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Italian Pages 316 [317] Year 2013
n.6 Collana diretta da Caterina Resta Università degli Studi di Messina Dipartimento di Filosofia COMITATO SCIENTIFICO Gérard Bensussan (Univ. di Strasbourg) Gianfranco Dalmasso (Univ. di Bergamo) Günter Figal (Univ. di Freiburg i.B.) Eugenio Mazzarella (Univ. di Napoli) Giusi Strummiello (Univ. di Bari) Il secolo che da poco si è concluso non ci sta alle spalle, ma ci viene incontro, nel nuovo millennio che si annuncia, con l’onda d’urto delle questioni che in esso sono giunte a conflagrazione. Novecento non è solo il nome di un periodo storico segnato da eventi davvero dirompenti: l’affermarsi dei totalitarismi, Auschwitz, l’arma atomica, la cortina di ferro, il crollo del muro di Berlino, la globalizzazione, la crisi del Politico e il disastro della comunità, le sfide della tecnica e del post-umano, la devastazione ambientale, una costellazione cui, ancor prima di profilarsi all’orizzonte, con grande preveggenza, Nietzsche diede il nome di nichilismo, «il più inquietante degli ospiti». Novecento è il nodo inestricabile di tutti questi problemi, e di quelli ad essi strettamente intrecciati, in primo luogo la crisi irreversibile del Soggetto moderno, che oggi con urgenza chiedono di essere pensati, tornando a scandagliare quella che indubbiamente è stata una straordinaria stagione filosofica, di cui non possiamo non riconoscerci gli eredi e la cui potenza di interrogazione è ancora ben lungi dall’essersi affievolita. Novecento, dunque, non allude alla mera delimitazione di un arco temporale, ma a quel tempo non ancora passato perché aperte e ineludibili rimangono le sue domande, alle quali non solo la filosofia non può sottrarsi, ma cui ha il compito, per il tempo a venire, di tentare di trovare qualche risposta.
ARTEFATTI. DAL POSTUMANO ALL’UMANOLOGIA a cura di Maria Teresa Catena
MIMESIS Novecento
Volume pubblicato con il contributo MIUR PRIN 2008 e con Fondi di Ricerca Dipartimentale, Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta”, Università degli Studi di Napoli “Federico II”.
© 2012 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana Novecento n. 6 Isbn 9788857513669 www.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]
INDICE
Maria Teresa Catena INTRODUZIONE
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Maria Teresa Catena COME COSTRUIRSI UN CUORE. SUL SENTIRE (POST-)UMANO 1. Scarti e Resti 2. Scheletri e Utensili 3. Ritmi e Strumenti 4. Costrutti costruibili
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Agostino Cera ANTROPOLOGIA LIMINARE: IL FENOMENO DELLA NEOAMBIENTALITÀ. I. IL PERIMETRO ANTROPICO Premessa 1. Per una filosofia della tecnica al nominativo 2. Il perimetro antropico 2.1 Mondanità: per un’antropologia posizionale 2.2. Dis-allontanamento e terrestrità 3. Premessa per una conclusione a venire: il neoambiente
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55 55 58 64 64 71 83
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SEZIONE PRIMA
I CONCETTI
Fabiana Gambardella ANTROPOLOGIA E BIOLOGIA NELLA STAGIONE DEL POSTUMANO: NOTE A MARGINE DI PAUL ALSBERG 1. L’antropologia filosofica e lo spazio dell’enigma uomo 2. Adattamento corporeo ed extra-corporeo. L’uomo animale carente? 3. Sul limite
4. Epistemologie a confronto nell’epoca del design genetico p.
105
Gianluca Giannini L’ANTROPO-LÒGO CHE ANCORA SONO
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109
Nicola Russo L’UOMO POSTUMO E LA SUA IDEOLOGIA 1. Un dialogo malriuscito 2. Il postumanismo come ideologia 3. L’animale e l’umano
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191
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207 209 215
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Cristian Fuschetto FORME INFORMI (METAFISICAMENTE PARLANDO I MOSTRI RAPPRESENTANO UN BEL CASINO) 1. Uncinati umanismi 2. Un ragno, uno sputo 3. Sconfinamenti
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Luigi Laino UMANITÀ E DISUMANITÀ DELLA TECNICA: HEIDEGGER E HEISENBERG 1. Le premesse della domanda sull’uomo 2. Sull’irriducibilità della natura alla tecnica 3. L’uomo e la tecnica 4. L’arte, la tecnica e l’uomo
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243 243 243 251 257
SEZIONE SECONDA
I SAPERI Francesco Paolo Adorno UN’ETICA PER IL POST-UMANO? Vincenzo Bochicchio MECCANICISMO CARTESIANO E INTELLIGENZA ARTIFICIALE. FONDAZIONE E OLTREPASSAMENTO DEL PARADIGMA UMANISTICO 1. Intelligenza Artificiale e simulazione dell’umano 2. Robotica Evolutiva e meccanicismo cartesiano 3. L’automa come oggetto metafisico: negazione del vuoto e funzioni cognitive
Felice Masi LO STRANO CASO DEL NATURALISMO POSTUMANISTICO 1. Naturalizzatevi! 2. Naturalismo immaterialistico 3. Mimetismo naturalistico Marco Stimolo ECONOMIA COME UMANO-LOGIA 1. Individualismo metodologico e atomismo ontologico 2. Agent-based models come approccio anti-riduzionistico all’analisi degli ordini sociali 3. Ricadute ontologiche degli ABMs 4.1. Regolarità comportamentali come ordini spontanei 4.2. Complessità del sistema cognitivo 4.3. Relazione tra sistema cognitivo e ordinamenti sociali NOTIZIE SUGLI AUTORI
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265 265 267 282
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299 303 306 307 310
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MARIA TERESA CATENA
INTRODUZIONE
In un noto saggio Christopher Hitchens, purtroppo da poco scomparso, riflettendo sulla necessità di tenere ferme alcune conquiste teoriche guadagnate grazie all’evoluzionismo, scrive: «adesso, finalmente, possiamo essere giustamente umili di fronte al nostro fattore, che emerge non come un ‘chi’, ma come un processo di mutazione con elementi più casuali di quanto potrebbe desiderare la nostra vanità»1. Ora, se c’è un primo filo conduttore che lega i saggi qui di seguito presentati, è senza dubbio nella scia di queste parole che va rintracciato, condividendo con esse la consapevolezza che l’homo sapiens sapiens maturo che siamo, altro non è che un’entità frutto di un complesso insieme di «condizionamenti, volontà, necessità, accadimenti prevedibili o imprevedibili, caso»2; un’entità che peraltro, pur avendo molto in comune con le altre genie della specie umana, resta nondimeno intrinseca e inserita in piena continuità con il mondo vegetale e animale, posta senza alcun disegno prestabilito e senza privilegi di sorta alcuna. Insomma, ciò che viviamo e siamo oggi non è il frutto di qualcosa cui eravamo destinati: altre condizioni adulte, altre forme di umanità, si sarebbero potute e – perché no? – si potrebbero realizzare in futuro. È un assunto inquietante, e forse triste, o almeno tale potrà sembrare ad alcuni, ma esso ha però il pregio di portare con sé una conseguenza di non poco conto: restare il più possibile laici e tenersi lontani da ogni genere di fondamentalismo. Se dunque c’è un altro filo conduttore che tiene insieme queste pagine, è in questo secondo punto che va ritrovato. In questo senso non sembri strano al lettore veder emergere, tra le righe, qualche tono più o meno fortemente polemico e critico rivolto alle declinazioni e alle ideologie presenti in quello che è stato l’oggetto di partenza della nostra discussione: il post-umano. 1 2
Christopher Hitchens, Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa, tr. it. di M. Marchetti, Einaudi, Torino 2007, p. 10. Sergio Tramma, Il viaggio dell’umanità: uno sguardo didattico e pedagogico, in Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, a cura di L. L. Cavalli Sforza e T. Pievani, Codice Edizioni, Torino 2011, p. XXXVII.
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Artefatti. Dal Postumano all’Umanologia
Come è facilmente ravvisabile nei casi di alcune riflessioni che amano ascriversi a questa corrente, accade di vedere ch’esse si costruiscono un avversario da combattere, un nemico da sconfiggere, e che lo facciano solo in apparenza, assumendo invece surrettiziamente proprio quanto sostengono di non condividere. A essere più chiari: spesso e volentieri le posizioni dei post-umanisti incappano in polemiche rivolte a quella tradizione dell’umanesimo che, accusata di porre l’uomo al centro dell’universo, finisce per proclamarne, insieme alla superiorità spirituale, anche la particolare destinazione rispetto agli altri esseri del mondo della natura, da cui si distinguerebbe per essenza. A ben guardare però, laddove il pensiero post-umanista mostra, come capita, una forte credenza nella capacità che l’uomo avrebbe di emanciparsi dai suoi limiti corporei grazie ai tanti possibili innesti prodotti dalle innovazioni tecnologiche, esso finisce col ricadere in un disprezzo quasi spiritualista nei confronti della corporeità e, allo stesso tempo, col cedere a una vera e propria tecnolatria, figlia, a sua volta, di quella tecnofilia tipica della tradizione antropocentrica3. Insomma, come scrive Nicola Russo in queste pagine, il post-umano non compie nient’altro che una riconfigurazione della moderna relazione a due termini tra l’uomo e la natura, con la sola differenza che se nella prima modernità il divino collassava nell’umano, adesso è quest’ultimo a collassare nella natura, a sua volta ridotta a mero fondo e analizzata nella sua sola dimensione animale e insieme macchinale4. Così, non differenziandosi sostanzialmente da quelle stesse credenze o fedi sull’uomo da cui vorrebbe distaccarsi, il post-umano corre il rischio di trasformare in un pre- il suo post-, di fare cioè di se stesso un’inconsapevole conferma di quella tradizione dell’umanesimo da cui vuole emanciparsi, di essere solo in apparenza aggiornato sui nuovi orizzonti che le scienze 3
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Che la verità scientifica descriva tutto l’orizzonte moderno e la tecnica costituisca il riferimento essenziale per i moderni, è tesi sostenuta da molti. Tra i tanti e per le implicazioni contenute in questo assunto, faccio qui riferimento a quanto scrive Bruno Latour, in particolare in Disinventare la modernità. Conversazioni con François Ewald, tr. it. di C. Milani, Elèuthera, Milano 2008, p.10. Per un’accurata analisi di due significative meditazioni sulla tecnica che evitano il rischio di cadere in qualsivoglia forma di tecnolatria, rimando a quanto scrive in queste pagine Luigi Laino, in Umanità e disumanità della tecnica: Heidegger e Heisenberg, infra, pp. 243-264. Cfr. Nicola Russo, L’uomo postumo e la sua ideologia, infra, pp. 147-188. A proposito di questa ‘trascuratezza’ che il post-moderno mostra nei confronti dei rapporti tra mondo umano e mondo vegetale, cfr. quanto scrive nell’Introduzione, Flavia Monceri, in Sull’orlo del futuro. Ripensare il post-umano, a cura di F. Monceri, ETS, Pisa, 2009, p. 11.
M.T. Catena - Introduzione
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contemporanee dischiudono, almeno nella misura in cui finisce coll’inquadrarli in una prospettiva concettuale trascorsa e perciò stesso tutta da ripensare5. Vero è anche che porre l’accento sulla componente ideologica presente in tale corrente, o almeno in alcune delle sue propaggini, ha un altro possibile versante. Non sarebbe e non è infatti per niente giusto fare di tutt’erba un fascio o, detto in altri termini, riassumere la complessità e la varietà della nostra stessa tradizione riducendola a una formula del tipo ‘da Platone a Kant’; più giusto è invece ricordare e indicare come, al suo interno, emergano e siano presenti riflessioni e sistemi di pensiero che si pongono in netta discontinuità, se non frattura, con quegli assunti metafisici e dualisti che le si vogliono attribuire tout court. Se dunque si legge il saggio di Nicola Russo sulla declinazione dell’animalità in Aristotele o i riferimenti che Francesco Paolo Adorno fa all’idea fenomenologica – in particolare merleau-pontyana – della corporeità, ci si rende conto di quanto già all’interno della nostra tradizione occidentale emergano snodi e prospettive tutt’altro che essenzialiste, certamente non tacciabili di dualismi, né riportabili al cliché di un umanesimo che nega le continuità e le coappartenze dell’uomo a ciò che lo circonda o alla pluralità del cosmo in cui vive. Da questo punto di vista, è senz’altro interessante prestare attenzione a quanto scrivono Agostino Cera e Fabiana Gambardella rispettivamente su Arnold Gehlen e Paul Alsberg: le loro pagine ci fanno infatti comprendere come sia diventata nient’altro che una moda contestare l’antropologia filosofica con i suoi concetti-chiave, almeno nella misura in cui, ad esempio, può risultare del tutto erroneo declinare come un prius, come un dato a cui l’uomo è ontologicamente inchiodato, la ‘carenza’ che alcuni autori gli attribuiscono, trattandosi piuttosto di un effetto, nemmeno tanto scontato, dell’evoluzione. Così, all’interno di un quadro concettuale complesso e avvertito della problematicità dell’umano, ben consapevole di dover abbandonare qualunque idea fissista
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Scrive in proposito Bruno Latour, Disinventare la modernità, cit., p. 27: «Bisogna rendersi conto che non siamo passati da una versione ricca dell’epistemologia delle scienze a una versione povera dell’attività scientifica. È vero tutto il contrario: siamo passati da una versione straordinariamente eterea dell’attività scientifica, secondo cui le idee si scontravano tra loro all’interno di cervelli che non erano nemmeno cervelli, a una visione finalmente realistica delle scienze […]. La scienza non si limita a delle idee o a degli enunciati […]. La scienza è la socializzazione, nel mondo in cui viviamo, di esseri fino a quel momento invisibili, caratterizzati da applicazioni molto particolari».
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Artefatti. Dal Postumano all’Umanologia
del bios, la stessa idea di ʻcarenzaʼ viene qui sapientemente problematizzata e da tabù che era, acquista una sua fertile positività. Tuttavia, è bene precisare, che questi gesti di riflessione non vanno visti come un tentativo di nascondersi dietro una tradizione né come il desiderio di volersi limitare a riconoscerne un’indubbia problematicità. Non è un caso, del resto, che questo volume cerca anche di confrontarsi serenamente con gli apporti che le nuove discipline e gli altri saperi in generale danno alla decostruzione di un’idea astratta e monodimensionale di umano. Lo mostra ad esempio, nella seconda sezione del volume, il saggio di Vincenzo Bochicchio che, in un confronto serrato con la seconda generazione dell’AI, mette in evidenza quanto i suoi modelli siano utili per comprendere e rivedere la stessa idea di uomo; similmente, i contributi di Marco Stimolo sugli agent-based models in economia o le pagine che Felice Masi dedica alle più recenti teorie biologiche, mostrano quanto avvedute siano alcune discipline nell’evitare l’emersione di una visione astratta dell’umano. E qui si fa avanti ancora un’altra e forse non peregrina questione, il terzo, e forse il più importante, filo conduttore che sostiene questo volume; filo conduttore che potremmo sintetizzare appellandoci alle parole di Gianluca Giannini: «il problema non è nel o il post-umano: se viene superata una certa idea storica dell’umano, il ‘dopo’ cui si accede è un’altra idea dell’umano, fondata certamente su basi diverse, ma senza l’implicazione di un ‘oltre’ assoluto. Quel che è superata è un’accezione specifica. Sotto questo profilo, se per ‘umano’ s’intende tale determinato significato – cioè quello dato da una certa tradizione di pensiero metafisico, storicamente individuabile nelle sue pur dissimili articolazioni – tutto può essere considerato post-umano. Il problema, quindi, torna ad interessare, è, quello sul chi e il cosa dell’uomo»6. Insomma, se è vero che ogni domanda è frutto di una pulsione umana che cerca il proprio oltrepassamento, è sempre nei limiti dell’umano, all’interno di quello che Agostino Cera chiama il perimetro antropico, che il post-umano va considerato. Non umanesimo, né post-umano e tantomeno trans-umano, dunque: piuttosto è un’umanologia7, ciò di cui qui si tratta.
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Gianluca Giannini, Condizione umana, il melangolo, Genova 2009, p. 145. Per la questione dell’umanologia rimando a Gianluca Giannini, L’antropo-lògo che ancora sono, infra, pp. 109-145.
M.T. Catena - Introduzione
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Un’umanologia, cioè un discorso dell’uomo sull’uomo che provi, insieme, a dis-inventare la modernità8. Il che non significa affatto assumere un atteggiamento regressivo tendente a dismettere o rottamare le grandi conquiste che quest’epoca ha prodotto; viceversa, quest’espressione vuole indicare in prima istanza, un domandare e rispondere in modo accorto, tenendo sempre ben fermo che ogni possibile risposta concerne sempre e solo il wie di ciò che siamo, mai il was; riguarda sempre, insomma, il «come di un dove»9. Che questo escluda l’umano da ogni pretesa di privilegio, allontanandolo da quanto nella modernità lo pensava come essenziale e permanente, ricordandogli piuttosto la sua inessenzialità, è cosa che segue quasi immediatamente. Se qualcosa siamo, siamo un passaggio in via di passarsi10. Come tali, esseri che mai nulla fanno da soli, costretti, da questo punto di vista, non solo a riconoscere l’imprescindibilità di un confronto con l’alterità – sia essa macchinica e animale, ma anche vegetale e, perché no?, minerale –, ma a comprendere, più profondamente, che ‘l’altro’ li costituisce in senso proprio. Non è un caso, ad esempio, che la paleontologia, oggi sempre più in accordo con la genetica e la biologia molecolare, ci mostra che ogni gesto di ominazione – sia quello tecnico che quello percettivo – presuppone, già al livello più rudimentale, una contaminazione tra l’uomo, la materia e l’ambiente che lo circonda. È dunque solo attraverso questi innesti, queste reciproche secrezioni, questi scambi tra alterità, che l’uomo è diventato lo specifico artefatto che abbiamo davanti agli occhi11. Naturalmente, parlare di artefazione o di artificio organico non deve certo far pensare a progetti di risanamento o aprirci a inquietanti prospettive di eugenetica. Il punto e il senso di queste espressioni non è affatto questo, anzi: come mostra bene nel suo saggio Cristian Fuschetto, è piuttosto dal mito della purezza, di sé e degli altri, che derivano le suddette prospettive.
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È a tutti noto che quest’espressione è mutuata da Bruno Latour che dedica una interessante riflessione alla questione. Cfr., in proposito, oltre al già citato Disinventare la modernità, il volume dal titolo, Non siamo mai stati moderni. Saggio di antropologia simmetrica, tr. it. di G. Logomarsino, Elèuthera, Milano 1995. Così si esprime Agostino Cera nel suo Antropologia liminare: il fenomeno della neoambientalità, infra, p. 66. Per tale questione del ʻpassaggioʼ, cfr. Jean-François Lyotard, Il dissidio, tr. it. di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 166 sgg. Mi permetto di rimandare in proposito a quanto scrivo nel saggio presente in questo volume, Come costruirsi un cuore. Sul sentire (post-)umano. Cfr., infra, pp. 19-54.
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Artefatti. Dal Postumano all’Umanologia
L’artefatto che noi siamo, invece, rinuncia a identificarsi con un ‘frutto puro’, sa di non essere un’acquisizione solitaria e definitiva, è consapevole che nulla gli è dato una volta per tutte ‘per natura’ e perciò è un continuo lavorìo su se stesso. Da questo punto di vista esso è più simile all’omino di latta e allo spaventapasseri di paglia che ne Il Mago di Oz sono alla continua ricerca di quel cuore e di quel cervello che, dato il materiale di cui sono fatti, non possono possedere: diversamente da coloro che, provvisti per natura di tali capacità, non stanno a preoccuparsi tanto dell’utilizzo che ne fanno, entrambe queste creature sono invece ben consapevoli delle loro mancanze e fanno di esse ciò che le guida e le spinge a stare molto attente a non mostrarsi stupide, crudeli o scortesi. Ma non solo. Parlare di artefazione nel senso di contaminazione e scambio che l’altro dà al nostro continuo processo di costruzione di umanità, non va inteso nemmeno nel senso di una velleitaria e ipocrita celebrazione che trasformi questi termini in sinonimi di un assorbimento, quando non addirittura di un appiattimento che neghi qualsivoglia differenza e specificità. E ciò, naturalmente, vale in riferimento tanto alle pericolose quanto inavvertite animalizzazioni dell’umano – con le reciproche umanizzazioni dell’animale – quanto, più complessivamente, per tutte le relazioni con l’alterità. In altri termini, la consapevolezza di essere un costrutto debitore ad altri non deve comportare la perdita di riconoscibilità né la deroga delle rispettive specificità, tantomeno poi l’oblio del fatto che l’elaborazione dello scambio con l’altro richiede anche, in seconda battuta, la continua ri-definizione di un limite che ci distingua vicendevolmente. Perciò, stare nella specificità complessa di ciò che siamo significa anche sapere che ogni possibile vicinanza si stabilisce solo a partire da una differenza, a volte anche da un abisso, che ci separa da quell’altro da noi che è in noi. Ha ben ragione allora Bruno Latour nel proclamare l’asimmetria come elemento necessario per un mondo plurale; il che significa che «non possiamo immaginare un accordo tra noi e gli altri se non misuriamo prima l’abisso del disaccordo, che tocca tutto ciò che ci circonda […]. La profondità di questa pluralità è il metro di valutazione di ogni contatto»12. L’artefatto che siamo deve allora provare a disimparare la modernità, cioè tentare di abbandonare quelle idee, tutte moderne, di un mondo comune già costituito – si trovi esso alle nostre spalle, al di sopra o al di sotto di noi; allo stesso modo, deve essere in grado di salutare l’illusione di una natura permanente, come le pretese di una tecnica emancipatrice e le false im12
B. Latour, Disinventare la modernità, cit., p. 16.
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pressioni della concreta realtà di un fronte del progresso che cammini in modo relativamente omogeneo e regolare. Consapevole che il domani, come del resto già l’oggi, sarà sempre più mescolato e forse più imprevedibile di quanto possiamo presumere di sapere, esso dovrà non dare nulla per scontato, saper sperimentare, a volte anche rischiare connessioni e legami inaspettati, in una parola ri-mettersi in cammino sapendo che sempre qualcosa manca per pensarsi, costruirsi e in questo senso essere, diversamente e plurivocamente umani. Desidero, a questo punto, ringraziare la professoressa Caterina Resta per l’aperta disponibilità con cui ha voluto accogliere questo volume nella collana da lei diretta.
Sezione prima
I CONCETTI
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MARIA TERESA CATENA
COME COSTRUIRSI UN CUORE. SUL SENTIRE (POST-)UMANO Se desideri un cuore, devi guadagnartelo. Lyman Frank Baum
1. Scarti e Resti Per lui, ogni auto schiantata era causa di un tremore d’eccitazione: eccitazione per le complesse geometrie di un paraurti ammaccato, per le variazioni inattese di una griglia del radiatore schiacciata, per la grottesca sporgenza di un pannello di strumentazione contro l’inguine di un guidatore, simile a un calibrato atto di fellatio meccanica. L’intrico di lame cromate e cristallo infranto rappresentava per lui la fossilizzazione eterna del tempo e dello spazio intimi di un individuo1.
La citazione da Ballard è certo un riferimento ormai classico, ma proprio per questo un possibile punto dal quale partire per cominciare a mettere in evidenza alcune tra le tematiche attorno alle quali proverò a snodare il mio ragionamento. Ebbene, non mi sembra possano esserci dubbi sul fatto che, mettendo in scena l’attrazione per la macchina nella sua rigida e algida artificialità, le parole dello scrittore descrivano innanzitutto un corpo mosso da un forte desiderio di dismettere la sua organicità e, avvicinandosi fino a confondersi con il macchinico, divenire esso stesso metallico. Evidentemente, però, qui non si tratta solo, o tanto, della semplice narrazione di una contaminazione tra umano e macchinico, dove il primo dei due termini continua magari a percepirsi superiore e per questo insofferente ai dettami ripetitivi cui viene costretto. C’è altro in queste righe, visto che il farsi inorganico dell’organico è, appunto, un desiderio di quest’ultimo; il che è come dire che l’uomo, lungi dal vivere con insofferenza il suo essere una semplice appendice della macchina, una sua funzione specifica, è invece pronto a pulsare all’unisono con i ritmi, le parti, i materiali stessi del metallo, quasi
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James Graham Ballard, Crash, tr. it. di G. Pilone Colombo, Rizzoli, Milano 1990, pp. 8-9 (il corsivo è mio).
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Artefatti. Dal Postumano all’Umanologia
come se sentisse la sua carnalità inferiore, inadeguata, come se provasse vergogna dei limiti che essa ha. È dunque questa la specificità descritta dallo scrittore britannico: un divenire inorganico del corporeo, un suo macchinizzarsi e, più generalmente, tecnicizzarsi, rivestirsi di protesi che, più che un desiderio di perdita dei propri confini e magari di apertura o di protensione verso il mondo, rimanda piuttosto, e più significativamente, all’intimo convincimento di una pochezza fisica che deve sopperire e «migliorare tecnologicamente le proprie scarse chanches prestazionali»2. Certo, Crash non è affatto l’unico caso in cui questo senso di inadeguatezza, per non dire di disprezzo del corpo umano, emerge con evidenza. Ecco, ad esempio, una citazione da un altro ‘classico’: «Nei bar che aveva frequentato come il numero uno fra i cowboy, l’atteggiamento dell’élite comportava un certo passivo disprezzo per la carne. Il corpo era carne. Case era caduto nella prigione della propria carne»3. Questa considerazione riguardante Case, protagonista di Neuromante, uno dei romanzi culto della corrente cyberpunk, potrebbe senz’altro anch’essa fungere da emblema e riassumere così l’idea che del corpo dell’uomo hanno alcune più o meno recenti riflessioni in materia: immediato sentimento di disprezzo per una carne che è prigione. E i riferimenti si potrebbero moltiplicare all’infinito dato che, affianco alle già menzionate posizioni cyberspace e cyberpunk e alle teorizzazioni di Timothy Leary, pronto a prospettare una sparizione del lato biologico del corpo rimpiazzato da costrutti tecnologici, andrebbero menzionate le riflessioni di alcuni artisti, uno fra tutti, Sterlac, convinto che il corpo biologico, vera e propria ferraglia obsolescente, vada completamente sostituito con la macchina: «nell’ambito delle immagini mutanti e moltiplicanti», afferma, l’incapacità del corpo è evidente […]. Il corpo deve esplodere dal suo contenitore biologico, culturale e planetario […]. Non si tratta più di perpetuare la specie mediante la riproduzione, ma di perfezionare l’individuo tramite la riprogettazione. Ciò che è significativo non è più il rapporto maschio-femmina, ma l’interfaccia uomo-macchina. Il corpo è obsoleto4.
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Gianni Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, Bompiani, Milano 20043, p. 146. William Gibson, Neuromante, tr. it. di G. Cossato e S. Sandrelli, Editrice Nord, Milano 20042, p. 6 (il corsivo è mio). Sterlac, Da strategie psicologiche a cyberstrategie: prostetica, robotica ed esistenza remota, in Il corpo tecnologico, a cura di P. L. Capucci, Baskerville, Bologna 1994, pp. 61–67.
M.T. Catena - Come costruirsi un cuore. Sul sentire (post-)umano
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Anche a lasciare l’ambito delle avanguardie artistiche e delle correnti letterarie5 per spostarsi su alcune derive della robotica, della cibernetica e dell’Intelligenza Artificiale incontriamo affermazioni quali quella di Hans Moravec che confida nel fatto che «il pensiero umano sia liberato dalla schiavitù di un corpo mortale»6. Insomma, come suggerisce Minsky, il corpo e con esso il wet ware, la materia umida all’interno della scatola cranica, il cervello, sono senz’altro da gettare e sostituire. Di smaterializzazione o dematerializzazione parlano infine anche molti teorici del virtuale che, come nota criticamente Pierre Lévy, identificano il digitale con l’idea di un’informazione immateriale arrivando così ad alimentare semplicisticamente l’antica utopia di una liberazione dalla fisicità e finendo col considerare la virtualizzazione una sorta di svincolamento da ogni forma di corporeità7. Dunque, spostamento o per meglio dire superamento di un corpo umano i cui limiti sono dettati «da un’evoluzione biologico-irrazionale», per andare in direzione di un corpo il cui «concetto si estende infinitamente allargando i propri confini e i propri termini di definizione» grazie ai progressi di un’evoluzione sempre più «scelta, non occasionale, consapevole», in quanto contaminata «dall’ingegneria genetica, dalle neuroscienze e dalle nanotecnologie»8. 5
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Interessante sarebbe anche provare a passare in rassegna i tanti film che, da tempo ormai, mettono in scena il progressivo assentarsi del corpo. Per tale questione rimando a quanto scrive G. Canova, L’alieno e il pipistrello. La crisi della forma nel cinema contemporaneo, cit., in particolare le pp. 137-148. Hans Moravec, Mind Children. The Future of Robot and Human Intelligence, Harvard University Press, Cambridge MA 1988, p. 4. Esperto nel campo della robotica – i suoi campi di interesse sono i robot spaziali intelligenti, i robot mobili e la manipolazione robotica – Moravec ipotizza un mondo post-biologico nel quale il cervello umano è liberato dalla mente e dal corpo e caricato in macchine autosufficienti e pensanti che egli chiama, appunto, i bambini della mente. Ben diversa la posizione di Pierre Lévy per il quale l’informazione virtualizzata subisce sì una sorta di disinnesto dallo spazio fisico e geografico consueto, nonché dalla temporalità dell’orologio e del calendario, ma essa non è e non può essere «totalmente indipendente dallo spazio-tempo di riferimento» e non è concepibile sviluppata da supporti fisici. Cfr. Pierre Lévy, Il virtuale, tr. it. di M. Colò e M. Di Sopra, Raffaello Cortina, Milano 1997, p. 11. Vero è anche, lo si dica per inciso, che nello stesso Lévy sono presenti, soprattutto nella nozione di intelligenza collettiva, alcuni tratti di una vera e propria mistica dell’evoluzione. Cfr. in proposito Ubaldo Fadini, Tecnonomadismo. Espressioni del sapere e figure dell’umano, “Millepiani”, 17/18, 2000, pp. 51-70. Francesca Alfano Miglietti, Identità mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee, Costa & Nolan, Ancona-Milano 1997, p. 65 (il corsivo è mio).
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Artefatti. Dal Postumano all’Umanologia
Naturalmente, si tratta di affermazioni decontestualizzate che certamente semplificano il pensiero di intellettuali e artisti che, almeno in certi casi, è senz’altro più complesso e avveduto. Tuttavia, queste affermazioni una serie di problemi li pongono senz’altro; problemi che vale la pena mettere in rilevo, non prima però di aver fatto alcune osservazioni su un’altra questione: quella concernente il tipo di sentire percettivo-emozionale che si accompagna a quest’idea di corpo. Se ritorniamo alle pagine ballardiane, ciò che salta agli occhi con evidenza è, per usare una famosa espressione di Marshall McLuhan, una sorta di tribalizzazione del sentire9. Trattasi dell’espressione di un viscerale e, in questo senso, primitivo sentimento di attrazione ed eccitazione che il protagonista prova davanti al sangue, alla carne dilaniata e al dolore causati dagli incidenti stradali che scorrono sotto i suoi occhi. Sorta di inquietante connubio tra dolore e desiderio, questo genere di godimento però non rappresenterebbe alcuna novità se non fosse declinato nei termini di una vera e propria frenesia fredda; se non fosse cioè emblema di una carnalità emotiva, non tanto esasperata ma pur sempre ‘calda’, quanto piuttosto del tutto anestetizzata. Del resto, il termine ‘fossilizzazione’ lucidamente scelto da Ballard è sintomatico, anche se va detto che qui siamo al cospetto di qualcosa di decisamente diverso dall’idea classica di fossile: se è vero infatti che fossile è quanto, un tempo vivo, reca traccia della vita passata attraverso la sua stratificazione pietrosa, se insomma esso è l’organico fattosi inorganico, non c’è dubbio che nel caso di Crash accade l’inverso, dato che è il metallo ad inghiottire il sentire corporeo fino a farne scomparire ogni traccia di vita, fino a giungere a una vera e propria dipartita della facoltà emotiva nella sua supposta immediata naturalezza. Così – né potrebbe essere diversamente – similmente a quello che accadeva per il corpo, l’innesto tra sensazioni e tecnologie produce, pur nel suo parossismo, una sorta di obsolescenza, di impoverimento del sentire; fa di esso qualcosa di sostanzialmente frigido, nonostante la sua forte passione per il sangue; trasforma, insomma, quel che viene ancora definito come lo spazio intimo dell’individuo in un momento tanto più asettico quanto più attratto dall’esposizione, il più possibile scioccante, del dolore. Questo, dunque, l’effetto delle tecnologie sulle vite emotive: «produrre una sorta di ossessione feticistica negli utenti, un fenomeno che McLuhan
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Cfr., a riguardo, Marshall McLuhan, La Galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo tipografico, tr. it. di S. Rizzo, Armando, Roma 1976.
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una volta ha definito ‘la narcosi di Narciso’»10; trasportare l’individuo in una sorta di allucinazione estetica – percettiva e emozionale – «nello stadio COOL e cibernetico che succede alla fase HOT e fantasmatica»11. Nel complesso, non sembrano esserci dubbi che, descritto in questo modo, il connubio ibridativo tra corpo e tecnica, tra organico e macchinico giunga alla descrizione di un uomo la cui corporeità risulta fortemente impoverita, addirittura inconsistente e inutile rispetto alla macchina, certamente semplificata quando non deprivata nelle sue capacità sensoriali. Viene a questo punto da domandarsi in che misura siamo qui al cospetto di posizioni davvero innovative, capaci di affrontare una seria riconsiderazione del senso dell’uomo e del suo posto nel mondo o se piuttosto, come sembra emergere, su di esse non gravi, a volte in modo irriflesso, l’ipoteca di una tradizione di pensiero che, nella sua impostazione essenzialistica e dualistica, andrebbe senz’altro ripensata a fondo. A ben guardare, infatti, non è certamente nuova né innovativa l’idea che il corpo, considerato nella sua naturalità organica, porti con sé gli stessi limiti di un organico e biologico lungamente considerati come un che di irrazionale, quando non addirittura di povero, inadeguato, imperfetto; allo stesso modo, non è nuovo il movimento che da questi presupposti conduce ad un’idea negativa del corpo, visto quale contenitore, prigione, vero e proprio fardello le cui impressioni sono inutili cascami di cui sbarazzarsi12. In questo senso ha ben ragione Roberto Marchesini nel dire che in questi casi si ha una «misconoscenza della virtù biologica dell’uomo che ci porta […] ad atteggiamenti di arroganza e di disprezzo verso il nostro stesso corpo», il cui rifiuto «si fonda sulla persuasione che la nostra individualità riposi al di fuori del sostrato biologico oppure ‘giri’ sul sostrato biologico, esattamente come un software nell’hardware, pur potendone letteralmente fare a meno»13. Ma non solo. Ad emergere, parallelamente a queste posizioni, è una visione compensativa o magnificativa della tecnica che, pensata come risarcimento di una funzione mancante o quale potenziamento di attitudini già 10 11 12 13
Derrick de Kerckhove, La pelle della cultura, tr. it. di M. T. Carbone, Costa & Nolan, Ancona-Milano 2000, pp. 14-15. Jean Baudrillard, Cool Memories. Diari 1980-1990, tr. it. di A. Cossu e L. Breda, SugarCo, Milano 1991, p. 94. Su quanto quest’idea di un disprezzo per il corpo sia presente in una certa tradizione occidentale, mi permetto di rimandare a Maria Teresa Catena, Corpo, Guida, Napoli 2006. Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 37-38.
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presenti, resta pur sempre, ed in entrambi i casi, espressione di un fare umano la cui peculiarità risiede e alberga in una dimensione affatto separata dalla naturalità organica. Insomma, se il corpo biologico, con le sua capacità percettive e senzienti, è carente e inadatto nel suo appartenere all’ambito del naturale, la vera specificità dell’umano, ciò che lo connota peculiarmente, sarà da individuare in un altro ambito, quello culturale – e nella fattispecie tecnologico – portato e precipitato di una natura spirituale distinta e distante dal resto. È qui che si collocherebbe l’identità propria all’uomo: in questa zona immateriale e superiore, dualisticamente e drasticamente posta al di qua o al di là del ʻnatural-material-carnaleʼ con le sue propaggini emotive e percettive. Evidentemente, messe così le cose, il post-umano, o almeno certe sue correnti14, attraverso quest’idea di un superamento dei limiti del corpo organico e a partire dalla correlativa esibizione di un sensorio umano raffreddato e inconsistente, sembra riproporre e riconfermare alcuni presupposti dualistici e antropocentrici, tipici di una certa tradizione umanista, circa un presunto carattere muto e fisso della naturalità corporea; pare, insomma, collocare e surrettiziamente ritenere che il vero tratto distintivo dell’umano vada altresì riscontrato in una dimensione altra e trascendente, per essenza, la stessa materialità. Ma se così non fosse? Se invece, sulla scorta della frattura epistemologica darwiniana, si provasse a ripensare l’ambito del naturale e vedere in esso non tanto un che di separato, di diverso dal così detto mondo umano, quanto piuttosto l’esito di una specifica attività selettiva, il luogo di una continua attività di costruzione, ovvero un laboratorio di forme sperimentabili, una dimensione di multiforme artefazione15? Se quindi, dal canto 14
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A proposito della differenza tra un transumanesimo, tutto impregnato di euforia tecnologica e correlativo disprezzo per il corpo, e un postumanesimo più avveduto nel tentativo di non riproporre pedissequamente il vecchio dualismo mente-corpo tipico della tradizione razionalistico-cartesiana, cfr. le distinzioni operate da R. Marchesini nell’appena citato Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, in particolare le pp. 510 e sgg. Inoltre, per comprendere come il postumanesimo venga spesso confuso con il transumanesimo, cfr. Francis Fukuyama, L’uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, tr. it. di G. Dalla Fontana, Mondadori, Milano 2002; Gregory Stock, Riprogettare gli esseri umani. L’impatto dell’ingegneria genetica sul destino biologico della nostra specie, tr. it. di E. Servalli, Orme Editore, Milano 2004; Pietro Barcellona, L’epoca del postumano. Lezione magistrale per il compleanno di Pietro Ingrao, Città Aperta, Roma 2007. A proposito dell’importanza che la frattura epistemologica darwninana segna rispetto all’elaborazione di una nuova grammatica del vivente rimando al bel libro di Cristian Fuschetto, Darwin teorico del postumano. Natura, artificio, biopoliti-
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suo, l’elemento culturale, ivi compreso quello tecnico, lungi dall’essere prodotto di una qualche fantomatica spiritualità, a sua volta altra rispetto alla natura, fosse invece il risultato di un complesso lavorìo di costruzione, il frutto di un commercio continuo con il materico? Se, infine, lungi dal doversi giustapporre, questi due ambiti – il naturale e lo storico, l’organico e il culturale, il biologico e il tecnologico – fossero invece profondamente interrelati, uniti da una trama più concreta di quanto non voglia ammettere ogni astratto dualismo o salto ontologico? E se così fosse – come in fondo è – non dovremmo forse cominciare a rassegnarci e salutare definitivamente non solo la vecchia declinazione negativa, ma anche qualsivoglia definizione univoca e unidirezionale della corporeità e del suo sentire, aprendoci invece a un molteplice squadernamento delle sue possibili dimensioni? Non solo. Se così fosse – come in fondo è – non sarebbe anche il caso di osservare diversamente l’attuale freddezza del sensorio umano vedendo in essa più il frutto di un complesso intreccio che un irrimediabile destino cui essere inchiodati? Rispondere a queste domande non è certo facile, e tuttavia proverò a farlo riproponendo alcuni snodi teoretici, a mio avviso molto significativi, presenti in un ‘classico’ del pensiero paleontologico: André Leroi-Gourhan. Naturalmente, trattasi di un’incursione, fatta con gli occhi di un filosofo, all’interno di un territorio distinto e distante dalla filosofia stessa; ma, come spesso accade, quest’apertura ha gettato non poca luce su quelle tematiche del corpo e del suo sentire sulle quali da tempo provo a riflettere. Mi si perdonino perciò i limiti, le imprecisioni quando non le ingenuità delle considerazioni a venire, provando a ravvisare in esse quel che, più sinceramente, sono: l’espressione del forte desiderio che, sempre, alberga tra gli stessi filosofi, di archiviare la vana ricerca di elementi essenziali definitori dell’umano per riconoscere che le costruzioni che esso fa, ivi comprese le essenze metafisiche, sono più il frutto di un fragile lavorìo, che molto deve al caso, che non il precipitato di nature speciali. ca, Mimesis, Milano 2010. Circa la necessità di inserire anche la specie umana all’interno delle griglie interpretative darwiniane, scrive Giorgio Manzi in Il viaggio dell’umanità. Il punto di vista della paleantropologia, in Homo sapiens. La grande storia della diversità umana (Catalogo della Mostra), a cura di L. L. Cavalli Sforza e T. Pievani, Codice Edizioni, Torino 2011, p. XX: «Se la selezione naturale – intendeva dire lo stesso Darwin – è il nucleo esplicativo e il meccanismo di base dell’evoluzione di tutte le specie viventi, non c’è motivo di escludere la nostra da un’analoga storia e da uno stesso destino».
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Se una speranza c’è da opporre alle difficoltà che l’umano oggi fronteggia, credo ch’essa risieda, tra l’altro, in questo primo atto di onesto riconoscimento. 2. Scheletri e Utensili In un’intervista, rispondendo alla considerazione fattagli da ClaudeHenri Rocquet: «Insomma, lei tratta lo scheletro come se fosse un utensile…», André Leroi-Gourhan afferma: «Esattamente, e non vale la pena parlarne ancora»16. Evidentemente contravvenendo alla richiesta del famoso etnologo e paleontologo francese, proverò invece a riflettere, seppur brevemente, su questa sua risposta tutt’altro che scontata, poiché, in fondo, credo valga senz’altro la pena domandarsi che cosa possa significare l’ipotesi di trattare lo scheletro dei viventi come se fosse un utensile. Chiunque conosca anche superficialmente il pensiero di Leroi-Gourhan sa bene che, contrariamente a quel che si sarebbe portati a pensare, l’identificazione sopra prospettata non ha nulla a che fare con una visione statica, oserei dire, meramente anatomica della corporeità, ruotando invece l’intera struttura dei corpi innanzitutto intorno al loro comportamento locomotorio. Il che significa che sono le diverse possibili declinazioni della motilità a indirizzare in maniera sintetica e dinamica le architetture dei viventi. Certo, che lo schema normale degli animali sia organizzato secondo la disposizione dell’organismo dietro l’orifizio alimentare e la conseguente divisione del corpo in due parti – quella anteriore, simile a una scatola ossea solida, e quella posteriore – «è un fatto biologico così evidente che sarebbe perfino ridicolo attardarvisi»17. Tuttavia, la comparsa di una scatola cranica rigida che struttura la bocca e protegge il cervello, con la conseguente divisione di questo stesso campo anteriore di relazione in due settori complementari, l’uno delimitato dall’azione della testa o degli organi facciali – la bocca –, l’altro dall’azione dell’arto anteriore o, più precisamente, dalla sua estremità – la mano –, non sarebbero possibili prescindendo dai progressi dell’adattamento locomotore. 16 17
André Leroi-Gourhan, Le radici del mondo. Dalla ricerca preistorica uno sguardo sulla totalità dell’uomo, tr. it. di C. Mattioli, Jaca Book, Milano 1986, p. 83 (il corsivo è mio). Id., Il gesto e la parola. Tecnica e linguaggio, tr. it. di F. Zannino, Einaudi, Torino 1977, vol. I, p. 35.
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Se infatti si analizzano le fasi che lo studioso francese individua nel complesso lavorío evoluzionistico – e cioè: la liberazione dell’intero corpo dall’elemento liquido, quella della testa rispetto al suolo, quella della mano rispetto alla locomozione e, infine, quella del cervello rispetto alla maschera facciale – ci si rende conto che tra posizione, dentatura e arti c’è un nesso molto forte capace, lo vedremo, di condizionare l’evoluzione del cranio e del cervello in esso contenuto. Basti pensare ad esempio all’Ittiomorfismo, alla fase cioè in cui i mezzi di locomozione sono le pinne: qui è infatti possibile notare negli organismi un movimento essenzialmente laterale, determinato dall’azione di muscoli solidali con l’estremità cefalica che, a sua volta, ha però poca mobilità, non essendo sospesa rispetto al corpo. Va da sé che in questo contesto la colonna vertebrale non ha alcuna funzione di sostegno, servendo solo a portare il midollo all’interno del cranio; allo stesso modo, la testa ha come compito esclusivo quello di sostenere i denti e di permettere ai muscoli della mandibola di funzionare. Dal canto suo, il polo manuale del campo anteriore già comincia ad avere una doppia tendenza funzionale: ad essere cioè adibito esclusivamente alla locomozione – come nella maggior parte delle specie di profondità o di superficie –, oppure intervenire, più o meno limitatamente, nel campo anteriore di relazione – come nelle specie di fondo, in cui si trovano numerosi casi in cui le pinne pettorali sono direttamente associate alla ricerca di alimenti –. A questo stato di cose corrisponde un cervello minuscolo18. Viceversa, qualcosa muta nel passaggio alla fase dell’Anfibiomorfismo, caratterizzata dalla presenza di quattro arti che, ancorché limitati e «gracili, servono per la locomozione terrestre». Qui, nonostante ci sia vicinanza tra le scapole e il cranio – e dunque «una quasi nulla» mobilità della testa –, sono tuttavia già presenti gli elementi dello scheletro di tutti i Vertebrati: «il bacino è fatto in modo da favorire la marcia, le braccia e le gambe hanno le stesse ossa delle nostre, le mani e i piedi sono a cinque dita». È inoltre interessante notare rispetto al cranio un avvenuto spostamento, dovuto al passaggio di deambulazione dall’acqua all’aria: in quest’altra dimensione, infatti, la testa non è più sostenuta dall’elemento liquido di elevata densità e si trova, differentemente da quanto accadeva per i pesci, in una sorta di instabile equilibrio all’estremità del corpo. Detto in altri termini: se nei pesci il fatto che l’animale sia sospeso nell’elemento liquido «evita alla testa la necessità di flettersi in senso verticale»19 e limita quindi le prestazio18 19
Ivi, p. 48. Ivi, p. 51.
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ni solo alle azioni della mandibola, nei Vertebrati il passaggio all’aria libera, e la conseguente necessità di conciliare le esigenze mandibolari e quelle di sospensione, porta ad una diversa evoluzione del cranio. Il forte nesso appena riscontrato tra posizione, dentatura, funzione dell’arto anteriore e cranio, risulta poi ancor più evidente nella successiva fase Sauromorfa, nella quale la colonna vertebrale ha assunto una convessità accentuata e la funzione da essa svolta in senso verticale è predominante; certo, gli arti sono ancora arcuati, ma sono pur sempre in grado di sollevare il corpo al di sopra del suolo nella locomozione e nelle operazioni di cattura e di deglutizione. Ebbene, secondo Leroi-Gourhan, questo genere di locomozione determina trasformazioni decisive dell’edificio cranico, poiché comporta «una estesa mobilità della spalla e la separazione definitiva della testa che si muove all’estremità di un vero e proprio collo». Ciò significa, in altre parole, che il volume della volta cranica non è determinato dal cervello, ma dalle necessità meccaniche della trazione mandibolare e dalla sospensione della testa […]. Il Sauromorfo corrisponde pertanto alla prima fase che metta direttamente in causa la costruzione generale dei Vertebrati terresti; e se si considera in quale misura la meccanica corporea dell’uomo resti legata alle stesse necessità, ci si accorge che la maggior parte del cammino è stata già percorsa: l’asse vertebrale funge da trave maestra dell’edificio corporeo, gli arti sono resi indipendenti in uno scheletro dalla formula definitiva, le estremità hanno cinque dita, il cranio, sospeso sul basion, viene sollevato dai muscoli e dai legamenti attaccati all’inion, la dentatura determina il volume della volta e le sue dimensioni sono condizionate, d’altra parte, dal complesso meccanico del cranio posteriore. Tutto il gioco delle interazioni è presente20.
Tale situazione può essere ampiamente confermata dalle ulteriori osservazioni riguardanti la fase del Teromorfismo. Dal punto di vista dell’evoluzione del cranio in questo momento avviene un mutamento importante, poiché i Rettili teromorfi cominciano ad accedere alla locomozione quadrupede eretta, i loro arti vengono ad assumere l’aspetto di quelli del cane – cioè di colonne che sostengono il corpo al di sopra del suolo –, mentre contemporaneamente le vertebre cervicali si allungano e il collo diventa adatto a far muovere la testa in un campo considerevolmente ampio. Tale tappa – che Leroi-Gourhan suddivide tra Rettili e Mammiferi quadrupedi – è estremamente importante dal duplice «punto di vista dell’evoluzione della mano e dell’evoluzione del cranio»21: infatti, per quel che concerne i pri20 21
Ivi, pp. 55-56. Ivi, p. 57.
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mi, i Rettili, ciò che colpisce è soprattutto il cranio, la cui parte posteriore è fortemente modellata; anche la dentatura è sorprendente poiché, a differenza dei pesci, degli anfibi o dei sauromorfi, la cui dentatura è fatta di denti semplici, conici e tutti identici, i Rettili teromorfi hanno i denti conici diversi tra loro per le proporzioni e, inoltre, disposti in tre gruppi. Questa differenziazione comporta, infine, un complicato sistema di cattura, di distribuzione e di masticazione del cibo al quale corrisponde una sempre maggiore specializzazione dell’arto anteriore. Dal canto suo, l’altra fase, quella del quadrupede eretto – cioè i Mammiferi quadrupedi –, si avvia verso l’aumento della mobilità, l’ampliamento del cerchio operativo e il possesso di uno spazio più vasto. Va da sé che da questo punto di vista di estremo interesse è l’ultima fase tracciata da Leroi-Gourhan, quella del Pitecomorfismo, caratterizzata da una liberazione posturale collegata alla quadrumania locomotrice. Detto in altri termini, qui appare evidente come lo sviluppo del dispositivo per l’opposizione delle dita, sempre più efficiente e preciso, corrisponde ad una locomozione sempre più basata sulla preminenza della prensione della mano rispetto a quella del piede, ad una posizione seduta sempre più raddrizzata, ad una dentatura più corta, ad operazioni manuali via via più complesse e, infine, a un cervello maggiormente sviluppato. Ora, non c’è dubbio che ciò che di questa ricostruzione colpisce con forza è, lo si è accennato, il forte ribaltamento di prospettiva con cui il paleontologo francese osserva i viventi la cui materialità biologica, lungi dall’essere descritta come qualcosa di statico è, al contrario, mobile e dinamica; da questo punto di vista, profondamente malleabile e datrice di forme22. 22
In questo senso non è affatto peregrino avvicinare la prospettiva di Leroi-Gourhan a quella di Darwin, stante anche quanto egli afferma, ad esempio, in Le radici del mondo, cit., pp. 15-16: «Sono abbastanza darwinista – come la maggior parte dei paleontologi, penso. Il darwinismo è una dottrina che lascia una libertà quasi assoluta: per ammirare la libertà delle forme e insieme per considerarle come qualcosa di intangibile, di immutabile. Si contempla nello stesso tempo la forma antica e quello che essa è diventata». Simile rispetto e ammirazione per la libertà del divenire, dunque o, se si vuole, per un’idea di natura vista, scrive C. Fuschetto in Darwin teorico del postumano, cit., p. 36, come «attività di costruzione, laboratorio di forme sperimentali, luogo di incessante costruzione di entità di volta in volta nuove». Da questo punto di vista, modulerei e sfumerei maggiormente le affermazioni tanto di Nathan Schlanger quanto di Bruno Latour e Pierre Lemonnier che, limitando a George Cuvier e Pierre Teihlard de Chardin i modelli ispiratori, definiscono non darwiniano il modello biologico di Leroi-Gourhan battendo fortemente il tasto sul finalismo e la teleologia in esso presenti. Cfr., ad ogni modo, Bruno Latour, Pierre Lemonnier, Introduction: Genèse sociale des techniques,
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Ma non solo. Di estremo interesse, in questa ricostruzione, sono i forti legami esistenti tra le dinamiche corporee e il sistema nervoso: «Se si osserva il caso dei Primati», nota infatti il paleontologo francese, ci si rende conto del fatto che la formula del quadrumane corrisponde a un’estrema specializzazione corporea […]. Questo adattamento è lo stesso, come principio, per tutti i quadrumani, ma presenta variazioni interne notevoli da una specie all’altra, variazioni che riguardano a un tempo il comportamento, le posture di attività e la struttura fisica. Le specie la cui struttura corporea corrisponde alla maggiore liberazione della mano sono anche quelle il cui cranio è in grado di contenere il cervello più grande dato che liberazione della mano e riduzione degli sforzi della volta cranica sono due termini della stessa equazione meccanica. Per ogni specie vi è un ciclo di collegamento tra […] il corpo e […] il cervello, ciclo nel quale, attraverso l’economia del suo comportamento, si apre la via di un adattamento selettivo sempre più pertinente. Le possibilità di sviluppo evolutivo sono perciò tanto maggiori quanto più il dispositivo corporeo si presta a plasmare il comportamento mediante l’azione di un cervello più sviluppato; in questo senso il cervello guida l’evoluzione, ma resta inevitabilmente condizionato dalle possibilità di adattamento selettivo della struttura. Sono queste le ragioni che mi hanno indotto a prendere innanzitutto in considerazione, nell’evoluzione, le condizioni meccaniche dello sviluppo. L’influenza sui fatti in esse riscontrabile dà una sicurezza notevole. Quando in cento specie diverse si ritrovano, entro gli stessi princìpi architettonici, le stesse conseguenze imposte da sforzi meccanici, diventa possibile fissare le condizioni senza le quali l’evoluzione cerebrale resterebbe un fenomeno astratto23.
Dunque, almeno fino ai Primati, la struttura fisica è, quale radice concreta di attività, guida alla formazione di una sistema nervoso che, lungi dall’essere condizione, segue piuttosto il divenire biologico del corpo: è impossibile vedere nella forza di espansione del cervello il motore dell’evoluzione cranica […]. L’aumento del numero delle cellule nervose non può essere antecedente all’ampliamento dell’edificio. Anche ammettendo che espansione cerebrale e miglioramento spaziale dello scheletro costituiscano un
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genèse technique des humains, e Nathan Schlanger, Piaget et Leroi-Gourhan. Deux conceptions biologiques des connaissances et des techniques, entrambi in De la préhistoire aux missiles balistiques, publié par B. Latour, P. Lemonnier, La Découverte, Paris 1994, rispettivamente alle pp. 9-26 e 165-186. Ma vedi anche Jean-Pierre Warnier, La cultura materiale, tr. it. di F. Tiragallo, Meltemi, Roma 2005, in particolare le pp. 54-58. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., pp. 71-72 (il corsivo è mio).
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fenomeno unico, non si può fare a meno di ritenere che il cervello «segua» il movimento generale, ma non ne sia l’istigatore24.
Almeno fino ai Primati, non c’è dubbio. Ma dopo, con la specie Homo, che cosa accade? È possibile paragonare e trasporre le considerazioni fatte fin’ora circa il nesso posizione-dentatura-polo-manuale-dimensioni del cranio alla nostra specie, soprattutto tenendo conto che nessuna di queste situazioni rientra nell’albero genealogico umano25? Eppure lo sguardo del paleontologo sembra avere la medesima curvatura. Infatti, se guardiamo il corpo dell’uomo, un’evidenza semplice appare davanti ai nostri occhi: 24 25
Ivi, p. 96. Se si osservano i reperti fossili dei primi uomini rivolgendo una particolare attenzione ai crani, se insomma si osserva l’anatomia di quel poco che resta degli ominidi, ci si trova davanti al dato di fatto sconcertante di una diversità strutturale, di un’inassimilabilità tra uomo e scimmia. Scrive Leroi-Gourhan, ivi, p. 75: «gli Antropiani, dal canto loro, hanno in comune con le scimmie la posizione seduta e la mano a pollice opponibile, ma il fatto di essere bipedi e di avere la volta cranica completamente libera li pongono a una tale distanza dai Pitecomorfi che non c’è ragione di accostarli più di quanta ve ne sarebbe nel voler vedere nello scimpanzé una specie di orso lavatore molto evoluto». E ancora, sulla necessità di dover rinunciare all’idea di un anello mancante tra uomo e scimmia, costituendo l’antropomorfismo una formula distinta da quella delle scimmie, si legge, a p. 88: «Abbiamo assistito al lungo sviluppo della stirpe umana. Abbiamo visto che la derivazione dalla scimmia all’uomo può essere considerata oggi assai problematica, e che bisogna ricorrere ad un ipotetico antenato bipede […]. Infatti i caratteri umani sono inassimilabili a quelli delle scimmie, in quanto tutta l’evoluzione, dai pesci al gorilla, dimostra che la posizione costituisce un carattere fondamentale: le scimmie, tutte le scimmie, sono caratterizzate da una posizione mista, quadrupedica e seduta, e dall’adattamento del piede a queste condizioni di vita. Gli Antropiani, viceversa, sono caratterizzati soprattutto da una posizione mista, bipedica e seduta, cui rigorosamente si adatta il loro piede». Come nota White, tali considerazioni, in perfetta continuità con le posizioni di Darwin e con gli studi di anatomia di Thomas Huxley, sono state pienamente confermate da recenti scoperte di «antenati dell’uomo decisamente diversi dagli scimpanzé, risalenti a una fase di poco successiva alla separazione delle due linee evolutive»; cosa questa che ha mostrato come la prudenza nel limitare il ricorso ai primati come controfigure dei nostri più vicini antenati «aveva solide motivazioni e che l’evoluzione degli attuali scimpanzé si è svolta per un lungo periodo parallelamente a quella dell’antenato comune che in passato abbiamo condiviso». Cfr., in proposito Tim D.White, ‘Sapiens’ e gli altri ‘generi umani’, “MicroMega” 1/2012, pp. 17-32. Per uno sguardo introduttivo alla questione, mi limito qui a segnalare Ann Gibbons, Il primo uomo. L’avventura della scoperta dei nostri antenati, tr. it. di L. Appiani, Codice Edizioni, Torino 2009.
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lo studio dei corpi ci insegna qual è il nostro posto tra i primati e ci mostra anche che siamo differenti dai nostri parenti più prossimi, gli scimpanzé, perché noi siamo bipedi e loro quadrupedi, e tutto il nostro corpo e il nostro scheletro riflettono tale differenza nella locomozione26.
Così, e in evidente forte continuità con il mondo animale, anche le prime forme umane vengono descritte a partire da un corpo che è innanzitutto locomozione, condotta motrice e, in una certa misura, comportamento. Lungi dall’essere limitativa, tuttavia, questa premessa è invece di notevole e rilevante peso perché, viceversa, pure in questo caso, è proprio in essa che si radica l’insieme delle particolarità gestuali e linguistiche che caratterizza la specie umana. A ben guardare infatti, già per gli Antropiani – ma progressivamente per tutte le altre forme e antenati dell’uomo – è esattamente la diversa posizione corporea, nella fattispecie la motilità verticale, a causare, per così dire, una serie di importanti conseguenze: determinando la posizione eretta il fatto che il cranio poggi su una colonna vertebrale completamente diritta si ha, in primis, la liberazione della mano durante la locomozione – il gesto – e, in secundis, l’isolamento meccanico della faccia rispetto alla parte posteriore del cranio – la parola27 –. Da questo punto di vista, di estremo interesse è quanto Leroi-Gourhan afferma commentando la scoperta, avvenuta in Tanganica nel luglio del 1959, di un Australantropo di misura umana i cui resti risultavano accompagnati da utensili molto primitivi, i così detti chopper. Ebbene, la presenza in questi ciottoli scheggiati di una forma, ancorché irregolare, indica lo svolgersi di un’attività ben precisa caratterizzata da un semplice movimento della mano capace di percuotere una delle due estremità della pietra e, perpendicolarmente alla superficie, di far staccare su di essa una scheggia che lascia sul ciottolo un taglio vivo. Ora, e senza volersi soffermare sulla scelta di termini tecnici che descriverebbero questo tipo di gesto, non c’è dubbio che il rudimentale tecnicismo qui presentato è sicuramente umano e, quel che più conta, «appare coerente con l’or26 27
Juan Luis Arsuaga, I primi pensatori e il mondo perduto di Neandertal, tr. it. di L. Cortese, Feltrinelli, Milano 2001, p. 27 (il corsivo è mio). Tralascio per ovvi motivi l’importantissimo aspetto del linguaggio che LeroiGourhan, viceversa, analizza con accuratezza. Ancora una volta alle sue pagine, dunque, rimando. Per un aggiornamento ulteriore di una questione tutt’altro che risolta, cfr. Fabio Di Vincenzo e Giorgio Manzi, L’origine darwiniana del linguaggio; Philip Liberman e Robert Mccarthy, Come parlavano i nostri antenati?, entrambi in “MicroMega”, 1/2012, pp. 147-178, che consiglio anche per le ampie e aggiornate bibliografie di riferimento.
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ganismo dell’essere»28 che lo compie; in altri termini: è reso praticabile solo grazie alla liberazione della mano dovuta all’assunta posizione eretta dall’Antropiano. Ricollocato in un’ottica biologica e paleontologica, dunque, l’organismo dell’uomo primitivo non è per niente quello di una specie di semi-scimmia priva di esperienza che, anatomicamente statica, si muove a casaccio, distribuendo forme intorno a sé in modo del tutto accidentale. Al contrario: come quello di tutti gli altri viventi, esso è motilità, condotta capace di sintesi dinamiche, cioè di movimenti che, per quanto semplici e rudimentali, non sono mai casuali o inadeguati, essendo invece il prodotto di un fare e di gesti sempre integrati nella materia e nella funzione. Insomma, battere, scheggiare e, via via, tagliare, trinciare, raschiare, è sempre insieme un dare forma e, così facendo, secernere utensili e strumenti che, dal canto loro, altro non sono che organi artificiali dalle caratteristiche costanti29. Organi artificiali dai caratteri costanti che, si badi bene, hanno come loro correlato artifici organici. L’esempio dei reperti fossili concernenti l’Arcantropo può chiarire quest’affermazione. Non c’è dubbio infatti che qui siamo in una fase decisamente più avanzata rispetto a quella dell’Antropiano, visto che se da un lato il procedimento del taglio della pietra mediante percussione permane, 28 29
A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 110 (il corsivo è mio). Scrive in proposito il paleontologo francese, ivi, pp. 109 -110: «Siamo arrivati alla nozione dell’utensile come vera e propria secrezione del corpo […] degli Antropiani. È logico, quindi, applicare a questo organo artificiale le norme degli organi naturali: deve rispondere a forme costanti, a un vero e proprio stereotipo. È questa infatti la regola per tutti i prodotti dell’industria umana nei tempi storici: esiste uno stereotipo del coltello, dell’ascia, del carro, dell’aereo, che non è solo il prodotto di un’intelligenza coerente ma il prodotto di quella intelligenza integrata nella materia e nella funzione […]. Si potrebbe obiettare che, per le industrie della pietra, il caso fortuito delle fratture introduce numerosi prodotti di forma irregolare. Tuttavia gli studiosi di preistoria non si sono lasciati ingannare e ogni periodo è contrassegnato dai suoi stereotipi come l’arma tagliente, il raschiatoio, il bulino. È lecito, anzi doveroso, immaginarci l’intelligenza dei primi Antropiani inferiore alla nostra, ma non è possibile immaginarla biologicamente incoerente. Di conseguenza gli utensili più antichi o non si possono distinguere dalla pietra grezza o rispondono a forme costanti». Simile punto di vista è presente anche nelle riflessioni di Heinrich Popitz, Verso una società artificiale, tr. it. di G. Auletta, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 53. Lo studioso tedesco, infatti, parte da un simile presupposto di negazione degli artefatti come sostituti degli organi e sostiene invece non solo che la «capacità di agire tecnologicamente è già presente nella costruzione organica fondamentale dell’uomo», ma che le stesse tecnologie hanno «contribuito alla costituzione biologica dell’essere umano».
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dall’altro si tratta solo di una prima sgrossatura, poiché a questi primi colpi se ne aggiungono altri, un’altra serie di gesti con cui il nucleo di pietra viene colpito. Evidentemente, la motilità corporea si è andata complessificando: prova ne è il fatto che la pietra non viene più solo percossa perpendicolarmente ma anche tangenzialmente – cosa questa che produce schegge molto più lunghe e sottili. Anche in questo caso, è ovvio, non si tratta affatto di movimenti supplementari, come è dimostrato dal fatto che la confezione dell’amigdala presume la scelta del punto dal quale, in un blocco, si staccherà la scheggia il cui taglio costituirà la futura accetta. Ma non solo: ad essere indispensabile è anche la successiva lavorazione fatta al fine di ricavare dalla scheggia una forma. Così, l’intelligenza tecnica dell’Arcantropo si dimostra già molto più complessa; detto in altri termini: lo studio della sua industria testimonia del possesso di due serie di gesti da combinare per ottenere, partendo da un blocco isolato e dopo averla scelta, una forma stereotipata. Ora, se andiamo a confrontare questa diversità da un punto di vista cerebrale, troviamo che, seppur minima, una differenza rispetto all’uomo precedente, c’è: se il cervello dell’Australantropo è piccolo, con molte pieghe e lobi frontali ridotti, già nella fase successiva dell’Arcantropo, esso viene ad essere più sviluppato, soprattutto per quel che concerne i lobi frontali. In proposito, Leroi-Gourhan afferma: «tale constatazione solleva problemi importanti». Certo, problemi che, data la durata con cui abbiamo a che fare, non possono essere del tutto risolti con certezza; tuttavia, continua, «prendendo in considerazione sia i fossili che gli utensili, si impone fortemente il concetto di una evoluzione sincronica degli utensili e degli scheletri»30. Ecco il punto. Come mostra il forte parallelismo tra i reperti fossili, la differente strutturazione del cranio e il volume del cervello, la motilità organica e le condotte corporee ad essa legate non sono solo, come si è visto, un dare forme a quella materia in cui sono implicate: tra esse e gli artifici prodotti s’instaura infatti una dinamica retroattiva che prevede la correlativa e sincronica disponibilità che il corpo ha, già nella sua architettura scheletrica e anatomica, di venire plasmato, modificato, diversamente modellato da quegli stessi oggetti che maneggia. Così, lungi dall’essere luogo di una supposta immediatezza biologica, portato di una naturalità statica e immutabile, anche il corpo umano – e meglio sarebbe dire l’insieme delle condotte motrici – è piuttosto un costrutto, un artificio organico, un utensile, per riprendere l’espressione da cui siamo partiti; sarebbe a dire: un insieme di particolarità senz’altro stabili e 30
Ivi, p. 116 (il corsivo è mio).
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costanti, senz’altro strutturate, ma non per questo date una volta per tutte, essendo, come si è visto, il momentaneo stabilizzarsi di un intenso lavorìo dinamico e funzionale che, lungi dall’essere separato da ciò che crea, fa invece corpo con i suoi utensili – le pietre, le schegge, le lance – fino a farsene determinare, fino ad annullare, nella praxiologia del gesto, ogni dualismo astratto che lo vorrebbe altro rispetto a un supposto oggetto fuori di sé. Molte le considerazioni che questi studi ci portano a fare. In prima battuta, non c’è dubbio ch’esse ci mostrano come l’uomo, già nelle sue prime apparizioni, non abbia affatto acquisito i così detti utensili grazie ad un improvviso lampo di genio, magari radicato o reso possibile da una supposta carenza organica. Al contrario: se vi è, come s’è visto, un legame profondo e pervasivo, una dinamica di azione e retroazione tra l’organico e i suoi artefatti, allora, per un verso, nessuna tecnica è da considerarsi un elemento aggiuntivo o opposto al corpo umano, nessuna tecnica rimanda ad un’essenza creativa: essa è invece sempre un’anatomo-biotecnologia, un fare e costruire non tanto oggetti quanto prolungamenti, protesi di cui si dovrebbe tentare una «vera e propria biologia»31; per altro verso, e correlativamente, nessun organismo è puro, mero luogo biologico o agglomerato di parti e funzioni32, essendo piuttosto sempre determinato, nella sua stessa morfologia, da ciò che le dinamiche motrici e comportamentali contribuiscono a costruire, a secernere, filtrare o inventare. Che questo discorso possa correre il rischio di cadere o scadere in un rozzo biologismo mirante a privare l’intelligenza umana e i suoi prodotti del loro peso e della loro specifica autonomia, è cosa da escludere, trattandosi qui piuttosto di limitarsi a vedere nella natura intelligente delle tecni31 32
Ivi, p. 173. Cfr. in proposito quanto scrive Edoardo Boncinelli in Le forme della vita, Einaudi, Torino 2000, p. 148: «Questi ultimi (sc: gli individui del genere Homo) sono comparsi 2,4 milioni di anni fa, non si conosce se come discendenti diretti degli Australopitechi o attraverso una via evolutiva parallela alla loro. Prima Homo habilis, poi Homo erectus (o ergaster) ed infine Homo sapiens, come l’uomo ha chiamato se stesso. Questa successione di eventi non è oggetto di grandi controversie, anche se le discussioni non mancano. Non si tratta di pura e semplice biologia». A riguardo mi sembra che siamo qui su una posizione ben distante da quella sostenuta da un certo biologismo o riduzionismo antropologico, che trova riscontro nell’area della sociobiologia, dell’etologia umana, della psicologia evoluzionistica di impostazione ultradarwinista: si pensi ad esempio ad autori come Edward O. Wilson o Richard Dawkins. Tale posizione sostiene infatti l’idea che l’uomo possa essere completamente spiegato nelle sue espressioni comportamentali, sociali, culturali, istituzionali, facendo riferimento al suo retaggio filogenetico, ovvero alla sua storia evoluzionistica e pertanto alla sua dotazione biologica.
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che non tanto il risultato di qualcosa di astratto, di un indefinibile e superiore spirito umano, quanto il frutto di un rapporto più complesso e concreto che ha un interlocutore fisiologico e corporeo: vedere nel tecnicismo umano un fatto zoologico è meno pericoloso che applicare ai primi uomini un sistema di pensiero creatore che smentirebbe gli innumerevoli millenni durante i quali la sua industria permane identica a se stessa e quasi vincolata alla forma del suo cranio33.
Del resto, Leroi-Gourhan sa benissimo che da un certo momento in poi, con l’abolizione dello sbarramento pre-frontale, si attua un aumento del volume cerebrale tale da far sì che sia quest’organo a guidare l’evoluzione; egli cioè, è perfettamente consapevole che, a partire dall’Homo sapiens, la tecnica, fino ad allora legata al processo cellulare, dominata dalle leggi dell’evoluzione e dalle normali leggi di comportamento della specie, si libera da tutto ciò e comincia «a vivere di vita propria»34. Insomma, riferendo al suo pensiero l’espressione che Patrick Tort riserva a Darwin circa l’effetto reversivo dell’evoluzione, si potrebbe senz’altro dire che anche nel caso del paleontologo francese affermare la base biologica dell’evoluzione culturale non è in contraddizione né con la constatazione dell’autonomia dell’elemento tecnico-culturale né tantomeno con la retroazione ch’esso è capace di effettuare su quella stessa base biologica che l’ha generato35. 33 34
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A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 112. Ivi, pp. 164 e 168 (il corsivo è mio). Con l’avvenuta abolizione dello sbarramento pre-frontale «si delinea, nelle curve del progresso industriale e del volume cerebrale, che ascendono con ritmo regolare, una spettacolare dissociazione: il cervello sembra aver raggiunto il volume massimo, l’utensile, invece, inizia un’ascesa verticale. Si può collocare a questo punto il passaggio da una evoluzione culturale ancora dominata dai ritmi biologici a una evoluzione culturale dominata dai fenomeni sociali». Cfr. anche quanto viene affermato a p. 315, circa la differenza e la divaricazione che si viene a scavare tra il piano dell’evoluzione filetica, «che fa dell’umanità attuale un insieme di individui dalle proprietà fisiche poco diverse da quelle di trentamila anni fa», e il piano dell’evoluzione etnica, «che fa dell’umanità un corpo esteriorizzato le cui proprietà complessive sono in uno stato di trasformazione accelerata». Considerando l’effetto reversivo dell’evoluzione la figura logica centrale dell’antropologia di Darwin, Patrick Tort la descrive come quel paradosso in base al quale la selezione, favorendo la nascita degli istinti sociali e della simpatia, finisce con l’annullare le proprie stesse leggi. Il che significa, in tutta evidenza, che una volta entrata in ambito sociale, la selezione naturale viene progressivamente rimpiazzata da ciò che essa stessa ha generato. Cfr., in ogni caso, Patrick Tort, La se-
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Ma, al di là di questi pur importanti argomenti, c’è, forse, qualcos’altro su cui vale la pena soffermarsi. Superando definitivamente il vecchio metodo linneiano che prende come guida per la classificazione di una specie proprio l’anatomia; escludendo, in altri termini, che siano i tratti da essa descritti a costituire l’essenza della specie in questione, Leroi-Gourhan finisce col negare del tutto che i caratteri biologici siano entità con loro proprietà specifiche esistenti o generi naturali: «non esiste, infatti», scrive in proposito «alcuna essenza condivisa da gruppi di organismi conspecifici»36. Tale constatazione è di notevole importanza. Se ci si pensa infatti, nel partire dalla motricità e nel conseguente dinamicizzare il rapporto tra la morfologia, le condotte corporee e gli artifici che da esse ‘trasudano’, Leroi-Gourhan supera ogni forma di essenzialismo, liberalizza il concetto di specie e accetta la variazione come una norma e non come un’aberrazione dell’evoluzione37. Il che comporta, come conseguenza, che, più che arrovellarsi sulla definizione o il rinvenimento di una supposta natura anatomo-biologica tipica e definitoria della specie umana, egli si limita a riconoscere che l’unica vera natura di cui il genere Homo dispone, l’unica base che accomuna gli esseri umani, è più che altro un insieme dinamico di variabili, di predisposizioni – certo con delle costanti, quali l’attitudine al linguaggio e alla tecnica – che non sono però mai delle essenze. Insomma, se l’organismo non è mai nuda anatomia e morfologia, essendo piuttosto come si è visto, un utensile, un artificio organico o se si vuole, il frutto delle condotte motorie e degli organi artificiali ad esse interrelati, allora, e inevitabilmente, la supposta univocità e unicità della natura corporea e biologica dell’umano svanisce, disseminandosi in una inessenziale molteplicità. Verrebbe perciò da dire che se siamo, come siamo, bipedi, cioè esseri in movimento, dobbiamo rassegnarci a essere bipedi in molti modi38.
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conda rivoluzione darwiniana, in L’antropologia di Darwin. La laicizzazione del discorso sull’uomo, tr. it. di G. Chiesura, Manifestolibri, Roma 2000, p. 53. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 113 (il corsivo è mio). Su tale complessa questione del concetto di specie e sul dibattito oggi in corso, cfr. Filosofia e scienze della vita. Un’analisi dei fondamenti della biologia e della biomedicina, a cura di G. Boniolo e S. Giaimo, Bruno Mondadori, Milano 2008, pp. 148-169. Leggiamo infatti in, Homo sapiens, cit., p. 4: «Ma si può essere bipedi in modi differenti, non soltanto come lo siamo noi. Le numerose specie che compongono l’albero fittamente ramificato dell’evoluzione umana – prime forme arcaiche, ar-
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In questo modo però, lungi dall’essere dovuta esclusivamente ad una sua successiva e ipotetica implicazione col mondo storico, la diversificazione del corporeo, con il suo molteplice squadernarsi, trova radici già in quel così detto mondo della natura che, più che separato, risulta invece essere in reversibile continuità con il mondo culturale; in altri termini, si trova ad essere sempre, e prima di ogni separazione, luogo spurio di perenne contaminazione. Non è perciò un caso che, in un vero e proprio affondo anti-metafisico, Leroi-Gourhan, riferendosi alla diversità riscontrata tra i crani da lui visionati, concluda di essersi trovato di fronte a una tale «collezione di uomini» da aver messo in discussione «persino l’unità di una definizione di uomo»39. Non una sola ‘camminata’, non un Cranio, non un Corpo, non un Uomo dunque, ma molte ‘camminate’, molti crani, molti corpi40 e molti uomini…
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dipitechi, australopitecine, parantropi e specie del genere Homo – hanno avuto posture e movimenti differenti, che possiamo rilevare dall’anatomia degli scheletri fossili e dalla forma delle loro articolazioni. Anche gli scimpanzé, nel loro bipedismo occasionale, “camminano” in modo diverso da noi. Uno dei protagonisti di questi studi, il ʻpaleoantropologoʼ Tim White, dice che la diversità delle camminate ancestrali era così piena di stranezze e unicità che, a immaginarla, gli sembrava di trovarsi nel bar intergalattico di Guerre stellari». A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 98 (il corsivo è mio). Peraltro, tale affermazione dello studioso francese è stata pienamente confermata dalle più recenti scoperte della paleontologia che mostrano bene quanto la storia dell’umanità sia fatta di diversità e di esperimenti; quanto essa sia, cioè, una storia plurale fatta di convivenze. Scavi risalenti al 2010, ad esempio, mostrano con chiarezza che i primi Homo convissero con specie appartenenti a tre generi diversi. Non solo. Tale situazione, certo assai antica, concerne anche la nostra specie Homo sapiens che, comparsa a un certo punto del genere Homo, ha comunque convissuto, e forse si è addirittura ibridata, con specie dello stesso genere, come mostrano sorprendenti analisi fatte su resti dell’Homo di Neanderthal. Cfr. in proposito, Homo sapiens, cit., in particolare le pp. 27 sgg. e pp. 43 sgg. Forse sarebbe meglio dire, al posto di corpo, ‘condotta motrice’. Da questo punto di vista, ha certo ragione Warnier quando nel corso de La cultura materiale, cit., pp. 17-21, afferma che si dovrebbe procedere a una revisione linguistica sostituendo, da un lato, alla parola ‘corpo’ quella di condotta motrice, che meglio restituisce la dinamica del rapporto con gli oggetti, e, dall’altro, ovviamente, che bene sarebbe procedere in direzione di una dismissione del termine ‘oggetto’, a tutto favore del pur non adattissimo ‘protesi’. Ma non solo. Si tratterebbe anche di riflettere su quanto le diverse condotte motrici, considerate come vere e proprie matrici di soggettivizzazione, impongano la revisione di un’idea statica, fissa e univoca di soggettività.
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3. Ritmi e Strumenti Naturalmente, «bisogna guardarsi dal ridurre l’ominazione del sistema mano-cervello a una questione di tecniche e di utensili»41. Esiste infatti qualcosa al di là, o al di qua, di questa doppia immagine del corpo e «della copia perfezionata che l’uomo ne ha fatto nei suoi prodotti»42; qualcosa che, per l’appunto, non riducibile né riconducibile al rapporto efficace con la materia, viceversa, lo intreccia, lo attraversa. Sarebbe a dire: tutto quello che si riferisce al comportamento estetico. Certo, bisogna intendersi preliminarmente sul significato del termine, dato che in questo contesto paleontologico, esso non sta a indicare quel che pur normalmente significa: «cioè ciò di cui la filosofia ha fatto la scienza del bello nella natura e nell’arte». In queste pagine, piuttosto, la parola ‘estetica’, più che rimandare a quelle che sono le «produzioni ragionate di ritmi o di valori che codificano e intellettualizzano le sensazioni», fa riferimento e cerca di trovare, «in tutta la profondità delle percezioni, il modo in cui si costituisce nel tempo e nello spazio quel codice delle emozioni» che poi assicurerà «al soggetto etnico l’essenziale dell’inserimento affettivo nella sua società»43. Detto in altri termini: prima di andare a vedere in che misura le sensazioni si trasformano in simboli concernenti la coscienza delle forme (valori) e del movimento (ritmi), si tratta di reperire le fonti sensibili e fisiologiche che accompagnano le condotte motorie; di indagare le basi corporee grazie alle quali l’uomo attinge la percezione del movimento e delle forme; di scandagliare, detto altrimenti, il fondo «estesico della nostra esperienza dell’arte»44. Tuttavia, bisogna ben guardarsi dal pensare l’attività fisiologica dei sensi come un dato, per così dire, naturalmente irriflesso; è necessario cioè evitare di fare della percezione e del sentire che sempre la accompagna un che di immediato, quando non addirittura una semplice adeguazione al reale o una mera imitazione recettiva; perché anche in questo 41
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Ivi, p. 67. Su quanto l’antropologia, compresa quella di Leroi-Gourhan, si sarebbe troppo concentrata sul rapporto efficace del corpo con la materia risultando in forte ritardo su altri temi, ivi compreso quello ludico o psico-affettivo, rimando al quadro fattone dall’appena citato Warnier, pp. 58-82. A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 315. Ivi, pp. 317-318 (la traduzione è qui leggermente modificata e il corsivo è mio). Cfr. su tale questione quanto scritto da Andrea Pinotti in Empatia. Storia di un’idea da Platone al postumano, Laterza, Roma-Bari, 2011, p. 157 sgg. circa la possibilità di ricondurre le opere d’arte alla «loro primaria significatività estetica (o meglio estesica, relativa cioè all’aisthesis, alla sensazione)».
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caso, è con una creazione e meglio sarebbe dire, con una dinamica plasmazione di forme, ancorché non necessariamente efficaci, che abbiamo a che fare. Del resto, già a livello animale le cose sono evidenti in tal senso. Se pensiamo ad esempio all’anellide marino, che sale e scende nel suo tubo seguendo il ritmo e il movimento delle maree grazie alla percezione del suo sentire gustativo e del suo tatto sensibile alla temperatura e alle vibrazioni, ci rendiamo conto che già a questo livello elementare, la percezione «si interpone» tra l’esterno e «la risposta che egli (sc. il soggetto attivo, animale o uomo) dà con la motilità»45. Similmente, e su un piano più alto, se facciamo riferimento al mammifero e alla capacità che i suoi sensi hanno di recepire gli odori e i suoni che contrassegnano il territorio in cui si muove, o le variazioni della temperatura e l’alternarsi delle immagini visive come il giorno e la notte; e se ricordiamo la capacità che esso ha di abbinare queste informazioni alle variazioni del sentire interno – sia esso la fame, la sete, il freddo e così via –, ci rendiamo conto che la sensibilità è un’attività organizzativa, dinamica, «un’azione simultanea di ritmi e forme»46 che permette al mammifero di orientarsi e sopravvivere nel suo ambiente. Insomma, già per l’animale, in quanto soggetto attivo, i sensi sono luoghi organizzativi, e in questo senso interpretativi, posti all’incrocio tra l’esterno e l’interno, funzioni che rendono la motilità47, cui sono strettamente intrecciati, già sempre un ritmo: un movimento cadenzato e fluido, una regolazione elastica cioè, che è insieme accoglienza e capacità di dare forma, certamente in modo infrasimbolico, a quelle sollecitazioni – materiali e non – che complessivamente circondano il vivente48. A voler utilizzare una nota espressione di Maurice Merleau-Ponty potremmo così dire che la percezione è un comportamento, «un sistema di forze» ambiguamente intrecciate che esprime, sempre congiuntamente, «lo stato intraorganico e l’influsso degli agenti esterni»49. Percepire è allora, certamente un sentire 45 46 47 48 49
Ivi, p. 330 (il corsivo è mio). Ivi. Dell’inscindibile intreccio tra ʻpercezione-azioneʼ fa un’analisi dettagliata dal punto di vista neurofisiologico Alain Berthoz in Il senso del movimento, tr. it. di E. Dal Pra e A. Rodighiero, McGraw-Hill, Milano 1998. Cfr., ivi, dove, per la precisione, leggiamo: «Il soggetto attivo […], è preso in una rete di movimenti che hanno origine dall’esterno o dalla sua stessa macchina e la cui forma è interpretata dai sensi». Maurice Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, tr. it. di G. Neri rivista da M. Ghilardi, Mimesis, Milano 2010, p. 52.
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mobile, un dinamico stare sulla soglia che, in quanto tale, si fa ciclo continuo di ritmo e risonanza50, di avvertimento ed auto-avvertimento, intreccio inscindibile di recezione e interpretazione che solo per astrazione può essere separato. Che questo valga anche per il ‘vivente uomo’, non c’è dubbio alcuno. È vero infatti che le condizioni intra-organiche – se si vuole, «l’oscuro funzionamento normale della macchina fisiologica»51 – formano una trama di cadenze e di risonanze a loro volta coimplicate e strutturalmente intrecciate alla ricezione e alla messa in forma dei ritmi di una trama esterna più larga: basti pensare, ad esempio, a quanto le manifestazioni più importanti della sensibilità viscerale, quali l’alternarsi dell’appetito e della digestione, si leghino all’avvicendarsi del giorno e della notte o ai mutamenti meteorologici e stagionali. E ancora: attardarsi a riflettere su quanto l’avvertimento che il corpo ha, tramite il rivestimento muscolare e il sistema osteomuscolare, del proprio peso, dei propri movimenti e del proprio equilibrio spaziale, permetta quell’organizzazione del mo50
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Utilizzo questo binomio ‘ritmo/risonanza’ che mira a mettere in risalto lo stato interno, l’auto-avvertimento, il sentimento, che sempre si accompagna al sentire esterno, pensando alla metafora della tastiera e del pianoforte utilizzata dallo stesso Merleau-Ponty che, ne La struttura del comportamento, cit., pp. 18-19, scrive: «Queste osservazioni, con la nozione di forma o di totalità dello stimolo, non introducono alcun elemento che per essere registrato implichi una specie di psichismo, ed è stato giustamente osservato che la fisica conosce macchine costruite appositamente per ricevere forme. Una tastiera è appunto un apparecchio che permette di produrre, secondo l’ordine e la cadenza degli impulsi ricevuti, innumerevoli melodie, completamente diverse tra loro, ed è noto quale uso sia stato fatto di questa metafora della tastiera nella fisiologia dei centri nervosi». È bene però specificare che tale metafora va presa cum grano salis, almeno nella misura in cui «l’organismo, per l’appunto, non può essere paragonato a una tastiera sulla quale si eserciterebbero gli stimoli esterni e su cui essi definirebbero la loro propria forma, e ciò per la semplice ragione che l’organismo concorre a costituire questa forma. Quando la mia mano, tenendo uno strumento di presa, segue ogni sforzo dell’animale che si dibatte, è chiaro che ciascuno dei miei movimenti risponde a uno stimolo esterno, ma è anche chiaro che questi stimoli non potrebbero essere raccolti senza quei movimenti mediante i quali espongo i miei recettori allo loro influenza […]. Poiché tutti i movimenti dell’organismo sono sempre condizionati da influenze esterne, è sempre possibile, se si vuole, presentare il comportamento come un effetto dell’ambiente. Ma allo stesso modo, poiché tutte le sollecitazioni che l’organismo riceve sono state rese a loro volta possibili soltanto dai suoi movimenti precedenti […] si potrebbe dire con altrettanto buoni motivi che il comportamento è la causa prima di tutte le sollecitazioni». A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 331.
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vimento che è sempre, insieme, messa in forma dello spazio esterno e inserimento nell’ambiente; o ricordare quanto, attraverso il sentire delle papille gustative, l’uomo comprende ciò che ingerisce, riuscendo così a difendersi da ciò che potrebbe essere tossico o nocivo52. Va da sé che i casi si possono moltiplicare menzionando, ad esempio, il peso che le risonanze olfattive hanno non solo per il comportamento affettivo ma anche quale essenziale indicazione pratica: non basta, infatti, «un odore di fumo in casa perché chi vi abita si ritrovi ad annusare per trarre dall’aria i riferimenti spaziali»53? Per non parlare, infine, del tatto che, contrariamente alla percezione sintetica della vista, è veicolo primo di organizzazione dell’esterno grazie alla sua capacità di analizzare e ricreare i volumi basandosi sul semplice spostamento delle dita e della mano. Ora, e al di là di questa moltiplicazione esemplificativa, non c’è dubbio che qui la corporeità amplia ulteriormente il suo spettro, considerata com’è non solo come un utensile atto a modellare materia grezza, ma anche come uno strumento capace di agire e retroagire con l’esterno per inserirsi, più complessivamente, nell’esistenza54. Come che sia, ciò che conta sottolineare a partire da questi brevi cenni, è la considerazione che il paleontologo francese fa circa il fatto che, in tutte le culture, è su questi complessi stati percettivi, sul loro equilibrio e sulla loro rottura, che si basano la maggior parte dei comportamenti collettivi e individuali; allo stesso modo, circoscrivendo ulteriormente il campo, è su quest’estetica fisiologica o estesica, che tutte le manifestazioni estetiche successive – la funzionale e la simbolica – trovano la loro radice.
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Ivi, p. 338: «Nell’uomo, come del resto nel complesso del mondo animale, il gusto è il senso inferiore. Il compito delle papille distribuite all’entrata del tubo digerente è essenzialmente difensivo, nociceptivo: esse costituiscono un segnale d’allarme all’introduzione di acidi o di sali che potrebbero avere un effetto tossico». Ivi, p. 345. A proposito delle differenza che intercorre tra utensile e strumento, LeroiGourhan, ivi, p. 334, scrive: «il rivestimento muscolare è la sede di importanti impressioni e il sistema osteomuscolare può essere considerato non più come un utensile, ma come lo strumento per inserirsi nell’esistenza. Bisogna lasciar da parte in quanto operazione intellettuale l’integrazione dei movimenti che avviene nella corteccia cerebrale motoria: si può notare però il legame paleontologico esistente fra l’orecchio interno e l’apparato osteomuscolare nell’equilibrio dell’individuo rispetto all’ambiente, nelle percezioni spaziali immediate e nell’equilibrio dei movimenti. Il peso del corpo è percepito attraverso i muscoli e si combina con l’equilibrio spaziale per inserire l’uomo nel suo universo concreto» (il corsivo è mio).
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A ben guardare, infatti, le grandi scuole mistiche dell’India, della Cina, dell’Islam o dell’Occidente hanno mirato tutte alla padronanza fisiologica, alla sottrazione al ritmo attraverso la contemplazione e il controllo dell’apparato viscerale. Le pratiche yoga sono la più popolare di queste tecniche di estraniazione: la ricerca del controllo ritmico interessa qui tutti gli organi, compreso il cuore, e l’asceta perfetto si inserisce in un universo estetico di estasi, tutti gli organi placati, tutti i ritmi del tempo e dello spazio esterni aboliti.
Insomma, inserimento e disinserimento cosmici cominciano per il saggio a partire dal tubo digerente; cosa questa non lontana «da quella che porta l’arte figurativa verso l’assenza di figurazione»55. Parimenti, non c’è dubbio che il peso del corpo avvertito attraverso i muscoli e la sua correlativa possibilità di inserimento spaziale, siano alla base di quelle progressive umanizzazioni dell’ambiente che hanno corredato il processo di ominazione; detto in altri termini, ch’esse costituiscano il fondamento fisiologico a partire dal quale avviene «la separazione dello spazio di un habitat dal caos esterno»56 e, insieme, il trasformarsi dello spazio stesso in capanna, casa, villaggio, città. Non è un caso, del resto, che sia proprio questo stesso fenomeno a ritrovarsi in quel «funzionalismo architettonico che tende a ordinare, quindi a organizzare ritmicamente, i movimenti nell’ambiente di lavoro o in un habitat». Ma non solo: è questa stessa sensibilità muscolare, per antitesi, a costituire la radice di quell’universo immaginario in cui peso ed equilibrio sono aboliti: acrobazia, esercizi di equilibrio, diversi tipi di danza, come quella dei dervisci, infatti, «esprimono in larga misura lo sforzo di sottrarsi alle operazioni concentrazionali normali e cercano una qualcosa che crei il ciclo quotidiano delle posizioni nello spazio»57. Impossibile tralasciare inoltre l’olfatto che, con la sua percezione dinamica e muscolare degli odori, svolge un ruolo significativo nei comportamenti affettivi e in tutto quell’ambito dell’estetica sociale che concerne i rapporti tra gli individui: «i profumi, gli oli odorosi, i deodoranti», sono centrali «sia per coprire gli odori naturali del corpo che per crearne un’immagine idealizzata»58. Per non parlare poi dell’esistenza di un’estetica tattile che, ruotando intorno a sensazioni gradevoli, fa da riferimento preci55 56 57 58
Ivi, p. 333. Ivi, p. 374. Ivi, p. 334-336. Ivi, p. 343.
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puo per tutto ciò che ha a che fare con «le materie levigate, le pellicce, le granaglie, le paste duttili e le materie flessibili ed elastiche», per giungere infine ad esercitarsi nelle «tecniche attraverso la ricerca di superfici gradevoli al tatto come la figurazione scultorea»59. Infine – e certo al di fuori dall’ambito delle così dette ‘belle arti’ – non c’è alcun dubbio che quell’intera «estetica senza linguaggio» che è la gastronomia sia fondata sul fatto biologico della identificazione alimentare attraverso il gusto e la sua interrelazione con olfatto, vista e tatto60. Ora, anche in questo caso, diverse e varie sono le considerazioni da fare. In primis, si tratta di scartare l’ipotesi che il paleontologo francese consideri la dimensione estetica come un mero risvolto della dimensione tecnica o sociale; evitare di pensare cioè che egli faccia del tecnicismo e del linguaggio basi indispensabili sulle quali poi, e solo in un secondo momento, quale vero e proprio stadio tardo dell’evoluzione, si stratificherebbero le esperienze estetiche61. Le cose, infatti, non stanno per niente così semplicemente, dato che, mantenendo ben ferma l’impostazione del suo discorso, Leroi-Gourhan ritiene che il rapporto privilegiato con la materia riguardi tutti gli aspetti dell’essere-uomo. L’utensileria non è dunque che un caso fra gli altri, costituendone un altro proprio quell’attività percettivo-senziente che, come s’è visto, già a livello fisiologico, è gesto, messa in forma dinamica all’incrocio concreto tra il sentire l’ambiente esterno e il sentimento dell’interno organico-corporeo. Certo, trattasi di una gestualità inutile, per così dire, almeno nel senso di non finalizzata alla concrezione di un che di praticamente utilizzabile: tuttavia, questa sua inutilità non è sinonimo di scarsa importanza. Anzi… Molto significativamente le pagine de Il gesto e la parola fanno notare che, già nella fase in cui vissero gli Arcantropi e i Paleantropi, non solo è possibile trovare resti che testimoniano di un equilibrio delle e nelle forme utili per niente dovuto alla mera finalizzazione pratica dell’attrezzo ma anche, reciprocamente, che è proprio la percezione del ritmo, in particolare di un ritmo equilibrato, a coadiuvare, e in questo senso a permettere, la nascita di un attrezzo. Il che significa che quel complesso ambito percettivo senziente qui sintetizzato sotto il nome di estetica fisiologica non è tanto o solo diretto a un ‘fare utile’: esso è piuttosto un che di 59 60 61
Ivi, p. 346. Ivi, pp. 338-339. Ivi, p. 322.
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autonomo, un vero e proprio pre-requisito, il luogo cioè di un’associazione corporea tra movimento e forma che è altra, indipendente, non subordinata né subordinabile al cosiddetto fare tecnico. E Leroi-Gourhan su questo è chiaro, almeno quando nell’affermare che non ci sono dubbi circa il fatto che una fucina o un coltello abbiano una funzione, siano cioè oggetti tecnici e non estetici, sostiene al contempo che dal punto di vista materiale e paleontologico è possibile riscontrare, nella costituzione dello stesso valore tecnico della fucina o del coltello, un momento, un valore estetico che, certo non ancora simbolico ma fisiologico, non è per niente riducibile a giudizi o norme tecniche o morali62. Insomma: l’associazione estetico-fisiologica «del movimento con la forma è condizione principale di qualsiasi comportamento attivo»63. Evidentemente è per questo motivo che l’estetica può costituire un terzo aspetto, un terzo momento del processo evolutivo, autonomo seppur intrecciato agli altri due. Allo stesso modo, e altrettanto evidentemente, è per questo motivo che il paleontologo francese, similmente a quanto fatto nel caso della tecnica, tenta un ampio ripercorrimento delle diverse fasi evolutive cui la stessa estetica fisiologica si piega, sottomessa com’è a quell’effetto reversivo di cui s’è detto sopra; effetto che fa di essa, almeno da un certo punto in poi, una manifestazione libera, del tutto svincolata da quella base biologica e materiale che pur ne continua a costituire la radice intima e insopprimibile64. Va da sé, a questo punto, che qui accade qualcosa di simile a quello che s’è detto a proposito dell’utensile: non essendo nessun oggetto estetico il frutto di un lampo di genio né essendo possibile «ricercarne l’inserimento nella macchina cerebrale», sarà invece del tutto legittimo osservare anch’esso secondo l’analogo movimento di «esteriorizzazione»65 di cui ho detto in riferimento all’oggetto tecnico. Il che significa pensare la dimen62
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Ivi, p. 319, dove per la precisione si legge: «A livello degli Arcantropi e dei Paleantropi, l’unica testimonianza coerente è quella dell’equilibrio nelle forme utili degli attrezzi, un’organizzazione dei valori funzionali propriamente umani che comporta una valutazione estetica delle forme ma non conduce ad alcuna simbolizzazione figurativa: un quadro rappresentante una fucina non è una simbolizzazione funzionale (irrealizzabile se non nella funzione stessa) come un pasto di cartone su una scena teatrale non è la rappresentazione del gusto. È tuttavia innegabile che nei due campi sono possibili giudizi di valore i quali condizionano norme che non sono né totalmente tecniche né morali, ma estetiche». Ivi, p. 330 (il corsivo è mio). Cfr., in proposito quanto il paleontologo scrive – ivi, pp. 315–459 – circa la differenza tra l’estetica fisiologica, l’estetica funzionale e l’estetica simbolica. Ivi, p. 322.
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sione estetica e le sue diverse forme evolutive come una sorta di fisio-estetologia – o estesiologia – capace di riportare i suoi prodotti, pur senza ridurli, a quel livello fisiologico o estesico latente che li rende possibili; una fisio-estetologia in grado, in altre parole, di osservare gli oggetti estetici come protesi, secrezioni e prolungamenti espressivi dei ritmi e delle risonanze di cui è fatto il nostro sentire. Reciprocamente, e parimenti al corpo organico che, mai, nemmeno nella sua apparente staticità anatomica, è da considerarsi un che di naturale, dato una volta per tutte, anche il sentire di questa corporeità si emancipa da quella falsa idea di immediata semplicità con cui spesso lo pensiamo, emergendo quale luogo di un complesso lavorìo di costruzione e relazione con l’ambiente, momento concreto di orientamento, mobile intreccio di ritmi e risonanze che, pur con forme di temporanea stabilità, divengono e mutano nel tempo. Insomma, ciò che la prospettiva paleontologica adottata da Leroi-Gourhan ci mostra descrivendoci l’estetica fisiologica come luogo di un’azione di modellamento e organizzazione di proposte extra e intra-organiche o, se si vuole, come il modo che il vivente ha per guardare e rispondere al mondo che lo circonda, per fare qualcosa di sé nel fuori di sé, è la natura senz’altro diretta ma non per questo immediata e irriflessa, in questo senso, artefattuale, costruita del percepire-sentire. Da questo punto di vista – né del resto potrebbe essere diversamente – lo studioso francese finisce per radicalizzare quella disseminazione e moltiplicazione cui già aveva sottoposto la corporeità, almeno nella misura in cui, a partire dalla sua prospettiva, si squadernano davanti ai nostri occhi diverse fasi e vari momenti percettivo-senzienti e, a partire da essi, diversi stili attraverso cui tanto l’individuo quanto la collettività assumono e contrassegnano «forme, valori e ritmi» che, individuabili nella loro specificità e parziale inalterabilità, sono pur sempre mobili e in continua innovazione. Non è un caso del resto che, nel sottolineare l’intreccio che l’estetica fisiologica intrattiene con la tecnica e il linguaggio, il paleontologo francese sottolinei il gigantesco lavoro d’analisi che andrebbe fatto per individuare, da un lato, le basi comuni, spesso assai ampie, che caratterizzano gli orientamenti di un gruppo, e, dall’altro, per osservare, ed evitare di tralasciare, le varianti locali che si fanno e si disfano «secondo il capriccio della storia»; e aggiunga, in proposito, mostrando quanto «questo gioco verte nello stesso tempo sulle innovazioni tecniche o sociali di dettaglio e sulle forme, a qualunque campo esse appartengano, dalla curvatura del manico di una zappa alle norme che regolano un rituale», che tale situazione fa sì che «nessun gruppo umano si ripeta due
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volte, che ogni etnia sia diversa da tutte le altre e diversa da se stessa in due momenti della propria esistenza»66. È dunque per questo motivo che, a voler riprendere la serie di cui sopra, dovremmo forse così proseguirla: molte ‘camminate’, molti crani, molti corpi e molti uomini, con le loro condotte motrici, i loro diversi universi materiali, i loro innumerevoli processi di soggettivizzazione e i loro altrettanto innumerevoli, sempre mobili e mai definitivi, modi di sentire e di esprimersi. 4. Costrutti costruibili Diversi e innumerevoli corpi o, se si vuole, condotte motrici. Diversi e innumerevoli ‘percepire-sentire’. Questa, dunque, parte della conclusione cui siamo giunti, dando un affondo alla quale va ad affiancarsene l’altra, anch’essa già affrontata: quella circa la natura artefattuale e costruita dell’organico e delle sue propaggini sensoriali ed emozionali. Situazione ben complessa, allora, quella che ci si para davanti, soprattutto tenuto conto del fatto che, lo si è accennato, è sempre con un complesso intreccio di costrutti che ci si trova a che fare. Nel proseguire il suo discorso, infatti, Leroi-Gourhan non solo, similmente a quanto fatto a proposito del livello tecnico, delinea diversi possibili comportamenti estetici, legati alle varie fasi dell’evoluzione, ma – né potrebbe essere diversamente – mette in mostra, da un lato, le profonde intersecazioni che sussistono tra le diverse fasi di uno stesso aspetto, e, dall’altro, evidenzia le sovrapposizioni tra queste stesse fasi e i vari altri livelli che investono gli altri momenti fondamentali della tecnica e del linguaggio67.
