Benedetta economia. Benedetto da Norcia e Francesco d'Assisi nella storia economica europea 8831101617, 9788831101615

L'economia e i carismi; il mondo disincantato della società di mercato fatto di profitto, ricerca del tornaconto e

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Benedetta economia. Benedetto da Norcia e Francesco d'Assisi nella storia economica europea
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IDEE / economia Collana diretta da

Luigino Bruni Benedetta economia

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Il principio carismatico dell’economia di mercato

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Dedicato ai carismi umbri, e ai loro rappresentanti odierni, che hanno reso e rendono l’Italia e il mondo più belli, e l’economia più umana e felice.

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Luigino Bruni - Alessandra Smerilli

Benedetta economia Benedetto di Norcia e Francesco d’Assisi nella storia economica europea

prefazione di Stefano Zamagni

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Il principio carismatico dell’economia di mercato

II edizione, marzo 2009 In copertina: Spinello Aretino (1332ca-1410), Storie di san Benedetto: il santo fa tornare nel manico il roncone caduto nell’acqua. Firenze, San Miniato. © 1990, Foto Scala, Firenze - su concessione Ministero Beni e Attività culturali. Grafica di Rossana Quarta © 2008, Città Nuova Editrice Via Pieve Torina, 55 - 00156 Roma tel. 063216212 - e-mail: [email protected] ISBN 978-88-311-0161-5 Finito di stampare nel mese di marzo 2009 dalla tipografia Città Nuova della P.A.M.O.M. Via S. Romano in Garfagnana, 23 00148 Roma - tel. 066530467 e-mail: [email protected]

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Prefazione

Non è certo da oggi che si riconosce e si apprezza il ruolo importante che i carismi hanno svolto e svolgono all’interno della vita ecclesiale e, più in generale, della società civile. Ma occorre ammettere che parlare di principio carismatico entro l’economia di mercato è qualcosa di originale e di straordinariamente sorprendente. La storia rivisitata di Benedetto e Francesco che Luigino Bruni e Alessandra Smerilli narrano, con particolare bravura, non può non attirare l’attenzione di tutti coloro che – studiosi ed operatori economici – adusi a considerare la disciplina un monolite in grado di autofondarsi, iniziano a percepire che c’è un modo nuovo di affrontare le problematiche economiche. Un modo che non solo è più soddisfacente sotto il profilo teorico-scientifico, ma pure produce risultati migliori. Su due parole chiave, specificamente associate al pensiero, l’una di Benedetto, l’altra di Francesco, desidero fissare qui un attimo l’attenzione. L’«Ora et labora» di Benedetto non è semplicemente la via per la santità individuale, ma, come gli autori ben enfatizzano, il fondamento di quella che in seguito si affermerà come un’etica del lavoro basata sul principio della nobiltà del lavoro che già il giudaismo aveva in qualche modo affermato. Sappiamo che nel mondo greco-romano il lavoro non era un elemento della vita buona; quest’ultima era piuttosto vita politica e nella politica non v’era posto per chi lavora. L’uomo libero non lavora. Non così per la Regola benedettina. L’esperienza del monachesimo benedettino e cistercense rappresenta il punto di arrivo della riflessione sulla vita economica che già i Padri della Chiesa, a partire dal IV secolo, avevano avviato con acume

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Prefazione

sottoponendo il rapporto con i beni terreni al vaglio dell’etica cristiana. Beni e ricchezza non vengono condannati in sé, ma solo se male considerati, cioè se adoperati come fine e non come strumento. Notevole, a tale riguardo, il saggio scritto nel 370 da Basilio di Cesarea Sul buon uso della ricchezza: «I pozzi dai quali si attinge di più fanno zampillare l’acqua più facilmente e copiosamente, lasciati a riposo imputridiscono. Anche le ricchezze ferme sono inutili; se invece circolano e passano da uno all’altro sono di utilità comune e fruttifere». Come si intende, è qui anticipata la nozione di bene comune, quale prenderà forma alcuni secoli dopo. Gli sviluppi del movimento cistercense meritano, nel contesto del discorso del presente saggio, un inciso sia pure breve. Come noto, sotto l’impulso decisivo di Bernardo di Clairvaux, altra grande figura carismatica, l’Ordine cistercense registra un enorme successo nella competizione – nel senso del “cum-petere” – con l’abbazia di Cluny in Borgogna. Lasciata l’abbazia di Molesne per fondare a Citeaux nel 1098 un nuovo monastero, nel quale realizzare una forma di vita più consona al carisma benedettino, i cistercensi si trovano, sin da subito, a dover affrontare due questioni di natura economica. La prima riguarda l’atteggiamento da tenere nei confronti del lavoro. Mentre i cluniacensi andavano sostenendo che il lavoro necessario a produrre la sussistenza doveva essere fornito da persone ad essi sottoposte, i cistercensi, più fedeli allo spirito della Regola, affermavano che era illecito vivere del frutto del lavoro altrui. Donde il rifiuto di ogni forma di rendita, decime incluse. La seconda questione riguarda il regime di proprietà. Mentre la Regola benedettina affidava all’abate il possesso di tutti i beni, per farne l’uso più adeguato per provvedere ai bisogni dei monaci, i cistercensi rifiutano ogni possesso, addirittura il possesso di chiese e altari. La Carta Caritatis, la cui versione finale è del 1147, e che rappresenta la costituzione dell’Ordine cistercense è su tali due punti di una fermezza inamovibile. Quale conseguenza, certamente

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Prefazione

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non prevista, di tale intransigenza? Che lo stato di vita dei cistercensi, improntato a rigore e povertà estrema, finisce con l’attirare l’attenzione del popolo che, consapevole del buon uso delle proprie liberalità che costoro avrebbero fatto, “inonda” di donazioni i loro monasteri. Accade così che, nel giro di pochi decenni, i seguaci di Bernardo si trovano prigionieri della contraddizione che scaturiva dall’applicazione dei loro stessi principi: vita sobria e lavoro altamente produttivo creano “l’imbarazzo della ricchezza”. Che fare di una ricchezza in continuo aumento? Spetterà ai francescani trovare la via d’uscita dall’imbarazzo della ricchezza, con l’invenzione dell’economia di mercato civile. Francesco, fondatore di un movimento eremitico, trasformatosi con uno sviluppo folgorante in Ordine mendicante, recepisce da Bernardo sia il principio secondo cui i contemplantes devono diventare anche laborantes, sia la regola secondo cui i frati devono rinunciare anche alla proprietà comune. Se ne allontana però su un punto fondamentale: se si suole trovare uno sbocco al sovrappiù generato nel processo produttivo e risolvere così l’imbarazzo della ricchezza, occorre fare in modo che tutti possano partecipare – almeno tendenzialmente – all’attività economica. È così che nasce il mercato come spazio di inclusione di tutti: a ciò serve, infatti, la divisione del lavoro. Ciò spiega, tra l’altro, perché i nuovi Ordini mendicanti – francescano e domenicano – sono così attratti dalle città: è lì, infatti, che vive la maggior parte della popolazione e dunque è lì che deve arrivare la ricchezza accumulata. Quale specifica categoria di pensiero consente a Francesco di porre le premesse a partire dalle quali i suoi frati edificheranno l’economia di mercato civile, molto prima che queste vengano soppiantate dalla economia di mercato capitalistica? La fraternità – parola questa bandita, fino a tempi recentissimi, dal lessico oltre che dalla prassi economica. Il merito, non certo dei minori, del lavoro di Bruni e della Smerilli è quello di rinverdire questa critica vena di riflessione entro il discorso economico,

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Prefazione

una vena che la rivoluzione francese, e ciò che ne è seguito, aveva di fatto prosciugato. Mai si dirà abbastanza dell’importanza che il pensiero di Francesco ha avuto nella messa a fuoco del principio di fraternità e, di conseguenza, del principio di reciprocità che ne costituisce la traduzione sul piano pratico. «Ciò che mi pareva amaro mi fu convertito in dolcezza dell’anima e del corpo». C’è veramente dello straordinario in tale affermazione. Veder l’altro con occhi nuovi è, per Francesco, il cuore della conversione e dunque il principio regolativo di un modo nuovo di organizzare la società. La conversione, cioè, prima ancora che un mutamento di comportamenti, è uno sguardo diverso sulla realtà e in particolare un cambiamento di percezione del rapporto intersoggettivo. È in ciò la forza travolgente del principio carismatico. Vedere l’altro e riconoscerlo nella sua dignità di persona, a prescindere dai suoi meriti e talenti, è ciò che fa la differenza, anche a livello comportamentale. Perché sappiamo che sentirsi visti e riconosciuti ci trasforma sempre, presto o tardi. E così si valorizza il positivo che c’è in ognuno. Dice Francesco al lupo di Gubbio: «Tu sei malvagio quando sbrani chi trovi sul tuo cammino, ma sono certo che lo fai perché hai fame». Dirà poi agli abitanti del paese umbro: «Convertitevi e sfamate il lupo». Questo a significare che la conversione è tale quando muta la nostra percezione delle cose e degli altri e, in tal modo, ci induce a cambiare comportamento. Si comprende allora qual è la cifra dell’economia carismatica. Efficienza ed equità, pur necessari, non sono valori anche sufficienti. La prospettiva carismatica, in economia, non può non mirare a realizzare la società fraterna. Non si accontenta di assicurare la convivenza sociale; essa aspira alla vita in comune. Come Aristotele aveva ben compreso, la vita in comune tra uomini è cosa ben diversa dalla mera comunanza del pascolo degli animali. Nel pascolo, che pure presuppone una forma di convivenza, ognuno mangia per proprio conto e cerca, se gli riesce, di sottrarre cibo agli altri animali. Nella società umana, al contrario, il bene di ognuno può es-

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Prefazione

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sere raggiunto solo con l’opera di tutti e il bene di ciascuno non può essere assaporato se non lo è anche dagli altri. Che fare allora per consentire che il mercato possa tornare ad essere – come lo fu nella stagione, purtroppo breve, dell’umanesimo civile – strumento di civilizzazione e di progresso, ad un tempo, morale ed economico? È questa la grande sfida che l’economia carismatica intende raccogliere e proporre, con forza, a studiosi e policy-makers. Si deve essere sinceramente grati agli autori di queste righe e alle loro opere, perché altre ne suscitino in chi sceglie di seguirne le tracce. STEFANO ZAMAGNI

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Introduzione

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Introduzione

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Introduzione

«Tutti i problemi della tecnica e dell’economia debbono essere formulati in funzione di una concezione generale circa le migliori condizioni possibili del lavoro. Una tale concezione generale è la norma prima: tutta la società dev’essere anzitutto costituita in modo che il lavoro non tenda a degradare coloro che lo compiono. Non basta voler evitare le loro sofferenze, bisognerebbe volere la loro gioia». (S. Weil, La condizione operaia, p. 322)

Nella nostra società di mercato, disincantata e anoressica di ideali e di spiritualità, è molto difficile vedere nella vita economica, nelle imprese e nei mercati, qualcosa di più e di diverso da denaro, profitti e ricerca di un tornaconto sempre più individualistico. L’economico che passa per i media, e che incrocia il nostro quotidiano, è poco appassionante o ideale: crisi economica, rincaro dell’energia, stallo del Pil, aumento dell’inflazione…: come è possibile spendere energie ideali o addirittura spirituali per simili faccende economiche, dominate da “passioni tristi”? Al tempo stesso in nessuna epoca come la nostra l’economia ha occupato tutti, o quasi, gli spazi della vita. Tutto, o quasi, è in vendita, e stiamo costruendo un nuovo umanesimo sotto l’illusione di arrivare un giorno a poter comprare davvero tutto sul mercato: dalla salute alla giovinezza, dall’amicizia all’amore, di trovare finalmente l’elisir da sempre cercato dalle culture umane. In una tale rappresentazione dell’economia quale posto hanno la gratuità, le “vocazioni”, le motivazioni intrinseche? Quale posto hanno i carismi, se ne hanno uno, una parola che per noi riassume e spiega le tre precedenti (gratuità, vocazioni, motivazioni intrinseche), in una tale società?

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Introduzione

Questo breve saggio è un tentativo di dare una risposta a questa domanda, che sarà una risposta positiva (i carismi hanno ancora un ruolo chiave da giocare nella società contemporanea), e che sarà, per quanto vi riusciremo, argomentata. Se gli esseri umani cercano la felicità, oltre i beni economici e oltre il reddito, allora i carismi sono essenziali, perché non c’è gioia senza gratuità, e non c’è gratuità senza carismi. Siamo, infatti, convinti che chi scrive e racconta la storia civile ed economica dei popoli senza vedere il ruolo dei carismi, e senza prenderli in seria considerazione, racconta una storia parziale, e quindi sbagliata. La storia, quella economica compresa, è anche il risultato dell’azione di carismi, che hanno avuto ed hanno importanti effetti nell’ambito economico, non solo civile e religioso. Tra i più grandi ci sono senz’altro due carismi umbri: quelli di Benedetto di Norcia e Francesco d’Assisi. Ma sono state, e sono oggi, centinaia, migliaia, le persone, portatrici di carismi, che hanno animato anche la vita economica, dando vita ad opere di carità, di assistenza, di misericordia, e ad esperienze propriamente economiche, il cui peso nella storia, e nel presente, è assolutamente sottovalutato. Non molti carismi, invece, oltre a quelli di Benedetto e Francesco, hanno prodotto un impatto anche nel pensiero economico del proprio tempo e di quello successivo 1. Il monachesimo, lo vedremo, ha creato il lessico economico della rivoluzione commerciale dell’Europa attorno all’anno Mille e le premesse teologiche e culturali per la nascita dell’economia mercantile; il francescanesimo, dal canto suo, ha dato vita alla prima vera e propria scuola di pensiero economico (Ockam, 1 Un discorso a sé andrebbe fatto per i carismi dei riformatori del Cinquecento, soprattutto Lutero e Calvino, che hanno avuto un grosso impatto sull’avvento del capitalismo: basta pensare alla ricostruzione storica e teorica di Max Weber sull’etica protestante.

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Introduzione

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Scoto, Olivi…), che ha fornito le categorie per interpretare la civiltà comunale e cittadina, prima, e quella rinascimentale, poi, oltre ad aver creato le prime banche popolari moderne, i Monti di Pietà, come risposta alla crisi creditizia e all’usura del tempo. Quando i carismi entrano nelle dinamiche civili, con essi entra in scena una dimensione dell’amore di una forza straordinaria e rara, quella che la teologia e il pensiero cristiano hanno voluto chiamare agape, coniando, di fatto, una nuova parola greca, perché nuova era l’esperienza che i cristiani facevano e fanno grazie alla vita e al messaggio di Gesù. Per esprimere questa novità di vita non bastavano l’eros e la philia: occorreva una dimensione dell’amore capace di andare al di là del desiderio e dell’amicizia, che rende capaci di amare anche il nemico e ciò che non è bello e amabile, perché frutto dell’esperienza di essere stati prima amati gratuitamente 2. Con i carismi irrompe dunque nella storia l’agape, che fa il suo ingresso 3 dentro e fuori i confini istituzionali della Chiesa e delle Chiese, data la natura e vocazione universale del cristianesimo, il cui soffio tocca e muove persone di tutti i tempi e luoghi, che, se e in quanto portatrici di un carisma, sono portatori di agape, anche inconsapevoli. Il carisma è, infatti, un dono dello Spirito per l’edificazione del bene comune, un dono che agisce in tutti i livelli e luoghi delle comunità e società umane: «Donando un carisma lo Spirito fa infatti vedere a fondatori e fondatrici le urgenze della Chiesa e della società, li

2 Quando si fa l’esperienza dell’agape si scopre che il “me” viene prima dell’“io” e del “tu”: siccome qualcuno “mi” ama gratuitamente, “io” posso gratuitamente amare “te” e tutti. 3 In realtà l’agape, come esperienza, ha sempre accompagnato la vita umana dalla sua origine (ogni volta che una persona ama gratuitamente un’altra, lì c’è agape). Il cristianesimo rende esplicito, e possibile, l’agape come ordinario stile di vita.

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Introduzione

porta a percepire in profondità i concreti bisogni, le necessità, le aspirazioni, gli aneliti e i gemiti più profondi e li muove a dare risposte concrete, segnando il cammino della Chiesa e della società» (Ciardi 2008, p. 1). Il termine carisma etimologicamente proviene da charis, cioè grazia o “ciò che dà gioia”, da cui proviene anche la parola “gratuità”, e quindi l’agape, la forma dell’amore “gratuito” tipico del cristianesimo, che completa e porta a maturazione sia l’eros che la philia (che, a loro volta, rendono l’esperienza dell’agape autenticamente umana) 4. Nessuno oggi nega il ruolo culturale e civile che il monachesimo e il francescanesimo hanno avuto nella storia d’Europa; non altrettanto accade quando si legge la storia economica europea, la nascita dell’economia di mercato, dove i protagonisti indiscussi sono altri, e ai carismi non viene riconosciuto il loro ruolo. È come se anche nella storiografia (l’historia rerum gestarum), e non solo nella prassi della nostra economia di mercato (l’historia res gestae), fosse prevalsa una sorta di “divisione del lavoro”, espressione di una visione dove l’economia è un ambito separato dal civile, dove “business is business”, e dove i fattori extra-economici, soprattutto se di natura spirituale o “religiosa” (come vengono riduttivamente percepiti i carismi), vengono considerati come un dettaglio, un contorno,

4 Si potrebbe anche mettere in discussione la stessa idea che l’amore sia di tre forme (eros, philia e agape), poiché, nell’esperienza reale, l’amore erotico che non sia anche philia e dono (agape) è solo narcisismo. L’agape, in effetti, potrebbe essere letto come un “trascendentale” (non nel significato kantiano del termine, ma in quello medievale) di tutti gli amori umani (sponsale, amicale, fraterno, materno…). Possiamo accettare questa tripartizione, sulla scia dell’enciclica di Benedetto XVI Deus caritas est, interpretando le forme di amore come ideal-tipi, alla stessa stregua di articolare l’esperienza cristiana in fede, speranza e carità, tre virtù teologali che, nella realtà, sono una. Su questo cf. anche Bruni 2007.

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se non addirittura il “digestivo”, del “piatto forte”, e che quindi, in quanto tale, può anche mancare senza che il pasto ne risenta. Noi siamo invece convinti che una tale storiografia non sia una buona storiografia, e per questo non svolga una buona funzione civile e pedagogica. Questa convinzione è alla base delle ricerche e delle riflessioni che compongono questo scritto. La vita economica è luogo di passioni, di ideali, di sofferenza e di amore; non solo di ricerca di interessi, di invidia, di avarizia, di speculazioni e di profitti (Zamagni 2007). Per questa ragione, non possiamo lasciare l’ambito economico ai soli cercatori di profitti o agli speculatori: l’umano, e quindi anche l’economico, ha bisogno di molto più della sola ricerca dei profitti per essere luogo vivibile e sostenibile, un “di più” che i carismi sanno, possono e quindi debbono dare, oggi non meno di ieri. Un’ultima considerazione. Fino alla modernità i carismi non hanno dato vita soltanto ad una economia carismatica (intesa come fatti, come “economy” all’inglese), ma anche ad una riflessione economica (una “economics”). Vedremo che i carismi di Benedetto e Francesco hanno dato vita ad opere, certo, ma anche a visioni, a teorie del mercato, dell’usura, dei prezzi, ecc. Nella modernità, invece, nella Economia Politica è entrata solo la dimensione istituzionale dell’economia: ecco perché dalla teoria economica moderna sono assenti le tipiche parole dei carismi: gratuità, valore intrinseco della relazione, reciprocità, agape… La scienza economica si è così costituita sull’homo oeconomicus razionale e strumentale, che sono le qualità antropologiche tipiche del profilo istituzionale dell’economia e della società. Noi neghiamo, quindi, che la teoria economica moderna sia fondata su principi sbagliati; diciamo solo che ai principi del profilo istituzionale, che sono anch’essi espressioni di virtù e di valori (soprattutto della virtù della prudenza, dell’universa-

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Introduzione

lismo, della giustizia), vanno aggiunti, in un rapporto dinamico, anche i principi dell’economia carismatica, che rendono più equilibrata, matura e vivibile l’economia. C’è dunque bisogno che l’economia carismatica di oggi rivendichi (ed in parte lo sta già facendo seppure in maniera ancora del tutto incipiente) anche una “economics” carismatica, non solo una “economy” (fatti, opere, esperienze…). Ma, per far ciò, occorre saper vedere, riconoscere, scoprire i carismi, anche nella loro portata teorica; esattamente come hanno fatto gli studiosi medievali vicino ai grandi carismi del loro tempo. Gli autori di questo libro, anche perché coinvolti in prima persona in esperienze carismatiche, hanno avuto il dono di riconoscere, vedere e scoprire, almeno un po’, il ruolo economico dei carismi. E hanno sentito il desiderio e il bisogno di raccontarlo, per contribuire ad una storia economica meno parziale ed ideologica, più fedele ai fatti, e quindi più vera. *** Questo saggio raccoglie lavori di diversi anni, articoli, studi e anche tanti colloqui e conferenze con il grande mondo dei carismi. Ma è anche frutto di un lavoro teorico e storico che portiamo avanti da anni con un gruppo di studiosi con i quali condividiamo la passione per la scienza e per la verità, e la stessa sensibilità “carismatica”. Tra questi non possiamo non ringraziare Leo Andringa, Vera Araujo, Leonardo Becchetti, Cristina Calvo, Giovanni Casoli, Piero Coda, Luca Crivelli, Alberto Ferrucci, Lorna Gold, Benedetto Gui, Alessandra Malini, Riccardo Milano, Pier Luigi Porta, Vittorio Pelligra, Sergio Rondinara, Gérard Rossé, Romano Ruffini, e Giuseppe Maria Zanghí. A Stefano Zamagni, che ha accettato, generosamente come d’abitudine, di scrivere la Prefazione, va un ringraziamento non solo per il continuo dialogo sui temi

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oggetto di questo libro, ma anche per questa ulteriore attenzione mostrata per il nostro lavoro. Un grazie particolare poi anche ai partecipanti della XIV sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (2-6 maggio 2008) che durante i loro lavori hanno discusso e arricchito alcuni dei contenuti di questo testo. Infine, un grazie speciale va alle nostre comunità di appartenenza, quella salesiana e quella focolarina, che sono gli ambienti vitali nei quali le nostre riflessioni sono maturate. Un grazie tutto speciale a Chiara Lubich: abbiamo iniziato a scrivere queste pagine quando era ancora in vita, e le abbiamo terminate dopo che è arrivata in cielo. Il suo progetto dell’Economia di Comunione è stato il paradigma di riferimento cui abbiamo guardato per poter iniziare a scrivere una teoria dell’azione dei carismi nella vita economica contemporanea. Grazie infine a mons. Chiaretti, che ci ha dato l’opportunità, e la fiducia per scrivere questo libro, e all’Editore Città Nuova, nella persona di Donato Falmi, che ha creduto nell’impresa.

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Il principio carismatico dell’economia di mercato

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I. Il significato dei carismi per la vita civile ed economica

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I. Il significato dei carismi per la vita civile ed economica «Oggi arriva la salvezza nella nostra parrocchia: una famiglia con sei bambini, tutti handicappati». (Don Milani)

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1. Che cos’è un carisma? Il dizionario della lingua italiana De Mauro definisce il carisma come una «dote soprannaturale, come la virtù profetica, l’infallibilità, il parlare in lingue diverse e sim., concessa da Dio a un fedele per il bene della comunità»; e poi aggiunge che, in senso figurato, con carisma si intende la «forza di persuasione, ascendente innato di chi possiede grandi o indiscusse qualità personali», come nel caso di un leader dotato di “grande carisma”. In quanto segue certamente non useremo il termine “carisma” nel senso figurato che indica il De Mauro 1. In realtà, l’uso che la teologia cristiana fa del termine carisma è più complesso della definizione che ne dà il dizionario citato. Il carisma, o meglio, i carismi (al plurale), all’interno della tradizione cristiana hanno almeno un duplice significato. Il 1

Riguardo a questo uso del termine carisma si trovano le seguenti espressioni: «Il carisma è uno degli elementi fondamentali per distinguerti e avere successo in campo professionale perché va in tandem con la fiducia nelle tue capacità e nelle tue risorse personali e uniche. Senza dubbio quello che ti distingue e ti fa emergere dalla folla dei tuoi concorrenti è la capacità di fare una buona impressione e di fare in modo che questa rimanga impressa a lungo” (http://www.counselingsolutions.it). Questa ed altre estensioni “economiche” o “aziendali” del carisma derivano, più o meno direttamente, dalla teoria weberiana del “leader carismatico”. Il nostro uso dell’espressione carisma è, evidentemente, molto diverso dal carisma di Max Weber (che usa, nella sua Economia e Società, la categoria del carisma come una delle modalità di creazione e legittimazione dell’autorità).

