00 arabi (il I 9, 9 % ) e la parte restante, 309.900 cittadini, non è classificata secondo la reli­ gione o la lingua d'origine. Il tasso di crescita annua è dell' I , 8 % ma, mentre la popolazione ebraica aumenta dell' I ,5 % , quella araba cresce del 2 , 6 % (e la componente musulmana di circa il 3 % ) . Il differenzia­ le è quindi netto. La società israeliana, confrontata con quelle occi­ dentali, è relativamente giovane: nella fascia compresa tra o e I4 anni si colloca il 2 8 % della popolazione (di contro al I 7 % ) ; la percentuale di ultrasessantacinquenni, invece, è del w% (il I 5 % in Europa) . Il 3 4 % degli israeliani ha origini sa bra, avendo genitori già nati in Israele. Il più ampio gruppo di immigrati, 2 . 2 oo.ooo, è quello compo­ sto da quanti provengono dall'Europa e dalle Americhe. Il tasso di natalità si aggira intorno alla media di 2 , 8 8 bambini per donna, con un'oscillazione che va dai 2 ,75 delle ebree ai 3 ,97 delle musulmane. Il dato andrebbe poi ulteriormente scorporato tra le famiglie laiche e quelle, invece, religiose. Le seconde, infatti, sono assai più prolifiche delle prime. Più di metà della popolazione israeliana è concentrata nei distretti del centro del paese, seguendo una linea che lega Haifa e Gerusalemme attraverso Tel Aviv (nel cui distretto metropolitano ri­ siede un quinto degli israeliani) . Il 4 5 % della popolazione israeliana d'origine araba è invece residente in Galilea. La densità media per chilometro quadrato è di 3 Io persone (nel I 99o era di 2 2 0 ) . Nella

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regione centrale vivono circa 1 .974 individui per chilometro quadrato mentre nel sud sono circa 7 2 . Israele segue i trend delle società a sviluppo avanzato. Ci si sposa sempre più tardi: l'età media dei ma­ trimoni si è spostata a 27 anni. Nel 2005 il 6 I % dei giovani maschi tra i 25 e i 29 anni risultavano celibi (di contro al 2 8 % del I 97o); le donne nubili della medesima coorte demografica erano non meno del 40 % ( I 3 % nel I 97o) . Più è alto il livello di scolarizzazione e maggio­ re è l'urbanizzazione, minore è la propensione a fare famiglia. A Tel Aviv la popolazione maschile non sposata è del 72 % ; quella femmini­ le si aggira intorno al 62 % . L' aspettativa di vita è oggi di circa 8o anni (78,5 per i maschi e 8 2 , 2 per le donne), a fronte di 7 2 , 5 anni nei Territori palestinesi. Gli ebrei, israeliani e non, che vivono in questi ultimi sono circa 26o.ooo. Il prodotto interno lordo pro capite, per l'anno 2005 , è stato di I 8 .62o dollari. Israele deve contemperare le difficoltà nelle quali si dibattono tut­ ti i paesi a sviluppo avanzato con la specificità della sua situazione nel contesto mediorientale. La mancata soluzione del conflitto con i pale­ stinesi è l' aspetto più problematico, trattandosi di una duplice tensio­ ne, in quanto confronto esterno, con la popolazione palestinese, ma anche interno, tra gli israeliani, espresso nei diversi modi di vederne una qualche soluzione. Tuttavia, sarebbe riduttivo dimensionare a ciò l'intera agenda delle future incombenze. All'orizzonte si manifesta an­ cora il fenomeno, inquietante, del "rifiuto" - un tempo arabo, oggi islamista - del diritto all'esistenza di una nazione ebraica, con proprie istituzioni e una sua sovranità. Finché questa mancata legittimazione non verrà superata, ben poco di positivo potrà prodursi per gli uni ma anche per gli altri. Altro problema, di cui già si è fatta menzione, è la minaccia terrorista. Da sé non è in grado, con il suo potenziale bellico, di ribaltare equilibri consolidati ma di certo può raggiungere, e agevolmente, il suo obiettivo, che è quello di creare uno stato di permanente insicurezza. Dalla quale, purtroppo, non possono che de­ rivare gravi limitazioni alle libertà collettive e, più in generale, una secca riduzione della qualità della vita di tutti. Una questione da molti sottovalutata, e che invece è destinata a pesare sempre di più, è l'intreccio tra crescita demografica e accesso alle risorse fondamentali, a partire dall'acqua. Le previsioni dicono che l'evoluzione delle popolazioni mediorientali seguirà tassi di cre­ scita estremamente differenziati . In Israele la popolazione nel 2 05 0 dovrebbe raggiungere i I O . I 2 r .ooo elementi, con un tasso di crescita annuo intorno all' I , 5 % . Nello stesso periodo di tempo i Territori pa­ lestinesi dovrebbero passare da 4 . 0 I 7 .ooo a I o . 2 65 .ooo abitanti, con un tasso del 2 , 6 % . Questo a patto che quelle terre rimangano sepa-

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rate da Israele. Nel caso, invece, di un' annessione si calcola che già tra il 2 0 1 5 e il 2025 la componente araba sarebbe maggioritaria. Un carico demografico di tale misura è comunque destinato a pesare molto in una regione tendenzialmente carente di risorse idriche. La variabile ecologica, intesa in chiave non solo ambientalista ma, più in generale, nell'ottica dell'equilibrio di rapporto tra espansione quanti­ tativa delle popolazioni, uso qualitativo del territorio e natura dei consumi - soprattutto energetici - s'imporrà ben presto come diri­ mente. Dalle soluzioni che si daranno a questi problemi deriveranno le future relazioni regionali e l'eventualità, o meno, di ulteriori guerre. Israele nasce nella temperie del Novecento. Del secolo da poco trascorso è espressione da molti punti di vista, raccogliendone pro­ messe, speranze ma anche illusioni . La politica israeliana si trova ad un tornante storico, avendo esaurito la lunga fase dei padri fondatori e dei loro figli e figliocci. La grave malattia di Sharon ne è stato un po' il riscontro simbolico. Il conflitto in Libano del 2oo6 ha eviden­ ziato alcune gravi lacune nel decision making israeliano, non imputa­ bili solo ad occasionali incongruenze. Il processo di pace, dopo avere subito un lungo stallo, stenta a decollare e, soprattutto, si trova ad essere condotto da leader che non hanno né il carisma né il seguito di coloro che li hanno preceduti. Difficile che possano imporsi nel momento in cui eventuali decisioni impopolari lo richiedessero. I par­ titi che siedono alla Knesset soffrono poi dei mali tipici che affliggono i loro omologhi occidentali: scarsa credibilità tra gli elettori, autorefe­ renzialità del ceto politico, propensione a tutelare nicchie sociali ed etniche a detrimento della più generale funzione di rappresentanza pubblica. Sul piano sociale il paese sta ancora una volta mutando. Israele è abituata a subire trasformazioni, anche repentine, nella sua composi­ zione demografica; ha ripetutamente dimostrato la capacità di assor­ bire le spinte provenienti dalle diverse immigrazioni. Tuttavia, quel che entra in gioco, oggi e ancor di più in prospettiva, è l'apertura ai mercati internazionali. La cui azione va ben al di là degli effetti eco­ nomici, pur rilevanti, che essi producono, inducendo trasformazioni culturali, di mentalità, di costume molto corpose. Qui sta un passag­ gio critico fondamentale, poiché quella che può venire a determinarsi è una torsione identitaria. Israele è aperta, per sua natura, a tutti gli influssi che derivano dalla globalizzazione; ha fatto propri aspetti delle culture altrui, rive­ landosi un riuscito ibrido di tanti calchi culturali preesistenti. La sua storia è intreccio e prodotto dell'incontro consumatosi tra il naziona-