66 67
Ivi, p. 324 (il corsivo è mio). Nel corso del suo studio Leroi-Gourhan – ivi, pp. 348 sgg. – fa spesso riferimento all’intreccio evolutivo fra i diversi livelli di complessificazione dell’estetica da un lato e i diversi momenti che connotano il divenire dell’aspetto tecnico. Il discorso è senz’altro articolato perché se è vero che l’estetica fisiologica fa da base a tutti i comportamenti estetici successivi, altrettanto chiaro è che, «preoccupati da una logica esagerata» diventerebbe inutilmente paradossale mantenere questi ultimi nello stretto alveo fisiologico. Per questo motivo l’estetica fisiologica, a sua volta, va sempre integrata e correlata al momento dell’estetica funzionale dove le «proprietà estetiche» sono «direttamente legate alla loro funzione». Cfr., inoltre, per tale questione anche i due volumi di Evoluzione e tecniche, L’uomo e la materia e Ambiente e tecniche, tr. it. rispettivamente di R. E. Lenneberg Picotti e L. Girola, Jaca Book, Milano 1993 e 1994.
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A un certo punto della sua disamina, ad esempio, riferendosi alla dimensione fisiologica e percettiva come messa in forma del movimento intra- ed extra-organico, egli nota che il gesto di ripetizione cadenzata e regolare – il ritmo cioè – è sempre insieme tecnico e, almeno da un certo punto in poi dell’evoluzione, figurativo; il che significa, reciprocamente, che – lo si è detto – le dimensioni materiali e simboliche trovano radice in quella fisiologica. In particolare, il paleontologo francese parla di un’«applicazione a priori» della ritmicità muscolare a quelle operazioni tecniche che comportano la «ripetizione di gesti a intervalli regolari»68; descrive, in altri termini, un intreccio molto stretto tra i ritmi muscolari e quelle operazioni tecniche che, comportando la ripetizione a intervalli regolari di gesti, conducono a loro volta a quel particolare movimento che è, insieme, umanizzatore della materia grezza e creatore di specifiche forme utili. Si pensi, per fare un riferimento concreto, al gesto del toccare una pietra: mai semplice e passiva ricezione esso, viceversa, è sempre l’insieme di un ritmo muscolare e tattile – ma anche uditivo e visivo – già capace di per sé di dare una forma all’esterno incontrato; tale ritmo tuttavia, in quanto urto e percussione, è anche ritmo tecnico e fabbricatore di forme – il martello, per fare solo un caso – che, in un’evidente circolarità, non smettono mai, a loro volta, di collocarsi e riferirsi a quello strato percettivo sempre permanente nella «trasformazione della natura selvaggia in strumento dell’umanizzazione»69. Ma non solo: non va dimenticato, ad esempio, che lo spazio e il tempo, le prime due forme propriamente umane70, non esistono se non in quanto «materializzati entro un rivestimento ritmico»; sarebbe a dire che anch’essi trovano la loro radice nel percepire-sentire. Tuttavia, anche in questo caso, è di fronte a un complesso intreccio che ci troviamo, perché se è vero che alla «base della percezione del benessere morale e fisico, nell’uomo, sta la percezione assolutamente animale del perimetro di sicurezza, del rifugio chiuso», allo stesso modo, da questo fondo estesico di inserimento spazio-temporale, si diparte una vera e propria presa di possesso del tempo e dello spazio mediante i simboli; un’«addomesticazione nel senso più stretto» che «porta alla creazione, nella casa e partendo dalla casa, di uno spazio e di un tempo sui quali si può avere il dominio»71. Insomma, è a par68 69 70
71
Id., Il gesto e la parola, cit., p. 361. Ivi, p. 362 (il corsivo è mio). Significativamente, leggiamo, ivi, p. 364: «Il fatto umano per eccellenza forse non è tanto la creazione dell’utensile quanto l’addomesticamento del tempo e dello spazio, vale a dire la creazione di un tempo e di uno spazio umani» (il corsivo è mio). Ivi, pp. 365-366.
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tire dalla percezione intra- ed extraorganica della ritmicità naturale legata al susseguirsi «delle stagioni, dei giorni, delle distanze percorribili», che si fonda la possibilità di dare origine a un ambiente di comportamento, a un ambiente cioè nel quale si traccia la separazione del mondo umanizzato da quello naturale. Sarebbe a dire – per fare ancora un esempio – che il semplice movimento ritmico del passo, magari integrato con quello del braccio, fa da apriori – lo si è visto – non solo ai gesti tecnici capaci di trasformare la materia grezza in utensile – si pensi allo zappare –, ma costituisce anche il perno di quel passaggio che permette all’uomo di sostituire la ritmicità caotica del mondo naturale con quella, tutta umana, della marcia e, a partire da essa, ad avviare quell’«addomesticamento simbolico»72 – la rete dei calendari, delle ore, dei chilometri – che rende lo spazio e il tempo definitivamente umani. Percorso non chiuso, del resto; anzi, ulteriormente umanizzabile, come mostra la ʻluceʼ che su questa realtà viene poi a proiettare l’immaginazione, capace di fare di questi gesti concreti, gesti astratti, di operare cioè un altro passaggio, assolutamente privo di fratture, che va dai ritmi fisiologici e tecnici ai ritmi simbolici – nella fattispecie – della danza e della musica73. 72 73
Ivi, p. 366. Riporto qui, nonostante la lunghezza, questo brano di Leroi-Gourhan – ivi, pp. 362-363 – dato che da esso emerge con chiarezza tanto la differenza tra gli ambiti delineati quanto la loro coappartenenza, la loro complementarietà; in una parola quello che qui definisco il loro intreccio: «Allo scalpiccio, che costituisce il quadro ritmico della marcia, si aggiunge, nell’uomo, l’animazione ritmica del braccio; mentre lo scalpiccio regola l’integrazione spazio-temporale e si trova all’origine dell’animazione nel campo sociale, il movimento ritmico del braccio apre un altro sbocco, quello di una integrazione dell’individuo in un sistema non più creatore di spazio e di tempo, ma di forme. La ritmicità del passo è approdata alla fine al chilometro e all’ora, la ritmicità manuale ha portato a catturare e immobilizzare i volumi […]. Fra il ritmo musicale fatto di tempi e di misure e il ritmo del martello o della zappa fatto di procreazione di forme, immediate o differite, la distanza è notevole, in quanto il primo dà origine a un comportamento che traccia simbolicamente la separazione del mondo naturale e dello spazio umanizzato, mentre il secondo trasforma materialmente la natura selvaggia in strumento dell’umanizzazione. L’uno e l’altro sono strettamente complementari ma […] non occupano entrambi la stessa posizione nella scala dei valori. La musica, la danza, il teatro, le situazioni sociali vissute e mimate appartengono all’immaginazione, cioè alla proiezione sulla realtà di una luce che illumina in maniera umana lo svolgimento banalmente zoologico delle situazioni umane. Esse sono il rivestimento di comportamenti sociali e interindividuali che si registrano nelle norme biologiche più generali». È senz’altro di un certo interesse notare quanto queste considerazioni circa il fatto che sia l’organizzazione corporea a permettere la Raumgestaltung trovino inaspettate corrispondenze in autori molto lontani nel tempo e
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Come si vede, la questione è estremamente articolata e ricca di implicazioni e propaggini sulle quali bene sarebbe continuare a riflettere. Al momento però, e molto più limitatamente, vorrei provare a ri-leggere in conclusione e attraverso il filtro dell’impostazione fin’ora descritta le questioni e le proposte che abbiamo visto poste da alcuni teorici del post-umano. La prima, lo abbiamo detto, concerne la visione che alcuni di essi hanno del rapporto tra corpo e tecnica, spesso impostata in direzione di un superamento dell’organico considerato come quella barriera che, alle nuove tecnologie, tocca superare. Ora, non c’è alcun dubbio che quella che si potrebbe definire «la lenta invasione del tecnico» ha posto a poco a poco «l’immaginazione in una situazione nuova»74. Sarebbe a dire che qualcosa è cambiato se, grazie alle recenti innovazioni, l’inorganico perde le qualità tipicamente meccaniche che lo avevano caratterizzato nell’era pre-elettrica e finisce per somigliare e vieppiù sostituirsi e diventare organico. Basti pensare alla ricerca degli ultimi decenni, capace di metter a punto materiali sempre più compatibili e resistenti, in grado non solo di mimare con grande perfezione le performatività organiche ma di realizzare dei composti sintetici che fungono da emoglobina o da cute, per comprendere i problemi che, oggi, ci troviamo davanti; problemi che potremmo definire di superamento degli steccati tra carbonio e silicio e, quindi, tra organico e inorganico. Ha dunque ragione chi afferma che la nostra forma, la nostra fisiologia, «restate invariate da almeno cento o centocinquantamila anni a questa parte […] e comuni a tutta quanta l’umanità», non devono essere date più per scontate, visto che la specie umana, grazie a queste innovazioni, potrebbe conoscere «una successione molto rapida (rispetto ai ritmi biologici) di culture fortemente differenziate su base sincronica e diacronica»75.
74 75
nello spazio dallo studioso francese. Penso, per fare solo un esempio a Wölfflin che, nella seconda metà dell’Ottocento, connette lo spazio interno del ritmo respiratorio agli interni dello spazio architettonico; corrispondenza ripresa anche da von Hildebrand e dal teorico e storico dell’arte August Schmarsow secondo il quale, come scrive A. Pinotti, Empatia, cit., p. 148: «ogni tipo di spazialità interna (il tempio greco, la basilica paleocristiana, la cattedrale medievale, il palazzo rinascimentale…) è caratterizzato da una propria peculiare ritmica spaziale, che si rapporta alle nostre funzioni corporee, ai movimenti dell’andatura, del tatto, degli occhi, della mimica, nonché del nostro complessivo stato d’animo». A. Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, cit., p. 363. Antonio Caronia, Corpi e informazioni. Il Post-human da Wiener a Gibson, in Post-umano, relazioni tra uomo e tecnologia nella società delle reti, a cura di M. Pireddu e A. Tursi, Guerini e Associati, Milano 2006, p. 54. A proposito di un di-
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Allo stesso modo, per quel che riguarda la seconda questione, quella riguardante il percepire-sentire dei nostri corpi, non c’è dubbio che, anche in questo caso, siamo al cospetto di «un’alterazione, di un cambiamento dei nostri sensi, del loro rapporto (ad esempio una dilatazione, un’estensione di un senso rispetto ad un altro) una mutazione e dunque un riposizionamento rispetto al sistema precedente»76. È vero infatti che se il mondo magico dell’orecchio e quello neutro dell’occhio facevano tutt’uno nell’uomo tribale, in un continuo gioco di influenze reciproche tra i sensi e se, viceversa, l’introduzione della Galassia Gutenberg, con il suo alfabeto fonetico, veniva a operare una rottura di questa sinestesia, dando «un occhio al posto dell’orecchio»77, cioè astraendo e privilegiando l’elemento visivo dal normale gioco delle influenze reciproche tra i sensi, allo stesso modo, e altrettanto chiaramente, bisognerà aspettarsi che l’incontro delle tecnologie della stampa con le nuove forme organiche e biologiche del mondo elettronico non sarà privo di conseguenze. Ciò che si andrà perdendo, evidentemente, saranno da un lato i modi di partecipazione percettiva empatica, naturale e diffusa, legati al primitivo prevalere di forme «implicite, simultanee e discontinue»78; allo stesso tempo, d’altro lato, si andrà affievolendo quel sentire interiorizzato e sentimentale che, vero e proprio riflesso del punto di vista fisso della visione, altro non era che il corrispettivo interno del carattere esplicito, uniforme e sequenziale della forma visiva. Una rinnovata prevalenza dell’audio-tattile e con esso, una nuova interdipendenza tra i sensi, una nuova sinestesia: ecco la conseguenza sulla percezione dell’attuale compenetrazione tra meccanicità ed elemento elettro-biologico79. Nuovo connubio percettivo che, va da
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versa possibile declinazione dei corpi tecnologici, cfr., sempre di A. Caronia, Il cyborg. Saggio sull’uomo artificiale, ShaKe, Milano 20082. M. McLuhan, La Galassia Gutenberg, cit., p. 48. Ivi, p. 53. Ivi, p. 90. Richiamandosi – pp. 101 sgg. – alle analisi di Emile Durkheim da un lato e a quelle di William Ivins dall’altro – p. 116 sgg. – McLuhan sostiene il forte nesso che intercorre tra sedentarizzazione, nascita all’alfabeto fonetico e della scrittura, con il suo prevalere dell’intensità visiva e del punto di vista fisso, e affermazione della mimesis e della narrazione lineare; forme queste ultime che, in pittura come in letteratura, mostrano a pieno quell’avvenuto divorzio tra il visivo e il tattile che con la fotografia trova poi la sua massima realizzazione. Differentemente, l’avvento dell’elettricità provoca un’implosione che redistribuisce le relazioni tra i sensi e unifica il sistema nervoso di tutta l’umanità in un tutto simultaneo che ci riporterà a una sorta di villaggio tribale su scala planetaria. Tattile, inteso come luogo e momento d’intreccio tra sensi, come gioco d’influenze reciproche, è il ter-
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sé, non può non incidere sul ‘vecchio’ sentire, in un ambiguo ritorno a forme di tribalizzazione che, lo abbiamo visto riferendoci a Ballard, si accompagnano a paradossali freddezze sentimentali, a inquietanti attrazioni per l’inorganico, a sfuggenti forme di affettività centrifughe. Ora, che queste forme senzienti, allo stesso modo dei corpi sempre più tecnologizzati che esse abitano, siano, oggi, pratiche viventi, è cosa vera, allo stesso modo in cui sono sotto gli occhi di tutti i non pochi problemi che esse aprono80. Tuttavia, e per tornare al nostro discorso, la loro presenza e gli inquietanti interrogativi posti, non vengono in alcun modo chiarificati una volta che di esse si provi a fare espressioni, sintomi, se si vuole, prove di un imminente salto ontologico, capace di dar vita a un nuovo genere d’uomo. Da questo punto di vista, infatti, se c’è una cosa che questo breve excursus in territorio paleontologico ci mostra è, innanzitutto, la necessità di una sana cautela almeno nella misura in cui, descrivendoci la natura artefattuale del corpo e dei ritmi del suo sentire, vedendo nelle produzioni umane propaggini di quel costrutto che a nostra volta siamo, ci svela quanto il connubio tra corpo e tecnica, tra organico e inorganico non è un fatto propriamente nuovo, né unico, nella storia dell’umanità. Anzi, l’umanità è stata fin’ora proprio questo mobile susseguirsi e coesistere di costrutti, di senzienti artifici organici.
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mine qui usato per indicare questo cambiamento. Va da sé che anche in questo caso la questione è estremamente complessa, affondando queste considerazioni di McLuhan sul tattile, in una tradizione di studi ricca e articolata. Mi limito qui a ricordare ad esempio, che, sulla scia degli studiosi della scuola viennese Riegl e Wickhoff, Walter Benjamin, perfettamente consapevole di quanto «nel giro di lunghi periodi storici, insieme coi modi complessivi di esistenza delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro percezione sensoriale», richiamava in particolare il tattile come fruizione tipica della modernità. Cfr., Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, tr. it. di E. Filippini, Einaudi, Torino 1966, p. 24. Per una esaustiva disamina delle questioni legate a un’estetica del tattile, come anche a un’estetica dell’aptico, rimando a Maddalena Mazzocut-Mis, Voyeurismo tattile. Un’estetica dei valoti tattili e visivi, il melangolo, Genova 2002. Per quel che concerne la nostra piena iscrizione nel registro della scrittura e del visivo vedi le considerazioni fatte da Maurizio Ferraris, Dove sei? Ontologia del telefonino, Bompiani, Milano 20112 e Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009. Per una disamina attenta delle diverse forme del sentire oggi cfr., gli ormai ‘classici’ testi di Mario Perniola, Del sentire, Einaudi, Torino 1991; Disgusti. Le nuove tendenze estetiche, Costa & Nolan, Genova 1999; L’arte e la sua ombra, Einaudi, Torino 2000; Il sex-appeal dell’inorganico, Einaudi, Torino 2004. Per uno sguardo più direttamente psicoanalitico su tali questioni, rimando a Silvia Vegetti Finzi, Io-corpo-macchina e nuovi costrutti d’identità, “Psiche”, 1, 2002, pp. 149-169.
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Perciò, al cospetto del nuovo e dell’innovazione che sempre più sembrano sopravanzarci, più che fare salti, trasformando ciò che è un semplice momento del divenire uomini in un che di assoluto e dotato di una sua statica e unidirezionale natura, si tratta di osservare e collocare questi nuovi costrutti corporei e percettivo-senzienti in una piana prospettiva di grado e non di genere. Il che significa provare ad essere consapevoli che difficilmente ci sarà un’umanità post-umana, almeno non più di quanto ci sia stata – se non per auto-costruzione metafisica – un’unica specie di uomo. Insomma, dobbiamo rassegnarci. In quanto strutturalmente artefatta, l’umanità è un volume a geometria variabile, unʼinnumerevole diversità di costrutti intrecciati tra loro che trovano esistenza e realizzazione in quella continua, a volte stupefacente intersecazione con oggetti che, a loro volta, altro non sono che propaggini, secrezioni, escrescenze del sentire e dei suoi ritmi. Per cui, se c’è un’unità di quel che siamo, è in questa mobile diversità che va cercata; in questo commercio continuo con l’alterità non umana. Ma in fondo, e a ben guardare, non è nemmeno di rassegnazione che si tratta, almeno nella misura in cui questa indicazione ‘neutra’ del nostro essere degli artefatti in divenire apre più di uno spiraglio. Se, infatti, il nostro essere qui ed ora non era nel destino di noi stessi, non essendo il dispiegamento di un’essenza né la realizzazione di una natura e tanto meno lo svolgimento di un compito cui siamo stati chiamati, essendo piuttosto il frutto di una costruzione, certo elaborata, ma pur sempre casuale, ciò vorrà dire che questo stesso punto cui siamo giunti non è una stazione terminale da limitarsi ad osservare passivamente secondo una visione unidirezionale. Voglio dire, per quel che concerne il rapporto tra corpi e nuove tecnologie, che non è affatto detto che l’ibridazione tra organico e inorganico comporti solo un depotenziamento del primo e una tragica emersione della sua incapacità. Se infatti l’umano si è costruito fine nelle sue propaggini anatomiche in un commercio tecnico e estesico con il mondo non umano, cosa vieta di pensare e di attribuire umanità anche a queste altre declinazioni a venire, anche a questi nuovi commerci? Allo stesso modo, se i nostri prodotti, le materie che abbiamo plasmato si sono affinate in sintonia con le menti e i corpi e se in esse, come s’è visto, risuonano afflati, empatie con quell’organico nelle cui radici ritmico-percettive affondano, chi c’impedisce di attribuire simili risonanze anche ai futuri costrutti, ai nuovi artifici organici che stiamo per incontrare81? 81
Circa la necessità di riconoscere l’artificiale come l’altra faccia dell’umano, cfr. quanto scrive George B. Dyson, L’evoluzione delle macchine. Da Darwin all’intelligenza globale, tr. it. di A. de Lachenal, Raffaello Cortina, Milano 2000, p. 9: «Quando vivi in una barca il suo motore lascia un’impronta, a un livello più pro-
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È che si tratta di mettersi in viaggio, di partire, anzi, di ri-partire. Cosa, in fondo, difficile solo in apparenza. Almeno per chi, scoperta la propria natura artefattuale, comprende e intravede la possibilità di poter essere diversamente costruibile; per chi, insomma, sapendo di non essere inchiodato a un corpo immobile, prova, sviluppando quella che Anders chiamava la «fantasia morale», a liberare l’immaginazione e il sentire dai paradigmi di una certa tradizione. Magari così si potrà evitare di ripetere quanto di dis-umano il così detto Uomo ha fatto e, senza mai dimenticare, provare finalmente ad archiviare certezze identitarie e assoluti metafisici per andare in direzione, più che di una post-umanità, di un’umanità plurale, più consapevole di dover ancora e continuamente guadagnare se stessa.
fondo di quello mentale, su circuiti neurali che, da quando funzionavano, si sono esercitati a riconoscere il battito di un cuore umano, quasi fosse una firma da identificare. Talvolta mi sono accostato alla riva per mettermi a dormire sotto il baldacchino della foresta, mentre altre barche passavano al largo, e mi sono interrogato sui pensieri degli alberi; allo stesso modo, nelle ore piccole della mattina, mi è accaduto di trattenermi seduto sulla scaletta che portava in sala macchine, con le isole scure, ammantate dalla vegetazione, che scorrevano sullo sfondo, e mi sono chiesto se le macchine possano avere un’anima. Questa domanda attraversa tutti i capitoli di questo libro».
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AGOSTINO CERA
ANTROPOLOGIA LIMINARE: IL FENOMENO DELLA NEOAMBIENTALITÀ I. Il perimetro antropico a M. R. in memoriam
Premessa Il presente contributo nasce come ulteriore tappa di un percorso di riflessione intorno alla questione della tecnica – alla tecnica in quanto questione filosoficamente fragwürdig – inaugurato ormai qualche anno fa1. A quel momento iniziale, dedicato in maniera precipua alla costruzione di una tassonomia ragionata delle differenti declinazioni di filosofia della tecnica susseguitesi da almeno un secolo a questa parte, intendo far seguire questo, nel quale mi propongo di cominciare a sviluppare quanto veniva soltanto accennato in chiusura di quella prima occasione. Ora come allora, l’obiettivo di fondo resta quello di delineare, praticandolo, un esercizio di filosofia della tecnica al nominativo, con ciò cogliendo una suggestione ed una sfida lanciate da Franco Volpi nel suo volume dedicato al nichilismo. Per ragioni di spazio e di opportunità, questa nuova tappa è costretta a confessare sin da subito il proprio carattere parziale, se non interlocutorio. La propria ambizione limitata. Quanto potrà essere svolto brevemente nel corso di queste pagine sarà la tracciatura di un primo itinerario, il cui attraversamento dovrà venir rimandato ad occasioni future. Obiettivo parziale, dunque, quello qui perseguito, e tuttavia assolutamente necessario, dato il suo carattere propedeutico, preliminare. Preliminare ed occasionale, per meglio dire. La felice circostanza di poter prendere parte al presente volume dedicato ai temi del postumano ha fatto in modo che alcune delle riflessioni sulla tecnica maturate in questo frattempo si ‘acconciassero’ al dialogo con dette tematiche, traendone peraltro un indub1
Cfr. Agostino Cera, Sulla questione di una filosofia della tecnica, in L’uomo e le macchine. Per un’antropologia della tecnica, a cura di N. Russo, Guida, Napoli 2007, pp. 41-115. Al di là dei rimandi puntuali, rinvio a questo saggio complessivamente come pendant ed integrazione del presente lavoro.
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bio giovamento. Anzitutto nel senso che la ritaratura in questione si è rivelata per nulla pretestuosa e quindi occasionale sì, ma nient’affatto occasionalistica: l’approccio teso ad elaborare una filosofia della tecnica al nominativo – approccio gravitante intorno al concetto-cardine di neoambientalità – sembra infatti recare in sé una sorta di connaturata componente postumana. Certamente non nell’accezione più nota e convenzionale del termine; tuttavia proprio nella frizione generata dall’impiego eterodosso di questa etichetta si cela, a mio avviso, anche la fecondità di un tale confronto. In altri termini: è appunto esplicitando la suddetta componente postumana della tecnica in quanto fenomeno epocale, che possono palesarsi adeguatamente alcune criticità teoriche interne alle posizioni sostenute dai postumanisti. La componente postumana della tecnica è espressa già per intero nella formula, inclusa nel titolo di questo contributo: ‘antropologia liminare’. La mia ipotesi è che il fenomeno della neoambientalità – intesa quale decisivo portato effettuale della tecnica nella sua versione più recente – si ponga alla stregua di uno spartiacque, al di là del quale pare delinearsi una alterazione sostanziale della ‘forma uomo’. Di qui la conseguente, obiettiva problematicità di predicare, a partire da un simile spartiacque, una qualsiasi ipotesi di antropologia. Detto in una formula: elevatasi al rango di neoambiente, la tecnica marca il limite dell’umano. E con esso, quindi, la conseguente soglia per rinvenire un oltre, un dopo dell’uomo. Va da sé, che il semplice riferimento al tema ‘uomo’ e all’antropologia scoperchi molti dei punti sensibili nel dibattito sul post-umano (e non solo), che proprio nell’interdetto, nella tabuizzazione pronunciata nei confronti di certe espressioni ha posto uno dei propri caratteri identitari. Attualmente, termini come ‘uomo’, o peggio ‘essenza, natura umana’ sono scaduti al rango di turpiloquio filosofico: veri e propri tabù, da totem che per molto, troppo tempo erano stati. D’altro canto, va rilevato che l’accantonamento di essi ha purtroppo assunto la veste di una mera sostituzione: ai vecchi idola sono presto succeduti i nuovi, nei confronti dei quali gli scalpitanti adepti mostrano una condiscendenza che nulla ha da invidiare a quella precedente. Tale è l’attuale prostrazione nei confronti di pseudoconcetti come ‘ibridazione’ o ‘soggettivazione’, impiegati alla stregua di passepartout o di mantra: formule magiche utili per quasi ogni evenienza, lasciapassare buoni per scampare la fatica e la responsabilità del concetto. Per questa ragione, intendo astenermi dall’impiego di simili parole d’ordine, provando ad esporre la mia posizione nella maniera meno pregiudicata (e perciò stesso più falsificabile) possibile.
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Ciò posto, la formulazione del precedente assunto, secondo il quale la tecnica in quanto neoambiente marca il limite dell’umano, implica la necessaria esplicitazione della prospettiva, del parametro assunto allo scopo di discriminare un tale al di qua e al di là dell’uomo. Data l’impossibilità di predicare una qualche essenza definita e definitiva per l’essere umano – una posizione che anche il mio approccio fa interamente propria2 –, non viene meno perciò la possibilità di indicare un intreccio di componenti di diversa matrice, la cui combinazione consente di rinvenire una cornice peculiare e costante (nel senso di ‘riconoscibile’, ‘autoriconoscibile’), una forma per l’ente uomo3. Quanto intendo proporre è una istanza intermedia tra la predicazione di una essenza rigida ed il rifiuto di qualsiasi etichetta, sia pur blanda, in grado di connotare precipuamente, alla stregua di un denominatore comune, l’uomo, differenziandolo dagli altri enti e in particolare dagli altri viventi. Al posto della formula: ‘essenza’ o ‘natura umana’, impiegherò quella di perimetro antropico. Dunque, a sintetizzare: l’antropologia liminare è la fondamentale ricaduta effettuale evidenziata da una filosofia della tecnica al nominativo, quella filosofia che rinviene la veste essenziale della tecnica contemporanea nel suo assurgere al rango di neoambiente, vale a dire nella sua capacità di erosione del perimetro antropico. È del tutto evidente quanto una simile formulazione rechi in sé di: assunti, premesse, concessioni, che è bene non restino tali all’interno di un discorso che si prefigga intenti teorico-filosofici. Di conseguenza, nello spirito di quella obbligata parzialità propedeutica cui s’è fatto cenno, la finalità delle pagine che seguono sarà proprio quella di motivare una tale affermazione, di legittimarla attraverso l’esplicazione di uno dei suoi elementi portanti: quello che funge da basamento per l’interpretazione vera e
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La fa propria, ma non a partire da qualsiasi presupposto. A fronte del congedo dal paradigma essenzialista meditato e maturato in seno alla moderna antropologia filosofica lungo ‘l’asse carenziale’ che va da Herder a Gehlen, si danno posizioni che mescolano presunte ragioni teoriche ad istanze sfacciatamente moralistiche, con il risultato di prestare un pessimo servizio tanto alla teoretica che all’etica. Un esempio lampante in tal senso è la critica dell’idea di natura umana proposta da Marshall Sahlins nel suo Un grosso sbaglio. L’idea occidentale di natura umana, tr. it. di A. Aureli, Elèuthera, Milano 2010. Pur differendo quanto ai termini del suo sviluppo, faccio mia la formulazione della Menschenfrage proposta da Eugenio Mazzarella: «“l’inizio, per quell’esserci che sa di averlo, è nel suo saperlo”». Eugenio Mazzarella, Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, il melangolo, Genova 2004, p. 13.
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propria della tecnica, per la sua caratterizzazione nei termini di un neoambiente. Un tale elemento basilare è il perimetro antropico. La peculiare trattazione di esso verrà preceduta da una chiarificazione dell’orizzonte operativo, circoscritto nella formula: ‘filosofia della tecnica al nominativo’. 1. Per una filosofia della tecnica al nominativo Al primo posto, nell’ordine dei chiarimenti dovuti, pongo quello relativo alla dizione ‘filosofia della tecnica al nominativo’, fungendo esso, come detto, anche da necessaria premessa operativa per il complesso della mia riflessione. Premessa addirittura metodologica, se un simile approccio non optasse per una posizione antimetodica. Questa esplicazione partirà giocoforza dal suo elemento vincolante, l’affermazione di Franco Volpi che l’ha ispirata e da cui essa trae la propria denominazione. Scrive Volpi: a giudicare da quanto è accaduto nelle aree culturali in cui questo tipo di indagine si è organizzato […] si nota un rischio: quello che si produca una ennesima filosofia al genitivo. Voglio dire: una riflessione che sicuramente richiama una meritoria attenzione sul fenomeno di cui si occupa, ma che sostanzialmente svolge una funzione soltanto ancillare e subalterna, scarsamente orientativa […]. Il rischio delle numerose filosofie al genitivo che sorgono in quantità […] è di ridurre la riflessione filosofica a una nobile anabasi, a una ritirata strategica dalle grandi questioni per rifugiarsi in problemi di dettaglio […]. Vien fatto allora di chiedersi: è possibile una filosofia della tecnica al nominativo?4
Raccogliere la sfida di queste parole significa, ovviamente, rispondere in maniera affermativa ad una siffatta domanda. Sì, una tale filosofia è possibile. Qui di seguito si proverà ad indicarne alcuni dei caratteri salienti: quelli che da meramente ‘possibile’ facciano di essa qualcosa di ‘praticabile’. 1) Filosofia della tecnica al nominativo è quella che assume e rivendica il proprio statuto autonomo, non ancillare, gravandosi con ciò di un preliminare e gravoso onere della prova: dimostrare ‘l’esistenza’, ‘la realtà’ di ciò di cui intende occuparsi.
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Franco Volpi, Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 2004 (nuova edizione accresciuta), pp. 146-147.
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Nominativa, quindi, è quella filosofia della tecnica che indagherà il proprio oggetto facendone emergere la peculiarità irriducibile, imponendone l’evidenza, con ciò sabotando e superando qualsiasi prospettiva neo-ingegneristica5, tuttavia non prima di essersi fatta interamente carico della critica di fondo che essa esprime, secondo la quale non esisterebbe affatto qualcosa come la tecnica. Essa sarebbe, invero, nulla più che un totem filosofico, qualcosa che l’ormai agonizzante filosofia crea ad arte – nei termini, cioè, di una sedicente sua competenza esclusiva – a beneficio di se stessa, al fine di puntellare la propria instabile posizione. Ciò vuol dire che la filosofia della tecnica al nominativo definisce se stessa giocoforza in modo contrastivo, opponendosi a tutti gli approcci ‘al genitivo’: quelli che anestetizzano la tecnica in quanto questione, dissolvendola nella pletora infinita delle singole tecniche. Il comune limite strutturale imputabile a simili approcci consta del mancato retto intendimento della celebre epigrafe del technischer Zeitalter pronunciata da Heidegger, per cui «l’essenza della tecnica non è affatto qualcosa di tecnico»6, ovvero: le singole tecniche, gli ‘strumenti’ (le macchine, i dispositivi…) altro non sono che gli strumenti (i mezzi) di cui la strumentalità si serve nel suo erigersi al rango di telos, nel suo farsi scopo a se stessa. È questa movenza carsica che sfugge allo sguardo già sempre troppo orientato degli aspiranti tecnici della tecnica. Ergo, oggetto di una riflessione squisitamente filosofica sarà la tecnica in quanto entità compiuta, ossia come fenomeno e sistema, come Gehäuse storico-spirituale – nel senso che al termine attribuisce Jaspers, in ciò simile alla weberiana eiserner Käfig –, vale a dire che essa si occuperà di ‘di5
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Con questa etichetta definisco quegli studi di filosofia della tecnica che prendono piede in Germania sul finire degli anni sessanta del secolo scorso, a partire dalla cosiddetta realistische Wende. I nomi più noti riconducibili a questo approccio sono: Christoph Hubig, Hans Lenk, Friedrich Rapp, Günther Ropohl. I ‘neo-ingegneri’ mirano ad essere dei tecnici della tecnica, proponendosi di gestirne le singole criticità di volta in volta emergenti. Entro una simile cornice, tuttavia, la tecnica non viene mai interrogata come questione peculiarmente filosofica, dimodoché la Philosophie der Technik si risolve in tutto e per tutto in una Technikphilosophie, in una ‘filosofia tecnica’. Per una trattazione di questo tema, A. Cera, Sulla questione di una filosofia della tecnica, cit., pp. 63 sgg. Nel nostro Paese, alcuni anni or sono, è apparso un interessante volume riconducibile alla corrente neo-ingegneristica, che nel suo atteggiamento critico verso gli approcci spiccatamente filosofici al tema, rappresenta per questi ultimi (incluso quello qui proposto) uno stimolante banco di prova: Michela Nacci, Pensare la tecnica. Un secolo di incomprensioni, Laterza, Roma-Bari 2000. Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27. La citazione è a. p. 5.
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mostrarne’ la consistenza in quanto totalità, a fronte del tentativo di smembrarla in una serie di elementi giustapposti, aggregabili esclusivamente, artatamente sulla base di sole ragioni retoriche. Filosofia della tecnica al nominativo è quindi anzitutto quella che opta per tecnica di contro alle tecniche. La mia personale adesione a questa sorta di postulato – opzione che però non considero vincolante, affinché si possa parlare di filosofia della tecnica al nominativo – è il rinvenimento e l’interpretazione della tecnica nei termini di un neoambiente. 2) Malgrado l’impressione che potrebbe suscitare quanto appena affermato, la filosofia della tecnica al nominativo non è un né un sistema né un metodo. Non può esserlo. La si potrebbe definire, piuttosto, un disimpegno sistematico7 o anche un habitus, uno stile. Non può esserlo, un metodo, pena il suo svilimento all’interno di una cornice che, seppure antitecnica nei suoi contenuti e propositi, si rivelerebbe organica ad una ratio tecnica quanto alla sua sostanza e ai suoi effetti8. Ciò premesso, ad essa risulterà congenita una disposizione insieme fenomenologica ed impressionistica, che mantenga indivise la presunzione e l’umiltà di affidarsi al sempre parziale azzardo del solo proprio talento diagnostico, accettando la conseguente implicazione di doversi arrestare ogni volta sulla soglia del pronunciamento di sentenze e soluzioni, accantonando la pretesa di proferire qualcosa di ultimo e di definitivo. In effetti, il grande rischio – da cui neppure alcuni tra i più significativi interpreti di un tale habitus sono rimasti immuni – è quello di impantanarsi nel vicolo cieco dei vaticini epocali. Apocalittici o escatologici che siano. Un’esemplificazione concreta, operativa di questo habitus antimetodico è offerta da quanto Günther Anders afferma a proposito della sua antropologia negativa. Pur rivendicando il proprio carattere entomologico (dal punto di vista del rigore osservativo), essa intende restare una «filosofia occasionale», 7 8
Con questa espressione intendo riferirmi non alla sistematicità di un disimpegno, bensì ad un disimpegno di fronte a qualsiasi ipotesi di un approccio sistematico alla tecnica. Una tale opzione antimetodica ed antisistematica è ben espressa da Jacques Ellul, che afferma: «mi rifiuto di presentare il mio pensiero sotto forma di teoria e in modo sistematico. Credo in un insieme dialettico aperto e non chiuso e mi guardo bene dal presentare soluzioni d’insieme, risposte ai problemi, soluzioni teoriche per l’avvenire: se lo facessi, contribuirei alla totalizzazione tecnica». Jacques Ellul, Il sistema tecnico. La gabbia delle società contemporanee, tr. it. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009, pp. 245 e 245n.
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che parta cioè da esperienze precise pervenendo, in tal modo, ad una «sistematicità après coup»9. Che sia, quindi, sistematica suo malgrado, che si ritrovi eventualmente tale soltanto a conti fatti. 3) Nell’impossibilità di optare per la gabbia di un metodo, la filosofia della tecnica al nominativo dovrà accettare di richiamarsi alle esperienze concrete di quegli autori che attraverso la testimonianza delle loro disamine hanno mostrato di possedere un simile talento diagnostico, un tale stile. Qualcosa che, in ultima analisi, null’altro è se non autentico senso storico, genuino sentimento del (proprio) tempo. Rifuggendo la bussola metodologica, si ricorrerà così a quella esemplare. Tra questi ‘maestri di stile’, andranno annoverati: in primo luogo Heidegger, ma parimenti: Jacques Ellul, Günther Anders, Ernst e Friedrich Georg Jünger, Arnold Gehlen, Ernst Kapp, Lewis Mumford, Emanuele Severino. Si potrebbero ovviamente aggiungere altri nomi. Molti altri10. Va da sé, tuttavia, che una simile cernita non possa equivalere all’edificazione di un pantheon: non avrebbe alcun senso sacralizzare coloro che, palesando la tecnica in quanto questione e compito filosofico, hanno il merito di averla desacralizzata. L’esemplarità di questi autori non li dispensa in alcun modo dall’essere trattati strumentalmente, secondo le esigenze dell’intento diagnostico qui perseguito. Ove occorra, anche stigmatizzati quanto ad alcune loro posizioni specifiche11.
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Günther Anders, L’uomo è antiquato, vol. II: Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, tr. it. M. A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 4. Ad esempio quelli dei francofortesi, di Oswald Spengler, Ernst Cassirer, Gilbert Simondon. Dal che si può evincere come la filosofia della tecnica al nominativo abbisogni senz’altro di un puntello di carattere storico, che ne metta in luce premesse e sviluppi. Ho provato ad abbozzare per sommi capi una tale ricostruzione nel mio precedente contributo dedicato a questo tema. Nella presente circostanza, invece, mi sono limitato a segnalare gli autori che hanno sin qui maggiormente influenzato il mio personale percorso di riflessione. In ambito italiano andrebbe menzionato anche Umberto Galimberti, il cui Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano 2002, malgrado una certa ridondanza nell’impianto complessivo, costituisce un testo di riferimento per la sua capacità di esplicitare con chiarezza le più significative implicazioni filosofiche legate alla questione della tecnica nel mondo contemporaneo. Qualche anno fa, sempre nel nostro paese, è apparso un volume collettaneo, che mantiene però soltanto in parte le promesse a cui lo vincola il titolo scelto: Filosofia della tecnica, a cura di P. D’Alessandro e A. Potestio, LED, Milano 2006. L’immagine più icastica di un tale impiego strumentale dei suddetti referenti, riguarda l’utilizzo nel corso di queste pagine di alcuni spunti heideggeriani per una
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4) Per quanto la tecnica non sia questione antropologica tout court, per quanto essa non possa risolversi nei soli termini di una faccenda umana, è pur vero che con essa indissolubilmente ne va già sempre anche dell’uomo, del suo stesso esserci. Ciò significa che una filosofia della tecnica al nominativo sarà quella capace di rivendicare per intero il proprio portato antropologico, senza lasciarsi irretire dalle immancabili accuse di cedere a presunti umanismi ed antropocentrismi vecchi e nuovi. A questo livello, si può dire che essa operi un setaccio ulteriore tra i propri numi tutelari, optando per una consapevole compromissione antropologica e dunque per il possibile ‘neoumanismo’ rinvenibile nelle posizioni di Ellul o Anders, di contro all’indifferentismo antropologico (peraltro sempre presunto) di Heidegger o di Severino. Indifferentismo che alla lunga non può non penalizzare la comprensione dello stesso fenomeno della tecnica. Come si chiarirà nel prossimo punto, tale penalizzazione si riverbera, per lo più, nel cedimento alle lusinghe della filosofia della storia. In questa compromissione antropologica non alligna tanto una posizione di carattere etico o un mero gusto differente, quanto piuttosto la consapevolezza dell’inestricabilità, della symploké, vigente fra uomo e tecnica. Antropogenesi e tecnogenesi sono pressoché sinonimi12: dietro qualsiasi posizione filosoficamente meditata intorno alla tecnica si cela già sempre un’ipotesi antropologica, una immagine dell’uomo. La filosofia della tecnica al nominativo intende semplicemente farsi carico di questa inaggirabile implicazione. Sulla scorta dell’assunto posizionale del proprio presup-
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finalità heideggerianamente blasfema, quale è un’ipotesi di stampo antropologico, come il perimetro antropico. Più che altro, ci sarebbe da questionare quanto alla loro gerarchia: è con l’uomo che nasce la tecnica o il contrario? Di antropotecnica parla, com’è noto, Peter Sloterdijk (cfr. La domesticazione dell’essere. Lo spiegarsi della Lichtung, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, a cura di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, pp. 113-184, in particolare pp. 176 sgg., e il più recente Devi cambiare la tua vita. Sull’antropotecnica, a cura di P. Perticari, Raffaello Cortina, Milano 2010). In ambito più strettamente postumanistico, Roberto Marchesini propone la formula antropo-poiesi, quale culmine di un processo di antropodecentrismo. Cfr. Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002 e Id., Il tramonto dell’uomo. La prospettiva post-umanista, Dedalo, Bari 2009, in particolare pp. 80-86. L’uomo è ciò che fa di se stesso ed in linea di principio non c’è nulla che egli non possa (non debba) fare di sé. Una posizione, questa, che ascrivo interamente al falso movimento della neoambientalità tecnica.
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posto antropologico (il perimetro antropico), essa non si sottrae dal situarsi a sua volta, dal prendere posizione13. 5) La filosofia della tecnica al nominativo sceglie per sé una posizione interstiziale, nella misura in cui deve guardarsi dal cadere in due tentazioni speculari. Da un lato, il rischio dei già menzionati ingegnerismi che, per quanto inconsapevolmente, proprio attraverso il loro razionalismo disincantato finiscono per fare della tecnica – nella stessa misura in cui si ostinano a non riconoscerla per la cifra epocale che essa è – un positum indiscutibile e con ciò un dogma, un idolum. Dall’altro, va scongiurato il pericolo degli esiti paradossalmente deterministici nei quali rischiano talvolta di impantanarsi anche alcuni fra i tentativi più avveduti di questionare filosoficamente la tecnica, come quelli di Heidegger, Ellul o Severino. E dunque: pur rivendicando con forza la propria componente storica – lo si è detto appena prima: essa è, in ultima istanza, null’altro che autentico senso storico –, la filosofia della tecnica al nominativo si astiene dal promuoversi al rango di nuova filosofia della storia, rinvenendo in ciò il pericolo di riproporre per intero (per quanto imbellettato da balsami secolarizzati) l’antico vizio dello scivolamento – magistralmente evidenziato e stigmatizzato dal Löwith di Meaning in History – dalla Weltgeschichte allo Heilsgeschehen14. 13
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La presa di posizione equivale all’assunzione di un compito: quello di custodire l’esigenza, e con essa la possibilità, del proprio autoriconoscimento, ovvero: «progredire in una forma di vita che resti nella sua autoriconoscibilità per noi». E. Mazzarella, Vie d’uscita, cit., p. 20. A dire che il compito per quell’esserci, il cui inizio (che esso sa di avere) è nel suo saperlo, sta nel volerlo, e poterlo, ancora sempre sapere. Cfr. Karl Löwith, Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, tr. it. di F. Tedeschi Negri, Il Saggiatore, Milano 1989. Di un tale scadimento della capacità diagnostica per eccesso di velleità prognostica offrono esempi lampanti alcuni passaggi delle ultime opere di Ellul (il già citato Le Système technicien, del 1977, e Le Bluff technologique, del 1988), ma ancor più i testi recenti di Emanuele Severino dedicati (almeno a giudicare dai titoli) alla tecnica. In particolare, Il destino della tecnica, BUR, Milano 1998, nel quale rientra dalla finestra ciò che si sperava di aver finalmente scacciato dalla porta: una filosofia della storia che è sempre, nella migliore delle ipotesi, un mascheramento secolarizzato di ansie frustrate di stampo religioso. Tanto più, se tali ansie si lasciano lusingare fino a farsi puntuale cronachismo, ‘mantica storica in tempo reale’. A quel punto, il portato epocale della tecnica viene svilito in esercitazioni profetiche (nemmeno a dirlo, tutte ex post) applicate finanche agli starnazzi sguaiati della attuale ‘politica’ italiana. Destino della tecnica, così, finiscono per essere anche tangentopoli e il berlusconismo. A questo livello, la riflessione filosofica sulla tecnica (e sia detto con rammarico, nei confronti di un pensatore, qual è Severino, a
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Attestata sul sottile crinale che divide la Geschichte dalla Schickung, la filosofia della tecnica al nominativo assume per intero il proprio portato diagnostico, senza farsi mai mantica storica. Il filosofo della tecnica deve ambire ad essere un acuto osservatore: nulla meno, ma anche nulla più di questo. Non un aruspice, quindi. Non un indovino. O meglio: indovino potrà esserlo nel senso letterale del sostantivo tedesco che lo denota: Wahrsager, qualcuno che dice la verità perché anzitutto ha imparato, attraverso un lungo apprendistato, a vederla. A vedere15. In più riconoscendo, nel corso di questa singolare paideia, il carattere strutturalmente astigmatico del proprio sguardo, la sua vocazione panoramica e, anche qui nel senso letterale del termine, epi-scopale. Ove pretenda di vedere troppo (da) vicino, di esercitare la sua inclinazione diagnostica nell’esercizio di predizioni a cortissimo raggio e ad ancor più breve scadenza – magari per provare a pronosticare data e luogo precisi della prossima, ennesima ‘fine di tutti i tempi’ –, essa finisce inevitabilmente per mancare il proprio bersaglio, tradendo la sua stessa ragion d’essere, il suo compito. La filosofia della tecnica al nominativo – al pari, del resto, della filosofia tutta – è costitutivamente inattuale e solo per questo mai antiquata, solo in questo sempre indispensabile al proprio tempo. 2. Il perimetro antropico 2.1 Mondanità: per un’antropologia posizionale Acquisita una caratterizzazione di massima relativamente al primo elemento problematico su cui si regge la presente ipotesi teorica, si può passare a quello successivo: il perimetro antropico. Data la sua centralità, è su di esso che, come annunciato, si incentrerà la presente analisi nel suo dichiarato carattere propedeutico. Anzitutto, una precisazione. La formulazione ‘perimetro antropico’ vale come il tentativo di fornire una replica ancora plausibile alla domanda filosofica intorno all’uomo e perciò quale riconoscimento dell’intatta centralità della Menschenfrage. In altri termini: l’attestazione dell’impossibilità di una risposta convenzionale (ovvero: univoca,
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cui si devono contributi di assoluto spessore su questi temi) diventa un’operazione degna delle critiche piccate rivoltele dal neo-ingegnerismo. In tedesco ‘profeta’ è ‘Seher’. Appunto: un veggente, qualcuno che sa vedere.
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definitiva, risolutiva) a questa domanda non inficia in alcun modo l’urgenza della stessa. Piuttosto, obbliga a problematizzare l’idea di risposta, scendendo a patti con il naturale istinto primigenio di qualsiasi interrogazione: ricercare soluzioni. Il perimetro antropico è dunque ciò che resta dell’umano dopo la messa in scacco della sua interpretazione sostanzialistica; vale a dire, la possibilità di continuare a predicare qualcosa di essenziale circa l’uomo, una volta acclarata l’impossibilità di predicarne un’essenza. Ciò posto, il perimetro antropico fa interamente proprio il fondamentale lascito del pensiero moderno circa la ‘in-essenzialità’ dell’essere umano. Lascito ereditato da quelle riflessioni filosofico-antropologiche che, almeno a partire da Herder, si aggrumano intorno al lacerto eidetico del cosiddetto paradigma difettivo, il cui stigma si trova espresso nella celebre formula del Mängelwesen16. Detto paradigma si compone di due momenti: uno distruttivo, il più appariscente, ed uno costruttivo, meno semplice da scorgere e per questo generalmente frainteso o addirittura trascurato. Il primo momento certifica il congedo vero e proprio dalle istanze sostanzialistiche, fondando quel presupposto negativo che costituisce il terminus a quo di ogni futura, consapevole antropologia. I vari: Mängelwesen (Herder, Gehlen), exzentrische Positionalität (Plessner), Neinsagenkönner (Scheler), Weltfremdheit (Anders), Weltoffenheit (Scheler), Dasein (Heidegger), animal symbolicum (Cassirer)… sono marchi antropici che, nella comune aspirazione ad emanciparsi da una logica ancora tesa a rinvenire ed eternare una qualche ipostasi dell’umano, dicono tutti – ciascuno secondo le proprie, specifiche modalità – della costitutiva indeterminatezza dell’uomo, del fatto che, nietzscheanamente, egli è «das noch nicht festgestellte Thier»17. Ad esprimere nella maniera più semplice questo presupposto tacitamente condiviso, si presta bene una frase di Romano Guardini: «l’uomo non ha una sua natura appunto nel senso degli animali e delle piante: la sua “natura” consiste addirittura nel non averne affatto una»18. 16
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Come è noto, l’ipotesi antropogenetica carenziale in ambito filosofico rimonta ben più indietro del 1772 (anno di pubblicazione della Abhandlung über den Ursprung der Sprache di Herder): quantomeno alla versione del mito di Prometeo, proposta nel Protagora platonico (320d-323a). Già in quel caso, la techne veniva intesa come la peculiare dotazione extraorganica fornita al solo uomo, allo scopo di integrare le sue, altrettanto peculiari, carenze organiche. Tecnica per eccellenza sarà per Platone la politica: basiliké techne (Politico, 311c 1). Su questi temi, si veda Giuseppe Cambiano, Platone e le tecniche, Einaudi, Torino 1971. Friedrich Nietzsche, Al di là del bene e del male, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 201125, af. 62, p. 68. Romano Guardini, Etica, a cura di S. Zucal, Morcelliana, Brescia 2001, p. 18.
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Il primo momento del paradigma difettivo conduce così ad una antropologia della negatività, espressa, come detto, nella certificazione della strutturale carenza (biologica, organica in primo luogo) di cui l’essere umano sarebbe ‘naturalmente dotato’. E tuttavia questa non è la parola ultima che è possibile trarre da simili speculazioni. Esiste al contempo una controparte che rappresenta il lato diurno, affermativo dell’eclissi sostanzialistica. Esso coincide con il passaggio ad un paradigma relazionale, a partire dal quale il vuoto, l’ammanco [Mangel] su cui sembra reggersi l’immagine antropologica difettiva assume invece un carattere costruttivo, un tratto di paradossale, perché indeterminata, pienezza. Il cambio di paradigma corrisponde ad un mutamento del punto di vista: la specifica peculiarità dell’uomo non va rinvenuta in un che cosa, bensì in una disposizione, in una ‘situazione’: nel come di un dove. L’uomo non può essere definito sulla scorta di una Besonderheit che esso possiederebbe in sé e per sé, del tutto isolatamente, a prescindere da qualsiasi tipo di contesto e di contestualizzazione. Qui giace il vulnus inemendabile dell’approccio sostanzialistico. Una tale peculiarità pertiene invece al modo esclusivo di porsi dell’uomo, al suo posizionamento, più che ad una mera posizione: a questo livello ha luogo la metamorfosi teorica che conduce dalla natura hominis alla conditio humana. L’essere dell’uomo si delinea nei termini di una costellazione: appunto, di un perimetro. L’uomo si caratterizza a partire dalla relazione che istituisce (e dunque non semplicemente che intrattiene) con l’in-cui del proprio esserci. Altrimenti detto: l’essere dell’uomo corrisponde al suo fondamentale atteggiamento, al peculiare modo del suo stare entro (in-stare) quella cornice, quell’ambito [Umgebung] che lo circoscrive. Ebbene, un tale star dentro è invero già sempre un essere a distanza, un tale in-stare con-sta già sempre di un ek-stare19. Detto in una formulazione classica: l’esserci dell’uomo è una ek-sistenza, questa la sua fondamentale specificità. La posizione peculiare [Sonderstellung] dell’uomo in confronto agli altri viventi sta nel fatto che essa, come detto, non è mera posizione [Stellung], bensì posizionamento [Einstellung], postura [Haltung, Stellung]20 19
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Al di là del gioco di parole, esiste un nesso organico fra ek-stare e con-stare. Come si vedrà di qui a poco: questo essere preliminarmente a distanza (lo ek-stare) risulta la fondamentale condizione di possibilità perché si acceda alla dimensione dell’in quanto tale e con essa a quella della relazionalità, ovvero del con-essere (con-stare). Il sostantivo tedesco che più correttamente corrisponde al nostro ‘posizionamento’ è Einordnung. Preferisco tuttavia impiegare Einstellung, sia perché mantiene il nesso con Stellung e Sonderstellung, sia, soprattutto, perché indica il ‘posizionarsi’ in senso lato, ossia come un disporsi, un atteggiarsi. Nella sua minore determi-
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persino, nella misura in cui egli stesso contribuisce ad edificare la propria interfaccia vitale. Non semplicemente a circoscrivere, bensì ad istituire il proprio Lebensraum21, imprimendo nel contempo una specifica forma anche a se stesso. A questa prestazione naturale dell’uomo do il nome di mondanità22. In ciò faccio mio il celebre assunto della Umweltslehre di Jakob von Uexküll, divenuto un topos della biologia teoretica prima e dell’antropologia filosofica poi: l’uomo, unico fra i viventi, possiede un mondo [Welt], laddove all’animale tocca in sorte un mero ambiente [Umwelt]. È questo il lato diurno del paradigma difettivo, quello che fa dell’antropologia negativa un’antropologia non meramente topologica (anche in quel caso a rischio di ipostatizzazione), bensì posizionale. L’uomo è naturaliter obbligato a dare forma alla cornice che dovrà contenerlo, a plasmare necessariamente la ‘materia ambitale’ in maniera tale da rendersela abitabile. Una volta informata, e soltanto allora, quella iniziale Umgebung si fa Welt, quell’ambito si fa mondo, ovvero lo specifico ʻin-cuiʼ per l’esserci dell’essere umano. L’adattamento umano, in tal senso, equivale ad un incontro a metà strada tra la iniziale datità umana e quella ambitale. Convenendo con Heidegger, si può affermare che l’essenziale
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natezza semantica, Einstellung mette in luce quella componente affettiva, patica che nella mia lettura rappresenta l’elemento centrale del peculiare posizionamento umano, della sua mondanità. Più avanti, questo posizionamento si preciserà ulteriormente proprio nei termini di un pathos situativo, di una Befindlichkeit. Anche il richiamo alla ‘postura’ – alla Stellung in questa ulteriore accezione, quale possibile sintesi di Stellung ed Einstellung, di ‘posizione’ e ‘posizionamento’ – vale più di una suggestione lessicale. È infatti improntata sull’idea della posturalità una delle ipotesi interpretative più solide relativa al fenomeno dell’ominazione. La stazione eretta, il bipedismo viene ritenuto la svolta evolutiva della specie umana, il fondamentale esonero da una pressione ambientale assoluta. La postura eretta libera quel lusso biologico che è l’archeostrumento, lo organon organico: la mano. E con essa la stessa possibilità della parola. Ovvio il richiamo, relativamente a queste tematiche, ad André Leroi-Gourhan, i cui studi (su tutti, i due volumi dell’ormai classico Le geste et la parole) rappresentano un esempio eminente di scienza pensante. Sulla questione del carattere chirurgico (manuale) della tecnica ai suoi albori, si veda Oddone Longo, La mano e il cervello. Da Anassagora a Leroi-Gouhran, in AA. VV., Ethos e cultura. Studi in onore di E. Riondato, vol. II, Antenore, Padova 1991, pp. 955-972. Impiego questo termine nella sua accezione originaria (e dunque rimontando al di qua della sua funesta, definitiva virata geopolitica), quella promossa da Friedrich Ratzel (1844-1904), in Politische Geographie, Oldenburg, München/Leipzig 1897. Anche questo concetto si richiama da presso alla terminologia heideggeriana: la mondanità di cui sto parlando è molto simile, sebbene non identica, alla Weltlichkeit (generalmente tradotta con ‘mondità’) di Sein und Zeit.
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peculiarità dell’uomo stia nel suo essere formatore-di-mondo, formante-ilmondo [weltbildend]23. In ciò consiste la suddetta mondanità. Questo significa anche che, in quanto formatore di mondo, l’uomo è naturalmente un ente tecnico: gli è intrinseca una vocazione demiurgica, più che propriamente creativa, dal momento che egli si trova nel ruolo di plasmatore a partire da un materia (ambitale) che gli preesiste. Al contrario, la nicchia ecologica alla quale si interfaccia perfettamente l’animale, il calco naturale a cui, in forza delle sue dotazioni organiche, esso aderisce integralmente, totalmente ed immediatamente, è Umwelt, ambiente. Rispetto all’animale, l’ambiente si manifesta come tale sin da subito, come un’autodatità assoluta. L’ambiente «si offre in anticipo all’animale come il seno al lattante»24. Ciò vuol dire che l’animale non è in grado di percepire alcun ambito, nessuna cornice preliminare, nessuna eccedenza che, per quanto indefinitamente, faccia da sfondo al suo spazio vitale. Il che, e si tratta di un passaggio decisivo, implica che ad esso resti preclusa la possibilità di esperire lo stesso suo ambiente (e con ciò anche se stesso) in quanto tale [als solches]. Il carattere peculiare dell’animale sta dunque nella sua ambientalità, nel suo (ancora con le parole di Heidegger) essere povero-di-mondo [weltarm]. Da quanto detto, si evince come la differenza tra uomo ed animale non possa venir reclusa entro una griglia strettamente biologica, pena il suo completo fraintendimento, ma abbisogni di una allocazione se non ontologica, perlomeno ecologica: differente è infatti il rapporto che essi intrattengono con la dimora, lo oikos del loro soggiornare. L’animale, corrisponde, aderisce ad un’interfaccia fisico-biologica: il suo Bauplan lo abilita sin da subito ad inserirsi in una specifica nicchia ecologica, a svelare la sola specifica porzione di Umgebung nel cui perfetto adattamento esso può risol-
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Cfr. Martin Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, a cura di C. Angelino, tr. it. di P. Coriando, il melangolo, Genova 1999. Pur indicando qui un luogo puntuale per la tesi-guida dell’uomo weltbildend – al pari di quella dell’animale weltarm e della pietra weltlos –, il § 42 (ivi, p. 232), rinvio al complesso dell’argomentazione heideggeriana con la quale, come si vedrà, mi sono confrontato da presso per la formulazione delle posizioni qui esposte. Qui Anders non usa il termine ‘ambiente’, ma ‘mondo’, che impiega genericamente tanto in riferimento all’uomo che all’animale. Poco più avanti, scrive: «L’animale non viene al mondo, ma il suo mondo viene con lui». Günther Anders, La natura dell’esistenza. Un’interpretazione dell’a posteriori, in, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, tr. it. di F. Fistetti et alii, Bari, Palomar 1993, pp. 29-51. La citazione è a p. 32.
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versi fino ad eclissarsi25. Da cui la appena menzionata impossibilità di esperire l’in quanto tale sia di sé che del proprio ambiente. In quanto tale che, anche qui seguendo una suggestione heideggeriana, altro non è se non capacità differenziale, possibilità di percepire l’alterità in se stessa, ovvero di cogliere quel carattere differenziale di cui qualsiasi alterità consta essenzialmente. All’animale resterebbe preclusa una simile capacità e con essa la possibilità di cogliere, ovvero di lasciar-essere [Seinlassen] l’ente, in primo luogo l’ente che egli stesso è. In effetti, si potrebbe sostenere che l’identità corrisponda all’in quanto tale della medesimezza. Il lasciar-essere qualcosa, peraltro, si rivela anche la fondamentale struttura dell’incontro, per cui la preclusione dell’in quanto tale implicherebbe l’inacessibilità alla sfera relazionale26.
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Scrive Uexküll, in riferimento all’animale: «tutto quello che un soggetto percettivo percepisce diventa il suo mondo percettivo [Merkwelt] e tutto quel che fa costituisce il suo mondo operativo [Wirkwelt]. Mondo percettivo e mondo operativo formano una totalità chiusa: l’ambiente [Umwelt]». Jakob von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, a cura di M. Mazzeo, Quodlibet, Macerata 2010, p. 39. E più avanti: «la prima asserzione fondamentale della teoria dell’ambiente: tutti i soggetti animali […] sono adattati al loro ambiente con la medesima perfezione», ivi, p. 49. Oltre al testo già citato, di Uexküll andrà almeno richiamato: Umwelt und Innenwelt der Tiere, Springer, Berlin 1909, il lavoro con cui Heidegger dialoga direttamente nelle lezioni del ’29 sui Concetti fondamentali della metafisica. Sul confronto fra Heidegger e von Uexküll, si veda il prezioso studio di Monica Bassanese, Heidegger e von Uexküll. Filosofia e Biologia a confronto, Verifiche, Trento 2004. «…in quanto tale l’animale non si trova in una manifestatività dell’ente. Né il suo cosiddetto ambiente, né esso stesso sono manifesti in quanto enti». M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 317. E poco prima, a ribadire la differenza di condizione (che non va intesa come gerarchia) tra uomo ed animale: «Non possiamo dire: l’ente è precluso all’animale. Ciò potrebbe essere soltanto se vi fosse una qualche possibilità […] d’essere dischiuso; lo stordimento dell’animale invece pone l’animale, per sua essenza, al di fuori della possibilità che l’ente gli sia dischiuso oppure chiuso», ibidem. Su questa base, diventa comprensibile perché nella sua analitica esistenziale Heidegger predichi come esclusivo del Dasein – ovvero del solo ente in grado di lasciar-essere – il Mitsein, lo essere-con, che in senso eminente è poi sempre Mitdasein, ovvero Miteinandersein. In questa sede, posso solo limitarmi a dichiarare che assumendo le posizioni heideggeriane in merito alla differenza tra uomo ed animale, tengo conto delle acute critiche ad esse rivolte da Jacques Derrida, particolarmente nel suo tentativo (rimasto purtroppo incompiuto) di ripensare l’animalità e l’animale, a partire dalla sua rinominazione come animot. Cfr. Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, tr. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, in particolare la parte IV, pp. 199-222.
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Tornando al discorso principale, da quanto appena acquisito è possibile evincere anche una strutturale diversità nella prestazione di adattamento fra uomo ed animale. L’animale è adatto in quanto adattato, il suo adattamento si dà già sempre energheiai, in actu: esso risulta approntato, interfacciato sin da subito al proprio oikos. L’uomo è adatto in quanto adattabile, il suo adattamento si manifesta dynamei, in potentia: in grado, cioè, di colmare in corso d’opera la preliminare distanza intercorrente tra sé ed il proprio correlato ambitale, facendone uno oikos, nella forma di mondo. Giunti a questo punto, si può incassare una prima acquisizione: la mondanità (vale a dire, il peculiare tratto posizionale dell’uomo rispetto agli altri viventi) circoscrive il perimetro antropico. È tuttavia opportuno sintetizzare brevemente il discorso condotto sin qui, prima di proseguirlo. Dunque: la messa in mora del paradigma antropologico essenzialistico fa emergere quello relazionale, che si coagula nell’immagine a tutta prima negativa del Mängelwesen. L’in-essenza dell’uomo viene caratterizzata come mera carenza, ma tale rimane solo entro lo spettro organico-biologico. In un orizzonte più ampio – quello ontoecologico27 di un’antropologia posizionale – essa si rivela invece come indeterminatezza, distanza, apertura rispetto all’in-cui del suo stesso esserci. Tale luogo naturale per l’uomo è il mondo, ovvero quello spazio vitale che non gli è dato immediatamente (come accade per l’animale con il suo ambiente), ma che per renderselo abitabile egli deve plasmare a partire da un iniziale ambito, da una primigenia materia ambitale. L’essere-nel-mondo, il collocarsi dell’uomo all’interno di un tale oikos, lo in-stare in esso equivale con ciò ad uno ek-stare, un essere a distanza: nella distanza di un’apertura svelata28. Ora, il carattere perimetrale del perimetro antropico concerne anzitutto la relazione, l’intricazione inscindibile vigente fra uomo e mondo. Come 27
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Onto-etologica è invece la prospettiva suggerita da Brett Buchanan nel suo Ontoethologies. The Animal Environments of Uexküll, Heidegger, Merleau-Ponty and Deleuze, State University of New York Press, Albany 2008. Per solo zelo bibliografico, segnalo inoltre un testo recente, le cui posizioni (nonché la modalità di veicolarle) ritengo decisamente opinabili: Matthew Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida, a cura di M. Filippi, Mimesis, Milano-Udine 2012. Del tutto perspicua, in tal senso, la differenza tra offen (aperto) ed offenbar (apribile, e in quanto tale svelato, rivelato) tematizzata da Heidegger in Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 323 (qui i due termini vengono resi rispettivamente con ‘aperto’ e ‘manifesto’). Sempre nel già menzionato La natura dell’esistenza, Anders caratterizza esplicitamente questa connaturata distanza dell’uomo dal mondo in termini di libertà.
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l’uomo si caratterizza essenzialmente in quanto weltbildend (formante-ilmondo), così quest’ultimo andrebbe definito, per così dire, in quanto vomMensch-gebildet (formato-dall’uomo). Di conseguenza, va ascritta ad una tale intricazione nella sua inestricabilità la delimitazione di quello spazio preliminare, trascendentale entro cui ha luogo il processo di fondazione ed autoriconoscimento dell’ente uomo. In altri termini: quale che sia la specifica modalità di formazione del mondo concretatasi di volta in volta – quali che siano gli specifici mondi prodotti e producibili dall’uomo –, resta il fatto che egli debba pur sempre formarne uno. Che, per poter vivere (ossia: esistere, ek-sistere), non possa esimersi dal plasmare una sfera mondana. Ergo, fintantoché sussiste una tale mondanità, si dà ciò che (ri)conosciamo come uomo. 2.2. Dis-allontanamento e terrestrità Il progresso dell’argomentazione deve ora passare per la sbiologizzazione definitiva dell’impianto antropologico testé acquisito. Si tratta di un momento indispensabile affinché esso diventi in grado di sostenere una interpretazione autenticamente filosofica della tecnica. In effetti, proprio in un tale irretimento positivistico, biologistico credo vada rinvenuto il limite dell’antropologia elementare di Arnold Gehlen, ciò che ha esposto il suo paradigma carenziale ad una riduttiva e fuorviante lettura pauperistica29. La stessa lettura sulla quale, ancora oggi, si appuntano le critiche dei postumanisti30.
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Un’antropologia che voglia mantenersi filosofica ha il dovere di accettare l’interlocuzione e la sfida delle scienze positive, ma anche quello di non lasciarsi dettare da esse le regole del proprio gioco, prestandosi, ad esempio, a che la tenuta di un paradigma teorico complessivo circa l’essere umano (qualcosa che si pone in modo naturale al di qua di qualsiasi sapere positivo) possa trovarsi a dipendere dalla certificazione oggettiva di dati biologici e paleobiologici. In questo senso, l’appello ad un correttivo a base ontologica rivendicato da Heidegger per qualsiasi interrogazione circa l’uomo che si pensi autenticamente filosofica – al di là delle sue stesse intransigenze: su tutte la dichiarazione dell’antropologia filosofica come contradictio in adiecto – mantiene intatta la propria attualità. Il luogo topico della condanna heideggeriana nei confronti dell’antropologia è la famosa nota 10 de L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 71-101. Per un confronto fra Heidegger e l’antropologia filosofica, si veda Marco Russo, Animalitas. Heidegger e l’antropologia filosofica, “Discipline filsofiche” XII, 1, 2002, pp. 167-195. Ritengo che la forma standard di questa lettura critica dell’approccio geheleniano sia quella presentata da Heinrich Popitz nel suo Verso una società artificiale, tr. it. di G. Auletta, Editori Riuniti, Roma 1996, in particolare pp. 35-40.
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Detta sbiologizzazione comincia con la ridefinizione di un concetto centrale della riflessione gehleniana: la Entlastung, l’esonero. Al suo posto propongo quello di Entfernung, dis-allontanamento. Anche questo un prestito, parzialmente indebito, dal lessico heideggeriano31. La Entlastung si rivela alla lunga uno strumento concettuale sviante, proprio in forza della sua genesi biologistica, zoocentrica. Predicare infatti la direzionalità fondamentale dell’agire umano (ciò su cui Gehlen costruisce la sua Handlungslehre) come esonerante, ovvero s-gravante, allontanante, tradisce un’impostazione per la quale l’immagine dell’uomo viene costruita a partire da un assunto zoologico. Presuntamente zoologico, peraltro. Impiantato sul ‘basamento neutro’ dello zoon [animal], l’uomo viene inteso come quel vivente che ‘in più’ (per mera addizione rispetto alla propria essenziale animalità) possiederebbe un misterioso conatus, una imperscrutabile vis che attraverso l’azione (la tecnica) lo conduce a prendere gradualmente e fatalmente le distanze da una iniziale condizione ‘puramente naturale’, da un ipotetico stato di natura in tutto e per tutto identico a quello ferino. Espressa nei termini qui impiegati: grazie all’agire (e alla tecnica in quanto agire strumentale), l’animale uomo si emanciperebbe da una iniziale condizione di ambientalità. Una tale ricostruzione tiene nella sola misura in cui se ne accetta la premessa biologistica: tutti i viventi sono basicamente animali, ovvero enti ambientali. Premessa che viene invece a cadere, laddove si assuma una prospettiva di respiro onto-ecologico, laddove le peculiarità dei viventi vengano acquisite e problematizzate a partire da un impianto relazionale/ posizionale e dunque in modo meno ovvio. A quel livello, lo si è appena visto, all’essere umano in quanto tale va riconosciuta, su base fenomenologica, una specifica caratterizzazione che lo pone già sempre al di fuori del cerchio ambientale, definendolo (destinandolo) sulla scorta della sua weltliche Berufung, della sua ‘vocazione, chiamata mondana’. Mondanità che, come più volte ripetuto, corrisponde alla capacità/necessità naturale da parte dell’uomo di dare forma al proprio correlato ambitale per poterne fare un oikos. Ciò significa che la condizione di partenza per l’essere umano, il suo ipotetico stato di natura, non è mai la vicinanza, la prossimità con la 31
Al § 23 di Essere e tempo, dal titolo La spazialità dell’essere-nel-mondo, Heidegger parla di Entfernung, che insieme alla Ausrichtung risulta il costitutivo di questa spazialità. E scrive: «Disallontanare [Entfernen] significa far scomparire la lontananza [Ferne], cioè l’essere lontano [Entfernheit] di qualcosa; significa avvicinamento. L’Esserci è essenzialmente dis-allontanante [ent-fernend]». Martin Heidegger, Essere e tempo, a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Longanesi, Milano 2005, p. 133.
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propria nicchia ecologica – fino al limite della fusione con essa all’interno di un circuito ecosistemico, come accade per l’animale –, ma già sempre quella di una distanza, rispetto ad una condizione nudamente ambientale che egli non conosce mai in quanto tale. La direzionalità essenziale del suo agire, del suo dar forma al mondo sarà, ciò stante, quella del dis-allontanamento, dell’approssimazione, vale a dire: del superamento di questa iniziale condizione di Weltfremdheit, di estraneità al mondo o, se si preferisce, di Weltoffenheit, di apertura ad esso. È questa l’unica naturalità sorgiva predicabile per quell’ente che riconosciamo come uomo, ossia che, in quanto uomo, si autoriconosce. L’azione, e con essa l’azione tecnica, è, dunque, essenzialmente dis-allontanante. In quest’ottica, va da sé che il mondo in quanto tale corrisponda al disallontanato primo e fondamentale. È a partire dal dis-allontanamento fondamentale istituente un mondo che si dischiude – ovvero: si apre ed aprendosi (circoscrivendosi, delimitandosi) si chiude – quell’orizzonte preliminare entro il quale potranno aver luogo le prestazioni dis-allontananti puntuali, le specifiche possibilità di incontro tra l’uomo ed i singoli enti. Il mondo, primo dis-allontanato, equivale a quella cornice preliminare che orienta il dis-allontamento ogni volta attuale, puntuale (quello, intramondano, della relazione tra l’uomo ed i singoli enti) e perciò stesso lo rende possibile, lo fonda32. Tutto questo comporta un decisivo mutamento di prospettiva nella valutazione dell’impatto della tecnica attuale sulla vita dell’uomo. Ciò che generalmente, genericamente viene definito alienazione – e che raccoglie in sé una quantità indefinita di vere o presunte ripercussioni negative sulla condizione umana – non va inteso alla stregua di un iper-distanziamento, di una sedicente Über-entlastung rispetto ad un nostro fantomatico stato di natura coincidente con l’ambientalità ferina. Il falso movimento epocale innescato dalla tecnica nella sua veste più recente non è un distanziamento ad oltranza, bensì un’approssimazione coatta, una promiscuità, una (con) fusione: esso corrisponde al tentativo, e alla tentazione, di farci stare il mondo completamente e costantemente addosso, di estinguere in via definitiva la perturbante distanza tra uomo e mondo, in modo da rendere non più distinguibile l’uno dall’altro. L’uno e l’altro. La tecnica, nella sua versione totale e sistemica, mira alla sistematica erosione del potenziale ekstatico di quell’ente che noi stessi siamo. Nella sua forma compiuta, essa corrisponde al tentativo di rimontare la propria stessa condizione di possi32
Ibidem: «Il dis-allontanamento scopre l’essere lontano [Ent-fernung entdeckt Entfernheit]».
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bilità, di azzerare una volta e per tutte quella distanza, quel vuoto, che è insieme il suo stesso spazio sorgivo, ma anche l’imperitura condanna all’ancillarità della sua funzione strumentale. Dis-allontanare il dis-allontanamento fino a dissolverlo nella (con)fusione, nella promiscuità di una vicinanza indefinita: è questo uno dei modi più icastici con cui si potrebbe nominare il telos della techne; è questo il senso autentico del suo effetto alterante, alienante. Ciò dicendo, sto indicando un passaggio fondamentale nel meccanismo della neoambientalità. Allo scopo di puntellare adeguatamente la nozione di Entfernung, è necessario però collocarla entro un contesto adeguato. Si tratterà con ciò di emancipare dalla griglia biologistica anche il concetto di mondo, che non può venir limitato al mero correlato fisico-biologico entro cui, dopo averlo informato, l’essere umano si posiziona. L’in-cui dell’esserci dell’uomo, la sua autentica nicchia ecologica si compone infatti di elementi non immediatamente ‘naturali’, ma altrettanto necessari. Tutto ciò che in genere viene confusamente accreditato alla dimensione culturale. Il mondo in quanto specifico oikos che l’uomo appronta per se stesso equivale ad una ‘sfera’ in grado di stabilizzarne, sotto tutti i punti di vista, l’esistenza. Si tratta di un Gehäuse, di un involucro che fonda e sostiene una stabilizzazione non meramente organica, fisiologica, bensì più complessa e complessiva. Quindi, insieme anche: psichica, etica, estetica, assiologica… La differenza tra Welt ed Umwelt, perciò, non è mera differenza di ampiezza (quale appunto appare entro una prospettiva biologica), bensì differenza dimensionale. Il mondo possiede una pluralità di dimensioni preclusa all’ambiente entro cui è installato l’animale. Il mondo è l’istituzione di un indiviso orizzonte natural-culturale (fisico-spirituale) di stabilizzazione, di familiarizzazione per quell’ente particolare che si pone, come propria necessità vitale, anche la questione della sensatezza, ossia della problematicità: in primo luogo, della sensatezza/problematicità del proprio esserci, se non dell’essere in quanto tale. La compattezza e la tenuta di un mondo si commisura perciò su questo intero spettro di istanze e bisogni a cui esso deve riuscire a fornire una replica e una soddisfazione. Con le parole di Heidegger: «il Mondo si mondifica [Welt weltet] ed è più essente dell’afferrabile in cui viviamo fiduciosamente […]. Con l’aprirsi di un Mondo, ogni cosa acquista il ritmo del suo sostare e del suo muoversi, la sua lontananza e la sua vicinanza, la sua ampiezza e il suo limite»33. 33
Martin Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, cit., pp. 3-69. La citazione è a p. 30. Dato il contesto della mia argomentazione, scelgo di non
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Dunque: il mondo fonda e scandisce la ritmica dell’esistenza. Per approssimazione, si potrebbe affermare che ogni mondo, nella sua compiuta totalità, corrisponda in ultima istanza a quel tipo del tutto particolare di involucro che definiamo epoca. Dal che, la suddetta mondanità, ovvero la Weltbildung, la capacità di formare mondi, equivarrebbe alla storicità dell’essere umano, vale a dire: alla condizione non storica, metastorica del suo far(si) storia. Il trofismo, la ritmica del rapporto inestricabile tra uomo e mondo (e, come si vedrà da qui a poco, tra mondo e terra) è null’altro che il Geschehen della Geschichte, è storia in senso eminente. È in quanto geschichtlich, storico, che l’uomo è weltbildend: ‘mondano’ e non meramente ‘ambientale’. La storicità (mondanità) in quanto condizione non storicizzabile dell’essere dell’uomo, costituisce il tratto non negoziabile del suo autoriconoscimento, il preliminare orizzonte di determinatezza a partire da cui, soltanto, si fa possibile declinare l’indeterminatezza delle sue singolari determinazioni concrete. Di tutti i suoi possibili mondi, di tutti i suoi infiniti paradigmi. Postumanità compresa. A dire che, non si dà postumano di sorta, se non all’interno del perimetro antropico. Il postumano accade già sempre entro i limiti dell’umano. Stante questa peculiare caratterizzazione del concetto di mondo, ritengo necessario, sempre in ordine all’intento di liberare l’argomentazione proposta dalle dande biologiche, operare una ulteriore sostituzione terminologica e teoretica, rinominando ciò che la Umweltslehre e l’antropologia gehleniana definiscono Umgebung, ovvero: ambito, milieu, o mondo oggettivo. Rifacendomi ancora all’esempio heideggeriano, impiegherò il termine terra [Erde] allo scopo di definire un simile sfondo, questa chora, questo ricettacolo della hyle mondana e storica, su cui interviene l’innata dynamis demiurgica dell’uomo affinché venga plasmato ogni volta un mondo, affinché accada ogni volta storia. D’altra parte, risulta del tutto consequenziale che, avendo definito il mondo nei termini di una sfera pluridimensionale, non meramente fisica, la terra, in quanto cornice di esso, debba venir parimenti emancipata da una tale unidimensionalità. Dunque: se non ambito e milieu fisico, che cos’è la terra? Proseguendo con Heidegger, si può affermare, in via preliminare, che essa è la «emergente-custodente. La terra è l’assidua-infaticabile-non-costretta. Su di essa ed in essa l’uomo storico fonda il suo abitare nel mondo». E ancora: «la prendere in considerazione la questione centrale del saggio di Heidegger: se l’opera d’arte possa essere o meno il ponte esclusivo tra mondo e terra.
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Terra appare soltanto se garantita e conservata come la essenzialmente indischiudibile, sottraentesi a ogni dischiudimento e mantenentesi in un costante rifiuto»34. Un’evidente analogia con ciò che Eraclito (nel celeberrimo frammento B 123) affermava a proposito della physis, ovvero che «ama nascondersi». E con ciò che lo stesso von Uexküll identifica come natura: «dietro tutti i mondi cui ha dato origine, si nasconde, infatti, un soggetto eternamente inconoscibile: la natura»35. La terra va essenzialmente intesa alla stregua di uno Abgrund, come la condizione non manifesta della manifestatività di qualsiasi mondo. In ciò simile alla Licthung heideggeriana, con la sua ritmica aletheiologica: anch’essa si svela soltanto velandosi, facendo da s-fondo indeterminato (apeiron) per il venire alla presenza di quelle determinatezze (perata) che sono: in primo luogo il mondo e con esso, in esso tutti i singoli enti. La terra è quindi disoccultante, ma in se stessa occultata. Come è possibile allora scorgerla, percepirne la presenza? Non rischia la terra, posto quanto appena affermato, di dover essere intesa alla stregua di una ipostasi, di una riedizione fuori tempo massimo dei congedati retromondi? Ma soprattutto, vista l’argomentazione sin qui seguita, laddove la terra si caratterizzasse come indistinguibile, non percepibile (se non, eventualmente, mercé l’azzardo di una istanza di fede), non resterebbe il solo mondo senza più una cornice ed uno sfondo? Senza nessuna Umgebung? E a quel punto, come sarebbe possibile distinguere il mondo dal mero ambiente? L’uomo dall’animale? La prosecuzione del dialogo con il saggio heideggeriano Sull’origine dell’opera d’arte mi sembra offrire spunti per dirimere la questione. Heidegger caratterizza in maniera del tutto peculiare il rapporto intercorrente tra mondo e terra. La terra costituisce lo Abgrund di ogni e qualsiasi mondo e come tale lo circoscrive e lo eccede. Lo eccede, tuttavia, senza mai trascenderlo, laddove alla trascendenza venga attribuito il senso di una discontinuità. L’eccedenza e l’ulteriorità della terra non è mai quella di uno stare altrove rispetto al mondo. Mondo e terra sono essenzialmente dei com-presenti; essi si coappartengono intimamente ed inestricabilmente. A legarli, sino a formare un ‘continuum a due’, è quella Urbeziehung che, riprendendo Eraclito, Heidegger nomina come lotta [Streit], contesa, polemos. Mondo e Terra sono essenzialmente diversi l’un dall’altro e tuttavia mai separati. Il Mondo si fonda sulla terra e la Terra sorge attraverso il Mondo. Ma la relazione fra Mondo e Terra non si esaurisce affatto nella vuota nudità contrap34 35
Ivi, p. 32. J. von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani, cit., p. 162.
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positoria di elementi differenti […]. Il contrapporsi di Mondo e Terra è una lotta […]. Nella lotta autentica, i lottanti – l’un l’altro – si elevano all’autoaffermazione della propria essenza36.
L’intimo nesso tra queste affermazioni ed un altro celebre frammento eracliteo (il B 23) appare del tutto evidente. Anche in quel caso, il polemos viene inteso non nei termini di un mero scontro, ma appunto alla stregua della forma più originaria, la più inscindibile, di relazione: una symploké che dice di una fondamentale koinonia, la Urbeziehung a partire dalla quale, soltanto, le individualità in contrasto possono pervenire a reciproca emergenza e determinazione. Welt ed Erde non si danno, perciò, l’una senza l’altra: il manifesto non si dà senza lo sfondo, la radura luminante che gli concede di venire alla presenza; il manifestante, a sua volta, non si dà se non nell’occultamento, in quel vuoto che può palesarsi esclusivamente a partire dal pieno prodotto dall’emergenza del manifesto, del venente-a-presenza [Anwesend]. Stante la coappartenenza di mondo e terra, la mondanità possiede quale propria necessaria implicazione la terrestrità: se è vero che si dà uomo nella sola misura in cui si dà mondo, il mondo si darà soltanto sullo s-fondo della terra. Resta tuttavia inevasa la questione precedente: com’è possibile percepire la terra – ossia, esperire la propria terrestrità –, posto il fatto che quest’ultima si dà solo nella sua inestricabile contesa con il mondo e posto che la conditio humana corrisponde ad un essere-già-sempre-nel-mondo? In un mondo? La terra potrà essere scorta soltanto per contrasto: sullo sfondo, in quanto s-fondo dell’emergenza del mondo. La terrestrità equivarrà con ciò ad un movimento complementare ed intrinseco alla stessa mondanità: percepire la terra sarà tutt’uno con la percezione del mondo in quanto tale, nella misura in cui l’apprensione di esso in totalità presuppone necessariamente un orizzonte sul quale esso possa stagliarsi, dal quale possa emergere; un’ampiezza di cui esso si rivelerà una concrezione determinata ma parziale. Torna così il tema dell’in quanto tale, del lasciar essere l’ente, di quella capacità differenziale (ed insieme relazionale) che marcherebbe la differenza dell’uomo rispetto agli altri viventi. Il problema, che rischia di delineare un circolo vizioso, è che parlando del mondo non parliamo di un ente tra gli altri, bensì del dis-allontanato primo e fondamentale, di quella cornice entro cui l’uomo si trova già sempre situato, pur essendone nel con36
M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit., p. 34.
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tempo il plasmatore. Egli non può non trovarsi sempre posto (posizionato) entro l’in-cui del proprio esserci. Il mondo è quindi già tale – nel senso, che come tale viene percepito dal suo plasmatore – sin da sempre, sin nel corso del suo venir plasmato e non solo una volta che sia stato compiuto, realizzato. Il mondo è già sempre tale, senza essere, tuttavia, in quanto tale. La possibilità di percepire la terra, quindi, sta e cade con quella di cogliere il mondo in quanto tale, di lasciarlo essere. A parte hominis, ciò vorrà dire percepire, portare ad esplicita consapevolezza quella Weltfremdheit, quella ek-staticità che gli è stata attribuita quale carattere peculiare ed eminente. Ma come potrà trarsi fuori dal mondo, e così coglierlo in totalità, un ente che definisce se stesso proprio a partire dal suo trovarsi già sempre posizionato in esso? Come si vede, terrestrità, mondanità ed ek-staticità – ai quali si può aggiungere la storicità, come crasi dei primi tre – costituiscono i volti di una struttura unica: ove ne venga meno uno, cadranno inesorabilmente anche gli altri. Sottrarsi a questa impasse comporta quella che si potrebbe definire una virata patica. L’apprensione del mondo in quanto tale, l’esercizio consapevole della propria ek-staticità non può passare per una via logica, gnoseologica… tutti grimaldelli irrimediabilmente intramondani. La chiave d’accesso andrà cercata invece nello spazio della pura ex-posizione dell’essere umano: quella dell’avvertimento, della affectio, del pathos. Mondo e terra non si vedono, né si deducono, né si postulano. Mondo e terra si avvertono, si sentono. Dunque: assumiamo che la percezione del mondo in quanto tale – conditio per quam per l’accesso alla terrestrità, nonché necessaria fondazione, co(i)stituzione per la mondanità stessa – dovrà avvenire dal di dentro di esso, intramondanamente e perciò ex post: a fatto (a mondo) compiuto. Intramondanamente ed occasionalmente, eccezionalmente per giunta. Sempre nel suo corso dedicato ai Concetti fondamentali della metafisica, Heidegger rinviene la traccia determinante della condizione ontologica di uomo ed animale – rispettivamente, come visto: weltbildend e weltarm – nella sfera dei pathemata, delle Stimmungen, in particolare delle Grundstimmungen, tonalità emotive fondamentali che fungono da Leitmotiv, intonando i diversi enti alla loro rispettiva situazionalità, allo specifico in-cui del proprio esserci. Nel caso dell’animale, Heidegger rinviene un tale pathos originario nella Benommenheit, in quello stordimento, irretimento che marca la sua perfetta integrazione con il proprio spazio vitale (ambientale), con la propria nicchia ecologica. Una compenetrazione che giunge al limite della fusione e con ciò dell’indistinguibilità, della chiusura di qualsiasi aperto: da qui l’impossibilità (il non essere in grado di, adynaton) per l’a-
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nimale di accedere autenticamente all’in quanto tale di qualsiasi ente. Compreso se stesso. L’impossibilità di uscire da sé, dipende in questo caso anzitutto da un sé inconsistente, da una ipseità impredicabile. Giusto una tale incapacità di lasciar essere un qualsiasi ente rappresenta la paradossale percezione (paradossale, perché del tutto impercepita) da parte dell’animale della propria specifica condizione, della sua ambientalità. Per questo motivo si può affermare che l’animale insieme possegga e non possegga una sua propria Befindlichkeit, una sua peculiare situatività. La possiede, nel senso che la Benommenheit rappresenta di fatto la cifra della sua condizione ontologica; tuttavia non la possiede in quanto il suo peculiare sentirsi-situato sta proprio nell’impossibilità di avvertirlo, di portarlo a consapevolezza: è questo il senso ultimo del suo essere nello stordimento del venir-irretito dalla (con)fusione con la propria interfaccia ecologica. La Benommenheit è strutturalmente circolare: si chiude su stessa, implode. Il fondamentale pathos dell’animale corrisponde così ad una sostanziale apatia, ad un sentire incapace di autoavvertimento. Qualcosa di diverso accade per l’essere umano, la cui Befindlichkeit risulta pienamente esplicitata, il cui avvertimento di sé può giungere (ovvero: ne ha facoltà, dynamis) a compiuta, consapevole evidenza. Ricordiamo ancora, però, che ad un tale marcatore ontologico di stampo patico si chiede qui di svolgere un compito del tutto particolare: condurre al coglimento dell’in quanto tale non già di un ente qualsiasi, bensì del mondo, di quella cornice entro cui l’uomo non può che trovarsi già sempre posto/posizionato. Ed il mondo in quanto tale non potrà che rivelarsi, come detto, ex post ma soprattutto eccezionalmente, nella forma dell’infrazione di uno ‘stato normale’ improntato ad una familiarità tra uomo e mondo che in apparenza somiglia non poco alla Benommenheit animale. È questo un aspetto decisivo per intendere il movimento paradossale, e cionondimeno comprensibile, innescato dalla tecnica nella sua versione più recente. La funzione del mondo, quale sfera fondante e stabilizzante per l’esistenza umana, passa giocoforza per un’operazione di occultamento, di trasfigurazione nei confronti di quell’aperto che a sua volta gli fa da cornice e sostegno. Perché possa ‘funzionare’, il suo proprio mondo necessita di venir percepito dallo sguardo quotidiano dell’uomo alla stregua di un orizzonte totale ed intrascendibile, qualcosa a cui egli possa affidarsi completamente: è questa necessità di stabilizzazione – nel senso di una sospensione dell’aperto dello Abgrund – che genera quel para-irretimento, quella pseudo-Bennomenheit che corrisponde alla Alltäglichkeit, all’innanzitutto e per lo più del commercio intramondano descritto in Sein und Zeit e cifrato dal sigillo della Uneigentlichkeit. È rispetto ad una tale necessità che il pathos rivelatore
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del mondo in quanto tale (e con esso della terra) non può che caratterizzarsi quale condizione straordinaria, il cui tratto peculiare sarà quello della Unheimlichkeit. La visione dell’in quanto tale del mondo equivale ad uno squarcio sull’aperto, sullo Abgrund da cui quel mondo è circondato e sorretto, sulla terra come fondamento s-fondato di esso: uno spettacolo che per la sua instabilità dovrà per forza di cose risultare spaesante, perturbante, se colto dalla prospettiva della rassicurante fidatezza fornita dall’amnios mondano-quotidiano. Qualcosa che inquieta appunto perché de-stabilizza; una visione ed una consapevolezza che, se costanti, sarebbero per l’uomo insostenibili. Lo pseudo-stordimento della quotidianità è il prezzo pagato alla fidata motilità, alla mobilitazione stabilizzata dell’esistenza concreta, laddove la lucidità (la Ent-stehung, la de-stazione) dello sguardo di Medusa sull’aperto disvelato costerebbe, ove si mantenesse costante, l’impagabile onere di una stasi pietrificante. La necessità troppo umana di stabilizzazione si traduce perciò in un occultamento che dà luogo alla cornice intramondana per eccellenza: la Alltäglichkeit, entro la quale quell’affezione rivelatrice della Eigentlichkeit dovrà manifestarsi giocoforza come una eccezione disturbante. Come una crepa. È per questo che Heidegger ravvisa in Stimmungen telluriche come l’angoscia [Angst] o la noia [Langeweile] – quelle che, appunto, scuotono la quotidianità stordita e stabilizzata – quei ponti ek-statici che conducono dal mondo alla terra per il tramite di una Grundstimmung che incarna il pathos ctonio per eccellenza, la pura Befindlichkeit e con essa il definitivo svelamento dell’in quanto tale del mondo. Si tratta del compiuto avvertimento del proprio essere-situato (della propria ex-posizione), è lo stupefacente orrore del thauma/thaumazein37, del ‘mistico’. 37
La ex-posizione equivale alla ‘situazione fondamentale’ dell’essere umano interamente svelata: lo stare nell’aperto del polemos di mondo e terra. Di questa ex-posizione, il thauma è l’avvertimento rivelatore. La pura ex-posizione è abbacinante, insostenibile. Sostenibile, probabilmente, può esserlo soltanto attraverso il filtro preliminare di una minima e tuttavia indispensabile distanza, che viene prima ancora di ogni stabilizzante Alltäglichkeit: quella che fa del thauma un thaumazein, dello stupefacente orrore uno stupore e una meraviglia. La conversione di questo orrore in meraviglia segna già l’imporsi della disciplina del logos, la menzogna che partorisce la filosofia. Permetterci di stupirci piuttosto che inorridire è forse il vero atto di nascita e insieme la più grande conquista della filosofia. In questo senso, più che scorretta, è incompleta la celeberrima genesi aristotelica (Metafisica I, 2, 982b), già anticipata da Platone (Teeteto 155d): la nascita della filosofia avviene sì per opera della meraviglia, la quale è però anzitutto ed essenzialmente trasfigurazione, e in ciò occultamento, dell’orrore (su questo tema è d’uopo il richiamo ad Emanuele Severino, che al Grundwort thauma ha dedicato
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Il mondo in quanto tale può annunciarsi soltanto come un urto [Stoß], urtando l’irretita fidatezza e familiarità dell’inautenticità quotidiana con la perturbante evidenza del suo nudo Daß, con l’assoluta, irriducibile gratuità del suo puro essere, a fronte del suo altrettanto radicale poter non essere38. La spia di un simile scandalo si insinua tra le maglie dell’irretimento alltäglich, scuotendole con le falle della noia o dell’angoscia fino al thauma, fino cioè al residuo patico di quello spettacolo di stupefacente orrore che è la massima approssimazione concessa all’uomo alla koinonia polemica di mondo e terra, al pieno disvelamento dell’aperto. Oltre che con quelli classici di thauma e thaumazein, ho indicato una tale Grundstimmung terrestre con il termine ‘mistico’. Lo riprendo da un passo celebre del Tractatus di Wittgenstein, che con questa etichetta sintetizza mirabilmente quello che anche lui, muovendo da sentieri di ben altra matrice, giunge a chiamare il «sentimento del mondo»: «non come [wie] il mondo è, è il mistico [das Mystische], ma che [daß] esso è»39. Dunque: l’in quanto tale del mondo corrisponde al suo Daß ed è questo il grimaldello esclusivo per conseguire l’accesso alla terra. Grimaldello esperibile per sola via patica, in quella Grundstimmung del thauma, che è insieme l’avvertimento della propria ex-posizione, del proprio essere-nell’aperto. Tale è il pathos della terrestrità, in fondo non troppo dissimile dalle parole con cui Nietzsche sintetizza la sua profezia antropologica: «der Uebermensch», scrive, «ist der Sinn der Erde», il senso della terra40. È il momento di tirare brevemente le somme del discorso condotto finora. Delineati i caratteri portanti del perimetro antropico sulla scorta dell’implicazione reciproca ed esclusiva fra uomo e mondo, della mondanità dell’uomo, si è visto poi come il retto intendimento di essa passi per la sua collocazione al di fuori di un orizzonte biologistico. Inteso come involucro stabilizzante natural-culturale, il mondo [Welt] obbliga al ripensamento
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39 40
riflessioni significative. Tra i diversi esempi possibili, si veda, La filosofia contemporanea, BUR, Milano 1998, p. 7). Ancora nel Saggio sull’origine dell’opera d’arte, cit., pp. 49-50, Heidegger inscena questa cadenza fra Stoß e Daß in riferimento all’effetto ‘veritativo’ prodotto dall’opera d’arte, dal suo factum est. In questo caso mi servo del discorso heideggeriano in relazione al mondo, considerandolo l’opera eminente del ʻfareʼ umano. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, a cura di A. G. Conte, Einaudi, Torino 19792, p. 81 (proposizione 6.44). Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, a cura di M. Montinari, Adelphi Milano 201131, p. 6.
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della sua stessa cornice: non più mero ambito [Umgebung], bensì terra [Erde]. Mondo e terra si coappartengono essenzialmente nella intimità di un polemos originario. La capacità disoccultante della terra sta e cade con il suo proprio occultamento, da cui la difficoltà di coglierla. Difficoltà a cui non ci si può sottrarre, dal momento che senza terra non si dà mondo e senza mondo non si dà uomo. Terrestrità, mondanità ed ek-staticità si implicano a vicenda. La loro fondazione passa per la possibilità dell’uomo di cogliere il mondo in quanto tale. Data però la sua impossibilità di sottrarsi alla propria situazione intramondana, un tale coglimento sarà possibile solo in chiave patica, nella forma di un fondamentale autoavvertimento. Anzitutto come urto, infrazione di quello stordimento quotidiano, come sospensione di quel circuito uneigentlich che crea la fidatezza dell’innanzitutto e per lo più indispensabile al normale andamento dell’esistenza umana: l’uomo, infatti, può vivere (sostenere il suo proprio peso) soltanto epochizzando la propria ek-staticità. Questa infrazione patica rappresenta il ponte che conduce dal mondo alla terra, disvelando l’in quanto tale del mondo attraverso un ulteriore piuolo patico: il thauma, la Stimmung ctonia per eccellenza, lo stupefacente orrore dell’affacciarsi sulla aperta contesa tra mondo e terra. Con questo scacco – peraltro sempre: temporaneo, istantaneo, kairologico – della quotidianità stordita, l’uomo è in grado di saltare nell’autenticità perturbante della terrestrità e con ciò di assumere interamente la propria ‘situazione’. Di dis-chiudersi, di decidersi [Ent-schliessen] all’aperto. Ekstaticità, mondanità e terrestrità sanciscono così la Besonderheit dell’ente uomo al cospetto di qualsiasi altro vivente. Sono questi i marcatori del perimetro antropico, A voler imprimere il suggello di una formula al presente discorso, torna utile quella, ancora una volta heideggeriana, di Wesen der Ferne41. L’essere umano definito dal perimetro antropico si caratterizza come un essere della lontananza. E tale egli è, in quanto è: weltbildend e, sia concesso il conio, erdfühlend; ovvero, in grado di: formare il mondo, sentire la terra. È questo il punto fermo, a partire dal quale è possibile intendere l’autentica portata della tecnica in quanto ‘questione della filosofia’. L’ambizione titanica inscritta nel suo attuale proposito di ergersi al rango di oikos per
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«L’uomo, che come trascendenza esistente si slancia in avanti verso delle possibilità, è un essere della lontananza [Wesen der Ferne]». Martin Heidegger, Dell’essenza del fondamento, in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 19943, pp. 79-131. La citazione si trova a p. 131.
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questo essere della lontananza equivale a nulla meno che al tentativo di riscrivere il perimetro antropico. 3. Premessa per una conclusione a venire: il neoambiente L’umanizzazione integrale dell’animale coincide con una animalizzazione integrale dell’uomo Giorgio Agamben42
Concluderò queste pagine tracciando brevemente la direzione lungo la quale si istraderanno le ulteriori, future tappe del presente tentativo di filosofia della tecnica al nominativo. Sarà una trattazione del tutto sommaria, cionondimeno necessaria perché in grado di fornire una visione panoramica di quell’ambito entro il quale va collocato lo strumento del perimetro antropico. Mi limiterò ad abbozzare le linee portanti di quella complessa dinamica che conduce alla caratterizzazione della tecnica contemporanea nei termini di un neoambiente. Anzitutto, urge una definizione operativa del termine ‘tecnica’ all’interno di questo contesto. La tecnica, genericamente connotabile quale agire strumentale, assume una connotazione peculiare assurgendo al rango di fenomeno e sistema43, ad aspirante oikos per l’umanità attuale. Il che accade sulla scorta di un processo di fusione di tre elementi fondamentali, a sua volta esito di una lunga sedimentazione storica: Entzauberung, Rationalisierung e 42
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Devo limitarmi a questo esergo per segnalare L’aperto. L’uomo e l’animale, di Giorgio Agamben, Bollati Boringhieri, Torino 2002 (la citazione è a p. 80). Un testo molto importante per il lavoro che ho inteso svolgere, dal momento che pur entro una diversa cornice (il paradigma biopolitico), impiega il medesimo reagente (la comparazione tra la condizione animale e quella umana, ispirata dalle riflessioni heideggeriane) per formulare una ipotesi molto simile a quella della neoambientalità. Per la caratterizzazione della tecnica come fenomeno e sistema, mi rifaccio a Jacques Ellul. Il fenomeno tecnico consiste per lui nell’avvenuta introduzione della ratio operandi tecnica in qualsiasi ambito umano, ossia nella «preoccupazione dell’immensa maggioranza degli uomini del nostro tempo, di ricercare dappertutto il metodo assolutamente più efficace». Jacques Ellul, La tecnica, rischio del secolo, tr. it. di C. Pesce, Giuffrè, Milano 1959, p. 22. La sintesi di ‘fenomeno tecnico’ e ‘progresso tecnico’ conduce poi al ‘sistema tecnico’, laddove «la tecnica diventa un ambiente e trascende le tecniche», le quali, a loro volta, sono ormai soltanto al servizio di essa (ivi, p. VI).
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Machbarkeit44. In questa veste la strumentalità si emancipa di fatto (nel senso, anzitutto, che acquisisce la possibilità, ossia il potere di farlo) dal proprio statuto ancillare – coincidente con una sua aspirazione ‘meramente’ demiurgico-mimetica –, divenendo il tentativo meglio congegnato, e con ciò la tentazione più seducente, nel corso di tutta la storia per esprimere quella che è una tendenza connaturata all’essere umano: il contromovimento rispetto alla sua stessa tensione ek-statica, l’assicurazione, la stabilizzazione della totalità dell’essente. Ciò che già Platone aveva riconosciuto, sintetizzandolo nella formula bebaiotes tes ousias45. Con essa ne va, per l’uomo, della necessaria funzione vitale di schermare l’aperto, di occultarne la piena manifestazione – ovvero lo spettacolo di quel polemos che, intrecciandoli, sostiene e definisce mondo e terra –, di contenerne la portata unheimlich, che ove fosse assunta senza filtri di sorta risulterebbe insostenibile. L’esistenza stessa necessita di filtrare, mascherandola dietro il velo rassicurante dell’innanzitutto e per lo più, la propria fondamentale precondizione. L’epoca della tecnica si inaugura perciò nel momento in cui diviene realmente – ossia, wirklich: fattivamente, effettualmente – possibile assolutizzare un tale pharmakon stabilizzante, emanciparlo da una funzione reattiva (la mai ermetica chiusura stabilizzatrice, quale replica ad un aperto spaesante), per elevarlo a totalità. Per farne in tutto e per tutto un mondo. A quel punto, il mascheramento dello Abgrund di cui la strumentalità, in forza del suo portato pre-visionale, si fa da sempre carico, può diventare occultamento definitivo, ergersi a voce unica da controcanto che era. Visto che l’aperto corrisponde all’intreccio inestricabile di Welt ed Erde, l’epoca della tecnica sarà quel tempo nel quale il mondo inghiotte la terra. Ma, lo si è visto in precedenza, senza terra non può darsi mondo. Se ne evince che il movimento innescato dal farsi mondo della tecnica (dal tecnocosmo, dalla tecnosfera) equivale in realtà ad una «de-mondificazione del mondo»46. Venendo meno lo s-fondo di una terra, il mondo rimane un’entità indistinguibile e quindi del tutto simile ad un ambiente. L’esito paradossale di un tale processo è che la tecnica può ergersi al rango di mondo esclusivamente nella forma di un non-mondo, ossia di un ambiente: estenuando la mondanità dell’uomo. Come detto in precedenza: erodendo44 45 46
Sulla fusione di questi tre elementi come svolta epocale nella storia della tecnica, cfr. A. Cera, Sulla questione di una filosofia della tecnica, cit., pp. 98-101. Platone, Cratilo 386a 3-4. Proprio nella Entweltlichung der Welt, Karl Löwith rinviene il peculiare carattere della Neuzeit, il cui inizio retrodata perciò all’avvento del Cristianesimo. Cfr. Karl Löwith, Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, tr. it. di O. Franceschelli, Donzelli, Roma 2000, p. 12.
