Aristone, «Sul modo di liberare dalla superbia», nel decimo libro «De vitiis» di Filodemo 9788822256256

Edizione critica, con apparato, traduzione e commento, dello scritto epistolare Sul modo di liberare dalla superbia di u

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Italian Pages XVIII,438 [453] Year 2007

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Aristone, «Sul modo di liberare dalla superbia», nel decimo libro «De vitiis» di Filodemo
 9788822256256

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ACCADEMIA TOSCANA DI SCIENZE E LETTERE «LA COLOMBARIA»

«STUDI» CCXXXVII

GRAZIANO RANOCCHIA

ARISTONE SUL MODO DI LIBERARE DALLA SUPERBIA NEL DECIMO LIBRO DE VITIIS DI FILODEMO

FIRENZE

LEO S. OLSCHKI EDITORE MMVII

Questo volume e` stato finanziato per l’87% con un contributo del Consiglio Nazionale delle Ricerche ISBN 978 88 222 5625 6

Ai miei genitori

INTRODUZIONE

Chiunque si accosti allo studio delle testimonianze superstiti relative al filosofo stoico eterodosso Aristone di Chio, discepolo di Zenone, e al suo omonimo Aristone di Ceo, peripatetico, probabile successore di Licone alla guida del Liceo, deve inesorabilmente fare i conti con la secolare questione della reciproca confusione tra i due filosofi. Il primo problema e` rappresentato dall’omonimia e dal fatto che sovente gli autori antichi si riferiscono ad essi senza indicarne l’etnico o la scuola di appartenenza e anche allorquando gli etnici Cioc = o Keioc = sono precisati, per la loro estrema somiglianza, la quale faceva sı` che, soprattutto in epoca tarda, fossero pronunziati in modo pressoche´ identico, essi sono stati piu` di una volta fonte di equivoci. Un secondo problema e` costituito dal fatto che tutte le opere di Aristone di Chio contenute nel catalogo di Diogene Laerzio (VII 163), a eccezione delle sole Lettere a Cleante, erano assegnate da Panezio e Sosicrate al filosofo peripatetico. Ma la validita` di tale giudizio e` stato in diversi tempi e da piu` parti messo in discussione e l’attuale tendenza della critica e` quella di negargli ogni credibilita`, se non altro per il fatto che il catalogo contiene opere di sicuro o probabile argomento stoico o chiaramente riconducibile ad Aristone di Chio.1 Cio` non ha tuttavia impedito ad alcuni studiosi, soprattutto in passato, di attribuire con diversi argomenti le medesime opere ora al Peripatetico, ora allo Stoico. Un’ulteriore difficolta`, e di non poco conto, e` poi quella di come interpretare la testimonianza di Strabone (X 5, 6) secondo la quale Aristone di Ceo fu zhlwthvc, cioe` ‘emulo’ (e non ‘discepolo’, come e` stato spesso tradotto) di Bione di Boristene. Sappiamo infatti con certezza che anche su Aristone di Chio Bione esercito` un’influenza importante, come ci attestano numerosi frammenti.2 Dopo che per quasi due secoli il giudizio della critica era oscillato tra i due personaggi attribuendo le singole testimonianze ora all’uno ora all’altro

1 2

Cfr. infra, pp. 70-80. Cfr. infra, pp. 82-89.

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INTRODUZIONE

filosofo, la raccolta dei frammenti degli Stoici antichi curata da Hans von Arnim 3 e apparsa all’inizio del secolo scorso, rappresento` una prima importante presa di posizione sulla questione. Egli collaziono` sotto il nome di Aristone di Chio non solo i frammenti che per diversi motivi erano sicuramente attribuibili a quest’ultimo, ma anche la grande maggioranza di quelli su cui alla sua epoca ferveva ancora il dibattito, tentando di stabilirne l’attribuzione sulla base di un attento studio critico. Cio` nonostante, la discussione sulla paternita` di alcuni di tali frammenti si protrasse anche nei decenni successivi fino alla comparsa, all’inizio degli anni Ottanta, della monografia che Anna Maria Ioppolo ha dedicato al filosofo stoico.4 Ella, nel riuscito tentativo di determinare l’importante ruolo giocato da Aristone di Chio nella definizione del pensiero stoico originario e il dibattito sviluppatosi all’interno della scuola prima di Crisippo, ha avuto il merito di risolvere molti dei problemi attribuzionali posti dai frammenti controversi assegnati da von Arnim allo Stoico. Inoltre la studiosa italiana ha guadagnato a quest’ultimo altre importanti testimonianze di autori antichi collocate dallo studioso tedesco in altre sezioni degli Stoicorum Veterum Fragmenta e anche una nutrita schiera di nuove testimonianze da quello del tutto ignorate. Riguardo ad Aristone di Ceo, la cui evanescente figura emerge a stento dalle nebbie dell’antichita`, la documentazione di cui disponiamo e` ben piu` ridotta e controversa. La raccolta dei frammenti di Fritz Wehrli, contenuta nel sesto volume dell’opera Die Schule des Aristoteles,5 e quella recentissima realizzata da Peter Stork, Tiziano Dorandi, William W. Fortenbaugh e Johannes M. van Ophuijsen,6 se da un lato hanno avuto il merito di stabilire il ritratto attualmente in voga del personaggio, tentando di ricostruire la sua posizione nella successione degli scolarchi peripatetici e attribuendogli correttamente alcune opere, tra cui il Licone e gli Esempi Erotici, dall’altro suscitano il sospetto che in realta` sia possibile sapere meno di quello che comunemente si pensi. Il punto e` che di quella fase della storia del Peripato in cui si colloca la figura di Aristone di Ceo non sappiamo quasi nul3 Stoicorum Veterum Fragmenta, I: Zeno et Zenonis discipuli; II: Chrysippi fragmenta. Logica et physica, III: Chrysippi fragmenta moralia. Fragmenta successorum Chrysippi, Lipsiae, Teubner 1903-1905. 4 Aristone di Chio e lo Stoicismo Antico, Napoli, Bibliopolis 1980 («Elenchos. Collana di testi e studi sul pensiero antico», 1). 5 VI: Lykon und Ariston von Keos, Basel-Stuttgart, Schwabe 19682. 6 Aristo of Ceos. The Sources, Text and Translation, in W.W. FORTENBAUGH -S.A. WHITE (eds.), Aristo of Ceos. Text, Translation, and Discussion, New Brunswick-London, Transaction Publishers 2006 («Rutgers University Studies in Classical Humanities», 13), pp. 1-177, d’ora in poi ‘SFOD’.

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INTRODUZIONE

la e la tentazione e` quella di voler a tutti costi colmare un vuoto della storiografia filosofica tentando di ricostruire a tavolino i lineamenti di un personaggio di cui in realta`, per l’esiguita` della documentazione, ci sfugge la fisionomia precisa.7 Di fatto, delle trentotto testimonianze assegnate dagli ultimi editori ad Aristone di Ceo, solo venticinque sono considerate certe, mentre ben tredici sono ritenute controverse. Ad esse se ne aggiungono altre diciannove sicuramente false riferibili ad altri Aristone, tra cui Aristone di Chio.8 Tra i frammenti che sono stati o che sono ancora oggetto di discussione si colloca il fr. 21 A-O SFOD (= frr. 13 e 14 WEHRLI), il quale costituisce l’oggetto specifico del nostro studio. Si tratta dello scritto in forma epistolare Sul modo di liberare dalla superbia (Peri; tou= koufivzein uJperhfanivac) attribuito da Filodemo di Gadara a un non meglio precisato Aristone e da lui liberamente citato per quindici colonne nel decimo libro (PHerc. 1008) del grande trattato Sui vizi e le contrapposte virtu`, il quale era appunto dedicato alla superbia. Mancava uno studio complessivo di questo scritto, dopo quello che Wilhelm Kno¨gel gli aveva dedicato nel 1933 basandosi sull’edizione di Christian Jensen, da lui peraltro in diversi punti modificata.9 L’esame della forma e del contenuto da me effettuato consente di riconoscervi una lettera protretticomorale di argomento filosofico-popolare che aveva come obiettivo la terapia della superbia. Non si trattava cioe` di un vero e proprio trattato di etica descrittiva, come e` stato talora affermato, bensı` di un significativo esempio di quella letteratura morale di sapore popolare che fu di moda a partire dalla prima epoca ellenistica. Come vedremo, esso costituiva una combinazione di temi, stili, mezzi espressivi e generi filosofici e letterari differenti in cui trovavano posto parenesi 10 ed etologia morale, modi tipici della lettera e della diatriba, stile epistolare e ‘stile’ tipico dell’istruzione morale popolare. Di fatto, la lettera di Aristone rappresenta probabilmente non soltanto, come e` stato affermato, il piu` antico saggio a noi pervenuto di protrettica morale ellenistica, ma anche il piu` antico esempio compiuto di questa tipologia stilistica (capp. I.4 e I.5). Lo scritto, cosı` come e` conservato, si articola in due sezioni, di cui la prima costituisce una parenesi morale contro la superbia, la seconda una Cfr. infra, pp. 80-82. Cfr. infra, p. 82. 9 Si veda W. K NO ¨ GEL , Der Peripatetiker Ariston von Keos bei Philodem, Leipzig, O. Harrassowitz 1933 («Klassisch-philologische Studien», 5). 10 Per parenesi morale intendo in senso stretto la libera combinazione di esortazione e dissuasione, che insieme costituivano la principale sottosezione della protrettica morale stoica. Per una chiarificazione terminologica, cfr. infra, pp. 49-52. 7 8

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INTRODUZIONE

rassegna morale di vizi a essa affini, i quali vengono descritti e distinti tra loro con rara finezza di analisi e grande vivacita` espressiva (capp. I.3.1 e I.3.2). Queste osservazioni ci inseriscono nel cuore del problema attribuzionale. In effetti, il prezioso opuscolo dopo essere stato conteso per piu` di un secolo tra i fautori dell’attribuzione ad Aristone di Chio e i sostenitori di Aristone di Ceo, con la pubblicazione della gia` menzionata dissertazione di Kno¨gel e l’inclusione nella raccolta di Wehrli tra i frammenti di Aristone di Ceo, e` stato accreditato a quest’ultimo praticamente senza obiezioni fino a pochi anni orsono, quando la questione e` stata riaperta e nuovi argomenti sono stati avanzati a favore di Aristone di Chio.11 Il paradosso e` che, se si eccettua la voce isolata di Carlo Gallavotti, praticamente tutti gli interpreti, pur respingendo le premesse da cui partiva Kno¨gel, ne condivisero la conclusione principale, cioe` a dire l’attribuzione dello scritto ad Aristone di Ceo. Si e` cosı` stabilita una vulgata acriticamente accettata che resiste per inerzia a tutt’oggi nella comunita` scientifica. Ora, pero`, se sono fallaci i presupposti di partenza, altrettanto lo e` anche il punto di arrivo e tutta la questione andava percio` rimessa in discussione. E` questa circostanza che mi ha spinto ad affrontare di nuovo il problema nel suo complesso e a passare in rassegna, una per una, tutte le prove presentate nel corso del tempo a suffragio dell’una o dell’altra ipotesi vagliandone criticamente il peso e avanzandone a mia volta di nuove, allo scopo di verificare se non sia oggi possibile porre fine in un senso o nell’altro alla vexatissima quaestio. Come vedremo, prima di Filodemo vi erano ben undici differenti filosofi di nome Aristone, tra cui diversi peripatetici e un solo stoico: Aristone di Chio. Tuttavia, per motivi cronologici (il riferimento storico piu` recente risale al 288 a.C.) gli studiosi hanno da sempre ristretto il campo della discussione ai due Aristone piu` antichi e importanti. Tra gli argomenti per cosı` dire tradizionali proposti a favore dell’attribuzione ad Aristone di Ceo vi e` quello, storicamente decisivo, dell’asserita analogia con i Caratteri di Teofrasto, considerato l’inventore del carakthricmovc, e il fatto che tale genere letterario fu coltivato specialmente nell’ambito del Liceo. Cio` mi ha indotto a dedicare uno studio specifico all’argomento, che ho suddiviso 11 Si vedano A.M. IOPPOLO , Il Peri; tou koufivzein uJperhfanivac: una polemica antiscettica in = Filodemo?, in G. GIANNANTONI-M. GIGANTE (edd.), Atti del Convegno sull’Epicureismo greco e romano, Napoli, Bibliopolis 1996, pp. 715-734; EAD., La poetica dello Stoico anonimo in Filodemo De poematis V, «CErc», XXXIII, 2003, p. 148; G. RANOCCHIA, L’autore del Peri; tou= koufivzein uJperhfanivac (PHerc. 1008). Un problema riaperto, in W.W. FORTENBAUGH-S.A. WHITE (eds.), op. cit., pp. 239-259.

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INTRODUZIONE

in quattro differenti capitoli, dedicati al confronto con la tradizione peripatetica in generale (cap. II.3), all’esame del concetto di ironia (cap. II.3.1), all’immagine di Socrate (cap. II.3.2) e al confronto con i Caratteri teofrastei (cap. II.3.3). Da questo studio e` emerso che l’autore del De liberando a superbia 12 aveva una concezione decisamente negativa dell’ironia e che per questo egli nutriva avversione per il Socrate ironico tipico di Platone. Al contrario noi sappiamo che da Aristotele l’ironia, pur essendo classificata come vizio, era considerata in maniera sostanzialmente positiva e che tale idealizzazione fu una probabile conseguenza della sua ammirazione per Socrate. Lo stesso Filodemo, sorprendentemente, possedeva un concetto di ironia per nulla negativo e, come se non bastasse, non mostrava alcuna ostilita` verso il Socrate platonico, per il quale anzi manifesta piu` volte ammirazione. Invece, furono sempre assolutamente contrari all’ironia (almeno intesa in senso morale) i filosofi stoici, che anche per questo polemizzarono con l’Accademia scettica e con Arcesilao, il quale aveva preteso di appropriarsi del Socrate ironico proprio della tradizione platonica. Come vedremo, in tale polemica un ruolo di primo piano va assegnato proprio ad Aristone di Chio. Quanto all’analogia con i Caratteri di Teofrasto, essa deve essere limitata alla seconda sezione dell’opuscolo ed e` vera solo in senso formale. In effetti i due scritti, apparentemente simili nella forma, sono essenzialmente differenti quanto a ispirazione, metodo e intenti. Cosicche´, mentre l’uno possiede un’inconfondibile finalita` protrettico-morale, l’altro si limita ad assemblare una serie di bozzetti moralmente irrilevanti e del tutto irrelati tra di loro senza alcuna pretesa speculativa e di sistematicita`. Questa considerazione mi ha spinto a rivedere in un contributo indipendente 13 la secolare questione concernente l’indole dell’opuscolo teofrasteo, la quale e` stata da sempre collegata a quella dell’attribuzione del De liberando a superbia. In effetti, gli studiosi di Teofrasto, con una sorta di petitio principii, hanno voluto riconoscere ai Caratteri quella stessa finalita` morale che, chiaramente ravvisabile nella lettera aristonea, essi non hanno saputo ricavare dall’esame puro e semplice dell’opuscolo teofrasteo. Ora, pero`, se non e` lecito parlare dello scritto aristoneo come di una servile imitazione di Teofrasto, e` altrettanto indebito il tentativo di applicare ai Caratteri le stesse intenzioni palesemente riconoscibili in Aristone. 12

libro.

Con tale traduzione latina mi riferiro` al Peri; tou= koufivzein uJperhfanivac nel corso del

13 Si veda G. RANOCCHIA , Natura e fine dei Caratteri di Teofrasto. Storia di un problema, di prossima pubblicazione.

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INTRODUZIONE

Il piu` antico argomento addotto a favore dell’attribuzione ad Aristone di Chio e` invece costituito dal carattere epistolare dello scritto, visto che proprio una collezione di Lettere a Cleante era l’unica opera, tra quelle comprese nel catalogo degli scritti di Aristone di Chio tramandato da Diogene Laerzio (VII 163), risparmiata dall’atetesi di Panezio e Sosicrate. Tale argomento, benche´ non risolutivo, e` stato per decenni ingiustamente ignorato, dopo che Wilhelm Kno¨gel sostituı` surrettiziamente la precedente lezione ej|pic. t.ol[hvn (10 13-14) 14 di Jensen con un’improbabile ej|pi[t]om. [hvn suggeritagli dallo stesso studioso. Ma dopo che in tempi recenti la rinnovata autopsia del papiro ha riconfermato la forma epistolare dello scritto, l’argomento in questione meritava di essere ripreso nella dovuta considerazione e si e` cosı` riaperta la strada per l’attribuzione al filosofo stoico (cap. II.2.1). A giocare un ruolo di primo piano nella questione e` invece l’indiscutibile intento protrettico-morale del De liberando a superbia, il quale ci aiuta a collocarlo nell’ambito di quella produzione filosofica stoica di cui le due sezioni dell’opuscolo rappresentano, sia pure in modi differenti, due tipiche manifestazioni. In effetti, nella prima di esse, che contiene anche svariate analogie con la psicologia morale dello Stoicismo, e` stato da sempre riconosciuto un esempio di quella parenesi morale privilegiata proprio dai filosofi cinici e stoici e in particolare da Aristone di Chio, che su di essa fondava il suo metodo pedagogico. Nella seconda sezione, poi, ho suggerito di riconoscere non un semplice studio caratterologico eseguito sul modello dei Caratteri di Teofrasto, ma il piu` antico esempio compiuto di quel carakthricmovc etico-filosofico specialmente caro agli autori di diatribe, a cui allude Posidonio quando parla dell’etologia, un genere della protrettica morale stoica a noi solo parzialmente noto (cap. II.4). Ma e` soprattutto dall’esame del lessico filosofico che si ricavano importanti informazioni per la questione dell’attribuzione, anche se il contenuto filosofico-popolare della lettera che, come abbiamo detto, non e` un trattato di morale, deve indurre a un prudente discernimento. Innanzitutto, il metodo terapeutico ivi adottato e l’applicazione dell’analogia medica all’ambito delle passioni e dei vizi, considerati come vere patologie spirituali, era tipica dell’etica stoica. E furono storicamente i filosofi stoici ad avanzare in questo campo una serie coerente di teorie psicologiche ed etico-pedagogiche di cui si rinvengono ampie tracce nel nostro scritto (cap. II.5.1). In secondo luogo, la descrizione del superbo e dei vizi a esso affini presenta 14 Nelle citazioni dal De liberando a superbia indico sempre in grassetto e senza ulteriori precisazioni il numero della colonna, seguito da quello delle linee.

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significative convergenze con la concezione dello stolto tipica degli Stoici (cap. II.5.2). Inoltre, il modo in cui e` sottolineata l’opposta reazione del superbo e del magnanimo di fronte alla fortuna e la terminologia corrispondente ci conducono ancora una volta nell’alveo della tradizione stoica, come ho tentato di mostrare adducendo testimonianze che vanno dallo Stoicismo antico a quello tardo passando per Panezio e Posidonio. E mentre da Aristotele la magnanimita` era interpretata come moderazione della risposta passionale di fronte alla buona e alla cattiva sorte, dall’autore del nostro scritto essa e` intesa come indifferenza e superiorita` (cap. II.5.3). Un altro elemento si ricava dalla polemica condotta contro la ricchezza e dal modo con cui il misterioso Aristone si riferisce ai beni di fortuna definendoli cosa «misera» e senza alcun valore. Tale atteggiamento sembra ricordare, oltre forse a certe invettive ciniche, la teoria dell’assoluta indifferenza del saggio verso i beni intermedi tra la virtu` e il vizio che formulo` lo stoico Aristone di Chio (cap. II.5.4). Anche l’avversione per il sapere enciclopedico che si legge cosı` chiaramente nel De liberando a superbia richiama alla mente il rifiuto della ejgkuvklioc paideiva che in epoca ellenistica era tipico dei Cinici, degli Epicurei, dei Pirroniani e dei primi filosofi stoici, tra cui soprattutto Aristone di Chio. Costui condusse un’autentica requisitoria, non solo contro l’istruzione enciclopedica, ma anche contro le arti liberali e perfino contro la fisica e la logica (cap. II.5.5). In effetti, se si esclude questo filosofo, non si conoscono in epoca ellenistica altri personaggi di nome Aristone che abbiano condotto analoghe polemiche contro la ricchezza o contro il sapere enciclopedico. Ora, si potrebbe obiettare che anche Aristone di Ceo, in quanto emulatore del cinico Bione di Boristene, poteva aver ereditato da costui certi temi e determinate posizioni. Ma se e` ragionevole immaginare un influsso di tipo linguistico e stilistico, non si puo` concepire un’avversione cosı` viscerale verso la ricchezza e verso la cultura enciclopedica sulla bocca di un filosofo peripatetico e di un caposcuola come Aristone di Ceo. I discepoli di Aristotele, infatti, nonostante la grande diversita` di posizioni su molti argomenti, da un lato si mostrarono sempre neutrali o apertamente favorevoli ai beni di fortuna, dall’altro furono tra i principali sostenitori dell’educazione tradizionale. Fornisce qualche suggestione anche il confronto con l’anonimo Autore citato nel quinto libro De poe¨matis di Filodemo, definito come «colui che si attiene alle dottrine stoiche», e il quale sembra condividere con il nostro Aristone e con Aristone di Chio il rifiuto dell’enciclopedismo e la convinzione che la poetica, come ogni arte, e` fondata sull’esercizio delle parti che la compongono (cap. II.5.6). Non e` affatto priva di significato neanche la circostanza che, come e` emerso da un riesame complessivo del Corpus — XIII —

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Philodemeum, l’unico Aristone che fu ampiamente trattato, citato o criticato dal filosofo epicureo e`, sorprendentemente, proprio lo stoico Aristone di Chio. In effetti, se si prescinde dalle tre testimonianze del De vitiis oggetto di discussione del presente lavoro, tutte le volte che Filodemo nelle sue opere allude a un generico Aristone, si riferisce immancabilmente ad Aristone di Chio. Fa eccezione la sola Storia dell’Accademia, dove sono aridamente elencati alcuni filosofi accademici con questo nome e in cui si fornisce qualche rapida informazione su Aristone di Alessandria (cap. II.6). Importanti risultati vengono infine da un serrato confronto con la prima sezione del trattato Sull’ira dello stesso Filodemo, il quale ha evidenziato ineludibili analogie dottrinali e formali con il De liberando a superbia.15 Ebbene, e` noto che in quella il filosofo di Gadara attingeva copiosamente alla trattatistica stoica sull’ira seguendo da vicino anzitutto le teorie crisippee. Tale atteggiamento, che desta non poca meraviglia in un filosofo epicureo, si spiega in Filodemo con una maggiore apertura alle istanze culturali del suo tempo e soprattutto con il fatto che per l’esame sistematico di una passione o di un vizio il richiamo allo Stoicismo era per lui obbligatorio. E questo perche´, mentre i filosofi stoici furono da sempre specialisti universalmente riconosciuti di questa parte dell’etica, ad essa non fu riservato un interesse comparabile da parte degli Epicurei. Cio` spiega come mai tutte le volte che Filodemo deve affrontare lo studio dettagliato di una fattispecie morale, faccia ricorso alla riflessione stoica sull’argomento. Un discorso analogo deve essere fatto per lo scritto aristoneo, dove si riportano per circa quindici colonne le teorie di un ignoto Aristone su un vizio, la superbia, che nei trattati morali stoici compariva in stretta connessione proprio con l’ira. Per questo motivo e soprattutto per le forti affinita` filosofiche, lessicali e stilistiche con la prima sezione del De ira, e` assai probabile che anche nella seconda parte del De superbia il filosofo epicureo attingesse a piene mani alle fonti stoiche in materia e che l’Aristone di cui egli riporta il pensiero fosse un filosofo stoico.16 Del resto, che Filodemo nutrisse una malcelata ammirazione per lo stoico Aristone di Chio e` confermato anche da un passo della Storia della Stoa. In quest’opera egli dedicava un’ampia sezione al 15 I risultati di quest’analisi sono contenuti in un contributo di imminente pubblicazione: G. RANOCCHIA, Filodemo e l’etica stoica. Per un confronto fra i trattati Sulla superbia e Sull’ira, «WJA», n.F., XXXI, 2007, in corso di stampa. 16 Cfr. infra, pp. 204-207.

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INTRODUZIONE

filosofo eterodosso e lo paragonava nientemeno che alla dea Atena, perche´ come questa «con le parole spirava forza e ardore (mevnoc ti ka[i; qu]movn)».17 Questi accenti sembrano richiamare le parole con cui, nell’introdurre la lunga citazione del De liberando a superbia, il filosofo di Gadara confessa che Aristone «non inverosimilmente (oujk a]n ajpeoik^ ovt &wc) potrebbe convincere (peiv*ceien) qualcuno sugli argomenti che si e` ritagliato» (10 28-30). Come si puo` vedere, dunque, tutti gli elementi in nostro possesso sembrano condurci nella medesima direzione. In conclusione, lo studio delle caratteristiche formali, della natura e scopo del De liberando a superbia e del metodo con cui esso e` perseguito ha offerto un quadro i cui lineamenti si presentavano fino ad oggi alquanto generici e incerti. Se la mia analisi e` corretta, lo scritto epistolare viene a rappresentare la piu` cospicua testimonianza superstite sul filosofo di Chio e la piu` estesa citazione da una delle sue opere. Essa e` destinata a illuminare in modo insospettato la figura dello Stoico eterodosso e a fornire un contributo importante per una migliore comprensione del suo pensiero, a noi solo frammentariamente noto dalle testimonianze indirette. Allo stesso tempo, viene tolto ad Aristone di Ceo il frammento piu` rilevante della raccolta e la testimonianza in base alla quale era stata costruita la leggenda del suo prevalente interesse per l’etica e la descrizione di caratteri. Se infatti gli si toglie lo scritto in questione, allora gli vanno tolti anche gli altri due frammenti caratterologici che sono attribuiti da Filodemo e Plutarco a un generico Aristone (frr. 19 e 20 SFOD) poiche´, come lo stesso Wehrli ammetteva, essi furono quasi sicuramente composti dallo stesso autore del De liberando a superbia.18 E cosı` vengono meno i motivi che giustificavano, nella collezione curata da questo studioso, l’esistenza di una sezione intitolata all’etica e alla caratterologia.19 La stessa personalita` del filosofo peripatetico finisce per uscirne ulteriormente ridimensionata e riportata a quella discreta e misteriosa figura che le scarse fonti in nostro possesso ci impediscono di afferrare sino in fondo. Per poter affrontare lo studio dello scritto la prima cosa da fare era fissare un nuovo testo critico delle coll. 10-24, poiche´ l’attuale edizione di riferimento, curata da Christian Jensen per la collezione teubneriana nel lontano 1911, oltre a non essere sistematicamente confortata dall’autopsia del papiro e dalla collazione dei piu` antichi disegni napoletani (N1), era in di17 18 19

Cfr. infra, pp. 149; 194. Si veda F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., pp. 61-63. Cfr. ivi, pp. 33-41: «Ethik und Charakterologie».

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INTRODUZIONE

versi punti passibile di integrazioni e miglioramenti.20 Inoltre, la rivoluzione che ha investito la papirologia ercolanese negli ultimi anni e l’acquisizione di nuove tecniche di lettura e decifrazione di questi importanti documenti imponevano una revisione integrale del testo. Esso e` stato da me riveduto in diversi punti a volte fondamentali per l’interpretazione dello scritto, come alcuni luoghi della col. 10, su cui ancora oggi ferve il dibattito e che sono decisivi per comprendere appieno l’obiettivo che si prefiggeva Aristone. E` cosı` che per diversi anni ho dedicato lunghe sessioni di lavoro all’autopsia del papiro presso l’Officina dei Papiri Ercolanesi della Biblioteca Nazionale di Napoli, proseguendo un lavoro iniziato con la dissertazione di laurea e continuato con la tesi dottorale, i cui risultati sono stati gia` parzialmente messi a disposizione della comunita` scientifica.21 Il testo e` corredato di apparato critico e di una mia traduzione, che rappresenta la prima traduzione integrale dello scritto in lingua italiana. L’edizione e` preceduta da una premessa papirologica in cui si analizzano le caratteristiche bibliologiche del volume contenente il De liberando a superbia (PHerc. 1008), che comprende anche nuove scoperte relative alla ricostruzione del rotolo originario e alla storia dello svolgimento dei primi cinque volumi della collezione ercolanese. Il primo fondamentale ringraziamento va ad Anna Maria Ioppolo, senza il sostegno della quale il presente lavoro non avrebbe mai visto la luce e dal cui consiglio esso ha tratto ispirazione e ha sommamente beneficiato. Allo stesso modo sono largamente debitore a Richard Janko e a Dirk Obbink per l’importante assistenza prestata nella costituzione del testo critico, e a David Sedley per la gran quantita` di importanti suggerimenti e interventi testuali che impreziosiscono questo libro. Vorrei poi ringraziare Michael Erler per la proficua discussione su diversi punti decisivi della mia interpretazione e per la cortesia con cui mi ha ospitato presso l’Istituto di Filologia Classica dell’Universita` di Wu¨rzburg nell’ambito di un soggiorno di ricerca finanziato dalla Fondazione Alexander von Humboldt, alla quale va la mia speciale riconoscenza. Un grazie amichevole va inoltre a Stefan Schorn, che ha riletto tutto il manoscritto e lo ha arricchito con le sue acute osservazioni, a Holger Essler, per aver accuratamente riveduto Cfr. infra, pp. 243; 245. Si veda G. RANOCCHIA, Filodemo e il Peri; tou= koufivzein uJperhfanivac. Contributo ad una nuova edizione del PHerc. 1008, «PapLup», X, 2001, pp. 231-263, e ID., L’autore del Peri; tou= koufivzein cit. Questi due contributi, profondamente trasformati, sono confluiti nel presente lavoro, principalmente nei capitoli I.2, II.2, II.2.1, II.3, II.3.1, II.3.3, II.4, nella terza parte e nell’edizione critica (coll. 10, 21-23). 20

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il testo greco e discusso piu` volte con me la premessa papirologica all’edizione, e a Michele Corradi, che mi ha pazientemente assistito nella revisione finale del lavoro. Anche agli altri colleghi che hanno reso particolarmente gradevole il mio soggiorno tedesco mi sia consentito indirizzare un pensiero cordiale. Ringrazio altresı` David Armstrong e Jeffrey Fish, i quali mi hanno gentilmente anticipato alcune delle loro nuove letture del V libro De poe¨matis di Filodemo, William W. Fortenbaugh e Stephen A. White per aver messo cortesemente a mia disposizione una copia del recente volume su Aristone di Ceo 22 prima che fosse pubblicato, e David Blank per l’utile discussione intorno alla col. 10. La mia riconoscenza va inoltre a Francesco Adorno per aver accolto con interesse questo lavoro nella collana «Studi» dell’Accademia Toscana di Scienze e Lettere «La Colombaria», al direttore della Bibioteca Nazionale di Napoli, Mauro Giancaspro, alla responsabile della Sezione Papiri, Agnese Travaglione, e a tutto il personale dell’Officina, per la costante e premurosa attenzione che da sempre mi ha riservato. Non ultimi vorrei menzionare Diana Quarantotto, Giulia Vertecchi e Andrea Aiello, che mi hanno aiutato a risolvere problemi concreti collegati alla redazione definitiva del lavoro, e il collegio universitario Monterone di Napoli, che da quasi dieci anni mi ospita nella citta` partenopea. Un grato pensiero e` rivolto infine a Livio Rossetti, da un’idea del quale tale ricerca ha mosso i suoi primi passi nel 1997, e a coloro che con il loro personale incoraggiamento e la loro incrollabile fiducia hanno fatto sı` che questa impresa trovasse compimento. Ad essi il libro e` dedicato pietatis gratia.

22

2

Si vedano W.W. FORTENBAUGH-S.A. WHITE (eds.), op. cit.

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PARTE PRIMA NATURA E FINE DEL DE LIBERANDO A SUPERBIA

1. IL DE

SUPERBIA NEL

DE

VITIIS DI

FILODEMO

Tra le piu` estese opere morali di Filodemo di Gadara (c. 110-post 40 a.C.) conservate nella biblioteca ercolanese un posto importante era occupato dal grande trattato Sui vizi e le contrapposte virtu` nonche´ sulle persone in cui si manifestano e in rapporto a che cosa (Peri; kakiwn= kai; twn= ajntikeimevnwn ajretwn= kai; twn= ejn oi{c eijci kai; peri; a{).1 L’opera, che giudicando dalle caratteristiche paleografiche dei libri superstiti, dovette essere stata scritta dopo il 50 a.C.,2 si proponeva di divulgare l’etica epicurea nel mondo 1 Questa e ` la mia traduzione. In realta` l’espressione e` alquanto sibillina e si e` prestata a diverse interpretazioni. Si vedano G. MINERVINI (ed.), in HV 2, I, p. 7, che sulla scia degli Accademici Ercolanesi traduceva «Philodemi de vitiis et virtutibus oppositis et de eorum subiectis et obiectis» o, in alternativa, «et de iis rebus, in quibus et circa quas ea consistunt»; CH. JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiwn= liber decimus, Lipsiae, Teubner 1911, p. XIV: «De vitiis et virtutibus oppositis necnon de hominibus et rebus, in quibus appareant»; F. LONGO AURICCHIO, Sulla concezione filodemea dell’adulazione, «CErc», XVI, 1986, p. 79 nota 4, e T. GARGIULO, PHerc. 222: Filodemo sull’adulazione, «CErc», XI, 1981, p. 103 nota 7, che propongono: «Di Filodemo Sui vizi e le contrapposte virtu` e su cio` in cui essi consistono e su cio` che essi riguardano»; E. ASMIS, Philodemus’ Epicureanism, in ANRW, II 36, 4, 1990, p. 2385: «On Vices and the opposing virtues, and the persons in whom they are and about what»; M. CAPASSO, I titoli nei papiri ercolanesi I. Un nuovo esempio di doppia soscrizione nel PHerc. 1675, «PapLup», III, 1994, p. 240, e ID., I titoli nei papiri ercolanesi II. Il primo esempio di titolo iniziale in un papiro ercolanese (PHerc. 1457), «Rudiae», VII, 1995, p. 106: «I vizi e le contrapposte virtu` e cio` di cui essi constano e cio` con cui essi hanno relazione». Lo stesso Capasso in Les livres sur la flatterie dans le De vitiis de Philode`me, in C. AUVRAY-ASSAYAS-D. DELATTRE (e´dd.), Cice´ron et Philode`me: la pole´mique en philosophie, Paris, Vrin 2001 («E´tudes de Litte´rature Ancienne», 12), p. 180, traduce: «Des vices e des vertus qui leur sont oppose´es, des choses en quoi ils consistent et des domaines qu’ils concernent». A. MONET, La Flatterie de Philode`me et l’organisation des Vices. Re´ponse a` Mario Capasso, in C. AUVRAYASSAYAS-D. DELATTRE (e´dd.), op. cit., p. 197 sg., pp. 200 e 202, suggerisce infine: «Des vices e des vertus qui leur sont oppose´es et des hommes chez qui ils se rencontrent et des domaines qu’ils concernent». 2 Si vedano G. CAVALLO , Libri scritture scribi a Ercolano, Primo Suppl. «CErc», XIII, Napoli 1983, p. 41 sg.; p. 64; M. GIGANTE, La biblioteca di Filodemo, «CErc», XV, 1985, p. 24; T. DORANDI, Filodemo: gli orientamenti della ricerca attuale, in ANRW, II 36, 4, 1990, p. 2335; M. CAPASSO, Les livres sur la flatterie cit., p. 179.

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romano ed esaminava in modo sistematico alcuni importanti vizi e le corrispondenti virtu` nella loro genesi, suddivisione e implicazioni.3 Tuttavia ai vizi (kakivai), rispetto alle virtu`, erano dati uno spazio e un rilievo del tutto speciali ed essi sembrano essere il principale obiettivo dell’autore. Cio` e` confermato dalla precedenza data ai primi rispetto alle seconde nel titolo dell’opera,4 da alcune formulazioni sintetiche dello stesso titolo attestate in alcuni libri del trattato (Peri; kakiw=n o Peri; kakiw=n kai; tw=n ejn oi{c eijci kai; peri; a{) 5 in cui il riferimento e` esclusivamente ai vizi, e dalle parole con cui si conclude il decimo libro, dedicato alla superbia: «Termineremo qui anche la presente trattazione e aggiungeremo ad essa quella relativa a gli a ltri v izi dei quali riteniamo opportuno far conto».6 Dalla subscriptio dello stesso volume (Filodhvmou | Peri; kakiw=n | i–) si ricava che l’opera era suddivisa in almeno dieci libri. E` possibile che, oltre al decimo, essa ne comprendesse anche altri ora perduti, se davvero il filosofo epicureo riuscı` a portare a compimento il programma editoriale esplicitamente annunciato nella chiusa del De superbia teste´ citata. Ma allo stato attuale delle nostre conoscenze cio` non puo` essere verificato. Neanche sull’organizzazione interna del De vitiis possiamo dire molto. Sappiamo che esso era articolato in diverse sezioni, le quali comprendevano uno o piu` libri. Tali sezioni, dotate di una certa autonomia rispetto all’insieme dell’opera, erano consacrate ciascuna alla trattazione di un vizio principale, dei vizi ad esso affini e a quella delle contrapposte virtu`. Queste erano o fugacemente accennate o affrontate piu` diffusamente insieme ai rispettivi vizi nel corso della medesima sezione. In ogni caso ad esse non erano destinate sezioni o libri indipendenti, come sembra potersi desumere dal contenuto dei volumi superstiti.7 Cfr. ibid. Secondo Mario Capasso (ivi, p. 181 sg.) il modello di riferimento del De vitiis sarebbe il trattato pseudo-aristotelico Peri; ajretw=n kai; kakiw=n, il cui titolo Filodemo avrebbe invertito proprio per sottolineare la priorita` della trattazione dei vizi rispetto a quella delle virtu`. Ma si veda anche A. MONET, art. cit., pp. 198; 200-202, la quale contesta l’interpretazione di Capasso e di quegli studiosi che prima di lui hanno voluto ricondurre il De vitiis nell’alveo della tradizione platonica e peripatetica postulando per Filodemo un modello espositivo antitetico in cui alla trattazione di un vizio faceva necessariamente pendant quella della virtu` corrispondente. Come ha giustamente rimarcato la studiosa, il trattato filodemeo presenta caratteristiche piuttosto originali. 5 Quest’ultimo non deve essere per forza spiegato come frutto di aplografia, come ha ben inteso M. CAPASSO, Les livres sur la flatterie cit., p. 180 sg. Per le diverse formulazioni del titolo del De vitiis si veda, oltre all’articolo di Capasso citato, anche A. MONET, art. cit., pp. 197-201, e infra, pp. 230-232. 6 24 23-29: kai; | to;n uJpomnhmati[c]mo;n de; | touton aujtou katapauvcomen, | ejpicunavyomen = = d’aujtwi= to;n | peri; twn= a[llwn kakiwn= w|n | dokimavzomen poi[ei]= cqai | lovgon. 7 Concordo in questo con M. CAPASSO , Les livres sur la flatterie cit., p. 182, e A. MONET , art. cit., p. 199 sg.; p. 202. 3 4

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Per quanto ne sappiamo la sezione piu` ampia, che era anche quella con cui si apriva il trattato, era dedicata all’adulazione e ai vizi ad essa congeneri (Peri; kolakeivac) e, secondo gli studi piu` recenti, abbracciava almeno due libri, probabilmente i primi due dell’opera, e forse anche un terzo.8 L’ampiezza e la posizione strategica di questa sezione hanno fatto giustamente pensare che il De adulatione, consacrato a un tema di grande interesse per la scuola epicurea e di scottante attualita` per la societa` romana di quel tempo, possedesse una funzione specialmente importante nel contesto dell’opera.9 Vi era poi una sezione destinata al buono e cattivo uso delle ricchezze (Peri; oijkonomivac), contenuta nel libro nono,10 e forse anche altre destinate all’avarizia (Peri; filargurivac?),11 all’ambizione (Peri; filodoxivac),12 alla calunnia (Peri; diabolh=c?) 13 e a una non meglio precisabile virtu` politica (il cosiddetto Peri; u{brewc).14 Ma l’argomento di queste ultime quattro sezioni e 8 Si tratta rispettivamente di PHerc. 222 (libro I), PHerc. 1457 (libro II) e PHerc. 1675 (lib. inc.), ma riguardo a quest’ultimo, M. CAPASSO, Les livres sur la flatterie cit., pp. 186-188, ha ipotizzato che appartenesse allo stesso volume di PHerc. 222, cioe` al primo libro dell’opera. Se questa ipotesi risultasse confermata, allora la sezione dedicata all’adulazione avrebbe originariamente compreso due libri, anziche´ tre. Questa ipotesi sembrerebbe essere confortata dalla chiusa di PHerc. 1457 (fr. 24, 29-33 BASSI), in cui si afferma che nel corso del libro erano stati trattati i vizi affini (oJmoeideic= ) all’adulazione e poiche´ sappiamo che in PHerc. 222 si trattava il vizio principale, risulterebbe alquanto inverosimile che Filodemo, dopo aver affrontato la fattispecie principale nel primo libro e le specie morali affini nel secondo, ritornasse a parlare del vizio principale in un terzo libro. A questi papiri si devono aggiungere anche PHerc. 223, PHerc. 1082, PHerc. 1089 e PHerc. 1643, i quali pure verosimilmente facevano parte del De adulatione. Cfr. ivi, pp. 182-184. 9 Cfr. ivi, p. 182 sg. 10 PHerc. 1424. Si veda CH . JENSEN (ed.), Philodemi Peri; oijkonomivac qui dicitur libellus, Lipsiae, Teubner 1907. 11 A questa sezione appartenevano almeno PHerc. 253, PHerc. 465, PHerc. 896, PHerc. 1090, PHerc. 1613, ma il titolo e` congetturale. Si vedano T. DORANDI-E. SPINELLI, Un libro di Filodemo sull’avarizia?, «CErc», XX, 1990, pp. 53-59; T. DORANDI, Filodemo: gli orientamenti cit., p. 2361. 12 PHerc. 1025. Il titolo e ` stato ricavato da un passo del II libro De adulatione (PHerc. 1457, col. 11, 24-26 K.). Si vedano E. KONDO, Per l’interpretazione del pensiero filodemeo sulla adulazione nel PHerc. 1457, «CErc», IV, 1974, p. 53 sg.; A. TEPEDINO GUERRA, Il PHerc. 1025, in Atti del XVII Congresso Internazionale di Papirologia. Napoli, 19-26 maggio 1983, Napoli, CISPE 1984, II, pp. 569-575, che aveva precedentemente pensato a una porzione del Peri; cavritoc, e T. DORANDI, Filodemo: gli orientamenti cit., p. 2347 sg. 13 PHerc. Paris 2. Anche il titolo di questa sezione e ` frutto di congettura. Si vedano M. GIGANTE-M. CAPASSO, Il ritorno di Virgilio a Ercolano, «SIFC», VII, 1989, pp. 3-6; T. DORANDI, Filodemo: gli orientamenti cit., p. 2361; M. CAPASSO, Les livres sur la flatterie cit., p. 179. 14 PHerc. 1017. Il titolo Peri; u{brewc e ` stato congetturato da D. BASSI, Filodhvmou Peri; u{brewc, «RIGI», V, 1921, pp. 268-301, sulla base della terminologia ricorrente nel libro. In realta`, come ha recentemente messo in luce G. KARAMANOLIS, Philodemus, Peri; u{brewc? (PHerc. 1017). New Readings and the Philodemean Conception of Hybris, «CErc», XXXV, 2005, pp. 103-110, l’argomento dell’opera, probabilmente di Filodemo, non era la tracotanza (hybris),

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la loro appartenenza al trattato Sui vizi non sono sicuri. Il decimo libro, conservato in PHerc. 1008, era invece dedicato alla superbia, come si desume dall’argomento e anche dal sottotitolo [Peri; uJperh]fanivac che, come vedremo, compariva in calce al titolo iniziale del volume.15 Di esso ci rimangono le ultime ventinove colonne, di cui solo venticinque edite. Le quattro malridotte colonne conservate nel pezzo 1 della cornice 7 non sono mai state ne´ trascritte ne´ pubblicate. L’edizione critica del fr. 1 e delle coll. 1-9 e` stata effettuata per la prima volta da Christian Jensen nel 1911 nell’ambito dell’editio princeps del De superbia.16 Si tratta di una ricostruzione testuale assai prudente in cui, per le condizioni alquanto precarie di questa porzione del papiro, l’editore si limito` alle integrazioni strettamente necessarie e a pochi altri interventi.17 Per quel poco che e` possibile ricavare da tale provvisoria ricostruzione, in questa parte del libro si dissertava sul comportamento del superbo e sugli inconvenienti che gliene derivano (fr. 1 e coll. 1-3), sull’abitudine a disprezzare i filosofi, l’autoesaltazione, lo smodato desiderio di gloria (col. 4). Superbi si diventa per condizioni e situazioni attribuibili a favorevoli quanto instabili congiunture del caso. Al contrario, deve andare orgoglioso chi sa resistere ai rovesci della sorte, grazie ai quali unicamente colui che insuperbisce puo` sperare di rientrare in se stesso, poiche´ e` incapace di essere indifferente alla fortuna di cui gode e non vuole prestare ascolto ai consigli dei maestri e dei filosofi (col. 5). Di questi ultimi, poi, alcuni sono accusati non senza qualche ragione dello stesso vizio, quantunque le opinioni correnti sulla superbia dei filosofi siano da rigettare come destituite di ogni fondamento. Esse sono da imputare al fraintendimento di quella gravita` che e` costitutiva non solo del filosofo, ma di ogni sapiente. Siffatta gravita` non puo` essere confusa con il disprezzo che il superbo cova in cuor suo nei confronti degli altri (col. 6). A questo punto Filodemo, dopo aver citato una sentenza di Metrodoro, passa a considerare le tempeste alle quali e` esposta l’anima del superbo che, abbandonata in balı`a della sorte e dei suoi mutamenti, e` capace di montare fino alla massima alterigia per poi sprofondare nella piu` abissale depressione. Cio` non gli impedisce, una volta che la fortuna torni ad arridergli, di bensı` una virtu` politica simile a quella trattata nel De bono rege secundum Homerum (PHerc. 1507) dello stesso Filodemo. 15 Cfr. infra, pp. 211-214. 16 Si veda CH . JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiw n cit., pp. 3-16. = 17 Cfr. ivi, p. XIII : «Cum autem ludere nollem, ea tantum supplevi, quibus veram me assecutum esse lectionem confiderem, cetera intacta relinquere malui, quam incertis tentare supplementis».

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restaurare l’arroganza di un tempo (col. 7-col. 8, 1-13). Infine, da col. 8, 14 a 10 11 il filosofo forniva una serie di consigli pratici su come prevenire il rischio di cadere contagiati dal vizio. Ora, lo stesso Jensen, insoddisfatto della costituzione testuale di questa porzione del papiro, pubblico` nel 1933 una nuova edizione di tali colonne, nella quale mostro` un atteggiamento opposto rispetto a quello precedentemente adottato.18 Se infatti, come rimarco` Carlo Gallavotti nella recensione al libro di Jensen, lo studioso tedesco lesse molti passi «veramente bene e con acume notevolissimo», d’altra parte la ricostruzione di numerose porzioni di testo e soprattutto delle prime lacunosissime quattro colonne (ivi compreso il fr. 1) fu da lui condotta senza quel sano spirito di rinunzia a integrare testi gravemente frammentari che deve caratterizzare il metodo papirologico.19 E se nella sua prima edizione del 1911 egli intravedeva ancora una continuita` logica tra la prima e la seconda parte (coll. 10-24) del papiro, nel 1933 elaboro` un’affascinante quanto bizzarra ipotesi secondo la quale il fr. 1 e le coll. 1-9 sarebbero quel che rimane di una lettera apologetica di Epicuro indirizzata a Idomeneo e agli altri discepoli di Lampsaco. Essa sarebbe stata scritta nei primi decenni del III sec. a.C., dopo qualche anno che Epicuro si era trasferito ad Atene, e avrebbe contenuto una difesa dalle calunnie che il dissidente Timocrate aveva lanciato contro di lui in un libello intitolato Lepidezze (Eujfrantav) con l’intenzione di allontanare dalla scuola epicurea Idomeneo, personaggio influente alla corte di Lisimaco.20 Il quadro e` ulteriormente complicato dal fatto che all’inizio della sua lettera Epicuro avrebbe riportato a Idomeneo il testo di un’altra sua missiva indirizzata a Mitre, tesoriere di Lisimaco, allo scopo di chiedergli aiuto contro le accuse di Timocrate.21 Come se non bastasse, in quest’ultima lettera il filosofo avrebbe riferito nientemeno che un dialogo avvenuto tra lui e il dio Asclepio, in cui gli chiedeva la punizione del suo oppositore, nel frattempo divenuto sacerdote del dio a Epidauro, e otteneva la garanzia che gli de`i soccorrono i giusti (sic). Ma la lettera a Mitre fu travisata dai 18 Si veda CH . JENSEN (Hrsg.), Ein neuer Brief Epikurs, wiederhergestellt und erkla ¨ rt von Ch. J. in Bonn, Berlin, Weidmann 1933 («Abhandlungen der Gesellschaft der Wissenschaften zu Go¨ttingen, Philologisch-historische Klasse», Dritte Folge, 5), pp. 1-94. 19 Si veda C. GALLAVOTTI , rec. CH . JENSEN (Hrsg.), Ein neuer Brief cit., «BFC», XL, 1933/1934, p. 178. 20 Sulle accuse infamanti di Timocrate a Epicuro cfr. DIOG . LAE¨ RT. X 6. 21 Cfr. anche PLUTARCH . adv. Col. 1126 C , secondo il quale Epicuro invio ` in Asia alcuni discepoli incaricandoli di accusare Timocrate.

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discepoli di Lampsaco ed Epicuro fu accusato di superbia. Da tale addebito egli si difendeva di fronte a Idomeneo nel prosieguo della lettera a lui indirizzata e concludeva con la dimostrazione della malvagita` e arroganza di Timocrate. Inutile dire che l’ipotesi ricostruttiva di Jensen, per quanto ingegnosa, e` «fantasiosa ed estremamente fragile»,22 in quanto basata per intero su congetture e integrazioni di passi anche molto lacunosi da cui egli ricavava altresı` i nomi di quei personaggi storici che erano implicati nella sua ricostruzione.23 In quanto tale essa ha giustamente suscitato perplessita` e giudizi fortemente critici dalla maggior parte degli studiosi.24 E questo sia per il metodo adottato che per le conclusioni a cui si perviene. In effetti, se si accetta l’ipotesi di Jensen, non soltanto viene meno l’omogeneita` di contenuto tra la prima e la seconda parte del papiro, con il risultato che non si comprende piu` l’attinenza del fr. 1 e delle coll. 1-9 con l’argomento principale del libro (la superbia), ma siamo perfino costretti a credere che Epicuro in persona parlasse con un dio o che ammettesse in qualche modo che gli de`i si occupino delle faccende umane! Affermazione, questa, in assoluto contrasto con le numerose e autorevoli fonti sulla teologia epicurea, la quale, come e` noto, non ammetteva interferenza di sorta tra uomini e de`i. Non si puo` pretendere, come fa lo studioso tedesco, di correggere con un testo cosı` liberamente ricostruito testimonianze tanto antiche e sicure.25 E inoltre, si deve credere che gli oppositori di Epicuro (che non potevano non essere a conoscenza di un siffatto dialogo) non gli abbiano mai contestato una tanto vistosa contraddizione? 26 In realta`, come affermo` lo stesso Gallavotti, «appena il testo si purifica un poco dalla selva di parentesi quadre, esso parla realmente di superbia e di superbi, quale appunto deve es22 G. INDELLI , Per una nuova edizione del PHerc. 1008 (Filodemo, I vizi, libro X), in I. ANDORLINI-G. BASTIANINI-M. MANFREDI-G. MENCI (edd.), Atti del XXII Congresso Internazionale di Papirologia, Firenze 23-29 agosto 1998, Firenze, Istit. Papirol. G. Vitelli 2001, II, p. 696 sg. 23 Si veda C. GALLAVOTTI , rec. CH . JENSEN cit., p. 177: «Ma come si puo ` dimenticare che tutto questo e` costruito per intuizioni o per integrazioni, abilmente sı`, ma spietatamente costruito? Ogni pagina di questo lavoro e` zeppa di ipotesi e di combinazioni, e di quei nomi storici che ho citati nemmeno uno e` tramandato dal papiro, ma sono tutti un frutto dell’integrazione». 24 Si vedano le recensioni di A. RIVAUD , «RCr», LXVII, 1933, pp. 440-442; C. BAILEY , «CR», XLVIII, 1934, p. 87; A. CALDERINI, «Aegyptus», XIV, 1934, p. 353; P. COLLART, «RPh», VIII, 1934, p. 415; R. PHILIPPSON, «PhW», LIV, fasc. VI, 1934, coll. 154-160; L.A. POST, «AJPh», LV, 1934, p. 190 sg.; B.S. P. [nome non decodificabile], «JHS», LIV, 1934, p. 102 sg.; K. JAX, «Clio», XXIX, 1936, p. 338, e la gia` citata recensione di Carlo Gallavotti. 25 Si veda C. GALLAVOTTI , rec. CH . JENSEN cit., p. 178 sg. 26 Si veda E. BIGNONE, Studi critici sul testo di Epicuro, «SIFC», n.s., X, 1933, pp. 96-99.

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sere il contenuto di questo decimo libro dell’opera di Filodemo».27 Si recupera cosı` l’unita` tematica del libro, il quale doveva trattare lo stesso argomento dall’inizio alla fine, non soltanto nella porzione conservata del volume, ma anche nella parte iniziale perduta.28 Quel che e` sicuro e` che il testo del fr. 1 e delle coll. 1-9, cosı` come e` stato nuovamente stabilito da Jensen nel 1933, non puo` costituire una sicura base per accrescere le nostre conoscenze sul contenuto di questa porzione del De superbia e prima di tentare di dare una risposta ai diversi interrogativi che la sua interpretazione solleva, sara` necessaria una nuova costituzione del testo.29 Va detto pero` che la parte del libro su cui storicamente si e` concentrato il massimo interesse della critica e` rappresentata dalle ultime quindici colonne del volume (coll. 10-24), quella nella quale il filosofo di Gadara citava liberamente uno scritto Sul modo di liberare dalla superbia di un ignoto Aristone. E` grazie a questo scritto, la cui l’attribuzione e` incerta, ma che deve essere assegnato a un filosofo sicuramente non epicureo, che il decimo libro del trattato Sui vizi puo` essere giustamente considerato «uno dei libri che con maggiore evidenza dimostra che con Filodemo l’Epicureismo si e` aperto alle esperienze e ai contenuti delle altre Scuole».30 Certo, l’abitudine tipica di questo autore ad attingere copiosamente ad altre tradizioni filosofiche non si trova attestata unicamente nel De superbia, essendo testimoniata diffusamente in tutto il Corpus Philodemeum. Ma e` il nostro libro (assieme al De ira) che contribuisce in modo decisivo a dimostrare che egli non esitava a servirsi di autori e testi estranei o perfino ostili alla dottrina epicurea tutte le volte che doveva affrontare lo studio sistematico di una fattispecie morale.31 E questo perche´, come vedremo meglio piu` sotto, mentre in altre scuole ellenistiche, e segnatamente in quella stoica, la letteratura sulle passioni e sui vizi aveva riscosso un grande successo e raggiunto un elevato grado di specializzazione, all’interno del Giardino ad essa non 27 C. GALLAVOTTI , rec. CH. JENSEN cit., p. 179. Si veda anche A. ANGELI , Carlo Gallavotti e la papirologia ercolanese, in M. CAPASSO (ed.), Contributi alla Storia della Officina dei Papiri Ercolanesi, Napoli, Graus 2003, pp. 319-323. 28 Si veda G. INDELLI , Per una nuova edizione cit., p. 697, e ID ., Segni, abbreviazioni e correzioni in PHerc. 1008 (Filodemo, Sui vizi, libro X), «CErc», XXXV, 2005, p. 127 nota 13. 29 Per questo motivo, tutte le volte che mi riferiro ` al fr. 1 e alle coll. 1-9 mi basero` sull’edizione del 1911. 30 M. GIGANTE , Libri morali di Filodemo, «CErc», XXX, 2000, p. 122. 31 Si veda anche E. ASMIS , Philodemus’ Epicureanism cit., p. 2390: «Book 10 of ‘On Vices and Virtues’, ‘Peri; uJperhfanivac’ (‘On Arrogance’), contains little that is distinctively Epicurean. It demonstrates that Philodemus was not reluctant to take over philosophical material from outside the Epicurean school whenever it was compatible with Epicureanism».

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PARTE PRIMA

era stata riservata un’attenzione comparabile.32 Filodemo, che visse in un’epoca eclettica tendente all’uniformazione del pensiero filosofico e in cui un grande interesse era riservato a questo tipo di trattatistica, non poteva non fare i conti con le istanze del periodo e dovette aprirsi alle particolari esigenze dei suoi destinatari. E` anzi proprio da questi presupposti che egli probabilmente partiva quando decise di dedicare un grande trattato morale ai vizi dominanti del suo tempo.

2. LA

PREMESSA DI

FILODEMO

AL

DE

LIBERANDO A SUPERBIA

Le ultime quindici colonne del volume (coll. 10-24), con la parziale eccezione delle coll. 10 e 11, si presentano in uno stato di conservazione sensibilmente migliore rispetto alle precedenti. Di esse ho offerto nell’ambito del presente lavoro un nuovo testo critico. Come gia` accennato nel precedente capitolo, in questa parte Filodemo citava liberamente e ininterrottamente sino alla fine del libro uno scritto Sul modo di liberare dalla superbia (Peri; tou= | ko. [u]fivz[ein uJ]perhfanivac), che egli attribuiva a un non meglio specificato Aristone. Prima di iniziare l’esposizione il filosofo epicureo premette una breve avvertenza in cui illustra i dati principali dell’opera citata e le sue osservazioni critiche sul metodo seguito dall’autore. Poiche´ il passo e` di decisiva importanza per una corretta comprensione dello scritto, lo riporto integralmente nella mia traduzione: Ora ad Aristone, che ha scritto un’opera in forma epistolare Sul modo di liberare dalla superbia, accadde una cosa davvero singolare nel considerare [solo] quella di coloro che divengono superbi a causa della fortuna, quando invece ci si insuperbisce non solo in forza di alcune circostanze prodotte da questa, ma anche per quei motivi che prima abbiamo detto noi, e certo molti sembrarono insuperbire anche a causa della stessa filosofia, come Eraclito, Pitagora, Empedocle, Socrate e alcuni poeti che i commediografi piu` antichi sferzarono. Pur tuttavia, qualora dovesse persuadere qualcuno, cosı` come non inverosimilmente potrebbe convincere qualcuno sugli argomenti che si e` ritagliato, ne ricapitolero` i punti salienti (10 11-31).

In queste poche linee si collocano svariati problemi di ordine testuale ed esegetico che hanno messo a dura prova gli studiosi, configurando il passo come uno tra i piu` controversi nella storia degli studi ercolanesi. Innanzitutto, come succede anche altre volte in Filodemo (e non solo), l’au-

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Cfr. infra, p. 205 sg.

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tore dello scritto e` menzionato senza precisarne l’etnico e la scuola filosofica di provenienza, circostanza che ha dato origine a un lungo dibattito sull’identita` di tale personaggio. Essa potrebbe significare che il filosofo di Gadara, per motivi che ci sfuggono, riteneva i suoi destinatari in grado di identificare da se stessi l’autore dell’opuscolo, ma non si puo` escludere del tutto nemmeno la possibilita` che egli ne avesse precisato le generalita` in una sezione anteriore del De superbia.33 Lo farebbe pensare anche il modo piuttosto brusco con cui si passa da quanto discusso in precedenza alla citazione dell’opuscolo aristoneo. Ma l’assenza di un testo critico affidabile della sezione del papiro antecedente alla col. 10 non consente allo stato attuale di verificare siffatta eventualita`. Il problema su cui storicamente piu` si e` discusso e` quello concernente la forma originaria del De liberando a superbia, nel quale alcuni studiosi hanno voluto riconoscere una lettera, altri un’epitome filosofica, a seconda del diverso modo in cui, a 10 13-14, essi hanno letto la parola che segue immediatamente il titolo dell’opuscolo, ej|pic. tolhv. [n o ej|pictol[i]kav i primi, ej|pi[t]om. [hvn i secondi. Discuteremo in un capitolo a parte l’importante peso che queste letture, insieme alla presunta lezione ej. petev|m. eto (10 29-30), hanno esercitato sulla questione dell’attribuzione.34 Anche sul significato da attribuire al titolo si sono registrati due diversi orientamenti. Alcuni studiosi hanno interpretato l’espressione koufivzein uJperhfanivac nel senso di ‘‘liberare dalla superbia’’, altri, invece (la maggioranza), lo hanno inteso nel significato di ‘‘mitigare o alleviare la superbia’’.35 E` quest’ultima l’interpretazioE` quanto ipotizzava Wilhelm Kno¨gel ap. CH. JENSEN (Hrsg.), Ein neuer Brief cit., pp. 1; 76. Cfr. cap. II.2.1. 35 Nel primo senso l’hanno intesa CH . JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiw n cit., p. XV : «de = animo a superbia liberando»; ID., Ariston von Keos bei Philodem, «Hermes», XLVI, 1911, p. 399: ¨ ¨ «Uber die Befreiung vom Ubermut»; M. CAPASSO, Epicureismo e Eraclito. Contributo alla ricostruzione della critica epicurea alla filosofia presocratica, in L. ROSSETTI (ed.), Atti del Symposium Heracliteum 1981, Roma, Ed. dell’Ateneo 1983, p. 452: «Sulla liberazione dalla superbia»; F. WEHRLI, Ariston aus Keos, in H. FLASHAR (Hrsg.), Ueberweg. Grundriss der Geschichte der Philosophie. Die Philosophie der Antike, III: A¨ltere Akademie, Aristoteles, Peripatos, Basel, ¨ber die Befreiung von U ¨berheblichkeit»; M. GIGANTE, Atakta XIII, Schwabe 20042, p. 616 sg.: «U «CErc», XXIV, 1994, p. 91: «Sul liberarsi dalla superbia»; ID., Atakta XV, «CErc», XXVI, 1996, p. 132 e nota 16: «De levamine superbiae»; ID., Kepos e Peripatos, Napoli, Bibliopolis 1999 («Elenchos. Collana di testi e studi sul pensiero antico», 29), p. 125: «Sulla liberta` dalla superbia»; A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 716: «Sul modo di liberare dalla superbia»; G. RANOCCHIA, Filodemo e il Peri; tou= koufivzein cit., p. 255 sg.: «Sul modo in cui alleggerirsi della superbia»; J. DIGGLE (ed.), Theophrastus, Characters, edited with Introduction, Translation and Commentary by J. D., Cambridge, CUP 2004 («Cambridge Classical Texts and Commentaries», 43), p. 9: «On Relief from Arrogance». Nel secondo senso e` stata interpretata da Luigi Caterino in HV 1, III, ff. IV e 19: «De minuenda superbia»; H. SAUPPE (ed.), Philodemi de vitiis liber decimus. Ad voluminis Herculanensis exempla Neapolitanum et Oxoniense distinxit supplevit expli33

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ne offerta da Wilhelm Kno¨gel, il quale penso` che scopo dell’opera fosse quello di mitigare il vizio, e non di estirparlo del tutto.36 E dal momento che gli Stoici propugnavano la totale eliminazione di vizi e passioni (ajpavqeia), mentre i Peripatetici si proponevano di moderarli (metriopavqeia), lo studioso tedesco credeva di aver trovato un argomento con il quale negare la paternita` dell’opera allo stoico Aristone di Chio per poterla cosı` attribuire al peripatetico Aristone di Ceo. Ma vi sono due obiezioni a questo tipo di interpretazione, la quale nasce da un equivoco che converra` dissipare una volta per tutte, se si considera l’uso strumentale che ne e` stato fatto sino ad oggi nella storia dell’attribuzione.37 Innanzitutto non e` sicuro che quello che e` comunemente ritenuto essere il titolo dell’opera sia effettivamente da considerare tale. La lunghezza della frase e la natura dello scritto potrebbero far pensare a una generica allusione del filosofo epicureo all’argomento dello scritto da lui liberamente citato, piu` che a un vero e proprio titolo e, in tal caso, anche koufivzw potrebbe essere un termine di Filodemo piu` che di Aristone.38 In secondo luogo, il cavit H. S., Lipsiae, Weidmann 1853, p. 18: «De levanda superbia»; J.A. HARTUNG (Hrsg.), Philodems Abhandlungen u¨ber die Haushaltung und u¨ber den Hochmut und Theophrasts Haushaltung und Charakterbilder. Griechisch und Deutsch mit kritischen und erkla¨renden Anmerkungen von ¨ber die Besserung des Hochmuthes»; W. KNO¨GEL, op. J.A. H., Leipzig, Engelmann 1857, p. 71: «U ¨ber die Erleichterung des Hochmuts»; R. PHILIPPSON, rec. W. KNO¨GEL, op. cit., «PhW», cit., p. 8: «U LIV, fasc. XLVIII, 1934, col. 1331: «von der Milderung des Hochmutes»; S.N. MOURAVIEV, La vie d’Hera´clite de Dioge`ne Lae¨rce. Analyse stratigraphique – Le texte de base – Un nouveau fragment d’Ariston de Ce´os?, «Phronesis», XXXII, 1987, p. 23: «Sur la fac¸on de temperer l’arrogance»; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), Testimonianze su Socrate, Napoli, Bibliopolis 1992 («La Scuola di Epicuro, 13»), p. 182: «Sulla mitigazione della superbia»; M. CAPASSO, Les livres sur la flatterie cit., p. 181: «Sur l’Apaisement de l’orgueil»; J. RUSTEN, Fragments of the Character Sketches of Ariston of Ceos (III-II B.C.), in J. RUSTEN-I.C. CUNNINGHAM (eds.), Theophrastus, Characters. Herodas, Mimes. Sophron and other Mime Fragments, Cambridge Mass.-London, Loeb 20022, p. 160, e P. STORK -T. DORANDI -W.W. FORTENBAUGH -J.M. VAN OPHUIJSEN (eds.), art. cit., p. 67: «On Relieving Arrogance»; S. SCHORN (Hrsg.), Satyros aus Kallatis. ¨ber die Verringerung Sammlung der Fragmente mit Kommentar, Basel, Schwabe 2004, p. 203: «U des Hochmuts». Teneva in considerazione entrambe le possibilita` J.L. USSING (ed.), Theophrasti Characteres et Philodemi de vitiis liber decimus. Cum commentario edidit J.L. U., Hauniae, Gyndeldall. 1868, p. 160: «koufivzein uJperhfanivac, sc. eJautovn, est arrogantia liberari, superbiam dimittere aut minuere», mentre F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., non traduce l’espressione. 36 Si vedano W. KNO ¨ GEL, op. cit., p. 15 sg.; R. PHILIPPSON, rec. W. KNO ¨ GEL cit., col. 1331; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 217, e anche M. GIGANTE, Atakta XV cit., p. 131 sg. e nota 16. 37 Si veda, da ultimo, S. VOGT, Characters in Aristo, in W.W. FORTENBAUGH -S.A. WHITE (eds.), op. cit., p. 264 nota 7. 38 Di questo parere erano CH . JENSEN, Ariston von Keos cit., p. 399, e D. TSEKOURAKIS , Zwei Probleme der «Aristonfrage», «RhM», CXXIII, 1980, p. 255. In ogni caso, per comodita` continuero` a riferirmi allo scritto nel modo tradizionale.

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verbo koufivzw, letteralmente ‘alleggerire’, quando, come nel nostro caso, si riferisce a persone ed e` accompagnato da un genitivo di separazione significa sempre e unicamente ‘sgravare’, ‘liberare’ qualcuno da qualcosa, cioe` togliere un peso di dosso a qualcuno e quindi ‘alleggerirlo’ di quel peso, come attestano i lessici.39 Solo allorquando il verbo non e` costruito con il genitivo, ma con il solo accusativo (della cosa o della persona), esso vuol dire ‘mitigare’, ‘alleviare’ qualcuno o qualcosa.40 E Aristone non afferma mai, ne´ qui ne´ altrove, di voler alleggerire la superbia (uJperhfanivan), bensı` di voler alleggerire qualcuno della superbia (uJperhfanivac), cioe` di volerlo liberare totalmente dal suo vizio. E` significativo che tutte le volte che koufivzw compare nel De liberando a superbia (11 2-4; 28-30; 14 20-21) sia accompagnato sempre da un genitivo di separazione e possieda sempre quest’ultimo significato.41 Analogamente il corrispondente latino levo, laddove e` riferito a persona ed e` accompagnato da genitivo o ablativo di separazione, significa soltanto e univocamente ‘sgravare’, ‘liberare’.42 Risulta comunque sufficientemente chiara l’intenzione di Aristone, che era quella di scrivere un’operetta morale che fungesse da terapia contro la superbia. Essa era rivolta all’uomo arrogante che, riconoscendo il proprio vizio e sottoponendosi volontariamente a un processo di ‘rieducazione’, desiderava ‘alleggerirsene’, cioe` liberarsene definitivamente. Ma tale personaggio era un uomo realmente esistente o piuttosto un interlocutore ideale? A questa domanda non e` possibile dare una risposta precisa. Nella prima ipotesi, cioe` nel caso che il contenuto dell’opera fosse rivolto a una o piu` persone determinate, si potrebbe pensare a discepoli o amici dell’autore, cioe` a personaggi appartenenti alla medesima cerchia filosofica che furono vittime della superbia e a cui egli intese rivolgere le sue esorta39 In questa accezione il koufivzein del nostro passo e ` rubricato in LSJ, s.v. koufivzw, II 2 B: «relieve from burdens». 40 Cfr. ivi, II 1; 3. 41 Cfr. Comm. ad locc. Decisivo e ` l’ultimo dei passi menzionati, dove ritorna il riferimento alla superbia e in cui a confermare il significato del verbo nel senso inequivocabile di ‘sgravare’, ‘liberare’ si aggiunge la diatesi passiva: «e allora e` liberato (lett. «e` alleggerito») dalla superbia (ka[peita koufivzetai th=c uJpe[r]|hfanivac)». Cfr. anche PHILOD. de oec. col. 24, 20-21 J., e de lib. dic. fr. 66, 9, dove il participio kouficqeivc, che si riferisce al precedente toic= ejkca.uno[u=]ci pav|qecin (vv. 7-8), e` tradotto «liberatosene» da M. GIGANTE, Filodemo sulla liberta` di parola, in Ricerche filodemee, Napoli, Macchiaroli 19832, p. 80 e note 129-130. kouficmovc e` attestato apparentemente soltanto in de ins. col. 9, 12-13 B., e in de lib. dic. fr. ined. 91, 6. Si veda anche CARNEISC. Phil. II, col. 20, 7 C. 42 Cfr. C.T. LEWIS-C. SHORT , A Latin Dictionary, founded on Andrew’s edition of Freund’s Latin Dictionary. Revised, enlarged, and in great part rewritten by C.T. L. and C. S., Oxford, Clarendon 1879, s.v. levo, II B 3.

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zioni allo scopo di liberarli dal vizio. Cio` si concilierebbe assai bene con l’accentuato scopo protrettico-morale dello scritto e con il suo tono didattico, il quale era tipico della parenesi, soprattutto di quella in forma epistolare. Ma su questo si ritornera` piu` avanti.43 Ai vv. 14-16 si situa il luogo piu` discusso dell’intera colonna. Il primo problema e` rappresentato dal significato da attribuire al sintagma to; (o, come propongo io, ti) i[dion e[paqen, il secondo, collegato al primo, dall’integrazione della duplice lacuna che segue a uJper|hf[av]nwn e che Christian Jensen, su suggerimento di Siegfried Sudhaus, ha colmato con il participio [qig]wvn. In realta` quest’integrazione, come molte di quelle avanzate dagli studiosi che lo hanno seguito ([co]fw=n da Kno¨gel, [ajndr]w=n da Mouraviev, [o[nt]wn da Acosta Me´ndez e Angeli), risulta incongruente con l’ampiezza della lacuna e con le tracce di lettere superstiti. Durante la mia ultima autopsia ho potuto leggere la sequenza [...]i[.]wn.44 Deve trattarsi o di un sostantivo al genitivo plurale concordato con uJper|hf[av]nwn e dipendente da to; i[dion (genitivo adnominale) o, in alternativa, di un participio congiunto dipendente da e[|paqe. n, di cui condivida il soggetto, come gia` avevano intuito Sudhaus e Jensen. Per questo motivo, ho preferito la lettura [kat]i[d]wvn cortesemente suggeritami da Benedikt Strobel e che propongo qui per la prima volta. E cio` non soltanto perche´ essa e` perfettamente compatibile con le tracce del papiro, ma anche per la sua funzione sintattica 45 e per l’interpretazione che ne consegue. Altri supplementi sono ugualmente possibili ([ajfa]i[r]w=n,46 [eJt]a. iv[r]wn,47 [ajfrovn]wn 48 o anche il recentissimo [ejk]e. i.nv . wn), 49 ma la novissima lectio e` quella che, dopo una lunga e attenta riflessione, e` sembrata risolvere molti dei problemi suscitati dalle altre. E cio` per tre ordini di motivi. Innanzitutto, perche´ le altre integrazioni o sono pleonastiche, o costringono, come nel caso di [eJt]a. iv[r]wn, a delle interpretazioni eccessivamente complesse.50 In secondo luogo, perche´ la Cfr. infra, p. 103 sg. Nella prima lacuna vi e` spazio sicuro per tre lettere, nella seconda per una. Prima di ]i[ vi sono tracce di una lettera incerta che solo ora ho riconosciuto appartenere a un sottoposto. 45 Si tratta appunto di un participio congiunto il cui soggetto, Aristone, e ` lo stesso di e[|paqe.n. ` un’integrazione suggeritami in forma privata da David Sedley. 46 E 47 Si veda G. RANOCCHIA , L’autore del Peri; tou koufivzein cit., p. 240. = 48 Si veda ID ., Filodemo e il Peri; tou koufivzein cit., p. 244. = 49 Si veda Anna Angeli ap. T. D ORANDI , I frammenti papiracei di Aristone di Ceo, in W.W. FORTENBAUGH-S.A. WHITE (eds.), op. cit., pp. 220; 222, e Comm. a 10 16. 50 Il ruolo e il rilievo di tali eJtairoi, ‘compagni’ o ‘condiscepoli’, i quali peraltro sarebbero = menzionati solo in questo punto, rimaneva non del tutto perspicuo. 43

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scelta del genitivo adnominale di to; i[dion impone inevitabilmente di pensare che Filodemo stia qui accusando Aristone di aver sperimentato egli stesso la superbia, ipotesi che – va detto subito – non si adatta al senso generale del passo.51 In effetti, come fu riconosciuto gia` da Jensen,52 nonostante i problemi esegetici ivi racchiusi, il significato di queste linee e` sufficientemente chiaro. L’obiettivo fondamentale del filosofo epicureo e` mostrare che Aristone ha indebitamente limitato la sua trattazione al caso della superbia generata dalla fortuna, quando invece tra le cause del vizio vanno considerati anche altri fattori da quello precedentemente trattati, e tra di essi la filosofia. Che sia questo nella sua essenza il ragionamento del filosofo di Gadara non e` oggetto di discussione tra gli studiosi. Ora, se e` vero cio`, un riferimento alla presunta superbia di Aristone sarebbe qui innecessario e fuori luogo. Quello che ai vv. 11-16 si vuole affermare e` solo e semplicemente che questi si limito` a considerare il caso «di coloro che divengono superbi a causa della fortuna».53 L’appunto di Filodemo, cioe`, e` di tipo esclusivamente metodologico. Non vi e` da parte sua, ne´ qui ne´ altrove nel libro, alcun accenno alla vicenda personale dell’autore da lui citato. In terzo e ultimo luogo, l’ipotesi del genitivo adnominale obbliga ad assegnare ai due successivi participi (vv. 16-25) una funzione grammaticale differente (attributiva al primo, assoluta al secondo), il che´ depone per una sintassi assai improbabile. E cio` perche´ il primo participio (vv. 1619) avrebbe inevitabilmente come soggetto il precedente genitivo adnominale (i vari eJtairoi = , a[fronec, ecc.), mentre il secondo participio (vv. 19-25) ha un soggetto sicuramente diverso (pollw=n). Al contrario, l’adozione del participio congiunto [kat]i[d]wvn possiede i seguenti vantaggi: a) consente di pensare ad ambedue i participi come a genitivi assoluti, di cui il primo con un soggetto impersonale ellittico (‘ci si insuperbisce’), e ripristina l’opportuno parallelismo sintattico tra di essi, i quali vengono entrambi a porsi in antitesi rispetto alla proposizione sovraordinata principale (vv. 11-16); b) descrive con esattezza l’accusa mossa da Filodemo ad Ari51 In precedenza (G. RANOCCHIA , Filodemo e il Peri; tou koufivzein cit., p. 250; p. 258 sg.; = ID., L’autore del Peri; tou= koufivzein cit., p. 241) avevo anch’io interpretato in questa maniera. Ma le considerazioni che seguono e la discussione con diversi studiosi mi hanno indotto a cambiare parere. 52 Ariston von Keos cit., p. 399: «Wenn auch der Wortlaut dieses Satzes sich gewiß noch verbessern la¨ßt, so ist doch der Gedankengang vo¨llig klar». 53 Si veda anche R. PHILIPPSON, rec. W. KNO ¨ GEL cit., col. 1330 sg.: «Danach muß er (sc. Philodem) vorher Ariston den Vorwurf gemacht haben, er begehe den Fehler, sich auf solche (sc. infolge des Schicksals) Hochmu¨tige zu beschra¨nken».

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stone di aver indebitamente ristretto la sua trattazione al caso della superbia cagionata dalla fortuna, a favore della quale depone ora anche la nuova lettura ajpetev|meto situata ai vv. 29-30.54 Quanto al nesso to; (o ti) i[dion e[paqen, la sua esegesi si e` rivelata particolarmente problematica, al punto che alcuni studiosi hanno ceduto alla tentazione di sostituire arbitrariamente la forma e[|paqe. n con altre letture, come e[|b. l. e. p. en, ‘considero`’,55 avanzata da Otto Rieth e ripresa da Fritz Wehrli, ed e[|grafen, ‘descrisse’, proposta da Serge N. Mouraviev.56 Ora, pero`, e[|paqe. n e` lezione assolutamente certa del papiro e non vi e` piu` alcun motivo di metterla in discussione. Anche t.[o; i[]dion, ‘cio` che e` proprio’, ‘la particolarita`’, o, meglio ancora, t.[i i[]dion, ‘qualcosa di singolare’, ‘una cosa peculiare’, rappresentano integrazioni assai probabili, in quanto espressioni idiomatiche ben note in greco.57 Il recente tentativo di sostituirle con la lettura t]i [h{]dion (impropriamente tradotta con ‘‘un’ingenuita` maggiore’’) non e` probabilmente destinato a incontrare successo.58 I significati che sono stati attribuiti a to; i[dion e[paqen nella storia delle interpretazioni di questo passo si possono riassumere nei seguenti: a) ‘‘gli accadde la cosa particolare’’, b) ‘‘patı` cio` che e` proprio’’, c) ‘‘sperimento` cio` che e` proprio’’, d) ‘‘ebbe l’idea particolare’’. Diciamo subito che quest’ultima traduzione, proposta da Carlo Gallavotti,59 per il fatto di essere basata su un valore di pavccw attestato presso autori stoici,60 e` difficilmente applicabile al nostro passo, dove e` l’epicureo Filodemo, e non Aristone, a parlare. Anche l’ipotesi c, avanzata da Wilhelm Kno¨gel,61 solleva piu` di una difficolta`: la prima e` che, come e` stato opportunamente precisato,62 il verbo pavccw, quando e` inteso nel senso di ‘provare’ o ‘sperimentare’, indica sempre una sensazione o percezione soggettiva che, in quanto tale, non e` applicabile a un comportamento oggettivamente sperimentato come quello qui attribuiRingrazio David Sedley per la proficua discussione di tutto il passo. Ma il verbo blevpw nel senso traslato di ‘considerare’ non e` attestato nei lessici. 56 Si vedano O. RIETH , rec. W. KNO ¨ GEL, op. cit., «Gnomon», XII, 1936, p. 618 sg.; S.N. MOURAVIEV, art. cit., p. 23, e F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 55. 57 Si vedano LSJ, s.v. i[dioc, II 2; IV, e Comm. a 10 14-15. 58 Si veda Anna Angeli ap. T. DORANDI , I frammenti papiracei cit., p. 220; p. 222 sg., e anche P. STORK-T. DORANDI-W.W. FORTENBAUGH-J.M. VAN OPHUIJSEN (eds.), art. cit., p. 67 sg. e nota 3, i quali recepiscono la ricostruzione testuale dei vv. 11-31 effettuata dalla studiosa italiana. Cfr. Comm. a 10 14-15. 59 Rec. W. KNO ¨ GEL, op. cit., «BFC», XL, 1933/1934, p. 32. 60 Cfr. LSJ, s.v. pavccw, IV. 61 Op. cit., p. 8. 62 Si veda M. CAPASSO , Epicureismo e Eraclito cit., p. 453 nota 160. 54 55

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to al nostro Aristone.63 La seconda e` che, cosı` traducendo, si ricade inesorabilmente nella tesi secondo cui lo stesso Aristone si sarebbe macchiato, agli occhi di Filodemo, del vizio della superbia, un’idea che, come abbiamo visto, non corrisponde alla logica del passo.64 Kno¨gel, anzi, si spingeva fino al punto di affermare che lo stesso Aristone confessava nel suo scritto di aver «sperimentato su se stesso cio` che e` proprio dei sapienti» insuperbiti a causa della fortuna.65 Secondo l’interpretazione di questo studioso, infatti, il De liberando a superbia sarebbe stato concepito dal suo autore come una sorta di «Selbstbetrachtung», cioe` una riflessione autobiografica sulla sua personale esperienza del vizio in cui egli rivolgeva a se stesso in prima persona (!) una serie di consigli su come mitigare la superbia.66 Con tale spiegazione e con il riferimento a dei presunti «sapienti» divenuti superbi a causa della fortuna, in realta` egli intendeva trovare un ulteriore argomento con il quale smontare l’attribuzione gallavottiana dell’opera allo stoico Aristone di Chio. Gli Stoici, infatti, sostenevano notoriamente che il sapiente non puo` essere condizionato dalla mutevolezza della sorte. Ma tale interpretazione, oltre ad essere basata, come gia` accennato, su un’integrazione incoerente con le tracce del papiro (v. 16: [co]fw=n), non e` piaciuta agli studiosi.67 E` infatti alquanto bizzarro pensare che il nostro Aristone, dopo essere insuperbito e poi rinsavito, abbia deciso di fare pubblica penitenza delle sue magagne mettendosi a pontificare sul modo in cui «alleggerire la superbia».68 Del resto nell’opuscolo non c’e` alcun accenno a un’esperienza personale che l’autore voglia in qualunque modo trasmettere al suo interlocutore.69 Al 63 Per questo significato del verbo cfr. PHILOD. de oec. col. 27, 4 J., e LSJ, s.v., II 2. La possibilita` dischiusa dallo stesso Capasso (loc. cit.) e fatta propria da E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI, op. cit., p. 213, «che il conoscere le caratteristiche di taluni superbi corrisponda al sentire, all’avere effettivamente queste stesse caratteristiche» non e` del tutto convincente. Secondo l’interpretazione di Kno¨gel, infatti, l’accusa da Filodemo mossa ad Aristone e` di aver oggettivamente sperimentato il vizio e non certo di averne avuto soltanto un’impressione soggettiva. Cio` tanto piu` se, come afferma Angeli (ivi, p. 214), egli ne era inconsapevolmente affetto. Nonostante i problemi ad essa connessi, questa studiosa ha recentemente fatto proprio tale valore di pavccw nella traduzione del passo che compare in T. DORANDI, I frammenti papiracei cit., p. 220. Si vedano anche P. STORK-T. DORANDI-W.W. FORTENBAUGH-J.M. VAN OPHUIJSEN (eds.), art. cit., p. 67 («experienced»), i quali si basano sulla traduzione di Angeli, e Comm. a 10 14-15. 64 Cfr. supra, p. 13. 65 Si veda W. KNO ¨ GEL, op. cit., p. 8: «[Ariston] hat an sich das Leid erfahren, das den Weisen eigen ist, die das Schicksal hat hochmu¨tig werden lassen». 66 Cfr. ivi, pp. 8-15, specialmente p. 13 e nota 1. 67 I primi a contestare questa interpretazione, cosı` come l’integrazione [co]fwn ad essa col= legata, furono C. GALLAVOTTI, rec. W. KNO¨GEL cit., pp. 30-32, e R. PHILIPPSON, rec. W. KNO¨GEL cit., coll. 1329-1331. 68 Si veda C. GALLAVOTTI , rec. W. KNO ¨ GEL cit., p. 32. 69 Si veda O. RIETH , rec. W. KNO ¨ GEL cit., p. 618.

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contrario, il modo in cui egli deplora il vizio e le sue manifestazioni particolari fa pensare piuttosto all’atteggiamento di chi si pone su un livello moralmente superiore, lontano e distaccato dalla condotta che biasima. Quanto poi all’ipotesi b (‘‘patı` cio` che e` proprio’’), per il fatto di fondarsi sul significato piu` letterale e generico di pavccw come ‘patire’, ‘subire’, e` per questo motivo meno problematica delle altre, ma ci costringe ancora una volta a immaginare che Aristone sia accusato di aver fatto esperienza personale del vizio.70 Anch’essa, infatti, richiede l’uso di un genitivo adnominale che completi il significato di to; i[dion, anche qui inteso come ‘‘cio` che e` proprio’’ di qualcuno o di qualcosa. Invece, noi sappiamo che presso gli autori attici e anche in Filodemo e` abbondantemente attestato per pavccw, quando usato transitivamente con riferimento a persona o a cose, il valore di ‘capitare’, ‘accadere’ (ipotesi a),71 il quale si adatta singolarmente bene al senso generale del passo senza dover appesantire l’interpretazione con innecessarie sovrastrutture ermeneutiche. In effetti questa soluzione, risalente a Robert Philippson,72 da un lato permette di superare l’idea un po’ peregrina della superbia di Aristone, dall’altro, ove associata alle nuove letture t.[i i[]dion (v. 14) e [kat]i[d]wvn (v. 16), appare come la traduzione piu` naturale e semplice di tutte, quella cioe` che meglio sembra rispecchiare la mens del filosofo di Gadara in questo punto. Ad Aristone, che scrisse un opuscolo sulla liberazione dalla superbia, «accadde una cosa davvero singolare» nel considerare soltanto quella di coloro che insuperbiscono a causa della fortuna, quando invece le cause di essa sono varie e molteplici, tra cui un certo modo di intendere la filosofia. In ogni caso, come abbiamo visto, l’accusa di Filodemo concerneva unicamente la restrizione dell’analisi aristonea a un certo tipo di superbia. Nelle linee immediatamente successive (vv. 16-26) Filodemo precisa il senso della sua critica additando i limiti dell’eziologia morale di Aristone. E` qui che si colloca un ulteriore problema esegetico che non ha mancato di generare un equivoco tra gli interpreti. La maggioranza degli studiosi, infatti, ha creduto che con queste parole il filosofo di Gadara intendesse rim70 Per quel che mi risulta i primi ad aver impiegato questa traduzione furono E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI, op. cit., p. 182. In precedenza l’avevo anch’io adottata (si veda G. RANOCCHIA, Filodemo e il Peri; tou= koufivzein cit., pp. 250; 259, e anche ID., L’autore del Peri; tou= koufivzein cit., p. 241). Ma le riflessioni qui sviluppate mi hanno indotto a cambiare orientamento. 71 Cfr., ad es., PHILOD . de oec. col. 21, 28 J.; rhet. II (PHerc. 1674), col. 49, 10 L. (p. 85 S. I); de ira, col. 49, 24 I.; de poe¨m. I, col. 160, 20-23 J., e LSJ, s.v., II 1; 3. 72 Rec. W. KNO ¨ GEL cit., col. 1331: «Ariston widerfuhr ein besonderes (Mißgeschick), da er nur die infolge des Schicksals U¨bermu¨tigen beru¨hrte».

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proverare al suo autore di aver considerato nel suo scritto soltanto i superbi dia; tuvchn, cioe` coloro che divengono superbi sull’onda di una sorte favorevole e di aver invece omesso la trattazione dei superbi dia; filocofivan, di quanti cioe` sembrano insuperbire a causa del loro interesse per la filosofia. A quest’ultima fattispecie appartennero uomini come Eraclito, Pitagora, Empedocle, Socrate e alcuni poeti-filosofi che, come affermerebbe Filodemo, Aristone avrebbe tralasciato di menzionare. Ma a questa interpretazione e` di ostacolo il fatto oggettivo che lo stesso Aristone, nel corso dell’opera, fa esplicitamente riferimento a Socrate (22 34-36),73 sulla cui figura e` esemplato l’intero ritratto dell’ironico. Inoltre, l’allusione che a 16 24-26 si fa ad alcuni personaggi che pensarono «da uomini di essere diventati de`i» farebbe pensare alle tradizioni antiche diffuse sul conto di Pitagora ed Empedocle, di cui si dira` tra poco. Infine, a 13 1-9 si riporta un aneddoto biografico sulla superbia di Euripide, che per il fatto di essere stato impietosamente bersagliato dai comici dell’ajrcaiva, doveva essere uno di quei poeti cui qui allude genericamente Filodemo. Il filosofo epicureo doveva dunque trovare gia` citati in Aristone almeno alcuni dei personaggi da lui menzionati alla col. 10, i quali vi comparivano come celebri esempi di superbia. E percio` il filosofo epicureo rimproverava ad Aristone non tanto di aver omesso di menzionare questo genere di superbi – il che´, come abbiamo visto, e` contrario alla realta` – quanto piuttosto di aver ignorato la peculiare indole e la specifica origine del loro vizio, includendoli nella stessa categoria di coloro che insuperbiscono a causa della fortuna.74 Si deve anche aggiungere che Filodemo precisa che costoro «sembrarono (doxavntwn) insuperbire», piuttosto che insuperbirono, a causa della filosofia. Egli cioe`, come ha fatto piu` estesamente alla col. 6 probabilmente qui richiamata (v. 19: di’a{ proe. ivp. [a]men hJmeic= ), vuol sottolineare che la speculazione filosofica in se´ e per se´ puo` essere considerata in modo solo indiretto e apparente causa del vizio. Essa possiede la sola ‘colpa’ di far apparire all’esterno alcuni pensatori come arroganti e boriosi. Sta di fatto che la superbia di alcuni filosofi era celebre nell’antichita`. Su Eraclito ci illumina l’importante testimonianza di Diogene Laerzio tramandata nella Vita corrispondente, dove l’autore dimostra di attingere abbondantemente a uno scritto biografico ostile al filosofo, che ne metteva in luce

73 Il riferimento alle «memorie socratiche» che si legge a 23 37-38 non e ` di Aristone, ma appartiene a Filodemo. Cfr. infra, pp. 25; 120. 74 Si vedano S.N. MOURAVIEV , art. cit., p. 22 sg.; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 213; A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 717 nota 6; p. 718.

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l’alterigia e la misantropia.75 Pitagora si credeva figlio di Ermes e a motivo del suo grave contegno – cemnoprepevctatoc e` definito da Diogene – i suoi discepoli lo trattavano come «Apollo disceso dagli Iperborei». Anche il suo eloquio solenne (cemnhgorivh) fu ridicolizzato da Timone di Fliunte.76 Ma tra di essi spiccava soprattutto Empedocle, giudicato da Timeo «fanfarone e pieno di se´ (ajlavzwna kai; fivlauton)». Come Anassimandro, egli amava indossare fastosi abiti tragici e nell’esordio del suo poema si definiva «dio immortale (qeo;c a[mbrotoc)» arrogandosi onori divini.77 Perfino Socrate nel Simposio platonico era definito, ancorche´ scherzosamente, tracotante (uJbricthvc) e superbo (uJperhvfanoc) e Alcibiade precisava la sua uJperhfaniva in termini di ironia (eijrwneuvecqai) e altezzosita` (brenquvecqai).78 Inoltre, al suo linguaggio temerario (megalhgoriva) durante il processo si richiamava Senofonte nell’Apologia.79 Egli era inviso agli Epicurei per la sua ironia,

75 Cfr. DIOG . LAE¨RT . IX 1-6; 12-15. L’intenzione polemica e ` chiaramente desumibile dai contenuti, dal tono generale e da certe inequivocabili espressioni che si ritrovano nella Vita. Si vedano E. ZELLER-R. MONDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, I 4: Eraclito, a cura di R. Mondolfo, Firenze, La Nuova Italia 1961, p. 353 nota 61; R. MONDOLFO-L. TARA´N (edd.), Eraclito. Testimonianze e Imitazioni, Firenze, La Nuova Italia 1972 («Biblioteca di studi superiori», 59), p. 17 nota 4; p. 29 nota 29; p. 286 sg.; J. MEJER, Diogenes Lae¨rtius and his Hellenistic Background, Wiesbaden, Steiner 1978 («Hermes Einzelschriften», 40), p. 28; S.N. MOURAVIEV, art. cit., pp. 19-26; ID. (e´d.), He´raclite d’E´phe`se. Les vestiges. 1. La Vie, la Mort et le Livre d’He´raclite. Textes et commentaires, Sankt Augustin, Academia 2003 («Heraclitea. E´dition critique comple`te des te´moignages sur la vie et l’œuvre d’He´raclite d’E´phe`se et des vestiges de son livre», III.1), pp. 155-163, e G. RANOCCHIA, rec. S.N. MOURAVIEV (e´d.), He´raclite d’E´phe`se. La tradition antique et me´die´vale, A. Te´moignages et citations: 3. De Plotin a` E´tienne d’Alexandrie (Sankt Augustin 2002); 4. De Maxime le Confesseur a` Marsile Ficin (Sankt Augustin 2003); ID. (e´d.), He´raclite d’E´phe`se. Les vestiges, 1. La Vie, la Mort et le Livre d’He´raclite. Textes et commentaires (Sankt Augustin 2003); 3. Les fragments du livre d’He´raclite: A. Le language de l’obscure. Introduction a` la poe´tique des fragments (Sankt Augustin 2002), «Elenchos», XXV, 2004, pp. 452-457, i quali hanno subodorato in molte sezioni della Vita un atteggiamento pregiudizialmente ostile. Non sembrano cogenti gli argomenti proposti in senso contrario da M. GIGANTE, Biografia e dossografia in Diogene Laerzio, «Elenchos», VII, 1986, pp. 86-93, e ID., Aristone di Ceo biografo dei filosofi, «SCO», XCVI, 1996, p. 22 sg. Si veda anche la descrizione di Eraclito «schiamazzante come un gallo, sprezzante verso il volgo (kokkucth;c ojcloloivdoroc)» fatta da Timone di Fliunte e raccolta in DIOG. LAE¨RT. X 6, e M. CAPASSO, Epicureismo e Eraclito cit., pp. 451-454. 76 Cfr. DIOG . LAE¨RT. VIII 4; 11; 36 (TIMON fr. 57 D.) e M. DI MARCO (ed.), Timone di Fliunte, Silli, Roma, Ed. dell’Ateneo 1989, pp. 242-244. Di lui LUC. de lapsu in salut. 5, afferma anche che, scrivendo una lettera, era solito omettere il saluto iniziale, un brutto vezzo che Aristone attribuisce all’insolente. Si veda W. KNO¨GEL, op. cit., p. 23 nota 1. 77 Cfr. D IOG . LAE¨ RT . VIII 66 (FGrHist 566 F 2); 70; SUID . s.v. jEmpedoklhvc . Si vedano C. GALLAVOTTI, Empedocle nei papiri ercolanesi, in J. BINGEN-G. CAMBIER-G.NACHTERGAL (e´dd.), Le Monde grec. Hommages a` Claire Pre´aux, Bruxelles, E´d. de l’Univ. 1975, p. 161; ID., Empedocle, Poema fisico e lustrale, Milano, Fondazione Lorenzo Valla 1975, p. 145 sg.; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 215. 78 Cfr. PLATO symp. 175 E ; 219 C; 221 C . 79 Cfr. XENOPH . apol. 1; 6; 23; mem. IV 4, 4.

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che essi percepivano come una forma di iattanza.80 Gli stessi Stoici, che si ricollegavano al grande filosofo ateniese come al loro antico precursore, non amavano il Socrate ironico e dissimulatore proprio soprattutto della tradizione platonica, anche per la strumentalizzazione che ne aveva fatto l’Accademia scettica a partire da Arcesilao.81 Per venire ai poeti a cui si riferisce Filodemo, era celebre il carattere aspro (ctrufnovc) e sprezzante, l’asocialita` (ducomiliva) e la misoginia di Euripide, considerato dagli antichi un poeta-filosofo. Egli inserı` volentieri piu` volte nell’ambito dei suoi drammi impliciti riferimenti alle teorie scientifiche e filosofiche del suo tempo, in particolare a quelle di Anassagora.82 Di aspetto accigliato (ckuqrwpovc) e severo (aujcthrovc), nemico del riso (micovgelwc), era noto soprattutto per la sua gravita`, che lo induceva a tenere «in dispregio assoluto ogni cosa che non fosse grande e solenne» 83 e che egli esprimeva non solo nei suoi drammi, ma anche nella vita, come Aristofane affermava malignamente di lui: «Quale e` cio` che fa dire sulla scena, tale e` lui».84 Per questi motivi si guadagno` l’ostilita` dei suoi concittadini, a cui egli corrispose con sdegno e sussiego, al punto che, secondo la tradizione biografica a lui corrispondente, disprezzando tutti (uJperidw;n de; pavnta) decise di abbandonare Atene per trasferirsi in Macedonia, dove finı` i suoi giorni alla corte di Archelao.85 Platone era definito da Antistene «un pallone gonfiato (tetufwmevnoc)» e, per tutta risposta, questi era accusato di vanagloria (kenodoxiva) da quello.86 Lo stesso scambio di accuse era attribuito a Platone e Diogene di Sinope.87 Anche altri filosofi di epoca ellenistica sembrarono essersi macchiati di questo vizio o di vizi a esso affini, come Licone e Crisippo.88 In particolare Bione di Boristene, pur condannando Cfr. PLUTARCH. adv. Col. 1108 B, e infra, p. 116 sg. Cfr. infra, p. 124 sg.; pp. 126-132. 82 Si veda S. SCHORN (Hrsg.), op. cit., pp. 197-201. 83 SAT . vita Eur. fr. 39, col. 9, 15-19 S.: aJplwc | a{pan ei[ ti mh; | megaleion | h] cemno;n = = hj|t. [i]makwvc. 84 SAT . vita Eur. fr. 39, col. 9, 25-28 S.: ‘[oi|]a | me;n p[oi]ei | levgein toi|ovc ejctin’ (= ARISTOPH . . = = fr. 694 PCG III 2). 85 Cfr. Gevnoc Eujripivdou III, p. 3, 18-p. 4, 2; IV, p. 4, 23-V, p. 5, 4 S.; SAT . vita Eur. fr. 9; fr. 39, coll. 2; 9-10; 15; 17 S.; CALL. COM. fr. 15 PCG IV; SUID. s.v. Eujripivdhc, e S. SCHORN (Hrsg.), op. cit., pp. 201-204; 278-285. 86 Cfr. DIOG . LAE¨ RT. II 36; VI 7-8. 87 Cfr. DIOG . LAE¨RT. VI 26; PS.-DIOG . ep. 21; 31, 1. Si veda F. DECLEVA CAIZZI , Tu foc: con= tributo alla storia di un concetto, «Sandalion», III, 1980, p. 57. 88 Cfr., per Licone, ATHEN . XII 547 D -548 B (fr. 8 SFOD): ejdeivpnize (sc. Luvkwn de; oJ peripathtikovc) tou;c fivlouc ajlazoneiva/ kai; poluteleiva/ pollh/= crwvmenoc. [...] uJp’ajlazoneivac kai; ejn tw/= ejpifanectavtw/ thc= povlewc tovpw/ ejn th/= Kovnwnoc oijkiva/ ei\cen eijkocivklinon oi\kon ktl. Per 80

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duramente il tufoc = , era definito «capace di compiacersi della sua boria (tuv89 fou)». Nonostante la critica che Filodemo muove ad Aristone ai vv. 16-26, egli sente di dover riconoscere che il suo autore «non inverosimilmente potrebbe convincere qualcuno sugli argomenti che si e` ritagliato» (10 28-30). E` qui che si colloca l’ennesimo problema testuale che ha visto l’alternarsi, ai vv. 29-30, delle forme p.r.o.e[iv]|l.e.to., proposta da Jensen su suggerimento di Sudhaus,90 ej.pj etev|m.eto (da ejpitevmnw), avanzata da Kno¨gel, e le recenti ejx.e^ iv &|leto/ejf.e^ iv &|leto suggerite da Gigante.91 Tra di esse la forma piu` vicina alle tracce del papiro e` la seconda, che Kno¨gel adduceva a conferma della tesi sopra accennata che vedeva nel De liberando a superbia un compendio dello stesso Aristone. Tuttavia, nemmeno essa corrisponde del tutto alle tracce superstiti. Come vedremo meglio piu` sotto, la nuova autopsia del papiro e la collazione degli apografi napoletani e oxoniensi attestano inequivocabilmente la lezione ajpetev|meto (da ajpotevmnw, lett. ‘tagliare via’), «ritaglio` per se´», «si riservo`». Il senso che ne risulta non e` dunque «su quello che ha sintetizzato», ma piuttosto «sugli argomenti che si e` ritagliato», vale a dire che Aristone ha riservato all’illustrazione della sua tesi e di cui si e` avvalso come antidoto da propinare alla mente malata del superbo. Del resto, che sia Filodemo a sintetizzare, e non Aristone, e` confermato dalle parole immediatamente seguenti (10 30-31) con le quali il filosofo epicureo manifestava la sua intenzione di richiamare i punti essenziali dello scritto.

3. STRUTTURA

E PRINCIPALI CARATTERISTICHE DELLO SCRITTO

Filodemo, dunque, nell’ultima parte del decimo libro Sui vizi riferiva diffusamente il contenuto di un opuscolo Sul modo di liberare dalla superbia. Il verbo da lui impiegato per descrivere questa operazione e` kefalaiovw, ‘riassumere per sommi capi’ o ‘ricapitolare’, termine utilizzato anche altrove dal filosofo per alludere alla sintesi o riepilogo delle tesi di un altro autore.92

Crisippo, DIOG. LAE¨RT. VII 185 (fr. 1 SVF II): dokei = de; uJperovpthc tic gegonevnai ktl. Si veda W. KNO¨GEL, op. cit., p. 14, ed A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 734. 89 D IOG . LAE¨RT. IV 47: ( Biv wn ) e[n tic i de; kai; pov timoc kai; aj polau cai tuvfou dunav menoc . Si = veda G.C. FISKE, Lucilius and Horace, Madison, s.e. 1920 («University of Wisconsin Studies in Language and Literature», 7), p. 183. 90 Si veda CH . JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiwn cit., p. 17. = 91 Si veda M. GIGANTE, Atakta XVI, «CErc», XXVII, 1997, p. 154. 92 Cfr. PHILOD . de oec. col. 7, 37-41 J.: dhlon dhv, diovti kai; pro;c ta; pleicta twn Qeofravctou = = =

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Ma in che senso deve essere intesa questa espressione? Si riferisce a un compendio tout court, come essa farebbe a prima vista pensare, o piuttosto a una parafrasi, o addirittura a una citazione? E in quest’ultimo caso, si tratta di citazione diretta o indiretta? A queste domande si puo` tentare di offrire una risposta solo attraverso un’analisi delle principali caratteristiche formali dello scritto, che e` quanto mi propongo di fare nel corso del presente capitolo. Il primo dato che salta all’occhio e` una certa discontinuita` tra la porzione di testo compresa tra 10 31 e 16 29 e quella che va da 16 30 a 24 23, discontinuita` dovuta in parte alla logica con cui Aristone distribuı` la materia all’interno del suo opuscolo, in parte alla duplice modalita` con cui, come vedremo, Filodemo ne riportava il contenuto. Cio` ha fatto giustamente pensare che il De liberando a superbia fosse originariamente articolato in due differenti sezioni, di cui la prima era consacrata alla trattazione del vizio principale e la seconda a quella dei vizi a esso affini. Tuttavia non e` necessario immaginare, come voleva Fritz Wehrli, che Filodemo avesse riunito e ricapitolato due differenti opere di Aristone sul medesimo argomento, alla prima soltanto delle quali andrebbe riferito il titolo Sul modo di liberare dalla superbia.93 E questo per diversi ordini di motivi. Innanzitutto, perche´ la seconda sezione si pone, dal punto di vista dei contenuti e delle intenzioni, in perfetta continuita` con la precedente. La prima sezione, infatti, funge da premessa teorica a quanto ulteriormente precisato nella seconda, cosı` come questa serve da ‘appendice’ illustrativa alla trattazione generale affrontata nell’introduzione. In altri termini, i vizi cosı` minuziosamente delineati da Aristone nella seconda sezione sono strumentali al fine protrettico-morale di tutto l’opuscolo 94 e, inoltre, dal punto di vista linguistico e stilistico le due parti sono del tutto omogenee. Infine, nella seconda sezione si collocano frequenti richiami al vizio della superbia, che continua a essere il vero quadro di riferimento e il principale termine di paragone di ciascun vizio affine. La differenza, dunque, era solo nell’organizzazione del tema e nella tecnica impiegata (la parenesi nella prima seziodieilevgmeqa taic= dunavmecin ejkeiqen kekefalaiwvmena ktl., rhet. VII, col. 38, 7-8, p. 35 S. II: nu=n = de; | ke[fal]aiouvc[q]w, diovti ktl. Per espressioni simili, cfr. rhet. IV (PHerc. 1423), col. 13, 12-14, p. 156 S. I: t]a.uj.t.a; | de; kai; nun= kefa.la[i]w|dwc= uJpomnhvcomen, de poe¨m. V (PHerc. 1425), col. 13, 11-13 M.: p]r.o[cupak]ou[ev]cqw tau|[ = ta] toic= [uJ]p’aujtou= gegram|[mevn]oic [wJ]c kefalaiwvdh. 93 Si vedano F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., pp. 53-55, e ID ., Ariston aus Keos cit., p. 617. 94 Gia ` Christian Jensen (Die Bibliothek von Herculaneum, «BJ», CXXXV, 1930, p. 58 = La biblioteca di Ercolano, trad. it., in CH. JENSEN-W. SCHMID-M. GIGANTE, Saggi di papirologia ercolanese, Napoli, Morano 1979, p. 22) affermava che nella seconda sezione «osserviamo la rappresentazione dei caratteri posta al servizio della parenesi morale». Cfr. anche infra, p. 146.

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ne, l’etologia nella seconda), onde e` piu` semplice pensare che le due parti costituissero in origine, piu` che due differenti scritti, due diversi capitoli di una medesima opera.95 Che le ultime quindici colonne di PHerc. 1008 contengano da cima a fondo il testo di un autore diverso da Filodemo e` gia` stato ampiamente dimostrato da Christian Jensen e ribadito da tutti gli studiosi successivi. Per la prima sezione la prova piu` importante e` rappresentata dall’ininterrotta serie di infinitive di cui essa e` interamente costellata, le quali rivelano inequivocabilmente che il filosofo epicureo sta citando Aristone in forma indiretta.96 Tali infinitive, collegate da kaiv, dev o de; kaiv, dipendono probabilmente da un predicato verbale inespresso (un verbum dicendi o voluntatis) e il fatto che due di esse siano introdotte dalla negazione mhv o derivate (11 27: mh; procepirhto[r]e. [uv]e. i[n]; 11 34-35: mhdev [tin’ej]|pino. e. i.=n. ) rivela con chiarezza il loro valore volitivo (anziche´ enunciativo).97 Si trattava quindi in origine di proposizioni esortative, iussive e proibitive con soggetto alla seconda o terza persona singolare,98 che nel passaggio dai tempi espliciti all’infinito proprio del discorso indiretto, hanno perduto l’immediata evidenza del loro originale valore sintattico. I modi coinvolti erano dunque l’imperativo e il congiuntivo, e non l’indicativo, come pure e` stato ipotizzato.99 Anche la semplicita` e vivacita` dello stile, condito da numerosi esem95 Non convincono gli argomenti addotti in senso contrario da F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., pp. 53-55, i quali si possono sintetizzare come segue: a) le due sezioni sono tematicamente e formalmente eterogenee; b) i vizi della parte caratterologica non sono propriamente delle sottospecie della superbia; c) il diverso spazio destinato alla trattazione del superbo, da un lato, e a quella degli altri vizi, dall’altro, e` sproporzionato perche´ si possa pensare a un unico scritto originario. Ad a) si e` gia` risposto. Quanto a b) e a c), essi non impediscono che il superbo e gli altri vizi affini potessero essere trattati in due differenti sezioni di uno stesso scritto. Si vedano anche M. GIGANTE, La Scuola di Aristotele, in H.-C. GU¨NTHER (Hrsg.), Beitra¨ge zur antiken Philosophie. Festschrift fu¨r Wolfgang Kullmann, Stuttgart, Steiner 1997, p. 268: «la doppia fonte e` indimostrabile e contraddittoria»; ID., I sette tipi dell’archetipo ‘Il superbo’ in Aristone di Ceo, in U. CRISCUOLO, Synodia. Studia humanitatis Antonio Garzya septuagenario ab amicis atque discipulis dicata, Napoli, D’Auria 1997 («Collectanea», 15), p. 345; ID., Kepos e Peripatos cit., p. 125; G. INDELLI, Per una nuova edizione cit., p. 695; T. DORANDI, I frammenti papiracei cit., p. 226; S. VOGT, art. cit., p. 263. 96 Che Filodemo citi Aristone in forma indiretta e ` stato gia` dimostrato con buoni argomenti da CH. JENSEN, Ariston von Keos cit., pp. 309-404. J.L. USSING (ed.), op. cit., p. 160, invece, preferiva pensare che le infinitive fossero epesegetiche rispetto a dunavmeic di 10 31, da cui tutte dipenderebbero. 97 In questo secondo caso, infatti, esse sarebbero introdotte dalla negazione ouj. 98 Eccezionalmente, a 11 8-10, po|r euomevno uc, concordato con il soggetto ellittico di * * [cko]|p* e* [i]= n, e` al plurale. Cfr. Comm. ad loc. e R. PHILIPPSON, rec. W. KNO¨GEL cit., col. 1331. Invece [eJ]autouvc di 16 25 non e` soggetto di una esortazione, come voleva lo stesso Philippson, bensı` di uno degli esempi di follia fatti da Aristone. 99 Da W. KNO ¨ GEL, op. cit., p. 13. Si veda R. PHILIPPSON, rec. W. KNO ¨ GEL cit., col. 1331.

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pi e aneddoti storici, sensibilmente diverso dal periodare complesso, talvolta macchinoso, delle opere dottrinali filodemee, ci indicano che il filosofo epicureo sta attingendo a un altro autore.100 Interrompono l’esposizione sbrigative osservazioni dello stesso Filodemo, le quali servono quasi sempre a segnalare la presenza di tagli operati sul testo originale allo scopo di rendere piu` agile il discorso.101 L’esistenza di siffatti tagli si ricava, in particolare, dal modo assai sintetico, al limite dell’indecifrabilita`, con cui vengono riportati molti degli aneddoti storici di cui la prima sezione e` particolarmente ricca. Da un serrato confronto con i corrispondenti passi paralleli, infatti, Jensen ha confermato il sospetto che di tali episodi Filodemo riferisca in estrema sintesi cio` che in Aristone era sviluppato in modo piu` esteso e intelligibile.102 E` il caso di 11 14-17, dove il filosofo epicureo allude frettolosamente a un misterioso episodio che aveva come protagonista Dionigi il Vecchio alle prese con un uomo arrogante.103 O di 11 19-25, dove si riporta in modo lapidario un episodio relativo a Dione di Siracusa che, se non fosse gia` noto da Plutarco e Valerio Massimo, sarebbe per noi quasi incomprensibile.104 O ancora, di 12 13-31 dove, dopo aver riferito il paragone dell’invidia con la mantellina abbagliante (gega* [n]wmevnh cla|[n]ivc) di alcuni, egli aggiunge: «Quante disgrazie avvengano per invidia e` a tutti evidente!», espressione simile a quelle con cui anche altrove Filodemo mostra di voler glissare su dettagli secondari presenti nella sua 100 Si veda CH . JENSEN , Ariston von Keos cit., p. 395: «Wer die von ihm in seinen Lehrschriften beliebte kleinliche und ho¨chst unerfreuliche Polemik kennt, den muß eine mit so zahlreichen historischen Belegen und fein nachempfundenen Anekdoten gewu¨rzte Darstellung [...] ganz fremdartig beru¨hren». La valutazione di Jensen e` tuttavia un po’ ingenerosa nei confronti di Filodemo. A. GERCKE, Ariston, «AGPh», V, 1892, p. 211, evocava il confronto con la Storia dell’Accademia e con il De pietate dove, quantunque l’autore non ne indichi esplicitamente la provenienza, dimostra di attingere molto del suo materiale dai trimetri di Apollodoro di Seleucia e dallo scritto Sugli de`i di Fedro. 101 12 29-31: oi|ai [d]’ajpwvlei|ai dia; fqovnon givnontai, blev|petai toic a{pacin, 16 9-11: o} gevgone = | pollavkic h[[d]h kai; povleci | [k]ai; ajnqrwvpoic, 16 22-24: kai; | ta\lla poiein, = a} peri; aujtou= lev|goucin, 16 26-28: kai; ta\ll’o{ca givnetai pe|ri; tou;c ajnevdhn uJperhfanou=n|tac. tocau=ta me;n ou\n iJka|na; kai; peri; touvtwn ejpeipein= , 20 20-22: kai; | panq’o{ca toic= toiouvtoic cum|baivnein ajnelogizovmeqa, 20 27-28: kai; tiv ga;r dei; ta\lla pe|ri; lhrouvntwn levgein; 23 36-38: kai; tiv dei = [t]a; pleivw levgein; | [a{p]ant.[a] ga;r. * t[a;] Cwkratika; | mnhmoneuvma.[t]a [g]evme[i t]wn= ktl., 24 18-23: dio; | kai; dhl = * [on] o{ti fhci;.n. ktl. Si * veda anche CH. JENSEN, Ariston von Keos cit., pp. 399-404. Ho ritenuto di dover differenziare anche visivamente le parole di Aristone dalle intrusioni presumibilmente attribuibili a Filodemo, segnalando nella mia traduzione in tondo le prime e in corsivo le seconde. 102 Cfr. ivi, p. 400: «Er (sc. Philodem) hat im Bestreben nach mo ¨ glichster Ku¨rze nur angedeutet, was bei Ariston treffender und versta¨ndlicher ausgedru¨ckt war». 103 Cfr. Comm. a 11 14-19. 104 Cfr. Comm. ad loc. Laconica e ` soprattutto la risposta di Dione. Si veda CH. JENSEN, Ariston von Keos cit., p. 400.

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fonte.105 Per tale ragione Jensen ipotizzo` che in questo luogo il filosofo di Gadara avesse omesso per amore di brevita` un esempio storico originariamente presente nel testo di Aristone.106 Sibillina e` anche quella «sola parola pesante (e}n rJh=ma baruv)» proferita da Demetrio Poliorcete e a noi ignota che, secondo 13 26-31, gli procuro` la defezione dei Macedoni.107 Piu` oltre (14 23-25) l’espressione di Aristone «Percio` essi [sc. i superbi] sono umiliati vuoi nei tribunali vuoi nelle competizioni» induce il fondato sospetto che anche qui Filodemo stia operando dei tagli.108 Ne e` prova il fatto che, mentre di seguito si riporta l’esempio di una competizione musicale (l’episodio di Timocreonte di Rodi), di un esempio attinente all’ambito giudiziario non compare alcuna traccia.109 Anche l’allusione a Pericle rinvenibile a 11 31-34 e l’aneddoto di Lisandro e Agesilao (15 9-13), cosı` come sono riferiti da Filodemo, risultano bisognosi di spiegazione, poiche´ omettono il contesto indispensabile per la loro comprensione.110 I tagli si fanno piu` frequenti alla fine della prima sezione, dove il filosofo epicureo non nasconde una certa impazienza di passare al resto della trattazione. Quivi gli esempi storici sono sempre piu` spesso tralasciati o abbreviati e sostituiti da sintetiche espressioni probabilmente filodemee (16 9-11: «cosa che e` spesso accaduta in passato a citta` e a singoli individui»; 16 22-24: «e fare le altre cose che dicono di lui»; 16 26-28: «e quant’altro accade a coloro che si comportano con smisurata arroganza»). In altri casi vengono fugacemente accennati senza entrare nello specifico (16 18-22).111 Anche la seconda sezione del De liberando a superbia si presenta come un’unita` testuale continua e uniforme che va senza interruzioni dall’espressione fhci;n oJ Ariv j ctwn di 16 35 al fhci.nv . di 24 19, di cui il soggetto non puo` 105 Cfr., ad es., de oec. col. 8, 9-10 J., dove si impiegano parole analoghe con il medesimo scopo. Si noti anche che nel nostro passo la possibile intrusione filodemea dei vv. 29-31 e` inclusa tra paragraphoi e spatia vacua. La prima di tali paragraphoi e` stata erroneamente riprodotta da Jensen al v. 28. 106 Jensen (ivi, p. 401 sg.) collegava il paragone all’episodio di Demetrio e Pirro citato piu ` oltre (13 28-31) sulla base del fatto che PLUTARCH. Demetr. 41, 7, attribuiva al Poliorcete tic uJfainomevnh clanivc [...], e[rgon uJperhvfanon. Ma qui uJperhvfanoc significa quasi sicuramente ‘sfarzoso’. 107 Si veda CH . JENSEN, Ariston von Keos cit., p. 402. 108 Non e ` necessario pensare, come voleva Christian Jensen (ivi, p. 403) che l’espressione in questione appartenga a Filodemo, anziche´ ad Aristone. Il passaggio dal singolare al plurale, per quanto brusco, non e` di per se´ significativo. Non bisogna dimenticare che Filodemo ha rimaneggiato il testo originale della sua fonte. 109 Cfr. ibid. 110 Sull’episodio di Pericle siamo informati da PLUTARCH . Per. 15, su quello di Lisandro ed Agesilao da XEN. Hel. III 4, 8-9; PLUTARCH. Lys. 23, 7-8; Ages. 8, 1-2; quaest. conv. 644 B. 111 Si tratta di alcune celebri imprese tracotanti di Serse.

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essere altri che lo stesso Aristone. Ma proprio tale circostanza e l’uso di queste due espressioni, che delimitano dall’inizio alla fine questa porzione di testo, ci fanno pensare che nella seconda sezione (diversamente rispetto alla precedente) Filodemo impiegasse sistematicamente, non l’oratio obliqua, ma il discorso diretto, che lo doveva portare a sfiorare in piu` punti la citazione letterale.112 In effetti, e` verosimile che nel redigere il De superbia, il filosofo epicureo avesse davanti agli occhi il libro originale del suo autore, se non si vuole immaginare che ricordasse a memoria un’opera da lui citata ininterrottamente per quindici colonne. E, del resto, sembra rientrasse nel metodo di lavoro di Filodemo l’abitudine a tenere materialmente presente, durante la redazione di molte sue opere, il testo originale delle sue fonti, che egli era solito citare e parafrasare con grande generosita`. Anche nel nostro caso, dunque, non dovette avere difficolta` a citare in modo testuale, tutte le volte che lo ritenne opportuno, determinate porzioni dell’opuscolo aristoneo. Tuttavia, anche nella seconda sezione Filodemo cede alla tentazione di sintetizzare in piu` punti il testo originale della sua fonte. Ancora una volta i tagli si concentrano soprattutto nelle ultime colonne e sono segnalati dalle consuete espressioni: «e tutto quel che consideravamo accadere a persone di questa risma» (20 20-22); «Ma che bisogno c’e` di esporre gli altri difetti di questi insensati?» (20 27-28); «Ma perche´ parlarne ancora? Tutte le memorie socratiche, infatti, sono piene di...» (23 3638).113 I primi due passi segnalano la transizione dalla descrizione dell’onnisciente a quella dello sprezzante, il terzo interrompe piuttosto bruscamente la caratterizzazione dell’ironico. Ma si tratta comunque pur sempre di interventi circostanziati, mai di pesanti intromissioni nel testo citato.114 Interamente di Filodemo e` infine l’ultima frase del libro, la gia` citata chiusa del De superbia: «Termineremo qui anche la presente trattazione e aggiungeremo ad essa quella relativa agli altri vizi dei quali riteniamo opportuno far conto» (24 23-29). Va in ogni caso ridimensionata l’opinione eccessivamente ottimistica di Jensen e Kno¨gel secondo cui la descrizione originale dei vizi affini alla super112 Si vedano CH . JENSEN , Ariston von Keos cit., p. 395: «Ein carakthricmovc folgt auf den anderen, es reißt nicht ab. Der, welcher col. XVI zu reden anhebt, hat auch col. XXIV noch das Wort»; p. 399: «Philodem hat also den Text des Briefes im Auszug wiedergegeben. Das gilt aber nur fu¨r die Columnen X-XVI, denn von hier an beginnt er mit den Worten fhci;n oJ Ariv j ctwn wenigstens teilweise wo¨rtlich zu citiren»; C. GALLAVOTTI, Teofrasto e Aristone. Per la genesi dei ‘‘Caratteri’’ teofrastei, «RFIC», n.s. V [LV], 1927, p. 469 nota 4. 113 Si veda CH . JENSEN , Ariston von Keos cit., p. 404. 114 Non e ` suffragata da argomenti l’idea di J. DIGGLE (ed.), op. cit., p. 10, secondo cui «the form of the original sketches has been obscured by introductory matter, commentary and paraphrase from Philodemus».

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bia nella seconda sezione dello scritto non avrebbe subito alcun genere di rimaneggiamento da parte di Filodemo. Tale giudizio si basava sulla convinzione di tipo estetizzante che doveva essere difficile per il filosofo epicureo accorciare o modificare la descrizione dei caratteri senza evitare con cio` stesso di sfigurarli.115 Anche la formula toiouto j ctwn, = [c] | g.avr ejctin, fhci;n oJ Ariv o. i|.|oc (16 34-36), che introduce le testuali parole di Aristone all’inizio della sezione e si ripete per altre quattro volte nel corso di essa, conduceva Jensen in tale direzione.116 Ma il riferimento ad Aristone e` esplicito solo nel primo di tali casi e il semplice fatto di ripetere piu` volte la stessa espressione, del tutto rituale nel carakthricmovc, non significa per cio` stesso che Filodemo si sentisse vincolato a riferire gli ipsissima verba Aristonis. Non si puo` dunque escludere la possibilita` che anche nella seconda sezione il filosofo di Gadara abbia piu` volte riadattato le parole del suo autore, dedicandosi probabilmente piu` a decurtarle che ad alterarle. In ogni caso, anche tenendo conto di queste doverose precisazioni, possiamo affermare con certezza di possedere un’ampia (ancorche´ libera) citazione desunta da una lettera protrettico-morale attribuibile a un ignoto Aristone. Il verbo kefalaiovw con cui Filodemo si riferisce a questa operazione, pertanto, e` generico e impreciso, in quanto non esprime con correttezza l’esatta portata dell’intervento da lui operato sulla sua fonte, che come abbiamo visto, doveva avvicinarsi piu` alla citazione (diretta e indiretta) che al compendio filosofico. Per il resto, l’uso di lunghe citazioni e ampie, talora amplissime, sintesi e parafrasi da altri autori, lungi dall’essere un fatto eccezionale, era anzi del tutto abituale per il filosofo epicureo, il quale se ne serviva spesso nelle sue opere come falsariga per le sue argomentazioni o come bersaglio delle sue confutazioni. Si e` gia` fatto riferimento al caso del trattato Sull’ira. Sara` qui sufficiente ricordare il De oeconomia, che rappresenta un commento quasi verbale all’Economico di Senofonte e al Peri; oijkonomivac di Teofrasto, nella cui sezione finale si riporta un ampio estratto dal Peri; plouvtou di Metrodoro, o il quinto libro De poe¨matis, dove l’autore espone diffusamente le dottrine poetiche dei cosiddetti kritikoiv per poi confutarle punto per punto. Ancora piu` sorprendente e` il caso dei primi due libri del medesimo trattato: nel primo di essi il filosofo di Gadara rias115 Si veda CH . JENSEN, Ariston von Keos cit., p. 404 sg.: «Sobald aber die lebendige Schilderung der einzelnen Typen anhebt und die Personen selbst redend oder handelnd eingefu¨hrt werden, mochte er nicht a¨ndern oder ku¨rzen. Er konnte es auch schwer, ohne die einzelnen Bilder vo¨llig zu verwischen». Si veda anche W. KNO¨GEL, op. cit., p. 12 sg., secondo cui ci troveremmo di fronte a un «ungeku¨rzter wo¨rtlicher Abschnitt aus der Schrift Aristons». 116 Si veda CH . JENSEN, Ariston von Keos cit., p. 405.

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sumeva ininterrottamente per circa centoventisette colonne le teorie dei critici a lui precedenti, le ricapitolava poi nelle dieci colonne successive e si dedicava infine alla loro confutazione nel resto del libro e per tutto il libro secondo.117 Il De superbia, pertanto, si inserisce in una tendenza generale tipica della produzione filosofica filodemea e in tale cornice esso deve essere considerato. 3.1. La sezione parenetica La prima sezione del De liberando a superbia (10 31-16 29) spicca per il suo accentuato carattere parenetico, essendo costituita da una lunga serie di esortazioni e dissuasioni, ciascuna introdotta da un infinito e avente a oggetto un particolare aspetto del vizio. Il soggetto, originariamente in seconda o terza persona, e` ellittico ed e` rappresentato dall’uomo superbo a cui realmente o idealmente Aristone si rivolge. Si tratta per lo piu` di inviti a ‘riflettere’ o a ‘ricordare’, ad ‘avvedersi’ o a ‘paventare’ il disordine morale e le conseguenze deleterie di chi, sull’onda di una buona sorte, si lascia trascinare dal compiacimento altero di se´, delle proprie ricchezze e dei propri successi.118 Obiettivo delle esortazioni e` la liberazione o guarigione dalla superbia, che viene perseguita con diversi strumenti terapeutici. Una volta stabilito che il principale fattore scatenante del vizio e` la buona sorte, il metodo per prevenire il rischio di una reazione irrazionale di fronte ad essa e` di tipo cognitivistico e agisce sulle cause psicologiche (false opinioni) che determinano prima la passione (l’esaltazione) e poi il vizio corrispondente (la superbia). Esso consiste nel trattare i successi personali per quello che realmente sono, nella loro naturale semplicita` (ijccnovthc), senza ingigantirli indebitamente come fanno i retori (procepirrhtoreuvein); 119 invita a guardare all’esempio di quanti sono costituiti in autorita`, i quali si mostrano umili e affabili con i cittadini comuni «comportandosi precisamente all’opposto 117 Lo schema: riassunto delle tesi avversarie-ricapitolazione-confutazione e ` tipico del metodo argomentativo filodemeo. Si veda, tra gli altri, R. JANKO (ed.), Philodemus, On Poems, Book One, edited with Introduction, Translation, and Commentary, Oxford, OUP 2000, pp. 120-129; 190-192. 118 10 33-34: metarivptein | th;n d[iavnoi]an, 11 5-6: [cu]n[perila]m|bavnein pr[o;] ojf[qal]mw[n, . . .= 11 14-15: mn.[h]m.one* uv.ein ej|nargw. [= c], 11 27-29: mh; procepirhto[r]e.[uv]e.i[n] ..., aj.j[ll]’ajp[o]|cpa=n, 11 34-35: mhdev [tin’ej]|pino.e.i.n.= , 12 5: p.[ara]m.[etr]e.[i]= n eJautovn, 12 13-14: paru]pomimn[hvc]ke.|c. [q]a.[i de;] kaiv, 12 31-32: ejnnoein= | de; kaiv, 13 9: paratiqevnai de; kaiv, 13 31: ejnnoein= de; kaiv, 14 3-4: parupomimnhv|ckein de; kaiv, 14 37-38: logivzecqai | de; kaiv, 15 13-14: pollavkic eJau|to;n ejperwta=n, 15 23-24: diaire.[in= ] megalo|yucivan uJperhfan[iv]ac, 15 34: logivzecqai, 16 3-4: f[o]|bei[= cq]a.[i], 16 16: ejnnoei[= n]. 119 Cfr. 11 25-30.

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rispetto alla grandezza della loro fortuna» (13 9-15), o a richiamare alla memoria le precedenti sconfitte (10 31-36). Inoltre si esorta a rinunziare ai beaux gestes (11 34-36) e a confrontare se stessi, non con coloro che sono socialmente inferiori, ma con quanti sono al di sopra di noi poiche´, mentre la prima cosa fa insuperbire, la seconda aiuta a valutarsi per quel che realmente uno vale (12 5-10). Un altro deterrente contro il vizio e` la considerazione delle conseguenze nefaste del male. Tra queste va temuta innanzitutto l’invidia che si solleva contro il superbo allorche´ egli raggiunge il successo e ancor piu` quando si esalta per esso (12 13-31) e, d’altro canto, il compiacimento malevolo (ejpicairekakiva) e la derisione della gente allorche´ egli cade in disgrazia (12 31-13 9). Ma ancor piu` temibile e` considerata l’ira dei potenti che si abbattera` inesorabilmente sul superbo (16 3-7), e l’esito finale del vizio: la stoltezza e la follia (16 16-28). In ogni caso, avverte Aristone, l’umiliazione subita (purche´ essa non si riveli esiziale) e` sempre salutare per il superbo, giacche´ e` per mezzo di essa che egli abbassa l’orgoglio, se non vuol farlo con le parole, almeno grazie ai suoi fallimenti (14 20-23). La sventura ha il potere di metterlo di fronte alla sua miseria personale e lo riavvicina alla condizione comune a tutti gli esseri umani, mostrandogli la falsita` del suo precedente concetto di se´. Alcune esortazioni includono uno o piu` esempi storici o sentenze di personaggi celebri, undici in totale, i quali sono tutti attestati da altre fonti, se si fa eccezione per l’episodio di Dionigi il Vecchio riportato a 13 1923.120 Che l’impiego di questi modelli rappresentasse un mezzo espressivo fondamentale della parenesi di Aristone e` confermato dalla loro frequenza che, come abbiamo visto, nel testo originale doveva essere ancor piu` elevata.121 Gli esempi a noi pervenuti rappresentano per lo piu` aneddoti o crie che avevano per protagonisti nell’ordine: 1. Dionigi il Vecchio (11 9-14); 2. Dionigi il Vecchio e un uomo arrogante (11 14-17); 3. Dione e Pteodoro di Megara (11 19-25); 4. Pericle e gli Ateniesi (11 31-34); 5. Euripide e gli Ateniesi (13 1-9); 6. Alessandro e un soldato macedone (13 16-19); 7. Dionigi il Vecchio alle prese con un provocatore (13 19-23); 8. Demetrio Poliorcete e Pirro (13 28-31); 9. Timocreonte di Rodi (14 25-37); 10. Lisandro e Agesilao (15 9-13); 11. Serse (16 18-26). Di essi, i nn. 1, 2, 3, 4, 6, 7 erano 120 Anche nella seconda sezione si trovano alcuni riferimenti a personaggi storici, come Ippia di Elide (18 20-23; 20 22-24) e Socrate (22 33-36), ma non si tratta propriamente ne´ di exempla ne´ di sentenze. 121 Cfr. supra, p. 23 sg.

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esempi positivi di uomini potenti che furono capaci di mettersi in discussione, fare autoironia e porsi sullo stesso piano della gente comune o anche di personaggi che seppero fronteggiare con equanimita` le vicende felici e avverse della vita. Gli aneddoti nn. 5, 8, 9, 10, 11, al contrario, rappresentano modelli negativi di uomini altrettanto celebri che pagarono cara la loro protervia o la cui arroganza sfocio` nella follia. E` il caso famoso di Serse che conclude come in un climax la galleria dei superbi illustri. Si e` gia` detto come il paragone dell’invidia con la mantellina abbagliante riportato a 12 16-22 sia stato collegato all’episodio di Demetrio e Pirro catalogato sotto il numero 8.122 E` probabile anche che gli episodi nn. 2 e 7, aventi lo stesso personaggio come protagonista, risalissero in origine al medesimo aneddoto e che nel secondo Filodemo sia voluto tornare con maggiori dettagli su cio` che nel primo episodio aveva semplicemente accennato. L’autore del nostro scritto si serviva dunque abbondantemente di esempi positivi e negativi da proporre all’imitazione o alla riprovazione del superbo, il quale era cosı` indotto a prendere le distanze dalla deformita` morale del suo vizio e messo in guardia di fronte ai gravi rischi a cui andava incontro. Alle parti strettamente parenetiche sono intercalate altre di tipo prevalentemente etologico-descrittivo, nel corso delle quali Aristone delinea i tratti salienti del superbo.123 La principale caratteristica di questo vizio e` la presunzione (oi[hcic) di valere e sapere piu` degli altri, una sorta di abnorme autostima o senso di superiorita` dovuto alla consapevolezza della propria condizione e dei propri talenti, da cui procede, sul piano interpersonale, un indiscriminato disprezzo per il prossimo (13 31-35; 14 8-12; 15 30-34; 16 7-9). Si tratta di un falso giudizio equivalente a una disposizione interiore o condizione psicologica stabile (diavqecic),124 dalla quale discendono determinati stati emotivi (esaltazione e disperazione),125 certe inclinazioni, come l’inestinguibile sete di gloria (15 1-3), e una serie di comportamenti concreti come, ad esempio, il fatto di umiliare gli altri per sottolineare ad un tempo la propria eccellenza (15 6-9). L’irrazionalita` del vizio si evidenzia soprattutto Cfr. supra, p. 24 nota 106. Non e` dunque strettamente necessario immaginare, come voleva R. PHILIPPSON, rec. W. KNO¨GEL cit., col. 1331 sg., che nel riportare la prima sezione dell’opuscolo, Filodemo abbia tralasciato ampie porzioni introduttive comprendenti la definizione e la descrizione dell’essenza e delle conseguenze negative della superbia. 124 Cfr. 21 24. 125 Per i contraddittori sentimenti determinati dalla mutevole assegnazione della sorte cfr. 10 31-33; 12 4; 26-28; 15 33. 122

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nell’ignoranza di se´ e dei propri limiti e in un’eccessiva fiducia in se stessi. Ne deriva una generale difficolta` di relazione e il voler far sempre tutto da soli senza collaborare, consigliarsi o scendere a compromessi con gli altri, con conseguente tendenza all’isolamento (14 8-16; 15 1-9; 15 23-16 1). La principale causa esterna del vizio e`, come sappiamo, la buona sorte, la quale induce il superbo a riempirsi di boria e ingigantire i propri successi attribuendoli solo a se stesso (11 25-28; 12 3-4; 15 30-33).126 Tutta la sezione, pertanto, puo` essere considerata come una descrizione generale della superbia che funge da introduzione alla trattazione particolareggiata dei vizi affini contenuta nella seconda parte dello scritto. 3.2. La sezione etologica La seconda sezione del De liberando a superbia (16 30-24 23), introdotta da una breve formula di passaggio dello stesso Filodemo,127 e` invece di natura prevalentemente etologica (e non semplicemente caratterologica), stante la rilevanza morale dei tipi descritti e il fine protrettico-morale di tutto l’opuscolo.128 Essa rappresenta, infatti, una rassegna dei vizi affini alla superbia, che funge da esemplificazione pratica di quanto detto nella parte introduttiva. Si tratta, piu` precisamente, di una galleria di modelli esecrabili che vengono classificati in nove categorie: 1. l’insolente (oJ aujqavdhc); 129 2. il sufficiente (oJ aujqevkactoc); 130 3. l’onnisciente (oJ panteidhvmwn); 131 4. lo sprezzante (oJ uJperovpthc); 132 5. il tronfio (oJ cemnokovpoc); 133 6. l’altezzoso (oJ brenquovmenoc); 134 7. l’ironico (oJ ei[rwn); 135 8. il dispregiatore (oJ eujtelicthvc) o denigratore (ejxeutelicthvc) e 9. il vilificatore (oJ oujdenwthvc) o vilipensore (ejxoudenwthvc).136 Da questo quadro emergono alcune peculiarita`. 126 Si vedano anche V. TSOUNA , Philodemus on the Therapy of Vice, «OSAPh», XXI, 2001, pp. 236-238 e, soprattutto, EAD., Aristo on Blends of Arrogance, in W.W. FORTENBAUGHS.A. WHITE (eds.), op. cit., pp. 279-292. 127 16 28-29: tocauta me;n ou\n iJka|na; kai; peri; touvtwn ejpeipein. Cfr. PHILOD . de oec. col. 12, = = 2-5 J.: ta; me;n ou\n pro;c touvtouc iJkanwc= ejpicechvmantai, ta; d’hJmin= ajrevckonta cuntovmwc uJpograptevon. 128 Cfr. infra, pp. 142-148. 129 Cfr. 16 30-17 19 e 19 3-18. 130 Cfr. 17 19-18 12 e 19 18-20 4. 131 Cfr. 18 12-19 3 e 20 4-33. 132 Cfr. 20 33-21 39. 133 Cfr. 21 1-15. 134 Cfr. 21 15-39. 135 Cfr. 21 39-24 2. 136 Cfr. 24 2-23. La traduzione degli ultimi due vizi e ` di M. GIGANTE, Kepos e Peripatos cit., p. 133.

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In primo luogo, lo sprezzante, il tronfio e l’altezzoso appaiono intimamente collegati tra di loro, benche´ non sia del tutto chiara la loro precisa relazione. Senza dubbio questi ultimi due caratteri, entrambi mutuati dalla commedia (e` lo stesso Aristone ad affermarlo),137 sono posti tra di loro sul medesimo piano, ma vanno probabilmente intesi a loro volta come sottospecie rispetto allo sprezzante.138 Inoltre, il denigratore e il vilipensore, per la loro stretta affinita`, sono affrontati in maniera congiunta. La descrizione di ciascun vizio e` introdotta da una definizione, che ne identifica l’essenza in una ben precisa miscela di vizi qualitativamente e quantitativamente determinata.139 Alla definizione segue l’elenco dei comportamenti caratteristici, espresso da una serie di infinitive con soggetto al nominativo dipendenti dall’espressione toiou=toc e[ctin, oi|oc, che e` il costrutto tipico del carakthricmovc.140 All’esposizione dei primi tre tipi Aristone aggiunge, nel medesimo ordine, cioe` dall’insolente all’onnisciente passando per il sufficiente, l’elenco delle conseguenze nefaste che derivano da ognuno.141 Si tratta di una triplice serie di ulteriori precisazioni, non prive di elementi dottrinali, che in origine facevano seguito forse anche agli altri caratteri.142 A ciascun vizio e` riservato approssimativamente lo spazio di una colonna di scrittura. Costituisce una vistosa eccezione la caratterizzazione dell’ironico, a cui sono destinate quasi due colonne e che pertanto nell’economia dell’opera doveva avere un rilievo tutto particolare. Come nel caso della superbia, i diversi vizi identificano ciascuno un falso giudizio, vale a dire una stabile condizione psicologica di fallacia da cui discendono dei comportamenti aberranti. Vi e` dunque in ciascun vizio tanCfr. 21 1-39. Lo stretto legame concettuale esistente tra il tronfio e l’altezzoso si ricava da alcune espressioni impiegate nelle rispettive descrizioni, come ajpo; thc= eijrhmevnhc | diaqevcewc (21 2324), che richiama la diavqecic del cemnokovpoc precedentemente descritta, o katemblevpon|ta pa=cin kai; paremblevponta (21 24-25), che rimanda a kai; [tw]= i [c]chv|mati tou= procwvpou kai; tw=n | ojmmavtwn dei vv. 11-13. Si veda anche W. KNO¨GEL, op. cit., p. 32 e nota 3; p. 33. 139 Cfr. 16 30-34; 17 19-27; 18 12-19; 19 3-9; 18-22; 20 4-10; 20 33-21 15; 21 39-22 11; 24 2-18. 140 Tali infinitive non vanno confuse con quelle sistematicamente impiegate nella prima parte dello scritto, le quali si devono invece al discorso indiretto. 141 Cfr. 19 3-18; 19 18-20 4 e 20 4-33 rispettivamente. ` piu` complicato 142 Si veda F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 59. E immaginare, come voleva Wehrli e come avevo anch’io in un primo momento creduto, che la descrizione delle sventure dell’insolente e del sufficiente sia stata trasferita da Filodemo all’interno della caratterizzazione dell’onnisciente da un luogo differente del testo originario, con il risultato che la trattazione del panteidhvmwn risulterebbe cosı` divisa in due parti. Vedasi G. RANOCCHIA, Filodemo e il Peri; tou= koufivzein cit., p. 262, e M. GIGANTE, Kepos e Peripatos cit., p. 126. 137

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to una componente cognitiva quanto una componente comportamentale tra loro strettamente collegate. Tuttavia essi non sono concepiti come delle entita` compatte e omogenee, ma entrano in composizione con la superbia e tra di loro a formare degli agglomerati di vizi, di cui si precisano gli ingredienti sostanziali e accidentali e di cui si determinano le reciproche analogie e differenze.143 Tale caratteristica costituisce uno degli elementi di maggiore originalita` del De liberando a superbia, cio` che lo distingue nettamente, assieme alla minuziosita` della descrizione e al rigore classificatorio, da ogni altro esempio del genere.144 L’insolente, ad esempio, e` una miscela di superbia, presunzione, disprezzo e insensatezza, se non anche di iattanza, mentre il sufficiente risulta dalla combinazione di superbia, presunzione, insensatezza e irragionevolezza. Lo sprezzante, oltre che superbo, e` anche irritante, mentre l’ironia e` essenzialmente una raffinata forma di iattanza. Cosı` anche il denigratore e il vilipensore sono agglomerati di calunnia, malizia, invidia e superbia. Piu` precisamente ciascun tipo sembra fondarsi su un vizio fondamentale e su una serie di altri vizi collaterali che ne precisano maggiormente la natura.145 Nell’insolente, ad esempio, il vizio qualificante e` l’insensatezza, mentre il sufficiente e l’onnisciente sembrano essere caratterizzati prevalentemente dalla presunzione. Nell’ironico un ruolo di primo piano spetta alla iattanza, nel denigratore e nel vilipensore predomina la calunnia, mentre la superbia non sempre vi entra a far parte. Non e` del tutto chiaro quale sia la componente principale dello sprezzante,146 ma anche in questo caso la superbia non vi figura necessariamente laddove, al contrario, si afferma che il superbo e` anche ipso facto sprezzante. Talvolta i caratteri sono anche confrontati tra loro o, piu` raramente, con le virtu` corrispondenti. E` il caso del sufficiente, paragonato all’insolente, o dell’onnisciente, rapportato al sufficiente, o dell’ironico, accostato al millantatore (ajlazwvn), mentre il tronfio viene contrapposto al tipo grave (cemnovc).147 Si e` detto pure che l’essenza dei vizi e` in alcuni casi anche quantitativamente determinata, come nel caso 143 Sul concetto di «blends of vices» in Aristone e Filodemo si veda V. TSOUNA , Aristo on Blends cit., pp. 287-291, ed EAD., Philodemus on the Therapy cit., pp. 233-258. 144 Come vedremo, non vale sino in fondo nemmeno l’accostamento ai Caratteri di Teofrasto, dove non vi e` alcuna pretesa di sistematicita` e ci si limita a una stringatissima definizione iniziale, del tutto irrelata a quella degli altri caratteri. Cfr. infra, pp. 133-135. 145 Si veda V. TSOUNA , Philodemus on the Therapy cit., p. 239. 146 Cfr. Comm. a 20 34-35. 147 Nella prima sezione (15 23-34), lo stesso superbo era contrapposto al magnanimo (megalovyucoc).

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dell’insolente, che «partecipa [...] di molta insensatezza (16 33-34: pol* |lhc= eijkaiovthtoc)», o del sufficiente, che presenta meno insensatezza e irragionevolezza del precedente, laddove l’onnisciente racchiude gli stessi difetti del sufficiente, ma in grado superiore e sommo. Anche la differenza tra il denigratore e il vilipensore e` solo quantitativa, dipendendo esclusivamente dal diverso grado con cui essi calunniano il prossimo. Quanto detto sugli agglomerati di vizi sembrerebbe valere anche per le virtu`, a giudicare almeno dalla gravita` (cemnovthc), la quale e` descritta come un sorta di «dignita` (ajxivan) accompagnata da un che´ di austerita` (metav tinoc aujcthr. iv|ac)».148 Inoltre, per molti vizi la superbia rappresenta solo uno degli elementi costitutivi e a volte nemmeno il principale. In alcuni di essi e in determinati casi puo` addirittura essere assente, come si e` visto nel caso dello sprezzante, del denigratore e del vilipensore. In effetti, come ben comprese Wilhelm Kno¨gel,149 la maggior parte dei vizi descritti da Aristone non sono da intendere come vere e proprie sottospecie (ei[dh) del superbo, ma piuttosto come vizi a esso affini, come composti in cui la superbia non e` piu` di un elemento tra gli altri. Forse soltanto nel caso dell’insolente, del sufficiente e dell’onnisciente si puo` parlare legittimamente di autentiche sottospecie.150 In certi caratteri la superbia non viene nemmeno menzionata, come avviene per l’onnisciente, il tronfio, l’altezzoso e l’ironico, anche se in questi casi il riferimento ad essa si puo` ricavare dall’esame di singoli tratti caratteriali, dal confronto con altri vizi o da particolari espressioni. Nel caso del tronfio e dell’altezzoso, in particolare, tale collegamento si desume indirettamente dalla loro comune classificazione nell’ambito dello sprezzante, vizio di cui si afferma esplicitamente che la superbia entra (anche se non sempre) a far parte. Nel caso dell’ironico esso e` ricavabile, oltre che dalla parentela con la iattanza (21 39-40), vizio in qualche modo a quella riconducibile, anche dalla dissimulata supponenza che e` attribuita alla sua natura e da altre considerazioni esterne al testo.151 148 21 4-5. Si veda G. PASQUALI , Sui «Caratteri» di Teofrasto, «Rassegna Italiana di Lingue e Letterature Classiche», I, 1918, p. 145 = Scritti Filologici, a cura di F. Bormann, G. Pascucci, S. Timpanaro. Introd. di A. La Penna, Firenze, Olschki 1986, p. 59 (d’ora in poi mi riferiro` solo a questi ultimi): «Aristone si compiace [...] di allineare vizi affini per distinguerli poi in sottili definizioni: i caratteri studiati sono talvolta cosı` imparentati tra loro, che la differenza si riduce al prevalere nell’un tipo di certe anziche´ di certe altre qualita` a tutti comuni e quindi piuttosto quantitativa che qualitativa». 149 Op. cit., p. 39. Si vedano anche F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 54; C. GALLAVOTTI, Teofrasto e Aristone cit., p. 469 sg.; M. GIGANTE, Kepos e Peripatos cit., p. 124. 150 Cfr. ibid. 151 Sappiamo, infatti, che Alcibiade nel Simposio platonico (219 C ; 221 B) collegava esplici-

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Non e` escluso che i vizi analizzati da Aristone nel De liberando a superbia fossero in origine piu` numerosi. Ad essi si devono collegare anche l’amante delle lodi (filevpainoc), carattere affine al piacentiere (ajreckeutikovc), assegnato a un ignoto Aristone da Filodemo nel secondo libro De adulatione (PHerc. 1457),152 e l’intrigante (polupravgmwn), ugualmente attribuito a un non meglio precisato Aristone da Plutarco nel De curiositate 153 se, com’e` del tutto verosimile, l’artefice di questi due caratteri e` lo stesso Aristone autore della nostra lettera. E` infatti difficile immaginare che tre descrizioni caratterologiche tutte attribuite a un generico Aristone (di cui due dallo stesso Filodemo nell’ambito del medesimo trattato Sui vizi) possano appartenere ad autori differenti ed omonimi.154 Per motivi analoghi deve essere identificato con lo stesso personaggio l’Aristone autore di descrizioni caratterologiche cui si allude di passaggio nel primo libro dello stesso De adulatione, il quale affermava che «e` presunzione (oi[]hcin) la condiscendenza ([pr]aov|[thta) verso l’adulatore».155 Cio` sembra essere confermato tamente (ancorche´ scherzosamente) l’ironia di Socrate alla sua asserita superbia (uJperhfaniva) e, d’altro canto, la concezione dell’ironia propria di Aristone e`, come vedremo, di matrice eminentemente platonica. Cfr. infra, p. 121. 152 Cfr. PHILOD. de adul. II (PHerc. 1457), fr. 23, col. 11, 37-42 ANGELI (fr. 20 SFOD): oJ mevntoi filev|painoc uJp’ Ariv j ctwnoc ka|louvmenoc kai; carakthri|zov[m]enoc o.u[t’eij cunhvq[e] ;h cv ejc|ti;n ou{[t]w. diafevrwn ou[q’o{|[lwc ktl. Il passo e` stato sottoposto a nuova autopsia da Anna Angeli per conto di Tiziano Dorandi (I frammenti papiracei cit., p. 227). L’assegnazione di PHerc. 1457 al secondo libro De vitiis e` di Mario Capasso (cfr. supra, p. 3 nota 8). Dal passo citato, che segue alla descrizione dell’ajreckeutikovc, il ‘piacentiere’, Filodemo sembra rimproverare ad Aristone una troppo sottile distinzione di caratteri, poiche´ in realta` il filevpainoc non si distinguerebbe in nulla da quello. Si vedano W. CRO¨NERT, Kolotes und Menedemos, Leipzig, Avenarius 1906 («Studien zur Palaeographie und Papyruskunde», 6), p. 178; D. BASSI in HV 3, p. 2 sgg.; p. 17; CH. JENSEN, Ariston von Keos cit., p. 405 sg.; ID. ap. W. KNO¨GEL, op. cit., p. 89; F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 61 sg.; E. KONDO, art. cit., p. 53 sg.; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 215; M. GIGANTE, Kepos e Peripatos cit., p. 123 sg. 153 Cfr. PLUTARCH . de curios. 516 F (= ARISTO CHIUS fr. 401 SVF I = ARISTO CEUS fr. 26 SFOD): kaivtoi kai; tw=n ajnevmwn mavlicta ducceraivnomen, wJc Ariv j ctwn fhcivn, o{coi ta;c peribola;c ajnactevlloucin hJmwn. = oJ de; polupravgmwn ouj ta; iJmavtia twn= pevlac, oujde; tou;c citwna = c, ajlla; tou;c toivcouc ajpamfievnnuci, ta;c quvrac ajnapetavnnuci, kai; dia; parqenikh=c aJpalovcrooc (HES. op. 519) wJc pneu=ma diaduvetai kai; dievrpei, bakceia= kai; corou;c kai; pannucivdac ejxetavzwn kai; cukofantw=n.

154 Cosı` giustamente ritenevano W. KNO ¨ GEL, op. cit., pp. 89-91, e F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., pp. 33-41; p. 62 sg., che coerentemente inclusero i due caratteri, insieme al De liberando a superbia, tra i frammenti di Aristone di Ceo. Hans von Arnim, al contrario, inserı` il secondo di essi tra i frammenti di Aristone di Chio (fr. 401 SVF I) sulla base della tesi di O. HENSE, Ariston bei Plutarch, «RhM», XLV, 1890, pp. 541-554, secondo cui la fonte principale del De curiositate sarebbe proprio il filosofo stoico. Hense giungeva a tale conclusione a motivo della presenza nel trattato di frequenti richiami a Bione di Boristene, dal quale egli faceva dipendere Aristone di Chio, e di forti analogie linguistiche e concettuali con altre opere plutarchee, come il De exilio, asseritamente ispirate al filosofo stoico. Ma si veda anche ID. (ed.), Teletis reliquiae, Tubingae, Mohr 19092, p. CVIII nota 1, dove egli manifesta una maggiore prudenza sull’argomento. 155 PHILOD . de adul. I (PHerc. 222), col. 10, 1-10 G. (= A RISTO CEUS fr. 19 SFOD = deest

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anche dal riferimento alla presunzione, che e` uno di quei vizi che entrano in composizione con la superbia e le specie ad essa affini nel De liberando a superbia.156 A quale categoria di scritti appartenessero originariamente siffatte descrizioni non siamo in grado di dire. Certo si trattava di opere di genere affine all’opuscolo aristoneo, di cui non necessariamente dovevano far parte. Ma sull’argomento non e` possibile affermare nulla di certo.

4. LINGUA,

STILE E PARALLELI

Nel tentare un’analisi delle caratteristiche linguistiche e stilistiche del De liberando a superbia non si puo` fare a meno di sottolineare la presenza di alcuni rischi. Come sappiamo, infatti, lo scritto cosı` come ci e` pervenuto costituisce una libera citazione e solo nella seconda sezione Filodemo si avvicinava forse piu` volte alla citazione letterale. E` comunque difficile stabilire con ragionevole sicurezza in quale grado il filosofo epicureo si mantenesse aderente alle testuali parole del suo autore e, come si e` mostrato, egli rimaneggio` in piu` punti il suo originale. Cio` nondimeno, la grande vivacita` e originalita` espressiva di quella parte del De superbia contenente l’opuscolo di Aristone (coll. 10-24), e il lampante contrasto con lo stile austero e faticoso di Filodemo, quale si evince dalle prime colonne conservate dello stesso libro e, in generale, dalle altre opere dottrinali filodemee, ci autorizza in qualche modo a ritenere che nel riportare il pensiero, se non le parole stesse del suo autore, egli ci abbia trasmesso anche molti degli elementi linguistici e stilistici del testo originale. La presenza nello scritto aristoneo di una grande messe di importanti mezzi espressivi altrimenti alieni alla consuetudine artistica del filosofo di Gadara (se non allorquando, come avviene nel trattato Sull’ira, egli attinge copiosamente a temi e stilemi a lui estranei) 157 e` difficilmente contestabile e puo` essere verificata sperimentalmente. E` quanto tentero` di fare nel corso del presente capitolo.

in Wehrli): iJ]kana; tau=ta[. .]efi|[. . . . . . oi[]hcin ei\nai th;n [pr]aov|[thta pro;c] to;n kovlaka filo|[. . . . . . . . . ] oujc oi{on iJkan[w]= c o|[ . . . . . .k]a.qavper Ariv j ct[w]n e[|[fhcen, ajl]la; movriovn ejcti twn= | [uJp’aujtou= p]a.ralel.eimmev[nw]n, | [o{per diecaf]hvcamen hJme[ic= . a[]l|[lo me;n ga;r] to; mimeic= qaiv t.[in’, e{|teron de;] to; zhloun= ka[....]to. Da tale passaggio sembra che Filodemo rimproveri ad Aristone di aver omesso la trattazione di alcune parti e di non aver distinto tra imitazione (to; mimeic= qai) ed emulazione (to; zhlou=n). Si vedano T. GARGIULO, art. cit., p. 123 sg.; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 214 sg.; T. DORANDI, I frammenti papiracei cit., p. 228. 156 Cfr. 14 10; 16 31-32; 17 22; 19 4-5. 157 Cfr. infra, pp. 204-207.

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La lingua impiegata nel De liberando a superbia e` per lo piu` attico con influenze ellenistiche. Queste ultime si fanno sentire in modo particolare nel vocabolario, straordinariamente ricco e ricercato e comprendente termini attinenti alla vita quotidiana,158 alla vita pubblica,159 al culto,160 alle arti e ai mestieri,161 in particolare al commercio 162 e alla medicina.163 Particolarmente frequenti sono le espressioni colloquiali,164 tra cui alcuni diminutivi di uso familiare.165 Si contano ben quindici hapax legomena 166 e ventidue neologismi, di cui dodici verbi 167 e dieci fra sostantivi e aggettivi.168 La nutrita presenza di composti doppi (una ventina) rivela anch’essa l’influsso del greco della koine`.169 In campo sintattico si segnala la prevalenza di proposizioni subordinate con periodi simmetrici, anche lunghi e complessi, ma nella seconda sezione dello scritto l’analisi descrittiva delle fattispecie morali implica un uso generalmente piu` esteso della coordinazione. Si registra anche grande abbondanza di infiniti e participi sostantivati 170 e la presenza della variatio.171 158 Cfr. 12 19-20: gega[n]wmevnh cla|[n]ivc, 16 36: mavkrai, 17 6-7: cunaleiv|yanta e * ajnticunaleivfein, 17 9: quvran ajllotrivan kov[p]twn, 18 10-11: pwvgwna kai; | poliavc, 21 13: peribolh=i. 159 Cfr. 13 17: qrovn on , 14 23-24: kajn toic di[d] k ; vacthriv|oic ka[i;] toic= ajgw=cin, 14 32-33: = brabe[uthvn e rJabv don, 14 33-34: a[ido[nti] | Kact[ovrei]on, 15 19-20: timwmevnw[n] ejniau|civai ** peribolh=i clamuvdoc, 17 29-30: ajr|ch;n metievnai, 17 35: cunedreivan, 18 26-27: gravfein | cunqhvkac, 18 28: ejmpeirivac nomikhc= , 22 38: ajrcaireci[wn= , 23 9-10: koi|nologiv[a]n. 160 Cfr. 21 19-20: qumiavmatoc h] | muvrou twn qewn brevnquoc. = . = 161 Cfr. 15 11: krewdaivthn, 18 8: paidagwgoic, 18 24-25: katacke[uavz]ein oijkivan kai; | = * ploion = , 18 26: ajrcitevktonoc, 18 31-32: futeuvein kai; fortiv|zecqai, 18 32-33: te|cnitikwtavtwn. 162 Cfr. 15 16: kermavtia, 17 3: paida priavmenoc, 17 28-29: ajpo|dhmein, ajgoravzein, pwlein. = = = 163 Cfr. 11 4: flevgmatoc, 12 16: bojcfqalmiva, 15 26-27: cwvmatoc | oijdhvcewc ed eujexiva, 16 16. 18: eijc | mwrivan ejnivote to; novchma | periivcthcin h]. manivan, 17 12: ajr[r]wctou=nt’, 18 28: ijat[r]e[uv]ein, 18 35-36: aj[p]o.plh|xiva* c. Cfr. anche infra, cap. II.5.1. 164 Cfr., ad es., 14 17-18: p[a]rathrou[n]tac | kai; uJpockelivzontac, 19 24-25: katagev|lwtoc, = 20 5-6: mar|gi*tomanhv* c, 21 31: diacurmou,= 23 25: ejncavckein, 23 25-26: uJ|pokinaid* e.in= , 23 27: ajnakakcavzein, 23 34: tou]= deino = c. 165 Cfr. 15 16: kermavtia 18 7: paidavria. 166 Cfr. 11 8: ojxuvctrofoc (non registrato nei lessici), 11 27: procepirrhtoreuvein, 14 8: cunparalhptikovc, 16 5-6: kaquperhfaniva, 17 7: ajnticunaleivfein, 18 13-14: panteidhvmwn, 20 56: margitomanhvc, 21 5: cemnokovpoc, 21 20: brevnquc, 21 21: mivnqwn, 23 25-26: uJpokinaidein= , 24 3: eujtelicthvc, 24 3-4 e 8-9: ejxeutelicthvc (ma il termine e` usato anche in PHILOD. de sup. col. 9, 2 J.), 24 4: oujdenwthvc, 24 4-5 e 11: ejxoudenwthvc. 167 Cfr. 12 26: ajnapterugivzw, 13 39: ejpeufraivnomai, 14 3-4: parupomimnhvckw, 14 15: ejxidiavzomai, 14 18-19: cuneranivzw, 17 16: proceperwtavw, 17 23: ijdiognwmonevw, 19 20: ajfraivnw, 21 7: ejpifavckw, 21 24-25: katemblevpw, 22 9: cunepinoevw, 22 33: parepideivknumi. 168 Cfr. 14 16: ajcunevrgh[t]oc, 15 22-23: ajnavgwgoc, 19 28-29: ajprovcdektoc, 21 31: diacurmovc, 22 8: parevmfacic, 23 23: ducaivcqhtoc, 23 30: ajgrammativa, 23 31: ajctociva, 24 22: diablhtikovc, 24 22-23: backantikovc. 169 170

Si veda W. KNO¨GEL, op. cit., p. 60 e nota 1; p. 61. Cfr., per i primi, 13 7-8: ejpi; twi= ccedo;n pavntac ejpi|caivrein, 13 34-35: to; pro;c pavntac

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NATURA E FINE DEL DE LIBERANDO A SUPERBIA

Si e` gia` detto che nella prima parte della lettera all’ininterrotta serie di infiniti, dovuta al discorso indiretto, doveva originariamente corrispondere una sequenza di proposizioni esortative, iussive e proibitive al congiuntivo e all’imperativo secondo il modulo proprio della parenesi. Nella seconda sezione, invece, sono degni di nota il gia` ricordato costrutto toioutoc e[ctin, = oi|oc seguito da infinito e le sequenze assai ricorrenti di participio piu` infinito, due stilemi tipici del carakthricmovc. Abbondantissimi sono anche le figure retoriche e i tropi, tra cui si contano anafora,172 antitesi,173 chiasmo,174 figura etymologica 175 e poliptoto,176 homoeoarcton,177 omeoteleuto,178 asinuJpe[rh]fane[uv]|ecqai, 14 11-12: dia; to; tou;c a[llouc uJperfro|nein= , 14 14-15: dia; to; ta;c | pravxeic * ejxid[i]avze[cq]ai qevlein, 15 6-7: dia; tou= tapei|nou=n eJtevrouc, 15 28-29: to; katafro|nein= tw=n tuch[r]wn= , 16 20-22: to; zeugnuvein. t.o;n | JEllhvcponton kai; kaqievnai | pevdac eijc th;n qavlattan, 16 24-26: to; qeou;c ejx ajnqrwv|pwn [eJ]autou;c gegonevnai do|kein= , 17 17-18: to; caivrein | mh; procgravyai, 17 21-22: di’|oi[hcin de; tou= movnoc fronein= , 19 10-11: to; | tugcavnein oJmoivwn, 19 1416: to; peri; | mainomevnou pavntac fevrec|qai kai; kaqairein= , 19 20: to; movnon ajfraivnein, e, per i secondi, 14 29-30: [di]|adoqevntoc de; tou= lecqevntoc, 15 14-15: [to;] gauri|a=n poiou=n, 15 38-40: to; thli|kouvtwi diafevron kai; cumfu|lovtaton aujtw=i, 17 36: to; dokou=n. * 171 Cfr. 21 28-29: tou;c ajpantwntac h] tou;c w|n | a[n tic mnhmoneuvchi, 22 5-7: t]a|peinoun de; kai; . = = yevgein eJaut[ov]n | te kai; tou;c oi|ocv ejctin eijwq[ev]na.i, 24 13-15: uJperoch;n | ejmfaivnontec ijdivan h] tw=n | ou}c ajpocemnuvnoucin. 172 Cfr. 14 10: a{ma mevn ... a{ma dev ..., 14 11-14: dia; tov ... diav te ... dia; tov ..., 15 16-17: o{ti ... . ajll’o{ti ..., 17 14: mhv ... mhd’ ..., 17 20-21: ouj ... ouj|d’ ..., 19 25-28: k[ai; m]h.|dev ... kai; mhdev ... mhd’ .... 173 Cfr. 11 31-34: Periklh;c tape[inou]|mevnouc me;n ejxhren Aq j [hnaiv|ouc, mega]l.aucoumevn[ouc = de;] | cu.ne.[v ctei]l.e, 12 5-10: kai; p.[ara]m.[etr]e.[i]= n eJauto;n mh; | pr.[o;]c. eJt[ev]ro.[uc pen]ectevrouc, [aj]l.|[la; pr]o;c tou;c. kaq’e{kacton | [ei\do]c uJperevcontac, ejpeidh; | [to;] m.e;n ejxaivrei, to; de; cuctevl|l[ei], 14 5-7: aJmartw.lou= twn= movnwn, | ejpiteuktikou= de; twn= cuner|goumevnwn, 14 21-23: ejpei; dia; tw=n lovgwn | ouj [b]ouvletai, dia; tw=n ajpoteuv|xewn, 15 6-9: dia; tou= tapei|nou=n eJtevrouc eJauto;n metewriv|zein, ajlla; mh; dia; th;c oijkeivac | uJperochc= , 15 27-31: kai; e[ctin tou= | me;n megaloy[uv]cou ... tou= d’uJ|perhfavnou ..., 16 11-13: eij me;n oJ|moivouc euJrivckoi ..., eij de; metrivouc ..., 20 16-20: peri; tou;c polumaqeic= | ojcmai; movnon eijci; pollwn, = ouj | katocaiv, kai; tajpoteuvgmata | perivectin twn= paideumav|twn, ouj ta; katorqwvmata, 23 15-16: nevoc w[f.el.on | ei\n.ai kai; mh; gev[rw]n. 174 Cfr. 15 6-8: dia; tou tapei|noun eJtevrouc eJauto;n metewriv|zein, 15 23-27: kai; diaire[in] . = = = megalo|yucivan uJperhfan.[iv]ac ... diafev|rei g.a;r o{con kai; [ej]pi; tou= cwvmatoc | oijdhvcewc eujexiva, 15 38-40: a[nqrwpon de; to; thli|k* ouvtwi diafevron kai; cumfu|lovtaton aujtwi= , 20 33-36: oJ me;n ou\n uJperhv|fanoc kai; uJperovpthc ejctivn, oJ | d’uJperovpthc ouj pavnt.wc kai; uJ|per.hfanei.= * * 175 Cfr. 17 6-7: kai; to;n cunaleiv|yanta mh; ajnticunaleivfein, 17 8: kai; xenicqei;c mh; ajntixenivcai, . 17 16-18: k.ai; | grav[f]wn ejpictolh;n to; caivrein | mh; procgravyai, 21 2-5: to;n me;n] c. [e]m.[/ nov]n ... to;n de; cemnokovpon, 21 24-25: katemblevpon|ta pac= in kai; paremblevponta, 24 3-5: eujte[licth;c h] ejxeutelic]|th;c kai; oujdenwth;c h] ejxou|denwthvc, 24 5-6: fev|rontai, diafevr[o]ntec. * * 176 Cfr. 19 20-22: to; movnon ajfraivnein, | o{ti movnoc oi[etai peri; pavn|twn fronein, 22 5-6: = ejpainein= o}n yevge[i, t]a.|peinoun= de; kai; yevgein eJaut[ov]n. 177 Cfr. 10 32-33: metew|rizovme[n]oc, metarivptein, 12 25-26: oujc ou{tw d’w{cper o{tan | oi|on, . . 15 16: kermavtia kevkthmai, 18 10-11: pwvgwna kai; | poliavc, 18 31-32: futeuvein kai; fortiv|zecqai, 19 2729: ajnamarthvtwn ... ajprocdevk|twn, 20 24-25: pa|r.aplhvc. [i]on pa=n, 21 26-27: kai; th=i kefalh=i kataceivon|ta kai; katazmikrivzonta, 22 13-15: mwka.[= c]|qai kai; morfavzein kai; meidi|an= , 23 30-31: ajgrammativac kai; ta;c a[l|[lac] ajctocivac. 178 Cfr. 12 36-37: twn pollwn [k]a|t’ejcqrwn oJmologoumevnwn, 13 25: dia; lovgwn h] e[rgwn, 14 2. = = =

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PARTE PRIMA

deto e polisindeto,179 sinonimia,180 epesegesi, epidiortosi,181 isocolon,182 ridondanza,183 metafora 184 e altre. A cio` si aggiunga l’uso frequente di inter3: ajna]mimnhvønØckont[ec kai;] | loidorounte = c, 14 17-18: p[a]rathrou=[n]tac | kai; uJpockelivzontac, 14 29-30: [di]|adoqevntoc de; tou= lecqevntoc, 14 36-37: ‘‘potap* o.cv ’’ ejperw t; w= [v n]toc ‘‘Ce|rivfioc’’, 15 17-19: twn= | eujgenwn= h[toi ctr[a]thgouvn|twn kai; timwmevnw[n], 15 21-23: tapeino;n e{kacton kai; | th;n ejp’aujtwi= kauvchcin ajnav|gwgon, 17 28-31: ajpo|dhmein, = ajgoravzein, pwlein= ... cunte|lein= , 20 7-8: polumaqevctaton pr(oc)|agoreuovmenon, 21 33-35: ejm|fainouvchc, a[llou d’oujdeno;c | ajriq m.o;n * ejmpoiouvch c , 22 16-17: m[e]t’ajnap[h]|dhvcewc kai; ajpokaluvyewc, 22 19-20: ka]n ejpainh=i ... h] ** keleuvhi., 22 27-29: t.[h]= c f[uvc]e.wc ... h] ‘‘th=c dunavmewc’’ h] ‘‘t[hc= ]| tuvchc’’, 22 30-31: ‘‘Faidro = c oJ kalovc’’ | kai; ‘‘Lucivac oJ cofovc’’, 23 24-27: procevcein ... kai; ejncavckein, ei\q’uJ|pokinaidein= kai; * dianeuvein | a[lloic, pote; d’ajnakakcavzein, 23 29-31: ta;c ej|ma;c ajgrammativac kai; ta;c a[l|[lac] ajctocivac, 24 22-23: th=i diablhtikh.=i kai; backan|tikh=i kai; fq.onht[i]k.h=i. 179 Cfr., per gli asindeti, 17 27-31: oi|oc mh|deni; procanaqevmenoc ajpo|dhmein, ajgoravzein, = pwlein, v a|t’aj[m]fivbola tiqevnai, ‘‘crh.[ctovn]’’, = ajr|ch;n metievnai, ta\|lla cunte|lein= , 22 31-34: kai; rJhm | ‘‘hJduvn’’, ‘‘ajfelh’’ = , ‘‘gennaion = ’’, ‘‘ajn[drei]| = on’’. Per i polisindeti, molto piu` frequenti nello scritto, si confrontino a titolo di esempio 15 36-38: oi||on i{p.[po]ic kai; k[u]ci;n kai; toic= | oJmoivoic, 16 31-33: ejx oijhvce|wc kai; uJperhfanivac kai; uJper|oyivac, 21 10-15: kai; dia; tw=n lovgwn ... kai; [tw]= i [c]chv|mati tou= procwvpou kai; twn= | ojmmavtwn kai; peribolhi= kai; | kinhvcei kai; taic= kata; to;n biv|on ejnergeivaic, 21 24-27: katemblevpon|ta pac= in kai; paremblevponta | kai; thi= kefalhi= kataceivon|ta kai; katazmikrivzonta, 22 13-15: mwka.[= c]|qai kai; morfavzein kai; meidi|a=n kai; uJpanivctac[q]aiv ticin., 22 27-29: t.[h=]c f[uvc]e.wc ... h] ‘‘th=c dunavmewc’’ h] ‘‘t[h=c] | tuvchc’’, 23 6-7: tov te ei\doc kai; th;n ajxiv|an kai; to;n lovgon, 23 22-23: ajf[u]h;c | ejgw; kai; brad.u;c kai; ducaivcqhtoc, 23 24-27: kai; procevcein me;n * dialego|mevnwi kai; ejncavckein, ei\q’uJ|pokinaidein= kai; dianeuvein | a[lloic, pote; d’ajnakakcavzein, * 24 3-5: eujte[licth;c h] ejxeutelic]|th;c kai; oujdenwth;c h] ejxou|denwthvc. 180 Cfr. 11 6-8: tov] te | thc tuv[c]hc aj[n]e[pif]ane;c kai; | ojxuvc[t]rofo[n, 12 26-28: ajnapt[e]ru.. . . . . . = . * [givz]ontav tina ... k.ai; pro;c u{|yoc ejxairovme.[n]on, 13 11-12: i[coi | kai; cunectalmevnoi, 15 14-15: gauri|an= ... kai; uJp.erhfanein= , 16 16-18: eijc | mwrivan ejnivote to; novchma | periivcthcin h]. manivan, 22 5-6: t]a.|peinoun= de; kai; yevgein, 23 22-23: ajf[u]h;* c | ejgw; kai; brad.u;c kai; ducaivcqhtoc. 181 Cfr. 11 27-29: mh; procepirhto[r]e[uv]ei[n] ..., aj[ll]’ajp[o]|cpan ..., 12 5-7: kai; . . . = p.[ara]m.[etr]e.[i]= n eJauto;n mh; / pr.[ov]c. ..., [aj]l.|[la; pr]ovc ..., 15 6-9: dia; tou= tapei|noun= eJtevrouc eJauto;n metewriv|zein, ajlla; mh; dia; th;c oijkeivac | uJperoch=c, 15 23-25: kai; diaire.[in= ] megalo|yucivan uJperhfan.[iv]ac, ajlla; mh; | cumfuvrein wJc e}n kai; tautov[n], 22 29-30: kai; mh; yilw=c ojnomav|zein, ajlla; ‘‘Faidro = c oJ kalovc’’ ..., 23 15-16: nevoc w[fel.on | ei\n.ai kai; mh; gev[rw]n. 182 Cfr. 12 9-10: to;] me;n ejxaivrei, to; de; cuctevl|l[ei], 12 17-22: kaqavper | tou;c ojfqalmou;c hJ . tw=n cun|antwvntwn gega [n]wmevnh cla|[n]i;c ejnoclei,= ko u[f]ovteron d’h[|p.er eja;n pariw;n kai; * ** ajnabal|lovmenoc diatinavxh/, 17 6-8: kai; to;n cunaleiv|yanta mh; ajnticunaleivfein | kai; xenicqei;c mh;. * ajntixenivcai, 18 15-19: ta; | me;n maqw;n. para; twn= mavli|c[t’]ejp[i]ctamevnwn, ta; d’ijdwn= | poiounta = c * movnon, ta; d’aujto;c | ejpinohvcac ajf’a.uJtou.= 183 Cfr. 14 6-8: cuner|goumevnwn uJf’eJno;c kai; plei|ovnwn, 15 24-25: mh; | cumfuvrein wJc e}n kai; tautov[n], 20 31-32: tw=n ejl.acivctwn ejlavt|touc auJtou;c ei\nai, 21 7-8: ejpifavckonta to;n eijrh|mevnon * kai; procpoiouvmenon. 184 Cfr. 10 31-33: ejan v p[o]|te cunaicqavnhtai metew|r.izovm.e[n]oc, 11 2-4: eJauto;n kou]|fivcai tou= pi[krou= toiouvtou] | flevgmatoc, 12 26-29: ajnapt[e]ru[givz]ontav tina ... k.ai; pro;c u{|yoc ejxairovme.[n]on: tovte de; pr(oc)|fu;c e[daken, 12 35-36: twi= thc= tuvc[hc] | ptaivcmati, 13 14-15: kaqavper ejx ejnantivac iJctav|menoi twi= th=c tuvchc [o[]g.kwi, 13 37-38: meg.a|[lo]yuc[iv]an uJpokrinovmeno[n, 14 16* 19: pol|lou;c de; tou;c p[a]rathrou=[n]tac | kai; uJpockelivzontac cunhra|nikw=c, 14 38-39: t.[h;n] lampra;n tuv|chn ajpo[b]a.l[lov]m.e.[noc], 15 7-8: eJauto;n metewriv|zein, 15 14-15: tiv me [to;] gauri|an= poioun= , 15 24-25: mh; | cumfuvrein wJc e}n kai; tautov[n], 15 30: twi= thc= yuchc= o[gkwi, 15 31-32: dia; koufovthta | tauvthc (sc. yuch=c) ejkpneumatouvmenon, 16 16-18: eijc | mwrivan ejnivote to; novchma | periivcthcin h]. manivan, 18 7-9: paidavria levgein e.[i\]|nai tou;c wJc paidagwgoic= a[[l]|loic procanatiqemevnouc, 18 34-36: kai; nauagw=n ejn a{paci mh|d’[o]u{tw pauvecqai th=c aj[p]o.plh|xiva c, *

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NATURA E FINE DEL DE LIBERANDO A SUPERBIA

rogazioni retoriche,185 del discorso diretto, di citazioni poetiche tragiche e comiche,186 di parodie,187 similitudini,188 aneddoti 189 e crie.190 Lo iato e` sistematicamente evitato, eccetto dopo kaiv, mhv, h[, mevcri e dopo l’articolo. Fa eccezione tov te ei\doc (23 7). Negli altri casi si pratica la crasi o l’elisione.191 Lo iato e` eliminato anche modificando l’ordo verborum.192 Da tale analisi discendono due importanti conclusioni: la prima e` una certa affinita` tra lo stile del De liberando a superbia e lo stile epistolare che, secondo l’autore del trattato Sull’elocuzione falsamente attribuito a Demetrio Falereo, si poneva a meta` tra lo stile grazioso (cariven) e lo stile tenue (ijccnovn) e aveva come principali caratteristiche chiarezza, semplicita` e concisione. Esso imitava il dialogo e possedeva un tono familiare e amichevole. Il lessico era quello quotidiano o un misto di dialetto attico e di lingua vernacolare, mentre vi era bandito il linguaggio tecnico proprio dei trattati filosofici e scientifici. Nella sintassi escludeva generalmente l’uso di periodi lunghi e prediligeva l’asindeto, ma si conoscono importanti eccezioni a questa regola. L’uso di un sottile umorismo era consentito solo a certe condizioni e i proverbi (paroimivai), per il loro carattere comune e popolare, erano considerati l’unica forma di sapienza ammissibile. E` quanto asseriva lo stesso Pseudo-Demetrio, il quale pero` aggiungeva anche che «colui che si esprime per mezzo di massime ed esortazioni (gnwmologwn= kai; protrepovmenoc) non

19 12-13: eijc oJtidhvpote k.oi|nwvnhma cunkatabaivnein, 19 37-38: loidorivac karpou|= cqai, 20 16-17: peri; tou;c polumaqeic= | ojcmai; movnon eijci; pollw=n, 22 11: dein[ov]thc ejn tw=i [pl]av.c. mat.[i, 24 6-8: diafevr[o]ntec ajnevcei | kai; ejpitavcei [ka]t.abolhc= tou= | plhcivon. * * 185 Cfr. 15 14-18: ‘‘tiv me [to;] gauri|an poioun kai; uJperhfanein; | o{ti kermavtia kevkthmai . = = = pleiv|ona; ajll’o{ti no.[m]ivz[o]mai twn= | eujgenwn= ktl.; 17 34: ‘‘ejme; cuv;’’ 20 27-28: tiv ga;r dei = ta\lla pe|ri; lhrouvntwn levgein; 22 22-25: ‘‘ejgw; ga;r | oi\da tiv plhvn [g]e touvtou o{ti [ouj]|de;;n oi\da;’’ kai; ‘‘tivc ga;r h.Jmw=n l[ov]|goc;’’ 23 36: kai; tiv dei = [t]a; pleivw levgein; *

Cfr. 11 23-25; 13 20-23; 14 28-29 e 36-37; 15 11-13; 17 32; 22 26-28; 22 38-23 4; 23 1317; 20-23; 29-36. 187 Si veda il ritratto dell’ironico (21 39-24 2), che e ` tutto basato su una feroce parodia del Socrate platonico. 188 Cfr. 12 14-17: kai; tou cunantan [eij]|wqovtoc fqovnou toic uJperh|fanoucin, [o}c] bojcfqalmiva . . = = = = tiv[c | ej]c. t.[i]n yuchc= , 12 17-25: w{cte kaqavper | tou;c ojfqalmou;c hJ tw=n cun|antwvntwn gega[n]wmevnh * cla|[n]i;c ejnoclei,= kou[f]ovteron d’h[|p.er ejan; pariw;n kai ajnabal|lovmenoc diatinavxh/, para|plhcivwc ** * kai; to;n fqonero;n | lupei = me;n t.ajllovtria twn= aj|gaqwn= , 15 23-27: kai; diaire.[in= ] megalo|yucivan uJperhfan.[iv]ac, ajlla; mh; | cumfuvrein wJc e}n kai; tautov[n]: diafev|rei g.a;r o{con kai; [ej]pi; tou= cwvmatoc | oijdhvcewc eujexiva. 189 Cfr. 11 14-17; 31-34; 13 1-9; 16-19; 28-31; 16 18-26; 18 20-23 (cfr. anche 20 22-24). 190 Cfr. 11 9-14; 19-25; 13 19-23; 14 25-37; 15 9-13. 191 Per crasi ed elisione nel De liberando a superbia cfr. infra, p. 235 sg. 192 Si veda W. KNO ¨ GEL, op. cit., pp. 50-73. 186

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PARTE PRIMA

sembra piu` parlare per mezzo di una lettera, ma ex cathedra».193 A dispetto di tale giudizio, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, gran parte della produzione epistolare antica era costituita proprio da lettere protretticomorali, soprattutto di tipo parenetico. Inoltre, nonostante la naturalezza con cui esso imitava la lingua parlata, lo stile epistolare era artisticamente elaborato e faceva frequente uso di esempi, figure retoriche e tropi.194 La seconda conclusione a cui si perviene dall’esame delle caratteristiche formali del De liberando a superbia e` che esso, oltre a mostrare importanti convergenze con lo stile epistolare, sembra rientrare in pieno nella tendenza stilistica tipica dell’istruzione morale popolare, cioe` di quella vasta letteratura in prosa che aveva per argomento temi tipici della cosiddetta filosofia popolare e che spesso e volentieri si esprimeva proprio sotto forma di lettera. Questa tendenza, piu` una serie uniforme di tratti stilistici che un vero e proprio stile, dato che vi erano ammesse molteplici variazioni, e di cui non si conoscono le precise origini, fu applicata a partire dalla prima epoca ellenistica a diverse forme di letteratura morale popolare fino a divenire una sorta di linguaggio comune a tutte le scuole filosofiche. Tra tali forme spiccavano, oltre alla lettera, gli scritti protrettico-morali, i libri di memorie (uJpomnhvmata e ajpomnhmoneuvmata), il dialogo morale alla maniera di Cicerone e di Seneca, la cria, la discussione conviviale (cumpovcion e deipnon ), la favola e soprattutto = la cosiddetta diatriba, vale a dire quel modo di affrontare argomenti morali filosofico-popolari che simulava la discussione tra maestro e discepolo all’interno della scuola filosofica.195 Come vedremo meglio nel prossimo capitolo, quest’ultima forma espressiva presentava profonde interconnessioni con la lettera e come dimostrano le Lettere a Lucilio di Seneca, stile epistolare e stile proprio della diatriba si combinavano molto bene tra di loro.196 Se si volessero addurre alcuni esempi di questa tendenza stilistica cronologicamente vicini o contemporanei alla lettera di Aristone, si dovrebbero menzionare i discorsi di Bione di Boristene (c. 335-245 a.C.), convenzio193 PS .-DEM . PHALER. de eloc. 232: kavlloc mevntoi aujthc ai{ te filikai; filofronhvceic kai; = puknai; paroimivai ejnou=cai: kai; tou=to ga;r movnon ejnevctw aujth=/ cofovn, diovti dhmotikovn tiv ejctin hJ paroimiva kai; koinovn, oJ de; gnwmologw=n kai; protrepovmenoc ouj di’ejpictolh=c e[ti lalou=nti e[oiken, ajlla; mhcanh=c.

194 Si veda A.J. MALHERBE, Ancient Epistolary Theorists, Atlanta, Scholars Press 1988 («Sources for Biblical Study», 19). 195 Si veda G.C. FISKE, Lucilius and Horace cit., pp. 156-191. 196 Si veda S.K. STOWERS, The Diatribe and Paul’s Letter to the Romans, Chico, Scholars Press 1981 («Society of Biblical Literature - Dissertation Series», 57), p. 76; ID., The diatribe, in D.E. AUNE (ed.), Graeco-Roman Literature and the New Testament: Selected forms and genres, Atlanta, Scholars Press 1988 («Sources for Biblical Study», 21), p. 75.

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nalmente considerato l’inventor di questo ‘stile’ da lui impropriamente detto ‘bioneo’ o ‘diatribico’, e le diatribe di Telete, la cui cronologia e` incerta, ma che si deve collocare con ogni probabilita` nella seconda meta` del III sec. a.C. Si tratta in ambedue i casi di autori cinici, ancorche´ (soprattutto Bione) aperti ad altri influssi filosofici.197 Del primo rimangono purtroppo soltanto scarni frammenti, i quali sono tuttavia sufficienti per farsi un’idea di quale dovesse essere il suo stile. Del secondo possediamo otto estratti tramandati da Stobeo secondo il riassunto piu` o meno fedele che ne fece un certo Teodoro altrimenti sconosciuto. Per cominciare, entrambi gli autori, analogamente ad Aristone, fanno uso di una forma e di una grammatica attiche, ma di un vocabolario con forti influssi ellenistici, con una grande quantita` di parole prese dalla vita quotidiana e dalle occupazioni ordinarie e con espressioni apertamente scurrili (le quali erano predilette dai Cinici). Nella sintassi impiegano periodi generalmente brevi e simmetrici, anche se non sempre, e usano frequenti imperativi. Anch’essi, come l’autore del nostro scritto, si servono in grande abbondanza di tropi e figure retoriche, come anafore, paronomasie, anfibolie, allitterazioni, isocola, figurae etymologicae, omeoteleuti, giochi di parole, antitesi, asindeti, chiasmi, ellissi, endiadi, metafore, allegorie e similitudini, prese soprattutto, anche qui, dall’ambito medico, secondo l’uso caro ai Cinici. Comune ad Aristone e` anche il gran numero di sentenze (specialmente apoftegmi e crie) e di citazioni poetiche, soprattutto da Omero, Euripide e Teognide, autori prediletti dalla filosofia popolare. Frequenti anche in essi sono le parodie (abituali nei Cinici), le esclamazioni e le interrogazioni retoriche (spesso in serie), ma soprattutto i numerosi riferimenti a personaggi storici e mitici (exempla) e la personificazione di concetti astratti, come Peniva e Pravgmata, Qavnatoc e Tuvch. Tutti questi moduli espressivi, e in particolare gli esempi, considerati piu` efficaci delle ingiunzioni, avevano la funzione di ‘‘porre davanti agli occhi’’, cioe` di presentare quasi visivamente davanti all’interlocutore i modelli di comportamento morale da imitare o respingere. Questa tecnica retorica, che conferiva alla descrizione una vivacita` plastica e una sorta di dinamismo teatrale, era molto importante nella 197 Si vedano J.F. KINDSTRAND (ed.), Bion of Borysthenes. A Collection of the Fragments with Introduction and Commentary, Uppsala, Almqvist & Wiksell 1976 («Acta Universitatis Upsaliensis. Studia Graeca Upsaliensia», 11), pp. 56-78; K. DO¨RING, Sokrates, die Sokratiker und die von ihnen begru¨ndeten Traditionen, in H. FLASHAR (Hrsg.), Ueberweg. Grundriss der Geschichte der Philosophie. Die Philosophie der Antike, II 1: Sophistik, Sokrates, Sokratik, Mathematik, Medizin, Basel, Schwabe 1998, p. 312 sg.; P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), Les diatribes de Te´le`s. Introduction, texte revu, traduction et commentaire des fragments par P.P. F. G., Paris, Vrin 1998 («Histoire des doctrines de l’antiquite´ classique», 23), pp. 37-43.

