Asino chi non legge? Riconoscere e gestire i disturbi specifici di apprendimento 8865183810, 9788865183816

Quante volte abbiamo sentito ripetere il proverbio "chi non legge la sua scrittura è un asino di natura"? Ques

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Asino chi non legge? Riconoscere e gestire i disturbi specifici di apprendimento
 8865183810, 9788865183816

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Asino chi non legg e? Riconoscere e gestire i disturbi specifici dell'apprendimento

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Stefano Federici, Valerio Corsi, Marina E. Locatelli

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© 2014 Pearson Italia – Milano, Torino Le informazioni contenute in questo libro sono state verificate e documentate con la massima cura possibile. Nessuna responsabilità derivante dal loro utilizzo potrà venire imputata agli Autori, a Pearson Italia S.p.A. o a ogni persona e società coinvolta nella creazione, produzione e distribuzione di questo libro. Per i passi antologici, per le citazioni, per le riproduzioni grafiche, cartografiche e fotografiche appartenenti alla proprietà di terzi, inseriti in quest’opera, l’editore è a disposizione degli aventi diritto non potuti reperire nonché per eventuali non volute omissioni e/o errori di attribuzione nei riferimenti. Il materiale fotografico e illustrativo utilizzato è a esclusivo uso didattico. È vietata la riproduzione, anche parziale o ad uso interno didattico, con qualsiasi mezzo, non autorizzata. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941, n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail [email protected] e sito web www.clearedi.org. Realizzazione editoriale: Giulia Maselli, www.shortcut-ed.it Grafica di copertina: Maurizio Garofalo Stampa: 3 Erre srl - Orio Litta (Lo) Tutti i marchi citati nel testo sono di proprietà dei loro detentori. 9788865183816 Printed in Italy 1a edizione: febbraio 2014 Ristampa 00 01 02 03 04

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Anno 14 15 16 17 18

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Sommario

Capitolo 1

Prefazione

IX

Introduzione

XV

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Capitolo 2

Quando mio figlio è dislessico

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Capitolo 3

Quando l’alunno rimane indietro: il ruolo degli insegnanti

85

Capitolo 4

143

Capitolo 5

Capitolo 6

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Centri specialistici per la diagnosi e il trattamento dei DSA

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Tecnologie assistive per la facilitazione dell’apprendimento e la compensazione del disturbo

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Autori

Stefano Federici, psicologo, professore di Psicologia generale all’Università di Perugia, studioso nel campo del funzionamento individuale, della disabilità e delle tecnologie assistive. Ha pubblicato articoli e libri con case editrici nazionali e internazionali tra cui, presso la nostra editrice, La valutazione delle tecnologie assistive. Valerio Corsi, psicologo, neuropsicologo dello sviluppo, promotore del Centro FARE di Perugia e direttore scientifico fino al 2011. Attualmente lavora presso Fare-Centro di neuropsicologia dello sviluppo, da lui fondato, con sede a Roma e in Sardegna. Si occupa di valutazione, trattamento e impostazione di piani riabilitativi in ambito dei disturbi dell’età evolutiva. Marina E. Locatelli, fondatore e direttore del Centro FARE, membro del direttivo nazionale A.I.D. 2005-2009 e della segreteria Consensus Conference 2007. Collabora con l’USR Umbria e l’Università di Perugia per la formazione. Si occupa di rapporti scuola-famiglia, normativa e gestione classe con studenti con DSA. Hanno partecipato alla stesura del libro i professionisti del Centro FARE di Perugia: • Cristina Gaggioli, pedagogista, specializzata in tecnologie per l’istruzione e l’apprendimento. Coordinatore pedagogico. • Moreno Marazzi, psicologo, specializzando in neuropsicologia e psicopatologia dell’apprendimento e dell’età evolutiva. Responsabile dell’équipe clinico-pedagogica. • Davide Filippi, psicologo clinico con orientamento neuropsicologico, esperto in psicopatologia dell’apprendimento e dell’età evolutiva.

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Prefazione

“La dislessia: questa sconosciuta...” Iniziava così nel lontano 2000 il mio intervento a uno dei primi convegni promossi e organizzati dall’allora Provveditorato agli Studi di Perugia insieme al Servizio di Neuropsichiatria Infantile dell’Asl di Foligno. L’incipit del discorso, volutamente provocatorio, voleva sottolineare sia il mio iniziale incontro con la dislessia sia come, nonostante gli studi clinici e le evidenze empiriche dimostrassero l’esistenza di un disturbo di funzionamento nel 2-3% della popolazione, la scuola, le famiglie, i non addetti ai lavori brancolassero spesso nel buio, oscillando tra scetticismo, sottovalutazione, negazione del problema e anche, però, attenzione educativa e primi tentativi di interventi didattici mirati. Sono trascorsi molti anni da allora: un tempo lungo, segnato dall’evoluzione del linguaggio (Disturbi Specifici dell’Apprendimento e non solo dislessia), dall’affinamento delle tecniche diagnostiche, dall’emanazione di norme specifiche, ma soprattutto dal cambiamento culturale e dalla conseguente modifica del costume professionale dei docenti e degli operatori scolastici. Questo libro intende documentare la situazione attuale, le opportunità e le azioni possibili nei vari territori e nei diversi tempi di vita percorsi e vissuti dalle persone dislessiche o, più appropriatamente, da quelle con disturbi specifici di apprendimento. A me il compito di offrire al lettore quegli elementi di conoscenza in ordine ai cambiamenti che hanno portato al nuovo modo di sentire e di affrontare tali problematiche, utilizzando l’esperienza realizzata in Umbria come esempio concreto di quanto il fare quotidiano possa incidere e contribuire a riorientare il cammino.

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  Prefazione

Ripercorrere la storia delle azioni, degli interventi, dei lavori effettuati nel corso di questi anni significa anche passare attraverso le vicende personali e professionali di singoli soggetti: ciò, come talvolta accade, può fare la differenza quando si tratta di realizzare progetti nei quali è forte il legame tra scienza, conoscenza, logica e sensibilità educativa, attenzione alla cura, passione per il proprio lavoro. La vita è spesso costellata di incontri apparentemente insignificanti, ma a volte, invece, determinanti per la costruzione di orizzonti di senso: l’incontro tra persone che credevano fortemente nella possibilità di rispondere in modo specifico a esigenze formative speciali ha rappresentato l’inizio dell’incessante lavoro che ha visto la collaborazione tra l’USR per l’Umbria e la sezione regionale dell’Associazione Italiana Dislessia (AID) come base sulla quale costruire e realizzare i numerosi progetti attivati. Gli anni successivi al 2000 furono caratterizzati dagli iniziali, quasi pionieristici progetti di screening rivolti ai bambini del primo anno di scuola primaria, e se oggi ciò può apparire scontato e banale, anche perché previsto e suggerito dalle norme, in quel tempo costituiva una pratica innovativa. Il Capitolo 3 di questo libro descrive come un insegnante può accorgersi della presenza di un disturbo di apprendimento in un bambino che inizia a frequentare la scuola e il racconto della docente dimostra la difficoltà, le incertezze, i tentativi messi in atto per circoscrivere il problema e affrontarlo in modo corretto. I progetti di ricerca-azione “Tutti i bambini vanno bene a scuola” e “La scuola per tutti in Umbria”, scientificamente validati dall’AID e condotti con la collaborazione dei Servizi sanitari, promuovendo un’esperienza di formazione didattica dove il mondo teorico si avvicina alla pratica e favorisce un’interazione operativa, hanno consentito ai docenti di appropriarsi di strumenti teorici e pratici finalizzati ad adottare un intervento didattico specifico e precoce e un’individuazione attendibile dei soggetti a maggior rischio dislessico. L’esperienza di screening, inizialmente circoscritta a un numero limitato di scuole, è andata via via diffondendosi e ha interessato

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Prefazione  XI

quasi tutte le scuole primarie della regione, si è implementata nel sistema e in alcuni casi è stata inserita nei Piani dell’Offerta Formativa. Un dato per tutti fa riflettere: dal 2003 al 2012 le attività di screening hanno coinvolto circa 12.000 bambini. Inoltre, in realtà scolastiche e particolarmente attive, i docenti sono diventati capaci di padroneggiare autonomamente le tecniche sperimentate per l’individuazione delle difficoltà dei bambini a rischio di DSA e per l’intervento precoce all’interno della scuola con il coinvolgimento delle famiglie. Nell’arco temporale tra il 2003 e il 2010, a livello regionale, si è dato vita a un sistema di formazione, ricerca-azione, supporto alla didattica, di cui è quasi impossibile enumerare le azioni, rintracciare le singole esperienze, individuare le sollecitazioni culturali provenienti da esperti più o meno conosciuti, perché gli esiti delle varie iniziative sono ormai entrati, nella quasi totalità dei casi, nell’ordinaria attività scolastica. Va ricordata solo un’esperienza di formazione effettuata nel 2005, forse la prima a livello nazionale, rivolta esclusivamente ai dirigenti scolastici, nella convinzione di quanto sia determinante la leadership gestionale e relazionale ai fini della qualità dell’offerta formativa progettata per la globalità degli alunni. E intanto, mentre proseguivano le attività formative, tra le quali quella per i referenti sui DSA, promossa dal MIUR e realizzata con la collaborazione dell’AID e dell’USR, a livello nazionale il dibattito si faceva sempre più animato, serrato, assumendo a volte toni accesi: il motivo di tale vis polemica va rintracciato nel lungo iter parlamentare iniziato nel 2006 e conclusosi nell’ottobre 2010 con la promulgazione della Legge n. 170. Tale legge ha contribuito certamente a dare ordine alle tante parole, spesso gratuite e superficiali, pronunciate nel tempo e ha diffuso la conoscenza delle caratteristiche dei disturbi specifici di apprendimento e non solo, quindi, della dislessia. Una normativa come tante per chi non è direttamente interessato, ma definita da qualcuno come l’inizio di una nuova era per la vita di ogni dislessico. Sicuramente una legge di per sé non può risolvere tutti i problemi e la sua efficacia dipende dall’applicazione che ne consegue: le

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Prefazione   

Linee guida pubblicate nel 2011 e il decreto ministeriale che le ha trasmesse, dettando norme per gli interventi formativi, le strategie didattiche e le modalità valutative, rappresentano gli strumenti consegnati alla scuola perché attivi ogni possibile azione finalizzata a garantire il successo formativo a ogni allievo. Le iniziative di formazione portate a sistema con l’attivazione dei Master universitari su “Didattica e Psicopedagogia per i Disturbi Specifici di Apprendimento”, le attività formative realizzate in sinergia con Regione, Università e AID (tra cui il Piano regionale che ha visto la partecipazione di circa 1800 docenti), le azioni intraprese dalle reti di scuole e dai Centri Territoriali di Supporto per l’uso delle tecnologie testimoniano il pregevole e ampio lavoro effettuato in questi ultimi anni, quando sempre più forte è stato l’intreccio fra le azioni nazionali e quelle regionali. La mia presenza nel Comitato tecnico-scientifico nazionale istituito per la redazione delle Linee Guida mi ha permesso di rendere forte e stabile il collegamento fra l’Umbria e le realtà accademiche e professionali operanti in altri territori. E ancora, mentre gli interventi didattici diventano sempre più raffinati, il cambiamento culturale si sta diffondendo e le modalità di presa in carico e di cura educativa degli alunni con DSA stanno diventando buona pratica ordinaria, irrompe nella scena la Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 sui Bisogni Educativi Speciali. I principi fondanti l’integrazione scolastica, iniziata nel nostro Paese negli anni Settanta, si trasferiscono dalla disabilità a tutto ciò che disabilità non è, ma che richiede comunque particolare attenzione educativa. Il documento ministeriale ci induce a riflettere sulle “domande” formative diverse rivolte alla scuola in un tempo connotato dalle differenze e ci richiama all’obbligo di fornire risposte specifiche a esigenze speciali. I BES scaturiscono da diverse situazioni (disabilità, disturbi generalizzati dello sviluppo, DSA, disturbi emozionali, differenze sociali e culturali, deprivazione, provenienza da Paesi diversi) e in essi sono compresenti normalità e specialità, dove la prima esprime la necessità di essere come gli altri e la seconda afferma l’acco-

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Prefazione  XIII

glimento dei bisogni speciali nel riconoscere la peculiarità di ciascuno. La Direttiva del 27 dicembre 2012 estende quanto appreso, assunto e predisposto a favore degli alunni con DSA (strumenti compensativi, misure dispensative, Piano Didattico Personalizzato) anche agli alunni con bisogni educativi speciali. La Legge n. 170, dunque, avendo per prima riconsegnato all’educazione ciò che spesso era delegato alla clinica, rappresenta un punto di svolta perché prevede la personalizzazione dei percorsi educativi, la presa in carico dell’allievo con difficoltà da parte di tutti i docenti e l’adozione di ogni possibile strategia, intervento, modalità organizzativa, per assicurare a ciascuno di avere ciò di cui ha bisogno. Questa è la nuova sfida che attende la scuola italiana, l’ulteriore elemento introdotto nel sistema che comporterà necessariamente il rinnovamento della didattica, pena la perdita di senso dell’essere un docente nel nostro tempo. L’esperienza realizzata attraverso i cambiamenti determinati dall’attenzione ai DSA ci ha dimostrato che ciò è possibile, tanto che oggi possiamo anche dire: “Dislessia? Io ti conosco.”

Sabrina Boarelli Ispettore tecnico – USR per l’Umbria

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Introduzione

I disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) costituiscono, oggi, una realtà difficilmente ignorabile. La loro diffusione, riscontrata in ambito scolastico, ha richiamato l’attenzione di genitori, insegnanti, psicologi, neuropsicologi e logopedisti sempre più impegnati nella ricerca di strategie educative e terapeutiche volte al contenimento del disagio personale e sociale che la presenza di un DSA comporta nella qualità di vita di una persona. Un DSA è un disordine organico che impedisce un regolare apprendimento delle abilità di base necessarie per conseguire validi ed efficaci risultati in lettura, scrittura e calcolo. Essendo questi dei contenuti di apprendimento che si insegnano a scuola, i DSA riguardano un campo specifico dell’apprendimento umano che riguarda strettamente l’alfabetizzazione della popolazione. In altre parole, i DSA sono disturbi che hanno a che fare con i meccanismi dell’apprendimento e con alcuni dei contenuti scolastici. Se consideriamo l’apprendimento come un processo attivo e dinamico, è necessario prendere in considerazione la possibilità che questo percorso di costruzione, elaborazione e interiorizzazione delle conoscenze possa essere ostacolato, rallentato o discontinuo. E quando questo processo attivo e dinamico dell’apprendimento mira ad aumentare l’efficienza di comportamenti che, per ben funzionare, richiedono un certo automatismo – pensiamo ad esempio all’andare in bicicletta, alla guida di un’autovettura, all’esecuzione di un passo di danza o ginnico, e così via – perché questi siano considerati bene appresi si richiede che vengano svolti con un elevato grado di precisione, basso impegno attentivo, velocità, manteni-

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Introduzione   

mento di uno standard di risposta. Se una di queste componenti mancasse o fosse carente vorrebbe dire che non sarebbe stato raggiunto un buon grado di automatismo e che quindi l’apprendimento non sarebbe da considerarsi completato e, probabilmente, ancora non utile a essere integrato con le altre funzioni. Ad esempio, fintanto che l’attore di un musical non avrà appreso adeguatamente un passo di danza con cui dovrà accompagnare una canzone, cioè non abbia automatizzato tutti gli atti motori per la sua buona esecuzione, sarà difficile che lo esegua correttamente mentre canta. Ebbene, quando parliamo di DSA, ci riferiamo a disturbi che impediscono una corretta esecuzione di quegli automatismi che si apprendono nei primi anni di scuola necessari a un’efficace uso della lettura, della scrittura e del calcolo, ostacolando e compromettendo non solo il raggiungimento di obiettivi scolastici ma anche delle attività di vita quotidiana. I DSA, dunque, non compromettono tutti i processi di apprendimento umano, non sono pervasivi dello sviluppo, né contrastano l’acquisizione di tutte quelle altre abilità e competenze a cui mira l’insegnamento scolastico. I processi di apprendimento che determinano lo stabilirsi di nuovi meccanismi automatici di risposta, come lo sono l’andare in bicicletta, il guidare un’autovettura, il digitare su una tastiera o il leggere e lo scrivere, sono solo una parte dei contenuti di conoscenza che una persona impara durante il suo arco di vita e non necessariamente i più importanti. Nell’essere umano l’apprendimento conduce non solo allo strutturarsi di risposte comportamentali a stimoli ambientali1, ma anche all’attribuzione di nuovi significati all’ambiente e all’individuo, facendo appello a quella capacità umana di creare e dare senso alle cose. Ebbene, questa capacità creativa, intelligente e tutta umana di apprendere è intatta in un bambino con DSA. Per cui, anche se avrà difficoltà, ad esempio nella lettura, non ne avrà nella comprensione critica del 1 Anche

la lettura una volta appresa si struttura in meccanismi automatici di risposta a stimoli ambientali. L’ambiente in questo caso può essere la pagina di un libro e gli stimoli i caratteri del testo. Da adulti alfabetizzati, ogni volta che siamo esposti a un testo scritto nella nostra lingua non possiamo non leggerlo e lo leggiamo anche prestando attenzione ad altro.

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XVII Introduzione  

contenuto del testo. Inoltre, come ci testimoniano loro stesse, le persone con DSA2 a volte sono capaci di avvantaggiarsi della condizione di disagio dovuta al disturbo, trasformando questo in un’occasione di maturazione personale e sociale. Ad esempio, l’aver dovuto, nel periodo della formazione scolastica, servirsi costantemente di strategie alternative per l’apprendimento dei medesimi contenuti di informazione e formazione li ha resi molto più flessibili, costruttivi e creativi. I DSA appartengono alla famiglia dei disturbi evolutivi specifici che si manifestano in bambini che hanno un normale sviluppo intellettivo, fisico e mentale e intatte capacità di apprendimento. Si dicono specifici perché riguardano l’apprendimento di quelle competenze che si maturano solo se si è alfabetizzati, quindi inseriti in un percorso scolastico. I disturbi riguardano le tre abilità di base dell’apprendimento scolastico: lettura, scrittura e calcolo. Una definizione articolata e aggiornata di DSA ci è stata offerta recentemente da un gruppo di studiosi italiani, tra i maggiori esperti nel settore, riunitisi in un convegno promosso dall’Istituto Superiore di Sanità nel 2011 (da ora in poi Consensus Conference), basata sullo stato dell’arte dello studio e della ricerca internazionale: Il DSA è un disturbo cronico, la cui espressività si modifica in relazione all’età e alle richieste ambientali: si manifesta cioè con caratteristiche diverse nel corso dell’età evolutiva e delle fasi di apprendimento scolastico. La sua prevalenza appare maggiore nella scuola primaria e secondaria di primo grado. L’espressività clinica è inoltre in funzione della complessità ortografica della lingua scritta. […] Una caratteristica rilevante nei DSA è la comorbilità3 (presenza contemporanea di più di un disturbo). È frequente infatti accertare la compresenza nello stesso soggetto di più

2 Vedi

a proposito le testimonianze di alcuni giovani adulti con DSA riportate nel Capitolo 5. 3 La compresenza di più disturbi o malattie associati al DSA in uno stesso individuo [N.d.A.].

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Introduzione   

disturbi specifici dell’apprendimento o la compresenza di altri disturbi neuropsicologici (come l’ADHD, disturbo dell’attenzione con iperattività) e psicopatologici (ansia, depressione e disturbi della condotta).4 Da definizione emergono alcune caratteristiche salienti che delineano questo specifico disturbo: il suo carattere evolutivo, il fatto che si manifesti in maniera diversa a seconda delle età di una persona e che comporti un impatto significativo sulla qualità di vita. È sempre la Consensus Conference che ci conferma un dato epidemiologico emerso da studi condotti a livello nazionale, ossia che la diffusione dei DSA tra i bambini italiani in età scolare mostra un’incidenza oscillante tra il 2,5% e il 3,5%. Il lettore avrà già notato che utilizziamo l’acronimo DSA sia al singolare che al plurale. Questo è dovuto al fatto che sotto il termine ombrello “disturbo specifico di apprendimento” in realtà si fa riferimento a una varietà di disordini che disturbano le normali modalità di acquisizione delle competenze fin dai primi stadi di sviluppo5. Allo stesso modo utilizzeremo il termine dislessia, che fa riferimento a una sotto-classe di DSA che riguardano i disordini legati alla lettura, a volte in un senso ampio e popolare, come in alcune diagnosi mediche e in ambito scolastico, quale sinonimo di DSA6. Chiarito l’uso dei termini, procediamo elencando quali disturbi sono in genere raccolti sotto il termine ombrello DSA, per poi darne per ciascuno una breve definizione: • Disturbo specifico della lettura o dislessia; • Disturbo specifico della compitazione o disortografia;

4 Istituto

Superiore di Sanità (ISS), Disturbi specifici dell’apprendimento. Consensus Conference Roma, 6-7 dicembre 2010, ISS, Sistema nazionale per le linee guida, Roma, pag. 7-8, 2011, disponibile online: http://www.snlg-iss.it/cms/files/Cc_Disturbi_Apprendimento_sito.pdf. 5 Vedi ad esempio la definizione di DSA dell’ICD-10 riportata nel Box 2.2 del Capitolo 2, e di Cesare Cornoldi (a cura di), Difficoltà e disturbi dell’apprendimento, Bologna, Il Mulino, 2007. 6 Vedi Box 2.3 del Capitolo 2.

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Introduzione  XIX

• Disturbo specifico della scrittura o disgrafia; • Disturbo specifico del calcolo o discalculia. Disturbo specifico della lettura o dislessia. Con il termine dislessia specifica evolutiva si fa riferimento a una difficoltà del bambino nella lettura che non è dovuta all’azione di fattori quali una disabilità sensoriale o mentale, una cattiva istruzione o altri svantaggi sociali. Questo DSA è relativo alla lettura strumentale, ossia a quelle abilità di base che consentono di decodificare le parole contenute in un testo, e si manifesta come una difficoltà a carico della velocità e correttezza della lettura. La lettura può apparire lenta e stentata, a volte sillabata o caratterizzata dalla presenza di pause frequenti e di errori quali inversioni o sostituzioni di lettere (/p/-/r/-/o/-/t/-/a/ per PORTA, /d/-/i/-/a/-/n/-/c/-/o/ per BIANCO)7. In taluni casi la dislessia si presenta con un’alta specificità, ossia senza altre difficoltà associate e senza che vengano rilevati fattori in grado di spiegare diversamente la presenza del disturbo. Il bambino con dislessia è, infatti, molto spesso un bambino intelligente, di buone condizioni socioculturali, senza problemi emotivi rilevanti, che ha fruito di un normale insegnamento. Nonostante ciò, egli presenta, sin dall’inizio, una sorprendente difficoltà nell’apprendimento della lettura. Un altro elemento che colpisce nella dislessia è la possibile familiarità del disturbo, che spesso è presente anche nella storia scolastica di un genitore o di un parente stretto. Non c’è tuttavia accordo tra gli esperti sulla rilevanza da attribuire alla condizione biologica e sulla natura dei correlati neurologici, tanto che si parla normalmente di un fattore predisponente, che può influenzare in maniera più o meno diretta il profilo del bambino e concorrere a creare una difficoltà di lettura. La ricerca dimostra che spesso la dislessia è associata ad altri disordini, sia specifici dell’apprendimento, che possono riguardare l’aspetto ortografico della scrittura o del calcolo, sia evolutivi, come

7 Per

tutto il libro utilizzeremo due segni “/” per comprendere al suo interno un suono, fonema, corrispondente alle lettere o grafemi di una parola che metteremo in maiuscolo.

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  Introduzione

il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD)8 o disturbi del comportamento e dell’umore. Disturbo specifico della scrittura o disortografia. Scrivere in lingua italiana significa memorizzare il rapporto tra i suoni di una parola e i corrispondenti simboli grafici e, in alcuni casi, la relazione tra determinati vocaboli e la loro forma ortografica. Per sapere, ad esempio, quali parole contengono “cq” o “q” al posto di “c”, come ACQUA e AQUILONE, e quali semplicemente “c”, come CUORE, è indispensabile aver associato il significato di una parola con la sua veste grafica o, per meglio dire, ortografica. Anche nel caso di alcune combinazioni di parole, generalmente costituite da articolo o preposizione e sostantivo, occorre riconoscere la loro categoria sintattica per poterle trascrivere correttamente, come ad esempio /l/a/r/a/d/i/o/ → LA RADIO, /l/e/r/b/a/ → L’ERBA, /d/i/n/o/t/t/e/ → DI NOTTE. Allo stesso modo, le parole omofone e non omografe, come L’AGO/LAGO, C’ERO/CERO, non possono essere scritte correttamente solo traducendo ogni suono nel simbolo grafico corrispondente, perché è anche necessario risalire dal significato della parola alla sua rappresentazione ortografica. Inoltre, ci sono regole da apprendere anche per i suoni che vengono rappresentati con i cosiddetti digrammi e trigrammi (sc, gn, chi, gli), mentre una relazione particolare lega gli accenti e le doppie non tanto ai fonemi che compongono la parola, quanto alle caratteristiche di questi fonemi, come l’accentazione, il prolungamento o la breve pausa di una consonante. Il bambino disortografico presenta un numero di errori nella scrittura di parole, frasi e periodi maggiore di quanto previsto in base all’età, al profilo intellettivo e al livello d’istruzione, non imputabili alla mancanza di esperienza o a problemi motori e sensoriali. Non si può dire che non conosca le regole, ma piuttosto che ha delle difficoltà sottostanti, ad esempio, nell’analisi e nella distinzione dei suoni di cui si compone una parola o nell’uti8 Anche

in italiano si è soliti abbreviare il nome di questo disturbo con l’acronimo inglese con cui è universalmente riconosciuto che sta per Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder.

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Introduzione  XXI

lizzo di codice di simboli che lega i suoni agli elementi grafici corrispondenti. Gli errori rilevati più spesso consistono in omissioni di lettere e parti di parola (POTE per PONTE o CAMICA per CAMICIA), sostituzioni (VACCIA per FACCIA, PARDE per PARTE) o inversioni (IL per LI, SPICOLOGIA per PSICOLOGIA) e assenza di doppie o accenti. Spesso la disortografia si associa a una diagnosi di dislessia, perché gli apprendimenti della lettura e della competenza ortografica risultano strettamente legati. Disturbo specifico della scrittura o disgrafia. Con il termine disgrafia si fa riferimento a una difficoltà specifica a carico dell’aspetto grafico e motorio della scrittura, che risulta disordinata, illeggibile o caratterizzata da troppa lentezza. La disgrafia vera e propria riguarda quindi in primo luogo il grafismo e non le regole ortografiche e sintattiche, che pure possono essere coinvolte, se non altro come effetto della frequente impossibilità di rilettura e di autocorrezione da parte dello scrivente. La mano dei bambini disgrafici scorre con fatica sul piano di scrittura, l’impugnatura della penna è molte volte scorretta e la pressione della mano sul foglio spesso o troppo forte o troppo leggera. La capacità di utilizzare lo spazio a disposizione per scrivere è, solitamente, molto ridotta: il bambino non rispetta i margini del foglio, lascia spazi irregolari tra le lettere e tra le parole, non segue la linea di scrittura, procedendo in salita o in discesa, cioè in modo obliquo alla riga. Le dimensioni delle lettere non sono rispettate, la loro forma è spesso irregolare, i legami tra le lettere sono scorretti. Tutto ciò rende spesso la scrittura incomprensibile al bambino stesso, il quale non può quindi neanche individuare e correggere eventuali errori ortografici. Tra le variabili indicative dell’efficienza dei modelli grafo-motori di scrittura, troviamo innanzitutto due aspetti fondamentali: la velocità di scrittura dei grafemi e la loro leggibilità. Tuttavia, nell’analisi della padronanza grafica, si prendono in considerazione anche aspetti più specifici, come la buona gestione dello spazio del foglio, la direzione del movimento della mano durante la scrittura, la grandezza relativa (proporzioni tra le parti che costituiscono le lettere) e assoluta (la spaziatura tra le lettere e tra le parole), l’allineamento delle lettere sul rigo e delle cifre

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  Introduzione

in riga e colonna (abilità che dovrebbero migliorare con l’avanzamento scolastico), la prensione della penna e la pressione della mano sul foglio. Disturbo specifico del calcolo o discalculia. La discalculia evolutiva si definisce come un disturbo a carico delle abilità numeriche e aritmetiche, che si manifesta in bambini di intelligenza normale. Può presentarsi con una certa frequenza in associazione alla dislessia o a difficoltà di tipo visuospaziale. Alcune ricerche hanno suggerito che solo il 2,5% della popolazione scolastica presenterebbe difficoltà di calcolo in associazione ad altri disturbi, e solo per percentuali esigue (circa 0,5-1%) si tratta effettivamente di discalculia evolutiva. Gli esperti concordano nell’affermare che i disturbi specifici gravi e selettivi nell’uso dei numeri e nel calcolo sono decisamente poco frequenti nella popolazione scolastica. In genere, si tende a differenziare le difficoltà specifiche del calcolo, distinguendo i disturbi che riguardano la conoscenza numerica da quelli relativi al calcolo vero e proprio e alle procedure correlate. È importante sottolineare che la discalculia non si riferisce in modo generico a tutta la matematica, ma solo ad alcune abilità di base, che corrispondono all’elaborazione del numero (lettura e scrittura di numeri, giudizio di numerosità o di grandezza, ecc.) e alle procedure necessarie al calcolo, sia a mente che per iscritto. Tra le principali difficoltà rilevate è possibile, ad esempio, distinguere errori relativi all’aspetto linguistico del numero (denominazione o trascrizione di numeri, utilizzo dei segni delle operazioni), all’aspetto percettivo (riconoscimento e lettura dei numeri e dei segni aritmetici) o procedurale, cioè relativo ai calcoli scritti (procedura di risoluzione delle quattro operazioni). Per quel che riguarda poi le competenze logico-matematiche, il bambino con discalculia non ha potenzialmente alcun tipo di deficit, in quanto la sua intelligenza logico-matematica è integra. Purtroppo, però, la soluzione di un problema matematico richiede che si padroneggino contemporaneamente una molteplicità di procedure strumentali al calcolo: leggere il problema e comprenderlo, caso mai dopo averlo copiato dalla lavagna o scritto sotto dettatura;

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quindi, concentrarsi sui dati e sulle varie domande del problema, incolonnare i dati, calcolare e così via. Se uno studente con DSA non padroneggia bene tali procedure, tutte le sue risorse attentive saranno assorbite in questi compiti, piuttosto che nella comprensione e soluzione logica del problema matematico. Dopo aver fornito una definizione di DSA e introdotto i principali disturbi che la caratterizzano, desideriamo presentarvi la struttura del libro. Per prima cosa, ci preme far chiarezza sul titolo, forse un po’ provocatorio, scelto per colpire al cuore un diffuso quanto mai falso pregiudizio verso le persone dislessiche, cioè quello che lega la maturazione dei meccanismi di base che sottostanno alla lettoscrittura e al calcolo con il grado di intelligenza di una persona: se un dislessico non sa leggere è perché è stupido! Il pregiudizio, ovviamente, è diffuso tra coloro che con facilità e naturalezza hanno appreso i meccanismi di decodifica grafema-fonema, nel caso della lettura, dell’esecuzione del tratto grafico, della scrittura, e degli automatismi di base del calcolo. Per costoro è stato così facile farli propri e automatizzarli – ed è così per la stragrande maggioranza di quella popolazione alfabetizzata dall’età dello sviluppo – che solo un asino, un testardo, uno stupido potrebbe non riuscirci. A sei anni, per la maggior parte di noi, è stato un gioco imparare a leggere, è stato affascinante possedere un proprio quaderno e una penna e imparare a scrivere, emozionante confrontarsi su chi fosse tra i compagni il più ordinato nella scrittura e pronto nelle tabelline. Alcuni di noi potranno certo avere ricordi di momenti difficili e spiacevoli della propria vita scolastica ma, se non si è stati affetti da un DSA, questi non si assoceranno a una difficoltà che può aver compromesso la capacità di imparare a leggere, scrivere o far di calcolo. Questo dono naturale che molti posseggono, però, fa essere alcuni avari verso altri che funzionano diversamente. Non ci stancheremo di ripeterlo per tutto il libro: un dislessico, uno studente con DSA non è uno stupido, non è un asino perché legge male. E non lo diciamo per un’ipocrita e viscida negazione di una diversità. Lo affermiamo, invece, sulla base di due ragioni: per la natura stessa di un DSA e per un dato di evidenza

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storica e fenomenologica delle persone con DSA. Nel caso in cui si riscontrasse che in un bambino che non riesce ad apprendere correttamente la lettura, la scrittura o il calcolo fossero presenti fattori che disturbano il suo lavoro scolastico dovuti a un ritardo mentale, a condizioni familiari di grave disagio o ad altre condizioni di salute fisica o mentale, non si potrebbe procedere con una diagnosi di DSA. Quindi, una persona dislessica non è tale perché ha una disabilità intellettiva. La seconda ragione ci viene dal contatto costante con adulti con DSA e dal profilo storico di famosi personaggi che sono stati riconosciuti dislessici: nessuno di loro, a prescindere che abbia avuto successo o meno nella vita, è una persona con un’intelligenza sotto la norma. Anzi, la continua ricerca di strategie per il superamento delle difficoltà ha favorito, in alcune persone con DSA, un maggiore sviluppo dell’intelligenza creativa che fa di alcuni di loro uomini e donne di particolare successo. Con il titolo dato a questo libro abbiamo voluto mettere a nudo una credenza senza fondamento: che sia un asino chi non legge. La forma retorica della domanda, poi, è un invito a chiunque non fosse convinto di ciò a non esitare a leggere queste pagine per potersi ricredere. Il libro è stato pensato per rivolgersi a tre principali categorie di lettori: genitori, insegnanti e adulti con DSA. I primi due capitoli sono rivolti a genitori di bambini in età dello sviluppo. Il Capitolo 1, “Dall’infanzia ai primi anni di scuola: istruzioni d’uso per i genitori”, vuole guidare i genitori a prestare attenzione a segnali di comportamenti inadeguati nell’uso del linguaggio parlato, nella comprensione delle nozioni spazio-temporali e nella coordinazione motoria, che possono essere indicativi di un incipiente disturbo dello sviluppo in un’età che precede l’inserimento scolastico, tra i 3 e i 5 anni. Nella seconda parte del medesimo capitolo, c’è anche un invito a non trascurare alcune difficoltà nell’imparare a leggere e a scrivere di un figlio nei primi anni delle elementari9; in questa ________________ 9. Per rendere il testo più fluido,elem utilizzeremo il termine “elementare/i” in riferimento alla scuola primaria e il termine “media/e” in riferimento alla scuola secondaria di I grado, considerando che i due termini utilizzati in sostituzione siano ancora di uso comune. [N.d.A.].

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parte, saranno date alcune indicazioni di come intervenire quando il bambino tende a dimenticarsi quello che aveva imparato il giorno prima e le lettere gli si confondono sia nella lettura sia nella scrit-tura, se la maestra troppo spesso dichiara che il bambino ha difficoltà nell’apprendere l’alfabeto e la scrittura, è spesso distratto e poco interessato. Lo scopo generale del capitolo è di guidare il genitore a non colpevolizzare un bambino in difficoltà, confonden-do i suoi insuccessi con mancanza di impegno, disobbedienza o sciatteria, ma ad attivarsi per un sostegno che in questa età dello sviluppo risulta sempre di particolare efficacia. Il Capitolo 2, “Quando mio figlio è dislessico”, è diretto a genitori di bambini che hanno già ricevuto una diagnosi di DSA, per guidarli nella lettura di una diagnosi, capire quando è opportuno affidarsi alla terapia e quanto e cosa potranno richiedere dalla scuola. In questa età è fondamentale un intervento terapeutico mirato e specifico, il più precoce possibile per approfittare del periodo sensibile di apprendimento del bambino. Ciò consentirà la maggiore efficacia della terapia per un recupero delle capacità di letto-scrittura. Questi due primi capitoli saranno molti utili anche a insegnanti della scuola dell’infanzia che vogliano acquisire una maggiore preparazione su queste tematiche ed essere di supporto competente e professionale nella mansione educativa dei genitori. Il Capitolo 3, “Quando l’alunno rimane indietro: il ruolo degli insegnanti”, si rivolge principalmente agli insegnanti della scuola primaria, ma anche a quelli dei successivi ordini e gradi, interessati a riconoscere tempestivamente comportamenti e difficoltà di apprendimento indicativi di un possibile disturbo. In questo capitolo sono forniti strumenti per riconoscere disturbi specifici e suggerimenti per interventi didattico-educativi personalizzati. Sarà sottolineata l’efficacia che ne deriva da una stretta collaborazione dell’insegnante e della scuola con i professionisti coinvolti nell’intervento terapeutico specifico dell’alunno. Il Capitolo 4, “Non ero stupido, ero dislessico: i Disturbi Specifici di Apprendimento negli adulti”, è diretto a persone adulte che desiderano capirci di più sulle ragioni che possono aver accompagnato alcuni loro insuccessi scolastici. Il capitolo, quindi, fornisce

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indicazioni per riconoscere la dislessia in un adulto, come arrivare a una diagnosi anche a quest’età e gli eventuali strumenti compen-sativi per gestire e far emergere al meglio le proprie competenze. Il capitolo è arricchito dalle testimonianze di alcuni giovani ventenni con DSA che si sono interrogati su cosa significhi avere un DSA, come ci si sente, che conseguenze ha nella vita di un adulto. I Capitoli 5 e 6, gli ultimi due, “Centri specialistici per la diagnosi e il trattamento dei DSA” e “Tecnologie assistive per la facilitazione dell’apprendimento e la compensazione del disturbo”, sono stati pensati per tutti quei lettori interessati a saperne di più su come e dove avviene una valutazione e un trattamento di DSA e su quali ausili tecnologici si possono adottare per facilitare e compensare un DSA. Questo libro non vuole essere un manuale sui DSA, ma un vademecum che, come un tascabile contenente notizie utili per visitare un museo o una città, guidi il lettore nei percorsi della propria vita che lo vedono coinvolto, a qualunque titolo, con i DSA. Come una guida, non va necessariamente letto secondo la successione dei capitoli. Ogni lettore può aprirlo lì dove ritiene possa trovare consigli utili per il suo cammino. Per chi avrà poi il piacere di leggerne tutti i capitoli, non si stupisca di qualche ripetizione: come un vademecum ogni capitolo voleva avere una sua compiutezza sui DSA in riferimento alla tipologia di destinatari a cui è rivolto, senza costringere il lettore, se non necessario, a ulteriori rimandi in altre parti del libro. I Capitoli 2 e 3 sono arricchiti di alcuni box tematici, finestre di approfondimento su alcuni argomenti specifici. Per alleggerire la lettura, e non tediare il lettore che non ne fosse interessato, abbiamo scelto che alcuni argomenti fossero posti fuori dal corpo principale del testo. Seppure collocati solo nei Capitoli 2 e 3, tuttavia, i contenuti approfonditi nei box sono di argomenti trasversali a tutto il libro. Il lettore attento avrà già notato il nostro uso del genere maschile in riferimento alle persone con DSA. È stata una scelta voluta e non superficiale, che come tale potrà essere criticata da coloro che non la condividessero. È il rischio che comporta fare una scelta. Quello che ci preme far sapere al lettore, però, è che l’uso in questo

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libro del maschile riferito a bambini, studenti, scolari, adulti con DSA non è stato conseguenza di un automatismo di un linguaggionon inclusivo. Nelle prime stesure di questo libro abbiamo provato forme inclusive che prevedevano sempre l’uso di entrambi i generi. Ma la lingua italiana, così trasparente per tanti versi, resta un po’ ostile a forme inclusive nell’espressione scritta. Non bastava, infat-ti, come si fa con l’inglese, modificare il sostantivo perché inclu-desse entrambi i generi. La nostra lingua ci imponeva la concordan-za di ogni altra parte del discorso, rendendo impossibile non tanto la scrittura, ma piuttosto la lettura del testo. E se una cosa volevamo evitare in un libro come questo era proprio di renderne difficoltosa la lettura. Perché abbiamo scelto di privilegiare il genere maschile? Diciamo che è stata una ragione statistica, epidemiologica: il ruolo del sesso maschile come fattore di rischio per lo sviluppo di disles-sia è nei maschi circa 2,5 volte superiore rispetto alle femmine. Il sesso maschile è più rappresentato nei DSA di quanto non lo sia il sesso femminile. Lasciateci ora esprimere i nostri ringraziamenti a quanti hanno collaborato nella stesura e revisione del testo. In primo luogo, un riconoscimento particolare va a tutti i professionisti del Centro FARE (Formazione Abilitazione Ricerca Educazione) di Perugia e, in modo del tutto particolare, al lavoro svolto da Davide Filippi, psicologo, Cristina Gaggioli, pedagogista, e Moreno Marazzi, neuropsicologo. Con loro abbiamo lavorato fianco a fianco, capitolo per capitolo, apprezzandone la disponibilità al confronto, la competenza in materia, l’intelligenza nella critica, la sensibilità per i contenuti narrativi dei casi discussi. A tanti dobbiamo un grazie per l’aiuto ricevuto, a loro tre dobbiamo un qualcosa di più per aver permesso che questo lavoro si portasse a termine, anzi, fosse possibile. Un ringraziamento va anche ai nostri amici revisori, la maestra Antonietta Del Brocco, il genitore, presidente dell’A.Ge. di Modena, dottoressa Giovanna Lami e il neuropsicologo Francesco Lumaca, che con passione e pazienza, e nei tempi stretti che spesso caratterizzano una produzione editoriale, hanno rivisto le bozze del libro, suggerendoci limature a certe spigolosità del testo e semplificazioni nella forma.

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Capitolo 1

Dall’infanzia ai primi anni di scuola: istruzioni d’uso per i genitori

Com’è noto e come risulta chiaro dal capitolo introduttivo, essendo il DSA un disturbo di lettura, scrittura o calcolo non può essere diagnosticato prima della fine della seconda classe primaria o, nel caso della discalculia e della disgrafia, prima della terza. Questo vincolo temporale è chiaramente legato al fatto che per parlare di un disturbo dell’apprendimento è necessario che un bambino abbia provato a misurarsi con l’abilità da apprendere. Per cui, non avrebbe senso classificare un bambino come portatore di un disturbo della lettura dopo appena uno o due mesi di prima classe primaria. Nel periodo prescolare, cioè nella fascia d’età tra i 3 e i 5 anni, non si avrà quindi a che fare con un DSA, non essendo stati i bambini ancora sottoposti a un processo sistematico di alfabetizzazione. Tuttavia, alcuni bambini già a questa età presentano tutta una serie di sintomi che potrebbero far presagire a quello che in futuro, cioè durante la frequenza della scuola primaria, potrebbe strutturarsi in un disturbo specifico di apprendimento. In questo capitolo, il primo di due (vedi Capitolo 2) che si rivolgono principalmente ai genitori, ci proponiamo di offrire alcune indicazioni utili sia a coloro che notano nei loro figli di età compresa tra i 3 e i 5 anni alcuni comportamenti inadeguati – nell’uso del linguaggio parlato, nella comprensione delle nozioni spazio-temporali e nella coordinazione motoria – che possono essere indicativi di un incipiente disturbo dello sviluppo, sia a genitori di bambini che si avviano all’apprendimento della letto-scrittura e del calcolo nei primi anni di scuola per i quali imparare a leggere e scrivere non è facile come sembra. Il genitore nota, infatti, che il bambino tende

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   Capitolo 1

a dimenticarsi quello che aveva imparato il giorno prima, tende a confondere le lettere sia nella lettura sia nella scrittura. Quando va a colloquio con la maestra, troppo spesso si sente dichiarare che il bambino ha difficoltà nell’apprendere l’alfabeto e la scrittura, è distratto e poco interessato. In questo capitolo vorremo guidare il genitore a osservare in modo partecipato e competente il comportamento del proprio figlio e ad attivare tutti quei supporti necessari per il recupero delle competenze attese per la sua età. Il fine è di favorire, qualora necessario, un intervento preventivo che possa minimizzare l’impatto che un disturbo nello sviluppo avrebbe nell’apprendimento scolastico. Un genitore partecipe e competente è quello che sa rivolgersi al bambino non colpevolizzandolo per le sue difficoltà, non è un superficiale che riconduce tutte le stranezze del figlio a bizzarrie del suo carattere, né un ansioso che soverchia il proprio figlio con rigide regole di comportamento misurandolo costantemente su traguardi da raggiungere, trasformandone la vita in un’eterna competizione per il successo. Un genitore amorevole, partecipe e competente non confonde le prime difficoltà di apprendimento scolastico con una mancanza di impegno, disobbedienza o sciatteria del figlio. Cercheremo anche di rispondere ad alcune domande che spesso ci sentiamo rivolgere dai genitori: “Com’è fatto un bambino dislessico prima di entrare a scuola?”; “Manifesta delle caratteristiche comportamentali che mi possono aiutare a riconoscerlo prima che si misuri direttamente con l’apprendimento scolastico?”; e ancora, “Come posso aiutare mio figlio affinché questi primi anni di scuola non siano per lui una tragedia, un’esperienza di frustrazione e d’insuccesso?”.

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PRIMA PARTE: “MAMMA, OGGI È DOMANI?” QUANDO CERTI ERRORI NON DOVREBBERO FAR PIÙ SORRIDERE UN GENITORE Come abbiamo accennato poco sopra, già a un’età compresa tra i 3 e i 5 anni, ovvero quando alcune competenze del linguaggio parlato e delle attività motorie dovrebbero già essere acquisite, alcuni bambini manifestano certi comportamenti che dovrebbero destare l’attenzione di un genitore attento e partecipe della crescita dei propri figli. Non ci stancheremo mai di ripeterlo in questo libro che attento e partecipe non significa per noi ansioso o giudicante, iperprotettivo o normativo. Un genitore attento e partecipe, solidale con il proprio figlio e amorevole nei modi non si lascerà spaventare dalle difficoltà e dagli ostacoli che incontrerà il proprio figlio, non ne maschererà i comportamenti atipici svalutandoli o facendo finta di non notarli. E cosa dovrebbe fare, allora? Quello che noi sappiamo è che, entro certi limiti, è possibile riconoscere quel che sarà diagnosticato solo in seconda o in terza elementare come un DSA già prima di questo tempo, molto prima anche dell’ingresso nella scuola, ad esempio prestando attenzione ad alcune carenze manifestate dal bambino nelle abilità di linguaggio o nelle competenze motorie, visuopercettive, visuospaziali o, in generale, nell’attenzione e nelle funzioni esecutive. Sia ben chiaro, però che nessuno di questi segnali premonitori, che si possono riscontrare in un bambino tra i 3 e i 5 anni, predice al cento per cento, in maniera inequivocabile, un DSA. Questi comportamenti, a volte un po’ bizzarri agli occhi di un adulto, possono essere indicativi solo della presenza di un fattore di rischio di un possibile futuro DSA1.

1 Un

fattore di rischio che al massimo per un 40% dei casi si potrà veramente concretizzare in un DSA. Roberta Penge, I disturbi specifici di apprendimento, in Stefano Vicari e Cristina Caselli (a cura di), Neuropsicologia dello sviluppo, Bologna, Il Mulino, pp. 149-160, 2010.

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È importante che un genitore sappia riconoscere se suo figlio ha uno sviluppo considerato tipico o se invece manifesta segnali di rischio per DSA, come la difficoltà nella pronuncia di alcuni suoni (quel che si dice un disturbo fonologico di linguaggio). In questo caso, infatti, anche se non si può prevedere con certezza se il bambino andrà o meno incontro a un DSA, sarà comunque vantaggioso offrirgli un sostegno specialistico. Questo potrà aiutarlo, nell’immediato, a farsi capire molto meglio dagli altri bambini, favorendo una corretta socializzazione e riducendo il rischio che adotti comportamenti aggressivi a causa della percezione delle sue difficoltà comunicative, spesso ridicolizzate anche dai suoi pari; risulta, inoltre, vantaggioso per il futuro, poiché riduce le manifestazioni di un eventuale DSA. Di seguito cercheremo di delineare un panorama dettagliato di questi segnali di rischio, attraverso un linguaggio discorsivo e il meno tecnico possibile, cosicché un genitore, innanzitutto, ma anche un insegnante della scuola d’infanzia, sappia riconoscerli e orientarsi sul da farsi, eventualmente ricorrendo anche all’aiuto di esperti.

Tra le differenze individuali e le atipie di sviluppo, il percorso di crescita del bambino Il funzionamento di un bambino, come di ogni altro essere umano, è il prodotto di uno stretto rapporto che c’è tra le strutture corporee, cioè l’organismo biologico, e le funzioni che quelle svolgono, regolate da leggi universali che guidano non soltanto lo sviluppo corporeo e cerebrale ma anche quello mentale. Quando diciamo mentale ci riferiamo a quelle funzioni di un organismo umano – come la percezione, la memoria, la coscienza, il pensiero, il ragionamento, le emozioni – che non sono semplicemente riconducibili all’osservazione delle attività biologiche. Oggi, attraverso particolari tecniche di visualizzazione per immagini del funzionamento del cervello, è possibile sapere cosa, dove e quando il nostro cervello elabora qualcosa proprio nel momento in cui lo sta facendo. Per esempio, è possibile evincere, semplicemente vedendo quali aree del cervello sono maggiormente in funzione, che un individuo in quel momento

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sta vivendo una forte emozione, o sta percependo un colore, o sta prendendo una decisione. Tuttavia, dall’osservazione del cervello non sapremo quale emozione sta vivendo, come si sta rappresentando il colore rosso, quali idee stanno muovendo le sue decisioni. Questo lo possiamo sapere solo interrogando la persona, indagando la sua coscienza, cioè, per dirla in altre parole, rivolgendoci alla sua attività mentale. Sappiamo di non avere la possibilità di riscontrare il funzionamento di una mente senza che si attivi il cervello, ma sappiamo anche che l’osservazione del funzionamento del cervello ancora non ci spiega quello che avviene nella mente. Ebbene, come l’organismo è regolato da un programma di sviluppo delle cellule iscritto nel DNA, così anche la nostra mente è regolata da leggi che la governano, che chiamiamo funzioni mentali. E come ciascun individuo, pur nella somiglianza che lo rende membro di una specie, ha un proprio DNA che lo rende biologicamente diverso da qualunque altro della sua specie, così anche la mente di ciascuno si distingue per un modo unico e irripetibile di funzionare che, in stretto rapporto con le caratteristiche specifiche del suo corpo, lo rende una persona unica. Sia le differenze genetiche di ciascun individuo che quelle mentali possono dipendere da molteplici fattori. Quelle mentali sono soggette, oltre che a variazioni delle strutture organiche del cervello, anche alle differenze culturali ed esperienziali di una persona. Quindi, una funzione della mente, come per esempio quella del ragionamento, potrà essere compromessa sia se nel momento della nascita, a causa di una sofferenza neonatale, il cervello è stato temporaneamente privato di ossigeno, sia perché si è stati poco stimolati nella crescita. Nel primo caso, il funzionamento della mente è danneggiato da una causa organica, in quanto alcune aree del cervello deputate all’elaborazione dei ragionamenti sono state distrutte; nel secondo caso, come ad esempio si è riscontrato tra quei neonati lasciati a lungo in una culla senza alcuna stimolazione affettiva di un adulto, la mente in qualche modo si atrofizza, determinando un importante ritardo mentale dovuto a una causa di natura sociale e affettiva e non biologica. Sicché, quando parliamo di funzioni umane, ci riferiamo a qualcosa che ci aspettiamo che la mente di un individuo faccia, sia

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perché il suo cervello funziona correttamente sia perché essa si è maturata in un contesto sociale amorevole e stimolante. Ora, quando osserviamo dei comportamenti atipici in bambini tra i 3 e i 5 anni, che potrebbero segnalarci l’insorgenza di un DSA, rimaniamo a lungo nel dubbio, non solo perché un DSA, per sua natura, irrompe ed è diagnosticabile solo quando un individuo è esposto a un certo periodo di alfabetizzazione, ma anche perché, qualora possa esser definito tale, deve avere una sua origine organica, cioè essere stato causato da una disfunzione di alcuni circuiti cerebrali da cui dipendono specifiche funzioni mentali. Questa natura organica non è facilmente riconoscibile con la sola osservazione di un comportamento atipico, bizzarro o anomalo. In un’età così precoce dello sviluppo, i bambini sono ancora molto sensibili a influenze ambientali e affettive che possono agire sul funzionamento dei processi mentali, ma non necessariamente sulle strutture organiche compromettendone il regolare sviluppo. Inoltre, sapere cosa determina il disturbo fa una grossa differenza anche rispetto all’esito che questi sintomi precoci avranno sullo sviluppo del bambino. I segni premonitori di un disturbo dell’apprendimento la cui origine è organica condurranno a un DSA che non è sanabile del tutto, cioè i cui sintomi potranno essere alleviati ma non risolti, superati tramite strategie comportamentali e compensative ma non sconfitti. Diversamente, disturbi dell’apprendimento dovuti a fattori non organici ma ambientali ed emotivi hanno molte più probabilità di essere superati con la crescita, qualora vengano risolti gli stati mentali o le influenze ambientali e affettive che stressano il bambino e ne bloccano il normale decorso evolutivo. Fin qui abbiamo spiegato le difficoltà di comprensione di segnali precoci di DSA in bambini molto piccoli legati alle differenti cause che possono determinare un disagio nello sviluppo di un bambino sia di natura organica che ambientale, affettiva ed emotiva. Ma un genitore non deve trascurare un’altra importante variabile che può determinare la particolarità di alcuni comportamenti: l’unicità del suo bambino, le differenze che lo caratterizzano come individuo e che non sono sempre e del tutto comparabili a quelle di

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un altro. Ma allora, vi chiederete, come poter essere un genitore attento, partecipe e amorevole che non minimizza segni premonitori di un disturbo, ma che nemmeno ostacola che si manifestino le caratteristiche individuali del proprio figlio che lo rendono unico? Per prima cosa, ci viene da rispondere che un genitore, come ogni buon educatore, deve imparare a rischiare. Non ci sono risposte esatte per tutto e, per fortuna, tanto meno per l’educazione di vostro figlio. L’educazione è una sfida, è un atto di fiducia, che si fonda sull’amore, non perché è cieco, non sarebbe amore, ma perché è incondizionato, disposto sempre al bene dell’altro che nutre e rinsalda il bene per noi stessi. Detto ciò, tuttavia, noi non smettiamo di fare il nostro lavoro e avanziamo anche un’altra risposta. Quando abbiamo bisogno di discernere tra una differenza individuale e il segnale di un disturbo emergente facciamo ricorso alla statistica. È certamente meno calda dell’amore di un genitore, possiede certamente una visuale molto più ristretta sul mondo e sul senso della vita, ma a volte ci torna utile. Pensiamo allo sviluppo motorio di un bimbo che avviene per tappe raggiunte dai bambini entro un certo periodo di tempo: prima il controllo dei muscoli del capo e del collo, poi quello del tronco e, successivamente, il muoversi carponi in genere verso gli otto mesi per poi, infine, l’alzarsi in piedi e, verso 1 anno, il camminare autonomamente. Quanti di voi genitori, intorno ai 12 mesi di vostro figlio, avete tenuto sempre in carica la videocamera, a portata di mano e pronta a filmare i primi passi del vostro bimbo? Ma alcuni bambini la tirano per le lunghe: alcuni lo faranno solo a 18 mesi. Eppure, quest’età rientra ancora all’interno di un decorso normale o tipico dello sviluppo. Questa differenza, così frequente tra i bambini, è solo l’espressione di quelle che si chiamano differenze individuali, quelle cioè che ci rendono tutti diversi uno dall’altro. Il fatto che una certa variabilità nei tempi di crescita di un bimbo debba essere considerata normale si basa su due constatazioni: la maggioranza dei bambini cammina tra i 10 e i 18 mesi e, oltre questo periodo, il ritardo nel camminare è quasi sempre il prodromo di un disturbo motorio.

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Le differenze individuali non devono destare alcuna preoccupazione nel genitore. Se, invece, un bambino non raggiunge una tappa dello sviluppo entro il periodo che si considera tipico per fase di crescita, si comincia a parlare di ritardo. Ad esempio, un ritardo nel muovere i primi passi viene considerato ritardo della deambulazione autonoma quando un bimbo non cammina da solo entro i 18 mesi, e disturbo o meglio disturbo dello sviluppo se il problema persiste compiuti i 3 anni di età. Un disturbo dello sviluppo è, dunque, la mancata comparsa di un’abilità attesa a quella determinata età2. A questo punto, fatta chiarezza tra differenze individuali, ritardo e disturbo, passiamo a esporre quali ambiti dello sviluppo di un bambino devono essere presi in considerazione come premonitori di un futuro DSA se manifestano sintomi di una certa disfunzionalità. Tra questi certo non troverete quelli legati allo sviluppo dell’intelligenza. Infatti, una persona diagnosticata con un DSA non ha mai un ritardo intellettivo. In caso di DSA non sono compromesse le capacità comunicative e relazionali che sono assolutamente nella norma. L’attenzione sarà posta, invece, sullo sviluppo motorio, linguistico (e quindi anche uditivo), visuopercettivo e in certa parte anche attentivo (visuospaziale). Verrà inoltre fatto riferimento al caso dei bambini con bilinguismo e si effettueranno alcune considerazione sul significato di ereditarietà dei DSA.

Cosa può notare un genitore Per comodità e chiarezza in questo paragrafo affronteremo in sequenza, uno alla volta, alcuni ambiti di sviluppo con particolare attenzione a quelli che si possono considerare maggiormente legati all’apprendimento delle abilità di lettura, scrittura e calcolo. Tale separazione è però strumentale, perché in realtà, in una persona, ciascuno di questi settori dello sviluppo cresce in costante reciproca interazione, dando luogo alla maturazione dell’intelligenza e della personalità del bambino. 2 I

disturbi dello sviluppo si differenziano da quelli degli adulti, detti disturbi acquisiti, i quali si caratterizzano per la perdita selettiva di una capacità precedentemente appresa, in una fase dello sviluppo.

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Lo sviluppo tipico del linguaggio da 0 a 5 anni In che senso, innanzitutto, il linguaggio è collegato al successivo apprendimento della letto-scrittura? Siccome la scrittura e quindi la lettura furono inventate circa 5000 anni fa per rappresentare in forma grafica la comunicazione orale, migliorando in rapidità ed estensione territoriale la trasmissione della cultura3, è evidente il loro originale stretto rapporto con il linguaggio. Non ci stupisce, dunque, scoprire alcune competenze o abilità prettamente linguistiche collegate all’apprendimento della letto-scrittura. Innanzitutto, tanto più un bambino possiede una precisa e stabile rappresentazione di tutti i suoni linguistici, cioè di tutti i fonemi, quanto più è facilitato nell’apprendimento della letto-scrittura della lingua da lui parlata4. Infatti, quando si insegna a leggere si chiede di associare a un suono del linguaggio un segno (lettera) che, in maniera convenzionale e arbitraria, è stato costruito per rappresentare proprio quel suono. Ad esempio, se devo rappresentare il suono iniziale della parola ROMA utilizzo il segno R. Se per caso – e capita molto più spesso di quanto si pensi – un bambino entra in prima elementare senza saper pronunciare il suono /r/, e quindi non possedendone ancora una sua rappresentazione forte e stabile, avrà qualche problema in più ad associarvi il segno corrispondente, incappando facilmente in quegli errori di sostituzione (ad esempio, scrivendo L invece di R) che coincidono con quelli che commette proprio nel parlato, cioè dicendo /loma/ al posto di /roma/. In secondo luogo, esistono delle competenze chiamate metafonologiche che permettono di trattare il linguaggio come se fosse un oggetto. Staccandosi dal suo uso principale, cioè da quello comunicativo, il bambino deve imparare, per poter arrivare a leggere, a smontare una parola proprio come fosse una costruzione della

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Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Torino, Einaudi, 2006. 4 La corretta rappresentazione dei fonemi è da considerarsi soltanto un facilitatore dell’apprendimento della letto-scrittura e non una condizione necessaria. Bambini sordi segnanti o udenti che parlano forme dialettali come lingua naturale che accedono alla scuola primaria dovranno affrontare, con molta probabilità, maggiori difficoltà per imparare a leggere e scrivere l’italiano, ma non per questo diventeranno dislessici.

