124 46 7MB
Italian Pages 160 [178] Year 2006
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BIBLIOTECA TEATRALE
147
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BIBLIOTECA TEATRALE / SCRITTI DI MAURIZIO GRANDE Serie a cura di ORIO CALDIRON, ROBERTO DE GAETANO, FERRUCCIO MAROTTI
1. Scena evento scrittura, a cura di Fabrizio Deriu 2. Billy Wilder, a cura di Roberto De Gaetano
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MAURIZIO GRANDE
BILLY WILDER a cura di Roberto De Gaetano
BULZONI EDITORE
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Redazione del volume a cura di Alessandro Canadè. Un ringraziamento particolare a Claudio Grande, per la collaborazione e per la disponibilità con cui ci ha consentito di consultare l’archivio.
In copertina: Quando la moglie è in vacanza (1955)
TUTTI I DIRITTI RISERVATI È vietata la traduzione, la memorizzazione elettronica, la riproduzione totale o parziale, con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche ad uso interno o didattico. L’illecito sarà penalmente perseguibile a norma dell’art. 171 della Legge n. 633 del 22/04/1941 ISBN 88-7870-161-0 ISBN 978-88-7870-161-8 © 2006 by Bulzoni Editore 00185 Roma, via dei Liburni, 14 http://www.bulzoni.it e-mail: [email protected]
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INDICE
9
Vinti, sopravvissuti, vincenti di Roberto De Gaetano Parte I
21
GIOCHI
21 37 54 64 77
L’isolamento dei vinti Scacco e sopravvivenza Travestimento e truffa Innocenza e inganno Manipolazione e trucco
83
INGEGNERIA
83 86 93 96 103 107
DI PAZIENZA E STRANI CONGEGNI
E TOPOGRAFIA
America Bianco & Nero Denaro Gioco Macchina Travestimento Parte II
113
BILLY
WILDER E LO SPIRITO DELLA COMMEDIA OVVERO:
LE LEGGI DELLA SOPRAVVIVENZA
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8
Indice
129
APPENDICE a cura di Alessandro Canadè
131
FILMOGRAFIA
149
BIBLIOGRAFIA
153
INDICE DEI NOMI E DEI FILM
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VINTI, SOPRAVVISSUTI, VINCENTI
di Roberto De Gaetano
I. Ci sono testi che, per le talvolta strane ragioni che contribuiscono a definire l’articolazione e la mappa culturale di un’epoca ma anche di un autore, coabitano con altri testi spesso opposti, occupando linee minoritarie. È il caso del Billy Wilder di Maurizio Grande, pubblicato originariamente nel 1978 1, un volume esplicitamente tematico sul grande regista americano di origine austriaca, che convive con un saggio dello stesso anno di Grande sulle tipologie testuali e la meccanica dei testi letti alla luce della semiotica della cultura di Lotman: La meccanica del testo 2. La contemporaneità dei due saggi, eterogenei per impostazione, prospettiva, linguaggio, non è irrilevante: testimonia da un lato della ricchezza di interessi, stimoli, linguaggi e pratiche di analisi, che hanno caratterizzato una generazione di studiosi ben più feconda e viva degli scritti spesso asettici di semiotica (del cinema e non) che hanno prodotto 3; dall’altro quegli scritti, una certa analiticità dello sguardo, e soprattutto un modo di pensare e vedere le opere, hanno influenzato anche le pratiche del discorso critico. Questo è evidente in Billy Wilder. L’attraversamento tematico dell’opera del regista americano procede attraverso la costruzione di una mappa, di una cartografia e di un lessico, che liberano la scrittura critica dal suo debito con la cronologia dell’opera, cioè con la modalità più semplice di pensare la sua temporalità e storicità. La costruzione di una 1 E che qui ripubblichiamo nella parte prima del volume, integrato, nella seconda parte, con un saggio del 1982 apparso su «Filmcritica» (n. 329-330), Billy Wilder e lo spirito della commedia ovvero: le leggi della sopravvivenza. 2 La monografia su Wilder è stata pubblicata da Moizzi (Milano) nella collana “Contemporanea Cinema”, La meccanica del testo da Lerici (Cosenza). 3 Su questo ci permettiamo di rimandare al nostro, Teorie del cinema in Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2005.
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Billy Wilder
mappa è possibile a condizione di pensare l’opera come svincolata e dalla linearità cronologica e dalla sua assolutezza e unicità. In questo la semiotica, interrompendo in forma radicale il monopolio crocio-marxiano degli studi sul cinema in Italia, ha creato le condizioni per un discorso critico diverso, di cui questo volume è un esempio notevole. Non solo, la mappatura dei temi e dei motivi, a partire dalla quale ridistribuire, avvicinare, distanziare, i film wilderiani, non si fa mai operazione meramente classificatoria e “spazializzante”, inventario di elementi e ricorrenze, tutt’altro: diventa invece una forma discorsiva potente che manifesta come l’apparentamento tematico si riveli un operatore ermeneutico fecondo che aiuta e la comprensione dei testi e l’articolazione dei temi; il dinamismo dello sguardo critico, avvicinando per esempio film cronologicamente molto distanti come Giorni perduti (1945) e Vita privata di Sherlock Holmes (1970) sotto il segno di «scacco e sopravvivenza», ne evidenzia tratti comuni (e quindi anche differenti), aumentando così la portata conoscitiva del discorso. Viene invertito l’ordine delle priorità: quella cronologica che guida l’interpretazione di un’opera a partire dalla dominanza di un modello organico (“inizio”, “maturità” e “fine”) viene subordinata ad una priorità teorica che fa dell’opera una “rete” di relazioni e connessioni; dove se la diacronia è subordinata alla coesistenza è perché gli aspetti di un’opera – tematici, ma anche formali – prendono il posto delle fasi 4. I primi sono effetto della profilatura e dell’incidenza di uno sguardo critico, le seconde appartengono più “naturalmente” al corso delle cose e all’andamento dell’opera. La costruzione di una “mappa tematica”, che permette di liquidare ogni possibile residuo neoidealistico, così come ogni sociologismo volgare, ma anche le istanze puramente classificatorie e descrittive di molto strutturalismo, opera necessariamente un’altra liquidazione: quella con il modello del critico conoscitore sia nella sua variante “filologica” sia in quella, più comune in ambito cinematografico, “cinefilica”. Niente di tutto questo, la costruzione di una mappa tematica risponde ad un duplice gesto: la scelta di una esplicita prospettiva teorica (se4 Un’articolazione per fasi viene fra l’altro “naturale” pensando alla filmografia di Wilder, alla collaborazione con sceneggiatori quali Brackett (prima) e Diamond (poi). È articolata per fasi la monografia di Alessandro Cappabianca su Billy Wilder (Firenze, La Nuova Italia) del 1976, di due anni precedente al volume di Grande, il quale vi fa riferimento più volte nel corso del testo.
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Vinti, sopravvissuti, vincenti
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lezione dei temi), e soprattutto (e questo si percepisce chiaramente dall’elenco dei temi stessi: «innocenza e inganno», «travestimento e truffa», «manipolazione e trucco» ecc.) spostamento dell’asse dall’opera al mondo, o meglio alla zona di intersezione fra opera e mondo. Sono i mondi wilderiani ad essere contrassegnati e descritti da categorie impiegabili anche nella descrizione della prassi umana. E quindi il mondo dell’opera si intreccia con il mondo della vita (con quello dello spettatore), e le peripezie, i travestimenti, le mascherate del personaggio riguardano “direttamente”, per effetto (ma non solo) del discorso critico, colui che sta “a monte” e “a valle” della rappresentazione. Ma questo diretto riguardare, va detto subito, non è effetto solo del potere costituente del discorso critico, perché se non trovasse legittimazione nella forma costituita delle opere si rivelerebbe un gesto arbitrario. In breve, se la mappa tematica del cinema di Wilder che Grande costruisce si colloca in una zona di intersezione fra “forme del testo” e “forme di vita”, questo accade perché i generi su cui lavora Wilder sono – per usare la terminologia di Frye – generi basso-mimetici, e cioè si collocano in una dimensione che ha analogie forti con la sfera dell’esperienza comune. Ma su questo qualcosa bisogna dire. II. Il destino basso-mimetico delle forme generiche nel Novecento ha trovato nel cinema uno specchio ed un propulsore senza pari. Se si eccettuano pochi grandi esempi di film storici e di western epici (da Nascita di una nazione a Ombre rosse), le forme generiche cinematografiche si sono ramificate in quell’ampia zona basso-mimetica con al centro una dialettica infinita, e necessariamente irrisolta, fra individuo e società (incapace di essere comunità). Wilder ha maneggiato con ineguagliabile maestria il racconto “finzionale” del basso-mimetico nelle forme “nere” e in quelle “commediche”, secondo due direttrici contrapposte, sintetizzabili in quelle che Frye individua come: forma del pathos in quanto tragico basso-mimetico, che porta all’espulsione (o all’auto-isolamento) di un individuo (colpevole, o ritenuto tale) dalla società; e forma-commedia, che tende all’integrazione dell’individuo nella società a qualsiasi prezzo, costi quel che costi (perfino la rinuncia alla propria identità sessuale: A qualcuno piace caldo). La mappa tematica costruita da Grande non mette in risalto le differenze di genere rispetto allo sviluppo del tema. Non evidenzia come uno “stesso” tema si differenzi nel passaggio da un genere all’altro. In
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Billy Wilder
questo ci può aiutare Northrop Frye5, il cui “schematismo transgenerico” permette di pensare il comune e il differente di due generi bassomimetici come noir e commedia, che sono i due grandi generi frequentati da Wilder. Maurizio Grande classifica le figure che attraversano il versante “noir” del cinema di Wilder come i «vinti», gli «isolati» i «marginali di La fiamma del peccato, di Viale del tramonto e di L’asso nella manica» (cfr. infra, p. 35): «Impotenza, degradazione, mania narcisistica, isolamento, esasperazione dell’individualismo, nevrastenia, sono le manifestazioni di un’inappartenenza che diventa morbosa mania di morte; sono il segno di un’esclusione dal mondo e dalle regole ufficiali del gioco sociale» (cfr. infra, p. 34). Questa esclusione, effetto dell’illecito e del crimine («L’illecito assunto come passione e come desiderio dell’ombra e del rischio», cfr. infra, p. 25), è conseguenza di un meccanismo sociale che espunge dal corpo della società un colpevole. I “vinti” sono solo un cuneo critico apparente, inserito nelle forme della società “vincente” (che è tale per una pacifica e conformistica adesione a valori e modelli dominanti), perché di fatto il mondo “sordido” (dell’illecito e della colpa) è solo una filiazione del mondo “lecito”, «una valvola di sicurezza perché il “positivo” possa continuare al di là di tutto» (cfr. infra, p. 34). I “vinti” sono in primo luogo colpevoli: sono “capri espiatori”, l’espulsione dei quali permette ad una società rinsaldamento e unificazione. È il pharmakos sul quale insiste Frye con riferimento alle “derive” basso-mimetiche del poliziesco e, aggiungiamo noi, del noir che sono, da questo punto di vista, sovrapponibili: […] la popolarità dei romanzi polizieschi, la cui formula è costituita da un cacciatore di uomini che individua un pharmakos e si sbarazza di lui. Il romanzo poliziesco inizia nell’epoca di Sherlock Holmes come un’intensificazione del modo basso-mimetico […]. Ma, allontanandoci sempre più da tutto questo, andiamo verso un dramma rituale intorno ad un cadavere, in cui la condanna sociale si aggira come un esitante dito accusatore puntato sopra un gruppo di «sospetti», finché finalmente ne indica uno […]. Nella crescente brutalità di questo tipo di letteratura (brutalità tutelata dalla convenzione della forma, poiché è convenzionalmente impossibile che il cacciatore di uomini possa sbagliarsi nel credere che una delle persone di cui sospetta è un assassino) il lato puramente 5
Cfr. Anatomia della critica, trad. it., Torino, Einaudi, 1969.
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Vinti, sopravvissuti, vincenti
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investigativo e deduttivo si fonde con il giallo in una forma di melodramma. Nel melodramma sono rilevanti due temi: il trionfo della virtù morale sulla malvagità e la conseguente idealizzazione delle concezioni morali che si presuppone siano quelle del pubblico. Nel brutale e melodrammatico «thriller» ci avviciniamo, per quanto all’arte è consentito, all’autogiustificazione della folla responsabile di un linciaggio 6.
Continua Frye con parole ancora più radicali: Dovremmo anzi dire che tutte le forme di melodramma, ed in particolare il romanzo poliziesco, sono, nella misura in cui è lecito prenderle sul serio, opere di propaganda per la polizia di stato in quanto rappresentano la regolarizzazione della violenza della folla 7.
Il passaggio è chiaro, e possiamo riformularlo in questi termini: il noir come genere basso-mimetico e “melodrammatico”, i cui mondi si costituiscono sulla contrapposizione del bianco e del nero, del bene e del male, non solo è un genere fondato sull’affermazione “moralistica” finale dei primi (il bianco e il bene) sui secondi (il nero e il male), ma anche sulla messa al bando o la messa a morte del colpevole, sulla costituzione di un capro espiatorio che possa emendare la società e rinsaldarla 8. Addirittura un film come Viale del tramonto è costruito tutto come il flashback di un morto, il punto di vista di un colpevole, vinto, recluso e definitivamente escluso dalla società e dalla vita. Potremmo dire, radicalizzando, che solo perché c’è un morto c’è una storia, una finzione. Lo sguardo di Joe Gillis è allo stesso tempo lo sguardo della vittima e del colpevole e della loro “melodrammatica” coincidenza. Quella di Gillis è una morte “sacrificale” che permette di tenere in vita quei meccanismi puramente illusori che sostengono il “positivo” di una società: le illusioni di Betty di diventare sceneggiatrice e quelle di Norma Desmond di arretrare il tempo. Una variante del vinto e dell’escluso la ritroviamo nel “sopravvissuto”, in quei film dove «si avverte un’integrazione dolorosa e sofferta, una 6
Ivi, pp. 63-64. Ibidem. 8 Come viene letteralmente affermato nel finale di Testimone d’accusa, dove di fronte ad un marito diabolicamente intelligente e colpevole, che viene ucciso dalla moglie, Charles Laughton commenta che è stato «giustiziato». 7
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Billy Wilder
malsicura e malcelata ricomposizione dell’individuo nel tessuto sociale» (cfr. infra, p. 38), come nel finale improbabile di Giorni perduti dove Wilder riesce ad insinuare […] che la “salvezza” è posticcia e superficiale, poco credibile […]. Il film si chiude tornando al suo inizio e riprende la panoramica interrotta, quel primo piano-sequenza là dove si era fermato, alla finestra di Don Birman e ai tetti della città; e commentando fuori campo: «Povera gente indemoniata bruciata dalla sete». Ma si tratta di una sete non “spiegata” e non spenta, di una sete solo repressa, di un’insoddisfazione rimossa e fugata, vinta solo apparentemente da una “coalizione” scattata a difesa della sopravvivenza comunque (cfr. infra, p. 42).
È questa “coalizione per la sopravvivenza” a trasformare un “vinto” in un “sopravvissuto”, in qualcuno che accetta (sembra accettare) le regole di una società e la “positività” illusoria (amore, successo, denaro) che la governano. Ma la serie dei sopravvissuti è articolata in Wilder, vi troviamo chi resta in vita proprio per un “vizio” che gli rende tollerabile il grigiore e il dolore della vita stessa (la cocaina di Sherlock Holmes), o chi risponde alla lotta per la vita, alla necessità di sopravvivere – la Dietrich in Scandalo internazionale –, indossando e sapendo indossare solo una maschera, quella della seduttrice, che si rivelerà alla fine sterile. III. Nella commedia le cose cambiano, perché la commedia presenta una società senza esterno; le dinamiche sociali non prevedono un gioco fra la positività dell’interno e la negatività dell’esterno, sorretto da una dinamica di espulsione (capro espiatorio) o di integrazione forzata. La commedia è un genere senza pharmakos, dove il colpevole è la società stessa, che è inemendabile. Il mostruoso è sempre un mostruoso sociale, e ciò che conta sono da un lato le illusioni, le mitologie a basso prezzo, in definitiva i valori come forme attraverso le quali una società si costituisce, garantisce il suo movimento interno e si rinsalda, e dall’altro i giochi infiniti, sottili, i mascheramenti, le truffe, gli adattamenti che regolano il comportamento dell’individuo nel corpo sociale, cioè il suo tentativo di aderire a quei valori positivi e premianti (che si ritengono tali). Le grandi commedie di Billy Wilder, quelle che mettono in scena il mostruoso e il ridicolo del gioco sociale, le acrobazie infinite nel tentativo di aderire a modelli ed acquisire valori premianti (denaro e succes-
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Vinti, sopravvissuti, vincenti
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so su tutti), senza tenere in conto il prezzo alto, molto alto da pagare (A qualcuno piace caldo, Uno, due, tre!, Baciami, stupido), sono commedie che mostrano – come emerge in vari passi del testo di Grande – come il gioco delle forme e delle identità, che regola il funzionamento della vita sociale, nasconda una dinamica “profonda” di forze, desideri, pulsioni e censure. La moralità, i valori, i buoni e cattivi, travestono e nascondono sempre un rapporto fra forze, di cui sono un “effetto” le figure dei “vinti”, dei “sopravvissuti” e dei “vincenti”. I primi subiscono la pressione sociale, l’imporsi di modelli e mitologie, ai quali non sanno né opporsi né piegarli ai loro interessi, ma nell’inseguimento dei quali franano; i secondi aderiscono (sembrano aderire) alla fine alle dinamiche del gioco sociale, o per il tramite esclusivo dell’immaginazione (si desidera il “premio”, quindi ci si ritiene capaci di ottenerlo) o in forme di sopportazione (droghe ecc.). I vinti sono gli espulsi, e i messi al bando, i sopravvissuti sono gli integrati anche se in forma “anomala” («strani» li chiama Grande): in entrambi i casi le forze reattive, perdenti, non dinamiche, stagnanti, sono sempre individualizzate (il capro espiatorio, il sopravvissuto). I vincenti, o coloro che si ritengono tali, sono quelli che si integrano con la dinamicità ed elasticità del gioco sociale, nascondendo in primo luogo a se stessi il prezzo molto alto della vincita. Ma in questo caso inganni, mascheramenti, piccole truffe sono condizioni necessarie per l’affermazione del gioco sociale: i soggetti coinvolti sono numerosi ed eterogenei, e il premio (e il prezzo) va distribuito fra più persone (Baciami, stupido, A qualcuno piace caldo, Uno, due, tre!). Il carattere progressista e critico della commedia sta nell’assenza di ogni moralismo e nel riconoscimento dell’illusorietà di ogni stabilità, di ogni permanenza di sé (i vinti e i sopravvissuti sono tali perché non sanno disfarsi della loro unica maschera), e nell’affermazione della realtà come divenire, a cui il soggetto della commedia riesce a rispondere nel modo forse più colpevole, ma socialmente lecito: con l’avvicendamento pirotecnico di maschere, che alla fine risulta vincente, a patto che si faccia finta di ignorare il prezzo che si è pagato 9. Sentiamo ancora Frye al proposito: 9 Ed è questo il senso del finale di Baciami, stupido, dove il successo raggiunto passa per la “svendita” del legame matrimoniale, o quello di A qualcuno piace caldo, dove passa per la “rinuncia” alla propria identità sessuale, o di Uno, due, tre!, dove in mezza giornata si riesce a passare da povero comunista a ricco capitalista.
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Billy Wilder
Uno dei poli della commedia ironica è il riconoscimento dell’assurdità del melodramma ingenuo o, almeno, dell’assurdità del suo tentativo di definire il nemico della società come una persona al di fuori di essa. Partendo da questo riconoscimento essa si sviluppa nella direzione opposta, che è quella dell’autentica ironia comica o satira e che definisce il nemico della società come uno spirito ad essa interno. […] C’è poi una commedia ironica che si rivolge a un pubblico capace di comprendere che la violenza omicida non è tanto un attacco alla società virtuosa da parte di un singolo malvagio, quanto un sintomo della depravazione della società stessa 10.
Allora, se attraversiamo la mappa tematica costruita da Grande e l’opera di Wilder secondo questa partizione tra “melodrammatico” (noir, poliziesco) e “commedico” (ironico), come articolazioni di un comune sfondo basso-mimetico (che è quello che garantisce la popolarità dell’opera e dei generi), ci troviamo non soltanto di fronte ad un quadro più complesso delle figure (della colpa) wilderiane (vinti, sopravvissuti, vincenti) e dei temi, ma a qualcosa di più profondo, che concerne un modo di sentire e percepire la società, i rapporti individuo/società. Il noir definisce la dimensione estetica, basso-mimetica, di un sacrificio rituale, ed è contrassegnato dai tratti che caratterizzano un rito: lentezza, contrapposizione di zone e spazi (chiuso e aperto, tenebre e luce), e passaggio temporale da un prima ad un dopo (retto da una “purificazione” morale). La commedia rompe con il rito e accede al logos, al discorso; e la colpa stessa, ricoprendo di fatto il funzionamento dell’intera società, non è più tale, ma prende le forme di una risposta “realistica” (cinica, opportunistica) al divenire delle cose. Da dove la rapidità delle commedie contrapposta alla lentezza dei noir, la dominanza dei grigi e dei transiti da un (micro) ambiente ad un altro contrapposta ai contrasti di luce e di spazi, la centralità ed equivocità del presente contrapposta alla pateticità del passato 11. Allora, le inquietudini del noir si risolvono sempre con la rassicurazione che il “nero” è individuabile e individuato, e quindi emendabile; il riso della commedia ci dice che quel “nero” riguarda tutti 12, e quindi non è emendabile: e di una colpa inemendabile non resta che riderne. 10
N. Frye, Anatomia della critica, cit., pp. 64-65. È sufficiente pensare a due film come Uno, due, tre! e Viale del tramonto per avere chiaro il senso della opposizione. 12 Uno scambio di battute di Uno, due, tre! è esemplare al proposito: «Ma in questo mondo sono tutti corrotti?» «Non conosco mica tutti!». 11
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Vinti, sopravvissuti, vincenti
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IV. I temi e le figure di questo saggio su Wilder ritorneranno nei lavori successivi di Grande. Il “noir” tornerà, travestito, nel saggio sul tragico femminile, Dodici donne 13, dove saranno analizzate alcune grandi dark ladies della letteratura drammatica. Ma soprattutto la commedia costituirà un oggetto di analisi particolare, quando negli anni Ottanta, andando oltre e la semiotica e l’analisi dei grandi generi americani, Grande pubblicherà il suo fortunato saggio sulla commedia all’italiana: Abiti nuziali e biglietti di banca è del 198614. Quello che qui abbiamo detto per le straordinarie “commedie ironiche” di Wilder assumerà nella nostra commedia anni Sessanta un carattere ancora più evidente, perché la commedia si farà satirica e di costume; e il mostruoso sociale diventerà oggetto “diretto” di rappresentazione, saltando anche la mediazione dell’intreccio, attraverso la costruzione di una impressionante serie di maschere grottesche, di cui uno dei film-manifesto è, non a caso, I mostri di Risi.
13 Pubblicato originariamente da Pratiche (Parma) nel 1994, ora in corso di ristampa in questa stessa collana. 14 Ripubblicato nel 2002 (insieme a Il cinema di Saturno. Commedia e malinconia del 1992) per i tipi di Bulzoni, con il titolo La commedia all’italiana, a cura di O. Caldiron.
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PARTE I
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GIOCHI DI PAZIENZA E STRANI CONGEGNI
L’isolamento dei vinti La fiamma del peccato (Double Indemnity, 1944), Viale del tramonto (Sunset Boulevard, 1950), L’asso nella manica (Ace in the Hole o The Big Carnival, 1951) Il primo grande film di Billy Wilder, La fiamma del peccato è già uno “spartiacque” nella storia del cinema americano del secondo dopoguerra, e, nello stesso tempo, costituisce una sorta di “manifesto” o di condensato delle tendenze dominanti nella produzione wilderiana degli anni ’40 e ’50. In quanto “spartiacque”, La fiamma del peccato si presenta come la raccolta e la conclusione dei motivi e degli stilemi che hanno caratterizzato la prima fase della dominanza storica di un filone nel cinema americano di quegli anni, il film noir, i cui “estremi anagrafici” sono il 1941 e il 1953. Per quanto riguarda l’aspetto che potremmo definire “programmatico” di La fiamma del peccato, occorre rilevare che questo può essere colto soltanto in una lettura in prospettiva che tenga presenti gli elementi dominanti dell’intera filmografia wilderiana, sia dal punto di vista dell’espressione sia dal punto di vista del contenuto. La fiamma del peccato appare come un’anticipazione delle tematiche più care al regista viennese: la mistura tra amore e denaro, la confusione tra truffa e potere, il fascino della corruzione e dell’inganno come ingredienti della vita quotidiana, l’inevitabile disfatta dell’intelligenza alle prese con l’apparato sociale dominato dalla forza di una legalità vincente per consenso generale (e per una sorta di meccanismo interno auto-stabilizzante che impedisce sconvolgimenti sociali e morali, trapas-
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Billy Wilder
si di valori, capovolgimenti di dominanti sociali pubblicamente riconosciute e sostenute). Nello stesso tempo, però, affiora tutto un mondo sotterraneo della notte e dell’ombra, un risvolto inquietante della morale comune e della legalità e della rispettabilità, che attrae in un vortice irresistibile i protagonisti del rischio, gli eroi negativi di molti film wilderiani. Per di più, La fiamma del peccato è anche il film in cui la mano del regista si fa sentire con la forza di uno stile personale tagliente e in cui l’apparato cinematografico viene impiegato come “macchina linguistica” e come luogo produttivo di una spettacolarità che non cela e non cancella i propri mezzi e le proprie procedure. La fiamma del peccato si costruisce su una confessione, la confessione di un tradimento, il tradimento dell’assicuratore Walter Neff ai danni della Compagnia per la quale lavora, ma soprattutto il tradimento del suo collega e amico Barton Keyes, imbattibile investigatore. Il tradimento acquista anche il sapore di un’infrazione alle regole sociali dell’amicizia e della fiducia, assume l’aspetto di un’effrazione compiuta ai danni del sentimento dell’amico. Infrazione ed effrazione “necessarie” in un certo senso perché Walter Neff possa sottrarsi al dominio della figura paterna e, nello stesso tempo, possa tentare l’avventura del sesso e della truffa: una mistura esplosiva che si rivolta alla fine contro di lui dal momento che fino all’ultimo istante, fino al momento in cui Phyllis Dietrichson gli spara, egli è stato a sua volta ingannato dalla sua complice e amante: «L’ho ucciso io. L’ho ucciso per denaro. E per una donna. E non ho preso il denaro. E non ho preso la donna. Bell’affare!». Questa è certamente più che la semplice confessione di un delitto, è la confessione di un fallimento, di un atto mancato, di un’incapacità di vivere e di possedere al riparo delle cure e degli obblighi che legano alle regole sociali e all’occhio ammonitore e severo di un “padre”. Così, il film si apre sulle confessioni di una sostanziale impotenza sul disvelamento di un’incapacità a vivere dentro le regole e al riparo del lecito, della legge; e apre al disvelarsi del fallimento di un’effrazione non riuscita. Confessione di impotenza di fronte al possedere (la donna, il denaro, il successo) e di fronte ai valori simbolici che accompagnano il possedere nella società capitalistica: il possedere (la donna, il denaro) come tratto insostituibile di un’identità accettata e riflessa nelle immagini compiacenti e nel plauso degli altri. Si mettono così in gioco i meccanismi di una sublimazione sociale che diventa una condizione culturale vincolante, pena la cancellatura dell’identità stessa ancorata al posto che si occupa nella società. L’ombra, la notte,
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la luce incerta dell’“altro mondo”, quello della vita notturna della violenza e dell’inganno, aprono questo film sorprendente. Un’automobile percorre le strade scarsamente illuminate a grande velocità. Walter Neff seguito dal carrello bussa alla vetrata degli uffici della Compagnia di Assicurazioni per la quale lavora. Il carrello segue l’uomo piegato in avanti e si arresta con lui dinanzi alla porta a vetri. La luce è debole e piove dall’alto sulle spalle curvate nello sforzo di non cadere, è riflessa dal selciato e dai tetti delle auto in sosta. Il carrello si muove ancora a seguire Neff fino dentro l’ascensore, poi attraverso una parte interna e sul ballatoio che domina il grande salone gremito dalle scrivanie vuote degli impiegati. La macchina da presa segue in panoramica Neff che percorre il ballatoio fino al suo ufficio. Incomincia qui una lunga notte che segna il percorso del film come lungo flashback sulle vicende che hanno condotto il protagonista a tradire la Compagnia di Assicurazioni e l’amico. Il film resta segnato, fin dalle prime immagini, più dai particolari, dai dettagli che scandiscono un modo peculiare di raccontare e far vedere i rapporti tra i personaggi, che non dalla vicenda in sé che appare rivelata direttamente, e in prima persona, dal suo protagonista. Ed è proprio la soluzione adottata, quella della confessione, a consentire la costruzione del film su dettagli che individuano ruoli, personaggi, situazioni, sentimenti e azioni. Si tratta di dettagli che scandiscono il modo cinematografico della vicenda e il suo taglio stilistico esemplato sull’esperienza del cinema espressionista. Il dittafono cui Neff affida la confessione; il braccialetto alla caviglia di Phyllis Dietrichson; la luce che taglia gli ambienti e costruisce tutto uno spazio della penombra in cui si muovono i personaggi; il dialogo secco e diretto; i modi bruschi del comunicare: tutto ciò costituisce l’indice di un ripiegamento in se stessi, l’indizio di una brutalità del sentire, di un rifiuto a comunicare che sono caratteristici di molti film di questo periodo. Ripiegamento su se stessi e sapore della sconfitta, incapacità a superare gli ostacoli e a guardare positivamente al futuro sono gli elementi tematici che tessono un filo interno al filone nero del cinema americano. Il rapporto tra Walter e Phyllis è già deviato dal rapporto tra Walter e Keyes; non è sano ma viziato, dal momento che Walter Neff si lascia ingannare e trascinare per mano sulla china della disfatta e del tradimento: lui tradito da Phyllis mentre tradisce Keyes. Eppure, rifiuta fino alla fine l’idea di confessarsi, di dare luogo ad una confessione pura e semplice che giustifichi il racconto delle sue vicende. «Walter Neff a Barton Keyes, Reparto Inchieste. Caro Keyes, immagino dirai che è una confessione. Voglio solo tu sappia che avevi sotto
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il naso qualcosa di importante e ti è sfuggita. Tu credi di essere un portento come investigatore, una specie di Sherlock Holmes… Può darsi. Ma diamo uno sguardo alla pratica Dietrichson. Infortunio e doppia indennità. Fosti bravo all’inizio, Keyes. Dicesti: “Niente infortunio”… Esatto! Dicesti: “Niente suicidio”… Esatto! Dicesti: “Omicidio”… Esatto!». Dunque, Neff ha architettato un piano perfetto per truffare la Compagnia e fare incassare a Phyllis la doppia indennità. Dopo aver ucciso il marito di Phyllis, e dopo aver sviato le indagini di Keyes e i suoi iniziali sospetti, Neff scopre di essere stato raggirato, di essere stato usato per compiere l’omicidio e la truffa senza ottenere in cambio l’amore della donna e il denaro da godere assieme, perché lei sta per liquidarlo e per fuggire con un altro. Walter sa che ormai sono legati a filo doppio, e fino in fondo. «Quando due persone commettono un delitto è come se andassero insieme in un tram dal quale possono scendere solo all’ultima fermata: il cimitero». Phyllis e Walter devono proseguire insieme e rendersi conto alla fine di essere legati senza scampo, in quelle allucinazioni d’amore e di denaro che li hanno posti fuori dal mondo e l’uno contro l’altro; fantasmi di un desiderio di autodistruzione e di sequestro di sé e dell’altro negli spazi chiusi di una penombra che favorisce un’immaginazione morbosa e un desiderio perverso che solo la morte può sanare nell’annullamento del gioco alla fine della fiction. E Phyllis si accorge di amare l’uomo che ha truffato solo dopo avergli sparato nel buio di quella stanza dove si sono incontrati la prima volta (solo quando è costretta a sparare perché lui sa di essere stato ingannato; a sparare nonostante tutto, secondo le regole di un gioco perverso delle parti che impone alla donna di cercare la morte tra le braccia dell’uomo al quale ha sparato un colpo di pistola). Prima che anche lui spari sciogliendosi dal suo abbraccio, lei lo incoraggia per l’ultima volta ricordandogli di appartenere a un mondo senza speranze. «Sono guasta dentro», dice Phyllis, mentre Walter preme il grilletto al fianco della donna che tiene fra le braccia, come se volesse giustiziarla per amore, toglierla da un mondo che non possono fronteggiare dopo il fallimento di una frode che costa la vita e la sopravvivenza quando non riesce. Dissanguato e spossato alla fine del suo racconto, Walter Neff scorge Barton Keyes al suo fianco che raccoglie le sue ultime parole. «Non riuscivi a raccapezzarti, eh? Sai, l’uomo che cercavi ti era troppo vicino nella stanza accanto alla tua. Più vicino ancora, Walter».
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In questa “vicinanza” di amore e tradimento, di fiducia e di inganno, di frode e innocenza, La fiamma del peccato annuncia il tracciato impervio di una mistura che Wilder scorge nelle gradazioni della vita quotidiana; nelle pulsioni e nei bisogni che muovono gli individui da una parte e dall’altra come in una ricerca impossibile di quiete e di appagamento che non possono venire, pena la rinuncia all’esplorazione della vita nei suoi risvolti non rassicuranti, e pena una scelta di campo che immobilizza e irrigidisce in ruoli e “figure” statiche e fredde del lecito. Ciò che La fiamma del peccato annuncia è proprio la vertigine dell’illecito assunto come difesa da una “norma” che non soddisfa, e che, al contrario, alimenta l’insoddisfazione e il vuoto. L’illecito assunto come passione e come desiderio dell’ombra e del rischio, come immersione anche nei fantasmi dell’errore e nelle mitologie brutali del denaro e del successo. Ma sempre come esigenza della mescolanza dei contrari e come follia dell’esplorazione delle proprie tendenze e delle proprie pulsioni, al di là della frontiera tracciata tra legge e infrazione e tra eccesso e divieto. Con Viale del tramonto, la messa in scena di una società spaurita che ha perduto il senso del presente con la perdita delle certezze e dei valori accumulati prima della guerra e dissipati con essa, si colora di tinte metaforiche che toccano dal di dentro il mondo dello spettacolo, la fabbrica dei sogni, Hollywood come centro produttivo di un’alienazione istituzionale che si consuma nel mito del successo e nell’offerta di sé allo sguardo pubblico e al desiderio sublimato di esibizioni dorate. Come in Giorni perduti (The Lost Weekend, 1945), il film ha inizio (dopo la falsa partenza costituita dal flashback assegnato al morto che parla dall’acqua di una piscina) con una panoramica che scopre la stanza di Joe Gillis (William Holden) attraverso le tendine mosse dal vento, e che penetra all’interno della stanza accostandosi al protagonista seduto alla macchina da scrivere. Come in Giorni perduti, abbiamo ancora uno scrittore fallito, qui uno scrittore di soggetti cinematografici e di sceneggiature perseguitato dai debiti. Ma, diversamente dallo scrittore in crisi di Giorni perduti, Joe Gillis non deve battersi con se stesso per uscire dall’isolamento e per vincersi, per cominciare a vivere nonostante (e contro) se stesso e la propria impotenza. Al contrario, sembra che Joe Gillis debba abbandonarsi all’“altra metà del mondo”, un mondo perduto, irrecuperabile, il mondo delle larve e delle ombre, il mondo dei sopravvissuti: l’lsotta Fraschini abbandonata nella villa della diva nel “Sunset Boulevard”; la villa in sfacelo, memoria di fasti ormai sepolti; la diva del cinema mu-
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to e i suoi compagni; un grande regista ridotto per amore a fare il maggiordomo nella casa della sua ex-moglie; le reliquie di una Hollywood ormai superata e “tradita” da un “cinema di parole” («Avete fabbricato un capestro di parole per strangolare il cinema», dice Norma Desmond allo scrittore di soggetti). L’“altra metà del mondo” è dunque il mondo tenuto in piedi da una memoria che diventa perversione, culto di un passato irripetibile, narcisismo disperato che impedisce di vivere senza il contatto con un pubblico; senza la conferma di una riduzione di sé ad un’immagine pubblica che restituisca un’identità mitica nella circolazione della propria immagine come merce pregiata ancora richiesta dal mercato: desiderata. Allora, il problema è quello di immaginare uno spazio vitale per i sopravvissuti, e quello di immaginare un linguaggio accessibile della sopravvivenza: linguaggio dello spazio coatto della memoria restaurata e sostituita al presente. Restaurazione e sostituzione come pratiche perverse del feticismo, segni di una “malattia totale” che porta in sé i sintomi inequivocabili della morte come unica conclusione ammissibile, inscritta nelle cose, negli oggetti, nelle situazioni, nell’emarginazione in cui si è edificato lo spazio della sopravvivenza stessa. Spazio dell’immagine per eccellenza, immaginazione affidata alle acrobazie della memoria e alle pratiche mortuarie che tentano di mantenerle in vita mediante il restauro del passato, nello spettacolo di una rigenerazione continua della ripetizione morbosa. Gli oggetti che punteggiano il tracciato di Viale del tramonto sono i simboli di una sostituzione vorace esclusiva che parla di morte: la villa con la piscina abbandonata alle erbacce e ai topi (una reminiscenza dei deliri di Giorni perduti); il funerale della scimmia dell’attrice – singolare rito che richiama la fine di un’era spettacolare dell’immaginario al cinema –; i guanti bianchi di Max, l’autista-servitore-ex-marito dell’attrice; l’organo gigantesco; la sceneggiatura di una Salomé che non sarà mai rappresentata (copione che servirà a catturare Joe Gillis nell’illusione di un restauro truccato che dovrebbe riportare Norma Desmond sullo schermo sotto la direzione di C.B. De Mille). Carta sprecata, come un campo da tennis in decomposizione, o come serate perdute in compagnia delle maschere di un passato tenuto sotto vetro (i divi del muto esposti alla perversione cinefilica di Wilder e dello spettatore, con il “pezzo forte” della comparizione per un attimo di Buster Keaton); e come l’arredo soffocante da cappella funebre e da museo delle cere. Infine Norma Desmond che si aggira come una sonnambula tra ritratti e memorie della celluloide («camminava co-
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me una sonnambula sull’orlo della voragine che era il suo passato»), mantenuta in vita dal “suo essere sacro di celluloide” durante le proiezioni private dei suoi film (tra cui l’ormai seppellito e distrutto Queen Kelly, E. von Stroheim, 1928-29); rivitalizzata dal sequestro di uno “scrittore di cinema” che sia complice di questo restauro impossibile in cambio del lusso di una prigione dorata («Mi aveva insegnato il bridge, così come mi aveva insegnato il tango, e quali vini vanno con certi cibi»). In Viale del tramonto si sa fin dalle prime battute che tutti giocano con le carte truccate e che il gioco avrà termine soltanto con una soluzione classicamente drammatica. Ma il trucco più “vero” è quello messo in scena da Billy Wilder nel fare un film che parla di memorie e di inganni, di morte e di isolamento, di illusioni e di fantasie impossibili mentre gira un film sul cinema di Hollywood, sull’attore e sullo sceneggiatore, sulle apparecchiature che mettono in moto il mostro-film. Non per caso l’impotenza e la frustrazione nascono dal fatto che la villa di Norma Desmond è un residuo-rifiuto di ciò che si è stati quando il cinema era “diverso”; non per caso nella villa sul “Viale del Tramonto” si richiude una parte delle “energie” del cinema in quanto apparato produttivo (l’attore, lo sceneggiatore, il regista), ma non vi hanno accesso il capitale e l’aria artificiale degli Studios. Insomma, tutti giocano con carte truccate. A cominciare da Wilder stesso che dà la parola ad un morto per denunciare la volgarità rapace dei giornalisti che piombano come avvoltoi sulla disperazione e la morte; per continuare con Joe Gillis che spera prima o poi di sottrarsi al mito di un passato tentacolare che tiene in vita la diva; e per finire con Norma Desmond che sequestra l’uomo per farne lo spettatore dei suoi film e delle sue memorie messe in scena privatamente nella casa sontuosa, e con Max che alimenta le illusioni della ex-moglie venerata come una dea. In questo gioco truccato la maniera del film noir si mescola alle dominanti del modo di sentire wilderiano: il conflitto tra sesso e denaro; il legame inestricabile e contraddittorio che li salda in una matassa funerea; il mistero di un gioco sociale in cui si distribuiscono le parti secondo tutte le regole; le sublimazioni dei conflitti e lo spostamento dei desideri sul piano di un fair play crudele e inesorabile; l’amore e il possesso (delle cose e delle persone) come immagini sociali in cui sono state raffreddate forze primarie e trasferite in “oggetti” resi accettabili tramite il gioco e la posta corrispettiva. Il gioco dell’amore con le sue regole codificate che trasformano il sesso in un fatto sociale, in un’acquisizione culturale controllabile e uti-
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le come merce; la proprietà e i suoi regolamenti che rendono il possesso e l’aggressività, il sequestro e il dominio elementi accettabili nel gioco delle parti. Dunque sesso e denaro, amore e possesso sono intrinsecamente legati e conflittualmente contrapposti. Amore e possesso rivelano una conflittualità di fondo che il gioco sociale della sopraffazione occultata non evita ma incoraggia. Ed ecco che tutto ciò si amplifica nel mondo dello spettacolo in quanto tale, il mondo del cinema hollywoodiano, quel mondo che si fonda sulla messa in scena di un altro mondo ridotto a immagine. Mondo ridotto ai suoi significati più inquietanti e contraddittori, di cui l’immagine conserva il segno e l’angoscia, l’ansia di mille sfumature terrificanti che uniscono e dividono (nell’immagine ritroviamo infatti la singolarità restituita di un’esperienza traumatica, il colpo di un dolore che non passa e la sua visione allontanata e generalizzata che non paga). Ebbene, mettere in scena il mondo che fabbrica immagini (e che ha reso mitica la produzione di un altro mondo che raddoppia il primo e allontana perversamente il mondo delle cose) è certamente un modo inquietante di impiegare il cinema e la produzione di immaginario cinematografico. Mettendo in scena la “crudeltà istituzionale” del cinema, Wilder mette in scena la crudeltà dell’immagine in quanto tale e la desolazione della fine di un mito consolante. Il manierismo che vibra in Viale del tramonto, l’affollarsi di simboli e di oggetti terrificanti, l’aria viziata e il senso di una morte già assegnata, il presentimento della fine e il lasciarsi andare al niente dei ricordi, sono il modo perverso di rammentare e di mostrare che l’interruzione di spettacolarità vuole dire cancellazione dell’identità e introduzione alla morte. Interrogativo inquietante che riguarda l’immagine come supporto dell’identità, e la produzione di immagini come supporto illusorio della produzione di socialità dominata dalle regole dello scambio anche nel sogno e nelle illusioni più segrete. L’interruzione di spettacolarità nella vita della grande attrice di una volta vuole dire sottrazione dell’identità, eclisse di una funzione sociale accarezzata e amata, cedimento della forza vitale (se è vero che l’attrice è fusa nel “suo essere sacro di celluloide”). Certo Joe Gillis non avverte l’esasperazione e il pericolo reale di un narcisismo esasperato e incontrollabile, quell’esagerazione del sentire se stessi e il mondo come un esilio dorato e una morte anticipata. Nel frattempo, il mondo dei sogni, la fabbrica delle immagini di celluloide, si è trasformato nel mercato mondiale dell’immaginario: le idee hanno un prezzo
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stabilito da una graduatoria e fissato in un catalogo, i soggetti cinematografici vengono classificati e calmierati, il “mestiere” è stato messo a punto, e così pure le competenze e le spettanze. Fabbricare sogni e confezionare immagini è diventato un lavoro per raffinati ragionieri dell’illusione, affidato a un meccanismo perfetto che ha pianificato le fasi di lavorazione in vista di una produzione che ha serializzato la licenza fantasmatica di sogni dati in pasto ad un pubblico sempre più vasto e indifferenziato. Joe Gillis non può capire gli eccessi di Norma Desmond, le trasgressioni pervicaci di un sognare ininterrotto che il cinema muto ha inventato e incoraggiato. E non può rendersi conto della tragedia delle conclusioni che la macchina industriale del cinema ha imposto per acquistare il copyright del sogno e i diritti alla riproduzione seriale e alla diffusione allargata 1. E allora con molta eleganza, con l’eleganza della passione e dell’amore, del desiderio e dell’eccesso, Norma Desmond contratta e acquista l’amore dello scrittore di trame cinematografiche. O per meglio dire, inventa il simulacro di un amore inesistente e impossibile comprando una presenza diversa nella sua casa, ingaggiando qualcuno che legga i sogni consegnati a manoscritti illeggibili; che sia testimone alla proiezione di documenti cinematografici innominabili e muti per sempre, e che officii al culto delle memorie e alla proliferazione delle pratiche perverse di un narcisismo incontrollato. Insomma, con l’acquisto di Joe Gillis la villa non sarà più un fantasma del passato o lo sarà alla lettera (anche se la piscina verrà colmata dell’acqua stagnante di un presente invivibile e allucinato; se l’organo tornerà a soffiare; se la bellezza tenterà il restauro e i sogni si trascineranno fino alla luce del giorno o alle candele che inaugurano notti sterili). Con Joe Gillis lo spettacolo ricomincia, l’attrice ha finalmente un pubblico, e, attraverso questo, rivive l’illusione di mostrarsi per nuove platee e di denudarsi per qualcuno; offrirsi in pasto a un altro per il tramite dello spettacolo restaurato che consuma l’identità e macera un’immagine (l’immagine nella sua natura di “doppio” rassicurante, e insieme perverso, destinato al1
Come ha finemente osservato Alessandro Cappabianca nella sua pregevole monografia su Billy Wilder, Joe Gillis non si rende conto del regalo che gli viene fatto con la proiezione di Queen Kelly, questo bivio nella storia dell’immaginario cinematografico prima della riproduzione seriale dei “resti” codificati dei fantasmi dell’immagine e del desiderio esibito sullo schermo: prima di una mutazione irreversibile del modo di vedere, e di sentire il cinema, e prima della liquidazione di registi come von Stroheim ridotti a interpreti della propria caricatura di serie.