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ne il potenziale ek-statico. Un ambiente, peraltro, del tutto inedito quanto alle sue specifiche modalità di formazione e per questo un neo-ambiente. Ora, nella misura in cui l’essere umano è stato definito a partire dalla propria situazione posizionale – quella conditio humana, a sua volta descritta nei termini del perimetro antropico, ossia secondo: ek-staticità, mondanità, terrestrità e storicità –, laddove la sua naturale cornice mondana venga ad assumere caratteristiche prettamente ambientali, l’uomo si troverà giocoforza ad esperire una condizione, un posizionamento animale. Il principale portato della neoambientalità tecnica consta così di una ferinizzazione dell’uomo. Ferinizzazione che equivale ipso facto allo stato liminare dell’antropologia, ad una possibile soglia postumana. Per intendere in che modo possa aver luogo un tale processo, bisognerà riprendere le fila del discorso condotto in precedenza. Dal momento che tanto la mondanità umana quanto l’ambientalità ferina sono di fatto indimostrabili oggettivamente, ma inferibili soltanto a partire da un marca patica – da quelle tonalità emotive fondamentali che intonano il vivente alla sua rispettiva situazionalità –, è a questo livello che andrà indagato un tale aspetto. Più precisamente: essendo l’animalità essenzialmente cifrata dalla Grundstimmung della Benommenheit, allo scopo di predicare la ferinizzazione dell’uomo bisognerà rinvenire tracce di Benommenheit nella sua attuale situazione. Stordimento che, al pari dell’ambientalità, non potrà comunque essere geneticamente identico a quello animale. Alla conditio humana è infatti stata riconosciuta una peculiarità irriducibile, all’uomo risulta strutturalmente precluso lo stato di fusione totale ed immediata con la propria interfaccia ecologica: la datità prima dell’uomo è la distanza, la sua Weltfremdheit/Weltoffenheit. Ciò stante, la Benommenheit umana – e la neoambientalità di cui essa costituisce il marcatore – seguirà una via diversa, dovrà essere un effetto indotto a posteriori dalla strumentalità tecnica, una volta che questa si erga a sfera mondana. Essa dovrà risultare una creazione della tecnica, vale a dire una produzione: la Benommenheit umana sarà quindi un prodotto. Ebbene, la produzione di un tale stordimento neoambientale (l’occultamento della ex-posizione) avviene per sovraesposizione, per mezzo di una sistematica sollecitazione provocante di cui l’uomo si trova fatto oggetto ed il cui carico si rivela incompatibile con qualsiasi mensura humana e perciò insostenibile. Il mondo, non più mondo, si fa overmanned47 ed il suo portato di provocazioni/stimolazioni può essere sostenuto al solo prezzo 47
G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. II, cit., p. 15.
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dell’inavvertimento. Dell’apatia. Entro una simile condizione, diviene impossibile porre a distanza un mondo che, provocando, costantemente pressa, costantemente è addosso, imponendo all’uomo una promiscuità con esso che si traduce in una prestazione rigida e totale di adattamento, quale è nota nel solo milieu animale. La pratica del dis-allontanamento risulta, ciò posto, del tutto inibita. Impossibilitato nella sua tensione ek-statica, l’ente uomo viene a trovarsi invischiato in una prossimità coatta con il mondo, (con)fuso con esso e perciò in esso irretito. Stordito. È per il tramite di un movimento s-finito che il tecnocosmo consegue la stabilizzazione assoluta dell’essente. La stasi irretita della (con)fusione neoambientale tra uomo e mondo accade sotto la forma speciosa di una mobilitazione totale48; il mutamento autentico – quello teso e delimitato verso una finalità – viene annichilito non attraverso un suo impossibile arresto, bensì per mezzo del suo s-finimento, della sua estenuazione per mezzo di una iterazione indefinita, o meglio: infinita e infinita in quanto priva, privata di qualsiasi fine. Senza scopo. Automazione. Quella della mobilitazione totale è una cornice in cui si muove tutto, ma non accade più nulla. È un mondo senza storia, un mondo stordito, irretito e per questo un non-mondo. Al culmine della sua parabola culturale, l’uomo si ritrova così in una posizione del tutto inedita perché del tutto simile a quella animale. In quanto ambientalizzato, l’uomo della tecnosfera sarà, al pari dell’animale, weltarm, povero di mondo. Privato della sua fondamentale prerogativa di disallontanare gli enti – condizione necessaria per entrare in relazione con essi, per lasciarli essere in quanto tali –, egli si impoverisce di mondo. Si pauperizza. La premessa decisiva del processo di ferinizzazione sta dunque in un pauperismo integrale, ontologico49. Nel cosmo neoambientale l’uomo viene indotto e ridotto (provocato) ad una condizione integralmente carenziale: il Mangel del Mängelwesen non corrisponde più all’indeterminatezza ubertosa della possibilità (alla steresis come visione parziale, in controluce della dynamis), e con ciò ad uno sfarzo ontologico, bensì soltan48 49
Ovvio, il richiamo al saggio del 1930 di Ernst Jünger, La mobilitazione totale, tr. it. di C. Galli, “Il Mulino”, 301, XXXIV, 1985, pp. 753-770. Traggo il concetto di pauperismo [Pauperismus] da Die Perfektion der Technik di Friedrich Georg Jünger, nel quale si afferma: «ogni forma di razionalizzazione è la conseguenza di una carenza. La costruzione e la strutturazione dell’apparato tecnico non sono solo il risultato di un anelito di potenza della tecnica, ma anche la conseguenza di una condizione di bisogno. Perciò la condizione umana correlata alla nostra tecnica è il pauperismo che non si vince con sforzi tecnici». La perfezione della tecnica, tr. it. di M. de Pasquale, Settimo Sigillo, Roma 2000, p. 29.
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to a: mancanza, povertà, difetto. È debito ontologico. L’epoca della tecnica, l’epoca dell’uomo povero di mondo, si rivela davvero una dürftige Zeit. Così percependosi, l’uomo si dispone ad una fatale ed imperitura opera di riscatto dalla propria difettività costitutiva, assunta ormai alla stregua di una colpa. Qui, a mio avviso, maturano anche le condizioni per l’avventurismo, apparentemente impregiudicato, di tentativi come quelli del postumano: la sedicente orizzontalità ontica50, la presunta libertà dello sperimentare fino in fondo le nostre proprie potenzialità – il dogma elettivo di questi tentativi – risulta invero la coazione sistematica ad emendare neoambientalmente la propria difettività, ad affidarsi totalmente alle mani, mai vuote, della tecnica affinché estingua per noi il nostro debito. Un debito, peraltro, sempre inestinguibile, nella misura in cui la stessa tecnica (nella sua necessità mobilitante e provocatrice) per tenersi in vita in forma di totalità non può che istituirne di sempre ulteriori. La paradossale introiezione di questa obbligazione a lasciarsi provocare da ciò che noi stessi abbiamo prodotto è quanto Anders definisce vergogna prometeica51. L’uomo è sempre in difetto, mai abbastanza e per questo sempre obbligato, sempre in dovere di mettersi a disposizione per lasciarsi provocare dal neoambiente. Provocare, ovvero: aumentare, migliorare. In tal modo, egli diventa non solo disposto, bensì reclutato (da ‘volontario’, tuttavia senza possibilità di diserzione) dalla mobilitazione totale, ormai non più mera scelta, ma comandamento, destino. Nel dogma difettivo, motivante questo doversi-mettere-a-disposizione, si radica il pauperismo ontologico, che è la chiave di volta del processo di ferinizzazione alla base del fenomeno della neoambientalità.
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Di orizzontalità del bios parla Roberto Marchesini (cfr. Il tramonto dell’uomo, cit., pp. 16-18), orizzontalità che sembra però conseguita al prezzo di un fondamentale, sovrano gesto di in-differenza: la riduzione del vivente al rango di materia, a materiale nella disponibilità dell’avere a che fare tecnico. Quanto intendo sostenere, è che il postumanismo muova da quello stesso paradigma difettivo (retto, peraltro, su basi non del tutto identiche) che imputa all’antropologia filosofica ed in particolare a Gehlen (cfr. ivi, p. 72). Nella vergogna prometeica, il senso di colpa con cui l’uomo vive la propria inadeguatezza prestazionale nei confronti dei prodotti della tecnica, Anders vede l’esito ultimo del dislivello prometeico, ovvero della «incapacità della nostra anima di rimanere “up to date”, al corrente con la nostra produzione». Günther Anders, L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’era della seconda rivoluzione industriale, tr. it. di L. Dallapiccola, Il Saggiatore, Milano 1963, p. 24. Il correlato biologico di un mondo overmanned, l’abitatore perfettamente felice perché perfettamente adattato al neoambiente, non può che essere un superman.
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Alla tecnica – che nella veste di ‘agente provocatore’ diventa la nuova arché kineseos – si chiede, appunto, di mobilitare totalmente e costantemente questo ente in debito perenne per integrarne ogni volta le sempre nuove carenze. Sotto queste spoglie, essa perviene al momento apicale della sua forma sistemica: la thaumaturgia. La tecnica contemporanea è thaumaturgica. Ad essa si chiede di correggere, di guarire52 il difetto che noi stessi siamo. L’esito thaumaturgico della tecnica coincide, però, anche con l’inizio del suo smascheramento, della rivelazione del suo volto più autentico. La tecnica può ‘liberare’ l’uomo, guarirlo solo a patto di emendare se stessa dalla propria condizione originale: l’ancillarità. La tecnica deve divenire autotelica, deve fare della propria strumentalità servile un fine in se stessa, deve ergersi a regno dei mezzi53. Ciò accade, s’è visto, se essa si fa mondo, ovvero se il mondo si fa ambiente. Ed il mondo si ambientalizza alla sola condizione che l’uomo cessi di autoavvertirsi in quanto tale, di esperire la propria Befindlichkeit, la propria situazionalità autentica per accordarsi alla tonalità dello stordimento. Ma perché ciò possa avvenire, è necessario che divenga inaccessibile il peculiare pathos umano, la Stimmung ctonia suscitata dal disvelarsi dell’aperto: il thauma. La Benommenheit neoambientale si definisce essenzialmente in negativo: come impossibilità del thauma, come incapacità di infrangere, dis-chiudere il circuito della Alltäglichkeit, come insensibilità per la terra. Il thauma diviene impossibile allorché la tecnica se ne impossessa, rendendolo, da pathos che è, un ergon, una sua creazione e dunque un’opera in quanto prodotto. Mettere tecnicamente in opera il thauma, produrlo, provocarlo è appunto, alla 52
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Con ciò, intendo affermare che la declinazione quotidiana assunta dal pauperismo, quale veicolo dell’irretimento neoambientale, è quella della patologizzazione. La thaumaturgia addomestica il pathos facendone patologia, malattia, promuovendone in tal modo l’autocensura. Riconosciutisi ‘patici’, ci si percepisce malati. Si mira a fare del ‘patente’ un paziente e, da ultimo, un penitente. Un devoto della soteriologia tecnica. Curioso notare come un meccanismo del genere risulti già differente (evoluto?) rispetto a quello magistralmente evidenziato da Foucault. La patologizzazione è divenuto ormai in tutto e per tutto il metron della orthotes, la misura della ‘adeguata conformità’. Essa non produce più gli anormali, bensì gli integrati a tutti gli effetti. È in quanto malati, che ci si percepisce normali. La patologizzazione è lo stigma di un adattamento compiuto. A definire per sommi capi l’espressione ‘regno dei mezzi’, riesce utile questa frase di Umberto Galimberti: «se il mezzo tecnico è la condizione necessaria per realizzare qualsiasi fine, che non può essere raggiunto prescindendo dal mezzo tecnico, il conseguimento del mezzo diventa il vero fine che tutto subordina a sé». U. Galimberti, Psiche e techne, cit., p. 37. Su questo tema, cfr. A. Cera, Sulla questione di una filosofia della tecnica, cit., pp. 66 sgg. e 107 sgg.
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lettera, ‘thauma-(t)ourgia’. Sta in ciò il fondamentale intento taumaturgico della tecnica, la sua paradossale aspirazione soteriologica54. E tuttavia il taumaturgo è per definizione un prestigiatore, un illusionista55. Proprio in quanto induzione, provocazione, produzione della meraviglia, la thaumaturgia è un inganno. Essa può pensare di produrre il thauma, e così di annichilirlo, soltanto previa falsificazione di esso: facendone, peraltro ai soli propri occhi, ciò che non è. In quanto pathos fondamentale, il thauma è infatti non producibile né provocabile: qualsiasi possibile provocazione è costretta ad implicarlo. Esso equivale alla reazione al cospetto di una eccedenza non solo irriducibile a qualsiasi misura umana, ma incoglibile in se stessa. La sola traccia della sua presenza è appunto lo stupefacente orrore che suscita in quell’ente particolare che è in grado di avvertirla avvertendosi, di aprirsi sull’aperto, aprendosi a se stesso, riconoscendo di esservi situato, ex-posto. L’uomo, in quanto è questa stessa ex-posizione, è essenzialmente una corrispondenza, una risposta all’appello di quell’aperto improvocabile. Se è vero, come recita il celeberrimo verso del Faust goethiano, che «im Anfang war die Tat», allora quell’atto iniziale che noi stessi siamo è una reazione, ovvero: una corrispondenza, una risposta. La corrispondenza di un autoavvertimento, di un pathos fondamentale e fondativo. Semplicemente essendoci, l’uomo ha già sempre risposto e corrisposto e con ciò è già sempre al di là di quello che la Benommenheit neoambientale pretenderebbe di ricondurre a sé, producendolo. Non si dà possibilità di rimontare al di là di questo inizio corrisposto, di provocare quell’appel54
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In questo senso, ho l’impressione che le posizioni estreme dei transumanisti abbiano il merito e l’onestà, nella loro presunta sprovvedutezza, di assumersi a pieno quei presupposti che i postumanisti, pur condividendo di fatto, cercano almeno in parte di occultare. Su tutti, quel processo di secolarizzazione integrale che sfocia nell’approccio soteriologico alla tecnica, divenuta il referente unico di quelle richieste, per al di qua, che un tempo venivano rivolte a Qualcun Altro per l’al di là. Una visione del mondo che è in tutto e per tutto una tecnodicea. Sulla questione della componente sacrale e religiosa della tecnica, si possono vedere David F. Noble, La religione della tecnologia. Divinità dell’uomo e spirito d’invenzione, tr. it. S. Volterrani, Edizioni di Comunità, Torino 2000 e Erik Davis, Techgnosis. Miti, magia e misticismo nell’era dell’informazione, tr. it. di . M. Buonomo, Ipermedium, Napoli 2001. Platone ascrive il sofista, tecnico per eccellenza, al genos ton thaumatoupoion, al «genere dei prestigiatori» (Sofista, 235b 5). Thaumatourgoi erano invece definiti nell’antica Grecia i costruttori di thaumata, le particolari macchine deputate ad intrattenere durante gli spettacoli, ‘producendo meraviglia’. Su questi temi, si veda Giuseppe Cambiano, Automaton, in Figure, macchine, sogni. Saggi sulla scienza antica, Edizioni di storia e letteratura, Roma 2006, pp. 175-196.
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lo di cui siamo irrimediabilmente la replica. Si può soltanto provare a rimuoverlo con l’inganno, illudendo se stessi, occultando, inibendola, la propria capacità di scorgerlo, ovvero di sentirlo. Non si dà perciò mondo che inghiotta la terra; invero esso può soltanto eclissarla, nasconderla ai suoi stessi occhi con un gioco di prestigio. Fare finta che non ci sia. Ingannarsi. Alla fine, nascondendo soltanto se stesso a se stesso. La thaumaturgia, il telos della techne, la sua perfezione, è un’illusione e un inganno. È l’irresponsabilità del non volersi assumere la propria risposta, la corrispondenza che si è. E tuttavia, sebbene tale, anch’essa resta, in quanto tale, una risposta per quell’appello a cui, tacitandolo, vorrebbe sottrarsi. L’uomo è un debito che non si estingue.
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FABIANA GAMBARDELLA
ANTROPOLOGIA E BIOLOGIA NELLA STAGIONE DEL POSTUMANO: NOTE A MARGINE DI PAUL ALSBERG
1. L’antropologia filosofica e lo spazio dell’enigma uomo All’interno di un testo apparso nel 1922, Das Menschheitsraetsel1, Paul Alsberg con lo sguardo rivolto alla teoria darwiniana, delinea le coordinate della sua riflessione circa l’enigma uomo, anticipando di qualche anno le riflessioni dei maggiori esponenti dell’antropologia filosofica di area tedesca. L’obiettivo degli studi che si sviluppano in questo periodo è pervenire a una definizione unitaria dell’umano che, con l’ausilio delle scienze coeve, eviti di scinderlo nelle tradizionali quanto usurate categorie oppositive di corpo-anima, natura-cultura, necessità-libertà, animalità-umanità, che ne minano l’unità psico-fisica di fondo. Nel saggio di Alsberg Animalitas e Humanitas vengono poste immediatamente a confronto facendo emergere una sostanziale differenza: «Gli animali non fabbricano strumenti, non parlano, né formulano concetti»2. Ecco che, come un’inveterata tradizione vuole, a partire dalla definizione aristotelica di uomo come Animal rationale, dei due poli è il secondo a caratterizzare l’essenza dell’umano: l’uomo è dunque animale poietico, fabbricatore di mondo, ex-sistenza che si apre un varco nella Lichtung a partire da una selce scheggiata e dal primo bersaglio centrato; il rudimentale utensile segna la nascita del mondo simbolico, l’affrancamento dall’immediatezza dello stimolo vitale, l’uscita dallo stato di stordimento, dalla Benommenheit3 animale, e la nascita del tempo, inteso come continuo rinviare, come un intrinseco indugiare, rimandando il momento della soddisfazione del bi1 2 3
Paul Alsberg, Das Menschheitsrätsel. Versuch einer prinzipiellen Lösung, Sybillen-Verlag, Dresden 1922. Abbiamo deciso di servirci dell’edizione inglese del testo di Paul Alsberg, In Quest of Man. A Biological Approach to the Problem of Man’s Place in Nature, Pergamon Press, Oxford 1970, p. 16, (la traduzione è mia). Cfr. a tal proposito Martin Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, a cura di C. Angelino, tr. it. di P. Coriando, il melangolo, Genova 1999, p. 317.
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sogno. Il cerchio ambientale4 all’interno del quale l’animale è imprigionato, caratterizzato dalla necessaria sequenza stimolo-risposta e dal presente eterno del bisogno fisiologico da soddisfare qui e ora, sembra spezzarsi nell’uomo. L’uomo sorge allora come animale dilazionante, il temporeggiatore per eccellenza, colui che sublima gli impulsi primari facendone segni e simboli: la sua fame e la sua indigenza di vivente alla mercé degli elementi naturali, producono i graffiti nelle grotte di Lascaux; l’uomo è l’unico essere capace di pronunciare un energico no nei confronti della realtà sensibile, così sosterrà Scheler nel 1928, in quel testo considerato il manifesto della nascente antropologia filosofica del Novecento: La posizione dell’uomo nel cosmo5. La parola, altro prodotto inedito dell’umano, insieme alla teoria, alla capacità di astrarre dal qui e ora della contingenza, risultano intimamente legate all’esonero determinato dall’uso dello strumento: «Lo sguardo che segue il lancio di una pietra è la prima forma di teoria. Se l’uomo è l’animale che ha un progetto, è tale perché, attraverso una competenza presto acquisita e ancorata all’organismo, ha in sé la disposizione ad anticipare i risultati dei lanci»6. È qui che probabilmente si staglia la theoria, intesa come sguardo che penetra e mette in luce e l’aletheia, la verità: vero è ciò che colpisce il bersaglio, ciò che va a segno producendo un effetto. Il vero sta dunque nella dimensione dello strumento e del progetto. Il saggio di Alsberg si apre inoltre con due domande: da dove viene l’uomo e dove sta andando; il complemento di luogo sembra evocare subito la spazialità di questo ente, la sua posizionalità, la sua corporeità inedita, sembra indicare il dramma silenzioso del suo creare spazi7. Se il tempo appare come la categoria fondante della tradizione metafisica occidentale, l’antropologia filosofica che si sviluppa in area tedesca a partire dagli anni ’20 del Novecento, sembra privilegiare la categoria dello spazio. Nel tentativo di descrivere l’uomo nella sua unitarietà biopsicofisica, l’antropologia filosofica sembra dar voce, reinterpretandola, a quella res extensa ridotta da Cartesio a bruta materia, soggetta, come il resto degli enti inanimati, alle necessarie leggi di causa-effetto. Il corpo è Leib, materia pensante e senziente e la spazialità dell’animale uomo è posta in primo 4 5 6 7
Ivi, p. 325. Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, tr. it. di G. Cusinato, Franco Angeli, Milano 2000, p. 127. Peter Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, a cura di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, p. 143. Ivi, p. 125.
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piano. Anche ne I gradi dell’organico e l’uomo, opera di Helmuth Plessner8 apparsa nel 1928, questo passaggio risulta evidente: le categorie che Plessner utilizza per identificare il vivente e dunque anche l’uomo, sono quelle di spazio, corpo-limite, posizionalità. L’estrinsecazione del vivente procede attraverso il realizzarsi costante di un limite e il corpo, che questo limite realizza, è allo stesso tempo apertura nei confronti del medium circostante, e chiusura necessaria entro la quale può svilupparsi l’identità. Tuttavia corpo e spazio assumono una connotazione affatto diversa rispetto al passato, poiché non indicano la mera estensione; come avrebbe detto più tardi Merleau-Ponty, non ineriscono a una spazialità di posizione, bensì a una spazialità di situazione9. La metafisica occidentale sembra aver sacrificato lo spazio a favore del tempo, e del resto il tempo descrive meglio l’epopea dell’umano, nella sua triplice dimensione di passato che non fu scelto e che attanaglia con l’ineluttabilità del suo così fu, di presente inteso come Krísis, possibilità, apertura e trasformazione, e di futuro come escatologia e redenzione. Il tempo è dunque orizzonte di libertà o comunque di liberazione, rispetto ai vincoli imposti dalla nostra condizione di enti finiti. Al contrario la spazialità sembra evocare l’incatenamento, il legame ineludibile e necessario al bios, alla zoé, la condizione di animalitas mai superata e mai superabile entro la quale, come corpi e come vita, siamo irrimediabilmente costretti. Il corpo e le sue leggi necessarie, sembrano ricondurci entro una dimensione di orizzontalità all’interno della quale si assottigliano le differenze tra Adamo e il resto dell’ente: nessuna escatologia, nessuno scopo, nessun progetto particolare. La stessa posizione eretta, che consente lo sguardo dall’alto, che dà vita a una verticalità fondante gerarchie, viene inglobata all’interno di una narrazione che prevede un excursus filogenetico, alla cui origine c’è l’animalitas e il suo poco nobile retaggio. Dunque la spazialità, come categoria del vincolo e della necessità, in queste nuove narrazioni sembra scalzare il tempo come escatologia. La prima domanda, che accomuna quasi tutti gli esponenti dell’antropologia filosofica, Plessner compreso, riguarda la differenza tra vivente e non vivente, organico e inorganico, dal momento che lo spazio sembra accomunare entrambe 8 9
Helmuth Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo. Introduzione all’antropologia filosofica, a cura di V. Rasini, Bollati Boringhieri, Torino 2006. «Applicata al mio corpo, la parola «qui» non indica una posizione determinata in rapporto ad altre posizioni o in rapporto a coordinate esterne […] ma l’ancoraggio del corpo attivo in un oggetto, la situazione del corpo di fronte ai suoi compiti», cfr. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 153-154.
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le classi. Vivente e non vivente presentano una duplicità d’aspetto che si realizza nella polarità interno-esterno. E tuttavia tale duplicità sarebbe mera apparenza: il vivente si caratterizza come integrità che non può essere scissa (se non in maniera euristica e ai fini della descrizione) nell’insieme delle sue parti. Un corpo che si rapporta al suo limite è sempre oltre sé10. Jürgen Habermas, nell’ambito di una riflessione sull’antropologia filosofica del Novecento, mette in rilievo la grande modernità di certe intuizioni, sottolineando in special modo l’utilizzo di un lessico inedito, che sembra effettivamente rompere con tutta una tradizione: L’antropologia si fa neutrale in un duplice riguardo: non si occupa più di principi o di sostanze, bensì di strutture. La pianta, l’animale, l’uomo si studiano in rapporto alla loro «sfera»: il campo, l’ambiente, il mondo. Essa risulta inoltre neutrale anche nei confronti del dualismo psico-fisico: la posizione eccentrica dell’uomo definisce ugualmente la sua organizzazione sia nelle zone intellettive che nelle zone vegetative, e in entrambi i casi in modo ugualmente peculiare11.
C’è in effetti una volontà tenace che accomuna, malgrado le differenze di posizioni e di esiti, gli studiosi che in questa particolare congiuntura si occupano dell’umano, la volontà di trovare parole nuove, affrancate dalle incrostazioni della tradizione filosofica occidentale; parole che non rinviino ad altro che a se stesse, mutuate possibilmente dalle scienze, meno evocative, meno suggestive probabilmente, ma anche meno ingannatrici. La parola asettica sembra far uscire la riflessione dalle sabbie mobili della metafisica, riconduce l’uomo entro il regno della natura non rinunciando tuttavia a stabilirne le peculiarità: l’uomo è ente naturale, legato ai limiti del corpo e tuttavia pronto a superarli nella costituzione di un orizzonte storico di possibilità. Nella narrazione plessneriana la categoria di spazio viene integrata da quella di posizionalità: gli enti inorganici si limitano a riempire lo spazio, il vivente, al contrario, «ha un luogo; più precisamente, a partire da sé occupa un luogo, il suo “luogo naturale” […]. I corpi viventi mantengono uno spazio, anziché limitarsi a riempirlo»12. È come se lo spazio, attraverso la categoria di posizionalità cessasse di essere muto, indifferente, per diventare progetto, identità che si consegue attraverso la metamorfosi, attraverso la processualità ininterrotta di una vita che in maniere sempre variegate tende 10 11 12
H. Plessner, cit., p.155. Jürgen Habermas, Antropologia, in Filosofia, a cura di G. Preti, Feltrinelli, Milano 1970, pp. 24-25. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 158.
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al mantenimento di sé. La posizionalità è intrinsecamente legata alla processualità, alla dialettica essere-divenire, per la quale un vivente resta se stesso mutando: «Il corpo colto nel processo, ha come risultato se stesso»13. Bisogna però evitare l’antropomorfismo quando si parla di progetto: siamo abituati ad attribuire all’uomo, coi suoi correlati di ipseità, autocoscienza, linguaggio, la dimensione del progetto. Per gli esponenti dell’antropologia filosofica è la vita, in ogni sua declinazione, che ha inscritta in sé la dimensione del progetto, una sorta di dover essere che continuamente la spinge oltre il suo limite, mantenendola tuttavia in sé: «Il passaggio dall’estensione all’interiorità, dal mondo dell’essere al mondo dell’avere non si dà solo nell’uomo, per il fatto che egli si considera filosoficamente ed esplora se stesso, bensì ovunque si faccia incontro la vita»14. È proprio attraverso la categoria di posizionalità che è possibile segnare il discrimine animale-uomo: la posizionalità del primo viene definita centrica, l’animale, direbbe Heidegger, ha e non ha mondo, nel senso che la sua relazione con esso, è relazione con un disinibitore. Il mondo gli si manifesta solo in quanto stimola la sua reazione e lo mette in moto15. Esiste dunque tra l’animale e il medium con cui entra in contatto una relazione frontale, che tuttavia non diviene mai per l’animale oggetto di osservazione: «Tutto ciò che gli è dato, il medium e il proprio insieme corporeo […] si trova in relazione al qui e ora. Nel suo essere è assorbito nel qui e ora senza che ciò gli si oggettivi poiché non se ne differenzia […] c’è un semplice vivere»16. L’animale dunque, è zoé, pura vita che intende perpetuare se stessa, l’animale non ex-siste, non ha accesso alla radura, la sua vita, come mero perpetuarsi di una costanza, non si storicizza, ma permane entro il ciclo muto e indifferente della natura ignara di sé: «L’animale esiste a partire dal suo centro, vive nel suo centro, ma non vive come centro»17. L’esistenza dell’uomo al contrario: È in grado di distanziarsi da se stessa, di spalancare un abisso tra sé e le proprie esperienze vissute. Allora si trova al di qua e al di là dell’abisso, vincolata al corpo, vincolata all’anima, e insieme in nessun posto, priva di luogo, al di fuori di ogni legame con lo spazio e con il tempo: perciò è essere umano18.
13 14 15 16 17 18
Ivi, p. 167. Ivi, p. 186. M. Heidegger, Concetti fondamentali della metafisica, cit., p. 325. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 263. Ivi, p. 312. Ivi, p. 315.
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L’eccentricità della sua posizione rende l’uomo animale malato. Tuttavia tale narrazione sembra omettere un passaggio fondamentale, che riguarda la storia dell’antropomorfizzazione, ovvero il passaggio dall’hominitas all’humanitas. Plessner, ma anche Scheler, paiono rimuovere completamente il racconto darwiniano, che ha rappresentato non solo una definitiva frattura epistemologica rispetto al passato, ma anche e soprattutto un dato scientifico acquisito. Il tentativo di naturalizzazione dell’uomo operato da alcuni esponenti dell’antropologia filosofica sembra perciò restare sospeso. 2. Adattamento corporeo ed extra-corporeo. L’uomo animale carente? Paul Alsberg al contrario sembra volersi confrontare direttamente con la riflessione di Darwin, scandagliando la genealogia dell’umano e cioè il processo di antropomorfizzazione. Tuttavia contesta fin da subito a Darwin la teoria relativa alla differenza di grado e non di specie fra uomo e animale. Alsberg critica la visione secondo cui l’evoluzione rappresenti uno sviluppo graduale e lineare dall’animale all’uomo. Non nega in generale la teoria evoluzionistica: Non si tratta di capire se ci sia stata una continuità nel passaggio da uno stadio all’altro, ma piuttosto se all’interno di questo processo ininterrotto l’evoluzione umana sia effettivamente avanzata lungo la vecchia linea animale – vale a dire se sia stato l’Animale ad evolversi in Uomo, innalzando quest’ultimo entro uno stadio più alto di sviluppo dell’esistenza animale – oppure se l’evoluzione umana abbia assunto un proprio corso indipendente, diverso dalla linea animale, che ha separato definitivamente l’uomo dal suo progenitore19.
Alsberg si contrappone sia alla teoria evoluzionistica – che non spiegherebbe il fatto inedito della civilizzazione e la conseguente netta distinzione che essa apporta tra uomo e animale – sia alla visione del salto ontologico, che prescrive l’unicità dell’uomo, senza tuttavia guardare al processo evolutivo che a questa unicità conduce. Quest’ultima visione difatti parte dall’uomo civilizzato ma rifiuta di analizzarne la genealogia. Ecco perché secondo l’autore entrambe le teorie risultano manchevoli nello sforzo di delineare la relazione tra Humanitas e Animalitas. Una corretta disamina deve allora fare i conti per un verso con l’evoluzione, intesa come discendenza e affiliazione
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P. Alsberg, In Quest of Man, cit., p. 18.
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al progenitore animale, e per l’altro con la civilizzazione, interpretata al contrario come momento fondamentale di separazione. Il compito si presenta perciò estremamente arduo e per congiungere e disgiungere questi momenti Alsberg si serve della nozione di adattamento, nozione che segna l’antico legame con l’animalitas e allo stesso tempo il momento della separazione. Nell’animale infatti l’adattamento all’ambiente è sempre adattamento corporeo: questo vivente tende a sviluppare una serie di caratteristiche organiche che gli consentano la sopravvivenza nell’ambiente, il suo adattamento segue dunque lo schema della body compulsion, intesa come costrizione, legame imprescindibile ai limiti corporei. L’uomo al contrario si presenta nudo, nudo come una rana, afferma Alsberg, sebbene la rana, continua l’autore, non sia in realtà affatto nuda, poiché il suo equipaggiamento corporeo è perfettamente efficace rispetto al suo ambiente20. L’uomo invece non può vantare una dentatura adeguata, né artigli, né nessunʼaltra arma corporea che gli consenta di proteggersi in maniera efficace dai nemici […] perciò, completamente carente di ogni equipaggiamento adattivo, su cui l’animale al contrario può contare nella sua lotta per l’esistenza, l’uomo appare nella sua evoluzione come una singolare eccezione rispetto all’universale schema della costrizione corporea (body compulsion)21.
L’adattamento dell’uomo all’ambiente si presenta come una forma di adattamento extra-corporeo. Sembra non esserci nulla di inedito in questa narrazione: un’intera tradizione che risale allo Herder del Saggio sull’origine del linguaggio22, ripresa anche da un altro esponente dell’antropologia filosofica, Arnold Gehlen, definisce l’uomo come animale carente23, manchevole rispetto agli altri animali, di quell’equipaggiamento istintuale e biologico che consente ai viventi di sopravvivere in un ambiente ostile. Questo postulato parrebbe confermare la nobile narrazione della mirabolante epopea dell’umano: «Pressoché solo in tutto il creato, a nulla legato eppure disponibile a tutto, da nulla protetto e men che mai da se stesso, l’uomo è destinato a soccombere ovvero a dominare su tutto […] è destina20 21 22 23
Ivi, p. 31. Ibidem. Johann Gottfried Herder, Saggio sull’origine del linguaggio, tr. it. di A. P. Amicone, Pratiche Editrice, Parma 1995. Nel Saggio sull’origine del linguaggio, Herder si esprime così in relazione all’uomo: «A considerarlo come animale nudo e privo di istinti, l’uomo è la più misera delle creature […] esposto a una morte dai mille volti», ivi, p. 111.
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to a prendere lucidamente possesso di tutto ovvero a perire. Che tu sia nulla o il re del creato, in virtù dell’intelletto!»24. Le parole di Herder ricalcano in maniera fedele quelle di Pico della Mirandola, riproducendone dunque fedelmente l’antropocentrismo di matrice umanistica, la solitudine ontologica di un ente che si staglia contro una natura che racchiude altre specie in leggi inviolabili e stabilite una volta per tutte. L’uomo, al contrario, che non soggiace ad alcun limite, può scegliere di sprofondare nel cupo regno della ferinitas o di elevarsi nella luce di una piena humanitas. E ancora Herder: «Mai, per così dire, l’uomo è compiuto, ma sempre in corso di sviluppo, di progresso, di perfezionamento […]. Noi, per quanto vecchi possiamo essere, stiamo sempre uscendo da un’infanzia, siamo sempre in cammino […] laddove l’ape è ape già quando costruisce la sua prima cella»25. L’uomo allora è colui che si affranca dalle maglie dell’essere per delinearsi attorno a un costante dover-essere che è intrinseco trascendimento della propria condizione originaria. Quando Gehlen, nel 1940 scrive L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, riprende, confortandolo con le acquisizioni delle scienze a lui coeve, il postulato herderiano. Nel tentativo di affrancarsi dalle petizioni ancora metafisiche dell’antropologia della persona di Scheler, prova a reperire una categoria, per così dire neutrale, attraverso cui analizzare l’uomo; la trova nel concetto di azione, un concetto psico-fisicamente neutro, col quale sembra possibile superare il tradizionale dualismo di matrice cartesiana, poiché: «nel corso dell’esecuzione di un’azione non è dato assolutamente nulla di una differenziazione o distinzione tra interno e esterno, tra psichico e fisico e al massimo è la successiva riflessione, proprio a partire da uno stato non più attivo che può dividere le fasi interiori della riflessione, decisione ecc., dall’azione esterna vera e propria»26. L’uomo, animale difettoso, attraverso l’azione genera cultura. Essa diviene una seconda natura che lo riscatta dalla sua condizione originaria di precarietà, facendogli addirittura acquisire in seguito il primato sugli enti27. 24 25 26 27
Ivi, pp. 118-119. Ivi, p. 115. Arnold Gehlen, Per la sistematica dell’antropologia, in Antropologia filosofica e teoria dell’azione, a cura di E. Mazzarella, tr. it. di G. Auletta, Guida, Napoli 1990, p. 105. Per Gehlen la peculiarità dell’uomo «consiste in una generale deficienza di organi ad alta specializzazione, cioè specificamente adattati a un ambiente […]. La deficienza organica e le peculiarità organiche dell’uomo vanno perciò considerate alla luce dell’idea cardine della “non specializzazione”, esse costituiscono, in termini positivi, dei primitivismi». Cfr. A. Gehlen, L’uomo. La sua natura e il suo
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Quando Paul Alsberg, riflettendo sul processo di antropomorfizzazione, descrive l’adattamento dell’uomo come liberazione dai limiti corporei, sembra ricalcare la teoria dell’animale carente e tuttavia a un certo punto della sua narrazione, effettua una deviazione rispetto alla teoria herderiana: tale nudità di certo può dare l’impressione di una condizione affatto innaturale28, e riesce difficile immaginare un altro animale così completamente manchevole di equipaggiamenti vitali adattivi. Così alla mercé della natura infatti, non avrebbe alcuna chance di sopravvivere29. È già a partire da queste affermazioni che l’antropologia di Alsberg delinea il suo percorso inedito rispetto alla teoria dell’animale carente, e soprattutto riflette su un aspetto a tutta prima banale, su cui però altri esponenti dell’antropologia filosofica successiva, non si sono soffermati: se accettiamo la teoria dell’evoluzione e dell’adattamento dei viventi al loro ambiente naturale nell’ambito della struggle for life, è ovvio che un animale carente dal punto di vista biologico, non presenta alcuna chance di poter sopravvivere all’interno di un ambiente ostile, cioè non può assolutamente competere con altre forme di vita dotate di un equipaggiamento migliore. Alsberg su questo punto è chiaro, in tali condizioni gli antropoidi precursori non solo non sarebbero sopravvissuti, ma non avrebbero neppure potuto evolversi in uomini. L’antropologia herderiana, e in seguito quella gehleniana, ci conducono al contrario serenamente verso un’aporia insanabile, addirittura un paradosso: l’uomo è manchevole, ipodotato degli strumenti necessari alla sopravvivenza, e tuttavia riesce non solo a sopravvivere (e già questo risulta inspiegato), ma addirittura, attraverso la produzione della stampella culturale, a divenire artefice di un riscatto che lo conduce al di sopra del resto dei viventi. In altre parole, questo schema antropologico prevede un prodigio che non ha nessun
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posto nel mondo, a cura di V. Rasini, tr. it. di C. Mainoldi, Mimesis, Milano 2010, p. 127. La questione dell’uomo come ente in bilico tra la dimensione della natura e quella dell’innaturale o artificiale costituisce un altro topos nell’ambito dell’antropologia filosofica del Novecento. Helmuth Plessner descrive le tre leggi dell’umano, della quali la prima è definita dell’artificialità naturale: ente incompiuto, l’uomo deve diventare ciò che è, per farlo, per redimere in qualche modo il disequilibrio provocato dalla sua posizionalità eccentrica, «ha bisogno di un completamento innaturale, di un genere non naturale. Perciò, in ragione della sua forma d’esistenza, egli è per natura artificiale». Cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 334. P. Alsberg, In Quest of Man, cit., p. 31.
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riscontro, non solo dal punto di vista della prova scientifica, ma anche dal punto di vista della semplice logica. Eppure anche Alsberg interpreta la nudità dell’uomo come manchevolezza. L’attuale condizione innaturale e carente dell’uomo spinge però l’autore a un’unica conclusione e cioè che: «l’adattamento vitale ancora posseduto dal suo animale precursore, deve essere stato perduto nel corso dell’evoluzione»30. L’ipotesi che Alsberg propone è la seguente: è probabile che questi primevi siano stati esentati per un certo periodo dalla lotta per l’esistenza, vivendo in un luogo in cui la pressione selettiva non era molto forte, probabilmente un luogo privo di predatori feroci; perciò essi non hanno necessitato di particolari strategie difensive. Tale habitat protetto, in cui la vita ha avuto modo di svilupparsi nella coesistenza pacifica, ha gradualmente ma inesorabilmente disintegrato le protezioni naturali di questo animale, facendone regredire l’antica morfologia, e determinando invece il lussureggiare di facoltà mentali non direttamente legate allo sforzo per la sopravvivenza. È ovvio che tale fortunosa casualità abbia avuto una durata limitata nel tempo, e tuttavia, allorquando si sono riproposte situazioni pericolose per la sopravvivenza dell’ominide, il suo cervello si è evoluto abbastanza da sopperire alle lacune fisiche attraverso l’uso degli strumenti. L’evoluzione umana si configura dunque come evoluzione extra-corporea, come affrancamento dai limiti corporei e l’adattamento da somatico diventa tecnico. Questa ipotesi è di grande rilievo e viene ripresa da Peter Sloterdijk nel saggio La domesticazione dell’essere, in cui l’autore sostiene che il processo di ominazione sia stato possibile grazie ad alcuni meccanismi fondamentali: l’insulazione, la liberazione dai limiti corporei, la neotenia. Riprendendo Hugh Miller, Sloterdijk descrive l’insulazione come il processo per il quale «gli esemplari che vivono preferenzialmente ai margini delle comunità producono […] l’effetto di una parete vivente, al cui lato interno si crea un vantaggio climatico per gli individui del gruppo che abitualmente soggiornano al centro»31. Tale vantaggio climatico favorirebbe in particolar modo i cuccioli e approfondirebbe il legame madre-piccolo. Si tratta per l’appunto di una condizione abitativa lussureggiante nella quale diminuisce la pressione selettiva ed è favorito lo sviluppo di funzionalità non direttamente legate alla sopravvivenza. È in questo spazio protetto che risulta possibile la liberazione dei limiti corporei e la creazione degli strumenti.
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Ibidem. P. Sloterdijk, La domesticazione dell’essere, cit., pp. 139-140.
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Ritornando allora alla questione della manchevolezza il dato di fatto che emerge è il seguente: per il teorema herderiano e gehleniano, l’uomo si presenta ab origine manchevole, carente dei necessari prerequisiti adattivi; la manchevolezza è il dato originario, il marchio di riconoscimento di questo inedito vivente. Essa viene compensata, superata e addirittura riscattata attraverso le protesi culturali, l’uso degli strumenti e la nascita del mondo simbolico. Per Alsberg al contrario la difettività dell’uomo lungi dall’essere il fatto originario, costituisce la conseguenza di un determinato percorso evolutivo: l’animale uomo non nasce manchevole, lo diventa dacché il caso lo mette di fronte a una diminuita pressione selettiva e a un particolare habitat che consente di far a meno di certe armi naturali; in tale dimensione è stato possibile il lussureggiare di una certa morfologia a discapito di altre. Perciò nel caso di Alsberg il termine manchevolezza sembra perdere di senso: l’ominide che, in una situazione di minore pressione selettiva, comincia a specializzare il sistema nervoso, ridondante rispetto a quello degli altri animali, non è affatto manchevole dal punto di vista dell’equipaggiamento organico. È bizzarro che si consideri la specializzazione di alcuni organi, come ad esempio le zanne o le ali, la prova di un efficace corredo fisico, e che al contrario non si valuti la complessità dell’organo cerebrale come un’efficacissima forma di adattamento organico. Uno strano sortilegio sembra avvolgere in questo caso le scienze: si tratta della formula magica dell’indimenticato Cartesio, della sua partizione res extensa-res cogitans, che incasella tutti gli organi all’interno della materia, tranne il cervello innalzato nell’ambito delle cose incorporee: cervello allora diventa sinonimo di anima, essenza non soggetta all’evoluzione e alle leggi che regolano il resto dell’ente. Ancora, a proposito di specializzazioni corporee, Alsberg sottolinea come a un generale regredire di alcuni organi consegua una specializzazione di altri, nella fattispecie di quelli direttamente impegnati nella costruzione degli utensili. La mano allora diviene l’organo degli organi e pur derivando dalle mani rampicanti delle scimmie, «la sua maggiore ampiezza, le sue dimensioni contenute, e soprattutto la singolarità del pollice opponibile e ben sviluppato, rappresentano segni inequivocabili di un progressivo sviluppo in direzione dell’uso dello strumento»32. Eppure, come il cervello, anche la mano sembra appartenere a una sfera diversa dal meramente corporeo, organo sì, ma quasi sospeso, di una fattura diversa rispetto alle zanne, alle ali, alla pelliccia: mano e cervello si sta32
P. Alsberg, In Quest of Man, cit., p. 40.
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gliano come organi del trascendimento, ci parlano di natura e tuttavia le sfuggono, conducendo l’uomo entro un altro regno: L’uomo stesso «agisce» con la mano, giacché la mano è con la parola il contrassegno essenziale dell’uomo. Soltanto l’ente che, come l’uomo, «ha» la parola (mythos; logos), può e deve «avere» anche la «mano». Per mezzo della mano avvengono al tempo stesso la preghiera e l’assassinio, il saluto e il ringraziamento, il giuramento e il cenno, ma anche l’«opera» della mano, il «manufatto» e l’utensile. La stretta di mano fonda il patto vincolante […]. Nessun animale ha una mano, e mai da una zampa, uno zoccolo o un artiglio può nascere una mano […]. Non è l’uomo che «ha» le mani, è invece la mano che custodisce in sé l’essenza dell’uomo33.
Per certi versi lo stesso Alsberg sembra essere vittima di Cartesio e del suo dualismo quando ci parla di adattamento extra-corporeo: certo Alsberg si riferisce allo sviluppo dell’utensile e all’inedito schema adattivo dell’uomo che procede attraverso la tecnica più che attraverso il corpo. Eppure forse non sottolinea abbastanza che l’utensile è il prodotto dell’ipertrofia del cervello e cioè di un organo particolarmente specializzato, che determina l’uomo così come lo conosciamo. Ciò che tuttavia dà ragione ad Alsberg è l’aver sottolineato che nel caso dell’animale l’adattamento sia unicamente corporeo, laddove invece nell’uomo la ridondanza del cervello conduce alla creazione degli strumenti intesi come inedite strategie adattive. Helmuth Plessner centra bene il problema quando sostiene che il corredo fisico dell’uomo «non è inferiore in alcun modo ad altri innumerevoli tipi di corredo, ed è superiore a mille altri»34. Anche per Plessner la carenza non è un prius, bensì un effetto della posizionalità eccentrica e costituisce la fonte della perenne creatività e libertà dell’umano. La cultura in Plessner gioca un ruolo totalmente diverso rispetto a Gehlen: lungi dall’essere stampella che stabilizza e compensa la debolezza dell’animale precario, essa è continua fonte di disequilibrio, tende a precarizzare costantemente l’uomo, lo rende instabile e manchevole, un essere che trascende continuamente se stesso, in 33 34
M. Heidegger, Parmenide, a cura di F. Volpi, tr. it. di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2005, p. 156. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 341. La biologia contemporanea, tende in effetti a definire l’uomo piuttosto che come animale carente, come animale ridondante, caratterizzato da maggiore plasticità rispetto alle altre specie. A tale proposito si cfr. Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2005, in particolare si cfr. il capitolo Il paradigma dell’incompletezza, pp. 9-42.
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un percorso che non prevede una meta definita35. Tuttavia in Plessner manca la genealogia, cioè un’ipotesi circa lo sviluppo da parte dell’uomo di questa particolare posizionalità. 3. Sul limite L’utensile segna la nascita della civiltà, l’inizio del mondo simbolico e Alsberg interpreta in maniera inedita la sua funzione: descritto da sempre come protesi, prolungamento dell’organo che ne potenzia le prestazioni di per sé difettive, l’antropologo lo definisce invece come oggetto dell’esonero. Lungi dal rafforzare l’organo, lo indebolisce, fino a determinarne la totale atrofia e inutilità. Lo strumento sostituisce definitivamente l’organo e conduce l’uomo «a conquiste che si pongono totalmente fuori dai limiti animali e che lo conducono a una serie inedita di scelte circa l’ambiente e la condotta, a un cambiamento rivoluzionario nello stile comportamentale che, in ultima analisi conferisce all’uomo la signoria sulla terra»36. Sono quindi l’utensile, la tecnica, la cultura, a determinare la difettività fisica dell’umano, attraverso il graduale ma definitivo esonero del corpo dalla lotta per l’esistenza37. Ciò dà vita a una linea di sviluppo del tutto inedita per l’uomo, che spezza definitivamente le catene del suo retaggio animale: «Una volta emerso il fenomeno della civilizzazione, una differente linea è tracciata rispetto e contro l’animale»38. 35
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La terza legge antropologica che Plessner descrive, è infatti quella della posizione utopica: «Gli uomini ottengono in ogni epoca ciò che vogliono. E mentre l’ottengono, l’uomo invisibile che è in loro si è già spostato oltre. Il suo costitutivo sradicamento attesta la realtà della storia universale». I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 363. Ivi, p. 38. E in effetti i nuovi modelli epistemologici forniti dalla biologia contemporanea sembrano confermare alcune delle ipotesi fornite da Alsberg; prima fra tutte: l’uomo non è animale carente ma ridondante, caratterizzato da un’«eccellenza biologica che gli permette di realizzare quel complesso epigenetico che chiamiamo cultura», tale eccellenza come messo in evidenza da Alsberg risiede nello sviluppo inedito del cervello e nella sua plasticità; in secondo luogo, la cultura lungi dall’essere stampella compensativa dell’organo diviene elemento che determina l’incompletezza: «non esiste un’intrinseca nudità che crea il bisogno della prestazione esterna […] Vale il processo inverso: ogni acquisizione culturale determina un equivalente di incompletezza». Cfr. R. Marchesini, Post-human, cit., p. 14 e p. 25. P. Alsberg, In Quest of Man, cit., p. 19.
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Alsberg utilizza la parola against; l’uomo procede nel suo percorso evolutivo tracciando un confine netto che si dispiega contro l’animale. Il contro palesa subito un ostilità di fondo, un’inimicizia, un cattivo passato da estromettere e possibilmente rimuovere, una parentela scomoda: l’uomo nel suo farsi relega nei bassifondi di una nascente anima cristallina l’oscura cosa all’origine e al fondo di sé. Le parole non sono mai innocenti: l’adattamento dell’animale segue la logica della body compulsion, definizione apparentemente neutra che a un’analisi più attenta evoca subito i fasti della tradizione umanistica: la necessità avvolge l’animale, caratterizzato dalla costrizione a un corpo e alle sue leggi inderogabili che rappresentano la sua prigione ontologica. La body compulsion segnala immediatamente l’impossibilità di trascendimento. Perciò la nudità dell’uomo di cui Alsberg parla è il contrario dell’indigenza, il contrario della costrizione, stabilisce non solo la sua appartenenza a un regno superiore nella gerarchia degli enti, ma addirittura uno iato incolmabile tra l’uomo e l’animale39. Derrida declina in maniera inedita la nudità dell’uomo e lo fa a partire da un confronto diretto con l’animale: «E niente mi ha mai fatto pensare tanto all’alterità assoluta del vicino o del prossimo, quanto i momenti in cui mi vedo visto nudo sotto lo sguardo di un gatto»40. La nudità dell’uomo in questo caso è a tutti gli effetti indigenza, manchevolezza. La bestia, come vuole anche Alsberg, fa a meno della nudità, non è mai nuda, e non solo perché, come ritiene l’antropologo, è in effetti ben equipaggiata, ma soprattutto perché, afferma Derrida, l’animale non conosce la nudità come vergogna davanti allo sguardo impassibile dell’altro. In questa dialettica fra me e l’animale, è l’animale, reificato e indotto al mutismo da un’intera tradizione, che reifica e cosalizza me sotto il suo sguardo imperturbabile. Ciò che lo sguardo del gatto fa, è ricondurmi a una posizione antecedente la grande narrazione della mia signoria sugli enti: vivente tra gli altri scopro, attraverso lo sguardo indifferente dell’animale, 39
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Anche Plessner affronta il problema della nudità dell’uomo, che diviene foriera di cultura: la posizionalità dell’uomo gli fa perdere l’innocenza originaria, è caduta, peccato, l’uomo soffre della naturalezza perduta; per gli animali è diverso:«essi esistono direttamente, senza sapere di se stessi e delle cose, non vedono la loro nudità, e tuttavia il padre celeste li nutre. L’uomo invece perde, con il sapere, la propria immediatezza, egli vede la sua nudità, se ne vergogna, e deve quindi vivere per vie traverse, su cose artificiali». Cfr. H. Plessner, I gradi dell’organico e l’uomo, cit., p. 333. Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, tr. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, p. 47.
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l’animalitas che è in me, scopro la vita che sono, continuamente esposta alla morte. Lo sguardo dell’animale disvela dunque il limite abissale dell’umano: «l’inumano o l’anumano, le fini dell’uomo, cioè il passaggio delle frontiere oltre il quale l’uomo osa annunciarsi a se stesso, chiamandosi così con il nome che crede di darsi. E in questi momenti di nudità, sotto lo sguardo dell’animale, tutto può succedermi, sono come un bambino pronto per l’apocalisse»41. Definendo l’adattamento dell’uomo come adattamento extra-corporeo Alsberg perviene a un ottimo compromesso: per un verso salva Darwin e l’evoluzione, considerando l’uomo come un prodotto della filogenesi, legato dunque al suo precursore animale, per l’altro ne lascia intatta la sua speciale dimensione: l’uomo non è animalitas perché si affranca dai limiti che essa impone, il suo sviluppo va in direzione della tecnica e quindi lo conduce a una condotta inedita rispetto agli altri viventi. Alsberg segnala dunque questa limitrofia: l’umano costruisce e scopre se stesso a partire da tale limitrofia, da una relazione di riconoscimento-misconosciento dell’animale che è in lui. Ed è proprio a partire dal limite che può svilupparsi la differenza. È quanto sostenuto da Derrida: «Non si tratta di contestare […] il limite tra l’Uomo con la U maiuscola e l’Animale con la A maiuscola […]. Io dunque non ho mai creduto a nessun tipo di continuità omogenea tra ciò che si chiama uomo e ciò che questi chiama animale»42; il punto secondo Derrida è che il bordo multiplo della differenza e della rottura fra uomo e animale ha una storia, che non è affatto chiusa e stabilita una volta per tutte, una storia ancora in fieri che diventa fondamentale scandagliare nell’era dell’ingegneria genetica e delle tecniche di manipolazione applicate al vivente uomo. 4. Epistemologie a confronto nell’epoca del design genetico Ciò che distingue Alsberg dai maggiori esponenti dell’antropologia filosofica coeva è l’attenzione, assolutamente non scontata, verso il processo di antropomorfizzazione: prima di diventare il pastore dell’essere, il preumano ha dovuto passare attraverso le difficili tappe dell’ominazione, lottare per sopravvivere, stare esposto e in balia. L’uomo è perciò a tutti gli effetti un prodotto. Nulla di originario, di essenziale, di incontaminato, esiste in lui. Questo mirabolante prodotto dell’evoluzione si costituisce sin dall’i41 42
Ivi, p. 49. Ivi, p. 68 e p. 69.
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nizio come un ibrido, e cioè nel meticciamento e nella commistione con l’altro da sé, in prima istanza con quella teriosfera, rimossa prontamente dal suo orizzonte ontologico una volta raggiunto il dominio sull’ente, stabilito il suo domicilio nella casa del linguaggio, e iniziata la sua carriera di animale autobiografico. Il processo di antropomorfizzazione è rifiutato da Scheler, per il quale l’uomo non è il prodotto dell’evoluzione ma si configura come un’assoluta rivoluzione nell’ambito del vivente, poiché ne trascende integralmente le istanze43; è omesso da Plessner, che non spiega come, perché e quando si sviluppa l’inedita struttura posizionale che ci sostanzia; è frainteso da Gehlen, che pur cercando di delineare il processo di ominazione, rimane imbrigliato nella contraddizione di un ente incapace di fronteggiare la lotta per l’esistenza, che nondimeno acquisisce la supremazia sugli altri gradi dell’organico. Non si tratta di stabilire oziose differenze: esse diventano essenziali quando una tecnica in grado di forgiare la vita sin nelle sue radici più profonde, rende necessario comprendere cosa sia lecito fare e cosa sia necessario omettere. È ovvio che le risposte risulteranno diverse in base ai paradigmi epistemologici che decidiamo di adottare. Se, con l’ausilio delle scienze stabiliamo che l’uomo è un prodotto, e che dalla prima pietra scheggiata si è costituito accogliendo l’altro da sé, inglobandolo nella sua stessa carne, allora possiamo guardare con maggiore serenità alle nuove possibilità ibridative offerte dalla tecnica. In fondo non accade nulla di nuovo, cambiano le strategie, i mezzi e gli artefatti, intatta è la dinamica che prevede un’evoluzione caratterizzata dall’accoppiamento strutturale44 con l’alterità. La parola postumano utilizzata per descrivere l’attuale posizione dell’anthropos, scatena diffidenze e pregiudizi. Come se la parola evocasse subito la pericolosa deriva di una fine dell’umano, uno scenario foscamente fantascientifico nel quale l’uomo così come lo conosciamo viene so-
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A tal proposito risulta pregnante il commento di G. Cusinato, all’interno della sua introduzione a La posizione dell’uomo nel cosmo, in cui afferma che per Scheler: «l’uomo non è il frutto di unʼe-voluzione o di una in-voluzione della vita quanto piuttosto l’espressione di una ri-voluzione cosmica in cui compare una nuova classe essenziale: la sfera personale». Introduzione a La posizione dell’uomo nel cosmo, cit., p. 33. Per l’uso di questa categoria cfr. Humberto Maturana e Francisco Varela, Autopoiesi e cognizione. La realizzazione del vivente, tr. it. di A. Stragapede, Marsilio, Venezia 1985.
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stituito da un qualche esemplare macchinico, o peggio ancora viene manipolato geneticamente determinando una qualche specie di monstrum. Nell’epoca del crepuscolo degli idoli, della frantumazione del soggetto e di una tecnica totalmente dispiegata che sembra rendersi autonoma da coloro che la pongono in essere, assumendo i connotati di un novello e inquietante demiurgo, l’interpretazione dell’umano si complica enormemente. Derrida riflette proprio sulla difficoltà di intendere l’umano al di là della tradizionale dialettica della verità tipicamente umanistica. In Fini dell’uomo, si esprime così: «Ciò che oggi è difficile da pensare, è che si dia fine dell’uomo senza l’organizzazione di una dialettica della verità e della negatività, fine dell’uomo che non sia una teleologia alla prima persona plurale»45. È vero, la tecnica genera il mostruoso, inteso come prodigio, evento imprevisto, che come tale è perturbante per la nostra coscienza perennemente in cerca di rassicurazioni. Del resto l’uomo in quanto prodotto, continua a fabbricare se stesso: l’antropo-poiesi è infinito morfismo, produzione costante dell’umano che non si dà mai una volta per tutte, è un processo costantemente ibridativo, che lungi dal separare l’uomo dal resto dell’ente, aumenta il peso ontologico delle alterità non umane che con l’uomo si mescolano. L’umanizzazione procede tuttora attraverso un «processo di assunzione di qualità non umane»46. Alsberg ci insegna in fondo che dal lancio di una pietra il mostruoso abita l’uomo, e che la tecnica, declinata oggi nei termini di ingegneria genetica, costituisce il sublime simbolico che l’uomo decide di dare a se stesso in questo tempo.
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J. Derrida, Fini dell’uomo, in Margini della filosofia, tr. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, p. 167. Roberto Marchesini e Sabrina Tonutti, Manuale di zooantropologia, Meltemi, Roma 2007, p. 96.
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GIANLUCA GIANNINI
L’ANTROPO-LÒGO CHE ANCORA SONO Chi consegue nuovo successo in tempi di grande lusso ecco che spinto dalla speranza vola sulle ali del suo valore con ambizione più alta della ricchezza. In breve tempo lievita l’umana gioia, ma in breve tempo cade a terra se contraria intenzione la scuote. Effimeri! Cosa siamo? Cosa non siamo. Sogno di un’ombra l’uomo. Ma quando, dono degli dèi, appare un bagliore, vivida luce si spande sugli uomini, e dolce la vita. Pindaro Pitiche, VIII
Nella Prefazione ad un’opera fino a un certo punto tarda, ovvero Antropologia dal punto di vista pragmatico, Immanuel Kant, nel mentre dei preliminari della costruzione del suo ragionamento, ha avuto modo di annotare che: una dottrina della conoscenza dell’essere umano, trattata sistematicamente (antropologia), può dirsi tale o da un punto di vista fisiologico o da un punto di vista pragmatico. – La conoscenza fisiologica dell’uomo ha di mira l’indagine di ciò che la natura fa di lui, mentre quella pragmatica mira a indagare ciò che egli, in quanto essere che agisce liberamente, fa ovvero può e deve fare di se stesso. – Chi si arrovella nell’indagine delle cause naturali sulle quali ad esempio può basarsi la facoltà della memoria rischia di andar cavillando (al modo di Cartesio) sulle tracce delle impressioni lasciate dalle sensazioni e sulla loro persistenza nel cervello; dovrà tuttavia ammettere che in questo gioco delle sue rappresentazioni egli è meramente spettatore, e dovrà lasciar fare alla natura, dato che non conosce i nervi e le fibre cerebrali, né è in grado di manipolarli in vista delle proprie intenzioni; per cui ogni sottigliezza teoretica in proposito è un’operazione puramente in perdita. – – Se però quanto si è scoperto danneggiare o giovare alla memoria è utilizzato dal naturalista per renderla più ampia o più efficiente, servendosi a tal fine della conoscenza dell’essere umano, tutto ciò può costituire allora una parte dell’antropologia dal punto di vista pragmatico1.
Sorvolando sulla specifica funzionalità di questa cosiddetta ‘antropologia pragmatica’, in qualche modo forzosamente e tensionalmente pre-di1
Immanuel Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, tr. it. di M. Bertani e G. Garelli, Einaudi, Torino 2010, pp. 99-100.
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sposta a un effettivo totocentrato per l’umano quale prefigurazione di tangibile servizio/beneficio – ma tema, comunque, per il quale non sarà possibile non transitare, in maniera sicuramente multi-significativa e significante, nel prosieguo –, una prima osservazione inerisce quel che in apertura si è indicato come «opera fino a un certo punto tarda». Perché fino a un certo punto? E, soprattutto, la sua tardività esplicita e/o denuncia, in determinata forma, di una stravaganza senile, di una qualche sorta di testamentalità o, finanche, di un riannodare fila in ragione di pregresse dimenticanze? Il chiarimento più esaustivo, con tutta probabilità, riposa tra le righe delle argomentate considerazioni che Michel Foucault ha anteposto alla sua Introduzione proprio all’Antropologia kantiana, in cui è appunto osservato che: una nota dell’Antropologia indica che, prima di essere redatto, il testo era stato enunciato nel corso di circa trent’anni; gli erano state dedicate le lezioni del semestre invernale, mentre quelle del periodo estivo dovevano essere riservate alla geografia fisica. In realtà, la cifra indicata non è esatta: Kant aveva iniziato il suo insegnamento di geografia a partire dal 1756, mentre i corsi di Antropologia probabilmente erano stati inaugurati solo durante l’inverno 1772-17732.
Ora, quindi, di là dalle inesattezze di catalogazione temporale cui avrebbe accennato, sviando, lo stesso Kant, per cui: nella mia attività di insegnamento di filosofia pura [...] ho tenuto per circa trent’anni due corsi di lezioni miranti alla conoscenza del mondo: vale a dire, di antropologia (nel semestre invernale), e di geografia fisica (nel semestre estivo); [...] il primo di questi corsi costituisce il contenuto del presente manuale3,
è forse più significativo sottolineare il dato, solo in apparenza banale e scontato, che il lavorîo su e attorno ad una dottrina della conoscenza dell’essere umano, in qualche modo trattata sistematicamente, quale tassello decisivo in vista di una ‘conoscenza del mondo’, è quel che ha letteralmente fermentato per quasi un trentennio di costruentesi riflessione e studio. Tutt’altro, quindi, dall’aspirazione senile e dal necessario e cupo conclusivo di un iter riflessivo, il fino a un certo punto tardivo dello scritto kantiano indica in direzione non tanto di un mero riannodo riassuntivo quanto, e piuttosto, di un esposto del mentre-si-riannoda, del riannodare divenir-fi2 3
Michel Foucault, Introduzione a I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, cit., pp. 9-94, in particolar modo, p. 9. I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, cit., p. 102 nota.
G. Giannini - Lʼantropo-lògo che ancora sono
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losofia che per quasi un trentennio, estraneo del tutto al mortifero di preannunciate definitività, ha sempre saputo, edificandone in prospetto e visuale, che tutto nasce e finisce con l’uomo. E del resto, a ben pensarci, nell’ottica di philosophìa, nel solco di philosophìa, non sarebbe potuto essere altrimenti. Sul ‘perché’ e sul ‘per-come’ di qui a breve si proverà a dire qualcosa, un qualcosa che, con tutta evidenza, più che interessare di sé una forma storiolatrica di esegesi kantiana o, addirittura, la storia della storiografia storicamente storicizzante (e filosofica?), indicando direttamente sul ‘perché’ e sul ‘per-come’ di philosophìa, eccedendo proprio lo specifico kantiano per s-piegarlo in qualche modo, indirizzerà effettivamente e per l’appunto al cardine da cui e per cui philosophìa non è stucchevole sapere e retorico amore del sapere, bensì autentica manìa che, più che sterile ‘fissazione’ e ‘capriccio’ è, letteralmente, necessaria ‘ossessione’ e ‘inquietudine’, superiore ‘assillo’ e necessaria ‘avidità’. Ma si diceva di Kant. Nella fattispecie argomentativa del filosofo di Königsberg, alcuni elementi meritano di essere isolati e approfonditi. Uno di questi, fuor di dubbio, concerne questa – e non sarebbe potuto essere altrimenti nemmeno per un grande spirito del XVIII secolo – oramai superabile (e superata di fatto) distinzione tra una antropologia dal punto di vista fisiologico e una antropologia dal punto di vista pragmatico. Essendo in buona sostanza del tutto inutilizzabile – giacché vetusto rispetto alle straordinarie acquisizioni delle scienze coeve – il paradigma oppositivo/alternativo dell’antitesi/antinomia natura-cultura con il quale, già all’alba della recisa distinzione cartesiana tra res cogitans e res extensa e fino alla sua più accurata formulazione novecentesca – probabilmente quella gehleniana –, s’è mossa, e si muove anche ai giorni nostri, l’antropologia filosofica, sembrerebbe quasi superfluo avere a che fare, e finanche mostrare una certa qual forma di interesse, per il distintivo piano fisiologico-pragmatico. Anche perché – e neanche Kant avrebbe potuto prevederlo – siamo oramai in un orizzonte teorico-operativo in cui si è tangibilmente nella situazione, straordinariamente inedita, in ragione della quale si può non più lasciar fare alla natura giacché, tra le altre possibilità, si è ad esempio in grado davvero di conoscere i nervi e le fibre cerebrali, al punto che si è finanche in grado di manipolarli in vista delle proprie intenzioni. Ma la questione, complessivamente considerata come in qualche modo si tenterà fare, è di gran lunga più ampia e articolata al punto che l’inutilizzabilità di alcuni paradigmi e loro derivati, è faticosa conquista, anche piuttosto ritardata. Una conquista dolorosa che, necessariamente, transita per smantellamenti più intimi e profondi e che interessando di sé ogni ipotesi
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di umanologie a venire, da un lato non può arretrare (e non vuol arretrare) al cospetto di estemporanee mode speculative, dall’altro non può cedere a uno scriteriato e ottuso rintanarsi in morbidezze metafisicheggianti, così come non può correre il rischio di sottomettersi a quelle misere e vanagloriose ridicolizzazioni di piattaforme speculative davvero significative nel corso dello strutturarsi dell’identità dell’uomo occidentale e che, dunque, stanno sicuramente dietro, a certo e legittimo titolo, ad ogni tappa acquisitivo-dispiegativa di questo stesso uomo-qui. Tanto più che questa situazione assolutamente inedita ha a scontare, e ancora, proprio il fatto che Kant stesso – da prospettiva e situazione diversa, come è ovvio – denunciava, ovvero che ogni sottigliezza teoretica è un’operazione in perdita giacché sempre costretta, in qualche modo, a inseguire (nella fattispecie e solo in apparenza, però, i saperi scientifici vorticosamente in espansione) per estendersi e immaginare orizzonti per l’umano. In perdita allora, e ancora, proprio perché fra i mezzi idonei ad ampliare l’ambito dell’antropologia c’è il viaggiare, o almeno la lettura dei resoconti di viaggio. Ma prima è necessario aver acquisito a casa propria una certa conoscenza degli esseri umani, frequentando concittadini e compatrioti, se si vuole sapere dove indirizzare poi la ricerca all’esterno, al fine di ampliarne maggiormente l’ambito. Senza un piano di questo genere (il quale già presuppone una conoscenza dell’essere umano), il cittadino del mondo nella sua antropologia rimane sempre racchiuso in limiti piuttosto ristretti. La conoscenza generale precede sempre qui la conoscenza locale, se dev’essere ordinata e diretta dalla filosofia; senza quest’ultima, ogni conoscenza acquisita non può che procedere a tentoni e in maniera frammentaria, e non mette capo ad alcuna scienza4.
Se, indefettibilmente, qualche aporia strutturale è già rinvenibile segnatamente alla distinzione/ripartizione – che per certi versi sussiste ancora di fatto ed è, indi, ancora in atto nel pluriverso anche di eterogenei saperi – tra una conoscenza generale e una conoscenza locale, nell’assumerla dunque alla stregua di una sorta di traslato per dire, ad oggi, in qualche modo dei comunque distinguibili (sebbene coappartenentesi, in quale dinamica, poi, sarà tutto da vedere e decidere giacché non propriamente scontato che siano le ‘condizioni preliminari ambientali’ a consentire vera-vita e, quindi, l’essere-vivente-uomo e relativi motivi antropici) ambiti della biosfera e del ‘privilegiato’ ànthropos, è proprio la plurificazione dei cosiddetti mezzi idonei che ha illimitatamente dilatato le possibilità del viaggiare o, quan4
Ivi, pp. 100-101.
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to meno, l’eventualità di stesure di resoconti autonarrativi. Un viaggiare, quindi, dentro e fuori, ma anche attraverso, che costituisce il tangibile volano per un ampliamento a dismisura del ‘perimetro’ dell’antropologia e, indi, d’ogni ipotizzabile spianata speculativa che ambisce costituirsi (e imporsi) quale umano-dirsi nell’ottica di un’autentica umanologia. È rispetto a questo, allora, che qualsivoglia sottigliezza teoretica rischia di continuare a rimanere operazione in perdita specie se, e quando, pretende, in nome e per nome del logoro schematismo della metafisica come struttura, di ancorare a definizioni chiuse e assolute di ànthropos; quando pretende, quindi, derogare da una operatività promettente di costante rilancio quale rilanciarsi per ànthropos. Pur tuttavia si rende necessario procedere per gradi e attraversare, quanto meno con una certa dose di credibilità, quegli snodi concettuali e quelle autentiche rotture epistemologiche che, in maniera significativa nell’ultimo secolo e mezzo, hanno non solo manomesso e reso impotente ogni conato metafisico fissista e ancorante a una progettualità stazionaria dell’uomo ma che, anche, hanno dato la stura ad una gemmazione di saperi locali e, indi non tanto curiosamente ma, anzi, necessariamente, generali tali da render concreto ed effettivo l’ampliamento a dismisura di cui prima. Dilatazioni e amplificazioni al punto che non ci si trova in una situazione di deficit potenziale al fine di strutturare nuove occorrenze ed evenienze di umano-dirsi. Bensì – e qui, incontestabilmente, il genuino significato di un inedito che può metter (e mette, di fatto) in crisi ogni sottigliezza teoretica e da cui e per cui il valore profondo di perdita in e per tal tipo di operazioni mortifere –, in una girandola irrefrenabile di prodigiose plusvalenze, la situazione attuale spinge decisamente in direzione di un frammentario e (talvolta) disarticolato iper-produttivismo speculativo che rischia miscomprensioni e false partenze. Movimenti ingannevoli che, in ultima istanza, non schiudono a reali e concrete eventualità di umanologie a venire ma, solo e di fatto, a perdite secche e risolutive che prosciugando e mortificando philosophìa nel suo autentico slanciarsi, rendono impraticabile e finanche irrealizzabile qualsivoglia relativa Promessa d’ànthropos. Un primo tasto da toccare, allora, attiene quella che è stata la scaturigine di qualunque rottura epistemologica recente e persino corrente e che attiene, indefettibilmente, l’intimo esposto delle acquisizioni darwiniane. Un intimo esposto e da esporre che, a partire da L’origine delle specie, in tal guisa può venir compresso: durante il lungo corso delle età e in diverse condizioni di vita, gli organismi variano in diverse parti della loro organizzazione [...]. Ciascuna specie tende
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a moltiplicarsi secondo un’elevata ragione geometrica, per cui a una data età, stagione od anno deve esserci una dura lotta per la vita [...]. E allora, considerando l’infinita complessità dei rapporti di tutti gli organismi fra loro e con le condizioni di esistenza, rapporti che determinano un’infinita diversità di struttura, costituzione ed abitudini, che dovranno tornare loro utili, ritengo che sarebbe quanto mai strano se non si fosse mai verificata una variazione giovevole al benessere di ciascun organismo, nella stessa maniera in cui si sono avute tante variazioni utili all’uomo. Ma se si verificano effettivamente delle variazioni utili ad un qualsiasi vivente, sicuramente gli individui che le possiedono avranno le più elevate probabilità di conservarsi nella lotta per la vita e, grazie al possente principio dell’ereditarietà tenderanno a produrre discendenti provvisti delle stesse caratteristiche. Per amor di brevità a questi principi della conservazione ho dato il nome di selezione naturale. La selezione naturale, in base al principio che alcune qualità sono ereditate in determinate età, può modificare l’uovo, il seme, od il piccolo, con la stessa facilità con cui modifica l’adulto5.
E ancora, a partire da una variante(-aggiunta) alla sesta edizione del 1872: la selezione naturale agisce esclusivamente tramite la conservazione e l’accumulo delle variazioni che risultano benefiche nelle condizioni, organiche e inorganiche, di vita cui l’organismo è esposto nei diversi periodi dell’esistenza. Il risultato finale consisterà nel fatto che ciascun organismo tenderà a diventare sempre più perfezionato in rapporto alle sue condizioni6.
E l’essere umano, quell’ente da sempre in odore di ‘favore’ e ‘privilegio’, fossero essi portato di atto creazionistico, auto-trofismo e ipertrofia tautologica o quant’altro? Senza dubbio l’uomo, in confronto alla maggior parte dei suoi affini, ha subito uno straordinario complesso di modificazioni principalmente in conseguenza del grande sviluppo del suo cervello e della sua posizione eretta; ciononostante dovremmo ricordarci che egli è soltanto una delle diverse forme eccezionali dei primati7,
quanto a dire, dunque, che
5 6 7
Charles Darwin, L’origine delle specie per selezione naturale o la selezione delle razze privilegiate nella lotta per la vita, tr. it. di C. Balducci, Newton Compton, Roma 20045, p. 129 (corsivo mio). Ivi, p. 136. Id., L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, tr. it. di M. Migliucci e P. Fiorentisi, Newton Compton, Roma 20034, p. 130.
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anche se si ammettesse che la differenza tra l’uomo ed i suoi più stretti affini sia così grande nella struttura corporea secondo quanto affermano alcuni naturalisti, e quantunque si debba concedere che la differenza tra loro è immensa per capacità mentale, [...] l’uomo è disceso da qualche forma inferiore [...]. L’uomo è sottoposto a variazioni numerose, leggere e diversificate, che sono indotte dalle stesse cause generali e sono regolate e trasmesse secondo le stesse leggi generali valide per gli animali inferiori. L’uomo si è moltiplicato tanto rapidamente che è rimasto necessariamente esposto alla lotta per l’esistenza e quindi alla selezione naturale8.
Ma le conquiste e conseguimenti darwiniani, per quanto in tal maniera sintetizzati, quale intimo profondo (e inconfessato, giacché da sempre inconfessabile) davvero rivelano nel loro esporre? E, soprattutto, perché tale intimo profondo (e inconfessato, giacché da sempre inconfessabile) che si espone a partire dalle acquisizioni darwiniane, necessariamente, è sempre (ed in qualsiasi circostanza) da ri-esporre, ovvero da ridire e ribadire ogni qual volta il lògos, a partire da ànthropos, verte proprio su ànthropos? La fondamentale premessa da stabilire segnatamente al novum introdotto da Darwin è relativa al fatto che la natura da lui studiata non solo non appare orientata ma, anche e soprattutto, la natura non è affatto centrata sull’uomo e, di concerto, non sorge a partire dall’uomo. Ancor meglio: tutto ciò, quanto meno, suggerisce che l’uomo, la vita stessa, sono più il prodotto di processi riconducibili al caso, piuttosto che il risultato di un vero e proprio progetto realizzativo e finalistico: se, difatti, «è evidente come [...] l’uomo sia soggetto a una grande variabilità»9 tant’è che detta «variabilità non solo appare prodotta nell’uomo e negli animali inferiori dalle medesime cause generali, ma in entrambi le stesse parti del corpo ne sono interessate in modo analogo»10, non è possibile non assumere, in maniera decisiva, che «è solo un nostro pregiudizio naturale, nonché quell’arroganza che fece dichiarare ai nostri progenitori di discendere da semidei, che ci porta a esitare su questa conclusione»11. Se è vero, come è vero, che con l’ipotesi di tempi sufficientemente lenti e lunghi per la storia della terra e per quella degli organismi viventi, è invece possibile spiegare le complessità biologiche attraverso meccanismi di tipo demografico e statistico del tutto na8 9 10 11
Ivi, p. 124. Ivi, p. 41. Ivi, p. 43. Ivi, p. 40.
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turali, estranei a qualsiasi finalismo o progetto. Nell’ottica di Darwin il rovistare casuale dei meccanismi evolutivi entro variazioni potenzialmente utili è accompagnato da una selezione adattiva non casuale che attraverso svariati effetti cumulativi produce strutture funzionali12,
non se ne può che concludere, rigorosamente, che: l’«essere» della natura perde [...] la connotazione che poteva continuare a rivestire nei quadri teologici (in particolare creazionistici) del cosmo, risultando prodotto della convergenza di fattori puramente naturali che uniscono mutazioni casuali, gradualismo e miglioramenti adattivi, [...] [ovvero che] Darwin restituisce alla natura la sua autosufficienza e il suo protagonismo13.
E qui, come è chiaro, la svolta epistemologica del moderno – quella profondamente disgregatrice in qualche modo iniziatasi con il puntamento del cannocchiale di Galilei e con la definitiva assunzione della matematicalizzabilità dispiegatrice della natura – giunge a concettuale (e affinatissimo) compimento provocando una radicale rottura in ordine alla quale mai più un principio o un apriori metafisico, potrà istituire e necessitare, permettere e determinare. Uno squarcio risolutivo che si esegue e si concreta in una dispiegantesi distesa di conî speculativi (e di inediti saperi, evidentemente) sovversivi e illimitati, e sovversivi giacché illimitati, in conseguenza dei quali può ben dirsi che tutti i prototipi e tutti i modelli dell’umano metafisicamente eretti (e in via di erezione), costruiti (e in via di costruzione), fondati (e in via di fondazione) e indi (auto-)legittimati e (auto-)legittimantesi, si liquefano lentamente e progressivamente, non avendo quindi proprio più alcuna ragion d’essere. Il termine creare, la stessa rassicurante e tautologica locuzione venire all’essere, ma in realtà il medesimo e complessivo interrogarsi circa l’originario e l’origine, subiscono flessioni, piegamenti e incurvamenti tali da trasfigurare i loro più intimi sensi e i loro più profondi significati: non c’è più alcun transito dal nulla all’esistenza, più alcuna creatio ex nihilo o, finanche, salto ontologico. Tutto è un lungo, per certi versi interminabile, svolgimento di progressive modificazioni e trasformazioni, mutazioni e alterazioni, estinzioni e nuove, inedite, comparse. Processi questi, 12 13
Sergio Bartolomei, La laica consapevolezza di una bioetica darwiniana, in Il futuro di Darwin. L’uomo, a cura di L. Calabi, UTET, Torino 2010, pp. 15-43, in particolar modo, p. 21. Ibidem.
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giammai unidirezionali e/o guidati da una meta-intelligenza fondatrice e regolatrice, oltre che ordinatrice; divenire plurimo rispetto al quale, nella sua prospettica ricostruzione, ricomposizione e ripercorrimento, evapora persino il domandare sull’origine e il rovello dell’origine quale necessario (e necessitante) volano di Senso. Così come, ed inevitabilmente, evapora il Tempo quale indice monolitico e assestante nel senso anche, e più intimamente, di un a-sé-stante. Dacché, se è innegabile che «non possiamo pensare altro che storicamente», quantunque e sempre in una conformità e sistematicità prospettica, ovvero nell’ottica di una temporalizzazione necessariamente a ritroso e comunque funzionale per abbozzare uno sguardo d’assieme (e, indi, comunque parziale giacché di parte) di un multiverso pulviscolare, la temporalità della «considerevole rivoluzione» prevista da Darwin può implicare che tras-formismo diventi predicazione critica del semplice evoluzionismo. Giacché l’irreversibilità è duplice: il pensiero della estinzione, che è già centrale, non meno di quello della trasmutation, nei Notebooks giovanili, implica che non si possa concepire una sola linearità di tempo, quando le linee del tempo dei soggetti sono linee del tempo di soggetti mutati: rispetto al tempo dei soggetti estinti, sono linee del tempo di altri soggetti venuti all’esistenza14.
Di fatto l’uomo – e con lui (e in infinite occasioni, anche prima di lui) gli altri esseri viventi –, ad un certo momento e senza una ragione precisa, in un tempo che non è più il Tempo, ma solo una linea sghemba e frantumabile in tempi e temporalizzazioni altre, ha accesso alla vita e solo dopo, molto più tardi, dopo un excursus evolutivo tutto da scoprire nei dettagli, comincia a penetrare nei labirintici meandri della consapevolezza di sé. Si potrebbe dire che figlio di casuali circostanze, dell’occorrenza~opportunità in singolari e distintive condizioni alla stregua di tutti gli altri animali, l’uomo è il prodotto di forze cieche e prive di finalità. Letteralmente dissolvendo qualsivoglia artefatto apparato, risolutivo e indi già risolto in premessa, in ogni sua – per quanto differente e diversamente articolata nelle argomentazioni – storica e storicizzabile formulazione, ma in qualche modo sempre ispirato e richiamantesi a programmazioni permanenti e stazionarie dell’umano, in funzione delle quali viene preventivamente supposto che l’uomo sia eccedente approdo e, in ragione di questo, fine in sé quale anche latore e portatore di uno status morale unico e irraggiungibile, Darwin ha inserito questo-uomo-qui (e con lui tutti i suoi 14
Lorenzo Calabi, Introduzione. Il futuro di Darwin. Ritorno alla filosofia, in Il futuro di Darwin. L’uomo, cit., pp. VII-XV, in particolar modo, p. XI.
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antenati e discendenti) in una natura della quale non solo non è più la sommità, ma una natura che non lo sostiene affatto consentendogli di riferirsi a uno schematismo prescrittivo già dato e dunque atto ad orientarlo e dirigerlo nell’azione che prova a dispiegare per costruire la propria identità, la propria peculiarità, e un mondo. Sotto le macerie di architetture del pensiero e strutture concettuali ontoteleologiche che implodono, l’esser-uomo-dell’uomo non è un dato a-temporalmente e a-spazialmente ereditario ed ereditabile, il portato di una Natura quale disegno fissato e sul quale, indipendentemente da ogni altra cosa, è possibile concretamente contare. La natura invece, quale denudato spazio della mera allocazione, è un incubo che incombe. Essa, infatti, non più intellegibile significante e non più radura di pre-inscritti, normativi e prescrittivi lògoi, si approssima con la scarsità delle sue risorse, offrendosi ad una popolazione di esseri più o meno simili a lui che devono venire affrontati o evitati se si vuole continuare a vivere. La vita che la natura elargisce all’uomo è lotta, e quel che nella lotta è in gioco, è la vita stessa. E qui la scissione tra essere e dover essere non solo è netta ed incolmabile ma, e in maniera ancor più cruda e drammatica, non essendovi proprio alcun preconfezionato Essere che di per sé necessita il-mio-esser-qui e, indi, il-mio-dover-da-esser quale anche esser-vivente che doverosamente esistecoesistendo in una qualche fantomatica relazione etica, il dover-essere e l’esser-vivente che doverosamente esiste-coesistendo in una qualche relazione etica è solo, continuatamente, dolorosa scelta e insostenibile (giacché non più sostenuta) possibilità ed evenienza. Possibilità ed evenienza, come è chiaro, ogni volta da ridire e reinventare, dacché da ridire e reinventare è il mio stesso essere. L’esser-uomo, l’esser-uomo-dell’uomo è, incontrovertibilmente e dannatamente, desolante e infelice transizione e accesso all’uomo, affanno e sforzo costante di transizione e accesso all’uomo. Di questa transizione-a e, di conseguenza, di tale accesso-a, l’evoluzione per selezione naturale è solo un meccanismo, per nulla risolutivo e conclusivo come si vedrà, con cui vengono acquisite precipue caratteristiche; vera e propria successione di illogiche, giacché non più relazionabili e riducibili ad una Logica spiegatrice univoca e onnicomprensiva, transizioni puntellate da un susseguirsi di scarti, adeguatezze e opportunità di cui corpo e linea germinale sono la plastica materia in cui hanno principalmente sede mutamento e relativo adattamento. Non essendo più l’articolato complesso di una particolare creazione o istituzione ma, come tutte le specie animali, soggetto alla legge biologica dell’evoluzione a patto, però, che
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prima che qualsiasi fenotipo possa essere, per così dire, «offerto» alla selezione da parte dell’ambiente, deve essere soddisfatta una schiera di vincoli interni e [...] debbono essere stabilizzate le interazioni a molti livelli. Fra le mutazioni e la loro espressione c’è di mezzo tutta una serie di filtri, alcuni dei quali operano in serie, mentre altri cooperano o interferiscono. In breve, non esiste una singola «freccia» che collega un generatore casuale di diversità genetica ai fenotipi su cui opera la selezione esogena. Esistono effetti diversi di diversi tipi di filtri e di processi regolatori, a livelli diversi15,
e cioè, a patto che l’evoluzione per selezione naturale, anche in ambito biologico molecolare, si arricchisca di linee esplicative legate quanto meno all’intenzionalità dei contesti, a un ravveduto comportamentismo e quant’altro in un solco, evidentemente, di una storia naturale sempre meno diacronica, l’uomo non è più residenza di gratificazioni e favori originari, bensì le sue caratteristiche sono dei veri e propri risultati raggiunti in questa stessa, irrisolvibile, transizione-a. Irrefutabilmente, sulla scorta di quanto sin qui rilevato, quel che ancora e con estremo acume ha constatato Roberto Marchesini, e cioè che: il darwinismo infligge un colpo mortale all’antropocentrismo poiché trasforma la vita sulla Terra in un cespuglio di rami ossia di percorsi unici nell’essere speciali e contingenti, caratterizzati da una condivisione ab origine ma da una meta divergente che li rende non sovrapponibili. La diversità del bìos pertanto non può mai essere ridotta in forma gerarchica16,
e, dunque, che la teoria darwiniana ha sicuramente aperto una ferita insanabile nella pretesa di enucleare l’uomo dal contesto dei viventi e di porre la sua dimensione in senso disgiuntivo e separativo [...] ma proprio per questo è evidente il suo essere in rotta di collisione con il paradigma umanistico che, viceversa, pretende estrarre l’uomo quale entità speciale. [...] Nella teoria darwiniana le forme emergono dal basso, la devianza è il volano morfogenetico, gli enti presentano radici comuni, le categorie sono approssimazioni di pluralità popolazionali, le formefunzioni sono correlazioni, la mutazione è ciò che sostiene un’entità storica, le forme possono estinguersi, ogni ente esiste in quanto parte di qualcosa17,
15 16 17
Massimo Piattelli Palmarini-Jerry Fodor, Gli errori di Darwin, tr. it. di V. B. Sala, Feltrinelli, Milano 2011, p. 47. Roberto Marchesini, Il tramonto dell’umano. La prospettiva post-umanista, Dedalo, Bari 2009, p. 12. Ivi, pp. 69-70.
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sembra non lasciar adito ad esito conclusivo alternativo che non implichi, sempre e comunque, il transito per una netta e sostanziale relativizzazione dell’umano. E pur tuttavia, un esito conclusivo che facendo leva sulla completa ridefinizione delle cosiddette ‘partnership biologiche dell’umano’ a partire da una più ragionevole e veritiera orizzontalità del bìos che di fatto «allarga la comunità dialogica che non è più esclusivamente umana» al punto che si trasfigura questo interfacciare «tra l’uomo e le entità non umane: da oggetti di studio [...] [a] soggetti dialogici»18, senza ombra di dubbio fornisce una piattaforma di possibilità altre e inedite di parametrazione e strutturazione a-venire proprio per l’umano stesso. Se infatti, e per certi versi, ancora in fase embrionale è lo sviluppo, anche solo definitorio e classificatorio, segnatamente allo human enhancement che, al più, allo stato dell’arte e in maniera sommaria, connota ogni tentativo, temporaneo e/o permanente, di superare limitazioni funzionali del corpo umano, o finanche di introdurre funzioni ex novo mediante il ricorso a tecnologie atte ad alterare e selezionare attitudini e/o altre caratteristiche fenotipiche, indipendentemente dal fatto che tali caratteristiche cadano o no in quelle che, per convenzione, si individua e valuta quale ‘range di normalità’, e se persino provoca ancora qualche sussulto e incredulità la creazione, da parte dell’uomo, dell’X.N.A., ossia dell’Acido Xeno-Nucleico, ‘cugino’ molecolare diretto ma sintetico del D.N.A. e dell’R.N.A., atto a immagazzinare informazioni e abile ad evolvere proprio come l’Acido Nucleico naturale, non v’è dubbio almeno nel considerare che lo scenario dialogico a venire par’essere davvero sconfinato. Ma tant’è, come che sia e sarà, detta piattaforma di possibilità altre e inedite di parametrazione e strutturazione a-venire proprio per l’umano stesso, è significativo sottolineare che è proprio (e solo) a partire da questo smottamento fondamentale imposto dalla rivisitazione e ripensamento della partnership sia con il biologico che con il sintetico, che prendono corpo le più serie prospettive teoriche cosiddette post-umaniste che ulteriormente complessificano questo stesso riesame nel solco dei nuovi incentivi delle conquiste biotecnologiche che si vanno allestendo negli ultimi decenni del Novecento: 1) in procreatica, quali la fecondazione in vitro, la chimerizzazione, lo splitting embrionale, il nuclear transfert, la clonazione, le cellule staminali; 2) in ingegneria genetica, quali la transgenia, la sintesi genetica, l’ingegneria proteica. Le biotecnologie [...] abbattono alcune linee di 18
Ivi, p. 7.
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demarcazione di antica tradizione [...] e non tanto per il richiamo allo spauracchio della hybris quanto piuttosto per la commistione di elementi un tempo indubitabilmente separati come: invenzione-scoperta, organico-inorganico. Le ricerche in genetica e procreatica danno luogo sempre più a un campo di sperimentazione sull’umano [...]; le biotecnologie creano [...] spazi franchi tra umano e non umano che inevitabilmente favoriscono una percezione ibridativa dell’uomo stesso. Il codice genetico e le direttive di embriogenesi escono dalla clausura e mostrano una grammatica del vivente che accomuna tutte le specie del bio-realm. Il gene è una realtà transfuga, assume cioè un tratteggio cosmopolita che inevitabilmente annienta qualsiasi pretesa di discrezione tra i viventi: divine enucleabile, trasferibile, modificabile, pensabile, edificabile. Si può pertanto pensare [...] che il catalogo performativo dell’uomo, istruito dai geni e realizzato dalle proteine da essi codificate, possa essere modificato attraverso l’ibridazione19.
Ora, però, l’evenemenzialità di detti nuovi quadri e cornici d’assieme che si slargano sino alla distensione di inediti orizzonti di possibilità, sin’ora sconosciuti e al massimo concepibili solo nella letteratura di pura invenzione e fantascienza, di parametrazione e strutturazione a-venire proprio per l’umano stesso, e dunque tali da abbozzare nuovi accessi-a e, conseguentemente, nuove transizioni-a ànthropos, non possono astrarre dalla necessaria messa in risalto di alcuni decisivi e oramai irremovibili fattori. Se è comunque condivisibile che l’ibridazione apre nuove finestre sul piano di interfaccia di Homo sapiens, ma altresì fa emergere piani di interfaccia e crea nuovi bisogni di interfaccia [...] per questo determina antropodecentrismo, ossia allarga la soglia di coniugazione con la realtà esterna perché fa emergere dei predicati di relazione-connessione che non sono dell’uomo ma del processo ibridativo [...] [e dunque] l’alterità non umana, sia biologica che tecnologica, non assume [...] il ruolo di amplificatore ma di modificatore della soglia di interfaccia, dando luogo a predicati di conoscenza che tracimano, ossia sopravvengono, gli apparati di conoscenza dell’uomo20,
diviene quanto meno problematico perimetrare questo stesso antropodecentrismo alla mera «critica del pensiero antropocentrico». Giacché, se è vero che «antropodecentrare significa [...] assegnare alle coordinate di retaggio un dominio di validità e ammettere un processo evolutivo di tali coordinate attraverso l’integrazione dell’alterità»21 e, indi, metter mano a un 19 20 21
Ivi, p. 18. Ivi, p. 95. Ivi, p. 101.
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crescendo in direzione di una vera e propria sventagliata di neo-predicati umani inclusiva del non umano, risultato ultimo che «non viene estratto attraverso la dicotomia e la purificazione rispetto al non umano, che pertanto non assume il ruolo di polarità oppositiva e di sfondo, né viene considerato orbitale e strumentale ai fini dell’uomo»22, in alcun modo bisogna cedere all’ambigua tentazione di una certa qual estraneità e inabilità comprensiva che tutto questo, nel più complessivo quadro auto-narrativo e auto-propositivo di ànthropos, appiattisca e annulli differenze in seno al pluriverso del bìos. Differenze che anzitutto, anche in questo paesaggio antropodecentrato e tale da squadernare inediti predicati dell’umano, rinvengono sempre ànthropos al centro, al centro e quale unico attore segnatamente al processo di nominazione e reificazione. Nominazioni e reificazioni continue che, indefettibilmente, hanno comportato, comportano (e comporteranno) estensioni plurime di superfici antropiche quali effettive attestazioni e concretizzazioni di re-existenza. E dunque differenze che anzitutto, anche in questo paesaggio antropodecentrato e tale da squadernare inediti predicati dell’umano, rinvengono sempre e comunque ànthropos in una asimmetria incomponibile che è egli stesso a determinare proponendo un più ampio e tragico selettivismo tra specie e di specie che non risponde, non può rispondere più evidentemente, a un naturalismo magicamente e necessariamente da preservare e sostenere. E qui non ne va di una ritornante dicotomia natura/cultura: si tratta, e con più semplicità, di assumere un dato allo stato incontrovertibile e che riconosce ànthropos, che piaccia o meno, nell’invidiabile prerogativa di por mano, ad esempio, alla totale estinzione della possibilità stessa del bìos – e indi delle medesime premesse della biosfera – su questa Terra. Invidiabile prerogativa che consente la possibilità (o meno) di decidere differenza e differenziato. Differenza e differenziato, differenze e differimenti che, anche in uno scenario antropodecentrato, tali da squadernare inediti predicati non solo dell’umano stesso, ma addirittura dell’animato nel suo complesso e nelle sue singole parcellizzazioni, rinvengono sempre e comunque ànthropos al centro, al centro e quale unico attore sintagmatico segnatamente alle processualità e procedure di nominazione e reificazione, fossero pure processualità e procedure di nominazione e reificazione tese a determinare e/o immaginare eventualità di simmetrie composite e componentisi asimmetrie.
22
Ivi, pp. 103-104.
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In fondo, che vi fosse qualche percezione e presagio di linearità e orizzontalità nel solco del multiverso animato del bìos, già Empedocle in qualche misura aveva intuito allorquando s’era peritato sottolineare una certa qual similarità, quanto meno sul piano della costituzione (naturale). Dacché, se è vero come è vero, che per l’agrigentino sia gli uomini, sia gli animali, sia finanche le piante, rintracciano in terra, acqua, aria e fuoco i loro medesimi rizomi profondi, al punto che è solo nel loro diverso miscelarsi che si determinano forme differenti, grazie a Simplicio che ne illustra, ci è consentito appurare che: Contesa e Amicizia esercitano a turno il loro potere sugli esseri umani, sugli animali selvaggi e sugli uccelli [...]: Questo è ben visibile nella massa delle membra mortali: ora per azione di Amore noi, in quanto membra che formano il corpo, ci riuniamo tutte in uno, al culmine della vita fiorente; ora, separate da maligni Contrasti, vagano ognuna divisa dall’altra fino alla sponda estrema della vita. E così per gli arbusti e i pesci che dimorano nelle acque e le fiere che fanno la tana nei monti, gli uccelli alati23.
Determinazione e/o immaginazione di eventuali simmetrie composite e componentisi asimmetrie che anche Anassagora, in certa misura, aveva tentato. Fornendo, infatti, intelligenza a tutti gli animali e funzionalità cognitiva anche alle piante, considerando dunque che «tutti gli esseri viventi hanno la ragione attiva»24, aveva constatato, con straordinaria capacità visionaria, che è solo «grazie alle mani che ha, l’uomo è il più sapiente degli animali»25. Ma di più, e ancora più a fondo nell’incavo di questo oramai superato (?) talento autoriferito segnatamente alle processualità e procedure di nominazione e reificazione tese a determinare e/o immaginare anche eventualità di simmetrie composite e componentisi asimmetrie, che vi fosse un quid sorprendentemente inattingibile o comunque non totalmente riferibile alla tanto ricercata e rimarcata irriducibilità antropocentrata dell’alterità vivente già Cleante di Asso – ben prima quindi delle innovative analisi e ricerche etologiche di Jacob von Uexküll sugli ambienti animali e ambienti 23 24 25
Empedocle, 31 B 20 DK. Anassagora, 59 A 101 DK. Anassagora, 59 A 102 DK.
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umani e che hanno dato il ‘la’ a diversificantesi direttrici di studio che oramai considerano e assumono l’ambiente di cui e in cui vive una specie quale sfera in qualche modo separata e impenetrabile – aveva avvisato, dacché pur non concedendo che gli animali partecipano di ragione, ammetteva di aver assistito a questo fatto: delle formiche si dirigevano verso un altro formicaio portando una formica morta; altre formiche risalivano dal loro formicaio, quasi facendosi loro incontro e poi ridiscendevano. E ciò avviene per due o tre volte. Lo scopo di quelle che risalivano dal formicaio era di portare una larva in funzione di riscatto del cadavere, lo scopo delle altre era di piangerlo, altre ancora, invece, restituito il cadavere, se ne prendevano la via del ritorno26.
O finanche Crisippo, discepolo proprio di Cleante, che aveva per esempio indicato distintamente che alcuni animali [...] fanno mostra di giustizia: e si tratta di animali d’acqua, di terra e dell’aria. Fra gli animali marini la pinna e il suo animale-pilota mettono in mostra una forma di uguaglianza nella vita associata: condividono infatti il luogo in cui si nutrono e dividono il cibo equamente. Lo stesso fanno – come a tutti è noto – il trochilo e il pompilo, pesci più piccoli di quelli, che entrano nel novero di quelli che conducono una vita comunitaria. Fra gli uccelli, poi, la cicogna mostra un gran senso della giustizia, pensando al sostentamento dei genitori, e non appena le spuntano le ali, non si propone altro scopo oltre quello di restituire i benefici ricevuti a chi l’ha beneficata27,
se non addirittura che «altri animali, come la formica e l’ape, siano dotati di una certa parsimonia, anche se nessuno di essi possiede una politica»28. Ma non v’è dubbio, non v’ha da esser dubbio: dall’antropocentrismo all’antropodecentrismo, tanto più che nei plurimi richiami stoici, come nella fattispecie, il filo rosso è comunque più o meno saldamente legato alla riconduzione dell’animale all’uomo e ad un vivere secondo natura quale trazione impulsiva che discende da una distinzione netta tra gli esseri razionali per antonomasia – gli uomini appunto – ai quali «la ragione è stata data come coronamento in una posizione eminente» e gli altri esseri animati, per i quali è proprio l’«impulso» ciò di cui «si servono per procurarsi quel che è utile»29. Ma, anche e soprattutto, un viver secondo natura che impli26 27 28 29
Cleante, [CA] 515 [1], p. 227. Crisippo, [B.f.] 728, p. 691. Crisippo, [B.f.] 733, p. 695. Crisippo, [C.e] 178, p. 1055.