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Lego, in singoli componenti: prima le sillabe, poi le consonanti e le vocali. Questo lavoro è tutt’altro che banale. Smontare una parola come MAMMA, che fino a quel momento, come suono globale, aveva svolto il compito di rimandare ad altro da sé di molto ben preciso, implica ora che il bambino presti attenzione solo alla parola per quello che è come suono. Al bambino, quindi, è richiesto di accedervi e manipolarne il suono, riproducendo suoni sempre più piccoli della parola intera, quelli che sono rappresentati appunto dalle sillabe, in una prima scomposizione, e poi dai singoli fonemi. La divisione di una parola in sillabe è più semplice e intuitiva per un bambino, perché la sillaba è facilmente riconoscibile e pronunciabile, al contrario del singolo fonema o della singola consonante che, proprio per sua natura, da sola non suona, cioè non è pronunciabile senza il supporto di una vocale. I fonemi non sono, infatti, per niente intuitivi e riconoscibili spontaneamente; saranno proprio le lettere scritte che via via il bambino imparerà ad associarvi che sosterranno la comprensione del fonema (vedi Capitolo 3, “Insegnare a leggere e a scrivere: l’importanza del metodo”). Una volta riconosciuti i fonemi, il bambino dovrà allenarsi a leggerli e a scriverli con compiti di analisi e fusione: sono questi i compiti di tipo metafonologico. Infine, un altro motivo per cui è molto importante che un linguaggio sia ben sviluppato per l’apprendimento della lettura è la quantità di parole disponibili nella mente del bambino. Parliamo del vocabolario di una lingua, cioè del lessico5. Sono infinite le ragioni per cui la ricchezza di un vocabolario in un bambino facilita l’apprendimento scolastico in genere e della letto-scrittura e del calcolo nello specifico. Pensiamo solo al fatto che l’alunno che conosce più parole avrà anche più facilità a comprendere le spiegazioni dell’insegnante. Ci sono poi ragioni più specifiche, come il fatto che per ogni nuova parola appresa a scuola il bambino ne dovrà imparare il significato e contesto d’uso, la pronuncia e l’or5 Ci

riferiamo qui ancora solo al lessico fonologico, parlato, e non a quello ortografico, scritto, che sarà acquisito da una persona proprio nel processo di alfabetizzazione che in un percorso normale di apprendimento avviene con l’ingresso nella scuola primaria.

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tografia, mentre per tutte le parole che già possiede nel suo bagaglio mentale dovrà apprenderne solo la corretta ortografia. Non è un caso, infatti, che la scuola cominci quando un bambino ha già 6 anni e possiede in media un vocabolario di circa seimila parole. In che senso una parola conosciuta sostiene l’apprendimento della lettura? Semplice. Immaginiamo che uno scolaro di 6 anni, nelle prime fasi di apprendimento, sia invitato dalla maestra a decodificare la parola ELEFANTE. Inizierà sillabando: /e/, /e-le/, /e-le-f/... Giunto a /e-le-f/, se già conosce la parola ELEFANTE non avrà più bisogno di proseguire nella decodifica riconoscendo già a metà del processo la parola corretta. Se, quindi, una parola da decodificare è già posseduta nel bagaglio lessicale del bambino, il processo di lettura sarà meno faticoso e più veloce potendo far ricorso alla lettura lessicale, cioè alla lettura di una parola intera senza sillabarla che è tipica dei lettori esperti. Finora abbiamo messo in luce lo stretto rapporto che sussiste tra apprendimento della letto-scrittura e acquisizione del linguaggio. Per questa ragione è facile intuire che anomalie nello sviluppo tipico del linguaggio possono essere indicatrici di un probabile evolversi di un DSA. Vediamo allora come si caratterizzano le tappe di quello che è in generale considerato lo sviluppo normale o tipico del linguaggio. Durante il primo anno e mezzo di vita il bambino esercita i suoi organi articolatori, sviluppa la sua capacità di usare simboli, impara a comunicare intenzionalmente, prende progressivamente coscienza degli effetti che i segnali sia gestuali che vocali da lui prodotti hanno sul suo interlocutore. Nei primissimi mesi di vita un bimbo comunica essenzialmente attraverso il pianto, che è in grado di differenziare a seconda del bisogno: sonno, fame, fastidio o dolore. Il bimbo non sa solo piangere, ma anche sorridere, catturando, anche in questo modo, l’attenzione e il desiderio di accudimento dell’adulto. Successivamente, inizierà a emettere i primi vocalizzi, sperimentando così il piacere di ascoltarsi: l’emettere suoni diviene per lui una specie di gioco che ripetuto, perché gratificante, gli consentirà di apprendere e padroneggiare sempre di più i suoni della sua lingua.

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Man mano che cresce e che sperimenta sia i suoi organi articolatori sia la lingua parlata attorno a lui, diviene sempre più abile ed esperto maturando così la capacità di emettere i primi veri e propri suoni linguistici, detti gutturali (ad esempio, /gheghe/) e poi le sillabe formate dalle prime consonanti, in genere /p/, /m/, /b/. Intorno ai 3-8-mesi le sillabe sono prodotte sporadicamente e in maniera isolata (lallazione marginale: /pa/, /ma/,). Successivamente, tra i 5 e i 10 mesi, il bambino diviene sempre più abile e inizia a produrle in sequenza (lallazione canonica: /papapa/). Nel repertorio del bambino fanno il loro ingresso anche le pernacchie e i gridolini. Tra i 10 e i 12 mesi, la capacità di produrre sillabe si fa man mano più complessa: il bambino diviene capace di produrre combinazioni sillabiche sempre più elaborate (lallazione variata). A volte si esprime con lunghe sequenze di sillabe, utilizzando una grande varietà di accenti e intonazioni. Ed ecco che, infine, intorno ai 12 mesi compaiono le prime attesissime parole. Da questo momento in poi l’acquisizione di nuove parole avrà un processo esponenziale, e il bambino imparerà sempre nuovi suoni scoprendo anche che, con gli stessi suoni combinati in maniera differente, potrà produrre parole nuove e diverse. È in genere intorno ai due anni che il bambino inizia a mettere insieme due o più parole formando così le prime frasi. Questa capacità si svilupperà negli anni successivi, permettendo al bambino di produrre frasi sempre più complesse e complete di elementi grammaticali. Lo sviluppo della sintassi in genere è completo dei suoi aspetti fondamentali già all’età di 4 anni. In questo periodo il bambino utilizza anche i gesti per comunicare, che si fanno via via più complessi. Interagendo con l’adulto, il bambino impara a mostrare, dare e indicare un oggetto: rispettivamente, tende l’oggetto verso l’adulto di cui vuole attirare l’attenzione, lascia andare l’oggetto nelle mani del suo interlocutore, condivide l’attenzione. L’indicazione è una capacità assai importante: mentre punta l’indice verso l’oggetto che desidera (funzione richiestiva), il bambino guarda alternativamente quest’ultimo e l’adulto, condividendo l’attenzione. In questo modo impara a ottenere non solo ciò che richiede ma, pian piano, anche il nome degli

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oggetti richiesti, sviluppando così il suo vocabolario. Più ricco è il vocabolario di un bimbo, più facile risulterà anche la funzione dichiarativa di un’indicazione volta a mostrare qualcosa per condividerne l’interesse. I gesti esprimono l’intenzione comunicativa del bambino, ma sono ancora legati al contesto in cui vengono eseguiti. È solo a partire dai 12 mesi che il bambino inizia a usare gesti e parole che rappresentano qualcosa che non è immediatamente rintracciabile nel contesto. Ne sono un esempio l’indicare la porta di casa quando gli viene chiesto “dov’è papà?” mentre il papà è fuori; il battere le mani e guardare l’adulto chiedendone l’approvazione per esprimere che è bravo; fare ciao con la manina guardando la porta per chiedere di uscire; ballare per chiedere che gli venga accesa la radio. Sviluppo gestuale e sviluppo linguistico, dunque, si accompagnano, si intrecciano e si sostengono, finché a un certo punto non si assiste a una diminuzione dei gesti in favore dell’uso delle parole. Proviamo ora a descrivere in maniera semplice e sintetica cosa dovrebbero essere in grado di fare i bambini negli anni che precedono l’ingresso alla scuola primaria, dal punto di vista sia della comprensione che della produzione verbale. Un bambino di età compresa tra i 2 e i 3 anni è in grado di comprendere ed eseguire due richieste insieme (“prendi la palla e mettila nel cesto”), di ascoltare storie man mano più lunghe e complesse e comprendere la differenza tra i contrari (“davanti/dietro”, “sopra/sotto”). A questa età il numero di suoni che il bambino pronuncia si espande notevolmente, le combinazioni di parole sono formate da tre o più elementi e il piccolo riesce quasi sempre a farsi capire dalle persone che lo circondano. Pur sottolineando il fatto che lo sviluppo linguistico dei bambini procede in maniera autonoma e spontanea, senza che i genitori debbano far nulla di più che prendersi cura di loro amandoli, tuttavia, nel comunicare con loro è di aiuto usare frasi semplici, che possano essere imitate facilmente, e porsi spesso faccia a faccia, così che il bimbo possa osservare i movimenti articolatori. Inoltre, potrebbe essere utile riformulare ciò che ha detto il bambino, ripetendo l’enunciato privo di errori e arricchito di elementi,

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in modo da offrire un modello corretto di quanto detto. Per esempio, quando il bambino dice: “Mela lotta gadde”, il genitore potrebbe rispondere: “Ah! La mela rossa è grande! La mela rossa è buona!”. Inoltre, la lettura di libri e la presentazione di sinonimi delle parole più conosciute aiutano il bimbo ad arricchire il suo vocabolario, mentre l’uso di domande aperte favorisce la sua produzione verbale. Dai 3 ai 4 anni il bambino comprende e risponde a domande formate da semplici pronomi interrogativi come “chi?”, “che cosa?”, “come?”, “dove?”, e diviene sempre più fluido durante l’eloquio; sa raccontare cosa ha fatto a scuola, usa frasi sempre più lunghe formate da quattro o più parole ed è compreso quasi sempre bene anche da persone estranee alla famiglia. Il genitore può allenare la sua comprensione proponendo domande sempre più complesse, raccontando al bambino quello che fa o che gli è successo; può sollecitare la narrazione attraverso giochi di ruolo (“facciamo finta di essere al parco”), favorire lo sviluppo del vocabolario e morfosintattico giocando con le immagini e costruendo frasi con esse. Dal quarto al quinto anno di vita, ormai, il nostro piccolo grande umano è in grado di comprendere molto di quello che viene detto sia a casa che a scuola e riesce a rispondere a semplici domande su una storia che gli è stata raccontata. Dal punto di vista della produzione linguistica è in grado di pronunciare correttamente tutti i suoni, usa frasi sempre più ricche e complesse e comunica facilmente sia con adulti che con bambini. È questa l’età in cui inizia a riconoscere le lettere e contare. È questo il tempo in cui è bene proporre attività a tavolino via via più lunghe, per esempio facendo semplici giochi di carte come la ricerca di coppie uguali, per abituarli a stare seduti a lungo, incoraggiarli a fare domande se non capiscono ciò che viene detto loro. È utile anche stimolarli con indovinelli, descrivendo loro un oggetto del quale devono dire il nome, e utilizzare sentenze spaziali quando gli si parla, facendo spesso uso di avverbi di luogo.

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Aspetti di uno sviluppo atipico del linguaggio da 0 a 5 anni Se un bambino di 2 anni ha un vocabolario che gli consente di produrre meno di 50 parole, si comincia a parlare di ritardo di linguaggio. Se poi questo ritardo si manifesta isolatamente, cioè quando tutti gli altri ambiti dello sviluppo sono maturati normalmente, si classifica come ritardo specifico di linguaggio. Questo sta a indicare che il linguaggio è proprio l’unico ambito a non procedere come dovrebbe. In altre parole, se i ciclici controlli pediatrici non evidenziano nulla di particolare a livello organico; se il bambino ha un normale contatto di sguardo, sorride e comunica attraverso le espressioni facciali e con i gesti in alternativa al linguaggio, che invece non si sviluppa; se indica con il dito indice quando vuole una cosa o intende richiamare l’attenzione su di essa; se in ambito motorio ha raggiunto le tappe previste, allora si può ragionevolmente credere che il ritardo nel linguaggio (riscontrato dal fatto che il bambino possiede un vocabolario inferiore a 50 parole) sia un fatto specifico e delimitato. Se questo ritardo permane senza risolversi da solo fino e oltre i 3 anni, allora si potrà cominciare a credere che si sia in presenza di un disturbo. In questo caso, è opportuno consultare uno specialista per capire l’origine del disturbo e programmare, se necessario, un trattamento riabilitativo. Oltre alla povertà del vocabolario, un altro aspetto del linguaggio del bambino che può essere facilmente notato è la difficoltà di pronuncia dei suoni. È possibile che un bambino, anche se ha iniziato a imparare le parole all’epoca giusta, persista in un’errata pronuncia di alcune di esse. Questo potrebbe dipendere da una difficoltà nella produzione/articolazione di alcuni suoni, ad esempio quando il bambino sostituisce alcune consonanti con altre, dicendo /tane/ invece di /cane/; oppure omette dei suoni trasformando la parola /potta/ invece di /porta/, /cuola/ invece di /scuola/, /maetta/ invece di /maestra/; oppure effettua degli spostamenti, dicendo /termofisone/ invece di / termosifone/, /poto/ invece di /topo/. Infine, all’interno delle competenze linguistiche c’è un altro aspetto che potrebbe faticare a decollare, quello della costruzione e comprensione delle frasi. Come abbiamo visito in precedenza,

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intorno ai 4 anni il bambino comincerà a mettere insieme delle parole per costruire frasi sempre più ricche e complesse che piano piano conterranno frasi coordinate e subordinate. La presenza e la frequenza di errori di pronuncia come quelli di comprensione e costruzione delle frasi possono essere indicative di un inceppamento nello sviluppo del linguaggio e in alcuni casi prodromi di un DSA. Lo sviluppo motorio tipico da 0 a 5 anni Le abilità scolastiche che maggiormente risentono di un inadeguato sviluppo motorio sono quelle relative alla scrittura che alla lettura6. Infatti, in bambini dislessici è difficile riscontrare difficoltà oculomotorie, che sarebbero quelle attività motorie principalmente coinvolte nel processo della lettura. La vista è spesso coinvolta in un disturbo della lettura; tuttavia, questo è dovuto più a difficoltà che riguardano l’attenzione visiva e che non a deficit dell’acuità visiva o oculomotori, come vedremo sotto nei paragrafi sull’attenzione e sulle funzioni esecutive. La scrittura, invece, ha una chiara componente grafomotoria. Per imparare a scrivere è necessario che il bambino coordini i movimenti delle dita, del polso, del gomito e anche della spalla. È per questo che molto spesso si osserva che un bambino che ha difficoltà con la calligrafia, in particolare nello scritto corsivo, è anche goffo nei movimenti, nella coordinazione motoria. Per questo, un bambino che manifesta ritardi nell’apprendimento della scrittura avrà difficoltà anche nell’esecuzione delle attività fisiche. Il gesto grafico implicato nella scrittura corsiva è davvero molto complesso. Infatti, perché il tratto scorra e sia continuo è richiesto un notevole sforzo motorio in quando non concede pause: per scrivere una parola in corsivo è possibile non staccare mai la penna dal foglio. Sicuramente, all’inizio, è più faticoso dello stampatello

6 Ci

stiamo riferendo soltanto a quelle abilità dell’apprendimento scolastico comprese da un DSA. Certamente un disturbo motorio avrà conseguenze più o meno gravi sull’acquisizione di diverse altre discipline scolastiche, prima fra tutte l’educazione fisica.

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maiuscolo, che ha invece caratteri discreti, cioè separati uno dall’altro; è più lento, quindi, rispetto al corsivo, ma più facile da eseguire. Il corsivo oltre ad avere questa caratteristica della continuità che lo rende, una volta appreso, veloce da eseguire, è anche altamente specifico, perché richiede l’acquisizione di movimenti completamente nuovi, che si apprendono solo per eseguire questa attività grafica. Anche il modo di impugnare una matita o una penna possiede delle sue regole che risultano funzionali alla corretta esecuzione del gesto grafico. La cosiddetta prensione a tripode è in genere quella più efficace per una scrittura veloce e leggibile. È sempre consigliabile educare i bambini a una corretta impugnatura della penna come prerequisito all’apprendimento della scrittura. Ma senza insistere troppo. Molte persone, infatti, hanno prensioni completamente atipiche, senza che ciò comprometta la qualità e la velocità del loro tratto grafico o rallenti l’apprendimento delle regole ortografiche. Passiamo ora a esaminare le tappe dello sviluppo motorio per arrivare insieme a considerare quali competenze dovrebbe avere un bambino tra i 3 e i 5 anni. Intorno ai 4 mesi il bambino impara ad assumere il controllo dei muscoli del capo. È così in grado di accompagnare lo sguardo con il movimento della testa e soddisfare la sua curiosità di esplorazione dello spazio che lo circonda. Poi, intorno ai 6/7 mesi assume il controllo del tronco, conquistando la posizione seduta. È solo all’età di circa 9 mesi che comincia a gattonare7. I primi passi in autonomia si attendono entro il 18° mese di vita, superato il quale, se questa tappa non è stata raggiunta, è possibile parlare di ritardo della deambulazione autonoma. Acquisita la deambulazione autonoma, lo sviluppo procede attraverso la maturazione di una generale coordinazione motoria, che si distingue in due grandi classi: quella grosso-motoria e quella

7 Riguardo

al movimento carponi oggi il mondo scientifico è d’accordo nell’affermare che non sia una tappa necessaria e vincolante per un normale sviluppo motorio. Esso è piuttosto un antefatto. Quindi, anche bambini che non hanno mai gattonato prima possono proseguire con normali traiettorie evolutive.

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fino-motoria. La prima viene identificata come la capacità che ha un bambino di muoversi nello spazio e calcolare la distanza che sta tra sé e gli oggetti che si trovano nel suo raggio d’azione. Generalmente un bambino goffo, che inciampa spesso e urta in continuazione gli oggetti attorno a sé mentre si sposta o corre, è un bambino con difficoltà nello sviluppo della coordinazione grosso-motoria. Altre abilità che i bambini generalmente acquisiscono tra i 2 e i 3 anni sono di correre senza inciampare e con frequenti cambi di direzione e di saltare in avanti ripetendo il movimento più volte o di saltare piccoli oggetti. A 3/4 anni, poi, affrontano le scale, imparando a salire e scendere alternando i piedi senza aiuto. Infine, intorno ai 6 anni, completando le fasi di maturazione grosso-motoria, sapranno arrampicarsi, saltellare, lanciare e afferrare la palla e guidare un triciclo o andare in bicicletta. La coordinazione fino-motoria riguarda la capacità di utilizzare correttamente dita, mani, braccio e spalla, così da creare un movimento fluido e funzionale. Dalla nascita fino ai 3 anni di età, il bambino imparerà, pian piano, prima a usare entrambe le mani, poi a passare un oggetto da una mano all’altra e successivamente a schiacciare giocattoli sonori, mettere oggetti nei contenitori, scartare oggetti, girare chiavi o manopole di giochi a molla come un carillon e, infine, avvitare e svitare il coperchio di un barattolo. Intorno ai 4 anni, la maggior parte dei bambini è in grado di raccogliere oggetti appropriati per eseguire delle costruzioni, oppure completare semplici puzzle. Altre attività che richiedono un buono sviluppo della coordinazione motoria fine, che maturano nella seconda infanzia (3-5 anni), sono disegnare, aprire e chiudere cassetti e porte correttamente, usare le forbici, annodarsi i lacci delle scarpe senza fatica e chiudersi bottoni, cerniere e ganci. Tutte queste attività richiedono una sequenza precisa di movimenti e gesti che vengono definiti con il nome di prassie. Quando questi atti motori non sono eseguiti con la giusta destrezza e fluidità sono classificati come disprassie. Queste possono essere manifeste già durante il periodo della scuola d’infanzia e influenzare alcune delle attività di apprendimento previste per tale età, come il seguire percorsi con la matita senza errori o colorare senza uscire

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dai margini. Disprassie, inoltre, possono essere alla base di un difficile orientamento spaziale – i bambini invertono la destra con la sinistra – e temporale – i bambini non apprendono a leggere l’ora nell’orologio. Quindi, quando è presente un ritardo o addirittura una mancata acquisizione di abilità motorie fini, come quelle sopra indicate, l’apprendimento della scrittura potrebbe esserne compromesso. Aspetti di uno sviluppo motorio atipico da 0 ai 5 anni Nelle attività di vita quotidiana non è difficile per un genitore riconoscere dei segnali di uno sviluppo motorio che non procede con normalità. Essendo le abilità motorie compenetrate nell’agire umano, ogni comportamento del bambino potrà essere osservato come significativo per il riconoscimento di una competenza motoria più o meno acquisita. Un genitore non avrà certo bisogno di sottoporre il proprio bambino ad attività particolari per rendersi conto di un disturbo motorio. Gli basterà notare come suo figlio, oramai grandicello, sappia vestirsi da solo, abbottonarsi una camicia, chiudersi una zip, indossare magliette e scarpe nel verso giusto, allacciarsi le scarpe e così via. Quando a suo figlio riuscirà difficilissimo vestirsi da solo, si rifiuterà di giocare con le costruzioni o di ricomporre un puzzle, non insisterà per andare in bicicletta, all’asilo si rifiuterà di disegnare, non saprà colorare entro i margini, non imparerà a formare le prime letterine in stampatello maiuscolo e non distinguerà con facilità la destra dalla sinistra, allora sarà il caso che il genitore si allerti. Forse, il figlio non è uno sfaticato, che la mattina è sempre stanco e non vuole vestirsi da solo e che nei giochi ha sempre altri interessi rispetto a quelli proposti dai suoi compagni: le ragioni possono essere ben altre. Anche una generale goffaggine nei movimenti, una ritrosia a svolgere qualsiasi attività sportiva o la tendenza a urtare continuamente contro gli oggetti circostanti sono segnali importanti di una probabile difficoltà di coordinazione motoria. In questo caso, un intervento tempestivo e mirato di natura neuropsicomotoria potrebbe ridurre il rischio che un deficit motorio ricada sul futuro apprendimento scolastico.

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Forse un poco più difficile è decifrare i segnali legati a un deficit nell’apprendimento delle sequenze spazio-temporali, che permettono già a un bambino di 5 o 6 anni di leggere l’orologio, ricordare il giorno del proprio compleanno, i giorni della settimana, i mesi dell’anno e, più in generale, di fare un uso corretto di avverbi di luogo (sopra/sotto, dentro/fuori), di quantità (grande/piccolo, poco/ tanto) e di tempo (prima/dopo). Per esempio, non c’è da stupirsi che un bambino di 3 o 4 anni ancora chieda “Mamma, oggi è domani?”, volendo sapere se quel “domani” che attendeva, cioè il compleanno, il Natale, il giorno speciale di una gita, è giunto ed è proprio “oggi”. A quest’età non si possiede ancora una capacità mentale, tutta umana: la cronestesia. La cronestesia è la consapevolezza di sé nel tempo, la capacità di ricordare gli eventi della nostra vita. Questa stessa facoltà di conoscere il proprio tempo soggettivo è anche fondamentale per immaginarsi nel futuro: la distanza che intercorre tra il qui e ora dell’attesa di un evento desiderato, i regali di Natale e il momento del loro arrivo. Questo, un bambino prima dei 3 o 4 anni, non è in grado di farlo. Ma la difficoltà di orientarsi nel tempo o nei giorni della settimana o nei periodi dell’anno è indice di un deficit se è ancora presente dopo i 5/6 anni. Ancora un altro indizio della presenza di un problema con le sequenze spaziali si manifesta quando un bambino non riesce a orientarsi nell’uso di una mappa o fa sempre confusione tra destra e sinistra. L’attenzione e le funzioni esecutive nello sviluppo tipico da 0 a 5 anni Con il termine attenzione si individuano diversi processi che regolano l’attività mentale, filtrando e organizzando le informazioni ambientali con lo scopo di produrre una risposta adeguata. Le funzioni attentive svolgono un ruolo centrale nei processi di elaborazione e comprensione dell’informazione acquisita, e un loro adeguato funzionamento rappresenta un presupposto essenziale per lo sviluppo di abilità cognitive complesse come la comprensione di un testo. L’attenzione interviene, infatti, nei processi di estrazione dell’informazione, nell’integrazione delle informazioni seleziona-

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te, nel deposito e nel recupero di conoscenze pregresse dalla memoria e nella programmazione delle risposte comportamentali. Quando noi ascoltiamo una persona mentre ci parla in una sala affollata di persone che conversano tra loro, noi dobbiamo estrarre, tra tutti quelli che ci raggiungono, solo i suoni prodotti dal nostro interlocutore, integrarli in frasi compiute di senso (recuperando nel vocabolario immagazzinato nella nostra mente tutti i significati del discorso), associarli a conoscenze sull’argomento della conversazione e a eventuali vissuti emotivi a esso associati. Fatto questo, possiamo procedere rispondendo in maniera adeguata a ciò che ha detto il nostro interlocutore: se voleva fare solo una battuta potrebbe essere sufficiente esibire un sorriso, se ci ha fatto una richiesta fornirgli una risposta, se ci ha insultato o minacciato pesare le conseguenze di dargli uno schiaffone o di far finta di non aver capito. Tutto questo può avvenire solo se il nostro sistema attentivo è riuscito a farci prestare attenzione a quanto il nostro interlocutore stava dicendo, permettendoci di sostenere la conversazione e, nello stesso tempo, di trascurare gli altri contenuti verbali della folla vociante. Se poi, nel frattempo, squilla anche il nostro cellulare, lo stesso sistema attentivo, che non ha trascurato del tutto quello che avveniva intorno a noi durante la conversazione, dovrà anche valutare se è opportuno interrompere la conversazione o rifiutare la chiamata. In sintesi, è possibile individuare tre forme diverse di attenzione che sono coinvolte in un evento complesso come quello descritto sopra: • l’attenzione sostenuta, che è la facoltà di mantenere l’attenzione su un compito per il tempo necessario a completare un’operazione prolungata nel tempo; è ciò che consente di portare a termine compiti anche quando sono lunghi e noiosi; • l’attenzione selettiva, che è il processo attraverso il quale il soggetto focalizza l’attenzione su uno specifico stimolo o insieme di stimoli al fine di elaborare l’informazione in essi contenuta ignorando altri stimoli potenzialmente distraenti; ci si può, ad esempio, concentrare su un piccolissimo particolare di una figu-

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ra complessa senza confondersi e magari riuscire a leggere una piccola scritta, come la firma del pittore, su un grande quadro; • l’attenzione divisa, che è quel processo che consente di gestire contemporaneamente due o più flussi di stimoli. Non comporta un ampliamento della concentrazione, ma la capacità di effettuare rapidi spostamenti (shift) da un canale informativo all’altro o da un contenuto all’altro proveniente da un medesimo canale sensoriale. Quando si vede un film in una lingua straniera con i sottotitoli è possibile, ad esempio, spostare rapidamente l’attenzione dalla scena del film alla scritta e viceversa. Il termine funzioni esecutive è stato introdotto negli anni ’90 per indicare un gruppo di competenze comportamentali che richiedono un forte controllo attentivo. Queste includono: l’abilità di mantenere viva l’attenzione nel tempo (ad esempio durante un’attività lunga e noiosa), la capacità di pianificazione (di mosse o azioni per raggiungere un obiettivo), la resistenza alle interferenze, l’uso del feedback per la regolazione del comportamento (per correggere un comportamento basandosi sugli errori compiuti), l’abilità di coordinare attività simultanee; la flessibilità cognitiva (capire quando e come cambiano le regole di un’attività per passare a compiti diversi) e l’abilità di trattare le novità. Nel periodo compreso tra i 2 e i 4 anni si sviluppano la capacità di controllare una risposta verbale o motoria preponderante e di mantenere l’attenzione per un periodo adeguato, e la possibilità di conservare in memoria una certa quantità di informazioni riproponendola all’esterno. Ora che abbiamo definito cosa intendiamo per attenzione e funzioni esecutive, procediamo nel vedere in che modo sono coinvolte nell’apprendimento della lettura e della scrittura. È a tutti noto che l’attenzione giochi un ruolo rilevante all’apprendimento di nuove procedure e contenuti. Infatti, quando ci spiegano una nuova regola, come il funzionamento del codice alfabetico scritto, siamo obbligati a prestare il massimo dell’attenzione per comprendere quanto ci viene detto. Poi però, le risorse attentive impiegate nella fase del nuovo apprendimento si riducono man mano che la regola o il procedimento appreso si automatizza. La

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procedura appresa diviene così rapida e non più controllata volontariamente passo dopo passo. Pensiamo, ad esempio, come abbiamo appreso a guidare l’automobile. Agli inizi tutti i nuovi contenuti di apprendimento, dall’accensione del motore alla messa in marcia del veicolo, ci hanno richiesto un notevole sforzo attentivo. Una volta però automatizzate le procedure di guida, possiamo condurre la macchina senza più dover prestare attenzione a molte delle procedure che eseguiamo nella guida: ad esempio, non ci chiediamo più quali pedali vadano pigiati per frenare senza far spegnere il motore, lo facciamo e basta. Come per la guida della macchina, lo stesso avviene nella lettura: una persona alfabetizzata non si chiede più quale regola deve applicare per trasformare i grafemi in parole di senso. Leggiamo e basta. Al limite possiamo chiederci che significato abbia una parola per noi sconosciuta, ma questo, in genere, non ci ostacola nel processo di lettura. Aspetti di uno sviluppo atipico delle risorse attentive da 0 a 5 anni Quando un bambino soffre di un disturbo dell’attenzione o più in generale delle funzioni esecutive, i sintomi sono ben riconoscibili anche in famiglia. I bambini manifestano instabilità, distraibilità, prestazioni altalenanti nel corso del tempo, difficoltà di ascolto e di comprensione verbale, tanto che il genitore in questi casi è solito riferire: “quando gli parlo sembra non ascoltare”. Spesso i bambini in difficoltà con lo sviluppo delle risorse attentive incontrano difficoltà nell’esecuzione di attività e compiti che richiedono una certa cura e sono facilmente distratti da stimoli esterni. Per questi bambini non è facile focalizzare l’attenzione su un compito e mantenerla. Non sono disobbedienti, perché il loro problema non è una mancanza di volontà, né sono necessariamente demotivati. Davvero s’impegnano a stare attenti, e questo, strano a dirsi, costa loro più energie che ai coetanei ma, siccome il loro sistema attentivo non è grado di selezionare ciò a cui va prestata attenzione da ciò che va trascurato, ogni stimolo è in grado di distrarli: “basta che voli una mosca perché lui si perda”, è solito dire un genitore o un insegnante di questi bambini. Bambini con deficit attentivi dimenticano incombenze e di svolgere i compiti di ogni giorno. Spesso, intorno

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ai 4/5 anni, hanno difficoltà a portare a termine le attività iniziate, anche quelle nelle quali sono molto motivati: saltano da un gioco all’altro lasciando tutto a metà. Anche quando ricevono per regalo un nuovo giocattolo, che desideravano tanto, ci giocano per un po’, per poi abbandonarlo poco dopo in terra, attratti da qualcos’altro nelle mani di un loro coetaneo, tra lo sguardo sgomento dei genitori frustrati nella loro generosità. Un disturbo nello sviluppo delle risorse attentive comporta che un bambino esaurirà presto le energie impiegate nell’esecuzione di un compito e lo interromperà prima di portarlo a termine. Per questo i bambini con tali caratteristiche passano costantemente da un’attività all’altra, da un gioco all’altro, dando l’idea di non riuscire a divertirsi con nulla. Inoltre, non seguono le istruzioni date, perdono informazioni durante la comunicazione e dimenticano facilmente anche cose abituali. È palese quindi quale ricaduta potrà avere un tale disturbo, già manifesto tra i 3 e i 5 anni, sugli apprendimenti scolastici di base, come la lettura. Infatti, benché l’apprendimento della lettura si sviluppi nella maggior parte dei bambini senza difficoltà, è comunque il risultato dell’integrazione di numerosi processi mentali e richiede l’utilizzo di risorse attentive specifiche per funzionare nel migliore dei modi. L’apprendimento della lettura, della scrittura e delle competenze aritmetiche si differenzia dall’acquisizione del linguaggio perché, a differenza di quest’ultima, richiede un processo strutturato di insegnamento impartito da un docente ed energie attentive specifiche da dedicarvi. Nelle primissime fasi di apprendimento è necessario che i bambini mettano in campo un adeguato livello attentivo che, solo col tempo, automatizzandosi i processi di lettoscrittura e calcolo, si ridurrà sempre più. Semplificando: più il bambino progredisce con la lettura e più questo processo diventa automatico, richiedendo quindi un minor dispendio energetico, cioè di risorse attentive. Gli adulti che non hanno difficoltà di lettura, infatti, non possono fare a meno di leggere ogni volta che vedono una parola scritta e lo fanno a costo zero per il sistema attentivo. Addirittura, si può leggere pensando contemporaneamente ad altro. Diversamente, se un bambino all’inizio del percorso di alfabetizzazione in prima elementare dispone di un serbatoio attentivo insufficiente, difficilmente potrà progredire a quei livelli di automatizza-

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zione degli apprendimenti che gli permetterebbero di ridurre il carico cognitivo. Paradossalmente, e qui risiede la frustrazione di questi bambini che sfocia in rabbia e bassa stima di sé, meno risorse attentive si possiedono in partenza e più ne saranno richieste in futuro, in un doloroso e faticoso circolo vizioso. Un’altra funzione attentiva che sempre più negli ultimi anni emerge come rilevante per l’apprendimento della lettura è quella dell’attenzione selettiva. Quando poco sopra abbiamo iniziato a parlare dell’attenzione, abbiamo esemplificato spiegando cosa succede a livello attentivo quando conversiamo con qualcuno in una sala affollata di gente vociante. L’attenzione selettiva è quella che, filtrando ogni altro suono, ci permette di prestare attenzione al nostro interlocutore nonostante tante altre persone a noi vicine stiano parlando. Spostiamoci ora dal canale uditivo a quello visivo impegnato nella lettura: l’attenzione selettiva permette di focalizzarci su ciò che abbiamo da leggere senza perderci tra le tante parole del testo. Nelle prime fasi dell’apprendimento scolastico, il bambino dovrà imparare a focalizzare l’attenzione sulle singole sillabe che compongono una parola senza lasciarsi confondere da tutte le parole presenti in un testo e senza perdersi tra le righe di un brano, scorrendo con lo sguardo da sinistra verso destra. Inoltre, perché questo processo funzioni correttamente e permetta con il tempo una lettura scorrevole, la funzione selettiva dell’attenzione deve poter collaborare con l’attenzione rivolta anche ai contenuti provenienti dal campo visivo periferico alla parola da leggere: questo ci consente di mantenere il segno e di non perderci tra le righe del brano. Un buon esercizio per misurare, anche già all’età di 5 anni, il buon funzionamento dell’attenzione visiva selettiva è quello della “caccia all’oggetto nascosto”, in cui si invita il bambino a cercare uno o più oggetti bersaglio mascherati all’interno di una figura. E ora, prima di terminare questo paragrafo sullo sviluppo normale e atipico dei bambini in età prescolare di quelle aree che più sono coinvolte nell’apprendimento scolastico della letto-scrittura e del calcolo, vogliamo offrirvi un breve excursus su due questioni scottanti legate ai DSA: il bilinguismo e l’ereditarietà.

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Il bilinguismo: una differenza individuale dello sviluppo tipico Il bambino bilingue è colui che è capace di usare alternativamente e senza difficoltà due diverse lingue apprese dalla nascita, due lingue madri8. Rispetto ai tempi e alle tappe di acquisizione del linguaggio, si osserveranno generalmente alcune differenze. La più evidente è quella di un leggero ritardo rispetto alle tappe classiche attese per un bambino monolingue, giustificato dal fatto che, avendo dovuto apprendere due due lingue parlate, il bambino è stato sottoposto a un numero maggiore di acquisizioni. Lo sviluppo del vocabolario, ad esempio, mostra circa 6 mesi di ritardo rispetto alla norma: il numero di parole memorizzate da un bambino bilingue, seppure conosciute in genere in entrambe le lingue, è minore rispetto a un suo coetaneo monolingue. Questo iniziale ritardo, però, tende a colmarsi presto e dagli 8 anni in poi la conoscenza di due lingue non potrà che essere vantaggiosa. Dunque, la presenza di bilinguismo, fatta eccezione per un leggero ritardo iniziale, non rappresenta alcun problema e, al contrario può trasformarsi in un’opportunità. Questo è vero fino a quando non siamo in presenza di un disturbo. Se per esempio il bambino esposto al bilinguismo avesse indipendentemente e parallelamente un disturbo di linguaggio, è molto probabile che quel tipico ritardo di 6 mesi risulti difficile da colmare e possa esporre ad altre complicazioni. In presenza di un parallelo disturbo sarà perciò molto importante consultarsi con degli specialisti che potranno consigliare strategie per evitare che il bilinguismo non ostacoli lo sviluppo e, quando possibile, continui a essere una risorsa. In alcuni casi, quindi, l’apprendimento di lettura e scrittura in entrambe le lingue dovrebbe essere sconsigliato, per lo meno nelle prime fasi di alfabetizzazione, a favore di una maturazione dell’uso esclusivamente orale di una delle due lingue.

8 Una

persona è bilingue anche quando una delle due lingue parlate è rappresentata da un dialetto. Il dialetto è a tutti gli effetti un sistema linguistico che, tuttavia, non è riconosciuto propriamente come una lingua per il fatto di essere diffuso in un ambito geografico o culturale limitato, per non aver raggiunto o per aver perduto autonomia e prestigio di fronte a un altro sistema divenuto dominante e riconosciuto come ufficiale.

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Da dislessico a dislessico, la familiarità di un disturbo Negli ultimi anni ci sono stati diversi studi che hanno confermato l’origine genetica della dislessia. E questo non ci stupisce più di tanto, visto che era già noto che la dislessia avesse una base in quei meccanismi biologici che sottostanno ai processi di lettura e, più in generale, della cognizione9. I risultati della ricerca genetica confermano anche quelli ottenuti da studi epidemiologici che evidenziano la familiarità dei disturbi di lettura: un bambino dislessico con molta probabilità ha un parente dislessico o con un disturbo molto simile. Per questa ragione, se tra i membri di un gruppo familiare sono state riscontrate difficoltà nell’apprendimento scolastico o è stato diagnosticato un DSA, è bene sottoporre a un controllo preventivo i bambini appartenenti a questo ceppo familiare, in particolare quelli che stanno per entrare nella scuola primaria. Questa accortezza permetterà, ove fossero presenti delle difficoltà, di attivarsi il prima possibile, risparmiando ai bambini inutili frustrazioni nella carriera scolastica.

A chi rivolgersi in presenza di segni premonitori? La prima figura a cui un genitore dovrebbe rivolgersi quando ci sono segnali che suo figlio, già prima dell’ingresso a scuola, sia potenzialmente a rischio di DSA, è il pediatra di base che, avendo già a disposizione tutte le informazioni sull’anamnesi remota e recente del bambino, potrà farsi un’idea sulla natura dei sintomi e consigliare, inizialmente, una visita otorinolaringoiatrica. Infatti, quando un bambino fatica a parlare, la prima domanda da porsi è proprio se ci senta bene. Con un esame audiometrico ci si toglierà presto questo dubbio.

9 Finora

sono stati individuati quattro geni correlati al disturbo della lettura, che sono situati all’interno di tre regioni cromosomiche: DYX1C1 sul cromosoma 15, ROBO1 sul cromosoma 3, e KIAA0319 e DCDC2 sul cromosoma 6 (Cecilia Marino, Roberto Giorda, Laura Vanzin, Maria Nobile, Maria Luisa Lorusso, Cinzia Baschirotto, Laura Riva, et al., A locus on 15q15-15qter influences dyslexia: further support from a transmission/disequilibrium study in an Italian speaking population, in Journal of Medical Genetics, n. 41, pp. 42-46, 2004)..

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Una volta accertato che ritardi nell’acquisizione del linguaggio non siano dovuti a un deficit uditivo, sarà opportuno procedere con accertamenti neuropsichiatrici o neuropsicologici unitamente a quelli logopedici. Il logopedista è uno specialista nella riabilitazione dei disturbi del linguaggio, il cui coinvolgimento, in questi casi, è sempre di estrema importanza. Questi esami è possibile eseguirli tutti in un buon centro di neuropsichiatria infantile. Quando, invece, i sintomi di un disturbo riguardano abilità motorie e attentive, oltre al neuropsichiatra infantile o al neuropsicologo dello sviluppo, sarà utile contattare un neuropsicomotricista dell’età evolutiva. Una volta chiarita la natura dei sintomi, insieme agli specialisti sarà possibile pianificare un intervento mirato e specifico che, a questa età dello sviluppo prescolare del bambino, risulta particolarmente efficace. Lo diciamo per esperienza diretta, oltre che sulla base di pratiche fondate sull’evidenza: la riabilitazione di un bambino di 3 o 4 anni non solo ha maggiori opportunità di successo favorendo la regressione dei sintomi fin quasi alla loro scomparsa, ma il trattamento è più facile da sopportare per un bambino piccolo che tende a prendere tutto come un gioco. A quest’età, prima quindi dell’impegno scolare, un bambino vive l’intervento riabilitativo in maniera molto serena. Più avanzerà con l’età, meno questo sarà vero. Se già all’età di 3 anni il bambino manifesta dei segni di un disturbo di linguaggio, per quanto possano apparire lievi in questa fase dello sviluppo, tuttavia, è possibile procedere con una diagnosi e iniziare il trattamento logopedico. Sottovalutare un disturbo del linguaggio non è mai raccomandabile. Alcuni genitori, e non pochi medici, pensano che a questa età tutto si risolva da solo: “con lo sviluppo del bambino tutti quei sintomi regrediranno”, si sente dire spesso. Oh, certo che “quei” sintomi in gran parte regrediranno, ma non le conseguenze che hanno provocato nel periodo dell’apprendimento scolastico. È come dire a uno sfollato a causa di uno tsunami che gli ha portato via la casa: “non si preoccupi, vedrà che l’acqua tra qualche giorno tornerà al mare… e tutto si asciugherà”. Usciamo dalla metafora e guardiamo al caso di Mattia, un bambino che ha faticato moltissimo a costruirsi un suo inventario di

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suoni e che, ancora a 5 anni, non pronunciava suoni come la /c/ la /s/ e la /r/. All’età di 6 anni Mattia entra in prima elementare avendo, praticamente da solo, risolto quasi tutti i suoi problemi e, a parte la /r/ che non vuole proprio uscire venendo quasi sempre omessa o sostituita, ormai pronuncia tutto molto bene. “Avete visto? Cosa vi avevo detto?” – dice l’esperto, amico di famiglia, ai genitori – “Tanta preoccupazione per nulla! Ve l’avevo detto che crescendo sarebbe sparito tutto!” “Allora è fatta!” – rispondono i genitori di Mattia – “Possiamo sperare che tutto sia tornato a posto per Mattia?” Purtroppo no, non fu così per Mattia, come poi scoprimmo quando si presentò con i genitori, indirizzati dalla scuola, verso la fine della seconda elementare. Torniamo alla metafora dello tsunami. Il problema per lo sfollato non si risolve quando l’acqua torna al mare, perché il suo dramma è legato a quello che l’acqua lascia alle sue spalle quando defluisce. Quando Mattia iniziò la scuola elementare, da quanto tempo già pronunciava tutti i suoni? Per quanto tempo aveva potuto rinforzare la rappresentazione della /c/ o della /s/ pronunciandole bene? I suoi compagni di scuola già da almeno 2 anni possedevano un inventario fonetico completo e ogni volta che pronunciavano correttamente un suono ne rinforzavano la rappresentazione mentale. Questi compagni, rispetto a Mattia, arrivarono in prima elementare molto più equipaggiati, in grado di apprendere con facilità come le lettere si attaccano l’una all’altra, per poi imparare a leggere, uno per uno, tutti i suoni del linguaggio. Mattia, che invece aveva avuto un disturbo, che avremmo poi riconosciuto in seguito essere un DSA, ha imparato solo molto più tardi, rispetto ai suoi pari, e con molta più fatica e frustrazione a pronunciare tutti i suoni e in tutte quelle posizioni che essi assumono all’interno delle parole. Il racconto di Mattia ci ha permesso di fare un passo avanti nello sviluppo del bambino e di addentrarci nelle prime fasi dell’apprendimento scolastico. La seconda parte di questo capitolo intende accompagnare il genitore a riconoscere quale supporto può offrire a suo figlio che affronta la scuola primaria, rispettando il suo ruolo genitoriale, non sostituendosi agli insegnanti, ma restando partecipe e amorevole custode della crescita del suo bambino.

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PARTE SECONDA INIZIA LA SCUOLA: ESSERE GENITORE NELLE ATTIVITÀ QUOTIDIANE, NEL GIOCO E NELLA SUPERVISIONE DEI COMPITI SCOLASTICI Il primo giorno di scuola, di solito, si ricorda con grande gioia. In genere, i bambini affrontano questo momento pieni di entusiasmo, ma anche con una certa dose di ansia spesso collegata alle aspettative che inevitabilmente si ripongono in loro. Imparare a leggere e a scrivere, così come diventare abili con i calcoli, rappresenta una grande soddisfazione per i bambini che, nello stesso tempo, vanno incontro alle aspettative più o meno legittime dei genitori e degli insegnanti. Tornare a casa con i quaderni pieni di nuovi esercizi, mostrando tutto ciò che si sta imparando, li diverte e li motiva a proseguire con lo studio. Ma non per tutti le cose vanno lisce come dovrebbero, come sa bene chi si occupa di DSA. Per alcuni bambini, infatti, l’entusiasmo iniziale scema via già dopo le prime 2 o 3 settimane di scuola, facendo spazio a una dolorosa consapevolezza, quella di non essere bravi come gli altri, di non essere nelle condizioni di dimostrare al meglio tutte le proprie potenzialità. È questo l’inizio di un percorso segnato, spesso, da frustrazioni e fallimenti, che caratterizza l’iter scolastico di molti bambini che riceveranno in futuro una diagnosi di DSA, i cui prodromi, già evidenti e impattanti l’apprendimento del codice scritto, sono stati trascurati. Analizziamo, attraverso le parole di un genitore, la storia di Filippo per capire cosa può trovarsi a vivere una famiglia una volta che inizia la scuola: Il rapporto tormentato tra mio figlio e la scuola è cominciato fin dall’asilo e in particolare dal terzo anno. Prima di allora in Filippo, mio secondogenito, notavo soprattutto la somiglianza fisica con me, al contrario del fratello, che invece era praticamente la fotocopia del papà. Dall’ingresso alla scuola dell’infanzia ho cominciato, anche attraverso le osservazioni delle insegnanti, a notare le difficoltà di Filippo rispet-

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to ai coetanei, in particolar modo per quanto riguardava il linguaggio. Quelle piccole difficoltà che io riscontravo, paragonandolo inevitabilmente con il fratello più grande, diventavano sempre più evidenti, nonostante il numero di parole che conosceva e che riusciva a pronunciare fosse notevolmente aumentato con l’ingresso alla scuola dell’infanzia. Nel secondo anno della scuola materna, di fronte alle insistenze delle insegnanti, ho deciso di accompagnare Filippo a fare una valutazione presso un centro pubblico di neuropsichiatria infantile della mia città. Dopo tre incontri, ci fu restituita una diagnosi di disturbo del linguaggio espressivo a cui fece seguito una terapia logopedica, per due volte a settimana, presso lo stesso centro. Nell’ultimo anno di materna, apparentemente, parlava bene, nel senso che nessuno di noi faceva fatica a comprenderlo e a soddisfare le sue richieste, anche se ancora scambiava alcuni suoni dicendo, ad esempio, /tasca/ per VASCA o /elesante/ per ELEFANTE. Dopo circa 5 mesi di terapia, cioè più o meno a metà del terzo anno della scuola dell’infanzia, Filippo era notevolmente migliorato. Per questo ci fu consigliato di sospendere la terapia, in attesa di ulteriori futuri controlli, in particolare in concomitanza con l’ingresso alla scuola primaria. L’ingresso in prima elementare fu traumatico, forse più per me che per Filippo. Facevo costantemente il confronto con l’entrata a scuola di Francesco, il fratello maggiore, e questo aumentava in me l’ansia e frustrava le mie aspettative. Ai miei occhi, Filippo appariva lentissimo nella lettura. La composizione di ogni singola parola gli richiedeva uno sforzo enorme. La lettura di una semplicissima parola come TAVOLO poteva diventare una montagna invalicabile: ogni lettera era pronunciata a una distanza sempre maggiore dalla precedente: /t/-/a/--/v/---/o/----/l/-----/o/. Arrivato in fondo alla parola, all’ultima lettera, era difficile ricordare da dove avesse iniziato. Mentre Francesco già a novembre della prima elementare scriveva in corsivo, Filippo a dicembre ancora non riusciva a ricordare la forma di tutte le let-

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tere in stampatello maiuscolo; per non parlare poi delle lettere in corsivo, la cui introduzione aveva complicato terribilmente le cose. Era difficile convincerlo a scrivere un semplice dettato, i fogli del suo quaderno erano un campo di battaglia e la mia pazienza si esauriva in fretta di fronte a suoi scambi di lettere e alle ‘d’ o ‘q’ scritte la contrario. Nella testimonianza della mamma di Filippo, salta immediatamente agli occhi come certi sintomi di un incipiente DSA siano, di fatto, assai evidenti a coloro che interagiscono con il bambino, anche prima di ogni diagnosi. Filippo mostra, chiaramente, una difficoltà nell’imparare a leggere, che si manifesta con un’estenuante lentezza e una grande fatica nel riconoscere correttamente alcune lettere. Anche la scrittura stenta a partire e, per Filippo, quelle normali difficoltà, che anche i suoi pari si trovano a gestire quando viene introdotto loro il corsivo, diventano ostacoli insormontabili. In questa fase, i genitori e gli insegnanti dovrebbero prestare molta attenzione a riconoscere i sintomi premonitori, non negandoli o ignorandoli, ad esempio, col dire: “È di dicembre, è anticipatario, per cui non c’è da preoccuparsi se sta rimanendo indietro”. Tantomeno, andrebbero azzardate interpretazioni ingenue dei sintomi, attribuendone la causa alla responsabilità dello scolaro, “Il bambino non impara a leggere perché è pigro e non si impegna a sufficienza”, o, indirettamente, ai genitori “Purtroppo i genitori stanno affrontando una difficile separazione e il bambino è troppo distratto per potere imparare”. Né un insegnante dovrebbe anticipare una diagnosi, “Il bambino è sicuramente dislessico”, perché non è di sua competenza e, comunque, decisamente prematura se riferita a uno scolaro di prima elementare. Riteniamo che tutte queste spiegazioni, ancora prime di essere giuste o sbagliate, siano per lo più inopportune, non fosse altro perché tendono a rimandare ad altri quella responsabilità che ciascuno degli adulti, genitori o insegnanti, coinvolti nell’educazione scolastica del bambino che mostra sintomi di difficoltà di apprendimento è tenuto ad assumersi per migliorarne il percorso scolastico e la qualità di vita. Nella storia di Filippo, sia i genitori che gli insegnanti della scuola dell’infanzia si sono presto accorti che il percorso di

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crescita del bambino non procedeva normalmente; cosicché, i genitori stessi, sollecitati anche dagli insegnanti, si sono rivolti a un centro specializzato per avere un quadro diagnostico del bambino. È chiaro che un genitore o un insegnante debbano potersi rappresentare un modo di funzionamento di un bambino, altrimenti non saprebbero come accostarsi a questi in maniera partecipativa e competente. Questo deve avvenire, però, nel rispetto del ruolo di ciascuno. Certamente, un insegnante, sia della scuola dell’infanzia che della primaria, in presenza di un ritardo nell’acquisizione del linguaggio o nell’apprendimento di certi obiettivi scolastici di un suo alunno, se paragonato ai risultati della media della classe, cercherà di rappresentarsi le ragioni che lo causano o lo favoriscono. Anzi, proprio in base alle sue competenze, un insegnante potrà osservare se a suo giudizio le ragioni del ritardo siano da ricondurre a condizioni emotive, a circostanze socioeconomiche, a uno stato di salute precario, o piuttosto a disfunzioni nello sviluppo del linguaggio o a un DSA. Tuttavia, e qui sta il punto che ci preme mettere in luce, le sue preziose competenze e il suo insostituibile ruolo educativo non devono sconfinare nella valutazione diagnostica di tipo clinico. Noi suggeriamo che, per ragioni di prudenza, un insegnante si debba rivolgere ai genitori di un bambino con difficoltà senza ricorrere a etichette diagnostiche, soprattutto prima che sia stata emessa una diagnosi dalle figure professionali competenti. Nella storia di Filippo viene descritta la presenza di un disturbo specifico di linguaggio e come gli esiti di questo disturbo ostacolino l’apprendimento del codice scritto. La storia mette bene in evidenza il ruolo svolto dalle diverse istituzioni, ciascuna per la sua competenza e in dialogo tra loro. Gli insegnanti della scuola d’infanzia guidano la mamma a osservare le particolarità dello sviluppo del linguaggio di Filippo, sollecitandola, poi, a rivolgersi a un centro specializzato, che restituirà un profilo diagnostico del figlio indirizzandolo a un intervento logopedico. Come si è cercato di sottolineare nella prima parte di questo capitolo, un riconoscimento precoce di quei fattori di rischio di un DSA, già manifesti fra i 3 e i 5 anni, e un eventuale tempestivo intervento terapeutico sono, a nostro avviso, la miglior prevenzione nei confronti di difficoltà future.

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È quando ha inizio la scuola elementare, cioè quando prende avvio l’insegnamento formale e strutturato della letto-scrittura, che i segni premonitori possono strutturarsi in un DSA e ostacolare il normale decorso scolastico di uno studente. Allo stesso modo, è questo il tempo in cui ogni scolaro, con sviluppo tipico o meno, inizierà il processo di maturazione della propria formazione personale e intellettuale e comincerà ad amare lo studio o a evitarlo, se non addirittura a temerlo. L’entusiasmo, la curiosità, ma anche quel piccolo livello di ansia con cui in genere tutti i bambini affrontano l’ingresso a scuola, vanno attentamente monitorati sia dai genitori che dagli insegnanti. Le prime difficoltà di chi è a rischio di sviluppare un DSA saranno subito molto evidenti e non c’è alcuna ragione valida che possa far rimandare un intervento, qualora questo fosse necessario10. I bambini italiani, in media fra dicembre e gennaio del primo anno di scuola elementare, hanno compreso le regole di base della decodifica alfabetica e iniziano a essere pronti per affrontare le più complesse regole ortografiche. Quando qualcuno di loro si “stacca” in maniera evidente dal gruppo (vedi a riguardo il capitolo seguente) è opportuno capirne tempestivamente le ragioni. Ci sono diversi motivi per cui un bambino può rimanere indietro nell’apprendimento scolastico e, proprio per questo, solo una valutazione concertata tra diverse figure professionali può aiutare a far luce sulle dinamiche di un ritardo. I primi attori di questo processo di valutazione della crescita scolastica sono gli insegnanti i quali, una volta escluso che il ritardo di un loro alunno possa dipendere (soltanto) da una didattica poco inclusiva e personalizzata, da un clima di classe indisciplinato e poco attento, o dalla presenza di fenomeni di violenza e bullismo, dovranno informare i genitori delle difficoltà evidenziate. Tuttavia, potrebbe capitare che le diffi10 Le

Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento, emanate dal Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca nel 2011, affermano che: “Quando un docente osserva tali caratteristiche [atipiche] nelle prestazioni scolastiche di un alunno, predispone specifiche attività di recupero e potenziamento. Se, anche a seguito di tali interventi, l’atipia permane, sarà necessario comunicare alla famiglia quanto riscontrato, consigliandola di ricorrere ad uno specialista per accertare la presenza o meno di un disturbo specifico di apprendimento” (pag. 5).

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coltà di apprendimento dipendano da un contesto familiare difficile; in questo caso, la scuola dovrà attivarsi affinché lo scolaro in difficoltà o la famiglia stessa ricevano il supporto adeguato dai servizi sociali. Altrimenti, qualora l’insegnante, esclusi tutti i fattori sopra elencati, si rappresentasse un possibile disturbo specifico, a nome della scuola, consiglierà ai genitori dell’alunno in ritardo nell’apprendimento di sottoporre il figlio a una valutazione clinica presso un centro specializzato. Alcune scuole offrono già ai genitori una prima consulenza medica o psicologica per avere pareri clinici e specialistici; in altre, invece, sono previsti dei test per l’identificazione di eventuali difficoltà di lettura e scrittura dalla prima alla terza classe elementare. Qualora la scuola non disponesse di queste risorse o progetti interni, il genitore potrà consultarsi con il pediatra del proprio figlio per avere indicazioni sui servizi di neuropsichiatria infantile del territorio o centri specialistici per la valutazione di DSA. Ci sono alcuni importanti vantaggi nel riconoscere le difficoltà di apprendimento entro la prima classe primaria, o anche durante i primi mesi della seconda. Il primo è legato al fatto che un intervento precoce riduce il rischio di frustrazione e disistima dell’alunno. Che l’alunno, i genitori, gli insegnanti e i compagni di classe sappiano che le difficoltà sono dovute a meccanismi legati all’apprendimento, che non dipendono dalla sola volontà della persona che apprende, dalla sua motivazione allo studio o intelligenza, conforta l’alunno stesso, impegna l’insegnante, impone rispetto dei pari e tranquillizza i genitori. Ancora troppi giovani di scuola secondaria arrivano per una prima valutazione ai centri specialistici ricevendone una diagnosi di DSA tardiva. Questo ritardo andrà sempre più evitato e ci auguriamo che questo libro possa contribuire alla diffusione di tale consapevolezza. E questo ci porta verso il secondo grande vantaggio che implica il riconoscere, capire e trattare le difficoltà di apprendimento in questa fase pre-diagnostica, e cioè che in questa fascia di età è possibile migliorare la lettura attraverso la riabilitazione di quelle funzioni che vengono identificate da un attento esame neuropsicologico (vedi paragrafo “La valutazione neuropsicologica: un per-

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corso specifico per comprendere la natura del DSA” del Capitolo 5) come deficitarie e responsabili delle difficoltà. Ad esempio, oggi è possibile esercitarsi sul linguaggio, sulla memoria fonologica, o sull’attenzione visuospaziale anche utilizzando giochi di computer finalizzati alla riabilitazione di tali funzioni. Il bambino a quest’età, attratto dal gioco, neanche si accorge di essere in un percorso riabilitativo. Quanto più i bambini sono piccoli tanto più sarà facile far passare le attività di riabilitazione come un gioco. A conclusione di questa seconda parte del presente capitolo, dedicata all’ingresso nella scuola primaria del bambino con difficoltà di apprendimento, desideriamo indicare alcuni di quei sintomi che possono facilitare il riconoscimento dell’insorgenza di un disturbo. Sia ben chiaro che non è un singolo errore o un singolo sintomo a identificare la presenza di un disturbo, ma piuttosto è la frequenza con cui determinati errori ricorrono e la loro persistenza, nonostante l’insegnamento abbia tenuto conto delle caratteristiche del bambino e abbia fatto ricorso a strumenti didattici adeguati. • Confusioni sistematiche di alcune lettere, come b, d, p e q; oppure v/f, b/m, d/t, cioè tutte quelle lettere che condividono qualche caratteristica o sul piano visivo o su quello fonologico (suoni simili) e su quello articolatorio (come le labiali b e m che hanno uno stesso luogo di articolazione). Il fatto che queste lettere (in questo caso grafemi) condividano alcune caratteristiche è ciò che le rende confondibili e meno discriminabili da parte dei bambini. Proprio per questo, in fase di un iniziale apprendimento, tutti i bambini possono avere alcune difficoltà con esse. Per questo tali errori, per poterli considerare un sintomo di qualcosa, non devono essere sporadici e caratterizzare solo le fasi iniziali dell’apprendimento, ma sistematici e duraturi nel tempo. • Errori sistematici di inversioni: il/li, al/la, in/ni, ecc. Errori di omissioni, sostituzioni, o aggiunte di sillabe o lettere sia in lettura che in scrittura: csa per CASA, tavolovo per TAVOLO, mati per MATITA.

