Arcipelago dell'insonnia
 8807019450, 9788807019456

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António Lobo Antunes Arcipelago dell’insonnia

Traduzione di Vittoria Martinetto

Titolo dell’opera originale O ARQUIPÉLAGO DA INSÓNIA

© 2008 António Lobo Antunes Traduzione dal portoghese di VITTORIA MARTINETTO

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano Prima edizione ne “I Narratori” marzo 2013 Stampa Nuovo Istituto Italiano d’Arti Grafiche - BG ISBN 978-88-07-01945-6

ISBN PDF 9788858811498

Pubblicato con il contributo del Direção-Geral do Livro, dos Arquivos e das Bibliotecas/Portogallo.

www.feltrinellieditore.it Libri in uscita, interviste, reading, commenti e percorsi di lettura. Aggiornamenti quotidiani

razzismobruttastoria.net

A Zé Francisco, mio Amico, al quale devo più di quanto la sua modestia immagini, e a Leonor, mia Amica, alla quale devo più di quanto i miei difetti meritino.

I

1.

Da dove mi arriverà l’impressione che alla casa, sebbene uguale, manchi quasi tutto? I vani sono gli stessi con gli stessi mobili e gli stessi quadri, eppure non era così, non era questo, vecchie fotografie al posto di mia madre, di mio padre, delle domestiche in cucina e della tosse di mio nonno che comandava il mondo, non la sua presenza, non gli ordini, la tosse, un fazzoletto gli usciva dalla tasca e gli disordinava i baffi, mio padre legava il cavallo all’anello di ferro e, dopo, soltanto il fruscio dell’erba, quello sì, rimasto, anche se duro e secco perfino dopo la pioggia, dal balcone i campi che conosco e non conosco, la fila di cipressi che portava al cancello e oltre il cancello, con uno dei due piloni rovesciato, gli alberi da sughero e il grano, il paese sempre più distante dove le luci accentuano il buio, un luogo di defunti le cui strade percorrevo a cavallo aggrappato a mio padre, spaventato dalle imposte vuote e dalla certezza che ci spiassero dagli ontani della piazza all’epoca in cui nulla mancava alla casa, mia madre al piano di sopra a profumare bauli, la tazza di mia nonna sul piattino e lei a guardarmi con uno sguardo da ritratto che attraversava generazioni venuto da una scampagnata di donne con le trecce e gentiluomini con il collarino di celluloide, e io a domandarmi se fossero ancora tutti qui a intrattenere conversazioni che la pendola soffocava nel suo cuore lento, 11

una sera avevo trovato la tazza e il piattino a un’estremità del tavolo con la sedia vuota, un’altra sera i bauli del piano di sopra avevano smesso di odorare solo che quella volta automobili in cortile, signori che mi spettinavano con una compassione amichevole – L’orfano mentre le domestiche sistemavano fiori sul carretto dove mi sembrò che l’odore dei bauli svanisse lentamente, mio nonno in giacca e cravatta, lui che non portava la cravatta, chiudeva il collo della camicia con un bottone di rame, e mio padre a slegare le redini dall’anello, lo vidi immobile su un dosso prima che riprendesse a cavalcare, lo avevano trovato fuori dal cimitero che osservava i fiori, ma quello che ricordo meglio è un tordo su un angelo di gesso e la pioviggine di ottobre, gocce che non cadevano, cambiavano solo posizione sotto un cielo di lisciva, uomini con le vanghe, le croci dei soldati morti in Francia in una zona del cimitero dove le erbacce non venivano tagliate e sembravano lamentarsi, mio padre ad attraversare i campi incalzato dai latrati dei cani e a mettere in fuga le galline, lui che non parlava con mia madre, non la salutava nemmeno, dormiva nella stanza attigua alla cucina incolpandola dell’indifferenza di mio fratello che è ancora qui con me, in questa casa cui, sebbene uguale, manca quasi tutto, le stesse scale, i vasi, le mantovane, il cavallo mai più montato e mio padre sul gradino del retro, all’imbrunire, a sparare ai conigli selvatici a mano a mano che il paese cominciava a ribollire di spettri e la muffa dei vestiti sostituiva il profumo dei bauli, mio nonno era morto anni prima e nessuno era venuto a trovarci salvo uno o due uomini della sua età con il colletto chiuso da un bottone di rame che a loro volta nessuno andava a trovare, e che lo avevano accompagnato senza fiori fino al cimitero che i tizi con le vanghe avevano disertato lasciandoci in mezzo al grano appassito e all’avena bruciacchiata, con mio padre noncurante dell’avena, 12

un estraneo per me come io un estraneo per lui, simile ai parenti delle fotografie in quella che mi ostino a chiamare casa non trovandole un altro nome, troppo grande per noi con le sue due o tre palme e mia nonna – Il giardino un alito di polvere da sparo saliva dalle croci dei soldati quando gli abitanti del paese, defunti da tempo, cominciarono ad assediarci, durante i mesi della rivoluzione l’esercito e i contadini avevano cercato di sottrarci la casa (la tazza di mia nonna tremava sul piattino, non mia nonna, la tazza, mia nonna impassibile sulla sedia) bruciando il granaio, sgozzando i polli e spezzando le zampe agli agnelli e alle vacche (la tazza contro il piattino, la tazza senza tregua contro il piattino) mia madre nascosta al piano di sopra suppongo a piangere come quando mio padre – Che mi sarà passato per la testa di toglierti dai fornelli? lavorava in cucina con le altre finché lui, diretto al magazzino – Domani porta le tue cose al piano di sopra e mia madre a non capire, a capire, a obbedire trascinando una cassetta su per le scale mentre le colleghe la spiavano mute di gelosia o di commiserazione, non saprei, immaginandola fra i bauli, gravida di mio fratello, gravida di me e poi su uno sgabello, in attesa, non ricordo che ci abbia mai sfiorati, ricordo il pettine che le scendeva lungo i capelli così come ricordo (ma saranno ricordi o episodi che invento, probabilmente non sono altro che episodi che invento) mio nonno che sfidava l’esercito e i contadini e mio padre che galoppava, con la doppietta, in groppa al cavallo terrorizzato, che gli si notava dal sudore sul collo, mentre quelli facevano a pezzi la mietitrice e la cisterna dell’acqua, la ci13

sterna che spruzzava il terreno e il cavallo che s’impennava nel getto d’acqua, una delle domestiche – I comunisti che occupavano poderi e tenute, venuti dalla pianura dove le quaglie svolazzavano gridando, e io immaginavo mia madre lì in mezzo tentando di svignarsela da mio padre – Domani porta le tue cose al piano di sopra una domestica che mio nonno, noncurante di noi, afferrava per il polso – Vieni qui si chiudeva con lei in dispensa con un’avidità di canarino e ne usciva chiudendosi il bottone di rame senza nemmeno sapere il suo nome o preoccuparsi per la tazza di mia nonna contro il piattino, i tucani volteggiavano in cerca del vento di frontiera e noi in mezzo ai solchi per la semina devastati, nella casa cui, sebbene uguale, cominciava a mancare tutto, le persone delle fotografie – E tu, quando morirai? offrendoci bottiglie di vino e un sorriso spento, l’ombra del pero ci annullava i corpi prima dell’imbrunire, mia madre tentava di fuggire con la sua cassetta e mio padre incalzandola con il cavallo – Torna dentro come mettendo in fuga un animale, l’unica donna che ci rimaneva perché un silenzio di abbandono in cucina, i letti delle domestiche sfatti, i piatti e i bicchieri nell’acquaio senza una spugna che li lavasse e la casa in balia dello sfacelo lasciato dai comunisti, pecore e vacche che fummo costretti ad abbattere e ci osservavano rassegnate, uccelli (non i tucani della palude, non i nibbi, altri uccelli più grassi, più grandi, che si frugavano la pelle gonfia con le unghie e con il becco) un gatto che annusava una latta di non so cosa nell’ufficio e i bauli silenziosi dato che mia madre immobile di so14

pra, pensando cosa, pianificando cosa, desiderando cosa, ignoro chi lei fosse, signora, una volta mi aveva afferrato per il mento, temetti che mi desse un bacio – Vieni qui e grazie a Dio non mi diede un bacio, mi lasciò andare disgustata, chi mi garantisce che non fosse nata in paese insieme agli altri spettri e non fosse altro che un fantasma come loro, un’assenza di occhi che spiava dalle imposte o una minaccia che ci braccava dalla materia senza carne di cui le tenebre sono fatte, perciò non credo di essere nato da lei, mio fratello, forse, impalato davanti alle cornici in procinto di diventare una fotografia pure lui, senza ascoltare l’orologio o il vento nel granoturco, ovvero le foglie gialle, adesso che siamo rimasti noi due soli qui, dove tutto, sebbene uguale, ci manca, e nello scantinato, nel celliere, sotto gli archi del pergolato mi capita di udire una tazza su un piattino o un cavallo strattonare un anello soffiando, tutto intorno le montagne a casaccio e la parte di granaio rimasta in piedi dove un tasso o una donnola si rifugiavano al minimo rumore perché tutto aveva paura di tutto in quel deserto immobile, perfino le grida dei tucani che ripetevano senza posa quello che io non capivo così come non capii mio padre quando due anni fa si ammalò e chiese che lo coricassimo nel letto in soffitta dove non aveva mai dormito e dove c’erano gli abiti di mia madre appesi a ganci, c’era un Cristo di quelli che si comprano alle fiere di paese a sghimbescio sul muro, l’asse da stiro con sopra una camicia di mio nonno e mio padre rivolgendosi alla camicia – Se ne vada mio padre – Mi lasci da solo con lei non con mio fratello, né con me, solo con lei, una frase che mi sfuggì finché non mi avvicinai alla sua bocca, avrei giurato che 15

– Sono tornato oppure non – Sono tornato mi sbaglio, continuava a sfuggirmi, avrebbe continuato a sfuggirmi, mio padre non era un Cristo di quelli che si comprano alle fiere di paese, era un uomo che ordinava a una domestica in cucina – Domani porta le tue cose al piano di sopra e la domestica senza il coraggio di disobbedire ad alzarsi lisciandosi la camicetta, incapace di negarsi – Mi lasci andare mia madre, con diciassette o diciott’anni al massimo, che si era lavata per lui, piangendo, si era infilata le scarpe per lui, si era pettinata per lui trattenendo le lacrime, che ha abitato qui prima di noi e non ci considera, come le persone in salotto, ci ha dimenticati e dimenticandoci abbiamo cessato di esistere, non siamo, non eravamo, non siamo arrivati a essere, mia madre non è stata, io non sono, mio fratello non è, e ciononostante mio padre ad annunciarle – Sono tornato come se loro fossero e noi no, il giorno del funerale aveva guardato il cimitero dalla cancellata ed era scomparso in un tintinnare di staffe contro le guarnizioni di ferro delle corregge, mio padre a mia madre defunta – Coricati accanto a me di questo sono certo – Coricati accanto a me non con il tono in cui – Domani porta le tue cose al piano di sopra una voce disarmata forse per via della febbre, forse per via della debolezza e più forte della febbre e della debolezza – Coricati accanto a me e nessuno accanto a te, tu da solo, padre, e tuttavia anelante, con le mani che stringevano quelle che credevi le mani 16

di mia madre o le redini che non c’erano, continuando ad allontanarti dal cimitero verso il paese dove abitavano gli spettri per minacciarli con la frusta – Venite fuori senza che quelli rispondessero perché a nessuno importa di te, non chiedere – Non mi lasciare alla camicia da notte e alle gonne di una ragazza che ti obbediva non per affetto, per paura, e doveva altrettanto detestarti per paura, inerme al tuo fianco ad ascoltare il dondolio degli alberi nella notte e della terra che saliva e scendeva a seconda delle nubi, il trotto del cavallo girava intorno alla casa fermandosi nel posto dove sgozzavano i maiali dando l’impressione che il sangue dell’animale, o di mia madre quando nacqui io, continuasse a sgocciolare nel secchio perciò nel momento in cui mio padre – Non mi lasciare la cercai nel tuo volto, tu che soffrivi quando mio nonno – Vieni qui e afferravi la doppietta, tu sulla soglia della stanza, mio nonno fissando le canne del fucile infastidito – Idiota e tu ad abbassare il fucile e ad andartene vinto, tu a sparare contro i tucani e ogni tucano un bottone di rame che gli chiudeva il colletto, ogni tucano il padrone del frumento e del granoturco e non ti prendevi la briga di mandare i cani a cercarli, tu, anche se mia madre con il nonno – Non mi lasciare malgrado la bocca chiusa, tu, idiota, padre, e allora capii che non erano stati i comunisti ad appiccare il fuoco al granaio, a fare a pezzi la cisterna dell’acqua e ad ammazzare mio nonno, eri stato tu e non il fucile, il sarchio, i contadini e l’esercito e le domestiche a osservarti immobili nell’istante in cui 17

– Signore con un tono di voce che cresceva senza che tu ti accorgessi che cresceva, sollevando il sarchio – Signore tu che mai – Padre tu sempre – Signore per soggezione, per abitudine, mio nonno a burlarsi di te – Era ora senza crederci e muto quando il sarchio gli troncò una spalla, l’altra, una gamba, insistendo – Signore sempre per soggezione e per abitudine, mio nonno – Che fai? e il cavallo legato all’anello che si agitava per l’odore delle ossa, mio nonno in ginocchio in cortile, mio nonno accasciato a terra – Idiota i tucani in fuga, uno dei contadini – Gesù l’erba che si piegava in un bisbiglio nero e mio nonno a umiliarti con il volto disfatto – Idiota con un bottone di rame che gli chiudeva il colletto, mio padre senza abbandonare il sarchio in un ultimo – Signore non più con il tono di voce in crescendo, con il tono di sempre o del tremito di una tazza su un piattino che riuscisse a dire – Signore e tacesse spaventata, le dita di mio nonno si chiusero e si aprirono e mio padre le baciò come faceva prima di seder18

si a tavola, ricordo che mi guardava ma potrei giurare che non mi vedesse, vedeva il – Signore insisteva – Signore impaurito dal silenzio, osservando il sarchio e abbandonandolo, mio nonno senza nessuna regalità con un occhio aperto e uno chiuso – Idiota non – Vieni qui rassegnato, non montava un cavallo come mio padre, montava un mulo spelacchiato che zoppicava da una zampa posteriore, vecchio quanto lui e in grado di trovare da solo, con una familiarità lenta, i sentieri del grano, chi lavorava per noi si toglieva il cappello – Padrone senza che mio nonno rispondesse nemmeno con un cenno, fermandosi accanto alla recinzione per chiamare l’amministratore che lo ascoltava tenendo il cappello premuto sul petto mentre il mulo girava le orecchie allarmato dai rospi della palude e dalle bisce che si rivoltavano nel fango sibilando, mio padre lo scacciò dalla stalla con una pedata – Sparisci il mulo si allontanò in direzione delle giuncaie sapendo chi comandava adesso e non lo vedemmo più, ci sono momenti in cui immagino sia nell’aia, apro la finestra e mi sbagliavo, magari lo hanno abbattuto i cacciatori di pernici e un mucchietto di cartilagini i mezzo ai rovi, mio padre fra i bauli – Non mi lasciare rivolto a una camicia da notte e a certe gonne di cui mio nonno si sarebbe burlato – Stracci 19

senza bocca e a burlarsi delle gonne così come si burlava di mio padre – Non sei mai stato un vero uomo di me – Si vede subito di chi sei figlio mio nonno che è ancora in questa casa cui manca tutto sebbene sia uguale, ecco l’orologio, le fotografie e lui che ci disprezza seduto sul sofà dove nessuno di noi osa sedersi – Che triste questo posto il palmo a percorrergli la fronte e ad abbandonarsi in tasca, le spalle abbattute finché di colpo un ordine astioso – Non mi seccate, idioti e un sospetto di lacrime, una volta uscito in corridoio si sarebbe soffiato il naso e sono sicuro che – Madre riferendosi a una delle fotografie che io ignoravo quale fosse, quali trecce, quale vestito vaporoso, un mulo per amico e basta, l’unica cosa che non capivo era l’assenza di forza e il sospetto di lacrime, mi ricordo di un mobile a cassettini dove teneva le fatture, e in mezzo alle fatture lettere, nemmeno legate con un nastro, scritte con calligrafia infantile su quinterni scolastici, che chiedevano giocattoli, matite colorate, visite in collegio, non – Vieni qui non una donna, giocattoli, matite colorate, visite in collegio, e dopo un congedo cerimonioso il nome completo al fondo e io che pensavo – Se gliele mostrassi fingerebbe di non vederle il mulo a zoppicare sotto la finestra, lui da solo e, dopo, mia nonna (una tazza su un piattino) e, dopo ancora, mio padre che galoppa in paese interrogando le imposte o che insegue le domestiche che lo respingono nascondendosi in dispensa, mio padre, al quale l’ammi20

nistratore si rivolgeva da pari a pari, con il berretto in testa perché era mio nonno a comandare, non lui, l’amministratore al quale mia madre obbediva – Vieni qui non in casa, ovvio, nel deposito delle sementi mentre mio padre in paese come se solo in paese riuscisse a esistere, regnando sulla polvere dei morti (ci sono volte in cui mi domando se per caso non siamo tutti morti salvo mio fratello che contempla l’orologio dove lo smalto dei numeri è saltato col passare del tempo) insistendo – Non mi lasciare non più rivolto a mia madre, rivolto a me che lo osservavo senza il coraggio di avvicinarmi e di colpo lui – Signore come se mio nonno lo potesse aiutare o lo avesse mai aiutato e tuttavia l’unica persona in grado di salvarlo foss’anche con il disprezzo e lo sbeffeggio, l’orologio ebbe un breve sussulto e continuò a muovere le lancette in un’assenza di numeri di modo che anche il tempo era cessato, settantasei del mattino, quarantotto del pomeriggio, che importanza hanno le ore, a qualunque ora le foglie degli ulivi immobili e nessun brivido nel granoturco, una tazza che trema su un piattino e io che tremo insieme a lei, può darsi che mio padre desiderasse vedermi arrivare con il fucile o con il sarchio perché lo aiutassi a farla finita, udii il cavallo che cercava di liberarsi dall’anello e un rospo grande come un uomo, quello che io non sarei mai stato, fremere nella palude (mio nonno?) la pompa del pozzo dove una laboriosità di ruggine correggeva la direzione del silenzio, non il silenzio dell’assenza di suono, una mutezza fatta di vibrazioni, che si annullavano l’un l’altra, come di molta gente che parlasse e ci accorgessimo soltanto della mancanza di bocche e delle esalazioni del21

la terra da cui nascevano insetti, scesi le scale per allontanarmi da mio padre (che cosa provo per te?) evitando il salotto dove la tazzina spiegava cosa, comunicava cosa, annunciava cosa, un vecchio comparve in veranda – Attento forse non un vecchio, una creatura che ho inventato (devo aver inventato) visto che non aveva lineamenti e si dileguò nel muro, mio fratello in cucina e mio nonno apprensivo con lui, lo alimentava, lo aiutava a vestirsi, costringeva l’amministratore a levarsi il berretto – Mio nipote preoccupato quando non lo vedeva, temendo la palude, il pozzo – Dove sarà il ragazzo? e mio fratello a strattonarlo per il braccio perché nessuno esisteva, siamo personaggi da cornice, sorrisi mescolati agli scricchiolii del legno, non esistiamo e perciò quel che dico non è esistito, quale fucile, quale sarchio, quali bauli, quali dita scrivono questo, rimangono i tucani della palude in direzione della frontiera e mio nonno, che afferra il collo di mio fratello come afferrava il polso di mia madre – Vieni qui con precauzioni commosse – Devi farti carico di tutto questo ovvero assenze e io a domandarmi per quale motivo non scegliesse me per farmi carico di tutto questo impartendo ordini dalla mia cornice alle altre cornici e quelle rivolte a me – Signore con il cappello premuto sul petto, mio nonno che ispezionava il granoturco, il frumento e la recinzione convinto che granoturco, frumento e recinzione e invece una distesa 22

di erbacce, mosche su un leccio e un tasso che fuggiva spaventato, se per caso mi additavano – Quel poveretto ha preso dal padre vale a dire un giorno o l’altro monta sul cavallo che non gli obbedisce, visto che nemmeno con gli animali ha polso, e scompare in paese, andai a cercare l’animale all’anello e dentro di me il Cristo da fiera piegato sui suoi chiodi – Non mi lasciare l’orologio che si fermava, galline, risparmiate dai cani, che beccavano sassolini e le montagne alla deriva in lontananza, mio fratello affacciato sull’acqua limacciosa del pozzo – Il mio unico nipote curioso dei lineamenti che lo fissavano anch’essi incuriositi, e l’unico nipote a farsi, disfarsi e rifarsi nell’acqua, con le guance ora larghe ora strette, orecchie che cambiavano forma, capelli che non smettevano di fluttuare, diversi dai capelli lassù in alto, come se mio fratello soltanto nel pozzo e io ve l’avessi spinto – Sono più forte di te nella speranza che mio nonno mi ascoltasse e non mi ascoltava, mio fratello, che avrei dovuto spingere (che spinsi?) che avrei dovuto spingere finché nessuna immagine, fango immobile, sassi, il pozzo inutile salvo per chi si interponeva fra mio nonno e me (ho affogato chi si interponeva fra mio nonno e me?) il cadavere di un mulo (non il suo, non i loro) a spostarsi sul fondo e le gengive del mulo e quelle di mio fratello nitide, lineamenti che mi osservavano senza alcuna emozione e io rivolgendomi all’animale come mio padre a mia madre – Non mi lasciare visto che tutto mi lascia, le domestiche, l’amministrato23

re, rimangono i fantasmi che mi chiamano a gran voce da un brandello di tenda che non cessa di pronunciare il mio nome, rimangono imbrentine e ancora imbrentine fino alle rocciosità delle montagne e ai rifugi dei pastori nei tornanti delle mulattiere, il fischio delle agavi e il metallo degli arbusti che grattano le proprie bacche, così quello che non era il suo unico nipote a portare fuori la sella e le staffe dalla stalla chiedendo – Non mi lasciare non a una donna o a un figlio perché non sono abbastanza uomo per meritarmi un figlio, a un cavallo, quello che non era il mio unico nipote non si gettò nemmeno nel pozzo e avrebbe dovuto farlo, a che mi serve un idiota che prepara un cavallo che derapava sferrando inutilmente un calcio che si disfaceva in aria così come si è disfatta la casa cui, sebbene uguale, oggi manca quasi tutto, il cavallo finì per accettare la coperta e la sella, sbrogliai i finimenti, collocai il morso strattonandogli il muso (ti prego di notare che io un uomo, nonno, informa tutti che anch’io tuo nipote, indicami con orgoglio – Anche quello, in fondo, mio nipote) il cavallo che impiegava del tempo a obbedire, abituato a mio padre, e girava per il cortile finché non sentiva la mano tirare la briglia, avrei avuto voglia di chiamarti affinché tu – Anche lui mio nipote e gli amici con il bottone di rame che chiudeva il colletto (ho voglia di scrivere madre, adesso, madre, madre) d’accordo con me, io a lasciarli (– Non mi lasciare) non avendo bisogno di loro, a che scopo se nessuno esiste, che me ne faccio di menzogne, memorie, matite colorate, giocattoli, non venivano mai a trovarmi in collegio dai preti, fra beati orripilanti nella chiesa gelida e ricreazioni funebri con un prete che sgranava il rosario 24

– Nella dimora di Dio non si corre perciò noi fermi sotto i carrubi e nessuna visita, nessun giocattolo, nessuna matita colorata, idioti come me che non sarebbero mai stati uomini e la campanella e lo studio, girai intorno alla casa al trotto per congedarmi da lei, nella colombaia una piuma si stava adagiando a terra e lì c’era il pozzo e l’unico nipote (– Anche quello, in fondo, mio nipote) che presto avrebbe preso il posto del mulo disfacendosi e rifacendosi nell’acqua limacciosa, ne avevamo avuti a bizzeffe ai tempi in cui la casa esisteva e noi non ancora, la casa sì, enorme, e uno spettro, al mattino, accanto alla recinzione, a dare istruzioni all’amministratore, probabilmente non istruzioni, probabilmente – Mio nipote – Il mio unico nipote probabilmente – Dovrà farsi carico di tutto questo un giorno vale a dire farsi carico della spazzatura e dell’orologio senza numeri indifferente al tempo, che importanza ha il tempo se anche lui non esiste, esiste il silenzio che nemmeno le zampe del cavallo ravvivano e mio padre davanti al Cristo da fiera – Non mi lasciare senza che qualcuno gli rimanesse accanto per un’illusione di compagnia, chi ti ha fatto compagnia fino a oggi, padre, non mia madre, non mio nonno, non io, questo cavallo, forse, dita che baciavi prima di sederti a tavola, nulla, e a quale scopo chiedere al nulla – Non mi lasciare se nemmeno il nulla è mai stato con te, solo fotografie di creature tanto irreali quanto noi, mio fratello affacciato sul pozzo senza capire chi fosse, e mio nonno soddisfatto – I miei nipoti disposto ad abbracciarmi se il cavallo non si fosse di25

retto verso la recinzione e attraverso una breccia nella recinzione verso il paese dove le luci si accendevano a una a una (chi le avrà accese?) e strade, vicoli, piazze, il gazebo per i concerti, dove una volta una specie di vita e adesso solo rondini, l’asino del mulattiere che scendeva lungo la discesa imboccando un sentiero, ma a guardare il sentiero nessun mulo, un rumore di ferratura che svaniva subito, ricordo mia nonna – Bambino e a chiudersi in se stessa, pentita, la teiera sul tavolo e il – Bambino non io, lei a domandare a se stessa – Bambino? senza capire che cosa – Bambino significasse e non ti preoccupare, nonno, è stato il mulo che ha cambiato posizione nel fango, una camicia da notte e una serie di gonne che nessuno ha mai usato, cose di cui questa casa era fatta e io che attraversavo il campo d’orzo dove mai orzo, terra porosa, ginestre, la sensazione che qualcuno (mio padre?) – Non mi lasciare finalmente in pace e la certezza che era il paese ad avvicinarsi a me, non il cavallo che arrivava, dove un agitarsi di imposte spalancate e di tendine, le fotografie ad attendermi contente e io a unirmi a loro, pure io defunto (non sarò sempre stato defunto, non sarò sempre defunto?) qualcuno che non conosco a profumare i bauli al piano di sopra in un luogo che non esiste.

26

2.

In paese non si udiva il rumore degli zoccoli sebbene il cavallo continuasse a trottare, così come non si udiva il tintinnare delle staffe, i sentieri davano l’impressione di essere bui malgrado il giorno nei campi che si arrestava dinanzi ai primi orti dove un secchio, un innaffiatoio, un catino rotto, una donna che cantava e taceva di colpo o avevano fatto tacere e un rumore di suole in una casa là in basso seguito dal chiavistello di una porta, io che immaginavo spettri al posto di persone e invece gente ma chi, non contadini, non zingari, non poveri visto che malgrado le imposte vuote talvolta un vaso di fiori o un lampadario in una finestra, un uomo su una soglia a guardarmi vestito come i parenti delle fotografie e sul suo volto – Chi è costui? qualcosa di mio nonno nella forma del naso, nei baffi, qualcosa di me che non so a chi somiglio, un uomo che si sarebbe detto molto anziano dal modo in cui si muoveva – Credo di sapere chi è ma non ricordo occhiali riparati con il fil di ferro che estrasse laboriosamente dalla tasca trafficando con le aste, tornò a domandare – Il nipote di mio figlio? perché si distinguevano le parole malgrado l’assenza di suono, un gatto di ceramica su un tavolino, che ricordo 27

di aver trovato con le orecchie mozze nello scantinato, dietro di lui una signora che mi osservava, l’uomo alla signora – Non credi? e il trotto del cavallo si udiva di nuovo mentre la signora – Non saprei un nibbio, due nibbi che sorvolavano in circolo e tuttavia immobili, come fanno i nibbi, che galleggiano placidi, si fermano, tornano indietro, salgono e scendono senza cambiare posto, è la terra che cambia, si curva, si dilata e loro statici salvo quando un’agitazione di ali e di becchi in cortile, una nuvoletta di polvere, un coccio di mattone rovesciato (la signora, indifferente ai nibbi, indecisa – Non saprei) e i nibbi a risalire l’aria, con il capo fra le spalle e un pollo fra gli artigli, avevo scoperto che fanno i nidi su rupi che non osavo scalare per paura che afferrassero anche me strappandomi le piume, una volta ne avevo trovato uno in cima al comignolo che mi fissava e mi ero nascosto fra la legna da ardere – Un nibbio una delle domestiche era uscita in veranda con il coltello del pesce ed era rientrata accusatrice – Non c’è nessun nibbio e di fatto nessun nibbio, il pollame tranquillo, soltanto il mulo che spaventava cani e tacchini dato che mio nonno creava intorno a sé un cerchio di timore – Padrone (e la tazza a cozzare più forte contro il piattino, com’era lui alla mia età, nonna?) la signora scomparve aggiustandosi l’acconciatura e fu allora che me la ricordai in una fotografia, appoggiata a un tavolo dove c’era un vaso di gerani, il cavallo dimenava le anche sentendo le persone, come all’epoca in cui non c’erano la casa né la tenuta né quello che mio nonno avrebbe costruito, 28

un’oscillazione di giare, una cappella agreste senza campanile né campana e mio padre a tranquillizzare il cavallo impedendogli di indietreggiare come se odore di morti, un secondo uomo sotto una specie di pergola – Sei tornato? convinto che io appartenessi a questo luogo come i canneti e le pietre che annunciavano il ruscello con mio nonno bambino sulla riva a guardarmi, un moccioso scalzo che mi avrebbe obbedito se io – Fai questo fai quest’altro non ancora – Quello non è mio nipote né a ordinare a mia madre – Vieni qui un ragazzino senza autorità né amministratore, incapace di immaginare che il sarchio di mio padre gli avrebbe divelto un membro dopo l’altro, non io a lui – Signore lui a me – Signore interessato al cavallo, desiderando che glielo prestassi per montarlo da solo così come più tardi avrebbe montato il mulo per passare in rivista il raccolto mentre le persone delle fotografie spuntavano via via dal nulla, plastron inamidati, mantiglie fuori moda che non si trovano nemmeno più in soffitta, individui che si scrutavano gli organi, questo funziona, questo no e a che mi serve che funzioni, altro tempo da vivere a che scopo, io attonito dinanzi ai nibbi che ingrassavano sopra le uova o che squartavano un gallo fra gli spasmi, il treno in lontananza o il sibilo del bosco e io a decidere – Me ne vado e a rimanere perché il treno troppo distante e la frontiera oltre la palude ma dov’è la palude, parlavamo della palude senza averla mai vista allo stesso modo in cui parlavamo 29

della frontiera ignorando dove si trovasse e che cosa ci sarebbe stato al di là (stele, isole, statue?) rinchiusi nella tenuta e nella casa che era cambiata senza che nulla mancasse, i defunti non al cimitero, in paese, lapidi che non coprivano nessuno salvo i soldati di Francia e quindi mia madre (– Domani porta le tue cose al piano di sopra) in una delle viuzze a profumare bauli con la sua bara accanto, non parlava con noi, non badava a noi, forse, adesso che era morta, mi avrebbe chiamato – Figliolo e oltre a – Figliolo che cosa avrebbe potuto dirmi, che cosa abbiamo in comune, madre, che cosa c’è fra di noi, salivo le scale e rimanevo sulla soglia senza che lei – Che cosa vuoi? quando mia nonna divenne fotografia, un suo ritratto quasi sorridente, giuro, il disprezzo di mio nonno – Quella quando la vedeva appesa al muro, e mia nonna interrompeva il sorriso, forse avremmo potuto capirci noi due, parlare di suo marito, spiegare – Ha fatto tutto da solo il granoturco, il frumento, il granaio e la casa, sussurrava al mulo e l’animale obbediva, l’uomo della pergola – Un giorno sarà ricco il nibbio emise un grido e io mi allontanai incespicando dai piedi della rupe facendo rotolare sassi che scendevano fino al centro del mondo spaventando le capre in equilibrio sui dossi erbosi, il secondo uomo contava con le dita moltiplicando mani – Da quanto tempo siamo morti? 30

perciò forse anch’io morto visto che capivo la loro lingua, voci nitide dentro di me che sommavano un dito dopo l’altro gli anni dal funerale, sette, otto, decisi – Non credo a questi fantasmi dato che mentono per cattiveria e noi defunti come loro, il secondo uomo confuso con un nespolo al punto che le dita gli si erano tramutate in foglie e io – Non si rivolge a una persona, si rivolge a un albero perché chi mi garantisce che i morti non mescolino le carte sbagliando i numeri, il vento faceva rabbrividire il nespolo e trenta dita, cessava e undici, in mezzo alle dita piccoli frutti che maturavano con un bagliore dolce, a che scopo questa casa, questo grano, queste scale che danno l’impressione che molta gente e invece soltanto io che vado incontro a mia madre senza mai raggiungerla, mi avvicinavo al profumo dei bauli, non mi avvicinavo a lei – Mia madre? e il fruscio della biancheria lavata che viene riposta nelle ceste, non la vedevo mai scendere dabbasso salvo quando la sigaretta dell’aiutante dell’amministratore in attesa e allora, come dalla rupe dei nibbi, sassi che rotolavano fino al centro del mondo e io una capra spaventata che si rifugiava dietro a una siepe di bosso con le caviglie ballerine, un moccioso scalzo (mio nonno?) che correva fra le imbrentine, non somigliante a mio padre, non somigliante a me, all’inseguimento di un tacchino (e una donna vestita a lutto – Allora questo tacchino?) che andava a sbattere contro una specie di grata, il secondo uomo indicando il bambino mentre il vento in silenzio nelle imposte spalancate – Mi hanno detto che eri nipote di questo mio nipote, tu e io cercando di immaginare in che modo i defunti comunichino fra di loro e non credendo di poter essere nipote di 31

un bambino così piccolo che afferrava il tacchino per una zampa e lo trascinava, mi ricordai della famiglia che mormorava di noi nelle fotografie del salotto, udii mia nonna dire a se stessa – Non parlare lei che non parlava mai, rimaneva sulla sedia a scontare giorni alla vita, da quanti anni sei morta, nonna, e la teiera nient’altro che un resto di melissa sul fondo, le tendine delle finestre, misteriose, a osservarci, mia nonna che prima di vivere con noi aveva abitato anche lei in paese, nella piazzetta di mandorli e betulle dove le capre s’introducevano belando attraverso il recinto di siepi, e al di là delle siepi, dove finivano gli orti, steccati, e un carretto rovesciato che mi fece tornare in mente mio padre – Non mi lasciare che chiedeva aiuto non a mia madre, a me, ovvero a qualcuno che non vedeva e che scambiava per mia madre visto che ero io a guardarlo, se mio nonno fosse stato lì – Nemmeno buono a morire sei, idiota e avvoltoi in attesa sulle grondaie, venuti dalla frontiera dove forse una terra come questa e una falciatrice bruciata, grandi come i nibbi ma grassi, calvi, udii i passi dell’amministratore sull’aia e un pollo – Non mi uccidete il cavallo che soffiava, nel sentirne l’agonia, rasentando quel che rimaneva del cancello, mio padre che non ha mai avuto una moglie solo sua, una tenuta, una famiglia, abitava con una tazza che rabbrividiva su un piattino e le domestiche che si rifugiavano in dispensa – Metta le mani a posto, diamine magari non ha nemmeno avuto figli, interrogava un corpo intento a profumare bauli – Sono figli miei quelli? vale a dire io, mio fratello e il silenzio nelle pause dell’orologio, il 32

– Non mi lasciare rivolto a chi, alla fine, all’amministratore che lo disprezzava, al padre smembrato dal sarchio o al cavallo che nitriva di terrore in paese, forse i defunti ci detestavano per esserci presi quello che era appartenuto loro, la zuppiera, le stoviglie e mio padre terrorizzato di finire in mezzo a loro – Gesù mio rivolto a un pupazzo da fiera incapace di miracoli, cercando di ricordare una preghiera che non gli veniva, mio nonno aveva mandato via il prete – Nessuno ha bisogno di lei in questa proprietà e quello che ha fatto finora Dio, d’ora in poi lo faccio io che vivo in questo mondo e sono più giovane e l’amministratore lo aveva condotto in groppa al mulo fino a un paio di alberi di noce rinsecchiti appena fuori dal paese – Padre il prete a guardare la pistola uscita lentamente dalla tasca e il carrello che scivolava indietro caricando un proiettile, a cercare aiuto ma né voci né persone, credette che un cane randagio ma nessun animale nei vicoli, soltanto echi, l’eco dei rami dei noci, di uno sgabello che avevano spostato per vederlo meglio e le fotografie – Il prete senza che l’amministratore si accorgesse di loro, la palude ribolliva come sempre a marzo con i girini neonati e le api incomplete che imparavano a esistere, il prete all’amministratore – A che ti serve la pistola? e l’amministratore a farsi il segno della croce dopo avergli chiesto la confessione – Per aiutarla ad andarsene, padre non esaltato, rispettoso, ché l’Inferno spaventa, quasi nessun olmo vibrò con il primo sparo a salve sulla staccionata, l’amministratore, aiutando la mira con l’altra mano 33

– Mi ha già assolto, vero? e sparando a occhi chiusi, sentì il prete in ginocchio, prese coraggio e aprì un occhio solo, lo vide faccia a terra e siccome aveva avuto l’assoluzione aprì il coltello e glielo affondò nel collo fino alla resistenza delle vertebre, ci pensò su e scambiò le proprie scarpe con quelle del morto malgrado il piede sinistro faticasse a entrare e adesso che se lo mangino le donnole e i tassi, mio nonno furibondo – Vada a restituire le scarpe a quell’uomo perché possa camminare a suo agio per la vita mio nonno furibondo – Non impedire mai a un defunto di andarsene a spasso dove più gli piace e l’amministratore sotto i noci a lottare con le scarpe senza badare agli alberi, così come aveva calpestato il prete che stava scomparendo nella terra, e una donna con il secchio, altre donne, un vecchietto tutt’uno con un mucchio di fango, gli erano rimaste fuori le palpebre a fissarlo come le fotografie in cornici di metallo lavorato, roselline, gigli, di fanciulle morte di tubercolosi con l’arpa dei polmoni vibrante, Celeste, Leonora, Angelina, che ritagliavano stelline di carta tossendo senza un lamento, le seppellivano in piccole bare di satin bianco e i nibbi lassù in alto con i loro volteggi lenti, in quale viuzza del paese ti nascondi per spiarmi, Maria Adelaide, senza chiedere nulla, senza lamentarti di nulla, la bocca due pizzi che tremavano – Sto bene mi avevano portato in ospedale a trovarti e non ricordo l’infermeria, ricordo il giardiniere che innaffiava le aiuole schiacciando con il pollice l’estremità della pompa per distribuire l’acqua, ricordo una persona che si soffiava il naso portando biscotti e mele in un sacchetto di carta e il giardiniere che non le faceva caso alle prese con uno stelo, Maria Adelaide con le trecce appoggiate sul petto e io innamorato delle 34

trecce, dopo il funerale la madre le aveva riposte in un cassetto e i capelli secchi rabbrividivano mentre l’amministratore, sotto lo scricchiolare dei noci, pensava che non ci fosse creatura più difficile da scalzare di un prete, aveva dovuto lottare con le caviglie sollevandole da terra perché non entrasse in una cornice ad accusarlo – Ladro bisognoso di più tempo per abituarsi alla morte – Ho tirato le cuoia nell’accorgersi delle zolle di cui era fatta la sua pelle e di come i paramenti sbiadissero lentamente, una civetta gli grattò la nuca e scomparve in un comignolo mezzo diroccato, con un tono di voce simile a quello di mio padre – Non mi lasciare adesso che soltanto mio fratello e io rimaniamo in cucina uno di fronte all’altro, in attesa, con il cavallo legato all’anello e le luci del paese che vanno e vengono a seconda delle nubi che rivelano un tetto, due tetti, il cortile di una scuola dove il vento giocava con un pezzo di carta, adesso ti metto qui, adesso ti metto lì e il pezzo di carta si confondeva con le foglie, poveretto, a guardar bene anche il pezzo di carta una foglia, da dove arriveranno le foglie che non ci sono quasi arbusti, ditemi, nel cortile piccoli cactus che nascevano dal selciato, una volpe nella colombaia con una levità di mignoli e mio padre con il suo Cristo da fiera in cima alle scale e il cavallo ad attenderlo, mi accorsi che mio fratello mi osservava come osservava se stesso nel pozzo, nella valigetta del prete gli utensili per la messa e la lettera di una donna con dei fiori dentro (quale donna?) le scarpe cominciavano a sciuparsi nella terra, fra non molto una cornice in mezzo alle altre cornici a denunciare l’amministratore, la tazza sopra il piattino, una domestica che raccoglieva uova in un cesto e tuttavia mio fratello e io soli 35

nella casa che è cambiata rimanendo uguale, una richiesta alle ombre del paese – Non uccidetemi forse di un contadino che si era perso per strada, nella lettera del bagaglio del prete un profumo simile a quello dei bauli e tuttavia non avevo mai visto mia madre nella chiesa deserta (mio nonno all’amministratore – Il prete parla male di noi, è inammissibile) perché non c’è nessuno salvo mio fratello e me e quegli animali notturni di cui ignoriamo il nome, forse moffette o licaoni, mio padre veniva a spiarmi a scuola durante la ricreazione come aveva spiato mia madre al cimitero, strattonando la testa del cavallo che non si dirigeva verso la tenuta ma in paese dove mio nonno non andava mai, lo guardava da lontano con la frusta levata in alto per proteggersi dai defunti con la voce di molti anni fa – Voi morti non potete più farmi del male gli occhi confusi l’uno nell’altro in un nodino di palpebre ricordando malesseri e paure, un bambino scalzo che sognava un mulo per fuggire oltre frontiera, la madre che non profumava bauli, si collocava accanto alla porta di casa in attesa (di cosa?) Filomena malata e lui dalla strada – Filomena senza capire il motivo per cui gli impedissero di vederla, per quante settimane era rimasto acquattato finché non avevano coperto le finestre a lutto e gli occhi di mio nonno non velati, aridi, una cornice con le decorazioni di metallo ammaccate, roselline e gigli nel ripostiglio, e tuttavia dentro di lui – Filomena anche quando afferrava il polso di mia madre o delle domestiche per un salto amaro di canarino, mio nonno a mio padre 36

– Idiota e l’ – Idiota a dolergli perché non era con mio padre che parlava, ma con se stesso – Idiota l’idiota che aveva perso Filomena prima che lei potesse dargli del – Signore e temerlo, quando mio padre aveva afferrato il sarchio non si era nemmeno alterato, aveva taciuto, questa spalla, quell’altra e lui, senza che mio padre potesse immaginarlo, contento, perché i morti non gli avrebbero più fatto del male, chiedi la pistola all’amministratore e uccidi gli occhi che non riescono a vedere, mio nonno levando in alto la frusta perché nel domandare a mia madre – Di quale di noi è figlio, quello, dell’idiota o mio? mia madre zitta, lui a confrontare un lineamento dopo l’altro a mano a mano che la levatrice mi puliva e mio padre seguiva l’operazione a bocca aperta, mio nonno a se stesso, mentre proseguiva il confronto – Filomena un lamento sommesso – Avresti dovuto esserci tu al posto di questa qua, Filomena morta a otto anni di un’infezione all’intestino, un rosario di granelli di vetro appeso al collo affinché Dio la vedesse, ma i granelli difficili da distinguere in mezzo alla mobilia della stanza e ai rami di aconito che portano fortuna ai malati con, in fondo, la porta nera da dove la morte entrava e usciva come una di casa, talmente familiare e umile che nessuno la notava, una di quelle parenti anziane che cominciano a nascere nelle fotografie e rimangono qui, e con le quali siamo in imbarazzo perché non ascoltano più e non conversano an37

cora, zia Eduína, zia Mariana, padrino Roberto, zio Gaspar sempre impeccabile, medaglie alla catena del panciotto e stivali nuovi – Di capretto spagnolo, bambini le basette pareggiate dal barbiere con un fiocchetto duro di schiuma, noi ammirati – Zio Gaspar e lo zio Gaspar, con il prestigio accresciuto dalle medaglie, a parlare dell’Uruguay dove aveva lavorato ai cantieri navali, mio nonno senza il coraggio di scendere in paese per paura di incontrare Filomena, per esempio attraversare un vicolo e lei nel vicolo, in attesa – Voi morti non mi farete del male, vero? perciò la doppietta nel caso l’avessero avvertito – Stai alla larga accanto al letto mentre dormiva combattendo fantasmi o nascosto nella stalla dove non l’avrebbero trovato, la tenuta ancora una selva incolta (la morte una parente che bisognava aiutare a vestirsi per via dei reumatismi e lei intanto – Grazie, grazie a sceglierci, noi angosciati – Ci dia ancora qualche mese, aspetti e lei sinceramente dispiaciuta a cercare il quaderno nella tasca del grembiule dove si sommavano, pieni di errori, nomi scritti a matita – Non sarà il mio per caso? con una croce in fondo, ogni tanto rimaneva un po’ pensierosa a guardarci, spostava la croce accanto a un altro nome e ci risparmiava – Fino a marzo, ragazzo) il secchio rovesciato dove il padre di mio nonno si sedeva a fumare esausto e l’acqua di colonia dei mandorli più densa, esseri nostalgici che lo sorvegliavano dal caffè con la 38

stessa pazienza con cui lo attendevano in salotto o in qualunque altro posto, sulla strada per il nord nel punto dove si diramavano i sentieri o all’angolo del negozio di stoffe di cui non rimanevano neppure le fondamenta, il mulo ad avanzare senza posa (– Metta la croce al mulo invece che a mia nipote, signora e la morte, che stava perdendo vigore con l’età, ad acconsentire, cancellando il segno a matita con la saliva del dito) a briglia sciolta, quante volte l’ho scoperto a studiarci come mio nonno mi studiava per poi controllarsi nello specchio, ma era l’aiutante dell’amministratore che rimaneva più a lungo fermo sulla soglia della cucina a fissarmi, una volta avevo trovato un’automobilina di legno accanto al lavatoio, un’altra volta un uccellino in una gabbia e lui in attesa, fingendosi distratto, che io mi accorgessi dei suoi doni, un uomo senza moglie che dormiva nel granaio, si intravedeva una luce fra le assi di legno e l’insonnia che mescolava utensili, un’automobilina di legno e un uccello cui non feci caso e il giorno dopo la gabbia aperta e l’automobilina sfasciata, chi mi garantisce che l’aiutante dell’amministratore (mio nonno – Ho bisogno di parlarti, Filomena con il bottone di rame che gli chiudeva il colletto e la doppietta sulle ginocchia) non si confrontasse anche lui con noi, e mia madre senza rispondere a nessuno di loro, una volta terminato con i bauli, si appoggiava ai vetri delle finestre a guardare la pioggia cadere o a immaginarsi nella palude in mezzo ai discorsi delle rane, la palude che nessuno aveva mai visto e la frontiera che ignoriamo dove si trovi, sappiamo delle montagne, dei campi e basta, tutto qui il mondo, tucani nati da una pozzanghera fra i canneti, due o tre, non uno stormo, sbranati dalle moffette e se ho parlato di treni mentivo, solo carretti, l’im39

pressione che l’aiutante dell’amministratore stesse per parlarmi, il rumore della glottide (buffo, glottide) e silenzio, stava quasi per toccarci e le dita sospese – Pardon o serrate con forza nelle tasche mescolando tendini, mio nonno a mia madre – Di quale di noi è figlio, quello, dell’idiota o mio? non ti cercare nei miei lineamenti, che io sono una gabbia con un uccellino e un’automobilina di legno, non mi avevano mai detto il nome dell’amministratore né mi era mai venuto in mente di domandarglielo così come ignoravo quello delle domestiche, solo tu hai un nome qui, Maria Adelaide, e trecce che si disfano in un cassetto, chiedevo a tua madre – Mi lasci vedere le trecce, signora e due cose ammuffite di bambina vecchia, il cavallo di ritorno dal paese in questa casa dove tutto cambia rimanendo identico, il prete diede l’assoluzione all’amministratore che si alzò spazzolandosi i pantaloni – Sono libero dai peccati adesso? senza capire perché il primo colpo avesse fatto cilecca, forse un difetto della pistola, non della sua mira – Non mio il prete a interrompere la benedizione e il coltello dell’amministratore a dargli una mano imitando la madrina con i polli, ricordo il ritorno delle greggi e i cani che orientavano il bestiame, ricordo mio nonno che non aveva bisogno di dare ordini, qualche volta un braccio o un cenno con il naso, e Maria Adelaide in mia attesa durante la ricreazione in disparte dalle compagne che giocavano in cortile, la maestra che si dirigeva verso la campanella, un individuo che si alzava da terra – La campanella e la notte che si ispessiva cancellandoci, pensai di andare a trovare mia madre 40

(– Di chi è figlio, donna, dell’idiota o mio?) e lei voltata verso la pioggia di marzo, mio fratello (– Dovrà farsi carico di tutto questo, un giorno) affacciato sul pozzo a salutare se stesso (mio nonno all’amministratore coagulando la voce nella speranza di credere a quanto giurava – Di tutto questo e sul punto di credere a quanto giurava – Di tutto questo, te lo assicuro con una certezza che ammutolì di colpo, l’amministratore a infondergli fiducia – È tutta la sua vita, signore e mio nonno – Credi che la vita sia stata vita? sperando che mio padre si sbrigasse con il sarchio) e nessun sarchio per il momento, nonno, la tua voce fatta di pietre e di rovi – Credi che la vita sia stata vita? che nemmeno con l’orecchio accostato alla bocca si riusciva a udire, si udiva il silenzio ma che cosa afferma il silenzio oltre alla pioggia contro i vetri al piano di sopra, mio nonno che tentava di alzarsi per montare il cavallo del figlio e tornare dov’era tanti anni prima Filomena, le pietre e i rovi della voce – Non ti ho dimenticata cioè credo che le pietre e i rovi della voce – Non ti ho dimenticata ma potrebbe anche essere – Credi che la vita sia stata vita? l’amministratore lo sostenne per fargli salire gli ultimi due gradini, ne conquistò uno, stava per conquistare il secondo, vide il cavallo su cui trottava l’idiota per i vicoli del paese e i parenti – Padrone 41

contenti di salutarlo perché finalmente era tornato, vide sua madre, suo padre, sentì gli olmi con la pianola delle loro foglie, ma l’ultimo gradino gli mancò, l’amministratore non riuscì a sorreggerlo e lui cadde bocconi ad assaggiare il sapore delle radici, con gli occhi velati rivolti alla contadina che fungeva da levatrice, intenta a pulire un neonato che non gli apparteneva con il lembo di un asciugamano.