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lo scambio e all’alienazione istituzionale di un’identità illusoria giocata nel riflesso e nel desiderio di sé proiettato in un altro che guardi). Il tentativo di oggettivare e di rendere “reale”, tangibile e irripetibile, vero e irreale il desiderio di spettacolarità, e la pulsione a mostrarsi e ad essere guardati e denudati, passa attraverso l’acquisizione di uno sguardo tutto per sé: uno sguardo sequestrato al mondo e rinchiuso nel museo della memoria e del sogno, generato dal commercio del sesso e dell’amore come falsi obiettivi di una spettacolarità riottenuta tramite il sequestro (e che si regge sulla penuria dell’uomo e sull’abbondanza della donna, un gioco che non può durare a lungo oltre ogni ragionevole trucco). Il sequestro deve pur cessare, e si risolve nell’esaurimento trasgressivo del sognare, nell’impossibilità del restauro del passato. Norma Desmond va incontro alla verità tornando ancora una volta a Hollywood, per un equivoco che alla fine le spezzerà la ragione. E quanto resta di questo “ritorno al cinema” è un viaggio visionario attraverso i cancelli di Hollywood (una delle sequenze più crudeli e più cariche di sentimento del cinema americano); è il fascio di luce artificiale che “Occhio di Falco” le dedica da un riflettore, illuminando per un momento l’immagine superstite di un passato sepolto; è la figura di un C.B. De Mille che dirige il fragore di uno spettacolo totale prima del silenzio definitivo. Deviato il fascio del riflettore, il film si avvia, da questo momento, nel nero e nel buio delle memorie mortuarie. Anche Joe Gillis capisce che non può durare, così come diviene sempre più difficile fuggire di notte dalla sua prigione sul “Viale del Tramonto” per raggiungere Betty negli Studios inanimati di Hollywood a scrivere un copione suo. Ed è sempre più difficile amare e non amare allo stesso tempo, essere liberi mentre si è stati comprati. Dopo questa esperienza distruttiva sembra anche che non sia più possibile né andare avanti né tornare indietro, occorre accettare una degradazione che apre la strada alla disfatta totale, a un isolamento irrimediabile. Le immagini di un’esperienza nevrotica si tramutano in un destino da cui non ci si difende, un sentiero che solo la morte può confondere perché solo la morte può sottrarre la persistenza delle memorie ormai stampate in immagini indelebili della disfatta e della rinuncia. Le pallottole di Norma Desmond servono proprio a rompere l’incantesimo dei sogni e a spezzare il dominio delle memorie; per aprire la strada alla follia più conseguente (inscritta nelle cose e nell’aria), per approdare alla messa in scena perversa dell’ultima illusione: quel “film” finale che sancisce la fine di tutto sulla scalinata della vil-
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la, trasformata dalla macchina da presa e dalla folla dell’apparato cinematografico in scalone del palazzo di Salomé, ultimo mito impossibile della diva. Vertigine del cinema, vertigine da cinema: luci, rumori, comandi, motore della cinepresa, ingorgo dell’azione sotto la falsificazione dei riflettori dei cinegiornali. Abbandono disperato al gesto fatale dello schermo muto, definitività insondabile di un’esperienza dell’alienarsi ad una immagine perduta nel celluloide. «Non esiste altro. Solo noi e la macchina. E nell’oscurità il pubblico che guarda in silenzio». La dissolvenza finale è anche la dissolvenza di un’epoca e di un modo di essere nel cinema, del cinema. L’asso nella manica prosegue questo sondaggio della degradazione e dell’isolamento dei sopravvissuti, della sconfitta di chi non trova uno spazio e una misura tra rispetto delle regole e infrazione. E benché sia un film girato soprattutto in esterni, nel sole accecante del deserto e nella polvere e nel brulichio assordante delle moltitudini voraci che vogliono assistere alle vicende della “notte” e del “buio” (la caverna e il silenzio dell’uomo sepolto nella notte, avviato alla morte per esigenze legate allo “spettacolo” che si svolge nella luce del giorno, nel chiasso del “fuori”), è ancora nello spirito del film noir per molti aspetti non marginali. Qui le “gradazioni del nero” vengono sostituite dall’abbaglio e dalla luce assordante di uno stordimento pieno, totale, del giorno, in cui la folla gioca lo stesso ruolo che nel film noir “classico” veniva giocato dalla notte e dall’ombra come ripostiglio: luogo privilegiato di una chiusura folle nella trasgressione impotente, universo concentrazionario del male, spazio abitato dall’“altra parte della società” (nell’immagine pubblica che il cinema rende esplicita di una divisione dello spazio vivibile che delimita l’America degli anni ’40). In particolare, con L’asso nella manica si assiste addirittura al superamento di quella uniformità stilistica che il film noir aveva creato modulando e graduando quella miscela esplosiva di temi e di linguaggio. Qui, altri elementi del film noir vengono assunti e rovesciati, mescolati e cambiati di posto e di funzione: come se dall’interno venissero rovesciati all’esterno. In tal modo l’isolamento del vinto, la degradazione, l’ombra cupa del tempo irrimediabilmente consumato, l’oscurità perenne che avvolge i personaggi confinandoli in uno spazio ristretto, dominato e individuato dalle lame oblique di luci artificiali che delimitano l’azione; il narcisismo e l’impotenza, la paranoia e la claustrofobia vengono ribaltati e vomitati all’esterno sulla voracità della gente perbene di tutti i giorni. I temi e le forme che toccavano soltanto
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gli “abitanti della notte”, gli emarginati, le talpe e i topi che intasano le grandi concentrazioni urbane, trovano spazio e linguaggio perché possono fare da riflesso alla fisionomia degli “abitanti del giorno”, ai protagonisti del mondo degli affari, dei negozi pubblici, moltitudini che vivono prosperando al riparo della legge. Si acuisce, così, la tendenza all’isolamento e al parossismo dell’esclusione, fino a creare una situazione suicida senza sbocchi, momento e area di disintegrazione totale e irreversibile produttrice di gesti folli. La violenza criminale non appartiene più ai tragici eroi della notte, la criminalità non è fatta di violenza pura, della “violenza primaria” del mondo posto al di fuori della legge; ma viene individuata e alimentata nella violenza di ciò che la legge e l’incastro raffinato delle regole sociali consentono. Solo il protagonista, Chuck Tatum (un Kirk Douglas in piena forma), è il portatore di regole del gioco usurate e dimesse, emerge quasi da un passato ormai sepolto per sempre (“pre-neocapitalistico”) dal quale cerca di districarsi, ma che nel contempo riafferma nel desiderio (è come un “eroe nero” proiettato nell’abbaglio della luce solare che deve cercare lì il suo posto e il luogo del suo ruolo: fuori dalle ombre proiettate dalle lampade opache sulle pareti stinte, fuori dalla penombra creata dalle tapparelle abbassate di interni irrespirabili, fuori dal pulviscolo e dal fumo denso di sigarette che plasmano il tono degli interni devitalizzati). Emerso dalla notte, tragico eroe del passato sconfitto, vinto ma ancora deciso a recuperare tutto quanto gli è stato sottratto, Chuck Tatum è animato dalla forza di un narcisismo definitivo e dal desiderio intatto di recuperare i punti ceduti: un posto prestigioso in uno dei grandi giornali delle capitali statunitensi dai quali è stato cacciato per motivi “futili”. L’asso nella manica è, allora, il film che mostra le regole ferree che dominano la realtà sociale dell’America degli anni ’50, le regole elaborate per edificare la gerarchia intangibile dei valori sociali e i simboli che ne contrassegnano i vertici: il successo e il denaro, mostri dell’apparenza, simulacri del potere illimitato in una società difficile da controllare senza il ricorso alla violenza organizzata delle istituzioni più “liberali” (e senza il ricorso alla voracità, alimento principale del potere e modello delle sublimazioni di una cultura concepita come falso totale). L’obiettivo del film è quello di mostrare il funzionamento dei meccanismi onnivori della scelta sociale, il funzionamento dell’apparato di manipolazione delle masse, sintomaticamente rappresentato dall’istituto dell’informazione. La vicenda di L’asso nella manica esemplifica dunque il dispositivo della corruzione e della mani-
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polazione, sia sul piano soggettivo delle spinte e dei condizionamenti individuali, sia sul piano oggettivo delle macchinazioni d’apparato, delle centrali del consenso, emblematicamente rappresentati dalla “macchina dell’informazione”: il giornale. Inoltre, mostra il ruolo che gioca il successo come condizione mitica di un’identità sociale ottenuta tramite l’alchimia di sublimazioni arrischiate, come luogo simbolico della sopravvivenza sociale consegnata ad una spettacolarità iperbolica prodotta dalle mitologie di visioni pubbliche gratificanti. Il potere non viene inscenato in maniera astratta o metaforica, ma nelle sue manifestazioni simboliche più pervicaci e concrete; nelle manifestazioni spettacolari che affiancano non tanto la “presa del potere” e la conquista dei ruoli sociali gratificanti quanto la possibilità di una loro esibizione di fronte a un pubblico il più vasto possibile: misura di un potere affidato alla spettacolarità del ruolo che si ricopre, al simulacro di ciò di cui si parla; obiettivo finale del desiderio sociale di dominio nel sequestro di un pubblico ridotto a spettatore comunque di esibizioni del potere. Ancora una volta, la situazione mostrata da L’asso nella manica è quella di una mitologia operante nel suo essere superordinata al denaro e ai privilegi di classe; nel suo essere superordinata al possesso e alla proprietà, all’esibizione della detenzione di beni; nel suo essere ancora più spettacolare della proprietà e della legge. Il dominio e il successo appaiono come luogo del potere in quanto certezza della spettacolarità e presa sicura sul pubblico, allontanamento della solitudine della propria sostanziale vacuità e irrilevanza; acquietamento dell’angoscia di poter essere sostituiti in ogni momento, dato che si occupa una posizione estorta con la forza in un regime di concorrenza spietata che denuncia la precarietà istituzionale di ognuno. Il successo appare come via alla costituzione di un’identità che si condensa solo nel fuoco degli sguardi rivolti verso i posti-chiave dell’apparato e i suoi risvolti spettacolari. Sguardi catturati e plagiati in un gioco aberrante di falsificazioni materiali e simboliche; morbosa mania di spettacolo defluito dalle immagini distribuite da Hollywood e rivolto al controllo dell’opinione pubblica attraverso l’abbaglio delle manipolazioni esibite sulla piazza. In L’asso nella manica l’isolamento e la sconfitta del giornalista “senza scrupoli” sono la vicenda sulla cui falsariga il film mette in scena un altro isolamento e una diversa sconfitta: quella della “folla americana”, quella di una società “mostruosa” manipolata da potenti dispositivi di produzione di un consenso criminale e spietato. Apparati che produco-
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Billy Wilder
no e sostengono la società e i suoi valori culturali come un risultato aberrante del conformismo dettato dalla fissità delle gerarchie che orchestrano leggi e valori; come dimensione statica e molto difesa dell’accettazione di un gioco condotto secondo le regole dominanti nella società capitalistica. La società “funziona” mediante potenti macchinari di sublimazione del desiderio e dei conflitti, anche come macchinario generatore delle tensioni che debbono essere graduate e incanalate in mille rivoli sordidi e stagnanti che confluiscono nella palude della innocuità. È per ciò che l’atteggiamento di Billy Wilder nei confronti della società e nei confronti del rapporto tra individuo e società (e tra gruppi sociali diversi e diversi valori culturali) è più disincantato (e, via via, anche beffardo) che “critico” nel senso tradizionale del termine. Film come La fiamma del peccato, Viale del tramonto, L’asso nella manica evidenziano le scissure e le crepe della società americana attraverso alcuni elementi che ne rappresentano una zona del controvalore o di controcultura; una sorta di raddoppiamento in negativo che non può “vincere” perché non è altro che la filiazione del primo; una valvola di sicurezza perché il “positivo” possa continuare al di là di tutto. Il “mondo della notte” e l’universo del crimine, l’insoddisfazione e l’impotenza dell’assicuratore perduto dietro l’immagine della donna vorace; la debolezza congenita e il desiderio di autodistruzione dello scrittore di soggetti attratto nelle ragnatele della mania e dell’agorafobia di un mondo in disuso; il giornalista che forza le regole e gioca sul baratro del limite consentito… Ebbene non fanno che mettere in luce il risvolto di un mondo e di un modo del giocare che è al limite del lecito e che rimane sull’orlo di abissi irrappresentabili per Hollywood, margine e curva dell’emarginazione e del negativo. Impotenza, degradazione, mania narcisistica, isolamento, esasperazione dell’individualismo, nevrastenia, sono le manifestazioni di un’inappartenenza che diventa morbosa mania di morte; sono il segno di un’esclusione dal mondo e dalle regole ufficiali del gioco sociale; sono ripiegamento e cavità, scavo e incisione sotterranee che sconvolgono e corrodono i tralicci e i ponti edificati sull’accettazione comunque e sul consenso generalizzato; sono il sintomo di un “punto debole” del meccanismo di sublimazioni, di programmazioni del consenso e di obiettivi socioculturali forzosamente labili. Oppure sono semplicemente la faccia nascosta della verità “indicibile”, un doppio degradato del positivo che illude il mondo sorreggendo l’abbaglio dei valori che confermano rego-
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le rancide. È in questo senso che Wilder non è “critico”, che non dice di no a questo modo di spaccare il mondo tra bene e male, tra notte e giorno, tra vizio e virtù, innocenza e corruzione, legalità e criminalità. Anzi, al contrario, rivela i legami che saldano questi “contrari”, e, soprattutto, scaglia sullo schermo le convenzioni e l’arbitrarietà del “positivo” nei suoi valori posticci e nel suo stucchevole schematismo; nell’aspetto normativo, regolativo e relativo che possiede, giustificato solo da alcuni valori di fatto (la merce, il denaro, il possesso) che circolano senza il controllo del piacere di vivere. Non c’è posto per la coscienza o per la morale in questo sentire la vita, ma soltanto per una strana occasione di scelta binaria: il consenso e l’assuefazione, il rispetto delle regole del gioco, dei valori consolidati e del gioco stabilito; oppure viceversa, la notte e l’ombra, la forzatura e il cedimento, l’abbandono e l’impotenza, l’aggressività che perde. Ebbene, in L’asso nella manica si ha in un certo senso la conclusione di questo modo di vedere il mondo nel “bianco” e nel “nero” delle cose mescolati assieme. Poiché non c’è più l’isolamento o la sconfitta come conseguenze negative di un ritrarsi nella penombra dell’illecito, ma c’è la forzatura e l’esasperazione di quelle stesse regole del gioco pubblico; questo camminare sull’orlo e sul limite e questo sprecare energie contro l’accettazione passiva di una situazione rassicurante; questo andare fino in fondo e prendere alla lettera il gioco della merce e della compravendita di tutto ciò che tocca i rapporti sociali. Ma prendere alla lettera la verità di questo mondo e di questo modo di vivere, eseguire fino in fondo le aspettative, giocare tutti i giochi e le carte, vuol dire ancora mettere nella posta il gioco stesso e quel sottile diaframma che separa il consentito dal proibito, quella linea sottile e impercorribile che trasforma il gioco in guerra aperta, quella demarcazione tenue tra competizione sportiva e aggressione a mano armata. Significa, ancora, mostrare fino in fondo che non si può prendere alla lettera il gioco della voracità e della volgarità della merce, dell’espropriazione e dello scambio, senza prima cautelarsi ponendo all’interno delle regole fissate dal dominio di classe. Un giocatore isolato e fuori dalla regola è pericoloso e deve perdere, perché altrimenti svelerebbe troppi trucchi che regolano il consenso e l’accordo, l’arbitrio che regge i valori in campo e le mosse consentite. In questo senso, i vinti e gli isolati, i marginali di La fiamma del peccato, di Viale del tramonto e di L’asso nella manica sono figure emblematiche: scrittori falliti e di poco futuro, giornalisti in declino divora-
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Billy Wilder
ti dal morbo del successo e dalla visione del denaro, personaggi che rovesciano i connotati del gioco ammesso su cui si fonda l’alibi culturale del consenso allargato. E sono personaggi emblematici che, di fatto, consentono a Wilder di piazzare un cuneo, un incastro levigato ma insidioso, un inceppo nel mercato e nelle costole dell’industria in quanto industria della cultura e del consenso, produzione di consenso che affianca il regno dello smercio.
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Scacco e sopravvivenza Giorni perduti (The Lost Weekend, 1945), Scandalo internazionale (A Foreign Affair, 1948), Stalag 17 (Id., 1953), L’aquila solitaria (The Spirit of St. Louis, 1957), Vita privata di Sherlock Holmes (The Private Life of Sherlock Holmes, 1970) Poiché si è cercato di tracciare una mappa dei “motivi” e degli orientamenti nella produzione di Billy Wilder piuttosto che annodare in una linea cronologica i film anno dopo anno e metterli assieme secondo i criteri canonici della successione e della continuità, non sembrerà eccessivamente strano o azzardato stringere nello stesso discorso (o capitolo) film così distanti nel tempo (25 anni separano Giorni perduti da Vita privata di Sherlock Holmes). Riteniamo che in questa “mappa” del cinema di Wilder film come Giorni perduti, Scandalo internazionale, Stalag 17, L’aquila solitaria e Vita privata di Sherlock Holmes continuino quel lavorio di disvelamento dei meccanismi sociali dominanti e di messa in scena del rapporto conflittuale esistente tra individuo e società che è un po’ la linea di tendenza di tutto il cinema di Wilder. In questo lavorio di disvelamento dei meccanismi sociali dominanti e in questo scavo delle sublimazioni e degli intoppi, delle ansie e delle sconfitte che segnano il rapporto tra il singolo e la collettività, Wilder a poco a poco costruisce un quadro della società americana e dei condizionamenti che la dominano (prima di tutti le leggi spietate del mercato che investono uomini e cose, desideri e frustrazioni, ansie e soddisfazioni); disegna il tracciato scoperto dell’industria del consenso, mettendo in scena le mitologie sociali e individuali e i costi di una cultura che ha scommesso sulla continuità e sull’espansione di un “modello” economico e culturale imperniato sul dominio dello smercio di tutto. Impresa difficile, quella di mostrare sullo schermo i rapporti tra individuo e società e tra capitale e cultura nei gangli della società capitalistica più avanzata dell’Occidente; individualizzare i conflitti e le angosce, dare un volto ai singoli che si agitano sotto i colpi di masse intere spostate dall’andamento del mercato, o che estraniano dal “gioco americano” delle sublimazioni e delle rinunce, della voracità e del possesso per tentare strade più difficili e spesso impercorribili. Ed ecco che in questo tracciato si ricompone in un’immagine attendibile tutta una serie di elementi fissi cari a Wilder, come l’incastro tra sesso e denaro, tra innocenza e corru-
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Billy Wilder
zione, ingenuità e prevaricazione, pulsioni e rimozioni: costanti di una messa in scena che tocca l’assetto della società americana, i rapporti di classe, e soprattutto il gioco brutale delle gerarchie all’interno delle classi. Se in film come La fiamma del peccato e Viale del tramonto i protagonisti vivevano all’ombra delle regole sociali dominanti (e restavano confinati ai margini della società, per incapacità ad integrarsi a causa di una “malattia” che li richiudeva nell’atmosfera protetta della notte e dell’ombra, dell’illecito e dell’eccesso assunti come un “destino” ineluttabile), nei film di questo gruppo si avverte un’integrazione dolorosa e sofferta, una malsicura e malcelata ricomposizione forzata dell’individuo nel tessuto sociale. Integrazione e ricomposizione che passano attraverso la prova decisiva dello scacco (dell’intelligenza e dell’esperienza, delle pulsioni dell’io e della soggettività) e approdano alla sopravvivenza. I protagonisti di questi film cominciano la loro storia con una sorta di rifiuto derivante da una soggettività morbosa e maniacale, o da un’incapacità culturale più che psicologica ad uniformarsi ad una condotta positiva dell’esistenza. Sono, ancora una volta, “personaggi strani” che occupano una posizione decentrata rispetto alla norma che regola la convivenza sociale; e che rappresentano una sorta di “alternativa tollerata”, un eccesso o una stranezza, una dimensione pericolante dentro i modelli dominanti, una situazione in qualche modo estranea rispetto al patrimonio dei valori comuni del gruppo al quale pure appartengono (sia che si tratti di uno scrittore alcolizzato o di un investigatore di successo; o che si tratti di un prigioniero di guerra che si defila rispetto alla tipologia usuale del gruppo che ricostituisce una comunità di valori, di intenti e di comportamenti in una situazione ostile; o, infine, che si tratti di un solitario esploratore dell’ignoto e di uno sperimentatore dell’avventura, ecc.). Il tratto comune che unisce questo gruppo di film non è dato soltanto da queste caratteristiche che legano i personaggi in un’“immagine” che presenta tratti ricorrenti e costanti caratteristiche, quanto da un’altra dimensione della tipologia narrativa, che si sofferma proprio sulla chiusura e sulla soggettività di un’esperienza assolutamente privata, individuale, discosta dalla vita e dai modelli del gruppo. Non a caso i motivi di questi film sono incentrati sul tema della vita privata, con tutte le concessioni del caso e con tutte le aberrazioni, grandi piccole e medie, che sono consentite all’ambito del privato. Elementi, questi, che toccano anche il modo di filmare, dal momento che riguardano un rap-
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porto “strano” e diverso tra pubblico e privato che segna in maniera incisiva e peculiare anche il rapporto tra interni ed esterni del film. In particolare, ritroviamo in Giorni perduti una sottolineatura dei mezzi espressivi che non è frequente e tantomeno usuale in un regista che, per esplicita ammissione, tende a non far “sentire” la macchina da presa, ad occultare la regia e la grafia cinematografica. Invece la sottolineatura espressiva che si nota in Giorni perduti riguarda proprio il modo straordinario di trattare il rapporto tra esterni e interni, come è verificabile in un paio di sequenze. Per quanto riguarda gli esterni occorre ricordare almeno la sequenza iniziale del film e quella del “vagabondaggio” per le strade di New York. Il film si apre con un piano-sequenza piuttosto bello, una panoramica su New York che si muove da sinistra a destra fino a percorrere un muro che fa da quinta, e avvicinarsi lentamente ad una finestra. La macchina da presa riesce ad allacciare un rapporto molto denso tra il dentro del film (l’uomo e la bottiglia) e il fuori, la città indifferente. Rapporto ossessivo scoperto e scavato tra le mura degli edifici che recano nell’immobilità l’impronta di un brulichio vitale fermato dai mattoni, e l’inquietudine nascosta della vita agitata al loro interno (in questo caso il dramma di un alcolizzato, un uomo sopraffatto dalle cariche autodistruttive, ancora un vinto che non è riuscito a superare lo iato tra ambizioni di successo e incapacità a realizzarle). La città appare nuda e vuota, indifferente, di un’indifferenza ostile, di una freddezza che non può avere niente a che fare con i problemi degli individui che l’abitano (un tratto comune a molto cinema “realista” degli anni ’50). La città appare assente e ostile quando Don Birnam la percorre alla ricerca disperata di un Banco di pegni aperto, in una serie straordinaria di piani legati da dissolvenze con una forte carica espressiva (sequenza che costituisce un precedente straordinario per un cinema di solito rinchiuso negli Studios e abituato alla ricostruzione degli esterni). La macchina da presa percorre le strade, scava gli spazi delle vetrine, pietrifica in un’immobilità da sonnambuli le persone che si affacciano nelle strade. Incrocia carrelli laterali con carrelli-avanti delle strade di New York, monta le grate serrate di un negozio deserto inquadrato dall’interno con vetrine inerti riprese dall’esterno; incastra inquadrature dei cartelli delle strade e delle indicazioni del metrò con inquadrature della sopraelevata, che sovrasta e spezza per un attimo il silenzio assordante. Innesta dissolvenze rapide su ragazzi negri appoggiati ai muri e alle vetrine, sulle insegne di negozi colte un attimo da carrelli “in soggettiva” ap-
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pena accennati e subito tagliati; restituendo un percorso del silenzio e del vuoto che sembra suggerire l’idea di un occhio cinematografico stralunato e perverso, un occhio che cattura qualcosa che difficilmente può essere messo in immagine: il mutismo e il vuoto, la solitudine, l’abbandono nel cuore di una città sovraffollata e ostile. Carrelli corretti da panoramiche e tagliati da dissolvenze rapide che sfumano e legano piano dopo piano, immagine dopo immagine di uno spazio pubblico desertificato, sono il contrappunto di un’angoscia e di una minaccia che pesa su tutti e dovunque; e che è magistralmente replicata e doppiata in una sequenza in interni degna del Fritz Lang di M, il mostro di Düsseldorf (M, 1931), che qui viene deliberatamente citato. Si tratta della sequenza che prelude al ricovero del protagonista in ospedale, ed è il momento in cui lo scrittore sterile e alcolizzato si è recato da Gloria, la ragazza incontrata nel bar di Net, a chiederle i soldi per una bottiglia. Ha appena baciato la ragazza per il denaro ottenuto e si avvia a scendere le scale che conducono in strada. L’inquadratura dall’alto delle scale e dell’androne, lascia intravvedere il portone come un rettangolo di luce che ferisce l’oscurità dell’ambiente e la mente perduta dell’alcolizzato: un rettangolo luminoso dal quale filtra l’ostilità solare del fuori, della città che cammina e si muove. All’improvviso, la sequenza muta per un “niente” allorché vediamo entrare nel portone una bimbetta con un cerchio sulle spalle (memoria di alcune straordinarie inquadrature dei cortili di M e di bambine che giocano in cerchio o che corrono in strada) che si avvicina saltellando e correndo alle scale. Si avvicina e viene su, per le scale, di corsa, come una minaccia, un pericolo incombente e immotivato; mentre l’uomo comincia a scendere qualche gradino, barcollando. Nel preciso istante in cui l’uomo e la bambina si incrociano si avverte il senso di una tragedia che si è preparata prima, per tutto il film, ma che si è accumulata nei brevissimi densi istanti di questa inquadratura e che sta per esplodere nella casualità di un momento e di un incontro assolutamente imprevedibili, e, in sé, insignificanti. Quando la bambina e l’uomo s’incrociano sulle scale, Don Birnam si volge per metà verso la bambina che gli passa a fianco, accenna questa torsione del capo per guardarla salire, inspiegabilmente, una torsione lenta e densa di cariche psicologiche ed espressive forse troppo complicate da interpretare 2, e in quel 2
Per esempio, Wilder «ha eliminato l’esplicita omosessualità che motivava l’alcolismo di Don Birnam nella novella di The Lost Weekend, ma qualcuno ha sentito che nel film la
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preciso istante comincia ad urlare con gli occhi sbarrati. Si afferra al lume al fianco della parete. Una panoramica appena accennata interrompe per un momento questo impatto tra l’urlare dell’uomo e il salire innocente della bambina, e li salda insieme in un movimento di macchina appena percettibile; scavando significati nascosti, relazioni perverse tra due fatti estranei, tra l’innocenza e la perversione, mentre si ferma a inquadrare il volto atterrito della bambina ormai in cima alla scala, dal basso. Segue l’inquadratura dell’uomo che rotola per le scale finché si ferma in fondo. La sequenza successiva è aperta magistralmente da un attacco sonoro sorprendente che anticipa l’immagine. Si tratta del borbottio incomprensibile, sordo e insistente, un rumore sul niente, su cui si scopre in dissolvenza lo stanzone d’ospedale in cui Don è stato ricoverato dopo la caduta: è un alcolizzato in preda a delirium tremens che borbotta parole incomprensibili sul primo piano di Don Birnam. La notte sarà popolata di deliri anticipati da colpi di tosse minacciosi, e punteggiata dalle urla inumane di un alcolizzato sopraffatto dalle allucinazioni (una sequenza assai pregevole soprattutto dal punto di vista del piano sonoro, che l’edizione italiana ha reso con buona efficacia). Finalmente Don Birnam riesce a riprendersi e a fuggire dall’ospedale. Ma la fuga non salva dalle allucinazioni della notte e la solitudine non aiuta a difendersi dal fallimento. Un fallimento segnato e indicato dalle illusioni di salvezza nell’oblio dell’alcool, nella notte del cervello e della coscienza; quando, solo davanti al barman e solo nel recinto dei cerchi tracciati dal bicchiere sul bancone del bar, lo scrittore riesce ad impegnare ancora la memoria e la fantasia, ritrovando il piacere delle citazioni dai classici e l’illusione nel proprio talento (e negando un’impotenza sublimata nella sterilità letteraria). Tanto che meraviglia la soluzione finale che arriva con la salvezza di un gesto significativo: Net, il barman, che riporta allo scrittore la sua macchina da scrivere, e proprio nel momento in cui sta per compiere il suicidio sotto gli occhi della fidanzata. Ma si sa che l’“happy-end” è uno dei trucchi più scoperti del cinema hollywoodiano, preoccupato di tutelare la buona pace dello spettatore e di stretta e tesa relazione di Don e del fratello Wick ha ancora toni omosessuali» (S. Farber, The Films of Billy Wilder, in «Film Comment», vol. 7, n. 4, Winter 1971-72, p. 16). Ebbene, di questa relazione omosessuale resta probabilmente ancora una traccia, un’ombra obliqua nella direzione di una pederastia appena accennata e insinuata: e forse proprio in quella torsione dell’uomo verso la bambinetta e in quel suo urlare e cadere in questo incontro.