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Benedetta economia

punto di partenza, e la base scritturistica e fondativa di ogni riflessione sul carisma, è senz’altro la prima lettera di san Paolo ai Corinzi (che è anche il punto di partenza della definizione base di carisma che troviamo sia nel Dizionario citato sia in molti altri simili), dove Paolo ci spiega la sua ecclesiologia (visione della Chiesa), caratterizzata dalla presenza dello Spirito che porta avanti la Chiesa attraverso l’elargizione di doni, i carismi appunto, che i vari membri della comunità cristiana ricevono per il bene comune. Da questa prospettiva paolina si può anche affermare, senza forzare troppo il senso della lettera, che ogni cristiano possiede un carisma, un dono, grazie al quale contribuisce al bene della comunità 2. Al tempo stesso, Paolo, per esprimere i doni dello Spirito, non usa la parola greca (forse più naturale) di “pneumatika” (doni dello Spirito, dello pneuma), ma “charismata”, e cioè doni della grazia (charis). L’esegeta Giuseppe

2 Riportiamo qui i brani centrali della Lettera paolina: « 4Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito;… 7E a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l’utilità comune: 8a uno viene concesso dallo Spirito il linguaggio della sapienza; a un altro invece, per mezzo dello stesso Spirito, il linguaggio di scienza; 9a uno la fede per mezzo dello stesso Spirito; a un altro il dono di far guarigioni per mezzo dell’unico Spirito; 10a uno il potere dei miracoli; a un altro il dono della profezia; a un altro il dono di distinguere gli spiriti; a un altro le varietà delle lingue; a un altro infine l’interpretazione delle lingue. 11Ma tutte queste cose è l’unico e il medesimo Spirito che le opera, distribuendole a ciascuno come vuole. 12Come infatti il corpo, pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche Cristo. … 27Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte. 28Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue. 29Sono forse tutti apostoli? Tutti profeti? Tutti maestri? Tutti operatori di miracoli? 30Tutti possiedono doni di far guarigioni? Tutti parlano lingue? Tutti le interpretano? 31Aspirate ai carismi più grandi!». Esiste, qui, una certa gerarchia (se così possiamo dire) tra i carismi, ma la comunità vive dalla dinamica di tutti i vari carismi.

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I. Il significato dei carismi per la vita civile ed economica

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Barbaglio così commenta a tale proposito: «dell’azione divina (la grazia) il carisma è il risultato o l’effetto. Ne segue che i beneficiari non possono menare vanto né farne motivo per coltivare atteggiamenti di orgogliosa autoaffermazione» (1996, p. 643). Il carisma ha quindi una natura per così dire “oggettiva”, che non dipende, in un certo senso, neanche dalla virtù e dal merito di chi ne è portatore (anche se non è del tutto indipendente). In quanto segue nel parlare di carisma utilizzeremo questa visione “oggettiva” dell’esperienza carismatica. Nel corso della storia della Chiesa, soprattutto nel Novecento, l’uso dell’espressione carisma, pur restando coerente con la fonte paolina, si è esteso, e in un certo senso ha anche assunto un significato nuovo. Lo si è usato (grazie all’opera teologica di Ranher, Congar, Balthasar) soprattutto per indicare i grandi doni carismatici ricevuti dai fondatori di ordini e movimenti religiosi che hanno sviluppato e portato a maturazione il messaggio evangelico 3, carismi che vengono definiti “grazie speciali”, o doni “straordinari”, e distinti dai doni “più semplici e più largamente diffusi” (Lumen gentium, 12). Si può poi distinguere tra carismi più “individuali” 4 legati ad un particolare compito di una persona, e “carismi collettivi”, dove il carisma è all’origine di una nuova comunità o movimento nella Chiesa, i cui membri vivono dello stesso carisma del fondatore/fondatrice. I carismi di Benedetto e di Francesco sono i casi idealtipici di questo secondo tipo di doni. 3 Questi carismi sono più vicini ai “carismi” dei profeti del popolo d’Israele, che non ai doni per il servizio della comunità primitiva di cui parla Paolo. Inoltre, sempre nel Novecento, la teologia (almeno parte di questa) ha distinto tra carismi, direttamente legati alla dinamica dello spirito in alcune persone concrete, e il ministero, che invece non avrebbe natura “carismatica” (come invece è nel linguaggio paolino), ma “istituzionale” (una linea sostenuta, a modo suo, anche da von Balthasar, come vedremo tra breve). 4 In realtà nella Chiesa non esistono mai carismi puramente individuali, poiché sono sempre realtà ecclesiali.

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Da questa prospettiva, che comunque continua sempre a muoversi rigorosamente all’interno del significato paolino, i carismi vanno letti in un contesto dinamico, come doni attraverso cui lo Spirito conduce avanti la Chiesa verso la “verità tutta intera”, una verità che i carismi rendono anche più visibile e adatta ai tempi. Nelle pagine che seguono, e grazie alla libertà dataci dal non essere teologi, utilizzeremo l’espressione carisma con un significato ancora diverso, che prende elementi delle due interpretazioni appena accennate, proponendo al contempo anche qualcosa di nuovo. In questo saggio, infatti, con “carisma” intenderemo un dono di occhi capaci di vedere cose che gli altri (che non hanno quel carisma o che non ne partecipano) non vedono. Da una parte, quindi, siamo in linea con la lettura paolina di carisma (dono dato per il bene comune), ma vorremmo andare anche oltre. Innanzitutto, i carismi di cui parleremo sono soprattutto doni che non tutti ricevono, ma solo alcuni (e in questo senso la nostra definizione è vicina a quella della teologia del Novecento, che usa l’espressione carisma per indicare il dono “speciale” ricevuto da fondatori e santi). Inoltre, il nostro uso di carisma e carismatico è assolutamente laico, e va ben oltre la Chiesa o l’ambito religioso 5.

5 Ad esempio, come vedremo, nella nostra definizione di carismatico rientra anche l’artista, in quanto portatore di un carisma per l’edificazione del bene comune (siamo certi che Paolo sarebbe contento di considerare un artista un carismatico). Una certa teologia distingue tra “talento”, che è dono naturale, come quello dell’artista, e “carisma” che è dono soprannaturale. Non crediamo che questa distinzione sia molto utile per comprendere l’azione dello Spirito nel mondo: quale la differenza, sostanziale, tra il dono ricevuto da Francesco e quello ricevuto da Michelangelo, tra quello di Teresa d’Avila e Van Gogh? Certo, sul piano soggettivo sono state persone ben diverse tra di loro, che hanno corrisposto diversamente allo Spirito

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2. Cenni di storia del “profilo carismatico” dell’economia Una buona griglia teorica per comprendere la natura dei carismi, e anche l’economia carismatica, è quella proposta dal teologo Hans Urs von Balthasar. Il teologo svizzero, tra i più grandi del Novecento, descrive la vita della Chiesa come una dinamica tra diversi “principi” o profili, che continuano e rendono vive le esperienze idealtipiche di alcune persone che hanno vissuto a fianco a Gesù nella sua esperienza storica. In particolare, i due principi fondativi sono per lui costituiti da quello “petrino”, e da quello “mariano” 6: il principio petrino sottolinea soprattutto la componente istituzionale, gerarchica, giuridica e oggettiva della vita della Chiesa, mentre quello mariano dice la sua natura carismatica, popolare, orizzontale e fraterna. I due principi, che nelle ultime sue opere Balthasar chiama “istituzionale” e “carismatico”, sono per lui complementari, non in conflitto tra di loro, ma piuttosto in rapporto dinamico e dialogico. La storia della Chiesa può essere per Balthasar raccontata come lo sviluppo e l’intreccio di queste due dimensioni co-essenziali della Chiesa: storia di istituzioni e storia di carismi 7.

(in termini di santità personale); ma, oggettivamente, il carisma di Francesco ha fatto più bello il mondo e ha reso il giogo della vita più soave, proprio come il dono artistico di Michelangelo, le cui opere sono un atto d’amore perenne all’umanità (anche qui, al di là dell’intenzionalità del suo autore; ma non c’è una certa inintenzionalità anche in ogni autentico portatore di un carisma? Chi riceve un carisma è ben cosciente che in lui “abita” qualcosa, che non è il prodotto della sua volontà o virtù, che lo guida e lo spinge ad agire). 6 Su questo cf. von Balthasar (1972, 1974), e Lehay (1999). 7 Cf. Leahy (1999). Esiste una analogia tra principio petrino (o istituzionale) e la reciprocità del contratto, e tra principio mariano e la reciprocità dell’agape – come, almeno in parte, riprenderemo nelle conclusioni.

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Una visione, questa, fatta propria anche da Giovanni Paolo II il quale, parlando, ad esempio, del ruolo e del significato dei movimenti ecclesiali, affermava a riguardo: I nuovi movimenti di spiritualità si fondano su questi “doni carismatici” i quali, insieme con i “doni gerarchici” – vale a dire i ministeri ordinati – fanno parte di quei doni dello Spirito Santo dei quali è adorna la Chiesa, Sposa di Cristo. Doni carismatici e doni gerarchici sono distinti, ma anche reciprocamente complementari (1987, pp. 24-25) 8.

Siamo convinti che questa visione della Chiesa si presti molto bene anche per comprendere e raccontare la storia economica e civile delle società. Possiamo, infatti, leggere le vicende della società civile dalla prospettiva “istituzionale” o da quella “carismatica”. In realtà, come nella Chiesa si tende a vedere prevalentemente il suo profilo istituzionale, e a trascurare, o quantomeno a sottovalutare, il profilo carismatico (meno visibile e “afferrabile” delle istituzioni), analogamente quando si narra la storia (e l’oggi) dell’economia (e in generale della vita civile, della quale l’economia è una espressione) ci si concentra quasi esclusivamente sull’aspetto istituzionale, e si trascura molto, troppo, l’economia carismatica. Si racconta e si vede solo la storia dei grandi eventi, delle grandi imprese e delle grandi opere, dei capitali e della finanza, dell’economia istituzionale, di quella mossa dagli interessi e che si regge sui contratti. Si racconta l’economia di Marco Polo e dei Medici, le imprese delle Repubbliche marinare di 8 Si

potrebbe discutere se il “profilo istituzionale” (preferiamo questo aggettivo a “gerarchico”) non sia anche esso, in un senso ampio, un carisma: lo è certamente dalla prospettiva paolina.

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Venezia o Genova, dei Paesi baltici, della scoperta dell’America e dei traffici commerciali, delle crisi demografiche e delle espansioni coloniali. Certo, chi può negare che questa economia “istituzionale” non sia importante per capire la vita economica di oggi, e che non svolga – quando è orientata al bene comune – un ruolo co-essenziale? Ma c’è anche un’altra economia, ci sono altre motivazioni che portano, oggi come ieri, persone ad impegnarsi nella vita economica e civile. Sono le storie che possiamo chiamare “carismatiche”, perché derivanti da carismi, religiosi certamente, ma anche civili, i quali, sebbene nascenti da altre motivazioni, da vocazioni, da gratuità e da agape, sono anch’essi economia civile. Il presente saggio nasce dalla convinzione, intellettuale e civile, che sia giunto il momento di incominciare a scrivere la storia economica e civile prendendo sul serio anche il ruolo, civile ed economico, dei carismi, o il “profilo carismatico dell’economia”. Siamo infatti convinti che non sia possibile comprendere in profondità la storia, e l’oggi, dell’economia europea (ma potremmo guardare ben oltre l’Europa 9), senza prendere sul serio i carismi. La storia ci mostra che quando è all’opera un carisma in una persona, e nella comunità che nasce attorno a questa, grazie a questo carisma si riesce a vedere “più lontano”. L’azione dei carismi è vasta e potente, ricopre e permea di sé il mondo, è come il sangue che scorre nelle vene della storia: anche se non lo vediamo, consente la vita, anche quella economica. Le religioni sono luoghi privilegiati nei quali i carismi fioriscono, perché vi trovano un terreno particolarmente fertile aperto alla gratuità; ma, lo abbiamo accennato, l’azio9 Per un esempio, si pensi al ruolo civilizzante ed economico dell’agape in esperienze missionarie in culture non europee, dai gesuiti in Sud America, a Matteo Ricci che giunto in Cina come primo testo scrisse un libro sull’amicizia, declinata come philia ma anche come agape.

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ne dei carismi va ben oltre i confini visibili delle Chiese e delle religioni, perché è ciò che di più laico si possa immaginare. Restando solo nell’ambito economico, pensiamo, per fare solo qualche esempio in età recente, ai tanti uomini e donne che si sono impegnati per dar vita al movimento sindacale, alle cooperative, ai fondatori di casse di risparmio, di casse rurali, che, fino ad oggi, continuano a trasformare problemi in risorse e in opportunità, grazie agli “occhi” diversi con cui guardano il mondo. In queste pagine noi guarderemo a queste persone come a dei “carismatici”, in quanto portatori di vocazione, gratuità e di agape (le tre parole chiave, che poi sono una, di un carisma). Quando nella storia irrompe un carisma, grande o piccolo che sia (ma come si misura la grandezza di un carisma?), inizia un processo di cambiamento, che investe tutti i campi dell’umano, economia compresa. Fino all’epoca pre-moderna, quando l’economia non era ancora un ambito separato e distinto dal resto della vita in comune, era semplice vedere gli effetti economici di un carisma: chiunque fosse vissuto al tempo di Benedetto, o di Francesco, non avrebbe potuto non vedere gli enormi effetti civili ed economici di quei carismi; anzi, erano soprattutto quelli civili gli aspetti che più venivano in evidenza, o almeno che per primi venivano notati, in un mondo dove il religioso impregnava tutto di sé, e scarso era lo sviluppo economico e civile. Le grandi innovazioni spirituali erano immediatamente innovazioni civili. Va infatti ricordato, soprattutto all’osservatore nostro contemporaneo, che i grandi carismi nella storia sono sempre stati eventi di liberazione morale e civile, soprattutto dei più poveri e degli esclusi, e lo sono ancora; sono stati, e sono, molto di più e di diverso di quanto la cultura contemporanea chiama, riduttivamente, “religioso” o “spirituale”. I carismi di Benedetto e di Francesco furono anche, e, forse, primaria-

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mente, una via di vita buona a 360°, per coloro che ebbero il dono di incontrarli e di informare di quei carismi la propria vita, ma anche per chi non li incontrò mai, e visse meglio grazie alle innovazioni che quei carismi produssero ben oltre i confini geografici e storici nei quali si svilupparono. Per questa ragione se guardiamo le vicende umane con attenzione, ci accorgiamo che la storia dell’umanità, storia economica compresa, è – lo ripetiamo – anche il frutto di questi carismi. Quella che potremmo chiamare “economia carismatica” è, dunque, una dimensione co-essenziale della vita economica, senza la quale ci sfuggirebbe molto della realtà. Senza i carismi di fondatori di ordini e congregazioni sociali tra Seicento e Novecento, solo per un esempio, la storia del welfare state europeo sarebbe stata ben diversa: gli ospedali e l’assistenza sanitaria, la scuola e l’istruzione, la “cura del disagio”, sono stati senz’altro frutto di politiche pubbliche e di “istituzioni”, ma non meno importante, pioneristica e generalizzata è stata l’azione dei carismi, che hanno fatto da apripista, da innovatori in questi terreni di frontiera dell’umano. Crediamo che la diversa storia del welfare state in Europa e in Usa non possa essere spiegata senza tirare in ballo il diverso ruolo che in questi due contesti culturali hanno svolto i carismi, una diversità che affonda le sue radici nell’etica protestante, da una parte, e in quella cattolica dall’altra. Non ci riferiamo qui direttamente alla nota teoria di Weber sui diversi “spiriti” protestante e cattolico, ma poniamo l’accento su qualcosa di diverso: i due diversi contesti culturali hanno fatto emergere carismi diversi, che, negli USA, hanno preso essenzialmente le forme del filantropo, mentre in Europa (quella mediterranea certamente), quella di comunità carismatiche (religiose, ma anche civili: si pensi al movimento cooperativo). Chi può negare, ancora per un esempio, l’influsso che ha avuto sulla cultura sociale europea un Vincenzo de’ Paoli che

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nel Seicento diede vita in Francia a sistemi complessi di assistenza e di promozione di molti emarginati?! 10. Ma c’è ancora qualche cosa in più da dire.

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3. Eclisse e ritorno del civile in Italia I carismi, soprattutto quelli di natura religiosa, sono stati l’espressione più rilevante della società civile italiana, dal Medioevo fino a tempi recenti. Prima della svolta della post-modernità (avvenuta in Occidente negli ultimi due-tre decenni del secolo XX, quando si è avuta una accelerazione di un processo iniziato con la modernità stessa), il modello che l’Europa, e anche per contagio molti altri regimi democratici nel mondo, avevano realizzato per la cura e l’assistenza era duale: famiglia-stato. La famiglia si occupava di molta parte della cura dei bambini, anziani e malati, e quando i problemi erano troppo pesanti, complessi, o in caso di disagio e di fallimento o assenza del10 Interessante, infatti, è notare che tutta l’opera di san Vincenzo de’ Paoli ben prima della moderna riflessione anti-assistenzialista parlava già di reciprocità e di promozione umana dei poveri: «Vi prego di aiutare i poveri a guadagnarsi la vita, dando loro qualche utensile con cui lavorare alla mietitura. Potreste raccomandare loro di preparare qualche pezzo di terra, ararlo e concimarlo e di pregare Dio che mandi un po’ di semente da gettarvi; e, senza promettere ancora nulla, dar loro speranza che Dio vi provvederà. Vorremmo che anche tutti gli altri poveri che non hanno terra, si potessero guadagnare da vivere, tanto gli uomini che le donne: dando agli uomini utensili per lavorare, alle donne e alle ragazze delle macchine per tessere e della filaccia e della lana da filare. La Compagnia non intende fomentare la pigrizia dei poveri validi, né delle loro famiglie: perciò non darà loro se non il necessario per integrare il modesto guadagno del loro lavoro. Quelli che saranno trovati a mendicare durante la settimana nelle strade o nelle chiese, o di cui le Dame avranno fatto giusti lamenti, non avranno nulla la domenica seguente» (Vincenzo dei Paoli a Giovanni Parre C.M., in http://www.sanvincenzoitalia.it/sanvincenzo/3.htm).

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la famiglia, interveniva lo Stato, con ospedali, scuole, case di riposo, e così via. Questo modello, il cosiddetto welfare state, era stato a sua volta il sostituto del modello premoderno, basato sul binomio famiglia-comunità, dove lo Stato non c’era, o era troppo debole, mentre esisteva la comunità. L’Italia, e molti Paesi cattolici (Spagna, Francia, America del Sud), hanno sviluppato un modello ibrido o ternario: famiglia-comunità-chiesa, poiché, in assenza dello Stato, era la Chiesa ad occuparsi della cura e del disagio, soprattutto il profilo carismatico della Chiesa, che ha dato vita a sistemi complessi di cura che, da certi punti di vista, restano ancora oggi dei fari di luce sull’umano e su che cosa significhi realmente fraternità. In Italia, nonostante una storia ricca di civile, di cooperative, di confraternite, di associazione, alla fine del XX secolo si è dovuta, in un certo senso, reinventare la società civile, per rispondere a nuovi bisogni. La tradizione civile, ben viva fino al Risorgimento ha avuto un’eclisse di oltre un secolo, per risorgere solo recentemente. Quest’eclisse del civile che ha caratterizzato più di un secolo di storia d’Italia è dovuta soprattutto a due fattori culturali molto importanti, e collegati tra di loro: il ruolo anche politico della Chiesa cattolica, e la forte presenza del Partito Comunista. Dal Medioevo alla modernità l’Italia ha conosciuto una straordinaria fioritura di civile. Tutta questa fioritura di movimenti carismatici (perché nascenti da carismi), erano autenticamente società civile, come erano società civile le gilde, le confraternite, le misericordie, e le corporazioni di arti e mestieri nel Medioevo. La presenza importante e pervasiva del potere temporale della Chiesa cattolica ha, da una parte, garantito sviluppo e continuità secolare di tali esperienze; d’altra parte, ha colorato “ideologicamente” a tinte molto forti la società civile italiana. Quando con la rivoluzione liberale in Italia, e con il Risorgimento, c’è stata una reazione anti-clericale, con la reazione contro la Chiesa-

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istituzione c’è stata anche la reazione e la condanna di quel civile che è stato visto come “religioso”, di parte, e quindi combattuto, in nome di una laicità, che poi – e qui sta il punto – è diventata presto statalismo, decretando, di fatto, l’eclisse secolare del civile in Italia 11. Nel Novecento, poi, si dovrebbe parlare a lungo del ventennio fascista, e la dura lotta al civile dal movimento cooperativo alle libere associazioni, sindacati, che ha reso ancora più buia quella eclissi. La nascita della Democrazia Cristiana e del conseguente forte Partito Comunista, hanno dato luogo ad un’occupazione dei tentativi di rinascita del civile da parte dei partiti (che hanno trasformato i sindacati in una componente della sfera politica sottraendoli alla sfera civile, alla quale apparterrebbero per loro naturale vocazione e storia), un’occupazione dalla quale si fa ancora una grande fatica ad uscire. Se la società italiana avesse interpretato, con minor clericalismo, i carismi primariamente come espressione della società civile, certamente oggi avremmo una società civile italiana più matura, più autonoma, e potremmo godere di maggiore democrazia e maggiore libertà.

4. I carismi e la visione della povertà Un ambito dove i carismi da sempre sono all’opera trovando soluzioni nuove è la povertà. Ma qui occorre una premessa, per la quale prendiamo in prestito una pagina dell’economista iraniano Majid Rahnema. Questo studioso, che per anni ha lavorato all’ONU, ci dice che la povertà è una realtà a 11 Si tende spesso a dimenticare il trauma e le sofferenze subite dagli ordini religiosi in seguito all’Unità d’Italia dopo il 1860: religiosi ridotti allo stato secolare, beni requisiti, biblioteche di ordini religiosi confiscati. Fu un attacco alla Chiesa istituzione, ma fu anche un attacco al civile.

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più dimensioni, e non tutte drammatiche, né tutte negative. Egli individua cinque forme di povertà: Quella scelta da mia madre e da mio nonno sufi, alla stregua dei grandi poveri del misticismo persiano; quella di certi poveri del quartiere in cui ho passato i primi dodici anni della mia vita; quella delle donne e degli uomini in un mondo in via di modernizzazione, con un reddito insufficiente per seguire la corsa ai bisogni creati dalla società; quella legata alle insopportabili privazioni subite da una moltitudine di esseri umani ridotti a forme di miseria umilianti; quella, infine, rappresentata dalla miseria morale delle classi possidenti e di alcuni ambienti sociali in cui mi sono imbattuto nel corso della mia carriera professionale (2005).