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3.

Mio fratello e io rimaniamo qui perché a quest’ora, in paese, le persone e i canneti bisbigliano senza tregua, succede questo, succede quest’altro, non immagini con chi vive Eulália, quella che si vergognava a togliersi il fazzoletto per via della macchia viola in faccia, aveva passato anni a coprirsi e a chiedere alla madre di non entrare nella sua stanza prima che lei si nascondesse sotto le coperte, la madre – Eulália e lei, furibonda – Che cosa vuoi adesso? a nascondersi ancora di più, la macchia le copriva l’occhio sinistro, così solo quello destro aperto per guidarla lungo le strade del mondo, Eulália si copriva con il fazzoletto e l’occhio che rimaneva, triste come le mattine d’influenza, noi – Eulália e faceva pena vederla sbattere la palpebra, non c’è nelle fotografie perché si nascondeva sempre, tranne che a una prima comunione, dietro la colonna di un vaso, tutta intera sotto il gomito alzato salvo la protesta della bocca, a un certo punto un uomo a convivere con la macchia – Cos’è questo? e Eulália – Spegni subito la luce 43

dato che al buio forse l’uomo avrebbe creduto che entrambi gli occhi sani ed Eulália integra, nessuno sa chi sia, non lo abbiamo mai incontrato in cortile, di quando in quando in un intervallo fra le persiane un paio di baffi e io a pensare – Mio nonno ma senza esserne sicuro, essendone sicuro – Non può essere e prima che la gente – Eulália la persiana chiusa e i limoni dell’orto senza alcun calore, a pensarci meglio credo che mio nonno, con l’intenzione di dimenticare mia madre e le altre, lui che con il tempo aveva finito per confonderle, una volta nell’afferrare un polso – Filomena e accorgendosi dello sbaglio l’aveva scacciata seccato, Filomena che nella sua testa si era sposata con mio padre – Idiota e lo aveva lasciato solo nella tenuta e nella casa che le aveva regalato, irritato con la tazza di mia nonna che tremava sul piattino – Quella lì che aveva scelto senza sceglierla, l’aveva trovata in fondo a un pollaio che spellava un coniglio sopra un secchio, mio nonno aveva notato le maniche rimboccate e la gonna tirata su fino alle anche, Filomena qualche volta assente e lui – Quella lì perché i gomiti rotondi e i gesti decisi nel denudare l’animale, mio nonno, senza pensare a Filomena, un coniglio nudo e sorpreso di essere nudo visto che il bottone di rame continuava a chiudere il colletto, girò intorno al pollaio avvilito dalla nudità, s’imbatté in un uomo e una donna che prendevano il fresco in veranda, si piantò davanti a loro annunciando 44

– Mi prendo vostra figlia afferrò mia nonna ancora alle prese con il coniglio, lo indicò con il labbro superiore – Se vuoi, portati l’animale Filomena ritornò in un angolo della memoria, senza approvazione né censura, mio nonno a immaginare di tranquillizzarla, lei, che non esisteva – Un momento mentre mia nonna (i suoi genitori muti) infilava il passato in valigia, gomitoli per l’uncinetto e una ciocca di capelli in una bustina (i suoi capelli di un tempo?) con il coniglio in attesa su una panca, mio nonno aveva portato la valigia e mia nonna l’animale per le zampe anteriori, il paese si apriva per lasciarli passare e si richiudeva subito dopo, steccati, capanni, un vecchio che rifletteva – Dov’è che abito? e l’odore della terra, per non parlare di quello del coniglio che fra poco avrebbe cominciato a puzzare e perfino i cani nauseati, mio nonno le mostrò il salotto di casa, non ancora quello di oggi, una stanza da poveri, con un tavolo e un pupazzo di pasta sul davanzale della finestra – Adesso stai lì e quasi nessuna fotografia, uno zio e un padrino con i completi prestati dalle maniche troppo lunghe e le punte delle scarpe che spuntavano a malapena dai pantaloni, ignoro che cosa ne fu del coniglio ma ricordo la ciocca che mia nonna cercava facendo tremare più forte la tazza sul piattino, scommetto che i suoi genitori sono ancora in veranda soddisfatti dell’estate, può darsi che la madre – Il glicine le foglie del tè ad arricciarsi nella teiera, la casa della tenuta ad aumentare e poi mio padre, e poi mia madre, e poi 45

mio fratello e me, che rimaniamo qui, a quest’ora in paese sanno già che non appartengo ai parenti e non avrò nemmeno diritto a una cornice e a un ritratto con una macchina fotografica da quattro soldi che non mette a fuoco e deforma, e quando mette a fuoco ingrassa, né figlio di mio padre, né figlio di mio nonno, figlio di una domestica cui avevano ordinato di piegare biancheria nei bauli e dell’aiutante dell’amministratore che riparava la recinzione e allungava le domeniche dirozzando canne con il coltello, appoggiato al lavatoio, senza parlare con nessuno, se mi vedeva in giro si puliva le mani in un lembo della camicia – Signorino con il berretto appeso al braccio, mio fratello (– Dovrà farsi carico di tutto questo, un giorno) somigliante a mio padre o a mio nonno fin dalla nascita, quando la levatrice lo aveva ripulito dalle membrane e dalla polvere che ci portiamo dietro nel venire al mondo, l’aiutante dell’amministratore continuava a dirozzare la canna convenendo – Dovrà farsi carico di tutto questo, un giorno, signore e mio fratello ad amministrare cenere ed erbacce, il cavallo, sempre così nervoso, sereno con lui, mentre con me si disperava impennandosi, mio padre – Che cos’ha questa bestia? ha che mi riconosce il sangue, signore, e ha capito da dove vengo, se entrassi in paese sono sicuro che sassi, roncole – Non sei di qui non solo le persone, il vento delle cose a respingermi arrabbiato, mia nonna con un’espressione costernata a cercare di esprimersi per mezzo della tazza, si addormentava sognando conigli in fondo al pollaio con le dita che li spellavano sotto le arance decembrine, all’inizio avevano lasciato che si occupasse della colombaia e lei in dialoghi misteriosi con i volatili finché le gambe non le si erano paralizzate, rimase a 46

consolarsi con la ciocca di capelli e la memoria dei rospi nel canneto rauchi di bronchite, suppongo l’abbiano accompagnata quando è morta dato che al cimitero colpi di tosse, mio nonno terrorizzato – Taci per paura che mia nonna gli mettesse un secchio davanti e gli strappasse le budella, pensò di coricarla sul carro funebre e di dire all’amministratore di sotterrarla insieme al prete, ma si limitò a bruciare la colombaia e a ordinare di sgozzare i colombi, quelli allineati sul posatoio, l’amministratore e l’aiutante dell’amministratore ci provarono ma gli uccelli presero il volo, scomparvero e tanti saluti, mio nonno, con la doppietta, ebbe ragione di due o tre di loro che caddero a terra come stracci, lui rivolto all’amministratore tenendoli sospesi per un’ala – Secondo te questi stracci sono colombi? e li gettò ai cani che non si entusiasmarono, che strano, volgendo altrove il ribrezzo del muso, mio nonno studiava la ciocca di capelli – Sei stata bambina, tu? con il coltello che lo spellava e di nuovo il secchio, c’erano notti in cui un suo grido – Sarò morto? e la doppietta che sparava contro vasi di porcellana, lo trovavamo con gli occhi fuori dalle orbite che ci guardava dal bordo del letto, circondato di cocci, con la sua voce di bambino – La vecchia del coniglio non mi dà pace, quella maledetta la stessa voce con cui chiamava sua madre per paura del buio e la madre mai in cortile o in cucina, in chiesa con il prete fra gli armadi della sacrestia e gli utensili di Dio, il prete corrugando la fronte – Che cosa vuoi, ragazzo? 47

parti della madre che mio nonno non conosceva senza vestiti a coprirle, e un Cristo che la osservava da una veemenza di spine, il petto, l’ombelico, e un riccio notturno in fondo alla pancia ingrandito dai vetri a cattedrale della finestra mentre suo padre fumava con gli occhi piccoli, afferrava il coltello e gli occhi ancora più piccoli, l’audacia scemava – Può darsi che un giorno e richiudeva il coltello, appeso alla sigaretta per camuffare la vergogna, la sigaretta scompariva e il padre a zappare rabbiosamente, i colombi sgozzati muovevano una quantità di artigli scomposti nella colombaia, s’interrompevano un momento – Faccio o non faccio qualcosa? e si raccoglievano su se stessi con più penne di prima, mio nonno indicandoli all’amministratore – Getti quella vecchia ai maiali sempre con il coniglio in mente, non dormiva con mia nonna né mangiava con lei, pranzava e cenava in piedi in cucina, abbandonava il piatto su un ripiano e afferrava un polso di donna a caso – Vieni qui come si fa con il pollame per il brodo, senza scegliere, si apre la grata, si cammina sugli escrementi ed è il primo che le dita afferrano, il coltello del padre compariva e scompariva con voglia di conficcarsi dentro mio nonno perché aveva capito la sua paura – Può darsi che un giorno tu e mio nonno scosso da una specie di dispiacere a inciampare sulle soglie, se avesse già avuto il mulo avrebbe zoppicato attraverso i campi (non ho mai capito quale dei due zoppicasse o se zoppicavano entrambi, anche se non mi consideri tuo nipote toglimi questo dubbio, per favore, zoppicavate entrambi?) e l’aiutante dell’amministratore dietro di lui con il cap48

pello contro il petto, mio nonno lo aveva trovato bambino che gironzolava per i vialetti del cimitero dove una volta cresceva la calendula, terrorizzato dagli uccelli dei pioppi da cui si difendeva con un cero spento, e lo aveva consegnato all’amministratore – Questo rimane da noi come aiutante, imparerà come gli altri e rimase ad aiutare e a imparare come gli altri, di tanto in tanto lo si vedeva al cimitero dirigersi verso una lapide, chinarsi sul nome e non era, verso una seconda lapide e non era, osservava le fotografie di smalto a forma di cuore e non era nessuna, perfino le croci dei soldati di Francia era andato a fiutare, tornava al lavatoio ad affilare la canna assorto nei suoi ricordi, pensando che se una persona non ha morti non ha nemmeno vivi, conservava nella memoria l’immagine di una signora che gli cantava la ninnananna ma quale signora e dove, non in paese, in un altro posto e tuttavia come poteva immaginare un altro posto se oltre il paese e la tenuta non c’era altro che il bosco, una signora che gli cantava la ninnananna e nella finestra rami di melo che crescevano dato che c’era odore di mele, la signora e il melo scomparivano sebbene rimanesse la ninnananna che lo veniva a trovare all’alba nelle pieghe dei sogni, tentava di nuotare fino in superficie ma raggiunta la superficie la perdeva, c’erano volte durante la mietitura che la ninnananna ritornava, l’amministratore con la mano intorno all’orecchio – Non senti? e sebbene l’udisse ripondeva di no, gli appariva nel ricordo la signora che gli curava la febbre con impacchi d’olio e rondelle di patate, la madre di mio nonno entrava in casa senza badare a nessuno in una fosforescenza di santità e il padre rigirava in tasca il coltello chiuso, ogni volta meno importante, più evanescente, quel che si nota nelle fotografie è un contorno soffuso a differenza della madre, nitida, illuminata 49

dai vetri a cattedrale della sacrestia e lui non al suo fianco, sullo sfondo, reso ancor più innecessario dall’alone che la madre aveva intorno al vestito, capace di appollaiarsi in una nicchia a distribuire miracoli (disincastrare cassetti, rinvenire forbici smarrite, sanare vesciche) e tuttavia fu il padre a scovare le forbici perché lo trovarono appoggiato alla vite vergine con la ruga in fronte di chi soppesa le idee con una lentezza di astronomo, solo che con le braccia penzoloni, una delle suole storta e mio nonno incuriosito dalla suola, era accaduto all’imbrunire, quando le mele si accendono, non ancora tutte, quattro o cinque al massimo, le contò e quattro, la quinta ancora pallida, verde, cioè fra il verde e il giallo con il giallo in aumento, se l’avesse staccata dal ramo il suo palmo giallo, il cappello del padre di mio nonno gli scivolava sulla faccia, la pompa dell’acqua ogni tanto uno schizzetto sulla lattuga, l’innaffiatoio che mio nonno aveva rovesciato senza volere, un rumorino di zinco e un sussulto perché l’innaffiatoio vivo prima di tornare a essere cosa, il gatto doveva aver pensato lo stesso visto che scavalcò il muro di cinta, venne trovato mesi dopo in tremiti da malato nella cavità di un tronco, le forbici smarrite nella gola del padre di mio nonno dove lui stesso ce le aveva messe e mio nonno a sentire la terra più calda contro i calcagni scalzi e radici che gli ferivano i piedi, nessuna paura né dolore, l’impressione che il padre avrebbe acceso una sigaretta dopo aver cercato l’accendisigari nel panciotto tastandosi la vita con i palmi aperti e nessun accendisigari, lo raccolse da terra la settimana dopo nel covo di vespe accanto alla pompa dell’acqua, quella notte aveva trovato soltanto un labbro che pendeva di lato con un terzo della dentatura in vista, appena poté mandò l’amministratore a sparare al prete, dopo l’assoluzione e la benedizione, finché rimase soltanto il ricordo di un coniglio a turbargli i giorni, mia nonna che lo denudava nel secchio e 50

la doppietta accanto al letto per difendersi dalla morte, soprattutto dopo la malattia dell’amministratore che gli aveva portato via metà raziocinio e il meccanismo della parola, lo collocarono su un barile e lui a fissare la gente con l’occhio vitreo invece di discorsi e una bava di schiuma che gli colava sul mento, mantenne la fissità un mese o due finché la bava di schiuma non si interruppe, l’occhio gentile e amen, mio nonno in piedi davanti a lui, indignato – Solo gli stupidi muoiono suppongo che pensando al padre e alle forbici per il cucito che nessun uomo che si rispetti avrebbe usato, da qualche parte devono ancora esserci due o tre colombi di mia nonna, sbiaditi per quanto logori, posati sui resti della colombaia in cerca di semola, se ne vanno per tornare qualche ora dopo, immemori, speranzosi, perduta, con l’età, la nozione del vento, e i cani li attendono a bocca aperta, manchiamo solo mio fratello e io sulla parete perché la famiglia intera sia in cornice, cioè, ci sono fotografie nostre da bambini, non di oggi, mio fratello con mio nonno sull’aia e io da solo sul triciclo con una ruota sbilenca, oltre alle fotografie ci rimangono il cavallo e le voci dei defunti che chiacchierano, chiacchierano, mi rimane il tuo ricordo intatto, Maria Adelaide, non sei cambiata, non sono cambiato e da adulto arrivo in paese noncurante delle imposte, mi presento ai tuoi genitori e ci sposiamo, c’è spazio per tutte le tue cose qui, per le bambole e per il carillon con la manovella che va girata con cautela perché a dar troppa corda smette di funzionare, non appena si sente uno scatto bisogna fermarsi e dopo basta ascoltare, prima veloce e poi sempre più lento, interrompendosi a metà del ritornello e noi una malinconia tranquilla, ho sempre immaginato che si morisse in questo modo, un suono flebile che si prolunga per qualche secondo prima di cessare e cessare significa lo sguardo altrove dato che quello che rimane non sono occhi 51

(come non sono bocca né naso né fronte, sono frammenti estranei) che si spengono chiedendo – Non lasciarmi andare e allora sì, partiamo, guarda per esempio mio fratello che non ha orecchie per alcunché salvo la musica, sebbene si oda a malapena, scommetterei che raggiunge le pendici delle montagne per mescolarsi al rabbrividire delle more, uno crede che brividi, presta attenzione e fra i brividi, piccola, tenace, senza tregua, la musica, può darsi che in paese un’altra ombra insonne sollevi il capo – Mi è sembrato di udire il carillon perché molte di loro l’hanno udito dalle cornici in salotto, mio nonno aveva sostituito la manovella, non l’avevo mai visto con gli occhiali e con gli occhiali una persona quasi gentile che aggiustava complicazioni tutta falangi, e io sorpreso dalla sua delicatezza accorgendomi di volere quasi bene a quel vecchio affiorato in superficie per riempirsi d’aria i polmoni e immergersi di nuovo comunicando un segreto – Non sono cresciuto, lo sapevate? malgrado la morte con l’indice puntato – Andiamo e mio nonno a seguirla controvoglia, obbediente – Adesso non mi conveniva perciò fu mio nonno ad aggiustare il carillon, un rullo con bastoncini che battevano su linguette, la casa allegra, giuro, e io dimentico della tua malattia, c’erano delle volte, a ottobre, che un vento cattivo ci entrava in casa, torbido di presagi e di minacce, le domestiche – Il vento appiccicate l’una all’altra come galline durante il temporale e il cavallo che gemeva acciacchi, in quei momenti le luci del paese spente e la macchia dei vicoli ad allargarsi ver52

so di noi, mio nonno metteva via gli occhiali nell’astuccio tornando a essere quel che era – Idiota e uscendo a lottare con il vento, inquieto per l’agonia del grano, non si distingueva l’animale a dieci metri dalla veranda, si distingueva la voce che lo costringeva ad avanzare e allora tu più malata, Maria Adelaide, ad arrenderti nel letto, i polsi incrociati e l’acquasantiera con un rametto di lauro per aspergere la febbre, che lunghe le notti quando il corpo si arrende e i mobili visibili malgrado il buio, ogni difetto degli oggetti, ogni crepa del soffitto e tutto lontano da noi, quello che abbiamo vissuto, quello che siamo stati, quello che ci era piaciuto un giorno, le persone a parlare con noi attraverso un vetro e fa lo stesso che cosa dicano perché anche se si ascolta non è rivolto a noi ma a quello che abbiamo smesso di essere, frasi che si ripiegano su se stesse senza raggiungerci (il mulo zoppicava chinato in avanti con la caparbietà di mio nonno in groppa) la pietra di muschio del silenzio a occupare tutta la stanza, dietro a mio nonno l’aiutante dell’amministratore si orientava con il ritmo della zampa invalida e la musica del carillon più vivace, ora sincopi distanziate ora una pioviggine di dittonghi e io convinto che la pioviggine di dittonghi la tua voce, Maria Adelaide, bisognosa di me, io che non sono riuscito a sapere come fosse la tua voce, mio padre attraversava il corridoio indifferente a chiunque e tuttavia se l’avessi affrontato sarebbe crollato come una montagna di lattine mal impilate e dentro a ognuna, nascosto, un ricordo di mia madre, quando dormivamo veniva a sorvegliarci il sonno con le scarpe in mano, nel rettangolo della finestra il profilo delle montagne e al di là delle montagne il principio del mondo che uno dei parenti delle fotografie, quello che sollevava la bottiglia nei pic-nic offrendola ai fotografi, ci descriveva ignorando come fosse e io perplesso 53

(insenature, calici, argani) mio padre si rimetteva le scarpe e se ne andava con le ossa del volto più bianche, il giorno di mio nonno e del sarchio le sue ossa bianche e lui con il gomito appoggiato all’uscio perché nessuna lattina cadesse dalla pila, l’aiutante dell’amministratore lavò il sarchio in un secchio e lo ritirò nel capanno degli attrezzi senza accusare mio padre né ribellarsi contro di lui, un uomo fa ciò che l’anima gli comanda e poi Dio giudica, si limitò a ricomporre il padrone e a trasportarlo dove lui l’aveva trovato girovagare inutilmente fra le tombe in cerca di qualcuno del suo stesso sangue, senza un segno a orientargli i passi – Qui poteva darsi che i parenti in un fosso qualunque o in qualche punto della tenuta a far da concime al granoturco come il bestiame decimato dalle febbri e i maiali malati, nello scavare un canale d’irrigazione femori calcinati, porosi, così leggeri che se lanciati in aria non sarebbero caduti, mio nonno aveva preso l’aiutante dell’amministratore e lo aveva portato in cucina – A qualcosa servirà questo idiota rimanendo a guardarlo come aveva guardato il padre con le forbici in gola, o come se mio nonno fosse stato lui quando la madre si era trasferita nella residenza del prete privandolo di tutto e tornava ogni morte di papa per portarsi via un pollo o una pentola, mio nonno in attesa in cortile, la madre – Ancora qui, tu? e mio nonno a cuocere carote in un tegame senza farsi domande, per tutta la vita non si è fatto domande e gli è passata la paura del buio, di cui il padre approfittava per venirlo a trovare con la suola storta e gli occhi pensierosi che cadevano a terra, un mattino la madre arrivò accompagnata dal prete, il prete 54

– Quello chi è? e la madre scacciandolo verso un luogo indefinito dove un mobile tremò – Non vedo anima viva, signor parroco perciò l’unica cosa che aveva con sé quando mise in marcia la tenuta con qualche palmo di grano e di orzo era il carillon, costruì prima una baracca, poi un’altra baracca e dopo ancora una casa, con l’amministratore e le domestiche aumentarono la proprietà e la casa, la cucina si riempì di personale e la tazza di mia nonna cominciò a tremare sul piattino, mio nonno non si avvicinava a lei avendo in mente il coniglio, una cosa magrolina e rosacea munita di due denti all’estremità del muso, il prete a mia madre – Mi era parso che ci fosse un bambino e mio nonno a trattenere le lacrime, sorpreso che dentro le palpebre un malessere sconosciuto, per un istante il prete e la madre confusi e subito dopo di nuovo nitidi, il prete dell’età del padre e la madre un respiro di nenufari che la costringeva a fermarsi – Aspetti con le caviglie gonfie e la pancia flaccida, e mio nonno a domandarsi chi l’avesse cambiata, poi se ne andarono lentamente con il prete che si spazientiva – Allora? liberando la sottana dai rami e svegliando i morti con i sandali enormi, la madre di mio nonno ormai inutile con i bronchi soffocati da una fanghiglia compatta – Aspetti attendendo che le ginocchia riprendessero a funzionare, il sinistro più o meno e il destro rigido, dopo tanti anni mio nonno immaginava come sarebbe stata mia madre se mia nonna l’avesse spellata, così come io ti immagino, Maria Adelaide, nel letto della tua stanza dove ti allontanavi con la febbre finché non si vedeva più l’immaginetta sacra e la lampada 55

scompariva, si vedevano le bambole che ci consolavano con le braccine spalancate, portavano vestiti verdi (credo verdi) e sandali e tutto il resto, avevi dato loro nomi segreti che soltanto voi conoscevate, il prete rivolto alla madre di mio nonno, irritato da una cagnetta che abbaiava in un angolo della stalla – Entro oggi? e la madre che cercava di corrergli incontro inciampando nel muschio, mio nonno, nascosto dietro a un dosso con una pietra in ogni pugno, furibondo con se stesso per non avere il coraggio di lanciarle, non tanto per le forbici, ma per la quantità di tenebre che da allora si ammucchiavano negli angoli, per non parlare dell’odore della saponaria, e la madre s’inerpicava sui dislivelli del terreno, mentre la cagna inseguiva il richiamo di un nido di pernici da cui proveniva il pianto dei piccoli, e mio nonno, affamato, in cerca delle pernici sebbene il pianto cambiasse continuamente posto, questo fosso, quello e quell’altro ancora, deserti, non uno sguizzare di zampe o una fuga d’ali, dormiva contro la porta per timore che il padre venisse a interrompergli il sonno chiedendo di sfilargli le forbici dal collo e mio nonno – Non mi costringa, signore finché il padre non s’incamminava verso il cortile con l’andatura dei morti che sembrano desistere e invece proseguono, non lo ricordava altrove se non sotto il melo cercando di far funzionare l’accendisigari, la pietrina emanava una scintilla che non illuminava nulla nel momento in cui la serratura della sacrestia due enormi mandate che lo lasciavano fuori dove i giunchi mulinavano con le brezze montane che udii tutto il pomeriggio costringendo il carillon a funzionare senza corda, gli uccelli del cimitero rattrappiti sui cedri e uno dei nibbi a mancare una roccia per essergli venuto meno un gradino d’aria, trascorsa una settimana l’infermiere in sacrestia 56

perché i nenufari le impedivano di esistere, la serratura si aprì un istante rivelando un martire legato a un ceppo, difficile da guardare senza compassione con tutte quelle lance in corpo, mio nonno vide il prete non in abito talare, in camicia, come gli uomini privati del patrocinio di Dio, e la madre, a bocca aperta, che scivolava giù dalla sedia mentre l’infermiere le somministrava lo sciroppo che non rimaneva sulla lingua, scendeva giù per il mento, e non la rivide più, ascoltò il rintocco delle campane senza sollevare il capo, vanghe che scavavano un buco accanto alle tombe dei soldati di Francia, rinvenendo brandelli di uniformi e un archibugio cui mancava il calcio e mio nonno ad arrostire una pernice su un bastoncino, se per caso avesse sollevato il capo avrebbe visto la finestra con i vetri a cattedrale della chiesa e la cagnetta qualche metro più in là in un’aspettativa di avanzi, nell’afferrare a casaccio una domestica in cucina – Vieni qui era la madre che gli appariva per spingerlo verso un luogo indefinito dove un mobile aveva tremato e insieme al mobile stoviglie, bicchieri – Non vedo anima viva, signor parroco così come le donne non lo vedevano, mia madre non lo vedeva e lui, a sua volta, non vedeva lei, rapidi incontri di ciechi che dimenticava subito come avrebbe dimenticato Filomena se non se ne fosse andata, l’immagine del coniglio spellato da mia nonna lo perseguitava e quindi lui fuggiva prima di essere gettato in una padella a cuocere, vedeva lo stato dei raccolti e l’amministratore e il mulo, per non parlare della pernice arrostita e della densità della notte, vedeva soprattutto la densità della notte e il prurito sconosciuto dentro le palpebre e non tristezza, non dolore, per quale motivo tristezza e dolore, era la vita e basta, un abbandono che non avrebbe saputo spiegare, fatto di pioggia sul tetto o della madre quasi carponi su un dislivello del terreno 57

– Entro oggi, almeno? questioni che non lo riguardavano, quello che lo riguardava erano la pernice e il silenzio, l’aiutante dell’amministratore, che aveva trovato bambino nei vialetti dove una volta calendula comune, certi fiorellini minuscoli, l’aiutante dell’amministratore, che aveva portato in groppa al mulo – Rimane da noi come aiutante immaginando che anche suo padre un paio di forbici in gola o calcolando che il ragazzo non avesse trovato la madre fra le lapidi finché mio padre non aveva salvato mio nonno con il sarchio da ciò che gli pesava di più malgrado la tenuta e la casa e il denaro che possedeva, si sedeva abbattuto in veranda domandando – Per quale motivo Filomena? le capre ritornavano dalle rupi con andamento di gonna stretta dirette all’ovile, attente a dove mettevano i piedi nudi degli zoccoli, una di loro con un figlio che le si rimescolava nel ventre, il pastore agganciava lo sportello dello steccato e si dileguava in montagna, chissà come si chiamava il pastore, non gli veniva il nome, come si chiamavano le domestiche, diceva loro – Tu e bastava, così come gli dicevano – Tu da piccolo e anche a lui bastava, a cosa servono i nomi e uno che se ne fa, nel suo intimo avrebbe accettato se l’amministratore e il figlio lo avessero chiamato – Idiota invece di chinarsi con rispetto – Signore mentre non pensava – Sono il padrone di tutto questo ma – Sono un mulo che zoppica 58

inciampando nelle pietre, la pernice girava ancora sullo spiedo e se sgocciolava sangue evaporava subito in bolle di ceralacca che facevano male sulla pelle, una donna meno gonfia, più giovane, sostituì la madre in sacrestia e la biancheria del prete a ingrassare e a dimagrire sul filo per stendere, il cavallo partiva diretto in paese, e forse avrebbe incontrato mio nonno scalzo che gironzolava intorno alle vespe del melo cercando di capire – Papà senza capire assolutamente nulla, si rifugiava, come adesso, in veranda, con le braccia intorno alle ginocchia e il mento appoggiato sulle braccia, malgrado il giorno non si scorgevano le imposte né i defunti che portavano secchi verso gli orti e lui – Papà muto, la donna del prete staccava la biancheria dalle mollette e tornava in sacrestia, chiamava a sé le ombre per evitare che il morto lo cercasse con l’intenzione di aiutarlo con le forbici, s’immaginò giocare con i formicai del cortile, ordinò – Sparite non con il tono di sempre, con la sua voce di ragazzo e rimase in compagnia delle calandre del granoturco che si tramutavano nelle note del carillon, acquistando forza a mano a mano che la manovella girava e quando la musica terminò lui da solo in salotto dove una volta la tazza e il piattino, afferrò senza guardare il polso di una delle domestiche convinto di aver preso la nuova donna del prete diretta in sacrestia con il cesto della biancheria – Vieni qui e la donna gli obbedì come le altre senza – Tu senza – Signore 59

inerte mentre mio nonno un vortice di canarino e la fretta di andarsene scrollando la giacca per scrollarsi di dosso lei, mio nonno a chiedere all’aiutante dell’amministratore di insegnargli a costruire un’automobilina di legno – Come si fa? infilando le ruote in un fil di ferro e accertandosi che girassero malgrado una più grande dell’altra e gli sportellini che non si potevano aprire, lasciandola dove mio fratello – Mio nipote la vedesse, dove mio fratello la vide senza farle assolutamente caso.

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4.

Così rimango qui in attesa perché con un pizzico di fortuna può darsi che qualcosa succeda, una persona arrivi dal paese per rimanere con noi o per portarci via con sé e magari nemmeno dal paese, una decina di imposte che resistono e i parenti delle fotografie ad attendere che il flash del fotografo li svegli per andare a innaffiare gli orti, le domestiche in cucina intorno al fornello, mia nonna con una foglia di cavolo per richiamare i conigli alla porta della grata e scegliere mio nonno fra di loro, no, che sciocchezza, ad afferrare un coniglio, a misurargli le ossa mentre gli accarezzava il collo e l’animale, senza capire, un gemito felice, cominciò a capire contorcendosi quando mia nonna smise di accarezzarlo e lo tenne sospeso per le orecchie, capì contorcendosi ancora di più un secondo prima del colpo sulla nuca e con il colpo sulla nuca la comprensione finì senza nemmeno vedere mia nonna che se lo coricava in grembo accarezzandolo di nuovo in cerca della lama nel grembiule per squartarlo – Non ti faccio male, tranquillo separando le interiora con le dita per non fargli male, quel che ricordo di lei è la malattia delle mani che reggevano a malapena la tazza, se mio nonno le passava davanti si sporgeva per cercare di agguantarlo per il collo o per una zampa nella conigliera del salotto, la culla di mio padre è ancora in 61

cantina, una cesta di ferro cui la ruggine impedisce di dondolare e un cuscino sporco e quindi mio padre senza letto né igiene, per non menzionare le bottiglie vuote, una ghetta spaiata e la ciotola del gatto che non ricordo se sia mai esistito sempre che i gatti esistano e mi è sempre sembrato di no, basta chiudere loro gli occhi e scompaiono, nel caso li aprano non sono loro, è un allontanarsi che ci interroga senza curarsi della risposta come facevi tu con mio padre da piccolo, nonno, un coniglio talmente minuscolo che non serviva per il secchio, che cosa si poteva utilizzare di lui e quali parti si potevano mangiare, a volte sentivo mio padre girare in salotto in attesa di non so cosa, visto che non arrivava nemmeno un coltello per squartarlo o dita per separargli le interiora, quando mia nonna morì, rimase per un bel po’ a fissare la tazza, il piattino e la coperta per le ginocchia piegata, la ripiegò nuovamente correggendo pieghe e di colpo la coperta una cosa viva, afferralo per il collo, nonna, sceglilo dopo averci passati tutti in rivista fra gli animali della conigliera, mio nonno, mio fratello, mia madre, le domestiche, e portalo in fondo al cortile dove voi due soli e io impietosito da mio padre con voglia di dire – Signore non per chiamarlo o perché facesse caso a me, per sapere che io lì, in mezzo alla mobilia (non esiste nulla di recente in questo posto, tutto vecchio, perfino gli alberi là fuori, l’immobilità dei nibbi, lo stesso vento e gli stessi suoni, quelli che aveva udito mio padre da bambino e mio nonno prima di lui e il padre di mio nonno, il mulo che era appartenuto a parenti più antichi di quelli dei ritratti, il cavallo in fotografie precedenti a mio padre montato da tizi di cui nessuno ricordava il nome e perciò questo silenzio stagnante, ore che si ripetono senza avanzare mai, gli annegati nel pozzo un solo annegato che ci malediceva dal fondo, si intravedevano sotto il limo il cappello, le scarpe e 62

di colpo eravamo noi là nell’acqua a passarci la mano sul volto increduli – Io?) avrei potuto aiutarlo a piegare la coperta, portargli la doppietta per le donnole, fare commissioni, mio padre che deve aver udito il – Signore (è impossibile che non abbia udito il – Signore) che io non ho detto e le luci del paese spente (forse una o due lampade dietro a un paravento, ma chi le ha accese?) mio fratello davanti all’orologio, in attesa – Che cosa aspetti? si vedeva solo l’aiutante dell’amministratore che aggiustava la pompa dell’acqua e poco dopo il trotto del cavallo che scompigliava il granoturco, se tu mi costruissi un’automobilina di legno, papà, non la sfascerei, giuro, la terrei lì, in veranda, o magari in camera mia e mi piacerebbe guardarla – Me l’ha fatta mio padre lo sportellino che si apriva e si chiudeva aveva finito per staccarsi, gli misi tanta colla che non si aprì mai più ma non aveva importanza, io contento, non con nostalgia di te, che non ho tempo per avere nostalgia di chicchessia, contento, quando un giorno fossero venuti a chiamarci dal paese (non ci verranno mai a chiamare dal paese, chi diavolo ci può volere?) e l’avessero trovata abbandonata in un ripostiglio, credo che se anche noi non parlassimo più spiegherei – Ho dovuto incollare la porta dell’automobilina e lui a esaminare la porta compiaciuto, non vestito come si vestiva nella tenuta, con un completo inamidato come gli altri morti e la barba fatta, al punto che una cicatrice sul mento, forse se mia madre ti avesse visto così ele63

gante io figlio tuo, padre, e il cavallo senza l’obbligo di trottare per i vicoli tormentandosi sul selciato, guarda le zampe ferite e la paura negli occhi, una delle briglie sciolta, una delle staffe rotta e mio padre a guardare i funghi in mezzo ai mattoni attraverso me, si notava che uno sforzo per capire dove fossi – Non ti vedo rovistando fra oggetti che evaporavano a mano a mano che li afferrava – Dove ti sei cacciato? e scusai i parenti delle fotografie che ci cercavano nella direzione sbagliata, mia nonna incapace di afferrarmi nella conigliera rimase con un ciuffo di peluria nel palmo, io, avvicinandomi a mio padre – Sono qui, padre e malgrado le sue dita sulla mia fronte – Non ti vedo gocce di grondaia più forti delle nostre parole e i primi tronchi delle montagne improvvisamente chiari, castagni e acacie, le dita di mio padre deluse – Non ti vedo, figliolo con una voce che io ignoravo avesse e che immagino mia madre abbia udito tante volte là di sopra in mezzo al profumo dei bauli – Non mi lasciare e mio nonno che lo disprezzava – Idiota mia madre a guardare l’aiutante dell’amministratore, a guardare mio padre, a decidere – Arrivo e il vestito della domenica nel granaio, al ritorno le mancavano forcine nei capelli e aveva perso uno degli orecchini, mio padre a insistere in silenzio – Rimani con me 64

mentre lei riempiva i bauli, sola malgrado mio padre e noi due sul punto di nascere, mio nonno – Per lo meno oltre a me c’è un altro uomo in casa l’aiutante dell’amministratore che aveva trovato al cimitero intento a decifrare lapidi con un cero spento e mio padre che slegava il cavallo mentre le domestiche in cucina parlavano, parlavano, lui a me – Non ti vedo, figliolo per la prima volta – Figliolo e quindi non sono figlio dell’aiutante dell’amministratore malgrado l’orecchino e le forcine persi, sono tuo figlio, mi piacerebbe che tu, che io, che noi – Credi sia ancora possibile, padre? e nel posargli la mano sulla spalla, nessuno, un trotto che si allontanava dalla tenuta, quanto è grande il paese, padre, che aumenta e diminuisce senza posa, un agnello scomparve nella macchia e lo persi, dietro di lui un cane, due cani, un uomo con un forcone (mio nonno?) che non mi vide, c’erano volte in cui ero sicuro che mio fratello mi cercasse inseguendomi per i corridoi di casa, mi fermavo ad aspettarlo e lui continuava a camminare all’infinito, lo afferravo per il braccio e lui indifferente, si liberava e riprendeva a camminare, per quale motivo non lo hai squartato, nonna, coricandotelo in grembo, per quale motivo non hai squartato mia madre, eccola di ritorno dal granaio con mio padre ad attenderla, gli uccelli del cimitero sul tetto di casa, si vedevano le croci dei soldati di Francia e i quadrati delle lapidi, non si vedeva il ragazzo decifrare nomi, le parole che diceva non erano le parole incise e nessuna simile alla donna che si era presa cura di lui, perciò l’aiutante dell’amministratore – Non riesco a trovarla, signora, perché non mi dice dov’è? 65

e lei non diceva dov’era, non gli disse mai dov’era, certe volte, nell’affilare una canna l’impressione che lei – Sono io con un tono di voce per nulla mutato dagli anni o dalle trappole della memoria, l’aiutante dell’amministratore contento dato che si stava avvicinando, ma no, il ramo di un albero, tutto qui, il mandarino, per esempio, che a luglio imita le persone, durante gli altri mesi scricchiolii senza mistero, troppo occupato con i capricci del vento per accorgersi di noi e a luglio risatine – Sono io costringendo l’amministratore ad afferrare l’ascia – Bugiarda o a pestare i mandarini finché lei – Scusa mia madre a mio padre, rintanandosi fra i bauli prima che – Rimani con me con un’impazienza indaffarata perché il – Rimani con me la stancava, a che scopo – Rimani con me se mio padre un buono a nulla che lei aveva accettato per non far dispiacere a mio nonno sebbene mio nonno – Idiota mia madre a sistemare lenzuola su lenzuola desiderando che le lenzuola non finissero mai – Sono qui con te, no? domandandosi se l’aiutante dell’amministratore avesse conservato l’orecchino, mio nonno calcolando il granoturco con rabbia – Qualcuno mi sa dire com’è che mi è nato un idiota simile? con la tentazione di chiedere a mia nonna, consegnandole il secchio 66

– Afferralo per le orecchie e uccidilo mentre le capre saltavano sulle rupi, di quando in quando un piccolo scivolava in un grido, si crocefiggeva sugli arbusti dove il corpo uno scossone o due prima di arrendersi, il gregge senza il coraggio di un passo e immediatamente un nibbio a sbranarlo, mio nonno – Per lo meno mia moglie non vi fa del male e davvero non faceva loro del male, li accarezzava con il palmo e i conigli tranquilli, scacciava il ricordo di lei che accarezzava anche lui fino a sentire i pezzi di mio padre che le si riunivano nel ventre, segmenti che galleggiavano unendosi, una vertebra, il mento, il filo di sangue del cuore in un lavorio complicato di capriole e lacrime e mio nonno ad alzarsi di botto, disgustato – Lasciami andare afferrando la doppietta, abbandonando la doppietta, fuggendo mentre mio padre iniziava movimenti da rana dentro a mia nonna chiusa sopra di lui con l’ostinazione delle ostriche separate dal mondo, mio nonno all’amministratore – L’idiota mi ha rubato la moglie non aveva voluto vedere la culla e non volle vederla dopo, vide il mastello della levatrice e gli stracci con le macchie color lilla che fece sotterrare accanto alla recinzione – Non ditemi dove se mio padre – Papà non rispondeva, l’idiota gli abbracciava la caviglia e mio nonno – Pussa via spazzolandosi il pantalone con il palmo, un nemico che gironzolava fra i mobili trascinando i suoi pezzi non ancora completi con passetti obliqui, sempre più rapidi, pianti nel mezzo della notte che scombussolavano la casa non avvezza alle lacrime 67

– Mamma e mio nonno a dilatarsi di rabbia – Me l’hai rubata furioso con i colombi che mia nonna allevava sopra il pollaio e si allineavano sul tetto tubando di scherno e scacciandolo come un mendicante – Non comandi più l’orologio ad approvare facendo salire il peso di destra e abbassando quello di sinistra – Non comandi più i cassetti a disobbedire rifiutando di aprirsi, girava le maniglie delle porte a vuoto, mentre mio padre le faceva scattare quasi con un dito solo e loro – Non è necessario che ti sforzi, noi obbediamo tutto apparteneva agli altri, non a mio nonno, gli oggetti cambiati di posto, le fatture della scrivania sparse per terra, la zuppiera mandata in frantumi dall’idiota e mio padre a fissare i frantumi meravigliato, non aveva conosciuto la madre di mio nonno, non aveva conosciuto nessuno e aveva occupato tutto, mio nonno all’amministratore – Sono un mendicante qui sorvegliando la maturazione dell’orzo ma svogliato, stanco, non afferrava il polso delle domestiche in cucina – Vieni qui cercava di sentire mia nonna in salotto senza percepire né una tosse, né una sedia, che cosa hai fatto a mia moglie, idiota, occupata per anni a spellare conigli dietro al pollaio, mio padre ormai con tutti i suoi pezzi senza abbracciargli la gamba e lui deluso – La caviglia non ti interessa più? l’avvicinava a mio padre invano, se mi abbracci fingo di non averti visto, non ti scaccio, mio padre affascinato dalla scatola del cucito di mia nonna, a giocare con i bottoni e non – Papà 68

al massimo – Mamma se aveva la febbre o non riusciva a dormire perché non c’era nella stanza una lampada per spaventare i fantasmi, una volta gli aveva ordinato – Vieni qui non per dargli un bacio, che sciocchezza, per mettere alla prova la sua sottomissione, non sei migliore dell’amministratore o degli altri ai quali non ho nemmeno bisogno di ordinare – Vieni qui perché vengano, prevedono quel che desidero, indovinano quello che voglio – Ecco quello che ha chiesto, signore e mio padre a far finta di non udire, troppo piccolo per riconoscere il padrone, gli comprò il cavallo nella speranza che – Grazie e quell’ingrato, non una parola, a slegarlo dall’anello come se fosse stato un mio dovere regalarglielo, calpestando il grano nuovo e coprendo di polvere la boscaglia, l’amministratore mentre la pompa dell’acqua avanti e indietro, mal avvitata ai bulloni, riempiva la vasca da bagno – Cambierà col tempo, signore mio nonno disposto a recidergli la voce con il coltello – Non ho bisogno di essere consolato, deficiente per cui la voce ad andarsene – Mi scusi il sospetto che mia nonna lo spiasse dato che la tazza più forte contro il piattino e Filomena dimenticata, sebbene mi costi ammetterlo era con te che io e non mi importerebbe che il tuo coltello adesso mi separasse le interiora e mi svuotasse di ciò che non serve, mio padre nella tenuta senza occuparsi di alcunché, l’amministratore – Mi aiuti ad agganciare il carretto? 69

e lui fermo, o – Passami quel secchio e il secchio appeso al gancio, mio fratello e io affacciati sul pozzo a confrontarci con gli annegati che eravamo, l’amministratore non nelle cornici, macché (mi domando se qualcun altro fosse morto in quell’acqua limacciosa perché membra che non ci appartenevano e voci che non erano le nostre) nel terreno abbandonato dietro al cimitero visto che era finito lo spazio per i defunti, quando il vento scendeva dalla frontiera la loro presenza ci si appiccicava ai vestiti, talmente vicini che sapevamo cosa pensavano, cosa desideravano, cosa aspettavano ancora (per quanto li deluda aspettano ancora) a meno che non si trattasse dell’amministratore che non aspettava un bel niente, salvo che la figlia lo risuscitasse un po’ offrendogli mortadella per la fame notturna che la morte acuisce, la figlia, che lavorava in cucina da noi e che mio nonno una o due volte l’anno – Vieni qui per far piacere all’amministratore, aspettava qualche minuto osservando le farfalle attraverso le fessure delle assi e la mandava via, lei si rimboccava la gonna e mio nonno le dava le spalle nel granaio – Lascia perdere e le mani della figlia si frantumavano di delusione, le farfalle andavano e venivano in piroette miopi, un cane fiutava tassi nell’aia, li catturava dove iniziava il granoturco, sembrava riflettere, desisteva, mio nonno – Stropicciati il grembiule prima di uscire e rimaneva di spalle con mia nonna o Filomena nel ricordo senza accorgersi delle mani che andavano in tanti minuscoli frantumi, la domanda della figlia – Non le servo, signore? 70

da un abisso di delusione che l’immagine di Filomena gli impediva di calcolare, quando morì l’amministratore mio nonno diede ordine di collocarlo in mezzo al salotto in cima a un cavalletto adorno di fiori e di allineare contro il muro le sedie per la veglia funebre che soltanto lui e la figlia occuparono, fu l’unica volta che mi sembrò di notare una specie di sofferenza sul suo volto, con i capelli pettinati per rispetto del morto e la cravatta a lutto sopra il bottone di rame, le mani della figlia continuavano a lacerarsi ed entrambi muovevano le bocche in avemaria mute, mio nonno assistette all’intero funerale con il capo scoperto malgrado il sole, proprio dietro alla bara, poi consegnò la giacca a un uomo che nemmeno vide, strappò la pala ai contadini per la prima terra nella fossa e proseguì da solo, senza permettere che lo aiutassero, con la figlia che si tormentava un dito dopo l’altro, chiese il martello per conficcare la croce a un’estremità, accese la candela nel bicchiere e tornò a casa lasciando la figlia in ginocchio a farla finita con i pollici, passò accanto a mio padre che smontava da cavallo – Idiota e si chiuse in ufficio tutto il pomeriggio addensando il silenzio della casa, le domestiche in cucina camminavano a passi lievi imbalsamando le voci nel fazzoletto, non un piede che si spingesse sul pavimento di legno, non lo scatto di un baule che si chiudesse, solo con l’avanzare delle ore l’amministratore prese a chiedere la mortadella con una vocina assonnata, a disagio per la giacca troppo stretta di spalle, mio fratello e io contro la grata del cimitero ad ascoltarlo con l’agitazione dei parenti delle fotografie che gli intorbidivano la voce al punto che non si capiva chi parlasse, forse un altro defunto, forse più d’uno, forse le lapidi dove si concentravano i sussurri e le grida dei morti degli ultimi mesi indignati per la mancanza di compagnia e di luce – Chi si occupa di noi? 71

cercando intorno a sé una ciotola di minestra, la figlia dell’amministratore era ancora in ginocchio ma non pensava al padre, pensava a mio nonno voltato di spalle nel granaio – Lascia perdere mentre la gonna le scivolava sulle ginocchia e le farfalle in piroette a casaccio, quattro o cinque sul grande olmo, quattro o cinque sul cavolo cappuccio, una decina più in là, dove appassivano i gelsomini, mio nonno – Hai stropicciato il grembiule? senza le sue fregole da canarino, cosa ci sarà di sbagliato in me che lui non mi vuole, dato che tutte gli servono, mio padre a guardarla impietosito (non una decina, settanta, ottanta sul grande olmo e nelle crepe dei muri, cercando di nascondersi, si intravedeva la punta delle ali, non si vedevano le corna né le zampe) legando il cavallo alla croce, e afferrandole svogliatamente il polso – Vieni qui non per sé, per la figlia, e l’amministratore compiaciuto, una ciocca di capelli si sciolse sul vestito a lutto che era appartenuto alla madre di lei, non nero, grigio e a ingrigire ancora di più, scucito in vita, le montagne non verdi né rosse, blu, cariche di esalazioni di nubi da un estremo all’altro della tenuta (chissà se altri paesi negli intervalli fra le montagne e nei paesi imposte dove incombevano assenze e un oscillare di tendine?) il vestito scucito in vita e ancora più grigio, con macchie color ocra sulle maniche, un’altra ciocca a sciogliersi, il cero caduto a terra e lei preoccupata per il cero – Attento alla candela, signore non sentendolo nel corpo, sentendo il respiro del cavallo, non il respiro di mio padre, l’allegria dei morti nel trovare la minestra – Non avevo visto il brodo, figurati 72

voglia di portare la mortadella all’amministratore che la masticava senza denti aiutandosi con il mignolo – Ti è passata la fame? mio padre ad accorgersi delle mani e a tentare di ricomporne le falangi affinché le ossa si saldassero di nuovo, il velo da messa cui mancava l’orlo di nuovo sul capo e briciole che l’amministratore non aveva mangiato, sulle spalle e sul petto, la figlia rimase accanto al sepolcro fino all’imbrunire fra il borbottare dei defunti, magari mia madre a parlare con mia cugina del coperchio di una pentola – Sai per caso dov’è il coperchio? per tappare la cottura delle cipolle, di ritorno a casa dove una parte del tetto cominciava a imbarcarsi trovai mio nonno che chiamava l’aiutante dell’amministratore – Adesso prenderai il suo posto e solo in quel momento l’amministratore morto e mio nonno indifferente a lui per via di preoccupazioni maggiori, ormai non era più abile per il gregge e per il grano e stava dimenticando la semina del granoturco, di come estrarre le sementi dal sacco e distribuirle sul terreno, spruzzare l’antiparassitario con la pompa e impedire ai bruchi di rovinare il frutteto, la figlia dell’amministratore, sentendosi più orfana, in cerca del coperchio, la trovammo il giorno dopo distesa sulla sabbia con il recipiente del liquido fungicida che sgocciolava ancora, mio nonno la tastò con il piede, una specie di umore viscoso le colò dalla bocca e continuava ad aumentare perché un bollore nell’esofago bruciato dal veleno, le gettarono addosso ghiaia e sabbia per calmare le viscere e scacciare i nibbi, e l’abbandonarono a ingrassare l’avena, a settembre qualche cartilagine, una manciata di denti, un sandalo rosicchiato dalle donnole, l’aiutante dell’amministratore trovò un anello di paccottiglia ma rotto e senza pietra incastonata, nemmeno d’argento, di un metallo annerito, lo gettò in un canale d’irrigazione e scomparve nel campo, avrei voluto ritrovarlo 73

per te, Maria Adelaide, ma la tenuta lo aveva inghiottito, le domestiche si tennero la sua spazzola e l’immaginetta di santo Stefano cui mancava il sostegno e mio nonno se la ritrovò nel granaio, non fu necessario chiederle – Svestiti si denudò da sola con una risatina speranzosa e le mani mutilate, non ho avuto il tempo di regalarti niente, Maria Adelaide, farfalle, confetture, una pietra di mica, avevo visto l’infermiere riprendere la bicicletta appoggiata al muro, con la cassetta di metallo delle medicine, chiusa da un lucchetto e assicurata con lo spago al sellino, e tua madre che piangeva, cioè l’espressione di chi piange e nessuna lacrima sul volto, avevo visto le vicine di casa con i loro scialli a lutto dalle frange ingarbugliate ma non ero riuscito a vedere te, mi ero arrampicato su un albicocco e quello che intravedevo era il ferro battuto del letto e un’immaginetta di Nostra Signora scalza, appollaiata su una nube di gesso simile a quelle che transitano a marzo, avevo creduto di udire la tua tosse, ma mi sbagliavo, era la zuffa delle galline per un posto nel pollaio dove arrotondarsi di pigrizia, la gente moriva e quelle a conficcare la testa nelle spalle, solo la cresta fuori, mia madre – Sono qui, no? mentre il mento di mio padre tremava, tremava (– Come si fa a far tremare il mento, papà?) mio nonno gli consegnò la doppietta – Che cosa aspetti ad ammazzarla, idiota? e mio padre a rifiutarsi mentre il mento continuava a tremargli (ho provato fino alla nausea a contrarre muscoli allo specchio e il mio mento fermo) il recipiente del liquido fungicida una goccia che tardava a staccarsi, violacea, perciò altra ghiaia e altra sabbia, una biscia maculata scomparve frustando se stessa fra i gambi della segala 74