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Billy Wilder
controllarne e modularne le reazioni; e preoccupato della reputazione dei “divi” minacciata da una “parte” troppo ingrata. Allora, nel finale, tutto si ricompone, quasi fosse un film che affronta il problema sociale dell’alcolismo e non un film sul fallimento del soggetto in una società inumana. Invece è proprio questo “happy-end”, questa salvezza dal “dormire ciondoloni” appesi ad una bottiglia, questo risalire dal fondo della paura e dell’“anemia morale”, che una volta tanto si ritorce contro i modelli pacificatori e accomodanti di Hollywood. Perché Wilder riesce ad insinuare in questo finale che la “salvezza” è posticcia e superficiale, poco credibile e comunque inimportante in un film del genere; dal momento che ad essa segue (ed essa “significa”) il passaggio dallo scacco della rinuncia e dalla disperazione di una ricerca fallita alla rinuncia di una sopravvivenza accettata comunque e nonostante tutto. Il film si chiude tornando al suo inizio e riprende la panoramica interrotta, quel primo piano-sequenza là dove si era fermato, alla finestra di Don Birnam e ai tetti della città; e commentando fuori campo: «Povera gente indemoniata bruciata dalla sete». Ma si tratta di una sete non “spiegata” e non spenta, di una sete solo repressa, di un’insoddisfazione rimossa e fugata, vinta solo apparentemente da una “coalizione” scattata a difesa della sopravvivenza comunque. Spirito e convinzione istillata di sopravvivenza nell’esclusione e nell’isolamento che un altro grande film di Wilder, Stalag 17, riprende in proprio, indicando una strada diversa, una maniera diversa del sopravvivere in una situazione-limite, quella del campo di concentramento. Si tratta di una situazione-limite in cui si può vedere bene come tendono a ricostituirsi le regole del gioco sociale e delle sue gerarchie, come si perpetuano i codici nei quali l’individuo è stato allevato (e, per di più, come tende a rafforzarsi il dominio della Legge, la forza cogente della frontiera tra il lecito e l’illecito e tra la virtù e il vizio, tra l’onore e il disonore, proprio sul baratro di una continuità sociale e culturale messa in pericolo e sottoposta a tensioni fortissime e prolungate che tentano la disintegrazione e la frantumazione). Qui l’onore si pone, per forza di cose, come la virtù principale rispolverata per l’occasione, dal momento che sta a indirizzare la fedeltà al codice morale e a indicare l’appartenenza al gruppo e la congruenza con le leggi stabilite al suo interno a costo di tutto, anche della vita. Con Stalag 17 Wilder appare molto interessato ai meccanismi di questa società-limite costituita dal gruppo segregato e tenuto in condizioni di vita assai precarie, per scrutare in
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maniera impietosa gli schemi dei valori e i modelli di comportamento di una “società allo stato puro”. Perciò Stalag 17 è un film che la critica non ha compreso e che ha rifiutato, travisandolo o ignorandolo; sentendosi messa a nudo proprio sul versante delle coperture ideologiche scoperchiate, e sentendosi presa in contropiede da un’infrazione clamorosa ad un genere solido (il film di guerra nella sua “variante” sulla prigionia) che Wilder oltraggia e ribalta, snaturandolo e rendendolo pressoché irriconoscibile (il che rende più problematico capire e “catalogare” che cosa volesse dire). Se il film di guerra era tradizionalmente un testo-quadro nel quale si cercava la verifica del punto di vista del “vincitore” (materiale o morale, trionfante o sconfitto che fosse), e dunque una giustificazione comunque dell’enorme dispendio di uomini e di mezzi nella guerra (attraverso tutta una retorica del sacrificio compiuto in nome di ideali da non doversi neanche discutere, figuriamoci poi se mettere in dubbio); se il film di guerra tendeva al restauro dei valori stabiliti e fissati dalle classi dominanti (e dai gruppi di pressione al loro interno interessati a scatenare le guerre); ebbene, se tutto ciò costituiva il “patrimonio ideologico” e il “retroterra figurale” del film di guerra, in Stalag 17 non solo non se ne trova una sola traccia, ma vi si trova l’esatto contrario. Se in Scandalo internazionale la guerra è vista in funzione del superordinamento di un codice sociale all’altro (luogo e momento della sopraffazione in cui si scontrano punti di vista diversi sul mondo e interessi contrastanti, e in cui trova spazio una promiscuità di valutazioni e di comportamenti che si cerca di ridurre ad uniformità), ebbene in Stalag 17 la riflessione è più profonda e il discorso è spostato più avanti. Il campo di prigionia – luogo canonico della staticità, blocco di qualsiasi “mutazione” delle condizioni di vita e situazione indeterminata del “transito” –, non è più visto come situazione in cui si conservano i valori sociali del gruppo nell’eroismo e nell’abnegazione che li perpetua trasmettendoli con l’esempio a costo di tutto; ma è visto, al contrario, come il luogo privilegiato della segregazione dall’ideologia e dalle mitologie della patria e di altre simili “figure”. In cui emerge, da un lato, una specie di condizione-base delle costanti elementari della socialità (aggregazione pura e semplice, organizzazione dei ruoli e delle gerarchie, superordinamento della norma, conflitti degli interessi diversi, stratificazioni di gruppo e differenze di cultura e di classe, ecc.); e, dall’altro lato, tutta una sfera dei bisogni primari e dei desideri individuali che la società rimuove nella proiezione oggettiva degli interessi comuni del grup-
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po, mediante meccanismi culturali di conformità a modelli fissati e a mitologie indotte. La figura del protagonista di Stalag 17, il sergente dell’esercito americano John Sefton (William Holden), emerge come un elemento di disturbo nel restauro dei valori culturali e ideologici che il gruppo ha attuato nella segregazione del Lager nazista per salvaguardare l’immagine della propria identità; ma rappresenta allo stesso tempo, l’individuo che si batte contro i valori dominanti del gruppo e contro i condizionamenti della società. Rappresenta l’individuo che vive “di lato” rispetto a quei condizionamenti e a quelle mitologie ufficiali; o, piuttosto, che porta alle estreme conseguenze alcune regole di base della convivenza, senza rispettare quella misura o quelle autolimitazioni che la cultura, prima ancora della legge, indica agli individui e al gruppo, superordinando il valore sublimato del “bene comune“ al valore concreto dell’interesse individuale. Insomma, Sefton sembra “vivere di lato“ rispetto alle convinzioni e alle convenzioni del gruppo, e sembra non osservare i codici dell’autocensura ideologica e morale, dal momento che appare slegato dalle mitologie che fondano i valori del gruppo. Appare come uno straniero che passa attraverso il corpo sociale commerciando e scommettendo, cercando il proprio utile senza lasciarsi andare alla celebrazione e al “godimento“ di quei significati e di quei valori che il gruppo e la società riconoscono, diffondono e iniettano come “i fini“ della convivenza. Sefton è talmente sganciato dal gruppo, dal concerto celebrativo delle mitologie culturali che fanno più presa, che viene scambiato, veramente, alla lettera, per uno straniero, per colui che non appartiene al gruppo perché presenta tratti diversi, e comunque non si uniforma alle stesse celebrazioni che ne certificano l’immagine di un’identità comune. Viceversa conosce e pratica tutte le regole e i trucchi per curare il proprio interesse; e, dunque, in una fase di sopraffazione successiva (logicamente assai conseguente se si pensa ai meccanismi voraci del gruppo e al bisogno di identità sostenuto da spinte corporative contro i “diversi”), viene preso per il traditore, la spia su cui scaricare responsabilità e frustrazioni, impotenza e insuccessi. Se la sopravvivenza del gruppo appare legata al rispetto delle regole e dei valori in cui si proietta l’immagine comune, e in cui l’identità dei singoli trova conferma, per Sefton sembra che la sopravvivenza passi attraverso l’uso economico e lo sfruttamento delle condizioni in cui si trova a vivere (il piccolo commercio con i nazisti e con i compagni di prigionia, le scommesse e i traffici, tutta un’area della corruzione consenti-
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ta tra segregatori e segregati purché si rispetti la regola di base del gioco, che è quella di non tentare la fuga). Sefton è “diverso” perché si pone fuori delle necessità del “consenso” e fuori dai condizionamenti delle opinioni degli altri; la sopravvivenza non ha bisogno, per lui, di un’identità confermata dai valori del gruppo, quello che conta è l’esercizio di un’intelligenza intraprendente svincolata dalle remore di una civiltà che impone il consenso e l’uniformità: per ciò, Sefton e la sua “diversità” rappresentano lo scacco del gruppo e una insidia per la sopravvivenza che ha – in questa situazione – come compito più alto non tanto la salvezza della pelle quanto il ricongiungimento alla propria società: ma nell’armonia e nella continuità dei suoi valori, che debbono essere tenuti in vita ad ogni costo come immagine che riscatta il sacrificio e le privazioni; e che, essa sola, consente di non cedere alle condizioni più ostili e alla collaborazione con il nemico. Lo scacco per il gruppo è dato dal fatto che Sefton si guardi beni dall’oltraggiare alcune regole fondamentali della convivenza nella baracca (non collabora con i nazisti), ma neanche è convinto dei valori che vengono covati e conservati gelosamente. La sua identità è “incomprensibile” dal punto di vista dei tratti sociali che configurano il riconoscimento pubblico del soggetto, perché di quella civiltà restaurata dal gruppo conserva solo alcune pratiche di fondo: il commercio, la riduzione dei rapporti umani a relazioni mercantili, l’impiego misurato delle proprie risorse per acquisire il benessere materiale piuttosto che il successo morale (l’unico consentito in quelle condizioni precarie) tramite il sacrificio e la collaborazione, l’adesione attiva ai tentativi del gruppo. È per questo modo di sentire e di intendere nella sua materialità le relazioni umane e le regole sociali che Wilder sospende il giudizio sugli stessi nazisti, e si limita a registrare quello che accade in una situazione di allentamento del conflitto e di parziale cedimento al nemico (la prigionia). Ed è per questo che può guardare con simpatia il prigioniero Sefton (come aveva guardato con simpatia il giornalista di L’asso nella manica), e l’impiego puro e semplice dell’intelligenza in una situazione che offre scarsi appigli al suo completo dispiegarsi. Come Chuck Tatum, ma senza la sua voracità per il successo (che, d’altra parte, ne segnava la dipendenza dai condizionamenti e dalle mitologie più diffuse); come Sherlock Holmes, ma senza la sua condanna all’isolamento del guardare e del decifrare di lontano la realtà senza lasciarsene coinvolgere; come Lindbergh, ma senza il destino dell’eroismo e del sacrificio personale, John Sefton è l’eroe dell’in-
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telligenza creativa che progetta e misura; in un certo senso è l’eroe della ragionevolezza e della difesa della soggettività contro sprechi inutili troppo spesso imposti da una cultura repressiva (gli sprechi delle proprie energie come strumento stabilizzatore tra conflitti e tensioni sociali potenzialmente destabilizzanti imposte dall’economia dello smercio generalizzato; gli sprechi che alimentano e consumano le forze di Chuck Tatum o gli sprechi che muovono masse di individui alla guerra e alle imprese eccezionali di cui resti la memoria e l’esempio). Allora il film scandisce la vita quotidiana dei prigionieri, sottolineando come, in fondo, sia proprio John D. Sefton a soddisfare desideri individuali e a riportare quella nota di familiarità e quella memoria concreta del paese lontano che viene rimossa dalle mitologie del dovere e dell’impegno. John D. Sefton non solo traffica con i nazisti in uova, sigari profumati e sigarette, ma organizza anche gli svaghi (a pagamento, beninteso) per i compagni di baracca. La domenica ricrea l’atmosfera delle corse facendo gareggiare dei topolini e accettando scommesse come un vero bookmaker; costruisce un distillatore con mezzi di fortuna per estrarre grappa (o l’“idea” della grappa) dalle bucce delle patate; costruisce e gestisce l’“osservatorio”, un cannocchiale rudimentale da cui spiare le prigioniere russe al bagno; e, alla fine, sarà proprio lui, il “diverso”, a organizzare la fuga del tenente Dunbar sottraendolo alle torture dei nazisti, dopo aver smascherato la vera spia della baracca. Eroe solitario e campione di un’“indifferenza ragionevole”, Sefton coltiva il gusto di una “vita privata” da difendere a tutti i costi, con un’alimentazione sopportabile e con qualche visitina di piacere alle prigioniere russe: privilegi ottenuti scommettendo con i compagni di baracca e ricavandone materiale da barattare con i tedeschi. Il cinismo di Sefton è il cinismo di chi non è integrato ai Valori del gruppo e del coro, ma è integrato alle regole di base su cui si fonda la società (di cui ha compreso a tal punto i meccanismi e i risvolti da porsi al di fuori delle sue ideologie e dei suoi miti più “contagiosi”: cacciatore solitario che basta – e bada – a se stesso). In un certo senso il personaggio di Sefton è molto vicino a un’altra “figura” modellata dallo stordimento e dalla confusione conseguente alla guerra, la Marlene Dietrich di Scandalo internazionale, vera protagonista – lei e la città di Berlino ridotta a un cumulo di rovine – di questo film per molti aspetti straordinario. Al di là dell’incastro delle vicende e della riflessione di Wilder sulle trasformazioni operate dalla guerra, al di là della riflessione sulle “contaminazioni” tra innocenza e inganno o
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tra ingenuità e truffa (che tanta parte della critica ha sottolineato a proposito di questo film), noi crediamo che l’interesse maggiore di Scandalo internazionale sia dato proprio dalla costruzione di un personaggio straordinario come quello di Erika von Schluetow. All’interno di una trama e di una messa in scena mediocri, la figura di Marlene Dietrich, le sue canzoni, il suo modo di muoversi e di vestire, di guardare e tacere individuano una realtà dello scacco che nessuna “deviazione” del film verso altri personaggi e verso altre situazioni, verso lo sviluppo della trama o verso i trucchi della messa in scena, può rimuovere. Protagonista del film è Berlino, una vecchia signora violentata prima dai nazisti e ora dagli americani, città privata della sua identità storica e culturale ed ora distrutta, ridotta a cumulo di macerie e a bordello, luogo di traffici illeciti e di piccole truffe, nel processo di un’altra disidentificazione che passa attraverso gli “Uffici di denazificazione” per approdare ai modelli di americanizzazione. Ma Berlino sopravvive, sopravvive come immagine di ciò che è stata proprio nell’immagine che essa difende in questo processo di disidentificazione. E a Wilder interessa proprio la reticenza di Berlino, la pervicace resistenza a mutare, il restare appigliati all’immagine di sé mentre viene demolita. È per questo che Marlene Dietrich è la protagonista – come attrice, come figura e come immagine di donna tedesca – del film; l’immagine dominante di una Berlino compromessa con i nazisti e con gli americani; l’immagine di una situazione in cui tutto si compra e si vende al mercato nero e nei saloni fumosi dei locali notturni per i militari. Le canzoni di Marlene Dietrich sono l’omaggio più commosso che Wilder poteva fare al suo passato e all’Europa, alla gente di lingua tedesca e alla sua storia disperata, ad un destino che ha ridotto la Germania a colonia americana: «Vendo la mia merce dietro una cortina. Vi è piaciuto quanto ho detto? Ecco come sono! Sono una semplice definizione. A voi l’arte… a me i vostri viveri. Vendo tutto… Tutto quello che ho. Ambizioni, convinzioni… Perché no? Godetevi quello che vi offro. Vi assicuro, ragazzi, è roba fine…». Sono le parole di Black Market, la canzone che una signora canta in un locale malfamato esponendosi come un’incommentabile verità dei fatti, come un insondabile giudizio della storia, come un destino ineluttabile del mercato di tutto, che è cominciato con il cedimento alle lusinghe del nazismo ed è finito con il colonialismo americano. «Volete comprare delle illusioni? Sono quasi nuove, le vendo per un soldo. Sono fatte di dolci ricordi, fatte di lacrime, fatte di sorrisi». È sulle immagini di Marlene che Berlino
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manifesta la propria vitalità, il desiderio di continuare a vivere della propria cultura, nel fascino di un declino che non può durare (anche se occorrerà passare attraverso la vendita di tutto per tornare a esistere e avere il diritto ad un’immagine propria, ad un’identità non soffocata dalla storia dei nuovi padroni). Il confronto con se stessi e il giocare con la propria immagine e con le proprie possibilità di riuscita non sono soltanto il nucleo di film come Stalag 17 e Scandalo internazionale, ma sono anche la vertigine che attira altri film raccolti in questo gruppo come L’aquila solitaria e Vita privata di Sherlock Holmes. Si può dire che, in qualche modo, c’è un legame tra Stalag 17 e Vita privata di Sherlock Holmes, e che questo legame è retto da un anello che si chiama L’aquila solitaria: se non altro per l’ossessione del luogo chiuso, per il “sequestro” di un personaggio “atipico” che la macchina da presa restituisce nella fenomenologia di eventi “esterni“ che non possono perforare il luogo impenetrabile delle motivazioni personali più segrete, che non possono accedere ai fantasmi visibili che muovono un soggetto. Giustamente la critica ha insistito su questa “fenomenologia dell’esterno” o sui dettagli che individualizzano i nodi narrativi e rappresentazionali della trasvolata di Lindbergh, sulle visioni d’insieme che ne accompagnano l’impresa e la scandiscono come i tempi di una sinfonia. L’avventura come scommessa con se stessi, come rimozione del terrore dello scacco personale e della conseguente frantumazione della propria immagine, muove Lindbergh a tentare l’impossibile, a mettersi alla prova, a cercare nell’eccesso la propria identità, correndo tutti i rischi del caso e quello più temuto: il fallimento. Giustamente Alessandro Cappabianca ha fatto rilevare come vi sia una coerenza interna negli interessi di Wilder, e come questa coerenza non sia “intaccata” dalla scelta di questa “figura” e da questo film, dal momento che già in L’asso nella manica Wilder aveva sottolineato quanto interesse desti la vicenda di un uomo solo, e per di più rinchiuso in una situazione senza uscita che non sia il successo o la morte. L’uomo che mette alla prova se stesso per avere una conferma della propria immagine da un’esperienza “ineguagliabile” e mai tentata, rappresenta anche, in qualche modo, un episodio di alienazione alla rovescia: l’alienazione di chi vuole sondare fino in fondo e ad ogni costo il pericolo in quanto tale, di chi vuole giocare comunque la carta della sfida per saldare in anticipo i conti con il fantasma dello scacco e il valore della sopravvivenza (valore edificato nei signifi-
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cati sociali e culturali fatti crescere sui fatti e sulle mitologie, sulle illusioni e sui fantasmi). Vita privata di Sherlock Holmes realizza un progetto che Billy Wilder accarezzava da tempo e che giunge come un viaggio rigeneratore nel passato e nell’atmosfera incantata della vecchia Europa dopo due film accolti male dal pubblico e dalla critica: Baciami, stupido (Kiss Me, Stupid!, 1964) e Non per soldi… ma per denaro (The Fortune Cookie, 1966). Ma, soprattutto, giunge a conclusione di un decennio, quello degli anni ’60, che ha visto silenzi e vuoti singolari nell’attività metodica del regista. La ristrutturazione dei modi di produzione e del mercato stesso del cinema spiega, almeno in parte, il silenzio o le reticenze, le pause nell’attività di Wilder, e spiega anche (forse) perché film di un certo tipo si raggruppino attorno al perno dell’anno 1960. I film sul travestimento e sull’inganno come macchine del gioco sociale e individuale sono ancora film che guardano al soggetto dal suo interno, sono ancora film sul desiderio e sulla repressione, sono i film in cui l’esplorazione dei valori sociali riguarda una società in rapida trasformazione (l’America degli anni ’50). Il che viene ad essere riflesso anche a livello formale, nel ribaltamento dei generi cinematografici e nella presa diretta di un linguaggio costruito attorno alla semplificazione estrema delle mediazioni, e attraverso un uso assai peculiare del comico e degli incastri della finzione scenica e narrativa. Con Vita privata di Sherlock Holmes Wilder tenta una carta diversa, tenta un discorso e una tematica che lo riguardano molto da vicino, un accostamento più scoperto alla realtà dell’estraneità e dell’isolamento; una sorta di omaggio autobiografico alla solitudine dei “diversi”, di cui si trovano già tracce in Stalag 17. Sono Stalag 17 e Vita privata di Sherlock Holmes i film in cui si ritrova un Wilder per molti aspetti insolito, un Wilder che non si affida soltanto al meccanismo perfetto di una sceneggiatura impeccabile o al gioco magistrale di una messa in scena e di incastri narrativi che in genere hanno prodotto l’effetto di una verosimiglianza più coinvolgente del “vero”, una verosimiglianza da godere per la sua meccanica visionaria. Il “rovescio della medaglia”, un obiettivo che Wilder ha sempre perseguito e tenuto presente nella sua maniera di fabbricare gli intrecci, riguardava pur sempre un rapporto preciso con le regole del gioco, un confronto con i canoni del narrare, un misurarsi con l’ingegneria che regge le trame e i personaggi: per tirarne fuori, sostanzialmente, il piacere del gioco in sé e per sé. Piacere aumentato dal fat-
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to che mostrare il “rovescio della medaglia” vuole dire mostrare il rovescio dei condizionamenti di una cultura, e magari le sue condizioni oggettive; vuole dir mettere in discussione l’abitudine al conforme; vuole dire far emergere, nel gioco stesso, il piacere dell’infrazione e non soltanto quello della finzione regolata ad arte (un’infrazione che, sottilmente, riguarda anche ciò di cui non si dice, il fuori della lettera, e cioè i meccanismi culturali extra testuali che soli garantiscono un significato pieno al gioco e alla battuta, alla parodia e alla satira). Ma, ad ogni modo, per quanto passasse nelle “macchine” di Billy Wilder (le trame, i personaggi, le sceneggiature) una sorta di denudamento degli effettivi rapporti sociali e individuali sublimati nella copertura del mito del successo (e nelle forzature ideologiche della sopraffazione come punti di forza di una cultura dominata dai fantasmi del gioco capitalistico), nessun film aveva superato il livello di questo fair play, di questo elegante rispetto delle regole del gioco nel giocare il gioco stesso della messa in discussione, del rovesciamento, della parodizzazione, dell’investimento obliquo dei “depositi” del gioco e delle sue regole. Insomma, in tutti questi film gli elementi più cari a Wilder (gioco, intrigo, truffa, crimine, travestimento) fanno parte dell’ingegneria dei rapporti sociali, sublimati nei valori di una cultura demistificata e scoperta nei suoi reali fini e contenuti. È solo con Stalag 17 e con Vita privata di Sherlock Holmes che il gioco acquista la dimensione allarmante della rivelazione di un piano di significazioni che coinvolgono il regista in prima persona; dal momento che si passa dal piano della “ingegneria del gioco” ai suoi riflessi esistenziali più segreti, che scavano dentro il soggetto mettendone in crisi l’immagine pubblica e l’identità sociale e culturale. Non per caso questi due film sono centrati proprio sulla decostruzione di un’immagine non integrata ai canoni sociali del gruppo, e sul perforamento di un’identità che per definizione si riferisce all’immagine dello “straniero”: John Sefton è uno “straniero” nel gruppo al quale appartiene, e la sopravvivenza verrà fatta salva solo nel momento in cui l’estraneità dell’uomo ai valori e agli schemi comuni del comportamento si rivelerà non dannosa per il gruppo. Allo stesso modo lo Sherlock Holmes di Vita privata assume i connotati di uno “straniero” nel mondo in cui vive, il mondo ridotto a un puro fenomeno, a congerie di fatti più o meno “misteriosi” da sottoporre ad analisi. E allo stesso modo la “sopravvivenza” del personaggio di Holmes (messa in pericolo dal fallimento delle sue indagini, che ha oggettivamente favorito il proseguimento del “cri-
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mine” e avvantaggiato il nemico, o, comunque, ha mandato avanti un altro intrigo ordito sopra la sua testa dai Servizi Segreti inglesi diretti dal fratello Mycroft), è tuttavia affidata allo scacco dell’intelligenza, allo scacco dell’individuo che consentirà ad un’istituzione (il controspionaggio) di ottenere un successo usando proprio la sconfitta del detective come una carta vincente giocata contro di lui. In tutti e due i casi il meccanismo è centrato su un elemento estraneo (la spia) che rivela, nondimeno, un’altra e diversa estraneità: l’estraneità di un membro del gruppo (John Sefton, Sherlock Holmes), che viene ricondotta al suo interno imponendo uno scacco al “diverso” che dovrà integrarsi. Non per caso, dunque, lo scacco riguarda proprio la vita privata più che l’impegno pubblico; lo scacco riguarda il fallimento dell’estraneità e della diversità come “caratteri” di una soggettività individuata negli ingranaggi di una “macchina pesante” che si inceppa (il fallimento di Sherlock Holmes ingannato dalla spia tedesca, ma anche il fallimento di Sefton e la frustrazione del “cinismo dell’intelligenza”). In questo ripiegamento nella dimensione soggettiva, esistenziale del gioco; in questa messa a nudo del gioco come elemento portante di una soggettività decentrata dal tessuto sociale; in questa riflessione sulla “ingegneria dell’intelligenza” defilata rispetto alla partecipazione alla vita sociale; in questo isolamento della macchina dell’intelligenza come macchinario sublime del giocare con se stessi e con gli uomini, qualcuno ha visto il mettersi in gioco di Wilder stesso. Wilder che rischia – come Sherlock Holmes – la sua propria immagine, l’immagine di colui il quale costruisce il mondo sulle trame dell’astrazione e dell’immaginazione analitica; come colui il quale assiste alla vita senza lasciarsene coinvolgere, come lo “straniero” che perlustra il paese che lo ospita e lo mette a nudo 3. Da questo punto di vista, allora, lo scacco dell’intelligenza che colpisce Sherlock Holmes è lo scacco derivante dal disadattamento e dall’eccettuarsi rispetto a tutti i ruoli sociali (tranne quello di un assistere da lontano agli intrighi e ai conflitti della società, usando tutto ciò come “materiale” per un’esercitazione intellettuale: la “traduzione” del mondo in una totalizzante “ingegneria delle trame”, e la soluzione dei problemi e del “mistero” della vita come se si trattasse di una partita a scacchi). L’isolamento di Sherlock Holmes è la radice primaria del suo fallimento, dello scacco. Uno scacco che non riguarda più tanto l’insuccesso in 3
Cfr. M. Ciment, Sept réflexions sur Billy Wilder, in «Positif», n. 127, mai 1971.
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un’indagine poliziesca ma la possibilità stessa dell’esistenza; lo scacco che deriva dal mescolarsi di istanze personali (il sesso, l’amore, il desiderio sublimato) con i distanziamenti operati dall’intelletto; lo scacco derivante dal tentativo fallito di tenere l’intelletto al riparo dalla promiscuità della vita, di non impegnarlo se non nelle trame e negli intrighi con la freddezza della ragione (tentativo di fare dell’intelletto lo strumento delle separatezze dell’io dal corpo e dal desiderio, dagli oscuri vitali processi dell’esistenza; che vengono raggelati nella loro “trascrizione” secondo le regole di una concatenazione infallibile della messa in scena). Lo scacco di Sherlock Holmes è dunque legato a una non più sopportabile inappartenenza alla società, ad un impossibile distanziamento operato dal cervello come “strumento delle sublimazioni” in un gioco che si presume indolore. È legato ad un reinserimento nel desiderio (i giorni trascorsi con la donna) e al ferimento del narcisismo (la droga); al tentativo di respingere la confusione e la nebbia (quella di Londra e quella del mistero), e di sciogliere la matassa delle istanze vitali che il cervello non può dominare che in parte, affidandosi ad essa e rischiando lo scacco dovuto alla difficoltà di vedere chiaro tutto ciò che è troppo vicino, tutto ciò che è nella lettera (il desiderio di Sherlock Holmes per Gabrielle Valladon che richiama e sbarra l’omoerotismo sublimato). Lo scacco del detective più famoso del mondo è lo scacco dell’intelligenza abbagliata dalla eccessiva vicinanza del giocare con se stessi, che emerge come un tradimento nel rifugio della più dosata e controllata “vita privata”. Il desiderio sale fino alla macchina dell’intelletto e la inquina; la vicinanza della donna impedisce lo scioglimento dell’intrigo e favorisce quell’altro intreccio di desiderio e di repressione in cui Holmes si è andato a invischiare nel momento preciso in cui ha accolto la donna nella sua casa e nel suo letto vuoto (e nel momento in cui ha cominciato a indagare su un mistero che si complicava quanto più si avvicinava la soluzione; quanto più si andavano complicando e moltiplicando le sbavature nella vita privata e le resistenze a sciogliere un intrigo e una trama non abbastanza distanziati dalla propria esistenza, messi a fuoco da una distanza insufficiente e pericolosa per la propria incolumità). Così l’immagine del cappellino della donna che segnala un “arrivederci” rimane anche l’unico gesto d’amore codificato che attraversa il film come la rivelazione di un’impotenza che prelude alla tragedia finale (la notizia della fucilazione di Gabrielle); e che riconduce al restauro di una “vita privata” nell’intelligenza che plachi il dolore e nell’esaltazione
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fittizia dell’immaginazione sotto uno stimolante (la cocaina). Che salvi per sempre dal cedimento al desiderio e all’emergenza di una vita privata che minaccia l’immagine pubblica di un personaggio saturo delle gratificazioni della letteratura su di sé e dai successi dell’intelletto celebrati nei rituali domestici di un’omosessualità sublimata. Ma sappiamo già che questo personaggio e la sua immagine saranno segnati dalla memoria di un film, questo film, che ne contraddice alcuni tratti salienti. Allo stesso modo in cui la memoria che riaffiorava in Gabrielle Valladon segnava anche il riemergere nel detective di un desiderio represso dal tempo e dalla consuetudine, il districarsi di un ricordo tra gli altri che lo riconducono ai fantasmi del “doppio”; così come la sua vita privata lo costringe ad ammettere un doppio spiacevole della sua immagine pubblica. Per tutto il film Holmes insegue il suo “doppio”. Cede alle memorie della sua vita affettiva assecondando i trucchi di Gabrielle Valladon che finge di scambiarlo per un marito perduto ma non dimenticato, gettandogli le braccia al collo, nuda e indifesa; insegue il marito di Gabrielle, doppio del signor Ashdown, il nome assunto da Holmes nel “viaggio di nozze” simulato, un “viaggio di nozze” truccato e doppiato due volte: incontra il suo doppio nel fratello Mycroft, l’uomo di stato che fallisce di fronte alla regina nell’impresa più importante della sua vita (la costruzione di un sottomarino per fini bellici), ma che tocca il successo liquidando le spie tedesche (e proprio sfruttando l’ingenuità e gli errori, l’appannamento dell’intelligenza di Sherlock e il clamoroso insuccesso che ne deriva). Infine, la sconfitta, doppio di un rimosso che viene sublimato nel gioco sottile e pericoloso dell’intelligenza che guarda se stessa, che osserva senza toccare e muovere, e senza lasciarsi toccare o muovere. Doppio dell’intelligenza che riesce troppo al di là delle “macchine” che bloccano la memoria e la scoperta di una verità del desiderio che emerge.
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Travestimento e truffa Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch, 1955), A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot, 1959), L’appartamento (The Apartment, 1960), Irma la dolce (Irma la douce, 1963), Baciami, stupido (Kiss Me, Stupid!, 1964) Baciami, stupido è un po’ la sintesi del lavorio di Wilder attorno all’“ossessione” del travestimento, un tema presente in tutta la sua fenomenologia e la sua gamma, e in tutte le sue implicazioni psicologiche, sociologiche e culturali. In maniera più o meno scoperta il travestimento funziona come meccanismo del gioco della messa in scena in quanto tale, accompagna e sottolinea spostamenti e diversioni dei personaggi, indirizza e chiarisce le metamorfosi e i mascheramenti, corrode e inverte la staticità dei generi e orienta le dinamiche dei ribaltamenti. È al fondo di uno scorrimento continuo di una pseudoverità all’altra, dal segno di un’esperienza all’altra, da un’armatura caratteriale all’altra; e, alla fine, costituisce una variante dell’adattamento e una denuncia dell’eccesso da adattamento per chi tenta di conquistarsi un posto o un ruolo dal di fuori. Il travestimento appare come qualcosa di assai inquietante, che tocca, da una parte, le dinamiche di certi testi e di una determinata messa in scena (il testo comico, la commedia, la parodia, la satira, ecc.); e, dall’altra parte, una riflessione sull’identità e sulle possibilità dell’integrazione (o, anche, della disintegrazione) sociale, e, eventualmente, il conflitto tra identità, integrazione e successo (e dunque un conflitto tra desiderio e repressione, tra soggetto e società, tra mitologie e condizioni reali di valutazione e di scelta). Proprio per ciò Baciami, stupido diventa un testo “esemplare” sul travestimento e sulla truffa; perché il travestimento non è all’opera nelle sue manifestazioni più vistose, ma, al contrario, riguarda (come in L’appartamento) una truffa che tocca se stessi, la propria identità e la rispettabilità (la propria “immagine”). Per cui, perseverare oltre un certo limite dell’inganno e dello scorrimento delle identità e dei punti di appoggio del soggetto, e scivolare oltre nell’elasticità dell’adattamento, vuole dire perdere la propria “immagine”, negarsi come soggetto individuato da un certo rapporto con le cose e con le persone. Ebbene tutto ciò, il dramma giocato tra eccesso di adattamento e cancellazione di un’immagine di sé che sia garanzia dell’identità; il conflitto tra soggetto e società, tra desiderio e repressione, meta-
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morfosi e inganni, innocenza e corruzione, viene rappresentato da Wilder sostanzialmente in due modi: o come serie di elementi portanti delle dinamiche di una messa in scena prima di tutto (A qualcuno piace caldo, Irma la dolce); o come serie di elementi di una riflessione più profonda sul rapporto tra individuo e società, tra soggetto e codici morali. Niente poteva rappresentare meglio, sul piano formale del film, lo spossessamento della soggettività nel cedimento della propria immagine, il processo di estraneazione di un’identità fatta di un certo rapporto con le cose e con tutto quanto c’è di sociale nel soggettivo, se non gli esterni di L’appartamento o il vagare di porta in porta e lo schizofrenico mutare di luogo di Baciami, stupido. Questo film (fiasco solenne di pubblico e di critica) realizza un’idea “semplice” di Billy Wilder, una convinzione profonda: «credo che vi sia impressa [in Baciami, stupido] una grande verità umana: l’attrazione per una vita opposta a quella che si conduce: una puttana sogna di preparare un pranzo per un uomo e di lavare i piatti. E ad una moglie che ha fatto ciò per vent’anni piacerebbe bere un bicchiere con un tipo che ha appena incontrato, e andare a letto con lui. È in entrambi i casi la fuga di fronte alla routine quotidiana» 4. L’“innocenza” di quest’affermazione cela indubbiamente la rimozione di una verità che è poi quella che ha fatto fallire il film: non si tratta soltanto di prendersi una lunga vacanza dai codici morali, assai forti in un’America puritana ossessionata dalla paura del peccato (tranne l’omicidio e il genocidio). Significa insinuare che i ruoli della moglie e della puttana non sono contrapposti, ma, in realtà, assai vicini se non intercambiabili; e che una puttana in qualche circostanza può anche essere una moglie più sensibile e che sa amare meglio. Kim Novak-Polly “La Bomba” è tanto sensibile che non se la sente di portare a termine il compito per il quale è stata ingaggiata e pagata: travestirsi da moglieputtana e darsi al cantante di grido, Dino Latino (Dean Martin), per ottenerne in cambio il lancio delle canzoni del “marito”. Anzi, si immedesima a tal punto nel ruolo di moglie che vuole essere riamata da Spooner e non vuole tradire l’immagine di questo amore neanche per favorire il successo del marito (un “dramma dell’integrazione”, del cedimento totale alla realtà del travestimento e ai fantasmi del desiderio, che ha un precedente nel cedimento totale di Jack Lemmon-Daphne alla vertigine 4
M. Ciment, Entretien avec Billy Wilder, in «Positif», n. 120, 1970 (trad. it., in AA.VV., Billy Wilder: la classicità della trasgressione, Bergamo, Lab 80, 1977).
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dell’altro sesso – da cui non vuole più tornare indietro – in A qualcuno piace caldo). Viceversa, la moglie di Spooner, Zelda-“Caramella”, è tanto ragionevolmente moglie che si preoccupa dei desideri del marito e del suo futuro, afferra al volo la situazione, si fa passare per Polly e alla fine fa l’amore con il cantante. Sarà proprio lei a ricordare a Dino le canzoni di Spooner, e a pretendere poi le scuse dal marito che ha architettato tutta una serie di inganni e travestimenti, senza pensare neanche per un momento che quando offriva Polly “La Bomba” a Dino Latino era come se offrisse realmente sua moglie, nella sua casa, nel suo letto, in cambio di una mano per “sfondare”. L’equivoco di fondo del film è basato proprio su questo: la svendita malrimossa dell’amore coniugale per ottenere il successo, nell’illusione ottusa di non compromettere quell’amore cinicamente smerciato solo perché si prende “in affitto” un’altra donna e le si fa fare la parte della moglie-puttana. Lo scambio dei ruoli, il travestimento delle identità e dei valori, la cecità di fronte alla mitologia del successo denunciano l’orrore di un mercato che traveste tutto, equiparando tutto e subordinando tutto alla promozione sociale e al denaro comunque ottenuto. Insomma, il “crimine” di Orville Spooner è quello di abbandonarsi non tanto alle mitologie del successo e al sogno della ricchezza (barattando per questo l’immagine di una moglie fedele e amata), ma è quello di giocare a rimpiattino con se stesso e con gli altri, quello di equivocare cinicamente sulle ipocrisie che lo portano ad assassinare un’immagine sostituendola con un’altra che la cancella e la distrugge. In questa messa in scena di tutti i cliché dell’americano medio, la società e gli individui, le istituzioni sacre e i rapporti sociali, le mitologie più care (la famiglia e l’onestà morale) escono a pezzi come i resti di un falso culturale e sociale clamoroso, e vengono ripescati come trucchi da adattamento e come condizioni primarie della sopravvivenza in una società ostile. La spietatezza di questo sguardo lanciato alla società americana e ai suoi “falsi depositi” ha fatto strillare tutta la critica statunitense, indignata per le “menzogne” e per il “cinismo” di questo straniero che si diverte a denigrare la società che lo ospita per dare sfogo alla sua volgarità (e che alza il velo sui miti privati e su balletti sentimentali ridotti a farsa). Quello che Baciami, stupido lancia allo spettatore è il ritmo frenetico del desiderio e dell’equivoco che lo maschera e lo trucca, la metamorfosi dell’inganno e del mercanteggiamento, del trucco e della spregiudicatezza nell’adottare e adattare persone, idee, sentimenti (e in questo senso, il film interiorizza e rivolge all’interno del mi-
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to americano e dei suoi costituenti di base – famiglia, sesso, successo – il ritmo manipolatore di Uno, due, tre!, One, Two, Three, 1961). Il gioco di stanze, l’aprirsi e il chiudersi delle porte, l’entrare e l’uscire di casa, il fermarsi a spiare dalle finestre, insomma tutta una situazione di spostamento e di trasformazione, riducono Baciami, stupido all’ingegneria di un gioco di trappole e di persone, di situazioni e di relazioni, che annuncia un eccesso da adattamento e un cinismo nello scambio e nello smercio che soltanto L’appartamento può evocare. Anche sul piano della messa in scena Wilder raggiunge un gioco di spostamenti, un movimento interno, un giocare a rimpiattino con i cliché e con i materiali stessi sui quali il film fa perno che non ha l’eguale se non nel ritmo allucinato di Uno, due, tre!, o nella meccanica insuperabile di A qualcuno piace caldo; o, infine, nella calibratura perfetta di Non per soldi… ma per denaro. Eppure, in Baciami, stupido c’è qualcosa di diverso, forse qualcosa di più rispetto al ritmo parossistico, alla messa in scena della paradossale velocità dell’efficienza americana di Uno, due, tre!, o rispetto al ritmo narrativo di Non per soldi… ma per denaro. In Baciami, stupido quel gioco tra interni ed esterni, quel mutare incessante della messa in scena, quello spostarsi frenetico da una stanza all’altra, quell’aprire e quel chiudersi di porte (che è l’aprirsi e il chiudersi di una situazione dentro l’altra, il complicarsi di un mondo e il perdersi di un altro mondo), assume un rilievo che rende “astratto” il film; che lo fa diventare un testo sulla metamorfosi e sullo spostamento, un saggio sul deperimento delle identità e sulla cancellatura dell’immagine di sé nella confusione dei luoghi e nelle mutazioni di ciò che vi è contenuto (sentimenti, affetti, rivalità, amori, tradimenti, inganni, trucchi, ecc.). Così, il discorso esce spesso dal testo, dal film, e si pone di fronte allo spettatore, direttamente. Le resistenze e gli impedimenti di Polly, il suo raffreddore proprio quella sera, sono accentuati proprio per “bloccare” le aspettative dello spettatore; e per mettere in movimento un orientamento diverso del desiderio, l’invertirsi della rotta dal cantante di successo al piccolo compositore di provincia che suona canzoni d’amore alla sua puttana-moglie (escludendo dal cerchio intimo, che subito si crea attorno alla coppia, proprio il “terzo”, il rivale, l’antagonista). Così, la puttana-moglie si mette spudoratamente a corteggiare un marito spudoratamente indifferente per “motivi di servizio” e per ossequio della parte orchestrata, un marito compiacente per interesse; e, quel che è peggio, acquista uno spudorato candore e una spudorata illimitata fidu-
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Billy Wilder
cia e ammirazione per quell’oscuro maestro di pianoforte, ignorando il cantante di successo. In qualche modo Billy Wilder salva così un altro mito, quello del focolare domestico come luogo sacro che non può essere profanato. La casa non verrà profanata perché, veramente, la puttana-moglie sarà per tutti (per Spooner, per Dino Latino, e soprattutto per gli spettatori) una moglie-moglie anche se per una sola notte: non sarà un’avventura qualunque, e per ciò potrà dormire nel letto della signora Spooner. La quale, a questo punto, potrà giocare il ruolo della puttana nella roulotte di Polly “La Bomba” e godere di una femminilità piena, del piacere di un fascino diverso in questo travestimento obbligato, passando da moglie “Caramella” a “Bomba da Bordello”. Ad ogni modo, ciò che alla fine viene salvato è proprio l’osservanza dei ruoli canonici e la divisa tradizionale del comportamento: Polly “La Bomba” rifiuterà il denaro di Spooner, perché non si paga una moglie per farci l’amore; Zelda riuscirà a vendere le canzoni del marito e a intascare 500 dollari da Dino, con i quali “ricomprerà” la fede nuziale di Spooner finita al dito di Polly; Dino avrà la sua avventura quotidiana da ipersessuato, e tutto verrà attenuato nel moralissimo finale in cui ogni cosa (persone) tornerà al suo “luogo naturale”: Zelda a casa, dal marito perdonato, Polly di nuovo in viaggio con la sua roulotte, Dino in TV a cantare le canzoni di Spooner. Ma c’è, evidentemente, qualcosa che non può essere cancellato dalla testa dello spettatore; ed è il fatto che Zelda, la moglie-“Caramella”, sia stata realmente a letto con Dino, che sia stata realmente, anche se solo per una notte, Polly “La Bomba”; così come Polly “La Bomba” è stata realmente per una notte una moglie-“Caramella”. Una confusione di ruoli che mette in crisi la loro fissità istituzionale, e che fa del travestimento il viatico per una disponibilità temuta come una catastrofe, che travolge nella critica e nel sarcasmo la staticità della santità dei doveri e intacca una rassicurante repressione del desiderio. Nessuno degli altri film compresi in questo gruppo raggiunge le dimensioni trasgressive di Baciami, stupido. Forse soltanto Irma la dolce ne ricalca lo spirito, nel travestimento e nella finzione che reggono il gioco dell’amore tra il flic e la prostituta, e che mirano al riscatto morale e sociale compiuto in nome del miracolo dell’amore fiabesco. Ma Irma la dolce appare come un film in cui il travestimento diviene veramente lo strumento che presiede al mutare delle identità sul piano della fabula; una trasformazione obbligata per il flic che non sopporta di dividere la sua donna – anche se prostituta di professione – con i suoi
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clienti (ma che, nondimeno, non vuole farglielo credere, in omaggio all’immagine di “protettore” che gliel’ha fatta conquistare). Per cui è costretto ad inventare un altro diverso se stesso, un personaggio innocuo che prende il posto di tutti gli altri clienti, e che reclami la donna tutta per sé tenendola lontana dal marciapiede. L’imprevedibile risvolto di questa commedia delle identità e del desiderio è che Irma comincia ad interessarsi troppo al misterioso e fantomatico Lord X, e che il flic si trovi realmente sdoppiato nell’amore diviso di Irma: l’amore per lui, Nestor Patou, che ha già rinunciato alla sua identità e al suo ruolo di flic (e che di notte fa lo scaricatore al mercato delle Halles per procurarsi il denaro da dare a Irma come Lord X), e l’amore per il Lord che parla di sé tutta la notte giocando alle carte con la prostituta in una stanza d’albergo. Lo scambio di persona, l’identità fittizia, l’occupazione della vita di un altro sono inquietanti e diventano un incubo perché mettono in pericolo la propria immagine, suscitando reazioni a catena che non possono essere più controllate. Letteralmente, costituiscono una seria minaccia, la minaccia di una perdita dell’io nello sdoppiamento e nella scissione, nello smarrimento di chi vive due vite diverse, una di notte e una di giorno. Elementi, questi, che si ritrovano anche in L’appartamento e in Quando la moglie è in vacanza anche se con accenti e soluzioni diversi. In L’appartamento la truffa e il raggiro, la compiacenza e la corruzione stigmatizzano una situazione in cui il tema del travestimento è direttamente legato al tema della perdita dell’identità. Qui, come del resto in Baciami, stupido, l’identità appare affidata ad alcuni luoghi simbolici che la delimitano e ne segnano i confini soggettivi e l’estensione sociale. Se la carriera e l’integrazione alle mitologie della promozione sociale impongono la cancellazione del desiderio e la riduzione ad una medietà uniforme del comportamento, allora è possibile scivolare lungo i percorsi tortuosi di un adattamento che è tanto più insidioso quanto più sgretola l’identità. È l’eccesso da adattamento – oltre che la mania e l’angoscia dell’adattamento – che ogni “straniero” (e Wilder in primo luogo) sperimenta, a condurre al polverizzarsi dell’identità nella cessione continua di luoghi, connotazioni e circostanze che tracciano la tramatura del soggetto in un’immagine legata a dettagli ricorrenti che vanno salvaguardati. La cessione dell’identità rappresenta dunque la conseguenza di un travestimento che sottrae al soggetto lo spazio e la “figura” della propria immagine privata e pubblica, mano mano che lo modella
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secondo i canoni voraci dello standard stabilito dalle condizioni sociali del successo come premessa dell’espropriazione della soggettività. Così, il travestimento – come variante della flessibilità e della duttilità eccessive del soggetto nei confronti dei valori e delle pratiche stabiliti dal “boxoffice” e dallo “show-business” – segue ad una realtà dell’integrazione, che, paradossalmente, si fonda sulla disintegrazione dello spazio privato del soggetto e della sua immagine spappolata dietro le tensioni che crescono al suo esterno; e che sottraggono la proprietà e i connotati stessi dell’identità. La “vertigine dello scambio” indica metaforicamente un’irresistibile intercambiabilità del “mercato delle scelte” che nell’Appartamento è particolarmente evidente come rapina della soggettività da parte delle mitologie della società contemporanea (la carriera ad ogni costo); e che, viceversa, in A qualcuno piace caldo assumono la connotazione di un puro giocare delle maschere del desiderio nella perlustrazione dei sessi e nell’interrogazione sulle “diversità” e sulle “opportunità” legate ad una differenza poi non così insormontabile che il travestitismo non possa alla fine aggirare nel gioco e nell’adattamento di virtualità insospettate. Così le differenze dei sessi vengono perforate dal gioco della maschera e dagli artifici del trucco, dalle esplorazioni di un universo dell’alterità che è il gioco su cui si fonda la parodia delle classificazioni culturali più “fondate” e il gioco della messa in discussione dei generi cinematografici (dal film poliziesco alla commedia rosa). L’intercambiabilità viene vista come il sogno realizzato nella maschera di una liberazione dalla “civiltà”, e come il conseguimento di una pura realtà del desiderio e del gioco. Un giocare che mescola le differenze e le identità in una vertigine della finzione che riguarda l’arte e il desiderio, la sublimazione e la perforazione di tensioni inconsce fatte affiorare nel comico e nella dilatazione della commedia come “genere classico” del trucco e della diversione, della dilazione e dell’elusione, dell’inseguimento continuo di un’identità nelle metamorfosi che differiscono la meta: e nello scorrimento incessante che sposta una “presa sul reale” continuamente elusa, rinviata, spostata. La “macchina del gioco” diviene messa in scena di un travestimento incessante saldamente motivato dalle esigenze della fiction; e ancora più motivato dal godimento di una “finzione” trasportata nell’esistenza e nel quotidiano come desiderio di oltrepassamento del limite e moltiplicazione dei piani e delle possibilità, dei ruoli e delle opportunità, delle scelte e delle pulsioni. Ricostituzione di un universo del fantastico in cui
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lo spazio e le “figure” del travestimento appaiono come l’eden ritrovato di una confusione primaria non minacciata da un “principio di realtà” che non sia quello del rispetto delle regole della messa in scena. Una confusione primaria in cui il piacere del gioco e il gioco del piacere non sono sbarrati dall’immagine del soggetto bloccato nelle sue disponibilità potenziali, e aperto invece alla dilatazione dei fantasmi dell’inconscio e del desiderio senza argini. Argini che, al contrario, come nota acutamente Alessandro Cappabianca, sono messi in crisi proprio dalle condizioni sociali e culturali della decadenza della piccola borghesia. A proposito di Quando la moglie è in vacanza Cappabianca scrive: Come tutti gli eroi wilderiani, Sherman è un eroe della presa alla lettera. Se caratterizziamo la borghesia (specialmente la piccola borghesia) come la classe sociale che porta più avanti di tutte le altre il processo di auto-spossessamento della propria vita in funzione dei vari feticci (feticcio-lavoro, feticcio-famiglia, feticcio-salute, ecc.) che risultano funzionali alla griglia di “divisione dei compiti” che il tutto sociale in quel momento cerca di darsi per la sua stabilità, allora Sherman è tipico, poiché si porta il lavoro a casa, manda la famiglia in villeggiatura, rinuncia a bere e a fumare in modo di conservarsi la salute e poter continuare a portarsi il lavoro a casa, mandare la famiglia in villeggiatura, ecc. ecc. Ma è anche vero che la férie (estiva o no) del piccolo borghese classico fa emergere ciò che non è possibile tenere eternamente imbrigliato nel sistema della griglia, ossia il desiderio, la trasgressione sessuale: questo, tacitamente, accade, ma non è previsto. Sherman è un personaggio wilderiano, e dunque a-tipico, proprio perché ha introiettato così profondamente la lettera del processo di autospossessamento proprio alla sua classe sociale da non osare infrangerla neppure quando tutte le circostanze esteriori spingerebbero in quella direzione. Di fronte a Marilyn che bussa alla porta, Sherman si rifugia nell’immaginazione, e tramite l’immaginazione si imbatte nei materiali depositati proprio dal cinema a livello di inconscio collettivo; del resto non poteva essere che così, se è vero che nello scontro realtà/immaginazione, la rappresentanza stessa della realtà è qui cinema (è Marilyn Monroe!) esattamente come l’immaginazione 5.
Ecco, in questo lucido e stringente tratteggio del destino culturale della piccola borghesia, Cappabianca sintetizza felicemente la filmografia wilderiana e la sua capacità di concentrare le ossessioni di un’intera classe sociale, i fallimenti di una storia della civiltà legata all’ascesa della bor5
A. Cappabianca, Billy Wilder, Firenze, La Nuova Italia, 1976, p. 52.
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ghesia industriale e alla trasformazione del mondo operata da essa (il mondo dell’immaginazione oltre che quello della realtà sociale); nell’allucinazione come condizione primaria di una visione spostata e “malata” del soggetto e della sua identità. L’analisi di Cappabianca corre parallela all’analisi dei meccanismi della società americana che il cinema (e il cinema di Wilder in particolare) mette in scena prendendoli alla lettera; e la sua intuizione critica non poteva essere più feconda: la testualità wilderiana si basa sulla presa alla lettera del mondo in cui si vive, si realizza nel quadro fedele di questo mondo, rinuncia al commento e alla “critica” come rinuncia alla “rappresentazione fedele” e alla “riproduzione del reale” (e come rinuncia alla “verosimiglianza del realismo” come illusione di salvezza dalla lettera e dal “senso” nella direzione opposta del “vero del reale”). Al contrario, Wilder esaspera i meccanismi della finzione e della messa in scena della lettera, esalta il lavorio della trama e la messa a punto del macchinario della sceneggiatura e dei dialoghi, proprio perché la logica della messa in scena e l’ingegneria delle trame si basano sulla fedeltà alla lettera delle regole del gioco sociale e dei modelli dominanti della cultura. Contro la quale non valgono le anti-ideologie della “critica” o le “crudezze” della rappresentazione realistica, dal momento che il loro “mestiere” non è l’elaborazione di una fenomenologia attendibile né la restaurazione della lettera di una produzione del senso, la lettera di un meccanismo spietato nella sua regolarità ossessiva. Questo “prendere alla lettera” la macchina del gioco sociale e culturale, questo ridurre la società e la cultura a macchinario che produce le regole del gioco, è alla base della costruzione di personaggi come il Sefton di Stalag 17 (personaggio che prende alla lettera la struttura mercantile della società); è alla base della costruzione del personaggio di Sherlock Holmes (che prende alla lettera il gioco d’incastro del mascheramento della verità al punto tale da elaborare un gioco perverso di specchi che dissemina e allontana, trucca e rimuove certe “verità” emergenti); ed è alla base della maniera wilderiana di restituire il tessuto dei rapporti sociali (e dei film) come gioco e come travestimento. Trucco, travestimento, gioco, mistura di ingenuità e corruzione, decentramento della soggettività e dispersione dei valori, intrigo e raggiro del denaro e della sessualità, della rimozione e del disvelamento del desiderio, sono, esattamente, la lettera di un gioco testuale che è imperniato anche sul rovesciamento dello stereotipo e dei moduli classici della messa in scena; confermando proprio la lettera di una finzione totale che riguarda lo statuto effettivo delle dinamiche
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del valore socioculturale come pure lo statuto effettivo delle dinamiche del testo e della messa in scena. Allora, si capisce bene perché Sherman, il protagonista di Quando la moglie è in vacanza, assuma l’immaginazione come travestimento del desiderio e come trucco e differimento delle auto-censure, in un gioco apparentemente scontato tra desiderio e repressione e tra immaginazione e censure; ma in realtà realizzando un piano dell’elusione del desiderio e della repressione delle pulsioni che autorizza l’idea della presa alla lettera di uno spossessamento della soggettività operato dall’inganno di una cultura che resista allo sfacelo nonostante tutto. Questo sfacelo di una classe intera, la piccola borghesia, che, come notava Cappabianca, punta al travestimento del desiderio e alla sostituzione degli stimoli vitali con i feticci dei ruoli e con lo stereotipo delle mitologie diffuse (la famiglia, il lavoro, la salute, la morale); che non sono altro se non il senso prodotto dalla lettera di una truffa di fondo, quella che sta alla base dei processi di adattamento alle conformità dominanti. Ancora una volta, dunque, i temi più cari a Wilder parlano di questa “lettera” del dominio culturale, svelandone le reali iscrizioni nel corpo sociale e nel soggetto. E proprio mettendo in scena l’elusione e il differimento della lettera stessa nel gioco e nel travestimento, nella truffa e nel raggiro, nell’inganno e nel crimine. E usando questi cliché come la maniera di una stereotipizzazione estrema che colpisce la lettera dei generi cinematografici assieme alla lettera dei cliché socioculturali.