Cinque forme di povertà, ma non tutte maledizioni; alcune addirittura vie di felicità. C’è infatti povertà e… povertà. Il titolo originale del libro dell’economista iraniano è molto più eloquente della sua traduzione italiana: Quand la misère chasse la pauvreté, cioè “quando la miseria scaccia la povertà”. In certe circostanze, infatti, la miseria è talmente grave da rendere impossibile il vivere la povertà intesa come virtù liberamente scelta: se non ho il denaro per nutrire i miei figli, o per curarli, è impossibile scegliere una vita sobria e generosa. «Per l’uomo con lo stomaco vuoto, il cibo diventa Dio», diceva Gandhi; e quando l’uomo è in una tale condizione, diventa facilmente schiavo di chi gli promette quel cibo. Queste considerazioni toccano un tema oggi molto rilevante: la miseria va combattuta perché in un mondo di scarsità assoluta di beni non è possibile vivere in modo sobrio e povero. In altre parole: possiamo, se lo vogliamo, vivere in modo austero e parco solo in un contesto personale, economico e sociale che ha sconfitto la miseria assoluta. Anche questa è una buona ragione per non contrapporre l’economia di mercato

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alle virtù sociali, o mettere in alternativa mercato e dono: senza mercati non è possibile la povertà scelta o la sobrietà; resta solo quella subita, dalla natura, dalla “fortuna” o dagli altri. Un ultimo passaggio. Nessuna forma di povertà può essere trasformata se non la si vede anche come una forma di ricchezza nascosta sotto il velo del dolore. Solo chi sa vedere in una forma di povertà qualcosa di bello riesce a redimerla. Ecco quindi perché senza i carismi dalle trappole di povertà non si esce mai del tutto: non bastano le istituzioni, che pure sono co-essenziali. Iniziamo ora a fare amicizia con i protagonisti della nostra storia, per poi approfondire il discorso nei capitoli successivi. La società antica vedeva nel lavoro manuale qualcosa che si addiceva solo allo schiavo. Benedetto vi vide qualcosa di “più e di diverso”, e lo pose al centro della nuova vita delle loro comunità: ora et labora. La città di Assisi nei poveri vedeva solo lo scarto della società, Francesco vi vide “madonna povertà”, qualcosa di così bello che lo portò a sceglierla come ideale della sua vita e di quella dei tanti che lo seguirono e lo seguono. I lebbrosi erano i più poveri tra i poveri, dai quali la città doveva immunizzarsi: Francesco inizia la sua rivoluzione, incentrata sulla fraternità, baciando un lebbroso, lasciandosi contaminare dalle sue piaghe. Negli indigeni del Paraguay i regnanti portoghesi e spagnoli vedevano una specie non sostanzialmente diversa dagli animali della giungla, a cui si negava persino l’anima. Il carisma di Ignazio di Loyola consentì di vedere in quelle popolazioni qualcosa di “più e di diverso”, e di inventare quell’esperienza profetica di civiltà e di inculturazione che furono le “reductiones” nei secoli XVII e XVIII. Luisa de Marillac, Francesco di Sales, Giovanna di Chantal, e poi Don Bosco, Scalabrini, Cottolengo, don Calabria, Francesca Cabrini, hanno ricevuto occhi per vedere nei poveri, nei vergognosi, nei dere-

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litti, nei ragazzi di strada, negli immigrati, nei malati, persino nei deformati, qualcosa di grande e di bello per cui valse di spendere la loro vita e quella delle centinaia di migliaia di persone che li seguirono, attratti e ispirati da quei carismi. Oggi possiamo trovare – se li sappiamo e vogliamo vedere – miriadi di persone portatori di carismi che ancora fondano cooperative sociali, ONG, scuole, ospedali, banche, sindacati, lottano per i diritti negati degli altri/e, degli animali, dell’ambiente, dei bambini, perché vedono “di più e di diverso” da tutti gli altri. Nella società attuale, che da una parte mostra segni di grande individualismo e edonismo, si assiste anche ad una fioritura di carismi, per le mille battaglie di civiltà e di libertà, grazie a persone portatrici di carismi, capaci per questo di vedere prima degli altri un bisogno insoddisfatto, lasciarsene attrarre, amarlo, e trasformare quel problema in bene comune. Inoltre, anche se resta vero che la forma dell’amore più tipica del “carismatico” è l’agape, occorre sempre tener presente che l’amore agapico è fecondo, umanamente maturo quando racchiude in sé anche le forme della philia e dell’eros. Il portatore di un carisma non è essenzialmente un altruista né un filantropo, un concetto che riprenderemo; è piuttosto un costruttore di comunità (philia) e un innamorato (eros). Chi ha ricevuto un carisma e va in cerca dei diseredati, dei lebbrosi, dei “soli”, è mosso anche e primariamente dall’amore-eros, dal desiderio. Ciò è eminentemente vero per i carismi religiosi (che vedono nel povero Gesù, “lo sposo”), ma lo è non di meno pei carismi non esplicitamente o primariamente religiosi. Solo chi è appassionato e innamorato riesce a trascinare e attrarre altri dietro di sé, e la passione appartiene al repertorio dell’eros. Senza eros non si risolve nessun “problema”, perché chi è aiutato deve sentirsi attraente, bello, amabile; nella migliore delle ipotesi i problemi vengono gestiti, immunizzati, tenuti sotto controllo: per trasformarli in bene comune

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occorrono gli occhi e la forza dei carismatici, che per vocazione (e quindi senza narcisismo o ricerca di potere) redimono le povertà perché le vedono come una forma di ricchezza: “non chiamateli problemi”, ripeteva spesso Madre Teresa di fronte ai poveri e ai lebbrosi, “chiamateli doni”. È anche questa dimensione dell’eros che fa sì che quando è all’opera un carisma il povero non è un “oggetto” dell’aiuto (fare qualcosa “per” i poveri), ma è “soggetto” su un piano di uguaglianza e di reciprocità (si fa qualcosa “con” i poveri). Senza il profilo carismatico le istituzioni gestiscono le povertà, ma non le trasformano mai in ricchezza.

5. L’artista come portatore di carisma (non solo di talento) Un altro ambito dell’umano dove i carismi sono evidenti a tutti è l’arte, una realtà che non viene normalmente associata al carisma (ma al talento). Il carismatico, invece, dalla nostra prospettiva, assomiglia molto all’artista, e l’artista possiamo vederlo anche come un portatore di un carisma, e non è certamente un caso che, ieri come oggi, attorno ai grandi carismatici fioriscono tanti artisti. L’opera d’arte nasce normalmente da un dolore amato in se stessi, negli altri, nella natura. L’arte è gratuità, perché dove c’è un dono artistico l’opera d’arte è espressione della vita stessa; non ci si esprime per raggiungere un obiettivo “esterno” all’attività artistica, ma si danza, si dipinge, si scrive per vivere, semplicemente. Se si domanda ad un artista: “perché dipingi”, risponde: “perché è la mia vita, se non lo facessi morirei”. È questa vocazione che fa di un essere umano un artista, anche quando, come il giovane Van Gogh, non avesse ancora le tecniche, non sapesse ancora dipingere: ci può essere artista senza tecnica (anche se non diventerà un “grande” ar-

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tista), ma non ci può essere artista senza vocazione. E dire vocazione è dire valore intrinseco, e quindi (nella nostra definizione), gratuità: «Un’opera d’arte può esistere senza mercato, ma non c’è arte senza gratuità» (Hyde 2005, p. 1). E proprio a causa di questo rapporto artista-vocazione, un’opera d’arte non si vende mai fino in fondo: lo sa l’arista, e lo sa l’acquirente: ecco perché l’esperienza del mercato è sempre esperienza dolorosa per l’artista. Ci sono artisti perfettamente “integrati” con il mercato ma rischiano di perdere la “vocazione”, quando iniziano a non sentire più quel dolore. Chi non credesse alla presenza dei carismi nell’umanità dovrebbe spiegare la presenza e l’azione degli artisti, soprattutto dei grandi. Ma potremmo spingerci ancora più avanti. Anche nella scienza e nella letteratura sono all’opera carismi che spingono avanti le frontiere dell’umano, e rendono il cammino della vita leggero e soave.

6. Carismi e innovazione I carismi poi sono essenziali nella vita civile perché sono i principali fattori di innovazione. Esiste, nella vita sociale, una dinamica analoga a quella teorizzata dall’economista austriaco J.A. Schumpeter nella sua visione dell’imprenditore, del profitto e dello sviluppo economico. Nella sua Teoria dello sviluppo economico (1911), quel grande economista ci ha offerto una delle teorie economiche più suggestive, e rilevanti, del Novecento, quando ha distinto tra imprenditori “innovatori” e imprenditori “imitatori”. L’imprenditore innovatore, il tipo ideale di imprenditore, è colui che con un’innovazione (di prodotto, di processo, di nuovi mercati…), spezza lo stato stazionario (dove non ci sono “né profitti né perdite”), e con questa innovazione crea valore aggiunto e sviluppo, porta avanti l’economia e la società. Poi, in un secondo momento, arriva-

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no, come uno sciame di api richiamate dalla nuova opportunità di profitto, altri imprenditori “imitatori”. Essi fanno propria quell’innovazione, che da quel momento in poi diventerà parte integrante dell’intero mercato e della società. I profitti in quel settore tendono progressivamente a zero, e l’economia torna presto allo stato stazionario, finché non arrivano altri innovatori, che, con nuove innovazioni, spingeranno avanti “i paletti dello sviluppo economico”, in un nuovo processo di innovazione-imitazione, che è il vero circolo virtuoso creatore di ricchezza e di sviluppo. Il profitto nel tempo si trasforma in bene comune (innovazioni, riduzioni di costi…), grazie a questa “rincorsa”. Nella dinamica sociale è all’opera un meccanismo simile, cioè esiste una dinamica, una rincorsa, tra “carisma” e “istituzione” (per usare il linguaggio di Max Weber: non è da escludere che Weber abbia avuto un’influenza nel pensiero di Schumpeter, e su quello di von Balthasar). Il carismatico innova, vede bisogni insoddisfatti, individua nuove forme di povertà, apre nuove strade alla fraternità, spinge più avanti la “frontiera dell’umano” e della civiltà. Poi arriva l’istituzione (lo stato, ad esempio), che imita l’innovatore, fa sua l’innovazione, e la fa diventare “normale”, la istituzionalizza. Pensiamo, per un esempio, al tema del bilancio sociale e, più in generale, alla responsabilità sociale dell’impresa. Negli anni Cinquanta e Settanta sono stati degli innovatori sociali, dei carismatici (nel nostro linguaggio), che hanno liberamente e per vocazione interiore iniziato a scrivere una rendicontazione non solo economica e finanziaria ma anche ambientale e sociale. Oggi, a distanza di decenni, in certi settori o Paesi (la Francia, ad esempio) redigere un bilancio sociale sta diventando un obbligo: lo Stato ha imitato, è arrivato in un secondo momento, e ha istituzionalizzato l’innovazione. Altro esempio in tema di consumo o di risparmio etico: i primi ad innovare

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e a proporre più alti standard etici nella produzione sono stati, oggi come nel Medioevo, dei carismatici (i fondatori del commercio equo e solidale, ad esempio): oggi anche imprese più tradizionali, grandi istituzioni economiche (multinazionali) stanno imitando, alzando (perché magari costretti dalla domanda) i loro standard etici, e gli stati e le istituzioni internazionali stanno via via rendendo obbligatorie certe innovazioni sociali ed umane (sul lavoro minorile, ad esempio). Un processo analogo lo ritroviamo nel campo dei diritti umani, o dell’ambiente: persone portatrici di carismi che innovano, spingono avanti la frontiera dell’umano, e le istituzioni che poi li seguono 12. Gli innovatori, quindi, sono presto raggiunti dall’istituzione e la civiltà avanza, e se non sono capaci di nuove innovazioni presto saranno indistinguibili dagli imitatori. Quando si è imitati non occorre protestare o proteggersi, ma solo rilanciare la corsa con nuove innovazioni che vanno a individuare nuovi bisogni, e così spostare ancora avanti la frontiera dell’umano, andando ad individuare nuove criticità e nuove sfide, nuove forme di liberazione, di giustizia, di “amore sociale”, mai soddisfatti e appagati per i risultati raggiunti.

12 Ciò non vuol dire che non ci siano dei carismi anche nelle istituzioni: la dinamica carisma-istituzione si svolge anche all’interno delle istituzioni stesse. Inoltre, realtà carismatiche nel tempo si istituzionalizzano, e hanno bisogno di riformatori, di “profeti”, che tengano viva la dimensione carismatica. Sono persone concrete coloro che ricevono i carismi, e quando queste operano nelle istituzioni le rendono “carismatiche”: basti pensare al sindaco di Firenze Giorgio La Pira, al politico Igino Giordani, e ai tanti che lavorano nelle istituzioni essendo elementi di rinnovamento e di profezia. La relazione carisma-istituzione è dunque dinamica, complessa, fluida, non statica e astratta. I carismi che non danno luogo a istituzioni carismatiche non durano nel tempo; ma le istituzioni che non si lasciano contagiare dalla forza profetica e riformatrice del carisma si sclerotizzano e diventano luoghi non umani né umanizzanti.

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La civiltà avanza grazie a questa dinamica carisma-istituzione: fermarla o combatterla significa frenare lo sviluppo civile. Quando ci sono tali tentazioni, abbiamo già i primi segnali di crisi della forza carismatica di una esperienza. Il vero innovatore non ha mai timore dell’imitatore: quando l’innovazione entra in crisi, si guarda all’imitatore come un rivale in un “gioco a somma zero” (come il poker), e tutta l’attenzione ricade sugli aspetti redistributivi dello scambio, si prende la “torta” come un dato, cercando solo di accaparrarsi la “fetta” più grossa 13. I grandi carismi nella storia della Chiesa, e nell’umanità, sono stati questi innovatori dell’umano: hanno conquistato terreno all’umanità, all’amore, alla reciprocità. Nel mondo pre-moderno i carismi hanno visto e curato soprattutto le “ferite” fisiche, dando vita a strutture di gratuità, come sono stati per secoli ospedali, scuole, orfanotrofi, ecc., che hanno reso l’umano sempre più umano e l’esistenza terrena sopportabile per molti svantaggiati. Poi le istituzioni li hanno imitati. Nella modernità, le ferite sono soprattutto quelle relative alla relazione, una incapacità di incontrarsi nella reciprocità; nella post-modernità questa ferita “spirituale e relazionale” mostra sempre più la sua drammaticità: il paradosso della felicità nelle società opulente, dove oggi sperimentiamo una crescente noia e solitudine, non dice forse questa indigenza relazionale? Siamo in attesa di nuovi carismi (e se fossero già in azione?), di occhi nuovi che ci aiutino a vedere amare e trasformare queste nuove ferite della relazione e del senso della vita. Siamo in attesa di carismi per il mondo tragico del carcere, per gli anziani (invecchiare oggi in Occidente con famiglie sempre più “corte” – nello spazio e nel tempo – e con la fede

13 Su

questa e esperienze simili, si veda anche Bruni (2006, cap. 9).

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sempre più fragile e incapace di dare un senso alla morte è una esperienza spesso di grande sofferenza), per i manager soli e tristi, vittime di quella grave “quinta forma” di povertà di cui parla Rahnema (che sono spesso così poveri da non accorgersi di esserlo).

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7. Carisma e gratuità Per gratuità qui intendiamo quell’atteggiamento interiore che porta ad accostarsi ad ogni persona, ad ogni essere, a se stessi, sapendo che quella persona, quell’essere vivente, quell’attività, la natura, me stesso, non sono “cose” da usare, ma realtà da rispettare e amare perché hanno un valore intrinseco che accolgo e rispetto perché lo riconosco come buono. Ecco perché c’è un legame strettissimo tra gratuità e attività che nascono da motivazioni intrinseche (quelle attività, cioè, che hanno in se stesse la propria ricompensa 14). Se quando mi avvicino a te trovo la ricompensa nel rapporto che assieme stiamo generando, allora è possibile che non strumentalizzi quel rapporto asservendolo ad un interesse individuale; solo se quando pratico uno sport traggo soddisfazione dalla stessa pratica sportiva allora non strumentalizzo il mio corpo per il successo o per il denaro (anche per questa ragione l’uso del doping, o la corruzione degli arbitri, è grave in ogni sport, perché segnala una crisi di gratuità, e senza gratuità non c’è più sport-gioco ma solo spettacolo o business: non è forse la gratuità la cifra tipica del gioco, che, per questa ragione, lo troviamo al suo stato puro solo nei bambini che giocano per giocare… e basta?). È su questa base che possiamo affermare che un’azione gratuita non deve necessariamente essere altruista (cioè che

14 Sulle

motivazioni intrinseche cf. Bruni e Smerilli (2007b).

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l’azione gratuita abbia come scopo il benessere di un’altra persona umana, come accade, ad esempio, in un rapporto con la natura, con gli animali, o verso se stessi). Invece crediamo che esista una forte relazione tra gratuità, agape, vocazione e carisma, parole che useremo a volte come sinonime 15. Chi infatti ha una vocazione (dal missionario all’artista) può operare in modo non strumentale, accostare un povero o fare un’opera d’arte trovando in quell’attività la prima e fondamentale ricompensa. Senza gratuità-carisma-vocazione quelle azioni non potranno che essere strumentali. Giunti a questo punto non deve pertanto stupirci se il mercato, e la logica economica, oggi vengono viste come realtà che si collocano agli antipodi del territorio della gratuità, perché fondati sul calcolo strumentale, autointeressato, che non richiedono gratuità né agape, né vocazione, né motivazioni intrinseche. Non crediamo però, come abbiamo cercato di argomentare finora, che questo modo di intendere l’economia sia quello più vero e giusto (storicamente, metodologicamente e teoricamente), anche perché trasmette un messaggio civile cinico e cupo. La domanda metodologica che vogliamo porci è invece un’altra: è possibile, come quando e con quali effetti, tenere assieme la gratuità con gli incentivi e le dinamiche del mercato e dell’impresa? La grande scommessa di ogni convivenza umana è quella di non uscire dal territorio della gratuità quando si entra in quello del mercato e dell’impresa, di non perdere di vista quella dimensione che è dimensione fondativa del-

15 L’agape è importante tra gli “ingredienti” del nostro discorso: che cosa distingue, infatti, un terrorista che uccide per un credo e una persona che noi chiamiamo “carismatico”? È l’agape, poiché sia la gratuità (come motivazione intrinseca), sia la vocazione (o almeno qualche cosa percepito soggettivamente come tale), potrebbero essere presenti in entrambi.

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l’umano; d’altra parte, esiste anche una seconda tentazione da vincere: la trappola della nostalgia del mondo pre-moderno, o del comunitarismo post-moderno, voler tornare indietro sognando che sia esistito davvero un modo di pura gratuità, prima o parallelamente ai mercati. La sfida vera è invece un’altra: dar spazio ai carismi, e così vivere l’oggi dell’economia come luogo pienamente umano.

8. Alcune caratteristiche dell’economia carismatica In questo ultimo paragrafo vogliamo individuare alcune caratteristiche dell’economia che nasce dai carismi, che possono fornire alcune coordinate utili per comprendere anche la storia dei due grandi carismi che andremo a conoscere nei prossimi capitoli. Non è nostra intenzione arrivare qui ad una teoria completa e sistematica della logica dei carismi in economia, ma solo tracciare alcune linee utili al discorso che stiamo facendo. a) Una prima caratteristica di tutte le espressioni di economia carismatica, o delle esperienze del “profilo carismatico” dell’economia 16, è che esse nascano da un movente non primariamente economico, ma da un movente che potremmo chiamare “ideale”. L’opera economica nasce solo come espressione di questa idealità, e a volte anche in modo non intenzionale (ad esempio, nel caso dei primi francescani, intenzionale era aiutare i poveri, non far nascere banche). Il primato è dell’idealità, non dell’economico. Quindi una espressione fondamentale di queste esperienze è il principio di gratuità, di cui 16

Quanto qui elenchiamo può essere valido anche per esperienze civili non soltanto economiche: preferiamo però restare nel terreno più a noi familiare.

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abbiamo già parlato: sono esperienze che danno spazio al tocco umano gratuito, anche quando sono pienamente inserite nei mercati, una gratuità che non vuol dire far le cose “gratis”. Il carisma di Francesco a riguardo ci ha insegnato molto, come vedremo in seguito. E quando c’è gratuità, lo abbiamo appena visto, una data azione si compie perché è buona e non perché porta buoni frutti (anche se poi, ex post, li porta). È l’antico concetto, presente in ogni etica delle virtù, che le realtà importanti della vita (bellezza, amore, verità, felicità…) hanno bisogno di valori intrinseci, che noi sintetizziamo con la parola gratuità: la bellezza senza gratuità diventa bruttezza, la libertà diventa schiavitù, la felicità cercata per sé diventa semplicemente edonismo, e così via. Tutte le esperienze che nascono dai carismi hanno il profumo, la fragranza della gratuità: e la si sente forte e sempre. b) Una seconda caratteristica. Le espressioni di economia carismatica nascono per rispondere a bisogni di persone concrete, non nascono da disegni astratti a tavolino, ma come risposta concreta a bisogni di persone concrete che hanno un nome e un cognome. Questa seconda dimensione indica che nelle esperienze carismatiche il primato è della vita, non della teoria. Sono, pertanto, esperienze popolari, semplici, che nascono sempre dalla prassi, mai da tavoli di esperti o di professionisti. Non si “implementano” progetti, ma si resta in ascolto attento della vita, dalla quale nascono le intuizioni, e che ha sempre una sua carica di verità. Quindi, di fronte ad una discordanza tra quanto si vive e quanto si dovrebbe vivere secondo una buona teoria (anche la migliore), la discordanza non si risolve mai consigliando semplicemente di cambiare la prassi, perché l’esperienza vitale incorpora di per sé elementi di verità imprescindibili, che si rivelano poi essenziali per il successo e l’autenticità del progetto stesso nel tempo. È sempre la vita che viene prima, è la vita che viene “ascoltata e ri-

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spettata” e che poi si fa teoria; non il contrario. Un teorico, ad esempio, che vuole essere un buon servitore dell’economia carismatica deve essere qualcuno capace di essere sempre “un ascoltatore della vita”, deve far precedere alle sue idee la forza di verità dell’esperienza, che poi legge e critica con la scienza che conosce (anche questa è verità), ma sempre con la nota antropologica dell’umiltà. Il principio carismatico è essenziale perché il principio di sussidiarietà non resti teoria astratta, ma diventi prassi. I carismi partono dalla gente, dal basso, dalla vita, dai problemi, per “vocazione”. Sono il paradigma di quella sussidiarietà che la Dottrina sociale della Chiesa ha indicato, da Pio XI in poi, come principio base per organizzare la vita civile e politica. c) Le esperienze di economia carismatica – la terza caratteristica – sono fortemente legate alla persona del fondatore/i. Sono quindi sempre esperienze con forti identità. Oggi la cultura attuale tende a vedere le esperienze che hanno una forte identità come non universali e tendenzialmente particolaristiche e chiuse in se stesse. E allora si sente spesso dire di fronte ad esperienze di tipo carismatico: «questo che vivete vale per voi, non vale per tutti». E si conclude: «quindi vale poco», o niente. Un tale atteggiamento culturale, e ideologico, è espressione di un errore grave, poiché storicamente non è automatica, né maggioritaria, l’associazione tra identità e chiusura. Ci sono esperienze che lo sono, ma non è la normalità, soprattutto quando queste esperienze nascono da carismi autentici. Gandhi è restato Gandhi, Mandela è restato Mandela, ma sono stati fari di luce per milioni di persone. L’universalità non si acquisisce diventando qualcosa di indistinto e senza identità, ma da una dinamica fatta di un continuo perdere la propria identità nel donarla agli altri, senza considerarla “un tesoro geloso”. Per questa ragione, le esperienze di economia carismatica non sono allora mai anonime né replicabili semplicemente

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insegnando tecniche o know-how; possono invece essere replicate e trasmesse ad altri solo trasmettendo lo stesso carisma ad altre persone, suscitando nuove “vocazioni”. Anche oggi l’economia sociale (almeno la sua componente “carismatica” 17) nasce da persone con una missione, o, più precisamente, con una “vocazione” a far qualcosa per soggetti svantaggiati, per giovani, per l’ambiente, per minoranze, ecc. Non sono mai esperienze anonime che nascono replicando tecniche o protocolli (come invece possono essere le esperienze “istituzionali” 18). d) La quarta caratteristica. La dimensione fondativa delle esperienze di tipo carismatico è la dimensione della reciprocità. Attenzione però a non confondere reciprocità con altruismo. A volte, infatti, si tende ad associare l’economia che nasce da carismi con l’altruismo o con la filantropia (l’altruismo o la filantropia sono espressioni tipiche del profilo istituzionale). La regola di tali esperienze è invece la reciprocità: i soggetti coinvolti in questo tipo di esperienze donano ma anche ricevono. Se, ad esempio, si togliesse, con un esperimento intellettuale, ai fondatori la risposta delle persone aiutate (la reciprocità diretta o indiretta), la loro esperienza non andrebbe molto avanti. Questa reciprocità non è quella del contratto, certo, ma se chi pone in essere queste attività non sperimenta prima o poi la risposta da parte degli altri, l’esperienza si sna17 Non tutta l’economia sociale è carismatica: ci sono alcune esperienze (non ancora la maggioranza) che possono essere perfettamente classificate nell’economia che abbiamo chiamato “istituzionale”, nate per out-sourcing della pubblica amministrazione, o solo per esigenze contingenti, senza nessuna “vocazione” ideale o di gratuità, senza alcun “carisma” di fondazione. 18 Dir questo non significa dire che tali esperienze siano negative, o non civili; anzi, significa dire che c’è un valore di civiltà, anche cristiana, in esperienze anonime e replicabili. Nella realtà concreta, ovviamente, le esperienze sono sempre meticcie, dove gli aspetti carismatici e istituzionali si contagiano a vicenda, e nessun carisma resta senza istituzioni, e le istituzioni umane e umanizzanti sono aperte al tocco della gratuità.