– Stropicciati il grembiule prima di uscire perché l’amministratore e le domestiche in cucina credessero alla bugia, cos’avrò di meno delle mie colleghe, da piccola strattonava la manica di mia madre – Sono brutta? e sebbene mia madre non rispondesse, il comò, che aveva perso le maniglie, con il ripiano di marmo (marmo?) scheggiato, d’accordo con lei, in cima al comò san Michele Arcangelo che infilzava un drago con una lancia di fil di ferro, mio nonno riportò le sedie per la veglia funebre in sala da pranzo e in veranda e si sedette su una di quelle smarrendo lo sguardo nelle montagne, mio padre montò di nuovo in groppa al cavallo ma non al galoppo né al trotto, al passo, con il profumo dei bauli che gli faceva male, il mento smise di tremargli perché i denti glielo impedirono con forza, evitò la croce dell’amministratore per evitare il cruccio della figlia – Sono brutta? cercò di farsi venire in mente il suo nome senza riuscirci, trovava quello di Maria Adelaide e l’infermiere in bicicletta che beveva di nascosto, se mi sposassi con lei qualcuno per occuparsi di mio fratello e di me, il fico non fiorirà quest’anno lo si indovina dai rami, le capre con i nibbi intorno e noi qui in attesa perché con un pizzico di fortuna può darsi che qualcosa accada, mio nonno a fischiare al mulo e l’aiutante dell’amministratore ad affilare una canna, guarda mia madre accanto a lui con le forcine nei capelli e gli orecchini, guarda mio padre che li osserva senza abbandonare il cavallo e mio nonno – Idiota guarda tutti i defunti delle cornici in mezzo allo sfacelo della casa, mio nonno che infila una cartuccia nel fucile che mio padre aveva rifiutato, e a pentirsi della cartuccia – Non sono affari miei 75

mentre le mimose si allargavano sul campo grande come la notte, la presenza della palude lo spaventava non per le rane o per i tucani, per l’acqua invisibile al di qua e al di là del silenzio, simile al sangue che ci percorre il corpo, mettete mortadella accanto all’amministratore per l’appetito che assale i defunti quando la luna li sfiora, mio nonno – Quale di noi due ha vissuto più anni? scoprendo un sapore di granoturco antico e terra secca sulla lingua, gli costò alzarsi ed entrare in cucina per trovare un polso da afferrare – Vieni qui nella speranza che il gusto di terra diminuisse e non diminuiva, aumentava, non solo la lingua, anche le braccia e le gambe di granoturco antico e terra secca e in quell’istante il padre con le forbici nel collo, la madre nella finestra con i vetri a cattedrale del prete e mio nonno indignato, non triste, in un cantuccio dell’orto a giocare con certi bastoncini senza guardare i bastoncini, tentò di dire – Papà e non riusciva a dire – Papà non riuscì mai a dire – Papà così come il padre non gli parlava, lui lo aiutava nel frutteto senza parole, faceva quello che gli indicavano, a che scopo dire – Papà se era da solo in una casa vuota, guardò la domestica cui aveva afferrato il polso – Vieni qui e riconobbe la sorella più giovane di quella che lo serviva a tavola, una ragazza che aiutava le colleghe con la legna e i piatti, quasi alta come lui quando suo padre era morto, le afferrò nuovamente il polso per non permetterle di fuggire 76

ricomponendosi il corsetto, le sollevò il grembiule, l’appoggiò al granaio, si ricordò dell’uomo al quale non era riuscito a dire – Papà non era mai riuscito a dire – Papà e invece di prendere la ragazza con un assalto rapido di canarino – Ferma scese lungo il tronco di lei fino alle ginocchia e le abbracciò nella speranza che il sapore di granoturco antico e di terra secca gli scomparisse dalla lingua.

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5.

Chi girerà di notte confuso con il vento intorno alla casa e io a mio fratello – Non senti? cercando gli intervalli delle finestre per spiarci, un defunto che si è smarrito senza trovare il vicolo dove abita, oppure le donnole che non rispettano nessuno e mi costringono ad andare a prendere la doppietta e a sparare a casaccio, quando al mattino le cerco i nibbi se le sono già portate via e trovo un tasso che lecca resti di sangue nascosto fra le erbacce perché sono le erbacce che invadono oggi la tenuta, e quindi la catena di montagne più grande, la palude con i suoi minuscoli riflussi e voci che parlano di un’epoca in cui mio fratello e io non eravamo nati, quando i campi crescevano e mio nonno, ricco, ordinava questo e quest’altro, era arrivato dal paese con l’amministratore e la moglie dell’amministratore di cui si servivano entrambi nella baracca a partire dalla quale venne costruita questa casa, ascoltavano stormi di corvi evasi dalle nubi dove gli uccelli si riparano ordinatamente, stornelli, cornacchie, cicogne, distribuiti dalla mano di chissà chi, se chiamassi una delle domestiche nessuno, se mai salissi nella stanza dei bauli nessun profumo nella biancheria, ce ne andiamo domani dove il mulo, il cavallo e le donnole non possano raggiungerci, per lo stesso sentiero che prese la moglie 78

dell’amministratore senza dire una parola abbandonando la carne sul fuoco e l’uncinetto conficcato nel gomitolo come se dovesse tornare, mio nonno e l’amministratore ne individuarono le tracce malgrado tanti cardi e tante pietre perché alle pendici della collina i piedi cominciavano a trascinarsi e qualche gambo spezzato, la trovarono fra le ortensie selvatiche in riva a un fiumiciattolo, che guardava le cavallette saltare nella corrente sempre che si potesse chiamare corrente un rivolo incapace di destreggiarsi fra i sassi, li guardò con occhi mansueti, vide l’uncinetto nella mano dell’amministratore e mi domando se l’avrà sentito fra le costole distratta com’era dalle cavallette, gli occhi, ancora più mansueti, si posarono su mio nonno e tornarono sugli insetti mentre il vento, allo scoccare delle sette di sera, cominciava a rinfrescare, l’amministratore conficcò l’uncinetto più in alto, nel punto dove il cuore dà corda al corpo e inventa idee e la donna si accasciò su se stessa senza cadere, ovvero si allargò, seduta, dicendo qualcosa di simile a quando avviciniamo l’orecchio al calcare, e un’arteria segreta pulsava, pulsava, salendo di tono, fermandosi quando si fermò il capo sul petto e fu tutto, sebbene non parlasse continuava a vedere, le era scivolata giù la catenina dal collo e una spalla della camicetta, quella gialla con i volant delle domeniche estive (la madre – Sembri una poco di buono con quella camicetta) mio nonno e l’amministratore l’abbandonarono in mezzo al bosco perché potesse divertirsi con le cavallette il mattino dopo, una le si era impigliata fra i capelli e l’amministratore gliel’aveva tolta con cautela da orologiaio, rose selvatiche, alberi strani, una recinzione senza porta con un panciotto che aveva perso la fodera appeso al manico di una zappa e la moglie dell’amministratore tra le foschie della palude scandalizzate dai volant della camicetta, le posarono l’uncinetto sulle ginocchia semmai le fosse venuta voglia di lavorare l’orlo di 79

un lenzuolo o il festone di una federa, sua figlia gattonava fra le galline rubando i chicchi che quelle lasciavano, chi girerà di notte insieme al vento intorno alla casa cercando gli intervalli delle finestre per spiarci magari con l’orlo di un lenzuolo o una federa in mano – Di chi siete figli voi? i resti di una mietitrice e campi riarsi, la moglie dell’amministratore in qualche punto del buio a far dondolare una lanterna a olio che modificava le ombre animandole, se fossimo avanzati di un passo sarebbe indietreggiata di paura, prese coraggio quando una cavalletta si posò su un mattone, allungò lentamente le dita intimorite verso l’insetto e quello si dileguò, cercò la baracca e non trovò la baracca, trovò un posto troppo grande, più grande del paese, di una dimensione che non capiva (– A cosa serve?) malgrado le stesse voci che nelle vie, nei vicoli, quella della madre, per esempio – Togliti subito quelle cose da zingara dalle orecchie dischetti di latta appesi a un gancio e l’amministratore che la spiava da dietro un corbezzolo, le aveva mandato uova di passeri per mezzo del nipote dello storpio e una lettera su cui aveva penato per giorni e giorni copiando il libro di scuola, l’attrice intreccia la treccia, con la figura di una signora che intrecciava un nastro alla crocchia di una fanciulla bionda e l’amministratore estasiato dall’acconciatura, la donna nascose la lettera nel buco di un muro tappandolo con un calcinaccio, l’amministratore accovacciato in mezzo a un campo di patate senza che la donna riuscisse a vedergli il volto, gli vedeva una parte della camicia respirare in fretta, l’ala del cappello più ansiosa della camicia e poi un fiore reciso che le andava incontro, né la cravatta né il cappello, solo il fiore, il padre della donna in casa malato a curarsi le piaghe alle caviglie con san Gregorio che lo benediceva dalla mensola senza sa80

nargli le ferite, un fiore reciso che agonizzava appassendo e che lui aveva tentato di resuscitare spruzzandolo d’acqua, la donna con il fiore in mano, imbarazzata – Che me ne faccio? e dopo un tragitto di giorni con cani che ci minacciavano da lontano, solo orecchie e bave, fino al posto dove mio nonno aveva cominciato con una baracca e un mulo legato a un ramo, l’amministratore – Padrone a un povero come lui, con la bocca piena di chiodi, che martellava una tavola di legno dopo l’altra, mio nonno che la donna non ricordava di aver mai visto in paese, finché di colpo le venne in mente un ragazzino che non parlava con nessuno intento a guardare la finestra con i vetri a cattedrale della sacrestia dove dicevano che la madre abitasse con il prete come se fossero sposati, le venne in mente il ragazzino che metteva trappole per gli uccelli nei dintorni del paese o si disputava con i cani il cadavere di una genetta, gli avevano portato il padre morto e lui senza reazione, muto, non ci aveva accompagnati al cimitero, era rimasto nella cappella a pensare ad altro, lo chiamarono e non rispose, cercarono di fargli mangiare una minestra e fuggì via, la vedova del farmacista voleva prenderselo in casa e lui – No senza lasciarsi toccare e tornando alla miseria di casa propria, avrebbe giurato che era quel ragazzino il tizio con la bocca piena di chiodi che martellava una tavola di legno dopo l’altra costruendo una baracca solitaria in mezzo a un bosco, non ancora importante, non ancora padrone di niente, più giovane degli altri e tuttavia l’amministratore – Padrone la donna senza capire – Perché padrone? e a capire il motivo del 81

– Padrone quando mio nonno l’aveva guardata e poi aveva continuato a costruire la baracca ordinando all’amministratore – Portami quelle assi e l’amministratore le aveva accatastate sotto la furia dei corvi che il vento sospingeva nel luogo dove si trovavano loro, ovvero una macchia di arbusti scarruffati, la donna senza camicetta gialla né orecchini da zingara a ricordarsi della madre – Una poco di buono e del padre chino sulle piaghe delle caviglie che peggioravano col passare dei giorni e lui che non riusciva a camminare – Che mi succede? succede, padre, che stai per morire e per riunirti con gli altri morti che bisbigliano pettegolezzi o curano i loro orticelli incoraggiando i legumi con le carezze, gente che non conosco con cilindro e ombrello oppure con vestiti come i nostri perché morti da poco, che scuotono foglie, succede che è meno difficile di quanto non sembri, si smette di respirare e dopo si respira in modo diverso senza che gli altri ti guardino con compassione, e ti ritrovi lì a zoppicare insieme a loro, con il bavero sollevato per proteggerti dalle folate di vento spostando una dopo l’altra le gambe quasi inutili con una laboriosa lentezza (scusa se te lo domando, ma come hai fatto a prenderti questa malattia, padre?) che mondo è mai questo che abitiamo, dimmi, non capisco le persone che si aspettano non so cosa da me, non capisco le voci, guarda la vedova del farmacista fra recipienti smaltati e mobili con ghirlande di stagno, mio padre all’amministratore senza smettere di martellare – Ti sei sposato con quella? mentre l’amministratore misurava la terra per i sacchet82

ti di sementi e adesso so chi gira di notte intorno alla casa cercando gli intervalli delle finestre per spiarci, non il mulo, non il cavallo, non le donnole, una camicetta gialla con i volant e un paio di orecchini da zingara (– Una poco di buono) in cerca di una baracca che non esiste più da secoli, dove dormiva con l’amministratore e con mio nonno ascoltando il granoturco che cresceva tutto intorno approfittando dei rigagnoli di pioggia, di tanto in tanto l’amministratore o mio nonno interrompevano il lavoro per chiamarla nella baracca e la donna aveva l’impressione che uno dei corvi, smarrito lo stormo, le beccasse il midollo osseo – Non piangere cercando la sua intimità a strattoni mentre la madre, vestita a lutto, cercava di trascinarla via – Lo sapevo e lei muta come il padre, a occhi spalancati, pensando a un fiore reciso e a un cappello che tremava, dopo la morte del prete la chiesa abbandonata coperta di rampicanti e di erica con il Cristo terribile che si sporgeva dalla croce rovesciando su di noi tutti i peccati del mondo, l’aiutante dell’amministratore era rimasto a lungo con mio fratello e me prima di scomparire nel pozzo dato che un terzo volto meno preciso nell’acqua limacciosa, le lapidi impossibili da decifrare per l’usura del marmo, rimane il trotto del cavallo che anche di giorno non riusciamo a vedere e l’orologio che avanza immobile annunciando che il tempo si è rappreso, le cinque eterne e il sole che non si sposta, domani prendo mio fratello per il braccio e lasciamo quel che resta della casa perché ci sarà pure qualcosa oltre il ruscello e i cactus, una strada, persone, nessun mulo che zoppica, quando la donna aveva avuto una figlia mio nonno indicando la ghiaia – Trasferitevi nel granaio, non vi voglio qui e la donna lo sentiva là fuori, prima dell’alba, fissare la 83

ghiaia anche sotto la pioggia come se odiasse lei e l’amministratore oppure odiasse se stesso, una volta aveva visto la donna sulla soglia e si era rintanato nella baracca mordendosi la faccia con molti più denti di quelli che aveva, seguendo la figlia della donna da distante con una specie di rabbia a mano a mano che la tenuta cresceva, uno o due contadini lavoravano il grano e poi cani e galline e domestiche che mio nonno afferrava per il polso trascinandole in una radura del bosco da dove tornava con più denti, più odio, forse – Mamma invece di – Vieni qui e mai – Mamma è ovvio, la madre con il prete in sacrestia e il padre a spasso con la morte, non voglio queste donne, voglio te, madre, noi tre in casa e tutto di nuovo in ordine, non ho bisogno che mi parliate, ho bisogno che stiate qui e il pranzo sul tavolo ripulito dalla polvere, mi basta già il vento che incenerisce tutto quanto intorno e quattro polli con cui non si mette insieme il pranzo, solo testa e zampe e fra la testa e le zampe piume intirizzite dal freddo, fichi che non maturano là nel bosco, mia madre (non dico – Mamma non ho mai detto – Mamma) ad andarsene per non scaldare soltanto acqua nella pentola vuota, qualche legume e uno schizzetto d’olio, ci mancava solo la figlia dell’amministratore o mia di cui non mi occuperò perché la detesto, non pensavo che nascesse cosa viva in questo eremo eccetto il frumento e il granoturco e io a comandare nella proprietà, io – Vieni qui 84

e ad andarmene più amareggiato di quando ero venuto, la donna pensando se avessi la camicetta gialla l’indosserei per lui sebbene lui non un uomo, un bambino che lottava contro il proprio terrore consentendo che si portassero via il padre e con l’assenza del padre la stanza impossibile da abitare, se la donna fosse stata con lui in quel momento non l’avrebbe rifiutata, avrebbe chiesto – Aiutami a dimenticare come se qualcuno potesse aiutarci a dimenticare, non può, i miei nipoti che nemmeno nipoti sono, se mio figlio arrivasse con un sarchio lo ringrazierei, io con molti più denti di quelli che avevo, ricordando i vetri a cattedrale della sacrestia e il Cristo che riversava su di noi l’agonia del suo sguardo, la donna – Che posso fare? e mio nonno immobile sotto le grida dei corvi, no, sotto le grida dei nibbi che avevano messo in fuga i corvi, l’amministratore – Padrone mostrando il raccolto con i chicchi che gli scorrevano fra le dita, ma che cosa gliene importava del grano, osservava il paese da distante, o percorreva in groppa di mulo i suoi vicoli deserti fingendo di non udire voci né di vedere volti nella speranza che si fossero dimenticati di lui, compresa la moglie dell’amministratore con l’uncinetto conficcato tra le costole e la figlia lì in giro come un rimorso vivo, le afferrò il polso – Vieni qui per consolare l’amministratore, le ordinò di stropicciarsi il grembiule e la rimandò in cucina, intatta, giurando a se stesso – Non voglio nulla da te desiderando spiegarle – Non posso voler nulla da te 85

e invece di parlare si costringeva a contemplare le farfalle attraverso un interstizio fra le assi, proprio lui, a cui non importava niente delle farfalle e cominciava anche a non importargli niente della tenuta, la figlia dell’amministratore delusa – Non le servo? e mio nonno con molti più denti di quelli che aveva, a farsi ancora più in là contro le assi, sempre di spalle, sapendo l’amministratore contento del grembiule stropicciato, pronto a seguirlo per esaminare i parassiti del granoturco, da bambini andavano a caccia di passeri o conficcavano una cannuccia nei rospi per vederli gonfiarsi, la madre vedova dell’amministratore, a letto dopo l’infarto, si batteva la mano sul ginocchio con un rumore di tronco verminoso, quando si trasferirono nella tenuta la madre era rimasta ad agitare malefici che li avevano accompagnati per un bel pezzo anche quando non potevano più udirla, erano tornati indietro per farla tacere con una corda stretta intorno al collo e la mano un ultimo colpo ma lento, dolce, più una caduta che un colpo, e il sentiero di agavi tranquillo, si udì il campanile, ovvio, ma lo tappò un coperchio di nubi soffocandogli i rintocchi, prima dell’infarto la mano non batteva, cuciva su uno sgabello domandando alla fotografia del padre con la sigaretta, collocato davanti a lei – Pensi che me lo meriti? e il padre sorridendo inalterabile – Nossignore nossignore per cui forse una corda non avrebbe fatto male neppure a lui perché il – Nossignore, nossignore irritante, l’amministratore lo ricordava mentre dava ragione al mondo – Completamente d’accordo qualunque cosa il mondo pensasse, di tanto in tanto no86

tava l’esistenza dell’amministratore, cercava una moneta in tasca con i ragni delle dita, garantiva – Puoi cominciare a spenderla anche prima di averla convinto che la moneta, oltre che reale, fosse inesauribile e subito dopo se ne dimenticava cercando con la lingua e con l’indice un molare guasto, si assisteva a manovre complicate all’interno della guancia che cambiava forma, ora gonfia ora risucchiata, con l’indice che calcolava ascessi (nota: ho dimenticato di parlare della palma sulla strada per le montagne, prendi nota in rosso per ricordare di menzionarla più avanti) – Qui c’è qualcosa altri indici ad ampliare la bocca per un esame allo specchio durante il quale un sopracciglio saliva e l’altro scendeva, il mento si lussava e subito dopo tutto al proprio posto e il padre dell’amministratore a ragionare fra sé – Questo non mi piace affatto pulendo lo specchio dalla condensa per un’ultima ispezione, un uccello attraversò laboriosamente il pesco con un rumore di penne bagnate quasi andando a sbattere contro il muro, i vestiti del padre dell’amministratore non eleganti, sgualciti a mano a mano che sprofondava nel letto – Sento la morte arrivare, giuro infilandosi di nuovo in bocca l’indice, il gomito, tutto se stesso e la promessa della moneta sfumò, chiese l’opinione a un vicino di casa che scomparve a sua volta nella bocca concentrandosi, prima di opinare, e nel concentrarsi il collarino, prima sottile, aumentò, lui in doppi menti ponderosi a misurare il verdetto per risparmiare sorprese superflue – Per quel che ne so, potrebbe benissimo essere la morte perché la maligna ha i suoi trucchi, fa la finta tonta ma non lo è, una vescica, un gonfiore e la settimana dopo effettivamente morti, nel riparare il tetto una trave si staccò dal suo supporto, gli cadde addosso e la faccia del padre dell’am87

ministratore tutta a sinistra per sempre, perciò gli infilarono le ghette che aveva messo da parte nella speranza di essere ricevuto con maggior rispetto dai cari estinti – Quello indossa le ghette il padre dell’amministratore indicando il molare a un gruppetto di defunti – C’è fra di voi un medico che mi possa dare consulenza? e il gruppetto di defunti a discutere il dente, l’uccello attraversò il tetto nella direzione opposta senza trovare un rilievo dove posarsi tremante, cos’è accaduto a mio padre e come e quando, sarà stata mia madre o l’aiutante dell’amministratore, che cosa gli rode dentro, perché tanta desolazione in questa casa dove le persone non si guardano, non si riuniscono, non parlano, enormi conigli nudi ed enormi secchi pieni di pelo, bauli dai quali il profumo è evaporato, solo la pompa dell’acqua a svegliarmi e mio fratello nel pozzo a domandare al fango chi è, quello che si notava subito nella bara del padre dell’amministratore erano le ghette bianche, un nibbio conficcò gli artigli nella pancia di un capretto, un altro nibbio nella collottola, mio nonno uscì con il fucile e gli animali caddero con le ali spiegate insanguinando il cortile, mio padre assisteva in groppa al cavallo che scarrocciava intimorito dagli spari mentre il capretto si accasciava sulle ginocchia e mio nonno accorreva ai piedi della rupe prendendolo in braccio come per infondergli nell’anima la sua stessa vita, lo gettò a terra solo quando si accorse che noi lo stavamo osservando e domandò all’amministratore – Credi che lo si possa cucinare? e si poté cucinare solo che mio nonno non si presentò a tavola, osservò il piatto di portata dallo stipite della porta – Non ho tempo per mangiare la cagna addentò uno dei nibbi morti e se lo portò via fuggendo dalla muta, mio nonno cancellava le macchie del capretto sfregando le suole sul terreno, sparò colpi inutili a 88

uccelli troppo lontani appesi al nulla per un filo di nulla e le cornici oscillarono sui chiodi, il capretto sapeva di latte, da neonato che era, infondigli altra vita, nonno, perché cresca e sappia di carne come si deve, mio nonno – Idioti smettendo di sfregare le suole e andandosene con l’amministratore, mio padre sulle scale che portavano al piano di sopra accontentandosi del profumo dei bauli e dei passi scalzi, mi basta sapere che sei lì e che non te ne sei andata, che ritorni dal granaio accorgendoti dell’orecchino e delle forcine smarriti, noncurante di me dato che non ti importava di me o mi sfuggivi – Lasciami perché io uno senza importanza che scacciavi con il semplice suono della tua voce, mi basta sapere che rimani e che magari un giorno ti accorgerai della mia persona che ti attende senza bisogno di parlare perché non ho bisogno di parlare, mi basta ardere di speranza e tu – Vieni con me con la voce dei primi tempi in cui ci eravamo conosciuti, quando tu una domestica in cucina e io ti seguivo turbato, il tuo modo di camminare, la tua nuca quando ti raccoglievi i capelli per il calore del fornello e le tue colleghe – Guarda l’idiota visto che non era solo mio padre a disprezzarmi, erano i contadini, il macchinista del trattore, voi tutti, credo anche i miei figli e io a fuggire in groppa al cavallo con voglia di portarti dove nessuno ci conoscesse e potessimo, per così dire, vivere in pace (non oso suggerire che felici) mi basta saperti in questa casa per stare tranquillo, attendendo una tua chiamata e sicuro che chiamerai non foss’altro che per compassione, io accanto ai bauli – Eccomi 89

senza il coraggio di toccarti e desiderando toccarti, dimenticati Maria Adelaide, l’aiutante dell’amministratore, mio padre – Perché non mi è stato dato un altro figlio? che sfodera un sorrisetto stupido perché fuori piove e a me non piace la pioggia – Che bello che piova gli alberi tristi ma poco male, ti assicuro, visto che nulla mi può rattristare, le montagne crescono fino a sovrastarci del tutto e mio padre a tavola senza accorgersi dei bauli né della figlia dell’amministratore – Padrone che puliva ciò che era già pulito per attardarsi dov’era lui, il piatto di mio padre con più patate, le camicie più inamidate delle nostre, l’acqua del bagno più calda, le esalazioni della palude arrivavano la sera mescolate alla frenesia delle rane (saranno rane?) e mi alteravano la direzione dei sogni attraverso il movimento dell’acqua (rane o altre bestie simili non saprei dire quali) sentivo mio fratello spiare il silenzio all’interno del quale tanto rumore mio Dio, non ha mai detto il mio nome e non mi ha mai chiamato, così come io non ho mai detto alcun nome né ho mai chiamato nessuno (saranno rane grosse come mucche?) passando in cucina mio nonno ordinò di rompere il piatto da portata del capretto con il pretesto che non gli piacevano le decorazioni della porcellana, mio padre non si accorgeva nemmeno della figlia dell’amministratore, se per caso la incontrava – Mi scusi e proseguiva, le domestiche in cucina – Vuoi essere la nostra padrona? 90

e lei non voleva essere la padrona di nessuno, voleva mio padre con lei nel granaio e il grembiule stropicciato, voleva essere afferrata per la nuca come un animale e abbandonata sulla paglia a finire di spirare mentre il sangue si fermava (non grosse come mucche, non mi pare esistano rane grosse come mucche, sempre piccole, magroline) ma nessun figlio dentro di lei – Sono inutile mio fratello e io ce ne andiamo domani, un sentiero che magari porta alla frontiera, non so, so della tenuta e del paese e dei dislivelli sulle montagne dove talvolta luci e rifugi di pastori, dopo cena mio nonno si attardava in veranda a ricordare i genitori e gli oggetti di casa, l’elefante sul tavolino del salotto con la proboscide incollata e una delle zampe sollevata, gli metteva la mano sotto e nessuno la pestava, se per caso immaginava che la zampa gliel’avrebbe schiacciata la toglieva subito, mio nonno a sorridere e a nascondere il sorriso – Che ne sarà dell’elefante? che aveva portato in dono un vicino di casa e lui cercando di ricordare quale, tutti ormai defunti, comunque, se guardassi nelle imposte magari lo troverei, l’elefante cui nessuno faceva mai caso e invece era il centro dell’universo così com’era il centro del giardino il mandarino con i parassiti nelle crepe del tronco che si appoggiava sempre di più al tetto fino a rompergli il bordo piegandolo verso terra in un’epoca in cui la madre era ancora presente e la sorella ancora viva, le offrivano tisane e orazioni, polli disfatti nel brodo e nel ricordare il padre chinato sul letto, tutto incomprensione e timore, mio nonno scacciò via la cagna con una pedata – Pussa via per poter misurare delusioni dentro di sé osservando la cagna con ribrezzo – Perché non hai fatto nulla per mia sorella? 91

un animale nato di recente e tuttavia colpevole, mio padre a mia madre – Posso coricarmi accanto a te? anche senza forcine e senza orecchini, con un bottone strappato e fili di paglia, l’aiutante dell’amministratore in cortile ad affilare una canna guardandoci in tralice o scrollandoci come una manica se lo disturbavamo – Signorini e i suoi lineamenti ad alterarsi, soprattutto con me, deducendo somiglianze (devo frantumarle nel pozzo) il padre di mio nonno aveva segato il mandarino per impedire al tetto di crollare in cortile, dopo che la sorella era morta tutto identico in casa salvo un letto vuoto, passati un mese o due di nuovo polli, di quelli piccoli, senza cresta, che valevano poco, mio nonno a incolpare noi – Andatevene sulla parete la sorella meravigliata dinanzi a noi, se avessi avuto coraggio gli avrei domandato – La riconosci? per sentirlo gridare – Andatevene mio padre seduto sul bordo del letto e l’aiutante dell’amministratore instancabile alle prese con la cisterna dell’acqua, la mietitrice, il granaio, non avevo mai visto mio nonno al cimitero sulla tomba della sorella, chiamava l’amministratore, montava in groppa al mulo, partiva, si udivano i suoi passi a notte fonda in studio, in salotto, nella stanza dove dormivano le domestiche senza sceglierne alcuna, la figlia dell’amministratore si sollevava sui gomiti e si coricava di nuovo, chi girerà di notte confuso con il vento intorno alla casa e io a mio fratello – Non senti? 92

un defunto che non trova più il vicolo dove abita o mio padre lassù quasi senza respirare, qualcuno che non so chi sia e che mi chiama – Tu mi chiama di nuovo – Tu e io intimorito, sento mio padre che scende le scale perché ho cessato di essere, non esisto, esiste mio fratello che sta per dire il mio nome, dice il mio nome – Tu non me ne andrò domani, sono loro che mi portano, uomini che ignoro da dove vengano e mi indicano a mio padre – È questo? e mio padre o mio nonno o l’aiutante dell’amministratore – È questo le rane della palude si agitano a tal punto che non riesco a udire le persone, riesco a udire gli animali che mi assordano e mi impediscono di morire, qualcuno che non distinguo in pena per me – Non è necessario legarlo mia madre che accenna un sorriso e gli occhi le scendono lungo il volto, ogni lacrima un occhio che le scende giù per le guance (perché lacrime?) le domestiche in cucina – Poveretto e per quale motivo – Poveretto se io non sono malato, mi interessai di mia madre – Dove hai trovato tanti occhi? non ti preoccupare per me, madre, mi basta sapere che non te ne sei andata e magari un giorno mi troverai ad atten93

derti senza dirti una parola perché non è necessario parlare, è sufficiente il profumo dei bauli e il saperti in questa casa per rimanere in attesa che un giorno tu ti accorga di me, di sicuro ti accorgerai di me non foss’altro che per compassione – Eccomi mentre fuori piove, a me che non piace la pioggia – Che bello che fuori piova e non ha importanza visto che non riescono a farmi del male (mio fratello rivolto agli uomini – Che cosa state aspettando?) mentre l’aiutante dell’amministratore si allontana e le montagne ci nascondono interamente, mio nonno a mio padre – È stato meno difficile di quanto pensassi la casa enorme, signori, com’è grande questa casa, mio fratello – Non ti preoccupare che fra non molto sarai di nuovo qui con noi e le gocce di pioggia che brillavano sul grano, su mio padre, sull’aiutante dell’amministratore, io a mia madre – Quindi non te ne vai? e grazie a Dio nessuno se n’è andato, rimangono in attesa che io ritorni, il pozzo là dietro, il granaio, il frutteto, gli uomini con me in automobile in cerca della frontiera che non so dove si trovi, ricordo mio fratello rivolto a mio padre – Non poteva rimanere ancora con noi ricordo un cucciolo di capretto che scivolava giù da una rupe e mia madre che belava, mi si avvicinava allontanandosi e io la perdevo per sempre, ricordo un uncinetto che mi cercava uno spazio fra le costole e cioè uno degli uomini, con una siringa tenendomi fermo il braccio – Un momento ovvero mia nonna che mi afferrava come se fossi un co94

niglio e non mi accorsi del colpo sulla nuca né del secchio ai suoi piedi, mi accorsi del palmo che mi accarezzava il dorso soppesandomi la carne, mi interessai – Non sono troppo magro, signora? e mia nonna senza rispondere mi afferrò per le orecchie, mi sollevò in alto e quando mio nonno – Sbrigati mi aprì in un colpo solo dal collo alla pancia.

95

II

1.

Mi vengono a trovare una volta al mese in quello che un tempo deve essere stato un giardino, con una fontana di pietra senza acqua, grate, tutto intorno, che fingono di non essere grate, oltre le grate un muro (a che scopo?) anche la finestra della stanza dove dormo grate, ed ecco mio padre, mia madre con tutte le forcine e gli orecchini al loro posto, mio fratello, mio nonno, rimangono con me a parlare del più e del meno per un’ora o due (dopo spiegherò meglio) e se ne vanno, credo, per la stessa strada lungo la quale mi portarono gli uomini, uguali a quelli che servono la cena nel refettorio spingendo i piatti su un vecchio carrello di alluminio sbilenco, una strada che non passa per la palude né per la frontiera, domandai loro – Credete che esistano rane più grandi di noi? e, quelli, muti, cioè uno degli uomini mi diede una pacca sulla spalla – Non ti preoccupare delle rane eppure avrei giurato di riconoscere il loro verso, la strada si trasformò in vie, edifici e persone che non si trovano nelle foto, parenti di altri, non miei, sebbene ogni tanto mi sembrasse che un cavallo al galoppo che la mia famiglia non 99

vedeva, parlando di me con la mano davanti alla bocca convinta che non me ne accorgessi, mia madre più palpebre che occhi mi esaminava il collo come mia nonna con i conigli – Sei dimagrito e mi portava marmellate con il coperchio coperto da un pezzetto di stoffa a quadretti legato con uno spago, mio padre accendeva il sigaro a mio nonno, con il palmo a conca malgrado l’assenza di vento, l’accendino tardava a funzionare finché mio nonno non si spazientiva – Dà qua e subito al secondo tentativo una fiammella gialla seguita da una fumata blu e di nuovo l’odore dell’ufficio della tenuta, ecco la scrivania, le carte, una spirale di ferro che teneva infilzate le fatture, mio nonno restituiva l’accendino a mio padre, mio padre tentava di ripetere il miracolo fallendo sempre e lo seppelliva per castigo in fondo alla tasca dove un’agitazione di chiavi e di spiccioli o solo chiavi o solo spiccioli non so, mio fratello osservava il giardino, tentava di girare il rubinetto inceppato della fontana e lo abbandonava, per mettersi a gironzolare (che altro ha fatto nella vita se non gironzolare?) dietro alle aiuole disfatte gatti appollaiati sul bidone della spazzatura della cucina e qualche olmo le cui foglie, che ogni anno avevo visto nascere nella tenuta, cominciavano a morire, mio nonno emerse dalla nebbia del sigaro per mettermi in mano una bustina di tè con un cordino – La nonna ti manda questo e immaginai mia nonna che preparava il tè sulla coperta delle ginocchia, sbagliando e ricominciando con una tenacia lenta, domandando a mio nonno nel far girare la bustina a destra e a sinistra – Così va bene? con un anellino per infilarci il mignolo – Non la strizzare 100

lei che malgrado la vecchiaia e la necessità di cambiare occhiali così come la necessità di cambiare quasi tutto, il cuore, il pancreas, la memoria, pretendeva di venire pettinata tutti i giorni e profumata con una boccetta munita di una specie di pera che impregnava la stanza di una rugiada dell’epoca della mobilia ovvero un pizzico di olio di cedro e un pizzico di muffa, l’armadio e il comò venuti da tempi che le fotografie conoscevano e io no, lo specchio che serviva da specchio, salvo dove le macchie gialle del vetro, e faceva del mondo una specie di enigma cui mancavano dei pezzi così come a mia nonna mancavano una serie di episodi, si corrugava cercandoli – Sarà stato il ballo della sagra del paese? e siccome non era il ballo della sagra del paese – Non ricordo con il mento addormentato sul petto, quando morirà quasi nulla morirà con lei, dato che si è spenta a poco a poco finché non rimarranno che piccoli ricordi soffusi, istanti della prima comunione (– Non bisogna masticare l’ostia né piegarla contro il palato per non far del male a Gesù) una musica d’orchestra all’aperto non ricordava quando né dove, ricordava il guanto sinistro difettoso sull’anulare e mia nonna convinta che tutto il paese lo notasse, piegava l’anulare, lo nascondeva e le signore di una certa età sulle sedie accostate alle siepi di bosso, s’inclinavano l’una verso l’altra scandalizzate – Che brutto il medico di quando aveva avuto l’angina che le esaminava la bocca con un cucchiaio – Non mi spingere, ragazzina la gola sul punto di contrarsi in conati di vomito e il medico troppo vicino, gli si vedeva la barba mal rasata e un dente guasto, marrone, che ordinava 101

– Fai ah e mia nonna a lottare con il cucchiaio, l’ho vista bene nelle parti non gialle dello specchio, ma non capisco se una bambina con una camicia da notte di cotone o una ragazzina in abito lungo con il guanto rovinato sull’anulare, una domenica la portarono a trovarmi e rimase sul taxi avvolta nella coperta, molto più piccola che nella poltrona di casa, a fissare le aiuole e la fontana e a chiamarmi Jaime, io che non mi chiamo Jaime, mio padre apprensivo – Non tenete il finestrino aperto troppo a lungo altrimenti la nonna si raffredda e lì rimase, diminuendo sul sedile e facendo – Ah al medico armato di un tampone terribile, chi ha detto che non esistono rane grosse come noi, io le sento benissimo al ritmo della palude, e dentro di me la luce del mattino nella tenuta che rallegra la cucina, quanto brillavano i tegami di rame mio Dio, per non dire le piastrelle, le stoviglie e altre cose che prima non avevo notato (un paio di ciabatte accanto al frantoio) ed esistevano di colpo, anche con il finestrino del taxi tirato su mia nonna – Jaime mio nonno incuriosito – Jaime? e le rane, anche se non mi credessero, e non mi credono, senza tregua, se ne arrivasse una qui ci divorerebbe tutti in un boccone, magari verrebbe risparmiato mio fratello che, alle prese con il rubinetto, non si accorgerebbe di noi in rilievo nella trachea dell’animale, mia madre a tranquillizzare mio nonno (ci sono volte in cui mi piacerebbe essere di nuovo a casa e non solo per la lucentezza del rame, non dirò per cosa, io lo so bene, potrà anche sembrare strano ma perfino delle 102

donnole ho nostalgia, con le pietre che ho lanciato loro senza colpirne mai nessuna) – È un attacco di demenza senile, non farci caso che ripeteva – Jaime sospettoso, senza badare al sigaro, scommetto che di notte va a frugare nei cassetti in cerca di piccoli regali, fiori secchi, conchiglie, indizi che lo farebbero accasciare sul divano, con la mano sul petto, implorano a gesti un bicchiere di vino, mio nonno ad abbassare il finestrino del taxi indifferente a mia madre (e visto che parliamo di taxi l’aiutante dell’amministratore mi aveva costruito un’automobilina di legno, anzi, due, e io, coricato sul tappeto, rigavo il pavimento incerato con le ruote) – Quale Jaime? aveva avuto un primo mulo che morì quando io cominciavo a camminare ed erano stati costretti a piegargli le zampe con un martello per seppellirlo senza che qualcosa rimanesse di fuori a richiamare l’attenzione dei tassi e ad acuire la nostalgia, non riesco a dimenticare gli occhi dell’animale aperti, non riesco a dimenticare le mosche, mia nonna sorpresa con se stessa – Jaime? così come non riesco a dimenticare il rumore della terra sulla sua pancia gonfia e mio nonno che vibrava a ogni palata, d’estate, quando la schiena non gli faceva male, passeggiava per la tenuta in groppa al mulo e dopo, si sa, una vertebra fuori posto, lo coricavamo sul letto con un cuscino dietro la schiena a intristirsi con il giornale, mio padre lo criticava – Crede di avere ancora le ossa adatte per le scorribande, signore? mio fratello riuscì a svitare il rubinetto ma nemmeno una goccia, che questo è un posto senza vita dove si respira 103

male per via dell’acqua limacciosa della palude, che ignoro se si trovi al nord o al sud (addirittura, in momenti di sfiducia, per fortuna rari, arrivo a pensare che nessuna palude) e che mi abbrutisce con i suoi aliti torbidi, mia nonna con il guanto difettoso sull’anulare – Jaime? studiando mio nonno meravigliata, devono essersi conosciuti in giorni migliori, senza coperta sulle ginocchia e vertebre solide, al loro posto, mio padre tirò su il finestrino del taxi (tre tucani, per poco dimenticavo i tucani, gridavano lassù in alto, mia madre incredula, con la mano a visiera sulla fronte – Tucani? Che sciocchezza) e mia nonna a ballare là dentro – Hai deciso di ucciderla? con il suo Jaime in una zona dell’intelletto cui nessuno aveva accesso, sotto strati e strati di nomi più recenti anch’essi smarriti, se l’avessi chiamata – Nonna un organo qualunque, secondario, avrebbe cominciato a roderla nell’intimo, si notava dai movimenti della bocca, e cioè mia nonna cercava di sfuggire al cucchiaio del medico chiedendo aiuto all’indifferenza delle cose, così egoisti gli oggetti, consapevoli che finiranno, senza che nessuno a loro volta li aiuti, per deteriorarsi da sé (sarà questo che chiamano morte?) in soffitta e un furgone li trasporterà un giorno, ignoro dove, con un paio di maniglie ancora in grado di aprire – Siamo ancora in grado di aprire e una volta aperte a mostrare tarli e damigiane impolverate, per cui, certe del loro futuro, che obbligo sentono le cose 104

(cappelliere, scatole di caramelle, ninnoli che fanno finta di non capire per durare di più) di darle una mano mentre la madre di mia nonna le teneva ferma la testa – Ci siamo quasi schiacciandole la nuca contro la propria pancia e ci siamo quasi un corno, non era nemmeno cominciato, mio padre la osservava attraverso il finestrino del taxi confermando che respirava e di fatto il colletto saliva e scendeva con una fretta senza ritmo, mio nonno la guardava come faceva con il mulo se pensava di non essere visto e le passava il braccio intorno alle spalle, mio padre non si avvicinava a mia madre, rimaneva ad ascoltare i rumori di casa ovvero il silenzio dove i rumori si nascondono, i cani cercavano in cortile, avvitandosi con un movimento discendente, la posizione per dormire, gli uomini dell’automobile avvertirono la mia famiglia che la visita era terminata e di colpo di nuovo le rane che gracidavano o gli annegati della palude o la paura di perdere i miei genitori, il ricordo degli animali che rodevano il legno così vivo dentro di me che mi addolora abbandonarlo, la mia famiglia di ritorno alla tenuta con mio padre che aiuta mia nonna a drizzarsi sul sedile del taxi (chi avrà pagato il taxi?) – Quale tenuta? e io un coniglio cui il colpo alla nuca impediva di agitarsi, sono sicuro che una tazza trema su un piattino, che bauli al piano di sopra dove piegavano la biancheria, che mio nonno incontrandomi – Idiota che mia madre sale le scale senza le forcine nei capelli e un orecchino mancante e quindi tutto in ordine, la vita esattamente com’era prima che il – Quale tenuta? la scuotesse, non tentate di confondermi, non ci riusci105

rete, ho la casa, le fotografie, le domestiche in cucina, quanto ho messo insieme nel corso degli anni, come l’amministratore e la figlia dell’amministratore conservati nella mia stanza da dove non possono rubarmeli e il vento, amici, soprattutto il vento, che mi tormenta e immagino quanto debba aver tormentato i soldati di Francia e le loro croci rovesciate, vi proibisco di togliermi ciò che mi appartiene, ciò che ho fabbricato palmo a palmo per difendermi da voi, questa distesa di granoturco, questo orzo, queste capre, quanto potrei dirvi del vento che sferzava il granaio e la cisterna dell’acqua e rimescolava gli alberi – Quale tenuta? una domanda così ingiusta, proprio a me, che l’ho messa su da solo, all’insaputa di tutti, quando ero sicuro che dormissero o magari stavano svegli per spiarmi, un lavoraccio fra montagne, palude, frutteto, galline disegnate a matita a una a una, ogni piuma, ogni becco, ogni sfumatura di colore, io che concepivo il grigio e il bianco e le ho inventate a fatica, le ho spinte nel pollaio battendo le mani e ho appeso il gancio del cancello al chiodo, per quale motivo volete prendervi quello che è mio e far finta che io nullatenente come voi nullatenenti in questo appartamento affacciato su una strada di gelsi esangui con un caffè da una parte e una macelleria dall’altra, voi che non sapete delle imposte del paese e del rumore del grano (saprò qualcosa del rumore del grano?) mia madre a mio padre – Ti fa ancora male? per la sua vescicola, andava a farsi visitare, tornava da farsi visitare, non migliorava mai, e lui con la mano sfiduciata sotto le costole – Chi mi garantisce che non sia un cancro? e una specie di terrore negli occhi, non ti preoccupare che ti metto accanto ai soldati di Francia dove quel che resta 106

delle persone diventa erba in un istante e l’erba parla di notte perciò se vuoi parlo con te, ti ascolto, ma un nodo di silenzio fra di noi, mio fratello a scrivere questa storia e mio nonno a contare il denaro della pensione, a metterlo nella busta e a toglierlo dalla busta per contarlo di nuovo confrontandolo con il cedolino e anche se era giusto – Ladri avvicinarmi a mia nonna, sospirarle nell’udito – Jaime e assistere alla sua agitazione e alle intemperanze della coperta, cosa non sarei capace di dire del vento, racconta loro chi era Jaime, nonna, non fare la finta tonta, le cartoline nel doppio fondo della scrivania, il biglietto scritto in fretta e furia sto per sposarmi scusa, mio nonno a consegnare la busta della pensione a mio padre che l’accettava insieme a un bicchier d’acqua con una pastiglia, fra il pollice e l’indice, rimanendo a guardarla senza speranza – Che miseria no, mio padre che slegava il cavallo dall’anello dileguandosi al galoppo e mio fratello che continua a scrivere, una sera gli ho domandato – Sei tu che scrivi questo, non è vero? e la penna immobile a fissarmi, lo stesso fratello che ho spinto, per pietà, ad affacciarsi sul pozzo affinché sapesse chi era, e nulla nell’acqua limacciosa poiché non esisti nella tenuta, capisci? esisti in sala da pranzo (sala da pranzo, che pretenzioso) mentre correggi pagine intere, esasperato dal libro – Che significa questo? e non significa un accidenti, siamo già morti da un pezzo anche se sembriamo vivi e se sembriamo vivi è perché faccio con voi quel che ho fatto con le galline, un pizzico di blu, un pizzico di verde, con lo sforzo che tutto ciò comporta, e il compenso che ricevo è una domenica di visita al mese, con107

versazioni che pensano io non senta e faccio solo finta di non sentire – Starà meglio, poveretto? che assenza è questa che ho intorno e quali frammenti di voi di cui non colgo il senso, se mi abbracciaste mi negherei scandalizzato e ciononostante abbracciatemi, ci sono volte, non vorrei esagerare, ma ci sono volte in cui, non importa, andiamo avanti, mio nonno – Che miseria ricordandosi della busta della pensione e nel doppio fondo della scrivania sto per sposarmi scusa a una signora con la coperta sulle ginocchia che non si ricordava delle nozze né di biglietto alcuno, al massimo di un tizio i cui lineamenti le sfuggivano, che le sorrideva su una scala in penombra, del portone di casa che si richiudeva, e lei a dissolversi sulla parete, schiena, braccia, mani, finché non fosse rimasta la bocca che la parete avrebbe dissolto a sua volta e mio nonno, anche lui senza volto, in veste da camera, rispettoso – Mademoiselle mostrando scatole di bottoni da dietro il bancone, per lo meno con me era ricco e comandava nella tenuta, se adesso mi avvicino alla finestra non vedo mia madre entrare nel granaio, vedo edifici e strade e persone ma indefiniti, muti, non un nibbio in cielo, qualche passero, e scommetto che l’aiutante dell’amministratore ad attenderci affilando la canna e l’ombra del paese a crescere con l’arrivo della sera, non ci sono scrivanie nel salotto di mia nonna, ci sono una sedia, il tavolo e la tazza da tè sul suo piattino, nemmeno l’ombra di Jaime, logico, mio nonno, l’ho già detto, l’aveva conosciuta che ammazzava conigli sul retro accanto a un orticello di legumi e la casa della tenuta di nuovo enorme, la segala cresciuta, il trattore funzionante e se mio fratello scrive la verità leggerete tutto questo, non esa, non esagero, è così, la figlia dell’amministratore, per esempio, che mi afferrò per il polso 108