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Billy Wilder
Innocenza e inganno Frutto proibito (The Major and the Minor, 1942), Non per soldi… ma per denaro (The Fortune Cookie, 1966), Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? (Avanti!, 1972), Prima pagina (The Front Page, 1974) Il “frutto proibito” del 1942 è proprio l’innocenza come dato che motiva un divieto e la repressione del desiderio, il desiderio di un uomo maturo per un’adolescente; così come è un “frutto proibito” l’inganno, quella variante del gioco tra l’adolescente e l’adulto che nasconde il piacere del travestimento, dell’occupazione del posto di un altro (Ginger Rogers è una falsa adolescente); e che dà luogo alla diversione e all’elusione come “motori” classici del gioco della commedia e delle spirali dell’inconscio. Fin da questa “prima prova” come regista, Billy Wilder espone le tematiche a lui più congeniali, l’innocenza e l’inganno come poli di attrazione dinamica che restaurano le contaminazioni del gioco quotidiano del desiderio e della repressione tramite il canale del travestimento e della maschera. La maschera adottata da Ginger Rogers è proprio quella dell’innocenza (la minore età come dato anagrafico che riconduce ad un divieto, e, così facendo, salda in un filo doppio l’impedimento e l’infrazione del limite; anzi, l’impedimento e l’attrazione contraria come motore della trasgressione). Una maschera che cela una doppia verità e una doppia attrazione: l’adolescenza come finzione codificata dell’innocenza (e come sbarramento ambiguo e come occlusione dell’accesso al desiderio), e l’adolescenza come messa in scena deviata (inganno della cultura come macchinario che presiede alla fabbrica delle sublimazioni) di una flagranza del desiderio; che viceversa, poggia proprio sul divieto e sull’immaginazione perversa che ne scandisce il rimosso. Sulla maschera e sul travestimento di Ginger Rogers si innestano dunque i meccanismi che delimitano il campo e l’esercizio del desiderio, e che addestrano alla repressione e alla censura; una censura tanto evidente da tenere in piedi il gioco delle attrazioni per il proibito e la delusione conseguente al disvelamento della viabilità al desiderio una volta regolamentato. Desiderio che ha ormai perso le spinte propulsive dell’illecito e del perverso come gioco giocato in segreto con se stessi e con le proprie inconfessate pulsioni tenute sul filo delle rimozioni che ne sbarrano l’affiorare e l’accesso. Quando al maturo Maggiore Kirby
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verrà consentito di sposare Susan, emergerà un calo di tono impercettibile del desiderio, perché l’energia dispiegata nel gioco dei divieti verrà dissipata nella rivelazione di un inganno che apre le porte alla delusione e al disarmo di quello stesso desiderio. L’adolescente si rivela una donna, e dunque pone fine al gioco tra lecito e illecito, tra attrazione e censure, eliminando proprio quel conflitto tra innocenza e inganno che è il motore della vicenda segreta del film. Ma il conflitto tra innocenza e inganno non è che una variante del conflitto tra lecito e illecito, tra chiaro e scuro, tra legge e crimine, tra raggiro e disvelamento, che scorrono per tutta la produzione di Wilder, e che trovano una compiuta esplicitazione in film come Non per soldi… ma per denaro, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?, Prima pagina. D’altra parte, l’innocenza e l’inganno non sono altro che gli “ingredienti della truffa”, le condizioni di base su cui si regge la truffa in quanto mascheramento e simulazione di una “verità innocente”, dunque senza aggettivi. Ebbene, il dato comune che apparenta questi quattro film è dato dal “balletto” dell’innocenza e dell’inganno, dalle ostili sfumate relazioni che li saldano assieme e che ne esplorano la continuità nel magma indistricabile della truffa (che è il sipario dietro il quale l’innocenza e l’inganno si scambiano le parti e diventano irriconoscibili, indistinguibili, pure variazioni di una sostanziale equipotenzialità dell’accesso al desiderio e alla mitologia della cultura; accorgimenti che accompagnano il raggiro come uno degli elementi portanti dell’affermazione del soggetto di fronte ai condizionamenti della società). Ed è ovvio che quando i condizionamenti e gli sbarramenti distinguono e oppongono, spezzano in due la continuità del lecito e dell’illecito giocata su una sottile impalpabile frontiera, dividendola in due blocchi contrapposti e sdoppiando la poliformità del soggetto in caratteri fissi (l’innocente e il truffatore) – che sono i caratteri su cui si gioca la commedia e la messa in scena della contaminazione –, allora soltanto il ricorso alla corruzione e alla fagocitazione dell’altro possono ristabilire quella sostanziale parità tra lecito e illecito che si trova mescolata nel desiderio e nelle pulsioni del soggetto. Così la messa in scena procede mettendo a confronto i caratteri fissi dell’ingenuo e del truffatore per oltraggiarli e contaminarli; per farne i veicoli di un’insostenibile esclusione e separatezza che appartengono al codice della cultura e della legge ma non alla sfera ondulata del soggetto. Non per soldi… ma per denaro esemplifica questa spartizione del mondo tra innocenti e truffatori, e mette in scena proprio la continuità
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delle attrazioni e delle metamorfosi, la realtà di una corruzione che riaccosta gli opposti nel “piacere del crimine” e dell’illecito, nelle infrazioni della legge e del codice morale. C’è una sequenza significativa all’inizio del film che “certifica” questa continuità tra legalità e truffa, tra simulazione e verità; e che indica quanto e come questi valori morali facciano ormai parte di quella schiera di feticci inagibili tanto più inefficaci quanto più apparentemente dominanti. Willie Gingrich (un Walter Matthau in gran forma) ruba dalla cassettina delle offerte per ragazze-madri il nichelino che egli stesso aveva donato, semplicemente perché ne ha bisogno per fare una telefonata. Questo atteggiamento è caratteristico del ritratto che Wilder sbozza dell’uomo di legge, o dell’assicuratore o del tutore dell’ordine, che prende alla lettera la pura convenzionalità del lecito o la convenienza dell’illecito, a seconda che l’uno o l’altro si rivelino come la strada migliore da battere secondo le opportunità, gli interessi e le circostanze. Tutto il “sapere” e il “potere” di questi professionisti può servire dunque, all’occorrenza, a truffare o a fare un lavoro pulito; e l’intrecciarsi di queste eventualità, di queste possibilità aperte, è la molla che regge “la filosofia” di Wilder e il suo cinema, è il suo modo di restituire alla società americana l’immagine di una maniera di vivere e di sentire agganciata dai miti e dalle coperture dell’ideologia o della morale: sganciata cioè dalla maschera che cela il travestimento sempre possibile attraverso cui passano le realizzazioni del desiderio o dei bisogni. Non per soldi… ma per denaro (orribile titolo italiano per The Fortune Cookie) illumina questo universo dello scambio ininterrotto tra onestà e corruzione, tra intelligenza e truffa, tra piacere del gioco e piacere del crimine, come presa alla lettera della realtà su cui si fonda una società che usa le censure come moderazione di conflitti troppo forti, e che salvaguarda il potere di chi gioca con carte truccate alla perfezione. L’innocenza e l’inganno si distribuiscono equamente mediante opportuni accorgimenti e falsificazioni nella lotta per il denaro e il successo che muove tutti i personaggi di questo film: Willie Gingrich che persegue con lucidità e astuzia legalistica il suo piano (consistente nel truffare l’assicurazione costringendo il cognato a fingersi paralitico dopo un banale incidente); Harry Hinkle (Jack Lemmon) che è manipolato e sta al gioco, perché nel frattempo anche lui sta truffando se stesso (non solo inganna l’amico Boom-Boom Jackson che ha involontariamente provocato il leggero incidente, ma si illude di recuperare la moglie con la commedia dell’invalidità e il miraggio della ricchezza che ne deriverà); gli avvo-
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cati dell’assicurazione che colpiscono sotto la cintura assoldano un detective privato dotato di cineprese e microfoni per provare la simulazione di Harry; la moglie di Harry che mangia la foglia e truffa il marito per ottenere il denaro e tornare a cantare. Infine la truffa finale, truffa dell’ambiguità, dal momento che Harry decide di “cedere” perché disgustato di questo mostruoso raggiro che si ritorce contro di lui (e che coinvolge e mescola troppi personaggi e troppe situazioni, troppi interessi incontrollabili da cui non potrà cavare niente di buono; o, meglio, da cui non otterrà l’unica cosa che desidera: l’amore della moglie). Per cui la “reazione” di Harry Hinkle non è motivata dal “fascino dell’innocenza” e dell’onestà, ma dall’impotenza a governare la truffa di cui è comprimario, e che gli ha fatto sprecare inutilmente energie e illusioni. Allora, la scelta finale è una scelta difensiva, e la partita con l’amico negro nello stadio deserto non ha altro significato se non quello del rifugio nel cantuccio di un gioco “innocente” che salda due uomini soli delusi dal loro fallimento; due uomini che hanno già perduto la loro partita di fronte al pubblico (la società) e che regrediscono a giocare come bambini non proprio innocenti. Come Baciami, stupido, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? (altro orribile titolo per Avanti!) nasce da una miscela di ingenuità e astuzia, di innocenza e spregiudicatezza; dal mascheramento e dall’elusione della verità su se stessi per privilegiare un’immagine posticcia, la maschera del perbenismo e dell’ossequio alla morale da esibire in pubblico come un abito di ottimo taglio. Come Baciami, stupido, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? è la storia di un’“educazione alla vita”, oltre che un’“educazione sentimentale” e una scoperta delle proprie contraddittorie tensioni per l’“altra faccia del mondo”. Come Baciami, stupido, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? si costruisce su un movimento incessante dei personaggi, in un bussare di porte e in un entrare e uscire da stanze d’albergo, fino a che si realizza il “movimento” centrale del film, quando Wendell (Jack Lemmon) chiede a Pamela (Juliet Mills) «Permesso?», prima di baciarla, e Pamela apre le braccia e risponde «Avanti!». Anche questa volta abbiamo un film sul disvelamento di codici morali e comportamentali che si scoprono come barriere assolutamente arbitrarie adottate secondo interessi di classe e di gerarchia (se non addirittura di casta). Wendell Armbruster Jr. lotta per tutto il film contro Pamela Piggott e l’istintività che lei rappresenta; lotta contro l’Italia e il fascino
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di una “diversità” sconvolgente nei toni e nei ritmi («l’Italia non è un luogo turistico, è un’emozione», come recita la guida turistica di Pamela); contro la burocrazia che intralcia i suoi programmi di uomo d’affari e lo obbliga a “sporcarsi le mani” con un mondo che detesta e di cui non capisce (o non vuole capire) le regole e tantomeno le ragioni; contro la flessibilità condiscendente del direttore d’albergo, Carlucci, una sorta di mago che governa il balletto che si svolge nelle stanze, questo amministratore e dispensatore delle rivelazioni e delle scoperte che Wendell consuma a poco a poco (sia sul conto del padre sia sul conto degli impedimenti reali che si oppongono al trasferimento della salma). Wendell lotta contro se stesso perché non vuole riconoscere di assomigliare al padre, o, meglio, non vuole rischiare di assecondare il desiderio (come il padre, al contrario, ha fatto); lotta contro il desiderio di lasciarsi andare a questa “realtà torbida” della vita che le allusioni di Pamela e i sotterfugi di Carlucci gli fanno intravvedere; e lotta contro l’immagine che ne verrebbe del padre perché rifiuta la possibilità di poter fare come lui. «È in fondo una storia d’amore tra un figlio e suo padre» ha dichiarato Billy Wilder 6. Una “storia d’amore” che stempera la superbia e la freddezza allucinata del figlio e lo accosta alla vera vita del padre (e proprio di un padre che egli non ha mai conosciuto veramente, e che avrebbe rifiutato se solo gli fosse stato possibile: un uomo che passava un mese all’anno ad Ischia con una donna che non era la moglie, un uomo molto diverso dal Presidente delle “Armbruster Industries” così come Wendell lo ha conosciuto). Il viaggio di Wendell Armbruster Jr. si trasforma così da freddo e distaccato “ufficio” di straordinaria amministrazione (il recupero della salma del padre morto a Ischia per un incidente automobilistico) in un compito arduo da portare a termine. Che non è tanto rappresentato dagli impedimenti della story (le difficoltà burocratiche, la piccola corruzione dei funzionari, i raggiri e le estorsioni, il trafugamento del cadavere e il riscatto, ecc.), quanto da ciò che accade in questa dilatazione materiale del tempo trascorso in Italia e dalle occasioni e dalle esperienze che vi si distendono; e che trasformano l’accidente (il rapido volo iniziato in tenuta da golf) in un viaggio vero e proprio, con tutte le asperità e gli ostacoli del viaggiare, con il coinvolgimento di tutte le esperienze e conoscenze e capacità che il viaggiare mette in gioco. Il viaggio riguarda molte cose, riguarda la scoperta del passato, la trasformazione dello 6
M. Ciment, Entretien avec Billy Wilder, in «Positif», n. 155, 1974.
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stereotipo paterno (quello adottato per le 216.000 persone che parteciperanno ai funerali), l’immagine convenzionale e impersonale di una commemorazione funebre che il figlio detta al magnetofono portatile («Wendell Armbruster Sr. era un uomo all’antica, nel più nobile senso della parola; in questi giorni di disfattismo e di disillusione era uno che credeva nei doveri verso il suo Paese, nella devozione verso la famiglia, nella dedizione al lavoro»). Il viaggio riguarda dapprima un incubo (la caduta del “mito del padre”) e poi la formazione di un modello più umano di vita; che comporta, tuttavia, l’abbattimento di tutta una serie posticcia di valori e di illusioni, e il cedimento a ciò che fino a quel momento si è disprezzato e combattuto, che si è avversato per difendersene. In questo viaggio nel passato, in questa ricerca forzata dell’immagine paterna, Wilder riscopre anche l’“arte perduta” di un sentimento diverso recuperato dalla tomba delle memorie, restaurando un’“aura” lubitscheana con un candore e una finezza di tocco che testimoniano ancora, dopo tanti anni di magistero, il rimpianto per l’arte del “maestro” e il desiderio di rendere omaggio al suo “tocco” ineguagliabile: un’occasione per ombreggiare una storia d’amore tra “sentimento” e “linguaggio” nei colori della pellicola e nella tradizione del cinema classico. Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? sposta verso traguardi più avanzati quella «teoria della mescolanza» di cui Billy Wilder parla nell’intervista rilasciata a «Positif» 7, basata sulla convinzione che la realtà non si può spaccare in due, in bene e male, in bianco e nero, in innocenti e truffatori; ma che, al contrario, si ritrova nelle fluttuazioni o nelle gradazioni di una continuità di fondo tra bianco e nero, nei toni di un grigio che sta a rappresentare il flusso continuo dell’esperienza, la “lettera dell’esperienza” contro le immagini dell’ideologia e l’impero dei significati stabiliti dai modelli culturali dominanti (ideologia e significati che certamente vengono coinvolti nella “messa in scena del grigio”, ma non come mondi contrapposti già elaborati e classificati, enunciati come valori fissi, bensì prodotti dal lavoro costante del testo, dallo scorrere ininterrotto del film, dal lavorio sordo della “macchina” della messa in scena) Che cosa è suc7 «Abbiamo abbandonato un po’ il manicheismo, il nero e il bianco, la storia del pulitore di vetri e della principessa. Si è scoperto il grigio e le sfumature del grigio. Il cinema comincia ad approfondire i personaggi. Spesso si crede che la novità siano i movimenti di macchina, mentre c’è l’esplorazione dell’individuo, i rapporti tra i personaggi, la discussione dei problemi in modo più complesso» (M. Ciment, Entretien avec Billy Wilder, in «Positif», n. 120, 1970, trad. it. in AA.VV., Billy Wilder: la classicità della trasgressione, cit.).
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cesso tra mio padre e tua madre? è il film del coinvolgimento e delle metamorfosi, di una sottile violenza giocata dall’occasione della morte alle certezze illusorie dei vivi, ai loro interessi. Film del complotto contro i sarcofaghi della tradizione e contro l’ottusa volgarità dei potenti e dei dominatori, contro il disprezzo e contro la violenza di un neo-capitano d’industria che tratta il mondo intero come palestra per i propri esercizi e come palcoscenico per esibizioni autoritarie. Come dice Pascal Kané, il massimo che è consentito strappare all’universo di Hollywood è questa significazione sotterranea inscritta nel film, ma rigettata allo stesso tempo fuori del suo piano enunciativo, fuori della sua lettera dunque. Si tratta di tutta una serie di significati che si fa strada a partire dalla funzione che assume la morte in questo film. La morte presente materialmente in un cadavere rimosso e occultato, attorno al quale ruotano le tensioni della fiction e i percorsi della trama narrativa; la morte non come riflessione metafisica o gioco raffinato e lusso culturale delle classi dominanti – tema molto caro alla borghesia – ma distesa nelle «forme socializzate della sua esistenza (a partire dal fatto che un cadavere è qualche cosa di interamente amministrato dalla legge e che non ha lo stesso valore per quelli che lo seppelliscono)» 8. Ora, ciò che distingue positivamente Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? è proprio il modo in cui Wilder fa funzionare questa morte e questo cadavere. Nucleo centrale della macchina della finzione, attorno all’intrasportabilità, intoccabilità e impraticabilità del cadavere (amministrato, dunque, dalla Legge come simulacro di un significato sociale e culturale della morte su cui il potere mantiene un controllo rigido e una giurisdizionalità inflessibile); e attorno all’inaccessibilità alla morte tramite l’inaccessibilità ad un cadavere, si muovono le piccole storie private di una miriade di personaggi che rivelano il triplice valore di scambio della Morte Amministrata dalla Legge. Intanto il suo valore economico (il trafugamento del corpo da parte dei fratelli Trotta e il riscatto che il figlio dovrà pagare per riavere il cadavere e poter ripartire; il che, secondo Kané, costituisce una metafora della lotta di classe e una fase nella riappropriazione di una parte delle sostanze che i colonizzatori hanno sottratto ai colonizzati); in secondo luogo il suo valore politico (il trasporto del cadavere mette in piedi tutto un gioco di corruzioni che si concludono con l’intervento pesante del Dipartimento di Stato Americano; che introduce alla rivelazione dell’effettiva dipendenza dell’Italia da8
P. Kané, Sur Avanti, in «Cahiers du cinéma», n. 248, 1973, p. 46.
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gli U.S.A., alla stregua di un paese del Terzo Mondo); infine il suo valore ideologico, consistente “nella maniera di far significare il cadavere, di riutilizzarlo, ribattezzarlo, trafugarlo”. Di modo che attraverso il simulacro della morte che appartiene alla Legge si affrontano “due strategie e due discorsi”: quello di Armbruster Jr. che usa la morte e il cadavere come occasione per consolidare una certa immagine dell’America di fronte ai dipendenti e agli “Amici della Ditta”, e quello di Carlucci «più sottilmente mistificatorio e nazionalista, e che non fa altro se non mascherare la verità a proprio beneficio (quello della borghesia nazionalista)» 9. Ma c’è ancora un altro modo di far funzionare la morte e il cadavere, al di là di questo legittimo – sia pure sotterraneo e non esplicito – discorso sull’imperialismo economico, politico e culturale degli U.S.A. in Italia, ed è quello – indicato da Alessandro Cappabianca – del riconoscimento di Wendell e Pamela di fronte alla morte (che si spinge ben oltre l’abbattimento di un altro imperialismo, quelle delle convenzioni e delle mitologie più aberranti, che immobilizza Wendell Armbruster Jr.: «Di fronte ai cadaveri dei genitori, Wendell e Pamela ne prendono il posto, nella catena significante della “jouissance”, che la morte non interrompe, e nella correlativa catena del rimosso e del rimorso» 10). Ancora una volta Cappabianca ha centrato il cuore del problema e dei significati, e ha attinto la profondità del tema e della vicenda nella morte e nel cerimoniale di fronte alla morte. Prendere il posto dei cadaveri, metonimicamente, è ancora una volta un modo di far funzionare la morte e la sua legge, è un modo – come dice Kané – di «far significare» questa morte e la Legge che la amministra. Ed è proprio quest’attenzione al piano ormai scoperchiato dei “significati” che più colpisce in questo film. Dietro la felicità di narrare wilderiano, dietro l’eleganza del girare, dietro l’impasto straordinario di un colore che recupera tutte le gradazioni del sentire e la continuità degli affetti e degli atteggiamenti contraddittori, nonché la sostanziale equità tra innocenza e inganno e tra legge (che regola il lecito secondo l’interesse delle classi dominanti) e crimine (che è la continuazione e il perforamento della lettera della legge); dietro la magistrale prova di Jack Lemmon e di Juliet Mills c’è questo strato spesso e denso dei significati wilderiani, questa riflessione sull’inevitabilità dell’inganno (e dell’ingannare se stessi – la vita e la storia – nell’immagine che sostituisce il mondo, nell’immagine che è il signifi9 10
Ibidem. A. Cappabianca, Billy Wilder, cit., p. 94.
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care difeso da un’armatura). Riflessione sulla violenza dell’innocenza o sulla falsità e dell’innocenza e della giustizia. In questo film nulla è innocente e nulla è giusto, tutto è confuso nella mistura dei conflitti dell’esistenza e delle maschere del desiderio; tutto è in questa “pedagogia del complotto”, in questo campo da gioco del lecito che è un albergo di Ischia; nella negazione continua dello stesso travestimento e della truffa perché non più sufficienti a motivare una rinuncia una volta raggiunti determinati obiettivi. Allora, prendere il posto di un altro, al di là del decentramento del soggetto e dello spossessamento delle identità, e indossare gli abiti dei genitori o bere e mangiare allo stesso modo e dormire nello stesso letto, significa alla fine far funzionare la morte come luogo di un’altra legge, come una rieducazione alla vita che passa attraverso l’infrazione di certi obblighi sociali, e la messa di lato della maschera dell’identità pubblica, il farsi luogo del desiderio. Per questo, «la morte riscalda», come dice Cappabianca, ma riscalda perché ha insegnato a vivere nello spostamento su piani diversi. Rinunciando a tagliare le esperienze a metà, per accettare l’ambiguità di ogni scelta e di ogni schieramento e passare cinicamente dall’uno all’altro come dal chiaro allo scuro, oltre le ideologie e la morale del mondo. La morte riscalda se, partendo dall’universo della legge fa scoprire ancora il cantuccio privato del piacere di un adattamento certo assai “ragionevole” ma non più sconvolgente e drammatico come nei film precedenti. Con Prima pagina Wilder sembra tornare a dipingere un quadro cupo della voracità e della violenza, della corruzione e della prevaricazione in una società che appare rinchiusa in se stessa e su se stessa, intenta a sbranarsi e a distruggersi. Dietro il gioco perfetto delle battute, dietro il ritmo incalzante di una messa in scena impeccabile si intravvede un’America spaurita, dilaniata dai conflitti e piegata dall’insicurezza e dal terrore della Grande Depressione. Ancora, Wilder trova il modo di ritrarre come su un vetro le ansie e le incertezze di una società in crisi, esponendone alla luce i meccanismi che ne regolano il funzionamento e ne indirizzano la violenza esplicita nei momenti difficili. Così, il gioco che appare in superficie non è che la tramatura di un groviglio oscuro dei rapporti umani deviati verso la sopraffazione e il cinismo, verso la messa a nudo di una conflittualità allo stato puro che le sublimazioni culturali non riescono più a contenere e a camuffare. Wilder, come aveva fatto in L’asso nella manica, torna a parlare dell’apparato dell’informazione, dei giornali e dei giornalisti, della mitologia della notizia e della manipolazione del pubblico. Ma, diversamen-
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te da L’asso nella manica, in Prima pagina l’accento non viene posto più sul meccanismo dominante della “gara sociale”, sulla molla che muove l’antagonismo e la sopraffazione all’interno di uno stesso gruppo sociale, o sulle mitologie che spingono e alimentano gli sforzi per “sfondare”. Wilder non mostra qui un mondo alimentato dalla spettacolarità del potere nella dimensione del successo; non ritrae il potere come sovrastruttura, o, per meglio dire, non ritrae gli “effetti collaterali” del potere e del dominio della merce, l’illusione di salire in alto e occupare una posizione da cui soddisfare il narcisismo (nello spettacolo dell’esibizione di sé allo sguardo degli altri, in vista del successo garantito da una circolazione allargata del proprio nome come merce di qualità). Questa volta l’accento viene posto sulle fenomonologie del potere visto come apparato di produzione del consenso e come apparato repressivo che mette in scena lo spettacolo stesso della repressione e la repressione come spettacolo, come esibizione di un consenso estorto e di una manipolazione totale. La sequenza in cui le auto della polizia sfondano lo spazio della città rendendolo invivibile, disurbanizzandolo e trasformandolo nello spazio del carosello, non costituiscono soltanto il recupero parodistico di una maniera che contrassegnava un luogo comune nel genere poliziesco (l’esterno urbano come luogo dell’inseguimento, la sottomissione dello spazio urbano all’arena in cui si mette in scena lo spettacolo della lotta e della sopraffazione); ma illuminano, d’improvviso, il terrore scatenato e inscenato dal macchinario poliziesco come dispiegamento spettacolare di una paralisi totale della città sottomessa all’Apparato. Così, le sequenze in cui tutta la polizia di Chicago dà l’assalto alla città alla ricerca di un solo uomo, denunciano proprio uno scambio simbolico, una trasgressione della lettera dell’enunciato (la ricerca del fuggiasco); per dimostrare quanto e come l’apparato del potere può spavaldamente perforare e calpestare tutte le “coperture” e le motivazioni “legali” e “istituzionali” e dare l’assalto a una città intera e devastarla, svelando il trucco finale della spettacolarizzazione della faccia brutale del Potere. E all’interno di questo organismo patologico, all’interno di questa follia collettiva scatenata dall’apparato poliziesco del potere, Wilder non individua più innocenti e corrotti ma soltanto vinti, gente piegata dai meccanismi di un gioco al massacro collettivo che riduce la soggettività a epifenomeno della sopravvivenza minacciata, a concessione temporanea alla vita. Così, vinti sono i giornalisti che passano la loro giornata nella sala stampa del carcere giudiziario giocando a poker e inventando scherzi feroci contro i
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“diversi”; vinto è Earl Williams, il militante anarchico di cui la città ha bisogno per riconoscersi nella lotta brutale contro un avversario e un pericolo inesistenti; vinta è la prostituta che rischia la vita per “covare” il desiderio di innocenza e di riscatto morale e sociale che la fa avvicinare a un altro emarginato, il condannato a morte; vinto è l’apparato statale che colpisce alla cieca e fabbrica dal niente una vittima per rigenerarsi nella corruzione e continuare a mantenere un potere aberrante; vinta è la legge che ha ceduto il prestigio della “giustizia” e la credibilità del lecito per asservirsi all’Apparato. Vinto è, infine, Hildy Johnson (un Jack Lemmon qua e là appannato), che tenta la salvezza in un’“altra vita”, sposandosi e ritirandosi in provincia a scrivere slogan pubblicitari. C’è soltanto una figura in questa mappa fenomenologica del declino che non si presta ad una logica della decadenza, o, comunque, agli sbandamenti dell’incertezza e delle paure; ed è la figura del direttore dell’“Examiner” (un Walter Matthau straordinario), colui che rappresenta ancora uno dei meccanismi intatti dell’Apparato e del Potere, un ingranaggio vitale ed efficiente nell’edificazione sociale del consenso. La figura di Walter Burns è perfettamente adeguata alla situazione ed è coerente con le funzioni che ha la stampa in un regime di democrazia totalitaria che assorbe e cancella tutti i conflitti manovrandoli e ritorcendoli contro i soggetti, manipolando fino in fondo le tensioni di classe. La statura di Walter Burns indica la statura di un istituto dominante nel gioco dei condizionamenti sociali e culturali, l’istituto della manipolazione che fabbrica il desiderio o la soddisfazione: desiderio vorace dello spettacolo del gioco sociale o del gioco sociale come spettacolo da godersi in prima fila (in “prima pagina”); soddisfazione della voracità tramite il plagio e la falsificazione delle aspettative, degli obiettivi individuali e sociali; e tramite l’appagamento illusorio delle tensioni dirompenti, la ricomposizione posticcia degli strappi e dell’insoddisfazione. Walter Burns, così, non è più il cacciatore solitario e l’avventuriero famelico sulle tracce della “notizia” che gli dia il successo; non è il Chuck Tatum di L’asso nella manica, ma è, semmai, colui che sovrasta la scena e muove i burattini da dietro le quinte. È l’erogatore di un’alimentazione aberrante che immobilizza il pubblico, che trasforma i soggetti in spettatori di catastrofi sociali sapientemente orchestrate, presentate come eventi da godere sulla scena perché interamente controllati dall’apparato che li ha provocati. Così, il potere si inscrive negli istituti sociali come macchina di alimentazione del desiderio spettacolare del plagio e della manipolazione, come orchestrazione degli stimoli e delle
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tensioni, e come cancellazione delle “differenze”. La voracità giornalistica si rivela nella sua funzione istituzionale di contaminazione del pubblico e della sua trasformazione in soggetto collettivo affamato di terrore e di catastrofi, bisognoso della conferma paternalistica di una sicurezza che solo l’Apparato della manipolazione e del potere gli fornisce. E quando gli sfugge di mano qualche “comprimario” e complice del gioco al massacro, per esempio quando un valente giornalista vuole ritirarsi dalla gara, allora si ricorre ad ogni trucco e ad ogni macchinazione per dissuaderlo: dalla diffamazione alla lusinga, dalla corruzione alla violenza (una violenza del plagio che fa leva su rapporti omosessuali sublimati fra i due uomini, il direttore del giornale e il giornalista più bravo; e che fa leva sul narcisismo e sugli aspetti erotici del potere, fino al recupero e allo sfruttamento dell’“orgasmo della scrittura”; infine ricorrendo ad una violenza più diretta che “sequestra” il transfuga con una falsa denuncia). Tutto il film è costruito come balletto della macchinazione, il balletto degli Apparati del potere in tutta la loro estensione, ma focalizzati su due istituti dominanti: la stampa e la pratica politica come varianti della manipolazione e della corruzione; erogatori di un modello di perversione che plagia tutto e tutti, instaurando le condizioni della voracità e del falso soddisfacimento distribuiti sui due versanti della spettacolarità e della violenza spettacolare (la spettacolarità del desiderio vorace per la “notizia” – che assimila il pubblico alle sue condizioni e alle sue illusioni – e la violenza del denaro come scambiatore della corruzione e della costrizione fisica affidata agli apparati dell’ordine pubblico manipolati dal potere politico). Dentro lo spazio conflittuale di questi due apparati del potere (la produzione del consenso e il controllo politico-poliziesco della collettività), si gioca una serie di truffe a incastro: da Walter Burns che inganna Hildy Johnson e lo truffa fino alla fine per mantenerlo nel gruppetto degli alleati e dei complici, a Hildy Johnson che, preso ancora nel gioco, a metà tra assuefazione e rivolta, truffa la polizia e i suoi colleghi, nascondendo il prigioniero per consegnarlo al direttore del suo giornale. Un film sulla notte e sulla nebbia dell’indifferenziato all’interno degli apparati del potere che il colore pastoso e la stampa della pellicola sottolineano, ponendosi come l’unica maniera possibile di fotografare questi interni coatti della sala stampa, le luci attenuate di lampade opache, il deserto senza vita di un lavoro da avvoltoi che passano una giornata intera aspettando un’impiccagione e rubandosi l’un l’altro frammenti di notizie, mozziconi di informazioni. Una messa in scena giocata
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sui lampi delle telefonate e sulla smorzatura delle reticenze, sulla voracità assuefatta e su una violenza standard che è l’uniforme di una sudditanza al potere senza fantasie di riscatto, di un “maneggiamento” totale degli uomini. Ordinaria amministrazione della manipolazione e della corruzione, che coinvolge anche la possibilità di un’alternativa tra desiderio e soddisfazione.
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Manipolazione e trucco (Intelligenza e sopraffazione) I cinque segreti del deserto (Five Graves to Cairo, 1943), Il valzer dell’imperatore (The Emperor Waltz, 1948), Sabrina (Id., 1954), Arianna (Love in the Afternoon, 1957), Testimone d’accusa (Witness for the Prosecution, 1957), Uno, due, tre! (One, Two, Three, 1961) La manipolazione è uno dei “luoghi canonici” del discorso di Billy Wilder, uno dei topoi ricorrenti attorno al quale si addensa il nucleo della messa in scena e il grumo dei significati; e dal quale si diramano le varianti di questo “universo del maneggiamento” come costanti di un comportamento individuale e collettivo che sono alla base dei meccanismi sociali e della loro riproduzione, così come sono alla base delle trame wilderiane. È allora evidente che questo universo della manipolazione è un universo in cui si giocano le metamorfosi più inaspettate eppure inevitabili, quelle metamorfosi che spiegano come la manipolazione e la truffa, la corruzione e la sopraffazione non siano altro se non le “figure” di una ragione sociale profonda basata sul conflitto e sulla concorrenza, sulla rivalità e sulla competitività. Il tutto riassorbito all’interno di uno spazio della cultura e di un assetto della storia in cui si estendono i domini del lecito e dell’illecito e le dinamiche di un confronto incessante e di un’espansione inarrestabile dell’uno sull’altro; con sensibili scorrimenti delle frontiere a seconda di come la cultura e la storia si rimodellino su una legge e su un costume modificati dalle esigenze del mercato e ricodificati dalla generazione di mitologie ad hoc. In questo senso, l’intelligenza vista come una facoltà e un “bene sociale” che presiede ai meccanismi di manipolazione e di sopraffazione, non è certamente più l’artefice del gioco raffinato dell’osservazione e del calcolo (Sherlock Holmes), ma è piuttosto uno strumento piegato agli interessi materiali e alle esigenze sociali che toccano più da vicino l’individuo; è uno strumento legato al districarsi del soggetto nei meandri di una società che gli sta di fronte come un gigantesco mercato e un’enorme palestra regolati dalle leggi dello scambio e dell’efficienza produttiva. In questo senso possiamo individuare i vari piani del rapporto tra intelligenza e manipolazione e tra trucco e sopraffazione nella convivenza sociale, e nelle strettoie attraverso le quali passano individui e gruppi come attraverso filtri correttivi che tendono a ridurre le differenze a uniformità e il desiderio a bisogno programmato e inscritto in fenomenologie note.
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Billy Wilder
Manipolazione e intelligenza diventano le varianti di una struttura il più possibile uniforme della collettività, gerarchicamente organizzata ai vari livelli della convivenza e della “rappresentanza” culturale e sociale: dal mercato al tribunale, dall’ufficio al campo sportivo, dalla scuola all’esercito. “Figure” inquietanti che si intravvedono dietro una tramatura assai rigida del dominio, dietro i percorsi fissati dell’assetto sociale come in una somma di “figure della cultura” che fanno da rete e da imbuto per manipolare e ridurre tensioni e attese. Che fanno da “specchi dell’identità” e da modelli vuoti da riempire, e attraverso i quali si proiettano e si riproducono le pratiche manipolatorie del mostrare e del persuadere, del corrompere e del sopraffare (pratiche che riguardano il macchinario che presiede all’assuefazione indotta e al controllo posto alla base stessa di una socialità dominata e retta dalle leggi e dalla cultura del capitale). L’esempio paradigmatico di questo modo di scavare dietro il rapporto tra intelligenza e manipolazione è dato da Uno, due, tre!, al di là del risvolto satirico sui rapporti tra Est e Ovest, e al di là dell’interesse per il gag e per il comico come elementi dominanti della messa in scena. Ancora una volta i moduli della commedia e i meccanismi del comico servono da battistrada per svuotare e rovesciare convincimenti diffusi e pratiche estese; e per ritorcere la sicurezza statica degli standard, e dei cliché contro lo spettatore e contro l’“industria del consenso” (e contro la serialità del prodotto cinematografico). Quello che interessa a Wilder in Uno, due, tre!, è il ritratto vivente dell’immagine dell’America degli anni ’60, l’immagine che gli U.S.A. offrivano agli stranieri, agli europei in particolare, ma soprattutto agli stessi americani; ma perforando questa superficie per svelare tutto ciò che sta dietro quest’immagine e il modo in cui viene modellata su alcuni connotati fissi, come l’efficienza del mercato e la “presa” di un colonialismo economico e culturale senza precedenti. La manipolazione riguarda qui la messa a punto di tutti i trucchi possibili immaginabili perché attraverso il quadro dell’efficienza e il mito dell’invincibilità, del “niente è impossibile”, il mondo intero non possa non sentirsi americano; assimilato a questo colosso che rende ineluttabile (e ormai non più differibile) il processo di “americanizzazione” del pianeta attraverso l’industria e la cultura del benessere, e attraverso la rappresentazione perversa di un colonialismo disvelato ad alleati e a colonizzati come la soluzione migliore per continuare a vivere e a godere dei “beni della civiltà”. Uno, due, tre! mostra tutto questo nel
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Giochi di pazienza e strani congegni
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ricostruire la messa in scena dell’immagine dell’America sul ritmo di un potere illimitato (o che si rappresenta come tale) che batte un tempo perfetto; immagine di un dominio culturale e politico visto come un raffinato play della corruzione e della volgarità dell’eccesso; mito della penetrazione capillare in un mondo conquistato dall’efficienza e dalle “meraviglie” del miracolo americano. Messa in scena della piroetta e dell’abbaglio; costo dispiegato dei macchinari esibiti (anche gli uomini), e corto circuito dello sbalordimento, dello stordimento da fiera; magia pacchiana di un universo manipolato e trasformato all’istante dallo schioccare di dita di un dirigente della Coca-Cola. Le fenomenologie della società moderna, della società industriale e della sua cultura (viste attraverso lo schermo di un globo americanizzato), sembrano riguardare soprattutto questo illimitato potere di manipolazione che si dispiega nella trasformazione incessante di tutto; in una metamorfosi senza limiti i cui tratti di fondo sembrano essere la velocità e l’inarrestabilità. Il potere e la cultura si manifestano come potere del dispendio e dello spreco di energie materiali e umane costantemente sottoposte a quest’alternanza di accumulo e consumo. Il consumo come condizione della sopravvivenza nelle metamorfosi industriali che stringono il mondo da ogni parte: il dispendio di energie sociali e culturali che lasciano intravvedere nei lampi delle forme che mutano le immagini strozzate di un benessere precario (che appare a tratti come flash del desiderio indotto e allontanato, realizzato e sottratto). Così, Uno, due, tre! mette in scena l’orrenda rapidità di metamorfosi industriali e culturali, il dispendio della sopraffazione e il potere del dominio e del cancellamento delle identità e delle soggettività nel Palazzo della Merce, la sede della Coca-Cola a Berlino Ovest. Soggetti non uniformati alle esigenze dello spreco e della spersonalizzazione collettiva che si muovono qua e là come fantasmi allucinati nei corridoi dell’apparato industriale, ombre suscitate dall’abbaglio dei doni miracolosi offerti dalla macchina dell’industria. Attorno a questo carosello si muovono gli altri temi cari a Wilder, i temi che toccano l’arretratezza di un’umanità ricacciata indietro dalla velocità delle trasformazioni industriali; l’immagine di un mondo fatto di rapporti umani stralunati che l’industria ha ridotto a larve del desiderio; il tema del successo e dell’ossessione della carriera che muove un uomo ad andare oltre le proprie possibilità e le stesse opportunità, trascinato dal suo ritmo manipolatorio addirittura eccedente rispetto ai bisogni e alle prospettive. Quel residuo di intelligenza umana sottratta alle mani-
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Billy Wilder
polazioni da macchinario viene impiegata per trasformare l’“esemplare” proveniente dall’“altro mondo” (Berlino Est), e per sottrargli l’identità trasformandone l’immagine di sé e annientandone i connotati della cultura. Tra un dirigente e una bottiglietta di Coca-Cola c’è soltanto una differenza: un dirigente è un prodotto labile, destinato ad essere sostituito perché soggetto ad errore per difetto o per eccesso. Ed è quello che accadrà a MacNamara: manipolando e addestrando Otto Piffl, sottraendo l’identità al “rivoluzionario” Piffl, MacNamara finirà per perdere quel posto per il quale ha lottato contro tutti e tutto; finirà per essere ingurgitato dal meccanismo che lui stesso ha messo in moto, spazzato via da quella macchina della sopraffazione che gli sfugge di mano. Resteranno solo i frammenti di un’avventura goduta fino in fondo in un Caffè di Berlino Est, una messa in scena scoppiettante per attirare in un tranello la “concorrenza”; l’immagine di una segretaria che ha danzato scalza su un tavolo offrendosi agli avversari per amore del principale e per qualche migliaio di marchi; l’emozione di aver tenuto in pugno il mondo intero il giorno che ha mosso mezza Europa e mobilitato una città per trasformare il proletario Otto Piffl in conte. Dal Palazzo del potere e dell’extraterritorialità, il palazzo della Coca-Cola, l’America annunciava già la cancellazione totale dei suoi alleati e la loro manipolazione; e ne indicava il destino di appendice dell’unica vera potenza occidentale. La manipolazione ha raggiunto l’obiettivo più alto, è diventata un macchinario che ha unificato trucco, travestimento, corruzione, sopraffazione, intelligenza, desiderio e bisogni in macchina della manipolazione pura che riproduce se stessa e i suoi fantasmi. Prima di questa soluzione “esemplare”, la manipolazione e la sopraffazione, l’intelligenza e il trucco erano stati messi alla prova come meccanismi di produzione di inganni e di raggiri “profumati” (sublimi nella loro perfezione); nel disegno inimitabile del gioco a rimpiattino di un raggiro dentro un altro, di una truffa dentro un’altra come banco di prova di un’illimitata estensione delle facoltà creative dell’intelligenza alle prese con i percorsi tortuosi dell’occultamento e del disvelamento di verità attendibili ma non certe (Testimone d’accusa). Oppure erano stati impiegati come manovre del trucco orchestrate per battere l’imbecillità del potere, piuttosto che come esibizione di una superiorità assoluta dell’intelletto impegnato nella sopraffazione dell’avversario e nella manipolazione vera e propria delle vicende e dei personaggi, sulla falsariga di un “genere misto” tra film poliziesco e film di guerra (I cinque segreti del deserto).