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lismo romantico ottocentesco, le culture politiche dei socialismi euro­ pei e di parte del filone liberale, il pensiero del giudaismo laico e la rilettura, in chiave attualizzante, della tradizione ebraica. Questa mi­ scela di antico e di nuovo, di consolidato e d'inedito, ha innescato un processo di rottura con le consuetudini della diaspora, traducendosi in un percorso di national building, di costruzione di una nazione che da duemila anni mancava nella storia degli ebrei. Ma non c'è nulla di più fragile, al giorno d'oggi, delle identità nazionali, erose potente­ mente dalla globalizzazione; così come risultano porosi, più che mai, i confini statali. Tutto ciò parrebbe quasi essere un contrappasso, per un paese che invece ancora continua a rivendicare confini sicuri (e quindi certi) . Se mai si dovesse addivenire alla loro determinazione, ciò accadrebbe nell'epoca in cui essi sono sottoposti ad una generale rimessa in discussione, e non tanto da parte della politica quanto del­ l' evoluzione economica che, per certi aspetti, li rende secondari ri­ spetto alla libera circolazione delle merci, delle idee, ma anche dei corpi e delle identità. La sfida culturale, in questo caso, verte tra l'u­ niversalismo del mercato, che introduce nuove diseguaglianze, nel mentre abbatte muri e vincoli di antica data, e il vivace particolari­ smo identitaria degli ebrei israeliani. Riuscirà il secondo a fare i conti con il primo senza esserne sopraffatto?

7 Tra storia e mitografia: Israele reale, Israele immaginata

Israele è un principio ideologico? Tra eccezione e desiderio di normalità La nuova identità israeliana è una miscellanea di esperienze e di sto­ rie, irriducibili a semplificazioni di sorta. Tuttavia, a volere genera­ lizzare, due sono oggi gli indirizzi più rilevanti, che emergono e s'im­ pongono sugli altri: l'approccio neopionieristico, ovvero militante, e quello laico, per così dire " disincantato" . Nel primo caso entra in gioco la componente "messianica " , che si è alimentata della Guerra dei sei giorni, leggendo nelle conquiste ter­ ritoriali un riscontro al proprio progetto di redenzione nazionale. L'impresa sionista si trasforma così da tentativo di costruzione di uno Stato per gli ebrei all'edificazione dello Stato ebraico. Questa interpre­ tazione, che pure ha raccolto adesioni anche tra i laici, si basa su una concezione che attribuisce agli ebrei e all' ebraismo un carattere di "eccezionalità" , in accordo con una visione che trova nella Bibbia il suo fondamento. Non tutti gli ebrei religiosi si riconoscono in questa posizione, che ottiene invece consensi tra quanti intendono il proprio ebraismo perlopiù in termini di militanza politica. Alla base di essa c'è una concezione attivistica della storia che si riallaccia al lascito del sionismo, deviandone però ideologicamente molti dei contenuti origi­ nari. Se gli abitanti degli insediamenti ebraici nei Territori palestinesi hanno recuperato parte dello spirito pionieristico dei primi immigrati di quasi cent' anni fa, quel che invece pare difettare in loro è la pre­ messa che uno Stato degli ebrei potrà continuare ad esistere solo se ispirato ai principi della democrazia. La critica rivolta ai «coloni» è infatti quella di fare dell' ebraicità una bandiera, senza considerare la necessità, richiamata da molti padri del moderno sionismo politico, di costruire una società fondata sull'equità, la giustizia e, quindi, il ri­ spetto degli altri.

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Tra gli anni settanta e ottanta si è però consumata anche un'altra svolta, legata all'affermazione definitiva di stili di vita tipici di una società individualista, liberale e occidentale. La maggioranza degli israeliani, oggi, si riconosce in una visione laica degli ordinamenti po­ litici, delle relazioni sociali e, di riflesso, della propria persona. Ben­ ché l'appartenenza a Israele sia vissuta come un valore in sé, l'ethos nazionale è stato fatto oggetto di un processo di rivisitazione che ha messo in discussione valori, simboli e riferimenti collettivi. È da ciò che nasce lo spirito disincantato, che costituisce il secondo modo di declinare l'identità collettiva. Qualcuno ha parlato apertamente di "post-sionismo " , altri di "privatizzazione dell'identità israeliana" (vo­ lendo con ciò ribadire l'affermarsi di una concezione individualista), altri ancora più semplicemente di "neo-secolarizzazione " . Sta di fatto che questa «nuova identità israeliana rivendica la normalità, rifiutan­ do qualunque " specificità ebraica " . Mentre il sionismo considerava la storia del popolo ebraico unica [. . . ] , il post -sionismo la ritiene simile a quella di altri popoli» (Greilsammer, 2007, p. wo ) . All'ispirazione ideale e all'investimento personale nell'impresa di costruzione di una nuova società è subentrato il desiderio di normalità, di assestamento e consolidamento di quello che si è costruito. Forse, a compimento dell'epopea di costruzione di una nazione c'è proprio questo esito, tanto più se si pensa che una delle promesse del sionismo era di fare degli ebrei "un popolo come gli altri" . Nell'Israele contemporanea ebrei e non ebrei vedono riflessa, come in uno specchio, la storia del Novecento. Uno Stato nato sulla base di una cultura politica - il sionismo - che ha solide radici nel pensiero occidentale, prodotto di un intenso processo di secolarizza­ zione intellettuale, ha originato una società nella quale per molti eu­ ropei ed americani è facile identificarsi. Come tale, una comunità che ricorda in molte cose i nostri paesi. Per questo passioni e amori, ma anche rancori e dissidi, sono così intensi quando se ne parla. Israele, la cui reale natura è quella propria ad una qualsiasi moderna società politica, dalla quale non differisce in nulla e per niente, offre come una sorta di surplus sentimentale, che facilmente può trasformarsi in una deformante adesione ideologica o, alternativamente, in un non meno aprioristico rifiuto fondato sul pregiudizio . La visione che si ha del paese, come già abbiamo avuto modo di osservare, è mediata at­ traverso questo prisma, che fa da filtro a qualsiasi sereno giudizio. Su Israele si proiettano virtù e nequizie del nostro recente passato, quel­ lo consumatosi laddove tutto sembra avere avuto inizio e al quale tut­ to riconduciamo, ossia la "vecchia " Europa. Pesa in ciò il segno inde­ lebile lasciato nella società europea dalla cultura ebraica; pesa, non di