– Vieni qui come se lei mio nonno o mio padre, e nel granaio la lampadina appesa a quelle travi, lassù, dove la mancanza di tegole è compensata da pezzi di cartone, sotto la lampadina sacchi e paglia, la carrozza cui mancava una stanga, chissà perché un manichino da sarto che era un busto di donna senza testa né braccia né gambe conficcato in un cilindro di legno dalla vernice scrostata, io ascoltavo gli alberi e il passo del mulo in groppa al quale mio nonno dirigeva i raccolti o deviava i rivoli d’acqua piovana, la sensazione che il mulo si fermasse a osservarmi e mio nonno e l’amministratore con lui, una tortora fuggì gracchiando e quindi forse non una tortora, un altro uccello visto che di uccelli, qui, non ne mancano, ho menzionato i tucani e i nibbi e potrei continuare la lista con i tordi, le cornacchie, i corvi, avevo avuto un corvo al quale recisi le ali e passeggiava sul pavimento della cucina mordendo le caviglie delle domestiche con una rabbia tenace, finii per lasciarlo libero in veranda o qualcuno che non ero io (non sono stato io) lo lasciò libero in veranda e uno dei vecchi segugi arrivò quatto quatto e se lo portò via mentre l’animale si dibatteva e poi inerme, proprio quello che succederà a me una mattina di queste, quando il mondo intorno, non ancora nitido, torbido, si sarà stancato di me, quante volte mi sono svegliato a quell’ora pensando – Chi sono io? e invece di una risposta la lividezza del silenzio e un abbozzo di mobilia di cui non riconosco la forma né l’odore, la certezza che solo una parte del corpo mi appartiene, una frazione di volto, una frazione di gesti simili al disordine del corvo trascinato dal cane, gli vidi per un attimo il becco dove mi aspettavo un grido e nessun grido, un tubare che tacque e smetterò di vedere il becco subito dopo che gli uomini dell’automobile mi saranno venuti a cercare per una 109

di quelle iniezioni con cui ci sbarazzano della vita e di me rimarrà, come al corvo, un artiglio ma pendulo, obliquo, nell’inutile tentativo di respirare ancora, il granaio con la lampadina appesa al soffitto, quella certa tortora smarrita e sotto la tortora la figlia dell’amministratore e me, così orfani, il mulo quasi cieco a raggiungerci con passetti indecisi, mio nonno – Un giorno o l’altro prendo il fucile e lo faccio fuori e io che immagino un colpo e il mulo che vacilla ancora in piedi o inginocchiandosi senza fretta quasi grato, credo, quasi in pace, con il crine spelacchiato e le anche appuntite, perfino nel collo si intravedevano le vertebre come le mie durante l’iniezione, anch’io in ginocchio a fissarvi, con la tenuta che evapora intorno e magari io – Jaime pensando al biglietto nella scrivania, sto per sposarmi scusa, convinto che non l’abbiano mandato a mia nonna ma a me, io un coniglio nudo che nessun palmo accarezza, la mia testa minuscola, il mio petto fermo, uno degli uomini dell’automobile – È morto e giuro che non sono morto, vi ascolto da un punto che non so dove si trovi, ora distante ora vicino, ora dentro di me e poi a estinguersi dentro di me molto a lungo mentre il giorno mi restituisce il corpo che mi manca sottraendomelo subito dopo e il vento (il vento!) mi scaraventa contro le imposte del paese fino a crocefiggermi su un gradino, mia madre – Poveretto no, mia madre zitta, quando il portone si richiuse, nemmeno la bocca di mia nonna rimase sulla parete così come anche la mia bocca non rimarrà nella tenuta, il mulo in ginocchio finalmente a crollare, ovvero, non proprio a crollare, 110

quasi finalmente a crollare, la mandibola sospesa a un tendine sottile che cede, uno degli uomini dell’automobile indicandomi il mento – Gli cade perfino la mandibola e al contrario di quanto pensavo, non il giorno intorno a me, ricordo una fontana, un’aiuola, il portone da dove Jaime era uscito che sbatteva, e passi che scendevano lungo la strada, nel granaio non un solo uccello adesso, io e mio fratello che scrive questo senza che io riesca a fermarlo, la figlia dell’amministratore – Aspetti ad appiccicarmi fili di paglia alla camicia, ai pantaloni e ad arruffarmi i capelli – Adesso può andare, signorino mentre di nuovo la tortora e questa volta una tortora vera, con tanto di coda e di gemiti di scarpa bagnata, non tenera come le tortore di porcellana, spaventata e violenta, disorientata nella colombaia che mio nonno non aveva ancora distrutto, una specie di tempietto o pagoda cinese con decorazioni metalliche, lei a cozzare contro le decorazioni nel tentativo di fuggire e la scarpa bagnata a moltiplicare lamenti, insetti minuscoli che fermentano nei sacchi, pieni di antenne e di zampe, piccole macchie di sole andavano e venivano lassù minacciando di caderci addosso, una colonna di formiche sospingeva chicchi di grano in direzione di un orifizio minuscolo e il sorriso di Jaime aumentava sulle scale, al mulo disteso gonfiava e sgonfiava la pancia e il resto di lui tranquillo, mio nonno all’amministratore – Sparagli alla testa e l’amministratore, senza accettare la doppietta, a guardare il mulo, a guardare me, la figlia con la faccia nascosta tra le mani scuoteva le spalle su e giù e non solo le spalle, la vita, la schiena, e io pensando – Cosa faccio adesso? 111

mentre lei con il fazzoletto contro il naso per soffocare i singhiozzi – Non sono diversa dalle altre, vero? mi sembrava che il cavallo di ritorno per il tintinnare delle staffe e alla fine un colpo di fucile, ignoro se mio nonno o l’amministratore e il petto di Jaime, il petto del mulo, ormai fermo, la figlia dell’amministratore – Non se la prenda se voglio rimanere da sola, signorino il vento di corsa in fondo alla pergola (il resto della tenuta tranquillo) e le domestiche in cucina sorprese nel vedermi scuotere via la paglia, quante volte mi sono chiesto che odore avesse il vento, in certi momenti sapeva di frutteto, altri del profumo dei bauli in soffitta, altri ancora del mio corpo crocifisso contro la recinzione (è stato mio fratello a scrivere queste pagine, tutto molto più lento di come avvenne in realtà, non sono stato io a dirlo) la figlia dell’amministratore, che io sarei capace di, no, non sarei capace di, nemmeno per sogno, che mi suscitava una specie di pietà, espressione sbagliata fratello, un’indifferenza indulgente, anche questa no, un sentimento nei suoi confronti che non riesco a esprimere, quello sguardo agonico, quelle ciabatte da uomo, il corpo sgraziato accanto alla legna del fornello, separata dalle altre domestiche, alle quali non avevo mai visto l’amministratore afferrare il polso – Vieni qui passava, senza fermarsi, davanti al lavatoio o al pollaio o allo stenditoio con qualcosa in un calcagno che tremava prima di poggiare a terra, simile al mulo, orientandosi con gli odori come le bestie, palpando il silenzio con le narici, all’alba lo trovavo giù nell’aia appoggiato alla cisterna dell’acqua forse nella speranza che la moglie tornasse perché ci sono defunti che ritornano, la figlia veniva a chiamarlo e lui subito allegro, poi deluso 112

– Non era te che volevo fu mia nonna a mostrarmi il doppio fondo della scrivania dicendo – Premi il bottone di madreperla rotto e spuntava un cassetto sotto l’ultimo cassetto, le posai le cartoline sulla coperta mentre lei con un filo di voce – Non dirlo a nessuno è un nostro segreto senza guardarle, solo accarezzandole, passando lentamente il palmo come faceva con i conigli, mi ordinò di rimetterle a posto e nel rimetterle a posto una porta che sbatteva rivelando e nascondendo un sorriso e mia nonna che sorrideva al sorriso, vale a dire non all’uomo, al ricordo dell’uomo e a episodi che io non potevo immaginare quali fossero, mio padre scendeva dalla stanza dei bauli, lo sentivo benissimo alla mia sinistra, vicino alla credenza che d’autunno non smette di muoversi in preda ai reumatismi della teredine, si spaventava dinanzi a una tale frenesia mentre i bicchieri e i chiavistelli cozzavano, la casa della tenuta una vita che nemmeno a mio nonno obbedisce, lui al quale tutto obbedisce, fotografie, pareti, pavimento, le domestiche allarmate – Che cos’ha oggi la casa? la mia famiglia oltrepassò il cancello e uno degli uomini che mi avevano portato lì a canzonarmi – Ecco che tornano nella tenuta dove la casa viva senza la mia presenza, i nibbi, le capre e i parenti delle fotografie che mi cercano fra i vicoli – Che ne è di lui? mio fratello che scrive vicoli e mio nonno che conta e riconta il denaro della pensione soffermandosi su una banconota convinto che ne abbia un’altra appiccicata, cerca di separarle e invece una banconota sola – Ladri lo consegna a mia madre, che lo nascondeva in un sacchetto dentro al portapane, per le spese mensili 113

(non capisco per quale motivo la casa si muova, cosa le succeda, quali pensieri, quali idee, che cosa avrà nel cemento che non smette di soffrire e per quale ragione il carattere delle cose cambierà così tante volte, si riempiono di asperità, ci inseguono, ci feriscono e altre volte si fanno da parte per lasciarci passare, sono sicuro che se volessero ci schiac insieme al salario di mio padre (cerebbero fra due tavoli, due angoliere, due bauli di canfora, voglia di avvertire mia madre dei bauli – Fai attenzione, ma) e le monete che mio fratello ogni tanto le consegnava bontà sua con una smorfia di fastidio (dre lei, convinta che gli oggetti fossero privi di malizia, piegava la biancheria con una leggerezza insensata, credeva nella serenità delle nubi e nell’innocenza del frutteto senza accorgersi della crudeltà degli alberi che soffocano i passeri e li consegnano alle ci) guardandomi in tralice – Questo qui è un fannullone (vette, ai tas) e oltre ai salari le fatture da pagare che aument (si o alla cagna di mio nonno che consegnava la pensione – Guardate che miseria addormentandosi sulla sedia impagliata che prendeva sempre di più la forma del suo corpo, curioso come le sedie finiscano per accettarci senza protestare, invecchiando insieme a noi) avano, ogni tanto mio padre staccava dalla parete il quadro che raffigurava un veliero in procinto di sfracellarsi contro gli scogli e marinai con la maglia a righe che gesticolavano di terrore e senza il quadro i difetti dell’intonaco enormi, di questo passo un giorno o l’altro la casa ci crolla sulla testa, tornava da non so dove con una serie di banconote e le ag114

giungeva al sacchetto dentro al portapane, settimane dopo riportava il quadro a casa avvolto in una carta scura, lo appendeva al chiodo e il nostro appartamento quasi nessun difetto, che sollievo (uno dei marinai con la barba e una donna con un neonato in grembo che levava una mano al cielo dove fluttuavano pezzi di murata e brandelli di vela, lo avevano ereditato da una cu) solo una goccia marrone di ruggine, venuta da un luogo misterioso del soffitto per cadere sulla tovaglia, mettevamo un bicchiere in corrispondenza della goccia e la ruggine lì dentro, a ritmo cadenzato, spruzzando i piatti (gina che mi pizzicava il naso con un tono di censura respirandomi addosso non esattamente aria, carte vecchie – Questo qui non assomiglia a nessuno di voi e le carte offese, per anni mia madre aveva contato di ereditare da lei il servizio di alpaca o il coltello a serramanico di Siviglia della credenza, ma era arrivato solo il quadro con la pittura che si scrostava, onde enormi, nere, schiuma nera, grida, l’impressione che il marinaio con la barba ci chiedesse aiuto quando tacevamo e il neonato strillasse più forte, un odore di oceano che avrebbe potuto arrivare da un vicino di casa e invece no, era nostro – Questo qui non assomiglia a nessuno e sebbene non assomigliassi a nessuno anch’io vostro, appartenevo a quell’intonaco e a quelle finestre che non ci isolavano e nel vedermi le persone tacevano per strada aspettando che passassi oltre per parlare fra di loro, durante il pranzo mia madre si corrugava di rabbia fino a strappare la forchetta a mio nonno – Ma non è stufo di mangiare, signore? e lui senza voglia di rispondere, con il tovagliolo intorno al collo, dove avrà preso tutta quella fame, mio Dio?) la figlia dell’amministratore indicava la mietitrice, il por115

tico, il cavallo che strattonava l’anello, si intravedevano camini, tetti, un tizio che lavorava con la zappa in un orto – Voi non abitate qui? portava legna per il fornello danzando sotto il suo peso (come poteva scorgersi un tizio in un orto se il paese così distante?) se potessi mostrarle il quadro del naufragio e farle udire il pianto del neonato, la fede di mia madre sempre più larga nel dito e nessun aiutante dell’amministratore ad affilare canne, la strada finiva con un muro accanto a una baracca abbandonata, senza porta, con coperte e tegami per terra, colombi non grassi, magri, che sceglievano detriti difficili da mangiare, credo, con tanta immondizia nello stomaco, una ragazza partoriva nella baracca rantolando e non ho mai dimenticato la sua espressione, mio padre saliva le scale di ritorno dal lavoro trascinando il mondo e non capivamo come mia nonna fosse ancora viva, di quando in quando una contrazione dei gomiti, una pausa, noi sospesi dalla pausa e lei che sollevava il capo continuando a esistere perché colpi di tosse, mormorii, un – Jaime inatteso, mia madre – Jaime? e quella volta non un mormorio, parole confuse, la figlia dell’amministratore – È sicuro di non prendermi in giro, signorino? a partorire da sola nella baracca e l’espressione che non dimenticherò mai simile a quella di un cucciolo di capretto che sta per cadere dalla rupe dopo aver messo la prima zampa in fallo, poi la seconda zampa e gli occhi, amici, che non si lamentavano, non chiedevano, soltanto un addio, mia madre – Jaime? non sapendo del doppio fondo e delle cartoline, di un uomo che scendeva le scale 116

– Perdonami e il vento della tenuta (avevo messo podere, ho corretto) nel quadro del naufragio, tanto grano sferzato, tanti meli che si grattavano e l’uomo che si dileguava per strada, se la figlia dell’amministratore mi facesse compagnia con una fascina di legna e non penso a intimità, penso a lei, qui – È sicuro di non prendermi in giro, signorino? fra coperte e fogli di giornale nella baracca dove latte vuote, credo che non mi importerebbe che gli uomini dell’automobile mi ordinassero di distendermi accanto a persone distese, penso a mio nonno, non contando il denaro, ma disprezzandomi – Idiota e all’amministratore che lo approvava, il pozzo dove il mio volto mi si avvicina – Questo non assomiglia a nessuno e questo che non assomiglia a nessuno un cucciolo di capretto, cugina, che i nibbi hanno dilaniato, osserva il mio fegato, le mie viscere, quel che rimane della muscolatura, la figlia dell’amministratore – Signorino solo qualche filo di paglia sulla camicia, sui pantaloni, solo solo un marinaio con la maglia a righe che la prossima onda cancellerà dal quadro, mia madre a mio padre – Scommetto che il direttore del monte di pietà si è tenuto un marinaio e io nella baracca con la figlia dell’amministratore in io nella baracca con la figlia dell’amministratore in attesa e in quel momento un suo dito sulla mia guancia – Signorino e nel quadro del naufragio, tra i meli in disordine (no, latte vuote) il profumo dei bauli che aumenta venendomi incontro. 117

2.

Sono mesi che il taxi non arriva perché sono finiti i soldi nel portapane e mi sembra di vederla mia madre scuotere mio nonno frugandogli nelle tasche dei pantaloni come se lui, ricco com’era, padrone di tutto quanto, fra il paese e la palude, avesse bisogno di spiccioli – Li ha rubati lei per giocare a carte con gli amici? e nelle tasche un coltellino a serramanico, mozziconi di sigaro, l’orecchino che credevamo smarrito, o meglio, che sapevamo da qualche parte in mezzo alla paglia del granaio, mia madre frugando nel cestino delle collane – Non ci posso credere più pezzi di collane che collane intere, e perfino carponi sotto il comò aveva cercato, arrivandogli fin sotto il naso – Voleva impegnare il mio orecchino? no, in un altro modo, sono mesi che il taxi non arriva perché grandine nei campi e mio fratello, quello che scrive, affacciato sul pozzo senza aiutare l’amministratore, non gliene importa mai nulla di noi, non ha mai fatto niente per noi, mi sono stancato di chiederglielo, e non è nemmeno venuto via con me, quando mio padre aveva sollevato il sarchio sulle scale non aveva mosso un di no, in un altro modo ancora, sono mesi che il taxi non arriva perché tanto grano da seminare, tanta biancheria da 118

mettere ancora nei bauli, tanti conigli in attesa di mia nonna dietro al pollaio, con il musetto pieno di tic, mordevano legumi attraverso la grata e i tic aumentavano frenetici, un incisivo rapido, un occhio di vetro anch’esso a masticare e quindi io da solo davanti alla fontana a pensare alla casa non per nostalgia, nostalgia di che se sono ancora in veranda, se il cavallo legato all’anello, una capra cambia rupe con un balzo da lancetta dei minuti che avanza di un trattino e vibra un istante con i nibbi intorno mentre nella fontana (credevo che se avessi avvicinato l’orecchio vi avrei udito la palude) qualche spruzzo di piume senza pace o certe foglie con la molla, va’ a sapere, e passeri, e mi appaiono subito le pannocchie con il berretto in cima a una canna con cui l’amministratore credeva di spaventarli, un panciotto, o una specie di gonna e io ad accorgermi – Ma quelle sono le fotografie della parete, mio Dio che bisbigliavano menzogne su di me, cattiverie – Non è della nostra famiglia – Non ci assomiglia per niente – Di chi sarà figlio? e a mormorare, mormorare, una signora con una giacchetta di velluto, un tizio con le guance blu perché la pannocchia era dipinta, l’aiutante dell’amministratore portava il pennello dal capanno degli attrezzi (le vertebre di quei cardini, amici) e me li metteva contro disegnando loro la bocca, aggiunga pure una serie di bocche alle fotografie, che mi perseguitino, che mi disprezzino, che mi sbeffeggino, che cosa me ne importa, l’ombra delle montagne se li inghiottirà tutti, rimarrò io diretto in paese e i miei passi nei vicoli finché, quando meno me l’aspetto, mia nonna con il secchio ai suoi piedi e guarda come siamo magri, nonna, a ogni visita di mia madre – Sei deperito 119

e logico che sono deperito, con tutto quello che la nonna mi toglie, non è che non mi diano da mangiare, mi danno da mangiare, è quello che mia nonna mi toglie, il fegato molle, lo stomaco perso, non dire a mia madre tenendomi il corpo sospeso senza muscoli né sangue – È deperito, poveretto e mio fratello a scrivere più in fretta che può, sul tavolo da pranzo, mentre i marinai affogavano a uno a uno e io con loro, su quali scogli rimarranno i miei resti, un lembo di stoffa, una scarpa, non la scarpa intera, quello che si intuisce debba essere stata una scarpa e chi, guardando la scarpa, mi riconoscerà, mio fratello d’accordo con mia nonna e ad affermarlo in questa frase – È deperito, poveretto il neonato del veliero solo una maglietta, sfilagli la maglietta nonna, fagli male, non coricartelo in grembo, lascia che le interiora della figlia dell’amministratore e delle domestiche che mi evitavano scorrano giù nel secchio, non fu mio padre, fu mia madre a sollevare il sarchio contro mio nonno – Voleva impegnare l’orecchino? per giocare a carte con gli amici su un tavolo da gioco da dove si intravedeva il Tago la palude non la palude, il Tago, la ragazza che aveva partorito, carponi sotto le coperte in cerca di non so cosa, uno strofinaccio con cui pulirsi, un asciugamano, e mio nonno con un gesto immenso, disceso dalla sommità del mondo, a buttar giù la sua carta vincente, è proprio il Tago con le sue esalazioni, le sue rane, i suoi animaletti che si riproducono e crescono nei recessi del fango, nell’oscurità della notte mi minacciano con antenne, ali, becchi e io raggomitolato su me stesso incapace di parlare, non posso nulla contro di loro, che mi divorino, una volta sussurai all’amministratore, per non farmi udire dagli animali 120

– Ha mai visto la palude? e le antenne, e le ali e i becchi rivolti verso di me, se arrivasse il taxi mi proteggerebbe, mio padre a uno degli uomini dell’automobile – C’è stato qualche miglioramento, almeno? non in questo modo, rispettoso, timido – Crede che potrà esserci un piccolo miglioramento? ovvero il paese insignificante e la tenuta a dissolversi, la ragazza che aveva partorito si asciugò con la carta di giornale e si raccolse in un angolo, non si tratta di un’immagine, fu proprio così, si raccolse in un angolo, le membra a una a una e la testa nascosta (se l’avesse sollevata, antenne, lei un insetto della palude che mi punge?) un piccolo miglioramento e io in questo appartamento insieme a voi, che inciampo nello straccio per lavare i pavimenti di mia madre – Sempre fra i piedi, tu che mi si attorciglia alle gambe e mi fa perdere l’equilibrio, all’armadio che funge da dispensa manca la porta (è nel corridoio, appoggiata al muro) così come manca una lampadina alla lampada del soggiorno, con quei fili a zigzag rotti, ci siamo mangiati la lampadina in mancanza di denaro e quella cosa corrugata che era mio nonno dal naso al mento, fuggiva con quel che gli toccava del pasto sperando che non glielo sottraessimo, l’uomo dell’automobile a mio padre – Un piccolo miglioramento forse si potrà ottenere approfitta della ghiera e dei fili, che nutrono, eccolo che arriva in groppa al mulo dando ordini sotto le grida delle cornacchie e i contadini con il cappello sul petto – Padrone passandomi accanto sbotterà dall’angolo del sigaro – Idiota 121

mentre il profumo dei bauli mi rallegra, un piccolo miglioramento e ritornare agli effluvi di bassa marea del Tago dove metà di un gabbiano annerisce nel fango per colpa del petrolio o del catrame, di quando in quando in paese quella che mi sembra una campana a fabbricare mesi di novembre e le fotografie a espandersi e a contrarsi con il suo respiro, mio Dio le cose che d’inverno ho disegnato con il dito sulla condensa dei vetri e che nessuno ha letto, parole che finivano per scendere fino all’intelaiatura, incomprensibili, uscivo scacciato dallo strofinaccio di mia madre e dal secchio dove lo strizzava, io un’acqua torbida là in fondo, mia madre – Sloggia e accanto alla baracca mio nonno senza i compagni delle carte, a fumare – Che ne è del mulo, nonno? che zoppicava lungo i sentieri della segala, la baracca deserta, né ragazza né figlio, solo un gatto che si strusciava, con zampe come puntaspilli, saggiando il tetto, se fossi donna e portassi gli orecchini te li darei, nonno, non mi arrabbierei se i tuoi amici te li vincessero a carte, da piccolo mi portavi in battello a Trafaria – Sei un uomo, ormai perciò, noi due, uomini, e io senza paura del fiume, chissà se ti ricordi degli aironi – Ti ricordi gli aironi? e non ti ricordi degli aironi, quante memorie hai perso, una specie di isola, un pontile, nella tenuta erano il mulo e l’amministratore ad accompagnarti, non io, una specie di isola, un pontile, non sono un idiota, sono un uomo – Sei un uomo, ormai un giorno o l’altro una delle domestiche con me, io – Vieni qui e loro a obbedire senza rifugiarsi in dispensa né ridere, a Trafaria le onde si allontanavano dal pontile e avanzavano come 122

avanzo io diretto in paese per andare a tranquillizzare le fotografie, soprattutto la madrina di mia madre, una monaca, che andavamo a trovare a Pasqua e la madrina di mia madre con il velo e il crocifisso sul petto, le si baciava la mano in ginocchio e via, la mano non come le nostre, un artefatto di cera che scompariva nell’abito, gli uomini dell’automobile richiudevano la grata e un braccio mi afferrava la spalla facendomi male – Dove pensavi di andare? tante ossa in me, non un osso o due, centinaia di ossa a perforarmi la pelle, la madrina di mia madre vecchissima, credo, e tuttavia senza età, seicento anni, quaranta, di tanto in tanto – Sì sì nell’immobilità del volto e la bronchite di un organo in lontananza, ora una difficoltà nell’inspirare ora suono, questo in una sala con un Gesù agonizzante che sgocciolava sangue dalla barba, con un pannolino di stoffa che gli copriva le pudenda, ombre di tigli severi e l’organo, strozzato, a insistere, se il pannolino di Gesù fosse scivolato, povero me, una volta avevo visto mio padre nudo e se per caso mi toccavo, io ceneri che gridavano, mia madre senza capire – Che gli succede? mio nonno a Trafaria in quella che chiamava spiaggia, e cioè più canneti che sabbia, una cagna che si grattava e, in un buco, le uova degli insetti della palude o delle rane che cantavano, perché non erano le domestiche in cucina, le domestiche zitte, udivo la loro voce solo quando si prendevano gioco di me (tutto si prende gioco di me) e giurando che non si prendevano gioco di me (– Non ci prendiamo gioco del signorino, ci mancherebbe) erano le rane che cantavano sospirando il mio nome, altri nomi 123

(di chi?) mio nonno a Trafaria indicandomi l’isola, il pontile, quello che chiamava Lisbona e tremolava rovesciata all’altra estremità dell’acqua perciò case (e mio nonno – Vero che è grande il mondo?) che si trasformavano in macchie sovrapponendosi all’interno di squame e le onde del pontile, come l’organo, ora una difficoltà a respirare ora suono (se la madrina di mia madre a Trafaria, si sarebbe grattata e avrebbe proseguito al trotto per arrestarsi esausta mordendosi la groppa?) avevo l’impressione che ci fossero altre monache nel claustro con la stessa mano di cera che nasceva dall’abito perché la baciassimo, il tutto avvolto in un sudario di incenso che durava settimane – Sì sì le unghie terribili di Gesù a cercarmi negli angoli, soffrendo, l’uomo dell’automobile mi lasciò andare la spalla per chiudere il cancello – Noi vi portiamo in braccio e voi pensate solo a fuggire e le ossa, alla fine, una o due al massimo (la penna di mio fratello finì per convenire con me, scrisse una o due, mi guardò, esitò e ripeté una o due) scivolando uno accanto all’altro con un residuo di dolore e io non pensavo a fuggire, pensavo a congedarmi dai tucani (è settembre) che solo fra qualche mese torneranno nella tenuta, partendo da quello che dev’essere la palude o che dev’essere la frontiera perché non conosco la frontiera (nessuno conosce la frontiera) anche a Trafaria case, e cioè misere abitazioni sommerse dai salici piangenti e una donna che pelava patate sul gre124

to, per quanto cercassi non trovavo l’amministratore né il mulo, trovavo mio nonno che si tirava su i pantaloni perché la tiroide lo aveva smagrito e con una camicia di mio padre che gli avanzava sulle spalle, era tornato dalla visita, aveva guardato la confezione di pastiglie e l’aveva messa via in dispensa senza aprirla, di sicuro è ancora lì ormai scaduta mentre un motore invisibile prendeva a scoppiettare dietro a una duna, ricordo un paio di hindu con una cesta (non me lo sto inventando) che raccoglievano dal fango quel che poteva ancora servire (siccome non mi guardo in uno specchio da un pezzo, ignoro se non sia diventato anch’io un hindu) parlando fra di loro, e cioè il più alto parlava e il più piccolo si chinava e gli consegnava la maniglia di un cassetto o un pezzo di innaffiatoio, non ho mai trovato qui o nella tenuta qualcosa che valesse la pena di conservare, di ritorno in battello mio nonno interessato a un rene – Ho qualcosa che mi si contrae nella schiena dovuto alla scomodità del mulo, credo, da un po’ di tempo a questa parte o il rene o la gamba o ronzii dentro la testa, mio padre lo aiutava a uscire dal taxi afferrandolo per il bavero e allora spuntava un piede che non trovava dove poggiarsi, il corpo che rimanendo piegato a lungo gli svuotava gli occhi che tornavano a riempirsi solo dopo cinque o sei passi ma un’iride rimaneva opaca (dove seppelliscono le monache quando muoiono, non ho mai visto un funerale di monaca con il corteo delle fanciulle che loro educano, vestite a lutto, con gardenie) mia madre a rimproverarlo sollevandogli le palpebre – Ci manca solo che diventi cieco da un occhio il martedì gli uomini non ancora, un momento, che mio padre sta salendo le scale diretto ai bauli, attento che i gradini non gli giochino 125

brutti scherzi, il profumo non aumenti e mia madre nel granaio con le forcine nei capelli e gli orecchini, la canna dell’aiutante dell’amministratore sopra una botte all’entrata e un cane con il muso proteso che gratta con la zampa contro una tavola di legno spaventando le tortore il martedì gli uomini dell’automobile mi portavano da un uomo che non mi aveva portato in automobile, meglio vestito, più pettinato, che batteva l’estremità della matita con la gomma sul ripiano della scrivania misurandomi senza entusiasmo – E noi? noi, che novità, a spiare il granaio mentre le tortore si appollaiavano di nuovo, dilatandosi d’amore, sulle travi del soffitto, noi, mio nonno e io, di ritorno, e mia madre subito, era inevitabile – Apra la bocca lei con l’aiutante dell’amministratore sorrisi, smorfiette, un movimento dei fianchi che non mi sognavo nemmeno esistesse studiandogli i sussurri in punta di piedi, e lui, che metteva paura al mondo percorrendo il grano, a mostrarsi sottomesso – Non avrà mica bevuto, mascalzone? mentre io perdevo le case che si trasformavano in macchie sovrapposte (case vere o un’illusione di case, quante volte mi sono sbagliato, signori, chissà se la cisterna dell’acqua sarà stata la cisterna dell’acqua, per non parlare del grano o dell’amministratore che forse non era altro che una pannocchia pitturata, un trattino per il naso, un altro per le sopracciglia, noi – Una persona e magari ognuno di noi un trattino per il naso, un trattino per le sopracciglia e amen) dentro le squame di luce, quello che immaginavo un monastero, quello che immaginavo un molo e né molo né mo126

nastero, schegge che unite non significavano nulla, mio nonno si ripuliva dalla sabbia con le dita che per poco non si staccavano dai palmi, non le perdere, nonno, che poi non le trovi più, se ti riportassi da mamma senza pollici figuriamoci la ramanzina, lei di colpo lineamenti da bambina nascosti dentro a un fazzoletto – Che vita non solo i lineamenti, tutta lei indifesa, piccina, mia madre la neonata del naufragio, entrando nel frigorifero – Toglietevi dalla mia vista e ciononostante la matita – E noi? tutte le volte che colpiva il ripiano, quello che mi aveva moltiplicato le ossa della spalla avan (sulla parete un tizio in camice, credo severo e con un libro in mano, ma non ebbi il tempo di guardare meglio) zò di un passo, ossequioso – L’altroieri ha cercato di fuggire mia madre abbandonò il frigorifero per andarsi a chiudere in camera sua, udimmo il letto perché il legno guasto e anche i chiodi, che impresa di demolizioni il tempo, si veda mia nonna – Jaime e dopo il letto non so cosa contro il cuscino, singhiozzi che salivano lungo la gola e le scuotevano il corpo, la matita si interruppe un attimo ponderando le lacrime e ricominciò a battere – L’altroieri ha cercato di fuggire? un nibbio sopra una ginestra in cima a una rupe che osservava dall’alto della montagna quello che noi non riuscivamo a vedere, baie, golfi, gazebi, la matita si fece orizzontale sulla scrivania – L’altroieri ha cercato di fuggire in una specie di sogno dal quale tardava a ritornare, e 127

io a domandarmi che cosa pensasse e quel che mi veniva in mente era un bambino che acchiappava mosche fra la tendina e i vetri, le chiudeva nella mano e sentiva il solletico delle ali oppure una donna su un divano verso cui la matita si chinava allentando la cravatta con una ferocia lenta – Pazza di te ad accorgersi di me, a spegnere il – Pazza di te imbarazzato e di nuovo la matita, e le mosche in fuga – L’altroieri ha cercato di fuggire (la donna a interessarsi dal divano – Qualche problema, orsetto mio?) adesso non era l’estremità con la (non sarei capace di andare a Trafaria senza aiuto, non troverei i mezzi di trasporto, sbaglierei, ci saranno ancora gli hindu e la pazienza delle onde?) gomma a battere sulla scrivania, era la matita intera che meditava – L’altroieri (la donna comparve un istante e svanì) a sinistra del tizio in camice un teschio ed enciclopedie di medicina con titoli dorati incisi su cuoio nobile e io a palpare il mio teschio notando che mancava il naso e avanzava mento, per non parlare dei peli ma lì ci arrivo dopo, non vi preoccupate, un altro nibbio si unì al primo gracchiando, la matita mi attraversò di colpo in direzione dell’uomo dell’automobile, inquisitrice, appuntita – Gli avete fatto l’iniezione? con la donna a insistere con una monotonia di bambola che si china e si raddrizza – Qualche problema, orsetto mio? di colpo grassissima mostrando una bretellina che la faceva più brutta e sul collo il segno di una vecchia cicatrice – Qualche problema, orsetto mio? 128

così imbecille, mio Dio, come ho potuto, e poi gli atteggiamenti, i gesti, l’amica che trovava qualche volta in salotto e rideva tutto il tempo giocherellando con la medaglietta della collana con un profilo di imperatore romano da un lato e gli archi del Colosseo dall’altro – Ah, dottore mai – Orsetto mio dottore, probabilmente conti in sospeso nei negozi, preoccupazioni, un’allegria con dentro una tristezza stemperata male, si percepiva un residuo identico a quello delle medicine sul fondo del bicchiere che per tanto che si mescoli con il cucchiaino rimane lì – Gli avete fatto l’iniezione? il primo nibbio si accomodò fra le maniche delle proprie ali, le scapole del secondo si curvarono un po’ di più e partì coricato nel vento, mi turbava l’ipotesi di non tornare a Trafaria (non erano state le onde a impressionarmi, era stata la donna delle patate che indossava una camicetta elegante e un paio di pantaloni fantasia forse trovati nel fiume o sottratti alla cesta degli hindu) nella baracca, nella tenuta, mio padre con i gomiti sulla tovaglia, dopo cena, e i pugni nelle guance, senza risponderci, che vita, mia nonna che stropicciava la coperta con sussulti sconnessi e sotto la coperta le caviglie gonfie, se le avessero dato un coniglio non l’avrebbe riconosciuto, fra cinquant’anni nessuno si ricorderà di noi e affermando che nessuno includo le fotografie, così come noi abbiamo dimenticato il mulo precedente a questo, più scuro, non zoppo, con una delle orecchie giù, e l’estremità della matita con la gomma a battere senza convinzione, interessata a una mosca fra la tenda e i vetri che la faceva sorridere intenerita, se gli cadeva un dente da latte lo metteva sotto il cuscino e il giorno dopo, al posto del dente, 129

una moneta lasciata da un topolino complice oppure legavano il dente con un filo da cucire alla maniglia della porta, chiudevano la porta e un buco proprio sul davanti della bocca, che la lingua non riusciva ad abbandonare, com’è che un dente così piccolino all’estremità di un filo occupava chilometri di gengiva rendendo difficile la parlata e, a proposito, per quale motivo un altro dente sotto, dato che se ne sentiva la cresta, quanti denti avrò nascosti che desiderano nascere, se la donna sul divano avesse domandato in quell’istante – Qualche problema, orsetto mio? le avrei indicato i denti, quando rimarrò solo legherò un filo alla maniglia e spingerò la porta del consultorio per vedere che cosa succede, magari non solo il dente, io intero appeso alla porta, ci sono mattine, lo giuro, in cui sollevo il cuscino in cerca di monete e la delusione di nessuna ad attendermi, uno spazio interminabile tra il cuscino e il lenzuolo, come diventa insipida l’esistenza quando smettiamo di aver paura del buio, la matita era imbarazzata di regredire all’infanzia, specialmente alla mosca di vetro in vetro e al cugino che gli aveva insegnato ad andare in bicicletta intorno al castagno, abbandonato il castagno gli era venuto incontro un muro, il cugino – Gira il manubrio, cretino e lui incapace di girare poiché il muro gli andava incontro più rapido dei pedali, dettagli del muro cui non aveva fatto caso prima (crepe, vischio, un messaggio su un foglietto sporco per chi? in un buco) che acquistavano una precisione ango (– Qualche problema, orsetto mio?) sciosa (sul foglietto sporco forse – Qualche problema, orsetto mio?) spuntò una pietra più sporgente della gomma della ma130

tita contro il ripiano della scrivania e un ragnetto microscopico prese a correre, la bicicletta, indipendente da lui, puntata verso il ragnetto e subito dopo né ragnetto né muro, la gamba incastrata, il piede incastrato, un ordine dentro di sé – Non piangere il pianeta a rovescio (la certezza di trovarsi carponi in cielo masticando terra con quel che gli rimaneva del labbro) uno degli uomini dell’automobile – Due siringhe, signore e come conseguenza delle siringhe io non accanto alla fontana alle prese con il rubinetto, affacciato sul pozzo della tenuta a combattere con l’acqua limacciosa, il riflesso del mio volto, e il mio volto uno soltanto che si riuniva e si disuniva, qualcosa nel cuore che si avariava, si arrestava, si rimetteva in moto barcollante (l’unico organo che avevo, non rimaneva un centimetro per le budella e cose così) al ritmo delle stampelle che scricchiolano su pavimenti di legno deserti trascinando uno storpio, il muro della bicicletta non quando io piccolo, adesso, mi venne addosso e crollò, l’uomo dell’automobile al tempo stesso lontano e dentro al mio udito – Grazie a Dio si è calmato nel momento in cui una delle stampelle cessò di avanzare oppure era la matita sul ripiano che la mosca aveva distratto oppure il primo nibbio che mi beccava oppure il coltello di mia nonna dalla gola all’inguine e cominciai a sentire il cavallo attaccato all’anello che si calmava come prima di addormentarsi in piedi accanto alla pompa dell’acqua, il profumo dei bauli più che un ricordo, autentico, il pozzo e io che gli gettavo sassolini, udivo le tortore nel granaio, la mano dell’uomo dell’automobile sulla mia spalla, per una volta premurosa e quindi un solo osso 131

(chi mi garantisce che in tutto il corpo non vi sia che un solo osso?) non un castagno nella finestra, platani, dopo il frigorifero e il cuscino mia madre ritornava in cucina afferrando gli oggetti come se non li conoscesse, soffermandovisi, delusa dal denaro nel portapane e aumentando le guance dinanzi alle banconote, di notte li ascoltavo dormire dietro ai tramezzi e la convinzione che la mia famiglia moltiplicata per duecento, il dubbio riguardo a quale dei duecento – Jaime non un sussurro, una voce chiara – Jaime che dopo tante pagine non ero in grado di affermare se fosse stato nella (– Afferra il ragazzo autistico da quell’estremità che lo corichiamo sul materasso) mia pancia o meno, quanti conigli morti, quante croci dei soldati di Francia nel cimitero e io una polvere di cartilagini con qualche filo d’erba sopra, nei tramezzi – Jaime distinguevo i movimenti dei miei genitori (o dei soldati di Francia?) odori che si mescolavano e non trovavo il mio, dov’ero io, qui, nella tenuta, nella baracca annessa all’edificio, se baciassi la mano di cera non andrei all’Inferno, una maniglia non mi è mai servita per i denti da latte, glieli mostravo a mia nonna che li gettava nel secchio, se la figlia dell’amministratore mi dicesse – Signorino io meglio, rimarrebbe lì a biasimarmi, muta, perché non le ordino – Vieni qui in questo posto che i tucani hanno disertato per l’Egitto o la Somalia, l’uomo dell’automobile 132

– Lo abbiamo sistemato e mia nonna a tossire, per quanti anni ancora la sua tosse con me, in quel momento e smise di piovere nella tenuta, e in casa mio padre tolse il bicchiere dalla tovaglia dopo l’ultima goccia e noi fermi, in attesa di un’altra goccia, sebbene niente sul soffitto, una goccia che si formava e cioè una minima umidità che ingrassava tremando, unita all’intonaco per un peduncolo che all’inizio la sosteneva e poi sempre più sottile, si notavano i suoi sforzi per trattenere la goccia lassù e la stanchezza, la rinuncia, mio padre collocò di nuovo il bicchiere sulla tovaglia e la piccola sfera d’acqua che avevamo finito per desiderare che cadesse non arrivava finché all’alba un suono quasi umile si abbatté sulla stanza e la posizione del naufragio si alterò, mio padre avvicinò il bicchiere alla lampada per esaminarlo meglio e tutto lontanissimo da me come la tenuta, le montagne, il paese dove magari qualcuno mi aspetta, non so bene chi, non mio nonno – Idiota non mio padre al trotto attraverso la segala, l’aiutante dell’amministratore appoggiato al lavatoio ad affilare la canna senza il coraggio di parlare, se per sbaglio mi avessero guardato, i suoi occhi strani, e il coltello a sbagliarsi intimidito da me come se io fossi mio nonno, giuro, ad afferrare un sacco di sementi di cui non aveva bisogno e ad andarsene subito, gli vidi il profilo contro il magazzino delle sementi, poi coricato in mezzo all’erica e l’erica grigia, poi niente e l’erica di nuovo verde, insomma quasi verde, più marrone che verde perché i cani la facevano seccare, una volta era venuto a trovarmi di nascosto, in una domenica senza taxi, e mio fratello a tirare una riga sulle parole aiutante dell’amministratore – Quale aiutante dell’amministratore? perché nella sua testa non c’è nessun aiutante dell’amministratore, c’è mia madre con i capelli in faccia, senza forcine e senza orecchini, e la fede nuziale troppo larga al dito 133

– Che vita che mette via stoviglie e pulisce il ripiano della cucina con lo stesso straccio da quando sono nato, e malgrado mio fratello insisto che l’aiutante dell’amministratore mi era venuto a trovare una domenica prima di Pasqua e le nubi dell’est sopra la palude a scombussolare le rane, non so perché diavolo il ricordo del teschio sia riuscito a turbarmi portando con sé una zia inattesa con un fazzoletto sul volto durante la veglia funebre in chiesa, per cui le si vedevano solo le scarpe ad angolo retto sul cui lucido i ceri brillavano più che sugli stoppini, i parenti delle fotografie seduti intorno chinavano l’uno verso l’altro sussurri accolti con un sorriso triste, mia madre posò un mazzo di fiori sopra altri mazzi di fiori e indietreggiò facendosi il segno della croce mentre mio padre, fuori, si meravigliava delle stelle filanti di Carnevale che resistevano sugli alberi davanti alla macelleria, quel che ricordo della cugina è che mi regalava cioccolatini domandando a mia madre – Ma tuo figlio non cresce? e io avrei desiderato vertebre elastiche per allungarmi il più possibile, tornati a casa mia madre mi appoggiava allo stipite della porta, mi collocava un righello sul cranio e tracciava un segno, la carta dei cioccolatini si infilava nelle gengive e io la staccavo con l’unghia, non veniva mai via del tutto, ne rimaneva sempre un pezzetto che nemmeno lo stuzzicadenti riusciva a stanare e il giorno dopo, bagnato e insulso, me lo ritrovavo sulla lingua, la cugina, che si presentava sempre in pantofole, a stupirsi costernata – Tuo figlio non è cresciuto costretto a servirmi della panca per gli scaffali più alti dove inutilità sbrecciate, uno spiedo, una scodella, se il figlio della ragazza nella baracca non è morto sulle coperte, più alto di me oggi, i trattini con la data accanto, sebbene sbiaditi, continuano a umiliarmi, mi sono fatto crescere i baffi nella speranza di sembrare più grande 134

(sembrerò davvero più grande?) guardo sempre altrove, mal sopportandomi, quando ci passo davanti, quante volte ho deciso di cancellarli con la spugna e chissà perché non l’ho fatto non li ho mai cancellati, l’uomo dell’automobile – C’è uno zotico che ti aspetta e l’aiutante dell’amministratore a rimpicciolire sotto i platani non vestito come nella tenuta, con la cravatta ma storta e con una delle punte del colletto sollevata (se l’avessi presentato alla cugina un cipiglio sdegnoso, lei che nemmeno alla spalla mi arrivava – Mai cresciuta neppure lei) l’aiutante dell’amministratore che sembrava ancora al cimitero, bambino, a decifrare le date e i nomi delle tombe in cerca della famiglia – Dove siete? così impacciato, così rozzo, incapace di girare il rubinetto della fontana per vedere se funzionava, con le mani piene di susine che gli impedivano di affilare la canna, scusandosi per essere venuto – Mi scusi con le susine dimenticate fra le dita, era lui, adesso, che seguiva il mulo e mio nonno, sottomesso e riconoscente – Padrone invidiato dai contadini e dalle domestiche, l’aiutante dell’amministratore che al tempo delle lapidi doveva dormire nella cappella mortuaria o in uno dei pagliai che gli zingari abbandonavano ai margini della tenuta dove braci moribonde sotto due ceppi incrociati, suppongo mangiasse al villaggio, di nascosto, marmitte di avanzi e grilli, mi venne il rimorso di aver distrutto le automobiline, e il profumo dei bauli, che credevo perduto, mi colorò la memoria, mi piacerebbe che vi commoveste nel leggere questo e mi guardaste impietositi, l’aiutante dell’amministratore si accorse delle susine e qual135

cosa fra il naso e la bocca si spostò in parole che non avrebbe mai detto, entrambi a temere una frase che per fortuna non arrivò malgrado la sentissimo aumentare come la goccia sul soffitto, e né lui né io un bicchiere dove riceverla, che si appesantiva, si tratteneva a stento, diminuiva, si dileguava, che sollievo, e invece della frase il ricordo di un orecchino che uno di noi due allontanò – Lasciaci il suo terrore che io cadessi nel pozzo o il cavallo legato all’anello potesse farmi del male, un tizio in cravatta senza importanza, ridicolo, preoccupato per il nipote del padrone come se fosse figlio suo, figuriamoci, munito di frutti che mi sembravano verdi, staccati dall’albero con la fretta di chi ruba, deve aver dilapidato l’intero salario per arrivare qui che non so dove si trovi, magari oltre la frontiera, non un vento che io riconosca, né un’eco che io capisca, grate e ancora grate, l’aiutante dell’amministratore e io muti con le susine fra di noi, lui a guardare il rubinetto e io a guardare il nulla, temendo che la goccia decidesse, va a sapere per quale capriccio, di rifarsi viva, la goccia, l’orecchino, le forcine, mia madre che entrava e usciva dal granaio e mio padre sulle scale che si faceva da parte per lasciarla passare incapace di arrabbiarsi, mi sembrò di sentire il profumo dei bauli nei vestiti dell’aiutante dell’amministratore ma mi sbagliavo, soltanto l’odore di guardaroba stantio della giacca, voglia di domandargli del trattore guasto, della mietitrice, dei nibbi, desideravo che se ne andasse e che mi lasciasse in pace e invece quel pagliaccio piantato lì sotto i platani a trattenere dentro di sé quello che non mi interessava per niente (non mi interessava per niente?) non ti preoccupare che non cado nel pozzo e nemmeno il cavallo mi farà del male, nessun nibbio attende che io scivoli da una rupe per lacerarmi con il becco, nessuno straccio per lavare i pavimenti mi fa inciampare – Sempre fra i piedi, tu 136

non sono un gabbiano nella bassa marea del Tago che vira lentamente per dirigersi verso la foce dove mio nonno mi portava in battello assicurandomi, malgrado i trattini di mia madre così vicini l’uno all’altro da essere sempre lo stesso – Sei un uomo, ormai perciò, noi, due uomini, e io senza paura del fiume, suppongo tu non ti ricordi degli aironi, nonno – Non ti ricordi gli aironi, vero? mio nonno a fumare accanto alla baracca – Aironi? eppure io me li ricordo, la quantità di episodi che hai smarrito con il passare degli anni per non parlare della tenuta, di Trafaria, rammenti? il pontile da cui le onde si ritiravano per avanzare di nuovo così come io avanzo in direzione dell’aiutante dell’amministratore sotto gli alberi del cortile – Aspetti qui senza che un braccio mi afferri la spalla facendomi male – Dove credi di andare? e tante ossa in quel punto, non uno o due come mi aspettavo, centinaia a rompermi la pelle, quello che mio nonno chiamava Lisbona tremava rovesciato all’altra estremità dell’acqua perciò case (– Vero che è grande il mondo?) che si trasformavano in macchie sovrapponendosi all’interno di squame di luce e le onde, come l’organo quando andavamo a trovare la madrina di mia madre, ora una difficoltà a respirare ora suono e quando suono la difficoltà a respirare lo accompagnava in un’agonia acuta, anche a Trafaria case, e cioè misere abitazioni sommerse dalla terra e una donna che pelava patate sul greto, se li avessi cercati non avrei trovato l’amministratore né il mulo, avrei trovato mio nonno che si tirava su i pantaloni perché la tiroide lo aveva smagrito, un motore invisibile, dietro a una duna, che si spegneva, che si rimetteva in moto, che si spegneva di nuovo 137

(sto ripetendo quello che ho scritto un bel po’ di tempo fa e non era di questo che io) due hindu (volevo dire) che raccoglievano immondizia con una cesta e dopo averla rovesciata parlavano fra di loro, e cioè il più alto parlava e il più piccolo (anche sua madre avrà tracciato dei trattini sullo stipite della porta?) si chinava e gli consegnava (non era niente di tutto questo che volevo dire) un fondo di cassetto, un pezzo di in (dire) naffiatoio, quel che volevo dire e non riesco, aiutatemi, la vita è difficile per me, credetemi, non sarò uno spilungone, d’accordo, però mi si può sempre dare una mano anche solo per compassione, ci proverò malgrado voi occupati a mormorare fra di voi indicandomi con l’ombrello, con il dito, con i cappelli – Di chi sarebbe figlio quello? e il cavallo instancabile fra la tenuta e il paese, il tintinnare delle staffe o di qualche campanello, che importa, mio padre che spia il granaio, che attende sulle scale, che chiede – Rimani con me e mia madre che pulisce il ripiano della cucina – Che vita no, mia madre che conta i soldi e le fatture da pagare – Che vita no, mia madre che si specchia contando le macchie sulla pelle – Non sono più nulla, ormai che si accorge di me e corre verso il letto – Lasciami per abbracciare il cuscino, che cosa ci è successo mammina 138

(mammina, che patetico) perché mai saremo così, grazie a Dio il raccolto buono quest’anno, grazie a Dio noi ricchi e che differenza fa perdere un orecchino se tu orecchini stupendi, collane, bigodini, dimentica il cuscino che stiamo bene, non abbiamo bisogno di nulla, siamo felici, non vedi?, quel che volevo dire e non riesco, aiutatemi, e le fotografie, accipicchia, ad aiutarmi – È quello che erediterà tutto e ci comanderà salvandoci quel che voglio dire sono i platani, il cortile, i consultori medici, quel che voglio dire è che non è l’aiutante dell’amministratore, certo che non è l’aiutante dell’amministratore, non esiste nessun aiutante dell’amministratore, è mio nonno che mi aspetta provando a girare il rubinetto, smettendo di provare a girare il rubinetto – Non ci riesco mio nonno non – Idiota orgoglioso di me – Sei un uomo, ormai noi due in cima al pontile con lui che mi mostrava quello che chiamava Lisbona e Lisbona, la montagna o il paese, poco importa, rovesciata all’altra estremità dell’acqua trasformandosi in macchie che si sovrapponevano all’interno di squame di luce, mio nonno che si tirava su i pantaloni perché la tiroide lo aveva smagrito e domandava orgoglioso – Vero che è grande il mondo? il mondo intero che gli apparteneva e adesso, se non ti importa, se non ti fa nessuna differenza, afferrami il polso, ordina – Vieni qui e portami con te lontano dagli uomini dell’automobile che non osano, ti rispettano, sei il padrone, verso casa.