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Giochi di pazienza e strani congegni
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Trucco e manipolazione erano gli elementi-cardine che avevano dato vita alle vicende di Sabrina e di Arianna, in un giocare con se stessi e con la repressione del desiderio che i trucchi avrebbero dovuto manipolare e orientare ma non reprimere; solo manipolare, per fargli assumere quella curvatura necessaria alle regole del gioco e alla macchina della messa in scena. La trasformazione e il capovolgimento dei rapporti di forza di classe, e il rovesciamento dei ruoli e delle intenzioni, miravano in Sabrina al gioco puro della fabula; in cui la manipolazione e i trucchi di una messa in scena piuttosto banale dovevano costituire gli alimentatori del desiderio dello spettatore (la figlia dell’autista torna da Parigi e detta le “condizioni dell’accesso” del desiderio rimosso del “principe ereditario”; incanalandone i fantasmi e i percorsi fino a che non rimane incastrata nei suoi stessi trucchi e nelle sue piccole manovre, in un “colpo di scena” che “sposta” l’oggetto e il destinatario del desiderio e del piacere. Il dirigente d’azienda accetta fino in fondo le conseguenze del suo tentativo di prendere il posto di un altro, il fratello scapestrato e seduttore, e rimane intrappolato nella sua stessa trappola innamorandosi della figlia dell’autista). E ancora. Il gioco delle parti in Arianna è la macchina della messa in scena che orienta il differimento continuo delle identità, nella complicazione delle maschere che allontanano la fine del giocare, come pure il trauma di una conclusione spiacevole che cambia di segno solo nelle favole e negli “happy-end” di Hollywood. Infine, il gioco del giocare la commedia nel Valzer dell’imperatore è centrato sulla manipolazione di un genere (la commedia rosa) e sull’inseguimento di un maestro (Ernst Lubitsch); sulla restaurazione di un’“aura”, la Vienna di Francesco Giuseppe, che consente a Wilder di manipolare l’immaginario collettivo sulle memorie del passato e sui fantasmi di una grandezza insondabile. Sopraffacendole, poi, negli incastri di una vicenda “irriverente”, che solo il décor e il fascino degli attori – diretti con un tocco lieve ed elegante – riconsegna al gioco della messa in scena come trucco sublime e manipolazione ineguagliabile del desiderio. Alla fine di questo percorso tortuoso possiamo forse recuperare un’idea più o meno attendibile sulla “macchina del cinema” o sul “cinema come macchina” così come affiora dal lavoro di regia di Billy Wilder. Prima di addentrarci nella mappa del dizionario, e prima di affidarci alla pista dei nuclei tematici e stilistici tracciata da questo regista, possiamo forse tentare alcune ipotesi sul suo lavoro cinematografico; sui modi di
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Billy Wilder
produzione di uno spettacolo che si presenta legato agli standard e al lavoro di serie, ma che, allo stesso tempo, ne perfora gli schemi e ne ribalta l’assetto. La regia è il momento in cui si condensa tutto il lavoro di Billy Wilder nella pratica di un rapporto con il set che è già anticipato, preparato e “inventato” da tutta una serie di altre pratiche stabilite e seguite a tavolino. La regia rappresenta quindi l’esemplificazione di un modo di produzione assolutamente “trasparente” che fonde e trasforma i momenti diversi del lavoro del film. Proprio per questo il modo di produzione adottato da Wilder riguarda il film come prodotto industriale e come comunicazione il più possibile “diretta” con lo spettatore. Rinunciando al prestigio della firma, se questa vuole dire invenzione artistica e attimo creativo svincolato da un lavorio meticoloso che deve approntare il film come una macchina in grado di funzionare nel circuito industriale; sia pure piazzando qua e là cunei che disturbano il dominio delle falsificazioni ideologiche e delle ovvietà culturali, ma sempre tenendo presente in primo luogo le esigenze della messa in scena e della comunicazione. Sotto la cui superficie passano e si incrociano tensioni e discorsi ben più dirompenti: “testi di seconda lettura” che il modo di produzione wilderiano cela e disvela nel fair play che caratterizza le macchine-film e gli standard rovesciati e rivitalizzati.
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INGEGNERIA E TOPOGRAFIA
America In Arianna troviamo un’immagine efficace dell’America e degli Americani in una battuta di Audrey Hepburn: «Gli Americani sono strana gente. Quando sono molto giovani gli raddrizzano i denti, gli strappano le tonsille e li ingozzano di vitamine. Vengono immunizzati, condizionati, deumanizzati e atomizzati». Dunque, gli Americani sono gente “strana”. Prima ancora che essere meccanizzati e deumanizzati, essi sono strani. La meccanizzazione e la deumanizzazione appaiono solo come l’ultimo tratto di una stranezza di fondo della “civiltà”, un connotato che indica un livello comune, “popolare”, della cultura americana: la stranezza come carattere tipico della way of life americana. Stranezza di una società che i film di Billy Wilder colgono con prontezza e intuito: basti pensare a Sabrina o a Scandalo internazionale, come messa in scena di una società in cui agisce una mistura di ingenuità infantile e di spregiudicato cinismo; basti pensare alla sopravvivenza pervicace delle norme e delle abitudini tra i prigionieri di Stalag 17, o alla gelosia equivoca di Baciami, stupido e all’efficienza maniacale di Uno, due, tre!; o, ancora, al mito perverso della truffa e al desiderio di innocenza in Non per soldi… ma per denaro e al conformismo perbenista che accompagna l’ottusità moralistica messa in scena in Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?. La stranezza appare come un tratto di fondo del patrimonio culturale degli Americani, come il connotato antropologico di una “civiltà” basata su determinate pratiche e su precisi meccanismi di uniformità culturale. Sono “pratiche meccaniche della cultura” che contraddistinguono il popolo americano come quello che ha maggiormente “razionalizzato” e sublimato una distanza ineliminabile tra natura e cultura, tra socialità e
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Billy Wilder
civiltà; rinunciando ad un equilibrio corretto tra questi due aspetti dell’esistenza, e mistificandone le conseguenze sulla vita collettiva. La “civiltà americana” risulta fondata sulla generalizzazione di alcune pratiche meccaniche della cultura dominante, quelle pratiche che fanno sentire americano un americano, e lo caratterizzano proprio sulla base di alcuni comportamenti strani. E sono proprio queste pratiche meccaniche che strappano la risata dello spettatore, e attraverso le quali Billy Wilder esercita la sua ironia corrosiva scambiata troppo spesso, e troppo superficialmente, per cinismo. Sono le pratiche meccaniche che danno vita ai ritratti che illuminano con un fascio di luce improvvisa il costume americano: bambini che scorazzano su pattini a rotelle nei corridoi d’ospedale (Non per soldi… ma per denaro); una segretaria che balla, assieme al personale dell’azienda, su una lastra di plastica per saggiarne l’elasticità (Sabrina); la preparazione di un discorso funebre al magnetofono mentre si fa toilette (Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?); dettatura di beni aziendali in un contratto di matrimonio che sancisce la fusione di due colossi industriali come un atto di quasi-ordinaria amministrazione (Sabrina), un ascensore come unico luogo della “comunicazione” (L’appartamento), ecc. ecc. Ma che c’è di strano occorre chiedersi, nel provvedere in tempo per eliminare le “storture della vita” come i denti guasti o un deficit vitaminico? Che c’è di strano nel “provvedere di civiltà” una popolazione, visto che niente può essere più “civile” che garantire una vita serena e felice, prendendo nella dovuta considerazione lo sviluppo completo della personalità dell’individuo (della quale sono senza alcun dubbio elementi fondamentali una dentatura sana e un’adeguata ricchezza vitaminica)? Ebbene, se qualcosa di strano si può ravvisare in questa “civiltà della perfezione”, è quel tanto di meccanico, quella spia di un maniacale atteggiamento per la “perfezione” e per la “preregolazione” forzata dell’esistenza secondo modelli uniformi del comportamento collettivo. Di ciò Uno, due, tre! fornisce un quadro insuperabile per il ritmo dei dettagli e la costruzione delle scene e del dialogo: immagine di un’efficienza organizzativa che dispone delle persone e della loro vita, degli affetti e dei desideri come se si trattasse degli affari di una azienda cui tutto deve essere sottomesso. Ebbene, la regolazione del comportamento individuale e collettivo assurge a codice di vita passivamente adottato, diventa pratica indifferenziale della “uniformità” sociale e culturale tale da far scattare meccanismi di rifiuto che mettono in luce proprio la funzione di copertura che quegli “accorgimenti di civiltà” tendono a rimuove-
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Ingegneria e topografia
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re. Mettono in luce quella meccanizzazione e quella deumanizzazione caratteristiche di una situazione culturale basata sulla sublimazione dei rapporti umani e sociali in cerimoniali sterili. Nasce da ciò il legittimo sospetto che tutte le “cure civili” dirette al benessere della popolazione americana siano funzionali alla sua strumentalizzazione, che la cura del corpo e della psiche non sia nient’altro se non la preparazione e l’avvio all’adattamento. Una sorta di “messa a punto” dell’americano medio che rivela come quella “civiltà della perfezione” sia funzionale soltanto ad una “cultura della prevaricazione”, ad un uso della “civiltà” come dominio e colonizzazione di chi non è stato allevato nelle stesse stranezze (Uno, due, tre!, Scandalo internazionale, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?). Ed ecco che la stranezza di quella “civiltà” si misura su una serie di “correzioni” e di “raddrizzamenti” che si inseriscono su una base di “storture”, di “scacchi” della civiltà e della natura. I denti vanno raddrizzati, le tonsille strappate, le vitamine ingozzate. Si tratta di una “civiltà” che non solo ha il compito di “migliorare” la natura, che non solo trasforma l’ambiente in un habitat più favorevole all’uomo, ma che, in una sorta di circolo vizioso, corregge meccanicamente le stesse storture provocate dalle esigenze di quella “civiltà” (e con il fine, per giunta, di conseguire una meccanizzazione totale della società, di deumanizzare l’uomo in vista di una “macchina sociale” che lo vuole perfetto ed efficiente per le sue esigenze economiche e produttive) 1. Si capisce come il viennese Wilder, emigrato per sottrarsi alla “civiltà hitleriana”, colga con sagacia le distorsioni di una civiltà diversa, i punti critici di una democrazia pagata a caro prezzo, le manifestazioni vistose di un costume e le contraddizioni di una cultura la cui qualità più evidente è quella che Stephen Farber ha chiamato «perversione del sentire» 2. Wilder ha dovuto subito accorgersi che il segreto della civiltà e della cultura americana è celato in una verità elementare, nel fatto che tutto e tutti siano in vendita e che tutti vengano manipolati da tutti: la vita di Leo Minosa da Chuck Tatum (L’asso nella manica); i sentimenti di Harry Hinkle dal cognato (Non per soldi… ma per denaro); Sabrina dagli interessi dell’azienda (Sabrina); 1 Rientra in questo schema l’attenzione riservata da Wilder all’efficienza della carrozzetta a motore di Harry Hinkle in Non per soldi… ma per denaro, o ai ritrovati della medicina e della chirurgia su cui ironizza il medico della clinica in cui Harry è stato ricoverato: «Sono cose che si leggono tutti i giorni sui giornali. Trapiantano i reni come cocuzze, fanno le spine dorsali nuove con i laminati plastici. Crede che i giornali non li leggano anche i dottori?». 2 S. Farber, The Films of Billy Wilder, cit., p. 11.
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Billy Wilder
Otto Piffl da MacNamara (Uno, due, tre!); la giustizia e l’intelligenza dalla truffa (Testimone d’accusa); Berlino dagli Americani (Scandalo internazionale, Uno, due, tre!). Il tanto citato “cinismo” di Wilder va pertanto ricondotto alla matrice originaria di una sfrontatezza del guardare e di una sensibilità del dire che trovano i loro precedenti nell’esperienza giornalistica del regista nella Vienna degli anni ’20. Il “cinismo” di Billy Wilder consiste, propriamente, in una sorta di rifiuto del mito della “civiltà”: consiste nell’osservare impietoso la qualità della vita (quella americana), restituita sullo schermo attraverso la macchina di una messa in scena che ne ripropone gli incastri e i passaggi obbligati. In questo senso, è l’ingenuità degli Americani, è la rimozione non riuscita delle contraddizioni della cultura americana che motivano il giudizio di “cinismo” dato a Wilder; giudizio che occulta la funzione di specchio (di una società e di una cultura) che i suoi film hanno. Uno specchio che restituisce un doppio omologo della società americana, sia sul piano di una messa in scena delle regole del gioco che dominano il box-office (e vengono rispettate da Wilder nel porgere al pubblico due ore di divertimento), e sia sul piano di una messa in scena di un’“altra metà del mondo”, che è il mondo sotterraneo dell’infrazione e della truffa, del crimine e della segregazione degli esclusi e dei vinti. (La fiamma del peccato, Giorni perduti, Viale del tramonto, L’asso nella manica).
Bianco & Nero Bianco & Nero è più che una metafora per condensare l’economia stilistica del cinema wilderiano in una coppia di opposti, da cui scaturiscono punte timbriche e passaggi tonali che si pongono come “figure” di una composizione tematica e linguistica che gioca su un piano formale opposizioni e contrasti, intersezioni e capovolgimenti che dinamizzano i contenuti dei film. Più che una metafora, Bianco & Nero è una “formula” che indirizza una scelta di campo e un’“aura” del tono che consentono di rintracciare (e tracciare) le coordinate filmiche di una visione del reale costruita sulla tensione tra “mondo” che tradizione e cultura hanno contrapposto, sulla base di una “spartizione” della realtà sociale tra lecito e illecito, consentito e proibito, buono e cattivo. Più che una metafora, Bianco & Nero è una sigla per il patrimonio linguistico e il corredo concettuale che sta alla base della “traduzione” dei significati e dei va-
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Ingegneria e topografia
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lori extrafilmici nel linguaggio del cinema. Infine, più che una metafora, Bianco & Nero rivela la possibilità di una lettura letterale dei film di Wilder; lettura condotta secondo la lettera del cinema e secondo la lettera delle dominanti linguistiche (e tematiche) del regista, che si coagulano attorno a un’intuizione centrale sinteticamente raffigurata in una coppia di opposti, il Bianco e il Nero (che costituiscono anche il nucleo profondo dei valori di contenuto dei film). Così il testo-film organizza il suo piano del senso anche attraverso (e attorno a) una semplificazione formale che individua nei grumi del bianco e del nero – e negli indeterminati, indefiniti, interminabili passaggi tonali (e di contenuto) intermedi – un codice di organizzazione delle significazioni corrispondente alla “divisione fotografica del mondo” in chiaro e scuro, in pesantezza e aereità; insomma in una stampa cromatica binaria delle infinite varianti composizionali del bianco, del nero e della loro produttiva contaminazione. Una sorta di codice elementare della “stampa del mondo” per un occhio abituato al “colore del grigio” come dominante nella “traduzione” delle coppie di contrasti dai quali nasce e progredisce il senso. La cultura lavora, da sempre, sulle grosse divisioni binarie che spaccano il mondo da infiniti punti di vista, a cominciare dalla coppia fondamentale realtà/rappresentazione per finire con la coppia bianco/nero come significante primario della scissione mitica tra Bene e Male. In questo senso è autorizzata una lettura non banalmente metaforica della predilezione di Billy Wilder per il chiaroscuro, per le sottili relazioni che si stabiliscono tra luce e ombra, per le sotterranee contaminazioni che rendono sfumato il distinto e distinto lo sfumato. A parte le motivazioni di ordine stilistico, culturale, antropologico, storico (la predilezione per il “nero” come elemento linguistico che traduce nel cinema tutta una “storia dei tratti culturali”, dall’Espressionismo tedesco al film noir americano), è interessante notare che Wilder stesso ha esplicitato in più di un’intervista l’aspetto teorico della relazione che intercorre tra le tematiche dei suoi film e la “lingua del Bianco & Nero”. Se è vero, come la critica più attenta ha rivelato, che il cinema di Billy Wilder si muove sulla grande capacità di produrre tensioni dinamiche del senso a partire da pochi elementi essenziali, ordinabili secondo coppie di “motivi” o di “canali” tematico-linguistici e culturali (il rapporto tra sesso e denaro che lega indissolubilmente questi elementi e che li volge in un’economia del senso assai attiva; il rapporto tra innocenza e corruzione secondo una gamma assai vasta di varianti; il rapporto tra
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Billy Wilder
gioco e vita; tra reale e illusorio; tra scherzo e serietà, ecc.); ebbene è vero anche che questo mondo dicotomizzato trova l’organizzazione dinamica del senso, il suo linguaggio e il suo stile inequivocabile nella contaminazione e nel ribaltamento dei valori di quelle stesse coppie: nella “continuità fisiologica” del grigio della pellicola e del mondo reale (sfruttando la gamma delle contaminazioni possibili del bianco e del nero posti a confronto; e sfruttando la continuità del senso riposto nell’indeterminatezza delle soglie e dei confini istituibili formalmente tra questi “mondi” e tra queste serie figurali, e di contenuto, piuttosto che sbarrando le pratiche del senso in “ripartizioni” del positivo e del negativo, in classificazioni del valore dominate da cariche ideologiche o morali o psicologiche). Di più. L’accostamento del bianco e del nero nella “fotografia del mondo” ha esplicitato il potere di attrazione reciproca e di reciproca voluttà di annientamento, di inglobamento e di cancellazione del contrasto che si gioca tra i due elementi. La divisione e la contaminazione, la separatezza e la confluenza giocate tra il bianco e il nero rappresentano idealmente la visualizzazione della loro mistura, la delimitazione e la confusione, allo stesso tempo, di vizio e virtù; allo stesso modo che il cinema rappresenta il “reale immaginario” del desiderio e del sogno contrapposto alla “realtà quotidiana” del vivere da svegli. La coppia cinema/vita sembra raddoppiare la coppia bianco/nero, bene/male, virtù/vizio, come un dato che “sta nelle cose” e che non ha certo inventato Wilder. Allo stesso modo Wilder non ha inventato i contrasti sociali e tanto meno i travestimenti e i trucchi del potere o il “dramma” dell’attrazione tra corrotti e innocenti. Non ha inventato Wilder il “disagio della civiltà”, i suoi corti circuiti e le infinite combinazioni che si danno tra positivo e negativo. La vita è fatta di questi contrasti e della loro “germinazione reciproca” e costante, dello scambio vitale continuo tra bene e male, tra vizio e virtù. La vita è fatta di cattedrali e di rottami, di una continuità della mescolanza che nessun modello dominante della cultura può nascondere a lungo nelle rimozioni sublimate e nelle sublimazioni cancellate o allontanate. «E poi, il dramma è che la virtù non è fotogenica. Bisogna saper passare dal bianco al nero» 3. In questa battuta il problema è individuato con sorprendente chiarezza. La virtù, o il vizio, come le 3 J. Domarchi, J. Douchet, Entretien avec Billy Wilder, in «Cahiers du cinéma», n. 134, août 1962, p. 6 (corsivi miei).
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idee platoniche, come i contenuti astratti della dominanza culturale della divisione e della separatezza, non sono fotogenici; e per una “civiltà dell’immagine” quale la nostra, per la cultura moderna, ciò che non è fotogenico, ciò che non appartiene ai codici visivi e comunicativi abituali, semplicemente non esiste. Esiste, al contrario, lo scambio, il passaggio, il “mercato”, la trasformazione, la mescolanza, la contaminazione: un passaggio continuo dal “bianco” al “nero”, dagli astratti al concreto, dalle idee al reale, e viceversa. E il cinema di Billy Wilder esiste perché testimonia questa coscienza dei contenuti reali della cultura moderna, esiste perché ha superato le consolazioni del mito e ha restituito l’invenzione estetica alle “condizioni pellicolari” essenziali del cinema, il bianco e il nero. Esiste perché ha restituito i film alle cose quotidiane così come risultano contaminate dai “passaggi” della vita. Il cinema di Wilder non si muove più nei “colori” del racconto mitico, nell’unità scissa delle due dimensioni contrapposte del Vero e del Falso, del Male e del Bene. Si muove, invece, nell’intersezione continuata di bianco e di nero, nella produttività continua del miscuglio e della contaminazione, nella sfaccettatura della sfumatura, nel reale delle identità non monolitiche ma poliedriche e versatili; recuperando tutta una dinamizzazione stilistica dell’economia linguistica giocata sugli opposti. Così, i “caratteri” e i personaggi dei film di Wilder scoprono nel mutamento l’essenza della loro personalità sdoppiata per fare luogo alle “mutazioni” del reale, e non per continuare la replica del già fatto o per mandare avanti tutta una meccanica dell’acquisto, per tenere in piedi un’“economia del risparmio” energetico, psicologico, culturale (Viale del tramonto, Vita privata di Sherlock Holmes, Non per soldi… ma per denaro, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?). «Un tempo c’era il bianco e il nero, l’eroe sul cavallo bianco, il cattivo sul cavallo nero, era tutto preordinato. Oggi c’è del grigio, perché si è stabilita una comunicazione molto più rapida con il pubblico» 4. È semplicemente sorprendente il capovolgimento degli ordini retorici (e del loro significato) operato da Wilder in questa affermazione. Al grigio non corrisponde più una visione “media” del reale, la condanna alla routine della ripetizione, i falsi rapporti di un’esistenza difesa, arroccata sui punti di riferimento immodificabili delle certezze acquisite, tutta una visione della retorica ideologica della “medietà tonale” dell’esistenza. Il grigio vie4
M. Ciment, Entretien avec Billy Wilder, cit. (corsivi miei).
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ne, al contrario, accostato ad una delle dimensioni caratteristiche e più sconvolgenti della realtà contemporanea: la velocità. La rapidità con la quale si allacciano relazioni e rapporti umani, e la velocità con cui si avvicendano le grandi modificazioni sociali, le “mutazioni” dei punti di vista e gli sconvolgimenti degli ordini culturali (Scandalo internazionale, L’asso nella manica, Uno, due, tre!), sono sintomaticamente connesse all’esigenza più elementare della comunicazione, ad una considerazione diversa del pubblico, ad una diversa e inedita mobilità delle tematiche, dei generi e degli stili. Infine, la velocità è connessa ad una diversa considerazione teorica del cinema e ad una rivalutazione di quei contrasti che fanno di una pellicola la stampa fotografica del reale, e che fanno del film un testo dinamico del senso (per non parlare del grigio richiamato da Wilder come metafora di una concezione della realtà dominata da quella sostanziale equivalenza dei valori che regola il mondo delle merci e il regime del mercato. L’abbandono della vecchia contrapposizione tra bianco e nero sta ad indicare anche l’abbandono e il superamento di una visione del mondo cancellata dall’estensione dei mercati e distrutta assieme al codice morale delle separatezze dei valori non più praticabili nella società dei consumi, in cui il valore è determinato dal mercato e non da altro). Lo “smalto” dei film di Billy Wilder è proprio in questo tono dinamico del grigio, nell’essenza del cinema come “mutazione continua” e continuata, nell’attenzione con cui si nasconde uno “stile” per fare luogo alla “comunicazione” più piana. Vive nel grigiore dinamico di una regia che restituisce il piacere di dialogare con il pubblico attraverso il passaggio continuo dei cliché, attraverso un’economia del piacere che scaturisce dalla reversibilità esibita e filmata tra “black satire” e “stick jokes”; che scaturisce dal dinamismo del grigio fatto scattare in luogo delle opposizioni statiche tra bianco e nero. Insomma il mondo, come il cinema, è bianco e nero, e non bianco/bianco o nero/nero. Ora è precisamente questo “sentimento della contaminazione”, questo profondo senso dell’“economia” psichica e culturale che consente a Wilder di violentare il “non-detto” o il “troppo-detto” del cinema, sfuggendo sia alle convenzioni classiche della commedia e del comico e sia agli stilemi dell’impegno o alle coordinate della denuncia sociale che alcuni filoni del cinema americano proponevano negli anni ’40 e ’50. In questo senso, funziona l’alchimia di una miscela esplosiva: l’eredità dei moduli espressionisti accostata ad un particolare gusto per la cronaca e
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per la vita quotidiana, e sottoposta alle spinte e alle tensioni del magistero di uno Stroheim e di un Lubitsch; e il cui deterrente è dato da un gioco combinato di “elusione” e “rimpiazzo” rispetto ai generi tradizionali del cinema (dalla commedia classica al cinema nero). In questa miscela di elementi, la diversione dai generi tradizionali si pone come la strada da battere per conseguire uno smascheramento dei moduli del linguaggio e dei valori di contenuto; per giungere alla parodia del mondo e dei valori posticci su cui si fondano le illusioni di una società di cui vengono rivelate le regole dell’esclusione e dell’integrazione, tutto l’arbitrio della ripartizione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto: e la cattiva “ragionevolezza” insinuata dietro quello stesso arbitrio. Nascono da questo impianto atipico la comicità e la passione, l’arte e il senso della vita, il sapore del gioco e della trasgressione. Nasce di qui il piacere dello spettatore per il gioco rivelato dei cliché della vita, replicati e sostenuti nei generi indisturbati della storia del cinema e dei canoni del comportamento che crollano sotto il maglio di una “verità della favola” – desiderio restaurato delle immagini e dei sogni dell’infanzia e della giovinezza (Arianna, Il valzer dell’imperatore, Sabrina, Irma la dolce, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?) –, o sotto la ferocia del travestimento e della comicità come luoghi di una trasformazione e di un trasferimento illimitato dei valori e delle regole del gioco (Stalag 17, A qualcuno piace caldo, Uno, due, tre!, Baciami, stupido, Non per soldi… ma per denaro). L’accesso al divertimento, il piacere del gioco, il risparmio dell’economia psichica necessaria per liberarsi delle barriere che la ragione erige tra le censure e le “illuminazioni della risata”, segnano la strada maestra per scorgere i reali rapporti del grigio per godere delle mutazioni del reale contro le imbalsamazioni simboliche della Legge e della Ragione che dominano i codici culturali. In questo senso, si capisce come funzioni il “devastamento dei generi” e il gioco della battuta nell’individuazione e nel “reperimento” del pubblico dei film di Wilder; e come venga in qualche modo composta e forgiata la figura dello spettatore nelle dinamiche giocate tra illusione e spostamento e tra finzione e piacere. Come al destinatario del motto di spirito, allo spettatore viene risparmiato il dispendio psichico e culturale necessario per “liberarsi” dei condizionamenti di una “medietà retorica” inerte dei valori e dei condizionamenti di una cultura. Il riso diviene, così, la strada più breve e diretta verso il grigio dinamico dei reali rapporti di senso della vita, e lo spreco della risata preserva lo spettatore dalla
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cattiva capitalizzazione e da un inutile risparmio di energie culturali potenzialmente liberatorie e dai legami della conservazione. La risata dissipa quell’“ammontare di capitale” che il cinema ha accumulato per il pubblico, quell’“ammontare di energia psichica” necessaria per compiere la liberazione dalla fissità degli schemi e dalla rigidità dei divieti che impongono osservanza e divisione in opposti statici. Lo spreco diviene in tal modo “piacere della dissipazione” di qualcosa che “non costa” e che non richiede lavoro impegno o compromissione, ma che compie il suo ciclo e si esaurisce nella battuta e nel grigio di due ore di film. Il “dispendio di investimento” inibitorio, incagliatosi un tempo sugli opposti divisi del bianco e del nero, viene dissipato nella “scarica del grigio” e nel “piacere dello spreco” che ne deriva. E il piacere dello spettatore corrisponde al piacere di quel terzo, presente sulla scena della battuta e che assiste al motto di spirito, nel quale «il piacere corrisponde al risparmio e allo spreco, alla dissipazione», allo sconfinamento dalla conformità alle regole dominanti 5. Quello che annuncia il cinema di Billy Wilder, con la sua “teoria del grigio” e con il rispetto serio e profondo del pubblico e degli “intoppi della cultura”, è che il piacere del risparmio, come in Freud, è veramente tale quando finisce nell’esaurimento dello spreco. Così, la serietà dei bianchi e dei neri si scarica nella risata che libera l’accesso ad un “grigio vitale” che dissipa un capitale (culturale) troppo ingombrante. Tutto ciò indica, anche, come e quanto il cinema di Billy Wilder (almeno da Sabrina in poi) si regga sullo scarto praticato tra apparato produttivo (il cinema come “macchina” delle sublimazioni culturali e come produzione di merce) e dispositivo semiotico (e anche impiegando e funzionalizzando quello “scarto” come differenza di senso e rovesciamento delle energie culturali legati ad uno specifico ribaltamento delle regole del gioco dominante nella diversione del divertimento; e mediante un uso raffinato della macchina del comico – la parodia, l’ironia, lo scherzo irriverente, il gioco – che punta sul “rincaro” delle regole e dei modelli dominanti rovesciati: il rovesciamento come rincaro liberatorio). Il rovesciamento è, appunto, quel “rincaro” operato dal comico che stabilisce le nuove condizioni di leggibilità dei “trucchi” dell’industria culturale della merce e dei rapporti sociali, chiamati in causa da questa singo5 S. Freud, Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, in Id., Opere, vol. V, trad. it., Torino, Bollati Boringhieri, 1972.
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lare esplorazione dei generi e dal meccanismo che li fa esplodere nel renderli espliciti nel loro perverso rovescio.
Denaro Il cinema di Billy Wilder è una sorta di territorio franco, di universo interstiziale, di zona protetta e recintata in cui si giocano liberamente i miti della società americana, sia pure ridotti al gioco ben giocato (A qualcuno piace caldo, Non per soldi… ma per denaro), o alla dimensione sublimata dello sport in cui si manifestano alla luce del giorno e di fronte al pubblico le strategie competitive (L’asso nella manica, Prima pagina). Proprio qui – sulla scena o sul quadrato – si compiono i riti simbolici dei ruoli e delle divisioni sociali (Sabrina, L’appartamento) e si percorrono i tracciati stabiliti o si tentano le loro inversioni (La fiamma del peccato, Scandalo internazionale, Stalag 17, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?). Per questo, il cinema di Wilder è il luogo del rovesciamento della conformità alla legge sociale e alle sue finzioni sublimate; spazio antimitologico per eccellenza, dal momento che esibisce sullo schermo le crisi e le metamorfosi delle identità sociali raffreddate nel play, snaturate e date in pasto alle meccaniche del gioco rivelato (Viale del tramonto, Irma la dolce, Vita privata di Sherlock Holmes). Wilder attesta il suo punto di partenza sulla linea dei meccanismi sociali e culturali che traducono gli elementi della realtà contemporanea in costituenti di raffinate mitologie, in processi e in regole di formazione dello spazio del “mito della società perfetta” evocato come occlusione alla verità dei rapporti sociali dominati dal mercato. Mito dell’efficienza di un sistema sociale ed economico impiegato come macchinario ideologico che addestra ai condizionamenti di un sistema di valori e di una gerarchia delle valutazioni posti a sostegno delle regole capitalistiche del gioco. Partendo da queste premesse Wilder capovolge i meccanismi di identificazione e di stabilizzazione che travestono il mondo delle relazioni mercantili in un universo sublimato del Valore Sociale (Uno, due, tre!). Meccanismi che trasformano il mercato delle relazioni umane e sociali nei costituenti mitici di una cultura dominata dall’identificazione indotta di possesso e benessere, e dalla coincidenza tra produzione dei bisogni e soddisfazioni del desiderio (L’asso nella manica, Non per soldi… ma per denaro, Stalag 17, L’appartamento).
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Ciò vuol dire che tutta una serie di elementi e di pratiche che regolano i rapporti sociali e individuali vengono smembrati dal “contesto mitologico” che la cultura dominante gli ha tessuto attorno come un “Involucro del Valore” nella gerarchia delle dominanti individuali e sociali. Il cinema di Wilder viene, in tal modo, a coincidere con una “pratica della rivelazione” dei reali rapporti di produzione sottostanti alle simboliche culturali. Assume la territorialità che spetta al campo sportivo e agli edifici canonici del gioco (Arianna, Sabrina), e si rivela come il luogo antimitologico della messa in scena delle regole del gioco sociale e individuale. In questo senso, il più volte invocato (pro e contro) cinismo di Billy Wilder non è che la marca culturale e stilistica di un atteggiamento che non si definisce al di sotto delle mitologie sociali, che non assume le regole socioeconomiche – e il loro travestimento ideologico – come modelli inattaccabili del Valore, ma che, piuttosto, si definisce al di sopra e al di fuori delle identificazioni immaginarie che la cultura inietta e impone. Così, il cinismo diviene il tratto distintivo di uno sguardo critico riconsegnato al cinema, pratica dello sguardo sdoppiato tra condizioni reali e mitologie culturali aberranti denunciate come traballante copertura di un “malessere” che si vuole occultare. È per questo che il denaro come elemento e come motore della società capitalistica, e il denaro come dominante tematica dei film di Billy Wilder sono due cose identiche e diverse allo stesso tempo. Il “sistema del denaro” è il sistema e il luogo – mitologico per eccellenza – della produzione del desiderio e del valore; sistema e luogo del compimento di un’identità mitica di desiderio e di riconoscimento sociale nel Valore. Il valore simbolico del possedere, dello scambiare ininterrottamente, del trasformare incessante le condizioni di vita e le occasioni del dominio sotto la specie del controllo generalizzato e della manipolazione (Uno, due, tre!, L’appartamento, Irma la dolce, Non per soldi… ma per denaro, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?), è un significato “pieno” dotato di grande portata simbolica che la società contemporanea ha istituito nelle procedure di identificazione di possesso e benessere, accumulazione e felicità, strumentalità della ricchezza e fascino del potere. Da elemento cardine dell’universo “astratto” dello scambio, da meccanismo acceleratore del commercio, di spostamento del possesso, di accumulazione e di trasferimento della proprietà, la società capitalistica ha fatto del denaro la personificazione del potere e il miraggio della soddisfazione del desiderio. La cultura del capitale ha ritagliato le
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sue dominanti nelle condizioni simboliche necessarie per trasformare il denaro-strumento da valore di mercato a contrassegno di una felicità illusoria posseduta: non valore mobile del trasferimento delle ricchezze e dello scambio della merce, ma valore statico di una “ontologia del piacere” nel possesso; certificazione di un’identità mitologica giocata tra stato sociale e “benessere”, tra felicità del possedere e rappresentazione spettacolare del possesso. Il cinema di Wilder inserisce una nota stonata in questo concerto di parvenze, piazza un cuneo nel cuore della civiltà spettacolare del capitale, travolge nella scarica della risata l’economia liberata delle inibizioni sacrificate alla mitologia del “piacere del denaro”, svela gli artifici delle sublimazioni spettacolari che si accompagnano all’identificazione indotta culturalmente tra denaro e felicità (La fiamma del peccato, Viale del tramonto, Non per soldi… ma per denaro, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?). Il denaro viene ricondotto al meccanismo che domina le regole del gioco sociale, e non per caso la strumentalità del denaro viene legata alla strumentalità del sesso: due elementi della “cultura del capitale”, due elementi che il capitale ha sempre impiegato per uniformare desideri e spinte individuali e sociali, per trasformare gli innocenti in complici (Sabrina, Irma la dolce, L’appartamento, Prima pagina). In tal modo possiamo spiegarci perché nei film di Wilder domina la dialettica sesso/denaro e innocenza/corruzione di cui ha parlato con tanta insistenza la critica. Ci spieghiamo come si saldano in una contraddittoria vitalità l’amore e l’economia, il piacere e il mercato, l’innocenza e l’esperienza, l’irresponsabiltà e la corruzione (Scandalo internazionale, Arianna, Baciami, stupido, Non per soldi… ma per denaro). E ci spieghiamo perché il cinema di Wilder è “antimitologico” per eccellenza. Perché, al contrario, è il cinema dello sguardo e della rivelazione dei meccanismi sublimati, è la rappresentazione delle regole del gioco citate e spiegate, economia esibita dei rapporti sociali sottratti alle mitologie della cultura del capitale. L’economia del mercato è l’economia che regge il corto circuito tra sesso e gioco, tra la regola e l’infrazione che la rivela, tra inesperienza e “pedagogia della corruzione”. Da elemento tematico dei film il denaro diviene meccanismo di produzione del senso, diviene generatore di una singolare “pedagogia del racconto”, di un’“educazione” che passa attraverso la contaminazione e il registro vitale della “corruzione”. Così, un film come La fiamma del peccato diviene l’esemplificazione manifesta di una “corruzione dei rapporti uma-
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ni” che passa attraverso l’ambigua mistura di sesso e denaro. Nella Fiamma del peccato, il sesso e l’amore, il desiderio e il piacere (continuamente dislocati e accidentati) vengono subordinati al possedere; scatenando una meccanica allargata della corruzione e dell’intelligenza, del sapere e dell’esperienza, che conducono non tanto o non solo al tradimento dei codici sociali (che stabiliscono le gerarchie e le leggi che regolano il possedere, la geografia dei ruoli e i luoghi simbolici del possesso), quanto delle persone che li “rappresentano”. Il discorso del denaro (oltre che quello sul denaro) è costantemente presente nei film di Billy Wilder, ma è addirittura il nucleo del senso attorno al quale ruotano film come Irma la dolce e Non per soldi… ma per denaro. Due film in cui il denaro viene declassato a strumentalità di secondo grado, ridotto a generatore di paralisi e di mutilazioni (vere o supposte: l’impotenza di Lord X in Irma la dolce e l’altra impotenza – degli affetti e del desiderio – in Non per soldi… ma per denaro) che congelano i rapporti umani e il desiderio, azzerano il piacere. In Irma la dolce questo potere paralizzato del denaro è esplicitato e amplificato in maniera sorprendente nelle pieghe della vicenda di Nestor Patou, il flic innamorato della prostituta. Nestor Patou non riesce a dividere Irma con i suoi clienti, è impossibilitato ad amare finché il rapporto tra sesso e denaro gli sottrae proprio il piacere del sesso e del denaro. Allo stesso modo, in Non per soldi… ma per denaro Harry Hinkle non può godere del denaro truffato perché il suo “contatto” con la corruzione, e tutto l’addestramento alla truffa e all’inganno, non lo hanno definitivamente plagiato all’identificazione tra piacere e denaro. Al contrario, gli hanno restituito l’esperienza della perdita dell’identità, e la spinta verso un desiderio che non venga polverizzato nel simulacro di una spettacolarità del potere e del denaro posseduto (in cui desiderio e scelte sono cancellati dalla mancanza di alternativa, coltivati in serra in un’economia prudente della ricchezza e della sua conservazione; dove più niente accade perché tutto è già acquisito e posseduto).
Gioco La truffa, l’inganno, l’intrigo, il raggiro, il crimine sono elementi tematici di netto rilievo nella filmografia wilderiana, e di solito si presentano legati a filo doppio con altri due elementi che occupano uno spazio
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metaforico rilevante, e che assumono alla fine un aspetto metatematico: il gioco e lo sport 6. Tuttavia il legame che unisce le serie di elementi raggruppati attorno ai nuclei del gioco e dello sport non viene arbitrariamente innestato da Wilder in funzione di una messa a punto della macchina-film; così come quei nuclei non nascono da una riflessione metalinguistica dell’analista o del critico alle prese con classificazioni e “riformulazioni” secondo paradigmi più o meno accettabili in cui costringere la continuità concreta del testo. L’individuazione testuale e la formulazione concettuale di questi elementi di fondo (e la scoperta degli stretti legami che li saldano nel processo concreto del film) strettamente sono inerenti al disvelamento progressivo dei meccanismi del testo; sono strettamente inerenti al dispiegamento della fiction; sono strettamente inerenti alla rivelazione progressiva delle dominanti testuali innescate tra attore e ruolo, tra “impedimenti” e “scioglimenti” (delle vicende e del testo), tra eventi e significati, tra situazioni concrete rappresentate sullo schermo e area implicata delle significazioni e delle valutazioni. In tal modo, anche l’elemento del gioco è ricondotto al recupero di una condizione essenziale della conoscenza, si pone come quel costrutto o meccanismo che consente di stare piazzati in mezzo al mondo, nel cuore della società e delle sue sublimazioni spettacolari (magari progettando i film in un appartamento al centro di New York): ma con gli occhi bene aperti e i sensi tesi a cogliere le lacerazioni e gli strappi, i congiungimenti e le dissonanze dei significati e dei valori che orientano il ritmo della vita quotidiana e alimentano i suoi fantasmi. Per questo, il gioco diviene una sorta di lente di ingrandimento attraverso cui sottoporre a esame la situazione nella quale si è invischiati tutti i giorni; e, magari, per ritardarne o esorcizzarne il ritmo del coinvolgimento. Il gioco diviene il “codice” che consente di tracciare le coordinate dei fatti e proiettarne il senso sullo specchio della rappresentazione; per congiungere, alla fine, fatti e coordinate nel gioco dei testi (i film). Il gioco è la condizione di un occhio che scorge le regole e i contenuti dei rapporti 6 Baciami, stupido appare come un’“esercitazione” sportiva molto pericolosa che mette in gioco valori sacrosanti come l’amore coniugale o la trasgressione extraconiugale; viceversa, in film come Il valzer dell’imperatore o come Arianna o come Testimone d’accusa il gioco appare come una condizione essenziale da restituire all’andamento dei rapporti individuali e sociali: gioco dell’amore e delle diverse età della vita, gioco delle possibilità vitali scoperte dietro la maschera, gioco dell’intelligenza come levatrice e tutrice del crimine in quanto “opera d’arte”, ecc.