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letteratura morale popolare.198 L’esposizione era lasciata all’improvvisazione con movimenti bizzarri e improvvisi salti nell’argomentazione, la quale procedeva per associazione di idee secondo l’ordine ritenuto piu` utile a convincere gli ascoltatori. Questi ultimi rimanevano quasi ‘spiazzati’ di fronte all’apparente trascuratezza della composizione e anzi proprio dall’asserita rinunzia a qualunque ambizione letteraria traspariva la massima raffinatezza ed elaborazione retorica.199 Il tono era didattico ed esortatorio. Ovunque dominava lo cpoudaiogevloion (‘seriocomico’) cioe` quello stilema proprio dell’istruzione morale popolare, in particolare della diatriba, che consisteva nel veicolare contenuti morali seri per mezzo di un linguaggio umoristico e burlesco. Questa era anzi la principale caratteristica dello stile di Bione e Telete. L’autore del trattato Sull’elocuzione asserisce che esso era un elemento tipico dello stile cinico (Kuniko;c trovpoc) 200 e in effetti la letteratura cinica sin da Diogene ne fece amplissimo uso, anche se a dire il vero lo cpoudaiogevloion (detto anche cpoudogevloion) non fu inventato o utilizzato esclusivamente dai filosofi cinici. Come e` stato dimostrato, esso affondava le radici nella Commedia Antica e nella tradizione socratica.201 Strettamente associato allo stile seriocomico era anche il carakthricmovc, cioe` la descrizione di caratteri a scopo satirico e caricaturale che traeva la sua origine dai Caratteri di Teofrasto 198 Cfr. SEN . ep. 6, 5: in rem praesentem venias oportet, primum quia homines amplius oculis auribus credunt, deinde quia longum est iter per praecepta, breve et efficax per exempla. Si vedano R. BULTMANN, Der Stil der paulinischen Predigt und die kynisch-stoische Diatribe, Go¨ttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 1910 («Forschungen zur Religion und Literatur des Alten und Neuen Testaments», 13), p. 59; K. DO¨RING, Exemplum Socratis. Studien zur Socratesnachwirkung in der kynisch-stoischen Popularphilosophie der fru¨hen Kaiserzeit und im fru¨hen Christentum, Wiesbaden, Steiner 1979 («Hermes Einzelschriften», 42), p. 19; P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit., p. 114: «L’importance de montrer aux yeux dans la diatribe de Te´le`s et dans toute la litte´rature morale ‘populaire’ est bien connue: le moraliste recherche par son discours a` donner l’impression que la verite´ et la mensonge, la vertu et le vice se montrent et de´voilent directement devant nous, comme dans un the´aˆtre». 199 Si vedano P. WENDLAND , Philo und die kynisch-stoische Diatribe, in P. WENDLAND O. KERN (Hrsgg.), Beitra¨ge zur Geschichte der griechischen Philosophie und Religion. Festschrift Hermann Diels, Berlin, Reimer 1895, p. 3 sg., e D. TSEKOURAKIS, art. cit., p. 257. 200 Cfr. PS.-DEM. PHAL . de eloc. 170: toioutoc de; wJc to; plevon kai; oJ Kuniko;c trovpoc: ta; ga;r = toiauta = geloia= creivac lambavnei tavxin kai; gnwvmhc. 201 Si vedano J. GEFFCKEN , Studien zur griechischen Satire, «NJA», XXVI, 1911, p. 399; G.C. FISKE, Lucilius and Horace cit., p. 18 sg.; p. 88; p. 96 sg.; p. 143 sg.; p. 166 sg.; K. PRAECHTER , Der Topos peri; cpoudh= c kai; paidia= c, «Hermes», XLVII, 1912, pp. 471-476; M. GRANT , Ancient Rhetorical Theories of the Laughable, Madison, s.e. 1924 («University of Wisconsin Studies in Language and Literature», 21), p. 20 sg.; G.J. WOLDINGA, Xenophons Symposion. Prolegomena en commentaar, Hilversum, Schipper 1938-1939, II, p. 199 sg.; J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 47 sg.; P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit., p. 77 sg. Cfr. anche l’archetipo omerico degli amori di Ares e Afrodite (HOM. Od. q 266-366).

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e dalla Commedia Nuova.202 Ora, e` vero che tutti questi mezzi espressivi, singolarmente presi, costituivano degli elementi filosoficamente non caratterizzabili (benche´ in origine usati soprattutto dai Cinici) e degli strumenti pedagogici abbastanza comuni.203 Ma questi stessi procedimenti stilistici, combinati tra loro in un certo modo e secondo una determinata proporzione, contribuivano a individuare una certa tipologia stilistica.204 Questo era anche lo stile dello stoico cinicheggiante Aristone di Chio, il piu` importante esponente di questa tendenza stilistica nell’ambito dello Stoicismo antico, il quale visse nello stesso periodo di Bione e ne fu profondamente influenzato. Egli fu oratore «persuasivo e stimato tra il popolo (peictiko;c kai; o[clw/ pepoihmevnoc)» al punto che dai suoi contemporanei fu soprannominato ‘Sirena’.205 Nei suoi discorsi e nelle sue lezioni impiegava uno stile brillante e avvincente farcito di sentenze, paragoni ed esempi. Tra i paragoni erano celebri quelli del saggio con l’attore o col nocchiero e quello dei cultori dell’enciclopedismo con i pretendenti di Penelope, il primo e l’ultimo dei quali egli condivideva con Bione.206 Quanto agli esempi, essi rappresentavano per il filosofo stoico, cosı` come per Bione e Telete e per gli altri scrittori filosofico-popolari, uno dei mezzi pedagogici piu` rilevanti in quanto, mentre i precetti ingiungono dall’esterno che cosa vada fatto e cosa vada evitato, gli esempi forniscono modelli in carne ed ossa di virtu` e di vizio.207 Egli soleva inoltre parodiare i poeti (soprattutto Omero ed Euripide) e come Menippo, suo contemporaneo, impiegava frequentemente prosimetri. Non e` un caso che buona parte delle opere che gli venivano attribuite siano rappresentate da scritti protrettici, dialoghi, diatribe, uJpomnhvmata e ajpomnhmoneuvmata, crie e lettere, tutte forme espressive in cui tipicamente si esprimeva la letteratura morale popolare.208 Si veda G.C. FISKE, Lucilius and Horace cit., pp. 186; 277; 299. Si veda P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit., p. 61 sg. 204 Per lo stile di Bione e Telete si vedano rispettivamente J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., pp. 25-39, e P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit., pp. 56-66; per lo ‘stile’ dell’istruzione morale popolare in generale cfr., ad es., G. VIANSINO (ed.), Lucio Anneo Seneca, I Dialoghi, I, Milano, Mondadori 1988, pp. XXV-XXVIII. 205 Cfr. DIOG . LAE¨RT. VII 160 (fr. 333 SVF I); VII 182 (fr. 339 SVF I); PHILOD . Stoic. hist. col. 35 D. (336 SVF I), AELIAN. var. hist. III 33 (fr. 337 SVF I). Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 22-24, ed EAD., Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 732 sg. 206 Cfr., per il primo oJmoivwma, DIOG . LAE¨RT . VII 160 (fr. 351 SVF I); per il secondo, STOB. ecl. II 218, 7 W. (fr. 396 SVF I), e, per il terzo, DIOG. LAE¨RT. II 79 (fr. 349 SVF I); STOB. fl. III 4, 109 H. (fr. 350 SVF I). Per i paragoni dell’attore e dei pretendenti di Penelope in Bione si veda infra, p. 88 e nota 93; p. 176 note 460 e 461. 207 Cfr. SEN. ep. 95, 66-67, e infra, p. 139 sg. 208 Cfr. DIOG . LAE¨ RT . VII 163 (fr. 333 SVF I) e infra, p. 70. 202

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Come si e` detto, l’origine di questa tendenza stilistica non e` chiara. La tradizione secondo cui Bione di Boristene ne sarebbe stato l’inventore e` frutto del gusto tipico degli antichi per la ricerca del prw=toc euJrethvc e in quanto tale deve essere considerata meramente convenzionale. E` ormai opinione diffusa che Bione non possa aver inventato uno stile completamente nuovo. I tratti generali del suo stile, che combinava una forma spiccatamente retorica e polita con personaggi e fenomeni della vita quotidiana e di natura volgare, erano gia` embrionalmente presenti, da un lato, nella tradizione filosofica socratica e cinica, e dall’altro, nella corrente retorica asiana. In particolare, l’umorismo sottile e ironico del dialevgecqai socratico, che mescolava contenuti seri e giocosi, e l’impiego di esempi presi dalla vita quotidiana e dalle professioni piu` ordinarie, dovette influire non poco sulla forma letteraria dei discorsi bionei. Cio`, pero`, non dovette avvenire in modo diretto, ma per la mediazione dei filosofi cinici. Questi produssero una letteratura molto variegata dal punto di vista stilistico facendo ampio uso di citazioni poetiche e di parodie, di aneddoti e massime, di apoftegmi e crie e di ogni genere di espedienti retorici spesso per descrivere cose infime e triviali. Nei loro scritti utilizzavano un lessico molto eterogeneo e, insieme a un massiccio impiego dello cpoudaiogevloion, impiegavano in abbondanza espressioni licenziose e volgari con un forte intento pedagogico e satirico. Senza dubbio questa tradizione fu quella che piu` di tutte influı` sullo stile di Bione determinandone decisivamente l’impronta ed e` un fatto che i suoi frammenti siano pieni di motivi e stilemi tipici del Cinismo.209 Un’altra importante fonte di ispirazione stilistica Bione, sebbene ancora legato all’atticismo, dovette trovarla, come accennato, presso i fautori del movimento retorico chiamato asianesimo, nel quale era evidente la mescolanza di elementi e il contrasto tra forma e contenuto. E` quanto sembra emergere da certe analogie riscontrabili tra i frammenti del filosofo di Boristene e le testimonianze relative ad alcuni celebri esponenti di questo movimento, innanzitutto Demetrio Falereo (c. 350-post 283 a.C.), il suo primo e piu` autorevole rappresentante, il cui stile e` descritto in termini molto simili a quelli impiegati per Bione, ivi inclusa l’immagine della «veste variopinta (versicolorem ... vestem)» utilizzata per contraddistinguerlo.210 CiceSi veda J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., pp. 39; 42-46. Cfr., per Demetrio Falereo, QUINT. X 1, 33 (fr. 178 W.); CIC. de or. II 95; Brut. 36; 38; 285 (fr. 177 W.); DIOG. LAE¨RT. V 82 (fr. 181 W.), e, per Bione, DIOG. LAE¨RT. IV 52 (T 11 K.); ERATOSTH. ap. STRAB. I 2, 2 (T 12 K.); DEMETR. LAC. de forma dei col. 18, 1-5 S. (T 13 K.). Si vedano E. NORDEN, Die antike Kunstprosa vom VI. Jahrhundert v. Chr. bis in die Zeit der Renaissance, Darmstadt, Wiss. Buchges. 19716, I, pp. 127-131; W. KNO¨GEL, op. cit., pp. 73-75; 209

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rone nel Brutus si riferisce a due differenti specie di stile asiano di cui il primo e` da lui definito «concettoso e arguto, amante di concetti non tanto solenni e austeri quanto simmetrici e piacevoli (concinnis et venustis)».211 Questo stile, che sembra corrispondere almeno in parte a uno dei due modi del genus tenue (gevnoc ijccnovn), quello tipico degli scrittori «piu` simmetrici (concinniores) e inoltre faceti, fioriti e moderatamente eleganti (faceti, florentes etiam et leviter ornati)»,212 sembra trovare corrispondenza nella simmetria, arguzia e florida eleganza dello stile di Bione.213 Questi, dunque, opero` una singolare sintesi tra la tradizione letteraria socratico-cinica e le teorie retoriche asiane. In effetti, pur considerandosi legittimo erede di quella tradizione, ponendosi con essa in ideale continuita` di forma e di contenuti, egli condivise importanti elementi di stile con l’asianesimo. Inoltre fu influenzato anche da altre forme espressive: oltre che dal ‘genere’ seriocomico, a cui si e` fatto gia` riferimento, anche dalla commedia, dal mimo, dalla satira e dalla descrizione di caratteri, che egli dovette derivare sia dalla Commedia di Mezzo e Nuova che dallo stesso Teofrasto.214 Se a cio` si aggiunge la grande vivacita` e originalita` espressiva dei suoi discorsi, e` quanto basta per spiegare perche´ le fonti siano concordi nell’attribuirgli la creazione di una nuova fortunata tendenza stilistica. E mentre Menippo e Telete continuarono a coltivare questo ‘stile’ nel solco J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 41. Per la metafora della «veste di fiori» applicata allo stile bioneo, cfr. infra, p. 86 e nota 84. A Demetrio Falereo e` stato attribuito in passato anche un frammento conservato in Stobeo con il lemma Dhmhtrivou (fl. III 8, 20 H.), che e` stato considerato da E. NORDEN, loc. cit., il piu` antico esempio di testo diatribico a noi pervenuto nonche´ la piu` antica attestazione di stile asiano. In effetti, oltre ad alcuni degli elementi costitutivi della diatriba (contenuto morale, fine etico-protrettico, apostrofe a un interlocutore fittizio, scambio dialogico, messaggio conclusivo di tipo moraleggiante), sono in esso utilizzati un linguaggio triviale e di uso quotidiano, personificazioni di concetti astratti, esclamazioni, interrogazioni retoriche, frequenti imperativi e diverse figure retoriche. Senonche´ molti studiosi hanno rifiutato tale attribuzione. Si vedano, ad es., J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 41 nota 73, e P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit., p. 73. Ma se l’ipotesi per cui questo testo apparterrebbe a Demetrio Falereo si rivelasse fondata, allora bisognerebbe riconoscere che vi era all’interno del Liceo non solo un certo legame tra asianesimo e ‘stile’ proprio dell’istruzione morale popolare, ma anche un qualche collegamento tra essi e la diatriba. 211 CIC . Brut. 325: Genera autem Asiaticae dictionis duo sunt: unum sententiosum et argutum, sententiis non tam gravibus et severis quam concinnis et venustis, qualis in historia Timaeus [...]. Aliud autem genus est non tam sententiis frequentatum quam verbis volucre atque incitatum, quale est nunc Asia tota, nec flumine solum orationis, sed etiam exornato et faceto genere verborum. 212 Cfr. CIC . or. 20: in eodemque genere alii callidi, sed impoliti et consulto rudium similes et imperitorum, alii in eadem ieiunitate concinniores, idem faceti, florentes etiam et leviter ornati. 213 Ma la questione del rapporto tra Bione e la retorica asiana rimane ancora aperta. Si vedano J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., pp. 40-42; P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit., p. 72 sg. 214 Si veda J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., pp. 46-49.

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della tradizione morale popolare cinica, il cinicheggiante Aristone di Chio se ne fece per primo interprete all’interno della scuola stoica. Ma torniamo al De liberando a superbia. Dal rapido confronto formale sopra condotto e` emerso con sufficiente chiarezza che, se si escludono l’assenza in esso della prosopopea e dell’elemento dialogico caratteristico della diatriba (apostrofe a un interlocutore fittizio, obiezioni e false inferenze, scambio dialogico) e un minore impiego della coordinazione e dell’asindeto,215 le affinita` formali tra lo scritto aristoneo e i frammenti di Bione, Telete e Aristone di Chio risultano assai significative. In particolare, la simmetria della struttura sintattica, che procede per membri paralleli o antitetici (concinnitas), il dettato florido e arguto di sapore popolare e l’uso di un vocabolario ricercato (elegantia) e in pari tempo colloquiale, che erano caratteristiche tipiche di questi autori (la concinnitas soprattutto di Bione), costituiscono anche, come abbiamo visto, gli elementi fondamentali dello stile impiegato nello scritto aristoneo. Ora, vi e` chi ha voluto accostare lo stile di quest’ultimo a quello di Aristone di Ceo il quale, secondo la testimonianza di Cicerone, era concinnus ed elegans e i suoi scritti polita, anche se privi di quella gravitas che ci si attende da un grande filosofo.216 In effetti, sia la concinnitas che l’elegantia che la politezza formale sono tutte qualita` che si ritrovano nel nostro scritto e anzi ne rappresentano, come abbiamo appena visto, le proprieta` stilistiche fondamentali. Ma a differenza che in Aristone di Ceo, scrittore disimpegnato dal punto di vista speculativo, una profonda gravita` filosofica permea da cima a fondo il De liberando a superbia, nel quale la serieta` dell’argomento e lo spiccato intento protrettico-morale fanno trasparire efficacemente l’autorevolezza dell’autore che vi sta dietro. Il confronto con Aristone di Chio si e` rivelato invece piu` produttivo. Come si e` visto piu` sopra, le caratteristiche formali appena ricordate come tipiche dello scritto aristoneo (concinnitas, elegantia e politezza) erano proprie anche dello stile del filosofo stoico. Va detto infine che quest’ultimo, a differenza del suo omonimo peripatetico, fu un pensatore filosoficamente impegnato, capace di inaugurare un’originale linea di pensiero all’interno 215 Si e ` detto del resto che nello ‘stile’ tipico dell’istruzione morale popolare erano ammesse numerose differenze e che, ad esempio in campo sintattico, non si escludeva in alcuni autori un uso maggiore di periodi piu` lunghi. 216 Cfr. CIC . de fin. V 13 (fr. 9 SFOD): Concinnus deinde et elegans huius (sc. Lyconis successor), Aristo, sed ea, quae desideratur a magno philosopho, gravitas in eo non fuit; scripta sane et multa et polita, sed nescio quo pacto oratio auctoritatem non habet. Sulla base di cio` W. KNO¨GEL, op. cit., p. 48 sg.; pp. 73-75, credeva di poter dimostrare che il De liberando a superbia appartenesse ad Aristone di Ceo.

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della scuola stoica, anche a costo di prendere coraggiosamente le distanze dal maestro Zenone. A lui si addice assai meglio quella gravita` e quell’impegno morale che si riscontra diffusamente nel nostro scritto e che invece, secondo Cicerone, mancava ad Aristone di Ceo. In ogni caso la soluzione al problema dell’attribuzione in un senso o nell’altro non va ricercata in questo genere di riflessioni, come pure si e` preteso di fare.217 Basti qui rilevare che il De liberando a superbia rappresenta probabilmente, non soltanto, come e` stato giustamente affermato, il piu` antico saggio a noi pervenuto di protrettica morale di epoca ellenistica,218 ma anche il piu` antico esempio compiuto di quella tipologia stilistica che era tipica dell’istruzione morale popolare.219 Dei discorsi di Bione e delle opere di Aristone di Chio, infatti, non possediamo altro che frammenti, mentre le diatribe di Telete sono quasi sicuramente posteriori allo scritto aristoneo. Queste considerazioni ci introducono nel cuore del tema che sara` oggetto del prossimo capitolo, dedicato allo studio del genere filosofico e letterario a cui il nostro scritto apparteneva.

5. GENERE

FILOSOFICO -LETTERARIO

Sul genere a cui apparteneva il De liberando a superbia sono state avanzate nel corso del tempo le ipotesi piu` svariate. Si e` pensato alla lettera, all’esortazione morale, all’epitome filosofica, alla descrizione di caratteri, alla confessione autobiografica, alla diatriba. Cio` e` dovuto probabilmente all’originalita` della testimonianza a cui si e` tentato di dare una definizione. Si e` visto nei capitoli precedenti come alcune di tali interpretazioni fossero fuorvianti e, in quanto tali, sono state opportunamente scartate dagli studiosi.220 La realta` e` che il nostro scritto equivale a diversi di questi generi messi assieme, i quali pero` sono tutti veicolati da una stessa cornice, applicati a uno stesso argomento e orientati a un medesimo fine. Lo scritto di Aristone, infatti, almeno cosı` come ci e` testimoniato da Filodemo (e, perCfr. ibid. Si veda F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 55: «Die Epitome ist unser a¨ltestes Beispiel der moral-philosophischen Protreptik hellenistischer Zeit». 219 Si veda F. WEHRLI , Ariston, RE, Suppl. XI, 1968, p. 158: «bietet diese (sc. die Schrift Peri; tou= koufivzein uJperhfanivac) das a¨lteste authentische Beispiel fu¨r den hellenistischen Diatribenstil». 220 Mi riferisco al tentativo di inquadrare lo scritto come un’epitome filosofica o come una «Selbstbetrachtung», su cui si veda rispettivamente infra, p. 100 nota 149, e supra, p. 15 sg. 217

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tanto, con tutti i limiti del caso), si presenta come una lettera protretticomorale complessa di argomento filosofico-popolare che aveva come obiettivo la terapia della superbia. E` una lettera, cioe` uno scritto in forma epistolare indirizzato a un destinatario a cui l’autore rivolge una serie di considerazioni. E` di argomento filosofico-popolare, in quanto ha come materia quell’elementare riflessione morale basata su motivi e risorse tradizionali e caratterizzata da un comune scopo divulgativo. E` un’opera protrettico-morale, in quanto ha come obiettivo quello di incitare alla virtu` e di allontanare dal vizio. E` complessa, perche´ si avvale di diversi generi protrettico-morali ed e` noto che le lettere di questo tipo mescolavano spesso vari di questi generi in modi differenti.221 Pertanto, se si esclude la materia filosofico-popolare, i due elementi dominanti dello scritto sono la forma epistolare, da un lato, e il fine protrettico-morale dall’altro. L’una e l’altro erano del resto strutturalmente collegati. La lettera (o epistola) 222 era considerata nell’antichita` uno dei piu` importanti veicoli dell’istruzione filosofica e il genere letterario meglio in grado di trasmettere gli esempi di virtu` da imitare. Anche quando essa serviva a supportare dei contenuti dottrinali, un fine morale rimaneva sempre sullo sfondo. E questo perche´, in virtu` del suo carattere dialogico che imitava la conversazione, essa si prestava particolarmente bene all’esortazione, alla correzione e al consiglio. E` cosı` che tra i diversi generi epistolari prevalsero di gran lunga quelli destinati all’ammonizione, al rimprovero e, soprattutto, alla parenesi.223 Ed e` per questo motivo che la tradizione epistolare rimase sostanzialmente indipendente dalla retorica. Infatti, se si esclude la consolazione, gli altri generi protrettico-morali esulavano dalle categorie retoriche e rientravano in pieno nel campo della morale.224 Aristotele e i suoi successori influirono decisivamente sullo sviluppo della lettera come forma letteraria indipendente e cio` avvenne soprattutto a spese 221 Si veda S.K. STOWERS , Letter Writing in Greco-Roman Antiquity, Philadelphia, Westminster 1986, p. 93 sg. 222 A. DEISSMANN , Light from the Ancient East, London, Hodder and Stoughton 1910, pp. 148-241, e ID., Paul. A Study in Social and Religious History, London, Hodder and Stoughton 1926, pp. 8-11, sosteneva la distinzione tra lettera ed epistola. Mentre la prima sarebbe caratterizzata da una naturale spontaneita` senza pretese letterarie, la seconda consisterebbe in un prodotto d’arte dotato di uno stile ricercato. Si vedano anche S.K. STOWERS, The Diatribe cit., p. 18, e ID., Letter Writing cit., p. 17 sg. 223 Cfr. ivi, p. 38 sg.; p. 52. 224 Cfr. ivi, p. 51 sg.; p. 93: «Exhortation trascends the rhetorical categories. This is not surprising since it was always on the fringes of that tradition and was only treated systematically by certain philosophers in conjunction with ethics».

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del dialogo.225 Ma le scuole ellenistiche che piu` di tutte contribuirono a sviluppare tale genere furono la scuola stoica e quella epicurea.226 Tra gli Stoici, in particolare, sono attribuite raccolte di lettere ad Aristone di Chio, Sfero, Posidonio, Musonio Rufo (ma si tratta di epistole spurie) e soprattutto a Seneca. La collezione di 124 Lettere a Lucilio dovuta a quest’ultimo filosofo costituisce il caso piu` rappresentativo di produzione filosofica di tipo protrettico-morale affidata allo strumento epistolare. Di fatto la lettera, impiegata come strumento privilegiato per coltivare l’amicizia, ma anche per la polemica filosofica e scientifica, divenne per un certo tempo la forma letteraria dominante,227 al punto che specialmente in epoca imperiale si attribuirono falsamente lettere a personaggi famosi o leggendari e soprattutto ai filosofi. Tra queste ultime vanno ricordate soprattutto le raccolte di epistole pseudepigrafe associate ad alcuni importanti esponenti del Cinismo antico come Diogene, Cratete, Menippo. In esse l’autore faceva leva sulle caratteristiche proprie di questo genere servendosene come valido strumento per le sue esortazioni.228 Va precisato, a scanso di equivoci, che le lettere protrettico-morali e gli altri scritti dello stesso tipo, come il De liberando a superbia, non vanno confusi con i protreptikoi; lovgoi intesi in senso piu` generale, cioe` con quella serie di generiche esortazioni ad abbracciare la filosofia o a entrare in una scuola filosofica che ebbero larga fortuna nell’antichita` e di cui il Protrettico di Aristotele e l’Hortensius di Cicerone rappresentavano gli esempi piu` celebri. Quest’ultimo genere non aveva una definizione precisa e non seguiva uno schema fisso e riconosciuto e, benche´ orientato principalmente alla conversione filosofica e alla vita contemplativa, poteva anche essere indirizzato alla pratica di alcune arti, come ad esempio la medicina. Anche questo tipo di protreptici si presentava spesso sotto forma di lettere contenenti incoraggiamenti e argomenti a favore dell’adesione a un certo tipo di vita.229 Ebbene, tale ‘‘protrettica’’, per cosı` dire, ‘‘generale’’ va distinta dalla ‘‘protrettica morale’’ o ‘‘speciale’’, cioe` da quella sezione applicata dell’etica (o etica pratica) che con discorsi appropriati si occupava di spronare (protrevpein) alla virtu` e di allontanare (ajpotrevpein) dal vizio.230 Si veda G.C. FISKE, Lucilius and Horace cit., p. 176 sg. Cfr. ivi, p. 177 sg., e S.K. STOWERS, Letter Writing cit., p. 40, che pero` non menziona l’importante contributo fornito in questo campo dagli Epicurei. 227 Si veda G.C. FISKE , Lucilius and Horace cit., p. 177. 228 Si veda S.K. STOWERS , Letter Writing cit., p. 40. 229 Cfr. ivi, p. 37; p. 112 sg.; A.J. MALHERBE, Moral Exhortation. A Greco-Roman Sourcebook, Philadelphia, Scholars Press 1986 («Library of Early Christianity», 4), p. 122. 230 Si vedano S.K. STOWERS, The Diatribe cit., p. 204 nota 306; ID ., Letter Writing cit., p. 92. 225

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La protrettica morale fu coltivata in origine soprattutto da Cinici e Stoici, i quali gia` con Aristone di Chio e Cleante distinguevano in essa esortazione (protrophv, exhortatio) 231 e dissuasione (ajpotrophv, dissuasio), insieme indicate anche con il piu` generico nome di ‘parenesi’ (paraivnecic) e, inoltre, consiglio (cumboulhv, suasio) 232 e precetti (paraggevlmata?, praecepta).233 Stando alla testimonianza di Clemente di Alessandria (paed. I 1-3), mentre le prime due erano incoraggiamenti generali tendenti all’educazione e riforma degli abiti e del carattere (h[qh), consigli e precetti erano indicazioni particolari indirizzate alle azioni concrete (pravxeic). Questi ultimi, poi, differivano solo per l’intensita` dell’apostrofe: consultiva i primi, ingiuntiva i secondi. I precetti, inoltre, si dividevano in comandi (proctavxeic o proctavgmata = ingiunzione positiva) e divieti (ajpagoreuvceic o ajpagoreuvmata = ingiunzione negativa). Orientata alla moderazione di alcune importanti passioni (pavqh), segnatamente dell’afflizione, era infine la consolazione (paramuqhtiko;c lovgoc, consolatio), di cui l’accademico Crantore fu considerato l’inventor e che fu praticata da esponenti di diverse scuole filosofiche nonche´ dai retori. Oltre agli Accademici, scrissero consolazioni Epicuro, i Cinici a partire da Cratete e ovviamente gli Stoici.234 Per evitare possibili confusioni terminologiche usero` sempre per intero l’espressione protrettica morale allo scopo di distinguerla dalla protrettica generale. 231 Per essa e ` usato anche il termine paravklhcic o, in Seneca, adhortatio. 232 Esso veniva indicato anche con il termine uJpovqecic (o uJpoqhvkh) e la sezione corrispondente con l’espressione uJpoqetiko;c tovpoc, la quale deve essere interpretata in senso stretto e non, come vorrebbe I.G. KIDD (ed.), Posidonius, II: Commentary, Cambridge, CUP 1988 («Cambridge Classical Texts and Commentaries», 14 B), p. 649, in modo generico, come espressione indicante l’intera parte protrettica dell’etica. Cfr., ad es., MUS. RUF. or. 17, 13-21; CLEM. ALEX. paed. 1, 2; SEXT. EMP. adv. math. VII 12 (= ARISTO CHIUS fr. 356 SVF I); AR. DID. ap. STOB. ecl. II 7, 2 W. Come vedremo per il parainetiko;c tovpoc (cfr. infra, p. 51 nota 237), nella testimonianza di Sesto lo uJpoqetiko;c tovpoc e` contrapposto insieme a quello al discorso esortatorio e dissuasorio come mezzo protrettico-morale ad esso alternativo (e non sovraordinato) e quindi, analogamente a quest’ultimo, rappresenta una sottosezione della protrettica morale, anziche´ identificarsi con essa. In Ario Didimo il significato di uJpoqetiko;c tovpoc = suasio e` reso palese dall’espressione con cui se ne designa l’oggetto specifico, che era rappresentato da ta;c pro;c th;n ajcfavleian kai; th;n ojrqovthta th=c eJkavctou crhvcewc uJpoqhvkac ejn ejpitomaic= , cioe` da «quei consigli sintetici finalizzati all’irreprensibilita` e alla rettitudine di ciascun comportamento». Si vedano J. BERNAYS, Philons Hypothetika, in Gesammelte Abhandlungen, Berlin, Herz 1885, pp. 266-271; K. REINHARDT (Hrsg.), Poseidonios, Mu¨nchen, Beck 1921, p. 56 sg.; A. DIHLE, Posidonius’ System of Moral Philosophy, «JHS», XCIII, 1973, pp. 50-53. 233 Cfr. SEXT . EMP . adv. math. VII 12 (fr. 356 SVF I); PHIL . leg. alleg. I 93 (fr. 519 SVF III), e infra, p. 139 e nota 333. Con significato analogo, benche´ piu` raramente, e` attestato il termine ejntolaiv. 234 Si vedano S.K. STOWERS , Letter Writing cit., pp. 142-144; I.G. KIDD (ed.), Posidonius, III: The Translation of the Fragments, Cambridge, CUP 1999 («Cambridge Texts and Commentaries», 36), p. 242 nota 152.

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Purtroppo la terminologia impiegata dalle fonti, e quindi anche dai moderni studiosi, per riferirsi a questa sezione dell’etica e alle sue sottospecie e` spesso ambigua e fluttuante a motivo di una certa sovrapposizione semantica dei termini impiegati e l’argomento nel suo complesso attende ancora di essere studiato in modo sistematico. Tale incertezza e` dovuta principalmente al fatto che spesso le diverse tecniche non erano distinte in modo sufficientemente chiaro tra di loro. Innanzitutto in origine non vi era un vocabolo univoco con cui indicare la protrettica morale in quanto tale. Essa era designata in modo approssimativo (e riduttivo) come quella parte dell’etica che si occupa delle esortazioni e delle dissuasioni (peri; twn= kaqhkovntwn protropwn= te kai; ajpotropwn= ),235 probabilmente per il fatto che queste rappresentavano lo strumento protrettico-morale per antonomasia. L’espressione protreptikovc (lovgoc o tovpoc) o si riferiva, come abbiamo visto piu` sopra, a un genere filosofico differente e piu` generale, benche´ ad essa collegato (cio` che abbiamo definito ‘‘protrettica generale’’), o in senso etimologico (protreptikovc < protrophv), equivaleva all’esortazione morale in senso stretto (exhortatio e dissuasio).236 Paraivnecic e parainetiko;c tovpoc o lovgoc, poi, sono espressioni ancora piu` problematiche, essendo usate dagli autori antichi sia come sinonimi di esortazione e dissuasione, sia come termini equivalenti al consiglio, sia per indicare i precetti. In quest’ultimo senso sono attestate per Aristone di Chio, Posidonio e Seneca.237 Altre volCfr. DIOG. LAE¨RT. VII 84 (fr. 1 SVF III), e infra, p. 139. Cfr., per quest’ultimo significato, CLEM. ALEX. paed. I 1-3; EPICT. diss. II 26, 4; III 16, 7; 23, 33-36; fr. 11. Sull’ambiguita` del termine si veda I.G. KIDD (ed.), Posidonius, II: Commentary cit., p. 649. 237 Cfr. SEXT. EMP. adv. math. VII 12 (= ARISTO CHIUS fr. 356 SVF I); SEN. ep. 95, 1. Nel primo passo, come abbiamo visto a proposito del consiglio (cfr. supra, p. 50 nota 232), l’espressione tovn te parainetiko;n kai; to;n uJpoqetiko;n tovpon, per il fatto di essere contrapposta alle esortazioni e alle dissuasioni, che erano invece lo strumento pedagogico prediletto da Aristone di Chio, designa inequivocabilmente quelle due sezioni della protrettica morale rispettivamente destinate ai precetti e ai consigli e come tale e` stata intesa dagli studiosi del filosofo stoico. Si vedano A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 91 e nota 2; p. 135 sg., ed EAD., Decreta e praecepta in Seneca, in A. BRANCACCI (ed.), Atti del Colloquio sulla Filosofia in Eta` imperiale, Roma 17-19 giugno 1999, Napoli, Bibliopolis 2000, p. 23 nota 23. Non e` dunque del tutto corretta l’interpretazione del passo fornita da I.G. KIDD (ed.), Posidonius, II: Commentary cit., p. 648 sg., che intende l’espressione in senso generale come indicante l’intera parte protrettica dell’etica. In senso stretto va intesa anche la praeceptiva pars di SEN. ep. 95, 1, che a Kidd e` sembrata una traduzione imprecisa di parainetiko;c tovpoc, ma che in realta` e` un calco perfettamente aderente al termine greco (a cui Seneca esplicitamente rimanda), proprio perche´ quest’ultimo va qui inteso come strettamente corrispondente alla precettistica. Sono le parole stesse di Seneca a confermarlo, il quale letteralmente si chiede, all’inizio dell’epistola, an haec pars philosophiae, quam Graeci parainetikhvn vocant, nos praeceptivam dicimus, satis sit ad consummandam sapientiam. E noi sappiamo dal contenuto della lettera che il suo demonstrandum era precisamente quello di provare che i precetti da soli (e non la protrettica morale in generale) sono insufficienti per il conseguimento della virtu`. Tale accezione ristretta si desume anche da quanto asserito ad ep. 94, 16, dal cui con235

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te, con un significato piu` ampio, esse servono a designare complessivamente l’insieme dei tre i tipi.238 Allo scopo di evitare possibili equivoci utilizzero` i termini ‘parenesi’ e ‘parenetico’ sempre e soltanto nel primo significato (= esortazione e dissuasione), mai nel terzo (= precetti).239 Il primo a organizzare la materia in modo sistematico fu lo stoico Posidonio, il quale aggiunse ai quattro generi appena ricordati la ricerca delle cause (o eziologia), una tecnica originale forse consistente in un’analisi psicologico-morale delle cause di passioni e vizi finalizzata alla loro estirpazione, e la caratterologia morale (o etologia), un’accurata illustrazione dei vari tipi virtuosi e viziosi che servivano come modelli per il perseguimento della virtu` e l’allontanamento dal vizio. Di questa si parlera` diffusamente piu` sotto.240 In epoca imperiale le specie sembrano moltiplicarsi. Tra i monitionum genera Seneca menziona anche l’ammonizione, la lode, il biasimo e l’argomentazione.241 La lode (e[painoc, laudatio) delle azioni rette e il biasimo (yovgoc, obiurgatio) dei comportamenti riprovevoli erano rispettivamente uno sprone a perseverare nella vita secondo virtu` e un modo perentorio di esorcizzare vizi e passioni. Essi si trovavano spesso mescolati e i moralisti ne raccomandavano un uso equilibrato, affinche´ la lode non si trasformasse in adulazione o una censura eccessiva finisse per risultare dannosa.242 Una forma garbata di biasimo era in particolare l’ammonizione (nouqevthcic o nouqeciva, admonitio), la quale invitava a prendere coscienza di cio` che va fatto e cio` che deve essere evitato.243 Piu` arduo e` tentare di stabilire la funzione dell’argumentatio, attestata – per quanto ne sappia – soltanto in Seneca, e che potrebbe equivalere a un procedimento argomentativo finalizzato a spiegare per mezzo di ragionamenti e con ricadute nella vita pratica la coerenza della vita conforme a natura e l’irrazionalita` del vizio. testo emerge inequivocabilmente che Seneca sta parlando in senso stretto della precettistica: ista praeceptiva pars submovenda est, quia quod paucis promittit, praestare omnibus non potest, sapientia autem omnes tenet. Il passo sembra essere sfuggito a Kidd. In ep. 95, 65, praeceptio, anche qui chiaramente equivalente a ‘precettistica’, e` usata in riferimento a Posidonio. Cfr. anche infra, p. 144 nota 346. 238 Si veda S.K. STOWERS, Letter Writing cit., pp. 91-93. 239 Cfr. anche supra, p. 49 nota 230. 240 Cfr. infra, pp. 145-147. 241 Cfr. SEN . ep. 94, 39; 49; ep. 95, 34; 65. 242 Il biasimo, a sua volta, poteva differenziarsi, a seconda della maggiore o minore intensita`, in ammonizione (nouqevthcic), censura (ejpitivmhcic), ingiuria (o[neidoc), riprovazione (e[legcoc) e ironia. Cfr. PLUTARCH. quom. adul. ab am. intern. 50 B; 66 B, e S.K. STOWERS, Letter Writing cit., pp. 77-80. 243 Termini equivalenti pure desumibili dalle fonti sono nouqeciva e nouqevthma. Cfr. anche ivi, pp. 125-127.

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Come abbiamo visto, tra i principali generi protrettico-morali che entravano in gioco nel De liberando a superbia e, segnatamente nella sua prima parte, figurava la parenesi, sia nella sua forma positiva (esortazione) che nella sua forma negativa (dissuasione). Della funzione di questo genere protrettico-morale nello scritto aristoneo si parlera` estesamente piu` sotto.244 Basti qui ricordare che esisteva nell’antichita` tutto un filone di parenesi epistolare e che la stessa lettera in quanto tale aveva caratteristiche strutturalmente parenetiche, in quanto serviva a ricordare in funzione esortatoria al destinatario quei principi morali che egli gia` conosceva, acciocche´ li mettesse in pratica. Il rapporto di amicizia su cui si basava per sua natura il genere epistolare favoriva l’esortazione, giacche´ amicizia e parenesi erano tra loro strettamente collegate. I modelli di questa tradizione filosofico-letteraria si possono ritrovare in alcune lettere di Cicerone e di Plinio il Giovane, in diverse lettere del Nuovo Testamento 245 e, naturalmente, nelle Epistulae morales senecane.246 Dell’esistenza di un tipo specifico di lettera parenetica siamo informati in particolare dallo Pseudo-Libanio, che nella raccolta intitolata Modelli Epistolari ( jEpictolimaioi = carakth=rec) cosı` la definisce: La lettera parenetica (parainetikhv) e` quella con cui incitiamo (parainoumen = ) qualcuno esortandolo a perseguire o ad evitare qualche cosa. La parenesi si divide in due parti, esortazione (protrophvn) e dissuasione (ajpotrophvn).247

In effetti questo tipo di lettera aveva come obiettivo quello di raccomandare all’interlocutore azioni conformi a un determinato modello morale e di metterlo in guardia dai comportamenti diametralmente opposti. L’alternanza di parenesi positiva e negativa, considerate tra loro complementari, poteva manifestarsi secondo differenti proporzioni e con diversi mezzi. Talora ad esse l’autore riservava sezioni separate, talaltra le mescolava in modi svariati intercalando in maniera antitetica opposti esempi di vizi e virtu`. Gli elementi in essa comunemente utilizzati erano sequenze di esortazioni e inviti a considerare o a rammentare la ragionevolezza o stoltezza di certi comportaCfr. infra, pp. 138-141. Si tratta principalmente delle lettere paoline (soprattutto della Lettera ai Romani, della 1 Lettera ai Tessalonicesi, della 1 Lettera ai Corinzi, delle Lettere pastorali), della 1 Lettera di Pietro, della Lettera agli Ebrei e della Lettera di Giacomo. 246 Si vedano A.J. MALHERBE, Moral Exhortation cit., pp. 79 sg.; 124 sg.; ID ., Hellenistic Moralists and the New Testament, in ANRW, II 26, 2, 1992, pp. 278-293; S.K. STOWERS, Letter Writing cit., pp. 94-97. 247 PS.-LIB. char. epist. 5: parainetikh; me;n ou\n ejcti di’h|c parainoumevn tini protrevpontec aujto;n = 244 245

ejpiv ti oJrmh=cai h] kai; ajfevxecqaiv tinoc. hJ paraivnecic de; eijc duvo diaireitai, ei[c te protroph;n kai; = ajpotrophvn.

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menti, il tutto condito da luoghi comuni della filosofia popolare e da numerosi esempi mitici e storici. Contesto naturale di tale tipo di corrispondenza, reale o fittizia, era il rapporto padre-figlio, maestro-discepolo o, come si e` detto, l’amicizia tra l’autore e il destinatario.248 Come evidenzia lo stesso Pseudo-Libanio, la lettera parenetica non va confusa con la lettera di consiglio (cumbouleutikhv), giacche´ in quest’ultima l’autore rivolge sı` esortazioni e dissuasioni al suo destinatario, ma tali inviti riguardano un’azione specifica e occasionale, mentre la parenesi ha in vista sempre comportamenti generali (virtu` e vizi).249 Similmente exhortatio e dissuasio non vanno confuse nemmeno con i precetti, i quali non sono altro che ingiunzioni morali concernenti azioni altrettanto concrete e circostanziate (‘‘Cosı` vivrai con il padre, cosı` con la moglie’’).250 Ebbene, tanto i consigli quanto i precetti non fanno alcuna comparsa nello scritto aristoneo. D’altro canto sembrerebbe che in certi passaggi la maggiore severita` del tono e la presenza di un approccio piu` critico risultino piu` vicine all’ammonizione morale che alla parenesi. E` noto infatti che questi due generi protrettico-morali si potevano trovare in una medesima opera facilmente mescolati tra loro senza che fosse possibile distinguerli con precisione l’uno dall’altro.251 Cio` e` dovuto probabilmente al fatto che in epoca ellenistica non si faceva ancora distinzione tra di essi. Posidonio, infatti, che pure elaboro` la piu` articolata divisione della protrettica morale dell’epoca, non ritenne di dover includere in essa una sezione specificamente destinata all’ammonizione, mentre vi faceva ovviamente figurare l’esortazione. Dell’esistenza di una specifica lettera di ammonizione (nouqethtikhv) siamo a conoscenza grazie all’ignoto Demetrio autore dei Tipi epistolari (Tuvpoi ejpictolikoiv), una raccolta di ventuno generi di lettere assai simile a quella dello Pseudo-Libanio. Essa conteneva la forma piu` mite di biasimo (yovgoc) e aveva come obiettivo la critica costruttiva di certi comportamenti del destinatario affinche´ questi ne prendesse coscienza ed emendasse la propria condotta. Per Demetrio «ammonire (nouqetein= ) significa instillare discernimento (noun= ) nella persona che viene ammonita e insegnargli che cosa debba e non debba essere fatto».252 Clemente di Alessandria, da parte sua, la Si veda S.K. STOWERS, Letter Writing cit., pp. 94-96. Cfr. ivi, p. 93; p. 107 sg. 250 Cfr. ivi, p. 94: «The paraenetic letter is not, as some have thought, a miscellaneous listing of commands» e supra, p. 50. 251 Si veda S.K. STOWERS, Letter Writing cit., p. 96. 252 PS .-DEM . formae epist. 7: to; ga;r nouqetein ejcti noun ejntiqevnai tw/ nouqetoumevnw/ kai; = = = didavckein tiv praktevon kai; mhv. 248

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identificava con quella «premurosa censura (yovgoc khdemonikovc) che produce discernimento (noun= )».253 A differenza dell’ingiuria (o[neidoc), che era rude e violenta, l’ammonizione era gentile e benevola e aveva come obiettivo quello di rimuovere l’errore morale producendo nel destinatario un senso di vergogna e umiliazione che conduceva al pentimento, alla riforma del carattere e in definitiva alla conversione (metavnoia).254 Un altro importante genere protrettico-morale rappresentato nel De liberando a superbia era quel tipo di descrizione caratterologica definito da Posidonio etologia (hjqologiva), che aveva come obiettivo di delineare accuratamente le diverse specie morali specificandone i tratti unificanti e distintivi. Tali descrizioni si ritrovano in grande abbondanza nello scritto aristoneo, specialmente nella seconda sezione, la quale, come sappiamo, era interamente consacrata alla caratterizzazione dei vizi affini alla superbia, che vi sono rappresentati con grande ricchezza di particolari. L’etologia morale era anche un’importante ingrediente della cosiddetta diatriba, cioe` di quella problematica forma espressiva a cui si e` tentato in vari modi, quasi sempre senza successo, di dare una definizione. In realta`, l’idea per cui sarebbe esistito nell’antichita` un genere letterario con questo nome e` una costruzione dei filologi ottocenteschi senza reale fondamento.255 Di fatto la diatriba non era un genere letterario in senso stretto, cioe` un genere fisso definito da una serie di tratti costitutivi e distintivi, bensı` una forma espressiva aperta caratterizzata da una situazione di enunciazione tipica che evocava il rapporto tra maestro e discepolo all’interno della scuola filosofica. In questo senso, anche se il termine si e` prestato a molti equivoci, e` possibile stabilire un legame con il significato antico della parola diatribhv (sia ‘scuola’ che ‘discussione’ o ‘lezione scolastica’) ed esso puo` essere utilmente conservato per designare un gruppo di testi con forma e contenuti anche molto differenti, ma caratterizzati da questa medesima situazione comunicazionale. Non intendo in questa sede entrare nel merito di una questione cosı` complessa, che nell’ultimo venticinquennio ha conosciuto nuovi e importanti sviluppi, ma mi limitero` a richiamare brevemente alcuni termini del problema utili alla nostra trattazione. Non di rado, infatti, lo scritto aristoneo e il suo stile sono stati avvicinati a questa forma filosofico-letteraria, anche se non sempre in modo appropriato.256 CLEM. ALEX. paed. I 9, 76: nouqevthcic me;n ou\n ejctin yovgoc khdemonikovc, nou= ejmpoihtikovc. Cfr. PLUTARCH. de recta rat. aud. 46 D; gnom. byz. 59 W., e S.K. STOWERS, Letter Writing cit., p. 126 sg. 255 Si veda J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 97. 256 Si vedano, ad es., W. KNO ¨ GEL , op. cit., pp. 48-60; 73-75; F. WEHRLI, Ariston, RE cit., 253 254

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Il primo a parlare di un «genere letterario» tipico della ‘predicazione’ filosofica popolare basato sulla fusione del dialogo filosofico e della retorica epidittica e di cui le diatribe di Telete sarebbero la nostra piu` antica attestazione, fu nel 1881 Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff.257 Nei tre decenni successivi apparvero numerosi studi (dei quali alcuni rimangono ancora oggi importanti opere di riferimento) con cui si tento` di definire e descrivere minuziosamente questa forma letteraria e il suo stile. Sulla scia di Paul Wendland,258 Otto Hense, nell’edizione dei frammenti di Telete,259 ne attribuı` l’invenzione a Bione di Boristene e sostenendo con ogni mezzo la dipendenza di quello da questo e la massiccia presenza di motivi e stilemi bionei in tutti i successivi autori di diatribe, fu il capofila di quella tendenza critica che ambiva a ricostruire ad ogni costo l’opera perduta di Bione («Biomania»).260 A causa poi della prevalenza tra gli scrittori diatribici di autori cinici e stoici l’espressione comune usata per designare questo genere fu quella di diatriba «cinico-stoica».261 Furono i lavori di Rudolf Bultmann,262 Otto Halbauer 263 e Adolf Bonho¨ffer,264 pubblicati tutti tra il 1910 e il 1911, a segnare una prima svolta nella storia della questione. p. 158; B. WALLACH, A History of the Diatribe from its Origin up to the First Century B.C. and a Study of the Influence of the Genre Upon Lucretius III, 830-1094, Diss. Ann Arbor, s.e. 1976. Malauguratamente non sono riuscito ad avere accesso a quest’ultima dissertazione. In compenso ho potuto consultare EAD., Lucretius and the Diatribe. De rerum natura II 1-61, Stuttgart, Hiersemann 1975, ed EAD., Lucretius and the Diatribe against the Fear of Death. De rerum natura III 830-1094, Lugduni Batavorum, Brill 1976 («Mnemosyne» Suppl. 40). Per una storia del concetto di diatriba nella filologia moderna e per la questione in generale si vedano S.K. STOWERS, The Diatribe cit., pp. 7-48; ID., art. cit., pp. 70-73; TH. SCHMELLER, Paulus und die ‘‘Diatribe’’: eine vergleichende Stilinterpretation, Mu¨nchen, Aschendorff 1987 («Neutestamentliche Abhandlungen», n.F., 19), pp. 1-54, e, piu` recentemente, P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit., pp. 44-78. 257 Antigonos von Karystos, Berlin, Weidmann 1881 («Philologische Untersuchungen», 4), pp. 292-319: Der kynische Prediger Teles. 258 Philo cit. 259 Teletis reliquiae cit. 260 L’espressione risale a Otto Ribbeck, che l’aveva utilizzata durante alcune conversazioni informali, come testimonia G. SIEFERT, Plutarchs Schrift Peri; eujqumivac, Naumburg a. S., H. Sieling 1908 («Beilage zum Jahresbericht der ko¨niglichen Landesschule Pforta», 320), p. 3 nota 4. Su questo atteggiamento della critica si vedano J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., pp. 82-86; S.K. STOWERS, The Diatribe cit., pp. 7-17; 50-53; P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit., pp. 13; 23-32. 261 Il primo a impiegarla fu P. WENDLAND , Philo cit., pp. 3-5, e ID., Die hellenistisch-ro ¨mische Kultur in ihren Beziehungen zum Judentum und Christentum, Tu¨bingen, Mohr 19122 («Handbuch zum Neuen Testament», I 2), p. 78, ma per indicare specificamente la diatriba di epoca imperiale in opposizione a quella «cinica» di eta` ellenistica. Si veda anche P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit., p. 46 nota 2. 262 Op. cit. 263 De diatribis Epicteti, Leipzig, Noske 1911. 264 Epiktet und das Neue Testament, Giessen, Enke 1911 («Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeite», 10).

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Questi tre studiosi criticarono la vulgata precedente e mentre il primo rigetto` la divisione di Paul Wendland tra diatriba ellenistica e diatriba di epoca imperiale, il secondo affermo` che la diatriba non rappresento` mai un genere letterario ben definito e fu il primo a sottolineare il collegamento tra il termine diatribhv e l’attivita` di insegnamento nelle scuole antiche. Inoltre diversi studiosi attaccarono la teoria dell’invenzione del genere da parte di Bione. A questo periodo di revisione e critica delle teorie precedenti e` seguita, dopo il Secondo Conflitto Mondiale, un’ulteriore fase di studi in cui si e` registrato un rinnovato interesse per le indagini primitive, ma con una speciale attenzione alle critiche del secondo periodo. I due studi piu` importanti di questa nuova fase sono quelli di Stanley K. Stowers 265 e Theodor Schmeller.266 Pubblicati entrambi negli anni Ottanta, sono anch’essi, sulla scia di Bultmann, consacrati al confronto tra la diatriba e lo stile delle lettere di San Paolo e non e` un caso che ancora una volta dagli studi biblici neotestamentari sia venuta una svolta decisiva nella storia della questione. Questi lavori dimostrano inequivocabilmente quanto sia fecondo l’approccio multidisciplinare applicato allo studio degli autori classici.267 Di essi il primo e` senza dubbio il piu` significativo, quello che ha segnato uno spartiacque rispetto alle indagini precedenti e che ha fornito la giusta chiave interpretativa per una possibile soluzione del problema. Purtroppo l’indole settoriale della collana in cui e` apparso, l’artificiosa separazione, tuttora perdurante, tra studi biblici e studi classici e lo stesso formato del libro di Stowers (piu` simile a quello di una dissertazione universitaria, che a quello di una monografia scientifica) hanno impedito che esso avesse la diffusione che meritava, con il risultato che quest’ultima e` stata inversamente proporzionale all’importanza delle tesi enunciate. Riallacciandosi a Halbauer, lo studioso americano rifiuta di parlare della diatriba come di un genere letterario in senso classico (‘Gattung’), cioe` come una famiglia di scritti che si attengono rigorosamente a una precisa tradizione letteraria con forma e contenuti determinati, ma la concepisce piuttosto come un genere in senso piu` ampio, cioe` come una forma espressiva basata su una situazione di enunciazione tipica e su una certa relazione tra l’autore e il suo pubblico.268 Al contempo ribadisce il legame organico tra The Diatribe cit. Op. cit. 267 L’ultima felice conferma a questa idea e ` venuta, proprio nel campo degli studi filodemei, dal volume di J.T. FITZGERALD-D. OBBINK-G.S. HOLLAND (eds.), Philodemus and the New Testament World, Leiden-Boston, Brill 2004 («Supplements to Novum Testamentum», 111). 268 Si veda S.K. STOWERS , The Diatribe cit., pp. 45-48. 265

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diatriba e insegnamento scolastico conservandone il nome come termine appropriato per indicare quegli scritti che avevano origine nella scuola filosofica o che imitavano il discorso scolastico secondo forme e gradi differenti di elaborazione letteraria («letteraturizzazione»). Di qui la definizione di diatriba come «discussione scolastica in cui il maestro impiegava il metodo socratico di censura e parenesi», quel metodo cioe` che mirava alla trasformazione interiore o conversione dell’individuo.269 Infine Stowers nega giustamente l’identificazione di diatriba e di filosofia popolare, cioe` di quell’«insieme di motivi e di procedimenti familiari caratterizzanti un ampio corpus di manifestazioni letterarie unite da un’analoga volonta` di volgarizzazione».270 Schmeller, dal canto suo, pur condividendo con il suo predecessore l’opportunita` di continuare a usare la parola ‘diatriba’ (da lui sempre virgolettata) per indicare la realta` oggettiva che vi sta dietro, diversamente da lui nega recisamente che essa possa essere in qualunque modo considerata un genere, nemmeno in senso generalissimo. In pari tempo ne sottolinea il carattere eminentemente orale e occasionale per cui nessuna diatriba antica sarebbe stata composta per avere esistenza letteraria e diffusione scritta. Anch’egli, come lo studioso americano, avverte la necessita` di ristabilire i testi diatribici autentici sulla base di una nuova definizione di questo fenomeno letterario e di epurarli da quelli, numerosissimi, impropriamente ritenuti tali, ma questo egli fa con altri criteri di identificazione, pervenendo cosı` a risultati parzialmente differenti. Siffatti criteri si riducono per lui a un «principio strutturale» di fondo della diatriba: la trasformazione di un contenuto intellettuale in un’esortazione esistenziale rivolta all’uomo comune con una dimensione etica. Ancora a differenza di Stowers, Schmeller ritiene che essa non sia confinabile all’ambito della discussione scolastica, ma sarebbe legata a tre realta` differenti: a) la propaganda di massa, b) l’istruzione nella scuola filosofica, c) la forma letteraria popolare.271 Senonche´, come e` stato giustamente rimarcato, il suo criterio di individuazione della diatriba e` affetto da una certa astrattezza e, in quanto tale, rischia di essere soggettivo e di difficile applicazione.272 Stowers, invece, e` guidato da un’idea piu` 269 Cfr. ivi, pp. 75-78: «The diatribe is [...] discourses and discussions in the school where the teacher employed the ‘‘Socratic’’ method of censure and protreptic». Lo studioso, facendo propria la terminologia impiegata da Epitteto, utilizza «protreptic» come termine equivalente all’esortazione e alla dissuasione. Per questo motivo preferisco tradurlo in italiano con ‘parenesi’, espressione con cui mi riferisco sempre e soltanto a questo genere protrettico-morale. Cfr. supra, p. 52. 270 Secondo la definizione di P.P. FUENTES GONZA ´ LEZ (e´d.), op. cit., p. 57. Si veda anche S.K. STOWERS, The Diatribe cit., pp. 32; 78. 271 Si veda TH . SCHMELLER, op. cit., pp. 1-54. 272 Si veda P.P. FUENTES GONZA ´ LEZ (e´d.), op. cit., p. 54: «Nous pensons avec Stowers que

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moderna di genere letterario e da una concezione piu` flessibile della situazione scolastica, la quale non va intesa in senso troppo stretto e che puo` essere reale o fittizia.273 Inoltre egli dimostra correttamente che la diatriba non puo` essere interpretata come una forma di propaganda di massa («Massenpropaganda») rivolta all’uomo della strada e contesta opportunamente il cliche´ del filosofo cinico come predicatore itinerante («Wanderprediger»).274 Il criterio di identificazione della diatriba da lui teorizzato (appropriazione di un certo numero di tradizioni filosofico-popolari, uso di uno stile dialogico e di altri elementi retorici, ambientazione scolastica), consente di riconoscere come autori sicuramente diatribici Bione, Telete, Filone di Alessandria, Seneca, Musonio Rufo, Dione di Prusa, Plutarco, Epitteto e Massimo di Tiro. La lista potrebbe allungarsi, ma tutti i futuri tentativi di individuare altri testi diatribici dovranno tenere conto di questi fattori. Lo studioso americano ha anche osservato che le rimarcabili differenze stilistiche esistenti tra queste fonti non vanno spiegate per evoluzione (o involuzione) storica a partire da un archetipo elaborato per la prima volta da Bione,275 ma per successivi adattamenti di questa forma espressiva dovuti principalmente alla situazione personale dell’autore, ai vari gradi di elaborazione letteraria e ai diversi modi di rapportarsi alla situazione scolastica.276 E anche se, come e` stato rilevato, l’espressione diatriba ‘cinicostoica’ non e` da considerarsi appropriata, gli autori sopra richiamati come sicuramente diatribici erano in genere filosofi o cinici o stoici o comunque fecero proprie dottrine morali di matrice inequivocabilmente cinica o stoicette me´thode ressemble a` une entreprise ide´aliste de recherche des essences: bien que Schmeller e´tablisse ce principe a` travers des analyses tout a` fait minutieuses des textes de la ‘diatribe’ (ou des textes ‘diatribiques’), l’application des notions telles que ‘popularisant’ ou ‘personnalisant’ se re´ve`le ine´vitablement subjective. En fait, la se´lection de Schmeller semble un peu aprioristique». 273 Cfr. ivi, p. 55. 274 Entrambe le idee risalivano direttamente a U. VON WILAMOWITZ-MOELLENDORFF , Antigonos cit., p. 313 sg. Si veda S.K. STOWERS, The Diatribe cit., p. 46. 275 In realta ` l’origine di questa forma filosofico-letteraria ci sfugge. Anteriormente a Bione raccolte di Diatribaiv erano attribuite ad Aristippo e, piu` e meno nello stesso periodo in cui quello visse, ad Aristone di Chio (Diatribw=n zV, jErwtikai; diatribaiv), a Cleante e a Perseo. Si vedano anche G.C. FISKE, Lucilius and Horace cit., p. 180, il quale assegna collezioni di diatribe, prima di Bione, anche a Brisone e ad Antistene, e G. GIANNANTONI (ed.), Socratis et Socraticorum Reliquiae, collegit, disposuit, apparatibus notisque instruxit G. G., Napoli, Bibliopolis 1990 («Elenchos. Collana di testi e studi sul pensiero antico», 18), IV, p. 162 sg. 276 Si vedano S.K. STOWERS, The Diatribe cit., pp. 48-78, specialmente p. 76: «the diversity among the sources is due to 1) personal background, 2) the various degrees and forms of letteraturizzazione, and 3) the varying relationships of the discourses as we now have them to the school situation»; ID., art. cit., p. 73 sg.

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ca. La prevalenza in essi di questo tipo di tradizioni filosofiche e` da considerarsi fuori discussione.277 La spiegazione di cio` e` nota e risiede, secondo Stowers, nel fatto che Cinici e Stoici furono i grandi volgarizzatori della filosofia e, in particolare, della filosofia morale.278 Al contrario, da parte degli Epicurei e dei Peripatetici non sembra mai esservi stato un forte interesse verso questa forma espressiva.279 La diatriba non aveva una struttura tipica e una delle sue principali caratteristiche formali era lo spiccato elemento dialogico, che si esprimeva principalmente nell’apostrofe a un’interlocutore fittizio. Ad esso si attribuivano anche obiezioni e false inferenze, quando non veri e propri scambi dialogici con l’autore. Tutti questi procedimenti stilistici non erano espressione di un attacco contro un ipotetico oppositore filosofico, bensı` un aspetto del metodo socratico di confutazione e parenesi che mirava alla conversione dell’interlocutore.280 E quest’ultimo va considerato non tanto come un avversario contro cui l’autore polemizza, quanto piuttosto come un discepolo che il maestro vuole condurre alla verita`.281 L’aspetto confutatorio della diatriba (ejlegktiko;c carakthvr, secondo la terminologia di Epitteto) e quello parenetico (protreptiko;c carakthvr) erano parti di un medesimo processo e mentre il primo serviva a mettere in luce l’ignoranza e le contraddizioni dell’interlocutore, il secondo offriva un incitamento a rimuovere l’errore e forniva in pari tempo un modello positivo cui conformarsi.282 In definitiva, l’elemento dialogico della diatriba non e` altro che un modo di adattare questo metodo pedagogico a un tipo dogmatico di filosofia nella situazione scolastica.283 Esso serviva a simulare la discussione reale tra maestro e discepolo all’interno della scuola in maniera che, mentre l’apostrofe all’interlocutore fittizio imitava il modo colloquiale e diretto con cui il primo si rivolgeva al secondo, le obiezioni e le false inferenze riproducevano il ruolo attivo giocato dallo studente nella discussione e segnava277 Bione e Telete erano autori essenzialmente cinici (e non solo quest’ultimo, come sembra ritenere Stowers); Musonio, Dione ed Epitteto erano stoici con forti tendenze ciniche; Plutarco e Massimo di Tiro erano platonici, ma con molti influssi cinici e stoici; Filone mescola tradizioni giudaiche, platoniche e stoiche. Si veda S.K. STOWERS, The Diatribe cit., p. 77. 278 Cfr. ivi, p. 30 sg.; p. 77: «the predominance of Cynic and Stoic traditions should be recognized. The explanation for this is that the Cynics and the Stoics were the popularizers of ethics. They were the schools which most emphasized the ethical aspect of the Socratic heritage». 279 Per gli Epicurei si veda in particolare G.C. FISKE, Lucilius and Horace cit., p. 180. 280 Vedasi S.K. STOWERS, The Diatribe cit., p. 105 sg. 281 Cfr. ivi, p. 174. 282 Cfr. ivi, pp. 56-58. 283 Cfr. ivi, p. 77.

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no, allo stesso tempo, uno stacco nell’argomentazione. Lo scambio dialogico, infine, simulava efficacemente il rapido botta e risposta tra i due.284 Per il resto, lo stile della diatriba era quello proprio dell’istruzione morale popolare di cui si e` gia` parlato diffusamente nel capitolo precedente e del quale, come abbiamo visto, si servivano anche altre forme filosofiche e letterarie. Anche la diatriba, come la protrettica morale in generale e la parenesi in particolare, aveva importanti connessioni con la lettera, al punto che essa si presentava spesso in forma epistolare o ne riprendeva alcune caratteristiche tipiche. Tale combinazione era molto naturale, soprattutto se i modi piu` ruvidi della censura ne rimanevano esclusi, e risalta in modo particolare in certi scritti morali di Plutarco (principalmente nel De tranquillitate animi e nel De exilio) e in alcune lettere del Nuovo Testamento, soprattutto nella Lettera ai Romani e, piu` limitatamente, nella 1 Lettera ai Corinzi, nella Lettera ai Galati e nella Lettera di Giacomo.285 Ma e` soprattutto nelle piu` volte menzionate Lettere a Lucilio di Seneca che forma epistolare, diatriba e parenesi si armonizzano tra di loro in modo quasi impercettibile. In esse l’elemento dialogico della lettera e quello della diatriba si mescolano vicendevolmente e si passa con frequenza dall’uno all’altro. E mentre il primo, che e` il riflesso di una conversazione alla pari tra amici, e` dolce e garbato, il secondo, basato sul rapporto gerarchico tra maestro e discepolo, e` piu` impersonale e impiega una versione edulcorata del metodo di confutazione e parenesi. In particolare si usano con una certa frequenza l’interlocutore fittizio e diversi tipi di obiezioni. Il risultato e` una studiata ambiguita` comunicazionale, simile a quella della diatriba, che consente all’autore di passare con naturalezza dall’apostrofe al destinatario della lettera all’interlocutore fittizio senza che si possa comprendere con chiarezza quando egli si rivolge all’uno e quando all’altro.286 A questo punto e` legittimo porsi un interrogativo: che tipo di relazione si puo` ipotizzare tra il De liberando a superbia e la diatriba, cosı` come e` stata ridefinita dagli studi piu` recenti? Puo` esso in qualche misura essere con284 Per la funzione dell’interlocutore fittizio nella diatriba si veda S.K. STOWERS , The Diatribe cit., pp. 100-110; per quella delle obiezioni e delle false inferenze, ivi, pp. 138-147; per la funzione dello scambio dialogico, ivi, pp. 155-164. 285 Cfr. ivi, p. 64 sg. e nota 362; 178 sg.; A.J. MALHERBE , Moral Exhortation cit., p. 129 sg. Come ha dimostrato Stowers, solo nella Lettera ai Romani lo stile dialogico tipico della diatriba pervade la maggior parte del testo (capp. 1-11) ed e` strettamente connesso allo sviluppo dell’argomentazione e al messaggio proprio della lettera. Al contrario, nelle altre lettere citate esso rappresenta un fenomeno stilistico marginale. 286 Si veda S.K. STOWERS , The Diatribe cit., pp. 69-75.

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siderato uno scritto diatribico? Senza dubbio gli elementi comuni sono molteplici. Innanzitutto la stessa forma epistolare che, come abbiamo appena detto, era assunta spesso anche dalla diatriba, e il fatto che entrambi abbiano per argomento temi e motivi tipici della filosofia popolare e possiedano uno spiccato intento protrettico-morale. Inoltre, come e` stato dimostrato nel capitolo precedente, essi appartengono a una medesima tipologia stilistica, quella propria dell’istruzione morale popolare, di cui condividono moltissimi tratti. Cio` nondimeno, salta subito all’occhio una differenza sostanziale: nello scritto aristoneo, cosı` come e` giunto fino a noi, sembra essere del tutto assente quell’elemento dialogico che rappresentava la cifra piu` caratteristica della diatriba e che la distingueva dalle altre forme espressive. Dell’apostrofe a un interlocutore fittizio, di obiezioni, false inferenze e scambi dialogici, in effetti, non risulta esservi alcuna traccia nel nostro scritto e questo marca un confine sufficientemente netto rispetto alla diatriba.287 E` bensı` vero che il testo che possediamo e` il risultato di una libera citazione ed e` stata dimostrata la tendenza di Filodemo ad accorciare e mettere fretta al suo autore. Onde, se nel testo originale della lettera Aristone faceva uso di alcuni di questi espedienti retorici, essi potrebbero essere andati perduti nella trasposizione filodemea. Si potrebbe invocare a tale proposito l’analogia con le diatribe di Musonio Rufo che, pervenuteci attraverso la parafrasi e la sintesi di Lucio, hanno perduto larga parte dell’elemento dialogico originario, il quale non doveva essere molto dissimile da quello largamente presente in Epitteto.288 Tuttavia, laddove in Musonio la perdita e` solo parziale e vi si ritrovano ancora qua e la` diverse tracce di stile dialogico,289 nel caso dello scritto aristoneo bisognerebbe ammettere che la perdita sia totale. Ma e` immaginabile che per quindici colonne dove, nonostante i tagli filodemei, si e` conservata un’impressionante messe di ingredienti stilistici comuni alla diatriba, non sia rimasta alcuna traccia di quelli che, come abbiamo visto, ne erano gli elementi costitutivi, al punto che senza di essi non e` possibile riferirsi legittimamente a questa forma espresSi veda anche W. KNO¨GEL, op. cit., p. 59 sg. Si veda S.K. STOWERS, art. cit., pp. 73-75. Per questa pratica e sebbene in un diverso contesto (si tratta di testi non diatribici), puo` essere invocato anche il confronto con la traduzione ciceroniana del Timeo di Platone e gli excerpta platonici presenti nel Protrettico di Giamblico, dove pure lo stile dialogico originario appare sistematicamente rimosso. Si vedano, per questo secondo caso, D.S. HUTCHINSON-M.R. JOHNSON, Authenticating Aristotle’s Protrepticus, «OSAPh», XXIX, 2005, pp. 193-294. 289 Si veda S.K. STOWERS, The Diatribe cit., pp. 58-60; p. 65 nota 367. 287 288

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siva? Tale considerazione e` sufficiente per escludere che il De liberando a superbia possa essere considerato, anche in senso lato, una diatriba. Una volta chiarita questa differenza fondamentale, possiamo soffermarci a esaminare la funzione di quell’importante mezzo espressivo che, come abbiamo detto, la diatriba possedeva in comune con il nostro scritto, vale a dire la descrizione etologica di quei vizi ritenuti caratteristici dello studente e considerati riflesso del suo errore e della sua ignoranza. Nella diatriba tali descrizioni si collocavano principalmente nell’apostrofe all’interlocutore fittizio nel quale, come sappiamo, si nascondeva il discepolo, e servivano a metterne in luce le contraddizioni. Questi, poi, era ulteriormente caratterizzato nelle obiezioni da lui sollevate contro la linea argomentativa dell’autore e talora (solo in Epitteto) anche nello scambio dialogico.290 Le fattispecie morali non erano sempre analiticamente descritte, ma potevano anche essere semplicemente elencate comparendo sotto forma di liste piu` o meno lunghe di vizi e virtu`. Tali liste non pretendevano di essere esaustive e talora servivano a individuare le caratteristiche basilari di una virtu` o vizio piu` importante. In particolare, i vizi erano frequentemente elencati per descrivere l’anima in preda all’infermita` e alla schiavitu`, le virtu` erano enumerate per illustrare la superiorita` del saggio e le sue qualita` morali. Gli uni e le altre potevano essere disposti in modo antitetico per motivi di enfasi.291 Alcuni di questi elenchi si ritrovano anche nella seconda sezione del nostro scritto quando si specificano le varie componenti dei diversi agglomerati di vizi (o virtu`).292 Questo tipo di caratterizzazione morale, che era fondato su tradizioni etologiche ben consolidate, costituiva un aspetto del metodo confutatorio della diatriba e serviva come modello negativo per censurare le false opinioni e i comportamenti riprovevoli.293 Tra i vizi che in essa si attaccavano rivestivano un ruolo particolarmente importante proprio la iattanza (ajlazoneiva), l’arroganza (uJperhfaniva) e la presunzione (oi[hma o oi[hcic). La prima era Stowers (ivi, p. 56) parla in quest’ultimo caso di «dialogical hjqologiva or hjqopoiiva». Cfr., ad es., EPICT. diss. II 17, 26-31; PLUTARCH. de cupid. divit. 527 A, e S.K. STOWERS, The Diatribe cit., p. 89 nota 52. Per alcune liste di vizi cfr. EPICT. diss. I 12, 20; II 17, 26-27; 16, 45; 19, 19; III 2, 14; PLUTARCH. de curios. 515 D-E; de cupid. divit. 525 C; de virt. et vit. 101 C; TELES fr. IV A 41, 15-42, 1 H.; SEN. de vita beata 10, 2; 19, 3; MAX. TYR. dial. 7, 4; PHIL. de confus. ling. 117. Sull’etologia in generale si vedano, ad es., W. SU¨SS, Ethos. Studien zur a¨lteren griechischen Rhetorik, Leipzig-Berlin, Teubner 1910 e, piu` recentemente, A.J. MALHERBE, Moral Exhortation cit., p. 138. 292 Cfr. 16 30-34; 17 19-27; 19 3-10; 20 33-38; 21 2-5; 39-40; 24 18-23. 293 Si vedano S.K. STOWERS, The Diatribe cit., p. 89 sg.; pp. 106-108; 110; 116, e anche R. BULTMANN, op. cit., p. 19; A. ULEYN, La doctrine morale de saint Jean Chrysostome dans le commentaire sur saint Matthieu et ses affinite´s avec la diatribe, «Revue de l’Universite´ d’Ottawa», XXVII, 1957, p. 24; P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit., p. 399. 290 291

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concepita come una forma di ipocrisia tipica di chi agisce in modo incoerente con quello che dice e che si vanta senza fondamento dei propri meriti per essere lodato dagli altri. Strettamente collegata ad essa era l’arroganza, intesa come eccessiva fiducia in se stessi e come disprezzo del prossimo.294 La presunzione, infine, era considerata come l’autosufficienza di colui che pretende di possedere la verita`.295 Con questi significati o con significati assai simili i tre vizi in questione ritornano nel De liberando a superbia in cui, come sappiamo, la trattazione della uJperhfaniva rappresentava l’argomento principale e dove oi[hcic e ajlazoneiva sono piu` volte menzionate in collegamento con essa.296 Nella diatriba, come nel nostro scritto, questi tre vizi (e i vizi ad essi associati, come la tracotanza (u{bric) e la boria (tu=foc)), sono considerati come una forma di auto-inganno e un ostacolo da superare a ogni costo ai fini della conversione o del progresso morale.297 Plutarco (de recta rat. aud. 39 D e 43 B) afferma che e` prima necessario svuotare il giovane dalla presunzione, dalla iattanza e dalla boria per poterlo riempire di qualcosa di utile ed Epitteto (diss. III 14, 9) precisa che e` attraverso la confutazione (e[legcoc) che la presunzione viene rimossa. Entrambi gli autori facevano risalire ancora una volta questo procedimento al metodo socratico di censura e parenesi, nel quale la critica del presuntuoso e dell’arrogante rappresentava una strategia fondamentale. Il filosofo di Cheronea, in particolare, equiparava il discorso confutatorio (ejlegktiko;c lovgoc) di Socrate a un farmaco purgativo (kaqartiko;n favrmakon) e asseriva che egli, sottoponendo costantemente gli altri ad esame, li libero` dalla boria, dall’errore (plavnoc) e dalla iattanza in un periodo dominato dai sofisti in cui molti, pieni di presunzione e di supposta sapienza (doxocofiva), amavano fare lunghi discorsi e inutili discussioni in mezzo a contese e a rivalita`.298 294 Filone (de virt. 171; Sap. Sal. 5, 8) associava questi due vizi come speciale oggetto della punizione divina e tale circostanza costituı` un retroterra importante per la successiva speculazione antropologica e morale giudaica e cristiana. Si vedano O. RIBBECK, Alazon. Ein Beitrag zur ¨bersetzung des Antiken Ethologie und zur Kenntniss der griechisch-ro¨mischen Komo¨die nebst U plautinischen Miles gloriosus, Leipzig, Teubner 1882, p. 52; J. BOMPAIRE, Lucien e´crivain. Imitation et cre´ation, Paris, Boccard 1958 («Bibliote`que des E´coles Francaises d’Athe`nes et de Rome»), p. 206 nota 3; G. BERTRAM, s.v. uJperhvfanoc, in Grande Lessico del Nuovo Testamento, trad. it., Brescia, Paideia 1963-1992, VIII, coll. 585-596; S.K. STOWERS, The Diatribe cit., p. 108 nota 107. La caratterizzazione del millantatore e dell’arrogante e` un elemento fondamentale anche nella Lettera ai Romani. Cfr. ivi, pp. 110-115; 116-118. 295 Cfr. ivi, pp. 108-110; 116. 296 Cfr. 14 10; 16 31-32; 17 22; 19 4-5; 6-7. 297 Cfr., per il De liberando a superbia, 18 12-15; 36-38; 19 20-22; 26-35; 20 4-15. 298 Cfr. PLUTARCH . Plat. quaest. 999 E-F : h] qeiovn ti kai; daimovnion wJc ajlhqwc ai[tion uJfhghvcato = =

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NATURA E FINE DEL DE LIBERANDO A SUPERBIA

Alcune categorie di persone nell’antichita` erano considerate specialmente soggette a iattanza, come gli oratori, i soldati, gli indovini, i ricchi e, soprattutto, i filosofi. Nel contesto esoterico della diatriba, in particolare, il filosofo incoerente era quasi per definizione millantatore e il tipo millantatore era immediatamente identificato con il filosofo presuntuoso e arrogante.299 Come sappiamo, anche Filodemo, nell’introdurre lo scritto aristoneo, includeva tra le cause dell’insuperbire la stessa filosofia (aujth;n filoco|fiv[an]) e faceva riferimento ad alcuni filosofi ritenuti proverbialmente superbi (10 1626). Si e` visto che, almeno in qualche caso, dietro all’affermazione filodemea si nascondeva il giudizio dell’autore da lui citato.300 Piu` in generale, la boria (tufoc = ) dei filosofi era un tema ricorrente nella filosofia popolare e venne duramente attaccata dai Cinici e dai Pirroniani. Timone di Fliunte derideva i filosofi tronfi nel loro vano sapere e proponeva a modello l’a[tufoc Pirrone, assolutamente libero da ogni opinione.301 Entrambe le tradizioni si ritrovano in Luciano che, in un passo dei Dialoghi dei morti, il cui modello e` Menippo e dove l’impronta cinica e` prevalente, rivolge un’impietosa invettiva contro tutta la categoria, accusandola di iattanza, vanagloria, boria e presunzione.302 D’altro canto nell’Icaromenippo, dove e` invece la tradizione accademico-scettica a prevalere, egli critica diffusamente il dogmatismo borioso e pieno di millanteria dei filosofi del suo tempo.303 Cwkravtei tou=to th=c filocofivac to; gevnoc, w|/ tou;c a[llouc ejxetavzwn ajei; tuvfou kai; plavnou kai; ajlazoneivac kai; tou= bareic= ei\nai prw=ton me;n auJtoic= ei\ta kai; toic= cunouc= in ajphvllatte; kai; ga;r w{cper ejk tuvchc tovte fora;n cunevbh genevcqai cofictwn= ejn th/= JEllavdi: kai; touvtoic oiJ nevoi polu; kai; doxocofivac, kai; lovgwn ejzhvloun ccolh;n kai; diatriba;c telounte = = c ajrguvrion oijhvmatoc ejplhrounto ajpravktouc ejn e[rici kai; filotimivaic kalo;n de; kai; crhvcimon oujd’oJtiou=n. to;n ou\n ejlegktiko;n lovgon w{cper kaqartiko;n e[cwn favrmakon oJ Cwkravthc ajxiovpictoc h\n eJtevrouc ejlevgcwn tw=/ mhde;n h{pteto dokwn= zhtein= koinh/= th;n ajlhvqeian oujk aujto;c ijdiva/ dovxh/ bohqein= . ajpofaivnecqai, kai; mallon =

Si veda S.K. STOWERS, The Diatribe cit., pp. 67; 109. Sulla storia dell’etologia come genere protrettico-morale e sulla sua funzione nel De liberando a superbia si ritornera` in un capitolo a parte (cfr. infra, pp. 142-148). 299 Si vedano O. RIBBECK , op. cit., pp. 5-51; S.K. STOWERS , The Diatribe cit., p. 108 sg. e nota 116; p. 116. Cfr. anche l’oJmoivwma di Aristone di Chio (STOB. fl. IV 25, 44 H. = fr. 386 SVF I) che paragona i giovani appena usciti dalle scuole filosofiche e che attaccano chiunque, perfino i propri genitori, a quei cani appena comprati che abbaiano a tutti indistintamente. 300 Cfr. supra, p. 16 sg. 301 Cfr. EUS. praep. evang. XIV 18, 25; 27; TIMON frr. 9; 11 D., e M. DI MARCO (ed.), op. cit., p. 138 sg. 302 LUCIAN . dial. mort. 20, 8 (trad. Longo con qualche aggiustamento): «Questo individuo solenne (cemnovc) – giudicando dalla figura – e altezzoso (brenquovmenoc), questo tipo accigliato e ripiegato sui propri pensieri, questo tale dalla lunga barba, chi e`? [...] O Zeus, quanta millanteria (ajlazoneivan) ha su di se´, e quanta ignoranza, quanta voglia di litigare, e vanagloria (kenodoxivan) e domande capziose e ragionamenti spinosi e pensieri tortuosi, ma anche tanta fatica inutile, non poche ciance, frottole, piccineria, e, per Zeus, anche dell’oro qui e godimenti, iracondia, lusso, mollezza [...]. E deponi anche la menzogna, la boria (tu=fon), e il credere di essere migliore degli altri». 303 Cfr. LUC. Icar. 5-8. Si veda F. DECLEVA CAIZZI , art. cit., p. 64 sg.

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PARTE PRIMA

In sintesi, oltre alle affinita` formali e materiali piu` sopra richiamate, tanto l’impiego dell’etologia morale, quanto l’importante caratterizzazione del superbo e dei tipi a esso affini, quanto infine la condanna della presunzione di un certo tipo di filosofi accomunano in modo significativo il De liberando a superbia e la diatriba. Tuttavia, ancora una volta, queste analogie non sono sufficienti da sole per definire lo scritto aristoneo come uno scritto diatribico. Esse non sono altro che l’ennesimo tassello di quel mosaico di temi, stili, forme espressive e generi protrettico-morali differenti che, come abbiamo visto, costituiva lo scritto di Aristone. In esso si mescolano, spesso indistintamente, parenesi, etologia e ammonizione morale, procedimenti tipici della lettera e della diatriba, stile epistolare e ‘stile’ proprio dell’istruzione morale popolare e questo malgrado unici siano lo scopo e l’argomento dell’opuscolo. E` il segno di una grande ricchezza espressiva, ma anche di come sin dalla prima epoca ellenistica gli autori di scritti protrettico-morali non esitassero a mescolare strumenti filosofico-letterari differenti per perseguire i loro obiettivi. Si auspica dunque che tali riflessioni contribuiscano a completare le linee di un quadro che per la sua complessita` era in precedenza sfuggito a una comprensione globale da parte degli interpreti.

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PARTE SECONDA ARISTONE DI CEO O ARISTONE DI CHIO? STORIA DI UN EQUIVOCO

1. IMPOSTAZIONE

DEL PROBLEMA

Nella parte precedente abbiamo affrontato lo studio delle caratteristiche formali del De liberando a superbia, soffermandoci sulla sua struttura, sulla lingua e lo stile che lo contraddistinguono e sui generi filosofico-letterari a cui esso deve essere ricondotto. Resta ora da capire chi ne fosse l’autore o, piu` precisamente, chi fosse l’Aristone a cui Filodemo, nell’introdurre lo scritto, lo attribuiva. Nell’antichita`, infatti, c’erano almeno quattordici differenti filosofi con questo nome, sovente confusi a vicenda a causa della loro omonimia.1 In realta` di alcuni di essi conosciamo ben poco e spesso ci limitiamo semplicemente a leggerne il nome nelle liste di omonimi. Di essi, undici erano anteriori o contemporanei di Filodemo, tra cui diversi accademici e almeno cinque peripatetici, mentre uno solo era il filosofo stoico con questo nome: Aristone di Chio.2 I numerosi riferimenti a eventi e personaggi storici contenuti nello scritto aristoneo, tutti collocabili tra V e IV sec. a.C. o, al massimo, nel primo venticinquennio del III,3 non ci sono purtroppo di grande aiuto, giacche´ tutti i filosofi di nome Aristone risultano essere posteriori o parzialmente contemporanei ai piu` recenti fatti ivi richiamati. I due piu` antichi e importanti filosofi con questo nome erano lo stoico Aristone di Chio e il peripatetico Aristone di Ceo, gli altri essendo vissuti Si veda DPhA, I, nn. 386-399, pp. 395-404. I piu` importanti filosofi peripatetici con questo nome erano Aristone il Giovane (dopo la meta` del II sec. a.C.), Aristone di Alessandria (seconda meta` del I sec. a.C.), Aristone di Ceo (floruit: 225 a.C.), Aristone di Coo (II-I sec. a.C.). 3 Il riferimento storico piu ` recente e` la defezione dell’esercito macedone da Demetrio Poliorcete a favore di Pirro, collocabile nel 288 a.C. Cfr. Comm. a 13 28-31. Esso rappresenta dunque il terminus post quem per la datazione dello scritto. 1

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PARTE SECONDA

tutti in epoche abbastanza piu` tarde e comunque mai prima della meta` del II sec. a.C.. Ora, e` certamente ipotizzabile che anche uno dei personaggi con questo nome successivi ai due Aristone piu` celebri possa essere stato l’autore a cui si riferisce Filodemo, ma rimane comunque alta la probabilita` che, per la vicinanza o parziale simultaneita` ai fatti storici menzionati, egli debba essere identificato con uno dei due filosofi piu` antichi a cui si e` fatto riferimento. Se infatti autore dello scritto fosse stato un filosofo vissuto in epoca successiva, sarebbe ragionevole pensare che egli avesse voluto includere nello scritto riferimenti anche a fatti cronologicamente a lui piu` vicini. Pertanto, non si possono biasimare gli studiosi se da sempre hanno limitato il campo della discussione ai due Aristone piu` importanti. Se poi si volesse fare un confronto tra questi due filosofi, la cronologia dell’opuscolo risulterebbe adattarsi meglio alla biografia di Aristone di Chio che a quella del suo omonimo di Ceo.4 E` chiaro, tuttavia, che questo tipo di ragionamento non puo` essere considerato in alcun modo conclusivo. Esso non puo` fornire altro che un’indicazione puramente orientativa. E` cosı` che nei prossimi capitoli si tentera` di affrontare il problema dell’attribuzione da molteplici angolazioni, per vedere se non sia possibile individuare argomenti significativi che contribuiscano a sbloccare l’attuale empasse della discussione. Alcuni di quelli avanzati in passato, come il carattere epistolare dello scritto, erano stati tacitamente accantonati sulla base di scelte testuali unilaterali, altri erano stati ingiustamente assolutizzati. E` il caso del confronto con la tradizione peripatetica e con i Caratteri di Teofrasto, che e` stato apoditticamente ritenuto argomento decisivo a favore di Aristone di Ceo, ma che in realta`, come vedremo, non possiede la cogenza che gli e` stata attribuita. Altri ancora, o non erano stati tenuti nella debita considerazione o non erano stati sviscerati in modo esaustivo. Altri argomenti, infine, non erano stati mai affrontati e vengono qui proposti per la prima volta. Mancava poi un tentativo di comprensione globale dei generi filosofici e letterari coinvolti nel De liberando a superbia, del metodo ivi impiegato e dei suoi obiettivi, da cui si possono ricavare importanti informazioni sulla paternita` dell’opuscolo. Decisivo e` inoltre l’esame del lessico filosofico perche´, se si dimostra che nello scritto vi sono tracce di dottrine e argomentazioni tipiche di una piuttosto che di un’altra corrente filosofica, il ventaglio delle possibili ipotesi si riduce considerevolmente. E` quanto verra` gradualmente alla luce nei prossimi capitoli. 4 Si veda, per questo argomento C. GALLAVOTTI , Teofrasto e Aristone cit., p. 478 sg., e infra, p. 92 sg.

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1.1. Importanza e fortuna di Aristone di Chio Aristone di Chio, detto ‘il Calvo’, filosofo stoico discepolo di Zenone, dal quale in seguito si distacco`, visse almeno fino al 255 a.C. se, come afferma la Suda, il suo discepolo Eratostene nacque durante la CXXVI olimpiade (276-272 a.C.).5 Impartı` lezioni nel Cinosarge, ad Atene, dove rimase celebre per le sue doti di persuasione ed eloquenza, per le quali fu anche soprannominato ‘Sirena’. Egli puo` essere considerato, nella Stoa, il filosofo di piu` grande prestigio tra la morte di Zenone e lo scolarcato di Crisippo e, secondo Eratostene, il pensatore di piu` grande rilievo del suo tempo insieme ad Arcesilao, con il quale peraltro polemizzo` vivacemente.6 La forte personalita` e l’originalita` del suo pensiero fecero sı` che si formasse attorno a lui una nutrita cerchia di discepoli, che si facevano chiamare ‘Aristonei’. Tra di essi furono anche, come si e` detto, Eratostene ed Apollofane, che gli dedicarono entrambi uno scritto (cuvggramma) intitolato Ariv j ctwn.7 Morı` in tarda eta` colpito, secondo Diogene Laerzio (VII 164), da un’insolazione. Profondamente influenzato dal socratismo e, piu` di ogni altro stoico, dal Cinismo, si interesso` esclusivamente di filosofia morale, considerando lo studio della logica e della fisica inutile o dannoso. In effetti, come il maestro Zenone anche Aristone condivideva il principio socratico e cinico dell’autosufficienza (aujtavrkeia) della virtu`, da quello interpretato come «vivere coerentemente (oJmologoumevnwc)», ma egli lo intendeva nel senso di «vivere indifferentemente (ajdiafovrwc)» verso tutti i beni intermedi tra la virtu` e il vizio. E` la teoria dell’assoluta indifferenza (ajdiaforiva) del saggio verso i beni esterni nonche´ il cardine dell’insegnamento aristoneo. Unico sommo bene e` la virtu` e unico male il vizio, le cose intermedie avendo un semplice valore di circostanza che dipende dal giudizio del saggio. Una volta impadronitosi di tale fondamentale criterio il sapiente, secondo Aristone, sa come comportarsi in ogni situazione della vita, applicando i principi fondamentali della filosofia al mutevole panorama degli eventi che costituiscono la multiforme esistenza umana. E` per questo che Aristone negava ogni validita` alla precettistica e, in ambito poSi veda CH. GUE´RARD, Ariston de Chios, in DPhA, I, n. 397, p. 403. Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 12. 7 Cfr. ATHEN. VII 281 C -D (fr. 341 SVF I). Per il primo si veda K. GEUS, Eratosthenes von Kyrene. Studien zur hellenistischen Kultur- und Wissenschaftsgeschichte, Mu¨nchen, C.H. Beck 2002 («Mu¨nchener Beitra¨ge zur Papyrusforschung und antiken Rechtsgeschichte», 92), pp. 68-73, e, per il secondo, F. LONGO AURICCHIO, Lo stoico Apollofane nei papiri ercolanesi, «RAAN», XLI, (1966), pp. 263-270; CH. GUE´RARD, Apollophane`s d’Antioche, in DPhA, I, 291, p. 296 sg. 5

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PARTE SECONDA

litico-sociale, alle leggi. Inoltre, allo scopo di difendere l’insegnamento di Zenone dagli attacchi esterni alla Scuola, egli polemizzo` aspramente con Arcesilao e con i Megarici, che ne avevano messo in discussione i capisaldi. La sistematica demolizione a cui fu sottoposto il suo pensiero, e in particolare il suo rigorismo morale, da parte di Crisippo, che lo attacco` duramente, gli procuro` l’accusa di eterodossia, che nello Stoicismo successivo peso` sulla sua fortuna come una sorta di marchio infamante. Tale accusa, dalla quale rimase inesorabilmente segnato a motivo dell’immenso prestigio di cui godette Crisippo all’interno della Stoa, e` stata acriticamente condivisa dalla storiografia moderna fino alla monografia di Anna Maria Ioppolo,8 dalla quale il filosofo di Chio emerge sempre piu` come una figura del tutto degna di essere accostata, per la sua importanza, alla tradizionale triade dello Stoicismo antico. Anzi, grazie alla testimonianza di Aristone la fase piu` antica della speculazione stoica viene a mostrarsi molto piu` legata alle radici socratiche e ciniche di quanto non fosse stato rilevato in precedenza. In particolare, e` stata proiettata nuova luce sulla dottrina di Zenone e sul suo rapporto con quella di Crisippo, che scopriamo distare da essa in misura forse maggiore dell’‘eterodosso’ Aristone. In altri termini, non si puo` parlare di eterodossia finche´ non si stabilisce quale fosse, prima di Crisippo, l’ortodossia stoica dalla quale il filosofo di Chio fu accusato di essersi distanziato.9 Diogene Laerzio (VII 163) gli attribuiva le seguenti opere: 1) Protreptikw=n b v, 2) Peri; tw=n Zhvnwnoc dogmavtwn, 3) Diavlogoi, 4) Ccolw=n ı` ,v 5) Peri; cofivac, 6) Diatribw=n z v,10 7) jErwtikai; diatribaiv, 8) JUpomnhvmata j twn g ,v 11) Creiw=n uJpe;r kenodoxivac, 9) JUpomnhmavtwn ke ,v 10) Apomnhmoneumav ia ,v 12) Pro;c tou;c rJhvtorac, 13) Pro;c ta;c Alexiv j nou ajntigrafavc, 14) Pro;c tou;c dialektikou;c g ,v 15) Pro;c Kleavnqhn ejpictolwn= d .v 11 Tuttavia, subito dopo Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 12. Cfr. ibid. 10 Seguo H.G. HUEBNER (ed.), Diogenis Laertii De vitis, dogmatis et apophthegmatibus clarorum philosophorum libri decem, Lipsiae, Koehler 1828-1831, che separava Peri; cofivac da Diatribw=n z v. Si vedano anche A. GERCKE, Ariston cit., p. 216, e CH. GUE´RARD, Ariston de Chios, in DPhA, I, n. 397, p. 403. 11 Seguo TH . GOMPERZ, U ¨ber die Charaktere Theophrasts, Wien, Tempsky 1889 («Sitzungs¨ sterreichischen Academie der Wissenschaften in Wien, Philosophisch-historische berichte der O Classe», 117, 10), p. 17; R. HIRZEL, Der Dialog, Leipzig, Hirzel 1895, I, p. 357; C. GALLAVOTTI, Teofrasto e Aristone cit., p. 474 e nota 1; N. FESTA (ed.), I frammenti degli Stoici antichi, Bari, Laterza 1932, II, p. 3, e A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 50 e nota 46, i quali sulla scorta dell’editore Hicks (Diogenes Laertius, Lives of the Eminent Philosophers, with an English Translation, Cambridge Mass.-London, Loeb 1925), considerano Pro;c Kleavnqhn ed jEpictolw=n d v un’unica opera. Li separano invece H. VON ARNIM (ed.), Stoicorum Veterum Fragmenta, I cit., p. 75; F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 50, e gli editori piu` recenti di Diogene Laerzio. Si veda, ad es., M. MARCOVICH (ed.), Diogenis Laertii Vitae philosophorum, I: Libri I-X, Stutgardiae et Lipsiae, Teubner 1999, p. 541. 8 9

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aver riportato il catalogo, egli aggiungeva: «Panezio e Sosicrate gli attribuiscono le sole lettere e assegnano le altre opere ad Aristone Peripatetico».12 Ma su tale giudizio sono state mosse in diversi tempi giustificate riserve e sembra ormai consolidata la tendenza della critica a negargli ogni credito. Del resto alla critica filologica di Panezio non erano alieni anche altri eccessi, come l’atetesi della Politeia di Zenone di Cizio e i giudizi che negavano l’autenticita` ad alcuni scritti socratici 13 e al Fedone platonico. Come e` stato correttamente affermato, in lui la filologia fu profondamente influenzata dai prevalenti interessi filosofici.14 Quanto a Sosicrate di Rodi, di lui e` noto l’ipercriticismo con cui affermava che anche Aristippo e Diogene Cinico, autori a cui fonti indipendenti attribuiscono svariate opere e di cui e` stato dimostrato con certezza che ebbero una produzione scritta, non avrebbero lasciato alcun libro. Per cui, cosı` come i suoi giudizi sui cataloghi relativi a questi due filosofi sono stati giustamente rigettati dalla critica, analogamente si deve fare nel caso di Aristone di Chio.15 Cio` non ha tuttavia impedito ad alcuni studiosi di pensare che al tempo in cui visse Panezio le singole opere del catalogo fossero oggetto di un vero dibattito e di discuterne caso per caso la paternita` sulla base di eventuali richiami a interessi e tradizioni di scuola o ad argomenti sicuramente attestati per l’uno o per l’altro filosofo, con il risultato che almeno alcune di 12 Panaiv tioc de; kai; C wcikravthc mov nac auj tou ta;c ej pictolavc faci, ta; d’ a[lla tou = = Peripathtikou= jArivctwnoc.

13 Secondo Diogene Laerzio (II 64), egli riconosceva l’autenticita ` dei soli scritti socratici di Platone, Senofonte, Antistene ed Eschine e si esprimeva con perplessita` circa quelli di Fedone e di Euclide. Si veda G. GIANNANTONI (ed.), Socratis et Socraticorum cit., IV, pp. 155-158. Si e` discusso sul valore da attribuire all’aggettivo ajlhqeic= impiegato da Panezio in riferimento a tali scritti, il quale, secondo E. ZELLER, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, II 1: Sokrates und die Sokratiker. Plato und die alte Akademie, Leipzig, Reisland 19225, p. 344, puo` significare tanto ‘autentici’ quanto ‘degni di fede’. Ma contro questa seconda interpretazione si sono schierati M. POHLENZ, Panaivtioc (n. 5), RE, XVIII 3, 1949, col. 428, e K. DO¨RING, Die Megariker. Kommentierte Sammlung der Testimonien, Amsterdam, Gru¨ner 1972, p. 79 nota 2. 14 Si veda G. GIANNANTONI (ed.), Socratis et Socraticorum cit., IV, p. 157. 15 Si vedano, per Aristippo, D IOG . LAE¨RT. II 83-85 (IV A 144 SSR), e R. GIANNATTASIO ANDRIA (ed.), I frammenti delle ‘‘Successioni dei filosofi’’, Napoli, Arte tipografica 1989 («Quaderni del Dipartimento di Scienze dell’Antichita`», 5), pp. 99-104; G. GIANNANTONI (ed.), Socratis et Socraticorum cit., IV, pp. 155-157, e, per Diogene, DIOG. LAE¨RT. VI 80 (V B 117 SSR), e E. ZELLER, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, II 1 cit., p. 283 nota 1; P. NATORP, Diogenes, RE, V 1, 1903, col. 768 sg.; F. DU¨MMLER, Antisthenica, Diss. Halis, Hendel 1882, pp. 64-67 = Kleine Schriften, Leipzig, Hirzel 1901, I, p. 67 sg. (d’ora in poi mi riferiro` solo a questi ultimi); E. WEBER, De Dione Chrysostomo Cynicorum sectatore, «Leipziger Studien zur classischen Philologie», X, 1887, p. 82 sg.; p. 147; p. 153 sg. passim; K. VON FRITZ, Quellen-Untersuchungen zur Leben und Philosophie des Diogenes von Sinope, «Philologus», Suppl. XVIII 2, 1926, pp. 54-60; G. GIANNANTONI (ed.), Socratis et Socraticorum cit., IV, pp. 461463. Sulle atetesi di Sosicrate si veda ora S. SCHORN (Hrsg.), op. cit., pp. 152-157, e infra, p. 79.

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esse sono state assegnate ad Aristone di Ceo.16 Ma, come vedremo subito, questo modo di ragionare e` fondato su un fraintendimento della testimonianza paneziana, giacche´ si da per scontato che l’atetesi del filosofo stoico rispecchiasse il pensiero dei suoi contemporanei sull’argomento.17 Non e` mia intenzione entrare ora nella discussione relativa ai singoli titoli, in quanto tale lavoro e` stato gia` effettuato in passato con importanti risultati.18 Quello su cui invece vorrei attirare l’attenzione e` il fatto che, come e` stato recentemente messo in rilievo, non sembra metodologicamente corretto isolare le singole opere dal contesto del catalogo e discuterne la paternita` in modo separato e indipendente da quella di tutte le altre.19 Dobbiamo infatti supporre che Diogene reperisse l’elenco degli scritti di Aristone di Chio in una biografia di quest’ultimo, mentre, per quel che ne sappiamo, esso non trovo` mai posto nella tradizione di Aristone di Ceo, di cui lo stesso Diogene non riporta neppure la vita.20 Per di piu` e` assai probabile che il catalogo, cosı` come e` giunto fino a noi, sia stato compilato per intero da quegli stessi che redassero le vite e gli elenchi delle opere di Zenone, Cleante, Crisippo e degli altri Stoici antichi e, in ogni caso, esso doveva essere anteriore a Panezio e Sosicrate, i quali lo ricevettero dalla tradizione stoica a loro precedente. Questo significa che il catalogo fu redatto in una fase non troppo distante dal periodo in cui visse e insegno` Aristone di Chio (non piu` di un secolo dalla sua morte) e non vi sono pertanto validi motivi per dubitare della sua attendibilita`. E` in effetti altamente improbabile che gia` a partire da un’epoca cosı` alta si facesse confusione tra i due Aristone e che cio` avesse luogo nientemeno che all’interno della stessa scuola stoica, dove l’accesa polemica tra Aristone di Chio e Crisippo, nonostante la condanna di quello da parte di questo, doveva aver lasciato una profonda impressione nella memoria delle generazioni immediatamente successive. Inoltre noi sappiaSi veda, da ultimo, F. WEHRLI, Ariston aus Keos cit., p. 616 sg. Si veda D.E. HAHM, In Search of Aristo of Ceos, in W.W. FORTENBAUGH-S.A. WHITE (eds.), op. cit., p. 194. 18 Si vedano soprattutto A.M. IOPPOLO , Aristone di Chio cit., pp. 39-55; D. TSEKOURAKIS , art. cit., pp. 239-242; F. ALESSE (ed.), Panezio di Rodi, Testimonianze, Napoli, Bibliopolis 1997 («Elenchos. Collana di testi e studi sul pensiero antico», 27), pp. 291-294. L’unico tentativo sistematico di dimostrare, titolo per titolo, la presunta veridicita` dell’atetesi paneziana fu quello di H.G. HUBMANN, Ariston von Keos der Peripatetiker. Eine historisch-kritische Zusammenstellung aus Bruchstu¨cken des Altertums, «JPhP», Suppl. III, 1835, pp. 102-126, il quale si valse di argomenti del tutto inconsistenti o contrari all’evidenza. Si veda M. LANCIA, Aristone di Ceo e Bione di Boristene, «Elenchos», I, 1980, p. 278 nota 5. 19 Si veda D.E. HAHM , In Search of Aristo cit., p. 198. 20 Cfr. ibid. 16

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mo che la confusione tra i due filosofi e` un fenomeno che non riguardo` l’epoca ellenistica e nemmeno la prima eta` imperiale, poiche´ Cicerone e Seneca, Plutarco e Diogene Laerzio erano ancora in grado di distinguere perfettamente tra i due personaggi. Essa inizio` probabilmente a partire dall’epoca tardo-antica, quando cominciarono a circolare compendi e raccolte di sentenze sotto il generico nome di Aristone.21 Cio` e` sufficiente a escludere l’ipotesi secondo la quale l’atetesi sarebbe conseguenza di un semplice errore di omonimia imputabile agli stessi Panezio e Sosicrate.22 Il primo, infatti, contestava una tradizione gia` consolidata e fino allora indiscussa, mentre sul ruolo giocato dal peripatetico Sosicrate, un oscuro scrittore di successioni, non e` possibile dire granche´.23 Che le opere contenute nel catalogo vadano prese in blocco e attribuite tutte senza eccezioni a un medesimo autore e` dimostrato anche dal fatto che con la loro atetesi Panezio e Sosicrate non entravano di fatto nel merito di ciascuna opera, ma fornivano un giudizio di valore generale sul catalogo in quanto tale togliendolo in blocco al filosofo stoico e attribuendolo in toto al filosofo peripatetico. Nulla fa pensare che essi lo considerassero alla stregua di una commistione di titoli appartenenti ad autori differenti.24 L’alternativa da loro proposta e` infatti quella di pensare che Aristone di Chio non avesse scritto alcunche´ (eccetto una collezione di lettere) ed e` anzi proprio da questo giudizio che dipende certamente l’affermazione di Diogene contenuta nel proemio delle Vite, secondo cui lo stoico Aristone andrebbe annoverato tra quei filosofi che non lasciarono nulla di scritto.25 E` stato legittimamente rimarcato che la presenza di numerosi e talora estesi resoconti dossografici assegnabili con sicurezza ad Aristone di Chio in Cicerone, Seneca, Sesto, Plutarco ed Eusebio di Cesarea impedisce di pensare che egli non avesse scritto opere destinate alla pubblicazione.26 Come sappiamo, l’unica opera risparmiata da Panezio e Sosicrate era rappresentata dalle Lettere a Cleante (Pro;c Kleavnqhn ejpictolw=n d v). La di21 Si vedano L. ALFONSI , Su Aristone di Ceo, «Aevum», XXXI, 1957, p. 367, e D.E. HAHM, In Search of Aristo cit., p. 211: «Throughout this entire time there is no evidence of any confusion between the two Aristos in the minds of any readers who knew them». 22 Cosı` pensava F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 50 sg. 23 Cfr. infra, p. 79. 24 Si veda D.E. HAHM , In Search of Aristo cit., p. 198. 25 Cfr. DIOG . LAE¨ RT . prooem. 16 (fr. 333 SVF I): kai; oiJ me;n aujtwn katevlipon uJpomnhvmata, oiJ = d’o{lwc ouj cunevgrayan, w{cper katav tinac Cwkravthc, Ctivlpwn, Fivlippoc, Menevdhmoc, Puvrrwn, Qeovdwroc, Karneavdhc, Bruvcwn: katav tinac Puqagovrac, jArivctwn oJ Cio= c, plh;n ejpictolwn= ojlivgwn. L’espressione katav tinac si riferisce, nel caso di Aristone di Chio, a Panezio e Sosicrate. 26 Si veda D.E. HAHM , In Search of Aristo cit., p. 199.

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stinzione tra la prima e la seconda parte del titolo, come se si trattasse di due opere differenti, risale a una congettura di Hans von Arnim e, benche´ essa sia accettata ancora oggi da molti studiosi, non e` a mio parere condivisibile. Se infatti separiamo Pro;c Kleavnqhn da jEpictolw=n d v, cambia il significato da assegnare a provc: non piu` a Cleante, bensı` Contro Cleante, giacche´ non avrebbe senso pensare a un’opera intitolata senza ulteriori precisazioni A Cleante. Nei titoli delle opere degli autori antichi la preposizione provc puo` avere quest’ultimo significato solo quando ci si riferisca al dedicatario di un’opera o al destinatario di una lettera o raccolta di lettere e quindi presuppone o sottintende sempre un’espressione, come ad esempio ejpictolaiv, che l’accompagni. Quando invece essa non e` preceduta o seguita da espressioni del genere, il significato e` generalmente ‘contro’ e serve a designare opere polemiche scritte contro qualcuno, come si puo` evincere ad esempio da alcuni titoli dello stesso catalogo aristoneo, quali Pro;c tou;c rJhvtorac, Pro;c ta;c Alexiv j nou ajntigrafavc, Pro;c tou;c dialektikou;c g v.27 Ora, pero`, noi sappiamo dalle nostre fonti che, nonostante le divergenze dottrinali, Cleante e Aristone di Chio erano in rapporti di stretta amicizia, al punto di avere in comune i discepoli.28 Non e` dunque ragionevole pensare che questi decidesse di scrivere un’opera polemica contro il condiscepolo e amico sfidandolo pubblicamente in modo analogo a come aveva fatto contro i dialettici e i retori e contro Alessino, cioe` a dire contro i suoi peggiori nemici. Al contrario, il rapporto di amicizia tra i due filosofi doveva incoraggiare, oltre alla condivisione dei discepoli, anche un fitto scambio epistolare. E` noto, infatti, che l’amicizia disinteressata tra l’autore e il destinatario era considerato il requisito fondamentale di questo genere letterario.29 Ma vi e` un argomento ancora piu` decisivo. Come si deve spiegare l’eccezione fatta riguardo alle lettere rispetto alle altre opere contenute nel catalogo, se non con il fatto che esse erano rivolte a Cleante, circostanza che consentiva anche al lettore piu` disattento di avvedersi dell’impronta stoica della raccolta e della sua appartenenza alle opere di Aristone di Chio? 30 La conclusione che ne discende e` intuitiva: i due filosofi leggevano nel catalogo, non semplicemente jEpictolw=n d ,v ma Pro;c Kleavnqhn ejpictolw=n d v e questo doveva essere dunque il titolo completo dell’opera. 27 Si veda anche D. O BBINK , Hermarchus, Against Empedocles, «CQ», XXXVIII, 1988, pp. 428-435. 28 Cfr. THEMIST . or. 21, 255 B (fr. 334 SVF I): hjcpavzeto jArivctwn Kleavnqhn kai; twn oJmilhtwn = = ejkoinwvnei, e A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 25. 29 Cfr. supra, p. 48 sg. 30 L’unico studioso a mia conoscenza che abbia messo in rilievo questo argomento e ` stato C. GALLAVOTTI, Teofrasto e Aristone cit., p. 474 nota 1.

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Ebbene, come abbiamo detto, se si fa eccezione per le Lettere a Cleante, quello espresso da Panezio e Sosicrate non rappresenta un giudizio di merito che scaturisce dall’esame delle singole opere, ma una valutazione complessiva che procede da considerazioni di altro genere. Ora, se e` vero questo e se e` vero pure che essi ricevettero il catalogo, tale e quale noi lo possediamo, dalla tradizione orale o scritta tramandata all’interno della scuola stoica, non e` ammissibile disgiungere il giudizio sulla singola opera da quello espresso sul catalogo nel suo complesso. Pertanto sara` sufficiente verificare che una o piu` opere sono riconducibili a temi e interessi tipici dell’uno piuttosto che dell’altro indirizzo filosofico per concludere in via definitiva che anche le altre appartenevano al medesimo indirizzo. Ma scritti come quello Sulla dottrina di Zenone o come quelli Contro i dialettici e Contro le obiezioni di Alessino sono sicuramente identificabili come stoici o richiamano apertamente la posizione filosofica di Aristone di Chio e come tali sono stati pacificamente riconosciuti dagli studiosi.31 E` dunque evidente che il catalogo in quanto tale e quindi anche il resto delle opere ivi contenute devono essere rivendicati in blocco al filosofo di Chio. Ma qual e` allora il senso da attribuire all’operazione compiuta dall’autorevole esponente della Stoa di mezzo? A tale quesito sono state offerte diverse risposte. Abbiamo visto che l’errore di omonimia non puo` essere invocato come possibile spiegazione, giacche´ Panezio e Sosicrate dovevano ancora distinguere perfettamente i due personaggi.32 Non persuade sino in fondo nemmeno la spiegazione avanzata da von Arnim il quale riteneva che le parole aggiunte da Diogene subito dopo la menzione del catalogo (Panaivtioc de; kai; Cwcikravthc movnac aujtou= ta;c ejpictolavc faci, ta; d’a[lla tou= Peripathtikou= jArivctwnoc) non si riferissero alle opere nominate immediatamente prima, ma ad altri scritti che circolavano sotto il nome di Aristone.33 Se cosı` fosse, allora non si spiegherebbe l’altra affermazione riportata nel proemio delle Vite (16) secondo la quale Aristone di Chio non avrebbe lasciato nulla di scritto, valutazione che, come abbiamo visto, Si vedano H. VON ARNIM (ed.), Stoicorum Veterum Fragmenta, I cit., p. 75; A.M. IOPAristone di Chio cit., pp. 39-55. L’unica parziale eccezione e` rappresentata, oltre che da H.G. HUBMANN, art. cit., di cui pero` si e` gia` rilevata la tendenziosita`, da A. GERCKE, Ariston cit., p. 216, che riteneva di poter attribuire il Pro;c tou;c dialektikou;c g v ad Aristone di Ceo sulla base del confronto con la dottrina contenuta negli oJmoiwvmata, i quali pero` sono ora universalmente riconosciuti al filosofo stoico. 32 Cfr. supra, p. 72 sg. 33 Si veda H. VON ARNIM (ed.), Stoicorum Veterum Fragmenta, I cit., p. 75: verba ta; d’a[lla tou= Peripathtikou= jArivctwnoc, si omnino a Panaetio vel Sosicrate profecta sunt, certe non referenda sunt ad catalogum qui antecedit, seguito da N. FESTA (ed.), op. cit., II, p. 4 nota 50. 31

POLO,

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non puo` che dipendere dalla notizia dell’atetesi di Panezio e Sosicrate. Per superare questa difficolta` lo studioso tedesco ipotizzava che, per le loro caratteristiche, i titoli elencati nel catalogo fossero compatibili con la presunta oralita` dell’insegnamento aristoneo e che le opere corrispondenti fossero tali da poter essere state tutte da lui affidate al mezzo epistolare.34 Ma allora non vi e` modo di negare che il giudizio dei due filosofi si riferisse proprio alle opere immediatamente precedenti alle lettere e si ritorna cosı` al punto di partenza. A cio` si aggiunga che molti titoli sembrano concepiti, piu` che per la trasmissione orale, per la pubblicazione scritta, come si desume anche dall’analogia con i titoli di opere attribuite ad altri Stoici antichi delle quali sappiamo per certo che furono pubblicate. L’ipotesi piu` accreditata e` invece quella secondo cui con l’atetesi delle opere autentiche di Aristone di Chio Panezio intendesse distanziarsi dalla forte impronta cinica che le permeava. E` nota l’avversione che alcuni filosofi stoici nel II sec. a.C. mostrarono verso il Cinismo e l’imbarazzo che essi provavano nel dover giustificare di fronte alle scuole rivali e ai benpensanti della loro epoca l’importante influsso cinico presente nella fase piu` antica della storia della Stoa. Tra di essi figurava in primo luogo proprio Panezio il quale, esponente di uno Stoicismo moderato e accessibile ai piu`, deplorava l’atteggiamento filo-cinico di alcuni Stoici suoi contemporanei, fra cui vanno annoverati molto probabilmente Zenodoto e Apollodoro di Seleucia, entrambi discepoli, come lui, di Diogene di Babilonia. Costoro ammettevano la possibilita` di un ritorno alla «filosofia stoica piu` virile» (ajndrwdectavth ctwikhv o a[rchn lovgoc) o «via breve (cuvntomoc oJdovc) alla virtu`», che essi collocavano nella fase piu` antica della storia della Stoa identificandola con l’originaria posizione filosofica di Zenone e facendola risalire fino ad Antistene attraverso la cosiddetta successione cinico-stoica.35 34 Si veda H. VON ARNIM (ed.), Stoicorum Veterum Fragmenta, I cit., p. 75 sg.: Qui (sc. catalogus) cum scholas, diatribas, hypomnemata, apomnemoneumata, chrias contineat, valde accommodatus est ei philosopho, qui scribendo fere abstineret. Nam haec omnia an aliis probabile est litteris mandata esse. 35 Su Zenodoto si veda DIOG . LAE¨ RT . VII 30, e K. NICKAU , Zenodotos von Ephesos (n. 6), RE, X A, 1972, col. 49, il quale lo identifica con Zenodoto di Mallo, discepolo del grammatico Cratete; per Apollodoro di Seleucia, APOLLOD. SEL. frr. 1-18 SVF III, e, in particolare, DIOG. LAE¨RT. VII 121 e VII 129 (frr. 17 e 18 SVF III). Si vedano inoltre J. MANSFELD, Diogenes Laertius on Stoic Philosophy, in G. GIANNANTONI (ed.), Diogene Laerzio storico del pensiero antico, «Elenchos», VII, 1986, pp. 347-351; D.E. HAHM, Diogenes Laertius VII: On the Stoics, in ANRW, II 36, 6, 1992, pp. 4088-4105; F. ALESSE, La Stoa e la tradizione Socratica, Napoli, Bibliopolis 2000 («Elenchos. Collana di testi e studi sul pensiero antico», 30), pp. 55-61, e M.-O. GOULET-CAZE´, Les Kynika du stoı¨cisme, Stuttgart, Steiner 2003 («Hermes Einzelschriften», 89), pp. 137-181.

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Ora Panezio e quegli Stoici che con lui condividevano l’ostilita` verso il Cinismo e la contestuale apertura a istanze platoniche e aristoteliche, escogitarono diverse strategie per dissociarsi dal primitivo kunicmovc della Scuola. Una di queste consisteva nell’espunzione dei passaggi piu` imbarazzanti contenuti nei primi scritti zenoniani. E` emblematico il caso di Atenodoro, il quale sorpreso ad effettuare tale operazione in alcuni libri della biblioteca di Pergamo, fu costretto a ripristinare i passi eliminati.36 Ma il metodo piu` drastico era quello di negare tout court la paternita` stoica delle opere interessate. Ad esso fece ricorso Panezio nell’atetizzare senza mezzi termini la Politeia di Zenone di Cizio, che proprio per la profonda influenza cinica e per alcune tesi scabrose in essa contenute, fu utilizzata in chiave polemica dalle scuole avversarie. Ebbene, vi sono fondati motivi per ritenere che nel caso delle opere di Aristone di Chio ci troviamo di fronte a un’operazione del tutto analoga e, anzi, ancor piu` radicale.37 La contestuale attribuzione del catalogo ad Aristone di Ceo, poi, e` facilmente spiegabile con il fatto che questi era, accanto al suo omonimo stoico, il piu` noto filosofo di quel periodo con questo nome.38 Contro tale ipotesi e` stato obiettato che in realta` dopo la confutazione di Aristone di Chio da parte di Crisippo e la sua demonizzazione come eterodosso, Panezio non poteva avere alcun interesse a dissimulare la forte matrice cinica presente negli scritti del filosofo di Chio. Se infatti bisogna prestare fede alla testimonianza di Cicerone (de fin. II 43) secondo la quale, dopo la polemica con Crisippo, nessuno all’interno della scuola stoica si interesso` piu` alle sue dottrine, neanche per criticarle, e` del tutto fuori luogo la vis emendatoria di Panezio.39 Si e` tentato di superare tale obiezione ipotizzando una velata simpatia dello stesso Panezio per Aristone di Chio a motivo della di lui ostilita` per Crisippo, che sarebbe il vero bersaglio polemico del filosofo di Rodi. Appropriandosi di alcune tesi di Aristone e depurandole dagli atteggiamenti piu` estremistici e cinicheggianti, Panezio avrebbe in realta` affondato pesanti colpi al suo principale nemico.40 Tale 36 Cfr. DIOG . LAE¨RT. VII 34, e J. MANSFELD, art. cit., p. 344 sg.; M. SCHOFIELD, The Stoic Idea of the City, Chicago-London, Chicago Univ. 19992, pp. 8-13. 37 Si veda anche D.E. HAHM, In Search of Aristo cit., pp. 194-198. 38 Si veda F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 50 sg. 39 Si vedano F. SUSEMIHL, Geschichte der griechischen Literatur in der Alexandrinerzeit, Leipzig, Teubner 1891-1892, I, p. 66 nota 248; B. TATAKIS, Pane´tius de Rhodes le fondateur du moyen Stoı¨cisme, sa vie et son œuvre, Paris, Vrin 1931, p. 69; F. ALESSE (ed.), Panezio di Rodi cit., p. 292. 40 Si vedano A. D YROFF , Die Ethik der alten Stoa, Berlin, Calvary 1897, p. 359, e A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 54 sg.

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ipotesi non e` da rigettare a priori ne´ risulta sufficiente a smontarla sino in fondo l’osservazione secondo la quale le profonde divergenze dottrinali con il filosofo di Chio renderebbero improbabile qualunque interesse di Panezio verso di lui.41 La posizione filosofica di Panezio e Posidonio, infatti, non distava probabilmente da quella di Aristone piu` di quanto non distasse dalla filosofia di Crisippo, che entrambi si proposero di contrastare e che essi riformarono in piu` punti. Basti pensare all’importante svolta impressa da Posidonio in campo antropologico, gnoseologico e morale, la cui portata fu probabilmente piu` rivoluzionaria della cosiddetta eterodossia di Aristone. Per confortare questa ipotesi manca tuttavia la conferma esplicita delle fonti ed essa e` pertanto destinata a rimanere non piu` di una congettura. In realta` la difficolta` a cui si tenta di dare una risposta e` solo apparente ed e` possibile aggirarla senza dover invocare una ‘simpatia’ dell’uno per l’altro filosofo. E` sufficiente considerare che, benche´ sia innegabile che dopo la condanna di Crisippo nessuno aveva interesse a difendere Aristone di Chio, rimaneva il fatto, difficilmente contestabile storicamente, che egli era stato uno dei primi discepoli del fondatore, di cui non aveva fatto altro che difendere le tesi originarie e, per cosı` dire, piu` impresentabili del suo pensiero, estremizzandone il significato. Per questo motivo Aristone doveva essere visto come un vero provocatore agli occhi dei contemporanei di Panezio. Se dunque questi arrivo` fino all’estremo di negare al fondatore della Scuola la paternita` di un’opera come la Politeia, non avra` avuto maggiore esitazione ad atetizzare le opere autentiche di Aristone di Chio, i cui titoli costituivano una prova imbarazzante dell’importante contributo offerto dal cinicheggiante Aristone alla primitiva speculazione stoica. Ne´ va dimenticato che egli si era sempre dichiarato genuinamente stoico e fedele all’originario pensiero di Zenone, anche dopo il distacco da quest’ultimo, respingendo le accuse di distanziamento dalla Scuola che gia` durante la sua vita gli venivano rivolte. Questa circostanza offriva agli avversari degli Stoici nel II sec. a.C. un ulteriore appiglio per denunciare polemicamente che la via cinica era all’origine della piu` antica filosofia stoica. La motivazione dell’operazione filologica di Panezio va dunque ricercata piu` che altro nella preoccupazione di difendere la scuola dagli attacchi ad essa esterni. Quanto a Sosicrate, e` stata asserita la sua sostanziale dipen41 Si veda F. ALESSE (ed.), Panezio di Rodi cit., p. 292 sg., la quale invoca come argomenti pesanti contro tale ipotesi la revisione della dottrina dell’autosufficienza della virtu` e la definizione della prudenza (frovnhcic) come eu{rhcic tou= kaqhvkontoc da parte di Panezio.

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denza da Panezio su questo punto e si e` inoltre affermato che si rifarebbe anch’egli a una tradizione ostile al Cinismo.42 Ma gli studi piu` recenti hanno dimostrato, contro la prima affermazione, che Sosicrate, vissuto presumibilmente nella prima meta` del II sec. a.C., era piu` anziano di Panezio (185/0-110/9 a.C.) e, contro la seconda, che nei resoconti biografici concernenti i filosofi cinici egli utilizzo` una tradizione aneddotica favorevole al Cinismo.43 La ragione che spinse Sosicrate ad atetizzare le opere incluse nel catalogo di Aristone di Chio va dunque individuata altrove e non e` probabilmente lontano dal vero chi ha ipotizzato che il filosofo peripatetico fosse mosso da motivazioni analoghe a quelle che lo indussero a negare l’autenticita` delle opere di Aristippo e di Diogene di Sinope.44 E` possibile, infatti, che anche nel caso del cinicheggiante Aristone di Chio egli abbia escluso una produzione scritta in quanto ritenuta incompatibile con lo stile di vita di un ammiratore del Cinismo 45 o, piu` probabilmente, perche´ giudicata in conflitto con il suo forte richiamo a Socrate che, come e` noto, non lascio` scritti.46 Comunque stiano le cose, nell’impossibilita` di precisarne l’esatto significato, il tentativo di negare l’autenticita` al catalogo delle opere di Aristone di Chio attribuendolo surrettiziamente al Peripatetico di Ceo, possiede scarso peso storiografico e acquista valore solo come testimonianza dell’atteggiamento assunto da alcuni stoici del II secolo nei riguardi dei loro piu` antichi predecessori. In quanto tale esso e` stato giustamente considerato come «un tentativo disperato privo della benche´ minima credibilita`».47 Come abbiamo visto, la dimostrazione dell’innegabile impronta stoica di diversi titoli o della loro congruenza con la posizione filosofica di Aristone 42 Si vedano F. DU ¨ber die Anlage der stoischen ¨ MMLER, op. cit., p. 69 nota 2; A. DYROFF, U bu¨cherkataloge, Wu¨rzburg, Bonites-Bauer 1896 («Programm des kaiserlichen neuen Gymnasiums zu Wu¨rzburg»), p. 33; TH. GOMPERZ, Pensatori Greci, trad. it., Firenze, La Nuova Italia 1933, II, p. 632 nota 1; R. GIANNATTASIO ANDRIA (ed.), op. cit., pp. 100-102. 43 Si veda S. SCHORN (Hrsg.), op. cit., p. 156 sg., il quale, per queste ragioni, pensa che sia Panezio a dipendere da Sosicrate, piuttosto che viceversa. La cronologia di Sosicrate e` stata stabilita da R. GIANNATTASIO ANDRIA (ed.), op. cit., pp. 73-75, alla quale si rimanda anche per la tradizione biografica relativa ai Cinici (ivi, p. 79). ` quanto ritiene S. SCHORN (Hrsg.), op. cit., p. 157. 44 E ` quanto pensa K. DO¨RING, art. cit., p. 286, a proposito dell’atetesi delle opere di 45 E Diogene. 46 Cosı` riteneva F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles. Texte und Kommentar, Suppl. II: Sotion, Basel-Stuttgart, Schwabe 1978, p. 39, riguardo sia ad Aristippo che a Diogene. 47 D.E. HAHM , In Search of Aristo cit., p. 199: «Panaetius’ denial of the Stoic Aristo’s authorship of the works attributed to him can be regarded as a counsel of desperation, lacking even a modicum of credibility».

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di Chio costituisce una prova evidente che il catalogo nella sua totalita` va rivendicato a quest’ultimo, anche quando la maggiore genericita` di altri titoli sembra renderli a prima vista compatibili con interessi comuni alla tradizione peripatetica o con argomenti trattati anche da Aristone di Ceo.48 Si dissipa cosı` uno dei principali equivoci che sono storicamente all’origine dell’attuale confusione tra i due Aristone giacche´, come abbiamo detto, gli antichi fino a Diogene Laerzio distinguevano i due personaggi ancora perfettamente. Quello che per essi rappresento` «un incidente secondario che fu presto dimenticato» si e` tramutato per i moderni studiosi in un rompicapo da cui si fa ancora fatica a venir fuori.49 1.2. Chi fu Aristone di Ceo? Aristone di Iulide nell’isola di Ceo fu quasi sicuramente successore di Licone (morto tra il 227/6 e il 225/4 a.C.) nello scolarcato del Peripato.50 Egli doveva essere nato qualche anno prima del 250, se nel testamento di Licone e` indicato come uno dei piu` eminenti discepoli di lui.51 Del suo pensiero non e` possibile ricostruire granche´, anche se dalle scarne testimonianze in nostro possesso emerge la figura di un pensatore disinteressato, come il suo maestro, all’autentica speculazione filosofica, piu` attento invece alla divulgazione e all’immagine pubblica della Scuola. Cicerone, riferendosi al suo stile, lo definı` «simmetrico e ricercato [...], ma egli non ebbe quella gravita` che ci si aspetta da un grande filosofo. I suoi scritti sono certo molti e raffinati, ma non so come, il suo modo di esporre manca di autorevolezza».52 Sembra che si interessasse di studi storici e che avesse scritto una storia del Liceo.53 Gli devono, inoltre, essere sicuramente ascritti gli Esempi erotici ( jErwtika; o{moia), che dovevano essere una raccolta di celebri storie d’amore,54 e il Licone, sorta di trattato sull’anima di ispirazione mitologica.55 Si discute, invece, sull’attribuzione di un Peri; gevrwc, fonte del cicero-

Cfr. ivi, p. 198. Cfr. ivi, p. 211 sg. 50 Cfr. THEMIST . or. 21, 255 B (fr. 6 SFOD); Vita Aristot. Menag. p. 402, 20 W. (fr. 4 SFOD); CLEM. ALEX. strom. I 14, 63 (fr. 4 B SFOD = deest in Wehrli). 51 Cfr. DIOG . LAE¨RT . V 70 (fr. 5 SFOD). 52 CIC . de fin. V 13 (fr. 9 SFOD). Cfr. supra, p. 46 e nota 216. 53 Cfr. DIOG . LAE¨RT . V 64 (fr. 16 SFOD = STRATO fr. 10 W.). 54 Cfr. frr. 10-14 B; 22 SFOD. 55 Cfr. fr. 15 SFOD. 48 49

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niano De senectute, nel quale il discorso era messo in bocca a Titono, il mitologico sposo di Aurora, sulle biografie di Eraclito e di Epicuro e, infine, sul De liberando a superbia, opere tutte contese tra il filosofo peripatetico e Aristone di Chio.56 Taluni studiosi hanno inoltre tentato di attribuire con vari argomenti ad Aristone di Ceo alcuni degli scritti registrati nel catalogo delle opere del suo omonimo stoico. Ma come abbiamo visto, questa operazione non e` metodologicamente accettabile.57 Il problema e` che la documentazione di cui disponiamo e` assai esigua e per lo piu` controversa e nasce il sospetto che in realta` sia possibile sapere meno di quanto comunemente si creda. Per di piu` di quella fase della storia del Peripato in cui si colloca la figura del filosofo di Ceo non sappiamo quasi nulla e la tentazione e` quella di voler a tutti costi colmare un vuoto della storiografia filosofica tentando di ricostruire artificialmente i lineamenti di un personaggio di cui in realta` ci sfugge la fisionomia e l’importanza storica. E` cosı` che in tempi moderni si e` preteso di definire il ruolo 56 Per il Peri; gevrwc (fr. 18 SFOD) come fonte del Cato Maior si vedano F. RITSCHL , Aristo der Peripatetiker bei Cicero De Senectute, «RhM», n.F., I, 1842, pp. 193-200, rist. in Opuscula philologica, Lipsiae 1865, I, pp. 551-555; O. ZURETTI, Sull’Eij precbutevrw/ politeutevon di Plutarco e la sua fonte, «RFIC», XIX, 1891, pp. 362-378; A. GERCKE, Ariston cit., p. 207 sg.; A. GIESECKE, Der Stoiker Ariston von Chios, «JCPh», CXLV, 1892, pp. 206-210; J. SCHROETER, De Ciceronis Catone Maiore, Lipsiae, Thomas et Hubert 1911, pp. 45-60; H. KROEGER, De Ciceronis in Catone Maiore auctoribus, Rostochii, Typis Academicis Adlerianis 1912, pp. 45-81; O. HENSE (ed.), Teletis reliquiae cit., pp. CXVI-CXXII; A. OLTRAMARE, Les origines de la diatribe romaine, Lausanne, Pavot 1926, pp. 119-124; W. KNO¨GEL, op. cit., pp. 80-82; A. DYROFF, Iunkos und Ariston von Keos u¨ber das Greisenalter, «RhM», LXXVI, 1937, pp. 241-269; H. HERTER (ed.), Marcus Tullius Cicero, Cato Maior, Heidelberg, Kerle 1949, pp. 13-15; L. ALFONSI, Sulle fonti del ‘‘De senectute’’, «PP», X, 1955, pp. 121-129; H. DAHLMANN, Bemerkungen zu Varros Menippea Tithonus peri; gevrwc, in Studien zur Textgeschichte und Textkritik, gewidmet R. Merkelbach und G. Jachmann, Ko¨ln, Westdeutscher Verlag 1959, pp. 37-45; P. WUILLEUMIER (e´d.), Cice´ron, Caton l’Ancien (de la vieillesse), Paris, Les Belles Lettres 19613; CH. FORNARA, Sources of Plutarch’s An seni sit gerenda respublica, «Philologus», CX, 1966, pp. 119-127; F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 51 sg.; ID., Ariston aus Keos cit., p. 616 sg.; M. LANCIA, art. cit., p. 282 sg.; A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 292-308; J.G.F. POWELL (ed.), Cicero, Cato Maior de Senectute, edited with introduction and commentary, Cambridge, CUP 1988, p. 7 sg.; p. 15 sg.; pp. 24-27; G. RANOCCHIA, Aristo Ceus o Aristo Chius? Postilla al problema testuale di Cic. Cato Maior 3, «Elenchos», XXIV, 2003, pp. 115-122. Per le biografie di Eraclito ed Epicuro (frr. 16; 23-25 SFOD) si vedano F. SUSEMIHL, op. cit., I, p. 87 nota 388; R. PHILIPPSON, Mittei¨ber lungen. Diogenes Laertios X 14, «PhW», XLI, 1921, col. 911 sg.; ID., Zu Philodems Schrift U die Fro¨mmigkeit, «Hermes», LVI, 1921, p. 398; U. VON WILAMOWITZ-MOELLENDORFF, Der Glaube der Hellenen, Berlin, Weidmann 1931-1932, II, p. 272 nota 2; W. KNO¨GEL, op. cit., pp. 75-78; 88 nota 2; F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 65 sg.; ID., Ariston aus Keos cit., p. 618; R. MONDOLFO-L. TARA´N (edd.), op. cit., p. 20; G. ARRIGHETTI (ed.), Epicuro. Opere, Torino, Einaudi 19732, p. 488; M. ISNARDI PARENTE (ed.), Opere di Epicuro, Torino, UTET 1974, p. 103 nota 6; A.A. LONG, Heraclitus and Stoicism, «FILOSOFIA», V/VI, 1975/1976, p. 197 nota 14; A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 312-321; S.N. MOURAVIEV, art. cit., pp. 22-26; M. GIGANTE, Aristone di Ceo cit., p. 17 sg. 57 Si veda supra, pp. 71-73.

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giocato da Aristone di Ceo all’interno del Peripato, di precisare gli scritti che a lui vanno attribuiti e di ricostruirne il pensiero, giungendo fino ad assegnargli senza valido fondamento svariati interessi anche non strettamente filosofici.58 Di fatto, delle trentotto testimonianze assegnate dai nuovi editori ad Aristone di Ceo, solo venticinque sono, a torto o a ragione, considerate certe (sezione I, II e IV),59 mentre ben tredici sono classificate come dibattute (sezione III).60 Ad esse se ne aggiungono altre diciannove attribuite ad altri Aristone, tra cui un Aristone peripatetico, Aristone di Chio e Aristone il Giovane (sezione V).61 Se poi si guarda alla precedente collezione di Wehrli, bastera` considerare la sezione intitolata Politik, Gesetze, Erziehung, fondata su tre testimonianze di cui due sono state in seguito assegnate con buoni argomenti ad Aristone di Chio,62 o alla sezione piu` importante della raccolta, denominata Ethik und Charakterologie, contenente tre frammenti fortemente controversi tutti da ascrivere al medesimo autore, ma che, come tentero` di mostrare, non puo` essere identificato con il filosofo di Ceo.63 Ha fatto molto discutere, in particolare, la testimonianza di Strabone secondo la quale il filosofo peripatetico sarebbe stato emulo (zhlwthvc) di Bione di Boristene, informazione che il geografo aggiunge di passaggio dopo la menzione di Aristone di Ceo tra i personaggi illustri provenienti da tale isola dell’Egeo.64 La difficolta` non e` di poco conto se si considera che anche Aristone di Chio fu sicuramente influenzato dal filosofo di Boristene, come risulta attestato da svariati frammenti e dallo stile arguto e vivace, ricco di figure retoriche, proprio degli oJmoiwvmata.65 Nel tentativo Si veda D.E. HAHM, In Search of Aristo cit., p. 179 sg. Si vedano P. STORK-T. DORANDI-W.W. FORTENBAUGH-J.M. VAN OPHUIJSEN (eds.), art. cit., pp. 26-35 (Vita); pp. 34-62 (Scripta); pp. 130-133 (Dicta). 60 Cfr. ivi, pp. 62-131: Amphisbetoumena. 61 Cfr. ivi, pp. 134-149: Non recepta. 62 Si tratta dei frr. 25-27 WEHRLI (= frr. 27, 45 e 28 SFOD), di cui i primi due erano stati inclusi da von Arnim tra i frammenti di Aristone di Chio (frr. 402 e 400 SVF I) e sono stati a lui rivendicati da L. EDELSTEIN, rec. F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, IV-VI (BaselStuttgart 19682), «AJPh», LXXVI, 1955, p. 415, e A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 299 sg. e note 24-26. Il terzo e` una generica testimonianza desunta dai Logistorici di Varrone (Catus de liberis educandis fr. 9 R.) di cui e` impossibile determinare con precisione la paternita`. 63 Cfr. frr. 13-16 WEHRLI = frr. 20-21 A -O ; 26 SFOD. 64 Cfr. STRAB. X 5, 6 = fr. 2 A SFOD = BION BORYSTH . T 24 K.: ejk de; thc jIoulivdoc o{ te = 58

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Cimwnivdhc h\n oJ melopoio;c kai; Bakculivdhc ajdelfidou=c ejkeivnou, kai; meta; tau=ta jEracivctratoc oJ ijatro;c kai; tw=n ejk tou= Peripavtou filocovfwn jArivctwn oJ tou= Borucqenivtou Bivwnoc zhlwthvc. La specificazione twn= ejk tou= Peripavtou filocovfwn rende inequivocabile il riferimento ad Aristone di Ceo. 65

Cfr. infra, p. 88 sg.

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di risolvere questa difficolta` autorevoli studiosi in passato hanno messo in dubbio l’attendibilita` della notizia di Strabone pensando che essa sia nata da un fraintendimento dovuto all’omonimia dei due filosofi, mentre in realta` l’informazione andrebbe riferita ad Aristone di Chio.66 Tra di essi vale la pena di menzionare il caso di Jan F. Kindstrand, l’editore di Bione, il quale ipotizzo` che Strabone avesse trovato la menzione di un generico Aristone Bivwnoc zhlwthvc in quella letteratura peri; euJrhmavtwn in cui si indicava anche l’elenco degli zhlwtaiv e che l’avesse poi erroneamente collegata ad Aristone di Ceo, invece che, come avrebbe dovuto, al filosofo stoico.67 A tale conclusione condurrebbe anche il fatto che in un altro passo della sua opera il geografo citi insieme Bione e Aristone di Chio, da lui considerati filosofi di scarso valore, mostrando cosı` di essere consapevole del rapporto che legava i due pensatori.68 Altri studiosi hanno invece difeso a spada tratta la testimonianza straboniana cercando a tutti i costi di dimostrarne l’attendibilita`.69 Vi 66 Si vedano R. H EINZE, Ariston von Chios bei Plutarch und Horaz, «RhM», XLV, 1890, p. 515 nota 4; A. KO¨RTE, rec. O. HENSE (ed.), Teletis reliquiae (Friburgi in Brisgavia 1889), «WKPh», VIII, 1891, col. 350; A. GIESECKE, art. cit., p. 206; M. GIGANTE-G. INDELLI, Bione e l’epicureismo, «CErc», VIII, 1978, p. 130 nota 88. Anche F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 51, era moderatamente favorevole a tale possibilita`. 67 Si veda J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., pp. 79-82; p. 152 sg., che conclude (p. 82): «I would think that the item in Strabo is erroneous and that Ariston of Chios, the Cynic Stoic, is the man who tried to emulate Bion». Per la letteratura peri; euJrhmavtwn si vedano E. WENDLING, Zu Posidonius und Varro, «Hermes», XXVIII, 1893, pp. 335-353; E. STEMPLINGER, Das Plagiat in der griechischen Literatur, Leipzig-Berlin, Teubner 1912, pp. 10-12; A. KLEINGU¨NTHER, Prw= toc euJrethvc: Untersuchungen zur Geschichte einer Fragestellung, «Philologus», Suppl. XXVI 1, 1933; E.R. CURTIUS, Europa¨ische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern-Mu¨nchen, Francke 19789, p. 531; K. THRAEDE, Erfinder II, in T. KLAUSER ET ALII (Hrsgg.), Reallexicon fu¨r Antike und Christentum, Stuttgart, Hiersemann, V, 1962, coll. 1191-1278. 68 Si vedano A. GIESECKE, art. cit., pp. 206-210, e M. LANCIA , art. cit., p. 278 sg. 69 Si vedano F. SUSEMIHL, op. cit., I, p. 150; A. GERCKE, Ariston cit., pp. 207-216; ID ., Ariston von Iulis aus Keos, RE, II 1, 1895, col. 955; H. VON ARNIM, Ariston von Chios, RE, II 1, 1895, col. 958 sg.; ID., Bion der Borysthenite, RE, III 1, 1897, col. 485; TH.C. BURGUESS, Epideictic Literature, Chicago, s.e. 1902 («University of Chicago Studies in Classical Philology», 3), p. 236; A. MAYER, Aristonstudien, «Philologus», Suppl. XI, 1908, p. 562; E. ZELLER, Die Philosophie der Griechen in ihrer geschichtlichen Entwicklung, II 2: Aristoteles und die alten Peripatetiker, Leipzig, Reisland 19094, p. 926; O. HENSE, op. cit., p. LXVIII; O. HALBAUER, op. cit., p. 16; W. KNO¨GEL, op. cit., pp. 75 e 79; K. MRAS, Ariston von Keos, «WS», XXXIX, 1955, p. 92, che riprende le superate argomentazioni di Gercke; M. LANCIA, art. cit., pp. 279-291; D. TSEKOURAKIS, art. cit., pp. 248-257. Gercke e Kno¨gel invocavano l’analogia con l’Aristone menzionato da CIC. Cato Maior 3 e con quello citato nel De liberando a superbia, opere in cui l’influsso bioneo e` assai forte, per concludere che il loro autore, da essi identificato con il filosofo peripatetico, doveva essere discepolo di Bione. Ma entrambe le testimonianze sono, come sappiamo, assai controverse e mentre la seconda e` ancora oggetto di discussione, la prima va quasi sicuramente attribuita ad Aristone di Chio, se almeno si deve prestare credito alla lezione certa dei codici piu` antichi e autorevoli (Aristo Chius). In effetti, la lettura Aristo Ceus, preferita dagli ultimi editori [si veda, ad es., J.G.F. POWELL (ed.), Cicero, Cato Maior cit., p. 56], e` in quanto tale inesistente nei manoscritti ed e` frutto di una rielaborazione congetturale della forma seriore

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e` stato infine chi, pur ammettendone teoricamente la validita`, ne ha poi ridimensionato il valore, forte dell’abbondante presenza di motivi bionei nei frammenti del filosofo stoico, che consentirebbe di fatto anche e soprattutto a quest’ultimo di essere considerato zhlwthvc di Bione di Boristene.70 Come vedremo, quest’ultima posizione non e` probabilmente lontana dal vero. Ma cerchiamo innanzitutto di comprendere quale sia l’esatto valore da assegnare a tale sostantivo, visto che la maggioranza degli studiosi lo ha inteso nell’accezione ristretta di ‘discepolo’. In realta`, nella lingua greca questo termine non risulta mai usato in tal senso. Esso significa piu` genericamente ‘emulatore’ e designa colui che e` fervente seguace e originale imitatore di qualche altro personaggio, anche quando essi siano vissuti in epoche molto distanti. Per indicare il discepolo in senso stretto il greco antico si avvaleva invece di altri sostantivi, come maqhthvc, gnwvrimoc, foiththvc, trovfimoc, che con questo significato vengono sempre preferiti a zhlwthvc.71 L’impiego di questo termine non deve dunque far pensare a un discepolato inteso in senso proprio, ma a un rapporto di generica emulazione che nel caso specifico doveva riguardare prevalentemente la scelta di alcuni temi (e solo di alcuni) e l’aspetto linguistico e stilistico. Se la notizia di Strabone deve essere presa sul serio, anche la cronologia di Aristone di Ceo confermerebbe tale interpretazione. In effetti, mentre l’attivita` di Bione e` stata Aristoceus, corruzione del tutto isolata attestata in due testimoni collocabili tra l’XI e il XII secolo o anche piu` tardi (RMc). Si vedano C.W. FORNARA, art. cit.; G. RANOCCHIA, Aristo Ceus cit., e supra, p. 80; p. 81 nota 56. Continua ancora oggi a stampare Aristo Ceus, attribuendolo infondatamente a R, J.G.F. POWELL (ed.), M. Tulli Ciceronis De republica, De legibus, Cato Maior de senectute, Laelius de amicitia, Oxford, Clarendon 2006, p. 270. 70 I principali esponenti di questa linea di pensiero furono P. HARTLICH , De exhortationum a Graecis Romanisque scriptarum historia atque indole, Leipzig, s.e. 1889 («Leipziger Studien zur classischen Philologie», 11), p. 274 sg., il quale collocava il comune impiego delle diatribe di Bione da parte dei due filosofi tra le cause della loro confusione nell’antichita` (anche se, come sappiamo, tale confusione dovette intervenire in epoca tardo-antica); W. VON CHRIST, Geschichte der griechischen Literatur, umgearbeitet von W. Schmid und O. Sta¨hlin, Zweiter Teil I-II, Mu¨nchen, C.H. Beck 1920-19246, I, p. 88; P. WUILLEUMIER (e´d.), op. cit., p. 48: «ils ont subi tous les deux l’influence de la diatribe cynique»; J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 82 («The possibility that Bion influenced both cannot be completely ruled out»), il quale pero` esclude che l’espressione Bivwnoc zhlwthvc possa essere applicata in senso proprio ad entrambi, ma solo ad Aristone di Chio; J. GEFFCKEN, art. cit., p. 408 nota 13; A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio, in G. GIANNANTONI (ed.), Scuole socratiche minori e filosofia ellenistica, Bologna, Il Mulino 1977 («Pubblicazioni del centro di studio per la storia della storiografia filosofica», 4), p. 116; EAD., Aristone di Chio cit., p. 301 sg. A tale possibilita` si mostravano aperti anche O. HENSE, art. cit., pp. 542-544; ID., op. cit., pp. LXIX; CVIII; CXVII; CXIX; F. SUSEMIHL, op. cit., I, p. 885; A. MAYER, op. cit., p. 548 nota 131; p. 562. 71 Si veda D. TSEKOURAKIS , art. cit., p. 251: «bedeutet das Wort nicht jemandem, der zu einem Lehrer geht, um etwas zu lernen, sondern jemandem, der eifriger Anha¨nger und Nachahmer eines anderen ist. Im Gegenteil wird das Wort, besonders wa¨hrend der Epoche der zweiten Sophistik, in jenen Fa¨llen benuzt, wo das Vorbild und der Nachahmer ganze Jahrhunderte voneinander entfernt sind».

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collocata per intero nella prima meta` del III sec. a.C. e non oltre il 245, Aristone di Ceo doveva nascere poco prima del 250 e pertanto la possibilita` che questo sia stato discepolo di quello risulta assai ridotta. Il filosofo peripatetico, infatti, doveva essere ancora un fanciullo negli ultimi anni di vita di Bione.72 Se dunque egli fu davvero zhlwthvc del filosofo di Boristene, dovette limitarsi ad esserne emulatore.73 Ma e` pensabile che un filosofo peripatetico e per di piu` un capo-scuola come quasi sicuramente fu Aristone di Ceo, potesse emulare un pensatore appartenente a un’altra scuola filosofica? A siffatto quesito non e` difficile dare una risposta se si considera che Bione, pur essendo essenzialmente un filosofo (e non un sofista o un retore, come pure e` stato affermato),74 non elaboro` probabilmente alcun sistema o teoria filosofica originale.75 La sua filosofia era «estremamente semplice ed elementare» e ricca di luoghi comuni.76 Inoltre, anche se l’influsso decisivo del Cinismo non ci autorizza a definirlo un eclettico,77 egli fu influenzato anche dall’Accademia, da Teofrasto, dai Cirenaici e, in particolare, da Teodoro l’Ateo.78 Cio` che contraddistingueva le sue opere e i suoi celebri discorsi non erano tanto le dottrine da lui propugnate, quanto la tendenza a privilegiare temi disimpegnati dal punto di vista speculativo e desunti dall’esperienza della vita quotidiana e, soprattutto, l’originalita` del suo stile.79 Questa sorta di conversazione Cfr. ivi, p. 250 sg. Il rapporto tra i due personaggi, dunque, non fu probabilmente mai diretto e immediato, come sosteneva M. LANCIA, art. cit., p. 276 sg.; p. 290 sg. 74 Si veda J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 73: «Bion is basically a philosopher, not a sophist or a rhetor». 75 Si vedano D. TSEKOURAKIS, art. cit., p. 253, e M. LANCIA, art. cit., pp. 280-282. 76 Si veda J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 85: «Bion’s philosophy is extremely simple and basic. He is in no way an original thinker and tends to content himself with reproducing commonplaces». 77 Cfr. ivi, p. 77 nota 51: «the word ‘eclectic’, which is used to describe Bion [...] is not correct». Parlavano di eclettismo bioneo H. VON ARNIM, Bion cit., col. 483; G.C. FISKE, Lucilius and Horace cit., p. 185; D.R. DUDLEY, A History of Cynicism from Diogenes to the 6th Century A.D., Cambridge, CUP 1937, p. 65; D. TSEKOURAKIS, art. cit., p. 253. 78 Sull’importanza dell’influenza cinica nel pensiero di Bione si veda J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 77: «the Cynic school was of overwhelming significance. Therefore I believe that Bion can be called a Cynic without the usual reservations. This is clear not only from the content of his philosophy but also from the literary form of his discourses, which possess a strong Cynic character with many typically Cynic expressions and ideas». Al contrario, non e` facile comprendere con precisione il ruolo giocato nella formazione di Bione dalle altre scuole filosofiche. Kindstrand (ivi, pp. 56-78, specialmente p. 77 sg.) tende a pensare che esso fosse piuttosto limitato. 79 Si veda D. TSEKOURAKIS, art. cit., p. 251 sg.: «Bion kein Philosoph im strengen Sinne des Wortes war und keine originelle Theorie aufstellte, von deren Inhalt man beeinflußt werden konnte. Was seine Schriften und seine Reden im allgemeinen von jenen der anderen Philosophen 72

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moraleggiante di tipo popolare disinteressata all’autentica speculazione filosofica che si serviva di uno stile vivace e teatrale, rappresenta cio` che e` stato convenzionalmente definito ‘diatriba’ e di essa Bione fu considerato l’inventor. Come abbiamo visto piu` sopra, si trattava di una forma espressiva flessibile e aperta, caratterizzata da uno spiccato elemento dialogico, che ebbe grande fortuna nell’antichita` e che fu utilizzata da autori di diverso orientamento filosofico (benche´ soprattutto di estrazione cinica e stoica) e con intenti differenti fino a Massimo di Tiro.80 Stando cosı` le cose, non e` impossibile che anche un peripatetico come Aristone di Ceo abbia potuto far proprio uno ‘stile’ (impropriamente detto ‘bioneo’ o ‘diatribico’) che inizio` a essere di moda nel periodo storico in cui egli visse, senza che cio` comporti necessariamente anche una dipendenza dottrinale, che di fatto non e` ne´ dimostrabile ne´ verosimile. Del resto le connessioni di Bione con la suola peripatetica sono ben note. Sappiamo infatti che egli ascolto` le lezioni di Teofrasto 81 ed e` stato affermato che fu da questo influenzato nella capacita` di delineare con straordinaria precisione i vizi e le virtu` umane, al punto che anche le diverse descrizioni che egli fece del superstizioso avrebbero come modello la caratterizzazione che di tale tipo aveva effettuato il discepolo di Aristotele.82 Inoltre, in un frammento a lui attribuito Bione e` definito peripathtikovc.83 Teofrasto, a sua volta, rimase colpito dall’originalita` del suo stile, qualificandolo come «colui che per primo rivestı` la filosofia di una veste di fiori (ajnqinav)».84 Tuttavia, da qui a cercare di dimostrare in positivo sulla base dei frammenti superstiti di Aristone di Ceo, la validita` della testimonianza di Strabone, intercorre una grande differenza. Infatti non vi sono in essi elementi decisivi che ci consentano di provarlo e le possibili analogie con Bione si unterschied, war seine Neigung, Ideen, meistens kynischer Farbe, aus der allta¨glichen Erfahrung u¨ber das Leben auszudru¨cken, und vor allem der eigentu¨mliche Stil seiner Sprache. Diese Tendenz also, wichtige philosophischen Themen zu vermeiden, und diesen Stil muß Ariston nachgeahmt haben». 80 Cfr. supra, pp. 55-61. 81 Cfr. DIOG . LAE¨RT . IV 51 (T 19 K.). 82 Si vedano O. HENSE, op. cit., p. LXVIII ; P. WENDLAND , Zu Theophrasts Charakteren, «Philologus», LVII, 1898, pp. 113-122; G. PASQUALI (ed.), I Caratteri di Teofrasto, Firenze, Sansoni 1919, p. 37. 83 Cfr. gnom. Vat. 161 S. (F 39 C K.). 84 DEMETR. LAC . de forma dei col. 18, 1-5 S. (T 13 K.). Identico giudizio e ` attribuito a Eratostene da STRAB. I 2, 2 (fr. 338 SVF I) = T 12 K. Si veda M. LANCIA, art. cit., p. 280 sg., e note 10-12. Un’immagine simile e` applicata anche allo stile di Demetrio Falereo da QUINT. X 1, 33. Cfr. supra, p. 44 e nota 210.

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riducono a dei semplici luoghi comuni.85 Chi in passato, come Alfred Gercke e Margherita Lancia, tento` questa operazione lo fece sulla base di frammenti assai controversi, di cui alcuni sono poi stati con sicurezza attribuiti ad Aristone di Chio. Si tratta del ciceroniano Cato Maior de senectute, in cui pero` il riferimento e` al filosofo stoico (Aristo Chius) e non al suo omonimo peripatetico, come si e` voluto credere contro l’evidenza dei manoscritti,86 degli oJmoiwvmata ormai unanimemente rivendicati ad Aristone di Chio e soprattutto dello scritto epistolare Sul modo di liberare dalla superbia, la cui assegnazione al filosofo di Ceo e`, come sappiamo, tutt’altro che pacifica.87 Quest’ultimo scritto, quindi, non puo` piu` essere invocato come banco di prova per dimostrare che Strabone aveva visto giusto, poiche´ rimane tutto da dimostrare che il filosofo peripatetico ne fosse l’autore. E non si puo` pretendere di confermare una testimonianza dubbia con un’altra ancora piu` controversa. Neanche gli argomenti addotti da Damianos Tsekourakis, come il confronto con il gia` citato giudizio ciceroniano sullo stile del Peripatetico appaiono veramente decisivi. Come sappiamo, secondo Cicerone (de fin. V 13) il successore di Licone usava uno stile simmetrico e ricercato, ma mancava di quella gravita` che ci si attende da un grande filosofo e il suo eloquio era sprovvisto di autorevolezza.88 In effetti Aristone di Ceo, come Bione, fu disinteressato alla genuina riflessione filosofica mentre, come si e` detto, si mostro` piu` attento alla divulgazione e alle attivita` pubbliche della Scuola. Egli, invero, non sembra aver trattato temi strettamente filosofici e cio` e` confermato dal fatto che il suo scritto piu` famoso, il Licone, era un’opera 85 Si vedano J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 81: «he (sc. Ariston from Ceos) shares no attributes with Bion as does Ariston of Chios, as regards either expressions or ideas, but the possible similarities are of a very commonplace nature»; e la stessa M. LANCIA, art. cit., p. 291: «le consonanze che si possono rintracciare con i frammenti rimastici non sono tali da giustificare una cosı` forte dipendenza: l’unica spiegazione possibile e` che Strabone abbia arbitrariamente accentuato il rapporto tra i due filosofi». 86 Cfr. supra, p. 83 nota 69. 87 Si veda A. GERCKE , Ariston cit., pp. 208-215. A quanto messo in evidenza da questo studioso sul contenuto e da Wilhelm Kno¨gel sullo stile del De liberando a superbia D. TSEKOURAKIS, art. cit., p. 255, aggiunge l’uso di brevi periodi e di parodie degli antichi poeti, soprattutto di Omero, elementi che si ritroverebbero entrambi, oltre che in Bione e nel De liberando a superbia, anche nei frammenti di Aristone di Ceo (per la parodia cfr. ATHEN. XIII 563 F = fr. 13 A SFOD). Ma noi sappiamo che anche e soprattutto Aristone di Chio faceva uso di parodie e che nei suoi oJmoiwvmata si avvaleva normalmente di sentenze brevi e incisive. Per le stesse ragioni nemmeno la sottolineatura di svariati altri motivi di ispirazione sicuramente o probabilmente bionea nello scritto aristoneo da parte di M. LANCIA, art. cit., pp. 284-291, e` sufficiente a dimostrare che Aristone di Ceo fu emulatore di Bione di Boristene, giacche´, come vedremo, anche il filosofo di Chio riprese copiosamente temi e stilemi tipicamente bionei. 88 Cfr. supra, p. 46 e nota 216.

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disimpegnata indirizzata ai giovani in cui si mescolavano liberamente dottrine filosofiche ed elementi mitologici (dovgmata memeigmevna muqologiva/) per renderne piu` gradevole la lettura.89 Tale atteggiamento rientrava in pieno nella tendenza tipica di quella fase della storia del Liceo posteriore a Teofrasto, in cui i Peripatetici persero tutti i primati filosofici e scientifici accumulati in precedenza. Tuttavia, la testimonianza di Cicerone e` troppo generica perche´ se ne possa ricavare la prova di una stretta dipendenza stilistica tra i due filosofi.90 Diverso e` il caso di Aristone di Chio (che fu all’incirca contemporaneo del filosofo di Boristene), oratore «persuasivo e stimato tra il popolo», al quale le nostre fonti attribuiscono uno stile brillante e avvincente che gli procuro` il soprannome di ‘Sirena’.91 Egli infarciva frequentemente i suoi discorsi di sentenze, paragoni ed esempi, soleva parodiare i poeti (soprattutto Omero ed Euripide) e usava spesso prosimetri, tutti elementi caratteristici dello stile di Bione.92 In particolare il filosofo stoico condivideva con questo alcune immagini comuni che divennero poi paradigmatiche, come il paragone del saggio con l’attore o quello dei cultori dell’enciclopedismo con i pretendenti di Penelope, che compaiono in frammenti sicuramente attestati.93 Dal punto di vista dottrinale, furono entrambi profondamente influenzati dal Cinismo, interessandosi esclusivamente di etica e disprezzando le arti liberali. In particolare, essi condividevano l’atteggiamento di assoluta indifferenza verso i beni esterni (specie verso la ricchezza), il cognitivismo morale teso a sradicare le false opinioni e, in campo teologico, la critica all’antropomorfismo divino.94 Vi sono inoltre alcuni episodi nella vita di Aristone di Chio che lo pongono in relazione con Bione.95 E anche se in nessuna fonte antica si legge un esplicito riferimento a uno stretto rapCfr. PLUTARCH de aud. poe¨t 14 E = fr. 15 SFOD. Si veda J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 81 sg. 91 Cfr. DIOG . LAE¨RT . VII 160 (fr. 333 SVF I), e infra, p. 149 e nota 362. 92 Cfr. anche infra, p. 149 e nota 364. 93 Cfr., per Bione, TEL. fr. II 5, 2-6, 8 H. (F 16 A K.); PLUTARCH . quom. adul. poe ¨t. aud. deb. 7 D (F 3 K.); per Aristone di Chio, supra, p. 176 e note 460-461; p. 177. 94 Si vedano R. HEINZE, art. cit., pp. 513-515; A. OLTRAMARE , op. cit., p. 38; J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 81; M. LANCIA, art. cit., p. 277 e nota 4; A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 43 sg. e nota 16; pp. 101-106; 191-197; 307-312 e nota 63. ` noto che Aristone di Chio cerco` di guadagnarsi, per il tramite di Perseo, le simpatie di 95 E Antigono Gonata, protettore e amico di Bione (cfr. ATHEN. VI 251 B = fr. 342 SVF I); che come questo, polemizzo` aspramente con Arcesilao (cfr. DIOG. LAE¨RT. IV 33 = fr. 343 SVF I; SEXT. EMP. Pyrrh. hypot. I 234 = fr. 344 SVF I; DIOG. LAE¨RT. IV 40 = fr. 345 SVF I; VII 162 = fr. 346 SVF I) e che egli fu il maestro di Eratostene, con cui era in buoni rapporti anche il filosofo di Boristene (cfr. STRAB. I 2, 2 = BION BORYSTH. T 12 K.). Si veda J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 81 sg. 89

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porto tra i due filosofi, cio` non e` sufficiente ad annullare sino in fondo gli argomenti numerosi e pesanti che fanno pensare a un forte interesse per Bione da parte del filosofo di Chio. Ne´ vale a smentire la forza dei fatti l’obiezione per cui, poiche´ questi era un filosofo originale asseritamente interessato piu` al contenuto che allo stile, non poteva avvalersi nelle sue opere di uno stile simile a quello elaborato da Bione.96 Del resto, e` noto che nella produzione filosofica di un pensatore accanto a opere speculativamente piu` impegnate trovavano spesso posto altre a carattere piu` divulgativo e questo era il caso anche del filosofo stoico, il cui catalogo ne contiene piu` d’una.97 In conclusione, se da un lato non e` possibile confermare, sulla base dell’esame dei frammenti e delle testimonianze a lui relativi, che Aristone di Ceo fu zhlwthvc di Bione di Boristene, dall’altro e` impossibile dimostrare che Aristone di Chio non potesse essere suo emulatore. E mentre per l’uno fa fede la testimonianza di Strabone la quale, pur essendo del tutto isolata, appare formulata con indubbia chiarezza, per l’altro garantisce l’innumerevole messe di elementi tematici e stilistici di matrice sicuramente bionea che si rinviene nei suoi frammenti, la quale e` qualitativamente e quantitativamente ben piu` significativa di quella ricavabile dagli scarni frammenti di Aristone di Ceo. E quindi, allo stato attuale, da una parte non vi sono argomenti sufficienti per respingere come falsa l’informazione di Strabone concernente il filosofo peripatetico, dall’altra non vi e` modo di negare, senza scontrarsi con la realta` dei fatti, l’importante influsso esercitato da Bione sul filosofo stoico. Se questo e` vero, vorra` dire che, se si registreranno ulteriori passi in avanti nella storia della questione aristonea, essi non potranno provenire da questo versante. E cosı`, ogni tentativo finalizzato a dimostrare che, poiche´ il De liberando a superbia e` ricco di temi e stilemi bionei, allora esso deve essere attribuito all’uno piuttosto che all’altro dei due filosofi, e` destinato a cadere inesorabilmente nel vuoto.98 ` quanto asseriscono D. TSEKOURAKIS, art. cit., p. 253 sg., e M. LANCIA, art. cit., p. 278. 96 E Non si comprende sino in fondo l’osservazione dello studioso greco secondo la quale i frammenti di Aristone di Chio non mostrerebbero affinita` tematiche e stilistiche con Bione. E` stato infatti sempre riconosciuto il legame di Aristone di Chio sia con Bione che con il suo stile. Tsekourakis e` invece costretto a riconoscere la presenza di elementi di stile bioneo negli oJmoiwvmata, che egli attribuisce correttamente al filosofo di Chio, ma aggiungendo che essi non avrebbero quel carattere aneddotico e quelle enumerazioni che sono caratteristiche dello stile diatribico. Ma non si deve dimenticare che i Paragoni, anche a causa della loro natura frammentaria, non sono sufficientemente rappresentativi dello stile di Aristone di Chio. 97 Si vedano, ad es., Protreptikwn b v, Diavlogoi, Diatribwn z ,v jErwtikai; diatribaiv, = = U J pomnhmavtwn ke ,v jApomnhmoneumavtwn g v, Creiwn= ia v e Pro;c Kleavnqhn ejpictolwn= dV. 98 Su questa argomentazione era basato, come sappiamo, gran parte dell’impianto probatorio della dissertazione di Wilhelm Kno¨gel, che nella sua terza parte esaminava dettagliatamente

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PARTE SECONDA

2. PER

UNO STATUS QUAESTIONIS

Prima di entrare nel vivo della discussione relativa all’attribuzione dello scritto e` doveroso tentare di fare un sia pur rapido bilancio critico della questione nel quadro di quella che e` stata tradizionalmente definita Aristonfrage. E questo, sia per il grado di complessita` e la varieta` delle opinioni che sono state espresse, sia allo scopo di verificare quali siano stati gli snodi fondamentali che hanno fatto propendere per l’una piuttosto che per l’altra ipotesi. Come e` noto, infatti, gli studiosi si sono storicamente divisi tra coloro che hanno identificato l’autore del De liberando a superbia con il peripatetico Aristone di Ceo (la stragrande maggioranza) e quanti invece vi hanno riconosciuto lo stoico dissidente Aristone di Chio. Il primo a pronunciarsi sull’argomento fu nel 1827 Luigi Caterino (Aloysius Caterinus), accademico ercolanese e protoeditore del De superbia filodemeo, il quale, sulla base della lezione fhci;n oJ jArivctwn [Ci]= oc, che egli credette di rilevare a 16 35-36, si persuase che l’Aristone autore dello scritto fosse lo Stoico. Inoltre ipotizzo` che esso facesse originariamente parte di quegli JUpomnhvmata uJpe;r kenodoxivac o di quelle Lettere a Cleante che Diogene Laerzio (VII 163) attribuiva ad Aristone di Chio.99 Sulla stessa linea si posero August B. Krische e Nicolaus Saal che con i medesimi argomenti si espressero a favore dello Stoico.100 Al contrario Friedrich Ritschl e Karl G. Zumpt, facendo proprio il giudizio di Panezio e Sosicrate secondo il quale, tranne i quattro libri di lettere, tutte le opere da Diogene attribuite allo Stoico andrebbero in realta` riferite al Peripatetico, riconobbero nell’excerptum filodemeo gli JUpomnhvmata uJpe;r kenodoxivac da essi ascritti al filosofo di Ceo.101 Si inserı` nel dibattito vicino alle posizioni di questi ultimi Hermann Sauppe. Egli sostituı` correttamente alla lettura del suo predecessore napoletano l’integrazione fhci;n oJ Ariv j ctwn, [oi|]oc (16 35-36), la quale e` confermata ora dall’autopsia del papiro (dove io ho letto fhci;n oJ Ariv j ctwn, o. i|.|oc) e dall’espressione immediatalingua e stile dello scritto aristoneo riconoscendovi un esempio di «stile bioneo» e concludendo che per questa ragione esso andava assegnato ad Aristone di Ceo, oJ tou= Borucqenivtou Bivwnoc zhlwthvc. 99 Si veda L. CATERINO in HV 1, III, f. 20. 100 Si vedano A.B. KRISCHE, Die theologischen Lehren der griechischen Denker. Eine Pru ¨fung der Darstellung Ciceros, Go¨ttingen, Dietrisch 1840, p. 408, e N. SAAL, De Aristone Chio et Herillo Carthaginiensi Stoicis commentatio. Pars I: De Aristonis Chii vita scriptis et doctrina, Diss. Agripp. Coloniae 1852, p. 17. 101 Si vedano F. RITSCHL, art. cit., e K.G. ZUMPT, De diadochis Atheniensibus, Diss. s.l. e s.d., p. 66.

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mente precedente (toiouto = [c] | g.avr ejctin), formula che nel carakthricmovc e` sistematicamente seguita dal pronome correlato oi|oc. In questo modo egli faceva cadere uno degli argomenti su cui Caterino aveva fondato la sua attribuzione. Con quest’ultimo egli condivideva l’idea che il De liberando a superbia fosse identico agli JUpomnhvmata uJpe;r kenodoxivac, ma poi, come Ritschl e Zumpt, attribuiva questi ultimi ad Aristone di Ceo sulla base dell’atetesi di Panezio e Sosicrate. Ma soprattutto egli fu il primo a ravvisare tra lo scritto aristoneo e i Caratteri di Teofrasto una somiglianza «et formae et totius rationis» che dovrebbe essere considerata frutto di deliberata imitazione. Il discepolo di Aristotele fu infatti l’inventore di un genere letterario di cui, almeno fino a Posidonio, furono cultori privilegiati i Peripatetici, da sempre attenti alla descrizione tanto della natura fisica quanto della natura umana. Vedremo come tale argomento fosse destinato a pesare decisivamente nella storia della discussione.102 Sulla scia di Sauppe si collocarono Johann L. Ussing,103 Theodor Gomperz,104 Eduard Zeller 105 e Alfred Gercke,106 mentre Alfred Giesecke, che dichiarava di non avere argomenti sufficienti per affermare che gli JUpomnhvmata uJpe;r kenodoxivac vadano identificati con il nostro estratto, sottolineo` che il concetto di kenh; dovxa equivarrebbe a ‘falsa opinione’ (vana opinio), piuttosto che a ‘vanagloria’ (inanis gloria).107 August Mayer, dal canto suo, se inizialmente non esito` a mettere in discussione l’attribuzione dello scritto al Peripatetico, in seguito, condizionato dal giudizio di Jensen, si mostro` disposto a ritenere archiviata la questione a favore di esso, ma non a recedere sulla difficolta` mossa da Giesecke all’identificazione dell’estratto filodemeo con i citati JUpomnhvmata.108 Christian Jensen, favorevole Si veda H. SAUPPE (ed.), op. cit., pp. 6-9. Op. cit., p. 159 sg. 104 U ¨ber die Charaktere cit., p. 17; ID., Pensatori Greci, trad. it., Firenze, La Nuova Italia 19622, IV, pp. 712 e 721. 105 Si vedano E. ZELLER -R. MONDOLFO , La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico, Parte II, VI/3: Aristotele, a cura di A. Plebe, Firenze, La Nuova Italia 1966, p. 525 nota 18. 106 Art. cit., p. 202. 107 Si veda A. GIESECKE , De philosophorum veterum quae ad exilium spectant sententiis, Diss. Lipsiae, s.e. 1891, p. 64 e nota 1: Nullo enim argumento probari posse puto, haec uJpomnhvmata eundem esse librum atque illum qui laudatur in Philod. De vitiis X, col. X Peri; tou= koufivzein uJperhfanivac ab Aristone quodam conscriptus. 108 Si veda A. MAYER, op. cit., p. 487: «Noch zweifelhafter ist die Combination Sauppes [...], der den von Philodem in diesem Buche zweimal (§§ 10 und 23) genannten Ariston als den Peripatetiker und Verfasser der im Diogenes-Katalog genannten uJpomnhvmata uJpe;r kenodoxivac ansehn wollte: denn daß der bei Philodem Genannte Charakterschilderungen schrieb, genu¨gt noch nicht, um den Stoiker auszuschließen»; p. 604 sg. 102

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alla tesi che vede nel Ceo l’autore del De liberando a superbia, aggiunse agli argomenti proposti da Sauppe il fatto che PHerc. 1457 De adulatione, appartenente anch’esso al trattato Sui Vizi, dopo aver riportato una citazione letterale del quinto carattere teofrasteo (l’a[reckoc o ‘compiacente’), menzioni il nome di un Aristone a cui si attribuisce una descrizione del filevpainoc che non ci e` pervenuta.109 E identificando quest’ultimo con il caratterologo autore del nostro estratto, lo studioso tedesco, sulla base della semplice associazione di luogo con il celebre scolarca discepolo di Aristotele, si persuase che tale Aristone dovesse essere il filosofo peripatetico.110 Analogie e differenze rispetto ai Caratteri di Teofrasto mise in evidenza Giorgio Pasquali, anch’egli fautore dell’attribuzione dello scritto ad Aristone di Ceo. Tra le prime egli annovero` il contenuto e lo stile e, in particolare, la capacita` di delineare vizi affini distinguendoli gli uni dagli altri in modo sottile, tra le seconde la diversita` di metodo e di intenti, per cui mentre Teofrasto compilo` «una serie di schizzi staccati», Aristone scrisse «un trattato di morale».111 Il parere di Jensen trovo` invece forti resistenze in Augusto Rostagni e Carlo Gallavotti, i quali sostennero l’attribuzione ad Aristone di Chio. Il primo, oltre a rimarcare il carattere epistolare dell’opuscolo, cerco` di ridimensionare il peso della «tradizione della scuola e l’analogia con Teofrasto: che e` analogia di forma, non di spirito e d’intenti» ed esorto` a non considerarle un «argomento perentorio» a favore del filosofo peripatetico.112 Il secondo, dopo aver denunciato l’inconsistenza degli argomenti prodotti da Jensen, giudicati «quanto mai arbitrari e infondati», riconfermo`, proponendole in forma piu` estesa e circostanziata, le prove addotte dal maestro e, in particolare, rimarco` la profonda diversita` di obiettivi tra i due scritti. Non solo: egli ritenne di individuare nell’opuscolo aristoneo tracce sicure di filosofia stoica e, al contempo, divergenze dottrinali rispetto all’etica peripatetica. Lo studioso italiano mise anche in evidenza che gli aneddoti storici in esso contenuti (il piu` recente riferendosi al 288 a.C.) 113 si adattano meglio alla biografia del filosofo stoico, 109 Cfr. PHILOD . de adul. II (PHerc. 1457), fr. 23, col. 11, 37-42 A. (fr. 20 SFOD), e supra, p. 34 e nota 152. 110 Si vedano CH . JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiwn cit., p. XV sg., e ID., Ariston von = Keos cit., p. 405 sg. 111 Si veda G. PASQUALI , Sui «Caratteri» cit., pp. 59-62. 112 Si veda A. ROSTAGNI , Sui «Caratteri» di Teofrasto, «RFIC», XLVIII, 1920, p. 440 sg. = Scritti Minori, I: Aesthetica, Torino, Bottega d’Erasmo 1955, p. 350 sg. (d’ora in poi mi riferiro` soltanto a questi ultimi). 113 Si tratta dell’episodio dell’esercito macedone che abbandona Demetrio Poliorcete per consegnarsi a Pirro. Cfr. Comm. a 13 28-31.

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mentre, se autore dell’opera fosse stato Aristone di Ceo, probabilmente egli avrebbe aggiunto anche episodi a lui piu` vicini.114 Ad imprimere una svolta fondamentale alla storia della controversia fu senza dubbio la dissertazione pubblicata nel 1933 da Wilhelm Kno¨gel (Der Peripatetiker Ariston von Keos bei Philodem). In polemica con Gallavotti e su suggerimento di Jensen, suo maestro, egli non esito` ad effettuare nella col. 10 discutibili interventi testuali che lo condussero ai seguenti risultati: «1. Lo scritto di Aristone e` un’epitome, 2. l’autore ha sperimentato personalmente le conseguenze della superbia, 3. lo scritto ha come oggetto la superbia dei cofoiv».115 E cosı`, in un sol colpo, come vedremo meglio nel prossimo capitolo, sostituı` la primitiva lezione ej|pic. t.ol[hvn (10 13-14) di Jensen con un’altra che gli faceva credere di aver a che fare non piu` con una lettera, bensı` con un’epitome (ej|pi[t]om. [hvn), e riferendosi a una supposta superbia dei sapienti (v. 16: [co]f.wn= ) cagionata dalla fortuna, credette di aver individuato un elemento in aperto contrasto con la dottrina stoica dell’impassibilita` del saggio di fronte ai mutamenti della sorte. Lo studioso tedesco passava poi ad operare un serrato confronto tra il contenuto dell’‘epitome’ da un lato, e l’Etica Nicomachea e i Caratteri di Teofrasto dall’altro, enumerando tutta una serie di passi paralleli nei quali ritenne di riconoscere importanti analogie. Nel contempo mostro` che gli elementi di dottrina stoica ravvisati da Gallavotti nel De liberando a superbia non erano cogenti. Nella terza sezione del suo lavoro, infine, Kno¨gel analizzava dettagliatamente lingua e stile dell’opuscolo ravvisando in esso numerosi elementi del cosiddetto ‘‘stile diatribico’’ e concludendo, sulla base di un confronto con lo stile «simmetrico e ricercato» da Cicerone attribuito ad Aristone di Ceo, che per questo motivo esso andava assegnato al filosofo peripatetico. Nonostante la replica di Gallavotti,116 e le serie obiezioni sollevate da Robert Philippson,117 che pero` non ebbero grosse ripercussioni, la dissertazione di Kno¨gel sembrava aver messo un punto fermo alla discussione, tanto che gli studiosi fino al decennio passato non hanno avuto piu` dubbi sull’identita` del nostro Aristone. Contribuı` ad accreditare definitivamente l’attribuzione ad Aristone di Ceo la raccolta di Fritz Wehrli, che incluse Si veda C. GALLAVOTTI, Teofrasto e Aristone cit., p. 478 sg. W. KNO¨GEL, op. cit., p. 9: «1. Aristons Schrift ist eine Epitome, 2. der Verfasser hat an sich selbst die Folgen des Hochmuts erfahren, 3. die Schrift bescha¨ftigt sich mit dem Hochmut der cofoiv». 116 Rec. W. KNO ¨ GEL cit. 117 Rec. W. KNO ¨ GEL cit. 114

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lo scritto aristoneo tra i frammenti di Aristone di Ceo e tento` di corroborare gli argomenti avanzati prima di lui da Jensen e Kno¨gel aggiungendone di nuovi.118 Stando a tale studioso nel De liberando a superbia la fine differenziazione tra le diverse qualita` umane sarebbe influenzata dalla dottrina aristotelica del giusto mezzo e la minuta caratterizzazione dei vizi avrebbe come modello la forza descrittiva tipica dei Caratteri di Teofrasto. Inoltre, nel nostro scritto non vi sarebbe traccia del radicalismo etico tipico dei Cinici e degli Stoici e, in particolare, di quella «divina intoccabilita` del saggio» e di quel risalto dato alla forza morale che nell’antichita` erano caratteristici del pensiero stoico.119 Al contrario vi si coglierebbero elementi di matrice peripatetica, come la scelta dei tipi e il riconoscimento dell’influenza della sorte nella vita dell’uomo. Infine il ritratto del superbo, contro il quale polemizza Aristone, possiederebbe tratti tipici del saggio stoico, come il fatto di prescindere dall’aiuto altrui o la pretesa di considerarsi infallibile o di non aver bisogno di consiglio.120 Lo studioso svizzero fu anche il primo a ipotizzare, senza largo seguito invero, che Filodemo nel De superbia avesse messo insieme estratti provenienti da due differenti opere di Aristone: la prima, di natura parenetica, destinata alla cura del vizio della superbia, la seconda di tipo caratterologico, dedicata alla descrizione delle «sottospecie» del superbo.121 Non si discostava originariamente dalla communis opinio sull’attribuzione dell’opuscolo nemmeno Serge N. Mouraviev, il quale tornava a identificare lo scritto con gli JUpomnhvmata uJpe;r kenodoxivac e ravvisava nel misterioso Aristone lo stesso personaggio autore di uno «studio caratterologico», che sarebbe la principale fonte del «testo base» della Vita di Eraclito che si legge in Diogene Laerzio.122 Senonche´, in tempi a noi piu` vicini lo studioso, in-

Si veda F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., pp. 27-67. Si veda F. WEHRLI, Ru¨ckblick. Der Peripatos in vorchristlicher Zeit, in Die Schule des Aristoteles. Texte und Kommentar, X: Hieronymos von Rhodos, Kritolaos, Ariston der Ju¨ngere, Diodoros von Tyros, Basel-Stuttgart, Schwabe 19692, p. 108 sg. 120 Si veda F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 52 sg. Vedremo nei prossimi capitoli come molti di questi argomenti, poi ripetuti in Ariston aus Keos cit., pp. 616618, non siano cogenti o corrispondenti a quanto letteralmente asserito da Aristone. Probabilmente influenzato da Wehrli era anche M. ERLER, Philodem aus Gadara: Moralische Schriften, in H. FLASHAR (Hrsg.), Ueberweg. Grundriss der Geschichte der Philosophie, Die Philosophie der Antike, IV 1: Die hellenistische Philosophie, Basel, Schwabe 1994, p. 320 sg. 121 Si veda F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., pp. 53-55. 122 Si vedano S.N. MOURAVIEV , art. cit., pp. 22-26; ID., He ´raclite d’E´phe`se. Les vestiges cit., p. 155 sg. Per una discussione delle tesi di Mouraviev relative alla genesi della Vita di Eraclito, si veda G. RANOCCHIA, rec. S.N. MOURAVIEV cit., pp. 452-457. 118

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fluenzato anche da una ricerca non pubblicata di chi scrive,123 pur senza prendere espressamente posizione a favore dell’una o dell’altra tesi, si e` mostrato disposto a rimettere in discussione tutta la questione.124 Analogamente Anna Maria Ioppolo, che nella sua monografia su Aristone di Chio si era espressa a favore del Peripatetico (ma negando l’identificazione con i famigerati JUpomnhvmata),125 in un articolo comparso pochi anni orsono e` ritornata sui propri passi per pronunciarsi a favore dello Stoico.126 I molteplici motivi che l’hanno spinta in questa direzione si basano principalmente sull’esame delle coll. 10 e 21-23 del De liberando a superbia nonche´ di svariati altri passi dove si conserverebbero significative tracce di dottrine stoiche, come «l’indifferenza dei beni esterni, la superiorita` del saggio rispetto alle vicissitudini della sorte, la netta contrapposizione tra le qualita` morali e i beni materiali», o anche «indiscutibili analogie» con i frammenti di Aristone di Chio, come l’insistenza sui principi generali dell’etica, l’importanza dell’esercizio e il rifiuto della polumaqiva. Molti di questi argomenti, dalla studiosa semplicemente accennati, meritavano di essere nuovamente discussi o affrontati in maniera piu` approfondita. E` quanto si e` tentato di fare in alcuni dei prossimi capitoli.127 In particolare Ioppolo si e` soffermata sulla caratterizzazione aristonea dell’ironico (ei[rwn), la quale sarebbe esemplata sul Socrate aporetico di ispirazione platonica di cui si era appropriata la tradizione accademico-scettica e, soprattutto, Arcesilao. Contro la postura filosofica assunta da quest’ultimo si erano energicamente scagliati gli Stoici, e in particolare Aristone di Chio, e per questa ragione la studiosa ha voluto identificare con questo filosofo l’Aristone autore del ritratto, individuando anche in esso alcuni termini significativi che

123 Si veda G. RANOCCHIA , Aristone di Ceo o Aristone di Chio? Studio sull’autore del Perı` touˆ kouphı´zein hyperephanı´as alla luce di PHerc. 1008, Tesi di laurea, Perugia 1999. 124 Si veda S.N. MOURAVIEV (e ´ d.), He´raclite d’E´phe`se. La tradition antique et me´die´vale, A. Te´moignages et citations: 1. D’E´picharme a` Philon d’Alexandrie, textes re´unis, e´tablis et traduits, Sankt Augustin 1999 («Heraclitea. E´dition critique comple`te des te´moignages sur la vie et l’œuvre d’He´raclite d’E´phe`se et des vestiges de son livre», II.A.1), p. XVI (Addendum in extremis); pp. 172-179. 125 Si vedano A.M. IOPPOLO , Aristone di Chio cit., p. 45 sg.; EAD., Il concetto di ‘‘eulogon’’ nella filosofia di Arcesilao, in G. GIANNANTONI (ed.), Lo scetticismo antico, Atti del Convegno organizzato dal Centro di Studio del Pensiero Antico, Napoli, Bibliopolis 1981 («Elenchos. Collana di testi e studi sul pensiero antico», 6), I, p. 150 nota 17; EAD., Opinione e scienza. Il dibattito tra Stoici e Accademici nel III e nel II secolo a.C., Napoli, Bibliopolis 1986 («Elenchos. Collana di testi e studi sul pensiero antico», 12), p. 127 sg. 126 Si veda A.M. IOPPOLO , Il Peri; tou koufivzein cit. = 127 Cfr. infra, pp. 149-193.

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rimanderebbero direttamente a tale polemica. Il piu` importante di essi e` quell’enigmatico uJ|pokinaid. ein= , ‘atteggiarsi a cinedo’ (23 25-26), che viene attribuito all’ironico e che potrebbe richiamare l’accusa rivolta ad Arcesilao da parte dello stoico Aristone di essere un «insolente che dice sconcezze (kinaidolovgon kai; qracuvn)».128 Anna Maria Ioppolo ha anche sottolineato il forte carattere protrettico-morale dello scritto, elemento che lo avvicinerebbe significativamente alla filosofia morale stoica e ad Aristone di Chio. Dopo aver ribadito con Rostagni che «non sono sufficienti la tradizione della scuola e l’analogia con Teofrasto a stabilire che l’autore debba essere un Peripatetico», concludeva identificando l’opuscolo con una delle lettere da Diogene Laerzio attribuite ad Aristone di Chio. Ella ipotizzava inoltre che in esso egli utilizzasse anche parte di quegli JUpomnhvmata uJpe;r kenodoxivac dallo stesso Diogene assegnati al filosofo stoico. La studiosa riprendeva infine l’ipotesi di Wehrli sulla diversa provenienza delle due sezioni in cui si articola il De liberando a superbia.129 Qualche anno piu` tardi Marcello Gigante, sorvolando sbrigativamente sulle osservazioni addotte da Ioppolo a suffragio della sua tesi, da lui definita «unilaterale», e` tornato sulla questione riproponendo gli argomenti di Wehrli, dal quale dissente solo per l’ipotesi della doppia fonte, e ha preferito attenersi alla vulgata che assegna il De liberando a superbia ad Aristone di Ceo sulla base della solita analogia con i Caratteri di Teofrasto.130 A questa opinione ormai largamente diffusa nella comunita` scientifica si allineano senza troppa originalita` anche le recenti dichiarazioni fatte da alcuni studiosi a favore, ancora una volta, di Aristone di Ceo.131 Infine, in un recente contributo di chi scrive, si e` tentato di enunciare i motivi che inducono a dubitare seriamente dell’attuale orientamento della critica, tracciando inSi veda A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit., pp. 719-732. Cfr. ivi, pp. 731-734. Anche ultimamente Ioppolo, in un contributo sullo Stoico anonimo attaccato da Filodemo nel V libro De poe¨matis (La poetica dello Stoico cit., p. 148), ha ribadito l’«indubbia parentela fra l’Aristone del Peri; tou= koufivzein uJperhfanivac, Aristone di Chio e l’Autore della poetica». 130 Si vedano M. GIGANTE, Atakta XVI cit., p. 154: «Noi preferiamo rimanere nel Peripato, ribadendo col Gomperz il legame del libro aristoneo con i Caratteri di Teofrasto»; ID., Kepos e Peripatos cit., pp. 123-128; ID., Libri morali cit., p. 122, seguito da G. INDELLI, Per una nuova edizione cit., p. 697. 131 Si vedano M. CAPASSO, Les livres sur la flatterie cit., p. 181; V. TSOUNA , Philodemus on the Therapy cit., p. 252; EAD., Aristo on Blends cit., p. 279 e nota 1; J. DIGGLE (ed.), op. cit., p. 9 sg.; S. VOGT, art. cit., p. 263 sg.; G. INDELLI, Detti e aneddoti nel PHerc. 1008 (Filodemo, I vizi, libro X), «CErc», XXXVI, 2006, p. 77. Anche S. SCHORN (Hrsg.), op. cit., pp. 203; 310; 312; p. 434 sg., si era espresso in modo analogo, ma durante una conversazione privata mi ha comunicato di aver cambiato parere e di orientarsi ora favorevolmente per un’attribuzione dello scritto ad Aristone di Chio. 128

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nanzitutto, sia pure in maniera cursoria, un confronto con le opere morali comprese nel Corpus Aristotelicum e con i Caratteri di Teofrasto. Si e` fatto poi un breve esame della natura e dello scopo dell’opuscolo con cui si e` cercato di mostrare la stretta affinita` che lo lega alla protrettica morale coltivata dagli Stoici e, in particolare, da Aristone di Chio. Lo studio prende le mosse dal presupposto che lo scritto di Aristone fosse in forma epistolare, circostanza questa che, come vedremo nel prossimo capitolo, ha contribuito a riaprire i termini del problema.132 2.1. Il carattere epistolare dello scritto Come piu` volte accennato, la discussione intorno alla forma originaria dello scritto Sul modo di liberare dalla superbia e` stata decisiva nella storia della questione attribuzionale. Essa ha avuto la sua origine nelle diverse letture offerte dagli editori ai vv. 13-14 della col. 10, le quali hanno consentito di inquadrare l’opuscolo alternativamente come una lettera o (scritto epistolare) o come un’epitome o riassunto d’autore dello stesso Aristone. Gia` Luigi Caterino, 133 nella protoedizione napoletana del 1827, riproduceva la lezione ej|pi[ct]ol[imaion = bib]livon, ‘libro epistolare’, persuadendosi che l’Aristone autore dello scritto fosse lo Stoico di Chio. E questo perche´ una raccolta di lettere in quattro libri indirizzata a Cleante (Pro;c Kleavnqhn ejpictolw=n d )v era l’unica opera risparmiata dall’atetesi di Panezio e Sosicrate tra quelle che Diogene Laerzio attribuiva ad Aristone di Chio, mentre di una produzione epistolare di Aristone di Ceo non abbiamo alcuna notizia dalle nostre fonti. Fu Hermann Sauppe a mettere per primo in discussione il carattere epistolare dello scritto. Egli, sostituendo la lettura ej|pi[ct]ol[imaion = con la banale formula ej|p[i;] t.[o; p]ol[uv, rimosse il principale ostacolo all’identificazione dell’ignoto Aristone con il filosofo peripatetico.134 Alle riserve espresse da Richard Heinze 135 e da August Mayer 136 si deve aggiungere che la forma ej|p[i;] t.[o; p]ol[uv e` incompatibile tanto con la lezione del papiro quanto con quella degli apografi. Non si deve dimenticare, infatti, che Sauppe non vide mai il papiro, avendo a disposizione esclusivamente il testo dell’‘edizione’ napoletana di Caterino, da lui liberamente integrato. Sara` l’autopsia di Christian Jensen a confermare l’infonda132 133 134 135 136

Si veda G. RANOCCHIA, L’autore del Peri; tou= koufivzein cit. In HV 1, III, f. 31. Si veda H. SAUPPE (ed.), op. cit., p. 6 sg. Si veda R. HEINZE, art. cit., p. 511 nota 1. Si veda A. MAYER, op. cit., p. 487.