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3.

Forse la cosa più diversa, qui, è il silenzio perché lì dentro non ci sono quasi rumori, ogni tanto passi in corridoio che sebbene distanti non si avvicinano mai, si allontanano, il che mi porta a pensare che il corridoio interminabile, e continuo a udirli molto dopo che sono svaniti, minuscoli e precisi, ordini le cui parole sembrano disapprovare qualcuno accompagnate da uno scorrere di chiavistelli che impiegano del tempo a incastrarsi e dopo niente, salvo i platani che non fanno parte del silenzio, lo sottolineano soltanto, una bacca che cade o una pausa di foglie mentre nella tenuta mio nonno calpesta l’insonnia con gli stivali avanti e indietro per non parlare dell’orologio che la notte occupa la casa intera risentito con noi, caricando il tempo a scatti – Che cosa aspettate per avanzare con me? come se una persona con due dita di fronte avesse voglia di avanzare verso la morte dato che verso nessun altro luogo ci trasportano le ore e nella finestra i lampioni del paese, che per quanto non sembri contano pure loro, e gli stivali a guardarci un attimo prima di ricominciare il loro travaglio sul pavimento, indovinavo mia madre seduta nel letto – Che vita e l’agitazione del mulo che girava nel recinto, penso che le onde siano immobili a Trafaria, non esiste Lisbona all’altra 140

estremità dell’acqua e di conseguenza non esistiamo noi salvo mia madre – Che vita che pensa alla mancanza di denaro nel portapane e all’aiutante dell’amministratore che l’aspettava accanto al lavatoio con la porta del granaio aperta, i tucani del pantano nemmeno pio, magari se ne sono andati verso la frontiera, quale sarà stata l’occupazione di mio nonno prima di giocare a carte nella baracca, in una bottega, in una caserma, in un’autorimessa ed ecco il vento nel frutteto che spaventa le galline facendole rimpicciolire di sospiri, non aveva nessuna occupazione, ingrandiva la tenuta e poco dopo la tazza sul piattino nelle pause fra un coniglio e l’altro, per quale motivo non mi hai afferrato nella culla per darmi un colpo sulla nuca, nonna, coricandomi sul tuo grembo in una lunga carezza, quanto risparmiereste in tassametro, ci hai pensato? e tu senza scendere dal taxi né sapere chi fossi, se ti chiamavo una domanda che brancicava – Jaime? frugando al fondo di un’emozione confusa dove mi avevi dimenticato, mio padre ad affinarti le bielle del ricordo – Tuo nipote, mamma e tu in un’eco appannata – Nipote? con un signore che ti prendeva in braccio nella mente, immerso fra tante sagome indistinte, tanti crepuscoli andati, tante presenze di cui avevi smarrito il nome, ammucchiate una sull’altra nel sedimento degli anni o a salutarti con una strana familiarità, l’amica della mamma che credevi perduta in una piega del passato che altre pieghe nascondevano e ti insegnava a ricamare disfacendoti sempre i punti e correggendo l’ago – Sei una buona a nulla il signor Neto, impiegato del notaio, che ti prendeva in braccio 141

(di questo, alla fine, ti ricordavi, come spiegare il mistero dei dettagli che persistono, inezie la cui tenacia lascia di stucco) odorava di schiuma da barba e di inchiostro di china (l’odore della schiuma da barba e dell’inchiostro di china appestavano il taxi appestando noi) e le faceva male con l’anello nell’afferrarla perciò mia nonna cercando al contempo di proteggersi con i gomiti e di ricamare una margherita su un tovagliolo mentre il signor Neto la elogiava posandola a terra – Mio Dio quanto pesa i genitori di mia nonna commossi per la pinguedine della figlia, correva più lentamente delle altre, impiegava del tempo per alzarsi, non azzeccava le margherite ma per fortuna pesante e mia nonna a sorridere orgogliosamente fra sé – Sono così grassa mio padre a infilare la testa nel taxi allarmato dall’allegria – Scusa? dove la schiuma da barba e l’inchiostro di china lo incuriosivano costringendolo ad annusare i rivestimenti dei sedili – Cos’è questo? i tucani della palude, bramati dalle rane, nemmeno pio, loro tante bocche aperte che avrebbero bramato mio padre se solo si fosse avvicinato all’acqua, i parenti delle fotografie avvertivano – Prudenza il cavallo strattonava l’anello con l’intenzione di aiutarlo mentre mio nonno continuava a calpestare l’insonnia con gli stivali a un ritmo che si confondeva con quello dell’orologio – Che cosa aspettate per avanzare con me? perciò magari soltanto l’orologio e mio nonno a dormi142

re, si addormentava subito dopo cena, con il tovagliolo al collo e il naso che gli sgocciolava sul piatto, si addormentava sul mulo e l’animale avanzava senza meta pestando grano e legumi, si addormentava sul battello, per la monotonia delle onde, conversando con l’emozione confusa delle loro profondità, nel suo caso non un signore né la maestra di ricamo che correggeva margherite, una stanza dove un uomo su una sedia a dondolo, con la doppietta che avevamo nella tenuta appoggiata in grembo, a domandare – Chi sei tu? in paese, immagino, dato che imposte spalancate su un cielo di catastrofe, la matita sulla scrivania – Ripeta e io imposte spalancate su un cielo di catastrofe, un orto solo terra dove un tempo legumi, l’uomo a puntare la doppietta contro mio nonno – Volevi derubarmi? e la matita più veloce – Quale uomo? come se io potessi rispondergli e non posso dato che non so nulla delle profondità degli altri e molto poco della mia, carponi sul pavimento fra giocattoli da poco, comunque sia vedo l’uomo, sissignore, ovvero quello che mi mostrano e che non so se sia esistito, vedo una stanza senza mobili e le montagne che odorano di alberi e di bosco, vedo mio nonno a quattordici o quindici anni che sposta una tavola del pavimento di legno estraendo una scatola, vedo la doppietta che sparando al soffitto ha messo in fuga i corvi da un olmo che senza uccelli è dimagrito, erano i corvi a dargli l’illusione di essere olmo, per lo meno qui i platani autentici intorno alla fontana e al rubinetto dal quale un giorno mi sgorgheranno le lacrime che scommettevo di non avere, tutto asciutto, compreso il sangue nei vasi capillari, l’uomo (io alla matita 143

– Non mi domandi quale uomo) tentò di alzarsi dalla sedia – Volevi derubarmi, volevi arricchirti, vero? (ti piaceva Trafaria perché non c’erano corvi, nonno?) e il braccio slogato a cedergli (né corvi né gabbiani, upupe e basta) la gamba senza forza, la doppietta che non serviva nemmeno da bastone nella mano di mio nonno e l’amministratore, anche lui con quattordici o quindici anni ma più piccolo, più magro, accanto alla porta d’ingresso – Rapido perciò, tutto sommato, forse la cosa più diversa, qui, è il silenzio perché lì dentro non ci sono quasi rumori, i passi di mio nonno e dell’amministratore ad affrettarsi e a trasformare la scatola in quello che sarebbe poi stata la tenuta, l’uomo lungo e disteso accanto alla sedia con un proiettile nel collo e la tavoletta del pavimento di nuovo al suo posto, smarrita nelle emozioni confuse di cui mio nonno non si ricordava, sono io che gliele ricordo e lui sul pontile di Trafaria, stupito per l’assenza di corvi – Ne sei sicuro, ragazzo? senza capire perché l’assenza di corvi gli piacesse tanto né aver presente la doppietta e l’uomo che mi sembrò di riconoscere in una o due fotografie del salotto, quella di un pic-nic in un bosco dove la macchia degli anni aveva cancellato persone, padelle e ceste, e rimanevano quelle che potevano essere dita visto che tutto è possibile nelle vecchie fotografie, dove cuscini a righe e una tovaglia ricamata, dita che salutavano perché i defunti continuano a congedarsi da noi, e un’altra di nozze e lì sì, l’uomo sull’ultima fila di gradini del sagrato con gli sposi in basso al centro, lei quasi grassa come mia nonna, pronta a divorare il marito con la ferocia del sorriso che resisteva al tempo, c’erano i nomi delle persone dietro la cornice in maiuscole arzigogolate e un pezzo di calce copriva 144

quello dell’uomo, forse un cugino, un vicino, il padre, perché non il padre sebbene lo immaginasse orfano in un angolo della casa impaurito dai gufi o dalle tegole che si schiantavano a terra, un pomeriggio a Trafaria, quando mio nonno era in estasi per la grandezza del mondo, gli frugai nelle profondità e nelle emozioni confuse e portai in superficie una fanciulla che non ho la minima idea a quale episodio della sua vita appartenesse, la fanciulla, somigliante a mio padre, con un tono accusatorio la cui intensità mi spaventò – Perché mi avete lasciata morire? e verso la quale mio nonno tendeva il braccio in un trasalimento commosso – Chi era l’uomo della doppietta, nonno? nel momento in cui un peschereccio ci nascondeva Lisbona, perciò il mondo meno grande di quanto mio nonno dicesse, cominciava con le misere abitazioni e finiva con l’imbarcazione proprio davanti a noi che, sebbene si spostasse verso la foce, rimaneva immobile ed ecco il mondo, non mi si venga a parlare di infinite distese gelide dove l’anima si smarrisce, un cantuccio dove ci stiamo a malapena noi e gli hindu della cesta, forse le emozioni confuse e le profondità del passato accomunano tutti, le stesse immagini fasulle e gli stessi avvenimenti sconnessi che grazie a Dio si sono smarriti e cosa ce ne facciamo di materiali spaiati che tuttavia ci gravano di un rimorso crescente, la fanciulla – Perché mi avete lasciata morire? arrabbiata con me per averla dimenticata e per averla dimenticata defunta, se le avessi domandato chi era, non avrebbe risposto, come avrebbe potuto rispondere senza bocca, e tuttavia – Perché mi avete lasciata morire? che io mi ricordi non ho avuto una sorella, solo un fratello che scrive questo e quindi la fanciulla di mio nonno o di un estraneo, per un istante ebbi l’impressione che potesse 145

aiutarmi ad andarmene da qui per tornare nella tenuta, non nella cucina dove mia madre – Che vita senza forcine e senza orecchini, sempre più informe nella camicetta (non credo che la fanciulla sia mia madre e tuttavia chissà) e quindi nessun aiutante dell’amministratore là in basso ad aprire la porta del granaio e ad affilare una canna, solo i vecchietti che giocano a carte sul far della sera davanti alla baracca e subito dopo archi di pietra e il Tago le cui esalazioni ci rannuvolavano il salotto che durante l’alta marea beccheggiava in direzione del mare, io a mio padre – Hai visto? e lui invece di chiamare il cavallo e di portarmi via con sé, seduto al tavolo da pranzo ad andarsene con le onde e, a un metro da mio padre, alle prese con non so cosa sul fuoco o cercando di sturare il beccuccio del fornello con una forcina che fra non molto avrebbe perso nel granaio, mia madre – Che vita invidiando le colleghe nella cucina della tenuta che a loro volta l’invidiavano nel vederla ritornare dalle balle di paglia senza ricomporsi la pettinatura o i vestiti, un altro odore nel suo odore, un altro colore nei suoi occhi, mio nonno intorno al portapane pensando alle monete – A che ti servono se tu così ricco, nonno? che ti ho visto contarle in ufficio e ritirarle in cassaforte, la matita agli uomini dell’automobile – Il nonno ricco, dice? osservandolo mentre usciva laboriosamente dal taxi, prima le gambe e la testa, vale a dire la gamba destra, poi la gamba sinistra che cercava il terreno e la testa cieca – Aspetta facendo resistenza a mio padre che lo reggeva per il bavero, a stringere con le dita il braccio che lo guidava 146

– Sei sicuro che non cadrò? (così malfermo, così debole) e poi tutto il resto, con quel bottone di rame decisamente ridicolo, con ogni probabilità nemmeno rame, latta, che gli chiudeva il colletto, mentre dovrebbe attraversare la tenuta in groppa al mulo indicando all’amministratore un palo della recinzione rotto – Riparatela domani e la riparavano domani, o sul pontile di Trafaria a comandare le maree riunendo in un colpo solo i riflessi di Lisbona sul palmo della mano – Siamo due uomini, ragazzo separando con il medio (non ti arrabbiare se mio fratello scrive che poco pulito) una cattedrale o un corso molto più piccoli della tenuta perché tutto molto più piccolo della tenuta e a restituirli con disprezzo al fiume – Che me ne faccio? abbandonandoli a rabbrividire nella corrente, uno degli uomini dell’automobile, impressionato – Può darsi che sia ricco, chi può dirlo mentre le rane della palude discorrevano, continuo a udirle mentre salgono dal fango per venirmi incontro, gelate, se chiamassi i miei genitori nessuno mi sentirebbe e quindi io nascosto nel letto con le ginocchia raggomitolate – No a spiare da un angolo del lenzuolo, e una rana o l’edificio accanto al nostro trasformato in rana, palpebre che si chiudevano e si aprivano – Tu e fra un attimo una falange ad afferrarmi, fra un attimo il mattino e nessuna rana, camicie stese ad asciugare (di mio padre, dell’aiutante dell’amministratore, mie, 147

ma come dell’aiutante dell’amministratore se l’aiutante dell’amministratore nella tenuta, di una persona che non conosco?) un ragno che ha scoperto un passaggio, vivono dentro ai mattoni, non mi amano, mia madre (la camicia dell’aiutante dell’amministratore la domenica in cui era venuto a trovarmi ancora così presente, un granello di fuliggine vicino alla cravatta e non me la prendo con la cravatta né me ne burlo, mi emoziona) che apre (in fondo al cuore mi emoziona, che qualcuno si interessi a me mi imbarazza, basta melensaggini, proseguiamo) la porta con un cigolio esagerato, mia nonna senza svegliarsi – Jaime? e invece di Jaime mio nonno che scende dal letto come dal taxi senza trovare un appoggio, con la giacca del pigiama storta, i pantaloni che gli scivolano giù dalla vita, un pezzo di ombelico scoperto e occhi smarriti nelle sopracciglia – Mio Dio mentre Dio da nessuna parte, nonno, non perdere tempo con chi se ne frega di te, non aspettare alcunché, rinuncia, forse riuscirai ad alzarti afferrandoti al comò, un osso che vacilla e nonostante tutto regge, un muscolo quasi inesistente che non ce la fa, ce la fa, tu aggrappato al ripiano a tirarti su lentamente, le ginocchia dritte, la colonna che non cede, l’amministratore orgoglioso – Padrone come tutte le volte che recuperavi l’equilibrio in groppa al mulo ordinando – Andiamo mio nonno appoggiato al comò a riprendere fiato, l’ultimo cassetto in alto a sinistra non si muoveva di un centimetro per cui avevamo rinunciato da secoli al suo contenuto, 148

d’autunno un gorgoglìo di vita e mia madre con un filo di voce perché il cassetto non udisse – Senti? aspettavamo un attimo e niente, mia madre lo toccava lentamente, toccava più forte e siccome il gorgoglìo zitto ce ne andavamo guardandoci indietro con un resto di sospetto o di paura, qualche volta mio padre si portava uno sgabello e si sedeva in attesa, lui e il cassetto a sfidarsi a duello senza accorgersi del grano e delle nubi di Spagna, della casa morta, della tenuta morta, nemmeno il sospetto di un taxi al cancello, dopo la morte di mio nonno non tornai più a Trafaria e di conseguenza il pontile deserto e Lisbona dentro ai suoi riflessi all’altra estremità dell’acqua, se la coppia di indiani ancora da quelle parti quello piccolo mi avrebbe indicato a quello alto e infilato nel cesto, mi ricordo delle tue trecce Maria Adelaide, non mi ricordo di te, l’infermiere e tua madre comparivano e scomparivano con quello che mi sembrava una brocca, il tuo fratellino giocava fra le cipolle e tuo padre arrivava sul gradino per scacciarmi sfilandosi la cintura a strattoni, mi ricordo delle campane, dopo, fiori bianchi sulla bara bianca a traballoni giù per il vicolo, volli chiamare mia nonna che camminava con un cero dentro a un bicchere di carta che tremava più della tazzina e le sue labbra, non la sua voce – Taci (Maria Adelaide un coniglio?) mentre io lanciavo sassi agli uccelli perché morissero pure loro così come sarei morto io una volta che le palate di terra avessero cominciato a cadere, sempre più terra sul collo, sulle braccia, sul tuo volto che pensava ad altro come sempre i defunti, mio padre davanti al cassetto come se la fanciulla – Perché mi avete lasciata morire? lo rimproverasse e lui con le spalle che diminuivano e aumentavano e il pomo d’Adamo più grande 149

– Sorella? mentre mia nonna spuntava di nuovo nel vicolo proteggendo il cero con la manica – Taci per cui soltanto scarpe e ancora scarpe sul selciato, mio nonno in groppa al mulo a intimorire mio padre con la frusta – Idiota cani acciambellati per terra e dopo i cani il silenzio simile al silenzio di qui perché non aveva quasi rumori dentro, solo la ruggine del mondo che completava i suoi giri, i conigli rinunciavano a divincolarsi quando mia nonna trovava la loro nuca, con le pupille identiche a quelle di mio padre – Sorella cieche e tuttavia in grado di distinguere i volti ormai senza nome che abbiamo dimenticato a chi appartenessero, come dimenticheranno il mio domandandosi furtivamente – Chi era? non lasciarti abbattere, non scoraggiarti, continua, ti hanno sottratto la tenuta ma un giorno la recupererai sta’ tranquillo, la stanza dove dormivi con la finestra che si affacciava sul magazzino delle sementi e la macchia delle montagne sempre alla stessa distanza per quanto si avanzi, quando l’avrò recuperata mi chiuderò il colletto con un bottone di rame, afferrerò una delle domestiche a casaccio – Vieni qui furioso con lei e con me stesso oppure furioso con lei perché furioso con me stesso domandando – Che sto facendo? o assicurando – Dio solo sa che non era questo che volevo maldestro con i vestiti, più a scucirli che a sbottonarli, lacerandoli, lacerandomi, con voglia di chiedere scusa o di essere bambino e quindi non dover chiedere scusa per essere perdonato e che continuassero ad attendermi, ad aver biso150

gno di me, a prendermi in braccio chiedendomi di non andare di nuovo via, di rimanere anche facendole soffrire, egoista, crudele, indifferente, deludendole con l’ingiustizia del mio abbandono e ad attraversare la cucina al termine di quegli assalti amari, sbattendo contro i sacchi di cereali e ripetendo – Maria Adelaide perché insieme a lei e soltanto insieme a lei io di certo, io forse, guardando mia nonna con timore del marito o con la figlia morta nell’anima, decine di ceri che circondavano una fossa tra le croci e nella fossa – Perché mi avete lasciata morire? la fanciulla o me che le palate coprivano via via, pietre, zolle, cadaverini di insetti, la fiamma dei ceri che continuava per gli altri e per me terminata, il conforto dell’aiutante dell’amministratore – Non si preoccupi che non me ne vado di cui non me ne facevo niente, lo indovinavo con i palmi sulle ginocchia a decifrare le lapidi senza trovare la mia, non troverà mai la mia, a che scopo garantire – Non me ne vado rivolgendosi a un rimasuglio di stoffa e di ossa che non mi appartenevano oppure a nessun osso, che cosa facevi con mia madre nel granaio, per quale motivo ti preoccupi di me, se chiedessi a mia nonna di insegnargli a interrogare le tombe lei, avanti e indietro – Jaime? chissà se qualche volta siete andati insieme sul pontile di Trafaria, nonno, tavole di legno marcio che il fiume si portava via una alla volta scollandole dai pilastri di mattoni e le onde un mulo zoppo che gironzolava sotto di noi con i denti lunghi e la coda spelacchiata, il mulo che dopo la morte di mio nonno avevano condotto ai confini della tenuta, e cioè mio padre e io, dato che mio padre – Dammi una mano 151

avevamo condotto per il pezzo di corda delle redini ai confini della tenuta dove la segala si trasformava in sassi, le ogive di quello che doveva essere stato un convento fra le cui rovine s’indovinavano vestigia di volpi (peli, cartilagini di tassi, una specie di nido) e il mulo tranquillo perché non muoveva le orecchie, con quelle lacrime delle bestie anziane che non significano tristezza, significano che la vita li ha abbandonati così come la bava delle donnole non significa stanchezza, nessun hindu a Trafaria, le dune e i tetti delle case, mio padre con non so cosa in mano – Tienigli il morso e parola mia che non avevo mai visto tanti colombi selvatici in una disperazione d’ali come dopo quello sparo (dove si nascondevano prima?) il mulo si limitò a scuotere la groppa prima di scuotere i fianchi, perdere le zampe, rimanere tronco e testa e dopo nemmeno tronco e testa, di nuovo le zampe, all’inizio curve e infine lunghe e distese, gli zoccoli gialli, le giunture sporgenti, le dune di Trafaria che mio nonno giurava facessero sparire le persone e che grazie alla Santa Vergine non avevano fatto sparire me, dopo le zampe lunghe e distese il muso, dopo il muso un’orbita, dopo l’orbita crine, poi il mulo su un fianco, poi il campo libero dai colombi, poi mio padre con non so cosa che gli pendeva dalla mano, poi stornelli che si avvicinavano al mulo venuti da un bosco di fichi nani, poi mio padre che guardava non so cosa con una specie di rimorso e lo lasciava cadere nella mutezza che si dilata dentro di noi dopo uno sparo, simile al silenzio di qui perché non ha quasi suoni al suo interno, in corridoio passi che non si avvicinano mai, si allontanano, il che mi porta a pensare che il corridoio interminabile e continuo a udirli molto dopo che sono svaniti, minuscoli e precisi e poi un primo stornello sull’anca del mulo, un secondo sulle froge, i fichi nani quasi arbusti, senza 152

frutti, certi noccioli con le spine, il primo uccello lacerò la pelle del mulo gonfiando e sgonfiando la gola e mio padre mi sospinse per il braccio tornando alla tenuta, lui che non mi toccava mai, mi evitava e se non riusciva a evitarmi i suoi occhi andavano da me all’aiutante dell’amministratore impegnato con i sacchi di bulbi sul carro, mio padre che preferiva battere sul cassetto insistendo – Sorella nella speranza di una risposta (come se un cassettino potesse contenere altro se non una dozzina di oggetti o indumenti minuscoli) e fu tutto, e visto che parliamo del mulo, sarà una mia fissazione o è davvero lui che gira intorno alla fontana del cortile, con la zampa invalida più lenta delle altre e un rumore sordo, la matita a riflettere – Un mulo? guardando la finestra dove solo i platani e a irritarsi con se stessa per avermi creduto, edifici tutti uguali dove persone come me pure loro nelle proprie tenute e al di là degli edifici suppongo che piazze, viali, gente, e mentre dico questo il mulo intorno alla fontana con mio nonno che gli dondola in groppa oppure il corteo di parenti lento, serio, una persona con il bastone (la cugina Hortelinda che malgrado i problemi alla pancia e i timori dell’infermiere che le aspirava il liquido con una specie di pompa e mostrando il liquido – Non andiamo niente bene, donna Hortelinda sopravviverà a tutti noi con i suoi vasi di violaciocche, appoggiando un fiore sulla lapide di ognuno come all’infermiere che non ebbe bisogno di uno sparo per accasciarsi a terra per strada, una vena cerebrale risolse il problema) mia nonna, che dirigeva il corteo a ordinarmi – Taci perciò starò zitto mentre mia madre, che piantava il ba153

silico in vasetti, conta e riconta il denaro del portapane, e io a domandarmi cosa abbia permesso quello che gli anni hanno fatto di te, mamma, ricordo quando avevi in braccio mio fratello e ti sentivo cantare, e l’espressione di mio nonno nel guardarti e di mia nonna che desiderava tu fossi un coniglio per squartarti dalla gola alle budella, la matita fissò di nuovo la finestra, con il mulo in mente e può darsi che abbia visto mio padre e l’animale scuotere la groppa prima di scuotere i fianchi e gli stornelli sui fichi nani, che capisse e mi capisse, mi accompagnasse a Trafaria – Siamo due uomini, ragazzo e ordinasse di aprire il cancello (interminabili rumori di chiavistelli che impiegavano del tempo a incastrarsi e dopo che si erano incastrati i platani, che non fanno parte del silenzio, lo modellano soltanto, una bacca che cade o un’esitazione di foglie) per farmi tornare al luogo cui appartengo, alle fotografie dei parenti in salotto – Questo di chi è figlio? in una delle quali la cugina Hortelinda, in cappellino con la veletta, ci sorrideva senza che a noi venisse voglia di ricambiare il sorriso dato che in lei un’espressione che ci spaventava, i parenti – Dimenticati di noi, cugina Hortelinda e il sorriso, invece di diminuire, più grande, un gesto amichevole che cercavano di non vedere rimpicciolendo negli abiti con la speranza che le macchie della pellicola li nascondessero e non li nascondevano, eccovi lì, indifesi, esposti, senza un tronco o una parete per difendervi, morti e tuttavia spaventati all’idea di morire di nuovo, l’agonia, il terrore, tutto lontano e sebbene anche loro lontani, qualcosa che li andava a cercare dov’erano, li prendeva in braccio e nostalgie, ricordi, un episodio dell’infanzia dove piangevano da soli e una tubatura che sgocciolava in un punto invisibile costrin154

gendoli a contare le gocce, dieci nove otto sette e arrivati a uno niente eccetto le dita che si aprivano e rimanevano ferme, una persona che cantava al loro udito e taceva di colpo, uno sforzo per svegliarsi e se si fossero svegliati (non si svegliano) nessuno, scomparsa la stanchezza, scomparsi i dolori, galleggiamo, non galleggiamo più – Chiudigli la bocca e componigli le mani così magri, sereni, credo che la cugina Hortelinda mi volesse bene visto che ripeteva – Speriamo tu non mi costringa a recidere una violaciocca indicando il vaso in mezzo al salotto con una confezione di fertilizzante accanto, la matita indietreggiava con cautela – È davvero sua cugina? e a pensarci bene, di chi era cugina, signori?, di una cognata di mio nonno o ancora più lontana, un modo di dire che l’avvicinava alla famiglia senza un’intimità esagerata, cugina, non abitava in paese tutto l’anno, arrivava per Pasqua con il cappellino con la veletta, il conducente della corriera l’aiutava a scendere i due gradini di ferro, il cappellino storto e la cugina Hortelinda con mezza faccia scoperta a penare con il bastone, il paese a quel tempo, secondo quanto raccontano, acacie pioppi salici piangenti e ancora qualche persona viva che si intuiva dalle imposte chiuse, la conigliera di mia nonna intatta e cinque o sei musetti contro la grata, nulla di paragonabile ai fantasmi di oggi, mio padre a cavallo in piazza con la cugina Hortelinda che lo avvisava – Sono ancora qui, figliolo indicandogli l’ultima violaciocca del vaso, fuggi verso Trafaria che è dove il mondo termina in un pontile che entra nel fiume e sul pontile mio nonno e io che penso a te, Maria Adelaide, non malata, in piedi nell’orto con il nastro nei capelli, mi ricordo così bene di quel nastro, e come mi emozio155

na, giuro, quando si muove mentre cammini, guardavi mio fratello, non guardavi me, decisi – Lo ucciderò e mia madre – Lascia stare i coltelli che ti fai male oppure lo conduco ai confini della tenuta dove la segala si trasforma in sassi e per colpa tua non ho mai visto tanti colombi selvatici come dopo quello sparo, mio fratello si limitò a scuotersi no, non è vero, domandai alla cugina Hortelinda – Non è che per caso le avanza una violaciocca? e anche questo non è vero, ti lasciai con mio fratello nell’orto e corsi verso casa per cui non feci nemmeno caso a mio padre che sfiorava il cassetto con la punta delle dita – Sorella? o a mia madre che contava il denaro nel portapane – Che vita desiderando che voi due defunti, capisci, con la certezza che voi due defunti e decine di ceri dentro a bicchieri di carta, voi due defunti e io coricato sul letto senza svestirmi, con le persiane abbassate per non sentire la notte non è vero, per non sentire il rumore di un bacio che comunque non avrei potuto udire, occupato com’ero a trattenere le lacrime finché, per via del sonno e della speranza che sabato sarei stato a Trafaria con mio nonno il quale mi aveva promesso di insegnarmi a tenere tutta Lisbona sul palmo e a farla cadere in acqua mentre le onde staccavano tavole di legno e noi due uomini, ragazzo, e pensando – Che mi importa di Lisbona che mi importa di Maria Adelaide? a poco a poco non mi dimenticai di loro.

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4.

Dev’essere la fine o qualcosa di simile alla fine perché non vedo le montagne, vedo qualcuno che non conosco, non mio nonno, non mio padre, non mio fratello, non l’aiutante dell’amministratore, che mi guarda dal pozzo, avevo addirittura pensato alla cugina Hortelinda che volesse consegnarmi una violaciocca – È giunta l’ora, figliolo con un dispiacere che le si leggeva in faccia – Se dipendesse da me, oggi non sarei qui pronta a prendermi per mano e ad aiutarmi – È più facile di quanto non sembri, sai? e nel pozzo acque profonde in attesa, anch’io le voglio bene cugina Hortelinda, non la biasimo, giuro, capisco il suo lavoro, mi dia solo un momento che metto a tacere l’orologio aprendo lo sportellino di vetro per fermare il pendolo, che senso ha preoccuparmi del tempo che d’altra parte non ho mai capito cosa fosse – In cosa consiste il tempo, orologio? e sono subito da lei, richiuda in fretta le acque quando arriverò là in basso, non voglio sentire nessuno, gli spazi della casa sono cambiati così tanto con l’orologio fermo, i mobili incastrati l’uno nell’altro, nessuna eco a ricordarmi chi sono 157

stato, eri così, eri cosà e a impedirmi di dimenticare, solo il vento al pianterreno che sposta la polvere (io polvere?) laggiù gli alberi ma non parlano con me, parlano fra di loro, ho perso la facoltà di comunicare con le cose, guarda il trattore che non fa nemmeno caso a me, la porta del granaio, senza chiavistello, quale ragione la sposta, sento il cavallo in cerca di mio padre e mio padre dove, se per caso dicessi – Papà la cugina Hortelinda con il palmo intorno all’orecchio – Non capisco, figliolo sempre figliolo, mai il mio nome, figliolo, mio padre in una delle fotografie con il vetro sopra e quindi, anche se ne avesse voglia, e non ho la minima idea se ne abbia voglia o meno, incapace di rispondere, l’aiutante dell’amministratore risponderebbe, o per lo meno si avvicinerebbe a indagare, consolandomi con le susine, lo licenziammo e non protestò neppure, uno dei cani lo seguì per una decina di passi e si accucciò sull’aia, le acque del pozzo lo attesero invano dato che i cani si infilano in un sacco di iuta, si scava un buco fra gli olmi, lottando contro le mosche che si accaniscono sulle loro ferite e amen, ecco il buco che ribolle di insetti e le mosche sopra, cocciute, un tasso transitò sulla rupe e finalmente vedo le montagne, nessuno nel pozzo – Addio, cugina Hortelinda la casa in fin dei conti forse viva con il pendolo che la guida di quarto d’ora in quarto d’ora – Da questa parte lungo le settimane, durerai centinaia di settimane, ragazzo, finché le violaciocche non ti interromperanno, cosa significano decine e decine di taxi al cancello e nei taxi mia madre che mi pizzica l’orecchio mostrandomi agli altri – È più lui, oggi, vero? (acque profonde ad attenderti, madre, non resti qui co158

me fertilizzante, stai tranquilla, ci si sporge e quelle tremano dalla voglia di agguantarci e cioè un braccio che si leva e ci tira giù mentre le onde a Trafaria, invece, ci spingono in direzione del greto sporco di catrame e di limo per poi arretrare subito, sfibrate, cosa c’è nelle onde in grado di esprimere tanta cattiveria nei nostri confronti?) e io da piccolo in cucina con lei che controllava le confetture (di notte l’impressione che un’unica onda venuta dalla fine del mondo che non finisce mai, cerchiamo di vederla e non la vediamo, senza schiuma, senza riflessi, umile) che oscillavano sulla mensola a ogni piè sospinto, tutto vibra in questi edifici popolari, l’appendiabiti tenuto dall’amo di due chiodi, i vetri quando un furgone li scuote e mio nonno che inzuppa il pane nel caffè, per non parlare del gatto che si stiracchia facendo le fusa, in primavera scompariva per qualche giorno e tornava scheletrico, orgoglioso di misteriose vittorie, mia madre alla matita, temendo la risposta – È più lui, oggi, vero? mentre la mietitrice tagliava il grano, una delle domestiche non si avvicini alla macchina che si fa del male, signorino, la matita a ponderare – Più lui? e anche se fosse stata la matita a parlare, le mie ossa che cozzavano fra di loro in acque profonde disciolte in ossa anteriori alle mie, i platani della fontana – Più lui? mia madre davanti alla matita, cerimoniosa, in piedi, tenendomi per il gomito come se avesse affetto per me e non ne aveva, mio figlio che non lavora, non parla con noi, chiedo – Porta questo e lui immobile a farmi eco – Porta questo e non lo portava, poverino, rimaneva in salotto, con la 159

luce spenta, a dire frasi senza senso che era un’altra forma di silenzio, non accettava quello che gli davamo, non si interessava a noi, s’interessava alla conchiglia portagioielli del comò contando i miei orecchini o mi spazzolava i vestiti da fili di paglia invisibili che conservava nel palmo, io a lui – Fa’ vedere e lui sordo, gli aprivo le dita e il pugno vuoto, quali fili di paglia, stava alla tendina che si affacciava sulla baracca dove mio suocero giocava a carte con gli amici inutili quanto lui e io schiava di tutti quanti, che vita, un giorno o l’altro muoio prima del tempo, stordita dai colombi che non abbandonano mai il quartiere e voglio proprio vedere come se la sfangano con il padrone di casa che pretende gli affitti arretrati, mio marito alle prese con il portapane senza trovare denaro in mezzo alle fatture, andranno tutti a vivere a Trafaria contendendosi la spazzatura con gli hindu e a cercare uova di airone nella sabbia, mio suocero che giudica il mondo grande mentre il mondo senza spazio, minuscolo, questa casa, questo quartiere, Trafaria, ma sì, mettiamoci pure Trafaria e la macchina guasta delle onde lanciate a casaccio, accidenti a loro, oltre Trafaria, come nel pozzo di una tenuta, io che non ho mai abitato in una tenuta, acque profonde che danzano in attesa, chiamandoci, e mio figlio che non ci fa caso, dava l’impressione di riuscire a vedere quello che noi non vedevamo e di dare ascolto a quello che noi non udivamo, mi controllava le forcine nei capelli, mi esaminava il vestito e cadeva nell’oblio, non ci salutava quando ci congedavamo e la sua mano, cancellandomi la bocca dalla faccia – Chi sei tu? mia madre che non aveva l’odore di mia madre, non aveva l’odore di mio padre, non aveva l’odore dei barattoli della cucina, aveva l’odore dell’aiutante dell’amministratore e cioè balle di segala, ricambi di macchinari, falci, forse la cugina Hortelinda in un angolo 160

– È giunta l’ora, figliolo che ne è dei bauli della soffitta e della biancheria piegata un pomeriggio dopo l’altro lassù, che ne è di mio padre sui gradini, vedevo il taxi con la mia famiglia, scorgevo mia nonna, magari già defunta, in un angolo del sedile, mio nonno – Siamo due uomini, ragazzo io, contento di essere due uomini ragazzo, scoprendo fra mia nonna e mio nonno la cugina Hortelinda che sorrideva con un mazzo di violaciocche, ecco il cappellino con la veletta e la certezza che a un suo cenno le acque del pozzo sarebbero montate per farli annegare, mi sei simpatico nonno, mi sei simpatico papà, troviamoci da qualche parte nelle fotografie del salotto o in una via del paese che nessuno abita, all’ospedale non ancora, calma, non anticipare il finale, luci che aumentavano le tenebre e tu, Maria Adelaide, così leggera che quasi senza peso nel corridoio di casa, la indovinavo, passando, grazie a un rumore di percalle, di chi è questa voce che conforta, chi mi accompagna fino al pozzo, sollecita come se io una persona importante, figuriamoci – Prego, prego fra i gambi alti e gli insetti delle pozzanghere, mi guardo intorno e non trovo nulla, cerco le rane e silenzio, mio nonno, quando sbarcavamo – Andiamo dovevo aiutarlo a camminare reggendogli la schiena, il medico nel misurargli la milza – Attenzione riferendosi, credo, a ciò che il tempo aveva deteriorato, le ginocchia incerte, i piedi messi in fallo, le palpebre incapaci di vedere – Il pontile? Lisbona all’altra estremità del fiume e mio nonno che 161

non trovava la città, mancava poco alla domanda avvolta nello spavento – Chi sono io? cercando fra le macerie e trovando una faccia che non gli apparteneva o gli era appartenuta in un altro tempo e a scartarla, l’amministratore – Quello era lei, padrone e raccogliendola di nuovo, prima incredulo – Questo? poi irritato – Non ci credo trovò una trottola e rimase assorto a fissarla, improvvisamente senza rughe, e allora azzeccò il nome – Trottola guardandosi intorno con un entusiasmo infantile – Le biglie? con i nibbi che sorvolavano le rupi inseguendo capre, di sicuro mi uscirono una serie di parole sconnesse perché mia madre si corrugò indicandomi a mio padre con il mento – Hai sentito? mentre mi studiava, lì, nella saletta – Di quale Maria Adelaide parla? quasi senza peso tanto era leggera, che non la vedevano, al posto delle biglie un cammeo di smalto e mio nonno – Madrina esaminando l’ovale ammaccato con una cornice di pietruzze blu incastonate nel rame, conosci qualche Maria Adelaide tu, di quale Maria Adelaide parla e mio padre – Non so un cammeo con sopra crisantemi e la spilla storta, scommetto che lasciava un buco nella stoffa e mio nonno noncurante del buco lo mostrava all’amministratore, guardare e non toccare – Madrina 162

e io che pensavo alla quantità di defunti che sono necessari per comporre una vita, non solo persone, animali cui ci siamo affezionati e che abbiamo perso, un dente di mio nonno – Madrina dato che se qualcosa acquista sensibilità negli anziani sono i denti, scuri, senza salute ma capaci di lacrime, così, di colpo, quanto a me, un porcellino d’India, farfalle in una scatola da scarpe dove io operavo dei buchi perché respirassero (è incalcolabile la quantità di ossigeno che le farfalle richiedono) i grandi cani silenziosi che ci perseguitano in sogno e che quando saltano per morderci noi ci svegliamo, si pensa – Sognavo e invece un resto della loro bava sul pigiama, mio padre a mia madre – Per lo meno ogni tanto parla il porcellino d’India che masticava tutto il tempo, guardingo, rapido, un giorno smise di masticare e il giorno dopo lo trovammo morto nella gabbia con uno spago al collo, mia madre a mio padre, sospettando di me – Sono sicura che lo ha ammazzato e non sono stato io ad ammazzarlo, madre, sono stati i cani dei sogni, avevo tentato di frenare le mie mani giuro, avevo ordinato loro di no, nascondendole dietro la schiena ammanettate con forza e quelle mi avevano disobbedito, il porcellino d’India strillava nella gabbia, non un dente come il mio, nonno, due, le orecchie incolore e le mie mani che non si erano accorte delle orecchie tenendo fermo il corpo grassoccio dove il cuore più rapido di qualunque pulsazione, avevo suggerito alle mani che tenevano lo spago – Lasciatelo andare mentre la bestiola una specie di spasmo, mi ricordai della promessa fatta al mattino affacciato al davanzale, vale a dire fatta a un albero che chiamerò plata 163

che chiamerò tipuana e la cucina senza bisogno di luce, le zampe dell’animale che avevano finalmente smesso di agitarsi e il cuoricino tranquillo, mio padre non a mia madre, alla minestra – C’è qualche Maria Adelaide nel quartiere? quasi senza peso tanto era leggera che nemmeno la vedevano mentre mi salutava dalla credenza, perciò nessuna lapide, non vale la pena cercarla, è viva, non permette che io mi addormenti, che parli con voi, che vi appartenga, per quale motivo insistete a venirmi a trovare la domenica se non ho bisogno di alcunché, forse solo di mio nonno che non vedeva Lisbona – Dov’è la città? specchiata di qua e di là in riflessi talmente separati gli uni dagli altri che non una casa intera, non una via completa, mio nonno indicando a casaccio le dune, le baracche, la coppia di hindu – È quella? senza l’amministratore per aiutarlo – Padrone portandogli le domestiche che lui ormai non vedeva quasi che lui non vedeva, perché mentire (a partire da un certo momento se non siamo noi a desistere sono le parti di cui siamo fatti che desistono da sé, ti sto perdendo Maria Adelaide nel perdere il rumore della mobilia, non ti allontanare adesso che i ceri nei bicchieri di carta mi camminano accanto) le domestiche in cucina colli che mio nonno non aveva la forza di strangolare anche se gli avessi prestato lo spago e glielo avrei prestato o avrei chiesto alla cugina Hortelinda di sorridergli dalla veletta, nessuno strillo, nessuno spasmo, nessuna promessa al mattino in cortile, gli occhi a svuotarsi concavi, mio nonno alle domestiche 164

– Quanti anni hai, ragazzina? e l’amministratore a ordinare loro – Copriti la faccia con il braccio per impedire loro di accorgersi che non era mio nonno, era lui a stropicciare loro i vestiti, a compiere il servizio e ad assicurare soddisfatto, sistemando il colletto al padrone, e il colletto a posto, e pettinando i capelli pettinati – È ancora un macho, signore cosicché il dente mi si appoggiava sulla spalla – Siamo due uomini, ragazzo mentre l’amministratore mi chiedeva in silenzio – Non lo tormenti, taccia non lo tormenti, signorino, taccia, non gli dica che il grano secco, che non esiste la tenuta, che io non esisto, che lui è povero, che nel portapane sono finiti i soldi e sua madre – Che vita mendicando in macelleria, gli dica che entro quest’anno un granaio nuovo e cambiamenti in casa, più domestiche e la cassaforte dell’ufficio più grande, Lisbona nel posto che lui indica a casaccio, che differenza fa, l’amministratore – Lo protegga come se io sapessi proteggere, le cornacchie di Trafaria si poseranno su di noi come si posano sui cardi se rimarremo qui, non c’è nessuna Maria Adelaide nel quartiere, l’ho inventata, ho inventato voi e ho inventato tutto questo perché ho paura di perché ho paura, mia madre a mio fratello – Non sta fermo un attimo, hai notato? facendo la spola, instancabile, fra la cucina e la stanza, che cosa vuole, fugge da cosa, che vita, si ha l’impressione che molti passi nei suoi passi, scarpe e ancora scarpe lungo un vicolo, i defunti del paese non con il vestito della domenica come nelle fotografie, vestiti a lutto, mio nonno dubbioso visto che qualcosa nel cervello gli funzionava ancora 165

– Sei sicuro che io sia stato un macho? e alle spalle dell’amministratore le domestiche che si burlavano, spingevano mio nonno costringendolo spalle al muro – Non si sente bene, padrone? mentre la tenuta moriva, ci hanno rubato i tappeti, i calici, le lenzuola, quasi nessuna forchetta nella credenza e fra poco le tegole a mancare, i listelli di legno del – Non lo tormenti, taccia pavimento rotti, nessun mulo, nessun cavallo, le montagne che non vedo e le rovine del paese, la cugina Hortelinda che mi porge la sua violaciocca – È giunta l’ora, figliolo uno immagina che la morte ci voglia male, ma si vede che non è vero, non le piace quel che fa, acque profonde in attesa e lei – Abbiate pazienza a richiuderle senza di noi, risparmiandoci, quante occasioni deve aver perso – Perché non affidano questo compito a un’altra? attendendo una risposta che non arriva, la cugina Hortelinda rassegnata – Se dipendesse da me non sarei qui, ragazzi ma sfortunatamente non dipendeva da lei – Sono ordini o può darsi che mi sbagli, le piaceva quel che faceva, aiutava a scegliere i nomi suggerendo – Questo spopolando le fotografie e dentro alle cornici nessuno, solo il telone del fotografo e la cugina Hortelinda che gli dava istruzioni – Siamo soli mio Dio occupando il mondo con il suo sorriso – Figliolo 166

desiderandoci morti e l’oblio a gravare su di noi, vestiti che ignoriamo di chi fossero, chiavi sul tavolino dell’ingresso e a cosa servivano, a chi è appartenuta quella penna, quell’agenda e quell’orologio da polso cui manca una lancetta mentre ignorando tutto questo l’amministratore depositava mio nonno alla scrivania attendendo ordini che non arrivavano, il frutteto agonizzava sulla sinistra della colombaia distrutta (un metro di fil di ferro, qualche posatoio) passeri che beccavano nespole sempre che fossero nespole e non credo che passeri, non ci sono passeri dove non ci sono persone, lo chiamavo – Nonno e lui senza toccare il denaro del portapane rispondeva – Sono stanco sebbene la bocca si muovesse non giurerei che suoni, lo scuotevo – Nonno temendo che mi si sfarinasse tra le dita pensando a un cammeo – Madrina che qualcuno portava molti anni fa e che può darsi si trovi in uno dei bauli in cantina, quel che abbiamo amato, resti, quelli a cui abbiamo voluto bene, resti, ciò che siamo stati, resti, cose rotte, odori che la cugina Hortelinda ha dissipato, è giunta l’ora, figliolo, di non avere nessun odore come non ce l’hanno i cadaveri degli animali dopo qualche mese, mi ricordo di un tasso rinsecchito in mezzo alla segala, di me che non mi sento malgrado mia madre – È più lui oggi, vero? e io con la mia famiglia la domenica, come se appartenessi loro, mio nonno – Ragazzo il dente, che nel commuoversi dondolava contro il labbro, lui che nella tenuta, con più denti 167