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tura e spesso si interrompe. È una reciprocità gratuita, che possiamo definire “incondizionale” (Bruni e Smerilli 2007a), ma che resta sempre una forma di reciprocità e non di altruismo incondizionale, indifferente di fronte alla risposta o non risposta degli altri. Questa caratteristica è particolarmente pregnante nel caso di esperienze carismatiche che nascono nell’ambito cristiano, dove il paradigma fondamentale è quello trinitario dell’amore scambievole. e) Infine, quinta caratteristica, le esperienze che nascono dal carisma e dalla gratuità attribuiscono naturalmente un ruolo importante alla bellezza: interessa anche il bello non solo il buono (o il vero). In tali esperienze non ci si accontenta di fare le cose bene, si vuole farle anche “belle”. A volte, ad esempio, in ospedali statali (che nascono da istituzioni, “non carismatiche”) si può avere l’impressione che la bellezza non sia di casa. Nelle case di cura che nascono da carismi, si nota subito che c’è più bellezza: nel modo di trattare le persone, gli ambienti, nella pulizia che non è solo “igiene”. I carismi ricordano che si muore anche di bruttezza, e se una persona malata, dopo la malattia, non si sente di nuovo bella, difficilmente potrà guarire. Ci confidava un amico cooperatore “carismatico”: «nella mia clinica vorrei assumere parrucchieri per le pazienti, i migliori cuochi che preparino pranzi buoni serviti in modo bello nelle corsie. Perché non si guarisce mai del tutto in luoghi brutti e con cibo offerto in modo sciatto». La dimensione della bellezza, o, come dicevano i medievali, il trascendentale del bello, quando è presente dice che la persona ha un valore in sé, che è rispettata perché persona, e non solo perché cliente. Ecco perché esiste un legame forte tra bellezza e gratuità, tra bellezza e carisma 19. 19 Non è certamente un caso che dai grandi carismi (quello di Francesco in modo tutto particolare) sono sempre nati dei grandi artisti.

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Ora, con questa griglia culturale che abbiamo cercato di delineare nelle pagine precedenti, una griglia che non richiameremo direttamente di volta in volta (per non rendere troppo scolastica e pesante l’analisi), ma che va tenuta bene in mente come lo sfondo di tutto il discorso, andremo a conoscere i carismi di Benedetto e di Francesco e le loro economie carismatiche.

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II. Benedetto e il ruolo del monachesimo per l’economia e per la civiltà

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II. Benedetto e il ruolo del monachesimo per l’economia e per la civiltà «I monaci sono all’origine, inconsapevole e involontaria, di un movimento economico e sociale così profondo, così diverso e così vasto che l’evoluzione del medioevo sarebbe difficilmente spiegabile senza la loro presenza e la loro azione. In questo senso, san Benedetto e con lui i benedettini sono i “padri dell’Europa” nel senso pieno del termine, sia da un punto di vista storico che sociologico». (L. Moulin, 1980, p. 73)

Il monachesimo dopo il crollo dell’Impero romano d’Occidente ha rappresentato un grande movimento spirituale, civile ed economico europeo. Sul piano civile è stato un faro di luce e di civiltà in secoli difficili di migrazioni di popoli, di povertà e di guerre, di eclissi di quella civiltà greco-romana che ancora ai tempi di Agostino era ben visibile nel tessuto civile e morale, e forniva agli uomini e alle culture l’orizzonte entro il quale dare senso alla vita e alle opere. Le innovazioni che Benedetto, grazie al suo carisma, ha operato nella cultura europea hanno molto a che fare con il tema del lavoro. Riteniamo pertanto utile iniziare questo capitolo con una breve riflessione sulla cultura del lavoro nel mondo contemporaneo, in modo da far risaltare meglio gli elementi di novità e di luce introdotti da Benedetto nel suo tempo.

1. Dallo schiavo all’Ora et labora La valutazione culturale sul lavoro umano risente del tempo e dello spazio (ancora oggi ci sono molte culture nel pianeta, da quella giapponese a quella cinese, all’indiana o alle africane.

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L’evento cristiano ha creato le premesse religiose e culturali per la prima grande rivoluzione nel lavoro umano. Fino al grande movimento monacale 1 al vertice della piramide sociale c’erano i “non lavoratori”, cioè redditieri, ecclesiastici o aristocratici, che non potevano e non dovevano lavorare. La nobiltà era associata alla rendita, al sangue, alla casata, al potere politico: al non-lavoro. Nel mondo greco, e in parte in quello romano, il lavoro non era “vita buona”, né, tanto meno, fioritura umana. Non era l’esperienza tipica della polis, ma quella della famiglia, della oeconomia, della casa. Il lavoro non era considerato attività degli uomini liberi, ma realtà legata a rapporti di potere e di dominio (servo-padrone, dirà Hegel più avanti). La vita buona è vita politica, e nella politica non c’è posto per i lavoratori, che non potevano ricoprire cariche pubbliche; lavoravano soprattutto gli schiavi, che consentivano così agli uomini liberi di affrancarsi dalla più radicale delle schiavitù: quella delle necessità vitali (mangiare, vestirsi, ripararsi…). Durante il Medioevo, e grazie anche alla maturazione dell’evento cristiano nella storia (si pensi alla figura di Paolo, lavoratore di tende), inizia una lenta ma radicale rivoluzione nel modo di intendere il lavoro, che viene via via rivalutato e posto al centro della vita civile. Con i grandi movimenti monacali, sia in occidente che in oriente, parallelamente all’influenza ebraica in Europa 2, allo 1 Questa rivoluzione è iniziata dentro le abbazie e solo all’interno delle mura delle città: al di fuori è rimasta fino a tempi recenti (ancora nella modernità) la cultura feudale antica. 2 La cultura ebraica ha un rapporto ambivalente con il lavoro. Da una parte, il lavoro (Genesi) è associato alle conseguenze del peccato, ma, per la teoria cosiddetta “retributiva”, il successo anche economico è segno di benedizione da parte di Dio (cf. Giobbe, ad esempio). La nota dominante nel pensiero ebraico sul lavoro, in sostanziale continuità con la visione dell’intero antico oriente, è bene espressa dal libro del Siracide (o Ecclesiastico), un

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sviluppo della cultura cittadina e dei suoi artigiani-artisti, più avanti, come vedremo, con il carisma francescano, e la riforma protestante (calvinista in modo particolare), nella christianitas si è iniziato ad associare il lavoro ad un valore positivo, e all’uso responsabile del tempo e delle cose. È nata una vera e propria etica del lavoro, una esperienza e una cultura del lavoro che sono state poi all’origine dell’Umanesimo, prima, e poi della rivoluzione commerciale e industriale, da cui è nata l’economia moderna come oggi la conosciamo.

2. La cultura del lavoro oggi La modernità è nata dalla crisi della cultura medievale e antica del lavoro, quella artigiana, mercantile e cittadina. In quella cultura, il lavoro era vissuto come responsabilità individuale e sociale, interpretato alla luce di un’etica dell’azione che creava quei confini naturali tra ciò che si può e ciò non si può fare nello svolgimento dell’attività lavorativa ed economica. La responsabilità e il senso etico del lavoro erano associati non solo (e non tanto) all’affermazione dell’“io”, ma alla crescita del “noi”. Questa visione che possiamo chiamare “classica” del lavoro, nel XX secolo ha ceduto il passo ad una nuova idea di lavoratore, ad una nuova antropologia e cultura

libro che risente, anche in questo, dell’influenza greca (e anche per questo non fa parte del canone ebraico e protestante): il lavoro manuale è considerato attività non degna dell’uomo, mentre sono l’attività dell’intellettuale (lo scriba) e quella del sacerdote che vengono considerate alte e pienamente umane. In ogni caso il mondo ebraico è troppo complesso per sintetizzarlo in una nota. In generale nella Bibbia non troviamo una visione unitaria e sistematica sul lavoro, la questione non è messa a fuoco. L’attività lavorativa, nella Genesi, è benedizione e maledizione insieme: il primo contadino è Caino, fondatore della prima città e dei lavori che in essa si svolgono. Il giorno del Signore (sabato) è il giorno del non lavoro.

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del lavoro che è stata il frutto di due movimenti che si sono concepiti alternativi tra di loro, ma che in realtà erano più vicini di quanto si possa pensare in superficie: quello liberal-individualista e quello marxista-socialista. Dallo scontro di queste due vere e proprie civiltà è emerso nel XX secolo qualcosa di nuovo circa il modo di intendere il lavoro e il lavoratore, un nuovo umanesimo del lavoro che oggi si sta esprimendo in tutte le sue potenzialità – e che porta ben distinguibili i cromosomi dei suoi “genitori” (individualismo e marxismo). Da una parte, infatti, una certa lettura dell’etica calvinista ha creato, soprattutto nell’America nel nord, una cultura dell’impresa e dell’imprenditore, visto come il nuovo “benefattore” 3, caratterizzata da una certa lode del profitto e degli interessi visti come molla dell’azione economica e della crescita civile, che arriva come effetto “non intenzionale” dell’azione dell’imprenditore; dall’altra, la dura critica marxista all’economia di mercato, fondata sullo sfruttamento del lavoratore e sul furto di lavoro non pagato, ha anch’essa creato l’idea della centralità del lavoro nella dinamica sociale. Il lavoro – più quello dell’imprenditore nel modello individual-liberista, più quello degli operai o proletari nell’umanesimo marxista e socialista – è così diventato il nuovo “centro” della società. Se nel mondo antico il lavoro non era attività nobile e degna del cittadino, dalla modernità in poi accade esattamente il contrario: un leader politico che non lavori o non abbia lavorato è visto come un personaggio poco serio e mal affidabile, e una persona che non lavori in età attiva è vista quanto meno in modo sospettoso e come cittadino di seconda categoria. La democrazia moderna nasce “fondata sul lavoro”, nel senso che le differenze sociali debbono essere giustificate solo 3 Si pensi alle tesi di Franklin o, poi, di filantropi come Rockfeller o Carnegie.

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II. Benedetto e il ruolo del monachesimo per l’economia e per la civiltà

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sulla base del lavoro, che diventa il nuovo e unico metro di misura del valore di una persona 4. Inoltre, il lavoro diventa poi un criterio importante nella redistribuzione della ricchezza che un sistema economico produce, e molto ancora, un criterio che resta un punto di riferimento ineludibile, e ci porta a provare un senso di iniquità quando vediamo ricchezze guadagnate speculando su titoli, o con il gioco, o quando vediamo stipendi di manager che sono centinaia di volte superiori a quelli dei loro dipendenti 5. Quali sono, allora, alcune caratteristiche importanti dell’attuale umanesimo del lavoro della cultura occidentale (e, per la globalizzazione culturale e dell’economia, sempre più mondiale)? Ci limitiamo ad indicarne tre, che sono anche tre tensioni: a) L’attuale cultura al tempo stesso esalta e deprime il lavoro. Da una parte, infatti, nessuna cultura come la nostra magnifica l’attività lavorativa, fa entrare il lavoro dappertutto, lo fa diventare la nuova “misura di tutte le cose”, crea un nuovo tipo di uomo, l’homo laborans – nelle parole di Marx (e poi di H. Arendt). D’altra parte, nessuna cultura come la nostra (se si eccettua la cultura schiavista, che però va letta con tutt’altre categorie) usa e strumentalizza il lavoro per uno scopo sempre più “esterno” all’attività lavorativa stessa: non lo valorizza in

4 È sufficiente ricordare che nei modelli di valutazione economica delle politiche di intervento il valore di una vita salvata (per esempio attraverso una campagna di prevenzione degli incidenti) viene approssimato con il contributo dato dall’individuo al Prodotto Interno Lordo lungo gli anni di vita persi in seguito ad un possibile incidente mortale. Ringraziamo Luca Crivelli per questa nota. 5 A riguardo ci sarebbe tutta una riflessione, parallela, sulla immoralità (alla luce di questa etica del lavoro) delle grandi ricchezze vinte giocando, che invece la nostra società e i nostri media considerano normale e divertente.

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sé ma lo asservisce al profitto – una tendenza che sta invadendo sempre più anche il campo educativo, dove il valore di un corso di studi è misurato da quanto rende (o promette di rendere) nel mercato del lavoro, e non per il valore intrinseco dell’esperienza formativa stessa. È l’efficienza, infatti, non la bontà intrinseca dell’azione lavorativa che, sempre più, misura la qualità di un lavoratore, di una persona, di una regione, di un popolo 6. D’altra parte, e quasi come controtendenza, il lavoro viene asservito al consumo, dando vita ad uno dei fenomeni più preoccupanti del nostro tempo: la rincorsa ai consumi anche quando le possibilità di reddito non lo consentono, indebitandosi per consumare beni di status che vanno al di là dei propri mezzi (in questo tutto il sistema finanziario ha le sue grandi responsabilità, incentivando i consumi e non i risparmi delle famiglie). b) In secondo luogo, oggi si lavora, ad un tempo, troppo e troppo poco: siccome il lavoro riempie un vuoto antropologico crescente (di Dio, di rapporti, di capacità di silenzio e di meditazione, di preghiera), esso occupa uno spazio via via maggiore della vita nostra e dei nostri concittadini. Lavoriamo tanto anche per riempire vuoti interiori e solitudini 7. E questo perché nella società post-moderna si è spezzato il confine tra lavoro e non lavoro, che era molto più netto nella società cosiddetta fordista o taylorista (la quale lo aveva in buona parte inventato). Ma, parallelamente, stiamo assistendo ad una estensione orizzontale e superficiale del lavoro, a scapito di una perdita di profondità: si lavora tanto ma spesso senza fare esperienze pie-

6 Si spiega anche in questo modo il disprezzo o la disistima per interi popoli per il fatto di non avere sviluppato una cultura del lavoro o, meglio, una cultura del lavoro diversa da quella che si è affermata nella modernità. 7 Oggi è sempre più comune trascorrere il Capodanno in impresa, perché non si hanno amici diversi dai colleghi con cui trascorrerlo.

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namente umane mentre si lavora (come vedremo). Inoltre, si assiste ad una struttura del lavoro “a clessidra”: lavorano molto, e sempre più, coloro che si trovano in cima (dirigenti) e in fondo (manodopera non qualificata, soprattutto nei Paesi più poveri) della piramide sociale, mentre la riduzione della giornata lavorativa si verifica, forse, solo per coloro che si trovano al centro (un ceto medio in continua diminuzione nelle economie avanzate): impiegati, dipendenti, operai. c) Infine – ma in realtà potremmo e dovremmo continuare a lungo, qualora fossimo capaci di farlo e ci fosse lo spazio sufficiente – l’incrocio di queste due culture del lavoro ha prodotto l’idea, oggi dominante, che l’essere umano è in quanto lavoratore. È il lavoro che dice chi siamo agli altri, che determina quanto e se sono pagato, che crea le nuove gerarchie sociali, che determina l’uscita e l’entrata nelle stanze del potere 8. Con l’effetto inevitabile che quando poi il lavoro termina o entra in crisi, con esso entra in crisi profonda anche la nostra identità come persone (non solo come lavoratori). “Chi sono – e non solo che cosa faccio – ora che sono in pensione?”. Possiamo, quindi, affermare che il lavoro oggi sta vivendo una crisi profonda, da cui può uscire un nuovo tipo di persona che, liberata finalmente (grazie alla tecnologia) degli

8 È facile intuire come le due anime – individualista e socialista – siano presenti, negli aspetti di luce come in quelli di ombra, nei tre punti appena elencati, in varie dosi e combinazioni. Per una analisi rimandiamo a Hannah Arendt (1997). A questo proposito, la stessa riflessione della Dottrina sociale della Chiesa, nonostante alcune punte eccelse, è rimasta troppo intrappolata in questa tenaglia “individuo-collettivismo”, e ha elaborato troppo spesso un pensiero sul lavoro come reazione o difesa rispetto a questi due grandi umanesimi. Siamo ancora in attesa di una riflessione sul lavoro, sì dialogica, ma originale della Chiesa e dei cristiani (movimenti e carismi compresi).

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aspetti più routinari e disumanizzanti del lavoro, può dedicarsi ad attività umanamente più alte, come la gratuità; ma possiamo anche ritrovarci presto in un mondo dove il tempo liberato dal lavoro viene riempito da TV e da solitudini. In questa età di passaggio, la conoscenza e la meditazione sul carisma di Benedetto, possono offrire spunti importanti.

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3. Benedetto di Norcia Il più vasto e dinamico fra i movimenti monastici è senz’altro quello fondato da Benedetto di Norcia: una figura di grande innovatore, la cui regola si è diffusa in un grandissimo numero di comunità monastiche. A fronte della vastità del movimento spirituale e civile generato da Benedetto, in realtà ben poco ci è dato di conoscere della sua vita e delle sue opere. Sappiamo che nasce a Norcia, presumibilmente nell’anno 480, da una famiglia nobile. Verso i diciotto anni viene mandato a Roma per studiare. Lì Benedetto rimane disgustato dalla vita frivola e oziosa che vi si conduce. È proprio in quel contesto che sente la chiamata del Signore, e capisce che deve darsi a Lui per trovare la vita vera. Si trasferisce dapprima a Affile e poi a Subiaco, dove rimane per tre anni all’insaputa di tutti, tranne che del monaco Romano, fino a quando la sua fama non comincia a spargersi e i monaci di un convento gli chiedono di divenire il loro abate. La sua austerità, però, ben presto fa pentire quei monaci, che non sapendo come liberarsi di lui tentano di avvelenarlo. Benedetto ritorna così nella solitudine, ma ben presto viene circondato da giovani che vogliono essere suoi discepoli, ed è così che egli fonda il primo monastero, al quale ne seguiranno molti e molti altri. Ciò che ha fatto sì che lo spirito di Benedetto si tramandasse nei secoli è stata la diffusione della sua Regola, che si è affermata su tutte le regole monastiche, anche

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grazie all’opera del papa Gregorio Magno, il quale, affascinato da san Benedetto e dalla sua Regola, ne fece la sua regola di vita prima di divenire papa e, una volta eletto, la propagò in tutta la Chiesa. Come non ritrovare nella vita e nell’opera di san Benedetto e dei suoi successori la dinamica del carisma illustrata nel capitolo precedente? In un’epoca buia per l’Italia e per l’Europa «in mezzo alla putrefazione del Basso Impero avviluppante tuttora l’Italia, mentre l’Europa occidentale ne era ormai libera, egli rappresenta la vita nuova: si può ben dire, allora, l’unico principio di vita nuova» (Salvatorelli 2007, p. 149). E questo principio di vita nuova, il suo carisma, si è diramato grazie all’istituzione e informando di sé le istituzioni stesse. Nei prossimi paragrafi cercheremo di penetrare più a fondo nello spirito della Regola, per capirne la portata innovativa nel campo dell’economia, del sociale, del diritto, in una parola nella civiltà. Con san Benedetto prende il via una rivoluzione nella cultura del lavoro: esso acquista una valenza positiva, un mezzo di crescita ed espressione di sé, un contributo alla civiltà. L’Ora et labora di Benedetto rappresentò ben più di una via di mera santità individuale: la cultura benedettina divenne nei secoli una vera e propria cultura del lavoro e dell’economia. A tal proposito, si esprime così Pezzimenti (2006): «Ora et labora non è solo un motto o un ideale di vita. È la vita stessa che deve incarnarsi in quelle due parole tenute insieme da una congiunzione che esprime la stringente reciprocità dei due termini. Non si tratta di due alternative, ma di due aspetti inscindibili, ognuno dei quali finisce per dare il vero senso all’altro» (p. 73). Ed è proprio a questo tipo di cultura che forse bisogna tornare, per ridare anche oggi piena dignità al lavoro, perchè esso ritorni ad essere un valore e non sia solo un mezzo per qualcos’altro.

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Quando parla di lavoro, Benedetto intende una molteplicità di attività 9: a) l’Opera di Dio (opus Dei), e cioè la preghiera di gruppo; b) il lavoro manuale (labor), per sostenere i bisogni fisici; c) le arti e i mestieri (artes), e cioè l’uso del talento e delle proprie capacità; d) il lavoro intellettuale e lo studio (opus); e) la lettura sacra (lectio divina); f) le opere buone (bonum), cioè l’amore del vicino; g) il lavoro interiore (conversatio morum), cioè il ritorno a Dio. Ogni attività ha la stessa dignità delle altre e, nello spirito della Regola, tutte devono ricevere la stessa dedizione, la preghiera, così come le buone opere e cioè la carità, il lavoro manuale come quello intellettuale. Ogni attività prepara e conduce all’altra, e tutti vi sono impegnati, in quanto ognuno ha il dovere di sostenere la comunità. Il lavoro manuale si alterna alla preghiera e si vive in preghiera. Non c’è un’attività più importante delle altre, ma tutte sono necessarie per edificare la “città di Dio”: «Come si vede il messaggio è di sorprendente attualità. Infatti non viene messo il lavoro al di sopra di tutto, ma neanche si vive fuori della realtà e dell’impegno sociale: san Benedetto tenta, con la sua regola, di trovare un punto di equilibrio tra attività e contemplazione» (Attardi 2003, p. 4). 4. La cultura monastica e “l’invenzione” dell’economico Come uomini che dedicano tutta la propria vita a Dio, i monaci sono profondamente interessati alla persona e ad ogni 9 Su

questo confronta Tredget (2006).

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aspetto della vita. Tutto ciò che riguarda l’uomo non può così essere estraneo al monastero. Di qui l’importanza dello studio: quasi tutti i monasteri avevano la biblioteca, lo scriptorium, dove si studiava e nello stesso tempo si tramandava la cultura, attraverso la copia e la miniatura dei manoscritti. Il paziente lavoro dei monaci ha fatto sì che si conservassero le opere classiche più importanti. È ampiamente noto che gran parte del patrimonio letterario dell’antichità, di cui oggi possiamo usufruire, lo dobbiamo al paziente lavoro dei monaci che hanno copiato parola per parola, testo dopo testo, e che in Italia sono stati i primi ad importare le tecniche della stampa moderna. Nell’equilibrio, derivante dalla saggezza della regola, tra attività manuali, economiche e intellettuali, si è sviluppata una cultura monastica, profonda, brillante, «che cercava l’armonia tra il piacere delle lettere e l’amore di Dio» (Le Goff 1996, p. 22). La cultura si è tramandata attraverso la parola scritta, ma anche attraverso le predicazioni, e ancor di più mediante la creazione di scuole annesse ai monasteri, alle quali erano ammesse anche persone esterne. A partire dall’XI secolo, infatti, nelle foresterie delle abbazie si avevano spesso scuole dove si impartivano lezioni ai poveri. In Francia l’abate Guglielmo da Volpiano istituì scuole dove i fratelli istruiti davano gratuitamente l’istruzione a tutti coloro che si presentavano: ricchi e poveri erano ugualmente accettati. C’è un ampio dibattito nella storiografia che tenta di delineare i reciproci influssi tra cultura generale, società e cultura monastica. Sicuramente la cultura monastica si è andata formando ed evolvendo ricevendo gli influssi che provenivano dalla società e dal mondo esterno al monastero, ma è anche vero, come afferma lo storico Gregorio Penco che: «La cultura monastica è stata spesso non solo la guida o il filo conduttore della cultura generale, ma addirittura, come in am-

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biente irlandese, l’unica forma di questa stessa cultura» (Penco 1991, p. 88). Fu la cultura monastica la culla nella quale si formò anche il primo lessico economico e commerciale che informerà di sé l’Europa del basso Medioevo 10. Le abbazie furono infatti le prime strutture economiche complesse, che richiedevano forme adeguate di contabilità e di gestione. L’esperienza del monachesimo, non solo di quello benedettino, si sviluppò contemporaneamente, o subito dopo, la riflessione sulla vita economica e sulle ricchezze dei Padri della Chiesa, che dal II all’VIII secolo iniziarono a sottoporre anche il rapporto con i beni al vaglio dell’etica cristiana. I beni e la ricchezza non venivano condannati in sé, ma solo se male usati, in particolare se usati con avarizia. Particolare attenzione veniva prestata al prestito di denaro, su cui torneremo. Ecco quindi che Clemente Alessandrino affermava, sul finire del II secolo, che la ricchezza è solo “strumento”, e come tutti gli strumenti se ben usati possono produrre opere d’arte, e se male usati il cattivo risultato non dipenderà dallo strumento ma dall’utilizzatore 11. In particolare è la non condivisione dei beni con gli altri (con i poveri soprattutto) che porta alla condanna della ricchezza, non il loro possesso in sé. Il brano degli Atti degli Apostoli sulla “comunione dei beni” divenne l’archetipo dell’esperienza monacale: «La folla di coloro che credevano aveva un cuor solo ed un’anima sola, e nessuno di loro diceva che alcunché di quanto possedeva fosse suo, ma tutto era in comune» (4, 32). Un passaggio, questo, che veniva letto da quei primi teologi assieme al brano della Seconda Lettera di Paolo ai cristiani di Corinto (2 Cor 6, 10), dove i credenti venivano descritti come coloro che «hanno 10

Su questo cf. Bruni e Zamagni (2004, cap. 2), su cui è basato il resto del presente paragrafo. 11 Citato in Todeschini 2002, p. 16.