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cando un agire «a memoria» sta a significare che «questi esseri in realtà non agiscono per via di intelligenza e di un meditato progetto», ma in ragione di «un’azione meccanica» che porta «alla luce, traendole dalla loro stessa costituzione, delle proprietà naturali»30. Ma non v’è dubbio, non v’ha da esser dubbio: dall’antropocentrismo all’antropodecentrismo, visto che cambia e si tramuta di nuovo il paradigma esplicativo, ovvero si rinnova radicalmente l’approccio di fondo poiché si trasfigura del tutto la valutazione delle variabili e componenti di partenza e finanche l’esito ultimo eccede ogni vogliosa aspettazione tradizionalmente antropocentrata. Eppure, ed è qui il punto, la vera e inconfessabile questione: non si corregge di una virgola la finalità sottesa dacché ultima. In fondo quella stoica, o finanche le intuizioni empedoclee e anassagoree, sono state solo alcune delle tante – e sicuramente datate e forse obsolete, perché arcaicamente e assolutamente (ed erroneamente?) antropocentrate e non supportate da alcun cimento o verifica calcolante-computazionale – forme della nominazione e reificazione. E però, forme della nominazione e reificazione che, sostenute ogni volta da una precisa e specifica idea dell’uomo e dunque del mondo, dell’ente e quant’altro, la tradizione occidentale ha sempre detto umanesimo quale anche ideazione, edificazione e sviluppo di un lògos sì su ànthropos e indi sul mondo, sull’ente e quant’altro ma ciò, fondamentalmente, per sostenere e garantire, fabbricandolo, ancora e in qualche modo questo stesso ànthropos che, dunque, non s’è mai detto e potuto mai dire (e comunque) alla medesima maniera. Ma non v’è dubbio, non v’ha da esser dubbio: dall’antropocentrismo all’antropodecentrismo. Liquidazione, indi e complessivamente, della sapienza greca, che pare oggi esser sproposito assoluto, giacché l’epistéme, ovvero quel tipo di sapere razionale imperniato e fondato su di un lògos, sul lògos, dotato e corredato di quei requisiti e quelle costituenti di incontrovertibilità e certezza assolute e tale, quindi, da giungere alla aitía, all’arché, non sembra aver più alcun margine di validazione e validità. Marginalizzazione sino all’essiccazione di quella sapienza che aveva indicato, già con Eraclito, in direzione di un sapere necessariamente e pienamente ‘credibile’ e ‘accettabile’ dacché fondante su quel lògos universale, e di questo lògos che è sempre, gli uomini sono incapaci di comprensione, né prima di aver sentito parlarne, né dopo aver sentito parlarne la prima volta; e anche se tutte le cose avvengono secondo questo lògos, essi si mostrano inesper30
Crisippo, [B.f.] 732, p. 693 e p. 695.
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ti, quando si cimentano in parole e in azioni, quali quelle che io presento, distinguendo ciascuna cosa secondo la propria natura, e spiegando come essa è. Ma gli altri uomini non sanno ciò che fanno da svegli, così come dimenticano ciò che fanno dormendo31.
E perciò bisogna seguire ciò che è uguale per tutti, ossia che è comune. Infatti, ciò che è uguale per tutti coincide con ciò che è comune. Ma anche se il lògos è uguale per tutti, la maggior parte degli uomini vive come se avesse un proprio intendimento32.
Marginalizzazione sino all’essiccazione di quella epistéme che dalla Repubblica e dal Teeteto platonici avevano implicato, ulteriormente, una perimetrazione e parametrazione della scienza stessa quale sguardo e riguardo alla verità dell’essere quale stabilizzazione del movimento: «possiamo dire che la scienza sia per sua natura finalizzata a ciò che è, per conoscere com’è l’essere»33. Marginalizzazione sino all’essiccazione di quel far scienza che infine era culminata in Aristotele il quale, in ultima istanza, aveva sistematizzato e filtrato-distillato in maniera decisiva, stabilendo che «oggetto del nostro stupore sono i fenomeni che accadono in natura e di cui ignoriamo la causa, e i fenomeni contrari, dovuti ad abilità e a interventi dell’uomo per suo proprio beneficio»34. In tal guisa individuando quel solco metodologico logico-deduttivo per un indagare che, tra eventi che accadono kata physin ed eventi che sopraggiungono para physin, aveva permesso configurare un’ossatura funzionalmente (e finalisticamente) mirante a una sorta di mega-lògos, tant’è che oggetto della nostra ricerca sono i principi e le cause degli esseri, intesi appunto in quanto esseri. Infatti, c’è una causa della salute e del benessere; ci sono cause, principi ed elementi anche degli oggetti matematici e, in generale, ogni scienza che si fonda sul ragionamento e che in qualche misura fa uso del ragionamento tratta di cause e principi più o meno esatti. Tuttavia, tutte queste scienze sono limitate a un determinato settore o genere dell’essere e svolgono la loro indagine intorno a questo, ma non intorno all’essere considerato in senso assoluto e in quanto essere. [...] Se esiste qualcosa di eterno, immobile e separato, è 31 32 33 34
Eraclito, DK, B1. Eraclito, DK, B2. Platone, Repubblica, V, 477b. Aristotele, Meccanica, 847a.
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evidente che la conoscenza di esso spetterà certamente a una scienza teoretica [...], filosofia prima [che] riguarda realtà che sono separate e immobili. [...] Filosofia prima [...], universale, [...] [cui] spetterà il compito di studiare l’essere in quanto essere, cioè che cosa l’essere sia e quali attributi, in quanto essere, gli appartengono35.
Marginalizzazione sino alla liofilizzazione di quel complessivo lavorîo che, nel tempo, non s’è tanto imperniato sulla/nella oggettività del vero, bensì ‘sul’ come, letteralmente, la verità accade in noi e ‘al’ come «rivolgere costantemente lo sguardo al tutto»36 e che, dunque, si infrange schiantandosi al cospetto delle crude acquisizioni del moderno. Conseguimento che, vera e propria espugnazione, ha rivelato un fino ad allora indicibile: «il pensiero moderno – infatti – è caratterizzato dalla priorità che esso dà all’idea di realtà rispetto a quella di possibilità e di necessità [...]. Il mondo è un dato puro che è impossibile far derivare, anche mediante una riflessione, da un necessario o da un possibile»37. Indicibilità della derivabilità. E col moderno, che spezzando e frantumando questa stessa derivabilità da un necessario o da un possibile, la stabile e stabilizzante certezza di quel genere~modo dell’epistéme e del farsapere-conoscente filosoficamente plasmato e configurato e che aveva a sua volta sovvertito e invalidato le «dottrine [...] ancora più antiche»38 in ragione delle quali «è assolutamente impossibile rimanere fermi e su uno stesso discorso o su uno stesso interrogativo o rispondere e domandare tranquillamente, a turno [...] dato che in questi uomini non esiste un po’ di quiete»39 tale da «permettere che esista qualcosa di sicuro»40, tale indi da pre-scrivere la rassicurante visione che sa già che in nessun caso e per alcun motivo il sopraggiungere dell’inedito potrà travolgere dacché, in qualche modo, ha veduto tutto ciò che verrà contestualmente a tutto ciò che è venuto, sfigura e s’eclissa con un sol tocco, con un sol colpo di mano che dissolve. Un sol colpo di mano che dissolve e che, pur tuttavia, affonda a sua volta in un inconfessabile pre-disposto che si autolegittima in sé e da sé (e per sé): che un mondo-sia e che, quindi, esser-mondo-sia nella sua pura e semplice datità. 35 36 37 38 39 40
Aristotele, Metafisica, E 1, 1025b 3-9; 1026a 10-11; 1026a 30-32. Platone, Teeteto, 175a. Maurice Merleau-Ponty, La natura. Lezioni al Collège de France (1956-1960), a cura di M. Carbone, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 129. Platone, Teeteto, 179e. Ivi, 179e-180a. Ivi, 180a.
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Ma come che sia, dal ‘sol colpo di mano’, legittimamente e sempre in riproposizione, l’interrogativo sinistro con connesso sciagurato rispondere: ciascuno di noi non esiste che per un breve intervallo di tempo, e in tale intervallo esplora soltanto una piccola parte dell’intero universo. Ci facciamo domande, cerchiamo delle risposte. Vivendo in un mondo sconfinato che può essere ora amichevole ora crudele, e volgendo lo sguardo ai cieli immensi che ci sovrastano, gli uomini si sono sempre posti una moltitudine di interrogativi. Come possiamo comprendere il mondo in cui ci troviamo? Come si comporta l’universo? Qual è la natura della realtà? Che origine ha tutto ciò? L’universo ha avuto bisogno di un creatore? La maggior parte di noi non dedica troppo tempo a preoccuparsi di simili questioni, ma quasi tutti di tanto in tanto ci pensiamo. Per secoli questi interrogativi sono stati di pertinenza della filosofia, ma la filosofia è morta, non avendo tenuto il passo degli sviluppi più recenti della scienza [...]. Così sono stati gli scienziati a raccogliere la fiaccola nella nostra ricerca della conoscenza41.
Morte di philosophìa, quindi? Morte di philosophìa, allora. Eppure, ed è qui il punto nonché la vera e inconfessabile questione, non si corregge di una virgola la finalità sottesa dacché ultima. Una finalità sottesa, dacché ultima, che ha a che fare e continua ad aver a che fare con philosophìa. Ha a che fare con philosophìa giacché investe un ‘perché’ più complessivo che nasce e finisce con ànthropos e, come tale, si estrinseca quale operazione puramente in perdita perché implica un continuo rincorrere e continue perdite-di-sé. L’illusorio e relativo prestigio sotteso nelle ritornanti scampanate a morto per philosophìa camuffano questa stessa medesima finalità sottesa dacché ultima e che investe un ‘perché’ più complessivo che nasce e finisce con ànthropos e, come tale, si estrinseca quale operazione puramente in perdita perché implica un continuo rincorrere e continue perdite-di-sé, con quella che è (ed è sempre stata per l’uomo occidentale) solamente effettiva e funzionale trasfusione in domande: Chi sono? Da dove vengo? E dove vado? Philosophìa ha elaborato queste domande – domande di cui, con gran maestria la scienza moderna e la scienza contemporanea hanno voluto partecipare e condividere l’aspettativa – solo per dar forma e forme plurime a questa finalità sottesa dacché ultima (e che investe un ‘perché’ più complessivo che nasce e finisce con ànthropos e, come tale, si estrinseca quale
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Stephen Hawking (e Leonard Mlodinow), Il grande disegno. Perché non serve Dio per spiegare l’universo, tr. it. di T. Canillo, Mondadori, Milano 2011, p. 5.
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operazione puramente in perdita perché implica un continuo rincorrere e continue perdite-di-sé) e che, incontrovertibilmente, ha avuto, ha e avrà a che fare con il fatto che la verità accade in noi. Anzi, e in qualche modo, questa finalità sottesa dacché ultima e che investe un ‘perché’ più complessivo che nasce e finisce con ànthropos e, come tale, si estrinseca quale operazione puramente in perdita perché implica un continuo rincorrere e continue perdite-di-sé, è proprio il fatto stesso che la verità accade in noi. È solo questo, infatti, che affranca ed emancipa, ad ogni passo, ànthropos dal terrore consapevole e dalla consapevolezza terrorizzante dell’assenza, dell’estinzione. È solo questo, infatti, che affranca ed emancipa, ad ogni passo, ànthropos dall’horror vacui, dalla violenta deriva tracimante e incontenibile dell’assenza. Trascinamento che è, quindi, ben più dell’angoscia di morire, della muta e sorda mia-morte. Questo orrore dell’assenza è proprio terrore e incubo d’esser strappati via e fuori radicalmente non tanto (e solo) dall’esistente che dunque sono, ma dall’esistere quale possibilità di ogni possibilizzazione nel suo insieme. Ossessione ancestrale, primitiva, che giace (e continua a giacere) al fondo profondissimo di qualsiasi successiva e subentrante nascita e rinascita di coscienza e che manifesta, manifestandosi, come un oscuro insondabile. Abisso che è illimitato (e invincibile comunque) thâuma per un’assenza che non è solo la ‘mia assenza’ concreta, ma un’assenza che, proprio transitando per la certezza della ‘mia concreta assenza’ da venire, si estroflette sino ad universalizzarsi. Orrore dell’inesistenza, di una separazione radicale che tutto fa dileguare; ingresso nel margine dell’indicibile, in un cono d’ombra, tenebra immensa, in cui e per cui qualsiasi-cosa svanisce. Accesso alle profondità di un neutro incommensurabile che tutto neutralizza; scorrere anonimo che non contempla in sé e per sé ni-ente-d’altro adveniente. Vuoto assoluto. Vuoto irredimibile. Se, detto altrimenti, la matrice, in origine viscerale e ‘irrazionale’, assolutamente orroristica per ànthropos, s’è via via saldata a una più lucida percezione e cognizione di una incontrovertibile imprevedibilità del divenire quale fluire che, inesorabile, trascina in direzione del nulla dell’esistere, del repentino e imponderabile annullamento, allora philosophìa, quale svelatrice e, indi, fonte di giudizio di questa estrema possibilità dell’impossibilità assoluta, s’è detta ad un certo punto come epistéme per fissare e fissarsi (in maniera artefatta) quale granitica verità che dispiega s-piegando e neutralizzando il senso e l’origine stessa di questo [im]prevedibile e, dunque, tale da produrre capacità e possibilità di previsione e anticipazione, s’è
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materializzata e imposta – e s’è quindi trasmessa in linea diretta dal punto di vista identitario – quale contrafforte e relativo sostegno del massimo dell’esposizione. Sovraesposizione massima di ànthropos. Ma, anche, massimo di esposizione-spiegazione-affermazione per questo ànthropos sovraesposto. Ora, e come si accennava, l’architettura, questa architettura dell’antica sapienza che così impropriamente tutto avrebbe centrato sull’uomo e finanche nell’uomo sino alla frontiera ultima dei più a-tei processi di nominazione e reificazione, tesi anch’essi alla indicizzazione e individuazione di principi esplicativi del reale, della conoscenza, dell’agire e del fenomenico (tutto), sembra essersi dissolta via via in scienze che – e anche come s’è visto – nella sperimentalità e dalla sperimentalità, nella fallibilità e dalla fallibilità, hanno derogato da ogni forma di assolutezza. Franchigia questa che ha certamente detto di riterritorializzazioni concettuali in direzione di coordinate nuove e possibilità epistemiche rivoluzionarie e decisamente, almeno sino ad ora, sconosciute e ignote. Ma, come che sia, hanno davvero, queste scienze, affrancato e svincolato dal terrore consapevole e dalla consapevolezza orroristica dell’ex-posto ànthropos? Hanno, cioè, queste scienze davvero consentito di derogare da questa finalità sottesa dacché ultima e che investe un ‘perché’ più complessivo che nasce e finisce con ànthropos e, come tale, si estrinseca quale operazione puramente in perdita perché implica un continuo rincorrere e continue perdite-di-sé? O non hanno offerto, forse, indiscutibilmente da attori protagonisti, un surplus propositivo a questa finalità sottesa dacché ultima e che investe un ‘perché’ più complessivo che nasce e finisce con ànthropos e, come tale, si estrinseca quale operazione puramente in perdita perché implica un continuo rincorrere e continue perdite-di-sé? In ultima istanza: ànthropos ha davvero poste le premesse per un tal tipo di revoca? Con tutta evidenza, se davvero questo avesse fatto, ànthropos avrebbe cominciato a derogare da sé, dall’evenienza di un suo promettersi a-venire. E dunque, se non c’è deroga, se allo stato non c’è possibilità di deroga alcuna, il dato estremo che è il vero senso proprio di questa finalità sottesa dacché ultima e che investe un ‘perché’ più complessivo che nasce e finisce con ànthropos e, come tale, si estrinseca quale operazione puramente in perdita perché implica un continuo rincorrere e continue perdite-di-sé, è che questo ex-posto che è ànthropos comunque sopravanza. E sopravanzare sta a dire che ànthropos si ridice ripromettendosi per sfuggire ancora al terrore dell’imprevedibile divenire di un anonimo fluire che, inesorabile,
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trascina in direzione del nulla dell’esistere, del repentino imponderabile annullamento. Ecco perché non si corregge di una virgola la finalità sottesa dacché ultima. Una finalità sottesa, dacché ultima, che ha a che fare e continua ad aver a che fare con philosophìa. Ha a che fare con philosophìa dal momento che investe un ‘perché’ più complessivo che nasce e finisce con ànthropos e, come tale, si estrinseca quale operazione puramente in perdita perché implica un continuo rincorrere e continue perdite-di-sé. Già, e ancora, philosophìa, la manìa del divenir-philosophìa quale intelaiatura struttural-identitaria del divenir-ànthropos. Delirio, or dunque, che fa sì che «i beni più grandi ci provengano»42, dacché, magistralmente, forma di manìa per la quale, quando uno veda la bellezza di quaggiù, ricordandosi della vera Bellezza, mette le ali, e desideroso di volare, ma rimanendo incapace, guardando verso l’alto come un uccello e non prendendosi cura delle cose di quaggiù, riceve l’accusa di trovarsi in uno stato di manìa. E il discorso giunge a dire che, fra tutte le divine ispirazioni, questa è la migliore e deriva dalle cose migliori, e per chi la possiede e per chi ha comunanza con essa43.
Stravagante manìa, quindi, che è philosophìa, che è divenir-philosophìa quale intelaiatura struttural-identitaria del divenir-ànthropos. Manìa èxtravagàntem che indica in direzione dello star fuori e oltre (metter le ali), allo scoperto come sempre, vagando-errando consentendo a-venire nell’ottica della promozione di ànthropos quale Promessa di ànthropos. ‘Promozione’ e ‘Promessa’ di ànthropos quali, anche e soprattutto, lo ‘specifico’ e il ‘proprio’ di philosophìa, sono stati, sono e saranno, per l’appunto, il nodo per ogni lògos che ha inteso, intende e intenderà proporsi e dirsi ‘post’. Già, e ancora, philosophìa, quindi. In fondo e in qualche modo, senza voler cedere a stolti (se non addirittura in malafede) atteggiamenti e ragionamenti anti-scientifici, è forse il caso di rilevare un eccesso. Un eccesso di richiesta e una improprietà di investitura nell’incertezza certa e nella certezza incerta, che comunque produce grandi spiegazioni, delle scienze coeve e di cui, per quanto pre-datata rispetto alla grande esplosione della biologia molecolare negli ultimi quarant’anni, con grande acume, già Merleau-Ponty evidenziava in una lunga
42 43
Platone, Fedro, 244a. Ivi, 249d-e.
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e quanto mai significativa pagina proprio su Scienza e filosofia, constatando che: non si deve chiedere alla scienza una concezione nuova della Natura, bell’e pronta, ma in essa troviamo di che eliminare false concezioni della Natura. D’altro canto, i concetti di «Natura» che abbiamo ricevuto danno al nostro pensiero, se non degli orientamenti, almeno dei termini di riferimento. Non è possibile parlare della Natura senza parlare della cibernetica. Forse è solo un ultrafinalismo senza meccanicismo; ma non possiamo pensare la Natura senza renderci conto che la nostra idea della Natura è piena di artifici. Per lo scienziato ciò è insieme eccitante ed esasperante: egli cerca degli «appigli» con i quali afferrare il fenomeno, ma non si sforza di capirlo. Così, per esempio in embriologia, gli scienziati intravedono una filosofia della vita, ma dimenticano quanto hanno scoperto. Driesch, separando alcune cellule dell’embrione, è stato in grado di rigenerare un nuovo embrione simile al primo. Ha tentato poi la controprova: accostando due idre l’una all’altra, ha ottenuto una nuova idra, dapprima con dodici tentacoli invece di sei: poi, a poco a poco, si è realizzata la riduzione dei dodici tentacoli a sei, come se il tipo della specie esigesse questa riduzione. Etienne Wolff ha potuto dimostrare come la mostruosità derivasse da un funzionamento non opportuno di questa riduzione e di questa fusione degli elementi pari. Due abbozzi di occhio si riducono a uno solo quando si distrugge un centro corticale della visione. In questo caso la situazione globale opera una regolazione. Tutto accade come se, quando si produce una divisione, ciò che resta si rassegnasse a tener conto della situazione, a fare di uno due o di due uno, come se il tutto fosse immanente alle parti. Ma lo scienziato si occupa poco di fare la «filosofia dell’organismo». Subito dopo aver scoperto il fenomeno, egli ne ricerca le condizioni. Perché avvenga la rigenerazione, occorre che gli organizzatori si trovino nei due pezzi e che questo organizzatore impartisca ordini alle parti mediante secrezione, l’organizzina. Ma essa può solo avere un ruolo scatenante. Allora, che l’organismo agisca, e come agisca, non si capisce di più di quanto le localizzazioni delle immagini nella corteccia ci facciano capire la percezione. Ma lo scienziato, dal momento che ha i suoi fattori scatenanti, non si pone più il problema, dimentica di dover spiegare l’azione del tutto sulle parti, e ciò perché ha realizzato il tutto e può agire su di esso. La preoccupazione del filosofo è di vedere; quella dello scienziato è di trovare gli appigli. Il suo pensiero non è guidato dalla preoccupazione di vedere, ma di intervenire. Vuole sfuggire alla paralisi del vedere filosofico. Così, spesso lavora come un cieco, per analogia. Una soluzione gli è riuscita? Egli la prova su qualcos’altro, poiché gli è riuscita. Lo scienziato ha la superstizione dei mezzi che riescono. Ma in questo tentativo per assicurarsi un appiglio, lo scienziato svela più di quanto veda in realtà. Il filosofo deve vedere dietro le spalle del fisico ciò che lo stesso fisico non vede44.
44
M. Merleau-Ponty, La natura. Lezioni al Collège de France (1956-1960), cit., pp. 125-126.
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La finalità sottesa, dacché ultima, e che philosophìa comunque da sempre sa e pone in spiegamento vedendo, anche vedendo dietro, in ogni multiforme e performativa formulazione, è sempre la medesima ed è ostinatamente avvinghiata ad un promettersi di ànthropos che non cede, perché non può in alcun modo cedere, alla tentazione della revoca da sé in conseguenza di qualsivoglia logica dell’appiglio dimentica della decifrazione/ interpretazione dell’azione del tutto sulle parti, poiché realizzatrice di un suo plastico (e conchiuso nell’ottica della ricettività fenomenica e relativo computativo-organizzativo risolutivo) e nuovo tutto. Se la domanda (che philosophìa comunque da sempre sa e pone in spiegamento vedendo, anche vedendo dietro, di cui poi quelle sul chi, da dove, per dove e perché) è oramai dirompentemente dirottata sul mero come alla maniera delle scienze coeve, l’ordine e il significato di questo stesso interrogare non può astrarre dal banale dato in ragione del quale tutto ciò proviene, comunque e dovunque, da ànthropos, da un multiverso di lògoi che pur nel decentramento, sviluppati da ànthropos, ruotano e gravitano attorno e dentro persino ànthropos. Tutto ciò proviene, comunque e dovunque, finanche le teorie del ‘post’ dell’umano, da ànthropos, con tutto quel che comporta. Anzitutto, sempre ritorno ad ànthropos e di ànthropos. È vero che c’è un mondo senza Homo, persino la pietra e l’animale sono ‘un-senza-Homo’ ovvero abitano a prescindere da Homo, a prescindere dall’ipotetico utilizzo di Homo e finanche dalla sua fagocitante impresa apprensivo-conoscitiva, ma non appena mi pongo la domanda circa il come del mondo, della pietra e dell’animale, pongo un come a partire da Homo, che è a partire da Homo in premessa e nell’esito di qualsiasi eventuale risposta. Dal prescindere-da al a-partire-da. È inutile favorire temi di inganno su questo e sviluppare protocolli che rivelano, al fondo, un crescente sentimento di antropofobia. Antropofobia che, portato necessitato di antropologie pur interessanti a certi livelli di approfondimento ma che, in effetto, maturano e incrementano solo un sentire di ritorno di autentico odio per ànthropos in nome di una datità rimoralizzata e che cela, sotto un velo ipocrita, solo estatico ri-avvertire di matrice creazionista, si mostra dunque cedevole, troppo cedevole, a un ri-sentito moralisticheggiante da etichetta che, comunque e sinistramente, è presente in ogni operazione di valorizzazione della orizzontalità del bìos. Una antropofobia che, risentimento d’ànthropos per ànthropos, scambiando descrizione e valutazione – o, quanto meno, ricorrendo ad una impropria loro mascherata e costante sovrapposizione – di fatto cade nello stesso tragico errore di ogni umanesimo tradizionale, cambiandone solo di segno: mora-
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lizza, cioè, l’immoralizzabile e con ciò, facendo leva sul presunto disarcionamento dell’angelico ànthropos autoriferito e vertice di una datità pre-esistente, lo reinstalla nel più scomodo ruolo di luciferino e assoluto artefice di infiniti abusi e distruzione di un qualcosa di inviolabile che, in un circuito auto-ascritto che persiste, deve solo predittivamente rovesciare prospettive e relazioni per garantire e favorire sostenibile persistenza biotica. In realtà, qualsivoglia apertura di spazio antropico ha comportato, comporta e comporterà un pluriverso di veri e propri addomesticamenti antropico-diretti che non necessariamente accolgono e accompagnano un divenire. Perché se così non fosse, anzitutto si verificherebbe un corto circuito logico proprio nelle stesse teorie post-darwianiane, giacché in qualche modo si reintrodurrebbe la nozione di un divenire pre-scritto in cui ‘il bene’ è perché è-già-dato – vale a dire che, ad esempio, alcune specie non si estinguano ed estingueranno tanto più per mano di ànthropos –, ovverosia, un novello dover-essere modellato e plasmato sul novello evoluzionistico essere; in più, e in maniera più significativa nell’ottica della performatività identitaria che, dettaglio tutt’altro che insignificante, ha reso e rende possibili finanche questi straordinari ‘nuovi saperi’, ci si dimenticherebbe del peculiare che ha detto e dice in qualche modo ancora ànthropos. Peculiare che ha detto e dice in qualche modo ancora ànthropos e che riscrive addomesticamento antropico, giacché antropo-diretto, con il più chiaro e comprensibile far-mondo, con il più direttamente fruibile far-essere-un-mondo. Qui, tuttavia, la necessità di tirare alcuni fili e stringere sul punto decisivo della questione e che continua a ruotare sugli interrogativi posti in apertura e relativi all’inconfessato (giacché da sempre inconfessabile) intimo profondo riemerso e al perché della sua ri-esposizione ogni qual volta il lògos, qualsiasi lògos, a partire da ànthropos, torna a vertere proprio su ànthropos. Detto altrimenti: quel che sin qui s’è provato a distillare ha mostrato che la teoria dell’evoluzione (o, meglio, della trasmutazione), cioè quel che ha smosso dalle fondamenta ogni artefalsificata architettura metafisica illusoria e ingannevole, al punto da ri-svelare e ri-palesare questo intimo profondo (e inconfessato, giacché da sempre inconfessabile) dell’ex-posto ànthropos e sempre da ri-esporre, ovvero da ridire e ribadire ogni qual volta il lògos, a partire da ànthropos, torna a vertere proprio su ànthropos – ciò nonostante, ineluttabilmente e maggiormente ogni qual volta si pretende pianificare e proporre un efficace e finanche persuasivo lògos su ànthropos – che cambiando, e solo in apparenza, lo svolgimento e l’attuazione degli studi in biologia e, indi, nel solco più generale delle scienze della vita, ha liquidato ogni fissismo essenzialistico e ogni essenzialismo fissista e
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stazionario~stagnante per una sempre più evidente e rilevabile mobilità e variabilità. Mobilità e variabilità quali cifre e indici di una mutabilità incessante che, senza soluzione di continuità, ci ha anzitutto e preliminarmente introdotti nella prospettiva riflessiva di un fluire nell’ordine (e disordine) della più incondizionabile (dacché assolutamente ingestibile) ed eterodiretta mutazione. Ma la dischiusura d’orizzonti è stata stupefacente, considerato che una volta letteralmente disfatte le ultime indistinte (e comunque teleologiche) rocche dell’incondizionabile, dell’incontrollabile e dell’eterodiretto, ovvero i secolari (e profani) caso e occorrenza (se non addirittura necessità) – lusinghe cui, in qualche modo e come tra le righe si accennava in precedenza, non è riuscito a resistere neppure lo stesso Darwin45 e, con lui, buona parte del neo-evoluzionismo novecentesco tant’è che, allo stato dell’arte, contrariamente all’opinione tradizionale, bisogna sottolineare che la selezione naturale fra tratti generati in modo casuale non può essere il principio base dell’evoluzione. Devono esserci invece vincoli endogeni forti, spesso decisivi, e schiere di regolazioni delle opzioni fenotipiche su cui opera la selezione esogena, [...] [e questo perché] la dottrina tradizionale della selezione naturale è a una sola dimensione. Si assume che la struttura ecologica sia la spiegazione par excellence della struttura fenotipica; il contributo delle fonti interne (endogene) di variazione e dei vincoli interni è considerato, nel migliore dei casi, marginale46 –
a partire dal semplice (come sempre) rilancio del domandare: posso io? [destinare la mutazione, nella fattispecie], ànthropos si è collocato e (ri) dis-posto nella totalmente ignota situazione di plasmare e forgiare mobilità e variabilità persino dirigendo, per il tramite delle biotecnologie, cioè le 45
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A titolo esemplificativo è da segnalare l’inossidabile, in uno schematismo prospettico che in quanto tale ha a soffrire comunque di un necessitarismo metafisico di rimando, ineluttabilità segnatamente allo sviluppo delle qualità morali dell’uomo, la cui «base si trova negli istinti sociali, che includono sotto questo nome i vincoli familiari. Questi istinti sono assai complessi, e nel caso degli animali inferiori determinano tendenze particolari verso certe azioni definite; ma gli elementi più importanti sono l’amore, e la “simpatia”, che è un’emozione diversa. [...] Questi istinti non si estendono a tutti gli individui della specie, ma solo a quelli della stessa comunità. Poiché sono assai utili per la specie, probabilmente sono stati acquisiti attraverso la selezione naturale. Un essere morale è colui che è in grado di riflettere sulle sue azioni passate e sui loro moventi, di approvarne alcune e disapprovarne altre; e il fatto che l’uomo sia un essere che certamente merita questo appellativo, costituisce la distinzione principale tra lui e gli animali inferiori». Ch. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, cit., p. 457. M. Piattelli Palmarini-J. Fodor, Gli errori di Darwin, cit., p. 25 e p. 26.
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tecnologie autoreplicative capaci di «autoconfigurarsi e di esorbitare le attribuzioni che l’uomo ha dato loro»47, che estendono lo spazio dell’orizzontalità dalla simmetria umano/non-umano sino al confine della simmetria organico/inorganico, lo spettro delle possibilità di mobilità e variabilità avvenire proprio a partire da se stesso, prosciugando, in concetto e dunque de facto, l’eventualità(-evenemenzialità) del già dato. Un già dato che, oltretutto, non potrà proprio più rintracciare alcun motivo o modo d’essere e proporsi, dacché al posto di una supponibile armonia tra l’ordine (pre-presunto) delle cose e il sempre sopravveniente ordine delle idee, circuito che metafisica come struttura ha sì posto-supposto già realizzato ma di cui finanche le scienze hanno potuto fare a meno di riferirsi in qualche modo, subentra al massimo un armonizzarsi-equilibrarsi, una sempre-da-rifare ordinabilità. Un armonizzarsi-equilibrarsi, una sempreda-rifare ordinabilità da ricercare componendo~scomponendo~ricomponendo. Un armonizzarsi-equilibrarsi, dunque, continuamente precario perché costantemente in fieri e perché, in sostanza, un fare che non necessariamente giunge a compimento e realizzazione. Anzi, nell’ottica più propria di territorializzazione~deterritorializzazione~ riterritorializzazione per nuove territorializzazioni, detto armonizzarsiequilibrarsi è un fallimento continuo. La tensione alle agognate integrità e completezza è solo un frustrante realizzare parziale, e dalla eclettica e disarmonica sinfonia di concretizzazioni si tende a un compimento che non si compie mai. Di questo andamento~svolgimento è parte, è la parte, ànthropos. Ànthropos, quindi, non è realizzato, è trazione massima solamente perché è transizione-a e transizioni-a. Ànthropos, mai compiuto ma che vuol compiersi, è realizzarsi, incertissimo e per nulla scontato. Un dato che, non più già, è un darsi quale farsi~realizzarsi continuo. Atteso che qui, questo stesso farsi~realizzarsi non vuol affatto dire della riattestazione del vetusto archetipo della carenza biologica dell’uomo. Difatti, se è vero come è vero che «l’uomo non è affatto carente dal punto di vista biologico»48 e, quindi, che l’incompletezza è [...] il prerequisito per definire due grandi bacini, talvolta sinergici altre volte antagonisti, a cui l’uomo attinge in ogni sua espressione: da una parte c’è la natura, con i suoi vincoli e le sue leggi, le sue pulsioni e tenden-
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R. Marchesini, Il tramonto dell’umano. La prospettiva post-umanista, cit., p. 19. Id., Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 20052, p. 23.
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ze, il suo carattere universale anche se determinato, dall’altra c’è la cultura come manifestazione libera, aperta ai valori, contingente nelle espressioni ma trascendente l’essere biologico49,
l’autentica cifra di questo darsi quale farsi~realizzarsi, rinvia solo e di nuovo (e come sempre) alla finalità sottesa dacché ultima e che investe un ‘perché’ più complessivo che nasce e finisce con ànthropos e, come tale, si estrinseca quale operazione puramente in perdita perché implica un continuo rincorrere e continue perdite-di-sé dell’ex-posto ‘solo’ per sfuggire al gorgo dell’assenza. Sull’onda, dunque, della già richiamata – e decisamente persuasiva – individuazione-indicazione della specificità di ànthropos nella plasticità ibridativa come quella modalità/strumento che modifica, dilatandolo e slargandolo, il confine di coniugazione con le realtà esterne al punto da favorire, se non produrre ex novo, prototipi e modelli di relazione-connessione con tipologie di «alterità non umane, sia biologiche che tecnologiche» nell’ottica di «un processo creativo e non determinato», la concreta possibilità di ribadire, ridicendolo, questo ànthropos. Ànthropos che, dunque, si direbbe ancora singolare «esploratore capace di compiere continui accessi coniugativi»: modo e possibilità che esalterebbero ulteriormente la sua grande ricchezza [che] nasce [...] dalla sua capacità di costruire ibridazioni epistemologiche con l’alterità, non nel restare chiuso all’interno del proprio dark side dello specchio, ossia di quell’apparato investigativo (percettivo, congetturale, interpretativo) che gli è stato assegnato dalla filogenesi. È proprio nell’andare oltre lo specchio che si caratterizza la peculiarità umana50.
Accelerazione sostanziale segnatamente a questo talento nell’interfacciare, nell’interfacciarsi e che assumendo che «il non umano» è «partner dialogico e quindi referente, vale a dire in grado di intervenire, attraverso un portato referenziale, sui predicati umani» stessi per favorire quegli essenziali «processi di antropo-poiesi»51 abili a spalancare le porte della biofabbrica, «ossia [...] un nuovo ambito di intervento tecnologico non solo applicato al vivente ma realizzato attraverso il vivente stesso»52, non può non schiudere a sviluppi ulteriori di lògoi, di lògoi che, a certo titolo, riecheggiando ancora il pragmatico dal punto di vista kantiano, si dimostrano 49 50 51 52
Ivi, p. 10. Ivi, p. 71 e p. 69. Id., Il tramonto dell’umano. La prospettiva post-umanista, cit., p. 31. Id., Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, cit., p. 405.
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predisposti a un effettivo complessivo di tangibile servizio/beneficio per l’umano. Se, in qualche modo, la singolare performatività di ànthropos è stata ed è (ma sarà anche) quella di dirsi divenendo molteplice, promettendosi a-venire nel suo divenir-multiplo, non v’è dubbio che, di là da falsi e fasulli tracciati che segnalano sostanzialmente limitata confidenza con questa «stagione magmatica di un uomo in compimento, dove le mutazioni, le ibridazioni, le infezioni/invasioni alla kosmopolis umana perdono il loro carattere di pericolo e divengono opportunità»53, conî concettuali alternativi in fabbricazione e ancora tutti da ideare, potranno supportare, e proprio nell’ottica dell’a-venire, ogni autentica Promessa. Com’è il caso, decisamente, di quel plesso di sviluppi interconnessi a quelle accezioni e concezioni di soggettività che si realizzano per devoluzione e integrazione e che, effettive possibilità di rilancio d’ànthropos nell’ottica della finalità sottesa dacché ultima e che investe un ‘perché’ più complessivo che nasce e finisce con ànthropos e, come tale, si estrinseca quale operazione puramente in perdita perché implica un continuo rincorrere e continue perdite-di-sé, giungono a trasfigurare, piegandolo nell’intimo reticolato significativo, individuo in multividuo. Il multividuo [...] è un’entità che non libera la propria identità, svolgendola e purificandola, ma la costruisce, ossia la realizza come un qualcosa di non predefinito che si compie nella totale apertura al futuro attraverso i processi dialogici-interattivi con il mondo esterno. La contaminazione, vale a dire l’assunzione delle alterità nei percorsi di incontro-confronto, sta pertanto alla base tanto dell’espressione quanto della costituzione di soggettività. Tali percorsi stanno alla base della costituzione multividuale della soggettività post-umanistica e sono rappresentati da: a) apporti referenziali, dove l’alterità impone delle proprie coordinate di crescita o uno specifico campo di espressione alla soggettività, cosicché questa si adagia sulle linee referenziali esterne; b) apporti ibridativi, dove il predicato di risulta nasce da un processo emergenziale che trascende le qualità del soggetto e dell’alterità, cosicché non è possibile assegnarlo ai due enti ma solo alla loro relazione; c) apporti coevolutivi, dove i due enti intraprendono un percorso di complementarietà o reciproca dipendenza tale per cui i predicati dell’uno sono estraibili solo facendo riferimento ai predicati dell’altro54.
Ancora e di nuovo, perdite continue di ànthropos che aprono però, nella loro funzionalità inscritta, ad acquisizioni altre per ànthropos a-venire, 53 54
Ivi, p. 192. Id., Il tramonto dell’umano. La prospettiva post-umanista, cit., pp. 152-153.
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per ancora-ànthropos. Configurazione di Promessa autentica che è (di nuovo e daccapo) dire-ànthropos: lògos d’ànthropos su ànthropos e per ànthropos. Umano-lògos che per sfuggire a qualsivoglia rinvenibile incrostazione metafisica, ideologica e quant’altro, non potendosi più dire ‘umanesimo’, ‘umanismo’, più semplicemente è possibile rendere con umano-loghìa e, pur tuttavia, già declinabile, nell’eventuale e sempre-come-sempre ‘post’ da venire, al plurale. E per cui umano-loghìe quale già prospetto e visuale di un-da-venire che, già in concetto, è adveniente. Propriamente, umano-loghìa declinata all’istante già al plurale, umanologhìe, ovvero l’eventualizzarsi di tracciati per l’adveniente e pianificazioni di adveniente. Umano-loghìa~umano-loghìe, anche per svelare una certa qual, e ulteriore, presunzione assolutizzatrice delle scienze in ordine alla quale, ormai incomponibile, vi sarebbe dissaldatura proprio tra l’ambito della ‘scienza’ stessa e l’‘umanesimo’. Se, infatti, ‘umanesimo’ è ancora e solo musiké, il mitico tutelato dalle muse, come a dire di circoscritte sfere ‘storico-geografiche’ di arti e letteratura e, indi, di un granitico ancorabile e ancorato al chi, al dove e al quando d’ogni e qualsivoglia ‘umanocoesistere’, laddove ‘scienza’ è, invece, un qualcosa di atemporale e comunque oggettivo nella sua efficacia di computabilità e infallibile fallibilità, come a dire di un aggiornato Universale in qualche modo in detenzione e da altri nuovamente in costruzione, addirittura questa stessa dissaldatura riacquisirebbe le apparenze del dicotomico appositivo verità-opinione. Ingenuità strutturale e travisamento contenutistico. Travisamenti contenutistici e profonda mollezza struttural-concettuale anche nell’utilizzo di ‘umanesimo’, che di tanto in tanto è stirato su una determinata (e tuttavia troppo generica) ri-antropo-centrante modulazione di foggia rinascimentale; altre volte per dire, camuffandone e ridicolizzandone il significato, di un certo ordine effimero e superfluo dello ‘spirituale’; in altre circostanze ancora, nella più corrosiva flessione di ‘umanismo’, per attestare della sconsideratezza di speculazioni ideologicamente (e tragicamente) compromesse anche in epoca recente. Da qui, dunque, un primo motivo di non-più-utilizzo per ‘umanesimo’ e ‘umanismo’. Ma ancora. Allorché, indefettibilmente, queste miscomprensioni e ingenuità struttural-concettuali hanno a soffrire di quel necessario e necessitante ordine della rappresentazione eretto sull’autoriferito e circolarmente chiuso circuito logico della informazione-controllo-richiamo – tautologico assiomatico e
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auto-fondante a prova del quale basti pensare alla relatività einsteiniana che fonda nell’apriori della costanza e insuperabilità della velocità della luce e conclude, nell’inveramento di questo stesso apriori, con l’assioma di ritorno della necessaria congruenza e identità dei risultati e dunque della risultante ‘legge fisica’, a prescindere dalla collocazione-dislocazione del sistema di riferimento inerziale –, tutto ciò rende ancor valido il nucleo di una precisa e mirata critica heideggeriana. Se infatti, con giubilo da parte di chi ritiene in tal modo d’esser finalmente riemerso da un più che bimillenario stato di minorità critico-conoscitiva, «la filosofia si dissolve in scienze autonome», e se «la nuova scienza che unifica, in un senso nuovo di unità, tutte le varie scienze si chiama cibernetica»55, ovvero la foggia e la cifra di un modello epistemologico capace di coordinare in uno schema esclusivo discipline differenti, se non eterogenee, e svariati elementi di conoscenza nonché categorie concettuali distanti quali comunicazione e controllo, informazione ed energia, trasmissione e apprendimento. Se, e ancora, questa scienza nuova, genuina «arte del pilota o timoniere»56 come nelle migliori intenzioni di uno dei suoi padri fondatori, il matematico Norbert Wiener, che unifica in un senso nuovo di unità quale custodia e garanzia della complessità, si connota per la sua inagibilità ascrittiva in ogni impresa strutturale, verticale e verticistica, di dominio-possesso dal parte del soggetto-uomo sulla natura in ragione di una continua processualità di feedback che fa sì che questo stesso soggetto-uomo, governante comunque l’oggetto-fenomeno, debba modificare e modellare il proprio stesso agire in conformità alle resistenze che l’oggetto-fenomeno oppone, proprio con Heidegger non si può non constatare che: il carattere tecnico delle scienze, che sempre più univocamente vi s’imprime, si può riconoscere dal modo, un modo strumentale, in cui esse concepiscono quelle categorie che di volta in volta definiscono ed articolano il loro ambito tematico. Le categorie sono rappresentazioni di modelli operativi. La loro verità si misura dall’effetto che produce il loro impiego all’interno del progresso della ricerca. La verità scientifica viene posta come equivalente all’efficacia di questi effetti. Le scienze medesime si prendono carico volta a volta di operare la necessaria trasformazione dei modelli concettuali. Ad essi viene concessa solamente una funzione tecnico-cibernetica, negando loro ogni contenuto ontologico57.
55 56 57
Martin Heidegger, Filosofia e cibernetica, a cura di A. Fabris, Edizioni ETS, Pisa 19972, p. 31. Norbert Wiener, Introduzione alla cibernetica, tr. it. di D. Persiani, Edizioni Scientifiche Einaudi, Torino 1953, p. 23. M. Heidegger, Filosofia e cibernetica, cit., pp. 32-33.
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E non si può non rilevare, allora, che è forse giunto il momento di esplicitare che l’inganno e l’indicizzazione di una gran messe di ‘false partenze’, albergano proprio nell’artefatta (e indi inesistente) individuazione di questa stessa ‘incomponibile dissaldatura’ che, in qualche modo, affonda i suoi motivi ispiratori nei gangli di una verità, di un far-verità commisurato, calcolato e computato nei termini della funzione-equivalenza dell’effetto utilizzativo. E, ancora una volta, affinché non s’abbia a cedere e cadere in queste miscomprensioni, per sfuggire dunque a ulteriori incrostazioni metafisicheggianti (ancora di ritorno) e che investono proprio il far-scienza, umano-loghìe per dire di una detenzione esclusiva di ‘umanesimi’ e/o ‘umanismi’, quali storicizzabili e storicizzanti accezioni e concezioni di ‘uomo’ che stan dietro e avanti, sopra e sotto, qualsivoglia antropo-fare. Anche l’antropofare delle medesime scienze, convincentemente riferito alla propria efficacia computazionale e infallibile fallibilità. Un antropo-fare che nello spazio e nel tempo, e solo nello spazio e nel tempo, prospetta l’adveniente nel lògos e per mezzo del lògos. Prospettiva dell’adveniente che nel lògos e dal lògos tiene aperta, senza soluzione di continuità, la fabbrica del concetto e, indi, della Promessa quale dire-detto della costante transizione-a e, di conseguenza, del persistente accesso-a ànthropos. Dacché se è «solo il linguaggio», il lògos, che «rende capace l’uomo di esser quell’essere vivente che egli è come uomo»58, atteso che qui si indica in direzione di un lògos, di un linguaggio «naturale», [...] che non è inventato e ordinato solo in un senso tecnico, [ma che] si mantiene sempre, per così dire, alle spalle di ogni trasformazione tecnica del sistema linguistico [...]. Linguaggio tramandato [e] tradizione non è mera trasmissione; essa è conservazione dell’iniziale, è custodia di nuove possibilità del linguaggio già parlato. È questo linguaggio stesso che contiene e dona il non detto59,
di fronte a miscomprensioni e ingenuità struttural-concettuali che si radicano nel tautologico auto-fondante (e talvolta, appunto, pericolosamente autistico), non si può non rendere definitivamente esplicito, al fine di concretizzare e legittimare trasfigurazioni necessarie e vitali trasfiguranti advenienti nel solco anche e soprattutto di questi neo-saperi del bìos, che 58 59
Id., Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, a cura di C. Esposito, Edizioni ETS, Pisa 1997, p. 46. Ivi, pp. 54-55.
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con l’incondizionato dominio della tecnica moderna si accresce la potenza – la pretesa come pure la prestazione – del linguaggio tecnico, predisposto alla più grande estensione possibile di informazioni. E poiché essa si svolge nei sistemi della comunicazione e della segnalazione formalizzate, il linguaggio tecnico costituisce l’attacco più duro e più minaccioso a ciò che è proprio del linguaggio: il dire in quanto mostrare e far apparire il presente e l’assente, la realtà effettiva nel suo senso più ampio. Ma poiché il rapporto dell’uomo con l’ente che lo circonda e lo sostiene, come pure con l’ente che esso stesso è, si basa sul far apparire, sul dire che viene a linguaggio e che non viene a linguaggio, allora l’attacco, da parte del linguaggio tecnico, a ciò che è proprio del linguaggio, costituirà al tempo stesso una minaccia per l’essenza più propria dell’uomo60.
Propriamente umano-loghìe, quindi. Il lògos, al fondo, intimamente; nell’intimo che fa un’essenza che non è più l’essenza, bensì un rizoma performante e mutante che è il più proprio di ànthropos perché forme, messa in forme e dar-forme al farsi~realizzarsi che è ànthropos-ancora. Un intimo, quindi, che intima e persino ancora intimidisce, dacché imperativamente consente, comunque e dovunque, all’uomo di stabilire con l’ente, con l’ente in quanto tale in ogni pensabile percorso di incontro-confronto, e persino con se stesso, un rapporto esclusivo; anzi il rapporto esclusivo, la fondament[ale] relazione. Relazione fondament[ale] che si istituisce [sempre e anticipatamente] dacché l’uomo, lògon èchein, dotato di parola nel senso di colui il quale si dota di parola, si fa, imponendosi, detentore dell’in quanto tale, dell’in quanto tale come struttura e che consente predisporre, ordinare e sostenere giacché rifonda a sua volta (e ogni volta nuovo) proprio il lògos. E fondando, rifondando sempre di nuovo ogni volta il lògos, ne permette la bivalenza nucleare di inganno/falsità [e velamento] e autenticità/verità [svelamento] che è nucleare perché costituisce per l’appunto la [identitaria] base genetica di noi uomini occidentali, cioè di noi eredi ancora dell’antica sapienza greca. Lògos apophantikòs, dunque, che manifesta [e si manifesta] la [nella] sua possibilità del disvelare-velare, come la linea, germinale, di questo-uomo-qui che, lògon èchein, provvisto di parola nel senso di colui il quale si dota di parola, in tal guisa, s’è sempre detto e ridetto promettendosi e, anche, s’è sempre promesso e ripromesso dicendosi. Promettersi esclusivo di un ‘dirsi esclusivissimo’ di un lògos che informa perché dà forma e forme nel cono di luce della detenzione: che dà 60
Ivi, p. 52.
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forma e forme nel cono di luce della detenzione (che è sempre nuova invenzione e costruzione) di un lògos plastico che è già individuazione e reificazione. Che è già processualità e procedure di individuazione e reificazione. Questo, quindi, il significato e il senso della detenzione di ànthropos dell’in quanto tale come struttura che fondandosi nel lògos, rifonda sempre e di nuovo il lògos. Detenzione che si fa allora, nel suo costante riavvio, finanche plastica [e plastificante] proprietà del lògos e, di conseguenza, ‘nel’ lògos per nominazioni e reificazioni continue che determinano estensioni plurime di superfici antropiche e addomesticamenti antropo-diretti quali effettive attestazioni e concretizzazioni di re-existenza. Intimità stretta, serrata e insolubile dacché indissolubile, tra l’apophantikòs e lògos apophantikòs che è, in forme, il divenire-linguaggio, il moto trasfusionale irrefrenabile, necessariamente continuo, dell’in quanto tale dell’ente in ogni pensabile (e ripensabile) percorso di incontro-confronto. Mostrante è quel lògos alla cui essenza appartiene tra l’altro il poter essere ingannevole. Ingannare significa: dare a intendere qualcosa, fingere che qualcosa sia ciò che non è, oppure fingere che qualcosa che non è in un modo e nell’altro, sia così. Questo ingannare, questo essere-ingannevole che fa parte dell’essenza del lògos, questo spacciare qualcosa per qualcosa che non è, questo dar a intendere è dunque, in riferimento a ciò sul quale si inganna, un velare. Manifestante è quel lògos della cui possibilità fa parte il poter velare61.
Intimità stretta, e di nuovo, tra l’apophantikòs e lògos apophantikòs che essendo, in forme, il divenire nel linguaggio dell’in quanto tale dell’ente in ogni pensabile (e ripensabile) percorso di incontro-confronto con e per ànthropos, cioè di colui che, lògon èchein, ovvero fornito di parola nel senso di colui il quale si dota di parola, si ridice più intensamente e fedelmente, velandosi per rivelarsi, lògos àntropofantico. Lògos antropophantikòs che traduce il dirsi promettendosi e il promettersi dicendosi di ànthropos nell’ottica delle vitali e necessarie manipolazione e contraffazione per il tramite di questa sintassi. Sintassi che rintraccia nel verbo essere la possibilità stessa del dire-promettere d’ànthropos, atteso che qui si deve esser disposti ad assumere ‘essere’ come un quid che si storicizza ogni volta, non essendo evidentemente più il portato di un Essere metafisico, ma solo il precipitato del gran performare inventivo, velante-disvelante, di ànthropos, ogni volta da rifondare. 61
Id., Concetti fondamentali della metafisica – Mondo – finitezza – solitudine, a cura di C. Angelino, tr. it. di P. Coriando, il melangolo, Genova 1999, p. 396 [§ 72. b].
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Sintassi che, dunque, rintracciando nel verbo ‘essere che si storicizza’ la possibilità stessa e più propria del dire-promettere d’ànthropos, rivela il riavvio della consapevolezza ultima (e ultima perché prima, primordiale) in ordine alla quale questo ‘essere che si storicizza’ – appieno abile alla plastica e sempre mutabile disposizione della nominazione e reificazione in ragione della fondamentale logica diadica essere/non-essere e che, a sua volta, struttura grammaticalmente il lògos – affonda nel buio tremendo (e non a caso) dell’a-essere. Assenza (e non a caso) d’essere che pur non essendo ‘principio’ principia, istituendola, questa stessa logica diadica. Ed allora: sintassi e grammatica che rintracciando nell’a-essere la loro possibilità prima e ultima del dire-promettere [esclusivissimo] a-semprevenire per ànthropos, hanno letteralmente garantito tutto ciò nella circolare e costante istituzione del mondo per il tramite della distinzione, nominazione, identificazione, identitarizzazione e catalogazione dell’ente in quanto ente, del qualcosa in quanto qualcosa in ogni pensabile (e ripensabile) percorso di incontro-confronto. Possibile impostazione del problema del mondo che, performativa esclusività di ànthropos, implicando che la struttura dell’in quanto tale «è una forma normale del discorso umano, che, fin dalle prime meditazioni nella filosofia antica, ha determinato non soltanto la teoria del discorso, la logica, bensì insieme ad essa anche la grammatica»62, ha implicato e implica la correlativa possibilità per ànthropos di ancora dirsi promettendosi e ancora promettersi dicendosi per affrancarsi e svincolarsi dal terrore consapevole e dalla consapevolezza orroristica del suo esser ex-posto. E in fondo, per questo, e proprio perché lògon èchein, ovvero provvisto di parola nel senso di procacciatore di parola, l’antropo-lògos che ancora sono. E per quanto ciò sia tanto poco fisiologico quanto, e altrettanto poco, pragmatico, philosophìa da sempre sa, tant’è che nella cultura civile, tutti i progressi tramite i quali l’uomo compie la sua scuola hanno il fine di impiegare all’uso del mondo le conoscenze e le abilità acquisite; ma nel mondo l’oggetto più importante a cui è possibile applicarle è l’essere umano, perché questi è scopo ultimo a se stesso63.
Atteso che, con tutta evidenza, lo scopo ultimo a se stesso di ànthropos oramai necessita di definitiva e trasfigurata rilettura nel cono significativo 62 63
Ivi, pp. 397-398. I. Kant, Antropologia dal punto di vista pragmatico, cit., p. 99.
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di quella consapevolezza che già Nietzsche aveva avanzato percependo, in maniera più profonda anche rispetto all’oggi, l’ambiguo assoluto, tragico e intimissimo, oltre che a-morale, di tutto questo e per cui: l’uomo è un cavo teso tra la bestia e l’oltreuomo, – un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto64.
Transizione e tramonto in un’ottica del già-edificare nuove transizioni e nuovi tramonti, che nel mentre dicono ‘oltre-uomo’, stanno già riscrivendo ‘dopo-uomo’, ovvero e ancora, la necessità di continuare a dire ànthropos dopo-daccapo, nei termini proprio della sua determinante determinazione. Determinante determinazione di ànthropos, la cui singolarità ed esclusività è e resta quella di andare al di là di ciò che può afferrare, stabilendo, pertanto, nuove frontiere per nuovi attraversamenti. A-sempre-venire.
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Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, tr. it. di M. Montinari, Adelphi, Milano 199317, p. 8 [traduzione leggermente modificata].
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NICOLA RUSSO
L’UOMO POSTUMO E LA SUA IDEOLOGIA Una volta erano tutti matti” dicono i più raffinati e strizzano l’occhio […]. Noi abbiamo inventato la felicità” dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio. F. Nietzsche
1. Un dialogo malriuscito «Per lo più è preferibile essere giusti, ma qualche volta bisogna pur dire la verità!»: con questo singolare paradosso tempo fa ha esordito, o farei meglio a dire che ha sbottato, un vecchio amico, che non avevo mai sentito mettersi in bocca parole simili. Cosa tanto più stupefacente, se si considera che quel che gli chiedevo non era nulla di tanto essenziale, profondo o venerabile da spingere un filosofo della sua genia a scomodare niente di meno che la ‘verità’: volevo solo che mi raccontasse, infatti, qualcosa intorno al post-umano, che avevo sentito avere qualcosa a che fare con il superominismo. Mi resi subito conto, però, che non avrei potuto fargli richiesta più irritante: «Non che ritenga di essere, né in generale, né tantomeno su ciò più che su altro, un depositario di verità –; altrimenti sarebbe magari giusto dirle sempre o, almeno, per lo più…», si sentì in dovere di precisare, ancora sibillinamente, «ma è che ci sono questioni, rispetto alle quali sforzarsi di essere giusti, e al tempo stesso di conservare un sufficiente rispetto di se stessi da non divenire semplicemente disonesti, implica troppe cose, troppe abilità e convinzioni, di cui faccio volentieri a meno». Pur sommando un paradosso all’altro, il discorso pareva tuttavia cominciare a prendere forma, la forma di una «considerazione generale intorno a certi elementi minimi», comuni alle varie correnti di quel «movimento», una considerazione «di certo molto ingiusta», mi diceva, «poiché rinuncia sin dall’inizio a tutti i possibili distinguo, magari chiamandoli anche ogni volta per nome e cognome, distinguo sicuramente corretti e appunto giusti, ma tutto sommato ininfluenti e anzi fuorvianti». Un po’ sconcertato nel vederlo tagliar corto così alterato, quasi burbero, rimasi dunque ad ascoltare, finché riuscii a sopportarla, quella che sempre più assomigliava a un’invettiva:
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«Una delle ragioni per le quali gli studi umanistici, e quelli filosofici in particolare, patiscono oggi un sempre più diffuso e quasi congenito discredito, soprattutto laddove sarebbe auspicabile che così non fosse, ossia tra gli scienziati di professione, sempre più pigramente propensi a catalogare l’intero ambito in quello delle chiacchiere stravaganti, incoerenti e ridondanti, è nel nesso tra logiche editoriali e mode intellettuali, un nesso che negli ultimi decenni ha trovato nel postumanismo e nelle sue diverse varianti un interprete alla sua altezza. Sorto in ambienti tradizionalmente impermeabili al senso storico, si è diffuso rapidamente, come tutti gli “ismi” di successo sul “mercato dell’opinione pubblica”1, in grazia della sua attrattiva tematica e spensierata creatività terminologica, della sua attitudine propagandistica e spendibilità libraria, del suo essere à la page e in sintonia con tanta cattiva divulgazione scientifica. Senza contare il fatto che molti ‘intellettuali’ o aspiranti tali, più o meno a spasso e in cerca di temi ‘attuali’ sui quali costruire la propria carriera e il proprio nome, e quindi di parole d’ordine sotto le quali imbandierarsi, hanno trovato nelle sue tesi stereotipe, infinitamente rimasticate, un buon humus di cui nutrire una miriade di pubblicazioni sempre più insignificanti. È già accaduto con la questione ecologica, il cui dibattito si è infognato prestissimo entro un registro molto ristretto e povero di temi e concetti, di tradizione new age, perdendosi in un disquisire inutile e sterile intorno a termini e differenze marginali o fittizie, ignorando le questioni vere e lasciando che le cose venissero gestite altrove e, per lo più, molto male. Forse anche il postumanismo non ha altra ragione d’essere, che quella di scatenare un polverone inconcludente su opposizioni inventate, come quella tra ‘culturalismo’ e ‘naturalismo’, affinché le questioni vere – come ad esempio il costituirsi di poteri biopolitici e biotecnologici privati, sottratti al discorso pubblico e liberati da vincoli di qualsiasi genere – trovino ‘da sé’ e con i buoni auspici della letteratura di genere la loro soluzione. Una soluzione facilmente prevedibile: quel che si potrà fare si farà, a tutti gli scopi possibili, quelli auspicabili, quelli discutibili, quelli semplicemente disgustosi. A tal fine, per esempio perché non ci appaia svilente e ‘disumano’ installare apparati visivi a raggi infrarossi nei nuovi marines del terzo millennio (rigorosamente portatori di democrazia…) o intervenire direttamente sul genoma per “produrre uomini” più sani, forti, intelligenti, longevi, belli e “liberi” (!), magari “senza genere e senza genesi”2, viene messo in campo un vocabolario già stantio di termini che hanno perduto tutti i significati che pure potevano aver avuto all’inizio, quei termini tanto cari e tanto vuoti che ritornano come mantra: “ibridazione”, “contaminazione”, “evoluzione post-biologica”… Ma se come fenomeno letterario e scientifico la sua inconsistenza è evidente per qualunque occhio che sappia vedere, qual è, allora, la ragione per discutere intorno al post-umano? Perché mai accollarsi l’onere di un esercizio così 1 2
Martin Heidegger, Lettera sull’“umanismo”, in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 19943, p. 270. Donna Haraway, Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 1995, p. 40 e p. 83.
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spiacevole e intrinsecamente parziale e ingiusto come una filippica? Perché è proprio qui necessario deporre ogni riguardo academically correct e dire le cose fuori dai denti? Tanto più se è vero che, nonostante la sua variegatezza, l’intero discorso postumanista non propone mai, in realtà, un’autentica riflessione critica sul proprio tema, su un nesso storico e teorico effettivamente centrale nell’ultima fase della modernità e quindi senz’altro degno di essere indagato, ma si riduce alla multiforme esposizione di un’istanza, che a tutti i suoi livelli, da quelli parossistici del transumanesimo a quelli ‘moderati’ del post/ umanesimo3, comporta l’allegra disposizione ad accettare senz’altro la manipolazione tecnica dei fenomeni biologici fondamentali: la nascita e la morte. Una disposizione tanto spensierata, quanto intollerante e ostracistica contro ogni posizione più attenta e critica, che cade immediatamente, quale che sia la sua natura e la sua logica interna, nello scatolone immondo dell’antropocentrismo e del soggettivismo cartesiano o in quello retrivo della tecnofobia. In effetti, l’asse portante di tutto il cosmo ideale del postumanismo si riduce ad un unico schema argomentativo, intorno al quale fioriscono poi le sue varie differenziazioni e dispute, che per lo più, proprio per la natura e conformazione di quell’asse, non sono che un accapigliarsi intorno a meri nomi, ancor più vuoto che quei nomi stessi: si discute, per esempio, se bisogna dire post-umano o piuttosto post/umano, o forse quasi-umano, trans-umano o magari – un suggerimento che mi permetto qui non solo per ironia – sub-umano4. Ciò intorno a cui si dibatte tramite queste formule, però, non viene per nulla pensato, articolato razionalmente e criticamente, e quindi si riduce a null’altro che nuovi nomi e altre formule, sempre più vuoti. Ogni postumanismo, infatti, si definisce rigorosamente non a partire da un’analisi accurata del proprio oggetto – il rapporto tra uomo e tecnologia nell’epoca della biogenetica e della bioinformatica, forse meglio nell’epoca dell’antropotecnica –, analisi che richiederebbe un approccio complessivo e radicale ai vari termini implicati nel nesso, realmente diacritico e, così, illuminante; bensì a partire dall’opposizione, del tutto inventata, tra paradigmi: in contrapposizione non tanto a una tesi, ma a una “visione del mondo” e mentalità “umanista”, considerata ad un tempo egemonica e obsoleta, ossia da rivedersi e superarsi5. Naturalmente l’avversario immaginario è costruito – o anzi meglio riesumato – a bella posta per poter far risaltare, nel contrasto, i punti cardine dell’innova3
4 5
Cfr. Elena Pulcini, L’«homo creator» e la perdita del mondo, in Umano Post-umano, a cura di M. P. Fimiani, V. Gessa Kurotschka, E. Pulcini, Editori Riuniti, Roma 2004, pp. 18 s. e Flavia Monceri, Introduzione a Sull’orlo del futuro, a cura di F. Monceri, Edizioni ETS, Pisa 2009, p. 12. Cfr. ivi, p. 12 e pp. 14 sgg. Per una critica alla logica dei paradigmi, cfr. Hanspeter Padrutt, L’inverno epocale, a cura di N. Russo, Guida, Napoli 1998, pp. 114 sgg., che riconosce l’intimità tra tale logica e quella cartesiana (p. 122: «Visione del mondo e soggettivismo oggettivante moderno sono la stessa cosa […]. La visione del mondo serve all’assicurazione del soggetto cartesiano, è l’atteggiamento del signore e padrone della natura»).
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zione postumanista, che di innovativo non ha quasi nulla, non essendo null’altro che un’ultima declinazione di quel che potremmo chiamare ‘modernismo’, categoria che, a dispetto del nome, ha una lunga storia, secolare, entro la modernità, entro cui si incardina nelle varie figure del ‘mito del progresso’. L’impianto fondamentale rimane ancor sempre quello baconiano: la scienza applicata, mettendo a disposizione effetti, è una potenza e, in quanto tale, è senz’altro emancipatrice e prima condizione di ogni “umano impero”. L’esigenza di ogni modernismo, conseguentemente, è mettere al riparo l’attuazione di quegli effetti da qualsiasi istanza oppositiva o moderatrice rispetto alla “realizzazione di tutto il possibile”6, istanza che già in quanto tale risulta inibitrice e quindi ‘reazionaria’. Quell’istanza, non importa quale sia la sua origine, struttura logica e natura, va dunque stigmatizzata e ridotta a termini minimi, adoperabili sempre e comunque, proprio per la loro indefinitezza di fondo o mera pregiudizialità, spesso tramite opposizioni di ‘valori’, che in quanto tali sono sempre autoconfermative, come appare evidente, per esempio, se ciò che non è senz’altro ‘progressismo’ vien detto già solo in quanto tale ‘oscurantismo’. Per quanto molto più incoerentemente, insomma, anche il postumanismo eredita il suo avversario immaginario dalla più trita tradizione new age e dal suo instancabile rimasticamento all’interno del dibattito ecologico e bioetico: l’antropocentrismo cartesiano, talora platonico o anche cristiano, ridotti complessivamente a “conservatorismo umanistico” e legati alla cosiddetta tradizione “culturalista”7. Se non vi fosse, al fondo del discorso, un nucleo realmente critico, ossia se il discorso non interessasse un problema reale e attualissimo, pur sfigurandolo – anzi proprio perché lo sfigura –, non varrebbe affatto la pena impegnarsi in una discussione intorno a tali termini: sarebbe invero svilente, e forse anche risibile, cercare di spiegare perché oggi, dopo gli illuministi, Kant, Hegel, Marx, Freud, Darwin e mille altri, non ha più nessun senso prendersela con il dualismo di Cartesio o addirittura di Platone; antichi maestri di cui in certi ambiti, evidentemente, non si è forse mai neppure letto nulla e, se lo si è fatto a stralci, nelle solite citazioni a effetto che si riproducono da un testo divulgativo all’altro, non si è certo capito nulla, che se non altro non si ha alcuna capacità di contestualizzare entro il loro spazio storico e problematico. Cosa che dico senza nessuna intenzione di prendere partito per quei dualismi o per ogni altra forma di dualismo, bensì per la semplice ragione che il ritorno periodico, in ogni moda ‘culturale’ e fenomeno editoriale e pubblicistico di discreto successo, di simili critiche – magari un tempo sensate, ma messe agli atti da secoli – è sconcertante, invero paradossale, e tuttavia indicativo.
6 7
Francesco Bacone, La Nuova Atlantide, tr. it. di O. Bellini, Armando Editore, Roma 1998, p. 86. Cfr., inoltre, Id., Novum Organum, tr. it. di E. De Mas, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 49 sgg. Una categoria decisamente insulsa, quella di ‘culturalismo’, anch’essa innanzitutto costruita come pura proiezione, in negativo, di un altrettanto insulso ‘naturalismo’, il che non ha ovviamente impedito che sotto entrambi i vessilli si incolonnasse una folta schiera di tifosi.
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Continuare a prendersela con il povero Cartesio, insomma – come se dall’opera di un filosofo, per quanto grande, dipendessero tutti i mali del mondo –, riproducendo sempre esattamente gli stessi termini e argomenti, in maniera però sempre più superficiale e rozza, diviene insopportabile anche per chi non ha alcuna simpatia per il cartesianesimo: alla fine viene voglia di assumersene le difese, se non altro ricordando, proprio ai postumanisti e ‘tecnofili’ vari, che è sulla determinazione della centralità del metodo e sulla liberazione dello spazio dell’estensione da ogni causalità iperfisica, che si è costruita gran parte della scienza e della tecnica moderna8. Questa propriamente la ragione anche della paradossalità della critica postumanistica al cartesianesimo: non vede che l’auspicata rivoluzione antropologica, tramite l’ibridazione genetica e robotica, è solo una possibilità estrema, l’esito ultimo proprio della rivoluzione cartesiana, che ha consegnato il corpo al dominio di validità della scienza e così della tecnica. Senza Cartesio, in altri termini, un’antropotecnica non sarebbe neanche immaginabile – e dovrebbe essere appunto questa una ragione ben più sensata, per tenersi alla larga dal suo dualismo. Nonostante ogni incoerenza storico-filosofica e concettuale, nonostante tutta la sua vuotezza e inconsapevolezza la vulgata insieme anticartesiana, antiumanista, anticulturalista e antiantropocentrica è tuttavia in molti modi indicativa, ossia ci fornisce un indizio prezioso circa i motivi che conducono immancabilmente ogni sorta di postumanismo a crearsi ai propri scopi il suo pupazzo e antifeticcio, contro cui definirsi e acquisire la propria determinazione elementare, quel minimo ‘positivo’, che consiste nel non frapporre limiti, legati alla propria umanità, all’“ibridazione” tecnico-genetica9. A tal scopo, si ritiene, è innanzitutto necessario minare l’umanità dell’uomo, disconoscendone ogni differenza rispetto al vivente in generale e al macchinico, anch’essi equiparati senza alcun discernimento dei loro caratteri propri e delle differenze interne, dunque dissolvere ogni “essenzialismo” umanistico affinché la manipolazione dell’umano non abbia un carattere troppo evidente di violazione, di violenza. E sempre a tal scopo si gettano in un minestrone degli scarti e dei risciacqui tutti gli ingredienti utili, in maniera talmente incoerente e smaccatamente strumentale, che non c’è bisogno dell’ingegno di un Gian Burrasca per svelarne la velenosità. La sofisticazione della pietanza, infatti, è già evidente nei 8 9
Cfr. Hans Jonas, Organismo e libertà. Verso una biologia filosofica, a cura di P. Becchi, tr. it. di A. Patrucco Becchi, Einaudi, Torino 1999, pp. 49 sgg. e pp. 67 sgg. Cfr. Paolo Heritier, Il crimine post-umano, in Sull’orlo del futuro, cit., pp. 107 sgg. «Il limite del post-umano sta nel non tener conto dell’esistenza di limiti», forma di hybris in sintonia con gli «sviluppi post-totalitari, o di un totalitarismo mite, osservabili nelle democrazie contemporanee» (p. 109), che ne mostrerebbe l’affinità strutturale con ben altri totalitarismi: il post-umano è «solo l’umano rovesciato, l’umano privo di limite, che fa dell’antilimite la sua legge, della hybris la sua regola […]. Scegliere l’assenza di limite significherebbe costruire una società di piccoli Hitler privati, di soggetti-Re: forse la società in cui stiamo iniziando a vivere» (p. 119).
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termini scelti per descriverne la preparazione: l’ingegneria genetica e l’impiantistica tecnobiologica di protesi, per esempio, non hanno nomi troppo appetibili, richiamano troppo direttamente e schiettamente l’intervento manipolativo e un’inventiva all’opera di cui non vorremmo essere volentieri le cavie, mentre l’“ibridazione” e la “contaminazione”, l’“apertura all’alterità” e altri cacofeumismi riescono – invero non si capisce bene come – ad essere più seducenti, se non altro sono divenuti talmente familiari, che nessuno più pensa né al loro senso proprio, né in maniera lucida a ciò cui metaforicamente alludono. Strani usi e abusi del linguaggio, con il suo periodico venire in auge di parole precedentemente inusuali, che all’improvviso si ritrovano su tutte le bocche, alterate nel loro significato, che viene amplificato a indicare in maniera confusa una miriade di cose differenti, cosicché vengano occultate quelle che vi sono realmente sottintese e quanto di pregiudiziale vi sia in tale sottintendere. Ibridazione, per esempio, è possibile tra viventi differenti, ma congeneri o comunque sufficientemente affini, da poter con-generare. L’estensione metaforica del termine all’innesto di protesi meccaniche, oltreché alle tecniche genetiche, contiene dunque in sé una precisa tesi sulla congenericità tra vivente e artificiale, biologico, tecnico e meccanico, tesi che il postumanismo assume in maniera acritica e del tutto indifferenziata proprio dalla tradizione che vorrebbe superare, quella tradizione cartesiana che l’aveva formulata in maniera molto più chiara ed esplicita10. L’innesto, dal canto suo, per esempio in una pianta, produce un vivente sottomesso ad una doppia addomesticazione, non solo l’assoggettamento alla tecnica agricola primaria, che già gli sottrae il seme, ma anche la rifunzionalizzazione delle radici e del tronco, che gli sottrae pure il frutto. La contaminazione, infine, non sempre “apre nuove possibilità”, talora le chiude: essere contaminato da qualcosa è tutto il contrario che “aprirsi a un alterità”, è piuttosto venirne colonizzato, accoglierla come un parassita e spesso soccombervi… Eppure oggi fa molto chic mettersi intrepidamente tali parole in bocca, per designare quanti desiderabilia e straordinarie opportunità si aprano nel tempo del postumano11. Straordinarie opportunità che consistono integralmente in applicazioni o integrazioni protesiche, in surplus di funzionalità reintegrate, potenziate o “imple10
11
L’esito più puro di tale tradizione, incubata già lungo tutto il ’500 (cfr. Silke Kurth, Il grembo della vita. Scienza, meccanica e ambizioni demiurgiche nella Firenze del Cinquecento, in Passaggi. Pianta, animale, uomo, a cura di B. Cavarra e V. Rasini, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 87 sgg.), è in Julien Offray de La Mettrie, L’uomo macchina e altri scritti, a cura di G. Preti, SE, Milano 1990. Sprezzanti le condanne senza appello alle «pretese di immunizzazione» di quanti rimangono rinchiusi in ristretti e «illusori vincoli identitari», incapaci, per esempio, di riconoscere le macchine come «sé amichevoli» (D. Haraway, Manifesto cyborg, cit., p. 79). Ma quali macchine? E cosa nasconde questa pulsione di autorispecchiamento e discioglimento nell’inorganico: nonostante si ammanti di coraggio e predichi la redenzione, non è forse il segno di un’inconfessata insoddisfazione per il proprio corpo, di un vero e proprio terrore e disgusto per la sua fragilità e mortalità?
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mentate”: postumano, per fare alcuni esempi, è il bypass così come il membro eternamente e volontariamente erettibile, è il seno maggiorato così come la retina ricostruita, è la gamba meccanica che tra poco supererà le nostre misere membra biologiche, è l’alterazione genetica progettabile a qualsiasi fine, da quelli “eugenetici” a quelli semplicemente mostruosi. E null’altro, proprio nulla più di ciò… Da un punto di vista propriamente filosofico, infine, il postumanismo è l’assenso incondizionato alla forma terminale, particolarmente radicale, della modificazione di ordine tecno-scientifico dei rapporti tra i due poli dell’opposizione classicamente stoica tra “ciò che dipende da noi” e “ciò che non dipende da noi”12. Una modificazione che nella configurazione estrema del postumanismo, quella transumanista, ove si condensano nella maniera più pura e incondizionata tutti i suoi motivi, coincide con la cancellazione di quella differenza, che è invero la cancellazione di entrambi i suoi termini: tolto quel che non dipende da noi, in effetti, è cancellato anche quel che dipende da noi, poiché, semplicemente, siamo cancellati noi! Chi è, infatti, o cosa è, quel che potrà fare di noi tutto quel che non dipende da noi? Da cosa dipenderà il divenire noi tutto ciò che realmente non dipende da noi, ossia ogni volta da me e te? Innanzitutto nascere! In che modo mai possibile, infatti, può dipendere da noi, nelle figure concrete dell’io e del tu, nascere? Chi, allora, ci farà nascere e da quali istanze dipenderà nascere così e non così? – bianco o nero, alto o basso, sano o tarato, minorato o superdotato, pigro o efficiente, adattato o asociale… – e poi morire o non poter neanche più morire, come sogna chi immagina, molto stupidamente, e auspica, ancor più stupidamente, che un domani sia tecnicamente possibile trasferire la propria mente – ancora la vecchia res cogitans cartesiana! – in una macchina elettronica e così sottrarsi alla fine, ovvero perdere anche quella condizione elementare di ogni libertà che è la disponibilità e necessità della propria morte? Cosa dipenderà più da noi, quando né la nostra vita e costituzione fisica, né la nostra morte sarà più una possibilità autenticamente propria? Che è certo tale nella forma di una necessità che ci supera e precede del tutto, ma che proprio in quanto tale ci consegna immancabilmente a ‘noi stessi’, a quel che siamo e che possiamo. Il transumanesimo, insomma, sia detto qui in estrema brevità, non è null’altro che il termine estremo di quella tensione, inerente a tutto il postumanismo, in cui la tecnofilia si fa schietta tecnolatria, ove si manifesta dunque il carattere intimamente religioso, o se non altro superstizioso, dell’assenso e disposizione alla remissione a quell’istanza superiore, insieme proiezione dell’umano e suo trascendimento, che appare a costoro ‘la tecnica’. L’ultima o penultima secolarizzazione della Heilsgeschichte, al di sotto della quale fa ancor sempre capolino la paura umana, troppo umana della morte. Il post-umano, ovvero l’ultimo autosuperamento della “pulce di terra”, il suo ultimo salto nel vuoto, con cui l’“ultimo uomo” si fa compiutamente postumo…»13.
12 13
Cfr. Epitteto, Manuale, tr. it. di C. Cassanmagnago, in Tutte le opere, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2009, p. 974. Ciro Fiala, comunicazione personale.
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E qui il mio vecchio amico, dopo aver in ultimo rispolverato il Prologo dello Zarathustra, si arrestò un attimo per tirare il fiato, e insieme a lui tirai anche io un sospiro di sollievo e mi affrettai a interromperlo: «Ma basta!», gli dissi, «ora sei tu a buttare tutto insieme in un unico pentolone: postumanismo, transumanismo, superstizione, vita e morte, protesi e ibridazioni, animali, macchine, superuomini e gambe di legno, feticci, pulci e mode editoriali. Tutto questo non è solo ingiusto: io non ci capisco proprio più niente! Bisognerà cominciare da capo». 2. Il postumanismo come ideologia Come si è cercato di mostrare, un po’ per gioco, nel ‘dialogo malriuscito’, la ragione per cui, parlando di post-umano, è così difficile evitare di scadere malamente nella polemica e in toni panflettistici, è intrinseca: per la sua natura di assenso a un’istanza radicale di ordine pratico-fideistico, ancor più che teorico, il postumanismo prende e richiede una presa di posizione netta, pro o contro, che difficilmente trova vie mediane. Una presa di posizione di tal tipo, però, non è il compito della filosofia e per questo, nelle pagine che seguono, non si prenderà ad esempio quell’amico irriverente, per quanto non si possa ignorare che su molti punti il suo sfogo colga nel segno. Sarà il caso, però, di concentrarsi solo su pochi di essi, per poterne sviluppare una discussione più ampia e approfondita, più spassionatamente critica. Cominciamo dunque col dire che a tutti gli effetti il postumanismo, nella misura in cui questo termine viene scelto a indicare qualcosa di unitario da quanti, pur da vari punti vista, si riconoscono in esso, non è a rigori una filosofia, bensì un’ideologia, come dimostrano non solo il pullulare di ‘manifesti’ delle sue varie declinazioni e di società che ne raccolgono gli adepti e svolgono un ruolo attivo di divulgazione e proselitismo, ma più radicalmente già la sua struttura ideale, a partire dalle mosse elementari tramite cui si costituisce ogni ‘paradigma’ postumanista. Dico a rigori, intendendo il termine ‘ideologia’ nelle sue due accezioni principali: come giustificazione sovrastrutturale di rapporti concreti esistenti e come armamentario di idee e parole d’ordine di una qualsiasi fazione o partito, vale a dire di una qualsiasi posizione che, ponendosi da una parte, si contrappone costitutivamente a un’altra parte. In tutte le sue varie declinazioni, infatti, inscritto nel ‘post’ del postumanismo è il suo costituirsi innanzitutto ‘contro’ o ‘anti’: è antiumanista, antispecista, anticartesiano, contro le distinzioni ‘arbitrarie’ tra uomo e ani-
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male, uomo e macchina, et caetera. Inoltre, poiché nessuna ideologia può reggersi da sola, ma ha costitutivamente bisogno di una specifica controideologia, non solo rispetto alla quale autodefinirsi, ma alla quale ridurre ogni tipo di opposizione, le più eterogenee e incompatibili tra loro, il postumanismo sintetizza anche il proprio avversario in termini ideologici, costruendosi un vero e proprio simulacro, un’ideologia umanista, nella quale fa confluire e mescola confusamente insieme tutti i propri ‘no!’. L’ideologizzazione del ‘nemico’ – che è un’operazione di omologazione e inimicazione di ogni differente – porta ad attribuirgli la stessa fede e adesione incondizionata a un progetto complessivo, che finisce quasi immancabilmente per avere a che fare con le prime e ultime cose. È però anche molto frequente che le controideologie non si scelgano con la dovuta accortezza, come è capitato proprio al postumanismo, che lo ha fatto in maniera non solo poco originale, ma anche molto poco coerente con le sue intenzioni di fondo. In effetti, il vecchio antropocentrismo cartesiano è chiamato in causa a sproposito, se, come André Gorz vede bene e come cercheremo di definire più da vicino, l’impresa post-umana non tende che a realizzare proprio «la tendenza peculiare della ragione strumentale moderna»14 e quindi rimane, nel suo intimo, radicalmente cartesiana. Affinché, però, il discorso non rimanga come sospeso a meri nomi e definizioni, è necessario farlo catalizzare su questioni concrete, il che però richiede che ne vengano enucleati con maggiore ordine, e in maniera più equanime di prima, i tratti caratteristici. Flavia Monceri traccia in maniera chiara una «genealogia del post-umano», che ne individua lucidamente gli elementi minimi, comuni se non altro alla gran parte delle sue varie declinazioni, a partire dall’autodefinizione del post-umano per contrapposizione «alla tradizione dell’umanesimo», che vi viene inteso come «il progressivo affermarsi di un antropocentrismo radicale», il quale nella modernità si imporrebbe a partire dal dualismo cartesiano e dalla trasformazione dei rapporti gerarchici tra le tre grandi regioni ontologiche «Dio-uomo-natura». Una trasformazione, che vedrebbe sempre più l’uomo imporsi come signore della natura e la dimensione del divino trascolorare sullo sfondo o venire a cadere e fondersi con quella umana15. Le analisi postumanistiche di questo snodo decisivo, che avviene nella prima modernità, si differenziano però nettamente da quelle elaborate in Europa, si può dire ininterrottamente, a partire da Nietzsche, e che hanno 14 15
André Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, tr. it. di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 98. Cfr. F. Monceri, cit., p. 10.
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visto, per esempio in Heidegger, Löwith, Foucault, Derrida e Jonas, interpreti certamente all’altezza della complessità del tema16. Come nota la Monceri, infatti, la questione viene oggi impostata nei soli termini della «interazione uomo/ambiente», termini che, però, da un lato assumono subito un’estensione smisurata, dall’altro si confondono: «La prima differenza tra post-umanesimo e umanesimo consiste nella dichiarazione del tramonto di un “uomo” dai confini chiaramente delimitabili e autonomo rispetto al proprio ambiente, per accettarne un’altra basata sui concetti di “ibridazione”, “mutazione”, “co-evoluzione”, in una parola di interdipendenza con l’alterità ambientale», in particolare con quella «animale e macchinica»17. È una definizione molto precisa, se letta anche tra le righe: quella del postumanismo è innanzitutto una «dichiarazione», ossia una via di mezzo tra sentenza e pretesa, che, rilevando proprio nei progressi più attuali dell’antropotecnica i segni di quel «tramonto», contiene un assenso e un invito, ma che esprime in fondo dei mera desiderata, poiché non fa affatto i conti con la realtà storica contemporanea, entro la quale tramite quegli stessi progressi «la signoria sulla natura, la capacità, la possibilità e la legittimità dell’intervento umano sul resto della “creatura”»18 ha raggiunto limiti, o meglio li ha superati, che lo stesso Bacone avrebbe considerato aberranti. Inoltre, proprio grazie a quel duplice movimento – di estensione del concetto di ‘ambiente umano’ a tutto lo spazio del macchinico, oltre che a quello animale, e di cancellazione di confini esatti fra i tre termini – il postumanismo, nel nome dell’ibridazione e apertura all’alterità (e quale poi, se appunto quei limiti sono inconsistenti?), pur pretendendo di sancire il «tramonto» della signoria umana, non contesta minimamente «la capacità, la possibilità e la legittimità dell’intervento», anzi la estende a comprendere, come suo oggetto, anche l’uomo, rendendola del tutto incondizionata. Ciò cui in effetti mira tutto il discorso – ed è questa la differenza radicale tra la critica postumanista all’antropocentrismo e quella, per alcuni versi analoga, svolta nel contesto della riflessione ecologica – non è affatto 16 17
18
La sua esposizione più tematica e chiara mi sembra quella di Karl Löwith, Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche, a cura di O. Franceschelli, Donzelli, Roma 2000. F. Monceri, cit., pp. 10-11. Incidentalmente, in tali tesi spicca la carenza di una riflessione e articolazione precisa dei concetti di ‘ambiente’, ‘mondo’, ‘evoluzione umana’, ‘tecnica’, etc., come quella che ha invece caratterizzato a fondo l’antropologia filosofica del ’900, di cui in ambito postumanista viene pur spesso criticato, con molta superficialità, il «paradigma dell’incompletezza». Ibidem.
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evidenziare la necessità di mutare i modi e le dimensioni dello sfruttamento dell’ambiente naturale, riducendoli a livelli di sostenibilità ecologica. Questo versante, quello tra uomo e natura, se pure viene di tanto in tanto attraversato – ma, come vedremo, in maniera strumentale o, tutt’al più, retorica –, non è affatto quel che veramente interessa i postumanisti, che puntano a ben altri tipi di ibridazione e co-evoluzione, quelli tra uomo e macchina, anzi tra uomo-natura e macchina. Con un’attitudine, peraltro, del tutto opposta a quella ecologica, giacché qui, parafrasando, non vi è alcuna istanza circa i limiti di sfruttamento dell’ambiente umano, in vista di quella che potremmo chiamare ‘sostenibilità antropologica’… Voglio dire che in questo contesto interpretativo la cancellazione dei limiti tra umano e animale – discorso che meriterà un approfondimento, poiché nasconde tantissimi retrofondi –, seppure in qualche modo opposta alla cancellazione dei limiti tra umano e divino, configura una relazione ancora a due termini, che rimane analoga a quella tra l’uomo moderno e la natura di cui egli si impossessa come signore grazie alla tecnica. Se nella prima modernità, infatti, la dimensione del divino collassa progressivamente in quella dell’uomo, il cui dominio sulla terra diviene così incondizionato, è come se adesso la dimensione umana collassasse in quella della natura, oramai già ridotta a fondo integralmente manipolabile, lasciando alla tecnica la posizione una volta occupata dall’uomo e prima ancora da Dio. Cambia insomma il soggetto, come Anders aveva visto benissimo, ma non il tipo di rapporto, che però non è corretto, e invero non lo è mai stato, definire di signoria, bensì di disponibilità illimitata all’uso e all’usura19. A un dualismo, insomma, se ne sostituisce un altro tramite il mutamento del fulcro dall’antropocentrismo al tecnocentrismo, anche se con movenze argomentative ambigue, che cercano di offuscare l’evidenza che ciò di cui si tratta, in effetti, non è null’altro che la completa messa a disposizione di un ambito all’altro, pratica, concreta. Naturalmente un postumanista non accetterebbe mai una simile analisi, tacciandola di tecnofobia e contestandone il dualismo ontologico uomo-macchina, argomento che è in effetti uno dei suoi cavalli di battaglia, giacché proprio la «promiscuità ontologica» aprirebbe invece l’umano ad una «infinita disponibilità alla contaminazione»20. 19
20
Cfr. Günther Anders, L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita nell’epoca della terza rivoluzione industriale, tr. it. di M. A. Mori, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 256 sgg. Riguardo alla «presunzione del dominio», cfr. Nicola Russo, Filosofia ed Ecologia, Guida, Napoli 2000, pp. 333 sgg. Cfr. E. Pulcini, cit., p. 19.
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Una simile obiezione, però, rimane puramente retorica e non solo per il fatto che di ontologia in senso stretto nelle analisi del postumanismo non vi è traccia, né dell’umano, né tantomeno delle macchine, e quindi anche quella «promiscuità» rimane vuota concettualmente, non essendovi alcuna ontologia dei termini promiscui; ma ben più perché non è propriamente di ontologia che qui si tratta o non lo è certamente nei termini in cui ciò viene asserito. Anche al di là della povertà teorica di quella tesi, infatti, non fa alcuna differenza se gli animali, l’uomo e le macchine vengano considerati ontologicamente omogenei o meno, poiché ciò non impedisce che in quel discorso i termini in gioco, gli ‘enti’, rimangano effettivamente ancora due, il biologico e il tecnologico, e che il suo senso si riduca all’assenso ad ogni manipolazione possibile del primo da parte del secondo, assenso di carattere pratico che, come si sa almeno già da Hume, non può essere dedotto da un’ontologia: «Nel rifiutare ogni idea di alterazione della natura e dell’uomo, l’umanesimo, secondo questi autori, sarebbe responsabile di quella visione oppositiva del rapporto tra il biologico e il tecnologico che impedisce di vedere le potenzialità emancipative della tecnica, soprattutto nelle sue più attuali configurazioni (tecnologie informatiche e biotecnologie), e di accogliere in modo positivo quei processi di “ibridazione” tra macchina e organismo che sempre più pervadono la nostra esperienza, prefigurando scenari evolutivi post-biologici»21. Al di là di quanto si potrebbe ancora notare sui difetti tipici di ogni discorso intorno alle visioni del mondo o ai paradigmi – è evidente, per fare solo un esempio, che una teoria non è responsabile di una visione, semmai il contrario –, al di là anche dei contenuti specifici di tale discorso – la sua caratterizzazione dell’‘umanesimo’, per esempio, è decisamente caricaturale –; quel che più ci interessa evidenziare, come dicevamo, sono i suoi elementi minimi, che potremmo indicare, in prima approssimazione, dicendo che qui la triade metafisica ‘Dio, uomo, mondo’ si è trasformata in quella ‘tecnica, uomo, natura’. Contesto entro il quale le questioni principali che si aprono e intorno a cui si articola la fede postumanista sono in definitiva due: il rapporto uomo-animale e quello natura-tecnica. Quel che è effettivamente in ballo, però, nella loro interazione, è l’individuazione del soggetto, o dei soggetti, di quella «co-evoluzione» che addirittura innescherebbe un processo di speciazione, grazie al quale l’uomo-animalemacchina si libererebbe dai vincoli biologici, e invero antropologici, per
21
Ivi, p. 16 (i corsivi sono miei).
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divenire qualcosa di superiore22. Che sia questo il fulcro intorno a cui orbitano tutte le altre questioni, peraltro, è chiaro anche ad alcuni autori del postumanismo: «Ciò che è in gioco, supremamente, nel dibattito sulle implicazioni delle tecnologie digitali, genetiche, cibernetiche e biomediche è precisamente che cosa (e chi) definirà le nozioni autoritative dell’umanità normativa, esemplare e desiderabile nel ventunesimo secolo»23. A dire il vero, ciò che dovrebbe essere ancor più supremamente in gioco, è piuttosto se vadano definite tali nozioni autoritative, se sia mai desiderabile un’umanità esemplare e normativa, ed eventualmente come affrontare i poteri che volessero arrogarsi il diritto di stabilire quale essa sia, come ‘io e te’ dobbiamo essere desiderabili… La bagarre postumanista, però, ha spesso proprio l’effetto di rendere difficili tali domande, e i moniti che esse contengono, tacciandole preventivamente, e in maniera in un senso ben specifico ‘pre-giudiziale’, dello strano reato di «conservatorismo umanistico» e di viltà tecnofobica, talora anche di «narcisistico isolamento». È proprio in relazione a ciò, che la critica all’antropocentrismo mostra la sua natura strumentale e la sua funzione ideologica, non teorica: la costruzione preliminare e prefigurazione ideale dell’avversario, ai cui caratteri stereotipi ridurre ogni eventuale avversario concreto, a prescindere dal tenore e dal contenuto effettivo delle sue critiche, al di sotto delle quali viene comunque presunta la propria controideologia. A questo tipo di dialettica, dunque, è opportuno sottrarsi preventivamente: ciò di cui val la pena occuparsi, ciò che magari va anche difeso, non è certo un’‘idea’ e il suo partito, se è vero che poco di più grottesco potrebbe immaginarsi della lotta tra il Fronte per la Conservazione dell’Uomo Umano e l’Organizzazione per la Liberazione delle Macchine Viventi… In una simile lotta non ha alcun senso né schierarsi dalla parte dell’accusa, né lasciarsi mettere sulla difensiva, il che non vuol dire semplicemente che vanno evitate, come spesso viene raccomandato, le «contrapposizioni manichee»: oppo22
23
Altro pregiudizio del tutto infondato e funesto, tipico non solo del postumanismo, ma che ne forgia il nome stesso, è la pretesa ad una sorta di ‘diritto alla superiorità’ discendente dalla mera ‘posteriorità’, il pregiudizio che il ‘post’ sia anche un ‘plus’. Ma il fatto di venir ‘dopo’ non ci qualifica in nessun modo come ‘meglio’, la storia dell’uomo ha già troppe volte insegnato questa banalità: il meglio, il più e l’oltre si guadagnano – quando si possono guadagnare!... – non certo per diritto di nascita, in eredità come interesse garantito sul capitale, ma solo nell’esercizio e col tempo. Elaine Graham, Representations of the Post/Human. Monsters, Aliens and Others in Popular Culture, Rutgers University Press, New Brunswick NJ 2002, p. 12.
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sizioni come quelle tra tecnofilia e tecnofobia, infatti, sono per troppi versi fittizie, da meritare una qualunque presa di posizione, e tanto più una di mediazione, poiché se è già preoccupante sposare un qualsiasi fantasma, proporsi un compromesso tra due sarebbe audace fino alla filofobia… Quel che si cercherà di fare, invece, sarà una ricognizione intorno ai primi due dei tre termini concretamente in gioco – animale, umano, macchina –, che consenta di guadagnare un punto di vista, a partire da cui mostrare alcune delle ragioni in funzione delle quali proprio questi tre termini, con queste loro specifiche e per nulla ovvie denominazioni, entrino qui in gioco e quale sia effettivamente la posta24. 3. L’animale e l’umano Perché già una volta io fui fanciullo e fanciulla e arbusto e uccello e pesce muto che guizza fuori dal mare Empedocle
Molti studiosi hanno notato che nel discorso del postumanismo l’ambiente naturale si riduce, in ultima istanza, a quello animale, stigmatizzando la cosa come una mancanza, una «comprensione riduttiva» e parziale25. Tale critica, però, per quanto possa mettere in evidenza un dato oggettivo, non lo interpreta compiutamente, ossia non mostra la coerenza di quella delimitazione all’interno dell’impianto argomentativo complessivo del postumanismo. Va tenuto presente, infatti, che sin dall’inizio l’interesse verso l’ambiente naturale è solo uno dei due passi di un movimento che mira altrove, non verso un’ecologia di uomo e natura, entro cui poi dovrebbero trovare anche il loro posto le macchine, bensì verso una vera e propria tecnologia di uomo e natura. Tra i tre poli, insomma, è l’ultimo il fulcro su cui si incardinano le relazioni reciproche, cosa che risulta evidente dall’esito caratteristico del discorso, che conserva unità di ispirazione e coerenza, nonostante le tante incongruenze o vere e proprie contraddizioni che pure contiene in sé. La rinaturalizzazione dell’uomo, infatti, prelude qui sempre alla sua macchi24 25
Per un’integrazione, parziale, dell’assenza di un discorso specifico intorno all’ontologia delle macchine, vedi N. Russo, Polymechanos Anthropos, Guida, Napoli 2008, pp. 85 sgg. Cfr. F. Monceri, cit., p. 11 e P. Heritier, cit., p. 123, che stigmatizza insieme la «concezione del tutto riduttiva delle figure di alterità con cui l’umano si confronta e la riduttiva comprensione storica dell’umanesimo».
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nazione: si fa un passo in giù, per farne due in su... A tal scopo il postumanismo si serve di vari grimaldelli teorici, come il darwinismo, la cibernetica o la teoria dell’autopoiesi, tutti intesi a scardinare la presunta chiusura e autoreferenzialità dell’uomo cartesiano, a farne esplodere i confini, oltrepassando «la visione dualistica, responsabile di gerarchie ed esclusioni, relativa al rapporto umano-non umano, uomo-mondo, per assumere prospettive ibridative e aperte alla contaminazione con l’alterità, sia essa animale o tecnologica»26. Le ragioni per le quali, però, in ogni figura di questo singolare paso doble è sempre l’animale che ci ritroviamo di fronte, non dipendono solo dalle specificità delle teorie messe in campo. Non è, in altre parole, solo perché Cartesio ha distinto nettamente l’uomo dotato di res cogitans proprio dagli automi animali, né solo perché Darwin ha invece riconosciuto la sua continuità sempre con il regno animale, che anche il postumanismo si concentra con particolare attenzione su quella che talora viene detta, forse per dimostrare che il greco lo si è studiato davvero inutilmente, «teriosfera», a cui viene naturalmente affiancata, col tipico vezzo di porre ovunque sfere a confronto, la «tecnosfera»27. È piuttosto perché l’attenzione è volta sin dall’inizio all’uomo, a ciò che ne è dell’uomo a partire dalle rivoluzioni tecnoscientifiche del XX secolo, che la sua relazione con la ‘natura’ viene delimitata al nesso uomo-animale. Il postumanismo, da questo punto di vista e come è stato tante volte notato, rimane essenzialmente e continua a implicare un discorso sull’uomo28. Discorso che, lungo tutta la tradizione del pensiero occidentale, ha sempre avuto a che fare con una qualche determinazione dell’animalità o non animalità dell’uomo. Nell’affrontare una questione così vasta in un’ottica che vuole essere autenticamente critica e non esclusivamente polemica, non ci si potrà ovviamente limitare ai termini e alle modalità in cui viene posta all’interno del dibattito postumanista, cui dunque non rimarremo sempre aderenti, ma 26 27 28
Cfr. E. Pulcini, cit., p. 18. Cfr. P. Heritier, cit., pp. 123 sgg. Ineccepibile Gianluca Giannini, Condizione umana, il melangolo, Genova 2009, p. 145: «Il problema non è nel o il post-umano: se viene superata una certa idea storica dell’umano, il ‘dopo’ in cui si accede è un’altra idea dell’umano, fondata certamente su basi diverse, ma senza l’implicazione di un ‘oltre’ assoluto. Quel che è superata è un’accezione specifica: sotto questo profilo, se per ‘umano’ s’intende tale determinato significato – cioè quello dato da una certa tradizione di pensiero metafisico, storicamente individuabile nelle sue pur formalmente dissimili articolazioni – tutto può essere considerato post-umano. Il problema, quindi, torna ad interessare, è, quello sul chi e il cosa dell’uomo».
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proprio allo scopo di rendere giustizia a questo suo tema centrale. Il che implicherà anche tralasciare molti degli altri problemi cui si è accennato in precedenza e che pur meriterebbero una discussione approfondita. Sarebbe molto interessante, per esempio, mostrare come «l’evoluzione post-biologica» non è un destino che abbiamo di fronte nel prossimo futuro, ma sin dal passato più abissale la regola dell’uomo, che forgia se stesso proprio eludendo le condizioni meramente biologiche dell’evoluzione, tramite la tecnica e la parola. Da un simile punto di vista, insomma, l’uomo è sin dall’inizio post-umano… Ancor più interessante sarebbe sviluppare oltre questo discorso, mostrando, in base a un’indagine genealogica sulla storia dell’uomo e delle sue macchine, come le modalità puramente protesiche con le quali viene pensata oggi la coevoluzione di uomo e tecnica raffigurino non una via ascendente, ma al contrario un regresso verso condizioni di esistenza meramente adattive e quindi un processo di ferinizzazione dell’uomo, secondo la bella definizione di Agostino Cera29. In chiave di ontologia delle macchine, poi, andrebbe sviluppata un’analisi ben più approfondita, che ci permetta di comprendere e articolare le grandi differenze strutturali, oltre che storiche, tra tipi di macchine del tutto eterogenei tra loro: penso innanzitutto alla differenza fondamentale che vi è tra le macchine apotelestiche e quelle simpleromatiche, tra l’arco e la lira per intenderci, e alla differenza radicale di un’evoluzione dell’uomo in un senso o nell’altro, in robocop o in quell’uomo «opera d’arte» che Nietzsche vedeva preannunciarsi in Goethe. Tutto ciò sarebbe molto interessante, e certo molto pertinente, ma richiederebbe lo spazio di una monografia. Tralasciamo dunque, per rimanere alla metafora del paso doble tra i tre termini chiamati in causa, il secondo passo, quello che dall’uomo-animale anticartesiano porta alla macchina
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Cfr. Agostino Cera, Sulla questione di una filosofia della tecnica, in L’uomo e le macchine. Per un’antropologia della tecnica, a cura di N. Russo, Guida, Napoli 2007, pp. 101 sgg. Meriterebbe un’analisi più approfondita anche il punto di vista della paleoantropologia di Leroi-Gourhan, che nota come il processo di ominazione smetta ben presto di avere un carattere biologicamente adattivo: sfuggendo la via della specializzazione progressiva degli organi, l’uomo supera «i vincoli dell’evoluzione biologica» tramite la progressiva esteriorizzazione di utensile, gesto e motilità – Gehlen parlerebbe di ‘esonero tecnico’ – , dalla «mano in motilità diretta» alle «macchine automatiche». Cfr. André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, tr. it. di F. Zannino, Einaudi, Torino 1977, pp. 26 sgg., 283 sgg. Anche da questo punto di vista, dunque, l’ideale postumanista della reincorporazione dello strumento tecnico è evidentemente un ideale regressivo.
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pensante cartesianissima, nei tanti e disparati modi in cui il postumanismo lo realizza; e tralasciamo anche le incongruenze che vi sono, per esempio, nell’improvviso capovolgimento che avviene quando, finalmente guadagnata la solidarietà evoluzionistica dell’uomo con l’animale, si fa leva proprio su di essa per saltare il fosso dell’evoluzione biologica verso quella tecnologica e così strappare nuovamente via l’uomo da quella presunta solidarietà. Concentriamoci, invece, sulla tradizione del pensiero occidentale intorno al rapporto tra uomo e animale, a partire dalle sue critiche postumanistiche e, ancor prima, postmoderne. Vi incontriamo subito un altro solito noto, colui che quasi immancabilmente compare a braccetto di Cartesio in ogni requisitoria contro l’umanismo: Aristotele, al quale, però, dedicheremo una difesa meno occasionale e più approfondita, anche perché contro il suo zoon logon echon hanno scritto filosofi della statura di Heidegger e Derrida, spesso ripetendo anche loro il ritornello: «da Aristotele a Cartesio»30. Da Aristotele a Cartesio e oltre lungo tutta la modernità, questa la tesi generica di fondo che il postumanismo fa sua, rimarrebbe salda una concezione dell’uomo come essenzialmente distinto da tutti gli altri animali, e superiore, in funzione della ragione: lo zoon logon echon e il cogito ergo sum, mediati dall’animal rationale di Seneca, non sarebbero insomma che variazioni sullo stesso tema. Contro questa metafisica dell’umanismo, logocentrica, che pone una linea netta e unica di distinzione tra l’uomo, da un lato, e tutto il regno animale, dall’altro, e che così fonda l’antropocentrismo occidentale, andrebbe dunque in qualche modo riconosciuta l’animalità dell’uomo o, se non altro, la fluidità e molteplicità di quel confine, la sua porosità31. La lettura che dà Heidegger della stessa questione dell’uomo e dell’animale nella sua Lettera sull’«umanismo», pur procedendo sulle stesse tappe – da Aristotele a Cartesio… – e pur rintracciando in esse ancora una metafisica dell’umanismo, addirittura pur contrapponendosi radicalmente a tale metafisica, è tuttavia diametralmente opposta a quella postumanista: Il primo umanismo, cioè quello romano, e tutte le altre forme di umanismo che si sono via via affermate fino ad oggi, presuppongono come evidente l’«es30 31
Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, tr. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, pp. 66, 71, 93 sgg., 100, dove l’espressione ritorna ogni volta che Derrida si riferisce ai «grandi discorsi canonici sull’animale». È evidente che tale proposito è sin dall’inizio condizionato, prefigurato, dal concetto di animale a partire dal quale si ripensa l’animalità dell’uomo: se, per dire, esso è pensato nella sua universalità come «macchina autopoietica», anche l’uomo verrà ad essere una simile macchina. E così via, nelle diverse variazioni possibili.