– Idioti a mio padre e a me rifiutandosi di accettarci e l’amministratore a convenire con lui, muto, era mio fratello che doveva diventare padrone di tutto, non io, non lo vidi mai afferrare una delle domestiche in cucina – Vieni qui e portarsela in dispensa o nel magazzino, se potessi spiegare e non riesco a spiegare, tento di parlarvi e per via di mille questioni dentro di me le parole mi si negano, se per lo meno mi capiste da un gesto, da uno sguardo in tralice, dalla postura del corpo che non mi obbedisce, mi sfugge, gli uomini dell’automobile – Che cosa vorrà adesso? mi lasci in pace cugina Hortelinda, non mi perseguiti più, se potessi andare in paese a spiare la casa dove abitavi, Maria Adelaide, appoggiarmi al muro dell’orto nella speranza di vederti con quel tuo modo di camminare inclinando il capo di lato, i tuoi passi che si avvicinavano a mio fratello, non a me, cercare una pietra e lanciarti la pietra, vendicarmi, mio fratello malato, non io, voi tutti malati, mia madre a tossire con la mano sul petto, che vita, mia nonna sul divano forse morta da anni (ci dev’essere una palude in città e una rana che se la mangi) mio padre giorni interi con il mento appoggiato ai palmi senza rispondere alla gente – Vorresti il cavallo, papino? (che strano papino io che mai papino, mai papà, io niente) puoi galoppare fra il paese e la tenuta e dimenticarti di noi, qualcuno in corridoio, scommetto, pronto a scendere le scale, lo abbiamo intravisto per strada un istante e poi i plata e poi le tipuane e un’ora qualunque, non interessa quale, le tre, le diciannove, le cinquantacinque, su un campanile di chiesa, i giocatori di carte amici di mio nonno curiosi 168

– Non viene? uno di loro con una fascia a lutto e un problema al braccio, colleghi delle darsene o vedovi che l’abbandono riuniva per proteggersi dalla mancanza di memoria e dalla paura degli ospedali mostrando la carta, perplessi – È un due, no? un due, un asso, fanti cigliuti come i conti nei musei, puzzavano di brodo freddo, di tabacco per rollare e di federe da lavare, la visita di una figlia per Pasqua che non li baciava, per carità, li esaminava a distanza – Potresti metterti un po’ in ordine lei che una volta in braccio a noi e la giostra, una gita in spiaggia, l’altalena nel parco, finiscono così in fretta le giostre e le altalene, le figlie sfumano per qualche anno e ritornano intrattabili a distribuire ordini e rimproveri, quello che le collega all’infanzia è il terrore delle lucertole e degli scarabei nella tenuta, che bruciavano sulla lampada a olio con uno sfrigolio di frittura tramutati in una cenere che soffiavamo via dalla tovaglia e non cadeva a terra, smetteva di essere, come il Tago con la bassa marea, celato ai nostri occhi dalla sfilza di edifici dove una miseria colorata di capoverdiani e musica e grida, uno sparo qua e là, di notte, e la polizia che li infilava dentro alle camionette strattonandoli davanti a un’assemblea di bambini scalzi, sedili di automobili dove dormivano ubriaconi con il cane in braccio guardandoci con occhi rognosi, se Maria Adelaide non fosse morta, forse io una figlia che mi spazzerebbe via le foglie dalla tomba, già con qualche difficoltà a chinarsi (perché le altalene così fugaci?) aspetta un momento, non te ne andare, fammi sentire che scusa fammi sentire che ti ricordi di me, della giostra, della spiaggia, del gabbiano malato che ti aveva fatto pian (e tu arrabbiata con il mondo 169

– Non voglio che i gabbiani muoiano) che ti aveva fatto piangere, una figlia in cui qualcosa di mio, non chiedo molto, un’espressione o la forma della mano, si prolunga, e in questo modo anch’io un po’ vivo, io vivo, mio nonno e mio padre assomigliavano alle fotografie, mio nonno a un gentiluomo in frac scortato da una signora alta, mio padre a una ragazza magrolina, dovevano averle ordinato – Mettiti lì e lei si era messa lì, intimidita, oltre che somigliante a mio padre, somigliante a mia cugina Hortelinda e immediatamente, in fondo al pozzo, acque profonde in attesa, capre che scendevano dalla rupe a tentoni, tolsi la cornice dal chiodo, gliela mostrai – Chi è la ragazza magrolina, cugina Hortelinda? e la cugina Hortelinda zitta, riappesi velocemente la cornice – Scusa per paura delle violaciocche, perfino mio nonno, se lei veniva a trovarci, le offriva la poltrona, e insisteva per prendere posto su uno sgabellino dove faticava a sedersi perché gli faceva male l’ernia e senza coraggio di lamentarsi dell’ernia – Sto benissimo le offriva vino squisito, biscotti, lui così orgoglioso, proprietario del mondo – Mi farebbe comodo qualche mesetto in più, sai? con il bottone di rame che gli chiudeva il colletto a pulsare, la cugina Hortelinda con il biscotto fra il piatto e la bocca e noi prigionieri del biscotto – Mangi o non mangi? anche le acque profonde prigioniere, non dimenticare l’ontano coronato di vespe né il modo in cui il sole attraversava i rami, la cugina Hortelinda posò il biscotto e noi – Non ha mangiato 170

(il sole attraversava i rami precipitosamente con la brezza) – Devo vedere, non prometto nulla i germogli dell’ontano verdi e gialli o blu e gialli o semplicemente blu, l’unico ontano che abbia mai visto con i germogli blu e io scoprivo che la cugina Hortelinda portava l’anellino che la ragazza aveva nella foto, un cerchietto sottile, una perla scrostata e la cugina Hortelinda ne era orgogliosa, dovevamo alzarlo noi mio nonno dopo che se n’era andata, perché l’ernia lo bloccava a tal punto che panni caldi, massaggi, un’arteria a rischio di rompersi, che minaccia di rompersi, che resiste, il cuore esitava in un piccolo sussulto e mio nonno chiedeva a mia madre di misurargli il polso – Batte ancora almeno? batte ancora, nonno, debole ma batte, l’ontano che i parassiti avevano paralizzato e i germogli né gialli né verdi né blu, color cenere, io alla cugina Hortelinda – Questi germogli sono suoi? e lei a fissarmi da una fotografia con tre donne e una bambola con i capelli rossi davanti a un rampicante che scivolava giù da un muro, metà di un cane al guinzaglio in un angolo, la cugina Hortelinda emozionata dal cane – Rajá a passare l’indice sull’animale, l’ontano che l’amministratore aveva abbattuto per cui oggi nessuna ombra nel pozzo salvo quella dei nibbi che sorvegliano le rupi o quella dei tucani della laguna all’epoca in cui le rane cominciavano a sollevarsi contro di noi, mia madre – Che cos’ha? sorpresa perché mi rifugiavo in un angolo della stanza convinto che la casa mi proteggesse e non mi protegge, non mi ha mai protetto, le acque arriveranno comunque a sommergermi, le sento benissimo crescere, non lasciare che ti acciuffino, fuggi, se io riuscissi ad avvisarli 171

– Attenzione rimane un petalo di violaciocca che il pozzo non ha inghiottito e mio nonno con i palmi sul petto – Non sento battere mentre i passi del mulo proseguono senza di lui in direzione della montagna o del paese, che importa, conservo nella memoria un passetto sempre più distante che scompiglia la segala, la matita incuriosita – Che cosa starà ascoltando? senza giungere alla conclusione che era la nostra fine che prevedevo, la cugina Hortelinda da molto lontano – Addio così lontano che devo aver inventato l’ – Addio la cugina Hortelinda muta così come io muto, qualcosa che rotola dentro di me e non ho la minima idea di cosa possa essere, forse il ricordo di Maria Adelaide o di mia nonna che mi riprende – Zitto e io, che non ho mai parlato, zitto, starò zitto, ancora tre o quattro frasi e mi zittisco, un mattino avevo accompagnato mio nonno a caccia rimanendo ad assistere alla frenesia delle quaglie fra gli arbusti, l’amministratore gli consegnava la doppietta e mio nonno l’afferrava per il calcio in ginocchio sul terreno, con un berretto trovato in chissà quale bidone della spazzatura, mia madre lo rimproverava – Almeno a pranzo si tolga quella roba dalla testa, per favore e nel togliersi il berretto cicatrici, macchie, le ingiustizie del tempo, mio nonno – Mi vergogno a farmi vedere così, ragazza mentre le quaglie si levavano in volo a una a una, l’amministratore – Non spara, padrone? 172

e mi tornò in mente il gabbiano di Trafaria, le zampe rosse e le penne delle ali sporche, mi tornò in mente che siamo due uomini, ragazzo, e Lisbona che la mano restituisce al fiume con disprezzo – Prendi che ce ne importa di Lisbona, nemmeno uno straccio di quaglia, sostituivano gli arbusti con la segala o il magazzino dove adesso solo topi e qualche donnola che è sopravvissuta all’inverno, la doppietta di mio nonno si voltò verso di lui e l’amministratore – Signore cercando la sicura senza trovare la sicura, la matita agli uomini dell’automobile – Non avete udito lo sparo? possono non aver udito lo sparo ma hanno udito lo scricchiolio degli alberi, la matita – Non avete notato il grido? e che importanza aveva il grido, solo un altro grido, mio nonno quasi a toccare terra, l’amministratore vecchio – Signore accovacciato accanto a lui – È sempre un macho, signore finché la cugina Hortelinda non gli rovesciò sopra, allargando le braccia, una pioggia di violaciocche.

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5.

Qual è la mia età oggi, e quanti anni sono passati da quello che ho raccontato? Ci sono volte in cui mi sembra di sentire il cavallo legato all’anello sapendo che non esistono né cavallo né anello e tuttavia ignoro che cosa mi stia cercando, la pompa che avevano estratto dal pozzo e, sebbene assente, ancora funzionante, era rimasto il secchio appeso alla corda e se girassi la manovella chi arriverebbe quassù, il macchinista cieco a causa del diabete, al quale una settimana di queste avrebbero amputato la gamba – Dov’è il pozzo, signorino? senza che riuscissi a distinguergli la faccia sotto la tesa del cappello, intuivo gli occhi che galleggiavano non in mezzo alle sopracciglia, in bocca, li mastichi, che non le servono a nulla, se girassi la manovella, nel secchio troverei la gamba e le palpebre sterili che domandano, non il mento, non la lingua – Me l’hanno tolta, signorino? guidava il trattore sbagliando i solchi e avanzando in mezzo ai pascoli, sordo ai lamenti delle pecore, mio nonno gli accese un fiammifero davanti al naso prima di spingerlo – Non ci vedi e cioè, non spingere una persona, spingere un sacco, gli occhi galleggiavano non vicino alla bocca, nella terra – Non ci vedi 174

il macchinista carponi in mezzo agli animali si aggrappava a un agnello, scivolava dall’agnello, trovava il cappello scuotendolo contro l’anca con uno degli occhi sul palmo (non lo mastica quell’occhio?) – Non mi licenzi, padrone mentre il fumaiolo del trattore sputava scintille, l’amministratore ad accompagnare il mulo in mezzo al grano che a quei tempi cresceva quasi fino in paese per non menzionare il frutteto e le cicogne sulla cisterna dell’acqua – Da domani non farti più vedere il macchinista continuava a scuotere il cappello contro l’anca mentre il cane pastore abbaiava con troppa energia rivolto al collo sottile (se ne ho l’occasione, e non ne avrò l’occasione, parlerò delle cicogne che non tornarono più) e il giorno dopo il macchinista con la giacca buona e uno di quei panciotti che vendono gli zingari abbottonato a casaccio – Dov’è il pozzo, signorino? con la gola attraversata da una specie di fil di ferro che gli intralciava le parole (può darsi che le cicogne nascano dal vento, si avvita loro un becco di legno e si trasformano in uccelli) la giacca che gli andava grande sotto le ascelle, una catenella cui mancava l’orologio, il cappello cercava a destra e a manca e trovava gambi, spighe, nessun odore di acque limacciose, nessuna eco bagnata – Mi aiuti a trovare il pozzo, signorino il cavallo ci sfiorò con il tintinnare delle staffe e lo aiutai (anche gli occhi dell’animale ciechi?) a trovare il pozzo, intravidi mia madre in soffitta e una delle domestiche che stendeva tovaglie sulla corda, la certezza che mio nonno ci seguisse dall’ufficio, mia madre a mio padre 175

– Non si muove più, hai notato? sbagliandosi, dato che tutto mi si rimescola dentro, il macchinista stringendomi il gomito – Manca ancora molto per il pozzo? con il coperchio di zinco e il secchio sopra il coperchio, mi dica, amico, ha paura di morire? lasci che le sistemi il panciotto, abbottonandolo come si deve, non si preoccupi che non mi dimentico del pozzo, tolgo io il coperchio, l’aiuto io, gli zingari collocavano braccialetti e terracotte sopra tele grossolane e le loro donne mi spaventavano, bambini vestiti da adulti, con scarpe di vernice e cravattino, ancora poppanti, un pappagallo che parlava spagnolo sul tettuccio di un carrozzone, infilai la catenella nel taschino del panciotto, corressi il cappello e il macchinista perfetto, dev’essere lui che discorre in salotto, il silenzio e la polvere sono lei, amico, non menta, se avessi un orologio glielo regalerei così saprebbe l’ora nell’acqua, si solleva il dischetto di vetro e si mette il dito sulle lancette, non è necessario vedere, che sapore hanno gli occhi quando li mastichiamo, le lacrime insipide ma gli occhi non saprei, non sente come si rattrista la terra che precede la pioggia? mio nonno non si vedeva dalla finestra e tuttavia, dal modo in cui si chinava sul libro dei conti e teneva in mano la penna senza scrivere, era al corrente di tutto, l’amministratore nel capanno degli attrezzi o nel magazzino delle sementi e adesso sì il pozzo e il coperchio di zinco più pesante di quel che pensassi, aiutai il macchinista a spostarlo – Lo regga un attimo, signorino, prima che cominci a piovere un ostacolo, un’irregolarità del cemento, una vite, uno spunzone (mi darebbe sollievo parlare delle cicogne) il macchinista preoccupato del panciotto – È pulito no? 176

è pulito non si preoccupi, non una macchia mi creda, la moglie in cucina, da ragazza, e mio nonno – Vieni qui è morta due anni fa di un problema delle donne malgrado gli sciroppi dell’infermiere, camminava con il bastone senza lamentarsi dei dolori, quando arrivavano le coliche solo il naso aumentava in mezzo alle guance senza carne, si sedeva su una cassetta allontanando un palmo invisibile – Impedite a questa mano di trascinarmi a fondo il macchinista la riconosceva dalla voce, le toglieva il bastone e lo brandiva fingendo di impedirglielo (una cicogna, almeno, per togliermi da questo impiccio, mi domando dove faranno i nidi quest’anno) la cosa, qualunque fosse, che frenava il coperchio si ruppe con uno schianto simile a quello dei chiavistelli che si chiudono nelle stanze invitandomi a entrare per chiudersi su di me con una mandata di chiave e soffocarmi come il pozzo soffocò il macchinista quando venne l’amministratore ad aiutarmi a coprirlo e vidi che mio nonno aveva cominciato a copiare fatture, con un pennino laborioso, sul libro dei conti, si diceva che il macchinista e la moglie un figlio dell’età di mio padre e con la stessa macchia dalla nascita in faccia al quale mio nonno aveva pagato un viaggio in America vale a dire che l’amministratore aveva accompagnato non si sa dove ritornando con una ruga che non gli avevo mai visto sulla fronte e non si era fatto vedere per tutto il pomeriggio ignorando i richiami di mio nonno, si diceva che la tazza di mia nonna si alzasse e si posasse senza tregua sul piattino e mio nonno si tappasse le orecchie come se la tazza gridasse e si diceva che fosse andato a prendere la doppietta nell’armadio per sparare alle grida, se ce l’avessi io sparerei contro la polvere e il silenzio o ai passetti dei tassi sotto le tavole di legno, mia madre a mio padre indicandomi con la caffettiera – Che cosa vorrà? 177

vorrei spiegare che l’America si trova a un’estremità della tenuta sotto certe pietre che l’amministratore evitava, e non ci riesco, alla fine sono io ad avere il fil di ferro in gola che mi intralcia le parole, ripeto quelle degli altri, per esempio – Non si muove nemmeno più, hai notato? per esempio – Che cosa vorrà? non riesco a pronunciare le mie, perciò finisco per andarmene irritato con me stesso, inciampando nei resti di mobilia che ci ingombrano, per non parlare delle cianfrusaglie che mio nonno portava di continuo dalla strada, fregi di lampadari, un ventilatore storto, mia madre sbarrandogli il passo sulle scale – Riporti subito quelle masserizie dove le ha trovate e lui scendeva i gradini con la sua spazzatura in braccio domandandomi – Dov’è il pozzo, ragazzo? e impedendo a una lacrima di cadergli dal dente, nemmeno se avessi nominato Trafaria si sarebbe illuminato – Che cosa? frugando nei ricordi con una lampada spenta, aveva lavorato nel magazzino di un negozio spostando pacchi e si spazientivano con lui – Entro oggi, per favore se io, per compassione, ti offrissi una tenuta – Prendi e capre e nibbi e l’amministratore e il mulo, non ascoltare mia madre – Che vita abbandona Lisbona al fiume e mostrami le cornacchie, la ruota dentata delle ali, il loro modo di posarsi, quando ero bambino no la ruota dentata delle ali, il loro modo di posarsi, inven178

ta anche tu, proteggimi, ci sono volte in cui io, come dire, non dico, e ancora tanti ricordi, mia madre in camera – E se lui sente? un paio di respiri che indagavano il silenzio prima che la testiera del letto prendesse a tremare di nuovo, non il letto di oggi, uno di ferro battuto con palle di ottone alle estremità che di tanto in tanto si svitavano e rotolavano per terra, mi mettevo carponi a cercarle con il manico della ramazza fra il battiscopa e il comò solo che le palle, invece di venirmi incontro scomparivano sotto l’armadio, mia madre nascondendosi nella vestaglia con metà capelli arruffati e metà pettinati – Buono a nulla mio padre con il rimmel delle ciglia di lei sulla fronte e io a consegnare loro la palla che nessuno prendeva, quanto tempo è che non venite a trovarmi, due mesi, tre mesi, i taxi degli altri e le famiglie degli altri, senza che mai arrivi la mia e mi osservi dal cancello così come io, nella tenuta, cercavo di indovinare la resistenza delle capre sulle rupi, le zampe prima del salto, la gola gonfia di vene – Ce la faccio o non ce la faccio? e il bianco degli occhi più visibile in segno di terrore, il bianco degli occhi di mio padre più visibile quando gli annunciarono – La operiamo giovedì, amico e lui, che secondo la sua opinione non aveva l’età per morire, a masticare gli occhi del macchinista frugando nelle tasche in cerca del fazzoletto e non sapendo cosa farne del fazzoletto, metti via il fazzoletto che non ti libera dall’angoscia, mio padre pesantissimo sulla sedia perché il corpo aveva cessato di appartenergli, quel che gli apparteneva era un’escrescenza in quel corpo che gli mandava prolungamenti di dolore (non esattamente dolore per ora, quasi dolore soltanto) nel petto e nelle braccia, l’orologio da polso del medico riempiva tutto, il sangue nelle vene degli altri, grandi boati 179

lenti, il mondo, fino ad allora discreto, si dilatava di suoni con in fondo la bara dove lo avrebbero disteso, un piccolo guanciale di raso per la nuca, pizzi tutto intorno e il coperchio verticale contro il muro, in attesa, restituì il fazzoletto alla tasca, si sentì abbandonato, lo tirò fuori di nuovo ma l’abbandono continuava, le persone intorno, sebbene immobili, indietreggiavano senza sosta, mia madre, mio nonno, io inchiodato lì, se avesse allungato le braccia, e noi a pochi centimetri, non sarebbe riuscito a toccarci, non fosse stato malato – Non ha niente, signore ma siccome era malato – La operiamo giovedì, amico le palle di ottone senza rotolare dal letto, mia madre lo aiutò ad alzarsi nel momento in cui uno dei prolungamenti del quasi dolore davvero dolore, vale a dire un’impressione che era cresciuta e svanita, mio padre – Sono guarito e nessun dolore, che fortuna, si sono sbagliati, tuttavia il medico a cerchiare con il dito un arcipelago bianco nella radiografia fra l’altro piena di arcipelaghi bianchi, probabilmente un arcipelago normale fra decine di arcipelaghi normali, a che scopo indicare a mia madre – È qui se un arcipelago normale, innocente, e anche se non innocente gli apparecchi si sbagliano, hanno tanti difetti, basta un’interruzione di corrente o una lente non troppo pulita, che chiamino un tecnico per ripararli e ripetano l’analisi, dev’esserci una preghiera efficace, come si prega, ditemi, una delle capre raggiunse la rupe successiva malgrado i nibbi con gli occhi più duri dei miei che s’intorbidiscono senza motivo, mia nonna sotto la coperta senza capire la malattia – Jaime? con un’allegria indecisa, tutti noi, alla fine, indecisi, visto che stupidi non siamo, la mano disinteressata del medico 180

strinse quella di mio padre e cioè un po’ mano e un po’ fazzoletto e le dita sembravano appartenere alla parte di fazzoletto, non di carne, di stoffa – Giovedì, amico chiamando mia madre in corridoio mentre mio padre tentava di udirli protendendosi verso la porta, volendo e non volendo ascoltare, a che scopo ascoltare quello che sapeva già, persone che parlavano intorno a lui senza che lo interessassero le parole anche dopo che la luce sul soffitto, che si andava spegnendo a poco a poco, si spense del tutto, vale a dire la luce spenta per lui, non spenta per gli altri che si avvicinavano per toccarlo e lui ad accorgersi che lo toccavano senza sentire che lo toccavano, lui – Non chiudetemi le palpebre e loro a chiuderle – Non mi mettete quel vestito e loro a metterglielo, volle slegare il cavallo e non trovò l’anello, lo avevano rubato, guardò meglio e trovò le redini, la sella, pensò – Me ne vado si accorse del galoppo, dei lampioni del paese e tuttavia lui fermo, vale a dire ciò che si muoveva, fermo, eccetto mio padre che scivolava di lato con un’inerzia di fango, mia madre per qualche secondo e poi nulla oppure lui nella tenuta diretto al frutteto, il profumo delle ciliegie, delle albicocche, un uccello, nessun uccello, una specie di brezza che lo separava dalle cose, si ricordò del triciclo – Il mio triciclo? ed eccolo lì in cortile, senza un pedale ma ancora funzionante, l’amministratore – Non vada troppo veloce, signorino mio padre felice, per la prima volta in tanti anni felice, il medico – È guarito sul serio 181

e sono guarito, proprio come pensavo è stato uno sbaglio, un errore, decine d’anni come minimo e felice, la capra che aveva raggiunto la rupe successiva belava perché nessun’altra rupe, un burrone e i nibbi in attesa, le dita di mio padre sulla faccia – Di chi sono questi tendini? questi tendini, queste cartilagini, questa nausea che persiste, la palla di ottone che rotola chissà dove, la capra inginocchiata sulla rupe che rabbrividisce al sole, se non fosse per il fil di ferro in gola quante cose potrei raccontarvi, la caduta dell’animale, i nibbi e i cani che si disputavano i resti fuggendo, ritornando, raggruppandosi, il taxi finalmente in visita la settimana scorsa e mio nonno – Siamo due uomini, ragazzo con il pontile di Trafaria in mente e mia madre che controlla il portapane accartocciando fatture – Che ne è del denaro, nonno? vorresti di nuovo il granaio, mamma, vorresti la soffitta, mia madre stranita – Cosa dice? e mio padre – Non capisco quale granaio, quale soffitta, quale tenuta, non è mai esistita una tenuta, Trafaria sì, le cornacchie, Lisbona sull’altra estremità dell’acqua, mio nonno – Dov’è Lisbona? un’isola di canneti dove ibis, beccacce e né ibis né beccacce, rondini di mare, non vi preoccupate per me, lasciatemi qui in pace, mia nonna sbattendo le palpebre sotto la coperta – Io ti conosco? ormai non più nonna, una cosa, la pelle cosa, le unghie cose, la paglia dei capelli cosa e tuttavia, prima della tazza da tè che tremava sul piattino, c’era stata un’epoca in cui lei viva 182

a giudicare dalle fotografie, in una di queste lei con un bambino in braccio (mio padre?) in un’altra con due cani, uno l’avevo conosciuto, ormai paralitico, confinato nella cesta che mia madre disinfettava di malavoglia – Che vita in una terza mezzo nascosta in un gruppo di Carnevale perché nasi finti e mio nonno mascherato da donna che mandava baci all’obbiettivo con mio padre bambino che lo guardava perplesso, il cane che avevo conosciuto nella cesta scosso dai sogni (mio nonno a mio padre – L’anno prossimo vesto da donna anche te) gli davano cucchiaiate di minestra al mattino e alla sera, mio nonno afferrava il collo di mio padre nella cornice – Dove pensi di andare? oltre alle cucchiaiate di minestra al mattino e alla sera, acqua in gola con una pipetta scacciando le mosche che lo credevano defunto, all’epoca della salute era mia nonna che lo portava a passeggio per strada, di pneumatico in pneumatico, tutto proteso in avanti avido di odori e a pisciare con disprezzo, un pomeriggio avevo trovato la cesta vuota che mia madre ordinò a mio nonno di gettare nel ripostiglio – Mi faccia il favore di togliermi questa roba dai piedi dove probabilmente decine di ceste con il midollino roso dai topi perché li avvertivo nell’intercapedine sotto il pavimento senza la forza di alzarmi ad affrontarli come non ho la forza di alzarmi oggi, mi trovo in cortile davanti al cancello che nessuno apre, finita Trafaria, finita la tenuta sebbene qualche volta mi sembri di sentire il cavallo legato all’anello e non esistono né cavallo né anello, le voci del passato non mi si rivolgono, mi hanno dimenticato (chi si ricorda di quel che sono stato e di chi sono stato?) 183

cercandosi in corridoio in ciò che sarà stato il corridoio e mobili fatti a pezzi, macerie, calcinacci, la sedia che occupava la cugina Hortelinda lamentandosi con mia madre mentre accarezzava le violaciocche – Preferirei mille volte che non mi toccasse questo compito no cavallo, no anello e tuttavia un qualcosa a perseguitarmi (che specie di libro è mai questo che si fatica tanto a scriverlo?) devo cercare la cesta nel ripostiglio per coricarmici dentro e che importanza hanno i topi le donnole i tassi le cornacchie, trascinatemi con voi nelle tane che abitate, portatemi in groppa al mulo fino alla palude per andare a trovare le rane, qual è la mia età, quanti anni sono trascorsi, quattordici, venti, trecento o nessuno, mio padre sulle scale che portano in soffitta rivolgendosi ai bauli dove mia madre non c’era – Non mi lasciare dato che l’aiutante dell’amministratore nel granaio, ci sono momenti in cui ho la sensazione di vederlo appoggiato alle grate, preoccupato per me, immagino che visiti il cimitero con difficoltà a decifrare i nomi e timore di incappare nel mio credendo che io gli appartenga e che il mio sangue il suo, all’epoca in cui nacqui girava intorno alla casa sistemando la vite vergine e mio nonno – Idiota non si capiva diretto a chi e poco dopo spari contro le quaglie con cui ci ammazzava tutti, rifiutava la cena – A che pro? se potessi dire – Nonno o sfiorarlo soltanto – Siamo due uomini, nonno 184

e non siamo due uomini, siamo e non siamo due uomini, siamo un vecchio e un ragazzo su quel che è rimasto di un pontile, vale a dire qualche tavola di legno, qualche trave, una schiumetta vischiosa visto che vischiosa visto la marea si è ritirata e sotto di noi gasolio bruciato, resti, mio nonno resti che calpestavano resti e l’aiutante dell’amministratore – Signorino sebbene le emozioni dei contadini siano difficili da capire, danno l’impressione che assenti e invece una febbre in ciò che prende in loro il posto delle viscere, quale fegato, quale stomaco, fusti, cardi, sassi e quindi non malattie, putrefazioni vegetali, frane, crolli, prima cessano di camminare, poi si coricano nelle loro ceste e un cucchiaio di minestra al mattino e uno alla sera, aprono gli occhi, compaiono, chiudono gli occhi, scompaiono, e se per caso riescono a trascinarsi – Dov’è il pozzo, signorino? con uno di quei panciotti con uno di quei panciotti con uno di quei panciotti che gli zingari vendono loro e cravatta e cappello, con la gola attraversata da un fil di ferro che intralcia le parole (cicogne sulla cisterna dell’acqua o in cima al granaio, avevo giurato che se ne avessi avuto occasione, e non avrò occasione, vi avrei parlato di loro) e una catenella, cui mancava l’orologio, che dondola sulle ginocchia – Mi aiuti a trovare il pozzo, signorino e nel trovare il pozzo pietre in fondo all’acqua limacciosa che non riemergono in superficie come i fusti e i cardi, che non pesano, non soffrono, non si lamentano, ammutoliscono, li disprezziamo e tacciono, ci arrabbiamo e accettano, li licenziamo e ringraziano, eccoli avviarsi verso la stazione ferroviaria o la fermata della corriera, perché sono le rupi che 185

appartengono loro e dove i loro zoccoli tremano, ci regalano automobiline di legno, susine, sciocchezze, così umili, così rozzi, così stupidi, a fare la ronda intorno alle grate nella speranza di vedermi fra i platani – Signorino anche se figlio loro – Signorino e sassi che cozzano senza rumore, se per caso un suono – Scusi (le cicogne sono volatili di grande stazza, sebbene curiosamente leggere, che possono talvolta raggiungere i centocinquanta, centottanta centimetri di lunghezza dalla punta del becco all’estremità della coda, normalmente di colore bianco o grigio chiaro e zampe rosso vivo, con particolare attitudine nello scegliere i venti e capaci di percorrere in un solo giorno distanze considerevoli nell’ordine di trecento/quattrocento chilometri non so quanto sia in miglia terrestri e tantomeno marittime nutrendosi di piccoli animali quali batraci e lucertole, giungono nel nostro Paese a partire dall’inizio della primavera, in genere nei mesi di giugno e luglio) e strangolano il suono (tardando per la deposizione delle uova fino a metà settembre, epoca in cui ritornano, in stormi gerarchizzati, nel Nord Africa, soprattutto in Marocco ma anche in Algeria, Tunisia o perfino in Libia o in Egitto in cerca di un clima più mite visto che non sopportano i rigori invernali, costruiscono i loro nidi preferibilmente in luoghi alti, campanili, comignoli, pali della luce, per proteggere le uova dai predatori mammiferi e da certe specie di rapaci si vedano gufi cuculi falchi civette essendo i suddetti nidi composti da rami, foglie secche e fango di aspetto disordinato e forse anarchico ma saggiamen186

te architettati dal punto di vista della comodità potendo ospitare il maschio e la femmina insieme, le cicogne formano coppie di relativa stabilità, che si alternano nei compiti di incubazione e di ricerca di nutrimento che oltre ai già menzionati batraci e lucertole può includere serpenti, pesci e avanzi di cibo umano, oltre a far parte dell’immaginario collettivo grazie a storielle fantasiose che riservano loro il simpatico incarico di trasportare neonati da Parigi alla casa dei genitori, pudico e prezioso stimolo per l’immaginazione infantile che annovera migliaia di incisioni, acquerelli, stampe, disegni e altre manifestazioni grafiche dove sono rappresentate mentre reggono nel becco, per un lembo del pannolino, bebè dai ciuccetti ridenti) e strangolano il suono in un imbarazzo colpevole simile a quello di mio padre – Scusa quando mia madre (le cicogne sono volatili di grande stazza, sebbene curiosamente leggere) ritornava dal granaio scuotendosi la gonna con fili di paglia nei capelli e un colorito allegro della pelle, Maria Adelaide, tutto quello che se fossi cresciuta mio fratello ti avrebbe dato, non io, il fil di ferro in gola mi impedisce le frasi e poi quel non so cosa in me che turba le persone, tuo padre a proposito a minacciare con il sarchio o ad abbassarsi per afferrare una zolla – Vattene via accanto al grande fico e il profumo dei fichi a farmi male, prima dei fichi quei fiorellini dove api e vespe ronzavano (che possono talvolta raggiungere i centocinquanta, centottanta centimetri di lunghezza dalla punta del becco all’estremità della coda, normalmente di colore bianco o grigio chiaro e zampe rosso vivo, viola, lilla, e determinate sfumature del rosa pallido essendo gli ultimi due colori meno frequenti) 187

i cui petali cadevano dai rami, anche senza pioggia, adagiandosi con una delicatezza di dita sulle mie spalle, sulle tue, ascendendo o discendendo in accordo con la terra che si contrae e si dilata a seconda del peso delle nubi e dell’ora del giorno, tuo padre ad afferrare un’altra zolla – Vattene via (dotate di particolare attitudine per scegliere i venti e capaci di percorrere in un solo giorno distanze considerevoli nell’ordine di trecento/quattrocento chilometri, si nutrono di animaletti ripugnanti, batraci e lucertole oltre a mammiferi di dimensioni ridotte che spartiscono con l’insaziabile avidità dei loro piccoli) colpendomi il braccio di fronte all’indifferenza e perfino all’acquiescenza (o acquiescienza?) mentre giocavi con una serie di bastoncini costruendo una diga nel canale di irrigazione, tua madre di spalle a me (l’ho mai vista altrimenti se non di spalle a me?) a mano a mano che io mi allontanavo lungo le vie e i vicoli del paese dove le tendine si gonfiavano e si sgonfiavano nelle imposte spalancate, altre zolle mi cadevano intorno, i fiori del fico sul galoppo del cavallo e mio padre che non mi vedeva in piazza, ricordo la notte che iniziava sulle montagne e voci che si rincorrevano all’interno del silenzio, arrivai alla (giungono nel nostro Paese a partire dall’inizio della primavera, in genere nei mesi di giugno e luglio, più luglio che giugno o più giugno che luglio? consacrato da queste creature di Dio, che tutto vede e provvede, alla deposizione delle uova che dura fino a metà settembre, epoca in cui ritornano in stormi agli Stati mediterranei dell’Africa, Marocco, Algeria, Tunisia o perfino Libia o Egitto in cerca della mitezza di un clima che con la sua temperatura le difenda dai pericoli e dai rigori invernali) 188

arrivai alla tenuta riconoscendola solo dai discorsi del grano (trasportando i piccoli che molte volte non sopravvivono al viaggio, dando luogo in questo modo all’inevitabile selezione naturale così importante per la sopravvivenza della specie) e poi la casa con la lampada della veranda torbida di scarabei e di quelle farfalle che non ci sono di giorno, orribili, pelose (costruiscono i loro nidi preferibilmente in luoghi alti, campanili, ciminiere di fabbrica, pali della luce, al fine di proteggere le uova dai predatori mammiferi e da certi rapaci gufi cuculi falchi civette essendo i suddetti nidi composti) e al contrario del tuo fico, Maria Adelaide, i nostri senza fiori, frutti che non crescevano o che sarebbero cresciuti chissà quando, nel coricarmi vidi il cavallo che mangiava da un canestro di sparto, udivo il tintinnare delle staffe (continuo a udirlo) quando lui si muoveva (continua a muoversi) e il profumo della biancheria che mia madre piegava in soffitta scendeva sopra di me nello stesso modo in cui credo che le acque si chiusero sopra il macchinista, tranquille, la matita ai miei genitori l’ultima volta che il taxi al cancello – Forse è più calmo ed è vero, sono calmo (da rami, foglie secche e fango per cui di aspetto disordinato e forse anarchico ma saggiamente architettati dal punto di vista della comodità potendo ospitare il maschio e la femmina insieme, i quali si alternano nei compiti di incubazione e di ricerca del nutrimento necessario al loro irrobustimento che oltre ai già menzionati batraci ecc., può includere vermi, graminacee e avanzi di cibo umano, oltre a far parte, si suppone da secoli, dell’immaginario popolare collettivo gra189

zie a storielle fantasiose che riservano loro il simpatico incarico di trasportare) coricato sul mio letto, nella mia stanza, dopo aver attraversato il salotto quello che era stato il salotto ma senza mantovane né vetri, un cassetto da cui fuoriuscivano carte il corridoio (quello che era stato il corridoio e oggi mobili sfasciati, calcinacci) e altri vani che mi risparmio di menzionare, ho appoggiato il cuscino alla testiera, ho tirato su il lenzuolo, ho spento la luce e comincio ad avere comincio ad avere sonno, ho smesso di udire il cavallo e il tintinnare delle staffe, le voci del passato e gli svariati rumori del mio corpo, singhiozzi, borborigmi, gorgoglii, la matita aveva ragione, mamma, sono calmo e mentre mi addormento con il profumo dei tuoi fichi in mente, Maria Ade (neonati da Parigi alla casa dei genitori, pudico e prezioso stimolo per l’immaginazione infantile così bisognosa di esempi che non la scandalizzino, e che annovera centinaia, cosa dico, migliaia di incisioni, acquerelli, stampe, disegni e altre manifestazioni grafiche più o meno felici che le rappresentano mentre reggono) laide, mi sono accorto che il cuore (mentre reggono nel becco, sono riuscito a dirlo) si fermava ed è stato con il cuore fermo che il meccanico – Dov’è il pozzo, signorino? no, che mio nonno (per un lembo del pannolino, bebè dai ciuccetti ridenti) – Siamo due uomini, ragazzo ha richiuso il coperchio del pozzo su di me e si è allontanato sull’erba per non svegliarmi.

190

III

1.

Ci sono momenti in cui mi sento così sola che tutto grida il mio nome, centrini ninnoli attaccapanni stoviglie, come un tempo, quando mia madre mi cercava in cortile – Maria Adelaide dove mi nascondevo in un angolo del muro mimetizzandomi con le pietre come facevano i rospi e le lucertole, e cioè quasi inginocchiata a terra a respirarne l’odore mescolato al mio odore perciò anch’io terra, non busto né braccia né gambe, boccioli, piante, insetti e qualcosa che ignoravo cosa fosse a crescermi nella pancia, quella specie di fango di cui le donne sono fatte e che talvolta sentivo a mia madre, costruivo una diga con bastoncini e foglie senza pensare a nulla, muovendo le mani per assicurare a me stessa che viva e mia madre enorme perché gli adulti enormi – Maria Adelaide sui gradini della cucina, enorme come io enorme adesso, questo divano, la notte, con il mio sangue che pulsa non solo nelle vene, nell’intero appartamento, uscendo da me verso le mensole e i vasi e tornandomi nel petto, io a sei anni in cortile e a cinquanta qui e tuttavia la stessa pietra per nascondermi dagli altri, convinta che ci fossero altri e non ci sono altri, c’è mio marito di cui preferisco dire – Non è ancora arrivato 193

e mio cognato, dal giorno, dopo la morte dei miei suoceri, in cui lo dimisero (non so se l’ho scritto giusto) dall’ospedale e lo prendemmo in casa, lui invece di salutare – Che ci fai qui se sei morta da bambina? riferendosi a un corteo di ceri dentro a bicchieri di carta e ai rami degli alberi quando i passeri li abbandonavano e io pensavo – Non sono morta perché mia madre non la smette di chiamarmi e di fatto il mio nome – Maria Adelaide pronunciato da lei o dai centrini dai ninnoli dagli attaccapanni dalle stoviglie e io ad andarle incontro con il mio odore di fango, angosciata dallo stupore di mia madre – Sei già donna? mi ricordo dei mandarini che ingrassavano l’estate (tante imposte aperte) di mio cognato che mi spiava dal muro e di mio padre che gli lanciava zolle di terra – Vattene via senza che lui sembrasse accorgersene, mi è finito il fango, le cosce mi si sono seccate, che odore ho oggi, se domando a mio marito – Dimmi che odore ho oggi, non mentire un gesto che si dissolve nella forchetta e le spalle di mio cognato che rabbrividiscono, dicono che avesse fatto la ronda senza posa intorno alla mia stanza quando mi ero ammalata e quel che ricordo sono ombre, l’ombra della santa sul tavolo, l’ombra dell’infermiere, un decotto in un boccale – Bevi questo e l’ombra delle montagne che mi pesava nelle ossa impedendomi di chiedere aiuto e io incapace di piangere, erano 194

le pieghe del lenzuolo che si lamentavano dei dolori, la mia pelle non si lamentava di niente, mio padre altre zolle – Vattene via e allora sì, mio cognato fuggiva, forse anziane vestite a lutto e quindi sono morta da bambina, le ombre della santa e dell’infermiere sotto l’ombra delle montagne – Dimmi se ho un odore da defunta, non mentire e mio cognato a guardarmi senza guardarmi, quando dormivo ero sicura, senza sollevarmi dall’interno del sonno per lanciargli zolle di terra – Vattene via che si avvicinava al cuscino, il fango di nuovo nel mio corpo, io donna di nuovo e a detestarlo perché donna di nuovo, non fare caso all’odore, mamma, a che serve essere donna se non ho avuto nemmeno un figlio, posavo la mano sulla pancia e la pancia più immobile della schiuma della palude, nessuna rana, nessun piccolo di tucano a formarsi tra le canne del nido, forse mio suocero a galoppare nel grano fra la tenuta e il paese, forse il padre di mio suocero sul mulo ad arrabbiarsi – Non hanno seminato il granoturco indicando – Manca la recinzione intorno al pascolo disapprovandomi se mi incontrava in salotto – Così magra e disapprovando mio marito dato che io magra – Idiota trascorreva le sere in veranda a minacciare il mondo e io con voglia di costruire una diga con bastoncini e foglie, mio marito sul materasso – Maria Adelaide lo sentivo aumentare accanto a me, spostare la coperta, svestirmi e io immobile dopo che il sudore e la tosse si erano allontanati, ovvero rimanevano accanto a me in un’indiffe195

renza stanca, la bottiglia sul tavolino da notte così chiara, e il soffitto, la mobilia e noi, invisibili, la bottiglia mi sembrava un cero in un bicchiere di carta nel vento, mi basta un cero per capire che sono finita così come i genitori dei miei suoceri e i miei suoceri sono finiti, così come mia madre è finita ripetendo – Non vedo io a tenerle le mani e lei – Tienimi le mani non lasciarmi incapace di accorgersi che la stavo cingendo con le mie, gli occhi aperti, che non mi vedevano, mi cercavano sul copriletto (non dimenticare i tafani, tanti tafani sul paralume) ereditato da chissà chi e che probabilmente – Non vedo in un altro posto, in un’altra stanza, con piante in un vaso che le rubavano l’aria, mio padre – Come sarebbe a dire? impedendoci di vestire mia madre – Ti lasci portare via? rimettendole i vestiti nell’armadio, chiudendo l’armadio e appoggiandovisi – Tua madre rimane qui ordinandoci di mettere il vaso in corridoio perché le arrivasse l’aria – Dopo mangiato starà meglio portandole una minestra, un frutto e un bicchiere di vino, talmente nervoso che la minestra e il vino traboccavano e lui teneva fermo il frutto, che rotolava, con il pollice, mio padre posandole il vassoio in grembo – Mangia sicuro che mia madre gli avrebbe obbedito nella morte così come gli aveva obbedito in vita, mio padre con le mani sui fianchi, a una certa distanza dal letto perché lei ca196

pisse chi comandava, i due sopraccigli in un unico sopracciglio severo – Allora? e anche mia madre severa oppure non severa, assente, il tovagliolo, che non si era messa intorno al collo, con fiorellini ricamati, non posso dimenticare i gambi di filo blu e i petali verdi, così come non dimentico le nubi nella finestra, rotonde prima della pioggia, del disagio, del freddo, mio padre afferrandola per le spalle – Mi stai prendendo in giro? finalmente a capire e a guardarmi spaventato senza smettere di afferrarla non come chi tiene una persona, come chi tiene una cosa, lasciandola andare di colpo e mia madre sul cuscino, molle, con i fiori del tovagliolo che sembravano risentiti e mio padre ai fiori – Zitti voi indietreggiando con la mano sulla bocca mentre evitava gli spigoli dei mobili senza accorgersi di evitarli, barcollando sui gradini privo di autorità, andò a prendere il liquore di corbezzolo in cantina, guardò il liquore, lo lanciò contro il muro dov’era comparso mio cognato, no mi sbaglio, lo lanciò contro mia madre morta – Non ti voglio qui, vattene e una macchia viola mista a cocci che cambiava forma colando sui mattoni, mio padre a calpestare cipolle fatte di strati sovrapposti proprio come la vita, il giorno dopo scarpe e ancora scarpe nei vicoli del paese, centinaia di zoccoli di cavallo o di mulo e gli uomini dietro stringendo i cappelli contro le anche, mio padre in mezzo a loro – Ti lasci portare via? appoggiato alla croce di un soldato di Francia dove non si udivano preghiere né colpi di piccone o di pala, solo uccelli sui pioppi e la campana della cappella che cantava (quando dico cantava è davvero cantava, non rintocca197

va, non triste, o per lo meno immagino, dopo tutto questo tempo, che davvero cantasse oppure mio padre immaginava che davvero cantasse, umiliandolo – Vedovo dovettero impedirgli di salire le scale per far tacere il suono con l’aiuto del liquore di corbezzolo che gli spuntava dalla tasca – Nessuno può prendermi in giro e con l’aiuto del liquore si dimenticò del funerale e prese a ripetere sotto la croce dopo aver promesso di tagliare la gola al campanaro – Ti ammazzo il quale si limitò a togliergli il coltello e a mandarlo via senza prendersela, per compassione) e per via della morte di mia madre smisi di mimetizzarmi con le pietre come i rospi e le lucertole perché avevano smesso di chiamarmi – Maria Adelaide dal gradino della cucina e da allora il mio nome silenzio finché i centrini i ninnoli gli attaccapanni e le stoviglie si sono ricordati di me, per compassione come il campanaro con mio padre sapendolo solo, e malgrado solo a mettere tutte le sere la minestra e il bicchiere e il frutto e il tovagliolo a fiori sul vassoio, a osservarlo un momento (anche il vassoio con una tovaglietta a fiorellini blu e verdi) e a rovesciarlo in cortile – Eccoti il pranzo non infelice, arrabbiato, tremante come un vecchio cane e senza scacciare mio cognato visto che non esisteva più nulla oltre a mia madre – Mi stai prendendo in giro? che morendo gli aveva mancato di rispetto, circondato di bottiglie di liquore e a utilizzare come fazzoletto il tova198

gliolo ricamato, insultava un cero in un bicchiere di carta che aveva conficcato per terra ordinando – Vattene via finché, con le gelate di novembre, cominciò a desistere, un mattino, mentre raccoglievo federe dallo stenditoio lo trovai con il palmo sul petto che mi fissava come se mi vedesse per la prima volta e smettesse subito di vedermi pur continuando a fissarmi, e continuò a fissarmi accasciandosi e dopo essersi accasciato sul gradino sotto la pergola biascicando, credo (non ne sono sicura) – Non lasciarmi portare via o – Dopo mangiato starò meglio oppure le due frasi intercalate al nome di mia madre (nemmeno di questo sono sicura) non avendola mai perdonata, irritato con lei, e io a fissarlo a mia volta con l’odore dei fichi quasi impercettibile in autunno, un’essenza diffusa e nient’altro, nessuna foglia sui rami, e perfino nessun ramo, un rospo che si sporgeva piegato su di sé e con le dita separate, dal davanzale di se stesso, e io che mi domandavo, piegata come l’animale – Che cosa sento? insistendo – Mio Dio che cosa sento? e senza scoprire quel che sentivo, sicura che mio cognato, ignoro dove, mi stesse osservando, tutta la vita mio cognato a osservarmi – Maria Adelaide sotto i platani dell’ospedale e nelle stanze di casa, io a mio marito – Tuo fratello mio marito un gesto che si dissolveva nella forchetta e le spalle di mio cognato che rabbrividivano gridando il mio 199

nome sui centrini i ninnoli gli attaccapanni e le stoviglie, io alla morte di mio padre – Che cosa sento? e senza sentirmi sola, salvo che la casa aveva smesso di essere la casa e il cortile il cortile, gli utensili estranei, le cose avevano smesso di parlare con me, la mia ombra quella di una creatura che non mi apparteneva, che Maria Adelaide sono cercando quel che rimaneva dell’odore dei fichi così diverso dall’odore di fango che mi faceva vergognare di essere della terra di cui le donne sono fatte, meno che uomini, meno che bestie e un segreto nel mio sangue che – Cosa ne sarà di me? perciò preparai il vassoio con la tovaglietta e la minestra e il frutto e il bicchiere e il tovagliolo blu e verde e lo offrii a mio padre sollevandogli il capo da terra (che cosa succede ai morti che diventano così pesanti, ditemi) perché potesse mangiare – Il tuo pranzo, papà e malgrado le palpebre abbassate (gli si erano abbassate le palpebre e non ci fu bisogno di monete per mantenerle chiuse) lui ancora lì a fissarmi, coricato dalle vicine sulla coperta del corrredo con le scarpe di un cugino e mazzi di violaciocche intorno, il cugino gli sfilò le scarpe prima che lo calassero nella fossa – Sono mie chiesi – Un momento all’uomo della pala, volevo andargli a prendere gli stivali perché entrasse completo nella morte ma mi trattennero per il braccio – Non lo disturbare, ragazza perché i defunti non si fanno male a camminare scalzi 200

laggiù, quella notte lo sentii sotto il pavimento, scocciato per la mancanza di luce, in cerca di interruttori e spaventandosi – Cos’è questo? questo è il tuo destino, padre, errare al buio in una casa identica in tutto e per tutto alla nostra ma che non riesci a vedere, gli stessi mobili e fra i mobili l’armadio contro il quale ti eri appoggiato impedendoci la camicetta – Tua madre rimane qui se mi avanzasse una bottiglia te la darei insieme alla cagna con cui andavi a caccia, le parleresti delle lepri che appendevi alla cintola e la cagna ti salterebbe intorno o gratterebbe il pavimento per riportarti fuori dato che pernici in mezzo agli arbusti e una lepre su un declivio visti i sussulti delle ginestre, mio marito incredulo – Una lepre a Lisbona? mentre mio cognato avvistava la lepre seguendola dalla finestra, ci sono volte in cui mi sento così sola che tutto grida il mio nome, perfino mio padre sotto la casa, dove lui continua a camminare senza posa e ormai non mi domando più – Che cosa sento? perché so che cosa sento, mi sento costruire una diga con bastoncini e sassi non per trattenere la pioggia ma il tempo, per esempio gli anni in cui il fico fioriva due volte, fichi quasi in inverno, giuro, e mia madre che mi strappava dalle mani il cesto spaventata dal miracolo – Non toccarli per cui cadevano intatti nei canali di scolo, quando mi ero ammalata l’infermiere aveva convinto i miei genitori a tagliarmi le trecce perché il sangue non si sprecasse ad alimentarle, io a mio marito – Ti ricordi le mie trecce? e la convinzione che mio cognato, che non parlava con nessuno, se ne ricordasse, perché non ti siedi accanto a me e parliamo un po’, perché devo lasciarti il pranzo sul balcone 201

affinché tu acconsenta a mangiare rivolto agli alberi della piazza, l’impressione che perfino la tua immagine riflessa negli specchi ti spaventi, se mio marito il tuo nome, ti copri gli occhi con la manica convinto che se ti copri gli occhi con la manica non sei, rimani al sicuro con te stesso, come facevo io quando mia madre mi chiamava e senza occhi né orecchie garantivo a me stessa – Non hanno detto bè nell’aprire gli occhi la notte e mia madre con me in braccio verso casa, i miei genitori un’altra figlia prima che nascessi io, ovvero non figlia, la fotografia di una bambina, che non mi assomigliava, con una cuffietta bianca, un colletto bianco, una medaglietta al collo e mia madre che si faceva il segno della croce nel passarle davanti, la medaglietta in una scatola insieme a un braccialettino con il fermaglio rotto, nel provarmelo me l’avevano strappato dal braccio – Nemmeno dei defunti hai rispetto e io senza capire la mancanza di rispetto dato che il braccialetto autentico era quello della fotografia, non quello lì, quando mi ero ammalata avevano collocato il ritratto di mia sorella in camera mia raccomandandole – Prega per lei convinti di persuadere Dio a impietosirsi e l’odore del fico più intenso, la domenica la campana cantava e io a pensare – Sono morta sicura di essere morta e magari una cuffietta, una medaglietta, un colletto, vedevo il sarchio di mio padre nell’orto sotterrarmi tra i fagioli e i cavoli, quando nascevano dei gattini mia madre li infilava in un sacco e li annegava nel lavatoio, qualche zampata, cioè quasi nulla, perché annegarli se quasi nulla, se nulla, credo che anche mia sorella nell’orto perché a volte la cagna fiutava, se avessi scavato con le mani la cuffietta, il braccialetto, il collettino di pizzo 202