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nulla e posseggono tutto»; anzi, il non avere nulla diventava proprio la condizione spirituale per poter possedere tutto. In questo processo culturale l’esperienza dei monasteri fu particolarmente importante. Intanto, come messo in luce già da Max Weber, la vita dei monaci, dove ogni azione era tesa allo scopo ultimo e unico della salvezza, dove la vita era organizzata fin nei minimi dettagli, rappresentò la prima forma di “razionalità” che creò lo stampo per quella razionalità strumentale che è al cuore della cultura e dell’economia occidentale. E, a proposito di razionalità, recenti lavori in campo economico (Folador 2006 e Rost, Inauen, Osterloh e Frey 2008) additano i monasteri come esempi di organizzazioni che hanno molto da insegnare alle odierne imprese, in particolare in termini di buone prassi di governance. Proprio dal desiderio di vivere con intensità il motto paolino dell’“avere” nulla per “tutto” possedere, lo spazio sacro del monastero contiene un patrimonio che è di tutti e di nessuno al tempo stesso, che è di tutti proprio perché è di nessuno. Il tesoro privato diventa così nei monasteri ricchezza pubblica. Ed è in questa logica che prende avvio l’amministrazione e la contabilità nei monasteri: del patrimonio comune l’amministratore dovrà rendere conto a Dio, come il servo al quale il padrone ha consegnato i talenti. Tanto è vero che nella Regola benedettina si legge che il cellerarius deve avere una cura degli oggetti monastici e in generale dei beni del monastero analoga a quella che si ha per gli oggetti usati sull’altare. La cura per la gestione e per l’amministrazione di questo patrimonio sacro e comune al tempo stesso fa fiorire le prime idee di contabilità complessa, perché se un monaco che è intelligente e ha studiato amministra un’abbazia complessa, essendo un uomo colto, ha delle idee nuove, inventa soluzioni innovative. Ma il significato e il ruolo dei monasteri medievali, prima e attorno all’anno Mille, non si ferma qui.

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5. Il monastero e la città I monasteri, pur ponendosi fuori dalle città dell’uomo, non erano realtà monolitiche, chiuse in se stesse e inaccessibili, tutt’altro. «Dal monastero si diramava, nei confronti della società, tutta una trama di rapporti, di carattere religioso e sociale, culturale ed economico, organizzativo e assistenziale. Associazioni e confraternite, oblati e populus abbatiae, penitenti e conversi, servi e famuli – per non parlare degli ordini cavallereschi affiliati all’Ordine cistercense – contribuivano a collegare i due mondi impedendo che si verificasse la formazione di “mondi separati”» (Penco 1991, p. 13) Lungi dall’essere isole felici lontane dai compromessi e dai mali del mondo, tra la “città ideale” rappresentata dai monasteri e la “città degli uomini” che iniziava laddove finivano le mura monastiche, si realizzò fin dall’inizio uno scambio, una tensione vitale tra la civitas e il monastero, come lo storico medievale Todeschini mette in luce: «Il monastero era dunque ipotizzato, da Cassiano, a Salviano, a Benedetto, come la cellula cristiana in grado di illuminare la società istituzionale dei fedeli, di darle un senso nel progetto complessivo della Salvezza. Non si tratta dunque, nei testi monastici delle origini, di proporre ai “laici” un modello di ripudio dei beni del mondo, ma piuttosto di realizzare praticamente e quotidianamente, all’interno del monastero, “città ideale” fuori della città, un insieme di comportamenti di cui i “laici” potranno fruire» (Todeschini, 2002, pp. 19-20).

La “fruizione” da parte dei cittadini dell’esperienza dei monaci significava anche apprendere «un codice di atteggiamenti economici decifrabile e traducibile in chiave di quotidianità laicale» (ibid.). L’apertura sulla città era anche segna-

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lata dal contenuto stesso delle regole monastiche, che, tra l’altro, prevedevano l’obbligo del monaco di assistere i poveri, e di concedere prestiti ai bisognosi. Inoltre, i possedimenti dei monasteri creeranno le condizioni per la legittimazione etica della proprietà privata, un istituto essenziale per la nascita dell’economia di mercato. La concretezza dell’organizzazione economica dei monasteri, inoltre, ricadde sui non-monaci, su tutti coloro che vivevano vicino al monastero, almeno in due modi. Innanzitutto il modo di gestire i beni da parte dei monaci, di amministrare senza avere, di non lasciarsi dominare dalle “cose”, diventa un insegnamento per tutti quelli che entrano in contatto con i monaci. In secondo luogo la razionalità economica del monastero valica i confini del monastero stesso sia «attraverso la formazione di intellettuali capaci di tenere una contabilità e di condurre un’azienda, che poi venivano prestati alle amministrazioni laicali» (Todeschini 2002, p. 42), sia per l’influenza che il modo di produrre e di scambiare dei monaci esercita sugli scambi e sui mercati. I monasteri, infatti, entravano in contatto con i mercati locali attraverso la vendita delle proprie eccedenze. Nella regola era infatti stabilito che le eccedenze potessero essere vendute sul mercato, ma a un prezzo più basso di quello corrente. E tanto più era oculata l’amministrazione del monastero, tanta più ricchezza si poteva immettere su mercato. Ancora, attorno all’abbazia sono nate le prime forme moderne di distretti industriali. In Italia, dove c’è oggi un distretto della lana, dei filati, delle scarpe, nella maggior parte dei casi in quelle zone anticamente c’era un’abbazia, che creava conoscenza, artigiani, cui venivano commissionati lavori per l’abbazia, ecc. L’abbazia diventava quindi luogo di civiltà, era fuori dalla città ma edificava il civile: «Uomini silenziosi si vedevano nella campagna o si scorgevano nella foresta, scavando, sterrando, e costruendo, e altri uomini silenziosi, che non

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si vedevano, stavano seduti nel freddo del chiostro, affaticando i loro occhi e concentrando la loro mente per copiare e ricopiare penosamente i manoscritti che essi avevano salvato. Nessuno di loro protestava su ciò che faceva; ma poco per volta i boschi paludosi divenivano eremitaggio, casa religiosa, masseria, abbazia, villaggio, seminario, scuola e infine città» 12. Si può ben dire, infatti, che i borghi e le prime città si svilupparono attorno alle abbazie, presenze stabili a cui tutti potevano far riferimento. Lande deserte vennero così trasformate in territori a misura d’uomo. Infine, nei monasteri nasce la prima riflessione su alcuni temi economici fondamentali: prezzo, profitto, scambio. Fu nei monasteri che si ebbe la prima riflessione che poi diventerà la legittimazione etica del mercato. Il problema nasceva con le eccedenze. Il grano prodotto che eccedeva bisognava venderlo alla città: ma a quale prezzo? Quale è un “prezzo giusto”, in linea con il Vangelo? Inizia allora una riflessione sul giusto prezzo, sul mercato come un luogo non cattivo in sé, una operazione che sarà la base fondamentale perché il mercato potesse svilupparsi non contro la Chiesa, ma all’interno dell’umanesimo cristiano, come avverrà con la scolastica e con la scuola francescana.

6. Il monastero e la democrazia Per lungo tempo si è creduto che le pratiche elettorali e deliberative del mondo moderno avessero tratto origine nell’antichità greca e latina. In realtà alcuni autori 13 fanno notare che all’epoca in cui il mondo moderno cominciava ad orga12 La

citazione è di J.H. Newman (Historical Studies, II), in Del Pane

(2004). 13 Cf.

L. Moulin (1998).

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nizzarsi, le tecniche dell’antichità erano cadute nell’oblio a causa delle invasioni barbariche. Pare addirittura che l’influenza del diritto romano sulle carte e gli atti dei primi comuni italiani e europei sia molto scarsa. La Chiesa (nell’elezione del papa) e gli Ordini religiosi, in particolare i benedettini, sono le sole istituzioni che, per secoli, sono ricorse al sistema delle elezioni, e le hanno volute regolari, libere da ogni violenza e da ogni frode. Gli storici hanno dimostrato la scarsa influenza del diritto romano anche sulle istituzioni religiose, e quindi possiamo ben affermare che lo sviluppo del diritto civile e pubblico e della democrazia moderna abbia avuto alla base e come esempio gli ordini religiosi. Lo storico Leo Moulin (1998) afferma a tal proposito che la Chiesa e in particolare l’Ordine benedettino sono state le sole istituzioni in Occidente ad aver conosciuto e praticato il principio di elezioni libere e regolari, e ad aver rispettato il principio della consultazione di coloro che sono governati; ad essersi basati su canoni e norme invece che sulla forza e sulla violenza o sul volere di una sola persona; ad aver abbracciato, sebbene in forma embrionale, il principio della collegialità. Nonostante 14 le tecniche materiali del voto, accertato con strumenti poveri (schedule, ma anche sassi, castagne, fagioli), questi precursori di una democrazia per nulla astratta e non delegata, anzi controllata, dimostrano che la necessità di una regola è inevitabile e che dalla regola benedettina parte il regime-diritto che è tipicamente cristiano. Si capisce, quindi, come al sorgere dei Comuni, questi non potessero non attingere al grande patrimonio di esperienza elettorale sviluppatasi nei monasteri. Tanto è vero che le prime esperienze democratiche dei Comuni si concretizzavano nei “Parlamenti”, cioè nella riunione di tutti i capifamiglia della città, per poi ripiegare sui

14 Siamo

debitori, per quello che segue, a Romano Ruffini.

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Consigli comunali e sul Consiglio di Credenza (paragonabile all’attuale Giunta). È ormai noto, inoltre, che in caso di tensioni e discordie elettorali, autorità religiose, e in particolare i monaci, venivano chiamate a ricoprire ruoli di arbitraggio. È il caso, per esempio, della città di Milano nel 1256. Un altro esempio di fondamentale importanza è la Magna Charta Libertatum inglese del 1216 (la carta costituzionale da cui deriva il diritto inglese moderno). Il cardinale Stephen Langton, che grande parte ebbe nella firma della Carta, maturò molte delle sue idee a contatto con i cistercensi. Attratto dal sistema delle elezioni libere e regolari, e dal potere accordato al Capitolo di deporre l’abate, egli si sforzò di applicare quei principi alla vita laica dell’Inghilterra. Ma come erano vissuti i principi della democrazia dentro le abbazie benedettine? Innanzitutto, la vita dell’abbazia era modellata attorno alla Regola, e quindi non era lasciata all’arbitrio dell’abate. Anzi, l’abate per primo doveva obbedire alla Regola: «L’abate faccia ogni cosa col timor di Dio e l’osservanza della Regola» (C. 3). È questo un principio fortemente innovativo, che anticipa l’idea, moderna, che ogni potere è sottoposto alla legge, e va esercitato all’interno di questa. In secondo luogo le decisioni importanti erano prese dall’abate solo dopo aver consultato la comunità tutta. Si legge infatti nella Regola: «Ogni volta che deve risolversi in monastero qualche affare di particolare gravità, l’abate convochi tutta la comunità, ed esponga lui di che si tratta. Dopo aver ascoltato il consiglio dei fratelli, ci ripensi su da sé e faccia quel che avrà stimato più utile» (C. 3). È importante che la comunità sia convocata al completo «perché spesso ad uno più giovane il Signore ispira un parere migliore» (ibid.). Interessanti anche i principi che regolano le elezioni dell’abate. Egli veniva eletto a suffragio universale: «Nell’elezione dell’abate si segua il criterio di costituire in tale ufficio co-

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lui che sia stato scelto da tutta la comunità concordemente secondo il timor di Dio, o anche solo da una parte di essa, sia pure piccola, ma con più saggio consiglio. Chi poi dev’essere costituito abate, sia scelto in base alla dignità della vita e alla scienza delle cose spirituali, anche se fosse l’ultimo nell’ordine della comunità» (C. 64). La scelta dell’abate, dunque, poteva essere fatta da una parte non maggioritaria della comunità, purché fosse ritenuta “saggia”. Se la comunità era unanime nella scelta, allora l’elezione finiva lì; se c’era invece divisione doveva prevalere la scelta migliore, anche se fatta dalla minoranza. La decisione su quale fosse la scelta migliore spettava a chi doveva consacrare l’abate, e cioè il vescovo o gli abati di altri monasteri. Interessante anche lo strumento dello scrutinium (notare che questa parola è di origine monastica): le ragioni per una scelta venivano messe per iscritto da ciascuno, di modo che gli anziani, che vagliavano tali motivazioni, potevano cogliere il valore delle persone. Un altro aspetto interessante e senz’altro innovativo è quello dell’organizzazione del monastero, che al suo interno prevedeva sempre la foresteria per l’accoglienza di chiunque chiedesse asilo (l’ospite sacro come “alter Christus”), il dormitorio comune, l’oratorio per la preghiera dei monaci, il refettorio, la sala capitolare per le riunioni della comunità, il chiostro che racchiude il giardino, la casa e la scuola per i novizi, lo scriptorium e la biblioteca, la cantina, il forno, i magazzini, le fattorie, la farmacia, ecc. Per gestire una tale complessità, il monastero, oltre all’abate, aveva a disposizione alcune figure chiave. Il priore, che ha l’incarico di aiutare l’abate per il governo del monastero e per l’amministrazione. L’abate poi sceglie alcune persone, i decani, non necessariamente tra gli anziani, che lo aiutano e consigliano con la loro saggezza. Il cellerarius, cioè l’economo, «un monaco saggio, costumato come una persona matura, misurato, non mangione, non arrogante, non testa calda, non insolente, non indolente, non prodigo,

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ma timorato di Dio» che deve provvedere a tutti e «se qualcuno gli fa per caso una richiesta assurda, non lo mortifichi con un rifiuto sprezzante, ma spieghi con umiltà le ragioni del suo diniego» (C. 31) Il cellerarius collabora con gli incaricati dei vari settori del monastero. L’ospitario è invece colui addetto alla ricezione degli ospiti di passaggio, con i quali deve essere rispettoso e affabile e provvedere a tutto ciò di cui abbiano bisogno. E così via: per ogni aspetto della vita, dalla preghiera al lavoro, al vitto, ci sono una o più persone che se ne prendono cura. E ogni attività ha la medesima dignità, proprio perché ogni aspetto della vita umana è importante, in quanto tutto è espressione dell’opera di Dio. Infine, è proprio ai monaci, e in particolare ai cistercensi, che dobbiamo i prodromi dell’idea di Unione Europea, intorno all’anno Mille (non è un caso che Benedetto sia stato scelto come patrono d’Europa). Tra gli abati cistercensi, ancora prima di san Bernardo di Chiaravalle, troviamo una figura di spicco: Stefano Harding. Egli fa parte di un gruppetto di monaci che, staccandosi dal modello cluniacense 15, decidono di fondare un nuovo monastero secondo la regola benedettina. Il gruppetto di monaci scelse Citeaux per fondare una nuova abbazia. Quando ai primi abati succede Stefano Harding, un monaco dotto e con una personalità non comune, riesce a fondare, come “abbazie figlie” di Citeaux, altre quattro abbazie, dalle quali ne nascono altre nove, che a loro volta diventano madri di altre, fino a quando cominciano a moltiplicarsi a vista d’occhio in più regioni e stati (Francia, Polonia, Scandinavia, ecc.). Stefano riuscì a congegnare un metodo per collegare le abbazie pur rispettando l’autonomia di ciascuna. Diede origine al Capitolo generale, chiamato all’epoca Parliamen-

15 L’Ordine cluniacense, che trae il proprio nome dall’Abbazia di Cluny, fu fondato in Borgogna nel 910.

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tum, che è stato definito «la prima assemblea soprannazionale europea» 16. In Capitolo ci si radunava (tutti gli abati) una volta l’anno per riconoscere e attuare il volere di Dio. Dal Capitolo venivano quindi emanate delle deliberazioni. Le abbazie rimanevano, abbiamo detto, autonome, ma per far sì che venissero applicate in ogni monastero le deliberazioni del Capitolo, tutti i monasteri erano legati da un vincolo di carità, che si manifestava attraverso la mutua vigilanza 17. Un ordine dove non c’è una sola persona, o un piccolo gruppo a comandare, ma dove «il triplice potere, legislativo, giudiziario ed esecutivo era affidato… ad un corpo costituito dagli abati riuniti in Capitolo generale e legati da un vincolo di carità e di fedeltà alla Regola» (Cuccato, 2005, p. 84).

7. Sviluppo agricolo e tecnologico Un altro ambito dove il carisma benedettino si è manifestato in tutto il suo splendore, è quello dell’agricoltura. Anche qui, l’Ora et labora ha prodotto i suoi frutti. I monaci erano uomini più colti rispetto al resto della popolazione, quindi sovente riuscivano a proporre soluzioni innovative anche nell’agricoltura. In secondo luogo le continue fondazioni favorivano lo scambio di esperienze tra diverse parti d’Europa e le innovazioni si diffondevano velocemente. Infine, proprio dalla Regola, che prevedeva la scansione della giornata in tempi di lavoro, di studio e di preghiera, scaturisce la neces-

16 Cf. Cuccato (2005). 17 Essa funzionava così:

una volta l’anno l’abate di Citeaux visitava le sue fondazioni, i cui abati a loro volta andavano a visitare le rispettive fondazioni. E a Citeaux la visita annuale era compiuta dagli abati delle prime quattro filiali. Ne veniva fuori un nuovo ordine equilibrato, sull’esempio dell’equilibrio che permea da tutta la Regola benedettina.

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Benedetta economia

sità di trovare tecniche che riescano ad accorciare il tempo del lavoro manuale. L’invenzione del mulino, ad acqua e a vento, ne è un esempio. In un documento cistercense del Duecento si legge: «Quanti cavalli consumerebbero le loro forze, quanti uomini stancherebbero le loro braccia in questi lavori che compie quel fiume così benevolo, a cui dobbiamo i nostri abiti e il nostro cibo» 18. Ai mulini si accompagnano i miglioramenti degli aratri e delle tecniche, l’invenzione di bevande di frutta e della birra, l’apicoltura, gli allevamenti di pesci. Woods (2007) afferma che il commercio del grano in Svezia è stato introdotto dai monaci, così come la fabbricazione del formaggio a Parma e i vivai di salmone in Irlanda. I monaci sono stati innovatori anche nel campo del vino: la stessa invenzione dello champagne pare si debba a un monaco, Dom Perignon. Ai monaci è stato anche riconosciuto il ruolo di consiglieri tecnici, erano infatti espertissimi nella macinatura del sale, nella metallurgia, nell’escavazione del marmo, nel vetro: «sarebbe più facile dire in quali campi, supposto che ve ne siano, i figli di san Benedetto non sono stati degli iniziatori, dei promotori o, almeno, l’equivalente, efficace, generoso e disinteressato, della nostra assistenza tecnica» (Moulin 1980, p. 73). A proposito di progresso tecnico, sono numerosi i testi stampati, dovuti ai monaci, che hanno arricchito, con la loro originalità, la produzione scientifica del nostro Paese: il trattato di idraulica di Benedetto Castelli (inventore del pluviometro), i libri di matematica di Guido Grandi, le opere botaniche di Francesco Maratti e Fulgenzio Vitman, le lezioni di agricoltura e pastorizia di Barnaba Gregorio La Via, i volumi di geografia di Luigi Galanti, i testi di geometria (utilizzati nelle università) di Ottaviano Cametti, e, infine, addirittura un

18 Citato

da Pacaut (2007), p. 212.

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II. Benedetto e il ruolo del monachesimo per l’economia e per la civiltà

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trattato di gastronomia di Vincenzo Corrado 19. All’inizio dell’XI secolo un monaco, Eilmer, volò con un aliante per 180 metri, e pare che tale impresa all’epoca abbia riscosso grande successo. Non solo, nel museo della scienza di Londra si conserva uno degli orologi più antichi esistenti, anch’esso costruito da un monaco nel Trecento. È difficile rintracciare tutte le opere scientifiche e tecniche prodotte da monaci benedettini, ma certamente esse hanno influenzato la produzione scientifica e culturale italiana ed europea: «Non solo stabilirono scuole, nelle quali furono i maestri, ma posero le fondamenta per le università. Furono i pensatori e i filosofi del loro tempo e diedero forma al pensiero politico e religioso. Fu a loro, sia come individui, sia come collettività, che si deve la continuità del pensiero dal mondo antico al basso medioevo, all’età moderna» (Fliche, p. 223). Che cosa sarebbe l’Europa, la sua democrazia, il suo lavoro e la sua economia, senza la fedeltà di Benedetto e dei benedettini al carisma ricevuto?

19 Sull’influenza del monachesimo in ambito scientifico e tecnico cf. Mazzucotelli (1999).

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Il principio carismatico dell’economia di mercato

III. Francesco e la scuola francescana

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«Dovete provare più gioia, elemosinando, che un uomo per un soldo vi desse in cambio cento denari, poiché offrite a quanti domandate la carità, l’amore di Dio in contraccambio dicendo “Per amore del Signore Dio, fateci la carità!”. E al confronto di questo amore cielo e terra sono nulla». (F. Boni, 2001, p. 235)

1. Dalla povertà una scuola di pensiero economico Un carisma dona occhi per vedere “beni” laddove la società vede solo dei mali o dei problemi. Lo abbiamo detto. Anche per questa ragione, quando un carisma – soprattutto se grande – fa irruzione nella storia, con esso fa sempre la sua comparsa anche una nuova concezione della ricchezza, della povertà, dei beni e dei mali. Non esiste un carisma autentico che non abbia avuto qualche effetto anche civile, anche quelli apparentemente più “religiosi” 1. Se però dovessimo individuare un carisma che ha operato una vera e propria rivoluzione civile ed anche economica, questo è certamente quello di Francesco d’Assisi. Egli, scegliendo la povertà volontaria, operò una rivoluzione culturale che si pone al centro della nascita della moderna economia di mercato, la quale non sareb-

1 Si pensi, per fare un esempio, al ruolo dei tanti conventi e monasteri femminili nel Medioevo: in un periodo in cui la donna aveva come unica carriera disponibile il matrimonio (e non certo il matrimonio come rapporto alla pari tra un uomo e una donna), i tanti carismi di fondatrici – pur in mezzo ai chiaroscuri che ogni epoca porta con sé – hanno creato luoghi di emancipazione femminile, nei quali le donne, anche di umili origini, potevano studiare e coltivare la propria umanità. Le sole donne di cui la storia abbia tenuto traccia durante il Medioevo sono delle religiose.

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III. Francesco e la scuola francescana

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be come noi la conosciamo senza la scuola economica e le opere francescane. Il francescanesimo rappresenta, quindi, nella storia dell’economia e della società, un momento di grande importanza e, al tempo stesso, un paradosso: un carisma che ha posto al proprio centro “sorella povertà”, il distacco anche materiale dai beni come segno di perfezione di vita, diventa la prima “scuola” economica dalla quale emergerà il moderno spirito dell’economia di mercato. Infatti le prime riflessioni sistematiche sull’economia, sul valore e il prezzo dei beni, sulla moneta, le troviamo in opere di Guglielmo da Ockam, Pietro Olivi, Duns Scoto, pensatori francescani. Il paradosso intorno alla povertà è ben sintetizzato da Giacomo Todeschini (2004) nel suo libro Ricchezza francescana: dal distacco totale dal denaro proviene una nuova sintesi economica, il riconoscere la vera ricchezza che non sta nell’avere: «povertàte è nulla avere, e nulla cosa poi volere; et omne cosa possedere en spirito de libertate», scriveva Jacopone da Todi. Accanto a questo paradosso se ne trova un altro, di natura simile, e collegato al primo: da una critica allo studio, alla “scienza”, nasce una nuova “sapienza”, una nuova elaborazione culturale: la scuola francescana entra anche nelle università. Il dinamismo alla base di questo rinnovamento è unico: il totale distacco dai beni, dalla cultura, produce il “nuovo”. Il distacco produce quella distanza necessaria per osservare il mondo e guardarlo, quindi, alla luce di Dio. San Francesco pone questa rinuncia alla “proprietà” della scienza tra le condizioni dell’ingresso nell’Ordine francescano: «Un grande chierico deve rinunciare alla scienza quando entra nell’ordine, affinché, sbarazzato di tale possesso, si offra nudo alle braccia del crocifisso» (Tommaso da Celano, 1993, p. 192). È questa spoliazione, questa nudità, che permette poi di accogliere la vera sapienza, e di saperla donare in umiltà.

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Benedetta economia

Dalla scuola francescana viene elaborata una dottrina economica, che contiene in sé nuove idee socioeconomiche e dà luogo alle prime forme di microcredito della storia. Il movimento francescano, al pari di quello benedettino, ha inciso in modo vasto sulla vita sociale dell’Europa, sulla cultura, sull’arte, sull’economia. Ma, come ci ricorda Bazzichi (2003): «Non si può dire, tuttavia, che la storiografia moderna abbia avvertito sufficientemente l’importanza del ruolo svolto dalla riflessione teologico-morale della scuola francescana nello sviluppo delle dottrine economiche» (p. 138).