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sociali; è il modello della regolarità che consente di tracciare il quadro dei rapporti sociali e culturali. È quella dimensione che orienta l’assuefazione alla vita quotidiana; quella condizione praticabile – eppure inafferrabile alla fine – che, sia pure attraverso una serie di fatti, di eventi e di comportamenti misurabili e prevedibili, dà luogo ad un “risultato” che si pone e scompare all’istante non appena finisce il processo in atto del gioco giocato; non appena si esaurisce la liturgia di un rituale che si differenzia sostanzialmente dai processi indefiniti del “movimento in avanti” del desiderio socializzato. Il gioco tende ad un risultato, al suo risultato, ma la natura di questo risultato è il suo dissiparsi nelle maglie del giocare, il suo costituirsi come obiettivo evanescente al di fuori della macchina del giocare il gioco. Il gioco tende inevitabilmente al risultato, eppure questo “svanisce” non appena (e proprio perché) conseguito. Poiché quel risultato è, letteralmente, la fine del gioco, conclusione definitivamente ratificata e irreversibilmente conseguita del giocare (Baciami, stupido, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?, Sabrina, Arianna, Il valzer dell’imperatore, Non per soldi… ma per denaro, Testimone d’accusa). Questo aspetto non-strumentale del gioco (dunque il gioco come meccanismo del piacere) è evidente in film come A qualcuno piace caldo. In cui il gioco si pone sì come meccanica interna al testo che lo dilata e lo complica, distendendolo con trovate e metamorfosi continue che tendono le situazioni, le vicende e i rapporti tra i personaggi nel godimento di una suspense del comico che percorre come un brivido il film; ma dove il gioco vale per se stesso come dimensione diversa del piacere e del desiderio. Il piacere del raddoppiamento “indeterminato” delle possibilità nell’assumere un’altra identità, e nel perlustrare i confini della sessualità e i misteri di un sesso sconosciuto dal suo interno e dall’interno delle sue maschere. Piacere dell’esplorazione dell’altro sesso come un altro mondo, e desiderio di violarne i confini al di là del travestimento, di proseguire il gioco al di là del tempo ad esso concesso dalle “ragioni della trama” e dalla durata del film. E, ancora: il gioco come libero accesso al desiderio di appropriarsi di altri piani e territori di dispiegamento per il tramite della parodia: che è un modo di prendere il posto di un altro e di stare per un altro (Tony Curtis che prende il posto di Mr. Shell Jr., e, nello stesso tempo, sta al posto di Cary Grant diretto da Hawks; Marilyn che prende il posto di una donna sognata tutta la vita, e Jack Lemmon che sta al posto del simulacro della sua simulazione per “sistemarsi”). Questo giocare a pren-
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dere il posto di un altro è altresì evidente in film come Irma la dolce, Arianna, Baciami, stupido e Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?, con varianti e risvolti dislocati su diversi fronti. Questa “ambivalenza del gioco” segna anche la sua affinità primaria con l’“ambivalenza della vita”, il cui risultato finale non risiede in altro se non in una conclusione definitiva e inappellabile (la morte), in un’irreversibile confluenza del vivere nel suo finire. Dunque, la “vitalità” del gioco è nella sua stessa “attualità”, nella sua processualità che discosta dal finire; nel suo restare in piedi mentre punta verso la fine come verso la conclusione di una qualunque “partita”. E nello stesso tempo, come nello svolgersi della narrazione, la vitalità del gioco è nel dissimulare e nel ritardare la sua fine con ogni mezzo, affrettando e nello stesso tempo differendo il risultato. Allontanando una conclusione del giocare che, in sé, non appartiene al gioco in quanto tale, non appartiene al gioco concluso, al gioco giocato, ma al gioco che gioca se stesso e la sua “ingegneria” svincolata dalla “posta”. Gioco del giocare e del differire la regola suprema della sua conclusione o della conclusione comunque: desiderio mantenuto di continuare secondo le regole, secondo qualunque regola, e di ritardare la fine, la conclusione. Questa “angoscia della conclusione” motiva e spiega tutta una serie di meccanismi del “gioco del differimento” e della simulazione di una continuità ininterrotta del giocare, che costituiscono la vitalità di molte macchine-film di Billy Wilder. La scoperta-rivelazione del segreto è il risultato differito e la conclusione rinviata fino alle ultime sequenze su cui si regge il “gioco dei travestimenti” in I cinque segreti del deserto. Gioco che tiene in vita il “mistero” che ritarda la soluzione degli impedimenti che avvicina la conclusione del film. Gioco che differisce la rivelazione anche quando la soluzione dell’intrigo è vicina, visibile, palpabile (anzi: proprio quando è più abbagliante): fino alla conclusione e al disvelamento del “mistero” che è la conclusione e il disvelamento del piacere del film. L’angoscia della conclusione è il risultato differito nel gioco tra Walter Neff e Barton Keyes in La fiamma del peccato, dal momento che il film si costruisce sulla “negazione del risultato finale”, peraltro già anticipato in apertura dalla confessione del protagonista. Gioco negato proprio mentre viene rivelato: gioco mantenuto in vita – nonostante la sua denegazione e la sua messa in crisi – mediante il proseguimento di un altro gioco costituito dal meccanismo del disvelamento del “mistero” come gioco che inizia sulle ceneri di un gioco che fini-
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sce. Finito il gioco della truffa e del raggiro (tra l’assicuratore e la Compagnia, e tra la donna e l’uomo) ha inizio la perversione di un altro gioco: quello consistente nel disvelamento del “segreto del film” (della sua trama), che il protagonista regala allo spettatore per il tramite di un destinatario fittizio (Barton Keyes) all’inizio del film. Singolare mescolanza di “finzione” e “realtà”, il gioco costituisce l’essenza stessa del narrare, nell’illusionismo giocato ininterrottamente fra artificio e “naturalità”, tra verosimiglianza e trucco. In questo intrigo, è la verosimiglianza ad apparire “eccedente” di fronte al “grigio del reale”, in maniera tale da costituire il viatico della “rivelazione” di ciò che si vuole (apparentemente) tenere celato, pur nella continuazione di un giocare con lo spettatore con tutte le carte in regola. Lo stesso principio regge il gioco di Chuck Tatum in L’asso nella manica, la cui conclusione (il successo), una volta acquisita, distruggerebbe proprio il piacere del gioco e il senso che questo assume come “rivelazione scandalosa” di quel gioco delle parti che domina i rapporti sociali. Il piacere del gioco verrebbe ad essere cancellato e rimosso nell’acquisizione di un risultato verso il quale il gioco sembra tendere con tutte le sue risorse, e senza alcuno scrupolo, secondo i principi di una logica spietata della sopraffazione che agisce come la “norma sociale” vincente. Si potrebbe dire che il gioco di Chuck Tatum – come quello di John D. Sefton in Stalag 17 – eccede in coerenza le norme del gioco della macchina sociale basata sulla concorrenza e sul conflitto, sia pure mascherati nelle leggi che amministrano le soglie indefinite tra lecito e illecito, tra consenso e divieto. Il conseguimento di quel risultato da parte del giornalista vorrebbe dire la “fine del gioco”, nell’acquisizione statica di una condizione sociale gratificante: quella del dominio simbolico che il successo esercita come riconoscimento pubblico del luogo occupato nella gerarchia dei valori sociali. Il risultato, comunque, viene costantemente ostacolato da tutta una serie di impedimenti che inceppano il meccanismo perverso della montatura giornalistica del “caso di Leo Minosa”, il minatore mantenuto in vita come “fonte” della notizia e come “generazione” costante di un’informazione che coincide con il mantenimento del potere da parte del giornalista che la amministra (anzi, che la fa essere, ponendosi come “origine” e come copyright del piacere innescato nel pubblico – moltitudine mostruosa e vorace – dal gioco vita/morte che si diparte dalla vicenda del minatore). La montatura giornalistica funziona dunque come gioco pubblico aberrante, come pasto
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di moltitudini che si cibano di vicende, anche inessenziali, che riguardano giorno per giorno e ora per ora la morte differita del sepolto vivo. Vicende che sono la congiuntura favorevole per i mercanti accorsi a sfamare la folla; vicende che sono incremento degli affari per la moglie di Leo (che approfitterà dei guadagni sopraggiunti per fuggire appena possibile). È un gioco mostruoso che riproduce le dinamiche che mantengono inalterata una società famelica, e che richiede un grande investimento energetico per il giornalista. Energia vitale che viene sottratta, materialmente, al minatore, e deviata verso gli sforzi del giornalista proteso verso il successo ad ogni costo. Per cui, alla fine, la morte di Leo riconduce alla realtà di un fatto crudo non più manipolabile, sottraendo al gioco la sua maschera e il piacere perverso del giocare. Allo stesso modo in A qualcuno piace caldo il travestimento scatena il meccanismo degli spostamenti e dei differimenti che allontanano l’angoscia della fine del gioco: fino alla battuta finale («Nessuno è perfetto») che ripropone il gioco degli equivoci e del travestimento al di là della conclusione del film. Che ripropone la continuità perversa dei trucchi nel gioco dell’assurdo consegnato al reale; e, dunque, affidato al passaggio dallo schermo alla vita, tramite quella scarica energetica della risata che libera dalle inibizioni e consente lo “spreco del gioco” anche nella realtà. Così, in Non per soldi… ma per denaro il gioco mantiene in vita la finzione e l’inganno come propulsori della truffa, area del gioco che tiene in piedi il film e il desiderio dello spettatore. Desiderio destato dall’interesse e dal piacere per l’infrazione alle norme, vista come una sorta di “ammontare di capitale sociale” che disvela i reali rapporti intersoggettivi basati sull’intrigo e sulla corruzione (sebbene l’alone finale del film – e del gioco – cambi indirizzo, pacificando il background morale dello spettatore e recuperando un’“innocenza” del giocare infantile nella partita tra Boom-Boom Jackson e Harry Hinkle; dal momento che amicizia e onestà si costruiscono una “zona diversa” e innocente del giocare, e suggeriscono – nel desiderio – una ripresa indeterminata del gioco, al di là delle sue conclusioni inevitabili nell’acquisizione di un “qualunque risultato” come posta della partita). Gli esempi, a questo punto, si potrebbero moltiplicare, solo pensando al raffinato gioco tra verità e apparenza e tra trucco e disvelamento in Vita privata di Sherlock Holmes; in cui il gioco ben giocato secondo le regole istituzionali differisce il disvelamento finale di un’insostenibilità del gioco tra intelletto e desiderio. Oppure, pensando al gioco inscena-
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Billy Wilder
to in Uno, due, tre!, che tende all’equivalenza potenziale delle “forze in campo”, ad un confronto “sportivo” tra opposti modelli di esistenza e di struttura sociale (quello capitalistico e quello socialista), che vengono mostrati come impegnati a giocare una “partita amichevole”. Eppure, al di là di questo primo livello di “parentela” tra gioco e vita, si intravvede un secondo livello di interazione e di “complicità” che regge il gioco e i giocatori. Questo secondo livello di “lettura” del gioco è inscritto nella possibilità di proiettare nel suo spazio del gioco il senso di un “rituale simbolico” sul quale si reggono e proliferano i rapporti sociali; quei rapporti su cui si fondano le regole della “leggibilità” dei fatti e del meccanismo che genera fatti e significati come “testi della vita sociale” e dei modelli culturali. I rapporti sociali sarebbero impensabili, irrealizzabili addirittura, senza quel “gioco delle parti” che stabilisce e mantiene in vita il simulacro sociale come simulacro del valore; come simulacro di una tensione ininterrotta verso le acquisizioni e i risultati del possesso e del dominio sociale continuamente fatti balenare e continuamente sottratti. Il gioco diviene dunque una sorta di zona neutra, alone franco dell’esercitazione e dell’addestramento alle regole sociali della sopraffazione e del dominio. Diviene la metafora di un adattamento ai rituali sociali che muovono eventi, situazioni, sentimenti e persone, scelte e desideri: tutta l’energia vitale mobilitata tra accumulo e dispendio, tra progetto e spreco, tra tensione e piacere, tra pulsioni e censure. Il gioco acquista un valore in sé non solo come proiezione significativa delle norme che mantengono in vita i meccanismi della società e della cultura, ma anche come pratica continuata, come esercizio ininterrotto del giocare dei valori, dei significati, dei simboli e dei fantasmi dell’illusione. Ciò vuol dire che viene affermata la realtà del gioco come valore sociale, replicato in quei “testi della cultura” che sono i modelli e i comportamenti individuali e collettivi restaurati nello spettacolo cinematografico. Per questo nel film di Wilder la natura e gli elementi del gioco si presentano concentrati e centrati in un nucleo fondamentale rappresentato da una coppia impegnata in uno speciale gioco delle parti, attraverso il quale vengono esplicitati i rispettivi ruoli sociali e la loro trasformazione secondo le regole più diverse (da quelle che dominano la realtà istituzionale del box-office a quelle – rovesciate e simmetriche – della truffa e dell’intrigo, dell’inganno e del crimine). In genere le regole del gioco nelle coppie wilderiane si muovono tra diversi sistemi di valori e contrapposti modelli di comportamento, mes-
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si a confronto e “assediati” dai reciproci tentativi di sopraffazione e di trasformazione nel tentativo di “accumulare un punteggio” a svantaggio dell’avversario. Un caso evidente di questa dinamica è dato dal gioco che si instaura tra i protagonisti di Scandalo internazionale, dal momento che vengono posti a confronto e messi in discussione il sistema di valori “intatto” della donna-modello americana (che giunge nella Germania del dopoguerra per controllare “il morale delle truppe d’occupazione”) e i sistemi di adattamento alle regole del gioco seguiti dai militari americani; che hanno, essi stessi, provocato quella speciale situazione del gioco-rovina conseguente al “gioco della guerra”. L’“effetto-scandalo” è dato dalla convergenza e dal ribaltamento di questi diversi sistemi di valori; dalla fagocitazione di uno schema di comportamento dalla parte dell’altro; dalla vertigine del piacere e dell’amore che soffoca il dovere. Per cui lo scandalo del compromesso e dell’adattamento è lo scandalo di una partita che finisce con un pareggio, e cioè smettendo la “divisa della morale pubblica” per adottare quella dell’interesse privato e del piacere. Un altro esempio viene dato dal gioco di Arianna e l’anziano vacuo play-boy (un Gary Cooper poco convincente), in cui la contrapposizione dei sistemi di valori e dei modelli di comportamento si ribalta e si rovescia; in un gioco a rimpiattino che sembra non approdare ad una conclusione, perché si tratta di una conclusione del gioco che è anche una conclusione da favola, dunque ritardata il più possibile: il “rapimento” della cenerentola da parte dell’anziano miliardario. Infine, si ha ancora un esempio con Prima pagina, in cui il direttore del giornale e il “suo” redattore prediletto rappresentano – al di là di un gioco di sfumature che nascondono e rivelano una relazione omosessuale sublimata – lo svolgersi di una partita tra continuità e cambiamento, tra rispetto delle regole del gruppo e infrazione e “tradimento” da parte di un membro che vuole abbandonare il clan per vivere una “vita diversa”.
Macchina Se vogliamo guardare al cinema di Billy Wilder dal punto di vista di alcuni degli elementi di fondo che lo caratterizzano in maniera inequivocabile, ci accorgiamo che gli elementi del gioco, della truffa e dell’intrigo si presentano: come elementi-costrutto (= specifiche forme del contenuto che attraversano i film, che ne fissano e ne orientano l’anda-
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Billy Wilder
mento dei significati e la forma del contenuto in generale, mediante una ripartizione delle aree del significato – o senso – espresso come “risultato” degli obiettivi del film-testo); e come elementi-meccanismo (dispositivi che “generano” il testo in quanto macchina che trasforma materiali e forme, non tanto in vista di un “lavoro” da compiere o di un risultato esterno a quel “lavoro” da conseguire, quanto in vista di un “lavoro” che mantiene in movimento la macchina-film in quanto tale). In altre parole, gioco, truffa, intrigo costituiscono i gangli di quel macchinario complesso che è il cinema di Billy Wilder, macchina che genera i testi, i film, e, con essi, si assicura la “riproduzione allargata” del materiale investito e l’amplificazione dell’impiego produttivo; proprio mediante l’adozione di speciali meccanismi della produzione del senso che fanno del film un “prodotto” che, a sua volta, ingenera altri bisogni e altri “prodotti”, altri significati e altri testi; e che, nel fare ciò, mantiene in vita quell’apparato produttivo e quel dispositivo semiotico che è “il cinema di Billy Wilder”. I testi prodotti dall’apparato cinematografico e dal suo dispositivo semiotico si rivelano dominati da una forte funzione simbolica, richiesta dal meccanismo della cultura impegnato nella fabbricazione di esigenze e attese come “testi-obiettivo” della società di massa. Tali “testi-obiettivo” assicurano una ricomposizione delle tensioni e delle attese mediante una sublimazione della soddisfazione: che viene ottenuta adattando il macchinario della cultura ad una produzione idonea alla “società dello spettacolo”. I bisogni sociali appaiono regolati dalle leggi della produzione economica secondo una divisione del lavoro che conferma e garantisce una divisione delle classi; divisione che attraversa di fatto la società e che deve essere “ricomposta” e occultata in un livello conforme e unitario di accettazione delle regole del gioco sopraindividuale e posto al di là degli interessi di classe. Così, l’enorme dispendio di energia produttiva della cultura di massa ha il compito e l’obiettivo di spostare sul piano spettacolare delle sublimazioni indotte i bisogni ingenerati nella società; i quali tendono a sfuggire di mano allo stesso macchinario che li ha prodotti (Viale del tramonto, Quando la moglie è in vacanza, L’asso nella manica, Scandalo internazionale). Ci spieghiamo, in tal modo, l’enorme dispendio delle risorse culturali dispiegate nella “produzione di spettacolarità” che investe i Valori e gli Emblemi Sociali; così come ci spieghiamo la normalizzazione dei modelli di comportamento che devono fare fronte alle diversioni, alle elusioni, ai ribaltamenti, agli spostamenti che possono verificarsi nel corpo sociale o negli
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individui; per essere in tempo a “correggerli” mediante “adattamenti” e mediante parziali trasformazioni adeguate alle esigenze dell’apparato economico e produttivo dell’industria assunto come “macchina primaria” della produzione di socialità. Da questo punto di vista, il cinema in quanto apparato produttivo impiega il suo dispositivo semiotico per “generare” una serie di testi che soddisfa, da una parte, la “produzione dell’incremento di produzione”, e dall’altra parte, l’esigenza di una spettacolarità di massa; attraverso la quale passa la sublimazione di bisogni e di attese come premessa e come condizione di una saldatura rassicurante tra economia e cultura, tra produzione di merce e produzione di valore simbolico. Gli elementi del gioco, della truffa e dell’intrigo sono anche gli elementi rivelati di un macchinario delle sublimazioni (la cultura come spettacolo del gioco: sport dei rapporti sociali) che regge la produzione dell’apparato del cinema e la “produzione dell’incremento di produzione” garantito dalla circolazione della merce della cultura (in cui si riflettono le sublimazioni che cementano il corpo sociale nelle regole del gioco; e su cui si regge il dispositivo semiotico che mette in scena il funzionamento del macchinario sociale e culturale come produzione di quella totalità che è la “cultura della merce”, e come generazione di testi il cui senso è stabilito dall’industria in quanto industria culturale tout-court). Il cinema diviene, così, una macchina-apparato che mette in scena il dispendio della cultura come capitale investito dall’industria nella produzione di testi, che tendono a confermare il valore-incremento della produzione industriale di cultura come produzione di valori simbolici ancorati alle dimensioni spettacolari della socialità e delle sue regole. Nel far ciò, la macchina-cinema di Billy Wilder produce anche una sorta di feed-back che ri-produce lo scarto tra dispendio investito e valori indotti (prodotti): consentendo il capovolgimento e la rifrazione della spettacolarità sulle ragioni profonde della cultura come industria e dell’industria come cultura. Non ci si spiegherebbe altrimenti la fissione del “gioco” (sociale e culturale) nelle regole della “truffa” e dell’“intrigo”, se non come disvelamento, rovesciamento e ribaltamento del gioco sociale dei valori. In tal modo il gioco, la truffa e l’intrigo rivelano un significato assai più profondo di quello velato nei rilievi della critica a proposito del congiungimento tra sesso e denaro nei film di Wilder. Spiegano il gioco dell’“American game” (Sabrina, Arianna, L’appartamento), e il gioco con il pub-
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blico nelle allusioni frequenti ad un voyeurismo latente (Viale del tramonto, L’asso nella manica, Prima pagina); spiegano l’accostamento allo sport e ai suoi valori metaforici (Non per soldi… ma per denaro); spiegano la ruffianeria come arte del gioco della corruzione (Irma la dolce, Baciami, stupido, ecc.). Ma spiegano anche i contenuti del gioco, della truffa e dell’intrigo come costrutti rovesciati della società contemporanea, e come funzionamento reale dell’industria in quanto macchine di alimentazione del gioco sociale; attraverso la voracità e la volgarità impiegate come “strutture culturali” dell’universo della merce. In questo universo, alla voracità del singolo fa riscontro una volgarità “congenita” della folla in quanto portatrice della volgarità vorace della merce (e quanto a sproposito si è parlato della “volgarità” di Billy Wilder perché il regista riproduceva quell’“altra” volgarità sociale della merce e delle sublimazioni “basse” che la toccano!). In L’asso nella manica e in Prima pagina uomini e cose non sono che merce, volgarità del denaro, volgarità delle “cose”, riepilogata in una “volgare aristocrazia del potere”. Ma la volgarità non è altro che la condizione normale (e normativa) dello smercio, condizione culturale degli antieroi protagonisti delle storie di Wilder (basti pensare al “tratto volgare” che caratterizza l’atteggiamento di Wendell Armbruster Jr. nei confronti di Pamela Piggott in Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?, a difesa di un improbabile “onore di famiglia” che vuol dire difesa di privilegi e rituali di casta). D’altra parte, il pendant della “volgarità dello smercio” è costituito dall’ingenuità o dalla stupidità, dall’ignoranza acquiescente e complice. Volgarità vuol dire anche presentare, esibire brutalmente le cose, le situazioni e le relazioni umane, invece che “rappresentarle” in un pacificante universo estetico. Le immagini di L’asso nella manica “offendono” il pubblico dell’apparato produttivo (dell’industria e del cinema), poiché soprattutto in certi film (Viale del tramonto, L’asso nella manica, Prima pagina) non vengono messe in atto mediazioni operate da codici culturali di “intercomprensione” (e giustificazione moralistica) delle “due realtà” (industria della merce e cultura della merce); ma viene spettacolarizzata l’aggressività caratteristica delle “verità comuni” rimosse, del “senso comune” truccato, della cultura come macchina della sopraffazione; e la realtà commerciale dello smercio delle cose e degli uomini truccata secondo i rituali del camuffamento sociale. Il peso della voracità e della volgarità in Wilder è, d’altra parte, il peso della “verità” di una sorta di “materialismo storico extra litteram” che
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rivela una delle regole sociali di base. Approfittare delle circostanze, di tutte le circostanze (ivi comprese le persone e gli affetti ridotti a “circostanze materiali”) è la legge della cultura e della società delle merci e dei rapporti sociali intesi come merce; ed è il meccanismo rivelato nei testi della macchina del cinema. L’inganno è coerente, la logica delle persone è sempre molto coerente con l’inganno-intrigo delle cose, secondo le ripartizioni operate dalla gerarchia sociale e culturale. «Non voglio denaro da voi che state facendo tanto per mio figlio», dice il padre di Leo Minosa in L’asso nella manica, mentre la moglie di Leo si prepara ad abbandonare il marito che sta morendo. La brutale coerente “logica dei fatti” è quella stabilita dal protagonista, da Chuck Tatum, che li domina restando sul posto dello sfruttamento: facendo morire Leo Minosa e impedendo alla moglie di andarsene finché egli non avrà ottenuto il massimo profitto, “date le circostanze”, dall’agonia di Leo.
Travestimento In A qualcuno piace caldo e in Irma la dolce la meccanica del travestimento appare esplicitata in tutta la sua potenzialità, e nell’intera gamma di gradazioni e varianti che toccano sia i piani interni al film e sia i piani di un discorso più generale reperibile a livello metafilmico e metacinematografico. La meccanica del travestimento acquista una sua specifica identità nella funzione di centro motore del film; e in un’azione di spinta convergente verso un luogo delle concentrazioni da cui si diramano varianti e intersezioni di ordine tematico e di ordine linguistico che sono “canoniche” nella filmografia di Billy Wilder (innocenza e corruzione; irrealtà e verità; visione e cecità; finzione e realtà; rilevanza e superficialità; gioco e serietà; “lettera” e metafora; ecc.). Ma, se in A qualcuno piace caldo il travestimento può apparire come un espediente della meccanica della fabula, una “trovata” narrativa per sciogliere gli impedimenti strutturali della narrazione, in Irma la dolce il travestimento da espediente diviene elemento metalinguistico, discorso e rivelazione del cliché, del modello codificato del gioco che intercorre tra “impedimenti” e “soluzione” del racconto secondo determinati meccanismi e artifici. In A qualcuno piace caldo la narrazione si incaglierebbe subito nelle secche di un “cumulo” iniziale di impedimenti tematici (il sequestro e la morte dei due suo-
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Billy Wilder
natori, testimoni del massacro di S. Valentino), in cui resterebbero sepolti i protagonisti del gioco; il quale si struttura proprio in un differimento continuato dell’impedimento rappresentato dal pericolo di morte per mano della mafia. Il racconto vive proprio del gioco tra impedimento e soluzione, nel rimpiattino consentito dagli specchi dei trucchi, nell’apparire e disparire continuo di impedimento e trucco, di nodo e di scioglimento giocati nelle dinamiche delle identità che si fanno e si sfanno, che si fronteggiano e si negano proprio nel travestimento. Trucco e travestimento si mostrano proprio come “espedienti” e come “trovate” enunciate nella loro funzione interna al racconto e nella loro finzione raffinata, che consente di realizzare un film sui generi cinematografici, e che, soprattutto, consente di fare del comico una sorta di “metagenere” che contamina e sommuove la meccanica che regge i generi cinematografici. Per cui si può vedere bene come il piano tematico di A qualcuno piace caldo sia sottoposto ad una meccanica strumentale che diventa il viatico e il canale espressivo per parlare d’altro, per parlare, cioè, della riscrittura dei generi cinematografici, delle mode, della storia del cinema, dell’uso dell’attore, della fine dei generi nella loro dilatazione tematica e formale: un pretesto per parlare del cinema e per parlare dei cliché cinematografici (e all’interno di questa operazione metalinguistica acquistano un rilievo distanziato, citato, e forse proprio per ciò forte, tutta una serie di tematiche care a Wilder: lo scambio delle identità; l’omosessualità latente e affiorante; il rapporto attore/spalla; la relazione giocatore/giocato). Al contrario, in Irma la dolce questo quadro di riferimenti e di parametri formali e linguistici cambia sostanzialmente orientamento, o, per meglio dire, segna un approfondimento di quell’orientamento teso ad esplorare tutte le possibili direzioni implicate. Come, per esempio, quella costituita dalla dimensione di un citare la citazione, nel costruire un film esplicitamente orientato sulla rivelazione palese dei cliché e degli espedienti (e ammiccando di frequente, nella maniera più frequente che Wilder abbia mai adottato, al pubblico; e spiattellandogli sullo schermo non tanto i segreti dell’intreccio e i percorsi del cumulo degli impedimenti, quanto l’alone magico delle soluzioni “inspiegabili” e assurde del racconto, le ellissi caratteristiche dei contenuti e dei percorsi alogici della favola). Elementi che sostengono la “filosofia” wilderiana, riassumibile nell’enunciato di fondo che attesta come la verità sia inesistente, incongrua, incoerente e inapplicabile alla realtà, agli schemi che consentono
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la leggibilità del mondo secondo i tratti del reale. Per cui proprio le vicende “reali” – ma si tratta di quelle esposte sullo schermo – appaiono inconsistenti e non credibili per definizione e per costruzione, secondo il riassunto che Moustache fa della situazione in cui viene a trovarsi Nestor Patou accusato dell’omicidio dell’inesistente eppure “reale” Lord X: travestirsi da Lord X per fare l’amore con Irma, anzi, per impedire che Irma faccia l’amore con altri, e, dunque, paradossalmente, per impedire che faccia l’amore proprio con Lord X. Pagarla per fare l’amore con Lord X, e cioè per non fare l’amore che con il sostituto travestito di Nestor Patou, con il suo doppio. Andare a lavorare per procurarsi il denaro da dare a Irma per il tramite di Lord X, e riaverlo da Irma come Nestor Patou, amante e protettore. Dunque lavorare per fare l’amore a pagamento con una donna con la quale si fa già l’amore gratis – e per amore –; e dalla quale addirittura, per questo, si riceve del denaro. Denaro che viene guadagnato per mantenere in piedi questo gioco di sostituzioni, di doppi e di differimenti… Insomma, la finzione eccede il “reale”, anzi consente di rivelare i percorsi insoliti del reale, di proiettarli sullo schermo delle soluzioni meno credibili ma prontamente raccolte dalla commedia, dal comico, dalle finzioni dell’arte e dal cinema. Il travestimento, dunque, si spiega come “macchina” del racconto, come macchina che consente di proseguire la narrazione sulla falsariga di tutti gli artifici che ne costituiscono il fascino e l’essenza. Da questo punto di vista, si capisce bene come in Vita privata di Sherlock Holmes il racconto appaia citato come tale, come “macchina” che regge il piacere della finzione nel piacere del disvelamento delle finzioni; che, a sua volta, occulta tutta un’altra serie sotterranea di finzioni. Sherlock Holmes lavora per scoprire le “reali” macchine del “travestimento della verità”; e la sua intelligenza, la sensibilità e le tecniche di un’esperienza consumata sono al servizio del disvelamento dei trucchi e delle macchinazioni che coprono la verità e le sostituiscono la veridicità dell’inganno: quel “secondo universo” che raddoppia il primo universo della “realtà”; l’universo della truffa e del crimine che duplica e capovolge – perforandolo e rendendolo “vero” – l’universo retto dalla Norma e dalla Legge. Eppure, il disvelamento delle macchine e delle macchinazioni è, molto probabilmente, una “macchina” a sua volta, che traveste e sostituisce una realtà rovesciata di fondo: l’omoerotismo di Sherlock Holmes. Che non per caso viene “registrato” prima del “falli-
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mento dell’intelligenza”, all’inizio del film (e come fallimento di un “macchinario primario”, il sesso, che sintomaticamente annuncia e anticipa il fallimento di un “macchinario secondario”, l’intelligenza). Se, rovesciando l’ipotesi di Alessandro Cappabianca 7, è vero che l’intelligenza riesce proprio perché fallisce, allora è vero che l’intelligenza riesce laddove scopre la sua “secondarierà” – artificiale in qualche modo – rispetto all’accamparsi di una “macchina primaria” (quella del sesso). O che, addirittura, il successo dell’intelligenza consiste nel non “bloccare” il desiderio dell’inganno e dell’abbandono alla realtà del travestimento, o alla condizione del travestimento del reale come suo estremo perfezionamento. Per cui la catena dei fallimenti (dalla “prima” alla “seconda” macchina) starebbe sintomaticamente ad indicare una sorta di “metafisica del travestimento” che non è facile demolire o smontare; pena la delusione di un vivere quotidiano sottratto alla spettacolarità della finzione e all’inganno del piacere del trucco.
7 L’ipotesi di A. Cappabianca è la seguente: «Abbiamo già notato che lo Sherlock Holmes wilderiano si riallaccia all’avvocato Robarts (Charles Laughton) di Witness for the Prosecution, nello scacco finale dell’intelligenza che fallisce proprio perché riesce: la trappola, consegnata in tutti e due i casi da una donna (lì Marlene Dietrich, qui Geneviève Page), consiste nel tener celato qualcosa proprio perché lo si scopra (Witness) o nel far cercare l’oggetto A perché venga trovato l’oggetto B (Sherlock)» (A. Cappabianca, Billy Wilder, cit., p. 83). Ma teniamo presente anche il bell’articolo di Franco La Polla, La maschera come opposizione e come integrazione in Billy Wilder, in «Filmcritica», n. 234-235, 1973, nel quale cogliamo un’altra interessante ipotesi (esemplata discutendo di Vita privata di Sherlock Holmes e di Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?): quella di un congiungimento «necessario» tra la funzione-maschera e il tema del fallimento in Wilder. Congiungimento «necessario» tra un’ossessione (la maschera come «segnale» di una distanza incolmabile tra «Apparenza e Realtà» e tra «sembrare ed essere») e una condizione di fondo (il fallimento).
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INSERTO FOTOGRAFICO
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1. La fiamma del peccato (1944).
2. Giorni perduti (1945).
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3. Scandalo internazionale (1948).
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4. Viale del tramonto (1950).
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5. L’asso nella manica (1951).
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6. Stalag 17 (1953).
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7. Quando la moglie è in vacanza (1955).
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8. Testimone d’accusa (1957).
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9. A qualcuno piace caldo (1959).
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10. L’appartamento (1960).
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11. Uno, due, tre! (1961).
12. Irma la dolce (1963).
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13. Baciami, stupido (1964).
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14. Non per soldi… ma per denaro (1966).
15. Vita privata di Sherlock Holmes (1970).
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16. Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? (1972).
17. Prima pagina (1974).
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PARTE II
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BILLY WILDER E LO SPIRITO DELLA COMMEDIA OVVERO: LE LEGGI DELLA SOPRAVVIVENZA
Con Billy Wilder si ha, probabilmente, la definitiva americanizzazione della commedia europea mediante la profonda integrazione tra “macchina del comico” e “macchina sociale”, dove il quoziente di realismo prelevato dagli intrecci quotidiani risulta assoggettato al “doppio taglio” del comico (piacere regressivo del gioco, controllo dell’ansia del soggetto inappagato). Ne risulta programmaticamente un’eccedenza di realismo, un insistere quasi morboso sull’intrigo di tutti i giorni in alternativa alla soffice irrilevanza dell’equivoco nella commedia sofisticata, i cui rituali dell’inganno vengono ora sopraffatti da uno spreco tutto contemporaneo delle risorse del soggetto nel tentativo mai risolto di percorrere una situazione con il minimo danno possibile. Si fa strada una commedia delle pulsioni e del loro travestimento, in un’accelerazione degli sforzi di aderenza alla lettera di un ambiente che si caratterizza per la concitazione esasperata dei rapporti sociali e dei vincoli simbolici che li sorreggono. L’eccedenza di realismo si pone in Wilder come riproduzione ossessiva del cerimoniale sociale che costringe al consenso il soggetto inappagato e come divaricato tra un’immagine di sé inadatta alla commedia esistènziale e un’immagine sovraimposta che impone l’adesione a regole di vita che erodono implacabilmente le resistenze dell’Io alle macchinazioni immaginarie, dove si realizza la scissione tra il soggetto della maschera e il soggetto delle pulsioni originarie (ovvero: tra identità del soggetto e posizione originaria del desiderio). È come se la situazione iniziale del soggetto coincidesse con un disaccordo preliminare dell’Io rispetto alla pressione sociale e ai valori che mette in circolazione: il successo (negli affari e con le donne), il possesso (dei beni materiali e delle situazioni affettive), l’identità (involucro del soggetto nella rappresentanza pubblica, ufficiale, che richiede una simbolica di adattamento e
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Billy Wilder
una plastica disponibilità al raggiro e alla truffa visti come condizione della sopravvivenza materiale e non materiale). La commedia americana “alla Wilder” descrive un moto forzato di integrazione tra il soggetto e la società che ha il senso, il “verso”, di un passaggio obbligato da una situazione di scacco iniziale, non-saputo, ad un’affermazione tutta esteriore dell’Io che pareggia – nella sublimazione – pulsioni del soggetto e pressioni sociali (Scandalo internazionale, Sabrina, Arianna). In primo luogo, le pressioni sociali si presentano come forzatura del soggetto ad accettare le norme che presiedono alla socializzazione, alla sua circolazione pubblica secondo linguaggi e comportamenti appropriati, nella disponibilità ad accettare le regole del gioco e la sfida della collettività, il duello con la compromissione e il consenso. In molti casi la pressione sociale si manifesta come accettazione di un quoziente di realtà al di sotto del quale non è possibile sopravvivere secondo i tracciati di una vita adulta; pertanto richiede la sconfessione dolorante, e al tempo stesso comica, di un immaginario tutto privato e inaccessibile, al riparo dalle leggi della compromissione, tutto teso a conservare al soggetto una vita “leggera” come al di qua della pedagogia di mutazione dell’Io posto a contatto con la legge degli altri. La società è perciò vista come esternità che si attraversa meccanicamente e con circospezione alla luce scandalosa del giorno (traffici economici e sessuali, corruzione, raggiri in cui si gioca al rialzo l’affermazione individuale, inganni che regolano le pratiche simboliche del successo), dalla quale il soggetto ingenuo si difende ritornando al ripostiglio degli affetti privati, “chez-soi”; decentrandosi dal confronto; scartando la sfida, ripiegandosi al di qua della conflittualità; elaborando strategie di rifiuto che coincidono con lo scacco programmatico e con l’impotenza, con il rinvio inadempiente, con la dislocazione rimovente di una fondamentale inadeguatezza a misurarsi con il gioco sociale, con gli altri: in una parola, regredendo nell’immaginario consolatorio della propria impotenza denegata e sublimata nel rigetto della società o in una “eroica estraneità” al mondo che cambia ma che deve restare fuori di portata (Viale del tramonto, Giorni perduti, L’appartamento, Vita privata di Sherlock Holmes). Da questo punto di vista, si può rilevare nel cinema di Billy Wilder una vera e propria graduazione della soggettività, intesa come istanza di rappresentanza iniziale dell’Io in riferimento alle pressioni manipolative della società. Si evidenzia nei vari film un’articolazione delle posizioni del sog-
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Billy Wilder e lo spirito della commedia ovvero: le leggi della sopravvivenza
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getto di fronte alla necessità (rinviata, spostata, sublimata) di identificazione sociale (e di identificazione con i valori e le condotte del consenso sociale); una sua strategia ossessiva nell’occupare le periferie affettive, le zone d’ombra morbose e maniacali (Viale del tramonto, Giorni perduti, Vita privata di Sherlock Holmes); o, viceversa, si nota un suo eccedere nell’esporsi alla pressione sociale oltre misura, consegnandosi nelle mani degli altri senza difese, seguendo il gioco delle sublimazioni in un’adesione al macchinario del consenso che si vorrebbe puramente esterna e che non dovrebbe intaccare l’integrità dell’Io (Scandalo internazionale, L’asso nella manica, L’appartamento, Baciami, stupido). Ciò che è comunque evidente è la dialettica dell’inadeguatezza tra le elementari esigenze di integrazione e socializzazione e l’inadempienza dell’Io (L’appartamento, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?, Prima pagina). Di qui la sproporzione comica che scatena l’intreccio dei fallimenti o per una troppo ben riuscita adesione alla richiesta esterna (L’asso nella manica, Testimone d’accusa) o per una mancata aderenza ai meccanismi di sublimazione delle istanze primarie (Sabrina, Non per soldi… ma per denaro, Prima pagina). Le peripezie del soggetto inappagato e la mancata o troppo riuscita integrazione sociale nel coro del consenso puramente esteriore si saldano nel tema comico di un impossibile torneo tra soggetto e società, per cui il premio messo in palio troppe volte spaventa ancora di più della sconfitta (il possesso della donna spaventa più della solitudine, il denaro e il successo si pongono come documentazione impietosa della cessione dell’ingenuo “diritto all’innocenza” e alla gloriosa inabilità del soggetto; come la contromarca di una prevaricazione ben riuscita e come perdita dell’intatto stupore infantile di fronte alla corruzione e alle truffe materiali e morali). Secondo Northrop Frye 1, il tema del comico è l’integrazione della società tramite incorporazione di un personaggio centrale che fino a quel momento ne è rimasto escluso, mentre la trama della commedia (il suo mythos) delinea il movimento da un certo tipo di società a un altro, nel quale si ha la cristallizzazione di una nuova società attorno all’eroe con l’inclusione del maggior numero di persone nella società finale. In questo senso, la commedia tende a mostrare le dinamiche dei rapporti sociali e tende a legittimare l’ingresso di nuovi personaggi e figure di protagonisti nella società che muta. Ne deriva che l’intento della com1
Cfr. N. Frye, Anatomia della critica, trad. it., Torino, Einaudi, 1969 [N.d.R.]