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• La lettura appare sempre estremamente stentata, ricca di esitazioni ed errori. Seppure, dopo lunghe ed estenuanti esercitazioni, la lettura di una pagina migliora, questo apprendimento è solo temporaneo. Dopo un giorno la lettura della stessa pagina è ancora stentata, come la prima volta. In altre parole, il bambino non riesce a generalizzare e automatizzare il processo di lettura. • Difficoltà grafomotorie, evidenziabili con la fatica nel disegnare e colorare nei margini. Queste difficoltà peseranno in seguito sulla corretta costruzione delle lettere. • La fatica richiesta nel processo di decodifica nella lettura ostacola la comprensione del testo. • Spesso, si manifestano difficoltà con l’apprendimento delle sequenze e diventa un problema ricordare i giorni della settimana, i mesi dell’anno, contare in avanti e, soprattutto, indietro. • Difficoltà nel riconoscimento della destra e della sinistra. • Generali difficoltà attentive dovute allo sforzo richiesto a un alunno con difficoltà di apprendimento nel seguire le spiegazioni dell’insegnante. È così faticoso lavorare sulle corrispondenze grafema/fonema che, molto spesso, questi bambini potranno mettere in atto strategie di evitamento che potrebbero essere imputabili a disattenzione. Non è raro che a questi sintomi se ne associno altri di natura psicosomatica, come mal di pancia o mal di testa, dolori che, prima dell’ingresso a scuola, non si erano mai manifestati. A questi, poi, si aggiungono le richieste volte a evitare di andare a scuola, come: “Non mi va di andare”, “Non sono simpatico a nessuno”, “La maestra mi sgrida sempre”.

Cosa può fare un genitore nelle attività di vita quotidiana, di gioco e di studio? L’inizio della scuola primaria segna per tutti i bambini una fase di passaggio personale e sociale cruciale. Per la prima volta, sono sottoposti a un apprendimento formale e strutturato, che richiede il

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rispetto di regole di studio e disciplinari che, solo in parte, potevano essere già conosciute e vissute da un bambino. Ora è un alunno e, perciò, dovrà adattarsi alle nuove richieste che lo impegnano e lo responsabilizzano in prima persona. Tra queste nuove incombenze c’è quella dei compiti a casa. I compiti a casa hanno lo scopo di rinforzare gli apprendimenti scolastici, cioè di allenare le competenze e le abilità che la maestra ha trattato e spiegato in classe. L’esercizio a casa favorisce l’acquisizione di una maggiore padronanza delle materie, permettendo all’alunno una certa autonomia e creatività nell’uso delle nuove conoscenze e stimolandolo a sempre nuovi apprendimenti. Perché un esercizio sia efficace, è necessario che sia significativo, cioè che il nuovo compito che gli si presenta si appoggi su conoscenze che il bambino già possiede e padroneggia. La misura di questo “di più” che il nuovo compito di apprendimento dovrebbe introdurre, è presto detta: è quel contenuto che l’alunno può raggiungere per ragionamento o per intuito se solo guidato verso la risposta giusta. Se il nuovo contenuto di apprendimento fosse troppo complesso, ossia troppo distante da ciò che il bambino già conosce, non si otterrebbe di per sé un apprendimento. Un apprendimento, infatti, è tale solo quando ciò che è appreso è disponibile alla persona nei contesti e nei momenti in cui ne è richiesto l’uso e arricchisce di senso la persona stessa e il mondo che la circonda. Un contenuto di apprendimento che fosse del tutto estraneo al mondo di significati di una persona sarebbe completamente privo di senso, quindi, inutile. Facciamo un esempio: se la maestra decidesse di introdurre il concetto di moltiplicazione, cioè il rendere numericamente molte volte maggiore una data quantità, un dato numero o una data intensità, prima che i suoi alunni abbiano compreso e padroneggino il concetto di addizione, nessuno arriverebbe a capirci nulla. Quel “rendere numericamente molte volte maggiore una data quantità” non troverebbe aggancio a un mondo di significati necessari al bambino per capire ciò che caratterizza la moltiplicazione come tale, cioè il numericamente molte volte maggiore. Se, prima, l’alunno non avrà appreso che a una data quantità è possibile assommarne altra, su cosa appoggerà il significato di numerica-

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mente molte volte maggiore? E questo è vero per ogni altro tipo di apprendimento: se l’alunno non avrà prima padroneggiato il gesto grafico rappresentato dai prerequisiti del corsivo, non apprenderà una scrittura fluente. Se, dunque, si raggiunge un nuovo contenuto di apprendimento scolastico solo facendo ricorso a conoscenze già precedentemente possedute da un alunno e alla capacità intuitiva della persona di cogliere i nessi logici e significativi tra ciò che possiede e il nuovo che apprende, allora i compiti a casa potranno essere svolti in piena autonomia dal bambino. I compiti, infatti, hanno la finalità di rinforzare l’apprendimento scolastico, perché si basano su conoscenze già acquisite dall’alunno, stimolandone la capacità logica, intuitiva e creativa. Detto questo, se ne può dedurre che un bambino, a casa, deve poter essere in grado di svolgere i compiti da solo, anche a 6 anni. Questa consapevolezza deve appartenere all’insegnante quanto al genitore. Certo, un genitore potrà e dovrà ricordare a suo figlio che è ora di iniziare a fare i compiti e con lui controllerà il diario di scuola. Allo stesso tempo, però, dovrà lasciare che i compiti vengano svolti in autonomia e verificare, solo al termine del lavoro svolto, che il figlio abbia fatto tutti i compiti previsti, lodandolo, poi, per ciò che ha fatto, indipendentemente da come lo ha fatto. Non spetta al genitore correggere i compiti, che è, invece, il compito dell’insegnante. Il bambino ha bisogno di sentirsi premiato affettivamente dai propri genitori già per l’impegno che ha profuso nello svolgimento del suo lavoro, indipendentemente dai risultati dell’apprendimento. Ogni bambino ha il diritto di sentirsi amato e stimato dai propri genitori per quello che è, così come è, e non soltanto per il raggiungimento di un successo scolastico. Il bambino deve sperimentare nel profondo che il bene dei propri genitori non è sottoposto ad alcuna condizione, tanto meno a quella di dover andar bene a scuola. Questa stima e questo amore sono il motore imprescindibile non solo di un buon apprendimento scolastico, ma di una sana maturazione umana. In questa fase così importante della crescita del figlio, che si affaccia per la prima volta al mondo della scuola, un genitore deve rappresentare un costante e incondizionato supporto affettivo, cosicché il proprio figlio si senta rassicurato in un

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momento ricco di scoperte e di novità che, da una parte, lo affascinano ma, a volte, potrebbero intimorirlo. Mai un genitore dovrebbe derogare da questo suo insostituibile ruolo genitoriale sovrapponendosi all’insegnante. Tuttavia, pur nel rispetto del suo ruolo genitoriale e continuando a far tifo per il proprio figlio, senza concedersi invasioni di campo, il genitore può accorgersi che suo figlio richieda di più di un semplice controllo del diario o di un incentivo allo studio. Si accorge che la sua presenza accanto al figlio che fa i compiti diventa necessaria e costante, sempre richiamato a dare spiegazioni su argomenti che il bambino non ha capito. È questo un segno che qualcosa non va su cui far luce il più presto possibile, perché non ha a che fare con lo stile educativo del genitore. Non è raro che bambini che svilupperanno un DSA già a quest’età trascorrano ore e ore sui quaderni. I compiti a casa, pian piano, intralciano i ritmi delle vita quotidiana, condizionando la partecipazione sociale, le attività di gioco, di svago e sportive. Si comincia a rinunciare ad andare alla festa, o al parco, in piscina durante la settimana, o la domenica dai nonni, perché ci sono i compiti da finire. Le attività scolastiche iniziano a invadere la vita familiare, divenendo un problema per tutti i membri della famiglia. È questo il momento in cui i genitori dovrebbero fermarsi a pensare su ciò che sta accadendo e capire cosa non va, senza colpevolizzare né se stessi, né il bambino in difficoltà. Vorremmo a questo punto, cari lettori, poter andare avanti con delle linee guida del buon comportamento di un genitore di un bambino con difficoltà di apprendimento e non fermarci semplicemente ad alcuni consigli di semplice buon senso. Ma crediamo fermamente che queste poche regole di comportamento, seppure forse solo di senso comune, siano tutt’altro che diffuse tra i genitori di bambini con DSA. Certamente c’è molto che si può fare per un bambino di 6 anni che incontra ostacoli nell’apprendimento scolastico, soprattutto con l’aiuto competente della scuola e dei professionisti dell’età dello sviluppo. Ma prima ancora c’è qualcosa che sempre possono fare i genitori per aiutare il proprio figlio a superare queste difficoltà: “tornare a fare i genitori”.

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Questo per noi significa, e non ci dispiace ripeterci, non acquisire il ruolo di insegnante pomeridiano a discapito del supporto affettivo genitoriale. La vita in famiglia non deve trasformarsi in quella di una succursale scolastica. I rapporti familiari non devono essere misurati e condizionati dal solo andamento scolastico. Il clima in casa non deve risentire dei calcoli aritmetici o dei riassunti di storia. Che il bambino sia coinvolto emotivamente nello svolgimento dei compiti a casa è normale; che possa arrabbiarsi o dispiacersi delle sue difficoltà di studio è sensato; ma, una volta che ha terminato il lavoro scolastico, deve poter ritrovare la sua serenità e la sua gioia di vivere, in casa con la sua famiglia, con gli amici nelle attività extrascolastiche.

Per saperne di più Elena Freccero, Emma Perrotta, Patrizia Rustici e Maria Cristina Tigoli, Prevenzione e recupero delle difficoltà morfosintattiche. Schede operative per la riabilitazione del linguaggio, Trento, Erickson, 2008. Ilaria Pagni, Comprensione e produzione verbale. Storie e attività per il recupero e il potenziamento, Trento, Erickson, 2010. Emma Perrotta e Patrizia Rustici, Correggere i difetti di pronuncia: il programma A.P.I. (Ascolta-Prova-Impara) per l’allenamento percettivo-articolatorio, Trento, Erickson, 2006. Vincenzo Riccio, Laboratorio delle attività motorie. Consapevolezza corporea, orientamento spazio-temporale e educazione alla salute per la scuola dell’infanzia e primaria, Trento, Erickson, 2011. Luisa Salmaso, Sequenze temporali. Schede operative per imparare a ordinare gli eventi, Trento, Erickson, 2000. Alessandra Zoccali e Valentina Mauro, Giochi fonologici. Attività di discriminazione uditiva e impostazione articolatoria, Trento, Erickson, 2006.

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Capitolo 2

Quando mio figlio è dislessico

Il momento della diagnosi È arrivata la diagnosi: tuo figlio ha ricevuto un riconoscimento formale di tipo medico-clinico relativo alle difficoltà di apprendimento di alcune abilità specifiche che non permettono una completa autosufficienza nell’apprendimento scolastico della lettura, della scrittura o del far di conto. La diagnosi di DSA non può essere emessa prima che tuo figlio abbia finito la II classe primaria, cioè intorno ai sette o otto anni, se presenta un disturbo nella letto-scrittura, e in III classe, se lo presenta nel calcolo. Questo vuol dire che potrebbe arrivare anche dopo un lungo periodo di tempo. Le difficoltà di tuo figlio, infatti, potevano essere evidenti già alla scuola d’infanzia o nei primi momenti della scuola primaria. Bambini che hanno avuto problemi di goffaggine, coordinazione motoria, linguaggio, attenzione e concentrazione e, soprattutto, bambini che in famiglia hanno qualcuno che ha avuto difficoltà di apprendimento sono più a rischio di andare incontro a un vero e proprio disturbo di apprendimento. C’è, d’altro canto, anche la possibilità, non affatto infrequente, che il momento della diagnosi arrivi inaspettato. Bambini o bambine che fino all’ingresso della scuola primaria non avevano manifestato problemi di alcun tipo, improvvisamente cominciano a sviluppare resistenze nei confronti della scuola, disagi di varia natura che piano piano hanno spinto genitori e insegnanti a interrogarsi e, infine, a una diagnosi di DSA.

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Leggiamo insieme una diagnosi In questo paragrafo vogliamo guidare un genitore nella lettura di una tipica diagnosi di dislessia. Prendiamo ad esempio quella rivolta a un bambino di otto anni, che frequenta la terza classe delle elementari, il cui nome di fantasia è Simone. Partiamo un po’ dalla fine della diagnosi di Simone quando, dopo aver esposto i vari risultati delle analisi svolte, si arriva al dunque, cioè alla formulazione della diagnosi che nel caso di Simone è di dislessia, e si fanno delle raccomandazioni per il trattamento neuropsicologico. In conclusione, dall’analisi dei dati sopra riportati, Simone presenta un disturbo specifico di apprendimento interessante le aree della lettura e della scrittura (dislessia): codice ICD 10: F81.0. Questa potrebbe essere la frase conclusiva di una relazione dettagliata in cui si riassume il risultato di una valutazione neuropsicologica (vedi Box 2.1) e si classifica il disturbo con un’etichetta universalmente riconosciuta (etichetta nosografica), che nel caso di Simone è dislessia. Spesso vengono adottati anche codici alfanumerici che aiutano la condivisione della diagnosi a livello internazionale (vedi Box 2.2). BOX 2.1

La valutazione neuropsicologica

I processi cognitivi sono quelli che servono a conoscere l’ambiente circostante, permettendo così a un individuo di raccogliere informazioni, immagazzinarle, analizzarle, valutarle, trasformarle, per poi utilizzarle attraverso la pianificazione e l’esecuzione di comportamenti adeguati al contesto. I principali processi cognitivi sono la percezione, la memoria, l’apprendimento, il pensiero, il linguaggio, la coscienza e l’attenzione. La neuropsicologia è una scienza che studia, con metodi sperimentali, proprio questi processi cognitivi e comportamentali con l’obiettivo di metterli in relazione con le strutture e i meccanismi del nostro sistema nervoso, ossia con le basi biologiche di tali funzioni. (continua)

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BOX 2.1

La valutazione neuropsicologica

(continua)

Questo lo fa principalmente studiando gli effetti di lesioni cerebrali sul comportamento, proprio come fece già nell’800 un pioniere di tali ricerche, Paul Broca. Medico e anatomista, attraverso lo studio post mortem di pazienti che avevano subito lesioni cerebrali, riuscì a identificare quale area cerebrale sottostà al funzionamento della comprensione del linguaggio. Da allora tale struttura è identificata con il suo nome: area di Broca. Oggi la neuropsicologia si può avvalere, oltre che dello studio delle conseguenze di lesioni cerebrali sul comportamento, anche di tecnologie come la risonanza magnetica funzionale che consentono l’osservazione in vivo dell’attivazione di particolari strutture cerebrali connesse a specifiche funzioni mentali. Questo ha facilitato di molto la ricerca delle basi biologiche delle funzioni mentali, conducendo i neuropsicologi a una sempre più chiara comprensione dell’architettura funzionale delle diverse abilità cognitive. Il cervello è un organo che si sviluppa e si modifica per tutto l’arco di vita. Quella branca della neuropsicologia che si occupa delle fasi di sviluppo cerebrale legate all’infanzia e all’adolescenza è detta neuropsicologia dello sviluppo. Essa si differenzia dalla neuropsicologia dell’adulto, perché non sempre i disturbi dello sviluppo dei bambini derivano da vere e proprie lesioni cerebrali o per lo meno queste non sembrano rintracciabili con gli strumenti oggi a nostra disposizione. Nonostante da un punto di vista anatomico siano in tutto comparabili alla normalità, in alcuni bambini queste strutture non funzionano come dovrebbero. I disturbi dello sviluppo, cioè dell’età dell’infanzia e dell’adolescenza, si manifestano, infatti, come la mancata comparsa di un’abilità attesa a una certa età cronologica. Ad esempio, un bambino potrebbe non pronunciare le prime parole entro il range di età tipico o pronunciarle in maniera poco comprensibile, come in un disturbo specifico del linguaggio. Questi disturbi si differenziano da quelli degli adulti che, essendo la conseguenza di una lesione o di una malattia, comportano la perdita di una funzione già precedentemente appresa. Inoltre, mentre a determinate lesioni focali del cervello di un adulto corrisponde l’assenza di una specifica funzione mentale, nei bambini con disturbi evolutivi spesso ci troviamo di fronte a un complesso pattern di deficit associati.

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BOX 2.2

Le classificazioni diagnostiche internazionali (ICD-10 e DSM-IV)

La Classificazione statistica internazionale delle malattie e dei problemi sanitari correlati (ICD) è una classificazione delle malattie per semplificare la comunicazione in ambito medico e sanitario tramite l’uso di codici condivisi utili a evitare equivoci o ambiguità nell’uso della terminologia che descrive una determinata patologia. L’ultima sua revisione fu adottata nel 1990 dall’Assemblea Mondiale della Sanità (OMS) ed è in vigore dal 1993. L’ICD-10 è redatta in inglese e tradotta nelle altre 5 lingue ufficiali dell’OMS (arabo, francese, cinese, russo e spagnolo) e in altre 36 lingue tra cui l’italiano. L’ICD-10 è stata adottata da oltre 100 Stati membri dell’OMS (rappresentanti il 60% della popolazione mondiale). Alcuni Paesi hanno adottato L’ICD-10, o una sua modificazione, anche per la codifica di diagnosi e prestazioni dei ricoveri ospedalieri. Dal 1996 la Classificazione è costantemente aggiornata sia dall’OMS sia da una rete di centri di ricerca nel mondo per lo sviluppo delle classificazioni internazionali. Sono già stati approvati circa 2000 aggiornamenti. Per rendere il processo più partecipato e trasparente, dal 2006 l’aggiornamento dell’ICD-10 è gestito attraverso l’uso di una piattaforma web accessibile a chiunque. L’ICD-10 registra i disturbi specifici di apprendimento nel capitolo F81, Disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche: «Disordini in cui le normali modalità di acquisizione delle competenze sono disturbate fin dai primi stadi di sviluppo. Ciò non in diretta conseguenza di una mancata opportunità di apprendimento, non come risultato di un ritardo mentale e non in conseguenza di alcuna forma di trauma cerebrale o di deficit.» Essi sono così classificati: • • • • • •

F81.0 – Disturbo specifico della lettura; F81.1 – Disturbo specifico della compitazione; F81.2 – Disturbo specifico delle abilità aritmetiche; F81.3 – Disturbi misti delle abilità scolastiche; F81.8 – Altri disturbi evolutivi delle abilità scolastiche; F81.9 – Disordine evolutivo di abilità scolastiche non meglio specificato. (continua)

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BOX 2.2

Le classificazioni diagnostiche internazionali (ICD-10 e DSM-IV)

(continua)

Il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) dell’American Psychiatric Association (APA) è uno dei sistemi nosografici per i disturbi mentali più utilizzato da medici, psichiatri e psicologi di tutto il mondo, sia nella clinica che nella ricerca. Attualmente è ancora in uso la quarta revisione, DSM-IV, sebbene già dal 1º dicembre 2012 sia stata approvata la nuova revisione, il DSM-5. La pubblicazione della quinta edizione è avvenuta a maggio del 2013 in lingua inglese ed è di prossima uscita l’edizione in italiano. Il DSM-IV classifica i DSA con il codice 315 sotto il titolo di Disturbi dell’apprendimento: «I Disturbi dell’Apprendimento vengono diagnosticati quando i risultati ottenuti dal soggetto in test standardizzati, somministrati individualmente, su lettura, calcolo, o espressione scritta risultano significativamente al di sotto di quanto previsto in base all’età, all’istruzione, e al livello di intelligenza. I problemi di apprendimento interferiscono in modo significativo con i risultati scolastici o con le attività della vita quotidiana che richiedono capacità di lettura, di calcolo, o di scrittura.» Essi sono così classificati: • • • •

315.00 – Disturbo della lettura; 315.01 – Disturbi nell’apprendimento della matematica; 315.02 – Disturbo dell’espressione scritta; 315.09 – Disturbo dell’apprendimento non altrimenti specificato.

Bibliografia American Psychiatric Association, DSM-IV. Manuale diagnostico statistico dei disturbi mentali per la medicina generale, Masson, Milano, 2002. Stefano Federici e Marta Olivetti Belardinelli, Un difficile accordo tra prevenzione e promozione secondo il modello biopsicosociale della disabilità, in Psicologia clinica dello sviluppo, n. 10, pp. 330-334, 2006. Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ICD-10: Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Sanitari Correlati, 10ma revisione, OMS, Ginevra, 1992.

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Il termine dislessia viene utilizzato per indicare un disturbo specifico della lettura, anche se spesso nel gergo comune è utilizzato come termine ombrello per indicare qualunque tipo di DSA. Anche utilizzandolo nell’accezione ristretta e in linea con i criteri scientifici più aggiornati (vedi ad esempio: Consensus Conference; Linee Guida Nazionali per i DSA; Legge 170), in una diagnosi al termine dislessia fa seguito in genere un ulteriore chiarimento rispetto alla natura della particolare dislessia diagnosticata, in quanto i disturbi specifici della lettura sono molto diversi tra di loro (vedi Box 2.3). Ad esempio, nel caso di Simone: Da un punto di vista neuropsicologico la natura di questa difficoltà appare legata a evidenti cadute in ambito della memoria fonologica e a un inefficace accesso lessicale. La strategia di lettura fonologica, oltre a essere lenta, appare poco accurata e non facilita la formazione di un lessico ortografico, ciò a sua volta ostacola l’utilizzo di una strategia di lettura più visiva o diretta. (Vedi Box 2.4.)

BOX 2.3

Le dislessie

Nella storia dell’umanità la lettura è un’acquisizione piuttosto recente, risalente a circa 5000 anni fa. Sebbene possa sembrarci un un’enormità di tempo, tuttavia, è un periodo insufficiente a produrre un cambiamento nelle strutture biologiche dell’organismo umano. Infatti, 5000 anni non sono stati sufficienti a modificare il cervello umano perché, come per l’acquisizione del linguaggio parlato, si possa imparare a leggere e scrivere attraverso la semplice esposizione alla comunicazione umana. Mentre ogni bambino che viene al mondo, senza un apprendimento strutturato ed esplicito, imparerà la lingua materna alla perfezione, diversamente, affinché possa padroneggiare la lettura e la scrittura dovrà essere esposto a un lungo periodo di addestramento, cioè dovrà essere alfabetizzato. In altre parole, non esiste nel nostro cervello un’area della lettura così come invece esi(continua)

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BOX 2.3

Le dislessie

(continua)

stono aree legate a comprensione e produzione del linguaggio le quali posseggono meccanismi universali innati che ci permettono di produrre o apprendere spontaneamente una lingua se solo si è esposti alla comunicazione interumana. Perciò, per far fronte all’esigenza di leggere è necessario che più aree, deputate originariamente ad altre funzioni, collaborino a questo nuovo compito culturale. La vista e tutte le più complesse abilità visuopercettive, l’attenzione, il linguaggio e la memoria sono i processi coinvolti. Se uno o più di questi processi è malfunzionante ostacola l’apprendimento e l’automatizzazione della lettura, rendendola faticosa o impossibile. Pertanto, un disturbo della lettura come la dislessia, che si manifesta con una lentezza o scorrettezza di decodifica, potrà assumere caratteristiche molto diverse a seconda del quadro neuropsicologico sottostante. In altre parole, il disturbo può derivare dal malfunzionamento di una qualunque delle numerose abilità sottostanti la decodifica o, addirittura, da una associazione fra esse e assumere così caratteristiche diverse a seconda dei casi. Possediamo oramai una ricca classificazione di diversi tipi di dislessia: fonologica, visuoattenzionale, percettiva o periferica, lessicale, e così via. Queste classificazioni oltre a indicarci la natura di una dislessia, cioè quali delle abilità richieste per la lettura siano disfunzionali, ci offrono anche delle misure quantitative, cioè ci dicono la gravità del disturbo stesso. Per cui, una stessa dislessia visuopercettiva, che si caratterizza da una lettura molto lenta, in quanto la segregazione grafemica necessaria all’analisi delle singole lettere è ostacolata da un problema con l’attenzione visuospaziale, potrà differenziarsi per livelli di gravità. L’importanza della consapevolezza dell’eterogeneità delle sindromi dislessiche (le dislessie) è fondamentale, perché solo in questo modo sarà possibile attivare percorsi riabilitativi mirati e specifici e adottare gli opportuni strumenti didattici nell’insegnamento scolastico.

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BOX 2.4

Modelli di lettura

In neuropsicologia si utilizzano dei modelli per rappresentare il possibile funzionamento delle varie abilità mentali. Nel caso della lettura, partendo da modelli nati dall’osservazione dei disturbi degli adulti acquisiti in seguito a una lesione o una malattia e che successivamente si sono rivelati utili anche per spiegare il funzionamento dei bambini, si è arrivati a ipotizzare l’espressione di un modello a 2 vie (vedi Figura 2.1). La prima via, detta fonologica o indiretta, rappresenta la strategia di lettura caratteristica delle prime fasi di apprendimento in cui si decodifica una parola lettera per lettera, facendo ricorso ai meccanismi appresi a scuola di conversione da un grafema a un fonema. L’altra via di lettura, detta lessicale o diretta, è più caratteristica di una lettura di un adulto e consente di riconoscere direttamente una parola scritta, recuperandone all’istante il significato e associandovi subito dopo il suono della parola orale corrispondente. In altre parole, senza dover analizzare la parola scritta in tutte le sue componenti, è possibile riconoscerla nella sua interezza e leggerla rapidamente. Ad esempio, la lettura secondo la via fonologica della parola MATITA procederà attraverso una decodifica lettera per lettera o sillabata, seguita dal riassemblaggio di tutti i suoni prodotti: /m/-/a/-/t/-/i/-/t/-/a/  MATITA. Invece, seguendo la via lessicale la lettura sarà immediata (a colpo d’occhio): MATITA  MATITA.

Figura 2.1 Modello a 2 vie. (continua)

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BOX 2.4

modelli di lettura

(continua)

A partire da questi modelli generali che sono stati concepiti in paesi di lingua anglosassone, per ortografie opache come l’inglese, si è passati poi a delle varianti che meglio si adattano a spiegare i processi di apprendimento della lettura in un’ortografia trasparente come quella italiana. Una di queste è quella proposta da Giacomo Stella riportata nella Figura 2.2. Questo modello, pensato per un’ortografia trasparente, vuole rappresentare la fase di acquisizione della lettura, cioè i primi momenti in cui un bambino si cimenta con la decodifica. Al contrario del modello a 2 vie (Figura 2.1), qui viene rappresentata solo la via fonologica che, ragionevolmente, dovrebbe essere la più semplice a cui affidarsi in un’ortografia in cui i meccanismi di conversione dal grafema al fonema sono così semplici e quasi sempre trasparenti come nell’italiano. Come si può osservare nella Figura 2.2, la parola da leggere è: ELEFANTE. Il bambino di I classe primaria ha cominciato a imparare le corrispondenze e inizia la decodifica del primo grafema: /e/.

Figura 2.2 L’acquisizione della lettura in italiano (continua)

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BOX 2.4

Modelli di lettura

(continua)

A questo punto il suono pronunciato della prima lettera E potrebbe far venire in mente al bambino una serie di parole che cominciano per e ma, come descritto nella figura, la prima freccia si collega, nella parte destra del modello, a un contenitore vuoto, perché probabilmente un solo singolo suono è insufficiente a evocare qualcosa nel lessico fonologico del bambino (che, con molta probabilità, a 6 anni già contiene la parola orale elefante). Si prosegue poi nella decodifica aggiungendo un’altra lettera (Figura 2.2, secondo contenitore a sinistra): /e/-/l/. A questo punto è molto probabile che nel vocabolario mentale (Figura 2.2, secondo contenitore del lessico fonologico nella parte destra della figura) si attivino dei competitori. Se il bambino provasse a questo punto ad anticipare o indovinare la parola che sta leggendo potrebbe commettere degli errori di sostituzione. Andrà, allora, ancora avanti nella decodifica /e/-/l/-/e/ e poi /e/-/l/-/e/-/f/ fino a che, anche senza arrivare in fondo alla decodifica, non avrà più dubbi e riconoscerà la parola ELEFANTE. L’allenamento e l’esperienza con questo modo di procedere dovrebbe portare alla costruzione di un lessico ortografico e, quindi, all’utilizzo delle lettura lessicale (riconoscimento immediato della parola).

Cerchiamo ora di smontare pezzo per pezzo quanto sopra scritto e di spiegare ogni singolo passaggio: • Punto di vista neuropsicologico. Neuropsicologico qui sta a indicare che le cause delle difficoltà diagnosticate in Simone non sono riconducibili semplicemente a fattori comportamentali o psicologici. Qual è la differenza? Che le cause psicologiche o comportamentali sono quelle legate all’umore di un bambino spaventato e preoccupato per la separazione dei propri genitori; oppure al disagio dovuto all’inserimento in una nuova classe con nuovi compagni e insegnanti a seguito del trasferimento in un’altra città della sua famiglia. Il punto di vista neuropsicologico, invece, riconduce le cause dei disturbi a un funzionamento atipico di alcune aree del cervello che sono coinvolte nell’apprendimento di abilità come la letto-scrittura e il calcolo.

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• Cadute in ambito della memoria fonologica. Caduta qui sta per diminuzione o perdita parziale di una capacità che riguarda la memoria. Per fare un esempio: immaginate di utilizzare una chiavetta USB per salvare delle immagini dal vostro computer. Una caduta potrebbe riferirsi al fatto che la chiavetta salva meno file immagini di quanto ci si aspetterebbe; o che andando ad aprire i file salvati sulla chiavetta questi risultino inaccessibili, corrotti o solo parzialmente leggibili. La memoria è, in generale, una funzione che il nostro cervello ha a disposizione per immagazzinare e recuperare delle informazioni che provengono dall’ambiente. Ora l’ambiente invia tantissime informazioni al nostro organismo, di natura molto diversa fra loro: visiva, uditiva, tattile e così via. Legata a ogni tipo di senso (canale sensoriale) esiste una forma di memoria diversa e specifica. Ogni canale sensoriale intercetta e immagazzina solo un certo tipo di informazioni provenienti dall’ambiente, proprio come raccoglie e immagazzina materiale differente la memoria di una macchina fotografica digitale rispetto a quella di un lettore mp3. Nel caso specifico dei suoni e, più specifico ancora, dei suoni del linguaggio (che in gergo tecnico si chiamano fonemi) esiste la cosiddetta memoria fonologica detta anche memoria di lavoro fonologica. Si dice “di lavoro” perché sta indicare che oltre a svolgere un compito, diciamo passivo, di salvataggio di suoni del linguaggio, che è possibile recuperare successivamente, può effettuare anche alcune semplici elaborazioni del materiale. Ad esempio, le prime volte che un bambino prova a leggere (decodificare) una parola, lo fa leggendo una lettera alla volta: /m/-/a/-/n/-/o/. Fino a quando non ha completato questa operazione, che richiede circa 2 secondi di tempo, deve riuscire a mantenere in memoria ogni singolo suono collegato a ciascuna lettera. Solo dopo la decodifica dell’ultimo suono potrà compiere (ecco il lavoro della memoria fonologica!) una fusione o una sintesi dei quattro suoni corrispondenti alle quattro lettere e riconoscere la parola intera MANO. Quando la memoria fonologica non funziona bene, il bambino dimentica (caduta della memoria) i suoni di ciascuna delle lettere che via via legge, non riuscendo così, al termine della lettura della

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parola, a fondere i suoni e riconoscere la parola letta. Questo significa avere cadute in ambito alla memoria fonologica. • Inefficace accesso lessicale. Il lessico è l’insieme delle parole di una lingua. L’accesso al lessico è una funzione del nostro cervello che ci consente di recuperare rapidamente la parola che ci serve nel momento esatto in cui ne abbiamo bisogno. È dunque un meccanismo per rintracciare una parola nel dizionario della mente. Questo meccanismo funziona come un motore di ricerca (ad esempio Google) su Internet: immettendo una parola nel campo della ricerca, il motore di ricerca restituirà tutte quelle pagine web che la contengono. Il disturbo indicato con “inefficace accesso lessicale” fa riferimento proprio al funzionamento del “motore di ricerca”, non ai contenuti presenti su Internet. È come se Google non funzionasse bene: i contenuti su Internet ci sono sempre, ma Google non riesce più a trovarli. La stessa cosa avviene nella nostra mente. C’è un sistema, come un motore di ricerca, che va a sfogliare il dizionario delle parole che abbiamo memorizzato nel nostro cervello. Questo motore di ricerca mentale, cioè il sistema di accesso lessicale, è indipendente dal dizionario di parole che abbiamo immagazzinato (lessico). Per cui, quando si verifica un inefficace accesso al lessico, non vuol dire che non si possegga quella parola cercata nel nostro vocabolario mentale (lessico), solo che non riusciamo a trovarla. È simile a quel fenomeno che chiamiamo “sulla punta della lingua”, quando cioè siamo certi di conoscere il nome della persona che ci sta davanti, ma non riusciamo a ricordarlo. L’accesso al lessico serve perciò a collegare la parola al concetto che sto per esprimere o ad attribuire la parola giusta all’oggetto che devo denominare o, infine, a leggere in modo lessicale una parola scritta (cioè in modo diretto, senza prima sillabarla, che è poi il modo in cui normalmente legge nella propria lingua una persona adulta). • La formazione di un lessico ortografico. Quando un bambino inizia a leggere impara a decodificare una parola lettera per lettera. Dopo un certo periodo di apprendimento, alcune parole che sono lette più spesso (in genere le più frequenti nel vocabolario

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di prima elementare) diventano familiari. Non sarà più necessario leggerle lettera per lettera, ma il bambino le riconoscerà globalmente con un colpo d’occhio. Ecco che si è formato il lessico ortografico: nella mente del bambino oltre alla parola detta si affianca anche la parola scritta, che potrà a questo punto essere letta e quindi riconosciuta molto velocemente, evocando immediatamente anche il suo significato. Il lessico ortografico è quindi costituito da tutte le parole scritte che pian piano vengono immagazzinate e che si associano alle corrispondenti parole orali. Possiamo capire il passaggio da una lettura fonologica a quella lessicale immaginando che il bambino sia come il nostro smartphone con o senza la funzione T9. Inizialmente, cioè nelle prime fasi di apprendimento della letto-scrittura, non possedendo ancora un vocabolario delle parole scritte, il bambino funziona come un cellulare senza la funzione T9. Per leggere deve “scrivere” nella sua memoria la parola letta lettera per lettera. Quando invece avrà acquisito una certa competenza, la sua memoria funzionerà come un T9: gli basteranno solo pochi indizi di una parola per riconoscerla per intero. Ad alcuni bambini mancherà sempre, del tutto o in parte, questa funzione del T9, rendendo quindi difficile la formazione di un lessico ortografico. • Strategia di lettura più visiva o diretta. Solo quando potrà avvalersi di un lessico ortografico (il dizionario di come è scritta una parola orale), il bambino potrà leggere a colpo d’occhio, senza dover decodificare lettera per lettera, utilizzando cioè una strategia diretta (lessicale) di lettura.

Come ci si sente dopo aver ricevuto la diagnosi? La reazione che il bambino può avere al momento della diagnosi e il vissuto che la accompagna dipendono ovviamente da numerose variabili che andrebbero discusse e approfondite caso per caso. Certo è che l’evoluzione più o meno positiva che seguirà alla diagnosi di DSA dipenderà anche dalla comprensione di queste dinamiche.

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Le principali variabili che concorrono al successo di un intervento che farà seguito alla diagnosi di DSA e a cui il genitore dovrebbe prestare attenzione per facilitare il processo di riabilitazione sono: l’età del bambino (fase di sviluppo) al momento della diagnosi, l’equilibrio psicologico personale e familiare, l’ambiente scolastico, il quoziente d’intelligenza (che, seppure nella norma, può essere più o meno elevato), la presenza di un bilinguismo (il bambino ha appreso più di una lingua naturale dai genitori) e se ci sono altre malattie presenti. Queste sei condizioni possono essere sia dei punti di forza che di debolezza nel decorso dell’intervento che seguirà la diagnosi. Per questo, un genitore attento e informato sui DSA potrà, ad esempio, fare in modo che il bambino riceva una diagnosi precoce e non in una fase tardiva dello sviluppo, verificando che l’ambiente scolastico sia accogliente nei suoi confronti e competente nelle strategie didattiche da adottare in caso di un alunno con DSA. Inoltre, il genitore deve sempre ricordare che una diagnosi di DSA non è una diagnosi di stupidità del figlio: il figlio non è meno intelligente dei suoi compagni di scuola perché ha una dislessia. Per la stessa ragione, l’intervento riabilitativo per la dislessia non aumenterà il quoziente intellettivo del figlio. Tuttavia, è altrettanto vero che il figlio sarà favorito o ostacolato a seconda di come, nonostante la condizione di dislessico, avrà accesso a tutte quelle risorse culturali e sociali che faranno maturare il suo potenziale intellettivo e creativo facendo di lui una persona integrata, serena e di successo. Vediamo ora due situazioni tipiche di reazione alla diagnosi. Quando la diagnosi è una liberazione Spesso, anche se non sempre, il momento della diagnosi è vissuto dalla famiglia e, in particolare dal bambino, come un momento di liberazione o di grande alleggerimento. Qualche volta da scuola arriva la voce: “È più bravo, si impegna di più, comincia ad andare meglio!” E siamo solo alla diagnosi, nessuna stimolazione terapeutica è stata ancora messa in atto! Cos’è successo? La diagnosi a volte solleva il bambino dal peso di un insuccesso scolastico che ha sempre creduto dipendesse dalla sua poca volon-

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tà, dal suo poco impegno. Il bambino ha ricevuto finalmente una spiegazione che lo scagiona dall’essere uno svogliato, un fannullone, un cattivo scolaro. Egli comincia a intuire che tutti quei fallimenti nell’apprendimento avvenuti fino a quel momento non sono colpa sua, sono invece attribuibili a questa “dislessia” che, come gli hanno spiegato, con una serie di “giochetti” e accorgimenti potrà essere gestita e la vita scolastica non sarà più così faticosa. Ecco che allora il bambino recupera fiducia in se stesso, inizia a sentirsi intelligente come gli altri suoi compagni e prova a ripartire da zero, col piede giusto e, soprattutto, questa volta, compreso dai suoi genitori e dai suoi insegnanti e tutelato dall’ambiente. A questo punto, è assolutamente necessario che gli adulti di riferimento facciano in modo che la fiducia recuperata dal bambino non sia di nuovo frustrata e che le energie, che è pronto a reinvestire nell’impegno scolastico, producano i loro frutti e la scuola ridiventi per lui uno spazio dove la sua intelligenza e la sua creatività siano utilizzate al meglio e valorizzate. Quando la diagnosi arriva in ritardo o come una condanna In alcuni casi, è più facile che la diagnosi sia vissuta come una condanna definitiva, in particolare quando arriva più in ritardo, ben oltre gli otto o i nove anni, e il bambino si trova già in una fase di pre-adolescenza. Il bambino può aver sviluppato autonomamente, già negli anni della scuola primaria, delle proprie strategie di adattamento scolastico. Nonostante le sue limitazioni nelle abilità della letto-scrittura o del calcolo, può aver trovato successo dando spazio ad altre risorse e abilità umane, sociali e scolastiche. Potrebbe aver guadagnato la stima e l’apprezzamento degli insegnanti e dei compagni per le sue capacità espositive in compiti orali o creative in attività artistiche o sportive. Potrebbe aver trasformato la sua iniziale frustrazione e rabbia per gli insuccessi nell’apprendimento della lingua scritta in energia positiva, facendosi leader del gruppo, in un modo assertivo e seduttivo. Inoltre, c’è da ricordare che l’autostima di un bambino in età scolare, e ancor più di un adolescente, non è sempre commisurata al successo scolastico. In questi casi il sentir-

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si a posto, il sentirsi come gli altri se non addirittura meglio degli altri, potrebbe essere rimesso in discussione proprio dalla diagnosi, che riporta in superficie una sofferenza rimossa, una difficoltà nascosta, un passato dimenticato a livello esplicito, dichiarato e manifesto. La diagnosi diventa così uno stigma, una macchia che lo rende diverso, malato. E la convinzione di avercela fatta a superare le difficoltà di apprendimento, che tanto avevano gravato l’animo del bambino nei primi anni scolastici, può crollare di fronte all’inesorabilità di una diagnosi medica, comportando una reazione sia di tipo depressivo sia aggressivo e oppositivo. L’intervento sarà in questo caso molto diverso e probabilmente sbilanciato, perlomeno all’inizio, sul versante emotivo. In questo caso più che mai il clima familiare e l’ambiente scolastico saranno decisivi perché il bambino o il ragazzo elabori positivamente la diagnosi di DSA e partecipi attivamente e con spirito collaborativo agli interventi riabilitativi. Il genitore dovrebbe aiutare a comprendere che la diagnosi non è il punto di arrivo di un processo che lo ingabbia in una condizione insuperabile. La diagnosi è un punto di partenza per strutturare un percorso che lo aiuterà a superare quelle barriere che una dislessia non ben gestita incontra nella vita quotidiana. Il genitore per primo deve credere, e di questo convincimento farsi testimone presso il figlio, che la diagnosi è una porta che si apre verso la strada che lo condurrà al miglioramento della qualità di vita. Cosa deve sapere un genitore riguardo a suo figlio con dislessia Quello che ci proponiamo di fare in questo paragrafo è di guidare un genitore a comprendere il comportamento di un figlio cui è stato diagnosticato un DSA. Il modo migliore, infatti, per un genitore di sostenere un figlio dislessico è che comprenda bene cosa sia questo disturbo e cosa significhi affrontare l’impegno scolastico con tale difficoltà. Il genitore dovrà possedere da una parte una conoscenza teorica dei DSA, dall’altra, ed è forse la cosa più importante, acquisire una competenza emotiva, cioè mostrare una forte empatia nei confronti del vissuto del figlio mentre cerca di assolvere le varie richieste della scuola.

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Per iniziare a capire un bambino che ha ricevuto una diagnosi di DSA, bisogna innanzitutto sgombrare il campo da ogni falso pregiudizio e malinteso riguardo la dislessia. Per questo desideriamo partire con chi non è un bambino dislessico. Un bambino con DSA non è un bambino che ci vede male e per questo motivo fatica a imparare a leggere e a scrivere Per imparare a leggere un bambino deve poter vedere ciò che è scritto. È ovvio! Non c’è dubbio che un bambino che soffra di disturbi alla vista, di cui non ci si è accorti per tempo, potrebbe incontrare difficoltà nella lettura. Ma questo non ha nulla a che vedere con la dislessia. Un paio d’occhiali non guariscono un dislessico, ma certamente potrebbero risolvere un problema alla vista. Per fare ancora un altro esempio: un bambino cieco, seppure non potrà imparare a leggere secondo i criteri tradizionali, cioè attraverso la vista, acquisirà le stesse competenze di letto-scrittura e di calcolo di un qualunque altro bambino vedente. Un bambino cieco potrebbe ricorrere al tatto per leggere, utilizzando il sistema Braille (sistema internazionale di scrittura per ciechi costituito da punti in rilievo che si leggono facendo scorrere i polpastrelli delle dita sul foglio). E potrebbe scrivere e far di calcolo sia utilizzando il Braille che il codice alfabetico scritto dei vedenti. La sua condizione di non vedente potenzialmente non comporta in alcun modo una difficoltà di lettura, di scrittura o di calcolo ed egli non avrà un DSA perché è cieco. Facciamo ora un esempio di un bambino ipermetrope, che ha cioè difficoltà nel vedere da vicino, a 20-30 cm di distanza, ossia proprio la distanza a cui si tiene in genere un libro. Se questo disturbo non è riconosciuto per tempo, il bambino potrà certo faticare di più nel distinguere la forma visiva delle lettere quando gli verranno presentate. La miopia, che ostacola la vista da lontano, non avrà invece alcuna ricaduta sull’apprendimento della lettura. Va sottolineato che le difficoltà visive, che possono interferire con la lettura, rappresentano un problema solo fino a quando non sono diagnosticate. Basterà, infatti, che con una visita oculistica accurata si individui il problema, e con un paio di lenti adeguate il bambino torne-

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rà a godere delle medesime condizioni visive di tutti gli altri suoi compagni e potrà apprendere la lettura senza particolari ostacoli. Pertanto, un bambino con specifiche difficoltà visive potrà essere ostacolato, soprattutto quando nessuno se ne accorge, nel primo apprendimento della lettura, ma l’ostacolo sarà presto superato con un paio di occhiali. Un bambino con DSA, anche se ci vede benissimo o avrà inforcato degli occhiali correttivi, continuerà ad avere problemi nelle competenze di letto-scrittura o di calcolo. Un bambino dislessico non è un bambino che ci sente male Un bambino sordo può imparare a leggere tranquillamente. I bambini con importanti problemi di udito, soprattutto se non riconosciuti per tempo, possono incorrere in difficoltà con la percezione dei suoni e quindi del linguaggio parlato, e questo potrà certo determinare una serie di problemi con l’apprendimento di abilità scolastiche. In nessun modo però queste problematiche, anche riguardassero la letto-scrittura, potranno essere confuse con la dislessia che è presente invece in bambini che ci sentono bene. Sia che comunichino attraverso il linguaggio dei segni sia che abbiano appreso la lingua parlata, i bambini sordi non sono dislessici perché sordi. Un bambino può avere difficoltà di apprendimento sia che ci veda bene sia che ci veda male, sia che sia sordo sia che sia udente. Un bambino dislessico non è un bambino epilettico Un bambino dislessico non è un bambino con un disordine neurologico provocato da danni o malattie del sistema nervoso centrale (cervello e midollo spinale) o periferico (nervi spinali e cranici, fibre nervose che raggiungono i vari organi collegandoli al sistema nervoso centrale). Un bambino dislessico non è un bambino a cui è mancata l’opportunità di imparare Essendo la dislessia un disturbo della lettura, è necessario, prima di poter parlare di difficoltà o disturbo dell’apprendimento, che il bambino abbia avuto l’occasione di misurarsi con i compiti della

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lettura. In altre parole, che sia andato a scuola e che abbia provato per un tempo sufficiente a imparare a leggere. Quindi, solo dopo aver esposto il bambino all’apprendimento delle competenze scolastiche sarà possibile parlare di difficoltà o disturbi di lettura. Il tempo che a un bambino serve per imparare a leggere e a scrivere bene è abbastanza variabile e oscilla tra gli uno e i due anni. È, infatti, esattamente per questo motivo che non si parla mai di dislessia prima della fine del secondo anno della scuola primaria. Tutte le problematiche riscontrate prima di questo tempo possono essere ancora espressione delle differenze individuali che distinguono un bambino da un altro: ognuno ha i suoi tempi di sviluppo e apprendimento. Dopo due anni d’insegnamento scolastico però, se le difficoltà permangono, è legittimo sospettare che ci sia qualcosa in più di un ritardo nell’apprendimento e un approfondimento specialistico potrà chiarire se ci si trova in presenza di una dislessia. Ci preme a questo punto fare una precisazione. Il punto appena trattato, sui tempi della diagnosi, è assai spesso ragione di fraintendimenti ed equivoci. Se per arrivare a una diagnosi di dislessia è necessario aspettare fino alla fine della seconda classe della scuola primaria, questo non vuol dire necessariamente che tutte le difficoltà che possono emergere nei primi due anni delle elementari siano da attribuire alle sole differenze individuali, cioè al variare dei tempi di crescita e maturazione che differenziano un bambino da un altro. L’equivoco nasce proprio dal pensare che, quando una difficoltà di apprendimento della letto-scrittura o del calcolo si manifesta nei primi due anni della scuola primaria, questa debba essere trattata solo dalla maestra di classe con le normali metodiche di insegnamento. Affermare che nessuna diagnosi certa di dislessia può essere fatta prima della fine della seconda elementare non vuol dire negare la possibilità che indizi di un DSA non siano presenti e manifesti in un bambino già nei primi anni della scuola primaria, come abbiamo visto nei primi due capitoli di questo libro. Imparare a leggere e scrivere nella nostra ortografia, cioè con l’impiego corretto dei segni grafici e d’interpunzione della lingua italiana, è davvero molto semplice se comparato ad esempio alla lingua inglese. L’evidenza di questa semplicità è data dal fatto che

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molti bambini arrivano in prima elementare che sanno già leggere senza che nessuno glielo abbia insegnato formalmente. Per un bambino di quattro o cinque anni può essere stato sufficiente osservare il fratellino o la cuginetta più grande per farsi una corretta idea di come funzioni l’alfabeto. L’ortografia italiana è un’ortografia trasparente e quindi molto semplice da comprendere e acquisire (vedi Box 2.5). BOX 2.5

Modelli di lettura

Si definisce trasparente un’ortografia i cui codici fonemici sono isomorfi a quelli grafici, cioè rappresentati dai grafemi in maniera inequivocabile. Ciò significa che esiste una corrispondenza quasi perfetta tra suoni del linguaggio e segni che si utilizzano per scriverli (cioè le lettere). Facciamo un esempio: la parola MARE è composta esattamente da 4 suoni (che in linguistica si chiamano fonemi) e viene scritta utilizzando esattamente i 4 segni o lettere (che in questo caso coincidono con quelli che in linguistica si chiamano grafemi) corrispondenti a ogni suono: /m/-/a/-/r/-/e/. Un’ortografia perfettamente trasparente è un ideale. Anche riferendosi alla lingua italiana, si deve dire quasi trasparente perché in alcune eccezioni si perde la perfetta corrispondenza tra segno e suono. La parola GATTO è composta anch’essa esattamente da 4 suoni, /g/-/a/-/tt/-/o/, di cui il terzo è singolo ma un po’ più lungo (dura di più) di quello che sentirei se qualcuno dicesse /gato/. Per convenzione questo suono un po’ più lungo prevede che si utilizzino 2 segni o lettere. Ne deriva che la parola GATTO consisterà di un totale di 5 lettere e 4 suoni, manifestando così una certa opacità ortografica di alcune parole della lingua italiana. Questa opacità o l’ambiguità rappresentata dalle doppie, ad esempio, può essere difficile da comprendere per un bambino. Altra situazione che comporta una non perfetta corrispondenza tra suono e segno è rappresentata dalle regole ortografiche per scrivere chi, ghi, gli, sci e gn. Per il resto la maggior parte delle parole italiane rispetta la corrispondenza tra suono e segno. Un‘ortografia non trasparente, opaca, come l’inglese non possiede regole precise che aiutino il lettore a capire quali segni (lettere) rappresentino i suoni delle parole. Sarebbe impossibile, ad esempio, ricavare l’ortografia della parola NIGHT direttamente dal suono (/nait/) e viceversa, ricavare il suono dai segni grafici che la compongono: in questo caso non posso avvalermi di precise regole di conversione.

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Se, nonostante la semplicità del codice ortografico della lingua italiana, un bambino incontra notevoli difficoltà nel riconoscere o ricordare le lettere e nello scriverle e a dicembre o gennaio del I anno di scuola la lettura stenta significativamente a partire, ci si può ragionevolmente cominciare a chiedere il perché. Da una valutazione specialistica (ad esempio una valutazione neuropsicologica) è possibile già a questa età comprendere le ragioni del ritardo nell’apprendimento delle competenze di letto-scrittura. Ad esempio, durante una valutazione neuropsicologica potrebbero essere riscontrati degli effetti residui di un pregresso disturbo del linguaggio oppure delle difficoltà a livello dell’attenzione visuospaziale che ostacolano il riconoscimento delle singole lettere all’interno della parola o, ancora, dei disturbi della coordinazione motoria che in genere ostacola l’apprendimento della scrittura. Pertanto, quel che vogliamo rendere esplicito a un genitore è che se anche non è possibile formulare una diagnosi di dislessia prima della fine della seconda elementare, perché per sua natura la dislessia è diagnosticata solo quando si è concluso un periodo specifico di apprendimento scolastico della lingua italiana, tuttavia è possibile individuare anche prima alcuni fattori del funzionamento cognitivo del bambino che potrebbero determinare una dislessia e che, se trattati tempestivamente, possono accelerare le acquisizioni delle competenze linguistiche e di calcolo e minimizzare i rischi di sviluppare successivamente un vero e proprio disturbo specifico di apprendimento. Un bambino dislessico non è un bambino poco intelligente o un bambino con un ritardo mentale Il luogo comune più diffuso rispetto alle persone dislessiche, soprattutto in passato, era quello di pensare che non sapessero leggere perché poco intelligenti, perché stupide. In verità l’apprendimento della lettura e della scrittura è svincolato dal quoziente di intelligenza di una persona. Prova ne è il fatto che anche bambini con ritardo mentale lieve riescono a leggere praticamente senza grosse difficoltà. Certo, è probabile che abbiano difficoltà nella comprensione di cosa stiano leggendo, perché la comprensione si

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appoggia sull’intelligenza, ma la loro lettura potrà essere fluente. Per imparare a leggere è sufficiente un’intelligenza che permetta di comprendere dei simboli (pensiero simbolico) che corrisponde al livello del pensiero di un bambino di tre o quattro anni. I bambini dislessici, invece, hanno delle difficoltà di lettura, ma (in genere) non di comprensione dei contenuti di uno scritto. Nonostante un’intelligenza normale o anche superiore non riescono ad apprendere meccanismi alla base della decodifica alfabetica. Per essere ancora più precisi, la diagnosi di DSA può essere fatta solo a bambini senza alcun ritardo mentale, cioè con normali o superiori capacità intellettive. Quindi, contrariamente a quanto ritenuto da un falso pregiudizio, quando un bambino è diagnosticato come dislessico, un genitore sa per certo che è intelligente. Infine, un bambino con dislessia non è un bambino con problemi psicologici Un bambino dislessico non è un bambino che prima dell’ingresso nella scuola primaria soffra d’ansia o di depressione o di bassa autostima o che viva in condizioni fortemente stressanti a causa di dinamiche familiari patologiche. In genere, prima dell’ingresso nella scuola primaria un bambino dislessico è un bambino sereno che vive in ambienti sereni. È possibile che dopo l’ingresso a scuola, purtroppo e molto spesso, i bambini dislessici possano accusare quei problemi psicologici sopra descritti, divenendo ansiosi o depressi, arrivando addirittura a somatizzare il disagio psicologico. Questi disturbi, proprio perché sorti dopo l’inserimento scolastico, sono la conseguenza di due fattori: la fatica che il bambino con DSA incontra nell’apprendere quello che i suoi compagni di classe imparano senza grande sforzo e i fallimenti scolastici che via via si accumulano nell’iter scolastico. Tuttavia, la sofferenza psicologica di un bambino dislessico non è causata dalla dislessia. La sua dislessia, infatti, di per sé, non è per nulla incompatibile con un’ottima qualità di vita. Un genitore non dovrebbe mai fare confusione su questo punto. Non è perché è dislessico che il bambino soffre psicologicamente, ma perché non è riconosciuto, accolto e tutelato come dislessico. La dislessia non renderebbe disabile nessuno se

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l’ambiente e i sistemi di tutela (scuola, famiglia, servizi sanitari) fossero in grado di non opporre barriere all’apprendimento delle competenze di letto-scrittura e calcolo in quella modalità che è propria e specifica della persona dislessica. Cosa può fare un genitore dopo che suo figlio ha ricevuto una diagnosi di DSA? Una volta ottenuta la diagnosi, sarà opportuno avviarsi verso un percorso riabilitativo o compensativo così come verrà indicato dalla diagnosi stessa o dagli specialisti che sono stati consultati. Un percorso riabilitativo è quello che prevede un trattamento per il miglioramento delle funzioni della letto-scrittura e del calcolo. Questo è in genere quello indicato per i bambini che, ancora in fase di sviluppo, possono acquisire nuove competenze e migliorare quelle esistenti. Invece, un percorso compensativo è in genere quello rivolto a persone dislessiche in fasi di sviluppo più avanzate o adulte perché apprendano strategie per superare al meglio i limiti legati alla dislessia. Ovviamente, anche un bambino in un trattamento riabilitativo riceverà dei supporti compensativi, in quanto la riabilitazione non guarisce dalla dislessia, ma rinforza le abilità esistenti e insegna strategie per affrontare con successo i compiti della letto-scrittura e del calcolo. Noi qui faremo uso della parola riabilitazione in un senso ampio e inclusivo anche dei supporti compensativi e assistivi, che per il loro efficace utilizzo richiedono sempre un percorso educativo di addestramento e modellamento. Riteniamo, tuttavia, che non ci si possa rivolgere a un bambino dislessico di otto o nove anni solo con strumenti compensativi essendo ancora in un’età di sviluppo molto recettiva e duttile all’apprendimento di abilità specifiche del linguaggio e del calcolo. In un programma riabilitativo, il genitore potrà contare sull’aiuto di specialisti qualificati (terapisti ed educatori) che si occuperanno di far sviluppare le competenze e gli apprendimenti dei bambini. Da questo momento in poi, al genitore è richiesto di assumersi appieno il suo ruolo genitoriale, senza confonderlo con quello dell’insegnante scolastico o del terapista. Al genitore è chiesto di occuparsi del complicato e generale processo educativo e dello

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sviluppo della personalità del proprio figlio in una modalità e in uno spazio che è suo proprio, cioè la famiglia. L’ambiente familiare prevede un rapporto di amore e cura da parte del genitore che non ha le caratteristiche né dell’insegnamento strutturato e curriculare della scuola né di quello neuropsicologico e logoterapico del centro di riabilitazione. Mai un genitore dovrebbe confondersi con un insegnante scolastico o con un terapista. E questo non in quanto il genitore non possa essere competente nelle materie scolastiche o finanche in quelle terapeutiche, ma perché finirebbe per confondere i ruoli a discapito dell’unico e insostituibile ruolo non delegabile, quello di genitore. L’apprendimento della lettura e il superamento delle difficoltà dovute alla dislessia non devono diventare così invadenti nelle dinamiche familiari da costituire l’unico interesse nel rapporto genitore e figlio e l’unico obiettivo nel rapporto di cura genitoriale. Anzi, proprio per lo stress che potrebbe comportare al bambino sia il dover affrontare gli insuccessi scolastici dovuti alle sue difficoltà di apprendimento sia il perseverare negli sforzi richiesti dal percorso riabilitativo, il genitore ha da svolgere un compito molto importante: spostare l’attenzione e la preoccupazione del bambino anche su altre sue capacità e talenti, trascorrendo del tempo prezioso in attività soddisfacenti, in cui il bambino possa sentirsi serenamente riconosciuto e apprezzato e ottenere successi. Attività sportive, artistiche e hobby nei quali il bambino si diverte o eccelle devono essere in questa fase della crescita quanto mai incoraggiate dal genitore. Ogni successo nelle ore libere e di svago ottenuto con impegno e passione dal bambino sarà un passo avanti nel superamento delle difficoltà legate alla sua dislessia. Questa è quella “terapia” familiare che è ricondotta alla specialità del ruolo genitoriale che ha come mezzi l’amore e la cura e come scopo l’autostima e la maturazione personale del figlio. I genitori, quindi, devono individuare quelle attività in cui i figli siano competenti. Purché sia un’attività amata dal figlio, cui si dedica con dedizione ed entusiasmo, fosse anche non strutturata in un’attività artistica o sportiva come un semplice gioco, consentirà una crescita del senso di autoefficacia, instaurando nel contempo un

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clima emotivo sano e pacificante, in cui sia genitori sia i figli si riappropriano del loro giusto ruolo. Un bambino deve potersi sentire amato per quello che è e così come è dai propri genitori e non a condizione che vada bene a scuola, che sappia leggere come gli altri e che vinca ad ogni costo la dislessia. Il bambino deve percepire dal legame di fiducia e di stima che vive in famiglia che il suo valore come persona non è compromesso dall’essere dislessico e che la dislessia non gli preclude la possibilità di sognare cosa fare da grande. È normale per un bambino che ama e stima i propri genitori emularli, immaginandosi da grande di fare il lavoro del padre o della madre. La sua condizione di dislessico non deve spegnere in lui questa speranza, non deve limitare i suoi sogni, anzi, egli dovrà sapere e credere fermamente che tante persone dislessiche hanno raggiunto straordinari obiettivi di vita nei più diversi settori, a dimostrazione del fatto che la dislessia non è affatto incompatibile con una buona qualità di vita e con il successo personale. Un DSA non deve modificare il ruolo di un genitore né prima né dopo la diagnosi. Il genitore deve essere come sempre e, se è possibile ancor di più, l’alfabetizzatore emotivo del proprio figlio, colui che sa come si parla al cuore, aiutando il figlio a leggere il linguaggio dell’amore, della fiducia e della stima reciproca. Se questi principi sono chiari, se non c’è confusione tra i compiti di un genitore e quelli legati al ruolo d’insegnante o di terapista, allora i suggerimenti che seguiranno potranno tornare utili a un genitore che ci sta leggendo. Ma quando si tratta di fare i compiti a casa, che deve fare un genitore? Lo svolgimento dei compiti fa parte di un processo di crescita che vede uno studente protagonista del proprio apprendimento. L’obiettivo dei compiti a casa è quello di favorire nell’alunno un percorso che non preveda il solo apprendimento di contenuti ma anche la strutturazione di un proprio metodo di studio. Le tappe principali che conducono verso questa meta sono sostanzialmente due e sono legate ad altrettante abilità: comprendere e ricordare. La compresenza di questi due aspetti suggerisce che, dopo aver cercato di capire quanto proposto a lezione o presente nel testo,