2. La teoria del valore e il mercato Una idea introdotta dai francescani è quella della scarsità: dal carisma francescano si sviluppa, a partire dal secondo Duecento, l’idea che le cose valgono in base alla loro scarsità (cf. Todeschini 2004, cap. II). Il valore di una persona dipende soprattutto da quanto rara è l’attività che egli svolge nella comunità. Da qui il valore immenso dell’agape e dell’azione dei frati, che se dovesse essere remunerata richiederebbe una quantità infinita di denaro; per questo è preferibile che non sia “pagata” e resti gratuita, poiché ogni remunerazione sarebbe una svalutazione del valore reale. È questa una intuizione di una portata straordinaria e attualissima. La gratuità non è associata ad un prezzo nullo (gratis) ma ad un prezzo infinito, differenza che ancora oggi sfugge anche a chi si muove nell’ambito dell’economia sociale. L’amore, la gratuità-agape, non può essere pagato perché qualunque prezzo “finito” corrisponderebbe ad un “dumping”. Bella a questo riguardo è una testimonianza antica di un discorso di Francesco, riportata da Todeschini (2004): «Per una cosa che vale un denaro io ti verserò mille marchi d’argento, anzi mille volte di più. Perché il servo di Dio offre al benefattore, in

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III. Francesco e la scuola francescana

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cambio dell’elemosina, l’amore di Dio, a confronto del quale tutte le cose del mondo e anche quelle del cielo sono nulla» (p. 68). Ci sono, infatti, cose importanti nella vita che non transitano per il mercato perché se vi transitassero ne uscirebbero impoverite e snaturate: quanto vale la mansuetudine del lupo? Quanto la vocazione di un frate?: «Che cosa sono, a che cosa servono, che significano, e quanto valgono il lupo a Gubbio e per Gubbio, o le colombe e le cornacchie a Bevagna e per Bevagna? La rinuncia al denaro consente l’emersione nel discorso di un loro valore differente da quello raffigurabile in termini monetari… Questo valore, non esprimibile con le monete, è un valore misterioso… La povertà di Francesco, e questo sconvolge i suoi contemporanei, sembra consentirgli di scoprire qualcosa di questo mistero: di rivelare alcuni aspetti del pregio di quanto e di quanti si trovano altrove rispetto ai codici della convivenza ecclesiale, municipale, comunale, nobiliare, mercantile, militare» (p. 63). Tali beni, preziosissimi perché molto rari, non possono essere assoggettati ad una valutazione monetaria, perché si collocano su un altro piano. Sarebbe come dire: quanto pesa il rosso? Oppure, che profumo ha l’Aida di Verdi? Basterebbe questa intuizione per mostrare quanto il carisma di Francesco sia attuale e ancora profetico. Pensiamo, solo per un esempio, alla valutazione economica dei beni relazionali: se da una parte dobbiamo cercare di mostrare ai politici e alla società civile che i rapporti tra le persone sono “beni” che hanno un valore, e che quindi non vanno distrutti, d’altra parte Francesco ci ricorda che il rischio sempre latente in una tale operazione è quello di svalutare questi beni preziosi, perché se dovessimo pagare un amico che ci ascolta con gratuità o un atto d’amore genuino dovremmo utilizzare tutti i denari del mondo, e quindi tendiamo a svalutare il “prezzo della gratuità”. Da questo carisma proviene invece l’invito a considerare il denaro per i

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beni relazionali e per gli altri beni scarsi (come quelli ambientali e civili), come un “dono”, che non esprime il valore di una cosa, ma dice un grazie per un rapporto. Un secondo criterio, che emerge dalla scuola francescana a fine Duecento, per misurare il valore delle cose è quello della variabilità soggettiva dell’apprezzamento, la cosiddetta complacibilitas. La teoria del valore di Giovanni Olivi, ripresa in seguito da Bernardino da Siena, è stata definita «la migliore e più moderna tra le teorie del valore del medioevo» (Bazzichi 2003, p. 105). Ma, a ben vedere, anche il criterio della valutazione soggettiva (che apre la strada alla moderna teoria dell’utilità soggettiva in economia 2) ha le sue radici nella povertà. La povertà, quando viene scelta come stile di vita, non può essere determinata puntualmente e una volta per tutte. Il significato e il valore della povertà dipendono, infatti, da esigenze soggettive, circostanze. La natura variabile del valore e dei prezzi delle cose, viene a dipendere, dunque, per gli intellettuali francescani, dalle riflessioni sulle specificità delle concretizzazioni di una vita povera. A partire dallo studio sul valore si fa avanti, negli scritti di Olivi e di altri teorici francescani, una riflessione sul mercato: «Il mercato, lo scambio, il commercio, sono descritti da Olivi come realtà totalmente sociali, o meglio, come il modo che i laici hanno a disposizione per contribuire secondo le loro possibilità alla costruzione di una società cristiana» (Todeschini 2004, p. 117).

2 Così si esprime a tal proposito Woods (2007): «Quando san Bernardino da Siena e gli scolastici del Cinquecento difendevano la teoria del valore soggettivo stavano formulando un concetto economico di cruciale importanza… Rothbard è giunto a suggerire che la professione dell’economia sarebbe stata assai migliore, se il pensiero economico fosse rimasto fedele alla teoria del valore esposta dai pensatori cattolici» (p. 171).

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III. Francesco e la scuola francescana

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Se il mercato è una realtà sociale e civile, allora la misurazione dei valori al suo interno deve essere fatta da tutti coloro che partecipano al mercato, dalla communitas civilis. La comunità civile deve determinare i prezzi a partire da quattro categorie: la graduatoria naturale dell’utilità delle cose, la scarsità, il lavoro e il rischio necessari ad ottenerle, il valore degli stipendi, che deve tener conto delle cariche ricoperte. Il mercato è presentato come un luogo di relazioni basate sulla fiducia e sulla credibilità. Potevano quindi far parte del mercato, francescanamente inteso, non coloro che sottraevano ricchezza al bene comune 3 per accumularla, ma quelli che commerciando e scambiando partecipavano al bene comune. Questa visione di mercato porta sempre di più ad identificare l’economico con il civile. Nel 1383 vede la luce una significativa opera di un francescano, Francesco Eiximenis, nella quale la socialità economica e quella civile vengono a coincidere. In tale visione i commercianti e i mercanti rappresentano le colonne dello Stato in cui vengono a trovarsi. Se il mercato è un luogo da ampliare, perché civile, al tempo stesso, per svilupparsi nella sua forma migliore, ci fa notare Bernardino da Siena, esso va tenuto costantemente sotto controllo. In che modo? Sono i “buoni” mercanti che devono istituire circoli virtuosi, rifiutandosi di fare affari con chi non gode di una buona reputazione, e lottando perché questi venga cacciato fuori dalla collettività economica e quindi civile. C’è dunque, per i francescani, una stretta equivalenza tra etica privata e pubblica, tra comportamenti del singolo e la pubblica felicità: se il mercato è composto di persone legate

3 Il bene comune viene inteso dai francescani come il complesso delle famiglie economicamente attive.

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dagli stessi ideali, allora la povertà volontaria si trasforma in uso sociale della ricchezza.

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3. Il dibattito su usura e interesse L’antichità, da Aristotele a Catone, condannava il prestito a interesse, sulla base della considerazione che il denaro non dà frutti, è sterile, pertanto richiedere frutti (interesse) a qualcosa di essenzialmente infruttifero (il denaro) era considerato andar contro natura. L’usura era condannata anche nella Bibbia, in particolare in alcuni passi dell’Antico Testamento 4. A ciò si aggiungeva poi la considerazione teologica che non è lecito speculare sul tempo, perché il tempo è di Dio: «l’usuraio non vende al debitore nulla che gli appartenga, ma solo il tempo, che è di Dio» (Tommaso di Chobham, citato in Andenna 1999, p. 30). Le Goff (2003), cita a proposito un interessante manoscritto che si conserva nella Biblioteca Nazionale di Parigi: 4 Ci sono alcuni passaggi biblici a cui si fa riferimento quando si affronta il tema dell’usura: «Se tu presti denaro a qualcuno del mio popolo, all’indigente che è presso di te, non ti comporterai con lui da usuraio, non gli imporrai alcun interesse» (Es 22, 24); «Se tuo fratello che vive con te cade in miseria e manca nei suoi rapporti con te, lo aiuterai come un forestiero o un ospite, ed egli vivrà presso di te. Non presterai il denaro per trarne un profitto, né gli darai il vitto per ricavarne degli interessi» (Lv 25, 35-37); «Non farai al tuo fratello prestiti a interesse, né di denaro, né di viveri, né di qualunque cosa che si presta a interesse. Allo straniero potrai prestare a interesse, ma presterai senza interesse al tuo fratello» (Dt 23, 20); «Signore chi abiterà nella tua tenda? Chi dimorerà sul tuo santo monte? Colui che cammina senza colpa, agisce con giustizia e parla lealmente… presta denaro senza fare usura» (Sal 14). Nel Nuovo Testamento ci si riferisce ad un passo del Vangelo di Luca: «E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, che merito ne avrete? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla» (Lc 6, 34-35).

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Gli usurai peccano contro natura volendo fare generare il denaro dal denaro, come un cavallo da un cavallo e un mulo da un mulo. Oltre a ciò, gli usurai sono dei ladri, poiché vendono il tempo che non gli appartiene; e vendere un bene altrui contro la volontà del proprietario è un furto. Inoltre, dal momento che non vendono null’altro che l’attesa di denaro, cioè il tempo, essi vendono i giorni e le notti. Ma il giorno è il tempo della luce e la notte il tempo del riposo. Perciò essi vendono la luce e il riposo. Non è dunque giusto che abbiano la luce e il riposo eterni (pp. 34-35).

La rivoluzione commerciale che fece seguito all’anno Mille generò una crescente domanda di denaro e quindi di credito (data la scarsa circolazione monetaria che precedette quei secoli). I Padri dei primi secoli (Ambrogio, Agostino, Gerolamo) avevano condannato il prestito ad interesse, senza distinguere tra interesse e usura, equiparandoli al furto. Nel corso del Medioevo la questione dell’usura e degli interessi sul denaro in generale maturò, fino a trovare una prima giustificazione anche da parte del pensiero teologico (in quello laico in fondo non era mai mancata, se si considera che tutti i codici dell’antichità, tra cui quello di Giustiniano, si preoccupavano di stabilire quale fosse il tasso “giusto” a cui dare in prestito il denaro). Nei secoli XI e soprattutto XII si iniziò dapprima a distinguere tra interesse e usura, e giustificare l’interesse come compenso per il lucrum cessans e il damnum emergens, mentre l’usura era condannata perché legata al solo prestito in denaro (ex vi mutui). Carlo Cattaneo in uno studio sulle interdizioni imposte dalla legge civile agli israeliti (nel quale gettava parecchia luce sulle reali ragioni economiche che avevano portato e portavano ancora nel suo tempo a leggi contro gli ebrei), così scriveva ricostruendo la storia della proibizione dell’usura: «L’errore “che ogni interesse è usura” signoreggiava le menti. Ma l’insegnamento delle leggi ro-

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mane risorto nelle università cominciava a ristabilire la legalità dell’interesse. Quindi si cercava di conciliare le opinioni estreme con sottili distinguo di usure lucratorie e usure compensatorie, di lucro cessante e danno emergente, si cercava di palliarle con termini fittizi, con vendite simulate, con cambi e ricambi» (1899 [1836], p. 31). La scuola francescana, in particolare nelle persone di Giovanni Olivi e Bernardino da Siena, riesce a creare una distinzione tra usura ed interesse e a legittimare quest’ultimo. L’usura si ha quando, secondo Giovanni Olivi, si vende l’uso che non è separabile dall’oggetto, l’uso che non appartiene più al venditore. Essa viene vista come un’operazione di speculazione. Olivi supera il concetto aristotelico dell’inalienabilità del tempo, infatti in lui la condanna dell’usura avviene «ponendo una distinzione tra tempo comune a tutte le cose e tempo riservato ad ogni singola cosa, quest’ultimo vendibile» (Riccardi 2006, p. 59). Un altro passo importante, realizzato da Olivi, è quello della distinzione tra denaro e capitale: il denaro non può valere più di se stesso, mentre il capitale sì. Il denaro, cioè, inteso come valore nominale ha un valore sempre uguale, mentre lo stesso denaro, in base alla capacità e al lavoro di chi lo utilizza, può acquistare un valore diverso. La moneta non ha potenzialità economiche, per cui sul denaro non è lecito chiedere un tasso di interesse, ma il capitale, che è denaro inserito in un processo produttivo, dà diritto al proprietario che se ne priva (lucro cessante) ad un interesse. La scuola francescana riesce dunque a chiarire e a giustificare l’interesse, seppur condannando l’usura, grazie all’attenzione posta alla vita quotidiana: «Contatto con la gente, presa di coscienza della realtà sociale, ricerca e analisi delle problematiche nuove emergenti dalla società e loro soluzione sul piano pratico nell’insegnamento della teologia morale, nella predi-

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cazione e nella confessione: questi, in sintesi i motivi… che danno un contributo nuovo alla comprensione della risposta storica sul perché i francescani, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, siano stati pressoché gli unici ad elaborare, sul piano dottrinale, una teologia economica e, conseguentemente, ad esercitare nella prassi un’influenza positiva per il superamento delle difficoltà giuridico-morali circa l’interesse e la produttività del denaro» (Bazzichi 2003, p. 124).

4. Nascono le banche popolari in Europa: I Monti di pietà I Monti di pietà si presentano come un’istituzione che sintetizza la riflessione economica francescana appena delineata e le conferisce una forma concreta. Essi infatti rappresentano il naturale confluire dell’etica economica basata sulla produttività e sull’uso sociale della ricchezza. I Monti di pietà sorsero nella seconda metà del Quattrocento (quindi in pieno Umanesimo civile) in Umbria e nelle Marche, per estendersi in tutta l’Italia (soprattutto nel centronord) e in seguito anche nel resto d’Europa 5. Monte di pietà è un nome composto: monte significa (nel linguaggio finanziario dell’epoca della fondazione) cumulo di 5 A partire dal ’500 si ebbero istituzioni di Monti in Belgio, in Francia, e poi in Spagna. I Monti restarono comunque un fenomeno essenzialmente italiano, e dell’Italia del centro-nord (anche perché nei Paesi della Riforma, come l’Inghilterrra, dire Mons pietatis era sinonimo di cattolicità). Diversi dai Monti, perché non derivanti dal principio di reciprocità, sono le esperienze di “economia sociale” ante litteram come la Fuggerei di Hausburg, un villaggio costruito dai ricchissimi Fugger per le famiglie povere: questo tipo di esperienze, nate non a caso contemporaneamente alla Riforma protestante, daranno vita alle forme del “capitalismo filantropico” di stampo anglosassone, di cui diremo nei capitoli conclusivi.

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prestiti, mentre pietà rimanda ad una delle immagini della passione di Cristo. I poveri, visti come vera immagine del Cristo sofferente, questo il senso dell’immagine della pietà. Marco da Cantagallo, un teorico dei Monti di pietà, in un trattato del 1494 inserisce la seguente immagine, che vuole descrivere l’attività di un monte di pietà.

Mario Sensi (2006) descrive così la xilografia: Vi è raffigurata la vita eterna, cioè il paradiso e i modi et vie di pervenire a questa. Nel registro superiore sono posti Cristo e la Vergine… ai lati, santi e sante, distribuiti su

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III. Francesco e la scuola francescana

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tre schiere… In primo piano, a sinistra, un predicatore dell’Osservanza francescana, che tiene in mano la corona mariana, mentre con la sinistra addita un campo fiorito, con al centro un monte contrassegnato dalla scritta Mons pietatis e circondato da personaggi che rappresentano le sette opere di misericordia temporale. A destra del monte, un eremita con la corona in mano; a sinistra la rappresentazione della visione dell’Imago pietatis che ebbe san Gregorio… Ai piedi del pulpito una folla di ascoltatori con lo sguardo rivolto verso il predicatore mentre, al di sopra delle loro teste, tre angeli con due corone, una per mano, si accingono a premiare coloro che stanno per compiere una delle opere di misericordia, sopra rappresentate, dove primeggia il Mons pietatis.

I maggiori propagatori dei Monti furono Bernardino da Feltre (Monti di pietà e pecuniari) e Andrea da Faenza (Monti frumentari). La differenza tra Monti di pietà e Monti frumentari è riferita non alla natura, ma ai destinatari. I Monti di pietà servivano per calmierare il costo del denaro a vantaggio delle forze lavoro, mentre i Monti frumentari servivano per calmierare il prezzo del grano, favorendo la parte povera della classe degli agricoltori. La ragione principale che portò alla nascita dei Monti di pietà era di tipo solidaristico, non primariamente economico: data l’impossibilità per le famiglie meno abbienti di avere accesso al credito ad un equo tasso d’interesse, e per questo costrette a rivolgersi agli usurai (cristiani o ebrei) e quindi precipitare in miseria, i francescani della riforma, molto attenti agli aspetti concreti dell’evangelizzazione, promossero queste istituzioni come mezzo di “cura” della povertà e di lotta all’usura 6. 6 Dalla lettura dei primi atti costitutivi dei Monti non è possibile non notare anche una certa critica nei confronti dei banchi ebrei (feneratizi), e

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Benedetta economia

Uno tra i primi Monti di pietà nasce nel 1462 a Perugia, dove il passaggio ad un sistema economico centrato sulla rendita economica stava allargando sempre più il divario tra ricchi e poveri. Il disagio che aumentava sempre più sollecitava risposte adeguate: in questo contesto fu istituito il primo Monte, alla cui origine troviamo il fondamentale ruolo di quattro figure dell’Osservanza francescana: Bernardino da Siena, Giacomo della Marca, Michele Carcano e Fortunato Coppoli. Nello Statuto del Monte di Perugia (al quale si rifanno gli statuti dei successivi Monti dell’Umbria), si afferma la volontà di operare per subventione et aiutorio de le povere persone… nelle loro estreme necessità. In esso, oltre allo scopo, si fa riferimento alla formazione del capitale e all’organizzazione dell’attività di prestito. L’organizzazione interna è molto semplice: un consiglio che controlla le attività, due ufficiali esperti nei settori della mercatura e del cambio, un depositario che governa i pegni ed eroga i prestiti. Il Monte di Perugia ha ispirato la fondazione e l’organizzazione di numerosi altri Monti in Umbria e più in generale nell’Italia centro-settentrionale. Esso è sopravvissuto, con alterne vicende, e attraversando molteplici difficoltà dovute al reperimento del capitale necessario, fino al 1972 quando è confluito nella Cassa di Risparmio. Accanto al Monte di pietà, a Perugia è nato anche il Monte frumentario, o “Monte del grano” che serviva per sostenere la popolazione agricola. I prestiti erano corrisposti in derrate di cereali per la semina, che a raccolto avvenuto venivano

della loro attività d’usura (va ricordato che gli ebrei potevano praticare l’usura ai cristiani perché il divieto d’usura presente anche nei loro libri sacri [nel Deuteronomio ad esempio] non si applica se il mutuatario è uno straniero, come lo erano i cristiani per gli ebrei). Va comunque notato che assieme alla condanna le stesse città cristiane invitavano banchieri ebrei, per la funzione essenziale che svolgevano, soprattutto nel credito commerciale.

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III. Francesco e la scuola francescana

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restituiti alle condizioni stabilite (a seconda del rendimento dell’annata). Oltre all’aiuto agli agricoltori, ai Monti frumentari sono state riconosciute funzioni di promozione e sviluppo dell’agricoltura e di regolazione dei prezzi di mercato, nei quali intervenivano con l’immissione di grandi quantità di grano durante momenti di raccolto scarso. Il censimento del Regno d’Italia, nel 1861, ha rilevato la presenza di ben 39 Monti frumentari nel circondario di Perugia. Così come per il Monte di pietà, i Monti frumentari di Perugia nel Novecento confluirono nelle Casse Rurali.

5. Banche per curare la povertà Quando in una città c’è un indigente, dicevano, è l’intera città che si ammala: occorre curare la miseria e l’indigenza! Da un carisma che diede occhi nuovi per vedere nei poveri non un problema ma una risorsa, ecco nascere addirittura delle banche, istituzioni fondamentali per lo sviluppo dell’economia civile nell’Umanesimo italiano 7. I francescani ebbero questa intuizione «finchè c’è un povero – un povero non per scelta ma perché subisce la povertà – la città non può essere fraterna». Questo concetto diventerà poi un tema fondamentale nel ’700 illuminista napoletano; si dirà infatti che la felicità è pubblica, perché o siamo tutti felici o non lo è nessuno. Nell’atto di costituzione del Banco di Ascoli (1458) troviamo una frase che sembra essere uscita dalla penna di un A. Sen o da un documento dell’ONU. Lì si dice che l’istituzione veniva istituita «per sostentare e alimentare i cittadini poveri di Ascoli e di altri luoghi, specialmente dei vergognosi e di co-

7 Sui Monti di pietà e sui dibattiti attorno all’usura nel Medioevo cf. anche Bruni e Zamagni (2004), oltre a Todeschini (2002).

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loro che arrossiscono e provano disagio nel cercare l’elemosina di porta in porta» 8. I Banchi esistevano già da tempo in Europa (soprattutto a Genova, a Venezia e nelle città a forte vocazione commerciale), e continuarono ad esistere e a crescere dopo i Monti, anche perché le due istituzioni si rivolgevano a pubblici diversi: ai mercanti i primi (con crediti alla produzione), alle famiglie e ai “poveri congiunturali” i secondi. Nell’individuare i beneficiari della nuova istituzione, fa notare la Muzzarelli (2006), per la prima volta si operò una distinzione fra i poveri più poveri e i poveri meno poveri. «Su questi ultimi, definiti “pauperes pinguiores”, il Monte o meglio la città operava un investimento, una sorta di scommessa: la città tutta aiutava costoro e tutti se ne aspettavano un beneficio. È la scoperta del valore anche economico della solidarietà attuata in questo caso attraverso il credito» (p. 3).

Il capitale di queste proto-banche etiche, che oggi trovano una continuazione ideale nelle varie forme di microcredito, o nelle banche rurali, si accumulava per mezzo di collette, sottoscrizioni, eredità, donazioni, depositi vincolati e questue. Il Monte di Recanati, uno dei primi, era retto da quattro ufficiali, uno per quartiere, con l’assistenza di due notai, che avevano il compito di tenere accuratamente i libri contabili delle entrate e delle uscite e di staccare le bollette dei pignoranti. Il valore dell’oggetto lasciato in pegno doveva superare di almeno un terzo la somma di denaro, e se alla scadenza il prestito non veniva restituito il pegno veniva venduto in aste periodiche. Il denaro «si conservava in una cassa chiusa con

8 In

Fabiani (1942, p. 37), di lui è anche la traduzione del testo dal la-

tino.

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III. Francesco e la scuola francescana

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tre chiavi, una delle quali era tenuta dai priori, la seconda dagli ufficiali e la terza dai notai. Si richiedeva che i pegni fossero idonei e che venissero ritirati ogni sei mesi» (Fabiani 1942, p. 45). I pignoranti dovevano giurare di essere veramente bisognosi, di prendere il denaro per sé e non per altri e non potevano aver credito per più di una volta l’anno. I prestiti erano obbligatoriamente di piccola entità (oggi diremmo microcredito), in modo da arrivare a più persone possibile. Nel contratto per la stipulazione di un Monte ad Ascoli (siamo ormai nel 1589) leggiamo altri particolari del loro funzionamento che risultano di particolare interesse: «essendoche di raggione, natura e pietà l’huomo sia più obbligato a sovvenire per li Compatriotti che altri estranei, però vuole che li poveri Cittadini di Ascoli siano al prestare preferiti non solo alli poveri estranei, ma anche alli poveri dello Stato della città d’Ascoli, et indi poi vuole anco siano preferiti i Contadini poveri del nostro Stato all’altri poveri d’estranee giurisdizioni» (cit. in Fabiani, 1942, p. 185).