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tezza della lettura del suo predecessore. Nell’edizione da lui pubblicata nel 1911, infatti, lo studioso riproduceva la forma ej|pic. t.ol[hvn, che e` assai vicina tanto alla lezione del papiro quanto a quella degli apografi.137 Senonche´, nello studio che accompagnava l’edizione lo studioso tedesco non diede alcun peso alle conseguenze che tale lettura poteva esercitare ai fini dell’attribuzione.138 Intervenne Carlo Gallavotti a sottolineare l’importanza di essa per la soluzione della controversia.139 Ma, come ho gia` accennato, a imprimere una svolta importante alla discussione fu la dissertazione pubblicata nei primi anni Trenta dal tedesco Wilhelm Kno¨gel il quale, sbarazzandosi dell’ingombrante lezione ej|pic. t.ol[hvn e sostituendola surrettiziamente con ej|pi[t]om. [hvn, la nova lectio suggeritagli dallo stesso Jensen, tolse di mezzo quello che era stato considerato un pesante argomento a favore dello Stoico. Il senso da attribuire al termine sarebbe, secondo Kno¨gel, quello di «eine kurze Darstellung», non tanto un’‘epitome’, quanto una ‘concisa trattazione’. A indirizzare lo studioso in questa direzione contribuı` anche la lettura, qualche linea piu` sotto (10 29-30), di una supposta forma ej. petev|m. eto (da ejpitevmnw), «ha sintetizzato», il cui soggetto e` il medesimo Aristone.140 La replica di Gallavotti nella recensione al lavoro di Kno¨gel consistette in una ferma denuncia dell’arbitrarieta` con la quale quest’ultimo dava come sicura una forma che ne´ lui ne´ il suo maestro Jensen, che gliela aveva passata, avevano scorto direttamente nel papiro, con l’aggravante di non aver mai fatto cenno in tutto il corso del suo lavoro (nemmeno in apparato) all’esistenza della precedente lezione ej|pic. t.ol[h;n. E questo tanto piu` ove si consideri che nel carattere epistolare dello scritto risiederebbe, secondo lo studioso italiano, «il piu` grave argomento a favore dello Stoico». Gallavotti osservava inoltre che il termine ejpitomhv, anche quando possiede il significato che gli attribuiva lo studioso tedesco, rinvia sempre a un compendio tout court condotto su un testo o una materia preesistenti.141 La lettura ej|pi[t]om. [hvn non convinse nemmeno Robert Philippson, che preferı` mantenere la primitiva forma ej|pic. t.ol[hvn.142 Senonche´, se si esclude il caso di Si veda CH. JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiw= n cit., p. XVI, e infra, p. 100 sg. Si veda CH. JENSEN, Ariston von Keos cit. 139 Si veda C. GALLAVOTTI , Teofrasto e Aristone cit., p. 473 sg. 140 Si veda W. KNO ¨ GEL, op. cit., pp. 8-16. 141 Si veda C. GALLAVOTTI , rec. KNO ¨ GEL cit. 142 Si veda R. PHILIPPSON , rec. W. KNO ¨ GEL cit., col. 1330: «Aber ejpitomhvn, wofu ¨ r Jensen in seiner Ausgabe ej|pic. t.ol[hvn schrieb, halte ich fu¨r zweifelhaft. [...] Ich halte daher noch jetzt ejpictolhvn fu¨r die wahrscheinlichere Erga¨nzung». 137

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questi due studiosi, la nuova lezione di Jensen fu accolta dalla comunita` scientifica praticamente senza eccezioni fino ai giorni nostri, riscuotendo, tra gli altri, l’approvazione di Otto Brink, Achille Vogliano, Fritz Wehrli, Knut Kleve, Mario Capasso e Serge N. Mouraviev.143 Ora, pero`, sta di fatto che ej|pi[t]om. [hvn non si adatta ne´ alle tracce del papiro ne´ a quelle degli apografi.144 Essa infatti: a) elimina d’emble´e la terza lettera della linea 145 (due bracci ancora visibili di un probabile c, non escluso l’e); b) identifica con un m parti di due lettere sicuramente distinte (il l e la lettera successiva). Cosı` anche la forma e. jpetev|m. eto (10 29-30) risulta parimenti infondata: nel papiro si riesce ancora a leggere la sommita` di una lettera assimilabile a un a o a un l, ma e` comunque escluso l’e, poi tracce sicure di un p, un e, l’estremita` inferiore e superiore destra di un t, ancora un e, poi, all’inizio della linea successiva la meta` destra di un m (anche se in teoria non e` escluso il l), di nuovo un e, un t e, infine, l’arco inferiore di un o. I disegni completano e confermano in pieno la lettura del papiro registrando apetemeto O e apetemete N2.146 Come si puo` vedere, l’a iniziale e` comunque fuori dubbio. La lezione autentica del papiro e` dunque non gia` e. jpetev|m. eto, ma ajpetev|meto, da ajpotevmnw, ‘tagliare’, ‘strappare via’, che nel nostro contesto acquista l’accezione mediale di ‘ritagliare per se´’, ‘riservarsi’. Ora, nel 1992 Eduardo Acosta Me´ndez e Anna Angeli, sulla base di un rinnovato esame autoptico della col. 10, pur mantenendo ai vv. 29-30 la lettura e. jpetev|m. eto, hanno ripristinato ai vv. 13-14 l’originaria lezione ej|pic. t.ol[hvn di Jensen, da loro proposta nella forma ej. |pic. tolh. v[n. Cio` hanno fatto tuttavia senza inferirne alcuna conseguenza ai fini dell’attribuzione, per la quale essi si allineano prudentemente alla communis opinio in voga tra gli studiosi.147 E` stata Anna Maria Ioppolo, in un articolo comparso po143 Si vedano K.O. BRINK , Peripatos, RE, Suppl. VII, 1940, col. 935; A. VOGLIANO (ed.), I Caratteri di Teofrasto e di Aristone, Milano, Cisalpino 1946, p. 67; F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit.; K. KLEVE, Scurra Atticus. The Epicurean View of Socrates, in SUZHTHSIS . Studi sull’Epicureismo greco e romano offerti a Marcello Gigante, Napoli, Bibliopolis 1986, I, p. 245: «Philodemus must refer to a certain Ariston from Ceos or some other Peripatetic philosopher»; M. CAPASSO, Epicureismo e Eraclito cit., p. 452 e nota 158; S.N. MOURAVIEV, art. cit., pp. 22-24. 144 Non e ` da escludere l’ipotesi che Jensen si sia lasciato influenzare in questa direzione dalla sequenza ]pi[ . ]toma leggibile nel facsimile di Oxford, dove dopo ]to si evince un m. Ma rimarrebbe comunque da colmare la lacuna di una lettera compresa tra ]pi[ e ]to. 145 Questa obiezione fu mossa per la prima volta da R. PHILIPPSON, rec. W. KNO ¨ GEL cit., col. 1330. 146 Mancano per le coll. 10 e 11 i facsimili dei piu ` antichi disegni napoletani (N 1). Cfr. infra, p. 239. 147 Si vedano E. ACOSTA ME´ NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 151.

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chi anni piu` tardi, a comprendere per prima la portata del ripristino di una tale lettura per la questione della paternita` dello scritto.148 Infine, nel 1997 Marcello Gigante, che ha effettuato anch’egli una nuova autopsia del passo («con l’aiuto» – cosı` afferma – di Francesca Longo Auricchio, Giovanni Indelli, Tiziana Di Matteo e Gianluca Del Mastro), dopo aver categoricamente escluso tanto ej|pi[t]om. [hvn quanto e. jpetev|m. eto,149 ha letto la nuova forma ej|pictol[i]kav, ‘trattato epistolare’, lezione che in un primo momento avevo anch’io accolto nel testo.150 In ogni caso, come egli ha correttamente sottolineato, e|pic. tol[ «e` lettura certissima» del papiro e non puo` piu` essere messa in discussione.151 In effetti, nel papiro, alla fine del v. 13, si legge distintamente un e (anche se il tratto mediano e` alquanto sbiadito). All’inizio della linea successiva si evincono la parte inferiore di un’asta verticale sovrastata da un’asta orizzontale (sicuramente un p), di seguito un nitido i, quindi i semiarchi superiore e inferiore di un c (o di un e), poi l’asta orizzontale di un t (non sono escluse altre lettere simili), un o e un sicuro l. Anche i disegni (]pi[ . ]toma O: epi[ . . ]ol[ N2) confermano questa lettura. Tuttavia, come sappiamo, nemmeno Gigante ha ritenuto necessario rimettere in discussione la paternita` dello scritto, conformandosi alla vulgata ormai convenzionale che vede nell’autore dell’opuscolo un mero epigono di Teofrasto. Sulla forma epistolare dello scritto e` ritornata ora di nuovo Anna Angeli in un lavoro di prossima pubblicazione i cui risultati sono stati anticipati per concessione dell’autrice da Tiziano Dorandi.152 La studiosa italiana, che ha riletto ancora una volta i vv. 11-31 della col. 10, ha ribadito la sua precedente ej. pic. tolh. v[n (ora nella forma ej|pic. tolh. v[n) contro la nuova lettura di Gigante e ha avanzato anche altre proposte testuali da me discusse nel commentario sulle quali non e` qui necessario insistere.153 Il punto e` che se ej|pic. tol e` fuori discussione, non altrettanto si puo` dire delle lettere successive, come riconosce la stessa Angeli riproducendo l’h. Si veda A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 716 n 4. Si veda M. GIGANTE, Atakta XVI cit., p. 153 sg.: «La lettura ejpito[mhvn – una sfortunata deutevra frontivc di Jensen – e` del tutto falsa. Cosı` alla l. 28 sg. ejpetev|meto e` lettura ugualmente arbitraria». Inoltre, come ha correttamente affermato lo studioso italiano, «l’operazione di ejpitevmnein non puo` essere attribuita a Aristone. L’epitome, vale a dire la ricapitolazione, una kefalaivwcic, e` di Filodemo» (ivi, p. 154). 150 Si vedano G. RANOCCHIA , Filodemo e il Peri; tou koufivzein cit., pp. 244; 255-257; ID ., = L’autore del Peri; tou= koufivzein, p. 240. 151 Si vedano M. GIGANTE, Atakta XVI cit., p. 153 sg.; ID., Kepos e Peripatos cit., p. 124; ID., Libri morali cit., p. 123 sg.; G. INDELLI, Per una nuova edizione cit., p. 698. 152 I frammenti papiracei cit., pp. 219-226. 153 Cfr. Comm. a 10 14-15; 16; 17-18. 148

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come lettera incerta e ponendo il n in lacuna. Di fatto, l’apice conservato in alto a sinistra subito dopo e|pic. tol puo` essere interpretato vuoi come parte di un h, vuoi di uno i, vuoi infine come relitto di diverse altre lettere. E` vero, come ha rimarcato la studiosa e contrariamente a quanto ritenuto da Gigante,154 che comunque debbano essere decifrate, le tracce di lettere successive a e|pic. tol .155 appartengono a un sottoposto e di cio` e` necessario prendere atto.156 Ma come cio` non esclude l’integrazione ej|pic. tolh. v[n, cosı` non esclude nemmeno ej|pic. toli.[kav, parola solo di mezza lettera piu` lunga. Per mantenere in vita questa seconda ipotesi e` sufficiente immaginare che le lettere ka che Gigante credeva di leggere nel papiro siano invece cadute in lacuna e cosı` entrambe le forme rimangono possibili. Ora, la lacuna dopo e|pic. tol . puo` contenere da due a tre lettere di medie dimensioni a seconda di come si interpreti la lettera incerta conservata alla fine della sequenza e di come si integrino le due parole successive. Se, come fa Angeli, si considera quella un h e si integra di seguito t]i [h{]dion,157 allora la vecchia lezione ej|pic. tolh. v[n e` per motivi di spazio da preferire. Se invece, come propongo io, si interpreta la prima come uno i e si integra successivamente t.[i i[]dion,158 nella lacuna dopo e|pic. tol . rimane spazio sicuro per tre lettere e allora si puo` integrare opportunamente ej|pic. toli.[kovn], ‘opera’, ‘trattato epistolare’, una mia recentissima lettura che propongo per la prima volta in questa sede. E visto che, come si vedra` nel Commentario,159 l’espressione t]i [h{]dion, tradotta come «un’ingenuita` maggiore», non e` accettabile dal punto di vista del significato e che e` piu` prudente mantenere la vecchia integrazione i[]dion di Philippson, forma recepita da tutti gli editori successivi, allora e` naturale optare per la seconda ipotesi. In effetti, se si legge t.[i i[]dion, ej|pic. toli.[kovn] e` da preferire sia a ej|pic. tolh. v[n che a ej|pic. toli.[kav per il numero delle lettere cadute in lacuna (sicuramente piu` di due). Inoltre, essa e` migliore di quest’ultima ai fini Atakta XVI cit., p. 154. Ma la prima lettera sottoposta compare immediatamente sotto (e non dopo) la traccia di lettera successiva a e|pic. tol e appartenente allo strato originale. 156 Si veda Anna Angeli ap. T. DORANDI , I frammenti papiracei cit., p. 221. La studiosa si era accorta della presenza di un sottoposto in questo punto gia` in E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 209. Di cio` mi sono avveduto anch’io nel corso della mia ultima autopsia. 157 La studiosa ritiene, a differenza di Jensen, che l’asta verticale compresa tra le due lacune sia uno i. E dopo l’ipotetico i vi e` spazio certo per almeno una lettera (ad es. un h) prima del successivo ]dion. 158 Gia ` Christian Jensen (ap. Kno¨gel) identificava l’asta verticale tra le due lacune come parte di un t, seppure incerto, e immaginava legittimamente che nella seconda lacuna fossero cadute tra una e due lettere. 159 A 10 14-15. 154

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dell’interpretazione. L’adozione di ej|pic. toli.[kav, infatti, costringeva a pensare al De liberando a superbia o come a un’intera collezione di lettere consacrata a questo tema o almeno come a uno scritto epistolare comprendente piu` di una lettera, il che´, sebbene non sia del tutto impossibile,160 potrebbe tuttavia sembrare un po’ eccessivo per un’argomento cosı` specifico.161 La nuovissima forma ej|pic. toli.[kovn], invece, attestata altrove come titolo di opera,162 consente di intendere piu` normalmente lo scritto aristoneo come una singola lettera dedicata alla liberazione dalla superbia, perfettamente in linea con i parametri della parenesi epistolare antica. In ogni caso, com’e` ormai riconosciuto dagli studiosi, «il genere dello scritto di Aristone – una lettera (ejpictolhv), e non una epitome (ejpitomhv) – e` dunque definitivamente acquisito».163 Ora pero`, se e` assodato che Filodemo si riferisce al De liberando a superbia come a una lettera o scritto in forma epistolare, non si puo` piu` ignorare l’argomento che la scelta arbitraria della forma ej|pi[t]om. [hvn aveva indebitamente oscurato. In effetti quest’ultima lezione ha avuto un’importanza storicamente decisiva nel rimuovere la tesi che l’Aristone autore dell’opera fosse il filosofo di Chio per accreditare quella avversaria. E questo perche´, come si e` detto piu` volte, proprio una raccolta di Lettere a Cleante in quattro libri era l’unica opera, tra quelle riportate da Diogene Laerzio sotto il nome di Aristone di Chio, che non fu atetizzata da Panezio e Sosicrate, laddove nulla sappiamo di un epistolario del Peripatetico.164 Certo, non si puo` escludere del tutto la possibilita` che anche questo filosofo avesse scritto delle lettere e che di esse non ci sia giunta notizia, ma non e` che una mera congettura. Di fatto, nulla piu` impedisce di riconoscere nell’ejpictolikovn o ‘scritto epistolare’ del nostro Aristone una lettera appartenente all’epistolario di Aristone di Chio. 160 Si pensi alle Epistole 94 e 95 di Seneca, le quali sono dedicate entrambe al medesimo argomento (l’utilita` dei precetti per il progresso morale), quantunque affrontato da due differenti prospettive. 161 Entrambe le ipotesi furono avanzate da M. GIGANTE, Atakta XVI cit., p. 154. Per il primo significato di ejpictolikav cfr. DIOG. LAE¨RT. X 25 (= HERMARCH. fr. 25 L.), e D. OBBINK, art. cit., p. 434 e nota 33; per il secondo, R. PHILIPPSON, rec. K. KROHN, Der Epikureer Hermarchos (Berlin 1921), «PhW», XLIII, 1923, col. 3. Si veda anche F. LONGO AURICCHIO (ed.), Ermarco, Frammenti. Edizione, traduzione e commento, Napoli, Bibliopolis 1988 («La Scuola di Epicuro», 6), pp. 123-125. 162 Per ejpictolikovc al singolare, cfr. ARISTOT . fr. 670 R.3 (deest in Gigon); PS .-DEM . PHAL . de eloc. 223; APOLLON. TYAN. ep. 19; DION. HAL. de Lys. I 3; per ejpictolikovn come titolo di opera, GAL. de loc. aff. VIII 150 K.; SOR. gynaec. II 53, in J. ILBERG (ed.), Sorani Gyneciorum libri IV, De signis fracturarum, De fasciis, Vita Hippocratis secundum Soranum, Lipsiae et Berolini, Teubner 1927 («Corpus Medicorum Graecorum», 4), e LSJ, s.v. 163 T. DORANDI , I frammenti papiracei cit., p. 221 sg. 164 Sul fatto che le lettere fossero indirizzate a Cleante e che il titolo dell’opera vada inteso in forma unitaria, cfr. supra, p. 73 sg.

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Come spiegare allora l’espressione Peri; tou= koufivzein uJperhfanivac, la quale non compare nel catalogo di Diogene Laerzio? E soprattutto, e` pensabile che il filosofo stoico indirizzasse un’opera sulla liberazione dalla superbia al collega e amico Cleante, la cui umilta` e affabilita` e` ben nota dalle nostre fonti? 165 Al primo quesito non e` difficile fornire una risposta se si pensa che, come ho gia` avuto modo di rilevare, l’espressione Sul modo di liberare dalla superbia non deve per forza essere interpretata come un titolo. Puo` anche trattarsi di un generico riferimento di Filodemo all’argomento dell’opera da lui citata e, quand’anche vada attribuita allo stesso Aristone, costui poteva averla impiegata nel testo della sua opera (ad esempio all’inizio di essa) con la semplice intenzione di illustrarne lo scopo.166 Quanto alla seconda obiezione, non si deve dare per scontato che il destinatario materiale di una lettera nell’antichita` fosse anche con cio` stesso il destinatario delle esortazioni ivi contenute. Com’e` noto, la lettera era un genere letterario estremamente flessibile in grado di veicolare i messaggi piu` disparati secondo differenti situazioni comunicazionali.167 Se e` valida l’identificazione del nostro ejpictolikovn con una delle Lettere a Cleante, e` possibile immaginare, da un lato, che questi fosse il destinatario materiale della lettera e, dall’altro, che il destinatario reale della parenesi fosse rappresentato da una o piu` persone diverse da Cleante, ma a lui vicine e strettamente collegate. Forse si trattava di alcuni suoi discepoli, quegli stessi che secondo le nostre fonti egli aveva in comune con Aristone di Chio e che dunque quest’ultimo doveva conoscere assai bene.168 Infatti, se e` vero che i due filosofi stoici avevano in comune i propri studenti, allora i discepoli di Cleante erano anche i discepoli di Aristone. Ed e` noto quanto rilievo avesse negli autori diatribici (che per lo piu` erano filosofi cinici e stoici) il problema dell’arroganza dello studente, considerato quasi per natura presuntuoso, al punto che la sua confutazione era considerata il primo obiettivo del filosofo. Secondo Plutarco,169 e` prima necessario svuotare il giovane dalla presunzione, dalla iattanza e dalla boria per poterlo riempire di qualcosa di utile. Ed era lo stesso Aristone di Chio a sostenere che «quei giovani che sono appena usciti dalle scuole filosofiche (oiJ a[rti ejk filocofivac), 165 Cfr., ad es., DIOG . LAE¨ RT . VII 168 (fr. 463 SVF I); VII 171 (fr. 602 SVF I); PLUTARCH . de recta rat. aud. 47 E (fr. 464 SVF I). 166 Cfr. anche supra, p. 10. 167 Sul genere epistolare e sulla parenesi in forma di lettera, cfr. supra, p. 48 sg.; p. 53 sg. 168 Cfr. THEMIST. or. 21, 255 B (fr. 334 SVF I), e supra, p. 74. 169 De recta rat. aud. 39 D e 43 B.

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i quali criticano tutti a cominciare dai loro genitori, si comportano come i cani appena comprati, che abbaiano non solo agli estranei, ma anche a quelli di casa».170 Cio` lo indusse ad adottare, sulla scia dei primi filosofi cinici e soprattutto di Diogene, un metodo pedagogico severo ed esigente che consisteva in una brusca reprimenda volta a sferzare e ridicolizzare gli atteggiamenti supponenti del giovane allievo.171 Lo scritto epistolare Sul modo di liberare dalla superbia, allora, potrebbe rappresentare un valido complemento a questo metodo e il filosofo di Chio, nonostante le divergenze dottrinali su altri argomenti, aveva probabilmente delle buone ragioni per condividerne il contenuto con il compagno e amico Cleante. Non si puo` escludere del tutto nemmeno l’ipotesi che il destinatario ideale dello scritto aristoneo fosse totalmente immaginario, prassi questa per nulla sconosciuta alla parenesi espressa in forma di lettera. Comunque sia, la natura epistolare dell’opera, se non ha la virtu` di dimostrare per via deduttiva che il De liberando a superbia appartiene ad Aristone di Chio, rappresenta tuttavia un’importante indicazione che non si puo` piu` evitare di tenere nella debita considerazione.

3. IL

CONFRONTO CON LA TRADIZIONE PERIPATETICA

Come emerge dalle pagine precedenti, se si esclude il ruolo giocato dalle scelte testuali di Jensen e Kno¨gel, l’argomento che piu` di tutti ha pesato sul problema dell’attribuzione, contribuendo a stabilire l’attuale vulgata, e` stato l’accostamento tra il De liberando a superbia e i Caratteri di Teofrasto e la constatazione che il carakthricmovc fu genere eminentemente coltivato dai discepoli di Aristotele. Mi propongo pertanto di tracciare una rapida serie di raffronti lessicali e metodologici con questa tradizione filosofica riservandomi di affrontare in un capitolo specifico l’importante questione del rapporto di Aristone con la caratterologia peripatetica.172 Innanzitutto, non e` privo di significato il fatto che nello scritto aristoneo non si trovi, 170 STOB. fl. IV 25, 44 H. (fr. 386 SVF I): ejk twn jArivctwnoc oJmoiwmavtwn. oiJ a[rti ejk = filocofivac, pavntac ejlevgcontec kai; ajpo; tw=n gonevwn ajrcovmenoi, pavccoucin o{per kai; oiJ newvnhtoi kuvnec, oi} ouj movnon tou;c a[llouc uJlaktouc= in, ajlla; kai; tou;c e[ndon.

171 Cfr. PLUTARCH . de tuenda san. praec. 133 C (fr. 389 SVF I); STOB . ecl. II 31, 83 (fr. 387 SVF I); flor. III 13, 57 (fr. 384 SVF I); SEN. ep. 36, 3 (fr. 388 SVF I), e A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 110-115. 172 Cfr. cap. II.3.3.

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nemmeno implicitamente, alcun riferimento alla dottrina morale del giusto mezzo, cosı` fondamentale nelle Etiche aristoteliche. Anzi, le virtu` non vi compaiono nemmeno, se si eccettuano un paio di casi isolati, dove pero` esse vengono nettamente contrapposte al vizio corrispondente anziche´, come si fa in Aristotele, essere inserite al centro di una forbice che ha per estremi le sue due degenerazioni.173 La prospettiva sembra dunque essere bipolare, piuttosto che articolata secondo uno schema di tipo ternario.174 Risulta pertanto difficile condividere la mai dimostrata convinzione di Fritz Wehrli secondo cui la caratterizzazione dei tipi aristonei sarebbe basata su questa dottrina aristotelica.175 Va detto inoltre che i termini uJperhvfanoc e uJperhfaniva non compaiono mai nelle opere morali di Aristotele. L’aggettivo e` attestato due volte, con il significato di ‘superbo’, solo nella Retorica. Si tratta di due passaggi limitrofi inclusi all’interno della piu` generale trattazione sugli h[qh, in cui si afferma che la superbia e` uno dei caratteri che si accompagnano alla ricchezza e alla buona fortuna.176 Ma, come ha affermato Giorgio Pasquali, il filosofo nella Retorica non descrive «tipi singoli, improntati ciascuno di un unico difetto, che e` appunto il marchio di fabbrica e insieme il nome della loro personalita`, ma discorre delle qualita` morali congiunte necessariamente o normalmente con determinate eta` e condizioni sociali».177 Il sostantivo, poi, si rinviene una sola volta, nella Costituzione degli Ateniesi, con il significato di ‘magnificenza’.178 Nelle due accezioni ricompare nello Pseudo-Demetrio Falereo e in Clearco.179 Neanche tra i frammenti degli Stoici antichi – e` ` il caso della magnanimita` (megaloyuciva), che viene distinta dalla superbia a 15 23-34, 173 E e del tipo grave (cemnovc), contrapposto al tronfio (cemnokovpoc) a 21 2-15. ` quanto dovette riconoscere inizialmente lo stesso F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des 174 E Aristoteles, VI cit., p. 58, il quale, proprio a motivo di tale bipolarismo, fu costretto a ipotizzare che la caratterizzazione di Aristone fosse influenzata, piu` che da Aristotele, dalla tradizione diairetica platonica: «A(riston)s Differenzierungen geho¨ren in die Tradition der platonischen Begriffsdiha¨resen». 175 Si veda F. WEHRLI , Ru ¨ckblick cit., p. 108: «ist die fein differenzierende Grenzziehung zwischen menschlichen Eigenschaften von der Mesonlehre des Aristoteles bestimmt», e ultimamente, ID., Ariston aus Keos cit., p. 617: «die subtilen Unterscheidungen erinnern an die aristotelische Mesonlehre». Tali affermazioni sono in contrasto con quanto precedentemente asserito dallo studioso. 176 Cfr. ARISTOT. rhet. 1390 B 32-34: tw/ de; plouvtw/ a} e{petai h[qh, ejpipolhc e[ctin ijdein a{pacin: = = = uJbrictai; ga;r kai; uJperhvfanoi, pavccontevc ti uJpo; th=c kthvcewc tou= plouvtou ktl., 1391 A 33-B 1: uJperhfanwvteroi me;n ou\n kai; ajlogictovteroi dia; th;n eujtucivan eijcivn ktl. 177 G. PASQUALI , Sui «Caratteri» cit., p. 49. 178 Cfr. ARISTOT. Ath. resp. 50, 3: dio; kai; ej n ajrch/ th c ej legeivac dedoikevnai fhci; ‘thvn te = = fi[largur]ivan thvn q’uJperhfanivan’, wJc dia; tauta = thc= e[cqrac ejnectwvchc. 179 Cfr. PS .-DEM . PHAL. de eloc. 183; CLEARCH . frr. 46; 65 W.

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vero – ci e` dato riscontrare l’uso dei due termini, ma essi si ritrovano frequentemente in Posidonio nel senso per noi rilevante di ‘superbia’.180 Inoltre, in svariati passi ciceroniani di sicura ascendenza stoica e in Seneca compaiono con frequenza i corrispondenti latini superbus e superbia, accanto a termini affini come arrogantia e insolentia, audacia e contumacia e agli aggettivi e avverbi equivalenti. Veniamo ora rapidamente ai vizi consimili alla superbia delineati nella seconda sezione del De liberando a superbia. In Aristotele l’aujqavdeia (‘insolenza’), il primo dei vizi descritti da Aristone, e` contrapposta all’ajrevckeia (‘piacenteria’), rispetto alla virtu` intermedia della cemnovthc (‘gravita`’), mentre il cemnokovpoc (‘tronfio’), che in Aristone e` la degenerazione del cemnovc, non trova posto nel sistema morale aristotelico. Tuttavia, dai tratti con cui lo si descrive si ricava che anche per Aristotele l’aujqavdhc incarnava un vizio grosso modo affine alla superbia.181 In realta` il termine si ritrova con un significato del tutto simile anche negli Stoici e da esso non si puo` pertanto ricavare alcun indizio a favore dell’attribuzione al Peripatetico.182 Si pensi poi all’aujqevkactoc, che in Aristone rappresenta un vizio (la ‘sufficienza’), laddove in Aristotele e` l’incarnazione di una virtu` (la ‘veracita`’) o al fatto che, mentre esso e` da quest’ultimo presentato come termine medio tra l’ajlazwvn, il ‘millantatore’, e l’ei[rwn, l’‘ironico’, in Aristone si trova sullo stesso piano degli altri due, rappresentando tutti dei vizi tra loro affini.183

180 Cfr. POSIDON . frr. 110; 113; 136 B-E; 137 TH . (desunt in Edelstein-Kidd) = FGrHist 87 F 108 A-D; F-H; T. L’avverbio uJperhfavnwc ritorna in MARC. AUR. ANT. IX 3, 1. 181 Cfr. ARISTOT . eth. eud. 1221 A 8; 1223 B 34-36: cemnovthc de; mecovthc aujqadeivac kai; aj-

reckeivac: oJ me;n ga;r mhde;n pro;c e{teron zw=n katafronhtiko;c aujqavdhc, oJ de; pavnta pro;c a[llon h] kai; pavntwn ejlavttwn a[reckoc, oJ de; ta; me;n ta; de; mhv, kai; pro;c tou;c ajxivouc ou{twc e[cwn cemnovc, magn. mor. I 28, 1: cemnovthc dev ejctin aujqadeivac ajna; mevcon te kai; ajreckeivac, e[ctin de; peri; ta;c ejnteuvxeic. o{ te ga;r aujqavdhc toiou=tovc ejctin oi|oc mhqeni; ejntucein= mhde; dialegh=nai (ajlla; tou[noma e[oiken ajpo; tou= trovpou keic= qai: oJ ga;r aujqavdhc aujtoavdhc tic ejctivn, ajpo; tou= aujto;c auJtw/= ajrevckein). Cfr. anche PS.-

POLEM. phys. 4, 7; 7, 12; 36 B 4, 18, e PLUTARCH. Alc. 43. 182 Cfr. STOB. ecl. II 102, 11 W. (= CHRYSIPP. fr. 615 SVF III): ou[te ga;r a[rcein ou[t ’a[rcecqai oi|ovc ^ t’& ejctin oJ a[frwn, aujqavdhc tic w]n kai; ajnavgwgoc. Si veda W. KNO¨GEL, op. cit., pp. 26-28. 183 Cfr. ARISTOT . eth. nic. 1127 A 20-26: dokei dh; oJ me;n ajlazw;n procpoihtiko;c twn ejndovxwn = =

ei\nai kai; mh; uJparcovntwn kai; meizovnwn h] uJpavrcei, oJ de; ei[rwn ajnavpalin ajrneic= qai ta; uJpavrconta h] ejlavttw poiein, = oJ de; mevcoc aujqevkactovc tic w]n ajlhqeutiko;c kai; tw/= bivw/ kai; tw/= lovgw/ ta; uJpavrconta oJmologw=n ei\nai peri; auJtovn, kai; ou[te meivzw ou[te ejlavttw, eth. eud. oJ de; ajlhqh;c kai; aJplou=c, o}n kalou=cin aujqevkacton, mevcoc tou= ei[rwnoc kai; ajlazovnoc, e 17 19-18 12; 19 18-20 4. Si veda pure

C. GALLAVOTTI, Teofrasto e Aristone cit., p. 478. Non e` vero, come sostiene W. KNO¨GEL, op. cit., p. 29, che il significato di auqevkactoc come ‘verace’ che il termine possiede in Aristotele, non si ritrovi piu` nella letteratura successiva. Esso si rinviene, oltre che nel passo di Cleante (fr. 557 SVF I) gia` citato dallo studioso tedesco, anche in STRAB. IV 4, 2; PLUTARCH. Lys. 21, 4; comp. Alc. et Cor. 2, 1; Cat. Mai. 6, 4. Assume invece il valore di ‘ostinato’ in MEN. Sam. 205; PLUTARCH. praec. ger. reip. 823 A.

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ARISTONE DI CEO O ARISTONE DI CHIO?

E` stato lo stesso Kno¨gel ad affermare che in questo punto Aristone e` indipendente dalla dottrina del Peripato e che egli ignorava completamente l’antico significato del termine usato da Aristotele.184 Quanto al panteidhvmwn, l’‘onnisciente’, esso e` documentato soltanto nella lettera aristonea, ne´ puo` considerarsi sufficiente il riferimento che nel corso della descrizione il suo autore fa alla necessita` dell’esercizio per l’apprendimento (20 4-33) a dimostrare che l’opuscolo sia di matrice peripatetica per il fatto che i discepoli di Aristotele sostenevano la complementarita` di mavqhcic e a[ckhcic.185 Anche lo stoico eterodosso Aristone di Chio, infatti, sottolineava la necessita` dell’esercizio per l’acquisizione della virtu` e anzi proprio tale dottrina rivestiva una particolare importanza all’interno della sua teoria morale.186 Si vedra` anzi in seguito come dai passi corrispondenti siano ricavabili indizi che ci spingono piu` persuasivamente verso questa seconda direzione. Riguardo poi allo uJperovpthc (‘sprezzante’), questo aggettivo e` attestato tre volte nelle Etiche aristoteliche,187 ma delle sue sottospecie, il cemnokovpoc (‘tronfio’) e il brenquovmenoc (‘altezzoso’), il primo non risulta attestato altrove,188 mentre brenquvomai e` testimoniato in una varieta` di autori non significativi per la nostra ricerca.189 Neanche gli ultimi due vizi delineati da Aristone, l’ejxeutelicthvc (‘denigratore’) e l’ejxoudenwthvc (‘vilipensore’) sono documentati al di fuori del nostro scritto (o del De superbia), mentre lo sono i verbi e i nomina actionis corrispondenti.190 184 Si veda W. KNO ¨ GEL , op. cit., p. 30: «In diesem einem Punkt zeigt sich Ariston unabha¨ngig von der systematischen Doktrin des Peripatos; [...] Ariston die Alte Bedeutung des Wortes, die Aristoteles gebraucht hatte, ga¨nzlich ignoriert». Per spiegare il fatto lo studioso ricorre all’ipotesi che Aristone abbia utilizzato il termine nell’accezione da esso posseduta nella letteratura popolare del tempo. 185 Cfr. ivi, pp. 30-32. 186 Cfr. STOB. fl. IV 52 A , 18; SEN . ep. 94, 3; CLEM. ALEX. strom. II 20, 108 (fr. 370 SVF I) e A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 115-118. 187 Cfr. ARISTOT. eth. nic. 1124 A 20-29; magn. mor. II 3, 13-15. In ogni caso, la uJperoyiva, tanto in Aristotele quanto in Aristone, ha una valenza sempre negativa e non puo` pertanto essere considerata «un tratto comune della virtu` della magnanimita` e del vizio della superbia», come voleva W. KNO¨GEL, op. cit., p. 20. 188 Il verbo corrispondente cemnokopevw si ritrova nello stesso PHILOD . rhet. IV (PHerc. 1423), fr. 20, 3-4, p. 159 S. II. 189 Cfr. ARISTOPH . Lys. 887; nub. 362; pax 26; PLAT . symp. 221 B ; HERACL. PONT . fr. 163, 34 W. (deest in LSJ); LUC. dial. mort. 10, 8; Tim. 54; ATHEN. XIV 625 B; LIB. or. 56, 17; ANTH. PAL. IV 3, 340 (Agath.); AELIAN. de nat. an. V 36; SUID. s.v. brenquvecqai; HESYCH. s.v. brenquvetai; s.v. brenquovmenoc; Schol. ARISTOPH. pax 25-26; fr. com. adesp. 506 KOCK (deest in PCG). Si vedano E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., pp. 222-224. 190 eujtelivzw e ` attestato in PLUTARCH. de comm. not. 1073 C; LUC. pro im. 13; Cat. Cod. Astr.

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PARTE SECONDA

3.1. Il ritratto dell’ironico Un capitolo a parte merita senza dubbio la trattazione dell’ironico (ei[rwn) per l’interesse che essa ha suscitato vuoi tra gli studiosi di Aristone e Filodemo vuoi tra i teorici dell’ironia. Ora, e` noto che tanto in Aristone quanto in Aristotele l’eijrwneiva e` equiparata a un vizio. Ma mentre il primo la considera esplicitamente una forma di iattanza (ajlazoneiva),191 ponendola cioe` sul medesimo piano rispetto ad essa, il secondo la contrappone nettamente a questo vizio in rapporto alla virtu` intermedia della veracita` (ajlhvqeia).192 Vero e` che talvolta, nella sua forma estrema, l’ironia puo` apparire anche come una specie di iattanza e che l’eccessiva sottovalutazione di se stessi finisce per essere millantatoria (ajlazonikovn).193 Ma cio` non autorizza a pensare, come e` stato fatto, che la distinzione tra i due concetti sia solo formale e che l’ironia rappresenti tutto sommato per Aristotele una forma di iattanza,194 poiche´ per questo filosofo gli ironici minimizzano la VIII 4, 205; ejxeutelivzw in ACUS. 2 F 28 FGrHist; ATHEN. XI 494 D; IOS. ant. Iud. VI 5, 3; XVIII 1, 3, e PLUTARCH. Alex. 28, 5, dove il termine e` usato in associazione con kateirwneuvw. Per eujtelicmovc cfr. ANONYM. de subl. 11, 2; per ejxeutelicmovc DION. HAL. de Thuc. 3; SYMM. ad Ps. 122 (123), 6. Il verbo oujdenovw e` attestato solo in ETYM. MAGN. 350, 25; ejxoudenovw in VT (Sept.) Iud.9, 38; ejxoudenevw in VT (Sept.) II Regn. 19, 21 passim; ejxoudenivzw in PS.-PLUTARCH. par. min. 308 E; 310 C; per oujdevnwcic cfr. THEODOT. ad Is. 34, 11; per ejxoudevnwcic VT (Sept.) Ps. 30 (31), 19; per ejxoudenicmovc AQ. ad Ps. 122 (123), 4. Si veda anche ejxoudevnwma in VT (Sept.) Ps. 89 (90), 5; HESYCH. s.v. prophlakicmovc, e Comm. a 24 2-8. 191 Cfr. 22 39-40: oJ d’ei[rwn wJc ejpi; to; | p[l]eivcton ajlazovnoc ei\doc. ei[rwn e ajlazwvn sono messi . sullo stesso piano anche in ARISTOPH. nub. 449. Cfr. anche ARISTOPH. vesp. 174; av. 1211, e F. ALESSE, La Stoa cit., pp. 286-88. Ha ragione W. KNO¨GEL, op. cit., p. 38, ad affermare che i comici recepirono tale accostamento dalla concezione popolare. 192 Cfr. ARISTOT. eth eud. 1221 A 6: ajlazoneiva - eijrwneiva - ajlhvqeia, 24-25: ajlazw;n de; oJ pleivw twn= uJparcovntwn procpoiouvmenoc, ei[rwn de; oJ ejlavttw, 1233 B 39-1234 A 3: oJ me;n ga;r ejpi; ta; ceivrw kaq’auJtou= yeudovmenoc mh; ajgnow=n ei[rwn, oJ d’ejpi; ta; beltivw ajlazwvn, oJ d’wJc e[cei, ajlhqh;c, eth. nic. 1108 A 21-22: hJ de; procpoivhcic hJ me;n ejpi; to; meizon ajlazoneiva kai; oJ e[cwn aujth;n ajlazwvn, hJ = d’ejpi; to; e[latton eijrwneiva kai; ei[rwn, 1127 A 20-26; magn. mor. I 7, 4; 32: oJ me;n ga;r ajlazwvn ejctin oJ pleivw tw=n uJparcovntwn auJtw/= procpoiouvmenoc ei\nai, h] eijdevnai a} mh; oi\den, oJ d’ei[rwn ejnantivoc touvtw/ kai; ejlavttw tw=n uJparcovntwn procpoiouvmenoc auJtw/= ei\nai, kai; a} oi\den mh; favckwn, ajll’ejpikruptovmenoc to; eijdevnai. I primi a riconoscere la diversa interpretazione dell’ironia in

Aristone, Aristotele e Teofrasto furono H. SAUPPE (ed.), op. cit., p. 30, e J.L. USSING (ed.), op. cit., p. 175. 193 Cfr. ARISTOT. eth. nic. 1127 B 26-29: oiJ de; ta; mikra; kai; fanera; [procpoiouvmenoi] baukopanou=rgoi levgontai kai; ujpokatafronhtovteroiv eijcin: kai; ejnivote ajlazoneiva faivnetai, oi|on hJ tw=n Lakwvnwn ejcqhvc: kai; ga;r hJ uJperbolh; kai; hJ livan e[lleiyic ajlazonikovn. Si vedano M.L. NARDELLI,

L’ironia in Polistrato e Filodemo, in Atti del XVII Congresso Internazionale di Papirologia. Napoli, 19-26 Maggio 1983, Napoli, CISPE 1984, II, p. 529 sg.; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., pp. 109-112. 194 Si veda F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 61: «Diese (sc. Aristons) Einordnung widerspricht scheinbar der aristotelischen Verbindung beider Charaktere mit dem ajlhqhvc (oder aujqevkactoc) als mevcoc [...], aber der Gegensatz zwischen ajlazwvn und ei[rwn ist bei Aristoteles nur formal».

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realta` su se stessi al preciso scopo di evitare l’esibizionismo (feuvgontec to; ojgkhrovn).195 Nemmeno l’osservazione, basata su un passo della Retorica 196 e piu` volte ripetuta dagli studiosi, secondo cui l’ironia sarebbe per lui «espressione di disprezzo» 197 vale a suffragare sino in fondo tale tesi, perche´ da nessuna parte in Aristotele il millantatore (ajlazwvn) e` definito parimenti sprezzante. La realta` e` che nel filosofo di Stagira l’ironia non possiede una connotazione realmente negativa. Al contrario, nelle Etiche essa appare sempre disinteressata e, se usata con misura senza dissimulare meriti che sono troppo comuni ed evidenti, ce se ne puo` avvalere legittimamente, come fanno le persone raffinate (carievcteroi), per fuggire l’ostentazione.198 Cosı` anche il magnanimo, solitamente parrhciacthvc, la puo` utilizzare nei confronti della massa per una forma di modestia e di cortesia che tende a minimizzare le cose, affermando meno di quanto si potrebbe.199 In definitiva – afferma esplicitamente Aristotele – «e` il millantatore a contrapporsi all’uomo verace, in quanto peggiore dell’ironico».200 Anche nella Retorica, dove peraltro il concetto non viene inteso in maniera uniforme,201 si asserisce che l’ironia si addice agli uomini liberi piu` della buffoneria (bwmolociva), in quanto l’ironico genera il riso per conto proprio, il buffone invece per conto di altri.202 Si ricava dunque una concezione mitigata dell’ironia, la quale emerge Cfr. infra, p. 109 nota 198. 1379 B 30-31: kai; toi = c eijrwneuomevnoic (sc. ojrgivzontai) pro;c cpoudavzontac: katafronhtiko;n ga;r hJ eijrwneiva. ¨ ußerung der Mißachtung», secondo l’espressione dello stesso F. WEHRLI (Hrsg.), Die 197 «A Schule des Aristoteles, VI cit., p. 61. Si vedano anche M.L. NARDELLI, art. cit., p. 529 sg., ed E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 109 sg., p. 220 sg. 198 Cfr. ARISTOT . eth. nic. 1127 B 22-32: oiJ d’ei[ rwnec ejpi; to; e[ latton lev gontec cariev cteroi 195

196

me;n ta; h[qh faivnontai: ouj ga;r kevrdouc e{neka dokou=ci levgein, ajlla; feuvgontec to; ojgkhrovn: mavlicta oi|on kai; Cwkravthc ejpoivei [...]. oiJ de; metrivwc crwvmenoi th/= de; kai; ou|toi ta; e[ndoxa ajparnountai, = eijrwneiva/ kai; peri; ta; mh; livan ejmpodw;n kai; fanera; eijrwneuovmenoi cariventec faivnontai. ajntikei =cqai d’oJ ajlazw;n faivnetai tw/= ajlhqeutikw/=: ceivrwn gavr. Cfr. anche 1127 A 30-32: ou{tw de; kai; oJ me;n ajlhqeutiko;c mevcoc w]n ejpainetovc, oiJ de; yeudovmenoi ajmfovteroi me;n yektoiv, mallon d’oJ ajlazwvn. = 199 Cfr. ivi, 1124 B 29-31: parrhciacth;c (sc. ejctin oJ megalovyucoc) ga;r dia; to; katafronhtiko;c ei\nai kai; ajlhqeutikovc, plh;n o{ca mh; di’eijrwneivan pro;c tou;c pollouvc. Si vedano E. ACOSTA ME´NDEZ-

A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 110. 200 A RISTOT. eth. nic. 1127 B 22-32. Si veda A.M. I OPPOLO , Il Peri; tou koufiv zein cit., = pp. 721-723. 201 Si vedano Z. PAVLOVSKIS, Aristotle, Horace and the Ironic Man, «CPh», LXIII, 1968, p. 22 sg.; L. BERGSON, Eiron und Eironeia, «Hermes», XCIX, 1971, p. 411 sg.; G. MARKANTONATOS, On the Origin and Meanings of the Word eijrwneiva, «RFIC», CIII, 1975, p. 18. 202 Cfr. ARISTOT. rhet. 1419 B 8-10: e[cti d’hJ eijrwneiva thc bwmolocivac ejleuqeriwvteron: oJ me;n = ga;r auJtou= e{neka poiei = to; geloion, = oJ de; bwmolovcoc eJtevrou, divis. 58, 19-22: oJ de; eijrwneuovmenoc ejpi;

to; e[latton yeuvdetai: o{ te ga;r plouvcioc pevnhc fhci;n ei\nai, ejan; eijrwneuvhtai, kai; oJ cofo;c oujk ei\nai cofovc.

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PARTE SECONDA

dai passi considerati come una «relativa virtu`».203 Non e` probabilmente lontana dal vero la teoria secondo cui la venerazione di Aristotele per la figura di Socrate gioco` un ruolo determinante nel suo modo di concepire l’ironia e nella storia del concetto in generale.204 In Aristone, invece, l’ironia ha un’accezione sempre e comunque negativa.205 All’opposto rispetto ad Aristotele, essa non e` un’umile e disinteressata dissimulazione delle proprie doti e dei propri meriti, ma una forma di arroganza che mira a ridicolizzare i propri avversari e ad affermare, attraverso artifici dialettici di vario genere, la propria eccellenza su di essi.206 E` proprio su questa superbia intellettuale che si fonda l’affinita` dell’ironico con il superbo ed e` essa che ne giustifica la menzione tra i vizi affini a quest’ultimo.207 La stessa professione di ignoranza, di cui nel nostro ritratto compare un’esplicita formulazione (22 22-24: ‘‘Ma io che so se non questo, che non so nulla?’’) e su cui ritorneremo, non possiede dignita` autonoma, ma e` assorbita, come una tra le altre, fra le molteplici caratteristiche dell’ironico e deve essere per cio` stesso interpretata come insincera, cioe` come 203 Si veda W. KNO ¨ GEL , op. cit., p. 36: «Aristoteles in der Nikomachischen Ethik eine Mildere Auffassung vom ei[rwn hat. [...] Ja, die eijrwneiva wird in den na¨chsten Stellen sogar als relative Tugend angesehen». Vedasi anche L. BERGSON, art. cit., p. 414: «In seinen ethischen Schriften hat Aristoteles systematisch ein sympathischeres Bild eines Eirons herausgearbeitet». 204 Cfr. ARISTOT. eth. nic. 1127 B 22-32 cit. Questa teoria risale ad O. RIBBECK , U ¨ber den Begriff des ei[rwn, «RhM», XXXI, 1876, p. 384, ed e` stata criticamente recepita da W. KNO¨GEL, ¨ber den Begriff der Eironeia, «Hermes», LXXVI, 1941, p. 340 e op. cit., p. 36; W. BU¨CHNER, U nota 1; T. DEMAN, Le te´moignage d’Aristote sur Socrate, Paris, Les Belles Lettres 1942, p. 56; P. STEINMETZ (Hrsg.), Theophrast. Charaktere, Mu¨nchen, Hueber 1962, II, p. 34 sg.; R. STARK, Sokratisches in den Vo¨geln des Aristophanes, «RhM», XCVI, 1953, pp. 77-81; Z. PAVLOVSKIS, art. cit., p. 22; R.A. GAUTHIER-J.Y. JOLIF, Aristote. L’Ethique a` Nicomaque, Louvain-Paris, Be´atriceNauwelaerts 19702, II, p 117; L. BERGSON, art. cit., p. 413 sg.; G. MARKANTONATOS, art. cit., p. 18; M.L. NARDELLI, art. cit., p. 529; P.W. GOOCH, Socratic Irony and Aristotle’s Eiron. Some Puzzles, «Phoenix», XLI, 1987, pp. 99-104; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 110 sg., e F. ALESSE, La Stoa cit., p. 287. Isolata e` la tesi avanzata da V. TSOUNA, Aristo on Blends cit., p. 279 nota 1, secondo la quale la concezione dell’ironia espressa da Aristotele nell’Etica Nicomachea sarebbe compatibile con un giudizio (relativamente) negativo sulla figura di Socrate. 205 Si veda Z. PAVLOVSKIS, art. cit., p. 26: «in the entire description there is no attractive trait that might redeem him (sc. the eiron)». 206 A riconoscerlo e ` lo stesso W. KNO¨GEL, op. cit., p. 36: «Ariston [...] im Gegensatz zum beschreibenden Aristoteles die eijrwneiva ausdru¨cklich als ein hochmu¨tiges Laster tadelt». Si veda anche W. BU¨CHNER, art. cit., p. 350. 207 Gia ` nel Simposio di Platone (219 C; 221 C) Alcibiade associava giocosamente nella persona di Socrate l’accusa di uJperhfaniva al suo eijrwneuvecqai e brenquvecqai e, come sappiamo, sia l’ei[rwn che il brenquovmenoc erano descritti da Aristone come due vizi affini alla superbia. Si veda W. KNO¨GEL, op. cit., p. 23: «Plato fasst hier die uJperhfaniva als Hochmut, zu der als Unterbegriff die eirwneiva geho¨rt». Lo studioso ritiene che tale collegamento corrisponda alla concezione popolare secondo la quale la causa della superbia di Socrate andrebbe ricercata nella sua ironia. Il ritratto dell’ei[rwn di Aristone non sarebbe altro che un precipitato («Niederschlag») di siffatta concezione.

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strumento di ironica dissimulazione. Invece, l’unica volta che tale concetto e` presente in Aristotele (soph. el. 183 B 6-8), non si fa alcun riferimento all’ironia.208 Nel complesso con Aristone siamo concettualmente distanti da Aristotele, il quale mostra di nutrire un’innegabile simpatia verso chi fa uso dell’ironia, laddove il personaggio delineato dall’altro rappresenta, come e` stato affermato, «il piu` antipatico di tutti gli ironici».209 Nei Fisiognomici figurano due passi che definiscono alcuni rapidi tratti dell’ironico (ei[rwn) e dell’insolente (aujqavdhc),210 i quali pero` non trovano alcun riscontro nella lettera aristonea. Se si guarda poi al criterio che utilizza l’autore del trattato pseudo-aristotelico per distinguere nel cosiddetto ‘‘primo catalogo’’ i differenti caratteri umani che vi compaiono, ci si puo` avvedere che esso non e` di tipo ne´ etico ne´ medico, ma fisiognomico appunto. Sicche´ nel caso specifico non e` legittimo parlare di diagnosi, poiche´ i differenti tipi umani ivi catalogati non sono concepiti ne´ come vizi, ne´ come malattie, ma come h[qh o ‘fisionomie’, vale a dire caratteri umani fondati su una fuvcic e non frutto di qualche pavqoc. Nello scritto di Aristone, al contrario, ci troviamo di fronte a veri e propri vizi di cui e` possibile e necessario liberarsi e che Aristone paragona esplicitamente alla malattia fisica.211 Inoltre l’analogia fisiognomica dei differenti caratteri umani con gli animali, sulla quale e` fondato tutto il ‘‘primo catalogo’’, non trova riscontro di sorta nel De liberando a superbia. Al contrario, si mette chiaramente in evidenza l’assoluta superiorita` dell’uomo sul mondo animale (15 34-16 1). 208 Secondo A.A. LONG , Socrates in Hellenistic Philosophy, «CQ», XXXVIII, 1988, p. 157, la totale assenza di questo concetto in tutti gli altri passi in cui Aristotele fa riferimento a Socrate sembra suggerire che egli non considerasse la professione di ignoranza un elemento costitutivo della filosofia socratica. 209 Si veda L. BERGSON , art. cit., p. 416: «Dieser Heuchler ist der unsympathischste der aller Eirones, die uns begegnet sind». Gia` W. BU¨CHNER, art. cit., p. 353, aveva sottolineato la notevole differenza sussistente tra le due descrizioni: «Der Eiron, der uns bei Ariston-Philodem entgegentritt, ist von dem des Aristoteles, des Theophrasts, des Demosthenes sehr verschieden: jener ein Schalk, der beschra¨nkte Leute zum besten hat, bei Aristoteles ein Ho¨flicher, dem es peinlich ist seine U¨berlegenheit anderen Menschen gegenu¨ber zur Schau zu stellen». Si veda anche Z. PAVLOVSKIS, art. cit., p. 26: «Here (sc. in Ariston) we are even farther removed from Aristotle than we were in reading Theophrastus». W. KNO¨GEL, op. cit., p. 37, tentava di spiegare tale diversita` di concezione nei due autori postulando un mutamento di significato tutto interno al Liceo da Aristotele ad Aristone passando per Teofrasto, il quale sarebbe fautore, per cosı` dire, di una posizione intermedia. 210 Cfr. PS .-ARISTOT . physiogn. 808 A 27-29: ei[rwnoc chmeia pivona ta; peri; to; provcwpon, kai; = ta; peri; ta; o[mmata rJutidwvdh: uJpnwde = c to; provcwpon tw/= h[qei faivnetai, 811 B 33-35: oiJ de; tetravgwnon

cuvmmetron tw/= metwvpw/ e[contec megalovyucoi: ajnafevretai ejpi; tou;c levontac. oiJ de; cunnefe;c e[contec aujqavdeic: ajnafevretai ejpi; tau=ron kai; levonta ktl., 811 B 39-812 A 1: h{ te cunnefh;c e{xic aujqavdeian

ejmfaivnei.

211 Cfr., ad es., 15 23-27: kai; diaire[in] megalo|yucivan uJperhfan[iv]ac, ajlla; mh; | cumfurein . = . = wJc e}n kai; tautov[n]: diafev|rei g.a;r o{con kai; [ej]pi; tou= cwvmatoc | oijdhvcewc eujexiva.

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PARTE SECONDA

La circostanza poi che tanto Aristone quanto l’autore dei Fisiognomici privilegino la descrizione di caratteri negativi 212 non rappresenta di per se´ un fatto straordinario. Se Aristone, specialmente nella seconda sezione della lettera, tratta principalmente dei vizi piuttosto che delle rispettive virtu` e` semplicemente perche´ con essi si propone di descrivere i tipi affini a una vera deformita` morale (la superbia) che, in quanto tale, non puo` avere manifestazioni positive. Quanto poi al trattato Sulle virtu` e i vizi, che pure si e` voluto associare alla lettera aristonea,213 non vi figurano riferimenti ne´ all’ironia ne´ ad alcun altro dei vizi presenti in Aristone, se non nel caso del tutto isolato della iattanza (ajlazoneiva),214 che pero` e` concepita piuttosto come una forma di ingiustizia (ajdikiva) che di superbia.215 Il fatto inoltre che a ciascuna virtu` o vizio si faccia seguire una lista di altre virtu` e vizi ad essi collegati non e` di per se´ sufficiente a dimostrare una presunta dipendenza metodologica del De liberando a superbia dal trattato pseudo-aristotelico, tanto piu` che mentre in questo essi sono aridamente elencati, in Aristone essi vengono regolarmente sviluppati e minutamente descritti. Ne´ in esso vengono mai richiamate le virtu` corrispondenti ai vizi descritti, se non nel caso isolato della magnanimita` (megaloyuciva) e della gravita` (cemnovthc).216 Nei Caratteri di Teofrasto l’ironico (ei[rwn) e` definito in modo quasi identico a quanto si fa nell’Etica Nicomachea, se si eccettua l’espressione ejpi; to; ceiron («tendente a dare di se´ un’immagine peggiore di quella reale») = invece di ejpi; to; e[latton («tendente all’autoridimensionamento»).217 Ma, com’e` noto, la descrizione successiva non corrisponde in nulla alla definizione iniziale. Non mi soffermero` qui sulla spiegazione da dare a tale incongruenza, del resto tutt’altro che isolata nell’ambito dell’opuscolo.218 Sta di 212 Ma nel caso degli h[qh delineati nei Fisiognomici e ` piu` corretto parlare di tipi moralmente neutri, e non per lo piu` «morally negative» come vorrebbe S. VOGT, art. cit., p. 270. Nell’opuscolo pseudo-aristotelico, infatti, non vi e` traccia di una valutazione morale dei tipi descritti. Non altrettanto si puo` dire dei vizi analizzati da Aristone. 213 Si vedano M. CACOUROS , Le traite ´ pseudo-aristote´licien De virtutibus et vitiis, in DPhA, Supple´ment, Paris, CNRS 2003, p. 519 sg.; S. VOGT, art. cit., p. 268 sg. 214 Essa e ` menzionata solo di passaggio in 19 6-7; 21 40. 215 PS .-ARISTOT . de virt. et vit. 1251 B 2-3: ajkolouqei de; th/ ajdikiva/ cukofantiva, ajlazoneiva = = ktl. 216 Cfr. 15 23-34 e 21 2-5. 217 Cfr. THEOPHR. char. 1, 1: hJ me;n ou\n eijrwneiva dovxeien a]n ei\nai, wJc tuvpw/ labein, = procpoivhcic ejpi; ceiron pravxewn kai; lovgwn. = 218 Si vedano TH . GOMPERZ, U ¨ber die Charaktere cit., pp. 1-20; R.G. USSHER (ed.), The Characters of Theophrastus, London, Mac Millan 1960, p. 7.

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fatto che, come e` stato evidenziato pressoche´ unanimemente dagli studiosi, l’ironico descritto da Teofrasto non sembra affatto essere mosso dall’intenzione di mostrarsi peggiore o meno capace di quel che realmente e` («Selbstverkleinerung»), ne´ risulta aver nulla a che fare con il desiderio del magnanimo aristotelico di minimizzare i propri meriti di fronte alla massa, ma assomiglia piuttosto a un «piccolo borghese» che pensa solo al proprio tornaconto personale.219 Robert G. Ussher preferiva parlare di una «fine indifferenza, un’indisponibilita` ad essere coinvolto in cio` che, dopo tutto, non lo riguarda».220 Zoja Pavlovskis, dal canto suo, lo ha definito non piu` di «un irritante bugiardo (an annoying liar)» e ha ribadito insieme a Leif Bergson che, diversamente da Aristone, dal quale essa e` concepita in senso strettamente filosofico, l’ironia in Teofrasto e` intesa nel significato del linguaggio comune proprio dei suoi contemporanei.221 In altri termini, mentre leggendo il ritratto di Aristone si ricava l’immagine di un fine dissimulatore che umilia pubblicamente se stesso per sminuire gli altri, allo scopo di prevalere dialetticamente sull’interlocutore e affermare cosı` indirettamente la propria eccellenza su di essi, in Teofrasto il tipo ironico non e` piu` di un meschino opportunista che mente a scopo di lucro.222 Inoltre, l’ironico di Aristone e` esemplato quasi interamente sul Socrate platonico e ad esso sistematicamente si richiama, sebbene in una luce non favorevole, e cosı` tutta la descrizione e` collocata in un contesto dialettico. Si tratta, in ogni caso, di un personaggio di notevole calibro intellettuale che per le sue peculiari caratteristiche non puo` essere accostato all’ironico di Teofrasto, il quale e` un banale ipocrita che con Socrate e con i filosofi non ha nulla a che vedere.223 Se poi si passa a esaminare nel dettaglio le descrizioni teofrastee dell’insolente (aujqavdhc) e del superbo (uJperhvfanoc), le uniche, insieme a quella dell’ironico, che Teofrasto ha in comune con Aristone, sara` sufficiente avvedersi che, dei singoli tratti con cui essi vengono delineati, nemmeno uno trova adeguato riscontro nei corrispondenti caratteri di Aristone (e viceversa), per prendere atto che non puo` essere dimostrata per questa via la presunta dipendenza del De liberando a superbia dal filosofo di Ereso.224 Si veda W. BU¨CHNER, art. cit., pp. 347; 350. R.G. USSHER (ed.), op. cit., p. 35: «a polite indifference, an unwillingness to be drawn into what, after all, does not concern him». 221 Si vedano Z. PAVLOVSKIS , art. cit., p. 25 sg.; L. BERGSON , art. cit., p. 415. 222 A riconoscerlo e ` lo stesso W. KNO¨GEL, op. cit., p. 37: «Dieser (sc. Ariston) stiess sich [...] nicht so sehr wie Theophrast an den Lu¨gen des ei[rwn, sondern an seinem versteckten Hochmut». 223 Si veda A.M. IOPPOLO , Il Peri; tou koufivzein cit., p. 723 sg. = 224 Cfr. infra, cap. II.3.3. Anche F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 59, 219

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Se poi si guarda ai successivi esponenti del Liceo che in un modo o nell’altro si occuparono di Socrate, si cerchera` invano una rappresentazione negativa dell’ironia che ricordi quella di Aristone. Da Aristosseno ad Aristone di Ceo, non vi e` anzi nelle testimonianze superstiti alcun riferimento all’ironia in quanto tale.225 Tale concezione negativa si concilia invece particolarmente bene con il pensiero degli Stoici antichi sull’argomento, che consideravano l’ironia un mezzo proprio degli stolti, indegno di un uomo libero e, in modo speciale, del sapiente.226 Solo nel II sec. a.C., e dunque abbastanza piu` tardi rispetto all’autore del De liberando a superbia, Diogene di Babilonia e Panezio provvederanno a rivalutare il concetto nell’ambito della Stoa, il primo in senso tecnico-retorico, come elemento essenziale del genus tenue,227 il secondo anche in senso etico-sociale, come forma di emancipazione dalle convenzioni che si manifesta in una vita semplice e frugale e nel ridimensionamento di se stessi in seno alla societa` civile.228 Si tratta, sia in un senso che nell’altro, di una forma raffinata di dissimulazione che avrebbe come modello il Socrate delle Etiche aristoteliche.229 e` costretto ad ammettere che tra questi caratteri teofrastei e i corrispondenti vizi aristonei manca una concordanza tra i singoli tratti («es aber an U¨bereinstimmung der Einzelzu¨ge fehlt)». Non e` suffragata dall’indicazione di passi specifici l’opinione di V. TSOUNA, Aristo on Blends cit., p. 279 nota 1, secondo la quale «Theophrastus’ description of the proud man has features encountered also in Aristo’s description of arrogant types». 225 Cfr. I B 7; 41-58 SSR; DIOG . LAE¨RT. IX 11 (ARISTO CEUS fr. 24 A SFOD); II 22 (ARISTO CEUS fr. 24 B SFOD), e A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 724 e nota 23. 226 Cfr. STOB. ecl. II 108, 5 W. (fr. 630 SVF III): to; d’eijrwneuvecqai fauvlwn ei\naiv facin, oujdevna ga;r ejleuvqeron kai; cpoudaion = eijrwneuvecqai. oJmoivwc de; kai; to; carkavzein, o{ ejctin eijrwneuvecqai met jejpicurmou= tinoc. Per una storia del concetto di ei[rwn si veda O. RIBBECK,

art. cit.; sull’ironia socratica e il suo influsso nelle epoche successive, G. VLASTOS, The Paradox of Socrates, in The Philosophy of Socrates. A Collection of Critical Essays, Garden City (New York), Anchor Books 1971, pp. 1-21; ID., Socratic Irony, «CQ», XXXVII, 1987, p. 86 sg.; ID., Socrates. Ironist and Moral Philosopher, Ithaca (New York), Cornell Univ. Press 1991, pp. 3039, F. AMORY, Eiron and Eironeia, «Classica et Mediaevalia», XXXIII, 1981/1982, pp. 49-80; ID., Socrates the Legend, «Classica et Mediaevalia», XXXV, 1984, pp. 19-56; D. MORRISON, On Professor Vlastos’ Xenophon, «APh», VII, 1987, pp. 9-22; A.A. LONG, Socrates cit., pp. 150-171; F. ALESSE, La Stoa cit., pp. 286-288. 227 Si tratta di quell’umorismo sottile e disincantato caratteristico del sermo, che aveva come modello gli scritti socratici e che fu teorizzato da Diogene di Babilonia per essere poi perfezionato ed esportato a Roma probabilmente da Panezio, che di Diogene fu discepolo. Egli ne sottolineo` la matrice socratica e lo introdusse nel circolo degli Scipioni forse con l’intento di distanziarsi dall’asprezza dello stile cinico. Esso poi, presumibilmente tramite Lucilio e Cicerone, che lo distinse con il nome di urbanitas o urbana dissimulatio (CIC. de or. II 269), fu trasmesso ad Orazio, il quale lo sviluppo` in sommo grado impiegandolo sistematicamente nelle sue satire. Si vedano G.C. FISKE, The Plain Style in the Scipionic Circle, Madison, s.e. 1919 («University of Wisconsin Studies in Language and Literature», 3), pp. 73-79 e passim; ID., Lucilius and Horace cit., pp. 100-104 e passim; M. GRANT, op. cit., p. 124; Z. PAVLOVSKIS, art. cit., p. 27 sg.; L. BERGSON, art. cit., p. 421 sg.; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 106. 228 Cfr. CIC. de off. I 148, e F. ALESSE, La Stoa cit., p. 288. 229 Si veda L. BERGSON, art. cit., p. 421 sg.

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Ora, e` noto che anche Epicuro e i suoi discepoli condannarono l’ironia, al pari della retorica, come indegna di studio,230 ma Filodemo di Gadara non si allineo` del tutto al dogma epicureo su questo come su altri argomenti.231 In effetti, per quanto e` possibile ricostruire dai resti della sua opera, se si esclude la descrizione dell’ironico attinta da Aristone, da tutti i luoghi filodemei in cui si fa riferimento all’ironia emerge una concezione che non sembra essere affatto negativa. E questo sia allorche´ essa viene intesa in senso retorico, come tecnica allusiva atta a esprimere in modo garbato una forma del comico oratorio o viene inclusa nel novero dei trovpoi come una specie di allegoria,232 sia allorquando e` considerata in senso etico-pedagogico, come strumento di cui si avvale il maestro epicureo per disporre i discepoli a recepire di buon grado l’ammonimento.233 Soprattutto in quest’ultimo senso la rivalutazione dell’ironia da parte di Filodemo non ha mancato di sorprendere gli studiosi. Mentre, infatti, l’uso tecnico del termine in senso retorico si spiega in quanto retaggio di una tradizione autonoma e ininterrotta che risale all’autore della cosiddetta Retorica 230 Cfr. POLYSTR. de cont. col. 16, 23-28 I.; COLOT . in Plat. Lys. 8 A ; 10 B ; 10 D ; in Plat. Euthyd. 5 C; 10 A; 10 B; 11 C C. (si vedano W. CRO¨NERT, Kolotes und Menedemos cit., pp. 163170; A. CONCOLINO-MANCINI, Sulle opere polemiche di Colote, «CErc», VI, 1976, p. 61 sg.; pp. 63; 66); CIC. Brut. 292 (EPICUR. fr. 231 U. = deest in Arrighetti); QUINT. II 17, 15; PLUT. adv. Col. 1117 D; 1118 A; 1118 D. Si vedano K. KLEVE, art. cit., pp. 228-232; M.L. NARDELLI, art. cit., pp. 525528; A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 725 e nota 25 sg. 231 Se si volesse addurre esempi di questa tendenza tipica del filosofo epicureo, basterebbe menzionare il riconoscimento esplicito della funzione educativa della poesia espresso nel I Libro De poe¨matis nonostante l’opinione contraria di Epicuro. Quest’ultimo, infatti, l’ammetteva solo come occasione di diletto e a condizione che non pregiudicasse l’ortodossia epicurea. Vedasi R. JANKO (ed.), op. cit., p. 8 sg. Si pensi anche a come, pur rifiutando l’idea di un’eccellenza naturale della poesia, Filodemo dichiarasse risolutamente l’esistenza di parametri universali per il giudizio della qualita` artistica di un poema. E questo egli asseriva in polemica con i cosiddetti filocovfoi contro cui si scaglio` anche Cratete di Mallo, ma dietro i quali sembrerebbero nascondersi, secondo Janko (ivi, pp. 129-134), alcuni filosofi epicurei dalle cui posizioni Filodemo volle dissociarsi a dispetto della solidarieta` di scuola. 232 Cfr. PHILOD. rhet. IV (PHerc. 1007), col. 23, 18-23, p. 181 S. I, e IX, col. 40, 10-14 C. (= p. 342 S. I). Sulla base di una vecchia lettura di Sudhaus, poi superata dalla ricostruzione di M.G. CAPPELLUZZO, Per una nuova edizione di un libro della Retorica filodemea (PHerc. 1004), «CErc», VI, 1976, p. 72, quest’ultimo passo e` stato frainteso da Z. PAVLOVSKIS, art. cit., p. 26, e G. MARKANTONATOS, art. cit., p. 19. Si veda M.L. NARDELLI, art. cit., p. 535 nota 57. In tale senso l’ironia, insieme al sarcasmo, e` usata dallo stesso Filodemo, ad es., in de piet. col. 25, 1-10 O. e passim. Si veda D. OBBINK (ed.), Philodemus, On Piety, Part One. Critical Text with Commentary, Oxford, OUP 1996, p. 87; p. 377 sg. 233 Cfr. PHILOD. de lib. dic. fr. 26, 4-12 O.: tiqw men de; pro; ojm|mavtwn kai; th;n diafo|ra;n, h}n = e[cei khdemoni|kh; nouqevthcic a.jr.e.c. |[kouvch]c mevn, ejpiei[k]w= c de; | [d]akn.o.uvchc a{pantac ^ e &ijrw|neivac. kai; dh; ga;r uJp.o; tauv|thc e[[n]ioi delea[zov]menoi | th;n nouqevthcin hJdevwc ajnadev|[contai. Si veda M.L. NARDELLI, art. cit., pp. 528-536, la quale tenta di ridimensionare il giudizio indubbiamente positivo di Filodemo sull’ironia come strumento della khdemonikh; nouqevthcic ed e` per questo giustamente corretta da E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., pp. 105-107.

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ad Alessandro,234 l’uso del concetto nel secondo significato con una valenza moralmente positiva non puo` non destare meraviglia in un seguace di Epicuro. C’e` stato chi ha voluto vedere in tale riabilitazione un influsso da parte di Aristotele e chi ha tentato di spiegare tale impiego inserendolo nell’alveo dell’altra accezione di tipo retorico a cui si e` appena accennato.235 Qualunque ne sia la genesi, la concezione sostanzialmente positiva dell’ironia da parte di Filodemo rimane un fatto palese di cui e` necessario prendere atto. 3.2. La ricezione di Socrate in epoca ellenistica Com’e` noto, l’unica scuola a mostrare aperta e totale ostilita` nei confronti di Socrate fu proprio quella epicurea, per la quale il filosofo ateniese rappresentava gli antipodi sotto ogni aspetto, al punto da essere considerato «il grande antagonista degli Epicurei».236 Noi sappiamo che gia` il Fondatore aveva criticato Socrate per l’uso che egli faceva dell’ironia.237 Alle sue critiche si associarono i discepoli Idomeneo, in uno scritto Sui Socratici, e Metrodoro, il quale nell’opera Contro l’Eutifrone di Platone gli rimproverava di disprezzare la religiosita` popolare.238 Ma e` nel corso del III sec. a.C. che la polemica si fece piu` aggressiva con gli attacchi di Colote che, sulla linea inaugurata da Metrodoro, scrisse due anti-commentari al Liside e all’Eutidemo di Platone e un trattato su Come la conformita` alle dottrine degli altri filosofi renda di fatto impossibile vivere. La principale accusa rivolta a Socrate, definito «sofista e millantatore (cofictou= kai; ajlazovnoc ajndrovc)»,239 era lo scetticismo radicale che lo induceva a fare affermazioni in contrasto con l’esperienza e con il senso comune giungendo fino a negare l’evidenza delle sensazioni e a sospendere ogni giudizio. Ora, pero`, di queste dottrine nel Socrate storico non compare alcuna traccia. E` ormai assodato tra gli studiosi che dietro agli attacchi di Colote al filosofo ateniese si nascondeva in realta` la disputa con Arcesilao, al quale unicamente appar234 Si vedano O. RIBBECK , art. cit., p. 386; W. BU ¨ CHNER , art. cit., p. 345 sg.; Z. PAVLOVSKIS , art. cit., p. 27; L. BERGSON, art. cit., pp. 419-422. 235 Si veda, per la prima interpretazione, M.L. NARDELLI , art. cit., p. 529 sg., per la seconda, E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 106 sg. 236 K. KLEVE, art. cit., pp. 228 e 231. 237 Cfr. CIC. Brut. 292 (EPICUR. fr. 231 U. = deest in Arrighetti). 238 Cfr. IDOM . frr. 24-28 A.; PHILOD . de piet. col. 25, 6-13 O. (= METROD. LAMPS . fr. 14 K.), e K. KLEVE, art. cit., pp. 228 e 243; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., pp. 33-52. 239 PLUTARCH . adv. Col. 1118 D 7.

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tengono le teorie dell’ajkatalhyiva e dell’ejpochv. Nel polemizzare contro quest’ultimo gli Epicurei erano notoriamente coalizzati con gli Stoici.240 Il filosofo accademico, infatti, pretendeva di stabilire un legame privilegiato tra il suo pensiero e la filosofia di Socrate e Platone.241 Di tale pretesa approfitto` Colote per attaccarlo sia sul fronte socratico che su quello platonico, rinfacciandogli la stessa incoerenza tra teoria e prassi che egli imputava a Socrate. Questi, infatti, pur dichiarando di non sapere, si comportava come se sapesse: mangiava pane anziche´ fieno, portava il cibo alla bocca anziche´ avvicinarlo all’orecchio. La stessa accusa Colote rivolgeva alla filosofia di Arcesilao. Infatti, se da un lato l’ejpochv lo spingeva all’ajpraxiva, dall’altro il criterio d’azione morale da lui proposto, fondato sul concetto di eu[logon, lo poneva di fatto in contraddizione con il suo scetticismo gnoseologico. Allo stesso modo il filosofo epicureo nel libro Contro l’Eutidemo di Platone si serviva della stessa argomentazione di Socrate per dimostrare l’inconsistenza delle tesi di quello.242 Un’ulteriore testimonianza della controversia tra Epicurei e Arcesilao e` stata riconosciuta in un passo del De contemptu di Polistrato, dove la presenza del verbo eijrwneuvw sembra richiamare implicitamente Socrate.243 Anche Zenone Sidonio scrisse un’opera polemica in piu` libri contro il filosofo ateniese (Contro il Gorgia di Platone) ed esprimendosi in lingua latina lo ribattezzo` in tono ingiurioso scurra Atticus, «buffone dell’Attica».244 Filodemo, invece, mostro` un atteggiamento sorprendentemente diverso rispetto a quello dei suoi predecessori. Innanzitutto manifesto` un forte interesse storiografico verso la figura di Socrate, al quale dedico` una biografia 240 Cfr. PLUTARCH . adv. Col. 1108 B; 1116 F ; 1117 D -F ; 1118 A -C ; 1120 C , e W. CRO ¨ NERT , Kolotes und Menedemos cit., pp. 163-170; R. WESTMAN, Plutarch gegen Kolotes. Seine Schrift ‘Adversus Colotem’ als philosophiegeschichtliche Quelle, «Acta Philosophica Fennica», VII, 1955, Helsinki 1955, pp. 60-67; A. CONCOLINO MANCINI, art. cit., pp. 61-67; K. KLEVE, art. cit., pp. 227; 229 e 231-233; A.M. IOPPOLO, Opinione e Scienza cit., pp. 183-185; EAD., La posizione di Plutarco nei confronti dello scetticismo, in I. GALLO (ed.), La biblioteca di Plutarco. Atti del IX Congresso plutarcheo, Napoli, D’Auria 2004, pp. 290-294; P.A. VANDER WAERDT, Colotes and the Epicurean Refutation of Skepticism, «GRBS», XXX, 1989, pp. 253-266. 241 Cfr. infra, pp. 127-132. 242 Si vedano M.L. NARDELLI , art. cit., pp. 526-528; K. KLEVE , art. cit., p. 232; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., pp. 53-81; A.M. IOPPOLO, Socrate nelle tradizioni accademicoscettica e pirroniana, in G. GIANNANTONI (ed.), La tradizione socratica. Seminario di Studi, Napoli, Bibliopolis 1995 («Memorie dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici», 25), pp. 89-106. 243 Cfr. infra, p. 131 e nota 303. 244 Cfr. ZENO SID . fr. 25 A.-C.; CIC . de nat. deor. I 93: Socraten ipsum, parentem philosophiae, Latino verbo utens scurram Atticum esse dicebat. Si vedano K. KLEVE, art. cit., p. 229; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., pp. 99-102, e anche A.A. LONG, Socrates cit., p. 155 sg.

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che ci e` pervenuta in due copie attraverso PHerc. 495 e PHerc. 558.245 Nel De pietate, nella Retorica e nel De morte la sua attenzione si incentro` soprattutto sul tema del processo e della condanna a morte per il quale egli uso` regolarmente come falsariga la platonica Apologia di Socrate, da lui esplicitamente richiamata.246 Ma quel che piu` stupisce in queste opere e` l’assenza di ostilita` e anzi la crescente tolleranza dimostrata da Filodemo nei confronti del filosofo ateniese fino a raggiungere toni di malcelata ammirazione.247 Nella Retorica egli prende le parti di Socrate deplorando le tecniche sofistiche con cui i suoi accusatori gestirono il processo. Egli vedeva in quest’ultimo l’evento piu` significativo nella storia della disputa tra retori e filosofi, nella quale gli Epicurei si trovarono direttamente coinvolti. Il passaggio piu` sorprendente si trova nel settimo libro, dove Socrate appare agli occhi di Filodemo come il campione della filosofia sconfitta dalla retorica e come paradigma dell’uomo virtuoso la cui virtu` non fu in grado di salvarlo dai suoi accusatori.248 Nel De morte il filosofo epicureo appare apertamente solidale con Socrate condannato a morte e su questa linea lo include, insieme a Zenone di Elea e ad Anassarco, nel novero di coloro che seppero fronteggiare a testa alta un ingiusto processo, da lui definiti «campioni di virtu`» (ajrethfovroi). Egli rimane ammirato di fronte all’imperturbabilita` dimostrata da Socrate in quel fatale momento e alla sua magnanimita` nei confronti della morte.249 ` stato ipotizzato che PHerc. 558 fosse un «brogliaccio d’autore» e PHerc. 495 la ver245 E sione definitiva dello stesso libro, in maniera analoga a quanto avviene rispettivamente per PHerc. 1021 e PHerc. 164 (Academicorum historia). Si vedano L. BALDASSARRI, Sui papiri ercolanesi 495 e 558, «CErc», VI, 1976, pp. 77-80, e F.M. GIULIANO (ed.), PHerc. 495-PHerc. 558 (Filodemo, Storia di Socrate e della sua scuola?). Edizione, commento, questioni compositive e attributive, «CErc», XXXI, 2001, pp. 37-79 = Studi di letteratura greca, Pisa, Giardini 2004, pp. 351-412. L’opera e` fatta tradizionalmente rientrare nell’ambito della Rassegna dei filosofi (Cuvntaxic tw=n filocovfwn) filodemea. Si veda G. ARRIGHETTI, Filodemo biografo dei filosofi e le forme dell’erudizione, in Atti del Colloquio internazionale I Papiri Ercolanesi e la Storia della Filosofia Antica, «CErc», XXXIII, 2003, p. 21 sg., e, per la tesi contraria, I. GALLO, Una trattazione biografica di Socrate nei papiri ercolanesi, «SIFC», XCV, 2002, p. 61 sg., il quale ha messo in dubbio tale possibilita`. 246 Cfr. PHILOD. rhet. III (PHerc. 467), fr. 8, 1-15, p. 286 S. II (= T 9 A.-A.). 247 D. CLAY , The Trial of Socrates at Herculaneum, in Atti del Colloquio internazionale I Papiri Ercolanesi e la Storia della Filosofia Antica, «CErc», XXXIII, 2003, p. 93, giunge ad affermare che in esse sarebbe riscontrabile «the same admiring attitude toward the noble death of the philosopher unjustly condemned by his city that we find in Plato and Xenophon». Ringrazio l’Autore per avermi gentilmente messo a disposizione il testo della sua relazione in anticipo rispetto alla pubblicazione. 248 Cfr. PHILOD . rhet. III (PHerc. 467), fr. 8, 1-15, p. 286 S. II (= T 9 A.-A.); X (PHerc. 1669), col. 30, 2-17, pp. 266-267 S. I (= T 10 A.-A.), e D. CLAY, art. cit., pp. 93-95. 249 Cfr. PHILOD . de morte IV (PHerc. 1050), col. 33, 37-col. 34, 15 K. (= T 7 A.-A.); col. 35, 11-25 K. (= T 8 A.-A.), e D. CLAY, art. cit., p. 95 sg.

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Neanche nel De pietate l’atteggiamento di Filodemo verso Socrate e` di completa repulsione, ma al contrario egli viene considerato una figura unica, benche´ controversa, nella storia intellettuale della Grecia e di Atene. E questo malgrado gli sia contestata l’imprudenza di aver divulgato pubblicamente le sue dottrine teologiche provocando cosı` lo sconcerto degli Ateniesi del suo tempo, che le presero a pretesto per accusarlo di empieta`. A cio` si aggiunga il serrato confronto che nella stessa opera il filosofo di Gadara non disdegno` di condurre tra l’eroismo di Socrate di fronte alla morte e il decesso dello stesso Epicuro, con la debita distinzione che questi, a differenza di quello, aveva saputo evitare l’ira dei suoi concittadini spegnendosi serenamente nella sua casa ateniese di morte naturale. In ogni caso ambedue i personaggi sono visti come filosofi pii nel senso che non nocquero ad altri e furono entrambi benefattori dell’umanita`.250 Il mutato atteggiamento di Filodemo nei confronti del filosofo ateniese, diverso rispetto a quello dei suoi predecessori nel Giardino, va spiegato con il fatto che dalla meta` del III al I sec. a.C. vi fu un evoluzione nel modo degli Epicurei di guardare alla figura di Socrate, almeno di quel Socrate che essi leggevano in Platone. Anche nel caso della scuola di Epicuro, infatti, come per altre scuole ellenistiche, e` necessario fare una distinzione tra il Socrate trasmesso dai dialoghi platonici e quello proprio della tradizione senofontea. In effetti, mentre contro quest’ultimo gli attacchi degli Epicurei continuarono sempre con la stessa virulenza, il Socrate platonico venne via via considerato filosoficamente piu` accettabile o, nel peggiore dei casi, meno discutibile.251 Si perviene cosı` a una situazione di ambiguita`, che e` rispecchiata dalla compresenza in Filodemo di ambedue gli atteggiamenti. Il primo, testimoniato nel De oeconomia, e` per lealta` di scuola ancora pieno di diffidenza e animosita` verso il filosofo ateniese.252 Il secondo, rappresen250 Cfr. PHILOD . de piet. col. 47, 1-29 O., e D. CLAY , art. cit., pp. 96-99. Si vedano anche E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., pp. 102-105; D. OBBINK (ed.), Philodemus, On Piety cit., p. 512: «it should be noticed that the approach towards Socrates exhibited here and later in the treatise is neither that of complete revulsion nor of sarcastic parody, but rather an attempt toward understanding and analysis of Socrates as a unique and problematic figure in intellectual and social history». 251 Cfr. ivi, p. 379: «the figure of Plato’s Socrates [...] was rehabilitated and made among Epicureans to seem more philosophical acceptable, or at least beyond dispute in argument». 252 Il De oeconomia (PHerc. 1424) rappresenta un anticommentario all’Economico di Senofonte, dove il filosofo di Gadara prende le parti di Critobulo e si sofferma a contestare frase per frase le affermazioni di Socrate. Un’altra testimonianza si rinviene in de piet. (PHerc. 1428) fr. 20, 20-30 S. = T 35 A.-A., dove viene criticata l’affermazione contenuta in XEN. mem. IV 4, 13, secondo la quale il dio manifesterebbe non gia` la sua forma, ma le sue opere. Si vedano K. KLEVE, art. cit., pp. 238-242; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., pp. 135-138; D. OBBINK (ed.), Philodemus, On Piety cit., p. 379 sg.; p. 542.

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tato in particolare dalla Retorica, dal De morte e dal De pietate, guarda a lui con un certo favore o almeno con imparzialita`. Quest’ultima posizione trova una conferma nell’atteggiamento mostrato da Filodemo nei confronti dello stesso Platone, che sembra essere di moderata tolleranza e assenza di ostilita`.253 Sappiamo che uno dei problemi del De liberando a superbia e` quello di distinguere cio` che appartiene sicuramente ad Aristone da cio` che potrebbe configurarsi come un’occasionale intrusione di Filodemo. In realta`, nel caso del ritratto dell’ironico il problema e` assai relativo e questo per due ordini di ragioni. In primo luogo perche´ da tutta la descrizione emerge una rigorosa unita` compositiva, la quale e` desumibile da diversi elementi: a) dal fatto che la porzione di testo compresa tra 22 11 e 23 36 (vale a dire piu` di tre quarti del ritratto) costituisce una serie ininterrotta di infinitive dipendenti dall’espressione e[ctin de; toioutoc = , oi|oc di 22 11; b) dai frequenti riferimenti (ben diciassette) ad espressioni tipicamente socratiche (o supposte tali) che si leggono nella sezione compresa tra 22 21 e 23 36. Cio` rivela che Filodemo sta citando Aristone in maniera abbastanza pedissequa senza concedersi interventi personali. L’unica espressione che sembra essere palesemente estranea alla descrizione aristonea e` quella conclusiva (23 3638), in cui e` contenuto il noto riferimento ai Cwkrati.ka; | mnhmoneuvma.[t]a. In essa si afferma testualmente: «Ma perche´ parlarne ancora? Tutte le memorie socratiche, infatti, sono piene di...». La frase segna di fatto una frattura rispetto alla precedente esposizione, come di chi ha la premura di tagliar corto e passar oltre. Si ha cioe` l’impressione che il filosofo epicureo, dopo essersi dilungato per piu` di due colonne nella trattazione dell’ironico, desideri passare rapidamente agli ultimi due vizi per poter cosı` concludere il libro. Siamo quindi di fronte a una delle solite intrusioni di Filodemo nel testo della sua fonte ed e` dunque il filosofo epicureo e non Aristone a riferirsi alle misteriose «memorie socratiche» di cui gli studiosi hanno offerto diverse interpretazioni.254 L’altro riferimento nominale a Socrate (22 33-36) si trova invece nel pieno della descrizione e deve pertanto essere attribuito allo stesso Aristone. Che a quest’ultimo (e 253 Si vedano G. INDELLI , Platone in Filodemo, «CErc», XVI, 1986, p. 112; D. OBBINK (ed.), Philodemus, On Piety cit., p. 379: «Philodemus in general exhibits an increased tolerance toward Plato’s works». Per il multiforme atteggiamento di Filodemo verso Socrate si veda anche E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., pp. 102-105; 112-115. 254 Si vedano K. KLEVE , art. cit., p. 247; E. ACOSTA ME´ NDEZ -A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 231; L. ROSSETTI, Sulle tracce della letteratura socratica antica, «GIF», XLV, 1993, pp. 268-274, e Comm. a 23 36-38.

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non a Filodemo, come troppo spesso si tende a equivocare) vada attribuito nella sua interezza il ritratto dell’ironico e` ulteriormente confermato dal fatto che, come abbiamo visto nel precedente capitolo, l’ironia in Filodemo non e` mai negativa. A cio` si aggiunga il fatto da noi poco sopra constatato che il filosofo di Gadara non sembra manifestare alcuna ostilita` verso il Socrate platonico, verso il quale, al contrario, egli rimane non di rado profondamente ammirato.255 Ora, invece, l’autore del De liberando a superbia ha dell’ironia un’opinione irrimediabilmente negativa e, come e` stato correttamente osservato, il ritratto dell’ei[rwn da lui delineato costituisce essenzialmente un’impietosa caricatura del Socrate ironico immortalato in sommo grado (benche´ non soltanto) da Platone.256 Come questo, Aristone fa dell’ironia e della professione di non-sapere i suoi atteggiamenti fondamentali, ma mentre in Platone queste due caratteristiche sembrano essere tra loro indipendenti,257 dal secondo esse sono reciprocamente confuse come se si trattasse di due diverse manifestazioni dello stesso vizio. Entrambe sono interpretate da Aristone come espressione suprema di dissimulazione ipocrita e tutto il personaggio possiede una forte carica sofistica. Non e` allora un caso che nel corso della descrizione si scorga una quantita` impressionante di allusioni ai dialoghi platonici (piu` di un’ottantina in due sole colonne di scrittura), che fanno come da ordito all’intera descrizione, mentre assai scarsi sono i riferimenti sicuri ad autori diversi da Platone, di cui solo cinque relativi a Senofonte e due ad Aristofane.258 In particolare, riveste speciale imporCfr. supra, pp. 117-120. Si vedano anche W. BU¨CHNER, art. cit., p. 352: «Der Eiron Philodems hat manche Zu¨ge von dem Platonischen Sokrates, wirkt aber doch, wenn man an diesen denkt, als bo¨sartige Karikatur»; A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 720: «Cio` che colpisce [...] nella descrizione dell’ei[rwn di Aristone e` il continuo riferimento caricaturale ad alcuni tratti presenti soprattutto nel Socrate platonico»; p. 726 sg.; p. 728 e nota 45; M. GIGANTE, Filodemo nella storia della letteratura greca, Napoli, Accad. di Archeologia, Lettere e Belle Arti 1998 («Memorie dell’Accademia di Archeologia, Lettere e Belle Arti in Napoli», 11), p. 43: «Nel ritratto del tipo ‘ironico’ (oJ ei[rwn) Aristone di Ceo [sic] ha inventato un antisocrate, una scimmia di Socrate». 257 La confessione di ignoranza del Socrate platonico e ` stata variamente interpretata dalla critica moderna. L’interpretazione attualmente piu` diffusa e` quella proposta da G. VLASTOS, Disavowal of Knowledge, «CQ», XXXV, 1985, pp. 1-31; ID., Socratic Irony cit., pp. 79-96, rist. in op. cit., pp. 211-244, che l’ha equiparata a una forma di ironia complessa («complex irony»). Ma si veda anche la critica di D. MORRISON, art. cit., pp. 12-14. 258 Cfr. XEN . mem. II 6, 36; III 4; IV 4, 9; oec. 3, 14; 6, 17-21, 12; ARISTOPH . nub. 443-451; 993. Per essi e per le numerose allusioni ai dialoghi platonici cfr. Comm. a 21 39-23 38. Alla luce di questo dato oggettivo non e` facile concordare con coloro che hanno voluto vedere nell’ironico di Aristone una mera «contaminazione di motivi aristofanei ed aristotelici». Si veda M.L. NARDELLI, art. cit., p. 533 sg., la quale si rifa` alla letteratura a lei precedente, ed E. ACOSTA ME´NDEZA. ANGELI (edd.), op. cit., p. 111. Che l’associazione delle due matrici, aristotelica e aristofanea, 255

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tanza la definizione di ironia come forma di iattanza (ajlazoneiva) che introduce il ritratto (21 39-40) e che ricorda l’assimilazione di questi due vizi tipica della concezione popolare e recepita da Aristofane nelle Nuvole.259 Se si esclude, dunque, un’eventuale matrice epicurea della rappresentazione, restano da esaminare le altre possibilita`, tra cui innanzitutto quella di una possibile ascendenza peripatetica. Ora, e` un fatto che il fondatore del Liceo nutrı` ammirazione nei confronti di Socrate, soprattutto verso il Socrate magnanimo e ironico che emerge dalle Etiche e che gli derivava dalla testimonianza di Platone. Allo stesso tempo, pero`, egli non sembra aver sottolineato la grande portata del suo insegnamento morale come fecero invece altre scuole ellenistiche. Per di piu`, sul piano filosofico, le poche volte che gli attribuisce una tesi lo fa sostanzialmente per criticarlo.260 Riguardo poi alla posizione di Teofrasto non si possiedono testimonianze significative.261 E` stato invece affermato che nei decenni successivi si sarebbe insinuato nel Peripato un filone ostile al filosofo, i cui principali esponenti sarebbero stati l’autore del Peri; eujgeneivac (probabilmente lo stesso Aristotele), Demetrio Falereo, Ieronimo di Rodi, Satiro e soprattutto Aristosseno. Costoro avrebbero mosso con intento malevolo a Socrate una serie di accuse personali, come quella celebre di bigamia. Ma gli studi piu` recenti hanno mostrato, non solo che questi autori (con la parziale eccezione del solo Aristosseno) 262 non avevano alcun intento accusatorio, ma che, al contrario, intendevano promuovere un’interpretazione positiva della bigamia socratica, che essi giustificavano in diversi modi a scopo difensivo.263 sia alquanto «curiosa» e` la stessa Nardelli ad affermarlo (art. cit., p. 533). Ma soprattutto, non vi e` alcun riferimento ad Aristotele o ai suoi scritti. Parimenti non condivisibile e` il parere di M. GIGANTE, I sette tipi cit., p. 353 sg., il quale riconosceva sı` l’indubbia ispirazione platonica del ritratto, ma ne individuava poi la chiave di lettura nei Memorabili di Senofonte. 259 Cfr. soprattutto vv. 445-451. Si vedano M.T. RILEY , The Epicurean Criticism of Socrates, «Phoenix», XXXIV, 1980, pp. 55-68; P.A. VANDER WAERDT, Colotes cit., p. 256 sg., e Comm. a 21 39-40. 260 Si veda A.A. LONG , Socrates cit., p. 154; ID ., The Socratic Legacy, in K. ALGRA -J. BARNESJ. MANSFELD-M. SCHOFIELD (eds.), The Cambridge History of Hellenistic Philosophy, Cambridge, CUP 1999, p. 619. 261 Tale silenzio e ` stato interpretato come segno di disinteresse da A.A. LONG, Socrates cit., p. 155 e nota 13. 262 Perfino a quest’ultimo filosofo e ` stata recentemente assegnata con buoni argomenti da William W. Fortenbaugh, in una comunicazione al convegno Die griechische Biographie in hellenistischer Zeit celebrato a Wu¨rzburg dal 26 al 29 luglio 2006, una posizione sostanzialmente equilibrata nei confronti di Socrate, la quale comprendeva il riferimento, non solo ad alcuni vizi, ma anche ad altrettante virtu`. La communis opinio risalente ad A. DIHLE, Studien zur griechischen Biographie, Go¨ttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 19702, pp. 13-56, considerava invece l’aristossenica Vita di Socrate un’opera pesantemente denigratoria. 263 Cfr. I B 41-58; D 1-2 SSR, e S. SCHORN (Hrsg.), op. cit., pp. 392-398, dove si trova anche

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In ogni caso, siffatte allusioni personali sono prive di qualunque valore filosofico e rientrano nell’ambito di quella produzione biografica tipica dei discepoli di Aristotele la quale mirava piu` a sottolineare alcuni elementi veri o presunti della vita dei personaggi trattati che a contestare le dottrine da essi professate.264 Quanto agli Stoici, essi ebbero, come e` stato spesso sottolineato, una grande venerazione per Socrate, al punto che egli puo` essere giustamente considerato il loro nume tutelare.265 Secondo Filodemo essi amavano definirsi socratici (Cwkratikoiv) e la stessa Stoa in quanto tale fu inclusa nel novero delle successioni socratiche.266 In particolare, rivendicare uno speciale legame storico con Socrate dovette essere agli inizi della loro speculazione di vitale importanza per stabilire la legittimita` della propria discendenza filosofica. Per questo motivo, diversi esponenti della scuola redassero in tempi differenti scritti memorialistici, biografie e raccolte di sentenze su Socrate e i Socratici e gli attribuirono alcune delle loro dottrine piu` importanti.267 In particolare Zenone di Cizio, secondo la tradizione biografica che lo riguarda, maturo` la decisione di dedicarsi totalmente alla filosofia in seguito alla lettura di alcuni scritti socratici e si mise al seguito di Cratete in quanto questi era considerato filosoficamente molto vicino al grande Ateniese. Per lui l’insegnamento di Socrate (inizialmente soprattutto del Socrate cinico) fu sempre la principale fonte di ispirazione filosofica.268 Ma fu Aristone di Chio che abbraccio` la totalita` dell’eredita` socratica della scuola stabilendo legami strettissimi con il Socrate proprio della tra-

la bibliografia relativa. Quanto detto a proposito di questi autori e` vero soprattutto per Satiro, che nella Vita di Euripide sposa apertamente la difesa di Socrate. Cio` fa cadere anche una delle obiezioni di Voula Tsouna (Aristo on Blends cit., p. 279 nota 1) alle tesi sostenute da Anna Maria Ioppolo in Il Peri; tou= koufivzein cit. 264 Si veda G. GIANNANTONI (ed.), Socrate. Tutte le testimonianze da Aristofane e Senofonte ai Padri cristiani, Bari, Laterza 19862, p. 271, e anche A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 724. Non sembra dunque del tutto necessario vedere in questa tendenza, come ha fatto A.A. LONG, Socrates cit., p. 154 sg. (si veda anche ID., The Socratic Legacy cit., pp. 619-623), il tentativo di screditare l’integrita` morale di un filosofo che avrebbe avuto agli occhi di questi pensatori la ‘colpa’ di essersi disinteressato a ogni ricerca che non fosse etica e il desiderio di distanziarsi da una figura della cui eredita` avevano preteso di appropriarsi altre scuole filosofiche. 265 «The Stoics’ patron saint», secondo l’espressione di Anthony A. Long (Socrates cit., p. 150 sg.). 266 Cfr. PHILOD . de Stoic. col. 13, 1-4 D. (= I H 4; V A 138 SSR); CIC . de or. III 61. 267 Cfr., per Sfero, DIOG. LAE¨ RT. VII 177 (fr. 620 SVF I); per Cleante, CLEM . ALEX . strom. II 22, 131 (fr. 558 SVF I); per Crisippo, PLUTARCH. de Stoic. repugn. 1035 F (fr. 126 SVF II); per Antipatro, ATHEN. XIV 643 F (= ANTIP. fr. 65 SVF III); per Panezio, DIOG. LAE¨RT. II 64. Si veda anche F. ALESSE, La Stoa cit., pp. 17-19. 268 Si veda A.A. LONG , Socrates cit., pp. 160-164.

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dizione cinica a cui egli espressamente si richiamava. Essi consistevano principalmente: a) nella riduzione della filosofia all’ambito della morale, per la quale a lui si rifaceva quasi letteralmente; 269 b) nell’affermazione dell’impossibilita` di conoscere la forma del dio; 270 c) nella teoria dell’unita` delle virtu`.271 Anche la divergenza con Zenone in merito alla fondamentale teoria dell’indifferenza del saggio verso i beni intermedi e` stata attribuita a una diversa interpretazione dell’etica socratica da parte dei due filosofi.272 E` proprio per difendere sino in fondo queste tesi basilari del suo insegnamento che Aristone entro` in polemica con il maestro, il quale a un certo punto del suo percorso filosofico, in seguito agli attacchi delle altre scuole, aveva cominciato a recedere dall’originaria impronta socratico-cinica della Stoa. Per questo motivo e` stato proposto di pensare al filosofo di Chio non tanto e non semplicemente come a uno stoico di tendenze ciniche, quanto piuttosto come a uno stoico per il quale l’inconcussa fedelta` al socratismo cinico che aveva caratterizzato i primordi dello Stoicismo rimase sempre il fondamentale punto di riferimento.273 Tuttavia, come ha dimostrato Anthony A. Long, nella tradizione stoica non vi era alcuno spazio per il Socrate ironico.274 Con la stessa forza con cui ne apprezzavano l’aspetto karterikovc, gli Stoici ne respingevano energicamente l’ironia.275 Anzi, questo tratto cosı` tipico del filosofo a cui siamo abituati soprattutto dalla lettura dei dialoghi platonici ricade totalmente al di fuori dell’immagine comune in eta` ellenistica.276 Cio` si deve al fatto che in quest’epoca l’ironia diventa «l’aspetto piu` criticato e controverso della filosofia di Socrate».277 Ma vi era un’altra importante dottrina socratica, anch’essa tipica della tradizione platonica,278 che ne´ Cinici ne´ Cirenaici 269 Cfr. EUS. praep. evang. XV 62, 7 (fr. 353 SVF I); DIOG . LAE¨ RT . VII 160 (fr. 351 SVF I); STOB. ecl. II 8, 13 (fr. 352 SVF I), dove si ritrova anche la stessa terminologia. Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 78-90. 270 Cfr. CIC. de nat. deor. I 37 (fr. 378 SVF I); MINUC . FEL. Octav. XIX 13 (deest in SVF); A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 249-252, e infra, pp. 194-196. ` la tesi centrale del Protagora platonico. Si vedano A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., 271 E pp. 208-243; M. SCHOFIELD, Ariston of Chios and the Unity of Virtue, «Ancient Philosophy», IV, 1984, pp. 83-96; A.A. LONG, Socrates cit., p. 164. 272 Cfr. infra, p. 126 e nota 287. 273 Si veda A.A. LONG , Socrates cit., p. 164. 274 Cfr. ivi, p. 151: «The witty, sometimes caustic and ironical Socrates – Plato’s Socrates, not Xenophon’s – drops completely out of the early Stoic tradition». 275 Si veda F. ALESSE, La Stoa cit., pp. 286-288. 276 Si veda A.A. LONG , Socrates cit., p. 152. 277 A.M. IOPPOLO , Socrate cit., p. 116 sg. 278 Per questa associazione si vedano G. VLASTOS , Disavowal cit.; A.A. LONG , Socrates cit., p. 157 e nota 24.

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ne´ Stoici (ma nemmeno gli Epicurei) potevano accettare e che non avevano il minimo interesse ad avvalorare: la professione di non-sapere.279 Di fatto, se si esclude l’Accademia scettica, di cui si dira` tra poco, l’immagine di Socrate che si confessa ignorante non sembra essere mai stata presa in seria considerazione.280 Questo duplice rifiuto e` stato spiegato con il fatto che tali scuole, le quali pure nella reciproca diversita` possedevano tutte una forte impronta dogmatica, avevano ogni interesse a sfrondare dalla figura del filosofo quegli elementi del suo pensiero che per la loro aporeticita` apparivano incompatibili con le proprie posizioni filosofiche e, per lo stesso motivo, ad accentuarne gli aspetti asseverativi. E` cosı` che all’inizio dell’eta` ellenistica, e tanto piu` tra gli Stoici, si accredito` l’immagine di un Socrate moralista e dogmatico, in possesso di un sapere certo e infallibile.281 Questa interpretazione del filosofo ateniese i discepoli di Zenone ricavavano principalmente, non da Platone, ma dagli scritti socratici di Senofonte che, come e` noto, ebbero un ruolo di primaria importanza per la ricezione del personaggio in quest’epoca. In essi la figura di Socrate e` centrata sull’esclusivo interesse per l’etica e sull’esaltazione dell’ejgkravteia, mentre l’ironia, pur essendo concettualmente presente, riceve una sottolineatura infinitamente minore rispetto a Platone.282 Anche della professione di ignoranza, cosı` importante nel Socrate platonico, in Senofonte non vi e` alcuna traccia.283 Non e` un caso che, stando a una delle differenti versioni relative a questo episodio, all’origine della conversione filosofica del fondatore della Scuola si troverebbero proprio i Memorabili senofontei. E anche se non e` possibile stabilire la verita` storica di questo racconto, il Si veda A.A. LONG, The Socratic Legacy cit., p. 639. Si veda ID., Socrates cit., pp. 153 e 157. 281 Cfr. ivi, p. 158; A.M. IOPPOLO , Socrate cit., pp. 114-123. ` noto che in Senofonte non ricorre mai il termine eijrwneiva, come neanche l’agget282 E tivo corrispondente. Cio` nonostante, come ha dimostrato con buoni argomenti e contro l’opinione comunemente diffusa nella comunita` scientifica D. MORRISON, art. cit., pp. 10-14, il concetto corrispondente e` in lui presente, come risulta da svariati passi, quali ad es. mem. I 2, 30; 33-34; IV 4, 5-24. Lo stesso Gregory Vlastos, contro il quale e` diretta la critica di Morrison e che in precedenza (The Paradox of Socrates cit., p. 1 sg.) aveva sostenuto la totale assenza di ironia nel Socrate senofonteo, in Socratic Irony cit., p. 79-96, rist. in op. cit., pp. 211-244, ha ritrattato la sua prima affermazione. Allo stesso tempo, pero`, egli ha escluso che essa abbia autentica rilevanza filosofica. Ma anche contro quest’ultima convinzione Morrison (loc. cit.) ha dimostrato che, come in Platone, anche in Senofonte l’ironia serve a illustrare importanti dottrine socratiche e possiede una funzione protrettico-elenctica. Si vedano anche A.A. LONG, Socrates cit., p. 153 sg.; P.A. VANDER WAERDT, Colotes cit., p. 257 nota 74; A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 726 sg., e F. ALESSE, La Stoa cit., p. 286 nota 47. 283 Si veda A.A. LONG , Socrates cit., p. 153. 279 280

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riferimento a Senofonte rimane emblematico.284 Anzi, proprio i Memorabili rappresentarono un testo strategico per quel processo di «legittimazione e proiezione» con cui i filosofi stoici, attribuendo direttamente a Socrate alcune loro importanti dottrine, ne facevano il primo teorizzatore e, allo stesso tempo, accreditavano se stessi come socratici tout court.285 In particolare, e` stato dimostrato in modo persuasivo che Zenone si appoggiava ad alcuni passi di quest’opera (soprattutto I 2, 54-55; 4, 518; IV 3, 2-18; 4) per giustificare storicamente principi centrali della filosofia stoica come la concezione teleologica della natura, la provvidenza divina, la teoria del diritto naturale, forse la stessa formula del tevloc e la dottrina gnoseologica e, infine, il concetto di ‘appropriazione’ (oijkeivwcic).286 Cio` non significa che gli Stoici non includessero alcuni dialoghi platonici tra le loro principali fonti su Socrate e in particolare e` stato suggerito che su una differente interpretazione di alcuni passi-chiave dell’Eutidemo si basi la gia` menzionata divergenza tra Zenone e Aristone di Chio in merito al valore da attribuire ai beni intermedi tra la virtu` e il vizio.287 Inoltre, la ricerca degli ultimi decenni ha mostrato che essi attinsero spesso e volentieri anche ad altri lovgoi Cwkratikoiv, soprattutto ai dialoghi di Antistene, Eschine e Fedone.288 Rimane il fatto che essi distinguevano con attenzione tra un Socrate ironico e scettico e il Socrate ufficiale della Scuola. Ma quali sono i motivi che li indussero a tracciare siffatta distinzione? Tra le ragioni di tipo dottrinale si e` gia` ricordato il netto rifiuto dell’ironia da parte degli esponenti dello Stoicismo antico e, sul piano storico, e` stato osservato che i primi filosofi stoici risentirono l’influsso di un

Cfr. ivi, p. 161. Per questa operazione si veda M. ERLER, Sokrates’ Rolle im Hellenismus, in H. KESSLER (Hrsg.), Sokrates. Nachfolge und Eigenwege, Zug, Die Graue Edition 2001 («Sokrates-Studien», 5), pp. 201-215, a cui appartiene anche l’espressione virgolettata. Rispetto a questo dato ormai unanimemente riconosciuto dalla critica si pone in controtendenza l’affermazione di V. TSOUNA, Aristo on Blends cit., p. 279 nota 1, secondo la quale alcuni Stoici, allo scopo di difendere il loro pedigree socratico, si sarebbero appellati piuttosto all’interpretazione platonica di Socrate. 286 Si vedano A.A. LONG , Socrates cit., p. 162 sg.; P. BOYANCE´, Les preuves stoı ¨ciennes de l’existence des dieux d’apre`s Ciceron (De natura deorum, livre II), «Hermes», XC, 1962, pp. 4571; M. DRAGONA-MONACHOU, The Stoic Arguments for the Existence and Providence of the Gods, Athens, Univ. Press 1976, p. 50; J.G. DEFILIPPO-PH.T. MITSIS, Socrates and Stoic Natural Law, in P.A. VANDER WAERDT, The Socratic Movement, Ithaca (New York), Cornell Univ. Press 1994, pp. 258-271; M. ERLER, Stoic oikeiosis and Xenophon’s Socrates, in T. SCALTSAS-A.S. MASON (eds.), Zeno of Citium and his Legacy. The Philosophy of Zeno, Larnaca, Pierides Foundation 2002, pp. 241-257. 287 Si veda A.A. LONG , Socrates cit., pp. 164-171. 288 Si veda F. ALESSE, La Stoa cit., p. 18. 284 285

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filone del Cinismo ostile a Platone, che desiderava sganciare Socrate da quest’ultimo.289 Tuttavia, storicamente parlando, gioco` un ruolo decisivo il confronto con l’Accademia scettica e specialmente con Arcesilao, con il quale anche gli Stoici, come gli Epicurei, ebbero un’accesa discussione. Infatti, come testimoniano Cicerone e Plutarco, lo scolarca accademico si richiamava esplicitamente al Socrate aporetico dei dialoghi platonici per giustificare la sua posizione scettica in campo gnoseologico, al punto che per lui Socrate e Platone apparivano come due figure quasi equivalenti. In particolare, basandosi espressamente sulla socratica confessione di ignoranza, sosteneva che non si puo` affermare alcunche´ di certo, ma poi aggiungeva, estremizzandola, che egli non attribuiva a se stesso neanche il fatto stesso di sapere di non sapere. Su questa linea evitava accuratamente di essere coinvolto in qualunque affermazione e non esponeva mai per primo il suo pensiero, ma lasciava che il suo interlocutore esprimesse prima il suo punto di vista per dimostrare poi l’equivalenza della tesi contraria. Cio` egli faceva allo scopo di dimostrare che tutte le opinioni sono contemporaneamente vere e false.290 Questa interpretazione radicale della professione di non-sapere e della dialettica socratiche, che in Arcesilao e` da intendere come assolutamente sincera, appariva agli occhi dei contemporanei come profondamente ironica.291 Ma per gli antagonisti stoici, oltre ad apparire tale, essa equivaleva a un autentico tradimento. E questo, sia per il tentativo degli Accademici di schiacciare (pur distinguendoli) Socrate su Platone, filosofo al quale essi facevano risalire il loro scetticismo e verso cui gli Stoici antichi alternavano spesso diffidenza e ostilita`,292 sia soprattutto per l’appropriazione in chiave scettica che quelli facevano di una figura che anche gli Stoici rivendicavano per se Si veda A.A. LONG, Socrates cit., p. 161. Cfr. CIC. de orat. III 67; Acad. I 45; de fin. II 2; DIOG. LAE¨RT. IV 36, e J. GLUCKER, Antiochus and the Late Academy, Go¨ttingen, Vandenhoeck & Ruprecht 1978 («Hypomnemata. Untersuchungen zur Antike und zu ihrer Nachricht», 56), p. 37 nota 89; A.M. IOPPOLO, Opinione e Scienza cit., pp. 17-192; A.A. LONG, Socrates cit., pp. 156-162; P.A. VANDER WAERDT, Colotes cit., pp. 260-266. 291 Cfr. infra, p. 130 sg. 292 Per l’atteggiamento degli Stoici verso Platone, si vedano A.A. LONG -D.N. SEDLEY (eds.), The Hellenistic Philosophers, I: Translation of the principal sources with philosophical commentary, Cambridge, CUP 1987, p. 181 sg.; pp. 272; 274; 318; 421; 435; A.A. LONG, Socrates cit., pp. 160-162 e nota 43. Questa tendenza sembra cambiare con Crisippo, per cui cfr. A.A. LONGD.N. SEDLEY, op. cit., I, p. 278 sg. In ogni caso, sebbene essi si sentissero a loro agio nel criticare Platone, gli Stoici accettarono e svilupparono molte delle sue idee. Ringrazio David Sedley per le sue osservazioni su questo punto. 289

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stessi, ma con un significato totalmente differente. Ad Arcesilao si contrapposero soprattutto Zenone, Aristone di Chio e Crisippo, tanto in merito alla disputa sull’eredita` della filosofia socratica, quanto sul versante gnoseologico in merito alla questione della rappresentazione catalettica. In particolare, possediamo alcune testimonianze sulla polemica intercorsa tra il filosofo accademico e Aristone di Chio, tra cui spicca il celebre verso con cui lo Stoico aveva stigmatizzato la posizione filosofica di Arcesilao paragonandola a una chimera: «Davanti Platone, di dietro Pirrone, nel mezzo Diodoro».293 Ora, pero`, se in quest’epoca si affrontano due immagini antitetiche di Socrate, l’una dogmatica e l’altra scettica, e se questo confronto si gioca sul diverso modo di intendere l’ironia, l’atteggiamento assunto dal nostro Aristone verso quest’ultima non puo` non essere un elemento qualificante per stabilirne l’orientamento filosofico. Si e` visto che la rappresentazione di Socrate che si ricava dal De liberando a superbia e` intenzionalmente ricalcata sul Socrate ironico tipico soprattutto di Platone. Ebbene, il fatto che sia proprio questo aspetto del personaggio ad essere messo in cattiva luce, e non, ad esempio, le sue dottrine morali, si adatta perfettamente all’ipotesi che l’autore possa essere identificato con un esponente dello Stoicismo antico e in ogni caso non rappresenta un ostacolo a questa interpretazione. Vero e` che gli esponenti del Liceo, a differenza degli Stoici, non veneravano Socrate come il loro precursore e si sentivano percio` liberi di esprimere sul suo conto opinioni non preconcette o anche, eccezionalmente, di criticarlo. Ed e` vero anche che l’enfasi di Aristone sull’ironia di Socrate piuttosto che sulle sue dottrine non si adatta male all’interesse proprio dei biografi peripatetici per determinati aspetti della vita e del carattere di Socrate. Tuttavia, di un atteggiamento cosı` visceralmente ostile verso Socrate e ancor piu` verso l’ironia (quando non e` del tutto assente qualunque riferimento ad essa), nella tradizione peripatetica non vi e` traccia alcuna. Aristotele – l’abbiamo visto – ha di essa una concezione sostanzialmente positiva e l’ironico di Teofrasto non ha nulla a che vedere con l’ironia socratica, cioe` con l’ironia intesa in senso strettamente filosofico. Dopo tutto il bersaglio di Aristone – non va mai dimenticato – e` innanzitutto l’ironico, di cui il ‘personaggio’ Socrate rappresenta il prototipo. Al contrario, degli Stoici antichi sappiamo con certezza: a) che ebbero una concezione intrinsecamente negativa dell’ironia e b) che nella loro in293 Provcqe Plavtwn, o[piqen Puvrrwn, mevccoc Diovdwroc. Cfr. DIOG . LAE¨ RT . IV 33 (fr. 343 SVF I); SEXT. EMP. Pyrrh. hypot. I 234 (fr. 344 SVF I). Il verso e` una parodia di HOM. Z 181: provcqe levwn, o[piqen de; dravkwn, mevcch de; civmaira. Si vedano A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 2633; EAD., Opinione e Scienza cit., pp. 80-85.

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terpretazione del filosofo non c’era alcuno spazio per il Socrate ironico che si legge principalmente in Platone. Anzi, per essi, che consideravano Socrate il loro antico ispiratore, questa specifica raffigurazione del filosofo non poteva che apparire come una provocazione da combattere con tutte le energie, sia perche´ metteva in discussione la legittimita` della loro discendenza filosofica, sia perche´ si prestava a veicolare, come di fatto storicamente successe, filosofie diametralmente opposte a quella stoica. Se questo ragionamento e` corretto, non si puo` piu` evitare di considerare l’ipotesi che l’Aristone autore del nostro scritto possa essere identificato con lo stoico Aristone di Chio, il piu` socratico e il piu` moralista degli Stoici e proprio per questo piu` degli altri determinato a difendere gelosamente il retaggio scolastico del Socrate dogmatico contro quanti pretendevano di farne un filosofo scettico. Egli, che al grande Ateniese si richiamava esplicitamente per alcune dottrine centrali della sua filosofia, aveva tutto l’interesse a difendere la propria interpretazione del filosofo e, allo stesso tempo, a contrastare con forza ogni strumentalizzazione in senso opposto da parte degli avversari. Ora, e` noto dalle testimonianze in nostro possesso che un tentativo di questo genere fu promosso nello stesso periodo in cui visse Aristone di Chio dall’accademico Arcesilao, contemporaneo e antagonista del filosofo stoico, e che egli fu da questo duramente attaccato per le sue posizioni filosofiche. Se cosı` stanno le cose, acquista particolare rilievo l’ipotesi di Anna Maria Ioppolo secondo la quale dietro all’ironico ridicolizzato da Aristone si nasconderebbe proprio il Socrate scettico di Arcesilao.294 Secondo la testimonianza di Plutarco nell’Adversus Colotem, infatti, la pretesa del filosofo accademico di attribuire il suo scetticismo gnoseologico direttamente a Socrate provoco` una violenta reazione da parte degli Stoici. Cosı` forte era in lui l’identificazione tra la sua filosofia e quella socratica (e platonica) che l’epicureo Colote, contemporaneo di Aristone e di Arcesilao, tende ad attribuire a Socrate tratti e dottrine tipici dello scolarca accademico e a considerarlo, come lui, uno scettico radicale.295 Non si puo` escludere che nella polemica intercorsa con Arcesilao anche il filosofo di Chio possa aver utilizzato argomenti analoghi a quelli di Colote, attaccando questa specifica immagine di Socrate per colpire in realta` colui che vi stava dietro. E 294 Si veda A.M. IOPPOLO , Il Peri; tou koufivzein cit., pp. 728-731, e anche P.A. VANDER = WAERDT, Colotes cit., pp. 256-259, e D. CLAY, art. cit., p. 93: «Perhaps his (sc. Philodemus’) reference to Socrates’ famous profession of knowledge of his own ignorance reflects the Hellenistic appropriation of Socrates as a skeptic that we find recorded in Cicero’s Academica 2, 74». 295 Si veda A.M. IOPPOLO , La posizione cit., pp. 291-293.

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cio` tanto piu` se si considera che Plutarco accomuna gli Stoici agli Epicurei nella critica a questo filosofo.296 Tale supposizione e` confermata dall’accusa che Cleante indirizzava ad Arcesilao di «dire una cosa e di farne un’altra»,297 identica a quella lanciata a Socrate da Colote.298 Il bersaglio non era dunque il Socrate storico o, se si vuole, Socrate in quanto tale (ne´ avrebbe mai potuto esserlo per uno stoico e tanto meno per Aristone di Chio), ma una determinata interpretazione del personaggio che era sotto tutti gli aspetti agli antipodi rispetto a quella accreditata nella Stoa. Cio` spiegherebbe anche perche´ l’autore del nostro ritratto sia piuttosto riluttante a fare espressamente il nome di Socrate, menzionato una sola volta (22 37) in due colonne di scrittura, peraltro in un contesto cosı` specifico che era impossibile evitarlo.299 E questo, benche´ nel corso dell’intera descrizione il riferimento sia indirettamente sempre al filosofo ateniese. In modo analogo, nell’ambito della descrizione dell’altezzoso (21 35-39) egli cita un verso di Aristofane che ha come bersaglio Socrate senza menzionarne esplicitamente il nome. Non e` di ostacolo a questa interpretazione nemmeno la circostanza, a cui si e` gia` fatto riferimento, che nel ritratto dell’ironico la confessione di ignoranza sembri essere espressione di ironia e che quindi debba essere intesa come insincera. Si potrebbe osservare infatti che, storicamente parlando, quanti giudicarono questa importante dottrina socratica come ironica e insincera lo fecero per avvalorare l’immagine di un Socrate tutt’altro che scettico, come invece qui si vuol sostenere. E` quanto sappiamo che fece nel I sec. a.C. Antioco di Ascalona, il quale si avvalse di questo argomento nella controversia con Filone di Larissa, suo compagno di scuola nonche´ ultimo esponente della tradizione accademico-scettica, nell’intento di rimuovere Socrate (e Platone) dalla lista dei precursori dello scetticismo.300 Il punto e` che, come ho gia` sottolineato, nella percezione dei contempora296 Cfr. PLUTARCH . adv. Col. 1122 A , e A.M. IOPPOLO , Opinione e Scienza cit., p. 188 sg. Ringrazio questa studiosa per le sue osservazioni in proposito. 297 Cfr. DIOG. LAE¨RT. VII 171 (fr. 605 SVF I): eijpovntoc dev tinoc jArkecivlaon mh; poiein ta; = devonta ‘‘pauc= ai, e[fh, kai; mh; yevge. eij ga;r kai; lovgw/ to; kaqh= kon ajnairei,= toic= goun= e[rgoic aujto; tiqei.= ’’ kai; oJ jArkecivlaoc ‘‘ouj kolakeuvomai’’, fhc iv. pro;c o}n oJ Kleavnqhc ‘‘naiv, e[fh, ce; kolakeuvw, favmenoc a[lla me;n levgein, e{tera de; poiein= ’’. 298 PLUTARCH . adv. Col. 1117 D 5-7: ‘‘ajlla; ga;r ajlazovnac ejpethvdeuc ac lovgouc, w\ Cwvkratec: kai; e{tera me;n dielevgou toic= ejntugcavnouc in e{tera d’e[prattec’’. 299 Si tratta del rimando a PLAT . Men. 235 E-249 E ; XEN . mem. II 6, 36; oec. 3, 14; 6, 17-21, 12. Si e` gia` ricordato che il riferimento ai Cwkrati*ka; | mnhmoneuvma.[t]a (23 37-38) che conclude il ritratto appartiene in realta` a Filodemo. Cfr. supra, p. 120. 300 Cfr. CIC. Luc. 15, e A.M. IOPPOLO , Socrate cit., pp. 118-121.

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nei, sia Stoici che Epicurei, la professione di ignoranza formulata da Arcesilao, benche´ da questo fosse intesa in modo senza dubbio sincero, era interpretata come frutto di dissimulazione e manifestazione per eccellenza di ironia. Cio` risulta chiaro innanzitutto dalle reiterate accuse di iattanza (ajlazoneiva) rivolte al Socrate accademico da Colote ed e` noto che nella concezione popolare e per gli Epicurei iattanza ed ironia erano due vizi tra loro strettamente collegati.301 In secondo luogo, dall’addebito che entrambe le scuole muovevano ad Arcesilao di dichiarare, da un lato, di non sapere e, dall’altro, di agire come uno che sa, atteggiamento che appariva loro profondamente ironico.302 Infine, Polistrato si riferiva con ogni probabilita` al medesimo Arcesilao quando polemizzava con coloro che «contro il loro stesso parere fanno ironia (eij|rwneuvontai) a motivo delle persone a loro vicine».303 In altri termini, in questa interpretazione semplificata e parziale dello scetticismo accademico avanzata in funzione polemica dagli avversari, l’ironia e la confessione di ignoranza socratiche erano tra di loro, non contrapposte, bensı` accostate come due facce della stessa medaglia. E questo, senza che esse si annullassero matematicamente a vicenda, senza cioe` che da cio` si approdasse al sillogismo che due secoli piu` tardi avrebbe formulato Antioco. Del resto, come si e` piu` volte sottolineato, nella descrizione dell’ironico l’enfasi e` tutta sul comportamento, mentre alle dottrine filosofiche non vi e` alcun riferimento. Ma vi e` di piu`. E` un dato oggettivo che nel ritratto di Aristone la professione di non-sapere e` formulata in un modo che non e` testimoniato in nessuna delle principali fonti socratiche del IV sec. a.C. Come e` stato osservato, il massimo che Socrate arriva a dire in Platone e`: ‘‘Quanto a me, non sono cosciente (cuvnoida ejmautw/)= di essere sapiente in nulla’’ (apol. 21 B 4-5) o ‘‘siccome non so, neppure credo (oi[omai) di sape301 Socrate e ` accusato di iattanza in PLUTARCH. Adv. Col. 1117 D; 1118 A; D. Per l’associazione dell’ironia a questo vizio cfr. ARISTOPH. Nub. 445-451, e P.A. VANDER WAERDT, Colotes cit., p. 256 e nota 72: «Socrates is the paradigm of the ei[rwn and ajlazwvn, two of the most objectionable traits in the Epicurean catalogue of vices». Cfr. anche Comm. a 21 39-40. 302 Si vedano M.T. RILEY , art. cit., p. 58; G. VLASTOS , Socratic Irony cit., p. 81; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 67 sg. 303 POLYSTR. de cont. col. 16, 23-28 I.: f[obeic]qai poioucin, t[h c] | d’ [ajlh]qeivac kai; . = = = thc= pro;[c] | ta; auJtwn= pavq.h. cumfw|nivac mh; fron[t]ivzontec | para; to; dokoun= auJtoic= | e{neka twn= plhcivon eij|rwneuvontai ktl. Cfr. anche col. 13, 27; col. 18, 4; col. 25, 8; col. 31, 3; col. 32, 27 I. Si vedano G. INDELLI (ed.) Polistrato. Sul disprezzo irrazionale delle opinioni popolari, Napoli, Bibliopolis 1978 («La Scuola di Epicuro», 2), p. 71; M. GIGANTE, Scetticismo e Epicureismo. Per l’avviamento di un discorso storiografico, Napoli, Bibliopolis 1981, p. 103; D.N. SEDLEY, rec. G. INDELLI (ed.) Polistrato cit., «CR», XXXIII, 1983, p. 335 sg.; M.L. NARDELLI, art. cit., pp. 526-528; A.M. IOPPOLO, Opinione e Scienza cit., pp. 187-189; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., pp. 91-99.

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re’’ (apol. 21 D 3-6), forme che non sembrano equivalere a riconoscere di non sapere alcunche´, di non possedere cioe` alcuna conoscenza, ma piu` semplicemente a negare di essere sapiente (cofovc) in qualcosa.304 Invece, per quel che sappiamo, il primo ad accreditare un’interpretazione gnoseologicamente forte di questa dottrina nel primo significato fu storicamente Arcesilao.305 Secondo Cicerone, infatti, lo scolarca accademico «negava che vi sia qualcosa che si possa sapere, nemmeno quello che Socrate aveva lasciato a se stesso: il fatto di sapere di non sapere».306 Ebbene, una formulazione altrettanto netta e concettualmente identica della confessio ignorationis socratica si ritrova guarda caso proprio nel ritratto dell’ironico di Aristone: ‘‘Ma io che so se non questo (plhvn [g]e touvtou), che non so nulla?’’ (22 22-24) 307 A questo quadro interpretativo, gia` sufficientemente plausibile, si aggiunge, sul piano terminologico, anche l’uso di un verbo insolito come uJ|pokinaid* ein= , letteralmente ‘atteggiarsi a cinedo’, un hapax variamente interpretato con cui il nostro Aristone descrive in modo sarcastico uno degli atteggiamenti tipici dell’ironico (23 25-26).308 Questo termine e` stato suggestivamente ricondotto all’aggettivo kinaidolovgoc, ‘uno che dice sconcezze’, vocabolo ad esso etimologicamente apparentato, con il quale, secondo Diogene Laerzio, Aristone di Chio attaccava sul piano personale Arcesilao. Egli, infatti, lo accusava di essere «un corruttore di giovani, uno che dice oscenita` (kinaidolovgon) e un impudente».309 In conclusione, come e` stato affermato, da tutto il ritratto e dai singoli comportamenti censurati dall’autore sembra ricavarsi «l’impressione che Aristone scriva come se il lettore potesse rievocare immediatamente dalla descrizione di quegli atteggiamenti un personaggio familiare e che questi fosse proprio Arcesilao».310

Si veda A.A. LONG, Socrates cit., p. 158. Cfr. ibid.: «Arcesilaus, we can suppose, interpreted Socrates as making the strong cognitive claim that he knew that he knew nothing». 306 CIC . Acad. I 45: Itaque Arcesilas negabat esse quicquam quod sciri posset, ne illud quidem ipsum quod Socrates sibi reliquisset, ut nihil scire se sciret. 307 Ringrazio David Sedley per aver attirato la mia attenzione su questo importante punto. 308 Per una storia delle interpretazioni di questo termine cfr. Comm. a 23 25-26. 309 DIOG . LAE¨ RT . IV 40-41 (fr. 345 SVF I): [oJ jArkecivlaoc] filomeiravkiovc te h\n kai; 304

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kataferhvc: o{qen oiJ peri; jArivctwna to;n Cion = Ctwi>koi; ejpekavloun aujtw/=, fqoreva tw=n nevwn kai; kinaidolovgon kai; qracu;n ajpokalou=ntec. Si veda A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit.,

p. 730 sg. 310 Ivi, p. 730.

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3.3. Il rapporto con i Caratteri di Teofrasto Dopo aver esplorato il concetto di ironia in Teofrasto e Aristone e aver rapidamente analizzato gli altri caratteri che essi possiedono in comune, e` venuto il momento di affrontare apertamente, questa volta in maniera piu` generale, l’annosa questione del rapporto esistente tra il nostro scritto e la caratterologia teofrastea. Come e` stato piu` volte ricordato, infatti, e` nell’asserita analogia con i Caratteri di Teofrasto che, a partire da Hermann Sauppe, si e` voluto vedere l’argomento decisivo per inquadrare il De liberando a superbia nell’alveo della tradizione peripatetica. Ma in quali termini e fino a che punto e` legittimo parlare di analogia? E ancora, in che misura questo problema puo` influenzare la questione attribuzionale? Nel tentativo di offrire una possibile risposta a queste domande, mi soffermero` brevemente sulle caratteristiche generali dei due scritti, sul metodo e gli obiettivi che li contraddistinguono, allo scopo di discernere cio` che li accomuna e cio` che al contrario li differenzia. Innanzitutto si deve riconoscere che, da un punto di vista formale, vi e` sı` una certa affinita` compositiva e stilistica tra di essi, nel senso che entrambi costituiscono o includono delle descrizioni di caratteri dotate di tutte le proprieta` del genere (uso di definizioni introduttive, prevalenza della coordinazione sulla subordinazione e dei tempi impliciti su quelli espliciti, sequenze di infinitive rette da un participio o dalla formula e[cti toiou=toc, oi|oc e affini, lunghe enumerazioni e antitesi, libera alternanza di discorso diretto e indiretto, ecc.).311 Ma nel caso del nostro scritto l’analogia e` applicabile solo alla seconda delle due sezioni in cui esso e` diviso, rappresentando la prima, come si sa, non una descrizione di caratteri, ma una parenesi morale articolata in una serie di esortazioni e dissuasioni.312 Va anzi ricordato che, a differenza dell’opuscolo teofrasteo, lo scritto aristoneo considerato nella sua globalita` non costituiva nelle intenzioni del suo autore un carakthricmovc in senso stretto ma, come abbiamo visto, un’operetta protrettico-morale dove la descrizione di caratteri doveva rappresentare certo uno dei principali mezzi espressivi, ma non il fine stesso dell’opera, come invece accade in Teofrasto.313 Per di piu`, anche nella seSu questo punto si veda ora J. DIGGLE (ed.), op. cit., p. 9 sg. Si veda R.G. USSHER (ed.), op. cit., p. 28. 313 Si vedano O. REGENBOGEN , Theophrastos, RE, Suppl. VII, 1939, col. 1509: «Ist meines Erachtens weiterzukommen und zu zeigen, daß es sich bei Ariston nicht sowohl um eine charakterologische als vielmehr um eine seelendia¨tetische Schrift handelte. [...] Stimmt es, daß die Charaktere bei Ariston einen Anhang gebildet ha¨tten; sie sind vielmehr fu¨r Zweck und Form sei311 312

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zione piu` propriamente caratterologica o, come si dovrebbe piuttosto dire, etologica lo scritto aristoneo presentava caratteristiche compositive del tutto originali, come quella di raffigurare vizi strettamente imparentati tra di loro o di ritornare su alcuni tipi precedentemente descritti allo scopo di analizzarne piu` diffusamente le qualita` specifiche ed elencarne le conseguenze nefaste (19 3-20 33). Anche le definizioni che sono premesse a ciascun carattere, oltre che a definire il vizioso invece del vizio, sono ben piu` estese, articolate e ricche di elementi dottrinali di quelle assai semplici e concise di Teofrasto, ammesso e non concesso che queste debbano essere considerate autentiche.314 Ma soprattutto, laddove Aristone si sforza di isolare ogni tipo in una ben precisa miscela di fattispecie morali, il discepolo di Aristotele non sembra avere alcuna pretesa di sistematicita` e i suoi caratteri risultano tra di loro del tutto irrelati.315 Cio` e` dovuto al fatto, che mentre quest’ultimo assembla «una serie di schizzi staccati» apparentemente senza obiettivo, l’autore del De liberando a superbia «fa opera essenzialmente morale».316 ner Schrift ganz notwendig und in Zusammenhang eingebettet gewesen»; A. ROSTAGNI, art. cit., p. 354 nota 1. 314 Cfr. ibid. L’autenticita ` delle definizioni teofrastee e` stata rimessa in discussione in tempi recenti da M. STEIN, Definition und Schilderung in Theophrasts Charakteren, Stuttgart, Teubner 1992 («Beitra¨ge zur Altertumskunde», 28), seguito da J. DIGGLE (ed.), op. cit., p. 17. In ogni caso, come ha evidenziato William W. Fortenbaugh nella recensione al libro di Stein comparsa in «Gnomon», LXVIII, 1996, pp. 453-456, esse debbono essere precedenti alla meta` del I sec. a.C., terminus ante quem per la redazione del secondo libro filodemeo De adulatione (PHerc. 1457), contenente in tutte le sue parti, compresa la definizione iniziale, il ritratto del compiacente (a[reckoc) cosı` come lo troviamo in Teofrasto. Le definizioni dovevano dunque essere parte integrante dei ¨ber caratteri teofrastei almeno a partire dall’ultima epoca ellenistica. Si veda anche O. IMMISCH, U Theophrasts Charaktere, «Philologus», LVII, n.F., XI, 1898, p. 197 sg. L’estensione delle definizioni aristonee va dalle 5 linee dell’insolente alle 25 dell’altezzoso, lunghezza che nell’originale doveva essere anche maggiore, se si pensa che Filodemo sintetizza in piu` punti il suo autore. 315 Per la mescolanza di diversi elementi caratteriali in Aristone si vedano G. PASQUALI , Sui «Caratteri» cit., p. 59; V. TSOUNA, Aristo on Blends cit., pp. 287-291; EAD., Philodemus cit., pp. 233-258. 316 Si veda C. GALLAVOTTI , Teofrasto e Aristone cit., p. 470 sg., il quale, riferendosi al De liberando a superbia, rimarco` la «grande differenza che intercede fra esso e l’aureo libretto di Teofrasto. [...] Aristone fa opera essenzialmente morale; i pochi tratti foggiati alla maniera di Teofrasto (il quale era certamente letto, apprezzato e imitato dentro e fuori della sua scuola) restano come oppressi nel gran numero di osservazioni morali che si riportano a ciascun carattere [...]. Teofrasto procede in ben altro modo. Le sue definizioni non sono certo tali da darci un’idea precisa del carattere che a ciascuna consegue; non uno studio generale, astratto, filosofico del carattere, non minuta distinzione e analisi, ma piuttosto sintesi: egli ritrae i suoi personaggi come si trovano nella vita, come si riprodurranno forse sulle scene; e se fra i trenta caratteri alcuni ce ne sono che potrebbero raggrupparsi e collegarsi fra di loro, nulla, neppure la distinzione materiale, accenna a un intendimento sistematico dell’autore. [...] E questo non dipende dunque dalla maggiore o minore attitudine artistica degli autori, bensı` dagli intenti assai diversi ch’essi si sono proposti». Si veda anche G. PASQUALI, Sui «Caratteri» cit., p. 59.

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A cio` si aggiunga la circostanza che, come e` stato spesso sottolineato, il discepolo di Aristotele si limita a delineare con rapidi tratti dei tipi (h[qh) moralmente indifferenti che per cio` stesso non risultano mai veramente negativi, sembrando fatti piu` per suscitare il riso che la condanna. Aristone, invece, descrive con ricchezza di dettagli degli autentici vizi (kakivai) che vengono considerati moralmente riprovevoli e trattati alla stregua di patologie spirituali da cui con un’opportuna terapia e` possibile e necessario liberarsi.317 In altri termini, mentre nei caratteri di Aristone la finalita` filosofico-morale e` evidente, in quelli tratteggiati da Teofrasto si cerchera` inutilmente una simile prospettiva, almeno prescindendo dal proemio dell’opuscolo e dagli epiloghi moraleggianti che concludono la descrizione di sette di essi, i quali pero` sono stati da tempo unanimemente riconosciuti come spuri.318 Anzi, la pressoche´ totale assenza nei Caratteri teofrastei di elementi intrinseci a favore di una loro destinazione morale rimane tra gli studiosi un fatto talmente incontestabile che, proprio per questo motivo, si e` voluto a tutti costi desumere tale destinazione dal confronto con la lettera aristonea, cercando in essa un appiglio per attribuire a Teofrasto cio` che dal puro esame del suo libello era impossibile ricavare.319 Questo spiega perche´ leggendo i caratteri di Aristone si ricavi l’impressione di una maggiore gravita`, universalita` e astrazione speculativa rispetto a quelli di Teofrasto e perche´ in essi sia del tutto assente quella capacita` di provocare il riso che e` invece cosı` tipica di questi ultimi. Non si possono non ricordare a tale proposito due importanti giudizi di Giorgio Pasquali e di Christian Jensen che sembrano richiamarsi significativamente a vicenda: E` dunque Aristone una scimmia teofrastea e niente piu`? Oserei negarlo con energia. A me pare che questi Caratteri, nonostante le somiglianze essenziali e formali, siano piu` seri e universali. I tipi descritti da Teofrasto sono per lo piu` [...] borghesi o contadineschi [...]. Questa maggiore universalita`, d’altro canto, e` come

Si veda O. IMMISCH, art. cit., p. 203 sg. Si vedano Z. PAVLOVSKIS, art. cit., p. 25: «a book (sc. the Characters of Theophrastus) in which no philosophical aim is readily perceptible»; L. BERGSON, art. cit., p. 415: «Die ‘Charaktere’ haben ja kein philosophisches, sondern vielmehr ein soziologisches Ziel»; M. GIGANTE, Kepos e Peripatos cit., p. 126: «nel X De vitiis Filodemo rende esplicita la morale che e` per lo piu` implicita nei ritratti di Aristone o e` estranea ai Caratteri di Teofrasto», e ora anche J. DIGGLE (ed.), op. cit., p. 12: «the work lacks all ethical dimension. Nothing is analised, no moral is drawn, no motive is sought. If the work has a purpose, that purpose must be sought elsewhere». 319 Si veda ora G. RANOCCHIA , Natura e fine cit. 317

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scontata da un certo difetto di comicita`. I Caratteri di Aristone non suscitano il riso [...]. Come mostra anche la prima parte della lettera, nella quale sono esposti con gravita` argomenti atti secondo l’autore a rintuzzare la superbia, Aristone fa sul serio, e ci riesce benissimo.320 E tuttavia non si tratta di tipi (sc. i caratteri di Aristone) assai diversi uno dall’altro, quali sono i semplici cittadini e contadini di Teofrasto; bensı` di uomini piu` raffinati appartenenti a una determinata categoria, i quali sono accuratamente differenziati nelle loro affinita` e dissimiglianze, e presentati realisticamente grazie a un linguaggio che vuole gareggiare con la poesia nell’evidenza dell’espressione, degli esempi e dei paragoni, e negli strumenti di una ricca stilizzazione. Per la prima volta osserviamo la rappresentazione dei caratteri posta al servizio della parenesi morale, e per la prima volta vediamo scelta per essa una forma, cui siamo avvezzi dalla filosofia popolare greca.321

La maggiore serieta` e rigorosita` ‘scientifica’ dei caratteri di Aristone, dunque, ne tradisce la loro specifica indole morale, la quale invece e` del tutto assente in Teofrasto. A differenza di questo, Aristone non ha intenzione di divertire, ma si prefigge di scrivere un’opera moralmente impegnata con l’obiettivo di curare una grave deformita` spirituale. Con il De liberando a superbia, dunque, ci troviamo di fronte al piu` antico esempio di caratterologia morale a noi pervenuto e per la prima volta troviamo questo genere collegato allo ‘stile’ dell’istruzione morale popolare. Tale osservazione e` sufficiente a mostrare quanto profonda sia la diversita` di spirito e di intenti che distingue i due scritti e non e` piu` dunque giustificata l’opinione di chi ha voluto vedere nell’autore della lettera un semplice plagiario di Teofrasto.322 Inoltre, l’invenzione del carakthricmovc da parte del discepolo di Aristotele e l’assidua frequentazione del genere da parte di vari esponenti del Liceo non e` di per se´ sufficiente per attribuire automaticamente ogni scritto di questo tipo a un autore peripatetico. In effetti, se non e` ragionevole negare l’influsso dell’inventor sui successivi cultori dello stesso genere, non lo e` nemmeno pensare che due scritti come i nostri in parte formalmente affini, ma essenzialmente differenti per metodo e obiettivi, debbano essere

G. PASQUALI, Sui «Caratteri» cit., p. 61 sg. Il corsivo e` mio. CH. JENSEN, Die Bibliothek cit., p. 58 = CH. JENSEN-W. SCHMID-M. GIGANTE, op. cit., p. 22 sg. Il corsivo e` mio. 322 Si vedano O. NAVARRE (e ´ d.), The´ophraste, Characte`res, Paris, Les Belles Lettres 1924, p. 19 sg., e ID., Characte`res de The´ophraste. Commentaire exe´ge´tique et critique, Paris, Les Belles Lettres 1924, p. XII e p. 210 sg. 320

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stati per forza redatti da autori appartenenti alla medesima scuola.323 Nulla di strano, dunque, se in epoca successiva scrittori afferenti a diverse tradizioni filosofiche applicarono a tale genere modalita` e scopi anche molto differenti. In effetti il carakthricmovc, sebbene ebbe una speciale diffusione all’interno del Liceo avendo come esponenti, oltre a Teofrasto, Eraclide Pontico, Dicearco, Licone e Satiro, deve essere considerato un genere «non rigidamente classificabile: puo` servire a qualsiasi scrittore con qualsiasi intento; acquista valore e determinazione e significato solamente dal contesto».324 E` cosı` che fiorirono dopo Teofrasto descrizioni caratterologiche di tipo retorico, poetico (ad uso dei drammaturghi), biografico, letterario e morale. Mi sembrano emblematiche in proposito alcune parole pronunciate da Augusto Rostagni che riporto testualmente di seguito: Il quale Aristone poi non e` affatto stabilito che sia da identificare, come oggi si da` per certo – in grazia alla semplice imitazione di quei bozzetti dai Caratteri teofrastei – col Peripatetico, nativo di Ceo, e non piuttosto, come i testi vorrebbero, con lo Stoico-cinico di Chio. Fuori della Scuola si compiacquero di consimili descrizioni, considerate ormai veri fiori di stile, scrittori di indole e di intenti svariati: moralisti come Posidonio, Filodemo, Seneca; precettori di eloquenza, come l’autore della Retorica ad Erennio. [...] Bisognera` dunque ritornare sulla questione, nonostante il molto che se ne e` scritto negli ultimi tempi [...], togliendo prima di tutto molto peso a quello che si considera argomento perentorio, la tradizione della scuola e l’analogia con Teofrasto: che e` analogia di forma, non di spirito e d’intenti. [...] Non e` lecito tracciare confini ne´ di scuola ne´ di genere in materia di tale natura; [...] poiche´ il carakthricmovc, formalmente inteso, appartiene a qualsiasi sorta di scritti.325

Alle parole ancor’oggi attuali di Rostagni fece eco qualche anno piu` tardi Carlo Gallavotti in un articolo giovanile che ebbe una certa risonanza.326 Tra gli autori di caratteri menzionati dai due studiosi non possono non colpire soprattutto gli stoici Posidonio e Seneca.327 In particolare, come ve323 Per questa posizione preconcetta si veda ancora oggi S. VOGT , art. cit., p. 263 sg., e, sulla soggettivita` di tale argomento, T. DORANDI, I frammenti papiracei cit., p. 218. 324 C. GALLAVOTTI , Teofrasto e Aristone cit., p. 472. 325 A. ROSTAGNI , art. cit., p. 351; p. 352 e nota 1; p. 353. 326 Si veda C. GALLAVOTTI , Teofrasto e Aristone cit., p. 472: «E tanto meno quindi possiamo tracciare confini di scuola in tale materia, anzi e` assai naturale che un genere di cui per la prima volta Teofrasto aveva dato brillante esempio, fosse adoperato e imitato e applicato a diversi scopi, da Eraclide Pontico, da Licone, da Satiro, da Posidonio, dall’autore della Rhetorica ad Herennium, dentro e fuori della scuola peripatetica». 327 Gia ` F. WEHRLI, Ru¨ckblick cit., p. 108, aveva richiamato l’analogia con Seneca e lo Stoicismo tardo.

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PARTE SECONDA

dremo meglio nel prossimo capitolo, l’esponente della Stoa di Mezzo affermava la particolare utilita` dell’‘etologia’, cioe` della descrizione delle virtu` e dei vizi fatta, non gia` a scopo letterario, retorico, o poetico, ma con un fine specificamente morale. Cio` dimostra come anche in ambito stoico gia` in piena epoca ellenistica non solo non si disdegnasse la descrizione di caratteri, ma come anzi essa fosse considerata un importante strumento da associare agli altri generi protrettico-morali.

4. L’INTENTO

PROTRETTICO -MORALE DELLO SCRITTO

Abbiamo visto in precedenza che il De liberando a superbia, cosı` come ci e` pervenuto, si presenta come uno scritto epistolare sulla terapia della superbia articolato in due sezioni solo parzialmente eterogenee. In effetti, queste si pongono tra di loro in stretta continuita` di contenuto e di obiettivi, differenziandosi unicamente per la diversa distribuzione della materia e la differente strategia impiegata. Ma mentre lo scopo della prima e` pacifico e non ha bisogno di essere dimostrato, la forma caratterologica della seconda ha tratto in inganno diversi studiosi. Nella prima parte della lettera, infatti, e` stato da sempre ravvisato un forte intento parenetico, al punto che la sezione e` stata autorevolmente definita «il nostro piu` antico esempio di protrettica filosofico-morale di epoca ellenistica».328 Come sappiamo, in essa si susseguivano ininterrottamente inviti volti a combattere il vizio allo scopo di estirparlo o premunirsi da esso. Questo obiettivo era perseguito con l’ausilio di diversi strumenti espressivi, di cui il piu` importante era costituito dai numerosi aneddoti storici che servivano a illustrare con esempi celebri di umilta` e di superbia quanto veniva raccomandato o biasimato.329 Cio` consente di riconoscere nella prima sezione dello scritto un significativo esempio di quell’esortazione e dissuasione morale che per mezzo di modelli positivi e negativi invitava a praticare la virtu` e a combattere il vizio. Si trattava, questo, di un genere filosofico particolarmente caro ai filosofi cinici e, soprattutto, agli Stoici. Per i discepoli di Zenone, infatti, quella parte dell’insegnamento morale dedicata al discorso esortatorio che si ser-

328 F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 55. Cfr. anche CH . JENSEN , Ariston von Keos cit., p. 399 sg.; A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 731 sg.; M. GIGANTE, Kepos e Peripatos cit., p. 126. 329 Cfr. supra, cap. I.3.1.

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viva di esempi mitici e storici rivestiva un ruolo fondamentale.330 La parenesi rappresentava del resto uno dei principali generi della protrettica morale stoica, al punto che quest’ultima era genericamente definita come quella parte dell’etica destinata alle esortazioni (protropaiv) e alle dissuasioni (ajpotropaiv), termini dai quali essa dipende etimologicamente.331 Aristone di Chio, in particolare, non soltanto coltivo` la parenesi, ma su di essa fondava il suo metodo pedagogico e se da un lato rifiutava i precetti, in quanto incapaci di formare l’uomo alla virtu`, dall’altro egli credeva fermamente nel metodo esortatorio e dissuasorio come l’unico valido per conseguire una vita felice. I precetti, infatti, prescrivendo dall’esterno comportamenti determinati da adottare nelle singole circostanze, erano da lui giudicati del tutto inutili, perche´ finche´ permangono le false opinioni e l’errore offusca la mente, non ha senso ingiungere: ‘‘cosı` vivrai con il padre, cosı` con la moglie’’.332 Cio` lo indusse a eliminare «alcune parti dell’etica, come il genere precettistico e quello dei consigli (tovn te parainetiko;n kai; to;n uJpoqetiko;n tovpon). E diceva che questi spettano a balie e pedagoghi, mentre e` sufficiente per una vita beata quel discorso che attrae gli uomini verso la virtu` (to;n oijkeiounta = me;n pro;c ajreth;n lovgon) e li allontana dal vizio (ajpallotriounta de; kakivac) e = che sorvola invece su quelle cose che sono intermedie a queste, intorno alle quali la maggior parte della gente appassionandosi si rende infelice».333 330 L’uso di exempla, benche ´ attestato in modo speciale per la consolazione, era di uso universale ed era associato a tutti i generi protrettico-morali. Cfr. CIC. Tusc. disp. III 56-60; 70-71; IV 60 (dove e` stata riconosciuta l’influenza di Crisippo); 63; SEN. cons. ad Marc. 2, 1 e P. DONINI, Pathos nello Stoicismo romano, «Elenchos», XVI, 1995, pp. 199-201. 331 In realta ` , accanto all’exhortatio e alla dissuasio si praticarono con lo stesso intento sin dalla fase piu` antica della storia della Stoa anche altre tecniche analoghe. Svariati scritti protrettico-morali sono attribuiti a Cleante, Perseo, Aristone di Chio e Crisippo. Per Cleante, cfr. DIOG. LAE¨RT. VII 175 (fr. 481 SVF I); per Perseo, DIOG. LAE¨RT. VII 36 (fr. 435 SVF I); per Crisippo, PLUTARCH. de stoic. repugn. 1039 D (fr. 761 SVF III); 1039 E-F (fr. 167 SVF III); 1041 E; 1044 F (fr. 753 SVF III); 1048 A; de comm. not. 1060 E (frr. 69 e 139 SVF III); H. VON ARNIM (ed.), Stoicorum Veterum Fragmenta, III cit., Appendix II, p. 20 (XLIX), e D. BABUT, Plutarque et l’ancien Stoı¨cisme, Paris, PUF 1969, p. 228 sg. Sul Peri; tou= protrevpecqai gV o Protreptikav di quest’ultimo (il quale pero` doveva essere piu` che altro un’opera di protrettica generale) e sulla possibilita` che alcune sue sezioni risalgano ad Aristone di Chio, si vedano A. DYROFF, Die Ethik cit., p. 114 nota 3, e A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 42 e nota 10. 332 Cfr. SEN . ep. 94, 2-18; 21-25; 27; 31-33; 35-37; 39; 48. Si vedano A.M. IOPPOLO , Aristone di Chio cit., p. 41 sg.; pp. 123-131; EAD., Decreta e praecepta cit., pp. 15-36. 333 SEXT . EMP. adv. math. VII 12 (fr. 356 SVF I): kai; jArivctwn de; oJ Cioc ouj movnon, w{c faci, =

parh/teito = thvn te fucikh;n kai; logikh;n qewrivan dia; to; ajnwfele;c kai; pro;c kakou= toic= filocofouc= in uJpavrcein, ajlla; kai; tou= hjqikou= tovpouc tina;c cumperievgrafen, kaqavper tovn te parainetiko;n kai; to;n uJpoqetiko;n tovpon: touvtouc ga;r eijc tivtqac a]n kai; paidagwgou;c pivptein, ajrkein= de; pro;c to; makarivwc biwnai to;n oijkeiounta me;n pro;c ajreth;n lovgon, ajpallotriounta de; kakivac, katatrevconta = = = de; tw=n metaxu; touvtwn, peri; a} oiJ polloi; ptohqevntec kakodaimonou=cin, SEN. ep. 89, 13 (fr. 357 SVF

I): Ariston Chius non tantum supervacuas esse dixit naturalem et rationalem (sc. partem philosophiae)

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Anche Plutarco gli assegnava «discorsi incitanti alla virtu`» 334 e Diogene Laerzio gli ascriveva due libri di Protrettici.335 Aristone, dunque, faceva una netta distinzione tra la parenesi e quelle parti dell’etica pratica che corrispondevano ai precetti e ai consigli. Solo quella per il filosofo stoico rientrava nel campo della morale, mentre vi escludeva del tutto queste.336 Anche Cleante espresse una posizione analoga, quantunque piu` moderata. Egli giudicava, sı`, utile la precettistica, ma la riteneva inefficace (inbecillam) se essa non procede dagli stessi principi capitali della filosofia (decreta ipsa philosophiae et capita).337 Queste considerazioni sono sufficienti per replicare all’obiezione di quegli studiosi che in passato hanno sostenuto che, poiche´ Aristone di Chio rifiutava i precetti, non e` possibile attribuirgli il De liberando a superbia. Essi si basavano sul giudizio un po’ affrettato che la prima sezione della lettera non rappresenti altro che una lunga schiera di ingiunzioni e consigli. Ma se si scorrono uno dopo l’altro i singoli incoraggiamenti, si scoprira` che quelli che l’autore rivolge al suo interlocutore non sono ne´ precetti ne´ consigli contingenti, ma sempre inviti a ricordare, riflettere, considerare, interrogarsi. Si tratta cioe`, in ogni caso, di operazioni intellettuali che mirano a preservare o a liberare l’anima dalle false opinioni di cui essa e` vittima o di esortazioni a formulare giudizi corretti sull’esistenza umana, sulla fortuna e sui beni da questa elargiti, primi fra tutti la ricchezza, la gloria e il potere.338 sed etiam contrarias. Moralem quoque, quam solam reliquerat, circumcidit. Nam eum locum, qui monitiones continet, sustulit et paedagogi esse dixit, non philosophi. L’espressione to;n oijkeiounta = pro;c ajreth;n lovgon, ajpallotriounta de; kakivac e` una formula tecnica che nei testi dossografici indica = il discorso protrettico-morale. Si veda A.M. IOPPOLO, Decreta e praecepta cit., p. 23 e nota 23. 334 Cfr. PLUTARCH . Maxime cum princ. vir. phil. esse diss. 776 C (fr. 382 SVF I): kai; Ariv j ctwn me;n oJ Cio= c ejpi; tw/= pa= ci dialevgecqai toic= boulomevnoic uJpo; twn= cofictwn= kakw=c ajkouvwn: ‘‘w[felen, ei\pe, kai; ta; qhriva lovgwn cunievnai kinhtikwn= pro;c ajrethvn’’. Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 42 nota 9; p. 136. 335 Cfr. DIOG . LAE¨ RT . VII 163 (fr. 333 SVF I). Non e ` noto se essi (Protreptikwn= bV) fossero un’opera di protrettica generale o speciale. Sull’arbitrarieta` dell’atetesi del catalogo delle opere di Aristone di Chio da parte di Panezio e Sosicrate, cfr. supra, pp. 70-80, e A. DYROFF, Die Ethik cit., p. 359; F. DU¨MMLER, op. cit., I, p. 69 nota 2; H. VON ARNIM (ed.), Stoicorum Veterum Fragmenta, I cit., p. 75; N. FESTA (ed.), op. cit., II, p. 4 nota 50; TH. GOMPERZ, Pensatori Greci, II cit., p. 632 nota 1; A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 39-55; F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 50 sg.; F. ALESSE (ed.), Panezio di Rodi cit., pp. 291-294; G. RANOCCHIA, L’autore del Peri; tou= koufivzein cit., p. 255 sg.; D.E. HAHM, In Search of Aristo cit., pp. 179-238. 336 Risulta dunque un po’ eccessivo il giudizio di A.A. LONG -D.N. SEDLEY , op. cit., I, p. 429, secondo cui «Aristo argued that the whole topic of ‘encouragements and discouragements’ was pointless». 337 Cfr. SEN . ep. 94, 4 (fr. 582 SVF I): Cleanthes utilem quidem iudicat et hanc partem (sc. philosophiae), sed inbecillam nisi ab universo fluit, nisi decreta ipsa philosophiae et capita cognovit. ` significativo, da questo punto di vista, che la maggior parte delle esortazioni siano in338 E trodotte da verba sentiendi o che comunque indichino sempre operazioni intellettuali.

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Quando veniamo esortati a non ingigantire i nostri successi o a rammentare le nostre passate sconfitte o a confrontarci con quanti ci sono superiori, non ci vengono somministrati dei suggerimenti contingenti, ma siamo invitati a rettificare i nostri giudizi sul valore da attribuire agli eventi fausti o infausti della vita, ai beni materiali e al successo. E quando ci viene ricordata l’instabilita` della sorte o ci viene proposta ad esempio l’umilta` dei grandi uomini del passato o siamo ammoniti sull’iniquita` del superbo o sulle devastanti conseguenze del vizio, non sono i singoli comportamenti i veri destinatari dell’esortazione, ma i nostri giudizi su cio` che e` bene e su cio` che e` male, su cio` che va perseguito e cio` che va evitato, su quel che ci rende veramente felici e quel che ci spinge alla disperazione. Il metodo dell’autore e` dunque di tipo cognitivistico, anche se ovviamente non privo di ricadute nella vita pratica. Quello a cui egli mira e` formare nella mente dell’interlocutore un complesso ordinato di opinioni corrette che gli dia la forza interiore per liberarsi dal vizio e disporsi alla virtu`. L’accento e` tutto posto sui giudizi e solo indirettamente sui comportamenti che ne conseguono. Tale atteggiamento corrisponde bene al pensiero degli Stoici antichi, a quello di Cleante e, soprattutto, a quello di Aristone di Chio, il quale, come si e` visto, assegnava alla scienza del beni e del mali un’importanza fondamentale per l’acquisizione della virtu`, ma rifiutava i consigli e i precetti.339 339 Cfr. GALEN. De Hipp. et Plat. plac. VII 2, 595-600 D. (fr. 256 SVF III); SEN . ep. 94, 6-8; 13 (= ARISTO CHIUS fr. 359 SVF I); 21; 23; 33 e A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 102-110. Un importante esempio del metodo parenetico caro ad Aristone di Chio si puo` individuare in diverse sezioni dell’Epistola 94 di Seneca, cioe` in quella che e` la piu` cospicua testimonianza superstite sul filosofo di Chio. Si veda, ad es., ep. 94, 7 (fr. 359 SVF I): efficias oportet, ut sciat pecuniam nec bonum nec malum esse; ostendas illi miserrimos divites: efficias ut, quicquid publice expavimus, sciat non esse tam timendum quam fama circumfert, nec dolorem quemquam nec mori: saepe in morte, quam pati lex est, magnum esse solacium, quod ad neminem redit: in dolore pro remedio futuram obstinationem animi, qui levius sibi facit, quicquid contumaciter passus est. Optimam doloris esse naturam, quod non potest nec qui extenditur magnus esse nec qui est magnus extendi. Omnia fortiter excipienda, quae nobis mundi necessitas imperat etc. Pur trattandosi di una parafrasi (con possibili variazioni e omissioni) e sia pur riferendosi a vizi diversi dalla superbia, non puo` tuttavia non colpire l’ininterrotta serie di esortazioni volte a estirpare le false opinioni sulla ricchezza, il dolore e la morte, da cui traggono origine l’avarizia e la paura, e a rimpiazzarle con giudizi corretti. La similarita` del metodo (mostrare la miseria dei ricchi e la vera natura dei beni materiali, della sofferenza e della morte) e l’analogia della forma (una sequenza di proposizioni per lo piu` dipendenti da verba sentiendi) avvicinano ancor piu` il nostro Aristone allo stoico Aristone di Chio. Ora, contro l’autenticita` della testimonianza di cui si tratta e, piu` in generale, l’attribuzione dei parr. 1-17 dell’epistola (fino ad Haec ab Aristone dicuntur) allo stoico Aristone, si e` obiettato che in essa non sarebbe possibile separare cio` che e` di Seneca da cio` che appartiene alla sua fonte ed e` stata inoltre invocata la presenza nel nostro passo della massima epicurea sulla natura del dolore (se prolungato, sopportabile; se insopportabile, breve; cfr. EPICUR. fr. 446 U. = deest in Arrighetti; frr. 204-206 A.2), che sarebbe di fatto incompatibile con il pensiero di Aristone di Chio. Si veda M. SCHOFIELD, art. cit., pp. 83-96. E` stato anche affermato da G. WATSON,

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Quanto alla seconda sezione della lettera, si e` detto che la sua forma caratterologica e il conseguente accostamento ai Caratteri di Teofrasto ne hanno condizionato a lungo l’interpretazione. In particolare, ha inciso non poco il fatto che, al di fuori dei caratteri di Aristone, tutti gli esempi piu` antichi del genere che conosciamo possiedono sempre una finalita` retorica, poetica o letteraria, e mai filosofico-morale.340 Per questo motivo, gli studiosi non si sono spinti, se non in casi isolati, oltre un generico riconoscimento della natura morale di tali caratteri e si sono astenuti dal tentativo di precisarne il fine specifico, il rapporto con la prima sezione e con l’insieme dell’opera. Ora, pero`, lo spiccato intento protrettico-morale cosı` tipico della prima sezione, dove Aristone si rivolge al suo interlocutore per mezzo di esortazioni e dissuasioni, deve essere riconosciuto anche alla seThe Natural Law and Stoicism, in A.A. LONG (ed.), Problems in Stoicism, London, Athlone 1971, pp. 216-238; B. INWOOD, Goal and target in Stoicism, «JPh», LXXXIII, 1986, pp. 547-556, e soprattutto da P.A. VANDER WAERDT, The Stoic Theory of Natural Law, Diss. Princeton, UMI 1989 (vedasi anche ID., Philosophical Influence on Roman Jurisprudence? The Case of Stoicism and Natural Law, in ANRW, II 36, 7, 1994, p. 4854 nota 10), che la trattazione dei principi morali che Seneca fa nelle Epistole 94 e 95 confliggerebbe con le dottrine giusnaturalistiche dello Stoicismo antico. Ma quest’ultima tesi e` stata efficacemente confutata da PH.T. MITSIS, Seneca on Reason, Rule, and Moral Development, in J. BRUNSCHWIG-M. NUSSBAUM (eds.), Passions and Perceptions. Studies in Hellenistic Philosophy of Mind. Proceedings of the Fifth Symposium Hellenisticum, Cambridge, CUP 1993, p. 293 e nota 28. Quanto alla prima obiezione, essa vale per la maggior parte delle citazioni indirette e in ogni caso non puo` essere addotta per la nostra testimonianza, che dal principio alla fine e` corroborata dal confronto con passi indipendenti sicuramente aristonei. Cfr., per i parr. 2; 5-17 (inutilita` dei precetti), SEXT. EMP. adv. math. VII 12 (fr. 356 SVF I); per il par. 3 (necessita` dell’esercizio), CLEM. ALEX. strom. II 20, 108 (fr. 370 SVF I); per il par. 6 (paragone dell’attore), DIOG. LAE¨RT. VII 161 (fr. 351 SVF I); per il par. 7 (polemica contro la ricchezza), ad es., STOB. flor. III 4, 110 H. (fr. 350 SVF I); CIC. de fin. IV 69 (fr. 368 SVF I); SEN. ep. 115, 8 (fr. 372 SVF I); STOB. ecl. II 31, 95 W. (fr. 396 SVF I); fl. IV 31 D, 110 H. (fr. 397 SVF I); gnom. Vat. 120 (deest in SVF); per i parr. 7-8 (indifferenza dei beni intermedi), ANONYM. in Aristot. eth. nic. 1137 A 26-30 (CAG XX, p. 248, 17, 27 = deest in SVF); GAL. de plac. Hipp. et Plat. VII 2, 595-600 D. (fr. 256 SVF III); per il par. 9 (invettiva contro i pedagoghi e le nutrici), SEXT. EMP. adv. math. VII 12 (fr. 356 SVF I); per il par. 12 (dottrina delle circostanze), STOB. flor. IV 31 D, 110 H. (fr. 397 SVF I); per il par. 17 (paragone tra la virtu` e la salute), PLUTARCH. de virt. mor. 440 F (fr. 375 SVF I). Infine, per cio` che concerne la massima epicurea sul dolore, essa si ritrova anche altrove in Seneca (ad es., in ep. 78, 7), oltre che in Marco Aurelio (VII 33; 64), e potrebbe percio` trattarsi di un’interpolazione del filosofo romano. In ogni caso non e` sufficiente la semplice constatazione della sua presenza all’interno della lunga parafrasi aristonea per escludere automaticamente l’autenticita` di quest’ultima. Ringrazio Anna Maria Ioppolo per la proficua discussione su questo punto. 340 Cfr. supra, cap. II.3.3. Il carakthricmovc di tipo retorico (notatio) e ` descritto in termini formalmente simili a quello filosofico-morale (etologia) da Rhet. ad Her. IV 63-65: notatio est, cum alicuius natura certis describitur signis, quae, sicuti notae quae naturae sunt adtributa; ut si velis non divitem, sed ostentatorem pecuniosi describere [...]. Huiusmodi notationes, quae describunt, quod consentaneum sit unius cuiusque naturae, vehementer habent magnam delectationem: totam enim naturam cuiuspiam ponunt ante oculos, aut gloriosi, ut nos exempli causa coeperamus, aut invidi aut tumidi aut avari, ambitiosi, amatoris, luxuriosi, furis, quadruplatoris; denique cuiusvis studium protrahi potest in medium tali notatione.

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conda. Se e` vero infatti che in questa l’analisi descrittiva delle specie morali e` prevalente, e` vero anche che con la proposizione di modelli moralmente negativi si intende invitare l’interlocutore medesimo a riconoscere in essi le proprie manie e cosı` a liberarsene. Come e` stato correttamente affermato, si tratta di un processo di purificazione interiore che ha come obiettivo la prevenzione o la guarigione dal vizio. E «per guarire dal vizio bisogna scovarlo sotto qualsiasi forma si nasconda».341 Che il carakthricmovc potesse avere nell’antichita` un intento morale e` confermato da una testimonianza di Seneca su Posidonio cui ho gia` fatto riferimento, ma che per la sua importanza riporto ora testualmente: Posidonio giudica necessaria non solo la precettistica – nulla infatti ci proibisce di usare tale parola –, ma anche il consiglio, la consolazione e l’esortazione. A queste aggiunge la ricerca delle cause (non vedo perche´ noi non possiamo chiamarla eziologia, visto che i grammatici, custodi della lingua latina, avvalendosi del loro diritto, cosı` la definiscono). E afferma che sara` utile anche la descrizione di ciascuna virtu`. Posidonio la chiama etologia, altri charakterismos, e descrive i tratti distintivi di ciascuna virtu` e vizio e i dettagli in base ai quali specie simili si differenziano tra di loro. Questa ha la stessa forza dei precetti. Infatti chi impartisce dei precetti dice: ‘‘Farai quelle cose se vuoi essere temperante’’, chi usa le descrizioni afferma: ‘‘Il temperante e` colui che fa quelle tali cose e si astiene da quelle altre’’. Vuoi sapere che differenza c’e`? L’uno impartisce precetti di virtu`, l’altro ne offre un modello. Queste descrizioni e, per usare un termine da gabellieri, rappresentazioni al vivo (iconismi) sono utili, lo riconosco: proponiamo modelli ammirevoli e si trovera` l’imitatore. Tu ritieni utile che ti siano forniti indizi per mezzo dei quali capire come fare a non sbagliare quando vuoi comprare un cavallo di razza o a non perdere tempo per nulla. Quanto piu` utile di questo e` conoscere i tratti distintivi di uno spirito insigne, che e` possibile trasferire da un altro a se stesso! 342

M. GIGANTE, La Scuola di Aristotele cit., p. 268; ID., op. cit., p. 125 sg. SEN. ep. 95, 65-67 (POSIDON. fr. 176 E.-K.): Posidonius non tantum praeceptionem – nihil enim nos hoc verbo uti prohibet – sed etiam suasionem et consolationem et exhortationem necessariam iudicat; his adicit causarum inquisitionem, aetiologian quam quare nos dicere non audeamus, cum grammatici, custodes Latini sermonis, suo iure ita appellent, non video. Ait utilem futuram et descriptionem cuiusque virtutis; hanc Posidonius ethologian vocat, quidam characterismon appellant, signa cuiusque virtutis ac vitii et notas reddentem, quibus inter se similia discriminentur. Haec res eandem vim habet quam praecipere; nam qui praecipit dicit: ‘‘illa facies, si voles temperans esse’’, qui describit, ait: ‘‘temperans est qui illa facit, qui illis abstinet’’. Quaeris, quid intersit? alter praecepta virtutis dat, alter exemplar. Descriptiones has et, ut publicanorum utar verbo, iconismos ex usu esse confiteor: proponamus laudanda, invenietur imitator. Putas utile dari tibi argumenta per quae intellegas nobilem equum, ne fallaris empturus, ne operam perdas in ignavo. Quanto hoc utilius est excellentis animi notas nosse, quas ex alio in se transferre permittitur. 341

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Da queste parole si ricavano importanti informazioni su cui e` opportuno soffermarsi per l’interesse che esse rivestono ai fini della presente ricerca e anche per evitare il rischio, sempre incombente, di una possibile confusione terminologica.343 Piu` volte, infatti, Seneca tradisce il disagio di dover tradurre nella lingua latina i termini tecnici del lessico filosofico greco. Egli ci informa che Posidonio raccomandava, oltre ai precetti (praeceptio),344 anche altre tecniche affini, come l’esortazione (exhortatio), il consiglio (suasio), la consolazione (consolatio), la ricerca delle cause (eziologia) e la descrizione delle virtu` e dei vizi (etologia). Questa classificazione non rappresenta, come e` stato erroneamente ritenuto, una nuova e diversa divisione generale dell’etica stoica rispetto a quella testimoniata da Diogene Laerzio (VII 84) e attribuita, tra gli altri, al medesimo Posidonio, ma una suddivisione in specie all’interno della protrettica morale.345 Ebbene, in essa il filosofo di Apamea includeva diverse tecniche simili volte all’unico scopo di incitare alla virtu` e allontanare dal vizio. In particolare, le prime quattro sezioni sono trattate come un gruppo a se´ stante e omogeneo, essendo in esse piu` immediatamente percepibile il carattere interlocutorio e dialogico.346 Di tali generi possediamo svariati esempi dalla letteratura filosofica cinica e soprattutto stoica, sebbene alcuni di essi, specialmente la consolazione, fossero praticati anche in altre scuole filosofiche. Gli ultimi due generi raccomandati da Posidonio sono invece catalogati a parte, evidentemente perche´ essi avevano caratteristiche piu` peculiari rispetto agli altri. L’eziologia (aijtiologiva), in particolare, doveva essere una tecnica tipica del filosofo di Apamea, visto che oltre a lui non conosciamo altri cultori di questo genere. Essa doveva rappresentare una trasposizione Cfr. anche supra, pp. 49-52. Il termine va inteso in senso stretto, come designante quella sezione dell’etica pratica che faceva uso di precetti (precettistica). Cio` si desume con chiarezza dalle parole di Seneca, per il quale Posidonio «giudica necessaria non solo la precettistica [...], ma anche il consiglio, la consolazione e l’esortazione». La praeceptio, da un lato, e le altre tre tecniche, dall’altro, sono distinte e giustapposte come quattro sezioni paritetiche e indipendenti. Cfr. supra, p. 51 nota 237, e si veda I.G. KIDD (ed.), Posidonius, II: Commentary cit., p. 648 sg. 345 Si vedano I.G. KIDD (ed.), Posidonius, II: Commentary cit., pp. 357; 651: «The whole group from praeceptio to ethologia is not a general classification of ethics, but an analysis of pedagogic modes relevant to the sections of ethics categorised as peri; kaqhkovntwn protropwn= te kai; ajpotropw=n»; ID., Moral Actions and Rules in Stoic Ethics, in J.M. RIST (ed.), The Stoics, BerkeleyLondon, Univ. of California 1978, p. 253; A.M. IOPPOLO, Decreta e praecepta cit., p. 28 nota 39. 346 L’ipotesi di K. REINHARDT (Hrsg.), op. cit., p. 56 sg., e A. DIHLE , art. cit., p. 53, secondo la quale suasio, consolatio ed exhortatio sarebbero sottosezioni della praeceptio, anziche´ costituire delle sezioni indipendenti, e` smentita dalle parole stesse di Posidonio, il quale pone le quattro sezioni tutte sullo stesso piano. Cfr. supra, p. 51 nota 237; p. 144 nota 344, e I.G. KIDD (ed.), Posidonius, II: Commentary cit., p. 648. 343

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in campo etico della ricerca delle cause intesa in senso fisico 347 ed equivaleva probabilmente a un’indagine psicologico-morale finalizzata a individuare l’origine dei vizi e delle passioni e a combatterli piu` efficacemente intervenendo direttamente sulle cause da cui essi dipendono. Un interessante esempio di questo studio della causalita` morale da parte di Posidonio e` stato correttamente individuato nell’Epistola 87 dello stesso Seneca, dove si affronta il ruolo giocato dalla ricchezza in ordine al male morale.348 Ma il genere che ci interessa piu` da vicino e` quella sorta di caratterologia morale che Posidonio definiva con termine originale etologia (hjqologiva) e che Seneca chiama qui anche iconismus, ‘rappresentazione al vivo’, prendendo a prestito dalla retorica un termine tecnico, eijkonicmovc, che indicava una figura di pensiero consistente nella minuta descrizione fisica di un personaggio.349 L’etologia, a cui si e` gia` fatto riferimento in precedenza,350 si prefiggeva di illustrare i tratti fondanti (signa) di ciascun vizio e virtu`, di delineare una serie di raffronti tra specie morali affini (similia) e di specificare i dettagli (notas) in base ai quali esse si distinguono tra di loro. E questo con un intento non semplicemente etico, ma piu` specificamente protrettico-morale. Come anzi viene piu` volte sottolineato da Seneca, tra le tecniche che rientrano in questa parte dell’etica l’etologia e` di singolare utilita`, perche´ ponendo quasi visivamente davanti agli occhi dell’interlocutore un modello da imitare o da ripudiare, si rivela particolarmente efficace per la liberazione dal vizio e l’avvicinamento alla virtu`.351 In quanto tale, essa riscuote l’approvazione del filosofo romano, che le attribuisce la stessa forza (vis) dei precetti, con la differenza che mentre questi prescrivono comportamenti concreti adatti a ogni circostanza, l’etologia fornisce un’esempio (exemplar) tangibile di virtu` e permette di trasferire direttamente in se stessi «i tratti distintivi di uno spirito insigne (excellentis animi)». Quanto detto e` suffiCfr. POSIDON. fr. 18 E.-K. Cfr. SEN. ep. 87, 31-40 (fr. 170 E.-K.). Si vedano I.G. KIDD (ed.), Posidonius, II: Commentary cit., pp. 626-638; 650; A.M. IOPPOLO, Il concetto di causa nella filosofia ellenistica e romana, in ANRW, II 36, 7, 1994, pp. 4491-4545 e, infra, pp. 172-174. 349 Cfr. POLYB. SARD . in Rhet. Gr. III 108, 10: eijkonicmovc ejcti cwvmatoc ijdivwc ajpovdocic ejx iJctorivac lambanovmenoc, Rhet. ad Her. IV 63 (effectio); e anche PLUTARCH. quom. adul. ab am. intern. 54 B. Il termine eijkonicmovc e` preso in prestito dal linguaggio dei gabellieri (publicani), dai quali era utilizzato con il significato tecnico di «registered description of individuals for purposes of census» (LSJ, s.v.). Si veda A.M. IOPPOLO, Decreta e praecepta cit., p. 29 sg. e nota 30. 350 Cfr. supra, p. 55; p. 63 sg. 351 Seneca insiste su questo punto per ben quattro volte: 65: utilem; 66: ex usu; 67: utile e utilius. Si veda I.G. KIDD (ed.), Posidonius, II: Commentary cit., p. 651. 347

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ciente per avanzare l’ipotesi che il De liberando a superbia, e specialmente la sua seconda sezione, rappresenti non una semplice galleria di stereotipi senza alcun valore filosofico, ma il piu` antico esempio compiuto di questa caratterologia morale, le cui caratteristiche sono cosı` precisamente descritte da Seneca in riferimento a Posidonio. Come si e` visto dettagliatamente piu` sopra, infatti, nella lettera aristonea si delineavano fin nei minimi particolari i tratti costitutivi e distintivi di un vizio (e non di un semplice carattere), le specie morali a esso affini e gli elementi che le differenziano vicendevolmente. La forma caratterologica della seconda sezione, dunque, si spiega con il suo spiccato intento protrettico-morale. Essa non deve essere intesa come fine a se stessa, ma va subordinata allo scopo generale dello scritto, al quale e` del tutto funzionale. E cosı`, la rappresentazione delle specie morali e` tanto piu` analitica e particolareggiata quanto piu` efficaci l’autore desidera che ne risultino gli effetti terapeutici sull’interlocutore. Del resto, che questo fosse lo scopo della sezione si ricava in modo lapidario anche dal ‘titolo’ Sul modo di liberare dalla superbia che, come abbiamo chiarito, si riferiva a tutto lo scritto e non soltanto a una parte di esso.352 Qualunque, infatti, sia il valore che si attribuisce al verbo koufivzein, Aristone propone comunque al suo interlocutore una serie di esortazioni e descrizioni finalizzate a combattere il vizio della superbia. E tale omogeneita` di intenti, perseguita per mezzo di differenti strategie, conferisce a tutta l’opera la sua unita` ideale.353 Dell’etologia non si conoscono le precise origini. Forse essa affondava le sue radici nel mimo, cioe` in quella rappresentazione drammatica di alcune scene di vita quotidiana in forma monologica o dialogica che si faceva risalire al siculo Sofrone e che proprio in epoca ellenistica conobbe una nuova, importante fioritura. Questa forma letteraria di sapore popolare, che era uno degli svariati modi in cui si esprimeva lo stile seriocomico (cpoudaiogevloion), possedeva una potente capacita` descrittiva e di caratteCfr. supra, p. 21 sg. Sull’intento protrettico-morale della lettera e di entrambe le sue sezioni si vedano W. KNO¨GEL, op. cit., p. 25: «[...] dienen Aristons Charakterschilderungen der Paraenese»; F. WEHRLI, Ru¨ckblick cit., p. 108: «Die lebendige Darstellung moralischer U¨bel, welche mit Anekdoten und Chrien durchsetzt wird, dient als Vorbereitung ihrer Beka¨mpfung»; A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 718 sg.: «Appare subito il forte intento parenetico che anima la descrizione dei caratteri fatta da Aristone, tutto volto ad allontanare gli uomini dal vizio della superbia. Egli vuole mettere in luce quanto la superbia possa nuocere al vizioso, in modo da creare disgusto nell’animo del lettore»; p. 731; M. GIGANTE, Kepos e Peripatos cit., p. 125: «Aristone scrisse il suo trattato, che potremmo definire un protrettico, perche´ gli uomini si liberassero dalla superbia boriosa e arrogante»; G. RANOCCHIA, L’autore del Peri; tou= koufivzein cit., pp. 251-257. 352

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rizzazione (definita appunto hjqologiva),354 che dovette influire non poco sui Caratteri di Teofrasto e, per mezzo di questi, sulle successive forme di caratterologia.355 L’etologia morale non fu coltivata solo da Posidonio. Come abbiamo visto in precedenza, i principali cultori di questa forma espressiva furono gli autori di diatribe, i quali se ne avvalsero con larghezza per mettere in risalto le contraddizioni e l’ignoranza dell’interlocutore.356 Ora, noi sappiamo che questi scrittori erano quasi sempre filosofi o cinici o stoici o comunque adottarono sistematicamente dottrine e posture di questa matrice filosofica.357 Anche l’entusiasmo manifestato da Seneca verso questo genere, di cui sottolinea ripetutamente l’utilita` per il progresso morale e del quale si avvale piu` volte egli stesso nei Dialoghi e nelle Lettere, ci fa pensare che essa fosse un genere specialmente caro agli Stoici. In effetti, l’etologia rappresentava non solo uno dei generi della protrettica morale stoica secondo Posidonio, ma anche uno dei piu` caratteristici. Le opere caratterologiche di Teofrasto, Eraclide Pontico, Dicearco, Licone e Satiro, lo sappiamo, non avevano alcun intento etico e per questo non possono essere ricondotte a quella caratterologia morale cosı` ben esemplificata nella lettera aristonea. A questo punto non si puo` piu` evitare di prendere in considerazione l’ipotesi che il De liberando a superbia nel suo complesso sia quel che rimane di uno scritto protrettico-morale di ascendenza stoica. In tale direzione ci spinge la riflessione sul carattere parenetico della prima sezione e sulla natura etologica della seconda. Riguardo alla prima si e` detto che l’esortazione morale che si avvaleva di exempla fu coltivata in modo speciale dai Cinici e, soprattutto, dagli Stoici. In questo secondo ambito essa e` attestata ininterrottamente dallo Stoicismo antico allo Stoicismo tardo di Seneca, Epitteto e Musonio Rufo. Aristone di Chio la considerava di capitale importanza, al punto da fondare su di essa il suo metodo pedagogico e fare tabula rasa di tutte le altre tecniche affini. Per di piu`, l’apparato concettuale rilevabile nella prima sezione presenta importanti analogie con la psicologia morale stoica. In secondo luogo, si e` tentato di mostrare che nella seconda parte dell’opuscolo va riconosciuto un importante esempio di quell’etologia morale descritta da Posidonio, lodata da Seneca e largamente impiegata dagli autori diatribici, la quale rappresentava un’importante sezione della 354 Piu ` precisamente hjqolovgoc era l’attore mimico ed hjqologiva la descrizione di caratteri basata su gesti. Cfr. DIOD. SIC. XX 63; CIC. de orat. II 242; QUINT. I 9, 3; SUET. gramm. 4. 355 Si veda G.C. FISKE , Lucilius and Horace cit., pp. 168-175. 356 Cfr. supra, p. 55; p. 63 sg. 357 Cfr. supra, p. 59 sg.

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protrettica morale stoica. Infine, non va dimenticato che la testimonianza di Seneca relativa al filosofo di Apamea si inserisce nel quadro di una discussione – quella su decreta e praecepta sviluppata nel corso delle Epistole 94 e 95 – in cui un ruolo fondamentale era attribuito alla posizione espressa sull’argomento da Aristone di Chio.358 Ma chi poteva mai essere il misterioso Aristone autore di uno scritto epistolare Sul modo di liberare dalla superbia in cui si impiegavano sistematicamente alcune tecniche protrettico-morali predilette dagli Stoici se non proprio lo stoico Aristone di Chio? E` noto infatti che non vi furono altri filosofi stoici con questo nome. A tale conclusione si potrebbe obiettare che non e` verosimile che un genere cosı` ‘specialistico’ come l’etologia potesse essere praticato in una fase cosı` alta della storia della Stoa come quella in cui visse il filosofo eterodosso. Ma le testimonianze di Sesto Empirico e di Seneca sopra riportate 359 dimostrano chiaramente che all’interno dell’etica pratica gia` Cleante e Aristone di Chio distinguevano con precisione tra parenesi, consiglio e precetti a cui vanno sommate le consolazioni, attestate per Cleante e Crisippo.360 A ben vedere, dunque, ben quattro differenti generi protrettico-morali furono coltivati prima di Posidonio da alcuni esponenti dello Stoicismo antico. Nulla, pertanto, impedisce di immaginare che qualcosa di analogo possa essere avvenuto per l’etologia morale.361 A quanto sin qui detto si deve aggiungere la circostanza che Filodemo nutriva una certa fiducia nelle capacita` persuasive del suo autore, se concludeva il libro Sulla superbia riportando ininterrottamente per quindici colonne un testo a lui del tutto estraneo. Vero e` che, come abbiamo visto in precedenza, la prassi di citare e parafrasare diffusamente altri autori, anche appartenenti ad altre scuole filosofiche, non era affatto ignota al filosofo epicureo, il quale se ne avvaleva o allo scopo di confutarli sistematicamente o con il fine di appropriarsene per il suo demonstrandum. Ora, pero`, e` chiaro che lo scritto aristoneo rientrava nel secondo caso, se Filodemo, introducendo la lunga citazione, afferma esplicitamente che Aristone «non inverosimilmente potrebbe convincere qualcuno sugli argomenti che si e` ritaSi veda A.M. IOPPOLO, Decreta e praecepta cit., pp. 15-36. Cfr. supra, p. 139 sg. 360 Cfr. CIC . Tusc. disp. III 55-61; 75-79, e P. DONINI , Struttura delle passioni e del vizio e loro cura in Crisippo, «Elenchos», XVI, 1995, pp. 305-329. 361 A cio ` non osta nemmeno l’uso del futuro (ait utilem futuram et descriptionem cuiusque virtutis etc.) da parte del filosofo di Apamea, giacche´ l’auspicio che il genere sia coltivato in futuro non esclude di per se´ che esso lo sia gia` stato in precedenza all’interno della stessa scuola stoica. 358

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gliato» (10 28-30). Per di piu`, le fonti antiche sono concordi nell’attribuire ad Aristone di Chio spiccate doti di eloquenza e persuasione, al punto che i contemporanei lo soprannominarono ‘Sirena’ 362 e lo stesso Filodemo nella Storia della Stoa, non senza una certa ammirazione, lo paragonava ad Atena perche´, come la dea, «con le parole spirava forza e ardore».363 Egli si avvaleva di paragoni ed esempi, parodiava i poeti, tra cui Omero ed Euripide, e usava prosimetri, adottando un linguaggio espressivo e suadente, infarcito di sentenze, che gli guadagno` la sequela di parecchi discepoli (detti Aristonei), tra cui lo stesso Eratostene.364 E non e` forse un caso che tutti questi mezzi stilistici (e molti altri) si ritrovino in gran copia nel De liberando a superbia dove, oltre a paragoni e citazioni di versi comici e tragici, tra i quali uno di Euripide,365 numerosi sono i riferimenti a personaggi storici e avvenimenti esemplari trasmessi sotto forma di aneddoti e crie. Ed e` anche la singolare forza persuasiva della parenesi nella prima sezione dell’opuscolo e la non comune capacita` descrittiva con cui Aristone tratteggia i suoi modelli nella seconda a rivelare un’abilita` espressiva che ben si accorda con quanto le fonti antiche ci attestano sull’eloquenza di Aristone di Chio.

5. L’ANALISI

DEL LESSICO E DEI CONTENUTI FILOSOFICI

Nella prima parte del presente lavoro e nei due capitoli precedenti si e` cercato di individuare alcune caratteristiche essenziali del De liberando a superbia che aiutassero a comprendere meglio natura e scopo dello scritto.