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occorre mettere in atto una serie di attività per favorire il recupero delle informazioni anche a distanza di tempo. Parallelamente, è anche lecito pensare che lo studio possa essere efficace qualora venga condotto con la mente sufficientemente riposata e tenendo conto dei bisogni complessivi di uno studente in crescita. Altra questione fondamentale è quella legata alla quantità di tempo dedicata ai compiti a casa. L’esperienza ci suggerisce che, per uno studente delle scuole medie che vada a scuola solo al mattino, è sufficiente anche un tempo non superiore a un’ora di lavoro al giorno a casa, e metà del tempo indicato per chi va scuola a tempo pieno o nei giorni con orario prolungato. Questo perché è molto efficace fare un lavoro breve ma costante. Tali suggerimenti sono rivolti sia agli insegnanti, perché valutino con realismo e concretezza le richieste che indirizzano agli studenti, sia ai genitori, perché non chiedano troppo ai loro figli, ma anche agli studenti stessi, affinché imparino a sviluppare modalità efficienti e rapide di studio. L’indicazione, ovviamente, riguarda anche un bambino dislessico che, a causa delle sue difficoltà di apprendimento, non potrà fare ricorso a certi automatismi della lettura e scrittura o del calcolo. Per uno studente dislessico la lettura e la scrittura non diventeranno mai del tutto automatiche, e quindi rapide nella loro esecuzione, e involontarie, cioè senza un eccessivo ricorso alle risorse attentive. Anche quando per i suoi compagni di classe la lettura, la scrittura e gli strumenti del calcolo a un certo punto non saranno più considerati attività per dei compiti a casa – che invece riguarderanno i contenuti della lettura (storia, geografia, letteratura, ecc.), i contenuti della scrittura (composizioni, ricerche ed esercitazioni scritte), problemi matematici (che si avvalgono delle capacità di calcolo) – per uno studente dislessico, a ogni età, ciascuna di queste attività richiederà sempre un tempo di lavoro intellettuale raddoppiato: la lettura della storia e il periodo storico da imparare, la ricerca da fare e il controllo della scrittura, il problema di matematica da risolvere e i calcoli da eseguire. Inoltre, teniamo conto che non tutti i compiti sono uguali. Ci sono compiti più impegnativi e meno impegnativi, compiti che i bambini trovano facili e compiti considerati difficili, compiti lunghi

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e compiti che si possono portare a termine in breve tempo. Insomma, c’è da fare un’attenta distinzione tra la qualità del compito e la quantità delle attività assegnate. La definizione della giusta quantità e della qualità ottimale dei compiti da svolgere dipende essenzialmente dall’obiettivo che s’intende perseguire, legato alla capacità del bambino di mettere alla prova le sue reali potenzialità e rispettando il giusto carico di lavoro. C’è un limite, che Lev S. Vygotskij chiama area prossimale di sviluppo, che segna il confine tra ciò che lo studente già può fare e ciò che riuscirà a imparare realmente e in autonomia impiegando il giusto carico cognitivo. Secondo Vygotskij l’educatore dovrebbe proporre allo studente problemi di livello appena superiore (area prossimale di sviluppo) alle sue attuali competenze, ma comunque abbastanza semplici da risultargli comprensibili. Questo processo permette allo studente di acquisire nuove capacità riducendo il rischio di sperimentare la frustrazione del fallimento. È all’interno di quest’area che lo studente può estendere le sue competenze e risolvere problemi grazie all’aiuto degli altri. Pensandoci bene, questo è il modo in cui funziona l’apprendimento per tutti gli esseri umani: se ci viene spiegata una cosa troppo complicata e troppo distante da ciò che già conosciamo, questa sarà ritenuta così estranea alla nostra comprensione da non potersi appoggiare su alcun elemento della conoscenza passata su cui costruire un nuovo elemento di conoscenza. In altre parole, la comprensione di nuove informazioni non è indipendente e non può prescindere da quello che già si sa: un elemento di conoscenza che fosse del tutto nuovo sarebbe inconoscibile. Quindi, se un’attività di studio imponesse un compito troppo distante dal livello di conoscenza e maturazione dello studente non sarebbe educativo e non aiuterebbe a far crescere la conoscenza. Ogni insegnante, pertanto, dovrà far sì che attraverso la scomposizione e la sequenzialità dei contenuti di apprendimento un obiettivo didattico sia offerto allo studente a misura del suo livello di crescita e di conoscenza in fasi graduali. Lo spazio pomeridiano dedicato ai compiti deve servire prevalentemente per fornire allo studente tempi e spazi di riflessione

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personale al fine di potenziare le competenze apprese a scuola, portando così a conclusione il processo di apprendimento avviato in classe la mattina stessa o nei giorni precedenti. Infatti, lo scolaro trova in classe un ambiente ricco di stimoli che gli permettono di sviluppare e potenziare le sue capacità e conoscenze grazie al supporto offerto dall’insegnante e dall’interazione con i compagni. Lo spazio dedicato ai compiti deve essere quindi uno spazio di riflessione, in cui il bambino, attraverso l’attivazione di processi metacognitivi, cioè l’esercizio di riflettere e controllare con adeguate strategie cosa si sta facendo, si abitua a risolvere il compito in modo sistematico, anche attraverso l’elaborazione personale di quanto sentito e sperimentato in classe. In presenza di tali condizioni, il bambino che affronta il compito scolastico in maniera serena e controllata trova numerose possibilità di sviluppare e di accrescere la sua autonomia. Perché ciò avvenga è importante che lo scolaro diventi progressivamente in grado di vivere i compiti con un senso di responsabilità e come una sfida: un quotidiano volersi mettere alla prova per misurarsi con quanto ha realmente appreso a scuola, pronto anche a rivedere ciò che intuisce di non aver ben compreso. È normale che qualche spiegazione possa non essere stata chiara e dovrà quindi essere ripresa con opportuni accorgimenti. Riordinare, riflettere e rivedere sono le fasi di un processo che richiede una buona capacità di autogestione da parte di chi studia. Se questo traguardo sarà raggiunto, l’esplosione della fiducia in se stessi porterà a una partecipazione più attiva al proprio percorso di apprendimento. Abbiamo finora descritto quelli che potrebbero essere considerati dei percorsi ottimali, ma sappiamo che nella realtà l’acquisizione di tali abilità strategiche e di un atteggiamento positivo verso lo studio è un processo molto lungo e articolato e che richiede un lavoro sinergico tra le varie figure che ruotano intorno al bambino. Se da un lato il ruolo dell’insegnante è basilare per un’adeguata assegnazione dei compiti, dall’altro lato il ruolo del genitore diventa sicuramente centrale nella gestione e nel generale contenimento del bambino che si misura con il compito stesso a casa. I bambini che convivono con un DSA possono sperimentare quotidianamente

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un senso d’impotenza, una forte insicurezza e l’incapacità di autogestirsi e organizzarsi. Per questo necessitano spesso di un aiuto da parte di una persona vicina. Tuttavia, come abbiamo già detto sopra, quest’assistenza deve sempre essere circoscritta all’interno del ruolo che il genitore ricopre e che non deve confondersi né con quello di un insegnante, né con quello di un terapista. L’Associazione Italiana Dislessia, ad esempio, invita i genitori a non farsi carico dei compiti scolastici e a non diventare l’insegnante del proprio figlio: uno studente ha molti insegnanti ma due soli genitori. Concretamente questo significa che il genitore deve favorire l’autonomia assumendosi un ruolo meramente di controllo e supervisione delle attività scolastiche del figlio. Ciò comporta a sua volta che il figlio abbia una buona consapevolezza delle strategie e degli strumenti che può utilizzare nello studio. Per questo un genitore può senz’altro supportare il figlio nella pianificazione della giornata e delle attività, aiutarlo a raccogliere e ordinare il materiale di lavoro ricevuto a scuola in quaderni diversi, resi facilmente riconoscibili dall’uso di diversi colori per le varie discipline. Un lavoro di supervisione e controllo implica anche il fatto di accertarsi che la consegna del compito sia stata ben compresa. Qualora poi persistano delle difficoltà a iniziare il compito, il genitore può utilizzare la tecnica del modellamento, cioè mostrare praticamente come si fa, per poi lasciare che il figlio prosegua da solo. Scorciatoie pseudo-educative, che vedono un genitore prendere il quaderno del figlio ed eseguirne il compito al posto suo, sono forse una soluzione veloce per porre fine a un interminabile pomeriggio di estenuante lavoro e tensione, ma sicuramente non favoriscono la maturazione del figlio verso la propria autonomia. Il genitore deve attivarsi per stimolare l’autonomia del ragazzo in modo da vincere l’ordinaria indolenza che ogni alunno tende ad avere verso i compiti pomeridiani. Il contributo che ci si aspetta dai genitori deve essere di sostegno alla motivazione del figlio, diventando una risorsa partecipe e disponibile qualora se ne verifichi la necessità. Per aiutare il proprio figlio in questo cammino verso l’autonomia, è necessario che questi venga messo nella condizione migliore per poter riuscire da solo. A questo scopo diventa impor-

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tantissima l’organizzazione dello spazio e del tempo dedicati ai compiti a casa e allo studio. Un genitore potrebbe, ad esempio, invitare il figlio a iniziare la sua attività pomeridiana di studio proponendola come qualcosa che possa risultare molto gratificante. Riuscire nello studio è gratificante come riuscire nello sport. Partire con un atteggiamento positivo è già un buon inizio. Il passo successivo sarà sicuramente l’organizzazione del piano di lavoro. Seppure non in tutte le famiglie è possibile garantire ai propri figli una stanza per lo studio tranquilla e lontana da possibili distrazioni e in una posizione che goda di una buona illuminazione, certamente in tutte le famiglie c’è da fare i conti con cellulari, televisori, radio e altre apparecchiature che potrebbero deconcentrare il bambino. Dopo aver guardato il diario, si predisponga tutto il materiale necessario allo studio: libri, appunti, penne, matite, evidenziatore e gli eventuali strumenti compensativi utilizzati. Anche la pianificazione dell’orario di studio riveste una sua importanza. Meglio sarebbe programmare un orario di studio per ogni pomeriggio della settimana, calibrato sull’orario del mattino e sugli impegni extrascolastici che preveda anche delle pause tra una materia e l’altra, soprattutto per i più grandi che hanno un maggiore carico. Si può pensare anche ad alcune strategie per contrastare la caduta repentina dell’attenzione che potrebbero essere: • Iniziare sempre dal compito più lungo o complesso. Al termine dell’attività il bambino potrebbe essere troppo stanco per affrontarla. • Alternare materie facili a materie difficili. • Studiare prima la teoria e solo dopo svolgere gli esercizi applicativi. Poco prima di mettere la parola fine ai compiti a casa, un momento di riflessione e ricognizione generale su quanto fatto può sollevare ulteriori dubbi o lacune che potrebbero essere risolti. Perciò, potrebbe essere utile invitare il bambino a far finta di spiegare i concetti appresi a un amico che non li ha capiti. Ciò permette di

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fare una sintesi finale degli argomenti appresi, ripetendo i concetti base. Se restassero ancora dubbi e incertezze, un elenco di domande da rivolgere all’insegnante potrebbe essere un ottimo modo per non lasciare nulla in sospeso. Anche l’organizzazione dello zaino e dei vari materiali deve occupare un posto importante nella pianificazione delle attività, perché anche questo condizionerà in maniera incisiva il lavoro scolastico del giorno successivo. Invitare il bambino a ricordarsi di mettere dentro lo zaino quello che gli servirà il giorno dopo, controllando l’orario delle lezioni, è una buona azione di responsabilizzazione, che dovrebbe diventare un’abitudine. Altro compito importante del genitore è quello di avere un rapporto costante e collaborativo con gli insegnanti, al fine di aver ben chiaro il percorso scolastico del figlio, concordare contenuti e carico di lavoro a casa e ricevere materiali che potrebbero essere stati prodotti a scuola ma di cui il figlio è sfornito. Capita anche che i tentativi di organizzare e pianificare i vari metodi e tempi di studio non siano ancora sufficienti a rendere autonomo il bambino. Allora potrebbe essere utile trovare un sostegno in una persona esterna che aiuti e faciliti il raggiungimento dei traguardi scolastici. Questa persona è rappresentata dal cosiddetto tutor. Il compito di un tutor è aiutare il bambino nell’apprendimento di adeguate strategie di studio e nella conoscenza di strumenti tecnologici che potrebbero essere di supporto. Strategie che riguardano, appunto, modalità di lettura, comprensione di un testo ed elaborazione di promemoria efficaci che facilitino la memorizzazione e il recupero delle informazioni anche a distanza di tempo. Infine, ogni volta che un genitore fosse preso dall’ansia per un progresso che non vede nell’apprendimento delle competenze scolastiche di un figlio, non dimentichi mai che la stima e la fiducia che ripone nel proprio figlio non è misurata dai successi scolastici. Certo, è proprio perché un genitore ama il proprio figlio che vuole il suo bene e farà il tifo per ogni suo successo nella scuola e nella vita. Ma questo bene che il genitore vuole al figlio non è posto sotto alcuna condizione. Sia ben chiaro nella mente e nel cuore di ogni genitore: il bene che vuole al figlio non è a condizione che il figlio

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faccia qualcosa di buono, perché il bene che un genitore ha voluto al figlio ha preceduto ogni sua possibile decisione e azione. Questa convinzione non proteggerà il genitore dalla sofferenza per le difficoltà che il figlio con DSA incontrerà, ma proteggerà il bambino dalla perdita di quell’alleato sicuro a cui ricorrere quando dovrà affrontare i suoi insuccessi.

A chi può rivolgersi un genitore dopo che suo figlio ha ricevuto una diagnosi di DSA I riferimenti migliori per avere una valutazione di DSA sono: il neuropsichiatra infantile, il neuropsicologo dello sviluppo e un terapista che in genere è un logopedista o un terapista della riabilitazione neuropsicomotoria. Una buona valutazione deve essere condotta da un’équipe di esperti che valuta il bambino nelle diverse aree coinvolte nel disturbo e imposta con precisione un piano di trattamento mirato e specifico. Come il genitore dovrebbe rapportarsi con la terapia e gli specialisti Riprendiamo la lettura di una diagnosi di dislessia con cui abbiamo iniziato questo capitolo. Come abbiamo visto, la diagnosi è il frutto del lavoro di un’équipe multidisciplinare che ha preso in esame un bambino con presunti DSA. Nel nostro esempio, l’équipe ha fatto la valutazione, arrivando a una diagnosi, rimandando per un trattamento terapeutico a un riabilitatore o terapista che potrà essere, a seconda dei casi, anche un diverso soggetto (logopedista, psicomotricista, neuropsicologo, ecc.) o un centro multidisciplinare per il trattamento dei DSA. Torniamo ora alla lettura della diagnosi: Si consiglia pertanto di effettuare un ciclo di riabilitazione (3 mesi con frequenza bisettimanale) per rinforzare i meccanismi di conversione grafema-fonema (segno-suono) ed effettuare in parallelo un training di lettura con presentazione tachistoscopica di liste di parole bisillabe ad alta e media frequenza d’uso.

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Dopo questo ciclo farà seguito un controllo per verificare l’efficacia della terapia e il raggiungimento degli obiettivi prefissati. A questo punto è importante che il genitore sappia interpretare gli eventuali progressi ottenuti dal figlio dopo i tre mesi di trattamento. Infatti, se gli obiettivi sono quelli di migliorare la velocità di lettura, allora un certo miglioramento sarà comunque dovuto allo sviluppo naturale del bambino. Un bambino dislessico, infatti, come tutti i bambini nell’età della scuola primaria, seguirà una traiettoria di progressivo sviluppo e migliorerà la sua velocità di lettura indipendentemente da una terapia, anche se questi miglioramenti saranno molto inferiori a quelli ottenuti da un bambino della stessa età e allo stesso livello scolastico. Seppure si manifestassero dei miglioramenti senza un intervento terapeutico, per un bambino dislessico questi saranno minimi e tali da non consentire comunque un efficace utilizzo delle abilità di lettura. Per questo motivo, un genitore deve attendersi che con la terapia il proprio figlio dislessico riesca, forzando il normale sviluppo con le giuste attività, a fare di più di quello che avrebbe spontaneamente ottenuto con il semplice passare del tempo. Ad esempio, un bambino dislessico migliorerà da solo, senza cioè un trattamento terapeutico, di circa 0,3 sillabe al secondo nella lettura di un brano in un anno di tempo. La terapia, per dimostrarsi efficace, deve ottenere questo risultato in 3 o massimo 6 mesi. Presentazione tachistoscopica. Il tachistoscopio (vedi Box 2.6), come suggerisce la parola stessa, è uno strumento (software) per la presentazione molto rapida di parole sullo schermo di un computer. Durante una presentazione tachistoscopica, al bambino è richiesto di riconoscere delle parole su uno schermo, una per volta, per un tempo non superiore ai 200 millisecondi (cioè la quinta parte di un secondo). La velocità di presentazione è tale da non consentire alcun movimento oculare, costringendo così il bambino a riconoscere la parola con un’unica fissazione. Questo dovrebbe avere l’obiettivo di sviluppare la strategia di lettura diretta o lessicale, cioè quella che fa ricorso al dizionario di parole immagazzinato nella mente e non attraverso una lettura sillabata. In genere, questo tipo di riabilitazione viene articolato in 2 cicli di 3 mesi con una frequenza bisettimanale.

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BOX 2.6

Tachistoscopio

Il tachistoscopio è uno strumento che permette di somministrare a un individuo su uno schermo stimoli visivi a varie velocità e osservarne la reazione. È utilizzato in psicologia sperimentale, in neuroscienza cognitiva e nelle ricerche che indagano sull’efficacia della pubblicità commerciale. In passato, l’apparecchio era costituito da un proiettore di diapositive, controllato da un dispositivo elettronico (vedi Figura 1), in grado di flashare immagini a un intervallo di 3-10 secondi per tempi così ridotti che l’individuo non se ne avvede. Negli anni ’50 fu utilizzato da James Vicary per condizionare gli spettatori di un cinema all’acquisto di bevande o popcorn. Mentre veniva proiettato un film in un cinema del New Jersey, Vicary proiettava con il suo tachistoscopio delle frasi ogni cinque secondi, per soli 30 millisecondi. Le frasi invitavano a mangiare popcorn o a bere Coca-Cola. Seppure lo spettatore non fosse cosciente di aver visto alcunché di sovrapposto alla proiezione del film, tuttavia, era spinto ad acquistare più cibo e bevande.

(continua)

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BOX 2.6

Tachistoscopio

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Oggi il tachistoscopio non è più un’apparecchiatura hardware, ma soft­ware. Avvalendosi, infatti, del video e del sistema digitale di un computer, il tachistoscopio è un programma che permette di controllare i tempi di esposizione di un’immagine sullo schermo di un computer e di raccogliere la risposta dell’individuo. Si utilizza nella riabilitazione di pazienti con disturbi della lettura (vedi paragrafo “A chi può rivolgersi un genitore dopo che suo figlio ha ricevuto una diagnosi di DSA” nella parte precedente di questo capitolo) in quanto, a seconda del tempo di esposizione di una parola sullo schermo, la persona che legge lo stimolo impiegherà vie diverse di lettura (vedi Box 2.4): con tempi molto brevi di permanenza dello stimolo (parola) sullo schermo è possibile utilizzare soltanto la via visiva di lettura, mentre con tempi più elevati si può utilizzare anche la via fonologica. Nel trattamento riabilitativo si somministrano delle parole diminuendone progressivamente i tempi di permanenza sul video. In questo modo, il paziente con disturbo della lettura è stimolato all’uso della modalità di lettura globale-visiva. È possibile provare il funzionamento di un tachistoscopio anche direttamente online, senza necessariamente installare qualcosa sul proprio computer, all’indirizzo: www.buonaidea.it/servizi_tachistoscopio.aspx.

Il genitore, oltre a garantire regolarità e costanza accompagnando il figlio in terapia, deve permettere e assicurarsi che il terapista possa lavorare in collaborazione con gli insegnanti scolastici del figlio. È molto importante, infatti, che i progressi ottenuti in terapia possano poi essere sperimentati e generalizzati all’interno del percorso scolastico. La scuola, quindi, deve essere coinvolta nel progetto riabilitativo. Questo lo si può ottenere organizzando alcuni incontri da effettuarsi nella scuola tra uno degli specialisti dell’équipe che ha condotto la valutazione e gli insegnanti del figlio, così da pianificare interventi anche a livello didattico coerentemente con la diagnosi e la terapia. Gli incontri con la scuola possono essere

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organizzati 2 o 3 volte durante un anno scolastico e possono prevedere, qualora la scuola lo ritenga opportuno, anche dei consigli di classe straordinari. Il primo incontro potrebbe essere finalizzato al chiarimento del profilo diagnostico del bambino, così da avere una conoscenza della caratteristiche specifiche della forma di dislessia di cui è affetto, mentre i successivi uno o due incontri potrebbero riguardare piuttosto un coordinamento tra l’intervento terapeutico, la programmazione didattica e gli ausili assistivi e compensativi allo studio. Desideriamo sottolineare quanto sia importante il colloquio, promosso dalla famiglia fra specialisti e insegnanti della scuola, anche per la stesura di un piano didattico personalizzato come previsto dalla recente normativa (vedi Capitolo 3). Personalizzato vuol dire centrato sul profilo funzionale e scolastico del bambino, che è unico, e non proposto avvalendosi di liste di accorgimenti generali e non specifici magari scaricati da Internet, che mettono insieme tutti i possibili strumenti compensativi e strategie dispensative senza ragionare su cosa sia veramente utile per il singolo scolaro. Facciamo un esempio di come potrebbe articolarsi una terapia nei rapporti con la scuola riprendendo il caso di Simone, che frequenta la terza classe della scuola primaria e che ha ricevuto una diagnosi di dislessia come riportata da noi in questo capitolo. La terapia inizierà secondo quanto è stato dettagliatamente descritto nella relazione diagnostica. Dopo alcuni incontri di conoscenza, il terapista, magari la prima volta insieme al neuropsicologo, incontrerà gli insegnanti per fissare i seguenti obiettivi: la comprensione del testo, la lettura ad alta voce in classe, gli errori di ortografia e i compiti a casa. La comprensione del testo. In terza elementare si comincia a usare la lettura come mezzo per l’apprendimento di nuovi contenuti. La lettura non è più un obiettivo dell’insegnamento, ma uno strumento per l’apprendimento di nuove informazioni. Simone, leggendo un testo, a causa delle sue difficoltà di lettura non sempre riesce a seguirne il significato. Per cui bisognerà capire quando chiedergli

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questo sforzo in autonomia e quando, invece, prevedere che un adulto, insegnante, genitore o tutor, debba sostituirsi a lui nella lettura, compensando la sua difficoltà di lettura leggendo ad alta voce al suo posto. Questo vuol dire che Simone avrà, comunque, la possibilità di misurarsi in autonomia con il compito di comprensione del contenuto del testo, ma senza uno sforzo eccessivo richiesto dal doppio compito di porre attenzione sia al testo sia al contenuto. Pertanto, quando ci si accorge che Simone è stanco di leggere e comprendere ad esempio un brano di storia, distraendosi spesso, volendo andare a bere o cominciando a sbadigliare, si potrà supportarlo nella lettura, in modo da garantire che possa imparare i contenuti di storia che deve apprendere senza rimanere indietro con gli obiettivi didattici. Man mano che la terapia andrà avanti, la lettura di Simone dovrebbe diventare sempre più automatica e dovrebbe migliorare anche la comprensione del testo. La lettura ad alta voce in classe. La dispensa dalla lettura ad alta voce in classe, una volta arrivata la diagnosi, sembra trovare tutti d’accordo. Ma il consenso degli adulti e degli esperti non trova sempre d’accordo anche i bambini con dislessia. Certamente alcuni scolari riceveranno con sollievo la notizia che non sarà più obbligatorio per loro leggere ad alta voce in classe. Tuttavia questo non vale per tutti. Per altri bambini una rigida esclusione da questa attività scolastica è sentita come un’ulteriore ragione di esclusione, di diversità che li fa stare a disagio con i propri compagni e con se stessi. Per questo, il nostro consiglio al genitore è che concordi con il figlio e con l’insegnante il comportamento più rispettoso e accogliente dei bisogni del bambino. Nel nostro caso l’insegnante potrebbe concordare con Simone un piccolo brano che sarà invitato a leggere ad alta voce in classe il giorno dopo. Simone avrà così modo di esercitarsi in tranquillità a casa proprio su quelle righe di testo che il giorno dopo potranno serenamente essere lette ad alta voce. Avremo dato così un’opportunità di successo a Simone, che gli farà guadagnare stima in se stesso e rispetto dai compagni.

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Gli errori di ortografia. L’apprendimento delle regole ortografiche e l’automatizzazione del processo di scrittura attraversa varie fasi (vedi Box 2.7). È un compito assai complesso che, agli inizi, quando ancora il bambino deve imparare tutte le regole ortografiche e grammaticali, è costellato di errori e insuccessi. Per questo è normale che un bambino, le prime volte che prova a scrivere, faccia degli errori e non è facile distinguere un errore dovuto ancora a un basso livello di apprendimento o già a un DSA. Poi, lentamente, l’esercizio e l’allenamento portano a una padronanza delle regole ortografiche e gli errori cominciano a diminuire, fino a sparire. Questa fase, però, non è mai raggiunta appieno in presenza di un DSA. Il disturbo si caratterizza, infatti, proprio dalla resistenza all’automatizzazione del processo di letto-scrittura e l’allenamento quotidiano non sortisce i risultati attesi. Un bambino con DSA solo facendo moltissima attenzione, e quindi con molto sforzo cognitivo, riesce a controllare quelle regole ortografiche che per i suoi coetanei sono diventate del tutto automatiche. Ma l’attenzione consuma energia, ed è un processo che tende a esaurirsi. Se tutta l’energia di un bambino è indirizzata a mantenere lo sforzo attentivo per controllare l’ortografia non ne avrà più per controllare cosa stia scrivendo. Questo è quello che accade a Simone: se presta attenzione a come scrive non riesce più a concentrarsi su cosa sta scrivendo e la sua composizione sarà molto sintetica o povera da un punto di vista sintattico. Eppure a Simone non mancano idee. E se lo si lascia parlare su ciò che ha da scrivere, dimostra di avere sempre molte cose da dire. Il bambino a sviluppo tipico, cioè senza DSA, invece, avendo automatizzato il controllo ortografico, potrà rivolgere le sue risorse attentive sul contenuto. Ecco che si chiarisce perché se desideriamo che Simone metta per iscritto qualcuna delle sue tante idee in una breve composizione o in un riassunto dovremo trascurare come scrive, non dargli alcun valore, almeno fino a quando gli errori ortografici non ostacolano la nostra comprensione del testo. Ci saranno altri momenti, in terapia ad esempio, in cui Simone potrà esercitarsi ad acquisire una maggiore competenza nell’ortografia.

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BOX 2.7

Il Modello di Uta Frith

Secondo questo modello l’apprendimento della lettura avviene attraverso 4 fasi, ciascuna delle quali caratterizzata dall’acquisizione di nuove procedure e dal consolidamento e dall’automatizzazione delle competenze già acquisite. Il modello è il seguente:

Procediamo ora spiegando il significato e la funzione svolta in ogni fase del processo di apprendimento della lettura. • FASE LOGOGRAFICA: coincide solitamente con l’età prescolare. Il bambino riconosce e legge alcune parole in modo globale, perché contengono delle lettere o degli elementi che ha imparato a riconoscere. Tuttavia, non ha né conoscenze ortografiche né fonologiche sulle parole che legge.

(continua)

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102  Capitolo 2

BOX 2.7

Il Modello di Uta Frith

(continua)

• FASE ALFABETICA: il bambino, iniziando il processo di alfabetizzazione, impara a discriminare le varie lettere ed è in grado di operare la conversione grafema-fonema, potendo in questo modo leggere, attraverso la via fonologica, le parole che non conosce.

• FASE ORTOGRAFICA: il bambino, proseguendo nell’apprendimento scolastico, impara le regolarità proprie della sua lingua. Il meccanismo di conversione grafema-fonema si fa più complicato e il bambino diviene capace di leggere suoni complessi (sillabe) rendendo più veloce la lettura.

(continua)

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BOX 2.7

Il Modello di Uta Frith

(continua)

• FASE LESSICALE: il bambino riconosce in modo diretto le parole. Ha formato un vocabolario lessicale che gli permette di leggere le parole senza recuperare il fonema (suono) associato a ogni grafema (simbolo o lettera). Controlla bene l’attività della lettura che è diventata automatica e veloce.

Bibliografia Uta Frith, Beneath the Surface of Developmental Dyslexia, in Karalyn Patterson, John C. Marshall e Max Coltheart (a cura di), Surface Dyslexia: Neuropsychological and Cognitive Studies of Phonological Reading, Erlbaum, London, pp. 301-330, 1985.

I compiti a casa. Considerato che i bambini dislessici sono assolutamente adeguati per quel che riguarda il loro livello d’intelligenza, cioè di capire e acquisire nuove informazioni e di elaborarle in un modo efficace e personale, allora lo scopo dei compiti non dovrà differire da quello degli altri studenti, se non nella quantità dei compiti a casa da svolgere. Infatti, per Simone lo studio di un capitolo di storia o geografia richiederà, come abbiamo visto, un doppio impegno e un doppio dispendio di energie: la lettura del testo e la sua comprensione. Per questo suggeriamo agli insegnanti di Simone di perseguire il motto del poco ma frequente: pochi esercizi ma tutti i giorni.

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104  Capitolo 2

Quando la terapia specifica per il trattamento del figlio è ben mirata e la collaborazione con la scuola è stata avviata, un genitore può stare tranquillo, e lasciar fare a ciascuno il proprio compito, perché quel che può tutelare un bambino dislessico in questa età è stato intrapreso e il processo di apprendimento progredirà positivamente.

Per saperne di più Cesare Cornoldi (a cura di), Difficoltà e disturbi dell’apprendimento, Bologna, Il Mulino, 2007. Istituto Superiore di Sanità (ISS), Disturbi specifici dell’apprendimento. Consensus Conference Roma, 6-7 dicembre 2010, Roma, ISS, Sistema nazionale per le linee guida, 2011, disponibile online: http://www.snlg-iss.it/cms/files/Cc_Disturbi_Apprendimento_sito.pdf. Luca Grandi (a cura di), Guida alla Dislessia per genitori, Faenza, Associazione Italiana Dislessia, 2012, disponibile online: http://www.aiditalia.org/upload/ guida_genitori.pdf MIUR, Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento, 2011, disponibile online: http://hubmiur. pubblica.istruzione.it/alfresco/d/d/workspace/SpacesStore/76957d8d-4e634a21-bfef-0b41d6863c9a/linee_guida_sui_dsa_12luglio2011.pdf.

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Capitolo 3

Quando l’alunno rimane indietro: il ruolo degli insegnanti

I DSA sono detti “specifici” proprio per distinguerli da altri disturbi dell’apprendimento conseguenti a disabilità uditive, visive, ritardo mentale e così via. Sono specifici perché riguardano solo l’apprendimento di abilità scolastiche di letto-scrittura e calcolo. Per questa ragione, solo dopo l’ingresso nella scuola è possibile riconoscere e valutare tale disturbo. Questo fa sì che l’insegnante, in modo particolare quello della scuola primaria, giochi un ruolo centrale nel riconoscimento e nel decorso del disturbo specifico di un alunno dislessico. Com’è noto, un bambino con dislessia, fino al momento dell’entrata nella prima classe primaria, potrebbe non avere avuto alcun tipo di difficoltà nell’apprendimento. Anzi, è proprio perché il suo sviluppo è stato normale che sarà possibile affermare che il suo disturbo nell’apprendimento della lettura è una forma di DSA. Un bambino dislessico o disortografico, fintanto che lo si osserva in un parco a giocare a pallone con i suoi amici, non offrirà alcun elemento per individuarlo come un bambino con DSA. È, invece, proprio all’interno delle attività scolastiche che la difficoltà emergerà come un vero e proprio disturbo, portando anche a compromettere l’umore del bambino, le attività di gioco e il rapporto con i coetanei. Non è cambiato nulla nelle sue capacità “non specifiche” di apprendimento da quando è entrato nella scuola. Tuttavia, la frustrazione dovuta ai costanti insuccessi scolastici e la consapevolezza che ciò che a lui richiede uno sforzo insopportabile i compagni di classe, invece, lo apprendono con gioia e divertimento e lo svolgono con naturalezza e disinvoltura è ragione di una progressi-

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va perdita di autostima. È questa un sentimento di profonda sfiducia, che travalica i limiti dell’apprendimento scolastico, compromettendo pian piano anche i rapporti con i coetanei, la gioia del lavoro e dell’impegno scolastico. Superfluo a questo punto sottolineare l’enorme importanza del ruolo e del contributo degli insegnanti. Come argini di un fiume in piena, gli insegnanti avranno il compito essenziale di ricondurre gli insuccessi di un bambino dislessico nell’alveo degli apprendimenti scolastici e non permettere mai che le loro forti emozioni di sofferenza e sconforto tracimino nelle terre della fiducia di fondo, dei rapporti sociali, della gioia di vivere e di apprendere. Credere fermamente nell’intelligenza di un bambino con DSA, nonostante le sue difficoltà scolastiche, richiede molto più che una didattica speciale, pretende la forza di una missione, quella dell’educatore. E questo non è facile per un insegnante, perché il bambino dislessico sembra denunciare, innanzitutto, un fallimento nelle sue capacità didattiche. Proprio perché intelligente, proprio perché in partenza dotato di tutte quelle potenzialità di ogni altro scolaro, l’insuccesso nell’apprendimento del bambino dislessico rischia di minare proprio l’autostima dell’insegnante stesso. Perché questo bambino non riesce ad apprendere? Perché nonostante glielo abbia appena spiegato e fatto ripetere con me si ostina a non capire? Perché ogni volta commette sempre gli stessi errori? Ce l’ha con me? Non ho pazienza con lui? Forse non è intelligente come pensavo? Forse è solo un bambino svogliato e capriccioso? Forse a casa non l’aiutano abbastanza? Dubbi legittimi ma pericolosi. Un bambino già sopraffatto dalle proprie difficoltà di apprendimento ha bisogno di insegnanti che continuino a credere in se stessi e in lui, e sappiano guidarlo attraverso questi percorsi alternativi e compensativi che lo condurranno come ogni altro scolaro al proprio successo. Capire come comportarsi con questi bambini implica, in maniera ineludibile, la necessità di sapersi mettere nei loro panni, immedesimarsi, capire cosa provino durante l’esecuzione di un compito, mentre cercano di rispondere e soddisfare le richieste della scuola: memorizzare, ricordare informazioni in sequenza, recuperare infor-

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mazioni precedentemente apprese e così via. Non è un compito facile o scontato, anzi. Non è facile farlo in generale, ma certo è più difficile ancora se l’alunno a cui stiamo insegnando ha uno stile di apprendimento diverso dal nostro, che ci sorprende e ci spiazza, ci irrita e indispone. Un bambino che ha un DSA, per quanto paradossale possa sembrare, non ha un problema generico di apprendimento, è solo che acquisisce informazioni in maniera diversa da quella a cui in genere si è abituati. Così, se dopo aver ripetuto un certo numero di volte la tabellina del sei, nove bambini su dieci saranno in grado di ricordarsela, uno sarà, invece, completamente impermeabile a queste informazioni e, qualora non potesse far uso di una tavola pitagorica, nonostante anni di tentativi di apprendere la stessa tabellina, sarà costretto a ricorrere a dispendiose strategie alternative, come contare sulle dita. Tuttavia, questa difficoltà nel conteggio e nell’automatizzazione del calcolo non comporta di per sé una carenza logico-matematica: un bambino con discalculia non avrà alcuna difficoltà a spiegare il significato della moltiplicazione, quando e come farla. Il suo senso logico, la sua intelligenza logicomatematica non sono compromessi dal suo DSA e potrà ottenere degli ottimi risultati scolastici qualora si faccia leva sulle sue capacità, compensando le sue difficoltà attraverso semplici strategie alternative e ausili per il calcolo. Per un bambino con discalculia, l’obiettivo didattico dovrà essere spostato dall’apprendimento di automatismi del calcolo, come le tabelline, alla comprensione dei problemi logico-matematici e della loro soluzione. Insomma, con una calcolatrice in mano, un adulto discalculico potrà tranquillamente arrivare al calcolo della velocità del bosone di Higgs qualora da bambino non sia stato frustrato nell’apprendimento delle competenze logico-matematiche perché incapace di portare a mente le tabelline e di contare all’indietro. Senza la collaborazione di specialisti che seguono l’alunno con DSA su un piano clinico, non è facile per un insegnante mettersi nei panni di un alunno che funziona diversamente, capire quando è il caso di ridurre le richieste di lettura autonoma a favore dell’utilizzo di strumenti compensativi o quando smettere di correggere gli erro-

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ri ortografici e focalizzarsi solo sulla sintassi e il contenuto. Ma una volta trovata la metodologia didattica corretta, l’insegnante non solo si accorgerà che sarà possibile guidarli verso un efficace apprendimento degli obiettivi didattici, ma avrà trovato gratificazione nel suo ruolo di educatore, perché avrà compreso che la specialità di una pedagogia speciale non è un qualcosa che si rivolge ad alcuni studenti rispetto ad altri perché diversi, ma è una sensibilità che va rivolta a ogni singolo studente, che è speciale nella sua individualità, a prescindere che segua e non segua percorsi tipici di crescita e apprendimento. Qual è l’esperienza di un insegnante con uno studente con DSA? Cosa nota del suo modo di apprendere? A cosa deve prestare attenzione per riconoscere per tempo, fin dal loro esordio, i segnali di un DSA? Proviamo a rispondere a queste domande nel prossimo paragrafo immedesimandoci nel vissuto di un insegnante attraverso le sue stesse parole.

Cosa nota un insegnante in classe nelle prime fasi di apprendimento: il riconoscimento e la segnalazione Come ogni volta mi apprestavo a iniziare un nuovo anno scolastico con sentimenti contrastanti: gioia per l’inizio di un nuovo percorso e timore per le eventuali difficoltà da superare nel corso del tempo. Immaginavo un cammino impegnativo, visto che si trattava di una prima classe elementare molto numerosa, ventisei tra bambini e bambine, di cui due arrivati per la prima volta in Italia dall’estero solo nell’estate di quell’anno. La riunione con il mio dirigente scolastico e il resto delle insegnanti delle classi prime mi aveva permesso di prendere atto della documentazione relativa al percorso scolastico pregresso di alcuni dei bambini a me affidati. Purtroppo, come spesso accade, solo di pochi! E tra questi pochi non c’era Matteo, trasferitosi recentemente da un’altra città. Il primo mese passò come negli altri anni tra la necessità di conoscere e amalgamare il gruppo e le prime risposte ai mille

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interrogativi che un insegnante di prima elementare si pone. Con il passare del tempo, il mio metodo d’insegnamento, che prevedeva come sempre la preventiva scoperta e il successivo riconoscimento di tutte le lettere tranne l’h, che ho sempre preferito inserire in un secondo momento, cominciava a dare i suoi frutti per tutti i bambini, o meglio, per quasi tutti i bambini. In realtà tre bambini all’interno della classe mi colpivano per le loro incertezze e le ripetute difficoltà. E tra questi c’era Matteo. All’inizio ero del tutto convinta che le sue insicurezze dipendessero esclusivamente da difficoltà ambientali e mi ripetevo continuamente: è arrivato da poco, lui e la sua famiglia devono integrarsi in città, il tempo aiuterà a risolvere le cose. I suoi ritardi nell’apprendimento, però, cominciarono a emergere in modo sempre più evidente e a catturare la mia attenzione quanto più crescevano le sue difficoltà di apprendimento e di stranezze nel comportamento che, solo oggi, ho saputo riconoscere come manifestazioni di un disagio e allo stesso tempo come richieste di aiuto. Ricordo bene le crisi di pianto di Matteo, quando gli chiedevo, come al resto della classe, giochi di composizione e scomposizione delle parole attraverso le sillabe. Le grandi difficoltà nel riconoscimento di alcuni grafemi, che spesso comportavano scambi di lettere (m/n, b/d, f/v), lo portavano a rifiutare le attività in classe e in alcuni casi anche a reazioni violente nei confronti di alcuni compagni che gli facevano notare i suoi continui errori. A quel tempo, però, il fatto di avere davanti un bambino che, al di fuori di alcune specifiche attività scolastiche legate all’acquisizione della letto-scrittura e del calcolo, si mostrava intelligente, creativo e socievole, capace di spiegarsi e raccontare con proprietà di linguaggio, di saper cogliere, spesso anche molto prima degli altri suoi compagni, i nessi logici di una regola spiegata e il significato di un racconto, mi faceva svalutare quelle sue incertezze e ritenerle insuccessi momentanei, poco importanti e prossimi alla risoluzione. Con il passare del tempo però l‘insicurezza di Matteo aumentò e l’introduzione

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in scrittura dei quattro caratteri (minuscolo e maiuscolo, corsivo e stampatello) non migliorò le cose, anzi. Il disordine che riscontravo puntualmente nei suoi quaderni rispecchiava la confusione emotiva che cominciavo a percepire nei suoi atteggiamenti. Gli suggerii di tornare a scrivere solo con lo stampato maiuscolo. Ma il mio discorso servì a poco: Matteo già non mi ascoltava più. Scrivere in stampatello maiuscolo, quando gli altri compagni utilizzavano già il corsivo, fu vissuto da Matteo non come un'alternativa, ma come un passo indietro, un nero su bianco della sua diversità, uno stigma difficile da nascondere al resto della classe. Alla fine del primo quadrimestre incontrai i genitori di Matteo. Dissi loro delle difficoltà di apprendimento delle prime basilari regole per imparare a leggere e scrivere del figlio. Il papà fu molto sorpreso e infastidito dalle mie parole, che gli sembrarono piuttosto denunciare un insuccesso del mio insegnamento piuttosto che una difficoltà di Matteo. La mamma rimase in silenzio per quasi tutto il colloquio. Solo alla fine scoppiò in un pianto che a me sembrò liberatorio. Probabilmente, era stata gravata da tanti interrogativi e preoccupazioni, certo non condivise con un marito pronto a celare ogni insuccesso scolastico di Matteo. Le mie parole gettarono luce su tanti piccoli episodi che avevano caratterizzato il comportamento pomeridiano di Matteo, sempre così restio a svolgere i compiti a casa. La mamma, stupita che un bambino di prima elementare mostrasse così poco entusiasmo per le attività scolastiche, aveva attribuito quei comportamenti a stanchezza e persino a una certa svogliatezza del figlio. Quando, poi, Matteo iniziò a somatizzare la sua sofferenza, lamentando dei mal di pancia quasi tutte le mattine prima di andare a scuola, i genitori si convinsero a condurlo presso un centro per i disturbi dell’apprendimento. Dopo un’attenta valutazione, fatta anche presso il servizio sanitario nazionale, Matteo fu inserito in un programma terapeutico che prevedeva due incontri settimanali con un logopedista. Non fu facile per Matteo accettare e sopportare questo surplus di lavoro.

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Chiusi l’anno scolastico tra mille difficoltà. Se, da una parte, evitare a Matteo di leggere ad alta voce in classe o di scrivere i dettati lo salvaguardava da inutili insuccessi e frustrazioni, dall’altra si accentuava in lui il senso di inferiorità rispetto al resto della classe. Ma il percorso terapeutico così mirato e specifico, condotto anche per tutto il periodo estivo, portò i suoi frutti. Già dal primo mese della seconda elementare, gli enormi miglioramenti nella lettura e nella scrittura evidenziati da Matteo non solo fecero riguadagnare in lui fiducia nelle sue capacità scolastiche, ma comportarono un suo sempre maggiore coinvolgimento nelle attività all’interno della classe. Matteo non sfuggiva più dalla lettura ad alta voce, seppure concordata e di brevi brani, avendo inoltre l’onore di iniziare per primo. L’aver riconosciuto l’importanza per lui di scrivere in stampatello limitava i suoi sforzi e aumentava la capacità di controllore gli errori ortografici. Il suo iter d’intervento logopedico continuò durante la seconda classe primaria, con pause tra un ciclo e l’altro, fino alla fine dell’anno scolastico quando, con un aggiornamento della valutazione effettuata precedentemente, si accertò la presenza di un vero e proprio DSA: dislessia e disortografia. Il percorso già svolto aveva comunque spianato la strada all’accoglienza serena della diagnosi sia da parte di Matteo che dei suoi genitori; diagnosi che non rappresentava più per nessuno l’infamia di una diversità da nascondere o umiliante, non per Matteo che ne aveva fatto un mezzo attraverso cui invece di essere emarginato otteneva da tutti più attenzione e rispetto, non per i suoi genitori orgogliosi dell’impegno profuso dal figlio e rassicurati sulla sua intelligenza, non dai compagni di classe, che avevano imparato ad apprezzare la bravura di quello scolaro, e certo non mia, che imparai una volta di più che ogni didattica è speciale e mai generale, personalizzata e non “curriculare”, perché ogni bambino è diverso dall’altro. Da questa testimonianza si evince immediatamente l’importanza del ruolo dell’insegnante sotto due aspetti: il riconoscimento preco-

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ce di un disagio dell’alunno e l’uso di una didattica adattata alle condizioni dell’alunno con DSA per sviluppare le sue potenzialità individuali e favorirne l’integrazione nel gruppo attraverso la personalizzazione degli interventi. Il primo aspetto, legato al riconoscimento delle difficoltà di un alunno, coglie appieno il ruolo dell’insegnante nei casi di DSA. Come abbiamo detto all’inizio del capitolo, siccome per sua natura un DSA riguarda le competenze scolastiche, la persona che per prima può trovarsi a osservare un bambino con DSA è proprio un insegnante. Un insegnante che ha maturato una certa esperienza d’insegnamento possiede tutte le competenze necessarie per accorgersi che le difficoltà di Matteo, un bambino sveglio e intelligente, oltrepassano quelle che in genere incontrano tutti i bambini all’inizio dell’apprendimento della letto-scrittura, quali la confusione fra lettere simili (b/d, m/n, a/e, ecc.) e le omissioni di alcune consonanti di parole scritte sotto dettatura. La quantità e la sistematicità con cui si evidenziano alcune tipologie di errori nei bambini con DSA non possono sfuggire a una maestra, che non deve confondere tali errori con quelli legati a un normale processo di apprendimento. Quando Matteo è stato portato a una prima valutazione presso un centro specialistico, seppure ancora troppo piccolo per una diagnosi definitiva, tuttavia, ha ricevuto un intervento precoce che ha supportato anche l’insegnante stessa, sia perché l’ha sollevata dalla falsa accusa che il disturbo dell’alunno potesse essere dipeso da un cattivo insegnamento, sia perché ha facilitato l’adozione e l’efficacia di strategie didattiche alternative. Il lavoro del logopedista ha stimolato Matteo sui suoi punti deboli in armonia e collaborazione con la sua maestra. Questo intervento combinato non può che aver minimizzato gli effetti di quel disturbo specifico diagnosticato solo alla fine della seconda elementare. A questo punto qualcuno dei lettori si domanderà su che basi possiamo affermare a posteriori che un intervento precoce faciliti il decorso di un processo di apprendimento in un caso di DSA. Perché, se di DSA non si guarisce, tormentare un bambino già dalla prima elementare e rovinargli l’estate con un faticoso impegno logopedico, solo per fargli migliorare di qualche punto la velocità

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di una lettura che rimarrà sempre faticosa e stentata? La ricerca scientifica in materia ha oramai accumulato una ricca mole di dati sui vantaggi che si ottengono da interventi terapeutici e didattici precoci, ossia anche prima di una diagnosi definitiva di DSA che può essere formulata solo al termine della seconda elementare. Ma anche se un insegnante, o il nostro lettore, non volesse addentrarsi in questo campo più specialistico del trattamento clinico, potrà comunque cogliere l’efficacia di un intervento precoce anche solo da un punto di vista didattico rileggendo il caso di Matteo. Il riconoscimento precoce dell’insegnante di Matteo, l’aver allertato i genitori e sollecitato un intervento specialistico non ha soltanto migliorato le competenze specifiche nella lettura e scrittura del bambino ma, soprattutto, ha messo in condizione la maestra di poter individualizzare un intervento didattico così da non mortificare il suo alunno. Le strategie adottate dalla maestra, in collaborazione con gli specialisti, non hanno certo permesso a Matteo di risolvere la sua dislessia, ma hanno ottenuto molto di più di questo: superare quelle difficoltà comportamentali e psicologiche che stavano minando la sua fiducia di fondo, la stima di sé, l’integrazione nella classe, la maturazione delle sue competenze emotive e sociali, la sua salute fisica, la comunicazione familiare. Quello che noi sosteniamo in questo libro, e di cui speriamo il lettore si sia già accorto se è arrivato a leggerci fin qui, non è un semplice modello medico/patologico d’intervento, che miri cioè alla sola guarigione di una patologia. Per noi, la salute non è semplicemente l’assenza di una malattia, ma è la conquista di un pieno benessere fisico, mentale e sociale. Per questo è necessario che tutti coloro che sono coinvolti nella crescita di un bambino dislessico giochino la loro parte, dai genitori agli insegnanti, dagli specialisti ai compagni di scuola. Quanto detto ci permette ora di sottolineare con forza il secondo aspetto importante del ruolo dell’insegnante: la sua capacità di personalizzare la didattica ai bisogni speciali di uno studente. Le strategie didattiche adottate dall’insegnante di Matteo non si sono limitate all’uso di strumenti compensativi e misure dispensative, ma hanno previsto anche il diretto coinvolgimento dei genito-

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ri e una diretta collaborazione con gli specialisti esterni. La flessibilità di un insegnante nelle sue scelte didattiche, la capacità di ascolto e riconoscimento dei bisogni dell’alunno, aiutano non solo gli studenti con difficoltà a ricevere pari opportunità di apprendimento, ma proteggono l’insegnante dal confondere le difficoltà dell’alunno con le proprie insicurezze personali e professionali. La maestra ha dimostrato di non lasciarsi sopraffare dal padre di Matteo che, non volendo accettare i limiti del proprio figlio, ne nascondeva le difficoltà di apprendimento mascherandole nell’incapacità della maestra. Senza disconfermare la propria professionalità, ma sempre disposta ad acquisire nuove competenze, la maestra di Matteo è stata in grado di gestire il rapporto con i genitori affinché non si trasformasse in un conflitto con l’insegnante quello che era il dolore scaturito dal riconoscimento della diversità del figlio. In questo modo, non solo ha garantito un dialogo costruttivo tra l’insegnante e i genitori, ma ha favorito un dialogo intra-familiare che ha sciolto le tensioni esistenti ed evitato che Matteo perseverasse in comportamenti antisociali e nella somatizzazione del disagio. Non c’è danno peggiore che possa fare un insegnante a un alunno dislessico che riversare su di lui rabbia e disprezzo dovuti alla paura di un proprio insuccesso professionale. La fiducia nelle proprie capacità professionali non coesiste con la rigidità nella scelta dei metodi didattici e la chiusura verso l’acquisizione di nuove competenze.

L’insegnante e le prime fasi di apprendimento: come orientarsi tra i tanti profili diversi L’età dei sei anni è quella in cui i bambini cominciano a usare il pensiero logico. Non a caso è anche il periodo ideale per l’ingresso in prima elementare ed essendo una fase di passaggio rappresenta probabilmente uno dei momenti più intensi per i dubbi, le aspettative e le incertezze di una famiglia sulla crescita e il futuro del figlio. Nondimeno, anche un insegnante a cui venga affidata una prima classe elementare vive intensamente la responsabilità dell’avvio di un ciclo fondamentale per la costruzione di quei meccanismi basilari dell’apprendimento scolastico. Un maestro si trova subito alle

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prese con tanti profili diversi (in media 20-25 per classe) e conseguentemente con bambini che andranno incontro a ritmi di apprendimento diversi. L’avere, infatti, un’età cronologica simile non comporta uguali profili e ritmi di apprendimento. Le persone apprendono in maniera diversa l’una dall’altra, sia per le differenti capacità cognitive che fin dalla nascita distinguono un individuo dall’altro, sia per i differenti contesti socio-educativi che plasmano l’individuo attraverso la varietà delle esperienze di vita che offrono e per la disponibilità di risorse culturali di cui godere. Questo determina che ciascuno strutturi modalità e strategie di elaborazione delle informazioni che gli sono proprie. E questo sta alla base delle differenze individuali che ci caratterizzano e che rendono interessante e vario l’essere umano. Può capitare che nella prima classe della scuola primaria l’insegnante si lasci prendere dall’ansia di dover insegnare il più presto possibile a leggere e scrivere. Quest’ansia è spesso condivisa e rafforzata dai genitori, che confrontano il ritmo di apprendimento del proprio figlio con quello dei compagni di scuola e magari con quello del fratello maggiore, “il fratello alla sua età già leggeva molto velocemente e scriveva in corsivo!”, aumentando le aspettative, e di conseguenza la pressione sull’insegnante, affinché l’alunno riesca a padroneggiare l’alfabeto e le sue regole il prima possibile. Ma ogni bambino anche a sviluppo tipico ha un suo proprio ritmo di apprendimento che solo in parte o, diciamo pure, solo nei manuali di psicologia dello sviluppo è conformabile a un modello comune. I manuali di psicologia dello sviluppo e dell’apprendimento sono come grandi autostrade che collegano i principali centri d’interesse di un paese. Per raggiungere Bari partendo da Roma, per la maggior parte dei viaggiatori è certamente più facile percorrere l’autostrada che il tortuoso tracciato della via Appia: è più facile da calcolare, è più veloce da percorrere, è provvista di sistemi di assistenza in caso di guasti o incidenti. Ma l’autostrada, seppure più veloce e rassicurante, non è l’unica via, non sempre offre i panorami più belli e prevede poche uscite alternative. Lo sviluppo umano solo in parte coincide con le autostrade tracciate dalle mappe stra-

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dali dei manuali dello sviluppo. In realtà, ciascuno di noi raggiunge le grandi tappe dello sviluppo spesso per strade alternative – a volte più rischiose, a volte più affascinanti e stimolanti, a volte più faticose e dolorose – che per vie traverse e tramite soste in luoghi alternativi e inattesi ci fanno raggiungere le stesse mete. Un insegnante non può conoscere soltanto i percorsi autostradali di una didattica improntata su modelli generali dello sviluppo, ma deve saper far da guida anche nei sentieri che alcuni alunni, per scelta o necessità, si trovano a percorrere. Avere all’interno della classe quindici bambini che con naturalezza e spontaneità riescono a comprendere le regole della lettura e del codice scritto – cioè quello straordinario processo di conversione che da un segno porta al suono, ossia dal grafema al fonema per la lettura, e dal suono al segno per la scrittura – mentre altri sette bambini faticano, spendendo una gran quantità di energie nell’apprendimento di questo meccanismo, rimanendo indietro rispetto agli altri, può essere destabilizzante per un insegnante, soprattutto poi quando osserva che, nonostante abbia adottato un metodo didattico consolidato nel corso degli anni, questa discrepanza tra i due gruppi di scolari, con il passare dei mesi, aumenta invece di diminuire. Di fronte a bambini che, una volta introdotte tutte le lettere dell’alfabeto, non riescono a leggere correttamente parole bisillabiche piane, come MARE, o che una volta riconosciute le singole lettere non riescono a fonderle per arrivare alla decodifica corretta della parola – bambino: “s-o-l-e”; insegnante: “che cosa hai letto?”; bambino: “le” – o che non riescono a riconoscere tutte le consonanti dell’alfabeto, a un insegnante può sorgere il dubbio che il problema sia dovuto a uno scarso impegno dell’alunno, a un’assenza di volontà e dedizione di questi nei confronti dell’apprendimento scolastico. Ti ho spiegato mille volte che quelle due stanghette oblique si leggono /v/, tu invece non stai attento, sei sempre distratto, disturbi il tuo vicino di banco e invece di leggere /v/ leggi /f/. Sei un bambino intelligente, perché non t’impegni di più? Con te tutti gli sforzi sono stati inutili, visto che ancora non

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riesci a riconoscere tutte le lettere dell’alfabeto. È così semplice, non puoi sbagliare, non puoi fare sempre lo stesso errore. Per un bambino senza disturbi d’apprendimento, imparare a leggere e scrivere può essere così naturale e giocoso che solo una visione ingenua riconduce le ragioni degli errori di un bambino dislessico alla svogliatezza dell’alunno, anziché a un deficit nel funzionamento dei meccanismi neuropsicologici della letto-scrittura arrivando a mettere in dubbio persino la sua stessa intelligenza, facendo quella banale quanto comune, dannosa quanto umiliante equazione: se non capisce allora è stupido. Ma un professionista dell’educazione sa bene che non è così. Di seguito cercheremo di guidare un insegnante a orientarsi nel riconoscimento di un potenziale disturbo di DSA distinguendolo da tanti altri possibili ritardi nell’apprendimento scolastico. Come abbiamo già detto nel paragrafo “Leggiamo insieme una diagnosi” del Capitolo 2, siccome i DSA hanno un’origine neurobiologica, per riconoscerli dobbiamo, innanzitutto, escludere effetti dovuti a fattori esterni, cioè estranei a quelle caratteristiche neurobiologiche specifiche dei DSA che sappiamo possono incidere sulle capacità dell’apprendimento scolastico, come uno svantaggio socio-culturale (bambini di lingua e nazionalità non italiane immigrati di recente, condizioni familiari disagiate, abuso e sfruttamento, separazioni conflittuali dei genitori, gravi lutti familiari, ecc.), o conseguenti a un ritardo mentale, a una depressione, a un forte stato d’ansia, a un’ADHD, a una sindrome di Down, a un autismo o a deficit uditivi e visivi. Prima di arrivare a pensare a un DSA, l’insegnante deve aver lasciato al bambino un tempo sufficiente per misurarsi con il suo apprendimento. Il tempo che serve a un bambino per imparare a leggere e a scrivere e a far di calcolo è variabile. Per questo motivo, non è mai possibile parlare di dislessia prima della fine del secondo anno della scuola primaria e di discalculia prima della fine del terzo. Tuttavia, come abbiamo visto nel caso di Matteo, questo non deve impedire all’insegnante di mettere in atto tutte le strategie necessarie appena nota un evidente ritardo di apprendimento di un suo alunno.