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Billy Wilder
media è quello di rappresentare una società che si allarga, che espande i limiti prefissati, la cui capacità di estensione corrisponde alla capacità di assorbimento dei conflitti di ceto e interpersonali e di elastico inglobamento del nuovo. Il comico, in questa prospettiva, fornirebbe alla commedia quel quoziente di realismo (tematico e drammaturgico) implicato nel mutamento plurale dei cardini sociali e nelle mutazioni soggettive, spostando sulla scena le aspettative del nuovo pubblico di cui la società finale della commedia rappresenta il prolungamento simbolico. La trama comica, in tal senso, racconta l’emergere di un nuovo ceto sociale come proiezione dei desideri e dei caratteri di un pubblico più vasto, il pubblico della nuova società dei giovani, ed è per questo che l’obiettivo dell’incorporazione dell’eroe e della sua società è la falsa pista del tema dell’allargamento sociale, con la rimozione dei conflitti e l’inclusione nella società finale dei personaggi-ostacolo (gli “usurpatori” di vario genere, i sostenitori a oltranza del vecchio ordine sociale: vecchi viziosi, padri incontinenti, millantatori e ruffiani, sbruffoni e codardi d’ogni specie che hanno il compito di ostacolare la nuova società disseminando di impedimenti, truffe e inganni d’ogni sorta l’affermarsi della società dei giovani). Secondo questo schema (almeno in parte aggiornabile e utilizzabile per decifrare alcuni costituenti di base della commedia), il tema del comico punta alla rappresentazione non traumatica dell’integrazione di vecchio e nuovo, ma assolve anche il compito indiretto di rivelare i meccanismi di dominio e le ossessioni che ne derivano nei personaggi-ostacolo, espressione di una società che muore, maschere fisse e sclerotizzate della loro stessa ansia di potere e mania di possesso (dei corpi delle fanciulle, delle proprietà materiali, dei figli). Ebbene, nel cinema di Billy Wilder sembra che lo “spirito della commedia” giunga a scavare ancora più a fondo le meccaniche dell’integrazione sociale, e il riso vi funziona come sanzione dell’ingresso del soggetto iniziale (in quanto soggetto inabile) in una società che non tende più a rifiutarlo ma a manipolarlo, a corromperlo e assimilarlo al gioco economico e simbolico dei rapporti sociali; integrandolo in quanto supporto, sostegno, alleato e complice di un sistema di potere che si perpetua sublimando i conflitti nel benessere e nella soddisfazione materiale e simbolica del successo. In questo senso, lo “spirito della commedia” in Wilder sembra consistere nella capacità di sorprendere proprio il “tema del comico” (l’inte-
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Billy Wilder e lo spirito della commedia ovvero: le leggi della sopravvivenza
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grazione sociale) rivelandone il carattere di necessaria corruzione e manipolazione del soggetto, per cui lo sguardo ironico prende le distanze dalle leggi di una socializzazione devastante che non coincide con il successo dell’individuo ma con la sua resa ad uno spazio sociale illusoriamente appagante. La parodia sotterranea e la stilizzazione del mascheramento sociale stanno a rilevare la suprema capacità di inganno e di intrappolamento della società, mentre la “trama della commedia” mostra l’illusorio movimento del soggetto verso la società come un falso movimento che conserva intatte le strutture vigenti. In realtà il soggetto si muove secondo linee incerte di pulsioni e di desideri manomessi che finiscono per metterne in pericolo l’integrità, per cui si ha uno schema alterato della trama e dello “spirito” della commedia: il soggetto iniziale si rivela a un certo punto come soggetto inappagato poiché accade qualcosa (un incontro, un intoppo, una svolta traumatica, un espediente del “destino”) che intacca la sua integrità o innocenza iniziale e lo consegna ad un’insoddisfazione dalla quale si origina la trama del mutamento e la ricerca di una diversa immagine di sé. È il momento in cui il soggetto si protende verso l’esterno, riduce le difese e si mette a imitare comportamenti e atteggiamenti mirati a ottenere ciò che crede di volere: le donne, il denaro, il successo: in una parola, possedere ciò che sta fuori del raggio della sua portata e che fino a quel momento aveva guardato come uno spettatore distratto. È in questo mutare dell’atteggiamento del soggetto verso l’esterno che si realizza l’integrazione tra individuo e società, ma a tutto svantaggio della supposta innocenza iniziale del soggetto, il quale comincia ad accettare il rischio della “disintegrazione” della sua immagine iniziale in nome di un’immaginaria identità di dominio che coincide con l’affacciarsi di lente patologie sotterranee o di latenti tendenze a perdersi nelle mani degli altri (è il caso del rifugio nell’alcolismo di Don Birnam, in Giorni perduti, come risposta al dramma della sterilità letteraria, a sua volta copertura di un’omosessualità rimossa: è il caso dell’inerzia con cui Joe Gillis, in Viale del tramonto, si lascia andare al gioco del plagio e alla commedia degli inganni con Norma Desmond, fino alla disintegrazione materiale del soggetto nella morte violenta: è il caso di Harry Hinkle, in Non per soldi… ma per denaro, il quale si affida alle capacità manipolatorie del cognato per ottenere ciò che il denaro non può dargli: l’amore della moglie). Ne risulta una perdita dell’angelismo con il quale il soggetto spesso tende a presentarsi all’inizio della vicenda come in un sudario sublimato,
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Billy Wilder
e ne risulta il destino d’integrazione nel vissuto sociale e individuale della menzogna, della compromissione morale, dell’adulterazione. Un destino di frustrazione che appare inevitabile in quel chiaroscuro materiale e morale che è l’esistenza umana; una superficie ondulata e spiegazzata, non indenne da quel compromesso originario che consiste nel restare in vita nonostante la disfatta, mentre mutano il corpo, l’immagine di sé, il senso del vissuto e le aspettative, il lavoro della memoria sempre più addomesticato, i tratti somatici e gli affetti. Insomma, accettare il compromesso sembra essere analogo all’accettazione del vivere metà alla luce del sole e metà nell’ombra; vuol dire un po’ integrarsi e un po’ addestrarsi all’inganno, un po’ illudersi e un po’ disintegrarsi e un po’ puntare al di là della semplice sopravvivenza sui fantasmi del possedere e sul desiderio immaginario di un Io onnipotente che amministri frustrazioni e fallimenti. Billy Wilder lavora sulla diversione del comico dalla “trama della commedia” e volge in travestimento ambivalente (mai definitivamente risolto e solo apparentemente affidato al gioco comico della perdita di identità a ripetizione) quell’illusorio movimento del soggetto verso l’integrazione sociale e il processo di mutazione da una società a un’altra (dalla società in ombra del soggetto iniziale alla società in piena luce dei traffici e della manipolazione). Il risultato è l’affermazione di uno “scacco di ritorno” per il soggetto che accetta il giro di vite delle leggi della sopravvivenza nella società degli intrighi (La fiamma del peccato, L’asso nella manica, Baciami, stupido, Non per soldi… ma per denaro). In questo senso le leggi della sopravvivenza si rivelano sovrabbondanti e ingannevoli, poiché ciò che il soggetto iniziale scambia per impulso a sopravvivere (il possedere, il successo) non è altro che spinta ad integrarsi in un sistema di valori e di pratiche del raggiro che lo muta irreparabilmente e lo adatta alla perdita di sé; negandone in prima istanza un’immaginaria innocenza e, in seconda istanza, mettendone allo scoperto l’inabilità, il narcisismo, l’inutile assunzione di strategie di paradossale accomodamento della morale tradizionale a difesa dalle piccole patologie quotidiane (tic, insofferenza, impotenza) di una vita privata nella quale si sublima l’insufficienza individuale e sociale di un soggetto disarmato. In Wilder lo “spirito della commedia” è volto a scoperchiare nel doppio taglio del travestimento comico le istanze originarie di posizionamento del soggetto nel ripostiglio del privato, per rendere poi all’Io
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Billy Wilder e lo spirito della commedia ovvero: le leggi della sopravvivenza
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una paradossale conferma della giustezza della sua iniziale “eccettuazione” dalle trame sociali dell’integrazione definitiva; dove la distanza dell’ironia e il taglio parodistico servono ad illustrare il fantasma della perdita di identità nella socializzazione attuata, e, d’altra parte, irridono l’inservibile disponibilità di accostamento alla lettera di un gioco sociale che manipola l’identità rendendola elasticamente disponibile a ruoli già predisposti. Da questo punto di vista, l’integrazione si rivela come un processo di pericoloso accostamento del soggetto al corpo di regole che sostengono le maschere sociali della truffa, del raggiro, della corruzione, in vista di un successo utilizzabile solo a patto che ci si consegni all’immaginaria soddisfazione del possedere, del dominio simbolico; mentre la struttura originaria dell’Io ne risulta plagiata e degradata nella sconnessura ben riuscita tra fallimento del soggetto iniziale e disponibilità alla manipolazione dell’identità cava del soggetto finale. Ciò che costituisce il grande gioco sociale (sopraffazione del soggetto iniziale tramite un macchinario di sublimazioni che allestiscono il soggetto finale) viene esposto nella lettera comica di un gioco al rialzo in cui si acquista in identità pubblica quanto più si perde in immagine individuale; per cui la dialettica tra maschera sociale e soggetto è, alla lettera, tensione unidirezionale verso la disponibilità a soccombere per sfuggire ad una situazione di isolamento iniziale, oppure è presa alla lettera di un adattamento eccedente nel quale la cucitura tra individuo e società manifesta una scissione affettiva e morale tra pulsioni del soggetto e fantasmi dell’Io. Da questo punto di vista, si può osservare come lo “spirito della commedia” riguardi in sostanza un solo argomento sociale o tema comico, vale a dire la messa a punto degli ingranaggi che regolano il gioco tra potere reale e obblighi simbolici, tra immagini del potere in circolazione nel sociale e immaginario perdente del soggetto. Per questo, il soggetto è sempre o al di là o al di qua (ed è la definizione implicita della soggettività) della maschera che gli si chiede di assumere, e la sua realizzazione non può essere che una stretta adesione performativa dell’identità dell’Io alle regole del gioco sociale. Ora, si sa che il soggetto è in sé imprendibile, un fascio di pulsioni e di accorgimenti materiali e simbolici al di fuori del potere di rappresentanza dell’Io, e che i modelli di rappresentanza dell’Io sono in larga parte sovradeterminati dalle istanze di adattazione sociale che alimentano i valori di base della vita associata: gli affetti famigliari, il successo nel la-
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Billy Wilder
voro, il rapporto tra dispendio e profitto, il possesso sessuale dell’altro, la facoltà di dominio, ecc. Il destino dell’eroe comico wilderiano non è solo legato alla capacità di compiere il tragitto verso l’integrazione, ma alla resistenza a oltranza nella messa a confronto di istanze rappresentative dell’Io (spinta all’integrazione) e pulsioni del soggetto, tra i codici morali e i codici sociali del successo e del possedere come forma visibile dell’esistere. È per questo che la soggettività senza maschere non può resistere alla pressione sociale; ma è proprio per ciò che le immagini della soggettività e i ruoli dell’Io sono forzati fino a mettere in crisi il soggetto, rivelandogli che quello appena compiuto è un percorso tutto sommato eccedente, dispendio energetico sovrabbondante, illusorio travestimento dei codici morali, immaginaria pulsione alla rappresentanza ufficiale nella truffa, nel raggiro o nel crimine perché le istanze di sopravvivenza vengano sovraordinate a quel rassicurante scacco dell’Io iniziale, tutore del soggetto inappagato ma in qualche modo placato nell’ombra domestica della vita privata. Questo per dire che l’evoluzione della soggettività è solo apparente e che l’eroe è un protagonista fittizio che si dibatte nel trucco o nella censura, nella reticenza o nella sovrabbondanza di iniziative alienate, nel travestimento o nel plagio per affermare l’accettazione consensuale di un complesso normativo di valori, comportamenti e pratiche simboliche del possesso che rendono la struttura dell’Io una forma cava adattabile agli intrighi interminabili delle dinamiche sociali e dell’immaginario interpersonale. Ma vuol dire anche che è escluso qualsiasi mutamento sostanziale se non per un lasso di tempo assai breve, nel corso del quale si sperimenta l’esilio nella vita privata, si prende a prestito la società immaginaria di un altro e si passa come uno straniero dentro i simboli del successo (Baciami, stupido). Il risultato di solito – e qui sta il paradosso – non è il disastro del soggetto (come nel dramma di denuncia esistenziale) ma la pedagogia sociale e il realismo sentimentale, l’addestramento degli affetti, la retorica adattativa, il pasticcio erotico. I protagonisti della commedia wilderiana sono dunque assoggettati a una forma di “realismo dell’anima” che deve fare i conti, con le spinte della soggettività iniziale e con i canoni performativi dell’Io privato (principio di mutazione del soggetto), come si rende evidente in film quali Scandalo internazionale, Non per soldi… ma per denaro, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?.
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Billy Wilder e lo spirito della commedia ovvero: le leggi della sopravvivenza
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Ed ecco che la truffa e il raggiro diventano pura strumentazione di un gioco pedagogico che consiste nell’apprendere il linguaggio delle sublimazioni e l’adattamento dell’immaginario ai dettami della società della truffa. C’è un senso di realismo in questa truffa perpetuata che si manifesta non tanto nella commedia dell’equivoco quanto nell’equivoco del gioco (sentimentale, passionale, economico, morale). A questo livello il gioco appare come istituto dell’equivoco perché performa il reale adattabile al soggetto e performa i cliché di adattabilità dell’Io al realismo della norma sociale, vale a dire all’anonimato morale come ad una forma di equiparazione forzata o di omogeneizzazione realistica della singolarità individuale. L’integrazione è a senso unico, un movimento verso l’intrigo sociale dopo aver sperimentato la discesa nell’errore dell’isolamento o nelle patologie dell’Io, nei trucchi diversi messi in atto per giungere a maneggiare l’universo della truffa, rinunciando alla sconfitta interiore dello scacco iniziale, superando l’esperienza isolante del diniego all’adattamento o della resistenza al consenso (cfr. la resa della deputatessa Phoebe Frost alla realtà mercantile delle cose e degli affetti nella Germania “denazificata” di Scandalo internazionale; la corruzione dell’intransigente ideologo Otto Piffl in Uno, due, tre!; il raggiro di Harry Hinkle in Non per soldi… ma per denaro; l’umanizzazione ironica di Wendell Armbruster Jr. in Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?). Lo “spirito della commedia”, in tal senso, è in questo realistico promuovere a sistema di collaggio sociale l’universo della truffa e del raggiro: anche come armatura pedagogica che amministra il soggetto e lo addestra a dare una buona rappresentanza di sé, nella disponibilità a cancellare il residuo di soggettività patologica (la soggettività come residuo patologico) che impedisce l’impiego integrativo del soggetto, fino al cinismo aberrante che si ritorce contro la smania di successo (L’asso nella manica, Prima pagina). Ma c’è ancora un altro senso, quello di mettere in luce l’incongruità di una verità (morale o materiale che sia) supposta plausibile solo attraverso i travestimenti immaginari e il potere d’imperio di una cultura della sopraffazione, di manipolazione del bene e del male da parte del boxoffice. La verità è solo un quoziente di approssimazione ad uno stato di cose difficilmente modificabile: è la misura di una spinta coercitiva ad accettare il compromesso e gli espedienti necessari per travestire il desiderio e manipolarlo in modo tale che ricicli quell’identità residuale del
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Billy Wilder
soggetto e la impieghi positivamente nella società dei traffici (Stalag 17, L’appartamento, La fiamma del peccato). Eppure, per strade poco battute, accade che il soggetto compia un tragitto morale e prenda decisioni che gli garantiscono non solo l’illusoria attenuante dell’ineludibilità delle leggi della sopravvivenza, ma anche un’accettabile immagine di sé (L’appartamento, Non per soldi… ma per denaro, Prima pagina). Il punto sembra essere questo: prendere atto di una condizione esistenziale che impone il trasferimento dal soggetto iniziale al soggetto della sopravvivenza, o, se si vuole, dal soggetto inappagato al soggetto dell’integrazione senza danni eccessivi per la vita affettiva e per l’identità morale. La dialettica fondamentale è data dall’oscillare del soggetto tra scacco e adattamento, dal radicarsi dell’Io esistenziale nello scacco e dall’approdare dell’Io sociale al successo. Questo processo è riscontrabile già in quelle che potremmo chiamare “tragedie ironiche” di Wilder (Viale del tramonto, Giorni perduti, Vita privata di Sherlock Holmes), ma diventa evidente e dominante nelle commedie; laddove il tema comico dell’integrazione sociale si rivela nelle trame che mettono in luce l’inadeguatezza del soggetto ad indossare senza danno una maschera che gli impone una sorta di “scacco di ritorno” o di secondo grado, quello susseguente all’accettazione della cerchia di obblighi e adesioni consensuali coincidenti con la conferma della truffa assunta come legge-base della sopravvivenza. Se film come Giorni perduti, Scandalo internazionale, Stalag 17, Vita privata di Sherlock Holmes rivelano il transito dallo scacco alla sopravvivenza, dal rifiuto della società all’accettazione delle sue norme, è pur vero che lo “scacco di ritorno” è inevitabile perché conseguente a danneggiamenti gravi dell’Io iniziale, del soggetto rintanato nella vita privata e come aggrappato al “dentro” di situazioni inaccessibili (alcolismo, corruzione sessuale ed economica, ossessiva ricostituzione di una società-limite nella sacca di un campo di prigionia, sublimazione dell’omosessualità nel fallimento e nello scacco dell’intelligenza che salvi la facciata, ma solo in apparenza, poiché riconduce al fallimento di un rapporto primario, quello sessuale). Le tematiche della commedia wilderiana mettono perciò in luce un ulteriore meccanismo: quello di uno scacco sublimato, aggirato, denegato che si mostra come il fantasma residuale del soggetto iniziale assorbito nell’Io finale. Il gioco, la truffa, il crimine, il raggiro, il travestimento hanno contribuito all’adattamento del soggetto alla speciale ingegneria dei rapporti
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Billy Wilder e lo spirito della commedia ovvero: le leggi della sopravvivenza
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sociali denudati nel corso del tragitto eroicomico in cui si elabora l’adesione alla società degli altri. In questo senso, l’ossessione del travestimento dice qualcosa in più sui meccanismi (wilderiani) nei quali si collauda la disponibilità a cambiare del soggetto, denuncia il suo rendersi all’istituto sociosimbolico del mutare nelle mani degli altri (il che funziona anche come metafora della vicenda dell’attore sul set hollywoodiano, e come metafora della crescita in quanto accesso alla vita adulta predisposta per essere impiegata socialmente, vale a dire per essere manipolata dal macchinario sociale del consenso). Il travestimento consegna il soggetto all’universo del doppio, alla ripetizione ossessiva di rituali di adattamento, all’addestramento a negarsi per vivere una vita presa in prestito, mentre si perde terreno inesorabilmente (temi centrali di film come L’appartamento, Irma la dolce, Baciami, stupido). In Baciami, stupido la commedia del travestimento consente ai personaggi di vivere per una notte la vita degli altri, confondendo ruoli e desideri in un gioco a rimpiattino con identità immaginarie, nel tentativo ingenuo di ingannare l’altro e di salvare al contempo il legame simbolico con la vita affettiva. Ci si illude di poter per una sola volta cogliere di sorpresa lo spessore dell’abitudine e aggirare l’insoddisfazione senza danneggiare l’integrità dell’immagine di sé e senza alterare il patto morale che sorregge il contratto coniugale. È la vertigine dello scambio e del belletto morale, il tentativo di imbrattare solo la facciata dell’Io per conseguire il successo senza pagare prezzi troppo alti, inaccettabili solo a una prima occhiata. Si ottiene, invece, il tradimento a sorpresa (anche se occultato e camuffato) del soggetto iniziale, che si rivela capace di bassezze, sia pure truccate, ma inequivocabilmente programmate. Tutto ciò deriva dal prendere esageratamente sul serio le simboliche del successo, per cui le leggi della sopravvivenza indicano mete immaginarie che costringono il soggetto a tradirsi, a vivere al di là dell’identità pattuita con gli altri e con se stesso, nel mondo illusorio dei fantasmi messi in circolazione dalla società dello smercio. La corruzione del successo si insinua a tal punto nella tranquilla condizione del soggetto iniziale che egli si illude di truffare impunemente la sua stessa immagine assunta come qualche cosa di esterno da sé, tanto da prendere in affitto una puttana e affidarle il ruolo di moglie per offrirla spudoratamente al cantante di successo in cambio di un appoggio per lanciare le sue canzoni. Si delinea in tal modo la scissione intollerabile tra scena dell’Io
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e messa in scena di un immaginario che si pretende indolore e che si ritorcerà contro il soggetto. Infatti, la puttana aderirà talmente al ruolo di moglie da prendere sul serio gli obblighi coniugali, e vivrà una notte immaginaria d’amore fedele negandosi al commercio sessuale pattuito per restare fedele all’improvvisato marito. Nel frattempo, la vera moglie ha deciso di svendersi per una notte al cantante, ricomponendo il quadro dell’inevitabile corruzione che alimenta il rapporto con il sesso e con il denaro (qui sublimato nel successo), ma senza danneggiare apertamente l’ingenuo marito. Ben al di là di una commedia degli equivoci, il travestimento denudato resta in piedi come adattabilità della morale alla violazione del guscio iniziale fatto di rispettabilità, sincerità, integrità che un amore sublimato (quello per il successo) riesce a imbrattare. È comunque la corruzione implicita, la disponibilità a mutare del soggetto a legittimare il gioco del travestimento e la spregiudicatezza morale dell’inganno, a spostare l’immagine della sopravvivenza nell’immaginario del successo che disfa l’integrità della situazione di partenza. La pressione sociale alimenta e scatena un desiderio di mutare e di affermarsi che viene assunto come fantasma della sopravvivenza, come urgenza truccata dell’irrinunciabile pulsione a dominare con la truffa e il raggiro, nel travestimento o nel travestitismo che cancella il soggetto iniziale. In questo senso, il comico in Wilder elude e spiazza il gioco dei fantasmi dell’Io, l’“ansia realistica” dello spettatore; sbeffeggia cinicamente o teneramente l’eroismo dell’integrazione truffaldina e la passione dell’affermarsi, le maschere dell’Io sedotte dal possesso come dimensione di esistenza (il possesso del denaro, delle donne e del pubblico – in quanto società degli spettatori – nella gara sportiva per il dominio simbolico). È un modo di prendere il comico con la distanza ironica che si addice all’epica rovesciata del soggetto plagiato, ed è un modo di giocare con la simulazione di una soddisfazione imprendibile, irrealizzabile, che sposta il soggetto verso nuove mete immaginarie. Il gioco diventa perciò spazio scenico della gara tra soggetto e fantasmi sociali, si pone come strumento di abbattimento delle identità posticce a vantaggio di una manipolazione del desiderio assoggettato al potere d’attrazione dell’immaginario sociale. In questo senso, la condizione stessa dell’attore si pone come metafora del soggetto inappagato che rincorre l’immagine di sé nella confusione dei ruoli e delle identità che non restano mai a sufficienza incollati al personaggio.
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Al centro del piacere dello spettatore sta dunque la scena del comico e l’investimento di cariche immaginarie sull’attore e sulla doppia realtà che lo assedia d’ogni parte: l’attore manipolato mentre si illude di essere manipolatore dell’intrigo. Un manipolatore manipolato che si muove sul set per divertire le aspettative, e cioè alla lettera, per spostare l’ansia e il desiderio di conferma dello spettatore. L’attore amministra una scena e un intrigo degli spostamenti manipolativi procurando il piacere spettacolare della rovina e del fallimento del suo rapporto con la manipolazione, alla quale finisce per soccombere; poiché l’attore comico rinuncia a quell’investimento di identità che, solo, garantisce la veridicità immaginaria del suo ruolo e si pone, al contrario, come vittima sacrificale da immolare all’altare della risata, così come scaturisce dalla crudele soddisfazione di chi sta a guardare il disastro dei ruoli e delle identità in affari fasulli e intrighi maldestri. Una situazione assai complessa, dal momento che l’attore comico sembra non cedere mai il set eppure rinuncia a possederlo nell’impossibilità a farsene padrone allorché il suo ruolo consiste proprio nella rinuncia ai ruoli in quanto identità permanenti, mentre si affanna ad inseguire i fantasmi di un desiderio che gli sfugge nelle trame di un piacere deviato dall’ansia per il successo così come gli sfugge di mano la possibilità di dominare gli eventi poiché, istituzionalmente, il suo ruolo è quello di perdersi nel prendere il posto di un altro, nel travestimento che lo incastra nell’intreccio comico del fallimento o del successo inutilizzabile. Ma il travestimento è qualcosa che conduce lo “spirito della commedia” verso una confusione pericolante delle identità. Diventa una mania, una smania vana di mutare, di non coincidere mai con se stessi, con lo spessore del personaggio. È ansia di rendersi troppo disponibili a giocare a carte scoperte l’inadeguatezza del soggetto ad appagarsi, in un’ansia cieca di soddisfacimento che spinge oltre ogni ragionevole legge adattativa il trucco e la truffa. In questo senso, film come Irma la dolce e A qualcuno piace caldo giocano con le attese dello spettatore in un duplice modo: come elusione ironica dei generi collaudati e come cessione di un’identità soggettuale inappagata che si manifesta nella scissione tra identità dell’attore e involucro del personaggio. La smania ossessiva di travestimento va al di là di ogni giustificabile finzione narrativa per attingere la profondità comica della perdita d’identità, poiché il travestimento è quel trucco palese nel quale ogni istanza di fiction vie-
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ne maciullata, digerita e riciclata senza interruzione o fine; dove non ci si accontenta del gioco di scambio delle identità ma si va verso il moltiplicarsi feticistico dei fantasmi e delle maschere cucite sul vestito degli altri, allorché non si finge di prendere il posto di un altro ma, in verità, se ne assume la condizione: in un’imitazione disastrosa e totale che cancella la demarcazione tra il volto e la maschera, tra il corpo reale e il corpo fittizio, tra il ruolo e il realismo del trucco. In tal modo, il travestimento costituisce la dimensione privilegiata dell’angoscia del possedere: illustra la situazione di massima perdita di realtà nel momento in cui non si appartiene più né alla rosa dei ruoli dell’Io e né al ventaglio delle maschere sociali; incarna il trucco come sublimazione iperreale del nascondersi a sé e agli altri (ma prima di tutto a sé e al proprio inappagamento), cambiando faccia come si cambia d’abito, rifacendosi un’identità transitoria nel trucco posticcio che si sgretola a breve termine. Il fatto che tutto ciò venga risolto in un carosello formidabile del travestimento, in un’amplificazione metafisica del trucco e dell’imbellettamento dell’immaginario non serve a liquidare il fantasma dell’angoscia e il tremore esistenziale della perdita di realtà che l’unidimensionalità senza spessore della maschera reca in sé. In tal caso, il gioco del travestimento e il travestimento come gioco mortale (cancellarsi preliminarmente dal gioco sociale mentre si finge di appartenere per intero alle sue facce cangianti) investono non solo la scena dell’adattamento e le leggi della sopravvivenza, ma il terrore anticipato – e come esperito a priori – del sesso come metamorfosi e dell’eros come insoddisfazione, sia pure travestiti nell’ansia del possedere e nel successo come immaginaria presa sul reale. Ed è un gioco che mette a nudo anche le sublimazioni della commedia sofisticata scoperchiate nella parodia e nella stilizzazione dei suoi meccanismi portanti, una specie di “mania del gioco” di chi si illude di non concludere mai la partita. Se, come ha notato Yurij Tynjanov, nella stilizzazione «non si segue uno stile, ma piuttosto si gioca con esso», questo sembra essere il caso di film come A qualcuno piace caldo, Irma la dolce, L’appartamento e Frutto proibito, dove l’assimilazione cannibalica della commedia sofisticata e di costume sfiora l’esaurimento parodistico del gioco sociale e sentimentale. Ma è vero anche che la parodia non è la meta di Billy Wilder, poiché appare come un prezioso sfondo di maniera contro il quale proiettare la
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manipolazione dei generi comici classici ridotti a set moltiplicato dell’imprendibilità del soggetto illustrato nel massimo di manipolazione consentita dell’attore. La scena del comico è dunque lo spazio di una manipolazione a vite in cui si innestano a spirale gli schemi classici della commedia sofisticata e lo scoperchiamento delle ossessioni celate in un cerimoniale soffice dove l’ossessione del sesso (il sesso come ossessione della perdita d’identità rovesciata nel travestimento che lo cancella) vanifica le attese dello spettatore, alleggerendo una passione che macera le maschere e diluendo l’ansia di realismo in una girandola di inseguimenti forsennati sulle tracce di una qualsiasi identità che non si rintraccia e non si possiede mai. Questo perché l’essenza del trucco e del travestimento è nell’inseguire qualcosa per eludere l’angoscia e il tremore che assale nella consapevolezza di non poter mai, dico mai, essere là dove ci si può far sorprendere dal desiderio; o, per dire meglio, dove ci si può far sorprendere dall’attuazione delle pulsioni del desiderio in un consumo sessuale che annienta. L’adattamento è lo strumento principe e la giustificazione “morale” dell’integrazione sociale del soggetto, ma evidentemente qualcosa non deve funzionare se l’adattamento si rivela non già come crisi positiva bensì come esistenza comica (impedimento e frustrazione), come ironia infima del vivere associato. Il soggetto appare o troppo scaltro o troppo ingenuo, e Wilder scava in questo divario il dramma comico che scinde l’Io dalle maschere della rappresentanza ufficiale, nel differimento della presa di realtà e nel divaricamento tra la struttura del gioco sociale (truffa, crimine, raggiro) e le strutture del gioco simbolico che assediano l’identità (desiderio di innocenza, o, che è lo stesso, di intangibilità; pulsione a possedere come angoscia di morte; disponibilità al tradimento di sé come illusione di ricominciare; isolamento e scacco pedagogico; sconfitta e successo apparente come liquidazione del soggetto). È come se il soggetto della commedia fosse troppo incauto, inadatto, anomalo, sproporzionato, e dovesse nonostante tutto compiere un apprendistato attraverso l’intreccio comico del fallimento o del successo che perde: come se dovesse accettare l’equivoco continuato del differimento dell’identità nella maschera per giungere alla confluenza tra rappresentanza accettabile di sé ed esibizione del volto sociale, della facciata pubblica. L’intreccio comico diventa dunque la falsa pista di un per-
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Billy Wilder
corso di diversioni, deviazioni, trappole che divaricano desiderio e successo, piacere e affermazione di sé, soddisfazione e appagamento, innocenza e sopravvivenza, poiché una cosa è certa: la soddisfazione si pone come appagamento sommario e precario che riconduce allo “scacco di ritorno”.
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APPENDICE
a cura di Alessandro Canadè
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Rispetto all’edizione originale del volume (Milano, Moizzi, 1978), la filmografia è stata ampliata nella sezione dedicata al Wilder sceneggiatore e aggiornata, nella sezione delle regie, con l’aggiunta degli ultimi due film (Fedora, Buddy Buddy), integrandoli con una breve sinossi e una dichiarazione dello stesso Wilder. Nella compilazione della bibliografia si è tenuto conto di quei volumi pubblicati dopo il 1978, rispettando l’articolazione originale in monografie, saggi e interviste, e sceneggiature. Sono stati riportati però anche alcuni titoli pubblicati prima di quella data e non presenti nella nota bibliografica originale dell’autore.
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FILMOGRAFIA
Soggetti e sceneggiature In Germania: DER TEUFELSREPORTER o IM NEBEL DER GROSSTADT 1929 Regia: Ernst Laemmle; sceneggiatura: Billie Wilder; interpreti: Eddie Polo, Gritta Ley, Maria Forescu, Robert Garrison; produzione: Universal Pictures Corp. GmbH, Berlin; distribuzione: Deutsche Universal-Film Verleih Gmbh. UOMINI DI DOMENICA (Menschen am Sonntag) 1929 Regia: Robert Siodmak e Edgar G. Ulmer; soggetto: Kurt Siodmak; sceneggiatura: Billie Wilder; interpreti: Brigitte Borchert, Christi Ehlers, Annie Schreyer; produzione: Filmstudio; distribuzione: Berzrk Skverleiher. DER FALSCHE EHEMANN 1931 Regia: Johannes Guter; sceneggiatura: Paul Franck, Billie Wilder; interpreti: Johannes Riemann, Maria Paudler, Gustav Waldau, Jessie Vihrog; produzione-distribuzione: UFA. EMIL UND DIE DETEKTIVE 1931 Regia: Gerhard Lamprecht; sceneggiatura: Billie Wilder dal romanzo di Erich Kästner; interpreti: Fritz Rasp, Käthe Haack, Rolf Wenkhaus, Rudolf Biebrach, Olga Engl; produzione-distribuzione: UFA. IHRE HOHEIT BEFIEHLT 1931 Regia: Hanns Schwarz; sceneggiatura: Robert Liebmann, Paul Franck, Billie Wilder; interpreti: Käthe von Nagy, Willy Fritsch, Reinhold Schünzel, Paul Hörbiger; produzione-distribuzione: UFA.
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Billy Wilder
DER MANN, DER SEINEN MÖRDER SUCHT 1931 Regia: Robert Siodmak; sceneggiatura: Ludwig Hirschfeld, Kurt Siodmak, Billie Wilder, dalla pièce di Ernst Neubach; interpreti: Heinz Rühmann, Lien Deyers, Raimund Janitschek, Hans Leibelt; produzione: Erich Pommer. SEITENSPRÜNGE 1931 Regia: Stefan Székely; soggetto: Billie Wilder; sceneggiatura: Ludwig Biró, B.E. Lüthge, Karl Noti; interpreti: Gerda Maurus, Oskar Sima, Paul Vincenti, Jarmila Marton; produzione: Cicero-Film; distribuzione: Universal-Film A.G. DAS BLAUE VOM HIMMEL 1932 Regia: Viktor Janson; sceneggiatura: Billie Wilder, Max Kolpe; interpreti: Martha Eggerth, Hermann Thimig, Fritz Kampers, Margarete Schlegel; produzione-distribuzione: Aafa Film. EIN BLONDER TRAUM 1932 Regia: Paul Martin; sceneggiatura: Walter Reisch, Billie Wilder; interpreti: Lilian Harvey, Willy Fritsch, Willi Forst, Paul Hörbiger, Trude Hesterberg; produzionedistribuzione: UFA. ES WAR EINMAL EIN WALZER 1932 Regia: Viktor Janson; sceneggiatura: Billie Wilder; interpreti: Martha Eggerth, Rolf von Goth, Paul Hörbiger, Ernst Verebes, Albert Paulig; produzione-distribuzione: Aafa Film. SCAMPOLO, EIN KIND DER STRASSE 1932 Regia: Hans Steinhoff; sceneggiatura: Billie Wilder, Max Kolpe, dalla pièce di Dario Nicodemi; interpreti: Dolly Haas, Karl Ludwig Diehl, Oskar Sima, Paul Hörbiger; produzione: Lothar Stark-Film, Berlin-Vienne; distribuzione: Bayerische Filmgesellschaft. MADAME WÜNSCHT KEINE KINDER 1933 Regia: Hans Steinhoff; sceneggiatura: Billie Wilder, Max Kolpe, dal romanzo di Clément Vautel; interpreti: Liane Haid, Georg Alexander, Lucie Mannheim, Erika Glässner; produzione: Lothar Stark-Film, Vienne-Berlin. WAS FRAUEN TRÄUMEN 1933 Regia: Géza von Bolváry; sceneggiatura: Franz Schulz, Billie Wilder; interpreti: Nora Gregor, Gustav Fröhlich, Otto Wallburg, Peter Lorre; produzione: SuperFilm; distribuzione: Bayerische Film.
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In U.S.A.: PRINCIPESSA INNAMORATA 1933 (Adorable) Regia: William Dieterle; soggetto: Robert Liebmann, Paul Franck, Billie Wilder; sceneggiatura: George Marion Jr., Jane Storm; interpreti: Janet Gaynor, Henri Garat, C. Aubrey Smith, Herbert Mundin; produzione: Fox Films. ONE EXCITING ADVENTURE 1934 Regia: Ernst L. Frank; soggetto: Franz Schulz, Billie Wilder; sceneggiatura: William Hurlbut, Samuel Ornitz, William B. Jutte; interpreti: Binnie Barnes, Neil Hamilton, Paul Cavanagh, Edna Searle; produzione: Universal. MUSICA NELL’ARIA (Music in the Air) 1934 Regia: Joe May; sceneggiatura: Howard I. Young, Billy Wilder, Robert Liebmann, dal libretto di Oscar Hammerstein II; interpreti: Gloria Swanson, John Boles, June Lang, Douglass Montgomery, Reginald Owen; produzione: Fox Films. LOTTERY LOVER 1935 Regia: Wilhelm Thiele; soggetto: Maurice Hanline, Siegfried M. Herzig; sceneggiatura: Sam Hellman, Franz Schulz, Billy Wilder; interpreti: Lew Ayres, Pat Paterson, Peggy Fears, Sterling Holloway, Walter Woolf King; produzione: Fox Films. UNDER PRESSURE 1935 Regia: Raoul Walsh; sceneggiatura: Lester Cole, Noel Pierce, Billy Wilder [non accreditato], dal libro di Edward Doherty; interpreti: Edmund Lowe, Victor McLaglen, Florence Rice, Marjorie Rambeau; produzione: Robert Kane. VALZER CHAMPAGNE (Champagne Waltz) 1937 Regia: A. Edward Sutherland; soggetto: H.S. Kraft, Billy Wilder; sceneggiatura: Frank Butler, Don Hartman; interpreti: Gladys Swarthout, Fred MacMurray, Jack Oakie, Veloz, Yolanda; produzione: Paramount. L’OTTAVA MOGLIE DI BARBABLÙ 1938 (Bluebeard’s Eighth Wife) Regia: Ernst Lubitsch; sceneggiatura: Charles Brackett, Billy Wilder, da una commedia di Alfred Savoir (adattamento inglese di Charlton Andrews); interpreti: Claudette Colbert, Gary Cooper, Edward Everett Horton, David Niven; produzione: Paramount.
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Billy Wilder
LA SIGNORA DI MEZZANOTTE 1939 (Midnight) Regia: Mitchell Leisen; soggetto: Edwin Justus Mayer, Franz Schulz; sceneggiatura: Charles Brackett, Billy Wilder; interpreti: Claudette Colbert, Don Ameche, John Barrymore, Mary Astor; produzione: Arthur Hornblow Jr.; distribuzione: Paramount. WHAT A LIFE! 1939 Regia: Jay Theodore Reed; sceneggiatura: Charles Brackett, Billy Wilder, da una pièce di Clifford Goldsmith; interpreti: Jackie Cooper, Betty Field, John Howard, Janice Logan, Vaughan Glaser; produzione: Paramount. NINOTCHKA 1939 (Id.) Regia: Ernst Lubitsch; soggetto: Melchior Lengyel; sceneggiatura: Charles Brackett, Walter Reisch, Billy Wilder; interpreti: Greta Garbo, Melvyn Douglas, Ina Claire, Bela Lugosi; produzione: Ernst Lubitsch; distribuzione: MGM. RHYTHM ON THE RIVER 1940 Regia: Victor Schertzinger; soggetto: Billy Wilder, Jacques Théry; sceneggiatura: Dwight Taylor; interpreti: Bing Crosby, Mary Martin, Basil Rathbone, Oscar Shaw; produzione: William LeBaron; distribuzione: Paramount. ARRIVEDERCI IN FRANCIA 1940 (Arise, My Love) Regia: Mitchell Leisen; soggetto: Benjamin Glazer, John S. Toldy; sceneggiatura: Charles Brackett, Billy Wilder; interpreti: Claudette Colbert, Ray Milland, Dennis O’Keefe, Walter Abel, Dick Purcell; produzione: Arthur Hornblow Jr.; distribuzione: Paramount. LA PORTA D’ORO 1941 (Hold Back the Dawn) Regia: Mitchell Leisen; soggetto: Ketti Frings; sceneggiatura: Charles Brackett, Billy Wilder; interpreti: Charles Boyer, Olivia de Havilland, Paulette Goddard, Victor Francen; produzione: Arthur Hornblow Jr.; distribuzione: Paramount. COLPO DI FULMINE 1941 (Ball of Fire) Regia: Howard Hawks; soggetto: Billy Wilder, Thomas Monroe; sceneggiatura: Billy Wilder, Charles Brackett; interpreti: Gary Cooper, Barbara Stanwyck, Oscar Homolka, S.Z. Sakall; produzione: Samuel Goldwyn; distribuzione: RKO.
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VENERE E IL PROFESSORE 1948 (A Song Is Born) Regia: Howard Hawks; soggetto: Billy Wilder, Thomas Monroe; sceneggiatura: Harry Tugent; interpreti: Danny Kaye, Virginia Mayo, Benny Goodman, Tommy Dorsey; produzione: Samuel Goldwyn; distribuzione: RKO. (remake musical di Colpo di fulmine)
Regie In Francia: AMORE CHE REDIME 1933 (Mauvaise graine) Regia: Billie Wilder (in collaborazione con Alexander Esway); soggetto: Billie Wilder; sceneggiatura: Billie Wilder, H.G. Lustig, Max Kolpé; fotografia: Paul Cotteret, Maurice Delattre; scenografia: Robert Gys; musica: Franz Waxman, Allan Gray; interpreti: Pierre Mingand (Henri Pasquier), Danielle Darrieux (Jeannette), Raymond Galle (Jean la Cravate), Jean Wall (le Zèbre); produzione: Georges Bernier; distribuzione: Pathé Consortium Cinéma; durata: 80’.
In U.S.A.: FRUTTO PROIBITO 1942 (The Major and the Minor) Regia: Billy Wilder; soggetto: dalla pièce Connie Goes Home di Edward Childs Carpenter e dal racconto Sunny Goes Home di Fannie Kilbourne; sceneggiatura: Charles Brackett, Billy Wilder; fotografia: Leo Tover; scenografia: Hans Dreier, Roland Anderson; montaggio: Doane Harrison; musica: Robert Emmett Dolan; interpreti: Ginger Rogers (Susan Applegate), Ray Milland (Major Phillip Kirby), Rita Johnson, Robert Benchley, Diana Lynn, Frankie Thomas, Edward Fielding, Raymond Roe, Charles Smith, Lela E. Rogers, Billy Dawson, Tommy Dugan, Larry Nunn, Norma Varden, Mary Field, Boyd Irwin; produzione: Arthur Hornblow Jr.; distribuzione: Paramount; durata: 100’. I CINQUE SEGRETI DEL DESERTO 1943 (Five Graves to Cairo) Regia: Billy Wilder; soggetto: dalla pièce Hotel Imperial di Lajos Biró; sceneggiatura: Charles Brackett, Billy Wilder; fotografia: John F. Seitz; scenografia: Hans
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Billy Wilder
Dreier, Ernst Fegté; montaggio: Doane Harrison; musica: Miklós Rózsa; interpreti: Erich von Stroheim (Rommel), Franchot Tone (John Bramble), Anne Baxter, Akim Tamiroff, Peter Van Eyck, Fortunio Bonanova, Konstantin Shayne, Fred Nurney, Miles Mander, Ian Keith, Leslie Denison; produzione: Charles Brackett; distribuzione: Paramount; durata: 100’. LA FIAMMA DEL PECCATO 1944 (Double Indemnity) Regia: Billy Wilder; soggetto: dal romanzo di James M. Cain; sceneggiatura: Billy Wilder, Raymond Chandler; fotografia: John F. Seitz; scenografia: Hans Dreier, Hal Pereira; montaggio: Doane Harrison; musica: Miklós Rózsa; interpreti: Fred MacMurray (Walter Neff), Barbara Stanwyck (Phyllis Dietrichson), Edward G. Robinson (Barton Keyes), Jean Heather, Tom Powers, Byron Barr, Richard Gaines, Fortunio Bonanova, John Philliber, Betty Farrington; produzione: Joseph Sistrom; distribuzione: Paramount; durata: 106’. GIORNI PERDUTI 1945 (The Lost Weekend) Regia: Billy Wilder; soggetto: dal romanzo di Charles R. Jackson; sceneggiatura: Charles Brackett, Billy Wilder; fotografia: John F. Seitz; scenografia: Hans Dreier, A. Earl Hedrick; montaggio: Doane Harrison; musica: Miklós Rózsa; interpreti: Ray Milland (Don Birnam), Jane Wyman (Helen), Phillip Terry (Wick Birnam), Howard Da Silva (Nat, il barman), Doris Dowling (Gloria), Frank Faylen, Lillian Fontaine, Mary Young, Anita Bolster, Frank Orth, Lewis L. Russell, Theodora Lynch, Byron Foulger; produzione: Charles Brackett; distribuzione: Paramount; durata: 101’. IL VALZER DELL’IMPERATORE 1948 (The Emperor Waltz) Regia: Billy Wilder; soggetto e sceneggiatura: Charles Brackett, Billy Wilder; fotografia: George Barnes; scenografia: Hans Dreier, Franz Bachelin; montaggio: Doane Harrison; musica: Victor Young; interpreti: Bing Crosby (Virgil Smith), Joan Fontaine (Johanna Augusta Franziska), Roland Culver, Lucile Watson, Richard Haydn, Harold Vermilyea, Sig Ruman, Bert Prival, Alma Macrorie; produzione: Charles Brackett; distribuzione: Paramount; durata: 106’. SCANDALO INTERNAZIONALE 1948 (A Foreign Affair) Regia: Billy Wilder; soggetto: David Shaw; sceneggiatura: Charles Brackett, Billy Wilder, Richard L. Breen; fotografia: Charles B. Lang Jr.; scenografia: Hans Dreier, Walter H. Tyler; montaggio: Doane Harrison; musica: Frederick Hollander; inter-
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preti: Marlene Dietrich (Erika von Schluetow), Jean Arthur (Phoebe Frost), John Lund (Capit. John Pringle), Millard Mitchell, Peter von Zerneck, Stanley Prager, Bill Murphy, Gordon Jones, Freddie Steele, Raymond Bond, Boyd Davis, Robert Malcom, Charles Meredith, Michael Raffetto, James Larmore, Damian O’Flynn, Frank Fenton, Harland Tucker, William Neff, George M. Carleton, Zivko Simunovich; produzione: Charles Brackett; distribuzione: Paramount; durata: 116’. VIALE DEL TRAMONTO 1950 (Sunset Boulevard) Regia: Billy Wilder; sceneggiatura: Charles Brackett, Billy Wilder, D.M. Marshman Jr.; fotografia: John F. Seitz; scenografia: Hans Dreier, John Meehan; montaggio: Arthur P. Schmidt, Doane Harrison; musica: Franz Waxman; interpreti: Gloria Swanson (Norma Desmond), William Holden (Joe Gillis), Erich von Stroheim (Max von Mayerling), Nancy Olson (Betty Schaefer), Fred Clark, Lloyd Gough, Jack Webb, Franklyn Farnum, Cecil B. De Mille, Buster Keaton, Hedda Hopper, Anna Q. Nilsson, H.B. Warner, Ray Evans, Jay Livingston; produzione: Charles Brackett; distribuzione: Paramount; durata: 110’. L’ASSO NELLA MANICA 1951 (Ace in the Hole o The Big Carnival) Regia: Billy Wilder; soggetto e sceneggiatura: Billy Wilder, Lesser Samuels, Walter Newman; fotografia: Charles B. Lang Jr.; scenografia: Hal Pereira, A. Earl Hedrick; montaggio: Arthur P. Schmidt, Doane Harrison; musica: Hugo Friedhofer; interpreti: Kirk Douglas (Charles “Chuck” Tatum), Jan Sterling (Lorraine Minosa), Bob Arthur (Herbie Cook), Richard Benedict (Leo Minosa), Ray Teal (lo sceriffo), Porter Hall, Frank Cady, John Berkes, Frances Dominguez, Gene Evans, Frank Jaquet, Harry Harvey, Bob Bumpas; produzione: Billy Wilder; distribuzione: Paramount; durata: 112’. STALAG 17 1953 (Id.) Regia: Billy Wilder; soggetto: dalla pièce di Donald Bevan e Edmund Trzcinski; sceneggiatura: Billy Wilder, Edwin Blum; fotografia: Ernest Laszlo; scenografia: Hal Pereira, Franz Bachelin; montaggio: George Tomasini, Doane Harrison; musica: Franz Waxman; interpreti: William Holden (John D. Sefton), Don Taylor (tenente Dunbar), Otto Preminger (Oberst von Scherbach), Robert Strauss (Stosh), Harvey Lembeck (Harry Shapiro), Richard Erdman (Hoffy), Peter Graves (Price), Neville Brand, Sig Ruman, Michael Moore, Peter Baldwin, Robinson Stone, Robert Shawley, William Pierson, Gil Stratton Jr., Jay Lawrence, Erwin Kalser, Edmund Trzcinski; produzione: Billy Wilder; distribuzione: Paramount; durata: 120’.