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meno, l'atroce vicenda della Shoà, lo sterminio sistematico degli ebrei per mano dei nazisti e dei fascisti . Israele diventa così la coscienza buona o cattiva che sia, a seconda dei casi - del mondo occidentale. Per il mondo arabo e, ancor di più, per la numerosissima comunità musulmana, presente non solo in Medio Oriente e nel Sud-Est asiati­ co ma, oramai, in tutto il pianeta, le tante storie individuali che con­ fluiscono in quella collettiva d'Israele sono invece del tutto estranee alla propria esperienza. L' emotività che vi si ricollega non ha quindi nulla a che fare con quell'effetto di rispecchiamento che per noi è invece così importante. Semmai vale il principio capovolto del dinie­ go, dell'ostilità che si fa preconcetta tanto più quando si misurano i risultati raggiunti dal paese di contro allo stalla socioeconomico in cui molte società arabo-musulmane si trovano, loro malgrado. Da questo divario, che è materiale ( di opportunità, di capacità, di spe­ ranze) ma anche culturale, ne è derivata un' avversione che è andata crescendo, incontrandosi con i filoni dell'antisemitismo e fondendosi, a volte, con questi. L' antisionismo, ovvero il rifiuto di riconoscere agli ebrei il diritto ad un proprio Stato, ha spesso travalicato i confini di una pur legittima critica ai suoi fondamenti e alla sua prassi, per di­ ventare una velenosa dottrina antiebraica. Ne è conseguito un eccesso di ideologizzazione che ha alimentato il conflitto tra palestinesi e israeliani, caricandolo di significati estremi e rendendo ancora più dif­ ficile la sua soluzione.

I nuovi storici israeliani: una naziOne allo specchio Israele è una nazione che da sempre s1 mterroga su di sé, sul suo passato ma anche riguardo al suo futuro. Non è facile, per chi non sia ebreo o non abbia condiviso le discussioni che attraversano co­ stantemente il mondo ebraico, capire quale sia la motivazione di que­ sto sforzo. Sul paese ha sempre aleggiato il senso dell'aleatorietà. Si tratta della risultante di specifiche circostanze storiche, a partire dalle guer­ re consumatesi, come della cognizione di un "passato che non passa" o, per meglio dire, che non può passare. Nel primo caso è la perce­ zione di una minaccia incombente - un tempo quella araba oggi l'i­ slamista - a rendere precario il senso della quotidianità, faticosamente conquistata. Nel secondo caso è la pressante e angosciante memoria dello sterminio, consumatosi nell'Europa nazista, ad occupare per in­ tero l'orizzonte mentale. Al contempo, quindi, monito e viatico . A se­ conda dei punti di vista, gli atteggiamenti che da ciò derivano posso-

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no essere letti come il frutto di una nevrosi collettiva così come di una necessaria mobilitazione dinanzi ad un futuro incerto. Nel dibat­ tito sull'identità nazionale, destinato con tutta probabilità a non esau­ rirsi mai, dai primi anni ottanta si sono inseriti quelli che da certuni sono riconosciuti come i "nuovi storici " e da altri come gli " storici revisionisti " . Chi sono e cosa rappresentano? Per rispondere a questo quesito è bene fare un passo indietro . La narrazione sionista della storia ebraica aveva costruito dei nessi di continuità diretta tra il pas­ sato e il presente. La storia del popolo ebraico, secondo l'approccio storiografico di matrice sionista, ha un senso in quanto conduce alla costituzione di uno Stato degli ebrei. Lo Stato d'Israele è quindi inte­ so come l'esito necessario, e al contempo obbligato, di un percorso che riguarda tutta la vicenda di duemila anni di storia nell'Esilio, tro­ vando nel ritorno a Sion una sorta di naturale sbocco ad aspirazioni, bisogni e istanze che solo una comunità politica - esistente un tempo, poi cancellata e diasporizzata, ed ora ricostruita - poteva soddisfare. Da questo tipo di lettura unidirezionale, oltre che eccessivamente li­ neare, poiché sviluppata su di un asse che diventava prevalente su tutti gli altri, ovvero quello d'Israele intesa come " comunità di de­ stino " per tutti gli ebrei, sono derivate interpretazioni delle vicende storiche recenti che hanno avvalorato certi episodi, oscurandone inve­ ce altri. C'è chi ha parlato di «egemonia storica della mitologia nazio­ nalistico-militare» (citato da Codovini, 2 004, p. 1 5 8 ) , trasfondendo in questi caratteri la matrice più intima del modo di raccontarsi da parte d'Israele. È all'interno di questo orizzonte valoriale, e della sua parziale cri­ si, che è nata e cresciuta la nuova storiografia israeliana, figlia della svolta generazionale che si è consumata quando i laburisti persero le elezioni e andarono all'opposizione. Questo passaggio di testimone ha avuto infatti profonde e complesse ricadute su tutta la società israelia­ na. Certuni lo hanno vissuto come la crisi di una cultura politica, quella che era stata alla base di tutta l'impresa del sionismo laico e socialista. La comparsa sullo scenario, non solo israeliano, dei movi­ menti politici a matrice religiosa, non di meno, ha causato un forte impatto che si è riverberato anche sul modo di riflettere su di sé, sul­ le ragioni della propria identità collettiva, generando un bisogno ag­ giuntivo di conoscenza. Fin dalla sua apparizione la nuova storiogra­ fia, le cui opere più significative risalgono agli anni novanta, ha inteso quindi reinterpretare criticamente i nodi fondamentali della storia re­ cente del paese. Particolare attenzione è stata dedicata agli anni del mandato britannico, alla questione dolorosa dei profughi palestinesi, al nesso tra operato politico della leadership dell'yishuv e vicenda