– Come si chiamava mia sorella, papà? e silenzio, i morti perdono il nome e anch’io senza nome, il fotografo arrivava con una macchina enorme – Non muovere nemmeno un capello scompariva dietro al panno nero, sparava un colpo al magnesio ed eccomi lì a meravigliarmi dei vivi – E voi chi siete? come mia sorella – Chi sei tu? con voglia di addormentarsi accanto a me – Hai già incominciato a sognare? chissà cosa mi accadrebbe se ci scambiassimo i sogni, sarei mia sorella, sarei me, quale delle due si è sposata, abita qui, domandare a mio cognato – Da quanti anni mi spii? un pomeriggio mi aveva regalato un’automobilina di legno che mio padre aveva gettato alle imbrentine, il medico a mio marito battendo la matita sul ripiano – Sul serio intendete prendervelo in casa? e, cadendo, l’automobilina si era sfasciata, nel cortile dell’ospedale una fontana, platani, mio marito gli aprì la portiera dell’auto e lui – Jaime? lui – Siamo due uomini, ragazzo e dopo in silenzio sul sedile con le mani nascoste dentro alla giacca, l’automobilina di legno che non valeva un fico secco e mio cognato che tentava di aggiustarla incastrando pezzi mentre i tucani della palude palpitavano sopra di noi, la mia foto non in una cornice, nella scatola delle cose superflue (chiodi storti, un cacciavite senza manico, flaconcini) e nemmeno un bracciale mi avevano dato, mio marito – Jaime? 203

con un ricordo sbiadito che gli si formava dentro – Mia nonna l’eco di una tazza su un piattino (quale tazza su quale piattino?) e il padre di mio suocero che scendeva dal mulo davanti alla casa che non esiste in una tenuta che non esiste, mio marito – Era lì che mia madre e interrompendosi sotto i pipistrelli delle travi, mio cognato sorvegliava la soffitta come se lassù qualcuno fra i bauli e lui attento, in attesa, come quando mio marito e io chiudiamo la porta della camera da letto e mio cognato fino al mattino in corridoio senza un movimento, un gesto, quasi appoggiato alla maniglia e noi incapaci di prendere sonno, io di colpo così sola che tutto, centrinininnoliattaccapannistoviglie gridava il mio nome – Maria Adelaide vorrei una cuffietta bianca, un colletto, una medaglietta e smettere di essere, quante volte ho chiesto a mio marito di riportare suo fratello in ospedale per potermi dimenticare che sono morta e scoprire che sono viva, non mi abituo a Lisbona, questi viali che mi spaventano e questa gente che mi ignora, quante volte ho domandato a mio marito – Perché devo abitare con tuo fratello? e mio marito un gesto che si dissolve nella forchetta, questione di un attimo, non un gesto, una vocina infantile – Perché non ho più nessun altro più nessun altro che mi ricordi chi sono stato e mi mostri chi sono, e un non so cosa nei suoi occhi che mi fece venire voglia, che difficile dire questo, di cullarlo e allora mi accorsi che viveva accanto a me, non con me, o con il fratello invece che con me, sebbene si occupasse di lui soltanto la domenica portandolo in battello a Trafaria che rappresentava per entrambi il limite del mondo, rimanevano su un pontile 204

trasandato con intorno le cornacchie che beccavano alghe nella sabbia e una serie di baracche coperte dalla stessa sabbia, mio marito e mio cognato sulle assi fradice, mio cognato chiuso in se stesso e mio marito senza trovare compagnia e ogni tanto uno dei fratelli, no, ogni tanto mio cognato – Siamo due uomini, ragazzo con una voce che non era la sua, era la voce del padre di mio suocero che si esprimeva al posto suo, visto che non riusciva a esprimersi, in un’epoca in cui la casa intatta e il grano cresciuto, prima l’amministratore, poi un altro amministratore, capre sulle rupi e io senza sapere bene con quale dei due sto, quello che dorme con me o quello che attende dietro la porta, il medico battendo la matita sul tavolo – Perché non lo lasciate qui? e io a concludere, nel sentirli di ritorno sulle scale, che non sto con nessuno dei due, una voglia che mia madre – Maria Adelaide e io non rospo, non lucertola, io donna incamminata verso casa, mio marito che ordina non come un adulto – Aspetta come un bambino, chiede con un filo di voce che muore e che rinasce – Non mi abbandonare, aspetta lui che non è mai venuto a cercarmi in paese, lo cercavo io, così come mio cognato cercava me, lo aspettavo in cortile tenendo d’occhio il cancello e lo aspettavo ancora di più quando ero diventata fango e il mio odore e il mio corpo erano cambiati così come continuai ad aspettarlo quando ormai abitavamo insieme perché lui non era la mano che mi avvicinava a sé senza parlare né il peso nel corpo né il dolore che accompagnava quel peso e che prima mi catturava e poi mi respingeva, era un moccioso abbracciato al padre in groppa al cavallo per i vicoli del paese, se mio marito – Maria Adelaide 205

io così felice, signori, se spingessi la porta come si spinge un cancello io saprei che sei tu perché tuo il rumore, il mio fango a riposo come prima che nascesse dentro di me e non un peso nel mio corpo e un dolore ad accompagnare quel peso – Non mi farai male? dato che non mi facevi del male, non mi hai fatto male, non mi hai mai fatto male prima di tuo fratello con noi, se calpestando il tappeto ti accorgessi della diga che continuo a costruire per te in corridoio, in cucina, per quale ragione non sei donna come me senza smettere di essere uomo, nel momento in cui si accendono i lampioni, Lisbona mi sembra intima, nostra, e non una città, non un luogo, una stanza, mi piacerebbe che tu, che noi senza tuo fratello, per quale motivo lui qui (il medico battendo la matita sul tavolo – Sul serio intendete portarlo via?) a spiarmi, a spiare te e a diffidare di noi, ci lancerà addosso zolle di terra come se in questa casa un gradino e un cortile – Andatevene o afferrerà un coltello, un martello, non so, e noi divorati dalle donnole in cortile, mio marito un gesto che si dissolveva nella forchetta e io che pensavo hai paura di perdere te stesso perdendo tuo fratello, come hai perduto i tuoi nonni, i tuoi genitori e la tua infanzia insieme a loro, hai paura che rimanga nei campi un cavallo senza freno né sella, il rumore degli zoccoli nella tua testa e tu in piedi in mezzo al salotto – Per l’amor di Dio smettetela l’amore che hai cessato di darmi e non so se tu mi abbia mai dato visto che non erano amore il tuo peso o il tuo silenzio se parlavo con te e la tazza di una vecchia su un piattino, dita sottili che ti porgevano un biscotto – Bimbo 206

e gli zoccoli non smettono perché il cavallo galoppa per sempre, hai paura di rimanere solo in una casa che non esiste più, sempre che sia mai esistita, sebbene abbia visto da lontano le statue di ceramica cui mancavano dita sulla balaustra del tetto, chi mi assicura che non sono morta da bambina come pensava mio cognato e la foto di mia sorella con la cuffietta e il colletto mia, e di conseguenza nessuna sorella, io, questo non è un libro, è un sogno, alzati dalla diga, Maria Adelaide, non credere a quelli che fanno la ronda intorno all’orto richiamati dal tuo fango come le capre richiamano i nibbi credendo di scacciarli, alzati, Maria Adelaide, dallo sgabello in salotto, chiudi a chiave la stanza, impedisci loro di entrare, intrattieniti con il braccialettino, il colletto e quella bambola, senza una gamba, poveretta, che ti aveva regalato la zia e tuo marito – Cos’è questa roba? quando l’avevo posata, con un solo sopracciglio, un terzo della bocca, qualche filo di lana per capelli sul tuo lato del letto, e lui afferrandola per il collo come il nonno con le pernici e facendole male come facevi male a me dopo aver spento la luce – Cos’è questa roba? gettandola per terra senza la minima considerazione, tuo marito a impedirti di raccogliere la bambola – Che te ne fai di quella porcheria? ad afferrarti il polso come il nonno afferrava il polso delle domestiche in cucina – Vieni qui spingendole verso la dispensa, la cantina, la legna del fornello, l’amministratore a incitarlo – È ancora un macho, padrone e lui ad aborrirle come tuo marito aveva aborrito l’unica compagnia che avevi avuto e con la quale avresti potuto conversare per anni proteggendovi a vicenda da tua madre, 207

da tuo padre e dalle minacce dell’aurora nei momenti in cui tutto intorno a te – Maria Adelaide a ogni pie’ sospinto, un abisso che ti separava dagli altri, la bambola che nascondevi, prima che lui rincasasse, sotto le coperte, nell’armadio, e che quando lui non c’era prometteva che non saresti mai morta, tu che sei morta da bambina e quel che vive di te è un’ombra che tuo cognato insegue, un dito che ti cerca e che si nasconde in tasca senza osare toccarti, lui che non sa che cosa significhi il fango – È più lui, oggi, vero? desideroso di un padrone, tuo cognato – Che vita senza sapere quello che dice, alzati Maria Adelaide, ritorna in paese, mimetizzati con le pietre e dimentica, hai sei anni, sette anni e fra non molto la febbre, l’indifferenza, la distanza, un odore di sciroppi, un alito di canfora e non è tua madre che insiste – Non vedo sei tu dentro a una spirale di nebbia fino a quando anche tu nient’altro che nebbia, ti fai piccola sul materasso nella speranza che tuo marito si dimentichi di rubarti a te stessa, con tuo cognato dietro la porta non ad ascoltare voi ma le onde di Trafaria contro i pilastri del pontile che vi trasformano in resti che la marea abbandona sull’ultima spiaggia che un giorno conoscerai e nel conoscerla perderai, vale a dire nemmeno un’orma sulla sabbia o una traccia dei tuoi passi, una distesa intatta senza gabbiani né cornacchie, un luogo di silenzio dove l’assenza di te si dilata e si dissolve perché ormai non sei nessuno, tuo cognato che avevano finito per sistemare non all’ospedale (– Mio fratello non ci torna in ospedale) ma in una casa sulle sponde del Tago accanto a una baracca dove certi anziani giocavano a carte su un tavolo che 208

era un pezzo di porta con il chiavistello ancora avvitato al legno, tuo marito si attardava con lui credendolo solo finché non capì che lui non solo (la matita del medico – Vivono circondati di voci) e non voci, presenze, non spettri, creature vere e proprie, tuo cognato con il padre e la madre e il nonno e la nonna e te e tuo marito e l’amministratore e il granaio e le capre, tuo cognato allo stesso tempo nella tenuta e a Lisbona, convinto che un giorno le rane sarebbero arrivate dalle giuncaie, senza bisogno di voci perché ci aveva con sé così come il portapane e la mancanza di denaro e il nonno che non si preoccupava di alcunché salvo del mulo e dei raccolti, preoccupato per lui e per una cugina Hortelinda, con il cappellino con la veletta, trovata da tuo cognato in una delle fotografie del salotto mentre in realtà nessuna cugina Hortelinda che faceva cadere petali di violaciocche su di noi scusandosi – Così dev’essere, perdonate perciò non stare in pena per lui, che è sempre con voi salvo la domenica quando il nonno che non esiste lo chiama a Lisbona – Tu loro due sul battello, non in groppa al mulo con l’amministratore accanto e il nonno – La recinzione o – Il grano sulla riva opposta del fiume circondati di beccaccini e di rondini di mare che divorano la ruggine che lo scafo abbandona sulla schiuma (come possono cibarsi di ruggine e di schiuma?) in visita al pontile in quel posto che chiamano Trafaria, con il nonno che gli spiega – Il mondo è grande ragazzo 209

e davvero il mondo senza fine, grande come un orticello di paese dove una ragazzina, con accanto una bambola, costruiva una diga senza rispondere alla madre che la chiamava da casa – Maria Adelaide e la ragazzina mimetizzata con le pietre come i rospi e le lucertole, inginocchiata a sentire l’odore della terra.

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2.

Mi ricordo di poche cose prima della tenuta e della casa, mi ricordo di un uomo disteso quasi al buio, perché un dente di metallo brillava, che diceva ad altri uomini difficili da distinguere nella stanza, forse perché erano tutt’uno con l’intonaco – O mi coprite il volto o portate il bambino via di qui uno degli altri uomini divenne più persona staccandosi dalla parete (anche la ceramica di una scodella brillava, fissa, sopra un tavolo o qualcosa del genere) – Va’ fuori, ragazzo mentre il dente di metallo compariva e scompariva respirando per conto suo, mi ricordo che uno degli altri uomini mi lasciò in cortile davanti alla porta d’ingresso, con le foglie del limone ora marroni ora verdi che tintinnavano mormorii, per cui mi chinai ad ascoltare meglio una brocca che rovesciava acqua in una ciotola, il prete con una valigetta piena della bontà di Dio e di miracoli, e poi mi ricordo che fu notte e allora nessuna luce, il prete stringeva mani scagionando Gesù – Il Signore ha piani che non sempre comprendiamo portando a esempio l’ex barbiere che era salito sul campanile 211

– So volare, state a vedere e aveva passato mesi all’ospedale a raddrizzarsi la spina dorsale, si giustificava trascinando la gamba – Idee e costruiva in segreto, anche se tutti lo sapevano, ali di stoffa con un’intelaiatura di stecche d’ombrello nel magazzino del negozio, l’infermiere tranquillizzava la moglie – Con il ginocchio a puttane non riuscirà a salire nemmeno un gradino, figuriamoci il campanile mi ricordo dell’inizio del giorno, prima bianco e il limone incolore, poi lilla e il limone viola mentre l’orto grigio e dopo le rondini nere che diventavano chiare, mi ricordo degli altri uomini che uscivano con una lunga cassa scacciando galline, dell’amministratore che mi additava al cimitero – È lui e il padrone in groppa al mulo che mi osservava – Non ha niente di me, sei sicuro che sia lui? avanzando lungo una fila di lapidi sul mulo che zoppicava per studiarmi meglio, con il sigaro che sembrava spento e tuttavia capace di nuvolette energiche (il barbiere alla moglie legandosi le ali con una serie di cinghie – Chi ti ha detto che non volo, razza di stupida?) il padrone si chinò su di me con un’espressione dubbiosa e la doppietta conficcata nei finimenti – Avvicinati, ragazzo rovesciandomi cenere sui vestiti, il barbiere sbatteva le ali su e giù davanti alla soglia e nessuno, statue, croci, un tizio là in fondo che raccoglieva erbe senza fretta, il padrone all’amministratore – Vedi qualcosa di mio in questo scheletro? ripiegando gli occhiali e infilandoseli in tasca, pensieroso, anche l’amministratore mi misurò – Non fuggire 212

mentre il padrone mi mostrava due angeli di gesso estraendo la doppietta dai finimenti – C’è un modo per saperlo infilò due cartucce nel caricatore una per ciascun grilletto, nello stesso istante in cui un merlo cambiava cipresso e una nota di scherno nascosta fra i rami, prese di mira gli angeli con l’indice sul grilletto destro e non udii alcun rumore, echi successivi che si allontanavano da noi fino alle pendici delle montagne e uno degli angeli decapitato, il barbiere si sollevò di un palmo – Volo o non volo, razza di stupida? e ricadde avvolto nelle stecche, il padrone mi consegnò la doppietta, proprio a me che non avevo mai tenuto in mano un fucile in vita mia – Fammi fuori l’altro, ragazzino e io a nascondere dietro le spalle quel che potevo di me stesso, braccia, viso, pancia, l’uomo disteso interrogava il buio – Avete portato via il bambino, almeno? con il dente di metallo che si appannava e la voce sillabe trascinate a forza senza che io capissi il motivo per cui le parole gli costassero tanta fatica, la doppietta troppo pesante con il calcio che l’amministratore mi aveva appoggiato contro le costole, la moglie del barbiere lo raccoglieva da terra pezzo dopo pezzo, ogni pezzo garantiva – Aspetta quindici giorni che io abbia aumentato le ali di un palmo la doppietta ancora calda puzzava di tasso bruciato e si contraeva e si distendeva come alla fine della tosse, il merlo passò dal secondo cipresso a uno dei frassini del muro di cinta, quasi appiccicato ai soldati di Francia (scommetto che ai soldati piacerebbe ritornare con l’elmo e le ghette) l’amministratore mi collocò l’indice sul grilletto sinistro 213

– Coraggio il padrone in attesa contemplando il sigaro, guardai l’angelo, guardai la doppietta, guardai di nuovo l’angelo, gli altri uomini continuavano a uscire con la cassa inclinata di lato perché uno di loro (l’unico con la cravatta) più basso, e nessuno nel letto, nessun lenzuolo, nessun materasso, tavole di legno, il grilletto facile da premere all’inizio e poi difficile, di nuovo non udii alcun rumore, udii quegli echi di prima che si allontanavano fino alle pendici delle montagne, il padrone all’amministratore, senza pietà per gli angeli decapitati – Siediti in groppa al mulo e tutti e tre insieme attraversammo la tenuta in direzione della casa ascoltando i corvi che si levavano dalla segala gracchiando per ricadere a terra come sassi, il mulo non sapeva di tasso bruciato, sapeva di polvere di tappeto come gli animali vecchi le cui cartilagini forano la lana, vidi un granaio, una cisterna dell’acqua, un frutteto, il barbiere aumentava le ali usando asciugamani e federe con un’ostinazione paziente, vidi un secchio in un pozzo e un deposito di falci, l’amministratore aiutò il padrone a smontare dal mulo dinanzi alla cucina con le domestiche (cinque o sei, all’epoca, mentre con il passare degli anni dieci, dodici) affaccendate tra il fornello e la dispensa, il barbiere tastava le ali controllando le cuciture – Va bene l’amministratore mi posò a terra e il mulo con la zampa invalida obbediente, in attesa, con un metro di corda che fungeva da redini e un pezzo di coperta da sella, non perché il padrone fosse povero ma perché l’animale lo era, pronto a disfarsi in zolle, dicendo agli altri muli difficili da distinguere nella stanza, forse perché erano tutt’uno con l’intonaco 214

– O mi coprite il volto o portate il bambino via di qui solo che non l’avrebbero sepolto al cimitero ma fra le agavi della tenuta come i muli prima di lui, i cani da caccia e magari persone, visto che la mia famiglia mancava fra i vialetti di lapidi sempre che avessi avuto una famiglia (il merlo a sostenere di no con il suo dileggio senza fine) e quale parentela, domando, fra me e il dente di metallo, mi dava da mangiare, da vestire, il padrone mi consegnò alle domestiche – Ecco, divertitevi e io che pensavo ricordandomi della doppietta – Se voglio vi decapito e niente sangue né sofferenza perché noi vuoti, di gesso, a muoverci a scatti come gli spaventapasseri del grano quando cambia il vento, ricordo la mia paura dei sibili fra le tegole – Dove sei nato ragazzo? e io durante la pioggia nella veranda di casa a guardare le gocce gialle e blu sulla lanterna, sopra alle gocce gialle e blu gocce rosa, nere, rosse, mi ricordo della coperta che mi diedero per dormire nel granaio e dei pipistrelli che abbandonavano le travi in un disordine di strida, ricordo di aver pensato – Fra poco mi mangeranno io che non ho avuto madre, ho avuto un dente di metallo, suppongo sposato con la madre che non ho avuto, mi dava da mangiare e si prendeva cura di me, mi immaginava figlio suo per non dover sopportare l’insulto di abitare con il figlio di un altro per cui non potrei nemmeno chiamarmi figlio, per quale motivo non mi aveva decapitato con la sua doppietta, quale fotografia c’era dentro la scatola nella stanza e lui a guardare la cornice con la gola in singhiozzi, il barbiere finalmente a volare intorno al campanile – Che ti avevo detto? 215

l’uomo ad avvicinarsi alla cornice e a indietreggiare subito, nel cassetto un messale senza copertina e una boccetta di profumo, l’uomo zitto anche quando il padrone, pure lui zitto, rimaneva sulla soglia accendendosi il sigaro con il frustino contro il fianco mentre il mulo e l’amministratore attendevano in strada e una donna (non mia madre, visto che non ho mai avuto madre) davanti ai fornelli a non cucinare niente di niente perché la padella vuota, il barbiere agitava le ali al di sopra degli alberi esultante – Guardami, Mariana e quando il mulo se ne andava e l’uomo di nuovo in casa (ho detto che mi ricordo di poche cose prima della tenuta e della casa e non mento) la donna metteva due piatti in tavola (non mento) e gli zoccoli del mulo sempre più tenui salvo quello che zoppicava, dando l’impressione di essere ancora presente, incapace di accompagnare gli altri in direzione della tenuta insieme ai primi scarabei e agli ultimi cani in quell’ora in cui i latrati vanno così distanti che la palude o la frontiera li sentono, le voci, anche se in sordina, invadono il paese, e la perpetua chiude a doppia mandata la sacrestia (la chiave gira dentro di noi agitandoci il fegato) per timore dei ladri delle elemosine per le Anime, durante il giorno accompagnavo l’amministratore che si occupava del granoturco, e il padrone disfacendo la brace del sigaro con l’unghia – È idiota come l’altro? (il barbiere volò via con i tucani, all’inizio in circoli lenti e poi acquistando sicurezza, fino alla primavera successiva) riferendosi al figlio interessato alle begonie della scala, il padrone conficcò il sigaro spento nelle (un grappolo di tortore occupava la colombaia) 216

gengive nel momento stesso in cui l’amministratore – Meno e fu una delle rare occasioni in cui lo udii parlare, dirigeva i contadini con l’impugnatura del coltello senza bisogno di istruzioni così come non aveva bisogno di ascoltare il padrone per sapere quel che lui voleva e non so perché mi vennero in mente i due angeli ai quali era stato impedito di pregare per la salvezza dei defunti e cui l’umidità piegava le caviglie e stropicciava le tuniche, perciò se avessi avuto bisogno di un aiutino dal Signore quale suo intimo avrebbe potuto darmelo, non era l’uomo del dente di metallo che cercavo al cimitero, era che Dio, dimenticato l’episodio della doppietta, si interessasse a me e invece nemmeno un Tuo segno sotto forma di lingua di fuoco, se lo avessi chiesto al padrone forse avrebbe messo Dio in riga, ma nelle pause del mulo il padrone in ufficio a fare addizioni mentre l’amministratore e io aspettavamo con il cappello contro il petto, lui con il panciotto abbottonato e io con le maniche tirate giù a lisciarmi la camicia, nel pollaio un gallo il cui orologio funzionava male, annunciava mattine a metà pomeriggio, e quanto alla moglie dell’uomo non me la ricordo (io non mento) mi è rimasta l’impressione di essere preso in braccio e che il profumo della boccetta si addensasse, ma era di certo un’altra persona, non mi piacciono i profumi, mamma, non mi seccare, l’uomo con il dente di metallo accovacciato con un sarchio in una curva della segala, ad alzarsi con il sarchio e il padrone senza alterare la cadenza del mulo (diedi una mano a sotterrare quel mulo dopo che gli avevano spezzato le zampe per farlo entrare nella fossa, avrei preferito aiutare la donna, morta, a quanto seppi, di una cosa maligna al polmone) né sfiorare la doppietta – Idiota 217

anche l’amministratore nessun movimento e l’uomo a lasciar cadere il sarchio, un debole come il figlio del padrone che slegava il cavallo e andava a trottare in paese, trovai il sarchio molti anni dopo, con la lama corrosa dalla ruggine, il barbiere tornò a primavera non per abitare con la moglie ma per covare uova nei pressi della palude cercando girini con il becco, il padrone chiuse il quaderno e s’incamminò verso l’uscita con l’amministratore e me dietro che calpestavo il pavimento di legno con passo felpato per rispetto, come durante l’adorazione del santissimo Sacramento, due o tre mendicanti in cucina balbettavano richieste – Signore (una tortora nascosta che piangeva, chi ha concepito le tortore le ha fatte di porcellana e lacrime) e il padrone già con i tacchi degli stivali in cortile senza voltarsi verso di noi e sebbene non parlasse a nessuno sapevamo che era all’amministratore che si rivolgeva perché a parte il – Vieni qui destinato alle domestiche e l’ – Idiota al figlio, non comunicava con persona viva – È pronto il ragazzo per prendere il tuo posto quando creperai come un cane? disinteressato alla risposta dato che gli bastava il silenzio, che strana cosa uccelli di porcellana e lacrime in una terra dove le persone, eccetto il figlio intenerito dalle begonie, erano di basalto, violenza e cardi e soltanto le donne concedevano senza lamentarsi – Sto bene che le si vedesse morire mentre insistevano – Sto bene nel momento in cui lo – Sto bene non appannava più gli specchi, e allo stesso modo in cui 218

il padrone non aveva bisogno di rivolgersi all’amministratore, l’amministratore non aveva bisogno di rispondere, afferrava le redini del mulo e gli teneva ferma una coscia perché l’altro montasse in groppa, irritato con se stesso per gli anni che aveva – Gesù non una supplica, un sentimento di oltraggio contro l’ingiustizia del tempo, l’idiota a cavallo e il padrone condannato a un animale agonizzante quanto lui, che ogni tanto rinunciava a muoversi e lo costringeva a smontare, il mulo al quale, con gli anni, anche se non lo ammetteva né permetteva che lo ammettessero, si era affezionato e adesso entrambi così prossimi alla morte che cominciava a rassegnarsi (senza ammettere neppure questo) e le lacrime delle tortore e la tazza della moglie sul piattino, sarebbe crepato pure lui come un cane lasciando una tenuta che sarebbe morta a sua volta visto che il figlio incapace di dirigerla e allora compresi la domanda all’amministratore – Pensi che il ragazzo sia pronto per prendere il tuo posto? nella speranza che non sarebbe morta se il grano e l’avena e la segala che aveva seminato lottando contro la resistenza della terra fossero cresciuti e le domestiche avessero mantenuto la casa che aveva costruito dalle fondamenta, affinché la sua memoria rimanesse viva perfino quando le ossa fossero diventate parte dei pioppi che dopo aver bevuto il sangue ai morti si bevono anche le loro virtù e allora compresi il suo desiderio di durare mediante i muri e i raccolti, assente come il Creatore e tuttavia con noi, compresi che nella sua mente anche Dio defunto e ciononostante presente nei villaggi di tagliapietre sulle pendici delle montagne e oltre la frontiera che nessuno attraversa eccetto i tucani e il barbiere del paese con le sue ali posticce, compresi l’odio per il figlio che avreb219

be annullato la sua memoria permettendo la rovina della casa, con la moglie che aveva preso dalla cucina dove oziava con le altre domestiche e dopo che l’aveva scelta – Adesso rimani con me piegava lenzuola in soffitta senza scendergli incontro, era il figlio che saliva da lei finché lei non gli aveva impedito di salire, io accanto al lavatoio ad affilare un pezzetto di canna e il padrone che l’andava a trovare ogni tanto – Vieni qui confidando in silenzio che lo aiutassi a conservare il suo nome, io che ignoro come si possa chiamare casa una costruzione fatta di successivi rappezzi e aggiunte inutili, convinto di un’eternità che non avrebbe mai raggiunto visto che oggi impalcature e mattoni rotti, il cavallo del figlio, senza padrone, a zonzo fra le macerie e i mobili polverosi, le tende stracciate, gli oggetti sparpagliati (attaccapanni, specchi, resti di inginocchiatoi) tassi e donnole sì, non persone, tranne me nel granaio di notte e appoggiato, durante il giorno, al lavatoio ad aprire il coltello a serramanico, raccogliendo da terra un pezzo di legno che era appartenuto alla colombaia (lacrime, lacrime) dove le tortore di porcellana avevano pianto in passato, io accanto alla cisterna dell’acqua fregandomene del grano o dell’orto o dei cani che mi chiedevano cibo strusciandomisi ai pantaloni in attesa che il padrone ritornasse in groppa a un mulo nuovo indicando con la frusta quel che c’era da fare, e io a sorvegliare la finestra del piano di sopra nella speranza che la moglie del figlio mi scendesse incontro, non aveva mai detto nulla, mai domandato nulla né dato mostra di conoscermi o che le piacessi, si limitava ad attraversare il cortile, entrare nel granaio e coricarsi sulla paglia come se fosse mio dovere di servo del suocero riceverla e servirla, perciò abbandonavo il coltello e il pezzo di canna, la ricevevo e la servivo 220

non come servivo le altre servendomi di loro, senza servire me stesso, sapendo che non era con me che stava, rimaneva sola, con gli occhi spalancati, impaziente che io finissi, perché lei non finiva quel che non aveva mai avuto, per allontanarsi da me come se non mi avesse incontrato, ignorava il mio nome, la mia età e quello che io potevo provare dato che nella sua mente non sentiva nulla, solo una volta, scuotendosi di dosso fili di paglia ovvero scuotendo via me perché io fili di paglia, non persona – Com’era tua madre? io – Non ho avuto madre finì di scuotersi la paglia, tornò in casa e fu tutto, mi sembrò di aver detto – Non ho avuto madre ma non ne sono sicuro, anzi sono sicuro di non aver detto – Non ho avuto madre visto che una non persona può solo avere una non madre e fu tutto, raccoglievo il coltello e il pezzo di canna da terra, mi appoggiavo al lavatoio e riprendevo ad affilare pensando all’uomo con il dente di metallo – O mi coprite il volto o portate il bambino via di qui e anche l’uomo una non persona perché solo il padrone e la sua famiglia, compreso il figlio delle begonie, erano persone nella tenuta, non i contadini né le domestiche, non io, visto che non morivamo come gente, saremmo crepati come cani un giorno, anche una non persona quello che avevano chiuso in una lunga cassa che altre non persone avevano portato via, inclinata di lato perché una delle non persone più bassa, per cui l’uomo non al centro, non composto, appoggiato di profilo contro un lato della bara, con non creature vestite a lutto, molte con un non bastone per via dei reumatismi o qualche altra malattia, che cantavano un non canto e 221

conversavano non conversazioni riguardo al non defunto con non ricordi e non dispiacere mentre io rimanevo in cortile aspettando che l’uomo (il non uomo) tornasse per morire di nuovo – O mi coprite il volto o e non gli avevano coperto il volto o glielo avevano coperto dopo avermi portato via di lì, visto che nel morire abbiamo il diritto alla solitudine, a rimanere con noi stessi fra ansie confuse e paure confuse finché la confusione non si diluisce in una specie di voce che parla di quello che crediamo non ci riguardi e ci riguarda, e nel momento in cui ci riguarda non siamo, io appoggiato al lavatoio a non essere, a non tagliare una canna, a fissare il coltello (lacrime non mie, io non di porcellana, sono le tortore che piangono) all’altezza del collo, appoggiato alla gola, di nuovo settembre o marzo o ottobre, che importanza hanno i mesi, non ci credo che ce ne siano dodici in un anno, ce n’è molti di meno, ho un avanzo di granaio e un avanzo di paglia e quando sarà tutto finito mangerò me stesso, questo dito, quell’altro, il gomito sinistro, c’è gente che mangia se stessa, la moglie del figlio due figli, uno incapace di esprimersi che non si curava di nessuno al quale il padrone – Idiota e uno che se ne curava e al quale il padrone – Erediterà tutto questo e se ne andò senza ereditare un fico secco portandosi via il fratello al quale io confezionavo automobiline perché al quale io confezionavo automobiline con fil di ferro e pezzi di legno, limavo un volante, ottenevo sportellini che si aprivano, mettevo sul sedile un pupazzo che fingeva di guidare e lo abbandonavo (che cosa aspetta la moglie del barbiere all’ingresso della bottega del barbiere?) 222

dove passava il figlio incapace di esprimersi e lui andava a prendere un martello e sfasciava l’automobilina che mi era costata una settimana di lavoro e dopo averla distrutta cercava di rimetterne insieme i pezzi per distruggerla di nuovo (il barbiere non comparve insieme ai tucani) abbandonando tutto all’improvviso e rimanendo attonito a mormorare non so cosa, credetti che – Jaime ma dovevo essermi sbagliato perché non c’era nessun Jaime nella tenuta, avevo assistito all’arrivo della levatrice quando il figlio era nato, una creatura che abitava da sola, con due o tre capre, dopo l’ultima traversa prima della strada che portava in montagna e contro il cui tetto i ragazzi lanciavano topi morti mentre le capre belavano e lei – Disgraziati con i topi morti che scivolavano a frotte giù dalle lamiere di zinco, avevo assistito alle domestiche che portavano su in soffitta acqua calda e saponi e panni, il figlio del padrone legava e slegava con mani difficili il cavallo all’anello e il padrone – Idiota dinanzi al quaderno dei conti senza pensare ai numeri né afferrare la penna, con il mento sul palmo fino al primo vagito in soffitta e dopo il primo vagito si alzò dalla scrivania reggendovisi come se le gambe senza forza, si diresse al lavatoio dove io stavo affilando una canna, mi osservò a lungo con gli alberi intorno, acacie, frassini, le acacie e l’ulivo che parlavano di noi affermando questo e quello che preferivamo non udire, smise di guardarmi quando il nipote tacque, minacciando – Tu e scomparve per rinchiudersi in ufficio attaccandosi alla bottiglia destinata ai clienti del grano, rendendosi conto che il suo tempo era terminato e la tenuta e la casa con lui, il figlio incapace di detestarmi, incapace di vendicarsi e in quel 223

momento le tortore della colombaia senza piangere, mute, e non di ceramica, di carne, dovrò mangiarmele, un giorno, prima di mangiarmi le dita, il figlio del padrone a fuggire dal vagito con voglia di afferrare la frusta e senza il coraggio di colpirmi o di chiedere all’amministratore di colpirmi in vece sua, io appoggiato al lavatoio mentre la levatrice ritornava in paese dove i ragazzi nati per mano sua e che poi lei avvolgeva, dopo averli puliti, con la stessa gonna della madre, in una coperta o uno scialle, la aspettavano, la cucina finalmente tranquilla, una rondine (o il barbiere?) sul bordo del secchio del pozzo con un insetto nel becco le cui ali vibravano e al piano di sopra nessun vagito e nessuno alla finestra, pensai – È morto pensai – Sono morti entrambi la chiacchiera degli alberi a dire male di me, tacete, tante foglie, tanti rami, tanti tronchi insistenti, l’odore della terra sangue e acqua tiepida e unto e sudore, non arance, non granoturco, credetti che il cavallo ritornasse ma mi sbagliavo, era qualcosa che pulsava cui all’inizio non avevo fatto caso dato che all’interno delle costole, solo una tazza su un piattino con la cadenza del sangue e il padrone ad accanirsi con la bottiglia finché soltanto due palpebre, rosse o rosate che importanza ha, non per il dispiacere o la rabbia o la certezza che la sua vita fosse terminata col terminare della tenuta, ma per il vino e malgrado il vino a scarabocchiare algoritmi sul quaderno, linee, cerchi, arabeschi senza senso, sommando il nulla con il nulla, a parte la prova del nove il nulla e ad addormentarsi sul tavolo con la penna che scriveva ancora prima di cadergli dal palmo, l’amministratore e il mulo ad attenderlo e l’automobile di un commerciante di frutta, sporca della polvere degli sterrati 224

– Dov’e finito il tuo padrone? il padrone che era davvero finito, aveva rinunciato, amen, non aspetti più, amico, non ci rimane nulla da vendere, guardi questa cicatrice sulla facciata e il rampicante che marcisce, dopo aver affilato una canna ne affilai un’altra e poi un’altra ancora e dopo le canne mi affilai il pollice visto che il mio polllice di legno, non di osso e i miei trucioli d’osso cadevano per terra, il figlio del figlio del padrone, mio non mio, il figlio del figlio del padrone cui il padrone – Idiota incapace di esprimersi e di vivere con noi, andai a trovarlo in ospedale dove il fratello lo aveva messo come chi mette quel che non serve più, o non è mai servito, in cantina, il figlio del figlio del padrone che andai a trovare molti anni dopo in ospedale, un edificio circondato da grate e con platani in cortile intorno a una fontana che nessuno usava, io con un sacchetto di susine perché magari non gli davano da mangiare e lo lasciavano solo senza prendersene cura come né la madre né il figlio del padrone se n’erano presa, la madre chiusa a doppia mandata in soffitta a piegare lenzuola nei bauli e il figlio a chiamarla dal fondo delle scale – Non mi lasci salire? lo udivo da fuori affilando la canna con più forza o finendo di costruire automobiline cui nessuno faceva caso salvo per sfasciarle a colpi di martello, sorvegliavo il bambino da lontano preoccupato del capanno degli attrezzi dove avrebbe potuto farsi male e delle buche nei campi dove avrebbe potuto cadere, io all’entrata dell’ospedale con il mio vestito nuovo comprato sei anni prima e il mio sacchetto in mano, il custode dell’ospedale – Vendono ancora vestiti simili? mentre era un vestito come un altro, un po’ comodo, forse, ma elegante, verde, con i risvolti dorati e una fascia in vita per i pantaloni e tuttavia non era il fatto che il vestito fos225

se largo a meravigliare il custode ma qualcos’altro che non riuscivo a capire quando lui – Lavora in un circo? io che lavoravo la terra o meglio che avevo lavorato la terra prima che la terra finisse e adesso mettevo trappole agli uccelli che morivano lentamente, il custode a un collega altrettanto sorpreso e noi nel cortile dei platani il cui polline invece di scendere galleggiava lì in mezzo aggiungendo doratura al bavero della giacca, ai pantaloni, ai risvolti delle tasche – C’è qui un pagliaccio che viene a trovare il ragazzo autistico e il figlio del figlio del padrone (non figlio del figlio del padrone, non figlio suo, giuro che non figlio suo, può darsi che figlio mio ma non figlio suo, e non mento) nel cortile con me senza riconoscermi come non riconosceva nessuno, camminava avanti e indietro, si fermava di colpo – Jaime e riprendeva a camminare fino ad accovacciarsi ai piedi di un tronco incrociando le falangi e facendo aleggiare le unghie affascinanto, magari per liberarsi di me, non so, come non so cosa pensa, cosa immagina, cosa vuole, io con il sacchetto in mano a guardarlo (se mi avvicinavo si allontanava) ad allungargli il sacchetto, a posarlo su una panchina e a indietreggiare nella speranza che se io lontano lo andasse a prendere, io a lui – Signorino non a voce alta, docile – Signorino mentre era un’altra parola che la mia bocca diceva e invece 226

– Signorino con un dente di metallo che insisteva dentro di me – O mi coprite il volto o portate il bambino via di qui il custode – È finito l’orario di visita, pagliaccio e io dietro alle grate ad ascoltare i platani che non smettevano di bisbigliare.

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3.