362 Cfr. DIOG . LAE¨ RT. VII 160 (fr. 333 SVF I); VII 182 (fr. 339 SVF I); AELIAN . var. hist. III 33 (fr. 337 SVF I). Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 22-24, ed EAD., Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 732 sg. 363 PHILOD . Stoic. hist. col. 35, 1-6 D. (fr. 336 SVF I). Cfr. infra, p. 194. 364 Per i paragoni e le sentenze cfr. STOB. ecl. II 1, 24 W. (fr. 352 SVF I); ecl. II 2, 14 W. (fr. 392 SVF I); ecl. II 2, 18 W. (fr. 393 SVF I); ecl. II 2, 22 W. (fr. 391 SVF I); ecl. II 2, 23 W. (fr. 394 SVF I); ecl. II 31, 83 W. (fr. 387 SVF I); ecl. II 31, 95 W. (fr. 396 SVF I); fl. III 13, 40 H. (fr. 383 SVF I); fl. III 13, 57 H. (fr. 384 SVF I); fl. IV 20, 69 H. (fr. 395 SVF I); fl. IV 22 A, 16 H. (fr. 400 SVF I); fl. IV 25, 44 H. (fr. 386 SVF I); fl. IV 31 D, 110 H. (fr. 397 SVF I); fl. IV 52 A, 18 H. (fr. 399 SVF I); gnom. Neap. II D 22 S., n. 8; gnom. Vat. 743 S., nn. 120-123; DIOG. LAE¨RT. VII 161 (fr. 351 SVF I); per le parodie, DIOG. LAE¨RT. IV 33 (fr. 343 SVF I); SEXT. EMP. Pyrrh. hypot. I 234 (fr. 344 SVF I); EUSEB. praep. evang. XIV 5, 13; per le citazioni poetiche e i prosimetri, DIOG. LAE¨RT. prooem. 16 (fr. 333 SVF I); CLEM. ALEX. strom. II 20, 108 (fr. 370 SVF I), che pero` nella silloge di von Arnim e` decurtato dei versi che seguono; EUSEB. praep. evang. XV 62, 7-13 (fr. 353 SVF I). Si vedano A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 22-24; 82-84; 123, ed EAD., Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 732 sg. e nota 61. 365 Cfr. 11 12-14 (EUR. Ino, fr. 420, 1 TrGF V 1); 13 3-4 (fr. com. adesp. nov.); 21 36-38 (ARISTOPH. Nub. 362).

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Rimane ora da effettuare l’esame del lessico e dei contenuti filosofici, che tentero` di affrontare su due livelli differenti e complementari. Il primo consiste nel verificare se e in che misura sia possibile scorgere nell’opuscolo termini e teorie filosofiche riferibili alle diverse scuole ellenistiche, con una speciale attenzione alla Stoa e al Peripato. Il secondo livello consiste nel tentativo di identificare tracce di dottrine specificamente riconducibili ai due filosofi che qui piu` ci interessano. Gli studiosi, infatti, o hanno ritenuto di ravvisare nella lettera posizioni stoiche o tipiche di Aristone di Chio 366 o, viceversa, vi hanno riconosciuto allusioni a teorie aristoteliche o analogie con Teofrasto e i suoi immediati successori.367 Nelle pagine che precedono si e` gia` piu` volte fatto riferimento a termini ed espressioni che sembrano richiamare tesi e concezioni filosoficamente caratterizzate. Tenendo ben presente che ci troviamo di fronte a uno scritto di contenuto filosofico-popolare e che quindi la terminologia non e` in senso stretto quella tecnica di un trattato di morale, proseguiro` l’analisi soffermandomi diffusamente su altri lessemi e semantemi degni di nota. 5.1. Il metodo terapeutico e l’analogia medica applicata al vizio E` stato piu` volte sottolineato che il metodo impiegato da Aristone per liberare dalla superbia e` di tipo terapeutico.368 Come la cura del vizio, considerato alla stregua di una vera e propria malattia dell’anima, cosı` anche la sua diagnosi ed eziologia presentano importanti affinita` con la medicina e la psicologia sperimentali.369 La differenza tra vizio e virtu` e` descritta nei termini di un’antitesi tra stato patologico e benessere fisico (eujexiva).370 366 Si vedano C. GALLAVOTTI , Teofrasto e Aristone cit., pp. 474-477 (ma la sua analisi non e ` esente da limiti); A.M. IOPPOLO, Filodemo e il Peri; tou= koufivzein cit., p. 733 nota 62; EAD., La poetica dello Stoico cit., p. 148 e nota 116: «Molti altri elementi, presenti nell’estratto del Peri; tou= koufivzein uJperhfanivac, tra i quali anche affinita` verbali con frammenti sicuramente attestati, depongono a favore della paternita` di Aristone di Chio». 367 Si vedano soprattutto W. KNO ¨ GEL, op. cit., pp. 17-47; F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., pp. 52-63, e ID., Ru¨ckblick cit., p. 108 sg. 368 Si vedano, ad es., CH . JENSEN , Die Bibliothek cit., p. 57 sg. = CH . JENSEN-W. SCHMIDM. GIGANTE, op. cit., p. 21 sg.: «Aristone vuole essere medico di anime. Egli intende dimostrare come l’uomo possa con le proprie forze almeno mitigare, se non guarire, le malattie dell’animo suo. Le medicine sono conoscenza ed esercizio»; R. PHILIPPSON, rec. W. KNO¨GEL cit., col. 1331 sg.; O. REGENBOGEN, art. cit., col. 1509; F. WEHRLI, Ariston, RE cit., col. 158. 369 Lo stesso verbo koufivzein, piu ` volte impiegato nello scritto in riferimento all’azione di liberare o liberarsi dalla superbia, si trova usato spessissimo nel Corpus Hippocraticum, intransitivamente o alla diatesi passiva, con il significato di ‘guarire da una malattia’. Si veda H. STEPHANUS (ed.), Thesaurus linguae Graecae, Parisiis, Didot 1829, s.v. koufivzw. 370 Cfr. 15 23-27.

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In particolare la superbia e` assimilata a una sorta di tumore o rigonfiamento del corpo (oi[dhcic),371 mentre una passione come l’invidia e` paragonata all’oftalmia (ojfqalmiva).372 Tra le cause della malattia figura in particolare la presenza di flegma amaro (pikro;n flevgma) 373 nell’organismo. La patologia (novchma) 374 puo` prolungarsi nel tempo sino a cronicizzarsi 375 e degenerare in insania (ajpoplhxiva),376 stoltezza (mwriva) 377 o follia (maniva).378 Di conseguenza gli uomini affetti dal vizio sono definiti folli (mainovmenoi) 379 e dissennati (lhrou=ntec).380 Molte di queste idee furono fatte proprie da Filodemo, il quale dovette scorgere in esse uno dei motivi di maggior interesse della lettera, visto che anch’egli per il suo metodo pedagogico, fondato prevalentemente sull’uso della parrhesia, si avvaleva abbondantemente dell’analogia con la medicina empirica. Il filosofo epicureo, infatti, si serviva di un procedimento induttivo di tipo correttivo (e mai preventivo) che comprendeva un esame sintomatologico della patologia finalizzato alla sua diagnosi e seguito da una terapia adeguata, anch’essa di natura empirica. Questa consisteva in una forma di ragionamento stocastico che intendeva aiutare il ‘paziente’ a riconoscere la natura e le cause della passione o del vizio da cui era affetto e a ricercare una cura. Le terapie erano diverse a seconda delle ‘malattie’ ed effettuate sulla base della cronaca delle tecniche usate in passato (historia). Scopo finale del trattamento, piu` o meno lungo e complesso che fosse e non esente dal rischio di un insuccesso, era la completa estirpazione del vizio.381 Ma torniamo al nostro Aristone. Tra i rimedi che egli suggeriva al superbo vi era quello di tenere presenti le umiliazioni subite in passato e di Cfr. 15 23-34. Cfr. 12 16. 373 Cfr. 11 3-4. 374 Cfr. 16 17. 375 Cfr. 16 2-3 (cr[oni]|cqeivc[h]c [uJ]perhfanivac) e Comm. a 16 1-3. . 376 Cfr. 18 35-36. 377 Cfr. 16 17. 378 Cfr. 16 18. 379 Cfr. 19 15. 380 Cfr. 20 28 e anche 19 32: lhrein de; kai; ktl. = 381 Si vedano M. GIGANTE, Philosophia medicans in Philodemo, «CErc», V, 1975, pp. 53-61; M. ERLER, Physics and Therapy. Meditative elements in Lucretius’ De rerum natura, in K.A. ALGRA, M.H. KOENEN and P.H. SCHRIJVERS (eds.), Lucretius and his Intellectual Background, AmsterdamOxford-New York-Tokyo, North Holland 1997, p. 86 sg.; ID., Exempla amoris. Der epikureische Epilogismos als philosophischer Hintergrund der Diatribe gegen die Liebe in Lukrez De rerum natura, in A. MONET (e´d.), Le jardin romain. E´picurisme et poe´sie a` Rome. Me´langes offerts a` Mayotte Bollack, Lille, Univ. Ch. de Gaulle 2003, p. 157 sg.; V. TSOUNA, Philodemus on the Therapy cit., pp. 250-258. 371

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considerare la mutevolezza della sorte; di conferire agli eventi positivi e negativi della vita la loro giusta importanza senza aumentarne o sminuirne la portata; di non prefiggersi azioni grandiose per farsi ammirare dalla gente; di confrontarsi sempre con quelli di condizione sociale a lui superiori e mai con quelli piu` umili; di tenere in conto i guai che gli provochera` l’invidia altrui e come gli altri godranno delle sue future disgrazie. Prenda ad esempio gli uomini di alto livello sociale, che si comportano in modo dimesso e affabile con gli altri e ricordi cosa comporto` a certi personaggi storici la loro intrattabilita`. Consideri come le imprese individuali siano generalmente destinate al fallimento e come invece siano coronate da successo quelle realizzate in modo collegiale; ponderi sulle sventure derivanti dall’ira di coloro che egli aveva in precedenza disprezzato e valuti le conseguenze estreme del vizio, che non di rado conduce alla follia. Un altro rimedio e` rappresentato da un’inedita forma di esame di coscienza effettuato sulla falsariga di alcune domande specifiche: Che cos’e` che mi fa imbaldanzire (gauri|an= ) ed essere arrogante (uJp.erhfanein= )? Il fatto che possiedo parecchi quattrini (kermavtia)? O il fatto che sono annoverato tra i nobili o tra i generali che ogni anno vengono onorati con l’imposizione del paludamento (ejniau|civai peribolhi= clamuvdoc)? 382

Per mezzo di tali interrogativi il superbo e` invitato a fare un’indagine personale sul suo vizio allo scopo di applicare da se stesso il rimedio opportuno. Le principali cause della superbia sono qui tutte rappresentate. Si tratta della ricchezza, della nobilta` e della gloria, le quali ricorrono spesso nel corso della lettera. Ma e` soprattutto la prima di esse, presa a paradigma per tutte, il principale fattore scatenante del vizio.383 Si tratta in ultima analisi di beni esterni dipendenti dalla variabile assegnazione della sorte, dalla cui oscillazione derivano i contradditori stati d’animo del superbo: l’esaltazione e la contrapposta disperazione.384 Non sara` superfluo ricordare che questo monologo e` stato avvicinato per la forma e per il contenuto ai Pensieri di Marco Aurelio.385 In effetti, erano gli Stoici che insistevano in modo speciale sull’analogia tra passioni e vizi, da un lato, e malattia fisica o mentale, dall’altro, sottoponendo questa parte dell’etica a una sistematica medicalizzazione che era

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15 13-23. Cfr. [12 3-4]; 5-13; 23-28; 15 30-34. Cfr. 11 25-26; 13 35-39. Si veda F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 55.

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condotta fin nei minimi particolari anche sul piano eziologico. Vero e` che in generale l’analogia medica, inaugurata da Socrate e Platone e presente anche in Aristotele, era molto diffusa in epoca ellenistica, soprattutto fra i filosofi cinici, e che essa fu impiegata anche dai Peripatetici.386 Ma nell’ambito della teoria delle passioni essa non trovo` elaborazione piu` sistematica e dettagliata di quella operata dai filosofi stoici, i quali indugiarono molto sulla classificazione e definizione delle patologie morali in un modo che veniva considerato caratteristico di tale scuola.387 La tassonomia stoica delle passioni e dei vizi, infatti, non si limitava a distinguerne le diverse forme, ma ne studiava anche i differenti stadi di evoluzione prendendo a modello il decorso clinico della malattia. Aristone di Chio, in particolare, sosteneva la necessita` di curare sino in fondo (percurare) l’anima ‘ammalata’ (mentem aegram) a causa del vizio e, riferendosi ancora all’‘infermita`’ morale, affermava contro l’utilita` dei precetti che «e` stolto prescrivere al malato (aegro) che cosa debba fare come se fosse sano (tamquam sanus), quando ancora deve riacquistare la salute».388 Crisippo dedico` all’argomento ampio spazio nel suo trattato Sulle passioni e in particolare l’intero quarto libro, per questo anche detto Etico o 386 Cfr. ARISTOT. eth. nic. 1094 A 8-10; 1152 B 32; polit. 1267 A 7; 1272 B 2. Si vedano W. JAEGER, Diokles von Karystos. Die Griechische Medizin und die Schule des Aristoteles, Berlin, de Gruyter 1938; ID., Paideia. La formazione dell’uomo greco, trad. it., Firenze, La Nuova Italia 19702, III, pp. 25; 43; ID., Aristotle’s Use of Medicine as Model of Method in his Ethics, «JHS», LXXVII, 1957, pp. 54-61 (= Scripta Minora, II, Roma 1960, pp. 491-509); F. WEHRLI, Ethik und Medizin. Zur Vorgeschichte der aristotelischen Mesonlehre, «MH», VIII, 1951, pp. 36-62, rist. in Theoria und Humanitas. Gesammelte Schriften zur antiken Gedankenwelt, Zu¨rich, Artemis 1979, pp. 177206; ID., Der Arztvergleich bei Platon, «MH», VIII, 1951, pp. 177-184, rist. in Theoria und Humanitas cit., pp. 206-214; M. GIGANTE, Philosophia medicans cit., pp. 53-56; I.G. KIDD, ‘Euemptosia’ - Proneness to Disease, in W.W. FORTENBAUGH (ed.), On Stoic and Peripatetic Ethics. The Work of Arius Didymus, New Brunswick-London, Transaction Books 1983 («Rutgers University Studies in Classical Humanities», 1), p. 110. 387 Ricordo soltanto CIC. Tusc. disp. IV 23 (fr. 424 SVF III): hoc loco nimium operae consumitur a Stoicis, maxime a Chrysippo, dum morbis corporum comparatur morborum animi similitudo. Si vedano A.A. LONG-D.N. SEDLEY (eds.), op. cit., I, p. 385: «Medical analogies had been characteristic of Greek philosophical ethics since Socrates and Plato [...]; but the Stoics elaborated the point in distinctive detail, as is evident from their ‘pathology’ of emotions». M. VEGETTI, Tra passioni e malattia. Pathos nel pensiero medico antico, «Elenchos», XVI, 1995, pp. 222230, e specialmente 223 sg.: «Naturalmente la compiuta riduzione della passione a malattia psichica e` di matrice stoica [...]. Sappiamo, tanto da Cicerone e Galeno quanto da Diogene Laerzio, che gli Stoici, e soprattutto Crisippo, operavano una sistematica medicalizzazione della passione psichica considerandola perfettamente analoga, anche sul piano eziologico, alla malattia somatica». Invece, dalle opere psicologiche ed etiche di Aristotele e dagli altri Peripatetici non sembrano evincersi testimonianze che attestino un impiego significativo dell’analogia medica applicato a questo specifico ambito. 388 Per questo filosofo cfr. SEN . ep. 94, 13; 17; 22 (fr. 359 SVF I), e anche STOB. ecl. II 2, 23 W. (fr. 394 SVF I).

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Terapeutico, dove egli elaboro` una terminologia specifica che distingueva le passioni in nochvmata (morbi), ‘malattie’ permanenti dell’anima che nascono da un falsa opinione e che generano un desiderio non conforme a ragione, e ajrrwcthvmata (aegrotationes), ‘infermita`’ pure stabili, ma accompagnate a debolezza.389 Il quadro di riferimento da lui elaborato dominera`, con vari aggiustamenti, per tutta l’antichita` non solo tra gli Stoici, ma presso i moralisti di ogni scuola e tendenza filosofica, ivi inclusi Filodemo, Seneca e Galeno.390 Posidonio spinse sino in fondo l’analogia sviluppando la teoria dell’eujemptwciva (proclivitas) o ‘inclinazione’ al male, stabilendo una piu` rigorosa equivalenza tra le diverse condizioni mentali e i corrispondenti stati fisici e suggerendo rimedi differenti a seconda dei diversi stadi di avanzamento della passione.391 Non sfuggivano all’analogia medica nemmeno la 389 Cfr. STOB. ecl. II 93, 1 W. (fr. 421 SVF III); DIOG . LAE¨RT . VII 115 (fr. 422 SVF III); CIC . Tusc. disp. IV 23; 26-27; 29; 31-32; (frr. 423-427; 430 SVF III); SEN. ep. 75, 11 (fr. 428 SVF III); GALEN. de loc. aff. VIII 32 K. (fr. 429 SVF III); VIII 138 K. (fr. 457 SVF III); de plac. Hipp. et Plat. IV 1, 364-366 D. (fr. 461 SVF III); IV 4, 385-387 D. (fr. 476 SVF III); IV 5, 394 D. (fr. 479 SVF III); IV 5, 396-397 D. (fr. 480 SVF III); IV 6, 403-408 D. (fr. 473 SVF III); IV 7, 419-421 D. (fr. 466 SVF III); V 2, 432; 435; 443 D. (465 SVF III); V 3, 444-447 D. (fr. 841 SVF II); VII 1, 588-591 D. (fr. 259 SVF III); PHILOD. de ira col. 1, 12-20 I. (fr. 470 SVF III); ORIG. contra Cels. I 64; VIII 51 (frr. 474-475 SVF III); MUSON. fragm. min. 36. Si vedano L. EDELSTEIN, The relation of ancient philosophy to medicine, «BHM», XXVI, 1952, pp. 299-316, rist. in Ancient Medicine, Selected Papers of L. Edelstein edited by O. Temkin and C.L. Temkin, Baltimore-London, Johns Hopkins 1987, pp. 349-366; I.G. KIDD, ‘Euemptosia’ cit., pp. 107-113; M. FREDE, Philosophy and medicine in antiquity, in A. DONAGAN-A.N. PEROVICH-M.V. WEDIN (eds.), Human Nature and Natural Knowledge, Essays Presented to Marjorie Grene, Dordrecht, Reidel 1986, pp. 211-232, rist. in M. FREDE, Essays in Ancient Philosophy, Oxford, Clarendon 1987, pp. 225-242; M.C. NUSSBAUM, The Stoics on the Extirpation of the Passions, «Apeiron», XX, 1987, pp. 129-177; EAD., The Therapy of Desire. Theory and Practice in Hellenistic Ethics, Princeton, Univ. Press 1994, capp. 1 e 9. La distinzione tra novchma e ajrrwvcthma non e` chiara ed e` forse di natura puramente logica, come afferma CIC. Tusc. disp. IV 24; 29. Seneca non distingueva piu` tra morbus ed aegrotatio. Si vedano I. HADOT, Seneca und die griechisch-ro¨mische Tradition der Seelenleitung, Berlin, de Gruyter 1969 («Quellen und Studien zur Geschichte der Philosophie», 13), pp. 143145; P. DONINI, Struttura delle passioni cit., p. 314 sg.; ID., Stoic Ethics: Moral Education and the Problem of the Passions, in K. ALGRA-J. BARNES-J. MANSFELD-M. SCHOFIELD (eds.), op. cit., pp. 712-714 e nota 119. 390 Si veda M. VEGETTI , L’etica degli antichi, Roma-Bari, Laterza 1989, pp. 230-244. 391 Cfr. G ALEN . de plac. Hipp. et Plat. V 2, 432-435 D. (fr. 163 E.-K.); IV 5, 397-403 D. (fr. 164 E.-K.); IV 7, 416-427 D. (fr. 165 E.-K.); V 6, 474-476 D. (fr. 166 E.-K.); V 4, 458 D. (fr. 167 E.-K.); V 6, 472-473 D. (fr. 168 E.-K.); cfr. anche STOB. ecl. II 93, 1 W. (fr. 421 SVF III); DIOG. LAE¨RT. VII 115 (fr. 422 SVF III); CIC. Tusc. disp. IV 27-28; ORIG. comm. in Matth. XV 16 (fr. 454 SVF III); SEN. de ben. IV 27 (fr. 659 SVF III); PHILOD. de ira col. 49, 20 I. La dottrina dell’eujemptwciva divenne comune da Cicerone in poi, che per primo introdusse il corrispondente latino proclivitas. Si veda I.G. KIDD, ‘Euemptosia’ cit., pp. 107-113, il quale afferma (ivi, p. 108) di non conoscere attestazioni anteriori del termine eujemptwciva, benche´ ammetta di non avere la certezza che esso sia stato coniato da Posidonio in persona. Ma forse nemmeno la dottrina corrispondente fu teorizzata per la prima volta dal filosofo di Apamea, se dobbiamo prestare fede a una testimonianza di Seneca riguardante Aristone di Chio, dove si afferma: duo sunt propter quae

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superbia o altri vizi a essa affini come la vanagloria e l’ambizione.392 Passione e vizio, in particolare, erano paragonati a una specie di tumore o gonfiore dell’anima (tumor animi), che si manifesta soprattutto all’inizio e nella fase acuta della malattia, ma che puo` persistere anche per molto tempo.393 Questa metafora veniva evocata specialmente proprio nel caso della superbia e dell’ira, i due vizi cioe` che piu` degli altri sembravano richiamarla istintivamente.394 delinquimus: aut inest animo pravis opinionibus malitia contracta aut, etiam si non est falsis occupatus, ad falsa proclivis est et cito specie quo non oportet trahente corrumpitur. Itaque debemus aut percurare mentem aegram et vitiis liberare, aut vacantem quidem, sed ad peiora pronam praeoccupare (ep. 94, 13). In essa, come si puo` vedere, si dichiara esplicitamente che due sono le condizioni patologiche nelle quali l’anima puo` venire a trovarsi: o essa e` gia` in preda al vizio, in quanto occupata da false opinioni o, pur essendone ancora libera, e` proclive ad esse (ad falsa proclivis) e incline al male (ad peiora pronam), al punto che prima o poi finira` per soccombere al vizio. Se e` vero questo e visto che non vi sono motivi validi per dubitare della testimonianza di Seneca, che si inserisce in un piu` ampio estratto dossografico su Aristone di Chio, non e` da escludere l’ipotesi che la teoria sia stata avanzata per la prima volta proprio dal filosofo eterodosso, che sia stata poi parzialmente ripresa da Crisippo e che infine essa sia stata corretta e piu` ampiamente sviluppata da Posidonio. E` stata A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 244248, a intravedere per prima un’embrionale presenza della dottrina dell’eujemptwciva in Aristone di Chio. 392 Cfr. SEN . ep. 106, 2 (fr. 84 SVF III): si affectus corpora sunt, et morbi animorum et avaritia, crudelitas, indurata vitia et in statum inemendabilem adducta: ergo et malitia et species eius omnes, malignitas, invidia, superbia: ergo et bona etc.; DIOG. LAE¨RT. VII 115 (fr. 422 SVF III): wJc de; levgetaiv tina ejpi; tou= cwvmatoc ajrrwcthvmata, oi|on podavgra kai; ajrqrivtidec, ou{tw kajpi; th=c yuchc= filodoxiva kai; filhdoniva kai; ta; paraplhvcia, CIC. Tusc. disp. IV 23 (fr. 424 SVF III): similiterque ceteri morbi, ut gloriae cupiditas, ut mulierositas, ut ita appellem eam quae Graece filoguniva dicitur, ceterique similiter morbi aegrotationesque nascuntur; IV 26 (fr. 427 SVF III): Aegrotationi autem talia quaedam subiecta sunt: avaritia, ambitio, mulierositas, pervicacia, ligurritio, vinulentia, cuppedia et siqua similia. 393 Cfr., ad es., CIC. Tusc. disp. III 26; 76: erat enim in tumore animus, et omnis in eo temptabatur curatio. Sed sumendus tempus est non minus in animorum morbis quam in corporum; IV 63 (fr. 484 SVF III); MUSON. fragm. min. 36. 394 Cfr. PHILOD. de ira col. 8, 20-26 I.: wJc|perei; (sc. hJ ojrghv) cunkeivmenon ejx | ejkpurwvcewc kai; . dioidhv|[c]ewc kai; diereqicmou= | kai; brimwvcewc kai; deinh=c | ejpiqumivac tou= metel|qein= kai; ajgwnivac, eij du|nhvcetai ktl. Il passo si inserisce all’interno di un’ampia sezione dell’opera in cui Filodemo riporta e fa proprie molte dottrine di origine stoica. Cfr. infra, p. 204 sg.; CIC. Tusc. disp. III 18 (fr. 434 SVF I): Itaque non inscite Heracleotes Dionysius ad ea disputat, quae apud Homerum Achilles queritur hoc, ut opinor, modo (HOM. Il. I 646): ‘Corque meum penitus turgescit tristibus iris, / cum decore atque omni me orbatum laude recordor’. Num manus adfecta recte est, cum in tumore est, aut num aliud quodpiam membrum tumidum ac turgidum non vitiose se habet? Sic igitur inflatus et tumens animus in vitio est. Sapientis autem animus semper vacat vitio, numquam turgescit, numquam tumet; at iratus animus eius modi est; SEN. ep. 10, 3; ep. 80, 8: ille qui superbus atque inpotens et fiducia nimium tumidus ait etc.; ep. 87, 31-32 (POSIDON. fr. 170 E.-K.): [divitiae] inflant animos, superbiam pariunt. [...] bona autem extollunt quidem et dilatant, sed sine tumore; 35: quae neque magnitudinem animo dant nec fiduciam nec securitatem, contra autem insolentiam, tumorem adrogantiam creant, mala sunt; ep. 90, 28: vanitatem exuit (sc. sapientia) mentibus, dat magnitudinem solidam, inflatam vero et ex inani speciosam reprimit, nec ignorari sinit inter magna quid intersit et tumida; ep. 104, 20: haerebit [tibi] tumor quamdiu superbo conversaberis; de vita beata

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PARTE SECONDA

Coerentemente con questa concezione, gli Stoici non esitavano a equiparare il vizio alla follia e, di conseguenza, a definire folli e dissennati tutti gli stolti.395 E` sintomatico a questo proposito quanto affermava Aristone di Chio in un celebre passo di Seneca che riporto di seguito: Tra la pazzia pubblica (insaniam publicam) e quella che e` affidata alle cure dei medici non vi e` alcuna differenza, se non nel fatto che questa consiste in una malattia fisica (morbo), quella e` affetta da opinioni false; l’una deriva le cause della follia (furoris) dalla salute (ex valetudine), l’altra e` un’infermita` dell’anima (animi mala valetudo). Se qualcuno pretende di impartire precetti a un folle (furioso) su come debba parlare, su come camminare, su come comportarsi in pubblico e come in privato, sara` piu` insensato (insanior) di colui che vuol mettere in guardia. Bisogna curare la bile nera (bilis nigra) e rimuovere la causa stessa della follia (ipsa furoris causa). Lo stesso si deve fare nel caso di quest’altra follia dell’anima (animi furore): e` essa che deve essere tolta di mezzo, altrimenti cadranno nel vuoto le parole di coloro che impartiscono precetti.396

Allo stesso modo essi parlavano della virtu` in termini di salute (uJgiveia) dell’anima rifacendosi a un’idea originariamente platonica e cinica,397 ma che 10, 2: insolentiam et nimiam aestimationem sui tumoremque elatum super ceteros et amorem rerum suarum caecum et improvidum et ex minimis ac puerilibus causis exultationem, iam dicacitatem ac superbiam contumeliis gaudentem etc.; de ira I 20, 1: non est enim illa (sc. ira) magnitudo: tumor est; nec corporibus copia vitiosi umoris intentis morbus incrementum est sed pestilens abundantia; de ben. II 11, 6: nihil aeque in beneficio dando vitandum est quam superbia. Quid opus adrogantia voltus? Quid tumore verborum? V 6, 1: Quidni victus sit illo die, quo homo super mensuram humanae superbiae tumens vidit aliquem, cui nec dare quicquam posset nec eripere? VII 26, 4: adice aestimationem sui nimiam et tumorem, ob quae contemnendus est, insolentem; de const. sap. 11, 1: Praeterea, cum magnam partem contumeliarum superbi insolentesque faciant et male felicitatem ferentes, habet quo istum affectum inflatum respuat, pulcherrimam virtutem omnium, animi magnitudinem. 395 Per Crisippo, cfr. GALEN . de plac. Hipp. et Plat. IV 6, 409-411 D. (fr. 475 SVF III); IV 5, 396-397 D. (fr. 480 SVF III); ALEX. APHR. de fato 28 (fr. 658 SVF III); PLUTARCH. de Stoic. repugn. 1048 E (fr. 662 SVF III); STOB. ecl. II 68, 18 W. (fr. 663 SVF III); DIOG. LAE¨RT. VIII 124 (fr. 664 SVF III); CIC. Tusc. disp. IV 54 (fr. 665 SVF III); PORPHYRIO in Hor. Serm. II 3, 32 (fr. 666 SVF III); ATHEN. XI 464 D (fr. 667 SVF III); PLUTARCH. de comm. not. 1062 F; EUSEB. praep. evang. VI 8, 13 (fr. 668 SVF III = DIOGEN. PHIL. fr. 2 G.); PORPHYRIO in Hor. Ep. I 1, 82 (fr. 669 SVF III); PHIL. de poster. Caini 75 (fr. 670 SVF III); per Posidonio, GALEN. de plac. Hipp. et Plat. 5, 397-403 D. (fr. 409 E.-K.); de mixt. 74, 21-79, 24 (fr. 423 E.-K). 396 SEN. ep. 94, 17 (fr. 359 SVF I): Inter insaniam publicam et hanc, quae medicis traditur, nihil interest nisi quod haec morbo laborat, illa opinionibus falsis; altera causas furoris traxit ex valetudine, altera animi mala valetudo est. Si quis furioso praecepta det quomodo loqui debeat, quomodo procedere, quomodo in publico se gerere, quomodo in privato, erit ipso quem monebit insanior: [si] bilis nigra curanda est et ipsa furoris causa removenda. Idem in hoc alio animi furore faciendum est: ipse discuti debet; alioqui abibunt in vanum monentium verba. Cfr. anche 36: nemo, inquit, praeceptis curat insaniam: ergo ne malitiam quidem. 397 Cfr. PLAT. resp. 444 D , e DIOG . LAE¨ RT . VI 11 (= ANTISTH . V A 134 SSR). Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 217 sg.

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embrionalmente presente in Zenone e Cleante,398 fu sviluppata soprattutto da Aristone di Chio e da Crisippo.399 Ora, tracce significative di queste dottrine si ritrovano in abbondanza nel De liberando a superbia dove esse, come abbiamo visto, danno l’impressione di essere idee tutt’altro che occasionali. Al contrario, sembra potersi rilevare una rete coerente di riferimenti a teorie psicologiche ed etico-pedagogiche che nell’antichita` erano immediatamente identificate come stoiche. Anche i termini ivi utilizzati richiamano la medicalizzazione dei vizi e delle passioni tipica dell’etica stoica. Tra le altre cose, vale la pena evidenziare l’impiego di un termine come eujexiva, ‘benessere’ (15 27), usato in senso metaforico per riferirsi alla salute dell’anima, il quale si ritrova con la medesima accezione in un frammento letterale di Crisippo, 400 e soprattutto, l’uso del raro sostantivo oi[dhcic, ‘tumore’ (15 26-27), con cui Aristone addita la tronfiezza del superbo e che richiama espressamente la metafora stoica del tumor animi di cui si e` gia` detto.401 E` sintomatico anche il fatto che una variante dello stesso vocabolo (dioivdhcic) si ritrovi nel De ira dello stesso Filodemo (col. 8, 20-27 I.) all’interno di un’ampia sezione in cui si riferiscono sistematicamente dottrine stoiche.402 Si pensi infine all’impiego di termini come novchma (16 17), a designare metaforicamente la superbia, o come ajpoplhxiva (18 35-36), mwriva (16 17) e maniva (16 18), a definire il campo semantico della follia. Questi termini servono cosı` nel nostro scritto come presso gli autori Stoici a indicare abitualmente il vizio e coloro che ne sono affetti.

398 Soprattutto attraverso la dottrina del tonos dell’anima di Cleante, per la quale si veda PLUTARCH. de Stoic. repugn. 1034 D (fr. 563 SVF I). Per Zenone cfr. GALEN. de plac. Hipp. et Plat. V 2, 443-444 D. (fr. 471 A SVF III). Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 216-219. 399 Per Crisippo, cfr. STOB . ecl. II 62, 15 W. (fr. 278 SVF III); CIC. Tusc. disp. IV 30 (fr. 279; SVF III); IV 9 (fr. 483 SVF III); III 59 (fr. 487 SVF III); GALEN. de plac. Hipp. et Plat. V 2, 437440 D. (fr. 471 SVF III); V 2, 443-444 D. (fr. 471 A SVF III); V 3, 448-451 D. (fr. 472 SVF III); IV 6, 403-408 D. (fr. 473 SVF III); IV 6, 409-411 D. (fr. 475 SVF III); IV 5, 396-397 D. (fr. 480 SVF III); ORIG. contra Cels. I 64; VIII 51 (fr. 474 SVF III); comm. in Matth. XIII 16* (fr. 477 SVF III); CLEM. ALEX. strom. VII 16, 98-100 (fr. 490 SVF III); per Aristone di Chio, PLUTARCH. de virt. mor. 440 F (fr. 375 SVF I): Ariv j ctwn d’oJ Cio= c th=/ me;n oujciva/ mivan kai; aujto;c ajreth;n ejpoivei kai; uJgiveian wjnovmaze, e SEN. ep. 94, 17 (fr. 359 SVF I gia` citato), dove il vizio e` definito come altera animi mala valetudo. Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 215; 218-222. 400 Cfr. GALEN . de plac. Hipp. et Plat. V 2, 437-440 D. (fr. 471 SVF III): kaqavper ga;r kai; ejpi; tou= cwvmatoc qewreitai = ijccuvc te kai; ajcqevneia, eujtoniva kai; ajtoniva [kai; tovnoc], pro;c de; touvtoic uJgiveiav te kai; novcoc, eujexiva te kai; kacexiva. 401 Cfr. anche, a 15 32, il participio ejkpneumatouvmenon, ‘gonfiato’, riferito al superbo. 402 Si veda G. RANOCCHIA , Filodemo e l’etica stoica cit.

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5.2. La superbia e gli altri vizi affini Molti dei tratti con cui nel De liberando a superbia vengono descritti il superbo e i vizi a esso affini presentano importanti analogie lessicali e dottrinali con la concezione che dello stolto (fau=loc) avevano i filosofi stoici. Si pensi all’aggettivo eijkaioc = , ‘insensato’, e al sostantivo eijkaiovthc, ‘insensatezza’, termini con cui nell’opuscolo aristoneo vengono piu` volte qualificati l’insolente e in parte anche il sufficiente. Essi, del tutto assenti nel Corpus Aristotelicum e nei Peripatetici, rappresentano invece per gli Stoici un attributo tipico dello stolto, mentre la virtu` opposta, la ponderatezza (ajneikaiovthc), e` da essi considerata propria del saggio.403 Cosı` anche la dissennatezza (ajfraivnein) con cui a 19 20 si definisce l’atteggiamento del sufficiente, il quale «crede lui solo di sapere tutte le cose», e` dagli Stoici annoverata tra gli errori (aJmarthvmata) caratteristici dello stolto, mentre il termine e` attestato una sola volta in tutto Aristotele e nei frammenti dei Peripatetici senza alcun valore morale.404 Senza nessun valore morale compare anche il sostantivo oi[hcic una sola volta nel Corpus Aristotelicum, per la precisione in un passo della Poetica (1461 B 3), mentre con il significato eticamente rilevante di ‘presunzione’ esso e` attestato in Zenone e presso gli Stoici a designare una passione o come attributo dello stolto.405 Con questo significato moralmente pregnante il vocabolo si ritrova quattro volte nel nostro scritto, dove esso serve a designare la disposizione psicologica di base del superbo e una delle componenti dell’insolente (16 31-32; 19 4-5) e del sufficiente (17 22).406 Anche l’aggettivo aJdrovc che l’autore del De liberando a superbia utilizza a 13 33 per riferirsi a «colui che e` convinto di essere un grande (aJdrovn)» e che per questo si comporta in modo arrogante con tutti, mentre con tale

403 Cfr. 16 33-34; 17 19-20; 19 8-9; DIOG . LAE¨ RT. VII 117 (fr. 646 SVF III): ei\nai de; kai; a[llon a[tufon, kata; to;n eijkaion = tetagmevnon, o{c ejcti faulo = c, EPICT. diss. I 28, 30; II 12, 13; IV 4, 46; MARC. AUR. ANT. II 5; XII 14. Per l’ajneikaiovthc si vedano DIOG. LAE¨RT. VII 46 (fr. 130

SVF II); PHerc. 1020, col. 4 ARNIM (fr. 131 SVF II); EPICT. diss. III 2, 2. 404 Cfr. STOB. ecl. II 96, 18 W. (fr. 501 SVF III): aJmarthvmata d’ei\nai tov te ajfraivnein kai; to; ajkolactaivnein kai; to; ajdikein= ktl., PLUTARCH. de Stoic. repugn. 1048 E (frr. 662 e 668 SVF III): kai; mh;n ou[q’auJto;n oJ Cruvcippoc ajpofaivnei cpoudaion = ou[te tina; tw=n auJtou= gnwrivmwn h] kaqhgemovnwn. tiv ou\n peri; twn= a[llwn fronou=cin, h] tauta = a{per levgouci; maivnecqai pavntac, ajfraivnein, ajnocivouc ei\nai, paranovmouc, ejp’a[kron h{kein ductucivac, kakodaimonivac aJpavchc. Per Aristotele, cfr. CLEM. ALEX. paed. 2, 69 (= ARISTOT. fr. 235 G.). 405 Cfr. DIOG . LAE¨RT . VII 23 (= ZENO CIT . frr. 71 e 321 SVF I); CLEM . ALEX. strom. VII 16, 98-100 (fr. 490 SVF III); EPICT. diss. I 8, 7; II 17, 1; 39; III 14, 8-9; 23, 16; MARC. AUR. ANT. IV 12; IX 34. 406 Cfr. anche 14 10 e Comm. ad loc.

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inusuale valore e` assente in Aristotele e nei frammenti dei Peripatetici (dove e` sempre attestato in riferimento a cose materiali nel senso fondamentale di ‘spesso’, ‘rigoglioso’, ‘maturo’, ‘formato’), esso compare con un significato analogo a quello ricavabile dallo scritto aristoneo tra le principali prerogative del saggio stoico. Questi, infatti, e` definito «grande (mevgan), importante (aJdrovn), eminente (uJyhlovn), forte (ijccurovn). Grande, perche´ riesce a realizzare le sue scelte e i suoi propositi; importante, perche´ e` sviluppato sotto ogni aspetto (hujxhmevnoc pavntoqen); eminente, perche´ partecipa di quella grandezza che e` tipica di un uomo nobile e sapiente; forte, perche´ e` dotato di una forza speciale grazie alla quale egli risulta invincibile (ajhvtthtoc) e insuperabile (ajkatagwvnictoc)».407 Ora e` chiaro dal passo di Aristone a cui mi sono appena richiamato che il superbo si arroga una qualita`, quella di essere ‘importante’, ‘grande’ da un punto di vista morale (aJdrovc), che non solo non gli appartiene, ma che egli usurpa dal corredo delle virtu` tipiche del saggio stoico. In modo analogo, nelle linee immediatamente successive (13 35-39) egli si appropria di un’altra delle virtu` fondamentali del sapiente: la magnanimita` (megaloyuciva). Un’altra caratteristica del saggio secondo gli Stoici era quella di essere privo di artificiosita` (a[plactoc) nei rapporti interpersonali: «gli manca infatti ogni affettazione (plavcma) nella voce e nell’aspetto».408 Il termine plavcma si ritrova anche nel De liberando a superbia tra le principali qualita` dell’ironico,409 mentre e` assente con questo significato morale tra i Peripatetici. Inoltre, per lo Stoicismo gli stolti sono tutti empi e ingiusti verso gli de`i, cosı` come il superbo di Aristone, il quale sulla scia della fortuna puo` arrivare a convincersi di essere divenuto egli stesso un dio (16 20-26).410 Egli, mentre non disprezza la compagnia degli animali, si mostra ingiusto e arrogante con gli uomini suoi simili, che si dedica a umiliare, oltraggiare e calunniare.411 E` 407 STOB. ecl. II 7, 11 G W. (frr. 216 SVF I e 567 SVF III): kai; to;n me; n cpoudaion mev gan = kai; aJdro;n kai; uJyhlo;n kai; ijccurovn. mevgan me;n o{ti duvnatai ejfikneic= qai tw=n kata; proaivrecin o[ntwn aujtw/= kai; prokeimevnwn: aJdro;n dev, o{ti ejcti;n hujxhmevnoc pavntoqen: uJyhlo;n d’, o{ti meteivlhfe tou= ejpibavllontoc u{youc ajndri; gennaivw/ kai; cofw/=. kai; ijccuro;n d’, o{ti th;n ejpibavlloucan ijccu;n peripepoivhtai, ajhvtthtoc w]n kai; ajkatagwvnictoc. 408 Cfr. DIOG . LAE¨RT . VII 118 (fr. 647 SVF III): ajkibdhvlouc tou;c cpoudaivouc fulaktikouvc te ei\nai tou= ejpi; to; bevltion auJtou;c parictavnein, dia; parackeuhc= thc= ta; fau=la me;n ajpokruptouvchc, ta; de; uJpavrconta ajgaqa; faivnecqai poiouvchc. ^ kai; & ajplavctouc: perih/rhkevnai ga;r ejn th/= fwnh/= to; plavcma kai; tw/= ei[dei. Cfr. anche STOB. ecl. II 108, 5 W. (fr. 630 SVF III); MARC. AUR. ANT. I 9, 1; II 5, 1; MUS.

RUF. or. 9, 11. 409 Cfr. 22 10-11 cunepinoeitai d’aujtwi kai dein[ov]thc ejn twi [pl]avcmat[i]. .. . = = = 410 Cfr. STOB. ecl. II 68, 8 W. (fr. 660 SVF III); ecl. II 7, 105 W. (fr. 661 SVF III); PLUTARCH. de Stoic. repugn. 1048 E (frr. 662 e 668 SVF III). 411 Cfr. 13 31-35; 14 10-12; 15 1-13; 30-38; 15 38-16 1; 20 33-38; 21 15-35; 24 2-23.

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anche dispotico con i suoi subalterni e ingrato con i suoi pari, al punto da non ricambiare l’ospitalita` e i favori ricevuti (13 26-31; 17 6-8). Anche lo stolto della tradizione stoica e` crudele (a[grioc), brutale (qhriwvdhc), tirannico (turannikovc) e irriconoscente (ajcavrictoc), poiche´ «non si comporta in modo appropriato ne´ quando si tratta di contraccambiare i benefici ricevuti ne´ quando si tratta di farne parte ad altri».412 Oltre a cio` lo stolto degli Stoici non ama ne´ parlare ne´ prestare attenzione ai discorsi altrui,413 proprio come il superbo di Aristone il quale, «se chiama qualcuno, malvolentieri gli presta ascolto (cale|pwc= uJpakouvein), sia per quell’altra sua odiosita` (ajhdivan), sia perche´ vuole attribuirsi le imprese compiute (ejxid[i]avze[cq]ai)».414 Di fronte a quanti gli chiedono ragione delle sue azioni e intenzioni egli risponde in modo laconico, sgarbato e arrogante o non risponde affatto (14 25-37; 17 2-19; 31-37). Per questo motivo il superbo e` anche asociale, non cerca ne´ ottiene la collaborazione altrui, non volendo nessuno «accondiscendere ad alcun tipo di impresa comune (eijc oJtidhvpote k. oi|nwvnhma) con lui» (19 11-13), e tende a isolarsi volontariamente dalla societa`, affermando «che sarebbe capace di sopravvivere anche se venisse a trovarsi in totale solitudine (ejn ejrhmivai)».415 Analogamente, secondo gli Stoici, lo stolto «non fa nulla in comune (koinwc= ), in modo amichevole (filikwc= ) o disinteressato (ajmelethvtwc)».416 Inoltre egli «e` anche un apolide (urbe carens) e un fuorilegge, [...] un arrogante (contumax) privo di ogni forma di giustizia e di bonta`, un nemico della famiglia, dell’umanita` e della comunita` che conduce una vita asociale (insociam)».417 Per queste ed altre ragioni gli Stoici consideravano gli stolti assolutamente infelici 418 e cosı` anche l’autore del De liberando a superbia, per il quale il 412 STOB. ecl. II 103, 24 W. (fr. 677 SVF III): ei\nai de; (sc. pavnta faulon) kai; a[grion, = ejnantiwtiko;n o[nta th/= kata; novmon diexagwgh/= kai; qhriwvdh kai; blaptiko;n a[nqrwpon. to;n d jaujto;n touton kai; ajnhvmeron uJpavrcein kai; turannikovn, ou{twc diakeivmenon w{cte decpotika; poiein, = = e[ti de; wjma; kai; bivaia kai; paravnoma kairwn= ejpilabovmenon. ei\nai de; kai; ajcavricton, ou[te pro;c ajntapovdocin cavritoc oijkeivwc e[conta ou[te pro;c metavdocin dia; to; mhvte koinw=c ti poiein= mhvte filikw=c mhvt’ajmelethvtwc. 413 Cfr. STOB. ecl. II 104, 10 W. (fr. 682 SVF III): mhde; filovlogon ei\nai to;n faulon mhde; = filhvkoon ktl.

14 12-15. 18 11-12. Cfr. anche 14 8-12; 15 34-16 3. 416 STOB. ecl. II 103, 24 W. (fr. 677 SVF III). 417 PHIL . quaest. et solut. in Gen. IV 165 (fr. 678 SVF III): Ad haec cum agrestis sit (scil. oJ faulo = c), est etiam urbe carens et transfuga a lege et rectae vitae gustus nescius, rebellis et contumax, nullius rei iustorum aut bonorum particeps, familiaritatis, humanitatis et communitatis inimicus, vitam agens insociam; leg. alleg. III 1 (fr. 679 SVF III); de gig. 67 (fr. 680 SVF III). 418 Cfr. PHIL. leg. alleg. III 247 (fr. 671 SVF III); PLUTARCH . de Stoic. repugn. 1038 A ; 1046 414 415

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superbo ha come esito rovina e prostrazione e per cui il sufficiente «e` necessariamente infelice (19 31: ejx ajnavgkhc kakodaimonein= )». A cio` si aggiunga che per Zenone «non vi e` nulla di piu` disdicevole (ajprepevcteron) della boria (tufon = )» e che Cleante includeva tra le qualita` del sapiente quella di essere a[tufoc.419 Per gli Stoici, infatti, «il saggio e` privo di boria, poiche´ ha lo stesso atteggiamento verso cio` che e` celebre (e[ndoxon) e verso cio` che e` oscuro (a[doxon)».420 Inoltre egli «non e` mai tracotante (ajnuvbricton): non subisce e non fa prepotenza, perche´ la tracotanza (u{brin) e` una forma di ingiustizia che procura umiliazione e danno».421 Ebbene, anche l’autore del nostro scritto invita a considerare «come appaia meschino (mikroprepevc) che colui che e` convinto di essere un grande (aJdrovn) si comporti con arroganza (uJpe* [rh]fane[uv]|ecqai) verso tutti» (13 31-35) ed e` sintomatico che per esprimere tale concetto egli si avvalga di un termine come mikroprepevc, etimologicamente affine a quello impiegato da Zenone. Inoltre Aristone esorta a guardare all’esempio «di quanti occupano posizioni eminenti, come si mostrano allo stesso livello degli altri (i[coi) e dimessi (cunectalmevnoi) nei rapporti sociali, comportandosi esattamente all’opposto rispetto alla grandezza della loro fortuna» (13 9-15), invito che riecheggia il comportamento del saggio stoico descritto da Cleante. Oltre alla boria e alla tracotanza le fonti stoiche fanno piu` volte riferimento ad altri vizi affini alla superbia, come l’ambizione (filodoxiva) o sete di gloria (doxokopiva), e la iattanza (ajlazoneiva). La prima era considerata una passione dipendente dal desiderio (ejpiqumiva) e annoverata tra le ‘malattie’ e le ‘infermita`’ dell’anima ed era conseguentemente identificata con una forma di mania o follia (doxomaniva).422 La seconda, collegata alla boria (tu=foc) e all’ingratitudine, era duramente riprovata da Crisippo e associata in modo speciale alla nobilta`, da lui definita nello scritto Sulle virtu` «scoria e raschiatura dell’uguaglianza (ijcotimivac)».423 Per Epitteto la iattanza porta gli B -C ;

de comm. not. 1068 A; C; 1068 D (fr. 672 SVF III); CLEM. ALEX. strom. VI 17, 157 (fr. 673 SVF III); SEN. ep. 9, 14 (fr. 674 SVF III); Schol. in HOM. Il. W 536 (fr. 675 SVF III); PHIL. leg. alleg. III 201 (fr. 676 SVF III). 419 Cfr. DIOG . LAE¨RT. VII 22 (fr. 317 SVF I): pavntwn e[legen ajprepevcteron ei\nai to;n tufon, = kai; mavlicta ejpi; tw=n nevwn, CLEM. ALEX. protr. VI 72, 2 (fr. 557 SVF I). 420 DIOG . LAE¨ RT . VII 117 (fr. 646 SVF III): a[tufovn te ei\nai to;n cofovn: i[cwc ga;r e[cein provc te to; e[ndoxon kai; to; a[doxon. 421 STOB. ecl. II 7, 110 W. (fr. 578 SVF III): levgouci de; kai; to;n cofo;n ajnuvbricton ei\nai: ou[q ’uJbrivzecqai ga;r ou[q ’uJbrivzein dia; to; th;n u{brin ajdikivan ei\nai kataiccuvnoucan kai; blavbhn. 422 Cfr. PLUTARCH . de Stoic. repugn. 1050 C (fr. 937 SVF II); STOB. ecl. II 90, 7 W. (fr. 394 SVF III); II 91, 10 (fr. 395 SVF III); DIOG. LAE¨RT. VII 115 (fr. 422 SVF III); ATHEN. XI 464 D (fr. 667 SVF III); MARC. AUR. ANT. VI 51. 423 Cfr. PS.-PLUTARCH . de nobil. 12-13: oJ de; Cruvcippoc ejn tw/ peri; twn jAretwn ‘‘ijcotimivac = = =

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stolti all’autodistruzione e secondo lui «non vi e` nulla di piu` meschino (mikrovteron) dell’amore per il guadagno, della passione per il piacere e della iattanza (ajlazoneivac) e nulla di piu` grande della magnanimita` (megalofrocuvnhc), della mitezza, della filantropia e delle buone azioni».424 Ora, l’ambizione e la sete di gloria sono tipiche anche del superbo in Aristone, anche se non abbiamo la certezza che egli impiegasse i termini corrispondenti,425 e la iattanza e` menzionata tra le componenti dell’insolente (19 3-7), cosı` come l’ironico e` definito «al massimo grado una specie di millantatore (21 39-40: ajlazovnoc ei\doc)». Inoltre anche l’autore del De liberando a superbia, come Crisippo, condanna la nobilta` (eujgevneia) come cosa misera (tapeinovn) e, analogamente ad Epitteto, contrappone la superbia alla vera magnanimita`, deplorando come meschino (mikroprepevc) l’atteggiamento di chi si millanta persona importante (13 31-39; 15 14-34).426 5.3. Il superbo e il magnanimo di fronte alla sorte Noi sappiamo, sulla base di quanto ci riferisce Filodemo nell’introduzione al De liberando a superbia, che tra le cause esterne che generano il vizio Aristone, fondandosi su una concezione diffusa a livello popolare, attribuiva un ruolo fondamentale alla fortuna e, piu` precisamente, a quegli eventi favorevoli della vita che possono scatenare una reazione irrazionale. La parola tuvch e i termini affini, ajtuciva, ajtucein= , eujklhriva ritornano spesso nel corso dello scritto.427 In particolare, «l’imperscrutabile e repentinamente mutevole natura della sorte» (11 6-8) tende a provocare nello stolto due reazioni diverse ed opposte, entrambe derivanti da una falsa opinione: quando essa si mostra benevola, di smodata esultanza e sicurezza di se´, quando invece e` contraria, di abbattimento e depressione. Entrambe le riperivthgma kai; diavxucma th;n eujgevneian kalei.= ’’ [...] o{mwc polla; fluarounte = c eijc to;n twn= eujgenwn= tuvfon, ajlazoneivan, e[rwtac, ajqemivctouc cunoucivac, wjmovthta ajntidivkwn ejpiqumhtikou;c kaleite, = kai; tw=n me;n eujergeciw=n ajmnhvmonac, ajdikoumevnouc de; drimutavtouc pro;c to; ajpotivnein. 424 EPICT . fr. 13: tou;c de; mh; kalou;c kai; mh; ajgaqou;c oujc oJra/c trufh/ kai; ajlazoneiva/ kai; = = ajpeirokaliva/ ajpollumevnouc, gnom. Epict. 45: oujde;n mikrovteron filokerdeivac kai; filhdonivac kai; ajlazoneivac: oujde;n kreicc = on megalofrocuvnhc kai; hJmerovthtoc kai; filanqrwpivac kai; eujpoiivac. 425 In effetti, le integrazioni do[xok]o[pivac e f]i[lodox]ouc[i (15 2-3) sono largamente con. .= . getturali. Il verbo filodoxevw compare in associazione con ajlazoneuvw nella prima parte del De

superbia, col. 4, 28-29 J. 426 Anche nel caso di Epitteto, come piu ` sopra si e` visto a proposito di Zenone, il termine impiegato per manifestare tale riprovazione (mikrovteron) e` etimologicamente affine a quello utilizzato per esprimere il medesimo concetto da Aristone (mikroprepevc). 427 Per tuv ch cfr. 10 15; 36; 11 7; 12 35; 13 15; 14 38-39; 16 7; 22 28; per eujklhriva: 11 26; 13 37; per ajtuciva: 12 33; per ajtucein= : 20 29.

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sposte sono di tipo passionale e rappresentano due facce della stessa medaglia e, mentre l’una porta a sopravvalutare se stessi come se tutto dipendesse da noi, l’altra sfocia nella disperazione di chi pensa che ormai tutto e` perduto. Su questa diversa reazione di fronte alla sorte si torna piu` e piu` volte nel corso dello scritto ed e` anzi proprio la riflessione su questo punto a costituire l’assunto centrale della lettera.428 Aristone intende rammentare al suo interlocutore l’assoluta infondatezza della superbia, mettendolo in guardia dalle ricadute psicologiche e dai seri guai nei quali prima o poi finira` per incappare, allorquando le mutate condizioni della sorte lo priveranno di tutto quello che essa stessa gli aveva precedentemente elargito. Se e` nella natura delle cose che tutti gli uomini siano soggetti all’imperscrutabilita` della sorte (ed e` difficile trovare un pensatore greco che affermi il contrario), diverso e` tuttavia l’atteggiamento con cui il sapiente e lo stolto reagiscono dinanzi alle sue vicissitudini. Infatti, laddove il superbo abusa della posizione sociale che essa gli ha dispensato per umiliare il suo prossimo, i sapienti che occupano cariche importanti si mostrano «allo stesso livello degli altri (i[coi) e dimessi (cunectalmevnoi) nei rapporti sociali, comportandosi esattamente all’opposto rispetto alla grandezza della loro fortuna» (13 9-15). E` proprio per chiarire tale punto fondamentale che Aristone sottolinea in maniera recisa la differenza che intercorre tra il comportamento del superbo e quello del magnanimo (megalovyucoc) di fronte ai beni di fortuna: E distingua magnanimita` da superbia e non le confonda come se fossero una sola cosa, poiche´ differiscono quanto sul piano fisico uno stato di benessere da un tumore, e mentre e` proprio del magnanimo non darsi cura dei beni di fortuna mostrandosene superiore con fierezza d’animo, e` tipico del superbo, che si lascia gonfiare dalla ricchezza per leggerezza di spirito, disprezzare gli altri (15 23-34).

Dalla superbia va dunque nettamente distinta la magnanimita` (megaloyuciva), virtu` di cui quella costituisce la forma patologica e degenere e che doveva avere un significato importante per l’autore, se egli vi dedica un’intera esortazione e vi fa riferimento anche altrove nel corso della lettera. Essa consiste principalmente nel non darsi pensiero dei beni di fortuna (katafronein= tw=n tuchrw=n), e nel porsi al di sopra di essi (uJperevcein) con fierezza d’animo (tw=i th=c yuch=c o[gkwi). Altrove il magnanimo viene descritto come uno che, avendo avuto un colpo di fortuna, non si fa prendere dal428 Gia ` M. LANCIA, art. cit., p. 285, affermava che nel De liberando a superbia «la tuvch diventa addirittura il tema centrale dell’opera».

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l’euforia, ma rimane nella stessa pace interiore di prima, la quale non puo` essere turbata da nessun agente esterno (13 35-39). Al contrario il superbo deforma la percezione dei beni esterni, soprattutto della ricchezza, attribuendo loro un’importanza eccessiva e ricercando in essi quella felicita` che non possono dare. Per questo egli si gonfia di esaltazione e di albagia attribuendo a se stesso il merito dei suoi successi ed e` portato a disprezzare gli altri per quella stessa superficialita` (dia; koufovthta tauvthc, sc. yuch=c) che lo induce a emettere falsi giudizi. E` dunque nella valutazione psicologica che si colloca la reale differenza tra l’una e l’altra, dove all’ingiustificata boria dell’arrogante si contrappone la legittima fierezza del magnanimo. Per illustrare meglio questa distinzione Aristone si avvaleva, come sappiamo, di una similitudine medica: la superbia si rapporta alla magnanimita` come un corpo patologicamente tumido (tou= cwvmatoc oi[dhcic) a un corpo sano. Si tratta di un importante accostamento che ricorre piu` volte nelle nostre fonti e su cui avremo occasione di ritornare.429 Ora, Wilhelm Kno¨gel pretendeva che nel De liberando a superbia si affermasse che il sapiente e` condizionato dai rovesci della fortuna e adduceva a conferma di tale convinzione le parole con cui alla col. 10 Filodemo rimproverava ad Aristone di aver trattato nel suo scritto soltanto il caso dei «sapienti ([co]f.wn= )» che insuperbiscono a causa della fortuna (10 11-16). Sulla base di cio` egli credeva di dimostrare che l’autore dello scritto non poteva essere un filosofo stoico, per il fatto che gli Stoici affermavano l’assoluta indipendenza del saggio dalla fortuna.430 Ma, come abbiamo visto, la premessa da cui partiva lo studioso tedesco si basava su un’integrazione testuale incongruente con le tracce superstiti del papiro e va considerata pertanto del tutto infondata.431 Il problema e` che, mentre la lettura [co]f.wn= e` stata, come tale, rigettata dagli studiosi, non altrettanto e` avvenuto per le conclusioni del ragionamento. In effetti, la vulgata secondo cui dalla lettera si ricaverebbe l’idea che il sapiente e` condizionato dalla fortuna e` stata acriticamente recepita da diversi studiosi fino e oltre Fritz Wehrli, che pure integrava il passo in modo differente.432 Ma rimane il fatto che nello scritto 429 Una distinzione analoga sembra ritrovarsi, a un livello inferiore, a proposito del tipo grave (cemnovc), il quale e` descritto come colui «che possiede dignita` (ajxivan) accompagnata da un po’ di austerita` (aujcthr.iv|ac)» e distinto dal cosiddetto tronfio (cemnokovpoc), che «affetta il comportamento che abbiamo descritto» rappresentandone la caricatura (21 1-15). 430 Si veda W. KNO ¨ GEL, op. cit., p. 8 sg.; p. 14; p. 40 sg. 431 Cfr. supra, pp. 12; 14-16. 432 Si veda F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 53: «Daß nur ein Peripatetiker in Betracht kommt, beweisen die Beru¨hrungen mit Aristoteles und Theophrast [...].

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aristoneo in nessun luogo, nemmeno tra le righe, si legge mai un’affermazione di questo tenore e pertanto tale argomento non puo` piu` essere legittimamente invocato per escludere la possibilita` che esso possa essere stato scritto da un filosofo stoico. Appare invece di maggior interesse il confronto con la descrizione del magnanimo che emerge dall’Etica Nicomachea di Aristotele, dove essa rappresenta la virtu` intermedia tra la pusillanimita` (mikroyuciva) e la boria (caunovthc).433 In effetti, quest’ultima, per certi versi assimilabile alla superbia, e` descritta come una degenerazione della magnanimita`, con cui essa puo` anche essere confusa. E` il motivo per cui i magnanimi possono talvolta apparire sprezzanti (uJperovptai),434 mentre i boriosi (cau=noi) tentano di imitarli senza successo. Infatti, essi «da un lato non operano secondo virtu`, dall’altro disprezzano gli altri»,435 ma cio` nonostante e` la pusillanimita`, piu` della boria, a contrapporsi alla magnanimita`.436 Questa poi doveva rivestire un’importanza fondamentale nell’etica aristotelica, se viene definita come «ornamento di tutte le virtu`».437 In un altro passo della stessa opera si afferma che il magnanimo «si comportera` con moderazione (metrivwc e{xei) di fronte alla ricchezza e al potere, nella buona e nella cattiva sorte [...] e non sara` ne´ troppo esultante (pericarhvc) nella fortuna, ne´ troppo afflitto (perivlupoc) nella disgrazia».438 Ma senza virtu` cio` non risulta possibile ed e` per questo che quanti hanno potere, ricchezza e gloria senza possedere allo stesso tempo la virtu` diventano sprezzanti e tracotanti (uJperovptai kai; uJbrictaiv).439 Hinzu kommt die gut peripatetische, fu¨r einen Stoiker unmo¨gliche Anerkennung von Tyche als Lebensmacht [...], vor allem der Gedanke, daß das a¨ußere Glu¨ck fu¨r den Charakter des Menschen verantwo¨rtlich werden ko¨nne», e ID., Ariston aus Keos cit., p. 617: «die Anerkennung der Tyche als Lebensmacht und der Einfluss des a¨usseren Glu¨cks auf den Charakter des Menschen fu¨r einen Stoiker unmo¨glich ist». Ma si veda quanto egli stesso afferma, in senso contrario, in Ru¨ckblick cit., p. 109 sg. 433 Cfr. ARISTOT . eth. nic. 1123 A 34-1125 A 35, e W. KNO ¨ GEL, op. cit., pp. 17-23. 434 Cfr. ivi, 1124 A 20: dio; uJperovptai dokoucin (sc. oiJ megalovyucoi) ei\nai. = 435 Cfr. ivi, 1124 B 2-5: mimountai ga;r (sc. oiJ a[neu ajrethc) to;n megalovyucon oujc o{moioi o[ntec, = = touto = de; drwc= in ejn oi|c duvnantai: ta; me;n ou\n kat’ajreth;n ouj pravttouci, katafronou=ci de; twn= a[llwn. 436 Cfr. ivi, 1125 A 32-33: ajntitivqetai de; th/ megaloyuciva/ hJ mikroyuciva mallon thc = = = caunovthtoc. 437 Cfr. ivi, 1124 A 1-3: e[oike me;n ou\n hJ megaloyuciva oi|on kovcmoc tic ei\nai twn ajretwn: = = meivzouc ga;r aujta;c poiei,= kai; ouj givnetai a[neu ejkeivnwn. 438 Ivi, 1124 A 13-16: ouj mh;n ajlla; kai; peri; plouton kai; dunacteivan kai; pacan eujtucivan kai; = = ajtucivan metrivwc e{xei (sc. oJ megalovyucoc), o{pwc a]n givnhtai, kai; ou[t’eujtucwn= pericarh;c e[ctai ou[t jajtucw=n perivlupoc. 439 Cfr. ivi, 1424 A 26-1424 B 2: oiJ d’a[neu ajrethc ta; toiauta ajgaqa; e[contec ou[te dikaivwc = = eJautou;c megavlwn ajxiou=cin ou[te ojrqw=c megalovyucoi levgontai: a[neu ga;r ajreth=c pantelou=c oujk

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PARTE SECONDA

Da questo rapido resoconto emergono elementi di contatto, ma anche di divergenza rispetto al De liberando a superbia. I secondi, meno numerosi, sono tuttavia piu` significativi. Innanzitutto, lo abbiamo appena visto, in Aristotele e` in realta` la pusillanimita`, e non tanto la boria, che si oppone alla magnanimita`. Ma e` soprattutto la dottrina aristotelica della moderazione delle passioni (metriopavqeia), ben rappresentata dall’equilibrio del magnanimo verso i rovesci della fortuna (metrivwc e{xei: il magnanimo non sara` ne´ troppo esultante ne´ troppo afflitto) nel passo sopra citato, a non essere facilmente armonizzabile con il pensiero del nostro autore sull’argomento. In questo, infatti, diversamente dal filosofo di Stagira, si coglie un disinteresse assoluto, se non un disprezzo (katafronein= ) verso i beni di fortuna, ai quali e` necessario mostrarsi in ogni circostanza fieramente superiori (uJperevcein). Invece l’atteggiamento del magnanimo che, lungi dal lasciarsi influenzare dalle vicende della sorte, e` capace di dominare interiormente se stesso mostrandosi indifferente verso i beni di fortuna e affrontando le diverse situazioni della vita senza cedere in nulla all’entusiasmo o allo scoraggiamento, sembra richiamare piuttosto la dottrina dell’ajpavqeia stoica e si adatta assai bene alla concezione del saggio tipica dei discepoli di Zenone.440 In particolare, tale descrizione combacia con l’opinione che essi avevano della magnanimita` (megaloyuciva o megalofrocuvnh), da essi considerata una sottospecie della fortezza (ajndreiva) e definita come «la scienza che ci pone al di sopra (uJperavnw poiou=ca o uJperaivrouca) di quegli eventi fortuiti che per natura coinvolgono buoni e cattivi», cioe` quei casi della fortuna che colpiscono indifferentemente i saggi e gli stolti.441 Essa rivestiva una particolare ime[cti tauta. = uJperovptai de; kai; uJbrictai; kai; oiJ ta; toiauta = e[contec ajgaqa; givnontai. a[neu ga;r ajreth=c ouj rJav/dion fevrein ejmmelw=c ta; eujtuchvmata: ouj dunavmenoi de; fevrein kai; oijom v enoi tw=n a[llwn uJperevcein ejkeivnwn me;n katafronou=cin ktl. 440 Cfr., ad es., THEMIST. or. 32, p. 358 B : oJ cofo;c uJpo; thc tuvchc ajht v thtovc ejcti kai; ajdouvlwtoc = kai; ajkevraioc kai; ajpaqhvc (= PERSAE. fr. 449 SVF I); PROCL. in Plat. Tim. p. 61 B: oiJ ajpo; th=c Ctoac= to;n cpoudaion = oujdevn faci deic= qai thc= tuvchc (= CHRYSIPP. fr. 52 SVF III). 441 Cfr. PS.-ANDRON. Peri; paqwn [kata; Cruvcippon], 3, p. 261, 88-97 G. T. (fr. 269 SVF III); = STOB. ecl. II 60, 9 W. (fr. 264 SVF III): megaloyucivan de; (sc. ei\nai levgoucin) ejpicthvmhn uJperavnw poiou=can twn= pefukovtwn ejn cpoudaivoic te givnecqai kai; fauvloic. Cfr. anche DIOG. LAE¨RT. VII 92 (fr. 265 SVF III): th;n de; megaloyucivan (sc. ei\nai) ejpicthvmhn ^ h] & e{xin uJperavnw poiouc= an tw=n cumbainovntwn koinh/= fauvloic te kai; cpoudaivoic, PS.-ANDRON. Peri; paqwn= V, pp. 247; 249, 7687 G. T. (fr. 270 SVF III): megaloyuciva de; (sc. e[ctin) e{xic uJperavnw poiou=ca tou= koinh/= cumbaivnontoc fauvloic te kai; cpoudaivoic, SEXT. EMP. adv. math. IX 153 (fr. 274 SVF III): eij de; megaloyucivan e[cei, ejpicthvmhn e[cei poiou=can uJperaivrein tw=n cumbainovntwn, CLEM. ALEX. strom. II 18, 79: h{ te megaloyuciva ejpicthvmh twn= cumbainovntwn uJperaivrouca, CIC. de fin. III 23: Sapientia

enim et animi magnitudinem complectitur et iustitiam et ut omnia, quae homini accidant, infra se esse iudicet; Tusc. disp. III 19: Praeterea necesse est, qui fortis sit, eundem esse magni animi; ^ qui magni animi sit &, invictum; qui invictus sit, eum res humanas despicere atque infra se positas arbitrari; GAL. de locis aff. VIII, p. 301 K. (fr. 876 SVF II).

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portanza nell’etica stoica fin dai tempi di Zenone e Crisippo, se veniva associata alla stessa virtu` in quanto tale, di cui si dice condividere l’autosufficienza (aujtavrkeia) e il fine. Infatti, «se la magnanimita`, che e` solo una parte della virtu`, e` sufficiente da sola ad elevare uno al di sopra di tutto, anche la virtu` e` sufficiente da sola per la felicita`, non curandosi (katafronouca = ) di 442 quegli eventi che sono percepiti come perturbanti». Ebbene, anche il magnanimo di Aristone non si da cura (katafronein= ) dei beni di fortuna e si mostra ad essi nobilmente superiore (uJperevcein) in un modo che sembra richiamare le espressioni impiegate per lo stesso concetto dalle fonti stoiche. Si confronti, per fare un esempio, il seguente passo del De officiis ciceroniano, di ispirazione stoica e di ascendenza sicuramente paneziana, a giudicare almeno dalla principale fonte dell’opera (il Peri; tou= kaqhvkontoc del filosofo di Rodi) e dal fatto che vi e` inclusa una testimonianza psicologico-morale esplicitamente riferita a quest’ultimo: Anche nelle circostanze favorevoli e che scorrono secondo i nostri desideri fuggiamo attivamente la superbia, l’alterigia, l’arroganza. Infatti, come e` segno di leggerezza sopportare senza equilibrio le avversita`, altrettanto dicasi degli eventi favorevoli, e nobile e` l’equanimita` in ogni circostanza della vita e conservare sempre l’identico volto e il medesimo aspetto, come ci e` tramandato di Socrate e anche di Gaio Lelio. Vediamo che Filippo, re dei Macedoni, superato dal figlio per imprese e per gloria, gli fu tuttavia superiore in affabilita` ed umanita`. E cosı` l’uno fu sempre grande, l’altro spesso ignobilissimo, cosicche´ a buon diritto sembrano ammonire coloro che esortano a comportarci con tanto maggior sottomissione quanto piu` alta e` la posizione che occupiamo. Panezio narra che l’Africano, suo allievo e amico intimo, era solito dire che ‘‘come si usa affidare ai domatori i cavalli troppo focosi a causa dei frequenti scontri delle battaglie per potersene servire una volta resili piu` docili, cosı` occorre che gli uomini resi sfrenati dalla sorte favorevole e troppo sicuri di se´ vengano per cosı` dire riportati sulla pista della ragione e della scienza, perche´ possano intendere la miseria delle vicende umane e la varieta` della fortuna (PAN. fr. 12 S. = 124 A.)’’. [...] Chi osservera` queste prescrizioni potra` vivere con magnanimita`, gravita` e fierezza e anche con semplicita`, schiettezza e autentica filantropia.443

442 Cfr. DIOG . LAE¨RT. VII 127 (fr. 49 SVF III): aujtavrkh te ei\nai aujth;n (scil. th;n ajreth;n) pro;c eujdaimonivan, kaqav fhci Zhvnwn kai; Cruvcippoc ejn tw/= prwvtw/ Peri; ajretw=n kai; JEkavtwn ejn tw/= deutevrw/ Peri; ajgaqw=n. eij gavr, fhcivn, aujtavrkhc ejcti;n hJ megaloyuciva pro;c to; pavntwn uJperavnw poiein, = e[cti de; mevroc ajrethc= , aujtavrkhc ejcti; kai; hJ ajreth; pro;c eujdaimonivan, katafronou=ca kai; twn= dokouvntwn ojclhrwn= . Cfr. anche EPICT. gnom. Epict. 45; MARC. AUR. ANT. III 11; 13, e M. ERLER, Physics

and Therapy cit., pp. 86-88. 443 CIC . de off. I 90-92: atque etiam in rebus prosperis et ad voluntatem nostram fluentibus superbiam magnopere, fastidium arrogantiamque fugiamus. nam ut adversas res, sic secundas immo-

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PARTE SECONDA

Anche qui, come nel De liberando a superbia, due sono i comportamenti che si possono assumere di fronte alla buona sorte: la superbia (superbiam, fastidium arrogantiamque) di chi reagisce dinanzi a essa in modo squilibrato (immoderate) e l’equanimita` (aequabilitas) di coloro che, mostrando sempre «l’identico volto e il medesimo aspetto» (idem vultus eademque frons) di fronte a tutte le circostanze della vita, si comportano con compostezza e magnanimita` (magnifice, graviter animoseque). In particolare, l’efficace impiego dei due tricola (superbia, alterigia e arroganza da un lato, magnanimita`, gravita` e fierezza dall’altro), posti rispettivamente all’inizio e alla fine del capitolo quasi a conchiuderlo in un medesimo giro di pensieri, serve a sottolineare la netta distinzione tra i due tipi di atteggiamento e gli abiti operativi corrispondenti. Si noti poi l’espressione impiegata per descrivere la reazione insensata dello stolto di fronte alle alterne vicende della fortuna: levitatis est, «e` segno di leggerezza». Anche nel luogo aristoneo sopra riportato ci si riferiva alla leggerezza (koufovthc) di spirito del superbo come alla causa della sua irragionevole esaltazione. Ma c’e` una frase nel passo ciceroniano che lo avvicina ancor di piu` allo scritto di Aristone. E` quando si dice che a buon diritto sembrano «ammonire (praecipere) coloro che esortano (monent) a comportarci con tanto maggior sottomissione quanto piu` alta e` la posizione che occupiamo». Non solo l’esortazione a comportarsi in modo inversamente proporzionale alla posizione sociale che si occupa sembra richiamare l’analogo invito di Aristone a guardare all’esempio di quei potenti che reagiscono «all’opposto rispetto alla grandezza della loro fortuna» (13 13-15). Ma dalla laconica espressione ciceroniana sembra potersi anche desumere che tale suggerimento era fornito da alcuni che facevano uso di esortazioni, cioe` di quello stesso genere protrettico-morale a cui apparteneva la prima sezione del De liberando a superbia, nella quale si inquadra anche l’invito di Aristone teste´ menzionato. Non e` facile comprendere a chi precisamente si riferisse Cicerone, ma un indizio interessante puo` forse venire dalla testimonianza di Paderate ferre levitatis est, praeclaraque est aequabilitas in omni vita et idem semper vultus eademque frons, ut de Socrate idemque de C. Laelio accepimus. Philippum quidem Macedonum regem rebus gestis et gloria superatum a filio, facilitate et humanitate video superiorem fuisse. Itaque alter semper magnus, alter saepe turpissimus, ut recte praecipere videantur qui monent, ut, quanto superiores simus, tanto nos geramus submissius. Panaetius quidem Africanum auditorem et familiarem suum solitum ait dicere, ‘‘ut equos propter crebras contentiones proeliorum ferocitate exsultantes domitoribus tradere soleant, ut iis facilioribus possint uti, sic homines secundis rebus ecfrenatos sibique praefidentes tamquam in gyro rationis et doctrinae duci oportere, ut perspicerent rerum humanarum imbecillitatem varietatemque fortunae’’. [...] haec praescripta servantem licet magnifice, graviter animoseque vivere, atque etiam simpliciter, fideliter, vere ^ erga & hominem amice.

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nezio che egli riporta immediatamente di seguito, quasi a voler suggellare quanto appena asserito con l’autorita` del filosofo stoico. Vero e` che questi pone in bocca il suo discorso a Scipione l’Africano, ma in realta`, come vedremo tra poco, l’uso del paragone dei cavalli riottosi, le riflessioni ivi contenute e le espressioni impiegate, ci danno la certezza che questo era in realta` il pensiero originale di Panezio, come gli studiosi danno ormai per acquisito.444 Ora, la testimonianza in questione racchiude e costituisce in se stessa proprio un sintetico esempio di quell’esortazione morale a cui Cicerone ha fatto riferimento immediatamente prima.445 In effetti, l’invito a ricondurre gli uomini resi sfrenati (ecfrenatos) dalla buona sorte e troppo fiduciosi in se stessi (sibique praefidentes) al lume della ragione e a riconoscere la miseria delle vicende umane (rerum humanarum imbecillitatem) e l’incostanza della fortuna, insieme all’uso del paragone e del verbo oportere, sembrano condurci verso tale direzione. Non solo la forma, ma anche il contenuto della testimonianza ricorda da vicino l’obiettivo che, con analoghi mezzi stilistici, si prefigge Aristone nella prima sezione del suo scritto: quello, cioe`, piu` volte ripetuto di mettere il superbo dinanzi all’infondatezza della sua passione e alla miseria della ricchezza, della nobilta` e del potere (15 13-23). Cio` puo` significare che Panezio coltivo` forse, come altri Stoici prima e dopo di lui, questo genere protrettico-morale o che almeno si avvalse occasionalmente di esso nelle sue opere morali. Comunque sia, per cio` che si e` detto, egli doveva probabilmente essere uno di quei misteriosi personaggi a cui subito prima si era riferito Cicerone, affermando che vi 444 Si veda F. ALESSE (ed.), Panezio di Rodi cit., p. 257 sg. Il paragone degli uomini in preda alla passione con i cavalli recalcitranti e` particolarmente importante, perche´ da` la misura della mutata prospettiva psicologica di Panezio nella trattazione stoica delle passioni. La similitudine, infatti, di origine platonica (Phaedr. 246 A-D), era impiegata anche da Posidonio (GAL. de Hipp. et Plat. plac. V 6, 474-476 D. = fr. 166 E.-K.; V 5, 466-468 D. = fr. 31 E.-K.) con il medesimo scopo di esemplificare la teoria della duplice componente, razionale e irrazionale, dell’anima contro la psicologia monolitica ed intellettualistica di Crisippo. Alesse fa pure notare che l’espressione in gyrum rationis et doctrinae della testimonianza paneziana richiama probabilmente tw/= drovmw/ del fr. 166 E.-K. ed ejk didackalivac logikh=c del fr. 31 E.-K. Si vedano anche STOB. ecl. II 89, 4 W. (fr. 389 SVF III), il quale e` erroneamente attribuito a Crisippo; I.G. KIDD, ‘Euemptosia’ cit., pp. 107113; B. INWOOD, Ethics and Human Action in Early Stoicism, Oxford, Clarendon 1985, p. 142 e note 61-67; ID., Seneca and Psychological Dualism, in J. BRUNSCHWIG-M. NUSSBAUM (eds.), op. cit., p. 158. 445 Per questo motivo A. GRILLI , Plutarco, Panezio e il giudizio su Alessandro Magno, «Acme», V, 1952, p. 452, e ID., L’opera di Panezio, «Paideia», IX, 1954, p. 339 nota 4, ritiene che anche la parte precedente contenente il paragone tra Filippo e Alessandro vada fatta rientrare nella testimonianza in questione. Ma Modestus Van Straaten e Francesca Alesse non sono dello stesso parere.

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erano alcuni che facevano uso di esortazioni a reagire con umilta` inversamente proporzionale all’importanza della propria posizione sociale. Anche Seneca attribuiva un’importante funzione alla magnanimita`, che definiva la piu` bella di tutte le virtu` (pulcherrimam virtutem omnium) di cui e` adornato il sapiente, e della quale egli si avvale come antidoto contro la superbia, tronfia passione (affectum inflatum) che nasce da una reazione incontrollata di fronte alla sorte.446 Piu` volte nei Dialoghi e nelle Lettere il filosofo insisteva con nettezza su tale distinzione in una maniera del tutto simile a quella che si evince dal De liberando a superbia e distingueva la cecita` e l’arroganza dell’uomo insolente dalla pazienza e magnanimita` di chi sopporta dignitosamente le offese ricevute.447 E` illuminante, a tale proposito, la sezione finale del primo libro De ira, dove si conduce un serrato confronto tra ira e superbia, da un lato, e magnanimita` (magnitudo animi), dall’altro: Non bisogna nemmeno pensare che l’ira conferisca una certa forma di magnanimita`. Quella non e` magnanimita`: e` tronfiezza. Neanche nei corpi gonfi per l’abbondanza di umore malsano la malattia e` un incremento, ma putrida eccedenza. Tutti coloro che un animo folle esalta al di sopra dell’umana immaginazione credono di spirare un che´ di elevato e di nobile; ma, al contrario, non hanno alla base nulla di solido e sono inclini alla rovina le costruzioni cresciute senza fondamenta. L’ira non ha dove poggiare; non scaturisce da cio` che e` stabile e duraturo, ma e` gonfia e vacua e dista tanto dalla magnanimita` quanto la temerarieta` dal coraggio, l’arroganza dalla fierezza, l’asprezza dall’austerita`, la crudelta` dalla severita`. Vi e` una grande differenza tra un animo elevato e uno superbo. [...] ‘‘Che cosa dunque? Gli iracondi non emettono alcune voci che sembrano proferite da un animo grande?’’ Ma ignorano la vera magnanimita`. Ne´ e` possibile che tu ritenga vero cio` che e` detto da Livio, uomo estremamente facondo: ‘‘un uomo di indole grande, piuttosto che buona’’. Questo concetto non puo` essere diviso: o sara` anche buono o neppure grande, poiche´ la magnanimita` la intendo inconcussa e intimamente solida, uguale e stabile dal profondo, quale non puo` inerire ad animi malvagi. Questi possono essere terribili, turbolenti e funesti: ma non possiederanno certo la magnanimita`, il cui fondamento e il cui punto di forza e` la bonta`. [...]. Nell’ira, dunque, non c’e` nulla di grande, nulla di nobile, nemmeno quando appare impetuosa

446 Cfr. SEN . de const. sap. 11, 1: Praeterea cum magnam partem contumeliarum superbi insolentesque faciant et male felicitatem ferentes, habet quo istum affectum inflatum respuat, pulcherrimam virtutem omnium, magnanimitatem. 447 Cfr. SEN . de const. sap. 9, 4: nec quicquam petulantiae vestrae aut rapacissimis cupiditatibus aut caecae temeritati superbiaeque detrahitur: salvis vitiis vestris haec sapienti libertas quaeritur. Non ut vobis facere non liceat iniuriam agimus, sed ut ille omnes iniurias inultas dimittat patientiaque se ac magnitudine animi defendat.

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e sembra disprezzare gli de`i e gli uomini. O se sembra che a qualcuno l’ira procuri un animo grande, [...] allora appartenga al magnanimo anche l’ambizione che non si accontenta di cariche annue. Se fosse possibile, vorrebbe riempire i fasti con un solo nome e spargere iscrizioni onorarie per tutta la terra. Tutte queste cose – non importa quanto si estendano – sono meschine, misere, vili; solo la virtu` e` sublime ed eccelsa, ne´ vi e` nulla di grande se non cio` che e` anche mite.448

Sapevamo gia` che nelle fonti stoiche ira e superbia erano strettamente associate e che specialmente a questi due vizi si applicava la metafora di origine medica del ‘‘tumore dell’anima’’, la quale ritorna con particolare evidenza anche nel passo citato, dove essa e` sviluppata in forma di similitudine. Ma qui essi sembrano quasi confondersi tra di loro, alcuni dei tratti tipici del superbo essendo attribuiti all’iracondo, come l’autoesaltazione, la tronfiezza, la vacuita`. La superbia, in particolare, viene paragonata all’ira sia come arroganza (insolentia) che si contrappone alla giusta fierezza (fiducia) del magnanimo, sia come ambizione sfrenata (ambitio) che si distingue dal legittimo desiderio di compiere imprese gloriose. L’assimilazione e parziale identificazione dei due vizi si fa esplicita nella seguente sentenza: multum inquam interest inter sublimem animum et superbum. Con essa Seneca da per inteso che tutto quello che nel passo egli afferma dell’ira va riferito nei medesimi termini anche alla superbia. Ora, l’obiettivo che il filosofo stoico persegue in questi due capitoli del De ira e che da essi continuamente traspare e` quello di chiarire un equivoco latente nella mente di alcune persone, tra cui proprio i superbi: quello di 448 SEN . de ira I 20-21: ne illud quidem iudicandum est, aliquid iram ad magnitudinem animi conferre. Non est enim illa magnitudo: tumor est; nec corporibus copia vitiosi humoris intentis morbus incrementum est sed pestilens abundantia. Omnes quos vecors animus supra cogitationes extollit humanas altum quiddam et sublime spirare se credunt; ceterum nil solidi subest, sed in ruinam prona sunt quae sine fundamentis crevere. non habet ira cui insistat; non ex firmo mansuroque oritur, sed ventosa et inanis est, tantumque abest a magnitudine animi quantum a fortitudine audacia, a fiducia insolentia, ab austeritate tristitia, a severitate crudelitas. Multum inquam interest inter sublimem animum et superbum. [...] ‘‘Quid ergo? non aliquae voces ab iratis emittuntur, quae magno emissae videantur animo? ^ Immo & veram ignorantibus magnitudinem’’. [...] nec est quod existimes verum esse quod apud disertissimum virum Livium dicitur: ‘‘vir ingenii magni magis quam boni’’. Non potest istud separari: aut et bonum erit aut nec magnum, quia magnitudinem animi inconcussam intellego et introrsus solidam et ab imo parem firmamque, qualis inesse malis ingeniis non potest. Terribilia enim esse et tumultuosa et exitiosa possunt: magnitudinem quidem, cuius fundamentum roburque bonitas est, non habebunt. [...] nihil ergo in ira, ne cum videtur quidem vehemens et deos hominesque despiciens, magnum, nihil nobile est. Aut si videtur alicui magnum animum ira producere, [...] videatur et ambitio magni animi – non est contenta honoribus annuis; si fieri potest, uno nomine occupare fastus vult, per omnem orbem titulos disponere. Omnia ista, non refert in quantum procedant extendantque se, angusta sunt, misera, depressa; sola sublimis et excelsa virtus est, nec quicquam magnum est nisi quod simul placidum.

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confondere la vera magnanimita` con la superbia e con l’ira, che ne sono invece la perversione. Un intento simile si puo` cogliere nel tredicesimo capitolo del II libro De beneficiis, che contiene una lunga invettiva contro la superbia, definita magnae fortunae stultissimum malum, e dove, a conclusione del ragionamento, si afferma lapidariamente vanam esse superbiae magnitudinem.449 La stessa distinzione ritorna in modo anche piu` nitido nell’Epistola 90 dello stesso Seneca, dove si afferma che la filosofia «espelle dalla mente ogni vanita` (vanitatem), conferisce una grandezza solida e ricaccia quella gonfia (inflatam) e vuotamente fastosa, ne´ permette che si ignori la differenza che intercorre tra cio` che e` grande e cio` che e` tronfio (tumida)».450 E` la medesima preoccupazione che, in termini assai simili, si ritrova nel passo del De liberando a superbia sopra citato, dove si invita a distinguere con nettezza tra magnanimita` e superbia e a non confonderle «come se fossero una sola cosa (wJc e}n kai; tautov)». In esso – e non sara` un caso – si ripete anche la similitudine piu` volte richiamata tra la superbia e il patologico gonfiore del corpo (oi[dhcic) e, come nel De ira di Seneca, benche´ in maniera piu` concisa, si attribuiscono al magnanimo comportamenti speculari rispetto a quelli del superbo. Ritengo pero` che la conferma decisiva a quanto fin qui detto venga da una testimonianza di Posidonio tratta dall’Epistola 87, dove l’autorita` del filosofo di Apamea e` invocata per dimostrare la vacuita` della ricchezza e l’ostacolo da essa potenzialmente costituito per il conseguimento della virtu`. Il passo, che riporto solo per la parte che qui ci interessa, e` molto importante (anche se non sempre del tutto perspicuo) tra gli altri motivi perche´ da esso e` possibile inferire almeno parzialmente il concetto di causa secondo Posidonio e, piu` specificamente, quello studio delle cause applicato ai problemi etici che era impiegato nella psicologia delle passioni in relazione al problema del male morale.451 E` per questo motivo che in esso e` stato correttamente riconosciuto un compiuto esempio di quell’eziologia morale a cui ho accennato piu` sopra e che, come sappiamo, rappresentava una tecnica protrettico-morale tipica di Posidonio: 452 Cfr. SEN. de ben. II 13, 3. SEN. ep. 90, 28: vanitatem exuit (sc. sapientia) mentibus, dat magnitudinem solidam, inflatam vero et ex inani speciosam reprimit, nec ignorari sinit inter magna quid intersit et tumida. 451 Si veda A.M. IOPPOLO , Il concetto di causa cit., pp. 4491-4545. 452 Cfr. supra, pp. 143-145, e I.G. KIDD (ed.), Posidonius, II: Commentary cit., p. 629: «the consideration of wealth as good or evil in relation to its function in the psychology of the rise of pavqh is highly characteristic. It is indeed a good instance of the category of aetiologia, which Posidonius pressed in admonitory or precept ethics». 449

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Posidonio, a mio parere, fa meglio. Egli afferma che la ricchezza e` causa di mali, non perche´ in se stessa produca alcun male, ma perche´ incita a commetterlo. Infatti, una cosa e` la causa efficiente, che necessariamente nuoce in modo diretto, un’altra e` la causa antecedente. La ricchezza possiede questa causa antecedente: gonfia l’animo, genera superbia, si attira invidia e fino a tal punto aliena la mente che la fama del denaro ci allieta perfino quando sappiamo che ci nuocera`. Ma tutti i beni sono liberi da colpa, sono puri, non corrompono gli animi, non li seducono. Li sollevano certo e li dilatano, ma senza tronfiezza. Cio` che e` buono produce fiducia in se stessi, la ricchezza baldanza; cio` che e` buono conferisce magnanimita`, la ricchezza arroganza. Ma l’arroganza non e` altro che una falsa forma di magnanimita`. [...] Posidonio dice che si deve ragionare nel seguente modo: ‘‘Quelle cose che non conferiscono all’animo magnanimita` ne´ fiducia in se stessi ne´ sicurezza non sono beni. La ricchezza, la salute e le cose a esse simili non producono nulla di questo. Pertanto non sono beni’’. E rafforza questo sillogismo ancor di piu` nel seguente modo: ‘‘Quelle cose che non conferiscono all’animo magnanimita` ne´ fiducia in se stessi ne´ sicurezza ma, al contrario, superbia, tronfiezza, arroganza sono mali. Ma noi siamo incitati a queste cose dai beni di fortuna. Dunque essi non sono beni’’.453

Dopo aver precisato che la ricchezza e` causa antecedente (praecedens) e non efficiente (efficiens) del male morale, poiche´ non lo produce direttamente, Posidonio aggiunge che pero` essa ha il potere di sedurre e corrompere l’anima fino al punto di scatenare una reazione passionale i cui principali ingredienti sono la tronfiezza, la superbia (superbiam) e l’alienazione mentale. Tra le conseguenze esterne si richiama l’invidia che si genera negli altri. Si fa poi un’ulteriore distinzione tra i beni naturali in senso generico (bona) e la ricchezza (divitiae), cioe` l’accumulo indiscriminato e fine a se stesso di beni superflui e si precisa che i primi non hanno rilevanza morale, ma si limitano a sollevare e dilatare (extollunt quidem et dilatant) l’animo umano. Infatti, mentre gli uni producono fiducia in se stessi (fidu453 SEN . ep. 87, 31-35 (POSIDON. fr. 170 E.-K.): Posidonius, ut ego existimo, melius, qui ait divitias esse causam malorum, non quia ipsae aliquid faciunt, sed quia facturos irritant. Alia est enim causa efficiens, quae protinus necessest noceat, alia praecedens. Hanc praecedentem causam divitiae habent: inflant animum, superbiam pariunt, invidiam contrahunt et usque eo mentem alienant ut fama pecuniae nos etiam nocitura delectet. Bona autem omnia carere culpa decet; pura sunt, non corrumpunt animos, non sollicitant; extollunt quidem et dilatant, sed sine tumore. Quae bona sunt fiduciam faciunt, divitiae audaciam; quae bona sunt magnitudinem animi dant, divitiae insolentiam. Nihil autem aliud est insolentia quam species magnitudinis falsa. [...] Posidonius sic interrogandum ait: ‘‘quae neque magnitudinem animo dant nec fiduciam nec securitatem non sunt bona; divitiae autem et bona valetudo et similia his nihil horum faciunt; ergo non sunt bona.’’ Hanc interrogationem magis etiamnunc hoc modo intendit: ‘‘quae neque magnitudinem animo dant nec fiduciam nec securitatem, contra autem insolentiam, tumorem, arrogantiam creant, mala sunt; a fortuitis autem in haec impellimur; ergo non sunt bona’’.

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ciam) e magnanimita` (magnitudinem animi), l’altra genera spavalderia (audaciam) e arroganza (insolentiam). Il ragionamento e` concluso dal seguente aforisma: nihil autem aliud est insolentia quam species magnitudinis falsa. Poco piu` avanti Seneca cita testualmente due diverse formulazioni di un sillogismo dello stesso Posidonio con cui si ribadisce che la ricchezza, la salute e gli altri beni di fortuna (fortuita) non solo non producono nessuna delle virtu` sopra ricordate, a cui si aggiunge ora la sicurezza (securitatem) ma, al contrario, possono generare i vizi opposti, vale a dire gli stessi gia` sopra menzionati, piu` la tronfiezza (tumorem). Pertanto essi non sono beni, ma neanche mali in senso proprio, giacche´ i fortuita non determinano direttamente il male morale, anche se a questo siamo da essi incitati (impellimur).454 Ora, sebbene non vi siano riportate con la stessa sistematicita` (ne´ tanto si potrebbe pretendere da uno scritto di contenuto filosofico-popolare), molte di queste idee si ritrovano con analoga terminologia nel De liberando a superbia. Infatti, come sappiamo, l’assunto fondamentale dello scritto epistolare era quello per cui i beni di fortuna, e tra di essi soprattutto la ricchezza (kthcic = ), hanno il potere di far gonfiare di boria (ejkpneumatovw) lo stolto, inducendolo a disprezzare gli altri, come nell’Epistola 87 di Seneca esse producono arroganza e tronfiezza (tumorem). Quest’ultima, in particolare, ritorna tale e quale nel medesimo passo aristoneo (15 27: oijdhvcewc) in associazione con la superbia e richiama quell’analogia medica 454 Dal prosieguo del passo apprendiamo che Posidonio-Seneca includeva la ricchezza, come prima (26) aveva fatto con la salute fisica, nel novero dei commoda, termine che corrisponde letteralmente a eujcrhcthvmata, ma che qui come altrove traduce probabilmente il piu` generico prohgmevna. Egli distingue tra commoda e bona per il fatto che quelli sono piu` utili che dannosi, laddove questi sono soltanto utili e non possono ne´ contenere ne´ produrre alcun male. E mentre i primi si addicono agli animali, agli imperfetti e agli stolti (commodum et ad animalia pertinet et ad inperfectos homines et ad stultos), i secondi sono propri del solo sapiente (bonum ad unum sapientem pertinet). Quest’ultima idea non sembra appartenere alla posizione ortodossa espressa da Zenone, Cleante e Crisippo, i quali non escludevano il campo dei preferibili (tra cui la ricchezza) dalla possibile scelta del sapiente, ma da` l’impressione di riecheggiare la teoria dell’assoluta indifferenza del saggio verso i beni intermedi storicamente sostenuta da Aristone di Chio. Colgono dunque probabilmente nel vero L. EDELSTEIN, The Philosophical System of Posidonius, «AJPh», LVII, 1936, p. 308 sg.; M. VAN STRAATEN, Pane´tius, sa vie, ses e´crits et sa doctrine, avec une e´dition des fragments, Amsterdam, H.J. Paris 1946, pp. 153-158; 174-190; M. LAFFRANQUE, Poseidonios d’Apame´e, Paris, PUF 1964, p. 364; p. 480 sg.; J.M. RIST, Stoic Philosophy, Cambridge, CUP 1969, pp. 7-10; M.T. GRIFFIN, Seneca: a Philosopher in Politics, Oxford, Clarendon 1976, p. 296 nota 5; K. REINHARDT (Hrsg.), op. cit., pp. 336-342; M. POHLENZ, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, trad. it., Firenze, La Nuova Italia 1959, II, p. 120; A. DIHLE, art. cit., p. 51 nota 6; F.H. SANDBACH, The Stoics, London, Chatto & Windus 1975, p. 127; W. THEILER, Poseidonios. Die fragmente, Berlin, de Gruyter 1982, II, p. 383, i quali sostengono l’‘eterodossia’ di Posidonio su questo punto. Di opposto parere e` I.G. KIDD (ed.), Posidonius, II: Commentary cit., pp. 634-636.

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applicata alla teoria della passioni che era tipica degli Stoici e di cui si e` gia` discusso.455 A cio` si aggiunga che, tra le conseguenze della ricchezza, Seneca-Posidonio annoveravano anche l’invidia e la follia, temibili effetti collaterali su cui sappiamo che anche Aristone insisteva a lungo e piu` volte nel suo scritto.456 In modo analogo, come in Aristone il comportamento del magnanimo consiste nel non darsi pensiero o nel disprezzare i beni di fortuna (katafronein= tw=n tuchrw=n), cosı` nella testimonianza posidoniana il corretto uso dei beni materiali da luogo a confidenza, sicurezza e magnanimita`. E` proprio su quest’ultima virtu` che Seneca intende porre l’accento quando afferma, in perfetta consonanza con quanto asserito da Aristone, che «l’arroganza non e` altro che una falsa forma di magnanimita`». E` il medesimo messaggio che si ricava dal passo del De liberando a superbia riportato all’inizio del capitolo e che si desume anche da un altro luogo dell’opuscolo, allorquando si richiama «il caso di uno che avuto inaspettatamente e in qualunque modo un colpo di fortuna, eviti, simulando magnanimita` (meg.a|[lo]yuc[iv]an uJpokrinovmeno[n), di mostrarsene eccessivamente conten* to» (13 36-39). Il superbo, dunque, pur di scimmiottare il magnanimo e riscuotere l’ammirazione della gente, e` disposto a giungere fino al punto di dissimulare di fronte agli altri l’esultanza in lui suscitata dai propri successi personali. Ma si tratta anche in questo caso di un’apparenza ingannevole che nulla ha a che vedere con l’autentica magnanimita`. Quel che pero` piu` colpisce e` il comune impiego da parte di Aristone e di Seneca del medesimo termine tecnico per indicare collettivamente i beni di fortuna. Il greco tuchrav, accompagnato o meno dall’aggettivo sostantivato ajgaqav, e` utilizzato in questo senso, oltre che dal nostro Aristone, da Alessandro di Afrodisia in riferimento a Crisippo, e da Plutarco.457 In latino il neutro sostantivato fortuita, che costituisce il calco semantico di tuchrav, e` utilizzato soprattutto in Seneca per indicare il medesimo concetto, come si fa anche altrove nella stessa Epistola 87.458 Cio` significa probabilmente che, Cfr. supra, cap. II.5.1. L’unica differenza e` costituita dal fatto che, mentre in Seneca invidia e follia sono cagionate direttamente dalla ricchezza, in Aristone esse sono effetti nefasti della superbia. Ma questa, a sua volta, e` provocata da una falsa opinione e da un uso scorretto dei beni materiali, cioe` dalla stessa ricchezza. 457 Cfr. ALEX. APHR. in Aristot. Top., p. 147, 22 W. (= CHRYSIPP. fr. 595 SVF III); PLUTARCH. Demetr. 3, 4; de lib. educ. 6 A; quom. adul. poe ¨t. aud. deb. 23 F; 35 A; quom. adul. ab am. intern. 53 F; de fort. 100 A; de virt. mor. 444 A; de tranq. an. 474 D; 477 A, e LSJ, s.v. tuchrovc. 458 Cfr. SEN. ep. 87, 12. 455

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quando il filosofo stoico lo utilizzava in tal senso, nella fonte greca (nella fattispecie Posidonio) egli leggeva tuchrav. Ora, l’espressione katafronei n= tw n= tuchrw n= di Aristone condensa in modo lapidario l’atteggiamento del magnanimo stoico dinanzi alla sorte, la rerum externarum despicientia di paneziana memoria o il contemptus fortuitorum senecano, che costituiva un imperativo morale tipico dell’etica stoica.459 In particolare, essa combacia bene con la dottrina delle circostanze espressa da Aristone di Chio nei celebri paragoni dell’attore e del nocchiero. In effetti, assimilando il sapiente «al bravo attore, il quale sia che impersoni la parte di Tersite sia quella di Agammennone, e` capace di interpretare l’una e l’altra in modo appropriato»,460 egli ne sottolineava la capacita` di affrontare con successo le alterne vicende della vita e indicava nel giudizio della ragione l’unico criterio di azione valido. Ma e` soprattutto con il secondo paragone che il filosofo stoico metteva in rilievo la superiorita` del saggio rispetto alle circostanze (perictavceic) e alla stessa sorte. Egli sosteneva che «un timoniere non soffrira` il mal di mare ne´ su una grande imbarcazione, ne´ su una piccola, gli inesperti in ambedue. Cosı` l’uomo educato (pepaideumevnoc) non si turba ne´ nella ricchezza ne´ nella poverta`, l’uomo incolto (ajpaivdeutoc) in entrambe».461 Per il filosofo di Chio, infatti, le circostan459 Cfr. CIC. de off. I 66-67: Omnino fortis animus et magnus duabus rebus maxime cernitur, quarum una in rerum externarum despicientia ponitur, cum persuasum sit nihil hominem nisi quod honestum decorumque sit aut admirari aut optare aut expetere oportere, nullique neque homini neque perturbationi animi nec fortunae succumbere. [...] In eo est enim illud, quod excellentes animos et humana contemnentes facit. Id autem ipsum cernitur in duobus, si et solum id, quod honestum sit, bonum iudices et ab omni animi perturbatione liber sis. Nam et ea, quae eximia plerisque et praeclara videntur, parva ducere eaque ratione stabili firmaque contemnere fortis animi magnique ducendum est; SEN. ep. 23, 7: Quod sit istud (sc. veri boni aviditas) interrogas, aut unde subeat? Dicam: ex bona conscientia, ex honestis consiliis, ex rectis actionibus, ex contemptu fortuitorum, ex placido vitae et continuo tenore unam prementis viam. 460 DIOG . LAE¨RT. VII 160 (fr. 351 SVF I): ei\nai ga;r o{moion to;n cofo;n tw/ ajgaqw/ uJpokrith/, o}c a[n = = = j mnonoc provcwpon ajnalavbh/, eJkavteron uJpokrivnetai prochkovntwc. Questo oJte Qercivtou a[n te Agamev moivwma e` attribuito dalle fonti anche ad altri filosofi, come Antistene, Aristippo, Diogene di Sinope e Bione di Boristene e anche all’oratore Demade. Cfr., per il primo, AELIAN. var. hist. II 11; per il secondo, DIOG. LAE¨RT. II 66; per il terzo, DIOG. LAE¨RT. VI 63; per Bione, TEL. fr. II 5-6 H. (F 16 A K.); per Demade, DIOD. SIC. XVI 87, 2. Il paragone ritorna in SEN. ep. 94, 6, e in ARISTONYM. GNOM. ap. STOB. fl. IV 42, 14 H. Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 188-193. 461 STOB. ecl. II 31, 95 W. (fr. 396 SVF I): ejk twn Ariv = j ctwnoc oJmoiwmavtwn. kubernevthc ou[te ejn

megavlw/ ploivw/ ou[te ejn mikrw/= nautiavcei, oiJ de; a[peiroi ejn amfoin: = ou{twc oJ me;n pepaideumevnoc kai; ejn plouvtw/ kai; ejn peniva/ ouj taravttetai, oJ d’ajpaivdeutoc ejn amfoin. = Cfr. anche ARISTONYM. GNOM. ap. STOB. fl. III 1, 97 H. Anche questo oJmoivwma fu impiegato, oltre che da Aristone di Chio, da An-

tistene (V A 54, 8 SSR) e da Telete (fr. II 9-10 H.). Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 193-197. La testimonianza di Telete e` stata da alcuni studiosi attribuita a Bione di Boristene, ma l’editore di quest’ultimo, per motivi di prudenza, non la riporta tra i frammenti corrispondenti, in quanto non e` possibile stabilire con certezza se la precedente citazione di Bione da parte di Telete debba comprendere anche il passo in questione.

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ze esterne non hanno alcun potere sul saggio, giacche´ il possesso della virtu` lo aiuta a conseguire sempre il fine e ad adattarsi con liberta` interiore a ogni situazione della vita.462 In conclusione, dal confronto con i passi presi in considerazione, i quali si riferiscono a diversi esponenti dello Stoicismo antico, medio e tardo (e il cui numero potrebbe aumentare assai), e` possibile rintracciare nel De liberando a superbia un modo di descrivere la diversa reazione del superbo e del magnanimo di fronte ai beni e ai casi di fortuna che nell’antichita` era tipico dell’etica stoica. Vero e` che, come l’autore dell’opuscolo, anche Aristotele nell’Etica Nicomachea considerava la boria (caunovthc), vizio affine alla superbia, un’affettazione di magnanimita` e che anch’egli la faceva consistere principalmente nell’equanimita` di fronte agli eventi della fortuna. Ma, come abbiamo visto, mentre da Aristotele tale equilibrio interiore era concepito in termini di moderazione della reazione passionale scatenata dalle alterne vicende della sorte (metriopavqeia), nel nostro scritto esso coincide con una forma di totale distacco (katafrovnhcic) e di superioria` morale (uJperochv), un atteggiamento che ricorda da vicino la dottrina stoica dell’ajpavqeia. Anche la terminologia impiegata da Aristone, insieme all’uso di certe metafore e dell’analogia medica applicata all’ambito specifico delle passioni, ci conducono significativamente nell’alveo della tradizione stoica.463 Era del resto lo stesso Wehrli, assertore della paternita` peripatetica dello scritto, ad affermare esplicitamente che l’antinomia megaloyuciva/ uJperhfaniva era operante in modo speciale nell’ambito della Stoa e ad asseverare la convergenza tra Aristone e l’etica stoica su questo argomento.464 5.4. La polemica contro la ricchezza e gli altri beni di fortuna Come si e` piu` volte ricordato, per l’autore del De liberando a superbia la ricchezza (kthcic = ) ha il potere di suscitare esaltazione nello stolto (12 22-28) 462 Si veda A.M. IOPPOLO , Il Peri; tou koufivzein cit., p. 733 nota 62, che menziona «la su= periorita` del saggio rispetto alle vicissitudini della sorte» tra le «indiscutibili analogie» del De liberando a superbia con i frammenti superstiti di Aristone di Chio. 463 Anche W. KNO ¨ GEL, op. cit., p. 46 nota 1, nonostante quanto da lui affermato in senso contrario, ha dovuto in parte riconoscere l’affinita` della terminologia utilizzata da Aristone con quella delle fonti stoiche. 464 Si veda F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 58: «A(riston)s Gegensatzpaar ist besonders in der Stoa lebendig»; ID., Ru¨ckblick cit., p. 108 sg.: «Wie die Stoische Ethik ist auch diejenige Aristons von der Erfahrung menschlicher Ohnmacht gegenu¨ber dem Schicksal, tuvch, bestimmt, und auch er kennt eine Mo¨glichkeit geistiger Selbstbehauptung, na¨mlich die megaloyuciva, welche er dem Du¨nkel vom Glu¨ck Begu¨nstigter, der uJperhfaniva, entgegenha¨lt».

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scatenando nella sua anima un entusiasmo irrazionale ([12 3-4]) che lo «fa imbaldanzire ed essere arrogante» (15 13-17).465 Se il ragionamento si riducesse a questo, non ci discosteremmo da quella che era la concezione comune nell’antichita`. Ma per Aristone la ricchezza costituisce, piu` del potere e della gloria, il principale fattore scatenante della superbia, al punto che da sola puo` riassumerli tutti (15 27-34). A 15 14-17 essa e` al primo posto tra le cause del vizio e, poco piu` sotto (15 30-34) il superbo e` detto gonfiarsi «a causa della ricchezza (uJpo; kthvcewc)», mentre le altre concause non sono nemmeno menzionate. La medesima sottolineatura data alla ricchezza come elemento perturbatore della pace interiore si ritrova nella tradizione cinica e nella filosofia popolare.466 Ad esse si richiamava Aristone di Chio, per il quale la ricchezza era la falsa opinione per eccellenza, oltre che un grave impedimento a filosofare. Come Bione di Boristene, contro di essa il filosofo stoico condusse un’autentica requisitoria che ci e` testimoniata da una folta schiera di testimonianze.467 Rovesciando la concezione popolare, egli contrapponeva alla (falsa) ricchezza esteriore, congiunta alla poverta` spirituale, la (vera) ricchezza dell’anima, associata alla poverta` materiale. Ne derivava un’antitesi tra virtu` e scienza da un lato, e vizio e ricchezza dall’altro, che e` ben esemplificata da PSchubart 39 e da un passo dell’Epistola 94 di Seneca. Nel primo si attribuisce a un non meglio identificato personaggio, il cui nome inizia con le lettere Arict j [ e che e` stato identificato con Aristone di Chio, un detto secondo cui non si trova nessuno cosı` insensato (ajnovhton) da non desiderare di essere Omero piuttosto che Mida, Solone e Aristide piuttosto che Perdicca.468 In altri termini, nessuno e` cosı` pazzo da preferire di 465 Piu ` specificamente si parla di possedimenti fondiari (12 10-11: ajgrw=n kth=cic) e di denaro (15 16: kermavtia). 466 Cfr. XEN. mem. IV 2, 9. Per Antistene, cfr. STOB. flor. III 1, 28 H. (V A 125 SSR); flor. III 10, 41 H. (V A 80 SSR); per Diogene, STOB. flor. IV 31 C, 88 H.; ATHEN. IV 159 C; DIOG. LAE¨RT. VI 50; per Bione, DIOG. LAE¨RT IV 50 (F 37 K.); STOB. flor. III 10, 37 H. (F 35 A K.); IV 31 C, 87 H. (F 38 A K.); IV 31 A 33 H. (F 42 A K.); per Telete, fr. II 6, 6; fr. IV B 45, 3 H. Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 102 sg. e nota 28. 467 Cfr. CIC . de fin. IV 69 (fr. 368 SVF I); SEN . ep. 94, 6-7; ep. 115, 8 (fr. 372 SVF I); STOB . ecl. II 31, 95 W. (fr. 396 SVF I); flor. III 4, 110 H. (fr. 350 SVF I); flor. IV 31 D, 110 H. (fr. 397 SVF I); GAL. de plac. Hipp. et Plat. VII 2, 595-600 D. (fr. 256 SVF III); gnom. Vat. 120; PLUTARCH. Cat. Mai. 18 (fr. 398 SVF I), e anche ANONYM. in Aristot. eth. nic. 1137 A 26-30 (CAG XX, p. 248, 17-27), dove l’enigmatico Aristonimo a cui si attribuisce la dottrina dell’ajdiaforiva va quasi sicuramente identificato con Aristone di Chio. Si vedano K. PRAECHTER, Hierax der Platoniker, «Hermes», XLI, 1906, p. 616; ID., Zu Ariston von Chios, «Hermes», XLVIII, 1913, pp. 476-480; A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 102 nota 27; pp. 241-243 e nota 201; p. 321 e nota 93; A. BERTINI MALGARINI, Aristonymos e/o Aristone di Chio, «Elenchos», II, 1981, p. 147 sg.; p. 159 nota 62; R. GOULET, Aristonymos, in DPhA, I, n. 402, p. 405. 468 Cfr. PSchubart 39, 9-14: ]n kalwc ou\n ei\pen jArict[ |10]a ou{twc ajnovhton euJr[eqhnai | ouj]k . . .. . = =

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essere ricco e stolto piuttosto che povero e sapiente. Analogamente nella seconda testimonianza, che rappresenta un prezioso esempio del metodo parenetico caro al filosofo di Chio, si sottolinea l’esigenza di spiegare «all’avaro che il denaro non e` ne´ un bene ne´ un male e mostrargli esempi di ricchi molto infelici (miserrimos divites)». In essa si afferma anche «che e` beata non quella vita che e` secondo il piacere, ma quella che e` secondo natura» e che la virtu` e` l’unico bene dell’uomo e il vizio l’unico male. «Tutto il resto – ricchezze (divitias), onori, buona salute, vigore fisico, cariche militari – sono beni intermedi (mediam partem) che non vanno annoverati ne´ tra i beni ne´ tra i mali».469 Ma torniamo allo scritto aristoneo. A 15 13-23 ricchezza, nobilta` e gloria sono qualificate, sulla scia della tradizione cinica e stoica, come cosa «misera (tapeinovn) e la boria (kauvchcin) intorno ad esse da villani (ajnav|gwgon)». Poco oltre si afferma che «e` proprio del magnanimo non darsi cura dei beni di fortuna (katafro|nein= twn= tuch[r]wn= ), mostrandosene superiore (uJpe[r]evcon|ta) con fierezza d’animo» (15 27-30). A parte il fatto che come l’ignoto Aristone fa con il superbo, anche Crisippo definiva lo stolto insolente (aujqavdhc) e ignorante (ajnavgwgoc),470 tale atteggiamento di noncuranza e disistima verso i beni esterni corrisponde singolarmente bene alla dottrina stoica dell’indifferenza (ajdiaforiva) del saggio verso i beni intermedi tra la virtu` e il vizio e, ancor piu`, alla formulazione radicale e assolutizzata che ne offrı` Aristone di Chio.471 Questi ne fece il nucleo centrale della sua teoria del fine etico, quella contro la quale Crisippo polemizzo` aspraa]n eu[xaito mallon {Om.[hroc | ei\n]a.i. h] Mivdac kai; Covlwn m.[allon h] | ]. . c. kai; Ari j cteivdhc kai; c[ | ]w.n = = h] Perdiv[kkac. Il testo e` quello riprodotto da Alessandro Linguiti in CPF I 1*, 22, 2 T (?), p. 246 sg. (= fr. 2597 P2). L’identificazione di Ariv j ct[ con Aristone di Chio ( Ariv j ct[wn oJ Cio= c) risale a

L. ALFONSI, Sui Papiri Schubart, «Aegyptus», XXXIII, 1953, pp. 303-309, ed e` condivisa da A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 103-105 e nota 31. Si veda anche T. DORANDI, La tradition papyrologique des Stoı¨ciens, in G. ROMEYER DHERBEY (dir.)-J.-B. GOURINAT (e´d.), Les Stoı¨ciens, Paris, Vrin 2005 («Bibliothe`que de l’Histoire de la Philosophie», n.s.), p. 46. 469 Cfr. SEN . ep. 94, 7 (fr. 359 SVF I): Nisi opiniones falsas, quibus laboramus, expuleris, nec avarus, quomodo pecunia utendum sit, exaudiet, nec timidus, quomodo periculosa contemnat. Efficias oportet, ut sciat pecuniam nec bonum nec malum esse; ostendas illi miserrimos divites [...]. His decretis cum illum in conspectum suae condicionis adduxeris et cognoverit beatam esse vitam non quae secundum voluptatem est, sed secundum naturam, cum virtutem unicum bonum hominis adamaverit, turpitudinem solum malum fugerit, reliqua omnia, divitias, honores, bonam valetudinem, vires, imperia, scierit esse mediam partem nec bonis adnumerandum nec malis, monitorem non desiderabit ad singula, qui dicat: sic incede, sic cena; hoc viro hoc feminae; hoc marito hoc caelibi convenit. 470 Cfr. STOB. ecl. II 102, 11 W. (fr. 615 SVF III): ou[te ga;r a[rcein ou[t’a[rcecqai oi|ovc ^ t’& ejctin oJ a[frwn, aujqavdhc tic w]n kai; ajnavgwgoc. 471 La prima a sospettarlo e ` stata A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein cit., p. 733 nota 62.

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mente e per la quale il suo pensiero fu bollato dagli Stoici successivi come eterodosso e rigoristico. La reprimenda crisippea dovette produrre una risonanza tale, che da quel momento in poi e per tutta l’antichita`, sia dentro che fuori la scuola, il nome dello stoico Aristone fu specialmente associato a questa dottrina.472 Aristone di Chio aveva detto infatti che fine etico dell’uomo e` «vivere indifferentemente (ajdiafovrwc zhn= )» verso i beni esterni, usando un’espressione che riprendeva, allo scopo di correggerla, la celebre formula del fine elaborata da Zenone, cioe` «vivere conformemente a natura (oJmologoumevnwc, sc. th/= fuvcei, zhn= )». Quest’ultima si prestava al grave equivoco, dovuto in gran parte a una concezione ambigua della natura umana, di includere nell’ambito del tevloc, oltre alla virtu` (l’unico possibile oggetto della scelta morale del saggio) anche i cosiddetti ‘preferibili’ (prohgmevna), una categoria di beni intermedi tra la virtu` e il vizio come la salute, la ricchezza, la gloria, il potere, che Zenone considerava per natura (fuvcei) da preferire ai beni opposti, gli ajpoprohgmevna appunto. Pertanto vivere secondo natura (kata; fuvcin) significherebbe bensı` perseguire la virtu` e fuggire il vizio, ma anche, a un livello inferiore e solo nel caso in cui questo sia possibile, scegliere tra i beni intermedi cio` che e` ‘naturalmente’ preferibile e rigettare cio` che non lo e`. Tale categoria, completamente assente dal suo pensiero originario, decisamente piu` ascetizzante, il fondatore della scuola dovette aggiungerla probabilmente in seguito al confronto con le scuole avversarie e in particolare con Polemone, il quale lo aveva spinto a riformulare il concetto di natura e a includervi una serie di beni intermedi da lui considerati ‘naturali’.473 472 Il termine ajdiavforon fu utilizzato gia ` prima di Aristone di Chio da Zenone di Cizio per indicare i beni intermedi tra la virtu` e il vizio, da lui anche definiti mevca, oujdevtera, e{tera. Cfr. STOB. ecl. II 57, 18 W. (fr. 190 SVF I); GELL. IX 5, 5 (fr. 195 SVF I); ATHEN. VI 233 B-C (fr. 239 SVF I); SEXT. EMP. Pyrrh. hypot. III 200 (fr. 249 SVF I). Ma noi sappiamo da Diogene Laerzio (VI 105 = V A 135 SSR = deest in SVF) che anche i Cinici, «allo stesso modo (oJmoivwc) di Aristone di Chio, consideravano indifferente (ajdiavfora) tutto cio` che e` intermedio tra virtu` e vizio (metaxu; ajreth=c kai; kakivac)». In effetti e` stato dimostrato che gia` in Diogene di Sinope (EPICT. diss. III 24, 67-69 = V B 22 SSR) vi era una tripartizione dell’etica in bene, male e beni esterni, che egli definiva ajllovtria ma che interpretava in modo sensibilmente differente rispetto ad Aristone di Chio. Lo stesso termine ajdiavforon e` attestato una volta per Cratete (TEL. fr. V 49, 3-51, 4 H. = V H 45 SSR), anche se non con un significato tecnico. Aveva dunque probabilmente torto A. DYROFF, Die Ethik cit., p. 319 nota 3, ad affermare che il Cinismo antico non conobbe l’uso di tale vocabolo. Si vedano A. BRANCACCI, I koinh/= ajrevckonta dei Cinici e la koinwniva tra cinismo e stoicismo nel libro VI (103-105) delle ‘Vite’ di Diogene Laerzio, in ANRW, II 36, 6, 1992, pp. 40634066 e nota 58; P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit., p. 460 sg. Tuttavia, come afferma esplicitamente Diogene Laerzio (VII 37 = fr. 38 SVF I), il primo a introdurre il termine nella sua accezione tecnica e la teoria corrispondente fu il filosofo di Chio, oJ th;n ajdiaforivan eijchghcavmenoc. Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 157-159, e ora M.-O. GOULET-CAZE´, Les Kynika cit., pp. 112-135. 473 Si veda A.M. IOPPOLO , Aristone di Chio cit., pp. 142-159; 162-165.

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Aristone di Chio, invece, affermava «che tutti i beni intermedi tra la virtu` e il vizio sono assolutamente indifferenti (ajdiavfora) e che non vi e` fra essi alcuna distinzione, ne´ alcuni sono per natura preferibili ne´ altri da rigettare, ma lo sono a seconda delle diverse circostanze, ne´ cio` che si dice attraente e` preferibile in senso assoluto ne´ quel che si dice repellente e` necessariamente da rigettare. Se dunque bisognasse che i sani si sottomettessero al tiranno e che per questo perissero, mentre i malati, esonerati dall’obbedienza, fossero percio` salvati anche dalla rovina, l’uomo saggio in questa circostanza preferirebbe essere malato piuttosto che sano. In questo modo ne´ la salute e` preferibile in senso assoluto ne´ la malattia rigettabile».474 Su questo argomento le fonti antiche sono tutte concordi.475 Ora, la terminologia fortemente allusiva e i toni insolitamente categorici, che suonano come una sentenza morale, con cui l’Aristone autore del nostro scritto si riferisce ai beni di fortuna bollandoli sbrigativamente come cosa «misera (tapeinovn)» che il magnanimo non deve tenere in alcun conto (katafronein= ), si adattano assai bene alla versione rigoristica che della teoria dell’indifferenza formulo` lo stoico Aristone di Chio. Del resto, l’unico Aristone con queste caratteristiche filosofiche di cui siamo a conoscenza e` proprio il filosofo eterodosso. In lui la koinwniva tra Cinismo, inteso come «via breve alla virtu` (cuvntomoc ejp’ajreth;n oJdovc)» e filosofia stoica, interpretata nella versione ascetizzante originariamente proposta da Zenone, raggiunse la sua massima espressione.476 474 SEXT . EMP. adv. math. XI 64-67 (ARISTO CHIUS fr. 361 SVF I): mh; ei\nai de; prohgmevnon ajdiavforon th;n uJgiveian kai; pa=n to; kat’aujth;n paraplhvcion e[fhcen Ariv j ctwn oJ Cio= c. i[con ga;r e[ctin to; prohgmevnon aujth;n levgein ajdiavforon tw/= ajgaqo;n ajxioun, = kai; cchdo;n ojnovmati movnon diafevron. kaqovlou ga;r ta; metaxu; ajreth=c kai; kakivac ajdiavfora, mh; e[cein mhdemivan parallaghvn, mhde; tina; me;n ei\nai fuvcei prohgmevna, tina; de; ajpoprohgmevna, ajlla; para; ta;c diafovrouc tw=n kairw=n perictavceic mhvte ta; legovmena prohcqai pavntwc givnecqai prohgmevna, mhvte ta; legovmena ajpoprohcqai kat’ajnavgkhn = = uJpavrcein ajpoprohgmevna. eja;n goun= devh/ tou;c me;n uJgiaivnontac uJphretein= tw/= turavnnw/ kai; dia; touto = ajnaireic= qai, tou;c de; nocou=ntac ajpoluomevnouc th=c uJphrecivac cunapoluvecqai kai; thc= ajnairhvcewc e{loit’a]n ma=llon oJ cofo;c to; nocein= kata; tou=ton to;n kairo;n h] [o{ti] to; uJgiaivnein. kai; tauvth/ ou[te hJ uJgiveia prohgmevnon ejcti; pavntwc ou[te hJ novcoc ajpoprohgmevnon. w{cper ou\n ejn taic= ojnomatografivaic a[llot’a[lla protavttomen ctoiceia, = pro;c ta;c diafovrouc perictavceic ajrtizovmenoi, kai; to; me;n devlta o{te to; tou= Divwnoc o[noma gravfomen to; de; ijw=ta o{te to; tou= jIwnoc, to; de; w\ o{te to; tou= jWrivwnoc, ouj th/= fuvcei eJtevrwn para; ta; e{tera gravmmata prokrinomevnwn, tw=n de; kairw=n tou=to poiein= ajnagkazovntwn, ou{tw ka]n toic= metaxu; ajreth=c kai; kakivac pravgmacin ouj fucikhv tic givnetai eJtevrwn par’e{tera provkricic, kata; perivctacin de; mallon . = 475 Cfr., tra gli altri, CLEM . ALEX. strom. II 21, 129 (fr. 360 SVF I); CIC . Luc. 130 (fr. 362 SVF I); de fin. III 50 (fr. 365 SVF I); IV 47 (fr. 364 SVF I); V 23 (fr. 363 SVF I); V 73 (fr. 366 SVF I); Tusc. disp. V 33; DIOG. LAE¨RT. VI 105; VII 37; 160 (fr. 351 SVF I); PLUTARCH. de comm. not. 1071 F (fr. 26 SVF III); ANONYM. in Aristot. eth. nic. 1137 A 26-30 (CAG XX, p. 248, 17-27). 476 Cfr. DIOG . LAE¨ RT. VI 103-104 (V A 135; V B 368-369; V B 497 SSR = fr. 354 SVF I); VI 105 (V A 135 SSR = deest in SVF), e A. BRANCACCI, art. cit., pp. 4049-4075. Si veda ora anche M.-O. GOULET-CAZE´, Les Kynika cit., pp. 125-129; 161-163.

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A questa conclusione si potrebbe obiettare che, oltre al filosofo stoico, anche Aristone di Ceo fu influenzato da Bione di Boristene, se si deve prestare fede alla testimonianza di Strabone la quale afferma che egli ne fu emulatore (zhlwthvc), ed e` noto che il cinico Bione polemizzo` aspramente contro la ricchezza. Per cui, in teoria, anche il filosofo peripatetico poteva aver ereditato da quello un concetto negativo di essa. Ora, pero`, e` concepibile un atteggiamento cosı` pregiudizialmente ostile ed espressioni cosı` piene di disprezzo verso i beni materiali nell’orizzonte di pensiero di un filosofo peripatetico a poche generazioni dalla redazione delle Etiche di Aristotele, e per di piu` sulla bocca di un caposcuola come quasi sicuramente fu Aristone di Ceo? Se infatti, come abbiamo visto piu` sopra, non si puo` escludere un’influenza di tipo linguistico e stilistico del filosofo di Boristene sul discepolo di Licone, la quale al limite si poteva estendere anche alla scelta di certi temi,477 ben altro conto e` immaginare che un filosofo peripatetico potesse far propri atteggiamenti e dottrine radicali in evidente contrasto con le posizioni del fondatore senza lasciarne traccia nelle fonti antiche. Al contrario, noi sappiamo che Aristotele e i suoi discepoli mostrarono sempre un’attitudine neutrale, quando non apertamente favorevole, verso la ricchezza e gli altri beni di fortuna, la quale rimase in ogni tempo un punto fermo del loro insegnamento.478 5.5. L’invettiva contro la polymathia Impietosa e originale e` la descrizione che l’autore del De liberando a superbia fa dell’onnisciente (panteidhvmwn), il quale e` «convinto [...] di conoscere tutte le cose, alcune per averle apprese dai massimi esperti, altre poi soltanto per aver visto questi in azione, altre infine per averle scoperte da se stesso» (18 13-19). Egli pretende di essere pratico di tutte le arti e di tutte le discipline (18 36-38: t.[w=]n. maqhmav|twn ajntipoiouvmeno. [c pav]n|twn), perfino di quelle padroneggiate «dai massimi specialisti (18 32-33: tw=n te|cnitikwtavtwn)», tra cui si annoverano con una singolare mescolanza la sartoria, l’architettura civile e navale, il diritto, la medicina, l’agricoltura e i trasporti (18 19-34). Anche il sufficiente (aujqevkactoc), che in questo Cfr. supra, p. 85 sg. Cfr., ad es., ARISTOT. eth. nic. 1107 B 9; 1153 B 18; 1119 B 23-1122 A 17; 1122 A 21; 1127 A 29; 1168 A 23; 1169 A 20; 26; 1120 A 32; B 16; 1121 A 5; 1160 A 16; 1163 A 31; eth. eud. 1231 B 28-1232 A 18; 1232 B 4; 1249 A 19-24. Si vedano M.I. FINLEY, The Ancient Economy, Berkeley, Univ. of California 19852 e, da ultimo, D.M. SCHAPS, Socrates and the Socratics: When Wealth Became a Problem, «CW», XCVI, 2003, pp. 131-157. 477

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presenta punti di contatto con l’onnisciente, «crede lui solo di sapere tutte le cose» (19 21-22) ed e` convinto «che la conoscenza comune (th;n koi|nw=c c* uvnecin) gli abbia assicurato le cognizioni proprie di quelli che possiedono competenze specifiche (ijdivac ejmpei|rivac)».479 Ma ancor piu` significativo e` il passo seguente, nel quale la vis polemica divampa in un climax ascendente e che per la sua importanza riporto per intero: L’onnisciente, invece, insieme a tutto cio` che si e` detto, e` anche folle come Margite se ritiene che colui che pure a giusto titolo e` considerato eruditissimo (polumaqevctaton) possa conoscere ed eseguire ogni cosa. Per non parlare di lui stesso, il quale e` talora sorpreso a non capir nulla (oujdevn ti ... katevcwn) e che non comprende come molte cose abbiano bisogno di esercizio (polla; deitai = tribh=c), anche se procedono dallo stesso metodo, proprio come gli elementi della poetica; e che intorno agli eruditi (polumaqeic= ) si aggirano solo gli odori di molte cose (ojcmaiv ... pollw=n) e non la loro vera padronanza (katocaiv), l’insuccesso dell’istruzione ricevuta (tajpoteuvgmata | ... tw=n paideumav|twn) e non il suo buon esito (katorqwvmata) [...]; e che il fatto di conoscere molte cose, cio` di cui si vantava Ippia e tutta la schiatta a lui affine, e` motivo piu` di vergogna che di lode (20 4-27).

La valutazione negativa del sapere enciclopedico tipico degli eruditi (polumaqeic= ) che traspare con tanta forza e insistenza da questo e dagli altri passi considerati, oltre a richiamare un celebre frammento di Eraclito,480 non puo` non ricordare il netto rifiuto della polymathia e delle arti liberali espresso in epoca ellenistica dai Cinici, dagli Epicurei, dai Pirroniani, nonche´ dai primi filosofi stoici.481 Zenone, in particolare, aveva sostenuto nel19 32-35. La polemica eraclitea contro l’enciclopedismo si trova espressa in DIOG. LAE¨RT. IX 1 (B 40 D.-K.): polumaqivh novon e[cein ouj didavckei: JHcivodon ga;r a]n ejdivdaxe kai; Puqagovrhn, au\tiv" te Xenofavneav te kai; H J kataion = , ove si impiega anche il termine polumaqivh, di cui nel passo del De liberando a superbia citato compare due volte l’aggettivo corrispondente polumaqhvc. L’interesse e la considerazione degli Stoici antichi per Eraclito e` ben nota. Aristone di Chio aveva in comune con lui, oltre all’ostilita` verso l’erudizione scientifica, la polemica contro l’antropomorfismo religioso e il rigorismo morale ed e` possibile rintracciare nei frammenti ascritti ai due filosofi anche alcune affinita` espressive. Inoltre DIOG. LAE¨RT. IX 5; 11 e II 22, attribuisce una biografia di Eraclito (Peri; H J rakleivtou) a un ignoto Aristone, che e` stato alternativamente identificato con il Peripatetico di Ceo (frr. 23-24 B SFOD) e con lo Stoico di Chio. Se questa seconda ipotesi risultasse vera, si avrebbe la conferma esplicita che Aristone di Chio conosceva bene Eraclito e la sua opera. Ma sulla sua validita` non e` possibile dire nulla di certo. Cfr. EUSEB. praep. evang. XIV 5, 11 (= ZENO CIT. fr. 11 SVF I); DIOG. LAE¨RT. VII 174 (= CLEANTH. fr. 481 SVF I); VII 177 (= SPH. PHIL. fr. 620 SVF I); STOB. fl. IV 25, 44 H. (= ARISTO CHIUS fr. 386 SVF I); PLUTARCH. an seni sit ger. resp. 787 C (= HERACLIT. B 97 e B 115 D.-K.); SEN. ep. 115, 8 (= ARISTO CHIUS fr. 372 SVF I); STOB. ecl. II 1, 16 W. (= HERACLIT. B 70 D.-K); ORIG. contra Cels. VI 12 (= HERACLIT. B 79 D.-K), e A.A. LONG, Heraclitus cit.; A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 316-321. 481 Si vedano H.I. MARROU, Histoire de l’e ´ducation dans l’antiquite´, Paris, du Seuil 19656, 479

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PARTE SECONDA

l’introduzione alla Politeia l’inutilita` dell’istruzione enciclopedica (ejgkuvklioc paideiva) rispetto all’unica vera scienza che e` la filosofia,482 anche se in un’altra testimonianza egli da l’impressione di rivalutare le altre forme di sapere.483 Ma le due affermazioni potrebbero non essere in totale contraddizione laddove si consideri che la Politeia era un’opera giovanile profondamente permeata di Cinismo e che nella seconda fase della sua speculazione egli potrebbe aver parzialmente mutato atteggiamento.484 Lo stesso Crisippo, pur riconoscendo per primo esplicitamente l’utilita` delle arti liberali,485 asseriva che «la conoscenza (gnwcic = ) non proviene certo da un’arte, ne´ finanziaria ne´ medica; ma neppure dall’istruzione enciclopedica».486 Esse costituiscono per lui non delle vere e proprie scienze, quanto delle occupazioni (ejpithdeuvmata), le quali indicano «la via che per mezzo di un arte o di una sua parte conduce al discorso sulla virtu`».487 Piu` in generale, la conoscenza per gli Stoici non e` mai una congerie disorganica di nozioni indiscriminate, ma un sistema razionale, ordinato e coerente di proposizioni necessarie e sufficienti per il possesso della virtu`.488

pp. 226; 568; A. STU¨CKELBERGER, Senecas 88. Brief u¨ber Wert und Unwert der Freien Ku¨nste, Heidelberg, Winter 1965; J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 198 sg.; I. HADOT, Arts libe´raux et philosophie dans la pense´e antique, Paris, Etudes augustiniennes 1984, pp. 270-276; M.-O. GOULETCAZE´, L’asce`se cynique. Un commentaire de Dioge`ne Lae¨rce VI 70-71, Paris, Vrin 1986 («Histoire des doctrines de l’Antiquite´ Classique», 10), p. 25 sg.; M. ERLER, Orthodoxie und Anpassung. Philodem, ein Panaitios des Kepos?, «MH», XLIX, 1992, pp. 178-180; P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit., p. 463. 482 Cfr. DIOG . LAE¨ RT. VII 32 (fr. 259 SVF I): e[nioi mevntoi, ejx w|n oiJ peri; Kavccion to;n ckeptikovn, ejn polloic= kathgorounte me;n th;n ejgkuvklion paideivan a[crhcton = c tou= Zhvnwnoc, prwton = ajpofaivnein levgonta ejn ajrch/= th=c politeivac. Cfr. anche DIOG. LAE¨RT. VII 18 (fr. 81 SVF I). 483 Cfr. flor. Mon. 198 (fr. 322 SVF I): oJ aujto;c (sc. Zhvnwn) e[fh th;n me;n o{racin ajpo; tou ajevroc = lambavnein to; fwc= , th;n de; yuch;n ajpo; tw=n maqhmavtwn. 484 485

Si veda A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 76 sg. Cfr. DIOG. LAE¨RT. VII 129 (fr. 738 SVF III): eujcrhctein= de; kai; ta; ejgkuvklia maqhvmata

fhci;n oJ Cruvcippoc.

486 CLEM . ALEX. strom. VII 3, 19 (fr. 224 SVF III): ouj mh;n oujde; ejk tevcnhc tino;c h[toi twn = porictikwn= h] twn= peri; to; cwma qerapeutikwn= hJ gnw=cic perigivgnetai: ajll’oujd’ejk paideivac thc= = ejgkuklivou. 487 Cfr. STOB. ecl. II 67, 5 W. (fr. 294 SVF III): filomoucivan de; kai; filogrammativan kai; filippivan kai; filokunhgivan kai; kaqovlou ^ ta;c & ejgkuklivouc legomevnac tevcnac ejpithdeuvmata me;n kalou=cin, ejpicthvmac d’ou[: ejn ^ de; & taic= cpoudaivaic e{xeci tauta = kataleivpouci, kai; ajkolouvqwc movnon to;n cofo;n filovmoucon ei\nai levgouci kai; filogravmmaton, kai; ejpi; twn= a[llwn kata; to; ajnavlogon. tov te ejpithvdeuma tou=ton uJpogravfouci to;n trovpon: oJdo;n dia; tevcnhc h] mevrouc a[goucan ejpi; ^ ta; & kat’ajrethvn.

Ma l’attribuzione a Crisippo non e` sicura. Cfr. anche STOB. ecl. II 7, 5 K (fr. 111 SVF III). Si vedano A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 76-78; F. ALESSE, La Stoa cit., p. 284. 488 Si veda P. DONINI , Stoic Ethics: Virtue and Wisdom, in K. ALGRA -J. BARNES-J. MANSFELDM. SCHOFIELD (eds.), op. cit., p. 721.

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Particolarmente confacenti al nostro demonstrandum sono un resoconto dossografico di Stobeo, in cui si afferma che gli Stoici «sostengono che solo il saggio puo` essere buon profeta, retore, dialettico e giudice, ma non tutte queste cose insieme, perche´ alcune di esse necessitano dell’acquisizione di alcuni principi (qewrhmavtwn tinwn= )»,489 e un brano di Dione di Prusa che per la sua vicinanza a certi luoghi dello scritto aristoneo, riporto integralmente: A mio giudizio non e` possibile che il filosofo conosca tutte le arti (e` gia` difficile praticarne una sola come si deve!), ma e` possibile che egli faccia ogni cosa meglio di quanto possano fare gli altri uomini. Invece, le opere che richiedono una cognizione tecnica (ta; kata; ta;c tevcnac), se mai sia costretto a porre mano a qualcuna di esse, non le eseguira` in modo eccellente (diafevronta) in rapporto a quell’arte, perche´ non e` possibile che un dilettante (ijdiwvthn) operi meglio di un carpentiere (tevktonoc) in fatto di carpenteria (kata; th;n tektonikhvn) o che colui che non ha esperienza di agricoltura (gewrgivac) risulti piu` esperto dell’agricoltore (gewrgou)= nell’espletare cio` che riguarda la tecnica agricola.490

In queste parole non e` difficile cogliere una suggestiva eco dell’invettiva rivolta dall’autore del nostro scritto contro la pretesa di alcuni di padroneggiare tutte le arti, cosa da Dione considerata impossibile per chiunque, anche per il filosofo, essendo difficile praticare anche una sola di esse in grado eminente. Cio` vale a maggior ragione per le arti applicate. Tanto per Dione quanto per il misterioso Aristone non e` concepibile che un dilettante possa competere con uno specialista nel suo stesso ambito di specializzazione, soprattutto nelle discipline piu` tecniche. Quando poi si tratta di scendere a esempi concreti, Dione rimanda proprio alla carpenteria e all’agricoltura, cioe` a due delle arti esplicitamente menzionate nel De liberando a superbia tra quelle che l’onnisciente pretende di dominare. Egli, infatti, e` tale, non solo come racconta Platone di Ippia di Elide, da dichiarare di aver confezionato personalmente i vestiti che porta indosso, ma anche di essere in grado di costruire una casa o una nave da solo, senza architetto (cwri;c | ajrcitevktonoc). Re-

489 STOB. ecl. II 67, 13 W. (fr. 654 SVF III): movnon dev faci to;n cofo;n kai; mavntin ajgaqo;n ei\nai kai; poihth;n kai; rJhvtora kai; dialektiko;n kai; kritikovn, ouj pavnta dev, dia; to; procdeic= qai e[ti tina; touvtwn kai; qewrhmavtwn tinwn= ajnalhvyewc. 490 DIO CHRYS . or. 71, 5 (fr. 562 SVF III): ejgw; dev fhmi to;n filovcofon ta;c me;n tevcnac oujc oi|ovn te ei\nai pavcac eijdevnai (calepo;n ga;r kai; mivan ajkribw=c ejrgavcacqai), poih=cai d’a]n a{panta bevltion o{ ti a]n tuvch/ poiwn= twn= a[llwn ajnqrwvpwn, kai; ta; kata; ta;c tevcnac, a]n a[ra ajnagkacqh/= pote a{yacqai toiouvtou tinovc, ouj kata; th;n tevcnhn diafevronta – tou=to ga;r oujc oi|onv te, tou= tevktonoc to;n ijdiwvthn a[meinon poih=caiv ti kata; th;n tektonikh;n h] tou= gewrgou= to;n oujk o[nta gewrgivac e[mpeiron ejn tw/= poiein= ti twn= gewrgikwn= ejmpeirovteron fanhnai – ktl. =

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dige da se´ contratti che necessitano di competenza legale. Cura perfino i propri servi, non solo se stesso, e vi prova anche con gli altri. Coltiva e trasporta (futeuvein kai; fortiv|zecqai) prodotti che sono in grado di ottenere con successo solamente i massimi specialisti (twn= te|cnitikwtavtwn).491

Ora, pero`, noi sappiamo che tra gli Stoici fu soprattutto Aristone di Chio a polemizzare contro l’erudizione fine a se stessa di alcuni, come ci attestano due celebri paragoni, nei quali si equiparava coloro che si affaticano intorno ai saperi enciclopedici (ta; ejgkuvklia maqhvmata) e trascurano la filosofia «ai pretendenti di Penelope, i quali, non potendo possedere lei, si accontentavano delle ancelle» o li si assimilava a «Odisseo il quale, sceso nell’Ade, aveva potuto incontrare quasi tutti i defunti e conversare con loro, ma non era riuscito a scorgere la regina in persona».492 In particolare, sulla scia della tradizione cinica a cui si richiamava, egli respingeva la dialettica e la retorica in quanto inutili e dannose. Inutili, perche´ non servono a conseguire la conoscenza del bene e del male e dunque al progresso morale, che e` l’unico obiettivo del saggio; dannose, perche´ coloro che ne fanno uso finiscono per rimanervi invischiati e rischiano cosı` di perdere di vista il vero fine dell’uomo.493 Anche l’Aristone autore del nostro scritto fa di 491 492

18 19-34. STOB. flor. III 4, 109 H. (fr. 350 SVF I): ejk tw=n jArivctwnoc oJmoiwmavtwn. jArivctwn oJ

Cio= c tou;c peri; ta; ejgkuvklia maqhvmata ponoumevnouc, ajmelounta = c de; filocofivac, e[legen oJmoivouc ei\nai toic= mnhcth=rci th=c Phnelovphc, oi} ajpotugcavnontec ejkeivnhc peri; ta;c qerapaivnac ejgivnonto, DIOG. LAERT. II 79 (fr. 349 SVF I). (oJ jArivctippoc) tou;c tw=n ejgkuklivwn paideumavtwn metaccovntac, filocofivac de; ajpoleifqevntac oJmoivouc e[legen ei\nai – to; d’o{moion kai; jArivctwn: to;n ga;r jOducceva katabavnta eijc a{/dou tou;c me;n nekrou;c pavntac ccedo;n eJwrakevnai kai; cuntetuchkevnai, th;n de; bacivliccan aujth;n mh; teqeac= qai. Il primo di tali oJmoiwvmata era attribuito anche ad altri filosofi,

come Gorgia, Aristotele, Aristippo, Bione. A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 74 sg., esclude i primi due come inverosimili restringendo il campo della possibile scelta ai soli Aristippo, Bione e Aristone. Tra gli studiosi vi e` chi ha ipotizzato che esso possa essere stato inventato da Aristippo e che sia poi passato, tramite Bione, ad Aristone. Altri hanno creduto a una primitiva ideazione da parte di Bione, il quale lo avrebbe poi trasmesso ad Aristone. Si vedano A. GIESECKE, op. cit., p. 23; O. HENSE (ed.), op. cit., p. LXXX; A. STAMER, Die ejgkuvklioc paideiva in dem Urteil der griechischen Philosophie, Kaiserslautern, s.e. 1912 («Programm des Gymnasiums Kaiserslautern»), p. 13; E. ELORDUY, Die Sozialphilosophie der Stoa, «Philologus», Suppl. XXVIII 3, 1936, p. 184; J. HUMBERT, Socrate et les petits Socratiques, Paris, PUF 1967, p. 260; K.H. ROLKE, Die bildhaften Vergleiche in den Fragmenten der Stoiker von Zenon bis Panaitios, Hildesheim-New York, Olms 1975, p. 475. Questo paragone e` associato nei principali manoscritti di Stobeo a un altro oJmoivwma, in cui si paragona «la massa degli uomini a Laerte, il quale prendendosi cura di tutto cio` che riguardava i campi trascurava invece se stesso. Cosı` anche costoro, prendendosi moltissima cura delle sostanze, trascurano la loro anima, che e` piena di violente passioni» (STOB. flor. III 4, 110 H. = fr. 350 SVF I). Ma, se si esclude la forma e l’uso di personaggi e motivi tratti dall’Odissea, l’attinenza di questo con gli altri due oJmoiwvmata e` discutibile. 493 Cfr., per la dialettica, STOB . ecl. II 1, 24 W. (fr. 352 SVF I); II 2, 14 W. (fr. 392 SVF I); II 2, 22 W. (fr. 391 SVF I); II 2, 23 W. (fr. 394 SVF I); DIOG. LAE¨RT. VII 161 (fr. 351 SVF I); PLUTARCH. de tuenda san. praec. 133 C (fr. 389 SVF I). Si vedano D.N. SEDLEY, Diodorus Cronus

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passaggio un cenno polemico contro la retorica quando invita il suo destinatario a non ingigantire come fanno i retori (mh; procepirhto[r]e.[uv]e.i[n]) i propri successi passati, ma a ridurli alla loro naturale semplicita` (thc= ijccnovthtoc pefuk[uivac]).494 L’uso del verbo procepirrhtoreuvein, termine non attestato altrove, contrapposto alla naturale secchezza (ijccnovthc) del fatto nudo e crudo, costituisce un’allusione malevola all’abitudine propria dei retori di enfatizzare i fatti per farli apparire piu` gravi e importanti di quello che sono. Come se non bastasse, Aristone di Chio eliminava la fisica e la logica dall’ambito della filosofia, che riduceva alla sola indagine morale, affermando che «la prima e` al di sopra di noi (uJpe;r hJma=c), la seconda non ci riguarda affatto (oujde;n pro;c hJma=c)».495 Tale posizione, che affondava le sue radici nel socratico rifiuto dello studio della natura e nel disprezzo proprio dei Cirenaici e dei Cinici per ogni ricerca che non riguardasse il perfezionamento morale dell’uomo,496 si spiega in Aristone di Chio con la persuasione che l’unica vera scienza necessaria al sapiente per raggiungere il fine e` la filosofia intesa in senso stretto (cioe` la filosofia morale) e che lo studio delle altre discipline non solo non aggiunge nulla, ma lo distoglie da essa.497 Del resto il rifiuto delle arti liberali e la restrizione della filosofia al campo dell’etica erano temi prediletti anche da quella istruzione morale di tipo popolare di cui troviamo un prezioso and Hellenistic Philosophy, «PCPhS», CCIII, n.s., XXIII, 1977, p. 75; A. LONG, Dialectic and the Stoic Sage, in J.M. RIST (ed.), The Stoics cit., p. 105 sg.; A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 63-69. Per il rifiuto della retorica il principale argomento e` costituito dal trattato Contro i retori (Pro;c tou;c rhvtorac) menzionato nel catalogo delle opere di Aristone di Chio riportato da Diogene Laerzio, che pero`, forti dell’atetesi di Panezio e Sosicrate, A. MAYER, op. cit., p. 547 sgg., e H. VON ARNIM, Leben und Werke des Dio von Prusa, Berlin, Weidmann 1898, p. 78 sg., hanno voluto attribuire ad Aristone di Ceo. Ma si veda quanto affermato in senso contrario da A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 48-50; 67-69, e da chi scrive, infra, p. 200; p. 201 e nota 540. 494 Cfr. 11 25-30. 495 DIOG . LAE¨RT. VII 160 (fr. 351 SVF I): tovn te fuciko;n tovpon kai; to;n logiko;n ajnhv/rei, levgwn to;n me;n ei\nai uJpe;r hJma=c, to;n d’oujde;n pro;c hJma=c, movnon de; to;n hjqiko;n ei\nai pro;c hJmac= . Cfr. anche STOB. ecl. II 8, 13 W. (fr. 352 SVF I); EUSEB. praep. evang. XV 62, 7 (fr. 353 SVF I); DIOG. LAE¨RT. VI 103 (fr. 354 SVF I); CIC. Luc. 123-124 (fr. 355 SVF I); SEXT. EMP. adv. math. VII 12 (fr. 356 SVF I); SEN. ep. 89, 13 (fr. 357 SVF I). 496 Per i Cinici, che rigettavano in blocco le arti liberali e, in particolare, l’indagine naturalistica, cfr. DIOG. LAE¨RT. VI 103 (= DIOG. SYNOP. V B 368 SSR, e ANTISTH. V A 161 SSR); VI 2728 (= DIOG. SYNOP. V B 374 SSR); VI 73 (= DIOG. SYNOP. V B 374 SSR); VI 104 (= DIOG. SYNOP. V B 369 SSR). Per Bione di Boristene, F 3-10 K. Sui Cirenaici, DIOG. LAE¨RT. II 71 (= ARISTIPP. IV A 122 SSR); II 79 (= ARISTIPP. IV A 107 SSR); II 92 (= ARISTIPP. IV A 166 SSR); ARISTOT. metaph. 996 A 32-996 B 1 (= ARISTIPP. IV A 170 SSR). 497 Si vedano J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 198 sg.; A.M. IOPPOLO , Aristone di Chio cit., pp. 59; 69-76; 78-90.

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esempio proprio nel De liberando a superbia.498 In esso si puo` cosı` riconoscere un interessante punto di incontro tra filosofia popolare, Cinismo e la posizione filosofica di Aristone di Chio. Che si debba identificare con quest’ultimo filosofo l’Aristone a cui si riferisce Filodemo sembra chiaro anche dal fatto che, oltre a lui, non si conoscono in epoca ellenistica altri pensatori con questo nome che abbiano condotto un’analoga polemica contro il sapere enciclopedico. Tanto meno un atteggiamento cosı` apertamente ostile verso la polymathia si puo` facilmente applicare al caso di un peripatetico come Aristone di Ceo. I discepoli di Aristotele, infatti, erano unanimemente riconosciuti come i campioni della multidisciplinarita` e i principali fautori dell’istruzione enciclopedica. Essi, accanto alla filosofia e sia pure a livello inferiore, accordavano valore scientifico anche alle arti liberali, che coltivarono in ogni epoca spesso ai massimi livelli. Basti ricordare il fondatore della Scuola, da Ateneo (IX 398 E) definito polumaqevctatoc,499 senza dubbio il pensatore di piu` vasti interessi dell’antichita` nonche´ promotore del primo importante tentativo di sistemazione di tutto lo scibile umano, o il suo discepolo Teofrasto, degno continuatore di tale ambizioso progetto e di cui le fonti ci attestano una ricchezza di studi simile per ampiezza a quella del Maestro. Ora, si potrebbe osservare che in eta` ellenistica, specialmente dopo Stratone, gli esponenti del Liceo furono pensatori piuttosto indipendenti, che non necessariamente dovevano mostrare con coerenza l’influsso dei primi due geniali capiscuola. Ma e` sufficiente ricordare in quante differenti direzioni si svilupparono in quest’epoca le indagini filosofiche, scientifiche e letterarie dei filosofi peripatetici per rendersi conto che non e` agevole accostarvi il feroce ritratto dell’onnisciente delineato dal nostro Aristone e l’invettiva da lui sferrata contro il sapere enciclopedico. 5.6. Il riferimento alla poetica e il valore dell’esercizio Nel passo riportato all’inizio del capitolo precedente in cui l’ignoto Aristone polemizza contro le pretese dell’onnisciente, si afferma tra l’altro che questi «non comprende come molte cose abbiano bisogno di esercizio (tribh=c), anche se procedono dallo stesso metodo (ajpo; th=c auj|th=c ... meqovdou), proprio come gli elementi della poetica (ta; th=c poihtikh=c Si veda A. OLTRAMARE, op. cit., p. 43. Lo stesso superlativo si ritrova in de lib. a sup. 20 6-8 nel passo riportato all’inizio del capitolo, dove si fa riferimento a «colui che pure a giusto titolo e` considerato eruditissimo (polumaqevctaton)». Cfr. anche Comm. ad loc. 498

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mevrh)».500 In tale inaspettato riferimento alla poetica e` stata recentemente

ravvisata un’interessante analogia con le teorie poetiche dello Stoico anonimo parafrasato e confutato per piu` di otto colonne da Filodemo nel quinto libro del trattato Sui Poemi.501 Sull’identificazione di tale personaggio con Aristone di Chio si era registrato, tranne isolate eccezioni, un consenso pressoche´ universale degli studiosi dopo che nel 1923 Christian Jensen, che ne curo` l’editio princeps, credette di aver individuato, a col. 16, 30 R., il nome proprio Ariv j ct]wn.502 Ma la nuova edizione del libro realizzata nel 1993 da Cecilia Mangoni ha riaperto la discussione sull’identita` dell’Autore, determinando tra gli interpreti due differenti posizioni: quella di coloro che non ritengono possibile tale identificazione e quella maggioritaria di chi ha creduto di riconoscere nel libro tracce importanti di dottrine riconducibili ad Aristone di Chio.503 In effetti, il passo in cui Filodemo introduce le teorie dell’Autore stoico (col. 16, 28-col. 17, 5 R.) e` funestato da alcune lacune che non permettono di afferrarne compiutamente il senso. Quel che sembra certo e` che l’integrazione Ariv j ct]wn di Jensen non e` compatibile con le tracce del papiro e con lo spazio disponibile dopo Ctwi>|[kwn= , oltre ad essere grammaticalmente improbabile. 20 12-15. Cfr. PHILOD. de poe¨m. V (PHerc. 1425), col. 16, 28-col. 24, 22 M. Si veda A.M. IOPPOLO, La poetica dello Stoico cit., p. 147 sg. 502 Si veda CH . JENSEN (Hrsg.), Philodemos, U ¨ber die Gedichte, fu¨nftes Buch, Berlin, Weidmann 1923. Dello stesso parere si mostrarono PH. DE LACY, Stoic Views on Poetry, «AJPh», LXIX, 1948, p. 252; M. POHLENZ, op. cit., I, pp. 97 e 326; G.M.A. GRUBE, The Greek and Roman Critics, London, Methuen 1965, p. 136; D.M. SCHENKEVELD, OiJ kritikoiv in Philodemus, «Mnemosyne», XXI, 1968, p. 177 nota 2; K.H. ROLKE, art. cit., p. 158 nota 40; F. SBORDONE (ed.), Filodhvmou Peri; poihmavtwn Tractatus tres, Napoli, Giannini 1976 («Ricerche sui Papiri Ercolanesi», 2); A. LANDI, rec. F. SBORDONE (ed.), op. cit., «Maia», XXVIII, 1976, pp. 284-286; A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 256-278; E. ASMIS, The Poetic Theory of the ‘Stoic’ Aristo, «Apeiron», XXIII, 1990, pp. 147-201 e, in particolare, p. 150 nota 8. Facevano eccezione ¨ber die Gedichte cit., «PhW», soltanto R. PHILIPPSON, rec. CH. JENSEN (Hrsg.), Philodemos, U XLIV, 1924, col. 420, e M. ISNARDI PARENTE, Una poetica di incerto autore in Filodemo, in Filologia e forme letterarie. Studi offerti a F. Della Corte, V, Urbino, Univ. degli Studi 1987, p. 82 sg., che ne riprendeva in parte gli argomenti. 503 Della prima opinione sono la stessa C. MANGONI (ed.), Filodemo. Il quinto libro della Poetica (PHerc. 1425 e 1538). Edizione, traduzione e commento, Napoli, Bibliopolis 1993 («La Scuola di Epicuro», 14), p. 65, e M. WIGODSKY, The Alleged Impossibility of Philosophical Poetry, in D. OBBINK (ed.), Philodemus and Poetry. Poetic Theory and Practice in Lucretius, Philodemus, and Horace, New York-Oxford, OUP 1995, p. 58 nota 1. Adducono pesanti argomenti a favore di Aristone di Chio J. PORTER, The Philosophy of Aristo of Chios, in R.B. BRANHAMM.O. GOULET-CAZE´ (eds.), The Cynics. The Cynic Movement in the Antiquity and its Legacy, Berkeley-Los Angeles-London, Univ. of California 1996, pp. 156-189 e, da ultimo, A.M. IOPPOLO, La poetica dello Stoico cit., pp. 143-149. Piu` incerta si mostra E. ASMIS, Philodemus on Censorship, Moral Utility, and Formalism in Poetry, in D. OBBINK (ed.), Philodemus and Poetry cit., p. 149; p. 151 nota 18, dove ella designa genericamente l’Autore con la sigla ‘S.’ (= ‘Stoic’). 500

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Tuttavia l’espressione oJ toivnun ajn|te* covm. [e]n[o]c twn= Ctwi>|[kwn= do]x.wn= , «colui che si attiene alla dottrine stoiche» (col. 16, 28-30 R.), che introduce il passo e che emerge con relativa sicurezza dalle ultime ricostruzioni testuali,504 unita al rifiuto della moderazione (metrivwc zhn= ), ha recentemente confermato l’ipotesi dello stoico eterodosso Aristone di Chio. E cio` soprattutto ove la si confronti con l’altra espressione oiJ pavnu Ctwi>koiv, «gli Stoici famosi», con cui nello stesso libro Filodemo si riferisce agli Stoici ortodossi, le cui teorie poetiche egli distingue da quelle dell’anonimo Autore.505 Quelli, infatti, ponevano il criterio per giudicare la buona qualita` di un poema in un pensiero saggio (cofh; diavnoia), cioe` nel solo contenuto indipendentemente dalla forma.506 Questi, invece, lo collocava contemporaneamente in un pensiero nobile (diavnoia cpoudaiva) e in una composizione fine (cuvnqecic ajcteiva), che consiste principalmente nella disposizione artistica delle parole atta a produrre un bel suono, la cosiddetta eufonia. Secondo l’Autore, affinche´ un poema possa essere giudicato pregevole in senso assoluto (kaqavpax cpoudaion = ) e` necessario che entrambe le componenti siano buone. E` invece sufficiente che una di esse sia cattiva perche´ il poema nel suo complesso sia giudicato del tutto scadente (kaqavpax fau=lon). Se invece le due componenti sono entrambe ne´ pregevoli ne´ scadenti o una di esse e` 504 La piu ` recente ricostruzione testuale del passo e` quella proposta da chi scrive, sulla base di una nuova autopsia del papiro, in Appendice ad A.M. IOPPOLO, La poetica dello Stoico cit., p. 150, e che riporto di seguito: PHILOD. de poe¨m V (PHerc. 1425), col 16, 28-col. 17, 5 RANOCCHIA: oJ toivnun ajn|tecovm.[e]n[o]c twn= Ctwi>|[kw=n do]x.w=n, o.{ti me;n ej[p’| a[]llou[c] eu\ to; metrivwc. | p[rov]cw[pa * z]hn= ajnennohv|t.wn. [uJp]erochn; fhcivn, p[er]i; | [d]e; [twn= kata;] ta; pohvmat[a] || lovgwn, o.{t[i] d.[i]a.qevthc | * * * ** [ceivrictovc ej]c. ti kai; pe.r.[i]|pe[t]h;c kai; p[rov]ceiroc kai; | ajpivectoc k.[ai;] yeudolov|goc oujk a]n aj[r]nhcaivmh[n: «Quanto, dunque, a colui che si attiene alle dottrine stoiche, mentre fa bene ad affermare contro altri che il fatto che alcuni vivano avendo come criterio la moderazione e` un’enorme insensatezza, per quel che riguarda le teorie poetiche non potrei negare che egli sia un pessimo sistematore, contraddittorio, superficiale, irrefrenabile, menzognero». E` probabile che Filodemo avesse gia` citato in precedenza il nome proprio dell’Autore, come farebbe pensare la congiunzione conclusiva toivnun. 505 Cfr. PHerc. 403 (che fa probabilmente parte dello stesso volume di PHerc. 1425 e dunque del medesimo quinto libro), fr. 4 ANGELI: eij. | t.inevc eijcin twn= new|t.evrwn, wJc ejnivouc h[kou|c. a kai; twn= pavnu Ctw./[i>]kwn, = oiJ fhvcantec pov|[h]ma kalo;n ei\nai to; | [c]ofh;n diavnoian peri|[evc]o[n] ktl.: «se e` vero che vi sono dei moderni, come ho sentito che vi e` anche qualcuno tra gli Stoici famosi, i quali sostenendo che e` bella poesia quella che contiene un pensiero saggio...». Il testo critico e` quello ristabilito da A. ANGELI (ed.), Filodemo, Agli amici di scuola (PHerc. 1005), Napoli, Bibliopolis 1988 («La Scuola di Epicuro», 7), p. 94 sg. Intendo l’espressione oiJ pavnu Ctwi>koiv, «gli Stoici famosi», come fa A.M. IOPPOLO, La poetica dello Stoico cit., p. 132 e nota 9, nel senso di «Stoici ortodossi», perche´ ritengo che essa metta ben in evidenza la diversa posizione filosofica di Zenone, Cleante e Crisippo da quella di «colui che si attiene alle dottrine stoiche», cioe` di colui che pur essendo stoico, non e` considerato tale sino in fondo. Si veda anche J. PORTER, art. cit., p. 163. 506 Cfr. nota precedente.

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pregevole e l’altra e` ne´ pregevole ne´ scadente, il poema risulta essere ne´ pregevole ne´ scadente (ou[te cpoudaion = ou[te fau=lon). Il giudizio valutativo sulle singole parti (katav ti), pertanto, non ha alcun valore ai fini del giudizio complessivo sul poema. E` contro tale criterio e la sua complessa formulazione che probabilmente si scaglia Filodemo, per quello che la sua non sempre perspicua esposizione, talvolta falsante e capziosa, consente di afferrare.507 In ogni caso, la divergenza dell’Autore dagli Stoici ortodossi unita all’espressione «colui che si attiene alle dottrine stoiche» con cui lo si designa e che precisa l’adesione allo Stoicismo e, allo stesso tempo, il parziale distanziamento da esso, sembra identificare con precisione la posizione filosofica dello stoico eterodosso Aristone di Chio. Egli, infatti, fedele all’originario pensiero di Zenone, decisamente piu` ascetizzante e permeato di Cinismo, quando questo in seguito agli attacchi delle scuole rivali, introdusse profonde modificazioni nel suo sistema, decise polemicamente di allontanarsi dalla scuola per fondarne una propria e poter cosı` difendere la versione piu` antica del pensiero zenoniano, che egli radicalizzo` fino alle estreme conseguenze. Al contempo, dopo la morte del fondatore, Cleante si fece portavoce e continuatore dello Zenone piu` maturo e per diversi decenni circolarono due interpretazioni diverse e alternative della sua filosofia. Piu` tardi Crisippo, pretendendo di detenere l’autentica interpretazione del pensiero zenoniano, fisso` definitivamente l’‘ortodossia’ stoica accusando Aristone di averne stravolto il messaggio e tacciandolo cosı` di eterodossia. Per questo motivo dopo Crisippo, a motivo della sua grande autorita`, si diffuse nell’antichita` ed e` persistita fino a pochi decenni orsono la vulgata di uno Stoicismo ortodosso che da Zenone attraverso Cleante sarebbe giunto sostanzialmente immutato fino a Crisippo e dal quale andrebbe nettamente distinto uno Stoicismo eterodosso, rappresentato principalmente da Aristone di Chio. Torniamo ora al passo del De liberando a superbia da cui siamo partiti. Come sappiamo, il suo autore vi affermava, in polemica con quanti pretendono di avere competenza in ogni materia, che molte arti hanno bisogno di essere esercitate (polla; deitai = tribh=c) prima di potersene dire padroni, anche se ad esse si applica un medesimo metodo. E` il caso della poetica e delle parti o elementi che la costituiscono (mevrh), i quali seguono un metodo di 507 Si veda A.M. IOPPOLO , La poetica dello Stoico cit., pp. 134-142, la quale corregge in alcuni punti l’interpretazione di J. PORTER, art. cit., pp. 162-167, pur mostrandosi d’accordo sulle conclusioni.

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apprendimento che e` anch’esso fondato sull’esercizio.508 Ebbene, anche per l’Autore parafrasato nel quinto libro De poe¨matis gli elementi della poetica, vale a dire le componenti necessarie in un poema perche´ possa essere giudicato pregevole (principalmente diavnoia e cuvnqecic), necessitano di essere continuamente esercitate, poiche´ l’arte poetica risulta dalla fusione armonica dei suoi elementi. In particolare, «la buona composizione stilistica non e` comprensibile mediante la ragione, bensı` attraverso l’esercizio dell’udito (ejk th[= c k]a|ta; th;n ajkoh;n tribh[= c)». Giudice di essa e dell’eufonia che ne e` il principale ingrediente puo` essere soltanto un orecchio esercitato a percepire l’armonia dei suoni e delle parole.509 Tale apprezzamento per l’elemento fonico e musicale egli condivideva con i cosiddetti critici (kritikoiv), con i quali Filodemo polemizza aspramente nel corso del libro e alla cui posizione cerca tendenziosamente di ridurre il pensiero dell’Autore.510 Ora, noi sappiamo che, sebbene non sia esplicitamente attestato un interesse di Aristone di Chio per la poetica, tuttavia l’esercizio aveva una grande importanza nella sua filosofia. Secondo questo pensatore la virtu` si acquista non solo attraverso la continua meditazione dei principi generali della filosofia (decreta philosophiae), tra cui innanzitutto la definizione del sommo bene (constitutio summi boni), ma anche mediante un costante esercizio personale, cosı` come l’arciere si sforza di migliorare la mira e di cogliere con vieppiu` precisione il bersaglio tramite l’esercizio e la disciplina (ex disciplina et exercitatione).511 «La filosofia infatti si divide in queste due 508 Si veda A.M. IOPPOLO , La poetica dello Stoico cit., p. 148: «Aristone respinge la polumaqiva in quanto un corretto apprendimento delle tevcnai si fonda sull’esercizio tecnico (tribhv) che ha una chiara applicazione nell’arte poetica. Con il termine tribhv Aristone si riferisce dunque all’esercizio degli specialisti, che segue un metodo. Anche gli elementi della poetica hanno un metodo con cui vengono appresi, che si fonda sull’esercizio». 509 Cfr. PHILOD. de poe ¨m. V (PHerc. 1425), col. 23, 21-33 M.: kata|gelavctwc d’ejp[it]ivqeta[i] | kai; th;n cpoudaian = cuvn|qecin oujk ei\nai lovgwi ka|talepthvn, ajll’ejk th=[c k]a|ta; th;n ajkoh;n tribh=[c. a[]|qliom me;n ga;r k[ai; to; t]h;[n] | ejpi[f]ainomevnhn thi= | cunqevcei twn= levxewn | eujfwnivan eijcavgein kai; | tauvthc ajnatiqevnai th;n | [kriv]cin thi= tribhi= th=c aj|[koh=]c. 510 Si veda A.M. IOPPOLO , La poetica dello Stoico cit., p. 140 sg.; p. 147 sg. Sull’identita ` di tali kritikoiv si e` piu` volte discusso. E` probabile, come ritiene R. JANKO (ed.), op. cit., pp. 120129, che il termine vada inteso in senso generico, cioe` che esso non indichi una scuola specifica, ma la totalita` dei critici letterari come categoria di studiosi. Tra di essi vanno collocati quei critici eufonisti che Filodemo attacca, i quali sostenevano che il suono e` l’unico criterio per stabilire la qualita` di un poema. 511 Cfr. SEN . ep. 94, 3 (= ARISTO CHIUS fr. 358 SVF I, dove il passo e ` riportato solo in parte): plurimum ait (sc. Ariston Stoicus) proficere ipsa decreta philosophiae constitutionemque summi boni; quam qui bene intellexit ac didicit, quid in quaque re faciendum sit sibi ipse praecipit. Quemadmodum qui iaculari discit destinatum locum captat et manum format ad derigenda quae mittit, cum hanc vim ex disciplina et exercitatione percepit, quocumque vult illa utitur (didicit enim non hoc aut illud ferire sed quodcumque voluerit), sic qui se ad totam vitam instruxit

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parti: la scienza e la disposizione dell’animo (habitus animi). Colui che ha imparato e si e` istruito sulle cose da fare e da evitare non e` ancora sapiente, se il suo animo non si e` trasfigurato in quelle cose che ha imparato».512 L’educazione pertanto non puo` essere soltanto teorica o solamente pratica, ma e` necessaria sia la conoscenza speculativa (la scienza dei beni e dei mali) che la costante applicazione della dottrina mediante l’ascesi personale. In un’altra importante testimonianza egli sosteneva che «contro tutto il tetracordo, piacere, dolore, timore, desiderio, si richiede molto esercizio e molta lotta (pollhc= dei = thc= ajckhvcewc kai; mavchc), perche´ sono questi, proprio questi sentimenti che penetrano fino alle viscere e sconvolgono il cuore degli uomini».513 Anche qui, come altrove, la posizione di Aristone di Chio si rivela storicamente vicina a quella dei Cinici.514 L’esercizio (a[ckhcic kai; mavch), dunque, aveva un ruolo particolarmente importante nel suo insegnamento. Ma anche prescindendo dalla specifica declinazione morale di tale concetto da parte dello Stoico eterodosso, il rifiuto della polymathia e il contestuale principio che ogni arte e scienza e` basata su un metodo rigoroso che ha bisogno di essere continuamente esercitato, accomunano l’Aristone del De liberando a superbia, l’Autore della poetica e Aristone di Chio.515 6. ARISTONE

IN

FILODEMO

Si propone, a conclusione di questa parte del lavoro, uno studio delle occorrenze del nome Aristone nel Corpus Philodemeum. Allo stato attuale non desiderat particulatim admoneri, doctus in totum, non enim quomodo cum uxore aut cum filio viveret, sed quomodo bene viveret: in hoc est et quomodo cum uxore et liberis vivat. 512 SEN . ep. 94, 48 (deest in SVF): ‘‘Philosophia’’ inquit ‘‘dividitur in haec, scientiam et habitum animi. Nam qui didicit et facienda ac vitanda percepit, nondum sapiens est, nisi in ea, quae didicit, animus eius transfiguratus est’’. 513 CLEM . ALEX . strom. II 20, 108 (= fr. 370 SVF I, riportato solo parzialmente): o{qen wJc e[legen jArivctwn ‘‘pro;c o{lon to; tetravcordon, hJdonhvn, luvphn, fovbon, ejpiqumivan, pollh=c dei = thc= ajckhvcewc kai; mavchc, ‘ou|toi gavr, ou|toi kai; dia; cplavgcnwn e[cw cwrouc= i kai; kukwc= in ajnqrwvpwn kevar’ ’’. Cfr. anche STOB. flor. IV 52 A, 18 H. (fr. 399 SVF I), e A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 91-96; 115-118; 244-248. Anche i due versi che concludono la citazione vanno molto probabilmente attribuiti ad Aristone di Chio. Cfr. ivi, p. 247 e nota 14. 514 Cfr. DIOG . LAE¨RT. VI 11 (= ANTISTH . V A 134 SSR); VI 71, e R. HO ¨ ISTAD , Cynic Hero and Cynic King. Studies in the Cynic Conception of Man, Diss. Uppsala, s.e. 1948, pp. 38-46. 515 Si veda A.M. IOPPOLO , La poetica dello Stoico cit., p. 148: «il rifiuto della cultura enciclopedica a favore di un sapere fondato sull’apprendimento metodico, che prende ad esempio l’arte poetica, suggerisce una indubbia parentela fra l’Aristone del Peri; tou= koufivzein uJperhfanivac, Aristone di Chio e l’Autore della poetica».

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PARTE SECONDA

della discussione si menzionerebbero in esso ben dieci differenti personaggi con tale nome. Di essi, sei erano filosofi accademici e Filodemo si limita a citarne il nome in una lista di omonimi conservata nella Storia dell’Accademia.516 Nella medesima opera si fa anche riferimento ad Aristone di Alessandria, filosofo accademico discepolo di Antioco e di Aristo di Ascalona, di cui si dice che in seguito abbandono` l’Accademia per entrare nel Liceo.517 Vi sono poi in varie altre opere filodemee ulteriori riferimenti a filosofi con tale nome, di cui due sicuramente attribuibili allo stoico Aristone di Chio e uno con ogni verosimiglianza. Si tratta di diversi passaggi della Storia della Stoa, del De pietate e di un libro della Retorica (PHerc. 1004). Nella prima Filodemo dedicava una vasta sezione (col. 33, 4-col. 37, 3 D.) al filosofo stoico, citato con tanto di etnico e patronimico (Ariv j ctwn Miltiavdou Cioc = ), e ai suoi discepoli a partire da Apollonio di Tiro e vi era definito come «colui che dichiaro` che fine e` l’indifferenza (ajdiaforivan.), ma negli altri punti credette di seguire il maestro».518 Inoltre per la sua eloquenza veniva paragonato all’Atena omerica perche´, come quella, «con le parole spirava forza e ardore».519 In tale espressione che, come e` stato giustamente rimarcato, «rientra in un filone favorevole al filosofo», non si puo` non rilevare una certa ammirazione da parte di Filodemo.520 All’inizio del De pietate si afferma che un certo Aristone, menzionato senza l’etnico, attacco` gli Epicurei e in particolare Metrodoro per la concezione che essi avevano della divinita` e che Polieno respinse le accuse in uno scritto polemico Contro Aristone.521 Che si tratti proprio del filosofo stoico 516 Cfr. PHILOD . Acad. hist. col. 29, 4; col. 35, 8-17; col. O , 27; col. O , 28; col. N , 14 D., e T. DORANDI, Testimonia Herculanensia, in CPF I 1*, pp. 22-24; ID., Ariston, in DPhA, I, nn. 386389; 394-395, p. 395; p. 397 sg. 517 Cfr. PHILOD. Acad. hist. col. 35, 2-17 D., e F. CAUJOLLE-ZASLAWSKY -R. GOULET , Ariston d’Alexandrie, in DPhA, I, n. 393, p. 396 sg. 518 PHILOD. Stoic. hist. col. 10, 8-13 D. (fr. 39 SVF I): jArivctwn Miltiavdou | Cioc, oJ th;n = v enoc tw=i | [kaqh]g.hth=[i. ajdiaforivan. | tevloc ajpofhnavmenoc, | [ej]n. de; toic= a[lloic ajko|[louqe]in= oijom 519 Cfr. PHILOD. Stoic. hist. col. 35, 1-6 D. (fr. 336 SVF I): cunenevpnei meta; | tw n lovgwn . = mevnoc | ti ka[i; qu]movn, w{cper | fhci;n oJ [p]oihth;c th;[n] | jAqhnan= . 520 Si veda T. DORANDI (ed.), Filodemo, Storia dei Filosofi. La Stoa ` da Zenone a Panezio (PHerc. 1018), Leiden-New York-Ko¨ln, Brill 1994 («Philosophia Antiqua», 60), p. 18 sg. 521 Cfr. PHILOD. de piet. col. 1, 1-14 O. (= METROD. fr. 8 K. = POLYAEN . fr. 30 T.): . . . . . Aj ]rivctw[n de; | kai; to;]n Mhtr[ovdw|ron oj]neidivzei [. . . |. . . . ]yuc[. . ]thn e[. . |. . . . . . ]an[. . ] * mei[. . . |. . . . . . . . . ]oet[. . qe|ou;c] a[llouc ei\nai ouj|de; ou}c uJpolambavnou|cin: touvtoic de; kai; | P[u]oluvainoc ejn toic= | Pro;c to;n jArivctwn[a] | mavcetai [. . . . . . . |. ]ei de; peri; pollwn= | eJrmavtwn. A. KO¨RTE (ed.), * Metrodori Epicurei fragmenta, «JCPh», Suppl. XVII 2, Lipsiae, Teubner 1890, p. 546 sg., sulla base della sua restituzione del testo di PHerc. 1111, fr. 44, 10, ipotizzo` che anche Metrodoro avesse scritto un’opera Pro;c jAr[ivctwna per replicare alle accuse del filosofo stoico. Tuttavia l’in-

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e non di qualche suo omonimo e` confermato da ragioni di ordine cronologico, poiche´ il suo floruit, collocabile nella prima meta` del III sec. a.C. si adatta abbastanza bene a quello di Metrodoro (vissuto tra il 331/30 e il 278/77 a.C.) e dei piu` giovani contemporanei di Epicuro 522 e soprattutto perche´ l’Aristone con cui Polieno, morto dopo il 290/89 e prima del 271/ 70 a.C., ebbe a polemizzare nel suo libro non poteva essere altri che Aristone di Chio, gli altri essendo vissuti tutti in epoche decisamente posteriori. Aristone di Ceo, nato intorno al 250 e divenuto scolarca nel 226/25 o nel 225/24, e il suo allievo di Coo sono per questo motivo fuori discussione.523 Ancor di piu` lo e` Aristone il Giovane, discepolo del peripatetico Critolao, vissuto dopo la meta` del II sec. a.C. Lo stato precario del testo, funestato da ampie lacune, non ci consente di afferrare il senso preciso di tale polemica, ma e` probabile che Aristone di Chio criticasse Metrodoro per l’antropomorfismo divino tipico degli Epicurei e, in particolare, per la convinzione che anch’essi avessero un’anima simile a quella umana, principio vitale e sede della sensazione.524 Sappiamo infatti da una testimonianza del De natura deorum di Cicerone che il discepolo di Zenone riteneva che non si potesse comprendere la forma della divinita` e che gli de`i fossero privi di sensazione, al punto che si chiedeva perfino se Dio fosse o meno un essere animato.525 Ma quel che e` piu` significativo e` che la testimonianza in questione proveniva proprio dalla sezione dossografica del De pietate, la quale, come e` stato dimostrato da Dirk Obbink, rappresentava una delle principali fonti del trattato ciceroniano. Cio` significa che molto probabilmente il filosofo stoico, dopo che i suoi addebiti erano stati respinti all’inizio dell’opera, era nuovamente attaccato in una porzione della sezione dossografica della medesima opera a noi non pervenuta.526 In ogni caso, vista l’apparente riluttanza dei kathegetegrazione non e` sicura e in seguito W. CRO¨NERT, Kolotes und Menedemos cit., p. 24 nota 136, ha preferito integrare Pro;c jAr[ictotevlh, supplemento che anche D. OBBINK (ed.), Philodemus, On Piety cit., p. 284, preferisce per motivi di spazio, ancorche´ l’unico testimone rimasto per questo testo sia il disegno napoletano. Ma sono possibili anche altre integrazioni. 522 Cfr. ivi, p. 283. 523 Si vedano R. PHILIPPSON , Zu Philodems cit., p. 398; A.M. IOPPOLO , Aristone di Chio cit., p. 315 sg. e nota 74. Sulla cronologia di Polieno vedasi D.N. SEDLEY, Epicurus and the Mathematicians of Cyzicus, «CErc», VI, 1976, p. 47 nota 84. 524 Si veda D. OBBINK (ed.), Philodemus, On Piety cit., p. 284 sg. 525 Cfr. CIC . de nat. deor. I 37 (fr. 378 SVF I): cuius (sc. Zenonis) discipuli Aristonis non minus magno in errore sententia est, qui neque formam dei intellegi posse censeat neque in deis sensum esse dicat dubitetque omnino, deus animans necne sit. Cfr. anche MINUC. FEL. Octav. XIX 13 (deest in SVF), e A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., pp. 249-252. 526 La parte non conservata sarebbe collocabile nella colonna perduta immediatamente pre-

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mones ad attaccare i propri avversari per nome, l’esistenza di uno scritto di Polieno intitolato ad Aristone di Chio risulta assai sintomatico di quanto aspra dovette essere la polemica intercorsa e di quanto grande dovesse essere il prestigio del filosofo stoico negli anni che precedettero la morte di Polieno, cioe` gia` nei primi decenni del III sec. a.C., se questi avvertı` l’esigenza di ribattere con uno scritto ad personam alle tesi di quello.527 Tale conclusione, del resto, e` confermata dalla gia` menzionata testimonianza di Eratostene, il quale considerava la filosofia di Aristone, insieme a quella di Arcesilao, la piu` importante del tempo.528 Quanto a PHerc. 1004, corrispondente forse al nono libro della Retorica e in cui, secondo il tema caro a Filodemo, si trattava ampiamente del rapporto tra retorica e filosofia, una larga parte era destinata alla discussione della posizione stoica ostile a tale disciplina.529 In particolare, ampio spazio era dedicato all’esposizione delle teorie antiretoriche di Diogene di Babilonia e a lui va probabilmente riferita tutta la sezione compresa tra fr. 12 e col. 71, vale a dire meno di due terzi delle colonne conservate. In essa il suo nome e` menzionato tre volte (col. 47, 5, p. 346 S. I; col. 49, 34, p. 347 S. I; col. 64, 13-14, p. 356 S. I) e a lui si riferisce molto probabilmente Filodemo tutte le volte che impiega un verbum dicendi alla terza persona singolare come «disse», «affermava», «sostiene» ecc., non senza aggiungere spesso brevi commenti malevoli.530 Almeno in un caso la critica cedente a col. 1 di PHerc. 1428, papiro che faceva parte del De pietate. Si vedano A. HENRICHS, Die Kritik der stoischen Theologie im PHerc. 1428, «CErc», IV, 1974, pp. 5-32; ID., Iuppiter Mulierum Amator in Papyro Herculanensi, «ZPE», XV, 1974, p. 95; D. OBBINK (ed.), Philodemus, On Piety cit., p. 284. 527 Cfr. ivi, p. 285. 528 Cfr. supra, p. 69. 529 Il numero del libro non e ` identificabile con sicurezza. S. SUDHAUS (ed.), Philodemi Volumina Rhetorica, Lipsiae, Teubner 1892, I, p. LI, che inizialmente propendeva per il terzo (Ipse eum aliquamdiu tertium esse putabam), in seguito preferı` riferirsi ad esso come all’ultimo dei libri retorici di Filodemo. H.M. HUBBELL, The Rhetorica of Philodemus, New Haven, s.e. 1920 («Transactions of the Connecticut Academy of Arts and Sciences», 23), p. 332, invece, pensava al settimo. Piu` recentemente T. DORANDI, Per una ricomposizione dello scritto di Filodemo sulla Retorica, «ZPE», LXXXII, 1990, p. 71 sg.; p. 85, ha proposto di identificarlo con il sesto. Infine, F. LONGO AURICCHIO, New Elements for the Reconstruction of Philodemus’ Rhetoric, in B. KRAMER ET ALII, Akten des 21. Internationalen Papyrologenkongresses, Berlin 13-19 August 1995, Stuttgart, Teubner 1997, II, pp. 631-635, in seguito alla lettura di uno iota nella subscriptio di PHerc. 1669, ha concluso, pur conservando l’ordine dei libri stabilito da Dorandi, che PHerc. 1004 conteneva il nono libro del trattato. 530 Che si tratti di Diogene di Babilonia e non di qualche suo omonimo e ` ricavabile, oltre che dal contesto, dalle dottrine che gli sono attribuite, come quella di chiara matrice stoica secondo la quale «solo il saggio sa contraddire (aj.|po[fa]tikovn)». Cfr. PHILOD. rhet. IX, col. 47, 7-9, p. 346 S. I.

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e` estesa a tutti gli Stoici (col. 65, 2, p. 356 S. I). Come tali, ampie parti di tale sezione sono state inserite da Hans von Arnim tra le testimonianze di Diogene di Babilonia. E` esattamente all’inizio e alla fine della sezione che si collocano anche i due riferimenti a un non meglio specificato Aristone (anche qui senza etnico), e cioe` rispettivamente a fr. 12, 4-13 (pp. 328-329 S. I), e a col. 71, 2-16 (p. 360 S. I). Nel primo di essi si afferma: ... generalmente [Diogene] sembra aver parlato della retorica in modo assai insufficiente (ejpi|[de]evcteron) e trattando della filosofia si affido` ad alcuni trattati aristo531 nei ([ti]c. in Arictw j . neiv|[oic uJpom]nhvmacin), ai quali da una parte e`...

Filodemo sta parlando del rapporto tra retorica e filosofia e attesta che a tale proposito Diogene, che e` quasi sicuramente il soggetto della frase, attinse alle teorie filosofiche contenute in certi uJpomnhvmata di Aristone. Nel secondo passaggio il filosofo di Gadara asserisce: Ma su quel che riguarda costui (sc. Diogene) ci siamo spinti piu` in la di cio` che era forse conveniente, anche se si dilunga (memhvkun|t[ai]) molto il libro di Aristone (to; biblivon t.ajrivctw|noc). Riguardo a costoro, dunque, per quel che e` ovviamente opportuno, vaglieremo le considerazioni sin qui fatte segnalando innanzitutto che e` intollerabile anche in essi il fatto che non siano favorevoli ai retori (mh; filorhvt[orac giv]|necqa[i)...532

Come si puo` notare, quest’ultima testimonianza si riallaccia alla precedente e proprio per questa ragione acquista particolare rilievo. Innanzitutto perche´ l’espressione di Filodemo, che si accorge di essersi eccessivamente dilungato nel riferire le opinioni del suo autore, ci offre un’ulteriore conferma che da fr. 12 fino alla col. 71 (per quasi settanta colonne!) egli ha riportato le tesi di Diogene. Ma come nell’introdurre l’ampio estratto aveva voluto precisare che per la parte filosofica ([p]e[ri; t]hc= filocofivac) Diogene 531 Fr. 12, 4-13 CAPPELLUZZO , pp. 328-329 S. I (= ARISTO IUN . fr. 3 W.): . . . . . . ticin . . . . wc | . . . . . . . i kaqovlou d’e[ij|pei]= n f[aiv]netai t.o;n peri; | [th=c rJht]o.rikh=c l.ovg[o]n ejpi|[de]evcteron p.e[po]ih=cqai, | [p]e[ri; t]h=c filocofivac | [d]ev [ti]c. in jArictw.neiv|[oic uJpom]nhvmacin ejpiv|[cteue]n, oi|c e[cti me;n | . . . . ta; polla; d’aujtwn= ktl. Le integrazioni [thc= (v. 7) ed ejpiv|[cteue]n (vv. 11-12) sono di Siegfried Sudhaus e sono state da me reinserite nel testo in quanto perfettamente compatibili con lo spazio disponibile. 532 Col. 71, 2-16, p. 360 S. I (= ARISTO IUN. fr. 4 W.): ajlla; t[wn] p[eri;] | touvtou plevon h] . = proc[h=]|kon i[cwc h\n ajpelauv|camen, eij kai; memhvkun|t[ai] to; biblivon t.ajrivctw|noc. ej[pi;] to[ivn]un [t]ouvto.[ic], | kaqovcon d.h.v [p]ote cum|fevronta, t[a; tw=n ejx]eta|cqevntwn ajpoqewrhv|comen – provteron ejpi|chmainov.menoi t[o;] m.h|de; touvtoic ejnh[nevcqai] | tou= mh; filorhvt[orac giv]|necqa[i .]agaip . . . . . . Ho preferito qui seguire il testo stabilito da Sudhaus, anziche´ quello di Cappelluzzo, perche´ esso consente di comprendere meglio il filo logico del discorso.