TRA STORIA E MITOGRAFIA: ISRAELE REALE , ISRAELE I M MA G I NATA

della Shoà, ai conflitti interni al gruppo dirigente laburista, alle re­ sponsabilità e al concorso israeliano nei conflitti mediorientali e così via. Di passo in passo l'obiettivo della discussione si è spostato verso mete ancora più ambiziose, in alcuni casi spingendosi al punto di vo­ lere mettere in discussione quelli che sono considerati i paradigmi fondativi dell'identità israeliana. La tradizione sabra e l'impianto cul­ turale laburista sono stati riletti come il prodotto di una mitologizza­ zione di alcuni elementi dell'esperienza pionieristica, la cui funzione ideologica era quella di celare o ingentilire il ruolo delle élite sioniste al potere. Particolare attenzione è stata poi dedicata al conflitto con i palestinesi e, soprattutto, all'abbandono delle loro terre nel 1 948. «La loro critica prende di mira la [ . . . ] identità del paese perché, stando a quanto affermano, il fatto di insegnare una storia "ideologicamente sionista" ha rappresentato il principale ostacolo allo sviluppo di una società civile in Israele. Ciò che sostengono questi storici, si tratti di Benny Morris, Avi Shlaim o Ilan Pappe, è che il sionismo, cercando di dare vita ad un' identità nazionale, ha inventato o adattato numero­ si fatti storici [. .. ]» (Greilsammer, 2 007 , p. 99). Nel fare ciò l a nuova storiografia s i è avvalorata d'inedite oppor­ tunità legate all'accesso a nuove fonti archivistiche, rese finalmente accessibili agli studiosi; del ricorso all'interpretazione, con un'ottica diversa da quella prevalente nel passato, di testimonianze, scritte e orali; dell'incrocio di testi e del loro raffronto problematizzante; dello scambio, pressoché continuo, tra riflessione accademica e divulgazio­ ne pubblicistica. Ne è derivato non tanto un capovolgimento del si­ gnificato morale del passato quanto un rapporto decisamente più cri­ tico con esso. Consono, per molti aspetti, al profilo socioculturale de­ gli studiosi che si sono riconos ciuti in questo approccio, i quali sono, perlopiù, intellettuali cinquantenni, stabilmente inseriti nei luoghi di studio, ricerca e divulgazione istituzionale (università, centri e fonda­ zioni culturali, giornali) , di orientamento progressista, favorevoli al processo di pace con i palestinesi e il mondo arabo. Già Hannah Arendt, per alcuni versi, quasi trent' anni prima, commentando il pro­ cesso Eichmann in corso a Gerusalemme, aveva anticipato aspetti che poi sarebbero stati ripresi da una parte di questi autori. La nuova storiografia, tuttavia, non è stata recepita unanimemen­ te. Semmai ha innescato una lunga, a tratti dilacerante, discussione che è a tutt'oggi lungi dall'essere esaurita. Sono due le obiezioni più corpose che le sono state contrapposte: prima di tutto, le si è imputa­ to lo stesso vizio che essa attribuisce all'oggetto delle sue critiche, os­ sia il sostituire preventivamente al giudizio di fatto quello di valore. Si è detto che il suo approccio, al di là dell'accettabilità di un rinno-

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vato lavoro sulle fonti, è spesso informato ad un imperativo di fondo che fa della cosiddetta " demitologizzazione" l'orizzonte unico della riflessione storica, riducendone così la sua portata critica a un'azione di presunta demistificazione. In altre parole, come se tutto quel che è stato detto fosse informato alla manipolazione, della quale liberarsi una volta per sempre. Il rischio per la nuova storiografia è di cano­ nizzare se stessa, venendo meno ai suoi presupposti di franca e laica riflessione sul passato, per trasformarsi così in un codice culturale al quale o si aderisce in toto o si rifugge. Inoltre, ed è la seconda obiezione, le si è contestata la seduzione per una sorta di iconoclastia che, nel tentativo di fare di tutto il pas­ sato recente l'oggetto di un percorso di revisione, porterebbe a met­ tere in discussione la legittimità storica d'Israele. Insomma, qualcosa che è pericolosamente prossimo a quanto i detrattori di sempre, sia pure in forma ben più rozza, contrappongono alla permanenza dello Stato degli ebrei. Se è pur plausibile che non vi sia alcunché di scon­ tato, nel senso di "ovvio" , "necessitato" e "naturale" , nel suo percor­ so storico; se non è meno vero che dalla sua nascita e nella sua evolu­ zione sono derivati anche espulsioni , lutti e ingiustizie; se, insomma, il bilancio della storia d'Israele, in quanto soggetto collettivo, non può che essere in chiaroscuro, essa non è diversa, in questo, da qualsiasi altra nazione. Cosa, invece, che è al cuore del radicale rifiuto che, allora come oggi, viene avanzato alla sua esistenza, laddove le si con­ testa di non essere una nazione bensì una " costruzione dell'imperiali­ smo " . I nuovi storici sono estranei a questo genere di retropensieri e animano, con i loro studi, un dibattito che è destinato a non con­ cludersi. La sua intensità, il suo rinnovarsi costantemente, sono indici della natura di laboratorio sociale e culturale che, ancora una volta, Israele rivela di essere.

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Cronologia

Gli anni della formazione dello Stato e del confronto arabo-sionista ( r 8 8 r - r 94 8 ) 187o-8o I gruppi protosionisti degli Amanti di Sion provenienti dalla Russia e dalla Romania promuovono insediamenti agricoli nella Palestina ottomana. 1870

Viene fondata a nord di Giaffa la scuola agricola Mikvè Israel.

I882- 1903 Russia. 1890

Prima aliyà (immigrazione su vasta scala) , principalmente dalla

Nathan Birnbaum conia il termine " sionismo " .

1896 Theodor Herzl, il padre del sionismo politico, pubblica il libro Der Judenstaat ( ''Lo Stato degli ebrei " ) . 1897 Il 29 agosto si riunisce a Basilea il Primo congresso sionistico; viene fondata l'Organizzazione sionistica mondiale. 190 1 Quinto congresso sionistico; istituzione del Keren Kayemet Leisrael ( ''Fondo nazionale ebraico " ) con lo scopo di acquistare terreni in Palestina. 1904- 14 A seguito di continui pogrom e di una situazione di miseria, inizia­ no a giungere in Palestina gli immigrati della seconda aliyà, provenienti prin­ cipalmente dalla Russia e dalla Polonia. 1909 Viene costituita l'organizzazione Hashomer ( " La guardia " ) , che si as­ sume la responsabilità della sicurezza degli insediamenti ebraici. Nelle vicinanze di Giaffa viene fondata Tel-Aviv, la prima città completa­ mente ebraica. 2 novembre 1 9 1 7

Viene resa pubblica l a Dichiarazione Bal/our.

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' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

I9 I9 Chaim Weizmann e l'emiro Feisal sottoscrivono un accordo di colla­ borazione fra i loro movimenti nazionali; l' accordo viene in seguito ripudiato dagli arabi nazionalisti. r9 r9-23 Terza aliyà, che comprende per lo più giovani provenienti dalla Russia con forti convinzioni socialiste. r 9 2 0 La Conferenza di pace di San Remo decide di conferire alla Gran Bretagna il mandato sulla Palestina.Viene fondata l'Haganà ( ''Difesa" ) , l'or­ ganizzazione clandestina di difesa ebraica. Viene istituito il Keren Hayesod ( ''Fondo per la ricostruzione " ) , il braccio finanziario dell'Organizzazione sionistica mondiale, responsabile della raccol­ ta dei contributi in tutto il mondo. Viene fondata l'Histadrut ( "Federazione generale del lavoro " ) che unisce tutti i lavoratori del paese. r922 La Lega delle nazioni conferma il mandato britannico per la Palestina, citando nel preambolo del documento mandatario la Dichiarazione Bal/our. Il Consiglio della Lega delle nazioni e la Gran Bretagna decidono che le disposizioni relative ad una patria nazionale ebraica non sono applicabili al­ l'area ad est del fiume Giordano, ossia i tre quarti del territorio incluso nel mandato, che sarebbe poi in seguito diventato il Regno hashemita di Gior­ dania. Viene pubblicato il Libro Bianco di Churchill, il quale dà un'interpreta­ zione restrittiva della Dichiarazione Bal/our e pone severe limitazioni all'im­ migrazione ebraica. r924 Viene fondato a Haifa il Technion, poi Istituto israeliano di tecnolo­ gia, polo d'eccellenza nella ricerca scientifica. r924-32 Quarta aliyà, comprendente persone appartenenti perlopiù alle classi sociali medie, provenienti principalmente dalla Polonia, che vanno a risiedere negli agglomerati urbani . r925 Inaugurazione dell'Università ebraica di Gerusalemme, edificata sul Monte Scopus . r929 Viene costituita l'Agenzia ebraica, secondo quanto fissato nel mandato britannico, per dare alla comunità ebraica di Palestina una rappresentanza di fronte alle autorità britanniche, a governi stranieri e organizzazioni interna­ zionali. Tumulti degli arabi in tutto il paese; a Hebron vengono massacrati 70 ebrei; a Gerusalemme, Tel Aviv e Haifa gli attacchi vengono contrastati dall'Haganà. I9 3 3-3 9 Quinta aliyà, costituita prevalentemente da persone provenienti dalla Germania. Immigra in Palestina un gran numero di accademici e di