6. Povertà e sussidiarietà È dunque la città, l’essere cittadini, il legame di reciprocità sul quale si fonda la riflessione su prestiti, interessi e restituzione. Inoltre in questa frase vi è affermato in nuce quel principio di sussidiarietà che nei secoli successivi diventerà uno dei principi base della dottrina sociale cristiana, e oggi dell’Europa. Interessante notare che all’articolo 7 dei “capitoli aggiuntivi”, sempre in quel contratto si legge che «il Montista non possa imprestare in modo alcuno… sopra armi di qualunque sorte si siano» (ibid., p. 187). Inoltre, i Monti svolgevano altre funzioni ausiliari, tra cui provvedere le doti per le spose povere, «tollere inimicitie,

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mettere pace, tollere discordie in cause civili et criminali», e anche adattarsi a «fare da paraninfi fungendo da mediatori tra famiglie per matrimoni» (ibid., p. 54) 9. Parlare quindi di interesse e usura nel Medioevo sganciando quei dibattiti dal contesto civile fondato sul principio di reciprocità significa restare alla soglia della comprensione di quelle antiche dispute 10. I Monti di pietà non furono accolti da tutti solo con entusiasmo e lodi; in particolare per quanto riguarda gli interessi e il rimborso spese di chi vi lavorava, anche nello stesso ambito francescano, tanto che i francescani ne discussero in un Capitolo, nel 1493. Nell’assemblea, da una parte c’era chi proponeva che l’amministrazione non dovesse tenere nulla, neanche una minima quota, ma questo modo di vedere era già stato causa del fallimento di alcuni Monti. Altri, con Bernardino da Feltre in testa, proponevano che si dovesse applicare un piccolo tasso di interesse per lo stipendio di chi lavorava nel Monte. La questione fu discussa ampiamente, anche nei vari conventi, e nel 1498 si stabilì che era lecito e anche necessario esigere un modesto tasso di interesse. Nel 1515 su tale questione arrivò anche l’approvazione ecclesiastica: 9 La storia dei Monti di pietà meriterebbe spazio ben più ampio rispetto a quello che possiamo dedicargli in un libro, come questo, che non è di storia economica. Si pensi ad esempio a Muratori, il padre della pubblica felicità (1749), che dedicò ampia parte di uno studio sull’amore cristiano alla povertà e un capitolo (il XXXV) ai Monti di pietà, incoraggiando le città che ne erano ancora sprovviste a fondarli (Sulla carità cristiana, pubblicato in francese nel 1745 e postumo in italiano nel 1751), e mettendo in luce l’importanza della funzione da loro svolta (concedere credito a basso costo) per la pubblica felicità. 10 Cf. ad esempio Wood (2002), un lavoro, accademicamente rigoroso, che però inquadra l’economia medievale, l’atteggiamento verso la ricchezza e la povertà, l’usura, senza far alcun riferimento al principio di reciprocità.

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III. Francesco e la scuola francescana

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«Con l’approvazione del sacro concilio, dichiariamo e definiamo che i suddetti Monti di pietà costituiti dalle pubbliche autorità e finora approvati e confermati dalla sede apostolica, nei quali si esiga, oltre il deposito, un modesto compenso per le sole spese degli impiegati e di quanto è necessario per il loro mantenimento, senza un guadagno per gli stessi Monti, non presentano nessun male specifico, né costituiscono incentivo al peccato. Essi non possono in alcun modo essere condannati, ma al contrario un tale tipo di prestito è meritorio e deve essere lodato e approvato, né deve essere assolutamente considerato come una usura» (Concilio Lateranense V, Bulla Inter Multiplices, in Riccardi 2006, p. 75).

Ci piace chiudere questo capitolo con una lauda scritta da un anonimo in volgare umbro quattrocentesco in onore di san Bernardino da Feltre 11: O grande piculino, del mondo gran stupore, o beato Bernardino, eleto dal Singnore, de spirituale odore, de celo e caritade, e d’onne santitade fontana sei chiamato. Ne l’alta religione de’ poveri mendicanti Sansa nula tardatione cresisti senpre ennanti. Con soma devozione li Monti de la Pietade, de’ poveri sovvenzione, levasti nella ciptade, ché la gran caritade c’avisti alli fratelli patre de li poverelli te fece esere chiamato…

11 Il testo è tratto da Francesco Cantucci, in Monti di pietà e Monti frumentari, Cassa di risparmio di Foligno 2006.

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Il principio carismatico dell’economia di mercato

IV. I carismi, l’economia e le sfide dell’oggi

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«Vedo l’umanità con l’occhio di Dio che tutto crede perché è Amore. Vedo e scopro la mia stessa Luce negli altri, la Realtà vera di me, il mio vero io negli altri (magari sotterrato o segretamente camuffato per vergogna), e, ritrovato me stesso, mi riunisco a me risuscitandomi – Amore che è Vita – nel fratello». (C. Lubich, La Resurrezione di Roma)

1. Per una nuova cultura del lavoro alla luce dei carismi In questo capitolo conclusivo vogliamo provare a delineare alcuni cambiamenti nell’attuale cultura del lavoro che nascono naturalmente quando prendiamo sul serio i carismi di Benedetto e di Francesco, e, più in generale, il messaggio che i carismi cristiani rivolgono oggi all’economia e al lavoro 1. La principale idea-forza che l’economia carismatica rivolge al mondo del lavoro è la seguente: lavoriamo veramente quando il destinatario della nostra attività lavorativa libera è “un altro”. Una tesi, questa, diretta conseguenza dello stretto legame tra carisma, gratuità e agape. Se, infatti, l’attività lavorativa è attività umana e se l’umano è davvero tale quando è amore, quando si dona agli altri, allora lavoriamo davvero quando la nostra attività è espressione di amore. Di conseguenza questo “lavorare per”, o con gratuità 2, può essere visto co1 In questo paragrafo il nostro riferimento è anche l’esperienza e la cultura di una “economia di comunione”, nata dal carisma dell’unità del Movimento dei Focolari. Non a caso Chiara Lubich era terziaria francescana ed intuì una nuova economia di comunione contemplando dell’abbazia benedettina di Einsiedeln in Svizzera (anni ’60). Sull’Economia di comunione cf. Bruni (2006). 2 Ci può essere un lavorare “per” non mosso da gratuità ma solo strumentale.

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IV. I carismi, l’economia e le sfide dell’oggi

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me la condizione necessaria (sebbene non sufficiente) per poter parlare di lavoro dalla prospettiva che qui adottiamo. Ecco, allora, perché non è lavoro l’attività del bambino che gioca per sé; come non è lavoro l’hobby, mentre è lavoro (attività lavorativa) quello della casalinga, o quello del volontario. Mentre se un bambino dà vita ad una azione “per i poveri”, non sta semplicemente giocando, ma svolge pienamente una attività lavorativa (come molti hanno intuito quando definiscono il gioco il “lavoro del bambino”; e come, d’altra parte, il lavoro dell’adulto può diventare solo il suo modo di giocare, invece di lavorare, come vedremo). Il lavoro, così, diventa esperienza umana fondamentale e fondativa, come fondamentale e fondativo è l’amore. Si capisce poi che il lavorare “per” ha molte dimensioni. Innanzitutto non è solo un lavorare per “te” che mi sei di fronte, che vedo, e con cui ho un rapporto personale. Significa anche lavorare per “lui” o “egli” che non vedrò mai magari, e che non saprò neanche riconoscere qualora lo incontrassi, perché, magari, è quel paziente che utilizzerà il laboratorio della mia clinica, o il cliente che consumerà quel determinato prodotto. Non sarebbe, pertanto, un lavorare come amore l’esperienza di chi in un’azienda ospedaliera o in un ambulatorio è gentile e disponibile con i propri colleghi e con i pazienti, ma non cura la qualità tecnologica dei propri lavoratori o che non aggiorna le attrezzature. Sarebbe quantomeno un lavorare immaturo. Infine, se lavoro “per”, lavoro anche per “me”, ma come ritorno, come reciprocità di quell’“amor che a nullo amato amar perdona” (Dante, Inf. 5), di un amore-agape che, in modi a volte misteriosi, mi torna indietro come ricchezza, come “centuplo”, anche personale. La struttura di reciprocità messa in atto dall’amore-agape-gratuità-carisma ha più grammatiche. Non c’è solo la reciprocità diretta: A-B; B-A; c’è anche la reciprocità indiretta, che può avere più registri: A-B-C, ma anche A-B, C-D, oppu-

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re A-B, C-A (quando il mio atto di gratuità verso un B che “non reciproca” mi torna da un terzo soggetto, C). Raramente – e questo è un portato diretto dell’esperienza anche di chi scrive – un autentico atto di gratuità resta nel tempo senza risposta, o viene “sprecato”: esso costruisce sempre la comunità, ma segue strade varie e diverse. Se prendiamo, allora, questo criterio 3 per definire che cosa sia il lavoro (“lavoro per te, per lui”, e quindi anche “per me”), allora ci rendiamo conto che vanno ripensate, e in parte ribaltate, diverse cose. Innanzitutto, viene meno, come distinzione fondamentale, quella tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, quella tra operaio, impiegato e imprenditore. Se l’imprenditore lavora genuinamente “per” qualcun altro (per le persone che lavorano con lui nell’impresa, per i clienti, per il bene comune…), lavora veramente; se, invece, non lavora per qualcun altro ma solo per il proprio interesse o per i suoi profitti, allora coerentemente dovremmo dire che non lavora, ma pratica un hobby, o gioca (magari “alla guerra”), o si diverte, ma non possiamo chiamare la sua attività propriamente “lavoro”. Se partiamo dall’amore capiamo poi bene perché il lavoro è davvero, come dice H. Arendt (1997), attività sociale: è sociale perché prima è umana, e dire umanità è dire amore (non solo semplice “socialità” – anche molti animali sono sociali – ma quantomeno “reciprocità”). E, d’altra parte, se l’operaio, il manager, il professore o l’idraulico, non lavorano “per” qualcun altro ma semplicemente per guadagnarsi da vivere “tramite” il lavoro che fanno “per” gli altri (qui la proposizione “per” ha un uso ben diverso dal precedente), allora dovremmo dire che queste persone non stanno veramente lavorando, almeno se-

3 Ovviamente questa è solo una proposta di definizione, senza voler escludere o bocciare altre definizioni di lavoro.

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condo una prospettiva carismatica. Si inizia dunque a lavorare veramente quando si lavora per qualcuno. È questa la vera dignità del lavoro, ciò che ne fa un atto di partecipazione all’attività creatrice di Dio 4. Lavoriamo davvero quando ci dimentichiamo di noi e dei nostri interessi e ci doniamo agli altri 5. Allora, da questa prospettiva, si può lavorare pienamente anche quando manca la libertà, la dignità, l’amore attorno noi. Lavorare diventa davvero atto redentivo per noi e per gli altri. Quando Olivier Messiaen ha composto “per amore” nel 1941 in un lager il suo meraviglioso Quartetto per la fine dei tempi, e quando lo ha eseguito in una baracca con altri quattro detenuti per gli altri detenuti, queste cinque persone hanno fatto una esperienza altissima di lavoro, che ha trasformato, in quei momenti, l’inferno del lager in un pezzo di paradiso. Inoltre, se il lavoro è amore, se è tendenzialmente dono, anche la remunerazione del lavoro può e deve essere intesa come dono: il salario o lo stipendio non può, e non deve, misurare il valore di un lavoratore, ma essere un premio, un contro-dono. L’attività umana, soprattutto quando è vissuta come amore, non può essere “prezzata”, ma solo riconosciuta e ringraziata. Perché non considerare ogni stipendio di chi lavora come espressione di dono, come una risposta, come un incontro di doni? Molta della qualità della vita nelle nostre economie dipende dal leggere il denaro come “un prezzo” o come

4 Quando e come crea Dio? Donandosi eternamente nella Trinità, morendo per gli Altri, per il mondo, per noi. O, come diceva il grande poeta Hölderlin: «Dio crea l’uomo come il mare crea i continenti: ritirandosi». O, con le parole di Chiara Lubich: «creando morì (d’amore), morì in amore, e perciò creò» (inedito). 5 Ciò non significa rinunciare a diritti o al salario o essere altruisti: l’amore, inteso come agape, è un concetto molto più ricco ed esigente del semplice altruismo, perché è sempre reciprocità. È interessante notare che il comando proprio e nuovo di Gesù è un invito rivolto ai suoi discepoli come realtà plurale: «amatevi gli uni e gli altri».

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“un premio”. Se trasformiamo tutti i valori in prezzi, soprattutto in contesti dove contano molto le motivazioni, rischiamo di impoverire molto il mondo del lavoro. È anche questo il messaggio che i carismi di Benedetto e di Francesco, insieme ai grandi carismi della Chiesa, rivolgono oggi al mondo del lavoro e dell’economia. Ma c’è ancora qualcosa da dire, e altre sfide da delineare, affrontare e possibilmente vincere.

2. Tre sfide decisive Vogliamo concludere facendo riferimento a tre sfide specifiche che, a detta di chi scrive, si pongono oggi al cuore delle esperienze carismatiche nell’età della globalizzazione, e in un modo sempre più secolarizzato e addormentato dalla civiltà dei consumi. La prima sfida, che è quella forse più ovvia, ha a che fare con il carisma stesso. Un’economia che nasce da un carisma e perde per strada il carisma ovviamente si avvia all’estinzione. Oggi è forte la tendenza nel mondo delle realtà di economia carismatica a voler diventare tutte delle imprese sociali. La sfida più impegnativa, però, non è diventare “impresa” (questa è una tendenza naturale, che si apprende facilmente: bastano qualche buon corso di management, e alcune innovazioni organizzative), quanto piuttosto rimanere realtà “carismatica”: cioè non pagare l’imprenditorialità con la moneta del carisma. Una esperienza di economia carismatica (pensiamo, ad esempio, ad una scuola di un ordine religioso) che rinuncia allo specifico del carisma per restare sul mercato, può andare avanti qualche anno, ma nel tempo è destinata alla morte (come esperienza carismatica). Ecco perché gli Ordini religiosi, ad esempio, debbono saper riscoprire i fondatori, perché è lì che c’è l’intuizione, la scin-

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tilla ispiratrice, che senza dubbio va attualizzata e modernizzata, se però si perde quella scintilla, nel tempo si perde tutto. Nel momento in cui si diventa impresa sociale, la sfida più impegnativa è non perdere lungo l’evoluzione (necessaria) la nota tipica di quello specifico carisma. E qui il passaggio cruciale è quello dell’investimento in formazione, in particolare per chi si accosta ex-novo all’esperienza di economia carismatica, perché possa comprenderne il valore e l’importanza, ma soprattutto possa sentirsi coinvolto fin da subito nella sua mission. Una seconda sfida, legata alla prima, ha a che fare con l’apertura al mercato, dovuta al passaggio generazionale o alla diminuzione di vocazioni 6. Occorre attribuire un’importanza estrema al passaggio generazionale, quando la generazione che ha fondato un’esperienza di economia carismatica o che l’ha ereditata direttamente dai fondatori, deve a sua volta passarla a una generazione che non ha condiviso l’esperienza fondativa. È possibile che in questa trasmissione si perda l’essenziale, e ritrovarsi così con ospedali o scuole efficientissimi, ma che non hanno più nulla a che fare con il carisma del fondatore, e che quindi nel tempo si estinguono, o diventano soltanto un’istituzione. Come attrarre, allora, dei lavoratori o dei manager di ospedali, di scuole, che abbiano almeno un po’ di “vocazione”, che condividano le linee portanti e lo stile del carisma? Sono sempre possibili due errori, o due tentazioni. La prima tentazione è quella di dire: «non diamo nessun incarico di responsabilità a chi non è dei nostri», quindi «meglio morire

6 Intendiamo qui per “vocazioni” la presenza di persone idealmente motivate interne all’organizzazione dell’economia carismatica. In caso di organizzazioni religiose possono essere suore o frati, nelle organizzazioni civili sono quelle persone che appartengono all’organizzazione anche per motivi ideali.

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che contaminarsi»: in questo caso non si perde l’identità ma si perde nel tempo l’opera. C’è però anche un secondo errore, forse più frequente del primo, che può essere così espresso: «non andiamo tanto per il sottile, abbiamo bisogno di dirigenti, prendiamo quelli che ci passa il mercato! Non stiamo a preoccuparci più di tanto che condividano gli ideali che hanno fatto nascere questo ospedale, purché siano ben formati, vengano da una buona scuola di amministrazione, possiamo lasciare da parte la dimensione ideale». Anche questo può essere un errore mortale. La vera scommessa è navigare tra questi due scogli. C’è, per esempio, una teoria economica che si occupa di queste tematiche, e studia le tecniche per attrarre in ospedali, scuole, professori e dottori che hanno la “vocazione”, che attribuiscono un certo valore intrinseco a quella attività, e non la svolgono solo per il denaro. La teoria economica da alcuni anni inizia ad occuparsi di tali dinamiche, e arriva sostanzialmente alla seguente conclusione: «se vuoi un lavoratore con vocazione, pagalo un po’ di meno del salario di mercato», poiché (se non c’è disoccupazione) e una persona accetta uno stipendio più basso sta dicendo all’impresa che colma quella differenza retributiva con la soddisfazione intrinseca che gli dà quel dato lavoro. Se invece offriamo il salario di mercato, non possiamo capire se una data persona ha o non ha motivazioni intrinseche (senza ricorrere ad altre informazioni). Un’economista femminista americana, Julie Nelson 7, sostiene a questo riguardo che questa teoria del “pagar meno” per selezionare le vocazioni è una legittimazione teorica del fatto che i mestieri con vocazione (assistenza, docenti, cura) devono essere sottopagati. E siccome spesso questi mestieri sono svolti dalle donne, allora, con-

7 Cf.

Folbre e Nelson (2000), Nelson (2005).

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tinua la Nelson, gli economisti giustificano, anche teoricamente, una sorta di maschilismo mascherato dalla scienza. Non bisogna quindi accettare, dice lei, che il lavoro “a vocazione” sia pagato “per principio” di meno, perché altrimenti si legittima lo sfruttamento di alcune fasce della popolazione più deboli. Che cosa fare allora? La nostra proposta in questi casi non è pagar di meno, ma pagare diversamente 8, in modo che l’altro si senta apprezzato, stimato e pagato diversamente, con degli incentivi diversi da quelli solo monetari, di tipo simbolico o ideale. Nel mondo carismatico attrarre persone con vocazione vuol dire trovare dei meccanismi – non semplici, ma che si possono trovare – che attraggono persone che hanno motivazioni intrinseche per quel tipo di lavoro. Il principale meccanismo è l’autoselezione. Se una persona vede un’istituzione ideale, carismatica, coerente con i valori che professa, se si candida vuol dire che almeno in parte condivide quella visione dell’economia e della vita. Occorre, però, che l’impresa abbia un messaggio molto chiaro sulla sua identità: deve essere evidente che l’impresa è ideale. Se allora vengono forniti dei segnali chiari i candidati si auto-selezionano. Dalla teoria economica sappiamo che il segnale dato attrae un tipo di persona o un’altra. Se un’impresa dà molta importanza al denaro, attrarrà persone che danno molta importanza al denaro. Oggi, i “peggiori” manager (dal punto di vista valoriale) sono attratti spesso dalle multinazionali perché chi si candida è un soggetto a cui interessano molto i soldi e che magari, davanti ad un conflitto relazionale, è assolutamente incapace di risolverlo. Ottimi manager vanno sempre più a lavorare nelle ONG, all’ONU, all’UNICEF, perché le persone motivate non solo dal denaro vanno in cerca di organizzazioni che danno segnali di vocazione alta.

8 Su

queste tematiche vedi Bruni e Smerilli (2006, 2007b).

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Possiamo dunque concludere che una organizzazione carismatica va in crisi quando abbassa gli standard ideali e valoriali. Se per attrarre vocazioni si abbassano gli standard ideali, si inizia infatti ad attrarre persone di basso livello ideale e vocazionale: questa è una legge economica fondamentale, quella della selezione avversa. Se un giorno, per un esempio limite, un ordine religioso dovesse iniziare a pagare alti salari o a fare offerte per attrarre suore e missionari, avrebbe dei pessimi missionari e suore. L’unico modo per avere le persone migliori è offrire alte remunerazioni ideali e simboliche. Il segreto di molta parte dell’economia carismatica è proprio il sapere attrarre persone di valore che condividono gli ideali che questa economia incorpora. Se queste organizzazioni cambiassero politica abbassando gli standard ideali e magari alzando solo la professionalità, nel tempo attrarrebbero persone via via di qualità ideale sempre più bassa. Per di più, un ulteriore rischio è che, abbassando gli standard, non solo non si attraggano persone di valore, ma nello stesso tempo le persone che vivono dentro l’organizzazione possano man mano affievolire il senso di appartenenza, non identificandosi più con il “nuovo stile”. Allora, una parte di esse potrebbe lasciare l’organizzazione. Altre persone, magari con meno coraggio, rimarrebbero, ma senza coinvolgersi nella mission. Tutto questo porterebbe al collasso dell’esperienza di economia carismatica 9.

3. La sfida delle reciprocità E infine una terza sfida. Abbiamo parlato della reciprocità come uno dei principi fondativi dell’economia carismatica: ma quale reciprocità? Abbiamo aperto questo saggio parlan-

9 Su

queste tematiche vedi Bruni e Smerilli (2006).

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do dell’amore e delle sue tre forme (eros, philia e agape), e con questo stesso tema vogliamo terminarlo. L’amore è, al tempo stesso, uno e molti. L’amore è amore erotico, amore amicale, amore agapico. Contrapporre eros a philia o ad agape significherebbe indirizzare l’esistenza umana verso un sentiero senza felicità. L’amore dell’eros è amore di desiderio. L’amicizia è una forma di amore che ama se riamato, anche se più gratuita dell’eros. L’agape è invece l’amore che continua ad amare anche quando non è riamato. La philia perdona fino a “sette volte”, l’agape fino a “settanta volte sette”. L’agape, come la gratuità, non è solo o primariamente un “fare”, ma è un “essere” (spesso l’agape comporta ascolto e silenzio, non fare o dare qualcosa, è più passività che attività). Amori diversi, dunque, ma sempre amore, sebbene l’eros e la philia siano sempre soggetti alla tentazione della chiusura, se non toccati e aperti dall’amore agapico; al tempo stesso, il dono dell’agape è amore sostenibile e pienamente umano se ha la passione e il desiderio dell’eros, e la libertà della philia. Dall’amore passiamo, per analogia, alla reciprocità. Come l’amore, anche la reciprocità, allora, è una, perché è sempre un dare e un ricevere, ma le forme della reciprocità sono molte. La prima forma di reciprocità è quella del contratto che ha una forte analogia con l’eros: entrambi nascono dal desiderio e non hanno bisogno di gratuità. Un fondatore carismatico, dopo aver dato vita ad una realtà carismatica, pensa subito ad una regola – e la regola è un contratto che, in quanto tale, anche se nasce dall’agape, è estremamente condizionale. Non di meno, la regola è una forma co-essenziale di reciprocità, è altamente amore cristiano, perché serve sia la philia che l’agape. Pensiamo alla regola di Benedetto: ha fatto sì che il carisma di Benedetto durasse nei secoli producendo philia e agape. E quanto tempo, lavoro, sforzo ha impiegato Francesco per scrivere una regola che corrispondesse pienamente all’intuizione

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che lo aveva folgorato e all’esperienza che era andato intessendo con i primi frati. E questa regola è stata di aiuto, o per alcuni “falsi profeti” di ostacolo nei momenti cruciali e decisivi della storia dell’Ordine francescano. Israele ha fatto un patto con Dio, un contratto; la struttura della Legge è quella di un patto fra nazioni, dove si dà e si riceve condizionalmente. Anche l’economia carismatica ha bisogno della reciprocità del contratto. Il secondo tipo di reciprocità è quella dell’amicizia. L’economia carismatica conosce anche la relazionalità della philia, soprattutto declinata come mutualità. L’intero movimento cooperativo e l’associazionismo, di ieri e di oggi, si è definito attorno ai principi fondativi della mutualità e dell’amicizia; ma anche le imprese più normali (o “capitalistiche”) non potrebbero crescere e durare se in certi contesti e momenti della dinamica organizzativa i componenti dei gruppi di lavoro, degli uffici o dei dipartimenti universitari non sperimentassero forme di amicizia che li portano ad andare oltre ciò che prevede il contratto, a perdonare o a dire grazie, ad esempio. La philia è diversamente o se vogliamo “meno” condizionale del contratto, ma resta ancora una forma di amore condizionale (se l’amico non risponde cessa nel tempo di essere amico). Il terzo tipo di reciprocità, quella agapica, la potremmo chiamare una reciprocità incondizionale. La Chiesa è la nuova legge della comunità che si raccoglie attorno all’agape, è il “comandamento nuovo”, che è faccenda, al tempo stesso, di agape e di philia. Il Dio che Gesù di Nazareth rivela è in sé comunione, reciprocità, essendo nella sua stessa natura persone-in-relazione (Trinità). La gratuità agapica può rinunciare a ogni forma di condizionalità, ma non può rinunciare alla reciprocità. Siamo convinti che una esperienza di economia carismatica non è matura, equilibrata e quindi non può svilupparsi armoniosamente nel tempo, fedele al suo carisma-vocazione, se non vive le tre forme di reciprocità: del contratto, dell’amicizia e l’agapica.

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IV. I carismi, l’economia e le sfide dell’oggi

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4. Le patologie della reciprocità nelle esperienze carismatiche 4.1. Un semplice prodotto In questa ultima sessione vogliamo proporre una ipotesi: le tre forme della reciprocità si manifestano, nelle realtà storiche, non come una somma, ma come un prodotto, del tipo: Documento acquistato da () il 2023/04/13.