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senza» universale dell’uomo. L’uomo è considerato come animal rationale. Questa determinazione non è solo la traduzione latina del greco zoon logon echon, ma è un’interpretazione metafisica […]. Se facciamo riferimento alla determinazione essenziale dell’uomo, comunque si definisca la ratio dell’animal e la ragione dell’essere vivente […], ognora e ovunque l’essenza della ragione si fonda sul fatto che, per ogni apprensione dell’ente nel suo essere, l’essere stesso è già diradato e avviene nella sua verità. Allo stesso modo il termine «animal», zoon, sottintende già un’interpretazione della «vita», che riposa necessariamente su un’interpretazione dell’ente come zoe e come physis nel cui ambito appare il vivente. Ma oltre a ciò, e prima di ogni altra cosa, rimane finalmente da chiedersi se in generale l’essenza dell’uomo, in un senso iniziale e che decide anticipatamente di tutto, dimori nella dimensione dell’animalitas. Siamo in generale sulla via giusta per determinare l’essenza dell’uomo se e finché consideriamo l’uomo come un essere vivente tra gli altri, che si distingue rispetto alle piante, agli animali e a Dio? Si può procedere così, si può cioè in tal modo situare l’uomo all’interno dell’ente e considerarlo come un ente tra gli altri. Così facendo si potranno sempre fare asserzioni corrette sull’uomo. Ma si deve anche avere ben chiaro che così l’uomo è definitivamente cacciato nell’ambito dell’essenza dell’animalitas, anche quando non lo si assimila all’animale, ma gli si riconosce una differenza specifica. In linea di principio si pensa sempre allo homo animalis anche quando l’anima è posta come animus sive mens, e quindi come soggetto, come persona, come spirito. Questo modo di porre è il modo tipico della metafisica. Ma così l’essenza dell’uomo è stimata troppo poveramente, e non è pensata nella sua provenienza, una provenienza essenziale che per l’umanità storica resta sempre il futuro essenziale. La metafisica pensa l’uomo a partire dall’animalitas, e non pensa in direzione della sua humanitas32.
Non si potrebbe immaginare capovolgimento più puntuale delle tesi postumanistiche: per quanto paradossale possa apparire a prima vista, infatti, la critica heideggeriana all’umanesimo si propone esattamente una difesa dell’umanità dell’uomo, di ciò che rende l’uomo irriducibile all’animalità, una difesa contro la metafisica umanistica, che sarebbe invece proprio il luogo dove, a partire dalla traduzione latina dello zoon logon echon, l’umanità sarebbe stata sistematicamente e sempre pensata a partire dall’animalità. Aristotele, comunque, viene in qualche modo sottratto alla mischia – indicativo è che il «primo umanismo» sia detto da Heidegger «romano»… –, per quanto la sua parola rimanga quella originaria anche per la comprensione della animalitas sulla base della zoe e della physis. Ancor più significativo di ciò, però, è che per Heidegger, in fondo, è indifferente la questione del confine tra homo e animal: che un tale confine sia posto o meno, che sia 32
M. Heidegger, Segnavia, cit., pp. 275 sgg.
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inteso come invalicabile o poroso, che insomma pensiamo a partire da Cartesio o da Darwin non cambia nulla, penseremmo comunque all’animal homo, ossia «troppo poveramente» circa l’essenza dell’uomo. Naturalmente è un discorso che non si può liquidare in due parole, anche perché è difficilmente disconoscibile che entro la tradizione metafisica, a dispetto delle sue migliori intenzioni, l’uomo sia stato piuttosto maltrattato, ma aggiungerei subito che lo è stato ancor più l’animale, nella misura in cui possiamo usare ancora qui, provvisoriamente, un termine così vago. Direi anzi, che se proprio la tesi heideggeriana ha una ragion d’essere, nel ricondurre la svalutazione metafisica dell’uomo alla circostanza che è sempre stato pensato a partire dall’animale, quella svalutazione deriva in ultima analisi dalla circostanza, che innanzitutto gli animali sono stati pensati troppo poveramente nella loro essenza! È proprio questo quel che cercherò di mostrare rileggendo alcune pagine di Aristotele: come l’animalità si costituisca a concetto, e sempre più preconcetto, entro la tradizione occidentale, impoverendo il senso originario dello zoon e consegnandoci ad un confronto con ‘L’animale’ sempre già alterato e in qualche modo deciso. A pensare poveramente gli animali, infatti, non è solo Cartesio, non solo lo stesso Heidegger, ma anche Darwin, Varela e Maturana, i postumanisti… Derrida va messo da parte: indipendentemente da quel che si possa ritenere circa la sostanza del suo discorso e anche indipendentemente da certi suoi limiti, egli non ha forse saputo dire nulla di più lusinghiero su se stesso che «l’animale che dunque sono». Un’asserzione, che non ha nulla a che vedere con una definizione dell’uomo come animale sic et simpliciter, che anzi nega una simile eguaglianza o eguagliabilità, che non si stanca di porre non uno, ma mille confini, uno dentro l’altro, uno sull’altro, tra l’uomo e quella chimera che è l’animale. E che, tuttavia, proprio grazie a ciò riesce a non pensarlo affatto poveramente33. Riguardo ad Aristotele, però, Derrida è meno accorto di Heidegger, poiché riconosce senz’altro proprio nel logos di quello strano animale che è l’uomo il primo dito puntato contro l’animale, il peccato originale dell’uomo: «È come se l’uomo fosse interessato a mettere l’accento sul fatto che l’animale è privo di parola, uno zoon alogon». E ancor più esplicitamente: Non è possibile ritenere gli animali come specie di un genere da chiamare Animale, l’animale in generale. Ogni volta che «si» dice «L’Animale», ogni volta che il filosofo, o chiunque altro, dice al singolare e senza aggiungere al33
Cfr. J. Derrida, cit., pp. 70, p. 82 e pp. 89 sgg.
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tro «L’Animale», pretendendo così di indicare ogni essere vivente tranne l’uomo (l’uomo come «animal rationale», l’uomo come animale politico, come animale parlante, zoon logon echon, l’uomo che dice «io» e si considera come il soggetto della frase che pronuncia sull’animale), ebbene, ogni volta, il soggetto di tale frase, quel «si», quell’«io» dice una stupidaggine34.
Il che, nella sua sostanza, è del tutto corretto, tranne che per un punto: per i greci e non per il solo Aristotele, to zoon non è affatto un genere che raccoglie tutti gli animali tranne l’uomo, che è anzi integralmente zoon al pari degli altri animali. Anche quando, per traslato, il greco usa zoon per indicare ciò che noi intendiamo con ‘animale’, infatti, egli non pensa la stessa cosa: non pensa ‘l’animale’, bensì ‘i viventi’, tant’è che in simili circostanze il termine non è usato mai al singolare, ma sempre al plurale35. Gli animali, e tra essi l’uomo, sono sempre ta zoa e quando è di qualche differenza specifica propria dell’uomo che si parla, si dice allora ta alla zoa, gli altri animali. E si noti che tale uso rimarrebbe identico anche se si parlasse della differenza specifica di un qualsiasi altro zoon, per esempio della proboscide dell’elefante, che lo differenzia dagli ‘altri animali’, uomo compreso36. Nel Peri zoon morion, confrontando il suo ambito di ricerca, ossia le forme dei corpi fisici che «partecipano di generazione e corruzione», con quelli a prima vista più nobili delle essenze – sempre physei – «ingenerate e incorruttibili», Aristotele ne difende invece la dignità con movenze che riecheggiano la ramanzina del vecchio Parmenide al giovane e inesperto Socrate37. A detta di Aristotele, infatti, rispetto alla «filosofia intorno alle 34 35
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Ivi, pp. 70 sgg. e p. 94. Si potrebbe dire, insomma, che per ta zoa vale esattamente ciò che Derrida scrive del suo «animot»: «Vorrei far sentire nel singolare il plurale di animaux: non esiste l’animale al singolare generale. Separato dall’uomo da un unico limite indivisibile. Bisogna rendersi conto che ci sono dei “viventi” la cui pluralità non può essere raccolta nella sola figura dell’animalità semplicemente opposta all’umanità». Ivi, p. 89. Vedi, per esempio, Aristotele, Politica 1254b23. Proprio riguardo ad Aristotele, molto opportunamente scrive Luciana Repici, Piante, animali e uomini nel mondo antico: analogie, discontinuità, gerarchie, in Passaggi. Pianta, animale, uomo, cit., p. 36: «nessuna specie può essere considerata “paradigmatica” rispetto alle altre, perché ciascuna si costituisce secondo fini e forme proprie. Piante, animali e uomini come differenze di specie all’interno del genere vivente non sono quindi teleologicamente subordinati gli uni agli altri, con gli uomini in posizione di supremazia gerarchica». Constatazione che può essere ancor più radicalizzata, se si considera che, a rigori, per Aristotele to zoon non è affatto un genere, ma solo un’astrazione (vedi infra, nota 79). Cfr. Platone, Parmenide 130c5-e3. A Socrate, restio ad ammettere idee di «oggetti che sembrerebbero ridicoli come capello, fango e sporco», Parmenide ribatte:
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cose divine», che per quanto piacevole rimane oscura, la conoscenza delle parti degli animali, per la loro vicinanza a noi e «convivenza»38, ha la «superiorità della scienza» e non è priva di «grazia». Anzi, lo studio di ciò che potrebbe essere anche il più spiacevole ai sensi «presenta ugualmente piaceri straordinari per la ricerca a quelli che sono in grado di conoscerne le cause e ai filosofi per natura […]. Perciò non bisogna disprezzare, al modo dei ragazzi, la ricerca sugli animali meno ragguardevoli, perché in tutte le cose naturali c’è un che di meraviglioso [ti thaymaston]»39. Pagina straordinaria che si conclude con un’affermazione qui molto pertinente: «Se qualcuno è convinto che sia indegno lo studio degli altri animali [peri ton allon zoon], bisogna che ugualmente pensi di se stesso»! Si tenga comunque presente che non ne faccio affatto una questione storiografica o linguistica e che non è Aristotele in particolare a starmi a cuore, bensì una concezione sin dall’inizio realmente non oppositiva, ma integrativa, e che tuttavia non cancella le differenze, ma le comprende entro un’idea articolata e organica del vivente. Una concezione, sul cui sfondo far poi risaltare quanto di nuovo e di differente è implicito nel concetto moderno di animalità, acquisendone così una maggiore comprensione. Quel che, dunque, vorrò far emergere chiaramente, è che in Aristotele, come nella grecità in generale, non si pone affatto la questione dell’uomo – logon echon – in funzione e tramite quella dell’animale come regno del non-umano – zoon alogon40 –, giacché questi termini appartengono a tutt’altra tradi-
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«Perché sei ancora giovane, Socrate, e la filosofia non ti ha ancora catturato come farà, secondo me, quando non disprezzerai nessuna di queste realtà». Syntrophos è colui che è stato ‘nutrito insieme’ e che ci è perciò affratellato: il termine rimanda alla convivialità, familiarità e compagnia. Tema che attraversa la filosofia greca dalle sue origini (vedi la nota 40) fino al neoplatonismo: ancora Giamblico, rievocando l’insegnamento di Pitagora, parla di syngeneia (parentela e congenericità), koinonia (comunità) e adelphotes (fratellanza) tra uomini e zoa (Giamblico, V Pyth., 108). Aristotele, De partibus animalium, 644b22-645a28. Una simile determinazione in negativo dell’animale come zoon privo di logos è estranea allo spirito greco e non solo ad Aristotele. Anzi, non occasionalmente, ma si può dire in ogni epoca e nelle più diverse espressioni della filosofia greca è del tutto dichiarata la tesi opposta: ogni zoon è logikon, non esiste affatto, è anzi contraddittorio pensare uno zoon alogon! «Parmenide, Empedocle e Democrito sostengono che intelletto e anima siano la stessa cosa, secondo loro non ci sarebbe nessun vivente privo di ragione in senso proprio [ouden zoon alogon!]», testimonia Aezio (DK31A96). Per Empedocle del tutto esplicitamente non solo gli animali ma anche le piante «logika tynchanein» e con esse, rievocando Eraclito (DK22B113), «tutte le cose hanno conoscenza e il destinato pensiero» (DK31B110). Il perduto De plantis di Aristotele aggiunge a Democrito ed Empe-
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zione, che non è neppure, come voleva Heidegger, quella ‘romana’, e non derivano affatto, semplicemente, da una «traduzione metafisica» o da un inveterato «antropocentrismo», bensì da eventi spirituali molto più vasti e complessi, che sono poi quelli che ci riguardano ancora direttamente nella questione del postumanismo. Derrida, insomma, avrà mille volte ragione a stigmatizzare la definizione dell’animale in opposizione a quella di uomo, così come Heidegger quella di uomo in sovrapposizione a quella di animale, e tuttavia rischiano entrambi, così, di non capire appieno quanto di semplice e, soprattutto, di diverso venga pensato nello zoon logon echon e, conseguentemente, cosa avvenga all’interno della tradizione occidentale nell’abisso che si apre «da Aristotele a Cartesio». Il modo migliore per smascherare il fraintendimento circa il cosiddetto ‘antropocentrismo greco’ – e così anche per porre un primo punto di riferimento, rispetto al quale cercare di comprendere cosa nel frattempo è mutato – è non limitarsi a ripetere formule e definizioni varie sull’animale razionale, dandone ogni volta un’interpretazione pregiudicata dai diversi valori semantici che hanno man mano assunto i loro termini. Se si vuol fare chiarezza, insomma, bisognerà decidersi ad andare una buona volta sul luogo del delitto, che significativamente non è il De Anima, bensì la Politica di Aristotele, dove però la celeberrima definizione dell’uomo come zoon logon echon è funzione e specificazione di una definizione altrettanto nota: «ho anthropos physei politikon zoon»41.
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docle anche Anassagora, attribuendogli la tesi che le piante «hanno intelletto e intelligenza» (DK31A70), cui si aggiunge la testimonianza di Aezio, sempre su Anassagora, secondo cui «panta ta zoa logon echein ton energetikon» (DK59A101). Ovviamente, se ciò è vero per il logos, lo sarà ancor più per il pathos, rispetto al quale la testimonianza degli antichi è pressoché unanime. Lascia per questo interdetti il tentativo di Derrida – cit., p. 66 – di andare oltre l’impostazione logocentrica che egli presume nei greci, ponendo circa gli animali la domanda di Bentham: «Can they suffer?». Dubbio sensato in un ambito spirituale cristianizzato e moderno, entro cui l’anima è attributo oramai solamente umano, ma del tutto impossibile per un greco, che pensa sin dall’inizio non solo gli animali, ma già le piante e tutto ciò che «partecipa di vita», come uno zoon animato capace innanzitutto di provare «sensazioni di piacere e di dolore unite a desideri»! Platone, Timeo, 77a3 sgg., ove anche la natura delle piante è detta essere syngenes a quella umana. Testimonianza talmente unanime – e Aristotele a ciò aggiunge addirittura la capacità, per gli animali, di «comunicarsi» tali sensazioni; vedi infra nota 87 – che si fa prima a citare le poche eccezioni, valide peraltro solo per le piante (p.e. Epicuro, fr. 309 Usener). Aristotele, Politica, 1253a2-3.
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Ebbene, si capisce poco di questa frase estrapolandola dal suo contesto e intendendo, in un’accezione moderna: physei come «per natura» ossia «per essenza»…; politikon nel senso di «sociale», «socievole» o «politico»…; e zoon nel senso di «animale»! Ovvero proprio i modi in cui siamo portati a pensare ovviamente tali termini: «L’uomo è per natura animale politico». Si può anche tradurre così, forse non si può neanche tradurre molto meglio di così, e tuttavia non è semplicemente così che va pensata quella definizione. Per fortuna Aristotele era troppo consapevole della polisemanticità delle parole, da lasciare indeterminati i concetti più generali e più importanti. E così, proprio in quelle stesse pagine iniziali del I libro della Politica, egli chiarisce innanzitutto cosa intenda lì per physis, ribadendolo poi più volte: «he de physis telos estin»42. La natura è il «fine» di una qualsiasi cosa, nel senso di ciò che quella cosa viene ad essere «una volta compiutosi il suo processo di generazione», compimento che è lo stadio ottimale, beltiston (e in tal senso il telos è to agathon), ma che prelude al processo di disgregazione, di phthorà, di phthisis. Vale a dire che il telos non è l’ultima «fine» (teleute), oltre la quale la cosa non c’è più, bensì il meson, lo stadio intermedio tra nascita e morte, nel quale tutto quel che poteva realizzarsi, ‘sintetizzarsi’ nella cosa, si è già compiuto, ma non è ancora cominciato il processo di disorganizzazione e discioglimento dei vari elementi convenuti a formare la sintesi, il synolon, che è ogni cosa complessa43. Intimamente legato al concetto di generazione, quello di physis non è però qui un concetto genetico, bensì analitico-genealogico e per certi versi addirittura metodologico e fenomenologico. Rievocando l’incipit della Fisica, infatti, Aristotele descrive la methodos della Politica secondo le due direttrici: «Come anche nelle altre indagini, è qui necessario analizza42
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Ivi, 1252b32sgg. Si tenga presente che il famoso pollachos di Aristotele non era, come voleva Heidegger, solo ‘ontologico’: non è solo l’ente che si dice in tanti modi, ma ogni nozione. Esemplare il V libro della Metafisica (1012b34sgg.), che elenca una lunga serie di pollachos, a partire dai significati molteplici di ‘principio’, ‘causa’, ‘elemento’, ‘natura’, ossia i termini centrali della Fisica (l’‘ente’ è solo settimo nella serie). Riguardo ai vari valori di physis, si veda inoltre Fisica, 192b8sgg. Oltre a questa pagina della Politica, si veda De partibus animalium, 641b24sgg.: «questa cosa ha questo fine qualora sia evidente il termine [telos] cui conduce il movimento se nulla è di ostacolo». In De Anima 412a14-15, parlando intorno a ta physika somata che posseggono vita, ossia proprio intorno a ta zoa, Aristotele scrive: «zoen de legomen ten di’autou trophen te kai ayxesin kai phthisin: diciamo vita l’autonutrimento e insieme la crescita e il deperimento». Insomma, l’arco teso tra generazione e corruzione attraversato tramite la capacità autotrofica.
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re il composto [to syntheton] fino agli elementi semplici [asyntheta], che sono i costituenti minimi dell’intero»; e poi: «Se qualcuno guarda a partire dal principio [ex arches] le cose che nascono [phyomena: che sbocciano, sorgono, si manifestano], anche in questo campo come negli altri ne avrà la visione teorica più chiara»44. La ‘via della ricerca’ seguita da Aristotele, espressamente e rispetto a ogni ambito, è insomma, purché non si intenda tale determinazione in maniera troppo ristretta, l’analisi fenomenologica circa i processi di costituzione e generazione del complesso dal semplice, che ne individua ogni volta «cause, principi ed elementi», che possono essere dei più svariati, un’analisi che tiene sempre presenti insieme il principio e il compimento, le parti e l’intero. Rispetto allo zoon politikon, dunque, l’essere animale essenzialmente politico non designa innanzitutto una sorta di socialità ‘istintiva’, come quella delle api, che Aristotele relega esplicitamente in un’altra dimensione, ma intende il compimento di un lungo processo in ultima analisi storico, che egli ricostruisce nei suoi momenti elementari, e appunto genealogici, proprio negli anni in cui la realtà sociale nella quale aveva trovato il suo telos – la polis greca – si avviava rapidamente verso la disgregazione45. Questi momenti consistono in due relazioni fondamentali e inscindibili, i cui poli «non sussistono l’uno senza l’altro»: quella tra uomo e donna, che tramite la generazione assicura la sopravvivenza della specie, facendo leva sull’impulso comune a tutti gli animali e le piante di «lasciar dopo di sé un altro simile a sé»46; e quella tra padrone e servo, ossia tra chi è dotato della capacità intellettuale di prevedere [te dianoia prooran], e conseguentemente di provvedere in vista di quel che si è previsto e progettato, e chi è dotato della forza corporea per mettere in pratica e realizzare quei progetti [to somati ponein]. Questa seconda relazione è posta esplicitamente in relazione alla soteria, salvezza, sopravvivenza, salute: pur se in rapporto di diseguaglianza, colui che comanda e colui che serve operano l’uno per l’altro, la «stessa cosa è vantaggiosa» a entrambi. Questa volta, però, si tratta 44
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Id., Politica, 1252a 18-26. L’incipit della Fisica: «Giacché il sapere e la scienza, su ogni via di ricerca di cui vi siano principi o cause o elementi, deriva dall’acquisirne conoscenza (allora, infatti, riteniamo di possedere la conoscenza di una qualsiasi cosa, quando ne abbiamo conosciute le cause prime e i principi primi e fino agli elementi), è evidente che anche della scienza intorno alla natura dobbiamo prima di tutto cercare di distinguere ciò che riguarda i principi» (Fisica, 184a11-17). Da questo punto di vista la posizione spirituale della Politica è del tutto analoga a quella dei Lineamenti di filosofia del diritto di Hegel. Su tale principio della conservazione delle specie si veda anche Aristotele, De Anima, 415a23-415b7.
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della sopravvivenza degli individui e non della specie: per questo Aristotele distingue nettamente tra i due tipi di relazione, definendo anzi barbarica l’equiparazione di donna e servo47. È a partire da queste relazioni minime, autenticamente ‘elementari’ poiché nessuno dei loro membri potrebbe sopravvivere da solo, che Aristotele pensa la prima cellula della società non nella famiglia, come talora si traduce oikia, bensì appunto nella «casa», ovvero nell’unione inscindibile di uomo, donna, servo [oiketas] e terra, ove le veci del servo possono essere fatte anche dall’animale ‘domestico’, addomesticato48. Si tratta, in fondo, in questi suoi primi elementi di un’antropologia neolitica, che comincia a svilupparsi verso lo stadio propriamente politico nel passaggio dalla casa al villaggio49 e dal villaggio alla polis vera e propria, secondo un processo di progressiva dilatazione non tanto delle dimensioni, bensì dell’estensione temporale dei bisogni cui ogni forma di organizzazione è in grado di far fronte, da quelli «giornalieri» a quelli «non limitati all’immediato oggi», all’interezza dei bisogni di una generazione: il telos della polis, ossia lo stadio maturo nel quale il suo sviluppo può dirsi terminato, è l’autarchia, la capacità di bastare a se stessa, ossia alla sua intera comunità. Cui corrisponde, sul piano individuale, l’eleutheria, la libertà e autodeterminazione di cui si può godere solo nel contesto della dike, ossia dell’ordine legale della polis, che dunque non assicura più solamente le condizioni di sopravvivenza, ma anche della giustizia e così di una vita degna50. Ora, una simile concezione potrà essere criticata in mille modi, ma non si potrà definire strettamente ‘essenzialistica’ o ‘naturalistica’, né per quanto riguarda la società, né per quanto riguarda l’uomo. La conclusione che trae sinteticamente Aristotele, infatti, ha tutt’altro senso: «Da queste considerazioni è dunque evidente che la città appartiene alle cose che sono secondo natura [ton physei], che l’uomo è un animale che secondo natura vive in comunità cittadine [ho anthropos physei politikon zoon] e che chi non vive in città per natura e non per caso o è più inetto o è più forte dell’uomo»51. La città, ossia quella pre47 48 49
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Cfr. Id., Politica, 1252a26-1252b7. Cfr. ivi, 1252b9-12. La kome è definita «apoikia oikias»: colonia della casa, quasi una sua riproduzione e proliferazione, che ne lascia intatte le strutture di potere dispotiche ed entro la quale il padrone di casa si traduce in «Re», figura che dunque Aristotele relega ad una fase ancora incompiuta, arcaica (ivi, 1278b15-27 e più avanti 1285b29-33). Cfr. ivi, 1252b13-39. Ivi, 1253a1-4. physei apolis è un essere che nello stadio maturo, di pieno compimento delle sue condizioni di esistenza, può vivere da solo, come l’uomo non è capace di fare (e in tal senso è dunque anche ‘animale sociale’, come diremmo
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cisa configurazione politica e territoriale in cui era evoluta storicamente la polis del V e IV sec. a.C., non appartiene agli «enti naturali» perché la sua essenza sarebbe inscritta in un qualche codice o legge di natura, ma perché essa è il compimento maturo di uno sviluppo cui possiamo dare un orientamento unitario in funzione della realizzazione di certe condizioni e forme di esistenza, ove ciò che si realizza alla fine dà senso a tutto il processo di generazione: qui dalla sopravvivenza all’autarchia di una comunità, che rappresentano i primi beni di tutti e di ognuno. Ed è dunque propriamente in tal senso che anche l’uomo è «secondo natura vivente nella polis», non perché questa sia una sua essenza fisica o iperfisica – tant’è che la gran parte degli uomini sopravvivono al di fuori della polis – che lo distanzierebbe da subito e una volta per tutte dagli animali e dagli dei, bensì poiché, come reputa Aristotele, è nella polis che si sono storicamente e geograficamente realizzate in maniera compiuta e matura le condizioni della sua vita e non solo della sua sopravvivenza. Che non si tratti di un’essenza naturale, atemporale e fissa, è del tutto evidente, peraltro, proprio dalla specificità non solo storico-genealogica, ma anche geografica della polis: i barbari sono certamente uomini e tuttavia le loro società non hanno realizzato in maniera perfetta, sempre secondo Aristotele (e i greci in generale), le condizioni di esistenza di una comunità bastante a se stessa di uomini liberi52. E per questa stessa ragione egli asserisce che i barbari sono «per natura più servili»: per il semplice fatto che nelle società «dispotiche» degli egizi o dei persiani l’ordine politico è rimasto allo stadio della relazione padrone-servo, il che equivale a dire che la loro comunità, semplicemente in quanto tale, non può considerarsi compiuta, non è compiutamente una comunità53. E non lo è sia perché, giusta la forma che ha qui la dialettica servo-padrone, la sopravvivenza del servo è accidentale a quella del padrone54; sia perché è comunque solo ancora di sopravvivenza che si
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oggi). Vedi Etica Nicomachea, 1169b18: «L’uomo è infatti politico e gli è connaturato il convivere». Tale «syzen», tuttavia, riassume in sé diverse possibilità di convivenza, di cui la comunità politica è una sola, seppur la più compiuta (Politica, 1252a5), giacché in essa la condizione elementare della sopravvivenza dell’uomo, il syn zen, diviene ey zen. In Politica, 1327b20sgg. Aristotele abbozza addirittura una specie di geopsicologia. Si tenga comunque presente che, per quanto preferibili a quelli barbarici, i governi dei greci sono considerati da Aristotele ancora imperfetti e perfettibili (cfr. ivi, 1333b5sgg.). Ivi 1252b7 e 1285a18-22. Sottolineo il termine ‘koinonia’, da ‘koinon’: ‘comune’, poiché è proprio nella Politica che viene usato per la prima volta e sistematicamente nel significato tecnico da allora invalso. Al koinon, ovviamente, si contrappone lo idion della oikia, il regno privato del padrone di casa, su cui si modellano le società dispotiche. Ivi, 1278b32-37.
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tratta, almeno per la gran parte dei sudditi, e non di autentica convivenza. Il passaggio che non si è realizzato, insomma, è quello tra lo aneu allelon me dynamenous einai, il «non poter essere l’uno senza l’altro» proprio delle relazioni elementari, al non poter essere liberamente l’uno senza l’altro55. Il discorso non si esaurisce in ciò, ma alle sue implicazioni ulteriori sarà opportuno ritornare solo dopo aver finalmente affrontato di petto il nostro tema. Riassumiamo quanto abbiamo sinora visto relativamente ai termini di quell’asserzione: «anthropos physei politikon zoon». Innanzitutto, come è emerso con chiarezza, qui ‘anthropos’ non è l’essenza dell’uomo, la sua idea, la sua universalità, bensì la concretezza di relazioni determinate e della loro storia: maschiofemmina, padrone e servitore, le comunità della casa, del villaggio, della città… Rispetto a cui ‘physei’ indica lo stadio maturo del compimento di certe condizioni e possibilità di esistenza: la casa non basta a se stessa, deve estendersi nel villaggio e questo nella polis, dove la ragione stessa di tale estensione, il suo impulso e movente generatore, la soteria, trova lo stadio di equilibrio e realizza un nuovo livello emergente, la libertà. ‘Politikon’, dunque, qui non significa generalmente ‘sociale’, ma indica quella particolarissima forma di organizzazione della ‘comunità’, come condivisione del comando e dell’obbedienza («archein kai archesthai»: la formula forse più ricorrente della Politica), che è stata la polis classica – e che ha rappresentato ai suoi tempi, e per molti versi anche ben oltre i suoi tempi, una realizzazione unica. Ci rimane allora da parlare proprio solo intorno allo zoon, che dei quattro è il concetto più contaminato dalla tradizione successiva, soprattutto dalla commistione tra latinità ed eredità giudaica e cristiana. Il termine ‘animale’, infatti, così come noi per lo più lo intendiamo, come l’intero ‘genere’ delle bestie, non ha in greco antico un preciso corrispettivo: per quanto possa essere talora usato anche con un’estensione analoga56, ‘zoon’ dice ogni ‘vivente’, mentre ‘empsychon’, di cui è conio il latino ‘animal’, non indica neanche vagamente qualcosa come il nostro ‘animale’, nonostante ogni animale e pianta sia per i greci ovviamente ‘dotato di anima’, animato. ‘Ther’ o ‘therion’, infine, è propriamente la ‘fiera’, particolarmente quella terrestre, la
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Cfr. ivi, 1279a17-21 (la polis è «koinonia ton eleytheron: comunità dei liberi», concetto in cui è implicito tutto) e 1333a3-6: «Il governo è a favore di colui che regge o di chi è retto. Il primo lo diciamo dispotico, il secondo dei liberi». Ma sempre, come abbiamo detto, al plurale e tramite la specificazione ‘ta alla zoa’: ‘gli altri animali’, ossia tramite l’esclusione esplicita dell’uomo, che implicitamente non è affatto escluso dalla comunità degli zoa. Ancor più chiaramente si legge in tanti luoghi (p.e. in Politica, 1332b3) «ta alla ton zoon: gli altri tra gli animali».
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belva di cui si va a caccia (thereuma)57, distinta dai volatili e dai pesci58, ma soprattutto dall’animale addomesticato, oltreché dall’uomo e dal dio, e ha quindi un’estensione imparagonabilmente minore rispetto a ‘zoon’ o ad ‘animale’. Ad ogni modo, non è innanzitutto o affatto una questione di estensione del concetto, bensì di tutto ciò che in esso risuona, del suo senso complessivo: il greco antico, infatti, non distingue, innanzitutto semanticamente, l’‘uomo’ dall’‘animale’ inteso come tutto ciò che, oltre l’uomo e separato da esso, è un vivente animato59. Tale distinzione, invece, per la quale tra l’uomo e tutto il resto del mondo vivente l’unica dicotomia sostanziale è proprio il confine dell’uomo, al di fuori del quale rimane ‘L’’animale, come genere complessivo essenzialmente omogeneo, ha forse la sua radice nella tradizione ebraica (che, però, pure distingue all’interno dell’‘animale’ i pesci dai volatili, dai rettili, dalle fiere e dagli animali domestici, ordini addirittura creati in giorni diversi da Dio)60, ma si compie e radicalizza solamente in quella cristiana e moderna61. 57
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Cfr. Politica, 1324b41s.: «cacciabile [thereyton] è il vivente che sia selvatico e commestibile». Asserzione che, a dispetto delle apparenze, non è una massima etico-cinegetica, ma una semplice tautologia: non si va ‘a caccia’ di animali addomesticati o di uomini, così come uccidere a scopi non alimentari un vivente è appunto solamente ucciderlo. Cfr. Omero, Odissea, 24, v. 292. Anche per Aristotele zoa non sono i soli viventi capaci di movimento, poiché anche le piante, dotate di anima, possono talora essere dette tali. De Anima, 410b1624: «animali che permangono in un luogo». Ivi, 413a25: «ta phyomena panta dokei zen: tutte le piante sembrano vivere» (etimologicamente: ‘tutto ciò che viene alla luce’, che nasce. La physis è il regno del vivente come ‘sbocciare’). Tuttavia ivi, 413b1-4, ta zoa dotati di sensazione e di movimento «li diciamo viventi e non solamente vivere». Cfr. De partibus animalium, 681a12; De generatione animalium, 736b13 e De iuventute, 467b19sgg. Cfr. Genesi, 1, 20-25 Il versetto 1, 26 della Genesi, spesso citato a sproposito come luogo d’origine dello «sciovinismo antropocentrico» – tesi del tutto priva di senso storico –, non implica ancora una concezione dell’uomo come ontologicamente distinto dal resto del creato e, in particolare, essenzialmente superiore all’animale in quanto tale. Il cristianesimo, però, lo ha interpretato decisamente così. «Poi Iddio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza: domini sopra i pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sugli animali domestici, su tutte le fiere della terra e sopra tutti i rettili che strisciano sopra la terra”». Nella nota dell’edizione della Sacra Bibbia, curata da F. Pasquero, Edizioni Paoline, Roma 1968, «sotto la guida illuminata della Chiesa, unica depositaria infallibile della divina Rivelazione» (ivi, p. 18), si legge: «Sono parole importanti, che l’autore sacro ripete. Con la parola immagine in rapporto a Dio, distingue l’uomo dagli animali, perché dotato di intelligenza, volontà e potenza; la parola somiglianza attenua un poco la precedente, escludendo la parità dell’uomo con Dio. Il seguito del versetto indica che la rassomiglianza con Dio consiste specialmente nell’esercizio intelligente e volitivo del dominio sulle creature a lui comunicato da Dio
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Dalla creazione «a immagine e somiglianza di Dio», all’instaurazione come signore degli animali (a partire e grazie alla loro denominazione), al mancato riconoscimento, da parte di Adamo, in alcuno di essi di un compagno e di un «aiuto somigliante», che spinge Dio a formare Eva per toglierlo dalla solitudine, sempre più si accentua la distanza da ogni «carne avente il soffio della vita», che come «resto» della Creazione è posto «al servizio dell’uomo»62. Si tratta certo di un’evoluzione spirituale plurisecolare, che attraversa un gran numero di stadi e cui non è estranea neanche l’ultima filosofia greca, ma che indubbiamente trova un momento culminante nell’interpretazione cristologica paolina dell’incarnazione, evento a partire da cui, come si legge nella Lettera ai Romani, pur sotto l’oppressione del peccato «la creazione attende con gran desiderio la manifestazione dei figli di Dio» e «geme e soffre le doglie del parto»63. Ben più che nelle dottrine teofilosofiche e ‘soteriologiche’ del tardo neoplatonismo, che predicavano la via ascendente dell’uomo verso il divino, è proprio con la discesa di dio nella carne stessa dell’uomo, che questi si riconosce già in terra oltre la terra64. E che quindi la natura non è più ciò da cui bisogna distaccarsi, ma è anzi rimessa all’uomo, che al contempo si tira fuori da essa, in forza del suo rapporto privilegiato con Dio, di autentica filiazione: se la solidarietà dunque è per un verso negata – la carne va crocefissa65 –, d’altro canto rimane un legame tanto essenziale, che l’intera creazione condivide il destino di salvezza dell’uomo e conserva così una relazione, seppur mediata, con la divinità. In tale contesto, insomma, la speranza del «riscatto», per quanto «alla fine del mondo», che Dio concede all’uomo tramite il suo stesso farsi uomo («in speranza, infatti, noi siamo stati salvati»)66, e quindi la permanenza di un riferimento ulteriore, ossia
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stesso. La Costituzione pastorale Gaudium et Spes insegna appunto che l’uomo, “creato ad immagine di Dio, è capace di conoscere e amare il suo Creatore, e che fu costituito da Lui sopra tutte le creature terrene, quale signore di esse”» (ivi, p. 30). Genesi, 6,17-7,15. Paolo di Tarso, Lettera ai Romani, 8, 19, 22, e cfr. ivi, p. 1254, lo scolio: «La creazione, avendo ricevuto l’uomo come suo re, rimase umiliata per la condanna di Adamo, che colpì anche tutta la natura. “Sottoposta alla vanità”, cioè alla forza di distruzione, alla legge di morte e a continui mutamenti. Ora attende ansiosa la “manifestazione dei figli di dio”, il che avverrà alla fine del mondo». Cfr. Id., Lettera ai Colonnesi, 1, 20: «Se siete morti con Cristo agli elementi del mondo, perché, quasi viveste ancora nel mondo…». Qui Paolo invita proprio a sottrarsi ai precetti ascetici e pneumatologici delle sette filosofiche dell’epoca. Certamente il primo cristianesimo si è a lungo confrontato, e anche nutrito, degli esiti più caratteristici del tardo neoplatonismo, che è però un movimento spirituale incommensurabilmente distante, non solo in termini cronologici e culturali, dal cosmo concettuale e filosofico entro il quale Aristotele definiva l’uomo uno zoon politikon logon echon. Id., Lettera ai Galati, 5, 16-25. Id., Lettera ai Romani, 8, 24.
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di una divinità del Dio che trascende pur sempre la divinità dell’uomo, permette di ancorare anche la natura al progetto della salvezza. Come si è accennato già prima, è solo con il definitivo collasso del divino nell’umano, di cui l’incarnazione è però già un primo momento, che la signoria di questi non trova più alcun vincolo e la natura gli è completamente consegnata. Vale ovviamente anche qui la considerazione fatta rispetto a Cartesio, ossia che non è da una singola concezione teorica, che sia teologica o filosofica, che nasce un’atmosfera spirituale, ma è al contrario di questa che si nutrono le concezioni individuali, rispecchiandone originalmente le tendenze: la cristologia paolina, infatti, è solo una tra le tante forme analoghe di quell’acosmismo che si diffondeva nel I secolo su tutto il territorio dell’impero e che vide, si pensi alla gnosi, realizzazioni molto più estreme67. Quel che la rende cruciale è il fatto che, facendo leva su certi elementi propri alle sue radici ebraiche, pur esasperandoli, e così radicandosi in una tradizione millenaria; ma ancor più canonizzandosi in una dottrina ecclesiale destinata a divenire uno degli assi portanti di gran parte della storia medievale e moderna, quella concezione è sopravvissuta a tutte le analoghe e alla contingenza dei suoi tempi, divenendo egemone ed estendendosi su ogni aspetto della vita del pensiero, impregnando di sé, per dirne una, anche ogni scienza moderna. Da un punto di vista schiettamente concettuale, anzi, oltre che pratico, proprio la modernità, proseguendo nella stessa direzione, porta il processo di dissoluzione di ogni solidarietà tra umano in quanto tale e animale in quanto tale alle ultime conseguenze e, si può dire, fino al paradosso, nella misura in cui, proprio a partire dalla scienza cartesiana, il corpo animale viene sempre meno pensato e trattato come corpo ‘animato’ e sempre più come macchina e «automa»68. A privare l’animale dell’anima ci avevano già pensato i teologi e talora anche a definirlo una machina, ma non ancora nel senso propriamente meccanicistico in cui Cartesio intende il corpo: una «statua o macchina di terra», che risponde a stimolazioni esterne con effetti necessari, priva di alcuna spontaneità, puramente reattiva nella sensazione come in qualsiasi altra risposta69. Ed era stato lui per primo a pensare un argomento ‘alla Turing’, seppur di67 68
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Oltre alle due parti della sua monumentale monografia dedicata alla gnosi, cfr. H. Jonas, Dalla fede antica all’uomo tecnologico. Saggi filosofici, tr. it. di G. Bettini, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 375 sgg. Cfr. Cartesio, Discorso sul metodo, in Opere filosofiche, I, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1994, p. 327: «automi o macchine semoventi», ove ‘semovente’ conia il greco ‘automaton’, ma indica qui un movimento derivante «dalla sola disposizione dei suoi organi […]; sicché non occorre concepire nella macchina alcun’altra anima vegetativa o sensitiva» (Id., L’uomo, in ivi, pp. 278 s.). Ivi, pp. 205 sgg. («La macchina del corpo»).
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versamente orientato, per sostenere la sua tesi: se potessimo costruire «macchine siffatte, che avessero gli organi e la figura esteriore di una scimmia o di qualche altro animale privo di ragione, non avremmo nessun mezzo per riconoscere che esse non rivestono in tutto e per tutto la natura di questi animali». Uomini «veri», invece, sarebbero comunque distinguibili da macchine corporee umane, e così anche dagli animali, grazie alla parola che esprime pensieri spontanei: «Infatti si può senz’altro concepire una macchina costruita in modo da proferire delle parole, e addirittura da proferirne qualcuna a proposito di azioni fisiche che determinino qualche mutamento nei suoi organi […]; ma non si può concepire che essa coordini le parole diversamente per rispondere al senso di tutto ciò che si dirà in sua presenza»70. L’automazione del corpo, nel senso reattivo del meccanicismo, è in fondo la traduzione e radicalizzazione nei termini della scienza protomoderna di ciò che già la tradizione cristiana e in parte quella neoplatonica tarda avevano concepito, qualcosa che nel greco di Aristotele non si potrebbe quasi neanche dire, ma che già in Agostino è banale: «il mio corpo». Ove ‘io’ mi pongo come padrone della ‘mia’ animalità corporea e, proprio così, mi sottraggo ad essa in quanto soggetto autonomo del pensiero e della volontà71. Vale a 70
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Id., Discorso sul metodo, cit., pp. 327 s. Come è noto, Turing userà lo stesso criterio per definire le intelligenze artificiali, come quelle linguisticamente indistinguibili dalle umane. Cartesio non avrebbe ammesso la possibilità di simili macchine, perché prive di un’autonoma facoltà pensante, tuttavia è sulla sua stessa concezione dell’incorporeità della mente che si fondano quelle illazioni. Sul tema della «risposta», centrale in tutto il suo testo, vedi le acute critiche di Derrida, cit., p. 44: «Tutta la questione dell’animale non consisterà tanto nel sapere se l’animale parli, ma se sia possibile sapere cosa significhi rispondere e distinguere una risposta da una reazione»; e di seguito pp. 71 sgg., 181 sgg. Cartesio, VI Meditazione metafisica, in Opere filosofiche, II, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1996, p. 75. Cfr. S. Agostino, Le confessioni, a cura di G. Capello, Marietti, Torino 1945, pp. 271 s.: «questa sarebbe stata giusta moderazione e il giusto mezzo della mia salvezza: restare a tua immagine e, servendoti, dominare il mio corpo»; e p. 500: «sovente riduco il mio corpo in schiavitù». All’origine vi è ancora il paolino «spogliarsi del corpo della carne» (Paolo di Tarso, Lettera ai Colonnesi, 1,11). Ancora nella tarda antichità cristiana, però, il corpo è dotato di pulsioni proprie, di una sua spontaneità del desiderare, di un suo volgersi attivo (nonostante ciò cui miri e da cui rifugga siano le passioni del piacere e del dolore), che va sì contrastato, ma allo scopo di restaurare la solidarietà originaria, di redimerlo e riportarlo alla sua condizione prelapsaria. Per il meccanicismo, invece, esso è mera concatenazione causale di reazioni, il cui ordine necessario è spezzato solo dall’intervento di quella che poi Kant avrebbe chiamato «causalità per libertà», «l’indipendenza dell’arbitrio dalla costrizione degli stimoli sensibili», «facoltà di determinarsi da sé» e quindi «arbitrium liberum» e non «necessitato patologicamente» come quello «brutum», animale (Immanuel Kant, Critica della ragion pura, a cura di V. Mathieu, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 347 s.). Nel
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dire che la rottura della solidarietà con l’animale si riflette immediatamente in una frattura tutta interna all’uomo, in una vera e propria lacerazione tra il soggetto, sia esso pensato come anima, mente, intelletto, e la sua materiatez-
mondo greco una simile contrapposizione tra l’io, umano e libero, e il suo corpo, animale e aggiogato, è assente finanche nella tradizione più vicina all’orfismo: per quanto il soma sia qui «prigione dell’anima», entro cui essa è caduta e a cui è legata, tale legame non ha nulla a che vedere con l’innesto pineale di due alterità, ma costituisce un’unità polarizzata che è diversa sia dal mero soma (materia elementare), sia dalla pura e disincarnata psyche; quell’unità che i greci chiamano appunto to zoon, l’animale vivente. Anche l’io orfico e dei misteri, insomma, se così possiamo esprimerci, non ha un corpo, ma è corpo vivente, animato: solo nella morte avviene la separazione; la vita, invece, è proprio e solamente quell’unità. Concezione che rimane salda da Platone al neoplatonismo: nel suo dialogo più ‘dualista’, il Fedone, che è dove più ci attenderemmo di leggere un’espressione come ‘il mio corpo’, troviamo più volte «la nostra anima», il principio generativo dell’«anthropeion soma», cui in sorte, nella vicissitudine delle metempsicosi, può capitare ogni altro genere di corpo animale, entro cui cadendo «germoglia come un seme» piantato nella terra (Fedro, 76e6, 77b7, 83d11). Nelle Leggi è detto ancora più chiaramente che l’anima, «nascendo nell’elemento della terra o dell’acqua o del fuoco», non è altro che «vivere», «movimento capace di muovere sé da sé» e «prote genesis» (Leggi, 895c-896a; cfr. anche Repubblica, 353d9: «to zen psyches ergon»). L’unico luogo del Fedone, invece, in cui compare l’espressione «toumon soma», ci conferma nella maniera più chiara quanto sia estranea anche al giovane Platone la concezione del ‘mio corpo’ come alterità soggetta alla ‘mia anima’: Socrate consola Cratilo, dicendogli che, «una volta morto», egli non sarà affatto quel corpo che lui dovrà seppellire o bruciare, invitandolo a non soccombere a tale «inesattezza del linguaggio» (Fedro, 115d8-116a1). Il ‘mio corpo’, insomma, pensato come separato dalla mia anima, non è altro che materia inerte e insensibile, che non sono mai io, finché vivo, che non è mai to zoon che io sono come anima emphyomene, naturata dentro, impiantata… Ed è in relazione a ciò che il saggio antico non trova alcuna ragione per ridurre in schiavitù o dominare il proprio corpo: «ai chairein», lascia che sia, lascialo perdere, ripete di frequente Socrate, senza concedergli onori, distanziandotene (ivi, 64d2-65c7). La differenza, per quanto possa sembrare sottile, non è solo nella minore drammaticità del confronto, nella sua sostanziale pacificazione entro la vita del saggio, il cui compimento non si dà nel rifiuto ascetico delle passioni, ma nell’aver già volto altrove lo sguardo, nella purificazione estatica che deriva dalla psyches periagoge (Repubblica, 521c6). Più radicalmente di ciò, infatti, quel che in questo ‘dualismo antico’ non si è realizzato è l’esilio dell‘io’ o del ‘noi’ nella sola anima, tantomeno poi nel senso del soggetto come res cogitans: come avrebbe poi detto Plotino (Enneadi, IV, 4, 18, 31), l’uomo rimane, al pari di ogni vivente, «dyo kai hen metaxy genomenon», un due ed uno generato nel frammezzo, il cui telos è affondare le proprie radici non nell’elemento oscuro e greve della terra, ma in quello luminoso e lieve del cielo (in Timeo, 90a6 l’uomo è ouranion phyton, «pianta celeste»). Il rapporto tra uomo e animale, insomma, è configurato del tutto diversamente nel dualismo antico, rispetto a quello cristiano e moderno, non vi è anzi proprio configurato, poiché nelle relazioni tra anima e corpo esso pone sempre sullo stesso piano animali, piante e uomini (cfr. Fedro, 70d-e).
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za, cui è legato in terra, ma essenzialmente disciolto72. E di cui comunque dispone assolutamente: «il mio corpo»… invero qualcosa di molto ‘postumano’, l’oggetto possibile di ogni macchinazione, in quanto costitutivamente già macchina. È facile vedere, infatti, che ciò che i postumanisti ricercano come solidarietà perduta e da recuperarsi – o costruirsi ex novo rispetto alle macchine tecnologiche – è proprio ciò che la tradizione che chiamano umanista ha fatto dell’animale nel tentativo di allontanarlo sempre più dall’uomo, ponendo distinzioni ontologiche radicali, che hanno sempre più impoverito la concezione dei viventi, del corpo vivente, svilendolo fino a porlo come mero meccanismo, automa in un senso radicalmente diverso da quello antico, anzi opposto ad esso. È evidentemente uno sviluppo per tanti versi paradossale questo per cui l’animal, che in latino dice appunto ciò che ha un’anima – ossia nutrimento, percezione, automovimento –, diviene proprio ciò che l’anima non ce l’ha contro colui che invece ne è fornito. Diviene mero ‘corpo semovente’, che a dispetto del nome intende esattamente ciò che non è dotato di un principio autonomo del movimento, bensì necessitato in ogni sua trasformazione da cause puramente meccaniche, da «qualche mutamento nei suoi organi»: ovvero l’esatto contrario dello ‘spontaneo’ che significa il greco automaton. Assistiamo, dunque, non a una semplice alterazione, ma a un vero e proprio capovolgimento sistematico del senso stesso delle parole elementari che dicono l’uomo e i viventi, fino al limite in cui l’animale, in quanto macchina organica ‘inanimata’, non può neanche più essere considerato propriamente un vivente, essendo la ‘vita vera’ solo quella dell’anima – una conseguenza alla quale i pensatori più conseguenti su questa traccia teorica non si sono sottratti. Se Cartesio, infatti, considerava il corpo alla stregua di un «cadavere», dal canto suo Heidegger non esitava ad affermare che l’animale propriamente non muore, «l’animale perisce», che è un modo a contrariis per dire che non vive di quella vita piena, propria a chi esiste e non respira solamente73. Il paradosso ulteriore, però, che non si realizza solo nel postumanismo ma è già stato tipico del materialismo, è che i critici più accesi di quel dualismo ne accettano pienamente le conseguenze, ossia rimangono integralmente entro la sua logica, con l’unica differenza che prendono partito per 72 73
Cfr. Cartesio, Discorso sul metodo, cit., p. 330. Cfr. Id., Meditazioni metafisiche, cit., p. 25 e M. Heidegger, La cosa, in Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, p. 119. Ma già Søren Kierkegaard, Il concetto dell’angoscia, in Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Milano 1993, p. 158: «l’animale, in fondo, non muore».
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uno solo dei due poli che quel dualismo ha forzatamente separato e costituito artificiosamente l’uno in opposizione all’altro74: la macchina corporea disanimata, entro il cui regno plumbeo deve essere riconfinato anche l’«uomo macchina» e, in ultimo, coerentemente, accolte anche le macchine artificiali. In questo modo, ciò che era stato già ingiustificatamente sottratto agli animali deve essere sottratto pure agli uomini, ma – e qui sta il paradosso nel paradosso – attribuito invece agli automi. E non parlo dell’anima eterea, scorporata, puro pensiero o coscienza, mente, facoltà computazionale…, ma della vita stessa! Se l’uomo è stato ricondotto all’animale, che a sua volta era stato ridotto a macchina, allora non solo l’uomo e l’animale sono alla stessa stregua macchine, ma anche le macchine sono viventi e animate: questo in estrema sintesi il paralogismo sotteso al postumano. Un paralogismo non solo per la figura logica dell’implicazione, ma molto più concretamente e sostanzialmente perché di vita e di anima, nel corpo automatico, non ve ne era già più traccia da tempo. Lo ripeto ancora, poiché è essenziale evitare qui fraintendimenti: l’anima di cui parlo, di cui parlava Aristotele, non è altro che l’animazione dell’animato75, ossia la forma dinamica della sua esistenza corporea in quanto vivente, la psyche che fa di ogni zoon quello che è, dalla pianta a Dio. Anima che Aristotele definiva «forma del corpo naturale che ha la vita in potenza», in ultima analisi vita in atto ogni volta nella sua propria forma, che se non è senz’altro corpo, tuttavia è sempre «qualcosa del corpo» (ti tou somatos), di quello vivente, inseparabile da esso: la sua entelecheia, il suo essere entro la propria physis come telos, vale a dire lo sviluppo delle sue possibilità diverse, da quelle elementari della nutrizione e riproduzione, a quelle via via più complesse. Irriducibile alla res cogitans cartesiana e al dualismo ontologico, poiché corpo e anima non condividono, in
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Cfr. H. Jonas, Il problema della vita e del corpo nella dottrina dell’essere, in Organismo e libertà, cit., pp. 15 sgg. Concezione che proviene dalla tradizione omerica, entro cui uno dei significati primari di anima è ‘vitalità’, l’essere in vita del corpo, che scivola via con l’ultimo respiro o dalle ferite insieme al sangue: cfr. Erwin Rohde, Psyche, a cura di A. Oberdorfer, Laterza, Bari 1982, vol. I, pp. 3-70 e Walter Friedrich Otto, Die Manen oder von den Urformen des Totenglaubens, WB, Darmstadt 19833, che sottolinea come gli spiriti nell’Ade siano più «corpi disanimati» che «anime disincarnate»: è nel corpo animato che si dà la pienezza ontologica della vita, rispetto a cui l’anima fuoriuscita dal corpo è la sua ombra miserevole e un simulacro inconsistente, marchiata da un’assoluta difettività e in preda a nostalgia struggente, «parvenze di mortali» e «ombre consunte», «simili al sogno» (Odissea, XI, vv. 207, 475-476, 488-491).
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Aristotele, la stessa dimensione categoriale, ma sono gli elementi in cui si risolve – solo «kata ton logon»! – la sintesi che è inscindibilmente ogni vivente76. L’anima, insomma, è il modo d’essere che distingue un corpo fisico vivente da uno inanimato, quel modo che, del tutto in generale, consiste nell’«aver in se stesso il principio del movimento e della quiete» e che caratterizza «to dynamei on hoste zen: l’essente tale da poter vivere»77. Questo vuol dire che l’animale è corpo e anima, non che in esso convergano e coesistano due sostanze – l’una impinealizzata nell’altra… –, ma che, tra i corpi, quelli animati sono viventi: «come occhio è la pupilla e la vista, così vivente è l’anima e il corpo»; e poi ancora: «l’anima è ciò in grazia di cui primariamente viviamo»78. Se l’anima, però, non è una sostanza autonoma che va ad animare un corpo inerte, bensì è forma di vita ed «entelechia del corpo», allora la determinazione della sua natura non può ottenersi per vie puramente logiche o introspettive (il cogito…), ma solo dallo studio delle diverse forme viventi: «Si deve pure badare che non sfugga se unica è la definizione di anima, come di animale, o diversa per ciascuna di esse, vale a dire del cavallo, del 76
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Cfr. Aristotele, De anima, 412a1sgg. Nel dire che «né l’anima è senza corpo, né è corpo», bensì «qualcosa del corpo» (ivi, 414a19-21), Aristotele richiama la sua distinzione tra ousia hos hyle e ousia hos eidos (ivi, 412a7-8). Il «soma», in tal senso, non è questo corpo vivente che ho qui di fronte, che è già la sintesi compiuta di materia e forma (ivi, 412a16: «ousia d’houtos hos synthete»), ma la sua materiatezza astratta, hypokeimenon che non è mai senza una forma, così come essa non è mai senza sostrato (ivi, 413a4: «l’anima non è separabile dal corpo»). Essendo l’anima «eidos somatos physikou dynamei zoen echontos», ossia «somatos entelecheia», non ha senso «chiedersi se l’anima e il corpo sono una cosa, così come non c’è bisogno per la cera e l’impronta, né in generale per la materia di qualsiasi cosa e ciò di cui essa è materia» (ivi, 412b6-8). Si tratta, insomma, di determinazioni analitiche, operate dal logos, di ciò che è naturalmente già sempre nella sintesi. Per questo Aristotele afferma che l’anima è un’essenza secondo il logos (ivi, 412b10-11: «ousia kata ton logon»), ovvero semplicemente «quel che è un certo determinato e siffatto corpo». In funzione di tutto ciò, è esplicita e radicale la critica di Aristotele a tutti coloro che «applicavano» [enermozon: come si farebbe con una protesi meccanica] l’anima «nel corpo, senza neanche determinare in quale e di che tipo», mentre essa è «intrinseca al corpo e ad un corpo di natura determinata» (ivi, 414a21-24). Ivi, 412b16-17, 25-26. Poco più avanti, 413a21-23: «si distingue l’animato [empsychon] dall’inanimato per il vivere». Kinesis non intende solo la traslazione, ma anche generazione, alterazione e crescita (cfr. ivi, 413a23-26; De generatione et corruptione, 315a25 sgg. e Fisica, 192b13-16), diciamo il ‘metabolismo’ in generale, nel senso complessivo che ha il termine ‘metabole’ in greco. Per questo anche le piante rientrano nei corpi viventi e hanno dunque un’‘anima’. Id., De Anima, 413a3, 414a12-13.
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cane, dell’uomo, del dio, essendo quindi l’animale in generale o nulla o qualcosa di posteriore»79! Anche per Aristotele, insomma, non esiste l’Animale – to zoon to katholou –, ma le molteplici e differenti forme viventi con le loro molteplici e differenti anime. Rispetto a questa concezione ancora integra dell’anima e del nesso tra corpo e vita è evidente che anche tutta la speculazione più o meno fantasiosa circa l’intelligenza artificiale, per non dire della soteriologia transumanista, con il suo sogno e incubo di trasferire la mente umana, come pacchetto di informazioni e algoritmi, come software, su supporti elettronici, rimangono del tutto all’interno del dualismo cartesiano, ne sono anzi la più aggiornata e perfetta riproposizione. Anche da questo punto di vista, dunque, il postumanismo rimane entro il «paradigma» contro cui così ferocemente si autodefinisce. Tutte queste precisazioni erano opportune e tuttavia non esauriscono ancora il senso dello slittamento semantico e concettuale da ‘zoon’ ad ‘animal’ e da ‘animal’ ad ‘animale’, sono anzi solo esigui prolegomeni di un discorso molto più vasto, che qui non possiamo svolgere interamente. Almeno poche note, però, andranno aggiunte intorno al ruolo che in tale slittamento svolge quello analogo, che dal ‘logos’, per il tramite della ‘ragione’, porta alla ‘mente-cervello computazionale’. Abbiamo cominciato col dire che il termine ‘animale’ così come noi lo pensiamo, contraddicendo la sua radice etimologica latina, non ha corrispettivi in greco antico: non c’è in questa lingua una parola che riassuma e costringa a unità fittizia tutto il regno dei viventi animati eccetto l’uomo. Il che non significa semplicemente e banalmente – come è pur vero, ma in un senso completamente diverso da quel che gli diamo oggi – che per i greci l’uomo è senz’altro ‘un animale’. Voglio dire che ciò che accomuna l’uomo e gli animali non è, per i greci, l’animalità postcartesiana, compresa quella evoluzionistica, entro la quale continua a risuonare l’avvilimento della ‘mera’ corporeità, carnalità, bestialità… L’anthropos è zoon al pari delle bestie feroci, di quelle addomesticate, sotto il riguardo elementare della nutrizione anche delle piante, e poi degli astri, degli Dei, talora dell’intero cosmo80. L’uomo è, al pari di tutti costoro, corpo vivente!
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Ivi, 402b5-8 (corsivo mio). Cfr. Platone, Timeo, 92c6sgg., ove il cosmo è detto «zoon horaton, megistos kai aristos kallistos te kai teleotatos». Radicalizzando questa tesi platonica, Plotino ne dedurrà che «siamo noi che neghiamo la vita a ciò che non si muove coscien-
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Questo significa zoon, lo abbiamo visto, niente affatto ‘animale’, bensì ‘essere vivente’. Che in greco non contiene in sé alcuna implicita riduzione, svalutazione, confinamento – rispetto alla pura anima, allo spirituale, al divino –, se, appunto, neanche per un Dio è disdicevole essere innanzitutto zoon!81 Pensiamo, per converso, come suonerebbe alle nostre orecchie dire che «Dio è un animale», noi che ancora tanta resistenza facciamo a riconoscere che l’uomo stesso lo è… All’interno del cosmo dei viventi, un cosmo plurale, Aristotele distingue poi un ordine di generi e differenze specifiche, dal semplice zen delle piante, alla zoe dotata di movimento e così via, e in questa molteplicità di differenze sempre più riccamente articolate l’uomo – che è una specie e non un genere!82 – trova il suo posto, che però rimane saldamente entro quel cosmo e non contro di esso. Un posto, che se consente, riguardo a certi attributi e facoltà, anche di parlare di un sotto, implica però certamente anche un sopra: l’abbiamo visto proprio nella Politica, l’uomo da solo è incapace di autarchia, ha bisogno della comunità, mentre chi può vivere da solo o è di meno o di più, «o è una belva o un dio»83. Per questo la definizione di ‘vivente politico’ è così pregnante, ma non ancora sufficiente, se non si dice cosa distingue la comunità civica dalle altre comunità esistenti tra i viventi, per esempio tra le solite api. È in funzione di questa determinazione, ossia non per definire puramente l’essenza dell’uomo, ma per specificare la forma della polis, che Aristotele integra la prima definizione con quella divenuta ancor più celebre: l’uomo è zoon logon echon ed è in grazia di ciò che la sua comunità si differenzia dalle altre84. Logos in greco significa tantissime cose, tra le quali certamente anche ‘ragione’ e facoltà del pensiero, che si esprime nelle forme dichiarative del logos apofantico, del giudizio, di cui Aristotele si è pure ampiamente occupato nell’Organon. E forse è anche in dipendenza dalla posizione eminente che ha sempre avuto la logica aristotelica entro la tradizione filosofica occidentale, che sia stato questo il senso prevalentemente attribuito allo zoon logon echon, all’‘animale razionale’, che così è stato connesso strettamente con il cogito di Cartesio e con la sua determinazione della diffe-
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temente per se stesso: qualsiasi cosa che sia vive una sua vita nascosta…» (Enneadi, IV, 4, 36: 17-19). Cfr. Aristotele, Metafisica, 1072b29. Cfr. Id., De partibus animalium, 644a29-b7, 645b25: in quanto specie, ovviamente, l’uomo è pensabile come appartenente ad un genere che contenga altre specie diciamo sorelle, così come il genere degli uccelli comprende il passero e la gru. Id., Politica, 1253a29. Ivi, 1253a7sgg.
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renza essenziale tra uomo e animale proprio nella facoltà del primo di pensare, che si esprime e rivela tramite l’articolazione del discorso. Tuttavia, né l’animal rationale di Seneca85, né tantomeno il logos di cui qui parla Aristotele hanno a che fare con le facoltà ‘logiche’! Aristotele, infatti, sta parlando dei modi di vita tramite cui si articola una comunità umana, delle forme di esistenza che le assicurano sopravvivenza, soteria, autosufficienza e autonomia, e riassume il processo storico che li configura in un’espressione estremamente sintetica, ma trasparente nel suo senso complesso: «La comunità che risulta da più villaggi, città compiuta (teleios polis), che ha raggiunto per così dire il limite della piena autosufficienza, nata in vista del vivere, è in vista di un vivere bene»86. Ginomene men tou zen heneken, ousa de tou ey zen! Vale a dire che nel compimento della polis quello che era inizialmente il movente del villaggio e ancor prima della casa, la sopravvivenza, muta o, se si vuole, si realizza più perfettamente in quanto telos. In effetti, con l’allusione al rapporto tra genesis e ousia, generazione ed essenza, Aristotele rimanda e rielabora il tema già platonico della precedenza dell’essenza rispetto alla generazione. Il passo, infatti, continua: «Perciò ogni città è secondo natura, se secondo natura sono anche le prime comunità. Essa è infatti il loro fine e la natura è fine: ossia ciò che una qualsiasi cosa è una volta compiuta la sua generazione». Se quindi il villaggio si compie nella polis, ciò che la polis realizza è in fondo sin dall’inizio la natura più autentica della comunità umana e quindi dell’uomo: il viver bene e non semplicemente sopravvivere87. Attenzione, però: qui ‘vivere bene’ non è opposto a ‘vivere male’! I villici non vivono male, ma la loro comunità realizza solo le condizioni di esistenza e non ancora quelle di una compiuta autarchia, che non è solo autosufficienza, bensì anche autonomia, eleutheria. Quello ey, insomma, non esprime un giudizio, una qualità, un ‘valore’ e valutazione della vita entro la polis, ma la sua modalità! Vivere bene, infatti, significa qui: vivere se85
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Seneca, Lettere a Lucilio, XLI 8, 1-3: «quod proprium hominis est. Quaeris quid sit? Animus et ratio in animo perfecta. Rationale enim animal est homo» (dove però questo «animus et ratio» è tutto fuorché la facoltà intellettuale, essendo piuttosto quel principio divino – «sacer intra nos spiritus sedet» e «nullo bono nisi suo nitet» – che ci connette alla nostra origine e destinazione essenziale). Aristotele, Politica, 1252b27-30. Cfr. ivi, 1278b15-27, 1280b33-1281a4, ove la città è detta «comunità del vivere bene, in vista di una vita perfetta e autonoma». Si noti che l’ousia non è una qualche essenza ideale, ma solo ‘quel che è’ ciò che si va generando, che cronologicamente si realizza alla fine (cfr. Id., De partibus animalium, 646a26-27: «proton to te genesei teleytaion»).
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condo le distinzioni tra sympheron e blaberon e tra dikaion e adikon – conveniente e dannoso, giusto e ingiusto –, due distinzioni che complessivamente articolano quella tra bene e male. Solo dove il modo della vita è lo ey zen, allora, è possibile anche vivere bene o vivere male, prima è possibile solo vivere o non vivere. È in relazione a questa distinzione fondamentale che entra finalmente in gioco il logos: È chiaro quindi perché l’uomo è animale politico più di qualsiasi ape e di ogni animale gregario. Come abbiamo detto, infatti, la natura non produce nulla invano; e l’uomo, solo tra gli animali, ha la parola: la voce, infatti, è segno del dolore e del piacere e dunque per questo l’hanno anche gli altri animali (fino a questo, infatti, è giunta la loro natura, all’aver percezione del dolore e del piacere e a significarsi reciprocamente queste cose), ma la parola è fatta per dichiarare il conveniente e il dannoso, e così anche il giusto e l’ingiusto. Questo, infatti, è proprio agli uomini rispetto agli altri viventi, è il solo ad aver percezione del buono e del cattivo, e del giusto e dell’ingiusto, e così via. Ma è la comunità di queste cose che produce casa e città. E, invero, per natura la città è precedente alla casa e a ciascuno di noi; l’intero, infatti, precede necessariamente la parte88.
Il logos del politikos anthropos, dunque, non è affatto la ‘ragione’ o il ‘pensiero’ soggettivi, giammai poi quelli teoretici, ma è la parola condivisa, comunicata tra gli uomini, la parola come deloma, dichiarazione che supera la mera significazione tramite la voce del piacere e del dolore e che presuppone non genericamente una mente (già il padrone possiede dianoia e pronoia!), bensì phronesis e krisis circa l’arete, prudenza e criterio della virtù, di ciò che è opportuno e buono, in una parola dikaiosyne, la facoltà di giudicare intorno alla dike come «ordine della comunità civica»89. Che non è certo affare del singolo, dell’ego del cogito, bensì dell’intera polis, e ogni volta di quella concreta, ordinata così e così; e che non è, dunque, affare etico o teoretico, ma autenticamente politico: il ‘giusto’ si fonda sulla politeia, sulla forma specifica della polis, è ogni volta relativo al tipo di costituzione della polis reale, in cui non vige la virtù politica in assoluto, ma quella virtù e quella giustizia che la comunità pone come proprio ordinamento e che proviene, in senso lato, dalla sua boule, dal suo consiglio, in continuità con le leggi stabilite e le abitudini consolidate, nomos ed ethos90. 88 89 90
Id., Politica, 1253a7-20. Ivi, 1253a34-39. Cfr. ivi, 1263b36-40, 1276b26-34, 1282b8-13, 1288b1-2, 1289a11-25. La politeia, la costituzione della polis, sovraordinata alle sue leggi e alle virtù del polites,
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Anche quando è un nomothetes a dover interpretare positivamente la funzione legislatrice, si legge nel seguito dell’opera, egli non dovrà farlo come un padrone che ‘detti legge’ a un servitore, ma sempre, in ogni diversa dimensione ciò sia esprimibile, articolando le tre potenze della physis, dell’ethos e del logos, che indica ancora una volta soprattutto la parola che ci si scambia entro una comunità91. In questo luogo, infatti, dopo aver ribadito che l’uomo, oltre a una natura e a un habitus, «echei logon», e che deve portare a consonanza, all’accordo reciproco tutti gli elementi in gioco, Aristotele specifica, chiarendo la funzione precipua del logos in tale symphonia: «Molte cose, infatti, agiscono gli uomini al di là delle consuetudini e della natura a causa della parola, se si persuadono che altrimenti è meglio. Abbiamo precisato precedentemente quale deve essere la natura di coloro che saranno più proclivi all’azione del legislatore: il resto è ormai opera di educazione e, in effetti, essi apprendono alcune cose mediante l’abitudine, altre ascoltando»92. Insomma, il logos dello zoon politikon logon echon – dovremmo abituarci a citare sempre per intero la definizione – è innanzitutto la comunicazione del conveniente e del giusto, ovvero la messa in comune di ciò che è opportuno e di ciò che è norma di vita pubblica, quindi non solo di quel che garantisce la sopravvivenza tramite il lavoro collettivo nella casa e nel villaggio (già nella comunicazione tra padrone e servo, infatti, si distingue il conveniente dal dannoso, ma non ancora il giusto dallo sbagliato e l’eccellente dal vile), ma anche di quel che gli uomini stessi, e non la necessità delle condizioni materiali di esistenza, pongono a norma della loro vita, della loro comunità. A questo, in fondo, si riduce la differenza tra zen ed ey zen. Per quanto ci abbiano portato un po’ lontano, queste ultime precisazioni non potevano essere evitate. Da esse emerge, parafrasando sinteticamente in termini più moderni, una concezione degli uomini come specie animale gregaria che conduce la propria esistenza in comunità, contemperando caratteri naturali, abitudini e leggi grazie al discorso pubblico. Quel che di-
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che variano al variare delle costituzioni possibili, è l’anima della polis, forma di vita del corpo sociale (1295b1: «bios tis esti poleos») e quindi misura di ogni giustizia politica. È dunque nella costituzione di una comunità, ogni volta concretamente nei diversi modi in cui si realizza, che si generano le leggi, i costumi e le virtù. E non è una concezione ‘positiva’ del diritto, ma organica: la giustizia non è un valore assoluto, precedente la comunità, ma ne è l’espressione, conformata agli ordinamenti e organi entro cui si produce. Ivi,1332a39sgg. Ivi, 1332b6-11.
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stingue questa specie dalle api, insomma, non è il cogito, ma il fatto che le api non siedono in assemblea. Nella sua psicologia Aristotele introduce nuovi termini e differenze, funzioni dell’anima caratteristicamente umane e così via. Ma qui che il suo discorso è più storico e antropologico, il logos intende innanzitutto il continuo armeggiare degli uomini tra loro tramite la parola e per scopi comuni, legati all’utile e al giusto. Un logos che non è innanzitutto quello apofantico, come volevano, in maniere diverse, sia Heidegger che Derrida, ma tutto il complesso dei logoi retorici, parenetici, pedagogici, ottativi, proairetici, imperativi, rituali, poetici e così via, che costituiscono lo scambio pubblico della parola93. Leggere Aristotele è stato solo un pretesto per comprendere noi stessi: chiarire cosa sia stato pensato all’inizio nello zoon non ci serve né a scopi storici, né tantomeno apologetici, in nessun modo dottrinali o nuovamente ideologici. Non si tratta, in altre parole, né solo di correggere una lunga tradizione ermeneutica, nella sostanza errata, ma fondata su ragioni ben più impellenti che la fedeltà al testo, né tantomeno di invitare al ritorno ad una concezione, che per quanto organica e spesso illuminante è per troppi versi irrecuperabile. Partire da Aristotele, invece, serve proprio a capire l’enormità dei mutamenti compiutisi «da Aristotele a Cartesio» e ormai incarnati nei valori semantici più elementari delle parole che usiamo per dire noi stessi e il nostro mondo, già da secoli del tutto pregiudiziali. Serve, insomma, proprio per rendere nuovamente quei pregiudizi – ‘l’animale’, ‘la mente’, ‘il mio corpo’… – giudizi; per poterli così anche giudicare e non rimanerne, invece, sempre pregiudicati. Prospettiva da cui abbiamo cercato di guardare – tirando solo un filo da un’orditura penelopea – anche alla contrapposizione tra umanesimo e post-umanesimo, che è risultata essere tutta interna allo spazio spirituale messo in luce dal cartesianesimo. Anche a prescindere, infatti, da un’analisi puntuale del terzo termine in gioco, le macchine, quel che è emerso lungo il discorso è che l’ibridazione tecnica cui invitano i postumanisti è in realtà già compiuta proprio nella distinzione moderna tra soggetto logico e corpo esteso, che non è certo un’in93
Si tratta, invero, di una concezione così coessenziale allo spirito greco, che ancora nelle sue ultime fasi di agonia è proprio sul nesso tra paideia, polis e logoi, significativamente al plurale e indicativi dell’intero cosmo dei discorsi pubblici, che fanno insistentemente leva i difensori dello spirito antico, come Giuliano, Libanio ed Eunapio, contro la barbarie cristiana e dei popoli invasori. Cfr. Eunapio, Vite di filosofi e sofisti, a cura di M. Civiletti, Bompiani, Milano 2007, pp. 33 sgg.
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venzione di Cartesio, ma l’esito, posto in termini ‘chiari e distinti’, di un’evoluzione millenaria del pensiero e, ancor più, dell’atteggiamento nello stare al mondo dell’uomo, di quello che in sostanza è ancora il nostro, che se non altro è certamente l’atteggiamento postumano. Quando lo zoon logon echon diventa un cadavere munito di raziocinio, ossia un automa parlante, ‘io’ sono già un surplus mentale incastrato in una macchina, innestato su di una macchina: nulla di stupefacente, se posso pensare a innestarmi di altre macchine o su altre macchine. E nulla di strano, invero, che il primo a patire questo scollamento pauroso nell’essenza dell’uomo, proprio per l’intimità che li lega, dia to syntrophon, sia ‘l’animale’, ovvero che siano concretamente i corpi animali viventi, che da tempo non abbiamo più nessuna remora a sottoporre alle nostre macchinazioni di laboratorio e industriali, a postanimalizzarli. Ed è oramai il turno dei corpi umani… L’equivoco di fondo del postumanismo, allora, il cui furore anticartesiano è in realtà un parricidio malriuscito, quel che nella sua venerazione della tecnica non riconosce e, anzi, capovolge, è che proprio in quella ‘tecnoscienza’, e non certo in una fantomatica mentalità umanista, si incarna più puramente ed effettivamente lo spirito cartesiano, depurato e condotto alle estreme conseguenze, in quella tecnica che ha ridotto l’intero cosmo vivente a macchina produttiva e apparato sperimentale, inaugurando già mille forme di ‘evoluzione post-biologica’, che non hanno certo granché favorito i loro oggetti, e a ben vedere neppure noi suoi fruitori. Si tratta naturalmente di un discorso complesso, di un altro discorso, che qui non possiamo estendere oltre questi pochi accenni, se non notando che la questione di cui il postumanismo è espressione, e in cui si rivela la sua natura ideologica sovrastrutturale, non si gioca, in definitiva, sul piano dei paradigmi, bensì su quello ben più concreto di una scienza sempre più asservita alla produzione industriale, in occidente oggi alla disperata ricerca di nuovi ordini di prodotti, di nuovi ‘generi’ tramite il cui consumo e consunzione ridare foga a una crescita estenuata: innanzitutto le biotecnologie e le incipienti forme di antropotecnica. Rispetto a tutto ciò, dunque, ci limitiamo a concludere che ricordarsi, magari leggendo parole antiche sull’uomo e sulla libertà, che ‘io’ non ‘ho’ un corpo, non lo possiedo come substrato materiale arbitrariamente manipolabile, ma innanzitutto ‘sono’ corpo vivente, può non essere del tutto inutile.
Sezione Seconda I SAPERI
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FRANCESCO PAOLO ADORNO
UN’ETICA PER IL POST-UMANO?
Il ritornello è sempre lo stesso: non possiamo non essere entusiasti del mondo post-umano in cui stiamo entrando e che sta dischiudendo, davanti ai nostri occhi, innumerevoli opportunità di migliorare la nostra vita. Forse, proprio per questo, la questione del post-umano sembra di una disperante banalità. Percorrendo l’enorme bibliografia sul post-umano, è difficile non farsi prendere dalla stessa vertigine che coglie in un labirinto: si gira, si svolta, ma si ha la netta impressione di essere sempre al punto di partenza. I concetti, quando ci sono, si riducono a due o tre linee guida; i punti di riferimento teorici sono praticamente sempre gli stessi; gli esiti delle analisi sono tendenzialmente convergenti e si limitano a due possibilità: pro o contro – con la variante dei contro-contro, come Allen Buchanan1 –, filotecnici o luddisti, progressisti e liberali o reazionari e conservatori. Molto spesso, invece di proporre argomenti razionalmente validi, e che non si limitano a smontare le tesi avverse, i sostenitori del post-umano ripetono, come un mantra, che il mondo che ci stiamo preparando sarà molto migliore di quello che in cui viviamo, che saremo più felici, più liberi, più sani. Ma forse è vero, come dicono Deleuze e Guattari, che il ritornello delimita e circoscrive un territorio, lo fa emergere attraverso la ripetizione, àncora nell’immaginazione una rappresentazione dello spazio e del tempo – in questo caso, dell’umano e del suo superamento – e la banalizza, o come, ancor prima, Jackobson aveva capito, che la ripetizione rende accettabile e familiare praticamente qualunque cosa: il suono fa senso. Ma basta scavare un poco per far emergere difficoltà insospettate e per rendersi conto che forse nel mondo post-umano le zone d’ombra, soprattutto dal punto di vista etico, sono tali e tante da renderlo una prospettiva piuttosto inquietante. Lo sfondo degli argomenti usati in queste discussioni è costante e riprende una delle questioni, se non la questione fondamentale, della filosofia, che alla luce della biologia contemporanea, quella che, per intenderci, 1
Allen Buchanan, Beyond Humanity?, Oxford University Press, New York 2010 e più recentemente, Better than Human, Oxford University Press, New York 2011.
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nasce con Darwin, si dà come già risolta. Se tra la staticità e la permanenza dell’essere e la dinamicità e il mutamento continuo della natura, se tra Parmenide ed Eraclito, la filosofia ha esitato, pendendo ora per l’uno ora per l’altro, il post-umanesimo ha già da sempre preso posizione a favore del secondo, negando alla natura una qualsiasi staticità se non provvisoria, più che altro una pausa contingente nel suo continuo divenire, sicuramente non una sua modalità di esistenza. La storia dell’evoluzione ci spiega con prove indubitabili che l’essere umano – come tutte le altre specie vegetali e animali – si trova in uno stato di continua tensione con il suo ambiente, rispetto al quale si deve trovare sempre in sintonia, per non estinguersi. Sottoposto alla pressione ambientale – che, d’altra parte, egli stesso contribuisce a modificare – non può rimanere identico a se stesso, pena la sua scomparsa. Così, in questa lunga storia, il post-umano non è che una trasformazione necessaria dell’umano, l’ennesima tra le innumerevoli forme che la specie Homo ha adottato nella sua lunga storia fatta di trasformazioni più o meno irrilevanti. Non appare inutile ricordare che il termine stesso di cyborg (acronimo di cybernetic organism), specifico del lessico del postumano, nasce in risposta all’analisi delle pressioni ambientali che l’uomo subirebbe nei viaggi spaziali. Manfred E. Clynes e Nathan S. Kline, i due ricercatori all’origine di questo termine, partendo dalla constatazione che è più logico alterare le funzioni corporee per adattarle a condizioni extra-terrestri, che modificare un ambiente estraneo per adattarlo alle condizioni di vita umane, si ingegnano nell’indicare le soluzioni più adeguate ai problemi che l’uomo si troverà ad affrontare nei suoi viaggi spaziali. Tutte le soluzioni particolari, però, sono debitrici di una scelta chiara: per poter sopravvivere nello spazio, l’uomo deve incorporarsi un certo numero di congegni capaci di supportare e di completare i meccanismi biologici, in modo tale da permettergli di vivere in un ambiente non-naturale, come quello che troverebbe nello spazio galattico2. 2
«If man attempts partial adaptation to space conditions, instead of insisting on carrying his whole environment along with him, a number of new possibilities appear. One is then led to think about the incorporation of integral exogenous devices to bring about the biological changes which might be necessary in man’s homeostatic mechanisms to allow him to live in space qua natura. The autonomic nervous system and endocrine glands cooperate in man to maintain the multiple balances required for his existence. They do this without conscious control, although they are amenable to such influence. Necessary readjustments of these automatic responses under extraterrestrial conditions require the aid of control theory, as well as extensive physiological knowledge». Manfred E. Clynes & Nathan S. Kline, Cyborgs and Space, “Astronautics”, september 1960, p. 30.
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Dato per acquisito che la natura si evolve in continuazione sembra oltremodo difficile stabilire una differenza qualitativa – quella quantitativa è palese – fra gli strumenti e gli artefatti del neolitico e la nostra tecnologia. In fondo, dalle rozze tecniche preistoriche alle biotecnologie contemporanee si tratta sempre dello stesso meccanismo: la semantizzazione di un elemento inerte, la trasformazione di un rumore in un suono, l’assegnazione di un telos antropomorfico a ciò che ne è sprovvisto. Da qui all’idea che tutto il regno animale sviluppi procedimenti tecnici, il passo è breve e porta all’ulteriore conseguenza di abolire la discontinuità tra biologia e tecnica, tra naturale e artificiale. Inutile appellarsi a una specificità della tecnica moderna per limitarne l’espansione – che sia definita a priori oppure comparativamente –, inutile definirne un’essenza – anche quando non la si cerca né induttivamente né deduttivamente –, inutile stabilire classificazioni e porre confini: malgrado gli avvertimenti di Heidegger, l’uomo, più che il pastore dell’essere, sembra sempre di più una pecora che cerca di andare sulla luna tirandosi per la coda. L’accento messo sulla continuità storica della tecnica, per quanto Hans Jonas e Jacques Ellul, per fare solo due nomi, abbiano approfonditamente analizzato, spiegato e definito la specificità qualitativa della tecnica moderna, permette di sedare gli animi e di tranquillizzare i più angosciati; in fondo non c’è niente di nuovo sotto il sole. Le biotecnologie fanno meglio quello che l’uomo fa da sempre: trasformano la natura, sottomettendola al suo volere. La storia dell’agricoltura, l’evoluzione delle tecniche di allevamento animale, la scrittura e il calcolo stanno lì a dimostrare che l’uomo è da sempre implicato nel processo di modificazione della natura e di se stesso. Selezione degli individui, alterazione dei caratteri biologici, trasformazione delle specie, miglioramento delle tecniche produttive sono le direttrici da sempre seguite per produrre frutti ‘migliori’, più resistenti, più grandi, più buoni; per allevare animali più produttivi, più miti, più nutrienti; per potenziare le performances intellettuali e fisiche, e – perché no? – morali degli uomini. Ne deriva, del tutto naturalmente, una sorta di abbandono allo scorrere del tempo e al passaggio degli eventi: se la statura media dell’Homo sapiens è aumentata di decine di centimetri negli ultimi diecimila anni, se la speranza di vita si è più che raddoppiata in cinquemila anni, se le sue capacità fisiche sono aumentate a dismisura negli ultimi cento anni (basti pensare alla progressione dei record sportivi in tutte le discipline olimpiche), perché preoccuparsi dell’ennesimo cambiamento delle sue capacità che il post-umano vorrebbe introdurre? E ancora, perché temere gli effetti delle biotecnologie sul fenotipo umano? In fondo psicoterapia e ginnastica, edu-
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cazione e cultura non sono tecniche e strumenti che servono da sempre per migliorare le performances intellettuali e fisiche dell’uomo e, quindi, modalità di manipolazione e di miglioramento dell’individuo? D’altra parte, se l’uomo è in continua trasformazione, appare impossibile definirne un’essenza e, di conseguenza, capire in che misura le biotecnologie lo alterano per costruire un nuovo essere. L’uomo è nuovo da sempre e in ogni momento della sua storia e le biotecnologie sono in continuità con quanto la natura fa già da sempre. Estremizzando si potrebbe dire che l’uomo è da sempre gettato nella sua posterità, è da sempre post-umano. Questo significa che nel continuum delle trasformazioni operate e operabili dalle biotecnologie, nella costruzione del post-umano, appare estremamente difficile, se non impossibile, dire dove finisce l’umano e dove inizia la sua posterità, dove l’uomo comincia ad operare per il suo oltrepassamento. L’impossibilità di individuare una cresta tra umano e post-umano ricorda l’incapacità dei filosofi e biologi di segnare un confine tra specie diverse – uomini e animali, per esempio – oppure, all’interno della stessa specie, tra individui normali e mostri. Una storia troppo lunga da riassumere qui, ma che segnala in fondo l’impossibilità di un’ontologia della natura e della biologia. Non ci resta che riconoscere che l’uomo non ha una essenza statica e che l’idea che sia ontologicamente definibile è un’invenzione culturale. Una ragione supplementare per aderire al post-umano – si dice – è che la volontà di fissare l’uomo a un’essenza possiede, inoltre, una precisa funzione politica e sociale. Assegnare agli individui delle identità preconfezionate significa inchiodarli a funzioni e ruoli che sono come gabbie, irreggimentarli per controllarli meglio. La cultura seleziona e classifica, controlla e normalizza in funzione di scopi e finalità che sfuggono al controllo degli individui che diventano, a pieno titolo, soggetti non di ma a un’identità. Il post-umano, grazie alla sua forza ibridativa farebbe volare in mille pezzi le classificazioni naturali – frutto di una certa cultura: non più persone soggette a un’identità, ma individui multiformi, figli di Proteo, divinità protettrice dell’individuo post-umano. Tuttavia, come Omero scrive nell’Odissea, Proteo non solo era capace di cambiare forma in ogni momento, ma si serviva di questo potere per sfuggire all’obbligo, quasi una maledizione, che gli era fatto di vaticinare, di predire il futuro. L’individuo post-moderno, proteiforme, ibridante, ‘simbionte’, non moltiplica le sue fattezze e le sue caratteristiche per sottrarsi all’obbligo di dire la verità su di sé e sul mondo che abita? Non vuole sfuggire al dovere di dire la verità della sua esistenza vuota, moltiplicando le sue forme? Malgrado queste perplessità chiare ed evidenti a tutti, il post-umano è visto come una forza emancipatrice, l’ultimo avatar delle teorie politiche e culturali che hanno predicato
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la liberazione degli individui da tutte le forme di schiavitù che lo hanno oppresso nel corso dei secoli. Gli individui post-umani sono dunque liberi perché autonomi – nel senso pieno del termine – emancipati perché proteiformi e, soprattutto, indipendenti perché potenti. Il post-umano, fondamentalmente il risultato di un processo di potenziamento delle caratteristiche innate dell’essere umano, possiede quindi una forza emancipatrice non solo biologica – poiché affranca l’essere umano da malattie, sofferenza e morte – ma anche culturale – poiché spezza le catene che lo hanno sottomesso ad altri uomini. Malgrado il suo potenziale positivo, è proprio di questa caratteristica essenziale del post-umano – la tendenza al potenziamento quantitativo delle performances cognitive e fisiche – che sembra necessario mettere in evidenza la criticità etica. Questo perché, all’interno della configurazione del postumano, l’enhancement rappresenta un nodo concettuale particolarmente sensibile, tale da racchiudere il senso di questa figura futura dell’umano. In via preliminare, è tuttavia necessario operare una serie di semplificazioni che escludono, di fatto, dal nostro orizzonte, alcuni ambiti tematici altrettanto sensibili. Così, non si discuterà di terapia genica né di enhancement genetico, non si esaminerà neanche il discutibile ritorno dell’eugenetica e dei problemi morali, sociali e politici che solleva, e conseguentemente non si considereranno neanche i problemi legati alle terapie contro le disabilità e le questioni teoriche generate dalla definizione della normalità e del suo opposto, l’anormalità o il patologico. Su un versante più direttamente teorico, non si entrerà nel dibattito tra deontologisti e conseguenzialisti, non si affronteranno questioni di giustizia distributiva né di equità sociale relativamente all’accesso a terapie, tecniche o ritrovati capaci di migliorare il benessere individuale, non ci interesseremo neanche all’interazione tra individuale e sociale nelle pratiche di enhancement – poco importa, nel quadro di questo lavoro, sapere fino a che punto l’enhancement sia una questione individuale o se implichi la società nella sua totalità – e non ci interesseremo neanche alla distinzione tra cura e terapia. Ancor meno ci addentreremo nel dibattito tra riduzionisti e antiriduzionisti relativamente ad alcune questioni fondamentali come l’esistenza della coscienza e la sua natura, la consistenza della libertà umana o ancora la manipolazione delle menti che le neuroscienze già consentirebbero o consentiranno. Intendiamo concentrarci su un solo problema rappresentato dall’enhancement fisico e, soprattutto, cognitivo di un individuo adulto, per metterne in luce le implicazioni e le conseguenze etiche, partendo e prendendo in considerazione, in realtà, una sola teoria in proposito, secondo la quale homo sapiens è strutturalmente – ontologicamente si potrebbe dire – un
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cyborg, un essere post-umano. Secondo questa teoria, l’uomo in quanto tale non è mai esistito perché è sempre stato un cyborg. In altri termini, e rovesciando la prospettiva, è sbagliato parlare del cyborg come se fosse un nuovo essere che si trova su un gradino più alto nella scala dell’evoluzione, perché l’uomo è, da sempre, strutturalmente, anche se chiaramente in forme storicamente diverse, un organismo cibernetico. Ancora una volta, la continuità del divenire è chiamata a sedare paure e inquietudini. Con la sorprendente conseguenza che, laddove i sostenitori dell’enhancement rifiutano qualsiasi ricorso a un’essenza della natura umana, la teoria del ‘naturalborn cyborg’ fa emergere, quasi suo malgrado, la persistenza e la resistenza di una natura umana chiaramente identificabile. L’uomo è da sempre quell’essere capace di rispecchiarsi e di ibridarsi – ma forse sarebbe meglio dire di assimilarlo? – nell’Altro – animale, vegetale o oggetto che si voglia – grazie alla sua plasticità innata – e questa sua forza sarebbe la sua natura. Ma allora, sembrerebbe quasi che, a ben guardare, il post-umano non faccia che riprendere la tesi fondamentale dell’umanesimo rinascimentale – o in ogni caso di quello rappresentato emblematicamente da Pico della Mirandola – per il quale, come si sa, l’essenza dell’uomo, ciò che in ogni caso lo differenzia dagli animali, è rappresentata dalla sua capacità di autoplasmarsi. Non sarebbe quindi più giusto dire che la nostra epoca è quella di un iperumanesimo o di un ultra-umanesimo che quella del post-umano? La teoria del ‘natural-born cyborg’ è stata presentata in una prima versione in un articolo del 1998, «The Extended Mind», da due filosofi anglosassoni, David J. Chalmers et Andy Clark – quest’ultimo ha poi ripreso e approfondito in due testi successivi, Natural Born Cyborgs. Minds, technologies, and the Future of Human Intelligence del 2003 e Supersizing the Mind. Embodiment, Action and Cognitive Extension del 20083, le idee esposte in quel saggio inaugurale. È qui avanzata la tesi di un active externalism fondato essenzialmente sul ruolo attivo che l’ambiente esterno gioca nel guidare e nel potenziare i processi cognitivi. Secondo gli autori, i processi cognitivi, di qualunque tipo siano, non utilizzano semplicemente le risorse cerebrali dell’individuo, ma sfruttano anche le risorse dell’ambiente che lo circonda. Basta pensare al fatto che senza carta e penna sa3
Andy Clark, Natural Born Cyborgs. Minds, Technologies, and the Future of Human Intelligence, Oxford University Press, New York 2003; Id., Supersizing the Mind. Embodiment, Action and Cognitive Extension, Oxford University Press, New York 2008, in appendice, alle pp. 220-232, si trova Andy Clark & David J. Chalmers, The Extended Mind, (già pubblicato in “Analysis”, n.58, 1998) da cui citiamo.
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remmo incapaci di risolvere operazioni aritmetiche di una certa complessità, per capire che le nostre risorse cognitive non sono mai limitate a quanto si trova nel nostro cervello. In altri termini, gli strumenti che usiamo sono delle protesi cognitive che ci permettono di conoscere più approfonditamente il nostro ambiente e di agire meglio nel mondo in cui viviamo. E questo fin dalla preistoria: non c’è bisogno di attendere il computer e le biotecnologie, già il calcolo, e finanche il linguaggio, svolgono questa funzione di supporto alle facoltà cognitive. Ma Clark e Chalmers vanno ben oltre queste tesi assolutamente banali e si propongono di dimostrare che non sono solo i processi cognitivi ad espandersi nel mondo, ma la mente stessa comprende fisicamente strumenti e devices che si trovano al di fuori del corpo e che quindi si estende nel mondo4. Tesi che, secondo i suoi autori, non dovrebbe essere per niente sorprendente, poiché tutti i giorni abbiamo sotto gli occhi il fatto che integriamo costantemente, non solo in tutti i nostri processi cognitivi, ma anche nel loro supporto materiale, elementi che ci sono esterni: un’agenda (e non necessariamente elettronica) non fa ufficio di memoria a lungo termine? Quindi Clark e Chalmers non sostengono semplicemente che i contenuti cognitivi sono prodotti in cooperazione con il mondo esterno, ma che il veicolo stesso di questi contenuti è costituito dal cervello, dal corpo e dal mondo5. Tesi piuttosto ardita, a prima vista, che gli autori cercano di acclimatare con esempi banali e comprensibili, che mettono in parallelo processi cognitivi veicolati o meno dal mondo esterno. Gli autori fanno l’esempio di due persone, Alfa e Beta, che si devono recare nello stesso posto. Beta è obbligato, per un deficit di memoria, ad usare uno smartphone, un navigatore satellitare, un’agenda elettronica su cui segna tutto il percorso. Questi strumenti funzionano come la memoria interna di Beta, che supportano e completano. La memoria di Beta è composta da un supporto biologico, che ormai non funziona bene, e da un supporto elettronico sul quale sono state scritte tutte le informazioni necessarie per raggiungere il luogo in questione, che la sua memoria biologica non riesce più a contenere o a riattualizzare in caso di necessità. Beta ha in realtà internalizzato un supporto tecnologico oppure, il che è equivalente, ha esternalizzato una parte dei suoi processi mentali, per colmare il deficit che la sua memoria biologica comporta. A parte questa differenza – che come sappiamo è difficilmente concettualizzabile – si può affermare che non esiste nessuna differenza tra Alfa e Beta, a parte il fatto che uno ha 4 5
A. Clark & D. J. Chalmers, The Extended Mind, cit., p. 226. A. Clark, Supersizing the Mind. Embodiment, Action and Cognitive Extension, cit., pp. 76-78.
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scritto l’informazione di cui ha bisogno nella sua memoria biologica e l’altro nella sua memoria elettronica. Nessuna obiezione che si potrebbe fare a questa equivalenza resiste a un esame approfondito e le differenze tra questi due processi e tra queste due persone non sono significative6. Come si può facilmente intuire, le conseguenze dell’active externalism e della teoria della mente estesa sono di grande portata. A cominciare dalla necessità di ridefinire le modalità di costituzione dell’identità individuale, per finire alla concezione del corpo, è tutto un insieme di problemi legati alla natura umana che devono essere ripensati. Compito che è tanto più urgente in quanto l’idea di una diffusione della mente nel mondo fornisce una base surrettizia a coloro i quali vedono nell’enhancement un progresso del tutto positivo e nel post-umano una possibilità di miglioramento della condizione umana. La teoria della mente estesa rappresenta uno snodo altamente delicato, in cui convergono in maniera esemplare tutte le problematiche etiche sollevate dalla pratica dell’enhancement. Questa teoria, per quanto banalmente eccessiva, ha il merito, se vogliamo chiamarlo così, di spingerci a considerare come naturali le pratiche di enhancement fino a farle diventare delle caratteristiche essenziali della natura umana, secondo una tendenza già presente nel De dignitate homini di Pico della Mirandola. In effetti, è proprio sulla teoria della mente estesa che Neil Levy, un filosofo australiano, ha incardinato le sue tesi sulla neuroetica, ultimissimo ambito disciplinare nato dal matrimonio tra l’etica e le neuroscienze. Generalmente, la neuroetica può dare vita a tre tipi di sviluppi: in quanto neuroscienza dell’etica si occupa del modo in cui le neuroscienze modificano o confermano le nostre teorie e i nostri concetti etici; come etica delle neuroscienze può diventare in primo luogo una sorta di deontologia professionale, indicando il lecito e l’illecito nelle ricerche delle neuroscienze, e, in secondo luogo, può occuparsi dei problemi legati al modo in cui i progressi nello studio del sistema cerebrale danno luogo ad applicazioni capaci di impattare sulla vita degli individui. È questa terza accezione ad essere assolutamente centrale nella prospettiva dell’enhancement e del post-umano. La tesi di Levy è chiara e si fonda sul lavoro di Clark (e Chalmers), di cui dipana senza ambiguità le implicazioni etiche. Data per acquisita l’idea che la mente, veicolo dei processi cognitivi, è composta non solo da quanto si trova all’interno del nostro corpo, ma anche dal mondo circostante, e considerato che il mondo circostante è costituito da strumenti che sono in continuo miglioramento, sottoposti a un costante processo di enhancement, 6
Cfr. Neil Levy, Neuroetica, tr. it. di R. I. Rumiati, Apogeo, Milano 2009, pp. 51-72.
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non si vede quale ragione si possa invocare per non sottoporre allo stesso processo di miglioramento e/o potenziamento la parte del ‘veicolo cognitivo’ che si trova all’interno del, o che è il, nostro corpo. Se la cognizione, strutturalmente riconosciuta come la capacità di risolvere problemi (problem-solving), di qualunque tipo essi siano, si avvale di strumenti ‘esterni’ che sono in costante miglioramento, perché non migliorare anche lo strumento ‘interno’ che è poi in fondo quello più importante? Perché le ragioni che ci permettono di aumentare, per esempio, la capacità di stoccaggio di un hard-disk o le capacità di calcolo di una CPU, non dovrebbero essere invocate anche per migliorare la capacità di concentrazione di un individuo o la sua memoria? A quale impedimento etico ci si potrebbe richiamare per far progredire solo una parte del ‘veicolo cognitivo’ di cui siamo parte, ovvero solo tutto quanto è esterno al nostro corpo? La costruzione teorica di una mente composta di elementi interni ed esterni permette un’equiparazione ontologica di tutti i suoi componenti che comporta delle notevoli implicazioni etiche. Come in un’automobile non c’è ragione di perfezionare solo il motore e di disinteressarsi della trasmissione, così quando ci si occupa della mente – per definizione diffusa nel mondo – non si vede perché si debba lavorare sulle capacità di calcolo di un computer e non anche sulla forza computazionale del cervello. Se, d’altra parte, nessuna ragione valida può essere invocata per arrestare il progresso tecnico, non si vede quali potrebbero essere le ragioni per arrestare il processo di enhancement biologico dell’individuo. In altri termini, le alterazioni degli strumenti ‘esterni’ che sono utilizzati per pensare, essendo ontologicamente identici, sono eticamente dello stesso livello delle modificazioni degli strumenti interni. Ovvero l’alterazione – a qualsiasi livello si situi – dell’individuo pone eticamente gli stessi problemi che pone un qualsiasi miglioramento degli strumenti ‘esterni’ che usiamo per pensare, cioè nessuno. La teoria della mente estesa, che si fonda sulla tesi di una parità tra organi interni ed elementi esterni7, nelle intenzioni dei suoi autori, è il grimaldello capace di far saltare tutte le reticenze che si manifestano nei confronti dell’enhancement e del post-umano. Con questa mossa, ove mai 7
Levy presenta due principi etici di parità, uno forte – a cui va la sua preferenza – e uno debole. Il primo stipula che «poiché la mente si estende nell’ambiente esterno, le alterazioni dei puntelli esterni usati per pensare sono (ceteris paribus), eticamente allo stesso livello delle alterazioni del cervello»; il secondo sostiene invece che «alterazioni dei sostegni esterni sono (ceteris paribus) eticamente allo stesso livello delle alterazioni del cervello, nella precisa misura in cui i nostri motivi per ritenere problematiche le alterazioni del cervello possono essere trasferiti alle alterazioni dell’ambiente in cui sono incorporate» (ivi, pp. 68-69).