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CRONOLOGIA

liberi professionisti, che si stabiliscono nelle città, portando con sé capitali e risorse finanziarie. I936-39 Triennio di disordini e di violenze noto come la " rivolta araba" contro l'immigrazione e l' acquisto di terreni da parte di ebrei. I937 La Commissione Peel suggerisce la spartizione della Palestina in due Stati, uno ebraico, l'altro arabo, con una zona - quella di Gerusalemme - e un corridoio (che avrebbe portato al mare) che sarebbero dovuti rimanere sotto amministrazione britannica. I9 3 8 Inizia l'Alzyà Be t, l'immigrazione illegale degli ebrei dall'Europa, at­ traverso la quale sarebbero arrivati fino al 1 948 più di 1oo.ooo immigrati il­ legali. I9 39 Viene pubblicato un nuovo Libro bianco britannico che pone restri­ zioni all'immigrazione e alla vendita di terreni a ebrei. I939-45 Seconda guerra mondiale e Shoà, sterminio in massa degli ebrei europei da parte dei nazisti. I945

Istituzione della Lega araba.

I947 Il 29 novembre 1 947 l'Assemblea generale dell 'oNu adotta il piano di spartizione ( risoluzione I 8 I) che prevede la creazione di due Stati separati, uno ebraico, l'altro palestinese e una zona a regime internazionale.

Gli anni del consolidamento e del conflitto arabo-israeliano ( r 948-67) I 4 maggio I948 David Ben Gurion proclama a Tel Aviv la nascita dello Stato d'Israele. David Ben Gurion è primo ministro d'Israele (fino al 7 dicembre 1 9 5 3 ) . IJ maggio I948 Inizia l a prima guerra arabo-israeliana conosciuta i n Israele come Guerra d'indipendenza. I territori del nuovo Stato vengono invasi da truppe provenienti da Siria, Egitto, Transgiordania, Iraq, Libano e Arabia Saudita. Il primo censimento conta una popolazione di 8 7 2 . 700 elementi, di cui 7 1 6.700 ebrei e 1 5 6 .ooo arabi. 24 febbraio I949 A Rodi viene firmato il primo di una serie di armistizi tra Israele e i paesi arabi partecipanti alla prima guerra arabo-israeliana, che ha così di fatto termine.

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' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

Avvio dell'Operazione Tappeto magico per l'immigrazione degli ebrei provenienti dallo Y emen . 1950 Proclamazione di Gerusalemme Ovest come capitale dello Stato d'Israele. Operazioni Ezrà e Nehemiah per il trasferimento in massa degli ebrei iracheni. Approvazione da parte della Knesset della "legge del ritorno " . L a popolazione d'Israele raggiunge u n milione di abitanti. Tra il 1 948 e il 1 9 5 2 immigrano nel paese 687 .ooo ebrei, raddoppiando la popolazione ori­ ginaria. 16 dicembre 1950 La Transgiordania si costituisce in Regno con il nome di Giordania, annettendosi anche i territori della Cisgiordania. 23 luglio 1952 Colpo di Stato in Egitto guidato da Nasser, a capo del mo­ vimento dei " giovani ufficiali " . Viene detronizzato re Faruk e proclamata la Repubblica. 1952 Israele firma con la Repubblica federale tedesca l'accordo per il ri­ sarcimento dei danni civili derivati dalla deportazione, dall'internamento e dallo sterminio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. Operazione Koresh per l'immigrazione degli ebrei iraniani in Israele. 1953 Istituzione dello Yad Vashem, il memoriale dell 'Olocausto, a Gerusa­ lemme. 7 dicembre 1953 Moshe Sharett è il secondo primo ministro d'Israele (fino al 2 novembre 1 9 5 5 ) . 1955

Inaugurazione dell'Università Bar Ilan a Ramat Gan.

5 novembre 1955 David Ben Gurion è il terzo primo ministro d'Israele (fino al 2 1 giugno 1 9 63 ) . 1956 Il mondo arabo viene investito dal "fenomeno Nasser " , ovvero dall'a­ scesa alla presidenza dell'Egitto del leader politico che per più di dieci anni galvanizzerà e coalizzerà le comunità arabe rifacendosi all'ideologia del pana­ rabismo. Negli stessi anni procede il processo di decolonizzazione africano­ asiatica da parte di quei paesi che fino a tale epoca erano rimasti sotto il controllo, diretto o indiretto, di Francia e Gran Bretagna. Inaugurazione dell'Università di Tel Aviv. Ottobre-novembre 1956 Dopo la nazionalizzazione del canale di Suez da parte di Nasser, Francia, Gran Bretagna e Israele attaccano l'Egitto. Il 29

CRONOLOGIA

ottobre scoppia il secondo conflitto arabo-israeliano conosciuto come Guerra del Sinai. Il 6 novembre USA e URSS impongono il cessate il fuoco. Israele conquista all'Egitto, e poi restituisce, la penisola del Sinai. Il controllo dei territori di estrazione e delle rotte di commercializzazione del petrolio assu­ me un ruolo decisivo nella dinamica delle guerre mediorientali. Febbraio I958 e Siria. r958

Nascita della Repubblica araba unita, federazione tra Egitto

La popolazione d'Israele supera i due milioni.

I959 Conclusione del lungo periodo di razionamento, tzena, dei beni pri­ man. Fondazione di al-Fatah , primo nucleo della futura Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP). r96o Inaugurazione dell'Hadassah Hospital a Gerusalemme, uno dei più grandi nosocomi del Medio Oriente. r 9 6 r Si svolge a Gerusalemme il processo al criminale nazista Adolf Eich­ mann. Operazione Yachin per l'immigrazione degli ebrei marocchini. r 9 63

Inaugurazione dell'Università di Haifa.