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Sia ben chiaro: all’insegnante, di per sé, non interessa arrivare a una diagnosi, non è suo compito. È necessario, invece, che possegga un quadro chiaro delle condizioni di sviluppo del bambino per adottare, il più precocemente possibile, tutte quelle strategie didattiche per favorirne il migliore apprendimento e il suo corretto inserimento nella classe. Siccome per un insegnante è fondamentale sapere se il ritardo d’apprendimento di un alunno, per esempio nella letto-scrittura, dipende da uno stato d’ansia o da una dislessia – perché diversi saranno sia gli interventi didattico-educativi da adottare, sia i possibili esiti riguardo un recupero delle competenze della letto-scrittura – deve poter escludere quelli che abbiamo chiamato i fattori esterni. La fonte privilegiata che ha l’insegnante per raccogliere queste informazioni è il colloquio con i genitori: una comunicazione chiara ed efficace permette di raccogliere preziose informazioni sull’alunno. Come abbiamo visto nel caso di Matteo, il colloquio con i genitori può non essere facile da affrontare quando riguarda un ritardo di apprendimento. L’insegnante, combattuto tra la voglia di collaborare e di rendersi utile e il timore della reazione dei genitori, potrebbe tendere a rimandare un confronto diretto con i genitori. Volevo parlarne già a ottobre con la famiglia, ma sapevo benissimo come avrebbero reagito. Per questo ho preferito continuare senza informarli dei miei dubbi. Come abbiamo già detto a commento della testimonianza della maestra di Matteo, l’insegnante deve stare in guardia dal non confondere le difficoltà di apprendimento dell’alunno con la sua incapacità all’insegnamento. Questa confusione innesca meccanismi emotivi e comportamentali assai dannosi. Per esempio, nell’affermazione “Volevo parlarne già a ottobre con la famiglia, ma sapevo benissimo come avrebbero reagito” è evidente il disagio dell’insegnante nei confronti delle capacità di ascolto dei genitori. Non può sapere come reagiranno i genitori finché non gliene avrà parlato. Per questo non può “sapere benissimo” ciò che non ha permesso che avvenisse. Inoltre, il dovere di un insegnante nel comunicare

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con i genitori non può essere posto sotto la condizione di come questi reagiranno ai contenuti delle comunicazioni della scuola. È un dovere degli insegnanti informare e un diritto dei genitori sapere. Che i genitori non siano in grado di recepire i contenuti della comunicazione non solleva l’insegnante dal metterli a conoscenza. Una bassa autoefficacia nelle proprie capacità professionali spesso si trasforma in un comportamento di svalutazione degli altri. Invece di dire “mi è difficile, non ce la faccio”, un insegnante tenderà ad affermare “non mi capisce, reagirà malissimo”. Il fine di ogni azione dell’insegnante deve essere l’educazione dell’alunno, non la tutela delle reazioni dei genitori, che spesso non sono altro che un mascheramento delle proprie paure. Questo non vuol dire rivolgersi ai genitori senza rispetto delle loro capacità di comprensione e di gestione di un disagio. Il colloquio con i genitori deve essere gestito con affabilità ed empatia. Per esempio, un insegnante potrebbe dire: Ho notato delle difficoltà di apprendimento della lettura e scrittura di Matteo, come mi è già capitato molte volte in passato con tanti altri bambini. Le stiamo affrontando con serenità e un’adeguata metodologia didattica. Sarebbe davvero di grande aiuto per Matteo se voi, nel vostro ruolo di genitori, poteste collaborare con noi. Finché l’insegnante non avrà ricevuto da parte della famiglia una diagnosi di DSA – e, quindi, a seconda del disturbo, non prima della fine della seconda elementare in caso di dislessia e non prima della fine della terza elementare in caso di discalculia – è bene che non “emetta diagnosi”. Pertanto, nel rivolgersi ai genitori, qualora non esista appunto una diagnosi, parli di difficoltà di apprendimento, fatica, diverso ritmo, ecc. Una volta che l’insegnate ha escluso fattori esterni legati a deficit sensoriali, grazie alle informazioni ottenute dai familiari dell’alunno con difficoltà, può tener presenti altri fattori esterni che potrebbero ostacolare l’apprendimento, per esempio quello legato alla frequenza scolastica costante e adeguata, che è evidentemente una condizione necessaria per l’apprendimento della lettura e della

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scrittura. Bambini che per qualunque motivo facciano un numero eccessivo di assenze sono a rischio di perdere alcune delle prime fondamentali regole alla base della decodifica e per questo potrebbero incontrare successive difficoltà. In molti casi esporre lo scolaro a una regolare quantità di stimoli, riducendo le assenze scolastiche, fa rientrare le difficoltà di apprendimento, qualora appunto fosse stato questo il fattore causante. In altri casi può accadere che le difficoltà di apprendimento siano dovute a un clima familiare poco sereno. La presenza di contesti familiari disfunzionali o di dinamiche conflittuali tra i genitori non rappresenta, ovviamente, il terreno emotivo stabile e positivo sul quale far fiorire il seme dell’apprendimento. Di fronte a insuccessi ripetuti, anche attraverso tentativi di adeguamento della didattica, l’altro dubbio che frequentemente tormenta l’insegnante della scuola primaria è l’intelligenza. In presenza di continui errori, qualitativamente e quantitativamente ripetuti, l’incapacità di imparare a leggere in un’ortografia semplice come quella italiana e il fallimento, ad esempio, nei compiti di comprensione del testo possono essere ricondotti a difficoltà che riguardano proprio lo sviluppo dell’intelligenza. Come abbiamo già detto commentando il caso di Matteo, se c’è una disabilità intellettiva non c’è DSA e se c’è DSA non c’è compromissione delle funzioni intellettive: un bambino dislessico non ha problemi di intelligenza. Qualora un insegnante sia libero dal pregiudizio che le difficoltà nell’apprendimento delle competenze di letto-scrittura e calcolo siano necessariamente causate da una disabilità intellettiva, allora, avrà numerose occasioni per verificare l’intelligenza di un suo alunno dislessico o discalculico, così da escludere fattori esterni al ritardo di apprendimento. Potrà osservare, infatti, se il bambino è adeguato nelle attività di gioco e in tutte quelle altre attività scolastiche che non coinvolgano direttamente la lettura e la scrittura. Qualora si tratti di DSA, allora, noterà che, a cadute e rallentamenti rilevati nell’utilizzo della lettura, fanno da contraltare adeguate competenze in altri ambiti come, ad esempio, gli interventi in classe, appropriati per tempi e contenuti ed esposti con proprietà di linguaggio e fluidità, o il saper essere un piccolo leader durante le

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pause di ricreazione. Tutti indici questi di un normale sviluppo del pensiero logico e delle abilità sociali. A volte, un adeguato apprendimento può essere ostacolato da problemi di linguaggio, come nel caso dei bambini stranieri, che utilizzano l’italiano come seconda lingua e sui quali gravano carenze linguistiche, di fonetica e di povertà lessicale. Uno svantaggio socioculturale e la ridotta conoscenza della lingua e del vocabolario possono influenzare negativamente l’apprendimento della lettura che poggia sul fatto che il bambino sappia già parlare bene e possieda un adeguato vocabolario, che a sei anni è di circa seimila parole. Si pensi quanto possa facilitare la decodifica di una parola lunga come ELEFANTE il fatto che il bambino conosca già questa parola: /e/-/el/-/ele/-/elef/… elefante! Anche in questo caso, il compito dell’insegnante è di raccogliere la maggior quantità di informazioni possibile circa la prima lingua acquisita dal bambino, sapere da quanto tempo si è trasferito in Italia e con che tipo di frequenza è stato ed è tuttora esposto alla lingua italiana, nell’ottica di adeguare la didattica alle caratteristiche del bambino.

Cosa può fare l’insegnante nello svolgimento della sua attività didattico-educativa Insegnare a leggere e a scrivere: l’importanza del metodo L’ingresso nella prima classe primaria è per i bambini un momento molto importante: per la prima volta verranno esposti in modo formale, cioè strutturato, metodico e organizzato, all’apprendimento della lettura e della scrittura. In genere, quasi tutti i bambini affrontano questo passaggio con entusiasmo e passione, eccitati dal possedere per la prima volta un diario, libri e quaderni, gomme e matite, non più come materiali di un gioco, ma come strumenti che li accompagneranno nel mondo dello studio e delle conoscenze. Pennac descrive egregiamente in Come un romanzo il vissuto di un bambino nei primissimi momenti in cui si misura con il codice scritto, i primi passi nel mondo della lettura:

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La scuola giunse a proposito. Prese in mano il futuro. Leggere, scrivere, contare… All’inizio, lui si buttò pieno di entusiasmo. Era troppo bello che tutte quelle aste, quelle gambette, quei cerchi, quei piccoli ponti messi insieme formassero delle lettere. E quelle lettere delle sillabe, e quelle sillabe, testa a testa, delle parole. Non riusciva a capacitarsi! E che alcune parole gli fossero così familiari, era qualcosa di magico! Mamma per esempio, mamma, tre piccoli ponti, un cerchio, una gambetta, sei piccoli ponti, un altro cerchio, un’altra gambetta, risultato: mamma. Come riaversi da un simile prodigio?1 L’importanza di questo momento è molto chiara, la passione e il gusto di misurarsi con l’apprendimento e mettere alla prova le proprie capacità, la conoscenza e la cultura personale iniziano proprio adesso. Sarà quindi davvero molto importante iniziare con il piede giusto. Come dimostrano numerose ricerche fatte a livello internazionale, la nostra ortografia fa parte delle prime tre ortografie più trasparenti (vedi Box 3.1) insieme allo spagnolo e al serbo-croato. Appare evidente, inoltre, il fatto che per i bambini sia più semplice imparare a leggere e a scrivere quando sono chiamati a farlo in un’ortografia trasparente come quella italiana, perché sono di meno le informazioni da apprendere per riuscire a decodificare uno scritto. In altre parole, in italiano, una volta che i bambini abbiano appreso circa venti “cose” e cioè che a venti segni – corrispondenti alle lettere del nostro alfabeto eccetto l’h – bisogna far corrispondere 20 suoni diversi (i fonemi), sono già in condizione di leggere, o decodificare, moltissime parole del nostro vocabolario, e cioè tutte quelle parole che sono definite perfettamente trasparenti perché a ogni segno corrisponde esattamente un suono. Queste parole sono quelle alfabetiche come MANO, LATO, MATITA, ALBERO e così via.

1 Daniel

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Pennac, Come un romanzo, Milano, Feltrinelli, p. 31, 2005.

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BoX 3.1

oRtoGRAFIE tRASPARENtI

Le ortografie mondiali possono essere classificate secondo il loro livello di trasparenza. + Trasparenza Italiano, Spagnolo, Serbo-Croato

Come possiamo notare dall’immagine, in un’ideale linea di misura della

trasparenza tra i sistemi ortografici non profondi (e quindi più trasparenti) troviamo l’italiano, lo spagnolo e il serbo-croato, mentre all’estremità

opposta, tra i sistemi ortografici più

profondi (e quindi meno trasparenti),

Francese, Inglese, Danese

troviamo il francese, l’inglese e il danese.

– Trasparenza

La minore trasparenza del sistema ortografico amplifica le difficoltà di apprendimento e conseguentemente aumenta l’incidenza della dislessia nella popolazione di riferimento. L’immagine a fianco, che confronta

Svedese Norvegiese Giapponese Italiano Greco Inglese Danese Cinese

l’incidenza della dislessia rispetto a

diversi sistemi ortografici mondiali,

permette di apprezzare la maggiore

incidenza nei sistemi ortografici meno trasparenti (p. es. 10% della 0

2

4

6

8

10

Incidenza stimata della dislessia (%)

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popolazione scolastica di lingua

inglese) rispetto ai sistemi ortografici più trasparenti (p. es. 3-4% della

popolazione scolastica italiana).

Dopo questa prima fase, sono poi introdotte le regole ortografiche più complesse che faranno comprendere ai bambini come si gestiscono tutti i suoni corrispondenti alle lettere c e g, l’uso dell’h e di quei suoni o fonemi come gn, gl e sc, che per essere rappresen-

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tati hanno bisogno di un grafema composto da più lettere, nonché il funzionamento della q e l’uso del cq. Tutti questi elementi più complessi, in un’ortografia trasparente come l’italiano, sono comunque collegati a regole precise abbastanza semplici da comprendere. Così, dopo aver appreso circa ventotto corrispondenze fonema/grafema, un bambino in Italia è praticamente in grado di leggere quasi tutto il vocabolario. Rimarranno dubbi solo su alcune accentuazioni e sulle ambiguità create da parole come GLICINE. Questo risultato in termini di tempo è raggiunto, in media, alla fine della prima classe primaria, in cui la maggior parte dei bambini, anche se ancora lentamente, legge in maniera corretta circa il novanta per cento delle parole. Per raggiungere lo stesso risultato, i bambini inglesi, cioè quelli che sono esposti a un’ortografia più opaca, dovranno attendere la fine della terza classe primaria, perché dovranno apprendere un numero decisamente maggiore di corrispondenze per imparare a leggere, cioè circa trecento. Non sarà sufficiente, infatti, la conoscenza delle lettere dell’alfabeto inglese ma sarà necessario conoscere anche la rappresentazione scritta di molte sillabe e addirittura di alcune parole intere. Per esempio, per leggere una parola come YACHT /jot/ non è possibile, infatti, basarsi sulla conoscenza delle sole lettere o sillabe, ma è necessario conoscere esattamente il suono corrispondente all’intera parola scritta. Premesso tutto ciò e considerando che l’italiano è piuttosto semplice da apprendere, non devono essere trascurate alcune difficoltà che anche la nostra ortografia nasconde. La trasparenza, cioè la corrispondenza fra suono e segno ripetuta per tutte le parole del vocabolario, come già emerso nelle righe precedenti, non è infatti assoluta. Ai ventuno segni del nostro alfabeto si possono generalmente far corrispondere ventotto suoni del linguaggio. Questo comporta la necessità di imparare altre regole per far fronte alle richieste meno trasparenti. In genere, è attraverso un metodo analitico, il più usato nella scuola italiana, che si ottengono i migliori risultati di apprendimento. Questo metodo, detto fono-sillabico, parte dalle unità o “mattoncini” di base, ossia dalle lettere, per costruire poi le parole e le frasi.

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Sempre in un’ottica analitica, esiste la possibilità di iniziare l’apprendimento della lettura e della scrittura anche ricorrendo all’uso delle sillabe invece che delle lettere singole. Ci sembra davvero molto importante che un insegnante di prima elementare conosca questo metodo, detto metodo sillabico puro2, perché possa farsi un’idea precisa dei molti pro e dei pochi contro che comporta. Prima di approfondire il metodo sillabico puro elaborato da Maria Emiliani ed Enrica Partesana, facciamo una breve rassegna dei metodi che generalmente vengono usati in Italia per insegnare la lettura e la scrittura. Ne esistono tre principali tipologie: • metodi sintetici: partono da materiale linguistico che abbia significato, una frase, e richiedono al bambino di anticipare e dedurre questo significato; • metodi analitici: partono prima dagli elementi più semplici sprovvisti di significato, le lettere, per arrivare poi agli elementi più complessi, sillabe, parole, frasi; • metodi analitico-sintetici o misti: propongono materiale significativo, una frase o una parola e, nello stesso tempo, richiedono di analizzare la parola in tutti i suoi costituenti, lettere e grafemi. Il metodo sintetico di insegnamento della letto-scrittura è quello che solitamente viene definito metodo globale, attraverso cui si parte da materiale linguistico significativo, come una frase intera o un breve periodo, e si richiede al bambino di cogliere, anticipandoli, i significati. Ad esempio, si propone inizialmente una sequenza di frasi lasciando che il bambino spontaneamente faccia le sue deduzioni, in particolare rispetto alla lettura globale della parola, che nell’esempio che segue è MARE:

2 Per informazioni molto più dettagliate e approfondite sul metodo sillabico vedi: Maria

Emiliani e Enrica Partesana, Dislessia. Proviamo con le sillabe, Firenze, Libri Liberi, 2008. Nella trattazione del metodo sillabico, nelle pagine seguenti, faremo riferimento principalmente a questo testo.

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IL MARE È BLU. SONO ANDATO AL MARE. IL MARE HA LE ONDE. AL MARE CI SONO LE BARCHE. REMO È ANDATO AL MARE A MARINA DI MASSA. Come si può intuire, l’attenzione viene fatta convergere sulla parola MARE, inserita in vari contesti significativi. Il bambino è stimolato a riconoscerla nella sua interezza o globalità senza sapere, inizialmente, che è composta da varie lettere corrispondenti al suono della parola. In altre termini, è un po’ come se denominasse una figura. Quello che ci si aspetta è che, dopo varie esposizioni a materiale di questo tipo, il bambino piano piano deduca le regole che sottendono la decodifica e impari le corrispondenze suono/ segno grafico, ossia fonema/grafema. È bene tenere a mente che questo metodo è nato in Francia – che poi lo ha vietato – per l’insegnamento di un’ortografia non trasparente come la nostra. Utilizzare questo metodo in Italia significa trattare la nostra lingua un po’ come se non fosse trasparente, perdendo tutti gli evidenti vantaggi che questo implica. I metodi analitici d’insegnamento della letto-scrittura sono invece rappresentati generalmente dai metodi: • alfabetico: le lettere sono presentate con il loro nome: mela = emme + e + elle + a. Attualmente questo metodo è in disuso; • fonetico: le lettere sono presentate con il loro suono senza l’appoggio della vocale, come fa per esempio il metodo Montessori; • fono-sillabico: si presentano i fonemi, poi si passa alle sillabe. Un esempio legato a questo metodo è presentare inizialmente le vocali e poi collegarle di volta in volta a una consonante: fa, fe, fi, fo, fu. È attualmente il metodo più usato nella scuola italiana. • sillabico proposto da Emiliani e Partesana: si presentano direttamente le sillabe in stampato maiuscolo, dove le vocali sono unite a consonanti in modo da formare parole monosillabiche.

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Poi da queste sillabe/parole sono costruite parole più lunghe: MA – LE – VI – SO → MALE, VISO, SOLE. I vantaggi che offrono le sillabe nell’iniziale apprendimento della lettura e della scrittura sono diversi. Il primo è quello della loro trasparenza che aumenta le probabilità di una corrispondenza tra suono e segno grafico in qualunque contesto o parola la sillaba compaia. Le sillabe si leggono sempre allo stesso modo, ovunque esse compaiano, tranne che per la sillaba che corrisponde a /gli/ e che in parole come GLICINE e NEGLIGENTE suona diversamente dal solito. Praticamente, nella quasi totalità dei casi, il problema della trasparenza è risolto e questo semplifica ancora di più l’apprendimento delle regole. Inoltre, imparare a leggere con le sillabe implica che le unità da decodificare di una parola, raccogliendo più elementi grafici che la compongono, riducono il numero dei segni da decodificare rispetto a una lettura alfabetica. Per esempio, la parola MATITA è composta da sei lettere e solo da tre sillabe, per cui le operazioni metafonologiche che si devono compiere per riconoscerla, come la fusione dei suoni decodificati, sono molto più semplici: /ma/-/ti/-/ta/ rispetto a /m/-/a/-/t/-/i/-/t/-/a/. Questo processo risulta anche meno stressante per la memoria fonologica, cioè quella che serve a registrare i suoni del linguaggio, che deve immagazzinare un minor numero di unità di informazione. Questo risulta assai più vantaggioso per tutti i bambini in genere e, in modo particolare, per quelli che accusano un disturbo del linguaggio, che spesso si accompagna a un deficit nel funzionamento della memoria fonologica. Un disturbo pregresso nell’acquisizione del linguaggio caratterizza circa il quaranta per cento dei bambini con dislessia. Un altro vantaggio nell’uso del metodo sillabico è legato al fatto che la sillaba è un’unità del linguaggio che si percepisce e si può pronunciare con un solo atto articolatorio, a differenza del singolo fonema che è un’unità del linguaggio di cui non si ha consapevolezza, perché non è distinguibile mentre si ascolta il suono di una parola. Questo risulta evidente in quanto i bambini di cinque anni prescolari e gli analfabeti sanno compiere operazioni metafonologiche globali come la sintesi sillabica – se ascoltano i suoni /ma/ e

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/no/ sanno fondere e riconoscere la parola MANO – mentre non sono assolutamente in grado di effettuare la stessa operazione con i singoli fonemi – se ascoltano i suoni /m/, /a/, /n/, /o/ non sono in grado di effettuare la fusione e non riconoscono che parola è (vedi Box 3.2).

BOX 3.2

Metafonologia

Prima di addentrarci nella definizione di metafonologia chiariamo il significato del termine fonologia. La fonologia corrisponde a una parte della grammatica che si occupa di studiare tutti i suoni di cui è composto un determinato linguaggio. Questi suoni in linguistica sono denominati fonemi e rappresentano le unità minime del linguaggio, sono privi di significato e, per la maggior parte, impronunciabili singolarmente. Una parola è il risultato di più fonemi (cioè più suoni linguistici) organizzati insieme da precise regole. Per esempio, in italiano, una regola fonologica di organizzazione dei fonemi riguardante la composizione di una parola vuole che il fonema /f/ non possa mai precedere il fonema /s/; un’altra vuole che più di 3 consonanti non possono essere consecutive, e così via. La metafonologia, detta anche consapevolezza fonologica, rappresenta invece la possibilità di effettuare delle operazioni sui suoni del linguaggio, cioè sui fonemi. Per far questo è necessario che un bambino abbia sufficiente padronanza del linguaggio fino a poter operare su di esso un po’ come fosse un oggetto. Le operazioni metafonologiche da compiere sono: identificare i fonemi, classificarli, fonderli tra loro per ottenere ad esempio parole o segmentarli e, più in generale, manipolarli. La metafonologia rappresenta perciò una conoscenza articolata del linguaggio che richiede un’esplicitazione di rappresentazioni linguistiche, i fonemi, che altrimenti restano implicite, cioè non consapevoli. Le prove utilizzate per valutare le abilità metafonologiche implicano, perciò, la capacità di riflettere sulle caratteristiche fonologiche del linguaggio. Si può, ad esempio, chiedere a un bambino di contare i suoni di una parola o pronunciarla senza il primo suono o, ancora, di scomporla nei suoni che la costituiscono. (continua)

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BoX 3.2

MEtAFoNoLoGIA

(continua)

Generalmente, la metafonologia si divide in globale o analitica. La prima identifica la conoscenza superficiale della struttura della parola e può essere esaminata con compiti di rima o identificazione della sillaba iniziale di una parola (Figura 3.1). Questa conoscenza sembra essere presente indipendentemente dall’alfabetizzazione, quindi anche nei bambini di 4 o 5 anni o negli analfabeti. La seconda si riferisce invece alla conoscenza profonda della struttura del linguaggio e può essere valutata con prove che richiedono di operare con i fonemi, ad esempio segmentandoli o fondendoli (Figura 3.2). Questo tipo di conoscenza sarebbe legata strettamente all’apprendimento della lingua scritta ed è quindi assente in soggetti analfabeti e nei bambini che non vanno ancora a scuola.

Esempio di sintesi sillabica Esempio di segmentazione sillabica Figura 3.1 Consapevolezza fonologica globale: riguarda la prima riflessione che il bambino compie sulla fonologia del linguaggio e si evidenzia nella capacità di riconoscere, segmentare e fondere la struttura fonologica della parola a livello sillabico.

Esempio di sintesi fonemica Esempio di segmentazione fonemica Figura 3.2 Consapevolezza fonologica analitica: riguarda le strutture minime del linguaggio e si riferisce alla capacità del bambino di effettuare operazioni di fusione (o sintesi) e segmentazione sulla struttura fonologica della parola a livello fonemico.

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In realtà, i bambini nelle prime fasi di apprendimento della letto-scrittura impareranno a gestire i fonemi solo dopo essere stati già esposti sufficientemente alla lettura in modo che, quando l’impercettibile fonema verrà collegato a un grafema, cioè a un segno grafico e visibile, acquisterà consistenza e potrà a questo punto essere elaborato. Se si inizia con le sillabe, si può contare su una competenza metafonologica che nella stragrande maggioranza dei casi è già a disposizione degli alunni, perché emerge spontaneamente, cioè senza che nessuno gliel’abbia insegnata, anche in quei bambini a rischio perché provenienti da un pregresso disturbo del linguaggio. La maggior ampiezza dei segmenti da decodificare, inoltre, garantisce una maggiore velocità di esecuzione: è infatti intuitivamente più rapido decodificare /ma/-/no/, perché richiede l’elaborazione di solo due segni grafici e due suoni perfettamente corrispondenti, invece dei quattro suoni di una decodifica lettera per lettera. Desideriamo a questo punto sottolineare che iniziare con le sillabe, e cioè con il metodo sillabico puro, significa proporre ai bambini alcune particolari sillabe nella loro interezza. Pertanto, quando il bambino vede la sillaba ma gli viene insegnato che si legge oppure che suona /ma/, e mai, per nessun motivo in fase iniziale, si fa riferimento alle singole lettere m e a o ai singoli suoni corrispondenti: la sillaba viene sempre trattata globalmente. Tuttavia, c’è uno svantaggio legato all’uso del metodo sillabico: le sillabe sono molte di più delle lettere, ossia quasi duemila. D’altra parte, essendo le sillabe una combinazione delle ventuno lettere del nostro alfabeto, è erroneo supporre che quantitativamente lo sforzo delle corrispondenze da imparare sia maggiore. In realtà, quello che sembra succedere nella pratica, sia nelle classi di scuola dove viene adottato sia in riabilitazione, è che i bambini dopo i primi due o tre mesi di esposizione alle sillabe ne imparano alcune, acquistano padronanza e, poi, la gestione dei singoli fonemi e grafemi diventa molto più agevole. In conclusione, il metodo sillabico, sia per la solidità dei presupposti teorici che per le evidenze empiriche accumulate in questi, sembra essere molto inclusivo, ossia in grado di facilitare l’appren-

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dimento della maggior parte dei bambini, anche di quelli con disturbi specifici. Probabilmente è vero che i bambini a sviluppo tipico imparino a leggere praticamente con qualunque metodo e forse anche, passateci il paradosso, senza alcun insegnante. Questo però dovrebbe rafforzare le ragioni a favore di metodi più inclusivi. Se con il sillabico puro diminuisce il rischio che si formi una classe a due velocità, il vantaggio non ricadrà soltanto sul gruppo dei bambini più lenti nell’apprendimento della letto-scrittura ma su tutta la classe, che vivrà un processo di sviluppo più omogeneo a tutto vantaggio della serenità delle relazioni tra pari e con l’insegnante. Desideriamo concludere questa prima sezione sui metodi di insegnamento della letto-scrittura con un paragrafo dedicato a cosa può fare l’insegnante nello svolgimento della sua attività didatticoeducativa per favorire l’inserimento di alunni dislessici, richiamando, brevemente, l’importanza della prevenzione da promuovere anche nella scuola con azioni finalizzate. All’inizio della scuola primaria la prevenzione delle difficoltà di apprendimento rappresenta uno degli obiettivi più importanti per la continuità educativa, che si deve realizzare, prima di tutto, attraverso uno scambio tra la famiglia, gli insegnanti della scuola dell’infanzia e quelli della scuola primaria medesima. In questo modo è possibile che questi ultimi ottengano informazioni preziose, basate anche sullo sviluppo dei prerequisiti avvenuto durante la scuola dell’infanzia, che saranno poi integrati nella programmazione delle attività della scuola primaria. Solo da una conoscenza approfondita degli alunni l’insegnante potrà programmare le attività educative e didattiche, scegliere i metodi e i materiali e stabilire i tempi più adeguati alle esigenze di tutti gli alunni del gruppo classe. Il monitoraggio degli apprendimenti scolastici comporta la possibilità di distinguere tra ritardi e disturbi. Quando parliamo di difficoltà o ritardi di apprendimento ci riferiamo a prestazioni da parte di un bambino inferiori ai livelli attesi per età o scolarità, che si risolveranno perfettamente anche solo con il passare del tempo. Diversamente, parliamo di disturbo specifico dell’apprendimento in presenza di un deficit neurobiologico valutato attraverso un pro-

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tocollo clinico. In questo caso, con il passare del tempo il bambino potrà certo migliorare le sue prestazioni di letto-scrittura e calcolo, ma mai eguagliare la prestazione di bambini a sviluppo tipico, se non attraverso l’uso di strumenti compensativi. Riguardo alla prevenzione è essenziale saper stabilire dove comincia il disturbo o dove comincia la difficoltà, differenziazione che non è sempre così facile da verificare per un insegnante. La più evidente caratteristica che differenzia un disturbo da un ritardo o una difficoltà è la resistenza al cambiamento. In caso di DSA, essendo il disturbo determinato da caratteristiche neurobiologiche, resiste alle sole strategie didattiche, perché richiede un trattamento specifico di tipo clinico. Per cui, se nonostante i numerosi tentativi fatti da un insegnante il bambino continua a fare gli stessi errori, allora è bene per un insegnante richiedere un approfondimento specialistico che chiarisca la natura delle difficoltà. Una difficoltà o un ritardo di apprendimento, invece, possono comparire in qualsiasi fase della maturazione di abilità scolastiche, e non solo rallentando una fase di avanzamento ma anche facendo regredire l’alunno in fasi d’apprendimento precedenti, questo anche dopo un avvio regolare. In genere, queste difficoltà, con buone strategie didattiche e con il superamento delle ragioni che hanno potuto provocarne il ritardo o la regressione, tendono a risolversi. Stando a quanto detto sopra, possiamo intuire quali obiettivi debbano perseguire i progetti di prevenzione nelle prime classi della scuola primaria: • Monitorare il processo di apprendimento della lettura e scrittura di tutti gli scolari nelle prime fasi di apprendimento. • Organizzare attività di supporto all’apprendimento di abilità legate alla fase alfabetica. • Fornire ai docenti conoscenze sui processi di apprendimento e strumenti per il recupero delle difficoltà che potranno essere rivolti all’intera classe. Il raggiungimento di questi obiettivi prevede una collaborazione tra scuola e figure cliniche di supporto, psicologi e logopedisti, e l’utilizzo di semplici prove di valutazione, rapide da somministra-

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re e poco costose, in termini sia di strumentazione che di impiego di risorse specialistiche. In genere, vista la semplicità d’uso di queste prove e allo stesso tempo i grandi vantaggi sul controllo dello sviluppo di abilità degli alunni, le singole scuole sono spinte a strutturare interventi periodici di screening dell’apprendimento (vedi Box 3.3). Un momento cruciale di un intervento di screening è rappresentato dalla restituzione dei risultati delle prove da parte degli specialisti che hanno condotto la valutazione agli insegnanti, restituzione che favorisca un’analisi critica e partecipata del corpo docente. È questo il momento più importante nel quale è richiesta una partecipazione, una ricezione e un’analisi attiva della quantità e qualità delle criticità individuate dallo screening. Sarà possibile, in questo modo, avere molti più elementi per scegliere il metodo più idoneo all’avvio dell’apprendimento della letto-scrittura (vedi Box 3.4). È auspicabile che, per gli studenti che presentino maggiori difficoltà, in accordo con la famiglia venga richiesto l’intervento del personale di supporto specialistico, come psicologi o logopedisti. In questo modo l’alunno, monitorato nel suo percorso di apprendimento, potrà essere accompagnato fino alla soglia di un eventuale inquadramento diagnostico. Insegnare la matematica: dalle competenze logico-matematiche al calcolo Come l’acquisizione del linguaggio precede l’apprendimento della letto-scrittura, così anche alcune competenze logico-matematiche si sviluppano nel bambino molto prima e indipendentemente dal processo di alfabetizzazione. In questa sezione, vogliamo offrire delle indicazioni agli insegnanti della scuola primaria affinché, prima di procedere all’apprendimento della simbologia e dei meccanismi automatici del calcolo, competenze che sono e resteranno sempre deficitarie in uno studente con discalculia, verifichino e rinforzino le competenze logico-matematiche e del calcolo mentale, il cui sviluppo è naturale in ogni bambino che non abbia una disabilità intellettiva e che sono intatte anche in bambini con DSA. Come ormai numerose ricerche dimostrano, alcune competenze matematiche di base, come il concetto di numero, sono presenti

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BOX 3.3

Screening

Lo screening è una procedura che nasce nella pratica medica allo scopo di individuare in soggetti sani delle difficoltà (o deficit) che potrebbero comprometterne la salute. Negli ultimi anni, grazie a un’enorme sensibilizzazione e alla costante formazione degli insegnanti, anche il sistema scolastico ha introdotto nel primo biennio della scuola primaria uno strumento che aiuta l’individuazione precoce (screening) di bambini che presentano una difficoltà di apprendimento. Questo screening prevede la somministrazione di prove per l’identificazione di eventuali difficoltà di lettura e scrittura, sondando le abilità degli scolari proprio in quell’arco di tempo che va dal momento in cui comincia l’apprendimento della letto-scrittura, cioè agli inizi della carriera scolastica, fino al momento in cui tali abilità dovrebbero essere state consolidate, cioè intorno alla terza classe primaria. In questo arco di tempo, si riscontra una notevole differenza tra bambino e bambino. Spesso accade che, mentre alcuni scolari riescono ad apprendere le abilità della fase alfabetica già in prima elementare, altri, invece, hanno bisogno di più tempo, completando tale acquisizione solo in terza elementare. Tempi diversi nell’apprendimento scolastico, soprattutto nei primi anni della scuola primaria, non devono stupire e l’utilizzo di queste prove di apprendimento non ci svela nulla di nuovo a tale riguardo. Il loro scopo, invece, è quello di aiutare gli insegnanti a impostare una didattica individualizzata, che sappia tener conto dei tempi e delle diverse abilità di ciascuno. I bambini che vanno male alle prove di screening vengono generalmente divisi tra quelli che le falliscono solo perché al momento della prova potevano essere distratti o demotivati, ma che non hanno nessuna difficoltà rispetto all’abilità indagata, cioè quelli classificati come falsi positivi, e quelli invece che hanno realmente una difficoltà, cioè quelli che risultano positivi allo screening. Tra questi, cioè tra i positivi, vi sono poi alcuni con solo un ritardo rispetto ai tempi del normale apprendimento di un’abilità, che con il tempo sarà recuperata perfettamente, e coloro con un disturbo d’apprendimento che si sta strutturando già come un DSA, i quali richiederanno un intervento mirato e specifico durante il loro percorso scolastico che faciliti l’apprendimento, migliori il benessere e garantisca il successo scolastico. (continua)

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BOX 3.3

Screening

(continua)

Avere a disposizione per le prime classi della scuola primaria (prima, seconda e terza elementare) uno strumento di indagine che, accanto a una prestazione generale in lettura e scrittura, verifichi anche il possesso di specifiche competenze caratteristiche della fase alfabetica (vedi Box 3.4), consente di approfondire il percorso compiuto dal bambino, verificandone intoppi in una o più fasi di apprendimento del processo in esame e individuando le competenze verso le quali è eventualmente opportuno prevedere un intervento di recupero.

anche negli animali. Per potersi evolvere, molte specie animali hanno dovuto apprendere a discriminare, tra diverse quantità di cibo, quale fosse maggiore o minore, o a decidere, dal numero di minacciosi predatori, quale strategia di difesa adottare tra la fuga e l’attacco. Ecco perché non ci stupisce se diversi studi sperimentali ci dimostrano che le galline discriminano quantità di cibo e i piccioni contano. Anche un cucciolo umano, come ogni altro animale evoluto, possiede competenze matematiche innate, da cui svilupperà quelle abilità successive legate all’apprendimento dei contenuti culturali di logica e calcolo matematico. Ben prima del loro ingresso alla scuola primaria, quindi, e indipendentemente dal coinvolgimento degli adulti in atti d’insegnamento formale, i bambini mostrano spontaneamente un livello di competenza sui numeri e sul calcolo superiore a quello che ci si potrebbe ingenuamente immaginare e a quanto era stato ipotizzato dagli studi di Piaget.3 3 Secondo

Piaget, il concetto di numero (valore cardinale e ordinale) sarebbe conquistato non prima dei cinque/sei anni, cioè solo dopo lo sviluppo di quelle capacità tipiche del pensiero operatorio (ragionamento transitivo, conservazione della quantità, astrazione dalle proprietà percettive) che sono alla base del ragionamento matematico. Oggi la ricerca ha dimostrato, invece, che in realtà un bimbo di pochi mesi di vita è già capace di discriminare le quantità e di categorizzare il mondo che percepisce in termini di numerosità. Un bambino nasce con la capacità di formarsi una rappresentazione della numerosità d’un insieme di oggetti ed è anche in grado di memorizzarla e di richiamarla alla memoria.

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BOX 3.4

Dal gesto alla scrittura: il modello di Ferreiro e Teberosky

Generalmente i bambini già prima di entrare nella scuola primaria si sono fatti una propria idea sul funzionamento della scrittura, cioè del codice scritto. È molto interessante a questo proposito poter disporre di uno strumento che ci aiuti a comprendere proprio l’idea che i bambini hanno del codice scritto quando iniziano la scuola. Il modello di Emilia Ferreiro e Ana Teberosky1 ci offre proprio questa possibilità. Gli autori classificano le conoscenze più o meno spontanee dei bambini nel seguente modo: I Livello preconvenzionale. Ancor prima di avere accesso alla conoscenza delle regole che sottostanno alla decodifica alfabetica, i bambini si interrogano e cominciano a intuire che esiste un linguaggio scritto che rappresenta quello parlato (orale). Esposti a immagini e scritte inserite su numerosissimi oggetti nel loro ambiente di vita quotidiana (bottiglie di latte, succhi di frutta o scatole di giocattoli con il nome del loro eroe preferito che i genitori leggono continuamente al loro posto) intuiscono il legame tra scritto e parlato. La cosa più complessa che un bambino deve comprendere in questa fase è che non esiste più nessun rapporto analogico tra la forma scritta di una parola e ciò che rappresenta. In altre parole: posso rappresentare con una scritta piccola anche un oggetto molto grande e viceversa (orso vs. coccinella). Errori tipo quelli riportati nella Figura 3.3 forniscono preziose informazioni sull’idea che un bambino di 4 anni d’età si fa delle parole scritte che ci offrono spunti per aiutarlo a maturare.

Figura 3.3 Le due scritte corrispondenti rispettivamente a “casa” e “casina” sono di un bambino di 4 anni che, ancora vincolato al rapporto analogico tra significato e aspetto grafico della parola, le scrive identiche nel segno, ma differenti in grandezza.

1 Emilia Ferreiro

e Ana Teberosky, La costruzione della lingua scritta nel bambino, Firenze, Giunti-Barbera, 1985. (continua)

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BOX 3.4

Dal gesto alla scrittura: il modello di Ferreiro e Teberosky

(continua)

II Livello preconvenzionale con tentativi di analisi. Per risolvere il problema del rapporto analogico tra segni e significati delle parole, il bambino si chiede: “Quanti ne servono? Come sono fatti? In che direzione vanno disposti?” Queste domande ci svelano che un bambino in questa fase già è in grado di riconoscere cosa sia leggibile da cosa non lo è:

⍰⍰⍰⍰⍰⍰ vs.

III Livello convenzionale. Il bambino ha capito che la scrittura rappresenta la lingua orale e si avvicina per gradi a una sempre maggior correttezza, attraverso tre successive fasi: • Fase sillabica: per il bambino è corretto il criterio di scrivere un segno per ogni sillaba. Il bambino mette in corrispondenza biunivoca e ordinata le sillabe componenti la parola con i segni componenti l’intera scritta.

• Fase sillabica alfabetica: il bambino, pur non abbandonando completamente l’ipotesi sillabica, affianca a questa l’ipotesi alfabetica, così alcuni segni rappresentano la sillaba e altri i fonemi della parola:

• Fase alfabetica: il bambino scrive rappresentando con ogni segno i fonemi della parola :

Già una semplice prova di scrittura spontanea da somministrare ai bambini nei primi giorni della I classe primaria – per esempio, chiedendo agli scolari di scrivere ORSO e poi COCCINELLA – può fornire all’insegnante preziose indicazioni sull’idea che il gruppo classe ha della scrittura e guidarlo a programmare il metodo didattico più opportuno.

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Il lavoro dell’insegnante dovrà, quindi, cercare di far leva su quelle competenze già presenti in media nei bambini all’ingresso della scuola primaria, in modo da rafforzarle, così da strutturare le basi degli apprendimenti successivi. Ad esempio, all’ingresso della scuola primaria, sarebbe molto utile per un insegnante verificare la presenza negli scolari di quei concetti fondamentali per lo sviluppo delle competenze matematiche e, qualora alcuni alunni manifestassero delle difficoltà, pianificare delle attività di recupero e di rinforzo su aspetti come: • la seriazione, ossia l’ordinare oggetti di numerosità variabile dal più grande al più piccolo e viceversa; questa si sviluppa nel bambino attraverso esperienze quotidiane e, per successivi processi di generalizzazione e astrazione, diventa uno dei concetti basilari nel rapporto con la realtà; • il confronto tra quantità, che permette allo scolaro, attraverso le relazioni sono di più, sono di meno, sono tanti uguali, di individuare famiglie di gruppi che hanno in comune la stessa numerosità; • la classificazione, ossia l’organizzazione di gruppi di oggetti sulla base di un elemento comune (colore, forma, dimensione, ecc.), che permette di sviluppare la capacità di cogliere uguaglianze e differenze di oggetti in contesti diversi, riconoscerli in base a criteri dati, verificare l’appartenenza di un nuovo oggetto al gruppo campione o la sua differenza (intrusione). Dopo che l’insegnante avrà accertato che gli studenti possiedono queste competenze di base, dovrà assecondare la priorità del calcolo mentale – che è una capacità umana innata e non dipendente dal contesto culturale di apprendimento – sul calcolo scritto, analogamente a quella del linguaggio orale su quello scritto. Tra gli iniziali obiettivi didattici delle competenze matematiche andrebbero esclusi quelli relativi alle questioni che riguardano la scrittura dei numeri che, invece, sono soliti assorbire l’attività didattica. I bambini di oggi imparano a contare come i bambini di ieri senza dover consultare necessariamente i numeri scritti: il calcolo mentale è

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indipendente dall’alfabetizzazione e costituisce il ponte di collegamento tra l’innata capacità dei bambini dimostrata nei giudizi di numerosità (riconoscere quale gruppo tra due è costituito dal maggior numero di elementi) e le competenze specifiche dell’apprendimento scolastico che variano a seconda della cultura nella quale il bambino è immerso. Nei bambini con sviluppo tipico, l’acquisizione del conteggio avviene tra i due e i quattro anni e le capacità necessarie per utilizzare il conteggio in relazione alle richieste esterne all’incirca intorno ai sei anni. Pertanto, nel primo semestre della prima elementare, quando è consigliato insistere sul conteggio si deve: • evitare l’uso di numeri scritti; • utilizzare immagini che veicolino le quantità; • favorire l’esperienza visiva e la manipolazione. Per contare senza numeri è fondamentale l’ordine: il bambino identifica il numero degli oggetti dalla posizione in cui si trovano, sfruttando, nella grande maggioranza dei casi, le dita delle mani. Spendere il periodo iniziale sul concetto di numerosità e successivamente sul calcolo mentale aiuta l’insegnante a rafforzare il primo livello dei numeri, ovvero la semantica: riconoscere che un numero è più grande di un altro, accompagnando l’introduzione del codice arabico con oggetti, come per esempio dei pallini, che ne esplicitino il valore semantico. Una volta dominata la regola semantica, occorrerà confrontarsi con il secondo livello, quello lessicale: riconoscere e utilizzare le adeguate etichette lessicali, come per esempio che al codice arabico 21 corrisponde l’etichetta lessicale ventuno. L’ultimo livello da introdurre è quello sintattico, cioè il valore assunto dai rispettivi numeri all’interno del codice arabico: ad esempio, all’interno del numero 21, l’uno rappresenta l’unità e il due la decina. La sintassi del numero riguarda quindi la relazione fra le diverse cifre che compongono il numero. Tale sintassi è mediata dal valore posizionale delle cifre. In questo percorso, infine, per cercare di costruire le corrette rappresentazioni della matematica, che più in là sosterranno gli

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automatismi del calcolo, saranno sempre molto utili i riferimenti a materiali concreti, visibili e tangibili come le linee dei numeri, la visualizzazione degli insiemi, l’abaco e la tavola pitagorica. Qualcuno di questi strumenti è a volte utilizzato anche come uno strumento compensativo con studenti con DSA. Tuttavia, essi restano strumenti didattici efficaci per tutti. La tavola pitagorica, ad esempio, permette di visualizzare facilmente il risultato di tutte le tabelline e di affrontare operazioni complicate come la moltiplicazione in colonna a più cifre: tutti gli scolari, indipendentemente se portatori o meno di un DSA, si avvarranno dei vantaggi di questo strumento che, alleggerendo dal carico cognitivo dei meccanismi del calcolo, avranno maggiori risorse attentive per il raggiungimento dell’obiettivo finale, si sentiranno più efficaci e quindi motivati. In questo modo, l’insegnante avrà favorito l’apprendimento di qualunque regola attraverso strategie inclusive. In questa sezione abbiamo voluto dare delle indicazioni basilari per l’apprendimento del calcolo matematico che facessero leva sulle competenze logico-matematiche universali e innate di ogni alunno. Una strategia didattica che proceda prima attraverso la verifica e il rinforzo di quelle competenze pre-scolastiche, che si riferiscono alle competenze logico-matematiche e al calcolo mentale, e solo poi al successivo apprendimento della simbologia legata al calcolo e al problem solving, eviterà che studenti con potenziali disturbi discalculici vengano, fin dall’inizio delle attività scolastiche, bloccati nell’apprendimento. Inoltre, questa strategia di didattica inclusiva aiuterà anche a riconoscere se un problema di apprendimento di uno studente è legato a deficit di natura intellettiva, e quindi che tocca le competenze universali logico-matematiche e del calcolo mentale, oppure riguarda esclusivamente competenze specifiche dell’alfabetizzazione della matematica, come in caso di discalculia. Una didattica inclusiva Mentre nelle sezioni precedenti ci siamo concentrati sull’insegnamento di scrittura, lettura e calcolo, in questa terza sezione del paragrafo vogliamo ampliare il discorso affrontando i principi più generali di una didattica inclusiva. Strategie inclusive d’insegna-

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mento segnano il primo passo per l’adozione di soluzioni didattiche individualizzate, centrate sui bisogni di un singolo studente. Adottando una didattica inclusiva, l’insegnante avrà ridotto al minimo la possibilità di esclusione di alcuni alunni con caratteristiche di apprendimento diverse dal gruppo di maggioranza, rendendosi permeabile alle sollecitazioni di bisogni speciali di alcuni suoi alunni che, non sentendosi degli emarginati nella propria classe, con maggior fiducia saranno in grado di esprimere i propri bisogni e manifestare i propri talenti. Questo comportamento renderà più semplice per un insegnante, qualora fosse necessario, intervenire con strategie didattiche individualizzate. Sebbene non esistano evidenze scientifiche definitive che dimostrino l’efficacia di alcune strategie didattiche rispetto ad altre da adottare con studenti DSA, tuttavia, è possibile stabilire quali di esse attualmente siano più inclusive di altre sulla base di criteri di un’istruzione efficace per tutti e che, quindi, non ostacoli l’apprendimento di alunni con DSA. Antonio Calvani, in Principi dell’istruzione e strategie per insegnare4, individua dieci linee guida per un insegnamento efficace: 1. incrementare il senso di autoefficacia dell’allievo; 2. focalizzare l’attenzione dell’allievo sugli aspetti rilevanti, eli-

minando qualsiasi informazione superflua estranea al compito e focalizzando l’attenzione sugli stimoli effettivamente utili; 3. attivare le preconoscenze dell’allievo e collegarsi costantemen-

te agli argomenti già trattati; 4. fornire preliminari visioni d’insieme prima di entrare nei

dettagli; 5. controllare con cura strumenti e codici comunicativi

impiegati; 6. aiutare gli allievi a sviluppare l’immaginazione mentale e il

pensiero ad alta voce; 4 Antonio

Calvani, Principi dell’istruzione e strategie per insegnare: criteri per una didattica efficace, Roma, Carocci, 2011.

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7. fornire un progressivo spostamento dal cosa apprendere al

come apprendere; 8. ridurre i compiti complessi attuando procedure di semplifica-

zione, suddivisione del compito in fasi e anticipazione di concetti chiave; 9. favorire l’apprendimento attraverso dimostrazioni pratiche e

con esempi chiari, guidando gradualmente lo studente ad affrontare compiti sempre più complessi; 10. favorire la rielaborazione interiore delle conoscenze, ripropo-

nendola, in seguito, anche in rapporto a nuove conoscenze acquisite nel frattempo. Nella pratica didattica quotidiana questi principi possono essere tradotti in azioni formative finalizzate al raggiungimento di quegli obiettivi che ogni attività didattica è chiamata a enunciare e perseguire. Proviamo ora a ripercorrere le dieci linee guida proposte da Calvani, fornendo esempi pratici di didattica per la classe, validi per ogni ordine e grado di scuola. C’è una scena tratta dal film animato Kung Fu Panda5 che mostra molto bene che cosa significhi il senso di autoefficacia e motivazione. Po è un panda che sogna di praticare il Kung Fu. I primi tentativi di acquisizione delle tecniche di lotta, durante gli allenamenti con il grande maestro Shifu, falliscono miseramente, tanto da scoraggiare lo stesso maestro. Finché un giorno, il maestro Shifu, guardando di nascosto da dietro la porta della cucina, si accorge che Po riesce a fare cose sbalorditive come la spaccata perfetta eseguita a 3 metri da terra. Il maestro, allora, fa notare a Po il suo operato e il panda risponde “Questo è solo un caso!”. L’episodio ci fa riflettere sull’importanza che riveste il senso di autoefficacia, ossia credere nelle proprie capacità per il raggiungimento di un obiettivo. Spesso alcuni alunni, con un basso senso di autoefficacia, che spesso si associa anche a una bassa stima di sé, 5 Mark

Osborne e John Stevenson (registi), Kung Fu Panda, M. Cobb & DreamWorks Animation (produttori), USA, Universal Pictures, 2008. Vedi: //it.wikipedia.org/w/ index.php?title=Kung_Fu_Panda&oldid=58694146.

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tendono ad attribuire i loro successi o insuccessi nel raggiungimento di un obiettivo a fattori esterni come il caso o la fortuna. Affidarsi alla fortuna per ottenere risultati positivi è però alquanto controproducente, perché va a innescare un tipo di atteggiamento che esclude ogni forma di impegno da parte dello studente, portandolo ad attribuire gli esiti di un’azione a cause esterne, fuori del controllo personale. Uno studente con bassa autoefficacia, non riconoscendosi una propria facoltà di fare accadere le cose, tende a sottovalutare le abilità personali, il proprio impegno, l’aiuto ricevuto, la complessità del compito. Un alunno dislessico di prima elementare, che si confronti con la facilità con cui la maggior parte dei suoi compagni apprende le regole base degli automatismi della letto-scrittura, non avendo gli elementi per poter ricondurre a un meccanismo neurobiologico le ragioni dei suoi fallimenti scolastici tenderà a maturare un basso senso di autoefficacia nella proprie capacità di letto-scrittura, attribuendone la causa a fattori esterni, gli unici immaginabili per la sua esperienza di sé e del mondo. Questo lo renderà più vulnerabile rispetto alla possibilità di sentirsi impotente e sfiduciato, in balia di eventi fuori della sua portata. Sebbene il senso di autoefficacia non coincida con l’autostima, tuttavia, questa si alimenta spesso della prima per costruire un’immagine positiva o negativa del proprio sé. In studenti con DSA, i ripetuti insuccessi su compiti centrali dell’attività scolastica dei primi anni di studio potranno, purtroppo, alimentare una bassa autoefficacia per certe attività scolastiche ma, col tempo, andranno a minare l’autostima, innescando dinamiche difensive distorcenti e manipolative. La stima di sé è, infatti, un fattore interno che va alimentato con la sperimentazione di successi personali e rinforzi positivi, gratificanti. Gli alunni vanno motivati e gratificati in ogni momento, così da accrescere la loro autostima attraverso la consapevolezza di un buon senso di autoefficacia nell’esecuzione delle attività scolastiche. Nel caso di bambini con DSA il problema si fa complesso, proprio perché la consapevolezza di un’incapacità a svolgere quei compiti di letto-scrittura e calcolo alla pari con gli altri compagni di classe è reale e in qualche modo ineludibile. Sarebbe, infatti, errato fargli credere che un giorno guariranno e che tutto si risolve-

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rà. Non è nella rimozione psicologica del disturbo che risolviamo il problema. Inoltre, il bambino coglie con chiarezza che le difficoltà incontrate nell’apprendimento non dipendono dai suoi sforzi e dalla sua attenzione. Se dovrà misurarsi sempre con lo stesso compito che per le sue caratteristiche neurobiologiche è impraticabile, non avrà scampo. In questo caso, spostare al di fuori di sé il controllo di certe azioni può risultare vantaggioso dati gli insuccessi nell’esecuzione di specifici compiti scolastici. Come abbiamo già visto nel capitolo precedente con la storia di Simone, è chiaro perché un bambino quando riceve una diagnosi di DSA può sentirsi sollevato: perché è giustificato nel suo insuccesso e può imparare a distinguere che un limite funzionale non coincide con il valore della propria persona. D’altra parte un insegnante non potrà attendere inerme il momento della diagnosi per favorire quella serie di successi scolastici e gratificazioni che servono a un alunno a costruire la stima di sé e ad accrescere la motivazione allo studio. Per questo dovrà adottare strategie didattiche che non insistano sulle attività che mortificano, ma su quelle che promuovono l’apprendimento. Nella sezione precedente è già stato analizzato quali metodi più di altri favoriscono l’apprendimento della letto-scrittura in maniera inclusiva anche di alunni con disturbi del linguaggio o DSA. Un altro modo per promuovere un apprendimento inclusivo è quello di modulare il grado di complessità del compito. Se il compito proposto va oltre le potenzialità dell’alunno, oppure l’azione didattica non è ben calibrata sulle reali competenze individuali, il rischio è che lo studente, percependo un forte senso d’impotenza, distolga l’attenzione da ciò che non è in grado di fare autonomamente, perché al di fuori della sua area prossimale di sviluppo. Per questo motivo è importante che l’insegnante predisponga attività e compiti sia alla portata di tutti, seguendo per esempio i criteri delle dieci linee guida di Calvani, sia misurati su ogni singolo alunno: una didattica destinata a tutti gli alunni senza aver verificato che sia realmente per ciascuno di essi rischia di non funzionare per nessuno. Ma cosa deve fare un insegnante per capire quello che può andar bene a ciascun alunno?

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Nel caso di un alunno con diagnosi di DSA, sono il consiglio di classe, gli specialisti che hanno redatto la diagnosi, la famiglia dell’alunno e l’alunno stesso a fornire uno spazio di confronto fondamentale per l’insegnante da cui attingere per la pianificazione e creazione delle attività didattiche personalizzate. Nel caso di studenti con bisogni speciali, un insegnante deve potersi sentire parte integrante di un lavoro di équipe. Anzi, egli stesso deve farsi promotore di una rete tra i diversi attori delle agenzie educative e riabilitative che guidano la crescita dell’alunno, non solo per arrivare a possedere tutte quelle informazioni necessarie a costruire un piano educativo realmente centrato sui bisogni dello studente, ma anche per sentirsi sostenuto da una rete di supporto che riduca i rischi di burnout. Una volta ricevute dagli specialisti le caratteristiche di apprendimento del ragazzo con DSA e raccolte le informazioni dalla famiglia sulle strategie utilizzate per lo studio a casa, ai docenti non resta che delineare un profilo di come lo studente apprende in classe. La predisposizione di una didattica personalizzata per il raggiungimento di un successo formativo dell’alunno con DSA resta un compito precipuo dell’insegnante ed è raccomandata dalla stessa Legge 170/2010 e dal Ministero per l’istruzione nelle Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con DSA: Ai DSA si accompagnano stili di apprendimento e altre caratteristiche cognitive specifiche, che è importante riconoscere per la predisposizione di una didattica personalizzata efficace. Ciò assegna alla capacità di osservazione degli insegnanti un ruolo fondamentale, non solo nei primi segmenti dell’istruzione – scuola dell’infanzia e scuola primaria – per il riconoscimento di un potenziale disturbo specifico dell’apprendimento, ma anche in tutto il percorso scolastico, per individuare quelle caratteristiche cognitive su cui puntare per il raggiungimento del successo formativo.6 6 Ministero

dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca (MIUR), Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento, Roma, MIUR, Dipartimento per l’Istruzione, p. 5, 2011, disponibile online: http:// hubmiur.pubblica.istruzione.it.