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si rivelasse teoricamente corretta, Levy riuscirebbe a rendere completamente caduco tutto lo stucchevole dibattito sulla legittimità o sull’illegittimità etica dell’enhancement. Che senso avrebbe chiedersi se è lecito o sbagliato somministrare Ritalin o Prozac per potenziare performances intellettuali, quando, nella prospettiva della mente estesa, modificare un corpo umano presenterebbe più o meno le stesse difficoltà etiche che migliorare la tecnologia di uno schermo LED? Nel contesto della mente estesa non ci sarebbe letteralmente nessuna ragione di chiedersi se è giusto o sbagliato, obbligatorio o facoltativo procedere alla manipolazione farmacologica, chirurgica, genica delle facoltà umane, poiché in realtà tutta la natura è ontologicamente unica. Anche il dibattito tra riduzionisti e anti-riduzionisti verrebbe risolto alla radice: la diffusione dei processi cognitivi nel mondo e la natura ibrida dei ‘veicoli cognitivi’ rende questi ultimi dei punti di concentrazione di elaborazione di dati all’interno di una rete che può essere diversamente configurata in ogni momento. La questione della natura della mente non è più d’attualità poiché la sua modularità, diffusa nel mondo, la rende ontologicamente identica al mondo che conosce e in cui si muove8. Quanto questo modello sia debitore delle scienze cognitive e dell’idea della cognizione in quanto computazione è evidente e, d’altra parte, è ampiamente dichiarato nelle opere di Chalmers e Clark, così come è lampante che una delle sue fonti di ispirazione sia il mondo di internet. Leggermente meno palese, ma non per questo meno interessante, è il monismo materialista che ne costituisce lo sfondo teorico. La neuroetica, che in fondo non è altro che uno dei possibili sviluppi dell’etica del post-umano, nella misura in cui fa i conti con l’impatto delle conoscenze neurologiche sulla vita individuale, e quindi sulle possibilità di modificare e di migliorare i corpi degli individui, presenta qui uno dei suoi momenti teorici maggiormente problematici. Non tanto per quanto riguarda le sue capacità di indirizzarci o di spiegarci che cosa e perché è bene o male, giusto o ingiusto nel processo di miglioramento delle facoltà individuali – di qualunque tipo siano. Ma perché in realtà il dibattito etico su questi presupposti è viziato ab origo, e il suo risultato è già scritto nell’introduzione. Se il mondo è ontologicamente monista, se un hard-disk è fattualmente e materialmente identico alla zona corticale che contiene i ricordi individuali, se un braccio e una protesi sono intercambiabili, se tra un occhio e una videoca8
Su questo problema, in una prospettiva che riprende la relazione tra mente e identità personale, particolarmente significativa per questo lavoro, cfr. Michele Di Francesco, L’io e i suoi sé. Identità personale e scienza della mente, Raffaello Cortina, Milano 1998.
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mera c’è solo una differenza di prestazioni, non si vede perché non si debbano potenziare gli organi deficitari o sostituirli definitivamente. La neuroetica, e quindi per estensione l’etica del post-umano, nella sua accezione di etica delle neuroscienze – e per questo fa problema – non ha niente da dire, perché tutto è già deciso a favore dell’enhancement del vivente. Malgrado ciò, sembra legittimo nutrire il sospetto che questo mondo postumano, che si fonda su una concezione meccanicista della cognizione, in cui le menti sono veicoli di credenze e cognizioni e in cui i corpi sono dei semplici ‘organismic skin-bag’9, forse non coglie in pieno la realtà della natura umana e offre una visione profondamente alterata di quello che siamo. Da Husserl a Michel Henry passando per Merleau-Ponty si è in effetti sviluppata l’idea che il nostro corpo non è solo un involucro carnale di funzioni mentali, che in qualche misura le limita nello spazio e nella potenza, ma è creatore di senso, non solo Körper ma anche Leib, «nodo di significati viventi», come scrive Merleau-Ponty e non semplicemente «legge di un dato numero di termini covarianti»10. È vero, come riconosce ancora il filosofo francese, che «nell’uomo tutto è contingenza, nel senso che questo modo umano di esistere non è garantito a ogni bambino da una qualche essenza ricevuta alla nascita» e che quindi «l’uomo è un’idea storica e non una specie naturale», ma è altrettanto vero che «nell’esistenza umana non c’è nessun possesso incondizionato, ma neppure nessun attributo fortuito»11. Se l’uomo è vettore e costruttore di senso non lo si può considerare come un assemblaggio fortuito di parti intercambiabili o eliminabili: l’idea che «l’organizzazione del nostro corpo è contingente, che si può “concepire un uomo senza mani, piedi, testa” e a maggior ragione un uomo senza sesso e che si riprodurrebbe per talea o propagginamento», ha un fondo di verità solo a condizione di considerare «astrattamente le mani, i piedi, la testa o l’apparato sessuale, cioè come frammenti di materia, avulsi dalla loro funzione vivente – solo se si forma un concetto di uomo anch’esso astratto, nel quale si fa entrare esclusivamente la Cogitatio». Quando invece «si definisce l’uomo per la sua esperienza, cioè per il suo modo peculiare di plasmare il mondo, e se si reintegrano gli “organi” a questo tutto funzionale nel quale essi sono ritagliati, un uomo senza apparato sessuale è altrettanto in-
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A. Clark, Supersizing the Mind. Embodiment, Action and Cognitive Extension, cit., p. XXVIII. Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 216. Ivi, p. 239.
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concepibile che un uomo senza pensiero»12. Anche se la traduzione concreta e pratica di queste indicazioni in una fenomenologia del corpo che costituisca una valida barriera teorica alla costruzione di un individuo post-umano o che ne indichi, almeno, i momenti critici appare tutta da operare, le indicazioni delineate nel contesto della fenomenologia, sembrano degne di essere precisate e sviluppate. Comunque sia, al di là dell’incapacità patente del post-umano di cogliere tutta la complessità funzionale e strutturale del corpo umano a cui, invece, la fenomenologia presta grande attenzione, esistono altre zone d’ombra nel mondo apparentemente luccicante e senza smagliature dell’umanità a venire. In effetti, le difficoltà si infittiscono in corrispondenza del fondamentale problema dell’identità personale e dei criteri di reidentificazione temporale. Come abbiamo rilevato, la figura centrale del post-umano è rappresentata dal cyborg, un essere capace di ibridarsi, in funzione del suo potenziamento, con il mondo circostante. Macchine, artefatti tecnologici – ma anche animali – rappresentano altrettante riserve di potenzialità da integrare nel corpo umano per migliorarlo. Al limite il cyborg post-umano potrebbe essere costituito, come in tanta parte della fantascienza, da un cervello immerso in una soluzione fisiologica e connesso a protesi di tutti i tipi che gli garantiscono di svolgere meglio le stesse funzioni di un corpo interamente organico. E soprattutto, il cyborg è per definizione un essere la cui forma e la cui struttura è in continuo mutamento – in cui nessun organo è definitivo. Ora, a parte le perplessità suscitate dall’idea che un tale tipo di cyborg sia capace di recepire e di elaborare tutti gli stimoli che un corpo normalmente riceve attraverso le sue terminazioni nervose e sensibili, come per esempio quelle che si hanno quando si mette un dito nella sabbia13, la questione che è necessario porsi riguarda l’identità sincronica e soprattutto diacronica di questo cyborg, di questo essere che per definizione non ha 12 13
Ivi, pp. 238-239. «Il problema di calcolare la retroazione appropriata, generarla o comporla, e poi presentartela in tempo reale diventa computazionalmente intrattabile anche per il più veloce calcolatore; e se gli scienziati cattivi decidono di risolvere il problema del tempo reale precalcolando, e quindi “preconfezionando” tutte le possibili risposte per la presentazione, non faranno altro che scambiare un problema insolubile con un altro altrettanto insolubile: ci sono troppe possibilità da immagazzinare. In breve i nostri scienziati cattivi saranno sommersi da un’esplosione combinatoriale non appena tenteranno di darti degli autentici poteri di esplorazione in questo mondo immaginario». Daniel Dennett, Coscienza. Che cosa è, tr. it. di L. Colasanti, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 13.
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una forma stabile. Se il criterio di identificazione sincronica è puramente culturale, non essendo altro che il risultato di una decisione classificatoria, l’identificazione diacronica pone ben altre difficoltà. I dilemmi posti dall’identità personale sono enormi – come dimostra la bibliografia specifica su questo argomento – e difficilmente possono trovare una soluzione chiara e definitiva. In questo contesto intendiamo porre solo due questioni14. La prima, forse la meno interessante, e che comunque lasceremo in sospeso, è questa: a partire da quale momento l’accumularsi delle modificazioni dell’individuo ne mette in pericolo l’identità? Più concretamente: un individuo, di cui sia rimasto solo un cervello immerso in una vasca di liquido connesso a protesi e computer, è identico all’individuo che era quando il suo cervello faceva tutt’uno con il corpo all’interno del quale era cresciuto? La seconda riguarda le modalità di costruzione dell’identità personale. Locke, come si sa, considera che si è sempre la stessa persona nella misura in cui si ha memoria di quello che si è fatto: l’identità personale è costituita dal flusso dei ricordi e dalla coscienza che se ne ha. Le obiezioni si sono moltiplicate nel corso dei secoli: da Reid a Leibniz fino a Bernard Williams, le tesi di Locke sono state oggetto di critiche feroci (ma anche di strenue difese) e di analisi impietose. Ma è stato soprattutto Williams ad aver vibrato la stoccata finale alle tesi di Locke. Williams ammette che sarà pur vero che ciò che fa di me oggi la stessa persona che ero ieri, è il mio flusso di ricordi di cui ho una coscienza più o meno continua, ma considera che c’è bisogno di una presenza corporea, sia pur minima, affinché questi ricordi possano veramente funzionare come criteri per operare una reidentificazione diacronica personale15. Queste riflessioni generano due importanti difficoltà per quanto riguarda l’etica del post-umano. Riprendiamo l’esempio del nostro amico Beta che, non avendo una buona memoria, ha consegnato il percorso da effettuare per recarsi in un certo posto a un supporto elettronico (agenda, agenda elettronica, smartphone, navigatore satellitare, ecc.). Oltre a questo tipo di informazione, Beta può registrare su questi supporti (mettiamo un hard-disk esterno) altri ricordi, più banali, come per esempio, la cravatta che si è messo ieri, la cena consumata a casa di amici la settimana prima, il luogo in cui ha passato le ultime vacanze, e così via. Come fare per sapere che questi ricordi sono proprio i suoi? È verosimile che qualcuno potrebbe aver manipolato l’hard-disk 14 15
Cfr. David DeGrazia, Human Identity and Bioethics, Cambridge University Press, New York 2005. Bernard Williams, Identità personale e individuazione, in Problemi dell’io, tr. it. di R. Rini, Il Saggiatore, Milano 1990.
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di cui si serve e avervi introdotto dei dati che non corrispondono a nessuna esperienza vissuta realmente da Beta. In altri termini si è sicuri che i ricordi contenuti in supporti esterni siano strutturalmente assimilabili a quelli cerebrali? La trasportabilità e la permutabilità dell’hard-disk – in fondo non solo è possibile avere più supporti mnestici ma è anche possibile appropriarsene – e quindi dei ricordi che vi sono contenuti, appartenenti ad altre persone, non rende impossibile definire un individuo servendosi di questo criterio, che è comunque necessario, anche se non sufficiente, come Williams ha ben chiarito? L’uso di periferiche esterne, una forma di ibridazione estremamente comune già oggi, anche se sotto forme piuttosto rudimentali, se permette di migliorare performances intellettuali e fisiche, potrebbe complicare ulteriormente la possibilità di reidentificare gli individui. La seconda perplessità nasce dal fatto che, se consideriamo che per la costruzione diacronica dell’identità c’è bisogno di una minima traccia corporea, come vuole Williams, siamo in diritto di chiederci come e quanto il corpo contribuisce alla costruzione dell’identità. La sostituzione massiccia, o anche precisamente mirata e quantitativamente ridotta, di organi con protesi artificiali non introduce una discontinuità tale nel processo sempre in divenire della costruzione del proprio sé da non poter essere ricucita? Un cyborg potrebbe quindi essere un individuo che non manca semplicemente di un’identità definita, ma con identità limitate temporalmente e che si sostituiscono le une alle altre in continuazione. Anche se sembra quasi inutile sottolineare la portata etica di questa difficoltà, ricordiamo in primo luogo che già Aristotele, nella Metafisica, segnala che di un mondo in continuo movimento non si darebbe conoscenza. In secondo luogo, è opportuno non dimenticare le ragioni che hanno spinto Locke ad occuparsi dell’identità personale. Come si sa, il capitolo XXVII del Libro II del Saggio sull’intelligenza umana, intitolato Dell’identità e della differenza, è stato aggiunto solo nella seconda edizione del 1694 di questa opera, pubblicata originariamente nel 1690. Le ragioni, di natura etica e giuridica, di questa aggiunta sono chiaramente esposte da Locke: stabilire i criteri per definire se una persona è sempre la stessa permette di identificare il responsabile delle azioni. In un mondo in cui non si è capaci di stabilire l’identità degli individui – per dirlo rapidamente – nessuno è responsabile dei propri atti. Dare stabilità all’identità di una persona, non è solo un modo per controllarlo, ma è anche un modo per rendere vivibile il mondo perché rende riconoscibili gli agenti che lo abitano. D’altra parte, l’etica è certamente anche un modo per rendere calcolabili e, quindi, almeno parzialmente prevedibili, le azioni altrui. Un eccesso prescrittivo è sicuramente controproducente, e una teoria etica che garantisse
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l’autonomia dei soggetti e allo stesso tempo implicasse chiaramente criteri di responsabilizzazione, sarebbe quanto di meglio ci si potrebbe aspettare. Ma nel mondo del post-umano, abitato da cyborgs che permutano continuamente la propria identità e in cui il ‘proprio’ fluttua e cambia secondo le esigenze del momento, il soggetto agente non potrà essere identificato, e quindi nessuno sarà responsabile delle ‘proprie’ azioni. In conclusione, il post-umano presenta, dal punto di vista etico, notevoli zone d’ombra e di difficoltà. In primo luogo, si tende a negare che la diffusione di un’umanità cibernetica ed ibridata possa in una qualunque maniera rappresentare un problema a sé stante. Si tratta in fondo di pratiche antiche quanto l’uomo stesso, si dice, che vanno inquadrate utilizzando le strutture teoriche tradizionali, senza creare inutili allarmismi. L’uomo è un ente mondano come qualunque altro e non godendo di vantaggi specifici, non si vede perché la sua natura dovrebbe essere manipolata diversamente da come si manipola il resto della natura. Gli unici problemi che possono sorgere sono di natura distributiva e riguardano, semplicemente e tradizionalmente, la definizione di modalità di ripartizione delle risorse. Un problema la cui soluzione si può avvalere dei principi classici delle teorie politiche. Contro queste posizioni si possono sollevare obiezioni di tutti i tipi, non ultima che è difficilmente giustificabile la riduzione del corpo umano allo stato di macchina – come propone la fenomenologia. In secondo luogo, un altro punto problematico, che viene in realtà a contraddire l’idea che l’enhancement – pratica specifica del post-umano – sia antico quanto l’uomo, è rappresentato dalla definizione delle capacità morali del cyborg. Che tipo di nozioni morali utilizzerà un cyborg? È possibile attribuire un senso di responsabilità a un essere che non ha identità? Ma lanciare un dibattito sull’eticità del post-umano significherebbe considerarlo come l’avvento di un’era nuova nella storia dell’umanità, cosa che i cantori della bellezza di questa figura dell’uomo evitano accuratamente di fare.
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VINCENZO BOCHICCHIO
MECCANICISMO CARTESIANO E INTELLIGENZA ARTIFICIALE. FONDAZIONE E OLTREPASSAMENTO DEL PARADIGMA UMANISTICO
Was ist der Mensch? Che cos’è l’uomo? È questa, a parere di Immanuel Kant, la domanda che più compiutamente esprime la destinazione stessa della filosofia1. Ad essa si possono ricondurre tutte le altre questioni filosofiche, quelle relative alla metafisica, all’etica, alla religione, alla natura: «si potrebbe indicare il tutto con il termine antropologia»2, sintetizza Kant, perché ogni domandare e ricercare che l’uomo pone in essere esprime sempre una caratteristica eccedenza antropologica. La domanda sull’uomo ha attraversato i secoli ed i sistemi filosofici, si è riprodotta in numerose forme, in numerosi linguaggi, ed ha prodotto ancor più numerose risposte, spesso fra loro inconciliabili, talvolta addirittura antitetiche. Esempio emblematico di questa pluralità di risposte è l’immagine che dell’uomo – e più in generale della soggettività – hanno elaborato quegli orientamenti filosofico-culturali che vanno sotto il nome di umanesimo e post-umanesimo. Il primo di questi grandi orientamenti culturali, l’umanesimo, ha di fatto propugnato «un paradigma autoreferenziale» della soggettività, «improntato su un’immagine di uomo separato e autosufficiente, nonché aderente a una concezione eidetica dell’uomo»3, scrive Marchesini: l’uomo, in un’ottica umanistica, sarebbe l’espressione contingente di un eidos, di un’essenza immutabile, che il domandare filosofico si propone poi di individuare. Si può così affermare, come fa Heidegger, che in questa ricerca dell’essenza dell’uomo l’umanesimo esprima una potente istanza 1
2 3
Si cfr. Immanuel Kant, Logica, a cura di L. Amoroso, Laterza, Roma-Bari 19994, p. 19; Id., Realtà ed esistenza. Lezioni di Metafisica: Introduzione ed Ontologia, tr. it. parz. di A. Rigobello, Edizioni San Paolo, Milano 1998, pp. 49-51. Si veda anche una lettera di Kant a Stäudlin del 4 maggio 1793, in Id., Epistolario filosofico 1761-1800, tr. it. parz. di O. Meo, il melangolo, Genova 1990, p. 319. Id., Realtà ed esistenza, cit., p. 51. A tal proposito si cfr. Reinhardt Brandt, Immanuel Kant: Kritik der reinen Vernunft, in Klassische Werke der Philosophie, hrsg. von R. Brandt und T. Sturm, Reclam, Leipzig 2002, pp. 132-160. Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 70.
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metafisica: «l’essenza dell’umanismo è metafisica»4, scrive infatti nel celebre Brief über den “Humanismus”, insistendo con ciò sull’attitudine rappresentativa ed eidetica che ha caratterizzato il lungo percorso della metafisica occidentale. Ora, questo postulato di un’autarchia ontologica5 dell’essere umano è esattamente ciò che la visione post-umanistica intende rigettare6, proponendo piuttosto «di assumere l’idea dell’uomo come “frutto ibrido”, sempre costitutivamente in debito verso l’alterità non umana, sia essa animale o macchinica»7: in buona sostanza, la proposta del paradigma post-umanistico consiste nella riscoperta della promiscuità ontologica fortemente presente nella definizione dell’umano, percorrendo sino in fondo quell’apertura all’alterità che da sempre caratterizza la circoscrizione della natura umana, delle sue facoltà, delle sue attitudini. È del tutto evidente che la domanda sull’uomo, nell’animare entrambi i territori, assume però una diversa morfologia a seconda del paradigma di riferimento: mentre infatti il paradigma dell’autarchia ontologica ispira un domandare dal carattere metafisico-essenzialista, il paradigma post-umanistico della promiscuità ontologica insiste invece proprio sulla alterità come suo elemento costitutivo. «In questo senso l’alterità diventa un partner che accompagna il passo di danza ontologica dell’uomo, attraverso processi di partnership simbolica o performativa»8, scrive ancora Marchesini, mostrando come proprio l’alterità, nell’oltrepassare il pregiudizio metafisico, si costituisca infine come topos del domandare circa i processi performativi dell’uomo. In quest’ottica, allora, ciò che è umano lo si scorge nell’altro dall’umano: i processi performativi studiati da scienziati e filosofi, ad esempio, vengono compresi ed interpretati riferendoli, comparandoli, ‘attagliandoli’ all’alterità inumana, sia essa macchinica, animale, o altro ancora. E un caso 4 5 6
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Martin Heidegger, Lettera sull’«umanismo», tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 19983, p. 77. Si cfr. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, cit., pp. 66-71. Scrive a tal proposito Elena Pulcini: «la filosofia del post-umano rivendica, a partire da una critica radicale dell’umanesimo e di ogni gerarchica opposizione tra umano e non umano, tra sé e altro, l’idea di una soggettività caratterizzata da una “promiscuità ontologica” e da una disponibilità all’ibridazione che ne fa saltare ogni pretesa di immunizzazione e di separazione dal mondo». E. Pulcini, L’homo creator e la perdita del mondo, in Umano, post-umano. Potere, sapere, etica nell’età globale, a cura di M. P. Fimiani, V. Gessa Kurotschka, E. Pulcini, Editori Riuniti, Roma 2004, p. 19. Ibidem. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, cit., p. 71.
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emblematico dell’interrogazione post-umanistica sui processi performativi e simbolici dell’uomo è, a mio parere, quel vasto territorio che va sotto il nome di Artificial Intelligence (AI), ovvero lo studio e l’implementazione dell’Intelligenza Artificiale: qui il paradigma dell’alterità inumana è infatti altamente operante9, ed è orientato a comprendere e definire le dinamiche performative che caratterizzano la cognizione umana10. Una più accurata disamina dei suoi assunti, allora, può essere utile per chiarirne la portata filosofica e scientifica, e soprattutto per segnalare la grande novità epistemologica che l’intero progetto dell’AI propone nei suoi assetti sperimentali. 1. Intelligenza Artificiale e simulazione dell’umano L’AI è un luogo teorico e sperimentale interessante anziutto per l’impressionante innesto di saperi e conoscenze che, implicitamente o esplicitamente, raccoglie in sé. Saperi e modalità del domandare che, in certi casi, risalgono ad epoche e contesti culturali lontani ed apparentemente eterogenei rispetto al mondo ‘psicoingenieristico’ dell’AI: ecco perché proprio sulle origini ed il destino teorico dell’AI si addensano di frequente equivoci e fraintendimenti, alcuni dei quali relativi proprio al pervicace pregiudizio metafisico del paradigma umanistico. Equivoci che può dipanare solo un’accurata disamina delle procedure epistemiche tipiche dell’AI, mostrando come nello studio e nell’implementazione dei suoi artefatti è in gioco una ‘nuova’ definizione dell’essere umano (e non solo delle sue capacità cognitive), segnata da un patente pluralismo ontologico. La prima questione che occorre chiarire riguarda l’obiettivo teorico che si pone l’AI. Infatti, sebbene sia fuor di dubbio che una delle preoccupazioni – ed in certi casi la sola preoccupazione – che anima la ricerca nell’ambito dell’AI sia la sua ricaduta applicativa e pratica, tuttavia il nucleo teorico attorno a cui orbitano i più significativi progetti di Intelligenza Artificiale prende le mosse da una domanda sull’uomo, declinata nei termi9
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Sul rapporto fra Intelligenza Artificiale e paradigma dell’alterità-ibridazione si veda Alberto G. Biuso, Cyborgsofia. Introduzione alla filosofia del computer, Il pozzo di Giacobbe, Trapani 2004, e Id., La mente temporale. Corpo mondo artificio, Carocci, Roma 2009, in part. pp. 213-267. Un’efficace definizione di AI mi sembra quella proposta da Barbara Giolito: per Intelligenza Artificiale «si intende quell’insieme di studi che tentano l’analisi, il chiarimento e la simulazione delle facoltà mentali riproducendo le stesse attraverso dispositivi di natura informatica». Barbara Giolito, Intelligenza Artificiale. Una guida filosofica, Carocci, Roma 2007, p. 12.
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ni della sua performance cognitiva. In altri termini, per quanto paradossale possa sembrare, uno scienziato che elabora e implementa un progetto di AI, lo fa perché vuole incrementare la sua conoscenza dell’essere umano e della sua mente11. Non a caso, uno dei maggiori studiosi dei sistemi di AI, Igor Aleksander, nelle primissime battute di un suo testo emblematicamente intitolato How to build a mind, ammette: «quando mi avvicino alle nostre macchine nel laboratorio, quel che voglio scoprire è in che modo il mio meccanismo cerebrale si traduce nella gioia della mia immaginazione libera. La macchina non è altro che uno strumento che mi può aiutare nella mia ricerca»12. L’ingegnere Aleksander in effetti sostiene che quando uno scienziato rivolge il suo sguardo alle macchine, nel pluriforme territorio dell’AI, vuole in definitiva rispondere ad una domanda sulla natura dell’uomo. La macchina, cioè, nel simulare un comportamento o una facoltà dell’essere umano, ce ne chiarisce ancor meglio il funzionamento e le attitudini: in buona sostanza, l’artefatto dell’AI si configura come oggetto epistemico, un oggetto che produce una certa conoscenza. L’approccio simulativo alla comprensione del mentale è questione certamente controversa13. Perché mai una macchina, da noi progettata ed implementata, sarebbe in grado di dirci come funziona la mente umana? Il ‘comportamento’ di un artefatto artificiale potrebbe mai chiarirci cos’è la coscienza, o la percezione, o ancora l’emozione? Di fatto, più che con il classico innesto protesico – con cui l’uomo ha a che fare praticamente da sempre14 – è proprio con la simulazione macchinica del mentale che si gioca la sfida del paradigma dell’ibridazione: la sfida, solo apparentemente 11
12 13
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Lascio qui sullo sfondo la pur essenziale distinzione fra AI debole e AI forte, con la relativa idea di ‘mente’ che questi due indirizzi dell’Intelligenza Artificiale hanno avanzato: per una rapida ed efficace descrizione ‘critica’ dei due orientamenti rimando a John R. Searle, L’analogia cervello/computer: un errore filosofico, in L’automa spirituale. Menti, cervelli e computer, a cura di G. Giorello, P. Strata, Laterza, Roma-Bari 1991, pp. 199-213. Igor Aleksander, Come si costruisce una mente, tr. it. di S. Frediani, Einaudi, Torino 2001, p. IX. A tal proposito si veda il bel volume di Domenico Parisi, Simulazioni. La realtà rifatta nel computer, Il Mulino, Bologna 2001, in cui l’autore, dopo aver descritto le caratteristiche e le aspirazioni dell’approccio simulativo nelle scienze dell’uomo, ne elenca anche vantaggi e problemi. Sul costitutivo rapporto dell’uomo con le protesi ed i ‘prolungamenti esosomatici’, sono molto significative le riflessioni proposte in Carlo Sini, L’uomo, la macchina, l’automa. Lavoro e conoscenza tra futuro prossimo e passato remoto, Bollati Boringhieri, Torino 2009.
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paradossale, di scorgere nella macchina il funzionamento e le attitudini delle nostre facoltà mentali. Del resto, non è un caso che gli scienziati più sensibili all’approccio simulativo siano stati, e sono attualmente, alcuni psicologi cognitivi, tant’è che uno dei maggiori esponenti italiani della scienza cognitiva – Bruno Bara – così ne descrive le caratteristiche: «possiamo inizialmente definire la scienza cognitiva come l’insieme delle discipline che si interessano allo studio della mente umana, accettando come metodologia riunificante quella simulativa, tipica dell’intelligenza artificiale»15. Per lo scienziato cognitivo simulare una funzione mentale significa progettare – ed eventualmente realizzare – un artefatto artificiale che, col suo comportamento osservabile, produca una performance correlabile alla funzione cognitiva che si è inteso simulare, utilizzando anche supporti hardware correlabili ai circuiti fisiologici umani16: si tratta di un’ipotesi decisamente innovativa e non priva di difficoltà, che ha comprensibilmente incontrato numerose resistenze sia nel ristretto novero degli psicologi sperimentali, sia nel più ampio contesto della comunità scientifica17. Il punto, però, è che al di là delle resistenze, degli apparenti paradossi e di alcuni palesi equivoci, vi sono degli aspetti teorici in questo approccio simulativo che risultano molto interessanti dal punto di vista filosofico. Il primo di questi aspetti è che la performance dell’artefatto artificiale viene osservata e valutata, e cioè dice allo sperimentatore qualcosa in più rispetto a quello che, della macchina, lo sperimentatore già sapeva prima18, con15 16
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Bruno G. Bara, Scienza cognitiva. Un approccio evolutivo alla simulazione della mente, Bollati Boringhieri, Torino 19982, p. 19. Come nel caso delle reti neurali artificiali. Una buona introduzione al paradigma connessionista delle reti neurali artificiali la offre Davide Marocco, Intelligenza artificiale. Introduzione ai nuovi modelli, Bonanno, Roma 2006, che significativamente apre il suo testo con queste parole: «Costruire per capire potrebbe essere il motto che guida la ricerca in intelligenza artificiale». Ivi, p. 7. Scrive infatti Bara: «usare i calcolatori per indagare la mente vuol dire infrangere tabù invalsi sia nella comunità scientifica che in quella più ampia sociale. […] non c’è invece modo più nobile di servirsi di una macchina che usarla come strumento per analizzare la parte più complessa e inafferrabile dell’uomo, la sua mente». B. G. Bara, Scienza cognitiva. Un approccio evolutivo alla simulazione della mente, cit., p. 16. Lo annota anche Parisi: «lo scienziato che usa il metodo della simulazione finisce per elaborare la sua teoria insieme alla simulazione, con un continuo andare e venire dalla testa alla simulazione e viceversa. Per questo il lavoro cognitivo svolto dallo scienziato che usa il metodo della simulazione è diverso da quello di uno scienziato che usa i metodi tradizionali». D. Parisi, Simulazioni. La realtà rifatta nel computer, cit., p. 39.
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figurandosi quindi come oggetto epistemico; il secondo, invece, è che spesso la simulazione (reale o fittizia) dell’artefatto artificiale viene comparata con la performance animale, e poi entrambe vengono correlate alla performance cognitiva umana, producendo in questa ‘triangolazione’ una nuova conoscenza circa le attitudini mentali dell’umano. Entrambi questi elementi, all’apparenza meramente procedurali, se non addirittura secondari rispetto all’implementazione di un artefatto artificiale, rappresentano a mio parere due fra gli assi teorici più significativi dell’intero progetto dell’AI. E vorrei spiegarne le ragioni, entrando nel merito di uno specifico contesto di ricerca: quello della Robotica Evolutiva19. Come ho sostenuto sin dalle prime battute di questo saggio, l’AI nell’implementazione dei suoi sistemi si pone una domanda sull’uomo e sulle sue attitudini cognitive: ecco, nello specifico dell’assetto sperimentale sul quale intendo ora soffermarmi, l’attitudine mentale oggetto d’indagine è la cognizione spaziale, ovvero la capacità di rappresentarsi uno spazio e di orientarvisi in vista di uno scopo20. Come mostrano gli autori della sperimentazione – Ponticorvo, Walker e Miglino – la natura della cognizione spaziale è stata oggetto di un’intensa attività di ricerca, tanto sull’uomo quanto sugli animali: l’ipotesi attualmente più accreditata nella comunità scientifica, è che determinate attività di orientamento nello spazio siano riconducibili a specifici circuiti neuronali (le cosiddette place cells), che mediante l’elaborazione di mappe cognitive geometrico-spaziali consentono all’individuo di rappresentarsi efficacemente i luoghi21. È chiaro che dietro una tesi del genere vi è una precisa idea della natura dello spazio e di come l’essere umano possa rappresentarselo: la funzione ‘cognizione spaziale’ sarebbe un’attitudine embodied, incarnata, una proprietà emergente dalla specifica organizzazione fisiologica del sistema nervoso.
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Sulla Robotica Evolutiva si veda l’articolo di D. Marocco, La robotica evolutiva, “Sistemi intelligenti. Rivista quadrimestrale di scienze cognitive e di intelligenza artificiale”, XVIII, 1-2006, pp. 85-94. Michela Ponticorvo, Richard Walker, Orazio Miglino, Evolutionary Robotics as a Tool to Investigate Spatial Cognition in Artificial and Natural Systems, in Artificial Cognition Systems, ed. by A. Loula, R. Gudwin, J. Queiroz, Idea Group Publishing, Hershey/London 2007, pp. 210-237. Ivi, pp. 212-213. Sulle mappe cognitive si veda il classico di John O’Keefe, Lynn Nadel, The Hippocampus as a Cognitive Map, Claredon, Oxford 1978. Sul costrutto delle cognitive maps e sui suoi vari significati, è il caso di segnalare anche la prospettiva, decisamente più critica, di Andy T. D. Bennett, Do Animals have Cognitive Maps?, “The Journal of Experimental Biology”, 199, 1996, pp. 219-224.
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Come argomenta uno degli sperimentatori in un altro testo, la tesi di fondo di questa attività di ricerca è che le funzioni cognitive superiori si sviluppino in parallelo allo sviluppo del corpo, cioè che ‘maturino’ ed evolvano assieme al corpo: è questa, in tutta evidenza, una tesi forte dal punto di vista antropologico e psicologico, che mette in mora un’altra celebre tesi del cognitivismo e dell’AI classica, ovvero che l’hardware dei processi cognitivi (tanto quelli naturali, quanto quelli artificiali) sia una sorta di accidente che non determina in alcun modo la natura del software22. Quest’ultimo assunto (che ricalca mutatis mutandis l’andamento del dualismo antropologico cartesiano23) fu del resto propugnato dallo stesso Turing, che in suo celebre articolo sosteneva l’opportunità di prendere in considerazione, ai fini del progetto dell’AI, solo quell’attività cognitiva umana che potesse essere ascritta ad un cervello «senza corpo»24. Le nuove frontiere dell’AI (e della Vita Artificiale, AL), hanno di fatto sconfessato la riproposizione dell’antico dualismo ‘metafisico’ mente-corpo nell’ambito della cognizione artificiale, dando così un notevole contributo allo studio della cognizione umana25. Ma, per tornare all’assetto sperimentale sopra citato, che contributo può fornire la Robotica Evolutiva allo studio della cognizione spaziale nell’essere umano? Può fornire una ulteriore prova ‘sperimentale’ alla tesi delle place cells e delle mappe cognitive? Gli autori sono convinti di sì, e sostengono che «l’obiettivo della robotica evolutiva è di “sviluppare” robots autonomi che mostrino un com22 23 24
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O. Miglino, I robot alla scoperta del nostro mondo, in Robot. Scienza e coscienza delle macchine, a cura di C. Fuschetto, P. Greco, CUEN, Napoli 2009, pp. 41-46. La stessa tesi è avanzata in D. Parisi, Mente. I nuovi modelli della vita artificiale, Il Mulino, Bologna 1999, pp. 44-52. «Ci proponiamo di vedere cosa possa essere fatto con un “cervello” che sia, più o meno, senza un corpo, provvisto al massimo di organi di vista, parola e udito. Dobbiamo affrontare allora il problema di trovare campi adatti del pensiero in cui la macchina possa esercitare i suoi poteri». Alan M. Turing, Macchine intelligenti, in Intelligenza meccanica, tr. it. di G. Lolli, Bollati Boringhieri, Torino 20071, pp. 103-104. Sull’impianto funzionalista della teoria di Turing si veda Massimiliano Cappuccio, Alan Turing: l’uomo, la macchina, l’enigma. Per una genealogia dell’incomputabile, Albo Versorio, Milano 2005. Davvero notevoli le considerazioni che, a riguardo, propone Parisi: «lo studio della mente è un capitolo della vita artificiale. Se la vita artificiale deve riprodurre ogni fenomeno biologico, deve riprodurre anche la mente. […] È possibile che l’emergere delle tecnologie della mente/corpo ci induca a rivedere la nostra convinzione di una rigida separazione tra la mente e il corpo […] [e] la mente ci apparirà probabilmente come qualcosa che deriva senza soluzione di continuità dal corpo». D. Parisi, Tecnologie della mente/corpo, in Robot. Scienza e coscienza delle macchine, cit., pp. 137-141.
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portamento adattivo»26 e dunque ‘intelligente’, in grado di simulare il corrispettivo comportamento umano, cioè la capacità di orientarsi nello spazio in vista di uno scopo. Nell’assetto sperimentale di cui stiamo discutendo viene allora progettato un robot dotato di una rete neurale artificiale, una rete che è espressione di cromosomi artificiali precedentemente sottoposti ad un processo ‘evolutivo’, in ossequio ai principi della selezione naturale darwiniana. Il ‘sistema nervoso’ artificiale viene poi implementato nel piccolo robot Khepera, si allestisce il setting e si procede con la sperimentazione vera e propria: Khepera deve mostrare di saper raggiungere una certa target area del luogo in cui si trova, e deve risolvere compiti di detour. La performance di Khepera è notevole, e viene confrontata con la performance che i ratti hanno ottenuto in un assetto sperimentale simile, seguendo in tal modo un andamento sempre più diffuso nelle sperimentazioni di AL (di fatto, un’evoluzione dell’AI). Alla fine della procedura sperimentale, che conclusioni possiamo trarre circa la spatial cognition? Cosa ci dice la macchina circa la nostra attitudine ad orientarci nello spazio? «I risultati suggeriscono che varie forme di comportamento spaziale possono essere spiegate, almeno in linea di principio, senza ricorrere a rappresentazioni interne, simboliche, e statiche»27, sostengono gli sperimentatori. La cognizione spaziale, dunque, non andrebbe ascritta ad una compatta attitudine cognitiva cui ricondurre ogni forma di ‘spazializzazione’, ma alcune forme di spatial cognition (come una elementare geometrizzazione di un luogo, o anche un comportamento di detour) sarebbero l’esito ‘evolutivo’ di più semplici processi percettivi. Una tesi forte, dal punto di vista antropologico e filosofico, indotta dall’osservazione del comportamento macchinico e animale. In questo, ed in numerosi altri assetti sperimentali, il paradigma dell’alterità è dunque necessario e fondativo. Per certi versi, la Robotica Evolutiva, l’AI e la AL, e forse la stessa scienza cognitiva, non potrebbero nemmeno esistere se nel loro nucleo teorico più profondo non coltivassero l’ambizione di descrivere e spiegare le attitudini ed il comportamento umani ricorrendo ad un altro da sé, un alter macchinico ed animale. E se, soprattutto, non prendessero sul serio il paradigma della simulazione. Ma questo paradigma che intesse alterità e simulazione, da dove deriva? Dove nasce? L’interrogazione sull’uomo che abbiamo rinvenuto nell’IA, e che 26 27
M. Ponticorvo, R. Walker, O. Miglino, Evolutionary Robotics as a Tool to Investigate Spatial Cognition, cit., p. 214. Ivi, p. 234.
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abbiamo collocato nell’orientamento culturale post-umanistico, ha forse un’origine più antica? Si può pensare che nasca con gli artefatti robotici stessi? Ad esempio, con gli automi dell’epoca moderna? 2. Robotica Evolutiva e meccanicismo cartesiano La questione è densa di implicazioni, perché l’automa di epoca moderna – proprio come il robot dell’AI e dell’AL – è il simbolo di un preciso orientamento filosofico e culturale: l’automa sei-settecentesco è infatti uno dei protagonisti della filosofia cartesiana, si può anzi dire che ne sia l’emblema, per la portata filosofica che assume nella definizione del meccanicismo28. Questo automa, ad una prima e sommaria ricognizione, sembra costituirsi a cifra dell’umanesimo e del pregiudizio metafisico: in buona sostanza, la negazione stessa dell’interrogazione che anima l’IA. È dunque il caso di approfondire la questione, dando la parola nuovamente agli scienziati cognitivi. Scrive Bara: possiamo oggi non essere d’accordo con molte delle soluzioni che Descartes ha proposto, ma è certo che i suoi problemi sono in gran parte i nostri, il che testimonia la sua genialità nel cogliere su che cosa è interessante e importante focalizzare l’attenzione. Dal punto di vista metodologico, la sua modernità è stupefacente: ipotizzare la costruzione di un automa, allo scopo di indagare l’uomo, sia pure solo il suo corpo, corrisponde esattamente alle assunzioni attuali dell’intelligenza artificiale. Va anche sottolineato il suo considerare la mente come un’entità unica non scomponibile, asserzione vicinissima agli approcci basati su complessità ed evoluzione. Comunque, se mai un filosofo dobbiamo considerare come antesignano della scienza cognitiva, questo è certamente Cartesio.29
La tesi di Bara è netta, ed è ampiamente condivisa da chi si occupa a vario titolo di AI: Cartesio, il filosofo della machine de terre, può essere considerato l’antesignano della scienza cognitiva e dell’Intelligenza Artificiale, in virtù della portata conoscitiva che ha attribuito alla costruzione degli automi. Questa ‘attribuzione di paternità’ è tuttavia sospetta. Cartesio è il massimo esponente del paradigma umanistico, e nelle sue opere coltiva l’incrol28 29
Si veda a tal proposito il volume di Francesca Bonicalzi, Il costruttore di automi. Descartes e le ragioni dell’anima, Jaca Book, Milano 1987. B. G. Bara, Scienza cognitiva. Un approccio evolutivo alla simulazione della mente, cit., p. 22.
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labile convinzione di poter individuare, con le sole forze del lume naturale, l’essenza stessa dell’essere umano: «che cosa dunque […] ho ritenuto di essere? Certamente, un uomo. Ma che cos’è un uomo?»30 si domanda fatalmente Cartesio delle Meditationes, e la celebre risposta che fornisce nel prosieguo del testo rappresenta la summa del paradigma umanistico ed essenzialista: ecco, ho trovato: è il pensiero, la sola cosa che non può essermi tolta. Io sono, io esisto; questo è certo. […] Non ammetto dunque nulla se non ciò che è vero in modo necessario; sono dunque in poche parole solamente una cosa pensante, cioè una mente, o un animo, o un intelletto, o una ragione, termini dal significato precedentemente ignorato. Sono dunque una cosa vera, e veramente esistente; ma quale cosa? L’ho detto, una cosa pensante31.
Il dixi res cogitans con cui Cartesio definisce la natura umana rappresenta, per certi versi, la fondazione ed il compimento del paradigma essenzialista dell’umanesimo: non c’è alterità, né ibridazione alcuna in questo domandare. C’è piuttosto l’incrollabile certezza che il lume naturale, individuato l’atomo di evidenza del cogito, potrà circoscrivere e definire l’essenza dell’essere umano senza ammettere nulla se non ciò che è vero in modo necessario, cioè nulla che non rientri nell’hortus conclusus del pensiero e dei suoi attributi. Insomma, il compimento dell’umanesimo. Ma allora, se la filosofia cartesiana propone una visione dell’uomo eminentemente umanista, è poi ipotizzabile che di fronte all’automa attui un cambiamento di paradigma e vi rinvenga un’immagine dell’uomo segnata dall’alterità, o una simulazione della natura umana concettualmente sovrapponibile a quella proposta dall’AI? Laddove la natura umana per Cartesio è res cogitans, non res extensa? L’automa cartesiano, in realtà, è l’emblema macchinico del paradigma umanistico, e non l’antesignano dell’AI. Ma procediamo con ordine. Il topos dell’automa, com’è noto, è assai ricorrente nella filosofia cartesiana, ma non solo. Tutta l’epoca moderna è attraversata dall’interesse per gli automi, macchine che simulano il comportamento di uomini e animali come fossero «anatomies mouvantes», nella pregna espressione di Vaucanson32. Il loro ruolo, nell’economia del conoscere e del produrre, non è mai 30 31 32
René Descartes, Meditazioni metafisiche, tr. it. di L. Urbani Ulivi, Rusconi, Milano 1998, p. 163. Ivi, p. 167. Si cfr. Mario Giuseppe Losano, Storie di automi. Dalla Grecia classica alla Belle Époque, Einaudi, Torino 1990, p. 86.
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stato accessorio o accidentale: piuttosto, gli automi «rappresentano soprattutto il prendere corpo d’un certo modo di conoscere e, quindi, di dominare la natura. Sono segnali chimerici dell’irrequietezza della mente umana»33. Questo è tanto più vero nell’incedere dell’irrequieto pensiero cartesiano. Con l’immagine dell’automa e del corps machine si apre, del resto, una delle più significative e travagliate opere di Cartesio, L’Homme: suppongo che il corpo altro non sia se non una statua o macchina di terra […]. Vediamo orologi, fontane artificiali, mulini e altre macchine siffatte che, pur essendo opera di uomini, hanno tuttavia la forza di muoversi da sé in più modi; e in questa macchina, che suppongo fatta dalle mani di Dio, non potrei – mi pare – supporre tanta varietà di movimenti e tanto artifizio da impedirvi di pensare che possano essergliene attribuiti di più34.
Il corpo è una macchina, e le macchine di conseguenza simulano il corpo e le sue facoltà: nell’automa e nel suo correlato, la machine de terre, trova la sua massima espressione il meccanicismo cartesiano. Si può quindi senz’altro sostenere che l’automa abbia un suo ruolo ben preciso nella produzione di conoscenza circa l’uomo e la natura in generale: si può però affermare che questo automa sia un oggetto epistemico, proprio come il robot dell’AI e della Robotica Evolutiva? Che rapporto c’è, in effetti, fra l’automa e la scienza di cui è esso stesso emblematica realizzazione? Una risposta interessante la fornisce Bonicalzi: secondo l’autrice «l’automa, contro-prova del meccanismo universale è una sorta di microscopio teorico (“strumento ottico” e al tempo stesso “unità di misura”) che si esaurisce nella sua funzione esplicativa»35. L’automa, cioè, dà a vedere, mostra, esplica, una conoscenza che di fatto l’uomo già possiede: in altri termini il suo meccanismo, il suo funzionamento, non è produttivo di conoscenza, ma semplicemente esplicativo di un sapere che il ‘meccanico’ appronta nella macchina. Parafrasando Kant, si potrebbe dire che l’automa, col suo meccanismo, si limita ad offrirci quello che noi stessi vi abbiamo messo, esibendoci una conoscenza che è già patrimonio del suo costruttore. Ecco perché l’automa, agli occhi dello scienziato e del filosofo moderno, non rappresenta nulla di ‘meraviglioso’ o di nuovo. Certo, è fuor di dubbio che «all’origine della costruzione degli automi è il desiderio di
33 34 35
Ivi, p. 16. R. Descartes, L’uomo, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 19984, vol. I, pp. 205-206. F. Bonicalzi, Il costruttore di automi. Descartes e le ragioni dell’anima, cit., p. 29.
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stupire»36, stupire e impressionare tanto i prìncipi ed i potenti quanto la gente comune, come mostra l’interessante parabola di Vaucanson37, ma questo stupore è indotto dall’ignoranza e dalla semplicità di chi concepisce come ‘inusuale’ un certo meccanismo. E non è certo il caso di Cartesio: dove gli altri vedono il meraviglioso generato dall’inusuale, egli scorge il banale indotto dal già noto. Ed è ancora Bonicalzi a segnalarlo, quando argomenta che l’automa «si fa schema esplicativo allorché, rappresentando nello spazio le proprie parti, mostra il proprio carattere naturale e mette in mostra, non il meraviglioso, ma il “banale”»38. Per banale qui si intende il ‘già saputo’, il ‘già noto’ – il ‘naturale’, per usare un pregno riferimento di Parisi a Cartesio39 – insomma il rimando ad una conoscenza che già si possiede e che nell’automa viene semplicemente esibita. E ciò significa anche che, nel momento in cui il meccanismo si esplica, ottiene il sigillo del verum-factum e dunque del sapere certo. Il richiamo al principio vichiano del verum-factum non è casuale in questa riflessione sul meccanicismo seicentesco, perché l’idea che si possa veramente conoscere solo ciò che si fa, come ha mostrato Paolo Rossi40, è un orientamento culturale che precede di gran lunga l’opera di Vico, pervade tutta l’epoca moderna e l’idea che di scienza tale epoca ha prodotto. Scrive Rossi che l’idea del sapere come costruzione, l’assunzione del modello macchina per la spiegazione e comprensione dell’universo fisico, l’immagine di Dio come orologiaio, la tesi che l’uomo può davvero conoscere ciò che fa o costruisce e sol36 37 38 39
40
M. G. Losano, Storie di automi. Dalla Grecia classica alla Belle Époque, cit., p. 5. Ivi, pp. 86-95. F. Bonicalzi, Il costruttore di automi. Descartes e le ragioni dell’anima, cit., p. 38. Scrive Parisi: «il concetto tradizionale di macchina, sia nel suo significato primario (macchina come artefatto) sia in quello derivato (macchina come sistema naturale), appare perciò basato su due proprietà: la “meccanicità” (le macchine sono prevedibili, precise, affidabili, fatte di parti con un ruolo identificabile nel determinare il tutto) e la “naturalità” (le macchine funzionano in base alle leggi della natura e sono studiabili/progettabili usando gli strumenti della scienza naturale)». D. Parisi, Mente. I nuovi modelli della vita artificiale, cit., p. 45. L’autore sostiene poi una tesi che merita senz’altro una certa attenzione: a suo parere, il computer avrebbe spezzato il binomio meccanicità/naturalità nella macchina, perché il software obbedisce a leggi diverse da quelle del suo supporto materiale (l’hardware). Questa ‘doppia natura’ del computer sarebbe all’origine del dualismo corpo/mente che ha caratterizzato la cosiddetta ‘rivoluzione cognitiva’, e conseguentemente la prima fase degli studi e delle ricerche di AI: a parere di Parisi, si tratterebbe di una nuova riproposizione del dualismo ontologico cartesiano. Si cfr. ivi, pp. 44-52. Paolo Rossi, I filosofi e le macchine 1400-1700, Feltrinelli, Milano 20093.
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tanto ciò che fa o costruisce, sono tutte affermazioni strettamente connesse alla penetrazione – nel mondo dei filosofi e degli scienziati – di […] [un] nuovo modo di considerare la pratica e le operazioni,41
cioè di un nuovo modo di intendere il rapporto tra teoria e tecnica. L’artefatto tecnico, e quello macchinico come l’automa, non sono dunque produttivi di conoscenza, non contribuiscono in alcun modo né al progresso delle scienze né alla definizione dell’uomo: la macchina, insomma, non si configura in nessun caso come oggetto epistemico. Rossi sintetizza questo assunto sostenendo che «il progresso effettivo della scienza dipende per Cartesio dall’opera dei teorici. La tecnica, in quanto tale, non reca alcun contributo al progresso del sapere scientifico»42. E questa è un’osservazione interessante, che chiarisce ancor meglio la funzione meramente esplicativa che svolge l’automa. Per Cartesio, cioè, il progresso delle scienze può avvenire solo ‘metafisicamente’ ad opera dei teorici, ovvero dei filosofi e degli scienziati addestrati al ‘lume naturale’, mentre la tecnica, con le sue realizzazioni macchiniche, si limita ad illustrare ‘praticamente’ un contenuto teorico: già in questa preliminare osservazione, si coglie tutta la distanza che separa il progetto dell’AI dalla visione meccanicista messa in mostra dall’automa cartesiano. Cartesio, infatti, non si aspetta affatto che dal funzionamento dell’automa possa derivare un incremento di conoscenza sulla natura umana. Quello che Cartesio si attende dall’automa è tutt’altro: l’esempio di molti corpi composti dall’artificio degli uomini mi è molto servito: poiché non riconosco alcuna differenza tra le macchine che fanno gli artigiani e i diversi corpi che la natura compone, se non che gli effetti delle macchine non dipendono che dall’azione di certi tubi o molle o altri strumenti, che, dovendo avere qualche proporzione con le mani di quelli che li fanno, sono sempre sì grandi che le loro figure e movimenti si possono vedere, mentre che i tubi o molle che cagionano gli effetti dei corpi naturali sono ordinariamente troppo piccoli per essere percepiti dai nostri sensi. Ed è certo che tutte le regole delle macchine appartengono alla fisica, in modo che tutte le cose che sono artificiali sono con questo naturali43.
In questo brano viene esemplarmente descritta l’attitudine della macchina-automa a fungere da microscopio, ed infatti vi leggiamo che l’automa riproduce l’‘anatomia’ del meccanismo vivente ingrandendone le parti. Ma al di là di questo, l’aspetto più significativo della pericope sta nella conclusio41 42 43
Ivi, p. 23. Ivi, p. 120. R. Descartes, Principii di filosofia, in Opere filosofiche, cit., vol. III, p. 361.
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ne: le leggi delle macchine, dice Cartesio, sono le stesse leggi della natura. Detto in altri termini, il metafisico individua le leggi della natura col solo aiuto del lume naturale, e poi il tecnico traduce queste stesse leggi nel movimento dell’automa. L’artificiale, di conseguenza, non è altro che un’interpretazione del naturale, proprio come lo sono le leggi del meccanicismo, le leggi che la metafisica cartesiana attribuisce alla res extensa. Ed in questo passaggio teorico che vede nell’artificiale un’ermeneutica ‘dinamica’ del naturale, si compie in realtà quell’originaria prescrizione che Cartesio aveva elaborato nella seconda delle Regulae ad directionem ingenii: il primato della deduzione sull’esperienza, degli «oggetti puri e semplici» individuati dal lume naturale sulle conoscenze acquisibili fattivamente44. Questo atteggiamento ‘metafisico’, che nutre l’ideale degli ‘oggetti puri’ e delle ‘essenze’, anche e soprattutto quando si tratta di definire la natura umana, non lascia spazio alcuno all’ibridazione ed all’alterità. È allora evidente come, a quell’alter che è l’automa, Cartesio non attribuisca alcuna funzione epistemica ‘forte’, come nel caso dei robot dell’AI: l’automa viene forgiato per farci vedere come funziona la natura, ‘materializza’ in qualche modo una conoscenza prodotta col solo lume naturale, insomma ‘mette in moto’ un’interpretazione metafisica della natura e dell’uomo senza produrre alcuna nuova conoscenza. Questo automa, in buona sostanza, è la cifra del paradigma metafisico. 3. L’automa come oggetto metafisico: negazione del vuoto e funzioni cognitive Certo, l’automa cartesiano e l’artefatto della Robotica Evolutiva sono entrambi espressione di un medesimo intento, e cioè simulare il comportamento umano. Ma le similitudini si fermano qui, perché trattandosi di descrivere e spiegare le attitudini cognitive dell’uomo, l’automa cartesiano diviene un oggetto esplicativo di certe funzioni ‘mentali’ solo nella misura in cui si è configurato, in prima istanza, come interpretazione artificiale della natura, mentre l’artefatto da AI rappresenta, come abbiamo visto, un vero e proprio oggetto epistemico. In altri termini, l’automa è degno di interesse per il filosofo meccanicista e lo scienziato moderno, solo nella misura in cui traduce in un meccanismo quello che il lume naturale aveva mostrato in precedenza. E vi è un particolare ‘studio’ fisiologico cartesiano, che può essere senz’altro di
44
Si cfr. R. Descartes, Regole per la guida dell’intelligenza, tr. it. di L. Urbani Ulivi, Rusconi, Milano 2000, pp. 145-153.
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sostegno a questa tesi: si tratta del ruolo che gli ‘spiriti animali’ svolgono nel dispiegamento delle funzioni cognitive umane. Come nel caso delle riflessioni relative agli assetti sperimentali dell’AI, lascio sullo sfondo la pur centrale questione del rapporto mente-corpo nella filosofia cartesiana, ben consapevole che si tratta di una problematica capitale nello studio dei processi cognitivi e della stessa metafisica cartesiana45. Intendo invece concentrami sull’incedere dell’argomentazione cartesiana, nel tentativo di delinearne il carattere essenzialista, umanistico e fortemente metafisico. Nella sua ultima grande opera, Les passions de l’âme, Cartesio tenta una sorta di ‘fondazione’ psicobiologica dell’attività cognitiva umana, pur preservando in toto il suo dualismo ontologico. Il tentativo cartesiano è quello di descrivere e spiegare come comunichino anima e corpo, e ancor più precisamente, come si configuri la cognizione umana alla luce del peculiare rapporto che intrattengono res cogitans e res extensa: in realtà, il protagonista del testo è proprio il corpo, il cui funzionamento viene concepito come il correlato stesso dell’attività cognitiva. «Noto – scrive Cartesio – che non rileviamo alcun soggetto che agisca più direttamente sulla nostra anima, del corpo a cui essa è unita»46, ed avvia una dettagliata disamina di carattere psicofisiologico, correlando gli stati del corpo alle funzioni cognitive. Nonostante il testo prenda in considerazione le più diverse attitudini mentali, le descrizioni con cui Cartesio correla gli stati fisici alle funzioni psichiche hanno tutte qualcosa in comune: il ricorso all’attività degli spiriti animali. Non v’è funzione psicofisica in cui non siano implicati, e la loro importanza si rende particolarmente esplicita nella descrizione del processo percettivo: «tutti questi movimenti dei muscoli, come pure tutti i sensi, dipendono dai nervi, che sono come piccoli filamenti, o come piccoli canali provenienti per intero dal cervello e, come esso, contengono una certa aria o vento sottilissimo, denominato spiriti animali»47. Cartesio descrive i nervi come dei canali cavi, attraversati da sottili fasci fibrosi che confluiscono al cervello: la sollecitazione di questi filamenti, sia in senso afferente che in senso efferente, può veicolare un’informazione solo in virtù del ‘vento sottilissimo’ che accompagna e modula il movimento dei filamenti 45
46 47
Non basterebbe un intero volume per raccogliere la smisurata bibliografia sul dualismo cartesiano: mi limito dunque a segnalare un testo che tenta una ricostruzione critica della problematica, ovvero Gordon Baker, Katherine J. Morris, Descartes’ Dualism, Routledge, New York 2002. R. Descartes, Le passioni dell’anima, tr. it. di L. Urbani Ulivi, Bompiani, Milano 2003, p. 115. Ivi, p. 123
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stessi. Sono, in definitiva, gli spiriti animali a determinare l’alterazione corporea che causa tanto la percezione, quanto il movimento volontario. Bisogna infine notare che la macchina del nostro corpo è strutturata in modo tale, che tutti i cambiamenti che si producono nel movimento degli spiriti, possono far sì che essi aprano alcuni pori nel cervello piuttosto che altri; e reciprocamente che, quando qualcuno di tali pori è aperto un po’ più o un po’ meno del solito, per l’azione dei nervi che servono ai sensi, ciò modifica in qualche misura il movimento degli spiriti, e fa sì che essi siano condotti nei muscoli che servono a muovere il corpo48,
conclude Cartesio. Nelle pagine delle Passions il parallelo fra fisiologia umana e meccanismo artificiale è ricorrente, ma a proposito dell’attività degli spiriti animali il paragone più evocativo ed efficace lo si trova forse ne L’Homme, in cui Cartesio sostiene che il ‘vento sottilissimo’ che attraversa i nervi e giunge al cervello è come l’aria che i mantici di un organo spingono nelle canne per produrre il suono49. E in un altro brano della stessa opera, fornisce quella che è forse la più incisiva spiegazione meccanicista della fisiologia umana: i nervi della macchina da me descritta si possono paragonare benissimo ai tubi delle macchine di quelle fontane; i suoi muscoli e i suoi tendini agli altri diversi meccanismi e molle che servono a muoverle; i suoi spiriti animali all’acqua che li muove: il cuore è la sorgente e le cavità cerebrali sono i serbatoi […]. Infine, quando l’anima razionale sarà in questa macchina, avrà nel cervello la sua sede principale, e sarà come l’idraulico che, se vuole stimolare, impedire o mutare in qualche modo i loro movimenti, deve trovarsi presso i portelli a cui mettono capo tutti i tubi di tale macchina50.
48 49
50
Ivi, p. 141. «Se mai vi siete levati la curiosità di esaminare da vicino gli organi delle nostre chiese, sapete come i mantici spingono l’aria in certi ricettacoli, chiamati in questo caso – mi pare – portavento; e come l’aria entra di là nelle canne, ora nelle une, ora nelle altre, a seconda di come l’organista appoggia le dita sulla tastiera. Ora, qui potete concepire il cuore e le arterie che spingono gli spiriti animali nelle cavità cerebrali della nostra macchina come i mantici che nell’organo spingono l’aria nei portavento; e gli oggetti esterni che, muovendo questi o quei nervi, fanno entrare in questi o in quei pori gli spiriti contenuti nelle cavità cerebrali, come le dita dell’organista che, a seconda dei tasti che premono, fanno entrare in certe determinate canne l’aria proveniente dai portavento». R. Descartes, L’Uomo, cit., p. 247. Ivi, pp. 213-214.
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Dalla lettura di questi brani si comprende come Cartesio concepisca l’automa come un artefatto idraulico-pneumatico, una macchina messa in movimento dall’aria e dal vento. Ma quest’ultima pericope, oltre a rappresentare un eccezionale compendio del meccanicismo cartesiano, ci spiega anche alcune delle ragioni per cui l’automa non può costituirsi ad oggetto epistemico in questo sistema filosofico. La prima e più immediata ragione è che, per quanto raffinato possa essere il suo meccanismo, e per quanto fedelmente possa simulare il corpo umano, l’automa di Cartesio manca della res cogitans, dell’anima razionale quale sostanza che dispiega tutte le funzioni cognitive51. Ma questo è solo l’aspetto più macroscopico della questione. Il motivo più profondo per cui l’automa non può configurarsi come oggetto epistemico lo rivela proprio il parallelo acqua/spiriti animali e tubi/nervi. Se infatti ripercorriamo i numerosi luoghi in cui Cartesio descrive la fisiologia del sistema nervoso periferico e degli spiriti animali, e poniamo poi mente al parallelo con l’acqua degli artefatti idraulici, ci rendiamo conto che questa ipotesi fisio-meccanica obbedisce ad una teoria che con il corpo umano ed il meccanismo degli automi non ha apparentemente nulla a che fare: la negazione del vuoto52. Lo annota anche Bonicalzi: il parallelo con «l’orologio assolve il compito di sottrarre il corpo a qualunque spiegazione di tipo animistico, ma non risolve la spiegazione di un movimento in assenza di una contiguità fisicamente percepibile. La negazione del vuoto postula il ricorso al modello dell’organo per il prodursi di effetti per i quali non può essere messa in gioco che l’aria, insieme ai ‘corpi sottilissimi’, cioè gli spiriti animali»53. Detto in altri termini, poiché la sollecitazione dei filamenti che percorrono il nervo non può, essa soltanto, spiegare la grande varietà degli effetti che gli organi di senso producono nel cervello, allora Cartesio introduce l’ipotesi che un vento sottilissimo – ma pieno come l’acqua, e come tutto in natura – viaggi nel nervo, e col suo soffio alteri la consistenza dei ‘pori’ cerebrali, suscitando l’infinita varietà della memoria, della percezione, del movimento. Così, l’ipotesi che natura aborret vacuum spiega come possano prodursi degli effetti quando la causa è fisicamente distante: la teoria degli spiriti animali annulla la distanza che intercorre 51 52 53
La più esplicita trattazione del tema si trova nella lettera a Morus del 5 febbraio 1649: si cfr. Oeuvres de Descartes, publiées par C. Adam & P. Tannery, Paris 1897-1917, vol. V, pp. 267-279. Sulla negazione del vuoto si veda soprattutto R. Descartes, Il Mondo o Trattato della luce, in Opere filosofiche, cit., vol. I, pp. 134-138; Id., Principi della filosofia, cit., pp. 78-79. F. Bonicalzi, Il costruttore di automi. Descartes e le ragioni dell’anima, cit., p. 18.
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fra un recettore sensoriale ed il cervello, proprio come la teoria dei vortici – utilizzando lo stesso principio – annulla le distanze che intercorrono fra i pianeti54. Ma la legge che regola questi fenomeni è sempre la stessa: in natura non si dà il vuoto. Il meccanismo dell’automa procede secondo lo stesso principio: l’automa cartesiano è un artefatto idraulico (come una fontana) e pneumatico (come l’organo delle chiese) che non potrebbe affatto muoversi se in natura si desse il vuoto. Se infatti nei suoi tubi si realizzasse il vuoto, i suoi movimenti sarebbero continuamente interrotti e risulterebbero imprecisi, a differenza di quelli umani che sono estremamente precisi perché l’informazione che viaggia nel nervo, in virtù degli spiriti animali, non contiene ‘salti’ o vuoti. Ecco perché l’automa idraulico-pneumatico di Cartesio può simulare il movimento umano: è espressione di una tecnologia che non ammette il vuoto in linea di principio. Un principio che ha individuato il metafisico mediante il solo lume naturale. Ed eccoci al punto. L’automa idraulico-pneumatico non è altro che un’interpretazione artificiale del corpo umano: tutte le teorie che Cartesio utilizza per spiegare il funzionamento del corpo e la psicofisiologia delle funzioni cognitive, le riversa anche nella descrizione del movimento ‘automatico’. Quindi, l’automa può solo mettere in mostra un sapere che lo scienziato già possiede: i movimenti indotti dall’aria e dall’acqua – simulacro dei movimenti indotti dagli spiriti animali nel cervello, movimenti che causano la percezione e la memoria – non celano alcun mistero, poiché il metafisico già sa che la natura aborre il vuoto. L’automa, perciò, non può produrre alcuna conoscenza, non può configurarsi come oggetto epistemico. L’unica scienza possibile è quella che il metafisico ottiene con l’aiuto del lume naturale, e questo è ancor più vero se si tratta di rispondere alla domanda sulla natura umana. È, in tutta evidenza, il compimento del paradigma umanistico, essenzialista e metafisico. La distanza che intercorre fra il robot dell’AI e l’automa di Cartesio è dunque davvero notevole. La Robotica Artificiale, infatti, progetta, implementa e mette in movimento i suoi artefatti e poi li osserva, ne valuta la performance, ne trae una conoscenza nuova che riguarda l’uomo stesso: insomma produce oggetti epistemici, come si è già detto. L’automa cartesiano, invece, lungi dall’essere un antesignano di questi robot, lungi dall’essere un oggetto epistemico, è un oggetto metafisico che riproduce e mette in mostra conoscenze ricavate altrove. È il compimento dell’autarchia on54
Sulla teoria dei vortici cfr. R. Descartes, Il Mondo o Trattato della luce, cit., pp. 147-154; Id., Principi della filosofia, cit., pp. 88-89.
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tologica che la metafisica occidentale coltiva da sempre, un’autarchia che di fronte alla complessità dell’umano si frantuma, si sdoppia nelle ‘autarchie ontologiche’ delle due res. Così, se si volessero giudicare i due paradigmi ab effectibus, dovremmo annotare come il paradigma metafisico, nel ricercare l’essenza dell’umano, produca un insostenibile dualismo antropologico, mentre il paradigma dell’alterità, nell’oltrepassare l’istanza essenzialista, ricomponga le dimensioni dell’umano55 in una epistemologia che si fa forte dell’ibridazione fra uomo, macchina e animale. Vorrei concludere con un’osservazione di Arnold Gehlen, che in un saggio emblematicamente intitolato Ein anthropologisches Modell, così descrive lo strenuo e multiforme tentativo che la filosofia occidentale da secoli mette in atto per rispondere alla domanda ‘che cos’è l’uomo?’: in nessuna epoca l’uomo ha potuto comprendersi in altro modo se non indirettamente, avvenisse questo in relazione agli dei o ai demoni, dunque a superuomini, dai quali poteva distinguersi in quanto si confrontava ad essi, oppure in relazione alla materia, con la quale egli si poteva identificare per poi rompere nuovamente l’equazione, così come succede in Descartes, per il quale l’uomo è un angelo che vive in una macchina. Il fatto che ogni definizione dell’uomo sia indiretta dipende in fondo sicuramente dalla circostanza che questi esiste solamente in rapporto all’extraumano, dunque l’uomo è un essere che agendo e pensando esce fuori da se stesso, si identifica con l’altro e proprio in questo processo si conserva nuovamente56.
Questa osservazione di Gehlen è significativa: a parere dell’antropologo, il riferimento all’alterità extraumana rappresenta un ineludibile vincolo per quel Mängelwesen che è l’uomo. La sua difettività, la sua natura carenziale, lo indurrebbe fatalmente a definirsi in rapporto all’extraumano: si tratti di un’alterità animale, o anche ‘spirituale’, o ancora macchinica. E, aggiunge, anche Cartesio avrebbe costruito il suo modello dualista seguendo questa dinamica di identificazioni e contro-identificazioni, facendo infine coabitare nella natura umana l’angelo e la macchina.
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L’intera parabola dell’AI, come mostra Parisi, è infatti segnata dalla riproposizione del dualismo mente/corpo e dal suo graduale superamento: si veda nuovamente D. Parisi, Mente. I nuovi modelli della vita artificiale, cit. Interessanti, a tal proposito, anche le considerazioni di Vincenzo Tagliasco, Mente e corpo nei robot, in L’automa spirituale. Menti, cervelli e computer, cit., pp. 155-167. Arnold Gehlen, Antropologia filosofica e teoria dell’azione, a cura di E. Mazzarella, tr. it. di G. Auletta, Guida, Napoli 1990, p. 252.
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Resta però il fatto che Cartesio è un metafisico, in tutti i numerosi sensi che, alla parola metafisica, la filosofia occidentale ha attribuito. E questo vuol dire che il suo automa, quella macchina così simile all’uomo in carne ed ossa, non potrà mai davvero costituire un oggetto epistemico, un luogo produttivo di conoscenza. Perché questo avvenga sarà necessario un cambiamento di paradigma, una sorta di oltrepassamento della metafisica: una rivoluzione ‘paradigmatica’ in cui le macchine – e in generale l’alterità extraumana – possano divenire artefatti produttivi di conoscenza sull’uomo stesso. In breve, la lunga rivoluzione dell’Intelligenza Artificiale.
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CRISTIAN FUSCHETTO
FORME INFORMI (Metafisicamente parlando i mostri rappresentano un bel casino) Le forme informi non lasciano altro ricordo se non quello di una possibilità Paul Valéry
Ouverture Mancano pochi anni alla presa del potere da parte dei nazionalsocialisti e la questione è più o meno quella di sempre: cosa ne facciamo dell’uomo? Anche la risposta è, più o meno, quella di sempre: lo miglioriamo. Perlomeno questa è la risposta che pedagoghi, filosofi, scienziati e politici hanno cominciato a darsi e a suggerire da quando l’uomo è apparso come un dato perfettibile. 1. Uncinati umanismi Metafisicamente parlando i mostri rappresentano un bel casino e probabilmente proprio per questo piacciono tanto a Georges Bataille e dispiacciono altrettanto ad Adolf Hitler. D’accordo, il paragone può suonare improprio. Il fatto, però, è che se si vuol riflettere su umanesimo e dintorni risulta difficile non toccare concetti come quelli di purezza, perfezione e mostruosità. Concetti elaborati esemplarmente da entrambi. Per dire, negli stessi anni in cui il pensatore francese teorizza la coestensività tra figura umana e figura mostruosa, Hitler e la sua numerosa schiera di sodali pianificano la soppressione di quest’ultima dall’ideale di specie. Entrambi, ecco il punto, in nome di una precisa vision dell’umano. Anzi, a dirla tutta, rispetto ai canoni classici dell’umanesimo è possibile riscontrare una maggiore coerenza negli hitleriani che non nella cerchia di ‘bassi materialisti’ alla Bataille. Pur con tutte le debite differenze, da Platone a Pico, da Cicerone a Jaeger, gli umanismi elaborati nel corso dei secoli hanno infatti sempre condiviso un viscerale amore per la perfezione. Per come si è configurato nei secoli, l’umanista è in fin dei conti un tizio che ha l’ambizione di migliorare il prossimo. Il che, in era predarwiniana, ha sostanzialmente significato agire esclusivamente sull’anima
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piuttosto che sul corpo. L’uomo può diventar quel che vuole, insegna l’umanesimo, bestia o angelo, ma per farlo deve agire non sulla sua natura, che non ha, ma sulla sua dimensione spirituale. Come? Attraverso la coltivazione di sé, studiando le humanae litterae1. Non per niente, nel celebre saggio dedicato al Parco umano Peter Sloterdijk definisce le lettere come dei «media umanizzanti», aggiungendo che in chiave umanistica «gli umanizzati non sono nient’altro che la setta degli alfabetizzati»2. I freni alle impennate disinibitorie che costantemente rischiano di travolgere l’uomo e di capovolgerne la humanitas in ferinitas, vanno fortificati attraverso lo studio. Preferibilmente dei classici. La naturalizzazione antropologica compiuta da Darwin cambia le carte in tavola. Fatto mentale e fatto naturale acquistano commensurabilità, anima e corpo si contaminano e (anche) gli umanesimi si attrezzano di conseguenza. Come avrebbe potuto, del resto, un’antropologia fondata sull’anatomia comparata o sulla psicologia animale conservare gli stessi mezzi di umanizzazione di un’antropologia fondata, per dire, sulla tripartizione dell’anima? Ecco, nel momento in cui la pregiudiziale antibiologistica viene meno3, in vista dell’umanizzazione dell’uomo diventa prioritario cominciare ad agire anche sul corpo anziché solo sull’anima. Paradossalmente, a cogliere prima e meglio di altri la rivoluzione antropologica in corso è un antidarwiniano di ferro, Friedrich Nietzsche. In un appunto del 1883 egli osserva: «Modificazione dei caratteri. Allevare al posto di moraleggiare. Lavorare influendo direttamente sull’organismo invece che indirettamente con l’educazione etica. Un’altra corporalità si creerà da sé un’altra anima e altri costumi. Rovesciamo quindi il rapporto!»4. 1
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Cfr. Vito R. Giustiniani, Homo, Humanus, and the Meanings of ‘Humanism’, “Journal History of Ideas”, Vol. 46, 2, 1985, pp. 167-195. Nella visione umanistica l’uomo è tale da raccogliere in sé una doppia natura, bestiale e divina, per cui deve coltivare se stesso con lo studio delle humanae litterae per compensare la feritas ferina per mezzo di una crescente elevazione – quella che umanisticamente si dice un’umanizzazione – verso la propria polarità divina. L’impianto umanistico è quindi strutturalmente polemico. Su questo si veda anche Gioacchino Paparelli, Feritas, Humanitas, Divinitas, Le componenti dell’umanesimo, D’Anna, Messina-Firenze 1960. Peter Sloterdijk, Regole per il parco umano. Risposta alla Lettera sull’“umanismo” di Heidegger, in Non siamo ancora stati salvati. Saggi dopo Heidegger, tr. it. di A. Calligaris e S. Crosara, Bompiani, Milano 2004, p. 241 e p. 245. Su questo cfr. Roberto Esposito, Heidegger e la natura umana, “MicroMega”, 4, 2005, pp. 227-238 Friedrich Nietzsche, Frammenti Postumi 1882-1884, in Opere, VII, t. I, p. I, a cura di G. Colli e M. Montinari, tr. it. di L. Amoroso e M. Montinari, Adelphi, Milano 1986, 7 [97], p. 262.
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Cambiano le carte ma lo scopo del gioco rimane sempre lo stesso: raggiungere la perfezione. Nel suo Post-human, a proposito dei paradigmi umanistici, Roberto Marchesini parla esplicitamente di ‘Mito della purezza’ e spiega: Il binomio kalos kai agathos ripreso dagli umanisti – dalla Venere botticelliana alle architetture dell’Alberti – coniuga il corpo a quest’ideale di perfezione: si ricercano le simmetrie strutturali, gli equilibri architettonici, le formule morfometriche per realizzare strutture armoniosamente iterate […] Ciò che non rientra nella cristallina perfezione platonica diviene rumore, corruzione, caos a cui contrapporre l’armonia incontaminata del cosmo5.
Dal Cinquecento al Novecento crollano e vengono ricostruite intere architetture mentali, a vecchi strumenti umanizzanti se ne affiancano di nuovi, ma una cosa tuttavia rimane immutata, l’obiettivo. Sì, ma come realizzare la perfezione dell’uomo, come evitarne la corruzione, nell’epoca della sua riduzione a scimmia evoluta? Pur con tutti i distinguo del caso (molti dei quali avanzati soprattutto dal suo autore), la teoria delle selezione naturale fa dell’uomo un esperimento prodotto da un potentissimo processo selettivo. Un processo, spiega Darwin, comune tanto al figlio di Adamo quanto agli ospiti dell’Arca. Anche se i materialisti del Settecento lo sospettavano e gran parte dei biologi dell’Ottocento avevano cominciato a metterlo per iscritto, in effetti è con Darwin che passa in giudicato la sentenza che certifica la messa in mora, per l’uomo, del privilegio metafisico di appartenere a un regno separato e distinto dei viventi. Abbiamo le stesse umili origini del bruco, spiega il naturalista del Kent. Siamo tutti ontologicamente ‘bruti’. Ma allora come fare a incarnare un ideale di perfezione? La risposta è nella domanda. È infatti col venir meno della metafisica certezza di distinguersi da tutto il resto dei viventi che l’uomo scopre di essere un dato sperimentale molto simile alle razze canine o cavalline ‘fabbricate’ dagli allevatori di professione. È cioè con la scoperta di esser figlio di una cieca selezione piuttosto che di un disegno divino che l’uomo comincia a figurarsi come un campo di forze sempre aperto, come un progetto mai definitivamente compiuto cui poter finalmente dare un indirizzo. E, al contempo, è a cominciare da questa rinnovata consapevolezza circa la propria plasticità che l’uomo di fine Ottocento comincia a figurarsi come un esperimento di cui non tutti gli esemplari possono dirsi egualmente riusciti nella misura in cui non tutti 5
Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 174.
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possono scientificamente dirsi usciti da uno stato di ancestralità. L’ideale umanistico di esprimere, nelle cose umane, l’armonia del cosmo rimane dunque vivo anche quando il cosmo non c’è più. Anzi, rimane vivo anche quando viene meno la Natura statica in cui quel cosmo si incardinava. Proprio perché ci si rende conto del fatto che l’uomo non appartiene più ‘per natura’ a nessun ordine, si fa avanti l’idea di poterne conquistare almeno per certi uomini uno nuovo. Detto in altri termini, se entro i limiti della cornice umanistico-rinascimentale l’uomo è concepito come ‘senza rango’, come colui che, a differenza degli animali, non ha un’essenza predefinita e che proprio per questo può divenire ciò che vuole, nella nuova cornice bio-antropologica post-darwiniana egli non perde affatto questa duttilità ma, anzi, la moltiplica. L’uomo, cioè, comincia a essere considerato come un essere plastico e quindi modificabile non più in ragione della sua estraneità alla serie animale, ma esattamente per la ragione opposta. Darwin spiega che la natura è dinamica, ne fa un laboratorio di forme in continua rielaborazione, e non evita di aggiungere che l’uomo è soltanto una di esse. È in questo senso che il darwinismo arricchisce la plasticità dell’uomo di nuovi significati. La tradizionale duttilità antropologica di matrice umanistica viene cioè recepita e rielaborata in rapporto alla scoperta della continuità tra uomo e animale, e sulla base di questa rinnovata consapevolezza la specie umana comincia a diventare il luogo entro cui poter tracciare delle fratture tra ciò che è veramente umano e ciò che non lo è, tra purezza autarchica e impurità mostruosa. In senso parossistico (?), si può a questo punto comprendere come la tensione polemica che dà luogo alle più genuine aspirazioni umanistiche sia per molti versi la stessa che darà luogo alle più agguerrite aspirazioni eugeniste. Mentre gli umanisti combattono gli elementi bruti che minacciano l’uomo dall’esterno, gli eugenisti guerreggiano contro gli elementi bruti che minacciano l’uomo dall’interno. Nel momento in cui diventa figlio della scimmia è come se la Natura, da esclusivo elemento di contesto, diventasse finalmente parte strutturante del sé. I nuovi umanisti lo apprendono in fretta e altrettanto in fretta ne traggono le conseguenze. Esprime ottimamente il parossismo in questione un hitleriano di prim’ordine come Hans K. Günther, paladino fierissimo di Platone più che di Darwin. Siamo alla fine degli anni Venti, in Europa circolano da almeno cinquant’anni testi di eugenetica variamente ispirati alla dottrina darwiniana dell’evoluzione della specie e della discendenza comune con gli animali, e un teorico nazista avverte il bisogno di rivendicare l’aspirazione di perfezionare l’umanità alla dottrina platonica delle idee piuttosto che a rozzi biologismi. Certo, sempre lì si va a parare, le teorie selezioniste espresse da
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Platone ne la Repubblica e nelle Leggi sono note, così come è risaputo il richiamo platonico alla diseguaglianza degli uomini al fine di giustificarne un oculato allevamento sotto egida statale. Tuttavia l’insistenza di Günther sulla preliminarità dei canoni estetici e dei rapporti formali rispetto ai prosaici meccanismi delle leggi del plasma germinale merita di essere approfondita. Nel «ricreare l’umanità», perché questo è l’obiettivo ultimo del Führer6, un teorico della razza di professione avverte l’urgenza di chiarire come una corretta biologia possa dirsi tale solo a seguito di una corretta estetica. Nel 1928, docente di Antropologia a Berlino, Günther pubblica un opuscoletto su Platone custode della vita, nel quale tra l’altro spiega: Nella storia dello spirito umano sono stati formulati più volte dei giusti pensieri sottoponibili a verifica; pensieri, nei quali fosse intrinseco qualcosa di fiorente, sono stati formulati di rado e ancor più di rado sono stati presi in considerazione e seguiti. Ai Greci fu concesso di concepire quel pensiero fiorente secondo cui la conoscenza del bello e del buono, lungi dal significare per l’uomo un fine, costituisce invece soltanto un inizio: essa vale dunque come un mezzo per infondere il bello e il buono nelle stirpi umane. Il binomio bellobuono è realizzato allorché esso si trova incorporato davanti agli occhi. Questa veduta – continua Günther – pervade il concetto ellenico di kalokagathìa (bellezza-bontà) e perciò la kalokagathìa non è solo un sistema di comportamento individuale, ma molto di più: è una teoria dell’educazione. Solo la selezione, la scelta della razza da allevare, può rendere possibile che il bello e il buono assumano una forma corporea7.
Un corretto allevamento, afferma, può avvenire solo in seguito alla maturazione di una corretta «estetica biologica»8. Il bello e il buono riflettono un ordine ideale che per essere «incorporato» implica di necessità un percorso di purificazione. Si ricordi, al corpo non sono concesse le medesime armonie dell’anima e pertanto occorre darsi da fare per renderlo, ove possibile, all’altezza. Ma come fare a «incorporare davanti agli occhi» l’esemplare angelicato e purificato della humanitas? «La purezza – precisa il teorico del post-human – si conquista allontanandosi dall’alterità animale»9. E infatti questo è il principale cruc6
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«Coloro che vedono nel Nazionalsocialismo nient’altro che un movimento politico lo conoscono assai poco. Esso è anche più di una religione: è la volontà di ricreare l’umanità». Adolf Hitler, cit. in Jonathan Glover, Humanity. Una storia morale del ventesimo secolo, tr. it. di C. Salmaggi, Il Saggiatore, Milano 2002, p. 397. Hans F. K. Günther, Platone custode della vita, tr. it. di A. Apantino, Edizioni di Ar, Padova 1977, p. 65. Ivi, p. 64. R. Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, cit., p. 175.
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cio degli umanisti con la svastica. Nel quadro teorico tracciato dal nazionalsocialismo la purezza diventa un effettivo discrimine per la definizione dell’umanità e, data per acquisita l’idea per cui la purezza non è più un dato originario (come per esempio la concepiva un de Gobineau) ma è invece una meta raggiungibile solo attraverso selezione e incroci10, ecco emergere in questi anni politiche e biopolitiche proiettate alla conquista della humanitas per mezzo del suo allontanamento dall’animalitas. Animalitas, sì. Ma chi è l’animale per i teorici nazionalsocialisti? Non certo lo stesso concepito da Platone o da Pico della Mirandola. Col tempo, si sa, le stesse parole cominciano a indicare cose nuove. Per i nazisti l’animale non è semplicemente l’Altro da me – come a modo loro ritenevano sia il greco che il toscano – ma innanzitutto l’Altro che è in me. L’Altro contro cui la legislazione eugenetica nazista si scaglia a protezione dell’Uomo non è certo il mero animale, ma l’uomo-animale, l’uomo che non è autenticamente tale perché in qualche modo spurio. Boria Sax fa giustamente notare che nella prospettiva nazista non è tanto l’Altro come tale a far paura, quanto l’impuro, il mostro. «I nazisti – osserva Sax – enfatizzavano un ideale di purezza rispetto al quale essi erano ostili a ogni anomalia, umana o animale»11. I teorici nazisti sono refrattari agli sconfinamenti, alle ibridazioni, alle vite che risultano inclassificabili perché giudicate né solo umane né solo animali. È significativo il fatto che la legislazione eugenetica nazista sia formulata di pari passo a una delle più avanzate legislazioni sulla protezione degli animali: in entrambi, infatti, si trattava di proteggere delle rigide partizioni dell’essere, delle sostanze discrete. Da una parte l’Uomo e dall’altra l’Animale. «Hitler e il movimento nazista erano intolleranti nei confronti di ogni ambiguità concettuale»12, questo è il punto. Ai loro occhi il disabile, l’ebreo e lo zingaro non rappresentano semplicemente l’Altro, ma l’Io e l’Altro insieme e, per questo, costituiscono un pericolo letteralmente mortale. Si tratta di mostri. «Colui su cui si esercitava la persecuzione e la violenza estrema – mette in evidenza Roberto Esposito – 10
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Il richiamo a un’originaria razza pura ha nella maggior parte della trattatistica nazista (e non solo) una valenza retorica. Si tratta di un mito. La maggior parte degli eugenisti e degli igienisti della razza abbraccia l’idea di una ‘fabbricabilità’ del tipo perfetto. Ciò, peraltro, in piena coerenza con i principi darwiniani. Per un approfondimento su questo aspetto mi permetto di rimandare al mio Darwin teorico del postumano, Mimesis, Milano 2010, pp. 78-86. Boria Sax, Animals in the Third Reich. Pets, Scapegoat, and the Holocaust, Continuum, New York-London 2000, p. 155. Fred Weinstein, The Dynamics of the Nazism: Leadership, Ideology and the Holocaust, Academic Press, New York 1980, p. 136.
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non era semplicemente un animale ma un animale-uomo: l’uomo nell’animale e l’animale nell’uomo»13. La sociobiologia nazista, e Günther ne rappresenta un efficacissimo esempio, in piena coerenza con la metafisica umanistica che l’ha partorita, amplifica quindi i violenti dualismi che vedono contrapporre corpo e anima, soma e spirito, natura e cultura, animalitas e humanitas. In perfetta coerenza con la tradizione e – come tra un po’ vedremo, in direzione diametralmente opposta al dettato darwiniano – il sociobiologismo nazista traccia dei campi di immunizzazione dall’alterità, tanto che lo sforzo hitleriano di provare a incrementare il livello di umanizzazione dell’uomo attraverso la sua «ri-creazione» può essere letto come una sorta di riverbero del dispositivo dicotomico ereditato da un pensiero umanistico un po’ troppo autoreferenziato. Günther chiarisce in modo paradigmatico questo passaggio in uno scritto del 1937, intitolato per l’appunto Humanitas, dove nel contrapporre all’umanesimo umanitarista la vera humanitas, spiega che quest’ultima è da intendersi come un «compito da adempiere, un modello da raggiungere, un ideale di selezione razziale e matrimoniale […]»14. Questa volta in piena conformità agli insegnamenti darwiniani, idéa e bíos sono grandezze pienamente commensurabili e, in conformità a quelli platonici, il secondo deve adattarsi alla prima. «La lezione (Lektion) dell’umanesimo – osserva a proposito del razzismo morfologico güntheriano Simona Forti – è la selezione (Selektion)». E aggiunge: «Della vera umanità – l’Idea, l’Anima, il Tipo – non partecipa chiunque. Ad essa ci si ricongiunge attraverso un percorso di purificazione, di perfezionamento, di selezione: il platonico processo ascensionale verso l’idea»15. Gli umanisti con la svastica sono degli innovatori, adattano la tradizionale aspirazione a perfezionare l’anthropos ai moderni saperi della vita e agli strumenti, altrettanto moderni, della biopolitica. 2. Un ragno, uno sputo Negli stessi anni in cui Hitler prepara la sua salita al potere, Bataille dà vita a un progetto editoriale che urterà la sensibilità di molti intellettuali, soprattutto di quelli d’Accademia (all’epoca aveva un senso). Nel biennio 1929-1930 egli dirige la rivista d’arte “Documents”. Il cavallo accademico, L’apocalisse 13 14 15
R. Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004, p. 139. H. F. K. Günther, Humanitas, tr. it. di A. Romualdi, Edizioni di Ar, Padova 1977, p. 34. Simona Forti, Biopolitica delle anime, “Filosofia Politica”, 3, 2003, p. 414.
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di San Severo, Il linguaggio dei fiori, Figura umana, Il giro del mondo in 80 giorni, L’alluce, Il gioco Lugubre, Il basso materialismo e la gnosi, Le deviazioni della natura, Sole putrido, già dai titoli dei suoi scritti emerge un’eccentricità di interessi. Nei suoi articoli Bataille parla di tutto, di fotografia, di testi sacri, di civiltà antiche, di piedi, di rituali di macellazione e di Hegel, si tratta di pezzi di bravura, certo, apparentemente scollegati gli uni dagli altri, ma ciò non toglie che da quegli scritti possa emergere un unico filo conduttore. Lo mette in luce Denis Hollier: il filo conduttore è il concetto di informe. È bene ricordare che la rivista viene corredata sin dal secondo numero di un Dizionario critico molto singolare, dove i redattori (il più delle volte lo stesso Bataille) ridefiniscono sarcasticamente e ironicamente il senso di parole e concetti. Basta l’elenco delle parole ridefinite per rendersi conto che si tratta di un dizionario molto lontano da quelli canonici: Architettura, Black Birds, Bocca, Cammello, Ciminiera, Esteta, Infelicità, Informe, Kali, Materialismo, Mattatoio, Metamorfosi, Museo, Occhio, Polvere, Spazio. Secondo Hollier, tra tutti questi concetti è senz’altro quello di informe a svolgere un ruolo fondamentale. L’informe rappresenta qui la funzione di manifesto non solo del Dizionario redatto da “Documents” ma della stessa estetica batailleana. «L’articolo “informe” occupa dunque il posto che viene solitamente attribuito in questo tipo di opere all’articolo “dizionario” stesso»16. Si tratta di una parola chiave. Informe. Un dizionario – scrive Bataille – comincerebbe dal momento in cui non desse più il senso ma i compiti delle parole. Così informe non è soltanto un aggettivo con tal senso ma un termine che serve a declassare, esigendo in generale che ogni cosa abbia la sua forma. Ciò che designa non ha diritti suoi in nessun senso e si fa schiacciare dappertutto come un ragno o un verme di terra. Bisognerebbe effettivamente, perché gli uomini accademici fossero contenti, che l’universo prendesse forma. La filosofia intera non ha altro scopo; si tratta di dare una redingote a ciò che è, una redingote matematica. Per contro, affermare che l’universo non rassomiglia a niente e non è che informe equivale a dire che l’universo è qualcosa come un ragno o uno sputo17.
Si tratta dunque di dare i compiti delle parole, non il loro significato. Ecco, questo è lo scopo del Dizionario, ma questo è anche lo scopo dell’estetica batailleana, della logica sanamente decostruttiva che la anima. Nell’intenzione di Bataille, l’informe deve infatti essere assimilato a un co16 17
Dennis Hollier, La prise de la Concorde, Gallimard, Paris 1974, p. 62. George Bataille, Informe, in Documents, tr. it. di S. Finzi, Dedalo, Bari 1974, p. 165.
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stante processo di decostruzione delle forme, indirizzato a introdurre dissomiglianza laddove si presuppone il Medesimo. Anzi, non solo laddove lo si presuppone, laddove lo si preferisce; perché anche il senso delle parole è frutto di una scelta. Ebbene, a giudizio di Bataille la scelta della tradizione è stata sempre per l’ordine, la stasi, l’armonia e l’ideale. Il pensiero, però, in questo modo dimentica la bassa concretezza dalla quale pure è generato. Va da sé che non si tratta semplicemente di rovesciare il mondo statico delle idee con quello dinamico della materia. Così non si farebbe altro che idealizzare la materia riproponendola in fin dei conti nuovamente come forma. Bataille è perfettamente consapevole del rischio e ricorda che molti materialisti del passato hanno finito col situare la materia morta al vertice di una gerarchia convenzionale dei fatti di ordine diverso, senza accorgersi di cedere così all’ossessione di una forma ideale della materia, di una forma che si avvicinerebbe più di qualunque altra a ciò che la materia dovrebbe essere. La materia morta, l’idea pura e Dio rispondono, in effetti, nello stesso modo, cioè perfettamente, altrettanto piattamente dello scolaro docile in classe, a una domanda che non può essere posta che da filosofi idealisti, alla domanda circa l’essenza delle cose, esattamente circa l’idea per la quale le cose diventerebbero intelligibili. I materialisti classici – conclude – non hanno neppure veramente sostituito la causa al dover essere18.
Bataille è sì un materialista, ma tutt’altro che ingenuo. Egli è un basso materialista, ovvero dialettico, a suo giudizio la materia è fonte di contraddizioni: i dualismi si tengono e non vengono ipostatizzati. Il suo materialismo ha l’obiettivo specifico di liberare la materia dalla pressione dell’idea senza per questo presumere che dell’idea se ne possa fare a meno. Si tratta di declassare e non di capovolgere delle gerarchie (in primis la gerarchia tra materia e forma), e l’informe serve esattamente a questo. L’informe allora non definisce alcunché, opera. Insomma è un principio dinamico. Non si tratta di negare statuto alle cose, di opporre dadaisticamente un ‘No’ a tutto; si tratta piuttosto di fare il contrario, di promuovere un «movimento Sì, implicante un perpetuo consenso a ogni cosa»19. È molto probabile che il pensatore francese attraverso questo concetto abbia avviato il tentativo filosofico di istituire impensate relazioni tra cose, tra l’ideale e il reale, l’alto e il basso. È solo in questo movimento, ma in generale è solo nel movimento, suggerisce il filosofo, che è possibile crea18 19
Id., Materialismo, in Documents, cit., p. 170. Michel Leiris, De Bataille l’impossible à l’impossible Documents, “Critique, Hommage à Georges Bataille”, 195-196, 1963, p. 686.
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re lo spazio per uno scarto, ovvero per una forma nuova. A tal proposito è stato correttamente sottolineato che «L’informe è l’accidente delle forme, la loro condizione contingente e non sostanziale, in quanto, quando ci si riferisce a questo termine, bisogna intenderlo come aggettivo e non come sostantivo»20. Tra dinamismo e inclusività, l’informe esprime quindi un’esigenza primaria: quella dell’alterazione. Nonostante l’istintiva passione per la forma, tutto è alterabile e, insinua Bataille, per fortuna che le cose stiano così. Senza l’alterazione non si aprirebbe lo spazio per la nascita di nuove forme. Non è dunque solo questione di un’illusione ottica dettata dalla volontà di riconoscere ordine anche laddove quell’ordine non c’è, è questione di vita o di morte. L’informe costringe a fare attenzione al movimento che trapassa ogni cosa e, in tal modo, crea lo spazio necessario per far essere quello ancora non è. Si assiste così a un colpo al cuore dell’ontologia delle forme, siano esse di dominio estetico o antropologico. Nell’articolo dedicato agli Scarti della natura, le linee di questo movimento emergono in modo piuttosto chiaro. Prendendo le mosse da un manuale di teratologia del XVII secolo, intitolato proprio Les écarts de la nature, Bataille arriva al dunque allorché cita Galton, padre dell’eugenetica. Lo cita in un’altra veste, come statistico e teorico delle medie e dei tipi, ma la cosa rimane significativa. Un «fenomeno» da fiera qualsiasi – scrive – provoca un’impressione positiva di incongruità aggressiva, un po’ comica, ma soprattutto generatrice di malessere. Questo malessere è oscuramente legato a una seduzione profonda. E, se si può parlare di dialettica delle forme, è evidente che bisogna tener conto in primo luogo di tali capricci di cui la natura, benché siano solitamente chiamati contro natura, è incontestabilmente responsabile21.
Bataille fa immediatamente notare che l’incongruità di cui si parla è praticamente rinvenibile in ogni uomo, solo che «è poco sensibile e per questo è preferibile riferirsi ai mostri per determinarla». Chi ha provato a definirla in modo scientifico è appunto Galton, che attraverso la sovrapposizione di numerose foto di studenti americani ha ottenuto, o comunque pensato di ottenere, l’idea dello studente perfetto. Così con quattrocento visi di studenti maschi americani, si ottiene un viso tipo di studente americano. Georg Treu ha definito […] il rapporto tra l’imma20 21
Cecilia Alemani, L’informe: un percorso tra le pagine di Documents, “Itinera” (www.filosofia.unimi.it/itinera). G. Bataille, Gli scarti della natura, in Documents, cit., p. 108.
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gine composita e le sue componenti mostrando che la prima è necessariamente più bella della media delle altre: così venti visi mediocri compongono un bel viso e si ottengono senza difficoltà delle figure le cui proporzioni sono molto vicine a quelle dell’Hermes di Prassitele22.
Ma ecco il punto. L’immagine composita darebbe così una specie di realtà all’idea platonica, necessariamente bella. Nello stesso tempo la bellezza sarebbe alla mercé di una definizione così classica come quella della misura comune. Ma ogni forma individuale sfugge a questa misura comune, e in qualche modo, è un mostro23.
Ogni forma individuale è un mostro perché ogni individualità rappresenta uno scarto. È per questo che la metafisica, e la sua variante umanistica, avversano le molteplicità: esse partono dall’assunto per cui «ogni cosa debba avere la sua forma». Ma ciò, almeno nel dominio delle cose viventi, è impossibile. L’informe, si diceva, è un’operazione. Su questo aspetto del concetto ha lavorato molto Rosalind Krauss, che tra i suoi numerosi lavori a riguardo ne annovera anche uno sul paradigma fotografico dell’informe. Come rendere meccanicamente, si chiede la studiosa, quest’azione di rottura e di trasformazione? Poiché l’informe non nasce dalla negazione delle forme (questo è l’errore dei materialisti ingenui), ma dalla loro relazione, Krauss individua dei procedimenti spaziali adottati dai fotografi coinvolti nel progetto di “Documents” e di “Minotaure” (rivista molto vicina alla prima), in grado di creare un ‘riorientamento’ dell’immagine al fine di restituirne la bassa materialità. Si tratta di mezzi semplici, consistenti nel «far ruotare il corpo umano, cosicché un semplice oscillamento dall’asse verticale all’orizzontale trasformi il tutto del corpo in parte, l’alto (la Gestalt) in basso (l’organo sessuale), l’umano nell’animale»24. È la strategia adoperata, per esempio, da Brassaï quando fotografa i nudi femminili, dove grazie a una semplice torsione riesce a trasformare un torso femminile in fallo o l’asse metamorfosa dei seni nell’immagine di una bestia. L’artista ungherese ci conduce a vedere l’informe al lavoro, immortalando con procedimenti inconsueti ciò che è normale in un’altra forma. L’effetto è scioccante perché l’‘altra’ forma non è ancora definita ma è, per così dire, nel passaggio dal22 23 24
Ibidem. Ibidem. Rosalind Krauss e Yve-Alain Bois, Oggetto parziale, in L’informe, a cura di E. Grazioli, Bruno Mondadori, Milano 2003, p. 153.
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la vecchia alla nuova, dal Medesimo all’Altro; è cioè inclassificabile e per questo mostruosa. Basta lo spostamento dalla verticalità dell’umano all’orizzontalità dell’animale per mutare radicalmente lo scenario. Su questo punto insiste a ragione la Bois, quando a proposito della natura operazionale dell’informe sostiene che l’orizzontalità qui non può indicare semplicemente uno stato, perché l’informe ha una consistenza dinamica, ma sta a significare piuttosto un ribaltamento dal verticale all’orizzontale o orizzontalizzazione. La rotazione di cui si tratta in questo ribaltamento è una delle strategie messe in opera nel modo più insistente da Bataille (regge diversi testi di “Documents”, come la voce Bocca del Dizionario critico e L’alluce, ma anche tutto il dossier sull’occhio pineale): l’uomo è molto fiero di essersi eretto (e di aver abbandonato così la sua condizione animale, il cui asse biologico bocca-ano è orizzontale) ma questa fierezza è fondata su una rimozione. Verticale, l’uomo ha biologicamente senso solo per guardare il sole e bruciarsi gli occhi o per contemplare i suoi piedi nel fango: la sua attuale architettura, per la quale il suo sguardo orizzontale attraversa un campo visivo verticale, è un travestimento25.
Sul piano umanistico, l’accostamento uomo-animale è quanto di più mostruoso possa essere concepito e, difatti, Bataille ce l’ha con tutti i sistemi, prima di tutto con l’umanesimo26. La ragione è quella di sempre: i sistemi vivono di strutture e gerarchie e, in questo modo, emarginano ogni ‘altra’ possibilità. Anzi, condannano il regime stesso del possibile. Lo spiega a suo modo Paul Valéry, che in un saggio del 1936 dedicato a Degas, scrive: Pensavo talvolta all’informe. Ci sono cose, macchie, masse, contorni, volumi, che non hanno, in qualche modo, che un’esistenza di fatto: non sono che percepite da noi, ma non conosciute; non possiamo ridurle a una legge unica, dedurre il loro tutto dall’analisi di una delle loro parti, ricostruirle con operazioni logiche […]. Dire che sono cose informi, significa, non che non hanno affatto forme, ma che le loro forme non trovano in noi nulla che permetta di rimpiazzarle con un atto di definizione o riconoscimento sicuro. E, effettivamente, le forme informi non lasciano altro ricordo se non quello di una possibilità27.
25 26 27
Y.-A. Bois, Introduzione. Il valore d’uso dell’informe, in L’informe, cit., p. 15. Cfr. ivi, p. 6. Paul Valéry, Del suolo e dell’informe, in Degas Danse Dessin, citato in C. Alemani, cit.
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3. Sconfinamenti Bataille non lo sa, e probabilmente anche se lo avesse saputo la cosa non gli avrebbe cambiato granché, dicevo Bataille non lo sa ma è un darwiniano. L’informe ricalca perfettamente il concetto di speciazione, ragion per cui entrambi sono rispettosi del mostruoso. Come per Bataille, anche per il padre dell’evoluzionismo il mostruoso si rivela un inquietante oggetto di indagine. Anche per Darwin il mostruoso è una parola per far venire allo scoperto un evento fin lì rimosso dallo sguardo oggettivo della biologia28. Non più ‘scherzi della natura’, per Darwin i ‘mostri’ sono degli autentici oggetti biologici. Sono degli organismi che deviano improvvisamente dal loro presunto, ma non scontato, piano di sviluppo: «A lunghi intervalli di tempo, tra milioni di individui allevati nella stessa regione e nutriti pressappoco con lo stesso cibo, si presentano deviazioni strutturali così pronunciate da meritare il nome di mostruosità»29. Per Darwin il mostro è l’assolutamente imprevedibile, ciò che eccede ogni condizione di possibilità, eppure, al tempo stesso, qualcosa di non completamente scisso dall’ordine del discorso. Darwin, infatti, si premura di aggiungere: «tuttavia non si può segnare un limite netto tra le mostruosità e le piccole variazioni»30. Non c’è dunque alcuna discontinuità qualitativa tra le ordinarie variazioni e le straordinarie mostruosità, solo che mentre per la biologia fissista ed essenzialista esse si configuravano come delle eccezioni al regime della natura e, come tali, erano escluse dal sapere biologico, per Darwin e la sua nuova biologia si tratta, invece, di oggetti epistemologici privilegiati31. Il fenomeno del mostruoso, secondo Darwin, permette in28
29 30 31
Va detto che dei tentativi di traduzione scientifica della tradizione teratologica cominciano a esserci già alla fine del XVIII secolo, quando uno dei precursori dell’embriologia moderna, Caspar Friedrich Wolf (1733-1794), cerca di dare vita a un primo studio sistematico delle mostruosità, ponendo le basi per una scienza razionale a suo modo di vedere estremamente utile, oltre che per l’embriologia, anche per l’anatomia. Cfr. Charles John Samuel Thompson, I veri mostri. Storia e tradizione, tr. it. di E. Paganini, Mondadori, Milano 2001, p. 71. Charles Darwin, L’Origine delle specie. Selezione naturale e lotta per l’esistenza, tr. it. della 6ª edizione del 1872 di L. Fratini, Bollati Boringhieri, Torino 1967, pp. 83-84. Ibidem. Non mi pare possa essere catalogata come una mera questione di forma quel che Darwin scrive a Camille Dareste, autore delle celebri Recherches sur la production artificielle des monstruosités (1877) in occasione del conferimento della cattedra di Fisiologia presso l’Università di Parigi. «Sono contento che tu sia stato designato per la Cattedra di Fisiologia a Parigi. Come tu sai dalle mie pubblicazio-
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fatti di cogliere quello della speciazione, ovvero della nascita di una specie che ancora non c’è, di una specie ancora senza nome, di una «specie della non-specie». Vediamo in che modo. «Le razze domestiche – osserva Darwin – hanno spesso un carattere in un certo senso mostruoso»32. Cosa bisogna intendere per mostruoso egli lo chiarisce subito: Intendo dire che, pur essendo l’una diversa dall’altra, e dalle altre specie dello stesso genere, per molti particolari di importanza trascurabile, esse presentano spesso una differenza enorme in qualche parte, se confrontate l’una con l’altra, ma soprattutto nei confronti delle specie naturali a cui sono più affini33.