2 r giugno r96 3 febbraio 1 9 6 9 ) .

Levi Eshkol è il quarto primo ministro d' Israele (fino al 2 6

r964 Completamento dell 'acquedotto nazionale che porta l'acqua dal nord al sud del paese. 29 maggio r964 A Gerusalemme Est, per iniziativa della Lega araba, nasce l'oLP che ratifica la Carta nazionale palestinese, documento politico di natura programmatica che nega il diritto all'esistenza dello Stato d'Israele. Nel men­ tre i paesi arabi riaffermano l'unità araba contro quella che viene definita ! ' " entità sionista " . r 9 65 Istituzione di relazioni diplomatiche tra Israele e Repubblica federale tedesca. r967 Tra il 5 e l' I I giugno, dopo una serie di tensioni e attacchi preventivi, ha corso la terza guerra arabo-israeliana, meglio conosciuta come Guerra dei sei giorni per la sua brevità e intensità. Israele conquista i territori del West Bank (Cisgiordania) , Gerusalemme Est, la striscia di Gaza, l'intero Sinai e le alture del Golan .

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' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

La risoluzione 242 dell'oNo stabilisce il ritiro d'Israele da (e non dai) Ter­ ritori occupati militarmente, la soluzione equa del problema dei profughi e il rispetto dell"'integrità e dell'indipendenza " di ogni Stato della regione. I paesi arabi, nel vertice di Khartum, costituiscono il Fronte del rifiuto: no alla pace con Israele, no al suo riconoscimento, no al negoziato. Inaugurazione dell'Università di Beer-sheva, nel Negev.

Gli anni della maturità e il conflitto israelo-palestinese ( r 968-9 r ) 1 9 69

Ascesa alla presidenza dell'oLP di Yasser Arafat.

17 marzo 1969 giugno I 9 74).

Golda Meir è il quinto primo ministro d'Israele (fino al 3

1970 È l'anno di " Settembre nero " , quando re Hussein di Giordania deci­ de di eliminare la presenza dell'oLP dal suo paese. Ha corso un confronto armato tra palestinesi e giordani al quale segue una violenta repressione con almeno 4·500 morti. La popolazione d'Israele raggiunge i tre milioni. Colpo di Stato in Siria. Hafez Assad assume il potere. 28 settembre 1970

Morte di Nasser. Gli succede Anwar al-Sadat.

3 0 maggio 1972 Strage all'aeroporto di Tel Aviv, dove uomini di Settembre nero uccidono 27 persone. 5 settembre 1972 Alle Olimpiadi di Monaco di Baviera un gruppo palesti­ nese rapisce e uccide I I elementi della squadra olimpica israeliana. 6 ottobre 1973 Ha corso il conflitto dello Yom Kippur, ovvero la quarta (ed ultima) guerra arabo-israeliana. Dopo un primo cedimento da parte di Geru­ salemme, l'esercito israeliano recupera l'iniziativa e riattraversa il canale di Suez, vincendo il confronto. Le ostilità cessano formalmente il 22 ottobre. La risoluzione 3 3 8 dell 'oNo ribadisce i principi contenuti nella 242 . Si susseguono le scaramucce militari tra israeliani ed egiziani ma anche gli atti di terrorismo di alcuni gruppi legati all'oLP. Avvio dell'embargo degli Stati arabi produttori di petrolio nei confronti dei paesi occidentali considerati fìloisraeliani. Novembre 1973 Durante il vertice di Algeri i paesi arabi riconoscono l'oLP quale " unico rappresentante del popolo palestinese " . Morte di David Ben Gurion .

CRONOLOGIA

r 5 maggzo I9 7 4 3 giugno I974 aprile I 9 7 7 ) .

Strage di 2 I bambini israeliani a Ma' alot. Yitzhak Rabin è il sesto primo ministro d'Israele (fino al 22

I 9 7 5 La risoluzione 3 3 79 dell'Assemblea generale dell 'oNU equipara i l sio­ nismo al razzismo, creando equivoci e contrapposizioni ideologiche. Sarà abrogata solo nel dicembre del I 99 I . r975-76 Ha avvio l a guerra civile i n Libano tra palestinesi e cristiano-maro­ niti che si concluderà solo nel I 9 8 9 . I siriani intervengono nel paese e massa­ crano i diecimila profughi del campo palestinese di Tall al-Zatar. 2 giugno I976 Dirottamento di un aereo di linea israeliano, costretto ad at­ terrare a Entebbe, in Uganda. Successiva, spettacolare liberazione degli ostaggi da parte delle forze speciali israeliane. r7 maggio I977 La vittoria elettorale di Begin in Israele porta per la prima volta al governo del paese la destra. 2 I giugno I 9 7 7 Menachem Begin è il settimo primo ministro d'Israele (fino al IO ottobre I 9 8 3 ) . I9 novembre I 9 7 7 I l presidente egiziano Anwar al-Sadat s i reca a Gerusa­ lemme, parla alla Knesset e offre il riconoscimento di Israele da parte del suo paese. I I marzo I978 persone.

Un commando di al-Fatah sbarca a Tel Aviv e assassina 4 0

Marzo I978 Israele penetra nel Libano meridionale per colpire le basi del­ l'oLP. La risoluzione 425 dell'oNu chiede il ritiro israeliano, il ripristino della sovranità libanese su tutto il territorio del paese (in parte occupato da trup­ pe siriane) , pace e sicurezza ai confini fra i due paesi. Primo invio di caschi blu nella zona. 5 - I I settembre I978 Firma degli Accordi di Camp David tra Egitto e Israe­ le nei quali sono contemplati: la successiva sottoscrizione di un trattato di pace tra i due paesi; la restituzione del Sinai all'Egitto; l'autonomia ammini­ strativa per i palestinesi in Cisgiordania. Gen naio I979 Rivoluzione islamica in Iran, dove viene abbattuto lo shah Reza Pahlevi e istituita una "Repubblica islamica" che segna l'avvio del pro­ cesso di religiosizzazione del confronto politico dei musulmani contro Israe­ le, ma anche all'interno dello stesso mondo arabo-islamico.