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L’osservazione diventa quindi lo strumento principe nell’attività dell’insegnante che, non essendo un clinico, non osserva per fare una diagnosi – che verrà infatti redatta e fornita alla scuola tramite dettagliata relazione scritta dai clinici specialisti – ma per vedere nell’alunno in difficoltà le potenzialità da far emergere. Tornando al film Kung Fu Panda, il maestro Shifu quando guarda Po in cucina vede una spaccata perfetta, non le mensole spezzate e gli armadi rotti. E solo osservandolo capisce che, se attratto dal cibo, riesce a conseguire risultati altrimenti inaspettati. È così che Shifu può dare inizio alla sua didattica individualizzata fatta di gratificazione attraverso il rinforzo del cibo. L’osservazione diretta e partecipe dell’insegnante permette di conoscere lo studente in maniera approfondita e da un punto di vista assolutamente privilegiato, ossia nel contesto scolastico, diversamente da come in genere è condotta una diagnosi clinica. Da questa posizione di eccellenza rispetto a ogni altro valutatore esperto, l’insegnante, seguendo ed elaborando le informazioni provenienti da una relazione diagnostica, è in grado di sviluppare una didattica individualizzata centrata sulle caratteristiche personali dell’apprendimento nello specifico contesto scolastico in cui è inserito lo studente con DSA. Più ampio sarà il background culturale, teorico ed esperienziale che l’insegnante avrà costruito negli anni, non solo attraverso il lavoro sul campo, ma anche attraverso il suo costante aggiornamento, più diventerà efficace ed efficiente il suo lavoro di osservazione. Il lavoro di osservazione, insieme alla lettura attenta degli elementi diagnostici e funzionali provenienti dalle valutazioni cliniche dell’alunno, favorirà la creazione di un progetto didattico specifico, modellato sulle caratteristiche individuali dell’alunno con DSA. Cosa e come osservare? L’osservazione è un processo di attenzione e comprensione del comportamento di un alunno complesso e richiede che l’osservatore, nel nostro caso un insegnante, sia trasparente alle informazioni che gli provengono dal comportamento motorio, cognitivo, affettivo e sociale dell’osservato e, allo stesso tempo, dal contesto in cui l’osservazione è svolta, nel nostro caso una classe, intesa non solo

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come il gruppo dei compagni e degli insegnanti, ma anche come l’insieme degli elementi architetturali, di arredo e così via. In genere, noi tendiamo a vedere ciò che in qualche modo già conosciamo o ci attendiamo di vedere. I contenuti a noi del tutto estranei, in genere, restano assolutamente trascurati dal nostro sistema percettivo. Per questo parliamo di trasparenza alle informazioni. Lo sforzo dell’osservatore è di raccogliere tutte le informazioni e non solo quelle che ci si aspetta di vedere, proiettando sulla scena aspettative, credenze e pregiudizi che ci appartengono. Se un osservatore (non trasparente) è convinto che l’alunno in osservazione sia poco intelligente, perché, ad esempio, non riesce ad apprendere la tabellina del sei quando già tutti i suoi compagni hanno completato la tavola pitagorica, tenderà a sopravvalutare tutti quei comportamenti dell’alunno che mettono in luce i suoi errori, le sue difficoltà di comprensione e la sua distrazione piuttosto che quegli elementi di eccellenza del comportamento dell’alunno. Ecco perché la trasparenza o neutralità di giudizio di un osservatore dipende molto dal lavoro fatto su di sé, dalla capacità di non rimuovere i propri pregiudizi, ma nel saperli riconoscere e nel non lasciarli interferire con il lavoro professionale dell’osservazione. E ora proseguiamo con qualche esempio di osservazione e programmazione. Se un insegnante osserva in uno scolaro di prima elementare un tratto grafico incerto e contratto, potrebbe impostare un percorso volto al potenziamento di questa abilità. Gli obiettivi dovranno essere molto ben definiti perché sia poi possibile monitorare i progressi attesi. Per questo si consiglia di scomporre un macro obiettivo, nel nostro caso il perfezionamento del tratto grafico, in micro obiettivi come segue: • impugnare in maniera corretta la matita o la penna; • scrivere compiendo un movimento corretto con la mano; • apprendere quale direzione imprimere al gesto; • padroneggiare i prerequisiti grafo-motori del corsivo;

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• adeguare le dimensioni delle lettere rispetto allo spazio del foglio o del supporto di scrittura (cartellone o lavagna); • disegnare le lettere partendo dall’alto. Consigliamo all’insegnante di documentare il lavoro didattico che sta svolgendo con un alunno con DSA e questo essenzialmente per due motivi. Il primo è che questo tipo di lavoro è bene che sia condiviso con tutti coloro che sono coinvolti, ciascuno secondo il proprio ruolo, nel processo di apprendimento dell’alunno: i genitori, coloro che offrono un supporto nella gestione dei compiti a casa se diversi dai genitori, gli specialisti che hanno in carico il bambino (qualora la famiglia abbia già provveduto a iniziare con il figlio un percorso educativo/riabilitativo in un centro specializzato) e il consiglio di classe. Se tutti, oltre all’insegnante, convergono in attività coerenti, si otterranno progressi più rapidi e duraturi nell’apprendimento dell’alunno. Un secondo motivo è legato al passaggio di scuola. Mettiamo che l’alunno con cui si è lavorato nella scuola primaria non abbia raggiunto tutti gli obiettivi previsti, allora è fondamentale che i nuovi docenti della scuola secondaria conoscano il percorso svolto e che siano a conoscenza del lavoro di potenziamento fatto, dei risultati raggiunti e di quelli falliti. Un fallimento nel tentativo di potenziare un’abilità, magari a causa di una disgrafia severa, non deve essere vissuto dall’insegnante come un insuccesso personale nel proprio lavoro, ma come il punto di svolta per la definizione di nuovi obiettivi, che in questo caso riguarderanno ad esempio l’introduzione di programmi di videoscrittura. L’obiettivo didattico e i metodi adottati non sono necessariamente errati solo per un mancato raggiungimento dei risultati attesi. È allo stesso modo un risultato didattico importante sapere che certi obiettivi scolastici non sono raggiungibili da un alunno. Questo aiuta a capire se il ritardo di apprendimento è dovuto al metodo d’insegnamento, e quindi a fattori transeunti nello sviluppo dell’alunno, o a fattori neurobiologici, indipendenti dalle strategie di apprendimento. La documentazione di rendicontazione delle attività svolte dall’insegnante convergerà poi nel Piano Didattico Personalizzato (vedi Box 3.5) che rappresenta un patto tra la scuola, la famiglia e gli specialisti, nel quale sono indicati:

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• la tipologia di disturbo che viene desunta dalla diagnosi e discussa insieme agli specialisti che hanno effettuato i test diagnostici; • gli elementi desunti dall’osservazione in classe, fondamentali per la definizione degli obiettivi; • le attività didattiche personalizzate che i docenti intendono mettere in atto a partire dagli obiettivi definiti; • gli strumenti compensativi utilizzati a casa e a scuola; • le misure dispensative adottate; • le forme di verifica e valutazione personalizzate in base agli obiettivi didattici prefissati. Il documento, che va redatto e firmato dal consiglio di classe, deve essere condiviso e fatto firmare dai genitori, ma soprattutto deve essere partecipato dallo studente. Oggi è noto a tutta la comunità scientifica che, per ottenere un successo in qualunque intervento di tipo educativo o riabilitativo, sia necessario che l’utente lo conduca, non che lo subisca, sia esso un paziente di un servizio di riabilitazione o uno studente. Non basta utilizzare metodi didattici personalizzati che incontrino i bisogni di uno studente se non si riesce a coinvolgerlo con un’attiva e responsabile partecipazione all’apprendimento. Ovviamente, maggiore è l’età dello studente, maggiori devono essere la sua responsabilizzazione e la sua partecipazione attiva al progetto educativo. Nel nostro Centro FARE, tempo fa si è presentata una ragazza di 17 anni, Marta, che frequentava la quarta superiore di un liceo scientifico. Venne da noi per una consulenza su alcuni strumenti compensativi. Era accompagnata da una logopedista che ci consegnò il suo PDP. Marta era cupa, silenziosa, arrabbiata, mentre un nostro operatore leggeva il documento ad alta voce: “strategie utilizzate…, strumenti utilizzati…, misure compensative adottate…”. Finché lei non sbottò dicendo: “Non è vero niente!” Marta, allora, ci raccontò di non essere stata minimamente informata di quel documento e che nessuno le aveva mai chiesto niente a riguardo. Marta si sentiva ferita per essere stata esclusa nella decisione di

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Piano Didattico Personalizzato

Il Piano Didattico Personalizzato (PDP) è un documento redatto collegialmente dal consiglio di classe unitamente al referente dislessia di istituto e con la collaborazione dello specialista e della famiglia. Il suo scopo è di garantire la continuità didattica e la condivisione delle iniziative intraprese come previsto dalla legge 170/2010. Pertanto, la stesura del PDP per gli alunni con diagnosi di DSA, oltre a essere un atto dovuto perché richiesto dalla normativa vigente, rappresenta, sul piano pratico, un documento vincolante nell’ambito degli esami di stato e di passaggio ad altro ordine di scuola per l’applicazione delle misure compensative e dispensative previste. Il PDP contiene un’analisi della situazione dell’alunno con diagnosi di DSA, tenendo conto delle indicazioni fornite da chi ha redatto la diagnosi, di quelle pervenute dalla famiglia e/o dallo studente e dei risultati del lavoro di osservazione condotto a scuola. Oltre che le specifiche difficoltà dell’allievo, questo documento deve evidenziare anche i suoi punti di forza, in maniera tale da poter delineare gli obiettivi di apprendimento, le metodologie e strategie didattiche individualizzate e personalizzate più idonee alle caratteristiche di apprendimento dello studente e definire le modalità di verifica nonché i criteri di valutazione delle singole discipline e della condotta. Il docente di ogni disciplina dovrà, infatti, individuare e descrivere, ove necessario, le misure dispensative, gli strumenti compensativi e le metodologie più adatte ad assicurare l’apprendimento dell’allievo in relazione alle sue specifiche caratteristiche. In nessun caso, però, l’introduzione di strumenti compensativi e dispensativi dovrà ostacolare il potenziamento di quelle abilità di apprendimento che sono ancora in fase di sviluppo e oggetto di un trattamento riabilitativo. L’obiettivo è favorire il raggiungimento del successo formativo dello studente e soprattutto garantirgli un percorso scolastico sereno ed efficace. Quando poi l’età dello studente lo consentirà, andrà tenuto in considerazione anche il suo punto di vista per la costruzione di un progetto condiviso. Nel caso di bambini che frequentano la scuola primaria, il PDP terrà conto soprattutto degli obiettivi mirati e specifici per la sua fascia d’età indicati nella diagnosi. L’introduzione di strumenti compensativi e dispensativi è subordinata quindi agli obiettivi che si pongono il percorso di riabilitazione e il potenziamento delle abilità di apprendimento che è ancora perseguibile. (continua)

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Piano Didattico Personalizzato

(continua)

Affinché i docenti possano procedere alla definizione del PDP, la famiglia deve consegnare la diagnosi alla Scuola. La diagnosi, sebbene sia tutelata dalla privacy, deve essere conosciuta da tutto il consiglio di classe che è tenuto alla riservatezza. Il responsabile dell’acquisizione della diagnosi e dei successivi interventi è comunque il Dirigente scolastico. Una volta consegnata la diagnosi alla segreteria della scuola e protocollata, il team di docenti del consiglio di classe provvede a stilare il PDP entro i primi tre mesi dall’inizio dell’anno scolastico per gli studenti già segnalati, oppure nel corso dell’anno qualora la famiglia in possesso di segnalazione specialistica ne faccia richiesta. Bibliografia MIUR, Linee guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento, allegate al DM 12 luglio 2011, paragrafi: 3.1; 6.5; 6.6, 2011. PARCC, Raccomandazioni cliniche sui DSA. Risposte a quesiti. Documento d’intesa, Bologna, P.A.R.C.C. (www.lineeguidadsa.it), pp. 20-21, 2011.

interventi che la riguardavano in prima persona e su cui lei avrebbe saputo dare indicazioni utilissime sulle strategie che usava e quelle che avrebbe potuto utilizzare. Gli studenti dovrebbero essere i primi soggetti coinvolti nella redazione di un PDP: non ci è chiesto esclusivamente di parlare di loro, ma anche di parlare con loro.

Quali tecnologie compensative, dispensative e integrative possono essere adottate La Legge 170/2010 richiama le istituzioni scolastiche all’obbligo di garantire l’introduzione di strumenti compensativi, compresi i mezzi di apprendimento alternativi e le tecnologie informatiche, nonché misure dispensative da alcune prestazioni non essenziali ai fini della qualità dei concetti da apprendere.

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Ma cosa sono gli strumenti compensativi? Gli strumenti compensativi sono strumenti didattici e tecnologici che sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta nell’abilità deficitaria. Molti credono ancora che permettere a uno studente di usare uno strumento compensativo significhi rinunciare per sempre alla possibilità di recuperare le abilità carenti e fornirgli un pretesto valido per non fare qualcosa. In realtà, l’introduzione dello strumento compensativo solleva l’alunno con DSA da una prestazione resa difficoltosa dal disturbo. La sintesi vocale (vedi Capitolo 6), per esempio, supporta uno studente dislessico nel difficile compito della lettura strumentale (riconoscimento di fonemi, sillabe, parole, ecc.), senza per questo facilitargli quello della comprensione del testo che resta comunque a suo carico. C’è poi da sottolineare che l’utilizzo di tali tecnologie assistive non è immediato e automatico. Anche per scolari con DSA, nativi digitali, l’uso di tali strumenti compensativi richiede sempre un certo periodo di addestramento. L’inserimento di tali strumenti nel processo di apprendimento deve essere graduale, parte integrante di un percorso che accompagni l’allievo a scoprire l’efficacia che l’impiego dello strumento può apportare al suo metodo di studio. Il ragazzo deve essere perciò accompagnato in questo processo di costruzione di un metodo di studio che integri nelle strategie di apprendimento utilizzate l’impiego di strumenti compensativi. Non tracciare un percorso di questo tipo sarebbe come dare a una persona inesperta il progetto di una casa e tutti gli attrezzi per l’edilizia dicendo: “Ora che hai in mano tutto ciò di cui hai bisogno, sei in grado di costruire una casa.” Sappiamo bene che non è così. Fintanto che lo studente stesso non sperimenterà l’efficacia dell’utilizzo di queste tecnologie assistive, gli riuscirà difficile accettarle e tanto meno utilizzarle in classe. Agli insegnanti, anche sulla base delle indicazioni del referente di istituto, spetta il compito di facilitare e favorire l’uso di questi strumenti compensativi, anche servendosi di ambienti tecnologici di apprendimento in grado di intergrarli. La LIM (vedi Capitolo 6), per esempio, può

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essere di grande aiuto per una didattica multimediale accessibile e integrata, capace di rivolgersi non solo a studenti dislessici ma anche a quelli con disabilità e all’intera classe. Tuttavia, va ribadito che l’uso di una qualunque tecnologia che non comporti anche un rinnovamento metodologico della didattica da parte dell’insegnante, che sappia tener conto delle diverse abilità di ogni studente, resta una cornucopia senza frutti, un’automobile senza benzina, un hardware senza software. Oltre agli strumenti compensativi, possono essere adottate anche misure dispensative che sono, invece, interventi che consentono all’alunno di non svolgere alcune di quelle attività scolastiche che, a causa del disturbo, risultano particolarmente difficoltose e che non migliorano l’apprendimento. Ad esempio, non è utile far leggere a un alunno con dislessia un lungo brano, in quanto tale esercizio non migliorerebbe la sua prestazione nella lettura. La lettura a voce alta è un’attività didattica che nei primi anni della scuola primaria è finalizzata al consolidamento delle abilità di lettura strumentale, che a sua volta trova un suo senso se finalizzata alla comprensione di un testo. Pertanto, sia quando sussiste un disturbo di lettura, sia quando gli obiettivi didattici negli anni successivi ai primi delle elementari si spostano verso la comprensione del testo, insistere sull’apprendimento della lettura ad alta voce perde ogni significato. Per questo motivo, se si dispensa un alunno dislessico dalla lettura a voce alta alla fine della scuola primaria e nella scuola secondaria, non verrà sicuramente privato dell’opportunità di apprendere. Ovviamente, la dispensa va concordata sia con gli specialisti che con la famiglia, non di meno con lo studente interessato. Come abbiamo visto sopra nel racconto di Matteo, ci sono studenti con dislessia che per non essere considerati diversi dai loro compagni non vogliono essere dispensati da nessuna delle attività comuni a tutta la classe. In questo caso, allora, si possono concordare con loro quali brani saranno chiamati a leggere ad alta voce, dandogli del tempo per ripassarsi il brano e preferendo le frasi iniziali del testo. Riguardo a quest’ultimo punto, infatti, le persone con dislessia possono avere difficoltà a orientarsi nella lettura di un testo, perdendo facilmente il segno. Le

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frasi iniziali sono quelle più facili da collocare nello spazio visivo di un lungo paragrafo. Altra misura dispensativa è la concessione di più tempo per lo svolgimento delle prove. Consentire all’alunno con DSA di usufruire di maggior tempo per lo svolgimento di una prova, o di poter svolgere la stessa su un contenuto, comunque disciplinarmente significativo ma ridotto nella lunghezza, non vuol dire certo facilitarlo rispetto agli altri, ma piuttosto metterlo nelle stesse condizioni dei suoi compagni. Proprio perché il DSA comporta per una persona un maggiore sforzo cognitivo/attentivo rispetto a quanti non sono dislessici o discalculici, dare più tempo o ridurre la lunghezza della prova ha il significato di mettere tutti nelle stesse condizioni di partenza. Come per una corsa di 400 metri gli atleti sono posti a diverse distanze l’uno dall’altro rispetto alla linea di partenza per equiparare le differenti misure dell’arco della curva di ciascuna corsia della pista, così più tempo per lo svolgimento di una prova o un compito più breve non avvicinano al traguardo, ma allineano le diverse lunghezze di impegno attentivo di ciascun alunno. Dispensare più tempo non significa mettere un alunno più vicino al traguardo rispetto a un altro, ma equiparare tutti a sopportare lo stesso sforzo cognitivo. Anche in questo caso possiamo trovarci di fronte a studenti con DSA che non intendono avvalersi di tempi supplementari rispetto ai compagni, o che, nonostante abbiano avuto un tempo aggiuntivo, terminano il compito frettolosamente pur di consegnarlo prima degli altri. In questi casi può essere utile consegnare compiti ridotti, la cui esecuzione richiede una durata minore, o compiti integrali ma ripartiti in più prove. Ci sono poi altre misure dispensative che possono essere adottate, quali il dispensare dalla lettura autonoma di brani la cui lunghezza non sia compatibile con il livello di abilità dell’alunno dislessico, quindi da tutte quelle attività dove la lettura è la prestazione valutata, così come un’adeguata riduzione del carico di lavoro. E per quanto riguarda la lingua straniera, in caso di disturbo grave e previa verifica della presenza delle condizioni previste all’Art. 6, comma 5 del D.M. 12 luglio 2011, è possibile, in corso

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d’anno, dispensare l’alunno dalla valutazione nelle prove scritte e, in sede di Esame di Stato, prevedere una prova orale sostitutiva di quella scritta i cui contenuti e le cui modalità siano stati stabiliti dalla commissione d’esame sulla base della documentazione fornita dai consigli di classe. Richiamiamo a un uso prudente e oculato delle misure dispensative, al fine di non creare percorsi immotivatamente adattati che, solo facilitando le prove e non l’apprendimento, non mirano al successo formativo degli alunni con DSA.

Come leggere una certificazione di DSA I corsi di formazione sulle difficoltà di apprendimento rappresentano per l’insegnante la possibilità di arricchire le proprie competenze in merito all’apprendimento della lettura, della scrittura, delle competenze matematiche e della metodologia d’insegnamento più adatta ai bambini in difficoltà, ma soprattutto permettono agli insegnanti e ai clinici (psicologi, neuropsicologi e logopedisti) di condividere un linguaggio e strategie comuni d’intervento. Come esempio di diagnosi clinica, ci serviremo della valutazione di Francesco, un bambino di nove anni giunto al termine dell’iter valutativo a febbraio della classe quarta della scuola primaria. I criteri generali che conducono a una diagnosi di DSA sono i seguenti: se un bambino intelligente, che ci vede e ci sente in maniera assolutamente normale, che abbia finito la seconda classe primaria e abbia sempre frequentato regolarmente la scuola sin dalla scuola di infanzia, che non abbia subito restrizioni nella partecipazione sociale a causa di evidenti svantaggi di natura sociale o culturale, mostra una significativa difficoltà di lettura o di scrittura rispetto alla classe che frequenta, alla sua età cronologica, al normale sviluppo intellettivo, allora potrà essere emessa una diagnosi di DSA. In caso di discalculia, la diagnosi deve essere posticipata almeno al termine della terza classe elementare. Una relazione che contenga la diagnosi si apre generalmente con una breve anamnesi che descrive le caratteristiche del parto e lo sviluppo linguistico e motorio nella prima infanzia:

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Francesco è nato da gravidanza normodecorsa con parto naturale alla 39a settimana, senza sofferenza né peri né post natale. Riferite nella norma le tappe dello sviluppo motorio e linguistico. Vista e udito regolari. Non riferite malattie rilevanti. Viene riferita familiarità per difficoltà di apprendimento (cugino per via paterna con diagnosi di dislessia). A scuola Francesco è molto bravo in matematica mentre fatica molto con la lettura e la scrittura. È ben inserito all’interno del gruppo classe. Partendo dalla richiesta della famiglia di comprendere la natura delle difficoltà di lettura evidenziate, la raccolta di queste informazioni permette di escludere possibili cause esterne che avrebbero potuto influenzare negativamente gli apprendimenti (come difficoltà di vista o mancata frequenza scolastica) e allo stesso tempo evidenzia la presenza di fattori di rischio, come quello della familiarità riscontrata in un cugino dislessico. La relazione prosegue poi con l’elenco dei test utilizzati, divisi per aree di funzionamento indagate: le prove cognitive utilizzate per definire il livello intellettivo, le prove utilizzate per valutare la capacità di lettura, scrittura e calcolo e, infine, i test neuropsicologici relativi alle funzioni dell’attenzione, della memoria, delle competenze motorie e visuopercettive, delle capacità linguistiche. Questa batteria di test serve sia per escludere una diagnosi di DSA, per esempio qualora si riscontrasse un deficit intellettivo o dell’attenzione, sia per chiarire le caratteristiche del DSA rilevanti per l’impostazione di un eventuale trattamento. Nella relazione dettagliata area per area vengono spiegati i punteggi ottenuti nei test. I punteggi ottenuti da Francesco nei test sono confrontati con quelli medi ottenuti da una popolazione di bambini con sviluppo tipico della stessa età di Francesco. Per esempio, si legge ancora nella diagnosi: Parole: legge 1,4 sill/sec [sillabe al secondo] (media 2,7; -2,46 P.ti Z ). Commette 10 errori. Prestazione che corrisponde al 5° percentile.

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I punti Z (o deviazioni standard) indicano la distanza di ciascun punteggio dalla media aritmetica delle prestazioni del gruppo normativo di riferimento, ossia quello che in genere ottiene un bambino con sviluppo tipico della stessa età e dello stesso livello di studi. Nel caso di Francesco, la velocità di lettura delle liste di parole di 1,4 sillabe al secondo è molto distante dalla media del gruppo normativo che è di 2,70 sillabe al secondo. La grandezza della distanza, che nel caso di Francesco abbiamo detto essere alta, si valuta sui punti Z, cioè sui valori di deviazione dal valore standard. Tutti i bambini possono variare dal valore medio per eccesso o per difetto. Se una variazione per difetto è lieve non è significativa, ma se supera di molto quanto in genere variano i singoli bambini del campione normativo con sviluppo tipico, allora vuol dire che il dato è degno di attenzione, ha cioè una rilevanza clinica. Per Francesco ci sono più di 2 punti Z per difetto da come normalmente variano i bambini suoi pari. Questo dato è clinicamente significativo, superando quella soglia oltre la quale è lecito procedere con una diagnosi di dislessia. I dieci errori di lettura commessi da Francesco corrispondono invece al quinto percentile. Per capire il percentile basti pensare che la metà dei bambini dell’età di Francesco si colloca nel cinquantesimo percentile. Collocarsi al quinto vuol dire trovarsi in una condizione comune solo al cinque per cento della popolazione. Il restante novantacinque per cento di bambini dell’età di Francesco ha prestazioni migliori di lui in quarta elementare. Di nuovo ci troviamo di fronte a un dato clinicamente significativo a favore di una presenza di dislessia. La parte finale della diagnosi riassume quanto descritto precedentemente, definendo l’inquadramento diagnostico e il relativo codice di classificazione internazionale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (ICD-10)7 e indicando i punti di debolezza su cui rivolgere un intervento riabilitativo o compensativo.

7 Organizzazione

Mondiale della Sanità (OMS), ICD-10: Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie e dei Problemi Sanitari Correlati, 10ma revisione, Ginevra, OMS, 1992.

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In conclusione, Francesco presenta un Disturbo specifico dell’apprendimento interessante l’area della lettura (Dislessia; cod. ICD-10 F81.0). Fatica nell’utilizzo della strategia di decodifica lessicale (o diretta, a colpo d’occhio) per cui spesso è costretto a rallentare e decodificare lettera per lettera o sillabare. Di seguito, la relazione giustifica il quadro diagnostico avanzando una spiegazione neuropsicologica e funzionale di come si caratterizza la dislessia in Francesco che è dovuta a una carenza nelle strategie di decodifica lessicale. Tale difficoltà appare legata a un problema di accesso al lessico [capacità di recuperare rapidamente una parola dal nostro vocabolario mentale] evidenziata dalle cadute in test di denominazione rapida [il bambino deve denominare più rapidamente possibile dei colori, degli oggetti molto familiari o dei numeri] e di fluenza fonemica [dire in 1 minuto tutte le parole possibili inizianti con un certo suono, per esempio /f/]. La relazione poi offre delle preziose indicazioni, utili per un insegnante, riguardo a significative difficoltà di comprensione del testo. È presente inoltre una significativa caduta in ambito della memoria di lavoro verbale che, unitamente alle difficoltà di lettura descritte, non permette di accedere a una corretta comprensione dei testi scritti. Appare pertanto opportuno intraprendere un intervento riabilitativo di tipo logopedico, con frequenza trisettimanale, per facilitare l’utilizzo adeguato di una strategia lessicale di lettura. Contemporaneamente, sarà necessario prevedere l’introduzione di adeguati strumenti compensativi (come ad esempio schemi, tabelle e mappe concettuali) che gli consentano, prima possibile, di studiare autonomamente. L’uso di tali strumenti e strategie andrà portato avanti in collaborazione con la scuola con cui si rimane disponibili per definire un percorso didattico adeguato.

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Francesco, dunque, ha difficoltà nella lettura, in particolare nell’utilizzo della strategia di lettura lessicale, quel processo di lettura delle parole che non le scompone lettera per lettera o sillaba per sillaba ma che le riconosce a colpo d’occhio, globalmente. È in genere la strategia che adottiamo ogni volta che leggiamo una parola conosciuta. Un adulto, avendo immagazzinato un gran numero di parole nel suo dizionario mentale, non perde tempo nel sillabare una parola, ma la legge riconoscendola a colpo d’occhio. Ricordatevi l’esempio che abbiamo fatto nel capitolo precedente sull’uso del T9. Questa difficoltà comporta un maggior dispendio non soltanto di tempo, ma anche di energie attentive che vengono sottratte al contenuto del testo da leggere. All’aumentare della lunghezza dei brani, aumentano, necessariamente, il tempo richiesto per leggere, il dispendio di energie e la quantità di informazioni che rischiano di andare perse e non apprese dal bambino.

Il passaggio dalle medie alle superiori Finora, ci siamo riferiti in gran parte a insegnanti delle scuole elementari, riportando un caso di seconda classe, Matteo, e uno di una quarta, Francesco. Tuttavia, le difficoltà di uno studente con DSA, diagnosticato o meno, non si risolvono certo nel periodo legato alla scuola primaria. Abbiamo già visto il caso di Marta, la sua rabbia e frustrazione di fronte a interventi scolastici che non hanno tenuto conto del suo parere, fatto tesoro delle sue strategie, fatto perno sulla sua motivazione e collaborazione. Un momento particolarmente delicato è quello del passaggio dalle medie alle superiori, quando, oltre al cambio di scuola e dei compagni di classe, il ragazzo è tenuto a fare una scelta sull’indirizzo di scuola superiore da frequentare. Nel nostro Centro FARE abbiamo riscontrato più casi in cui a studenti dislessici nelle medie sia stato consigliato di scegliere scuole o istituti di basso profilo, indipendentemente dai loro talenti e interessi, svalutando in partenza le loro reali potenzialità e caratteristiche. Nutriamo un certo disagio, a questo punto, a ricorrere alla solita lista dei grandi dislessici della storia, per dimostrare che un disles-

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sico non è uno stupido e non è privo di talenti. Innanzitutto, perché riteniamo che nemmeno uno stupido sarebbe privo di talenti e interessi. Una persona con ritardo mentale o con altre disabilità cognitive andrebbe comunque guidata in una scelta educativa e professionale consona non solo al suo funzionamento cognitivo ma anche a tutto il suo bagaglio umano ed esperienziale, alle sue attese e ai suoi bisogni. Ancora, vorremmo pensare che nessun indirizzo scolastico si differenzi in base al livello d’intelligenza dei suoi studenti. Non dovrebbero esistere scuole di basso profilo. Non ci dovrebbe essere la possibilità di indirizzare alcuno in una scuola italiana pubblica di basso profilo. Tuttavia, questo accade, e dobbiamo farci i conti. Se il percorso scolastico di uno studente con DSA, fino alla fine delle scuole medie, è stato difficile e pieno di frustrazioni, come può purtroppo ancora capitare, possiamo trovarci di fronte a studenti con bassa autostima e talora con disturbi psicopatologici, che nei casi più gravi possono portare anche a comportamenti socialmente devianti. In tali casi, la scelta della scuola superiore potrebbe essere condizionata da questa compromessa percezione di sé. Una scelta di indirizzo fondata su queste premesse aumenta il rischio di dispersione scolastica. Quando invece ci si avvale appieno dell’opportunità, oggi garantita e tutelata dalla legge, di essere seguiti a casa e a scuola con le necessarie misure dispensative e con supporti e strumenti che compensino le difficoltà di lettura, all’interno di un progetto educativo organizzato e verbalizzato in un adeguato PDP, gli studenti dislessici possono proseguire con successo negli studi. Una scelta di indirizzo corrispondente ai propri interessi e talenti e coerente con il proprio progetto di vita non influenzerà soltanto la carriera scolastica di una persona ma anche la sua qualità di vita, il suo benessere.

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Per saperne di più Marialuisa Antoniotti, Svano Pulga e Claudio Turello, Sviluppare le abilità di letto-scrittura (Vol. 1, 2 e 3), Trento, Erickson, 2008. Beatrice Bertelli, Paola Rosa Belli, Maria Grazia Castagna e Paola Cremonesi, Imparare a leggere e scrivere con il metodo sillabico (Vol. 1 e 2), Trento, Erickson, 2013. Emilia Ferreiro e Ana Teberosky, La costruzione della lingua scritta nel bambino, Firenze, Giunti-Barbera, 1985. Uliva Foà, Il primo incontro con la matematica (CD-ROM), Trento, Erickson, 2006. Flavio Fogarolo, Costruire il Piano Didattico Personalizzato: Indicazioni e strumenti per una stesura rapida ed efficace, Trento, Erickson, 2012. Nicoletta Galvan e Andrea Biancardi, Uno, due, dui... una didattica per la discalculia, Firenze, Libri Liberi, 2007. Keith Hill e Valerio Corsi, Il ruolo dei patologi del linguaggio nella valutazione delle tecnologie assistive, in Stefano Federici e Marcia J. Scherer (a cura di), Manuale di valutazione delle tecnologie assistive, Milano, Pearson, pp. 315342, 2013. Dario Ianes, La diagnosi funzionale secondo l’ICF: Il modello OMS, le aree e gli strumenti, Trento, Erickson, 2004. Anna Judica, Laura Baldoni, Luciana Chirri, Guido Del Vento, Valeria Bartoli, Deborah Chiodi, Luciana Chirri, et al., Un mare di numeri: Attività di conoscenza dei numeri e di calcolo per il primo biennio della scuola primaria, Trento, Erickson, 2010.

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Non ero stupido, ero dislessico: i Disturbi Specifici di Apprendimento negli adulti

Sempre più spesso oggi si sente parlare di disturbi specifici di apprendimento e di dislessia. Non c’è dubbio che questi siano argomenti alla moda. Non c’è scuola primaria o secondaria in cui non si sia delegato un referente per i DSA, non si siano attivati strumenti di aggiornamento per i docenti e di supporto per gli alunni. Oggi, non si può entrare in una scuola, sia come alunni che come insegnanti e non avere a che fare con la dislessia. Tuttavia, già in un recente passato le cose non stavano così, e non certo perché non ci fossero alunni con DSA. I DSA non sono la conseguenza di un nuovo virus pandemico che prima ha colpito dei polli compromettendo il pigolio dei pulcini e poi mutando è diventato letale anche per l’essere umano danneggiandone i sistemi neurobiologici sottostanti i processi della letto-scrittura e del calcolo. I DSA ci sono da sempre e non pare certo siano stati conseguenza di un’influenza aviaria. Soltanto che fino a un recente passato i sintomi della dislessia venivano spesso scambiati per le loro cause: è svogliato, non si impegna, potrebbe fare di più, non sta mai attento, insomma, è un asino. La consapevolezza del fenomeno è oggi così diffusa che uno dei problemi del nostro servizio sanitario è quello di dover far fronte al crescente numero di richieste di diagnosi di DSA, per cui ad alcuni bambini e alle loro famiglie capita di dover aspettare a lungo prima di essere valutati. Ma quanti sono i dislessici? Qual è la percentuale italiana degli individui che hanno un DSA? Le ultime stime si assestano su una percentuale che va dal 3 al 5. In altre parole, da 3 a 5 bambini su

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100 soffrono di un DSA. Tuttavia, soltanto una minima parte di loro ha ricevuto una valutazione e una successiva diagnosi. Si fa presto a capire quanto sia ancora il sommerso, quanti potenziali dislessici non diagnosticati esistano fra i bambini e soprattutto fra gli adulti, che tra mille difficoltà sono cresciuti portandosi addosso il fardello di un DSA non riconosciuto. Capita sovente, ad esempio, che mentre si effettua la valutazione di un bambino, uno dei suoi genitori cominci a identificarsi e a riconoscersi nei problemi che manifesta il figlio, iniziando a rileggere i suoi fallimenti scolastici come spiegabili da un disturbo specifico: non era uno studente svogliato, non era uno stupido, era forse un dislessico. L’esperienza scolastica lascia in ognuno di noi dei ricordi; imparare a leggere e scrivere segna un momento di passaggio la cui importanza è giàstata varie volte sottolineata in questo libro. Ognuno ha una storia fatta di momenti piacevoli o spiacevoli, di premi e punizioni. È impossibile non attribuire un significato importante anche a queste esperienze come elementi che concorrono a determinare la nostra personalità. Quando nel percorso di sviluppo e di maturazione della personalità s’inserisce la presenza di un disturbo dell’apprendimento (e secondo le statistiche ciò accade a un bambino su 25) non è difficile pensare che questo creerà una situazione di vulnerabilità. Un DSA non è certo un disturbo di personalità e non ha niente a che fare con la sanità mentale di una persona. Tuttavia, tale condizione può rendere molto più fragili ed esposti a una sofferenza che difficilmente passerà senza lasciare tracce. Un DSA può esporre a una condizione di stress eccessivo, incidendo sull’umore e sull’autostima. Può essere assai doloroso e disturbante per un bambino, che fino al primo giorno di scuola era stato tranquillo e non aveva destato particolari preoccupazioni, improvvisamente e inaspettatamente trovarsi in un contesto di svantaggio esistenziale. Questo bambino per la prima volta potrebbe accorgersi in maniera drammatica di non riuscire a fare qualcosa che tutti i suoi compagni riescono a gestire con entusiasmo e naturalezza. Le attività che le maestre propongono, a lui non riescono; ciò che è facile per molti, a lui risulta impossibile.

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Ricordo, provando ancora un certo disagio [ci racconta Fabio, un genitore che accompagnava suo figlio per una valutazione al Centro FARE] quando la maestra ci diceva: “sottolineate, nella storia che trovate a pagina 25 del vostro libro, tutte le parole che iniziano con ma”. Oppure: “è un esercizio molto facile bambini, copiate dalla lavagna tutte le lettere dell’alfabeto nei 4 caratteri e poi portatemi il quaderno”. Quelle parole “è un esercizio facile” mi colpivano allo stomaco come fossero un pugno scagliato con violenza, lasciandomi senza fiato, disorientato. Dopo 10 minuti, tutti i miei compagni cominciavano a consegnare i lavori mentre io stavo ancora a cercare la pagina 25, da cui incominciare e, quando la trovavo, quelle scritte mi risultavano del tutto incomprensibili e l’esercizio impossibile da svolgere. “Come mai tutti ce la fanno e io non so neanche da dove cominciare?”, mi chiedevo, con un magone in gola e un vuoto nello stomaco. Rispondere a questa domanda, anche per un bambino che, come credo di essere stato [continua nel suo racconto papà Fabio], è intelligente e sensibile, ora lo so, non è stato facile. Avevo solo sei anni e quello che pensavo era: sono l’unico che non ci riesce. Ho qualcosa che non va. Forse sono uno stupido. Sì, sono uno stupido, un incapace, non ce la farò mai! Sicuramente non mi erano di grande aiuto i rimproveri dei miei genitori e degli insegnanti che, esasperati dalla mia incapacità ad apprendere quei meccanismi così apparentemente semplici della lettura, mi dicevano: “Te l’ho spiegato mille volte, possibile che tu sia l’unico a non capire?” Proseguendo nei ricordi, Fabio raccontò anche delle strategie che mise in atto per superare i suoi problemi: Studiavo sempre con dei miei compagni: loro leggevano, io ascoltavo e poi ripetevo. Quando poi c’erano le interrogazioni, facevo di tutto per essere l’ultimo a essere interrogato, così, ascoltando le interrogazioni degli altri, cercavo di

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cogliere tutto quello che non avevo compreso leggendo per conto mio. Inoltre, a casa cercavo sempre di avvantaggiarmi sulla lettura del libro di testo, anticipando un po’ quello che si sarebbe trattato a lezione, imparandone dei brani a memoria. Così, quando in classe toccava a me leggere ad alta voce un nuovo brano del libro di testo, io facevo finta di leggere, in realtà recitavo, perché lo conoscevo a memoria! Le parole di Fabio ci rivelano che è stato un bambino intelligente, creativo, capace autonomamente di trovare soluzioni alle sue difficoltà. Non uno stupido, non uno svogliato. Ma ci testimoniano anche quanta fatica gli siano costati quegli anni di scuola. Quanto abbia dovuto destreggiarsi tra il dubbio di non essere in grado di farcela negli studi e la sua straordinaria forza di volontà nel trovare rimedi per ottenere i suoi successi, nell’attuare strategie elusive del disturbo. Che fatica deve aver fatto quel bambino nel dover padroneggiare da una parte la consapevolezza di una diversità che tendeva a minare la propria autostima e dall’altra una volontà di non volersi sentire emarginato agli occhi dei compagni e degli insegnanti a causa di quella diversità. In questo capitolo vogliamo offrire delle indicazioni a tutte quelle persone che, come Fabio, desiderano fare chiarezza sul proprio passato scolastico e, non di meno, su quelle difficoltà che ancora da adulti accompagnano le loro attività di letto-scrittura o di calcolo.

La diagnosi nell’adulto Il DSA rappresenta un deficit neurobiologico cronico, che permane quindi lungo tutto il corso della vita dell’individuo. Con il passare del tempo, il bambino, e successivamente l’adulto, potrà certo migliorare le proprie prestazioni di lettura, scrittura e calcolo, ma mai eguagliare quelle di persone a sviluppo tipico. La più evidente caratteristica che differenzia un disturbo da un ritardo o difficoltà è, infatti, proprio la resistenza al cambiamento. Nel corso del tempo, il disturbo assume diversi gradi di espressività in funzione della sua gravità, delle caratteristiche cognitive del soggetto, come quelle legate per esempio alla memoria, all’attenzione o al ragionamento,

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e delle opportunità educative o relazionali ricevute. I sintomi possono attenuarsi nel tempo e, quando le cose vanno bene, anche essere compatibili con adeguate competenze di studio, ma mai scomparire del tutto. Numerose ricerche dimostrano che gli adulti con dislessia, nonostante un’adeguata e prolungata scolarizzazione, mantengano nel tempo difficoltà di lettura significative rispetto alla media della popolazione, difficoltà che, spesso, possono rendere difficile il proseguimento degli studi, ad esempio con un eventuale percorso universitario, e ostacolare l’attività lavorativa. Soprattutto in passato, seppure ancora oggi resti un fenomeno rilevante, molti studenti dislessici abbandonano precocemente la scuola, provati dai ripetuti insuccessi, nella convinzione di non essere portati per lo studio. Alcuni cercano in qualche modo di entrare nel mondo del lavoro, altri frequentano corsi professionali per svolgere mansioni più qualificate. La diagnosi di dislessia negli adulti in Italia è ancora molto limitata principalmente per tre motivi: • i servizi diagnostici in ambito evolutivo non possono prendere in carico soggetti che hanno superato i 18 anni. Trattandosi di un disturbo che caratterizza l’età dello sviluppo, la diagnosi viene affidata a centri specializzati nella diagnosi e cura di pazienti nel periodo di vita che va dall’infanzia alla maggiore età; • i servizi di neuropsicologia dell’adulto si occupano marginalmente di disturbi dell’apprendimento per le stesse ragioni indicate al punto precedente, ossia che il DSA è considerato caratterizzare l’età dello sviluppo; • visto che i DSA sono diagnosticati e trattati solo nell’età dello sviluppo e in funzione di un miglioramento delle competenze scolastiche, sono stati creati solo pochi strumenti specifici per la valutazione della lettura nell’adulto. Gli adulti con DSA non diagnosticato, nonostante abbiano vissuto esperienze difficili nel loro percorso scolastico, di fatto non sempre mostrano evidenti difficoltà a leggere. Molti di loro, infatti, sviluppano strategie di compenso che possono facilmente nascondere le

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difficoltà di letto-scrittura o calcolo sempre presenti e che, anche in età adulta, rendono faticoso l’uso di quelle competenze scolastiche che, come la lettura, sono funzionali alla comprensione di un testo e, di conseguenza, allo studio o al lavoro. Un adulto dislessico, per esempio, troverà sicuramente impossibile o assai faticoso seguire i sottotitoli in italiano di un film in lingua originale o, stando alla guida, leggere le indicazioni stradali. Nei bambini di lingua italiana è stato rilevato come l’abilità di lettura ad alta voce evidenzi un continuo sviluppo per quanto riguarda sia l’accuratezza che la velocità. In assenza di difficoltà di apprendimento si rileva un incremento medio di velocità di lettura di 0,5 sillabe al secondo all’anno durante la scuola dell’obbligo. I bambini con dislessia invece aumentano la loro velocità in media di sole 0,3 sillabe al secondo1. Questo significa che il divario tra normolettori e dislessici aumenta progressivamente col passare degli anni. Dunque, la letteratura in materia dimostra come la lentezza nella decodifica rimanga una delle caratteristiche principali da rilevare nei dislessici adulti, mentre l’accuratezza sembra migliorare in relazione alla scolarità. Il miglioramento nell’accuratezza della lettura (cioè il non fare errori mentre si legge) è legato, oltre che alla generale maturazione delle competenze, anche alla semplicità di decodifica di un’ortografia trasparente come l’italiano, in cui, quasi sempre, a un dato segno (grafema) corrisponde un preciso suono (fonema). La valutazione di un adulto, utile a verificare la reale presenza di un DSA deve, a quanto riportano gli ultimi studi, tenere conto di alcuni accorgimenti. Sebbene, come abbiamo visto, il disturbo non si risolva con l’età, tuttavia esso tende a compensarsi, cioè ad attenuare i suoi effetti sull’agire quotidiano e a diventare meno evidente, anche se non per questo meno fastidioso. In particolare, in un’ortografia trasparente come l’italiano gli errori sia di lettura che di scrittura, già durante la scuola superiore, diventano quasi irrile-

1 Patrizio E. Tressoldi, Giacomo Stella e Marzia Faggella, The development of reading speed in Italians with dyslexia: a longitudinal study, in Journal of Learning Disabilities, 2001, n. 34, pp. 414-417.

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vanti e anche la velocità con cui si legge e scrive aumenta fino ad avvicinarsi a quella tipica, senza però raggiungerla. In altre parole, quello che tende a compensarsi sono gli aspetti strumentali legati prettamente alle abilità di decodifica (lettura come strumento), mentre la grande differenza rimane in genere evidente su quelli che si definiscono gli aspetti funzionali (lettura come funzione utile a), legati cioè all’uso della lettura per la comprensione di un testo e della scrittura per la produzione di testi sempre più ricchi e significativi. Il grande rischio è che un adulto dislessico non possa comunque contare su un suo uso efficace, anche se bene o male, con il tempo, abbia appreso la letto-scrittura. Infatti, quando i necessari automatismi non sono stati raggiunti, la lettura e la scrittura o il fare di conto continuano a essere attenzione disperdenti, non consentendo di seguire bene il significato di ciò che si legge e di pensare a quello che si scrive. In un dislessico o discalculico l’attenzione, che dovrebbe concentrarsi sui contenuti di ciò che si sta leggendo, scrivendo o calcolando, viene tutta riversata sui meccanismi attraverso i quali si legge, si scrive o si fa una moltiplicazione. Facciamo un esempio: avete mai notato con che abilità un giovane oggi può mantenere lunghe conversazioni remote digitando velocemente i propri messaggi attraverso la piccola tastiera di uno smartphone? Riesce a farlo anche mentre sta conversando con altre persone. Per alcuni di noi adulti e per molti dei nostri anziani ciò risulta molto più difficoltoso. Infatti, molti adulti e anziani non nativi digitali, e non avvezzi all’uso della tastiera di uno smartphone come a uno strumento di scrittura, troverebbero così impegnativa la ricerca delle lettere da digitare sulla piccola tastiera del telefonino che tutta la loro attenzione sarebbe dispersa nel digitare le lettere o correggere il testo anziché rivolta al contenuto della conversazione in atto con l’interlocutore digitale. La stessa cosa avviene per le persone dislessiche o discalculiche. Le loro energie attentive sono così tanto rivolte al come leggere, scrivere o calcolare da rendere faticoso lo studio di un testo o il calcolo di un prodotto senza l’aiuto di un calcolatore. Pertanto, se uno studente con DSA non è stato diagnosticato durante la fanciul-

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lezza e guidato correttamente attraverso interventi terapeutici ed educativi, è molto probabile che ciò avrà influenzato la sua carriera scolastica, casomai impedendo che venissero messe a frutto tutte le sue reali potenzialità. Quindi, considerando anche gli aspetti di compenso, valutare un adulto significa: 1. valutarne il profilo cognitivo, attraverso la misura del quoziente

d’intelligenza (QI) con prove come la WAIS (Wechselr Adult Intelligence Scale); 2. valutarne le competenze di lettura con prove idonee a misurarne

la velocità e la correttezza; prove di decisione ortografica a tempo che prevedono che in una lista di parole e non parole si barrino solo le parole; 3. valutarne le competenze di scrittura tramite un dettato tarato

per gli adulti e una prova di scrittura spontanea per verificare anche gli aspetti morfosintattici oltre alla generale capacità di espressione scritta. La valutazione della lettura (prova di decisione ortografica) e della scrittura (prova di dettato) deve essere necessariamente effettuata in modalità di soppressione articolatoria. Ciò significa che il soggetto, mentre legge le liste di parole e non parole di cui deve barrare (selezionare) solo le parole, deve farlo pronunciando continuamente la sillaba LA: LA-LA-LA-LA-LA. Questo compito di pronuncia reiterata viene messo in atto anche mentre fa il dettato. Tale metodologia di svolgimento delle prove, che richiede al soggetto di svolgere contemporaneamente un doppio compito (scegliere le parole dalla lista o scrivere le parole dettate mentre pronuncia ripetutamente una stessa sillaba), mettendolo in condizioni di stress cognitivo, favorisce il manifestarsi di ogni eventuale difficoltà residua. Se le competenze di lettura e scrittura sono significativamente più basse del QI (che in caso di dislessia deve essere nella norma o superiore) e la storia di vita del soggetto non fornisce altre spiegazioni evidenti alle carenze nelle competenze di letto-scrittura, potrà essere effettuata la diagnosi di DSA.

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Riguardo alla valutazione delle competenze in ambito matematico, si può utilizzare una versione non ancora pubblicata, ma disponibile ai professionisti per una valutazione clinica, della Batteria per la Discalculia Evolutiva2 tarata per il secondo e terzo anno della scuola secondaria di primo grado e per il terzo anno di vari ordini di scuole secondarie di secondo grado. Appare chiaro, perciò, come il profilo di un dislessico adulto non possa essere delineato soltanto affidandosi a semplici prove di lettura di brani o di liste di parole come avviene nella fase di alfabetizzazione o durante la scuola primaria e secondaria. Senza un’attenta e specifica valutazione, gli adulti con difficoltà di lettura rischiano di passare inosservati, come apparentemente negativi ai test (falsi negativi). Ciò comporta che i ripetuti insuccessi scolastici alle scuole superiori o all’università e lavorativi siano vissuti, da dislessici non diagnosticati, in maniera molto negativa sia sul piano emotivo – alimentando una sfiducia nelle proprie capacità scolastiche e lavorative, una bassa autostima e un incremento del livello di frustrazione – sia sul piano comportamentale, favorendo l’interruzione precoce degli studi o indirizzando l’individuo a scelte scolastiche e lavorative che non ne rispettano i talenti e gli interessi. Un ragazzo con uno spiccato interesse per gli studi umanistici sarà sicuramente scoraggiato dall’imbarcarsi in studi di letteratura o lingue o progettare percorsi lavorativi che prevedano l’insegnamento se, non sapendo di essere un dislessico, attribuisce a una sua bassa capacità intellettiva le difficoltà di letto-scrittura. Oggi, rispetto al passato, grazie alla maggiore sensibilizzazione sul tema dei disturbi dell’apprendimento e alla maggiore formazione in materia da parte degli ambienti scolastici e istituzionali, l’individuazione precoce delle difficoltà di lettura permette a un numero sempre maggiore di ragazzi con dislessia di intraprendere e concludere positivamente il percorso universitario. A tal proposito, anche una legge, la numero 170 dell’ottobre 2010, è stata varata

2 Andrea

Biancardi e Claudia Nicoletti, Batteria per la Discalculia Evolutiva (BDE). Test per la diagnosi dei disturbi dell’elaborazione numerica e del calcolo in età evolutiva, Torino, Omega, 2004.

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allo scopo di garantire una maggiore tutela dei diritti delle persone con DSA che andranno garantiti nel mondo scolastico, universitario e lavorativo. È importante sottolineare che diversamente da quello che avviene in altri paesi, come ad esempio in Inghilterra3, in Italia è stata varata questa specifica legge che sottolinea come la dislessia e i disturbi specifici di apprendimento non debbano essere considerati delle disabilità (per le quali esistono ulteriori e precedenti specifiche leggi), ma una caratteristica dell’individuo che soprassiede a un diverso stile di apprendimento, un modo diverso di imparare le cose che, quando sono garantiti gli opportuni strumenti, può essere considerato altrettanto efficace4. Se ci si ragiona un po’, in effetti, è proprio così. La dislessia è solo una difficoltà di lettura, mentre tutto il resto funziona normalmente. In altre parole, c’è un’obiettiva fatica nel leggere, seppure l’intelligenza, la curiosità, la possibilità di appassionarsi allo studio siano “potenzialmente” perfettamente integre. Ci si trova costretti a lasciare tra virgolette quel potenzialmente perché, ancora troppo spesso, le persone con DSA si trovano a non poter sfruttare al

3 HMSO,

Disability Discrimination Act, 1995, disponibile online: http://www.legislation.hmso.gov.uk/. 4 La differenza tra la legislazione britannica e quella italiana nell’uso del termine disabile per riferirsi alla dislessia o ai DSA dipende non tanto da una differente visione circa la natura dei DSA, quanto, piuttosto, dal diverso modo di definire la disabilità. In Italia esiste ancora una visione della disabilità fortemente influenzata dal modello medico che considera la disabilità come una diretta conseguenza di una malattia, cioè come una conseguenza di una condizione di salute dell’individuo. Pertanto, siccome un DSA non è propriamente dovuto a una patologia dell’individuo, la persona dislessica non è malata e, quindi, secondo un modello medico di disabilità, una persona con DSA non potrà essere un disabile. Diversamente, nel mondo anglosassone, e nello specifico in quello inglese in particolare, il modello interpretativo prevalente per definire cosa sia una disabilità è quello sociale, che considera la disabilità come una conseguenza di barriere ambientali e sociali che ostacolano la vita dell’individuo. Secondo questo modello di disabilità, allora, è più che corretto considerare una persona dislessica o discalculica un disabile in quanto, proprio a causa del suo particolare modo di funzionare, rischia di essere discriminato e ostacolato nel suo percorso di crescita e apprendimento scolastico e di inserimento lavorativo (vedi anche Stefano Federici e Marta Olivetti Belardinelli, Un difficile accordo tra prevenzione e promozione secondo il modello biopsicosociale della disabilità, in Psicologia clinica dello sviluppo, n. 10, pp. 330-334, 2006).

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meglio le proprie potenzialità, in quanto non riconosciute e costrette ad affidarsi solo alla propria lettura autonoma per studiare, senza la possibilità di godere di percorsi riabilitativi o di avvalersi degli opportuni strumenti compensativi. D’altronde, che adulti con DSA possano comunque raggiungere un successo scolastico e lavorativo ce lo confermano evidenze tratte sia da testimonianze personali, come quelle che riporteremo più avanti in questo capitolo, sia dalla testimonianza di scienziati, politici e uomini di spettacolo affermati e famosi. Che i DSA trovino ostacoli nella vita scolastica e lavorativa non rappresenta di per sé un impedimento assoluto alla realizzazione e al successo personale: come per ogni altra persona il loro futuro è collegato alle risorse e ai talenti personali così come alle risorse e possibilità offerte dall’ambiente. Abbattere quelle barriere sociali che rendono la vita di molte persone con DSA più faticosa significa liberare un grande potenziale umano pronto a offrire il suo contributo sociale e culturale per il progresso e il miglioramento della vita di tutti. Avremo sicuramente fatto un grande passo in avanti in civiltà e umanità quando anche nelle nostre scuole sarà diventato normale per un insegnante considerare il proprio alunno dislessico come uno studente che, con gli opportuni strumenti di ausilio, possiede le stesse potenzialità di successo scolastico degli altri alunni senza DSA. Sappiamo che molte delle persone con DSA talentuose e combattive raggiungeranno comunque i loro obiettivi di vita, ma ci farebbe piacere sapere che questo non è accaduto nonostante lo scetticismo dei loro insegnanti ma anche per il loro incoraggiamento che fin dai primi giorni di scuola dovrebbe risuonare come un “so che puoi imparare e ho fiducia nelle tue potenzialità”.

Cosa fare una volta ottenuta la diagnosi In questo paragrafo vogliamo fornire qualche indicazione a quei giovani adulti con DSA che intendono proseguire i propri studi con l’università. Una volta che una persona con DSA avrà ottenuto una certificazione di DSA, allora, potrà avvalersi di tutto quanto è garantito dalla Legge 170/2010. Per esempio, all’università potrà sostenere

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gli esami avvalendosi di ogni utile strumento compensativo (vedi Capitolo 6) e anche di quelle che sono considerate vere e proprie strategie dispensative come, per esempio, concordare un tempo adeguato per lo svolgimento di una prova scritta, oppure di non essere valutati sugli aspetti ortografici di una prova scritta sia di un esame di lingua straniera sia di un questionario a domande aperte. Per potersi avvalere di tutti gli strumenti e le strategie utili è però importante che uno studente universitario con DSA possa imparare a farlo altrimenti rischierà di sperimentare l’ennesimo fallimento e l’ennesima frustrazione. Per far questo oggi esiste la cosiddetta figura del tutor che, in tempi relativamente brevi, potrà accompagnare la persona con DSA attraverso percorsi che prevedono per prima cosa l’apprendimento di quegli strumenti che costituiranno il personale equipaggiamento di tecnologia assistiva. Di particolare utilità per uno studente universitario potranno essere un software per la sintesi vocale e i testi dei corsi in formato digitale, un software per la costruzione di mappe concettuali che facilitino la comprensione e il recupero del materiale studiato, un registratore vocale digitale per registrare le lezioni e trasformarle se necessario in un testo digitale o, altrimenti, una smartpen che permetta di associare un testo annotato o un grafico disegnato durante una lezione su un proprio quaderno con la voce dell’insegnante facendo superare così i limiti connessi a disgrafia e disortografia di appunti presi da uno studente dislessico. Nell’attività didattica, il tutor è la persona incaricata a seguire regolarmente il lavoro di un singolo studente o di un piccolo gruppo di allievi. La figura del tutor si esplicita in forme e contesti anche molto differenti fra di loro. La costante che accompagna questa tipologia di intervento è legata soprattutto al fatto che il tutor guida il soggetto in un percorso formativo, predisponendo il contesto e indicando gli strumenti da adottare. Il tutor può essere una persona specializzata ma anche un compagno di studi incaricato, che affianca lo studente durante le lezioni e lo studio pomeridiano. Il tutor in realtà non è né un docente curriculare che trasmette contenuti scolastici, né un insegnante pomeridiano che supporta con ripetizioni lo studente, ma è un facilitatore che accompagna una

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persona a far da sé, utilizzando gli strumenti più idonei secondo un piano di lavoro ampio e strutturato. Non è un caso che nel lavoro con studenti universitari il tutor si trovi, come prima cosa, a dover sostenere il soggetto nella pianificazione e gestione del suo piano di studio, anche con la definizione di tempi e spazi per espletare ogni singola attività entro la tempistica dettata dall’organizzazione universitaria. In questo caso, lo studente verrà accompagnato a gestire i contenuti disciplinari in tempi ben definiti e con appositi strumenti che sarà il tutor stesso a disporre per e insieme a lui (appunti, schemi, registrazioni, ecc.). Negli ultimi anni, nell’ambito dei DSA, questa figura si è andata sempre più specializzando, dotandosi di competenze specifiche che partono da quelle culturali, legate al personale ambito di studio e professionali. Nella maggior parte dei casi il tutor è un laureato in Scienze dell’Educazione, ma può anche provenire da altri percorsi universitari; l’essenziale è che il curriculum sia stato integrato con corsi specialistici sulle tematiche dei DSA e sull’utilizzo di tecnologie e metodologie compensative. Anche per questa figura professionale è, infatti, molto importante avere tutte le informazioni teoriche che riguardano i DSA, in modo tale da poter comprendere il particolare stile di apprendimento, entrare in sintonia con il soggetto e individuare in maniera precisa gli strumenti adatti a ogni particolare caso. Altre competenze richieste al tutor sono sicuramente un’approfondita conoscenza della normativa vigente e delle opportunità garantite dalla legge anche in ambiti extra scolastici o extra universitari, come ad esempio lo svolgimento dell’esame di teoria con il sistema informatico per il conseguimento della patente di guida (modificato a vantaggio delle persone con DSA nel 2007), consentendo a coloro che necessitano dell’utilizzo della sintesi vocale di usufruirne. Al tutor spetta inoltre il delicato compito di sostenere la motivazione e l’interesse dello studente per le attività che sta svolgendo, favorirne lo sviluppo di una buona autostima attraverso esperienze gratificanti e promuoverne l’autonomia. In ambito universitario sarà fondamentale uniformare, nel caso di studenti con difficoltà di apprendimento certificate, le modalità

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di selezione (prove d’ingresso) istituendo responsabili in ogni facoltà, supportati da esperti clinici, anche per la definizione delle modalità di verifica durante le valutazioni del percorso universitario. L’istituzione di sportelli di consulenza, già molto diffusi all’interno delle scuole primarie e secondarie, può certamente rappresentare il primo passo in questo tortuoso percorso di integrazione, con l’obiettivo finale di aumentare il numero di studenti con DSA in grado di completare nel migliore dei modi la formazione universitaria. In Italia non sono state condotte ricerche scientifiche, né possediamo dati ministeriali, che ci indichino la percentuale di studenti universitari con DSA, sebbene dati non ufficiali parlino di un valore intorno all’1%. Se questo dato fosse confermato, allora vorrebbe dire che c’è un notevole decremento di studenti che accedono agli studi universitari rispetto al numero di quelli che hanno avuto accesso alla scuola primaria, questo a riprova delle difficoltà che gli alunni con DSA incontrano nel percorso scolastico. Questo fenomeno sembra riscontrarsi anche in altri paesi europei. Per esempio, in Inghilterra (vedi ad esempio il sito della British Dyslexia Association: www.bdadyslexia.org.uk) l’incidenza dei DSA si stima intorno all’8% nella popolazione generale, mentre all’interno degli studenti universitari sembra scendere al 5%. Scoraggiato dagli insuccessi, terminata la scuola dell’obbligo, un giovane adulto con DSA tende a non proseguire con gli studi universitari. La tutela di pari opportunità per giovani con DSA allo svolgimento di una carriera scolastica di successo, formativa e motivante, deve essere un obiettivo prioritario per la scuola di ogni ordine e grado.

Che tipo di supporto può essere offerto a un adulto con DSA Le attività di supporto che sono state attivate presso il Centro FARE a favore di giovani adulti con DSA hanno riguardato soprattutto studenti universitari dislessici. Per prima cosa è necessario ricostruire insieme all’utente la sua storia personale legata al disturbo per distinguere, tra le difficoltà che hanno costellato il suo vissuto scolastico e sociale, quelle che

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sono legate a un particolare momento storico ed evolutivo e quelle che continuano a caratterizzare il suo particolare modo di funzionamento e apprendimento. Per esempio, se nel periodo della scuola dell’obbligo i tempi di apprendimento e di valutazione erano dettati rigidamente dall’istituzione scolastica, questi diventano in genere più flessibili e individualizzabili nel percorso universitario. Prepararsi a un esame non è la stessa cosa che studiare per l’interrogazione del giorno dopo. Lo studente ha innanzitutto la possibilità di concentrarsi su una sola materia alla volta, contrariamente a quanto avviene nella scuola. Inoltre, può gestire il suo tempo di studio in maniera più flessibile. Anche in questo caso, però, va ricordato che spesso le difficoltà di pianificazione dello studio possono rendere difficoltoso e improduttivo il lavoro di apprendimento e questo proprio per i tempi lunghi che intercorrono tra l’inizio dello studio di una materia d’esame e la prova d’esame. Nel nostro lavoro al Centro FARE ci siamo spesso trovati a fornire un supporto a studenti universitari nella pianificazione e organizzazione delle attività di studio che precedono l’esame. In questi casi si analizza bene il programma, si passano insieme in rassegna tutti i testi da studiare e si fa una stima dei capitoli da leggere e del tempo necessario per studiarli e schematizzarli, fino ad arrivare alla stesura di un vero e proprio “calendario di lavoro”. Il lavoro di supporto per giovani adulti con DSA non si ferma però esclusivamente a una consulenza di tipo scolastico-educativa. L’intervento non si limita soltanto a facilitare l’acquisizione di tutte quelle strategie di apprendimento e l’uso di ausili compensativi utili allo studio di una materia d’esame. Il nostro supporto riguarda anche un supporto psicologico che aiuti il giovane adulto a riguadagnare la stima di sé e un buon senso di autoefficacia nelle sue capacità scolastiche. Il giovane adulto con DSA porta sovente con sé un vissuto segnato da esperienze negative che hanno caratterizzato la sua carriera scolastica che lo rendono ansioso e insicuro nell’affrontare la nuova sfida dell’impegno universitario. Molte ansie e insicurezze affondano le proprie radici nelle parole di insegnanti e genitori che

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lo tacciavano come un bambino svogliato e incapace di fare qualsiasi cosa. Il ricordo della fatica che è costato il raggiungimento di certi obiettivi scolastici è spesso doloroso e mortificante: “Per quanto mi impegnassi – raccontano alcuni – le cose non andavano mai bene. I giudizi erano sferzanti e mi facevano capire che qualcosa in me proprio non andava e che non ce l’avrei mai fatta.” Questi ricordi agiscono spesso come un freno all’entusiasmo di una persona, che le impedisce di mettersi in gioco e sperimentare le proprie capacità, convinta, com’è stato, di non averne. Altri, invece, affrontano l’università come una rivincita, per dimostrare che, nonostante tutto, loro ce la possono fare. Ed è spesso questo il primo passo da cui emergono grandi personalità. L’essere stati abituati, infatti, a cercare strategie alternative per superare le difficoltà dovute a un DSA, favorisce la maturazione di menti creative, flessibili, intuitive. Nicola, un giovane di 21 anni, racconta: “Se devo scrivere un messaggio a un compagno per chiedergli ‘Hai fatto i compiti?’ e non sono sicuro se l’h vada messa o no, allora scrivo ‘Come sei messo con i compiti?’”. Questo costante esercizio all’alternativa creativa ed efficace, tutt’altro che denunciare l’ignoranza di una regola grammaticale, rivela, in giovani come Nicola, un processo intellettuale divergente capace di essere creativo, intuitivo, di una produttività che implica una ristrutturazione del campo logico e di generare idee sotto la spinta di criteri flessibili. Accanto a tutto ciò, va anche ricordato che la storia personale s’intreccia sempre con il contesto storico. Al di là delle strategie che l’individuo sviluppa nel tempo, il supporto della tecnologia può essere di grande aiuto. Una società altamente tecnologica come quella in cui viviamo può nascondere dei rischi, ma anche dei grandi vantaggi. Pensiamo ad alcuni vecchi e nuovi strumenti e agli aiuti che la moderna tecnologia può fornire. Nella Tabella 4.1 facciamo alcuni esempi di come alcune funzioni di strumenti tecnologici di uso comune oggi siano dei veri ausili per persone con DSA. Oggi sarebbe in effetti molto facile servirsi di alcuni di questi strumenti per offrire a tutti le stesse opportunità di apprendimento e socializzazione.