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attingeva alle idee esposte da un ignoto Aristone in certi uJpomnhvmata, anche qui egli torna a riferirsi al «libro di Aristone (to; biblivon t.ajrivctw|noc)»,533 precisando che esso si dilungava molto. Ma che significato puo` avere l’espressione «anche se si dilunga molto il libro di Aristone» aggiunta immediatamente dopo che Filodemo ha concluso l’esposizione delle teorie di Diogene di Babilonia? In altre parole, che senso ha il riferimento a tale Aristone se fin qui il filosofo epicureo non ha fatto altro che riportare il pensiero di Diogene? Siegfried Sudhaus, primo editore critico delle opere retoriche filodemee, riteneva che in realta` tutta la sezione da fr. 12 a col. 71 andasse attribuita in blocco al misterioso Aristone, che egli identificava con Aristone di Chio e del quale Filodemo riferirebbe diffusamente il pensiero, concludendo che probabilmente «gran parte del libro fu scritta contro lo stoico Aristone».534 Ma, come abbiamo visto, cio` non sembrerebbe possibile, poiche´ rimane un fatto assodato che da fr. 12 a col. 71 Filodemo si riferisse a Diogene di Babilonia. Allo stesso tempo, pero`, la proposizione concessiva «anche se si dilunga molto il libro di Aristone» fa pensare inequivocabilmente che nelle colonne precedenti egli avesse attinto in qualche modo anche al libro di quest’ultimo. E` probabile che ci sia del vero in entrambe le ipotesi, senza che l’una escluda per forza l’altra, e che la soluzione a tale aporia consista nel postulare che il filosofo di Gadara riportasse, sı`, il pensiero retorico di Diogene, ma cosı` come quest’ultimo lo aveva elaborato in seguito alla lettura e all’assimilazione di uno scritto di Aristone. Magari si trattava di un commentario ad hoc in cui quello esponeva e commentava le tesi di questo ovvero, com’e` forse piu` verosimile, di uno scritto sulla retorica che si avvaleva in gran parte della riflessione di Aristone sull’argomento. In ogni caso il libro aristoneo era espressamente citato da Diogene come sua principale fonte, se Fi533 Piuttosto che «il settimo libro di Aristone (to;] bubliv[o]n zV jArivctw|noc)» proposto da Cappelluzzo. 534 S. SUDHAUS (ed.), op. cit., I, p. LII : Videtur autem maxima pars huius libri contra Aristonem Stoicum conscripta esse, cuius mentio fit fragmento XII et contra quem usque ad pag. LXXI verba facit. Allo stesso filosofo egli assegnava anche le coll. 72 sgg. sulla base della menzione a col. 72, 8 di certe ejpiceirhvceic, che egli identificava con gli Ari j ctwvneia uJpomnhvmata citati a fr. 12, 10-11 C. In effetti, dal tenore delle parole di Filodemo, dall’uso ripetuto di verba dicendi alla terza persona singolare (col. 72, 7; 12) e dai contenuti dottrinali di ascendenza stoica si evince che probabilmente Filodemo anche in questa colonna alludeva all’Aristone menzionato alla colonna precedente. Cfr. col. 72, 4-20, p. 361 S. I: kai; cwqh=i [mavli]cta, [ouj] | to; mh; prot[revy]ai pan|telwc= ajfi[ctavn]ein thc= | rJhtorikh=c [fhci]n taic= | ejpicei[r]hvc[ecin ajpo]faiv|necqai, movnon de; th=c a[|gan prockauvcewc, th=c | de; politikh=c oujd’o{|lwc. fhci; dh; prwton | ajpotrevpwn, o{ti = keleu|ctou= kai; ouj kubernhv|tou d[ov]xan e[cwn oJ rJhv|twr oujk a[xiovc ejcti | procpoieic= qai kuber|nhvthc [ei\n]ai. politi|kh=c ga;r oujk e[ctin [ijdiv|w]c levgein ktl. Di questa colonna Cappelluzzo non ha fornito un nuovo testo critico.

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lodemo afferma esplicitamente che quegli «si affido` (ejpiv|[cteuen]) ad alcuni trattati aristonei». L’alternativa e` quella di pensare che fosse lo stesso Filodemo a inferire tale dipendenza sulla base di una lettura personale del libro di Aristone che egli in effetti doveva conoscere in modo diretto, se e` in grado di affermare che esso si dilungava (memhvkun|t[ai]) molto. Cio` gli avrebbe consentito di stabilire un confronto con Diogene e di ricavarne che questi era stato profondamente influenzato da quello. In ogni caso da entrambi i passaggi riportati e soprattutto dal secondo si evince con sufficiente chiarezza che il filosofo di Gadara, introducendo e concludendo la parafrasi, si riferiva contemporaneamente a due differenti personaggi, com’e` del resto confermato dal duplice uso del pronome dimostrativo al plurale (col. 71, 8: ej[pi;] to[ivn]un [t]ouvto. [ic]; col. 71, 13-14: m. h|de; touvtoic). Questo significa allora che tutta la sezione compresa tra fr. 12 e col. 71 va in qualche modo attribuita non solo a Diogene, ma anche ad Aristone che ne era la fonte, senza tuttavia che sia possibile distinguere con precisione le affermazioni dell’uno da quelle dell’altro. Cosı`, almeno, stando all’attuale assetto del testo, risalente al lontano 1892 e basato sulla collazione dei soli disegni napoletani e oxoniensi. Comunque stiano le cose, e` certo che Diogene di Babilonia si avvalse di alcuni trattati aristonei ([ti]c. in Arictw j . neiv|[oic uJpom]nhvmacin) e questo fatto e` sufficiente per stabilire con relativa sicurezza l’identita` di tale personaggio. Passiamo allora in rassegna tutti i possibili candidati. Aristone di Ceo, al quale pensavano Eduard Zeller 535 e August Mayer,536 e` fuori discussione per motivi dottrinali e, come tale, e` stato giustamente escluso da Wehrli. Un atteggiamento cosı` visceralmente antiretorico, oltre ad essere in contraddizione con l’orientamento filosofico del Ceo, e` del tutto anacronistico in questa fase della storia del Peripato, cronologicamente vicina ad Aristotele e alla redazione della Retorica, che tanta influenza esercito` nelle generazioni di studiosi immediatamente successive alla morte del fondatore.537 Bisognera` aspettare fino alla meta` del II sec. a.C. per assistere a un’inversione di tendenza nel modo dei Peripatetici di rapportarsi alla retorica, quando cioe` Critolao e il suo discepolo Aristone il Giovane ingaggeranno insieme a Carneade e agli Stoici una battaglia senza quartiere contro tale disciplina. Lo stesso discorso vale anche per Aristone di Coo, discepolo del Ceo, in pasOp. cit., II 24, Leipzig 1909, p. 925 nota 2. Op. cit., p. 522 sg. 537 Si veda F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, X: Hieronymos cit., p. 83: «die Ablehnung derselben (sc. der Rhetorik) fu¨r den Keer wegen seiner philosophischen, vom Aristoteles der Pragmatien bestimmten Richtung unwahrscheinlich ist». 535

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sato confuso con Aristone il Giovane, del quale peraltro abbiamo notizia esclusivamente da una testimonianza di Strabone.538 Ma veniamo proprio ad Aristone il Giovane. In linea di principio nulla impedirebbe che alle sue tesi antiretoriche, testimoniate da Quintiliano e Sesto Empirico, si rifacesse Diogene di Babilonia, tanto piu` che, come si e` appena detto, nel periodo in cui quello visse gli Stoici erano alleati dei Peripatetici nella polemica contro tale disciplina. Il punto e` che a questa possibilita` ostano seri motivi di ordine cronologico, poiche´ Diogene, vissuto tra il 230 e il 150/140 a.C., difficilmente poteva richiamarsi a un autore, come il discepolo di Critolao, il cui floruit va probabilmente situato nel terzo venticinquennio del II secolo, cioe` qualche lustro dopo quello del suo maestro, a sua volta collocabile nel 155 a.C.. Cio` significa che negli ultimi anni di vita di Diogene il filosofo peripatetico doveva essere ancora giovane e, in ogni caso, egli comincio` a operare e a scrivere (ma dei titoli delle sue opere non rimane alcuna traccia) quando quello doveva essere gia` morto. Per quanto detto la possibilita` che Diogene di Babilonia possa aver conosciuto Aristone il Giovane risulta altamente improbabile, se non impossibile. Per di piu` non e` verosimile immaginare che lo stoico Diogene decidesse di attingere agli scritti di un oscuro peripatetico discepolo di un collega (Critolao) a sua volta piu` giovane di lui di circa una generazione. Infine, se si escludono le due testimonianze della Retorica qui in discussione, non vi e` alcuna traccia di una presenza di Aristone il Giovane nel Corpus Philodemeum.539 E` invece assai piu` probabile che il principale esponente della tendenza antiretorica della Stoa si richiamasse alle teorie di uno stoico come lui e di 538 XIV 2, 19. Si veda F. WEHRLI , Ariston aus Keos cit., p. 618, il quale rigetta giustamente l’identificazione dei due personaggi: «Die den Auffassungen des Keers wohl diametral entgegengesetze Rhetorenfeindschaft des Kritolaos und seines Schu¨lers Ariston, der an dem von Karneades und Kritolaos zusammen mit den Stoikern neu ero¨ffneten Kampf gegen die Rhetorik teilgenommen hat, la¨sst jedoch eine Identita¨t des ‘Jungeren’ mit dem als Schu¨ler und Erben des Keers bezeichneten Ariston von Kos als unhaltbar erscheinen». Vedasi anche ID. (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., pp. 31 e 50: «bildet die Rhetorenfeindschaft des Kritolaos und seines Schu¨lers durch ihren Platonismus einen Gegensatz zur philosophischen Haltung des Keers». Confondevano i due filosofi identificandoli con l’Aristone della Retorica, A. GERCKE, Ariston von Iulis cit., col. 956; F. SUSEMIHL, op. cit., I, p. 153 nota 795; p. 154; H. VON ARNIM, De Aristonis Peripatetici apud Philodemum vestigiis, Diss. Rostochii, Typis Acad. Adlerianis 1900, p. 13. Quest’ultimo propose anche, poco verosimilmente, che la prima meta` del libro fosse indirizzata contro Diogene e gli Stoici e la seconda contro Aristone di Coo. Ma l’esegesi dei passi piu` sopra citati non consente, come abbiamo visto, questo tipo di interpretazione. 539 In effetti, in fr. hypomn. 4, pp. 197-198 S. II (= ARISTO IUN . fr. 5 W.) il nome di Aristone, a differenza di quello di Critolao, e` completamente integrato. Si basano ancora su Wehrli F. CAUJOLLE-ZASLAWSKY, Ariston ‘‘le Jeune’’, in DPhA, I, n. 392, p. 396, e T. DORANDI, La tradition papyrologique cit., p. 46.

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uno stoico dell’importanza di Aristone di Chio, che per primo nell’ambito di tale scuola e gia` nella fase piu` antica della sua storia aveva scritto un trattato Contro i retori (Pro;c tou;c rJhvtorac). In effetti, le sue opere dovevano essere conosciute e ancora in circolazione all’epoca di Diogene, se il di lui discepolo Panezio era in grado di elencarle in modo analitico. La condanna del filosofo di Chio da parte di Crisippo, di cui Diogene era allievo, fu probabilmente l’occasione per quest’ultimo di prendere diretta conoscenza delle opere del filosofo cosı` aspramente combattuto dal suo maestro. Del valore da attribuire poi al giudizio secondo il quale quasi tutto il catalogo delle opere del filosofo stoico (e quindi anche il Pro;c tou;c rJhvtorac) andrebbe in realta` assegnato ad Aristone di Ceo, si e` gia` parlato diffusamente piu` sopra e su di esso non occorre ritornare in questa sede.540 In conclusione, il trattato Contro i retori doveva costituire all’interno della scuola stoica una sorta di archetipo di quell’attitudine antiretorica che successivamente vi prese piede e non e` improbabile che gli Stoici che se ne fecero promotori a partire da Diogene di Babilonia guardassero a tale scritto come al loro primo paradigma, scritto in una fase della storia della Stoa in cui tale tendenza non si era ancora manifestata apertamente. Che poi Diogene si rifacesse a un filosofo stoico si ricava anche dal tenore generale di tutta la sezione compresa tra fr. 12 e col. 71, la quale, come sappiamo, era un’esposizione critica delle teorie antiretoriche degli Stoici, ed e` confermato dal continuo riferimento a dottrine tipiche di questa scuola. Fu probabilmente tale constatazione a spingere Siegfried Sudhaus ad affermare che la sezione andava assegnata in blocco ad Aristone di Chio, non essendo noti altri filosofi stoici con questo nome.541 Rimane solo da capire 540 Cfr. supra, pp. 70-80. Dopo gli studi di Anna Maria Ioppolo (Aristone di Chio cit., pp. 4850; 53; p. 67 sg.; p. 190 nota 7), l’attribuzione del Pro;c tou;c rJhvtorac ad Aristone di Chio non sembra essere piu` oggetto di vera discussione. Si vedano anche E. DRERUP, Demosthenes im Urteile des Altertums, Wu¨rzburg, Becker 1923 («Studien zur Geschichte und Kultur des Altertums», 12, 1-2), p. 89 sg. e nota 5; D. BABUT, op. cit., Paris 1969, p. 204; J. BOLLANSE´E in FGrHist IV A 3, p. 410; S. SCHORN (Hrsg.), op. cit., p. 415 nota 1183. Fa eccezione il solo C.R. COOPER, The Development of the Biographical Tradition on the Athenian Orators in the Hellenistic Period, Diss. Vancouver, s.e. 1992, p. 116 sg. L’idea di A. MAYER, op. cit., p. 547 sgg., seguito da H. VON ARNIM, Leben und Werke cit., p. 87 sg., secondo la quale il filosofo stoico sarebbe stato influenzato dalla scuola cirenaica, ricavata sulla base del solo confronto con il V libro della Retorica filodemea, e la conclusione per cui, poiche´ i Cirenaici non erano ostili alla retorica, Aristone di Chio non poteva essere l’autore del Pro;c tou;c rJhvtorac appare oggi priva di forza. A favore dell’attribuzione del Pro;c tou;c rJhvtorac ad Aristone di Ceo era anche C.F. KUMANIECKI, De Satyro Peripatetico, Cracoviae, Acad. Polona Litterarum 1929 («Archiwum Filologiczne», 8), p. 76. Fritz Wehrli, che in Die Schule des Aristoteles, X: Hieronymos cit., p. 83, si era mostrato moderatamente favorevole a questa ultima possibilita`, successivamente (in Ariston aus Keos cit., p. 616), si e` orientato per un’attribuzione dello scritto al filosofo stoico. 541 Un ulteriore indizio in quest’ultimo senso e ` forse rappresentato da col. 20, 3-12,

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perche´ Filodemo, nel rivelare al fr. 12 la fonte di Diogene, si riferisca a certi sibillini uJpomnhvmata, piuttosto che, in modo esplicito, al Pro;c tou;c rJhtv orac del filosofo eterodosso. Ma a tale apparente difficolta` non e` difficile far fronte se si tiene conto del fatto che uJpovmnhma e` termine assai generico ed e` abbondantemente documentato nel senso di ‘trattato’ in Filodemo. L’uso del plurale, poi, potrebbe non essere significativo, giacche´ non e` esclusa la possibilita` che si tratti di una sineddoche, a conferma della genericita` del rimando filodemeo. Che del resto l’opera di Aristone a cui Filodemo si richiama comprendesse un solo libro sembrerebbe essere confermato dalla col. 71, dove si parla esplicitamente del «libro di Aristone» (to; biblivon t.ajrivctw|noc) al singolare, a meno che non si voglia adottare la nuova lettura to;] bubliv[o]n zV Ariv j ctw|noc, «il settimo libro di Aristone», proposta da Maria Giustina Cappelluzzo.542 Non e` dunque strettamente necessario, ma al contempo nemmeno impossibile, che la fonte di Diogene fossero, invece del trattato Contro i retori, gli oscuri JUpomnhvmata in venticinque libri che compaiono nel catalogo delle opere di Aristone di Chio. Presumibilmente non lo erano nemmeno quegli UJ pomnhvmata uJpe;r kenodoxivac che pure dovevano occupare un solo libro, ma che verosimilmente trattavano dei falsi giudizi e poco o niente avevano a che fare con la retorica.543 Al medesimo Aristone di Chio vanno poi probabilmente attribuite le dottrine poetiche dello Stoico anonimo criticato per piu` di otto colonne nel quinto libro del trattato filodemeo Sui Poemi (PHerc. 1425) e definito, secondo le ultime ricostruzioni testuali, come «colui che si attiene alle dottrine stoiche (oJ toivnun ajn|te* covm. [e]n[o]c tw=n Ctwi>|[kw=n do]x.w=n)».544 Come abbiamo visto nel precedente capitolo, quand’anche non sia possibile integrare alla fine della sequenza il nome proprio Ariv j ct]wn, come voleva Christian Jensen, l’uso di questa espressione conferma la tesi favorevole allo Stoico eterodosso, soprattutto ove la si confronti con l’altra formula oiJ pavnu Ctwi>koiv, «gli Stoici famosi», con cui nello stesso libro Filodemo si riferiva p. 335 S. I, dove si afferma che la persuasione che scaturisce dal discorso dell’oratore e` un ajdiavforon, asserzione che sembra richiamare la dottrina dell’assoluta ajdiaforiva di Aristone

di Chio. Cfr. supra, p. 198 nota 533. Cfr. DIOG. LAE¨RT. VII 163 (fr. 333 SVF I). Cio` nonostante colpisce la ripetuta allusione alle false opinioni che si fa nelle colonne successive al fr. 12, cioe` subito dopo la menzione di tali uJpomnhvmata. Si veda in particolare col. 6, 4, p. 239 S. I: mata[iv]an dov[xj ]an, e col. 15, 14-15, p. 332 S. I: kenodoxiv[a]n. 544 PHILOD. de poe ¨m. V (PHerc. 1425), col. 16, 28-34 RANOCCHIA. Cfr. cap. II.5.6. 542

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agli Stoici ortodossi.545 Infatti quest’ultima sottolineatura, unita alla assolutizzazione dei valori e al rifiuto della moderazione come criterio morale, sembra individuare con precisione la posizione filosofica di Aristone di Chio, il quale, pur non rinnegando mai l’insegnamento stoico, nemmeno dopo l’allontanamento da Zenone, si fece portavoce di una sua originale interpretazione. E come egli si colloco` fuori dal coro nel caso del giudizio sulla retorica, verso la quale per primo e in modo isolato manifesto` aperta ostilita`, cosı` e` verosimile che anche nell’ambito della poetica egli esprimesse teorie divergenti da quelle dei suoi compagni di scuola. Questi, infatti, ritenevano che il giudizio sulla buona qualita` di un poema dipendesse principalmente dalla presenza in esso di un contenuto serio, indipendentemente dalla forma. L’Autore, invece, lo collocava, oltre che nella gravita` del contenuto, anche in una composizione fine, vale a dire in una forma artistica elaborata in cui l’eufonia derivante dalla disposizione armoniosa delle parole aveva un ruolo fondamentale, e noi sappiamo dalle nostre fonti che Aristone di Chio si avvaleva di un eloquio elegante e suadente e che padroneggiava cosı` bene tutti i mezzi espressivi che i suoi contemporanei lo soprannominarono ‘Sirena’.546 Ora, anche volendo prescindere da quest’ultima testimonianza, in cui il nome di Aristone non compare espressamente nel testo, la presenza del filosofo stoico nel Corpus Philodemeum viene a costituire una presenza importante. Al di fuori delle testimonianze della Storia della Stoa, del De pietate e della Retorica, gli unici altri testi filodemei in cui si fa riferimento a un non meglio specificato Aristone sono, oltre alla Storia dell’Accademia, proprio il trattato Sulla superbia e quello Sull’adulazione, dove si menziona un Aristone autore di carakthricmoiv che, come sappiamo, e` quasi sicuramente da identificare con l’autore del De liberando a superbia.547 Si e` detto infatti che non e` verosimile che nell’ambito del medesimo trattato Sui vizi, al quale appartengono tanto il De superbia quanto il De adulatione, Filodemo potesse richiamarsi a scrittori differenti con lo stesso nome Aristone, tutti autori di descrizioni caratterologiche simili, come quella del superbo e dei vizi a esso affini, quella dell’amante delle lodi o quella dell’adulatore. E` ragionevole pensare, e cosı` e` stato sempre fatto dagli studiosi, che l’AriCfr. supra, p. 190 e nota 505. Cfr. DIOG. LAE¨RT. VII 160 (fr. 333 SVF I), e supra, p. 149. 547 Cfr. PHILOD . de adul. II (PHerc. 1457), fr. 23, col. 11, 37-42 ANGELI (fr. 20 SFOD), e de adul. I (PHerc. 222), col. 10, 1-10 G. (fr. 19 SFOD = deest in Wehrli). Il testo di entrambi i passi e` riprodotto supra, p. 34 note 152 e 155. 545

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stone autore dell’una sia lo stesso Aristone autore delle altre due.548 Ebbene, escludendo queste tre testimonianze del De vitiis, che sono oggetto di discussione della presente ricerca, tutte le volte che il filosofo di Gadara, al di fuori della Storia dell’Accademia, allude a un generico Aristone si riferisce immancabilmente allo stoico Aristone di Chio. Egli e` l’unico Aristone di cui sappiamo con sicurezza che fu largamente citato, parafrasato e criticato da Filodemo. Aristone il Giovane, come si e` visto, non puo` essere l’autore a cui si richiama Filodemo nella Retorica e pertanto non rimangono tracce di una sua presenza nel Corpus Philodemeum. Inoltre, dei sei filosofi accademici chiamati Aristone che sono aridamente elencati nella Storia dell’Accademia non sappiamo nulla oltre al nome e solo nel caso di Aristone di Alessandria, menzionato nel medesimo scritto, si possiede un riferimento un po’ piu` circostanziato. Quanto a una possibile presenza in Filodemo di Aristone di Ceo, essa si basava, come sappiamo, proprio sul De liberando a superbia, di cui, secondo la communis opinio, egli sarebbe stato l’autore. Ora, pero`, se come ho tentato con vari argomenti di dimostrare, questo scritto va attribuito piuttosto allo stoico Aristone di Chio, allora, per quanto si e` detto, anche le altre due testimonianze del De adulatione gli vanno assegnate. E cosı` viene meno l’unico appiglio che serviva a giustificare la presenza del filosofo peripatetico tra le fonti utilizzate da Filodemo e nulla, al di fuori degli oscuri personaggi menzionati nella Storia dell’Accademia, attesta la presenza nel Corpus Philodemeum di filosofi con questo nome diversi da Aristone di Chio, almeno stando all’attuale stato editoriale delle opere che lo compongono. Ma che cosa spingeva un epicureo come Filodemo a interessarsi di un autore cosı` filosoficamente distante come Aristone di Chio, per di piu` appartenente alla scuola antagonista per eccellenza? Abbiamo visto nelle pagine precedenti come tale considerazione fosse giustificata da interessi in parte storici e in parte polemici,549 ma furono anche motivi piu` prettamente filosofici quelli che indussero il filosofo di Gadara a occuparsi di Stoicismo e di autori stoici. E` quanto emerge anche da uno studio effettuato da chi scrive sul De ira dello stesso Filodemo, i cui risultati sono stati raccolti in un contributo di prossima pubblicazione.550 Il confronto condotto tra la Cfr. supra, p. 34 sg. Ai casi su considerati si aggiunga quello del trattato Sugli Stoici (PHerc. 155/339), dove il filosofo epicureo usava polemicamente le tesi di Antipatro di Tarso contro alcuni Stoici suoi contemporanei. Si veda anche M. GIGANTE, Filodemo nella storia cit., p. 37 sg. 550 Si veda G. RANOCCHIA , Filodemo e l’etica stoica cit. Ad esso rimando per una piu ` detta548

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prima sezione di questo trattato (col. 1-col. 34, 6 I.), nella quale l’autore rielaborava ampiamente le fonti stoiche relative a questa passione, e il De liberando a superbia ha evidenziato importanti analogie dottrinali, metodologiche e stilistiche, che si riflettono anche nel lessico e nella terminologia utilizzata. A cio` si aggiunga il comune intento protrettico-morale, l’analogia medica applicata alle passioni, l’impiego della strategia del ‘‘porre davanti agli occhi’’ e il fatto che tanto l’una quanto l’altro contengano significative testimonianze di quell’etologia morale di cui si e` piu` volte parlato nel corso del presente lavoro. Ora, se nella prima sezione del trattato Sull’ira il filosofo epicureo attingeva per piu` di trenta colonne alla trattatistica stoica sulle passioni in un modo che per forma e contenuti e` risultato essere assai simile a quello seguito nella seconda parte del De superbia (coll. 10-24), dove egli riporta per quasi quindici colonne il pensiero di un ignoto Aristone su un vizio strettamente collegato all’ira, e` allora del tutto verosimile che anche in quest’ultima opera Filodemo si servisse largamente delle fonti stoiche sull’argomento. E` del resto ben nota l’importanza rivestita dalla teoria delle passioni nell’etica stoica e il grado di estrema specializzazione raggiunto dai discepoli di Zenone in questo ambito. In particolare, come ho avuto gia` modo di rilevare, nella trattazione stoica delle passioni e dei vizi ira e superbia erano patologie specialmente importanti e tra loro strettamente associate, al punto da essere talvolta confuse. Ad esse si applicava la medesima metafora di origine medica del ‘‘tumore dell’anima’’ (dioivdhcic, tumor animi) che era impiegata in modo speciale per queste due fattispecie morali.551 Cio` spiega perche´ ogni volta che Filodemo deve affrontare la descrizione dettagliata di una passione o di un vizio, non esiti ad attingere abbondantemente alla letteratura stoica sull’argomento.552 Come e` stato correttamente affermato, per una cosı` sistematica trattazione delle passioni e dei vizi come quella che egli si proponeva nel Peri; paqw=n 553 e nel Peri; kakiw=n il ricorso allo Stoicismo era pressoche´ obbligatorio.554 gliata discussione del tema. Si vedano anche sull’argomento M. ERLER, Der Zorn des Helden. Philodems De ira und Vergils Konzept des Zorns in der Aeneis, «GB», XVIII, 1992, pp. 105-107; 115-122; ID., Orthodoxie cit., pp. 187-192. 551 Cfr. supra, pp. 155; 157. 552 Si veda G. INDELLI (ed.), Filodemo, L’ira, Napoli, Bibliopolis 1988 («La Scuola di Epicuro», 5), p. 19. 553 L’esistenza di un trattato filodemeo Peri; paqw n e = ` frutto di congettura. Si veda T. DORANDI, Filodemo: gli orientamenti cit., p. 2349 sg. Esso avrebbe compreso, oltre al De ira, opere consacrate ad altre passioni, come un Peri; manivac, un Peri; e[rwtoc e un Peri; fqovnou, di cui rimangono varie tracce nella collezione ercolanese. Ma tranne che per il Peri; ojrghc= la ricostru-

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PARTE SECONDA

Al contrario, per quanto ne sappiamo, i discepoli di Epicuro non avevano una significativa tradizione di scuola a cui richiamarsi in questo campo,555 ne´ risulta esservi traccia nelle nostre fonti di uno specifico interesse epicureo verso l’ira o verso la superbia. Ovviamente non c’e` bisogno di ricordare che di vizi trattarono dettagliatamente e con grande autorevolezza nell’ambito del Liceo Aristotele, Teofrasto (al quale e` assegnato anche un scritto Sulle passioni) e l’autore del trattato pseudo-aristotelico Sulle virtu` e i vizi.556 Ma, come si e` avuto piu` volte occasione di constatare, non solo non sembra esservi traccia nel De liberando a superbia di dottrine di matrice peripatetica, ma al contrario vi si evincono sicuri indizi di teorie e atteggiamenti radicali rivelatisi in piu` punti incompatibili con l’insegnamento del Peripato. Invece l’analisi comparativa con il De ira e` in grado di confermare in pieno l’interpretazione che fin qui si e` tentato di offrire. Lo scritto aristoneo, lo sappiamo, non si configura come un trattato morale in senso stretto. Il suo contenuto e` classificabile piuttosto all’interno di quel grande contenitore che si e` convenuto di chiamare filosofia popolare. Cio` nonostante, sono riconoscibili in esso svariate testimonianze di metodi e concezioni che nell’antichita` erano propri dei filosofi stoici e, in particolare, di quello Stoicismo che per la sua vicinanza al kunicmovc delle origini, era tipico del primo Zenone e di Aristone di Chio. Il trattato Sulla superbia, dunque, si inquadra assai bene nella tendenza eclettica propria del pensiero filodemeo.557 Ad essa il filosofo di Gadara fu costretto probabilmente dal confronto con lo Stoicismo romano e dalla ricezione della cultura greca da parte della nuova classe dirigente, in cui, com’e` noto, la filosofia stoica rappresentava il principale quadro di riferimenzione dei titoli delle singole opere e` meramente congetturale, in quanto effettuata sulla base della terminologia in esse ricorrente. 554 Si vedano G. INDELLI (ed.), Filodemo, L’ira cit., p. 19; M. GIGANTE , Filodemo nella storia cit., p. 37 sg.; V. TSOUNA, Philodemus of Gadara and the Epicurean Tradition. Remarks on Ethics, Moral Psychology, and Method, in A.M. IOPPOLO-D.N. SEDLEY (eds.), Pyrrhonists, Patricians and Platonizers. Hellenistic Philosophy in the Period 155-86 BC, Napoli, Bibliopolis 2007, in corso di stampa. Ringrazio l’Autrice per avermi messo gentilmente a disposizione una copia della sua relazione in anticipo rispetto alla pubblicazione. 555 Si veda G. INDELLI (ed.), Filodemo, L’ira cit., p. 20. 556 Quanto al Peri; paqwn attribuito al peripatetico Andronico di Rodi, esso va considerato = una fonte importante per la teoria stoica delle passioni. Cfr., ad es., PS.-ANDRON. Peri; paqwn= I, p. 223 G. T. (fr. 391 SVF III); IV, pp. 229; 231; 233 G. T. (fr. 397 SVF III); V, pp. 233; 235 G. T. (fr. 401 SVF III), e A.A. LONG-D.N. SEDLEY, op. cit., I, p. 411; B. INWOOD, Stoic Ethics: Passions, in K. ALGRA-J. BARNES-J. MANSFELD-M. SCHOFIELD (eds.), op. cit., p. 700 nota 78. 557 Per la posizione di Filodemo nei confronti dell’ortodossia epicurea si veda M. ERLER, Orthodoxie cit., pp. 171-200.

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to. Onde, come nella prima sezione del De ira, cosı` anche nella seconda parte del De superbia Filodemo doveva attingere a piene mani alla trattazione stoica delle passioni e dei vizi, non senza risparmiare cenni polemici al filosofo da lui citato. E` cosı` confermata anche per questa via l’identificazione del misterioso Aristone autore del De liberando a superbia con lo stoico Aristone di Chio. Uno solo, infatti, come e` noto, era il filosofo stoico con questo nome, lo Stoico eterodosso di Chio. Anzi, l’accesa discussione che questo ebbe con Crisippo e l’accusa di eterodossia a lui rivolta dai compagni di scuola dopo che da tale confronto egli sembro` uscire sconfitto, dovevano probabilmente renderlo agli occhi di Filodemo meno antipatico rispetto agli altri filosofi stoici, come risulta anche dalla malcelata ammirazione con cui il filosofo epicureo in varie occasioni a lui si riferisce.558

558

15

Cfr. supra, p. 194.

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PARTE TERZA PHERC. 1008. ASPETTI MATERIALI E BIBLIOLOGICI

1. IL

PAPIRO : DESCRIZIONE GENERALE E SEQUENZA DEI FRAMMENTI

Attualmente PHerc. 1008 comprende sette cornici, di cui le cornici 1-6, contenenti un pezzo ciascuna, appartengono tutte alla parte piu` interna di un medesimo rotolo svolto per intero nell’agosto del 1792.1 Non e` sicuro chi ne fu lo svolgitore. L’Inventario del 1853 parla di Antonio Lentari,2 ma 1 Si vedano Catalogo de’ papiri ercolanesi dati per isvolgersi e restituiti, con la indicazione di quelli donati da S. M. a personaggi esteri, 1807, Archivio dell’Officina dei Papiri, d’ora in poi AOP, Ba XVII 7 (edito da D. BLANK-F. LONGO AURICCHIO, Inventari antichi dei papiri ercolanesi, «CErc», XXXIV, 2004, pp. 139-148): «Dato per isvolgersi nel Ag(os)to 1792. Svolto del tutto». Cfr. anche le indicazioni vergate sulla prima pagina della cartella contenente i disegni napoletani (dopo la correzione) e anche D. BASSI, Papiri Ercolanesi disegnati, «RFIC», XLI, 1913, p. 450; Catalogo dei Papiri Ercolanesi, sotto la direzione di M. Gigante, Napoli, Bibliopolis 1979 (d’ora in poi CatPErc), p. 219, che dipendono a loro volta molto probabilmente dal Catalogo del 1807. Di esso, per la sua antichita` e accuratezza non vi e` motivo di dubitare. Per i tempi di svolgimento dei papiri (da uno a due mesi per la maggior parte; da tre a quattro mesi per un numero esiguo; solo in casi eccezionali piu` di quattro mesi), si vedano D. BLANK-F. LONGO AURICCHIO, Inventari antichi cit., p. 43 sg. Alla luce di questi elementi, l’arco di tempo assegnato allo svolgimento di PHerc. 1008 dal Catalogo del 1807 (non piu` di un mese), rientra pienamente nella norma ed e` percio` del tutto degno di fede. La data di svolgimento desumibile da Inventario della Reale Officina de’ Papiri Ercolanesi, Napoli 1824, AOP Ba XVIII 12, p. 102, da Reale Officina de’ Papiri Ercolanesi. Inventario Generale de’ Papiri e di tutti gli oggetti ivi esistenti, Napoli 1853, AOP Ba XVIII 20, dall’annotazione vergata sul supporto cartaceo a cui sono incollati i pezzi 1 e 2 della cornice 7, da E. MARTINI, Catalogo generale dei Papiri Ercolanesi, in D. COMPARETTI-G. DE PETRA, La Villa Ercolanese dei Pisoni. I suoi monumenti e la sua biblioteca, Torino, Loescher 1883, rist. Napoli, Stab. Tipogr. Julia 1972, pp. 97-144, da CH. JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiw= n cit., p. VI, e dalla prima pagina della cartella contenente i disegni napoletani (prima della correzione), vale a dire il 1802, e` esclusa per motivi cronologici, in quanto e` sicuro che i piu` antichi apografi di questo papiro (N1) furono realizzati da Gennaro Casanova e affidati a Pasquale Baffi (per il quale si veda infra, p. 237 sg.) prima del 1798. Dunque a quest’ultima data il papiro doveva gia` essere stato interamente svolto. Sull’inattendibilita` di questa indicazione cfr. anche infra, p. 221. Ancor meno degna di fede e` la data leggibile nel Catalogo dei Papiri Ercolanesi (s.d.) contenuto in AOP Ba XIX 2, cioe` il 1820, che e` verosimilmente frutto di un errore materiale generatosi a partire dalla data del 1802. Si veda E. DU¨RR, Bemerkungen zu einer Neuausabe von Philodem De Vitiis X (PHerc. 1008), «CErc», XVII, 1987, p. 136 nota 27. 2 «Svolto nel 1802 da D(on) Antonio Lentari in pezzi otto»; cfr. anche l’annotazione vergata

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PARTE TERZA

una nota d’epoca apposta sull’ultima pagina dei disegni oxoniensi, la quale deve essere anteriore al 1806,3 ne attribuisce lo svolgimento a Gennaro Casanova.4 Quale delle due testimonianze sia da considerare piu` attendibile non e` facile dire, anche se per la sua maggiore antichita` la seconda sembra doversi preferire. Tuttavia, non si puo` escludere del tutto nemmeno la prima ipotesi. E` vero, infatti, che Casanova ebbe sicuramente a che fare con il nostro papiro forse gia` subito dopo il suo svolgimento, allorquando ne redasse la prima trascrizione. Ma e` vero anche che Lentari fu attivo nell’Officina dei Papiri come svolgitore e disegnatore dai primi anni Novanta del secolo XVIII, cioe` proprio intorno alla data in cui fu svolto il nostro papiro. Quel che semmai gioca a favore del primo e` l’esperienza senz’altro maggiore (piu` che decennale) nel maneggiare i papiri che a quella data egli doveva aver accumulato da quando fu assunto come svolgitore,5 mentre l’altro nel 1792 doveva essere ancora alle sue prime armi. La notizia piu` antica che possediamo sul nostro papiro proviene dall’importante inventario recentemente rinvenuto da David Blank presso l’Archivio Storico del Museo Archeologico Nazionale di Napoli.6 Tale inventario, che contiene, tra le altre cose, un catalogo dei papiri ercolanesi dal numero 311 al 1695 e che riflette la sistemazione dei papiri fatta probabilmente dallo stesso Antonio Piaggio forse tra il 1782 e il 1786, riporta per il nostro papiro: 7 Nº 1008 Altro papiro compresso per lungo, e con pieghe rilevate, unit[e]^ o & a porzioni gia` svolte, mancante di uno de’ suoi estremi, di lunghezza once 7. 1/5, di diametro maggiore once 1. 4/5. sul foglio a cui sono incollati i pezzi 1 e 2 della cornice 7: «Nº 1008, svolto nel 1802 da D(on) Antonio Lentari», e la prima pagina della cartella contenente i disegni napoletani (maggio del 1911, mano di Domenico Bassi): «Svolto nel [1802] ^ 1792 & da A(ntonio) Lentari». 3 L’anno del trasferimento dei disegni da Portici a Palermo. Ma la nota potrebbe essere stata aggiunta anche a Palermo tra il 1806 e il 1809, anno in cui John Hayter porto` gli apografi in Inghilterra. 4 Cfr. Bodleian Library, MS. Gr. class. c. 3, 3, f. 525: «Svolto e disegnato da D(o)n Gennaro Casanova». 5 Gennaro Casanova fu nominato svolgitore il 12 novembre 1781. Si veda Ruolo degl’impiegati della Reale Officina de’ Papiri con i loro rispettivi soldi, abitazioni, firmato da Mons. Carlo Maria Rosini, AOP Ba II, fasc. I 3, e D. BLANK-F. LONGO AURICCHIO, Inventari antichi cit., p. 44 e nota 43. 6 Serie Inventari Antichi No. 43. Sulla parte superiore sinistra della prima pagina si legge la dicitura: Papiri / Inventario / Papiri / ed oggetti diversi. Si vedano D. BLANK-F. LONGO AURICCHIO, An Inventory of the Herculaneum Papyri from Piaggio’s Time, «CErc», XXX, 2000, pp. 131-147, e D. BLANK, Reflections on Re-reading Piaggio and the Early History of the Herculaneum Papyri, «CErc», XXIX, 1999, pp. 55-82. 7 Esso risulta collocato insieme ad altri quindici papiri sulla Tavoletta LIV.

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PHERC. 1008 . ASPETTI MATERIALI E BIBLIOLOGICI

Da questa lapidaria descrizione, di grandissima utilita` in quanto registra preziose informazioni di cui prima d’ora non eravamo in possesso, si ricava che prima del periodo 1782-86 PHerc. 1008 era stato gia` parzialmente svolto, rimanendo ancora intatta la porzione piu` interna. Ma che significa che questa era unita «a porzioni gia` svolte»? E che fine fecero tali porzioni? Questa espressione, usata anche per PHerc. 1006 e PHerc. 1007, puo` forse essere interpretata nel senso che le porzioni gia` svolte non erano state ancora tagliate e separate dal resto del rotolo, almeno fino al periodo 1782-86. Ma in quali condizioni esse fossero conservate non ci e` dato sapere. Quando, nel 1792, fu svolta la parte piu` interna, le porzioni iniziali del volume dovevano essere gia` state staccate e catalogate sotto uno o piu` numeri differenti, se esse non andarono irrimediabilmente perdute. Cosı` e` testimoniato per PHerc. 1007, che costituisce la porzione piu` interna di un midollo che era stato svolto solo in parte e poi interrotto. In seguito la porzione gia` svolta venne staccata e rubricata con il numero 1673, mentre la parte rimanente fu svolta nell’ottobre del 1782 in quarantacinque colonne, secondo quanto attesta il Catalogo del 1803.8 Vi sono dunque fondati motivi per ritenere che qualcosa del genere possa essere avvenuto tanto per PHerc. 1006 quanto per le parti gia` svolte del rotolo a cui apparteneva PHerc. 1008.9 A questo punto non puo` non essere presa in seria considerazione l’ipotesi secondo la quale PHerc. 1008 rappresenterebbe la parte piu` interna del rotolo costituito dal cosiddetto ‘‘Papiro di Fania’’.10 Quest’ultimo fu svolto per quinto dopo PHerc. 1497, PHerc. 1672, PHerc. 1427, PHerc. 1675 e si trovava in condizioni talmente buone da esibire, fatto del tutto eccezionale nella collezione ercolanese, persino i primi kollemata. Sul primo di essi Antonio Piaggio, seguito da Camillo Paderni e Giacomo Martorelli 11 lessero le lettere FANIAC, che per la loro forma e le loro dimensioni 12 furono considerate parte di un titolo e identificate con il nome dell’autore.13 In esso l’abate Galiani, ac«Dato per isvolgersi nell’ott(obr)e 1782, svolto del tutto». Si vedano D. BLANK-F. LONGO AURICCHIO, An Inventory cit., p. 141. 10 Si vedano D. BLANK , art. cit., p. 74 sg., e D. BLANK -F. LONGO AURICCHIO , An Inventory cit., p. 141 e nota 42. 11 Paderni, direttore del Museo Ercolanese di Portici, dove i papiri furono conservati dal 1752 al 1798, e` tristemente noto per il suo sbrigativo sistema di apertura dei papiri. Martorelli era professore di greco nella citta` partenopea. 12 Erano infatti scritte «in caratteri assai grandi e particolari», secondo la testimonianza dello stesso Piaggio, seguito da Martorelli: characteribus ceteris grandioribus. Si vedano CH.G. VON MURR, Philodem von der Musik. Ein Auszug aus dessen vierten Buche, Berlin, H. Fro¨lich 1806, p. 20; M. CAPASSO, Il presunto papiro di Fania, «CErc», VIII, 1978, p. 157 nota 24. 13 Che si trattasse di un titolo si evince anche da una precisazione di J.J. WINCKELMANN , che 8

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PARTE TERZA

cademico ercolanese, volle riconoscere il peripatetico Fania, discepolo di Aristotele, e nel testo contenuto nel papiro un trattato di botanica (Peri; futwn= ) per il quale quello andava famoso. E` stato Mario Capasso in un contributo comparso nel 1978 14 ad avanzare per primo l’ipotesi che le lettere componenti il presunto nome Fanivac, che Antonio Piaggio e gli altri scorsero nel titolo iniziale del papiro, fossero semplicemente cio` che rimaneva di una titulatio simile alla seguente: [FILODHMOU PERI KAKIWN I O ECTI PERI UPERH]FANIAC

Ma e` probabile che il titolo fosse vergato nella formulazione piu` completa attestata per altri libri del trattato filodemeo Sui vizi.15 In tal caso esso doveva suonare piu` o meno cosı`: [FILODHMOU PERI KAKIWN KAI TWN ANTIKEIMENWN ARETWN KAI TWN EN OIC EICI KAI PERI A I O ECTI PERI UPERH]FANIAC

Tale supposizione e` suffragata: a) dal fatto che mai, nella titulatio dell’antico rotolo librario greco e latino, il nome dell’autore si trova in un caso diverso dal genitivo; 16 b) dalle parole dello stesso Piaggio il quale, in una missiva del 30 ottobre 1771 indirizzata a Bernardo Tanucci,17 scrive: pure si occupo` dei papiri ercolanesi e del papiro in questione in Nachrichten von den neuesten Herculanischen Entdeckungen an Hn. Heinrich Fueßli aus Zu¨rich, Dresden, Waltherische Hofbuchhandlung 1764, p. 52, il quale ci informa che tra il titolo e la prima colonna del testo del ‘‘Papiro di Fania’’ c’era spazio non scritto per la lunghezza di un palmo. Inoltre, come sottolinea Capasso (Il presunto papiro cit., p. 157 e nota 24), non ci sono motivi ne´ in generale, ne´ in particolare per dubitare della buona fede o della competenza di Piaggio, che pur non conoscendo il greco, «sapeva benissimo distinguere un titolo da un frammento di testo». 14 Il presunto papiro cit. 15 Cfr. infra, cap. III.5. 16 Si vedano D. COMPARETTI -G. DE PETRA , op. cit., p. 74 sg. 17 Si vedano D. BASSI , Altre lettere inedite del P. Antonio Piaggio e spigolature dalle sue

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PHERC. 1008 . ASPETTI MATERIALI E BIBLIOLOGICI

Vi e` quello (sc. il papiro) di Fanias coll’intitolazione del libro, e nome dell’autore da capo, il che in tutti gli altri per l’altrui barbarie, o per meglio dire bestialita`, si e` perduto. Questo e` in caratteri assai grandi e particolari. L’abbate Galliani vi fece e presento` una dissertazione; questo ancora ebbi ordine di tralasciare.18

In questa affermazione non puo` non destare meraviglia il fatto che Piaggio, contravvenendo alla normale sequenza della titulatio di qualsiasi rotolo ercolanese,19 menzioni prima il titolo dell’opera e poi il nome dell’autore. Con la stessa sospetta sequenza la riporta anche Paderni in una lettera a von Murr datata 24 settembre 1774: Ella ben sa` che gli antichi scritto ponevano il titolo di cio` che essi voleano trattare, al principio e fine del volume, e siccome nelli quattro volumi che si trovono svolti, che trattano uno contro la musica, due di rettorica, ed il quarto morale, tutti di Filodemo, che per essersi rinvenuti i primi fogli di questi consumati, si e` trovato per altro al fine di ciascuno il titolo del volume. Non cosı` accade´ a quello di Fania essendosi rinvenuto in essere il primo foglio, e per consequenza con il titolo e nome di Fania.

Questi due fatti, secondo Capasso, sono sufficienti per pensare, sulla scia di Comparetti e Bassi, che il padre scolopio e gli altri dopo di lui, una volta identificato il titolo con un gruppo di caratteri irriconoscibili seguiti dalle lettere FANIAC, abbiano erroneamente ravvisato in queste ultime il nome dell’autore e conseguentemente immaginato che esso fosse preceduto dal titolo dell’opera, non piu` perspicuo. In seguito l’abate Galiani, «ricordandosi di un Fania peripatetico autore di un Peri; futwn= , indico` nel papiro la presenza di un’opera botanica».20 La congettura e` suffragata dalle parole di Martorelli, che fu maestro di Galiani (e che quindi doveva conoscerlo bene), il quale in una missiva allo stesso von Murr del 26 gennaio 1777, afferma che il suo antico discepolo, leggendo le lettere FANIAC, «compose sul ‘‘Memorie’’, «Archivio Storico per le Province Napoletane», XXXIII, 1908, p. 304 sg., e M. CAPASSO, Il presunto papiro cit., p. 156 sg. e nota 3. 18 Il corsivo e ` mio. Il riferimento e` al rudimentale sistema di apertura dei papiri adottato da Camillo Paderni. Lo scolopio ipotizza che, prima di essere irrimediabilmente danneggiati dal metodo Paderni, anche gli altri papiri fossero dotati di un titolo iniziale. Sull’esattezza di questa ipotesi, cfr. infra, p. 231 nota 82. 19 Che comprendeva, nell’ordine, autore, opera, numero del libro, eventuale sottotitolo, numero del tomo, e occasionale precisazione sul carattere ipomnematico del testo. 20 Si vedano D. COMPARETTI -G. DE PETRA , op. cit., p. 74 sg.: «Probabilmente tutta quella storia procede da un frammento mal letto e male inteso che mise in moto la fantasia di quello spiritello vivace e pieno d’ingegno, ma come dotto troppo leggiero, che fu l’abate Galiani». Vedansi anche D. BASSI, Altre lettere cit., p. 310 nota 3, e M. CAPASSO, Il presunto Papiro cit., p. 157.

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PARTE TERZA

posto un capriccio (ccedivacma) e immagino` (finxitque) un Fania autore di botanica». Se dunque, come sembra, ci troviamo di fronte alla parte terminale di un titolo iniziale e se FANIAC non puo` essere il nome dell’autore, dobbiamo supporre che tali lettere appartenessero a un sottotitolo, che a questo punto non potrebbe che suonare o{ ejcti | peri; uJperh]fanivac. Ora, anziche´ supporre, come conclude Capasso,21 che il ‘‘Papiro di Fania’’ contenesse un altro libro della medesima sezione De superbia o che esso rappresentasse una seconda copia dello stesso libro decimo, e` piu` economico pensare che esso coincidesse con lo stesso rotolo la cui porzione piu` interna ci e` conservata sotto il numero 1008. La prima ipotesi, in effetti, e` smentita dal fatto che il libro nono, ancora conservato, era destinato all’economia e che il De superbia terminava con il decimo, come emerge inequivocabilmente dalla chiusa di PHerc. 1008,22 mentre la seconda ipotesi risulta innecessaria (ancorche´ non impossibile). Poco dopo l’inizio dello svolgimento il ‘‘Papiro di Fania’’ fu interrotto e messo da parte. Da von Murr apprendiamo che esso inizio` nel 1760, anno in cui fu probabilmente anche sospeso, se nel 1761, come riferisce lo stesso studioso, dopo l’interruzione e la scomparsa del quinto volume, si inizio` lo svolgimento del sesto.23 Le parti svolte prima dell’interruzione dovevano essere piuttosto esigue, a giudiCfr. ivi, p. 158. Cfr. 24 23-29 e infra, p. 220. 23 Si veda CH .G. VON MURR, Philodem cit., p. 18: «Die fu ¨ nfte Rolle, welche 1760 vorgenommen ward, hat vorne den Namen FANIAC (nicht FANHAC, wie Winckelmann schrieb). Sie ist botanischen Inhalts; aber man unterließ ihre fernere Entwickelung. [...] Im J(ahre) 1761 nahmen Piaggio und Merli die sechste Rolle zur Hand». Nell’edizione latina del 1804 (CH.TH. DE MURR, De papyris seu voluminibus Graecis Herculanensibus commentatio. Accedit Nicolai Ignarrae explicatio lamellae aeneae exsecrationis repertae prope Petiliam, Argentorati, s.e. 1804, p. 7), si legge: Evanuit Phaniae volumen et a. 1761 sextum sub machina Piaggiana exspectabat evolutionem iam per 36 annos. Quanto al primo volume, si afferma che fu svolto nel 1754, a due anni dal primo rinvenimento dei papiri, e il terzo nel 1757. Per il secondo e il quarto non si specificano delle date precise, ma comunque il secondo dovette essere svolto nel periodo compreso tra le due date precedenti e il quarto tra il 1757 e il 1760, anno in cui, secondo von Murr, fu iniziato il quinto volume. Fino ad oggi non ci si e` sufficientemente avveduti del valore storico e documentario del resoconto fornito da von Murr e, in particolare, delle importanti indicazioni cronologiche ivi contenute. Di esso non v’e` motivo di dubitare a giudicare soprattutto dal fatto che non vi si trovano le inesattezze presenti nella gia` menzionata relazione di Winckelmann. Di fatto, l’ordine cronologico di svolgimento dei primi volumi riportato da von Murr e` identico a quello descritto dallo stesso Piaggio nella lettera a Tanucci del 30 ottobre 1771. Tanto esso quanto le singole informazioni su ciascun volume derivano la loro attendibilita` dalla corrispondenza di von Murr con Paderni e Martorelli, i quali lavoravano in Officina a stretto contatto con il padre scolopio e furono testimoni oculari dei primi tentativi di svolgimento dei volumi ercolanesi. Del resto, e` lo stesso Martorelli ad affermare, nella lettera riportata da von Murr, di accingersi ad esporre il caso del ‘‘Papiro di Fania’’ sulla base di quanto di esso gli aveva riferito lo stesso Antonio Piaggio. 21 22

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care da quanto asserito nella gia` citata lettera di Paderni a von Murr, dove si spiega anche quale dovette essere il motivo dell’interruzione: Appena fu incominciato a sviluppare tal volume ed essendo venuto un giorno in cotesto Real Museo l’Abbate Galiani, e letto quel poco che si trovava aperto, conobbe essere un trattato di Botanica, e stimando come Accademico, darne un saggio a S(ua) M(aesta`) avendone formato una picciola dissertazione, questa ingiolosı` chi ne aveva il carico di tradurre detti volumi (omissis) che ebbero tanta forza di persuadere il Re di far desistere lo svolgimento di Fania, adducendo non essere materia interessante [...].24

La versione di Paderni e` confermata tanto dalla missiva di Piaggio a Tanucci del 30 ottobre 1771 sopra citata,25 quanto dalla lettera, pure menzionata, di Martorelli a von Murr del 26 gennaio 1777, in cui si specifica anche che la dissertazione fu consegnata a Tanucci e che fu quest’ultimo a impartire l’ordine di interrompere lo svolgimento con il pretesto che non si sarebbe trattato di materia interessante.26 L’ordine di Tanucci riguardava non soltanto lo svolgimento, ma anche la trascrizione, visto che, sempre secondo Martorelli, ancora nel 1777 del papiro in questione non era consentito trascrivere la minima parte.27 Tale descrizione combacia solo in parte con quanto riferisce Johann J. Winckelmann a proposito del quinto volume svolto nella sua seconda Sendschreiben von den herculanischen Entdeckungen, scritta tra il 1762 e il 1764, che riporto di seguito: Dopo lo svolgimento dei primi quattro scritti, che sono di Filodemo, si pose mano al quinto, in cui si e` conservato l’inizio che manca a quelli e si e` scoperto il Il corsivo e` mio. «Questo ancora ebbi ordine di tralasciare». Cfr. supra, p. 213. 26 Fatum voluminis Phaniae paucis exponendum reor, atque quo pacto ab Antonio Piaggio edoctus sum. Evolverat hic siquidem initium ex illis codicibus, reperitque inscriptum characteribus ceteris grandioribus FANIAC. Vidit hunc titulum olim auditor meus Galianus; illico ccediacma concinnavit, finxitque quendam Phaniam botanicum. Obtulit id laboris Tanucio Galianus, at statim iussum est, codicem illum minime evolvi, quo ea in cognitione minime versaremur, neque ea eruditione excoleremur, commonefecitque me Piaggius, volumen illud cum aliis bene multis commixtum, atque confusum. [...] Ne dubites, Vir egregie, quin isthaec sit de Phania historiola. La lettera e` riportata in CH.G. VON MURR, Philodem cit., p. 20 sg. Che dunque la dissertazione fosse stata realmente scritta e presentata, non v’e` alcun dubbio, con buona pace di D. BASSI, Altre lettere cit., p. 310 nota 3, e M. CAPASSO, Il presunto papiro cit., p. 158 nota 28. La concordia delle fonti e in particolare la testimonianza di Martorelli, maestro di Galiani, non possono essere trascurate. Fatto e` che essa non fu piu` ritrovata tra le sue carte (cfr. lettera di Francesco Daniele, Storiografo di Corte, del gennaio 1789 a von Murr, riportata da quest’ultimo in Philodem cit., p. 21, e M. CAPASSO, Il presunto Papiro cit., p. 157 nota 28). 27 Cfr. lettera di Martorelli a von Murr del 12 novembre 1777: De Phania eiusque codice ad te satis superque scripsi, nec facultas datur exscribendi vel minimam illius papyri partem. 24

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nome dell’autore, FANHAC, il quale puo` essere o il connazionale e condiscepolo di Teofrasto di Ereso, che come questo scrisse intorno alle piante e ai vegetali, o il filosofo stoico e discepolo di Posidonio che, come il Laerzio dichiara, ha scritto Peri; Poceidwneivwn ccolwn= . Il nome di entrambi, pero`, e` altrove scritto con uno iota e non, come qui, con un H. Dopo l’iscrizione o il titolo di questo volume la carta e` senza segni di scrittura per la lunghezza di un palmo. Questo scritto e` molto danneggiato ed esala un odore di muffa dovuto all’umidita`, la quale ha fatto sı` che si incollasse un foglio all’altro. Per questa ragione la prosecuzione dello svolgimento di questo scritto fu interdetta e si e` cominciato un altro a cui manca l’inizio.28

Come si vede, l’insigne classicista affermava che il volume si trovava in cattive condizioni e, in particolare, che esso esalava odore di muffa a causa dell’umidita`, la quale aveva anche fatto sı` che gli strati si incollassero l’uno all’altro. Per questo motivo, a suo dire, se ne sarebbe interrotto lo svolgimento. Senonche´ e` lo stesso studioso ad asserire che esso non fu semplicemente interrotto ma, piu` precisamente, interdetto («untersaget»). Ma che significa che lo svolgimento fu interdetto per le cattive condizioni del papiro? Forse c’era qualcun altro in Officina, oltre ad Antonio Piaggio, cosı` sollecito verso lo stato di conservazione dei papiri da prescrivere che si interrompesse lo svolgimento di un rotolo perche´ conservato in cattive condizioni? Se infatti fosse stato per questa ragione, Piaggio stesso avrebbe deciso di interromperlo, come di fatto egli fece in altri casi.29 Non aveva bisogno che alcuno glielo ordinasse dall’alto. Quanto sin qui detto induce il sospetto che il cattivo stato del papiro fosse in realta` la motivazione ufficiale dell’interdizione, cioe` a dire il prete28 Nachrichten cit., p. 52: «Nach Aufwickelung der vier ersten Schriften, na ¨mlich des Philodemus, wurde Hand an die fu¨nfte geleget, an welcher sich der Anfang, der an jenen mangelt, erhalten hat, und es entdecket sich der Name des Scribenten, FANHAC, welches entweder der Landsmann des Theophrastus Eresius und Mitschu¨ler desselben seyn kann, der, wie dieser, u¨ber Pflanzen und Gewa¨chse schrieb, oder der Stoische Philosoph und Schu¨ler des Posidonius, welcher, wie Laertius angiebt, Peri; Poceidwneivwn ccolwn= geschrieben hat. Der Name von beyden aber findet sich anderwa¨rts mit einem Jota, und nicht, wie hier, mit einem H geschrieben. Nach der Aufschrift oder dem Titel dieser Rolle ist das Papier in der La¨nge eines Palms unbeschrieben. Diese Schrift aber hat viel gelitten, und gibt einen muffigten Geruch von der Feuchtigkeit, welche ein Blatt an das andere angeklebet hat.; aus dieser Ursache wurde die Fortsetzung der Entwickelung dieser Schrift untersaget, und hat man sich an eine andere gemacht, an welcher der Anfang mangelt». La traduzione e` mia. 29 Si veda ad es. il caso del Papiro n. 71 a cui si riferisce Piaggio nella lettera del 13 giugno 1766 e che fu da lui stesso tralasciato per le sue cattive condizioni. La lettera e` contenuta in F. LONGO AURICCHIO-M. CAPASSO, Nuove Accessioni al Dossier Piaggio, in M. GIGANTE (ed.), Contributi alla storia della Officina dei Papiri Ercolanesi, Napoli, Industr. Tipogr. Artistica 1980 («I Quaderni della Biblioteca Nazionale di Napoli», V 2: I papiri ercolanesi III), p. 43 sg. Si vedano anche D. BLANK-F. LONGO AURICCHIO, An Inventory cit., p. 140 sg. nota 40.

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sto con cui giustificare all’esterno l’interruzione dello svolgimento. Ma non si puo` escludere del tutto nemmeno la possibilita` che Winckelmann, nell’indicare le ragioni dell’interruzione, abbia fatto confusione con un altro papiro. Del resto la sua relazione non e` esente da errori, come quando confonde il terzo con il quarto volume svolto.30 Si potrebbe allora pensare che egli abbia potuto scambiare il ‘‘Papiro di Fania’’ con «quelli che si sono incominciati, e poi tralasciati per i loro naturali accidenti» e che Piaggio descrive nella gia` citata lettera del 30 ottobre 1771 dopo i primi quattro volumi svolti e subito prima del ‘‘Papiro di Fania’’. Venuto poi a sapere in maniera vaga e generica dell’ordine di interruzione impartito da Tanucci riguardo a questo papiro, Winckelmann potrebbe aver erroneamente combinato quest’ultimo dato con le presunte cattive condizioni del volume. A meno di pensare che il papiro versasse davvero in cattivo stato, ma in tal caso si deve ammettere che non fu questo il motivo che ne determino` l’interruzione. Tuttavia, contro l’ipotesi delle cattive condizioni del papiro si oppongono le testimonianze in nostro possesso, secondo le quali il quinto papiro svolto doveva essere ancora intero e in ottimo stato. Per di piu`, come sappiamo, di esso si conservava anche il primo foglio recante il titolo iniziale, mentre nei primi quattro, che pure ci sono pervenuti in ottime condizioni, esso non si conservo`. In definitiva doveva trattarsi all’epoca di uno dei volumi meglio preservati di tutta la collezione.31 Sappiamo inoltre che il ‘‘Papiro di Fania’’ non fu mai scorzato, ma svolto continuativamente con la macchina di Piaggio a partire dal primo foglio sino al momento dell’interruzione, che per i motivi descritti piu` sopra, dovette essere di non molto successivo all’inizio dello svolgimento. Le porzioni gia` svolte dovevano dunque presentarsi originariamente continue e senza interruzioni. Il fatto, poi, che l’Inventario del 1782-86 parli di esse al plurale dischiude la possibilita` che la parte gia` svolta, una volta separata dal resto del volume, possa essere stata suddivisa in ulteriori pezzi. Ma non e` possibile identificare suddette porzioni, come e` stato ipotizzato, con PHerc. 253.32 Quest’ultimo, infatti, si presenta come una scorza sfogliata Si veda D. BLANK, art cit., p. 73 e nota 60. Si veda anche M. CAPASSO, Il presunto papiro cit., p. 158 nota 29. 32 Si vedano D. BLANK -F. LONGO AURICCHIO , An Inventory cit., p. 141 nota 43. In quella sede gli autori non adducevano ragioni a suffragio della loro ipotesi. Tuttavia David Blank mi ha gentilmente esposto il suo pensiero per via epistolare: PHerc. 253, che contiene un titolo iniziale, appartiene alla stessa mano di PHerc. 1008, PHerc. 1424 e PHerc. 1675. Ora, poiche´ il titolo iniziale di quest’ultimo ci e` pervenuto, resta soltanto da pensare che PHerc. 253 appartenesse o a PHerc. 1008 o a PHerc. 1424. Una terza possibilita`, sempre secondo Blank, e` che esso fosse la scorza di un libro dedicato alla filarguriva, come penso` gia` Wilhelm Cro¨nert. 30

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dall’interno e interrotta da tagli presumibilmente paderniani, e non come una porzione di papiro svolta continuativamente con la macchina di Piaggio.33 Inoltre il suo contenuto, per quel che si puo` ricavare dall’analisi lessicale delle colonne superstiti, era probabilmente di tipo economico o vi si trattava intorno alla filarguriva, mentre non si rinviene alcun riferimento alla superbia e ai vizi a essa affini.34 Dopo l’interruzione il ‘‘Papiro di Fania’’ fu messo da parte e confuso con altri. E` Martorelli ad affermarlo sulla base della testimonianza dello stesso Piaggio.35 Da quel momento in poi esso non fu piu` ritrovato e dopo la morte di quest’ultimo, avvenuta nel 1796, in Officina se ne perse perfino il ricordo.36 Le spiegazioni potrebbero essere molteplici. Se e` legittima, come fin qui sostenuto, l’identificazione del ‘‘Papiro di Fania’’ con il volume la cui parte piu` interna e` costituita dall’attuale PHerc. 1008, potrebbe essere successo che le porzioni gia` svolte, dove si conservava il titolo iniziale con le lettere ]FANIAC e che l’Inventario del 1782-86 ci rivela essere in questo periodo ancora unite al resto del volume non svolto, a un certo momento fossero separate da quest’ultimo e che ad esse fossero assegnati uno o piu` numeri differenti. Ora, mentre sappiamo che per la parte piu` interna del volume fu conservato il numero 1008, non sappiamo a quale o a quali altri numeri furono eventualmente associate le porzioni gia` svolte. Si poCio` si evince anche dall’assenza di ogni traccia di pelle battiloro. Di PHerc. 253 ci rimangono due colonne piu` il titolo iniziale. Altre dieci colonne perdute nel processo di scorzatura si trovano trascritte nei disegni napoletani. Quanto detto a proposito del contenuto di queste colonne induce a sospettare che in esso si debba riconoscere piuttosto la scorza del Peri; oijkonomivac di Filodemo (corrispondente al nono libro del trattato Sui vizi), il cui midollo e` rappresentato da PHerc. 1424. E cosı` si comprenderebbe anche perche´ un intero libro del De vitiis fosse dedicato a un argomento in apparenza moralmente neutro come l’amministrazione domestica, l’oijkonomiva intesa in senso etimologico. In realta`, se e` vera questa ipotesi, esso sarebbe stato consacrato a un vero e proprio vizio, l’avarizia o filarguriva, a cui faceva da pendant, secondo il programma del trattato De vitiis et oppositis virtutibus, la virtu` epicurea corrispondente al saggio uso della ricchezza. 35 Cfr. supra, p. 215 nota 26: Commonefecitque me Piaggius, volumen illud cum aliis bene multis commixtum, atque confusum. E` vero che e` lo stesso Martorelli ad affermare, nella lettera a von Murr del 12 novembre 1777, che ancora a quella data era severamente vietato fare trascrizioni del papiro, ma questo non implica necessariamente che il papiro fosse stato ritrovato. Martorelli potrebbe essersi limitato a ripetere cio` che aveva gia` riferito a von Murr nella sua precedente missiva (e che gli derivava dalle informazioni che Piaggio gli aveva a sua volta passato) o e` anche possibile che il papiro fosse stato nel frattempo ritrovato in seguito a specifiche ricerche dello stesso Martorelli per poi essere nuovamente perduto. 36 Si veda CH .TH . DE MURR , De papyris cit., p. 5: Evanuit Phaniae volumen, et a. 1761 sextum sub machina Piaggiana exspectabat evolutionem etc. Cfr. anche le missive di Juan Andre´s a Gaetano Melzi del 28 luglio, 13 e 29 settembre, 15 novembre 1811; J.C.G. BOOT, Notice sur les Manuscrits trouve´s a` Herculanum, Amsterdam, Mu¨ller 1841, p. 38 sg.; M. CAPASSO, Il presunto papiro cit., p. 157 sg. nota 8. 33

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trebbe pensare che queste ultime avessero perduto, per qualche accidente a noi ignoto, il foglio o i fogli introduttivi con il titolo e le lettere ]FANIAC, facendo sı` che dopo la morte di Piaggio ne´ esse ne´ PHerc. 1008 fossero piu` collegate al ‘‘Papiro di Fania’’. Ma si tratta per il momento di una semplice congettura. La porzione di PHerc. 1008 da me edita (coll. 10-24) e` contenuta nelle cornici 3-6. Il pezzo contenuto nella cornice 3, comprendente le coll. 8-11, misura cm 26,3 l e cm 15,8 h; il pezzo contenuto nella cornice 4, comprendente le coll. 12-15, misura cm 27,3 l e cm 16,2 h; il pezzo contenuto nella cornice 5, comprendente le coll. 16-19, misura cm 26,6 l e cm 16 h; infine il pezzo contenuto nella cornice 6, comprendente le coll. 20-24 piu` la subscriptio, misura cm 40,6 l e cm 15,9 h. Il colore varia dal marrone medio al marrone scuro, tendendo talvolta al nero. Alle sei precedenti segue una settima cornice, che contiene due pezzi, il pezzo 1 (cm 18,5 l e cm 16,3 h), comprendente resti di quattro colonne, e il pezzo 2 (cm 12,4 l e 21,5 h), comprendente resti di due colonne ed erroneamente ascritto al nostro papiro.37 A queste conclusioni e` pervenuta Edeltraud Du¨rr dopo aver effettuato una serie di accurate analisi comparative sulle caratteristiche del supporto,38 sulla qualita` 39 e sul colore della carta,40 sulle dimensioni del rotolo,41 sullo stato di conservazione 42 e soprattutto sulla tipologia di scrittura 43 delle 37 Si veda E. DU ¨ RR, Bemerkungen cit., pp. 135-138. Si vedano anche M. CAPASSO, Primo Supplemento al Catalogo dei Papiri Ercolanesi, «CErc», XIX, 1989, p. 234, e G. RANOCCHIA, Filodemo e il Peri; tou= koufivzein cit., p. 236 sg. 38 I pezzi compresi nelle cornici 1-6 sono incollati su fogli di carta celeste fissata a pezzi di cartone, laddove i due pezzi della cornice 7 sono agglutinati su carta bianca fissata per mezzo di puntine a una tavola lignea. Si veda E. DU¨RR, Bemerkungen cit., p. 137. 39 Le cornici 1-6 esibiscono un materiale scrittorio fine e liscio, la cornice 7, al contrario, ne presenta uno piu` spesso e ruvido (ibid.). Du¨rr non specifica a quale dei due pezzi contenuti in quest’ultima cornice ella si riferisca. Un nuovo esame di essa da parte di chi scrive ha consentito di constatare che in realta` il materiale scrittorio spesso e ruvido e` tipico del solo pezzo 2, presentando quello del pezzo 1 proprieta` assai simili a quelle delle cornici 1-6. 40 Le cornici 1-6 presentano «mittel- bis dunkelbraune, manchmal schwa ¨ rzliche Fa¨rbung», il pezzo 1 della cornice 7 si mostra «stumpfschwarz bis dunkelbraun» il pezzo 2 «tiefschwarz» (ibid.). 41 L’altezza delle cornici 1-6 oscilla dai 15,8 ai 16,2 cm; quella di cornice 7, pezzo 1 equivale a cm 16,3 e quella del pezzo 2 a cm 21,5. 42 Le condizioni delle cornici 1-6 (ad eccezione del fr. 1 e delle coll. 1-4; 10-11) sono complessivamente abbastanza buone e il testo e` leggibile, mentre i pezzi 1 e 2 della cornice 7 sono assai malridotti, al punto che e` possibile scorgervi solo tracce di lettere e spezzoni di parole. 43 Il tipo di scrittura di PHerc. 1008 viene classificato da G. CAVALLO , op. cit., p. 47, all’interno del «Gruppo P», caratterizzato da lettere piccole e ben distanziate; cfr. infra, cap. III.7. Allo stesso gruppo appartiene il pezzo 1 della cornice 7, laddove il pezzo 2 presenta una «schwungvolle Semikursive» con lettere il doppio piu` grandi rispetto a quelle del pezzo 1 e un numero considerevole di legamenti. Si veda E. DU¨RR, Bemerkungen cit., p. 137 sg.

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cornici 1-6, da un lato, e dei due pezzi contenuti nella cornice 7, dall’altro. Da tale esame e` risultato inequivocabilmente che questi ultimi due pezzi appartenevano a rotoli papiracei diversi tra loro e che il pezzo 2 faceva parte di un rotolo senz’altro diverso da quello contenuto nelle cornici 1-6. Quanto al pezzo 1, lo stesso esame ha dimostrato che esso possiede caratteristiche assai simili a quelle riscontrate nelle cornici 1-6. Agli argomenti avanzati dalla studiosa tedesca in questa direzione si possono aggiungere anche le proprieta` dello spazio scritto e non scritto che, in seguito a una rinnovata autopsia del frammento da parte di chi scrive, si sono rivelate nei due casi pressoche´ equivalenti.44 Insomma, tutto fa concludere che il pezzo 1 della cornice 7 fosse in origine parte costitutiva e integrante di PHerc. 1008. Se cio` e` vero, e` logico chiedersi da quale sezione del rotolo il pezzo in questione provenisse. Certo non dalla fine, visto che il libro si conclude al v. 29 della col. 24 dopo l’indicazione: «Termineremo qui (aujtou)= anche la presente trattazione e aggiungeremo ad essa quella relativa agli altri vizi (peri; tw=n a[llwn kakiw=n) dei quali riteniamo opportuno far conto (vv. 23-29)», accompagnata dalla presenza della coronide e della subscriptio nella colonna successiva, tutti segnali che dimostrano senza ombra di dubbio che ci troviamo al termine del volume.45 Esso non puo` essere situato nemmeno all’interno delle cornici 1-6, tra un pezzo e il successivo, essendo da tempo acclarato che questa era la sequenza originaria dei pezzi in cui PHerc. 1008 fu tagliato e distribuito dopo lo svolgimento del 1792. Cio` e` confermato dal confronto anatomico dei singoli pezzi,46 dal decremento progressivo (cioe` senza sbalzi) delle volute di papiro dalla cornice 1 alla cornice 6 e, infine, dalla continuita` del senso logico dall’inizio della prima cornice alla fine della sesta. Non rimane allora che una sola possibilita`: il pezzo 1 della cornice 7 deve provenire da una parte del volume anteriore alle cornici 1-6 ed e` stato per qualche motivo erroneamente posposto a queste ultime. Du¨rr, dopo aver preso atto delle affinita` di carattere bibliologico tra l’uno e le altre e aver addotto correttamente i paralleli di PHerc. 182 e di PHerc. 307, papiri in cui si e` verificato con sicurezza un’in-

44 Come nelle cornici 1-6, anche nel pezzo 1 della cornice 7 e ` conservato il solo margine inferiore, che misura circa 1,8 cm. Il numero medio di linee conservate per colonna si aggira intorno a 35. La larghezza della colonna di scrittura va da 5,3 a 6 cm. L’intercolunnio varia da 0,7 a 1,2 cm, lo spazio intercolonnare da 6 a 7,2 cm. Tali misurazioni sono puramente indicative a causa del cattivo stato di conservazione e della confusione stratigrafica presente nel frammento in questione. 45 Si veda E. DU ¨ RR, Bemerkungen cit., p. 138. 46 Ma questo argomento non e ` decisivo, in quanto i contorni dei pezzi sono assai regolari.

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versione nella sequenza dei frammenti,47 sembrava voler condurre quasi per mano il lettore verso quest’ultima conclusione. Senonche´, la constatata incoerenza tra la data di svolgimento di PHerc. 1008 fornita dal Catalogo del 1807 (agosto 1792) e quella vergata sul supporto cartaceo a cui sono incollati i pezzi 1 e 2 della cornice 7 (1802), ha indotto la studiosa a escludere questa ipotesi e a immaginare che il pezzo 1 della cornice 7 provenisse piuttosto da una parte del De superbia, o piu` in generale del De vitiis, contenuta in un papiro diverso da PHerc. 1008.48 Ma in realta` l’informazione desumibile dalla cornice 7 e` priva di ogni fondamento storico. E` stato recentemente dimostrato che sul rovescio del foglio a cui sono attualmente incollati i due pezzi appartenenti a questa cornice erano stati precedentemente fissati, nel periodo successivo al 1804,49 alcuni frammenti di PHerc. 1479 (frr. 1a. A B, secondo il sistema di Hayter). Questi ultimi furono staccati dal supporto in questione intorno al 1865 per essere incollati a un nuovo cartoncino, secondo una prassi attestata anche nel caso di altri papiri.50 A partire da questa data il vecchio supporto cartaceo, resosi disponibile in seguito a tale operazione, fu riutilizzato per fissarvi i due pezzi dell’attuale cornice 7. Solo allora vi pote´ essere vergata l’informazione a cui si riferisce Du¨rr («svolto nel 1802 ad opera di D(on) Antonio Lentari»). Essa, cioe`, fu aggiunta piu` di sessanta anni dopo l’asserita data di svolgimento di PHerc. 1008 e fu scritta da qualcuno che non era piu` in grado di ordinare i pezzi correttamente, se incollo` insieme due frammenti cosı` differenti come i pezzi 1 e 2 dell’attuale cornice 7. Da dove tale informazione spunti fuori non e` possibile sapere. In ogni caso essa non possiede alcuna autorita`. Il pezzo 1 della cornice 7, pertanto, dovette essere svolto prima delle cornici 1-6 e dunque prima di agosto del 1792. Si perviene cosı` per PHerc. 1008 a un numero complessivo di ventinove colonne di scrittura conservate. Delle quattro nuove colonne ora recuperate dovranno inevitabilmente tenere conto i futuri editori del papiro. Nella presente edizione, che include una ricostruzione testuale soltanto parziale, ho preferito mantenere per comodita` di citazione la numerazione delle colonne adottata da Jensen.

Per questi due casi cfr. infra, p. 225. Si veda E. DU¨RR, Bemerkungen cit., p. 138. ` la data dello svolgimento definitivo di PHerc. 1479. Si veda il Catalogo del 1807. 49 E 50 Si tratta di PHerc. 177, PHerc. 1067, PHerc. 1392, PHerc. 1400, PHerc. 1421, PHerc. 1484, PHerc. 1489, PHerc. 1535, PHerc. 1658, PHerc. 1696. Si veda H. ESSLER, Bilder von Papyri und Papyri als Bilder, «CErc», XXXVI, 2006, pp. 121-124. Ringrazio l’Autore per aver cortesemente messo a mia disposizione il testo del suo articolo in anticipo rispetto alla pubblicazione. 47

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Resta ora da chiedersi quando e in che modo possa essere avvenuto l’errore di catalogazione dei due pezzi contenuti nella cornice 7. Edeltraud Du¨rr lo faceva risalire all’epoca della nuova sistemazione del patrimonio papiraceo operata da Domenico Bassi tra il 1908 e il 1910,51 ma che in realta`, come vedremo subito, inizio` gia` nel 1906 con la rimozione dei papiri appesi al muro. L’operazione consistette nell’incorniciare un gran numero di pezzi sciolti che giacevano da molto tempo accatastati l’uno sull’altro negli armadi. A partire da tali pezzi si realizzarono 753 nuove cornici, delle quali 608 relative a 164 papiri che per la prima volta venivano messi a disposizione degli studiosi, e 145 che venivano a integrare 36 papiri gia` in precedenza posti in cornice. Il numero complessivo delle cornici (vecchie e nuove) raggiunse le 1650 unita` per un totale di 310 papiri.52 Come e` stato dimostrato, in questa sistemazione non mancarono disattenzioni di diverso tipo che si possono riassumere in due categorie: a) frammenti papiracei furono erroneamente associati a papiri gia` incorniciati cui non appartenevano; b) frammenti provenienti da rotoli differenti furono incorniciati insieme. PHerc. 1008, appartenente a quei trentasei che furono integrati con l’aggiunta di una o piu` cornici, subı` l’uno e l’altro tipo di sorte.53 A questi due generi di errore si deve aggiungere il caso di quei frammenti che, pur essendo stati correttamente riuniti al papiro di cui in principio facevano parte, furono catalogati con un numero non corrispondente all’originaria sequenza dei pezzi, facendo sı` che porzioni originariamente situate al principio del volume svolto fossero collocate per errore in mezzo o al termine di esso (c). Come abbiamo visto, nemmeno a quest’ultimo accidente e` sfuggito il nostro papiro, alle cui cornici 1-6 fu erroneamente posposto il pezzo 1 della cornice 7. Per comprendere meglio la genesi storica di questo equivoco e` necessario fare un passo indietro nel tempo e ricostruire, nei limiti del possibile, la storia di PHerc. 1008 successiva al suo definitivo svolgimento. Alcune importanti novita` in proposito sono emerse 51 Si vedano E. DU ¨ RR, Bemerkungen cit., p. 137, ed EAD ., Sulla catalogazione di alcuni papiri ercolanesi, «CErc», XVIII, 1988, pp. 215-217. 52 Si vedano D. BASSI , L’Officina dei Papiri Ercolanesi nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Lettera aperta al Direttore della Rivista di filologia e d’istruzione classica, «RFIC», XLI, 1913, pp. 193-201; E. DU¨RR, Sulla catalogazione cit., p. 215, e anche A. TRAVAGLIONE-G. DEL MASTRO, Sistemazione dei papiri privi di supporto, «CErc», XXXV, 2005, p. 216 sg. 53 Da questo momento in poi i cataloghi dell’Officina parlano di una settima cornice. Si vedano D. BASSI, Officina dei Papiri Ercolanesi: Inventario topografico dei papiri in cornice. Collocazione definitiva - 26 dicembre 1910 - Per uso della Direzione dell’Officina: AOP Ba XIX 10; Officina dei Papiri Ercolanesi. Elenco di tutti i Papiri messi in cornice, AOP Ba XXII 7; G. GUERRIERI, L’Officina dei Papiri Ercolanesi dal 1752 al 1952, in I papiri ercolanesi I, Napoli, s.e. 1954 («I Quaderni della Biblioteca Nazionale di Napoli», III 5), p. 39, e CatPErc, p. 219.

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dai recentissimi studi condotti da Holger Essler sull’appensione dei papiri svolti.54 Innanzitutto, sebbene non sia possibile determinarla con maggiore precisione, e` stato stabilito che con ogni verosimiglianza la divisione in pezzi del nostro e dei primi papiri svolti avvenne tra il 1796, l’anno della morte di Antonio Piaggio, e il 1802, anno che segna l’arrivo di John Hayter a Napoli e l’inizio della sua attivita` nell’Officina dei Papiri.55 Finche´ visse il padre scolopio, infatti, e` probabile che i papiri svolti fossero conservati ancora per intero.56 Inoltre, dall’Inventario del 1823 si e` dedotto che almeno fino al 1819 il nostro papiro era custodito nella «Stanza terza» dell’Officina insieme ad altri sei papiri 57 e che, piu` precisamente, esso era distribuito in pezzi nelle tavolette 72-77 dell’Armadio II.58 Tra questa data e il 1823 (o, al piu` tardi, il 1824) il contenuto delle sei tavolette in questione venne posto in altrettante cornici di legno munite di coperchio vitreo le quali, secondo la consuetudine allora in voga, furono appese al muro della stessa stanza in sei «quadretti».59 Si trattava presumibilmente delle attuali cornici 1-6 e soltanto di esse, visto che di solito i pezzi meglio conservati erano distribuiti singolarmente uno per cornice.60 Solo due pezzi, giudicati «inutili» probabilmente perche´ scarsamente leggibili, rimasero in forma sciolta, cioe` senza essere incollati a un foglio di carta, sulla tavoletta 670 dell’Armadio XII insieme a frammenti di altri papiri, tra cui sicuramente quelli non appesi di PHerc. 1007.61 Dei Si veda H. ESSLER, Bilder von Papyri cit., pp. 103-143. Si tratta di PHerc. 1007, PHerc. 1021, PHerc. 1065, PHerc. 1418, PHerc. 1424, PHerc. 1425, PHerc. 1426, PHerc. 1427, PHerc. 1669, PHerc. 1670, PHerc. 1672, PHerc. 1673, PHerc. 1674, PHerc. 1675, PHerc. 1676. ` questa l’opinione di H. ESSLER, Bilder von Papyri cit., p. 105 e nota 14. 56 E 57 Si trattava di PHerc. 336/1150, PHerc. 1055, PHerc. 1423, PHerc. 1424, PHerc. 1426, PHerc. 1669. 58 Si veda Inventario de’ Papiri Ercolanesi, Napoli 1823, AOP Ba XVII 11 (prima della correzione), e H. ESSLER, Bilder von Papyri cit., p. 111. Solitamente i frammenti papiracei meglio conservati erano incollati a fogli di carta di colore celeste o bianco, che a loro volta venivano fissati a pezzi di legno o di cartone (i cosiddetti cartoni) e riposti in armadi. Le «tavolette» di cui parlano gli inventari erano presumibilmente i ripiani o pannelli di legno su cui giacevano i cartoni e anche i frammenti sciolti all’interno degli armadi. 59 Si vedano l’Inventario del 1823, sotto Osservazioni (dopo la correzione): «Vi sono rimasti solam(en)te nella t(avolett)a 670 due pezzi inutili. Ciocche´ interessa e` posto in sei quadretti gia` appesi al muro», e l’Inventario del 1824: «Vi sono rimasti solamente nella tavola 670 due pezzi inutili. Ciocche´ interessa e` posto in sei quadretti sospesi al muro». Ancora l’Inventario del 1853 collocava le sei cornici al muro della Stanza terza. 60 Si vedano E. DU ¨ RR, Bemerkungen cit., p. 136 sg.; H. ESSLER , Bilder von Papyri cit., p. 111 e nota 53. 61 Si vedano l’Inventario del 1823 e l’Inventario del 1824. Per PHerc. 1007, cfr. l’Inventario del 1823, sotto Osservazioni (prima della correzione): «originale che interpre(ta)to trovasi posto 54

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due pezzi in questione uno era sicuramente il pezzo 1 dell’attuale cornice 7 e l’altro, probabilmente, il pezzo 2 della medesima cornice. L’abitudine di appendere solo i frammenti piu` completi e meglio conservati di ciascun volume, prendendoli soprattutto dalla parte finale, cioe` piu` interna, del rotolo, era del tutto comune ed e` attestata per la maggior parte dei papiri. Allo stesso tempo si lasciavano da parte, accatastati l’uno sull’altro in armadi con o senza supporto cartaceo, i pezzi iniziali e piu` esterni del volume, in quanto assai fragili, difficilmente leggibili e meno appariscenti dal punto di vista estetico.62 Le cornici 1-6 di PHerc. 1008 rimasero appese al muro per piu` di otto decenni fino agli anni 1906-1908, quando Domenico Bassi, appena nominato direttore dell’Officina, allo scopo di proteggerle dalla luce, dalla polvere e dall’umidita` e da altri danni di tipo meccanico, fece rimuovere tutte le cornici appese sino ad allora e le fece sistemare su ripiani orizzontali all’interno di armadi a tal fine opportunamente costruiti. In questo periodo e negli anni immediatamente successivi egli dispose anche che i pezzi sciolti ammassati l’uno sull’altro nei vecchi armadi fossero fissati a tavolette di legno, secondo il metodo introdotto da Hayter. Queste tavolette, poi, vennero fatte da lui collocare in cornici dotate di vetro dello stesso tipo di quelle in cui erano stati posti i pezzi rimossi dal muro e vennero riposte anch’esse in appositi armadi.63 E` in questa fase, quando si tratto` di riunire i pezzi precedentemente appesi di ogni singolo papiro a quelli prima lasciati da parte e ora per la prima volta incorniciati, che si verificarono svariati errori di catalogazione, i quali condussero in piu` occasioni a uno stravolgimento della sequenza originaria dei pezzi. Il fenomeno piu` semplice e diffuso e` quello dell’inversione, per il quale alle vecchie cornici appese, contenenti i pezzi finali di un determinato volume, si posposero pezzi appena incorniciati che provenivano da sezioni anteriori dello stesso papiro. in sei quadretti [...] attaccato al muro in sei quadretti, ed il rimanente posto nella tavoletta 670». Si veda anche H. ESSLER, Bilder von Papyri cit., p. 111 nota 51. Dopo che i pezzi migliori di ciascun papiro venivano appesi, si rendevano disponibili nuove tavolette nelle quali, sempre all’interno degli armadi, si raccoglievano i frammenti peggio conservati. Che per carenza di spazio pezzi appartenenti a volumi differenti potessero essere raccolti in una medesima tavoletta non era cosa insolita. Tale prassi e` confermata proprio per il nostro papiro dall’Inventario del 1853, che pone i frammenti residui di PHerc. 1008 sulla tavoletta VIII 115 insieme a quelli di PHerc. 1010. Ringrazio Holger Essler per avermi chiarito le idee su questo punto. 62 Per i criteri di selezione dei pezzi da appendere vedasi H. ESSLER , Bilder von Papyri cit., p. 125 sg. 63 Si vedano A. TRAVAGLIONE -G. DEL MASTRO , art. cit., p. 216 sg.; H. ESSLER, Bilder von Papyri cit., p. 108; p. 126 sg.

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E` il caso di PHerc. 182, costituito di 20 cornici, di cui le cornici 17-20, originariamente precedenti, furono posposte alle cornici 1-16, che in realta` sono le ultime del volume, come testimonia la presenza della subscriptio alla fine della cornice 16. O il caso di PHerc. 307, comprendente 12 cornici, delle quali le cornici 6-12, le prime nella sequenza originaria del volume, furono erroneamente posposte alle cornici 1-5, contenenti gli ultimi pezzi. Non desta percio` piu` meraviglia che la subscriptio sia contenuta nella cornice 5. Il medesimo fenomeno e` stato messo in luce nel caso di non pochi altri papiri.64 Di questi come di altri volumi Essler, studiando la numerazione hayteriana dei pezzi sovente ancora leggibile nei disegni oxoniensi, e` stato in grado di ricostruire in modo sicuro la successione originaria dei pezzi, correggendo in diversi punti gli ultimi editori delle opere ivi contenute.65 Ebbene, anche se malauguratamente per esso i disegni in questione non esibiscono la numerazione di Hayter, PHerc. 1008 deve aver subito una sorte del tutto analoga. In origine, cioe` prima del 1824, il rotolo era costituito dai seguenti frammenti: all’inizio il pezzo 1 dell’attuale cornice 7, poi in ordine successivo le cornici 1, 2, 3, 4, 5 e 6, la quale contiene la subscriptio e segnala la fine del volume. Poi, sempre prima del 1824, mentre i pezzi meglio conservati, cioe` le cornici 1-6, furono appesi al muro, venne lasciato sulla tavoletta 670 il solo pezzo 1 dell’attuale cornice 7 insieme a un altro frammento di diversa provenienza di cui non sappiamo nulla.66 Quando infine, a partire dal 1906, le cornici 1-6 vennero tirate giu` e si tratto` di riunire ad esse la parte rimanente che non era stata appesa, i due pezzi precedentemente collocati sulla tavoletta 670 furono posti insieme in una nuova cornice a cui si assegno` il numero 7 e che, come nel caso della classe di papiri sopra descritta, fu indebitamente posposta alle cornici 1-6. E` cosı` spiegata l’origine storica dell’errata collocazione del pezzo 1 della cornice 7. Rimane da chiarire come un frammento con caratteristiche cosı` differenti come il pezzo 2 possa essere finito insieme al pezzo 1. La risposta a questa domanda, inevitabilmente incompleta, si nasconde ancora una volta nei due Inventari del 1823 e del 1824. E` infatti in essi che si parla per la 64 Si tratta di PHerc. 57, PHerc.128, PHerc.168, PHerc. 807, PHerc. 832, PHerc. 873, PHerc. 1013, PHerc. 1138, PHerc. 1186, PHerc. 1258, PHerc. 1457. Vi sono anche papiri, come PHerc. 1038 e PHerc. 1414, di cui i pezzi appena incorniciati furono inseriti nel bel mezzo delle cornici precedentemente appese e finanche casi piu` articolati. Si vedano E. DU¨RR, Bemerkungen cit., p. 138; H. ESSLER, Bilder von Papyri cit., p. 104 sg.; p. 125 e note 143-144. 65 Cfr. ivi, pp. 125-129. 66 Potrebbe trattarsi del pezzo 2 della medesima cornice o anche di un altro frammento in seguito perduto o diversamente numerato.

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prima volta di «due pezzi inutili» avanzati in seguito all’appensione delle cornici 1-6 di PHerc. 1008 ed e` dunque prima del 1824 che l’errore deve essersi verificato. Allo stesso tempo sappiamo anche che l’Inventario del 1823, prima della correzione e dell’aggiunta della nuova espressione con la menzione dei due pezzi non appesi, poi ripetuta quasi identica in quello del 1824, collocava l’intero papiro sulle Tavolette 72-77 dell’Armadio II senza fare alcun riferimento ai due frammenti in questione. Cio` significa che ancora nel 1819, data in cui fu iniziato l’Inventario del 1823, o in uno degli anni immediatamente successivi, tutti i pezzi allora attribuiti a PHerc. 1008, e cioe` tanto il pezzo 1 dell’attuale cornice 7 quanto quelli contenuti nelle attuali cornici 1-6, si trovavano insieme, probabilmente nella sequenza originaria, su queste sei tavolette e che il primo non era stato ancora separato dalle seconde, evidentemente perche´ prima dell’appensione di queste non vi era alcun motivo di farlo. E` dunque al periodo compreso tra il 1819 e il 1824 che l’errore di associazione dei due pezzi della cornice 7 deve essere fatto risalire. Sulla provenienza, poi, del pezzo 2 e sul rotolo a cui esso apparteneva non e` possibile allo stato attuale affermare nulla di certo.

2. STATO

DI CONSERVAZIONE

PHerc. 1008 e` acefalo e si presenta decurtato della fascia superiore del kollema, talche´ ogni colonna risulta mancante delle prime linee. Cio` e` dovuto al fatto che, come segnala l’Inventario del 1782-86, il volume originario era «mancante di uno de’ suoi estremi».67 Delle quattro colonne preservate nel pezzo 1 della cornice 7, le prime due sono in pessime condizioni e le lettere chiaramente decifrabili scarse; nelle altre due, invece, si possono ancora leggere svariate parole e spezzoni di parola. In seguito a un’accurata autopsia sara` forse possibile ottenere, anche con l’ausilio delle recenti fotografie multispettrali, una vera e propria ricostruzione testuale. Il fr. 1 e le coll. 1-4 sono assai lacunose, mentre le coll. 5-9 sono conservate in condizioni di sufficiente o discreta intelligibilita`, tali da consentire molto spesso di ricostruire continuativamente il senso logico del discorso. Le coll. 10-24, infine, si presentano in condizioni complessivamente buone. Fanno in parte eccezione le sole coll. 10 e 11, dove molte lettere risultano cancellate o di incerta identificazione. Molte colonne presentano una o piu` lacune dovute 67

Cfr. supra, p. 210.

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al distacco di frammenti piu` o meno ampi di papiro che durante la fase di svolgimento del volume rimasero incollati allo strato sovrastante (sovrapposti). Per esse ci vengono in aiuto i piu` antichi disegni napoletani (N1), in cui sono sistematicamente registrati tali sovrapposti, i quali furono poi quasi sempre distaccati per consentire la lettura e trascrizione dello strato sottostante e andarono cosı` irrimediabilmente perduti.

3. FORMATO I pezzi contenuti nelle cornici 1-6 misurano in lunghezza 1,688 m complessivamente. Ad essi si deve aggiungere il pezzo 1 della cornice 7 (cm 18,5 l) per un totale di 1,873 m di papiro conservato. Malauguratamente nella porzione di testo corrispondente alle coll. 10-24 non vi e` traccia di notazioni sticometriche e cosı`, allo stato attuale, non e` possibile risalire alla lunghezza originaria del volume. Quello che a 22 30 dal solo esame delle fotografie multispettrali sembrerebbe una lettera sticometrica (G?), all’atto della verifica autoptica si e` rivelato essere in realta` una lacerazione del papiro. Lo stesso dicasi dei punti sticometrici, del tutto assenti nell’originale. Quelle piccole macchie scure che nelle fotografie compaiono di tanto in tanto a intervallo irregolare nello spazio intercolonnare sono in realta` del tutto apparenti e non trovano riscontro alcuno nel papiro. Non e` la prima volta che si verificano casi di questo genere. Essi sono l’ennesima testimonianza di quanta prudenza sia necessaria nell’uso di queste immagini e di come in ogni caso esse non possano mai sostituire l’esame autoptico dell’originale. Anche alla fine del rotolo e` omesso il numero totale delle linee, contrariamente a quanto succede nel caso di altri volumi della biblioteca ercolanese. L’altezza dei pezzi conservati oscilla tra 15,8 e 16,3 cm, piu` o meno corrispondente a quella indicata per PHerc. 1008 dall’Inventario del 17821786 (once 7. 1/5 = circa 15,873 cm) 68 ma, come si e` detto, tutti i kollemata sono mutili della fascia sommitale e non risulta pertanto possibile una ricostruzione sicura dell’altezza originaria.69 A motivo dell’ottima qualita` 68 Un’oncia equivaleva a circa 2,2046 cm. Si vedano C. KNIGHT-A. JORIO , L’ubicazione della Villa ercolanese dei papiri, «RAAN», LV, 1980, p. 59 nota 16; p. 61 nota 1; p. 65; D. BLANKF. LONGO AURICCHIO, An Inventory cit., p. 136 nota 19. Ma cfr. anche IID., Inventari antichi cit., p. 40 nota 14, dove quest’unita` di misura e` equiparata a circa 2 cm. 69 L’altezza del rotolo ercolanese si aggirava tra cm 19 e cm 24 con una media di cm 21-22 ed era comune anche nei rotoli greco-egizi, sia in poesia che in prosa, di eta` tolemaica e romana. Si vedano G. CAVALLO, op. cit., p. 48; M. CAPASSO, Manuale di Papirologia Ercolanese, Napoli, Congedo 1993, p. 205.

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della carta e delle incollature, non e` sempre possibile individuare le kolleseis.70 Le sezioni, che variano da 4,1 a 1,1 cm, si presentano piuttosto accentuate nel nostro papiro a motivo della compressione cagionata dal peso del fango lavico.71 Le volute oscillano tra 6,9 cm della cornice 1 e 2,2 cm della cornice 6. Il valore della voluta piu` ampia equivale a quello della circonferenza originaria della porzione di volume corrispondente alle cornici 1-6, il cui diametro era dunque di 2,197 cm. La voluta piu` piccola equivale a sua volta alla circonferenza dell’umbilicus intorno al quale era avvolto il rotolo, il cui diametro misurava quindi 0,7 cm. Il pezzo 1 della cornice 7, invece, ha una voluta di 8,4 cm, 1,5 in piu` rispetto alla cornice 1. Il diametro del volume in questo punto era percio` di 2,675 cm (0,478 in piu` rispetto a quello della cornice 1) e la sua estensione di qui sino alla fine m 2,783. Cio` significa che il pezzo 1 della cornice 7 va collocato diverse volute prima del pezzo contenuto nella cornice 1, e non immediatamente davanti ad esso, e che pertanto tra l’inizio dell’uno e l’inizio dell’altro doveva essere originariamente compresa una porzione di papiro di 1,095 m. Si deve anche osservare che i valori della voluta e del diametro e l’estensione del papiro all’altezza del pezzo 1 della cornice 7, cosı` come da me calcolati, risultano essere del tutto sottodimensionati rispetto alla media ercolanese.72 E soprattutto essi non corrispondono a quello che l’Inventario del 1782-1786 assegna alla porzione di PHerc. 1008 all’epoca ancora da svolgere. Quest’ultima, infatti, e` detta avere un diametro di once 1. 4/5, cioe` di circa 3,968 cm, equivalente a una circonferenza di 12,459 cm e a un’estensione totale di 6,178 m. Invece, come si e` detto, la voluta del pezzo 1 della cornice 7 misura 8,4 cm e il diametro intorno a 2,675 cm, mentre l’estensione del volume svolto da questo punto sino alla fine doveva essere di circa 2,783 m. Cio` comporta una differenza di ben 3,395 m di papiro, una cifra considerevole che non e` possibile imputare soltanto alla forma irregolare con cui ci sono pervenuti molti volumi ercolanesi e l’approssima70 Per kolleseis e kollemata nei papiri ercolanesi si vedano G. CAVALLO , op. cit., p. 16 sg., e M. CAPASSO, Manuale cit., pp. 205-208. 71 Cio ` e` confermato dall’Inventario del 1782-86 che definisce PHerc. 1008 «compresso per lungo, e con pieghe rilevate». 72 E. PUGLIA, Note bibliologiche e sticometriche, «ZPE», CXIX, 1997, pp. 123-127, e R. JANKO (ed.), op. cit., pp. 109-114 e 119, stabiliscono l’estensione media di un volume ercolanese intorno a 15-16 m, con una punta massima di circa 23,4 m nel caso del rotolo contenente il De pietate. G. CAVALLO, op. cit., p. 47, seguito da M. CAPASSO, Manuale cit., p. 205, la collocava invece su valori prossimi a 10 m e non superiori a 12. Per i papiri greco-egizi, si veda W.A. JOHNSON, The Literary Papyrus Roll: Formats and Conventions. An Analysis of the Evidence from Oxyrhynchus, Diss. Yale, UMI 1992, pp. 203-210 = Bookrolls and Scribes in Oxyrhynchus, Toronto, Univ. Press 2004, pp. 143-152.

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zione con la quale venivano effettuate le misurazioni nel XVIII secolo. Tale differenza non puo` che significare che, oltre alle «porzioni gia` svolte» a cui fa riferimento l’Inventario del 1782-86 e che sono andate perdute, vi erano altre consistenti sezioni della parte di volume all’epoca ancora da svolgere di cui dopo lo svolgimento si perse ogni traccia e, precisamente: a) una porzione di 3,395 m compresa tra l’inizio della parte di rotolo all’epoca non ancora svolta e il pezzo 1 della cornice 7, equivalente a circa 52 colonne di scrittura, e b) una porzione di 0,910 m inclusa tra la fine di questo pezzo e l’inizio della cornice 1, corrispondente a piu` di 14 colonne. Esse dovettero essere svolte con la macchina di Piaggio, come il resto del volume, negli anni immediatamente successivi alla compilazione dell’inventario e comunque prima dell’agosto 1792, quando si svolse la parte piu` interna in nostro possesso. In questa fase potrebbero essere state staccate e catalogate sotto un numero differente dal 1008 e in seguito si perse il ricordo della loro primitiva appartenenza a questo papiro o potrebbero anche essere andate irrimediabilmente perdute. Se i miei calcoli sono corretti, queste porzioni ‘svanite’ dovevano misurare assieme circa 4,305 m, equivalente a piu` di 66 colonne e a circa il settanta per cento del rotolo ancora da svolgere all’epoca in cui fu redatto l’inventario, mentre il numero totale delle colonne ad esso relativo doveva aggirarsi intorno a 95. Se a queste si aggiungono quelle contenute nelle «porzioni gia` svolte», le quali, come ho mostrato piu` sopra, dovevano essere piuttosto esigue, si perviene a una cifra complessiva non molto lontana dalle 100 colonne di scrittura.

4. SPAZIO

SCRITTO E SPAZIO NON SCRITTO

Cosı` come per la mutilazione della fascia superiore del kollema non siamo in grado di stabilire l’altezza del volume, risulta parimenti impossibile definire l’altezza della colonna.73 Gia` Sauppe affermava che molto ridotto doveva essere il numero di linee perdute all’inizio di ogni colonna se, come sembra, e` possibile ravvisare una continuita` di senso tra una colonna e l’altra. La mia ipotesi di ricostruzione testuale della sommita` delle coll. 10-24, basata su un principio di economia logica e che e` puramente indicativa, mi induce a immaginare che verosimilmente il numero minimo di linee perdute in ciascuna colonna dovesse oscillare, a seconda dei casi, da uno a due. 73 Che nel caso dei rotoli ercolanesi, come del resto in quello dei papiri greco-egizi, copriva i 3/4 o i 4/5 della pagina. Si veda M. CAPASSO, Manuale cit., p. 208.

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Onde, limitatamente a tale sezione, il numero totale di linee per colonna doveva essere compreso tra 36 e 41, per una media di 38,4, cifra che ci consente di includere PHerc. 1008 all’interno della classe di papiri che lo presentano piu` elevato.74 In ogni caso, se si esclude l’ultima colonna del volume (col. 24), la differenza tra la colonna piu` lunga e quella piu` breve e` considerevole (6 linee) e non va percio` esclusa la possibilita` di un cambio di formato alla fine del volume, a partire dalla col. 12.75 La larghezza della colonna varia approssimativamente da 5,1 a 6,3 cm, vale a dire pienamente in linea con il formato piu` diffuso tra i papiri greco-ercolanesi.76 Il numero totale di lettere per linea e` attestato tra 17 e 27 con una media compresa tra 19,8 della col. 10 e 22,9 della col. 15.77 L’allineamento della colonna e` a sinistra e le linee formano con il margine inferiore un angolo compreso tra 1 e 2 gradi. E` dunque confermata l’osservanza della legge di Maas anche nei papiri ercolanesi.78 Dei margini rimane solo quello inferiore che misura intorno a 2,2 cm. L’intercolunnio oscilla tra 0,4 e 1,5 cm e lo spazio intercolonnare si attesta tra 6,2 e 6,9 cm con una media di 6,492 cm.79 5. TITOLO Si e` gia` mostrato che il volume cui apparteneva PHerc. 1008 era dotato di titolo iniziale. Immaginando che fosse formulato nella versione piu` completa 74 Mario Capasso (ibid.), classifica i rotoli ercolanesi in quattro classi: la prima comprende rotoli che hanno 25-30 linee per colonna (ad es. PHerc. 994/1676 e PHerc. 1007/1673), la seconda 30-34 (ad es. PHerc. 1423, PHerc. 1426 e PHerc. 1027), la terza 34-38 (ad es. PHerc. 1050, PHerc. 1065, PHerc. 1425 e PHerc. 1427), la quarta ed ultima, infine, fino a 40 ed anche oltre (ad es. PHerc. 1021, PHerc. 1424, PHerc. 1497 e PHerc. 1672). Gia` H. SAUPPE (ed.), op. cit., p. 10, attribuiva 38 linee ad ogni colonna, ad eccezione delle coll. 14 e 15. CH. JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiw= n cit., p. VIII, invece, riteneva che tale numero dovesse essere compreso tra 45 e 49 linee (cifra affatto eccezionale per i papiri greco-ercolanesi) sulla base dell’analogia con PHerc. 1424, il quale mostra caratteristiche affini a quelle di PHerc. 1008. 75 Dalle 36 linee della col. 11 si passa in grado crescente alle 41 linee della col. 14 attraverso le 37 della col. 12 e le 39 della col. 13. 76 In questi ultimi essa si aggirava tra i 5 e i 6 cm (PHerc. 176, PHerc. 182, PHerc. 1027, PHerc. 1021, ecc.), con un minimo di 4 cm (PHerc. 1425) e un picco di 6-7 cm (PHerc. 1012, PHerc. 1007/1663, PHerc. 1050); supera i 7 cm PHerc. 1672. Gli standard sono pressoche´ coincidenti con quelli dei papiri greco-egizi. Si veda M. CAPASSO, Manuale cit., p. 209. 77 Di regola i volumi ercolanesi contano 15-20 lettere per linea, con punte di 22-24 (PHerc. 1065) e 28-30 (PHerc. 1050). Cfr. ibid. 78 Si vedano D. OBBINK (ed.), Philodemus, On Piety cit., p. 75, e R. JANKO (ed.), op. cit., p. 72 e note 10 e 11. 79 In alcuni rotoli ercolanesi raggiunge anche i cm 16. Si veda M. CAPASSO , Manuale cit., p. 210.

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attestata per altri libri del trattato Sui vizi, esso doveva suonare nel seguente modo: Filodhvmou | Peri; kakiw=n kai; tw=n | ajntikeimevnwn ajretw=n | kai; tw=n ejn oi{c eijci | kai; peri; a} | i v.80 In questa forma lo si ritrova alla fine di PHerc. 1424 (Filodhvmou | Peri; kakiwn= kai; twn= | ajntikeimevnwn ajretwn= | kai; twn= ejn oi{c eijci | kai; peri; a} | q )v e nella prima subscriptio di PHerc. 1675 (Filodhvmou | Peri; kakiw=n kai; tw=n | [ajntik]eimevnwn ajretw=n | ka[i; t]w=n ejn oi{c eijci kai; | pe[ri; a{]). Quanto alla traduzione, propongo: Di Filodemo Sui vizi e le contrapposte virtu` nonche´ sulle persone in cui si manifestano e in rapporto a che cosa. E` ormai assodato che il sottotitolo del decimo libro dell’opera era presumibilmente o{ ejcti | peri; uJperh]fanivac. Sappiamo inoltre che il titolo era scritto in forme ampie e calligrafiche e pertanto di modulo piu` grande e caratteristiche grafiche differenti rispetto a quelle del testo.81 Le stesse caratteristiche si ritrovano nei titoli iniziali di PHerc. 222, PHerc. 253, PHerc. 1457 e PHerc. 1786, recentemente individuati da Mario Capasso.82 Il titolo finale di PHerc. 1008 (l’unico esistente, in quanto non vi e` traccia di una seconda subscriptio) compare a destra dell’ultima colonna, a 1,4 cm di distanza da questa. Esso risulta centrato rispetto alla pagina ed e` scritto secondo la medesima tipologia grafica del testo. La scrittura e` senza orpelli, ne´ variazioni di forma, ductus e tratteggio, solo il modulo risulta leggermente piu` grande. In esso si legge: Filodhvmou | Peri; kakiwn= | i–, la piu` concisa formulazione esistente del titolo di quest’opera. La stessa forma si ritrova alla fine di PHerc. 1457 e nella seconda subscriptio di PHerc. 1675.83 Due forme intermedie sono invece attestate nel titolo iniziale di PHerc. 222 (Filodhvmou | Peri; kakiwn= kai; twn= | ejn oi{c | eijci kai; peri; a} | a. v | o{ [ej]cti | peri; kolakeivac) 84 e in quello, sempre iniziale, di PHerc. 1457 ([Filo]dhv[mo]u. | [Peri; kaki]w=n ka. i; Cfr. supra, p. 212. Cfr. supra, p. 211 nota 12. 82 Sui titoli nel trattato filodemeo Sui vizi si veda M. CAPASSO , Les livres sur la flatterie cit., e A. MONET, art. cit. L’esistenza di titoli iniziali nei volumi greco-ercolanesi e` stata dapprima intuita e in seguito dimostrata dallo stesso Capasso (Il presunto Papiro cit.; ID., I titoli nei papiri ercolanesi II cit., pp. 103-111; ID., I titoli nei papiri ercolanesi IV. Altri tre esempi di titoli iniziali, «PapLup», VII, 1998, pp. 41-74, e ID., Tre titoli iniziali interni in papiri ercolanesi, in I. ANDORLINI-G. BASTIANINI-M. MANFREDI -G. MENCI (edd.), op. cit., I, pp. 177-186). Come si e` detto piu ` sopra, gia` Antonio Piaggio e, sulla sua scia, Camillo Paderni e Johann J. Winckelmann erano certi che i volumi ercolanesi fossero in origine dotati di titolo iniziale. 83 Si veda M. CAPASSO , I titoli nei papiri ercolanesi I cit., p. 240. 84 T. GARGIULO , art. cit., p. 103 nota 6, e A. ANGELI , Lo svolgimento dei papiri carbonizzati, in M. CAPASSO (ed.), Il rotolo librario. Fabbricazione, Restauro, Organizzazione interna, «PapLup», III, 1994, p. 76, sostengono che la sequenza ^ ajntikeimevnwn ajretwn= kai; twn= & potrebbe essere caduta per aplografia, ma vedasi quanto dice in senso contrario M. CAPASSO, Tre titoli iniziali cit., p. 180 sg., e ID., Les livres sur la flatterie cit., p. 180 sg. 80

81

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PARTE TERZA

twn= . | [ajntikeimevnwn] aj. r[etwn= | b v | o{ ej]c. ti | [peri;] kol. [akeivai oJmoeidwn= ]).85

Questi ultimi tre titoli, insieme alla subscriptio di PHerc. 1424, appartengono a una medesima tipologia grafica, diversa e piu` accurata rispetto a quella del testo.86 La mano che ha vergato la subscriptio di PHerc. 1008 e` stata attribuita da Guglielmo Cavallo al cosiddetto «Anonimo XXV» ed e` la stessa identificabile nelle soscrizioni di PHerc. 110, PHerc. 140, PHerc. 222, PHerc. 253, PHerc. 465, PHerc. 671, PHerc. 896, PHerc. 1077 (pezzi 8-10, 12), PHerc. 1082, PHerc. 1089, PHerc. 1092, PHerc. 1424, PHerc. 1457, PHerc. 1613, PHerc. 1643 e PHerc. 1675, per la stragrande maggioranza papiri appartenenti al trattato Sui vizi, e la stessa del testo.

6. SEGNI,

ABBREVIAZIONI , CORREZIONI

PHerc. 1008 e` particolarmente ricco di segni, al punto che l’argomento e` stato oggetto di studi specifici.87 Assai frequenti sono le paragraphoi, sempre di primo tipo,88 le quali si presentano sotto forma di tratti orizzontali di pochi millimetri ( _ ), talora leggermente concavi verso l’alto, apposti sotto la prima lettera della linea corrispondente. Esse, spesso accompagnate dallo spatium vacuum, breve spazio vuoto delle dimensioni di una o piu` raramente due lettere, servono a segnalare la presenza di una pausa forte. In particolare, nelle coll. 10-16, contenenti la prima sezione del De liberando a superbia, le paragraphoi marcano l’inizio e la fine di ciascuna esortazione o dissuasione, delle diverse parti in cui queste si articolano al loro interno e specialmente di ciascun esempio storico ivi riportato.89 Nel nostro papiro lo spatium, a volte anche piu` piccolo di una lettera (spatiolum), si trova in moltissimi casi anche da solo a denotare una pausa piu` debole, ma il suo impiego non sembra essere sempre del tutto coerente. Quanto alle coronidi, sono stato in grado di leggerne undici, tutte concentrate nelle coll. 16-24 che, com’e` noto, contengono la sezione etologica dello scritto. 85 L’ipotesi ricostruttiva e ` di M. CAPASSO, I titoli nei papiri ercolanesi II cit., pp. 103-111. Si veda anche ID., Les livres sur la flatterie cit., p. 187 sg. 86 Cfr. ivi, p. 194. 87 Si vedano T. CIRILLO , I segni diacritici nei PHerc. 1251, 1424, 1008, Tesi di laurea, Napoli 2002; G. INDELLI, Segni, abbreviazioni cit., pp. 125-134. 88 Secondo la classificazione di G. DEL MASTRO , La paragraphos nei PHerc. 1425 e 1538, «CErc», XXXI, 2001, pp. 107-131. 89 Apparentemente immotivate sono le paragraphoi di 11 32 e 21 11 (ma quest’ultima potrebbe segnalare la fine dell’inciso di cui ai vv. 10-11).

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Tali segni, sempre accompagnati dalla paragraphos e dallo spatium vacuum, hanno la funzione di indicare una pausa particolarmente forte e uno snodo nell’articolazione del discorso. In particolare, la coronide di 16 28, che ho potuto evincere per primo nel papiro (ma vi sono tracce anche nelle fotografie multispettrali), funge da demarcazione tra la prima e la seconda sezione della lettera, mentre l’ultima (24 29) serve a segnalare la fine del libro. Le altre, invece, hanno sistematicamente la funzione di segnalare la fine della descrizione di ogni vizio e il passaggio a quella successiva.90 Tre di esse sono usate inoltre per indicare la conclusione dell’illustrazione delle conseguenze dell’insolente, del sufficiente e dell’onnisciente (19 18; 20 4; 33).91 Le paragraphoi sono impiegate anche qui per indicare le principali sottosezioni di ciascun carattere. Nelle coll. 10-24 che qui piu` direttamente ci riguardano, si registrano anche un asterisco (w) apposto alla fine della linea presumibilmente come riempitivo (20 19),92 il monogramma per provc (preposizione) o proc- (preverbio),93 un segno ( ) posto forse allo scopo di indicare un luogo notevole (11 25) e infine un comma ( / ) di funzione non chiaramente precisabile (18 31 e forse anche 14 34).94 Quello che, alla fine di 10 10, dal puro esame delle fotografie multispettrali era sembrato un segno forse deputato a segnalare un supplemento dello scriba, si e` dimostrato essere ancora una volta una lacerazione del papiro. Un caso analogo si e` verificato con il segno che compare sul margine sinistro della col. 11 tra i vv. 25 e 26, che nelle foto sembrava assumere vagamente la forma di una diple obelismene, e come tale e` stato interpretato,95 ma che alla verifica autoptica del papiro si e` rivelato essere probabil90 E cosı`, la conclusione dell’insolente e ` indicata dalla coronide di 17 19, quella del sufficiente dalla coronide di 18 12, quella dell’onnisciente dalla coronide di 19 3. La fine del tronfio e` segnalata dalla coronide di 21 15 e quella dell’altezzoso dalla pallida coronide che ho letto per primo (con qualche difficolta`) a 21 39. Infine, la conclusione dell’ironico e` marcata dalla chiarissima coronide di 24 2 e quella degli ultimi quattro vizi dalla coronide di 24 29, che segna anche la fine del libro. 91 Tracce importanti di quest’ultima coronide ho riscontrato per primo nel margine destro della colonna immediatamente precedente, in corrispondenza dei vv. 34-35. 92 Altre attestazioni di questo uso dell’asterisco in PHILOD . de mus. IV, de piet., PHerc. 163, PHerc. 19/698. Si vedano E.G. TURNER-P.J. PARSONS, Greek Manuscripts of the Ancient World, London, Inst. of Class. Studies 19872 («BICS», Suppl. 46), p. 5 nota 12; D. OBBINK (ed.), Philodemus, On Piety cit., p. 75; p. 78 e nota 3; R. JANKO (ed.), op. cit., p. 73 nota 2. 93 Cfr. 11 22; 12 28; 20 7. Questa abbreviazione e ` attestata anche in altri papiri ercolanesi, tra cui PHerc. 152/157. 94 Per questo segno e la sua possibile funzione si vedano G. INDELLI (ed.), Filodemo, L’ira cit., p. 41; R. JANKO (ed.), op. cit., p. 84 sg., ed ora L. GIULIANO, Segni e particolarita` grafiche nel PHerc. 182 (Filodemo, De ira), «CErc», XXXV, 2005, pp. 141-143. 95 Si veda G. INDELLI , Segni, abbreviazioni cit., p. 127 sg.

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PARTE TERZA

mente una normale paragraphos.96 Inconvenienti di questo tipo sono stati gia` segnalati a proposito della sticometria e anche se nulla tolgono all’ottima qualita` di queste immagini, confermano la precauzione mostrata da alcuni studiosi verso di esse. Se non mancano i segni nel nostro papiro, manca in compenso, come di consueto nei papiri ercolanesi e almeno nelle colonne da me edite, qualunque traccia di accentuazione.97 Correzioni e altri interventi dello scriba, presenti in buon numero anche nelle coll. 10-24,98 sono indicati nello spazio interlineare in tre modi differenti: a) aggiungendo punti al di sopra delle lettere da cancellare (punti di espunzione); 99 b) vergando, sempre al di sopra di esse, le lettere con cui si intende sostituirle; c) aggiungendo eventuali supplementi sopra il punto di desiderato inserimento.100 Essi appartengono alla stessa mano del testo (stessa grafia, ductus e tratteggio) e appaiono vergati con il medesimo calamo e con identico inchiostro.

7. SCRITTURA

E DATAZIONE

Come gia` accennato, la scrittura di PHerc. 1008 rientra, secondo Guglielmo Cavallo, in quello che egli ha definito «Gruppo P».101 Lo scriba, diligente e ben formato, e` l’«Anonimo XXV», che, sempre secondo Cavallo, ha vergato tutti i papiri appartenenti a tale gruppo, ad eccezione di PHerc. 1669.102 Di essi appartengono con sicurezza al trattato Sui Vizi, oltre a PHerc. 1008, PHerc. 222, PHerc. 1089, PHerc. 1424, PHerc. 1457, PHerc. 1643 e PHerc. 1675. Alla stessa opera sono stati associati anche PHerc. 223, PHerc. 237, PHerc. 253, PHerc. 415, PHerc. 465, PHerc. 896, PHerc. 1017, PHerc. 1082, PHerc. 1090, PHerc. 1613, PHerc. 1077 96 Il tratto obliquo superiore della presunta diple obelismene che compare nelle immagini e ` nell’originale del tutto inesistente. 97 Si vedano W. CRO ¨ NERT, Memoria Graeca Herculanensis, Lipsiae, Teubner 1903, p. 8, e R. JANKO (ed.), op. cit., p. 83 e nota 8; p. 84. 98 Si evincono correzioni e supplementi a 10 9-10; 12 35; 13 17; 14 23; 36; 15 25; 22 20; 23 12; 22. 99 Si vedano E.G. TURNER -P.J. PARSONS , op. cit., pp. 8; 16; D. OBBINK (ed.), Philodemus, On Piety cit., p. 76 e nota 4; p. 77 sg.; R. JANKO (ed.), op. cit., p. 82 sg. 100 Per le correzioni nei papiri ercolanesi si vedano G. CAVALLO , op. cit., pp. 23-25; G.M. RISPOLI, Correzioni, varianti, glosse e scolıˆ nei papiri ercolanesi, in B.G. MANDILARAS (ed.), Proceedings of the XVIII International Congress of Papyrology, I, Athens, Greek Papyrol. Society 1988, pp. 309-320; M. CAPASSO, Manuale cit., pp. 218-220. 101 Si veda G. CAVALLO , op. cit., p. 41. 102 Cfr. ivi, p. 46.

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(pezzi 8-10, 12), PHerc. 1643 e PHerc. Paris 2.103 La scrittura, che corre parallela alle fibre, e` una maiuscola semplice e formale, diritta, senza legature ne´ decorazioni, se si eccettuano specie di «trattini di coronamento fugacemente e disorganicamente accennati».104 Essa e` simile alla maiuscola romana rotonda e, soprattutto, al cosiddetto stile ‘‘epsilon-theta’’, una variante della maiuscola biblica caratterizzata da alcune lettere spiccatamente rotonde, tutte inscrivibili in un cerchio delle stesse dimensioni (e, q, o, c).105 Si osserva una rigorosa bilinearita` da cui non si discostano nemmeno r ed u, ma soltanto, come di consueto, f e y. La prima lettera di ogni linea e` solitamente piu` grande delle successive, mentre le ultime lettere si presentano spesso strette le une alle altre e di dimensioni inferiori al normale. t e` eseguita in due tratti, u in tre. L’a presenta il tratto mediano sia orizzontale sia obliquo. All’inizio della linea puo` presentarsi con il tratto obliquo sinistro eseguito in continuita` con il tratto mediano a formare un occhiello in basso a sinistra ( ), mentre a fine linea esso assume talora una forma ancor piu` corsiva, caratterizzata da un occhiello piu` ampio realizzato in maniera diversa e in continuita` con il tratto obliquo destro, senza mai staccare il calamo dal foglio ( ). Il m e` eseguito in quattro movimenti, con le aste terminali leggermente divaricate. La pancia e` piuttosto angolare, ma tendente alla rotondita`. L’e presenta il tratto mediano ora unito ora distaccato dall’arco. Tutti questi elementi considerati nel loro insieme fanno pensare a una datazione collocabile nel I sec. d.C.106 Cavallo adduce a confronto PSI 981, risalente al II sec. d.C., ma vi sono papiri greco-egizi che richiamano lo stesso modulo stilistico databili alla fine del I secolo dell’Era cristiana.107

8. ORTOGRAFIA

E SILLABAZIONE

In PHerc. 1008 la scriptio plena e` regolarmente evitata. Finalizzata a eliminare lo iato, l’elisione si ritrova assai di frequente. In un caso si registra 103 Cfr. ivi, p. 41; F. LONGO AURICCHIO , art. cit., p. 79 sg., e note 5-9; M. CAPASSO, Les livres sur la flatterie cit.; A. MONET, art. cit. 104 G. CAVALLO, op. cit., p. 41. 105 Per lo stile ‘‘epsilon-theta’’ si veda G. CAVALLO , Lo stile di scrittura ‘epsilon-theta’ nei papiri letterari: dall’Egitto ad Ercolano, «CErc», IV, 1974, pp. 33-36. 106 Cosı` ritiene Dirk Obbink (conversazione privata). Il terminus ante quem e ` ovviamente rappresentato dal 79 d.C., anno dell’eruzione pliniana del Vesuvio. Ringrazio anche Peter J. Parsons per la consulenza prestatami su questo punto. 107 Si veda G. CAVALLO , op. cit., p. 55.

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l’elisione del dittongo -ai in katafaiv|necq’eJautwi= (23 11-12). Anche le crasi sono numerose. Nelle coll. 10-24 troviamo: a[n per ejavn (14 12; 20 13), k* ajgaqav (11 35), kajkeiv||[nwi (16 38-17 1), kajn (14 23; 40; 19 22), ka[n (17 31; 22 18; 23 4; 17; 35), ka[peita (14 20), ka[cti (18 19), ka\/ta (11 17), ta\lla (16 23; 26; 17 30; 20 27), tajpoteuvgmata (20 18), taujtov (15 25; 24 5), tou[noma (18 5). Nell’ambito del vocalismo si evince ei per i–108 in meiktovc (16 31) e in mevmei|ktai (19 19-20), w in vece di o nei superlativi tapei|nwtav[i]thi (14 40-41) e te|cnitikwtavtwn (18 32-33), oih in luogo di oh in boihqeicqai (19 = 26). Lo iota mutum e` solitamente ascritto, ma talvolta viene omesso, talaltra viene indebitamente aggiunto, come in a[fnwøiØ (22 15). Nell’ambito del consonantismo si registra z al posto di c in katazmikrivzonta (21 27), k per g in ajnakakcavzein (23 27),109 la sistematica presenza del -n efelcistico davanti a vocale, ma spesso anche di fronte a consonante, come d’uso in Filodemo, la mancata assimilazione della nasale dentale nei composti cunkatabaivnein (19 13), ejnkurein= (19 37), cun|parovntw[n (23 17-18), ejncavckein (23 25) e, infine, la mancata geminazione di r nei composti: ejperavpizon (10 26), metarivptein (10 33), procepirhto[r]e. [uv]e. i[n] (11 27). Fa eccezione ejrrw=cqai (17 18). Quanto alla sillabazione, lo scriba segue le regole previste dalla lingua greca.110

9. I

DISEGNI

Come e` noto, i papiri svolti prima del 1806 possiedono normalmente due serie di apografi: i disegni oxoniensi, piu` antichi, fatti eseguire da Antonio Piaggio a partire dal 1754 e da John Hayter tra il 1802 e il 1806, i quali in seguito furono da questo portati prima a Palermo e poi ad Oxford, dove furono riprodotti a stampa negli anni 1824-1825; 111 e i disegni napoletani, che sono gli apografi fatti eseguire dopo il 1806 allo scopo di rimpiazzare i precedenti perduti. Essi, tuttora ivi conservati, furono incisi su 108 Si vedano W. CRO ¨ NERT, Memoria Graeca cit., p. 29 sg.; CH. JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiw= n cit., p. IX. 109 W. CRO ¨ NERT , Memoria Graeca cit., p. 90, scriveva erroneamente ajnakakkavzein, persuaso che il secondo k fosse la correzione di un originario c. 110 Cosı` come sono descritte da D. OBBINK (ed.), Philodemus, On Piety cit., p. 73 sg., e R. JANKO (ed.), op. cit., p. 75 sg. Fanno solo in parte eccezione cr[oni]|cqeivc[h]c (16 2-3) e brenquve|cqai (21 15-16). Cfr. ivi, p. 76 nota 3. 111 Herculanensium voluminum quae supersunt. Pars prima, Oxonii, Clarendon 1824-1825, I-II. I disegni sono conservati in sette volumi rilegati presso la Bodleian Library, MS. Gr. class. c. 1-7.

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rame e pubblicati a Napoli piu` o meno fedelmente nelle tre celebri Collectiones.112 PHerc. 1008, invece, esula da questa regola in quanto possiede ben tre serie di apografi: due serie di disegni napoletani piu` i disegni oxoniensi. Il fatto in questione e` da considerarsi senz’altro eccezionale, anche se documentato per altri tre papiri: PHerc. 1424, PHerc. 1674 e PHerc. 1675.113 Vediamo a che cosa possa essere dovuto. La prima e piu` antica serie di disegni napoletani (N1) fu effettuata da Gennaro Casanova poco dopo lo svolgimento del papiro e comunque prima del 1798.114 La seconda serie di disegni napoletani (N2), invece, fu realizzata da Antonio Lentari nel 1806 ed e` conservata in Officina insieme alla precedente.115 Ora, secondo le indagini effettuate a suo tempo da Domenico Bassi e, piu` recentemente, da Filippo D’Oria, i disegni piu` antichi furono affidati a Pasquale Baffi, accademico ercolanese, tra il dicembre del 1792 e il principio del 1798, insieme a quelli dei tre papiri su menzionati, con l’incarico di interpretarli e di farne una traduzione.116 In seguito essi, a motivo delle vicende politiche nelle quali Baffi fu coinvolto e condannato a morte,117 non furono piu` recuperati fino al 1808, quando la vedova decise di donare all’Officina i manoscritti del defunto marito.118 Si vedano HV 1, HV 2 e HV 3. Si veda F. D’ORIA, Pasquale Baffi e i papiri di Ercolano (con lettere e documenti inediti), in M. GIGANTE (ed.), Contributi cit., p. 126 sg. e nota 92. 114 Cfr. la prima pagina della cartella contenente i disegni napoletani, la cui scrittura e ` dovuta alla mano di Domenico Bassi. Lo stesso Bassi (Papiri Ercolanesi cit., p. 450, da cui dipende CatPErc, p. 219), proponeva, senza fornire spiegazioni, una datazione compresa tra il 1795 e il 1798. Sono conservati 24 disegni compreso il titolo. Mancano i disegni delle coll. 10 e 11. Solo quelli relativi alle coll. 1, 5, 16, 18 e 20 e alla subscriptio sono sottoscritti («Gen(naro) Casanova dis(egnatore)»). Tutti gli altri sono senza firma. 115 Cfr. la prima pagina della cartella contenente i disegni; D. BASSI , Papiri Ercolanesi cit., p. 450; CatPErc, p. 219. Sono conservati 26 disegni compreso il titolo, tutti sottoscritti da Antonio Lentari. 116 Si vedano la Relazione di Francesco La Vega del 3 agosto 1802: «Restano bensı` a ripetersi le trascrizioni di quattro Papiri, perche le gia` fatte si sono disgraziatam(en)te perdute; cosa che conviene mettersi in pratica quanto prima»; la nota apposta in calce allo Stato delle Porzioni del 1803, che recita: «le trascrizioni delle colonnette de’ Papiri 1008, 1424, 1674, 1675, dopo fatte si son perdute in mano del fu Don Pasquale Baffi»; l’Introduzione di Francesco La Vega al teste´ menzionato Stato delle Porzioni, in data 8 febbraio 1803: «[...] quattro, che se ne fecero in altro tempo le copie, ma queste si sono perdute, come da nota, che rimane nello stesso stato in mano di Don Pasquale Baffi, mancato di vivere nelle passate vicende», e Carte di Casa Reale Antica, fascio 1115, f. 21, AOP Ba XVI, Ba XVII e Ba XVIII; D. BASSI, Papiri Ercolanesi cit., pp. 430, 450 e 459; F. D’ORIA, art. cit., pp. 125-128; 154-157; D. BLANK, art. cit., p. 76 e nota 78. 117 Pasquale Baffi fu tra i protagonisti della Rivoluzione Napoletana del 1799 e fu giustiziato come «reo di stato» nel novembre dello stesso anno. 118 Il terminus ante quem e ` il 16 novembre 1808, data riportata da una lettera della Biblioteca Reale (Archivio della Biblioteca Nazionale di Napoli. Manoscritti V A 49-50) con cui si no112

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PARTE TERZA

E` questo il motivo per cui, nel quinquennio in cui Hayter opero` nell’Officina, si decise di far eseguire per i suddetti papiri un’altra serie di apografi (O) che rimpiazzasse quelli perduti.119 Tali disegni furono realizzati per PHerc. 1674 e PHerc. 1424 prima del 16 agosto 1804 rispettivamente da Giovan Battista Malesci e Gennaro Casanova, e per PHerc. 1675 e PHerc. 1008 tra la stessa data e il 31 maggio dell’anno successivo ad opera rispettivamente degli stessi Malesci e Casanova.120 Dunque al 31 maggio 1805 per PHerc. 1008 esisteva un’ulteriore serie di apografi effettuati da Casanova, di cui pero` in Officina non vi e` alcuna traccia. Il naturale sospetto che essi abbiano subito la medesima sorte degli altri apografi asportati da Hayter e ora conservati presso la Bodleian Library di Oxford, e` confermata dalla nota apposta al primo foglio dei disegni oxoniensi relativi al nostro papiro,121 la quale attribuisce tali facsimili alla mano dello stesso Gennaro Casanova.122 Cio` spiega perche´ gia` nel 1806 si ritenne necessario far eseguire ad Antonio Lentari una terza serie di apografi (la seconda serie di disegni napoletani). Essi furono realizzati, quasi sicuramente su ordine di Rosini, per rimpiazzare quelli nel frattempo portati a Palermo. Poi, come si e` detto, nel 1808 furono restituiti all’Officina i disegni settecenteschi di Casanova e da quel momento in poi essi furono associati in un unico faldone a quelli eseguiti da Lentari.123 Dalle precedenti considerazioni dipende anche il giudizio sulla qualita` degli apografi. In effetti e` la serie piu` antica dei disegni napoletani ad ectifica alla vedova Teresa Caldora l’assegnamento di una pensione in seguito alla consegna alla Biblioteca dei manoscritti del defunto marito. Fanno eccezione i disegni di PHerc. 1675, i quali furono probabilmente recuperati prima di tale data (forse erano stati restituiti dallo stesso Baffi prima della morte). Cio` nonostante essi dovettero rimanere ‘ufficialmente’ perduti, se tra il 1804 e il 1805 si fece eseguire anche per questo papiro un’altra serie di apografi. Si vedano F. D’ORIA, art. cit., pp. 126-128 e note 88 e 92; p. 158; D. BLANK, art. cit., p. 76 nota 78; D. BLANK-F. LONGO AURICCHIO, Inventari antichi cit., p. 127 nota 167. 119 Cfr. la gia ` citata Introduzione di Francesco La Vega allo Stato delle Porzioni dell’8 febbraio 1803: «Queste tale copie si dovranno ripetere da gli stessi, che fecero le prime, cio e` da D(on) Giambattista Malesci, e D(on) Gennaro Casanova, lo che potranno eseguire in alcune ore del giorno, che non rimangono addetti sotto la vigilanza del Sig(no)re Hayter allo svolgimento de’ Papiri». Si veda D. BLANK, art. cit., p. 76 nota 78. 120 Cfr. le missive di Carlo Maria Rosini e Francesco La Vega a Francesco Seratti del 16 agosto 1804 e di Carlo Maria Rosini e Pietro La Vega del 31 maggio 1805 riportate in F. D’ORIA, art. cit., pp. 155-157. 121 La collocazione e ` MS. Gr. class. c. 3, 3, ff. 525-551. 122 Cfr. f. 525: «Papiro 1008 che contiene Colonne 25 col titolo di Filodemo intorno ai vizi. Svolto e disegnato da D(o)n Gennaro Casanova. N. 26 Disegni compreso il titolo». 123 Per tutta la vicenda si veda anche G. RANOCCHIA , Filodemo e il Peri; tou koufivzein cit., = pp. 239-241.

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cellere di gran lunga sugli altri per accuratezza e completezza. Essa riproduce molto spesso un maggior numero di lettere rispetto a quelli e in una maniera generalmente assai piu` attendibile. Per di piu` in questi apografi sono registrati svariati sovrapposti che non sono piu` conservati in originale e che generalmente non sono trascritti dagli altri apografi.124 Cio` fa pensare che, come ho gia` detto, tali disegni fossero stati eseguiti non molto tempo dopo lo svolgimento del volume, quando cioe` i sovrapposti erano ancora in loco. Durante la prima trascrizione essi vennero prima disegnati e poi distaccati per consentire la trascrizione dello strato sottostante. Che fine abbiano fatto questi frammenti, se cioe` siano stati distrutti durante la rimozione o siano stati conservati a parte per poi andare perduti, non ci e` dato sapere. Mancano malauguratamente in tale serie i facsimili relativi alle coll. 10 e 11, i quali sarebbero stati particolarmente preziosi per la ricostruzione testuale della parte iniziale del De liberando a superbia. E` sicuro che essi fossero gia` mancanti prima della revisione dei disegni effettuata per l’edizione del papiro nella Collectio prior del 1827. In effetti, per la loro ottima qualita`, furono i piu` antichi apografi napoletani, e non quelli di Lentari, ad essere sottoposti a revisione in vista dell’incisione e della pubblicazione nella prima serie degli Herculanensia volumina. Gli interventi emendatori dei cosiddetti ‘interpreti’, dovuti nel nostro caso soprattutto a Francesco Iavarone, sono riconoscibili dalle erasure e dall’inchiostro con cui essi ricalcavano o correggevano, direttamente sul disegno, lettere o gruppi di lettere. La firma di Iavarone, normalmente apposta su ogni foglio e preceduta dalla sigla V(isto) B(ene), rappresentava il nulla osta per l’incisione del disegno su rame.125 Ebbene, nel caso specifico delle coll. 10 e 11 questo medesimo genere di interventi si trova invece nei corrispondenti disegni di Lentari. Cio` vuol dire che gia` a quel tempo i due facsimili piu` antichi di Casanova non si trovavano piu`, se per tali colonne si fu costretti a revisionare i piu` recenti disegni napoletani.126 Un discorso 124 Nella parte del papiro da me edita (coll. 10-24) vi sono solo due casi di sovrapposti ancora conservati in loco (22 12-24 e 29-39). Il primo sovrapposto (ma non il secondo) e` trascritto anche in O e in N2. Per la prima parte del papiro (cornice 7, pezzo 1; fr. 1; coll. 1-9) e per il caso speciale di col. 3, 8-13, cfr. infra, p. 241. 125 Il Visto Bene manca nei disegni del fr. 1, e delle coll. 1-2. Le coll. 16-17, invece, recano quello di Angelo Antonio Scotti, la col. 19 quello di Giuseppe Parascandolo e la col. 21 quello di Luigi Caterino (ma questa volta non e` N1 a riportarlo, bensı` N2). Sul margine della col. 1 si trova la dicitura: «Carlo Can(oni)co Rosini, Accad(emi)co Ecc(ellentissi)mo». Il metodo di lavoro di Iavarone era simile a quello di Scotti, per il quale vedasi H. ESSLER, Die Arbeiten an Philodem, De dis III (PHerc. 152/157). Der Beitrag der disegni zur Rekonstruktion der Fragmentreihenfolge, «CErc», XXXIV, 2004, pp. 182-184. 126 Erroneamente CH . JENSEN (Hrsg.), Ein neuer Brief cit., p. 7 nota 1, che si basava su

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PARTE TERZA

analogo si deve fare per la col. 21, la cui revisione e` stata pure effettuata sul facsimile di N2 anziche´ su quello di N1, ma con la differenza che in questo caso si e` conservato anche il secondo. Cio` e` forse imputabile al fatto che all’epoca della revisione quest’ultimo era stato perduto, per poi essere in seguito recuperato. D’altra parte, i disegni oxoniensi e la seconda serie dei disegni napoletani appaiono frequentemente ben piu` incompleti e imprecisi dei precedenti. Raramente essi registrano lettere o tracce di lettere assenti nei primi disegni di Casanova. Per di piu`, la tendenza a commettere errori e fraintendimenti e` in essi tanto abituale, quanto eccezionale e` nei piu` antichi disegni napoletani. Non corrisponde dunque al vero quanto fu asserito nel 1933 da Christian Jensen, che cioe` N2 sarebbero generalmente piu` ricchi e completi di N1, specialmente nelle prime colonne, e che essi registrerebbero lettere e tracce di lettere per diversi motivi assenti in questi.127 Certo, il passare del tempo e l’uso della matita hanno reso le prime trascrizioni di Casanova non sempre facilmente intelligibili e d’altra parte gli interventi ‘emendatori’ degli Accademici ne hanno in piu` punti alterato la lezione originaria, ma non fino al punto di rendere del tutto illeggibili, con l’ausilio del microscopio o anche a occhio nudo, le lettere sottostanti. Allo stesso modo, non e` neanche vero che N2, a differenza di N1, riproducano lo stato originario delle colonne con i sovrapposti e i sottoposti situati nel luogo in cui furono tro-

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un’opinione comunicatagli per via epistolare da Raffaele Cantarella, all’epoca direttore dell’Officina, riteneva che le coll. 10 e 11 Lentari, pur essendo firmate da quest’ultimo, appartenessero in realta` a N1. Lentari si sarebbe limitato a «ritoccare» i disegni e ad apporre la sua firma. Cantarella ricavava la sua conclusione dal fatto che i due facsimili in questione sono redatti su foglio semplice come N1, mentre quelli di Lentari sono trascritti sempre su foglio doppio ripiegato. Ma l’argomento e` ampiamente insufficiente a confortare questa conclusione. In effetti, se si eccettua la tipologia del supporto cartaceo sul quale essi furono eseguiti, i disegni napoletani delle coll. 10 e 11 a noi pervenuti possiedono tutte le caratteristiche proprie dei disegni effettuati per il nostro papiro da Antonio Lentari e cioe`: 1) sono scritti, non a matita (come N1), ma a penna con inchiostro nero; 2) il numero della colonna e` indicato non sopra la colonna medesima (come in N1), ma sotto di essa con un segno ; solitamente interposto tra «COL.» e il numero espresso in cifre romane (e non, come fa Casanova, con il segno ); 3) il numero di lettere conservate in ciascuna delle due colonne e` assai vicino a quello rilevabile nei corrispondenti facsimili oxoniensi (col. 10 e 11 O) piuttosto che ad esso sensibilmente superiore, come si evince dagli altri facsimili sulla base del confronto tra N1 e O. Lo stesso discorso vale anche per col. 21 Lentari, che Cantarella pure attribuiva a Casanova, salvo poi immaginare che anche in questo caso Lentari l’avesse ritoccata e sottoscritta. Senonche´ per questa colonna possediamo anche il piu` antico facsimile di Casanova (col. 21 N1), onde agli argomenti teste´ addotti circa le coll. 10 e 11 si deve qui aggiungere la perplessita` di fronte all’inutile ipotesi che Casanova abbia redatto per la medesima serie di disegni una duplice copia della stessa colonna. 127 Si veda CH . JENSEN (Hrsg.), Ein neuer Brief cit., p. 7 sg., seguito da G. INDELLI , Segni, abbreviazioni cit., p. 126. Cio` contrasta tra l’altro con quanto precedentemente riconosciuto dallo studioso tedesco in Philodemi Peri; kakiw= n cit., pp. XI-XIII, dove si fa anche confusione tra N1 e N2.

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vati subito dopo lo svolgimento del volume.128 In realta`, se si eccettuano col. 3, 8-13 e 22 12-24, essi non li registrano mai nel loro luogo originario e, piu` in generale, se si escludono anche le coll. 2, 4 e 5, non li registrano affatto. Sono invece i piu` antichi disegni di Casanova a riprodurre sistematicamente i sovrapposti, generalmente non nel luogo in cui essi furono trovati durante lo svolgimento, ma a fianco della pertinente colonna di scrittura, accanto al punto di corretto inserimento del testo. Anche nel caso peculiare di col. 3, 8-13, non solo O e N2, come e` stato asserito dallo stesso Jensen,129 ma anche N1 trascrive, come se appartenessero allo strato originario, porzioni di sei linee in realta` pertinenti a un sovrapposto. In effetti, anche in quest’ultimo e` ancora possibile leggere, sia pure con qualche difficolta` e sotto altre lettere vergate non a matita, ma con inchiostro nero (evidentemente ad opera degli ‘interpreti’), le medesime lettere evincibili nelle altre due serie di apografi. E dunque anche N1 ha commesso lo stesso errore di O e N2 e cioe` ha confuso il sovrapposto in questione con lo strato originale. Cio` sembra essere sfuggito a Jensen, che nel tentativo di spiegare l’apparente discrepanza tra il primo e i secondi e, piu` in generale, l’asserita superiorita` dei disegni di Lentari rispetto ai piu` antichi di Casanova, si e` visto costretto a invertirne la cronologia, immaginando, contro ogni evidenza e contro tutte le prove documentarie in nostro possesso, che quelli fossero stati redatti prima di questi.130 Piu` moderata era l’opinione di Raffaele Cantarella, direttore dell’Officina dei Papiri dal 1929 al 1937. Egli, in uno scambio epistolare con lo studioso tedesco, aveva ipotizzato che, avendo i due disegnatori lavorato insieme al papiro dal 1792 al 1798, sia potuto avvenire che qualche colonna sia stata letta e trascritta prima da Lentari e poi da Casanova.131 Ipotesi bizzarra e difficilmente sostenibile, se si considera che, com’e` noto, il motivo per cui furono commissionati i disegni di Lentari era proprio quello di rimpiazzare i precedenti apografi perduti di PHerc. 1008 (N1 e O), e questo avvenne solo nel 1806. Negli anni Novanta del Settecento ` quanto riteneva lo stesso Jensen in Ein neuer Brief cit., p. 7 sg. Si veda ora anche 128 E G. INDELLI, Segni, abbreviazioni cit., p. 126. 129 Ein neuer Brief cit., p. 8 nota 1. Si vedano anche A. ANGELI , Carlo Gallavotti cit., pp. 320-322, e G. INDELLI, Segni, abbreviazioni cit., p. 126. 130 Si veda CH . JENSEN (Hrsg.), Ein neuer Brief cit., p. 8 nota 1. 131 Cfr. la missiva di Raffaele Cantarella a Christian Jensen del 19 ottobre 1931, pubblicata ibid. Si veda anche G. INDELLI, Segni, abbreviazioni cit., p. 126, il quale sembra moderatamente favorevole a quest’ipotesi.

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PARTE TERZA

Lentari non aveva alcun motivo valido per effettuare di sua iniziativa, senza cioe` uno specifico incarico, che era stato allora affidato a Casanova, un inutile duplicato del lavoro del suo collega. E inoltre, per quale motivo avrebbe dovuto limitarsi a disegnare «qualche colonna» e non invece, come si dovrebbe coerentemente affermare, l’intero papiro? Non vi e` dunque un solo caso in cui N2 riflettano una situazione del papiro antecedente a quella testimoniata da N1, i quali ne rispecchiano sempre lo stato piu` antico. Rimane solo da spiegare il caso delle coll. 2, 4 e 5 Lentari, nelle quali eccezionalmente e in modo analogo a come avviene in N1, sono riportati a fianco del testo e in corrispondenza del corretto punto di inserimento anche i sovrapposti ad esse relativi. Si tratta delle prime tre colonne del papiro a cui si riferiscono dei sovrapposti. Senonche´, nella fattispecie l’analogia finisce per essere identita`, poiche´ in seguito a un esame piu` attento, e` emerso che non solo il perimetro e la posizione di tali frammenti, ma anche le tracce di lettere in esse contenute coincidono, fin nei minimi particolari, con quelle registrate nei piu` antichi disegni di Casanova. Invece, nella colonna di testo la discrepanza rispetto a N1 non si discosta da quella usuale per N2, nel senso che, come di consueto, questi registrano meno e peggio rispetto a quelli. A che cosa si deve imputare questa incoerenza? Forse nel 1806 i sovrapposti originali erano ancora conservati al punto che Lentari era ancora in grado di trascriverli? E allora perche´ decise di disegnarne solo alcuni? E soprattutto, perche´ in questi la sua lettura coincide perfettamente con quella di Casanova e invece nelle rispettive colonne di testo egli diverge sensibilmente dal suo predecessore? L’unica spiegazione possibile, a mio giudizio, e` che quando furono recuperati i piu` antichi disegni di Casanova e cioe` non molto tempo dopo che Lentari ebbe finito di trascrivere il papiro, questi, nella speranza che fossero i suoi disegni ad essere incisi e pubblicati, e non quelli appena ritrovati, decise in un primo tempo, nel tentativo velleitario di farli apparire altrettanto completi rispetto a quelli di Casanova, di aggiungere a fianco di ogni colonna anche la trascrizione dei sovrapposti ad essa corrispondenti. Tuttavia questo egli fece non trascrivendo i frammenti originali, che in quell’epoca dovevano gia` essere andati perduti, ma copiandoli fedelmente dai disegni piu` antichi del suo collega. Poi, a un certo punto, resosi conto dell’inutilita` dei suoi sforzi, avrebbe deciso di abbandonare l’impresa. In effetti, dopo la col. 5, Lentari non trascrive piu` i sovrapposti. Il resto e` noto. Furono infatti i primi disegni di Casanova, e non quelli eseguiti da Lentari, a essere usati per la prima edizione napoletana del papiro. Evidentemente a Iavarone non sfuggı` la qualita` palesemente superiore di N1 e il fatto che N2, anche allorquando riportano i sovrapposti, difficilmente regi— 242 —

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strano qualcosa in piu` o in meglio rispetto a quelli. Quanto detto e` sufficiente a dissipare l’annoso equivoco della presunta superiorita` qualitativa di N2 rispetto a N1 e l’apparente difficolta` suscitata da col. 3, 8-13 e dalle coll. 2, 4, 5 Lentari. Come abbiamo visto, il malinteso risale a Christian Jensen e trae la sua origine dal fatto che questi non aveva una conoscenza adeguata dei piu` antichi disegni napoletani, ne´ effettuo` mai una trascrizione sistematica di tali apografi. Cio` si desume: a) da quanto esplicitamente asserito dallo stesso studioso nella praefatio all’edizione del 1911, che cioe` per la costituzione del testo egli si era attenuto principalmente alle incisioni su rame pubblicate nella Collectio prior (da lui indicate con la sigla N) e solo sporadicamente ai disegni napoletani e oxoniensi; 132 b) dal fatto che nell’edizione del 1933 egli allegava al testo di ogni colonna una riproduzione di N2, ma non di N1. Al posto di questi riproduceva le corrispondenti incisioni napoletane, come se esse fossero testimoni attendibili in luogo di N1, limitandosi a segnalare in apparato «le piu` importanti divergenze rispetto ai rami».133 Se ne deduce che lo studioso tedesco non utilizzo` mai sistematicamente i piu` antichi disegni napoletani, ne´ nel 1911 ne´ nel 1933. Quanto alle trascrizioni effettuate dai cosiddetti ‘intepreti’ per diversi papiri e recentemente scoperte da Richard Janko nell’Archivio dell’Officina dei Papiri, esse risultano purtroppo mancanti per PHerc. 1008, se si fa eccezione per la trascrizione del solo fr. 1, che e` conservata nella Ba XXIII, fasc. 21, insieme ad altri due disegni di uno stesso frammento non identificato. Raffaella Farese vi ha riconosciuto la mano di Luigi Caterino, ‘editore’ del papiro nella Collectio prior. Proprio per questo e` legittimo sospettare che esistessero anche le trascrizioni delle rimanenti colonne, eseguite dallo stesso studioso, le quali poi per qualche motivo dovettero andare perdute.134

132 Si veda CH . JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiwn cit., p. XIII : in textu constituendo prae= cipue N secutus quae inveni vel in O vel in designatione Neapolitana aut plura aut discrepantia ibi tantum commemoravi, ubi ad restituendum textum aliquid viderentur valere. 133 CH . JENSEN (Hrsg.), Ein neuer Brief cit., p. 9 sg. Lo studioso si premura di precisare che gia` nel 1908 egli aveva annotato le principali divergenze di N1 rispetto ai rami, evidentemente in vista della sua edizione del 1911. Cio` conferma quanto espressamente affermato da Jensen nella gia` menzionata praefatio a questa edizione. 134 Si vedano R. JANKO -D. BLANK , Two New Manuscript Sources for the Texts of the Herculaneum Papyri, «CErc», XXVIII, 1998, pp. 173-184, e R. FARESE, Catalogo delle «illustrazioni» e degli interpreti, «CErc», XXIX, 1999, pp. 89 e 92.

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PARTE TERZA

10. LE

EDIZIONI

La prima ricostruzione testuale del papiro (ad esclusione del fr. 1) e` di Luigi Caterino (Aloysius Caterinus) e fu inclusa nel terzo tomo della Collectio prior degli Herculanensium voluminum quae supersunt, pubblicato a Napoli nel 1827 sotto la supervisione di Carlo Maria Rosini.135 L’impianto della monumentale opera prevedeva un’incisione su rame che intendeva rappresentare la colonna del papiro secondo la lettura dell’apografo napoletano, affiancata sulla pagina destra da una trascrizione del testo greco, a sua volta integrato e accompagnato da una traduzione latina. Il tutto era corredato da un commentario erudito a carattere prevalentemente letterario. E` piu` che nota la scarsa affidabilita` dell’‘edizione’ napoletana a motivo degli interventi con i quali sovente gli ‘interpreti’ modificavano lettere e gruppi di lettere nelle loro trascrizioni o direttamente nei disegni al fine di far tornare il senso della frase. Dopo il primo tentativo di Caterino e un intervento emendatorio di Leonhard Spengel,136 limitato alle coll. 16-20, approntarono edizioni di PHerc. 1008 Hermann Sauppe,137 Johann A. Hartung 138 e Johann L. Ussing.139 Anche se dei tre studiosi nessuno vide direttamente il papiro, basandosi esclusivamente sulle incisioni pubblicate nella Collectio prior, a Sauppe va riconosciuto il merito di aver costituito con notevole intuito un buon testo di partenza, che rimase un punto di riferimento per tutte le edizioni successive. Fortunate e ancora accreditate sono molte delle sue integrazioni, anche se in alcuni casi egli si discosta arbitrariamente (e inevitabilmente) dalla lezione del papiro. L’edizione di Hartung, invece, oltre a non fornire varianti significative rispetto a quelle del suo predecessore, e` anche funestata da proposte testuali discutibili e da una sfrenata licenza nelle integrazioni. Ussing, infine, si segnala per un certo numero di apprezzabili proposte testuali e per il ricco commentario. Alle edizioni sopra citate si aggiungono gli sporadici interventi effettuati in diversi punti del testo da Carel G. Cobet.140 Ma la veFf. 1-54. In «Gelehrte Anzeigen der ko¨niglichen Bayerischen Akademie der Wissenschaften», Mu¨nchen, fasc. 255 (1838), coll. 1001-1006; fasc. 256 (1838), coll. 1009-1016; fasc. 257 (1838), coll. 1017-1022. 137 Op. cit. 138 Op. cit. 139 Op. cit. 140 Oratio de arte interpretandi grammatices et critices fundamentis innixa primario philologi officio, Lugduni Batavorum 1847; ID., Ad Philodemi librum X Peri; kakiw= n et Theophrasti Carakthra = c hjqikouvc, «Mnemosyne», n.s., II, 1874, pp. 28-33. 135

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ra e propria editio princeps uscı` a Lipsia nel 1911 a opera di Christian Jensen nell’ambito della Collezione Teubneriana.141 In essa lo studioso tedesco ristabiliva con grande acribia un testo ben piu` affidabile di quello dei suoi predecessori, in quanto asseritamente basato sull’autopsia del papiro. In realta`, vi sono fondati motivi per sospettare, non solo che Jensen non utilizzo` mai sistematicamente, come abbiamo visto nel precedente capitolo, i piu` antichi e importanti disegni napoletani (N1), ma che in molti luoghi egli non abbia preso diretta visione dello stesso papiro. Come lo studioso riconosce nella praefatio alla sua edizione del 1911, per la costituzione del testo egli si baso` ancora principalmente sulle incisioni in rame riprodotte nella Collectio prior, limitandosi a riportare in apparato le piu` significative divergenze rispetto a N1.142 Queste omissioni, in parte giustificate dalle non poche difficolta` con cui in quel tempo gli studiosi stranieri avevano accesso ai papiri ercolanesi e agli altri documenti conservati nell’Officina, rendono ancor piu` necessario effettuare una nuova edizione critica di tutto il papiro, soprattutto della prima parte (cornice 7, pezzo 1; fr. 1; coll. 1-9), quella cioe` piu` malridotta e controversa e la cui ricostruzione apparsa nel 1933 ad opera dello stesso Jensen ha prestato il fianco a diverse critiche. Solo sulla seconda (coll. 10-24), contenente l’importante estratto di Aristone, io ho ritenuto di dover concentrare la mia attenzione. Dopo Jensen non e` stata piu` tentata un’edizione integrale di PHerc. 1008. Il testo raccolto da Fritz Wehrli in Die Schule des Aristoteles tra i frammenti del peripatetico Aristone di Ceo, oltre a non essere basato sull’autopsia del papiro, ma sul testo stabilito da Jensen, e` programmaticamente limitato alle coll. 10-24.143 Lo stesso vale per quello che compare nella nuovissima raccolta di Peter Stork, William W. Fortenbaugh, Johannes M. van Ophuijsen e Tiziano Dorandi,144 il quale e` anch’esso fondato per la maggior parte sulla lettura di Jensen eccetto che per 10 11-31 e per le coll. 21-23.145 Anche le ricostruzioni parziali di Carlo Gallavotti,146 MaSi veda CH. JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiw= n cit. Cfr. supra, p. 243 e nota 132. 143 Si veda F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., frr. 13 e 14. Tuttavia Marcello Gigante mi comunico` in una conversazione privata di aver eseguito dei controlli autoptici sul papiro per conto dello stesso Wehrli. 144 Art. cit., fr. 21 A -O . 145 Il primo passo e ` basato su una nuova autopsia di Anna Angeli, per la quale vedasi supra, pp. 12-14; p. 100 sg. e Comm. a 10 14-15; 16; 17-18; per le coll. 21-23 gli editori seguono invece la mia edizione del 2001. Si veda G. RANOCCHIA, Filodemo e il Peri; tou= koufivzein cit., pp. 243-252. 146 Teofrasto e Aristone cit., e ID ., rec. KNO ¨ GEL, op. cit. 141

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rio Capasso 147 e Serge N. Mouraviev,148 tutte basate, a eccezione della seconda, sulla lettura dello studioso tedesco, sono limitate alla sezione centrale della col. 10. Quella di Wilhelm Kno¨gel 149 include anche 11 5-25. Infine Eduardo Acosta Me´ndez e Anna Angeli 150 e, piu` recentemente, chi scrive,151 basandosi su un nuovo esame del papiro, hanno realizzato una nuova costituzione del testo, oltre che dell’intera col. 10, anche delle coll. 21-23. Un cenno va fatto anche agli sporadici interventi testuali avanzati in vari punti da Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff,152 Robert Philippson,153 Otto Rieth,154 Marcello Gigante 155 e, piu` recentemente, da Voula Tsouna,156 Daniel Delattre 157 e David Sedley.158

11. LA

PRESENTE EDIZIONE

La porzione di PHerc. 1008 da me nuovamente edita e` limitata alle coll. 10-24 ed e` il risultato della combinazione della lettura del papiro con quella delle due serie di disegni napoletani e dei disegni oxoniensi. Ho letto continuativamente il papiro avvalendomi di uno dei microscopi a illuminazione aggiunta che si trovano in Officina a disposizione degli studiosi ed effettuato delle trascrizioni personali a matita. La lezione del papiro e` stata sistematicamente confrontata con quella esibita dalle recenti fotografie digitali multispettrali eseguite per i papiri ercolanesi dall’e´quipe dell’Institute for the Study and Preservation of Ancient Religious Texts della Brigham Young University (Provo, Utah). Tali fotografie, adeguatamente trattate con AdoEpicureismo e Eraclito cit., pp. 451-453. Art. cit., p. 22 sg. 149 Op. cit. 150 Op. cit., T 4 e T 5. 151 Si veda G. RANOCCHIA , Filodemo e il Peri; tou koufivzein cit., pp. 243-252. = 152 Sappho und Simonides. Untersuchungen u ¨ber griechische Lyriker, Berlin, Weidmann 1913, p. 146 nota 2. 153 Rec. W. KNO ¨ GEL cit., coll. 1329-1334. 154 Rec. W. KNO ¨ GEL cit., p. 618 sg. 155 Atakta II, «CErc», VII, 1977, p. 42; ID. ap. M. CAPASSO, Epicureismo e Eraclito cit., p. 453 nota 160; ID., Atakta XV cit., p. 131 sg.; ID., Atakta XVI cit., p. 153 sg.; ID., Kepos e Peripatos cit., p. 127. 156 Ap. P. STORK -W.W. FORTENBAUGH -J.M. VAN OPHUIJSEN-T. DORANDI (eds.), art. cit., fr. 21 A-O. 157 Ap. Voula Tsouna. Cfr. nota precedente. 158 Ap. Voula Tsouna (cfr. nota 156), e da ultimo, nell’ambito della presente edizione critica. 147

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be Photoshop, hanno consentito per la prima volta di ottenere un elevato contrasto tra inchiostro e fibre papiracee, permettendo di identificare con una facilita` sinora impensabile lettere e tracce di lettere. Pertanto con la sigla P si intende la collazione della mia trascrizione personale con la lezione fornita dalle fotografie. L’assetto ecdotico e` simile a quello proposto da Dirk Obbink nella sua edizione del De pietate 159 e da Richard Janko nell’edizione del primo libro del De poe¨matis.160 In particolare, si adotta un sistema editoriale che prevede nella pagina di sinistra il testo incolonnato e nella pagina adiacente una versione in extenso della stessa colonna per facilitare la lettura, seguita da una traduzione italiana. Nella pagina di destra il testo presenta una lettura graficamente normalizzata e gli interventi dello scriba (correzioni e supplementi) non sono segnalati, come invece si fa nella pagina di sinistra. Ogni gruppo di cinque linee e` scandito da una barra verticale. Una lettera segnata con un punto indica che le tracce superstiti sono compatibili con la forma di almeno un’altra lettera. Invece, una lettera dotata di asterisco significa che essa, assente o solo parzialmente leggibile nel papiro, e` tramandata dai disegni, ma in maniera erronea, e che l’editore l’ha corretta. Per cui nella paradosi riporto quella che ritengo fosse la lezione originale del papiro e in apparato la lezione trasmessa nei disegni. Nell’apparato critico si registrano la lezione del papiro, quella degli apografi e alla fine gli interventi degli studiosi posti in ordine cronologico. In genere si omettono quelle congetture che sono ora escluse per motivi paleografici. Ove segnalate, le precedenti letture e integrazioni sono riportate secondo le convenzioni della presente edizione. Le paragraphoi sono indicate sotto forma di linee orizzontali apposte sotto e a margine delle prime due lettere della linea. Anche le coronidi sono stampate direttamente nel testo. Gli spatia vacua, invece, sono segnalati sia nel testo che in apparato, gli spatiola solo in quest’ultimo. Le abbreviazioni, infine, compaiono sciolte nella paradosi e in apparato nella forma originale. Lo iota mutum e` segnato ascritto quando e` indicato nel papiro, sottoscritto ove assente. Nella traduzione ho segnalato in corsivo le piu` probabili intrusioni di Filodemo per distinguerle dalle parole e dal pensiero di Aristone, che sono invece riportati in tondo.

159 160

Si veda D. OBBINK (ed.), Philodemus, On Piety cit. Si veda R. JANKO (ed.), op. cit.

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PARTE TERZA

CONSPECTUS

SIGLORUM

PHerc. 1008 convenientia utriusque apographi Neapolitani apographi Neapolitani exemplar prius a Ianuario Casanova delineatum N2 apographi Neapolitani exemplar alterum ab Antonio Lentari delineatum O apographum Oxoniense 1ac 2ac ac N ,N ,O lectio apographi ante correctionem N1pc, N2pc, O pc lectio apographi post correctionem 1 [P], [N ], [O]... deest P vel N1 vel O etc. P

N N1

EDITIONES A.

A.-A.

C. Co.1 Co.2 G. Gi. H.

J. K.

Anna Angeli ap. P. STORK-W.W. FORTENBAUGH-J.M. VAN OPHUIJSEN -T. DORANDI , Aristo of Ceos. The Sources, Text and Translation, in W.W. FORTENBAUGH-S.A. WHITE (eds.), Aristo of Ceos. Text, Translation, and Discussion, New Brunswick-London, Transaction Publishers 2006 («Rutgers University Studies in Classical Humanities», 13), fr. 21 A-O. E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), Testimonianze su Socrate, Napoli, Bibliopolis 1992 («La Scuola di Epicuro», 13), T 4 e T 5, pp. 151-154. L. CATERINO in HV 1, III, ff. 1-54. C.G. COBET, Oratio de arte interpretandi grammatices et critices fundamentis innixa primario philologi officio, Lugduni Batavorum, Hazenberg 1847. C.G. COBET, Ad Philodemi librum X Peri; kakiwn= et Theophrasti Carakthra" hjqikouv", «Mnemosyne», n.s., II, 1874, pp. 28-33. = C. GALLAVOTTI, Teofrasto e Aristone. (Per la genesi dei ‘‘Caratteri’’ teofrastei), «RFIC», n.s. V [LV], 1927, pp. 468-479. M. GIGANTE, Atakta XVI, «CErc», XXVII, 1997, pp. 151-156. J.A. HARTUNG (Hrsg.), Philodems Abhandlungen u¨ber die Haushaltung und u¨ber den Hochmut und Theophrasts Haushaltung und Charakterbilder. Griechisch und Deutsch mit kritischen und erkla¨renden Anmerkungen von J.A. H., Leipzig, Engelmann 1857. CH. JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiw= n liber decimus, Lipsiae, Teubner 1911. W. KNO¨GEL (Hrsg.), Der Peripatetiker Ariston von Keos bei Philo-

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PHERC. 1008 . ASPETTI MATERIALI E BIBLIOLOGICI

M.

Ph.

R.

S.

Sp.

T.

U.

W.

dem, Leipzig, Harrassowitz 1933 («Klassisch-philologishe Studien», 5). S.N. MOURAVIEV, La vie d’Hera´clite de Dioge`ne Lae¨rce. Analyse stratigraphique - Le texte de base - Un nouveau fragment d’Ariston de Ce´os?, «Phronesis», XXXII, 1987, pp. 22-24. R. PHILIPPSON, rec. CH. JENSEN, Philodemi Peri; kakiw= n liber decimus (Lipsiae 1911), «PhW», XXXII, fasc. XIII, 1912, coll. 389394. G. RANOCCHIA, Filodemo e il Peri; tou= koufivzein uJperhfanivac. Contributo ad una nuova edizione del PHerc. 1008, «PapLup», X, 2001, pp. 231-263. H. SAUPPE (ed.), Philodemi de vitiis liber decimus. Ad voluminis Herculanensis exempla Neapolitanum et Oxoniense distinxit supplevit explicavit H. S., Lipsiae, Weidmann 1853. L. SPENGEL, in «Gelehrte Anzeigen der ko¨niglichen Bayerischen Akademie der Wissenschaften», Mu¨nchen, fasc. 255 (1838), coll. 1001-1006; fasc. 256 (1838), coll. 1009-1016; fasc. 257 (1838), coll. 1017-1022. Voula Tsouna ap. P. STORK-W.W. FORTENBAUGH-J.M. VAN OPHUIJSEN -T. DORANDI, Aristo of Ceos. The Sources, Text and Translation, in W.W. FORTENBAUGH-S.A. WHITE (eds.), Aristo of Ceos. Text, Translation, and Discussion, New Brunswick-London, Transaction Publishers 2006 («Rutgers University Studies in Classical Humanities», 13), fr. 21 A-O. J.L. USSING (ed.), Theophrasti Characteres et Philodemi de vitiis liber decimus. Cum commentario edidit J.L. U. Accedunt characterismi duo ex Rutilio Lupo et ex Rhetoricis ad Herennium, Hauniae, Gyndeldall. 1868. F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles. Texte und Kommentar, VI: Lykon und Ariston von Keos, Basel-Stuttgart, Schwabe 19682.