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Billy Wilder
SABRINA 1954 (Id.) Regia: Billy Wilder; soggetto: dalla pièce Sabrina Fair di Samuel A. Taylor; sceneggiatura: Samuel A. Taylor, Ernest Lehman, Billy Wilder; fotografia: Charles Lang Jr.; scenografia: Hal Pereira, Walter H. Tyler; montaggio: Arthur P. Schmidt; musica: Frederick Hollander; interpreti: Humphrey Bogart (Linus Larrabee), Audrey Hepburn (Sabrina Fairchild), William Holden (David Larrabee), Walter Hampden, John Williams, Martha Hyer, Joan Vohs, Marcel Dalio; produzione: Billy Wilder; distribuzione: Paramount; durata: 115’. QUANDO LA MOGLIE È IN VACANZA 1955 (The Seven Year Itch) Regia: Billy Wilder; soggetto: dalla pièce di George Axelrod; sceneggiatura: Billy Wilder, George Axelrod; fotografia: Milton Krasner (Cinemascope-Technicolor DeLuxe); scenografia: Lyle Wheeler, George W. Davis; montaggio: Hugh S. Fowler; musica: Alfred Newman; interpreti: Tom Ewell (Richard Sherman), Marilyn Monroe (la ragazza), Evelyn Keyes (Helen Sherman), Robert Strauss (Kruhulik), Oscar Homolka (Dr. Brubaker), Sonny Tufts, Marguerite Chapman, Victor Moore, Roxanne, Donald MacBride, Carolyn Jones, Butch Bernard; produzione: Charles K. Feldman, Billy Wilder; distribuzione: Twentieth Century Fox; durata: 105’. L’AQUILA SOLITARIA 1957 (The Spirit of St. Louis) Regia: Billy Wilder; soggetto: dal libro di Charles A. Lindbergh; sceneggiatura: Billy Wilder, Wendell Mayes, Charles Lederer; fotografia: Robert Burks, J. Peverell Marley (Cinemascope, Technicolor); scenografia: Art Loel; montaggio: Arthur P. Schmidt; musica: Franz Waxman; interpreti: James Stewart (Charles A. Lindbergh), Murray Hamilton (Bud Gurney), Patricia Smith, Bartlett Robinson, Marc Connelly, Arthur Space, Charles Watts; produzione: Leland Hayward; distribuzione: Warner Bros.; durata: 138’. ARIANNA 1957 (Love in the Afternoon) Regia: Billy Wilder; soggetto: dal romanzo Ariane di Claude Anet; sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L. Diamond; fotografia: William C. Mellor; scenografia: Alexander Trauner; montaggio: Léonide Azar; musica: Franz Waxman; interpreti: Gary Cooper (Frank Flannagan), Audrey Hepburn (Arianna), Maurice Chevalier (Claude Chavasse), John McGiver, Lise Bourdin, Van Doude; produzione: Billy Wilder; distribuzione: Allied Artists; durata: 130’.
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TESTIMONE D’ACCUSA 1957 (Witness for the Prosecution) Regia: Billy Wilder; soggetto: dal romanzo di Agatha Christie; sceneggiatura: Billy Wilder, Harry Kurnitz; fotografia: Russell Harlan; scenografia: Alexander Trauner; montaggio: Daniel Mandell; musica: Matty Malneck; interpreti: Marlene Dietrich (Christine Vole), Tyrone Power (Leonard Vole), Charles Laughton (Sir Wilfrid Robarts), Elsa Lanchester (Miss Plimsoll), John Williams, Henry Daniell, Ian Wolfe, Una O’Connor, Torin Thatcher, Francis Compton, Norma Varden, Philip Tonge, Ruta Lee, Molly Roden, Ottola Nesmith, Marjorie Eaton; produzione: Edward Small, Arthur Hornblow Jr.; distribuzione: United Artists; durata: 114’. A QUALCUNO PIACE CALDO 1959 (Some Like It Hot) Regia: Billy Wilder; soggetto: Robert Thoeren, Michael Logan; sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L. Diamond; fotografia: Charles Lang Jr.; scenografia: Ted Haworth; montaggio: Arthur P. Schmidt; musica: Adolph Deutsch; interpreti: Marilyn Monroe (Zucchero Kandinsky), Tony Curtis (Joe-Joséphine), Jack Lemmon (Jerry-Daphne), George Raft (Spats Colombo), Pat O’Brien (Mulligan), Nehemiah Persoff (Piccolo Bonaparte), Joe E. Brown (Osgood Fielding III), Joan Shawlee, Billy Gray, George E. Stone, Dave Berry, Mike Mazurki, Harry Wilson, Beverly Wills, Barbara Drew, Edward G. Robinson Jr.; produzione: Billy Wilder; distribuzione: United Artists; durata: 120’. L’APPARTAMENTO 1960 (The Apartment) Regia: Billy Wilder; soggetto e sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L. Diamond; fotografia: Joseph LaShelle (Panavision); scenografia: Alexander Trauner; montaggio: Daniel Mandell; musica: Adolph Deutsch; interpreti: Jack Lemmon (C.C. “Bud“ Baxter), Shirley MacLaine (Fran Kubelik), Fred MacMurray (Jeff D. Sheldrake), Ray Walston, David Lewis, Jack Kruschen, Joan Shawlee, Edie Adams, Hope Holiday, Johnny Seven, Naomi Stevens, Frances Weintraub Lax, Joyce Jameson, Willard Waterman, David White, Benny Burt, Hal Smith; produzione: Billy Wilder; distribuzione: United Artists; durata: 125’. UNO, DUE, TRE! 1961 (One,Two,Three) Regia: Billy Wilder; soggetto: dalla pièce di Ferenc Molnár; sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L. Diamond; fotografia: Daniel Fapp (Panavision); scenografia: Alexander Trauner; montaggio: Daniel Mandell; musica: André Prévin; interpreti: James Cagney (C.R. MacNamara), Horst Buchholz (Otto Ludwig Piffl), Pamela
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Billy Wilder
Tiffin (Scarlett), Arlene Francis (Phyllis MacNamara), Lilo Pulver (Ingeborg), Howard St. John, Loïs Bolton, Hanns Lothar, Leon Askin, Peter Capell, Ralf Wolter; produzione: Billy Wilder; distribuzione: United Artists; durata: 108’. IRMA LA DOLCE 1963 (Irma la douce) Regia: Billy Wilder; soggetto: dalla pièce di Alexandre Breffort e Marguerite Monnot; sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L. Diamond; fotografia: Joseph LaShelle (Panavision-Technicolor); scenografia: Alexander Trauner; montaggio: Daniel Mandell; musica: André Prévin; interpreti: Shirley MacLaine (Irma), Jack Lemmon (Nestor Patou), Lou Jacobi (Moustache), Bruce Yarnell, Cliff Osmond; produzione: Billy Wilder; distribuzione: United Artists; durata: 142’. BACIAMI, STUPIDO 1964 (Kiss Me, Stupid!) Regia: Billy Wilder; soggetto: dalla pièce L’ora della fantasia di Anna Bonacci; sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L. Diamond; fotografia: Joseph LaShelle (Panavision); scenografia: Alexander Trauner; montaggio: Daniel Mandell; musica: André Prévin; interpreti: Dean Martin (Dino Latino), Kim Novak (Polly “La Bomba”), Ray Walston (Orville Spooner), Felicia Farr (Zelda Spooner), Cliff Osmond (Barney); produzione: Billy Wilder; distribuzione: United Artists; durata: 131’. NON PER SOLDI… MA PER DENARO 1966 (The Fortune Cookie) Regia: Billy Wilder; soggetto e sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L. Diamond; fotografia: Joseph LaShelle; scenografia: Robert Luthardt; montaggio: Daniel Mandell; musica: André Prévin; interpreti: Jack Lemmon (Harry Hinkle), Walter Matthau (Willie Gingrich), Ron Rich (Luther “Boom Boom” Jackson), Cliff Osmond (Mr. Purkey); produzione: Billy Wilder; distribuzione: United Artists; durata: 125’. VITA PRIVATA DI SHERLOCK HOLMES 1970 (The Private Life of Sherlock Holmes) Regia: Billy Wilder; soggetto: dai romanzi di Arthur Conan Doyle; sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L. Diamond; fotografia: Christopher Challis (Panavision-Technicolor); scenografia: Alexander Trauner; montaggio: Ernest Walter; musica: Miklós Rózsa; interpreti: Robert Stephens (Sherlock Holmes), Colin Blakely (Dr. Watson), Christopher Lee (Mycroft Holmes), Geneviève Page (Gabrielle Valladon); produzione: Billy Wilder; distribuzione: United Artists; durata: 130’.
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CHE COSA È SUCCESSO TRA MIO PADRE E TUA MADRE? 1972 (Avanti!) Regia: Billy Wilder; soggetto: dalla pièce di Samuel A. Taylor; sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L. Diamond (e Luciano Vincenzoni); fotografia: Luigi Kuveiller (Technicolor-DeLuxe); scenografia: Ferdinando Scarfiotti; montaggio: Ralph E. Winters; musica: Carlo Rustichelli; interpreti: Jack Lemmon (Wendell Armbruster Jr.), Juliet Mills (Pamela Piggott), Clive Revill (Carlo Carlucci), Edward Andrews (J.J. Blodgett), Gianfranco Barra (Bruno), Pippo Franco (l’impiegato comunale); produzione: Billy Wilder; distribuzione: United Artists; durata: 144’. PRIMA PAGINA 1974 (The Front Page) Regia: Billy Wilder; soggetto: dalla pièce di Ben Hecht e Charles MacArthur; sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L Diamond; fotografia: Jordan Cronenweth (Panavision-Technicolor); scenografia: Henry Bumstead; montaggio: Ralph E. Winters; musica: Billy May; interpreti: Walter Matthau (Walter Burns), Jack Lemmon (Hildy Johnson), Susan Sarandon (Peggy), Vincent Gardenia (lo Sceriffo), David Wayne (Roy Bensinger), Austin Pendleton (Earl Williams), Allen Garfield (Kruger), Carol Burnett (Mollie Malloy), Cliff Osmond (il capo della polizia), Harold Gould (il sindaco); produzione: Jennings Lang, Paul Monash; distribuzione: Universal International; durata: 105’. FEDORA 1978 (Id.) Regia: Billy Wilder; soggetto: dal racconto di Thomas Tryon; sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L Diamond; fotografia: Gerry Fisher (Eastmancolor-Panavision); scenografia: Alexander Trauner; montaggio: Frederic Steinkamp, Stefan Arnsten; musica: Miklós Rózsa; interpreti: William Holden (Barry Detweiler), Marthe Keller (Fedora/Antonia Sobryanski), Hildegard Knef (contessa Sobryanski), José Ferrer (Dottor Vando), Frances Sternhagen (Miss Balfour), Mario Adorf, Michael York, Henry Fonda, Hans Jaray; produzione: Billy Wilder (Geria Filmgesellschaft - Bavaria Atelier Gesellschaft - Société Française de Production); distribuzione: UGC-CFDC; durata: 113’. Il produttore americano Barry Detweiler, si reca a Corfù alla ricerca della famosa attrice Fedora, che nonostante il trascorrere del tempo mantiene misteriosamente intatta la sua bellezza, per proporle un copione tratto da Anna Karenina. Qui scopre il morboso rapporto che lega Fedora e la figlia Antonia, identica alla madre nell’aspetto, costretta a prenderne il posto per mantenerne la leggenda. Impossibilitata ad abbandonare il suo ruolo, Antonia si suicida buttandosi sotto un treno, allo stesso modo di Anna Karenina.
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Billy Wilder
«Fedora poteva diventare un altro film su Hollywood, completamente diverso. Ma le cose non andarono così. […] Non tutte le battute sono all’altezza di “Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo”. In Viale del tramonto, il tema centrale era il dramma dell’avvento del sonoro. […] In Fedora non avevamo un tema così potente. Non so se il soggetto funzionasse, ma certo la sceneggiatura era troppo debole». (Billy Wilder) BUDDY BUDDY 1981 (Id.) Regia: Billy Wilder; soggetto: da un copione di Francis Veber per il film L’emmerdeur (1973) di Edouard Molinaro; sceneggiatura: Billy Wilder, I.A.L Diamond; fotografia: Harry Stradling Jr. (Metrocolor); scenografia: Daniel A. Lomino; montaggio: Argyle Nelson; musica: Lalo Schifrin; interpreti: Jack Lammon (Victor Clooney), Walter Matthau (Trabucco), Paula Prentiss (Celia Clooney), Klaus Kinski (dottor Zuckerbrot), Dana Elcar, Fil Formicola, Miles Chapin, Bette Raya, Ronnie Sperling; produzione: Jay Weston; distribuzione: MGM; durata: 96’. Trabucco, un sicario professionista, riceve dalla malavita l’incarico di uccidere un importante testimone di un omicidio che si appresta a fare in tribunale alcune compromettenti deposizioni. Il killer si sistema in una stanza d’albergo la cui finestra è situata di fronte al tribunale. A disturbare però l’esecuzione del suo ultimo contratto ci pensa Victor Clooney, un censore televisivo logorroico, appiccicoso e nevrotico, che occupa la stanza attigua al sicario e deciso a suicidarsi perché lasciato dalla moglie. «La black comedy richiede un talento tutto particolare. Primo, bisogna trovare un buon soggetto. Buddy Buddy non era un tipo di commedia per cui straveda. Non a caso è stato anche l’unico esperimento in quella direzione. Il problema è che il pubblico ride, ma poi ce l’ha con te. I morti ammazzati, la violenza… sono elementi di segno negativo, che il pubblico non ama vedere troppo da vicino. Anzi, non ne vogliono sapere niente. Succede anche a me. Buddy Buddy non era neanche una black comedy, era piuttosto una commedia che travalicava il genere». (Billy Wilder)
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BIBLIOGRAFIA
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Billy Wilder
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Billy Wilder
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Scritti di Wilder e interviste WILDER, Billy 1927 Der Prinz von Wales geht auf Urlaub, in «Berliner Börsen-Courier», 31 august 1927 (trad. it., Il principe di Galles va in vacanza, in «Cinegrafie», n. 10, 1997; in Omaggio a Billy Wilder, a cura di G. Spagnoletti, «Close-up», n. 4, agosto-ottobre 1998). 1929 Stroheim, der Mensch, den man gern haßt, in «Der Querschnitt», n. 4, april (trad. it., Stroheim, l’uomo che vi piacerebbe odiare, in Omaggio a Billy Wilder, a cura di G. Spagnoletti, «Close-up», cit.). 1957 One Head is Better Than Two, in «Films and Filming», vol. 3, n. 5, February (e in R. Koszarski, Hollywood Directors 1941-1976, Oxford-London-New York, Oxford University Press, 1977). 1968 Ernst Lubitsch, in H.Weinberg, The Lubitsch Touch, New York, Dutton (e in «Cahiers du cinéma», n. 198, février 1968). HIGHAM, Charles, GREENBERG, Joe 1969 Interview with Billy Wilder, in ID., The Celluloid Muse: Hollywood Directors Speak, Chicago, Regnery. MUNDY, Robert, WALLINGTON, Michael 1969 Interview with Billy Wilder, in «Cinema», n. 4, October. WILDER, Billy 1971 Petit Dictionnaire Wildérien, in «Positif», n. 127, mai.
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Billy Wilder
WILDER, Billy, BRACKETT, Charles, MARSHMAN JR., D.M. 1999 Sunset Boulevard, Berkeley, University of California Press (trad. it., Viale del tramonto. La sceneggiatura completa, Roma, Elleu Multimedia, 2003). WILDER, Billy, BRACKETT, Charles 2000 The Lost Weekend. The Complete Screenplay, Berkeley, University of California Press. WILDER, Billy, CHANDLER, Raymond 2000 Double Indemnity. The Complete Screenplay, Berkeley, University of California Press (trad. it., La fiamma del peccato. La sceneggiatura completa, Roma, Elleu Multimedia, 2004). CASTLE, Alison (a cura di) 2001 Billy Wilder’s Some Like It Hot. The Funniest Film Ever Made. The Complete Book, Köln, Taschen.
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NOTA BIBLIOGRAFICA DELL’AUTORE 1
La bibliografia su Billy Wilder è piuttosto vasta, soprattutto per quanto riguarda articoli e recensioni. Esistono anche monografie su Wilder, alcune incomplete (Oreste Del Buono, Billy Wilder, Parma, Guanda, 1958), altre scarsamente utilizzabili per il taglio critico che abbiamo adottato (Axel Madsen, Billy Wilder, Cinema One, London, 1968; Tom Wood, The Bright Side of Billy Wilder, New York, Doubleday, 1970). Un’eccezione è costituita dalla pregevole monografia di Alessandro Cappabianca (Billy Wilder, Firenze, La Nuova Italia, 1976) che abbiamo tenuto presente come punto di riferimento e di confronto nel nostro lavoro. Per quanto riguarda saggi, articoli e recensioni, intendiamo citare soltanto quelli che riteniamo degni di rilievo, e di cui abbiamo tenuto conto in questa scheda. Citiamo prima di tutto due ampi saggi in lingua inglese: Stephen Farber, The Films of Billy Wilder, in «Film Comment», vol. 7, n. 4, Winter 1971-72; Joseph McBride e Michael Wilmington, The Private Life of Billy Wilder, in «Film Quarterly», vol. XXIII, n. 4, Summer 1970. Ricordiamo inoltre un importante saggio in lingua francese: Michel Ciment, Sept réflexions sur Billy Wilder, in «Positif», n. 127, mai 1971. Citiamo quindi alcuni saggi a carattere generale sul cinema americano, comunque indispensabili per la collocazione e la comprensione della personalità di Billy Wilder: Andrew Sarris, The American Cinema, in «Film Culture», vol. XXVIII, n. 34, Spring 1963; John Simon, Something for Everyone, New York, Acid Test, 1963; Charles Higham, Cast a Cold Eye, in «Sight and Sound», Spring 1963; Paul Schrader, Notes on Film Noir, in «Film Comment», vol. 8, n. 1, Spring 1972; Stephen Farber, Violence and the Big Goddess, in «Film Comment», vol. 10, n. 6, Nov.-Dec. 1974 (questi due ultimi saggi citati sono i più importanti sul filone nero del cinema americano del secondo dopoguerra); Paul Jansen, The World You live in, in «Film Comment», vol. 10, n. 6, Nov.-Dec. 1974. Wilder ha rilasciato alcune interviste molto importanti per la comprensione del suo atteggiamento nei confronti del cinema come apparato e come linguaggio. Citiamo qui le più importanti: Philip K. Scheur, A Conversation with Billy 1 Presente nell’edizione originale del volume e mantenuta perché non si tratta di un semplice elenco di titoli ma contiene commenti e giudizi in merito alla letteratura critica sul regista. [N.d.R.]
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Billy Wilder
Wilder, in «Los Angeles Times», August 20, 1950; Douglas McVay, The Eye of a Cinic, in «Films and Filming», Jan. 1960; Entretien avec Billy Wilder, in «Cahiers du cinéma», n. 134, 1962; Michel Ciment, Entretien avec Billy Wilder, in «Positif», n. 120, 1970; Michel Ciment, Entretien avec Billy Wilder, in «Positif», n. 155, 1974. Segnaliamo inoltre un importante fascicolo stampato a cura del Lab. 80 di Bergamo, dal titolo Billy Wilder: la classicità della trasgressione, che contiene la traduzione italiana dei seguenti “materiali”: il saggio di M. Ciment, Sept réflexions…, cit.; le due interviste rilasciate a «Positif», un articolo di Olivier Eyquem su Avanti! e un articolo di Vittorio Giaggi su Prima pagina. Si tratta, come si può vedere, di un materiale utilissimo per la conoscenza di questo regista attraverso le sue dichiarazioni. A questo punto segnaliamo alcune sceneggiature pubblicate in lingua italiana: L’asso nella manica (Edizioni di Filmcritica a cura di E. Bruno); Viale del tramonto, nelle Edizioni di Bianco e Nero a cura di F. di Giammatteo, con il saggio L’audacia di Billy Wilder. In lingua inglese si possono trovare le seguenti sceneggiature: Double Indemnity, nel volume di John Gassner e Dudley Nichols, Best Film Plays 1945, New York, Crown Publishers, 1946; The Fortune Cookie, London, Studio vista. Per quanto riguarda la filmografia di Billy Wilder segnaliamo: una Filmographie de Billy Wilder (dagli inizi fino a One, Two, Three) pubblicata dai «Cahiers du cinéma», n. 134, 1962, assai ricca di dati, sia pure con qualche inesattezza cronologica; una filmografia completa a cura di Henri Moret e Claude Beylie, con descrizione delle trame dei singoli film, pubblicate da «Ecran», n. 35, 1975; e infine la filmografia di A. Cappabianca contenuta nella citata monografia. Per il taglio adottato in questo lavoro riteniamo superfluo elencare le recensioni ai film di Wilder da noi prese in visione ma scarsamente utilizzate, tranne qualche eccezione. È il caso della recensione di Pascal Kané, Sur Avanti, in «Cahiers du cinéma», n. 248, 1973, e della lunga recensione (sempre a Avanti!) di Joseph McBride, dal titolo The Importance of being Ernst, in «Film heritage», Summer 1973; ed è il caso dell’articolo di Franco La Polla, La maschera come opposizione e come integrazione in Billy Wilder (su Vita privata di Sherlock Holmes e Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?), in «Filmcritica», n. 234-235, 1973.
Post scriptum Devo ringraziare il gruppo del Laboratorio 80 di Bergamo che mi ha messo a disposizione i nastri dei film di Wilder e il materiale sul regista (dandomi ospitalità nella sua sede). Senza questo aiuto non mi sarebbe stato possibile un discorso puntuale su questo regista, dal momento che in Italia, come si sa, è prati-
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Appendice
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camente inesistente qualsiasi Istituto, pubblico o privato, per studiare il cinema (basti pensare che la Cineteca Nazionale possiede soltanto un film di Billy Wilder!). Ringrazio inoltre Nedo Ivaldi per l’interessamento al mio lavoro e per la collaborazione, e Callisto Cosulich per le notizie che mi ha dato. Infine ringrazio Fabio Carlini per la revisione accurata del testo e per i preziosi consigli durante la stesura del lavoro (sciogliendolo, naturalmente, da qualsiasi responsabilità per le lacune e i difetti del testo, che sono attribuibili soltanto all’autore). L’edizione originale del volume portava questa dedica: A mio padre e a mia madre. [N.d.R.]
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INDICE DEI NOMI E DEI FILM
Appartamento, L’ (The Apartment, B. Wilder, 1960), 54-55, 57, 59-60, 84, 93-95, 105, 114-115, 122-123, 126 A qualcuno piace caldo (Some Like It Hot, B. Wilder, 1959), 11, 15 e n, 54-57, 60, 91, 93, 98, 101, 107-108, 125-126 Aquila solitaria, L’ (The Spirit of St. Louis, B. Wilder, 1957), 37, 48 Arianna (Love in the Afternoon, B. Wilder, 1957), 77, 81, 83, 91, 94-95, 97n, 98-99, 105, 114 Asso nella manica, L’ (Ace in the Hole o The Big Carnival, B. Wilder, 1951), 12, 21, 31-35, 45, 48, 72, 73, 74, 85-86, 90, 93, 100, 104, 106107, 115, 118, 121
Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? (Avanti!, B. Wilder, 1972), 64-65, 67, 69-70, 83-85, 89, 91, 93-95, 98-99, 106, 110n, 115, 120-121 Ciment, Michel, 51n, 55n, 68n, 69n, 89n Cinque segreti del deserto, I (Five Graves to Cairo, B. Wilder, 1943), 77, 80, 99 Cooper, Gary, 103 Curtis, Tony, 98
Baciami, stupido (Kiss Me, Stupid!, B. Wilder, 1964), 15 e n, 49, 54-59, 67, 83, 91, 95, 97n, 98-99, 106, 115, 118, 120, 123 Brackett, Charles, 10n Buddy Buddy (Id., B. Wilder, 1981), 142
Farber, Stephen, 41n, 85 e n Fedora (Id., B. Wilder, 1978), 142 Fiamma del peccato, La (Double Indemnity, B. Wilder, 1944), 12, 2122, 25, 34-35, 38, 86, 93, 95-96, 99, 118, 122 Freud, Sigmund, 92 e n Frutto proibito (The Major and the Minor, B. Wilder, 1942), 64, 126 Frye, Northrop, 11, 12 e n, 13 e n, 15, 16n, 115 e n
Caldiron, Orio, 17n Cappabianca, Alessandro, 10n, 29n, 48, 61 e n, 62-63, 71 e n, 72, 110 e n
De Mille, Cecil B., 26, 30 Diamond, I.A.L., 10n Dietrich, Marlene, 46-47, 110n Domarchi, Jean, Douchet, Jean, 88n Douglas, Kirk, 32
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Billy Wilder
Giorni perduti (The Lost Weekend, B. Wilder, 1945), 10, 14, 25-26, 37, 39, 86, 114-115, 117, 122 Grande, Maurizio, 9, 10n, 11-12, 15-17 Grant, Cary, 98 Hawks, Howard, 98 Hepburn, Audrey, 83 Holden, William, 25, 44 Irma la dolce (Irma la douce, B. Wilder, 1963), 54-55, 58, 91, 93-96, 99, 106-108, 123, 125-126 Kané, Pascal, 70 e n, 71 e n Keaton, Buster, 26 La Polla, Franco, 110n Lang, Fritz, 40 Laughton, Charles, 13n, 110n Lemmon, Jack, 55, 66-67, 71, 74, 98 Lotman, Jurij M., 9 Lubitsch, Ernst, 81, 91 M, il mostro di Düsseldorf (M, F. Lang, 1931), 40 Martin, Dean, 55 Matthau, Walter, 66, 74 Mills, Juliet, 67, 71 Monroe, Marilyn, 61, 98 Mostri, I (D. Risi, 1963), 17 Nascita di una nazione (The Birth of a Nation, D.W. Griffith, 1915), 11 Non per soldi… ma per denaro (The Fortune Cookie, B. Wilder, 1966), 49, 57, 64-66, 83-84, 85 e n, 89, 91, 93-96, 98, 101-102, 106, 115, 117118, 120-122 Novak, Kim, 55
Ombre rosse (Stagecoach, J. Ford, 1939), 11 Page, Geneviève, 110n Prima pagina (The Front Page, B. Wilder, 1974), 64-65, 72-73, 93, 95, 103, 106, 115, 121-122 Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch, B. Wilder, 1955), 54, 59, 61, 63, 104, Queen Kelly (Id., E. von Stroheim, 1928-29), 27, 29n Risi, Dino, 17 Rogers, Ginger, 64 Sabrina (Id., B. Wilder, 1954), 77, 81, 83-85, 91-95, 98, 105, 114-115 Scandalo internazionale (A Foreign Affair, B. Wilder, 1948), 14, 37, 43, 46-48, 83, 85-86, 90, 93, 95, 103104, 114-115, 120-122 Stalag 17 (Id., B. Wilder, 1953), 37, 4244, 48-50, 62, 83, 91, 93, 100, 122 Stroheim, Erich von, 27, 29n, 91 Testimone d’accusa (Witness for the Prosecution, B. Wilder, 1957), 13n, 77, 80, 86, 97n, 98, 110n, 115 Tynjanov, Yurij, 126 Uno, due, tre! (One, Two, Three, B. Wilder, 1961), 15 e n, 16n, 57, 7779, 83-86, 90-94, 121 Valzer dell’imperatore, Il (The Emperor Waltz, B. Wilder, 1948), 77, 81, 91, 97n, 98
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Indice dei nomi e dei film
Viale del tramonto (Sunset Boulevard, B. Wilder, 1950), 12-13, 16n, 21, 25-28, 34-35, 38, 86, 89, 93, 95, 104, 106, 114-115, 117, 122, 142
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Vita privata di Sherlock Holmes (The Private Life of Sherlock Holmes, B. Wilder, 1970), 10, 37, 48-50, 77, 89, 93, 101, 109, 110n, 114-115, 122
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BIBLIOTECA TEATRALE diretta da Ferruccio Marotti e Luisa Tinti 1. F. MAROTTI, Amleto o dell’oxymoron. Studi e note sull’estetica della scena moderna. 2. L. CHANCEREL, Storia del teatro. 3. H. BECQUE, Teatro e polemiche. A cura di A. Magli. 2 voll. 4. C. MOLINARI, Le nozze degli dèi. Un saggio sul grande spettacolo italiano del Seicento. 5. F. TAVIANI, La commedia dell’Arte e la società barocca. La fascinazione del teatro. 6. A. NICOLL, Lo spazio scenico. Storia dell’arte teatrale. 7. J. GROTOWSKI, Per un teatro povero. 8. F. CRUCIANI, Jacques Copeau o le aporie del teatro moderno. 9. C. MELDOLESI, Profilo di Gustavo Modena. Teatro e rivoluzione democratica. 10. G. FERRONI, “Mutazione” e “riscontro” nel teatro di Machiavelli e altri saggi sulla commedia del Cinquecento. 11. N. BORSELLINO, Rozzi e Intronati. Esperienze e forme di teatro dal “Decameron” al “Candelaio”. 12. F. MAROTTI, Lo spazio scenico. Teorie e tecniche scenografiche in Italia dall’età barocca al Settecento. 13. G. E. LESSING, Drammaturgia d’Amburgo. A cura di P. Chiarini, Reprint. 14. S. BRECHT, Nuovo teatro americano 1968-1973.
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A. C. ALBERTI, Il teatro nel fascismo. Pirandello e Bragaglia. A. CAPATTI, Teatro e “imaginaire”. Pubblico e attori in Racine. ROSSO DI SAN SECONDO, Teatro. 3 voll. R. REGGIANI/L. RUGGERI, Processo alla guerra. Il teatro contro. L. TREZZINI, Geografia del teatro. Rapporto sul teatro italiano d’oggi. Per una politica del teatro. Atti del Convegno sul teatro del Partito Comunista Italiano. R. DURANTE, Tutto il teatro a Malandrino. Vita e spettacolo in un paese del Salento. L. MARITI, Commedia ridicolosa. Comici di professione, dilettanti, editoria teatrale nel Seicento. C. MELDOLESI, Su un comico in rivolta. Dario Fo il bufalo e il bambino. F. RUFFINI, Semiotica del testo. L’esempio teatro. S. MONTI, Il teatro realista della Nuova Italia. J. KOTT, Diario teatrale di Jan Kott. S. I. WITKIEWICZ, Teatro. A cura di G. Pampiglione. 2 voll. Il teatro del personaggio. Shakespeare sulla scena italiana dell’Ottocento. A cura di L. Caretti. P. M. KERZENCEV ] , Il teatro creativo. Teatro proletario negli anni Venti in Russia. Introduzione di F. Cruciani.
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N. GOURFINKEL, Teatro russo contemporaneo. Introduzione di F. Ruffini. M. WEKWERTH, Teatro e scienza. Riflessioni per il teatro di oggi e di domani. Appendice di R. Ascarelli. A. MANGO, La morte della partecipazione. L. TINTI, George Fuchs e la rivoluzione del teatro. M. CACCIAGLIA, Quattro secoli di teatro in Brasile. D. SERAGNOLI, Teatro a Siena nel Cinquecento. M. RUGGERI MARCHETTI, Il teatro di Antonio Buero Vallejo o il processo verso la verità. A. DE LUCA, Il teatro di Ludovico Ariosto. G. AZZARONI, Del teatro e dintorni. Una storia della legislazione e delle strutture teatrali nell’Ottocento. J. DRUMBL, Quem Quaeritis. Teatro sacro dell’Alto Medioevo. R. GUARINO, La tragedia e le macchine. “Andromède” di Corneille e Torelli. Teatro danese del Novecento. Atti del seminario di studi sul teatro danese moderno e contemporaneo. F. MAROTTI, Il volto dell’invisibile. Studi e ricerche sui teatri orientali. R . SCHECHNER , La teoria della performance 1970-1983. A cura di V. Valentini. C. MOLINARI, L’attrice divina. Eleonora Duse nel teatro italiano fra i due secoli. M. GRANDE, La riscossa di Lucifero. Ideologie e prassi del teatro di sperimentazione in Italia (1976-1984).
46. Giava-Bali. Rito e spettacolo. A cura di V. Di Bernardi e A. H. Luijdjens. 47. Teatro Oriente/Occidente. A cura di A. Ottai. 48. Il teatro degli anni Venti. A cura di L. Vazzoler. 49. La didascalia nella letteratura teatrale scandinava.Testo drammatico e sintesi scenica. A cura di M. K. Ritzu. 49b. P. PUPPA, Dalle parti di Pirandello. 50. S. J. WITKIEWICZ, Introduzione alla teoria della Forma Pura nel teatro. E altri saggi. A cura di F. Bigazzi, A. M. Korarkewska e P. De Marco. 51. Studi sul dionisismo. A cura di M. Grande. 52. 1er Congrès mondial de sociologie du théâtre. Rome, 27-28-29 juin 1986. 53. F. DERIU, Il paradigma teatrale. Teoria della performance e scienze sociali. 54. L. CHIARELLI, “La maschera e il volto”. Ed altri drammi rappresentati 1916-1928. A cura di G. Sammartano. 55. V. DI BERNARDI, Mahabharata. L’epica indiana e lo spettacolo di Peter Brook. 56. G. CAZZOLA, L’attore di Dio. Conversazioni balinesi. 57. A. M. RIPELLINO, Siate buffi. Cronache di teatro, circo e altre arti. (“L’Espresso” 1969-77). A cura di A. Fo, A. Pane, C. Vela. 58. G. COLLI, Una pedagogia dell’Attore. L’insegnamento di Orazio Costa. 59. E. CAVACCHIOLI, L’uccello del Paradiso e altri drammi rappresenta-
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ti1919-1930. A cura di G. Sammartano. F. MAROTTI-G. ROMEI, La Commedia dell’Arte e la società barocca. La professione del teatro. Spettacolo: Rapporto Stato/Regioni/Enti locali. A cura di B. Grieco. C. ALBERTI, Scena veneziana nell’età di Goldoni. R. GUARDENTI, Gli italiani a Parigi. La Comédie Italienne (16601697). Storia, pratica scenica, iconografia. F. LEMAITRE, Testi e materiali. A cura di C. Molinari. L’arte della commedia. Atti del convegno di studi sulla drammaturgia di Eduardo. A cura di A. Ottai e P. Quarenghi. Il libro di teatro. Annali del Dipartimento Musica e Spettacolo dell’Università «La Sapienza» di Roma. Vol. I. A cura di R. Ciancarelli. O. GIARDI, I comici dell’arte perduta. Le compagnie comiche italiane alla fine del secolo XVIII. G. DI PALMA, La fascinazione della parola. Dalla narrazione orale al teatro: i cuntastorie. Il patrimonio teatrale come bene culturale. Convegno di Studi – Parma 24-25 aprile 1990. A cura di L. Trezzini. Letteratura e mass-media nei paesi di lingua tedesca. A cura di M. Ponzi. Il libro di teatro. Annali del Dipartimento Musica e Spettacolo dell’Università «La Sapienza» di Roma. Vol. II. A cura di R. Ciancarelli.
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D. GAMBELLI,
Arlecchino a Parigi. Dall’inferno alla corte del Re Sole. D. GAVRILOVICH, Profumo di Rus’. L’arte del teatro in Russia. Scritti di artisti, pittori e critici 1860-1920. Il mito di Shakespeare e il teatro romantico. Dallo Sturm und Drang a Victor Hugo. A cura di M. Fazio. G. GUERRIERI, Il Teatro in contropiede. Cronache e scritti teatrali 1974-1981. A cura di S. Chinzari. G. GUERRIERI, Eleonora Duse. Nove saggi. A cura di L. Vito. Gordon Craig in Italia. Atti del convegno internazionale di studi. Campi Bisenzio, 27-29 gennaio 1989. A cura di G. Isola e G. Pedullà. François Delsarte: Le leggi del teatro. Il pensiero scenico del precursore della danza moderna. A cura di E. Randi. P. BERTOLONE, L’esilio del teatro. Goldfaden e il moderno teatro yiddish. V. VALENTINI, Il poema visibile. Le prime messe in scena delle tragedie di Gabriele D’Annunzio. L. ANTONELLI, L’uomo che incontrò se stesso. Ed altri drammi rappresentati 1918-1933. A cura di G. Sammartano. L. MANGO, Teatro di poesia. Saggio su Federico Tiezzi. G. B. FAGIUOLI, La commedia che non si fa. A cura di O. Giardi e M. Russo. S. D’AMICO, La vita del teatro. Cronache, Polemiche e note varie. Vol. I, 1914-1921. A cura di Alessandro D’Amico.
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R. GUARDENTI,
Le fiere del teatro. Percorsi del teatro forain del primo Settecento. S. SINISI, Cambi di scena. Teatro e arti visive nelle poetiche del Novecento. Il libro di teatro. Annali del Dipartimento Musica e Spettacolo dell’Università «La Sapienza» di Roma. Vol. III. A cura di S. Carandini e R. Ciancarelli. B. ORTOLANI, Il teatro Giapponese. Dal rituale sciamanico alla scena contemporanea. A cura di M. P. D’Orazi. D. GAMBELLI, Arlecchino a Parigi. Vol. II, Lo scenario di Domenico Biancolelli. M. PIZZA, Il gesto, la parola, l’azione. Poetica, drammaturgia e storia dei monologhi di Dario Fo. F. DERIU, Gian Maria Volonté. Il lavoro d’attore. R. DE MONTICELLI, Le mille notti del critico. Trentacinque anni di teatro vissuti e raccontati da uno spettatore di professione. Vol. I, 19531963. A cura di G. De Monticelli, R. Arcelloni, L. Galli Martinelli. R. DE MONTICELLI, Le mille notti del critico. Trentacinque anni di teatro vissuti e raccontati da uno spettatore di professione. Vol. II, 19641973. A cura di G. De Monticelli, R. Arcelloni, L. Galli Martinelli. R . DE MONTICELLI, Le mille notti del critico. Trentacinque anni di teatro vissuti e raccontati da uno spettatore di professione. Vol. III, 1974-1980. A cura di G. De Monticelli, R. Arcelloni, L. Galli Martinelli.
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R. DE MONTICELLI, Le mille notti del critico. Trentacinque anni di teatro vissuti e raccontati da uno spettatore di professione. Vol. IV, 19811987. A cura di G. De Monticelli, R. Arcelloni, L. Galli Martinelli. P. BIGNAMI, G. AZZARONI, Gli oggetti nello spazio del teatro. M. GRANDE, A. BERDINI, Una trilogia facile. Empedocle tiranno, Shylock e Faust, lettera ad Antonin Artaud. S. GALASSO, Il Teatro di Remondi e Caporossi. F. TREBBI, Le porte dell’ombra. Sul teatro di D’Annunzio. PETER BROOK, Lo spazio vuoto. R. SCHECHNER, Magnitudini della performance. A cura di F. Deriu. R.W. TOBIN, Tarte à la crème. Commedia e gastronomia nel teatro di Molière. S. CARANDINI / L. MARITI, Don Giovanni o l’estrema avventura del teatro. R . CUPPONE, CdA. Il mito della commedia dell’arte nell’Ottocento francese. A. D’ADAMO, Danzare il rito. Le Sacre du Printemps attraverso il Novecento. H. CZERTOK, Teatro in esilio. Appunti e riflessioni sul lavoro del Teatro Nucleo. A cura di Barbara Di Pascale e Daniele Seragnoli. M. T. SATURNO, Voci dal Piccolo Teatro di Roma. Orazio Costa dalla pedagogia alla pratica teatrale. A. VASIL’EV, A un unico lettore. Colloqui sul teatro. A cura di A. Bergamo. Y. OIDA, L’attore invisibile.
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110. Mascheramenti. Tecniche e saperi nello spettacolo d’occidente e d’oriente. A cura di P. Bignami. 111. F. POGGIALI, Sulle orme della “Compagnia dei Giovani”. 112. RAMÓN DEL VALLE-INCLÁN, Eroi del martedì grasso. Introduzione, traduzione e note di L. De Aliprandini. 113. S. BELLAVIA, La voce del gesto. Le rappresentazioni shakespeariane di Ernesto Rossi sulla scena tedesca. 114. G. TOMASI DI LAMPEDUSA, Il Gattopardo. Riduzione teatrale di V. Frosini. 115. Teatro portoghese del XX secolo. A cura di S. Fadda. 116. E. DE PASQUALE, Il brillante si fa ragionatore. Claudio Leigheb e il teatro dei ruoli. 117. S. PIETRINI, Spettacoli e immaginario teatrale nel Medioevo. 118. G. MASSINO, Fuoco inestinguibile. Franz Kafka, Jizchak Löwy e il teatro yiddish polacco. 119. R . MOLINA/A. MAIRENA, Mondo e forma del Cante flamenco. 120. M. LETIZIA COMPATANGELO, O Capitano, mio Capitano! Eduardo maestro di drammaturgia. 121. A. OTTAI, Come a concerto. Il Teatro Umoristico nelle scene degli anni trenta. 122. A. SURGERS, Scenografie del Teatro occidentale. A cura di Guido Di Palma e Elena Tamburini. 123. M. PROCINO SANTARELLI, Eduardo dietro le quinte. Un capocomicoimpresario attraverso cinquant’anni di storia, censura e sovvenzioni (1920-1970).
124. V. NOVARINA, L’animale del tempo. Seguito da Lettere agli attori e Per Louis de Funès. 125. A. K. TOLSTOJ, Don Giovanni. Poema drammatico. Cura e traduzione di Paola Ferretti. 126. A. ATTISANI, L’invenzione del teatro. Fenomenologia e attori della ricerca. 127. L. MANGO, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento. 128. RAMÓN DEL VALLE-INCLÁN, Commedie barbare. A cura di Luisa de Aliprandini. 129. G. PROSPERI, Sinceramente preoccupato dI intendere. Sessant’anni di critica teatrale. A cura di Mario Prosperi. Prefazione di Raffaele La Capria. I. 1940-1969. II. 19701996. 130. S. PIETRINI, Fuori scena. Il Teatro dietro le quinte nell’Ottocento. 131. L. MUCCI, Beckett, l’ultimo drammaturgo rifondatore. Come la sua «umanità in rovina» ha rigenerato la scrittura per le scene. 132. M. PIZZA, Al lavoro con Dario Fo e Franca Rame. 133. A. EGIDIO, Aleksandr Tairov e il Kamernyj Teatr di Mosca. 134. Sabato, Domenica e Lunedì. Eduardo De Filippo teatro vita copione e palcoscenico. Atti del Convegno di Studi 27-29 ottobre 2001. A cura di Silvia Ortolani. 135. M. SANTANELLI, Teatro. Introduzione e cura di Teresa Megale. 136. Libero Pilotto: scena dialettale ed identità nazionale. Atti del convegno (Feltre, 30 luglio 2004).
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M . DEL VALLE OJEDA , Botarga in Spagna. Il manoscritto II-1586 della Real Biblioteca di Madrid. Attori di carta. Motivi iconografici dall’antichità all’Ottocento. A cura di Renzo Guardenti. M. GRANDE, Scena evento scrittura. A cura di Fabrizio Deriu. M. PIERINI, Prima del cinema. Il teatro di Orson Welles. B. GENTILI, Lo spettacolo nel mondo antico. D. VIANELLO, L’arte del buffone. Maschere e spettacolo tra Italia e Baviera nel XVI secolo. M.P. D’ORAZI, Scusi ma lei è qualcuno? Ferruccio Di Cori, uno psichiatra a teatro.
144. B. MARRANCA, American performance 1975-2005. A cura di Valentina Valentini. 145. Café Savoy. Teatro yiddish in Europa. A cura di Paola Bertolone e Laura Quercioli Mincer. 146. EMILIO POZZI, Parole mbrugliate. Parole vere per Eduardo. Prefazione di Ferruccio Marotti. 147. MAURIZIO GRANDE, Billy Wilder. A cura di Roberto De Gaetano. 148. Un mondo dietro un mondo. A cura di Antonio Attisani e Mario Biagini. 149. ANNA BARSOTTI, Eduardo, Fo e l’attore-autore del Novecento. 150. GIUSEPPE BARTOLUCCI, Testi critici 1964-1987. A cura di Valentina Valentini e Giancarlo Mancini.
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