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Non ero stupido, ero dislessico: le strategie di vita di adulti dislessici Abbiamo voluto, al termine di questo capitolo, lasciare la parola ad alcuni giovani adulti con DSA, perché arrivasse al lettore una testimonianza diretta del vissuto di alcuni di loro. Per tale motivo, durante la stesura di questo libro, abbiamo invitato quattro ventenni a partecipare a un incontro a tema presso il Centro FARE durante il quale sarebbero stati invitati a parlare delle loro esperienze come persone con DSA5. In particolare, l’indagine condotta attraverso l’incontro a tema è stata rivolta a esplorare gli ambiti di vita maggiormente influenzati da un DSA, avendo cura di mettere in luce soprattutto l’esperienza soggettiva dei partecipanti. Che cosa significa avere un DSA? Come ci si sente? Cosa può comportare nella vita di un adulto un Disturbo Specifico di Apprendimento? La letteratura a riguardo non è molto ampia ed è comunque poco attenta all’aspetto umano ed emotivo che caratterizza l’esistenza delle persone che vivono con un DSA. Dai racconti di Giulio, Rinaldo, Elisabetta e Gloria emerge uno spaccato di vita in larga parte segnato da esperienze negative che risalgono soprattutto agli anni scolastici. È da notare anche come l’etichetta diagnostica possa rappresentare un contenitore nel quale riversare, oltre alle difficoltà specifiche del disturbo, anche incertezze e difficoltà che, in realtà, non hanno niente a che fare con un DSA, ma che a esso vengono inconsapevolmente ed erroneamente ricondotte. Questo porta a considerare la dislessia come un elemento totalizzante dell’individuo, onnicomprensivo di tutte le caratteristiche della persona, facilitando il passaggio dal concetto di individuo con dislessia a quello di individuo dislessico. 5 La

discussione nel gruppo è stata facilitata dallo psicologo dott. Fabio Meloni, che ha invitato i partecipanti a confrontarsi sulle proprie esperienze su sei tematiche: i) la scoperta di essere dislessici; ii) le reazioni della famiglia; iii) l’ambiente scolastico universitario; iv) le attività sportive e del tempo libero; v) le relazioni con i pari e sentimentali; vi) il lavoro. L’incontro è stato videoregistrato e i contenuti saranno oggetto di un lavoro attualmente in preparazione. Solo una minima parte delle conversazioni è stata riporta nel presente paragrafo.

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Tabella 4.1  Strumento

Abilità richiesta

Ieri

Oggi

Telefono

Comporre un numero.

Era necessario guardare dall’elenco telefonico cartaceo il numero per poi digitarlo sulla tastiera del telefono.

Basta cercare il nome nella rubrica del telefono senza dover digitare il numero ogni volta.

Telefono cellulare

Cercare e leggere il nome della persona che si intende chiamare.

Era necessario leggere i nomi nella rubrica del telefono.

Si può associare al numero la fotografia della persona da chiamare o utilizzare la ricerca vocale.

SMS

Scrivere brevi messaggi da inviare.

I vecchi telefoni cellulari non permettevano di visualizzare gli errori.

Con la funzione T9 basta digitare le prime lettere della parola e grazie a questo sistema di scrittura predittiva viene inserita la parola completa scritta correttamente. Oppure, per alcuni smartphone provvisti di riconoscitore vocale, è sufficiente dettare il messaggio.

Computer

Scrivere testi, lettere, documenti.

La scrittura a mano o con la macchina da scrivere non permetteva la correzione degli errori.

Tutti i programmi di videoscrittura hanno il correttore ortografico. Attraverso software di riconoscimento vocale è possibile dettare i testi anziché digitarli. (continua)

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Tabella 4.1 (continua) Strumento

Abilità richiesta

Ieri

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Internet

Ricerca di informazioni.

Le vecchie enciclopedie cartacee sono state per molti anni l’unica fonte attendibile cui attingere per ricercare informazioni, ma presupponevano la ricerca alfabetica del termine e la lettura di testi molto spesso scritti con caratteri piccolissimi.

La ricerca di informazioni avviene nella rete, e non solo attraverso testi scritti, ma anche tramite immagini, video e tutta una serie di materiali multimediali che sono in grado di rispondere a molteplici esigenze.

Giornali

Lettura di articoli e notizie.

Il quotidiano e le riviste andavano acquistati e letti su carta.

Molti quotidiani e riviste sono anche online e ciò consente ad esempio all’utente di poterli ascoltate con l’ausilio della sintesi vocale.

Rinaldo, 24 anni, oggi studente di psicologia presso l’Università degli Studi di Padova, in prima elementare viene fatto sedere al primo banco, proprio davanti alla cattedra, perché, a detta dell’insegnante, “rallentava” il lavoro della classe. Rinaldo, ancora bambino, non ne parla con nessuno dei suoi familiari, finché un giorno la madre capita per caso a scuola, per portargli la merenda, e si accorge della situazione di emarginazione del figlio. Da lì il cambio di scuola, il dispiacere di lasciare gli amici e la mortificazione di dover giustificare questa scelta. La solitudine e la vergogna hanno

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caratterizzato la storia di Rinaldo nei primi anni di scuola. L’esercizio della lettura ad alta voce in classe “era un momento bruttissimo” – racconta Rinaldo – soprattutto quando non era lui a iniziare la lettura del testo. Infatti, non riuscendo a tenere il segno di quanto veniva letto dagli altri, era intimorito di non poter continuare dal punto in cui si era fermato il compagno che lo precedeva nella lettura. E ogni volta pensava: “Adesso, se tocca a me, sarà un disastro!” Oggi la sua vita è come un film a lieto fine. Si è laureato in un’università prestigiosa e si sente molto orgoglioso di sé. “La dislessia ti insegna ad affrontare le difficoltà e che le cose non arrivano facilmente: per ottenere dei risultati devi lavorare duro.” Dalla scuola, Rinaldo ci porta in macchina con lui e ci racconta della sua battaglia con il navigatore: “Il navigatore, in macchina, mi confonde. Se mi dice ‘alla seconda uscita’, già questo mi confonde, perché mi dico: la seconda da dove?” “‘Rallentare mantenendo la destra’ e ‘uscire alla terza sulla sinistra’ sono troppe informazioni insieme”, spiega Gloria, 21 anni, studentessa di Comunicazione Internazionale Pubblicitaria presso l’Università per Stranieri di Perugia, anche lei parlando della sua esperienza con un navigatore. “Già se dice ‘rallentare e mantenere la destra’ per me è troppo, e ho difficoltà a mantenere in memoria anche la successiva indicazione ‘uscire alla terza sulla sinistra’.” “Anche puntare l’attenzione sull’immagine, anziché sulla voce, può non essermi d’aiuto” afferma Giulio, 21 anni, studente di psicologia presso l’Università degli Studi di Urbino: “La voce la ascolto poco, guardo solo l’immagine. Ma a volte mi confondo.” Tuttavia, più che essere strettamente legato al DSA, il fatto che una persona possa avere difficoltà nell’utilizzo del navigatore può dipendere dall’impostazione grafica del navigatore, dalla dimestichezza nell’uso di questo strumento e dal fatto che quando lo utilizziamo lo facciamo spesso in strade che non conosciamo, e che quindi impegnano maggiormente la nostra attenzione, e in situazioni di emergenza o sotto la pressione di un appuntamento da rispettare. Il fatto che invece le persone con un DSA riconducano a questo la scarsa praticità dello strumento fa riflettere.

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Ogni contesto e ogni strumento può assumere un aspetto particolare se lasciato cadere nel grande calderone dei DSA, che in molti casi sembrano diventare la spiegazione più ovvia ad alcuni comportamenti che la persona mette in atto in determinate situazioni che, in realtà, diventano difficoltose non tanto perché legate al disturbo, ma perché lo sono in sé stesse e un po’ per tutti. Per alcuni il mondo visto dai DSA è un mondo concreto e a colori. Gloria dice: “Tutto deve essere concreto: se devo fare un calcolo come 13 + 13, lo devo fotografare, vedere: scompongo i numeri e faccio: 3 più 3, 1 più 1. A tutto attribuisco un colore: la pagina di un libro molto lunga la divido a colori a seconda di ciò che mi suscita. Per esempio, nello studio della psicologia, alla psiche, che è un concetto astratto, attribuisco il colore celeste, perché mi fa pensare alle nuvole, mentre al corpo, che è qualcosa di concreto, attribuisco il rosso. Ho molta memoria fotografica.” Essere un dislessico adulto può significare anche dover fare costantemente i conti con l’incapacità di effettuare una stima di calcolo o con le difficoltà nel memorizzare e pianificare una sequenza di informazioni. Gloria ci racconta delle sue strategie al supermercato: “Non so calcolare il costo di tutta la spesa, cioè più o meno quanto sto spendendo, e quindi se mi basteranno i soldi oppure no. Per questo, nel carrello metto i prodotti in fila indiana e il prezzo corrispettivo sul cellulare: se devo togliere qualcosa lo elimino sia dal mio cellulare sia dal mio carrello. Così, quando arrivo alla cassa, so esattamente quanto spendo e non mi sbaglio mai. Se devo comprare poche cose, riesco a calcolarne la spesa arrotondando, sempre in eccesso, tutti i prezzi. Ad esempio, se qualcosa costa €1,20 io arrotondo a €1,50, che è anche più facile da ricordare e calcolare. Oppure, un prezzo da €2,90, lo arrotondo a €3,00. Poi faccio il conto e mi dico: ok, più o meno ci sono con la spesa. Questo, però, riesco a farlo al massimo con cinque prodotti. Usando questo metodo non ho mai avuto difficoltà, non ho mai sbagliato i conti e non mi sono mai trovata alla cassa con del denaro non sufficiente.” Anche quando deve ricevere il resto di un pagamento, Gloria adotta una sua strategia di calcolo.

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“Se spendo €17 e pago con una banconota da €20, penso: da 17 quanto ci vuole per arrivare a 20? E inizio il conteggio: 18-19-20. Ok! Devo ricevere €3. Se la cifra è tonda non mi sbaglio, ma se ci sono di mezzo i centesimi allora è più difficile, ma mi dico: al limite mi potranno fregare di soli pochi centesimi.” Non c’è dubbio che nel racconto di Gloria s’intreccino sia elementi riconducibili alla sua discalculia sia altri che hanno a che fare molto più con alcune caratteristiche della sua personalità che non del disturbo. Una difficoltà di calcolo, sommata probabilmente a una paura dell’insuccesso, porta Gloria ad adottare strategie di ipercontrollo, mascherando la sua insicurezza dietro la minaccia del costante possibile inganno dell’altro, sempre pronto a farle “la cresta”. E in Gloria una certa consapevolezza di questa dinamica non manca: “Questa, nella vita, la trovo una grossa difficoltà. Sono molto metodica, so che devo fare in quel modo e non mi sbaglio. Non so fare i conti, perché non ricordo i primi numeri di una serie di addendi non riuscendo a farne la somma. Quando ci sono i saldi è una tragedia: tutti quei centesimi e quelle percentuali! Non so fare le percentuali a mente, i numeri sui cartellini mi si invertono e devo fissarli per qualche secondo prima di essere sicura che il prezzo sia quello indicato e non l’inverso. Il supermercato è un luogo che adoro, ma per un dislessico è un luogo particolare.” È nota la difficoltà per un dislessico di acquisire una seconda lingua e per Elisabetta, 29 anni, masso-fisioterapista, che ama viaggiare, può costituire un grave ostacolato. Tuttavia, pur non conoscendo bene l’inglese, l’esigenza di adattarsi alle situazioni la stimola a trovare le giuste parole per esprimersi in quella lingua. La coscienza di se stessa e dei propri obiettivi rappresenta per Elisabetta la massima risorsa personale cui attingere per trasformare i propri limiti in carica motivazionale e le proprie qualità in strumenti per la crescita, guardando non al risultato, ma al proprio impegno. Essere dislessici significa, infatti, per lei “vedere le cose in maniera diversa”. Giulio sottolinea come non sia un caso che ci siano così tanti personaggi famosi dislessici. “Gli altri non guardano al mondo come faccio io e questo ti permette di trovare soluzioni diverse,

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alternative e innovative alle quali gli altri non sarebbero mai arrivati.” Per questo, lui afferma, un dislessico che è stato abituato alla creatività cresce con maggiori possibilità di diventare una persona geniale: “questo ci fa diversi”. Altro che asini che leggono, stupidi analfabeti: per Giulio la dislessia è stato un dono che gli ha offerto uno sguardo profondo sul mondo e sugli altri, un maggior senso di adattamento, una maggiore propensione alla creatività. Siamo geni che leggono male, direbbe Giulio, capaci di cogliere, in un pasticcio di lettere, il senso profondo della vita.

Per saperne di più Giacomo Cutrera, Il demone bianco: Una storia di dislessia, Firenze, Libri Liberi, 2008, disponibile online: http://www.impegnocivile.it/progetti/BreakingBarriers/Documenti/demone_bianco_Giacomo%20Cutrera.pdf. Elisabetta Genovese, Enrico Ghidoni, Giacomo Guaraldi, e Giacomo Stella (a cura di), Dislessia e università: Esperienze e interventi di supporto, Trento, Erickson, 2010. Giacomo Stella, Storie di dislessia: I bambini di oggi e i bambini di ieri raccontano la loro battaglia quotidiana, Firenze, Libri Liberi, 2002.

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Capitolo 5

Centri specialistici per la diagnosi e il trattamento dei DSA

Il Centro FARE (Centro di Formazione, Abilitazione, Ricerca ed Educazione) di neuropsicologia clinica dell’età evolutiva è una struttura multidisciplinare specializzata nella diagnosi e nel trattamento delle difficoltà dell’età evolutiva, accreditata dal Servizio Sanitario Nazionale anche per i DSA. La storia del Centro cresce e si sviluppa perseguendo quello stesso obiettivo per cui è stato creato: fornire risposte concrete e soluzioni mirate alle domande di bambini e ragazzi dislessici e ai bisogni delle loro famiglie. Attraverso l’adozione di un modello multidisciplinare e integrato, il Centro ha, fin da subito, difeso l’idea di affrontare le difficoltà di apprendimento e di linguaggio e le patologie che si manifestano con maggiore ricorrenza nell’età evolutiva, non concentrandosi soltanto sulla persona portatrice di un disturbo, ma sull’intero contesto socio-ambientale che la circonda. Attraverso un lavoro di équipe multidisciplinare, gli specialisti supportano gli utenti e le loro famiglie principalmente attraverso un percorso di ricerca dell’autonomia scolastica, elaborando un profilo funzionale che guida alla definizione del percorso scolastico più adeguato alla maturazione delle capacità dell’utente. A seconda dei casi, questo percorso ha un carattere riabilitativo o psicopedagogico e, quando necessario, anche psicoterapeutico. Prima di iniziare un sostegno psicopedagogico, si procede con un’attenta analisi degli strumenti tecnologici più idonei (tecnologie assistive) alla compensazione e gestione delle difficoltà dell’utente. Inoltre, in accordo con la famiglia, l’équipe responsabile della valutazione avvia un rapporto di collaborazione con la scuola, affinché l’intervento logo-

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pedico e psicopedagogico sia costantemente condiviso e monitorato tra specialisti del Centro e gli insegnanti dell’utente. Questo dialogo costante con l’utente, la sua famiglia e il contesto scolastico è ciò che caratterizza il Centro non solo durante il periodo della valutazione, ma anche durante l’intervento. Multidisciplinare e integrato non vuol dire soltanto che nell’équipe del Centro di valu-tazione sono presenti professionisti di formazione clinica e pedago-gisti, ma che l’intervento riabilitativo o di sostegno è integrato nel processo educativo, familiare e scolastico dell’utente. Su queste basi si articola il metodo di intervento del Centro, che si propone di svolgere con l’utente un lavoro che lo vede coinvolto in un processo di valutazione e trattamento a tutto tondo: si comincia da una valuta-zione clinica approfondita, con eventuale formulazione della dia-gnosi1, per arrivare poi all’impostazione di trattamenti riabilitativi mirati e specifici e, a seconda dei casi, di percorsi psicopedagogici legati alla motivazione, all’autostima, all’autonomia e all’adozione di un metodo di studio efficace. Un lavoro di squadra, dunque, che consiste, da un lato, nella collaborazione tra diversi specialisti (psi-cologo, logopedista, pedagogista, educatore, neuropsicomotricista, neuropsichiatra) che si confrontano fra loro e, dall’altro, implica la costruzione di una rete di rapporti solida, attiva e durevole con geni-tori, insegnanti e specialisti di altri servizi. Il primo contatto tra il Centro FARE e i genitori2 può avvenire attraverso la scuola, i pediatri e altri medici specialisti, il sito Inter1 Il

lettore che ci ha seguito fin qui ha ormai ben chiaro che per sua natura una diagnosi di DSA non può essere emessa prima che un bambino sia stato sottoposto per una certa durata di tempo all’apprendimento scolastico di lettura, scrittura e calcolo (vedi Capitolo 3). Per cui, siccome nel Centro FARE sono accolti anche utenti in età prescolare o dei primi anni della scuola primaria, non sempre è possibile restituire a tutti una diagnosi positiva o negativa di DSA. Questo, però, non impedisce di intervenire con trattamenti specifici, qualora ritenuti necessari, anche prima delle età della diagnosi, per facilitare l’ingresso nella scuola e il successo formativo dei primi anni della scuola primaria. 2 Trattandosi in genere di utenti minori, il rapporto con l’utenza del Centro è sempre in larga misura mediato dai genitori. Tuttavia, seppure in numero molto ridotto, il Centro accoglie la domanda e offre consulenza anche per persone adulte. Vista, quindi, la natura dei DSA e le caratteristiche epidemiologiche dell’utenza del Centro, in questo capitolo faremo in genere riferimento a utenti minori accompagnati da genitori.

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net (www.centrofare.it) o il semplice passaparola di altri genitori. Il personale che cura l’accoglienza ha come compito quello di ascoltare e comprendere i bisogni dell’utente e fornire le spiegazioni generali riguardo l’iter di valutazione e l’intervento proposto dal Centro. Durante il primo contatto, la segreteria compila un modulo di accettazione con i dati dell’utente e fissa un primo incontro tra l’utente (che, se minore, è accompagnato dai suoi genitori) e lo psicologo o il neuropsichiatra per un’iniziale valutazione di orientamento. In questo primo incontro, i professionisti raccolgono l’anamnesi completa dell’utente, sottoponendolo anche ad alcuni test preliminari, al fine di stilare un primo profilo. L’utente, generalmente un bambino, viene coinvolto attivamente in questo percorso con un approccio amichevole e giocoso, così da evitare che viva questa esperienza come un malato in cura. Nel caso in cui dai test non emergano particolari difficoltà, lo stesso professionista comunica ai genitori che non è necessario approfondire ulteriormente la valutazione. In caso contrario, viene proposto loro un percorso di approfondimento diagnostico, informandoli sulla tipologia e sulle finalità dei test da effettuare. Per valutare nel migliore dei modi gli utenti, gli incontri di valutazione vengono effettuati prevalentemente di mattina, quando le risorse attentive appaiono maggiormente preservate rispetto al calo di prestazione che, comunemente, si riscontra nelle ore pomeridiane, soprattutto se sono state precedute da un’attività scolastica. Sempre nell’ottica di preservare la qualità della prestazione, le ore di valutazione vengono suddivise nell’arco di tre giorni, evitando di impegnare il bambino per più di un’ora e mezza. Solo nel caso in cui l’utente risieda lontano dal Centro, si cerca di svolgere alcuni test in uno stesso giorno, prevedendo pause adeguate tra una prova e l’altra. Nel caso in cui l’utente si presenti con una precedente valutazione condotta presso un servizio sanitario pubblico o altri centri specializzati, la diagnosi viene visionata dall’équipe del Centro ed eventualmente integrata in vista di un progetto riabilitativo.

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La valutazione neuropsicologica: un percorso specifico per comprendere la natura del DSA Come abbiamo già diffusamente discusso nel Capitolo 1, in presenza di alcuni segnali indicativi di un incipiente disturbo dello sviluppo – che si rilevano sia dall’osservazione diretta del comportamento di un figlio, sia indiretta, dai colloqui con gli insegnanti e dai risultati delle prestazioni scolastiche, che risultano notevolmente discrepanti rispetto all’intelligenza del bambino così come è percepita dai genitori – è opportuno che un genitore richieda una valutazione neuropsicologica. Di che si tratta? È ciò che cercheremo di spiegare in questo paragrafo. Effettuare una valutazione neuropsicologica per un sospetto DSA o, più nello specifico, per una sospetta dislessia, richiede un elevato grado di specializzazione professionale. Non si tratta, infatti, di formulare soltanto una diagnosi corretta (procedura relativamente semplice), ma anche di individuare e descrivere il profilo funzionale del bambino. Innanzitutto, effettuare una diagnosi di DSA prevede, in linea con i criteri diagnostici internazionali (DSM-IV e ICD-10), di seguire una procedura tipica per i disturbi dello sviluppo, cioè l’individuazione dei criteri di esclusione. Attraverso l’iniziale indagine anamnestica eseguita con i genitori, si escludono eventuali cause che potrebbero spiegare diversamente i sintomi di difficoltà di apprendimento descritti. L’indagine anamnestica prevede un’accurata raccolta di tutte le informazioni che riguardano la storia di sviluppo del bambino. Si parte, perciò, dal decorso di gravidanza e prima infanzia. Si discutono poi, dettagliatamente, le fasi dello sviluppo motorio e quelle del linguaggio, se il bambino abbia fatto controlli della vista e dell’udito e avuto malattie rilevanti, come convulsioni, svenimenti, traumi cranici o epilessia. Generalmente, in questo colloquio con i genitori, si indagano anche i fattori ereditari, legati alla presenza tra i familiari di altre persone che hanno manifestato disturbi di apprendimento. Non si tralascia, poi, un’accurata ricognizione dell’andamento e del rendimento scolastico del bambino in cui, generalmente, si evidenziano i principali sintomi da chiarire. Infine, conclude questa prima fase di indagine anamnestica la raccolta di informazioni sullo stato emotivo e relazionale.

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Chiarito il quadro funzionale e anamnestico del bambino ed escluso che le sue difficoltà di apprendimento possano essere ricondotte a cause esterne a un DSA, si procede con una valutazione specifica dei sintomi come la fatica, la lentezza e gli errori di lettura. Il neuropsicologo tenterà, attraverso la somministrazione di specifici test, di evidenziare o suscitare nel bambino dei segni che, ove possibile, conducano a una diagnosi. Se, per esempio, in un test sulla rapidità e sulla correttezza di lettura si evidenziasse una prestazione al di sotto del punteggio atteso per l’età e la scolarizzazione del bambino, ecco che già si sarebbe evidenziato un segno di disturbo di lettura. La diagnosi di DSA o, in particolare, di dislessia si basa sul cosiddetto criterio della discrepanza. Tale criterio prevede che ci debba essere una significativa distanza tra le competenze generali e le competenze specifiche del bambino. Le competenze generali sono le capacità cognitive, ossia l’intelligenza, che si misura attraverso un test che restituisce un punteggio, chiamato Quoziente di Intelligenza (QI), che è pari a 100, o entro un valore compreso tra 115 e 85, se l’individuo rientra nella norma della popolazione. Per procedere con una diagnosi di dislessia, il bambino deve possedere un QI nella norma o superiore. Le competenze specifiche sono, invece, quelle relative a una o più competenze dell’apprendimento scolastico, cioè lettura, scrittura e calcolo. Nel caso di una dislessia, per esempio, i punteggi ottenuti nelle prove di lettura dovranno risultare al di sotto della media. Quindi, per ottenere una diagnosi di DSA, si deve riscontrare una discrepanza tra il QI e i punteggi ottenuti in lettura, scrittura o calcolo, dove il primo risulta nella norma, o addirittura superiore, mentre i secondi inferiori alla norma, cioè molto più bassi (discrepanti) rispetto all’intelligenza. Pertanto, è possibile procedere con una diagnosi di dislessia quando ci si trova di fronte a un bambino a cui, attraverso l’anamnesi, non siano state riscontrate significative problematiche psicologiche, neurologiche, sensoriali, o di grave svantaggio sociale e familiare, e che, a fronte di un’intelligenza normale, abbia però deficitarie competenze di lettura. Questo, tuttavia, è solo un primo passo di un’eventuale impostazione di un piano di intervento terapeutico. A questo punto, infatti,

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192  Capitolo 5

si sa solo che il bambino è dislessico, perché è sano, intelligente, ma legge male. Ancora, però, non si conosce perché, se è sano e intelligente, legga male. Se ci fermassimo alla sola diagnosi, rispettando i criteri diagnostici delle classificazioni internazionali, in fin dei conti potremmo affermare che il bambino legge male perché è dislessico ed è dislessico perché abbiamo appurato che soltanto legge male! Non vogliamo dire che questa apparente tautologia non abbia senso: anche per arrivare a ciò c’è voluta una valutazione esperta e articolata, come abbiamo visto poco sopra. Tuttavia, essa risulta poco utile se si vuole andare oltre un’etichetta diagnostica e pensare a come migliorare le capacità di lettura del bambino. Non è forse questo che è richiesto da genitori e insegnanti, cioè aiutare il bambino nell’apprendimento degli automatismi della lettura? Il passo successivo della valutazione neuropsicologica consisterà, quindi, nell’individuazione di quali delle varie funzioni che sottostanno al processo di lettura ostacolino il normale apprendimento. Se il bambino è in una fase precoce di sviluppo delle competenze di lettura, cioè tra la fine della seconda e l’inizio della quarta classe primaria, il processo di valutazione tenderà ad approfondire, da un punto di vista neuropsicologico, il funzionamento anche di quelle abilità che sono richieste perché si possa procedere a una automatizzazione dei processi base della lettura, della scrittura e del calcolo. Sono questi i processi su cui è possibile agire attraverso un percorso riabilitativo e che, in questa fascia d’età, sono risultati massimamente efficaci. Quali sono, dunque, questi processi sui quali intervenire? Stando al modello teorico elaborato da Morris Moscovitch e Carlo Umiltà3, la lettura sarebbe un processo cognitivo (modulo di III tipo) risultante dall’attività di processi più semplici, linguistici e visuopercettivi (moduli di II tipo), connessi tra loro dalle risorse attentive dedicate da un processore centrale (Figura 5.1).

3 Morris

Moscovitch e Carlo Umiltà, Modularity and Neuropsichology: Modules and Central Processes in Attention and Memory, in Myrna F. Schwartz (a cura di), Modular deficits in Alzheimer-type dementia, Cambridge, MIT Press, pp. 1-59, 1990.

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Figura 5.1  Illustrazione della lettura come modulo di III tipo (riquadro grande) formato da diversi e possibili moduli di II tipo (competenze visuopercettive e linguaggio), che a loro volta sono formati dai moduli più semplici di I tipo, come la percezione di configurazioni semplici e la percezione dei suoni elementari (cfr. Moscovitch e Umiltà, op. cit. 1990).

In altre parole, la lettura sarebbe il risultato di un processo cognitivo assai complesso attraverso il quale vengono assemblati diversi contenuti di informazione visiva e uditiva che, inizialmente, sono elaborati da moduli mentali separati tra di loro, come quello visuopercettivo per l’analisi visiva delle singole lettere (grafemi) e quello del linguaggio per l’analisi dei suoni elementari della lingua (fonemi). Questo processo cognitivo richiede inoltre che, nelle fasi di apprendimento della letto-scrittura, l’individuo rivolga molte delle risorse attentive esplicite verso l’applicazione delle regole di decodifica del testo scritto, prima che il processo di integrazione delle nuove procedure apprese si automatizzi.

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194  Capitolo 5

Secondo questo modello, il disturbo di lettura potrebbe, perciò, derivare da difficoltà linguistiche o visuopercettive, oppure, più in generale, dalla difficoltà di prestare una sufficiente attenzione all’apprendimento e all’automatizzazione di queste nuove regole, o, infine, da una combinazione di queste. Ciò comporta anche che i bambini dislessici possono differenziarsi molto fra di loro rispetto alle cause neuropsicologiche che determinano il disturbo, cioè su quei punti di rottura del processo di lettura: fonologico, visuopercettivo o attentivo. L’approfondimento neuropsicologico della valutazione di una DSA comporta proprio un’indagine su queste aree. L’analisi qualitativa degli errori commessi in lettura e scrittura orienterà il clinico esperto verso la scelta degli opportuni test per le specifiche situazioni. Solo in questo modo sarà poi possibile delineare un trattamento mirato e specifico. Prendiamo, ad esempio, un bambino di fine seconda classe della scuola primaria che fatichi con la decodifica fonologica, cioè che non riesca a leggere una parola componendola lettera per lettera, secondo una lettura tipica delle prime fasi di apprendimento (vedi Box 2.4 del Capitolo 2). Le sue difficoltà saranno evidenti attraverso una prova di lettura di non parole, cioè di parole senza significato che per essere lette devono necessariamente essere staccate e scandite lettera per lettera. In questo caso, dovranno essere indagate la memoria fonologica, indispensabile alla fusione dei suoni decodificati, nell’area linguistica, e l’attenzione visuospaziale, necessaria all’analisi visiva di ogni singolo grafema, nell’area visuopercettiva. Se, invece, un bambino avesse maggiori problemi con la lettura lessicale o diretta, cioè attraverso il riconoscimento immediato e globale della parola, tipica di una fase più avanzata di apprendimento, si potrà indagare, nell’area linguistica, il lessico ricettivo e produttivo e la capacità di denominazione rapida automatizzata, dato che è su questo che si appoggia una lettura veloce. La lettura veloce è quella che consente di riconoscere una parola scritta a colpo d’occhio, senza analizzarne ogni sua componente. Pertanto, se deve essere riconosciuta per iscritto, dovrà essere presente nel lessico o vocabolario personale e recuperata in tempi

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rapidi per poi pronunciarla ad alta voce. Ecco perché, ai bambini con difficoltà nella lettura lessicale si somministrano dei test di denominazione rapida automatizzata4. Quando, invece, si sospetta che il bambino fatichi a concentrarsi e a recuperare sufficienti risorse attentive, la valutazione si rivolgerà piuttosto verso le aree delle funzioni esecutive e la memoria di lavoro. Nel caso ci fossero, invece, difficoltà di scrittura che andassero oltre l’ortografia e interessassero la qualità del tratto grafico, andrebbero somministrate prove di generale coordinazione motoria unitamente a una misurazione delle prassie costruttive, invitando il bambino a fare delle costruzioni con dei piccoli cubi, delle prassie gestuali transitive e intransitive, invitandolo a eseguire sequenze di gesti significativi, come fare il gesto di “OK” con le dita, o non significativi, come tamburellare le dita sul tavolo. Esistono anche batterie specifiche per la valutazione della disgrafia, che contemplano misure della fluenza grafica, cioè della velocità di scrittura in corsivo. La valutazione riguarda il carattere corsivo perché è questo che solitamente mette in difficoltà un disgrafico, in quanto richiede un gesto continuo, cioè senza staccare la penna dal foglio, e altamente specifico, perché è un gesto che si compie solo per scrivere. Nel caso le difficoltà riguardassero i numeri e il calcolo, oltre alle competenze motorie visuospaziali spesso interessate, andrebbero valutate le funzioni esecutive, come la pianificazione, progettare una serie di mosse avendo in mente un obiettivo, la flessibilità cognitiva, saper passare rapidamente da una regola all’altra quando viene richiesto, la capacità di inibizione di risposte inadeguate, come resistere alle distrazioni. 4 Quando

questa competenza è matura è possibile anche la lettura di un testo come questo: Sceodno dei recaricorti dlel’Utievnsirà di Cmabrigde, non iomrtpa in qlaue oidnre vnongeo sritcte le ltrteee in una proala, l’uicna csoa ipotamrnte è che la pirma e utilma lteetra saino al psoto gusito. Il rseto può esesre una cnuosifone ttaole ed è cmunoque psoibisle lgeerlgo sneza porlembi. Qusteo prcehé la mnete uamna non lgege ongi sngiola lteerta, ma la praloa nel suo isienme. Irecldinibe no?

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La valutazione neuropsicologica consente di isolare gli aspetti deficitari in modo da impostare una terapia specifica mirata al deficit e, quando possibile, in maniera indiretta, recuperare le competenze di lettura, scrittura e calcolo. Per dirlo con un’immagine, se il palloncino illustrato nella Figura 5.2 si bucasse e lo si volesse aggiustare, si dovrebbe sapere dove si trova il foro. L’obiettivo è quello di recuperare al meglio le competenze deficitarie tentando di far raggiungere al bambino un livello di abilità di lettura, scrittura e calcolo funzionale a uno studio autonomo. Il disturbo in sé potrà anche non sparire del tutto e, per esempio, la velocità di lettura ad alta voce restare sempre al di sotto di uno standard di normalità, ma senza impedire, tuttavia, una comprensione del testo. Questo consentirà al bambino uno studio autonomo: per apprendere i contenuti di un brano non dovrà ricorrere a qualcuno che legga al suo posto.

Figura 5.2  La lettura è rappresentata da un palloncino tenuto gonfio dall’aria contenuta in diversi strati, ciascuno dei quali rappresenta le diverse aree coinvolte nel processo della lettura.

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Se una persona arriva a una valutazione neuro­psicologica in un’età più avanzata, ad esempio quando ha già terminato la scuola primaria, prima di procedere con un programma di riabilitazione, il neuropsicologo deve prendere in considerazione più aspetti del carattere e del contesto personale. Innanzitutto, più tardivo è un intervento riabilitativo meno risulterà efficace. Per cui, prima di sottoporre un ragazzo allo stress di una terapia bisogna valutarne con attenzione costi e benefici. Inoltre, mentre con i più piccoli è possibile alleggerire il trattamento riabilitativo trasformandolo in un gioco, con i più grandi questo risulta più complicato e a volte inadeguato. Pertanto, un preadolescente o un adolescente sarà disponibile a sottoporsi a esercizi continui lunghi e ripetitivi richiesti da una riabilitazione per un DSA? Ovviamente, se una terapia logopedica o neuropsicologica fosse l’unica strada per restituire a un ragazzo una propria autonomia di studio, queste domande avrebbero una risposta chiaramente affermativa, per quanto a volte faticosa, e facile sarebbe la soluzione del rapporto costi e benefici. Ma se un ragazzo con DSA potesse essere messo nelle condizioni di studiare con lo stesso impegno richiesto ai suoi pari, in autonomia ed efficacemente, adottando strategie di studio alternative e facendo ricorso a strumenti compensativi, la risposta alla richiesta di una terapia riabilitativa dovrebbe essere sempre e necessariamente affermativa?

Dalla valutazione al trattamento logopedico Al termine della valutazione neuropsicologica, l’équipe multidisciplinare del Centro si riunisce per redigere una diagnosi e, se necessario, pianificare il percorso riabilitativo logopedico e l’eventuale intervento pedagogico. Nel momento della restituzione ai genitori degli esiti della valutazione, lo psicologo svolge l’importante ruolo di rendere chiara la diagnosi e di facilitarne la comprensione. Ciò permette ai genitori di affrontare più serenamente il percorso di intervento, se previsto, e aiuta molto il bambino a sentirsi capito e accolto: sarà così più facile, anche per lui, accettare la sua difficoltà e farsi aiutare. È sempre in questa stessa circostanza che gli specialisti del Centro consigliano quale tipo di intervento sia il più

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adeguato al potenziamento delle capacità deficitarie. Il progetto riabilitativo può riguardare uno o più ambiti d’intervento: logopedico, pedagogico o psicoterapeutico. Il trattamento riabilitativo di tipo logopedico verte su obiettivi specifici, condivisi anche con la famiglia, il cui raggiungimento è controllato da valutazioni periodiche, generalmente dopo un ciclo di tre mesi di terapia. Il controllo periodico degli esiti del trattamento permette di verificarne in itinere l’efficacia e calibrare, ciclo per ciclo, i metodi e gli obiettivi. Riteniamo che la riabilitazione logopedica, perché sia efficace, debba essere mirata, concentrata in due o tre volte la settimana e non diluita in un solo incontro settimanale, limitata nella durata e con periodiche verifiche degli esiti del trattamento, almeno trimestrali. Inoltre, ogni quindici giorni, il logopedista è tenuto a informare il genitore relativamente alle attività svolte con il bambino e ai risultati raggiunti. Allo psicologo, invece, è affidato il compito di un resoconto trimestrale degli obiettivi raggiunti, aiutando i genitori a comprendere il margine di miglioramento del bambino. Il genitore deve maturare la consapevolezza che nessun tipo di trattamento risolverà completamente il deficit di apprendimento del figlio se dovuto a un DSA. Gli incontri trimestrali, quindi, hanno lo scopo, da una parte, di contenere false aspettative dei genitori sull’efficacia della terapia e, dall’altra, evitare lo scoraggiamento di coloro a cui sfuggono i miglioramenti ottenuti dal trattamento. Al termine del percorso riabilitativo, che a seconda dei casi può durare anche 2 o 3 cicli trimestrali, vengono date alla famiglia informazioni sui risultati raggiunti e indicazioni sulle strategie e sugli strumenti che l’utente potrà utilizzare per compensare il deficit di apprendimento. Il trattamento logopedico agisce sull’automatizzazione del processo di letto-scrittura, stimolando l’utente sia con compiti di decodifica e compitazione, sia rinforzando quelle componenti più generali che sottostanno all’apprendimento, che sono emerse come deficitarie nel corso della valutazione. Per questo il bambino, unitamente al lavoro graduato per difficoltà sulle abilità di letto-scrittura, svolgerà compiti che possono riguardare, ad esempio, il potenziamento della memoria a breve-termine, della memoria di lavoro, dell’attenzione visuospaziale e così via.

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L’intervento psicopedagogico Terminata la riabilitazione (o in alternativa a questa, per quegli utenti più grandi d’età per cui una riabilitazione risulterebbe tardiva e inefficace), con l’aumentare della complessità delle richieste scolastiche lo studente potrebbe avere bisogno di impegnarsi nell’acquisizione di un adeguato metodo di studio, che favorisca la maturazione di strategie metacognitive di manipolazione dei contenuti dell’apprendimento. In questo caso, nel Centro si procede con un intervento psicopedagogico. Anche in questo caso, l’intervento richiede uno stretto rapporto con la scuola e gli insegnanti dell’utente, affinché da questi sia adottata una didattica inclusiva, che preveda l’utilizzo di tutti quegli strumenti compensativi e quelle strategie didattiche che garantiscano allo studente con DSA pari opportunità nell’accesso ai contenuti dell’apprendimento e nei criteri di valutazione. L’intervento psicopedagogico, che si propone agli utenti del Centro, non è limitato alla sola presentazione di software e strumenti compensativi, né allo svolgimento dei compiti scolastici. Esso prevede la creazione di contesti di studio motivanti, che consentono allo studente con DSA di utilizzare quelle tecnologie assistive che, compensando i deficit negli automatismi di base della lettura, della scrittura e del calcolo, liberano risorse attentive da investire sui contenuti del testo, sul pensiero logico e matematico o nella produzione creativa e critica di elaborati personali. L’utilizzo di questi strumenti compensativi, inoltre, favorisce nello studente con DSA l’autonomia, l’organizzazione e la pianificazione dello studio. Attraverso questo intervento educativo individualizzato, lo studente sperimenterà metodi e strategie di studio nuovi, da utilizzare direttamente nello svolgimento dei compiti scolastici, e acquisirà nuove competenze metacognitive mirate alla presa di coscienza del proprio pensiero, dei punti di forza e di debolezza delle proprie capacità cognitive. Una consapevolezza questa che, nonostante l’adeguatezza intellettiva, molti studenti con DSA rischiano che resti impantanata nelle difficoltà di apprendimento, che rallentano, affaticano e distolgono dalla possibilità di porsi domande di tipo

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metacognitivo. Se uno studente con DSA non viene guidato correttamente attraverso un uso appropriato di strumenti compensativi e strategie didattiche, gli insuccessi scolastici lo scoraggiano nello sfruttare appieno le proprie facoltà superiori del pensiero e della riflessione, privandolo di risposte sul perché e sul come si studia. L’intervento psicopedagogico non trascura nemmeno gli aspetti emotivi che hanno caratterizzato il vissuto del ragazzo. L’educatore del Centro, manifestando la sua disponibilità e accoglienza incondizionata verso l’utente nella sua unicità, gli creerà un ambiente ottimale per fargli vivere esperienze di accettazione e di efficacia, essenziali per una rinnovata visione di se stesso, che favorirà una rinnovata autoefficacia scolastica, motore endogeno di crescita, di motivazione allo studio e della capacità di mettersi alla prova. Il progetto psicopedagogico si attiva solitamente con gli utenti più grandi che si sono rivolti al Centro per diagnosi tardive e non hanno così la possibilità di utilizzare in maniera funzionale la lettura e la scrittura senza far ricorso a strumenti compensativi. In alcuni casi, il percorso si rende utile anche per utenti che hanno effettuato precedenti percorsi riabilitativi, ma devono comunque rinforzare le strategie di studio. Il progetto psicopedagogico viene elaborato da un’équipe di psicologici e pedagogisti che affrontano la lettura della diagnosi dell’utente da due diverse prospettive di osservazione, quella psicologica da un lato e quella pedagogica dall’altro, al fine di giungere alla definizione dell’intervento multidisciplinare individualizzato. In questa fase di elaborazione del progetto è centrale anche il colloquio con la famiglia dove si inquadrano le abitudini scolastiche ed extrascolastiche del bambino. In modo particolare, si cerca di far luce sul metodo di studio utilizzato dal loro figlio, sul grado di autonomia e di motivazione nello svolgimento dei compiti a casa. Il colloquio con i genitori aiuta a capire meglio non solo le esigenze specifiche che li hanno portati a rivolgersi al Centro, ma anche il tipo di rapporto che la famiglia mantiene con la scuola e quanto è attiva la rete di supporto intorno al figlio. Una volta che l’équipe psicopedagogica ha chiaro il profilo diagnostico e il contesto socio-familiare, procede somministrando

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all’utente alcune prove volte a rilevare il grado di motivazione allo studio e le strategie utilizzate. Queste, insieme all’osservazione diretta dell’educatore, aiutano a stabilire il livello di partenza dell’utente e i punti nodali su cui dirigere l’intervento. Al termine di questo, una seconda somministrazione di quelle prove sulla motivazione e le strategie di studio dispensate in entrata fornisce utili indicazioni per la verifica del raggiungimento degli obiettivi dell’intervento. Il percorso psicopedagogico è caratterizzato anche da colloqui con l’utente sugli aspetti emotivo-relazionali del suo vissuto in relazione alle difficoltà di apprendimento. Questi colloqui facilitano l’apertura del bambino o del ragazzo alla relazione con l’educatore e lo mettono nella condizione favorevole di poter esprimere i propri bisogni, emozioni e vissuti. La relazione d’aiuto che si instaura in questi colloqui tra l’utente e l’educatore, psicologo o pedagogista, permette di far comprendere all’utente che il fine ultimo del lavoro educativo di acquisizione di un metodo di studio è quello di offrirgli un’opportunità di crescita che lo conduca a una gestione autonoma ed efficace dello studio. L’intervento psicopedagogico sarebbe di corto respiro se non prevedesse il coinvolgimento della scuola. Il colloquio con gli insegnanti offre all’educatore preziose informazioni sul suo utente e gli permette di condividere con loro il progetto di intervento psicopedagogico. In questa circostanza, può raccogliere informazioni sui comportamenti che l’utente manifesta nel particolare contesto scolastico, rilevando così difficoltà che non sono emerse nei colloqui con i genitori o con l’utente, e ricevere indicazioni su competenze specifiche da potenziare al fine di un buon rendimento scolastico. Inoltre, questa è l’occasione per offrire un sostegno e una consulenza all’insegnante, se richiesti. L’équipe psicopedagogica del Centro ha messo a punto una serie di percorsi laboratoriali tematici per l’introduzione e il consolidamento di tecniche, strategie, metodi di studio e utilizzo di strumenti compensativi anche tecnologici, aperti a studenti con o senza DSA, insegnanti e genitori. Per esempio, sono stati attivati dei laboratori per apprendere l’uso di software didattici specifici, per il

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potenziamento delle strategie e dei metodi di studio più efficaci, per il raggiungimento dell’autonomia nello studio e l’aiuto per i compiti a casa, per l’apprendimento di una lingua straniera e per l’uso di strumenti didattici multimediali. Recentemente, in collaborazione con le associazioni locali di genitori, i servizi pubblici per l’infanzia e l’adolescenza e le scuole, sono stati attivati dei laboratori didattici multimediali per studenti con DSA della scuola secondaria. Oltre a essere addestrati all’uso di strumenti compensativi, scelti in accordo con i PDP (vedi Box 3.5 del Capitolo 3) e concordati preventivamente con le insegnanti di classe e le famiglie, i ragazzi che vi partecipano sono seguiti durante i periodi critici del percorso scolastico, il tutto al fine di migliorare l’autonomia e la motivazione allo studio.

I Campus dislessia @apprendo Un’altra attività prevista dal Centro, che si è sempre rivelata come un’esperienza assai efficace educativamente, sono i campus residenziali che mirano non soltanto all’autonomia nello studio, ma anche a creare momenti di condivisione dei vissuti legati alle difficoltà comuni tra i partecipanti e, quindi, di crescita personale. All’attività didattica, che prevede la promozione di efficaci strategie di studio, avvalendosi naturalmente degli opportuni strumenti compensativi (da qui il nome “@apprendo” dato al campus), si affiancano attività di tipo prettamente psicologico e ludico-ricreativo. Queste diventano fondamentali sia per accrescere la consapevolezza e l’accettazione delle proprie difficoltà, sia per rafforzare l’autostima personale. Il campus si svolge solitamente in strutture ben attrezzate e immerse nel verde, dotate di un’aula informatica con connessione a Internet dedicata alle attività dei laboratori multimediali. L’esperienza dei campus, quindi, avvicina studenti della scuola secondaria di primo e secondo grado a strategie alternative di lettura e scrittura attraverso l’utilizzo di strumenti compensativi informatici e fornisce la possibilità di apprendere nuove tecniche che possano sostenere l’organizzazione e l’esposizione orale e scritta delle conoscenze anche facendo ricorso a mappe concettuali e mentali.

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Se per uno studente con DSA risulta difficoltoso l’apprendimento della letto-scrittura della lingua italiana, ancora più lo è quello di una seconda lingua, soprattutto se opaca come l’inglese o il francese (vedi Box 3.1 del Capitolo 3). Per questo nei campus prevediamo delle attività specifiche per lo studio di una lingua straniera, consapevoli che la sua conoscenza sia oggi sempre più un prerequisito indispensabile per affrontare un corso di studi universitario e per godere di pari opportunità nel mondo del lavoro.

Il Centro e la scuola: la formazione permanente degli insegnanti, lo screening per l’individuazione precoce di DSA e lo sportello di consulenza Come abbiamo detto, la presa in carico di un bambino con DSA non si esaurisce con il supporto e il rinforzo delle abilità di lettura, scrittura e calcolo e non coincide con la fine della logoterapia. Sebbene queste acquisizioni siano necessarie e importantissime, non sempre sono sufficienti a una totale indipendenza nelle attività di studio. Per questo motivo, durante tutto l’iter scolastico degli utenti, il Centro offre una consulenza ai loro insegnanti, affinché adottino opportune strategie didattiche e introducano strumenti compensativi che garantiscano e facilitino il particolare stile di apprendimento dei loro alunni con DSA. Questa consulenza è di particolare importanza durante i delicati momenti di passaggio dalle scuole elementari alle medie e, successivamente, alle superiori, riducendo il rischio della dispersione scolastica e favorendo il successo formativo. Nell’ottica di promuovere il benessere degli studenti con DSA, il Centro ha sviluppato per loro un’efficace rete di sostegno, attivando strette collaborazioni con le scuole del territorio, attraverso il coordinamento dell’ufficio scolastico regionale e avvalendosi della competenza di docenti universitari e di esperti del servizio sanitario regionale. Sono stati implementati numerosi corsi di formazione per il personale docente dei diversi ordini di scuola, laboratori per l’uso di tecnologie assistive e convegni tematici, a cui, dal 2004 a oggi, hanno partecipato già novemila insegnanti.

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La collaborazione con l’ufficio scolastico regionale e con le scuole del territorio prosegue anche attraverso la somministrazione, nelle prime classi della scuola primaria, di batterie di screening (vedi Box 3.3 del Capitolo 3), per l’individuazione precoce delle difficoltà di lettura e ortografia, e l’apertura di sportelli di consulenza bimestrale per genitori e insegnanti, ossia punti di ascolto gestiti dagli specialisti del Centro. Gli sportelli, attivati dall’anno scolastico 2009-2010, rappresentano uno spazio di informazione e prevenzione del disagio intervenendo su un piano sia affettivo-motivazionale, sia delle difficoltà dell’apprendimento.

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Tecnologie assistive per la facilitazione dell’apprendimento e la compensazione del disturbo

È una bella giornata di primavera, il sole splende alto nel cielo, quando Luca si appresta ad andare a scuola. L’istituto non è molto distante e Luca è solito arrivarci a piedi. Di anno in anno lo zaino che porta sulle spalle si è fatto pesantissimo, sempre più carico di libri e materiali per il lavoro in classe. Il peso col tempo si è fatto gravoso e affatica Luca, a cui costa sempre più quel tragitto che un tempo sembrava così breve e piacevole da percorrere. Il passo si è fatto lento, incerto a volte, e la fatica spesso lo costringe a fermarsi. Pensa a una soluzione, ma quale? Alleggerire lo zaino? Ma da cosa? C’è ben poco di facoltativo che vi ha messo dentro, quasi tutto, e sono le cose più pesanti, è richiesto dagli insegnanti. Comprarsi una bicicletta con delle borse laterali? Certo sarebbe più facile, divertente e meno stancante: pedalando, potrebbe raggiungere la scuola con meno sforzo e in minor tempo. Ma Luca non sa ancora andare in bicicletta. E poi, per quanto breve, la strada che da casa porta a scuola è impraticabile in bicicletta. Troppo trafficata e pericolosa per un bambino. Recentemente, poi, il manto stradale è molto dissestato? Mamma, pensa Luca, non me lo permetterebbe mai. È un racconto di fantasia, questo nostro, metafora del cammino che deve percorrere un alunno con DSA per raggiungere non un edificio scolastico, ma i suoi obiettivi di apprendimento. Un bambino che, come Luca, porta sulle spalle il peso di un disturbo, potrebbe avvalersi di ausili per viaggiare su quella strada che conduce verso

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l’apprendimento, che altri suoi compagni e coetanei percorrono con naturalezza, per non arrivare troppo tardi e sfiancato all’appuntamento di quelle tappe dello sviluppo fondamentali per il suo successo scolastico e benessere. Lo zaino rappresenta il DSA. Alleggerirlo significa mettere in atto, attraverso un trattamento riabilitativo, tutte quelle procedure utili a ridurre le difficoltà riscontrate nella diagnosi. Dai DSA, come abbiamo ripetuto più volte in questo libro, non si guarisce – non fosse altro perché non sono una malattia, ma una caratteristica personale di funzionamento individuale – ma si può vivere certamente bene, ad esempio adottando strategie per il miglioramento di velocità e correttezza della lettura o per il potenziamento dell’apprendimento delle regole di conversione grafema-fonema oppure alleggerendo le procedure elementari di calcolo e così via. Inoltre, nei casi in cui gli esiti del trattamento non soddisfino il criterio di un cambiamento clinicamente significativo o la persona abbia avuto una diagnosi tardiva, l’équipe di specialisti può decidere di sospendere il progetto riabilitativo per proporne uno di tipo educativo, nel quale si preveda l’introduzione di strumenti compensativi. La bicicletta rappresenta, nel racconto di Luca, lo strumento che consentirebbe a uno studente con DSA di svolgere le attività scolastiche in maniera non solo più efficiente ed efficace ma anche più soddisfacente, dal momento che esso andrebbe a costituire per la persona un’estensione delle funzioni senso-motorie e cognitive capace di ridurre le distanze dello svantaggio e rendere così il tragitto verso l’apprendimento scolastico più agevole e meno impegnativo. In altre parole, le tecnologie assistive per la facilitazione dell’apprendimento costituiscono delle vere e proprie psicotecnologie1 attraverso cui le funzioni mentali cognitive, psicologiche e senso-motorie possono essere amplificate, estese, modificate o emulate. Strumenti, dunque, che assumono il ruolo di estensioni 1 Per

un approfondimento del significato di psicotecnologie e del loro uso nell’ambito della comunicazione e della riabilitazione vedi: Simone Borsci, Masaaki Kurosu, Stefano Federici e Maria Laura Mele, Computer Systems Experiences of Users with and without Disabilities: An Evaluation Guide for Professionals, Boca Raton, CRC Press, 2013.

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tecnologiche del sistema cognitivo dell’alunno con DSA, giacché, nell’esperienza del loro utilizzo, rappresentano una parte costitutiva dello spazio soggettivo in cui avviene l’apprendimento. In linea con il significato di emulazione e amplificazione delle funzioni della mente alla base del concetto di psicotecnologie, le Linee Guida per il diritto allo studio di alunni e studenti con DSA definiscono gli strumenti compensativi, introdotti dalla Legge 170/2010, come tutti quegli “strumenti didattici e tecnologici che sostituiscono o facilitano la prestazione richiesta nell’abilità deficitaria”2. Tuttavia, guardare allo strumento compensativo esclusivamente come a un dispositivo che solleva l’alunno dall’esecuzione di una certa prestazione scolastica impedisce di vedere tutto il potenziale benefico che nelle psicotecnologie è insito, ossia l’ulteriore capacità di modificare ed estendere quelle abilità cognitive ridotte dal disturbo di apprendimento. Qualora, infatti, il processo di valutazione e assegnazione di una tecnologia compensativa sia stato fatto con competenza, da specialisti di un team multidisciplinare, incontrando i reali bisogni dell’alunno e del suo contesto, allora questo strumento si trasformerà in una tecnologia positiva3 in grado di migliorare la qualità dell’esperienza, favorire l’apprendimento e quindi facilitare l’adattamento creativo per l’espressione e la maturazione dei talenti personali. La tecnologia, in questo caso, non si limiterebbe a recuperare un deficit, a riparare un meccanismo neurobiologico malfunzionante, ma faciliterebbe l’apprendimento dello studente, sprigionandone capacità e talenti come un potente amplificatore delle sue competenze cognitive.

2 MIUR,

op. cit., p. 7. psicologia positiva è una disciplina nascente i cui obiettivi sono di capire e promuovere i punti di forza e le virtù umane per permettere agli individui, alle comunità e alle società di prosperare. La tecnologia positiva, combinando gli obiettivi della psicologia positiva con i progressi delle tecnologie per l’informazione e la comunicazione, si propone di utilizzare la tecnologia per manipolare e migliorare le caratteristiche della nostra esperienza personale per accrescere il benessere individuale, delle organizzazioni e della società (Giuseppe Riva, Rosa M. Baños, Cristina Botella, Brenda K. Wiederhold e Andrea Gaggioli, Positive Technology: Using Interactive Technologies to Promote Positive Functioning, in Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, n. 15, pp. 69-77, 2012).

3 La

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L’impiego di tecnologie assistive e positive – psicotecnologie – a servizio dell’apprendimento può e deve essere visto come un amplificatore delle conoscenze, che guarda non solo alle abilità deficitarie del soggetto, ma soprattutto alle sue potenzialità. Qui ancora una volta emerge la rilevanza del ruolo di facilitatore che investe genitori, insegnanti, educatori e terapisti. Nella storia di Luca, l’acquisto di una bicicletta di per sé non sarebbe risolutivo se non si adottassero anche tutte quelle misure necessarie affinché l’uso della tecnologia d’ausilio, la bicicletta in questo caso, sia efficace, mettendo prima Luca in grado di andarci in sicurezza e rendendo l’ambiente accessibile a un bambino in bicicletta. Ogni processo di assegnazione di una tecnologia assistiva prevede non solo una valutazione delle condizioni clinico-funzionali dell’individuo, finalizzate al solo ripristino di una facoltà mancante o carente, ma una valutazione e un intervento sui fattori personali e contestuali d’uso dell’ausilio. Per fattori personali intendiamo, ad esempio, le esperienze pregresse di una persona che possono influenzare l’accoglienza e l’uso di una tecnologia proposta. Nel caso di Luca, non avendo mai imparato ad andare in bicicletta, egli presenterà una bassa predisposizione all’uso di tale mezzo. Per cui, prima si renderà necessario un intervento di addestramento all’uso. Ma non basta. Le condizioni ambientali, anche qualora Luca apprendesse ad andare in bicicletta, ne impedirebbero l’uso quotidiano per recarsi a scuola: l’impraticabilità della strada per le condizioni di dissesto e per l’eccessivo traffico sono un ostacolo all’uso. Inoltre, esiste una più che giustificata resistenza dei genitori all’uso della bicicletta per recarsi a scuola considerati proprio i pericoli ambientali del tragitto. Un qualunque intervento per l’assegnazione di una tecnologia assistiva, nel caso di Luca la bicicletta, perché risulti efficace e incontri i bisogni dell’utente deve sempre prevedere una valutazione multidimensionale dei fattori che interagiscono al successo nell’uso di una tecnologia assistiva o, come viene denominata nel caso dei DSA, compensativa. Come abbiamo già scritto nel Capitolo 3, lo studente con DSA deve essere accompagnato in questo percorso di sperimentazione e graduale accettazione di uno strumento compensativo. Più lo strumento viene inserito tardivamente nella vita del ragazzo, più diffi-

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cile sarà la sua accettazione e integrazione nel contesto di apprendimento. Solo la verifica della reale efficacia e dei concreti vantaggi che lo strumento può apportare allo studio riesce a motivare uno studente all’utilizzo di tali tecnologie. Dal punto di vista tecnico, i fattori che possono influenzare la reale usabilità dello strumento sono riconducibili a due: il possesso della strumentazione hardware e software sia da parte della famiglia che della scuola e la reale accessibilità dei contenuti proposti.

Le tecnologie assistive per la compensazione dei disturbi Per tecnologie assistive intendiamo qualunque prodotto, parte di un equipaggiamento o di un sistema, che venga utilizzato per aumentare, mantenere o migliorare le capacità funzionali degli individui con disabilità di ogni età4. Con questo stesso significato, nella lingua italiana è entrato nell’uso comune anche il termine di ausili5. Gli strumenti compensativi previsti per facilitare l’apprendimento e lo svolgimento delle attività didattiche a studenti con DSA rientrano nella macro categoria di tecnologie assistive o ausili. Dal nostro punto di vista, che è condiviso da molti studiosi dei processi di assegnazione e valutazione delle tecnologie assistive, la scelta e l’uso di una tecnologia compensativa per uno studente con DSA, che miri al miglioramento delle sue prestazioni scolastiche e al suo benessere personale, non può ridursi semplicemente all’uso di uno strumento tecnologico di compensazione di un deficit. La scelta di uno o più ausili tecnologici per una soluzione assistiva deve comportare sia un’analisi funzionale dello studente di natura clinica

4 Questa

definizione è oramai condivisa a livello internazionale ed è stata anche recentemente inserita nel primo resoconto mondiale sulla disabilità: World Health Organization (WHO) e World Bank, World Report on Disability, Geneva, WHO, 2011. Disponibile online: http://www.who.int/disabilities/world_report/2011/en/index.html. Per un approfondimento sulle tecnologie assistive vedi Stefano Federici e Marcia J. Scherer (a cura di), Assistive Technology Assessment Handbook, Boca Raton, CRC Press, 2012. Trad. it. a cura di Aldo Stella, Manuale di valutazione delle tecnologie assistive, Milano, Pearson, 2013. 5 Nel testo utilizziamo con il medesimo significato sia “ausili” che “tecnologie assistive”, traduzione questo del termine inglese assistive technologies.