I59

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

2 6 marzo I979 Firma del trattato di pace tra Egitto e Israele. L'Egitto vie­ ne espulso dalla Lega araba. 30 luglio I98o Il Parlamento israeliano proclama Gerusalemme riunificata capitale " unica e inscindibile" dello Stato d' Israele. I98o Scoppia la guerra Iran -Iraq, dovuta al controllo delle rotte petrolifere, mentre le tensioni al confine settentrionale d'Israele aumentano d'intensità. Cambio della moneta: la lira israeliana viene sostituita dallo shekel. Giugno I98 I L 'aviazione israeliana distrugge il centro di ricerche nucleari di Osirak in Iraq. 6 ottobre I98 I Sadat, presidente dell'Egitto, viene assassinato da un gruppo di fondamentalisti islamici. Viene sostituito dal suo vice, Hosni Moubarak. Dicembre I98 I La giurisdizione israeliana viene estesa anche alle alture del Golan, fino al 1 967 parte della Siria. Si tratta di un' annessione di fatto, men­ tre il ritiro israeliano dal Sinai prosegue per terminare nell' aprile del 1 9 8 2 . 6 giugno I 9 8 2 Avvio dell'Operazione Pace in Galilea , realizzata dall'esercito israeliano attraverso l'invasione del Libano meridionale, fino al raggiungi­ mento della capitale, Beirut. Gli obiettivi dichiarati sono quello di porre al sicuro le frontiere settentrionali d'Israele e di ridurre il peso politico e milita­ re dell 'oLP, che trasferisce la sua sede a Tunisi. La popolazione d'Israele supera i quattro milioni. Settembre I982 Miliziani cristiano-maroniti, appartenenti alla Falange, gruppo combattente nella guerra civile libanese, massacrano un migliaio di civili palestinesi, residenti nei campi profughi di S abra e Chatila a Beirut. Maggio I 9 8 3 Israele si ritira dalla quasi totalità del Libano, assestandosi nella " fascia di sicurezza " , a sud del fiume Litani. Grave crisi economica e monetaria nel paese. IO ottobre I983 Yitzhak Shamir è l'ottavo primo ministro d' Israele (fino al 14 settembre 1 9 84) . I984 L'Operazione Moses porta in salvo 7 . ooo ebrei etiopi in Israele. Nascita dei "governi di unità nazionale" tra Likud e Labour. Varo di un severo piano di politica economica per il contenimento dell 'inflazione. I4 settembre I984 20 ottobre 1 9 86).

Shimon Peres è il nono primo ministro d' Israele (fino al

1 60

CRONOLOGIA

Novembre r984 Arafat, in un discorso ad Amman, per la prima volta parla di pace possibile con Israele in cambio della sovranità palestinese sui territori di Gaza e Cisgiordania. r98 5 Ennesimo cambio della moneta nazionale : il nuovo shekel si sostitui­ sce allo shekel. Ottobre r98 5 Sequestro della motonave italiana Achille Lauro da parte di terroristi palestinesi e assassinio di un passeggero americano di origine ebraica. 20 ottobre r986 Yitzhak Shamir è il decimo primo ministro d'Israele (fino al 13 luglio 1 9 9 2 ) .

Inizio dell'intz/ada nei Territori palestinesi.

Dicembre r987

r5 novembre r988 Il Consiglio nazionale palestinese, Parlamento dell'oLP riunito ad Algeri, riconosce le risoluzioni I 8 I , 242 , 3 3 8 dell'oNu, proclama la creazione di uno Stato sui territori di Gaza e Cisgiordania con capitale Ge­ rusalemme e awia il percorso che porterà al riconoscimento d'Israele. I6 dicembre I988 processo di pace.

Primi colloqui riservati tra OLP e

USA,

per l' awio di un

Novembre I989 A seguito della caduta del Muro di Berlino e dell 'apertura delle frontiere inizia la migrazione di massa degli ebrei russi in Israele, che durerà per tutti gli anni novanta. 2 agosto I990 dam Hussein .

Invasione e annessione del Kuwait da parte dell'Iraq di Sad­

Gli anni della speranza e della disillusione ( r 9 9 r -z oo r ) I J gennaio I99 I Awio dell'Operazione Desert Storm, condotta dalla coali­ zione internazionale costituitasi contro l'invasione irachena del Kuwait. In una settimana viene liberato il paese mentre l'Iraq bombarda Israele con i missili Scud. Aprile I 9 9 I Operazione Salomone per il trasferimento in massa degli ebrei etiopici ( circa r 6 .ooo) in Israele. r8 ottobre I99 I plomatiche.

Mosca e Gerusalemme ripristinano normali relazioni di­

161

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

I99 I

La popolazione d'Israele raggiunge i cinque milioni.

30 ottobre I99 I Conferenza di pace di Madrid, nel corso della quale i dele­ gati palestinesi e israeliani si stringono la mano. I992 Negoziati tra Israele e OLP vengono condotti segretamente in Norvegia. Riforma elettorale e istituzione del premierato (con decorrenza dalle ele­ zioni del 1 9 9 6 ) . 2 3 gzugno I992

I laburisti di Yitzhak Rabin vincono le elezioni.

I 3 luglio I992 Yitzhak Rabin è l' undicesimo primo ministro d'Israele (fino al 4 novembre 1 995 ) . 2 6 agosto I 9 9 3 Il ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres dichiara che il suo paese è disposto a ritirarsi da Gaza e dalla Cisgiordania. 9 - I o settembre I993 L'oLP approva formalmente l'ipotesi di accordo riguar­ do al futuro politico dei Territori palestinesi e riconosce il diritto all'esisten­ za d'Israele. IO settembre I99 3 palestinese " .

Israele riconosce l'oLP come " rappresentante del popolo

I 3 settembre I 9 9 3 A Washington è sottoscritta d a Israele, OLP e USA l a Di­ chiarazione dei principi sulle modalità provvisorie dell'autodeterminazione pale­ stinese. È un compromesso transitorio (ad interim ) , la cui funzione è di con­ ferire ai palestinesi l' autogoverno dei loro Territori, in attesa di raggiungere ulteriori accordi in grado di definire e concordare un assetto definitivo a tut­ te le questioni aperte. 23 settembre 1993

La Knesset ratifica l 'accordo con l'oLP.

Novembre 199 3 Il Fronte del no, costituito da Siria, Iraq, Iran, Libia e dal­ le organizzazioni islamiste rilancia la lotta contro Israele. 30 dicembre I993 Santa Sede e Israele sottoscrivono un accordo per il reci­ proco riconoscimento. 25 febbraio I994 Nella moschea di Hebron un colono israeliano, Baruch Goldstein, uccide una trentina di fedeli. 17 maggio 1994 Israele trasferisce il controllo di Gerico e di Gaza all 'Auto­ rità nazionale palestinese.

CRONOLOGIA

14 ottobre 1994 per la pace.

Arafat, Rabin e Peres vengono insigniti del premio Nobel

26 ottobre 1994

Firma del Trattato di pace tra Giordania e Israele.

4 novembre 1995 Il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin è assassinato da uno studente ebreo. 5 novembre 1995 Shimon Peres è il dodicesimo primo ministro d'Israele (fino al r 8 giugno 1 9 96). r 8 giugno 1996 Benjamin Netanyahu è il tredicesimo primo ministro d'I­ sraele (fino al 7 marzo 2 oo r ) . Giugno I997 A trent'anni dalla riunificazione, Gerusalemme conta 6oo.ooo abitanti, di cui 422 .000 ebrei. I998

Israele supera i 6 milioni di abitanti.

6 luglio I999 Ehud Barak è il quattordicesimo primo ministro d'Israele (fino al 7 marzo zoo r ) . 2 0 0 0 Fallisce il vertice d i Camp David (usA) , convocato d a Bill Clinton per dare corso a nuovi accordi, con la partecipazione del premier israeliano Ehud Barak e il presidente dell' ANP Y asser Arafat. 24 maggio 2 o o o liani.