La mostruosità delle razze domestiche deriva, allora, dal fatto che esse sono selezionate in vista della loro utilità, sono state ‘fabbricate’ in vista di qualche particolare carattere già individuato in qualche razza precedente ma che, selezione dopo selezione, viene caricato a tal punto da produrre una razza del tutto nuova. Una razza, infatti, non è altro che una forma di vita caricaturale. Lo sottolinea Michele Cammelli in un originale saggio incentrato sul concetto di razza fra scienza e allevamento. Gli allevatori, lavorando sul meccanismo stesso della generazione, selezionando e incrociando delle eccezioni (le «variazioni individuali»), fanno qualcosa come caricare genealogicamente un particolare carattere: le razze domestiche […] sono letteralmente delle caricature genealogiche prodotte dall’allevamento34.
Può dirsi lo stesso per le specie selvatiche. Anche le specie, come le razze, sono delle caricature genealogiche, solo che invece che essere prodotte dall’allevamento sono prodotte dalla selezione naturale. Certo, la selezione
32 33 34
ni, io ho spesso considerato le tue ricerche sulla produzione di mostri del più grande interesse. Nessuna questione allo stato attuale mi pare più importante di quella di verificare per mezzo di esperimenti come delle strutture tra loro molto lontane possano essere modificate per mezzo dell’azione diretta di mutate condizioni; tu stai facendo luce su questo problema». Ch. Darwin, More Letters of Charles Darwin. A Record of his Work In a Series of Hitherto Unpublished Letters In Two Volumes Illustrated, ed. by F. Darwin and A. C. Seward, vol. I, John Murray, London 1903, p. 318. Ch. Darwin, L’Origine delle specie, cit., p. 89-90. Ibidem. Michele Cammelli, Darwin e Foucault: la questione della razza, “Filosofia politica”, 3, dicembre 2003, pp. 419-435, in particolare cit. p. 424.
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naturale agisce su tempi così lunghi da mimetizzare le caricature caratteriali potenzialmente riscontrabili in ogni forma vivente35, ma ciò non toglie che queste caricature si diano, prova ne sono le forme ‘mostruose’ o ‘semimostruose’ che talvolta troviamo allo stato selvatico36. Darwin comprende che l’ordine della Natura non è poi così ordinato e lo comprende grazie a ciò che fino ad allora lo sguardo della biologia sistematica aveva accuratamente evitato di vedere: i mostri. I fenomeni teratologici fanno il loro ingresso nel vasto campo di indagine della biologia, che per il fatto di essere diventata evoluzionistica non può più permettersi di concentrare il suo sguardo solo sulle specie ma deve concentrarlo anche sulle loro condizioni di possibilità. La nuova biologia deve dunque porre la sua attenzione non più soltanto sulla forma ma innanzitutto sul de-forme, su ciò che è in-formazione o ancora da formare. «Se tali forme mostruose comparissero allo stato di natura e fossero suscettibili di trasmissione ereditaria […] la loro conservazione dipenderebbe da circostanze insolitamente favorevoli». Il che significa che, sebbene improbabile, non è affatto impossibile che le «forme mostruose» possano, al pari delle variazioni graduali, essere l’elemento sorgivo di una nuova specie. Per Darwin, allora, il mostro diventa un fondamentale strumento di indagine per scrutare laddove la biologia che lo aveva preceduto non ha mai osato porre lo sguardo, e ciò sostanzialmente per mancanza di mezzi. La biologia predarwiniana, in virtù del suo essenzialismo37, è totalmente incapace di pensare qualcosa come una trasmutazione di specie e, men che meno, qualcosa come la nascita di una nuova specie da una non-specie. La biologia predarwiniana, in questo senso, è una biologia sedotta dalla pienezza dell’Essere e, in perfetta coerenza con la tradizione metafisica, ritie35
36 37
Riferendosi ai tempi della selezione naturale Darwin, in uno dei passaggi più conosciuti e mal interpretati de L’Origine, osserva: «[…] silenziosa e impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l’opportunità per perfezionare ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita. Questi lenti cambiamenti noi non li avvertiamo quando sono in atto, ma soltanto quando la mano del tempo ha segnato il lungo volgere delle età, ma così imperfette sono le nostre cognizioni delle remote ere geologiche che ci è soltanto dato di vedere che le forme viventi attuali sono diverse da come erano una volta». Ch. Darwin, L’Origine delle specie, cit., p. 150. Cfr. ivi, p. 114, p. 149, p. 207, p. 368. «Oggi si tende a dimenticare che praticamente tutti, prima di Darwin, erano essenzialisti. Ogni specie aveva una sua propria essenza specie-specifica e, dunque, non esisteva alcuna eventualità che potesse cambiare o evolversi». Ernst Mayr, Storia del pensiero biologico, Diversità, evoluzione, eredità, tr. it. di P. Corsi, Bollati Boringhieri, Torino 1990, p. 349.
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ne aporetico e assurdo concepire la trasmutazione di un essere dal non-essere. Di questo infatti si tratta: senza più la garanzia di un’essenza specie-specifica, di un Tipo, le forme viventi rubricate sotto il termine specie diventano, nella cornice darwiniana, una molteplicità di singolarità e, come se non bastasse, ognuna di esse diventa, nella sua esistenza fattizia, la possibilità di una nuova specie. Ogni individuo diventa la virtualità di una ‘specie incipiente’. Ma pensare un individuo come una ‘specie incipiente’ cos’altro significa se non ammettere la possibilità di una presenza a partire da un’assenza? Una nuova specie si dà, infatti, a partire da un individuo (probabilmente mostruoso), quindi da ciò che non è specie, né tantomeno è di specie, poiché non è più della specie da cui proviene ma non è ancora della specie che sarà. Ecco allora che per Darwin il mostruoso diventa una via d’accesso privilegiata all’alterità. Darwin riabilita il mostruoso per decretare la fine di una metafisica dell’Essere con la E maiuscola, cioè di una metafisica intessuta su di una trama di essenze e insensibile a ogni differenza. La biologia evoluzionistica è un sapere che decreta la fine dei dualismi della Tradizione, dualismi così cogenti da non permettere di cogliere la ricchezza dell’Alterità o, comunque, da permettere di coglierla solo per espellerla e allontanarla da sé, infamandola proprio perché mostruosa. In questo senso Bataille segue Darwin. Entrambi uniti nella costruzione di una teoria dell’essere entro cui non sia più possibile distinguere e contrapporre, come fossero nemiche, regioni ontologiche come quelle dell’Uomo e dell’Animale, così come delle loro metonimie concettuali: l’Essere e il Nulla, il Medesimo e l’Altro, l’Ariano e tutta la schiera dei quasi-uomini.
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LUIGI LAINO
UMANITÀ E DISUMANITÀ DELLA TECNICA: HEIDEGGER E HEISENBERG E, del resto, sapete: sono convinto che noi del sottosuolo bisogna tenerci a freno. Siamo magari capaci di starcene in silenzio nel sottosuolo per quarant’anni, ma se una volta usciamo alla luce, e ci apriamo un passaggio, allora si parla, si parla, si parla... Fëdor M. Dostoevskij
1. Le premesse della domanda sull’uomo Che cosa significa, nell’epoca in cui l’uomo è divenuto di fatto riproducibile tecnicamente, domandare di esso? Domandare dell’uomo voleva dire chiedere chi egli veramente fosse. Tale domanda riceveva una sua assicurazione ultima dal fatto che per quanto il passare dei secoli potesse cambiarlo, pur sempre, come uomo, egli poteva riconoscersi uguale a sé stesso. Precisiamo subito che tale invarianza non è da intendersi da un punto di vista meramente biologico: una determinazione di questo tipo rimarrebbe secondaria rispetto al livello essenziale della riflessione. Tale livello ha a che fare con la duplicità fondamentale dell’essere umano, per cui egli da un lato è sì l’ente biologico proveniente dalla natura, ma, dall’altro, egli è l’uomo che è capace di manipolarla tecnicamente. Rispetto agli altri enti l’uomo occupa quindi una posizione del tutto sui generis su questa terra. Rispondere alla domanda sull’essenza dell’uomo non può quindi prescindere dalla considerazione della duplicità di cui sopra. Questa risposta dovrà inoltre seguire tale duplicità in un ordine per così dire cronologico: è evidente che perché possa essere manipolata tecnicamente, la natura debba prima in qualche modo essere. 2. Sull’irriducibilità della natura alla tecnica Nel modo in cui, nell’ambito del pensiero dei grandi padri della fisica del XX secolo, è posta la domanda sulla natura, forse è ancora possibile rintracciare l’eco dello stupore greco di fronte all’essere delle cose.
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In Das Naturbild der heutigen Physik Heisenberg dice: Nella tecnica atomica, infine, si ha a che fare con lo sfruttamento di forze alle quali manca assolutamente ogni accesso dall’esperienza quotidiana. Anche questa tecnica ci diverrà forse, alla fine, altrettanto familiare quanto lo è, per un uomo moderno, l’elettrotecnica, che non si può più pensare assente dal nostro mondo abituale. Ma anche le cose che ogni giorno ci circondano non divengono per questo parte della natura nel senso originario della parola. Forse i molti apparecchi tecnici finiranno in seguito con l’appartenere all’uomo in modo altrettanto ineliminabile quanto il guscio alla lumaca o la tela al ragno, ma anche in tal caso questi apparecchi sarebbero piuttosto parti dell’organismo umano che non della natura circostante1.
Il passaggio cruciale si trova più o meno al centro della citazione, ove Heisenberg afferma che anche le cose con cui abbiamo a che fare ogni giorno non sono in quanto tali parte della natura. E non lo sono non in un senso qualsiasi, ma nel «senso originario della parola». Da ciò emerge la domanda fondamentale di questo primo paragrafo: che cos’è la natura nel suo «senso originario»? Qui innanzitutto vorremmo subito far notare che il pensiero heisenbergiano si estende oltre i limiti di una semplice riflessione sulla tecnica sperimentale o sulla struttura epistemologica della conoscenza scientifica: ciò che è in questione, letteralmente, è la «cosa»2 [Das Ding]. Si dice che l’esser naturale di una cosa non risiede nell’abitudine, un’abitudine cui mai l’occhio che è veramente capace di vedere potrà mai piegarsi. L’indice della differenza tra il tecnico e ciò che è parte della natura non può essere mai annichilito. La definizione del naturale, tuttavia, così come è approntata dalla scienza, non può prescindere dalla manipolazione tecnica del mondo. Questa tecnicità del naturale si fa del tutto esplicita con la nuova meccanica quantistica; Heisenberg però ne rinviene i caratteri peculiari già nel processo di oggettivazione della natura con cui la scienza moderna inaugura la propria impresa. Per vedere le sue macchie solari, Galileo deve guardare nel cannocchiale, così come in generale, tanto per fare un esempio dello stesso fi1 2
Werner Heisenberg, L’immagine della natura nella fisica moderna, in Natura e fisica moderna, tr. it. di E. Casari, Garzanti, Milano 19852, pp. 45. Che in questione ci fosse la ‘cosa’, Heisenberg lo sapeva da molto prima di Das Naturbild der heutigen Physik. Catherine Chevalley sembra evidenziare questo punto nel saggio Heidegger and the physical science (in Martin Heidegger: Critical Assessments, ed. by Ch. E. Macann, Routledge, New York 1992, vol. 4, pp. 342-364).
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sico tedesco, l’astronomia conquista sempre nuovi e più vasti spazi cosmici col miglioramento dei propri mezzi d’osservazione. Il movimento interno peculiare della scienza è dunque da Heisenberg descritto nei termini di un progressivo superamento dell’esperienza quotidiana; processo, questo, che ha come suo fine ultimo la sostituzione – consapevole o meno – della natura viva con qualcosa di fondamentalmente diverso: Così a poco a poco, il significato della parola «natura» come oggetto di indagine della scienza si trasformò; diventò un concetto che abbracciava tutti quei campi dell’esperienza in cui l’uomo poteva penetrare con l’ausilio della scienza e della tecnica, indipendentemente dal fatto che quei campi gli si presentassero come «natura» nell’esperienza immediata3.
L’accesso al naturale è preparato dalla scienza attraverso la tecnica. Ma se ciò è vero, rispondere alla domanda sul «senso originario» della natura rischia di diventare impossibile. Il naturale è qui occultato dallo scientifico e dal tecnico. D’altra parte scienza e tecnica non sono assolutamente distinte: la tecnica è scienza essa stessa. Questo è ciò che intende Heisenberg quando dice che la tecnica è sia «premessa» che «conseguenza» della scienza. La tecnica non è scienza applicata, così come non è ciò che è assolutamente distinto dalla teoria: da un lato, il progresso scientifico è reso possibile solo dall’ampliamento del bagaglio tecnico-sperimentale; dall’altro, tra i fattori che alimentano questo ampliamento, gioca un ruolo fondamentale la crescita teorica del sapere. Tecnica e scienza procedono a braccetto, così come emergono parallelamente la natura e la tecnica. Esse affondano le proprie radici nel mondo ordinario dell’uomo: della natura fanno ancora parte le conchiglie di Newton, così come la prima tecnica scientifica non è dissimile dal lavoro dell’artigiano. L’evoluzione storica della scienza porta però verso un’altra direzione. L’essenza statistica della teoria quantistica, in cui si rivela l’inconsistenza di una rappresentazione materialistica della natura, sancisce l’impossibilità di una rappresentazione intuitiva di quest’ultima, se con ciò intendiamo l’ideale di una descrizione di qualcosa che sta e si muove nello spazio e nel tempo. Quest’essenza statistica rende inaccessibile la natura tout court. Se si vuole studiare il comportamento di una particella suba3
W. Heisenberg, L’immagine della natura nella fisica moderna, cit., pp. 38-39. Poco prima si legge pure: «Nelle epoche successive, la scienza condusse in vaste proporzioni la sua marcia vittoriosa verso questi campi remoti, dei quali possiamo sapere qualcosa solo indirettamente, attraverso la tecnica, cioè mediante apparecchi più o meno complicati» (ivi, p. 38).
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tomica, il nudo atto dell’osservazione di tale particella modificherà in maniera irreversibile ciò che è osservato, tanto che a rigore non si potrà nemmeno dire che si sta osservando la stessa cosa che si voleva osservare prima dell’esperimento4. Ne consegue che: «Il fisico atomico ha quindi dovuto rassegnarsi a considerare la sua scienza solo come un anello della infinita catena dei contatti dell’uomo con la natura, e ad accettare il fatto che questa sua scienza non può parlare semplicemente della natura “in sé”»5. Sin nelle sue più recondite premesse, è preparato qui quel concetto di «verità scientifica» che rivela il naturale solo tecnicamente e che al contempo lo rende così inaccessibile. Per la definizione della verità scientifica rimane ancora fondamentale quel carattere di stabilità che Platone aveva posto alla base della sua ontologia: un concetto scientifico può essere vero fintantoché i risultati da cui esso consegue o che contribuisce a determinare risultino «definitivi». Solo che questa stabilità non è più pensata come una «stabilità dell’essenza», ma come qualcosa di differente. I problemi della meccanica newtoniana sono risolti una volta per tutte nell’ambito di quelle leggi, ma le soluzioni non le superano, né possono dire qualcosa su fenomeni di natura differente – per esempio sui fenomeni elettrici6. La stabilità di cui è possibile parlare in questo caso è una stabilità puramente logica: La parola «definitivo», nelle scienze esatte, significa dunque, evidentemente, che esistono sistemi di concetti e di leggi in sé chiusi, matematicamente rappresentabili, adatti a certi ben definiti campi d’esperienza, entro i quali hanno validità in qualunque punto dell’universo, senza essere passibili di mutamenti o di correzioni di sorta; d’altra parte, questa parola significa anche che non ci si può attendere che tali concetti e tali leggi siano in seguito adatti a rappresentare nuovi campi d’esperienza7.
Non è nemmeno tanto importante sottolineare quanto poco il carattere vincente di certe leggi o di certi concetti legittimi il tentativo di applicarli ad ambiti dell’esperienza ad essi estranei, quanto piuttosto rilevare il contrasto che si instaura tra la costituzione dello spazio logico della verità e ciò che questa verità dovrebbe dire. Si dice, per un verso, che la definitività dei concetti pertiene esclusivamente a certi ambiti dell’esperienza e, tuttavia, 4 5 6 7
Ivi, p. 42. Ivi, pp. 42-43. Cfr. Id., Il concetto di «teoria chiusa» nella scienza moderna, in Oltre le frontiere della scienza, tr. it. di S. Buzzoni, Editori Riuniti, Roma 1984, pp. 53-58. Id., L’immagine della natura nella fisica moderna, cit., p. 53.
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si dice pure che, una volta collaudato, lo spazio logico può comunque essere applicato «dovunque nell’universo». Le leggi sono in linea di principio valide in tutto il cosmo, ma soltanto per un certo aspetto del naturale: se noi cioè lo intendiamo una volta come il naturale della meccanica newtoniana e poi come il naturale della teoria dell’elettricità. Non ha importanza dove effettivamente si svolga il processo fisico, poiché la verità riposa nella definizione dello spazio logico e non in quello dell’accadere reale del fenomeno. Ed è esattamente in questo luogo che si consuma la cancellazione del naturale8: il naturale non esiste se non alla luce dello spazio logico che lo dischiude. Questo stato di cose è la traduzione diretta del modo in cui la meccanica quantistica definisce il suo oggetto9, una definizione che include in sé a pieno titolo le decisive perturbazioni dei processi di misurazione sui fenomeni stessi e che si pone come l’esito definitivo del processo di matematizzazione della natura; uno stato di cose che non può che portare al riconoscimento che «l’immagine scientifica dell’universo cessa quindi di essere una vera e propria immagine della natura»10. Ciò nonostante, Heisenberg riesce comunque a riconoscere la natura11. La tecnica che, inizialmente, come la scienza, si radica e sorge sull’esperienza quotidiana dell’uomo, si trasforma nella seconda metà del XIX secolo con lo sviluppo dell’elettrotecnica. Il legame che ancora sussisteva con il lavoro dell’artigiano è completamente perduto. Qui si ha a che fare piuttosto con lo «sfruttamento di forze della natura che all’uomo erano quasi sconosciute nella sua esperienza immediata della natura»12. L’avere a che fare con queste forze provoca un vero e proprio straniamento, tanto che 8
9 10 11
12
«I più piccoli elementi della materia non possono più essere oggetti intuibili [anschauliche Gegenstände] come un pezzo di metallo o un raggio di luce» (Id., Wissenschaft und technischer Fortschritt, in Gesammelte Werke, Abt. C, Bd. I, Physik und Erkenntnis 1927-1955, hrsg. von W. Blum, H.-P. Dürr und H. Rechenberg, Piper, München-Zürich 1984, p. 93. Cfr. C. Chevalley, Heidegger and the physical sciences, cit., pp. 355 e sgg. W. Heisenberg, L’immagine della natura nella fisica moderna, cit., p. 55. Altrove, Heisenberg dice: «Credo che qui si tratti grossomodo di due differenti concetti di unità […]. In primo luogo, c’è questo sforzo di raggiungere una comprensione unitaria del mondo, come essa venne formulata da Platone, il quale tentò poi di ricondurre in qualche modo la legalità della natura a semplici simmetrie matematiche […]. Ma c’è inoltre anche un altro concetto di unità, che si può formulare così: l’unità dell’esperienza, del mondo vissuto, in contrapposizione al mondo costruito soltanto matematicamente» (Eckhart Heimendahl, Gespräch mit Nobelpreisträger Professor Dr. Werner Heisenberg, gesendet von Radio Bremen am 7. Januar 1964, in W. Heisenberg, Gesammelte Werke, Abt. C, Bd. V, Wissenschaft und Politik, hrsg. von W. Blum, H. P. Dürr und H. Rechenberg, Piper, München-Zürich 1989, p. 473). W. Heisenberg, L’immagine della natura nella fisica moderna, cit., p. 44.
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«il guardare all’interno di un complicato apparecchio elettrico ci risulta talvolta altrettanto sgradevole quanto l’assistere ad un intervento chirurgico»13. Le forze della natura a cui si ha accesso attraverso la tecnica, sono forze che naturalmente non si presenterebbero da sé: esse sono provocate dall’intervento dell’uomo. Il «senso originario» del naturale sta nello straniamento che suscita la visione di ciò che è invece tecnico. La differenza tra il naturale ed il tecnico invocata da Heisenberg suona allora più o meno così: è l’evidenza del suo essere naturale a caratterizzare il naturale, così come è l’evidenza del suo non essere naturale a costituire il tecnico. Il tipo di spiegazione qui invocato da Heisenberg non è nuovo. Esso non va molto lontano da ciò che Heidegger in Vom Wesen und Begriff der Physis, commentando la Fisica di Aristotele, argomenta sulla traduzione del termine epagoghé con «immediata induzione» [unmittelbare Hinführung]: Fin da principio dobbiamo aver ben chiaro davanti (come cosa assodata) che l’ente che proviene dalla physis, o tutto o una parte, è qualcosa di mosso [Bewegtes] (cioè di determinato dalla motilità [Bewegtheit]) / ciò che non è in quiete /; ma ciò è manifesto per immediata in-duzione (che con-duce a questo ente, e, al di là di questo ente, in vista [weg] del suo essere)14.
Questa «immediata in-duzione» è ciò che custodisce la manifestazione del fatto che l’ente si presenta come da sempre in divenire – ente che deve il suo essere al suo trovarsi da sempre nella mobilità, e che tanto è in quanto si muove. Essa è qualcosa di indimostrabile logicamente: Epagoghé non significa passare in rassegna singoli fatti e serie di fatti per riconoscervi delle proprietà simili da cui inferire qualcosa di comune e di «universale». Epagoghé significa condurre [Hinfühurng] a quel che sorge alla nostra vista se innanzitutto volgiamo via lo sguardo dal singolo ente per oltrepassarlo – e verso dove? Verso l’essere15.
L’epagoghé è tanto indimostrabile logicamente, quanto è «ridicolo» voler dimostrare che esista qualcosa come la physis. Seguendo ancora la definizione aristotelica dell’ente fisico come quell’ente che ha in sé il 13 14 15
Ibidem. Martin Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della physis. Aristotele, Fisica, B 1, in Segnavia, tr. it. di F. Volpi Adelphi, Milano 19943, pp. 193-255. La citazione, lievemente modificata, è a p. 197. Ivi, p. 198.
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principio del proprio movimento, Heidegger, raccogliendo il filo che legava la physis all’ousía, e che l’avrebbe condotto al significato fondamentale della physis stessa – la concezione della physis come «modo dell’essere e non come un ente»16 –, esplicita che l’epagoghé è l’assicurazione del naturale nel naturale, ossia di come sia «la physis nei physei onta». In poche parole, nell’epagoghé riposa la naturalità dell’ente fisico o, più in generale, l’entità di un qualsiasi ente, e vi riposa in quanto essa è l’atto che custodisce l’essere di un ente al di là di quello che esso è come questo ente; dice Heidegger: «Per esempio, solo se abbiamo già in vista l’arboreità, possiamo constatare i singoli alberi»17. Ed è in questo senso che voler fornire una dimostrazione della physis è «ridicolo». Ogni procedimento di questo tipo presupporrebbe ciò che intende trovare alla fine; è sin dall’inizio che la physis è chiamata in causa, poiché l’ente che da essa proviene «sta nell’aperto», e perché laddove questo ente si trova già nell’aperto, e cioè laddove noi già da sempre lo vediamo, la physis «si è già mostrata e sta [steht] nello sguardo»18: Che la physis è, volerlo dimostrare è ridicolo; infatti questo (l’essere come physis) si mostra da sé, perché / non «che» / l’ente di tal genere è presente in molti modi [vielfach] tra gli enti. Ma il fornire delle prove di ciò che si mostra da sé, (e addirittura) il volerlo dimostrare attraverso qualcosa che ricusa l’apparire [Erscheinen], questo è l’atteggiamento di un uomo incapace di distinguere tra ciò che è per sé familiare a ogni conoscenza e ciò che non lo è19.
Come anticipato, il tipo di spiegazione sulla quale Heisenberg fonda la sua distinzione tra il naturale ed il tecnico non va affatto lontano da questa interpretazione heideggeriana della epagoghé di Aristotele. Ciò che proviene dalla natura è naturale, e lo è in una misura talmente evidente che non richiede di essere fondato logicamente. Semplicemente, al negativo, se guardiamo all’interno di un complicato apparecchio elettronico, ne riconosciamo subito la non naturalità; così come, in positivo, data l’evidenza che mai una macchina potrà diventare una parte della natura20, 16 17 18 19 20
Ivi, p. 235. Si veda inoltre Id., I concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, a cura di C. Angelino, tr. it. di P. Coriando, il melangolo, Genova 1999, § 8, pp. 37-46. Id., Sull’essenza e sul concetto della physis, cit., pp. 199-199. Ivi, p. 217 (traduzione lievemente modificata). Ivi, p. 216. Un fatto, questo, il recupero della differenza tra l’ente naturale e quello tecnico, che rappresenta un’assoluta inversione di tendenza rispetto alla storia della scienza, che nella sua fase inaugurale formula una vera e propria omologia non solo tra la matema-
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siamo già da sempre in possesso della capacità di riconoscere l’ente naturale21.
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tica e la natura, ma anche tra la natura e la tecnica (cfr. Paolo Rossi, I filosofi e le macchine 1400-1700, Feltrinelli, Milano 2002, in part. p. 21 e p. 147; e Nicola Russo, Il contributo della teoria delle macchine alle scienze della natura e dell’uomo, in Polymechanos Anthropos. La natura, l’uomo, le macchine, Guida, Napoli 2008, pp. 85-111). Questa distinzione tra il naturale ed il tecnico corrisponde a quella tra i physei onta e i téchnai onta (su questa distinzione si vedano, di Heidegger, pure I concetti fondamentali della metafisica. Mondo – finitezza – solitudine, cit., pp. 44 sgg. e, in aggiunta: Otto Pöggeler, Die Kontroverse Heidegger-Heisenberg, in Schritte zu einer hermeneutischen Philosophie, Verlag Karl Alber, Freiburg/München 1994, pp. 276-303; e Trish Glazebrook, From Physis to Nature, Téchne to Technology: Heidegger on Aristotle, Galileo, and Newton, “The Southern Journal of Philosophy”, 38, 1, 2000, pp. 95-118). I primi Heidegger li chiama «i cresciuti da sé» [Gewächse]; i secondi invece «gli artefatti» [Gemächte] (cfr. M. Heidegger, Sull’essenza e sul concetto della physis, cit., p. 205). La naturalità dell’ente fisico e la tecnicità dell’artefatto dipendono dal rapporto di questi enti con le rispettive arché. Nell’un caso, l’arché è nell’ente stesso; nell’altro, l’arché non è invece presso l’ente, bensì nell’architékton che «dispone della téchne come arché» (ivi, p. 206). L’elemento che fa la differenza è che l’arché dell’ente tecnico è soltanto qualcosa che è «convenuto» [dazu gekommen] nel determinarlo come ente. D’altra parte, affinché questa differenziazione tra l’ente naturale e l’ente tecnico sia realmente fondata, bisogna fare capo al concetto di génesis: «Inoltre, infatti, un uomo nasce da un uomo, ma non una lettiera da una lettiera» (ivi, p. 242). Il fatto che da un uomo nasca un uomo non può essere spiegato in base alla riproduzione di un paradigma e al progetto di un architékton, ma deve trovare una chiarificazione in relazione invece ad un processo che trova da sé lo scandirsi del suo movimento e la sua sussistenza («Ciò che si produce da sé [das Sich-selbst-Herstellende] nel senso della presentazione [Gestellung] non ha bisogno prima di una fattura [Mache]; qualora ne avesse bisogno, allora questo significherebbe che un animale non potrebbe riprodursi senza dominare la sua propria zoologia», ivi, p. 244; Glazebrook scrive: «La “quiete dell’essere-stato-prodotto” è invece qui cruciale nella distinzione tra physis e téchne […]. Quando la produzione raggiunge il suo fine, essa cessa. Il falegname, per esempio, smette di costruire quando la casa è in atto. Non così la physis. Una quercia, per esempio, non smette di crescere una volta che essa è realmente una quercia. La téchne ha un chiaro punto d’arrivo che non si trova nella physis», cfr. T. Glazebrook, From Physis to Nature, Téchne to Technology, cit., p. 104). Parimenti, per quanto riguarda Heisenberg, è chiaro che l’ente tecnico si definisce anche qui in relazione al progetto consapevole che lo sottende: l’ente tecnico è innanzitutto ciò che lo scienziato appronta per riprodurre il movimento della natura (cfr. W. Heisenberg, La tradizione nella scienza, tr. it. di R. Pizzi rivista da B. Vitale, Garzanti, Milano 1982, pp. 21 e sgg.). Per la definizione dell’ente naturale manca invece in realtà una determinazione di ciò che il naturale è in quanto tale rispetto a sé stesso. Certo, questo non significa contraddire quanto finora detto circa il carattere indimostrabile di una affermazione del tipo: c’è qualcosa come una natura, e noi non possiamo dimostrarlo, per il sem-
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3. L’uomo e la tecnica In questo terzo paragrafo, desideriamo mettere subito in gioco i concetti fondamentali. Nel loro complesso, tali concetti formano le posizioni dei due autori di cui qui si discute circa la questione della tecnica. Recisamente, queste due posizioni possono essere riassunte come segue: per Heisenberg, la questione della tecnica è una questione eminentemente umana; per Heidegger, invece, essa tutto può essere fuorché umana22. Va qui però fornito un chiarimento preliminare.
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plice fatto che da sempre qualcosa di naturale ce lo abbiamo in vista; significa piuttosto rilevare che in Heisenberg manca completamente il passo necessario successivo a questo riconoscimento. È anche vero però che tale stato di cose è la diretta conseguenza del modo in cui la meccanica quantistica e, più tardi, la teoria delle particelle elementari interpretano la natura: in queste due teorie emerge in maniera lampante ciò che la scienza moderna aveva preparato già in Galileo e Newton, ossia che la creazione di un qualcosa come l’oggetto scientifico cancella l’ente naturale dalle possibilità del lógos scientifico (Heisenberg arriva a dire: «Sin da Platone, ritenere la verità matematica quella che noi realmente comprendiamo come la verità si è rivelato un luogo comune a scienziati e filosofi. Ma […] la verità matematica non accade mai nella nostra relazione con il mondo reale», Doppeldialog mit Werner Heisenberg, in Gesammelte Werke, Abt. C, Bd. III, Physik und Erkenntnis 1969-1976, hrsg. von W. Blum, H. P. Dürr und H. Rechenberg, Piper, München-Zürich 1985, p. 484). Non deve allora suonare così strano che la scienza rinunci a parlare degli enti naturali così come essi sono in sé. E tuttavia, ancora, con ciò si precipita di nuovo in una situazione paradossale: da un lato, abbiamo la natura che si mostra per epagoghé; d’altra parte, questa epagoghé non riposa in ultima analisi su di un manifestarsi autonomo del naturale – poiché la natura non può essere detta –, ma sull’uomo, che immediatamente riconosce questa manifestazione attraverso lo straniamento derivante dalla visione dell’innaturalità del tecnico. Qui l’evidente naturalità del naturale è del tutto umana, e la domanda quindi sul suo significato originario riceve in realtà solo parzialmente una risposta. Rispetto a questa posizione di fondo, e in relazione al fine principale di questo lavoro, si è perciò preferito non seguire la strada ben determinata della questione dell’antropologia vera e propria in Heidegger. Ad ogni modo, sull’insufficienza dell’antropologia nel determinare l’essenza dell’umano, si veda innanzitutto L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 71-101, in part. agg. 10: «L’antropologia è quell’analisi dell’uomo che, in fondo, già sa ciò che l’uomo è, e quindi non può porsi il problema di che cosa esso sia. Se si ponesse questo problema, essa dovrebbe infatti riconoscersi rovesciata e oltrepassata. Ma come si potrà esigere questo dall’antropologia, quando essa non si propone altro che l’assicurazione dell’autocertezza del subjectum?» (p. 98). Si faccia riferimento inoltre ai seguenti luoghi: a) l’intr. di Essere e tempo, a cura di F. Volpi sulla versione di P. Chiodi, Longane-
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Sempre in Das Naturbild der heutigen Physik, Heisenberg riconosce alla tecnica lo statuto di «processo biologico» [biologischer Vorgang]. Certo, si tratta di una specie di metafora, ma comunque essa è indicativa del modo in cui egli pensa la tecnica che più gli è vicina dal punto di vista storico. Se, in generale, la tecnica è legata all’estensione della «potenza materiale» – e «tale scopo è posto in dubbio tanto poco quanto lo è, nella scienza, quello della conoscenza della natura»23 –, dal punto di vista determinato del suo intero «sviluppo» si assiste ad una significativa divergenza del nesso tecnica-potere. La tecnica, piuttosto, «in grande», appare appunto come un «processo biologico», ossia qualcosa di incontrollabile e di indeterminabile a partire da uno scopo umano. La tecnica perciò diventa qualcosa di naturale: Quantunque si possa, per ogni singolo procedimento tecnico, mostrarne la subordinazione al fine comune, è tuttavia caratteristico dell’intero sviluppo storico il fatto che il singolo procedimento tecnico sia legato spesso al fine comune solo così indirettamente da poter ormai ben difficilmente venire considerato come parte di un piano consapevole per il raggiungimento di quello. In questi casi la tecnica non appare quasi più come il prodotto di un consapevole sforzo umano diretto alla estensione della potenza materiale, ma, piuttosto, come un processo biologico in grande, in cui le strutture dell’organismo umano vengono trasferite in misura sempre crescente nell’ambiente; un processo biologico quindi che, proprio come tale, è sottratto al controllo umano; ché, infatti, «l’uomo può sì fare ciò che vuole, ma non può volere ciò che vuole»24.
Se tuttavia ciò è vero, la tecnica diventa anche quanto ciò di più umano è possibile. L’uomo agisce tecnicamente quanto naturalmente respira mangia o dorme. Il movimento che quindi si realizza nella e con la tecnica è duplice: da un lato, essa emerge come l’attributo umano per eccellenza, poiché è il vettore che informa la possibilità del mondo per l’uomo; dall’altro, è essa stessa questo mondo, poiché la natura è ormai qualcosa che si rivela tecnicamente. In sostanza, la tecnica finisce per rappresentare sia la naturalità del naturale, in quanto è essa a rivelare all’uomo il mondo esterno, sia la naturalità dell’umano, poiché è sì vero che la tecnica trasferisce le strutture umane nel mondo esterno senza crearle dal nulla, ma è sottolineato con vigore che questo passaggio avviene con la naturalezza di un «processo bio-
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si, Milano 2005, § 5, pp. 28-33; b) e la quarta sezione di Kant e il problema della metafisica, tr. it. di M. E. Reina, Laterza, Roma-Bari 20044, § 37, pp. 180-185. W. Heisenberg, L’immagine della natura nella fisica moderna, cit., p. 46. Ibidem.
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logico». Heisenberg riassume questa ambiguità in una formulazione caratteristica che Heidegger criticherà in Die Frage nach der Technik: «Per la prima volta nel corso della storia l’uomo ha di fronte a sé solo se stesso»25. Prima di passare ad analizzare la critica di Heidegger in modo circostanziato, cerchiamo di precisare ancora meglio la posizione heisenbergiana. In che senso, infatti, l’uomo ha per la prima volta nella storia di fronte soltanto sé stesso? Anche la risposta a questa domanda non è univoca. In primo luogo, l’uomo incontra soltanto sé stesso perché il «pericolo» che viene dal mondo esterno non è più rappresentato dalle malattie, dalle calamità naturali o dagli altri esseri viventi che popolano la natura; il pericolo, per l’uomo, nell’epoca della tecnica, è l’uomo stesso con la sua volontà di dominio. In secondo luogo, ed in un senso più «ampio», l’uomo ha di fronte soltanto sé stesso in ragione dell’oblio della differenza tra il naturale ed il tecnico: L’affermazione che l’uomo non abbia ormai di fronte a sé altri che se stesso ha però valore, nell’età della tecnica, anche in un senso molto più ampio. In epoche precedenti l’uomo si vedeva contrapposto alla natura; la natura, abitata da esseri viventi di ogni specie, era un regno che viveva secondo leggi proprie e in cui egli doveva, in qualche modo, inserirsi con la sua vita. Nel nostro tempo, invece, noi viviamo in un mondo talmente trasformato dall’uomo da imbatterci sempre e dovunque in strutture prodotte da lui, sia che maneggiamo utensili della vita quotidiana, sia che ci nutriamo di un qualche cibo preparato a macchina, o che attraversiamo un paesaggio trasformato dall’uomo, di modo che, in certo senso, noi continuiamo ad incontrare sempre e solo noi stessi. Indubbiamente esistono parti della terra dove questo processo è ancora ben lontano dall’essere giunto a conclusione, ma, prima o poi, la signoria dell’uomo a questo riguardo dovrebbe essere completa26.
L’uomo incontra soltanto sé stesso perché è l’intera totalità del naturale che è stata trasformata in qualcosa d’altro; dovunque l’uomo posi lo sguardo, guarda qualcosa che è già stato ampiamente modificato dalla sua manipolazione tecnica del mondo. Heidegger, in Die Frage nach der Technik, cita esplicitamente Heisenberg a questo riguardo, e dice: «Tuttavia, in verità, l’uomo oggi non incontra più da nessuna parte sé stesso, e perciò non incontra più la sua essenza»27. Che cosa vuol dire che l’uomo non incontra più sé stesso e che «perciò non incontra più la sua essenza»? 25 26 27
Ivi, p. 49. Ivi, pp. 412-413. M. Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976, pp. 5-27. La citazione è a p. 21.
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Per rispondere a questo interrogativo è necessario fare di nuovo qualche passo indietro. Heidegger sottolinea che la téchne non è innanzitutto il nome che sta per «il fare [Tun] ed il potere artigianali», e che quindi non designa qualcosa che appartiene esclusivamente alla prassi. Tutt’altro: la tecnica chiamava a sé anticamente sia l’«arte superiore» sia «le belle arti», e più in generale il modo della poiesis; ma, soprattutto, essa andava sempre accoppiata all’epistéme. Sia la téchne che l’epistéme sono un sapere, e più precisamente «entrambe sono termini che indicano il conoscere nel senso più ampio»28, e significano inoltre «il saperne di qualche cosa [das Sichauskennen in etwas]» e «l’intendersene [das Sichverstehen auf etwas]»29. La differenza tra téchne ed epistéme non è dunque la mera distinzione che potrebbe passare tra pratica e teoria. Entrambe si rapportano alla verità nel senso dell’alétheia, del «disvelamento» [das Entbergen], e la loro differenza risiede soltanto nel «cosa» e nel «modo» in cui «disvelano». Rispetto alla physis, la téchne «disvela ciò che non si pro-duce [her-vor-bringen] da se stesso e che ancora non sta davanti a noi, e che perciò può apparire e ri-uscire [ausfallen] ora in un modo ora in un altro»30. Alla tecnica non pertiene perciò il semplice operare, ma qualcosa di più essenziale: tutti quegli enti che non vengono all’essere da sé e che non ci stanno già da sempre innanzi nella loro evidenza. Enti che per essere tali abbisognano del progetto dell’architékton di cui Heidegger parlava nel saggio del 1939 su Aristotele (supra, nota n. 21), ossia di un «paradigma» sul quale venire a formarsi. Questa distinzione è davvero cruciale, perché anche la physis è poiesis, ma la differenza sta nel fatto che l’impulso iniziale del venire all’essere è per gli enti fisici connaturato ad essi: un fiore, per esempio, ha in sé stesso il principio della propria fioritura31. La tecnica moderna non è tuttavia più téchne. Essa è, come vuole Heisenberg, essenzialmente «premessa» e «conseguenza» della scienza: Si dice che la tecnica moderna sia incomparabilmente diversa da ogni altra precedente perché si fonda sulle moderne scienze esatte. Intanto, però, ci si è resi conto più chiaramente che è vero anche l’opposto, e cioè che la fisica moderna, in quanto sperimentale, dipende a sua volta da apparecchiature tecniche e dal progresso nella costruzione di tali apparecchi32.
28 29 30 31 32
Ivi, p. 10. Ibidem. Ibidem. Cfr. ivi, p. 9. Ivi, p. 10.
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Questa rimane però ancora un’annotazione marginale. La tecnica moderna non è téchne perché a monte in essa si rivela un altro tipo di «disvelamento», che Heidegger chiama «provocare» [Herausfordern]. Il mulino a vento, difatti, pur scoprendo la forza occulta del vento, tuttavia non ne mette a disposizione l’«accumulazione» [Speichern], né, v’è da aggiungere, scopre qualcosa di inusitato nella natura. Diverso è invece il caso della centrale idroelettrica installata sul fiume Reno. In questo caso, il Reno smette di essere un fiume e diventa «produttore di forza idrica»: il suo essere un fiume è allacciato e subordinato inevitabilmente all’essere della centrale. Heidegger qui conviene con Heisenberg: ciò che attraverso la tecnica moderna si rivela della natura, è innanzitutto una «energia nascosta» [verborgene Energie]; un’energia che scoperta viene «trasformata», «immagazzinata», «ripartita», e così «commutata»33. Questo stato di cose, dichiara Heidegger, configura l’essere dell’ente come «fondo» [Bestand], ossia come un qualcosa che è definito essenzialmente in base alla possibilità del suo «impiego» [Bestellung]. D’altra parte, però, la tecnica non gioca il ruolo che gioca in Heisenberg: essa difatti non è il vettore biologico che trasferisce le strutture umane nell’ambiente circostante. Il movimento sotteso alla tecnica è per Heidegger invertito: essa è un modo del «disvelamento»34. Certo, chi compie il «richiedere provocante» [das herausfordernde Stellen] è «evidentemente l’uomo», ma sul fatto che si dia una «disvelatezza» [Unverborgenheit] entro la quale accada qualcosa come il «reale» [das Wirkliche] l’uomo non ha alcun potere. In questo punto ha trovato un primo chiarimento anche il titolo del saggio; è infatti in questo senso che la questione della tecnica è in Heidegger disumana e in Heisenberg umana. Non bisogna tuttavia fermarsi all’apparente evidenza di una formula. In Heidegger, la disumanità della tecnica scopre un compito più originario dell’uomo, ed una sua caratterizzazione che è preliminare alla tecnica stessa. L’uomo non diventa mai un «semplice fondo»; egli, come uomo, sta prima del modo del disvelamento cui appartiene la tecnica, ed è in un certo senso indisponibile ad essa. Paradossalmente, dunque, la disumanità della tecnica rivela un’irriducibile umanità dell’umano. Altrettanto stranamente, è l’umanità della tecnica heisenbergiana a mettere maggiormente a rischio questo 33 34
Cfr. ivi, p. 12. Per Heidegger, anzi, la formula heisenbergiana sarebbe rimasta sempre «una metafora ingannevole» (cfr. Carl F. von Weizsäcker, Heisenberg und Heidegger über das Schöne und die Kunst, in Wahrnehmung der Neuzeit, Carl Hanser Verlag, München-Wien 1983, p. 168).
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umano. Se si pone di nuovo mente alla citazione con la quale abbiamo aperto il secondo paragrafo, ciò apparirà evidente: forzandone un po’ i limiti e dispiegando ciò che lì rimaneva in parte implicito, si può dire che dal punto di vista di Heisenberg sarebbe molto più pacifico ammettere una tecnicizzazione dell’umano piuttosto che una reale tecnicizzazione della natura. Laddove allora si guadagna una definizione più o meno esauriente e definitiva del naturale, nonché l’indice della sua differenza dall’ente tecnico, pure si deve cedere però nientemeno che l’uomo stesso alla tecnica. Questo primo punto di approdo del lavoro può anche essere esposto così: in Heisenberg, la questione della tecnica ha una fondazione ultima che è di tipo antropologico; in Heidegger, la questione della tecnica è e rimarrà sempre una questione ontologica. In Heisenberg e Heidegger il «pericolo» che è legato alla tecnica non può quindi essere pensato allo stesso modo: per il primo, esso è in primo luogo un problema relativo all’estensione della potenza materiale dell’uomo che, nell’epoca della tecnica, sembra non essere più delimitabile con chiarezza; per il secondo, il pericolo essenziale della tecnica riguarda la «minaccia» cui va incontro il rapporto tra l’uomo e la verità, ed in particolare l’occultamento della possibilità, per l’uomo, di avere un rapporto col «disvelamento» che vada al di là dei termini dell’«impiegare» e di quello che lo stesso Heidegger chiama «im-posizione» [Ge-stell]35. Questa differenza incide poi, almeno in prima battuta, anche sul modo in cui è pensata la soluzione al problema della tecnica. Nei suoi termini antropologici, tale soluzione non può che apparire come un richiamo alla responsabilità e al senso della misura umani: «Comunque la consapevolezza che la speranza nel progresso incontra un limite, include già il desiderio di non vagare in circolo, ma di raggiungere una meta. L’esatta nozione di questo limite lo trasforma, per così dire, nella prima tappa, raggiunta la quale possiamo orientarci di nuovo»36. E, in fin dei conti, anche il richiamo ad un «centro comune» [gemeinsame Mitte] come catalizzatore di questo riorientamento non fa saltare fuori la questione dai termini antropologici in cui essa è posta. La nozione «di centro comune» non travalica l’uomo come suo orizzonte fondamentale:
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«Così, dunque, l’im-posizione pro-vocante non si limita a nascondere un modo precedente del disvelamento, cioè la pro-duzione [das Her-vor-bringen], ma nasconde il disvelare come tale e con esso ciò in cui la disvelatezza, cioè la verità, accade» (M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 21). Su questo punto si veda Eugenio Mazzarella, Tecnica e metafisica. Saggio su Heidegger, Guida, Napoli 20022, pp. 277 sgg. W. Heisenberg, L’immagine della natura nella fisica moderna, cit., p. 56.
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Dunque dal confronto con la scienza moderna si può forse attingere la speranza che si tratti di un limite imposto a certe determinate forme di sviluppo del potere umano, ma non di un limite di questo potere in generale. Lo spazio in cui l’uomo, come essere spirituale, si sviluppa, ha altre dimensioni oltre a quell’unica, in cui egli si è espanso negli ultimi secoli37.
Tuttavia, non appena si indica il luogo entro cui questo «centro comune» vada ricercato, si assiste ad un mutamento della situazione. In Das Naturbild der heutigen Physik, di tale luogo si parla solo incidentalmente, ma il sentiero che conduce all’arte è esattamente il sentiero che imboccherà anche Heidegger; un cammino che è segnato ed aperto dalla «meditazione» [Besinnung], la quale, pur essendo una «meditazione umana», si rivolge a qualcosa che non dipende in prima istanza da una decisione dell’uomo38. 4. L’arte, la tecnica e l’uomo Che cos’è, in Heidegger, la «meditazione»? Secondo una stringata definizione di Wissenschaft und Besinnung, la meditazione è «l’abbandono [Gelassenheit] a ciò che è degno di essere domandato»39. In questa definizione va chiarita quantomeno l’espressione «ciò che è degno di essere domandato». La dignità è qui data dall’oggetto stesso cui si rivolge la meditazione: «Ciò che è degno di essere domandato» viene definito da Heidegger l’«inaggirabile» [das Unumgängliche]40. Nell’ambito della fisica, l’«inaggirabile» è rappresentato dalla natura stessa. Il modo scientifico impone a questa natura di presentarsi come un insieme calcolabile di forze, ma ciò non esaurisce l’intero suo essere: 37 38
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Ibidem. «Ciò che costituisce l’essere della tecnica minaccia il disvelamento, fa sovrastare la possibilità che ogni disvelamento si risolva [aufgehen] nell’impiegare e che tutto si presenti solo nella disvelatezza del “fondo”. L’attività dell’uomo non può mai immediatamente ovviare a questo pericolo. Nessun atto dell’uomo può mai, da solo, scongiurare il pericolo. Tuttavia, la meditazione dell’uomo può considerare che tutto ciò che salva non può che avere un’essenza superiore, ma anche affine, a ciò che è messo in pericolo» (M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 26) Id., Scienza e meditazione, in Saggi e discorsi, cit., pp. 28-44. La citazione è a p. 43. Su tale concetto si vedano: O. Pöggeler, Die Kontroverse Heidegger-Heisenberg, cit., p. 279; e Paul-Antoine Miquel, Heidegger et la physique, “Noesis”, n. 9, 2006, pp. 111 sgg.
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La teoria accerta e fissa il reale, nel caso della fisica la natura inanimata, in un determinato campo di oggetti. Tuttavia, la natura è presente [wesen] già sempre di per se stessa. L’oggettivazione, dal canto suo, resta dipendente unicamente dalla natura presente […] La teoria non «passa» mai «oltre» la natura già presente e in questo senso non «aggira» mai la natura. La fisica può bensì rappresentare la più generale e comprensiva legalità della natura in base all’identità di materia e energia; questa natura rappresentata dalla fisica [physikalisch Vorgestellte] è certamente la natura stessa, e tuttavia essa è innegabilmente solo la natura come campo di oggetti, la cui oggettità [Gegenständigkeit] si determina solo in forza del lavoro della fisica e viene prodotta soltanto in questo lavoro. La natura, nella sua oggettità per la scienza moderna, è solo uno dei modi in cui ciò che è presente, e che da sempre viene chiamato physis, si manifesta e si offre all’elaborazione scientifica. Anche se il campo di oggetti della fisica è in se stesso unitario e conchiuso, questa oggettità non può mai abbracciare tutta la pienezza dell’essere della natura. […] La natura rimane così, per la scienza fisica, l’inaggirabile [das Unumgängliche]41.
Tale citazione può essere usata nell’inferire cosa vi è davvero di indispensabile nella meditazione. L’idea di Heidegger è che vi sia qualcosa che rimane nascosto rispetto al modo in cui una scienza definisce la propria regione oggettuale, un qualcosa che scandisce il ritmo stesso in cui avviene la formazione di questa regione. Il modo in cui una scienza fa dell’ente un suo oggetto non vale di per sé come una interpretazione dell’ente stesso, e questo anche nel caso in cui ci si riferisca, in senso stretto, all’ente che è già il correlato di una singola disciplina. Si potrebbe anche dire che la dichiarata «inaccessibilità» di ciò che si muove dietro la determinazione della regione oggettuale delle scienze non intende salvaguardare altro che ciò che proprio l’epoca della tecnica minaccia più d’ogni altra cosa, ossia quel «disvelamento» in cui accade la verità. Si vuole salvare la possibilità fondamentale di poter dire l’ente in molti modi, ed invero meglio la sua manifestatività42; e la meditazione è esattamente quello spazio umano che custodisce questa possibilità. 41 42
Ivi, pp. 37-38. Qui il pensiero corre innanzitutto al Nachwort di M. Heidegger, La cosa, in Saggi e discorsi, cit., pp. 109-125, ove si legge per esempio: «Certo Lei non intenderà qui “essere” come un oggetto e il pensiero la pura e semplice attività di un soggetto. Pensare […] non è la pura rappresentazione di una semplice-presenza. “Essere” non è affatto identico alla realtà o a un reale constatato sul momento. L’essere non è neppure qualcosa che si contrapponga al non-essere-più o al nonessere-ancora; anche questi appartengono all’essenza dell’essere. […] Nel pensiero dell’essere non accade mai che ci si limiti a rap-presentare un reale e a dare questa rappresentazione come il vero. Pensare l’“essere” significa rispondere
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Ritornando alla conclusione del saggio sulla tecnica, osserviamo immediatamente il passaggio ulteriore indicato da Heidegger rispetto alla «meditazione»: il ritorno al significato originario della téchne, per cui téchne è innanzitutto qualcosa che sta per l’«arte»43. In linea genealogica, téchne era il nome che deteneva la specificità dell’arte nel modo della poiesis, e che nella Grecia antica portò alla luce «la presenza degli dèi» e il «comunicare del destino divino e di quello umano». Lì «l’arte si chiamava solo téchne» ed «era un unico, molteplice disvelamento» posto al servizio della verità44. L’arte, sotto questo punto di vista, non è di certo una categoria dell’estetica. L’arte è il modo in cui risplende la verità, ed in ultimo nel senso più alto nella poesia, dove «il poetico [das Dichterische] porta il vero nello splendore di ciò che Platone, nel Fedro, chiama tó ekphanéstaton, ciò che risplende nel modo più puro»45. Ebbene, le argomentazioni heisenbergiane, nel profondo, anche in questo luogo non sono molto distanti da quanto appena esposto su Heidegger46. Innanzitutto, lo ribadiamo, circa l’impossibilità della scienza di esaurire il significato della natura attraverso il suo lógos47; ma, in linea più generale,
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all’appello della sua essenza. Il rispondere nasce dall’appello e si consegna ad esso. Il rispondere è un cedere davanti all’appello entrando in tal modo nel suo linguaggio. Ma all’appello dell’essere appartiene il già-stato rivelato nei tempi primitivi (Alétheia, Lógos, Physis) così come l’avvento velato di ciò che si annuncia nel possibile rovesciamento dell’oblio dell’essere (in direzione di una custodia della sua essenza). A tutto questo insieme ha da stare attenta la risposta, che deve partire da un lungo raccoglimento e praticare un costante controllo della sua capacità di udire, per essere capace di sentire un appello dell’essere» (p. 122). Sulla téchne come arte, si vedano Rudolf Löbl, TEXNH-Techne. Untersuchungen zur Bedeutung dieses Worts in der Zeit von Homer bis Aristoteles, Verlag Königshausen & Neumann, Würzburg 1997, Bd. II, in part. pp. 62 sgg. e pp. 274-275, e O. Pöggeler, Die Kontroverse Heidegger-Heisenberg, cit., p. 283. Sulla differenza tra la tecnica antica e quella moderna in Heidegger, cfr. William Lovitt, Téchne and Technology: Heidegger’s Perspective on What is Happening Today, “Philosophy Today”, 24, 1, 1980, pp. 62-72. Cfr. M. Heidegger, La questione della tecnica, cit., p. 26. Si veda inoltre Id., L’origine dell’opera d’arte, in Sentieri interrotti, cit., pp. 3-69. In particolare, pp. 6-25. Id., La questione della tecnica, cit., pp. 26-27 (traduzione lievemente modificata). Ad ogni modo, una differenza di un certo rilievo permane in relazione al fatto che la concezione dell’«arte» è modellata su due differenti forme d’espressione: Heisenberg ha in mente principalmente la musica, mentre Heidegger la poesia. «Dimostrare significa determinare e fondare il fenomeno osservato riguardo ad un punto di partenza presupposto: solo per questa via si costituisce una scienza che non si accontenta di constatazioni casuali, mutevoli e relative. La definizione del fenomeno deve quindi corrispondere al “comportamento” della natura entro i
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non differisce da Heidegger l’indicazione del luogo entro cui cercare quel «rapporto principiale» con la verità e di rispondere alla domanda sull’essenza dell’uomo48. In Heisenberg, difatti, l’«arte» è un ponte verso la verità. La «bellezza» assurge addirittura a criterio fondamentale di giudizio circa l’appropriatezza dell’impostazione e della risoluzione dei problemi scientifici. Come riporta Carl F. von Weizsäcker in Heisenberg und Heidegger über das Schöne und die Kunst, il «bello» [das Schöne] è, nel senso più ampio, ciò che si muove dietro al significato delle proposizioni scientifiche, ciò che articola e determina questo significato nella sua essenza, e che perciò in un certo senso lo scavalca. La determinazione di questo
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limiti ricavati dalle premesse: “natura” è perciò una porzione modesta, esattamente delimitata dei molteplici fenomeni» (W. Heisenberg, Natura e fisica moderna, cit., p. 123). Abbiamo qui il dovere di segnalare una differenza ancora più importante. Al di là di un parziale ripensamento cui lo avrebbe indotto lo stesso Heisenberg, per Heidegger la scienza moderna sarebbe rimasta fondamentalmente tecnica. Ciò dal punto di vista di Heisenberg non è affatto vero. La scienza si esprime, infatti, attraverso la matematica. Nell’opera di Heisenberg, la concezione della matematica subisce notevoli oscillazioni, ma rimane tuttavia sempre vero un fatto: che essa non pretende mai di esaurire l’essere delle cose. Certo, se pensata fino in fondo come struttura ideale della conoscenza, essa può diventare l’unico strumento legittimo per definire la verità; ma, lo ribadiamo, resta fermo che questa verità non ha nulla a che fare col mondo, tant’è che, nonostante tutto, proprio laddove dice che la verità è sempre verità matematica, Heisenberg subito ammette la presenza del mondo – e l’ente allora non può essere «fondo» – come qualcosa di differente e inesauribile rispetto a questa verità. Sul rapporto Heidegger-Heisenberg, sugli sviluppi della loro frequentazione a distanza e non, ed in particolare sull’influenza diretta di Heisenberg sul pensiero di Heidegger, rimandiamo di nuovo a O. Pöggeler, Die Kontroverse Heidegger-Heisenberg, cit., pp. 276-303, dove si legge per esempio: «Heidegger fornì come motivo del mancato dialogo con Heisenberg lo sforzo di determinare appieno l’estensione e i limiti della matematica. Quando egli ebbe ricevuto da Heisenberg le lezioni di Fisica e filosofia, sottolineò, nel gennaio 1960, che di questa rappresentazione in Copenaghen, nell’autunno 1926, si era invertita la posizione del problema: non ci si chiedeva più quale schema matematico descrive una situazione sperimentale, quanto piuttosto “solo se una tale situazione sperimentale che accade affatto nella natura possa essere espressa anche nel formalismo matematico della teoria dei quanti”. Con questa indicazione Heidegger si aggrappava tuttavia precipitosamente alle spiegazioni preliminari che trovano il loro senso solo quando Heisenberg si occupa delle teorie chiuse in fisica e (invano) cerca una teoria ultima. […] Su sollecitazione di Becker Heidegger disse: “So molto bene che per spiegare la prima volta l’altro pensiero ho allontanato la domanda positiva sull’idea e di aver determinato negativamente anche il matematico”», p. 302; a C. Chevalley, Heidegger and the Physical Sciences, cit., pp. 353 sgg; e a Cathryn Carson, Science as Instrumental Reason: Heidegger, Habermas, Heisenberg, “Cont. Philos. Rev.”, 2010, n. 42, pp. 488 e sgg.).
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significato è quindi qualcosa che trascende l’ordine scientifico del discorso. Il mostrarsi delle cose, nella fisica, non può essere inteso scientificamente; l’unico «criterio della nostra percezione di questo significato è il bello»49. In una conferenza dal titolo significativo Die Bedeutung des Schönen in der exakten Naturwissenschaft, Heisenberg esplicita chiaramente la connessione tra la «bellezza» e la «verità», allacciando le sue argomentazioni al pensiero di Pitagora e di Platone. Il discorso ruota intorno a due definizioni «antiche» della bellezza, delle quali però infine si sviluppa maggiormente soltanto la prima, la quale «definisce la bellezza come la giusta armonia delle parti tra loro e rispetto al tutto»50. Heisenberg offre qualche pagina dopo un esempio piuttosto chiaro di come a partire da questa frase si rinvenga la fondamentale prossimità del bello e del vero: Questo criterio si addice perfettamente al quadro della meccanica newtoniana, non c’è molto da chiarire; le parti sono i singoli processi meccanici, sia quelli che isoliamo accuratamente, si quelli che accadono di fronte a noi in modo inestricabile nel variopinto mondo dei fenomeni. E l’intero è il principio formale unitario [das einheitliche Formprinzip] che ordina tutti questi processi e che Newton ha fissato in un semplice sistema di assiomi. […] Ma per il fatto che in una tale teoria la molteplicità è messa a confronto con l’unità, e la molteplicità si unifica in questa, ne consegue automaticamente che la percepiamo bella e al tempo stesso semplice. Il significato del bello nella scoperta della verità è stato riconosciuto ed esaltato in tutti i tempi. Il motto latino Symplex sigillum veri è scritto a grandi lettere nell’auditorio di fisica dell’università di Gottinga, per tutti coloro che vogliono scoprire cose nuove; e un altro motto latino, Pulchritudo splendor veritatis, può voler dire che il ricercatore riconosce la verità prima di tutto da questo splendore, dalla sua luminosità. Due volte ancora nella storia delle scienze esatte questa luminosità, che proveniva da una importante connessione [Zusammenhang], è stato il segnale determinante di un progresso significativo51.
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C. F. von Weizsäcker, Heisenberg und Heidegger über das Schöne und die Kunst, cit., p. 152. W. Heisenberg, Il significato del bello nelle scienze esatte, in Oltre le Frontiere della scienza, cit., pp. 186-199. La citazione è a p. 187. Ivi, pp. 192-193. L’affinità con le idee di Heidegger è ancora più evidente se, come termine di paragone, a La questione della tecnica si sostituisce L’origine dell’opera d’arte: «La bellezza è una delle maniere in cui la verità è [west] come disvelatezza» (M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit., p. 41); «Così l’arte è la producente salvaguardia della verità in opera. Ma in tal caso l’arte è il divenire e lo storicizzarsi della verità» (ivi, p. 55). Sulla centralità del tema dell’arte, si pensi inoltre alla lettera che Heisenberg scrisse ad Heidegger per il suo ottantesimo compleanno: «Nella sua lettera […] Heisenberg non si interessa del problema della tecnica, ma delle
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Ma cosa tiene insieme realmente questo «Zusammenhang»?52. Nel caso di Keplero, le orbite dei pianeti, potremmo dire anche il loro movimento. L’«armonia delle sfere» è la garanzia che il cielo si tenga insieme come un tutto nel movimento dei pianeti. E qui vanno sottolineate due cose: ciò in cui si esprime questa connessione, ossia la bellezza nella quale risplende la verità, non è qualcosa che è stato «inventato [erdacht] dall’uomo»; in secondo luogo, la verità non è più verità soltanto logica. Heisenberg si svincola così completamente dall’impostazione che reggeva Das Naturbild der heutigen Physik: difatti, in quel luogo, contro il pericolo della tecnica era sì invocata l’arte, che in quanto tale rimane sempre una risposta alla minaccia della tecnica, ma lì l’arte era intesa come opera dell’uomo53. Ora essa invece assurge ad una generalità di tipo differente, e si assicura una vera e propria fondazione filosofica. In che senso però la verità che si rivela nel suo splendore può essere vista? Heisenberg guarda al Fedro di Platone: «Ma nel momento in cui appaiono le idee giuste, si rispecchia nell’anima di colui che le guarda un processo del tutto indescrivibile e della più alta intensità. È lo spavento stupefacente [das staunende Erschrecken] di cui parla Platone nel Fedro, col quale l’anima per così dire si rammemora [zurückerinnern] di qualcosa che essa aveva inconsciamente già da sempre posseduto»54. Il fatto che «la
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radici della diversa valutazione della scienza, della tecnica e dell’arte» (O. Pöggeler, Die Kontroverse Heidegger-Heisenberg, cit., p. 287). Una delle caratterizzazioni più peculiari e precise di questo concetto si trova però in W. Heisenberg, Naturwissenschaft und Technik im politischen Geschehen unserer Zeit, in Gesammelte Werke, Abt. C, Bd. V, cit., pp. 457-460. Lì emerge tutta l’importanza della relazione tra il concetto di «connessione» e quella che altrove Heisenberg stesso chiama «comprensione unitaria del mondo» (cfr. E. Heimendahl, Gespräch mit Nobelpreisträger Professor Dr. Werner Heisenberg, cit.). Quella funge da garante per questa: la «connessione» finisce così per tenere insieme nientemeno che l’intera sfera dell’ente. «La tecnica, la macchina si sono diffuse nel mondo in una misura che quel saggio cinese – Heisenberg aveva poco prima raccontato l’antica storia del cinese Chuang Tse – non poteva immaginare; eppure anche duemila anni più tardi sono nate sulla terra le più belle opere d’arte, e la semplicità dell’anima di cui parla il filosofo non è mai andata completamente perduta» (W. Heisenberg, L’immagine della natura nella fisica moderna, cit., p. 48). Id., Il significato del bello nelle scienze esatte, cit., p. 198, traduzione lievemente modificata. Più problematico rimane il passaggio successivo, poiché la rammemorazione è direttamente collegata alla matematica che raccoglie e dischiude la bellezza del mondo, senza che ciò venga ulteriormente chiarito: «Keplero dice: Geometria est archetypus pulchritudinis mundi, oppure, se possiamo tradurre in termini più generali, e così noi possiamo tradurre generalizzando, “la matematica
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bellezza sia lo splendore della verità» e che la verità si dia in questo modo non può essere un fatto logico. L’accadere della verità nella forma della bellezza, e perciò dell’arte, riguarda una dimensione universale dell’essere e dell’esistenza umana, al punto che essa, quello che infine tentiamo di sostenere, può essere ritenuta come l’attributo essenziale di una antropologia che sia innanzitutto alla lettera un lógos sull’anthropos. Qui va precisato anche ciò che prima è rimasto in secondo piano: in che senso l’arte, che è «lo splendore della verità», fa luce sul problema dell’uomo? In Heisenberg la risposta a questa domanda non trova l’approfondimento che meriterebbe, ma tuttavia potrebbe essere legittimo formularla in tal modo: il tenersi insieme delle cose è reso possibile dal fatto che queste cose si presentano come connesse, e a sua volta questa connessione può essere percepita da chi cerca la verità per via della bellezza attraverso la quale questa verità risplende. L’uomo qui compare dunque come quell’ente al cospetto del quale accade la bellezza e a cui la verità così si rivolge. Non troppo differentemente, ma più chiaramente, si legge in Heidegger: All’interno del rapporto umano all’arte, sorge l’altra ambiguità relativa alla messa-in-opera della verità che, sopra, a p. 55, è designata come fare e come salvaguardare. A p. 55 e a p. 42, si afferma che opera d’arte e artista riposano «assieme» nell’essenza dell’arte [Das Wesende der Kunst]. Nell’espressione «messa-in-opera della verità», in cui resta indeterminato e tuttavia determinabile chi (o che cosa) «mette», si cela il rapporto fra l’essere e l’essenza dell’uomo55.
L’uomo è allora quell’ente che la verità chiama in causa risplendendo come bellezza. Tra Heidegger e Heisenberg, quindi, pur con tutte le dovute differenze, questo lógos sull’anthropos ha rivelato innanzitutto la sua specificità
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è l’archetipo [das Urbild] della bellezza del mondo”» (ivi, pp. 198-199) . Rispetto a questa interpretazione del platonismo, all’accentuazione del lato mistico della dottrina platonica, anche Weizsäcker sembra concordare quando dice, per esempio: «La filosofia di Platone è per lui [cioè per Heisenberg] in ultima analisi la filosofia, perché essa è bella e perché ci conduce come un’opera d’arte verso l’ineffabile [Unsagbare]. La comprensione [das Erfassen] delle idee rimane per lui “più un contemplare artistico [ein künstlerisches Schauen], un intuire semicosciente [ein halbbewußtes Ahnen]”. […] Heisenberg adottò il linguaggio dell’ascesa platonica perché esso permetteva quantomeno di indicare il mistero dell’unità dei due mondi nei quali egli viveva, quello scientifico e quello musicale. La dialettica di Platone gli rimase sempre estranea» (C. F. von Weizsäcker, Heisenberg und Heidegger über das Schöne und die Kunst, cit., p. 157). M. Heidegger, L’origine dell’opera d’arte, cit., p. 69.
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nell’arte, e questo anche se Heisenberg ha aggirato, almeno in una certa misura, il monito heideggeriano del saggio sulla physis56. Per salvare la natura dalla tecnica il fisico tedesco era disposto a consegnare a quest’ultima l’umano stesso. L’unico modo per salvare anche l’uomo è allora quello, in quest’ottica, di legare l’umanità ancora una volta alla natura da cui pure l’uomo proviene. Questo legame, per l’uomo che può prodursi da sé tecnicamente, non può che essere ricercato nel luogo ove avviene una produzione più originaria, e laddove egli può ancora vedere qualcosa come «lo splendore della verità». Giunti a questo punto, può non apparire forse più azzardato proporre una definizione: l’uomo è quell’ente che tra gli altri ha in massimo grado la possibilità dell’arte. Aggiungiamo qui soltanto che tale definizione non va intesa nel senso di una asserzione definitiva circa l’essenza umana, quanto piuttosto come un detto che deve ogni volta comprovare la sua verità, e che per tale motivo rimane, in fondo, soltanto una possibilità.
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«La téchne può soltanto venire incontro alla physis, può favorire più o meno il risanamento, ma, come téchne non potrà mai sostituirsi alla physis, e diventare, al suo posto, l’arché della salute come tale. Ciò potrebbe avvenire solo se la vita come tale diventasse un artefatto producibile “tecnicamente”» (Id., Sull’essenza e sul concetto di physis, cit., p. 211). È inoltre interessante notare che sia Heidegger che Heisenberg su questa irriducibilità della physis alla téchne rimandino a Goethe, sebbene il primo sottolinei espressamente che il tentativo di Goethe rimanga «metafisicamente» lo stesso della fisica, poiché ancora intrappolato nella rappresentazione dell’essere dell’ente come relazione soggetto-oggetto (cfr. Id., Scienza e meditazione, cit., p. 39; per Heisenberg si veda Tradition in Science, cit., pp. 444 sgg.; e di nuovo Gespräch mit Nobelpreisträger Professor Dr. Werner Heisenberg, cit., pp. 50 sgg.).
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FELICE MASI
LO STRANO CASO DEL NATURALISMO POSTUMANISTICO La tua filosofia della fine senza fine, della morte immortale, dell’interminabile differenza, dell’indecidibile, è un’espressione, forse l’espressione par exellence, della meta-regolazione stessa Jean-François Lyotard
1. Naturalizzatevi! Sono molto frequenti, almeno nell’ultimo ventennio, le note di un appello che per tono ed immediatezza sembra molto prossimo a quello di Guizot nel 1843. Certo, che invece di enrichissez-vous, si oda naturalize-vous, cambia molto, come inevitabilmente muta anche la rispettiva finalità dei due imperativi. Al miglioramento morale e materiale, a cui il più antico adagio si appellava, si sostituisce, in quello più recente il richiamo ad una moralità materiale del miglioramento, dacché la materia del miglioramento sarebbe diventata la medesima vita degli individui e non più il benessere delle popolazioni. Dal Manifesto di Donna J. Haraway a quello di Robert Pepperell – mentre l’esclamazione aveva oramai soppiantato la monotona apodittica teoretica – l’assunto secondo cui la fine dell’umanesimo organologico sarebbe coinciso con una riconsiderazione di una soglia di indistinzione tra umano e non-umano acquisisce un’eco di sempre maggiore ampiezza. Nonostante le evidenti differenze di impostazione e formazione tra i due – biologa ed attivista la prima, artista e pubblicista il secondo – si può senza dubbio convertire la semiosi fisica della mortalità nel mondo industrializzato, che Haraway ritrovava nella traduzione informazionale della biologia molecolare1, nell’impossibilità, o nella non-necessità, di distinguere tra umano e natura, che Pepperell individua come insegna dell’era post-umana2. Né tradiscono il linguaggio della naturalizzazione i critici più aspri che, al contrario, come Francis Fukuyama proprio ad una natura pre-kantiana si richiamano per sal-
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Donna J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, a cura di L. Borghi, Feltrinelli, Milano 1995, pp. 135-180 Robert Pepperell, The Post-Human Condition. Consciousness beyond the Brain, Intellect Books, Exeter 19972, p. 165
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vare la dignità di ciò che «gli esseri umani sono in quanto specie»3. Tantomeno distante può dirsi la proposta che Roberto Marchesini articola di rinaturalizzare l’epistemologia bachelardiana, come condizione indispensabile a delineare una post-antropologia, in cui l’innesco istintuale della sensibilità garantisca una indubitabile continuità tra umano ed animale rispetto alla configurazione del mondo esterno, così che quello che era stimato come un ostacolo sia invece riconosciuto come un vincolo4. Si potrebbe continuare ancora ad elencare a lungo gli esempi di questo to be in mood for... naturalizing, affastellando titoli di convegni, testi, saggi, che cadono in contesti, discipline e saperi differenti. Ma cosa si intenderà mai per natura o per naturalizzazione ed in che senso la sua rivendicazione sancirebbe l’antiquatezza di quell’invenzione dell’umano, che, a seconda dei casi, è moderna o illuministica o classica o semplicemente occidentale? E perché naturalizzazione e natura si trovano così spesso ad essere tanto prossimi5? A tutta prima sembra infatti che ciò che è postumo all’umano sia inaugurato dal riconoscimento dell’appartenenza ad una natura che sarebbe stata negata all’umanità innaturale dell’umano. Ed è un, pur corretto, luogo comune esibire a questo riguardo un documento inconfutabile: l’esordio della Politica aristotelica, secondo cui la formazione della polis appartiene all’uomo, in quanto bios e non zoè. La politicità – che definisce propriamente l’umano – apparterrebbe alla natura vivente dell’uomo in quanto forma di vita, forma di vita allo scoperto, forma di vita che si estende nel frattempo di questo essere-allo-scoperto, tra i cespiti oscuri – coperti – del suo inizio e della sua fine, di nascita-e-morte6. Rinaturalizzare l’umano consisterebbe allora nel riconoscerne la zoè, nel farne emergere il livello zoo-antropologico7, o semplicemente fisico, o ancora «sistemico, fluido, 3 4
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Francis Fukuyama, Our Posthuman Future: Consequences of the Biotechnology Revolution, Farrar, Straus and Giroux, New York 2002, p. 128. Cfr. Id., Transhumanism, “Foreing Policy”, 144, 2004, pp. 42-43. Roberto Marchesini, Post-human. Verso nuovi modelli di esistenza, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 141 e sgg.; cfr. Gaston Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, a cura di E. Castelli Gattinara, Cortina, Milano 1995, pp. 11 e sgg. Sulle ambiguità del frequente richiamo contemporaneo al naturalismo si vedano Barry Stroud, The Charm of Naturalism, “Proceedings of the American Philosophical Association”, 70, 1996, pp. 43-55, e Naturalism in Question, ed. by M. De Caro and D. Macarthur, Harvard University Press, Cambridge 2004. Aristotele, Politica, 1252b 25 e sgg. Cfr. Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, a cura di S. Finzi, Bompiani, Milano 2006, pp. 18 e sgg. Roberto Marchesini, Sabrina Tonutti, Manuale di zooantropologia, Meltemi, Roma 2007.
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disperso, reticolare, tecno-organico, testuale e mitico»8. E se l’accoppiamento tra natura e naturalizzazione suonava stridente, il rumore dell’accostamento tra physis e zoè è ancora più acuto. Ciò in cui vorrei cimentarmi non è affatto – sia chiaro – la confutazione di una posizione o di un’ipotesi tra le tante che sulla senescenza dell’umano sono state avanzate, né delle prove che a favore di una tesi o di un’altra potrebbero essere addotte. Eh sì: perché molte delle dottrine a questo riguardo non farebbero altro che rendere conto di qualcosa che non solo già è, ma che è già stata riconosciuta o prodotta o assemblata come tale. A questo compito, però, mi sottraggo volentieri, avendo deciso di scegliermi un altro obbiettivo: quello di mettere in questione la tenuta epistemologica della sequenza natura-naturalizzazione-post-umanesimo. A questo scopo mi sono segnato un percorso in due tappe principali: la prima sarà dedicata ad un abbozzo di quel naturalismo immaterialistico che ha caratterizzato l’idea stessa del biologico, quando ancora il termine tecnico Biologie non aveva fatto la sua comparsa nelle enciclopedie; la seconda riguarderà invece la descrizione di quel realismo naturalistico che connota alcune letture postumanistiche delle scienze naturali contemporanee, ed in specie quelle della vita. Dall’incrocio di questi due percorsi dovrebbe derivare almeno un primo quadro delle aporie epistemologiche contenute nel naturalismo postumanistico. 2. Naturalismo immaterialistico Riprendiamo il presupposto indiscusso, l’intatta faglia biologica, il fondo inaccessibile «che emerge solo di tanto in tanto, nelle vicende della morte e della sua fatalità»9; e riprendiamolo da dove si ritiene sia, per eccellenza, espresso. Da dove l’umano viene definito come vivente qualificato da un logos esposto, non solo dal logos quindi, ma dall’esposizione, dalla pubblicità, del logos. Ebbene cosa qualifica l’esposizione del logos? Un 8 9
D. J. Haraway, Manifesto Cyborg, cit., p. 157. Michel Foucault, La volontà di sapere, a cura di P. Pasquino e G. Procacci, Feltrinelli, Milano 200612, p. 126; Id., Bisogna difendere la società, a cura di M. Bertani e A. Fontana, Feltrinelli, Milano 1998; Id., Nascita della biopolitica. Corso al Collège de France 1978-1979, a cura di M. Bertani e V. Zini, Feltrinelli, Milano 2005; Giorgio Agamben, Homo sacer, Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 1995; Roberto Esposito, Bios, Einaudi, Torino 2004. Un’interessante interpretazione della coppia zoé-bios è offerta da Xavier Zubiri, El hombre: lo real y lo irreal (1967), Alianza Editorial, Madrid 2005, pp. 77, 79, 101, 20.
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vivente – si direbbe – che per aspetto è un bipede implume. Ora, la differenza, quella che interessa la tassonomia è che, avendo solo due arti inferiori che poggiano sulla terra, non ha però piume, come quegli animali che più gli assomiglierebbero. Non fa differenza la qualità. Ché la differenza precede implicitamente la qualità. La differenza è già nella naturalità del vivente. È infatti possibile che la lingua greca ammetta endiadi come bios kai zoé, vita et victus10, non solo perché già zoé implica la sua presentazione come bios, ma perché zoé rende la durata propria alla physis, la sua estensione temporale, la possibilità propria che ne vengano sentite e numerate la priorità e la posterità. Zoé è pertanto il trascorrere ed il perdurare della physis, è la resa ordinata del suo movimento, del suo rovinìo o risalimento, di quel «mutamento nel senso della nutrizione, della crescita e della decrescita»11, in quanto sentito da un ordinante. È null’altro che la continuizzazione di un discontinuo vissuta dalla psyché, ovvero da null’altro che dalla sensatezza della sensibilità, dal verso preso dai sensibilia. Tale sensatezza rende movimento e tempo quantità continue solo perché è così «divisibile ciò di cui sono affezioni»12, ma non essi stessi. Si può pertanto fare cenno a come durante il movimento un corpo mobile, un ente di natura, cambi di luogo: ma questo cambiamento è l’affezione che il movimento-tempo procura. Il movimento ed il tempo sono quindi misurabili, in questo caso, in relazione alla distanza percorsa e sentita dal corpo: essendo questa divisibile allora lo è anche il movimento e quindi anche il tempo in cui il movimento ha avuto evidenza. La distanza sentita è l’ipotesi di misura, il movimento è il fenomeno fisico, il tempo la sua evidenza, la sua esperienza compiuta. Poiché si è già assunto che la durata sia la grandezza continua che misura il movimento nella sua durata, essa può suddividersi nella denumerazione del prima e del dopo, laddove prima e dopo restano propriamente non temporali, né a rigore sue parti (se le parti devono essere omogenee all’intero) ma istanti, appunto una varietà discreta. 10 11
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Eugenio Mazzarella, Giebt es auf Erde ein Maass? Es giebt Keines..., in Vie d’uscita. L’identità umana come programma stazionario metafisico, il melangolo, Genova 2004, p. 148. Aristotele, De Anima, 413a 25. La psicologia aristotelica delinea il modello di una strategia epistemica di lunga durata circa la comprensione di “che cos’è la vita”, come ampiamente illustra Franz Brentano in La psicologia di Aristotele con particolare riguardo alla sua dottrina del nous poietikos, a cura di S. Besoli, Quodlibet, Macerata 2007, in part. pp. 43-76. In proposito cfr. anche Etienne Gilson, La Biofilosofia da Aristotele a Darwin e ritorno, a cura di S. Corradini, Marietti, Genova-Milano 2003. Aristotele, Metafisica, V, 1020a 30, 2-4.
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L’estraneità del frammento, del momento, dell’attimo alla temporalità zoo-fisica non deriva aristotelicamente quindi dall’ambiguità ontologicameontologica che l’istante mostrava nel Parmenide platonico, da quell’essere e non-essere insieme di cui ogni comparazione si faceva carico, quanto piuttosto dal fatto che nell’interruzione si riapre la discontinuità propria del numero, della sua molteplicità dispersa e non numerata. La physis può mostrarsi come zoé se e solo se il numero viene numerato, solo se vige la numerazione di psyché, della vita che sente se stessa, solo se vige la koinonìa, dalla comunità intrasensibile che rende possibile l’avvertimento di una medesima cosa (pràgma) – ad esempio, una rosa che può essere percepita quanto al suo colore, alla sua consistenza, al suo profumo, al suo sapore, laddove fosse sorbita in un infuso – continuamente, nel medesimo tempo, ovvero nel medesimo arco di tempo ed in un arco omogeneo di tempo, durante il quale si percepiscono sensibili o qualità di sensibili differenti13. «Non è possibile giudicare per mezzo di sensi separati che il dolce è diverso dal bianco, ma entrambi gli oggetti devono manifestarsi in qualcosa di unico [...]. Quindi è evidente che non è possibile giudicare sensibili separati mediante sensi separati, né in tempi separati»14. Una tale pretesa di continuità è prima ancora che garanzia della pensabilità del movimento e del molteplice, il sigillo della loro sensibilità sensata, del loro poter essere vissuti nella zoé. Se ne può derivare una genealogia animale, nella quale definiamo l’animale per il fatto che ha i sensi ed innanzitutto il primo dei sensi, cioè il tatto. [...] Di tutti gli organi sensitivi questo è l’unico che sia corporeo, o, comunque, quello che più di altri è tale. In base all’osservazione sensibile [katà tén aìsthesin] appare chiaro che tutte le altre parti sono in vista della carne [toùtou chàrin], voglio dire le ossa, la pelle [dérma], i nervi, le vene, inoltre i peli e le unghie di ogni genere, ed altre parti simili15.
Le prove addotte sono due: in linea di principio, essendo il tatto proprio del corpo, e dei corpi nella loro generalità sentita, in quanto condizionato dal modo della loro separatezza, della loro resistenza, del loro movimento, è segno della distinzione o semplice segno del corpo; per via negativa, invece si considera l’eccesso sensibile, ovvero quella sovrabbondanza sensibile, che danneggia la capacità percettiva, fino ad annullarla – la luce abbagliante per la vista, l’acutezza estrema del suono per l’udito –: cosa accade se l’eccesso è nel tatto? Se 13 14 15
Id., De Anima, 426b 13-15. Ivi, 426b 20-25. Id., Le parti degli animali, II, 8, 653 b, 19-sgg.
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ad esempio troppo è il calore dell’oggetto attentato? Se cioè, nella fattispecie, l’eccesso distruggesse l’organo sensibile, provocherebbe la cecità nel caso della vista, la sordità in quello dell’udito, ecc., ed in quello del tatto? Ancora qual è l’organo sensibile, che rischia di essere menomato? «L’eccesso dei tangibili annienta l’animale [...]; l’eccesso dei tangibili non solo distrugge il sensorio, ma anche l’animale giacché questo senso è il solo che l’animale deve avere»16. Senza non sarebbe, infatti, possibile avere altro senso17: il tatto è insieme il senso più acuto e quello più improprio, in quanto in esso si depositano tendenze o differenze contrarie, si regolano aspetti o figure oggettuali, la cui coestensione non è disponibile alla sua portata sensibile. Esso è in questo senso atelés, imperfetto – si direbbe – piuttosto incapace di contenere il proprio compimento, che invece ogni volta gli si disappropria. Alla sensibilità tattile viene così attribuita un’insufficienza – un difetto di contemporaneità o di memoria – che rimanda la correlazione ad una specifica sensibilità della differenza, alla diànoia18. Tale atéleia, tale incontinenza del fine, deve essere interpretata come quella dei numeri difettivi, mancanti19, ovvero non semplicemente come una carenza espressiva nella numerazione, come l’incapacità a contare: tanto l’ellipès arithmòs è un numero inferiore alla somma dei suoi fattori, vale a dire è unʼincognita di cui trovare il valore, ciò che è determinabile mediante il numero, quanto l’aphè atelès è l’esitazione nel numerare, la debolezza nel resistere in vista dell’attecchimento di modalità tattili altre, rispetto a quelle già disposte, in merito al medesimo oggetto. L’atéleia del tatto è, così, anche la massima imperfezione possibile, fatta salva la persistenza, se non la vita del vivente: ipotizzato pure il massimo grado di privazione e menomazione, nel vivente deve ancora essere presente il senso solo del tatto, ed insieme ad esso quindi il movimento, l’immaginazione ed il desiderio20. Soltanto tò héde, il già, il subito, l’ora, ma non quindi la resistenza in vista del futuro, la pretesa di resistenza al futuro21, la toù chrònou aìsthesis, la sensazione sentita della temporalità.
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Id., De Anima, 435b 15-20. Ivi, 435b 1-5. Si veda anche Platone, Repubblica, 523b-524d: «io ti suggerisco che alcuni oggetti sensibili non invitano il pensiero alla riflessione, perché sono già percepiti in maniera soddisfacente dai sensi; altri invece esigono davvero un contributo del pensiero perché i sensi non possono cavarne nulla di valido». Nicomachi Geraseni Pythagorei, Introductionis Aritmeticae, libri II, Hoche, Leipzig 1866, I, 114; cfr. Thomas Heath, A History of Greek Mathematics, University Press, Oxford 1921, I, pp. 70-74. Aristotele, De Anima, 434a 1-3 Ivi, 433b 1-10
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Antinomi della sensibilità elementare sono l’elefantiasi ed il dolore annichilente. L’ispessimento della superficie corporea, l’arroccamento al di qua della membrana dermica, da un lato, ed il massimo dell’intrusione, della soluzione, della ferita, dall’altro, delimitano l’intervallo minimo alla conservazione sensibile del vivente, come zoé. Si segnala così che necessario al senso sia una certa debolezza, cedevolezza, una malachìa pròs tì, la pia mater, la meninge tenera – che ancora Hobbes designa come organo del tatto22 – ed un trattenimento alla dissipazione, alla minaccia dell’intrusione di qualcosa di estraneo che lo ostacola ed interferisce con lui23. Fino almeno ad Avicenna e ad Isidoro di Siviglia si vigila su questo intervallo: ad un estremo, Al-alam, la nozione di dolore che, dalla sua esclusiva residenza tattile, diviene comune anche agli altri sensi «allorché non percepiscono un oggetto con cui vengono in contatto»24, traducendosi in uggia o malattia, all’altro, la nudità come secchezza e la precettistica del vestiario25. Riformulando quindi in termini biologici il frattempo politico del bìos, si può asserire che tra mollezza e dissezione si estende il significato di physis come zoé. Ma così si intende anche che bìos, la forma di vita o una delle sue forme, si regge fintanto che physis è ancora zoé, che è ancora avvertibile come continuità. In questo senso, zoé è normatività biologica26, l’attività medesima di un organismo, l’Urfaktum nomotetico della sua vitalità. Un fatto ineffettuale, un fatto che non appartiene alla successione piana dell’effettualità – che è quella dei bìoi – che non è nemmeno davvero un fatto perché non si effettua né si è effettuato, nonostante sia secondo la sua norma che di volta in volta può presentarsi ogni fatto. Norma a se stessa sarebbe la vita, ma non bastando a physis di essere soltanto, ma dovendo durare in quanto potere d’essere, zoé diventa la sua regola oltre-fisica in cui finalmente si compie 22
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Thomas Hobbes, De Corpore, a cura di A. Negri, Utet, Torino 1986, pp. 469-470. L’idea di meninge tenera è ancora presente nella nozione di wetware che definisce il trattamento informazionale di un sistema vivente, in specie il cervello, in relazione al suo programma operativo, identificato con la mente. Aristotele, De Anima, 429a 20-21. In merito si veda Jean-Luc Nancy, L’intruso, a cura di V. Piazza, Cronopio, Napoli 2006. Cfr. Jacques Derrida, Toccare. J.-L. Nancy, a cura di A. Calzolari, Marietti, Genova-Milano 2007. Andrea Alpago, Interpretatio Arabicorum Nominum, a cura di G. Vercellin, Utet, Torino 1991, p. 61 Isidoro di Siviglia, Etimologie o origini, a cura di A. Valastro Canale, Utet, Torino 2006. Georges Canguilhem, Il normale e il patologico, a cura di M. Porro, Einaudi, Torino 1998, pp. 95-97. Cfr. Id., La conoscenza della vita, a cura di F. Bassani, Il Mulino, Bologna 1976. Cfr. Davide Tarrizzo, La vita, un’invenzione recente, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 37 e sgg.; pp. 153 e sgg.
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una ipertrofia bio-assiologica. Mediante il primato sinechologico di zoé – che essa sia la norma della continuità di physis – Aristotele riconosce pieno diritto all’antica sapienza empedoclea, secondo la quale physis è il nome che i mortali usano per la mescolanza e la separazione delle cose mescolate (DK B 80)27. Si potrebbe affermare – seguendo l’acuta analisi di Patrice Laraux – che, procedendo alla seconda invenzione greca di physis (seconda, dopo quella arcaica dei fisiologi), Aristotele riconosca e rimedi alla prima: oramai, «la physis è autonoma, vicina a noi, ma a prezzo di una seria restrizione: il suo unico campo d’azione restano le modalità del nascere, del crescere e del perire. È per questo che nella physis aristotelica c’era già una fetta di natura»28, una quasi-natura. Physis si riduce al trascorrere nell’essere come zoé; ma non è per nulla così evidente che una roccia, un minerale o un cristallo continuino ad essere enti di natura, pur non essendo propriamente viventi e vieppiù non-mortali. Deperibili o corrompibili, tuttavia non certo accrescibili, se non come un monte che si erge per gli strati sovrapposti o precipitati delle rocce, ma le rocce non sono un monte, né la sabbia una roccia, pur essendo ciascuno di per sé un ente di natura. Si può ovviare a questa tara epistemica – l’esclusione di principio dell’inanimato – solo introducendo una sorta di tecnica della natura; un giudizio come-se la natura non fosse principio degli enti naturali come aggregati o composti, ma come sistemi, «per esempio nelle formazioni cristalline, in ogni forma dei fiori o nella struttura interna delle piante e degli animali [riguardo alle quali, essa] procede tecnicamente, cioè al tempo stesso come arte»29. Parrebbe dunque che quando finalmente la riflessività – che, ancora in Aristotele, restava l’accenno incompiuto di una sensibilità che sentiva, corroborava e garantiva l’essere-in-vita – riuscirà a trovare residenza nel Gefühl, nel sentire, nel senso dell’essere-sentito – come si dispiega chiaramente nel Kant della Terza Critica30 – natura potrà ricomprendere ciò che aveva smarrito della physis, ma oramai compiutamente come anti27 28
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Tale consapevolezza aristotelica è espressa, oltre che in Metafisica, 5, 4, 1015a, 1-3, nello spurio De Melisso Xenophane et Gorgia. Patrice Loraux, L’invenzione della natura, in Aa. Vv., I Greci, 1 (Noi e i Greci), Einaudi, Torino 1996, p. 334. Quest’interpretazione corregge, con ogni evidenza, quella heideggeriana contenuta in Sull’essenza e sul concetto di Physis. Aristotele, Fisica, B, 1, in Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 19943, pp. 193-255. Immanuel Kant, Prima introduzione alla Critica del Giudizio, a cura di P. Manganaro, Laterza, Roma-Bari 19792, p. 94. Si veda al riguardo Maria Teresa Catena, Sentire. Una riflessione sulla Ragion Pura, il Giudizio (e oltre...), Giannini, Napoli 2010, in part. pp. 69 e sgg. Cfr. J.-F. Lyotard, Il Dissidio, a cura di A. Serra, Feltrinelli, Milano 1985, pp. 94 e sgg.
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physis, o meglio come archi-téchne. Dalla physis come principio del movimento alla natura come archetipo delle forme, dalla fisica come epistéme tòn kinoùmenon alla morfologia come Gestaltenwissenschaft, il tragitto che unisce Aristotele a Kant – per altri versi avventuroso e sconnesso – sembra a questo riguardo ben più agibile. Nella seconda parte del Libro degli Animali – che consegnò alla protomodernità gli studi biologici di Aristotele e con essi buona parte delle scienze greche – ovvero, nelle Parti degli Animali, si conduce una differenziazione tra gli ònta physei e quelli téchnei (come sempre nello Stagirita non vi è spazio per un’insensata quanto ridicola distinzione propriamente tra physis e téchne31) seguendo il ruolo di lògos: esso è infatti «principio sia nei prodotti dell’arte che in quelli della natura»32; ma mentre nei primi prescinde dalla materia, nei secondi non può farne a meno. Materia – principio del mobile e non propriamente il mobile nello spazio33 – in quanto principio, però, «non è nulla “in sé”. [...] La materia in quanto tale, vale a dire in quanto essa è materia, è inconoscibile; essa è sempre relativa a ciò di cui essa è materia, per esempio il bronzo come materiale della statua che con esso è formata»34. Per questo, la physis come sostrato non può essere conosciuta se non per analogia, essa è una non come 31
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Aristotele, Fisica, II, 193 a 2 e sgg. A questo riguardo, vale la pena sfatare, letteralmente, un inveterato mito etimologico, che ancora invale in Heidegger (Costruire abitare pensare, in Saggi e Discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1997, p. 106) ed in Lyotard (L’Inhumain: Causeries sur le temps, Galilée, Paris 1988, p. 52), riguardo alla derivazione di téchne da tìkto, ovvero della tecnica, dell’artificio, dal generare ovvero dal più elementare processo della génesis. In verità, se tìkto ha radice in tek, da cui téknon, figlio, nonostante l’apparente affinità, téchne deriva dal sanscrito taksan, più verosimilimente prossimo a tàsso [tag], ordino, dispongo, costituisco, da cui tàxis, disposizione, colonna. Tale prossimità è, tra l’altro, significativamente attestata dal vocabolario dell’architettura greca, ove la tektosyne è identificata con la tàxis, come dimostra ampiamente A. TzonisL. Liane, Classical Architecture. The Poetics of Order, Mit-Press, Cambridge 1986, pp. 9-34. Si veda, in proposito, per fugare ogni dubbio, il Dictionnaire étymologique de la langue grèque di Paul Chantraine (Klincksieck, Paris 1977), alle voci téchne, p. 1112, e tìkto, p. 1118. Aristotele, Parti degli Animali, 639b 15; cfr. ivi, 640a 33. Sugli scritti biologici si rimanda inoltre a Martha Nussbaum, Aristotle’s De Motu Animalium, Uni. Press, Princeton 1978 e Id., A. Oksenberg Rorty, Essays on Aristotle’s De Anima, Clarendon Press, Oxford 1992. Si prosegue, anche in questo caso, la comparazione tra la definizione aristotelica di materia e quella kantiana, contenuta in Primi principi metafisici della scienza della natura, a cura di S. Marcucci, Giardini, Pisa 2004. Wolfgang Wieland, La Fisica di Aristotele. Studi sulla fondazione della scienza della natura e sui fondamenti linguistici della ricerca dei principi in Aristotele, a
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un ente, ma come ciò di cui è propria la definizione35: vale a dire è possibile avere conoscenza stabile della physis come materia, ovvero come primo comune sostrato36, solo se si considera ciò per cui è sostrato, comparando di volta in volta il modo in cui sta il bronzo alla statua o il legno al letto. Materia è quindi un concetto di correlazione, è «solo una struttura di riflessione applicata a stati diversi di cose. Non esiste “la” materia ma solo, di volta in volta, una determinata materia»37. Materia è quindi un topos e pertanto un principio riflessivo, vuoto, analogico, una necessità ipotetica. Se vi sarà una casa, è necessario che si producano o che sussistano, o che in generale vi sia la materia in vista di questo: per esempio, mattoni e pietre, se si tratta di una casa. Tuttavia il fine [dare riparo] non è causato da queste cose, se non come dalla materia, né sarà causato da queste cose. Tuttavia, in generale, se non si danno non si darà né la casa né la sega: la prima, se non si danno le pietre, la seconda, se non si dà il ferro38.
È quindi necessaria l’ipotesi del conseguente (le pietre), perché si realizzi o si esegua l’antecedente (la costruzione della casa), capovolgendo l’ordine della necessità matematica ove le condizioni (l’antecedente: la nozione di retto) precedono ciò che ne deriva (il conseguente: che il triangolo abbia gli angoli interni uguali a due retti). Una tale inversione è ulteriormente motivata dal fatto che le due sequenze sono nel primo caso quella dell’esecuzione (praxis), nel secondo quella del ragionamento (diànoia). La necessità fisica della materia è quindi quella del materiale per l’esecuzione. La materia, in quanto materiale, è ciò che consente di spiegare il movimento della zoé ad un analogon della pràxis. Si ponga mente, ora, all’indiretto, ma significativo nesso, che mediante questa denotazione ipotetico-necessaria di hyle, si instaura tra physis e bìos. L’esecutività vivente della composizione – che non implica propriamente una pre-datità materiale, ma un legame funzionale-sintetico tra un ciò-di-cui e un ciò-in-vista-di-cui la
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cura di C. Gentili, Il Mulino, Bologna 1993, pp. 78-79. Cfr. Mauro Zanatta, Introduzione alla filosofia di Aristotele, Rizzoli, Milano 2010, in part. pp. 165 e sgg. Aristotele, Fisica, 191a 12-14. Proprio facendo leva su questo passo, Wieland (La Fisica di Aristotele…, cit., pp. 169 e sgg.) propone una definizione eidetica di materia. Aristotele, Fisica, 192a 5, 31 e sg. Cfr. W. Wieland, La Fisica di Aristotele…, cit., p. 171. Ivi, p. 267. Aristotele, Fisica, 200a 24-29. Cfr. John M. Cooper, Hypothetical necessity and natural teleology, in Philosophical Issues in Aristotle’s Biology, ed. by A. Gotthelft, J. G. Lennox, University Press, Cambridge 1987, pp. 243-274.
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composizione è eseguita – si riverbera nella definizione di bìos come pràxis, azione-esecuzione proprio in virtù della sua relazione a strumenti ed a materiali39. Hyle infatti è un termine di uso comune che non comprende l’accezione mitico-vitalistica che si sente ancora nella Sylva di Dante e Vico; con hyle – come attesta Heinz Happ – non si designa «la ‘foresta’ che sorge e germoglia, ma il ‘legno’ come materia prima, il materiale del processo tecnico; essa appartiene all’aspetto ‘tecno-morfo’ del filosofare aristotelico»40. È indubbio che nella Fisica aristotelica, le esemplificazioni delle quattro cause siano spesso tratte dall’ambito delle operazioni e delle produzioni umane, affermando così una sorta di modello bio-tecno-morfo, in cui la derivazione del linguaggio fisico da quello biologico o genetico, sconta già la sua preventiva analogizzazione con la composizione tecnica41. Ciò risulta assolutamente esplicito nella tassonomia zoologica dell’umano, ove si muove dalla refutazione dell’opinione sofistica secondo cui «l’uomo non sia stato ben fatto, ma che sia il peggio organizzato (synésteken) di tutti gli animali»42, proponendo, a ben vedere, due direzioni differenti alla dimostrazione. Quella della specificazione e quella della comparazione. Da un lato, si rileva che «l’uomo ha molti mezzi di difesa a 39
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Aristotele, Politica, I, 4, 1254a 7. È rilevante che una tale definizione compaia in una distinzione tra strumenti e proprietà, ovvero tra strumenti produttivi e strumenti d’uso e preceda la declinazione del rapporto asimmetrico tra schiavo e padrone, ove il primo è completamente del padrone, mentre quest’ultimo non è completamente (padrone) dello schiavo se non nella funzione di padrone-di. E ciò si giustifica giusto nel significato di proprietà come strumento d’uso: uno strumento è del suo proprietario in quanto è ciò-di-cui viene fatto uso e non in quanto propriamente strumento o uso. Nella filigrana pratica della funzione dell’uso si può intravvedere non solo la genesi della dialettica hegeliana servo-padrone, ma anche l’invertibilità del rapporto mezzo-fine, che in quel caso, si fa patente mediante l’elaborazione della morte, ovvero mediante una riesecutivizzazione storica del bìos. Su questo è d’obbligo il rimando almeno a Alexandre Kojève, La dialettica e l’idea della morte in Hegel, a cura di P. Serini, Einaudi, Torino 1991, e Jean Hyppolite, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, a cura di G. A. De Toni, Bompiani, Milano 2005. Heinz Happ, Hyle. Studien zum aristotelischen Materie-Begriff, De Gruyter, Berlin-New York 1971, p. 75. In merito, rimando a H. Happ, Hyle…, cit., pp. 273-277. Cfr. Ernst Topitsch, Erkenntnis und Illusion, Mohr, Tübingen 1988; Geert Keil, Kritik der Naturalismus, De Gruyter, Berlin 1993, in part. pp. 361 e sgg.; Wolfgang Kullmann, Aristoteles und die moderne Wissenschaft, Steiner, Stuttgart 1998. Aristotele, Parti degli animali, 687a 24. Sarebbe superfluo rimarcare l’implicito valore, che questo passo può avere, di confutazione inattuale della nozione di umano come Mängelwesen che si estende nell’antropologia filosofica da Pico della Mirandola a Nietzsche a Gehlen.