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che valutazioni psico-socio-ambientali dello specifico contesto d’uso dell’ausilio. La soluzione assistiva, in questo caso, che si riferisce quindi a un progetto di un intervento riabilitativo ed educativo di tipo olistico, biopsicosociale, non coincide con la sola assegnazione di una tecnologia assistiva. La soluzione assistiva è un complesso sistema nel quale i fattori psico-socio-ambientali e la tecnologia interagiscono in un modo non sequenziale e lineare – ti do un ausilio e hai compensato il deficit – ma olistico, ovvero sia attraverso la compensazione delle limitazioni dell’attività legate ai meccanismi di lettura, scrittura e calcolo, sia promuovendo la partecipazione sociale dello studente. Per promozione della partecipazione sociale si intende la rimozione o neutralizzazione di tutte quelle componenti sociali che ostacolano l’integrazione di un alunno, barriere costituite da pregiudizi e stereotipi che privano uno studente con DSA di quelle pari opportunità di successo scolastico, sociale e lavorativo. Infine, una soluzione assistiva, che si avvalga di scelte oculate e guidate di strumenti tecnologici compensativi, deve necessariamente essere centrata sulle caratteristiche personali dello studente e soddisfarne i bisogni. Questo richiede un percorso di valutazione e assegnazione delle soluzioni tecnologiche più idonee che preveda un periodo di addestramento dello studente e di verifica della sua soddisfazione nelle reali condizioni di utilizzo scolastico e di vita quotidiana. Queste sono per noi le condizioni di un successo nell’uso di strumenti compensativi per studenti con DSA, linee guida di un processo di scelta e assegnazione di prodotti compensativi. Nel Centro FARE, per esempio, la scelta di una tecnologia compensativa è sempre accompagnata da un progetto educativo che prevede non solo la valutazione delle tecnologie che meglio rispondono alle necessità dei nostri utenti ma anche un periodo di addestramento all’uso, che segue l’assegnazione di una o più tecnologie compensative, di apprendimento di un efficace metodo di studio e di verifiche periodiche post-assegnazione. Esiste una grande varietà di prodotti hardware e software di supporto agli studenti con DSA classificabili entro quattro grandi categorie di prodotti:

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• Hardware per uso comune. Si tratta di apparecchiature informatiche che non si rivolgono a utenti con esigenze particolari, ma che sono usate dalla popolazione in generale come computer da tavolo e portatili. °° A tutti gli studenti con DSA è in genere richiesto un sistema di computer standard che includa un monitor, una tastiera, un mouse e una stampante. Gli studenti con dislessia utilizzano spesso anche uno scanner, fornito in genere di un software per il riconoscimento ottico dei caratteri (OCR) che, attraverso una sintesi vocale, permette di convertire in voce il testo di un’immagine digitalizzata. • Hardware per uso specifico. Si tratta di apparecchiature elettroniche autonome che si rivolgono a utenti con esigenze particolari, cioè di tecnologie assistive. °° Registratori digitali. Usati per la registrazione delle lezioni degli insegnanti e di note personali. °° Correttori ortografici palmari. Usati per controllare il lavoro scritto a mano, che fornisce definizioni di parole e sinonimi. °° Scanner e penne scanner. Le penne scanner sono usate per catturare il testo e trasferirlo su un computer, inoltre pronunciano e definiscono parola per parola. °° Comunicatori alfabetici portatili. Dispositivi alfabetici portatili per usi speciali (ad esempio AlphaSmart) che sono utilizzati da alcuni studenti per prendere appunti a lezione. • Software per uso comune. Software indirizzato alla popolazione generale, come ad esempio Microsoft Office. In genere molti degli applicativi speciali per persone con DSA prevedono che l’utente abbia già installato dei software per uso comune, come elaboratori ed editor di testo. °° Software di riconoscimento vocale (come Dragon NaturallySpeaking) che viene spesso utilizzato dagli studenti con dislessia come mezzo di immissione di testo in un sistema

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informatico, superando così le difficoltà di digitazione. Un altro modo per compensare le difficoltà di digitazione è servirsi di programmi di assistenza alla scrittura a tastiera come Mavis Beacon o Kaz. • Software per uso specifico. Esiste una grande varietà di software indirizzati a persone con DSA, cioè di tecnologie assistive per DSA. Quelli usati più comunemente sono: °° Sistemi di sintesi vocale (ne parleremo nella sezione seguente). °° Dizionari parlanti su CD, utilizzati anche da alcuni studenti con dislessia. Questi forniscono la sintesi vocale dei dizionari standard. Alcuni studenti usano sia i dizionari parlanti sia i sistemi di sintesi vocale, probabilmente perché i primi utilizzano voci umane registrate, anziché voci sintetizzate, che sono in genere preferite dagli utenti. °° Software per la creazione di mappe concettuali, utilizzati da studenti con dislessia per organizzare le informazioni (ne parleremo più avanti). °° Predittore di parola (come il T9), utilizzato per facilitare gli studenti con dislessia nella digitazione delle parole. Nelle sezioni seguenti prenderemo in esame sia alcuni software per uso specifico sia altri, come gli elaboratori di testo, che sebbene classificati per uso comune vengono utilizzati come strumenti compensativi.

La sintesi vocale La sintesi vocale è un software per la riproduzione artificiale della voce umana. La qualità di un sintetizzatore vocale si valuta sulla base sia della somiglianza con la voce umana che con il suo livello di comprensibilità. Un programma di conversione da testo in voce può avere un ruolo importante nell’accessibilità di contenuti di testo, consentendo sia a persone cieche o ipovedenti sia a dislessici di ascoltarli.

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Il tentativo di costruire macchine per riprodurre la voce umana ha radici molto lontane. I primi sistemi di sintesi vocale basati su computer furono creati sul finire degli anni Cinquanta e il primo text-to-speech (da testo a voce) completo venne realizzato nel 1968. I primi sintetizzatori vocali elettronici ricreavano una voce molto metallica ed erano spesso incomprensibili. Da allora la qualità è migliorata costantemente e la voce prodotta dai moderni sistemi di sintesi vocale è talvolta indistinguibile dalla voce umana non virtuale. Le qualità più importanti che una sintesi vocale dovrebbe possedere sono, infatti, la naturalezza e la comprensibilità. La prima esprime quanto la voce sintetizzata si avvicini a quella umana, mentre la seconda rappresenta quanto sia facilmente comprensibile. Per questo, si dice di buona qualità un sintetizzatore che possieda allo stesso tempo una voce naturale e comprensibile. In realtà è molto difficile valutare in modo univoco i sistemi di sintesi vocale in quanto non esistono modelli di riferimento. La qualità di un sistema di sintesi vocale dipende in modo significativo dalla qualità non solo della tecnica usata per la produzione, ma anche dagli strumenti e dal contesto di riproduzione. Apple fu la prima azienda informatica a integrare la sintesi vocale nel sistema operativo dei propri computer, con il software MacInTalk, prodotto nel 1984 e disponibile sui modelli Macintosh. All’inizio degli anni Novanta, Apple ne ampliò le funzionalità estendendo la conversione vocale del testo a tutto il sistema. I sistemi Windows invece, impiegano una sintesi vocale basata su SAPI4 e SAPI5. Nelle versioni di sistema operativo Windows 95 e Windows 98, SAPI 4.0 era disponibile come componente aggiuntivo di produzione esterna. Fu con Windows 2000 che venne aggiunto il programma Microsoft Narrator, un sistema di sintesi vocale disponibile direttamente per tutti gli utenti di computer: una volta installato, tutti i programmi compatibili con Windows potevano utilizzarne le funzionalità di sintesi vocale tramite menu appositi. Microsoft Speech Server è un pacchetto completo per la sintesi e il riconoscimento vocali, sviluppato per applicazioni di carattere commerciale come ad esempio i call center. Esistono inoltre varie applicazioni di

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sintesi vocale per computer basati su sistemi operativi open source6, come GNU/Linux, tra cui Festival Speech Synthesis System. Allo stato attuale esistono anche molti applicativi e plug-in per client di posta o navigatori Internet in grado di leggere direttamente i messaggi di posta elettronica e le pagine web. Un campo di applicazione in continuo sviluppo è legato all’impiego della sintesi vocale per l’accessibilità tramite Web, con i cosiddetti Talklet sviluppati dall’azienda inglese Textic. Con questi strumenti non è necessario scaricare un software sul proprio computer ma chiunque, per qualsiasi scopo, può accedere a funzioni di sintesi vocali direttamente via Internet usando un qualsiasi browser. Come in tutte le applicazioni basate sul Web, i tempi di risposta dipendono essenzialmente dalle caratteristiche del collegamento Internet dell’utente finale, ma la facilità di accesso resta indubbiamente un punto di forza di questo approccio7. Nel caso più specifico degli studenti con DSA, sono essenzialmente due i fattori legati all’utilizzo della sintesi vocale che incidono sul suo impiego e sull’apprendimento: l’assuefazione e il contesto di riproduzione. Si sono verificati casi in cui studenti, ormai avvezzi all’utilizzo di sintesi vocali di scarsa qualità e quindi con voce molto meccanica, preferissero questa voce a quelle di qualità superiore. Ciò dimostra che l’uso costante e assiduo di questo strumento produce con il tempo una sorta di assuefazione, per cui lo studente non si accorge quasi più dell’artificialità della voce che sta leggendo, abituandosi all’ascolto di questa in sostituzione della lettura. Dall’altro lato è importante la valutazione del contesto di riproduzione della sintesi vocale, ovvero l’ambiente di lavoro che il soft­ware propone. Sintesi vocali gratuite, come l’applicativo di ori-

6 “Software

di cui l’utente finale, che può liberamente accedere al file sorgente, è in grado di modificare a suo piacimento il funzionamento, correggere eventuali errori, ridistribuire a sua volta la versione da lui elaborata. L’esempio più noto è il sistema operativo Linux. La distribuzione di un software in formato o. presuppone la rinuncia da parte dei programmatori al diritto di proprietà intellettuale.” (Collaboratori Treccani, Open source, in Treccani.it – Enciclopedia Italiana on line, 2013. Disponibile online: http://www.treccani.it/enciclopedia/open-source). 7 Per approfondimenti vedi anche http://it.wikipedia.org/wiki/Sintesi_vocale.

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gine russa Balabolka8, molto diffuso fino a qualche tempo fa, presentavano un ambiente di lavoro che permetteva di visualizzare e ascoltare testi anche in formato PDF9. Il software di gestione della sintesi vocale incorpora il testo in PDF eliminando la formattazione e gli elementi di paratesto, come mostrato nella Figura 6.1. La lettura è agevolata dall’evidenziazione sullo schermo del testo letto, che coinvolge non soltanto il canale uditivo ma anche quello visivo, e permette di seguire l’ascolto con facilità, senza perdere il segno.

Figura 6.1  Schermata del programma in fase di lettura (fonte: Balabolka© 2006-2013, www.cross-plus-a.com/balabolka.htm).

Tuttavia, si perdono così, tutti gli elementi paratestuali, che facilitano la comprensione di un testo, come titoli, parole in neretto, immagini, grafici, ecc. Le sintesi vocali di nuova generazione nascono appunto da questa consapevolezza e permettono di utilizzare il programma per l’ascolto di testi direttamente aprendo una 8 Per

approfondimenti vedi http://www.cross-plus-a.com/it/balabolka.htm. è l’acronimo di Portable Document Format che è un formato di file basato su un linguaggio di descrizione di pagina sviluppato da Adobe Systems nel 1993 per rappresentare documenti in modo indipendente dall’hardware e dal software utilizzati per generarli o per visualizzarli.

9 PDF

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finestra sopra il testo in PDF da leggere, senza che l’utente ne perda di vista la formattazione originale (Figura 6.2). È il caso della sintesi vocale LeggiXme10. LeggiXme_SP è un programma che si avvale delle diverse opzioni di voce della sintesi vocale della Microsoft Speech Platform, uno strumento gratuito messo a disposizione da Microsoft. All’avvio del programma si apre una finestra con cinque pulsanti che resterà in primo piano per tutto il tempo desiderato.

Figura 6.2  Il programma LeggiXme_SP di Giuliano Serena apre una finestra con i comandi sopra il documento da leggere.

Cliccando sull’icona del quaderno, si apre una finestra dove viene visualizzato il testo selezionato e ascoltato. A questo punto ci si trova dentro un ambiente di lavoro che permette di lavorare sul testo, traducendolo, evidenziandolo, riassumendolo, modificandolo. Questo software è quello che più si avvicina a uno strumento compensativo per uso didattico. È vero che si può ascoltare un testo utilizzando molti programmi di sintesi vocale, ma ciò che rende la lettura o lo studio significativi per un apprendimento scolastico è la possibilità di manipolare e interagire con il testo che si ha davanti. 10 Per

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approfondimenti vedi: https://sites.google.com/site/leggixme/.

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Per queste sue caratteristiche, LeggiXme_SP è altrettanto utile anche per compensare le difficoltà di scrittura. Nella produzione di un testo scritto, l’alunno con dislessia arriva spesso al termine del suo lavoro troppo stanco perché abbia ancora energie da prestare a un’attenta rilettura di quanto scritto. L’ascolto della sua produzione attraverso la sintesi vocale supporta lo studente in due modi. Il primo è legato al controllo degli aspetti morfosintattici. Riascoltando il testo scritto, l’alunno può comprendere se la punteggiatura da lui inserita è corretta. Il secondo è invece legato agli aspetti ortografici. La sintesi vocale permette di ascoltare le parole suggerite dal correttore ortografico (Figura 6.3) e ciò semplifica di molto la scelta della parola corretta da inserire in sostituzione di quella errata evidenziata dal correttore stesso. Inoltre, l’ascolto del testo permette allo studente di prestare attenzione ai contenuti espressi e valutarne la validità.

Figura 6.3  Il correttore ortografico nel programma LeggiXme_SP.

Altro vantaggio connesso all’utilizzo della sintesi vocale è la calcolatrice parlante (Figura 6.4). L’ascolto dei numeri digitati sulla calcolatrice facilita tutti quegli studenti che, come nella lettura delle lettere confondono p e q, b e d, nella lettura dei numeri hanno difficoltà a distinguere il 5 dal 2 o il 9 dal 6. Siccome questa difficoltà di riconoscimento è legata solo a un processo di lettura dei sim-

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boli grafici, alfabetici e numerici, l’ascolto offre allo studente la possibilità di verificare se il numero digitato è diverso da quello che avrebbe voluto scrivere.

Figura 6.4  Il programma LeggiXme_SP è dotato di una calcolatrice “parlante” che resta aperta sopra il testo del problema per tutto il tempo necessario al suo svolgimento.

I programmi di video scrittura Per videoscrittura s’intende la scrittura effettuata mediante un dispositivo dotato di video sul quale viene visualizzato il testo che può anche essere salvato, modificato e stampato più volte. L’evoluzione della videoscrittura è andata di pari passo con le innovazioni tecnologiche. Sistemi hardware e software sempre più potenti e alla portata di tutti per costi, facilità d’uso e dimensioni degli apparecchi, portabilità dei contenuti e dei software (che possono essere gestiti indifferentemente sia da un ingombrante computer da tavolo in ufficio, sia da un comodo e tascabile smartphone in qualunque altro luogo) e la diversità delle fonti da cui attingere o immagazzinare dati e software (sia attingendo i dati da dispositivi di memoria sempre più potenti per capacità, velocità e dimensioni ridotte, sia navigando in Internet), hanno reso assai popolare la scrittura digitale che per i nativi digitali oggi è lo strumento d’eccellenza di ogni forma di comunicazione. La scrittura digitale può avvenire tramite

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l’utilizzo di tanti sistemi di comunicazione, dai 140 caratteri di un tweet o di un SMS ai testi senza limiti di spazio di un’e-mail. Tutti questi strumenti di comunicazione si avvalgono di sistemi di videoscrittura più o meno elaborati, che possono andare dal semplice completamento automatico del testo che si sta digitando, alla correzione delle parole o alla loro traduzione in altre lingue. I software di videoscrittura, a cui noi ci riferiamo per un uso didattico e compensativo, hanno molti elementi in comune con i più diffusi sistemi di videoscrittura installabili su un proprio computer o utilizzabili direttamente stando connessi a Internet. La loro caratteristica principale consiste nel separare nettamente i due momenti fondamentali della scrittura: la digitazione e la revisione. Questi software danno la possibilità all’utente di predisporre un documento con determinate impostazioni di impaginazione, di apportare modifiche, memorizzarlo e stamparlo in più copie originali. Successivamente, il testo prodotto potrà venire riutilizzato e rivisitato, con la possibilità che anche altri utenti possano apportare eventuali modifiche, e riprodotto a mezzo stampa come se si trattasse di un nuovo documento originale. Inoltre, è possibile gestire in contemporanea più documenti, copiando e spostando interi blocchi di testo da un documento a un altro per ottenerne uno nuovo. Per uno studente disgrafico o disortografico, la necessità del­ l’impiego di uno strumento di videoscrittura diventa subito evidente. L’incapacità ad apprendere una bella grafia non si riduce a un problema di natura estetica. Infatti, una brutta grafia è illeggibile non solo al destinatario del messaggio ma anche allo stesso autore. Uno studente disgrafico o disortografico, che prendesse appunti di una lezione o si annotasse sul diario i compiti a casa, non sarebbe in grado di potersene servire, perché risulterebbero illeggibili a lui stesso. A questo si aggiunga il disagio psicologico vissuto da uno studente quando di fronte ai propri insegnanti e compagni di classe dimostra di non saper leggere la propria scrittura. Per quanto mortificante e discriminante possa essere, è noto a tutti il proverbio italiano chi non legge la sua scrittura è un asino di natura. Questo proverbio coglie a fondo il pregiudizio diffuso nei confronti di un DSA. Non di meno, però, riesce a farci intuire l’umiliazione che deve provare uno studente disgrafico. Per questo, poter produrre in

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autonomia un testo da tutti leggibile e bello esteticamente è molto gratificante. Un ottimo ausilio per facilitare un adulto disgrafico a prendere appunti di una lezione frontale o di una conferenza è una smartpen come la Livescribe (www.livescribe.com). Questa penna, che scrive come ogni altra penna a sfera, ha incorporato un microfono digitale e uno scanner. Attraverso questa penna intelligente è possibile prendere appunti o tracciare grafici e disegni collegando quanto si è appuntato sul quaderno o taccuino esattamente con quanto si stava ascoltando di una lezione o di una conferenza. Questo libera la persona disgrafica dal timore di non scrivere con chiarezza gli appunti perché, anche se alcune parti del testo dovessero poi risultare illeggibili, la smartpen riprodurrà esattamente quella parte del discorso registrata nel momento in cui è stata scritta la nota. Basterà, infatti, appoggiare la smartpen in un qualunque punto del testo scritto o di un grafico per riascoltare quella parte della lezione o della spiegazione dello schema che si è disegnato. Questa tecnologia non è stata creata per un uso specifico ma per un uso comune; tuttavia, può costituire un ottimo ausilio tecnologico per uno studente disgrafico di scuola superiore o universitario. Anche nell’uso di strumenti compensativi alle difficoltà di scrittura, come abbiamo scritto per la sintesi vocale, vale il principio di una corretta valutazione del software da adottare e un corretto addestramento all’uso. In generale, i metodi utilizzati per un corretto apprendimento della videoscrittura sono sostanzialmente gli stessi della dattilografia, la quale associa una buona conoscenza dello strumento di lavoro hardware e software all’apprendimento del metodo di scrittura a tastiera cieca, cioè senza guardare la tastiera, mantenendo una postura ergonomica. In Internet si possono trovare diversi materiali disponibili gratuitamente sia per coloro che desiderano imparare la digitazione a dieci dita alla cieca, sia per quanti la vogliono insegnare. Uno di questi è Tutore Dattilo (www.tutoredattilo.it), un’applicazione pensata per aiutare bambini e adulti non esperti all’uso della tastiera del computer. Il programma propone di base una serie di esercizi – ottimizzati al tipo di tastiera che si utilizza, in genere una

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QWERTY11 – suddivisi su tre livelli di difficoltà crescente, che consentono di migliorare rapidamente la velocità e la precisione di battitura. Inoltre, tramite l’Editor Dattilo fornito con il programma, è possibile creare in modo molto semplice esercitazioni personalizzate, anche in lingue diverse, scegliendo il grado di difficoltà. Tutti gli esercizi possono essere eseguiti in modalità principiante o esperto, così da differenziare l’attribuzione del punteggio finale coerentemente con le abilità dell’utente, rinforzandone, soprattutto agli inizi, la motivazione all’apprendimento. Per un risultato ottimale è tuttavia necessario attuare tutti gli accorgimenti necessari affinché l’utente non resti legato esclusivamente all’aspetto grafico e alla correttezza ortografica ma, sollevato dal dover compiere il processo motorio della scrittura, possa concentrare, in misura sempre maggiore, la propria attenzione ed energia al trattamento del testo e curare, quindi, in particolar modo, tutte le fasi della scrittura: dalla generazione di idee alla pianificazione e stesura del testo e, infine, alla revisione finale. Per la videoscrittura ci si avvale di software commerciali o open source di uso comune. Infatti, ciò che li rende assistivi, cioè compensativi di abilità deficitarie, non è il fatto che siano stati destinati specificamente a studenti con DSA ma è l’uso che se ne fa. Tutte le tecnologie di largo consumo possono diventare di ausilio. Ciò che trasforma una tecnologia in assistiva è il processo d’intervento finalizzato alla ricerca di una soluzione a un bisogno individuale attraverso: il concorso di più prodotti provenienti sia dal circuito commerciale del largo consumo, sia dal mondo delle tecnologie assistive, il cui assemblaggio e la cui configurazione possono variare da un individuo all’altro, e da un contesto all’altro.12 11 QWERTY

è la disposizione più comune dei tasti di una tastiera moderna. Il nome deriva dai primi sei tasti che compaiono a sinistra della fila superiore delle lettere della tastiera che, lette da sinistra a destra, sono: Q-W-E-R-T-Y (http://en.wikipedia. org/wiki/QWERTY http://it.wikipedia.org/wiki/QWERTY). 12 AAATE e EASTIN, Sistemi di assistenza protesica in Europa: Indicazioni e proposte. Documento programmatico, Aaate.net, 2012, p. 7. Disponibile online: http:// portale.siva.it/files/doc/library/a416_1_ATServiceDelivery_PositionPaper_IT.pdf.

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Gli strumenti compensativi per uno studente disgrafico si avvalgono di prodotti commerciali di largo consumo come un semplice editor di testo, come il Blocco note di Windows, o di elaboratori di testo (word processor) più sofisticati, con opzioni avanzate di formattazione e aiuti alla stesura del testo, come Microsoft Word. Sempre all’interno della tipologia dei prodotti di largo consumo, ne troviamo non commerciali open source disponibili gratuitamente, come Writer di OpenOffice. Ai prodotti di largo consumo, commerciali e non, si affiancano poi quelli provenienti dal mondo delle tecnologie assistive, ossia pensati specificamente per studenti con bisogni speciali, che installati insieme ai programmi di videoscrittura di largo consumo ne facilitano l’uso. Un pacchetto di prodotti specifico per rendere accessibili agli studenti con disabilità cognitive, sensoriali, neuromotorie e difficoltà di apprendimento i programmi di videoscrittura è FacilitOffice (www.facilitoffice.org), il cui progetto è stato finanziato dal Ministero dell’Istruzione. Per esempio, una volta installato FacilitOffice sul proprio computer, dove sia già presente un software di elaborazione testi, sarà possibile usufruire di una serie di strumenti di facilitazione direttamente all’interno del documento che si sta scrivendo (Figura 6.5). Tra le funzioni principali troviamo: la sintesi vocale, che legge parole e frasi durante la digitazione, il vocabolario e l’inserimento di un’immagine accanto all’ultima parola scritta. Quest’ultima funzione può aiutare a rendere il compito di scrittura molto motivante, stimolando il bambino, spinto dalla curiosità di vedere l’immagine della parola digitata, a produrre di più. Vedi esempio riportato nella Figura 6.6. L’insieme, dunque, di tecnologie di largo consumo e assistive, se utilizzate all’interno di un progetto didattico-educativo, permette di creare delle soluzioni compensative, facilitanti e motivanti per tutti i bambini, per l’apprendimento della letto-scrittura di studenti con DSA. I software per la costruzione di mappe Non si può parlare di mappe senza conoscere come funziona la mente che apprende. L’attenzione che la psicologia cognitiva ha rivolto verso queste tematiche a partire dagli anni Sessanta, ci aiuta

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Figura 6.5  Menu di FacilitOffice, programma realizzato dal Centro Ausili dell’IRCCS “E. Medea” di Bosisio Parini, come si presenta in un comune programma di videoscrittura.

Figura 6.6  Esempio di testo scritto con il programma gratuito OpenOffice Writer, Apache Software Foundation, integrato al software FacilitOffice. In particolare, qui è riportata una schermata della funzione “inserisci immagine accanto all’ultima parola scritta”.

a comprendere le leggi dell’apprendimento e della memoria, le modalità attraverso cui le conoscenze acquisite in precedenza favoriscono i nuovi apprendimenti. Questo ha portato a tracciare il ritratto di uno studente attivo, protagonista del proprio processo di apprendimento e non più una scatola vuota da riempire. La ricaduta e l’applicazione che queste teorie hanno avuto sul piano didattico ha portato alla nascita della didattica costruttivista, vale a dire una didattica attiva, aperta e metacognitiva che si fa carico della complessità e dell’unicità di ogni singola situazione apprenditiva. È evidente, quindi, come una didattica così attenta diventi una risorsa imprescindibile per chi affronti l’apprendimento con difficoltà.

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Dall’interazione costante con l’ambiente, l’essere umano si forma costellazioni di mappe cerebrali che sono la base biologica delle immagini mentali. L’informazione non viene immagazzinata nella mente umana in modo disorganico e non strutturato. Perché un’informazione possa essere appresa, deve poter trovare un suo significato che è dato dalla relazione che essa può stabilire con quella in possesso di un individuo. Questo rapporto, che è ciò attraverso cui la mente attribuisce significato a un contenuto d’informazione, è, a livello cerebrale, il nesso neurobiologico che la nuova informazione stabilisce sviluppando mappe neurali. Per semplificare questo processo neurocognitivo, immaginiamo il funzionamento di un social network come Facebook. Una nuova informazione è in Facebook un nuovo utente registrato. Senza la registrazione, un utente resta sconosciuto alla rete. La registrazione impone al nuovo utente di inserire una serie di informazioni e rispettare alcune regole necessarie per essere riconosciuto come membro del social network. Così avviene anche per un essere umano che può immagazzinare solo quella nuova informazione che rispetta alcune regole – non possiamo, per esempio, immagazzinare il colore dell’ultravioletto o costruire una melodia con ultrasuoni – ed è recuperabile da un nome identificativo. Ma non basta. La visibilità di un utente in un social network è data dalla capacità che l’utente ha di costruirsi una rete di legami con altri utenti. Più un utente ha amici più è visibile, più è visibile più sarà facilmente raggiungibile e più la sua posizione nel social network sarà rilevante. Così avviene nella mente umana. Un’informazione che non costruisse legami con altri contenuti già presenti nella nostra mente andrebbe persa, dimenticata nel mare infinito dell’informazione mentale. Più la rete della nuova informazione è estesa, più questa sarà significativa, rilevante per la nostra mente. Le mappe, quindi, non sono delle arbitrarie e astruse strategie didattiche messe in atto da originali insegnanti. Esse rispecchiano il modo in cui l’informazione è elaborata e rappresentata a livello biologico e mentale. La mappa da una parte facilita la creazione di mappe cerebrali, di reti di significati, dall’altra aiuta a recuperare l’informazione appresa. Per tornare all’esempio del social network,

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io posso ritrovare un utente sia perché ne conosco il nickname, sia perché lo ritrovo tra gli amici dei miei amici. Il recupero di un’informazione, quindi, è facilitato se la rete di significati che ho costruito intorno a essa è vasta, perché mi permette di accedervi sia direttamente sia attraverso altri contenuti di informazione a cui è legata. Inoltre, la forza di un contenuto di apprendimento, determinata dalla facilità con cui può essere recuperato dalla mia memoria e utilizzato adeguatamente, non dipende solo dalla rete di significati concettuali di tipo verbale a esso connesso, ma anche dalla ricchezza di contenuti non verbali a esso associati: immagini, suoni, odori, emozioni, azioni, ecc. Questo chiarisce ulteriormente il perché le mappe, in quanto rappresentazioni grafiche della conoscenza, siano così vantaggiose per l’apprendimento e debbano quindi essere raccomandate nella didattica. Infine, le mappe sono uno strumento di apprendimento elettivo per studenti con DSA, perché favoriscono il ragionamento e l’acquisizione dei contenuti dell’insegnamento svincolandoli da una modalità comunicativa solo legata alla letto-scrittura. Se i contenuti sono veicolati e accessibili solo attraverso la lettura di un libro scolastico, lo studente dislessico sarà svantaggiato nel dimostrare e nell’accrescere la sua intelligenza. Infatti, per uno studente dislessico già la sola decodifica del testo scritto può richiedere un tale sforzo da assorbire anche quelle risorse cognitive che in studenti che hanno automatizzato il processo di lettura sono indirizzate alla sola comprensione del testo. Diversamente, la rappresentazione grafo-visiva di una mappa concettuale, proprio perché trasmette un contenuto in una modalità non solo verbale, permette all’alunno con DSA di investire le sue risorse cognitive totalmente nella comprensione dei significati che la mappa concettuale racchiude. Per questa ragione, l’utilizzo di software per la creazione di mappe può costituire un valido strumento compensativo. Finora abbiamo parlato in senso ampio di mappe. Tuttavia, esiste una distinzione teorica e tecnologica fra modelli di schematizzazione di contenuti e i relativi software per la loro realizzazione al computer.

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Ian M. Kinchin e David B. Hay13, in uno studio pilota sull’uso delle mappe per ottimizzare il lavoro collaborativo tra studenti, distinguono tre tipologie di strutture, in relazione al rapporto gerarchico esistente tra i concetti. 1. Spoke. Struttura a raggiera (Figura 6.7). È un tipo di schematiz-

zazione molto semplice, che lavora per singoli livelli: a un concetto centrale vengono collegati a raggiera concetti secondari. Questa tipologia ricorda il concetto di mappa mentale sviluppato da Buzan14. 2. Chain. Struttura a catena (Figura 6.8). Connette concetti in

sequenza lineare, simile a un diagramma di flusso. È possibile creare questa tipologia di schemi anche con programmi di uso comune come Microsoft Power Point. 3. Net. Struttura a rete (Figura 6.9). È una schematizzazione più

complessa, che permette di effettuare anche collegamenti trasversali tra i concetti. Risponde a questa tipologia di schema la mappa concettuale così come definita da Novak15. Presenteremo due tipi di tecnologie per la produzione di due strumenti di schematizzazione a raggiera e a rete: per le mappe mentali (a raggiera) e per le mappe concettuali (a rete). Quella delle mappe mentali è una tecnica di rappresentazione grafica della conoscenza. Una mappa mentale consiste in un diagramma nel quale i concetti sono presentati in forma grafica: l’idea principale si trova al centro dello schema, mentre le informazioni e i dettagli di approfondimento vengono legati, secondo una geometria radiante, via via verso l’esterno. Nella Figura 6.10 riportiamo un esempio di mappa mentale di scienze su “le piante”.

13 Ian

M. Kinchin e David B. Hay, Using concept maps to optimize the composition of collaborative student groups: a pilot study, in Journal of Advanced Nursing, 2005, n. 51, pp. 182-187. 14 Buzan, T., Usiamo la testa. Come liberare il potere della mente. Milano, Sperling & Kupfer, 2011. 15 Novak, J. D.,Costruire mappe concettuali. Strategie e metodi per utilizzarle nella didattica. Trento, Erickson, 2012.

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Figura 6.7  Esempio di schema a raggiera (spoke).

Figura 6.8  Esempio di schema a catena (chain).

Figura 6.9  Esempio di schema a rete (net).

Figura 6.10  Esempio di mappa mentale su “le piante” realizzata con il programma open source FreeMind 0.9.0.

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Un software per la realizzazione di mappe mentali è FreeMind, programma open source (http://freemind.sourceforge.net). La mappa realizzata con FreeMind può essere letta dalla sintesi vocale e salvata in vari formati: PDF, file immagine, HTML, documento di testo, ecc. (Figura 6.11). Assai utile è la funzione che permette di esportare la mappa come documento senza doverla copiare: lo studente che deve scrivere un elaborato può così pianificare il suo testo utilizzando la mappa mentale e disporre le informazioni di quest’ultima direttamente nel programma di videoscrittura utilizzato per la stesura del testo (Figura 6.12). Le mappe mentali vengono costruite su parole chiave e su figure: l’utilizzo combinato di parole e immagini facilita la memorizzazione dei contenuti e il loro apprendimento. Inoltre, per la ragioni su esposte, più si ricorre a grafiche originali e all’uso del colore più si arricchiscono i canali attraverso cui una medesima informazione è veicolata, facilitando l’apprendimento e favorendo la visualizzazione mentale del contenuto appreso.

Figura 6.11  L’immagine mostra com’è possibile esportare la mappa creata con il software FreeMind 0.9.0 in un documento di testo OpenOffice Writer 2.4.

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Figura 6.12  Esempio di testo estratto dalla mappa mentale realizzata con FreeMind 0.9.0 ed esportato in OpenOffice Writer 2.4.

La mappa concettuale costituisce un processo di ulteriore approfondimento di un contenuto rispetto alla mappa mentale. Essa è una rappresentazione gerarchica e grafica di una rete di concetti, eventi, teorie e dei loro legami, che esplicita le conoscenze su un dato argomento (Joseph D. Novak). Le mappe concettuali sono le rappresentazioni grafiche di concetti espressi in forma sintetica (parole-concetto) all’interno di una forma geometrica (nodo) collegati fra loro da linee o frecce che esplicitano la relazione attraverso parole-legamento (Figura 6.13). CmapTools (http://cmaptools.softonic.it/) è un buon applicativo, uno strumento grafico completo per creare mappe concettuali finalizzate all’organizzazione grafica di progetti, attività, informazioni e altro ancora. CmapTools mette a disposizione una serie di strumenti grafici per creare mappe concettuali elaborate e attraenti visivamente. Con pochi clic è possibile creare e descrivere le caratteristiche fondamentali di una mappa: i nodi concettuali e le relazioni associative che li collegano. È possibile personalizzare i nodi con colori, caratteri particolari, immagini (Figura 6.14) e altro ancora. Integrando CmapTools con CmapServer è anche possibile

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Figura 6.13  Esempio di mappa concettuale su “le piante” realizzata con il programma IHMC CmapTools 5.05.01.

Figura 6.14  Esempio di mappa concettuale realizzata con il programma IHMC CmapTools v5.05.01 e arricchita con immagini.

condividere le mappe e collaborare alla loro realizzazione con altri utenti connessi in rete locale o Internet. È possibile, inoltre, esportare le mappe in formati comuni, come HTML, PDF o JPG. Questo programma è anche dotato di correttore ortografico e offre la possibilità di inserire immagini all’interno dei nodi.

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Da un punto di vista metodologico i passaggi chiave per la costruzione di una mappa concettuale possono essere così riassunti: 1. Identificare una domanda focale e 10-20 concetti pertinenti. 2. Mettere in ordine i concetti, sistemando quello più chiaro e

completo in cima alla mappa. 3. Iniziare a costruire la mappa sistemando i concetti più completi

e generali in alto. 4. Selezionare i concetti subordinati da sistemare sotto ogni con-

cetto generale. 5. Collegare i concetti tra loro con linee e parole di

collegamento. 6. Rielaborare la struttura della mappa. 7. Creare i collegamenti trasversali tra i concetti.

Le mappe possono essere disegnate a mano oppure costruite facilmente al computer, godendo di tutti i vantaggi offerti dal mezzo informatico, vale a dire la possibilità di avere materiali riproducibili e riutilizzabili, memorizzati e reperibili velocemente ed esteticamente molto gratificanti. Visto che le abilità necessarie per la creazione di mappe, attraverso i sette punti su indicati, spesso sono deficitarie in uno studente con DSA, può essere d’aiuto fornirgli, inizialmente, uno scheletro di mappa che viene in seguito personalizzato dallo studente medesimo. Siccome non esiste una sola mappa giusta di un concetto o contenuto, l’uso delle mappe oltre a esercitare il pensiero razionale stimola il pensiero creativo, dando la possibilità a ciascuno di organizzare in modo originale i contenuti della conoscenza. Tuttavia, proprio per questa possibilità creativa di organizzazione delle conoscenze offerta dalle mappe, è indispensabile che l’insegnante verifichi se l’ordine dato nella mappa manifesta problemi d’interpretazione in rappresentazioni fallaci della conoscenza, per guidare l’alunno all’espressione di una creatività che non mortifichi la razionalità. È fondamentale allenare gli studenti a questa modalità di studio, guidandoli nella comprensione di regole della sintassi dei

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simboli grafici. Per esempio, l’uso di una freccia tra due concetti non è solo un abbellimento, ma indica una relazione, e il tipo di freccia, uni- o bi-direzionale, può indicare il tipo di relazione tra i concetti, e così via. Per un corretto uso delle mappe è necessario, dunque, che l’alunno sia ben consapevole di queste regole, abile in un lavoro metacognitivo di tipo strategico che può partire dalla comprensione di un testo scritto, passare attraverso l’individuazione di parole chiave, fino a raggiungere la capacità di esposizione orale della mappa creata. Uno studente con DSA, chiamato a sostenere una prova orale o scritta, troverà un grande vantaggio nel superamento delle sue difficoltà se avrà la possibilità di ricorrere a mappe personali. La mappa cognitiva o mentale da lui creata e studiata gli permetterà di visualizzare nella mente quei contenuti a lui difficilmente accessibili come memoria visiva del testo scritto. Molti studenti con sviluppo tipico a volte possono facilmente richiamare a mente i contenuti di un brano di un libro anche attraverso la visualizzazione mentale del testo letto. La memoria visiva può supportare anche uno studente dislessico qualora, però, abbia legato il contenuto a una rappresentazione grafica e non solo testuale, vista la difficoltà di lettura, del contenuto da apprendere. Inoltre, l’uso di mappe, se anche può essere considerato come uno strumento compensativo per uno studente con DSA, deve, tuttavia, essere ritenuto di grande arricchimento per tutti gli studenti di una classe, proprio perché favorisce la maturazione di competenze richieste a tutti gli alunni. Di per sé, quindi, non è l’adozione di strumenti per la creazione di mappe concettuali o mentali a essere compensativo, che una didattica inclusiva dovrebbe già prevedere di includere per tutti gli studenti, ma il progetto didattico-educativo individualizzato per uno studente con DSA entro cui questi supporti didattici sono considerati compensativi.

Le tecnologie open source e l’accessibilità dei contenuti cartacei Dati ISTAT relativi al 2012 riportano che in Italia cresce la dotazione tecnologica delle famiglie: il 92,4% possiede un cellulare e il

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59,3% dispone di un personal computer, percentuale che sale all’83,9% nelle famiglie con almeno un minorenne16. È molto probabile, dunque, che la famiglia di uno studente con DSA, a cui si consigli l’uso di strumenti compensativi, possegga già un computer dove installare i software di ausilio. Di conseguenza, oggi il problema non è tanto fornire alle famiglie l’hardware necessario al funzionamento di tecnologie compensative, quanto rendere accessibili i software necessari. Seppure molti dei più comuni software commerciali di elaborazione testi offrano versioni educational a prezzi estremamente ridotti per insegnanti e studenti, tuttavia, l’acquisto di questi può restare per molte famiglie ancora troppo oneroso. È chiaro che per alcune strategie d’intervento è necessario che non solo il singolo studente con DSA possegga la tecnologia necessaria per il funzionamento degli strumenti compensativi, ma anche che gli insegnanti stessi possano accedere a questi ausili, strutturando una didattica che integri strumentazione digitale. Per cui, la dotazione e il costo di software per interventi compensativi con studenti con DSA non riguarda solo le famiglie ma anche le scuole. Dotare un’intera aula informatica di software a pagamento può richiedere uno sforzo economico difficile da affrontare anche per una scuola. Per ovviare alle difficoltà legate ai costi, sempre più scuole e famiglie decidono di affidarsi a prodotti gratuiti, open source. Un programma open source è quello i cui sviluppatori hanno rinunciato ai loro diritti d’autore e diffuso gratuitamente il prodotto permettendo a chiunque di poter incrementare prestazioni e funzionalità del programma implementando nuove versioni disponibili a tutti. Questo consente all’utente di avere un software sempre aggiornato, installabile su un numero illimitato di computer e facilmente condivisibile con altri potenziali utenti. Il possesso del computer e dei programmi necessari al supporto compensativo non è, comunque, ancora sufficiente a garantire allo studente con DSA la reale accessibilità dei contenuti. Anche se le 16 ISTAT,

Cittadini e nuove tecnologie, 2012. Disponibile online: http://www.istat.it/it/ archivio/78166.

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persone con DSA non possono e non devono rientrare in quelle categorie cui comunemente ci riferiamo quando parliamo di persone con disabilità, tuttavia, per il loro particolare funzionamento individuale, possono certo avvalersi dei vantaggi offerti da alcune leggi generali sull’accessibilità dei prodotti informatici a favore delle persone disabili. La Legge 4/2004, intitolata Disposizioni per favorire l’accesso dei soggetti disabili agli strumenti informatici, meglio conosciuta come legge Stanca, definisce l’accessibilità come: La capacità dei sistemi informatici, nelle forme e nei limiti consentiti dalle conoscenze tecnologiche, di erogare servizi e fornire informazioni fruibili, senza discriminazioni, anche da parte di coloro che a causa di disabilità necessitano di tecnologie assistive o configurazioni particolari. Per esempio, rendere accessibile un libro di testo a uno studente dislessico, che disponga di strumenti compensativi come un soft­ ware di sintesi vocale, è necessario che esso sia disponibile anche in una versione digitale il cui formato sia compatibile con il sistema di lettura vocale. Il formato, quindi non deve essere quello di un’immagine, perché non sarebbe leggibile come testo. Inoltre, per far sì che tutte le funzionalità di applicativi per la lettura del testo siano operativi e facilitino l’apprendimento dello studente dislessico, il formato digitale del libro deve essere anche aperto, ossia selezionabile e modificabile. Purtroppo, è un dato di fatto che non sempre i testi digitali corrispondenti al formato cartaceo del libro di testo adottato nella scuola rispondano a queste caratteristiche, rendendo inaccessibile al supporto compensativo il contenuto del testo. Per superare queste barriere digitali di accesso all’informazione è nata la LibroAID (www.libroaid.it), una biblioteca digitale dell’Associazione Italiana Dislessia “Giacomo Venuti”. LibroAID fornisce a studenti dislessici o ai loro genitori una copia digitale dei libri scolastici adottati nelle classi di ogni ordine e grado. I libri digitali forniti possono essere letti al computer da programmi dotati di sintesi vocale.

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Dalle tecnologie assistive alle strategie compensative Come abbiamo già discusso nel primo paragrafo di questo capitolo, perché l’uso di tecnologie assistive risulti una soluzione compensativa a un DSA è necessario che esse siano inserite in un progetto di intervento che preveda l’acquisizione delle specifiche competenze nell’uso di queste tecnologie da parte dello studente. Per questa ragione abbiamo preferito parlare, piuttosto che di tecnologie assistive e di strumenti compensativi, di soluzioni assistive volte alla compensazione di una difficoltà. Questo richiede molto di più che l’assegnazione di una mera tecnologia; impone un percorso di valutazione e assegnazione di quelle soluzioni tecnologiche più idonee (che possono comprendere, ad esempio, sia l’installazione di un software di sintesi vocale su un computer di uno studente, sia anche una riduzione digitale dei contenuti cartacei attraverso cui è veicolato l’insegnamento nella classe dello studente), un periodo di addestramento dello studente, perché diventi competente nell’uso degli strumenti assegnati, e una verifica della sua soddisfazione nei contesti d’uso. La competenza nell’uso delle tecnologie assistive va costruita insieme allo studente nell’ambito di un progetto educativo che abbracci l’intero metodo di studio adottato dal ragazzo stesso. Nella costruzione di un percorso appropriato, l’insegnante non può non tener conto di tutte quelle strategie didattico-metodologiche, già indicate nel Capitolo 4, che mettono lo studente nella condizione di apprendere. Altrimenti, rischierebbe di essere poco proficuo, per esempio, l’ascolto di un testo con l’ausilio della sintesi vocale se prima non venisse fatto un lavoro di pre-lettura e attivazione delle preconoscenze. Allo stesso modo, un programma di video scrittura servirebbe a poco se non fosse accompagnato da un lavoro di produzione d’idee e di organizzazione del ragionamento prima della stesura di un testo. Lo strumento, infatti, è in grado di potenziare l’abilità di comprensione o produzione di un testo in un alunno con DSA, compensando solo l’abilità strumentale della decodifica, nel caso della lettura, dell’esecuzione del tratto grafico, nel caso della scrittura, degli automatismi di base del calcolo ma non

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può (e non deve) sostituirsi allo sforzo cognitivo dello studente previsto dal compito scolastico e finalizzato allo sviluppo dell’apprendimento. La soluzione compensativa deve condurre lo studente con DSA a una riorganizzazione del proprio metodo di studio, avvalendosi di strumenti e strategie più idonei al suo modo di apprendere. Così facendo, con il tempo, si assisterà a una vera e propria interiorizzazione delle pratiche utilizzate, rese visibili e concrete dallo strumento informatico che riflette, nelle funzioni proprie del mezzo, le attività cognitive svolte dal soggetto che sta operando. La storia di Luca ci aiuterà a capire meglio come un intervento esterno alla scuola, condotto presso il Centro FARE17 e caratterizzato da un lavoro di tipo psicopedagogico su strumenti e metodo di studio, possa condurre un ragazzo dislessico a intraprendere un percorso positivo di crescita verso l’autonomia. Il progetto psicopedagogico è stato impostato solo dopo che un’attenta valutazione neuropsicologica ci aveva fornito un quadro diagnostico e funzionale di Luca che di seguito vi descriviamo. Luca è un ragazzo di 12 anni che doveva ripetere la seconda classe di una scuola media. Da sempre grande appassionato di calcio, da diversi anni ormai gioca in una squadra di giovanissimi, ricoprendo il ruolo di portiere. I genitori raccontano che Luca è nato con parto naturale dopo una gravidanza regolare. Il bambino cresce sano, vispo e sereno, superando tutte la fasi dello sviluppo motorio come ogni altro suo coetaneo: gattonando verso gli otto mesi e camminando da solo verso i tredici. Tuttavia, i genitori ricordano che Luca aveva difficoltà nell’eseguire piccoli lavoretti o giochi dove si richiedeva una certa destrezza con le mani. Per esempio, raccontano i genitori, Luca non amava molto colorare e faceva un enorme sforzo per restare dentro i bordi di un disegno da colorare. Intorno all’età di sei anni, i genitori gli regalarono un album di figurine. Per Luca 17 La

valutazione neuropsicologica è stata condotta dal dott. Moreno Marazzi e dal dott. Davide Filippi, mentre il progetto psicopedagogico è stato creato e seguito dalla dottoressa Cristina Gaggioli.

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restò sempre molto difficoltoso incollare le figurine nei riquadri dell’album. Anche insegnargli ad allacciarsi le scarpe fu un dramma: “Quando si trattava di infilarsi delle scarpe coi lacci – afferma la mamma – o le indossava come delle ciabatte o mi chiedeva di allacciargliele. Non c’era verso di fargliele allacciare da solo. Anche quando andava a calcio, le scarpe se le faceva allacciare da un suo amichetto o dall’allenatore.” Anche lo sviluppo del linguaggio, sia come vocabolario che come grammatica, sembra, dal racconto dei genitori, che sia stato adeguato: “La destrezza che gli mancava nelle mani – ribatte il papà alle parole della moglie riguardo alle abilità fino-motorie di Luca – mio figlio l’ha riversata tutta nel linguaggio: un vero chiacchierone. Quando attacca a parlarmi di calcio, ne sa più di 90° Minuto.” I genitori credono che il carattere di Luca sia peggiorato da quando ha cominciato le elementari. Da allora, è diventato un bambino molto nervoso, restio ad accettare aiuto dalle persone che gli stanno vicino, disorganizzato nello studio e con difficoltà a concentrarsi. “Il modo in cui Luca si organizza nello studio – riporta la mamma – e la cura che ha verso i materiali della scuola è un po’ come il suo primo album di figurine: sciatto, disorganizzato”. “I compiti a casa – aggiunge il papà – sono un vero dramma: Luca si rifiuta di svolgere i compiti scritti e, quando accetta di scrivere qualcosa, si stanca presto, lamentandosi spesso di un indolenzimento al braccio.” Le maestre segnalavano una grande difficoltà in Luca nell’imparare a leggere, commetteva numerosi e ripetuti errori, e, inoltre, trovavano molta difficoltà nel leggere gli elaborati scritti di Luca sia in corsivo che in stampatello. Quando doveva organizzare lo spazio del foglio, Luca tendeva a discostarsi progressivamente dal margine sinistro ogni volta che andava a capo e a non incolonnare correttamente le cifre delle operazioni scritte. Inoltre, sia in corsivo che in stampatello, Luca commetteva molti errori ortografici. Solo durante la scuola media, su segnalazione degli insegnanti, i genitori condussero Luca a fare una valutazione neuropsicologica da cui emerse un DSA che riguardava le aree della lettura e della scrittura

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(dislessia, disortografia) e delle abilità grafo-motorie (disgrafia) a cui si aggiungeva uno scarso livello di concentrazione. La lettura come abilità di decodifica aveva raggiunto un livello sufficientemente adeguato solo rispetto alla decodifica di un brano, ma il mancato automatismo risultava ancora molto evidente dal fatto che faceva una fatica enorme a leggere nuove parole di cui non conoscesse già il significato e la grafia. Inoltre, non sempre Luca riusciva a comprendere il significato di un testo se letto in autonomia. Quando Luca arrivò al Centro FARE i suoi genitori erano molto preoccupati per il suo rendimento scolastico, che risultava carente in quasi tutte le materie, in particolare in grammatica, scienze, matematica e lingue straniere. Anche i rapporti sociali e affettivi di Luca sembravano compromessi dalla sua ritrosia a fidarsi degli altri e stringere amicizie. I genitori e gli insegnanti lo descrivevano come un ragazzo molto nervoso e diffidente dell’aiuto altrui e spiegavano questo come una conseguenza di precedenti abusi di bullismo subiti già dalla scuola primaria. La storia dei continui insuccessi scolastici e, per ultimo, la bocciatura in seconda media avevano esasperato Luca, che aveva reagito chiudendosi ancor più in se stesso e rendendo così difficile ogni nostro intervento d’aiuto. Procedemmo, quindi, con la valutazione di Luca senza però trascurare di verificare i suoi livelli di autostima. Luca aveva un’intelligenza assolutamente adeguata, anche se leggermente meno brillante, seppure nella media, nelle competenze operative (cioè visuospaziali e prassico-costruttive) mentre quelle verbali risultavano addirittura sopra la media. Nelle aree dell’apprendimento Luca si collocò nella media rispetto a velocità e correttezza di lettura di un brano, ma era molto in difficoltà con la decodifica delle non parole e con la comprensione del testo: in altre parole, non aveva raggiunto un livello di automatismo del processo di lettura tale da consentirne un uso funzionale, cioè utile alla comprensione di quello che si legge. Nello scrivere commetteva significativi errori ortografici e la produzione del testo era decisamente ipoevoluta rispetto alla sua età e intelligenza: la qualità del suo tratto grafico e la velocità di esecuzione dello stesso erano decisamente deficitarie. Da una parte, quindi, Luca era riuscito a compensare la difficoltà di lettura, intesa

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come decodifica, ma aveva perso la possibilità di usarla in maniera funzionale alla comprensione del testo. Si evidenziarono, poi, alcune difficoltà nella sensazione di controllo dell’ambiente, soprattutto di quello scolastico. Inoltre, analizzando qualitativamente il metodo di studio di Luca attraverso la somministrazione di alcuni specifici questionari, emersero delle difficoltà nell’utilizzo delle risorse metacognitive nello studio. In particolare, risultarono significativamente al di sotto della media il livello di concentrazione (così come era già stato evidenziato in precedenza), la capacità di selezionare gli aspetti principali e salienti di un testo scritto, l’elaborazione attiva del materiale appreso e la capacità di autovalutazione del proprio studio e di previsione dei risultati. Avendo Luca già dodici anni e dovendo ripetere la seconda classe della scuola media, appariva chiaro all’équipe del Centro FARE che la sua primaria esigenza fosse quella di lavorare subito su strumenti e metodi che lo mettessero in grado di affrontare gli impegni scolastici utilizzando al meglio le sue potenzialità, ciò anche a discapito di un intervento sugli automatismi della scrittura e della lettura. Ritenemmo, infatti, che all’età di dodici anni la disortografia e la disgrafia di Luca potessero essere facilmente compensate da strumenti di supporto e aggirate da strategie dispensative in linea con quello che prevede in questi casi la Legge 170/2010. Iniziò così il percorso psicopedagogico di Luca che, insieme ad altri suoi coetanei con difficoltà simili, venne inserito in un laboratorio didattico per l’acquisizione di un metodo di studio. Accanto a questo lavoro si decise, in accordo con i genitori, di impostare anche un percorso psicoterapeutico, per un periodo di circa tre mesi con frequenza settimanale, per meglio elaborare sul piano emotivo gli effetti sia degli abusi di bullismo di cui fu vittima sia della recente bocciatura. L’attività didattica ebbe inizio con la somministrazione di una prova di studio nella quale Luca ottenne un punteggio medio. Il lavoro si protrasse per tutto il periodo delle vacanze estive, durante il quale Luca imparò a confrontarsi con altri compagni sul suo metodo di studio. L’obiettivo era quello di guidare e sostenere Luca in un percorso di acquisizione di un metodo di studio più adeguato al suo stile di apprendimento e di strategie per la produ-

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zione scritta e orale avvalendosi in questo caso dell’uso costante di un software di sintesi vocale che, risparmiandogli il processo di decodifica del testo, gli consentisse di concentrarsi sui contenuti. Si è partiti, in un’ottica metacognitiva, dall’analisi di alcuni testi, con l’obiettivo di potenziare la selezione degli aspetti principali, lavorando sull’anticipazione dei contenuti per l’attivazione delle conoscenze pregresse, l’analisi degli elementi di paratesto (figure, didascalie, ecc.) e l’analisi delle diverse strategie di lettura legate a contenuti diversi e ai differenti linguaggi disciplinari. Ad esempio, la lettura, attraverso il sintetizzatore vocale, poteva essere più rapida in quei punti che apparivano meno importanti, mentre doveva diventare più lenta e attenta, casomai aiutandosi con la sottolineatura del testo (possibile anche attraverso il software di sintesi vocale) nei punti considerati più salienti. In una fase successiva sono poi state introdotte differenti forme di schematizzazione. Dai modelli più semplici come le mappe mentali, per lo studio delle discipline scientifiche e tecniche, ai modelli più articolati e complessi, come le mappe concettuali, per le materie umanistiche. L’utilizzo delle mappe è servito a Luca non solo per rappresentare in maniera efficace i significati estrapolati dal testo e organizzati in una rete di concetti, ma anche per la pianificazione delle idee durante l’esposizione orale. L’ausilio delle mappe diventava poi un valido supporto anche per la produzione scritta, se utilizzato per raccogliere le idee (brainstorming), organizzarle e pianificarle in una traccia di lavoro da svolgere durante la stesura. I software utilizzati all’interno di questo percorso formativo si sono dimostrati un valido ausilio che ha permesso a Luca di organizzate le proprie idee in mappe e in documenti di testo facilmente fruibili e stampabili. Abbiamo potuto così far comprendere a Luca un principio fondamentale che è alla base di un valido componimento: un buon lavoro di elaborazione scritta ha bisogno di passare attraverso una produzione orale ben pianificata che a sua volta può sgorgare da un’attività preliminare di brainstorming. Luca ha così potuto sperimentare che le sue difficoltà di lettoscrittura non dipendevano dalle sue idee, cioè dalle sue capacità di pensiero e ragionamento. Queste erano sane e valide come quelle

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dei suoi compagni, dislessici e non. Quello che andava modificato era il modo in cui queste sue capacità intellettive dovevano tradursi in una forma scritta e trovare un’organizzazione per una presentazione orale. Questa consapevolezza ha influito fortemente anche sulla sua autostima e migliorato il suo senso di autoefficacia nello studio. Al termine dell’attività didattica laboratoriale, dopo circa quattro mesi di lavoro, risomministrammo a Luca una serie di prove, per verificare l’efficacia dell’intervento svolto. I risultati furono ottimi, non solo perché ottenne punteggi superiori rispetto a quelli di quattro mesi prima, ma soprattutto perché questi rientravano in una fascia di prestazione ottimale anche rispetto a coetanei a sviluppo tipico. La madre ci raccontò che a scuola Luca si sentiva decisamente più sicuro di sé e che aveva ricevuto ottimi voti in tutte le materie. Il pomeriggio era in grado di organizzarsi lo studio da solo compatibilmente con gli impegni del calcio e di costruirsi le mappe al computer in completa autonomia. “La sua autostima è cresciuta tantissimo. Pensi – dice la madre alla nostra pedagogista con entusiasmo – che era da anni che giocava a calcio solo nel ruolo di portiere, senza mai voler provare a cambiare ruolo. Ora, gioca anche in campo.” La mamma aveva colto una verità profonda e, quanto mai vera, che la dislessia, seppure come disturbo è circoscritta al solo funzionamento dei meccanismi automatici della letto-scrittura, tuttavia, da un punto di vista esistenziale, può essere assai pervasiva del comportamento e dell’umore di una persona se non trattata adeguatamente. Il benessere di Luca, raggiunto dopo un percorso di intervento neuro-psico-pedagogico, trovava riscontro non solo nel successo scolastico ma anche nelle attività ludicosportive. La fiducia ritrovata nelle proprie capacità scolastiche aveva rianimato quella fiducia di fondo di Luca che gli permetteva di rischiare anche nuovi ruoli nel gioco del calcio. Questo miglioramento della qualità di vita di Luca, cioè del suo benessere, connesso al miglioramento del suo rendimento scolastico ci dava conferma anche della nostra metodologia d’intervento di tipo multidisciplinare. Il Centro FARE, infatti, non si era fermato a una sola valutazione e riabilitazione neuropsicologica della dislessia di

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Luca, ma aveva fornito, contestualmente, un supporto psicologico e pedagogico. Ci preme sottolineare che il supporto psicologico non nasce dal pregiudizio che il dislessico sia una persona disturbata mentalmente, ma dalla convinzione che una mal compresa dislessia nell’ambito scolastico possa influire sul comportamento e sull’umore dell’alunno con DSA, pervadendo anche i suoi contesti esistenziali extrascolastici, familiari e amicali.

Per saperne di più Stefano Federici e Cristina Gaggioli, L’aiuto che vale, in iS – Imparare Sempre, n. 4, pp. 121-126, 2013, disponibile online: http://is.pearson.it/wp-content/uploads/2013/10/IS.n4-bassa.pdf. Stefano Federici e Marcia J. Scherer (a cura di), Manuale di valutazione delle tecnologie assistive, Milano, Pearson, 2013. Keith Hill e Valerio Corsi, Il ruolo dei patologi del linguaggio nella valutazione delle tecnologie assistive, in Stefano Federici e Marcia J. Scherer (a cura di), Manuale di valutazione delle tecnologie assistive, Milano, Pearson, pp. 315342, 2013. Marilena Meloni, Nicoletta Galvan, Natalia Sponza e Donatella Sola (a cura di), Dislessia: Strumenti compensativi, Firenze, Libri Liberi, 2004.

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