CONSPECTUS a.b.g. a* bg **

øabgØ ^ abg &

[abg] b

abgc

(abg)

litterae litterae litterae litterae litterae litterae litterae

SIGNORUM

dubiae quae aliter legi possunt ab editore mutatae ab editore deletae ab editore insertae ab editore suppletae e fonte gemino ab editore suppletae e nota compendiaria ab editore solutae

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PARTE TERZA

[abg] ;abg v

|| [. . . ] ____

litterae a librario expunctae litterae supra lineam a librario additae finis columnae margine inferiore sequente litterae deperditae paragraphus

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Filodhvmou Peri; kakiwn= iv PHerc. 1008, coll. 10-24

10 PHerc. 1008 col. 10 Jensen = col. 11 O = col. 11 N2 = col. 10 HV 1 III

10

[

]

[ kai; i{na mh; eJtevrouc] 2 i{na mh; suppl. S.: cetera supplevi exempli gratia 3 khm ON2: k . [P; ajt]imavzein suppl. S., m[h; C. 3-4 cum|f]w.nwn= ajt]imavzein dokh/= m[h; cum(vel ejpi|f]w.nw=n) suppll. A.-A.: dia|f]w.nw=n C.: koi|nw]nw=n S.: f]w. nwn= h] mh; filop. i.c[t]eufilo|fr]o.nwn= J. 4 ]w. ON2: [P ] p. hastae vert. sin. exigua vestigia, g, h, i, k, n, t, u P, tum i. pars inf. g, h, k, n, p, t, 5 ovmenoc h] mh; di’ejnteu. vxeu 4-5 filop.i.c[t]eu|ovmenoc suppl. J.: filo[prwt]eu|ovmenoc wc eujcar[i]c. twn= oi|c d. [ev]on, C.: filo[crhct]eu|ovmenoc S. 5 u. ramus sin. vel c 2 th;n ejlavttwcin ejmfanivP 6 c. pars inf. vel e P wn ON : wn. P ic O: i.c. P: a N2 d. cauda, a, z, l, x P ]o O: ]o. PN2; eujcar[i]c. twn= suppl. ze[in] ka[i; cug]gnwvmhn aijJ., oi|c d.[ev]on legi necnon supplevi: qa=[tt]on U. 7 nela 2 2 tei[= c]qai, mav* licta de; ajeiv [meN : n.e.la. P: n.el[ O cin ON : c[.]n P 7-8 ejmfaniv|ze[in] suppl. C. 8 post ka dispicitur k in P, quod ad suprapos. 10 q ’auJtou]= ti*nac e[cein m; eq’auJtou= v fivlouc, pertinet; ka[i; suppl. C., cug]gnwvmhn H. 9 ai ON2: ai. P 2 j ctwn _o_i_} [cune]q.ivz.o. ntai. Ariv a ego: t O: [PN ]; suppl. C. 9-10 [m:e:|q:a:u::to:u:] punctis * superpositis del. librarius, qui ead. supra fivlouc (v. 10) rescrito [ iv ] nun [ g ] eg r a fw; c Peri; tou= .. . psit N2: [m:e:|q:. a:[.]:to:u:] P : me|[.]l[.]tou O 10 ti* ego: ko. [u]fivz[ein uJ]perhfanivac ejth O: t.i. P: [N2]; tinac e[cein m; eq’auJtou’= fivlouc C.: tinac e[cein fivlouc ;meq’auJtou= v S. 11 q. capitis pars sin., e, q, c, w pic. toli.[kovn] t.[i i[]dion me;n e[P z. capitis exigua vestigia, h, k, m, n, u, c, tum o. caput basis15 paqe. n ^ th;n & [t]w. = n. d[i]a; tuvchn uJperque, q, e post tai spat. vac.; [cune]q.ivz.o.ntai legi necnon suphf[av]nwn [kat]i[d]wvn, ouj movplevi: [ajpologhvco]n.tai spat. longius suppl. S.: [p]ic[teuvo]n.tai spat. brevius J.: [aj]p.[ologou=]ntai Jensen, Ein neuer no[n] diav t.[in’aj]p. o; tauvthc uJperBrief cit., p. 33 12 g.r. pedes, utraeque litt. etiam i, k, hf[a]nouv[ntw]n, ajlla; kai; n, p, t, u, P, tum a. hasta dext., l, c, m 13 o. tergum, e, q, c, w P post fiz subpos. 4 litt. p ON2: p. P fin. e di ’a} proe. ivp. [a]men hJmeic= , kai; N2: e. P: [O] 12-13 suppl. C. 13-14 ej|pic. toli.[kovn] 20 dh=[t]a. kai; di’aujth;n filocolegi necnon supplevi: ej|pictol[i]kav Gi.: ej|pi[ct]ol[imaion = spat. longius C.: ej|pic. t.ol[h;n J.: ej|pit.om.[h;n spat. brevius idem, fiv[an] pollwn= doxavntwn, Die Bibliothek cit., p. 57 sq. adn. 11 = (1979), p. 21 adn. 11 wJc [ JH]r. akleivtou kai; Puqagovet ap. K. 14 c. apices vel e P i. apex sup., h, k, n, u, tum subpos. 4 vel 5 litt. t. hastae vert. vestigium, g, h, i, k, n, rou kai; jE[m]pedoklevouc kai; p di ON2: d.i. P m N2: m. PO fin. e O: e. P: [N2]; t.[i supCwkr. avtouc kai; poihtw=n ejnivplevi: t.[o; Jensen ap. K.: tin’ Ph.: p]a. =[n G.: pavnt’ spat. longius 25 wn. , ou}c o[iJ] palaioi; twn= kwidem, rec. Kno¨gel cit., p. 31: t]i A., i[]dion Ph.: bib]livon C.: 14-15 e[|paqe.n disp. J.: contra vestigia pap. [h{]dion A. _m_w_idogravfwn ejperavpizon. e[|b.l.e.p.en coni. Rieth, rec. Kno¨gel cit., p. 619, et e[|grafe.n ajll’o{mwc, ei[ tina peivcei, k[aM. 15 e. lunulae reliquiae, c, o, q P w. lunularum vestigia vel c, tum hastarum vert. capita sicut n, h, k fin. e O: qavp[er] oujk a]n ajpeoik^ ovt &wc ti[PN2]; ^ th;n & Abbate privatim, [t]w. n= . suppl. S., d[i]a; na; peiv*ceien peri; w|n ajpetevC. 15-16 uJper|hf[av]nwn suppl. C. 16 ante ]i[ subpos. 1 litt. post ]wn spat. vac.; [kat]i[d]wvn suppl. Strobel 30 meto, kefalaiwvcomai ta;c privatim: [ajfa]i[r]w=n Sedley per litteras: [ajfrovn]wn R.: d _ _u_navmeic aujtwn= . ejavn p[o[eJt]a.iv[r]wn idem, L’autore del Peri; tou= koufivzein cit., p. 240: poll]wn= S.: [ajndr]wn= M.: spat. brevius [qig]w;n ^ movnon & Sudte cunaicqavnhtai metewhaus ap. J. et [co]f.w=n Jensen ap. K. et [movn]wn W. et [o[nt]wn r. izovm. e[n]oc, metarivptein 16-17 mov|no[n] suppl. C. 17 ia A.-A.: [ejk]e.i.nv . wn A. th;n d[iavnoi]a. n ejpi; ta;c e[mON2: ]a. P, tum hastae vert. capitisque vestigia sicut t. vel p P p. hastae vert. dext. pars sup., g, h, i, k, n, r, t o O: 35 procqe[n tap]einwvceic uJpo; [P]: c. N2pc; diav t.[in’aj]p.o; suppl. Gigante ap. Capasso, Epicu36 thc= tuvchc, ei[ pote gegovnacin || reismo e Eraclito cit., p. 453 n. 160: dia; t.[a; uJp]o; R.: d[i]a; t.[o;] a.pj o;. Jensen ap. K.: d[i]a; t.[a;] aj.po;. W. 18 h ON2: h. P ; suppl. S. 19 apr ON2: a.p.r. P e. transtri apex vel x P p. hastae sin. exigua vestigia, b, g, h, i, k, n, r, t; proe.ivp.[a]men suppl. S.: diapro[eivpo]men C. 20 a. pes dext., d, m, c P; dh[= t]a. dubit. suppl. Jensen, Ariston von Keos cit., p. 398 in appar. kaid O: ]d. P: k[.]id N2 20-21 filoco|fiv[an] suppl. C. 22 r. hastae vert. vestigium, b, g, h, i, k, n, p P ak O: ]k P: ak. N2 ei O: e . P: e[ N2; suppl. C. 23 aie ON2: a.[.]e. P; suppl. C. 24 r. pes, g, i, k, t, u P to N2: t.o. P: uo O 25 init. n. hastae sin. vestigia, b, g, h, i, k, p, r P o[ ON2: [P ]; suppl. C. 26 d ON2: d. P gr N2pc: g.r. P: gl O rapi ON2: ]pi. P 27 pe ON2: pe. P k ON2: k. P 28 q ON2ac: q. P o 27-28 suppl. J., ^ ot & add. S. 29 init. na O: [P ]: ]a N2 pei* ego: pek O: p.e.[ P: p[ N2 cei ON2: o. P fin. i ON2: [P ] N2: c. e.[ P: kei O napet ON2: n.a.p.et. P 29-30 ajpetev|meto legi: contra vestigia litt. p.r.o.e[iv]|l.eto. coni. J. et ejx.e^ iv &|leto vel ejf.e^ iv &|leto Gi.: ej.petev|m.eto perperam leg. Jensen ap. K. 30 init. m ON2: m. P ait ON2: a.i.t. P 31 du ON2: . u. P ei ON2: e[ P post twn spat. vac.; suppl. C. 32 te ON2: [P ] q ON2: q. P w N2: w. P: ic O 33 r. hasta vert. uncique vestigium vel g P z O: [PN2] m. cauda, a, d, l, c P ]o O: o. P: [N2] t ON2: t. P; suppl. C. 34 init. t ON2: t. P a. hasta 34-35 e[m|procqe[n tap]einwvceic suppl. C.: e[m|procqe [tap]einwvceic obl. dext., d, l, m P; d[iavnoi]a.n suppl. S.: d[uvnami]n C. spat. brevius S. 35 e[ N2: [PO] fin. o ON2: o. P 36 thctu O: t.[. . .]. P: ]ctu N2

PHERC. 1008 , COLL. 10-24

10 || [ desunt c. versus unus et 3 litt. kai; i{na mh; eJtevrouc ajt]imavzein dokh/= m[h; cumf]w. nw=n h] mh; filop. i.c[t]euovmenoc h] mh; di’ejnteu. vxe|5wc eujcar[i]c. tw=n oi|c d. [ev]on, th;n ejlavttwcin ejmfanivze[in] ka[i; cug]gnwvmhn aijtei[= c]qai, ma* vlicta de; aeiv ti* nac e[cein meq’auJtou= fivlouc, |10 oi} [cune]q. ivz. o. ntai. Ariv j ctwn to[iv]nun [g]eg.r.a.fw;c Peri; tou= ko.[u]fivz[ein uJ]perhfanivac ejpic. toli.[kovn] t.[i i[]dion me;n e[paqe.n ^ th;n& [t]w. =n. d[i]a; tuvchn uJper|15hf[av]nwn [kat]i[d]wvn, ouj movno[n] diav t.[in’aj]p.o; tauvthc uJperhf[a]nouv[ntw]n, ajlla; kai; di’a} proe. ivp. [a]men hJmeic= , kai; dh=[t]a. kai; di’aujth;n filoco|20fiv[an] pollw=n doxavntwn, wJc [ JH]r. akleivtou kai; Puqagovrou kai; jE[m]pedoklevouc kai; Cwkr. avtouc kai; poihtw=n ejnivwn. , ou}c o[iJ] palaioi; twn= kw|25mwidogravfwn ejperravpizon. ajll’o{mwc, ei[ tina peivcei, k[a]qavp[er] oujk a]n ajpeoik^ ovt &wc tina; peiv*ceien peri; w|n ajpetevmeto, kefalaiwvcomai ta;c |30 dunavmeic aujtwn= . ejavn p[o]te cunaicqavnhtai metewr. izovm. e[n]oc, metarrivptein th;n d[iavnoi]a. n ejpi; ta;c e[mprocqe[n tap]einwvceic uJpo; |35 th=c tuvchc, ei[ pote gegovnacin || (c. 1 v. e 3 lett. mancanti) per non dare l’impressione di disprezzare gli altri – perche´ non e` d’accordo o non si fida degli amici o non ringrazia in un incontro quanti e` necessario – palesi la propria mancanza e chieda perdono, ma soprattutto abbia sempre con se´ alcuni amici che gli si avvezzano. Ora ad Aristone, che ha scritto un’opera in forma epistolare Sul modo di liberare dalla superbia, accadde una cosa davvero singolare nel considerare [solo] quella di coloro che divengono superbi a causa della fortuna, quando invece ci si insuperbisce non solo in forza di alcune circostanze prodotte da questa, ma anche per quei motivi che prima abbiamo detto noi, e certo molti sembrarono insuperbire anche a causa della stessa filosofia, come Eraclito, Pitagora, Empedocle, Socrate e alcuni poeti che i commediografi piu` antichi sferzarono. Pur tuttavia, qualora dovesse persuadere qualcuno, cosı` come non inverosimilmente potrebbe convincere qualcuno sugli argomenti che si e` ritagliato, ne ricapitolero` i punti salienti. Se un giorno si accorge di darsi le arie, riporti il pensiero alle passate umiliazioni causate dalla fortuna, ammesso che gli siano capitate,

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11 PHerc. 1008 col. 11 Jensen = col. 12 O = col. 12 N2 = col. 11 HV1 III bEur. Ino fr. 420, 1 TrGF V1c (vv. 12-14), bPlutarch. Dion. 17, 9-10c (vv. 19-25)

11

[aujtwi, mh;] = ajdi[khqh=i pavlin eJauto;n koufivcai tou= pi[krou= toiouvtou flevgmatoc. ejp[ivp]an* [h] katav t_ _i_ mevroc. kai; [cu]n.[perila]mbavnein pr[o;] ojf[qal]mw. [= n tov] t*e thc= t.uv[c]h. c. aj.[n]e.[pif]a. ne;c kai; ojxuvc[t]r. ofo.[n kai; ej]p* i; Pavgou por* euomevno* uc to; Eujr.[i]p.[ivdo]u [ckop* e* [i]= n [o}] kai; D.[i]onuv.c[io]c ouj kakw. =[c

1 supplevi, w{cte fobouvmenoc inter [aujtwi, = et mh;] exempli gratia 2 i O: [PN2]; ajdi[khqhi= pavlin eJauto;n supplevi 23 kou]|fivcai suppl. J. 3 i[ ON2: [P ]; pi[krou= suppl. J., 5 toiouvtou Janko per litteras: tocouvtou Obbink privatim: toujpi[kratounto 4 c. basis vel e P p[ O: p.[ PN2 an* = c Ph. ego: ai ON2: [P ]; ejp[ivp]an* [h] katav supplevi (ejp[ivp]an. Essler per litteras): ejg[le]aiv[nontavc Ph. 5 post roc sp. vac. n. hastae obliq. obscurum vestig., a, d, l, m, u, c P 5-6 [cu]n.[perila]m|bavnein supplevi: [ajei; procla]m|bav10 nein Delattre ap. T. 6 n ON2ac: [P ] f O: f. PN2 w. lunulae sin. exiguum vestig., e, q, o, c P t*e ego: ge O: [PN2]; ejpifwnein= ejkevleuevn tina suppl. J. 7 t. capitis apex sin., p, g, z, x P u O: [PN2] h. di;c th[= c] hJmevrac: ‘oJra/c= tubravcnhasta vert. dext. transtrique vestig. vel n P, tum lunulae portio sicut c. , e, q, o, w, tum cauda sicut a., d, l, m e. pars sin. vel nouc dbia;c makbrcw. = n {e}^ h &ujxh. [m]evq ]a. pes sin. capitisque vestig., l, m, d e ON2: [P ] kai n_ _o_uc’. [k]ai; mn.[h]m. one* u. ev in ejON2: k.[.]i. P; t.uv[c]h.c. suppl. J., aj.[n]e.[pif]a.ne;c Ph.: [eJt]e15 nargw. [= c] o}n tr.[ov]p. on auj. to;c [ro]k.[li]ne;c Jensen ap. K. 8 c [ON2ac: c. [P r. N2: [PO] o. semicirc. sin. vel c P p* ego: g O: [P ]: t N2pc pa dietev* [qh] pro;[c uJ]perhfanhvON2ac: p.a P up ON2: ]p. P; ojxuvc[t]r.ofo.[n leg. ac suppl. J., c anta k. a\/ta d* ia; to. u= parakai; ej]pi; Jensen ap. K., Pavgou legi: pavgou Jensen ap. K. * deivgmato[c m]et*r[i]wvter[o]c. 8-9 po|r*euomevno* uc leg. Jensen ap. K.: t.o | f.e.r.omevnouc J. 9 r* ego: b O: r. P: i N2 o* ego: c O: . P: [N2] u O: aujto;c gravf.[etai], ka. qavper ka[i; [PN2] r. unci vestig. vel b P p. pedes, h, n ]u ON2: [P ]; 20 Divwn pro;[c] bPtociovdwron to;n jEur.[i]p.[ivdo]u suppl. J. 9-10 [cko]|p* e* [i]= n legi necnon supplevi: [lev]|ge.[i]n Jensen ap. K.: [ckwvp]|te* [i]n Sedley per litMegareva [pl]e[iv]w c.rovnon ejteras 10 p* e* ego: to O: p.e. P: t[ N2 d. cauda, a, l, m P u. pi; thc= quvr[ac pro]c. m. evnwn pr(o;c) rami sin. apex ]c O: ]c. P: [N2] ukakw. ON2ac: u.[ P; [o}] n. aj. kovl[ou]qon* ‘‘h\ pou kai; to; suppl. Jensen ap. K., D.[i]onuv.c[io]c ouj kakw. [= c J. 11 ei ON2: e.i. P tina ON2: ]i.[ P 12 post rac sp. vac. ora hJ m eic= ’’ ei\p[e]n ‘‘ejke* i = polla; to[iON2pc: ora. P u . . n ON2: u.[ . . ]n. P; suppl. S. 13 w. 25 a _ u _ _t= ’ejp* oiobum = cen’’. kai; o{tan ejlunulae dext. relictu P mak O: m.ak. P: ]ak N2 h. obscura ve2 pi; ta;c eujk[l]hrivac ej. fictavnhi., stig. vel potius a, l P fin. e ON : [P]; {e}^ h& ego, suppl. J. 14 post ouc sp. vac. n. hastae sin. pes hastaeque dext. pars mh; procepirhto[r]e.[uv]e. i[n] aujsup., h, p P m. pes dext., d, l e* ego: c N2: e. P: [O] u. pes, tai c 2 = pro;c to; mei[= z]on, a.[j ll’] ajp[ot, i, r, g P ei O: e.i P: h.i N ; suppl. J. 15 w. lunularum vestig. P r. hastae vert. vestig. p. hasta dext. capitisque vecpa=n o{ti duvnatai kouf.ivze[in stig. vel t u. ramus dext., c, e, c c O: c. P: i N2; suppl. Jensen 30 th=c ijccnovthtoc pefuk[uivac, 2 2 ap. K. 16 e* ego: h O: . P: [N ] o ON : o. P fanh O: 2 wJc kai; Periklhc= tape[inou]anh. P: ]anh N ; dietev* [qh] suppl. Jensen ap. K., cetera J. 17 k. hastae vert. pes et bracchium inf. nel n P d* ego: a O: m _ _e_vnouc me;n ejxhren jAq[hnaiv= d. PN2 iat N2: ia[ P: nac O o. baseos vestig., q, e, P ra ouc, mega]l. aucoumevn[ouc de; ON2: r.a. P; k.a\/ta d* ia; legi: [kai;] a} d.ia; Jensen ap. K. 17_cu _ . _ne.[v ctei]l. e. kai; mhdev [tin’ej18 para|deivgmato[c suppl. H. 18 i N2: i. P: u O o N2: o. PO et ego: en ON2: e. . P er O: e.r. P: [N2] c. lunulae 35 pino * . e. i.=n. k. a. [l]a; k* ajgaqav, mevcri apices o, e, q P; m]et*r[i]wvter[o]c. legi necnon supplevi: 36 a] n uJ perqarr. wn= pauvchtai, me- || g]eni.[k]wvter[on Jensen ap. K.: wJc] oJ. n[e]wvter[oc] 2 2 2 Ph. 19 c O: c. P: [N ] raf. N : r.a. . P: [O] ]k N : ]k. P: [O] a. apicis vestig., d, l P rka ON2pc: r.[ P; gravf.[etai] legi necnon supplevi: grav[fei] sp. brevius S., ka[i; C. 20 io ON2: io. P ton O: t.on N2: t.[ P; suppl. C., ^ ejlqw;n& ante to;n 2 J. 21 c. pedes, k, n P one ON : o.n[ P; [pl]e[iv]w legi necnon supplevi: [ejlqw;n] S.: [polu;n] J.: sp. longius [o}c polu;n] W.: [ejlqw;n ^ kai; & T. 22 r[ ON2: r. P c. lunulae pars sin., e, o, q, w P m. N2: . P: [O] fin. compendium pro pr(oc) ON2: [P]; quvr[ac suppl. S., pro]c. m.evnwn supplevi: perim]evnwn S. 23 n. hasta dext., h, i, p P, tum vestig. hastae obl. sicut. a., y, f l N2: l. P: [O] n ego: m O: n. PN2; suppl. S. 24 e* i ego: oi O: e.i. P: h N2 o O: o. PN2; suppl. S. 25 in mg. sin. * signum speciale loc. praestantem fort. denotans p* o ego: go O: ]o. P: ]o N2 26 ]h O: [PN2] iac ON2: iac. P e. lunulae transtrique vestig. vel q P n ON2: . P i. pars sup., g, h, k, n, p P; suppl. S. 27 pi N2pc: p.[ P: gt O ]e.[ capitis transtrique vestig., 28 aic ON2: ]c. P to O: t[ PN2 a. cauda, l, d P p[ O: p.[ P: [N2]; mei[= z]on b, r, x P ]e. capitis vestig., c, q, o; suppl. S. suppl. S., a.[j ll’] idem: [to; d’] K. 28-29 ajp[o]|cpan= suppl. S. 29 duna O: d.[.]n.a. P: ]ana N2 f. semicirc. sin., c, e, o, q P e 2pc 2ac 2 30 i O: [P]: e. N u ON : u. P; pefuk[uivac suppl. W.: pefuk[evnai C.: pefuk[ovta S.: pevfuk[en O: [P]: k N ; suppl. S. 32 aq N2: a.q. P; a[ O 33 l. hasta obliq. dext., a, d, m, n P c ON2: c. J. 31 ri ON2ac: r.[ P ape ON2: a.p[ P P 31-33 suppl. S. 34 u. pes ramorumque apices, t, g P e. lunulae vestig., c, o, q, w l.e O: [PN2]; cu.ne.v[ctei]l.e suppl. 35 o. baseos vestig., c, e, q P, S., mhdev legi (mhd[ev iam S.): mhd[eno;c Ph., [tin’ suppl. S. 34-35 ej]|pino.e.i.n.= leg. ac suppl. S. tum lunulae apices sicut e. vel c, tum hasta vert. paulum inclinata sicut i., a, d, l, m, n, h, p, r, tum n. hastarum vert. vestig., h, p, tum k. hastae vert. pars sup. bracchiique sup. vestig. vel i, tum a. cauda, d, l, m k ego: t O: [PN2]; k.a.[l]a; legi necnon supplevi: sp. * brevius ei[]a S.: a[xi]a Ph., kajgaqav legi: tajgaqav S. 36 init. u ON2: u. P q N2ac: q. P: c O r. hasta vert., i, k, n, h P w O: [PN2]

PHERC. 1008 , COLL. 10-24

11 || [aujtw=i, desunt c. 14 litt. mh;] ajdi[khqh=i pavlin eJauto;n kou]fivcai tou= pi[krou= toiouvtou] flevgmatoc. ejp[ivp]an* [h] katav] |5 ti mevroc. kai; [cu]m[perila]mbavnein pr[o;] ojf[qal]mw. = [n tov] t*e th=c t.uv[c]h. c. aj. [n]e. [pif]a. ne;c kai; ojxuvc[t]r. ofo.[n kai; ej]p* i; Pavgou por* euomevno* uc to; Eujr.[i]p. [ivdo]u [cko]|10p* e* [i]= n [o}] kai; D. [i]onuv. c[io]c ouj kakw. = [c] ejpifwnein= ejkevleuevn tina di;c th=[c] hJmevrac: ‘oJra/=c tubravcnnouc dbia;c makbrcw. = n {e}^ h& ujxh. [m]evnouc]’. [k]ai; mn. [h]m. one* u.ev in ej|15nargw.[= c] o}n tr. [ov]p. on auj. to;c dietev* [qh] pro;[c uJ]perhfanhvcanta k. a\/ta d* ia; to. u= paradeivgmato[c m]et*r[i]wvter[o]c. aujto;c gravf.[etai], ka. qavper ka[i;] |20 Divwn pro;[c] bPtociovdwron to;n Megareva [pl]e[iv]w c.rovnon ejpi; thc= quvr[ac pro]c. m. evnwn pr(o;c) to;n. aj. kovl[ou]qon*: ‘‘h\ pou kai; hJmeic= ’’ ei\p[e]n ‘‘ejke* i = polla; to[i]|25au=t ’ejp* oiobu=mcen’’. kai; o{tan ejpi; ta;c eujk[l]hrivac ej. fictavnhi., mh; procepirrhto[r]e.[uv]e. i[n] aujtaic= pro;c to; mei[= z]on, a. [j ll’] ajp[o]cpan= o{ti duvnatai kouf.ivze[in] |30 thc= ijccnovthtoc pefuk[uivac], wJc kai; Periklh=c tape[inou]mevnouc me;n ejxh=ren jAq[hnaivouc, mega]l.aucoumevn[ouc de;] cu.ne.[v ctei]l.e. kai; mhdev [tin’ ej]|35pino.e.i.n.= k.a.[l]a; k* ajgaqav, mevcri a]n uJperqarr.wn= pauvchtai, me- || (c. 14 lett. mancanti) di essere nuovamente ingiuriato, si liberi di tale amaro flegma, del tutto o in parte. Che abbracci poi con lo sguardo l’imperscrutabile e repentinamente mutevole natura della sorte e salendo al Colle [sc. all’Areopago] si consideri quel verso di Euripide che anche Dionigi non senza ragione ordinava che gli fosse recitato due volte al giorno: ‘Vedi come tiranni che hanno accresciuto a lungo il loro potere...’ E richiami distintamente alla memoria quale disposizione d’animo questi ebbe di fronte a un tale che era montato in superbia e come poi, grazie a questo esempio, egli stesso [sc. Dionigi] sia raffigurato piu` mite. Proprio come Dione riguardo a Pteodoro di Megara, il quale, pazientando per diverso tempo davanti alla porta, disse al compagno: ‘‘Certo anche noi cola` [sc. a Siracusa] ci siamo comportati molte volte in tal modo!’’. Quando rivolge la mente alle felici congiunture della sorte, non le ingigantisca piu` del dovuto come fanno i retori, ma tolga cio` che puo` privarle della loro naturale semplicita`, come anche Pericle risollevo` gli animi degli Ateniesi quando essi erano abbattuti, per poi ridimensionarli quando si mostrarono spavaldi. E non progetti nemmeno splendide imprese finche´ non cessa di essere troppo sicuro di se´ (continua)

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12 PHerc. 1008 col. 12 Jensen = col. 13 N1 = col. 13 O = col. 13 N2 = col. 12 HV1 III bPlutarch. de inv. et od. 537Ac (v. 16)

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[tamemevlhtai de; to;n kako;n o[g-] kon [kaqairw=n eujlog]ivctwc. , m. h.[d’e[cein ejn eJautwi= ] to;n di_a;_]_ th;n [kth=cin ejnqouci]acmovn: kai; p. [ara]m.[etr]e.[i]= n eJauto;n mh; pr.[o;]c. eJt[ev]ro.[uc pen]ectevrouc, [aj]l.la; pr]o;c tou;c. kaq’e{kacton ei\do]c uJperevcontac, ejpeidh; to;] m. e;n ejxaivrei, to; de; cuctevll[ei], tou=to me;n ejp’ajg.[r]w=n k[thv]cewc, tou. = t.o d’ejp’ajrch=c k[ai; ba]cile[iv]ac [p]ovlewn kai; ejqnw[= n. paru]pomimn[hvc]ke. c. [q]a.[i de;] kai; tou= cunanta=n [eij-

1 supplevi 2 i NO: . P c. N1: . P: [ON2]; [kaqairwn= supplevi, eujlog]ivctwc. legi necnon supplevi: ajlog]ivctwc. Janko per litteras 3 m. pars sin. vel l P, tum hasta vert. sicut h., g, i, k, n, p; m.h.[d’e[cein legi necnon supplevi, ejn eJautwi= suppl. 5 Janko per litteras 3-4 di|[a;] suppl. J. 4 init. n NO: [P ]; [kthc= in ejnqouci]acmovn supplevi: [penivan cle]u.acmovn spat. brevius Ph. 5 kaip. N1: k.a.[ . ] . P : kap O: kai[ N2 m. sinus obscurum vestigium, a, d, l P e. semicirc. inf. exiguum vestigium, q, o, c; p.[ara]m.[etr]e.[i]= n suppl. J.: [metrein= ] spat. brevius H. 6 r. hasta vert., paulum inclinata, a, d, l, m P c. lunulae obscuri apices, e, k, c o. semilunulae sup. ve10 stigium, e, q, o l. pes dext., a, d, c, l; eJt[ev]ro.[uc legi necnon supplevi, cetera suppl. H. 7 touc. N1: t.ou[ P : ]ou[ ON2; suppl. H. 8 up NO: up. P post tac spat. vac.; ei\do]c suppl. S.: mevro]c C.: gevno]c Obbink privatim 9 m. N1acN2: P : [O]; suppl. C. 9-10 c u c tev l | l [ ei ] suppl. C. 10 g. . hasta vert., h, i, k, n, m, r P; ejp’ajg.[r]wn= suppl. J.: ejpai[n]wn= C. 11 k N1: [PON2] u.t.od (t.od in mg. dext.) N1: 15 wqovt.oc fqovnou toic= uJperh. [PON2] rc NO: [P]; suppl. J. 12 ole in mg. dext. N1: [PON2]; suppl. C. 12-13 ej|qnw=[n suppl. C. 13 fanou c= in, [o}c] bojcfqalmiva tiv[c qnw N1: [PON2] pom in mg. dext. N1: [PON2] ej]c. t.[i]n yuchc= , w{cte kaqavper e. N1: [PON2] 13-14 paru]pomimn[hvc]ke.|c. [q]a.[i de;] suppl. J. 14 c. baseos obscurum vestigium, e, q, o, w P tou;c ojfqalmou;c hJ twn= cuna. hastae dext. reliquiae, d, l, m, n, u, c ucu in mg. dext. antwvntwn gega* [n]wmevnh claN1: [PON2] 14-15 [eij]|wqovt.oc suppl. C. 15 t. N1: [PON2] ut in mg. dext. N1: [PON2] h. O: [PN] 16 fa 20 n]i;c ejnoclei,= ko* u* [f]ovteron d’h[N1: ]a. P: [ON2] fqa in mg. dext. N1: [PON2]; suppl. p. er eja;n pariw;n kai; ajnabalS. 17 c. bracchii inf. vestigium vel e P, tum pes sicut t., lovmenoc diatin*avxh/, paraa, h, i, k, m, r, u u NO: u. P hcwcte in mg. dext. N1: [PON2] r N1O: r. P: [N2]; suppl. S. 18 init. t N1: plhcivwc kai; to;n fqonero;n [PON2] q N1: . P: [ON2] lmouch N1: [PON2] 19 lupei = me;n t.ajllovtria twn= ajinit. a N1: [PON2] twngega* ego: twngegen (wngege in mg. dext., n finale add. interpretes) N1: t.w.[ P: tw.[ ON2; suppl. 25 gaqw=n, oujc ou{tw d’w{cper o{tan C. 19-20 cla|[n]i;c suppl. S. 20 ocleiko* u* ego: 1ac 1pc oi|on ajnapt[e]ru[givz]ontav tina ocleikw. (leikw. in mg. dext.) N : ocleikoin N : o.[ P: oc [ ON2; ko* u* [f]ovteron recte coni. Sedley per litteras: kw[f]ovtekatamavqh/ di’aujt*[a;] k. ai; pro;c u{ron leg. J. 21 p. N1: [PON2] pariwnkai (ariwnk in mg. 2 1 yo c ejxairovme.[n]on: tovte de; pr(oc)22 omenoc NO: o.m.enoc. dext.) N : [P ]: p[. . . . .]ai ON P diatin* a ego: diatima (iatima in mg. dext.) N1: [PON2] c e[daken. oi|ai [d’] ajpwvlei_ f u _ _ ; 23 lhciw post axh spat. vac. pa N1: p . [ P: p[ ON2 30 ai dia; fqovnon givnontai, blevN1O: l.hc. [.]w P: ahciw N2 aiton in mg. dext. N1: _p_e_tai toic= a{pacin. ejnnoein= [PON2] 24 peimen N1: p.ei.m.e[ P: peime[ ON2 t.allot in mg. dext. N1: [PON2] fin. n NO: n. P 25 g N1: de; kai; th;n ejpicairekakivan, [PON2] coutwd in mg. dext. N1: [PON2] fin. o NO: o. 1 2 1 o{]tan eijc ajtucivan metapevch/: P 26 oion N : oio]n. P: o[ . .]n O: h[ . . ]n N ru N : 27 katamaqh N: ka.ta.ma.qh P: katamqh [PON2]; suppl. S. luphra; gavr, a{te cu[n]epitiqemevO iaut* ego: iaug in mg. dext. N1: [PON2] k. bracchii inf. 1 35 n[h] w ; n v eujlovgwc twi= thc= tuvc[hc apex, c, e P oc NO: o.c. P; suppl. C. 28 y N : y. P: f O: t N2 rome.[ . ]on (on in mg. dext.) N1: r.om[ P: rom[ ON2 ot ptaivcmati tw=n pollw=n [k]aN1: o[ PON2, tum e N2: e. P: [N1O] de N1: ]e. P: ]e O: qe 37 t ’ejcqrwn= oJmologoum. evnwn qe- || 2 1 2 N fin. compendium pro pr(oc) N : P. PON ; suppl. C. 29 ke NO: k. e. P post ken spat. vac. oiai (iai in mg. dext.) N1: [PON2] ei NO: [P ]; suppl. S. 30 qo N: q[ P: eo O gino N1: g.i.no. P: ]no ON2 l NO: l. P 31 init. p NO: p. P oi NO: o[ P cin N1O: c[.]n. P: ci[ N2, tum spat. vac. oei N: ]i. P: ai O 32 init. a NO: a. P hn NO: hn. P r N1O: r. P: [N2] fin. a NO: [P ] 33 metapech N1: m.eta.p.e.c. h. P: ]etapeci O: ]etapeo[ N2 34 h NO: h. P ]e N: e. P: [O] q N1: [PON2] me N1O: [PN2] 35 n[h] w ; n ev ([h] del. 33-35 suppl. C. 36 pt lilibrarius ;wn v additis supra lineam) N1: ]. ;w.n. v . P: [ON2] th N1: th. P: t[ ON2 c N1: [PON2] gatae videntur esse ic N1O: [P]: ]o N2 lw N1O: [P ]: aw N2 ]a N1: [PON2] 36-37 [k]a|t’ suppl. S.: [di]av| t’ U. 37 tecqrw 2 1 2 1 N : ]c.[. .]w. P: [ON ] menwnqe N : m.enwn.[.]e P: ]enwnqe O: ]enwn[ . ]e N

PHERC. 1008 , COLL. 10-24

12 ||[tamemevlhtai de; to;n kako;n o[g]kon [kaqairw=n eujlog]ivctwc. , m. h.[d’e[cein ejn eJautw=i] to;n di[a;] th;n [kth=cin ejnqouci]acmovn: |5 kai; p.[ara]m. [etr]e. [i ]= n eJauto;n mh; pr. [o;]c. eJt[ev]ro. [uc pen]ectevrouc, [aj]l. la; pr]o;c tou;c. kaq’e{kacton [ei\do]c uJperevcontac, ejpeidh; [to;] m. e;n ejxaivrei, to; de; cuctevl|10l[ei], tout= o me;n ejp’ajg.[r]wn= k[thv]cewc, tou=t.o d’ejp’ajrchc= k[ai; ba]cile[iv]ac [p]ovlewn kai; ejqnw[= n. paru]pomimn[hvc]ke. c. [q]a.[i de;] kai; tou= cunanta=n [eij]|15wqovt.oc fqovnou toic= uJperh. fanouc= in, [o}c] bojcfqalmiva tiv[c ej]c. t.[i]n yuch=c, w{cte kaqavper tou;c ojfqalmou;c hJ tw=n cunantwvntwn gega* [n]wmevnh cla|20[n]i;c ejnoclei,= ko* u* [f]ovteron d’h[p. er eja;n pariw;n kai; ajnaballovmenoc diatin* avxh/, paraplhcivwc kai; to;n fqonero;n lupei = me;n t.ajllovtria twn= aj|25gaqwn= , oujc ou{tw d’w{cper o{tan oi|on ajnapt[e]ru[givz]ontav tina katamavqh/ di’aujt*[a;] k. ai; pro;c u{yoc ejxairovme.[n]on: tovte de; pr(oc)fu;c e[daken. oi|ai [d’] ajpwvlei|30ai dia; fqovnon givnontai, blevpetai toic= a{pacin. ejnnoein= de; kai; th;n ejpicairekakivan, [o{]tan eijc ajtucivan metapevch/: luphra; gavr, a{te cu[n]epitiqemev|35nwn eujlovgwc twi= thc= tuvc[hc] ptaivcmati twn= pollwn= [k]at’ejcqrwn= oJmologoum. evnwn qe- ||

e non si pente, deponendo giudiziosamente la sua odiosa boria; e non alimenti nell’animo l’entusiasmo provocato dalla ricchezza. Quando confronta se stesso con altri lo faccia non con quelli piu` poveri di lui, ma con coloro che gli sono superiori secondo ogni aspetto, poiche´ la prima cosa produce esaltazione, la seconda ridimensionamento, e questo egli faccia sulla base sia delle proprieta` terriere sia del potere e della sovranita` su citta` e su popoli. Richiami anche alla memoria come i superbi incappino nella solita invidia, che e` come una specie di oftalmia dell’anima, cosicche´ proprio come la mantellina splendente di quelli nei quali ci si imbatte da fastidio agli occhi, ma certo piu` lievemente che se uno passando e gettandosela in spalla la scuotesse con violenza, similmente anche l’invidioso si rattrista per i beni altrui, ma non cosı` intensamente come quando si accorga che per quegli stessi beni un tale sta come spiccando il volo e si esalta fino al settimo cielo. E allora sı` che aggrappandoglisi addosso lo morde – Quante disgrazie avvengano per invidia e` a tutti evidente! –. Consideri poi il compiacimento malevolo che produce negli altri quando egli cade in disgrazia. E` questa infatti una situazione penosa, poiche´ al colpo di sventura si aggiunge comprensibilmente l’attacco da parte dei piu`, i quali muovono guerra ai comuni nemici, (continua)

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13 PHerc. 1008 col. 13 Jensen = col. 14 N1 = col. 14 O = col. 14 N2 = col. 13 HV1 III 1 qe||[mevnwn supplevi: qev||[menoi S., cetera ipse supplevi 2 wct N1: . .[ P: [ON2] fen. N1: ]e.n.[ P: [ON2]; t[avd’ suppl. Essler per litteras, cetera ego supplevi 3 init. o NO: . P w. lunulae sin. vestigia, e, q, o P c. N1: [PON2] r. hastae vert. uncique vestigia, a., n. P, tum hastae dext. pars inf. transtrique relictum sicut a. vel l .g hastae vert. pars inf., i, k, n, t, r, u tel O: ]el. P: ]el N1: ]ea N2; e[uj]tele;c suppl. S., cetera ego legi necnon supplevi 3-4 frg. com. adesp. novum agnovi 4 ante oti spat. vac. otithc N1: o.t.[.]t.[ P: ]h[ ON2 protero N1: ]rote[ PN2: ]rotero O erh N1O: e.[ P: er.h N2 5 init. c N1O: c. P: [N2] e. lunulae pars inf., c, q, o P imnhck N1ac: i. m. nh[.]. P: imnh[.]k O: ]mnh[.]k N2 6 c. basis, e, q, o P, tum i N1: i. P: [ON2] cq NO: ]q. P 7 fin. c NO: [P] 8 aon in mg. dext. N1: [PON2]; suppl. C. 10 wc N: w.c. P: we O 11 to NO: t.o P ic O: i.c. P: ic. [ N1: hc N2, tum lac. 2 litt. P, deinde oi N1O: ]i P: [N2]; i[coi legit S.; nescio quomodo lac. explicem, nisi postulans pap. dilatationem hoc in loco 12 init. 13 n. hastae dext. pars inf., g, a NO: a. P ta NO: ta. P h, i, k, n, p, r P, tum spat. vac. 14 en N1: ]n PON2 fin. a 15 e N1O: e. P: c N2 th N1O: th. P: tu N2 g. NO: a. P hasta horiz., z, x, p, t P fin. i NO: [P ]; suppl. C. 16 init. t N: t. PO xan N1O: x.a[ P: xari N2 e NO: e. P 17 u* ego: i.c. N1ac: u. P: [ON2] [.] del. librarius ;t v superposito P ri* ego: h N2: r[ P: i[ N1O 18 init. u N1O: u. P: t N2 pu NO: pu. P 19 nou NO: n.o. . P 20 post ton 21 en spatiolum h N1acON2: h. P ionu NO: ]o.[.]u. P NO: en. P n. hasta sin. transtrique vestigium vel h P; suppl. C. 22 init. e NO: e. P hm NO: ]m P c[ N2: c. [ P: 1 [ON ] q N1O: q. P: ci N2 22-23 [uJpo]qhv|khc suppl. J.: spat. longius [para]qhv|khc C. et kata]qhv|khc S.: spat. brevius [ejn]qhv|khc Sedley ap. T. 23 ai N: ai. P: li O; suppl. C. 24 oucan in mg. dext. N1: [PON2]; ajnqr[wvpoic kal]wc= supplevi: ajnqr[wvpouc hJdev]wc C.: ajnqr[wvpoic pra/v]wc S. 25 lo N: lo. PO gwnh in mg. dext. N1: [PON2] ilhcan N1: . [.]hcan. P: ]hcan O: ]ucan N2 26 ipal in mg. dext. N1: [PON2] na NO: na. P; suppl. C. 27 hmab . an O: [PN2]: a[ N1 28 in mg. dext. N1: [PON2] ac[.]m.e in mg. dext. N1: [PON2] hmhtri N1: h.[ P: h[ ON2 29 init. o NO: [P] ne N1: n[ PON2 apo N1O: [P ]: apl N2 30 tec N: t.ic. P: te[ O ro O: ro. PN m* ete ego: acete N1: ]e[.]e P : ]ere O: ]ete N2 31 in mg. sin. paragr. N1: [PON2] h NO: [P ] post can spat. vac. de N1O: d.e P: ae N2 32 init. i NO: i. P ikrop NO: ]krop. P ainetai N1: a. . n.[ P: lin[ O: ain[ N2 28-32 suppl. C. 33 init. 34 top N1: t.[ P: tep O: twp o NO: o. P pei NO: p[ P N2 ntac N1: n.[.]ac. P: n[.]ac O: n[.]ao N2 pe* ego: po N1: [P ]: p[ ON2 f O: f. P: [N]; suppl. S. 35 init. ec NO: e. . P post qai spat. vac. ap.lhc[ N1ac: [P ]: a[ ON2 arectin N1: ]c[ P: a[.]ec[ O: ]ec[ N2; parap.lhvc[ion suppl. S.: para[p]lhvc[ioc C., d]’a[r’ Sedley per litteras: g]avr C. 36 ek N: e. . P: eic O aradoxou N1: a.r.ado . ou. P: aradoxe[ O: aradoxo [ N2 tet N1ac: ]et PN2: cet O atith O: [P]: ]titi[ N1: ]t[. ]t[ N2; ti legi, cetera suppl. J. 37 euklhr N1O pc : 2 1 2 .uklhr. P: eukahr N en N O: ]n PN , tum o. baseos pars sin., e, q, c, w P meg.a N1ac: me.g.a. P: me[ O: mc[ N2; oJqeno.[un= suppl. H., kai;] Janko per litteras 37-38 meg.a|[lo]yuc[iv]an * suppl. S. 38 y ego: f O: [PN2]: y. N1ac an N1O: * [PN2] upokrinomeno N1: ]p[. . .]in[. . .]n[ P: ]p[. .]rin[. .]n[ O: ]o[.]rin[ N2; uJpokrinovmeno[n suppl. S.: uJpokrinovmeno[c C., mh; U. 39 c[.]o.dra N1ac: ]d[ PO: ]m[ N2 do N1: ]o PON2 frainecqai N1: ]ine[ PN2: f[. .]ine[ O; suppl. C.

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[mevnwn mavchn, w{cper Eujripivdou,] wJc t[avd’e[gra]fen. [oJ kwmwidogravfoc: ‘o[ntw.c. filw= to; [d]r.a.[= mav] g.’e[uj]tele;c o[n’, o{ti th=c provteron uJperhfa-

nivac ajne. mivmnhcken: dio; kaiv fac. in ajcqovmenon aujto;n ejpi; twi= ccedo;n pavntac ejpij laon [ajp]elcaivrein pro;c Arcev _qe_ _in= . paratiqevnai de; kai; tou;c ejn uJperocaic= megavlaic wJc cunicta=cin auJtouvc, o{tan i[coi kai; cunectalmevnoi faivnwntai kata; th;n oJmilivan. kai; kaqavper ejx ejnantivac iJctavmenoi tw=i thc= tuvchc [o[]g.kwi, to;n Alev j x.andron, o}c ejpi; to;n auJtou* = qrovnon ejkavqicen [ . ] t; ov ;n rJi*goun= ta Makedovna puro;c pa_r_a_keimevnou, kai; Dionuvcion, o}c pro;c tovn ‘‘oijmwvxh/ Dionuvcie’’ fhvcanta ‘‘cu; me;n ou\n’’ [ajphv]n. thcen ‘‘eij mh; to; h{micu thc= [uJpo]qhvkhc ejpanoivcei[c’’, k]ai; [to]u;c a[llouc tou;c ajnqr[wvpoic kal]wc= dia; lovgwn h] e[rgwn oJmilhvcantac kai; pavl[i] tou;c ejnantivwc di’e}n rJh=ma baru; duccevreian ejpicpac[a]mevnouc, wJc Dhmhvtrion, o{te Make[d]ovne[c] ajpo[lip]ovntec aujto;n pro;c P[uvrron] m* etev_c_th_ can. ejnnoein= de; kai; d[iovti mikroprepe;c ejm[f]aivnetai to;n pepeicmevnon aJdro;n ei\nai to; pro;c pavntac uJpe* [rh]fane[uvecqai: parap. lhvc[ion d’] a[r’ejctin ejk paradovxou tet[ucovt]a ti th[= c eujklhrivac oJqeno. [un= kai;] meg.alo]yuc[iv]an uJpokrinovmeno[n mh; * c[f]ov. dra dokein= ejpeufraivnecqai. ||

PHERC. 1008 , COLL. 10-24

13 ||[mevnwn mavchn, w{cper Eujripivdou,] wJc t[avd’e[gra]fen. [oJ kwmwidogravfoc:] ‘o[ntw. c. filw= to; [d]r. a. [= mav] g.’e[uj]tele;c o[n’, o{ti thc= provteron uJperhfa|5nivac ajne. mivmnhcken: dio; kaiv fac. in ajcqovmenon aujto;n ejpi; twi= ccedo;n pavntac ejpicaivrein pro;c Arcev j laon [ajp]elqein= . paratiqevnai de; kai; tou;c |10 ejn uJperocaic= megavlaic wJc cunictac= in auJtouvc, o{tan

i[coi kai; cunectalmevnoi faivnwntai kata; th;n oJmilivan. kai; kaqavper ejx ejnantivac iJctav|15menoi twi= thc= tuvchc [o[]g.kwi, to;n Alev j x.andron, o}c ejpi; to;n auJtou* = qrovnon ejkavqicen to;n rJi*goun= ta Makedovna puro;c parakeimevnou, kai; Dionuvcion, |20 o}c pro;c tovn: ‘‘oijmwvxh/ Dionuvcie’’ fhvcanta ‘‘cu; me;n ou\n’’ [ajphv]n. thcen ‘‘eij mh; to; h{micu thc= [uJpo]qhvkhc ejpanoivcei[c’’, k]ai; [to]u;c a[llouc tou;c ajnqr[wvpoic kal]wc= |25 dia; lovgwn h] e[rgwn oJmilhvcantac kai; pavl[i] tou;c ejnantivwc di’e}n rJhm = a baru; duccevreian ejpicpac[a]mevnouc, wJc Dhmhvtrion, o{te Make[d]ovne[c] ajpo[lip]ovn|30tec aujto;n pro;c P[uvrron] m* etevcthcan. ejnnoein= de; kai; d[iov]ti mikroprepe;c ejm[f]aivnetai to;n pepeicmevnon aJdro;n ei\nai to; pro;c pavntac uJpe* [rh]fane[uv]|35ecqai: parap. lhvc[ion d’] a[r’ejctin ejk paradovxou tet[ucovt]a ti th[= c] eujklhrivac oJqeno. [un= kai;] meg.a[lo]yuc[iv]an uJ* pokrinovmeno[n mh;] c[f]ov. dra dokein= ejpeufraivnecqai. ||

come avvenne ad Euripide quando il commediografo scrisse le seguenti parole: ‘Mi piace proprio questo dramma, benche´ sia... frugale!’, circostanza che gli rammento` la sua precedente superbia. Per questo dicono anche che egli, sdegnatosi al vedere che quasi tutti gioivano dell’accaduto, se ne ando` da Archelao. Adduca inoltre ad esempio il contegno di quanti occupano posizioni eminenti, come si mostrano allo stesso livello degli altri e dimessi nei rapporti sociali, comportandosi esattamente all’opposto rispetto alla grandezza della loro fortuna. [Adduca ad esempio] Alessandro, che fece sedere sul suo stesso trono, presso il fuoco che ardeva lı` accanto, l’intirizzito macedone, e Dionigi, il quale a colui che gli aveva detto: ‘‘Piangerai, Dionigi!’’ ‘‘Tu piuttosto’’ – replico` – ‘‘se non riprenderai indietro la meta` dell’avvertimento!’’, e quant’altri socializzarono amabilmente con gli uomini in parole ed opere; e d’altro canto [prenda ad esempio] quanti all’opposto si attirarono impopolarita` a causa di una sola parola pesante, come Demetrio quando i Macedoni abbandonandolo passarono a Pirro. Consideri poi come appaia meschino che colui che e` convinto di essere un grande si comporti con arroganza verso tutti. Simile a questo e` il caso di uno che, avuto inaspettatamente e in qualunque modo un colpo di fortuna, eviti, simulando magnanimita`, di mostrarsene eccessivamente contento.

14 PHerc. 1008 col. 14 Jensen = col. 15 N1 = col. 15 O = col. 15 N2 = col. 14 HV1 III

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aujto;n ajna]mimnhvønØckont[ec kai;

1 [oiJ ga;r polloi; dielevgcoien a]n] supplevi exempli gratia _l_o_idoroun= tec. parupomimnhv2 nh.ckont N1: n.h.nc. k[.] . t. P: nhncont O: ni. ncon[ N2; aujto;n ajna]mimnhvønØckont[ec supplevi: mimnhvckont[ec kai; suppl. ckein de; kai; t[ou=] peri; ta;c p[r]avS. 3 ro NO: ro. P post tec spat. vac. parupomimnh 5 xei c aJmartw. lou= twn= movnwn, 1 2 N : p.ar.u.p.o . i.m. . . P: tarupo[. .]mnh O: tarupo[ N 4 ck 1 2 1 N : [P ]: ]k ON ka NO: ka. P rit N : ri.t. P: rik O: ric ejpiteuktikou= de; tw=n cunerN2; suppl. C. 5 x N1: [PON2] ma NO: m.a. P w. lunula goumev nwn uJf’eJno;c kai; plei1 2 1ac 2 sin., o, c, e, P nm N : ]m PON onwn N O: ] . n P: enwh N 1 2 6 iteu N : ]t.eu. P: ]eu ON un NO: u.n. P 7 um NO: u.m. _o_vn_wn. oJ ga;r uJperhvfanoc ou[P 8 post nwn spat. vac. 9 init. c. P: c NO 10 me cunparalhptiko;c eJtevrwn, te NO: ]e P up NO: u.p. P w NO: w. P post ewc spatiolum 2 1 1 11 init. a NO: a. P ot N : o.t. P: og O: d.e N : [PON ] 10 a{ma me;n uJp’oijhvcewc, a{ma d. e; o[ N2 llou (l.ou in mg. dext.) N1: l.l.[ P: ll[ O: ka dia; to; tou;c a[llouc uJperfro. 2 12 init. N fin. o. semicirc. sin. vestigium, e, q, c, w P 1 2 1 2 1 i N O: [PN ] an N O: ]n. P: ]n N raka N : ]a. P: nein= , a[n te parakalh,=/ cale[ON2] h NO: h. P fin. e N1O: e. P: o N2 13 cu N1: ]u. pw c= uJpakouvein diav te th;n 2 P: [O]: ch N eind (ind in mg. dext., post in spatiolum) 14 nkai in mg. dext. N1: [PON2] 15 N1: e.[ PON2 a[llhn ajhdivan kai; dia; to; ta;c xe N: x . P: qe O aze[. .]ai (aze in mg. dext.) N1: 15 prav xeic ejxid[i]avze[cq]ai qevlein, 2 1 2 [PON ] fin. i N O: [PN ]; suppl. C. 16 ac NO: a.c. P h[.]ocwn (ocwn in mg. dext.) N1: h.[ P: h[ ON2 post _e_i\t_ ’ajcunevrgh[t]oc w[n: polcwn spat. vac. 17 d NO: d. P p[.]rathrou[.]t (rathro lou;c de; tou;c p[a]rathrou=[n]tac in mg. dext.) N1: p.[. . . . . . .]u[ P: p[. . . . . . . ]u[ O: 2 kai; uJpockelivzontac cunhrap.[. . . . . . .]u.[ N ; suppl. C. 18 init. a NO: a. P izontac (ontac in mg. dext.) N1: ].[ P: i[ ON2 cunh N1acO: . u.nh. nikw;c kata; lovgon diapivpt.e. i. P : cune N2 19 c NO: c. P t O: t. P : [N1]: u. N2 log 20 ka[peita koufivzetai thc= uJpe[rNO: l.og.[ P ondia in mg. dext. N1: [PON2] t. apicis sin. pedisque vestigia vel u P, tum semicirc. caput et basis sicut hfanivac, ejpei; dia; tw=n lovgwn e. vel c, tum i. pes, g, h, k, n, p, r, t, u 20 ufizetai (zetai ouj [b]ouvletai, dia; twn= ajpoteuvin mg. dext.) N1: u.fiz.[ P: ufi[ ON2 ni NO: n[ P pe NO: pe. P; suppl. C. 21 post iac spatiolum 22 suppl. ; av cthrivxewn: dio; kajn toic= di[d] k C. 23 [d] del. librarius ;k v superposito NO: [d.] P ;k v 1 2 oic ka[i;] toic= ajgw=cin ejlattoun= N : k; . v P: ic O: [N ] post ewn spatiolum 24 init. ic N1: ]c. P: [ON2] w N1O: w. PN2 toun N1: t.ou.[ P: t.ou 25 _t_a_i. Timokrevwn gou=n oJ [ RJ ]ov. d. i[ ON2 25 post tai spat. vac. t N1: [PON2] w N1: oc uJperhvfanoc w]n pro;c [me;]n to;[n [PON2] o[ N1: o.[ PN2: [O] o. baseos vestigium, q, w P, tum d. basis capitisque vestigium, z, x fin. i NO: i. P o{tøiØ’eijchv/ei punqanovmenon, po25-26 oJ [ JR]ov.d.i|oc suppl. Wilamowitz, Sappho und Simonides tapovc ejctin ‘‘tou= khvruko[c]’’ ei\26 no NO: n.o. P w N1: cit., p. 146 n. 2: [Cerivf]i|oc C. [PON2] fin. o NO: o. P; suppl. J. 27 chei N1O: c. he . P: ‘‘ajkouvcei mikro;n u{cteron’’: [dipen che[ N2 punqanomen (pu bases in mg. dext.) N1: p.u.nqanomen. 2 30 adoqevntoc de; tou= lecqevntoc P: punqanomei O: noanoane[ N fin. o NO: o. P; o{tøiØ’ ego: o{t’ iam H. 28 oc N1: [PO]: a[ N2 tin N1: [PON2] ou ou{twc ajntevkoye toi*c= . qewrou-= N1O: o[ P: ot N2 ei O: e.i. P: e[ N1: eh N2; suppl. C. 29 1 2 1 cin, w{cte to;n brabe[uth;n ejk]teivouceim (ceim. in mg. dext.) N : o.[. . . .]m. P: [ON ] ctero N : c. . . r.o. P: c[ O: o[ N2 29-30 [di]|adoqevntoc suppl. C.: connont ’aujt[w]= i th;n rJavbdon a[ido[nti tra syllabb. divisionem [par]|adoqevntoc S. et [ajn]|adoqevntoc 1ac 2 Kact[ovrei]o* n* mikrou= katap* au=cai: U. 30 lecq N : l.e[.]. P: ne[ O: pet[ N 31 oi* ego: w N2: o[ P: [N1O] c. N1ac: [PO]: n N2 ew N1O: ]w. 35 diovper hJtthm[ev]noc o{t ’ej[x]hv/ei P: ]o. N2 32 e[ ON2: e.[ PN1 tei O: t. . i. P: t[.]i N1: 2 taujtou= ‘‘potap* o.cv ’’ ejperw t; w= [v n]toc ‘‘Cete[ N ; brabe[uth;n suppl. C. 32-33 ejk]teiv|nont’ suppl. C.: ejpi]teiv|nont’ S.: ejn]teiv|nont’ Wilamowitz, Sappho und Sirivfioc’’ ajphvn[thcen]. logivzecqai monides cit., p. 146 n. 2: dia]teiv|nont’ Gigante, Atakta II cit., 1 2 1 de; kai; diovti t.[h;n] lampra;n tuvp. 42 33 nont N O: n[.]nt P: n[ N au[ N : ]u.[ P: ]u O: [N2] t[ O: [PN2]: t. N1 it O: ]t. P: i[ N1: ]t N2 abdon N1: chn ajpo[b]a. l[lov]m. e.[noc] kaqaia.b[.]o.[ P: al[.]cn O: o[ N2 aido O: ai.d.o P: a[.]d.o N1: ]ao 2 40 rhv[cei] frovnhma kajn [th=]i* tapeiN ; aujt[w=]i suppl. C., a[ido[nti S. 34 in mg. sin. fort. signum / kact N1O: ka . t P: ka[ N2 o* n* ego: wi O: [PN1]: [i]thi perictavcei faneit= ai, || 41 nwtav oc N2 pa ego: ma N1: p.[ P: l[ O: [N2]; suppl. S. 35 er * 1 2 1 N : e.[ P: i[ O: [P ] htth N : ]t.th P: ]tth O: ]th N e NO: e. P; hJtthm[ev]noc suppl. C., ej[x]hv/ei S.: e[ijc]hv/ei C. 36 tou N1: t.[ P: t[ ON2 potap* ego: potag N1: ]o.ta.p. P: ]tai[ O: ]tn[ N2 o. semicirc. dext. vestigium, q, w P fin. e N1O: e. P: 38 d NO: d. P t. pes, g, i, k, n, p, r, u P ra N1O: [N2] 37 ca N1: [PON2] ante log spat. vac. q N1O: q. P: o N2 [P ]: ]a N2 36-38 suppl. S. 39 o N1: o. P: [ON2] a. caput, d, l P m. sinus pars dext. et pes dext., l, a, d, tum basis sicut e., q, o, c; ajpo[b]a.l[lov]m.e.[noc] legi necnon supplevi: contra vestigia litt. ajpo[balwn= tavca] S. et ajpod.[e]d.[u]m.ev[noc] Sudhaus ap. J. 39-40 kaqai|rhv[cei] suppl. S. 40 fr N1: fr. P: fi O: f[ N2 ka O: ka. PN1: k[ N2 n[ N1: n.[ P: [ON2] i* ego: n. O: 1

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PHERC. 1008 , COLL. 10-24

14 || [ deest c. versus unus aujto;n ajna]mimnhvønØckont[ec kai;] loidoroun= tec. parupomimnhvckein de; kai; t[ou]= peri; ta;c p[r]av|5xeic aJmartw. lou= twn= movnwn, ejpiteuktikou= de; twn= cunergoumevnwn uJf’eJno;c kai; pleiovnwn. oJ ga;r uJperhvfanoc ou[te cumparalhptiko;c eJtevrwn, |10 a{ma me;n uJp’oijhcv ewc, a{ma d. e; dia; to; tou;c a[llouc uJperfronein= , a[n

te parakalh,/= calepwc= uJpakouvein diav te th;n a[llhn ajhdivan kai; dia; to; ta;c |15 pravxeic ejxid[i]avze[cq]ai qevlein, ei\t ’ ajcunevrgh[t]oc w[n: pollou;c de; tou;c p[a]rathrou[= n]tac kai; uJpockelivzontac cunhranikw;c kata; lovgon diapivpt.e. i. |20 ka[peita koufivzetai thc= uJpe[r]hfanivac, ejpei; dia; tw=n lovgwn ouj [b]ouvletai, dia; tw=n ajpoteuvxewn: dio; kajn toi c= dikacthrivoic ka[i;] toi c= ajgw=cin ejlattou=n|25tai. Timokrevwn gou=n oJ [ JR]ov.d.ioc uJperhvfanoc w]n pro;c [me;]n to;[n] o{tøiØ’eijchve/ i punqanovmenon, potapovc ejctin: ‘‘tou= khvruko[c]’’ ei\pen ‘‘ajkouvcei mikro;n u{cteron’’: [di]|30adoqevntoc de; tou= lecqevntoc ou{twc ajntevkoye toi* c.= qewrouc= in, w{cte to;n brabe[uth;n ejk]teivnont ’aujt[w]= i th;n rJabv don a[ido[nti] Kact[ovrei]o* n* mikrou= katap* auc= ai: |35 diovper hJtthm[ev]noc o{t ’ej[x]hv/ei taujtou= ‘‘potap* o. cv ’’ ejperwtw[= n]toc ‘‘Cerivfioc’’ ajphvn[thcen]. logivzecqai de; kai; diovti t.[h;n] lampra;n tuvchn ajpo[b]a. l[lov]m. e.[noc] kaqai|40rhv[cei] frovnhma kajn [th]= i* tapeinotavthi perictavcei faneit= ai, ||

(c. 1 v. mancante) rinfrescandogli la memoria e insultandolo. Quanto alle azioni pratiche, tenga anche presente il fallimento di quanti agiscono individualmente e il successo di coloro che sono aiutati da una o piu` persone. Il superbo, infatti, non e` nemmeno disposto a prendere con se´ collaboratori, in parte per presunzione, in parte perche´ disprezza gli altri; e se chiama qualcuno, malvolentieri gli presta ascolto, sia per quell’altra sua odiosita`, sia perche´ vuole attribuirsi le imprese compiute, e allora finisce per rimanere senza aiuto. E avendo radunato una gran quantita` di gente che non ha aspettato altro che tale momento e che e` pronta a fargli lo sgambetto, giustamente egli precipita e allora e` liberato dalla superbia (poiche´ non vuol farlo con le parole, se ne libera con i suoi fallimenti). Percio` essi [sc. i superbi] sono umiliati vuoi nei tribunali vuoi nelle competizioni. Per esempio, Timocreonte di Rodi, che era superbo, entrando in una competizione, a uno spettatore che gli chiedeva di dove fosse rispose: ‘‘Tra poco lo udrai dall’araldo!’’ Ed essendosi diffuse le sue parole, esse urtarono talmente gli spettatori che il giudice, stendendo il bastone verso di lui mentre eseguiva un canto di Castore, fu costretto a interromperlo di lı` a poco. Per questo, uscendo sconfitto dall’agone, quando lo stesso tizio gli chiese: ‘‘Di dove sei?’’, egli rispose: ‘‘Di Serifo!’’. Pensi poi a come perdendo la sua fulgida sorte abbassera` l’orgoglio e si mostrera` nella condizione piu` misera,

15 PHerc. 1008 col. 15 Jensen = col. 16 N1 = col. 16 O = col. 16 N2 = col. 15 HV1 III 1 [eujtucwn= d’ajfronei = ante kai; to; me;n supplevi exempli gratia 2 ]o. N1: [PON2] do N1: d.o. P: [ON2] ]o.[ baseos 1-2 legi necnon supplevi 2-3 oiJ pars sin., e, q, c P ga;r mevga] | fr.onounte = [c f]i.[lodox]ou.c= [i legi necnon supplevi: oujc oJrw=n, aj]|f’w|n cunte[lein= aujt]oic= Ph. 3 f O: [PN] r. unci vestigia vel b P i. pes, g, h, k, n, p, r, t, u ou.c N1: [PON2] 3-4 to;] | de; supplevi: oiJ] | de; C.: ouj]|de; S. 4 ei O: ei. P: e[ N post kei spat. vac. pit N1O: p.[.]t. P: 2 ]it N ; [t]o; de; suppl. J.: oJ de; C. 5 z NO: z. P; suppl. C. 6 ik NO: i.k P pei N1: p.e.[.] P: pe[.] O: [N2] 7 init. o NO: . P 8 init. e NO: e. P oike N1: o.i. . e. P: o[. .]e O: c[ N 2 9 post chc spat. vac. ok N1: o. . P: cu O: ]k 10 ghcil N1: g.hcil. P: thcil O: ]hcia N2 n NO: n. P N2 ta N1O: ]a PN2 h. pedes, p, n P 11 d NO: . P; øeØaujtov[n] suppl. C., øeØ ego 12 cu NO: c. [ P to NO: t.o. P 13 to NO: [P] ei NO: e.[ P post ein spat. vac. 14 eperwt N1O: . perw.t. P: oerwt N2 g O: g. P: [N]; suppl. S. 15 io NO: io. P p. hasta vert. dext. et fort. pes sin., h, n P f NO: f. P 16 ker N1acN2: k.er. P: kei O 17 post ona spatiolum ti O: t . P: t[ N1: th N2 o. baseos vestigium, e, q, c P post z pap. scissura dilatationem 1 litt. effecit; suppl. J. 18 toi N1: t.o.[ P: to[ ON2 post r lac. 2 litt. e pap. dilatatione effecta, de qua vide ad v. 17 19 ]e N1: [PON2] 18-19 suppl. C. 20 peribolhi N: p.er.ibo.lhi. P: peribolhu O la NO: l . P post doc spat. vac. 22 init. t NO: t. P post cin spatiolum 23 post gon spat. vac. r N1: . P: [ON2] e. lunulae pars sin. N1: [PON2] me in mg. dext. N1: [PON2] 24 init. i NO: [P] n. linea obl., u, c, y P acal in mg. dext. N1: [PON2]; suppl. C. 25 cumfur NO: ]u.m. . ur. P kaitau in mg. dext. N1: [PON2] [n:] puncto superposito del. librarius P fe N1pc: f.[ P: f[ O: [N2] 26 r NO: . P init. a NO: a. P pitouc in mg. dext. N1: [PON2]; suppl. C. 27 h N1: h. P: [O]: c N2 x N1: [PON2] iakaiect (iakaiec in mg. dext.) N1: [PON2] 28 l NO: l. P coutoka. in mg. dext. N1: ]a PON2 29 wnupe in mg. dext. N1: [PON2] 28-29 suppl. C. 30 twit N1: t.[. .]t. P: t[ O: u[ N2 ch N1O: c.[ P: [N2] h.cogkwi in mg. dext. 31 er N1: e.[ P: e[ ON2 N1: [PON2] to N1O: t.o PN2 to N1: t.[ P: t[ O: f[ N2 diakouf in mg. dext. N1: 32 th N1: t. h. P: [ON2] post thc spatiolum [PON2] neu N1: n.eu. P: aiqu. O: ne[ N2 matoum. in mg. dext. N1: ]m PON2 33 init. o N1pcON2: . P uperora (perora in mg. dext.) N1: u.[. . . . .]a. P: [ON2] 34 paragraphi pars sin. in mg. sin. N1: [PON2] ro N1: . o. P: ]o ON2 post ouc spat. vac. cqai (c. qai in mg. dext.) N1: [PON2] dioti 35 am N1: a. . P: a[ O: [N2] n. haN1: d.i.ot.i. P: ]oti ON2 starum vertt. partium supp. obscurissima vestigia, h, p P, tum semicirc. dext. portio sicut o., q, o, w zeit. in mg. dext. N1: ]t PON2 o NO: o. P 36 ta N1O: [PN2] init. c N1: c. PO: 2 [N ], tum ramus dext. sicut u., c, k P refome O: r.efom.e. P: reyome N1: r.efome N2 nocaut in mg. dext. N1: ]t. P: [ON2] 37 p. hastae sin. pars sup. cum frg. capitis in alto coniuncta, n, g P nka N1: n[ P: ]a O: n[.]a N2 36-37 suppl. C. 38 omoioic N1: ]moio.[.]c. P: omoio[ O: omop[ N2 post oic spat. vac. anqrw N1: ]nq . . P: ]ne[.]w O: ]nq[.]o.i N2 hl N1: h.l. P: ol O: ha N2 39 k* ego: c N: k. P: l O af NO: af. P k N1O: . P: [N2] c N1O: [PN2] fu NO: f.u P 40 l NO: l. P post ton spatiolum e NO: e. P

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kai; to; me;n uJ-] p]o. ; do[xok]o. [pivac – oiJ ga;r mevga fr. onoun= te[c f]i.[lodox]ou. c= [i –, to; de; di’w|n prochvkei, [t]o; de; kai; ejp_ _i;_ toic= mh; p[ro;c] hJmac= ajtimavz.ei: kai; nh; Div’wJc a[dikon dia; tou= tapeinoun= eJtevrouc eJauto;n metewrivzein, ajlla; mh; dia; th;c oijkeivac u _ _Jp_eroch=c: dio; kai; Luvcandroc Ag j . hcilavwi katacthv. canti krewdaivthn øeØaujtov[n] ‘‘hjpivctacov ge cu; tou;c fivlouc’’ ei\pen ‘‘ejlavttouc poiein= ’’. kai; pollavkic eJauto;n ejperwta=n: ‘‘tiv me [to;] gauria=n poiou=n kai; uJp. erhfanein= ; o{ti kermavtia kevkthmai pleivona; ajll’o{ti no.[m]ivz[o]mai tw=n eujgenwn= h[toi ctr[a]thgouvntwn kai; timwmevnw[n] ejniauc_ _i_vai peribolhi= clamuvdoc;’’ euJrhvcei ga;r tapeino;n e{kacton kai; th;n ejp’aujtwi= kauvchcin ajnav_g_w_gon. kai; diaire.[in= ] megaloyucivan uJperhfan.[iv]ac, ajlla; mh; cumfuvrein wJc e}n kai; taujtov[n]: diafevrei ga;r o{con kai; [ej]pi; tou= cwvmatoc oijdhvcewc eujexiva kai; e[ctin tou= me;n megaloy[uv]cou to; katafronein= twn= tuch[r]wn= uJpe[r]evconta tw=i th=c yuch=c o[gkwi, tou= d’uJperhfavnou to; dia; koufovthta tauvthc ejkpneumatouvmenon uJpo; kthvcewc uJperoran= eJtevr_ _o_uc. kai; logivzecqai diovti zw=ia me;n. o. ujk ajtimavzei ta; tucovnta cu. n[t]refovmenoc aujtoic= , oi|on i{p. [po]ic kai; k[u]ci;n kai; toic= oJmoivoic, a[nqrwpon de; to; thlik* ouvtwi diafevron kai; cumfulovtaton aujtw=i, diovti kekovc- ||

PHERC. 1008 , COLL. 10-24

15 || [ desunt c. 15 litt. kai; to; me;n uJp]o.; do[xok]o.[pivac – oiJ ga;r mevga] fr.onoun= te[c f]i.[lodox]ou.c= [i –, to;] de; di’w|n prochvkei, [t]o; de; kai; ej|5pi; toic= mh; p[ro;c] hJmac= ajtimavz.ei: kai; nh; Div’wJc a[dikon dia; tou= tapeinoun= eJtevrouc

eJauto;n metewrivzein, ajlla; mh; dia; th;c oijkeivac uJperochc= : dio; kai; Luvcandroc |10 Ag j . hcilavwi katacthv. canti krewdaivthn øeØaujtov[n] ‘‘hjpivctacov ge cu; tou;c fivlouc’’ ei\pen ‘‘ejlavttouc poiein= ’’. kai; pollavkic eJauto;n ejperwta=n: ‘‘tiv me [to;] gauri|15a=n poiou=n kai; uJp. erhfanei n= ; o{ti kermavtia kevkthmai pleivona; ajll’o{ti no.[m]ivz[o]mai twn= eujgenwn= h[toi ctr[a]thgouvntwn kai; timwmevnw[n] ejniau|20civai peribolhi= clamuvdoc;’’ euJrhvcei ga;r tapeino;n e{kacton kai; th;n ejp’aujtwi= kauvchcin ajnavgwgon. kai; diaire.[in= ] megaloyucivan uJperhfan.[iv]ac, ajlla; mh; |25 cumfuvrein wJc e}n kai; taujtov: diafevrei ga;r o{con kai; [ej]pi; tou= cwvmatoc oijdhvcewc eujexiva kai; e[ctin tou= me;n megaloy[uv]cou to; katafronein= twn= tuch[r]wn= uJpe[r]evcon|30ta twi= thc= yuchc= o[gkwi, tou= d’uJperhfavnou to; dia; koufovthta tauvthc ejkpneumatouvmenon uJpo; kthvcewc uJperoran= eJtevrouc. kai; logivzecqai diovti zwi= |35a me;n. o. ujk ajtimavzei ta; tucovnta cu. n[t]refovmenoc aujtoic= , oi|on i{p. [po]ic kai; k[u]ci;n kai; toic= oJmoivoic, a[nqrwpon de; to; thlik* ouvtwi diafevron kai; cumfu|40lovtaton aujtwi= , diovti kekovc- ||

(c. 15 lett. mancanti) e oltraggia in parte per sete di gloria – gli altezzosi, infatti, ambiscono alla gloria –, in parte attraverso cio` che ci riguarda, in parte anche in relazione a cose che non dipendono da noi; e – per Zeus! – come e` ingiusto esaltare se stessi umiliando gli altri, anziche´ attraverso la propria reale superiorita`! Percio` anche Lisandro ad Agesilao, che lo aveva nominato scalco, disse: ‘‘Sai bene tu come umiliare gli amici!’’ Si chieda poi spesso: ‘‘Che cos’e` che mi fa imbaldanzire ed essere arrogante? Il fatto che possiedo parecchi quattrini? O il fatto che sono annoverato tra i nobili o tra i generali che ogni anno vengono onorati con l’imposizione del paludamento?’’ Scoprira` infatti come ognuna di queste cose sia misera e la boria intorno ad esse da villani. E distingua magnanimita` da superbia e non le confonda come se fossero una sola cosa, poiche´ differiscono quanto sul piano fisico uno stato di benessere da un tumore, e mentre e` proprio del magnanimo non darsi cura dei beni di fortuna mostrandosene superiore con fierezza d’animo, e` tipico del superbo, che si lascia gonfiare dalla ricchezza per leggerezza di spirito, disprezzare gli altri. Che consideri poi che, mentre si guarda dal maltrattare gli animali con cui gli capita di vivere insieme, come cavalli, cani e affini, egli osa oltraggiare un uomo, che tanto sommamente eccelle su di essi e il quale appartiene alla sua stessissima specie per il fatto di essere dotato (continua)

16 PHerc. 1008 col. 16 Jensen = col. 17 N1 = col. 17 O = col. 17 N2 = col. 16 HV1 III 1 kekovc||[mhtai suppl. S.: kekovc||[mhke C., lovgwi vel ajrethi= coni. Obbink privatim (nwi= te kai; lovgwi K.): nwi= H. 12 uJbrivzei, w{cte pavn|t]e.[c aujtou= cwrivzo]ntai legi necnon supplevi 2 e. lunulae transtrique vestigia vel q P t NO: t. P 2-3 cr[oni]|cqeivc[h]c suppl. S.: cr[h|c]qeivc[h]c C. 3 cqeic[.]c N1: ]qe[ P: cqeic[ ON2 p. hasta vert. sin., g, h, k, n, r, t P post iac spat. vac. f[ NO: f. P; [uJ]p.erhfanivac suppl. C. 3-4 f[o]|bei[= cq]a.[i] suppl. C. 4 bei N1: be.i P: pei O: tei N2 ]a.[ pes dext., l, m P t N1: t. P: [ON2] pop NO: p.op. P a.[ cauda, l, m P; t[h;]n suppl. S. 4-5 a.[uJ]|tou= suppl. C.: a.[uj]|tou= S. 5 t NO: . P meiz N1: m[ P: me[ ON2 a NO: a. P; suppl. C. 6 ni N1O: n.i P: hi N2 iota N1: i.o.ta. P: iot[. ON2 t. capitis apex dext., g, z, k, p, u P 7 h NO: h. P post nhn spat. vac. m. pars sin. vel l P h N1: [PON2]; supplevi 8 tic NO: t.[.]c. P t. pes capitisque vestigia, g, k, p P ou N1: [P]: o[ O: o.[ N2 fin. t NO: t. P; ej[pi;] t.ouv[tou]c suppl. Co.2: e[ijc] t.ouv[tou]c S. 9 ch NO: ch. P in NO: i . P g.o N1: g.o. P: g[ O: p[ N2; [kataf]ugein= suppl. H.: [uJpofe]uvgein S.: [katafe]uvgein J. 10 ic NO: ic. P e N1O: e. P: l N2; suppl. C. 11 q N2: [P]: o N1O post oic spat. vac.; suppl. C. 12 uri N1O: [PN2] 13 post gwc spat. vac. 14 t NO: t. P eu NO: eu. P 15 init. a NO: . P g. hasta vert. capitisque 16 post tan spat. vac. i[ N1ac: i. P: apex dext., u, i P [ON2] k bracchia vel c P; ejnnoei[= n] suppl. C., d’[o{ti] J.: d[iovti] Gigante, Atakta XV cit., p. 131 17 init. i N1O: 2 18 ic N1: [PN ] post ian spatiolum ot NO: o.[ P [PON2] h. N1O: [PN2] 19 r. hastae vert. uncique vesti20 post tai spatiolum n. gia, b, k, u P ece NO: e.c.e P hastae vert. sin. pars sup., g, h, i, k, p, r P, tum hastae horiz. apex dext. sicut t., p, g 21 t NO: t. P 23 post ein spatiolum 24 post cin spat. vac. ex N: e.x. P: ez O fin. q N1: q. P: o ON2 25 onenai NO: o.nena.[ P; suppl. U. 26 ka NO: . a P lloca N: l.l.oca. P: l[.]oca O gi NO: g.[ P 27 init. u NO: u. P 28 post tac spat. vac. 29 ka NO: ka. P ut NO: ut. P 30 le N1: le. P: g[ O: a[ N2 oi N1: . i P: ]i ON2 31 me NO: me. P 32 uper N: u.per. P: uge[ O 33 post iac spatiolum l* ego: a O: l. P: [N] 34 toc N1O: t.o.c P: [N2] post toc spat. vac. oi N1: . i. P: [ON2]; suppl. C. 35 g N1: [PON2] ci N1O: c[ PN2 ri N: r.[ P: rh N2 o. semicirc. sin. vestigium, e, q, c P, tum i. pars sup. vel r 35-36 o.i|.|oc legi: [Ci=]|oc suppl. C.: [oi|]|oc iam S. 36 h NO: h. P ai N1O: a.[ P: [N2] mon N1ac: m.[ P: ]n O: [N2] 36-37 [h] yu]|cro;n suppl. S.: [wJc aijc]|cro;n C. 37 init. n N1: . P: [ON2] ei N1O: e . P: hn N2 p. hasta vert. dext. capitisque apex dext. vel o P ri N1: r.i. P: i[ O: t N2; m[h;] suppl. C., cetera S. 38 cunembebhkovt’ recte legit C.: cumbebhkovt’ perperam U. ceterique edd.: cu^ ne &mbebhkovt’ Kassel et Austin ad Eup. frg. 490 PCG V fin. ei N1O: e.i P: [N2]

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[mhtai lovgwi, uJbrivzei, w{cte pavn-] t]e.[c aujtou= cwrivzo]ntai cr[onicqeivc[h]c [uJ]p. erhfanivac. kai; f[obei[= cq]a.[i] t[h;]n uJpo; pleiovnwn a.[uJtou= meizovnwn kaquperhf[a-

nivan dikaiovtat.a genhcomevn_ _h_n: kai; m. hv. poq’ou}c uJperora[= i tic ej[pi;] t.ouv[tou]c aujto;n hJ tuvch poihvchi [kataf]ugein= , o} gevgone pollavkic h[[d]h kai; povleci k]ai; ajnqrwvpoic, ou}c eij me;n oJmoivouc euJrivckoi, periorw=/t ’ a]n eujlovgwc, eij de; metrivouc, uJpo; th=c ejkeivnwn eujgnwmocuvnhc ma=llon aJmartavnwn ejxelevg.c _ _o_it ’a[n. ejnnoei[= n] d’ [o{ti] k.ai; eijc mwrivan ejnivote to; novchma periivcthcin h. ] manivan, eij mh; ta; Xevr. xou tw=n duein= oujk e[cetai h] qajtevrou, to; zeugnuvein. t.o;n JEllhvcponton kai; kaqievnai pevdac eijc th;n qavlattan kai; ta\lla poiein= , a} peri; aujtou= lev_g_o_ucin, h] to; qeou;c ejx ajnqrwvpwn [eJ]autou;c gegonevnai dokein= kai; ta\ll’o{ca givnetai peri; tou;c ajnevdhn uJperhfanou=n_t_a_c. tocaut= a me;n ou\n iJkana; kai; peri; touvtwn ejpeipein= . oJ d’aujqavdhc legovmenoc e[oike me;n ei\nai meikto;c ejx oijhvcewc kai; uJperhfanivac kai; uJperoyivac, metevcwn de; kai; pol*l_ _h=_c eijkaiovthtoc. toiou=to[c g.avr ejctin, fhci;n oJ Ariv j ctwn, o. .i| oc ejn th=i mavkrai qermo;n [h] yucro;n aijtein= m[h;] p. roanakriv[n]ac to;n cunembebhkovt ’eij kajkeiv- ||

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16 ||[mhtai lovgwi, uJbrivzei, w{cte pavnt]e. [c aujtou= cwrivzo]ntai cr[oni]cqeivc[h]c [uJ]p. erhfanivac. kai; f[o]bei[= cq]a.[i] t[h;]n uJpo; pleiovnwn a.[uJ]|5tou= meizovnwn kaquperhf[a]nivan dikaiovtat.a genhcomevnhn: kai; m. hv. poq’ou}c uJperora[= i] tic ej[pi;] t.ouv[tou]c aujto;n hJ tuvch poihvchi [kataf]ugein= , o} gevgone |10 pollavkic h[[d]h kai; povleci [k]ai; ajnqrwvpoic, ou}c eij me;n oJmoivouc euJrivckoi, periorwt/= ’a]n eujlovgwc, eij de; metrivouc, uJpo; thc= ejkeivnwn eujgnwmocuvnhc |15 ma=llon aJmartavnwn ejxelevg. coit ’a[n. ejnnoei[= n] d’ [o{ti] k. ai; eijc mwrivan ejnivote to; novchma periivcthcin h]. manivan, eij mh; ta; Xevr. xou twn= duein= oujk e[ce|20tai h] qajtevrou, to; zeugnuvein. t.o;n

JEllhvcponton kai; kaqievnai pevdac eijc th;n qavlattan kai; ta\lla poiein= , a} peri; aujtou= levgoucin, h] to; qeou;c ejx ajnqrwv|25pwn [eJ]autou;c gegonevnai dokein= kai; ta\ll’o{ca givnetai peri; tou;c ajnevdhn uJperhfanoun= tac. tocaut= a me;n ou\n iJkana; kai; peri; touvtwn ejpeipein= . |30 oJ d’aujqavdhc legovmenoc e[oike me;n ei\nai meikto;c ejx oijhvcewc kai; uJperhfanivac kai; uJperoyivac, metevcwn de; kai; pol* lh=c eijkaiovthtoc. toiou=to[c] |35 g.avr j ctwn, o. i|.oc ejn th=i mavkrai qermo;n [h] yu]cro;n aijtein= ejctin, fhci;n oJ Ariv m[h;] p. roanakriv[n]ac to;n cunembebhkovt ’eij kajkeiv- ||

di ragione, cosicche´ tutti lo abbandonano con il cronicizzarsi della sua superbia. E tema la grande arroganza che giustissimamente si alzera` da parte di molti piu` potenti di lui; che la sorte non lo induca un giorno a cercare rifugio presso quegli stessi uomini che si disprezzano, cosa che e` spesso accaduta in passato a citta` e a singoli individui. E se dovesse trovare costoro simili a lui, sarebbe da loro giustamente ignorato, mentre se li scoprisse benevoli, la loro indulgenza lo rivelerebbe ancora piu` in fallo. Consideri inoltre come a volte tale malattia conduca alla stoltezza o alla follia, se le azioni di Serse non appartengono ad entrambe le categorie o a una soltanto delle due: aggiogare l’Ellesponto e gettare ceppi nel mare e fare le altre cose che dicono di lui; o pensare da uomini di essere diventati de`i e quant’altro accade a coloro che si comportano con smisurata arroganza. Ma ora basta parlare di questi argomenti. Il cosiddetto insolente sembra essere un miscuglio di presunzione, superbia e disprezzo, ma partecipa pure di molta insensatezza. E` tale infatti – afferma Aristone – che nella vasca chiede acqua calda o fredda senza aver prima domandato a colui con cui si e` immerso se anche a lui (continua)

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17 PHerc. 1008 col. 17 Jensen = col. 18 N1 = col. 18 O = col. 18 N2 = col. 17 HV1 III 1 kajkeiv||[nwi suppl. Co.2: kajkeiv||[noc U., cunarevckei J.: taujto; qevlei U.: ou{tw dokei = Co.2 1-2 ka]n ejkeino = c | pavlin inter 2 ]a.[ pecunarevckei, et a.[ijt]h. i. supplevi exempli gratia des, l, c P h. hastae sin. pars inf. transtrique vestigium, a, k, l, tum i. pes, u, r, t, g, tum t. pes, i, u, r, g e. transtrum vel h, tum a. cauda, l, m; legi necnon supplevi 3 ia NO: ]a. P; suppl. Sp. 4 m. pars sin. vel l P init. a O: . P: [N] ce NO: c. e P post cai spatiolum; auj[to;c suppl. S.: auj[twi= Sp. 5 k. hastae vert. et bracchii inf. vestigia, h, n P; suppl. C. 6 post llo spat. vac. 8 h. hastae vert. dext. vestigia, p, n, i P fin. i N1O: [PN2] 9 init. i NO: i. P fin. t ON2: t. P: [N1]; suppl. C. 11 post qai spatiolum 12 post qhi spat. vac. r N1: r. P: [ON2]; suppl. S. 14 ein in mg. dext. N1: [PO]: e.[ N2; e[c[ei] suppl. S.: e[c[eic] C. 15 kep. in mg. dext. N1: [PON2] ]t O: ]t. P: [N] 16 tipro in mg. dext. N1: [PON2] pe N1ac: p.e. P: p[ O: i[ N2 r. hasta vert., g, u, t P h. hasta vert. dext. transtrique vestigium vel n, tum c. lunula, e, q, o k. hastae vert. vestigium, i, g, r, t 17 wnepi in mg. dext. N1: 2 [PON ] 15-17 suppl. C. 18 gra in mg. dext. N1: [PON2] y N1: y. P: t O: [N2] post yai spatiolum rw N2O: r.w P: ]w N1 fin. i NO: i. P; pro{c}gravyai Jensen ap. K. 19 ta N1: t[ P: [ON2] post ion spat. vac. 20 k ego: h N2: . P: [ON1] a. caput, l, d P ]o N1: o. P : * [ON2] fin. u NO: u. P; suppl. C. 21 oc N1: oc. P: o[ ON2 w ego: o in mg. dext. N1: [PON2] a. pedes, l, c P * u N1: u. P: [ON2] qa N1O: qa. P: oa. N2 22 et in mg. dext. N1: [PON2] 23 mo in mg. dext. N1: m.[ P: [ON2] post nwn spatiolum eiqome N1: e.iqo. . [ P: ]qono O: ]qe[ N2 24 ac in mg. dext. N1: ]c. P: [ON2] post k dilatatio pap. mediae litt. or N1: o.r. P: [O]: c. N2 ein O: e.i. . P: [N]; suppl. kri NO: k[ P S. 25 dan. in mg. dext. N1: ]n PON2 26 aim. in mg. dext. N1: ]m PO: ]l N2 n NO: [P] 27 post iac spat. vac. 29 ante ago spatiolum fin. r N1: r. P: 31 post ein spat. vac. i ON2 30 te N1: t.[ P: [ON2] wt NO: wt. P o. N1: [PON2]; o.[{ ti supplevi (o} leg. C.): [tiv S. 32 de N1O: de. P: l[ N2 fin. n N1O: n. P: [N2] 33 tic N1: t.[ P: [ON2] at O: at. P: [N] a ego: o ON2: [N1] mei N2: * m.e[ P: ]ei N1: liei O fin. i N1: . P: [ON2] 33-34 kata* 1 meidi|w=n legi 34 n N : . P: [ON2] post wn spatiolum 1 2 1 me N : m . P: [ON ] raklhq N : r.akl . q. P: ilblhq O: ]aklhq N2 fin. e N1: [PON2] 35 uleuomen N1: ]le[.]o.m.en P: letomen O: ]leuomen N2 w. lunula sin., o, q, c P; bouleuomevnw.[i suppl. J.: bouleuovmeno[c C.: bouleuomevno[ic S. 36 ai N1: a.[ P: [ON2] t NO: t. P fin. n N1O: n. P: p N2 37 mel N1: m.e.l. P: [ON2] ip N1: ]p PO: [N2] tein N1: t.ei.[ P: t[ ON2; mevl[l]oi legi: mevl[l]ei leg. ac suppl. C. 38 no N1: n[ P: m[ ON2 apoteteuce N1: a.poteteuc. P: ]poteteic[

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[nwi cunarevckei, ] . . . . . ] a.[ijt]h. =i. t.[i, mh;] ej. a.[= n: kai; paid= a priavmenoc mhde; to[u[nom. a procerwth=cai mhvt ’auj[to;c qevcqai, kalein= de; paid= a k.[ai;

mhqe;n a[llo: kai; to;n cunaleivyanta mh; ajnticunaleivfein _k_a_i; xenicqei;c mh;. ajntixenivcai: kai; quvran ajllotrivan kov[p]twn ejperwthvcantoc tivc ejctin, mhde;n ajpokrivnecqai, mevcri a]n e_ _jx_evlqhi: kai; ajr[r]wctou=nt ’aujto;n ejpickep. tomevnou fivlou mh; levg.ein pw=c e[c[ei], mhd’aujto;c ejpi[c]keptovme[novc] tina toiout= ov ti proceper. wth. c= . [ai]: k. ai; grav[f]wn ejpictolh;n to; caivrein mh; procgravyai mhd’ejrrwc= qai _t_e_leutaio= n. oJ d’aujqevkactoc ouj pavnu me;n eijk* a.[i]= ovc ej[c]tin oujd’a[logoc w* c{ per oJ a. ujqavdhc, di’ oi[hcin de; tou= movnoc fronein= ijdiognwmonw=n kai; peiqovmenoc ejn a{pacin katorqwv[c]ein, aJmarthvcecqai d’a]n eJtevrou krivcei proccrhvchtai, metevcwn d_ _e_; kai; uJperhfanivac: oi|oc mhdeni; procanaqevmenoc ajpodhmein= , ajgoravzein, pwlein= , ajrch;n metievnai, ta\lla cuntelein= , ka]n procerwthvch/ tic o.[{ ti _m_e_vllei poiein= , ‘‘oi\d’ejgwv’’ levgein: ka]n mevmfhtaiv tic, kata* meidiw=n ‘‘ejme; cuv;’’ kai; paraklhqei;c ejpi; cunedreivan bouleuomevnw. [i mh; bouvlecqai to; dokou=n eijpein= , eij mh; tout= o mevl[l]oi pravttein: kai; pavnt ’ejn o{coic ajpotevteuce ||

PHERC. 1008 , COLL. 10-24

17 ||[nwi cunarevckei, desunt c. 15 litt. ] a.[ijt]h. =i. t.[i, mh;] ej. a.[= n: kai;] paid= a priavmenoc mhde; to[u[no]m. a procerwthc= ai mhvt ’auj[to;c] |5 qevcqai, kalein= de; paid= a k.[ai;] mhqe;n a[llo: kai; to;n cunaleivyanta mh;

ajnticunaleivfein kai; xenicqei;c mh;. ajntixenivcai: kai; quvran ajllotrivan kov[p]twn |10 ejperwthvcantoc tivc ejctin, mhde;n ajpokrivnecqai, mevcri a]n ejxevlqhi: kai; ajr[r]wctou=nt ’aujto;n ejpickeptomevnou fivlou mh; levg.ein pw=c e[c[ei], mhd’auj|15to;c ejpi[c]kep. tovme[novc] tina toiou=tov ti proceper. wth. c= . [ai]: k. ai; grav[f]wn ejpictolh;n to; caivrein mh; procgravyai mhd’ejrrwc= qai teleutaio= n. oJ d’aujqevkactoc |20 ouj pavnu me;n eijk* a.[i]= ovc ej[c]tin oujd’a[logoc w* c{ per oJ a. ujqavdhc, di’oi[hcin de; tou= movnoc fronein= ijdiognwmonwn= kai; peiqovmenoc ejn a{pacin katorqwv[c]ein, |25 aJmarthvcecqai d’a]n eJtevrou krivcei proccrhvchtai, metevcwn de; kai; uJperhfanivac: oi|oc mhdeni; procanaqevmenoc ajpodhmein= , ajgoravzein, pwlein= , ajr|30ch;n metievnai, ta\lla cuntelein= , ka]n procerwthvch/ tic o.[{ ti] mevllei poiein= , ‘‘oi\d’ejgwv’’ levgein: ka]n mevmfhtaiv tic, kata* meidiwn= ‘‘ejme; cuv;’’ kai; paraklhqei;c ej|35pi; cunedreivan bouleuomevnw. [i] mh; bouvlecqai to; dokoun= eijpein= , eij mh; tout= o mevl[l]oi pravttein: kai; pavnt ’ejn o{coic ajpotevteuce ||

sta bene (c. 15 lett. mancanti) ne chiede, egli non lo permette. Se compra uno schiavo non gli chiede nemmeno il nome ne´ glielo impone lui stesso, ma lo chiama ‘schiavo’ e nient’altro. Colui che lo ha aiutato a cospargersi di olio egli non cosparge di olio a sua volta ed ospitato non offre il cambio; e quando bussa alla porta di un altro, chiedendo uno da dentro: ‘‘Chi e`?’’, non risponde nulla finche´ quello non esce fuori. Se un amico va a fargli visita quando egli e` malato, non gli dice come sta, ne´ lui quando va a trovare qualcuno, gli fa una domanda del genere. Scrivendo una lettera non aggiunge ‘Salute’ ne´ ‘Stammi bene’ alla fine. Il sufficiente, invece, non e` del tutto insensato e irragionevole come l’insolente, ma per la presunzione di essere l’unico ad aver senno, segue il proprio criterio personale ed e` convinto che avra` successo in tutte le imprese e che al contrario fallira` qualora si avvalga del giudizio di un altro, partecipando cosı` anche del vizio della superbia. E` tale che si allontana dalla citta`, compra, vende, persegue una carica e sbriga le altre faccende senza chiedere consiglio a nessuno; e se qualcuno gli domanda che cosa ha intenzione di fare: ‘‘Lo so io!’’ – replica –. Se qualcuno poi lo critica, ribatte con sarcasmo: ‘‘Tu me?’’. Invitato a una riunione non intende riferire il suo parere a chi si consulta con lui se questi non ha intenzione di metterlo in pratica, e si rifiuta di riconoscere tutte le imprese in cui ha fallito. (continua) — 267 —

18 PHerc. 1008 col. 18 Jensen = col. 19 N1 = col. 19 O = col. 19 N2 = col. 18 HV1 III bPlat. Hipp. Min. 368 Bc (v. 22) 1 oJmologein= suppl. Schorn privatim: cetera ipse supplevi 2 pratte N1: ]e. P: [ON2] i. basis, g, u, r, t, k P, tum d. cauda, a, l, m; pravtte[in suppl. C.: pravtte[i Sp.: pravtt[wn S., mh; idem, dunhvcacqa]i. supplevi: proaireic= qa]i. C.: beboulh=cqa]i. S. 2-3 d.[ia]|telein= supplevi: [cun]|telein= C.: [ajpo]|telein= S. 3 post ein spatiolum; [mhd’] suppl. Sp.: [tavd’] C.: [mh;] S. 4 ne NO: ne. P ck NO: ck. P post ein spatiolum 5 eicqa N1: . [ P: e[. . .]a O: ecqa 2 1 N post qai spatiolum ou N O: ou. P: [N2] 6 post toc spatiolum, tum 2 hastae obll. in alto coniunctae transtrumque sicut a. vel m P 7 init. l N1: . P: [ON2] p N1O: p. P: [N2] ia N1O: ia. P: ii N2 in N1: . . P: [ON2] 8 ag e. semilunulae sup. vestigium, q, o, c P ; suppl. C. N1: a[ P: ap O: ac N2 a[ NO: a.[ P; suppl. C. 9 cp N1: [PON2] fin. c N1: [PON2] 10 fin. ka N1: k.[ P: i[.]i O: i[ N2 11 post iac spatiolum 12 post iai spat. vac. 13 detic (t.ic in mg. dext.) N1: d. . [ P: [ON2] 14 hm (in mg. dext. h.m) N1: [PON2] post mwn spatiolum 14-15 eJ|auto;[n] suppl. S. 15 oti in mg. dext. N1: [PON2] e NO: e. P fin. t ON2: t. PN1; p[av]nta ginwvcke[i] suppl. C. 16 m* ego: ai N1: [PON2] aq in mg. dext. N1: [PON2] n. hasta sin., g, h, i, k, n, p, r P p N1: [PON2] 17 p[.]ctamenw (t.a in mg. dext.) N1: p[. . .]menw. P: p[. . . .]menw O: p[. . . .]lenw N2 post nwn spatiolum; suppl. C. 18 mon (m.on in mg. dext.) N1: m[.]n. PO: m.[.]i N2 post non spatiolum 19 afa. (a. cauda, m, l) in mg. dext. N1: [PON2] ut N1O: u.[ P: c[ N2 20 init. u NO: u. P post toc spat. vac. mono (no in mg. dext.) N1: m.[ P: m[ ON2 ppian N1: p.pian. P: ipian O: ppuan N2 21 n N1: . P: [ON2] ctore (ct in mg. dext.) N1ac: ]e. P: ]re O: ]ke N2; suppl. U. 22 r* i ego: ii N1: n O: h 23 ke NO: k.e. P leg N2 to NO: t.[P ic NO: ]c. P N1: ]g. P: ]eg ON2 fin. a NO: a. P; suppl. C. 24 e ego: * c N1: [PON2] fin. k N: k. P: t O; suppl. C. 25 d NO: 1 2 d. P autou N : a.uto[ P: auto[ ON post tou spat. vac. ri N1O: r.[ P: to N2 26 ar NO: a.r. P post noc spat. vac. ka NO: ka. P ra NO: ra. P 27 cun N1O: [PN2] post twi spatiolum o N1: o. P: c O: a N2 28 em N1O: [PN2] post khc spat. vac. 29 ei N1: [PON2] h N1O: h. P: [N2] no ego: ne N1: . o. P: ]c O: ]e N2; suppl. C. * 30 post ton spat. vac. r N1O: r. P: [N2] 31 init. o NO: o. P post ouc spat. vac. eu N1: e.u. P: ou O: [N2] fo N1: ]o. P: [ON2] 32 lic N1: l.[ P: [ON2] 32-33 te|cnitikwtavtwn legi: te|cniøtiØkwtavtwn C. ceterique edd. 33 qo N1O: qo. P: q[ N2 34 e N1: e. P: [ON2] ac N1O: a.[ P: [N2] 35 d[.]u N1ac: [PON2] thc N1: t[.]c. P: t[ O: [N2] a[ N1: [PON2] o. circuli vestigia, e, q, c P pl N1: p.l. P: ]l O: ]m N2 36 iac ego: idc N1ac: ]c. P: [ON2] post * iac spat. vac. t. capitis apex sin. vel p P n. hastae vert. dext. * 1 pars sup., p, h, i h N O: h. P: e N2 37 wn N1: w.[ P: [ON2] p N1: [PON2] o. semicirc. dext. pars sup., q, w, n, h, p P 38 c. bracchiorum apices vel k P chm N1: . h.m. P: [ON2] in N1: in. P: [ON2] post ein spat. vac. N1 kaito N1: .[. .]t.o. P: [ON2] u. pes ramorumque apices, t, y P a. pedes transtrique vestigia, l, c 35-38 suppl. C. 39 w N1O: w. P: ea N2 post tac spatiolum n. hastae vert. dext. pes, p, h, i, t, u P

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[mh; oJmologein= : kai; a[rcwn ti] pravtte[in mh; dunhvcacqa]i. d.[iatelein= kai; [mhd’] ejpitequmh-

kevnai genevcqai favckein: kai; mh; ducwpeic= qai tou[noma kalouvmenoc wJc aujqevkactoc, a. jlla; kai; e[ti paidavria levgein e.[i\nai tou;c wJc paidagwgoic= a[[lloic procanatiqemevnouc: 10 kai; movnoc e[cein pwvgwna kai; polia;c kai; zhn= dunhvcecqai _g_en_ ovmenoc ejn ejrhmivai. touvtou d’e[ti ceivrwn ejcti;n oJ panteidhvmwn ajnapepeikw;c eJ15 auto;[n] o{ti p[av]nta ginwvcke[i], ta; me;n m* aqw;n. para; tw=n mavlic[t’] ejp[i]ctamevnwn, ta; d’ijdw;n poiou=ntac movnon, ta; d’aujto;c e_ j_p_inohvcac ajf’a. uJtou.= ka[cti toi20 ou=toc ouj movnon oi|on JIppivan to;n jHleio= n [iJ]ctorei = Plavtwn o{ca per* i; to; bcwm = ’c ei\cen auJtwi= pepoihkevn[ai] levgein, ajlla; kai; katacke* [uavz]ein oijkivan kai; 25 ploio= n di’auJtou= kai; cwri;c ajrcitevktonoc: kai; gravfein cunqhvkac eJautw=i deomevnac ejmpeirivac nomikh=c: kai; douvlouc ijdivouc ijat[r]e[uv]ein, mh; movno* n eJ30 autovn, ejpiceirein= de; kai; a[l/ l_ _o_uc: kai; futeuvein kai; fortivzecqai ta; mavlicq’uJpo; tw=n tecnitikwtavtwn katorqouvmena: kai; nauagw=n ejn a{paci mh35 d’ [o]u{tw pauvecqai thc= aj[p]o. plhx_ _i_a v * c. oi|oc de; kai; t.[w]= n. maqhmavtwn ajntipoiouvmeno.[c pav]ntwn [aj]c. chmonein= : kai; tou;.[c k]a. 39 tagelwn= tac ajpeivrouc levgein. || 5

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18 || [mh; oJmologein= : kai; a[rcwn ti] pravtte[in mh; dunhvcacqa]i. d.[ia]telein= kai; [mhd’] ejpitequmhkevnai genevcqai favckein: kai; |5 mh; ducw-

peic= qai tou[noma kalouvmenoc wJc aujqevkactoc, a. jlla; kai; e[ti paidavria levgein e.[i\]nai tou;c wJc paidagwgoic= a[[l]loic procanatiqemevnouc: |10 kai; movnoc e[cein pwvgwna kai; polia;c kai; zhn= dunhvcecqai genovmenoc ejn ejrhmivai. touvtou d’e[ti ceivrwn ejcti;n oJ panteidhvmwn ajnapepeikw;c eJ|15auto;[n] o{ti p[av]nta ginwvcke[i], ta; me;n m* aqw;n. para; tw=n mavlic[t’] ejp[i]ctamevnwn, ta; d’ijdw;n poioun= tac movnon, ta; d’aujto;c ejpinohvcac ajf’a. uJtou=. ka[cti toi|20ou=toc ouj movnon oi|on JIppivan to;n jHleio= n [iJ]ctorei = Plavtwn o{ca per* i; to; bcw=m’c ei\cen auJtw=i pepoihkevn[ai] levgein, ajlla; kai; katacke* [uavz]ein oijkivan kai; |25 ploio= n di’auJtou= kai; cwri;c ajrcitevktonoc: kai; gravfein cunqhvkac eJautwi= deomevnac ejmpeirivac nomikhc= : kai; douvlouc ijdivouc ijat[r]e[uv]ein, mh; movno* n eJ|30autovn, ejpiceirein= de; kai; a[llouc: kai; futeuvein kai; fortivzecqai ta; mavlicq’uJpo; tw=n tecnitikotavtwn katorqouvmena: kai; nauagw=n ejn a{paci mh|35d’ [o]u{tw pauvecqai thc= aj[p]o. plhxiva* c. oi|oc de; kai; t.[w]= n. maqhmavtwn ajntipoiouvmeno.[c pav]ntwn [aj]c. chmonein= : kai; tou;.[c k]a. tagelw=ntac ajpeivrouc levgein. ||

Cominciando un’impresa non e` capace di portarla a termine e afferma di non aver nemmeno desiderato che cio` avvenisse. E non si vergogna del fatto che sia soprannominato ‘sufficiente’. Al contrario afferma che quanti chiedono consiglio ad altri come a pedagoghi sono ancora dei ragazzini, e di aver lui solo barba e canizie e che sarebbe capace di sopravvivere anche se venisse a trovarsi in totale solitudine. Ancora peggiore di questo e` l’onnisciente, convinto com’e` di conoscere tutte le cose, alcune per averle apprese dai massimi esperti, altre poi soltanto per aver visto questi in azione, altre infine per averle scoperte da se stesso. Egli e` tale, non solo come racconta Platone di Ippia di Elide, da dichiarare di aver confezionato personalmente i vestiti che porta indosso, ma anche di essere in grado di costruire una casa o una nave da solo, senza architetto. Redige da se´ contratti che necessitano di competenza legale. Cura perfino i propri servi, non solo se stesso, e vi prova anche con gli altri. Coltiva e trasporta prodotti che sono in grado di ottenere con successo solamente i massimi specialisti e naufragando in tutte le imprese neppure cosı` smette di farneticare. E` tale anche che, pretendendo di aver padronanza di tutte le scienze, finisce per essere umiliato e quanti lo deridono egli dice essere inesperti — 269 —

19 PHerc. 1008 col. 19 Jensen = col. 20 N1 = col. 20 O = col. 20 N2 = col. 19 HV1 III 1-2 [kai; ajmaqei=c, thi= d’eJautou= gnwv|mhi kai; ante o]u.jk supplevi exempli gratia 2 u.kandr. N1: ]k.an.d[ P: ka(.)id[ O: ]kaiid[ N2 2-3 o]u.jk ajndr.[w=n ajmeqov]|dwn legi necnon supplevi: o]ujk a]n di[a; paiv]|dwn suppl. C.: o]ujk a]n di[dackavloic paiv]|dwn H. 3 d N1: . P: [ON2] post dwn spatiolum r NO: r. P post ein spat. vac. fin. n N1O: n. P: [N2] 4 auq NO: a.u.q. P ta NO: ta. P co N1: c. [ P: c[ 5 wc N1: [PON2] c. lunulae vestigium, ON2; suppl. C. e, q, o P; suppl. C. 6 pe N1O: [P]: ]e N2 h NO: h. P l NO: l. P 7 n N1O: n. P: [N2] 8 init. k NO: k. P 9 post toc spatiolum fin. t O: t. P: [N] wn N1: w.n. P: [ON2] 10 post tai spat. vac. 12 dhpote N1: d.hpote. P: ]hpote O: ]piot[ N2 k. hastae vert. pars sup. bracchiumque sup. vel h P 14 post qai spatiolum; ^ w{cper & ante peri; add. Ph. 15 fin. c N1O: c. P: [N2] 16 post qai spat. vac.; kaqairein= leg. S.: kaqaivrein Sp. 17 oo N2: oo. P: oq ON1 18 post cin spat. vac. 19 ta NO: ta. P o NO: o. P em NO: em. P 20 post tai spatiolum ka NO: ka. P na NO: na. P 22 in NO: i . P post ein spat. vac.; kajn leg.. C.: ka]n S. 23 leict N1: ]eict. P: ]eict ON2 post oic spatiolum ap N1O: ap. P: at N2 t. capitis vestigium, p, g, x, z P u N1: . P: [ON2] fin. a NO: a. P 24 icairecqa N1: i.ca.irec. [.]a P: ic[.]irec[ ON2 post 25 c NO: c. qai spat. vac. age N1: a.[.]e. P: ace O: ate N2 P pa N1O: p.a. P: pi N2 post twn spat. vac. k N1: k. P: [ON2] h. hastarum vertt. vestigia, p, n P; suppl. C. 26 cq NO: cq. P post qai spat. vac. twn N: ]w.[ P: pon O 28 g N1O: g. P: t N2 m N1: [PON2] cdek N1: 29 w NO: w. P i N1O: c. dek. P: cdqh O: cdeh N2 2 [PN ] post iac spatiolum 30 aut NO: a.u.t. P 31 init. e NO: e. P g N1pc: [PON2] 32 lh N1: ]h. P: dh O: ]i N2 kai N1: ka.[ P: k[ ON2 dioti N1: .[. . .]i P: [ON2] th N1: [PON2] post thn spat. vac. 32-33 koi|nwc= ^ legomevnhn & vel ^ uJpavrcoucan & dubit. J. 33 init. n N1: [PON2] c* ego: o ON2: c. P: t N1 o N1: . P: [ON2] 34 poihcqa N1: . oihcqa. P: ]oinqca O: oiheo N2 tatwn N1: t[.]t . P: ta[. .]n ON2 ia NO: ia. P pei N1: [PO]: p. N2 35 ri N1O: r.i. P: r.i N2 eme N1: e.[ P: em.[ O: ec.[ N2 36 init. l N1: l. P: [ON2] h ego: i PN1: [ON2] q[.]i N1: * q.[.]i. P: [ON2] pollw N1: p.ol[.]w. P: ]ol[.]w O: ]omo[ 2 1 N nagkhc N : ]agk[ P: naik[ O: nack[ N2; suppl. S. 37 post ein spat. vac. ou NO: o.u. P 38 init. c ON2: [P]: x N1 post qai spatiolum ip N: i.p. P: [O] p. pedes, h, n P a. cauda, l, d, m c. lunulae vestigia, e, q, o rwn N1: [PON2]; prock[o]p.a.;c. uJ[f’ legi necnon supplevi, eJtev]rwn S.: lh]rwn= C.

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[ ] . . . . . . o]u. jk ajndr.[w=n ajmeqov-

_d_w_n ejpitrevpein. twi= me;n ou\[n] aujqavdei tav t ’ejk thc= oijhvcewc kai; th=c uJpe[r]hfanivac. kai; uJperoyivac eij mh; kai; th=c ajlazoneivac duccerh= parakolouqei = kai; ijdivwc ta; ejk th=c eijkaiovthtoc kai; ta; dia; thc= ojrgh=c touvtwn _o_i_|c ou{tw procfevretai: kai; to; tugcavnein oJmoivwn h] mhde; boulomevnwn eijc oJtidhvpote k. oinwvnhma cunkatabaivnein duccrhcteic= qai: kai; to; peri; mainomevnou pavntac fevrecqai kai; kaqairein= , diovti th;n kakivan e[cein aujto;n uJponoou=_c_i_n. twi= d’aujqekavctwi tav te para; ta;c ajtopivac ejx w|n mevmeiktai kai; to; movnon ajfraivnein, o{ti movnoc oi[etai peri; pavntwn fronein= : dio; kajn toic= pleivctoic ajpot.ugcavnein kai; ejpicaivrecqai meta; katagevlwtoc uJpo; pavntwn k[ai; m]h. de; boihqeic= qai: kai; mhde; twn= cofw=n ajnamarthvtwn ei\nai legovntwn mhd’ajprocdevktwn cumboulivac tout= on uJpe;r aujtou;c nomivzonta fronein= ejx ajnavgkhc kakodaimonein= : lhrein= de; kaiv, diovti th;n koinwc= c* uvnecin oi[etai peripepoih=cqai ta; tw=n ijdivac ejmpeirivac ejcovntwn: kai; metamemelh* =cq[a]i pollw=n ejx ajnavgkhc ejnkurein= kai; loidorivac karpou-= cqai kai; prock[o]p. a. c; . uJ[f’eJtev]rwn ||

PHERC. 1008 , COLL. 10-24

19 || [ desunt c. versus unus et 6 litt. o]u.kj ajndr.[wn= ajmeqov]dwn ejpitrev-

pein. tw=i me;n ou\[n] aujqavdei tav t ’ ejk th=c oijhvce|5wc kai; th=c uJpe[r]hfanivac. kai; uJperoyivac eij mh; kai; th=c ajlazoneivac duccerh= parakolouqei = kai; ijdivwc ta; ejk th=c eijkaiovthtoc kai; ta; dia; th=c ojrgh=c touvtwn |10 oi|c ou{tw procfevretai: kai; to; tugcavnein oJmoivwn h] mhde; boulomevnwn eijc oJtidhvpote k. oinwvnhma cugkatabaivnein duccrhcteic= qai: kai; to; peri; |15 mainomevnou pavntac fevrecqai kai; kaqairein= , diovti th;n kakivan e[cein aujto;n uJponoou=cin. tw=i d’aujqekavctwi tav te para; ta;c ajtopivac ejx w|n mevmei|20ktai kai; to; movnon ajfraivnein, o{ti movnoc oi[etai peri; pavntwn fronein= : dio; kajn toic= pleivctoic ajpot.ugcavnein kai; ejpicaivrecqai meta; katagev|25lwtoc uJpo; pavntwn k[ai; m]h. de; bohqeic= qai: kai; mhde; twn= cofwn= ajnamarthvtwn ei\nai legovntwn mhd’ajprocdevktwn cumboulivac tout= on uJpe;r |30 aujtou;c nomivzonta fronein= ejx ajnavgkhc kakodaimonein= : lhrein= de; kaiv, diovti th;n koinwc= c* uvnecin oi[etai peripepoih=cqai ta; tw=n ijdivac ejmpei|35rivac ejcovntwn: kai; metamemelh* c= q[a]i pollwn= ejx ajnavgkhc ejgkurein= kai; loidorivac karpou=cqai kai; prock[o]p. a. ;c. uJ[f’eJtev]rwn ||

(c. 1 v. e 6 lett. mancanti) di fare affidamento, non su quello [sc. sul giudizio] di uomini senza metodo. All’insolente, dunque, si accompagnano le difficolta` originate dalla presunzione, dalla superbia e dal disprezzo, se non anche dalla iattanza, e in particolare quelle provocate dall’insensatezza e quelle cagionate dall’ira di coloro con i quali si comporta in tal modo. E ancora, la possibilita` di imbattersi in persone simili a lui o che, non volendo costoro accondiscendere ad alcun tipo di impresa comune con lui, si trovi in angustie e il fatto che tutti accerchino il folle e lo annientino, perche´ intuiscono che egli e` affetto dal vizio. Al sufficiente, invece, si accompagnano vuoi i disagi derivanti dalle assurdita` di cui e` la combinazione, vuoi il fatto che egli solo e` insipiente, poiche´ crede lui solo di sapere tutte le cose. Per questo fallisce in numerosissime imprese e tutti ne godono facendolo oggetto di derisione, ed e` lasciato senza soccorso. E mentre perfino i saggi dicono di non essere impeccabili e di non rifiutare consigli, costui, che pensa di essere piu` assennato di quelli, e` necessariamente infelice. Inoltre vaneggia, perche´ crede che il senso comune gli abbia assicurato le cognizioni proprie di quelli che possiedono competenze specifiche, e gli capita per forza di pentirsi di molte cose e di raccogliere insulti ed ostilita` da parte di altri, 19

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20 PHerc. 1008 col. 20 Jensen = col. 21 N1 = col. 21 O = col. 21 N2 = col. 20 HV1 III 1 [twn= maqhmavtwn e[cwn movnon ante ejm]|favcei[c supplevi exempli gratia 1-2 ejm]|favcei[c supplevi: ajpo]|favcq[ai S.: favcq[ai U. 2 f N1: [PON2] i O: i. P: [N] qrwp N1: q.r.[ P: [ON2] o. semicirc. sin., e, q, c N1: [PON2]; kai; levgein supplevi, a[n]qrwpo.[c C.: a[n]qrwpo.[n S. 2-3 w]n leg. U.: a[ll]|wn spat. longius et contra syllabb. divisionem suppl. S.: oJmoiv]|wn spat. longius J. 3 rwp N1: r. . [ P: [ON2] cr N1: c.r. P: [ON2]; ajnqrwvp[wn oujk e[]cein suppl. U.: ajnqrwvp[wn dei = e[]cein C.: ajnqrwvp[wn dein= e[]cein S. 4 ante ode spat. vac. de N1: de. P: d[ ON2 pa N1: . a. P: [ON2] 5 t NO: t. P 6 i*tomanh* ego: atomani N1ac: itomani N1pc: a.t. . man[ P: etemani O: ]toa[.]mni N2 post tin spat. vac. 7 init. on N1: o. . P: en O: ]i N2 ec N1O: e.[ P: c[ N2 post ton compendium pro pr(o;c) P 8 agore NO: ]gore. P ie N1O: 1 2 i[ PN 9 dun N : d.[.]n. P: d[.]n ON2 10 in N1O: i.n. P: im N2 post ein spatiolum ou NO: ou. P post ton spat. vac. fin. o N1ac: o. P: [ON2] t* ego: i N1: [ON2] 11 oude 12 kai N1: k[ PON2 ti N1: o.u.[ P: oule O: ogle N2 N1pc: t.[ P: th N1ac: o[ ON2 p N1: p. P: c O: ic N2 13 post bhc spatiolum 14 ai N1O: a[ PN2 post dou spatiolum 15 init. p NO: p. P at N1pcO: at. P: ai N2 post erh spat. vac. 16 dio NO: [P] 17 oc NO: [P] 19 post tin spa18 kat NO: k. [.]t. P post cai sp. vac. tiolum 20 init. t NO: t. P ut N1: [P]: p O: ]u N2 post ata sp. vac. 21 ct NO: ct. P 22 post eqa sp. 24 ia O: ]a.[ P: ]a N c vac. 23 p N1: . P: [ON2] N1: [PON2] post ato spatiolum; Ipp J ]ivac suppl. J.: oJ Ipp J ]ivac spat. longius U. 25 r. pes uncique vestigia, b, g P c. lunulae vestigia, e, q, o pa N1: p.a. P: ]a O: [N2]; suppl. C. 26 al N: a. . P: a[ O ec N2: e.[ P: e[ N1O 27 mia NO: post mia spat. vac. ka NO: ka. P igar N1O: . [ P: m.ia. P h[.]r N2 28 ri NO: . [ P lhrou NO: l.hro[ P post twn spatiolum ege NO: ]e. P post ein spat. vac. co 29 atuchc N1O: . tuch[ P: atuch[ N1O: co. P: c[ N2 N2 rwn N1O: r.wn. P: uwn N2 ata N1: a.[.]a P: a[.]a O: ail N2 30 feugonte N1: . eugon.[ P: feugon[.]e O: feugo[. .]e N2 ct N1O: . t. P: cx N2 31 ta NO: ]a. P aitwne N1: . [. .]wne. P: a[. .]wne O: ]wne N2 l. hasta sin., l, 32 init. t NO: . P t* ego: a, d P ac N1: ]c P: [ON2] g N1: [PON2], tum o NO: o. P roco N1O: r.oco. P: rqco N2 33 logoucin N1: ]gouci[ P: ]ogoucin O: logouck[ N2 unu N1O: u.n.[ P: u[ N2 in mg. sin. coronis non dispicitur, legitur vero in mg. dext. col. 19 34-35 ante pap. caesuram post cin spat. vac. 34 fa N1: ]a. P: ca O: ]a N2 kai N1: k.[.]i. P: k[ O: i[ N2 eropthc N1: ]rop.t.hc. P: erohth[ O: er[. .]th N2 35 d ego: a N1O: [PN2] opth N1pc: o.[. .]h. P: o[. .]i O: c.h * N2 t. capitis apex sin., p, x, z P w N1: w. P: o ON2 36 pe 1 N : ]e. P: [ON2] r. hastae pars sup. uncique vestigium, b, g, p P h* ego: i N1: [PON2] fanei N1: ]i. P: [ON2] i. N1: [PON2] ]t N1: [PON2]; a{pa[n]ta suppl. C.: kat.a; pav[n]ta Jensen ap. K. 37 q. semicirc. sup. vel o P l* ego: c N1: 2 [PON ] e. semilunulae sup. pars extrema, q, o, c, t, g P a N1: a. PO: [N2]; h\]q.[oc ojc]l* hr[ovc] legi necnon supplevi: ejpi; tu]chr[oic= Jensen ap. K.: [qumou]= chr= [on, Ph. 3738 ta|[p]e[inoi = legi necnon supplevi: ta|[peino;n] Ph. 38 o ego: i N1: . P: [ON2] pef N1: p.e.f. P: ]f O: [N2] d N1: d. P: * [ON2]; pl]eo* nac[h]=/ legi necnon supplevi: ei\nai leg. Ph.

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ejm-] favcei[c: kai; levgein a[n]qrwpo.[c w]n ajnqrwvp[wn oujk e[]cein creiv_a_n_. oJ de; panteid[hv]mwn a{ma toic= eijrhmevnoic pa=ci kai; margi*tomanh* cv ejctin, eij kai; to;n o[ntwc polumaqevctaton pr(oc)agoreuovmenon oi[etai pavnta duvnacqai ginwvckein kai; poiein= : oujc oi|on eJautovn, o}c ejnivot*e oujdevn ti fwrat= ai katevcwn, kai; ouj cunorw=n o{ti polla; dei-= tai tribhc= , a]n kai; ajpo; thc= aujth=c givnhtai meqovdou, kaqavper ta; thc= poihtikh=c mevrh, kai; diovti peri; tou;c polumaqeic= ojcmai; movnon eijci; pollw=n, ouj katocaiv, kai; tajpoteuvgmata perivectin tw=n paideumav- w twn, ouj ta; katorqwvmata, kai; pavnq’o{ca toic= toiouvtoic cumb_ _a_ivnein ajnelogizovmeqa: kai; diovti polla; ginwvckein, w|n JIpp]ivac ejkaucat= o kai; to; par.aplhvc. [i]on pa=n gevnoc, ojneivdh mal= lovn ejctin h[per ejgkwvmia: kai; tiv ga;r dei = ta\lla peri; lhrouvntwn levgein; wJc, o{tan ajtuchvcwci, fwrwn= tai katafeuvg.ontec ejpi; tou;c tucovntac kai; twn= ejl. acivctwn ejlavttouc auJt*ou;c ei\nai procomologou=cin. oJ me;n ou\n uJperhvfanoc kai; uJperovpthc ejctivn, oJ d* ’uJperovpthc ouj pavnt.wc kai; uJper. h* fanei = kai;. a{pa[n]ta dia; to; h\]q.[oc ojc]l* hr[ovc] ej. ctin, o{te tap]e[inoi = pl]eo* nac[h]/= : pevfuke d’ou|- ||

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20 || [ desunt c. 21 litt. ejm]favcei[c: kai; levgein a[n]qrwpo.[c] w]n ajnqrwvp[wn oujk e[]cein creivan. oJ de; panteid[hv]mwn a{ma |5 toi c= eijrhmevnoic pa=ci kai; margi*to-

manh* vc ejctin, eij kai; to;n o[ntwc polumaqevctaton pr(oc)agoreuovmenon oi[etai pavnta duvnacqai ginwvckein kai; poi|10ein= : oujc oi|on eJautovn, o}c ejnivot* e oujdevn ti fwra=tai katevcwn kai; ouj cunorw=n o{ti polla; deit= ai tribh=c, a]n kai; ajpo; th=c aujth=c givnhtai meqovdou, kaqav|15per ta; th=c poihtikh=c mevrh, kai; diovti peri; tou;c polumaqeic= ojcmai; movnon eijci; pollw=n, ouj katocaiv, kai; tajpoteuvgmata perivectin tw=n paideumav|20twn, ouj ta; katorqwvmata, kai; pavnq’o{ca toic= toiouvtoic cumbaivnein ajnelogizovmeqa: kai; diovti polla; ginwvckein, w|n [ JIpp]ivac ejkaucat= o kai; to; pa|25r.aplhvc. [i]on pan= gevnoc, ojneivdh mal= lovn ejctin h[per ejgkwvmia: kai; tiv ga;r dei = ta\lla peri; lhrouvntwn levgein; wJc, o{tan ajtuchvcwci, fwrwn= tai kata|30feuvg.ontec ejpi; tou;c tucovntac kai; twn= ejl. acivctwn ejlavttouc auJt*ou;c ei\nai procomologou=cin. oJ me;n ou\n uJperhvfanoc kai; uJperovpthc ejctivn, oJ |35 d* ’uJperovpthc ouj pavnt.wc kai; uJper. h* fanei = kai;. a{pa[n]ta dia; to; [h\]q.[oc ojc]l* hr[ovc] ej. ctin, o{te ta[p]e[inoi = pl]eo* nac[h]/= : pevfuke d’ou|- ||

(c. 21 lett. mancanti) le apparenze; ed afferma, pur essendo uomo, di non aver bisogno degli uomini. L’onnisciente, invece, insieme a tutto cio` che si e` detto, e` anche folle come Margite se ritiene che colui che pure a giusto titolo e` considerato eruditissimo possa conoscere ed eseguire ogni cosa. Per non parlare di lui stesso, il quale e` talora sorpreso a non capir nulla e che non comprende come molte cose abbiano bisogno di esercizio, anche se procedono dallo stesso metodo, proprio come gli elementi della poetica; e che intorno agli eruditi si aggirano solo gli odori di molte cose e non la loro vera padronanza, l’insuccesso dell’istruzione ricevuta e non il suo buon esito, e tutto quel che consideravamo accadere a persone di questa risma; e che il fatto di conoscere molte cose, cio` di cui si vantava Ippia e tutta la schiatta a lui affine, e` motivo piu` di vergogna che di lode. Ma che bisogno c’e` di esporre gli altri difetti di questi insensati? Come quando, allorche´ cadono in disgrazia, vengono sorpresi a cercare rifugio dai primi che capita e riconoscono di essere inferiori agli infimi. Il superbo dunque e` anche sprezzante, lo sprezzante invece non e` per forza anche superbo, ma per il suo carattere e` irritante in ogni occasione, perche´ umilia gli altri in molteplici modi. Egli e` per natura — 273 —

21 PHerc. 1008 col. 21 Jensen = col. 22 N1 = col. 22 O = col. 22 N2 = col. 21 HV1 III bAristoph. Nub. 362c (vv. 36-38) 1 ou|||[toc supplevi 1-2 oi|ovn tinec twn= kwmikwn= | e[legon ei\nai, inter ou|||[toc et to;n me;n] supplevi exempli gratia 2 2-3 suppl. c. basis, e, o, q, w, m P m. pes dext., a, l, k, c S. 3 u. hasta vert., m, i, h, k, r, t P w. lunulae dext. pars, o, q 4 r. hasta vert. uncique vestigium, i, h, t, p P 5 no N1O: ]o PN2 fin. o N: o. P: [O]; cemnokov^ m &pon Co.2 9 toic NO: to[.]c P 11 q. capitis baseosque vestigia vel o P, tum e. caput, c, o, q in N1: i. n P: [ON2] ]i N1: 2 [PON ] c O: [PN]; suppl. C. 14 e NO: e. P ic NO: i[ P post cei spatiolum 15 post aic spat. vac. 16 on N1: o[ P: o.[ O: w[ N2 18 post cin spat. vac. 20 q. capitis vestigium, e, c, o P ew N1: e[ PON2 25 kai N1O: 27 kai N1O: k[.]i P: i. g.q. N2ac k. a[ P: nai vel hai N2ac 28 ch NO: ]h. P fin. wn N1: w.n. P: [ON2] 29 mn N1O: 2 m. [.] P: [N ] 31 post twn spat. vac. 34 nou N1O: n[ .]u P N2 35 iq* ego: ic N1pc: [PON2] m. pars dext., l, a, c P chco ego: cine (post cin spat. vac.) N1: c. h.[ P: ch.[ ** * O: [N2] ]o N1: ]o. P: [ON2] 35-36 o[J p]oi|= on suppl. * S.: [oJm]oi|= on C.: oi||on spat. brevius leg. J. 36 ot* ego: 1 on O: o. [ P: [N] renq N : r. [.]n. q. : P: ren[ O: ]n. q N2 37 init. t. pes ca36-37 brenquv|h/ legi: brenquv|[ei suppl. J. pitisque apex dext. vel g P w N1: w. P: [ON2] 38 f. hastae vert. supra lineam iacentis pars sup. vel y P init. a N1: 36-38 cf. Aria. P: [ON2] pa N1: pa. P: [N2]: p[ O stoph. Nub. 362 39 deir N1: d. e.[.]r. P: ]e[ O: ]ec[ N2 it N1O: i. t. P: ha N2 in mg. sin. coronidis obscura vestigia ante ode spat. vac.; suppl. C. 40 p. pes sin. capitisque apex sin. vel t P fin. o N1O: [PN2]; suppl. S.

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[toc ] . . . . . . . . . . . to;n me;n] c.[e]m. no;]n ejpainou.[= ntec] wJ. c ajxivan

e[conta metav tinoc aujcthr.ivac, to;n de; cemnokovpon kai; tovte kai; nu=n pavntwc yevgontec wJc ejpifavckonta to;n eijrhmevnon kai; procpoiouvmenon ei\nai toiout= on ejn toic= o[cloic kai; dia; tw=n lovgwn – o}n cemno_m_u_q.e. in= e[legon – kai; [tw]= i [c]chvmati tou= procwvpou kai; tw=n ojmmavtwn kai; peribolhi= kai; kinhvcei kai; taic= kata; to;n biv_o_n_ ejnergeivaic. kai; brenquvecqai de; kai; brenquovmenon wjnovmazon kai; e[ti nu=n ojnomavzoucin – ei[t ’ajpo; tou= paradedomevnou qumiavmatoc h] muvrou twn= q.ewn= brevnquoc, wJc kaq’hJma=c kai; mivnqwnoc ajpo; thc= mivnqhc, ei[t ’ajf’oJtoudhvpote – to;n ajpo; th=c eijrhmevnhc diaqevcewc katemblevponta pa=cin kai; paremblevponta kai; thi= kefalhi= kataceivonta kai; katazmikrivzonta tou;c ajpantwn= tac h] tou;c w|n a[n tic mnhmoneuvchi, ka]n w\ci tw=n megavlwn ei\nai dokouvntwn, meta;; diacurmou= kai; movlic pou braceivac ajpokrivcewc uJperoch;n ijdivan ejmfainouvchc, a[llou d’oujdeno;c ajriq* m. o;n ejmpoiouvch* c* , o* [J p]oi-= on oJ Ari j ctofavnhc ‘o{t*i brenquvh/ t. ’ejn btcaic= in oJdoic= kai; twjf.qalmw; parabavlleic’ ejkw_mw _ _]v idei. oJ d’ei[rwn wJc ejpi; to; p. [l]eic= ton ajlazovnoc ei\doc, ||

PHERC. 1008 , COLL. 10-24

21 ||[toc desunt c. 30 litt. to;n me;n] c. [e]m.[no;]n ejpainou.[= ntec] wJ.c ajxivan e[conta metav tinoc aujcthr.iv|5ac, to;n de; cemnokovpon kai; tovte kai; nu=n

pavntwc yevgontec wJc ejpifavckonta to;n eijrhmevnon kai; procpoiouvmenon ei\nai toiout= on ejn toic= o[cloic |10 kai; dia; twn= lovgwn – o}n cemnomuq. e. in= e[legon – kai; [tw]= i [c]chvmati tou= procwvpou kai; twn= ojmmavtwn kai; peribolh=i kai; kinhvcei kai; taic= kata; to;n biv|15on ejnergeivaic. kai; brenquvecqai de; kai; brenquovmenon wjnovmazon kai; e[ti nu=n ojnomavzoucin – ei[t ’ajpo; tou= paradedomevnou qumiavmatoc h] |20 muvrou tw=n q. ew=n brevnquoc, wJc kaq’hJmac= kai; mivnqwnoc ajpo; thc= mivnqhc, ei[t ’ajf’oJtoudhvpote – to;n ajpo; th=c eijrhmevnhc diaqevcewc katemblevpon|25ta pa=cin kai; paremblevponta kai; th=i kefalh=i kataceivonta kai; katacmikrivzonta tou;c ajpantwn= tac h] tou;c w|n a[n tic mnhmoneuvchi, ka]n |30 w\ci twn= megavlwn ei\nai dokouvntwn, meta;; diacurmou= kai; movlic pou braceivac ajpokrivcewc uJperoch;n ijdivan ejmfainouvchc, a[llou d’oujdeno;c |35 ajriq* m. o;n ejmpoiouvch* c* , o* [J p]oio= n oJ Ari j ctofavnhc ‘o{t*i brenquvh/ t. ’ejn btcaic= in oJdoic= kai; twjf.qalmw; parabavlleic’ ejkw[mwv]idei. oJ d’ei[rwn wJc ejpi; to; |40 p. [l]eic= ton ajlazovnoc ei\doc, ||

(c. 30 lett. mancanti) i quali da un lato lodavano il tipo grave in quanto avente dignita` accompagnata da un che´ di austerita`, dall’altro deploravano del tutto, allora come oggi, il pomposo in quanto affetta il comportamento che abbiamo descritto e finge tra la gente di essere tale, sia attraverso i discorsi che fa – lo definivano, infatti, magniloquente –, sia per mezzo dell’espressione del volto e degli occhi, sia attraverso il suo abbigliamento, il modo di incedere e le occupazioni della vita. E definivano un tempo e ancora oggi definiscono altezzoso, come anche ‘‘fare l’altezzoso’’ – sia che tale termine derivi da brenthus, il tradizionale incenso o unguento degli de`i, come anche tra di noi minthon deriva da ‘menta’, sia che dipenda da qualsiasi altro etimo – colui che, spinto dalla suddetta disposizione, guarda tutti dall’alto in basso e di sbieco, scuote il capo e sminuisce coloro con i quali si imbatte o quelli che uno gli menzioni, anche se rientrano tra quanti sono considerati dei grandi; e cio` con denigrazione e con una breve risposta appena accennata che ostenta la propria superiorita` e mostra di non tenere in considerazione nessun altro all’infuori di se´. Cosı` lo rappresentava Aristofane nella sua commedia: ‘Perche´ fai l’altezzoso per le strade e getti gli occhi di lato’. L’ironico, invece, e` al massimo grado una specie di millantatore,

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22 PHerc. 1008 col. 22 Jensen = col. 23 N1 = col. 23 O = col. 23 N2 = col. 22 HV1 III 1 [ajlla; metevcei kai; uJperhfanivac,] supplevi exempli gratia 2 n. pes dexter, g, h, i, k, p, r, t, u P o. basis, e, q, c, w; legi necnon supplevi 3 d. basis, z, x P o. semicirc. dext. vestigium, w, q, o t. pes, g, h, i, k, n, p, r, u; a} noei = leg. S.: d]ianoei = leg. ac suppl. J.: d]ianoei[= tai] Delattre ap. T., cetera ipse legi necnon supplevi 4 ]l. pedes, a, d, m P ta NO: ta. P fin. l N1: l. P: [ON2] 4-20 in mg. dext. extremae litt. l., a., n, a.i (4-7), ai, i (9-10), w.c (15), n.i (18), n (20) admodum cm 1,5 dextrorsum videntur esse translatae 5 te NO: te. P ei N1: e.i. P: [ON2] ge N1: g.[ P: [ON2] a. pes dext., l, m, d P 7 q[.]n N1O: q.[ P: q[ N2 a. pedes vel c P; tou;c ^ ejpainetou;c & Delattre ap. T. 4-7 suppl. C. 8 e* ego: c N1pc: . P: 11 a. pedes, [ON2] 9 l N1: l. P: [ON2]; suppl. C. l, c P, tum c. nonnulla vestigia vel e t. hastae vert. vestigium vel u; dein[ov]thc suppl. C., [pl]a.cv. mat.[i J.: [logivc]ma[ti C: spat. brevius [cchv]ma[ti S. et [yevg]ma[ti U. 12 post thc spatiolum 12-24 suprapos. in mg. dext. conspicitur ad col. 23 11-23 pertinens 12-13 suppl. C. 13 l. pes 14 di O: d[ PN2: sin., c, d, m P a. pedes vel d 15 ci N1: ci. P: c[ ON2 n. hastae vert. sin. pars [N1] sup., h, i, k P w. lunula dext., o, q, n P; suppl. C., wJ.c legg. A.-A. 16 øiØ delendum esse iam monstravit S., J. vero se fallens restituit; m[e]t’ suppl. C. 16-17 ajnap[h]|dhvcewc suppl. S. 17 u NO: u. P 18 o. semicirc. sin. vestigia, q, c, w P, tum u. apex sin., c, n n. hastae vert. dext. pars inf., g, k, r, t, u; suppl. S. 19 ep N1: [PON2] post pan spat. vac. 20 i. pes, h, p, r, b, g, n, u P ti N1: [PON2] : e:] punctis superpositis del. librarius P [u] del. librarius [k g; ’ superposito 21 nhmon N1: ]mo[ P: ]mon O: ]h[.]mo[ N2 23 lh N2: l.h. P: l[ O: l.[ q. caput vel o P ci N1: [PON2] 1 N ; [g]e suppl. J. 23-24 [ouj]|de;;n suppl. C. 24 h. N1: [PON2]; suppl. C. 25 hmw. N1: h.m.[ P: h[ O: [N2]; suppl. C. 26 m. pedes, a, l, d P e. tergum vel c P ip N1: ]p PO: pi N2 c N1: [PON2] i. caput, h, n P; m.ne.iva legi: m]neiva iam suppl. S., [e].in\ ai t[wi= idem: [fav]nai t[o;] Delattre ap. T. 27 t. capitis pars sin. hastaeque vert. vestigium vel p P ]c N1: [PON2] e. basis vel c P m. cauda vel a, d, l; t.[h=]c f[uvc]e.wc suppl. C., oiJ m.[evn J.: oiJ d.[hv idem ap. K.: oi\m.[ai 27-29 interp. T. 28 suppl. C. 29 on NO: o.n. P W. 29-39 suprapos. in mg. dext. dispicitur ad col. 23 28-38 pertinens 30 ein N1O: ]in. P: ]n N2 ka N1O: 2 1 k[ PN 31 ci N : c. i. P: ]i ON2 ir N1: [P]: i[ ON2 32 fi N1: f[ P: [ON2] c NO: [P] h. hastae vert. sin. vestigia, k, i, b, g, r P; aj[m]fivbola suppl. C., crh.[ctovn idem: cr.[ucoun= ] Co.2 33 lh N1: l.h. P: [ON2] nan N1O: n.a.n P: n[ 2 34 N 33-34 ajn[drei]|= on suppl. S.: ajn[aivti]|on C. pare N1: .[ P: ]e O: [N2] q N1: q. P: [ON2]; suppl. C. 35 d N1: d. P: [ON2] 35-36 [eJ|tevroic] suppl. H.: [euj|lovgw]c C.: a[l|loic ticivn] spat. longius S.: [a[l|loic] spat. brevius U.: [eJ|tevrwi] Co.2 36 cac N1O: c. a . P: [N2] kai N1: k.a[ P: ]a[ ON2 36-37 [ jIcco|mav]cwi suppl. Co.1: [th=i | ajlov]cwi C. 37 c N1: c. P: [ON2] c. basis, e, q, o. P ka N1O: ka. P: ]a N2 o. tergi vestigium, e, q, c, wP 38 o. basis, e, q, c P w N1O: w. P: o N2 aireci N1ac: 37-38 suppl. S. 39 dokim a.i . e.c. i. P: airec[ O: [N2] N1: d.[ P: d[ O: a[ N2; ejdokim[avcqhc suppl. S.: ejdokivm[acen C., a]n H.

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]

eJauto;]n. [d’] o.[ujk ejxaivrei, oujd’ajpod.[hlo]i = a} noei = [pr]o;. c t.[o;n plhcivon, [aj]l. la; kai; tajnan[tiv]a ma=llon, w{ct ’ ejpainein= o}n yevge[i, t]a. peinou=n de; kai; yevgein eJaut[ov]n te kai; tou;c oi|ovc ejctin eijwq[ev]na. i pro;c oJndhvpote crovnon me* _t_a_; paremfavcewc w|n bouvle[t]ai: cunepinoeit= ai d’aujtw=i kai; dein[ov]thc ejn twi= [pl]a. vc. mat.[i kai; piqanovthc. e[c[ti]n de; t[oiout= oc oi|oc ta; poll.[a;] mwka.[= cqai kai; morfavzein kai; meidia=n kai; uJpanivctac[q]aiv ticin. wJ. c ejpictac= in a[fnwøiØ m[e]t ’ajnap[hdhvcewc kai; ajpokaluvyewc: kai; mevcri pollo. u. = [c]unw;n ejn. ivo_ _i_c ciwpa=n: ka]n ejpainh=i tic aujto;;n h] keleuvhi. ti [ke] lev[u] ;g ev in h] mnhmoneuq.hvcecqai fwc= in aujtovn, ejpifwnein= ‘‘ejgw; ga;r oi\da tiv plhvn [g]e touvtou o{ti [oujde;;n oi\da;’’ kai; ‘‘tivc ga;r h. m J wn= l[ovgoc;’’ kai; ‘‘eij dhv tic hJmw. =n e[cta[i m. ne. iva’’: kai; polu;c [e]i\.nai t[wi= ‘‘makavrioi t.[h]= c f[uvc]e. wc oiJ m.[evn tinec’’ h] ‘‘thc= dunavmewc’’ h] ‘‘t[hc= tuvchc’’, kai; mh; yilwc= ojnomavzein, ajlla; ‘‘Faid= roc oJ kalovc’’ kai; ‘‘Lucivac oJ cofovc’’ kai; rJhm v at ’aj[m]fivbola tiqevnai, ‘‘crh. [ctovn’’, ‘‘hJduvn’’, ‘‘ajfelh’= ’, ‘‘gennaio= n’’, ‘‘ajn[drei-= on’’: kai; parepideivknucq[ai me;n wJc cofav, procavptein d’ [eJtevroic] wJc Aj cpaciva/ kai; [ jIccomav]cwi Cwkravthc. : kai; pro;.[c t]o. u;c ejk tw=n ajrcaireci[w=n ajpoluomevnouc ‘‘ejdokim[avcqhc a]n ||

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22 || [ deest c. versus unus eJauto;]n. [d’] o.[ujk ejxaivrei, oujd’ajpo]d.[hlo]i = a} noei = [pr]o;. c t.[o;n plhciv]on, [aj]l. la; kai; tajnan[tiv]a ma=l|5lon, w{ct ’ ejpainein= o}n yevge[i, t]a. peinou=n de; kai; yevgein eJaut[ov]n te kai; tou;c oi|ovc ejctin eijwq[ev]na. i pro;c oJndhvpote crovnon me* ta; paremfavcewc w|n bouvle[t]ai: |10 cunepinoeit= ai d’aujtwi= kai; dein[ov]thc ejn twi= [pl]av. c. mat.[i] kai; piqanovthc. e[c[ti]n de; t[oi]ou=toc oi|oc ta; poll.[a;] mwka.[= c]qai kai; morfavzein kai; meidi|15a=n kai; uJpanivctac[q]aiv ticin. wJ. c ejpictac= in a[fnwøiØ m[e]t ’ajnap[h]dhvcewc kai; ajpokaluvyewc: kai; mevcri pollo. u. = [c]unw;n ejn. ivoic ciwpan= : ka]n ejpainhi= tic |20 aujto;;n h] keleuvhi. ti levgein h] mnhmoneuq. hvcecqai fw=cin aujtovn, ejpifwnein= ‘‘ejgw; ga;r oi\da tiv plhvn [g]e touvtou o{ti [ouj]de;;n oi\da;’’ kai; ‘‘tivc ga;r h. Jmw=n l[ov]|25goc;’’ kai; ‘‘eij dhv tic hJmw. n= e[cta[i] m. ne. iva’’: kai; polu;c [e]i\.nai t[wi= ] ‘‘makavrioi t.[h]= c f[uvc]e. wc oiJ m.[evn] tinec’’ h] ‘‘thc= dunavmewc’’ h] ‘‘t[h=c] tuvchc’’: kai; mh; yilwc= ojnomav|30zein, ajlla; ‘‘Faid= roc oJ kalovc’’ kai; ‘‘Lucivac oJ cofovc’’ kai; rJhvmat ’aj[m]fivbola tiqevnai, ‘‘crh. [ctovn]’’, ‘‘hJduvn’’, ‘‘ajfelh=’’, ‘‘gennaio= n’’, ‘‘ajn[drei]= on’’: kai; parepideivknucq[ai] |35 me;n wJc cofav, procavptein d’[eJtevroic] wJc Aj cpaciva/ kai; [ Ij ccomav]cwi Cwkravthc. : kai; pro;.[c t]o. u;c ejk twn= ajrcaireci[wn= aj]poluomevnouc ‘‘ejdokim[avcqhc a]n || (c. 1 v. mancante) tuttavia egli non esalta se stesso ne´ rivela cio` che pensa al suo prossimo, ma piuttosto l’esatto contrario, talche´ suole lodare colui che biasima e umiliare e biasimare se stesso e quanti puo` in qualunque occasione mediante la falsificazione delle proprie intenzioni. Sono incluse nell’idea di ironico sia l’abilita` nel fingere sia la capacita` di persuasione. Egli e` un tipo che si fa molte beffe degli altri, gesticola e sorride e, quando sopraggiungono alcuni, con un salto balza subito in piedi scoprendosi il capo. Trovandosi insieme ad altri rimane in silenzio per molto tempo. E se qualcuno lo elogia o lo esorta a dire qualcosa o se affermano che il suo nome sara` ricordato, egli esclama: ‘‘Ma io che so se non questo, che non so nulla?’’ e ‘‘Che opinione si puo` avere di me?’’ e ‘‘Se mai di me si conservera` qualche ricordo’’; e ripete frequentemente la seguente espressione: ‘‘Beati alcuni per le loro qualita` naturali’’ o ‘‘per la loro abilita`’’ o ‘‘per la loro fortuna’’. E non si limita ad apostrofare gli altri con il semplice nome, ma li chiama ‘‘Fedro il bello’’ e ‘‘Lisia il sapiente’’, e affibbia epiteti ambigui come ‘‘dabbene’’, ‘‘amabile’’, ‘‘semplice’’, ‘‘nobile’’, ‘‘valoroso’’. Fa sfoggio di idee da lui definite sapienti e poi le attribuisce ad altri, come Socrate ad Aspasia e a Iscomaco. A coloro che escono sconfitti dalle elezioni [dichiara]: ‘‘Saresti stato sicuramente ammesso alla carica, — 277 —

23 PHerc. 1008 col. 23 Jensen = col. 24 N1 = col. 24 O = col. 24 N2 = col. 23 HV1 III

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[

]

pro;c] qew=n, o.[u{twc w]n] c.r.[hvci-

1 [mevntoi’’ favckein ‘‘eij ce; ei{lonto,] supplevi exempli gratia moc* : pavnta ga;r deino;c cu; ka(eij ce; ei{lonto Co.2: eij ce; hJ/rhvcanto U.): a[ra cu; pavntwn w]n ajxiov_t_e_rgavcacqai’’. ka]n cunevlqh.[i, auJtatoc W. 2 o. baseos vestigium, e, c, q, w P c. pedes, a, m, ie, ic, tum pes sicut r., g, h, i, k, n, p, t, u; legi necnon sup5 to; n kataplhttovmenon ejmplevi 3 moc* p ego: moip N1: .[.]c. p. P: m[. .]i O: m[. .]p. 2 1ac 2 1 2 1 faivnein tov te ei\doc kai; th;n ajxivN k N ON : k. P 4 ga N : ]a. P: ]a ON qai N : q.[ P: q[ ON2 post qai spat. vac. h. hastae vert. sin. vestigia, an kai; to;n lovgon kai; pro;c tou;c 4-5 auJ]|to;n suppl. S.: g, i, k, n, r P; cunevlqh.[i suppl. C. cunkaqhmevnouc qaumavzon| to;n J. 6 ot N1: o[ PON2 7 l N1: [PON2] oc NO: o[ P; alterum kai; del. W. 8 hme N1pc: h. [ PON2 9 ta: kai; proc. kalouvmenoc eij[c] koioc. k (c. in mg. dext.) N1: [PON2] ou NO: ]u. P; suppl. 10 nologiv[a]n f.obeic= qai kai; tajlavC. 10 nologi[.]n (]n in mg. dext.) N1: n.o.l.og.i.[ P: nolo[ O: iolo[ N2 f. hastae vert. sub lineam iacentis pars inf. vel ci cta favckein a[pora katafaiv11-23 cf. suprapos. y P ta N1: ]a. P: [ON2]; suppl. C. necq’eJautw=i: kai; [ka] d i; a v gelavcanad col. 22 12-24 11 init. i NO: i. P p NO: p. P 12 1 2 1 toc: ‘‘ojrqwc= mou katafroneic= utw (utw. in mg. dext.) N : u.tw P: ]w N : ]o O ai N O: a[ PN2 [k:a:] punctis superpositis del. librarius N1: [k.a:] P: ka thlikou=to* c w[n: kai; ga;r aujO: ca N2 14 init. t NO: t. P o N2: o. P: [ON1] uto* 15 to;c ejmautou=’’ kai; ‘‘nevoc w[fel. on ego: utc in mg. dext. N1: [PON2] n N1O: [P]: i N2 post cwn spat. vac. 15 auto (a.uto in mg. dext.) N1: auto. P: ei\n. ai kai; mh; gev[rw]n, i{n’ejmaua[. .]o O: a[. .]o. N2 in N1O: [PN2] l.o N1: ]o. P: ]o O: _t_o. _ ;n uJpevt.ax.av coi’’: ka]n tw=n cunio N2 16 ein. N1: ]. P: e[ ON2 aim in mg. dext. N1: a. im P: [ON2] ni O: [PN] ma N1: [PON2]; suppl. Co.1 parov ntw[n oJto]u. dhvpot ’eijp. ovn17 init. o. basis, q, e, c P t. ax. (t. ap in mg. dext.) N1: toc ejkdhvlwc ejkein= oc ei[ph[i: [PON2] post coi spat. vac. 17-18 cun|parovntw[n suppl. C. 18 paro NO: ]a.r.o. P w NO: w. P u. pes, g, i, r, t, 20 ‘‘ toiout= o. n a\[r]av ti levgeic;’’ ejp[i]fwn P p. hasta vert. sin. capitisque vestigium vel g fin. o N1: nein= ta;[c c]e[i]= rac ajnateivnac: ‘‘wJc [PON2]; oJto]u.dhvpot’ suppl. J.: tou oJti]dhvpote spat. longius t]acu; cunhk S. 19 t N: t. P: p O hl in mg. dext. N1: ]l. P: [ON2]; = ac, ajll’ [e] ajf[u]h* ;c ei[ph[i supplevi: ei[ph/ leg. C. 20 o. semicirc. sin. exiguum _ej_g_w; kai; brad. u;c kai; ducaivcqhtoc’’: vestigium, e, q, c, w P na in mg. dext. N1: n.a P: [ON2] f kai; procevcein me;n dialegoN1: f. P: [ON2]; a\[r]av legi necnon supplevi: a[[r]a R.: d[i]a; C., reliqua idem, ‘‘toiou=ton dia ktl. interp. H.: toiou=ton 25 mevnwi kai; ejncavckein, ei\q’uJ‘‘dia; ktl. S. 21 suppl. C. 22 hk (h in mg. dext.) 2 1 pokinaid ein= kai; dianeuvein : [ ] N : h[ P: [ON ] e puncto superposito del. librarius * P h* ego: p N2: [PON1] fin. c NO: c. P; t]acu; suppl. C., _a_[l_loic, pote; d’ajnakakcavzein: ajf[u]h;c S.: ajf[iei;]c C. 23 ad. in mg. dext. N1: ]. P: * 1 2 2 oi|oc de; ka. i.; pro;c ou}c e[tucen oJ24 leg N : [P]: l[.]g O: l[ N [O]: h. [ N t NO: [P] 25 ka NO: ka. P nei N1: n.[ P: ne[ ON2 q O: q. PN1: milw n= : ‘‘diacafeit= ev moi ta;c ej[N2] 25-26 uJ|pokinaid* ein= leg. S.: uJ|pokinaøiØdein= U. 30 ma;c ajgrammativac kai; ta;c a[l26 init. in N1O: in. P: ik N2 d* ego: a O: d. P: [N] idi N1O: lac] ajctocivac uJmeic= , w\ fivloi, kai; ]i. P: [N2] fin. e N1O: [PN2] 27 allo N1O: a.l.l.o. P: a[.]no N2 te N: te. P: uc O; ajnakakcavzein legi: ajnakagcavm]h; periora=tøeØ’ajcchmonou=nzein C.: ajnakakkavzein A.-A. 28-38 cf. suprapos. ad ta ]’’, k. ai; ‘‘ouj dihg[eic= q]ev moi ta;c col. 22 29-39 28 a. pedes, l, m, c P, tum i pes, g, h, k, ou NO: ou. P fin. n, p, r, t, u pro N1: p.ro. P: ]ro ON2 tou=] dein= oc eujh* mer* ivac, i{na caivo N1O: o. P: [N2] 29 wndiac (wndia in mg. dext.) N1: 2 35 rw ], ka]n a[ra dunatovc, wJc mimw-= w.[.]dia[ P: [ON ] ite NO: i.[.]e P 30 agramm in mg. dext. N1: ag.r.amm P: [ON2] tia N1: t.[ P: t[.]a ON2 ka mai];’’ kai; tiv dei* = [t]a; pleivw levgein; NO: k[ P 31 a[.]tociacu (a[.]tocia in mg. dext.) N1: 2 1 2 a{ p]ant.[a] g.a;r* t[a;] Cwkrati*ka; ]t.ocia[.]u. P: [ON ] icwfi N : ]c. w.[ P: ico[ O: ic[ N ai NO: a.i. P; suppl. C. 32 perioratøeØ (periorat in mg. 38 mnhmoneuvma.[t]a [g]evme[i t]w=n || dext.) N1: p.eriorat[ P: ]c O: [N2] cchm[ N1: c. [ P: [ON2]; suppl. S., øeØ J. 32-33 ajcchmonoun= |[ta] suppl. S.: ajcchmonou=n|[tac] C. 33 k.aioudihg in mg. dext. N1: ]ioudihg P: [ON2] emoit N1pc: ]m.oit. P: ]wit O: oit N2; dihg[eic= q]ev suppl. C.: dihg[hvcecqev] spat. longius S. 34 deinoceuh* ego: deinoceuii in mg. dext. N1: d[.]in[.]ceu[ P: [ON2] mer* ego: 35 kanaradun in mg. dext. N1: ]n.arad.u.[ P: [ON2] atocwc mei O: m.e. . P: ten N1: ]ei N2 ina N1: ]n.a P: ]a ON2; suppl. C. N1: a.t.o.c. w[ P: ]tocw[ O: ]cw[ N2; wJc leg. C.: w\ S.: w\i., J.; suppl. C. 35-36 mimw=|[mai] suppl. S. 36 kaitidei* ego: kaitider in mg. dext. N1: k. a.[.]tide. . P: [ON2] apleiwlegein N1pc: a.p. [.]e.[.]wl. e. [.]e. [.]n. P: nileiwdeiu[ O: ]iwlege[ N2; [t]a; suppl. C. 37 t. hasta vert. capitisque vestigium vel p P g. caput, z, x, p, t rt ego: it (an[. .]cait in mg. dext.) N1: [PON2] cwkrati*ka ego: * cwkrathka N1: c. w.kr.a.[. .]ka P: ]kra[. .]ka ON2; a{p]ant.[a] suppl. J.: kai; ga;r p]avnt[a] spat. longius S.: p]avnt[a] spat. brevius H., 1 t[a;] S. 38 neuma.[.]a (mnhmqneuma. in mg. dext.) N : ]u. [ P: [ON2] eme[. .]wn N1: [P]: me[. .]wn ON2; mnhmoneuvma.[t]a leg. ac suppl. U., [g]evme[i t]wn= ego

PHERC. 1008 , COLL. 10-24

23 || [

deest c. versus unus pro;c] qew=n, o.[u{twc w]n] c.r.[hvci]moc* : pavnta ga;r deino;c cu; katergavcacqai’’. ka]n cunevlqh. [i, auJ]|5to;n kataplhttovmenon ejmfaivnein tov te ei\doc kai; th;n ajxivan kai; to;n lovgon kai; pro;c tou;c cugkaqhmevnouc qaumavzonta: kai; proc. kalouvmenoc eij[c] koi|10nologiv[a]n f. obeic= qai kai; tajlavcicta favckein a[pora katafaivnecq’eJautw=i: kai; diagelavcantoc: ‘‘ojrqw=c mou katafroneic= thlikou=to* c w[n: kai; ga;r auj|15to;c ejmautou’= ’ kai; ‘‘nevoc w[fel. on ei\n. ai kai; mh; gev[rw]n, i{n’ejmauto. ;n uJpevt.ax.av coi’’: ka]n twn= cumparovntw[n oJto]u. dhvpot ’ eijp. ovntoc ejkdhvlwc ejkein= oc ei[ph[i:]|20 ‘‘toiout= o. n a\[r]av ti levgeic;’’ ejp[i]fwnein= ta;[c c]e[i]= rac ajnateivnac: ‘‘wJc [t]acu; cunh=kac, ajll’ajf[u]h* ;c ejgw; kai; brad. u;c kai; ducaivcqhtoc’’: kai; procevcein me;n dialego|25mevnwi kai; ejgcavckein, ei\q’uJpokinaid* ein= kai; dianeuvein a[lloic, pote; d’ajnakagcavzein: oi|oc de; ka. i.; pro;c ou}c e[tucen oJmilwn= : ‘‘diacafeit= ev moi ta;c ej|30ma;c ajgrammativac kai; ta;c a[l[lac] ajctocivac uJmeic= , w\ fivloi, kai; [m]h; periora=tøeØ’ajcchmonou=n[ta]’’ k. ai; ‘‘ouj dihg[eic= q]ev moi ta;c [tou]= dein= oc eujh* mer* ivac, i{na caiv|35[rw], ka]n a[ra dunatovc, wJc mimw=[mai];’’ kai; tiv dei* = [t]a; pleivw levgein; [a{p]ant.[a] g.a;r* t[a;] Cwkrati*ka; mnhmoneuvma.[t]a [g]evme[i t]wn= ||

(c. 1 v. mancante) per gli de`i, tu che sei un uomo cosı` capace! Poiche´ sei formidabile nel condurre a successo tutte le imprese!’’ Quando si incontra con altri si mostra atterrito nell’aspetto esterno e nei discorsi e ammirato verso coloro che siedono insieme con lui. Invitato a una discussione si fa prendere dallo sgomento e a quanto dice perfino le questioni piu` semplici gli appaiono senza via d’uscita. Se qualcuno lo deride, egli esclama: ‘‘Fai bene a disprezzarmi, benche´ tu sia cosı` giovane. Io sono il primo a disprezzare me stesso!’’ e ‘‘Se almeno io fossi giovane, e non vecchio, per potermi sottomettere a te!’’ E se, avendo l’uno o l’altro dei presenti parlato in modo evidente, quegli afferma: ‘‘Vuoi dire dunque una cosa del genere?’’, [l’ironico] esclama con le braccia distese: ‘‘Come hai fatto presto a capire! Io, invece, sono inetto, lento e ottuso!’’ Si mostra attento alle parole del suo interlocutore rimanendo a bocca aperta, poi si atteggia a cinedo e fa cenni ad altri, talvolta scoppia in una grande risata. E` anche solito ripetere a coloro con i quali gli capita di trovarsi insieme: ‘‘Palesatemi voi, o amici, la mia ignoranza e gli altri miei fiaschi e non permettiate che faccia una figura meschina’’ e ‘‘Non mi raccontate i successi del tale perche´ me ne compiaccia e, se ne sono capace, li imiti?’’ Ma perche´ parlarne ancora? Tutte le memorie socratiche, infatti, sono piene di — 279 —

24 PHerc. 1008 col. 24 Jensen = col. 25 N1 = col. 25 O = col. 25 N2 = col. 24 HV1 III 1-2 [toiouvtwn ajtopiwn, = ai} uJpo; | pavntwn ginwvckontai. ante o{moi|oi] supplevi exempli gratia 2-3 o{moi|oi] suppl. J.: 3 suppl. C. 4 oudenwth N: . . d.enwth. parovmoi|oi] C. P: omenwth O fin. u N1: u. P: [ON2] 5 h NO: h. P post thc spat. vac.; suppl. C. 6 rontai N1: r.onta[ P: ]ontai O: ]onta[ N2 er* ego: ei N1: e.[ P: e[ O: [N2] n* t ego: it N1: ]t. P: ]t ON2; suppl. C. 7 k NO: k. P pi N1: p[ PN2: ti O t. N1: [PON2] ab NO: a.b P; [ka]t.abolhc= suppl. C.: [d]iabolh=c spat. brevius S. 8 io N1: i. . P: [ON2] post 1 2 ion spat. vac. m N O: [PN ] 9 n* ego: l N1: li O: [PN2] n. lineae obl. vestigium hastaque vert. dext., h, i, n, p, t P; ajpovn[tw]n. suppl. J.: spat. longius ajpol[eivpw]n S. * et ajpo[levpw]n H. et ajpo[meiw]= n U. 10 ^ n & addidi 11 ud 1 N O: ud. P: uc N2 w. lunularum vestigia, oi, og, ou, ot P th N1O: t.h P: ]h N1 post thc spat. vac. ic N1: ]c PON2 12 fin. e NO: e. P; suppl. C. 13 oi N1O: oi. P: og N2 eici N1: ]c[ P: ei[ ON2 14 ainontec N1: a.inonte . P: ainonte[ ON2 post ian spat. vac.; tw=n ^ kai; tw=n & Rusten in J. Rusten-I.C. Cunningham (eds.), op. cit., p. 174 15 init. ou N1O: o.[ P: oi 2 1pc 1ac 2 N n N : h N : n. P: i ON post cin spatiolum 16 init. o N1O: . P: [N2] reco N1: . eco. P: ]eca O: ]eci N2 17 init. n N1O: n. P: ai N2 w ego: ci N1O: w. P: c N2 post * iw n spat. vac. pr N1O: pr. P: p[ N2 18 erhfa N1O: * 19 dh N1: d . e. [.]hfa. P: ]hf[ N2 ei N1O: e. i. P: [N2] 2 2 1 1 P: d[ ON l* ego: c. N : [PON ] oti N : [PON2] i. basis, r, t, u P, tum n. basis, k, l, c epako N1: e. p. ak. [ P: ]akoi O: ]ako N2; suppl. C. 20 ]n N1: [PON2] d. cauda, l, a, m P; suppl. C. 21 pa N1O: p[ PN2 post opa spatiolum 22 ht N1: h.t. P: ri N1: [PON2] a ego: e N1: [PON2] * 2 n[ O: h[ N h. hasta vert. sin. hastaeque dext. vestigium, n, p P post kh.i spatiolum 23 aif NO: a.if P q. transtrum circulique vestigia vel h P nh O: ]h PN k. N1: [PON2] hi N1O: h. [ P: [N2] post k.hi spat. vac.; suppl. C. 24 pomnhmat N1: p.[.]mnhma.[ P: p[.]mni[.]la[ O: i[. .]mnh[.]la[ 25 utou N1: ut[ N2 ]m O: ]m. P: [N1]: ]w N2; suppl. S. P: utw O: uto[ N2 atapaucomen N1: ]apa.ucom.en. P: ]apaucomen O: ]ao[.]ucone[ N2 26 epicunayo N1O: ]p.icun.ay[ P: 27 tw N1O: t.[ etoicunayo N2 au N1O: a.u. P: ap N2 P: t[ N2 all N1: a.[.]l. P: al[ ON2 fin. w NO: w. P 28 azome N1: a.zo[.]e. P: az[.]m[ O: c[.]z[ N2; poi[ei]= cqai suppl. S.: poi[hvce]cqai spat. longius C. 29 in mg. sin. coronis N1: eiusdem obscura vestigia P: [ON2]

Pagina sequenti PHerc. 1008 subscriptio = subscr. N1 = subscr. O = subscr. N2, deest numerus versuum 1

1 ou N O: [P]: o[ N

2

2 n NO: [P]

24

5

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29

[ [

] o{moi-]

oi] d’eujte[licth;c h] ejxeutelicth;c kai; oujdenwth;c h] ejxoudenwth;c ka[i;] ejpi; taujto; fevrontai diafevr* [o]n* tec ajnevcei kai; ejpitavcei [ka]t.abolhc= tou= _p_l_hcivon. oJ me;n ga;r ejxeutelicth;c ajpovn* [tw]n. tina; faulovteron dh; dokei^= n & parivcthcin, oJ d’ejxoudenw. th;c i[con twi= mh_d_e_niv. l[oi]po;n e[ctin me;n o{te toiout= oiv tinevc eijcin uJperoch;n ejmfaivnontec ijdivan h] tw=n ou}c ajpocemnuvnoucin, e[ctin d’o{te katatrevcontec movnon ejnivw* n, w{cte tou;c protevrouc kai; uJperhfavnouc ei\nai. dio; kai; dh=l* [on] o{ti fhc.i;n. ejpakolouqe[i]= n aujtoic= ta; d.[i’] ejkeivnhn a[topa kai; perittovteron ta;* thi= diablhtikh. i= kai; backan_t_i_kh=i kai; fq.onht[i]k. h=i. kai; to;n uJpomnhmati[c]mo;n de; tou=ton aujtou= katapauvcomen, ejpicunavyomen d’aujtwi= to;n peri; tw=n a[llwn kakiw=n w|n dokimavzomen poi[ei]= cqai l_ _ov_gon. ||

Filodhvmou Peri; kakiwn= i–

PHERC. 1008 , COLL. 10-24

24 || [ desunt c. versus unus et 17 litt. o{moioi] d’eujte[licth;c h] ejxeutelic]th;c kai; oujdenwth;c h] ejxou|5denwth;c ka[i;] ejpi; taujto; fevrontai diafevr* [o]n* tec ajnevcei kai; ejpitavcei [ka]t.abolh=c tou= plhcivon. oJ me;n ga;r ejxeutelicth;c ajpovn* [tw]n. tina; faulov|10teron dh; dokei^= n & parivcthcin, oJ d’ejxoudenw. th;c i[con twi= mhdeniv. l[oi]po;n e[ctin me;n o{te toiou=toiv tinevc eijcin uJperoch;n ejmfaivnontec ijdivan h] tw=n |15 ou}c ajpocemn* uvnoucin, e[ctin d’o{te katatrevcontec movnon ejnivw* n, w{cte tou;c protevrouc kai; uJperhfavnouc ei\nai. dio; kai; dh=l*[on] o{ti fhci;. n. ejpako|20louqe[i]= n aujtoic= ta; d.[i’] ejkeivnhn a[topa kai; perittovteron ta;* th=i diablhtikh. =i kai; backantikh=i kai; fq. onht[i]k. h=i. kai; to;n uJpomnhmati[c]mo;n de; |25 tou=ton aujtou= katapauvcomen, ejpicunavyomen d’aujtwi= to;n peri; twn= a[llwn kakiwn= w|n dokimavzomen poi[ei]= cqai lovgon. || (c. 1 v. e 17 lett. mancanti) Simili sono poi il dispregiatore o denigratore e il vilificatore o vilipensore e orientati al medesimo scopo, differendo per la minore o maggiore intensita` con cui calunniano il loro prossimo. Il denigratore, infatti, si limita a rappresentare una persona in quel momento assente come mediocre, mentre il vilipensore la fa apparire uguale a zero. Per il resto ci sono casi in cui alcuni di costoro si comportano in tal modo con l’intento di ostentare la propria eccellenza o quella di coloro che essi magnificano e altri casi in cui lo fanno solo allo scopo di inveire contro qualcuno, onde i primi risultano essere pure superbi. Percio` e` anche chiaro perche´ [Aristone] dica che a costoro tengono dietro le assurdita` cagionate da quella [sc. dalla superbia] e, in misura superiore, quelle dovute alla loro disposizione calunniatrice, maligna e invidiosa. Termineremo qui anche la presente trattazione e aggiungeremo ad essa quella relativa agli altri vizi dei quali riteniamo opportuno far conto.

Filodhvmou Peri; kakiw=n i– Di Filodemo Sui vizi libro decimo

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COMMENTARIO

Col. 10 3-4 cum|f]w. nw=n: per questo verbo, ‘essere d’accordo’, ‘avere le stesse idee’ (LSJ, s.v., II), cfr. EPICUR. ep. ad. Herod. 77, e C. SPICQ, Notes de Lexicographie testamentaire, Go¨ttingen, E´d. Univ. Fribourg 1978, pp. 847-850. 4-5 filop. i.c[t]eu|ovmenoc: hapax legomenon da filopicteuvomai (fivloc e picteuvw; deest in LSJ). L’aggettivo corrispondente filovpictoc, ‘amante della fedelta`’, e` anch’esso un hapax. Per esso si vedano LSJ, Suppl., s.v.; S. MITCHELL, Regional Epigraphic Catalogues of Asia Minor, II: The Ankara District. The Inscripions of North Galatia, Oxford, B.A.R. 1982, p. 219 sg.; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 216. 5-6 di’ejnteu. xv e|wc eujcar[i]c. tw=n oi|c d.[ev]on: e[nteuxic, qui ‘colloquio’, ‘abboccamento’ (LSJ, s.v., 2), e` anche in EPICUR. sent. Vat. fr. 51, ma con diverso significato (‘rapporto sessuale’). Per il nesso e[nteuxic-eujcarictevw, tipico dei papiri si veda C. SPICQ, op. cit., p. 245, e E. ACOSTA ME´NDEZA. ANGELI (edd.), op. cit., p. 217. d. [ev]on, part. ass. impers. di dei,= ‘bisogna’, ‘e` necessario’, sottintende ejcti. 7-8 th;n ejlavttwcin ejmfaniv|ze[in]: ‘manifestare l’errore’. ejlavttwcic va qui inteso come ‘mancanza’, ‘errore’. Cfr. PHILOD. de lib. dic. fr. 40, 5 O. 9-11 Filodemo propone come primo e piu` importante rimedio alla superbia l’amicizia (filiva), una virtu` fondamentale per gli Epicurei. Il fatto per il superbo di essere circondato da amici, cioe` da persone disinteressate che ne conoscono le inclinazioni di fondo e che per questo non si scompongono di fronte alle sue sgarbatezze (in quanto gli sono abituati: [cune]q.ivz.o.ntai, ma l’integrazione non e` del tutto sicura), e` il miglior modo per disinnescare i conflitti che possono scaturire dal suo comportamento protervo. Gli amici, infatti, lo giustificano in pubblico e non mancano di fargli notare le sue mancanze in privato. 11 Ariv j ctwn: il nome proprio dell’autore liberamente citato da Filodemo e` assolutamente certo. Per l’omissione dell’etnico e le possibili spiegazioni di questo fatto, cfr. supra, p. 8 sg. 12-13 Peri; tou= | ko. [u]fivz[ein uJ]perhfanivac: sul valore da attribuire a quest’espressione e sul significato del verbo koufivzw, cfr. supra, pp. 9-11; Comm. a 11 2-5; 14 20-21. Nel senso di ‘alleggerire’ qualcuno di qualcosa e` attestato in XEN. mem. II 7, 1; Cyr. VI 3, 24; DIOD. SIC. XIII 64; PLUTARCH . Caes. 37; non posse suav. 1106 C ; POL . VI 17, 5; PHILOD . de oec. — 285 —

COMMENTARIO

col. 24, 20 J.; al passivo, ‘essere alleggerito’, in EUR. Or. 43; Med. 473; ARISTOT . probl. 873 B 22; al medio con significato passivo, ARISTID. de quatt. 102 B.; THUC. II 44; ARISTOT. eth nic. 1171 A 29; pol. 1342 A 14; AEL. de nat. an. II 33. Si veda LSJ, s.v. koufivzw, II B. uJperhvfanoc e uJperhfaniva sono impiegati dagli autori antichi prevalentemente in senso negativo con il significato di ‘superbia’, ‘arroganza’. Come ha messo in rilievo G. BERTRAM, art. cit., coll. 585-587, uJperhvfanoc e` concettualmente a meta` tra uJbricthvc e ajlazwvn e indica colui che approfitta della propria posizione sociale, del proprio potere e della propria ricchezza per disprezzare il prossimo. Cfr. HES. theog. 149; SOLON fr. 4, 36 IEG; ANDOC. or. 4, 13; PLUTARCH. Alc. 4; PLAT. resp. 391 C; 399 B; leg. 691 A; Menex. 240 D; Meno 90 A; AESCH. Prom. 404-405, e D.M. MACDOWELL, The Law in Classical Athens, London, Thames and Hudson 1978, Comm. ad loc.. Benessere e ricchezza sono le cause principali del vizio secondo PLAT. leg. 691 A; ARISTOT. rhet. 1390 B 33; 1391 A 33-34. Queste concezioni confluirono nell’etica e nella filosofia popolare ellenistica e, per la mediazione stoica, influenzarono il giudaismo e la tradizione cristiana. Si veda anche, a 16 5-6, kaquperhfaniva. 13-14 ej|pic. toli.[kovn]: ‘scritto (in forma) epistolare’, e` neutro sost. di ejpictolikovc. Per le attestazioni di ejpictolikovn come titolo di opera presso gli autori antichi e per il suo significato, cfr. supra, p. 101; p. 102 e nota 162. Per la discussione sulla natura del De liberando a superbia e le diverse letture storicamente proposte dagli studiosi, cfr. cap. II.2.1. 14-15 t.[i i[]dion me;n e[|paqe. n: per questa discussa espressione e i diversi significati che le sono stati attribuiti dagli studiosi, cfr. supra, pp. 14-16. Secondo la mia interpretazione pavccw e` qui utilizzato nel senso di ‘capitare’, ‘accadere’ ben attestato negli autori attici e in Filodemo. Ad Aristone «accadde una cosa davvero singolare» nel trattare soltanto la superbia cagionata dalla buona sorte. Per questo uso del verbo e per i passi corrispondenti cfr. LSJ, s.v., II 1; 3, e supra, p. 16 nota 71. Non si puo` non rilevare in tale espressione una nota sarcastica di Filodemo, simile a quella che si legge in de poe¨m. I, col. 160, 20-23 J., dove il filosofo epicureo impiega un’analogo costrutto: to; me;n o[u\n] | o{moion e[paqe ktl., «gli accadde una cosa simile», cioe`, nella fattispecie, si contraddisse. Ringrazio Richard Janko per la cortese segnalazione di questo passo. t.[i i[]dion, ‘qualcosa di singolare’ o ‘una cosa peculiare’, e` lezione assai probabile del papiro ed espressione sufficientemente attestata in greco con questo o altri significati affini. Cfr., ad es., EPICUR. fr. 37, 42, 9 A.2; PLUTARCH. de comm. not. 1068 B; STRAB. II 2, 3 (= POSIDON. fr. 49 E.-K.), e LSJ, s.v., II 2. Cio` nonostante, Anna Angeli (ap. T. DORANDI, I frammenti papiracei cit., p. 220; p. 222 sg.) ha recentemente suggerito la forma t]i [h{]dion, lettura — 286 —

COMMENTARIO

ugualmente possibile dal punto di vista paleografico, ma inaccettabile per il significato. Secondo la studiosa, infatti, t]i [h{]dion sarebbe un comparativo da cui far dipendere come termine di paragone il genitivo successivo e propone di tradurre ti h{dion e[paqen con «sperimento` un’ingenuita` maggiore», parafrasando il passo nella seguente maniera: «Secondo Filodemo Aristone sperimento` una condizione tale da apparire piu` sprovveduto e sciocco di quanto non siano i superbi dia; tuvchn» (ivi, p. 223). Questa maggiore sprovvedutezza consisterebbe per Angeli nel fatto singolare di essere insuperbito a causa della filosofia. Ma a questa interpretazione si oppone il fatto, gia` di per se´ decisivo, che in greco l’aggettivo hJduvc, quando e` inteso nel senso di ‘amabile’, ‘ingenuo’, si riferisce grammaticalmente sempre a persona e mai, come fa la studiosa, a cose o concetti astratti (ti). I lessici non registrano nemmeno un’eccezione a questa regola. Cfr. LSJ, s.v., II 1. Cio` si ricava del resto dagli stessi passi citati da Angeli (22 33; PLAT. Euthyd. 300 A; Gorg. 491 E; resp. 337 D; 527 D; PHILOD. de morte IV, col. 21, 5 K.) ed e` sempre la studiosa ad affermare che «nella col. 10 del libro Sulla superbia hJduvc non qualifica la persona» (loc. cit.). Se, d’altra parte, si traduce hJduvc, come si dovrebbe fare nel caso specifico, nel senso letterale di ‘dolce’, ‘soave’, Aristone si troverebbe ad aver sperimentato «qualcosa di piu` dolce (sic)» dei superbi a causa della fortuna, un nonsense che nessuno, credo, si sentirebbe di condividere. A cio` si aggiunga, secondo quanto gia` osservato a proposito dell’interpretazione di Kno¨gel (cfr. supra, p. 14; p. 15 e nota 63), che la traduzione di pavccw come ‘provare’, ‘sperimentare’ adottata dalla studiosa, la quale indica sempre e soltanto un’impressione soggettiva, non e` in quanto tale applicabile a un fatto oggettivamente sperimentato (l’esperienza personale del vizio) come quello attribuito ad Aristone da Filodemo secondo Angeli. Questa duplice insormontabile difficolta` e` sufficiente a far emergere il sospetto di un’innecessaria forzatura ermeneutica. Il fatto e` che, se c’era un punto di queste tormentate linee che non era stato piu` messo in discussione dagli editori, questo era i[]dion. Se tale lezione, intuita da Jensen in Philodemi Peri; kakiwn= cit., Index vocabulorum, p. 48, s.v. i[dioc, e proposta espressamente per la prima volta da R. PHILIPPSON, rec. CH. JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiw=n cit., «PhW», XXXII, fasc. XIII, 1912, col. 392, ha sostanzialmente resistito sino ad oggi, e` perche´ essa, oltre ad essere perfettamente plausibile da un punto di vista paleografico, si adatta bene al senso del passo, al contrario di [h{]dion. Rispetto ad essa, quest’ultima integrazione non segna alcun vero progresso, poiche´ oltre a non rispondere a un’autentica necessita` interpre20

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COMMENTARIO

tativa, suscita piu` problemi di quanti aspiri a risolverne. mevn, qui usato in modo assoluto (manca il successivo dev), e` enfatico e serve a rafforzare l’espressione t.[i i[]dion. 15-16 ^ th;n& [t]w. =n. d[i]a; tuvchn uJper|hf[av]nwn: la probabile caduta in questa posizione di ^ th;n& , articolo con valore pronominale e funzione anaforica (il riferimento e` a uJ]perhfanivac del v. 13), e` perfettamente spiegabile a partire da un errore di aplografia per omeoteleuto con il precedente e[|paqe.n o per la presenza, immediatamente dopo, dell’altro articolo [t]w. =n.. Entrambi i tipi di errore sono assai ricorrenti sia nei papiri che nella tradizione manoscritta. Sono debitore di questo suggerimento a Michele Abbate, che ringrazio. 16 [kat]i[d]wvn: part. aor. att. di kaqoravw, che in senso traslato significa ‘esaminare’, ‘considerare’, ‘contemplare’. Cfr. LSJ, s.v., II 3, e, per Filodemo, de ira fr. 8, 15-16 I.; de mus. IV, col. 4, 1; col. 30, 19 N.; rhet. IV (PHerc. 1423), col. 8, 19-20, p. 152 S. I; VII, col. 35, 6, p. 32 S. II. Devo questa nuova importante lettura a una fortunata intuizione di Benedikt Strobel. Si tratta di un participio congiunto dipendente da t.[i i[]dion me;n e[|paqe. n (vv. 14-15), il cui soggetto e` Aristone. Il primo a ipotizzare una simile costruzione sintattica fu Christian Jensen (Philodemi Peri; kakiwn= cit., p. 17) con l’integrazione [qig]wvn, che egli doveva a Siegfried Sudhaus, ma che non si adattava all’ampiezza delle due lacune precedenti a ]wn. La forma [ejk]e. iv.n. wn recentemente proposta da Anna Angeli (ap. T. DORANDI, I frammenti papiracei cit., p. 220; ma p. 222: [ejk]e. iv.[n]wn; si vedano anche P. STORK-T. DORANDI-W.W. FORTENBAUGH-J.M. VAN OPHUIJSEN (eds.), art. cit., p. 68) e` lettura ugualmente possibile dal punto di vista paleografico (anche se la terza lettera appartiene in realta` a un sottoposto), ma pleonastica per il significato. 17-18 diav t.[in’aj]p. o; tauvthc uJper|hf[a]nouv[ntw]n: diav t.[in’aj]p. ov e` una lettura risalente a Marcello Gigante (ap. M. CAPASSO, Epicureismo e Eraclito cit., p. 453 nota 160) che si adatta meglio delle altre integrazioni al numero di lettere cadute in lacuna (almeno tre). Cfr. EPICUR. ep. ad Men. 133 e anche Anna Angeli ap. T. DORANDI, I frammenti papiracei cit., p. 220; p. 223 sg.; P. STORK-T. DORANDI-W.W. FORTENBAUGH-J.M. VAN OPHUIJSEN (eds.), art. cit., p. 68. In precedenza (G. RANOCCHIA, Filodemo e il Peri; tou= koufivzein cit., p. 244) avevo proposto dia; t.[a; uJp]o;. Il verbo uJperhfanevw, in senso intransitivo ‘insuperbire’, ‘essere superbo’ (lat. superbio), e` attestato una volta in HOM. Il. L 694 (probabilmente con diverso significato), ma comincia a essere impiegato diffusamente solo a partire dalla prima epoca ellenistica. Cfr. LSJ, s.v., e anche, a 13 34-35, uJperhfaneuvw. 18-21 Filodemo fa riferimento a una parte precedente del De superbia dove si trattava delle cause di questo vizio (ajlla; kai; | di’a} proe. ivp. [a]men — 288 —

COMMENTARIO

hJmeic= ). Poiche´ qui menziona tra di esse la filosofia (aujth;n filoco|fiv[an]), po-

trebbe trattarsi della col. 6, in cui egli riferiva le accuse comuni sulla superbia dei filosofi e dove, pur respingendo l’opinione popolare su di essi, non escludeva che tale addebito fosse privo di qualche fondamento. Ma nel senso che sarebbe la gravita` (cemnovthc) propria del filosofo a farlo apparire agli occhi della gente pieno di arroganza e di boria. Cfr. supra, p. 17. Non sembra dunque del tutto vero, come pensava CH. JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiwn= cit., p. XIV, che nelle colonne precedenti alla decima Filodemo non avesse affrontato l’eziologia della superbia e in particolare il ruolo della speculazione filosofica nella genesi del vizio. Ma la mancanza di un’affidabile ricostruzione del testo di questa parte del papiro impedisce di stabilirlo con maggiore sicurezza. L’ellissi dell’articolo dopo aujtovc e` comune nei testi filosofici (cfr., ad es., PLAT. resp. 612 C) e non richiede pertanto integrazione. Ringrazio David Sedley per questa osservazione. 22-26 Per la superbia dei filosofi e dei poeti a cui qui allude Filodemo, cfr. supra, pp. 17-20. kwmw/dogravfoc e` attestato solo qui e in PHILOD. de mus. IV, col. 20, 26-27 N.; ANTH. PAL. VII 708 (DIOSC.). ejperavpizon, da ejpirrapivzw, significa ‘colpire’ o ‘attaccare’. Cfr., in questo secondo senso, ATHEN. IV 168 E (= DIOG. BAB. fr. 52 SVF III); X 422 C (SOSICR. fr. 13 G. A.); HERM. ALEX. in Plat. Phaedr. 51, 7; 54, 18; 60, 18; 132, 6 C. Si veda anche W. CRO¨NERT , Memoria Graeca cit., p. 78 sg. 27-30 tina (vv. 27; 28-29) e` acc. sing. m. di tic, ti. Recentemente Anna Angeli (ap. T. DORANDI, I frammenti papiracei cit., p. 224 sg.) ha proposto di considerare i due tina non come oggetto, ma come soggetto nom. neutro pl. di peivcei (v. 26) e peiv*ceien (v. 28) rispettivamente. Si vedano anche P. STORK-T. DORANDI-W.W. FORTENBAUGH-J.M. VAN OPHUIJSEN (eds.), art. cit., p. 71 nota 5. Tale interpretazione, pero`, costringe a pensare che il soggetto di questi due verbi sia diverso da quello del successivo ajpetev|meto, che e` sicuramente Aristone e che come quelli e` coniugato alla terza pers. sing., con il risultato che quest’ultimo rimarrebbe sintatticamente sospeso. La soluzione piu` semplice ed economica e` invece quella di considerare Aristone soggetto di tutte e tre le forme verbali, come e` stato sempre fatto dagli studiosi. L’unico altro modo ammissibile di interpretare i due tina e`, a mio parere, quello di intenderli come accusativi di relazione. ajpeoik^ ovt &wc e` una variante di ajpeikovtwc, ‘inverosimilmente’ o ‘irragionevolmente’, per il quale cfr. LSJ, s.v. Il verbo ajpotevmnw, ‘tagliare via da’, ‘dividere’, alla diatesi media equivale a ‘ritagliarsi’ o ‘riservarsi’. Cfr. LSJ, s.v., II 1. La lezione ajpetev|meto, ormai invalsa tra gli studiosi, esprime bene la critica mossa da Filodemo ad Aristone di aver circoscritto la sua trattazione al caso della superbia cagionata dalla fortuna (vv. 14-26). — 289 —

COMMENTARIO

30-31 kefalaiwvcomai ta;c | dunavmeic aujtwn= : per altri usi di kefalaiovw (‘ricapitolare’, ‘trattare sommariamente’, da kefavlaion, ‘punto fondamentale o saliente’) in contesti filosofici, cfr. ARISTOT. metaph. 1013 B 30; magn. mor. II 9, 1; PLAT. resp. 576 B; DIOG. LAE¨RT. VII 125 (= CHRYSIPP. fr. 295 SVF III); per il suo valore in Filodemo e in particolare nel nostro passo, supra, p. 20 e nota 92. Che l’espressione ta;c | dunavmeic aujtwn= si riferisca al contenuto dello scritto che il filosofo epicureo si accinge a parafrasare e non, come voleva A. GERCKE, Ariston cit., p. 201, a [t]w. = n. d[i]a; tuvchn uJper|hf[av]nwn (vv. 15-16), e` confermato dal parallelo con PHILOD. de oec. col. 7, dhv, diovti kai; pro;c | [ta;] p[lei]= cta twn= Qeofravctou | [dieilev]37-41 J.: d]hlon = gmeqa taic= dunavme|[cin] ejkeiqen kekefalai[w]mev|na, ktl. Qui, infatti, il nesso = taic= dunavme|[cin] ... kekefalai[w]mev|na si riferisce inequivocabilmente al contenuto della sintesi dell’Economico senofonteo effettuata da Filodemo nel nono libro del medesimo trattato Sui vizi (Peri; oijkonomivac). Si vedano E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 218; p. 302 sg. e nota 484. duvnamic nel nostro passo equivale a ‘implicazione’, ‘significato’. Cfr. anche PHILOD. de poe¨m. V (PHerc. 1425), col. 34, 7 M.; rhet. II (PHerc. 1672), col. 12, 11-12 L. (p. 105 S. I); III (PHerc. 1506), fr. 10 in fine, p. 199 S. II; de sign. col. 31, 12 D.; LYS. or. 1, 7; PLAT. Crat. 394 B, e LSJ, s.v., III A. Ringrazio Michael Frede per la discussione di questo punto. 31-34 ejavn p[o]|te cunaicqavnhtai metew|r. izovm. e[n]oc, metarivptein | th;n d[iavnoi]a. n ktl.: dopo la premessa filodemea (vv. 11-31), ha qui inizio la prima sezione del De liberando a superbia (10 31-16 29), che per il suo spiccato carattere esortativo si e` convenuto di chiamare parenetica. Da questo momento in poi sino alla conclusione del libro e` Aristone a parlare, sia pure per bocca di Filodemo e sebbene piu` volte sintetizzato e interrotto da brevi commenti dovuti a quest’ultimo. Il soggetto di cunaicqavnhtai, di metarrivptein e di tutte le successive infinitive che introducono ciascuna esortazione e dissuasione sino alla fine della sezione e` inespresso ed e` sempre alla terza persona singolare. Puo` trattarsi sia di un soggetto impersonale e generico che di un personaggio storicamente determinato. In ogni caso non puo` essere un interlocutore fittizio, uno stratagemma retorico della diatriba che, come abbiamo visto (supra, p. 62 sg.), risulta estraneo al nostro scritto. Quanto alle infinitive medesime, si e` gia` mostrato come esse debbano dipendere da un verbum dicendi o voluntatis e abbiano valore esortativo, iussivo o proibitivo. Cfr. supra, p. 22. metew|r. izovm. e[n]oc e` part. pres. med. di metewrivzw, ‘innalzare’, ‘esaltare’. Il significato traslato di ‘essere esaltato’ o ‘esaltarsi’ proprio del nostro passo, il quale indica lo stato passionale di sovreccitazione dovuto a un improvviso colpo di fortuna, ritorna anche in ARISTOPH. Av. 1447; POLIB. III 70, 1; DIOD. SIC. XI 32. Cfr. LSJ, s.v., II. — 290 —

COMMENTARIO

Cfr. anche 15 7-8 e W. KNO¨GEL, op. cit., p. 13 nota 1; p. 58 sg. nota 2. Il concetto di metewricmovc aveva un posto anche nell’etica epicurea. Si vedano, ad es., R. PHILIPPSON, Papyrus Herculanensis 831, «AJPh», LXIV, 1943, pp. 148-162 = R. PHILIPPSON, Studien zu Epikur und den Epikureern, hrsg. von C.J. Classen, Hildesheim-Zu¨rich-New York, Olms 1983, pp. 284298; D. GIGANTE, Scetticismo e Epicureismo cit., pp. 71-73. metarrivptw, letteralmente ‘rovesciare’ o ‘portare’, qui equivale a ‘rivolgere’ o ‘riportare (il pensiero)’ a qualcosa. Cf. LSJ, s.v., II. 35 tap]einwvceic: in questo senso metaforico di ‘umiliazioni’ o ‘prostrazioni’, dovute nel nostro caso ai rivolgimenti della sorte (vv. 35-36: uJpo; | thc= tuvchc), cfr. SAT. vita Eur. fr. 37, col. 1 S.; GAL. de Hipp. et Plat. plac. III 5, 332 D. (= ZENO CIT. fr. 210 SVF I); POL. IX 33, 10; DIOD. SIC. II 45; XI 87; PLUTARCH . Arist. 7; PHILOD . de adul. II (PHerc. 1457), col. 4, 22-23 K.; VT (Sept.) Gen. 29, 32. Si vedano LSJ, s.v. tapeivnwcic, 3, e W. GRUNDMANN, s.v. tapeinovc ktl., in Grande Lessico cit., VIII, col. 834. Cfr. anche Comm. a 14 40-41. Col. 11 2-5 eJauto;n kou]|fivcai tou= pi[krou= toiouvtou] | flevgmatoc. ejp[ivp]an* [h] katav] | ti mevroc: il flegma e` uno dei quattro umori contenuti nel corpo umano secondo Ippocrate (cfr., ad es., de nat. hom. 4) oltre al sangue, alla bile gialla e a alla bile nera. La teoria dei quattro umori ebbe grande successo nell’antichita`, specialmente in Platone, tra i Peripatetici e tra gli Stoici. Dal primo (Tim. 85 B; cfr. anche 83 C-D) il flegma sottile e salmastro (ojxu; kai; aJlmurovn) e` considerato la causa di tutte le malattie. In questo egli e` seguito da Aristotele e Teofrasto, dai quali il flegma e` detto essere dolce (glukuv, cfr. ARISTOT. metaph. 1044 A 18-22; GAL. adv. Iulian. 4, 18 A, p. 259 W.), mentre nel nostro passo e` definito amaro (pikrovn). In particolare, secondo Aristotele (probl. 862 B 28; cfr. anche PLATO resp. 564 B), esso si distingue dalla bile in quanto questa e` calda mentre quello e` freddo. Furono i filosofi stoici e soprattutto Crisippo a collegare organicamente questa teoria al problema dell’insorgenza delle passioni. Cfr. DIOG. LAE¨RT. VII 17 (fr. 286 SVF I); GAL. in Hipp. de humor. lib. I, 16, p. 174 K. (fr. 420 SVF III); CIC. tusc. disp. IV 23 (fr. 424 SVF III); SEN. ep. 94, 17 (fr. 359 SVF I); NEM. de nat. hom. 21 (fr. 416 SVF III); GAL. adv. Iulian. 4, 18 A, p. 259 W. (fr. 771 SVF II). Anche nel nostro passo, benche´ ampiamente ricostruito (ma kou]|fivcai e flevgmatoc. sono sicuri e pi[krou= assai probabile), la presenza di flegma amaro nell’organismo e` collegata in modo causale al metewricmovc del superbo a cui si e` fatto riferimento alla fine della colonna precedente (10 32-33) — 291 —

COMMENTARIO

e pertanto il numero di linee cadute all’inizio della col. 11 doveva essere assai esiguo. Si veda anche W. KNO¨GEL, op. cit., p. 58 nota 2. Per Aristone, dunque, la riflessione retrospettiva sulle disgrazie del passato e` un mezzo valido per alleggerirsi (eJauto;n kou]|fivcai) del flegma amaro che e` la causa patogena del male. Di tale flegma ci si puo` liberare in modo totale o parziale (ejp[ivp]an* [h] katav] | ti mevroc), a seconda dell’entita` delle brutte esperienze accumulate e del grado di incisivita` con cui esse si sono impresse nella memoria. Come in tutti gli altri casi in cui questo verbo compare nel nostro scritto (10 13; 11 29-30; 14 20-21), koufivzw e` anche qui costruito con il genitivo della cosa di cui ci si ‘alleggerisce’ o ‘libera’. Per ejp[ivp]an* , un suggerimento che devo a Holger Essler, cfr. anche PHILOD. de dis III, fr. 89, 13 D. 5-6 [cu]n. [perila]m|bavnein pr[o;] ojf[qal]mw. = [n: per cumperilambavnw, ‘abbracciare’, ‘racchiudere’, composto doppio di lambavnw, cfr. PHILOD. de dis I, col. 19, 14 D.; EPICUR. de nat. XXVIII fr. 13, col. 9 sup., 4 S., e per la mancata assimilazione della nasale dentale, anche 19 13; 23 17-18; 23 25. Sulla tecnica del ‘‘porre davanti agli occhi’’, cfr. supra, p. 41 sg. 7-8 aj.[n]e.[pif]a.ne;c kai; | ojxuvc[t]r.ofo.[n: il primo aggettivo (‘indistinto’, ‘oscuro’), pur essendo integrato, si adatta bene al senso del passo. Per esso cfr. anche IOS. ant. Iud. XVII 10, 7; PTOL. tetr. 168. Il secondo aggettivo (‘che rapidamente gira’), da oxuvc ‘acuto’, ‘rapido’, e ctrevfw, ‘girare’, risalente a un integrazione di Jensen, e` attestato solo qui e non si trova nei lessici. Cio` nondimeno esso costituisce un supplemento piu` sicuro del precedente. Per la forma, sembra essere di origine poetica; per il senso, si adatta assai bene alla concezione che di tuvch avevano i Greci. Essa era considerata una forza irrazionale ed era equiparata a una divinita` che gira continuamente su se stessa distribuendo favori e avversita` in modo del tutto casuale e imprevedibile. Emblematica, in particolare, e` l’immagine che se ne ricava dalle tragedie di Euripide. Per questo Aristone potrebbe qui risentire dell’influenza del lessico tragico, come fanno pensare anche le linee immediatamente successive (vv. 12-14), dove si riporta un celebre trimetro di Euripide. 8-9 ej]p* i; Pavgou po|r* euomevno* uc: questa espressione («salendo al Colle»), sottintende probabilmente Areiv j ou e rimanda al ‘Colle di Ares’ o Areopago, sede dell’omonimo consiglio, una delle istituzioni piu` antiche e prestigiose di Atene. I suoi membri, cooptati a vita, godevano di grande autorita` e di ampi poteri politici e giudiziari, anche dopo la drastica riforma di Efialte (462/1 a.C.). Vi accedevano di diritto gli arconti uscenti e incensurabili. Lo status di areopagita era considerato un ruolo di altissimo profilo morale e sociale. Il sost. pavgoc e` usato senza l’aggettivo Areioc [ soltanto qui. Si tratta, nella mia interpretazione (che risale a un’intuizione di C. GALLAVOTTI, rec. KNO¨GEL cit., p. 32 sg.), del ‘Colle’ per antonomasia, l’Areopago ap— 292 —

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punto. L’altra possibilita` e` quella di pensare che lo scriba abbia omesso l’aggettivo per errore. In tal caso esso va ripristinato nel testo. ‘Salire al Colle’ qui significa ‘divenire membro dell’Areopago’. Con il medesimo valore e` [ Pavgon ajnabhnai attestata l’analoga espressione eijc to;n Areion = , ‘salire all’Areopago’, in ISOCR. orr. 7, 37; 12, 154. Cfr. LSJ, s.v. Areioc [ pavgoc. La traduzione di questo passo (per il resto correttamente ristabilito da Jensen presso Kno¨gel) come ‘camminare sul ghiaccio («auf Eis gehen»)’ dello stesso Kno¨gel (op. cit., p. 11), e` alquanto bizzarra. Una possibile alternativa e` quella di intendere l’espressione in senso metaforico (it.: ‘camminare su un terreno scivoloso’). Ma ejpi; pavgou poreuvomai con questo valore e` del tutto sconosciuto ai lessici. Si veda ancora C. GALLAVOTTI, rec. KNO¨GEL cit., p. 32 sg. Come comprese questo studioso, ej]p* i; Pavgou po|r* euomevno* uc e` part. attributivo (e non sostantivato: manca l’articolo sostantivante) ed e` concordato con il soggetto ellittico di [cko]|p* e* [i]= n (vv. 9-10), rappresentato dal superbo destinatario della parenesi aristonea, qui eccezionalmente al plurale. 9-14 Il personaggio di cui si parla e` sicuramente Dionigi I il Vecchio (c. 432-367 a.C.), tiranno di Siracusa, e non Dionigi il Giovane (tiranno dal 367 al 357 e dal 346 al 343), come voleva F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 56, ed e` lo stesso di cui alle linee immediatamente successive (vv. 14-17) e a 13 19-23. Sul conto di Dionigi il Vecchio circolavano nell’antichita` numerosi aneddoti nei quali egli era indicato come modello della pericolosita` e insicurezza del governo tirannico. Nel nostro scritto questo personaggio e` citato sempre come esempio positivo di saggezza e umanita`. Il verso qui menzionato, incomprensibile ove letto da solo, e` preso dall’Ino di Euripide (fr. 420, 1 TrGF V 1). Se l’eccessiva sintesi sia dovuta allo stesso Aristone o piuttosto, come di consueto, a Filodemo, non e` possibile dire. Il passo completo, che era una celebre descrizione dell’instabilita` della sorte, e` riportato di seguito:

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oJrac=/ turavnnouc dia; makrw=n hujxhmevnouc wJc mikra; ta; cfavllonta, kai; miv’hJmevra ta; me;n kaqei len uJyovqen, ta; d’h\r’a[nw. = uJpovpteroc d’oJ plou=toc: oi|c ga;r h\n pote, ejx ejlpivdwn pivptontac uJptivouc oJrw.=

Cfr. anche STOB. IV 41, 1 H.; PCairo 65445 (2642 P2), 126-129; PHILOSTR. vita Apollon. VII 5; PS.-PLUTARCH. cons. ad Apollon. 104 A (DEM. PHALER. fr. 79 W.); LYD. de mens. IV 7; PHIL. de vita Mos. I 31; de somn. I 154, e W. KNO¨GEL, op. cit., p. 12 nota 3. øeØ^ h &ujxh. [m]ev|nouc di P conferma solo in parte la congettura hujxhmevnouc di Grozio (ap. Gaisford) e Gataker al testo di Stobeo, poiche´ all’inizio della sequenza si trova un sicuro e e l’h. prima — 293 —

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della lacuna e` assai incerto (possibili anche e soprattutto a e l). Non e` escluso che la lezione autentica del papiro fosse eujxa. [m]ev|nouc, part. aor. di eu[comai, ‘pregare’, ‘vantarsi’, voce extra metrum imputabile forse a un errore dello scriba. 14-19 L’estrema sintesi operata in questo punto da Filodemo sul testo originale non consente di comprendere a quale episodio della vita di Dionigi il Vecchio si riferisca qui Aristone. Forse si tratta dello stesso aneddoto riferito a 13 19-23, qui semplicemente accennato. In ogni caso il senso del passo e` il seguente: la brutta esperienza che ebbe Dionigi davanti all’arroganza di un certo tale lo indusse a diventare egli stesso piu` mite (m]et*r[i]wvter[o]c. ). Il meccanismo psicologico descritto nel tiranno e` quello per cui si rimuove da se stessi quegli atteggiamenti arroganti di cui si e` sperimentato in altri il fastidio. dietev* [qh] e` aor. pass. di diativqhmi, che in questa diatesi significa ‘essere disposto in un certo modo’, ‘avere un certo stato o disposizione d’animo’. Seguito da provc e l’acc. si trova qui e in PLAT. Theaet. 151 C; ISOCR. or. 8, 14. Cfr. LSJ., s.v., II. k . a\/ta e` crasi per kaiv ed ei\ta. m]et*r[i]wvter[o]c. e` comparativo da mevtrioc ‘umano’, ‘mite’, qui da intendere come disposizione interiore di quiete derivante dall’assenza di uno stato passionale. Cfr. anche 16 13 e ARISTOPH. Plut. 245; THUC. VI 89; PLAT. leg. 816 B; AESCHIN. or. 3, 170; XEN. Cyr. V 2, 17; EUR. Iph. Aul. 543; fr. 967, 2 TrGF V 2. aujtovc si riferisce a Dionigi in entrambi i casi in cui esso e` impiegato (vv. 15; 19). gravf.[etai] ‘e` dipinto, rappresentato come in una pittura’, rimanda verosimilmente al ritratto del tiranno effettuato dagli storiografi. Ringrazio Richard Janko e David Sedley per i loro suggerimenti in merito all’interpretazione di queste linee. 19-25 L’episodio di Dione di Siracusa (c. 408-354 a.C.), cognato e poi genero di Dionigi il Vecchio, e Pteodoro di Megara e` raccontato da PLUTARCH. Dion. 17, 9-10: levgetai dev pote to;n Divwna tou= Megarevwc Ptoiodwvrou deovmenon ejpi; th;n oijkivan ejlqein: = h\n d’wJc e[oike tw=n ploucivwn tic kai; dunatw=n oJ ajccoliwn= kai; Ptoiovdwroc: o[clon ou\n ejpi; quvraic ijdw;n oJ Divwn kai; plhqoc = ducevnteukton aujto;n kai; ducprovcodon, ajpidw;n pro;c tou;c fivlouc ducceraivnontac kai; ajganaktou=ntac ‘‘tiv tou=ton’’ e[fh ‘‘memfovmeqa; kai; ga;r aujtoi; pavntwc ejn Curakouvcaic o{moia touvtoic ejpoiou=men’’, e da VAL. MAX. IV 1, ext. 3: Patria

pulsus (sc. Syracusanus Dio) a Dionysio tyranno Megaram petierat ubi cum Theodorum principem eius urbis domi convenire vellet neque admitteretur, multum diuque ante fores retentus comiti suo ‘‘patienter hoc ferendum est’’ ait: ‘‘forsitan etiam et nos cum in gradu dignitatis nostrae essemus, aliquid tale fecimus’’. Qua tranquillitate consilii ipse sibi condicionem exilii placidiorem reddidit. I due costrutti provc + acc. che si evincono ai vv. 20-21 e 22-23, rispettivamente, hanno diverso valore, di relazione il primo, di ter— 294 —

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mine il secondo. La loro diversa funzione, anche a cosı` breve distanza l’uno dall’altro, non costituisce un grande problema, diversamente da quanto pensava W. SCHMID, Nugae Herculanenses, «RhM», XCII, 1943/1944, p. 55. Del resto la nuova lettura [pl]e[iv]w al v. 21 esclude definitivamente l’integrazione [ejlqwvn] di Sauppe riproposta da Schmid. [pl]e[iv]w c.rovnon, ‘per diverso tempo’, ritorna anche altrove in Filodemo. Cfr. de ira col. 9, 25; [de lib. dic. col. 5 B, 7]. Come si desume dai passi paralleli, l’avverbio di luogo ejke* i,= ‘cola`’, si riferisce a Siracusa, patria del protagonista. Con queste parole Dione, in esilio ad Atene dal 366, richiamava per analogia la sua antica condotta in qualita` di influente uomo politico siracusano. 26 eujk[l]hrivac: il termine compare in Aristone (cfr. anche 13 37) per la prima volta ed e` testimoniato altrove solo in epoca tarda: cfr. DION. HAL. ant. Rom. III 14; AEL. de nat. an. I 54. Cfr. anche PHILOD. rhet. IV (PHerc. 1007), col. 14 A, 19-20, p. 196 S. I. 27 procepirhto[r]e.[uv]e. i[n]: hapax legomenon composto da provc, preverbio rafforzativo, e ejpirrhtoreuvein, ‘esporre in modo retorico’, attestato in ATHEN. XIII 590 E; ACH. TAT. VIII 8, 4; LUC. quom. hist. conscr. 26. Il termine e` importante in quanto richiama la violenta invettiva contro i retori scagliata dai Cinici e dagli scrittori diatribici, che consideravano i retori e gli oratori «come maestri per eccellenza nell’arte della tronfiezza e della vanita` [...]. Questa gente, in effetti, rappresentava l’incoerenza radicale tra dottrina e vita, tra parole e azioni» (P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit., p. 131). Per loro la retorica rappresentava un serio ostacolo allo sviluppo morale e un’arte deleteria che disponeva i suoi cultori alla presunzione e all’inganno (ibid.). Del resto, la polemica contro i retori e gli oratori era un luogo comune molto diffuso nella filosofia popolare e non solo in essa. Numerose sono le testimonianze in proposito. Si vedano, ad es., TEL. frr. I 4; III 28; VII 57; 60 H., e E.N. O’NEIL (ed.), Teles, the Cynic Teacher, Missoula (Mont.), Scholars Press 1977 («Society of Biblical Literature, Texts and Translations» 11, «Graeco-Roman Religion», 3), p. 73 nota 7; B. SCHOULER, Le de´guisement de l’intention dans la rhe´torique grecque, «Kte`ma», XI, 1986, pp. 257-272. Anche Aristone di Chio sostenne una polemica contro i retori e la retorica, arte che, insieme alla dialettica, egli rifiutava come inutile e dannosa. Cfr. supra, p. 186 sg.; p. 201 e nota 540. 29-30 kouf.ivze[in] | thc= ijccnovthtoc pefuk[uivac: il passo in questione non e` di facile intellezione (Jensen lo pose tra cruces). Il messaggio e` tuttavia sufficientemente chiaro. Aristone vuole invitare il superbo a sfrondare i successi (eujk[l]hrivac) del passato da quei significati soggettivi di cui egli indebitamente li carica, per riportarli alla naturale secchezza (ijccnovthtoc pefuk[uivac) del fatto oggettivamente considerato. kouf.ivze[in], ancora una — 295 —