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disposizione [e non pochi o nessuno] e può sempre cambiarli e scegliere anche l’arma che vuole e quando vuole»43. Può pertanto essere definito come quello, tra gli altri, phronimòtatos, con più animo, il più assennato, il più sagace, in quanto più dotato nella biomechanè, nell’industria, nella capacità di procurarsi mezzi per vivere e nell’utilizzo del maggior numero di strumenti. Dall’altro, però, si attribuisce la biomechanè anche ad un uccello simile al passero – lo gnaphalos – che ha una voce soave, un bel colore e non ha alcun problema a trovare nutrimento, proprio perché biomèchanos, proprio perché riesce bellamente ad utilizzare (eumèchanos) la sua intelligenza per vivere, sino a riconoscerlo come xenikòs, straniero, estraneo ai luoghi in cui raramente riusciamo a scorgerlo44. In tal modo, si presentano due differenti espressioni di zòon biomèchanon, ovvero di un vivente che assume la forma della propria vita mediante strumenti, macchinazioni, artefatti. Eppure un vivente che vive attraverso una mediazione fatta ad arte, non solo resta un vivente, certo, ma un vivente la cui vita si distingue per tale mediazione. Quella mediazione, però, attraverso cui l’omonimia tra la vita del vivente e la vita propria si risolve o si compone meccanicamente, è espressione di una sorta di sovravitalità, di una vita ancora più vitale in cui la vitalità in quanto tale si presenta. Ancora più vitale tanto da far riemergere quasi una equazione, che fu di Antifonte, tra biomèchanos e àbios, giusto perché chi meglio sa usare gli strumenti «ha molti mezzi per vivere» (DK B43). Non v’è dubbio altresì che quella biomechanè potrebbe dimostrare nell’umano l’intera sua specifica aspecificità, come comprova la sua mano che ha la forma di un archistrumento, organo unico, duplice o multiplo; tuttavia, ciò che viene fatto valere nella classificazione è la funzione e non il mezzo. Le pinne caudali o dorsali, ad esempio, possono avere differenti forme e grandezza, pur non permettendo di assegnare così a diversi generi diversi pesci; possiamo altrimenti comparare la colonna dell’uomo e la spina del pesce, gli arti posteriori di alcuni quadrumani e le gambe dell’uomo, che hanno fors’anche una funzione analoga, ma non possono essere paragonate per la semplice differenza di grandezza o di conformazione. La distinzione che ci riguarda dunque non dovrebbe comprendere né la dimensione o la disposizione, né la mancanza né l’eccesso, né ancora solo l’analogia delle funzioni, ma la loro identità. In un’indiretta glossa ai testi aristotelici e quasi vagheggiando le metamorfosi che avrebbero potuto sorprendere l’umano, Giordano Bruno domanda che cosa accadrebbe se ad un serpente spuntasse una testa d’uomo, 43 44
Aristotele, Parti degli animali, 687a 30-33. Id., Historia Animalium, 616b 17.
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s’ingrossasse il busto, s’allargasse la lingua o si ramificassero gambe, braccia e mani o se, al contrario, si contraessero ad un uomo gli arti, le sue ossa si trasformassero in una sola spina e s’incolubrasse: il primo non sarebbe altro che uomo, il secondo null’altro che un serpente a cui «non converrebbe la stanza, ma la buca»45. E – laddove ancora ciò non bastasse a ribaltare la genesi dell’organo dalla funzione – continua ad interrogare ancora su cosa succederebbe se «l’uomo avesse al doppio d’ingegno che non have, e l’intelletto agente gli splendesse tanto più chiaro che non gli splende, e con tutto ciò le mani gli venisser trasformate in forma de doi piedi, rimanendogli tutto l’altro nel suo ordinario intiero»46, cosa ne sarebbe delle dottrine, delle discipline, delle città, degli edifici? Si potrebbe certo proseguire a domandare che cosa cambierebbe se l’umano, oppure un qualsiasi altro animale, avesse più sensibilia o di meno, se avesse non solo differenti mezzi, ma differenti poteri o possibilità e quindi differenti enekà tinos, differenti in vista di cui, se poi mutasse l’unità e la costituzione della sua medesima esperienza o anche la sua identificazione con se stesso. Se però la mossa bruniana provava a porre questi interrogativi, mediante un recupero – via Democrito-Lucrezio – della physis eleatica, ben altra fu l’eredità che lasciò al pensiero moderno il vocabolario biologico aristotelico. Laddove, infatti, non si riconosca la valenza logica o addirittura meta-teorica dei principi della scienza aristotelica della natura, laddove non si converta la loro riflessività propria nei termini di una regolazione della conoscenza, ma la si traduca nel segno distintivo degli enti di natura, nella loro propria riflessività o regolatività, è evidente che si apra tutt’altra strada. E lungo questa, la scienza della scienza della natura si trasforma in una scienza prima della natura ovvero in una scienza della natura primariamente come natura vivente. Si realizzava così una naturalizzazione della dottrina aristotelica della scienza, un’ulteriore invenzione della natura, che non è riconosciuta più
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Giordano Bruno, Cabala del Cavallo Pegaseo, in Opere italiane, a cura di N. Ordine, Utet, Torino 2002, p. 453. Ivi, p. 454. La critica bruniana dell’anticipazione della funzione sull’organo colpisce ancora in pieno l’aristotelismo contemporaneo sovente manifestato da Heidegger, ad esempio in Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt - Endlichkeit - Einsamkeit (Wintersemester 1929/30), in Gesamtausgabe, Bd. 29-30, hrsg. von F.-W. von Herrmann, Klostermann, Frankfurt 20043, p. 319 e nei Seminari di Zollikon, a cura di E. Mazzarella e A. Giugliano, Guida, Napoli 1991, p. 318-319. In merito si veda F. Volpi, Aristotele e Heidegger, Laterza, Bari-Roma 2010. Per una revisione in chiave antropologica del medesimo tema bruniano, si veda André Leroi-Gourhan, Il gesto e la parola, 1 (Tecnica e linguaggio), a cura di F. Zannino, Einaudi, Torino 1977.
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soltanto come «l’essere per i viventi»47, l’essere dei viventi come essere-invita, ma semplicemente come l’essere in quanto essere-in-vita. Non v’è espressione più chiara di una tale evoluzione – di quella che, con un’arditezza lessicale, potremmo chiamare: zoomorfizzazione metafisica dell’ontologia – in cui si fondono physis, morphè ed organismo, se non alcuni degli scritti che Leibniz scrisse, a margine della polemica con Stahl. Nell’Antibarbarus, egli annotava che etsi non omnia corpora sint organica, tamen in omnibus etiam inorganicis latere organica48; la vitalità dei corpi viventi è, infatti, quella di una perpetuazione per natura casuale (metà tò autòmaton), che include nutrizione e propagazione, ovvero la vitalità del vivente in generale (della misura semplice di ogni vivente: l’organismo) in quanto substantia automata49. E si badi che qui l’automaticità della sostanza, fa coincidere in se stessa due nozioni mutuamente escludentesi nel lessico aristotelico: tautòmaton, il caso – ciò che consente di dire che «il tripode è piombato a terra per caso»50, in quanto non è caduto per far cadere, ovvero per trasgredire il suo fine, ma contro di questo – e tyche, la fortuna – che invece consente di segnalare quanto un’azione si approssimi alla prosperità. Tale substantia autonoma è la vera unità, l’unità reale, che differisce dai punti matematici, i quali «non sono che estremità dell’estensione e modificazioni, di cui è noto che il continuo non può essere composto»51. Ed invece il continuo – che non è più esperienza duratura del movimento, ma legge di continuità – non può che realizzarsi in quelle sostanze che garantiscono la coesistenza non solo «di quelle cose che si percepiscono insieme, ma anche [di] quelle che percepiamo successivamente, purché nel passaggio dalla percezione dell’una alla percezione dell’altra, non sia perita quella antecedente o non sia sorta quella successiva»52. La legge di continuità è così propriamente principio bio-logico di conversione del genere in una quasi-specie opposta. Mostrando una volta di più la sovrapposizione, cui 47 48
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Aristotele, De Anima, 415b 14-15. Georg Wilhelm Leibniz, Antibarbarus Physicus pro Philosophia Reali contra renovationes qualitatum scholasticarum et intelligentiarum chimaericarum, in Philosophischen Schriften, hrsg. von C. I. Gerhardt, Weidmann, Berlin 1960-61, VII, p. 344. Cfr. Id., Obiezioni contro la teoria medica di G. E. Stahl. Sui concetti di anima, vita e organismo, a cura di A. M. Nunziante, Quodlibet, Macerata 2011, in part., p. 67. Id., Tabula notionum praeparanda, in Sämtliche Schriften, Deutsche Akademie der Wissenschaften, Darmstadt 1923, VI 4, A, p. 633. Aristotele, Fisica, 197b, 17-18. G. W. Leibniz, Nuovo Sistema della Natura, in Scritti filosofici, I, a cura di M. Mugnai e E. Pasini, Utet, Torino 2000, p. 448. Id., Inizi metafisici della matematica, in Scritti filosofici, III, a cura di M. Mugnai e E. Pasini, Utet, Torino 2000, p. 478.
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già si è fatto cenno, tra pràxis e zoé – ma nel linguaggio moderno di un compiuto naturalismo immaterialistico, che ha cioè realizzato una radicale naturalizzazione dell’immaterialità di principio della Fisica aristotelica – Leibniz introduce così un’esistentificante biologico dell’ente fisico, rispondendo – come ebbe a notare Heidegger – alla domanda greca della sensatezza-esistibilità del molteplice, oramai nella forma della coappartenenza tra realtà effettiva e rappresentare53. Quando giungerà all’Antropologia hegeliana questo sovra-essere del vivente, la vita avrà oramai assunto i caratteri dell’immaterialità universale della natura, la vita semplice appunto; il fondamento assoluto di ogni particolarizzazione e di ogni individuazione54, in quanto potenza d’essere tutto. Così si sarebbe potuto finalmente intendere «la differenza dell’individualità, che è per sé, verso di sé stessa in quanto semplicemente è»55; l’individualità come modo della singolarità naturale. Non è ora necessario al nostro intento rinvenire nel pensiero filosofico e scientifico contemporaneo le linee di una riviviscenza, che sin troppo riduttivamente, si definirebbe vitalistica, o quelle della conservazione di antichi concetti sotto nuove vesti; si potrebbe agevolmente rimontare alla riscrittura post-kantiana della tavola delle categorie biologiche in Hans Driesch56 ed alla sopravvivenza, nella sua opera o ancora nella più recente genetica, della nozione di entelechia57, o ancora all’uso che la biologia molecolare fa del termine caso58. Si potrebbe di certo trovare una traccia leibniziana nella riconduzione schrödingeriana dell’intera fibra cromosomica ad un cristallo aperiodico59 o nel richiamo a concetti organologici (come l’indeter53 54 55 56
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Martin Heidegger, La metafisica come storia dell’essere, in Nietzsche, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1994, pp. 893-910. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Filosofia dello Spirito, in Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, II, § 389, a cura di A. Bosi, Utet, Torino 2000, p. 110. Ibidem. Hans Driesch, Die Kategorie “Individualität” im Rahmen der Kategorienlehre Kants, “Kantstudien”, 16 (1911); Id., Kant und das Ganze, “Kantstudien”, 29 (1924), pp. 365-376; Id., The problem of individuality, Mc Millian & Co., London 1914. Id., Entelechie und Seele, “Synthese”, 4, 1, 1939, pp. 266-279; Richard C. Lewontin, Genetica come ideologia. La dottrina del DNA, a cura di B. Continenza, Bollati Boringhieri, Torino 1993; A. Pichot, Histoire de la norion de gène, Flammarion, Paris 1999. Jacques Monod, Il Caso e la Necessità, a cura di A. Busi, Mondadori, Milano 2001, in part. pp. 93-109. Erwin Schrödinger, Che cos’è la vita? La cellula vivente dal punto di vista fisico, a cura di M. Ageno, Adelphi, Milano 1995, p. 106.
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minazione causale, la qualità dell’intero o l’interazione) nella meccanica post-classica60. Basta qui invece anche soltanto rammentare come la rivendicazione di autonomia per la biologia passi sovente per la sua definizione come scienza di idee61 o per l’attestazione secondo cui «non vi sono oggetti per le scienze biologiche se non quelli che sono stati concepiti»62. E così si può giungere ad affermare che «in opposizione ai processi fisici, quelli biologici non sarebbero determinati da leggi di natura»63, ma attraverso concetti (come quello di evoluzione, variazione, selezione o caso). In questi casi, sia chiaro, non si intende decostruire la rigidità della nozione di legge naturale, riconoscendola come «indicazione per la formazione o la trasformazione di proposizioni»64 o addirittura come «profezia»65, ma di riconoscere proprio alle scienze biologiche un ambito di ricerca e di applicazione già concettualmente concepito, l’estensione di un programma che contraddistinguerebbe il mondo vivente66. Né vi è posto per alcun finzionalismo o strumentalismo, anzi è possibile trovare giusto nella biologia uno degli ultimi bastioni di quel realismo scientifico, che Husserl riconobbe come un diffuso realismo segnico, in cui all’intero statuto essenziale della cosa percepita, come “semplice manifestazione”, si contrappone la vera cosa della scienza fisica di cui la prima sarebbe un mero segno67. Alla regolarità delle manifestazioni possibili si sostituisce la regola propria a tutte le manifestazioni possibili, l’ipotesi fondamentale e nascosta della normatività biologica – il codice – «un mondo sconosciuto di realtà che sarebbero delle cose in sé [poste] allo scopo di fornire la spiegazione causale delle 60 61
62 63 64 65 66 67
Cfr. Alexander Rosenberg, Indeterminism, Probability and Randomness in Evolutionary Theory, “Philosophy of Science”, 68, 4, 2001, p. 537. Su biologia e medicina come scienze di idee si vedano Mirko D. Grmek, Storia del pensiero medico occidentale, Laterza, Roma-Bari 1996 e Ernst Mayr, Storia del pensiero biologico, a cura di P. Ghilsleni, Bollati Boringhieri,Torino 2011, pp. 67 e sgg. Michel Foucault, Introduzione all’edizione americana di G. Canguilhem, Le normale et le pathologique, Reidel, Dordrecht-Boston-London 1978, p. XVII. E. Mayr, Die Autonomie der Biologie, “Naturwissenschaftliche Rundschau”, 55, I, 2002, p. 23 Moritz Schlick, Die Kausalität in der gegenwärtigen Physik, “Die Naturwissenschaften”, 19, 1931, p. 156; cfr. Karl R. Popper, Logica della scoperta scientifica, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1970. M. Schlick, Fondamento della conoscenza, a cura di E. Severino, La Scuola, Brescia 1963, p. 50 : «La scienza fa delle profezie (Prophezeiungen) che vengono controllate mediante l’esperienza (durch die “Erfahrung” werden geprüft)». E. Mayr, Die Autonomie der Biologie, cit., p. 27. Edmund Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, I, a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 20022, I, pp. 95-96.
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manifestazioni»68, l’unica vera realtà bio-fisica. Ed è proprio su un tale realismo che può reggersi il naturalismo post-umanistico; d’altronde: «realism gives way to post-modernism in biology as well in literature and film»69. Ovvero, con una traduzione tendenziosa ma forse non balzana, il realismo ha fatto strada al post-modernismo tanto in biologia quanto nella letteratura e nel cinema. Si può solo così giungere ad una notazione tessile-testuale dell’organismo, o addirittura ad una date-made flesh70, e non, si badi, in ragione di un’ibridazione in qualche modo operata, ma per una risoluzione – non più solo di principio – degli elementi biologici nella leggibilità di una scrittura. Dal binomio genotipo-fenotipo – che in qualche modo già sistemava in una tipica la diade passato-presente, preparazione-apparizione – si giunge a quello paradigma-sintagma – ove si restaura, senza scarto, la trasparenza, seppure induttiva, del modello. Nell’induttività cova certo una distanza, una distanza di trascrizione, di quella che si potrebbe chiamare telegrafia71, di un disegno a distanza, laddove però il disegno funziona in quanto ha già recuperato questa distanza, è già esso stesso disegno risoluto della distanza. La vita può allora essere ridefinita – in seno alla biologia molecolare – come «‘le istruzioni (o le informazioni) codificate da un gene’, o più semplicemente un codice, una scrittura cifrata […], così da smettere di essere un mistero, per divenire un crittogramma, un puzzle, un codice»72. Poco conta se il richiamo alla grafia naturale, richiami un’eredità non solo scientifico-moderna, ma soprattutto cabalistica o ancora quella dei Zauberbücher di Cardano e Della Porta; ma soprattutto poco importa se l’introduzione di questo modello scritturale sia nel Saggiatore galileiano mediato dall’obbligo ad imparare prima a conoscere la lingua ed a distinguerne i caratteri73, 68 69 70 71
72 73
Ivi, p. 132. D. J. Haraway, Primatology is Politics by Other Means, “Proceedings of Biennal Meating of the Philosophy of Science Association”, II, 1984, p. 495. Eugene Thacker, Data Made Flesh: Biotechnology and the Discourse of the Posthuman, “Cultural Critique”, 53 (Posthumanism), 2003, pp. 72-97. Sulla nozione di telegrafia, si veda J.-F. Lyotard, L’Inhumain: Causseries sur le temps, cit., pp. 47 e sgg. Quanto invece al valore del disegno come l’inizio di tutto, rimando a Paul Virilio, L’incidente del futuro, tr. it. di R. Prezzo, Cortina, Milano 2002, p. 65, che in proposito cita Giacometti, intrecciando – in maniera decisiva per la nostra argomentazione – disegno, residuo e copia. Evelyn Fox Keller, Physics and the Emergence of Molecular Biology: A History of Cognitive and Political Synergy, “Journal of History of Biology”, 23, 3, 1990, p. 392. Galileo Galilei, Il Saggiatore, in Opere, a cura di A. Favaro, Barbéra, Firenze 1890-1904, IV, p. 232. Cfr. Ernst Cassirer, Dall’Umanesimo all’Illuminismo, a cura di F. Federici, La Nuova Italia, Firenze 1995, pp. 147-220.
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giacché l’esperimento consiste in una «interrogazione rivolta alla natura, un’interrogazione che presuppone ed implica una lingua, in cui le domande sono formulate, ed un vocabolario, che ci consente di interpretare e leggere le risposte»74. E poco importa perché nel caso della cosiddetta interpretazione postumanistica delle scienze biologiche non è più in gioco affatto un’esperienza scientifica – la realizzazione razionale dell’oggetto scientifico – né la proposizione sperimentale di un modello, ma l’esperienza immediata, il contatto intimo, che ancora Bacone – Ruggero, però, e non Francesco – richiamava nella cognitio naturalis e divina. Un modello infatti scarica sulle proprie regole di costruzione, l’onere di costituire un isomorfismo con l’osservabile, ed, in base all’osservabile, con l’ancora non osservato75, mentre nel caso della definizione testuale-informazionale della vita, l’isomorfismo è presupposto nell’osservabile, nella datità di qualcosa che si fa osservare in quanto codificato76. 3. Mimetismo naturalistico77 Proviamo ora a verificare la presa del naturalismo postumanistico sullo statuto dell’oggetto biologico, quando oramai le considerazioni condotte, ad esempio da Donna Haraway, sul dogma centrale della biologia molecolare, si sono rivelate oramai inattuali dacché il paradosso del valore-C ha incrinato la relazione di corrispondenza biunivoca tra la dotazione genetica di un organismo e la sua variazione morfologica o comportamentale. 74
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77
Alexandre Koyré, Galilei und Platon, in Leonardo, Galilei, Pascal. Die Anfänge der neuzeitlichen Wissenschaft, Fischer, Frankfurt 1998, p. 90; cfr. ivi, p. 57. Cfr. Massimo Barale, Immagini della Ragione. Logos e Ratio all’alba della scienza moderna, Guida, Napoli 1983. Bas C. van Fraassen, The Scientific Image, Oxford Uni. Press, Oxford 1980, in part. pp. 46 e sgg, in cui si sostiene una teoria dei modelli come argomento di un empirismo costruttivo. In questo passaggio si può apprezzare tutto il peso dell’ambigua nozione di isomorfismo che, presente nel Tractatus wittgensteiniano – e poi profondamente emendata nelle Ricerche filosofiche – trapassa nella tradizione scientifica contemporanea ed in specie nel realismo scientifico. Per un’acuta critica al riguardo, oltre al già citato problema di Schlick ed ai classici Davidson e Seller, si veda J.-L. Lyotard, Il Dissidio, cit., pp. 19 e sgg. Ad alcune delle questioni esaminate nel seguente paragrafo mi sono dedicato con maggiore diffusione in La normalità dei corpi. Sull’assiomatica dello spazio biogiuridico, in Dal corpo al simbolo. Ermeneutiche della corporeità, a cura di V. Bochicchio, Franco Angeli, Milano 2011, pp. 169-194.
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L’allargamento allo studio della genetica degli eucarioti ha rivelato, infatti, una complessità inattesa, in cui ampie parti della sequenza genomica (segmenti di ‘junk’ DNA) sembrano non avere funzioni. Nella medesima direzione, quando, all’inizio del nuovo secolo, fu anche completato lo Human Genome Project (HGP), scoprendo che la complessità morfologica o comportamentale non era correlata al numero di geni di un organismo, la ricerca biologico-molecolare si rivolse al proteoma, con la definitiva imposizione di un pattern teorico radicalmente diverso da quello dell’era genomica. «L’emergenza della proteomica – scrive Sarkar – riprende lo spirito della prima biologia molecolare, in cui tutte le tipologie molecolari, e specialmente le proteine, erano il centro dell’interesse»78, restituendo una visione pluralista della base molecolare della vita. Un tale passaggio, in grazia del quale vengono sollevati nuovi interrogativi epistemologici «sulla rilevanza dell’approccio fisico rispetto a quello semiotico o informazionale»79, costituisce lo sfondo del modello sintetico rappresentato dalla biologia dei sistemi o sisteomica. Dalla analisi della struttura fisica delle molecole componenti il DNA, corredata da un’interpretazione informazionale e semiotica del suo funzionamento, al sequenziamento del genoma umano, sino alla ricerca proteomica, rivolta alla descrizione del complessivo contenuto proteico di un dato tipo di cellula in determinate condizioni, il profilo della biologia molecolare si è profondamente modificato sin nei suoi assunti metodologici ed epistemici. La medesima possibilità di disporre, per i problemi della biologia molecolare, di un modello esplicativo definito ‘stereospecificità’, capace cioè di rendere conto di come la struttura, o la forma fisica, specificasse il comportamento, così come l’introduzione delle nozioni, per quanto vaghe, di informazione e di programma – secondo cui la specificità derivava invece dall’ordine combinatorio e dalla composizione delle sub-unità nel DNA e dalle proteine – erano dettati da un indirizzo di ricerca che aveva, almeno fino agli anni ’70 del secolo scorso, privilegiato l’esplorazione della struttura dei procarioti, ovvero di organismi monocellulari senza un nucleo, ed in specie del batterio Eschirichia Coli, in cui ogni porzione di DNA aveva una funzione regolativa. Diviene così più difficile rispondere alle questioni che sono a lungo sembrate essenziali per designare un ente biologico: ovvero, individualità e causalità. Si potrebbe asserire che, sin dagli ultimi decenni dell’Ottocento, la nuova Scienza del Vivente abbia legato il suo destino ai nodi della quadrupli78 79
Sahotra Sarkar, Genomics, Proteomics and Beyond, in A Companion to Philosophy of Biology, ed. by S. Sarkar, A Plutynski, Blackwell, Malden 2008, p. 65. Ivi, p. 71.
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ce radice del principio di ragion sufficiente, se è vero che la rinuncia al ricorso alla causa finale è dettato dall’affermarsi della biologia evoluzionistica, quello alla causa formale dall’abbandono della morfologia animale e vegetale, tipica della scienza goethiana, quello della causa efficiente dalla critica al meccanicismo ed al determinismo della meccanica newtoniana e quello della causa materiale dal netto, quanto complesso, superamento della descrizione fisico-elementare ancora condivisa dalle prime ricerche citologiche della teoria cellulare di Schwann prima e Virkow, poi80. Sarebbe però frutto di una concezione ingenua della storia della scienza, la tesi di una progressione concettuale senza residui, come dimostra la rinascenza di una nozione, se non fisico-classica, almeno tardo-kantiana di etere nella dottrina einsteiniana di un assoluto spazio metrico. Allo stesso modo, anche alle refutazioni prima elencate si accompagnano altrettanti recuperi ed eclettiche sintesi, tanto da poter definire nelle scienze biologiche la dominanza di un intreccio tra quei quattro principi, in conformità della quale la domanda circa la causalità biologica diviene sempre domanda circa una peculiare causalità della trasformazione, che ad un tempo perviene alla qualità, all’estensione, alla funzione ed al movimento. La definizione di una tale matrice si è affermata nello sviluppo della maturazione concettuale di una disciplina sperimentale, come la biologia, che ha assistito nella sua storia contemporanea al prolungarsi di una secolare disputa sul destino della sua autonomia, come ancora testimoniano i lavori di Mayr o di Rosenberg81, ove la rivendicazione di indipendenza teorica si accompagna al proposito di contrastare ogni ipotesi riduzionistica teorica, esplicativa o costitutiva82 alle scienze fisiche o meglio chimico-fisiche83. Così come ancora chiare sono le vestigia di una tale vicenda nella riflessione filosofico-biologica sulla dominanza della biologia molecolare o della
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Cfr. Marcel Florkin, A History of Biochemistry, Elsevir, Amsterdam 1972, e Lauro Galzigna, Le idee chimiche del XX secolo, Borla, Roma 1983. E. Mayr, Is Biology an Autonomous Science?, in Toward a New Philosophy of Biology. Observations of an Evolutionist, Harvard Uni. Press, Harvard 1988, pp. 8-23; in part., pp. 9-10. S. Sarkar, Genetics and reductionism, Cambridge University Press, Cambridge 1998. Cfr. David N. Stamos, Quantum Indeterminism and Evolutionary Biology, “Philosophy of Science”, 68, 2001, p. 165; Robert N. Brandon, Scott Carson, The Indeterministic Character of Evolutionary Theory: No ‘Hidden Variables” Proof No Room for Indeterminism Either, “Philosophy of Science”, 63, 1996, pp. 315337. Di necessaria lettura resta, al riguardo, Mario Bunge, Causality: the Place of the Causal Principle in Modern Science, Harvard Uni. Press, Cambridge 1959.
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genetica84 – ed altrettanto, seppur su minor scala potrebbe valere per la genetica delle popolazioni – quand’anche non si fa esplicito riferimento ad alcun neo-vitalismo od organicismo post-romantico. Ciò che qui però maggiormente rileva non è una differenza di scala o di complessità, tanto meno una distinzione tra oggetti scientifico-naturali; piuttosto la ricaduta di alcune formulazioni teoriche che introducono, in termini fisici, le categorie di «unità, organizzazione e causalità tra i costituenti elementari della materia». Giusto una tale argomentazione condusse Hermann Weyl a sostenere che «nella teoria della realtà i fattori ideali che sono in questione devono essere essenzialmente rappresentati nello stesso modo delle particelle elementari e delle loro forze, cioè mediante un sistema di termini simbolici»85. Non si tratta quindi propriamente di un influsso del quanto-meccanico nel biologico, ma di riconoscere che secondo i principi della meccanica quantistica, infatti, si può intendere la legalità fisica solo se non si suddivide l’ente fisico in questione nella sua singola porzione spaziale, ma lo si considera come un tutto. Gli elementi del movimento di un corpo non sono affatto i movimenti del suo punto materiale, ma le ondulazioni materiali periodiche nell’intero spazio di configurazione. E come un tale rimando alla nozione di campo di costituzione degli oggetti può funzionare riguardo alla determinazione dei fenomeni biologici e della loro causalità? Ciò che aveva consentito ai fenomeni biologici di sfuggire al trattamento classico della causalità era la difficile connotazione della loro singolarità proposizionale. Donald Davidson distinse a questo riguardo due esposizioni possibili della nozione di causation, come relazione causale: la prima – concorde con le riflessioni di Hume e Mill – sosterrebbe che una proposizione causale singolare «a è causa di b» implica che vi sia una legge secondo cui «tutti gli oggetti simili ad a sono seguiti da oggetti simili a b» e che si abbia ragione di credere vera la proposizione singolare solo se si crede vera una legge in essa presente. La seconda, invece, assevera che la proposizione causale singolare non implichi una legge e che possiamo riconoscerla come vera senza dover conoscere alcuna legge86. 84
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Frédéric Bouchard, Moving beyond the Influence of Molecular Genetics in the Debate about Reductionism in Philosophy of Biology, in The Influence of Genetics on Contemporary Thinking, ed. by A. Fagot-Largeault et alii, Springer, Dordrecht 2007, pp. 63-80. Hermann Weyl, Philosophie der Mathematik und Naturwissenschaft, Oldenbourg, München 20007, p. 282. Donald Davidson, Causal Relation, “The Journal of Philosophy”, 64, 21, 1967, p. 702.
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Una tale alternativa presuppone ovviamente una distinzione secondo cui l’asserto causale è quantificabile logicamente come singolare, limitando di conseguenza il valore della relazione in esso contenuta, mentre la legge di causalità risulta epistemologicamente universale, esprime cioè la conoscenza di una conseguenza sufficiente o necessaria tra eventi o tra eventi e circostanze (indicate come condizioni), o meglio tra classi di eventi o tra queste ultime e classi di condizioni87. Orbene, come è possibile convertire una tale differenza tra singolarità logica ed universalità epistemologica nel caso dell’individualità biologica, in cui la particolarità di un evento fisico si realizza come totalizzazione? Stante la non equipollenza tra totalizzazione e totalità – la prima come processo di individuazione, la seconda come dato individuato – la causalità si presenta come una forma categoriale riflessiva, correlativa appunto, la quale, per la sua completezza semantica, implica la costituzione oggettuale del qualcosa, che nel caso dell’oggetto biologico sarebbe dato in quanto totalizzato e non semplicemente compiuto, ovvero determinato ed intero. E siffatta peculiare interezza deriva da una precedente retro-riflessività. Ad un tale problema risponde la definizione di individualità biologica, sia come unità regolata – quindi dotata di quel peculiare tipo di retro-riflessività di cui diremo sotto il titolo di funzione – sia come oggetto unitario dei processi evolutivi e delle correlazioni con l’ambiente circostante. A questa categoria biologica corrisponderebbero almeno tre differenti enti biologici, ovvero i geni, gli organismi e le specie88. Di questi oggetti scientifico-naturali sono, a tutta prima, le specie a mancare di un’evidente determinazione unitaria, scorrendo piuttosto, come si vedrà, in una definizione tassonomica dai difficili contorni, nondimeno anche per i restanti due risulta necessario delineare i limiti stessi della nozione di
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Brian Ellis, Causal Laws and Singular Causation, “Philosophy and Phenomenological Research”, 61, 2, 2000, pp. 329-351; Bill Shipley, Cause and Correlation in Biology, Cambridge Uni. Press, Cambridge 2004. David L. Hull, A Matter of Individuality, “Philosophy of Science”, 45, 1978, pp. 336. «Secondo gli evoluzionisti, le unità della selezione possono essere i singoli geni, i cromosomi, gli organismi, le colonie o i gruppi tipici» e tutti questi potrebbero considerarsi come individui (ivi, p. 338). Sul dibattito in merito a quali siano effettivamente le unità della selezione, si vedano Richard Dawkins, Il gene egoista, a cura di G. Corte e A. Serra, Mondadori, Milano 1995; Niels Eldredge, Stefan J. Gould, Punctuated Equilibria. An Alternative to Phyletic Gradualism, in Models of Paleobiology, ed. by T. J. M. Schopf, Freeman-Cooper, San Francisco 1972, pp. 82-115. Cfr., Filosofia e scienze della vita. Un’analisi dei fondamenti della biologia e della biomedicina, a cura di G. Boniolo e S. Giaimo, Bruno Mondadori, Milano 2008.
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individualità fisica89, o bio-fisica, come quella di classe. Con individuo si può intendere «un’entità localizzata, coesa e continua», ovvero un’entità storica, mentre con classe, un insieme spazio-temporale allargato, «che funziona nelle leggi di natura definite in modo classico»90. Ora, un organismo particolare è localizzato spazio-temporalmente, cioè è un’individualità biologica, se può o non può riprodurre se stesso; non è tale in quanto distinguibile per la sua differenza o identità fenotipica: due gemelli omozigoti non sono il medesimo organismo perché fenotipicamente identici, ed, allo stesso tempo, un medesimo organismo può subire forti cambiamenti fenotipici pur rimanendo individualmente lo stesso91. Pertanto, da un punto di vista rigorosamente evoluzionistico, l’identificazione storica e riflessiva che denota i taxa specifici, in quanto esempi espressi da una descrizione e da una diagnosi, accomuna anche gli individui organici, dacché ambedue sono riconoscibili in virtù di una costanza genetica rinvenibile nel corso di innumerevoli mutazioni genealogiche. Così tanto l’unicità di un organismo può assimilarsi a quella di una specie, quanto il polimorfismo e la politipicità delle specie potrebbe declinarsi nel caso degli individui organici, determinando un rapporto tra parte e tutto che non richiede alcuna similarità92. Ciò implica una peculiare corrispondenza tra la denominazione di un’individualità storica e la sua identificazione come esemplare; pertanto le individualità biologiche – in quanto localizzazioni spazio-temporali o identità storiche – sono il prodotto di una commisurazione morfologica tra unicità ontogenetica ed approssimazione filogenetica, tra descrizione e diagnosi, tra particolarità causale e generalità funzionale. Ebbene, come una tale polarità – entro la quale si istituisce la peculiare totalizzazione che distinguerebbe la riflessività propria di un’individualità organica o specifica o genetica – interferisce con il modello della spiegazione causale in biologia93? Se fino alla persistenza del modello della fisica classica, un’ipotesi come quella della backwards-causation, della relazione causale a ritroso 89
90 91 92 93
Peter Frederick Strawson, Logical Subjects and Physical Objects, “Philosophy and Phenomenological Research”, XVII, 4 (1957), pp. 441-457; Id., Individui. Saggio di metafisica descrittiva, a cura di E. Bencivenga, Milano, Mimesis 2008, pp. 95 e sgg.; Ned Markosian, What are Physical Objects? “Philosophy and Phenomenological Research”, LXI, 2 (2000), pp. 375-395. D. L. Hull, A Matter of Individuality, cit., p. 336. Ivi, p. 345. Ivi, p. 352. Sul nesso tra causalità ed organismo, si veda Jakob von Uexküll, Die Rolle des Subjekts in der Biologie, “Die Naturwissenschaften”, 19, 1931, p. 383 e sgg.
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che avrebbe regolato le strutture teleonomiche94, avrebbe potuto distinguere con nitidezza i fenomeni biologici, nella misura della loro capacità di autopoiesi e di autoregolazione, diversamente stanno le cose se si considera l’indifferenza temporale del nesso di causalità nelle interferenze quantistiche. L’analisi dei concetti caratteristici dell’epistemologia biologica espone a notevoli problemi proprio nella individuazione della duplicità causale che dovrebbe distinguerla da quella unitaria delle scienze fisiche. Si consideri in particolare come mediante l’esibizione di una tale doppia causalità – una tipica della biologia funzionale ed una della biologia storica od evolutiva, una comune alle altre scienze naturali, l’altra riferita invece al «programma genetico, che contraddistingue il mondo vivente»95 – si sia pervenuti a sostenere che «in opposizione ai processi fisici, quelli biologici non sarebbero determinati da leggi di natura»96, ma attraverso concetti (come quello di evoluzione, variazione, selezione o caso). Certo, la medesima struttura delle scienze biologiche definisce differenti ruoli per i metodi comparativi e sperimentali, oltre che per la medesima posizione di leggi naturali; potremmo infatti distinguere una biologia delle cause prossime (come la biologia funzionale) ed una biologia delle cause ultime (la biologia evolutiva)97. Così non solo lo studio delle cause sembra condannato ad un tale pluralismo, ma anche le leggi – espresse dalle teorie biologiche – si troverebbero a godere del mero carattere di generalizzazioni di più alto livello; o spingendosi oltre si potrebbe asserire che quelle biologiche rappresentano un esempio di come le scienze possano conservare le proprie capacità esplicative e predittive
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La nozione di causazione retrograda, come caratteristica di una causazione finale nei processi di auto-organizzazione, è stata coniata da Donald T. Campbell in Downwards Causation in Hierarchically Organized Biological Systems, in Studies in the Philosophy of Biology, ed. by F. J. Ayala, Th. Dobzhansky, Macmillan, London 1974, pp. 179-186. Per la definizione del concetto di downward causation all’interno di un coerente quadro di epistemologia rimandiamo agli studi di Ernst Mayr sui goal-directed processes; cfr. E. Mayr, Teleologic and Teleonomic: a new analisis, “Boston Studies in Philosophy of Science”, 14, 1974, pp. 91-117, in part, p. 98; Id., Cause and effect in biology: Kinds of causes, predictability, and teleology are viewed by a practicing biologist, “Science”, 134, 1961, pp. 1501-1506; Colin S. Pittendrigh Adaptation, natural selection, and behavior, in Behavior and Evolution, ed. by A. Rose, G. G. Simpson,Yale University Press, New Haven 1958, pp. 390-416. E. Mayr, Die Autonomie der Biologie, cit., p. 27. Ivi, p. 23. Ivi, p. 17.
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senza impiegare alcuna proposizione che possa essere chiamata incontrovertibilmente legge98. Sulla polarità appena esposta, tra concetto biologico e legge fisica, si concentra l’intensa riflessione critica di Ernest Nagel, a partire dalla cui esposizione sarà possibile presentare un’ulteriore definizione della causalità biologica. Indichiamo, in primo luogo, due titoli: 1) il carattere generale e tipico della causazione retrograda, e 2) il carattere non-conservativo della causalità fisica o meccanica, sotto cui ordineremo le considerazioni successive. In primo luogo, la preposterità espressa dal nesso di consequenzialità regolativa – proprio in quanto indica la correlazione tra almeno due grandezze di ordine differente, ovvero l’effetto e la sua esecuzione o regolazione posteriore, che produrrebbe un perfezionamento della prima effettualità – può essere rappresentata solo come un tipo generale o come la descrizione generale della circolarità tra processi causali singolari99. In secondo luogo, possiamo indicare fenomeni i fisici non-conservativi della termodinamica come contrassegnati da due caratteri: la tendenza asintotica ad uno stato ultimativo e l’irreversibilità. La possibilità di prevedere la sequenza di stati nella diffusione di un gas è infatti rimandata ad una misura statistica che funge da principio di selezione o di controllo delle linee di causazione meccanica100. Possiamo quindi definire l’ipotesi della causazione retrograda come quella di una generale misura statistica della funzione di processi bio-fisici; stante una siffatta generalità essa non può essere verificata, non può essere cioè considerata come una proposizione sottoponibile alla prova di un’esperienza su fenomeni singolari. Rispetto a tali assunti, Nagel stila una rivisitazione degli argomenti teleologici nella struttura della spiegazione biologica, a partire dalla distinzione tra le espressioni che indicano ‘il fine di’, ‘la funzione di’ ed ‘in ragione di’ come segni distintivi degli organismi viventi e quindi come alternative alle esplicazioni causali101. A rigore, infatti, non si può in alcun modo attribuire alla spiegazione teleologica un carattere causale in quanto la posizione di un fine 98
B. C. Van Fraassen, Laws and Symmetry, Clarendon Press, Oxford 1989, pp. 150 e sgg. 99 Charles Sanders Peirce, Collected Papers, ed. by P. Weiss e C. Hartshorne, I, Harvard Uni. Press, Cambridge 1931-35, I, 211 (1902). 100 Ivi, VII, 471 (1898); cfr. Thomas L. Short, Peirce’s Concept of Final Causation, “Transactions of Charles S. Peirce Society”, 17, 4, 1981, pp. 369-382; Id., Teleology in Nature, “American Philosophical Quarterly”, 20, 4, 1983, pp. 311-319. 101 Ernest Nagel, Teleology Revisited: 1) Goal-directed Processes in Biology, 2) Functional Explanation in Biology, “The Journal of Philosophy”, 74, 5, 1977, pp. 261-301.
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rispetto al compimento di un’azione, non definisce il modo in cui «un futuro stato di cose è casualmente efficiente nella produzione della sua propria realizzazione»102. Esempi di processi diretti-ad-un-fine sono quelli esposti dalla cosiddetta ‘program view’ che perviene, come abbiamo già visto, alle scienze biologiche, subendo una suddivisione in programmi chiusi (il controllo esercitato sui processi evolutivi di un organismo dalle molecole di DNA) e programmi aperti (il controllo compiuto sul comportamento, in particolare di organismi superiori, «che permettono l’incorporazione di informazioni addizionali acquisite mediante istruzione ed altre esperienze»103). Un’ulteriore specificazione può essere offerta dalla dimostrazione di ‘proprietà sistemiche’, riassumibili nei caratteri di plasticità e di persistenza di alcuni processi biologici; in questo senso, «i processi diretti-ad-un-fine nei sistemi viventi sono evidentemente programmati, in quanto contengono “istruzioni” per lo sviluppo di un sottosistema di “feed-back”; e le origini del programma possono essere spiegate dalla teoria evoluzionista»104. In tal caso, però, la direzione verso uno scopo può essere compresa anche senza utilizzare alcuna espressione biologica, né alcuna connotazione propriamente teleologica; al contrario, una esplicazione sistemica potrebbe essere detta ‘causale’, in un’accezione che non distinguerebbe le scienze fisiche da quelle biologiche. Ciò conduce pertanto a considerare più direttamente queste forme di descrizione scientifico-naturale in termini funzionali, assumendo che «la funzione di una data parte di un organismo sia l’insieme di tutte le proprietà disposizionali (comprese quelle fisico-chimiche) che vengono esibite in diverse circostanze, proprietà cioè che sono possedute in virtù dei componenti e della loro organizzazione»105, e che si manifestano nel corso della life history di un organismo106. Se però l’importo modale, e predittivo, proprio della spiegazione funzionale non costituisce un incremento conoscitivo rispetto a quella causale, resta da esaminare quale potrebbe essere il suo valore euristico107. Possiamo infatti attribuire alla determinazione funzionale la presupposizione del dato di fatto che determinati fenomeni bio-fisici siano riconducibili ad un sistema organizzato108 di modo che la sua formulazione «la funzione dell’elemento e nel sistema S e nell’ambiente A è F presupponga (ma non impli102 103 104 105 106 107 108
Ivi, p. 264. Ivi, p. 268. Ivi, p. 274. Ivi, p. 280. Ivi, p. 283. Ivi, pp. 288 e sgg. Ivi, p. 296.
F. Masi - Lo strano caso del naturalismo postumanistico
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chi) che S è diretto ad alcuni fini G, alla cui realizzazione o mantenimento contribuisce F»109. L’intendimento della funzione biologica, qui sostenuto sotto il titolo di goal-supporting view, pur non affermando una riduzione delle leggi e delle teorie biologiche a quelle fisiche, apre un ulteriore ambito di confronto in cui si connettono spiegazione, causalità e predizione. L’ambiguità del concetto di causazione biologica non rimanda quindi alla direzione del nesso di consequenzialità, né alla mera definizione di interezza dei fenomeni organici, né ad una presunta vaghezza predittiva, ma piuttosto alla comprensione della nozione di livello di organizzazione110. L’assunto principale nella spiegazione causale in biologia dovrebbe quindi essere che i processi esaminati, «la cui ultima origine di energia riconosciamo come intra-atomica, mostrano nei loro aggregati, in quanto incorporati in esseri viventi individuali, uno straordinario grado di unificazione e di integrazione»111. In questo senso, acquisiscono particolare valore, oltre alla delineazione di modelli di controllo, la definizione di metodi di disegno, di strategie in grado di modificare e costruire sistemi biologici mediante simulazioni112, di tracciare in un grafo il nesso tra confine biofisico e metabolismo, attraverso il quale è possibile definire i contorni di uno spazio biologico-, o meglio metabolico-simbolico. Presentando uno dei risultati più avanzati della sisteomica, il fisiologo Denis Noble introduce una precisazione utile alla nostra indagine. Riconoscendo il valore della costruzione del primo organo virtuale – un cuore – nella capacità di un tale modello a collegare i livelli cellulare e proteico e, così, a «scendere sino al livello genetico, rappresentando le differenze tra gli schemi di espressione genica di un cuore normale e di un cuore malato, e gli effetti fisiologici di particolari mutazioni genetiche»113, egli aggiunge 109 Ivi, p. 297. 110 Ralph S. Lillie, Biological Causation, “Philosophy of Science”, 7, 3, 1940, pp. 314-336. 111 Ivi, p. 322. Al riguardo, cfr., Metabolomics: The Frontier of Systems Biology, ed. by M. Tomita, T. Nishioka, Springer, Berlin-Heidelberg-New York 2005; Reinhart Heinrich, Stephan Schuster, The Regulation of Cellular Systems, Chapman and Hall, New York 2006. Antesignano di questo approccio è Ludwig von Bertalanffy (An Outline of General System Theory, “British Journal of the Philosophy of Science”, 1, 2, 1950, pp. 134 e sgg.). 112 Foundations of Systems Biology, ed. by H. Kitano, Cambridge, MIT Press 2001; System Biology: A Philosophical Foundation, ed. by F. C. Boogerd, F. J. Bruggeman, J. Hendrik, S. Hofmeyr, H. V. Westerhoff, Elsevir, Amsterdam 2007. 113 Denis Noble, La musica della vita. La biologia oltre la genetica, Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. 103.
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una notizia tratta dalla sua esperienza di quotidiana didattica. «Quando a lezione mostro filmati del cuore virtuale, aggiungo spesso la scritta “ceci n’est pas un cœur” (questo non è un cuore)»114. L’analogia cercata con la dissoluzione delle immagini di Magritte non consiste, certo, nella rivendicazione di un margine di realtà per ciò a cui gli schemi, i modelli, o semplicemente la figura si riferiscono, non essendolo; non si tratta di un’assicurazione dell’estraneità dell’ente fisico o biologico alla sua raffigurazione. Ma, come per Magritte, l’introduzione marginale della didascalia serve a dichiarare lo statuto di calligramma dell’intero quadro o dell’intero fotogramma in cui il cuore si contrae o si rilassa115. Calligramma tanto più riuscito, quanto più «la simulazione è convincente»116. E si intenda: simulazione di null’altro che del funzionamento presentato, simulazione che ha il suo metro di riuscita non nella narrazione puntuale di uno o più processi che accadono fuori dallo schermo, ma nell’esposizione dei mutamenti che si verificano, in un dato tempo, a tutti i livelli di indagine, a tutte le scale possibili. In questo la simulazione varia l’assetto dell’esperimento: essa ucronizza il processo, non descrive ciò che accade in successione, né ciò che accade allo stesso tempo, ma sovrascrive su ciò che potrebbe accadere in tutti i suoi strati possibili. Mette in rilievo la sua miniaturizzazione. Ma tra rilievo e miniaturizzazione si applica il contrasto del calligramma. La nota di Noble moltiplica la pretesa di attenzione del dottor Tulp. “Cari giovani allievi – potrebbe esortare il fisiologo inglese – non si tratta di fare attenzione al fascio di nervi e vene, al barlume biancastro di un osso che il dottor Tulp mostrava scostando con cura il sipario della pelle, non si tratta nella messa in scena della profondità nel Theatrum medicum. Ora – davanti a questo schermo – dovete fare attenzione alla miniaturizzazione che metto in rilievo, alla sovraimpressione del microscopico sul macroscopico!”. E se l’attenzione richiamata non sorge, se la modificazione attentiva che si comanda – “fate attenzione!” – non si realizza? Beh, allora non si avverte il contrasto e si prende la sovrascrittura per scrittura e la scrittura per ciò che c’è scritto. E così il calligramma diviene calligrafia e la calligrafia tatuaggio ed il tatuaggio mimetismo naturalistico. Come si potrebbe, d’altronde, naturalizzarsi nel calligramma natura se non decorandosi della scrittura che essa stessa è? 114 Ivi, p. 104. 115 Cfr. M. Foucault, Questo non è una pipa, a cura di R. Rossi, SE, Milano 1997, pp. 12-40. 116 D. Noble, La musica della vita…, cit., p. 105.
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In questa domanda si forza più di un’ambiguità di quel naturalismo postumanistico – che abbiamo affrontato come uno strano caso – non solo per la conversione realistica dell’immaterialismo di principio della tradizione post-aristotelica, ma anche perché esso arriva a proporre questa conversione come una sorta di denaturalizzazione di quella natura – immedesimandosi finalmente nella quale – l’umano decreterebbe la propria obsolescenza117. Non v’è certo bisogno di ricorrere alla favola dei Silicoidi118 o alle profezie progressive dell’Extratropianism, per comprendere la contraddizione epistemologica che cova nell’affermazione secondo cui «gli organismi hanno cessato di esistere in quanto oggetti di conoscenza e sono stati sostituiti da componenti biotiche, da speciali dispositivi per l’elaborazione di informazioni»119. Tale contraddizione è implicita nella pretesa sostituibilità tra oggetto scientifico e dispositivo, come se – in barba al retroterra foucaultiano-deleuziano che spesso viene evocato – si assumesse una loro originaria distinzione. Laddove si rivendica «la microelettronica come fondamento tecnico dei simulacri, cioè di copie senza originali»120, e poi nella stesura di uno schema – che dovrebbe illustrare dicotomicamente le differenze tra la biomedicina del tardo Ottocento e quella contemporanea – si dispongono, nella medesima colonna, testo, componente biotico e simulazione121, non si apre una falla logica irreparabile? Non è proprio nell’equazione tra simulacro e simulazione che si realizza l’impasse del naturalismo postumanistico? Nella testualità cyber-organica non vi è più spazio per la somiglianza immateriale, di cui, a leggere Benjamin, sarebbe canone la lingua, che fa del nesso significativo il portatore del rapporto «della sua forma scritta all’oggetto significato»122. Quando quel portatore – che è un baleno, un indice, che guizza via – viene anch’esso trascritto o disegnato, allora anche il 117 Si tratterebbe, piuttosto, della defisicalizzazione o deorganicizzazione della nozione classica di natura, che la pervadenza o la onnipresenza della testualità avrebbe sancito. 118 D. Nolbe, La musica della vita…, cit., pp. 17 e sgg. 119 D. J. Haraway, Manifesto Cyborg, cit., p. 60. 120 Ivi, p. 61. Per intendere appieno l’opzione teorica per la quale qui Haraway opta bisognerebbe dare il giusto risalto all’interna contraddizione nella definizione di simulacro tra due delle fonti più frequentemente richiamate dall’Autrice: il Deleuze di Simulacro e filosofia antica (in Logica del senso, a cura di A. Verdiglione, Feltrinelli, Milano 2005, pp. 223-246) ed il Baudrillard di Simulacres et simulation (Galilée, Paris 1981). 121 D. J. Haraway, Manifesto Cyborg, cit., pp. 143-144. 122 Walter Benjamin, Sulla facoltà mimetica, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 73.
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simulacro può tornare somiglianza e la lingua un semplice mimetismo. Insomma la chimera epistemologica del naturalismo postumanistico è quella in cui la somiglianza immateriale dei saperi si realizza, si fa unica realtà; ma, giacché non perde la sua immaterialità, quella realtà scritturale diviene una hidden reality, l’arcaismo della leggibilità di una lingua mai scritta eppure trascrivibile come una sequenza di rune, geroglifici e pittogrammi. Ed infine nel geometrismo morboso dell’ornamento123. Rammento una pagina di Leonardo, che Freud cita nel saggio dedicato ad un suo ricordo d’infanzia, dove si legge che «l’atto de’ coito e le membra a quello adoperate son di tanta bruttura che, se non fusse la bellezza de’ volti e li ornamenti delli opranti e la sfrenata disposizione, la natura perderebbe la spezie umana»124. Più che assentire alla diagnosi psicoanalitica di una cupa ascesi, della condanna ad avere cognizione di qualcosa prima di amarla o di odiarla, vien fatto di pensare a quanto Leonardo fosse consapevole del carattere meduseo dello sguardo, della povertà cromatica dei disegni a cui consegnava le sue osservazioni. Ed a quanto proprio per questo si provò ad indovinare il colore dell’aria, delle distanze tra i corpi, dei monti tanto più opachi e turchesi quanto più erano lontani. Più che l’ornamento, in verità, cercava le tinte dell’esperienza, le tinte attraverso cui restituire l’unità dell’esperienza. Non v’è decoro nei suoi schizzi anatomici né tra gli scenari dei suoi dipinti. Né mimetismo. Perché ornamento e mimetismo sono semplicemente inesperibili. Ed invece l’esortazione – Naturalizzatevi! – sembra percorsa giusto da una nostalgia per l’esperienza. Naturalizzatevi! Copritevi del tatuaggio ‘natura’ prima che la natura perda, di nuovo, la specie grafica. L’ultimo surrogato di realtà.
123 Cfr. Gilbert Durand, Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’antropologia generale, tr. it. di E. Catalano, Dedalo, Bari 2009, pp. 228 e sgg. Sulla delittuosità dell’ornamento e sul suo nesso con l’umanizzazione come stilizzazione si veda Adolf Loos, Ornamento e delitto, in Parole nel vuoto, a cura di S. Gessner, Adelphi, Milano 2009, pp. 217-228. 124 Sigmund Freud, Un ricordo d’infanzia di Leonardo da Vinci, in Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, a cura di C. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino 1996, p. 82.
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MARCO STIMOLO
ECONOMIA COME UMANO-LOGIA
La dicotomia classica tra naturale/reale e sociale/artificiale ha costituito una traccia tematica di notevole importanza per l’intera storia della filosofia, la quale ha proposto un caleidoscopio di posizioni teoriche. Per ciò che concerne le tesi a favore di questa dicotomia, esse sono accomunate dall’adozione – più o meno esplicita – di una prospettiva riduzionista. Il risultato di tali analisi è generalmente consistito nell’ammissione di una derivabilità lineare dell’artificio sociale dalla realtà oggettiva della natura. In sintesi, il programma di ricerca riduzionistico aspira a fornire una spiegazione meccanica dei fenomeni tramite una riduzione dei processi complessi a processi più elementari, che esibiscono un carattere naturale non controverso. Sul piano dell’etica e delle scienze sociali la dicotomia tra natura e società è andata specificandosi nelle dicotomie mente/cervello e interno/ esterno. La mente è stata considerata come il centro di controllo esecutivo del comportamento individuale e come un’entità indipendente sia dalle relazioni con l’esterno che dal suo supporto neurologico. Questo dualismo tra mente e cervello è prodromico alla dicotomia tra esterno e interno. Secondo tale prospettiva, la mente, in quanto centro di controllo esecutivo indipendente, sarebbe in grado di distinguere le informazioni tramite gli attributi qualitativi di ‘interno’ ed ‘esterno’. L’internalismo generalmente adottato nella teoria della motivazione è un esempio di questa impostazione generale. In queste pagine si vuole mettere in discussione la cogenza di queste dicotomie (naturale/sociale; mente/cervello; interno/esterno) all’interno della disciplina economica tramite l’analisi degli agent-based models (ABMs), che esibiscono una ibridazione costitutiva tra natura e artificio. In sintesi, si vuole affrontare il problema tramite un discorso meta-teorico sull’ontologia regionale implicata dai nuovi modelli di analisi economica. La tesi che si vuole sostenere è quella di una caratterizzazione dell’economia come umanologia, ovvero come ‘discorso dell’uomo sull’uomo’ – come
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sostiene Giannini1 – che mira a decostruire le ipotesi e le assunzioni ingenuamente fisicaliste su cui si sono fondati i modelli di analisi economica, soprattutto in ambito anglo-americano, sino alla metà del secolo scorso. 1. Individualismo metodologico e atomismo ontologico Il riduzionismo che ha caratterizzato in modo pervasivo i modelli economici nella prima metà del ’900, è da intendersi come il risultato di una coniugazione di tre istanze distinte e interdipendenti: atomismo ontologico, determinismo mereologico e riduzionismo metodologico2. Vediamo come queste tre istanze interagiscono. La tesi dell’atomismo asserisce che le entità distinguibili numericamente e non divisibili posseggono delle qualità indipendentemente dalla loro relazione con altre entità. Secondo il determinismo mereologico, il comportamento di un aggregato complesso (i.e. fenomeni sociali) è determinato dal comportamento delle sue parti. Tale prospettiva teorica ammette la completezza causale del microlivello, mentre l’aggregato da esso derivante è causalmente inerte3. In coerenza con queste due istanze, secondo il riduzionismo metodologico il comportamento di un sistema complesso deve essere spiegato tramite la conoscenza delle sue parti elementari, ovvero, l’explanans deve appartenere ad un livello di complessità più basico rispetto all’explanandum: la spiegazione scientifica di un fenomeno complesso avviene tramite micro-fondazione. Su questa base possiamo individuare una scala di riducibilità di principio del macrolivello sociale al microlivello della fisica. Un fenomeno sociale è riducibile all’interazione di individui indipendenti; ogni individuo è scomponibile nelle sue reti neurali; queste ultime sono scomponibili nelle loro funzioni biologiche, a loro volta riducibili a relazioni causali di tipo fisico. Da un punto di vista ontologico, quindi, la fisica rappresenterebbe le fondamenta dell’intero edificio della conoscenza scientifica4. Il problema fondamentale di questa riducibilità di principio dei fenomeni è che essa non implica alcuna restrizione. Ovvero, qualsiasi fenomeno è sempre scomponibile nei suoi elementi più semplici, fino ad arrivare allo ‘zoccolo 1 2 3 4
Cfr. Gianluca Giannini, L’antropo-lògo che ancora sono, supra, pp. 64-86. Geoffrey Hodgson, Economics and Evolution. Bringing Life Back into Economics, University of Michigan Press, Ann Arbor MI 1996. John Dupré, Economics without Mechanism, in The Economic World View, ed. by U. Mäki, Cambridge University Press, Cambridge, 2001, pp. 308-330. G. Hodgson, Economics and Evolution, cit., pp. 143 sgg.
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duro’ della sua costituzione fisica. Questa è una conseguenza dell’assunzione di un rapporto di derivabilità lineare tra i vari processi costitutivi di un fenomeno, collocati a differenti livelli di complessità. Certamente l’economia è una scienza autonoma, che non mira alla deduzione delle sue leggi dalle leggi della fisica. Si è detto che la possibilità di riduzione è solo in principio e non effettiva. Ciononostante, è possibile riscontrare delle implicazioni rilevanti di questa riducibilità di principio nella teoria della scelta razionale – da ora in poi RCT (Rational Choice Theory). Nell’ambito della RCT le implicazioni di questa riducibilità di principio si configurano come una fisicalizzazione delle sue unità di analisi. È noto che l’economia assume l’individuo come unità di analisi di base. Questo avviene in virtù di una istanza metodologica e non ontologica, nella misura in cui l’agente singolo costituisce il prius logico dell’analisi economica. In ogni caso, l’identificazione metodologica dell’unità di analisi di base implica un riduzionismo e un determinismo mereologico sul piano dell’ontologia sociale. Nella RCT, un ordine sociale è spiegato tramite assunzioni di razionalità, che riguardano esclusivamente l’individuo5. In altri termini, gli ordini sociali vengono spiegati tramite una loro derivazione – deduzione – da condizioni iniziali inerenti agli individui. Ne consegue che l’individualismo metodologico è perfettamente compatibile con una ontologia di matrice riduzionista: l’explanandum, un ordine sociale, è spiegato tramite una sua derivazione lineare da un explanans – l’individuo – di livello più basico. Per esprimersi in termini causali, la razionalità degli agenti sociali è la causa sufficiente della stabilizzazione di regolarità comportamentali a livello sociale. In ciò si riscontra la compatibilità dell’individualismo meto5
A tal proposito è utile proporre una distinzione basica della RCT: quella tra il decisore parametrico e il decisore strategico. Definisco informalmente il decisore parametrico come colui che sceglie in un ambiente, considerato fisso – o dato – in relazione alla sua decisione. Il decisore strategico, invece, sceglie in un ambiente costituito da altri decisori razionali, che a loro volta scelgono un corso di azione sulla base delle decisioni possibili degli altri; pertanto la scelta individuale, in virtù di questa sua dipendenza dalle decisioni altrui, viene più propriamente chiamata scelta strategica. Preciso, dunque, che gli ordinamenti sociali sono spiegati tramite assunzioni di razionalità, che si riferiscono esclusivamente a decisori individuali. La precisazione è importante perché chiarisce come la RCT anche in contesti strategici non ammette la possibilità di riferire – se non in senso derivato – le assunzioni di razionalità a entità sovra-individuali – i.e. ordinamenti sociali. Cfr., John von Neumann, Oscar Morgenstern, Theory of Games and Economic Behavior, Princeton University Press, Princeton 19472; Leonard Jimmie Savage, The Foundations of Statistics, John Wiley, New York 1954; David Gauthier, Morals by Agreement, Oxford University Press, Oxford 1986.
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dologico con un’ontologia riduzionista. Secondo i modelli convenzionali, l’individuo è l’unico ente reale e gli ordinamenti sociali sono solo il risultato aggregato di interazioni strategiche e non godono di uno statuto di realtà autonoma, nella misura in cui essi non dispongono di uno specifico potere causale. In questa sede la compatibilità tra individualismo metodologico e riduzionismo ontologico può essere intesa come l’ultimo tentativo di stabilire, in ambito scientifico, una distinzione tra naturale e sociale6. La possibilità di principio della riduzione dei fenomeni sociali (sistemi ad alta complessità) alle cause fisiche – cause sufficienti – implica infatti una considerazione epifenomenica dei primi, in quanto la realtà esaustiva è la realtà della fisica meccanica7. Per ciò che concerne la tensione polare tra natura e società, questa istanza teorica lascia intatta la prima a discapito della seconda. Il riduzionismo, pervenendo ad una caratterizzazione epifenomenica del sociale, individua nel fisico il referente di una oggettività non controversa e indipendente dal soggetto conoscente. Dall’altra parte, la considerazione epifenomenica del sociale enfatizza il suo carattere artificiale rispetto alla realtà naturale del fisico. Il sociale possiede uno statuto di realtà solo in virtù della sua derivabilità dalla realtà fisica. Essendo reale solo in senso derivato, il sociale si presenta come un artificio privo di una specifica autonomia causale. Secondo questa istanza riduzionista, l’eteronomia della realtà sociale è la cifra della sua artificiosità. La differenza dicotomica tra naturale/reale e sociale/artificiale viene quindi salvaguardata, conferendo una autonomia causale alla sola realtà fisica. Sul piano epistemologico, questa impostazione implica una caratterizzazione meccanica dei modelli teorici8. In generale, possiamo definire il modello teorico come rappresentazione selettiva di un numero ristretto di fattori causali che spiegano il fenomeno di interesse. Per dirla con Solow, «The idea is to focus on one or two causal or conditioning factors, exclude everything else, and hope to understand how just these aspects of reality work and interact»9. Rispetto a questa definizione generale, per modello/ macchina si intende precisamente la caratterizzazione meccanica dei fatto6 7 8 9
Philip Mirowski, Machine Dreams. Economics Becomes a Cyborg Science, Cambridge University Press, Cambridge 2002. J. Dupré, The Disorder of Things, Harvard University Press, Cambridge MA 1993. Cfr. Trygve Haavelmo, The Probability Approach in Econometrics, “Econometrica”, 12, 1944, pp. III-115. Solow Robert. How did economics get that way and what way did it get?, “Daedalus”, 126, 1997, pp. 39-58.
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ri causali isolati. In virtù di questa caratterizzazione, il funzionamento interno del modello risulta dal funzionamento delle sue parti. Inoltre, tale meccanismo interno rende possibile, almeno sul piano logico, una reversibilità del fenomeno riprodotto. Secondo questa prospettiva il modello/macchina è in grado di salvaguardare la distinzione tra naturale e sociale, in quanto le leggi che governano il funzionamento interno delle parti costitutive sono riducibili alle – e dunque deducibili dalle – leggi della fisica. 2. Agent-based models come approccio anti-riduzionistico all’analisi degli ordini sociali. A partire dalla seconda metà del ’900, questa caratterizzazione in termini meccanici del modello economico è stata duramente criticata, a causa del suo carattere irrealistico e dello scarso valore esplicativo del determinismo mereologico per ciò che concerne i fenomeni sociali10. In questa sezione si vogliono prendere in esame gli agent-based models come risposta all’irrealismo dei modelli convenzionali11. Gli ABMs perseguono l’obiettivo di comprendere e spiegare le proprietà di un sistema sociale complesso tramite l’analisi di simulazioni computerizzate di interazioni locali tra agenti. È da precisare che il realismo di questi modelli si riferisce alle loro assunzioni di base e non all’intero sistema riprodotto; quest’ultimo permane, per convenienza analitica, una finzione. Nell’ambito della modellistica economica, per assunzione realistica si intende il risultato di un processo di generalizzazione di una regolarità riscontrata nell’osservazione dei dati empirici. Inoltre, un’assunzione è realistica nella misura in cui fornisce un’ipotesi empirica da testare. Gli ABMs sono realistici, quindi, nel duplice senso di basarsi su assunzioni empiriche e di fornire – sotto forma di un risultato analitico – un’ipotesi empirica falsificabile. Unitamente a queste assunzioni realistiche, gli ABMs utilizzano delle assunzioni palesemente irrealistiche al fine di isolare e di riprodurre in modo non ambiguo il meccanismo causale soggiacente ad alcune tendenze del mondo reale. 10
11
Per le questioni relative al rapporto tra modelli teorici e dati empirici ai fini di un giudizio sulla loro realisticità, si rimanda a Robert Sugden, Credible Worlds: the Status of Theoretical Models in Economics, “Journal of Economic Methodology” 7, 2000, 1-31. Cfr. Robert Axelrod, The Evolution of Cooperation, Basic Books, New York 1984; Id., Complexity of Cooperation, Princeton University Press, Princeton 1997.
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Da un punto di vista tecnico, l’aspetto realistico degli ABMs si può sintetizzare in tre punti essenziali: controllo delle variabili del modello, isolamento dei fattori causali rilevanti, spiegazione delle regolarità emergenti senza assumere la razionalità completa degli agenti. I primi due punti sono strettamente dipendenti. Gli ABMs generano dati simulati che possono essere analizzati per induzione12. Questi dati sono rigorosamente specificati da un insieme di regole stabilite ab initio e quindi sono maggiormente controllabili. Il controllo dei dati simulati è funzionale all’isolamento13 dei fattori causali rilevanti per la spiegazione del fenomeno in oggetto; tramite le simulazioni computerizzate è possibile analizzare un nesso causale senza fattori di disturbo o addirittura testare la robustezza di una relazione causale a fattori di disturbo controllabili. Per quanto riguarda la non necessità dell’assunzione di razionalità, invece, gli ABMs sono coerenti con le evidenze empiriche delle violazioni sistematiche della RCT. In virtù di tale coerenza, gli ABMs si basano su forme specifiche di comportamento adattivo14 piuttosto che fare riferimento 12
13
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Il realismo delle assunzioni del modello è la condizione di possibilità di una analisi induttiva dei dati simulati. La credibilità del modello/mondo è determinata dalla coerenza delle assunzioni di base con ciò che noi sappiamo a riguardo della struttura causale del mondo reale. Con la nozione di isolamento introduciamo un’ennesima caratteristica dei modelli teorici. Si è detto in precedenza che il modello è un mondo fittizio, funzionale al rilevamento di una regolarità causale, che nel mondo reale si manifesta sotto forma di tendenza. Al fine di una spiegazione cogente del fenomeno in oggetto, il modello teorico è tenuto a neutralizzare fattori causali di disturbo tramite delle assunzioni irrealistiche: queste ultime aiutano ad identificare una dipendenza causale rilevante, per una ispezione più ravvicinata. Quindi, assunzioni realistiche di base e assunzioni irrealistiche sono complementari nel compito di individuare una regolarità causale. Le prime sono la base per una inferenza induttiva dal modello al mondo reale. Le seconde sono necessarie per il rilevamento non perturbato della regolarità in oggetto. Entrambi i tipi di assunzioni contribuiscono alla specifica portata veritativa del modello. Nel caso degli ABMs, la specificazione iniziale delle variabili di controllo implica proprio la compresenza di assunzioni realistiche e irrealistiche e per questa essa è funzionale alla procedura di isolamento tipica della modellistica. Per una trattazione di tali questioni metodologiche si rimanda a U. Mäki, Isolation, Idealization and Truth in Economics, “Poznan Studies in the Philosophy of the Sciences and the Humanities”, 38, 1994, 147-168 e Id., Kinds of Assumptions and Their Truth: Shaking an Untwisted F-Twist, “Kyklos”, 53, 2006, pp. 303-322. Herbert Simon, Models of Bounded Rationality, Vol. 2, Behavioural Economics and Business Organization, MIT Press, Cambridge 1982; Vernon L. Smith, Rationality in Economics. Constructivist and Ecological Forms, Cambridge University Press, Cambridge 2008.
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alle assunzioni di razionalità completa. Un comportamento si definisce adattivo – a livello individuale – quando si basa su un processo di apprendimento (learning) delle informazioni rilevanti in un contesto dato. Di contro la RCT standard assume che gli agenti razionali dispongano di informazione completa, sulla cui base essi implementano una decisione ottimale. Nel contesto della RCT, dunque, i risultati delle interazioni tra agenti razionali sono deducibili dalla semplice applicazione del nucleo assiomatico della teoria. Negli ABMs, invece, viene generalmente assunta una razionalità limitata degli individui che consiste di due componenti essenziali: informazione limitata e limitato potere di computazione. In coerenza con il carattere locale delle loro interazioni, gli agenti non dispongono di informazione globale e non hanno un potere computazionale infinito. In tale ambito, ‘locale’ e ‘globale’ sono due attributi in relazione reciproca. Una interazione strategica ha due tipi di conseguenze causalmente interrelate: locali e globali. Le prime riguardano gli effetti immediati delle scelte degli agenti direttamente coinvolti. Le seconde ineriscono a tutti quegli stati del mondo contigui ad una specifica interazione locale. Data l’interdipendenza massiva degli stati del mondo (presenti e futuri) che costituiscono un ambiente sociale complesso, le conseguenze locali possono essere a loro volta causa di conseguenze globali. La differenza qualitativa tra questi due tipi di conseguenze consiste nel fatto che, mentre le prime sono prevedibili e come tali derivabili dalle intenzioni individuali, le seconde si caratterizzano come effetti inintenzionali non prevedibili. Ora però, il concetto di regolarità comportamentale (behavioral pattern) ha una dimensione globale, ovvero esso consiste in una regola di comportamento che sussume sotto di sé numerose istanze di interazioni locali similari. In virtù di ciò la stabilizzazione a livello sociale di una regolarità comportamentale è un risultato non intenzionale e come tale non è linearmente derivabile dalle intenzioni e scelte individuali. Questo carattere realistico degli ABMs è strettamente connesso alla considerazione degli ordini sociali come sistemi complessi non riducibili ad aggregati di agenti individuali. I modelli in questione presentano, quindi, un marcato carattere anti-riduzionistico. A differenza dei modelli tradizionali che si ispirano alla RCT, nelle simulazioni computerizzate la specificazione iniziale delle regole e delle assunzioni non implica una deducibilità del risultato aggregato dalle interazioni locali degli agenti. Come vuole Robert Axelrod15, alla semplicità delle assunzioni iniziali consegue un effetto di larga scala che non è da esse derivabile in modo lineare. Questi ef15
R. Axelrod, Complexity of Cooperation, cit., pp. 34 sgg.
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fetti di larga scala delle interazioni locali sono definiti come delle proprietà emergenti del sistema. Tali proprietà non sono derivabili da assiomi di razionalità, nel senso che la specificazione iniziale delle regole e delle assunzioni non fornisce un algoritmo per l’identificazione a priori dei risultati aggregati delle interazioni locali. Questa impossibilità è data proprio dal carattere realistico delle assunzioni di comportamento adattivo, che, come prima si è detto, genera una discrepanza tra globale e locale sul piano delle intenzionalità individuali. Un’emergenza sistemica, non essendo deducibile dall’interazione delle sue parti, non è determinata dal microlivello e non è il risultato della somma delle sue parti. Questa impostazione di analisi degli ABMs è coerente con l’utilizzo in economia di modelli non lineari, i cui risultati sono ipersensibili alle condizioni iniziali; un fenomeno non può essere spiegato tramite il riferimento esclusivo alle sue condizioni iniziali, in quanto ad una ipotetica perturbazione marginale di tali condizioni non corrisponderebbe una modificazione proporzionale del risultato. Analogamente, la relazione tra il singolo agente e gli ordinamenti sociali non è una relazione tra due entità omogenee, perché i secondi non sono una semplice estensione della struttura dei primi. In altre parole, la macrostruttura non si fonda necessariamente su una microstruttura16. Tale disomogeneità attesta i differenti livelli di complessità di queste due entità, che non possono essere spiegati tramite una loro derivazione da un explanans di livello più basico. Dall’attestazione di questa non riducibilità consegue che differenti livelli di complessità dispongono di un potere causale autonomo, in quanto l’individuo non può essere considerato come causa sufficiente e come l’unità di analisi di base, rispetto a cui gli ordini sociali risultano essere dei semplici aggregati causalmente inerti. Su questa base è lecito specificare ulteriormente la relazione tra l’agente singolo e gli ordinamenti sociali nei termini di un rapporto di reciproca influenza causale, che ammette la possibilità di una downward causation. Onde evitare di cadere nell’ingenuità di ammettere un riduzionismo olistico, è necessario rimarcare il fatto che l’argomento a favore della downward causation è il complementare dell’argomento circa l’autonomia causale di differenti livelli di complessità ed enfatizza il rapporto di causazione reciproca di quest’ultimi17. Per utilizzare una terminologia largamente accettata, esiste un feedback tra macrostruttura e microstruttura, in quanto gli agenti sono condizionati da norme
16 17
G. M. Hodgson, Economics and Evolution, cit., pp. 230 sgg. Id., The Evolution of Institutional Economics, Routledge, London 2004, pp. 419 sgg.
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sociali e da istituzioni, che hanno preso forma tramite la loro interazione; «in this sense, micro and macro will tipically co-evolve»18. Secondo questa prospettiva la non riducibilità dei sistemi complessi ad aggregati di individui implica una destituzione di senso della dicotomia classica tra reale/naturale e artificiale/sociale, che solo una impostazione riduzionista dell’analisi poteva mantenere in piedi. L’autonomia causale dei sistemi ad alta complessità – in specie gli ordini sociali – non permette una loro caratterizzazione in termini di artificio, perché quest’ultimo ha senso d’essere solo nella misura in cui si rapporta ad una oggettività naturale non controversa, rispetto a cui l’artificio sociale risulta causalmente inerte. Dall’altro lato, l’individuo, non essendo il prius logico dell’analisi, non può essere considerato come un elemento fondazionale a livello micro. Per questo, la relazione causale ricorsiva tra agenti singoli e ordini sociali destituisce di senso la dicotomia classica di reale/naturale e artificiale/sociale. 3. Ricadute ontologiche degli ABMs Ai fini di una comprensione del valore filosofico degli ABMs è necessario mettere in evidenza il contributo che essi forniscono per una ridefinizione del concetto di realtà. A livello intuitivo sembra lecito farsi questa domanda: perché per rispondere all’irrealismo dei modelli convenzionali si è fatto ricorso alla virtualità delle simulazioni computerizzate? A questa domanda si è risposto parzialmente nella sezione precedente, evidenziando le caratteristiche tecniche degli agent-based models, che permettono un maggiore controllo delle variabili empiriche e una caratterizzazione degli ordinamenti sociali in termini di sistemi complessi. Sebbene questo colga un aspetto rivoluzionario dei modelli in questione, non ne esaurisce la portata da un punto di vista filosofico. Stabiliamo il ragionamento in nuce, per poi estenderlo e spiegarlo: se gli ABMs, malgrado la loro natura di simulazioni virtuali, sono una risposta all’irrealismo dei modelli economici convenzionali, ciò vuol dire che lo stesso concetto di realtà è profondamente mutato. Con questo metodo di indagine si identificano manipolazione del simulacro e manipolazione del fenomeno19. Nello 18 19
Generative Social Science, Studies in Agent-Based Computational Modelling, ed. by J. Epstein, Princeton Studies in Complexities, Princeton 2006. Jean Baudrillard and Glaser Sheila, Simulacra and Simulation (The Body, In Theory. Histories of Cultural Materialism), University of Michigan Press, Ann Arbor MI 1995.
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specifico, il simulacro in questione diventa un esclusivo campo di indagine che non rinvia ad un ente reale oltre se stesso. Ciò vuol dire che il risultato del modello derivabile dalla specificazione iniziale di assunzioni empiriche e di regole di controllo non viene inteso nella sua semplice ed eventuale adeguazione al fenomeno esistente nel mondo esterno; ciò implicherebbe di nuovo il riferimento ad una oggettività non controversa. Al contrario, il risultato del modello diventa uno strumento di intervento operativo sul mondo esterno. L’esclusività del simulacro come campo di indagine comporta implicazioni di notevole rilevanza per ciò che concerne la dicotomia classica tra reale/naturale e artificiale/sociale. Nel momento in cui la simulazione non rinvia a un ente reale oltre se stessa, essa non può essere considerata come un epifenomeno riducibile, in ultima istanza, a rapporti causativi di natura fisica. Le simulazioni computerizzate costituiscono quindi uno specifico livello di realtà, che non può essere ridotto a – o dedotto da – livelli di realtà più basici. Questa non riducibilità esclude la possibilità di una derivazione lineare del simulacro da un ente reale fisico e pertanto esso acquista uno statuto di realtà, dotato di un autonomo potere causale. Se però un fenomeno può essere studiato tramite un riferimento esclusivo al suo simulacro, ciò vuol dire che il suo statuto di realtà si pone al di là della dicotomia classica di naturale e artificiale: il simulacro digitale presenta una ibridazione costitutiva di questi due poli20. In termini generali, dunque, questo comporta una destituzione di senso della polarità reale naturale/artificio sociale: l’economia, tramite questo metodo di indagine, non individua più nel mondo fisico il referente – o la garanzia – di una oggettività indipendente. Queste ricadute ontologiche degli ABMs sono coerenti con la fusione di tecnica e teoria analitica sul piano epistemologico: possiamo utilizzare come unità di analisi gli enti che esibiscono una integrità ontologica di naturale e artificiale solo coniugando l’analisi teorica con l’utilizzazione del computer. L’ammissione di uno statuto di realtà autonoma delle simulazioni computerizzate ha notevoli conseguenze sulle modalità in cui vengono stabilite le unità di analisi in economia. Si tratta di un problema ontologico; se le entità economiche non sono omogenee al fisico, allora è necessario domandarsi secondo quali principi le entità economiche sono classificate in tipi economici. Cosa stabilisce che un concetto ha un significato rilevante per l’economia? Indagando i processi di costruzione dei concetti economi20
P. Mirowski, Machine Dreams. Economics Becomes a Cyborg Science, cit., pp. 231 sgg.
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ci, John Dupré21, in coerenza con la sopraccennata crisi del determinismo mereologico, afferma che la realtà oggettiva non può costituire causa sufficiente per una tassonomia ontologica dei concetti economici. Se la realtà non costituisce causa sufficiente per classificare i concetti economici, ciò vuol dire che alla base di questa classificazione vengono fatte delle scelte di valore: in sintesi, l’economia costruisce la propria tassonomia ontologica secondo principi normativi. Il passo successivo dell’argomentazione è quello che più interessa per una caratterizzazione di alcune branche dell’economia come umanologia. Se la realtà non è causa sufficiente per una classificazione dei tipi economici e le scelte di valore sono il correlato di questa non sufficienza, allora le teorizzazioni economiche plasmano la realtà che vogliono indagare. In coerenza con il riconoscimento di una autonomia causale di differenti livelli di complessità, questa possibilità di manipolazione va intesa nel senso forte di una influenza causale – nello specifico downward causation – dei modelli economici sulla realtà. L’economia, come scienza, può plasmare la realtà che indaga proprio perché tale realtà, non essendo riducibile a rapporti causativi di natura fisica, non costituisce un ente oggettivo indipendente dalla prospettiva epistemica che lo analizza. Le relazioni sociali studiate dall’economia, proprio in virtù del loro statuto di realtà autonoma, non sono analizzabili come dei fenomeni oggettivi indipendenti alla stregua dei fenomeni naturali. Pertanto, l’intervento operativo sulla realtà sociale caratterizza lo statuto epistemologico della scienza economica. La mancanza di distinzione tra natura e società si specifica qui come indistinzione tra fatti e valori, a cui corrisponde una fusione di tecnica e teoria sul piano epistemologico. 4. Relazione tra agente singolo e ordinamenti sociali Nei paragrafi che seguono, ci si allontanerà dal tema degli ABMs al fine di isolare e approfondire due aspetti particolari emersi dalla loro analisi: la non derivabilità lineare degli ordinamenti sociali da assunzioni di razionalità degli individui e la caratterizzazione dell’agente sociale come processore di informazioni. Dopo aver approfondito questi due temi, si analizzerà la relazione di interdipendenza tra l’agente singolo e gli ordini sociali.
21
J. Dupré , Economics without Mechanism, in U. Mäki, The Economic World View, cit., pp. 315 sgg.
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4.1. Regolarità comportamentali come ordini spontanei Si è detto che la stabilizzazione a livello sociale di regolarità comportamentali, in quanto effetti di larga scala di interazioni locali, non è derivabile in modo lineare dalle assunzioni di razionalità degli agenti. Se però gli ordinamenti sociali analizzati dagli ABMs non sono linearmente derivabili dalle intenzioni individuali, allora essi sono caratterizzabili nei termini di risultati inintenzionali delle interazioni locali. In sintesi, la stabilizzazione di regolarità comportamentali non sono il risultato di un disegno progettuale: tra intenzionalità individuale e regolarità comportamentali a livello sociale non vige un rapporto lineare di causa ed effetto. Tutto ciò non implica la negazione dell’intelligenza intrinseca degli ordini sociali. Questa viene chiamata da Vernon Smith razionalità ecologica, che si definisce come il grado di adattamento di un sistema alle sue strutture ambientali22. Questo livello di adattamento è da intendersi come il gradiente di intelligenza che l’analisi teorica riscontra nell’osservazione degli ordinamenti sociali. Si presti attenzione al fatto che l’identificazione di questo gradiente di intelligenza è il risultato di una osservazione e non di una deduzione da assiomi di razionalità. Il carattere inintenzionale degli ordinamenti sociali è quindi coerente con l’istanza anti-riduzionistica espressa nella seconda sezione. A tal riguardo, l’irrealismo dei modelli convenzionali consiste proprio nell’introduzione dell’intenzionalità deliberata nell’ambito di ordinamenti sociali, che, pur essendo stati creati dall’interazione degli attori sociali, non derivano da una loro pianificazione intenzionale. Questa tesi è coerente con l’istanza humiana, secondo cui la razionalità è un fenomeno che la ragione scopre nelle istituzioni emergenti. L’analisi delle istituzioni sociali non deve cadere nella fallacia antropocentrica della RCT che introduce la pianificazione intenzionale laddove non vige una derivabilità di un risultato da un progetto cosciente. Notiamo, dunque, come attraverso una simulazione a computer si riesca ad analizzare e a spiegare dei fenomeni che sembrano avere dei caratteri naturali. Intuitivamente, si è sempre ritenuto i fenomeni naturali come delle emergenze non derivabili da una pianificazione centrale: un fenomeno è naturale proprio in virtù del fatto che il suo sviluppo non richiede un controllo esogeno. Gli ordini sociali, proprio per il loro carattere inintenzionale, sembrano acquisire dei 22
Cfr. V. L. Smith., Rationality in Economics. Constructivist and Ecological Forms, cit., pp. 32 sgg.; Bounded Rationality: The Adaptive Toolbox, ed. by G. Gingerenzer and R. Selten, MIT Press, Cambridge 2002.
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connotati naturali. Eppure tutto ciò non comporta un neo-naturalismo nelle scienze sociali. Gli ordini sociali sono delle emergenze non riducibili, in cui naturale e sociale non si distinguono più secondo la dicotomia classica implicata dal riduzionismo e dal determinismo mereologico. La prospettiva che qui si è scelto di adottare enfatizza l’indipendenza degli ordinamenti sociali rispetto alle interazioni locali degli agenti limitatamente razionali. Nello specifico, il carattere inintenzionale degli ordinamenti sancisce la loro non derivabilità dalle assunzioni di razionalità degli individui, che nell’approccio convenzionale erano considerati il prius logico dell’analisi. Nel momento in cui si ‘spezza’ questa derivabilità lineare, gli ordini sociali acquisiscono uno statuto autonomo di realtà, la cui giustificazione ontologica non è strettamente dipendente dagli individui. In sintesi, se per la teoria convenzionale solo gli individui godevano di uno statuto di realtà rispetto a cui gli ordinamenti sociali erano solo degli artifici esterni, ora, secondo la prospettiva degli agent based models, individuo e ordinamenti sociali presentano una pari dignità ontologica e non v’è polo della relazione che possa vantare una priorità naturale sull’altro. In questa sede si ritiene che il potere causale autonomo degli ordini spontanei assuma la forma di una pressione normativa sugli individui interagenti. Questa pressione normativa, data la prospettiva qui adottata, non può essere intesa come semplice equilibrio endogeno dell’interazione tra individui; piuttosto essa consiste nel rapporto di interdipendenza tra individui e ordini sociali, intesi come due entità distinte e interdipendenti. Per spiegare questo tipo di rapporto normativo è necessario entrare nel merito della complessità del sistema cognitivo umano. 4.2. Complessità del sistema cognitivo La definizione delle regolarità comportamentali a livello sociale come degli ordini spontanei affonda le sue radici nella complessità del sistema cognitivo degli individui. Le interazioni strategiche sono caratterizzate da un’alta densità di informazione, rispetto alla quale il sistema cognitivo complesso degli individui esibisce un potenziale di sensibilità di dimensioni gigantesche. A tal proposito, i modelli convenzionali della razionalità, non stabilendo delle restrizioni sul processo causale di massimizzazione, sarebbero in grado di costruire una funzione di utilità opportunamente parametrizzata per ogni pattern comportamentale23. 23
Cfr. Donald Ross, Economic Theory and Cognitive Science: Microexplanation, MIT Press, Cambridge 2005, pp. 53 sgg.
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Secondo l’ipotesi empirica dei modelli convenzionali, il comportamento razionale degli individui deriva in modo lineare da relazioni di preferenze stabili; queste ultime eseguono il compito cognitivo di massimizzazione dell’utilità. L’implicazione fondamentale di questa ipotesi è che l’elaborazione delle informazioni rilevanti per questo compito cognitivo sia controllata da un unico centro di coscienza. È evidente l’analogia con la derivabilità degli ordinamenti sociali da assunzioni di razionalità degli agenti, in quanto alla base dell’implementazione di una scelta razionale c’è sempre un pianificatore centrale. In quest’ottica, l’ipotesi dell’esistenza di un pianificatore centrale interno implica una particolare caratterizzazione della realtà degli agenti individuali. Tenendo presente la fusione di atomismo ontologico e di riduzionismo metodologico esposta nel primo paragrafo, è possibile dire che i modelli convenzionali determinano una riduzione della diversità qualitativa degli enti basici alla differenza nella configurazione di elementi omogenei e permanenti nella loro indipendenza sostanziale24. Essendo l’individuo l’unità di analisi fondamentale della RCT, esso è concepito come un ente indipendente, rispetto a cui le relazioni sociali agiscono come forze e restrizioni esterne. L’assunzione di un pianificatore centrale interno è alla base di questa impostazione. Se infatti è possibile individuare un unico centro di controllo esecutivo, allora si è identificato un elemento prioritario in termini naturali da cui derivare gli ordini sociali. Alla luce delle evidenze scientifiche sul funzionamento del cervello, questo modello del comportamento razionale risulta essere troppo semplicistico. L’attività cerebrale consiste principalmente in una computazione simultanea di trasformazioni informazionali distinte tramite dei processori paralleli di informazioni. Nonostante ciò, il cervello è capace di implementare una risposta relativamente stabile alle stimolazioni informazionali. In questa sede si vuole mettere in questione la legittimità di inferire da questa stabilità di risposta l’esistenza di un pianificatore centrale interno, che diriga la coordinazione dei molteplici centri di elaborazione delle informazioni. Una strategia di approccio al problema è quella di assumere in via preliminare la non esistenza di questo pianificatore centrale; se tramite questo approccio sarà comunque possibile spiegare la relativa stabilità di risposta comportamentale, allora il pianificatore centrale interno non costituirà una condizione necessaria e sufficiente.
24
G. M. Hodgson, Economics and Evolution, cit., pp. 225 sgg.
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Le informazioni esterne vengono elaborate tramite una coordinazione di più centri di trasformazione informazionale. Possiamo definire questa coordinazione nei termini di una organizzazione subsistemica; ovvero ogni coordinazione di centri neuronali costituisce un sottosistema del sistema individuale. Siccome informazioni eterogenee vengono simultaneamente elaborate da molteplici centri, è necessario ammettere l’esistenza di un feedback interno al sistema, che selezioni le informazioni sulla base della loro rilevanza cognitiva. Questa selezione è funzionale alla stabilizzazione di un equilibrio tra l’individuo e il suo ambiente di interazione. In vista di ciò, è necessario determinare la natura di questo feedback nei termini di un criterio di selezione delle informazioni rilevanti tra quelle processate parallelamente25. La percezione può essere definita come la risultante della relazione tra impulsi esterni ed esperienza passata di situazioni similari. La coincidenza tra percezioni attuali e passate rappresenta la struttura essenziale delle categorie percettive, che presiedono alla schematizzazione cognitiva di un contesto decisionale e alla conseguente implementazione di regole comportamentali adeguate26. La memoria gioca, quindi, un ruolo di primo piano; essa consiste, infatti, nella modificazione di stimoli esterni da parte di sistemi di elaborazione che si organizzano in base all’esperienza passata. L’interazione dinamica tra memoria e percezione spiega la relativa stabilità delle modalità di elaborazione degli stimoli esterni e delle connesse reti rappresentazionali. Questo meccanismo cognitivo non necessità di un pianificatore centrale interno in quanto l’ordinamento delle informazioni rilevanti è garantito dalla stessa autorganizzazione dei processi percettivi. La negazione dell’esistenza di un pianificatore centrale implica che il punto di coscienza, in quanto non localizzabile, si sposta continuamente a seconda della rilevanza cognitiva delle informazioni, che, in uno specifico problema di decisione, determinano l’implementazione di una scelta strategica. La stabilità della risposta ad uno stimolo esterno consiste, dunque, nella coordinazione dei centri di elaborazione delle informazioni distribuite. Tale coordinazione costituisce quello che Don Ross chiama il self-asexecuting, che non possiede una collocazione specifica nell’architettura
25 26
D. Ross, Economic Theory and Cognitive Science: Microexplanation, cit., pp. 234 sgg. Cristina Bicchieri, The Grammar of Society. The Nature and Dynamics of Social Norms, Cambridge University Press, Cambridge 2006, pp. 81 sgg.
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neurale27. La coscienza è, quindi, il risultato della coordinazione di una specifica comunità di centri di controllo comportamentale e non rappresenta il centro che dirige tale coordinazione. Detto in termini filosofici, non sussiste nessuna differenza ontologica tra il punto di coscienza e il processo di coordinazione dei centri di trasformazione informazionale. Pertanto questa impostazione di analisi supera il dualismo classico interno alla struttura ontologica dell’umano tra mente e cervello. In sintesi, potremmo dire che il self-as-executing consiste in un sistema dinamico autorganizzantesi (dynamic self-organizing system). La conseguenza fondamentale di questa prospettiva teorica è che un contenuto di coscienza non può essere considerato come un fatto interno, indipendente dalla risposta comportamentale del soggetto. Nello specifico si vuole intendere che la delocalizzazione del punto di coscienza come conseguenza della decostruzione dell’unità personale implica l’impossibilità di una distinzione qualitativa tra un processo di elaborazione di informazioni interne e uno di informazioni esterne. Se è vero che il cervello individua i confini che separano l’organismo dal suo ambiente esterno, la consistenza di tali confini è flessibile, proprio perché interno ed esterno non sono separati da una procedura di elaborazione delle informazioni che le distingua qualitativamente con gli attributi di interno ed esterno. Il contenuto di coscienza risulta essere un giudizio interpretativo di un insieme di informazioni, che non vengono distinte qualitativamente come interne ed esterne. Lo stesso concetto di individuo, che nell’ambito del paradigma analitico della RCT veniva inteso come una unità semplice fornita di un set di preferenze razionali, è ora caratterizzato nei termini di un processo di triangolazione dinamica tra l’elaborazione interna delle informazioni, stimolazioni ambientali e risposta comportamentale. Ciò significa che l’ipotesi di un pianificatore centrale interno non è necessaria per spiegare la stabilità comportamentale degli agenti individuali. Questo risultato è rilevante in quanto falsifica l’ipotesi descrittiva della RCT di una derivabilità del comportamento da un set di preferenze stabili. 4.3. Relazione tra sistema cognitivo e ordinamenti sociali Questo modello di elaborazione cognitiva delle interazioni strategiche non può giustificare in maniera autonoma la stabilità delle risposte comportamentali alle stimolazioni ambientali. Nello specifico, il processo di 27
D. Ross, Economic Theory and Cognitive Science: Microexplanation, cit., pp. 235 sgg.
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strutturazione di una interazione strategica in una categoria cognitiva, sebbene costituisca una condizione necessaria per la garanzia di una stabilità della risposta comportamentale, non è una condizione sufficiente. In coerenza con quanto è stato asserito nella prima parte di questa sezione, si ritiene che la selezione di un insieme di informazioni rilevanti da un punto di vista cognitivo è influenzata dalla pressione normativa delle regolarità comportamentali, stabilitesi in modo inintenzionale a livello sociale. La stabilità di risposta comportamentale può essere solo relativa e garantita da una serie di rimandi tra la complessità del sistema cognitivo umano e le regolarità comportamentali emergenti a livello sociale. Questa serie di rimandi ha una forma circolare perché, sia a livello sociale che a livello individuale, si è negata la possibilità di un pianificatore centrale, che sussuma queste dinamiche sotto un unico principio d’ordine. L’individuo è quindi definibile come un nodo internamente complesso di un sistema dinamico autorganizzantesi28. Questo rapporto circolare tra la complessità interna dell’individuo e le regolarità comportamentali è giustificato proprio dalla delocalizzazione del punto di coscienza, il cui contenuto informazionale non si distingue secondo le qualità di ‘interno’ ed ‘esterno’. Nella sezione precedente si è definito la stessa identità individuale come il risultato di una triangolazione dinamica tra l’elaborazione interna delle informazioni, le stimolazioni ambientali e la risposta comportamentale dell’agente individuale. Il necessario rimando circolare tra individuo e ordini sociali garantisce lo sviluppo di uno standard di ragionamento, da intendersi come il razionale delle risposte comportamentali disponibili per le variabili ambientali rilevanti. In altri termini, questo standard di ragionamento rappresenta una risposta adattiva alla pressione normativa degli ordinamenti sociali. Ciò è coerente con la caratterizzazione del comportamento individuale in termini di adattamento nell’ambito degli agent-based models. Seguendo Allan Gibbard29, sul piano individuale questo standard di ragionamento viene definito nei termini di un sistema di controllo normativo, che si sviluppa proprio in virtù di una relazione sistemica tra i processi cognitivi di coordinazione interna e le regolarità comportamentali emergenti a livello sociale. In base a questa relazione, un individuo è chiamato ad accettare una determinata norma, ovvero un attore sociale, interagendo in un contesto sociale, attiva un sistema di controllo normativo del suo comportamento. Se è vero che le regolarità comportamentali esercitano una pres28 29
Ivi, pp. 236 sgg. Allan Gibbard, Wise Choice, Apt Feelings. A Theory of Normative Judgment, Harvard University Press, Cambridge 1992, pp. 71 sgg.
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sione normativa sulle persone, un individuo, in virtù della relazione circolare prima abbozzata, a un tempo partecipa alla costituzione di questa normative governance ed è da essa regolato. Gibbard intende questa partecipazione individuale come un prendere parte ad una discussione normativa. A prescindere dalla cogenza specifica di questa tesi, il suo aspetto decisivo è che la pressione di questa governance normativa comporta una richiesta operativa di coerenza delle posizioni e degli atti decisionali, che un individuo avanza nella sua partecipazione alla costituzione di tale governance. In sintesi, la richiesta di consistenza è la restrizione specifica sugli atti decisionali degli individui; queste restrizioni non possono provenire dall’interno, ma derivano dalla relazione sistemica tra coordinazione dei centri interni di elaborazione delle informazioni e regolarità comportamentali, emergenti a livello sociale. Se ne conclude che i processi di categorizzazione cognitiva dei problemi decisionali e la pressione normativa esercitata dagli ordinamenti sociali sono due condizioni necessarie e unitamente sufficienti per garantire una stabilità di risposta alle stimolazioni ambientali. Questo completa l’argomento contro l’ipotesi empirica della teoria della scelta razionale di una derivabilità, sia degli ordinamenti sociali che del comportamento individuale, dalla definizione di un set razionale di preferenze.
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NOTIZIE SUGLI AUTORI
FRANCESCO PAOLO ADORNO è Professore Associato di Filosofia Morale presso l’Università di Salerno. Tra le sue ultime pubblicazioni, oltre a numerosi saggi sul pensiero politico e sulla filosofia morale contemporanea, da segnalare: La disciplina dell’amore. Pascal, Port-Royal e la politica (Roma 2007) e Le désir d’une vie illimitée. Anthropologie et biopolitique (Paris 2012). VINCENZO BOCHICCHIO è Ricercatore di Filosofia Teoretica e Professore Aggregato di Istituzioni di Filosofia presso l’Università della Calabria. I suoi interessi di ricerca riguardano la filosofia moderna, il mind-body problem e alcuni ambiti della psicologia teoretica, quali la natura del processo percettivo ed il pensiero narrativo. Fra le sue pubblicazioni: Il laboratorio dell’anima. Immagini del corpo nella filosofia di Immanuel Kant (Genova 2006), Dal corpo al simbolo. Ermeneutiche della corporeità (Milano 2011), e la traduzione del manoscritto kantiano De medicina corporis (Napoli 2007). MARIA TERESA CATENA è Professore Associato di Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Tra le sue ultime pubblicazioni: Corpo (Napoli 2006), Sentire (Napoli 2010). Nel 2011 ha curato con Pierandrea Amato e Nicola Russo il volume L’ethos teoretico. AGOSTINO CERA è Dottore di Ricerca in “Scienze Filosofiche” presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Si occupa del pensiero di Karl Löwith, di antropologia filosofica e di filosofia della tecnica. Tra le sue ultime pubblicazioni: Sulla questione di una filosofia della tecnica (Napoli 2007), Io con Tu. Karl Löwith e la possibilità di una Mitanthropologie (Napoli 2010), Due di uno. Fenomenologia della riscrittura cinematografica (Napoli 2011). CRISTIAN FUSCHETTO, Dottore di Ricerca in Bioetica, è saggista e giornalista scientifico. Cura le pagine di scienza e di innovazione del quotidiano il Denaro, collabora alle testate online di Wired e del Fatto, ed è redattore delle riviste Scienza&Società (Pristem-Bocconi) e di S&F (scienzaefilosofia.it). Dal 2003 collabora con la cattedra di Filosofia Morale dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”. Di recente ha pubblicato Darwin teorico del postumano (Milano 2010), Campania della conoscenza (Napoli 2011), e, insieme a P. Amodio e F. Gambardella, Underscores. Darwin_Nietzsche_von Uexküll_ Heidegger_Portmann_Arendt (Napoli 2012).
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FABIANA GAMBARDELLA è Dottore di Ricerca in Bioetica. Svolge la sua attività presso il Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. È redattrice della rivista S&F (scienzaefilosofia.it). Tra i suoi scritti: L’animale autopoietico. Antropologia e biologia alla luce del postumano (Milano 2010); P. Amodio, C. Fuschetto, F. Gambardella, Underscores. Darwin_Nietzsche_von Uexküll_Heidegger_Portmann_Arendt (Napoli 2012). GIANLUCA GIANNINI è Docente di Filosofia Morale presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Tra i suoi volumi più recenti si ricordano: Mosè, il monoteismo e la genesi del politico (Napoli 2006); Metafisica del conflitto (Genova 2007); Condizione umana (Genova 2009); (con Nicola Russo) Dialoghi eretici (Genova 2012). LUIGI LAINO ha conseguito la laurea in Filosofia nel 2009 con una tesi su Werner Heisenberg. È dottorando in “Scienze filosofiche” dell’Università degli studi di Napoli “Federico II”. Si occupa di filosofia della fisica ed in particolare del pensiero di Ernst Cassirer. Ha di recente pubblicato Sul problema ontologico nel pensiero di Werner Heisenberg (Napoli 2011). FELICE MASI è Assegnista di Ricerca presso il Dipartimento di Filosofia “A. Aliotta” dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Oltre ad aver curato l’edizione di E. Husserl, Sulla fantasia. Manoscritti 1918-1924 (Napoli 2009), ha, di recente, pubblicato Monogramma e stile del mondo. Note su Husserl e Kant (Napoli 2008), Emil Lask. Il Pathos della Forma (Macerata 2010), I modi della figura. Tre saggi di estetica eidologica (Napoli 2011), El espacio de las leyes. Para una fenomenologia de la experiencia juridica (Madrid 2011). NICOLA RUSSO è Professore Associato di Filosofia Teoretica presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”. Tra le sue pubblicazioni Filosofia ed ecologia. Genealogia della scienza ecologica ed etica della crisi ambientale (Napoli 2000), La biologia filosofica di Hans Jonas (Napoli 2005), Polymechanos Anthropos. La natura, l’uomo e le macchine (Napoli 2008), Nichilismo del logos. Il “veramente falso” nel Sofista di Platone (Napoli 2012). MARCO STIMOLO è Dottore di Ricerca in Filosofia e Politica. Il suo campo di ricerca concerne la metodologia e ontologia dell’economia, l’economia sperimentale e la teoria dei giochi evolutivi. Collabora come Assistant Professor alla cattedra di Economia Politica presso l’Università di Napoli “Federico II”. Attualmente ricopre la posizione di Visiting Professor presso la University of Economics di Praga. Tra le ultime pubblicazioni: Individual autonomy in evolutionary game theory: defending Sugden against Ross’s accusation of eliminativism (Berlin 2012).
NOVECENTO
Collana diretta da Caterina Resta
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P. Amato, S. Gorgone, Tecnica lavoro resistenza. Studi su Ernst Jünger, 2008 P. Amato, Tecnica e potere. Saggi su Michel Foucault, 2008 S. Geraci, L’ultimo degli Ebrei. Jacques Derrida e l’eredità di Abramo, 2010 G. Bensussan, Etica ed esperienza. Levinas politico, a cura di S. Geraci, 2010 Sandro Gorgone, Nel deserto dell’umano. Potenza e Machenschaft nel pensiero di Martin Heidegger, 2011