R = C (contratto) x A (amicizia) x G (agape). Se una di queste componenti è assente, cioè assume un valore pari a zero, tutto il prodotto (il valore della reciprocità) si annulla. Può, infatti, un’economia carismatica, realtà quindi che nasce da un carisma, durare se non ha dei buoni contratti con dipendenti, clienti, e se non si basa su un forte e solenne patto comunitario, su un contratto? Il fondatore scrive la regola perché sa che senza una regola i suoi successori non potrebbero vivere il carisma, che quindi sarebbe destinato a morire. Infatti, se un’impresa (o una comunità) non ha delle regole ben scritte, quando ha dei conflitti non riesce a risolverli, e quindi non cresce bene e nei casi peggiori l’esperienza termina. Va notato che il mondo carismatico ha una naturale tendenza a non valorizzare i contratti, e a vederli in conflitto con l’amore gratuito, e, in generale, a contrapporre le tre forme di reciprocità che abbiamo indicato 10. Noi siamo invece convinti che occorra avere una visione del contratto come una forma potenzialmente di amore, come reciprocità, che rende un rapporto più duraturo e robusto nel tempo. Un rapporto non regolato da contratti è in balia degli abusi di potere (anche fatti in 10 Non

è raro, davanti a proposte di formalizzazione di alcune prassi o attività, sentirsi rispondere da membri di organizzazioni carismatiche: «ma noi non siamo un’azienda, noi siamo altro».

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buona fede), degli eventi, delle cattiverie degli altri. Basti pensare che dai Monti di pietà di Francesco, al microcredito di Yunus, i poveri sono liberati non da regali incondizionali, ma da contratti. Chi vede, quindi, le “regole del gioco” come contrarie all’amore alla fine finisce per alimentare, magari senza volerlo, i conflitti. Occorre poi valorizzare l’amicizia nelle esperienze carismatiche. Come e perché? Nelle organizzazioni la philia si traduce in pratiche di governance democratiche e partecipative, in coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni, e in equità nel disegno delle regole e dei premi, crea lo spirito di famiglia. Questo permette che il senso di appartenenza dei membri si mantenga alto, contribuendo così anche a tenere elevata la qualità ideale e al tempo stesso l’efficienza. Si potrebbe obiettare che una governance partecipativa allunghi i tempi delle decisioni, e questo rallenti di conseguenza il lavoro di tutti. Crediamo che, sebbene si debba vigilare su quest’aspetto, non bisogna cedere alla tentazione di un’organizzazione più verticistica. Il risultato sarebbe un abbattimento della qualità ideale, del coinvolgimento dei membri e quindi, come abbiamo detto precedentemente, si arriverebbe così alla difficoltà di attrarre nuovi membri motivati. La terza forma, l’agape, è poi come il sale, o il lievito. Se un’impresa carismatica perde gratuità si estingue, e può essere solo “gettata via” perché inutile alla dinamica civile e al bene comune. Facciamo un ultimo passaggio. Ogni riduzionismo da tre a due forme di reciprocità rappresenta una patologia nell’economia carismatica. 4.2. Il modello “utopico” Il modello A-G (reciprocità senza contratti), potremmo chiamarlo “utopico”: cade in questa malattia organizzativa chi

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pensa che nelle esperienze carismatiche le regole e i contratti non servano o siano addirittura dannose: «a noi basta essere un gruppo di amici, e vivere la gratuità». Non si scrivono regole formali, non si fanno patti vincolanti, al limite non si fanno neanche contratti regolari con i dipendenti. Questa “malattia” produce nel tempo conflitti mortali proprio per la mancanza delle regole che li possano prevenire, e per una sotto-valutazione degli istinti anti-sociali (o peccati) che anche persone carismatiche presentano. Un tipico problema di questa prima patologia è la crisi, con i relativi conflitti, dovuti al permanere al governo per troppi anni della prima generazione. La mancanza di regole sul governo e sulla governance (per quanti mandati si può essere rieletti al governo? A quanti anni si va in pensione? ecc.) determina una progressiva decadenza dell’efficienza del governo della comunità, la perdita della capacità di comprendere i nuovi segni dei tempi, di restare giovani (una realtà carismatica se non è giovane non è più tale!), la sclerosi decisionale, ecc. Prevedere, invece, le regole del gioco al tempo opportuno fa sì che non si cada, senza volerlo, in queste forme di patologie. Questa dimensione contrattuale, se si vuole, è una dimensione più istituzionale (e meno congeniale al carisma puro), e che testimonia la necessità del dialogo continuo tra carisma e istituzione in ogni realtà che vuole durare nel tempo e restare fedele alla propria ispirazione ideale. In queste pagine abbiamo parlato molto dell’importanza e della co-essenzialità dei carismi per la vita civile. Anche se affidata a queste poche battute, vogliamo riconoscere qui l’importanza co-essenziale delle istituzioni, che fanno sì che lo spirito del carisma possa vivere, crescere e durare nel tempo. Senza carismi, e con sole istituzioni, la vita è triste e alla lunga invivibile. Al tempo stesso, non è sostenibile neanche una vita in comune affidata al solo tocco carismatico, senza le opportune mediazioni delle istituzioni. Ecco perché carisma e istituzione non sono in conflitto (per la stessa ragione per la

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quale non abbiamo opposto eros ad agape, contratto a dono), ma in rapporto di complementarità. Gli ideali nascono da persone carismatiche, ma durano nel tempo grazie alle istituzioni (che, a loro volta, vanno sempre rinnovate e sottoposte alla critica vitale dello spirito carismatico).

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4.3. La patologia “paternalista” La seconda patologia è quella del modello: C-G (assenza dell’amicizia), che possiamo chiamare “paternalista”. In queste organizzazioni, il carismatico (il fondatore) non si preoccupa di creare la fraternità con tutti i compagni di viaggio, ma gli basta avere dei segretari o esecutori materiali, che eseguono le sue direttive. Magari attribuisce importanza al contratto, scrivendo però regole che fotografano il suo paternalismo. Il grave sintomo di tale patologia è la crisi, spesso mortale, che l’organizzazione vive quando il fondatore lascia o muore, poiché diventa estremamente difficile costruire ex-novo una governance dopo che i primi collaboratori del fondatore sono stati abituati ad essere solo esecutori, e non creativi. Una possibile soluzione in questi casi consiste nel saltare interamente una generazione, e dare in mano la realtà carismatica ad una nuova classe dirigente, che può rivelarsi più creativa e innovativa della prima generazione.

4.4. La malattia del disincanto Infine, il terzo modello patologico è del tipo: C-A (senza agape), il modello “disincantato”. Questo rischio è quello più subdolo, poiché ha un lungo periodo di incubazione: senza contratti e amicizia i problemi vengono presto al pettine, e l’organizzazione accusa subito varie forme di malessere. La gratui-

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IV. I carismi, l’economia e le sfide dell’oggi

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tà, invece, soprattutto nelle realtà carismatiche mature e consolidate, può venire meno, può scomparire un po’ alla volta, senza che gli attori di tali esperienze ne siano coscienti. Si può andare avanti a lungo senza gratuità, sentendosi perfettamente a posto, per esempio perché ci si sente efficienti. Essendo questa dimensione la meno visibile in pratiche oggettive (come le regole e la governance), ma legata ad atteggiamenti, sentimenti, parole…, è difficile da “monitorare” con gli strumenti organizzativi. Che fare? Ci sono degli indicatori che segnalano una crisi di gratuità? Un indicatore importante è la diminuzione di volontariato e di gratuità nelle persone attorno all’organizzazione: se una realtà inizia a perdere volontari, la prima domanda che deve farsi è la seguente: «che cosa sta accadendo alla nostra cultura, al nostro carisma?», quasi sempre una dimunizione di gratuità negli altri è effetto di una diminuzione di gratuità all’interno dell’organizzazione. Un secondo indicatore è la diminuzione delle nuove vocazioni, e la diminuzione della qualità delle poche che arrivano: la diminuzione di idealità-gratuità attira persone meno sensibili ai valori alti del carisma. Un terzo indicatore è l’assenza o la dimunizione della dimensione della festa e della gioia: quando in una organizzazione non si fa più festa e non c’è la gioia di vivere mentre si lavora, è la gratuità che soffre. Infine, un importante indicatore di “malattia” della gratuità-agape è il non riuscire più ad ascoltare il grido dei poveri: quando accade questo, la crisi è ormai molto avanzata. Dove il carisma è vivo i poveri sono visti, ascoltati, accolti: sono di casa! Dove non c’è più, o è in grave calo, il povero diventa un problema da cui immunizzarsi 11. 11 Allo stesso modo, quando si comincia a ragionare troppo su “chi” sono i poveri, per poter giustificare tutte le attività esistenti e con la paura di aprirsi al nuovo, è sempre la gratuità che si affievolisce, e con essa il coraggio della novità.

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Il principio carismatico dell’economia di mercato

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Conclusione Per una società dell’“e basta” Il principale obiettivo che ci siamo proposti quando abbiamo iniziato a scrivere questo breve saggio era mostrare l’importanza di saper vedere, capire e valorizzare il ruolo dei carismi per la vita economica e civile. Il lettore dirà se abbiamo raggiunto, e in quale misura, questo ambizioso obiettivo. Due cose sono per noi certe al termine di questo lavoro: scrivere queste pagine è stata un’avventura intellettuale, spirituale e… carismatica appassionante; in secondo luogo, siamo sempre più consapevoli dell’urgenza, intellettuale e civile, di raccogliere, scrivere e far conoscere al mondo la “storia carismatica dell’economia”: queste nostre poche pagine vorrebbero essere solo un’introduzione, un capitolo o un paragrafo di una grande opera che chi ama i carismi, la gratuità e l’agape vorrebbe presto vedere venire alla luce. Un’ultima considerazione, prima di dare la parola a due ospiti, ai quali affideremo la conclusione di questo racconto. Ne eravamo convinti prima di iniziare l’avventura di questo libro, e lo siamo ancora di più ora che siamo giunti alla fine: non c’è vita buona, nella sfera privata come in quella pubblica, senza gratuità. E non c’è gratuità senza carismi. È questa la ragione per la quale l’indigenza di una società, come la nostra, che emargina i carismi (dalla politica, dall’economia, dai mass media…) è soprattutto indigenza di gratuità, carestia di un tocco umano che sia fine a se stesso, carestia di gente che ci incontra e ci avvicina perché interessiamo come persone. E basta. Ai quali interessiamo anche quando non siamo “portatori di interessi” (stakeholders), né clienti, né fornitori, né sani, né ancora nati, magari malati terminali; anche se non siamo meritevoli (che tristezza una società della meritocrazia! È persino peggiore di una dove al merito non è riconosciuto il suo giusto posto).

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Conclusione. Per una società dell’“e basta”

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Gente, animata da carismi, a cui interessiamo perché siamo degli esseri umani, e basta. Un “e basta” che la società della ricerca del profitto, dell’efficienza e del merito, non conosce più. Queste persone nuove nel suo ultimo libro J. Attali (2008) le chiama “i transumani”. Lui non pensa ai carismatici, ma in realtà sono loro, persone che, secondo Attali, tra una sessantina di anni, e dopo grandi conflitti e crisi, ridaranno l’umano all’uomo: «I transumani metteranno in piedi, accanto all’economia di mercato in cui ciascuno si misura all’altro, un’economia dell’altruismo, della disponibilità gratuita, del dono reciproco, del servizio pubblico, dell’interesse generale. Questa economia, che definisco “relazionale”, non obbedirà alle leggi della scarsità: dare conoscenza non ne priva colui che ne fa dono. Consentirà di produrre e di scambiare servizi davvero gratuiti – di distrazione, di salute, di istruzione, di relazione ecc. – che ognuno riterrà opportuno offrire all’altro, e di produrre senza altra remunerazione che la considerazione, la riconoscenza, la festa. Servizi non più scarsi, perché più si dona, più si riceve. E più si dona, più si hanno il desiderio e i mezzi per donare» (Attali, 2008, p. 209).

Chi, se non i carismi, può far questo davvero? Questo, e basta? E aggiunge: «Faranno la loro comparsa nuove imprese relazionali, in particolare per la gestione della città, nel settore dell’istruzione, della sanità, della lotta contro la povertà, della gestione dell’ambiente, della tutela della donna, del commercio equo, dell’alimentazione equilibrata, della valorizzazione della gratuità, del reinserimento sociale, della lotta contro la droga e della sorveglianza dei sorveglianti… In queste imprese, emergeranno nuovi mestieri. E vi si svilupperà una nuova attitudine nei confronti del lavoro, consistente nel provare gioia nel dare: far sorridere, trasmettere, soccorrere, consolare. Insieme, queste imprese relazionali costituiranno una nuova economia, oggi marginale quanto lo era il capita-

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lismo all’inizio del secolo, ma altrettanto premonitrice dell’avvenire» (ibid., p. 211).

E ora torniamo, per un’ultima volta, a Benedetto e a Francesco. Senza di loro, lo abbiamo visto, l’economia di mercato sarebbe stata ben diversa, e probabilmente meno umana, il suo giogo meno leggero. Essi hanno dato l’avvio a quella particolare forma di economia di mercato che è l’economia civile e che oggi sta riemergendo 1. L’economia di mercato è il frutto di oltre quindici secoli di civiltà e di carismi (se non vogliamo partire già nel mondo greco), è un albero con radici profonde. Ma oggi questo albero secolare, se non millenario, è minacciato da una crisi che è soprattutto crisi morale e antropologica. Il mercato funziona bene quando è irrorato anche dalla linfa dei carismi, una linfa che – lo abbiamo ripetuto forse troppe volte – si chiama gratuità. Oggi il mercato è in una grave crisi, la crisi più grave della sua storia, che, secondo Attali, ne decreterà la fine (come cultura). Una crisi che tutti constatiamo guardando semplicemente all’assenza di gioia di vivere che accompagna nelle società opulente lo sviluppo economico. In queste pagine abbiamo sostenuto, e forse mostrato, che questa tristezza e mancanza di “festa” sia anche dovuta alla relegazione della dimensione carismatica dell’economia a “eccezione”, a faccenda marginale, e quindi quasi inutile, a “limoncello” di un pranzo opulento. Il carisma diventa un “tappabuchi”, la stessa sorte che, secondo D. Bonhoeffer, è capitata a Dio nella modernità. Ma un’economia di mercato che perde contatto con la dimensione carismatica (che oggi si esprime tanto nell’economia sociale, solidale, di comunione ), diventa dis-economia, luogo di vi-

1 Su

queste tematiche vedi Bruni e Zamagni (2004) e Zamagni (2008).

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ta non-buona, perché perdendo contatto con la gratuità perde contatto con l’umano. E se il mercato diventa dis-umano, non può restare neanche mercato (che, come ci insegna Smith, è faccenda solo umana). La nostra età ha dunque una grande responsabilità: come sta già facendo con le risorse non rinnovabili, rischia di depauperare un capitale accumulato in millenni. Il mercato è istituzione fragile, occorre non dimenticarlo in questa età di passaggio. A questo proposito ci piace affidare la conclusione di queste pagine ad un filosofo significativo del nostro tempo, A. MacIntyre, quando, dopo aver riconosciuto a Benedetto un ruolo decisivo nella salvezza della cultura europea dopo la crisi dell’Impero romano (l’età oscura), così commenta: «Se la tradizione delle virtù è stata in grado di sopravvivere agli orrori dell’ultima età oscura, non siamo del tutto privi di fondamenti per la speranza. Questa volta, però, i barbari non aspettano di là dalle frontiere: ci hanno già governato per parecchio tempo. Ed è la nostra inconsapevolezza di questo fatto a costituire parte delle nostre difficoltà. Stiamo aspettando: non Godot, ma un altro san Benedetto» (MacIntyre 2007, p. 313).

Siamo convinti che i “nuovi san Benedetto” sono già in mezzo a noi. Ma dove andarli a trovare? Certamente nel mondo dello spirito, nei grandi ordini e negli istituti religiosi, nelle chiese, nelle religioni. Ma c’è molto di più, se è vero che lo Spirito, oggi come sempre, “soffia dove vuole”. Occorre andarli a cercare anche altrove, magari proprio laddove nessuno li cerca più. Pensiamo ai tanti artisti veri (l’arte è esperienza altamente carismatica, e quindi di gratuità, quando è autentica e non strumento per far denaro, e basta), ai tanti cercatori di verità nelle battaglie per i diritti umani, per i poveri, per la natura. Occorrono nuovi occhi e una antica-nuova idea di cari-

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sma, che lo renda meno “religioso” e più laico: non c’è niente di più laico della gratuità. Oggi l’umanità ha una sete infinita di gratuità: solo i carismi la possono veramente saziare. Che gli uomini e le donne del nostro tempo siano capaci di riconoscere i nuovi Francesco e i nuovi Benedetto, di stimarli e di valorizzarli: ne va della qualità della vita nella nostra società globale. E forse della sua stessa sopravvivenza. Manda, Signore, ancora profeti! … Ora invece la terra si fa sempre più orrenda: il tempo è malato i fanciulli non giocano più le ragazze non hanno più occhi che splendono a sera. E anche gli amori non si cantano più, le speranze non hanno più voce, i morti doppiamente morti al freddo di queste liturgie: ognuno torna alla sua casa sempre più solo. Tempo è di tornare poveri per ritrovare il sapore del pane, per reggere alla luce del sole per varcare sereni la notte e cantare la sete della cerva. E la gente, l’umile gente abbia ancora chi l’ascolta, e trovino udienza le preghiere. E non chiedere nulla. (David M. Turoldo)

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Indice dei nomi

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Indice dei nomi

Agostino d’Ippona: 47, 77 Ambrogio: 77 Andenna: 76, 109 Andrea da Faenza: 81, 109 Andringa L.: 16 Araujo V.: 16 Arendt H.: 51, 53, 90, 109 Aristotele: 8, 76 Attali J.: 105, 109 Attardi C.: 56, 109 Balthasar H.U., von: 21, 23, 36, 109 Barbaglio G.: 21, 109 Bazzichi O.: 72, 74, 79, 109 Becchetti L.: 16 Benedetto XVI: 14 Bernardino da Feltre: 81, 86, 87 Bernardino da Siena: 74, 75, 78, 82 Bernardo di Clairvaux: 6, 7, 66 Bettoni F.: 109 Bonhoeffer D.: 106

Boni F.: 109 Bosco G.: 32 Bruni L.: 8, 14, 39, 45, 58, 83, 88, 95, 96, 106, 109, 110 Cabrini F.: 32 Calabria G.: 32 Calvino G.: 12 Calvo C.: 16 Cametti O.: 68 Cantucci F.: 87 Carcano M.: 82 Carnegie A.: 50 Casoli G.: 16 Castelli B.: 68 Catone: 76 Cattaneo C.: 77, 112 Chiaretti G.: 17 Chili A.: 113 Ciardi F.: 14, 110 Clemente Alessandrino: 58 Coda P.: 16 Congar Y.: 21 Coppoli F.: 82 Corrado V.: 69

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Cottolengo G.B.: 32 Crivelli L.: 16, 51 Cuccato G.: 67, 110 Cutini G.: 109

Grandi G.: 68 Gregorio Magno: 55, 81 Guglielmo da Ockam: 12, 71 Guglielmo da Volpiano: 57 Gui B.: 16, 111

Dante Alighieri: 89 de’ Paoli V.: 27, 28 Del Pane E.: 62, 110 Dom Perignon: 68 Duns Scoto G.: 13, 71

Harding S.: 66 Hegel G.W.F.: 48 Hölderlin J.C.F.: 91 Hyde L.: 35, 110

Eilmer, monaco: 69 Eiximenis F.: 75

Ianuen E.: 59, 114 Ignazio di Loyola: 32

Fabiani G.: 84, 85, 110 Falmi D.: 17 Ferrucci A.: 16 Fliche: 69, 110 Folador M.: 59, 110 Folbre N.: 94, 110 Francesco di Sales: 32 Franklin T.: 50 Frey B.: 59, 112

Jacopone da Todi: 71

Galanti L.: 68 Gandhi: 30 Gerolamo: 77 Giacomo della Marca: 82 Giordani I.: 37 Giovanna di Chantal: 32 Giovanni Paolo II: 24, 110 Giustiniano: 77 Gold L.: 16

La Pira G.: 37 La Via B. G.: 68 Langton S.: 64 Le Goff J.: 57, 76, 110 Lehay B.: 23, 110 Lubich C.: 17, 88, 91 Luisa de Marillac: 32 Lutero M.: 12 MacIntyre A.: 107, 111 Madre Teresa di Calcutta: 34 Malini A.: 16 Manselli R.: 111 Maratti F.: 68 Marco da Cantagallo: 80 Marco Polo: 24 Marx K.: 51

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Mazzucotelli M.: 69, 111 Messiaen O.: 91 Milano R.: 16 Moulin L.: 47, 62, 63, 68, 111 Muratori L.A.: 86, 111 Muzzarelli G.: 84, 111 Nelson J.: 94, 95, 110, 111 Newman J.H.: 62 Olivi P.: 13, 71, 74, 78 Osterloh M.: 59, 112 Pacaut M.: 68, 111 Paolo di Tarso: 48 Pelligra V.: 16 Penco G.: 57, 58, 60, 111 Pezzimenti R.: 55, 111 Porta P.L.: 16 Rahnema M.: 30, 111 Rahner K.: 21 Ricci M.: 25 Riccardi N.: 78, 87, 111 Rockfeller J.: 50 Romano, monaco: 54 Rondinara S.: 16 Rossé G.: 16 Rost K.: 59, 112 Rothbard M.N.: 74 Ruffini R.: 16, 63

115

Salvatorelli L.: 55, 112 Santucci F.: 109 Scalabrini G.B.: 32 Schumpeter J.A.: 35, 36, 112 Sen A.: 83 Sensi M.: 80, 109 Smerilli A.: 8, 39, 45, 95, 96, 109 Smith A.: 107 Sperandio B.: 109 Sungden R.: 111 Todeschini G.: 58, 60, 71, 72, 74, 83, 112 Tommaso da Celano: 71, 112 Tommaso di Chobham: 76 Tredget D.: 56, 112 Turoldo D.M.: 108 Van Gogh V.: 34 Verdi G.: 73 Vitman F.: 68 Weber M.: 12, 36 Weber M.: 19, 27, 59 Weil S.: 11, 112 Wood D.: 86, 112 Woods T.: 68, 74, 112 Zamagni S.: 15, 16, 58, 83, 106, 110, 112 Zanghí G.M.: 16

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Prefazione (di Stefano Zamagni) . . . . . . . . . . pag.

5

Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

11

I. Il significato dei carismi per la vita civile ed economica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

»

19

.

»

19

. . .

» » »

23 28 30

. . . .

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34 35 39 41

II. Benedetto e il ruolo del monachesimo per l’economia e per la civiltà . . . . . . . . . . . . . . .

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47

» » »

47 49 54

» »

56 60

1. Che cos’è un carisma? . . . . . . . . . . . . . 2. Cenni di storia del “profilo carismatico” dell’economia . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Eclisse e ritorno del civile in Italia . . . . . . . 4. I carismi e la visione della povertà . . . . . . . 5. L’artista come portatore di carisma (non solo di talento) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6. Carismi e innovazione . . . . . . . . . . . . . 7. Carisma e gratuità. . . . . . . . . . . . . . . . 8. Alcune caratteristiche dell’economia carismatica

1. Dallo schiavo all’Ora et labora . . . . . . . . . . 2. La cultura del lavoro oggi . . . . . . . . . . . . 3. Benedetto di Norcia . . . . . . . . . . . . . . . 4. La cultura monastica e “l’invenzione” dell’economico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5. Il monastero e la città . . . . . . . . . . . . . . .

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6. Il monastero e la democrazia . . . . . . . . . . . pag. 62 7. Sviluppo agricolo e tecnologico . . . . . . . . . » 67 III. Francesco e la scuola francescana . . . . . .

»

70

1. Dalla povertà una scuola di pensiero economico 2. La teoria del valore e il mercato . . . . . . . . . 3. Il dibattito su usura e interesse . . . . . . . . . . 4. Nascono le banche popolari in Europa: I Monti di pietà. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5. Banche per curare la povertà . . . . . . . . . . . 6. Povertà e sussidiarietà . . . . . . . . . . . . . .

» » »

70 72 76

» » »

79 83 85

IV. I carismi, l’economia e le sfide dell’oggi . . . .

»

88

. . .

» » »

88 92 96

. . . . .

» 99 » 99 » 100 » 102 » 102

Conclusione. Per una società dell’“e basta” . . .

» 104

Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

» 109

Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

» 113

1. Per una nuova cultura del lavoro alla luce dei carismi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Tre sfide decisive . . . . . . . . . . . . . . . . 3. La sfida delle reciprocità . . . . . . . . . . . . 4. Le patologie della reciprocità nelle esperienze carismatiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.1. Un semplice prodotto . . . . . . . . . . . 4.2. Il modello “utopico” . . . . . . . . . . . . 4.3. La patologia “paternalista” . . . . . . . . . 4.4. La malattia del disincanto . . . . . . . . .

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