Ritiro integrale dal sud del Libano d i tutti i militari israe­

28 settembre 2 o o o Ariel Sharon visita l a Spianata delle moschee, a Gerusa­ lemme. I tafferugli che seguono danno l'avvio all'intzfada al-Aqsa.

Gli anni della nuova ms1curezza ( 2 o o r -o8) 7 marzo 2 o o r Ariel Sharon è i l quindicesimo primo ministro d' Israele (fino al 4 gennaio 2oo6 ) . I I settembre 2 0 o i U n gruppo d i terroristi mediorientali s'impadronisce d i alcuni aerei d i linea americani facendoli precipitare contro l e Twin Towers di New York e il Pentagono. 7 ottobre 2 0 0 I Invasione dell'Afghanistan controllato dai talebani da parte di una coalizione di forze alleate occidentali.

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

2 0 marzo 2 0 0 3 Invasione dell'Iraq e detronizzazione di Saddam Hussein da parte di una coalizione di forze alleate occidentali. r r novembre 2 004

Morte di Y asser Arafat. Gli subentra Abu Mazen.

Agosto 2 0 0 5 Ritiro israeliano dalla striscia di Gaza e smantellamento degli insediamenti ebraici. Gen naio 2 o o 6

Vittoria d i Hamas alle elezioni legislative palestinesi.

I4 aprile 2 o o 6 Ehud Olmert è il sedicesimo primo ministro d'Israele. Israele supera i 7 milioni di abitanti. Luglio-agosto 2 0 0 6 IJ giugno 2 0 0 7

Seconda guerra del Libano per Israele.

Shimon Peres è eletto presidente d'Israele .

Indice dei nomi

Abbas Mahmoud, detto Abu Mazen, 1 2 7 , 1 3 7 , r 64 Abdullah , re di Transgiordania, 20, 2 7 , ro8 Ahmadinejad Mahomud, 1 2 9 - 3 0 al-Din Nur, 6 8 Alessandro n, r 5 al-Sadat Anwar, 77, 8 r - 2 , 88-90, r o4, r 5 8-6o Amir Ygal, r r 9-20 Arafat Yasser, 66-7, 97, 99, r r 4 - 5 , 1 2 2 , 124, 1 2 7 , 1 5 8 , r 6 r , r 6 3 -4 Arendt Hannah , 1 47 Assad Hafez, 8 2 , 96-7, 99, r o r , r 5 8

Carter Jimmy, 90 Churchill Winston , 1 5 4 Clinton Bill, r r 4 , r 2 2 , r 6 3 Codovini Giovanni, 146

Balfour Arthur J . , 1 9 -20 Barak Ehud, ro8, r r 9 - 2 2 , 1 3 4, r 6 3 Barnavi Elie, 2 7 , 87 Begin Menachem, 37, 5 5 , 68, 7 1 , 74, 7 6 , 84, 86-8, 90, 99, 1 04, 109, !25, 159 Ben Gurion David, 1 7 , 2 6 - 7 , 3 7 , 50, 55, 6 3 , 86, 1 5 5 - 8 Ben-Zvi Yitzhak, 1 7 Bernadotte Folke, 2 6 Bevin Ernest , 2 6 Bidussa Davi d, 9 r bin Laden Osama, 1 2 9 Birnbaum Nathan, 1 5 3 Brenner Michael, r 7 Bush George W . , 1 3 8

Faruk, r e d'Egitto, r 5 6 Feisal, emiro, 1 5 4 Friedliinder Saul, 87

Dayan Moshe, 63

Eden Anthony, 64 Eichmann Adolf, 1 5 7 Eitan Rafael, 99, r o2 el-Husseini Hadj Amin, 27 Eshkol Levi, 17, 68, 7 1 , 1 5 7 Ezrahi Yaron , 8 7

Gariglio Alessandro, 5 7 Gilbert Martin, r o5 Goldmann Nahoum, 26 Goldstein Baruch, r r 5 , r r 9 , r 62 Greilsammer Ilan, r6, 1 44, 147 Gresh Alain, ro8

Haddad Saad, 9 5 , 99, r o r Halutz Dan, r 3 6 Herzl Theodor, r 6 , 1 5 3

' BREVE STORIA DELLO STATO D ISRAELE

Hussein Saddam, I I I , I 6 I , I 64 Hussein, re di Giordania, Io8, I 5 8

Jabotinsky Vladimir Ze'ev, 2 5 , 5 9 , 86, 88 J did Salah, 6 8 Jemayel Bashir, 99, I oo- I Jumblatt Walid, I O I

Kahane Meir, I I 9 Kaplan Eliezer, 3 6 Katznelson Berl, I 7 Kennedy John, 3 3 Khomeini Ruhollah, I 2 4 Kissinger Henry, 8 9 Klein Claude, 4 r Kook Abraham, 7 5 Kook Tzvi Yehuda, 74-5

Levinger Moshe, 7 4 Liberman Avigdor, I I 8

Mashal Khalid, I25 Materi Mancusi Elena, 98 Mazen Abu , cfr. Mahmoud Abbas Meir Golda, I 7 , 4 3 , 84, 94, 1 5 8 Mendes Philip, 3 0 Morris Benny, 147 Moubarak Hosni, r 6o

Nasser Gamal Abdel, 3 3 , 62-3 , 7 1 , 76, 8 r , 156, 1 5 8 Netanyahu Benjamin, I I 8 , 1 2 0- r , 133, 1 3 5 , I63 Nordau Max, r 6

Olmert Ehud, 1 3 5 - 6 , r 64

Pahlevi Reza, 6 8 , 1 5 9 Pappe Ilan , 147 Peres Shimon, 84, r r o, r r 5 , r 2 o, 1 3 3 , 1 3 5 , r 6o, r 62 -4 Peretz Amir, I 3 6

Rabin Yitzhak, 84, 9 9 , I r o, I I 4-5 , I I 8-2o, 1 5 9 , r 62 - 3 Rabinovich Abraham , 8 2 Ramon Chaim, I 2 o Reagan Ronald, 87, 99, I 3 3

Shamir Yitzhak, r o 2 , 1 09 - r o, r r 3 , I I 7, r 6o- r Sharansky Nathan, I I 8 Sharon Ariel, 85 , 99- I oo, r o 2 , 1 2 0 , I 2 6 , 1 2 8 , I 3 4-5 , I 4 0 , I 6 3 Sharrett Moshe, 1 7 , 26, 6 3 , 1 5 6 Shazar Zalman, I 7 Shlaim Avi, I47

Tabenkin Yitzhak, I7 Thatcher Margareth, 8 7 , I 3 3 T oniatti Roberto, 5 5 Truman Harry, 3 6

Vercelli Claudio, 3 0 , 8 8 , 92 Vidal Dominique, Io8

Warren Christopher, r r 4 Weizmann Chaim , 3 6 , 5 6 , I 5 4

Yassin Ahmad, 1 24-5 Yosef Dov, 3 6

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