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volta accompagnato dal genitivo di separazione, sembrerebbe qui essere impiegato in senso negativo per indicare il possibile rischio di ‘alleggerire’, cioe` privare i fatti oggettivi della loro semplicita`. Per esso si vedano anche 10 13; 11 2-3; 14 20. Per ijccnovthc, cfr. anche PHILOD. rhet. IV (PHerc. 1007), col. 4, 3-4, p. 165 S. I, e in senso stilistico (con riferimento al gevnoc ijccnovn), PS.-DEM. PHALER. de eloc. 14; DION. HAL. de vet. cens. V 1. 31-32 tape[inou]|mevnouc me;n ejxh=ren: il participio passivo tape[inou]|mevnouc, da tapeinovw, letteralmente ‘abbassare’, ‘impicciolire’, qui significa ‘abbattuti’, ‘demoralizzati’ e si riferisce allo stato d’animo degli Ateniesi in alcuni gravi frangenti della Guerra del Peloponneso. Cfr. anche 15 6-7; 22 5-6 e, per i riferimenti storici, THUC. II 65, 9 (oJpovte goun= ai[cqoitov ti aujtou;c para; kairo;n u{brei qarcou=ntac, levgwn katevplhccen ejpi; to; fobeicqai, kai; dediovtac au\ = ajlovgwc ajntikaqivcth pavlin ejpi; to; qarcein= ) e PLUTARCH. Per. 15, 2. ejxaivrw e` di senso opposto rispetto a tapeinovw e indica il rimedio da applicare alla di-

sperazione: quel ‘sollevare’ e ‘incoraggiare’ gli animi che le fonti attribuiscono a Pericle. Si vedano anche tapeinovc (14 40-41; 15 21), tapeivnwcic (10 35) e W. GRUNDMANN, art. cit., coll. 831-834. 33-34 mega]l. aucoumevn[ouc de;] | cu. ne. v[ctei]l. e: mega]l. aucoumevn[ouc, part. med. da megalaucevw, ‘menar vanto’, ‘fare lo spavaldo’, a sua volta dipendente da megalauvchn (mevgac e aujchvn), ‘che tiene alto il collo’, e` attestato anche in AESCH. Ag. 1528; POL. VIII 21, 11; X 13, 10; VT (Sept.) Ez. 16, 50; PHIL. de mut. nom. 128-129; ANTH. PAL. V 272 (AGATHO); DIOD. SIC. XV 16; PLAT. Alc. I 104 C; resp. 395 D; APP. bell. civ. I 13. Cfr. LSJ, s.v. megalaucevw. Come ha ben messo in rilievo R. SORABJI, Emotion and Peace of Mind. From Stoic Agitation to Christian Temptation, Oxford, OUP 2000, p. 202 e nota 59, nella terminologia impiegata qui e nelle due linee precedenti si puo` cogliere una suggestiva eco della dottrina stoica dell’espansione e contrazione dell’anima in preda alla passione. Va tuttavia precisato che nel caso specifico i verbi ejxaivrw e cuctevllw si riferiscono alla cura del vizio, piu` che alla sua fenomenologia. Essi, cioe`, non designano lo stato dell’anima all’insorgere della passione, ma i rimedi utilizzati da Pericle per orientare l’opinione pubblica dei suoi concittadini in alcuni difficili frangenti della storia ateniese. Per tale ragione non e` escluso che i due vocaboli siano qui intesi in senso generico. La medesima coppia di termini e` invece impiegata in senso filosoficamente pregnante ai vv. 9-10 della colonna successiva. Cfr. Comm. ad loc. 34-36 Aristone consiglia al superbo di non progettare imprese grandiose, il cui eventuale successo lo gonfierebbe di vieppiu` boria. ejpinoevw, ‘progettare’, ‘avere in mente’, ‘escogitare’, e` attestato, sia pur con diverso valore, anche in PHILOD. de poe¨m. V (PHerc. 1425), col. 27, 32 M.; de morte IV, — 296 —

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col. 36, 31 K.; EPICUR. ep. ad Herod. 40, 4; 56, 4; 68, 10; frr. [24, 46, 16]; 37, 44, 4-5; 37, 47, 10 A2. k.a.[l]a; k* ajgaqav e` neutro pl. sost. di kalo;c kajgaqovc. Nel nostro passo e` riferito a cose e significa ‘imprese splendide, mirabili’. Cfr. LSJ, s.v.. uJperqarr. w=n e` l’ennesimo hapax, da uJperqarrevw (atticismo per uJperqarcevw), ‘essere troppo sicuro di se´’. Col. 12 4 ejnqouci]acmovn: il sostantivo, da ejnqouciavzw, ‘essere posseduto o ispirato da un dio’, ‘cadere in estasi’, e` qui insolitamente impiegato nel senso di ‘entusiasmo’, ‘frenesia’. Il riferimento e` a quello stato di eccitazione che segue al successo e, in particolare, al possesso della ricchezza (3-4: di|[a;] th;n [kth=cin, ma quest’ultimo termine e` integrato). Si veda anche il parallelo a[logoc ejnqouciacmovc, ‘eccitazione irrazionale’, di PHILOD. de ira col. 32, 32-33 I. 8 uJperevcontac: cfr. Comm. a 13 9-10. 9-10 to;] m. e;n ejxaivrei, to; de; cuctevl|l[ei]: il richiamo ai vv. 31-34 della colonna precedente, dove si impiegano gli stessi due verbi in riferimento a Pericle e agli Ateniesi, e` evidente e dimostra la stretta connessione logica tra essa e l’inizio della nostra colonna. Ma in questo caso, a differenza di quello, i due termini sono utilizzati per descrivere la fenomenologia del vizio, oltre alla sua terapia. Aristone vuol dire che il confronto con gli uomini di livello sociale inferiore suscita nello stolto una reazione di vana esaltazione (ejxaivrei), mentre quello condotto con quanti sono piu` potenti e importanti di lui ha per effetto una forma di depressione o abbattimento (cuctevl|l[ei]) dell’anima. Entrambe le reazioni sono di tipo passionale e pertanto sono intrinsecamente negative. Ma la seconda, nelle intenzioni dell’autore, puo` essere utilizzata per controbilanciare la prima. Si tratta cioe` di un rimedio da applicare nel caso in cui l’esaltazione che segue ai successi della vita si impadronisca dell’anima. Per questo motivo i due verbi sembrerebbero qui evocare i termini impiegati dagli Stoici per indicare rispettivamente l’elevazione (ejpaivrw, e[parcic) e contrazione (cuctevllw, cuctolhv) dell’anima in preda alla passione. In particolare, noi sappiamo che il piacere era da essi equiparato a una elevazione (e[parcic o metewricmovc. Per metewrivzw cfr. 10 32-33) o dilatazione (diavcucic) dello spirito di fronte a un bene apparente e il dolore a una contrazione (cuctolhv) o depressione (ptw=cic o tapeivnwcic) dello stesso in presenza di un male presunto. Cfr. GAL. de Hipp. et Plat. plac. IV 2, 366-367 D. (fr. 463 SVF III); IV 3, 377-378 D. (deest in SVF); IV 7, 419-421 D. (fr. 466 SVF III); V 1, 429 D. (frr. 209 SVF I; 461 SVF III); STOB. ecl. — 297 —

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II 88, 6 W. (fr. 378 SVF III); ecl. II 90, 7 W. (fr. 394 SVF III); EPICT. diss. I 11, 29; PHIL. de vit. Mos. II 139 (fr. 392 SVF III); ANDRON. Pepi; paqwn= I, p. 223 G. T. (fr. 391 SVF III); e A.A. LONG-D.N. SEDLEY (eds.), op. cit., I, p. 420 sg. 13-14 paru]pomimn[hvc]ke. |c. [q]a. [i: il verbo parupomimnhvckw, ‘ricordare in aggiunta’, che regge il gen., e` attestato solo qui (al medio), a 14 3-4 (all’attivo) e in POL. V 31, 3 (con diverso significato). 15-17 fqovnou ..., [o}c] bojcfqalmiva tiv[c | ej]c. t.[i]n yuch=c: l’invidia e` paragonata all’oftalmia, termine medico che indica una malattia degli occhi consistente in una forma di insofferenza nei confronti di una luce troppo intensa (vedi LSJ, s.v. ojfqalmiva, I). In modo analogo anche l’invidioso e` detto essere insofferente verso i successi del superbo. La similitudine e` ampliata con l’ausilio di un esempio, quello della mantellina splendente (per essa cfr. infra, ai vv. 17-20), la cui lucentezza doveva essere un autentico tormento (ejnoclei)= per coloro che erano affetti da questa patologia. Il paragone con l’oftalmia e` ripreso da PLUTARCH. de inv. et od. 537 A: e[oiken oJ me;n fqovnoc ajorv ictoc ei\nai, kaqavper ojfqalmiva pro;c a{pan to; lampro;n ejktaraccovmenoc, e quaest. conv. 681 D-682 A. L’impiego di vocaboli presi dal campo del-

la medicina era molto comune nella filosofia popolare, nella diatriba e presso i filosofi, soprattutto nel Cinismo e nello Stoicismo. Cfr. supra, cap. II.5.1. In particolare, la terminologia della vista usata per riferirsi alle passioni si ritrova nei frammenti di Aristone di Chio, per il quale si veda SEN. ep. 94, 5: si quid oculis oppositum moratur aciem, removendum est; illo quidem obiecto operam perdit qui praecipit ‘sic ambulabis, illo manum porriges’. Eodem modo ubi aliqua res occaecat animum et ad officiorum dispiciendum ordinem inpedit, nihil agit qui praecipit ‘sic vives cum patre, sic cum uxore’; 18: Haec ab Aristone dicuntur; cui respondebimus ad singula. Primum adversus illud quod ait, si quid obstat oculo et inpedit visum, debere removeri, fateor huic non opus esse praeceptis ad videndum, sed remedio quo purgetur acies et officientem sibi moram effugiat; natura enim videmus, cui usum sui reddit qui removit obstantia. L’uso di paragoni con la facolta` visiva ritorna anche altrove nel filosofo di Chio. Cfr. DIOG. LAE¨RT. VII 162 (fr. 346 SVF I); PLUTARCH. de virt. mor. 440 F (fr. 375 SVF I). Ringrazio Anna Maria Ioppolo per i suoi suggerimenti su questo punto. 17-20 Cfr. DEMOSTH. or. 36, 45. La clanivc era una mantella di lana fine indossata sia da uomini che da donne ed era considerata segno di mollezza. I Cinici, gli Stoici e gli autori diatribici la contrapponevano al rude mantello del filosofo, il cosiddetto trivbwn, simbolo della via cinica ed emblema per eccellenza della vita filosofica. Cfr. ad es., DIOG. LAE¨RT. VII 5 (fr. 5 SVF I); VI 91 (fr. 272 SVF I); ATHEN. V 211 D-215 B; TEL. frr. II 16; IV A 40-41; VI 53-54 H.; PLUTARCH. Demetr. 41, 7; de tranq. an. 466 E; 467 D (fr. 277 SVF — 298 —

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I); de cap. ex inim. utilit. 87 A (fr. 277 SVF I); de virt. et vit. 100 D; de Alex. Magni virt. aut fort. 332 A; de Is. et Osir. 352 C; an vitios. ad infelic. suff. 499 C ; de exil. 603 D-E ; ad princ. inerud. 782 B ; de vit. ae ¨re alieno 831 F; de esu carn. I 995 D; CRAT. THEB. V H 81 SSR; MUS. RUF. or. 16, 102; EPICT. diss. III 1, 24; 22, 10; 22, 48; IV 8, 5-6; 12; 15; 34; 11, 34; DIO CHRYS. orr. 32, 22; 47, 25; 66, 2; 26. gega* [n]wmevnh e` part. pres. di ganovw, ‘rendere brillante, lucente’, per il quale si veda anche PHILOD. de morte IV, col. 13, 10-11 K. La geganwmevnh clanivc, espressione attestata soltanto nel passo in questione, doveva essere un capo di vestiario assai raffinato, il cui tessuto era lavorato con tecniche speciali che lo rendevano particolarmente candido e splendente. ko* u* [f]ovteron, ‘piu` lievemente’, ‘in maniera piu` sopportabile’, e` una fortunata congettura di David Sedley da lui comunicatami in forma privata, che oltre ad adattarsi singolarmente bene alle tracce del papiro e dei disegni (cfr. appar. crit. ad loc.), risolve il problema logico posto dalla precedente lettura kw[f]ovteron di Jensen, in questo contesto del tutto incomprensibile. 21-22 ajnabal|lovmenoc: per questo verbo nel valore di ‘gettarsi in spalla’ (sc. il mantello), cfr. PLAT. Theaet. 175 E 6-7. 23-25 to;n fqonero;n | lupei = me;n t.ajllovtria tw=n aj|gaqw=n: si tratta della definizione classica di questa passione, molto comune nella filosofia popolare e nella diatriba e quale si ritrova anche in Aristotele e nelle fonti stoiche. Cfr., per gli autori di diatribe, STOB. fl. III 38, 50 (BION BORYSTH. F 47 A K.) = Gnom. Vat. 158 (BION BORYSTH. F 47 B K.) = Gnom. Par. 242 (BION BORYSTH. F 47 C K.) = ARSEN. Viol. 150 W. (BION BORYSTH. F 47 D K.) = ANT . MEL . loci comm. I 62, PG 136, col. 969 B (BION BORYSTH. F 47 E K.) = PS.-MAX. CONF. loci comm. 54, PG 91, col. 962 B (deest in Ihm = BION BORYSTH. F 47 F K.); PLUTARCH. de recta rat. aud. 39 E 3-4; STOB. fl. III 38, 32 (= PLUTARCH. fr. 155 S.); TEL. fr. VII 56 H.; PHIL. de virt. 116; EPICT. diss. II 12, 7-8; PLUTARCH. apophth. Lac. 215 F; de curios. 518 C; de Stoic. repugn. 1046 B; per Aristotele, eth. nic. 1108 B 1-5; eth. eud. 1221 A 38-40; 1233 B 18-20; magn. mor. I 27, 2, e, per gli Stoici, DIOG. LAE¨RT. VII 111 (fr. 412 SVF III); STOB. ecl. II 92, 7 (fr. 413 SVF III); ANDRON. Peri; paqwn= II, pp. 225; 227 G. T. (fr. 414 SVF III); CIC. Tusc. disp. III 21: invidentia aegritudo est ex alterius rebus secundis; IV 17 (fr. 415 SVF III); NEM. de nat. hom. 19 (fr. 416 SVF III); PLUTARCH. de stoic. repugn. 1046 B (fr. 418 SVF III). t.ajllovtria e` crasi per ta; ajllovtria, ‘le cose altrui’. twn= aj|gaqwn= va inteso come genitivo partitivo di t.ajllovtria con il significato complessivo di ‘gli altrui beni’. 26 ajnapt[e]ru[givz]ontav: participio da ajnapterugivzw, ‘prendere il volo’, attestato solo qui in senso traslato e, in senso letterale, in AEL. de nat. an. IV 30. Questa metafora, presa dal mondo dei volatili, serve a illustrare — 299 —

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la stolta esaltazione del superbo che di fronte ai suoi successi sembra spiccare il volo e toccare il cielo con un dito. Cfr. anche, per il verbo semplice, ARISTOPH. Plut. 575, dove il senso e` pure traslato: fluareic= kai; pterugivzeic. Si veda W. KNO¨GEL, op. cit., p. 66 sg. 28-29 tovte de; pr(oc)|fu;c e[daken: il verbo procfuvc, da procfuvw, significa ‘attaccato’, ‘aggrappato’. Cfr. anche HOM. Il. W 212-213. e[daken e` aoristo gnomico (con valore di presente) da davknw, ‘mordere’, ‘pungere’, ed e` qui impiegato in senso metaforico per descrivere la reazione passionale dell’invidioso (fqonerovc) di fronte ai successi e all’autoesaltazione del superbo, che lo spingono ad attaccare quest’ultimo con estrema violenza. 32 ejpicairekakivan: la ‘malevolenza’ o ‘compiacimento malevolo’ (da ejpicaivrw, per il quale cfr. 13 7-8 e 19 24), era una passione strettamente collegata all’invidia nei trattati di filosofia morale sia peripatetici che stoici nonche´ nella filosofia popolare e negli autori diatribici. Infatti, cosı` come l’invidia e` dolore per i beni altrui (cfr. Comm. a 12 23-25), simmetricamente la malevolenza e` gioia per le disgrazie di altri (hJdonh; ejp’ajllotrivoic kakoic= ). Da questa definizione le nostre fonti non si discostano molto le une dalle altre. Cfr., per i Peripatetici, ARISTOT. eth. eud. 1233 B 18-22; eth. nic. 1107 A 10-11; 1108 B 1-6; magn. mor. I 27, 2; rhet 1386 B 341387 A 3; per gli Stoici, DIOG. LAE¨RT. VII 114 (fr. 400 SVF III); ANDRON. Peri; paqwn= V, pp. 233; 235 G. T. (fr. 401 SVF III); STOB. ecl. II 91, 20 W. (fr. 402 SVF III); PLUTARCH. de Stoic. repugn. 1046 B (fr. 418 SVF III); 1046 B-C (fr. 672 SVF III); per la diatriba, TEL . fr. VII 56 H.; PHIL . de virt. 116117; PLUTARCH. de curios. 518 C. Di essa tratto` lo stesso Filodemo nel cosiddetto De invidia (PHerc. 1678), la cui parte in nostro possesso (frr. 1-19 T.) concerneva proprio l’ejpicairekakiva. 33 ajtucivan: con questo significato (= ajtuvchma, ‘insuccesso’, ‘sfortuna’) si trova anche in HIPPOCR. de fract. 25; ANTIPHO or. 2, 2, 13; XEN. mem. III 9, 8; MEN. fr. 857, 1 PCG VI 2; AESCHIN. or. 3, 55. Cfr. LSJ, s.v. ajtuciva, II 1. 34-35 a{te cu[n]epitiqemev|n[h] w; n v: a{te seguito da genitivo assoluto equivale a una congiunzione di valore causale. Cfr. per questo uso, HERODOT. I 123; PLAT. symp. 223 C et al. cunepitivqhmi quando, come qui, e` coniugato alla diatesi media, significa ‘unirsi all’attacco’. Si vedano anche THUC. I 23; III 54; VI 10; 17; PLAT. Phil. 16 A; XEN. Cyr. IV 2, 3; ISAE. or. 6, 29; ARISTOT. pol. 1311 B 17; VT (Sept.) Deut. 32, 27; NT Act. 24, 9, e LSJ, s.v., II 1. 35-36 thc= tuvc[hc] | ptaivcmati: ptaivcma, da ptaivw, ‘(far) cadere’, ‘inciampare’, rafforzato dal genitivo di specificazione th=c tuvc[hc] (non necessario per il senso), qui equivale a ‘fallimento’, ‘sfortuna’’. Cfr. HERODOT. VII 149; DEMOSTH. or. 10, 13; ep. 3, 18; AESCHIN. or. 3, 164; DIOD. SIC. XI 15, e LSJ, s.v., II. — 300 —

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Col. 13 1-9 Dopo aver illustrato in termini generali nelle ultime linee della colonna precedente (12 31-37) il compiacimento malevolo (ejpicairekakiva) della gente di fronte alle disgrazie del superbo, in queste linee, che si pongono in perfetta continuita` logica con quelle, Aristone passa a fare un’esemplificazione concreta. Come comprese per primo C.G. COBET, Ad Philodemi cit., p. 29 (si vedano anche CH. JENSEN, Ariston von Keos cit., p. 401 e nota 1; F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 57), l’esempio qui riportato si riferisce a Euripide, la cui figura fu duramente bersagliata dai poeti comici e che, secondo la tradizione biografica a lui relativa, in seguito a tali attacchi avrebbe deciso di abbandonare Atene per trasferirsi a Pella, presso la corte del re macedone Archelao. Cio` sarebbe avvenuto, secondo U. VON WILAMOWITZ-MOELLENDORFF, Euripides, Herakles, I, Einleitung in die griechische Trago¨die, Darmstadt 19592, p. 2 sg., dopo la rappresentazione dell’Oreste avvenuta nel 408 a.C. In Macedonia egli si spense nel 407/6, secondo il Marmor Parium (FGrHist 239 A 63) o, secondo Timeo, nel 406/5 (FGrHist 566 F 105). Come ha correttamente ribadito S. SCHORN (Hrsg.), op. cit., pp. 309-311 (a cui rimando per la bibliografia corrispondente), questa spiegazione della partenza di Euripide da Atene e` una costruzione biografica priva di fondamento storico. Rimane il fatto che nei biografi antichi e` ben consolidata la vulgata secondo la quale furono la sistematica demolizione da parte dei poeti comici, l’odio dei concittadini e il fatto di essere messo negli agoni tragici sullo stesso piano dei suoi mediocri concorrenti (i quali erano anch’essi, a loro volta, bersaglio dei commediografi) a determinare lo sdegno del poeta e la sua decisione di abbandonare la patria a oltre settanta anni. Cfr. SAT. vita Eur. fr. 39, col. 15, 21-34; coll. 16-17 S.); Gevnoc Eujripivdou III, p. 3, 20p. 4, 1 S.; THOM. MAG. Syn. Vit. Eur., p. 140, 29-33 W.; MAN. MOSCH. Syn. vit. Eur., p. 141, 16-18 W., e anche S. SCHORN (Hrsg.), op. cit., pp. 278-285. Che Aristone si riferisca qui a Euripide e non ad esempio, come fu ipotizzato da A. HARTUNG (Hrsg.), op. cit., p. 91, al di lui collega e contemporaneo Agatone, puo` essere considerato sicuro. Non vi e` infatti traccia di una tradizione biografica secondo la quale quest’ultimo avrebbe deciso di recarsi in Macedonia in seguito alla derisione dei poeti comici. E` vero che anche Agatone fu ridicolizzato da Aristofane nelle Tesmoforiazuse e che anch’egli, come Euripide, decise di lasciare Atene per recarsi alla corte di Archelao, dove morı` nel 401 a.C.. Ma di questa sua risoluzione non si conoscono le motivazioni e mentre il principale addebito mosso da Aristo— 301 —

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fane ad Agatone era quello di effeminatezza, l’accusa di superbia qui sollevata da Aristone si addice molto meglio alla figura e alla personalita` di Euripide. Sul carattere schivo e sprezzante di questo poeta, che ben si prestava a tale genere di critica, concordano tutte le fonti in nostro possesso. Cfr. supra, p. 19. Le prime due linee della colonna sono ampiamente integrate e sul loro contenuto e` possibile fare solo delle ipotesi. Tuttavia, se si legge il passo in continuita` con le ultime linee della colonna precedente (12 31-37), il senso generale risulta sufficientemente chiaro ed e` possibile ricostruire la seguente successione logica: a) «precedente superbia» (13 4-5: thc= provteron uJperhfa|nivac) di Euripide; b) disgrazia (12 33: ajtucivan) o colpo di sventura (12 35-36: tw=i th=c tuvc[hc] | ptaivcmati) occorso al poeta; c) compiacimento malevolo dei concittadini (13 7-8); d) esempio di ejpicairekakiva: battuta comica sul valore letterario di una tragedia euripidea (13 2-4); e) ira di Euripide (13 6: ajcqovmenon aujto;n); f) abbandono di Atene e partenza per la Macedonia (13 8-9). La «precedente superbia» del poeta ha probabilmente a che vedere con la gia` ricordata tradizione del suo interesse per la filosofia e della sua simpatia per alcuni filosofi, come Anassagora e Socrate, circostanze queste che lo facevano apparire agli occhi della gente comune scostante e superbo. Egli stesso si considerava un poeta-filosofo o «il filosofo del palcoscenico», come e` stato anche definito. Proprio tali simpatie e atteggiamenti erano, secondo la Vita di Euripide di Satiro, la ragione dell’ostilita` manifestatagli dagli Ateniesi. Ed e` lo stesso Filodemo, nell’introdurre il De liberando a superbia, a riferirsi allusivamente, ma inequivocabilmente a Euripide come esempio di superbo divenuto tale a causa della filosofia (10 19-26). Si veda anche S. SCHORN (Hrsg.), op. cit., pp. 197-243. Quanto alla disgrazia accaduta al poeta, essa deve avere a che fare con la sua attivita` di drammaturgo, se Aristone cita un verso comico che aveva come argomento il giudizio artistico su una tragedia di Euripide. Cio` non puo` che voler dire che la tragedia in questione riscontro` insuccesso sulla scena e, in particolare, e` probabile che lo ptaivcma a cui allude Aristone consista nell’aver riportato una sconfitta in un agone teatrale contro avversari mediocri. A suggerirlo e` ancora una volta il confronto con Satiro, presso il quale la struttura narrativa e` assai simile a quella che si legge nel De liberando a superbia. In esso si impiegano anche termini analoghi e si rimanda all’invidia (fqovnoc), vizio congenere e speculare all’ejpicairekakiva di cui tratta Aristone. Ecco gli elementi principali del racconto di Satiro: a) Euripide e` detestato in Atene per la sua simpatia verso Socrate e, in modo speciale, per la sua inclinazione filosofica (fr. 38, col. 4-fr. 39, col. 1; fr. 39, col. 2); b) invidia dei concittadini, che associano il poeta ad Acestore, Do— 302 —

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rilao, Morsimo e Melanzio (fr. 39, col. 15, 21-39); c) [lacuna immediatamente successiva: forse sconfitta in un agone tragico contro qualcuno di questi personaggi. Si veda S. SCHORN (Hrsg.), op. cit., p. 309 e nota 697]; d) derisione da parte di uno di costoro, al quale Aristofane in una commedia metteva in bocca un giudizio sprezzante sulla poesia di Euripide (fr. 39, col. 16); e) [lacuna immediatamente successiva: forse ira di quest’ultimo]; f) Euripide deplora nell’Ino (fr. 403, 3-4 PCG V) l’invidia degli altri poeti (fr. 39, col. 17, 1-7); g) un poeta comico (Aristofane?) si prende gioco dei versi dell’Ino (fr. 39, col. 17, 7-19); h) il tragediografo lascia Atene e si trasferisce da Archelao (fr. 39, col. 17, 19-40). Il verso riportato ai vv. 3-4, nel quale ho potuto riconoscere parte di un trimetro giambico acatalettico, costituisce un nuovo frammento comico adespoto. Esso presenta una sostituzione in prima sede (spondeo) e una soluzione in quinta (tribraco) ed e` privo dell’ultimo piede, forse contenente la replica di un secondo personaggio in ajntilabhv. E` possibile cogliervi una delle caratteristiche proprie del trimetro della commedia che, com’e` noto, era assai piu` flessibile di quello impiegato dai giambografi e dagli autori di tragedie e di drammi satireschi. Si tratta della presenza in quinta sede di un tribraco ‘inciso’ (dechire´ o brise´), cioe` di un tribraco di cui le ultime due sillabe brevi appartengono a parole differenti. Si vedano B. GENTILI, La metrica dei Greci, Messina/Firenze, G. D’Anna 1951, p. 215 sg.; M.L. WEST, The Greek Metre, Oxford, Clarendon 1982, pp. 88-90. Il verso in questione appartiene dunque a uno scrittore comico e, in particolare, a un esponente della Commedia Antica contemporaneo di Euripide. Il candidato piu` probabile e` lo stesso Aristofane, il quale, com’e` noto, attacco` in diversi drammi e con grande virulenza la figura e gli atteggiamenti tipici del grande tragediografo, ma non si possono escludere altre possibilita`. Sappiamo infatti con certezza che anche altri poeti comici scelsero Euripide come loro bersaglio prediletto. Seppur di non immediata intellezione, non e` impossibile immaginare quale sia il significato da attribuire a tale verso (‘Mi piace proprio questo dramma, benche´ sia... frugale!’). A tale scopo si prendano come termine di paragone i trimetri che Satiro (vita Eur. fr. 39, col. 16, 6-17 S. = fr. 595 PCG III 2) attribuisce a un non meglio precisato kwmwidodidavckaloc, i quali sono stati assegnati a una commedia perduta di Aristofane (forse la Ghrutavdhc): c.[. .] de; Cofo|kl. [eva] labw;n, | pa[r’A]i.jccuvlou | n. [. . .]r o{con | . .[.] . ecq’, o{lon | Eujripivdhn, | pro;c toici = | d’ejmbal. ein= | a{lac, me. m. nh|mevnoc d’o{pwc | a{la. c kai; mh; lav|lac’: «... si prenda Sofocle, ... di Eschilo... quanto ..., e tutto Euripide. A cio` si aggiunga sale, ma si ricordi: sale, non ciarle!» Questi versi frammentari, messi in bocca a uno dei mediocri tragediografi piu` sopra ricordati, contengono un attacco contro la poesia di Euripide celato sotto 21

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le sembianze di un banchetto letterario. In esso si mescolavano con irresistibili effetti comici gastronomia e critica poetica secondo un topos comune alla commedia. Piu` precisamente l’autore forniva la ricetta per la preparazione di una tragedia. Tra gli ingredienti figuravano tanto la poesia di Eschilo quanto quella di Sofocle e di Euripide, ma di quest’ultima si afferma che ha meno ‘sostanza’ o ‘sapore’ delle altre, in quanto, a differenza di quelle (o almeno di quella eschilea), essa deve essere aggiunta per intero (o{lon | Eujripivdhn). Inoltre, si deve mettere ‘sale’ (a{la. c), cioe` spirito, e non ciarle (lav|lac). L’accusa di eccessiva verbosita` mossa ad Euripide era tipica di Aristofane. Cfr. Ran. 91; 815; 917; 954; 1069; DIOG. LAE¨RT. II 18 (ARISTOPH. fr. 392 PCG III 2); PLUTARCH. de aud. poe¨t. 45 B, e K.J. DOVER (ed.), Aristophanes, Frogs, edited with Introduction and Commentary by K.J. D., Oxford, Clarendon 1993, p. 22. Sull’origine della citazione comica in questione si vedano K. KUIPER, Ad Satyri fragmentum De vita Euripidis adnotationes duae, «Mnemosyne», n.s., XLI, 1913, pp. 233-242; G. ARRIGHETTI (ed.), Satiro, Vita di Euripide, Pisa, Goliardica 1964 («Studi Classici e Orientali», 13), pp. 135-137, e, da ultimo, S. SCHORN (Hrsg.), op. cit., pp. 315-318. E` curioso che anche nel verso comico citato da Aristone l’argomento sia il giudizio critico sulla poesia di Euripide. Forse si trattava di una citazione dalla medesima commedia a cui attingeva Satiro e in ogni caso l’autore doveva seguire un analogo modello letterario. Il verso riportato da Aristone, infatti, sembra appartenere alla battuta con cui uno dei personaggi del dramma (forse anche qui uno dei mediocri avversari del poeta), nell’atto di gustare alcune ‘pietanze’ letterarie, esprimeva ironico apprezzamento verso un’opera di Euripide, lodando in maniera apparentemente innocente la frugalita` del ‘piatto’ in questione. L’ironia dipende dall’ambiguita` dell’aggettivo eujtelevc, il quale puo` significare sia ‘insignificante’, ‘di scarso valore’ sia ‘semplice’, ‘frugale’ (detto anche di pasti). Cfr. LSJ., s.v., I 2; II. Fingendo di qualificare il dramma euripideo in questo secondo senso, cosı` come gli consentiva la metafora gastronomica, l’ignoto personaggio mirava invece a denunziarne lo scarso valore poetico e drammaturgico, poiche´ in realta` intendeva il termine nel primo graffiante significato. Un altro interessante parallelo e` rappresentato da un frammento dei Fruvgec (La legna) di Teleclide, commediografo ateniese del V secolo, in cui viene messo in scena Mnesiloco, figlio del tragediografo, che ‘cuoce’ una nuova tragedia (dra=ma kainovn) di Euripide mentre Socrate gli passa la legna da ardere (frr. 41-42 PCG VII). Con questa metafora il poeta comico voleva insinuare forse il sospetto che larga parte della produzione poetica euripidea non fosse in realta` farina del suo sacco e che molta della sua ispi— 304 —

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razione fosse da ricercare nella filosofia socratica. E` assai probabile che al termine dell’operazione ivi descritta uno dei personaggi si desse la briga di assaggiare il ‘piatto’ cosı` ottenuto e proferisse qualche malevolo commento sulla sua scadente qualita`. Tale commento doveva essere del tutto simile a quello tramandato nel De liberando a superbia. Rimane enigmatico in questo secondo caso il nesso logico sussistente tra l’accusa di scarso valore artistico del dramma euripideo e quella personale di superbia, in che senso cioe` la situazione messa in scena dal poeta comico fosse in grado di rievocare l’«antica superbia» di Euripide. La lacunosita` di queste linee e l’estrema sintesi con cui anche altrove Filodemo riassume gli esempi storici riportati nella sua fonte, ci impediscono di poter comprendere piu` compiutamente tale relazione. Ringrazio Stefan Schorn per la proficua discussione dell’intero passo e per i suoi importanti suggerimenti. filw=, voce contratta di filevw, ‘amare’, in questo caso si riferisce a cose e significa ‘apprezzare’, ‘piacere’. Cfr. LSJ, s.v., I 5. ejpicaivrein, ‘gioire di’, ‘esultare per’, da intendere in senso negativo (per un male altrui), ritorna a 19 24 (pass.) e in PHILOD. de morte IV, col. 20, 4 K. 9-10 paratiqevnai de; kai; tou;c | ejn uJperocaic= megavlaic: il verbo parativqhmi, letteralmente ‘presentare’, ‘offrire’, qui significa probabilmente ‘prendere ad esempio’. Con un significato analogo esso si ritrova in PHILOD. rhet. II (PHerc. 1672), col. 29, 5-6 L. (p. 130 S. I); cf. anche rhet. III (PHerc. 1506), col. 47, 32 H. (p. 252 S. II). uJperochv, ‘superiorita`’, ‘eccellenza’, ma anche, come qui, ‘preminenza politica o sociale’, e` un sostantivo ricorrente nel De liberando a superbia (15 9; 21 33; 24 13), che serve solitamente a designare l’eccellenza intellettuale e morale che il superbo affettatamente si attribuisce. Cfr. anche PHILOD. de sup. col. 8, 11 J. 15 twi= thc= tuvchc [o[]g.kwi: o[gkoc, letteralmente ‘corpo’, ‘massa’, qui va inteso in senso metaforico come ‘peso’, ‘grandezza’, ‘importanza’. Cfr. LSJ, s.v., II 2, e anche 12 1-2; 15 30. 16-19 Cfr., per questo episodio, FRONTIN. strateg. IV 6, 3: Alexander, cum hieme duceret exercitum, residens ad ignem recognoscere praetereuntis copias coepit; cumque conspexisset quendam prope exanimatum frigore, considere loco suo iussit dixitque ei: ‘‘Si in Persis natus esses, in regia sella resedisse tibi capital foret, in Macedonia nato conceditur’’; CURT. VIII 4, 15: Forte Macedo gregarius miles ^ aegre & seque et arma sustentans tamen in castra pervenerat; quo viso rex, quamquam ipse tum maxime admoto igne refovebat artus, ex sella sua exiluit torpentemque militem et vix compotem mentis demptis armis in sua sede iussit considere; VAL. MAX. V 1, ext. 1: is (sc. Alexander), dum omnes gentes infatigabili cursu lustrat, quodam loci niuali tempestate oppressus senio iam confectum Macedonem militem nimio frigore obstupefactum ipse sublimi et propinqua igni sede residens animaduertit factaque non — 305 —

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fortunae, sed aetatis utriusque aestimatione descendit et illis manibus, quibus opes Darii adflixerat, corpus frigore duplicatum in suam sedem inposuit: id ei salutare futurum, quod apud Persas capital extitisset, solium regium occupasse. Questo aneddoto e il successivo sono esempi storici positivi addotti per contrasto con quelli negativi di Euripide dei vv. 1-9 e di Demetrio Poliorcete dei vv. 26-31. 19-23 Per l’episodio in questione, che ha per protagonista ancora una volta Dionigi il Vecchio, cfr. anche PLUTARCH. reg. et imp. apophth. 175 C176 C, e, in particolare, 175 C: pro;c to;n eijpovnta ‘‘mwrologhvceic Dionuvcie’’ ‘‘monarchvcw me;n ou\n’’ ei\pe. Per gli altri due esempi storici che lo riguardano cfr. 11 9-14; 14-17 e Comm. ad locc. L’aneddoto, alquanto sibillino per l’estrema sintesi operata da Filodemo, sembra consistere in un breve scambio di battute fra il tiranno e un anonimo oppositore che gli rivolge una breve espressione minacciosa. A cio` Dionigi replica con una frase apparentemente arrogante, ma che in realta` manifesta la sua proverbiale saggezza. Egli, conscio dei rischi cui va incontro chi ha raggiunto il vertice del potere e dell’alternarsi nella vita di ogni uomo di gioie e di dolori, e` consapevole che verra` anche per lui il tempo della mestizia ma, allo stesso tempo, sa che da essa non e` risparmiato nemmeno il suo interlocutore. In modo analogo, a 11 9-14 egli esprime il desiderio che gli venga recitato due volte al giorno un famoso verso di Euripide sulla caducita` della tirannide. La risposta attribuita a Dionigi nel nostro passo e` stata variamente interpretata dagli studiosi. La divergenza e` dovuta al duplice modo in cui e` stato tradotto il sostantivo [uJpo]qhv|khc (vv. 22-23), da alcuni inteso in senso tecnico come ‘ipoteca’, ‘pegno’, ‘deposito’ e da chi scrive nel significato di ‘consiglio’, ‘avvertimento’ (= cumbouliva) comune negli autori di scritti protrettico-morali. Cfr. LSJ, s.v. uJpoqhvkh, I, e anche uJpovqecic, I 2. Ma non e` escluso che il termine sia impiegato in entrambi i sensi con deliberata ambiguita`. Le altre integrazioni proposte dagli studiosi (cfr. appar. crit. ad loc.) non sono compatibili con le dimensioni della lacuna (tre lettere di media grandezza). ejpanafevrw, ‘riferire’, puo` qui equivalere a ‘riportare indietro’ o ‘riprendersi’. Cfr. LSJ, s.v., I 1; 3. Riprendere indietro la meta` (to; h{micu) dell’avvertimento (o del deposito) potrebbe alludere, nelle intenzioni di Dionigi, all’eguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla sorte, qualunque sia il livello sociale da essi raggiunto. 28-31 Il riferimento e` alla defezione dell’esercito macedone da Demetrio Poliorcete (337-283 a.C.) a favore di Pirro (319-272), evento collocabile nel 288 a.C. Cfr. PLUTARCH. Demetr. 41, 5; Pyrrh. 11, 9-10. Si tratta dell’episodio piu` recente narrato nel De liberando a superbia e rappresenta pertanto il terminus post quem per la datazione dell’opuscolo. Malaugura— 306 —

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tamente il riassunto filodemeo non ci ha trasmesso il contenuto di quella «sola parola pesante» (e}n rJh=ma baruv) che determino` la defezione dei Macedoni. Sul comportamento borioso e arrogante di Demetrio Poliorcete si veda lo stesso PLUTARCH. Demetr. 41-42; sulla vanita` e l’amore per il lusso, ivi, 41, 7, e PHILOD. de bono rege col. 37, 2-5 D.; ATHEN. XII 535 F-536 A (DUR . HIST. 76 F 14 FGrHist). 32 mikroprepevc: e` il contrario di megaloprephvc, ‘liberale’, ‘magnifico’. Cfr., ad es., ARISTOT. eth. nic. 1122 B 8; 1123 A 27; PS.-DEM. PHALER. de eloc. 53; STOB. flor. IV 2, 24; PS.-PHALAR. ep. 118; PLUTARCH. de lib. educ. 8 A. 33 aJdrovn: questo aggettivo, da riferire a persona e da intendere nel significato morale di ‘grande’, ‘importante’ (cfr. LSJ, s.v., II 1), e` uno degli attributi del saggio stoico secondo STOB. ecl. II 7, 11 G W. (frr. 216 SVF I e 567 SVF III). Cfr. supra, p. 158 sg., e a proposito del Poliorcete, ATHEN. VI 253 A. 34-35 to; pro;c pavntac uJpe* [rh]fane[uv]|ecqai: l’articolo tov si trova in una posizione non consueta. Ce lo saremmo aspettato all’inizio del v. 33 prima di to;n pepeicmevnon. Si veda W. KNO¨GEL, op. cit., p. 21 nota 1. uJpe* [rh]fane[uv]|ecqai, medio di uJperhfaneuvw, ‘comportarsi con arroganza’, e` una forma secondaria di uJperhfanevw ed e` attestato, oltre a qui, in IOS. ant. Iud. IV 8, 23; Schol. in THEOCR. id. 1, 66; ETYM. MAGN. 778, 49; VT (Sept.) Deut. 1, 43; Nehem. 9, 10; IV Mach. 5, 21 al.; Schol. in PIND. Nem. 11, 55. 35 d]’a[r’: l’integrazione e` di David Sedley, il quale me l’ha suggerita in forma privata. Si veda J.D. DENNISTON, The Greek Particles, Oxford, Clarendon 19542, pp. 33-35. Essa permette di considerare i vv. 31-35 e 35-39 per quello che essi sono, cioe` come due esempi perfettamente indipendenti di superbia. L’integrazione g]avr di Caterino, al contrario, costringeva a pensare che il secondo sia citato allo scopo di illustrare e giustificare il primo. 37 eujklhrivac: cfr. Comm. a 11 26. 37-38 meg.a|[lo]y* uc[iv]an uJpokrinovmeno[n: affettare magnanimita`, virtu` che per eccellenza compete solo al saggio (cfr. 15 23-24 e Comm. ad loc.), e` proprio dei superbi, i quali, in seguito a un inaspettato colpo di fortuna, fingono di non gioirne in modo eccessivo per non rivelare agli altri la loro esaltazione psicologica e non essere cosı` riconosciuti per quello che sono. Cfr. anche ARISTOT. eth. nic. 1124 B 2, e quanto afferma W. KNO¨GEL, op. cit., p. 21 e nota 1. Il verbo uJpokrivnomai ricorda il paragone dell’attore di Aristone di Chio, secondo il quale il saggio, «sia che impersoni la parte di Tersite che quella di Agamennone, e` capace di interpretare (uJpokrivnetai) l’una e l’altra in modo appropriato». Cfr. DIOG. LAE¨RT. VII 160 (fr. 351 SVF I), e supra, p. 43 e nota 206; p. 88 e nota 93; p. 176 e nota 460. 39 ejpeufraivnecqai: questo verbo e` attestato solo qui e in IUL. IMP. in Gal. 347 C; OLYMP. in Plat. Phil., p. 239 S. — 307 —

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Col. 14 3-4 parupomimnhv|ckein: cfr. Comm. a 12 13-14. 4-5 t[ou=] ... aJmartw. lou= tw=n movnwn: t[ou=] ... aJmartw. lou= e` gen. sing. di to; aJmartwlovn, neutro sost. da aJmartwlovc, ‘(colui) che e` in errore’, in senso morale o materiale. Il contesto del passo mi induce a ritenere che nel nostro caso esso vada inteso nel secondo significato. Con lo stesso valore moralmente irrilevante cfr. anche, a 17 25, aJmarthvcecqai. aJmartwlovc e` un vocabolo raro attestato sia in Aristotele (eth. nic. 1109 A 33) che negli Stoici. Cfr. PLUTARCH. quom. adul. poe¨t. aud. deb. 25 C: dio; kai; kakivac kai; ajrethc= chmei a= memigmevna tai c= pravxecin hJ mh; pantavpaci th=c ajlhqeivac ojligwrou=ca cunekfevrei mivmhcic, w{cper hJ JOmhvrou polla; pavnu toic= Ctwi>koic= caivrein fravzouca, mhvte ti fau=lon ajreth=/ proceinai mhvte kakiva/ crhcto;n ajxiou=cin, ajlla; = pavntwc me;n ejn pa=cin aJmartwlo;n ei\nai to;n ajmaqh=, peri; pavnta d’au\ katorqou=n to;n ajcteion. = tauta = ga;r ejn taic= ccolaic= ajkouvomen. Come si puo` vedere, con-

trariamente a quanto riteneva W. KNO¨GEL, op. cit., p. 68 sg., quest’ultimo passo rappresenta chiaramente una doxa stoica. Con diverso valore (‘di cattivo carattere’) si ritrova in PHILOD. de ira col. 36, 4 I., e nei comici antichi (ARISTOPH. Thesm. 1111; EUP. fr. 422 PCG V). Esso conosce infine una nuova importante fortuna nella traduzione dei Settanta e nel Nuovo Testamento con il significato morale e spirituale di ‘peccatore’. Cfr. LSJ, s.v.. twn= movnwn e` gen. soggettivo di aJmartw. lou= e sottintende un sostantivo come ajndrw=n o ajnqrwvpwn. 6-8 ejpiteuktikou= de; tw=n cuner|goumevnwn uJf’eJno;c kai; plei|ovnwn: analogamente a aJmartw. lou,= ejpiteuktikou= e` gen. sing. di to; ejpiteuktikovn, neutro sost. da ejpiteuktikovc, che e` il contrario di quello e significa ‘capace di conseguire’, ‘che conduce al successo’. Cfr. ARISTOT. magn. mor. II 3, 1; DION. HAL. Pomp. 5; EPICT. diss. III 12, 5; PAUL. AEG. III 78; POL. X 22, 7, e, per l’avverbio ejpiteuktikw=c, PHILOD. rhet. II (PHerc. 1674), col. 41, 22-23 L. (p. 74 S. I). Si veda anche LSJ, s.v., I 1-2 A. L’antitesi aJmartw. lou= / ejpiteuktikou= richiama, con lo stesso valore moralmente neutro, katorqwv[c]ein / aJmarthvcecqai di 17 24-25 e anche tajpoteuvgmata / ta; katorqwvmata di 20 18-20. Si veda W. KNO¨GEL, op. cit., p. 25 sg. tw=n cuner|goumevnwn e` gen. soggettivo di ejpiteuktikou= in modo analogo a tw=n movnwn rispetto a aJmartw. lou=. Il verbo cunergevw, ‘collaborare’, ‘assistere’ e` attestato anche in PHILOD. de oec. col. 14, 3; col. 24, 40 J., e al passivo, in rhet. III (PHerc. 1506), col. 44, 4, p. 224 S. II. 8-9 oJ ga;r uJperhvfanoc ou[|te cunparalhptiko;c eJtevrwn: una delle principali caratteristiche del superbo e` l’indisponibilita` a collaborare con altri o ad accettarne l’aiuto e questo principalmente per presunzione e per disprezzo — 308 —

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del prossimo. In questo atteggiamento F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 53, ha voluto vedere una stoccata polemica di Aristone contro l’autarchia del saggio stoico. Si veda anche ID., Ru¨ckblick cit., p. 108. Ma sull’inesattezza di questa osservazione, cfr. Comm. a 19 26-29. cunparalhptikovc e` un hapax da cumparalambavnw, ‘prendere come assistente o consigliere’, per cui vedasi anche PHILOD. de oec. col. 26, 25 J., e, al passivo, de lib. dic. fr. 61, 12 O. 10 oijhvcewc: questo sostantivo, letteralmente ‘opinione’, qui significa ‘presunzione’ nel senso moralmente rilevante che si ritrova anche in HERACLIT. B 46 D.-K.; EUR . fr. 643 TrGF V; DIOG . LAE¨RT . IV 50 (= BION BORYSTH. F 20 K.); PHIL. leg. alleg. I 52 al.; PLUTARCH. quom. adul. ab am. intern. 65 F; CHOR. or. 23, 2, 29, e nelle fonti stoiche citate supra, a p. 158 e nota 405, tra le quali spicca per importanza DIOG. LAE¨RT. VII 23 (= ZENO CIT. frr. 71 e 321 SVF I). In tal senso oi[hcic equivale a oi[hma, per il quale cfr. PLUTARCH. de recta rat. aud. 39 D; 43 B; 44 A; quom. quis suos in virt. sent. prof. 81 C; 81 F; Plat. quaest. 999 E. Si vedano anche LSJ, s.v. oi[hma, II, e W. KNO¨GEL, op. cit., p. 69. La presunzione e` piu` volte richiamata nel corso del De liberando a superbia, dove compare in composizione con l’insolente (16 31-32; 19 4-5) e il sufficiente (17 22). Questo vizio, insieme alla iattanza (ajlazoneiva), alla tracotanza (u{bric), alla boria (tufoc = ) e alla stessa superbia (uJperhfaniva), era uno dei bersagli privilegiati della filosofia popolare, degli autori di diatribe (soprattutto Filone ed Epitteto) e dei moralisti stoici di epoca imperiale. Al contrario, con buona pace di W. KNO¨GEL, op. cit., p. 69, in tutto Aristotele e nei frammenti dei Peripatetici non vi e` traccia di questo termine se non nel caso isolato di ARISTOT. poe ¨t. 1461 B 3, dove pero` il significato e` quello comune (cioe` moralmente neutro) di ‘opinione’, ‘giudizio’. 11-12 uJperfro. |nei=n: questo verbo ha tre significati fondamentali: a) ‘sapere di piu`’; b) intr.: ‘andare superbo’; c) con acc.: ‘disprezzare’. In questo terzo senso e` utilizzato nel nostro passo. Cfr., ad es., AESCH. Pers. 825; ARISTOPH. nub. 226 (tou;c qeouvc); THUC. III 39; ARISTE. IUD. 122 (eJtevrouc), e LSJ, s.v., I 2. 13-14 th;n | a[llhn ajhdivan: ajhdiva, letteralmente ‘sgradevolezza’, ‘disgusto’ (cfr., ad es., PHILOD. de sup. col. 8, 4 J.; rhet. IV (PHerc. 1007), col. 2, 7, p. 163 S. I; de oec. col. 23, 13 J.), e` qui applicato a persone ed equivale a ‘odiosita`’, ‘avversione’. Cfr. LSJ, s.v., II. 15 ejxid[i]avze[cq]ai: dep. med. da ejx- e i[dioc = ‘appropriarsi’, ‘attribuirsi’. Il verbo e` comune nella prosa ellenistica a partire da Teofrasto. Si vedano con questo significato anche DIPH. COM. fr. 41 PCG V; DIOD. SIC. I 23. Cfr. LSJ, s.v., 1, e W. KNO¨GEL, op. cit., p. 67. — 309 —

COMMENTARIO

16 ajcunevrgh[t]oc: ‘che non riceve o non accetta aiuto’, voce rara composta da aj- privativo e cunergevw, per il quale si veda Comm. ai vv. 6-8. Altre attestazioni in PHILOD. de oec. col. 24, 21 J., e in CARNEISC. Phil. II, col. 19, 5-6 C., dove l’aggettivo ha il medesimo significato. Cfr. Vooys, s.v., e LSJ, s.v., dove pero` esso e` inteso in senso attivo (‘che non fornisce aiuto’). Cfr. anche ANTYLL. ap. ORIB. coll. med. X 30, 8. 17-19 p[a]rathrou=[n]tac | kai; uJpockelivzontac cunhra|nikwvc: il verbo parathrevw, ‘osservare’, ‘sorvegliare’, e` qui impiegato in senso ostile nel senso di ‘spiare’, ‘attendere il momento per’. Cfr. anche PHILOD. de ira col. 9, 35; col. 19, 3 I. uJpockelivzontac e` part. pres. di uJpockelivzw, ‘fare lo sgambetto’, qui in senso metaforico. Entrambi i verbi sono propri del linguaggio colloquiale. Cfr. PLAT. Euthyd. 278 B; DEMOSTH. or. 18, 138, e, al passivo, VT (Sept.) Ps. 36 (37), 31; PHIL. de opif. mundi 104 al. cunhra|nikwvc e` part. perf. att. da cuneranivzw, ‘raccogliere’, ‘radunare’, da cuvn- ed e[ranoc, letteralmente ‘raccolta di beni o denaro per un banchetto o un prestito’. Questo verbo, preso dal lessico economico, e` attestato solo nella prosa ellenistica. Si vedano LSJ, s.v., II, e W. Kno¨gel, op. cit., p. 67. 20-21 ka[peita koufivzetai thc= uJpe[r]|hfanivac: e` la quarta volta che nel De liberando a superbia si impiega il verbo koufivzein, come sempre accompagnato dal genitivo di separazione, rappresentato anche qui, come a 10 13, dalla superbia. Si tratta di un evidente richiamo al supposto titolo dello scritto aristoneo e costituisce di fatto la piu` chiara formulazione di questa espressione reperibile nel nostro scritto. In effetti, l’uso della diatesi passiva dissipa ogni dubbio sul significato attribuito al verbo da Aristone. Grazie ai suoi fallimenti (ajpoteuv|xewn) il superbo (oJ ga;r uJperhvfanoc) «e` alleggerito (koufivzetai)», cioe` e` sgravato definitivamente del suo vizio. Non e` dunque quest’ultimo, come pure si e` preteso, ad essere alleggerito, cioe` a diminuire quantitativamente, giacche´ la sintassi non consente questo tipo di traduzione. Cfr. supra pp. 9-11; Comm. a 11 2-5; 29-30; 14 20-21. ka[peita (crasi per kaiv ed e[peita) ha qui funzione enfatica. 22-23 ajpoteuv|xewn: ‘fallimenti’, ‘insuccessi’ (da ajpotugcavnw, ‘fallire’, ‘sbagliare’, per il quale vedasi 17 38), si trova solo qui e in PHILOD. de mus. IV, fr. 31*, 11 D.; PS.-PLAT. Ax. 368 D; PLUTARCH. Galb. 23; Marc. 5. Cfr. anche, a 20 18, ajpovteugma (nomen rei actae). Con questo inciso Aristone sottolinea non senza sarcasmo il valore terapeutico delle sconfitte personali del superbo. Per certi individui esse rimangono anzi l’unico modo per alleggerirsi del vizio e riprendere contatto con la realta`. 24-25 ejlattou=n|tai: ejlaccovw (attico ejlattovw), impiegato al passivo in senso assoluto e riferito a persone, equivale a ‘essere umiliato, sminuito’. — 310 —

COMMENTARIO

Cfr. PHILOD. de lib. dic. fr. 67, 5-6 O.; THUC. IV 59 passim; NT Io. 3, 30 passim, e LSJ, s.v., II 1. 25-37 Questo grazioso episodio e` narrato soltanto qui. Il luogo parallelo addotto da CH. JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiwn= cit., p. 25, e, prima di lui, da C.G. COBET, Ad Philodemi cit., p. 30 sg., e cioe` VAL. MAX. VII 5, 2, non ha in realta` nulla a che vedere con esso. Si veda M. GIGANTE, Atakta II cit., p. 42 nota 47. Il primo a comprenderne compiutamente il senso e` stato U. VON WILAMOWITZ-MOELLENDORFF, Sappho und Simonides cit., p. 146 nota 2, a cui si deve anche l’importante integrazione [ JR]ov. d. i|oc (vv. 25-26). Timocreonte di Rodi, definito superbo (uJperhvfanoc w[n), entrando in un teatro per partecipare a una competizione musicale, viene apostrofato da uno spettatore che gli chiede di dove sia. Egli, ferito nell’orgoglio, poiche´ ritiene di essere cosı` celebre da non aver bisogno di presentazioni, risponde: ‘‘Tra poco lo udrai dall’araldo (khvruko[c])’’, cioe` da colui che nell’agone aveva la funzione di proclamare il nome del vincitore (cfr. PLUTARCH. de laude ipsius 539 C = TIMOCRE. fr. 27 IEG). Tale presuntuosa affermazione, diffondendosi tra il pubblico, provoca tanta indignazione e clamore che il giudice e` costretto a interrompere l’esecuzione del poeta appena iniziata. Allora, uscendo umiliato dal teatro, quando lo stesso spettatore non senza ironia gli chiede nuovamente la sua provenienza, egli risponde dimessamente: «Di Serifo!». Quest’ultima era un’isola delle Cicladi proverbialmente povera e insignificante. Su di essa e sui suoi abitanti, che erano oggetto di disprezzo da parte degli Ateniesi, cfr., ad es., ARISTOPH. Ach. 542; PLAT. resp. 329 E-330 A, e Schol. a 329 E ; PLUTARCH. de exil. 602 A -B ; Tem. 18; reg. et imp. apophth. 185 C; CIC. de nat. deor. I 88; Cato Mai. 8; ORIG. contra Cels. I 29; SEN. cons. ad Helv. 6, 4, e L. BU¨RCHNER, Seriphos, RE, II A 2, 1923, col. 1732. L’affermazione conclusiva del protagonista sulla sua asserita provenienza da Serifo, in apparente contraddizione con l’informazione fornita all’inizio del racconto (Timocreonte di Rodi), va in realta` interpretata come una battuta autoironica senza alcun valore autobiografico. Egli vuol palesare con prontezza di spirito la sua repentina conversione interiore: dalla tronfia consapevolezza di se´ e delle proprie origini, ben rappresentata dall’etnico [ JR]ov. d. i|oc (vv. 25-26) con cui all’inizio dell’aneddoto e` presentato Timocreonte, alla profonda umiliazione finale evocata dal volontario riferimento all’oscura Serifo, da cui non puo` venire nulla di buono. E` l’applicazione immediata di quanto poco prima teorizzato da Aristone: se il superbo non vuol liberarsi del suo vizio per mezzo di esortazioni (come quelle proposte dallo stesso Aristone), sara` costretto ad alleggerirse— 311 —

COMMENTARIO

ne (koufivzetai) in seguito alle sue cocenti sconfitte (dia; twn= ajpoteuv|xewn). G. INDELLI, Un aneddoto su Timocreonte di Rodi, in Mathesis e Mneme. Studi in memoria di Marcello Gigante, Napoli, Dipart. Filol. Class. 2004, II, p. 85 sg., adduce un’ulteriore spiegazione del perche´ Timocreonte si definisca cittadino di Serifo. E` noto infatti dalle fonti antiche (PS.-ARISTOT. mirab. ausc. 835 B; PLIN. SEN. nat. hist. VIII 227; SUID. s.v. bavtracoc ejk Cerivfou; GREG. CYPR., MACAR. PAR., MICH. APOST., ARSEN. s.v. bavtracoc Cerivfioc; AEL. de nat. an. III 37) che le rane esistenti in quest’isola non gracidavano e cosı` il poeta lirico dicendosi serifio applicherebbe metaforicamente a se stesso questa stessa situazione. Anch’egli, illustre figlio di Rodi, come le rane di Serifo e` stato costretto al mutismo. Che il Timocreonte di cui qui si tratta sia il poeta lirico (melopoiovc) nativo di Ialiso (Rodi) e vissuto nella prima meta` del V sec. a.C. del quale parlano Plutarco (Tem. 21) e Ateneo (X 415 F), non sembra esservi alcun dubbio. Per i frammenti a lui relativi, cfr. frr. 7; 9; 10 IEG; frr. 1-6 PMG. Le riserve espresse in senso contrario da H. SAUPPE (ed.), op. cit., p. 23 sg., e J.L. USSING (ed.), op. cit., p. 165 sg., non hanno in realta` fondamento. I due studiosi, infatti, distinguevano fra un Timocreonte di Rodi poeta e un Timocreonte di Serifo flautista, che sarebbe da identificare con quello citato nel nostro passo. Cio` essi facevano sulla base di integrazioni insufficienti o errate del papiro (si veda, ad es., l’inesistente [oJ Cerivf]i|oc dei vv. 25-26, da Wilamowitz correttamente sostituita con oJ [ JR]ov. d. i|oc) e fuorviati dal fatto che il Kactovreion mevloc a cui si fa qui riferimento e` inteso da alcune fonti come una composizione musicale meramente strumentale eseguita in battaglia dai flauti. L’episodio e` costruito in modo magistrale ed e` dotato di una struttura perfettamente simmetrica. Come gia` accennato, al contrasto tra la protervia iniziale e l’umiliazione finale di Timocreonte fa da efficace pendant la contrapposizione tra la grandezza di Rodi e l’umilta` di Serifo. E come ha correttamente evidenziato M. GIGANTE, Atakta II cit., p. 42, precisamente in questa contrapposizione risiede il picco espressivo di tutto il racconto. Ulteriori corrispondenze interne sono state evidenziate da W. KNO¨GEL, op. cit., p. 56 sg. Nell’episodio, cosı` come ci e` pervenuto, si possono distinguere tre sezioni: la prima parte (da Timokrevwn a u{cteron) descrive l’arroganza iniziale del protagonista; la seconda (da [di]|adoqevntoc a katap* au=cai) la reazione del pubblico e del giudice; la terza (da diovper ad ajphvn[thcen]), infine, mostra il mutato stato d’animo di Timocreonte. brabeuvc o brabeuthvc era il giudice di un agone atletico o musicale. Il ‘Canto’ o ‘Inno di Castore’ (Kactovreion mevloc o Kactovreioc u{mnoc) era, secondo la tradizione a cui rimanda PIND. Pyth. 2, 69; Isthm. 1, 16, un canto marziale accompagnato dal flauto ed eseguito in occasione di vittorie nelle corse a cavallo o coi car— 312 —

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ri. Cfr. LSJ, s.v. Kactovreioc, I. Sembrerebbe dunque trattarsi di un mevloc corale. Ma nel nostro caso non e` precisato se esso fosse un canto corale (ad es. un uJpovrchma, come presso i grammatici) eseguito sotto la direzione dell’autore o, piuttosto, come tutto farebbe pensare, un canto monodico ‘a solo’ interpretato personalmente dall’autore medesimo. Si vedano W. SCHMID-O. STA¨LIN, Geschichte der griechischen Literatur, Mu¨nchen, Beck 1929, I 1, p. 542 nota 5; P. MAAS, Timokreon, RE, VI A 1, 1936, coll. 1271-1273; M. GIGANTE, Atakta II cit., p. 42 nota 44. Esso va distinto dall’omonima marcia militare spartana a cui si riferiscono PLUTARCH. Lyc. 22, 4, e POLL. IV 78, la quale, come si e` detto, era una composizione puramente strumentale. 39-40 kaqai|rhv[cei] frovnhma: questo sostantivo e` da intendere in senso negativo (‘presunzione’) con un valore affine a oi[hcic (v. 10). Cfr. anche PHILOD. rhet. III (PHerc. 1506), col. 13, 13, p. 217 S. II passim; AESCH. Prom. 953; EUR. Heracl. 926-927; ARISTOPH. Vesp. 1024; Pax 25; PLAT. Pol. 290 D passim; ISOCR. or. 14, 37; PLUTARCH. Eum. 13, e LSJ, s.v., II 2. kaqairevw, qui equivalente a ‘deporre’, ‘rimuovere’ (LSJ, s.v., II 2), e` associato a sostantivi come u[brin (HERODOT. IX 27; VT (Sept.) Zach. 9, 6), o[lbon (SOPH. fr. 646, 4 TrGF IV) e anche uJperhfavnouc (ARISTE. IUD. 263). 40-41 kajn [th]= i* tapei|nwtav[i]thi perictavcei: quest’ultimo sostantivo, molto comune nella prosa di epoca ellenistica, sembra qui possedere il significato generico di ‘condizione’, ‘posizione’ e non puo` percio` essere inteso in senso tecnico con riferimento alla dottrina stoica delle circostanze. Per lo stesso motivo, e anche a maggior ragione, non vi e` nessuna base per sostenere, come pretendeva W. KNO¨GEL, op. cit., p. 70, che il termine sia tipico del lessico peripatetico. Cfr. PHILOD. rhet. IV (PHerc. 1007), col. 38 A, 13-14, p. 219 S. I, e LSJ, s.v., II 2. tapei|nwtav[i]thi (si noti il vocalismo -nwt-) e` superl. di tapeinovc, ‘misero’, ‘abietto’, qui e altrove nello scritto aristoneo (15 21; ma anche de sup. col. 7, 16 J.) interpretato in senso moralmente negativo. Cfr. anche, a titolo di esempio, PLAT. leg. 791 D; XEN. mem. III 10, 5; ISOCR. or. 2, 34. Si vedano LSJ, s.v., 4, il verbo tapeinovw (11 31-32; 15 6-7; 22 5-6) e W. GRUNDMANN, art. cit., coll. 821-831.

Col. 15 1-5 il senso di queste prime cinque linee della col. 15 non e` del tutto perspicuo e il legame logico con la colonna precedente e` piu` labile che negli altri casi. Tuttavia il significato generale sembra essere anche qui sufficientemen— 313 —

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te chiaro. Il soggetto e` come sempre il superbo, il quale e` detto maltrattare il prossimo (ajtimavz.ei, qui usato con valore assoluto) in tre diversi modi: in primo luogo, per la sua ansia di affermazione personale (uJ|p]o. ; do[xok]o. [pivac) che, come sappiamo da altri luoghi del De liberando a superbia (ad es. 15 6-9), egli persegue attraverso l’ingiuria e l’oltraggio; in secondo luogo, attaccando gli altri sul loro stesso terreno (letteralmente «attraverso cio` che li riguarda», di’w}n prochvkei), cioe`, ad es., facendo leva su vizi e difetti oggettivi degli altri; in terzo luogo, calunniandoli, cioe` attaccandoli con accuse prive di fondamento (letteralmente «in relazione a quelle cose che non sono in nostro potere», ej|pi; toic= mh; p[ro;c] hJmac= ). [to; me;n] ... to; dev ... to; dev sono pron. dimostr. correlati con funzione avverbiale, da oJ, hJ, tov. 2 do[xok]o. [pivac: ‘sete di gloria’, da dovxa, ‘fama’, e kovptw, ‘colpire’, ‘spossare’. Il termine e` largamente integrato e pertanto non e` sicuro. Cfr. PHILOD. de lib. dic. col. 18 B, 3 O.; rhet. VII, col. 10, 6-7, p. 288 S. I; POLYSTR. de cont. col. 21, 3 I.; PS.-HERACLIT. ep. 2; PLUTARCH. Per. 5; an seni sit ger. resp. 791 B; non posse suav. vivi sec. Epic. 1101 A-B; MARC. AUR. ANT. XI 18, 2; LUC. peregr. 2; APP. bell. civ. II 44; Hann. 9 al.; EPICUR. fr. 46, 4 A.2, e LSJ., s.v.. Questo sostantivo, assieme all’aggettivo doxokovpoc e al verbo doxokopevw, e` un termine post-classico influenzato dal pensiero cinico e stoico e la passione corrispondente, detta anche filodoxiva o filotimiva (lat. ambitio), rappresentava uno dei bersagli preferiti di quella filosofia popolare a cui copiosamente attinsero gli autori diatribici. Si vedano, oltre alle fonti teste´ citate, PHILOD. de oec. col. 22, 24 J.; TEL. fr. IV A 39 H. (BION BORYSTH. F 34 K.); fr. IV A 42 H.; POL. XII 25 E, 3; PHIL. de sacr. 32, 18; DIO CHRYS. orr. 32, 24; 34, 31; 66, 1; 3; 7; 11; 15; MUS. RUF. or. 7, 16, e, per dovxa, anche PHILOD. de sup. col. 2, 1 J. Come ha ben messo in rilievo J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 223, «il concetto di dovxa e` molto comune nel pensiero e negli scritti dei Cinici e possiede solitamente il significato negativo di ‘opinione’ o ‘presunzione’. Per cui dovxa puo` essere usato come sinonimo di kenodoxiva, oi[hcic, tufoc o uJpovlhyic», tutte nozioni da essi = recisamente condannate in quanto motivo di sofferenza e infelicita`, oltre che ostacolo per il progresso morale. Si veda, inoltre, G. GIANNANTONI (ed.), Socratis et Socraticorum cit., IV, p. 396. A tale proposito E. WEBER, art. cit., p. 241 nota 1, giungeva ad affermare che «le parole dovxa e tufoc sono = come le tessere dei Cinici (Cynicorum quasi tesserae sunt)». Personificazione di questa passione era considerato l’eroe omerico Aiace. D’altro lato non mancano testimonianze da cui sembra potersi desumere una concezione moderatamente positiva del concetto di dovxa. Per spiegare cio` J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 252, affermava, seguito da P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit. p. 113 sg., che la dovxa apprezzata dai Ci— 314 —

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nici non era piu` la dovxa intesa in senso corrente, ma quella che risultava dal paracaravxai to; novmicma tipico della scuola. Si vedano anche H. MU¨LLER, De Teletis elocutione, Diss. Friburgi Brisigaviae C.A. Wagner 1891, p. 50; M. GIGANTE-G. INDELLI, art. cit., p. 131 nota 100, e, soprattutto, G. GIANNANTONI (ed.), Socratis et Socraticorum cit., IV, pp. 423-433. I composti in -kovpoc, -kopiva e -kopevw sono termini tipici della lingua popolare. Cfr. J.F. KINDSTRAND (ed.), op. cit., p. 242; ID., Qurokovpoc. A Study of the Greek Compounds with -kovpoc, -kopiva and -kopevw in the Classical and Hellenistic Periods, «AC», LII, 1983, pp. 86-109; E. LIVREA, Studi cercidei: POxy. 1082, Bonn, Habelt 1986 («Papyrologische Texte und Abhandlungen», 37). 2-3 oiJ ga;r mevga] | fr. onounte = [c f]i.[lodox]ou. = c[i: l’espressione mevga (o megavla) fronein= e` frequente in attico con il significato negativo di ‘essere presuntuoso, altero, arrogante’. Cfr. PHILOD. de sup. col. 5, 3-4 J., e LSJ, s.v. fronevw, II 2 B. f]i.[lodox]ou. =c[i e` quasi completamente integrato. Tuttavia esso richiama efficacemente il precedente do[xok]o. [pivac, di valore ad esso assai simile. filodoxevw, ‘aspirare alla gloria, alla celebrita`’, verbo denominativo da filovdoxoc, ‘amante della gloria’, e` attestato in questo senso in PHILOD. de sup. col. 4, 28-29 J.; de lib. dic. col. 23 B, 7 O.; de ira col. 49, 7 I.; ARISTOT. rhet. 1388 A 1; POL. XXXI 28, 10; XXXV 4, 12; METROD. fr. 56 K. Per filovdoxoc cfr. PHILOD. de lib. dic. col. 22 A, 10-11 O.; ARISTOT. rhet. 1387 B 33; DIOG. LAE¨RT. IV 40 (ARISTO CHIUS fr. 345 SVF I); ATHEN. XI 464 D (CHRYSIPP. fr. 667 SVF III); EPICT. diss. IV 4, 42; gnom. Epict. 46; MARC. AUR. ANT. VI 51, 1, e, per filodoxiva, ‘amore della gloria’, ‘ambizione’, PHILOD. rhet. II (PHerc. 1672), col. 34, 6 L. (p. 139 S. I); STOB. ecl. II 90, 7 W. (CHRYSIPP. fr. 394 SVF III); ecl. II 91, 10 W. (CHRYSIPP. fr. 395 SVF III); DIOG. LAE¨RT. VII 115 (CHRYSIPP. fr. 422 SVF III). L’espressione qui commentata equivale a una proposizione incidentale che funge da precisazione a quanto detto immediatamente prima. Su questa passione, aspramente combattuta dai Cinici, dagli Stoici e dagli autori diatribici, si veda supra (Comm. a 15 2) quanto detto a proposito della doxokopiva. Un Peri; filodoxivac, associato a PHerc. 1025 e identificato con una delle sezioni del trattato Sui vizi, e` stato da alcuni studiosi attribuito allo stesso Filodemo. Cosı` almeno e` stato interpretato de adul. II (PHerc. 1457), col. 11, 2425 K., dove il filosofo epicureo fa riferimento «a quanto si e` considerato intorno all’ambizione (ta; peri; [thc= ] filodoxivac [ke]|k[rim]evna)». Cfr. supra, p. 3 e nota 12. 4-5 ej|pi; toic= mh; p[ro;c] hJma=c: questa espressione sembra riecheggiare suggestivamente il linguaggio utilizzato da Aristone di Chio per formulare il rifiuto della logica e della fisica. In particolare egli affermava, «che la fisica e` al di sopra di noi (uJpe;r hJmac= ) e che cio` che accade dopo la morte non ci — 315 —

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riguarda affatto (oujde;n pro;c hJmac= ); solo le cose umane ci riguardano (pro;c hJma=c)». Cfr. EUSEB. praep. evang. XV 62, 7 (fr. 353 SVF I); DIOG. LAE¨RT. VII 160 (fr. 351 SVF I), e supra, p. 69; p. 187 e nota 495. Ringrazio Anna Maria Ioppolo per la discussione di questo punto. 6-9 Viene qui esplicitato in forma esclamativa il contenuto delle linee immediatamente anteriori: il ‘metodo’, per cosı` dire, del superbo e il suo obiettivo principale e` umiliare (tapei|nou=n) gli altri per esaltare se stesso (eJauto;n metewriv|zein). L’autore non nasconde la sua profonda indignazione verso questo atteggiamento strutturale del superbo, il quale preferisce affermare se stesso sminuendo gli altri, anziche´ far leva sulla sua oggettiva superiorita` (uJperochv). Esso e` proprio in modo particolare degli ultimi due vizi descritti nella seconda sezione del De liberando a superbia, il denigratore (ejxeutelicthvc) e il vilipensore (ejxoudenwthvc), i quali «si comportano in tal modo con l’intento di ostentare la propria eccellenza (uJperoch;n | ejmfaivnontec ijdivan)». wJc introduce qui una proposizione indipendente di tipo esclamativo (cfr. LSJ, s.v., D I), come conferma anche l’interiezione nh; Div’, e non dipende pertanto, come voleva H. SAUPPE (ed.), op. cit., p. 22, seguito da CH. JENSEN (ed.), Philodemi Peri; kakiwn= cit., p. 26, da un’espressione verbale come ejnnoein= de; kaiv posta nelle prime linee perdute. Per tapeinovw, cfr. 11 31-32 e Comm. ad loc.; 20 37-38; 22 5-6; per uJperochv, 13 10 e Comm. ad loc.; 21 33; 24 13, e anche PHILOD. de sup. col. 8, 11 J. 9-13 L’episodio di Lisandro e Agesilao e` narrato da PLUTARCH. Lys. 23, 7-8; Ages. 8, 1-2; quaest. conv. 644 B; cfr. anche praec. ger. reip. 805 F; XEN. Hell. III 4, 8-9. Agesilao, re di Sparta, invidioso per il grande prestigio da lui goduto, volle sollevare da ogni incarico politico l’influente Lisandro, suo antico modello e sostenitore, lasciandogli l’ufficio modesto di scalco (kreodaivthc). Quest’ultimo era colui che nella societa` aristocratica arcaica aveva la funzione di tagliare e distribuire la carne tra i notabili durante un banchetto. L’ufficio di scalco, in se´ non disonorevole, era umiliante per Lisandro, com’e` egli stesso a sottolineare, perche´ lo costringeva a servire a tavola il re e i suoi commensali e a mostrare con questo gesto plateale la sua pubblica sottomissione a quello. Cosı` Agesilao riaffermava la sua supremazia, come dice Aristone, «umiliando gli altri, anziche´ attraverso la propria reale superiorita`». Il termine, qui nella variante krewdaivthc, e` testimoniato, oltre che in questo passo, nei luoghi sopra citati e in POLL. VI 34; VII 25. ejlavt|touc poiein= e` una perifrasi corrispondente a ejlattovw, ‘umiliare’, ‘sminuire’, verbo denominativo da ejlavttwn, -on (per il quale cfr. 14 24-25), qui impiegata per motivi di enfasi. 14-15 gauri|a=n: propriamente detto di cavalli, e` riferito in senso metaforico a persone con il significato di ‘comportarsi in modo superbo, altero’. — 316 —

COMMENTARIO

Cfr. PHIL. de somn. I 224; II 267; de cher. 71; legat. 87; DEMOSTH. or. 18, 244; THEOCR. id. 25, 133; PLUTARCH. Lyc. 22, 1; 30, 6; Philop. 21, 6; quom. adul. poe¨t. aud. deb. 22 E; de frat. am. 483 F; DIO CHRYS. or. 77/78, 33; EPICT. gnom. Epict. 15. Il corrispondente latino e` exsulto, che possiede entrambi i valori. Si vedano gli equos... ferocitate exsultantes di CIC. de off. I 90-92 piu` sopra richiamati, a p. 167 e nota 443. 16 kermavtia: diminutivo colloquiale di kevrma, -toc, ‘moneta’, e dunque ‘soldo’, ‘quattrino’. Cfr. PHILIPPID. fr. 23 PCG VII; PLUTARCH. Cim. 10; EPICT. diss. III 2, 8; ANTH. PAL. XI 346 (AUTOM.); MEN. Her. 7, e LSJ, s.v. 19-20 timwmevnw[n] ejniau|civai peribolhi= clamuvdoc: la strategia era una delle dieci piu` importanti magistrature della democrazia ateniese in epoca classica e comportava il comando di tutte le forze armate e la direzione del ministero della guerra. A partire dall’eta` ellenistica questa carica assunse un prestigio ancora maggiore. Gli strateghi venivano eletti annualmente e, come sembra doversi ricavare dal nostro passo, erano insigniti durante una cerimonia pubblica della clamuvc, il paludamento (lat. paludamentum) o mantello da generale. Cfr., con questo valore, PLUTARCH. Per. 35; Lys. 13 al.; DIO CASS. LIX 17; LX 17 passim; HERODIAN. GRAMM. I 237 passim e LSJ; s.v., 3. peribolhv equivale in questo caso a ‘imposizione’ o ‘investitura’ e ritorna a 21 13 con il significato di ‘abbigliamento’, ‘vestito’. Cfr. anche LSJ, s.v., I. 21-23 tapeino;n e{kacton kai; | th;n ejp’aujtw=i kauvchcin ajnav|gwgon: Il riferimento e` alla ricchezza, alla nobilta` e alla gloria appena richiamate, tre celebri luoghi comuni della filosofia popolare che servivano a designare riassuntivamente i beni di fortuna e che furono fortemente combattuti dal Cinismo. Diogene Laerzio (VI 105) affermava che «i filosofi cinici conducevano una vita semplice [...] noncurante della ricchezza, della fama e della nobilta` (ajrevckei d’aujtoic= kai; litwc= bioun= [...], plouvtou kai; dovxhc kai; eujgeneivac katafronou=cin)». Anche il cinicheggiante Aristone di Chio sferro` un’aspra invettiva contro la ricchezza e considerava tutti i beni di fortuna assolutamente indifferenti (ajdiavfora) per il saggio. Cfr. supra, pp. 179-181. Tali luoghi comuni sono qui tutti sinteticamente rappresentati in una sequenza che, lungi dall’essere casuale, rimanda esplicitamente a queste tradizioni filosofiche. Il primo riferimento e` proprio alla ricchezza (16-17), il secondo alla nobilta` (17-18), il terzo alla gloria, in questo caso alla gloria militare (18-20). Anche le espressioni ivi impiegate (tapeinovc, ‘vile’, ‘meschino’, per il quale cfr. anche 14 40-41, e ajnavgwgoc, ‘maleducato’, ‘ignorante’, ‘villano’), particolarmente forti, sembrano evocare i toni di questa polemica. Dopo e{kacton e in dipendenza da esso e` probabilmente sottinteso un touvtwn: «ognuna di queste cose». — 317 —

COMMENTARIO

kauvchcic, ‘boria’, ‘vanteria’ e` attestato solo qui e in EPICUR. fr. 101, 1213 A.2; PHIL. de congr. 534; VT (Sept.) I Chr. 29, 13; NT Rom. 15, 17. Il termine viene dal verbo kaucavomai (‘vantarsi’, ‘essere borioso’), per il quale cfr. 20 24 e Comm. ad loc. Si veda R. BULTMANN, s.v. kaucavomai, in Grande Lessico cit., III, coll. 289-298. Come ha rimarcato quest’ultimo studioso (ivi, col. 291), «l’eccessivo parlare della propria fama rappresenta per la sensibilita` greca una offesa alla aijdwvc ed e` un tratto caratteristico dell’ajneleuvqeroc». D’altra parte, l’invettiva contro la vanagloria e` un tema prediletto dalla filosofia popolare e dagli autori diatribici. ejp’aujtwi= e` pron. epanalettico e si riferisce a e{kacton, letteralmente «su ognuna di queste cose». ajnavgwgoc (aj- privat. e ajgwghv) non va confuso con ajnagwgovc, ‘che produce o eleva’. Cfr. anche STOB. ecl. II 102, 11 W. (= CHRYSIPP. fr. 615 SVF III). Sull’impiego dell’autointrospezione psicologica come mezzo per prendere coscienza dei propri errori, si veda supra, p. 152. 23-24 kai; diaire.[in= ] megalo|yucivan uJperhfan.[iv]ac: per l’autore del De liberando a superbia la virtu` contrapposta alla superbia e` la magnanimita` (megaloyuciva), che viene menzionata qui e a 13 37-38. Su questa importante virtu` e sul diverso comportamento del magnanimo e del superbo di fronte alla fortuna quale si evince da Aristone e dalla tradizione stoica, si veda supra, cap. II.5.3. La netta distinzione tra queste due specie morali, tra loro spesso indebitamente confuse, e` molto importante per il nostro autore. Lo stesso Filodemo, nella prima parte del De superbia (coll. 6-7) deplora l’equazione tra saggio o filosofo, da un lato, e superbo, dall’altro. Cfr. anche METROD. fr. 73 K. 25-27 diafev|rei ga;r o{con kai; [ej]pi; tou= cwvmatoc | oijdhvcewc eujexiva: la metafora della virtu` come benessere (eujexiva) e salute (uJJgiveia) dell’anima e` un tema tipico della filosofia popolare e dello Stoicismo ed era specialmente attribuita ad Aristone di Chio (PLUTARCH. de virt. mor. 440 F-441 A = ARISTO CHIUS fr. 375 SVF I), a Crisippo (GALEN. de plac. Hipp. et Plat. V 2, 437-440 D. = CHRYSIPP. fr. 471 SVF III) e a Posidonio (GAL. de plac. Hipp. et Plat. V 2, 432-435 D.). Si veda supra, p. 156 sg. oi[dhcic e` un termine assai raro testimoniato solo qui e in PLAT. Tim. 70 C; HIPPIATR. 38. Cfr. anche PHILOD. de ira, col. 8, 22 I. (dioivdhcic) e, per la dottrina stoica del tumor animi, supra, p. 155 e note 393 e 394. 28-29 katafro|nein= twn= tuch[r]wn= : come ho tentato piu` sopra di dimostrare, questa espressione identifica con precisione l’atteggiamento del saggio stoico verso i beni di fortuna e richiama esplicitamente la terminologia corrispondente. Com’e` noto, nell’insegnamento degli Stoici aveva un ruolo decisivo la teoria dell’indifferenza (ajdiaforiva) del saggio verso tutto cio` che non e` la virtu` e il vizio. L’immagine che ci viene proposta del magnanimo indifferente verso i

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COMMENTARIO

beni di fortuna e ad essi signorilmente superiore si adatta bene a questa dottrina, soprattutto alla versione intransigente e rigoristica storicamente sostenuta da Aristone di Chio. katafronevw, accompagnato dal gen., vuol dire ‘non darsi cura o pensiero di’. twn= tuch[r]wn= e` gen. pl. di ta; tuchrav, neutro sost. da tuchrovc, -av, -ovn, ‘fortunato’, ‘fortuito’. Questa espressione, che sottintende ajgaqav, significa ‘beni di fortuna’ ed equivale al lat. fortuita. Per i passi relativi, cfr. supra, p. 175 nota 457, e LSJ, s.v., 2. Il sing. to; tuchrovn si ritrova con lo stesso valore in PHILOD. de sign. col. 36, 14 D.; PLUTARCH. quom. adul. poe¨t. aud. deb. 23 F. Cfr. anche la rerum externarum despicentia di CIC. de off. I 66, il contemptus fortuitorum di SEN. ep. 23, 7, e quanto detto supra, alla p. 176 sg. 30 twi= thc= yuchc= o[gkwi: con questa perifrasi e` indicata la fondamentale disposizione interiore del magnanimo: la ‘grandezza d’animo’, cioe` la capacita` di affrontare con fortezza e pazienza le alterne vicende della sorte. o[gkoc, letteralmente ‘corpo’, ‘massa’, in senso traslato puo` significare sia ‘grandezza’, ‘importanza’, sia, come nel caso specifico, ‘fierezza’, ‘orgoglio’, qui da intendere in senso positivo. Cfr. LSJ, s.v., II 2, e Comm. a 13 15. 31-32 dia; koufovthta | tauvthc ejkpneumatouvmenon: il sost. koufovthc, ‘leggerezza’, e` usato in senso metaforico e riferito a persone solo qui e in DION. HAL. ant. Rom. VII 17. In PHILOD. rhet. IV (PHerc. 1007), col. 18, 25, p. 178 S. I, esso e` impiegato con riferimento allo stile. tauvthc e` pron. epanalettico riferentesi a yuchc= . ejkpneumatouvmenon, part. da ejkpneumatovw (ejk- e pneuma = ), che al passivo significa ‘essere gonfiato’. Esso e` utilizzato in senso metaforico soltanto qui e in PLUTARCH. de recta rat. aud. 39 D, ma con il significato opposto di ‘sgonfiare’, ‘alleggerire’ qualcuno da oi[hma e tu=foc. Cfr. LSJ, s.v., II-III, e W. KNO¨GEL, op. cit., p. 58 sg. nota 2. Aristone contrappone alla fermezza del magnanimo che riceve con grandezza d’animo i beni di fortuna, la leggerezza del superbo che sull’onda della ricchezza e` portato a disprezzare gli altri. Come ha ben intuito Kno¨gel (ivi, p. 21 nota 2), a questo contrasto fa da pendant l’uso dei sostantivi o[gkoc e koufovthc, i quali sembrano voler evocare la metafora del ‘peso’, cioe` a dire dell’ancora che assicura al magnanimo un fondamento sicuro al riparo dalle tempeste della vita, e quella del ‘pallone gonfiato’ (ejkpneumatouvmenon), cioe` del superbo che in balı´a delle onde per la sua «leggerezza di spirito», e` esposto sempre a ogni burrasca. 33 uJperora=n eJtev|rouc: il verbo uJperoravw, ‘disdegnare’, ‘disprezzare’, che identifica una delle due caratteristiche di base del superbo, il disprezzo per gli altri, si ritrova a 16 7 e anche in PHILOD. de sup. col. 1, 6 J. Cfr. anche DEMOSTH. or. 21, 198, che attribuisce allo uJperhvfanoc il fatto di considerare la gente comune kaqavrmata kai; ptwcoi; kai; oujd’a[nqrwpoi. 34-36 zw=i|a ... ta; tucovn|ta cu. n[t]refovmenoc aujtoic= : ta; tucovn|ta e` concordato con zwi= |a. Il participio cu. n[t]refovmenoc ha per soggetto lo stesso di o. ujk 22

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COMMENTARIO

ajtimavzei (v. 35), vale a dire il superbo. aujtoic= e` dativo sociativo dipendente da cu. n[t]refovmenoc e riferito a zwi= |a ... ta; tucovn|ta. 38-39 to; thli|k* ouvtwi diafevron: thli|k* ouvtwi e` dat. avverbiale di stima da thlikou=toc, qui equivalente a tovcoc, tocovcde, ‘tanto grande’ (cfr. LSJ, s.v., II), e dipendente da to; ... diafevron. Quest’ultimo e` part. neutro sing. sost. di diafevrw, che come verbo intransitivo significa ‘differire’, ‘eccellere’ e sottintende nel nostro caso un pronome deittico al genitivo come touvtwn. Cfr. LSJ, s.v., III 3-4. 39-40 cumfu|lovtaton aujtw=i: cumfu|lovtaton e` superl. da cuvmfuloc, ‘della stessa razza’, ‘congenere’, e regge il dat. aujtwi= , che a sua volta si riferisce ad a[nqrwpon. Cfr. anche, per il superlativo, ORIB. fr. 124; DAMASC. de princ. 146, e, per un’espressione concettualmente simile, 20 2-4. 40 diovti kekovc||[mhtai lovgwi: questa espressione, di cui il verbo e` sicuro, serve a completare la precedente affermazione sulla netta superiorita` dell’uomo rispetto agli animali e la stretta affinita` di tutti gli uomini tra di loro. Questa fondamentale convinzione era comune tanto ad Aristotele quanto agli Stoici, che su questo punto, seppur con un diverso grado di consapevolezza, non divergevano in maniera sostanziale. Cfr., per il primo, pol. 1253 A 7-18; 1254 B 10-12; 1278 B 19; 1332 A 41-1332 B 5; eth. nic. 1178 B 27-28; 1155 A 16-22 passim; magn. mor. I 21, 4; de an. fr. 2, 414 B 16-19; hist. an. 491 A 22-26; de part. an. 660 A 20-22; 686 B 23-24; protr. fr. 61 D.; probl. 895 A 15-19; 950 B 32-35; 955 B 4; per i secondi, SEXT. EMP. adv. math. IX 89 (fr. 529 SVF I); IX 130 (fr. 370 SVF III); CIC. de fin. III 62 (fr. 340 SVF III); III 63 (fr. 369 SVF III); III 65 (fr. 342 SVF III); III 67 (fr. 371 SVF III); III 69 (fr. 93 SVF III); de leg. I 28 (fr. 343 SVF III); I 43 (fr. 344 SVF III); LACT. div. inst. V 17 (fr. 345 SVF III); ORIG. contra Cels. VIII 50 (fr. 346 SVF III); IV 81 (fr. 368 SVF III); DIOG. LAE¨RT. VII 129 (fr. 367 SVF III); PHIL. de opif. mundi 73 (fr. 372 SVF III); de sacr. 46 (fr. 375 SVF III); PLUTARCH. de soll. an. 963 F (fr. 373 SVF III); de esu carn. II 999 A (fr. 374 SVF III). Si veda anche C. GALLAVOTTI, Teofrasto e Aristone cit., p. 476 e note 1-3. Di conseguenza, non e` possibile ricavare da queste parole un argomento decisivo a favore dell’attribuzione del De liberando a superbia a una tendenza filosofica piuttosto che all’altra. Va tuttavia precisato che, se e` vero che nel passo in questione (vv. 34-40) «non si trova nulla che non possa essere peripatetico» (W. KNO¨GEL, op. cit., p. 43), e` altresı` vero che la percezione del divario intercorrente fra la natura dell’uomo e quella degli animali appare qui, come nei filosofi stoici, piu` netta e marcata rispetto ad Aristotele. Ne´ va dimenticato che l’autore dei Fisiognomici pseudo-aristotelici non esita a paragonare sistematicamente i caratteri umani all’‘indole’ dei diversi animali, operazione che

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COMMENTARIO

nessuno stoico avrebbe mai avallato. kekovc||[mhtai e` perf. pass. di kocmevw, in questo caso ‘adornare’, ‘munire’. Si veda LSJ, s.v., III. Per l’asocialita` dello uJperhvfanoc, cf. anche ISOCR. or. 15, 131, dove egli e` equiparato al micovdhmoc e al micavnqrwpoc. Col. 16 1-3 lovgwi, integrazione suggeritami da Dirk Obbink, e` per il senso assai probabile (possibile anche nwi= , da non escludere ajrethi= ). uJbrivzei o un altro verbo analogo da cui dipenda a[nqrwpon (oggetto) e` richiesto dalla sintassi del periodo che precede. La sentenza successiva rappresenta un complemento logico di quanto precedentemente affermato: la u{bric del superbo costringe tutti a prendere le distanze da esso e ad abbandonarlo in balı´a del suo destino. cr[oni]|cqeivc[h]c [uJ]p.erhfanivac e` un genitivo assoluto con cui l’Autore vuole esprimere il protrarsi della passione nel tempo e la sua cronicizzazione in vizio. Com’e` noto, lo studio dell’insorgenza, dello sviluppo e della cronicizzazione dei pavqh costituiva una parte importante della teoria stoica delle passioni. cronivzw, generalmente ‘spendere tempo’, ‘durare’, ‘continuare’, al passivo significa ‘protrarsi’, ‘prolungarsi nel tempo’ e nel lessico medico equivale ad ‘essere o diventare cronico’. Cfr. con quest’ultimo valore, HIPPOCR. aph. III 28, e LSJ, s.v., I 4. Tanto esso quanto il derivato ejgcronivzw sono impiegati in riferimento alle passioni in GAL. de Hipp. et Plat. plac. IV 7, 416-417 D. (= CHRYSIPP. fr. 481 SVF III = POSIDON. fr. 165 E.-K.); IV 7, 417-419 D. (= CHRYSIPP. fr. 482 SVF III = POSIDON. fr. 165 E.-K.); IV 7, 419-421 D. (= CHRYSIPP. fr. 466 SVF III); IV 7, 422-424 D. (= CHRYSIPP. fr. 467 SVF III = POSIDON. fr. 165 E.-K.); V 6, 474 D. (= POSIDON. frr. 166; 187 E.-K.). Si veda anche A.M. IOPPOLO, Carneade e il terzo libro delle Tusculanae, «Elenchos», I, 1980, pp. 76-91, supra p. 151 e nota 375. 5-6 kaquperhf[a]|nivan: «smisurata arroganza». Si tratta di un hapax legomenon da kata-, rafforzativo, e uJperhfaniva, ‘superbia’. Cfr. anche, in PHILOD. de sup. col. 4, 23-24 J., il verbo kaquperhfanevw, ‘disdegnare’, ‘disprezzare profondamente’. 8 ej[pi;] t.ouv[tou]c: pron. epanalettico collegato al precedente ou{c. 9 poihvchi: verbo causativo da cui dipende il successivo [kataf]ugein= . 11-12 oJ|moivouc: sottintende auJtw/,= «simili a se stesso», cioe` «arroganti come lui (sc. il superbo)», che e` il soggetto del periodo. 13 metrivouc: ‘affabili’, ‘umani’. Cfr. anche 11 18 e LSJ, s.v., III 3. 14 eujgnwmocuvnhc: generalmente ‘cortesia’, ‘prudenza’, qui significa piuttosto ‘indulgenza’. — 321 —

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15-16 mallon aJmartavnwn ejxelevg.|coit’a[n: il verbo aJmartavnw ha qui proba= bilmente il valore moralmente rilevante di ‘prevaricare’. Cfr. anche, a 14 5, aJmartw. lou= e, a 17 25, aJmarthvcecqai, i quali pero` non sembrano possedere valore morale. La costruzione ejxelevgcw e part. predicativo equivale a ‘condannare come’, ‘giudicare colpevole di’. Si veda LSJ, s.v., I 3. 16-17 eijc | mwrivan ejnivote to; novchma | periivcthcin h]. manivan: il sostantivo novchma richiama significativamente l’analogia medica applicata alle passioni e ai vizi. Per ‘malattia’ qui si intende ovviamente la superbia. Anche mwrivan e manivan si riferiscono allo stesso campo semantico, ma con una focalizzazione piu` specifica sull’ambito dell’infermita` mentale, direttamente collegata a quella morale. Per la sistematica medicalizzazione di questa parte dell’etica da parte dei filosofi stoici e per il lessico della follia da essi utilizzato, cfr. supra, cap. II.5.1 e, per Aristone di Chio in particolare, p. 153 e nota 388; p. 156 e nota 396. 18-24 Per le azioni di Serse qui accennate cfr. AESCH. Pers. 744-751, dove pure si parla espressamente di novcoc frenwn= , ‘infermita` mentale’, come qui si parla di novchma (v. 17), e HERODOT. VII 33-36. Aristone da` a intendere che la uJperhfaniva del re persiano partecipa sia della stoltezza (mwrivan) che della follia (manivan). In realta` esse sono collegate anche alla tracotanza (u{bric) e all’empieta` (ajcevbeia) che la tradizione attribuisce al personaggio in questione, considerato il superbo per eccellenza. «Aggiogare l’Ellesponto e gettare ceppi nel mare» quasi a volerlo incatenare, equivaleva per la mentalita` religiosa degli antichi, che identificavano gli elementi naturali con la divinita`, a sfidare oltraggiosamente gli de`i e a oltrepassare i limiti da essi imposti agli uomini. duein= e` gen./dat. di duvw e corrisponde al piu` comune duoin= . Si tratta di una forma attica seriore attestata anche in alcuni codici di EUR. El. 536; THUC. I 20 (cod. Laur.); AEL. DIONYS. fr. 372, e nelle iscrizioni attiche della tarda classicita`. e[ce|tai e` medio di e[cw e qui vale ‘concernere’, ‘pertenere’, come in LSJ, s.v., C I 5. Esso e` concordato con ta; Xevr. xou (sc. e[rga) per mezzo dello schema Atticum e regge il gen. twn= duein= ... h] qajtevrou. zeugnuvein., e` inf. pres. att. di zeugnuvw, forma alternativa di zeuvgnumi, ‘aggiogare’, ‘congiungere’. 24-26 h] to; qeou;c ejx ajnqrwv|pwn [eJ]autou;c gegonevnai do|kein= : questa estrema manifestazione di follia del superbo che, invaghito di se stesso, arriva fino al punto di considerarsi un dio, si pone al termine di un climax ascendente di azioni tracotanti ed empie attribuite ad alcuni superbi famosi. Cosı` come i due precedenti addebiti erano riferiti a un personaggio storicamente determinato (il re persiano Serse), anche in questo caso e` verosimile che dietro il generico riferimento si nascondano uno o piu` personaggi famosi. Potrebbe trattarsi di un richiamo allo stesso Serse o all’apoteosi di alcuni — 322 —

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dinasti ellenistici che, com’e` noto, pretendevano dai propri sudditi segni di sottomissione, come la proscinesi, dai Greci riservati alla sola divinita`. Non si puo` escludere nemmeno l’ipotesi che qui Aristone avesse in mente alcuni filosofi come Pitagora ed Empedocle, gia` citati da Filodemo alla col. 10 tra quei pensatori che si macchiarono di superbia. E` noto, infatti, che Pitagora si definiva figlio di Ermes e che la sua gravita` induceva i suoi discepoli a identificarlo con lo stesso Apollo. Di Empedocle, poi, si sa che si definiva «dio immortale» (qeo;c a[mbrotoc) e che si arrogava onori divini. Cfr. supra, p. 18. La genericita` del riferimento in questione e` dovuta probabilmente al riassunto effettuato dal filosofo epicureo. 28-29 tocauta = me;n ou\n iJka|na; kai; peri; touvtwn ejpeipein= : queste parole di Filodemo fungono da cerniera tra la prima e la seconda sezione del De liberando a superbia. Aristone ha concluso il discorso sulla superbia in senso proprio e passa a descrivere i vizi ad essa affini. In realta`, a motivo della sintesi operata dal filosofo di Gadara, il passaggio dall’una all’altra e` alquanto brusco e non ci consente di comprendere sino in fondo quale fosse nel testo originale il preciso rapporto tra le due parti. E` verosimile che Aristone spendesse qualche parola per giustificare la transizione dalla parenesi morale cosı` tipica della prima sezione alla descrizione etologica di specie morali affini propria della seconda. Quel che rimane certo e` la paternita` aristonea di entrambe le parti e la loro comune appartenenza alla medesima opera Sul modo di liberare dalla superbia. Cfr. supra, p. 21 sg. peri; touvtwn, da me riferito al contenuto della prima sezione («di questi argomenti»), e` stato correlato da Sauppe ai tou;c ajnevdhn uJperhfanou=n|tac di cui ai vv. 27-28. 30 oJ d’aujqavdhc legovmenoc: inizia in questo punto, con la descrizione dell’insolente, la seconda sezione del De liberando a superbia (16 30-24 23), che si e` definito etologica, la quale si estende sino alla fine del libro. aujqavdhc (da aujtovc e aJndavnw), ‘insolente’, ‘altero’, e` attestato anche in AESCH. Prom. 64; 907; HERODOT. VI 92; HIPPOCR. de ae¨r. 24; ARISTOT. rhet. 1367 A 37; THEOPHR. char. 15, 1; XEN. cyn. VI 25; STOB. ecl. II 102, 11 W. (= CHRYSIPP. fr. 615 SVF III). Cfr. anche LSJ, s.v. Per questo termine in Aristotele e negli Stoici (che cosı` definivano lo stolto), si veda supra, p. 106 e note 181 e 182. 31-32 oijhcv e|wc: cfr. Comm. a 14 10. Qui la presunzione e` detta entrare in composizione con l’insolente. Sugli agglomerati di vizi, cfr. supra, p. 32 sg. 32-33 uJper|oyivac: il ‘disprezzo’ e` la qualita` dello ‘sprezzante’, uno dei vizi affini alla superbia descritti da Aristone. Per esso cfr. 20 33-21 39. La uJperoyiva e`, come la presunzione, uno dei vizi costitutivi dell’insolenza. Si veda anche 19 5-6. — 323 —

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33-34 pol* |lhc= eijkaiovthtoc: l’‘insensatezza’ o ‘sconsideratezza’ e` forse il tratto piu` caratteristico dell’insolente e cio` che lo distingue dal sufficiente, come si afferma espressamente a 17 19-21, dove e` usato l’aggettivo corrispondente eijkaioc = . Cfr. anche 19 8-9. Il sostantivo eijkaiovthc e` raro ed e` attestato solo qui e in PHILOD. rhet. IV (PHerc. 1007), col. 8 A, 25, p. 190 S. I; PHIL. quod deter. pot. insid. sol. 193; DIOG. LAE¨RT. VII 48. Cfr. LSJ, s.v. 34-36 toiou=to[c] | g.avr ejctin, ... o. i||oc: questa e` la formula tipica che nel De liberando a superbia, come nel carakthricmovc, introduce la descrizione analitica di ciascuna fattispecie. Sulla diversita` di ispirazione e intenti del nostro scritto rispetto ai Caratteri di Teofrasto, cf. supra, cap. II.3.3. 35 fhci;n oJ Ariv j ctwn: e` la seconda menzione esplicita di Aristone. Come si e` gia` mostrato piu` sopra (p. 22 sg.), essa conferma che Filodemo ha ininterrottamente (ancorche´ liberamente) citato la sua fonte da 10 31 fino a questo punto e che continuera` a farlo di qui sino alla fine. Cfr. anche Comm. a 24 19. 36-38 Cfr. EUP. fr. 490 PCG V. mavkra e` forma recenziore di mavktra, ‘vasca da bagno’. Il verbo p. roanakriv[n]ac (da pro-, ajna- e krivnw), preso dal linguaggio giuridico-costituzionale, e` qui usato nel senso generico di ‘indagare, chiedere previamente’. Esso e` testimoniato anche da ARISTOT. pol. 1298 A 31, e Ath. resp. 3, 5. Cfr. LSJ, s.v. proanakrivnw. Col. 17 1-2 Il legame di senso con la fine della col. 17 e` qui particolarmente evidente. Aristone sta descrivendo una situazione di vita quotidiana, il bagno. Senza dubbio si tratta di un bagno pubblico, con una grande vasca (mavkra) dove potevano entrare piu` persone contemporaneamente e dove i servi versavano acqua calda o fredda a seconda delle preferenze. Il tipo piu` comune di bagno sociale tra gli antichi greci era quello che si prendeva nel ginnasio dopo l’attivita` fisica in palestra e prima della discussione filosofica nell’esedra ed e` probabile che Aristone si riferisca qui proprio a questa tipologia, come sembrerebbe essere confermato dal richiamo, poche linee piu` sotto (vv. 6-7), all’usanza degli atleti di ungersi prima dell’attivita` fisica. Tuttavia, esistevano in Grecia fin dall’epoca piu` antica bagni a vapore e di diverso altro genere. L’insolente e` descritto come un villano e uno strafottente che nella vasca da bagno chiede ai servi acqua calda o fredda senza interpellare chi gli capita accanto, e se questi ne chiede per se´, egli glielo impedisce. 3-4 mhde; ... mhvt’: questo tipo di correlazione con mhvte che segue mhdev anziche´ precederlo sembra essere attestato soltanto qui (in mhvt’ il t e` sicuro). — 324 —

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LSJ, s.v. mhdev A 2, che non registra il passo (cosı` anche J.D. DENNISTON, op. cit.), esclude la possibilita` stessa di una tale correlazione. 4 procerwth=cai: letteralmente ‘chiedere’, ‘domandare’, all’attivo e` attestato solo in PLAT. Theaet. 165 D; ARISTOT. rhet. 1419 A 7; soph. elen. 169 B 35. Cfr. anche XEN. mem. III 9, 4; ARISTOT. rhet. 1419 A 1. 6-7 to;n cunaleiv|yanta mh; ajnticunaleivfein: quest’ultimo verbo (‘ungere in ricambio’) e` un hapax legomenon. cunaleivfw, ‘spargere’, qui significa ‘aiutare a cospargersi’. Cfr. anche PLUTARCH. Pomp. 73, e LSJ, s.v., II. Era consuetudine nelle palestre greche che gli atleti si aiutassero ad ungersi vicendevolmente prima degli esercizi ginnici. 13 ejpickeptomevnou: cfr., per questo verbo, STOB. flor. IV 36, 6 W. (PHILEM . fr. 47 PCG VII); ISOCR. or. 19, 25; DEMOSTH . or. 9, 12. 16 proceper. wth. = c. [ai]: ‘chiedere in aggiunta’, qui usato per la prima volta, e` attestato solo in questo passo e in ARISTE. IUD. 53; THOM. MAG. Syn. vit. Eur., p. 135 W. Il composto doppio serve a evitare la ripetizione di procerwtavw (v. 4) e di ejperwtavw (v. 10). Si veda W. KNO¨GEL, op. cit., p. 66. 17-19 to; caivrein | mh; procgravyai mhd’ejrrw=cqai | teleutaion = : tralasciare il saluto iniziale o finale in una lettera era considerato segno di insolenza. Cfr. THEOPHR. char. 24, 13; PLAUT. bacch. 1000-1006; LUC. de lapsu in salut. 5, e W. KNO¨GEL, op. cit., p. 24 nota 1. 19 oJ d’aujqevkactoc: questo termine (da aujtovc e e{kactoc), quando e` usato in senso morale, possiede due valori fondamentali: quello positivo di ‘schietto’, ‘verace’, come in PHILOD. de piet. col. 48, 14-15 O. (comp.); de sign. col. 32, 32-33 D. (avv.); ARISTOT. eth. nic. 1127 A 23-26; CLEM. ALEX. protr. VI 72, 2; strom. V 14, 110 (= CLEANTH. fr. 557 SVF I); PHILEM . fr. 93, 7 PCG VII; POSIDIPP . fr. 41 PCG VII; PHIL . de Ios. 65; in Flacc. 15; PLUTARCH. Cat. Ma. 6; Lys. 21, 7; comp. Alc. et Cor. 2; quom. adul. ab am. intern. 57 E, e quello negativo di ‘supponente’ od ‘ostinato’, come nel nostro passo e in MEN. fr. 593 PCG VI 2; Sam. 550; LUC. Phal. I 2; PLUTARCH. de lib. educ. 11 E; praec. ger. reip. 823 A, dove si trova pure l’accoppiata aujqavdhc-aujqevkactoc. Cfr. anche LSJ., s.v., 1; 3. Tale duplice significazione si riflette emblematicamente in Aristotele (loc. cit.) e nell’autore del De liberando a superbia, per i quali l’aujqevkactoc rappresenta rispettivamente l’incarnazione di una virtu` (la veracita`) e di un vizio (la sufficienza). Sulla divergenza tra di essi si veda supra, p. 106 e nota 183; p. 107; W. KNO¨GEL, op. cit., pp. 28-30; F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 60. L’elemento dominante del sufficiente di Aristone e` senz’altro la presunzione (oi[hcic), tratto che egli possiede in comune con l’onnisciente e che lo induce a fidarsi solo di se stesso e a disprezzare il consiglio altrui. — 325 —

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20 eijk* a.[i]= ovc: ‘insensato’, ‘sconsiderato’. Cfr. POL. VII 7, 5 passim; CEB. fr. 12 P. Per il sostantivo corrispondente cfr. 16 33 e Comm. ad loc.. La maggiore insensatezza e irragionevolezza (ajlogiva) dell’insolente rispetto al sufficiente sembrano essere il principale discrimine tra l’uno e l’altro vizio. 23 ijdiognwmonwn= : questo verbo (‘avere un’opinione indipendente’, ‘seguire il proprio criterio’, da ijdiognwvmwn, ‘che ha un’opinione propria’) si trova solo qui e in DIO CASS. XLIII 27; XLV 42; LIII 21. Cfr. LSJ, s.v. 24-25 katorqwv[c]ein, | aJmarthvcecqai d’: questa coppia di verbi e` impiegata in funzione antitetica. La medesima opposizione ritorna in PLAT. leg. 654 C; ARISTOT. eth. nic. 1106 B 26; 31; 1107 A 15; STOB. ecl. II 7, 11 G W. (= ZENO CIT. fr. 216 SVF I); ALEX. APHR. de fato 34-35 (= CHRYSIPP. frr. 1002-1003 SVF II); CLEM. ALEX. strom. VI 12, 98 (= CHRYSIPP. fr. 110 SVF III); VI 14, 111 (= CHRYSIPP. fr. 515 SVF III); PHIL. leg. alleg. I 93 (= CHRYSIPP. fr. 519 SVF III); ORIG. comm. in Matth. III 494 D (= CHRYSIPP . fr. 523 SVF III); DIOG . LAE¨ RT . VII 120 (= CHRYSIPP . fr. 527 SVF III); EPICT. diss. I 28, 30; II 26, 1. Il verbo katorqovw, qui usato intransitivamente, equivale ad ‘avere successo’. Cfr. anche 18 33-34, dove esso e` impiegato in modo transitivo nel senso di ‘condurre a successo’, e LSJ, s.v., II. Per aJmartavnw, si veda anche 16 15, dove pero` il verbo e` impiegato in senso morale e, con valore moralmente neutro, l’aggettivo sostantivato aJmartw. lou= (14 5). Come si puo` osservare, l’antitesi e` attestata sia in Aristotele che (piu` massicciamente) nei frammenti degli Stoici, per cui non e` possibile affermare che i due termini andrebbero qui intesi nel senso tecnico ad essi attribuito dalla filosofia stoica a partire da Crisippo. Com’e` noto, nell’etica crisippea il katovrqwma indicava l’azione morale retta, vale a dire l’azione compiuta con una disposizione interiore conforme all’ojrqo;c lovgoc e, in quanto tale, era considerata tipica del saggio. katorqovw era il verbo corrispondente e aJmartavnw il suo contrario. Ebbene, vi sono elementi sufficienti per affermare che nel nostro passo questi due verbi non sono utilizzati in tale ristretta accezione morale. Anzi, essi non sembrano essere impiegati nemmeno in senso genericamente filosofico. Al contrario, il contesto fa pensare piuttosto a un uso di katorqovw e di aJmartavnw nei significati originari e filosoficamente irrilevanti di ‘avere successo’ (o, transitivamente, ‘condurre a successo’) e ‘fallire il proprio obiettivo’ abbondantemente attestati dai lessici. Cfr. LSJ, s.v. katorqovw, I 2 B; II, e s.v. aJmartavnw, I 2. In effetti, allorquando si afferma che il sufficiente «e` convinto che avra` successo (katorqwv[c]ein) in tutte le imprese e che al contrario fallira` (aJmarthvcecqai) qualora si avvalga del giudizio di un altro» egli non sembra avere in mente delle imprese e degli obiettivi moralmente — 326 —

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o filosoficamente caratterizzati. Quando «si allontana dalla citta`, compra, vende, persegue una carica», il sufficiente aspira soltanto al successo materiale. In cio` consiste per lui la felicita` e non nel progresso morale o nel perseguimento della virtu` e nell’allontanamento dal vizio. Ne´ e` facile pensare che le azioni di un soggetto in preda alle passioni possano avere una connotazione intenzionalmente morale. Si vedano W. KNO¨GEL, op. cit., p. 25 sg., per il quale «katorqou=n e aJmartavnw si riferiscono a successo e insuccesso nella vita quotidiana»; A.M. IOPPOLO, Opinione e scienza cit., p. 127 sg. e note 17-18; EAD., Il concetto di ‘‘eulogon’’ cit., p. 149 nota 17. Del resto, con il significato fondamentale di ‘azione che conduce al successo’, senza alcun valore morale, sono ben testimoniati anche katovrqwcic (cfr. LSJ, s.v., II 1) e katovrqwma (cfr. LSJ, s.v., 1) e con quello generico di ‘fallimento’, il sostantivo aJmavrthma (cfr. LSJ, s.v.). Cfr. anche Comm. a 18 33-34 (katorqouvme|na) e a 20 20 (katorqwvmata). Il punto e` che, come e` stato messo in luce da Anna Maria Ioppolo, termini come katorqovw, katovrqwma e katovrqwcic appartenevano al lessico filosofico comune (e, aggiungo io, al linguaggio ordinario) ben prima che Crisippo attribuisse loro un significato tecnico. Aristotele li utilizzo` frequentemente nelle sue opere morali con un generico significato filosofico, anche se a detta di D. TSEKOURAKIS, Study in the Terminology of the Early Stoic Ethics, Wiesbaden, Steiner 1974 («Hermes Einzelschriften», 32), p. 44 sg., nelle Etiche comincia gia` a farsi strada una specifica connotazione morale, che nel caso di magn. mor. II 3, 2 coinciderebbe addirittura con il significato tecnico ad essi conferito dallo Stoicismo. Anche Arcesilao, la cui attivita` e` grosso modo contemporanea a quella di Cleante, impiego` sicuramente katorqovw e katovrqwma e definiva quest’ultimo come «quella azione che, una volta compiuta, possiede una giustificazione razionale» (o{per pracqe;n eu[logon e[cei th;n ajpologivan), cioe` allo stesso modo in cui Zenone definiva l’azione media, il cosiddetto kaqh=kon. E cosı`, neanche per lui katovrqwma si discosta dal generico significato filosofico di azione buona, ma inseparabile dal successo. Cfr. SEXT. EMP. adv. math. VII 158, e A.M. IOPPOLO, Opinione e scienza cit., pp. 121134; EAD., Il concetto di ‘‘eulogon’’ cit. 27-32 Conscio delle proprie capacita`, il sufficiente gestisce i propri affari in assoluta autonomia (mh|deni; procanaqevmenoc) e riservatezza (‘‘oi\d’ejgwv’’) senza chiedere o tenere conto del giudizio altrui. Per questo atteggiamento cfr. anche 18 6-9; 19 26-29 e Comm. ad locc. Il verbo procanativqhmi, letteralmente ‘offrire, dedicare in aggiunta’, al medio puo` significare, come qui, ‘consultare’, ‘chiedere consiglio a’. Con questo valore esso ritorna in 18 8-9 e in PHOT. lex., s.v. neottovc (= CHRYSIPP. fr. 1202 SVF II); NT Gal. 1, 16; LUC. Iupp. trag. 1; DIOD. SIC. XVII 116. Cfr. anche LSJ, — 327 —

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s.v., II, e W. KNO¨GEL, op. cit., p. 65 nota 2. Per procerwtavw, cfr. 17 4 e Comm. ad loc. 33-34 kata* meidi|wn= : questo verbo ‘ridere con disprezzo’, ‘deridere’, si ritrova solo in IOS. bel. Iud. III 7, 33. Il nostro passo non e` riportato nel LSJ. 35 bouleuomevnw. [i: «a chi si consulta con lui». E` frequente in Filodemo l’uso del participio sostantivato al singolare senza l’articolo. Cfr. anche 23 24-25. Ringrazio Dirk Obbink per questa osservazione. 38 ajpotevteuce: perf. att. di ajpotugcavnw, ‘fallire l’obiettivo’. Cfr. anche, per questo verbo, 19 23 (sempre in riferimento al sufficiente) e, per i sostantivi derivati ajpovteuxic e ajpovteugma, rispettivamente 14 22-23 e 20 18 (dove tajpoteuvgmata, gli insuccessi dell’onnisciente, sono contrapposti a ta; katorqwvmata). Il tema degli svariati insuccessi del superbo e` uno dei temi importanti del De liberando a superbia, sia in campo diagnostico che terapeutico, dove l’esperienza dei propri fallimenti rappresenta per il superbo l’extrema ratio e al contempo uno dei piu` efficaci rimedi per la sua guarigione. Col. 18 1-4 Il nesso logico con le ultime linee della colonna precedente emerge anche qui con chiarezza e la prima linea, benche´ totalmente integrata, completa bene il senso delle frasi immediatamente precedente e successiva: il sufficiente si rifiuta di riconoscere tutti i suoi fallimenti ed e` incapace di portare a compimento le sue iniziative. 5 ducwpeicqai : per questo verbo, qui seguito dall’accusativo nel senso = di ‘avere ritegno, vergogna’, cfr. anche PHILOD. rhet. VII, col. 21, 22, p. 297 S. I; de bono rege col. 36, 32-33 D., e LSJ, s.v., II 2. 6-9 Il sufficiente attacca coloro che prima di agire chiedono consiglio accusandoli di fare come i fanciulli che si affidano al parere dei loro pedagoghi. Il rifiuto del consiglio, frutto della presunzione, e` conseguenza dell’abnorme autostima del sufficiente. Cfr. anche su questo punto 18 27-32; 19 26-29. Le espressioni qui impiegate sembrerebbero richiamare quelle utilizzate da Aristone di Chio in SEXT. EMP. adv. math. VII 12; SEN. epp. 89, 13; 94, 9. Ma e` appena il caso di notare che in questi passi i precetti e i consigli sono considerati sempre dalla prospettiva del filosofo e della loro discutibile utilita` per il progresso morale del destinatario, e non si disquisisce sul loro rifiuto da parte di quest’ultimo, come invece fa palesemente il sufficiente. Cfr. anche 19 26-29 e Comm. ad loc.. paidavria e` diminutivo di uso familiare, da paic= . Per procanativqhmi, cfr. 17 28 e Comm. ad loc. — 328 —

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10-11 kai; movnoc e[cein pwvgwna kai; | poliavc: per questa espressione colloquiale, corrispondente all’it. ‘comportarsi da uomo vissuto’, cfr. anche ARISTOPH. Thesm. 189-190; THEOPHR. char. 14, 28, e M. GIGANTE, Aristone di Ceo e Aristofane in Filodemo, «SIFC», XCIII, 2000, p. 147. 11-12 kai; zhn= dunhvcecqai | genovmenoc ejn ejrhmivai: conseguenza inevitabile dell’autostima ed egocentrismo del sufficiente e` il volontario isolamento dalla societa`, per il quale cfr. anche 20 2-4 e, riguardo al superbo in generale, 15 34-16 3. La stessa cosa non si puo` affermare del saggio stoico, al quale F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 53, ha tentato senza successo di accostare il ritratto del superbo e, in particolare, del sufficiente. Le testimonianze sulla socievolezza, amabilita` e cortesia del saggio stoico sono numerose e sicure. Cfr., ad es., DIOG. LAE¨RT. VII 123 (fr. 628 SVF III); LACT. div. inst. V 17 (fr. 629 SVF III); STOB. ecl. II 108, 5 W. (fr. 630 SVF III); ecl. II 115, 10 W. (fr. 632 SVF III). Sull’inapplicabilita` a questo e ad altri passi della dottrina stoica dell’autosufficienza della virtu` (la cosiddetta ‘autarchia’), si veda Comm. a 19 26-29. 13-14 pan|teidhvmwn: ‘onnisciente’. Questo composto (da pa=c, ‘tutto’, e eijdhvmwn, ‘conoscitore’, ‘esperto’) e` attestato solo qui e a 20 4. Cfr. anche supra, p. 107. L’onnisciente e` colui che pretende di dominare tutto lo scibile (vv. 14-15) e si vanta di padroneggiare tutte le scienze e le arti (vv. 3638). La sua caratteristica principale e` il senso di sprezzante superiorita` intellettuale di chi si pone su un altro livello rispetto agli altri e pretende di eguagliarli nel loro medesimo ambito scientifico e professionale. 19-23 Cfr. PLAT. Hipp. Min. 368 B-C. Ippia di Elide, sofista vissuto tra la seconda meta` del V sec. a.C. e la prima meta` del secolo successivo, era considerato il campione della polumaqiva per la sua vasta erudizione, che si estendeva a molte discipline, e per l’esercizio delle arti piu` svariate. Il suo enciclopedismo fu criticato nei due dialoghi platonici che da lui prendono nome. Dal secondo di essi, l’Ippia minore, e` preso il riferimento a cui qui allude Aristone. 28 ejmpeirivac nomikhc= : ‘competenza legale’. ejmpeiriva qui, come a 19 3435, equivale ad ‘abilita`’, ‘competenza’. Si veda LSJ, s.v., II 2. Per nomikovc cfr. anche PHILOD. rhet. II (PHerc. 1674), col. 14, 21 L. (p. 37 S. I). 31-32 futeuvein kai; fortiv|zecqai: questa sizigia, composta da futeuvw, letteralmente ‘piantare’, ‘coltivare’ (soprattutto alberi da frutto), e fortivzw, ‘caricare’ (specie di una nave) e, quindi, ‘imbarcare, trasportare un carico’, e` usata in senso generico per indicare attivita` di produzione e trasporto. Cfr. LSJ, s.v. fortivzw. 32-34 ta; mavlicq’uJpo; tw=n te|cnitikwtavtwn katorqouvme|na: «prodotti che sono in grado di ottenere con successo soltanto i massimi specialisti». Il su— 329 —

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perlativo te|cnitikwtavtwn, da tecnitikovc, ‘proprio di un artigiano o di un esperto’ (termine assai raro per il quale si veda PHILOD. de mus. IV, col. 81*, 39 D. (tecn[e]iti//k. ovn), e HERM. ap. STOB. ecl. I 49, 69 W.), e` attestato soltanto qui. La vocale tematica e` allungata (-kwt-) come nell’altro superlativo tapei|nwtav[i]thi (14 40-41). Tutti gli editori, da Caterino fino a Wehrli, hanno soppiantato la lettura autentica del papiro con la lectio facilior tecnikwtavtwn (da tecnikovc), espungendo le lettere -ti-. Ma non vi e` motivo di mettere in discussione la correttezza della lezione originaria. Come abbiamo appena visto, l’aggettivo tecnitikovc, di cui la forma tecnikovc rappresenta una banalizzazione, e` altrove utilizzato nel grado positivo dallo stesso Filodemo. katorqouvme|na e` part. pass. da katorqovw, che e` qui usato transitivamente con il valore generico di ‘condurre a successo’. Che questo verbo e il sostantivo corrispondente non possiedano per Aristone alcuna connotazione filosofica o filosofico-morale e` reso ancor piu` evidente dal fatto che katorqovw si riferisce qui ad attivita` meramente tecnico-pratiche. Cfr. anche Comm. a 17 24-25 e a 20 20. Ad esso fa da contrasto la successiva espressione nauagw=n ejn a{paci, di cui il soggetto e` l’onnisciente. 35-36 aj[p]o. plh|xiva* c: ‘follia’, ‘insensatezza’. Per la medicalizzazione dei vizi e il campo semantico della follia ad essi costantemente applicato dal nostro Aristone (cosı` come dai filosofi stoici e da Aristone di Chio), vedasi supra, cap. II.5.1. e anche Comm. a 16 16-17. ajpoplhxiva si ritrova anche in PHILOD. de sup. col. 4, 24-25 J.; rhet. II (PHerc. 1672), col. 39, 14 L. (p. 145 S. I) e, con il medesimo valore, in PHLEG. mir. 2. Cfr. anche LSJ, s.v., 1. 37 ajntipoiouvmeno. [c: part. pres. med. di ajntipoievw, qui significa ‘pretendere’, ‘vantare’. Cfr. LSJ, s.v., II 1. 38-39 k]a. |tagelwntac : part. pres. att. di katagelavw, ‘derire’, ‘schernire’. = Per il sostantivo katavgelwc cfr. 19 24-25. Col. 19 2-3 o]u. jk ajndr.[w=n ajmeqov]|dwn ejpitrevpein: questo verbo, qui da intendere intransitivamente nel senso di ‘affidarsi a’ (cfr. LSJ, s.v., I 4), esige un dativo di cosa o di persona che deve essere andato perduto nelle prime linee della colonna. Ho ipotizzato che si tratti di un sostantivo come gnwmhi da = cui possa dipendere a sua volta il gen. pl. ajndr.[wn= ajmeqov]|dwn. Il soggetto ovviamente e` l’onnisciente, il quale non fa affidamento (ejpitrevpein) sul giudizio di persone da lui considerate senza metodo (ajmeqov]|dwn), ma solo sul proprio criterio personale. E cosı`, e` salvaguardata la continuita` logica con l’ultima proposizione della colonna precedente: all’affermazione per cui — 330 —

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l’onnisciente taccia di inesperienza (ajpeivrouc) coloro che lo deridono fa da perfetto pendant l’analoga accusa di carenza metodologica. ajmevqodoc, termine tecnico qui impiegato nel senso di ‘senza metodo o sistema’, si ritrova anche in PHILOD. rhet. II (PHerc. 1672), col. 27, 23-24 L. (p. 127 S. I), e, con diverso significato, ivi, col. 29, 36 L. (p. 132 S. I). Cfr. anche LSJ, s.v., 2. 3-10 Inizia in questo punto la descrizione delle conseguenze nefaste dei primi tre vizi affini alla superbia condotta secondo l’ordine in cui sono stati anteriormente trattati. Come ha gia` fatto in precedenza (16 30-34), Aristone declina nuovamente tutte le componenti morali e caratteriali dell’insolente aggiungendo qui soltanto la iattanza (ajlazo|neivac). Questo vizio, anch’esso affine alla superbia, e` nominato solo qui e a 21 39-40, dove si afferma che l’ironico e` una specie di millantatore (ajlazovnoc ei\doc). Nel De liberando a superbia, cosı` come ci e` conservato in Filodemo, non e` tramandato un ritratto specifico corrispondente a tale fattispecie. Per il verbo derivato ajlazoneuvw, cfr. PHILOD. de sup. col. 4, 27 J., e sulla speciale importanza di questo vizio nella diatriba e nelle tradizioni cinica, accademicoscettica e pirroniana, supra, pp. 63-65, e O. RIBBECK, op. cit., pp. 1-51. Si noti che anche qui, come negli scrittori diatribici, la iattanza compare in connessione con la superbia e la presunzione. Si ribadisce anche il ruolo speciale giocato nell’insolenza dalla sconsideratezza (vv. 8-9: kai; ijdivwc ta; ejk thc= eijkaiovth|toc). 4-7 tav ... duccerh= parakolouqei:= ta; duccerhv, ‘difficolta`’, ‘disagi’, e` neutro sost. di duccerhvc, ‘difficile’, ‘penoso’. Cfr. LSJ, s.v., I 2. parakolouqevw, ‘seguo’, ‘accompagno’, e` composto di para- e ajkolouqevw, ‘seguire’, ed e` usato spesso in Filodemo. Si veda anche, a 24 19-20, ejpakolouqevw. 12-13 k. oi|nwvnhma: questo sostantivo, derivante da koinovw e qui corrispondente a ‘impresa comune’, si ritrova con diverso valore in PHILOD. de oec. col. 15, 13 J. Cfr. LSJ, s.v., 1. 16-17 th;n kakivan: per questo sostantivo cfr. anche 24 27. 18 tav: si sottindende duccerh,= per il quale si veda ai vv. 4-7. 19 ajtopivac: ‘assurdita`’. Con questo significato si ritrova anche in ARISTOPH . Ran. 1372; Ach. 349; PLAT . symp. 215 A . Cfr. anche LSJ, s.v., 1. 20 ajfraivnein: cfr., per questo verbo (‘essere stolto, insensato’), SIMPL. in Aristot. categ. 388, 26 (fr. 173 SVF II); STOB. ecl. II 96, 18 W. (fr. 501 SVF III); PLUTARCH. de Stoic. repugn. 1037 D; 1048 E (frr. 662; 668 SVF III); ARISTOT. fr. 764 G.; SEXT. EMP. adv. math. XI 94; PLOT. enn. V 8, 3. 24-25 ejpicaivrecqai meta; katagev|lwtoc uJpo; pavntwn: cfr. anche, per ejpicaivrw (qui eccezionalmente al passivo), 13 7-8, e per il termine e il concetto di ejpicairekakiva, 12 32 e Comm. ad loc.. katavgelwc, ‘derisione’, ‘scherno’, e` termine del linguaggio colloquiale. Per il verbo corrispondente vedasi 18 38-39. — 331 —

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26-29 mhde; twn= | cofwn= ajnamarthvtwn ei\nai | legovntwn mhd’ajprocdevk|twn cumboulivac: in queste parole si e` voluto vedere da parte di F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 53, una presunta polemica dell’autore contro la dottrina stoica dell’infallibilita` e autosufficienza (aujtavrkeia) del sapiente. Gli Stoici, infatti, sostenevano che il saggio e` infallibile (ajnamavrthtoc, ajnapovteuktoc), non soggetto ad inganno (ajnexapavthtoc), incensurabile (a[memptoc), irreprensibile (ajnepivplhktoc), incrollabile (ajperivptwtoc). Si vedano PHerc. 1020, frr. 2-3; col. 1, 1-6; coll. 2-3 ARNIM (= CHRYSIPP . fr. 131 SVF II); GAL. de Hipp. et Plat. plac. VII 2, 595-600 D. (= CHRYSIPP. fr. 256 SVF III); PHIL. quod omnis probus liber sit 59 (= CHRYSIPP . fr. 362 SVF III); DIOG . LAE¨RT . VII 122 (= CHRYSIPP. fr. 556 SVF III); DIO CHRYS. or. 49, 9; EPICT. diss. I 4, 11; 19, 3; MUS. RUF. or. 2, 11-15, e M. CAPASSO, Il saggio infallibile (PHerc. 1020, col. I), in La regione sotterrata dal Vesuvio. Studi e prospettive. Atti del Convegno Internazionale, 11-15 novembre 1979, Napoli, Ed. Univ. 1982, pp. 455-470; ID., Margini Ercolanesi. Scelta di testi e documenti ercolanesi, Napoli, Elleboro 19912, p. 83 sg.; L. MARRONE, Testi stoici ercolanesi, «CErc», XVII, 1987, pp. 181-183; P.P. FUENTES GONZA´LEZ (e´d.), op. cit. p. 505 sg. Ma a questa interpretazione si deve obiettare innanzitutto che ajnamavrthtoc (qui ‘impeccabile’, ‘che non commette errori’, piuttosto che ‘infallibile’) nel nostro passo non ha un valore tecnico e nemmeno filosofico-morale, come del tutto generico e privo di qualunque connotazione filosofica e` il contesto nel quale l’affermazione e` situata. Vi si parla di intelligenza comune (32-33: koi|nw=c c* uvnecin), di imprese materiali, di nozioni tecniche, di competenze specifiche (34-35: ijdivac ejmpei|rivac), mai di azioni morali o di questioni dottrinali. Inoltre, anche ammettendo che cofovc sia qui utilizzato in senso strettamente filosofico, non sembra che l’autore voglia fare affermazioni di principio. Egli si limita soltanto a segnalare che «perfino i saggi dicono (legovntwn) di non essere impeccabili». Dicono di non essere, piuttosto che non sono. L’enfasi non e` sulla condizione oggettiva del sapiente, ma sulla sua percezione di se´, che gli fa riconoscere prudentemente i suoi limiti secondo l’insegnamento socratico. Per di piu`, va osservato che il saggio stoico, cosı` come e` descritto dalle nostre fonti, e` sı` infallibile, ma non nel senso che egli conosce ogni cosa e padroneggia ogni disciplina, come pretende di fare il sufficiente (e l’onnisciente), ma nel senso che non concede l’assenso a nulla che sia falso. Sono stati gia` abbondantemente discussi (supra, p. 185 sg.) il resoconto dossografico contenuto in Stobeo (ecl. II 67, 13 W. = fr. 654 SVF III), dove si nega che il sapiente stoico sia in grado di esercitare tutte le arti, e il passo di Dione di Prusa (or. 71, 5 = fr. 562 SVF III) in cui si afferma l’impossibilita` per il filosofo di conoscere e praticare in grado eminente tutte le di— 332 —

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scipline. Quest’ultimo asserisce anzi esplicitamente che non e` pensabile nemmeno per il sapiente di superare uno specialista nel suo stesso campo di specializzazione. Per questo egli puo` ben essere disposto a ricevere consiglio da esperti su materie settoriali (ringrazio David Sedley e Michael Erler per la proficua discussione di questo punto). E` del resto riconosciuto che nemmeno i piu` grandi filosofi stoici, neanche Zenone, Cleante e Crisippo, coloro cioe` che furono additati dalle successive generazioni di discepoli come sapienti tout court, considerarono tali se stessi o i loro maestri e, quindi, non dovevano nemmeno ritenersi infallibili. Cfr. SEXT. EMP. adv. math. IX 133; ALEX. APHR. de fato 28, 2-6; EUS. praep. evang. VI 8, 13; 16 (fr. 668 SVF III = DIOGEN. PHIL. fr. 2 G.), e G.B. KERFERD, What Does the Wise Man Know?, in J.M. RIST (ed.), The Stoics cit., p. 129; P. DONINI, Stoic Ethics: Virtue and Wisdom cit., p. 722 sg.; R. BROUWER, Sagehood and the Stoics, «OSAPh», XXIII, 2002, pp. 181-224. Quanto poi e` stato asserito a proposito di Aristone di Chio sulla base di una specifica interpretazione di DIOG. LAE¨RT. VII 162 (fr. 347 SVF I) e STOB. fl. IV 52 A, 18 H. (fr. 399 SVF I), che cioe` egli, aderendo in modo particolare (mavlicta) alla dottrina stoica secondo cui il saggio e` privo di opinioni (ajdovxacton) e ammettendo forse, a differenza degli altri Stoici, l’esistenza di un certo numero di sapienti, avrebbe considerato tale se stesso, e` una vecchia congettura di Rudolf Hirzel (Untersuchungen zu Ciceros philosophischen Schriften, Leipzig, Hirzel 1882, II, p. 275), che attende ancora di essere dimostrata. Si veda anche A.M. IOPPOLO, Aristone di Chio cit., p. 117 e nota 59; EAD., Il Peri; tou= koufivzein uJperhfanivac cit., p. 734. Nemmeno nella ripetuta accusa mossa al sufficiente di non accettare consigli (cumboulivac), e` possibile trovare un valido appiglio alla tesi di Wehrli della presunta equivalenza tra il superbo di Aristone e l’ideale del saggio stoico. Di fatto, con buona pace dello studioso svizzero, nessuna fonte stoica e` in grado di avallare l’idea che il sapiente non sia disposto a ricevere suggerimenti. Quanto ad Aristone di Chio che, com’e` noto, escludeva i precetti e i consigli dalla sezione protrettica dell’etica, si veda quanto affermato piu` sopra, Comm. a 18 6-9. Come la`, anche qui ci si limita a constatare il loro volontario rifiuto da parte del sufficiente e non si discute affatto dell’efficacia oggettiva di questi mezzi per il progresso morale del destinatario. Cfr. anche 18 27-32. Veniamo infine, sempre per replicare a Wehrli, al concetto di aujtavrkeia presso i filosofi stoici. Ebbene, va detto che nello Stoicismo antico questo concetto si applicava primariamente e in senso proprio soltanto alla virtu`, la quale era detta essere autosufficiente (aujtavrkhc) per la felicita` (cfr. DIOG. LAE¨RT. VII 127 = fr. 187 SVF I = fr. 49 SVF III; VII 188 = fr. 685 SVF III; — 333 —

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ALEX. APHR. de an., p. 160, 3 B. = fr. 64 SVF III; p. 161, 16 B. = fr. 239 SVF III; p. 162, 32 B. = fr. 65 SVF III; p. 168, 1 B. = fr. 764 SVF III; in Aristot. Top., p. 173, 11 = fr. 67 SVF III; STOB. ecl. II 100, 15 W. = fr. 208 SVF III; CLEM. ALEX. strom. V 14, 97 = ANTIP. fr. 56 SVF III). Solo in secondo luogo e piu` genericamente era riferita al sapiente come quella «disposizione che insegna ad accontentarsi del necessario e a sapersi procurare da se stessi cio` che serve a realizzare una vita beata». Cfr. ANDRON. Peri; paqw=n VI, p. 251, 3-p. 253, 2 G. T. (fr. 272 SVF III); CLEM. ALEX. paed. II 12, 128 (fr. 276 SVF III). Ringrazio Anna Maria Ioppolo per avermi chiarito le idee su questo punto. ajprovcdektoc, ‘che non presta ascolto’, e` agg. verb. da ajpriv. e procdevcomai, ‘accogliere’, ‘accettare’, qui con significato attivo. 32 lhrein= : per questo verbo (‘delirare’, ‘essere insensato’) cfr. anche 20 28 (part.). 32-33 th;n koi|nw=c c* uvnecin: questa espressione filosofica, che in tale forma si trova soltanto qui e che richiama la koinh; ai[cqecic di Aristotele e degli Stoici, serve a designare il senso comune inteso come comprensione ordinaria e contrapposto alla conoscenza acquisita per mezzo dell’apprendimento. koi|nw=c e` avv. da koinovc, ‘comune’. 34-35 ta; tw=n ijdivac ejmpei|rivac ejcovntwn: «le cognizioni proprie di quelli che possiedono competenze specifiche». Per il significato di ejmpeiriva nel De liberando a superbia, cfr. Comm. a 18 28. 35-36 metameme|lh* =cq[a]i: per questo verbo cfr. anche 11 36-12 1 (ma si tratta di una forma largamente integrata) e PHILOD. rhet. VII, col. 22, 3-4; 9-10, p. 16 S. II. 37 ejnkurein= : cfr. anche, per questo termine, PHILOD. de sign. col. 21, 8 D.; de ira col. 11, 15; col. 40, 17 I.; rhet. lib. inc. col. 4, 17, p. 147 S. II; de dis III, col. 6, 5; col. 12, 1; fr. 41, 19-20 D.; de morte IV, col. 34, 38-39 K.; de piet. col. 55, 13 O. 37-38 karpou|= cqai: questo verbo, che al medio significa ‘mietere’, ‘godere il frutto di qualcosa’, va qui inteso in senso sarcastico. Cfr. HIPPOCR. de flat. 1; AESCH. Ag. 502; EUR. Hipp. 1427; Oen. fr. 571, 3 TrGF V 2; PLAT. symp. 183 A, e LSJ, s.v., II 4. 38 prock[o]p. a. cv . : ‘ostilita`’. cfr. anche PHILOD. de poe¨m. II, Tract. A, col. 4, 8; col. 38, 2; Tract. C, col. 20, 2-3 S. Col. 20 2-4 levgein a[n]qrwpo.[c] | w]n ajnqrwvp[wn oujk e[]cein creiv|an: sull’asocialita` e volontaria emarginazione del sufficiente, cfr. Comm. a 18 11-12. Questa — 334 —

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espressione sembra richiamare 15 34-16 3, dove e` messo in rilievo il contrasto tra l’eccelsa dignita` dell’uomo e la tracotanza del superbo verso i suoi stessi simili. A questo proposito si puo` richiamare il confronto con PLUTARCH . de comm. not. 1068 A (= CHRYSIPP . fr. 674 SVF III): oJ fau=loc oujdeno;c deitai, oujdeno;c e[cei creivan. Si veda C. GALLAVOTTI, Teofrasto e Aristone cit., = p. 476 e nota 5. 4-33 Come ha ben notato W. KNO¨GEL, op. cit., p. 31, diversamente rispetto all’insolente e al sufficiente, l’autore ritorna sull’onnisciente non tanto per elencare le conseguenze negative di questo vizio (a cui pure si fa qualche riferimento: cfr. vv. 16-20; 28-33), quanto piuttosto per proseguirne la descrizione analitica precedentemente intrapresa (18 12-19 3). Si ha cioe` l’impressione che Filodemo approfitti di questa sezione per fornire qualche informazione supplementare anteriormente tralasciata per motivi di sintesi. 5-6 mar|gi*tomanh* vc: hapax legomenon da Margivthc e maivnw, ‘folle come Margite’. Cosı` sembra richiedere il senso del passo, piuttosto che «margitomane» o «maniaco di Margite», come esigerebbe il confronto con gli altri aggettivi composti in -manhvc e come voleva anche M. GIGANTE, I sette tipi cit., p. 350; ID., Atakta XVII, «CErc», XXVIII, 1998, p. 112; ID., Filodemo nella storia cit., p. 42; ID., Kepos e Peripatos cit., p. 127. Si veda anche W. KNO¨GEL, op. cit., p. 64, e LSJ, s.v. Il termine, tipico del linguaggio colloquiale, sembra essere di Filodemo, piu` che di Aristone, visto che in PHILOD. rhet. IV (PHerc. 1007), col. 25 A, 13-14, p. 207 S. I, ricorre margeitomaniva e in rhet. II (PHerc. 1672), col. 34, 15 L. (p. 139 S. I), margeiteiva, tutti hapax derivanti da Margivthc, a sua volta dipendente da mavrgoc, -h, -on, ‘folle’. Margite era il protagonista di un omonimo poemetto eroicomico falsamente attribuito a Omero e un personaggio proverbiale per la sua insensatezza, al punto che il suo nome era impiegato come appellativo comune degli stolti. Cfr. HESYCH. e HARP. s.v. margivthc. PS.-PLAT. Alc. II 147 C-D, ci ha trasmesso l’esametro che circolava sul suo conto (PS.-HOM. Marg. fr. 3 IEG): «sapeva molte cose e le sapeva tutte male (povll’hjpivctato e[rga, kakwc= d’hjpivctato pavnta)». Nel nostro scritto egli assurge a simbolo della stolta pretesa dell’onnisciente di conoscere tutte le scienze e praticare tutte le arti. 6-8 to;n | o[ntwc polumaqevctaton pr(oc)|agoreuovmenon: Aristone ammette la possibilita`, almeno teorica, che vi sia qualcuno che possa realmente dominare diversi campi della scienza e della tecnica e che pertanto possa a buon diritto (o[ntwc) essere definito polumaqevctatoc, ma il riferimento e` piuttosto generico. L’aggettivo polumaqhvc ritorna qualche linea piu` sotto, al v. 16, e in ARISTOPH. vesp. 1175; DEMOCR. B 64 D.-K.; PLAT. leg. 811 A; ARISTE. IUD. 137 (comp.). Il superlativo e` attestato anche in ATHEN. IX 398 E (dove 23

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esso e` riferito ad Aristotele); DAMASC. vita Isid. fr. 168 Z.; LYD. de mag. 1, 5. Cfr. LSJ, s.v. Per la polemica condotta dall’autore contro la cultura enciclopedica e per l’atteggiamento di Aristone di Chio verso di essa, cfr. supra, cap. II.5.5. 11 fwratai = : per questo verbo (in Filodemo spesso ‘scoprire’, ‘sorprendere’) cfr. anche v. 29 e PHILOD. rhet. III (PHerc. 1506), col. 44, 12, p. 247 S. II; IV (PHerc. 1007), col. 15, 11, p. 174 S. I; VII, col. 53, 11-12, p. 321 S. I; X (PHerc. 1669), col. 8, 26-27, p. 238 S. I; col. 15, 19, p. 247 S. I; lib. inc. fr. 10 init., p. 99 S. II; de ira col. 29, 16 I.; de lib. dic. col. 66, 15 O., et al. 12-13 polla; dei|= tai tribhc= : sulla necessita` dell’esercizio per l’apprendimento di una scienza o di un’arte, che il nostro Aristone contrappone alla superficiale polymathia dell’onnisciente e per la sua importanza nella filosofia di Aristone di Chio, cfr. supra, cap. II.5.6. tribhv qui designa l’esercizio degli specialisti che segue un metodo determinato. Cfr. anche PHILOD. rhet. I, fr. 2, 10 L. (p. 2 S. I); II (PHerc. 1674), col. 1, 28 L. (p. 20 S. I); col. 13, 20 L. (p. 36 S. I); col. 25, 7 L. (p. 51 S. I); col. 37, 29 L. (p. 69 S. I); col. 22, 1 L. (p. 121 S. I); III (PHerc. 1506), col. 41, 5-6 H. (pp. 242-244 S. II); VII, col. 49, 6, p. 52 S. II; lib. inc. fr. 6, 4, p. 82 S. II; fr. 11, 4, p. 105 S. II; de poe¨m. V (PHerc. 1425), col. 23, 26; 32; col. 24, 19 M., e LSJ, s.v., II. Questo concetto sembra richiamare per contrasto quel «senso comune» (koi|nwc= c* uvnecin) nominato alla fine della colonna precedente (19 32-33) sul quale esclusivamente il sufficiente pretende di poter fare affidamento per acquisire «le cognizioni proprie di quelli che possiedono competenze specifiche (19 34-35: ta; tw=n ijdivac ejmpei|rivac ejcovntwn)». 14 meqovdou: qui da intendere nel significato tecnico di ‘metodo’ diffusamente attestato nei filosofi. Cfr. anche PHILOD. rhet. II (PHerc. 1674), col. 10, 24 L. (p. 32 S. I), e LSJ, s.v., II 2. 15 ta; thc= poihtikhc= mevrh: l’esempio che si adduce a conferma di quanto appena detto sulla necessita` dell’esercizio tecnico per l’apprendimento di una scienza o di un’arte e` quello della poetica, la quale, secondo Aristone, ha bisogno di essere lungamente esercitata secondo un metodo specifico per poter essere padroneggiata. Le parti o elementi (mevrh) della poetica sono quelle componenti dalla cui armonica fusione dipende la buona qualita` di un poema. Nella teoria poetica classica si trattava soprattutto del contenuto e della composizione. In questo riferimento alla poetica e all’importanza dell’esercizio per il suo apprendimento si e` voluto vedere un suggestivo parallelo con le dottrine poetiche esposte dallo Stoico anonimo diffusamente parafrasato nel quinto libro Sui poemi di Filodemo, il quale significativamente poneva nell’esercizio dell’udito (thc= kata; th;n ajkoh;n tribhc= ) il mezzo per valutare la buona composizione stilistica (cuvnqecic) di un poema. Si noti anche che in — 336 —

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entrambi i casi e` utilizzato il medesimo termine tribhv. Si veda A.M. IOPPOLO, La poetica dello Stoico cit., p. 140 sg.; p. 147 sg., e supra, cap. II.5.6. 17 ojcmaiv: ‘odori’, ‘aromi’. Per questo senso traslato cfr. anche odor in CIC. de or. III 161; ep. ad Att. IV 16, 11. 18 katocaiv: questo sostantivo, che qui significa ‘possesso mentale’, ‘padronanza’, si ritrova con il medesimo valore in PHILOD. rhet. II (PHerc. 1674), col. 39, 11 L. (p. 71 S. I). Cfr. LSJ, s.v., II 1. 18-20 kai; tajpoteuvgmata | perivectin tw=n paideumav|twn, ouj ta; katorqwvmata: con questa seconda antitesi, che fa da pendant con la precedente (vv. 16-18: peri; tou;c polumaqeic= | ojcmai; movnon eijci; pollwn, = ouj | katocaiv), e che richiama anche katorqwv[c]ein, | aJmarthvcecqai d’ di 17 24-25, l’autore intende rimarcare l’insuccesso della dispersiva istruzione nozionistica propria dell’onnisciente. Si veda anche W. KNO¨GEL, op. cit., p. 25 sg. ajpovteugma, ‘fallimento’, nomen rei actae da ajpotugcavnw, e` un sostantivo piuttosto raro attestato, oltre a qui, in PHILOD. rhet. II (PHerc. 1674), col. 36, 10-11 L. (p. 67 S. I); col. 42, 6-7 L. (p. 75 S. I); IX (PHerc. 1004), col. 50, 9, p. 347 S. I; PS.ARISTOT. de virt. et vit. 1251 B 20; DIOD. SIC. I 1; CIC. ep. ad Att. III 2, 2; IX 21, 1; XIII 27, 1; PLUTARCH. de tranq. an. 468 A; STRAB. XVII 2, 1. Cfr. LSJ, s.v., e per ajpovteuxic, 14 22-23. paivdeuma, da paideuvw, ‘educare’, equivale in questo caso a ‘cio` che si apprende’, ‘oggetto di apprendimento’. Cfr., per questo significato, fr. trag. adesp. 515 A, 3 TrGF II; PLAT. leg. 747 C; XEN. oec. 7, 6; DEMOSTH. or. 60, 16; ARISTOT. pol. 1338 A 11, e LSJ, s.v., II 1. katovrqwma sembra qui possedere il valore generico di ‘azione condotta al successo’ senza alcuna caratterizzazione filosofica o filosofico-morale. Con questo medesimo valore e` attestato anche in ARISTOT. magn. mor. II 3, 2; POL. I 19, 12; STRAB. XV 1, 54; DIOD. SIC. XIII 22; PLUTARCH. Mar. 10; ANONYM. de subl. 33, 1; 36, 2; NT Act. 24, 2. Cfr. LSJ, s.v., 1. Per il verbo corrispondente, si veda 17 24-25; 18 32-34 e Comm. ad locc. 20-22 kai; | pavnq’o{ca toic= toiouvtoic cum|baivnein ajnelogizovmeqa: Filodemo rimanda alla precedente trattazione dell’onnisciente (18 12-19 3). ajnalogivzomai, ‘considerare’, e` attestato con questo significato anche in PHILOD. [de elect. et fug.] col. 5, 7 I.-T.; THUC. V 7; VIII 83; LYS. or. 14, 47; XEN. Hell. II 4, 23. Cfr. LSJ, s.v., 2-3. J ]ivac ejkaucato 23-24 polla; ginwvckein, w|n | [ Ipp = : per Ippia e la sua vasta erudizione cfr. 18 19-23 e Comm. ad loc.. Per kaucavomai, ‘vantarsi’, ‘essere boriosi’, cfr. ad es. ARISTOT. pol. 1331 B 4. Accompagnato dal genitivo esso si trova soltanto qui. Si veda R. BULTMANN, art. cit., e per kauvchcic, 15 2123 e Comm. ad loc. 28 lhrouvntwn: per questo verbo cfr. 19 32. — 337 —

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29 fwrwntai : cfr. v. 11 e Comm. ad loc. = 33-34 oJ me;n ou\n uJperhv|fanoc kai; uJperovpthc ejctivn: inizia qui la descrizione dello sprezzante (uJperovpthc), la cui trattazione, dopo una breve definizione generale (20 33-38), sembra articolarsi in due sottospecie: il tronfio (21 115) e l’altezzoso (21 15-39). Sul rapporto tra questi tre vizi e tra di essi e la superbia, cfr. supra, p. 31 e nota 138; p. 32 sg., e W. KNO¨GEL, op. cit., p. 19 sg.; p. 32 sg.; p. 39. Di questo carattere si afferma che non necessariamente insuperbisce, mentre il superbo e` per natura anche sprezzante. La sua principale caratteristica, qui non del tutto esplicita, sembra consistere nella qualita` di chi e` irritante (ojclhrovc) e umilia il prossimo in forme diverse. uJperovpthc, in senso negativo, si ritrova in THEOCR. id. 22, 58; ARISTOT. eth. nic. 1124 A 29; IUL. IMP. ad Them. 264 D. Cfr. LSJ, s.v. Per uJperoravw, vedasi 15 33; 16 7 (cfr. anche PHILOD. de sup. col. 1, 6 J.) e, per uJperoyiva, 16 32-33 e Comm. ad loc.; 19 4. 37 ojc]l* hr[ovc]: ‘molesto’, ‘importuno’, ‘irritante’, qui riferito a persona. Cfr. anche PHILOD. de mus. IV, col. 2, 2 N. (avv.), e LSJ, s.v., 1. ck]l* hr[ovc], ‘severo’, ‘austero’, ‘inflessibile’, e` per motivi paleografici, di spazio e in parte anche di senso, integrazione ugualmente possibile. 37-38 o{te ta|[p]e[inoi = pl]eo* nac[h/=]: la cong. o{te ha qui probabilmente valore causale. Cfr. LSJ, s.v., B 1. Per tapeinovw, che in questo luogo sembra utilizzato in senso assoluto, cfr. 11 31-32 e Comm. ad loc.; 15 6-7; 22 5-6. pl]eo* nac[h=/], avv. di significato affine a pleonacw=c, ‘in molti modi’, ‘da vari punti di vista’, e` attestato solo qui (se l’integrazione e` corretta) e in PLAT. resp. 477 A. Col. 21 2-3 to;n me;n] c. [e]m. |[no;]n ejpainou. [= ntec]: Aristone introduce qui una distinzione tra due specie morali solo apparentemente affini: da una parte il tipo grave (cemnovc), dall’altra il tronfio (cemnokovpoc), del quale si occupera` di qui fino al v. 15. Si tratta rispettivamente di una virtu` e di un vizio, di una qualita` morale e della sua degenerazione, e non di due differenti vizi, come voleva F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 60. In effetti, l’una e` una forma di «dignita` accompagnata da un che´ di austerita`», l’altro non ne e` che la falsificazione e contraffazione esteriore. Che questi due differenti atteggiamenti fossero facilmente confusi tra di loro, soprattutto a livello popolare, e` testimoniato da Plutarco a proposito di Pericle (Per. 5, 3 = deest in SVF): tou;c de; tou= Periklevouc th;n cemnovthta doxokopivan te kai; tufon ajpokalountac oJ Zhvnwn parekavlei kai; aujtouvc ti toiouto = = = doxoko-

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pein= . Qui la contropartita negativa della gravita` (cemnovthta) e` la sete di gloria e la boria (doxokopivan te kai; tufon = ). Sulla doxokopiva cfr. 15 2 e Comm.

ad loc.. Con questa opposizione – e` lo stesso Wehrli (loc. cit.) a riconoscerlo – come con quella, ancor piu` netta, tra magnanimita` e superbia piu` sopra evidenziata (15 23-34), Aristone dimostra di seguire una via originale, diversa da quella tracciata nel suo sistema morale da Aristotele. Mentre quest’ultimo e` indotto dalla dottrina morale del giusto mezzo ad adottare uno schema di tipo ternario (uJperbolhv - mecovthc - e[lleiyic), in Aristone la logica sembra essere rigidamente binaria. A ciascun vizio corrisponde una, e una sola, virtu`. Cfr. supra, p. 104 sg. c. [e]m. |[nov]n (Sauppe) e` integrazione incerta, ma assai probabile del papiro. Questo aggettivo, quando applicato a persone, puo` avere, come nel nostro caso, significato positivo (‘grave’, ‘solenne’) o anche negativo (‘altezzoso’, ‘tronfio’). Cfr. LSJ, s.v., II-III. Per la cemnovthc come virtu` cfr. ARISTOT. eth. eud. 1121 A 8; 1232 A 23-24; 1233 B 34-38; magn. mor. I 28; rhet. 1391 A 27-28; PLUTARCH . de Stoic. repugn. 1039 C (= CHRYSIPP . fr. 29 SVF III). Il soggetto di ejpainou. [= ntec], che e` lo stesso di yevgontec (v. 6), e[legon (v. 11), wjnovmazon (v. 17) e ojno|mavzoucin (vv. 17-18), e` andato perduto nella lacuna immediatamente precedente (vv. 1-2). Tuttavia, esso si desume indirettamente dal tono, dal tipo della caratterizzazione e dalla terminologia utilizzata ed e` confermato dalla citazione conclusiva di Aristofane. Come comprese per primo J.L. USSING (ed.), op. cit., p. 174, e come e` stato piu` recentemente ribadito da E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 220, si tratta molto probabilmente dei poeti comici piu` volte ricordati nel corso dello scritto (cfr. 10 25-26; 13 1-9; 21 35-39) e a cui ben si addice la satira dei due tipi quivi descritti, il tronfio (cemnokovpoc) e l’altezzoso (brenquovmenoc). In effetti, sebbene questi due termini compaiano in questa forma soltanto nel De liberando a superbia, i vizi che essi rappresentano furono pesantemente bersagliati dai comici antichi (cfr. ad es. CALL. COM. fr. 15 PCG IV) e in particolare da Aristofane. In quest’ultimo il prototipo del filosofo tronfio, pieno di boria e di iattanza e` identificato con la figura di Socrate, da lui impietosamente sbeffeggiato nelle Nuvole e anche qui implicitamente richiamato (vv. 36-38). Inoltre, termini come cemnovc (in senso negativo), cemnoprocwpevw e brenquvomai (per i quali cfr. Comm. a 20 10-11 e a 21 36-38) sono impiegati nelle sue commedie per attaccare posture e atteggiamenti assai simili a quelli qui illustrati da Aristone. Anche la tipologia della caratterizzazione, vivace e satirica, e il gran finale con la parodia aristofanea di Socrate servono a ribadire l’inequivocabile ispirazione comica di tutta la rappresentazione. M. GIGANTE, I sette tipi cit., p. 351, invece, sebbene rico— 339 —

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noscesse anch’egli in Aristofane la fonte principale dei due caratteri qui delineati, preferiva pensare ancora una volta ai filosofi peripatetici come soggetto dei verbi piu` sopra menzionati. 3-5 wJ. c ajxivan | e[conta metav tinoc aujcthr. iv|ac: ajxiva qui equivale a ‘dignita`’. Cfr. LSJ, s.v., I 2. aujcthriva intesa come virtu` (‘austerita`’) e` attestata solo in ambito stoico da ANDRON. Peri; paqwn= VI, p. 251, 3-p. 253, 2 G. T. (fr. 272 SVF III), dal quale e` definita come l’«abitudine per cui ne´ si concede ne´ si accetta da parte di altri la partecipazione ai piaceri». In senso moralmente piu` ampio lo e` anche in POL. IV 21, 1; Cat. Cod. Astr. II 160, 6. Si veda LSJ, s.v., 2. Come fa per i vizi, cosı` anche riguardo alla virtu` della gravita` Aristone ragiona in termini di ‘agglomerati’ di fattispecie morali. Cfr., per questo concetto e per la diversificazione qualitativa e quantitativa di ciascun vizio, supra, p. 32 sg. wJ. c, da cui dipende il part. e[conta, ha qui, come al v. 7, valore causale. 5-6 to;n de; cemnokovpon kai; tov|te kai; nu=n pavntwc yevgontec: l’agg. sost. cemnokovpoc (da cemnovc e kovptw), ‘tronfio’, ‘che affetta solennita`’, e` hapax legomenon su cui e` formato l’altro hapax cemnokopevw attestato in PHILOD. rhet. lib. inc. fr. 20, 3-4, p. 159 S. II, ed e` imparentato con quel cemnokovptw, attestato in AESCH. fr. 124, 2 TrGF III (codd.), che e` stato indebitamente emendato da Lobeck e Dindorf in cemnokovmpw. Da quest’ultima forma dipende a sua volta l’innecessaria correzione cemnokov^ m &pon di C.G. COBET, Ad Philodemi cit., p. 29. Si vedano W. KNO¨GEL, op. cit., p. 65; M. GIGANTE, Filodemo nella storia cit., p. 43. I composti in -kovpoc, -kopiva e -kopevw, per i quali cfr. 15 2 (do[xok]o. [pivac) e Comm. ad loc., sono tipici del linguaggio colloquiale e vanno distinti da quelli in -kovmpoc e kompevw, di diversa derivazione. A loro volta, i composti in cemno- o cemn- come cemnoprocwpevw, cemnologevw, cemnologiva, cemnotufiva, cemnopoievw, cemnopoiiva, cemnomuqevw, cemnhgorevw, sono diffusi soprattutto tra gli autori comici e diatribici. Il soggetto di yevgontec e` lo stesso di ejpainou. [= ntec] (v. 3), di e[legon (v. 11), di wjnovmazon (v. 17) e di ojno|mavzoucin (vv. 17-18) e cioe`, presumibilmente, i poeti comici. La locuzione temporale kai; tov|te kai; nun= (per una variante della quale vedasi v. 17) sottolinea la continuita` cronologica dell’azione verbale. Aristone vuol dire che i poeti comici in ogni periodo (nell’epoca piu` antica di questo genere, ma anche ai suoi tempi) attaccarono energicamente nelle loro opere l’uomo affettatamente solenne, il cosiddetto cemnokovpoc. Se e` valida l’identificazione del soggetto verbale con i commediografi, allora tov|te rimanda inequivocabilmente alla Commedia Antica, nu=n alla Commedia Nuova, i cui ultimi esponenti (Apollodoro di Caristo e Demofilo) si spinsero fino alla meta` del III sec. a.C., data intorno alla quale potrebbe collocarsi anche la composizione del De liberando a superbia. Del resto ai comici dell’ajrcaiva — 340 —

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Filodemo fa esplicito riferimento nell’introdurre la lunga parafrasi dello scritto aristoneo (10 25-26: o[iJ] palaioi; tw=n kw|mwidogravfwn) e da essi Aristone prende almeno un paio di citazioni poetiche (13 3-4; 21 36-38). 7-8 wJc ejpifavckonta to;n eijrh|mevnon kai; procpoiouvmenon | ei\nai toiou=ton ktl.: Aristone mette in evidenza che il tipo tronfio non fa altro che affettare (ejpifavckein) e simulare (procpoieicqai ) una virtu` – la gravita` – che in realta` = gli e` estranea, al solo scopo di ottenere la stupita ammirazione della gente. to;n eijrh|mevnon e toiou=ton sottintendono to;n me;n] c. [e]m. |[nov]n dei vv. 2-3. ejpifavckw, letteralmente ‘professare’, ‘pretendere’, qui equivale a ‘fingere’ ed e` testimoniato per la prima volta in questo passo. Cfr. anche PHIL. de migr. Abr. 136; in Flacc. 130; de Prov. fr. 2, 17 (EUS. praep. evang. VIII 14, 17). 10-11 o}n cemno|muq. e. in= e[legon: il verbo cemnomuqevw (da cemnovc e muqevomai), ‘parlare con solennita`’, sinonimo di cemnologevw e di cemnhgorevw (per il quale cfr. PHIL. de vita Mos. II 154; 195; HELIOD. erot. IX 9, 3), si trova soltanto qui e in EUR. Hipp. 490; Andr. 234; PHIL. de Cher. 68; de post. Cai. 37 (med.); de congr. erud. grat. 130; PHOT. lex. s.v. cemnomuqou=cin = SUID. s.v. cemnomuqou=cin: uJperhfaneuvontai ejn lovgoic. Si veda anche LSJ, s.v. cemnomuqevw, e il sost. cemnomuqiva in SUID. s.v. Adav j m. Sebbene il soggetto dell’espressione in questione debbano essere quegli stessi commediografi di cui si e` gia` detto piu` sopra (vedasi Comm. a 21 2-3 e 5-6), in tutta la produzione comica non si rinviene mai il verbo cemnomuqevw. In compenso e` attestato in Aristofane (Nub. 363) l’analogo cemnoprocwpevw (da cemnovc e provcwpon), ‘assumere un’aria grave, solenne’, di formazione e significato affini. Cfr. anche ANTH. PAL. XI 382, 14 (AGATH.); EPICT. diss. II 8, 24. 11-12 [tw]= i [c]chv|mati tou= procwvpou: cfr. PLUTARCH. Per. 5, 1 (procwvpou cuvctacic, riferito al cemnovc Pericle). 13 peribolh=i: nel senso di ‘vestito’ questo termine e` attestato qui e in EPICT. diss. III 1, 1; LUC. Herm. 19; VT (Sept.) Sir. 11, 4; PLUTARCH. Per. 5, 1. 14-15 taic= kata; to;n biv|on ejnergeivaic: ejnevrgeia e` qui utilizzato nel senso fondamentale e generico di ‘attivita`’, ‘operazione’. Cfr. LSJ, s.v., 1 A. 15-18 brenquve|cqai de; kai; brenquovmenon | wjnovmazon kai; e[ti nu=n ojno|mavzoucin: inizia qui la descrizione della seconda sottospecie dello sprezzante, il brenquovmenoc o ‘altezzoso’. Gia` Platone nel Simposio (221 B) impiegava questo verbo in riferimento a Socrate precedentemente definito uJperhvfanoc (219 C). Cfr. oltre, Comm. a 21 36-38. brenquvomai, derivante da brevnquc, ‘incenso’ o ‘unguento profumato’, per il quale cfr. Comm. a 21 18-23, o da brevnqoc, ‘alterigia’, ‘arroganza’ (cfr. LSJ, s.v. brevnqoc, II), significa ‘fare o essere altezzoso’ ed e` usato per la prima volta da Aristofane nel passo — 341 —

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delle Nuvole (362) citato alla fine della descrizione di questo vizio (vv. 3637: brenquv|h/) e in Pax 26; Lys. 887. Per le altre attestazioni, cfr. supra, p. 107 nota 189. Quanto al soggetto di wjnovmazon e di ojno|mavzoucin, cfr. Comm. a 21 2-3 e 5-6 e, per l’espressione kai; e[ti nu=n (probabile riferimento alla Commedia Nuova), Comm. a 21 5-6. 18-20 ei[t’ajpo; tou= para|dedomevnou qumiavmatoc h] | muvrou twn= q. ewn= brevnquoc: l’espressione parentetica compresa tra il v. 18 e il v. 23 costituisce un’etimologia. brevnquc (hapax legomenon) era, secondo la spiegazione fornita dallo stesso Aristone, un tipo tradizionale di incenso (qumiavmatoc) o unguento profumato (muvrou) detto «degli de`i». Si veda anche l’agg. brevnqeioc e la locuz. to; brevnqeion (o brevnqion) muron (o semplicemente to; brevn= qeion), che pero` e` attestata solo nel senso dell’unguento. Cfr. SAPPH. fr. 94, 19 V.; PHERECR. fr. 105 PCG VII; CLEM. ALEX. paed. II 8, 64; PHOT. bibl. 532 B 12; ETYM. MAGN. 212, 50; EUSTATH. THESS. ad Il. Q 14 (II 516, 15517, 3 V.). Con lo stesso valore Esichio (s.v.) ha anche il sost. brevnqon. La relazione semantica tra brevnquc inteso nel senso che si e` detto e il verbo brenquvomai, ‘essere, fare l’altezzoso’, non e` chiaramente intelligibile. Tuttavia, dallo Schol. in ARISTOPH. Lys. 887: brenquvetai: ajlazonikw=c qruvptetai: hJ de; metafora; ajpo; tou= brenqivou muvrou, che conferma l’etimologia avanzata da Aristone, sembrerebbe doversi desumere che nell’antichita` questo unguento profumato fosse metaforicamente associato all’idea di superbia e di orgoglio. Parimenti ipotizzabile e` una derivazione di tale verbo da ‘incenso’, la quale e` giustificata dall’analogia con tu=foc, che in greco significa sia ‘fumo’ che ‘boria’. Infine, il collegamento con brevnqoc, che indica sia un profumo (SUID., s.v. brenquvecqai), sia uno splendido uccello acquatico (ARISTOT . hist. an. 609 A 23; 615 A 16; AEL . de nat. an. V 48), sia l’arroganza in quanto tale (ATHEN. XIII 611 E), e` ugualmente possibile. Si vedano J.L. USSING (ed.), op. cit., p. 175; P. CHANTRAINE, Dictionnaire e´tymologique de la langue grecque. Histoire des mots, Paris, C. Klincksieck 19681980, p. 194 sg.; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., pp. 222224. Del resto anche l’impiego da parte di Aristone della congiunzione copulativa disgiuntiva ei[te e della formula ei[t’ajf’oJtoudhv|pote (vv. 22-23) manifestano l’incertezza dell’etimologia avanzata dall’autore, il quale considera la derivazione di brenquvomai da brevnquc solamente verosimile e non esclude altre possibilita`. Si veda anche W. KNO¨GEL, op. cit., p. 61 sg. 21-22 mivnqwnoc aj|po; thc= mivnqhc: Aristone prosegue la riflessione etimologica analizzando il termine mivnqwn (mivnqwnoc e` gen. dovuto ad attrazione da parte del precedente brevnquoc; si vedano E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 224), sostantivo molto raro che compare qui per la prima volta. Di valore incerto, esso potrebbe appartenere al lessico osceno (forse — 342 —

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‘fornicatore’ in senso fortemente dispregiativo), se si deve prestare fede a Luciano (Lex. 12; ma la forma e` emendata da Bekker e Mras. I codd. hanno minewn GNE, binewn w), che lo associa a laikalevoc (‘cinedo’) nel contesto di una lunga serie di epiteti apertamente scurrili. Cfr. anche HESYCH. s.v. kikkivdai; LSJ, s.v. mivnqwn: ‘kind of sexual pervert’. Il possibile collegamento con la sfera sessuale e` meglio comprensibile alla luce del parallelo con il lat. mentula, ‘membro virile’, dim. di menta, ‘menta’. Di diverso valore e` il corrispondente calco mintho(n) testimoniato da VARR. rer. rust. III 3, 9 e COLUM. de re rust. VIII 16, 4. L’associazione in endiadi con nebullus (dim. di nebulo, ‘fannullone’, ‘buono a nulla’, ‘scialacquatore’), infatti, costringe a intenderlo in un significato analogo a questo sostantivo. In ogni caso, anche se e` molto probabilmente corretta la derivazione etimologica di mivnqwn da mivnqa, ‘menta’, avanzata da Aristone, essa non consente di stabilire l’esatto significato posseduto da questo termine nel nostro passo. Non e` plausibile la spiegazione di W. KNO¨GEL, op. cit., p. 63, il quale prendendo le mosse dalla presunta equazione semantica tra mivnqa e hJduvocmoc, ‘buon odore’, ipotizzava che mivnqwn sia «l’uomo dal naso raffinato che si circonda di profumi». In greco mivnqa non e` mai attestato come equivalente del nome comune hJduvocmoc, ma semmai come sinonimo di hJduvocmon, altro appellativo dagli antichi assegnato a questa pianta. Cfr. LSJ, s.v. hJduvocmon. Qualunque sia il significato da attribuire a mivnqwn, lo studioso tedesco ha pero` ragione quando afferma che il parallelo aristoneo tra questo vocabolo e brenquovmenoc e` dovuto al fatto che entrambi i termini dipendono etimologicamente dal nome di una sostanza profumata. E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 224, pensano a un profumo estratto dalla menta poi passato a designare un tipo o carattere. 23-24 ajpo; th=c eijrhmevnhc | diaqevcewc: si rimanda qui alla disposizione di base (diavqecic) del cemnokovpoc precedentemente descritta (vv. 5-9). La descrizione dell’altezzoso e` innestata su quella del tronfio, di cui condivide la natura fondamentale. E` infatti anch’egli essenzialmente un individuo che affetta solennita`. Onde, questi due vizi, oltre ad essere probabilmente subordinati allo sprezzante (uJperovpthc), sono anche strettamente imparentati tra di loro. 24-25 katemblevpon|ta pacin kai; paremblevponta: il primo verbo (‘guardare = dall’alto in basso con disprezzo’) si trova solo qui e in VT (Sept.) Ex. 3, 6, il secondo (‘guardare di traverso o di sbieco’) anche in EUR. Hel. 1558; SYMM. ad Cant. 1, 6; HESYCH. s.v. parillaivnouca e s.v. paremblevpouca. Cfr. LSJ, ss.vv. 27 katazmikrivzonta: questo verbo (‘screditare’, ‘sminuire’) si trova solo in questo passo e in ARISTOT. eth. nic. 1163 A 14. La forma semplice cmikrivzw, ‘setacciare’, ‘vagliare’ (deest in LSJ), e` attestata da HESYCH., s.v. cmikrivzecqai. — 343 —

COMMENTARIO

31-33 meta; diacurmou= | kai; movlic pou braceivac ajpo|krivcewc: diacurmovc, ‘denigrazione’, ‘discredito’, e` un vocabolo proprio del linguaggio colloquiale. Cfr. DIOD. SIC. XIV 109, 6; ANONYM. de subl. 38, 6; PHIL. leg. ad Gai. 176; ARTEMID. ONIR. III 24 (diacurmo;n kai; katagevlwta), e LSJ, s.v. Sul kata; bracu; dialevgecqai socratico, cfr. PLAT. Prot. 335 D; 336 B; 338 A, e G. CALOGERO, Introduzione a un testo commentato del Protagora, Firenze, Sansoni 1937 = Il Protagora e l’etica socratica come eujdaimoniva, in Scritti minori di filosofia antica, Napoli, Bibliopolis 1984, p. 266. 33-34 uJperoch;n ijdivan ejm|fainouvchc: questa espressione ritorna assai simile (uJperoch;n | ejmfaivnontec ijdivan) a 24 13-14. Per uJperochv cfr. anche 13 10 e Comm. ad loc.; 15 9 e PHILOD. de sup. col. 8, 11 J.; per ejmfaivnw (‘mostrare’, ‘manifestare’), 13 32; 23 5-6; 24 14 e PHILOD. de lib. dic. col. 14, 7; col. 27, 3-4 O. 35 ajriq* m. o;n ejmpoiouvch* c* : questa espressione (‘tenere in considerazione’) non e` registrata nei lessici. Per ajriqmovc nel senso di ‘novero’, ‘conto’, ‘considerazione’, cfr. LSJ, s.v., I 5. 36-38 ‘o{t*i brenquv|h/ t.’ejn btcaicin = oJdoic= kai; twj|f.qalmw; parabavlleic’: cfr. ARISTOPH. Nub. 362, e sul modo di incedere e guardare di Socrate, Schol. ad loc.; PLAT. Phaed. 117 B; Theaet. 143 E; symp. 221 B; MARC. AUR. ANT. VII 66. Si vedano anche DIOG. LAE¨RT. II 28; PLAT. symp. 215 A-B; XEN. symp. 5, 5, e E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 225; M. GIGANTE, Aristone di Ceo e Aristofane cit., p. 146 sg. Questo verso delle Nuvole, citato a mo’ di esempio a conclusione della descrizione del brenquovmenoc, e` da Aristofane messo in bocca al coro e da lui ironicamente riferito a Socrate che, com’e` noto, era il bersaglio principale del dramma. Sempre riferiti al filosofo ateniese, ma in senso positivo, questo verso e il participio brenquovmenoc sono menzionati anche in PLAT. symp. 221 B, per descrivere l’atteggiamento fiero del filosofo dopo la disfatta ateniese di Delio del 424 a.C. Se letto insieme al verso successivo, qui tralasciato (se da Aristone o da Filodemo non e` possibile dire), la citazione acquista senso compiuto: o{ti brenquvei t’ejn taicin = oJdoic= kai; twjfqalmw; parabavlleic kajnupovdhtoc kaka; povll’ajnevcei kajf’hJmin= cemnoprocwpeic. =

In questi due versi si colgono tre diversi riferimenti linguistici e concettuali ai due vizi descritti nella col. 21: innanzitutto il raro brenquvomai usato per esprimere l’altezzosita` di Socrate che, come abbiamo visto, si ritrova ai vv. 15-16; poi l’espressione twjfqalmw; parabavlleic, «getti gli occhi di lato», il cui significato e` richiamato da paremblevponta (v. 25); infine il verbo cemnoprocwpei c= , che sembra essere ripreso, per la forma e per il senso, — 344 —

COMMENTARIO

da cemno|muq. e. in= (vv. 10-11). E cosı` questa coppia di versi, ove letta per intero, serve a concludere degnamente tanto la descrizione dell’altezzoso quanto quella del tronfio. Allo stesso tempo, essa funge da cerniera con la successiva trattazione dell’ironico. In effetti, tanto nel caso di questi due vizi quanto in quello dell’ironia il personaggio preso di mira e` ancora una volta Socrate, con la differenza che mentre qui e` chiaramente il Socrate proprio dei comici e della concezione popolare ad essere richiamato, nel ritratto dell’ironico e` soprattutto il Socrate dei filosofi e, in particolare, di Platone il bersaglio prediletto da Aristone. Cio` nonostante, egli non viene qui esplicitamente nominato. Su questa reticenza dell’autore cfr. supra, p. 130 e nota 299, e sul Socrate ironico di Aristone, cap. II.3.2. Ringrazio Michele Abbate per la discussione su questo punto. brenquv|h/ e` una lectio facilior attestata soltanto qui. I codd. hanno brenquvei. twj|f.qalmwv e` crasi per tw; ojfqalmwv. 39-40 oJ d’ei[rwn wJc ejpi; to; | p. [l]eicton ajlazovnoc ei\doc: terminata l’espo= sizione dello sprezzante e delle sue due sottospecie, Aristone passa alla descrizione dell’ironico (ei[rwn), al quale sono riservate piu` di due colonne di scrittura (21 39-23 38). Lo spazio destinato a questo vizio, eccezionale nel De liberando a superbia, e` indice dell’importanza che esso doveva rivestire nell’economia dello scritto. Sulla concezione dell’ironia in Aristone e sulla ricca bibliografia pertinente, si veda supra, cap. II.3.1. Come negli altri casi, la descrizione inizia con una definizione generale della fattispecie. Cio` che viene detto innanzitutto dell’ironico e` che esso «e` al massimo grado una specie di millantatore». In effetti, la disposizione fondamentale sia dell’uno che dell’altro vizio e` la finzione o affettazione (22 11: [pl]av.c. mat.[i]). L’equiparazione dell’ironico al millantatore era propria della concezione popolare e, in riferimento ai sofisti e a Socrate, apparteneva a quella stessa tradizione comica a cui Aristone si e` sopra richiamato nel delineare i ritratti del tronfio e dell’altezzoso. E` infatti ancora nelle Nuvole (vv. 443-451) che si stabilisce l’equivalenza tra ei[rwn e ajlazwvn. Si vedano W. KNO¨GEL, op. cit., p. 38; M.T. RILEY, art. cit., p. 67; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 220. Ma mentre il millantatore simula virtu` e si arroga meriti che non gli appartengono, la principale caratteristica dell’ironico e`, come vedremo oltre, la dissimulazione, cioe` a dire la mistificazione di quello che egli realmente pensa ed e`. In Aristotele, al contrario, queste due specie morali sono nettamente contrapposte rispetto alla virtu` intermedia dell’ajlhvqeia e non sembrano esservi tra di esse molti elementi comuni. Come ha riconosciuto lo stesso W. Kno¨gel (loc. cit.), «in questo schema fondato su sizigie mal si inserisce l’idea che eijrwneiva e ajlazoneiva spesso si tocchino». E mentre per Aristotele (eth. nic. 1127 B 27) solo l’eccessiva ironia (livan eijrwneiva) puo` sembrare — 345 —

COMMENTARIO

iattanza, in Aristone essa e` «al massimo grado» o «per la maggior parte (wJc ejpi; to; | p. [l]eicton )», cioe` per sua natura, una forma di ajlazoneiva. Non sem= brano dunque essere del tutto fondate le affermazioni fatte in proposito da F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 61, per le quali cfr. supra, p. 108 e nota 194; p. 109. L’affinita` con questo vizio, per il quale si veda Comm. a 19 3-9, va considerato, come abbiamo visto, uno dei principali punti di contatto dell’ironia con la superbia. Ma per Aristone l’essenza dell’ironia consiste non tanto nella dissimulazione in se´ e per se´, quanto piuttosto nella particolare forma di questa dissimulazione, vale a dire in quella dissimulata supponenza che induce l’ironico a umiliare se stesso per essere esaltato dagli altri. L’ironia e` dunque essenzialmente per Aristone dissimulazione di superbia e per questo, a sua volta, l’ironico e` egli stesso partecipe della superbia. Si veda anche W. KNO¨GEL, op. cit., pp. 38; 39 e nota 1. Col. 22 2-9 Cfr. PLAT. Prot. 334 D-336 D; Lys. 210 E; Phaedr. 241 E; symp. 219 XEN. mem. IV 4, 9; THEOPHR. char. 1, 2. Prosegue in queste linee la definizione di ironia abbozzata alla fine della colonna precedente. E come lı` e` assimilata alla iattanza, qui essa e` concepita come dissimulazione del proprio pensiero e delle proprie intenzioni (v. 9: paremfavcewc w|n bouvle[t]ai). L’ironico e` un personaggio che non dice mai cio` che pensa realmente (vv. 2-4: oujd’ajpo]|d.[hlo]i = a} noei = [pr]o;.c t.[o;n plhciv]|on), ma piuttosto loda quando vuole biasimare e biasima quando intende lodare. Come il superbo, anch’egli aspira all’autocelebrazione, ma contrariamente a questo, che esalta se stesso umiliando apertamente gli altri (cfr. 15 6-9), l’ironico raggiunge il suo scopo con metodi differenti e piu` raffinati. Egli, infatti, non magnifica mai esplicitamente se stesso, ma attraverso l’autocritica e l’autoridimensionamento (Selbstverkleinerung) ottiene indirettamente il pubblico riconoscimento del proprio valore. w{ct’ introduce probabilmente eijwq[ev]na. i che, a sual volta, regge gli infiniti ejpainein= , t]a. |peinou=n e yevgein. L’espressione tou;c oi|ovc ejctin (per la quale si veda LSJ, s.v. oJ hJ tov, B I 6), con ellissi del relativo e l’articolo con funzione di dimostrativo, e` alquanto sibillina e sottintende probabilmente il precedente t]a. |peinoun= de; kai; yevgein (5-6). John Rusten in J. RUSTEN-I.C. CUNNINGHAM (eds.), op. cit., p. 170 sg., sospetta la caduta di diverse parole in questo punto. parevmfacic, composto doppio equivalente a ‘mistificazione’, ‘falsificazione’, non e` testimoniato altrove con questo valore. Cfr. LSJ, s.v., III, e anche W. KNO¨GEL, op. cit., p. 66, che lo traduce «leise Andeutung». C;

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COMMENTARIO

10 cunepinoeitai = : questo composto doppio (‘ideare’, ‘immaginare insieme’) qui significa ‘essere incluso nell’idea’. Cfr. anche DAMASC. de princ. 57, e LSJ, s.v. cunepinoevw, II. 11-12 dein[ov]thc ejn tw=i [pl]av. c. mat.[i] | kai; piqanovthc: come asserisce Aristone, sono incluse nel concetto di ironia tanto l’abilita` nel fingere quanto la capacita` di persuasione. Per plavcma inteso come ‘finzione’ cfr. LSJ, s.v., II B. In connessione con l’ironia (eijrwneuvomai) si ritrova in PLUTARCH. Mar. 43. Si veda W. KNO¨GEL, op. cit., p. 50 nota 1. Per piqanovthc riferito a persone cfr., ad es., POL. XXII 20, 2; PLUTARCH. de Stoic. repugn. 1040 B, e, detto di argomenti, anche PHILOD. rhet. IV (PHerc. 1007), col. 28 A, 9, p. 209 S. I, e LSJ, s.v., 1. 12-15 Cfr. PLAT. Phaed. 86 D; 102 D; 103 A; 117 B; symp. 221 B; DIOG. LAE¨RT. II 21. Per mwka. =[c]|qai, ‘schernire’, ‘beffarsi di’, cfr. AEL. de nat. an. I 29; ALCIPHR. I 24, 2; III 42, 2; EPICUR. ep. ad Men. 127; AGATHARCH. de mari Erythr. 21, 52 M.; VT (Sept.) Sir. 31, 18; Ier. 28, 18, e LSJ, s.v.. morfavzein, ‘gesticolare’, ‘fare smorfie’, e` testimoniato solo qui e in XEN. symp. 6, 4; AEL. de nat. an. I 29. Cfr. LSJ, s.v. Dopo la definizione iniziale si introduce con la solita espressione (e[c[ti]n de; t[oi]|ou=toc oi|oc ktl.) la descrizione analitica del comportamento dell’ironico. 15-17 Cfr. PLUTARCH. Cor. 23; DIO CHRYS. or. 4, 89; HERODOT. II 80; ARISTOT. eth. nic. 1165 A 26-28; ARISTOPH. nub. 993 (dove e` impiegato lo stesso verbo uJpanivcthmi). ajnaphvdhcic (‘balzo in piedi’), da ajnaphdavw, si ritrova in questo senso solo in HIPPOCR. de morb. sacr. 1. 18-19 Cfr. PLAT. Phaed. 84 C; 95 E; symp. 174 D; 175 A-B; 220 C-D; GELL. II 1. 22-24 ‘‘ejgw; ga;r | oi\da tiv plhvn [g]e touvtou o{ti [ouj]|de;;n oi\da;’’: la professione di ignoranza, tipica del Socrate platonico, costituisce insieme all’ironia il tratto fondante e la cifra piu` caratteristica della figura del filosofo nell’interpretazione offerta in chiave polemica da Aristone. Cfr. PLAT. apol. 21 D; symp. 177 D; Hipp. Min. 372 B; DIOG. LAE¨RT. II 32. L’espressione qui impiegata (‘‘Ma io che so se non questo, che non so nulla?’’) richiama in modo sorprendente la formulazione adottata per questo atteggiamento socratico da Arcesilao. Cfr. CIC. Acad. I 16; Luc. 74, e supra, capp. II.3.1 e II.3.2. 24-26 Cfr. PLAT. Phil. 63 D; Prot. 318 A; e anche ARISTOPH. Ran. 107; 115. m. ne. iva, qui equivalente a ‘ricordo’, ‘reminiscenza’, si trova con questo valore in SOPH. El. 392; EUR. Ph. 464; PLAT. leg. 798 B; AEL. var. hist. VI 1. Cfr. LSJ, s.v., I. 26-29 Cfr. PLAT. Euthyd. 274 A; 303 C; Prot. 319 A, e anche apol. 20 C; Hipp. Mai. 304 B-C. Per il particolare valore di poluvc nel nostro contesto — 347 —

COMMENTARIO

(‘frequente’, ‘insistente’), si veda LSJ, s.v., I 2 C. I genitivi t[h]= c f[uvc]e. wc, th=c dunavmewc e t[h=c] | tuvchc dipendono da makavrioi. Per questa costruzione cfr. PHILOD. de mus. IV, col. 9, 37-38 N., e anche rhet. IV (PHerc. 1007), col. 12 A, 12-14, p. 194 S. I (makarivzw). 29-31 L’agg. kalovc e` utilizzato da Socrate nelle apostrofi a Fedro in PLAT. Phaedr. 243 E e 252 B, a Filebo in Phil. 26 B, e a Clinia in Euthyd. 289 B. cofovc, invece, non e` mai usato in Platone e Senofonte in riferimento a Lisia. In compenso esso compare in rapporto ad altri personaggi in PLAT. Hipp. Mai. 281 A; 289 A; 290 D; Prot. 318 B. Si tratta nel nostro caso di richiami molto generici in cui l’importante non e` la precisione letterale della citazione, ma il rimando all’ironia di certe espressioni tipiche del linguaggio socratico. 31-34 L’uso di aggettivi anfiboli in senso ironico da parte di Socrate e` ampiamente attestato dai dialoghi platonici: per crhctovc, ‘dabbene’, cfr. PLAT. Phaedr. 266 E; per hJduvc, ‘soave’, Gorg. 491 E; Euthyd. 300 A; resp. 337 D; 527 D; per gennaioc = , ‘nobile’, Gorg. 473 D; 494 D-E; Euthyphr. 7 E; Crat. 432 D; Alc. I 111 A; 121 A ; 135 E; Euthyd. 285 D; Hipp. Mai. 298 A; resp. 527 B; per ajndreioc = , ‘ardito’, ‘valoroso’, Gorg. 494 D. Quanto ad ajfhlhvc, ‘semplice’, esso non e` mai attestato nei dialoghi, ma lo e` eujhvqhc, di significato affine, per il quale si veda resp. 401 E. 34-35 parepideivknucq[ai]: med. di parepideivknumi, composto doppio generalmente equivalente a ‘mostrare’, ‘denunciare’, nel nostro passo significa ‘esporre le proprie idee o argomenti’. Cfr. LSJ, s.v., II. 35-37 procavptein d’[eJ|tevroic] wJc Acpaciv j a/ kai; [ jIcco|mav]cwi Cwkravthc. : Socrate e` citato esplicitamente per nome soltanto qui nell’ambito del ritratto e di tutto l’opuscolo. Il filosofo ateniese si richiamava ad Aspasia in PLAT. Men. 235 E-249 E; XEN. mem. II 6, 36; oec. 3, 14; AESCHIN. SOCR. VI A 59-72 SSR, e a Iscomaco in XEN. oec. 6, 17-21, 12 (cfr. anche PHILOD. de oec. col. 2, 18; col. 5, 14-15 J.). Cfr. inoltre, per questo atteggiamento socratico, PLAT. Charm. 156 D; symp. 175 E; 201 D; 206 B; 207 C; Hipp. Min. 369 D; Ion 532 D; Gorg. 487 A; Euthyphr. 16 A. Si vedano K. KLEVE, art. cit., p. 240 sg.; p. 246 nota 122; L. ROSSETTI, art. cit., pp. 268-274. 37-39 Cfr. XEN. mem. III 4. L’ajrcaireciva (da ajrchv e ai{recic), era l’elezione di magistrati. Dall’epoca ellenistica e` diffuso il neutro pl. ta; ajrcairevcia, come ad es. in POL. III 106, 1; IV 67, 1; DION. HAL. ant. Rom. X 17. Cfr. LSJ, s.v. L’integrazione ejdokim[avcqhc a[n (Sauppe, a[n add. Hartung) e` assai probabile. La dokimaciva intesa in senso stretto era la verifica dei requisiti civili e legali dei magistrati eseguita dopo l’elezione e necessaria per l’ammissione alla carica. Nell’Atene classica questa funzione era affidata al Consiglio (boulhv). Il verbo dokimavzw (come anche il corrispettivo ajpodo— 348 —

COMMENTARIO

kimavzw) e` usato in questo senso tecnico, tra gli altri autori, anche da LYS. or.

15, 6; 16, 3; PLAT. leg. 759 D; 765 B; ARISTOT. Ath. resp. 45, 3; DEMOSTH. or. 21, 111. Cfr. LSJ, s.v., II 2 A. Per l’interpretazione di queste linee, si veda Comm. a 23 2-4. Col. 23 2-4 Queste linee completano il senso delle ultime tre della colonna precedente e ci aiutano a comprendere la situazione in esse descritta. L’ironico si rivolge a un uomo che esce sconfitto dalle elezioni politiche (22 38-39: t]o. u;c ejk twn= ajrcaireci[wn= aj]|poluomevnouc) affermando con ironia che, qualora fosse stato eletto, egli sarebbe stato sicuramente ammesso alla carica (22 39), cioe` a dire, sarebbe stato considerato all’altezza della sua funzione. E questo perche´, a detta dell’ironico, l’interlocutore sarebbe un uomo valido (vv. 23: c.r.[hvci]|moc) e capace di «condurre a successo tutte le imprese (vv. 3-4: pavnta ... ka|tergavcacqai)». Per la dokimaciva cfr. Comm. a 22 37-39. crhvcimoc, aggettivo avente spesso come termine la citta` e lo Stato (cfr., ad es., EUR. Or. 910; EUP. fr. 129 PCG V; DEMOSTH. or. 42, 22), e il verbo katergavzomai sono termini impiegati ovviamente in senso assai ironico e pungente. 4-9 Cfr. PLAT. Charm. 155 C-E; symp. 175 E; 198 A; 206 B; Euthyd. 173 C; 276 D; 301 A ; 303 A -B ; Prot. 329 B -C ; 339 E ; 359 B ; Theaet. 161 C; kataplhttovmenon e` part. pres. pass. da kataplhvttw (attico per kataplhvccw), ‘colpire’, ‘atterrire’. Cfr. anche PHILOD. Stoic. hist. col. 17, 9 D. cunkaqhmevnouc, part. pres. med. da cugkavqhmai, ‘siedere assieme’, si ritrova con questo significato fondamentale in EUR. Bacch. 811; XEN. an. V 7, 21. 9-10 koi|nologiv[a]n: questo composto (da koinovc, ‘comune’, e lovgoc, ‘discorso’), generalmente ‘conferenza’, possiede qui il significato tecnico di ‘discussione filosofica’. Con lo stesso valore si ritrova in PHILOD. rhet. II (PHerc. 1672), col. 14, 17-18 L. (p. 109 S. I); X (PHerc. 1669), col. 12, 16, p. 243 S. I. 10-12 tajlav|cicta favckein a[pora katafaiv|necq’eJautwi= : cfr. PLAT. Lach. 181 D; symp. 194 A; 198 B-C; Theaet. 184 A. E` possibile cogliere in queste parole un’ulteriore, pungente allusione alla filosofia di Arcesilao, in cui l’aporia di fronte all’equipollenza di tesi contrapposte giocava un ruolo fondamentale. Ancora una volta l’ironico di Aristone sembra riecheggiare in chiave critica le teorie gnoseologiche dello scolarca accademico nonche´ l’accesa discussione intercorsa tra quest’ultimo e gli Stoici sul valore della rappresentazione catalettica. Si vedano CIC. Acad. I 45; DIOG. LAE¨RT. IV 28; SEXT. EMP. adv. math. VII 154-157, e A.M. IOPPOLO, Opinione e scienza cit., pp. 56-65. — 349 —

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12-15 Cfr., ad es., PLAT. Euthyd. 273 C-D. 15-17 Cfr. PLAT. Euthyd. 285 B-C. 17-23 Cfr. PLAT. Prot. 334 C; 336 D; Men. 71 C; Euthyd. 271 C-272 D; 286 E; 295 D-E; Phaed. 96 C. ejkdhvlwc e` avv. da e[kdhloc, ‘chiaro’, ‘manifesto’. L’aggettivo si ritrova al grado superlativo in PHILOD. [de elect. et fug.] col. 13, 9-10 I.-T. (ej|gdhlotavthn). La forma toiou=to. n (neutro sing.), alternativa a toiouto = , e` diffusa sia nei manoscritti che nei papiri. Cfr., ad es., PHILOD. rhet. III (PHerc. 1506), col. 14 A, 17, p. 270 S. II; X (PHerc. 1669), col. 17, 4, p. 249 S. I, ma de ira col. 18, 21; col. 21, 39; col. 34, 35 I.: toiouto = . L’agg. ducaivcqhtoc, ‘insensibile’, ‘ottuso’, con questo valore e` attestato solo nel nostro passo (deest in LSJ). 24-25 procevcein me;n dialego|mevnwi kai; ejncavckein: per il participio sostantivato senza l’articolo, cfr. 17 35 e Comm. ad loc. ejncavckein, ‘stare a bocca aperta’, e` un termine del linguaggio popolare attestato in questo senso letterale in LUC. Icar. 13; ALCIPHR. I 22. Si veda LSJ, s.v., I. Esso si ritrova in Aristofane (vesp. 721; Ach. 221; 1197; eq. 1313), ma nel senso di ‘sghignazzare’, ‘farsi beffe’. Cfr. anche SOPH. Ichn. fr. 314, 370 TrGF IV; LUC. Merc. Cond. 14; peregr. 13. 25-26 uJ|pokinaid* ein= : questo verbo, un hapax di difficile spiegazione, e` stato variamente interpretato. J.L. USSING (ed.), op. cit., pp. 59 e 178, e O. RIBBECK, art. cit., pp. 382; 397, hanno voluto ricondurlo a kivnadoc, termine siceliota per ‘volpe’, vocabolo il cui legame semantico con l’ironia e` attestato da alcune fonti, come ARISTOPH. nub. 448-449, e PHILEM. fr. 93, 6 PCG VII, e ad ajlwpekivzein, equivalente a panourgein= , kolakeuvein, attestato in ARISTOPH. Vesp. 1242. Per questo motivo Ussing penso` di ritoccare la lezione del papiro emendandola nella forma uJpokina{i}dein= . Secondo questa interpretazione il termine significherebbe: vulpino more agere (Ussing), «schwa¨nzeln wie ein Fuchs» (Ribbeck), furtim illudere (Vooys), «to mock covertly» (Kleve), «fare il volpone» (Acosta Me´ndez-Angeli). Ma in realta` il vocabolo si lascia piu` naturalmente collegare al sostantivo kivnaidoc, ‘cinedo’, senza necessita` di emendare il testo. Se tale spiegazione e`, come sembra, etimologicamente fondata, allora uJ|pokinaid* ein= deve significare qualcosa come: «to talk suggestively» (LSJ), «to talk mincingly» (Rusten), «parlare in modo allusivo o indecente» (Ioppolo), «comportarsi in modo affettato o adulatorio» (Montanari), «atteggiarsi a cinedo» (Gigante). Si vedano A.M. IOPPOLO, Il Peri; tou= koufivzein uJperhfanivac cit., p. 730 sg., e M. GIGANTE, op. cit., p. 133. Per la parentela di questo termine con l’aggettivo kinaidolovgoc, impiegato da Aristone nella polemica con Arcesilao, cfr. supra, p. 132 e nota 309. — 350 —

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26 dianeuvein: ‘fare cenno (con le mani o con il capo)’, e` testimoniato in questo senso in DIOD. SIC. III 18; ALEX. COM. fr. 263, 12 PCG II; LUC. ver. hist. 2, 25; NT Luc. 1, 22; MACH. fr. 13, 180 G. Cfr. anche LSJ, s.v., I, e E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 230. 27 ajnakakcavzein: questo verbo (da ajnav- e kakcavzw) significa ‘scoppiare a ridere’ ed e` un vocabolo popolare di uso raro testimoniato anche in HIPPOCR. ep. 17; PLAT. Euthyd. 300 D; resp. 337 A; PLUTARCH. Ant. 20; LUC. asin. 6. La grafia normale e` ajnakagcavzw. Si veda W. CRO¨NERT, Memoria Graeca cit., p. 90. Per ejkkagcavzw cfr. PHILOD. de ira col. 22, 20 I. 28 oi|oc dev: espressione ellittica (e` sottinteso un verbum dicendi all’infinito; Sauppe proponeva di correggere oJ|milwn= in oJ|milein= ) che riprende e[c[ti]n de; t[oi]|ou=toc oi|oc ktl. della colonna precedente (vv. 12-13). La descrizione dell’ironico si protrae piu` del normale e l’autore avverte l’esigenza di richiamare la struttura sintattica su cui essa si regge. 29-33 Cfr. PLAT. apol. 21 B. ajgrammativa, ‘ignoranza’ (qui al plurale), e` attestato, oltre a qui, solo in PHIL. quis rer. div. her. sit 210; AEL. var. hist. VIII 6. ajctociva, ‘fallimento’, e` un altro termine raro. Con questo valore esso si ritrova in PLUTARCH. praec. ger. reip. 800 A; LUC. am. 44; LYD. de mag. 44; Cat. Cod. Astr. II 162, 6. Cfr. LSJ, s.v. ajctociva, I, ed E. ACOSTA ME´NDEZA. ANGELI (edd.), op. cit., p. 230 sg. 34 eujh* mer* ivac: nel significato di ‘successo’ eujhmeriva e` documentato anche in PHILOD. Acad. hist. col. 16, 3 D.; ALCIPHR. III 38, 2. 36-38 La descrizione originale dell’ironico fatta da Aristone si estendeva ulteriormente ma, con una delle espressioni a lui consuete («Ma perche´ parlarne ancora?»), Filodemo mostra di voler concludere il discorso. A tale scopo e` orientato anche il rimando a «tutte le memorie socratiche ([a{p]ant.[a] g.a;r* t[a;] Cwkrati*ka; | mnhmoneuvma. [t]a)», le quali per il filosofo epicureo dovevano rappresentare la migliore testimonianza sull’ironia e che al contempo confermano in modo esplicito l’equazione ironico = Socrate che e` alla base di tutto il ritratto. Si e` discusso se l’espressione in questione debba riferirsi agli scritti epicurei di obiettivo antisocratico o, piuttosto, alla letteratura socratica in generale. Si vedano, ad es., K. KLEVE, art. cit., p. 247; E. ACOSTA ME´NDEZ-A. ANGELI (edd.), op. cit., p. 231. Ma come ha correttamente sostenuto L. ROSSETTI, art. cit., pp. 268-274, e come fa pensare anche la gran messe di riferimenti alle principali fonti socratiche riscontrabile nel corso della descrizione (soprattutto Platone, ma anche Senofonte e Aristofane), si deve preferire la seconda ipotesi. L’espressione va cioe` intesa nel significato piu` ampio possibile come riferimento a quel vasto patrimonio di letteratura socratica fiorito dopo la morte del filosofo nel quale figuravano anche opere che oggi non possiamo piu` leggere. Suggestiva a tale propo24

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sito e` l’idea dello stesso Rossetti che a 22 35-37 si debba vedere un riferimento alla perduta Aspasia di Eschine di Sfetto. Tuttavia, non va dimenticato che gia` in Platone (Menex. 235 E-236 C; 249 D-E) e in Senofonte (mem. II 6, 36; oec. 3, 14) si trovano passi in cui Socrate si richiamava espressamente a questo personaggio. Cfr. anche Comm. ad loc. [t]a; pleivw, ‘maggiormente’, ‘ancora’, neutro avv. di pleivwn, -on, si ritrova con questo valore in THUC. I 81.

Col. 24 2-8 Terminata la lunga e vivace descrizione dell’ironico, Filodemo passa alla trattazione delle ultime due specie morali affini alla superbia. La presenza della coronide nel margine sinistro in corrispondenza del v. 2 dimostra inequivocabilmente che qui finiva la descrizione del vizio precedente e, poiche´ ai vv. 36-38 della col. 23 il filosofo epicureo mostra di voler passare ad altro, si deve immaginare che all’inizio della nostra colonna le linee mancanti non fossero piu` di un paio. I due vizi di cui qui si tratta sono il dispregiatore o denigratore (eujte[licth;c h] ejxeutelic]|thvc) e il vilificatore o vilipensore (oujdenwth;c h] ejxou|denwthvc). Di essi si afferma che sono simili (o{moi|oi], cioe` reciprocamente analoghi, e non simili al carattere precedente, come voleva W. KNO¨GEL, op. cit., p. 37; ma il termine e` totalmente integrato), in quanto orientati al medesimo scopo (ejpi; taujto; fev|rontai), che consiste nel calunniare il prossimo ([ka]t.abolh=c tou= | plhcivon). E` dunque la calunnia l’essenza di queste due fattispecie, le quali differiscono solo per la minore o maggiore intensita` di questa loro componente fondamentale. In esse si manifesta apertamente la natura socialmente distruttiva di tale vizio. La coppia di opposti qui impiegata, ejpivtacic e a[necic, rispettivamente ‘tensione’ e ‘distensione’, e` usata in senso letterale in riferimento alle corde di uno strumento musicale (cfr., ad es., PLAT. resp. 349 E; PLUTARCH. de fort. 99 C; CLEM. ALEX. strom. VIII 9, 32 = fr. 350 SVF II). Con un valore metaforico simile a quello testimoniato nel nostro passo (‘crescente e decrescente intensita`’) e` attestata, tra gli altri autori, in PS.-HIPPOCR. de morb. acut. 54; ARISTOT. de cael. 288 A 18-289 A 2; DIOG. LAE¨RT. VII 101 (fr. 92 SVF III); PORPH. in Aristot. Cat. 137, 29 (fr. 525 SVF III). Cfr. anche SIMPL. in Aristot. Cat. 237, 25 (fr. 393 SVF II). Solo in questi ultimi tre passi, appartenenti alla dossografia stoica, essa e` applicata al campo morale, con la precisazione che i filosofi stoici, mentre ammettevano aumento e diminuzione per gli stati psicologici (e{xeic), negavano ogni differenza di intensita` per le disposizioni stabili (diaqevceic) come le virtu` e i vizi. Cio` — 352 —

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non e` in contraddizione con quanto si afferma nel nostro passo, dove la diversificazione quantitativa (cioe` a dire il diverso grado di calunnia in essi presente) non risiede nel denigratore e nel vilipensore considerati in se stessi, bensı` nella loro reciproca relazione, essendo proprio questa differente quantita` di calunnia cio` che essenzialmente li distingue. In senso stilistico la medesima coppia di termini si ritrova in PHILOD. rhet. IV (PHerc. 1007), col. 17 A, 4-5, p. 198 S. I (ejpitavcei te kai; | ajnevcei); DION. HAL. de Isocr. 13, e riferita all’accento (in sillaba tonica e atona rispettivamente), in PHILOD. de poe¨m. I, col. 43, 23; col. 94, 17-18 J.. Sia eujtelicthvc (da eujtelivzw, ‘avere in dispregio’) che ejxeutelicthvc (da ejxeutelivzw, ‘denigrare’) si trovano soltanto nel De liberando a superbia (il secondo anche in PHILOD. de sup. col. 9, 1-3 J.: mhde; tw=n a[l|l]wn ajnqrw. v[pw]n ejx[eute]|licthvn), ma sono altrove attestati, oltre ai verbi corrispondenti, eujtelicmovc, ‘svilimento’, ed ejxeutelicmovc, ‘denigrazione’. Anche oujdenwthvc (da oujdenovw, ‘annichilire’) ed ejxoudenwthvc (da ejxoudenovw, ‘vilipendere’) risultano testimoniati soltanto nel nostro scritto, ma sono altrove documentate le forme ejxoudenevw ed ejxoudenivzw, oujdevnwcic, ‘annichilimento’, ejxoudevnwcic o ejxoudenicmovc, ‘vilipendio’, e anche ejxoudevnwma, ‘disprezzo’. Per le attestazioni corrispondenti cfr. supra, p. 107 nota 190. Le forme in ejxouqen- sono posteriori. ejxouqevnwcic e` in PHILOD. rhet. VII, col. 57, 17-18, p. 63 S. II. katabolhv, ‘calunnia’, ‘ingiuria’, e` un raro sinonimo di diabolhv attestato soltanto qui e in PHILOD. rhet. VII, col. 52, 17-18, p. 56 S. II; PHIL. legat. ad Gai. 170. Si veda anche LSJ, s.v., IV. Con un valore analogo (‘ingiuriare’, ‘calunniare’) e` testimoniato anche il verbo corrispondente in PHILOD. rhet. lib. inc. fr. 30, 6, p. 164 S. II. 8-12 Aristone entra ora nel merito specificando meglio la differenza intercorrente tra il denigratore e il vilipensore. Mentre il primo si limita a sminuire una certa persona facendola sembrare mediocre (faulov|teron) agli occhi del suo interlocutore, il secondo pretende di presentarla come una nullita` assoluta (i[con twi= mh|deniv, «uguale a zero». Cfr. SOPH. Oed. Col. 918: kajm’ i[con tw/= mhdeniv), cioe` come assolutamente insignificante. Nel primo caso l’intensita` della calunnia e` solo parziale, nel secondo totale. Di passaggio si precisano anche le circostanze in cui operano entrambi i viziosi: essi calunniano una persona in quel momento assente (ajpovn* [tw]n. tinav), cioe` agiscono sempre in assenza della persona calunniata. 12-18 Una volta stabilita la natura di questi due vizi e le loro reciproche differenze, l’autore si sofferma ad analizzare i rapporti con la superbia. E precisa che solo in alcuni casi, quando cioe` essi calunniano gli altri con il proposito indiretto di ostentare la propria superiorita` (uJperoch;n | ... ijdivan) o quella delle persone da essi magnificate, il denigratore e il vilipensore — 353 —

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partecipano della superbia e possono pertanto dirsi essi stessi superbi (uJperhfavnouc). E` infatti strutturalmente tipico di quest’ultimo vizio umiliare gli altri per esaltare se stessi. Si veda, ad es., 15 6-9 e Comm. ad loc. Ma vi sono anche denigratori e vilipensori che calunniano per il solo gusto di attaccare (katatrevcontec movnon) il prossimo, cioe` a dire, senza alcun riferimento a se stessi e alla propria eccellenza, ma per pura malizia (backaniva) e invidia (fqovnoc). In tal caso la superbia non vi entra a far parte. L’analisi di Aristone brilla per la sua lucidita`, ma non manca di colpire il riferimento all’intento di esaltare terze persone in alternativa a se stessi come possibile causa finale dei due vizi in questione. Non si vede cioe` perche´ il fatto di calunniare alcuni per esaltare altri possa rientrare nella fattispecie morale della superbia. Cfr. anche Comm. ai vv. 21-23. Per uJperochv, cfr. 13 10 e Comm. ad loc.; 15 9; 21 33 (dove ritorna la quasi identica espressione uJperoch;n ijdivan ejm|fainouvchc) e anche PHILOD. de sup. col. 8, 11 J. ajpocemnuvnw e` attestato all’attivo con il significato di ‘esaltare’, ‘magnificare’ anche in PLAT. Theaet. 168 D; DIOD. SIC. II 47; HELIOD. erot. I 22; CHARIT. II 4. Si veda LSJ, s.v., I. 18-23 A questo punto, dopo aver fornito nelle linee precedenti la consueta definizione introduttiva tipica di ogni carattere, Aristone si concentrava sul caso di quei denigratori e vilipensori che sono allo stesso tempo anche superbi, analizzandone sia «le assurdita` cagionate da quella (ta; d. [i]’ejkeivnhn | a[topa)», cioe` dalla superbia, sia soprattutto (perittovteron) quelle «dovute alla loro disposizione calunniatrice, maligna e invidiosa (ta;* | th=i diablhtikh. = i kai; backan|tikh=i kai; fq. onht[i]k. h=i)». Ma Filodemo, preso dall’impazienza di concludere il libro, preferisce omettere questa parte della caratterizzazione riferendosi ad essa in maniera assai generica e sintetica. fhci.nv . (v. 19), verbum dicendi di cui il soggetto non puo` essere altri che lo stesso Aristone, e` l’importante segnale con cui il filosofo epicureo indica che la lunga citazione della sua fonte sta finalmente per volgere al termine. Al v. 23, dopo fq. onht[i]k. hi= , essa puo` considerarsi definitivamente conclusa. Per ejpakolouqevw, ‘tenere dietro’, ‘accompagnare’, cfr. anche PHILOD. de ira col. 22, 18; col. 28, 28; col. 47, 31; col. 50, 1 I., e, per il verbo di formazione simile parakolouqevw, 19 7. a[topa, ‘assurdita`’, neutro pl. sost. di a[topoc, si ritrova nella stessa forma e con il medesimo valore in PLAT. Theaet. 175 A; Phil. 49 A. L’aggettivo e` applicato a persone in PHILOD. de sign. col. 1, 11 D. L’art. tav* del v. 21 ha funzione dimostrativa e sottintende il precedente a[topa. I tre aggettivi che seguono (diablhtikovc, da diabavllw; backantikovc, da backaivnw; fqonhtikovc, da fqonevw) sono assai rari e si ritrovano solo in POLL. V 118; 127, il primo, e in PLUTARCH. quaest. conv. 682 D (dove e` attestata l’analoga espressione — 354 —

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th;n fqonhtikh;n kai; backantikhvn), gli altri due. Essi sottintendono un sostantivo come tevcnh (che pero` si adatta male al senso del passo), e{xic o, meglio ancora, diavqecic, visto che qui si tratta di condizioni psicologiche stabili. In effetti, backaniva, fqovnoc e in certi casi, come abbiamo visto, anche uJperhfaniva sembrano rappresentare, insieme alla diabolhv, che ne e` la disposizione di base, i tratti fondanti di questi due vizi. Per fqovnoc e backaniva cfr. anche ARISTOT. divis. 52, 21-53, 5. 23-29 Nelle linee che concludono il libro a parlare e` nuovamente Filodemo, il quale afferma di voler terminare in questo punto (aujtou=) la presente trattatazione (to;n uJpomnhmati[c]mo;n de; | touton = ), cioe` a dire la sezione dell’opera Sui vizi consacrata alla superbia. Subito di seguito e` annunziato il progetto di affrontare lo studio di altri vizi (twn= a[llwn kakiwn= ) oltre a quelli sin qui considerati, cioe` di aggiungere eventuali altre sezioni alla sua grande opera morale, la quale fu dunque concepita in piu` di dieci libri. Se Filodemo abbia o meno condotto a termine il suo piano e, in tal caso, a quali specie morali abbia dedicato ulteriori libri del De vitiis non e`, allo stato attuale delle nostre conoscenze, possibile dire. Sta di fatto che di altre eventuali sezioni e dei libri corrispondenti non si e` finora evinta alcuna traccia dalla collezione ercolanese. Non e` completamente da escludere l’ipotesi che il filosofo di Gadara non sia riuscito a portare a compimento il suo progetto e che il decimo libro De superbia rappresenti di fatto l’ultima sezione del trattato che egli riuscı` a scrivere. Questa idea fu avanzata per la prima volta da D. COMPARETTI-G. DE PETRA, op. cit., p. 69 sg. Si vedano anche A. VOGLIANO, op. cit., p. 69; E. KONDO, art. cit., p. 43; F. LONGO AURICCHIO, Sulla concezione filodemea cit., p. 79 nota 3; M. ERLER, Epikur, Die Schule Epikurs, Lukrez, in H. FLASHAR (Hrsg.), Ueberweg IV 1: Die hellenistische Philosophie cit., p. 318; M. GIGANTE, Atakta XV cit., p. 131 sg. Che aujtou= (v. 25) sia avverbio di luogo (‘qui’, ‘in questo punto’) e non si riferisca pertanto ad Aristone, come voleva F. WEHRLI (Hrsg.), Die Schule des Aristoteles, VI cit., p. 40 (si vedano anche John Rusten in J. RUSTENI.C. CUNNINGHAM (eds.), op. cit., p. 175: «And here we shall end this excerpt from him [Ariston] etc.», e V. TSOUNA, Aristo on Blends cit., p. 280), fu inizialmente suggerito da R. PHILIPPSON, Philodemos 5, RE, XIX 2, 1938, col. 2468, ed e` stato definitivamente chiarito da M. GIGANTE, Atakta XV cit., p. 132 e note 16-18; ID., Kepos e Peripatos cit., p. 127 nota 22. Un valore analogo di aujtou= si rintraccia nella chiusa del XIV libro Sulla natura di Epicuro, col. 39, 9-10 L. (ajlla; ga;r tau=ta aujtou= katectrevfqw), e in quella del De pietate di Filodemo (PHerc. 1428, col. 15, 13-23 = pp. 25-26 H.): w{c|te kai; tou= mevr[o]uc | touvtou th=c d[iai]rev|cewc th=c kat’ajr. c.a;c | ejkt[e]qeivchc ajpo. |crwvntw[c ej]xe[i]rgac|mevnou ka. i.ro;c a]n ei[|h{i} to;n per. i; thc= euj|cebeivac lovgon thc= | kat’

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COMMENTARIO

jEpivkouron auj|tou= paragravfe[i]n. Per la prima di esse si veda G. LEONE, La chiusa del XIV libro «Della natura» di Epicuro, «CErc», XVII, 1987, pp. 50; 52. Analogamente uJpomnhmaticmovc (v. 24), qui equivalente a ‘parte o sezione di un trattato’, e non a ‘estratto’, ne´ a ‘commentario’ o ‘memorandum’, si riferisce, non alla parafrasi del De liberando a superbia di Aristone, come immaginava il gia` citato Wehrli (loc. cit.) e ora anche S. VOGT, art. cit., p. 262, ma piu` generalmente, all’intero decimo libro De vitiis di Filodemo. Annunziando infatti il progetto di analizzare ulteriori vizi nell’ambito del suo ampio trattato morale, il filosofo epicureo fa comprendere indirettamente che il termine di paragone e` l’intero De superbia in quanto tale, e non una sua parte, per quanto significativa. Lo stesso sostantivo si ritrova con valore identico o assai simile in PHILOD. rhet. II (PHerc. 1672) col. 21, 5-10 L. (p. 120 S. I): nunei; d’, e[ij | m]h; katap[e]ivgeic, ta; kai; | katavloipa th=c diexovdou | procqevntec para[gravyai] | me;n a][n] to;n uJpomnh[m]a[ti]|cmovn, e in STOB. ecl. II 7, 5 W. Cfr. LSJ, s.v., 2, e il verbo uJpomnhmativzomai nei significati correlati di ‘scrivere un trattato’ in ANONYM. de subl. 1, 2, e di ‘trattare un soggetto’ in DEM. LAC. de forma dei col. 24, 11-12 S. Si vedano anche M. GIGANTE, Atakta XV cit., p. 132 e nota 19; ID., Kepos e Peripatos cit., p. 127 e nota 22; G. INDELLI, Per una nuova edizione cit., p. 694. Con il medesimo significato e` attestato anche uJpovmnhma in PHILOD. de mus. IV, col. 24, 5-6 N.; de poe¨m. V (PHerc. 1425), col. 29, 14 M.. Cfr. LSJ, s.v., II 5 B. Per katapauvw, utilizzato in un contesto analogo con il medesimo valore di ‘concludere’, ‘portare a compimento’, si veda la chiusa del quinto libro Sui poemi dello stesso Filodemo (PHerc. 1425), col. 29, 21-23 M. (h[dh memhkucmevnon | to; cuvggramma katapauv|comen), dove invece di uJpomnhmaticmovc e` attestato l’affine cuvggramma, ‘opera’, ‘trattato’, ‘libro’’. Infine, come ha messo in luce lo stesso Gigante (Atakta XV cit., p. 132 e nota 22) l’impiego al v. 25 di ejpicunavptw, ‘aggiungere [a un insieme gia` dato]’, ‘congiungere’ (cfr. LSJ, s.v., I 1), impedisce di pensare che il filosofo di Gadara si riferisca qui all’eventualita` di trattare ulteriori fattispecie morali in opere diverse dal De vitiis. Per il sostantivo kakiva (v. 27), che da il nome a tutto il trattato filodemeo (Peri; kakiw=n), cfr. anche 19 17. Una coronide (v. 29) segnala la conclusione del libro, che dalla subscriptio (Filodhvmou | Peri; kakiw=n | i–) ricaviamo essere il decimo dell’opera. Per il titolo finale cfr. supra, cap. III.5.

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INDICI

INDEX VERBORUM Il riferimento e` alla colonna e al numero delle linee del testo greco. Le parentesi quadre indicano che un termine e` sostanzialmente integrato, l’asterisco segnala un hapax legomenon. L’articolo e kaiv non sono indicizzati. ajgaqovc 12 24-25 Aghciv j laoc 15 10 ajgoravzw 17 29 ajgrammativa 23 30 ajgrovc 12 10 ajgwvn 14 24 ajdikevw 11 2 a[dikoc 15 6 aJdrovc 13 33 a[/dw 14 33 ajeiv 10 9 ajhdiva 14 14 Aqhnai j oc = [11 32-33] aijtevw 10 8-9; 16 37; [17 2] ajkovlouqoc 11 23 ajkouvw 14 29 ajlazoneiva 19 6-7 ajlazwvn 21 40 Alev j xandroc 13 16 ajllav 10 18; 27; [11 28]; [12 6-7]; 15 8; 17; 24; 18 6-7; 23; 22 30; 23 22 a[lloc 13 23-24; 14 11; 14; 16 23; 26; 17 6; 30; 18 8-9; 30-31; 20 27; 21 34; 22 4; 23 27; [30-31]; 24 27 ajllovtrioc 12 24; 17 9 a[logoc 17 21 a{ma 20 4 a{ma me;n ... a{ma dev 14 10 aJmartavnw 16 15; 17 25 aJmartwlovc 14 5 ajmevqodoc [19 2-3] ajmfivboloc 22 32 a[n 10 28; 11 36; 16 12; 16; 17 11; 21 29; 22 39 a[n = ejavn vid. ejavn ajnabavllw 12 21-22 ajnavgkh 19 31; 36

26

ajnavgwgoc 15 22-23 ajnakagcavzw 23 27 ajnalogivzomai 20 22 ajnamavrthtoc 19 27 ajnamimnhvckw 13 5; 14 2 ajnapeivqw 18 14 ajnaphvdhcic 22 16-17 ajnapterugivzw 12 26 ajnateivnw 23 21 ajndreioc = 22 33-34 ajnevdhn 16 27 ajnepifanhvc 11 7 a[necic 24 6 ajnhvr 19 2 a[nqrwpoc 13 24; 15 38; 16 11; 24-25; 20 2; 3 ajntikovptw 14 31 ajntixenivzw 17 8 ajntipoievw 18 37 ajnticunaleivfw* 17 7 ajxiva 21 3; 23 6-7 ajpantavw 13 21-22; 14 37; 21 28 a{pac 12 31; 17 24; 18 34; 20 36; 23 37 a[peimi (ajpov + eijmiv) 24 9 a[peiroc 18 39 ajpeoikovtwc 10 28 ajpevrcomai 13 8-9 ajpov 10 17; 18 19; 20 13; 21 18; 21-22; 22; 23 ajpobavllw 14 39 ajpodhlovw [22 2-3] ajpodhmevw 17 28-29 ajpokavluyic 22 17 ajpokrivnw 17 11 ajpovkricic 21 32-33 ajpoleivpw 13 29-30 ajpoluvw 22 38-39 ajpoplhxiva 18 35-36

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INDEX VERBORUM

a[poroc 23 11 ajpocemnuvnw 24 15 ajpocpavw 11 28-29 ajpotevmnw 10 29-30 ajpovteugma 20 18 ajpovteuxic 14 22-23 ajpotugcavnw 17 38; 19 23 ajprovcdektoc 19 28-29 ajpwvleia 12 29-30 a[ra 23 35 a\ra 23 20 ajriqmovc 21 35 Arictofav j nhc 21 36 Ariv j ctwn 10 11; 16 35 ajrrwctevw 17 12 ajrcaireciva 22 38 Arcev j laoc 13 8 ajrchv 12 11; 17 29-30 ajrcitevktwn 18 26 a[rcw [18 1] a 22 36 Acpaciv j ajctociva 23 31 ajcunevrghtoc 14 16 ajcchmonevw 18 38; 23 32-33 a{te 12 34 ajtimavzw 10 3; 15 5; 35 ajtopiva 19 19 a[topoc 24 21 ajtucevw 20 29 ajtuciva 12 33 aujqavdhc 16 30; 17 21; 19 4 aujqevkactoc 17 19; 18 6; 19 18 aujxavnw 11 13-14 aujcthriva 21 4-5 aujtovc 10 20; 31; [11 1]; 15; 19; 27-28; 12 27; 13 6; 30; [14 2]; 33; 36; 15 11; 22; 25; 36; 40; [16 2]; 8; 23; [17 4]; 12-13; 14-15; 18 18; 19 17; 30; 20 13-14; 22 10; 20; 22; 23 14-15; 24 5; 20; 26 aujtou= (avv.) 24 25 auJtou= vid. eJautou= ajfelhvc 22 33 a[fnw 22 16 ajfraivnw 19 20 ajfuhvc 23 22 a[cqomai 13 6 baruvc 13 27 bacileiva 12 12 backantikovc 24 22-23

bivoc 21 14-15 blevpw 12 30-31 bohqevw 19 26 bouvlomai 14 22; 17 35; 36; 19 11-12; 22 9 brabeuthvc 14 32 braduvc 23 23 bracuvc 21 32 brenquvomai 21 15-16; 16; 36-37 brevnquc* 21 20 ganovw 12 19 gavr 12 34; 14 8; [15 2]; 21; 26; 16 35; 20 27; 22 22; 24; 23 3; 14; 37 gauriavw 15 14-15 ge 13 3; 15 12; 22 23 gevmw 23 38 gennaioc = 22 33 gevnoc 20 25 gevrwn 23 16 givgnomai 10 36; 12 30; 16 6-7; 9; 25; 26; 18 4; 12; 20 14 gignwvckw 18 15; 20 9; 23 goun= 14 25 gravfw 10 12; 11 19; [13 2]; 17 17; 18 26 davknw 12 29 dev 10 9; [11 33]; [12 1]; [14]; 20; 25; 28; [29]; 32; 14 6; 17; 30; 15 30; 38; 16 13; 16; 30; 17 5; 19; 22; 25; 18 13; 17; 18; 19 18; 20 4; 35; 38; 21 5; 34; 39; [22 2]; 10; 12; 35; 24 3; 11; 16; 24; 26 d’a[r’ 13 35 de; kaiv 13 9; 31; 14 4; 38; 16 33; 17 27; 18 30; 36; 19 32; 21 16; 22 6; 23 28 deina 23 34 = deinovc 23 3 deinovthc 22 11 devw 18 27; 20 12-13; 27; 23 36 devon (ejctiv) 10 6 dhv 22 25; 24 10 dh=loc 24 19 Dhmhvtrioc 13 28-29 dh=ta 10 20 diav 10 5; 15; 17; 19; 20; [11 13]; 17; 12 3-4; 27; 30; 13 25; 27; 14 11; 13; 14; 21; 22; 15 4; 6; 8; 31; 17 21; 18 25; 19 9; 20 36; 21 10; 24 20 diablhtikovc 24 22 diagelavw 23 12-13 diadivdwmi 14 29-30 diavqecic 21 24 diairevw 15 23

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INDEX VERBORUM

dialevgw 23 24-25 dianeuvw 23 26 diavnoia 10 34 diapivptw 14 19 diacafevw 23 29 diacurmovc 21 31 diatelevw 18 2-3 diativqhmi 11 16 diatinavzw 12 22 diafevrw 15 25-26; 39; 24 6 dihgevomai 23 33 dikaiovtata (adv.) 16 6 dikacthvrion 14 23-24 diov 13 5; 14 23; 15 9; 19 22; 24 18 Dionuvcioc 11 10; 13 19; 20 diovper 14 35 diovti 13 31-32; 14 38; 15 34; 40; 19 16; 32; 20 16; 23 divc 11 12 Divwn 11 20 dokevw 10 3; 21; 13 39; 16 25-26; 17 36; 21 3031; 24 10 dokimavzw 22 39; 24 28 doxokopiva [15 2] douloc 18 28 = dra=ma [13 3] duvnamai 11 29; [18 2]; 11; 20 9 duvnamic 10 31; 22 28 dunatovc 23 35 ducaivcqhtoc 23 23 duccevreia 13 27 duccerhvc 19 7 duccrhctevw 19 14 ducwpevw 18 5 duvw 16 19 ejavn 10 31; 12 21 a[n14 12; 17 25; 31; 33; 20 13; 21 29; 22 19; 23 4; 17; 35 eJautou= [11 2]; [12 3]; 5; 15 7; 13-14; 16 25; 18 14-15; 27; 29-30; 20 10; [22 2]; 6; 23 12 auJtou= 10 10; 13 11; 17; 16 4-5; 18 19; 22; 25; 20 32; 23 4-5 ejavw 17 2 ejgkurevw 19 37 ejgkwvmion 20 26-27 ejgcavckw 23 25 ejgwv 15 14; 17 32; 34; 22 22; 23 13; 23; 29; 33 e[qnoc 12 12-13 e[qw 12 14-15; 22 7

eij 10 27; 36; 13 22; 16 11; 13; 18; 38; 17 37; 19 6; 20 6; 22 25 ei\doc 12 8; 21 40; 23 6 eijkaioc = 17 20 eijkaiovthc 16 34; 19 8-9 eijmiv 12 17; 13 4; 33; 35; 14 16; 26; 28; 15 27; 16 31; 35; 17 10; 20; 18 7-8; 13; 19; 19 27; 20 3; 6; 17; 26; 32; 34; 37; 21 9; 30 (bis); 22 7; 12; 25; 26; 23 14; 16; 24 12; 13; 15; 18 ei[rwn 21 39 eijc 12 33; 16 16; 22; 19 12; 23 9 ei|c 13 27; 14 7; 15 25 eijceimi (eijc + ei\mi) 14 27 ei\ta 11 17; 14 16; 23 25 ei[te 21 18; 22 ejk, ejx 13 14; 36; 16 24; 31; 19 4; 8; 19; 31; 36; 22 38 e{kactoc 12 7; 15 21 ejkdhvlwc 23 19 ejkei = 11 24 ejkeinoc 16 14; 16 38-17 1; 23 19; 24 20 = ejkpneumatovw 15 32 ejkteivnw 14 32-33 ejlattovw 14 24-25 ejlavttwn 15 12-13; 20 31-32 ejlavttwcic 10 7 ejlavcictoc 20 31; 23 10-11 ejmautou= 23 15; 16-17 ejmovc 23 29-30 jEmpedoklhc= 10 23 ejmpeiriva 18 28; 19 34-35 ejmpoievw 21 35 e[mprocqen 10 34-35 ejmfaivnw 13 32; 21 33-34; 23 5-6; 24 14 ejmfanivzw 10 7-8 e[mfacic 20 1-2 ejn [12 3]; 13 10; 14 23; 40; 16 36; 17 24; 38; 18 12; 34; 19 22; 21 9; 22 11 ejnantivoc 13 14; 22 4 ejnantivwc 13 26 ejnargwc= 11 14-15 ejnevrgeia 21 15 ejnqouciacmovc [12 4] ejniauvcioc 15 19-20 e[nioc 10 24-25; 22 18-19; 24 17 ejnivote 16 17; 20 10 ejnnoevw 12 31; 13 31; 16 16 ejnoclevw 12 20 e[nteuxic 10 5-6 ejxaivrw 11 32; 12 9; 27-28; [22 2]

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INDEX VERBORUM

e[xeimi (ejx + ei\mi) 14 35 ejxelevgcw 16 15-16 ejxevrcomai 17 12 ejxeutelicthvc* [24 3-4]; 8-9 ejxidiavzomai 14 15 ejxoudenwthvc* 24 4-5; 11 e[oika 16 30-31 ejpainevw 21 3; 22 5; 19 ejpakolouqevw 24 19-20 ejpanafevrw 13 23 ejpeiv 14 21 ejpeidhv 12 8 ejpeipevw 16 29 e[peita 14 20 ejperwtavw 14 36; 15 14; 17 10 ejpeufraivnomai 13 39 ejpiv 10 34; 11 8; 21-22; 25-26; 12 10; 11; 13 7; 16; 15 4-5; 22; 26; [16 8]; 17 34-35; 20 30; 21 39; 24 5 ejpiqumevw 18 3-4 ejpinoevw 11 35; 18 19 ejpivpan 11 4 ejpirrapivzw 10 26 ejpickevptomai 17 13; 15 ejpicpavw 13 28 ejpivctamai 15 11-12; 18 17 ejpictolhv 17 17 ejpictolikovc 10 13-14 ejpicunavptw 24 26 ejpivtacic 24 7 ejpiteuktikovc 14 6 ejpitrevpw 19 3 ejpifavckw 21 7 ejpifwnevw 11 11; 22 22; 23 20-21 ejpicairekakiva 12 32 ejpicaivrw 13 7-8; 19 24 ejpiceirevw 18 30 e[rgon 13 25 ejrhmiva 18 12 e{teroc 12 6; 14 9; 15 7; 33-34; 16 20; 17 25; 19 38; [22 35-36] e[ti 18 7; 13 e[ti nun= 21 17 eujgenhvc 15 18 eujgnwmocuvnh 16 14 eujexiva 15 27 eujhmeriva 23 34 eujklhriva 11 26; 13 37 eujlovgwc 12 2; 35; 16 13 Eujripivdhc 11 9; [13 1]

euJrivckw 15 20-21; 16 12 eujtelhvc 13 3 eujtelicthvc* [24 3] eujcarictevw 10 6 ejfictavnw 11 26 ejfivcthmi 22 16 ejcqrovc 12 37 e[cw 10 10; [12 3]; 16 19-20; 17 14; 18 10; 22; 19 17; 35; 20 3; 21 4 zavw 18 11 zeugnuvw 16 20 Zeuvc 15 6 zw/on 15 34-35 = h[ 10 4; [11 4]; 13 25; 16 18; 20; 24; [36]; 19 11; 21 19; 28; 22 20; 21; 28 (bis); [24 3]; 14 h\ 11 23 h[dh 16 10 hJduvc 22 33 h\qoc [20 37] jHleioc = 18 21 JEllhvcpontoc 16 21 hJmeic= 10 19; 11 24; 15 5; 21 21; 22 24; 25 hJmevra 11 12 h{micuc 13 22 h[per 12 20-21; 20 26 JHravkleitoc 10 22 h[toi 15 18 hJttavw 14 35 qavlatta 16 22 qajtevrou = tou= eJtevrou vid. e{teroc qaumavzw 23 8-9 qevlw 14 15 qeovc 16 24; 21 20; 23 2 qermovc 16 36 qewrevw 14 31-32 qrovnoc 13 17 qumivama 21 19 quvra 11 22; 17 9 ijatreuvw18 29 ijdiognwmonevw 17 23 i[dioc 10 14; 18 29; 19 34; 21 33; 24 14 ijdivwc 19 8 iJkanovc 16 28-29 i{na 23 16; 34 JIppivac 18 20; 20 24 i{ppoc 15 37

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INDEX VERBORUM

i[coc 13 11; 24 11 i{cthmi 13 14-15 iJctorevw 18 21 ijccnovthc 11 30 jIccovmacoc [22 36-37] kaqairevw [12 2]; 14 39-40; 19 16 kaqavper 10 27-28; 11 19; 12 17; 13 14; 20 14-15 kaqivzw 13 17 kaqivhmi 16 21 kaqivcthmi 15 10 kaqoravw [10 16] kaquperhfaniva* 16 5-6 vid. ejkeinoc = kai; ejkeinoc kajkeinoc = = = kakiva 19 17; 24 27 kakodaimonevw 19 31 kakovc [12 1] kakwc= 11 10 vid. etiam ceivrwn kalevw 17 5; 18 5-6 kalovc 22 30 kalo;c kajgaqovc 11 35 kalwc= [13 24] kajn = kai; ejn vid. ejn ka[n = kai; ejavn vid. ejavn ka[peita = kai; e[peita vid. e[peita karpovw 19 37-38 ka[cti = kai; e[cti vid. eijmiv Kactovreion 14 34 katav [11 4]; 12 7; 36-37; 13 13; 14 19; 21 14; 21 ka\/ta = kai; ei\ta vid. ei\ta katabolhv 24 7 katagelavw 18 38-39 katavgelwc 19 24-25 katamanqavnw 12 27 katameidiavw 17 33-34 katapauvw 14 34; 24 25 kataplhvttw 23 5 kataceivw 21 26-27 katackeuavzw 18 24 katacmikrivzw 21 27 katatrevcw 24 16 katafaivnw 23 11-12 katafronevw 15 28-29; 23 13 katafeuvgw 16 9; 20 29-30 katemblevpw 21 24-25 katergavzomai 23 3-4 katevcw 20 11 katorqovw 17 24; 18 33-34 katovrqwma 20 20

katochv 20 18 kaucavomai 20 24 kauvchcic 15 22 keleuvw 11 11; 22 20 kermavtion 15 16 kefalaiovw 10 30 kefalhv 21 26 khvrux 14 28 kivnhcic 21 14 koinologiva 23 9-10 koinwvnhma 19 12-13 koinwc= 19 32-33 kovptw 17 9 kocmevw 15 40-16 1 koufivzw 10 13; 11 2-3; 29; 14 20 koufovc 12 20 koufovthc 15 30-31 krewdaivthc 15 11 krivcic 17 25-26 ktavomai 15 16-17 kthcic [12 4]; 11; 15 33 = kuvwn 15 37 kwmw/devw 21 38-39 kwmw/dogravfoc 10 25-26; [13 2] lamprovc 14 38 levgw 11 24; 14 28-29; 30; 15 12; 16 23-24; 30; 17 14; 32; 36; 18 7; 23; 39; 19 28; [20 2]; 5; 28; 21 7-8; 11; 23; 22 20; 23 18-19; 19; 20; 36 lhrevw 19 32; 20 28 logivzomai 14 37; 15 34 lovgoc 13 25; 14 19; 21; [16 1]; 21 10; 22 24-25; 23 7; 24 29 loidorevw 14 3; 19 37 loidoriva loipovn (adv.) 24 12 lupevw 12 24 luphrovc 12 34 Luvcandroc 15 9 Lucivac 22 31 mavqhma 18 36-37 maivnomai 19 15 makavrioc 22 27 Makedwvn 13 18; 29 mavkra 16 36 makrovc 11 13 mavlicta 10 9; 18 16-17; 32 ma=llon 16 15; 20 26; 22 4-5 manqavnw 18 16

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INDEX VERBORUM

maniva 16 18 margitomanhvc* 20 5-6 mavch [13 1] megalaucevw 11 33 megaloyuciva 13 37-38; 15 23-24 megalovyucoc 15 28 mevgac 13 10; [15 2]; 21 30 meivzwn 11 28; 16 5 mevqodoc 20 14 meivgnumi 19 19-20 meidiavw 22 14-15 meiktovc 16 31 Megareuvc 11 21 mevllw 17 32; 37 mevmfomai 17 33 mevn 10 14; 11 32; 12 9; 24; [14 26]; 15 28; 35; 16 11; 31; 18 16; [21 2]; [22 27]; 35; 23 24; 24 12 me;n gavr 24 8 me;n ou\n 13 21; 16 28; 19 3-4; 20 33 mevroc 11 5; 20 15 metav 10 10; 19 24; 21 4; 31; 22 8-9; 16 metamevlomai [11 36-12 1]; 19 35-36 metapivptw 12 33 metarrivptw 10 33 mevteimi (metav + ei\mi) 17 30 metevcw 16 33; 17 26 metewrivzw 10 32-33; 15 7-8 meqivcthmi 13 30-31 mevtrioc 11 18; 16 13 mevcri 11 35; 17 11 mevcri pollou= 22 18 mhv 10 3; 4; 5; [11 1]; 27; 12 5; 13 22; [38]; 15 5; 8; 24; 16 18; 37; [17 2]; 7; 8; 14; 18; 36; 37; [18 1]; [2]; 5; 29; 19 6; 22 29; 23 16; 32 mhdev 11 34; 12 3; 17 3; 14; 18; [18 3]; 34-35; 19 11; 25-26; 26; 28 mhdeivc 17 10-11; 27-28; 24 11-12 mhqeivc 17 6 mhvpote 16 7 mhvte 17 4 mikrovn (adv.) 14 29 mikrou= (adv.) 14 34 mikroprephvc 13 32 mimevomai 23 35-36 mivnqh 21 22 mivnqwn* 21 21 mneiva 22 26 mnhmovneuma mnhmoneuvw 11 14; 21 29; 22 21; 23 38 movlic 21 32

movnoc 14 5; 17 22; 18 10; 19 21 movnon 10 16-17; 18 18; 20; 29; 19 20; 20 17; 24 16 morfavzw 22 14 muvron 21 20 mwkavomai 22 13-14 mwriva 16 17 nauagevw 18 34 nevoc 23 15 nhv 15 6 noevw 22 3 nomivzw 15 17; 19 30 nomikovc 18 28 novchma 16 17 nun= 21 6 xenivzw 17 8 Xevrxhc 16 19 o[gkoc 12 1-2; 13 15; 15 30 o{de [13 2] oJdovc 21 37 oJqenoun= 13 37 oi\da 17 32; 22 23; 24 oi[dhcic 15 27 oi[hcic 14 10; 16 31-32; 17 22; 19 4-5 oijkeioc = 15 8 oijkiva 18 24 oijmwvzw 13 20 oi[omai 19 21; 33; 20 8 oi|oc 12 26; 29; 16 35-36; 17 27; 18 20; 36; 20 10; 22 7; 13; 23 28 oi|on 15 36-37 oJmilevw 13 25-26; 23 28-29 oJmiliva 13 13 o[mma 21 13 o{moioc 15 38; 16 11-12; 19 11; [24 2-3] oJmologevw 12 37; [18 1] o{mwc 10 27 o[neidoc 20 25-26 o[noma 17 3-4; 18 5 ojnomavzw 21 17; 17-18; 22 29-30 o[ntwc 13 3; 20 7 ojxuvctrofoc* 11 8 oJpoioc = 21 35-36 oJravw 11 12; 18 17 ojrghv 19 9 ojrqw=c 23 13 o{c 10 6; 11; 25; 29; [11 10]; 15; 13 16; 20; 16 7;

— 388 —

INDEX VERBORUM

9; 11; 23; 19 10; 19; 20 10; 23; 21 10; 28; 22 3; 5; 9; 23 28; 24 15; 27 ojcmhv 20 17 o{coc 16 26; 17 38; 18 22; 20 21 o{con 15 26 oJcdhvpote 19 12; 21 22-23; 22 8; 23 18 oJcticdhvpote o{tan 11 25; 12 25; 33; 13 11; 20 28 o{te 13 29; 14 27; 35; 20 37; 24 12; 16 o{ti 11 29; 13 4; 15 16; 17; [16 16]; 17 31; 18 15; 19 21; 20 12; 21 36; 22 23; 24 19 ouj, oujk, oujc 10 16; 28; 11 10; 12 25; 14 22; 15 35; 16 19; 17 20; 18 20; 19 2; [20 3]; 10; 12; 17; 20; 35; [22 2]; 23 33 oujdev 17 20-21; [22 2] oujdeivc 20 11; 21 34; 22 23-24 oujdenwthvc* 24 4 ou\n ou[te 14 8-9 ou|toc 10 17; 15 32; 16 8; 29; 17 37; 18 12-13; 19 9; 29; [20 38-21 1]; 22 23; 24 25 tou=to mevn ... tou=to d’ 12 10-11 ou{tw(c) 12 25; 14 31; 18 35; 19 10; [23 2] ojfeivlw 23 15 ojfqalmiva 12 16 ojfqalmovc 11 6; 12 18; 21 37-38 ojclhrovc [20 37] o[cloc 21 9 Pavgoc = [Areioc pavgoc 11 8 paidagwgovc 18 8 paidavrion 18 7 paivdeuma 20 19-20 paic= 17 3; 5 palaiovc 10 25 pavli(n) [11 2]; 13 26 panteidhvmwn* 18 13-14; 20 4 pavnu pavnu mevn 17 20 parav 18 16; 19 19 parabavllw 21 38 paravdeigma 11 17-18 paradivdwmi 21 18-19 paravdoxoc 13 36 parakalevw 14 12; 17 34 paravkeimai 13 18-19 parakolouqevw 19 7 parametrevw [12 5] paraplhvcioc 13 35; 20 24-25 paraplhcivwc 12 22-23

parathrevw 14 17 parativqhmi 13 9 pavreimi (para; + ei\mi) 12 21 paremblevpw 21 25 parevmfacic 22 9 parepideivknumi 22 34 parivcthmi 24 10 parupomimnhvckw 12 13-14; 14 3-4 pa=c 13 7; 34; [16 1-2]; 17 38; 18 15; 37-38; 19 15; 21-22; 25; 20 5; 8; 21; 25; 21 25; 23 3 pavntwc 20 35; 21 6 pavccw 10 14-15 pauvw 11 36; 18 35 pevdh 16 22 peivqw 10 27; 29; 13 33; 17 23-24 pevnhc 12 6 periv 10 12; 29; 14 4; 16 23; 26-27; 29; 18 22; 19 14; 21; 20 16; 27-28; 24 27 peribolhv 15 20; 21 13 periveimi (peri; + eijmiv) 20 19 Periklh=c 11 31 peribolhv periivcthmi 16 18 perioravw 16 12; 23 32 peripoievw 19 33-34 perivctacic 14 41 perittovteron (adv.) 24 21 piqanovthc 22 12 pikrovc 11 3 plavcma 22 11 Plavtwn 18 21 pleictoc 19 23; 21 40 = pleivwn 11 21; 14 7-8; 15 16-17; 16 4; 23 36 pleonach=/ (adv.) 20 38 plhvn 22 23 plhcivon (adv.) [22 3-4]; 24 8 ploion 18 25 = poievw 11 25; 15 13; 15; 16 9; 23; 17 32; 18 18; 23; 20 9-10; 24 28 poihthvc 10 24 poihtikhv 20 15 poliav 18 11 povlic 12 12; 16 10 pollavkic 15 13; 16 10 polumaqhvc 20 7; 16 poluvc 10 21; 11 24; 12 36; 14 16-17; 16 33-34; 19 36; 20 12; 17; 23; 22 13; 26 vid. etiam pleivwn, pleictoc = poreuvw 11 8-9 potapovc 14 27-28; 36 pote 10 31-32; 36

— 389 —

INDEX VERBORUM

potev 23 27 pou 11 23; 21 32 pra=xic 14 4-5; 15 pravttw 17 37; 18 2 privamai 17 3 prov 11 6 proanakrivnw 16 37 prolevgw 10 19 provc 11 16; 20; 22; 28; 12 6; [7]; 27; 13 8; 20; 30; 34; 14 26; [15 5]; 22 3; 8; 37; [23 2]; 7; 28 procagoreuvw 20 7-8 procanativqhmi 17 28; 18 9 procavptw 22 35 procgravfw 17 18 proceperwtavw 17 16 procepirrhtoreuvw* 11 27 procerwtavw 17 4; 31 procevcw 23 24 prochvkw 15 4 prockalevw 23 9 prockophv 19 38 procmevnw 11 22 procomologevw 20 32-33 procpoievw 21 8 procfevrw 19 10 procfuvw 12 28-29 proccravomai 17 26 provcwpon 21 12 provteroc 24 17 provteron 13 4 ptaivcma 12 36 Ptoiovdwroc 11 20 Puqagovrac 10 22-23 punqavnomai 14 27 pur= 13 18 Puvrroc [13 30] pwvgwn 18 10 pwlevw 17 29 pwc= 17 14 rJavbdoc 14 33 rJh=ma 13 27; 22 31-32 rJigevw 13 17-18 JRovdioc 14 25-26 rJwvnnumi 17 18 cemnokovpoc* 21 5 cemnomuqevw 21 10-11 cemnovc [21 2-3] Cerivfioc 14 36-37

ciwpavw 22 19 ckopevw [11 9-10] cofovc 19 27; 22 31 ctrathgevw 15 18-19 cuv 13 21; 15 12; 17 34; 23 3; 17 cuggnwvmh 10 8 cugkatabaivnw 19 13 cugkavqhmai 23 8 cumbaivnw 20 21-22 cumbouliva 19 29 cumparalhptikovc* 14 9 cumpavreimi (cuvn + parav + eijmiv) 23 17-18 cumperilambavnw 11 5-6 cuvmfuloc 15 39-40 cumfuvrw 15 25 cumfwnevw [10 3-4] cunaicqavnomai 10 32 cunaleivfw 17 6-7 cunantavw 12 14; 18-19 cunarevckw [17 1] cunedreiva 17 35 cuneqivzw [10 11] cuvneimi (cuvn + eijmiv) 22 18 cunembaivnw 16 38 cunepinoevw 22 10 cunepitivqhmi 12 34-35 cuneranivzw 14 18-19 cunergevw 14 6-7 cunevrcomai 23 4 cuvnecic 19 33 cunqhvkh 18 27 cunivhmi 23 22 cunivcthmi 13 11 cunoravw 20 12 cuntelevw 17 30-31 cuntrevfw 15 36 cuctevllw [11 34]; 12 9-10; 13 12 cfovdra 13 39 ccedovn 13 7 cch=ma 21 12 Cwkravthc 10 24; 22 37 Cwkratikovc 23 37 cwma 15 26; 18 22 = tajlavcicta = ta; ejlavcicta vid. ejlavcictoc ta\lla = ta; a[lla vid. a[lloc tajnantiva = ta; ejnantiva vid. ejnantivoc tapeinovc 14 40-41; 15 6-7; 21 tapeinovw 11 31-32; [20 37-38]; 22 5-6 tapeivnwcic 10 35

— 390 —

INDEX VERBORUM

tajpovteugma = to; ajpovteugma vid. ajpovteugma taujtov, taujtou= = to; aujtov, tou= aujtou= vid. aujtovc tacuvc 23 22 te 14 12 te ... kaiv 11 6-7; 14 13-14; 19 4-6; 18-20; 21 37; 22 7; 23 6 teleutaion = (adv.) 17 19 tecnitikovc 18 32-33 thlikoutoc 15 38-39; 23 14 = tivqhmi 12 37-13 1; 17 5; 22 32 timavw 15 19 Timokrevwn 14 25 tic 10 10; [14]; [17]; 27; 28-29; 11 5; 11; [34]; 12 16; 26; 13 36; 16 8; 17 2; 15; 16; 31; 33; [18 1]; 20 11; 21 4; 29; 22 15; 19; 20; 25; 28; 23 20; 24 9; 13 tivc 15 14; 17 10; 20 27; 22 23; 24; 23 36 toivnun 10 12 toiou=toc [11 3]; 24-25; 16 34; 17 15-16; 18 1920; 20 21; 21 9; 22 12-13; 23 20; 24 12-13 to; mevn ... to; dev 15 1-4 tocou=toc 16 28 tovte 12 28; 21 5-6 tou[noma = to; o[noma vid. o[noma tribhv 20 13 trovpoc 11 15 tugcavnw 13 36; 15 35-36; 19 11; 20 30-31; 23 28 tuvrannoc 11 12-13 tuvch 10 15; 36; 11 7; 12 35; 13 15; 14 38-39; 16 8; 22 29 tuchrovc 15 29 twjfqalmwv = tw; ojfqalmwv vid. ojfqalmovc uJbrivzw [16 1] uJmeic= 23 31 uJpakouvw 14 13 uJpanivcthmi 22 15 uJpevr 19 29 uJperevcw 12 8; 15 29-30 uJperhfanevw 10 17-18; 11 16-17; 12 15-16; 15 15; 16 27-28; 20 35-36 uJperhfaneuvw 13 34-35 uJperhfaniva 10 13; 13 4-5; 14 20-21; 15 24; 16 3; 32; 17 27; 19 5 uJperhvfanoc 10 15-16; 14 8; 26; 15 30-31; 20 3334; 24 18 uJperqarrevw* 11 36 uJperovpthc 20 34; 35 uJperoravw 15 33; 16 7 uJperochv 13 10; 15 9; 21 33; 24 13

uJperoyiva 16 32-33; 19 5-6 uJperfronevw 14 11-12 uJpov 10 35; 14 7; 10; [15 1-2]; 33; 16 4; 13; 18 32; 19 25; 38 uJpoqhvkh 13 22-23 uJpokinaidevw* 23 25-26 uJpokrivnw 13 38 uJpomnhmaticmovc 24 24 uJponoevw 19 17-18 uJpockelivzw 14 18 uJpotavttw 23 17 u{cteron (adv.) 14 29 u{yoc 12 27-28 Faidroc 22 30 = faivnw 13 12-13; 14 41 favckw 18 4; 23 11 fauloc 24 9-10 = fevrw 19 15-16; 24 5-6 fhmiv 13 6; 21; 16 35; 22 21; 24 19 fqonerovc 12 23 fqonhtikovc 24 23 fqovnoc 12 15; 30 filodoxevw [15 3] filopicteuvomai* 10 4-5 fivloc 10 10; 15 12; 17 13; 23 31 filocofiva 10 20 filevw 13 3 flevgma 11 4 fobevomai 16 3-4; 23 10 fortivzw 18 31-32 fronevw 15 3; 17 22; 19 22; 30 frovnhma 14 40 fuvcic 22 27 futeuvw 18 31 fuvw 11 30; 20 38 fwravw 20 11; 29 caivrw 17 17; 23 34-35 calepw=c 14 12-13 ceivr 23 21 ceivrwn 18 13 clamuvc 15 20 clanivc 12 19-20 creiva 20 3-4 crhvcimoc 23 2-3 crhctovc 22 32 cronivzw 16 2-3 crovnoc 11 21; 22 8 cwrivzw [16 2]

— 391 —

INDEX VERBORUM

cwrivc 18 25 yevgw 21 6; 22 5 yilwc= 22 29 yuchv 12 17; 15 30 yucrovc 16 36-37

w\ 23 31 wJc 10 22; 11 31; 13 2; 10; 28; 15 6; 25; 18 6; 8; 20 28; 21 3; 7; 21; 39; 22 15; 35; 36; 23 21; 35 w{cper 12 25; [13 1]; 17 21 w{cte 12 17; 14 32; [16 1]; 22 4-5; 24 17

— 392 —

INDEX LOCORUM

ACHILLES TATIUS VIII 8, 4 ACUSILAUS (FGrHist I A) 2 F 28

295 107 n. 190

AELIANUS De natura animalium I 29 54 II 33 III 37 IV 30 V 36 48

347 295 286 312 299 107 n. 189 342

Varia historia II 11 III 33 VI 1 VIII 6

176 n. 460 43 n. 205 347 351

AELIUS DIONYSIUS (ed. H. Herbse) fr. 372

322

AESCHINES ORATOR Orationes 3, 55 3, 164 3, 170 AESCHINES SOCRATICUS vd. SOCRATES TICI , VI A

300 300 294 ET

SOCRA-

AESCHYLUS Agamemnon 502 1528

334 296

Persae 744-751 825

322 309

Prometheus 64 404-405

323 286

907 953

323 313

Fragmenta (TrGF III) 124, 2

340

AGATHARCHIDES De mari Erythraeo (ed. K. Mu¨ller) 21, 52

347

ALCIPHRO EPISTOLOGRAPHUS I 22 24, 2 III 42, 2 38, 2

350 347 347 351

ALEXANDER APHRODISIENSIS De anima (ed. I. Bruns in CAG suppl. II 1) p. 160, 3 334 p. 161, 16 334 p. 162, 32 334 p. 168, 1 334 De fato (ed. P. Tillet) 28 28, 2-6 34-35

156 n. 395 333 326

In Aristotelis Topicorum libros octo commentaria (ed. M. Wallies in CAG II 2) p. 147, 22 175 n. 457 p. 173, 11 334 ALEXIS COMICUS (PCG II) fr. 263, 12

351

ANDOCIDES Orationes 4, 13

286

PSEUDO-ANDRONICUS RHODIUS Peri; paqw=n (A. Glibert-Thirry) I, p. 223 206 n. 556; 298 II, pp. 225; 227 299

— 393 —

INDEX LOCORUM

IV, pp. 229; 231; 233 206 n. 556 V, pp. 233; 235 206 n. 556; 300 pp. 247; 249, 76-87 166 n. 441 VI, p. 251, 3-p. 253, 2 334; 340 [Kata; Cruvcippon] 3, p. 261, 88-97 166 n. 441 ANONYMUS De sublime 1, 2 11, 2 33, 1 36, 2 38, 6

356 107 n. 190 337 337 344

ANONYMUS In Aristotelis Ethicam Nicomacheam (ed. G. Heylbut in CAG XX) 1137 A 26-30, p. 248, 17-27 141 n. 339; 178 n. 467; 181 n. 475 ANTHOLOGIA PALATINA IV 3, 340 (Agathias) V 272 (Agatho) VII 708 (Dioscurides) XI 346 (Automedon) 382, 14 (Agathias)

107 n. 189 296 289 317 341

ANTIPATER TARSENSIS (SVF III, pp. 244-258) fr. 56 334 fr. 65 123 n. 267 ANTIPHO ORATOR Orationes 2, 2, 13 ANTISTHENES: vd. SOCRATES

300 ET

SOCRATICI, V

A

ANTONIUS MELISSA (ed. J.-P. Migne´ in PG CXXXVI) Loci commumes 299 I 62 (col. 969 B) APOLLODORUS SELEUCIENSIS (SVF III, pp. 259261) frr. 1-18 76 n. 35 APOLLONIUS TYANENSIS Epistulae 19 APPIANUS Bella civilia I 13 II 44

102 n. 162

296 314

Hannibalia 9

314

AQUILA Ad Psalmos 122 (123), 4

107 n. 190

ARISTEAS IUDAEUS Epistula ad Philocratem 53 122 137 263

325 309 335 313

ARISTIDES, AELIUS (edd. F.W. Lenz-K.A. Behr) De quattuor 102 286 ARISTIPPUS: vd. SOCRATES

ET

SOCRATICI, IV

A

ARISTO CEUS (edd. P. Stork-W.W. FortenbaughJ.M. van Ophuijsen-T. Dorandi = SFOD) fr. 2 A 82 n. 64 fr. 4 A 80 n. 50 fr. 4 B 80 n. 50 fr. 5 80 n. 51 fr. 6 80 n. 50 fr. 9 46 n. 216; 80 n. 52 frr. 10-14 B 80 n. 54 fr. 13 A 87 n. 87 fr. 15 80 n. 55; 88 n. 89 fr. 16 80 n. 53 fr. 18 81 n. 56 fr. 19 34 n. 155; 203 n. 547 frr. 19-20 XV fr. 20 34 n. 152; 82 n. 63; 92 n. 109; 203 n. 547 fr. 21 A-O IX ; 82 n. 63; 245 n. 144; 246 n. 156; 248-249 fr. 22 80 n. 54 frr. 23-24 B 183 n. 480 fr. 24 A 114 n. 225 fr. 24 B 114 n. 225 fr. 26 34 n. 153; 82 n. 63 fr. 27 82 n. 62 fr. 28 82 n. 62 fr. 45 82 n. 62 ARISTO CHIUS: vd. STOICI VETERES, I 333-392 ARISTO IUNIOR (ed. F. Wehrli) fr. 3 fr. 4 fr. 5

— 394 —

197 n. 531 197 n. 532 200 n. 539

INDEX LOCORUM

ARISTONYMUS GNOMOLOGUS Ap. STOB. fl. III 1, 97 H. Ap. STOB. fl. IV 42, 14 H.

176 n. 461 176 n. 460

ARISTOPHANES Acharnenses 221 349 542 1197

350 331 311 350

Aves 1211 1447

108 n. 191 290

Equites 1313

350

Lysistrata 887 Nubes 226 362 363 443-451 445-451 448-449 449 993

107 n. 189; 342

107 n. 189; 149 n. 365; 342;

Pax 25 26

121 n. 258; 131 n. 108 n. 121 n. 258;

309 344 341 345 301 350 191 347

313 107 n. 189; 342

Plutus 245 575

294 300

Ranae 91 107 115 815 917 954 1069 1372

304 347 347 304 304 304 304 331

Thesmophoriazusae 189-190 1111

329 308

Vespae 174 721

108 n. 191 350

1024 1175 1242

313 335 350

Fragmenta (PCG III) 392 694

304 19 n. 84

ARISTOTELES ET CORPUS ARISTOTELICUM Atheniensium respublica 3, 5 324 45, 3 349 50, 3 105 n. 178 De anima fr. 2, 414

B

16-19

De caelo 288 A 18-289

A

320

2

352

De mirabilium auscultationibus 835 B

312

De partibus animalium 660 A 20-22 686 B 23-24

320 320

Divisiones 52, 21-53, 5 58, 19-22

355 109 n. 202

De virtutibus et vitiis 1251 B 2-3 1251 B 20

112 n. 215 337

Ethica Eudemia 1221 A 6 1121 A 8 1221 A 24-25 1221 A 38-40 1223 B 34-36 1231 B 28-1232 1232 A 23-24 1232 B 4 1233 B 18-20 1233 B 18-22 1233 B 34-38 1233 B 39-1234 1249 A 19-24 Ethica Nicomachea 1094 A 8-10 1106 B 26; 31 1107 A 10-11 1107 A 15 1107 B 9

— 395 —

A

18

A

3

108 n. 192 106 n. 181; 339 108 n. 192 299 106 n. 181 182 n. 478 339 182 n. 478 299 300 339 108 n. 192 182 n. 478 153 n. 386 326 300 326 182 n. 478

INDEX LOCORUM

1108 1108 1108 1109 1119 1120 1121 1122 1122 1123 1123 1124 1124 1124 1124 1424 1124 1124 1124 1124 1125 1127 1127 1127 1127 1127 1127 1127 1152 1153 1155 1160 1163 1163 1165 1168 1169 1171 1178

A B B A B A A A B A A A A A A A A B B B A A A A A B B B B B A A A A A A A A B

21-22 108 n. 192 1-5 299 1-6 300 33 308 23-1122 A 17 182 n. 478 32; B 16 182 n. 478 5 182 n. 478 21 182 n. 478 8 307 27 307 34-1125 A 35 165 n. 433 1-3 165 n. 437 13-16 165 n. 438 20 165 n. 434 20-29 107 n. 187 26-1424 B 2 165 n. 439 29 338 2 307 2-5 165 n. 435 29-31 109 n. 199 32-33 165 n. 436 20-26 106 n. 183; 108 n. 192 23-26 325 29 182 n. 478 30-32 109 n. 198 22-32 109 nn. 198 e 200; 110 n. 204 26-29 108 n. 193 27 345 32 153 n. 386 18 182 n. 478 16-22 320 16 182 n. 478 14 182 n. 478; 343 31 182 n. 478 26-28 347 23 182 n. 478 20; 26 182 n. 478 29 286 27-28 320

Historia animalium 491 A 22-26 609 A 23 615 A 16 Magna moralia (ed. F. Susemihl) I 7, 4 21, 4 27, 2 28 28, 1 32 II 3, 1 3, 2

320 342 342 108 n. 192 320 299-300 339 106 n. 181 108 n. 192 308 327; 337

3, 13-15 9, 1 Metaphysica 996 A 32-996 1013 B 30 1044 A 18-22

107 n. 187 290

B

1

187 n. 496 290 291

Physiognomonica 808 A 27-29 811 B 33-35 811 B 39-812 A 1 Poetica 1461 Politica 1253 1254 1267 1272 1278 1298 1311 1331 1332 1338 1342

B

3

A

7-18 10-12 7 2 19 31 17 4 41-1332 11 14

B A B B A B B A A A

111 n. 210 111 n. 210 111 n. 210

158; 309

B

5

320 320 153 n. 386 153 n. 386 320 324 300 337 320 337 286

Problemata 862 B 28 873 B 22 895 A 15-19 950 B 32-35 955 B 4

291 286 320 320 320

Protrepticus (ed. I.D. Du¨ring) fr. 61

320

Rhetorica 1367 A 1379 B 1386 B 1387 B 1388 A 1390 B 1390 B 1391 A 1391 A 1391 A 1419 A 1419 A 1419 B

— 396 —

37 30-31 34-1387 33 1 32-34 33 27-28 33-34 33-B 1 1 7 8-10

A

3

323 109 n. 196 300 315 315 105 n. 176 286 339 286 105 n. 176 325 325 109 n. 202

INDEX LOCORUM

Sophistici elenchi 169 B 35 183 B 6-8 Fragmenta (ed. O. Gigon) 235 764 670 Rose ARIUS DIDYMUS Ap. STOB. ecl. II 7, 2 W. ARSENIUS (ed. Ch. Walz) Violetum 150

325 111 158 n. 404 331 102 n. 162

50 n. 232

299

ARTEMIDORUS ONIROCRITICUS (ed. R.A. Pack) III 24 344 ATHENAEUS IV 159 C 178 n. 466 168 E 289 V 211 D-215 B 298 VI 251 B 88 n. 95 233 B-C 180 n. 472 253 A 307 VII 281 C-D 69 n. 7 IX 398 E 188; 335 X 415 F 312 422 C 289 XI 494 D 107 n. 190 464 D 156 n. 395; 161 n. 422; 315 XII 535 F-536 A 307 547 D-548 B 19 n. 88 XIII 563 F 87 n. 87 590 E 295 611 E 342 XIV 625 B 107 n. 189 643 F 123 n. 267 BION BORYSTHENITES (ed. J.K. Kindstrand) T 11 44 n. 210 T 12 44 n. 210; 86 n. 84; 88 n. 95 T 13 44 n. 210; 86 n. 84 T 19 86 n. 81 T 24 82 n. 64 F3 88 n. 93 F 3-10 187 n. 496 F 16 A 88 n. 93; 176 n. 460 F 20 309 F 34 314 F 35 A 178 n. 466 F 37 178 n. 466 F 38 A 178 n. 466

F F F F F F F F

39 42 47 47 47 47 47 47

86 n. 83 178 n. 466 299 299 299 299 299 299

C A A B C D E F

CALLIAS COMICUS (PCG IV) fr. 15

19 n. 85; 339

CARNEISCUS Philista II (ed. M. Capasso) col. 19, 5-6 col. 20, 7

310 11 n. 41

CATALOGUS CODICUM ASTROLOGORUM (ed. F. Cumont et alii) II 160, 6 340 162, 6 351 VIII 4, 205 107 n. 190 CEBES (ed. K. Praechter) fr. 12

326

CHARITO II 4

354

CHORICIUS Orationes 23, 2, 29

309

CHRYSIPPUS: vd. STOICI VETERES II; III 1-764 CICERO Academica I 16 45

347 127 n. 290; 132 n. 306; 349

Brutus 36 38 285 292 325

44 44 44 115 n. 230; 116 45

Cato Maior de senectute 3 8 De finibus bonorum et malorum II 2 43 III 19 23

— 397 —

n. n. n. n. n.

210 210 210 237 211

83 n. 69 311 127 n. 290 77 166 n. 441

INDEX LOCORUM

50 62 63 65 67 69 IV 47 69 V 13 23 73

181 n. 475 320 320 320 320 320 181 n. 475 141 n. 339; 178 n. 467 46 n. 216; 80 n. 52; 87 181 n. 475 181 n. 475

De legibus I 28 43 De natura deorum I 37 88 93 De officiis I 66-67 90-92 148 De oratore II 95 242 269 III 61 67 161 Epistulae ad Atticum III 2, 2 IV 16, 11 IX 21, 1 XIII 27, 1 Lucullus 74 123-124 130 Orator 20 Tusculanae disputationes III 18 19 21 26 55-61 56-60

320 320 124 n. 270; 195 n. 525 311 117 n. 244

59 70-71 76 75-79 IV 9 17 23 24 26 26-27 27-28 29 30 31-32 54 60 63 V 33

157 139 155 148 157

153 n. 387; 154 n. 389; n. 392; 154 n. 155 n. 154 n. 154 n. 154 n. 157 n. 154 n. 156 n. 139 n. 139 n. 330; 155 n. 181 n.

CLEANTHES: vd. STOICI 176 n. 459 167 n. 443; 317 114 n. 228 44 147 114 123 127

n. n. n. n. n.

210 354 227 266 290 337 337 337 337 337

347 187 n. 495 181 n. 475 45 n. 212 155 n. 394 166 n. 441 299 155 n. 393 148 n. 360 139 n. 330

n. n. n. n. n.

VETERES,

399 330 393 360 399 299 155 291 389 392 389 391 389 399 389 395 330 393 475

I 463-605

CLEARCHUS SOLEUS (ed. F. Wehrli) fr. 46 105 n. 179 105 n. 179 fr. 65 CLEMENS ALEXANDRINUS Paedagogus (ed. O. Sta¨hlin) I 1, 2 1-3 2, 69 9, 76 II 8, 64 12, 128 Protrepticus VI 72, 2

50 50; 51 158 55

n. n. n. n.

232 236 404 253 342 334

161 n. 419; 325

Stromata (ed. O. Sta¨hlin) I 14, 63 80 n. 50 II 18, 79 166 n. 441 20, 108 107 n. 186; 141 n. 339; 149 n. 364; 193 n. 513 21, 129 181 n. 475 22, 131 123 n. 267 V 14, 97 334 14, 110 325 VI 12, 98 326 14, 111 326 17, 157 160 n. 418 VII 3, 19 184 n. 486 16, 98-100 157 n. 399; 158 n. 405 VIII 9, 32 352

— 398 —

INDEX LOCORUM

COLOTES (ed. W. Cro¨nert) In Platonis Euthydemum 5C 10 A 10 B 11 C

115 115 115 115

In Platonis Lysin 8A 10 B 10 D

115 n. 230 115 n. 230 115 n. 230

n. n. n. n.

COLUMELLA De re rustica VIII 16, 4 CRATES THEBANUS: vd. SOCRATES VH

230 230 230 230

343 ET

SOCRATICI,

CURTIUS RUFUS VIII 4, 15

305

DAMASCIUS De principiis 57 146

347 320

Vita Isidori (ed. C. Zintzen) fr. 168

336

DEMETRIUS LACO De forma dei (ed. M. Santoro) col. 18, 1-5 44 n. 210; 86 n. 84 col. 24, 11-12 356 DEMETRIUS PHALEREUS Fragmenta (ed. F. Wehrli) 79 177 178 181 PSEUDO-DEMETRIUS PHALEREUS De elocutione 14 53 170 183 223 232 PSEUDO-DEMETRIUS RHETOR Formae epistolicae 7

27

293 44 n. 210 44 n. 210 44 n. 210

42 105 102 40

n. n. n. n.

296 307 200 179 162 193

54 n. 252

DEMOCRITUS (edd. H. Diels-W. Kranz) B 64

335

DEMOSTHENES Orationes 9, 12 10, 13 18, 138 244 21, 111 198 36, 45 42, 22 60, 16

325 300 310 317 349 319 298 349 337

Epistulae 3, 18

300

DIO CASSIUS XLIII 27 XLV 42 LIII 21 LIX 17 LX 17

326 326 326 317 317

DIO CHRYSOSTOMUS 4, 89 32, 22 24 34, 31 47, 25 49, 9 66, 1 2 3 7 11 15 26 71, 5 77/78, 33 DIODORUS SICULUS I1 23 II 45 47 III 18 XI 15 32 87 XIII 64 22 XIV 109, 6

— 399 —

347 299 314 314 299 332 314 299 314 314 314 314 299 185 n. 489; 332 317 337 309 291 354 351 300 290 291 285 337 344

INDEX LOCORUM

XV 16 XVI 87, 2 XVII 116 XX 63

30 32 34 36 37 46 48 84 92 101 111 114 115

296 176 n. 460 327 147 n. 354

DIOGENES BABYLONIUS (SVF III, pp. 210-243) fr. 52 289 DIOGENES LAE¨RTIUS prooem. 16 73 n. 25; 75; 149 n. 364 II 18 304 21 347 22 114 n. 225; 183 n. 480 28 344 32 347 36 19 n. 86 64 71 n. 13; 123 n. 267 66 176 n. 460 71 187 n. 496 79 43 n. 206; 186 n. 492; 187 n. 496 83-85 71 n. 15 92 187 n. 496 IV 28 349 33 88 n. 95; 128 n. 293; 149 n. 364 36 127 n. 290 40 88 n. 95; 315 40-41 132 n. 309 47 20 n. 89 50 178 n. 466; 309 51 86 n. 81 52 44 n. 210 V 64 80 n. 53 82 44 n. 210 70 80 n. 51 VI 11 156 n. 397; 193 n. 514 7-8 19 n. 86 26 19 n. 87 27-28 187 n. 496 50 178 n. 466 63 176 n. 460 71 193 n. 514 73 187 n. 496 80 71 n. 15 91 298 103 187 nn. 495 e 496 103-104 181 n. 476 104 187 n. 496 105 180 n. 472; 181 n. 475; 181 n. 476; 317 VII 5 298 17 291 18 184 n. 482 22 161 n. 419 23 158 n. 405; 309

117 118 120 121 122 123 125 127 129 160

161 162 163 164 168 171 174 175 177 182 185 188 VIII 4 11 36 66 70 124 IX 1 1-6 5 11 12-15 X6 25

— 400 —

76 n. 35 184 n. 482 77 n. 36 139 n. 331 180 n. 472; 181 n. 475 158 n. 403 324 51 n. 235; 144 166 n. 441 352 299 300 154 nn. 389 e 391; 155 n. 392; 161 n. 422; 315 158 n. 403; 161 n. 420 159 n. 408 326 76 n. 35 332 329 290 167 n. 442; 333 76 n. 35; 184 n. 485; 320 43 nn. 205 e 206; 88 n. 91; 124 n. 269; 149 n. 362; 176 n. 460; 181 n. 475; 187 n. 495; 203 n. 546; 307; 316 141 n. 339; 149 n. 364 88 n. 95; 298; 333 VII ; XII ; 43 n. 208; 70; 90; 140 n. 335; 202 n. 543 69 103 n. 165 103 n. 165; 130 n. 297 183 n. 480 139 n. 331 123 n. 267; 183 n. 480 43 n. 205; 149 n. 362 19 n. 88 333 18 n. 76 18 n. 76 18 n. 76 18 n. 77 18 n. 77 156 n. 395 183 n. 480 18 n. 75 183 n. 480 114 n. 225; 183 n. 480 18 n. 75 5 n. 20; 18 n. 75 102 n. 161

INDEX LOCORUM

DIOGENES SYNOPENSIS: vd. SOCRATES TICI , V B PSEUDO-DIOGENES Epistulae 21 31, 1

ET

SOCRA-

19 n. 87 19 n. 87

DIOGENIANUS PHILOSOPHUS (ed. A. Gercke) fr. 2 156 n. 395; 333 DIONYSIUS HALICARNASSENSIS Antiquitates Romanae III 14 VII 17 X 17

295 319 348

De Isocrate 13

353

De Lysia I3

102 n. 162

De Thucydide 3

107 n. 190

De veterum censura V1

296

Epistula ad Pompeium 5

308

DIPHILUS COMICUS (PCG V) fr. 41

309

DURIS HISTORICUS (FGrHist II A) 76 F 14

307

EPICTETUS Dissertationes I 4, 11 8, 7 11, 29 12, 20 19, 3 28, 30 II 8, 24 12, 7-8 12, 13 16, 45 17, 1 17, 26-27 17, 26-31 17, 39 19, 19

158 n. 63 n. 158 n. 403;

158 63 158 63 63 158 63

n. n. n. n. n. n. n.

332 405 298 291 332 326 341 299 403 291 405 291 291 405 291

26, 1 26, 4 III 1, 1 1, 24 2, 2 2, 8 2, 14 12, 5 14, 8-9 14, 9 16, 7 22, 10 22, 48 23, 16 23, 33-36 24, 67-69 IV 4, 42 4, 46 8, 5-6 8, 12 8, 15 8, 34 11, 34

326 51 n. 236 341 299 158 n. 403 317 63 n. 291 308 158 n. 405 64 51 n. 236 299 299 158 n. 405 51 n. 236 180 n. 472 315 158 n. 403 299 299 299 299 299

Gnomologium Epicteteum 317 15 45 162 n. 424; 167 n. 442 46 315 Fragmenta 11 13 EPICURUS De natura XIV (ed. G. Leone) col. 39, 9-10 De natura XXVIII (ed. D. Sedley) fr. 13, col. 9 sup., 4

51 n. 236 162 n. 424

355 292

Epistula ad Herodotum 40, 4 56, 4 68, 10 77

297 297 297 285

Epistula ad Menoeceum 127 133

347 288

Sententiae Vaticanae (ed. H. Usener) fr. 51

285

Fragmenta (ed. G. Arrighetti) [fr. 24, 46, 16]

297

— 401 —

INDEX LOCORUM

fr. 37, 42, 9 fr. 37, 44, 4-5 fr. 37, 47, 10 fr. 46, 4 fr. 101, 12-13 frr. 204-206 fr. 231 Usener fr. 446 Usener

286 297 297 314 318 141 n. 339 115 n. 230; 116 n. 237 141 n. 339

ETYMOLOGICUM MAGNUM 212, 50 350, 25 778, 49

342 107 n. 190 307

Oenomaus fr. 571, 3 Fabulae incertae fr. 643 fr. 967, 2

334 309 294

EUSEBIUS CAESARIENSIS Praeparatio evangelica VI 8, 13 156 n. 395; 333 8, 16 333 VIII 14, 17 341 XIV 5, 11 183 n. 480 5, 13 149 n. 364 18, 25 65 n. 301 18, 27 65 n. 301 XV 62, 7 124 n. 269; 187 n. 495; 316 62, 7-13 149 n. 364

EUPOLIS (PCG V) fr. 129 fr. 422 fr. 490

349 308 324

EURIPIDES Andromaca 234

341

EUSTATHIUS THESSALONICENSIS Commentarii ad Homeri Iliadem et Odysseam (ed. M. van der Valk) Q 14 (II 516, 15-517, 3) 342

Bacchae 811

349

FLORILEGIUM MONACENSE (ed. A. Meineke) 198 184 n. 483

Electra 536

322

Helena 1558

343

Heraclidae 926-927

313

FRAGMENTA 515 A, 3

Hippolytus 490 1427

341 334

FRONTINUS Strategemata IV 6, 3

Iphigenia Aulidensis 543

294

Medea 473

286

Orestes 43 910

286 349

Philoctetes 464

347

Fragmenta (TrGF V) Ino fr. 403, 3-4 fr. 420, 1

303 149 n. 365; 293

FRAGMENTA COMICA ADESPOTA (PCG III) fr. 506 Kock 107 n. 189 fr. 595 303 fr. novum (13 3-4) 149 n. 365 TRAGICA ADESPOTA

(TrGF II) 337

305

GALENUS ET CORPUS GALENICUM Adversus ea quae a Iuliano in Hippocratis aphorismos enuntiata sunt libellus (ed. E. Wenkebach) 4, 18 A, p. 259 291 De Hippocratis et Platonis placitis (ed. Ph. De Lacy) III 5, 332 291 IV 1, 364-366 154 n. 389 2, 366-367 297 3, 377-378 297 4, 385-387 154 n. 389 5, 394 154 n. 389 5, 396-397 154 n. 389; 156 n. 395; 157 n. 399

— 402 —

INDEX LOCORUM

5, 397-403 6, 403-408 6, 409-411 7, 416-417 7, 416-427 7, 417-419 7, 419-421 7, 422-424 V 1, 429 2, 432; 435; 443 2, 432-435 2, 437-440 2, 443-444 3, 444-447 3, 448-451 4, 458 5, 466-468 6, 472-473 6, 474-476 6, 474 VII 1, 588-591 2, 595-600 141

154 n. 391; 156 n. 395 154 n. 389; 157 n. 399 156 n. 395; 157 n. 399 321 154 n. 391 321 154 n. 389; 297; 321 321 297 154 n. 389 154 n. 391; 318 157 n. 399 e 400; 318 157 nn. 398 e 399 154 n. 389 157 n. 399 154 n. 391 169 n. 444 154 n. 391 154 n. 391; 169 n. 444 321 154 n. 389 n. 339; 178 n. 467; 332

De locis affectis libri VI (ed. C.G. Ku¨hn) VIII p. 32 154 p. 138 154 p. 150 102 p. 301 166 De mixtura (ed. G. Helmreich) 74, 21-79, 24

n. n. n. n.

389 389 162 441

156 n. 395

In Hippocratis de humoribus librum commentarii III (ed. C.G. Ku¨hn) I 16, p. 174 291 GELLIUS II 1 IX 5, 5

347 180 n. 472

GNOMOLOGIUM BYZANTINUM (ed. C. Wachsmuth) 59 55 n. 254

161 GREGORIUS CYPRIUS s.v. bavtracoc Cerivfioc

312

HARPOCRATION s.v. margivthc

335

HELIODORUS Erotici I 22 IX 9, 3

354 341

HERACLIDES PONTICUS (ed. F. Wehrli) fr. 163, 34 107 n. 189 HERACLITUS (edd. H. Diels-W. Kranz) B 40 183 B 46 B 70 183 B 79 183 B 97 183 B 115 183 PSEUDO-HERACLITUS Epistulae 2

n. 480 309 n. 480 n. 480 n. 480 n. 480

314

HERMARCHUS (ed. F. Longo Auricchio) fr. 25 102 n. 161 HERMIAS ALEXANDRINUS (ed. P. Couvreur) In Platonis Phaedrum scholia 51, 7 289 54, 18 289 60, 18 289 132, 6 289 HERODIANUS GRAMMATICUS (ed. A. Lentz) I 237 317

GNOMOLOGIUM PARISINUM (ed. L. Sternbach) 242 299

HERODOTUS I 123 II 80 VI 92 VII 33-36 149 IX 27

GNOMOLOGIUM VATICANUM 743 (ed. L. Sternbach) 120 141 n. 339; 178 n. 467 120-123 149 n. 364 158 299

HESIODUS Opera et dies 519 Theogonia 149

GNOMOLOGIUM NEAPOLITANUM (ed. F. Sbordone) II D 22 149 n. 364

86 n. 83

— 403 —

300 347 323 322 300 313

34 n. 153 286

INDEX LOCORUM

HESYCHIUS LEXICOGRAPHUS s.v. brevnqon brenquvetai brenquovmenoc kikkivdai margivthc paremblevpouca parillaivnouca prophlakicmovc cmikrivzw

342 107 n. 189 107 n. 189 343 335 343 343 107 n. 190 343

HIPPIATRICA (edd. E. Oder-C. Hoppe) 38 HIPPOCRATES Aphorismi III 28

ET

318

CORPUS HIPPOCRATICUM 321

De ae¨re aquis et locis 24

323

De flatibus 1

334

De fracturis 25

300

De morbis acutis 54

352

De morbo sacro 1

347

De natura hominis 4

291

Epistulae 17

351

HOMERUS Ilias Z 181 I 646 L 694 W 212-213

128 n. 293 155 n. 394 288 300

Odyssea q 266-366

42 n. 201

PSEUDO-HOMERUS Margites (IEG) fr. 3 IDOMENEUS (ed. A. Angeli) De Socraticis frr. 24-28

335

116 n. 238

IOSEPHUS FLAVIUS Antiquitates Iudaicae IV 8, 23 VI 5, 3 XVII 10, 7 XVIII 1, 3

307 107 n. 190 292 107 n. 190

Bellum Iudaicum III 7, 33

328

ISAEUS Orationes 6, 29

300

ISOCRATES Orationes 2, 34 7, 37 8, 14 12, 154 14, 37 15, 131 19, 25

313 293 294 293 313 321 325

IULIANUS IMPERATOR Ad Themistium 264 D

338

In Galilaeos 347 C

307

LACTANTIUS Divinae institutiones V 17 LIBANIUS Orationes 56, 17 PSEUDO-LIBANIUS Characteres epistolares 5

320; 329

107 n. 189

53 n. 247

LUCIANUS Amores 44

351

Asinus 6

351

De lapsu in salutando 5

18 n. 76; 325

De mercede conductis potentium familiaribus 14 350

— 404 —

INDEX LOCORUM

De morte peregrini 2 13 Dialogi mortuorum 10, 8 20, 8 Hermotimus 19 Icaromenippus 5-8 13

314 350 107 n. 189 65 n. 302 341 65 n. 302 350

Iuppiter tragoedus 1

327

Lexiphanes 12

343

Phalaris I 2

325

Pro imaginibus 13 Quomodo historia conscribenda sit 26 Timon 54 Vera historia 2, 25

107 n. 190 295 107 n. 189 351

LYCO (edd. P. Stork-W.W. Fortenbaugh-J.M. van Ophuijsen-T. Dorandi = SFOD) fr. 8 19 n. 88 LYDUS De magistratibus populi Romani 1, 5 44

336 351

MACHO (PCG V) fr. 13, 180

351

MARCUS AURELIUS ANTONINUS I 9, 1 II 5 5, 1 III 11 13 IV 12 VI 51 51, 1 VII 33 64 66 IX 3, 1 34 XI 18, 2 XII 14

159 158 159 167 167 158 161

n. n. n. n. n. n. n.

141 n. 141 n. 106 n. 158 n. 158 n.

MARMOR PARIUM (FGrHist II B) 239 A 63

301

PSEUDO-MAXIMUS CONFESSOR Loci communes 54 (PG XCI, col. 962 B)

299

MAXIMUS TYRIUS Dialexeis 7, 4

63 n. 291

MENANDER Heros 7

317

Samia 205 550

106 n. 183 325

Fabulae incertae (PCG VI) fr. 593 fr. 857, 1

325 300 521 238 315 318

De mensibus IV 7

293

LYSIAS Orationes 1, 7 14, 47 15, 6 16, 3

METRODORUS LAMPSACENUS (ed. A. Ko¨rte) fr. 8 (De dis) 194 n. fr. 14 (In Platonis Euthyphronem) 116 n. fr. 56 fr. 73

290 337 349 349

MINUCIUS FELIX Octavius XIX 13

MACARIUS PAROEMIOGRAPHUS s.v. bavtracoc Cerivfioc

312

408 403 408 442 442 405 422 315 339 339 344 180 405 314 403

124 n. 270; 195 n. 525

MUSONIUS RUFUS (ed. O. Hense) Orationes 2, 11-15

— 405 —

332

INDEX LOCORUM

7, 16 9, 11 16, 102 17, 13-21 Fragmenta minora 36

314 159 n. 408 299 50 n. 232 154 n. 389; 155 n. 393

NEMESIUS EMESENUS De natura hominis (ed. M. Morani) 19 21

299 291

NOVUM TESTAMENTUM Acta Apostolorum 24, 2 24, 9

337 300

Epistula Pauli ad Galatas 1, 16

327

Epistula Pauli ad Romanos 1-11 15, 17

61 n. 285 318

Evangelium secundum Ioannem 3, 30

311

Evangelium secundum Lucam 1, 22

351

OLYMPIODORUS (ed. G. Stallbaum) In Platonis Philebum scholia p. 239

307

ORIBASIUS (ed. J. Ra¨der) Collectiones medicae X 30, 8

310

Fragmenta 124

320

ORIGENES Commentaria in Evangelium secundum Matthaeum III 494 D 326 XIII 16* 157 n. 399 XV 16 154 n. 391 Contra Celsum I 29 64 IV 81 VI 12 VIII 50 51

311 154 n. 389; 157 n. 399 320 183 n. 480 320 154 n. 389; 157 n. 399

PANAETIUS (ed. M. van Straaten) fr. 12 (= 124 Alesse)

167

PAPYRI PCairo 65445, 126-129 293 PHerc. 19/698 233 n. 92 PHerc. 57 225 n. 64 PHerc. 110 232 PHerc. 128 225 n. 64 PHerc. 140 232 PHerc. 152/157 233 n. 93 PHerc. 155/339 204 n. 549 PHerc. 163 233 n. 92 PHerc. 164 118 n. 245 PHerc. 168 225 n. 64 PHerc. 176 230 n. 76 PHerc. 177 221 n. 50 PHerc. 182 220; 225; 230 n. 76 PHerc. 222 3 n. 8; 231-232; 234 PHerc. 223 3 n. 8; 234 PHerc. 237 234 PHerc. 253 3 n. 11; 217 e n. 32; 218 e n. 34; 231-232; 234 PHerc. 307 220; 225 PHerc. 311 210 PHerc. 336/1150 223 n. 57 PHerc. 415 234 PHerc. 465 3 n. 11; 232; 234 PHerc. 495 118 e n. 245 PHerc. 558 118 e n. 245 PHerc. 671 232 PHerc. 807 225 n. 64 PHerc. 832 225 n. 64 PHerc. 873 225 n. 64 PHerc. 896 3 n. 11; 232; 234 230 n. 74 PHerc. 994/1676 PHerc. 1004 194; 196 PHerc. 1006 211 PHerc. 1007 211; 223 e n. 55; 223 n. 61 PHerc. 1007/1673 230 n. 74; 230 n. 76 PHerc. 1008 IX ; XVI ; 4; 22; 209-250 PHerc. 1010 223 n. 61 PHerc. 1012 230 n. 76 PHerc. 1013 225 n. 64 PHerc. 1017 3 n. 14; 234 PHerc. 1020 (ed. H. von Arnim) frr. 2-3 332 col. 1, 1-6 332 coll. 2-3 332 col. 4 158 n. 403 PHerc. 1021 118 n. 245; 223 n. 55; 230 nn. 74 e 76 PHerc. 1025 3 n. 12; 315

— 406 —

INDEX LOCORUM

PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc. PHerc.

1027 230 nn. 74 e 76 1038 225 n. 64 1050 230 nn. 74, 76-77 1055 223 n. 57 1065 223 n. 55; 230 nn. 74 e 77 1067 221 n. 50 1077 (pezzi 8-10, 12) 232; 234 1082 3 n. 8; 232; 234 1089 3 n. 8; 232; 234 1090 3 n. 11; 234 1092 232 1111, fr. 44, 10 194 n. 521 1138 225 n. 64 1186 225 n. 64 1258 225 n. 64 1392 221 n. 50 1400 221 n. 50 1414 225 n. 64 1418 223 n. 55 1421 221 n. 50 223 n. 57; 230 n. 74 1423 1424 3 n. 10; 119 n. 252; 217 n. 32; 218 n. 34; 223 n. 55; 223 n. 57; 230 n. 74; 231-232; 234; 237238 190 n. 505; 202; 223 n. 55; PHerc. 1425 230 n. 74; 230 n. 76 PHerc. 1426 223 n. 55; 223 n. 57; 230 n. 74 PHerc. 1427 211; 223 n. 55; 230 n. 74 PHerc. 1428, col. 1 195 n. 525 PHerc. 1457 34 e n. 152; 92; 134 n. 314; 225 n. 64; 231-232; 234 fr. 24, 29-33 Bassi 3 n. 8 col. 11, 24-26 Kondo 3 n. 12 PHerc. 1479 221 e n. 49 PHerc. 1484 221 n. 50 PHerc. 1489 221 n. 50 PHerc. 1497 211; 230 n. 74 PHerc. 1507 3 n. 14 PHerc. 1535 221 n. 50 PHerc. 1613 3 n. 11; 232; 234 PHerc. 1643 3 n. 8; 232; 234-235 PHerc. 1658 221 n. 50 223 n. 55; 223 n. 57; 234 PHerc. 1669 PHerc. 1670 223 n. 55 PHerc. 1672 211; 223 n. 55; 230 n. 74; 230 n. 76 PHerc. 1673 211; 223 n. 55 PHerc. 1674 223 n. 55; 237-238 PHerc. 1675 3 n. 8; 211; 217 n. 32; 223 n. 55; 231-232; 234; 237 e n. 118; 238

PHerc. 1676 PHerc. 1678 PHerc. 1695 PHerc. 1696 PHerc. 1786 PHerc. Paris 2 PSchubart 39 9-14 PSI 981

223 n. 55 300 210 221 n. 50 231 3 n. 13; 235 178 178 n. 468 235

PAULUS AEGINETA (ed. J.L. Heiberg) Epitomae medicae libri VII III 78 PERSAEUS: vd. STOICI

VETERES,

308

I 435-449

PSEUDO-PHALARIS Epistulae 118

307

PHERECRATES (PCG VII) fr. 105

342

PHILEMON COMICUS (PCG VII) fr. 47 fr. 93, 6 fr. 93, 7

325 350 325

PHILIPPIDES (PCG VII) fr. 23

317

PHILO ALEXANDRINUS De Cherubim 68 71

341 317

De confusione linguarum 117 De congressu eruditionis gratia 130 534 De gigantibus 67

63 n. 291

341 318

160 n. 417

De Iosepho 65

325

De migratione Abrahami 136

341

De mutatione nominum 128-129

296

— 407 —

INDEX LOCORUM

De opificio mundi 73 104

320 310

De posteritate Caini 37 75

341 156 n. 395

De Providentia fr. 2, 17

341

De sacrificiis Abelis et Caini 32, 18 46

314 320

De somniis I 154 224 II 267

293 317 317

De virtutibus 116 116-117 171

299 300 64 n. 294

De vita Mosis I 31 II 139 154 195

PHILODEMUS ET CORPUS PHILODEMEUM Academicorum historia (ed. T. Dorandi) col. 16, 3 col. 29, 4 194 col. 35, 2-17 194 col. 35, 8-17 194 col. N, 14 194 col. O, 27 194 col. O, 28 194

n. n. n. n. n. n.

351 516 517 516 516 516 516

De adulatione I (PHerc. 222, ed. T. Gargiulo) col. 10, 1-10 34 n. 155; 203 n. 547 De adulatione II (PHerc. 1457) col. 4, 22-23 Kondo col. 11, 24-25 Kondo col. 11, 24-26 Kondo fr. 23, col. 11, 37-42 Angeli

fr. 24, 29-33 Bassi

291 315 3 n. 12 34 n. 152; 92 n. 109; 203 n. 547 3 n. 8

293 298 341 341

De bono rege secundum Homerum col. 36, 32-33 Dorandi col. 37, 2-5 Dorandi

328 307

De dis I (ed. H. Diels) col. 19, 14

292

In Flaccum 15 130

325 341

Legatio ad Gaium 87 170 176

De dis III (ed. H. Diels) fr. 41, 19-20 fr. 89, 13 col. 6, 5 col. 12, 1

334 292 334 334

317 353 344

[De electionibus et fugis] (edd. G. IndelliV. Tsouna-McKirahan) col. 5, 7 337 col. 13, 9-10 350

309 326 417 418 418

[De insania] (ed. E. Bignone) col. 9, 12-13

Legum allegoriae I 52 93 III 1 201 247

50 n. 233; 160 n. 160 n. 160 n.

Quaestiones et solutiones in Genesim IV 165 160 n. 417 Quis rerum divinarum heres sit 210

351

Quod deterius potiori insidiari soleat 193

324

Quod omnis probus liber sit 59

332

[De invidia] (ed. A. Tepedino) frr. 1-19 De ira (ed. G. Indelli) fr. 8, 15-16 col. 1-col. 34, 6 col. 1, 12-20 col. 8, 20-26 col. 8, 20-27 col. 8, 22 col. 9, 25 col. 9, 35 col. 11, 15

— 408 —

11 n. 41 300 288 205 154 n. 389 155 n. 394 157 318 295 310 334

INDEX LOCORUM

col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col.

18, 19, 21, 22, 22, 28, 29, 32, 34, 36, 40, 47, 49, 49, 49, 50,

21 3 39 18 20 28 16 32-33 35 4 17 31 7 20 24 1

350 310 350 354 351 354 336 297 350 308 334 354 315 154 n. 391 16 n. 71 354

De libertate dicendi (ed. A. Olivieri) fr. 26, 4-12 115 n. 233 fr. 40, 5 285 fr. 61, 12 309 fr. 66, 7-9 11 n. 41 fr. 66, 15 336 fr. 67, 5-6 311 [col. 5 B, 7] 295 col. 14, 7 344 col. 18 B, 3 314 col. 22 A, 10-11 315 col. 23 B, 7 315 col. 27, 3-4 344 fr. ined. 91, 6 11 n. 41 De morte IV (PHerc. 1050, ed. T. Kuiper) col. 13, 10-11 299 col. 20, 4 305 287 col. 21, 5 col. 33, 37-col. 34, 15 118 n. 249 col. 34, 38-39 334 col. 35, 11-25 118 n. 249 col. 36, 31 296-297 De musica IV fr. 31*, 11 Delattre col. 81*, 39 Delattre col. 2, 2 Neubecker col. 4, 1 Neubecker col. 9, 37-38 Neubecker col. 20, 26-27 Neubecker col. 24, 5-6 Neubecker col. 30, 19 Neubecker

310 330 338 288 348 289 356 288

De oeconomia (ed. Ch. Jensen) col. 2, 18 col. 5, 14-15

348 348

col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col.

7, 37-41 8, 9-10 12, 2-5 14, 3 15, 13 21, 28 22, 24 23, 13 24, 20 24, 20-21 24, 21 24, 40 26, 25 27, 4

20 n. 92; 290 24 n. 105 30 n. 127 308 331 16 n. 71 314s 309 286 11 n. 41 310 308 309 15 n. 63

De pietate (ed. D. Obbink) col. 1, 1-14 194 n. 521 col. 25, 1-10 115 n. 232 col. 25, 6-13 116 n. 238 col. 47, 1-29 119 n. 250 col. 48, 14-15 325 col. 55, 13 334 PHerc. 1428, fr. 20, 20-30 Schober 119 n. 252 PHerc. 1428, col. 15, 13-23, pp. 25-26 Henrichs 355-356 De poe¨matis I (ed. R. Janko) col. 43, 23 col. 94, 17-18 col. 160, 20-23 De poe¨matis II (F. Sbordone) Tract. A col. 4, 8 col. 38, 2 Tract. C col. 20, 2-3

353 353 16 n. 71; 286

334 334 334

De poe¨matis V (ed. C. Mangoni) PHerc. 1425 col. 13, 11-13 20 n. 92 col. 16, 28-30 Ranocchia 190 col. 16, 28-34 Ranocchia 202 n. 544 col. 16, 28-col. 17, 5 Ranocchia 189; 190 n. 504 col. 16, 28-col. 24, 22 189 n. 501 col. 16, 30 Ranocchia 189 col. 23, 21-33 192 n. 509 col. 23, 26; 32 336 col. 24, 19 336 col. 27, 32 296 col. 29, 14 356

— 409 —

INDEX LOCORUM

col. 29, 21-23 col. 34, 7 PHerc. 403, fr. 4 Angeli

356 290 190 n. 505

De signis (ed. P.H. ed E.A. De Lacy) col. 1, 11 col. 21, 8 col. 31, 12 col. 32, 32-33 col. 36, 14 De Stoicis (ed. T. Dorandi) col. 13, 1-4

354 334 290 325 319

123 n. 266

De superbia (fr. 1, coll. 1-9 ed. Ch. Jensen, coll. 1024 G. Ranocchia) cornice 7, pezzo 1 219-229; 239 n. 124; 245 fr. 1 4-6; 7 e n. 29; 219 n. 42; 226; 239 nn. 124 e 125; 243-245 col. 1 237 n. 114; 239 n. 125 coll. 1-2 239 n. 125 coll. 1-3 4 coll. 1-4 219 n. 42; 226 coll. 1-9 4-6; 7 e n. 29; 239 n. 124; 245 col. 1, 6 319; 338 col. 2 241-243 col. 2, 1 314 col. 3, 8-13 239 n. 124; 241; 243 col. 4 4; 241-243 col. 4, 23-24 321 col. 4, 24-25 330 col. 4, 27 331 col. 4, 28-29 162 n. 425; 315 col. 5 4; 237 n. 114; 241-243 coll. 5-9 226 col. 5, 3-4 315 col. 6 4; 17; 289 coll. 6-7 318 col. 7-col. 8, 1-13 5 col. 7, 16 313 col. 8, 4 309 col. 8, 11 305; 316; 344; 354 coll. 8-11 219 col. 8, 14-10 11 5 col. 9, 1-3 353 col. 9, 2 36 n. 166 10 XVI e n. 21; XVII ; 9; 17; 93; 95; 164; 230; 237 n. 114; 239 e n. 126; 246; 323 10-11 8; 99 n. 146; 219 n. 42; 226 10-16 232 10-24 XV; 5; 7-8; 35; 205; 219; 226-227; 229; 233-234; 236; 239; 245-246 10 9-10 234 n. 98

10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 10 11

10 11-16 11-31 13 13-14 14-16 15 16 16-19 16-25 16-26 19 19-25 26 28-30 29-30 30-31 31 31-33 31-36 31-16 29 32-33 33 33-34 36

11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11 11

2-4 3-4 4 5-6 5-25 6-8 7 8 8-10 9-14 12-14 14-15 14-17 17 19-25 22 23-25 25 25-26 25-28 25-30 26 27 27-29 28-30 31-34

— 410 —

233 13-14; 164 8; 100; 245; 290 100 XII ; 9; 93; 97 12 162 n. 427 15-16; 93 13 13 16; 20; 65 17 13 236 XV ; 20; 149 9; 14; 20; 98-99 20 22 n. 96; 324 29 n. 125; 38 n. 184 28 21; 27; 290 37 n. 177 236 27 n. 118 162 n. 427 230 n. 75; 237 n. 114; 239 e n. 126 11; 38 n. 184 151 n. 373 36 n. 163 27 n. 118 246 38 n. 180; 162 162 n. 427 36 n. 166 22 n. 98 39 n. 190 149 n. 365 27 n. 118 23; 39 n. 189 236 23; 39 n. 190 233 n. 93 39 n. 186 233 152 n. 383; 233 30 27 n. 119; 187 n. 494 162 n. 427 22; 36 n. 166; 236 27 n. 118; 38 n. 181 11 24; 37 n. 173; 39 n. 189

INDEX LOCORUM

11 32 11 34-35 11 34-36 11 35 12 12-15 12 3-4 12 4 12 5 12 5-7 12 5-10 12 5-13 12 6 12 9-10 12 10-11 12 13-14 12 13-31 12 14-17 12 16 12 16-22 12 17-22 12 17-25 12 19-20 12 22-28 12 23-28 12 25-26 12 26 12 26-28 12 26-29 12 28 12 29-31 12 31-32 12 31-13 9 12 33 12 35 12 35-36 12 36-37 13 13 1-9 13 3-4 13 7-8 13 9 13 9-15 13 11-12 13 13-15 13 14-15 13 15 13 16-19 13 17 13 19-23 13 20-23 13 25 13 26-31

232 n. 89 22; 27 n. 118 28 236 230; 230 n. 75 219 30; 152 n. 383; 178 29 n. 125 27 n. 118 38 n. 181 28; 37 n. 173 152 n. 383 36 n. 163 38 n. 182 178 n. 465 27 n. 118 23; 28 39 n. 188 151 n. 372 29 38 n. 182 39 n. 188 36 n. 158 177 152 n. 383 37 n. 177 36 n. 167 29 n. 125; 38 n. 180 38 n. 184 24 n. 105; 233 n. 93 23 n. 101; 24 n. 105 27 n. 118 28 162 n. 427 162 n. 427; 234 n. 98 38 n. 184 37 n. 178 230 n. 75 17; 39 n. 189 149 n. 365 36 n. 170 27 n. 118 28; 161; 163 38 n. 180 167 n. 443 38 n. 184 162 n. 427 39 n. 189 36 n. 159; 234 n. 98 28; 39 n. 190 39 n. 186 37 n. 178 24; 160

13 13 13 13 13 13 13 13 13 13 13 14 14 14 14 14 14 14 14 14

28-31 31 31-35 31-39 33 34-35 35-39 36-39 37 37-38 39

14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 14 15 15

10-12 11-12 11-14 12 12-15 14-15 15 16 16-19 17-18 18-19 20 20-21 20-23 21-23 23 23-24 23-25 25-37 28-29 29-30 32-33 33-34 34 36 36-37 37-38 38-39 40 40-41

— 411 —

2-3 3-4 5-7 6-8 8 8-12 8-16 10

1-3

24 n. 106; 28; 39 n. 189 27 n. 118 29; 159 n. 411; 161 162 158 36 n. 170 152 n. 383; 159; 164 175 162 n. 427 38 n. 184 36 n. 167 230 nn. 74 e 75 37 n. 178 27 n. 118; 36 n. 167 37 n. 173 38 n. 183 36 n. 166 29; 160 n. 415 30 35 n. 156; 37 n. 172; 64 n. 296; 158 n. 406 159 n. 411 36 n. 170 37 n. 172 236 160 n. 414 36 n. 170 36 n. 167 36 n. 168 38 n. 184 36 n. 164; 37 n. 178 36 n. 167 236 11 28 37 n. 173 234 n. 98; 236 36 n. 159 24 28; 39 n. 190; 160 39 n. 186 36 n. 170; 37 n. 178 36 n. 159 36 n. 159 233 234 n. 98 37 n. 178; 39 n. 186 27 n. 118 38 n. 184; 162 n. 427 236 236 230; 230 n. 74 29

INDEX LOCORUM

15 15 15 15 15 15 15 15 15 15 15 15 15 15 15 15 15 15

1-9 1-13 2-3 6-7 6-8 6-9 7-8 9-13 11 11-13 13-14 13-17 13-23 14-15 14-17 14-18 14-34 16

15 15 15 15 15 15 15 15

16-17 17-19 19-20 21-23 22-23 23-24 23-25 23-27

15 23-34 15 23-16 15 24-25 15 25 15 26-27 15 27 15 27-30 15 27-31 15 27-34 15 28-29 15 30 15 30-33 15 30-34 15 30-38 15 31-32 15 32 15 33 15 34 15 34-16 15 34-16 15 36-38 15 38-40 15 38-16 16 16-17

30 411 425 170 174 181 184 190 161 186 118 178 152 n. 382; 169; 179 36 n. 170; 38 nn. 180 e 184 178 39 n. 185 162 36 nn. 162 e 165; 37 n. 177; 178 n. 465 37 n. 172 37 n. 178 36 n. 159 37 n. 178 36 n. 168 27 n. 118; 105 n. 173; 163 38 n. 181 37 n. 174; 39 n. 188; 111 n. 211; 150 n. 370 32 n. 147; 112 n. 216; 151 n. 371 30 38 nn. 183 e 184 234 n. 98; 236 36 n. 163; 157 157; 174 179 37 n. 173 178 36 n. 170 38 n. 184 30 29; 152 n. 383; 178 159 n. 411 38 n. 184 157 n. 401 29 n. 125 27 n. 118 111 160 n. 415 38 n. 179 36 n. 170; 37 n. 174 159 n. 411 237 n. 114 239 n. 125 159 162 36 37 29; 37 n. 173; 38 38 24; 28; 39 36 39 27

1

1 3

1

n. n. n. n. n. n. n. n. n. n.

16-19 219 16-20 244 16-24 232 16 2-3 151 n. 375; 236 n. 110 16 3-4 27 n. 118 16 3-7 28 16 5-6 36 n. 166 16 7 162 n. 427 16 7-9 29 16 9-11 23 n. 101; 24 16 11-13 37 n. 173 16 16 27 n. 118 16 16-18 28; 36 n. 163; 38 nn. 180 e 184 16 16-28 28 16 17 151 nn. 374 e 377; 157 16 18 151 n. 378; 157 16 18-22 24 16 18-26 28; 39 n. 189 16 20-22 36 n. 170 16 20-26 159 16 22-24 23 n. 101; 24 16 23 236 16 24-26 17; 36 n. 170 16 25 22 n. 98 16 26 236 16 26-28 23 n. 101; 24 16 28 233 16 28-29 30 n. 127 16 30-34 31 n. 139; 63 n. 292 16 30-17 19 30 n. 129 16 30-24 23 21; 30; 323 16 31 236 16 31-32 35 n. 156; 64 n. 296; 158 16 31-33 38 n. 179 16 33-34 33; 158 n. 403 16 34-36 26 16 35-36 90 16 35 24 16 36 36 n. 158 16 38-17 1 236 17 2-19 160 17 3 36 n. 162 17 6-7 36 n. 158; 37 n. 175 17 6-8 38 n. 182; 160 17 7 36 n. 166 17 8 37 n. 175 17 9 36 n. 158 17 12 36 n. 163 17 14 37 n. 172 17 16 36 n. 167 17 16-18 37 n. 175 17 17-18 36 n. 170 17 18 236

— 412 —

INDEX LOCORUM

17 17 17 17 17 17 17 17 17 17 17 17 17 17 17 17 17 17 17 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 18 19 19 19 19 19 19 19

19 19-20 19-27 19-18 12 20-21 21-22 22 23 27-31 28-29 28-31 29-30 30 31 31-37 32 34 35 36 5 7 7-9 8 10-11 11-12 12 12-15 12-19 12-19 3 13-14 13-19 15-19 19 19-34 20-23 24-25 26 26-27 28 31 31-32 32-33 34-36 35-36 36-38 3 3-7 3-9 3-10 3-18 3-20 33

233 n. 90 158 n. 403 31 n. 139; 63 n. 292 30 n. 130; 106 n. 183 37 n. 172 36 n. 170 35 n. 156; 64 n. 296; 158 36 n. 167 38 n. 179 36 n. 162 37 n. 178 36 n. 159 236 236 160 39 n. 186 39 n. 185 36 n. 159 36 n. 170 237 n. 114 236 36 n. 165 38 n. 184 36 n. 161 36 n. 158; 37 n. 177 160 n. 415 233 n. 90 64 n. 297 31 n. 139 30 n. 131 36 n. 166 182 38 n. 182 236 182; 186 n. 491 28 n. 120; 39 n. 189 36 n. 161 36 n. 161 36 n. 159 36 nn. 159 e 163 233 36 n. 161; 37 n. 177 36 n. 161; 182; 236 38 n. 184 36 n. 163; 151 n. 376; 157 64 n. 297; 182 239 n. 125 233 n. 90 162 31 n. 139 63 n. 292 30 n. 129; 31 n. 141 134

19 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19 19

4-5 6-7 8-9 10-11 11-13 12-13 13 14-16 15 18 18-22 18-20 4

19 19-20 19 20 19 20-22 19 21-22 19 22 19 24-25 19 25-28 19 26 19 26-35 19 27-29 19 28-29 19 31 19 32 19 32-35 19 34-35 19 37 19 37-38 20 20-24 20 4 20 4-10 20 4-15 20 4-27 20 4-33 20 5-6 20 6-8 20 7 20 7-8 20 12-15 20 13 20 16-17 20 16-20 20 18 20 19 20 20-22 20 22-24 20 24-25 20 27 20 27-28 20 28 20 29

— 413 —

35 n. 156; 64 n. 296; 64 n. 296; 112 n. 158 n. 36 n.

158 214 403 170 160 38 n. 184 236 36 n. 170 151 n. 379 233 31 n. 139 30 n. 130; 31 n. 141; 106 n. 183 236 36 nn. 167 e 170; 158 37 n. 176; 64 n. 297 183 236 36 n. 164 37 n. 172 236 64 n. 297 37 n. 177 36 n. 168 161 151 n. 380 183 n. 479 233 n. 91 236 38 n. 184 237 n. 114 219 233 31 n. 139 64 n. 297 183 30 n. 131; 31 n. 141; 107 36 nn. 164 e 166 188 233 n. 93 37 n. 178 189 n. 500 236 38 n. 184 37 n. 173 236 233 23 n. 101; 25 28 n. 120; 39 n. 189 37 n. 177 236 23 n. 101; 25; 39 n. 185 151 n. 380 162 n. 427

INDEX LOCORUM

20 31-32 20 33 20 33-36 20 33-38 20 33-21 15 20 33-21 39 21 21-23 21 1-15 21 1-39 21 2-5 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21

2-15 4-5 5 7 7-8 10-11 10-15 11 13 15 15-16 15-35 15-39 19-20 20 21 23-24 24 24-25

21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 21 22 22 22 22 22 22 22

24-27 26-27 27 28-29 31 33-35 35-39 36-38 39 39-40 39-22 39-23 39-24 40 5-6 5-7 8 9 10-11 11 11-23

11 38 2

36

38 n. 183 233 37 n. 174 63 n. 292; 159 n. 411 31 n. 139 30 n. 132 239 nn. 125-126; 240; 344 XVI n. 21; 95; 245 e n. 145; 246 30 n. 133; 164 n. 429 31 n. 137 37 n. 175; 63 n. 292; 112 n. 216 105 n. 173 33 n. 148 36 n. 166 36 n. 167 38 n. 183 232 n. 89 38 n. 179 232 n. 89 36 n. 158 233 n. 90 236 n. 110 159 n. 411 30 n. 134 36 n. 160 36 n. 166 36 n. 166 31 n. 138 29 n. 124 31 n. 138; 36 n. 167; 37 n. 175 38 n. 179 37 n. 177 236 37 n. 171 36 nn. 164 e 168 37 n. 178 130 149 n. 365 233 n. 90 33; 63 n. 292; 122; 162 31 n. 139 345 30 n. 135; 39 n. 187 112 n. 214 37 n. 176; 38 n. 180 37 n. 171 36 n. 168 36 n. 167 158 n. 409 38 n. 184; 120 120

22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 22 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 23 24 24

— 414 —

12-24 13-15 15 16-17 18 19-20 20 22-24 22-25 26-28 27-29 28 29-30 29-39 30 30-31 31-34 33 33-36 34-36 37 38 38-23 4 39-40 4 6-7 7 9-10 11-12 12 13-17 15-16 17 17-18 20-23 22 22-23 23 24-27 25 25-26 27 29-31 29-36 30 30-31 31 34 35 36 36-38 37-38 2

239 n. 124; 241 37 n. 177; 38 n. 179 236 37 n. 178 236 37 n. 178 234 n. 98 110; 132 39 n. 185 39 n. 186 37 n. 178; 38 n. 179 162 n. 427 38 n. 181 239 n. 124 226 37 nn. 177 e 178 38 n. 179 36 n. 167; 287 28 n. 120; 120 17 130 36 n. 159 39 n. 186 108 n. 191 236 38 n. 179 39 36 n. 159 236 234 n. 98 39 n. 186 37 n. 173; 38 n. 181 236 236 39 n. 186 234 n. 98 38 nn. 179 e 180 36 n. 168 37 n. 178; 38 n. 179 36 n. 164; 236 36 nn. 164 e 166; 96; 132 36 n. 164; 236 37 n. 178 39 n. 186 36 n. 168 37 n. 177 36 n. 168 36 n. 164 236 39 n. 185 23 n. 101; 25; 120 17 n. 73; 130 n. 299 230 233 n. 90

INDEX LOCORUM

24 2-18 24 2-23 24 3 24 3-4 24 3-5 24 4 24 4-5 24 5 24 5-6 24 6-8 24 8-9 24 11 24 13-15 24 18-23 24 19 24 22 24 22-23 24 23-29 24 29 subscriptio

31 30 n. 136; 159 36 36 37 n. 175; 38 36 36

n. n. n. n. n. n. n.

139 411 166 166 179 166 166 236 37 n. 175 38 n. 184 36 n. 166 36 n. 166 37 n. 171 23 n. 101; 63 n. 292 24 36 n. 168 36 n. 168; 37 n. 178 2; 25; 214 n. 22; 220 220; 233 e n. 90 2; 219-220; 225; 231-232; 356

De rhetorica I (ed. F. Longo Auricchio) fr. 2, 10 (p. 2 Sudhaus I) De rhetorica II (ed. F. Longo Auricchio) PHerc. 1672 col. 12, 11-12 (p. 105 Sudhaus I) col. 14, 17-18 (p. 109 Sudhaus I) col. 21, 5-10 (p. 120 Sudhaus I) col. 27, 23-24 (p. 127 Sudhaus I) col. 29, 5-6 (p. 130 Sudhaus I) col. 29, 36 (p. 132 Sudhaus I) col. 34, 6 (p. 139 Sudhaus I) col. 34, 15 (p. 139 Sudhaus I) col. 39, 14 (p. 145 Sudhaus I) PHerc. 1674 col. 1, 28 (p. 20 Sudhaus I) col. 10, 24 (p. 32 Sudhaus I) col. 13, 20 (p. 36 Sudhaus I) col. 14, 21 (p. 37 Sudhaus I) col. 22, 1 (p. 121 Sudhaus I) col. 25, 7 (p. 51 Sudhaus I) col. 36, 10-11 (p. 67 Sudhaus I) col. 37, 29 (p. 69 Sudhaus I) col. 39, 11 (p. 71 Sudhaus I) col. 41, 22-23 (p. 74 Sudhaus I) col. 42, 6-7 (p. 75 Sudhaus I) col. 49, 10 (p. 85 Sudhaus I) 16

336

290 349 356 331 305 331 315 335 330 336 336 336 329 336 336 337 336 337 308 337 n. 71

De rhetorica III PHerc. 467, fr. 8, 1-15, p. 286 Sudhaus II 118 n. 248 PHerc. 1426, col. 14 A, 17, p. 270 Sudhaus II 350

28

PHerc. 1506 fr. 10 fin., p. 199 Sudhaus II 290 col. 13, 13, p. 217 Sudhaus II 313 col. 41, 5-6 Hammerstaedt (pp. 242-244 Sudhaus II) 336 col. 44, 4, p. 224 Sudhaus II 308 col. 44, 12, p. 247 Sudhaus II 336 col. 47, 32 Hammerstaedt (p. 252 Sudhaus II) 305 De rhetorica IV (ed. S. Sudhaus) PHerc. 1007 col. 2, 7, p. 163 I col. 4, 3-4, p. 165 I col. 8 A, 25, p. 190 I col. 12 A, 12-14, p. 194 I col. 14 A, 19-20, p. 196 I col. 15, 11, p. 174 I col. 17 A, 4-5, p. 198 I col. 18, 25, p. 178 I col. 23, 18-23, p. 181 I col. 25 A, 13-14, p. 207 I col. 28 A, 9, p. 209 I col. 38 A, 13-14, p. 219 I PHerc. 1423 col. 8, 19-20, p. 152 I col. 13, 12-14, p. 156 I fr. 20, 3-4, p. 159 II De rhetorica VII (ed. S. Sudhaus) col. 10, 6-7, p. 288 I col. 21, 22, p. 297 I col. 22, 3-4; 9-10, p. 16 II col. 35, 6, p. 32 II col. 38, 7-8, p. 35 II col. 49, 6, p. 52 II col. 52, 17-18, p. 56 II col. 53, 11-12, p. 321 I col. 57, 17-18, p. 63 II

309 296 324 348 295 336 353 319 115 n. 232 335 347 313 288 20 n. 92 107 n. 188 314 328 334 288 20 n. 92 336 353 336 353

De rhetorica IX (ed. S. Sudhaus) fr. 12, pp. 328-329 I 202 e n. 543 fr. 12-col. 71, pp. 328-361 I 196-199; 201 fr. 12, 4-13 Cappelluzzo, pp. 328-329 Sudhaus I 197 e n. 531 fr. 12, 10-11 Cappelluzzo, p. 328 Sudhaus I 198 n. 534 col. 6, 4, p. 329 I 202 n. 543 col. 15, 14-15, p. 332 I 202 n. 543 col. 20, 3-12, p. 335 I 201 n. 541 col. 40, 10-14 Cappelluzzo, p. 342 Sudhaus I 115 n. 232

— 415 —

INDEX LOCORUM

col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col. col.

47, 5, p. 346 I 47, 7-9, 346 I 49, 3-4, p. 347 I 50, 9, p. 347 I 64, 13-14, p. 356 I 65, 2, p. 356 I 71, pp. 360-361 I 71, 2-16, p. 360 I 71, 8, p. 360 I 71, 13-14, p. 360 I 72 sqq., p. 361 sqq. I 72, 4-20, p. 361 I 72, 7; 12, p. 361 I 72, 8, p. 361 I

196 196 n. 230 196 337 196 197 202 197 e n. 532 199 199 198 n. 534 198 n. 534 198 n. 534 198 n. 534

De rhetorica X (PHerc. 1669, ed. S. Sudhaus) col. 8, 26-27, p. 238 I 336 col. 12, 16, p. 243 I 349 336 col. 15, 19, p. 247 I col. 17, 4, p. 249 I 350 col. 30, 2-17, pp. 266-267 I 118 n. 248 De rhetorica libri incerti fr. 6, 4, p. 82 Sudhaus II fr. 10 init., p. 99 Sudhaus II fr. 11, 4, p. 105 Sudhaus II col. 4, 17, p. 147 Sudhaus II fr. 20, 3-4, p. 159 Sudhaus II fr. 30, 6, p. 164 Sudhaus II fr. hypomn. 4, pp. 197-198 Sudhaus II n.

336 336 336 334 340 353 200 539

Stoicorum historia (ed. T. Dorandi) 194 n. 518 col. 10, 8-13 col. 17, 9 349 col. 33, 4-col. 37, 3 194 col. 35 43 n. 205 col. 35, 1-6 149 n. 363; 194 n. 519

PINDARUS Pythia 2, 69

312

Isthmia 1, 16

312

PLATO ET CORPUS PLATONICUM Alcibiades I 104 C 111 A 121 A 135 E

296 348 348 348

Alcibiades II 147 C-D

335

Apologia Socratis 20 C 21 B 21 B 4-5 21 D 21 D 3-6

347 351 131 347 132

Axiocus 368 D

310

Charmides 155 C-E 156 D

349 348

Cratylus 394 B 432 D

290 348

PHILOSTRATUS Vita Apollonii Tyrii VII 5

293

PHLEGON Miracula 2

330

PHOTIUS Bibliotheca 532 B 12

342

Euthydemus 173 C 271 C-272 273 C-D 274 A 276 D 278 B 285 B-C 285 D 286 E 289 B 295 D-E 300 A 300 D 301 A 303 A-B 303 C

Lexicon s.v. neottovc s.v. cemnomuqouc= in

327 341

Euthyphro 7E 16 A

— 416 —

D

349 350 350 347 349 310 350 348 350 348 350 287; 348 351 349 349 347 348 348

INDEX LOCORUM

Gorgias 473 D 487 A 491 E 494 D 494 D-E

348 348 287; 348 348 348

Hippias Maior 281 A 289 A 290 D 298 A 304 B-C

348 348 348 348 347

Hippias Minor 368 B-C 369 D 372 B

329 348 347

Ion 532

D

348

Laches 181

D

349

C

Leges 654 691 747 759 765 791 798 811 816

B

326 286 337 349 349 313 347 335 294

Lysis 210

E

346

A C D B D B A

Menexenus 235 E-236 235 E-249 240 D 249 D-E Meno 71 C 90 A Phaedo 84 C 86 D 95 E 96 C 102 D 103 A 117 B

C E

352 130 n. 299; 348 286 352 350 286 347 347 347 350 347 347 344; 347

Phaedrus 241 E 243 E 246 A-D 252 B 266 E

346 348 169 n. 444 348 348

Philebus 16 A 26 B 49 A 63 D

300 348 354 347

Politicus 290 D

313

Protagoras 318 A 318 B 319 A 329 B-C 334 C 334 D-336 335 D 336 B 336 D 338 A 339 E 359 B

347 348 347 349 350 346 344 344 350 344 349 349

Respublica 329 E-330 337 A 337 D 349 E 391 C 395 D 399 B 401 E 444 D 477 A 527 B 527 D 564 B 576 B 612 C Symposium 174 D 175 A-B 175 E 177 D 183 A 194 A

— 417 —

D

A

311 351 287; 348 352 286 296 286 348 156 n. 397 338 348 287; 348 291 290 289 347 347 18 n. 78; 348; 349 347 334 349

INDEX LOCORUM

198 A 198 B-C 201 D 206 B 207 C 215 A 215 A-B 219 C 220 C-D 221 B 221 223

C C

349 349 348 348; 349 348 331 344 18 n. 78; 33 n. 151; 110 n. 207; 341; 346 347 33 n. 151; 107 n. 189; 341; 344; 344; 347 18 n. 78; 110 n. 207 300

Theaetetus 143 E 151 C 161 C 165 D 168 D 175 A 175 E 6-7 184 A

344 294 349 325 354 354 299 349

Timaeus 70 C 83 C-D 85 B

318 83 C-D 291

PLAUTUS Bacchides 1000-1006

325

PLINIUS SENIOR Naturalis historia VIII 227

312

PLOTINUS Enneades V 8, 3

331

PLUTARCHUS ET CORPUS PLUTARCHEUM Ad principem ineruditum 782 B Adversus Colotem 1108 B 1116 F 1117 D 1117 D 5-7 1117 D-F 1118 A 1118 A-C

19 n. 80; 117 117 115 n. 230; 131 130 117 115 n. 230; 131 117

299 n. n. n. n. n. n. n.

240 240 301 298 240 301 240

1118 1118 1120 1122 1126

D D

7

C A

115 n. 230; 131 116 117 130

C

An seni sit gerenda respublica 787 C 791 B

n. 301 n. 239 n. 240 n. 296 5 n. 21

183 n. 480 314

An vitiositas ad infelicitatem sufficiat 499 C

299

Apophthegmata Laconica 215 F

299

Comparatio Alcibiadis et Coriolani 2 2, 1

325 106 n. 183

Consolatio ad Apollonium 104 A

293

De Alexandri Magni virtute aut fortuna 332 A

299

De audiendis poe¨tis 14 E 45 B

88 n. 89 304

De capienda ex inimicis utilitate 87 A De communibus notitiis 1060 E 1062 F 1068 A 1068 C 1068 B 1068 D 1071 F 1073 C

299 139 n. 156 n. 160 n. 418; 160 n.

331 395 335 418 286 160 n. 418 181 n. 475 107 n. 190

De cupiditate divitiarum 525 C 527 A

63 n. 291 63 n. 291

De curiositate 515 D-E 516 F 518 C

63 n. 291 34 n. 153 299-300

De esu carnium I 995 D

299

De esu carnium II 999 A

320

— 418 —

INDEX LOCORUM

De exilio 602 A-B 603 D-E

311 299

De fortuna 99 C 100 A

352 175 n. 457

De fraterno amore 483 F

317

De invidia et odio 537 A

298

De Iside et Osiride 352 C

299

De laude ipsius 539 C

311

De liberis educandis 6A 8A 11 E

175 n. 457 307 325

De nobilitate 12-13

161 n. 423

De recta ratione audiendi 39 D 64; 103 n. 168; 309; 39 E 3-4 43 B 64; 103 n. 168; 44 A 46 D 55 n. 47 E 103 n.

319 299 309 309 254 165

De sollertia animalium 963 F

320

De Stoicorum repugnantiis 1034 D 157 n. 398 1035 F 123 n. 267 1037 D 331 1038 A 160 n. 418 1039 C 339 1039 D 139 n. 331 139 n. 331 1039 E-F 1040 B 347 1041 E 139 n. 331 139 n. 331 1044 F 299-300 1046 B 1046 B-C 160 n. 418; 300 139 n. 331 1048 A 156 n. 395; 158 n. 404; 159 1048 E n. 410; 331 161 n. 422 1050 C

De tranquillitate animi 466 E 467 D 468 A 474 D 477 A

298 298 337 175 n. 457 175 n. 457

De tuenda sanitate praecepta 133 C

104 n. 171

De virtute morali 440 F 440 F-441 A 444 A

141 n. 339; 157 n. 399; 298 318 175 n. 457

De virtutibus et vitiis 100 D 101 C De vitando ae¨re alieno 831 F

299 63 n. 291 299

Maxime cum principibus viris philosopho esse disserendum 776 C 140 n. 334 Non posse suaviter vivi secundum Epicurum 1101 A-B 314 1106 C 285 Parallela minora 308 E 310 C Platonicae quaestiones 999 E 999 E-F

107 n. 190 107 n. 190 309 64 n. 298

Praecepta gerendae reipublicae 800 A 351 805 F 316 823 A 106 n. 183; 325 Quaestiones convivales 644 B 681 D-682 A 682 D

24 n. 110; 316 298 354

Quomodo adulator ab amico internoscatur 50 B 52 n. 241 53 F 175 n. 457 54 B 145 n. 349 57 E 325 65 F 309 66 B 52 n. 241

— 419 —

INDEX LOCORUM

Quomodo adulescens poe¨tas audire debeat 7D 88 n. 93 22 E 317 23 F 175 n. 457; 319 25 C 308 35 A 175 n. 457 Quomodo quis suos in virtute sentiat profectus 81 C 309 81 F 309 Regum et imperatorum apophthegmata 175 C-176 C 185 C Vita Agesilai 8, 1-2

306 311

24 n. 110; 316

Vita Alcibiadis 4 43

286 106 n. 181

Vita Alexandri 28, 5

107 n. 190

Vita Antonii 20 Vita Aristidis 7 Vita Caesaris 37 Vita Catonis Maioris 6 6, 4 18

351

Vita Lycurgi 22, 1 22, 4 30, 6

317 313 317

Vita Lysandri 13 21, 4 21, 7 23, 7-8

317 106 n. 183 325 24 n. 110; 316

Vita Marcelli 5

310

Vita Marii 10 43

337 347

Vita Periclis 5 5, 1 5, 3 15 15, 2 35

314 341 338 24 n. 110 296 317

Vita Philopoemenis 21, 6

317

291

Vita Pompeii 73

325

285

Vita Pyrrhi 11, 9-10

306

Vita Temistoclis 18 21

311 312

Fragmenta (ed. F.H. Sandbach) 155

299

325 106 n. 183 178 n. 467

Vita Cimonis 10

317

Vita Coriolani 23

347

Vita Demetrii 3, 4 41-42 41, 5 41, 7

175 n. 457 307 306 24 n. 106; 298; 307

PSEUDO-POLEMO Physiognomonica 4, 7 7, 12 36 B 4, 18

106 n. 181 106 n. 181 106 n. 181

Vita Dionis 17, 9-10

294

Vita Eumenis 13

313

POLLUX IV 78 V 118 127 VI 34 VII 25

Vita Galbae 23

310

POLYAENUS EPICUREUS (ed. A. Tepedino Guerra) fr. 30 194 n. 521

— 420 —

313 354 354 316 316

INDEX LOCORUM

POLYBIUS HISTORICUS I 19, 12 III 70, 1 106, 1 IV 21, 1 67, 1 V 31, 3 VI 17, 5 VII 7, 5 VIII 21, 11 IX 33, 10 X 13, 10 22, 7 XII 25 E, 3 XXII 20, 2 XXXI 28, 10 XXXV 4, 12

337 290 348 340 348 298 285 326 296 291 296 308 314 347 315 315

POLYBIUS SARDIANUS (ed. L. Spengel in Rhetores Graeci, Lipsiae 1856) III 108, 10 145 n. 349 POLYSTRATUS De irrationali contemptu vulgarium (ed. G. Indelli) col. 13, 27 col. 16, 23-28 115 n. 230; col. 18, 4 col. 21, 3 col. 25, 8 col. 31, 3 col. 32, 27

opinionum 131 n. 303 131 n. 303 131 n. 303 314 131 n. 303 131 n. 303 131 n. 303

PORPHYRIO Commentum in Horatii Epistulas I 1, 82

156 n. 395

Commentum in Horatii Sermones II 3, 32

156 n. 395

PORPHYRIUS In Aristotelis Categorias commentarium (ed. A. Busse in CAG IV 1) 137, 29

352

POSIDIPPUS COMICUS (PCG VII) fr. 41

325

POSIDONIUS (edd. L. Edelstein-I.G. Kidd) fr. 18 145 n. 347 fr. 31 169 n. 444 fr. 49 286 fr. 163 154 n. 391 fr. 164 154 n. 391

fr. fr. fr. fr. fr.

165 166 167 168 170

fr. fr. fr. fr. fr. fr. fr. fr.

176 187 423 409 110 113 136 137

154 n. 391; 154 n. 391; 169 n. 444; 154 n. 154 n. 145 n. 348; 155 n. 394; n. 143 n. 156 156 106 106 106 106

Theiler Theiler B -E Theiler Theiler

PROCLUS In Platonis Timaeum commentarii p. 61 B PTOLEMAEUS MATHEMATICUS Tetrabiblos 168 QUINTILIANUS I 9, 3 II 17, 15 X 1, 33

166 n. 440

292

147 n. 354 115 n. 230 44 n. 210; 86 n. 84

RHETORICA AD HERENNIUM IV 63 63-65 SAPPHO (ed. E.M. Voigt) fr. 94, 19 SATYRUS Vita Euripidis (ed. S. Schorn) fr. 9 fr. 37, col. 1 fr. 38, col. 4-39, col. 1 fr. 39, col. 2 col. 9, 15-19 coll. 9, 25-28 coll. 9-10 col. 15 col. 15, 21-34 col. 15, 21-39 col. 16 col. 16, 6-17 coll. 16-17 col. 17 col. 17, 1-7 col. 17, 7-19 col. 17, 19-40

— 421 —

n. n. n. n. n. n.

321 321 391 391 173 453 342 321 395 395 180 180 180 180

145 n. 349 142 n. 340 342

19 n. 85 291 302 19 n. 85; 302 19 n. 83 19 n. 84 19 n. 85 19 n. 85 301 303 303 303 301 19 n. 85 303 303 303

INDEX LOCORUM

SCHOLIA In Aristophanis Nubes 362

344

In Aristophanis Pacem (ed. F. Du¨bner) 25-26 107 n. 189 In Homeri Iliadem W 536

160 n. 418

In Platonis Rempublicam 329 E

311

In Theocriti Idyllia 1, 66

307

In Pindari Nemeas 11, 55

307

SENECA Consolatio ad Helviam matrem 6, 4

311

Consolatio ad Marciam 2, 1

139 n. 330

De beneficiis II 11, 6 13, 3 IV 27 V 6, 1 VII 26, 4

155 172 154 155 155

De constantia sapientis 9, 4 11, 1 De ira I 20-21 20, 1 De vita beata 10, 2 19, 3 Epistulae ad Lucilum 6, 5 9, 14 10, 3 23, 7 36, 3 75, 11 78, 7 80, 8 87, 12 26 31-32 31-35 31-40

35 89, 13 90, 28 94, 1-17 2 2-18 3

n. n. n. n. n.

394 449 391 394 394

170 n. 447 155 n. 394; 170 n. 446 171 n. 448 155 n. 394 63 n. 291; 155 n. 394 63 n. 291 42 n. 160 n. 155 n. 176 n. 459; 104 n. 154 n. 141 n. 155 n. 175 n. 174 n. 155 n. 173 n. 145 n.

198 418 394 319 171 389 339 394 458 454 394 453 348

4 5 5-17 6 6-7 6-8 7 7-8 9 12 13 16 17 18 21 21-25 22 23 27 31-33 33 35-37 36 39 48 49 95, 1 34 65 65-67 66 66-67 67 104, 20 106, 2 115, 8

155 n. 139 n. 333; 187 n. 495; 155 n. 394; 172 n. 141 n. 141 n. 139 n. 107 n. 186; 141 n. 339; n. 140 n.

394 328 450 339 339 332 192 511 337 298 141 n. 339 141 n. 339; 176 n. 460 178 n. 467 141 n. 339 141 n. 339; 179 n. 469 141 n. 339 141 n. 339; 328 141 n. 339 141 n. 339; 153 n. 388; 154 n. 391 51 n. 237 141 n. 339; 153 n. 388; 156 n. 396; 157 n. 399; 291 298 141 n. 339 139 n. 332 153 n. 388 141 n. 339 139 n. 332 139 n. 332 141 n. 339 139 n. 332 156 n. 396 52 n. 241; 139 n. 332 139 n. 332; 193 n. 512 52 n. 241 51 n. 237 52 n. 241 51 n. 237; 52 n. 241; 145 n. 351 143 n. 342 145 n. 351 43 n. 207 145 n. 351 155 n. 394 155 n. 392 141 n. 339; 178 n. 467; 183 n. 480

SEXTUS EMPIRICUS Adversus mathematicos VII 12 50 n. 232-233; 51 n. 237; 139 n. 333; 141 n. 339; 187 n. 495; 328

— 422 —

INDEX LOCORUM

154-157 158 IX 89 130 133 153 XI 64-67 94

349 327 320 320 333 166 n. 441 181 n. 474 331

Pyrrhonianae hypotyposes I 234 88 n. 95; 128 n. 293; 149 n. 364 III 200 180 n. 472 SIMPLICIUS In Aristotelis Categorias commentarium (ed. A. Kalbfleisch in CAG VIII) 237, 25 352 388, 26 331 SOCRATES ET SOCRATICI SSR) IB7 41-58 D 1-2 H 4 IV A 107 122 144 166 170 V A 54, 8 80 125 134 135 138 161 V B 22 117 368 368-369 369 374 497 V H 45 81 VI A 59-72 T 4 Acosta-Angeli T 5 Acosta-Angeli T 7 Acosta-Angeli T 8 Acosta-Angeli T 9 Acosta-Angeli T 10 Acosta-Angeli T 35 Acosta-Angeli

(ed. G. Giannantoni = 114 n. 225 114 n. 225; 122 n. 263 122 n. 263 123 n. 266 187 n. 496 187 n. 496 71 n. 15 187 n. 496 187 n. 496 176 n. 461 178 n. 466 178 n. 466 156 n. 397; 193 n. 514 180 n. 472; 181 n. 476 123 n. 266 187 n. 496 180 n. 472 71 n. 15 187 n. 496 181 n. 476 187 n. 496 187 n. 496 181 n. 476 180 n. 472 299 348 246 n. 150; 248 246 n. 150; 248 118 n. 249 118 n. 249 118 nn. 246 e 248 118 n. 248 119 n. 252

SOLON (IEG) fr. 4, 36

286

SOPHOCLES Electra 392

347

Oedipus Coloneus 918

353

Fragmenta (TrGF IV) Ichneutae fr. 314, 370 Tyndareus fr. 646, 4 SORANUS Gynaecia (ed. J. Ilberg) II 53

350 313

102 n. 162

SOSICRATES RHODIUS (ed. R. Giannattasio Andria) fr. 13 289 SPHAERUS BORYSTHENITES: vd. STOICI 620

VETERES,

I

STOBAEUS Eclogae physicae et ethicae (ed. C. Wachsmuth) I 49, 69 330 II 1, 16 183 n. 480 1, 24 149 n. 364 2, 14 149 n. 364 2, 18 149 n. 364 2, 22 149 n. 364 2, 23 149 n. 364; 153 n. 387 7, 2 50 n. 232 7, 5 356 7, 5 K 184 n. 486 7, 11 G 159 n. 407; 307; 326 159 n. 410 7, 105 7, 110 161 n. 421 8, 13 124 n. 269; 187 n. 495 31, 83 104 n. 171; 149 n. 364 31, 95 141 n. 339; 149 n. 364; 176 n. 461; 178 n. 467 57, 18 180 n. 472 60, 9 166 n. 441 62, 15 157 n. 399 67, 5 184 n. 486 67, 13 185 n. 489; 332 68, 8 159 n. 410 68, 18 156 n. 395 88, 6 298 89, 4 169 n. 444

— 423 —

INDEX LOCORUM

90, 7 91, 10 91, 20 92, 7 93, 1 96, 18 100, 15 102, 11 103, 104, 108, 115, 218,

24 10 5 10 7

161 n. 422; 298; 315 161 n. 422; 315 300 299 154 nn. 389 e 391 158 n. 404; 331 334 106 n. 182; 179 n. 470; 318; 323 160 nn. 412 e 416 160 n. 413 114 n. 226; 159 n. 408; 329 329 43 n. 206

Florilegium (ed. O. Hense) III 1, 28 178 n. 466 4, 109 43 n. 206; 186 n. 492 4, 110 141 n. 339; 178 n. 467; 186 n. 492 8, 20 44 n. 210 10, 37 178 n. 466 10, 41 178 n. 466 13, 40 149 n. 364 13, 57 104 n. 171; 149 n. 364 38, 32 299 38, 50 299 IV 2, 24 307 20, 69 149 n. 364 149 n. 364 22 A, 16 25, 44 65 n. 299; 104 n. 170; 149 n. 364; 183 n. 480 178 n. 466 31 A 33 31 C, 87 178 n. 466 178 n. 466 31 C, 88 31 D, 110 141 n. 339; 149 n. 364; 178 n. 467 36, 6 325 41, 1 293 52 A, 18 107 n. 186; 149 n. 364; 193 n. 513; 333 STOICI VETERES (ed. H. von Arnim = SVF) I5 298 11 183 n. 480 38 180 n. 472 39 194 n. 518 71 158 n. 405; 309 81 184 n. 482 187 333 190 180 n. 472 195 180 n. 472 209 297

210 216 239 249 259 272 277 286 317 321 322 333

334 336 337 338 339 341 342 343 344 345 346 347 349 350 351

352 353 354 355 356 357 358 359

360 361 362 363 364 365 366 368

— 424 —

291 326 472 472 482 298 299 291 161 n. 419 158 n. 405; 309 184 n. 483 43 nn. 205 e 208; 73 n. 25; 88 n. 91; 140 n. 335; 149 n. 362; 149 n. 364; 202 n. 543; 203 n. 546 74 n. 28; 103 n. 168 43 n. 205; 149 n. 362; 194 n. 519 43 n. 205; 149 n. 362 86 n. 84 43 n. 205; 149 n. 362 69 n. 7 88 n. 95 88 n. 95; 128 n. 293; 149 n. 364 88 n. 95; 128 n. 293; 149 n. 364 88 n. 95; 132 n. 309; 315 88 n. 95; 298 333 43 n. 206; 186 n. 492 43 n. 206; 141 n. 339; 178 n. 467; 186 n. 492 43 n. 206; 124 n. 269; 141 n. 339; 149 n. 364; 176 n. 460; 181 n. 475; 186 n. 493; 187 n. 495; 307; 316 124 n. 269; 149 n. 364; 186 n. 493; 187 n. 495 124 n. 269; 149 n. 364; 187 n. 495; 316 181 n. 476; 187 n. 495 187 n. 495 50 nn. 232-233; 51 n. 237; 139 n. 333; 141 n. 339; 187 n. 495 139 n. 333; 187 n. 495 192 n. 511 141 n. 339; 153 n. 388; 156 n. 396; 157 n. 399; 179 n. 469; 291 181 n. 475 181 n. 474 181 n. 475 181 n. 475 181 n. 475 181 n. 475 181 n. 475 141 n. 339; 178 n. 467 159 n. 407; 307; 180 n. 180 n. 184 n.

INDEX LOCORUM

370

107 n. 186; 141 n. 339; 149 n. 364; 193 n. 513 372 141 n. 339; 178 n. 467; 183 n. 480 375 141 n. 339; 157 n. 399; 298; 318 378 124 n. 270; 195 n. 525 382 140 n. 334 383 149 n. 364 384 104 n. 171; 149 n. 364 386 65 n. 299; 104 n. 170; 149 n. 364 387 104 n. 171; 149 n. 364 388 104 n. 171 389 104 n. 171; 186 n. 493 391 149 n. 364; 186 n. 493 392 149 n. 364; 186 n. 493 393 149 n. 364 394 149 n. 364; 153 n. 388; 186 n. 493 395 149 n. 364 396 43 n. 206; 141 n. 339; 149 n. 364; 176 n. 461; 178 n. 467 397 141 n. 339; 149 n. 364; 178 n. 467 178 n. 467 398 399 149 n. 364; 193 n. 513; 333 400 82 n. 62; 149 n. 364 401 34 n. 153 402 82 n. 62 434 155 n. 394 435 139 n. 331 449 166 n. 440 463 103 n. 165 464 103 n. 165 481 139 n. 331; 183 n. 480 529 320 557 106 n. 183; 161 n. 419; 325 558 123 n. 267 563 157 n. 398 582 140 n. 337 602 103 n. 165 605 130 n. 297 620 123 n. 267; 183 n. 480 II 1 19 n. 88 126 123 n. 267 130 158 n. 403 131 158 n. 403; 332 173 331 352 350 393 352 771 291 841 154 n. 389 876 166 n. 441 937 161 n. 422 1002-1003 326

1202 III 1 17 18 26 29 49 52 64 65 67 69 84 92 93 110 111 139 167 208 224 239 256 259 264 265 269 270 272 274 276 278 279 294 295 340 342 343 344 345 346 362 367 368 369 370 371 372 373 374 375 378 389 391

— 425 —

167 166

141 n. 339; 178

206

327 51 n. 235 76 n. 35 76 n. 35 181 n. 475 339 n. 442; 333 n. 440; 289 334 334 334 139 n. 331 155 n. 392 352 320 326 184 n. 486 139 n. 331 139 n. 331 334 184 n. 486 334 n. 467; 332 154 n. 389 166 n. 441 166 n. 441 166 n. 441 166 n. 441 334; 340 166 n. 441 334 157 n. 399 157 n. 399 184 n. 486 290 320 320 320 320 320 320 332 320 320 320 320 320 320 320 320 320 298 169 n. 444 n. 556; 298

INDEX LOCORUM

298 161 n. 422; 298; 315 161 n. 422; 315 206 n. 556 300 206 n. 556; 300 300 299 299 299 299 291; 299 299-300 291 154 nn. 389 e 391 154 nn. 389 e 391; 155 n. 392; 161 n. 422; 315 423-427 154 n. 389 424 153 n. 387; 155 n. 392; 291 427 155 n. 392 428 154 n. 389 429 154 n. 389 430 154 n. 389 454 154 n. 391 457 154 n. 389 461 154 n. 389; 297 297 463 465 154 n. 389 466 154 n. 389; 297; 321 467 321 470 154 n. 389 471 157 n. 399 e 400; 318 157 nn. 398 e 399 471 A 472 157 n. 399 473 154 n. 389; 157 n. 399 474 157 n. 399 474-475 154 n. 389 475 156 n. 395; 157 n. 399 476 154 n. 389 477 157 n. 399 479 154 n. 389 480 154 n. 389; 156 n. 395; 157 n. 399 481 321 482 321 483 157 n. 399 484 155 n. 393 487 157 n. 399 490 157 n. 399; 158 n. 405 501 158 n. 404; 331 515 326 519 50 n. 233; 326 523 326 525 352

527 556 562 567 578 595 615 628 629 630 632 646 647 654 658 659 660 661 662

392 394 395 397 400 401 402 412 413 414 415 416 418 420 421 422

663 664 665 666 667 668 669 670 671 672 673 674 675 676 677 678 679 680 682 685 738 753 761 764 STRABO I 2, 2 II 2, 3 IV 4, 2 X 5, 6 XIV 2, 19

— 426 —

326 332 185 n. 489; 332 159 n. 407; 307 161 n. 421 175 n. 457 106 n. 182; 179 n. 470; 318; 323 329 329 114 n. 226; 159 n. 408; 329 329 158 n. 403; 161 n. 420 159 n. 408 185 n. 489; 332 156 n. 395 154 n. 391 159 n. 410 159 n. 410 156 n. 395; 158 n. 404; 159 n. 410; 331 156 n. 395 156 n. 395 156 n. 395 156 n. 395 156 n. 395; 160 n. 412; 161 n. 422; 315 156 n. 395; 158 n. 404; 159 n. 410; 331; 333 156 n. 395 156 n. 395 160 n. 418 160 n. 418; 300 160 n. 418 160 n. 418; 160 n. 418 160 n. 418 160 n. 418 160 n. 416 160 n. 417 160 n. 417 160 n. 417 160 n. 413 333 184 n. 485 139 n. 331 139 n. 331 334

44 n. 210; 86 n. 84; 88 n. 95 286 106 n. 183 VII ; 82 n. 64 200 e n. 538

INDEX LOCORUM

XV 1, 54 XVII 2, 1

337 337

STRATO LAMPSACENUS (ed. F. Wehrli) fr. 10 80 n. 53 SUETONIUS De grammaticis et rhetoribus 4 SUIDAS s.v. Adav j m bavtracoc ejk Cerivfou brenquvecqai jEmpedoklhvc Eujripivdhc cemnomuqouc= in SYMMACHUS Ad Canticum 1, 6

147 n. 354 341 312 107 n. 189; 342 18 n. 77 19 n. 85 341

343

Ad Psalmos 122 (123), 6

107 n. 190

TELECLIDES (PCG VII) frr. 41-42 TELES (ed. O. Hense) fr. I 4 fr. II 5-6 5, 2-6, 8 6, 6 9-10 16 fr. III 28 fr. IV A, 39 40-41 41, 15-42, 1 42 fr. IV B 45, 3 fr. V 49, 3-51, 4 fr. VI 53-54 fr. VII 56 57 60

304 295 176 n. 460 88 n. 93 178 n. 466 176 n. 461 298 295 314 298 63 n. 291 314 178 n. 466 180 n. 472 298 299-300 295 295

THEMISTIUS Orationes 21, 255 B 32, 358 B

74 n. 28; 80 n. 50; 103 n. 168 166 n. 440

THEOCRITUS Idyllia 22, 58 25, 133

338 317

THEODOTION Ad Isaiam 34, 11

107 n. 190

THEOPHRASTUS Characteres 1, 1 1, 2 14, 28 15, 1 24, 13

112 n. 217 346 329 323 325

THOMAS MAGISTER (ed. A. Westermann) Synopsis Vitae Euripidis p. 135 p. 140, 29-33

325 301

THUCYDIDES I 20 23 81 II 44 65, 9 III 39 54 IV 59 V7 VI 10 17 89 VIII 83

322 300 352 286 296 309 300 311 337 300 300 294 337

TIMAEUS (FGrHist III B) 566 F 105

301

TIMOCREON (IEG) frr. 7; 9; 10 fr. 27

312 311

TIMON PHLIASIUS (ed. M. Di Marco) fr. 9 65 n. 301 fr. 11 65 n. 301 fr. 57 18 n. 76 VALERIUS MAXIMUS IV 1, ext. 3 V 1, ext. 1 VII 5, 2

294 305 311

VARRO Rerum rusticarum libri III III 3, 9

343

— 427 —

INDEX LOCORUM

Logistorici (ed. A. Riese) Catus de liberis educandis fr. 9

82 n. 62

VETUS TESTAMENTUM (Septuaginta) Deuteronomium 1, 43 32, 27

307 300

Ecclesiasticus sive Siracides 11, 4 31, 18

341 347

Exodus 3, 6

343

Ezechiel 16, 50

296

Genesis 29, 32

291

Ieremias 28, 18

347

Iudith 9, 38 Machabaeorum IV 5, 21

107 n. 190

307

Paralipomenon I sive Chronicon I 29, 13

318

Psalmi 30 (31), 19 36 (37), 31 89 (90), 5

107 n. 190 310 107 n. 190

Regnorum II (= Samuelis II) 19, 21

107 n. 190

Zacharias 9, 6

64 n. 294 313

VITA ARISTOTELIS MENAGIANA (ed. A. Westermann) p. 402, 20 80 n. 50

349

Apologia Socratis 1 6 23

18 n. 79 18 n. 79 18 n. 79

Cynegeticus VI 25

323

Cyropaedia IV 2, 3 V 2, 17 VI 3, 24

300 294 285

Hellenica II 4, 23 III 4, 8-9 Memorabilia I 2, 30 33-34 54-55 4, 5-18 II 6, 36

337 24 n. 110; 316

7, 1 III 4 9, 4 9, 8 10, 5 IV 2, 9 3, 2-18 4 4, 4 4, 5-24 4, 9 4, 13

125 n. 282 125 n. 282 126 126 121 n. 258; 130 n. 299; 348; 352 285 121 n. 258; 348 325 300 313 178 n. 466 126 126 18 n. 79 125 n. 282 121 n. 258; 346 119 n. 252

Oeconomicus 3, 14 6, 17-21, 12 7, 6

121 n. 258; 130 n. 299; 348 121 n. 258; 130 n. 299; 348 337

307

Nehemias 9, 10

Sapientia Salomonis 5, 8

XENOPHON Anabasis V 7, 21

Symposium 5, 5 6, 4 ZENO CITIEUS: vd. STOICI

Gevnoc Eujripivdou (ed. E. Schwartz) III, p. 3, 18-p. 4, 2 p. 3, 20-p. 4, 1 IV, p. 4, 23-V, p. 5, 4

19 n. 85 301 19 n. 85

344 347 VETERES,

I 5-322

ZENO SIDONIUS In Platonis Gorgiam (edd. A. Angeli-M. Colaizzo) fr. 25 117 n. 244

— 428 —

INDICE DEI NOMI ANTICHI

Accademia, Accademici, XI; XIV; 19; 50; 65; 85; 95; 125; 127; 129-131; 194; 204; 331 Acestore, 302-303 Afrodite, 42 n. 201 Agammennone, 176; 307 Agatone, 301-302 Agesilao, 24 e n. 110; 28; 316 Aiace, 314 Alcibiade, 18; 33 n. 151; 110 n. 207 Alessandro di Afrodisia, 175 Alessandro Magno, 28; 167; 169 n. 445 Alessino, 74 Anassagora, 19; 302 Anassarco, 118 Anassimandro, 18 Andronico di Rodi, 206 n. 556 Antigono Gonata, 88 n. 95 Antioco di Ascalona, 130-131; 194 Antipatro, 123 n. 267; 204 n. 549 Antistene, 19; 59 n. 275; 71 n. 13; 76; 126; 176 nn. 460-461; 178 n. 466 Apollo, 18; 323 Apollodoro di Caristo, 340 Apollodoro di Seleucia, 23 n. 100; 76 e n. 35 Apollofane, 69 e n. 7 Apollonio di Tiro, 194 Arcesilao, XI; 19; 69-70; 88 n. 95; 95-96; 116-117; 127-132; 196; 327; 347; 349-350 Archelao, 19; 301; 303 Ares, 42 n. 201 Ario Didimo, 50 n. 232 Aristide, 178 Aristippo, 59 n. 275; 71 e n. 15; 79 e n. 46; 176 n. 460; 186 n. 492 Aristo di Ascalona, 194 Aristofane, 19; 121 e n. 258; 122; 130; 301-304; 339; 341-342; 344; 350-351 Aristone di Alessandria, XIV; 67 n. 2; 194; 204 Aristone di Ceo, VII-X; XIII; XV; XVII; 10; 34 n. 154; 46 e n. 216; 47; 67 e n. 2; 68; 71-73; 75 e n. 31; 77; 79-97; 102; 106; 114; 137;

150; 182; 183 n. 480; 186 n. 493; 188; 195; 199-200; 201 e n. 540; 204; 245 Aristone di Chio, VII-XV; 10; 15; 34 n. 154; 43; 46-47; 49-50; 51 e n. 237; 59 n. 275; 65 n. 299; 67-81; 82 e n. 62; 83 e n. 69; 84 e n. 70; 87 e n. 87; 88 e nn. 93, 95; 89 e n. 96; 90-92; 95; 96 e n. 131; 97-98; 102-104; 107; 123-124; 126; 128-130; 132; 137; 139 e n. 331; 140 e n. 335; 141 e n. 339; 147-150; 153; 154 n. 391; 156; 157 e n. 399; 174 n. 454; 176 e n. 461; 177 n. 462; 178 e nn. 467-468; 179; 180 e n. 472; 181-182; 183 n. 480; 186 e n. 493; 187-188; 189 e n. 503; 190 e n. 505; 191-192; 193 e nn. 513, 515; 194 e n. 521; 195-196; 198 e n. 534; 201 e nn. 540-541; 203-204; 206-207; 295; 298; 307; 315-319; 322; 328; 330; 333; 336 Aristone di Coo, 67 n. 2; 195; 199; 200 n. 538 Aristone il Giovane, 67 n. 2; 82; 195; 199; 200 e n. 538; 204 Aristonimo, 178 n. 467 Aristosseno, 114; 122 e nn. 262-263; 123 n. 264 Aristotele, XI; XIII; 48-49; 92; 94; 97; 105 e n. 174; 106 e n. 183; 107 e n. 187; 108 e n. 192; 109; 110 e n. 204; 111 e nn. 208, 209; 112 e n. 212; 113-114; 116; 121 n. 258; 122 e n. 263; 123 n. 264; 128; 150; 153 e n. 387; 158 e n. 404; 159; 165-166; 177; 182; 186 n. 492; 188; 199; 206; 212; 291; 299; 308-309; 320; 323; 325-327; 334; 336; 339; 345-346 Asclepio, 5 Aspasia, 348 Atena, XV; 149; 194 Ateneo, 188; 312 Atenodoro, 77 Aurora, 81 Bione di Boristene, VII; XIII; 19; 34 n. 154 40-42; 43 e nn. 204, 206; 44 e n. 210; 45 e n. 213; 4647; 56-57; 59 e n. 275; 82; 83 e n. 69; 84 e n. 70; 85 e nn. 73, 77-78; 86; 87 e n. 87; 88 e

— 429 —

INDICE DEI NOMI ANTICHI

nn. 93, 95; 89 e nn. 96, 98; 176 nn. 460-461; 178 e n. 466; 182; 186 n. 492; 187 n. 496 Brisone, 59 n. 275; 60 n. 277 Carneade, 199 Cicerone, 40; 44-47; 49; 53; 62 n. 288; 73; 77; 8081; 87-88; 93; 106; 114 n. 227; 127; 132; 154 n. 391; 167-169; 195 Cinismo, Cinici, XII-XIII; 41-46; 49-50; 59; 60 e n. 277; 65; 69-70; 76-78; 79 e n. 43; 85 e n. 78; 86; 88; 94; 103-104; 114 n. 227; 124-125; 127; 144; 147; 153; 156; 178-179; 180 n. 472; 181; 183-184; 186; 187 e n. 496; 188; 191; 193; 206; 295; 298; 314-315; 317; 331 Cirenaici, 85; 124-125; 187 e n. 496; 201 n. 540 Cleante, 50; 59 n. 275; 70; 72; 74; 97; 102 n. 164; 103-104; 106 n. 183; 123 n. 267; 130; 139 n. 331; 140-141; 148; 157 e n. 398; 161; 174 n. 454; 190 n. 505; 191; 327; 333 Clearco, 105 Clemente di Alessandria, 50; 54 Clinia, 348 Colote, 116-117; 129-131 Crantore, 50 Cratete di Mallo, 76 n. 35; 115 n. 231 Cratete di Tebe, 49-50; 123; 180 n. 472 Crisippo, VIII; 19 e n. 88; 69-70; 72; 77-78; 123 n. 267; 127 n. 292; 128; 139 nn. 330-331; 148; 153; 154 n. 391; 156 n. 395; 157 e n. 399; 161-162; 167; 169 n. 444; 174 n. 454; 175; 179-180; 184 e n. 487; 190 n. 505; 191; 201; 207; 291; 318; 326-327; 333 Critobulo, 119 n. 252 Critolao, 195; 199; 200 e n. 539 Demade, 176 n. 460 Demetrio Falereo, 44 e n. 210; 86 n. 84; 122 e n. 263; 123 n. 264 Ps.-Demetrio Falereo, 39; 42; 105 Demetrio Poliorcete, 24 e n. 106; 28-29; 67; 306307 n. 3; 92 n. 113 Ps.-Demetrio retore, 54 Demofilo, 340 Dicearco, 137; 147 Diodoro, 128 Diogene di Babilonia, 76; 114 e n. 227; 196 e n. 530; 197-199; 200 e n. 538; 201-202 Diogene di Sinope, 19; 42; 49; 71 e n. 15; 79 e nn. 45-46; 104; 176 n. 460; 178 n. 466; 180 n. 472 Diogene Laerzio, VII; XII; 17-18; 69; 70 e n. 11; 71 e n. 13; 72-73; 75; 80; 90; 94; 96-97; 102-103; 132; 140; 144; 180 n. 472; 186 n. 493; 216; 317 Dione di Prusa, 59; 60 n. 277; 185; 332-333

Dione di Siracusa, 23 e n. 104; 28; 294-295 Dionigi I il Vecchio, 23; 28; 293-294; 306 Dionigi II il Giovane, 293 Dorilao, 302-303 Efialte, 292 Empedocle, 8; 17-18; 323 Epicureismo, Epicurei, XIII-XIV; 7; 18-19; 49 e n. 226; 60 e n. 279; 116-119; 122; 125; 127; 130-131; 141 n. 339; 183; 194-196; 206 e n. 557; 285; 290; 351 Epicuro, 5 e n. 20-21; 6; 50; 81 e n. 56; 115 e n. 231; 116; 119; 195; 355 Epitteto, 59; 60 e n. 277; 62-64; 147; 161; 162 e n. 426; 309 Eraclide Pontico, 137; 147 Eraclito, 8; 17; 18 e n. 75; 81 e n. 56; 94 e n. 122; 183 e n. 480 Eratostene, 69 e n. 7; 86 n. 84; 88 n. 95; 149; 196 Ermes, 18; 323 Eschilo, 303-304 Eschine di Sfetto, 71 n. 13; 126; 352 Esichio, 342 Euclide, 71 n. 13 Euripide, 17; 19; 28; 41; 43; 88; 149; 292; 293; 301-306 Eusebio di Cesarea, 73 Fania di Ereso, 211 e n. 11; 212-213; 214 e n. 23; 215-219 Fedone, 71 n. 13; 126 Fedro, 23 n. 100; 348 Filebo, 348 Filippo II di Macedonia, 167; 169 n. 445 Filodemo, IX-XI; XIII-XV; XVII; 1; 2 e n. 4; 3 n. 14; 4-10; 13-14; 15 e n. 63; 1; 6; 17 e n. 73; 20-21; 22 e n. 96; 23 e n. 100; 24 e nn. 105, 108; 2526; 27 e n. 117; 29 e n. 123; 30; 31 n. 142; 32 n. 143; 34 e nn. 152, 155; 35; 47; 57 n. 267; 62; 65; 67-68; 90; 94; 96 n. 129; 102-103; 108; 115 e nn. 231-233; 116-118; 119 e n. 252; 120 e n. 253; 121; 123; 130 n. 299; 134 n. 314; 137; 148-149; 151; 154; 155 n. 394; 157; 162; 164; 188-189; 190 e n. 504; 191; 192 e n. 510; 193194; 196 e n. 529; 197; 198 e n. 534; 199-200; 201 n. 540; 202-203; 204 e n. 549; 205 e n. 553; 206 e n. 557; 207; 212-213; 215; 218 n. 34; 231 e n. 82; 236; 247; 285-290; 293-295; 300; 302; 305-306; 315; 318; 323-324; 328; 330-331; 335-337; 341; 344; 351-352; 354-356 Filone di Alessandria, 59; 60 n. 277; 64 n. 294; 309 Filone di Larissa, 130

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INDICE DEI NOMI ANTICHI

Galeno, 154 Giamblico, 62 n. 288 Gorgia, 186 n. 492 Idomeneo, 5-6; 116 Ieronimo di Rodi, 122 e n. 263; 123 n. 264 Iperborei, 18 Ippia di Elide, 28 n. 120; 183; 185; 329; 337 Ippocrate, 291 Iscomaco, 348 Laerte, 186 n. 492 Lelio, Gaio, 167 Ps.-Libanio, 53-54 Liceo, vedi Peripato, Peripatetici Licone, VII; 19 e n. 88; 80; 87; 137; 147 Lisandro, 24 e n. 110; 28; 316 Lisia, 348 Lisimaco, 5 Luciano, 65; 343 Lucilio, 114 n. 227 Lucio epitomatore, 62 Marco Aurelio, 141 n. 339; 152 Margite, 183; 335 Massimo di Tiro, 59; 60 n. 277; 86 Megarici, 70 Melanzio, 303 Menippo, 43; 45; 49; 65 Metrodoro di Lampsaco, 4; 26; 116; 194 e n. 521; 195 Mida, 178 Mitre, 5 Mnesiloco, 304 Morsimo, 303 Musonio Rufo, 49; 59; 60 n. 277; 62; 147 Odisseo, 186 Omero, 41; 42 n. 201; 43; 87 n. 87; 88; 149; 178; 335 Orazio, 114 n. 227 Panezio, VII; XII-XIII; 71 e n. 13; 72 e n. 18; 73 e n. 25; 75-77; 78 e n. 41; 79 e n. 43; 90-91; 97; 102; 114 e n. 227; 123 n. 267; 140; 167-168; 169 e n. 444; 176; 186 n. 493; 201 Paolo di Tarso, 53 n. 245; 57 Penelope, 43 e n. 206; 88; 186 Perdicca, 178 Pericle, 24 e n. 110; 28; 296-297; 338; 341 Peripato, Peripatetici, VII-VIII; X; 10; 44 n. 210; 60; 68; 75; 80-82; 86; 88; 94; 96; 104-107; 111 n. 209; 122; 128; 133; 136-137; 150; 153

29

e n. 387; 158-159; 182; 188; 194; 199-200; 206 e n. 556; 291; 300; 309; 320; 340 Perseo, 59 n. 275; 88 n. 95; 91-92; 139 n. 331 Pirro, 24 n. 106; 28-29; 67 n. 3; 92 n. 113; 306 Pirrone, 65; 128 Pirroniani, XIII; 65; 183; 331 Pitagora, 8; 17; 18 e n. 76; 323 Platone, XI; 19; 33 n. 151; 62 n. 288; 71 e n. 13; 95; 105 n. 174; 110 n. 207; 113; 116-117; 119120; 121 e nn. 257-258; 122; 124 e n. 271; 125 e n. 282; 126 e n. 285; 127 e n. 292; 128-131; 153; 156; 169 n. 444; 185; 291; 329; 341; 345; 347-348; 351-352 Plinio il Giovane, 53 Plutarco, XV; 23; 34 e n. 154; 59; 60 n. 277; 61; 64; 73; 103; 127; 129-130; 140; 175; 312; 338 Polemone, 180 Polieno, 194; 195 e n. 523; 196 Polistrato, 117; 131 Posidonio, XII-XIII; 49; 51 e n. 237; 52; 54-55; 78; 91; 106; 137-138; 143; 144 e nn. 344, 346; 145-147; 148 e n. 361; 154 e n. 391; 156 n. 395; 169 n. 444; 172-173; 174 e n. 454; 175-176; 216; 318 Pteodoro di Megara, 28; 294 Quintiliano, 200 Satiro, 122 e n. 263; 123 n. 264; 137; 147; 302304 Scipione Africano, Lucio Cornelio, 167; 169 Scipioni, circolo degli, 114 n. 227 Seneca, 40; 49; 50 n. 231; 51 e n. 237; 52-53; 59; 61; 73; 102 n. 160; 106; 137 e n. 327; 141 n. 339; 143; 144 e n. 344; 145 e n. 351; 146148; 154 e nn. 389, 391; 156; 170-173; 174 e n. 454; 175 e n. 456; 176; 178 Senofonte, 18; 26; 71 n. 13; 119 e n. 252; 121 e n. 258; 125 e n. 282; 126; 290; 348; 351-352 Serse, 24 n. 111; 28-29; 322 Sesto Empirico, 50 n. 232; 73; 148; 200 Sfero, 49; 123 n. 267 Socrate, XI; 8; 17-19; 28 n. 120; 33 n. 151; 39 n. 187; 64; 79; 95; 110 e nn. 204, 207; 111 n. 208; 113; 114 e nn. 226-227; 116-132; 153; 167; 187; 302; 304; 339-341; 344-345; 347-348; 351-352 Socratismo, Socratici, 42; 44-45; 69-71; 123-124; 126; 128-129; 351 Sofocle, 303-304 Sofrone, 146 Solone, 178

— 431 —

INDICE DEI NOMI ANTICHI

Sosicrate, VII; XII; 71 e n. 15; 72; 73 e n. 25; 75-76; 78; 79 e n. 43; 90-91; 97; 102; 140; 186 n. 493 Stobeo, 41; 44 n. 210; 185; 186 n. 492; 293; 332 Stoicismo, Stoici, XII-XIV; 7; 10; 14-15; 19; 43; 4647; 49-50; 59; 60 e n. 277; 69-70; 72; 75-79; 86; 92-97; 103; 105-106; 114; 117; 123-125; 126 e n. 285; 127 e n. 292; 128-131; 137 e n. 327; 138; 139 e n. 331; 141 e n. 339; 144; 147; 148 e n. 361; 150; 152-154; 156-161; 164-167; 169; 171; 175-176; 177 e n. 463; 179-181; 183 e n. 480; 184-186; 189; 190 e n. 505; 191; 197; 198 n. 534; 199; 200 e n. 538; 201-203; 204 e n. 549; 205; 206 e n. 556; 207; 286; 291; 297-300; 308-309; 314-315; 318-323; 326-327; 329-330; 332334; 336-337; 340; 349; 352-353 Strabone, VII; 82-84; 86-87; 89; 182; 200 Stratone, 188 Teleclide, 304 Telete, 41-42; 43 e n. 204; 45-47; 56; 59; 60 n. 277; 176 n. 461; 178 n. 466 Teodoro l’Ateo, 85 Teodoro epitomatore, 41

Teofrasto, X-XII; 26; 32 n. 144; 42; 45; 68; 85-86; 88; 91-94; 96-97; 100; 104; 108 n. 192; 111 n. 209; 112; 113 e n. 224; 122; 128; 133-138; 142; 147; 150; 188; 206; 216; 291; 309; 324 Teognide, 41 Tersite, 176; 307 Timeo, 18; 301 Timocrate, 5 e nn. 20-21; 6 Timocreonte, 24; 28; 311-313 Timone, 18 e n. 75; 65 Titono, 81 Valerio Massimo, 23 Varrone, 82 n. 62 Zenodoto di Mallo, 76 n. 35 Zenodoto stoico, 76 e n. 35 Zenone di Cizio, VII; 47; 69-72; 76-78; 123-126; 128; 157 e n. 398; 158; 161; 162 e n. 426; 167; 174 n. 454; 180 e n. 472; 181; 183-184; 190 n. 505; 191; 194; 203; 206; 327; 333 Zenone di Elea, 118 Zenone Sidonio, 117

— 432 —

INDICE DEI NOMI MODERNI

Abbate, Michele, 288; 345 Accademici Ercolanesi, 1 n. 1; 90; 212; 215; 237; 240 Acosta Me´ndez, Eduardo, 12; 99; 246; 350 Adorno, Francesco, XVII Alesse, Francesca, 169 nn. 444-445 Andre´s, Juan, 218 n. 36 Angeli, Anna, 12; 12 n. 49; 14 n. 58; 15 n. 63; 34 n. 152; 99-100; 101 e nn. 156-157; 245 n. 145; 246; 286-289; 350 Armstrong, David, XVII Arnim, Hans von, VIII; 34 n. 154; 74-76; 82 n. 62; 197 Baffi, Pasquale, 209 n. 1; 237 e nn. 117-118 Bassi, Domenico, 209 n. 2; 213; 222; 224; 237 e n. 114 Bekker, Immanuel, 343 Bergson, Leif, 113 Blank, David, XVII; 210; 217 n. 32 Bonho¨ffer, Adolf, 56 Brink, Otto, 99 Bultmann, Rudolf, 56-57; 318 Caldora, Teresa, 237 e n. 118 Cantarella, Raffaele, 239 n. 126; 241 e n. 131 Capasso, Mario, 1 n. 1; 2 nn. 4 e 5; 15 n. 63; 99; 211 n. 13; 212-214; 230 n. 74; 231 e n. 82; 245-246 Cappelluzzo, Maria Giustina, 197 n. 532; 198 n. 533-534; 202 Casanova, Gennaro, 209 n. 1; 210 e n. 5; 237-238; 239 e n. 126; 240-242 Caterino, Luigi, 9 n. 35; 90-91; 97-98; 239 n. 125; 243-244; 307; 330 Cavallo, Guglielmo, 232; 234-235 Clay, Diskin, 118 n. 247 Cobet, Carel G., 244 Comparetti, Domenico, 213 Cro¨nert, Wilhelm, 217 n. 32 D’Oria, Filippo, 237 Daniele, Francesco, 215 n. 26 Del Mastro, Gianluca, 100

Delattre, Daniel, 246 Di Matteo, Tiziana, 100 Dindorf, Wilhelm, 340 Dorandi, Tiziano, VIII; 34 n. 152; 100; 196 n. 529; 245 e n. 145 Du¨rr, Edeltraud, 219 e n. 39; 220-222 Erler, Michael, Essler, Holger, 292

XVI; XVI ;

333 221 n. 50; 223 e n. 61; 225;

Farese, Raffaella, 243 Fish, Jeffrey, XVII Fortenbaugh, William W., VIII; 245 e n. 145 134 n. 314 Frede, Michael, 290

XVII ;

122 n. 262;

Gaisford, Thomas, 293 Galiani, Vincenzo, 210-214; 215 e n. 26 Gallavotti, Carlo, X; 5; 6 e n. 24; 14; 92-93; 98-99; 137; 245; 293 Gataker, Thomas, 293 Gercke, Alfred, 83 n. 69; 87 e n. 87; 91 Giesecke, Alfred, 91 Gigante, Marcello, 20; 96; 100 e n. 149; 101; 245 n. 143; 246; 288; 350; 356 Gomperz, Theodor, 91 Groot, Huigh de (Hugo Grotius), 293 Halbauer, Otto, 56-57 Hartung, Johann A., 244; 348 Hayter, John, 210 n. 3; 221; 223-225; 236; 238 Heinze, Richard, 97 Hense, Otto, 34 n. 154; 56 Hirzel, Rudolf, 333 Iavarone, Francesco, 239 e n. 125; 242 Indelli, Giovanni, 100 Ioppolo, Anna Maria, VIII; XVI; 70; 95; 96 e n. 129; 99-100; 122 n. 263; 129; 141 n. 339; 201; 298; 316; 327; 333; 350 Janko, Richard, 294

— 433 —

XVI ;

115 n. 231; 243; 247; 286;

INDICE DEI NOMI MODERNI

Jensen, Christian, IX; XII; XV; 4-7; 12-13; 20; 21 n. 94; 22; 23 e n. 100; 24 e nn. 105-106, 108; 25-26; 91-94; 97-98; 99 e n. 144; 101 nn. 157158; 104; 135; 189; 202; 221; 240 e n. 127; 241 e n. 131; 243 e n. 133; 245-246; 287-288; 292293; 295; 299 Kidd, Ian G., 51 n. 237 Kindstrand, Jan F., 83; 85 n. 78 Kleve, Knut, 99; 350 Kno¨gel, Wilhelm, IX-X; XII; 9 n. 33; 10; 12; 14; 15 e n. 63; 20; 25; 33; 83 n. 69; 87 n. 87; 89 n. 98; 9394; 98; 101 n. 158; 104; 106 n. 183; 107 e n. 184; 110 n. 207; 164; 246; 287; 293; 319; 343; 345 Krische, August B., 90 La Vega, Francesco, 237 n. 116; 238 nn. 119-120 La Vega, Pietro, 238 n. 120 Lancia, Margherita, 87 Lentari, Antonio, 209-210; 221; 237 e n. 115; 238; 239 e n. 126; 241-242 Linguiti, Alessandro, 178 n. 468 Lobeck, Christian A., 340 Long, Anthony A., 124 Longo Auricchio, Francesca, 100; 217 n. 32 Malesci, Giovan Battista, 238 Mangoni, Cecilia, 189 Martorelli, Giacomo, 211 e nn. 11-12; 213; 214 n. 23; 215 e nn. 26-27; 218 e n. 35 Mayer, August, 91; 97; 199 Melzi, Gaetano, 218 n. 36 Monet, Annick, 2 n. 4 Montanari, Franco, 350 Mouraviev, Serge N., 12; 14; 94 e n. 122; 95; 99; 246 Morrison, Donald, 125 n. 282 Mras, Karl, 343 Murr, Christian G. von, 213; 214 e n. 23; 215 e nn. 26-27; 218 n. 35 Nardelli, Maria Luisa, 121 n. 258 Obbink, Dirk, XVI; 195; 235 n. 106; 247; 321; 328 Ophuijsen, Johannes M. van, VIII; 245 e n. 145 Paderni, Camillo, 211 e n. 11; 213 e n. 18; 214 n. 23; 215; 231 n. 82 Parascandolo, Giuseppe, 239 n. 125 Parsons, Peter J., 235 n. 106 Pasquali, Giorgio, 92; 105; 135 Pavlovskis, Zoja, 113 Philippson, Robert, 16; 22 n. 98; 93; 98-99; 101; 246

Piaggio, Antonio, 210; 211 e nn. 12-13; 212; 213 e n. 18; 214 n. 23; 215; 216 e n. 29; 217; 218 e n. 35; 219; 223; 229; 231 n. 82; 236 Ribbeck, Otto, 56 n. 260; 350 Rieth, Otto, 14; 246 Ritschl, Friedrich, 90-91 Rosini, Carlo Maria, 238 e n. 120; 244 Rossetti, Livio, XVII; 352 Rostagni, Augusto, 92; 96; 137 Rusten, John, 346; 350; 355 Saal, Nicolaus, 90 Sauppe, Hermann, 90-92; 97; 133; 229; 244; 295; 323; 339; 348; 351 Schmeller, Theodor, 57; 58 e n. 272 Schmid, Wolfgang, 295 Schorn, Stefan, XVI; 305 Scotti, Angelo Antonio, 239 n. 125 Sedley, David, XVI; 12 n. 46; 14 n. 54; 127 n. 292; 132 n. 307; 246; 289; 294; 299; 307; 333 Seratti, Francesco, 238 n. 120 Spengel, Leonhard, 244 Stein, Markus, 134 n. 314 Stork, Peter, VIII; 245 e n. 145 Stowers, Stanley K., 57; 58 e nn. 269, 272; 59; 60 e n. 277; 61 n. 285; 63 n. 290 Straaten, Modestus van, 169 n. 445 Strobel, Benedikt, 12; 288 Sudhaus, Siegfried, 12; 20; 115 n. 232; 197 nn. 531532; 198; 201; 288 Tanucci, Bernardo, 212; 214 n. 23; 215; 217 Tsekourakis, Damianos, 87; 89 n. 96 Tsouna, Voula, 122 n. 263; 206 n. 554; 246 Ussher, Robert G., 113 Ussing, Johann L., 91; 244; 350 Vlastos, Gregory, 125 n. 282 Vogliano, Achille, 99 Vooys, Cornelis Jan, 350 Wehrli, Fritz, VIII; X; XV; 14; 21; 31 n. 142; 82; 93; 94 e n. 120; 96; 99; 105 e n. 175; 164 e n. 432; 177; 199; 201 n. 540; 245 e n. 143; 330; 333; 339; 356 Wendland, Paul, 56-57 White, Stephen A., XVII Wilamowitz-Moellendorff, Ulrich von, 56; 246; 312 Winckelmann, Johann J., 214 n. 23; 215-217; 231 n. 82 Zeller, Eduard, 91; 199 Zumpt, Karl G., 90-91

— 434 —

SOMMARIO

Introduzione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pag. VII PARTE

PRIMA:

NATURA

E FINE DEL

DE

LIBERANDO A SUPERBIA

1. Il De superbia nel De vitiis di Filodemo . . . . . . . . . 2. La premessa di Filodemo al De liberando a superbia . 3. Struttura e principali caratteristiche dello scritto . . . 3.1. La sezione parenetica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2. La sezione etologica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Lingua, stile e paralleli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5. Genere filosofico-letterario . . . . . . . . . . . . . . . . . . PARTE SECONDA: ARISTONE STORIA DI UN EQUIVOCO

DI

CEO

O

ARISTONE

DI

. . . . . . .

. . . . . . .

1 8 20 27 30 35 47

» » » » » » » » » » »

67 69 80 90 97 104 108 116 133 138 149

» » »

150 158 162

»

177

CHIO?

1. Impostazione del problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.1. Importanza e fortuna di Aristone di Chio . . . . . . . 1.2. Chi fu Aristone di Ceo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Per uno status quaestionis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.1. Il carattere epistolare dello scritto . . . . . . . . . . . . 3. Il confronto con la tradizione peripatetica . . . . . . . . . . 3.1. Il ritratto dell’ironico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.2. La ricezione di Socrate in epoca ellenistica . . . . . . 3.3. Il rapporto con i Caratteri di Teofrasto. . . . . . . . . 4. L’intento protrettico-morale dello scritto . . . . . . . . . . . 5. L’analisi del lessico e dei contenuti filosofici . . . . . . . . 5.1. Il metodo terapeutico e l’analogia medica applicata al vizio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5.2. La superbia e gli altri vizi affini . . . . . . . . . . . . . . 5.3. Il superbo e il magnanimo di fronte alla sorte . . . . 5.4. La polemica contro la ricchezza e gli altri beni di fortuna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . — 435 —

» » » » » » »

SOMMARIO

5.5. L’invettiva contro la polymathia . . . . . . . . . . . . . . Pag. 182 5.6. Il riferimento alla poetica e il valore dell’esercizio . » 188 193 6. Aristone in Filodemo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . » PARTE

TERZA:

PHERC. 1008. ASPETTI

MATERIALI E BIBLIOLOGICI

1. Il papiro: descrizione generale e sequenza dei frammenti 2. Stato di conservazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Formato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Spazio scritto e spazio non scritto . . . . . . . . . . . . . . 5. Titolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 6. Segni, abbreviazioni, correzioni . . . . . . . . . . . . . . . . 7. Scrittura e datazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8. Ortografia e sillabazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9. I disegni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10. Le edizioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11. La presente edizione. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conspectus siglorum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conspectus signorum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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209 226 227 229 230 232 234 235 236 244 246 248 249

Filodhvmou Peri; kakiw=n i v (PHerc. 1008), coll. 10-24 . . . . . . . . .

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COMMENTARIO . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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BIBLIOGRAFIA . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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INDICI . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Index verborum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Index locorum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Indice dei nomi antichi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Indice dei nomi moderni . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

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381 383 393 429 433

— 436 —

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CITTA` DI CASTELLO

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PG

FINITO DI STAMPARE NEL MESE DI GIUGNO 2007