Se almeno riuscissi a piangere. Se fossi capace. Se potessi. In tante occasioni quasi lacrime perché non è facile quando devo scegliere questa persona o quella, io spesso impietosita quando mi domandano, se il mio dito si ferma di colpo su di loro – Devo davvero morire cugina Hortelinda? nella speranza che mi sia sbagliata e invece no, è così, il dito si ferma e chiuso, magari potessi procedere oltre, per sempre – No, non devi morire mi sono sbagliata, tu non sbagli mai? e dopo, ovvio, la solita domanda – Perché io? come se ci fosse un motivo, non c’è nessun motivo – Accettalo e non accettano, poveretti, provano a discutere, a chiedere, ogni tanto un sorrisetto tremulo che cerca di trattenersi, non si trattiene – Stavi scherzando, vero? regali tristi, un pollo, un maialino da latte, denaro che chiedono in prestito – Non è che mi darebbe una mano, amica mia? magari potessi dare una mano, ma l’ho già scritto sul 228

libro e se ci tirassi una riga sopra si noterebbe, non mi stanco di spiegare – Oggi tu, domani un altro, qui non rimane nessuno, credimi senza alcun risultato visto che ecco il pollo, il maialino, la collana di tormaline – Sta meglio a lei che a me, mi abbuoni qualche annetto, ci sono tanti vecchi in giro e anche il loro dito a soffermarsi su un parente nel tentativo di convincermi – Perché non lui, che non vale un accidente, per esempio? forse non varrà un accidente ma sul libro non risulta, mostro loro la lista dei nomi – Sul libro non risulta e non capiscono, il pollo a tremare per conto suo più di quanto non tremino le loro mani, il maialino legato con un pezzo di spago, il denaro piegato in una busta a cercarmi il portafoglio per mettercelo dentro, grazie a Dio dal nervoso non riescono a sganciarsi la catenina dal collo, che me ne faccio di altre catenine, da piccola, avevo quattro o cinque anni, il mio amato padre mi portava a passeggio nel bosco di castagni, lungo la strada che porta in montagna, a caccia di gatti selvatici e l’odore dei tronchi mi accompagna ancora oggi, pensavo che quello delle violaciocche mi avrebbe aiutato a dimenticarlo e non lo dimentico affatto, eccoci là, a camminare nella notte degli alberi senza riuscire a vederci a metà pomeriggio e il mio amato padre – Ci sei, figliola? con la pioggia avvinghiata ai rami in attesa dell’autunno per cominciare a scendere, di colpo un animale con le unghie increspate a fissarci (se accettassi tutte le catenine che cercano di regalarmi sarei ricca) 229

il mio amato padre in cerca della pistola nella tasca e senza trovarla per la paura, quando la trovava il lampo di una coda che fuggiva, il buio dei castagni intorno a noi, in noi, fu il buio che mi fece indicare un vicino a casaccio, il cui nome non avevo annotato sul libro e non lo sapevo nemmeno – Com’è che si chiama lei? il gatto selvatico si guardò indietro prima di dileguarsi, per quale ragione viviamo in una terra come questa, così violenta, così dura, mi ricordo di viluppi insanguinati di tucani con una zampa che si muoveva ancora e del vento che arrivava dalla frontiera latrando perché tutto latra qui, perfino le cose, nel mezzo del sonno, a letto, si sentono i latrati di quello che non vogliamo dire e tutti quanti ascoltano, anziane in gruppi di tre o quattro sulle panche di pietra calcarea attaccate ai muri delle case a diventare calcare pure loro, se ne sollecitassi una – Abbia pazienza, signora un silenzio di calcare senza discussioni né richieste, nessuno sa cosa pensino sotto gli scialli a lutto rodendo gli stessi cardi delle capre, ricordo mia madre che si lamentava del mal di schiena e l’infermiere – È il rene fluttuante e io immaginavo un papero giocattolo, con le sopracciglia disegnate sulla plastica e il becco arancione, che galleggiava nella vasca del corpo mangiandole il fegato, le budella, mia madre al mio amato padre attraverso il meccanismo della gola con un tasto che si schiacciava per ogni parola – Non ci provare a toccarmi lui che si rimboccava le maniche per salvarla dal papero, con il rene fluttuante che si mangiava pure i tasti, il mio amato padre – Cosa dice? sempre decoroso, poveretto, con il farfallino diritto e i pantaloni con la riga, qualche tasto sopravvissuto 230

– Non ci provare a e io che domandavo – Ti farebbero comodo adesso i castagni per nasconderti, vero, papà? l’odore dei tronchi che è divenuto parte di me, quanti ricci contiene, quante ossa di gregge spolpate dalla carne, nude, fatico a orientarmi in questa notte – Dov’è casa mia? ed esito, inciampo, i miei vasi di violaciocche, fotografie dove mi si vede arrossire e qualcosa in grembo che non distinguo bene, non una bambola, un cagnolino minuscolo, un capretto, mi piaceva sentire creature animate fra le mani per strangolarle, mia madre – Non ci provare a senza riuscire a dire toccarmi, lo facevo io per lei informando il mio amato padre – La mamma ha detto non provarci a toccarmi consegnandogli la frase (che cosa mi spaventa delle anziane?) che lui riceveva senza udire, mia madre così magra, quel che mi spaventa delle anziane è la difficoltà a individuare la parte della faccia dove si trova la bocca, qual è la ruga da dove escono i suoni, talvolta un cappello da uomo sopra lo scialle e la fede del marito al dito medio, l’infermiere sciroppi – Un cucchiaino, da brava e un tasto che vibrava, non so quale (i loro occhi affogati in un’acquetta di cera, quando seguono ciò che vedono, qualunque cosa sia, spiegatemi) la faccia di mia madre si distolse da noi senza distogliersi da noi, mia madre e un’altra persona al tempo stesso, più importante, più grave (magari vedono episodi antichi, il marchese con i baffi bianchi, padrone di tutto il paese, che le chiamava – Bambine 231

dai cuscini del sedile posteriore dell’automobile con l’autista al volante e le anziane l’una all’altra – Non gli dare confidenza con la bocca al posto della bocca che allora avevano e le lingue non di calcare, vive, ti ricordi dei miei capelli a quel tempo, del corpetto che mi ero cucita?) il mio amato padre senza toccarla, obbediente, l’infermiere mise via gli sciroppi nella valigetta, con l’incendio di vent’anni fa il bosco di castagni ha cessato di esistere, per tanto tempo cenere e adesso sterpaie, la casa del marchese una parete con corna di cervo appese a un chiodo, quando i passi dell’infermiere furono lontani domandai al mio amato padre – Perché non lasciava che tu la toccassi? e un enorme avvoltoio sul pesco dell’orto in attesa, non era quel che piantavamo a interessarlo, era mia madre nel letto, io al mio amato padre – Non permettere che la divorino e il mio amato padre sordo, un suo zio aveva lavorato per il marchese, gli si metteva una sigaretta spenta fra le mandibole e rimaneva ore e ore con la sigaretta tremante, la figlia gli puliva i baffi – Non trattiene nemmeno più la saliva si allontanava con il fazzoletto e lo zio del mio amato padre contento, non si era mai lamentato – Devo davvero morire? occupato com’era a rallegrarsi in uno spicchio del suo cervello, se l’avessi indicato con il dito mi avrebbe presa in giro cambiando di lato la sigaretta – Che sarà mai la morte, piccola? nemmeno durante la cerimonia funebre al cimitero il mio amato padre aveva osato toccarla, era rimasto in disparte da noi a contarsi le dita, a sbagliare e a ripetere la conta, sembrò spaventarsi 232

– Tredici? mi guardava fisso interrogandosi – Questa chi è? e desisteva indaffarato con le dita d’avanzo – Non è nessuno, mi sbagliavo non afferrò la pala e non salutò le persone per paura che gli portassero via qualche falange, dopo la morte del marchese l’autista aveva continuato a portare in giro l’auto come se sul sedile un signore di mezza età – Bambine ormai non più a fanciulle, ad anziane di calcare chiuse nel loro lutto che non gli facevano nemmeno caso, all’uscita il prete ci aveva allungato la mano perché la baciassimo e il mio amato padre – Cinque? mentre lui, adesso, diciannove, ho contato le mie per scrupolo e quattordici, le ho contate di nuovo e undici, che cosa starà succedendo loro che dalla morte di mia madre aumentano e diminuiscono, che strani i suoi vestiti sull’attaccapani a chiedere – Non ci buttate via, indossateci e il mio amato padre in cucina con la sua moltitudine di dita in attesa della cena che non arrivava, noi due a tavola e nessun tegame sul fornello, nessun piatto, lui con la notte dei castagni in mente dove mia madre un gatto selvatico che si affilava le unghie – Non ci provare a toccarmi non ricordo se si occupasse di me, se mia madre fosse stata il marchese scommetto che non – Bambina con un’allegria speranzosa, solo l’automobile che dondolava in direzione delle corna di cervo accanto alle quali l’autista in uniforme e berretto si scuoteva la polvere, quasi tutte le mattine udivo il motore farmi la ronda, se si spegneva 233

l’autista si armava di una manovella e raccapricciava il mondo di cigolii finché tutto quanto di nuovo in movimento, un giorno o l’altro i miei occhi un’acquetta di cera e allora chissà che cosa vedrò, un bebè con il bavaglino, il capretto da arrostire a Pasqua legato con uno spago a un gancio e poi il coltello nel gozzo e quello inginocchiato di spavento, io a mia madre dove sei andata che non ci dai da mangiare, perché mi svegli confondendoti con i gatti selvatici intorno alla casa, il giorno dopo le orme delle zampe fra le zucche – Non hai pietà di noi? il mio amato padre allungava i palmi verso di me – Dieci come loro, guarda e quale il motivo del non ci provare a toccarmi, che cosa le hai fatto, perché in paese ti disprezzano, hanno piantato fra le zucche uno spaventapasseri vestito da donna con un cappellino con la veletta come il mio, ma ammaccato, sporco, spiegami perché non in camicia e panciotto da uomo, e il mio amato padre zitto, desiderando scomparire fra i castagni a contarsi di nuovo le dita dove l’automobile del marchese non potesse raggiungerlo né i sedili – Bambina vengo con te fra i castagni, aspetta, anche se ormai cenere, tizzoni spenti, non credere che sia facile la mia vita, non lo è, tenere aggiornato il libro, scegliere le persone, mi è costato scegliere mia madre, sai? vederla con un rene fluttuante con il becco arancione e le sopracciglia dipinte, che voglia mi è venuta di forarlo con un chiodo e la pancia all’aria, bianca (il resto del corpo giallo o meglio, prima giallo, adesso grigio, che anche i paperi si logorano) alla deriva nella vasca da bagno del corpo senza molestare nessuno e le posate in tavola, il mangiare sul fornello, mia madre a fissare lo spaventapasseri e a fissare te, fu per il suo bene che le dissi – Cercherò di non farti soffrire, mamma 234

le inceppai il meccanismo della parola, la feci dimagrire in fretta perché queste cose fanno male e la certezza che tu capivi che ero io ad ammazzarla e tuttavia senza dirlo all’infermiere o alle visite, guardò il mio amato padre, guardò me – Perché proteggi tuo padre e uccidi me? e fu tutto. Se almeno riuscissi a piangere. Se fossi capace. Se potessi. Quante volte quasi lacrime, mammina, se fossi venuta a passeggio con noi nel bosco di castagni e osservato la pioggia che ingrossa sui rami aspettando l’autunno per poter cadere, se l’avessi visto come non riusciva a trovare la pistola non per colpa dei gatti selvatici, per colpa sua e dello spaventapasseri vestito da donna con il cappellino uguale al mio che si decomponeva sul terreno e che tu – Non ci provare a toccarmi detestavi, quando io mi ammalavo era lui che preparava dolci al liquore per farmi riacquistare le forze e faceva la ronda alla stanza moltiplicando dita, se tu fossi il marchese che mi chiamava – Bambina ma sono nata da lui e di conseguenza detestavi anche me, se ci incontravi insieme il tuo disprezzo – Bel paio dato che il sangue di mio padre nel mio sangue e quindi io non – Cercherò di non farti soffrire, mamma io – Che me ne importa se soffri e il papero giocattolo che mi avevano comprato alla sagra di san Januário a torturarti, cercai di agguantare il papero e mi sfuggì, di impedire che smettessi di respirare e non ci riuscii, ti chiesi in un orecchio – Non morire pronta a preparare un dolce al liquore, desideravo che diventassi un’anziana su una panca di pietra calcarea a ricor235

darsi dei capelli castani, non morire, rimani lì con le altre a masticare sorprese – Guarda cosa è successo al mio corpo mio nonno, sollevandoti in aria – Sei più alta di me nascondendo sacchetti di caramelle in giro per la casa – Cerca e tu aprivi cassetti e guardavi sotto il comò, mio nonno ti indicava la fruttiera di porcellana, a imitazione di un cestino, senza un manico – Fuochino le caramelle sotto le mele e le pere, lui orgoglioso della sua furbizia – Hai indovinato e oggi nessun nonno, nessun frutto, se il meccanismo della gola funzionasse mia madre – Ho freddo e certo che hai freddo malgrado le coperte che ti ho portato, il tuo corpo gelido, l’infermiere – Scaldale i piedi con un pezzo di lana e ancora più freddo, non andartene, rimani, non è più questo che voglio, il mio amato padre adesso non più amato e io furiosa con lui – Finocchio finocchio un finocchio tutto dita, non un uomo, che orrore, non ci provare a toccarla, lasciala in pace, io con mia madre nel bosco di castagni, non con te, non ci toccare, ti auguro che un gatto selvatico ti trovi e i nibbi ti graffino, io una signora grassa che arriva in paese con la corriera, il conducente mi aiuta – Attenzione donna Hortelinda a scendere dal predellino e io con paura di cadere perché le gambe mi tradiscono, cammino normalmente e una di loro scompare, mi aggrappo a una maniglia in attesa che la gamba 236

si ricostruisca da sola e lei lo fa, poveretta, con la scarpa che le pesa a un’estremità, non sento la scarpa nell’altro piede, la sento in questo come sento i dislivelli del terreno, almeno le ho risparmiato una caduta, signora, l’ho aiutata, non deve crucciarsi per quel che le viene meno, fra uno o due anni additerò controvoglia il conducente che mi domandava sempre – Si sente bene donna Hortelinda? posandomi a terra – Davvero si sente bene? preoccupato per il peso della valigia – Mi raccomando e lo informerò dispiaciuta – È arrivato il suo turno, amico lui a guardarmi come se io ingrata e non è così, se dipendesse da me vi risparmierei tutti, diventate pure eterni, di calcare, seduti sulle panche a ricordare il passato che non significa nulla, ciò che avete vissuto, ciò che siete stati, ciò che avrebbe dovuto accadere e non è mai accaduto, anche se dura d’orecchio sento ancora i tucani che via via si diradano in autunno come tutto si dirada da queste parti, un giorno o l’altro nessun nome da depennare a parte le capre che non contano, l’automobile del marchese che si decompone a un incrocio con uno dei fanali che mi segue, spento, ordinargli – Non mi seccare frantumarlo con una pietra, impedirgli di vedermi, non abita nessuno nella tenuta salvo l’aiutante dell’amministratore che affila una canna, se mi avvicino si schiaccia il cappello contro il petto – Signora desiderando che lo indichi e io non lo indico, a che scopo, che rimanga in attesa convinto che lo chiameranno dalla soffitta, può darsi che mia madre prima non fosse così e si interessasse a noi, lei nelle fotografie accanto al mio amato padre con un’acconciatura che non le avevo mai visto e la ma237

no sulla sua spalla e poi ad allontanarsi con il passare degli anni, una persona fra loro, due persone fra loro, tutti quanti fra di loro, non solo più lontani l’uno dall’altro, mio padre (stavo per dire il mio amato padre ma mi sono trattenuta) solo metà faccia, solo un terzo della faccia, solo un pezzo di giacca e infine scomparso, in qualche foto io, ma senza sorridere, così seria, questo all’epoca in cui abitavamo in paese, mio cugino smontando dal mulo – È inutile che mi indichi tanto non muoio e io dimenticavo il suo nome nel libro, una delle braccia si muoveva lentamente e lo costringeva a piegarsi così come fin dall’inizio aveva obbligato tutti a obbedire ai suoi capricci, una volta mi aveva addirittura afferrato il polso in cucina – Vieni qui mi aveva messa spalle al muro in dispensa e improvvisamente, nel frugarmi la gonna, i suoi occhi orfani e non lo vidi uomo, lo vidi bambino accovacciato fra le piante di pomodoro che arava la terra con un cucchiaio, simile a mia madre quando il rene fluttuante la infastidiva e la faccia le si rimpiccioliva dal dolore, nell’accorgersi che lo osservavo – Io non muoio come un bambino che prende coraggio camminando al buio, se riesco a parlare ce la faccio, se riesco a parlare mi salvo e nel comprendere che non si salvava – Non muoio, vero? più richiesta che certezza – Non permettere che io muoia mio cugino attraversava la cucina infilando il braccio lento in tasca – Non muoio, lo vuoi capire? sepolto dall’aiutante dell’amministratore dove una volta il frutteto, probabilmente continuava ad assicurare – Sono vivo 238

e magari un giorno di questi torna in superficie e ricomincia la tenuta con un sacchetto di granoturco e un sacchetto di segala, non era persona che potesse morire al primo colpo malgrado gli occhi da orfano e il cucchiaio (se mi fossi sposata, se avessi avuto un figlio) cocciuti, già a quell’epoca l’amministratore, anche lui di tredici o quattordici anni sebbene più piccolo, più magro – Non abbia paura, padrone il figliastro dell’infermiere mi aveva consegnato due lettere all’uscita dalla chiesa – Mettile via e celati lì dentro amori perfetti con una calligrafia che sbiadiva, io affascinata dalla spalla che si contraeva enfatizzando il mettile via – Ti ammalerai e nonostante la spalla, lo avrei accettato se il dito, disobbedendomi, non gli si fosse fermato sopra, cercai di avvertirlo – Fuggi via e lui, avvicinandosi di più – Come? dilatato di speranza finché febbri e ceri giù in strada con i tamburi delle suole sul selciato, tapparmi le orecchie con i palmi, tapparmi tutta, correre dove le scarpe cessassero e le parole del figliastro dell’infermiere non potessero raggiungermi per cui il mio corpo (gli lasciai sulla tomba, nascosti in un vasetto, gli amori perfetti) non si aprì mai, le acque cessarono e io chiusa nella mia stessa carne a scendere dalla corriera con il cappellino con la veletta, lottando contro i capogiri che a volte – Attenzione donna Hortelinda mi costringono ad abbassare le persiane e a rimanere al buio come nel bosco di castagni con il mio amato padre 239

(quale gatto selvatico si affila le unghie per me?) se almeno riuscissi a piangere, se fossi capace, se potessi, ci sono volte in cui quasi lacrime, controllo il fazzoletto e nessuna lacrima, non mi mortifichi, non mi offenda signor marchese sussurrando – Bambina dall’automobile all’incrocio, il fanale mi cerca ancora per terra e trova la mia ombra, la stessa che il mio amato padre scoprì, mesi dopo che mia madre era morta, voltando il capo verso il mandarino cui mi appoggiavo pensando – Avevi ragione, mammina pensando – Prego il cielo che non provi a toccarmi e così il papero era me che feriva mangiandomi i polmoni (ci sono momenti in cui quasi lacrime) e lo stomaco (ci sono momenti in cui lacrime per chi è capace, per chi può) il mandarino che si era piantato da solo, nel vedere le prime foglie mia madre – Questo cos’è? e subito dopo, perché tutto subito dopo, i piccoli frutti, il mio amato padre scoprì la mia ombra voltando il capo (mi domando se anche mio figlio una spalla contratta) mentre l’altro uomo scompariva dal cancello e il cardine che rimaneva (quello in alto si era rotto) saltava, l’altro uomo in direzione dei campi e rimasi sotto l’arancio a lottare con il papero che mi scivolava dalle mani facendomi ancora più male, non immaginavo che un becco di plastica potesse ferire tanto e sono sicura che un papero anche dentro al mio amato padre, non contarti le dita, non avvicinarti a me, non entro in casa con te perché ho smesso 240

di avere una casa, scompari dalla mia vista, padre, lasciami in pace con i vestiti di mia madre appesi nell’armadio che cominciano a puzzare, per questo non mi accorsi che staccavi la corda per stendere, un tasto in gola – Figlia senza che il – Figlia ti servisse a nulla, non ti vidi sul retro di casa, vidi le farfalle sui rami e nel campanile i rintocchi delle cinque (se il figliastro dell’infermiere non fosse morto io sposata, una cucina e un tinello per riposare la domenica vicino all’apparecchio radio, ingrassare accompagnata, non come sono ingrassata, senza nessuno, fino a diventare di calcare) non vidi il mio amato padre sul retro di casa, vidi la scala obliqua contro il muro (le mancava un piolo) la corda attaccata al cornicione, la camicia fuori dalla cintola con diverse tacche di fibbia (due tacche di fibbia) – Sei dimagrito, padre? che non era riuscito a stringere, un paio di baffi che mi sembrarono posticci su una faccia posticcia come succede nelle fotografie dove siamo noi e non siamo, ci mettono il mignolo sopra – Questo sei tu e bugia, gli stessi lineamenti ma diversi però come spiegarlo alla gente, il mio amato padre che non ebbi il tempo di indicare con il dito, guarda Hortelinda in casa, senza famiglia, esitante – Quante forchette? e soltanto una visto che non ha bisogno di voi, ha solo bisogno che l’aiutino a scendere dalla corriera, le consegnino la valigia e non – L’aiuto a portare la valigia donna Hortelinda? 241

le consegnino la valigia e chiuso, innaffia ancora le violaciocche, spazza il pavimento, versa acqua nel catino e si lava ma fra non molto (due anni, tre?) comincio a fare come le altre anziane ma nessun fazzoletto in testa, il cappellino con la veletta che avevo trovato in un vecchio baule insieme a un pezzo di rosario e a un fermacarte con graffette dorate, che per quanto mi riguarda un giorno pinzerà le lettere del figliastro dell’infermiere, vi si riusciva a decifrare distinti saluti, il nome in fondo e io nubile, ho appiccato il fuoco al bosco di castagni, papà, per dimenticarti e tuttavia l’odore persiste, se non fosse stato per la corda per stendere sarei andata a cercare la pistola o meglio anche con la corda per stendere andai a cercare la pistola – Non avevi il diritto e il cognato di mio padre immobile nel vicolo, muto, perché noi qui non parliamo, con le montagne a sinistra e la palude a destra e i gatti selvatici e i martelli degli spaccapietre che ci soffocano le voci, qui si indica con il dito – Morirai e basta, divelsi il cancello con l’accetta per impedirgli di girare e stavo tentando di sfasciare la mia ombra quando il cognato di mio padre – Vorresti ammazzarlo un’altra volta? e quasi nessuno con noi salvo i defunti – Dateci una mano che abbiamo un sacco da fare là sopra a rovistare fra gli stracci e a rovesciare cassetti per terra, dove sono finiti i miei uncinetti, mancano piatti nella credenza, chi si è preso il mio anello mentre i soldati di Francia osservavano l’Inno sull’attenti, aspettai per settimane l’altro uomo nella fangaia tra insetti che spuntavano dall’erba, si udiva la campanella della scuola, mute di cani randagi fiutavano tassi, quelli sì piangendo, non io che mi affaccio alla finestra 242

per assistere ai crepuscoli, l’altro uomo a dieci passi da me con un sacco (ebbi l’impressione che un sacco) appeso al manico della zappa e una falce alla cintola, perché non ti sei impiccato anche tu alla corda per stendere invece di costringermi a questo, perché mi hai tolto l’odore dei castagni e hai ucciso i miei genitori, nove passi, cinque passi e io ad appoggiare il revolver a una roccia, scelgo due dei miei otto indici, i più grandi, per premere il grilletto, l’altro uomo con la catena dell’orologio, che il mio amato padre giurava di aver perso, ad attraversargli l’ombelico perciò sparai il primo colpo contro l’ombelico, non contro di lui, il secondo spaventò le cornacchie che ci gridavano intorno e l’altro uomo inginocchiandosi lentamente senza abbandonare la zappa, guardò l’orologio, disse – Cinque alle sei rispondendo a una richiesta che non gli avevo fatto, si corresse dopo aver calcolato mentalmente – Forse dodici alle sei, che questo orologio anticipa di sette minuti al giorno (io ad assistere ai crepuscoli quasi felice di vivere credendomi non solo eterna ma benedetta da Dio che si era preoccupato di me riversandomi addosso un po’ del Suo infinito Amore e della) la zappa cadde per prima mentre lui si impuntava sui minuti – Dodici o undici non saprei avvicinando l’orologio all’orecchio per verificare se funzionasse e raggiante perché funzionava, sollevandone il coperchio per controllare le rotelle, i volani, le molle, una cipolla dalla cadenza obesa – A casa lo sincronizzerò con quello grande del salotto e soltanto allora comprese che era lui, non l’orologio, a essere asincrono con il tempo, mi domandò 243

– Sei la figlia? (Sua Infinita Bontà perciò posso soltanto rendere grazie alla Misericordia della Sua Protezione perché Suo è il Regno, Sua la Potenza e la Gloria nei secoli, Amen) mentre si scioglieva il nodo del sacco appeso alla zappa rivelando mezza dozzina di tordi presi nella trappola che aveva messo nel bosco, i tordi morti come tutti noi un giorno morti, dato che una generazione va e una generazione viene ma la Terra rimane per sempre fino alla fine dei Tempi eccetto il bosco di castagni che Egli ebbe la bontà di distruggere e io l’onore di aiutarLo appiccandogli fuoco affinché l’odore dell’infamia non mi tormentasse più, l’altro uomo in ginocchio o non in ginocchio, carponi, gentile con me, senza risentimento visto che il Signore mi proteggeva – Mi ha mostrato la tua foto settimane fa e cioè il mio amato padre l’aveva cercata in mezzo a ciò che teneva nelle tasche, pezzi di carta, cordini, una cartolina che gli aveva mandato sua madre dalla Francia quando era piccolo – Mia figlia e l’altro uomo a spulciare somiglianze, le loro teste vicine, spalle che si confondevano, decine di dita mescolate, che orrore, gli indici sulla pistola e in questo modo il colpo non all’orologio, alla gola, addormentandolo di più mentre io – Taccia l’altro uomo indifferente alla pistola mentre le cornacchie gridavano sempre più forte, nel sacco non solo tordi, un’upupa, uno stornello – Due minuti alle sei in questo istante correggendo – Quindi nove alle sei, immagino cadendo faccia a terra – Hai il naso di tuo padre e per strano che possa sembrare io lusingata di avere il 244

naso del mio amato padre, grata per questa ennesima prova d’Amore che la Tua infinita Delicatezza si è degnata di offrirmi, mi hai dato il naso affinché io, indegna peccatrice che non merita attenzioni né cure prolunghi la sua esistenza grazie al naso del mio amato padre che si perpetua in me, pensavo che non sarei riuscita a piangere, che non ne fossi capace, che non potessi e invece ti offro le mie lacrime come pegno di riconoscimento e di gratitudine e segno del mio umilissimo affetto per Te, io affacciata alla finestra al crepuscolo (nubi rosa e viola) quasi ben disposta macché quasi ben disposta, ben disposta verso la vita, il naso del mio amato padre che ho sfregato sulla manica prima di indicare me stessa annunciando alla cugina Hortelinda quasi dispiaciuta per lei (dispiaciuta per lei) – Abbi pazienza ma è finita, adesso morirai.

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4.

Perché siamo arrivati a questo, com’è stato possibile arrivare a questo? Se salissi le scale, dicessi il tuo nome, chiedessi – Voglio parlare con te smetteresti di piegare la biancheria nei bauli, mi presteresti attenzione, mi ascolteresti? Ti domanderei – Che cosa ci è successo, spiegami mentre nella finestra il granaio e l’aiutante dell’amministratore là sotto a fingersi occupato (è una spina nel cuore che l’aiutante dell’amministratore là sotto) silenzioso come tutti questi contadini silenziosi, che non pensano o che nascondono a se stessi quel che pensano sicuri che a loro non serva a nulla pensare, ostinati, lenti, obbedendo a mio padre non nel modo in cui le persone obbediscono, nel modo in cui gli animali si sottomettono per abitudine o per paura, comandiamo loro di avvicinarsi e si avvicinano trascinando il corpo allo stesso modo in cui trascinano i piedi – Padrone spessi, opachi, senza volontà ma con il coltello in tasca pronto a finirci tra le costole in un recesso della casa o ad attenderci con la doppietta dietro al tronco di un frassino, sono 246

io che mi occupo del cavallo per paura che lo avvelenino, scelgo io le fave e l’avena, lo sorveglio legato all’anello, quando l’amministratore aveva licenziato il carpentiere, la zampa del mulo di mio padre, che passò il resto della vita a zoppicare, fratturata con un maglio, mio padre e l’amministratore lo raggiunsero prima della stazione della corriera, ai confini della tenuta dove il granoturco cresce più debole perché tane di volpi e rovi, il carpentiere con la moglie dietro che portava un fardello di tegami e di coperte, zitto di fronte a mio padre dato che stanno zitti, non contraddicono, non discutono, ammutoliscono e due fagotti per terra, oltre al carpentiere e alla moglie un bambino con un berretto con la visiera che aveva rubato a uno spaventapasseri e non gli nascondeva la faccia solo perché glielo impedivano le orecchie, pure lui con un fagotto in spalla da cui usciva un manico di pentola storto, il cielo così basso che disorientava le tortore, mio padre all’amministratore – Hai con te il maglio con cui hanno fratturato la zampa all’animale? con la voce spenta dall’alluminio delle foglie, la donna si fermò di colpo e quando si fermò un tintinnare di vetri e il fagotto improvvisamente pieno di cose vive che interruppero per un istante gli insetti (a volte li sento camminare sulle lenzuola, determinati, ciechi, li devio con un buffetto e loro ricominciano con la stessa determinazione e la stessa cecità in un’altra direzione) il maglio per piantare le recinzioni comparve fra le mani dell’amministratore mentre mio padre tirava fuori un mozzicone di sigaro dal panciotto, l’amministratore sollevò il maglio (potreste scrivere questo al posto mio?) la caviglia del carpentiere un rumore secco e l’uomo carponi mentre un coltello con il manico di ciliegio gli saltava dalla tasca scomparendo fra i gambi, il berretto del bambino cominciò a singhiozzare con il manico della pentola che gli 247

ballava sulle ossa, pensai, approfittane per piangere adesso quello che non piangerai da adulto perché non è soltanto il corpo che appassisce in questa tenuta, anche le tristezze, mio padre all’amministratore, sempre più interessato al sigaro che leccava prima di infilarlo tra i baffi – Digli di alzarsi in piedi e di zoppicare come il mulo il vento ingrossava spirali di polvere e le dimenticava, un cane abbaiò lontano o vicino dato che non c’erano distanze, il pozzo e la cisterna dell’acqua, per esempio, lontani da mio padre, e lì per poco non si udivano le voci delle domestiche in cucina e la tazza di mia madre sul suo piattino, l’amministratore sollecitò l’uomo con lo stivale – Il padrone vuole che zoppichi e il carpentiere un impulso e ad accasciarsi nuovamente (se salissi le scale e pronunciassi il tuo nome smetteresti di ordinare la biancheria nei bauli?) la bocca della donna enorme con il bambino che le si aggrappava alla camicia, chissà quale gallina, se quella marezzata, se la più nera o quella con il collo spelacchiato serviranno le domestiche per pranzo, mio padre a ricordarsi di non so cosa che lo commuoveva, in cerca dei fiammiferi e rinunciando ai fiammiferi – Anche sgozzate continuano a camminare magari con l’età del bambino, quando spellavano gli animali, lui si agitava di dispiacere (ti domanderei – Che cosa ci è successo, spiegami e magari risponderesti) i conigli che mia madre uccideva con un colpo secco sulla nuca e dopo averli uccisi li accarezzava in grembo, era questo che ti faceva dormire lontano da lei, con la doppietta accanto, e ti irritava, padre, io tanti dubbi, tante indecisioni, costringevo il cavallo a correre più veloce (il sudore dell’animale il mio sudore, chi dei due con i 248

lombi madidi, di chi è questa urina che lo bagna e che mi bagna, questo panico?) un giro dopo l’altro in piazza tirandogli le redini, se le tendine delle finestre smettessero di gonfiarsi, e per favore non smettete, i polmoni si fermerebbero, mio padre all’amministratore, con il sigaro che gli divideva i baffi – Che venga qui e me lo accenda vasi di fiori sulla terra senz’anima, un bambino che si nasconde da me, lo cerco e nessun bambino, mattoni, io che per un istante credevo di essermi trovato osservando i rumori, non le cose, con la domanda di sempre e il disprezzo di mio padre – Idiota perché qualunque cosa facessi non andava, a chi hai voluto bene veramente, confessa, quaglie e lepri ammazzate con rabbia e sotto la rabbia un desiderio di compagnia che rifiutavi, chiedendo, mentre lo rifiutavi – Non andate via, rimanete e maledicendoti per averlo chiesto, una voglia di essere due che si capissero, che si parlassero, il carpentiere gli sfiorò gli stivali e mio padre all’amministratore – Proibiscigli di toccarmi l’uomo che non trovava in tasca l’accendino con uno stoppino simile a quello dei lumini di chiesa che resistono al vento e mio padre in attesa, non chinato, dritto, da bambino lo credevo enorme, capace di sollevare il mondo con le braccia e in realtà insignificante, magro, magari è lui che si nasconde da me e cercando meglio mattoni, un palo, il carpentiere in equilibrio sulla gamba sana oscillando insieme al granoturco – Padrone e un animale confuso (un riccio?) che li fiutava, il pollice dell’uomo non riusciva ad accen249

dere lo stoppino, gli veniva meno la forza, desisteva, il resto della sua vita a zoppicare come il mulo su una caviglia rigida, il motore della corriera scoppiettava sulla strada, quel che mi è rimasto della tenuta non è la casa, è il pozzo, acque che nessuno si accorgeva che crescevano, crescevano, voglio andarmene, non voglio andarmene, ho un figlio malato che non sa nemmeno il mio nome, quando mia moglie dabbasso, la porta del granaio chiusa e perché siamo arrivati a questo, com’è stato possibile arrivare a questo, il bambino del carpentiere appiccicato alla gonna della madre, ulivi, alberi di noce (ulivi e un noce che dimagriva, questa non è terra per alberi di noce, torna da dove sei venuto) il carpentiere accendeva il sigaro a mio padre appoggiandosi a lui e mio padre all’amministratore, indietreggiando di un palmo – Non ti ho ordinato di proibirgli di toccarmi? perciò l’uomo carponi con la fiammella dell’accendino tremolante, che difficile, giuro, raccontarvi questo (– Voglio parlare con te, ascoltami) la donna raccolse i fagotti e il berretto del bambino, adesso, gli scendeva sulle orecchie, se lo piantassero nell’orto forse spaventerebbe i passeri con la testa di pannocchia, le braccia di canne, e un pastrano che nasconde la paglia del corpo, la stessa che mia moglie si scrollava di dosso tornando dal granaio, strappando le unghie delle spighe che rimanevano conficcate nella stoffa rifiutando di staccarsi mentre il veterinario aggiustava la zampa del mulo – Quale dei due zoppicherà di più, il carpentiere o il mulo? e io vomitavo sotto la pergola non quel che avevo mangiato, quello che sono, io in grembo a mia madre e le sue dita a percorrermi il corpo dopo avermi ucciso, mio figlio malato, alla cui nascita non mi permisero di assistere, sfasciava un’automobilina con un martello e correva sull’aia tendendo 250

le mani verso i colombi, non mangiava insieme a noi, si portava il piatto in corridoio senza accendere la luce e quando andavamo a raccoglierlo ci accorgevamo che non aveva usato le posate, mio padre – Che figli ci si può aspettare da un idiota? la porta del granaio aperta e l’aiutante dell’amministratore che affilava una canna o la punta di un bastone, i tacchini gonfiavano penne di cartone umiliandomi allo stesso modo in cui mi umiliavano le domestiche, non ho mai lavorato nella tenuta, non ho mai aiutato mio padre, mi sedevo in veranda pensando – Me ne vado senza partire mai, sentivo il silenzio all’interno del silenzio, all’interno del silenzio l’orologio a parete così sicuro di sé e dentro all’orologio una vocina (la mia?) – Chi sono io? cui nessuno rispondeva, poveretta, questa casa piena di domande che distrugge se stessa, fotografie di parenti in salotto che discutono fra di loro senza accorgersi di noi, la cugina Hortelinda che scrive nomi sul suo libro con una lentezza decisa e tuttavia se mi avvicinavo a loro li perdevo, zio Baltazar, zia Ofélia, se salissi le scale, chiedessi – Voglio parlare con te smetteresti di piegare la biancheria nei bauli, mi ascolteresti domandare – Che cosa ci è successo, spiegami mio padre all’amministratore – Avresti dovuto fare lo stesso al bambino perché non torni un giorno a vendicarsi conficcando la doppietta tra la staffa e l’anca, quando lo andavamo a trovare in ospedale mio figlio chiudeva gli occhi perché chiudendo gli occhi non esistevamo più, al massimo si interessava a mia madre sul taxi ogni volta che lei 251

– Jaime come se capisse chi era quel Jaime, se mi permetessi di salire le scale e di parlarti, quando la cugina Hortelinda indicò mia madre non ci credetti perché se fosse morta chi mi avrebbe coricato in grembo se mai io di nuovo bambino, quali dita per consolarmi – Dormi la grondaia a insistere con la cadenza dell’orologio – Chi sono io? e malgrado non sappia chi sono io, so che tu eri una delle domestiche che quasi senza cogliere (senza scegliere) che quasi senza scegliere avevo mandato al piano di sopra – Tu e i tuoi passi di fronte a me perché allora credevi che qualcosa di mio padre in me, la mia mano sul tuo polso – Vieni qui e a rinunciare subito con una specie di paura, saremo poi così diversi? nel chiamarmi – Idiota quale di noi due chiami – Idiota me o te chiuso in ufficio e chinato sulla scrivania non a sommare numeri, la tua vita e dopo una riga, sottovoce, tu – Niente non deluso, rassegnato – Niente e a nascondere il niente all’amministratore, a noi, camuffandolo con altro granoturco, altra segala e spingendoti sino ai confini della tenuta sebbene la tenuta niente così come la casa niente, così come noi niente per te – Idioti ti rimaneva l’amministratore a credere in te 252

– Padrone dando al posto di mio padre gli ordini che lui ormai non sapeva più dare, occupato com’era a contabilizzare miserie in ufficio desiderando che la cugina Hortelinda gli posasse una mano sul braccio – È il tuo turno, vieni e mio padre ad abbandonare la penna sul ripiano della scrivania, sollevato, a tirar fuori la doppietta dall’armadio e a introdurre due cartucce nelle canne perché il niente sia completo e un silenzio con passeri dopo la vibrazione dello sparo (chi ha parlato del bosco di castagni prima di me, non so, so che l’odore rimaneva con noi e il vento scuoteva i ricci, adesso il bosco cenere così come noi cenere, questo libro cenere, addio) se volessi riassumere la tua vita, padre, frasi a casaccio su un quaderno, che ne è delle tue donne, del tuo denaro, dei tuoi mobili a buon mercato perché non ti è mai importato dei mobili, sei rimasto tutta la vita fra le quattro pareti di quando eri un moccioso, con le stesse paure, orfano com’eri, il mulo che ti reggeva a malapena e tu lui, ti sballottava un po’ e non ce la faceva, si fermava (quando morirà il mulo che ne sarà di te?) e un amministratore della tua età che non ti serviva a nulla come io non ti sono servito a nulla e quindi non casa, non tenuta, eccoti lì, di notte, intimorito dalla rugiada che ripete il tuo nome distrattamente dato che il tuo nome non conta, conta il colpo di fucile che distrugge la mobilia, il corpo in sala da pranzo per la cui anima il prete una preghiera frettolosa e il carpentiere che entra dalla porta, zoppicando, per chiedermi lavoro convinto che sia io adesso a comandare e non voglio comandare, voglio salire le scale e dire il tuo nome, chiedere – Ascoltami e tu, abbandonando la biancheria nei bauli, ad ascoltarmi, il corpo di mio padre in sala da pranzo, il carpentiere a me 253

– Padrone l’amministratore a me – Padrone e io a fuggire via da loro slegando il cavallo e andandomene senza andarmene perché non conosco altro che questo grano, questa avena (la zampa difettosa del mulo come l’orologio e la grondaia – Chi sono io?) ti avevo mandata di sopra invece di usarti nella dispensa o nel magazzino, mio padre – Idiota perché i contadini non meritano nemmeno una casa, dormono nei vicoli del paese, mio padre per tanti anni aveva vissuto in un capanno abbandonato e i suoi occhi – Aiutatemi non solo ti avevo mandata di sopra ma ti avevo pure sposata e il notaio – Sposarsi? tu che non volevi sposarti – Non ha bisogno di sposarmi signorino, suo padre non si è mai sposato con me voglia di domandarti – Anche con l’amministratore? e non domandai – Anche con l’amministratore? perché sapevo che anche con l’amministratore e tuttavia io al notaio – Sposarmi sicuro che lui – Idiota sebbene muto, la cugina Hortelinda annotava sul libro – Non dimenticare il notaio e arrivato il turno di scrivere il tuo nome sul Registro, 254

tu uguale a mio padre con i numeri, la bocca solo lingua e la penna più pesante del mondo che ti scivolava dalle dita, una lettera enorme, una lettera minuscola, un’altra lettera enorme tracciata con una lentezza concentrata per non parlare del vestito, cui mancavano i pizzi, che ti aveva prestato una collega, avevi continuato a mangiare in cucina con le altre, a dare una mano con la legna e il fornello e a circondarti di galline entrando nel pollaio con una latta di semola, l’amministratore senza nascondersi da me – Vieni qui non solo senza nascondersi da me, quasi in faccia (quasi in faccia) e io che pensavo – È stato mio padre a mandarti il maglio per piantare i pali a dolermi in tutto il corpo, non solo nella gamba, l’amministratore a mia moglie – Vieni qui e mio padre ad assistere al mulo zoppo che sono, seduto in veranda desiderando dire – Voglio parlare con te, ascoltami e incapace di dirlo, nel vicolo una donna conduceva un capretto con il bastone, il capretto fuggì in una traversa e la donna – Maledetto remando a vuoto con il puntale sul selciato, chi mi garantisce che non mia nonna o qualcuno del genere, la penna faticava uscendo dalla riga, tu così abile con il pollame e i maiali, afferravi un maialino da latte e gli rompevi l’osso del collo senza bisogno di un coltello, quando nacquero i miei figli, l’amministratore a confrontarsi con loro – Non so mentre io slegavo il cavallo più in fretta della delusione e del dispiacere in modo che né l’una né l’altro mi seccassero più, la cugina Hortelinda annaffiava le violaciocche due vol255

te al giorno, arrivava con un sacchettino di fertilizzante e spargeva una polvere bianca (o verde?) sui petali, le persone terrorizzate dalle violaciocche – Non me ne regali, grazie e io a pensare che cosa ci sarà di tanto importante nella vita che fa sì che vi si attacchino così tanto detestando morire, e non solo la gente, i cani, gli uccelli, se un nibbio rapiva un pollo, il pollo a dibattersi in strilli anticipando la disperazione e l’agonia delle ossa sparse, le persone detestando morire e al tempo stesso temendo di offendere la cugina Hortelinda nel rifiutare le sue violaciocche – Non se la prenda, ma non ho un vaso abbastanza capiente osservandole come se fossero i loro stessi nervi defunti con un resto di carne o di tessuto attaccato a muoversi sottoterra in cerca di una luce che li abbandonava lasciandoli al buio fra rimorsi e fantasmi, se la luce si fosse avvicinata non l’avrebbero sentita arrivare tanto era fioca o non l’avrebbero riconosciuta – Non so l’orologio a muro – Chi sono io? e la pioggia (una goccia al secondo) a rovinare il grano e a fare a pezzi il trattore, il carpentiere a piccoli balzi con la stampella – Mi dia almeno qualcosa da mangiare finché non se ne andava vinto, silenzioso come questi contadini silenziosi, che non pensano o che nascondono a se stessi quel che pensano sicuri che a loro non serva a nulla pensare, obbedendo non nel modo in cui la gente obbedisce ma nel modo in cui gli animali si sottomettono per abitudine o per paura 256

– Padrone ostinati, umili, lenti e tuttavia con il coltello in tasca pronto a finirci tra le costole in un recesso della casa o ad attenderci con la doppietta dietro al tronco di un frassino, l’amministratore a sollevare il frustino contro il carpentiere come avrebbe fatto mio padre, e la moglie con il suo fardello e un fazzoletto a lutto, io alla cugina Hortelinda – Il figlio della donna? la cugina Hortelinda sorridendo – Il paludismo ma quale paludismo, bugia, una riga tirata sul nome e a fregarsene di lui, devono aver abitato in un rifugio di pastori mangiando foglie e grilli, ho conosciuto mendicanti che li arrostivano su un bastoncino, ditemi chi sono e io vi lascio in pace, non importuno più nessuno, me ne vado e la sedia in veranda vuota con l’orma della mia schiena sulla tela, il mio figlio malato che non si sedeva mai, a girare per la casa in cerca di chissà cosa, il carpentiere e la moglie che diminuivano nella segala, nel capanno degli attrezzi, nell’aia, ci saranno ancora grilli da mangiare signori, ci saranno ancora foglie, non si sedeva mai dato che perfino di notte la sua frenesia nella stanza ci impediva di dormire, i rami dell’albero del pozzo così neri e mia moglie lassù, di quando in quando gli stivali di mio padre sulla scala, un intervallo di silenzio, piedi scalzi sul pavimento di legno, s’indovinava un occhio che spiava, una delle bretelle della camicia cadute e le gambe di lei mio Dio, datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo, il professore a lettere maiuscole sulla lavagna Archimede a girarsi verso di noi scuotendosi il gesso dai palmi, mio padre – Tuo marito è un idiota, piccola qualcosa (un candeliere di terracotta?) 257

che cadeva e io sicuro che l’altro mio figlio, quello che avrebbe ereditato la casa e che non ricevette un accidente salvo polvere e rovine, conoscesse la verità, come mi ricorderai, che cosa non dirai per vergogna, mai – Buongiorno, papà mai – Buonasera, papà e mio padre a scendere la scala mentre un volo di civetta sfiorava il comignolo, se mi chiedono se credo in Dio non rispondo – Dio esiste, cugina Hortelinda? e lei a sollevare il capo dal libro sistemandosi il cappellino con la veletta, il professore appoggiava il righello sotto il nome Archimede – Ripetete disegnando una leva (un volo di civetta sfiorava il comignolo, obliquo) all’estremità destra della leva A, in mezzo alla leva B, all’estremità sinistra la sfera che rappresentava il mondo C e i palmi di nuovo a scuotere via gesso l’uno dall’altro e dai risvolti della giacca poi – Capite? alla fine la cugina Hortelinda a decidersi – Dio? decine di martiri torturati in chiesa, il fumo dell’incenso sulle colonne gelate e la cugina Hortelinda quasi a (mio padre finalmente nel proprio letto) canzonarmi – Dio? il professore considerava il nome di Archimede con venerazione, noncurante di noi, la palma della ricreazione aveva un nibbio sopra e io – Dio si chiama Archimede, signore? 258

ogni volta che mio padre in soffitta, il mio figlio malato camminava più rapidamente, in fondo qualcosa sentirà pure, dicono che le civette pigolino come neonati e non le sento pigolare, sento la bronchite delle galline e il tetto che si cancella tegola dopo tegola, certe volte i germogli dove il vento si impiglia (come’ è stato possibile che siamo arrivati a questo?) scucendo i propri indumenti nel tentativo di liberarsene, la luna che tira le nubi da una parte e dall’altra quando si sveste, all’ospedale platani, una fontana con un rubinetto inceppato e mia moglie a me – Oggi è più lui, non credi? la cugina Hortelinda tornava alle violaciocche stringendosi nelle spalle – Dio noi con un sacchetto di biscotti che lui non mangiava mai, intento a osservare mia madre sul taxi dicendo – Jaime anche lui, solo che il suo – Jaime vuoto, una buccia senza ricordi dentro, quando le davo la minestra mia madre a me – Jaime? e quindi magari un altro uomo che saliva la scala, non diretto in soffitta ma al primo piano e non tu, papà, che bussava alla porta e dopo una pausa di silenzio un occhio in una fessura, mia madre che apriva e l’uomo che s’intrufolava dentro di profilo (quando si muore che cosa ci succede?) si fa pressione sul punto A della leva, il mondo si solleva e noi con lui, altissimi, l’altro uomo – Tuo marito è un idiota, piccola perciò magari ti vuoi sedere anche tu in veranda, padre, 259

se ti va ti presto il cavallo per andare a galoppare in paese, la cugina Hortelinda chiudeva il libro – So poco di Dio cercando il concime per le violaciocche, mio padre all’amministratore con una vocina antica come se un pezzo di stucco lo proteggesse ancora contro i topi e il freddo – Sono idiota io? gesso sulla cravatta del professore, sulle sopracciglia, sul mento, abitava nel retro della scuola e sua moglie enorme senza una leva che la sollevasse anche se l’avessimo collocata sul punto C, l’ombelico del mondo, talvolta durante la ricreazione il professore in camera sua a parlare da solo – Archimede lei chiamava uno di noi mostrandoci il petto – Tocca qui, ragazzino un salottino pieno di cose che oscillavano, centrini vasi santini oppure era lei che oscillava oppure ero io che oscillavo oppure erano i centrini i vasi i santini lei e io che oscillavamo con i miei compagni che spiavano appiccicati alla finestra, con le mani a pala ai due lati della faccia, la moglie del professore li aiutava spostando le tendine – Che carini e il biondino che portava gli occhiali con una lente tappata, contento, non appena le scarpe del professore dirette verso l’aula lei mi spingeva via di colpo – Vattene mentre le teste scomparivano dal vetro e le cose solide tranquille, rimanevo soltanto io a oscillare, il professore a me – Tu eri qui? la moglie sistemando sul vestito il punto A e il punto B con un gesto casuale – Ha sbagliato strada, poverino e riprendeva l’uncinetto accarezzando il gomitolo, san260

ta Eulalia, santo Stefano, san Buonaventura martire, i fratelli Cirillo e Metodio in un’immaginetta incorniciata, il biondino con gli occhiali e la lente tappata a lavorare per mio padre durante i raccolti, la moglie del professore, vedova, adesso magra e malata, a muoversi con difficoltà in paese, nessun grappolo di mocciosi, uno sulle spalle dell’altro, a spiare dai vetri, guardai con le mani a pala ai lati della faccia e il salottino deserto, la cornice dei fratelli Cirillo e Metodio per terra, rotta (la cugina Hortelinda con un movimento di disgusto – Dio) e la moglie con una borsa dell’acqua calda sullo stomaco (lo stomaco il punto C, l’ombelico del mondo) abbandonai i vetri scuotendomi il gesso che non c’era, la ricreazione macerie e un berretto troppo grande, con la fodera stracciata, che magari era appartenuto al bambino del carpentiere e com’è stato possibile che siamo arrivati a questo, il mulo che zoppica nel silenzio e mio padre all’amministratore, con le mani fra le costole – Aiutami a piegarsi lentamente, vedendomi in veranda – Idiota e la mano sempre più grande sul collo, sul ventre, il sigaro che gli sgocciolava dalla bocca e lui – Non perdere il sigaro che l’amministratore gli infilò nel taschino del panciotto, il mio figlio malato (un’allodola che cantava non so dove) per la prima volta a osservarlo non curioso, assente, insistendo con il suo – Jaime ebbi l’impressione che l’altro mio figlio andasse loro in261

contro e invece no, fermo, era stata l’allodola a liberarsi in un trambusto di penne, l’orologio a muro così sicuro di sé e all’interno dell’orologio una vocina (la mia?) – Chi sono io? cui nessuno rispose, mio padre un impulso e la gamba a mancargli come se un maglio contro la caviglia lo avesse piegato, lui carponi a toccarmi le scarpe e io, l’idiota, a ordinare all’amministratore – Proibiscigli di toccarmi non del lei – Gli proibisca di toccarmi per la prima volta del tu all’amministratore – Proibiscigli di toccarmi le domestiche sulla soglia della cucina immobili come il mio altro figlio, il pozzo immobile, i nibbi immobili, le capre sulle rupi senza far franare nemmeno un sassolino, mia madre o mio figlio malato a insistere – Jaime e il – Jaime l’unica allodola che non cambiava ramo, io all’amministratore – Non ti ho detto di proibirgli di toccarmi? sull’estremità destra della leva che chiameremo A, mio padre sull’estremità sinistra che chiameremo B, fra A e B l’amministratore che chiameremo C e mio padre così facile da sollevare azionando il punto A e utilizzando C come fulcro, e sebbene facile io senza riuscire a sollevarlo come Archimede sollevava il mondo perché la moglie del professore mi aveva chiamato durante la ricreazione – Ragazzino il professore in camera sua a parlare da solo e la tenuta 262

piena di cose che oscillavano oppure era mio padre a oscillare oppure ero io a oscillare oppure mio padre e io a oscillare con i miei figli che osservavano con le mani a pala ai due lati della faccia ascoltandomi dire a mio padre – Idiota e a scacciarlo con la scarpa per poter tornare in veranda, sedermi sulla sedia di tela e rimanerci un bel pezzo, ma un bel pezzo sul serio, a guardare le montagne sotto le nubi della sera.

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5.

Che cosa potevo fare con mia moglie che si lamentava di continuo di mio fratello che gironzolava per casa spiandola, attardandosi in cucina quando lei in cucina con gli occhi che cercavano di dire e i gesti che cercavano di spiegare e non diceva né spiegava, rimaneva lì nella speranza che mia moglie lo capisse ma come capirlo visto che domande assurde – Ricordi che ti avevano tagliato le trecce quando ti eri ammalata da bambina? o – Hai forse dimenticato i ceri nei bicchieri di carta in processione per te? mia moglie notava una campana distante o l’infermiere che assisteva mia suocera pulendole la bocca con l’asciugamano – Non manda giù lo sciroppo, signora episodi smarriti che ritornavano, il padre che scacciava mio fratello lanciandogli zolle di terra – Vattene e mia moglie, dall’interno della febbre, che si liberava di se stessa come una bustina di tè in una teiera, vedendo uscire macchie di ricordi che si diluivano nell’aria, una mosca che le tornava sul viso malgrado la madre gliel’avesse allontanata, un chiodo nel muro dove una volta una stampa e non capiva 264

per quale motivo il chiodo le facesse male, la zia che le impediva di respirare con un ventaglio di midollino, il gatto sul davanzale con una crudeltà gialla, se non era in cucina mio fratello bussava alla porta della nostra stanza chiedendo non so cosa visto che nessun suono salvo lo schiocco delle falangi, se ci fossero state zolle di terra l’avrei scacciato – Vattene e mio fratello a fuggire attraverso una breccia del muro e a tornare subito dopo, come quei cani abbandonati nella pineta che trovano la strada di casa e ci vengono a tossire sui gradini, perciò cos’altro potevo fare io (tante bustine di tè nella teiera del mio corpo, tante macchie che si diluivano, una lucertola infilzata in un bastoncino, la spagnola con il turbante che leggeva il destino durante la fiera frugandomi le tasche con le unghie laccate – Non hai denaro, mezzo uomo? il turco che beveva benzina ed emetteva fiammate calpestando cocci di bottiglia su un tappeto mentre il figlio, con un cilindro in testa, malmenava un tamburo) se non metterlo di nuovo in (il cilindro che ci allungava dopo con due o tre monete sul fondo) ospedale o trovare un posto dove ci lasciasse in pace senza frugare nei cassetti con una fretta rabbiosa o minacciare – Jaime se ci incontrava insieme (la spagnola del destino, abbottonandosi – Non sarai nessuno, mezzo uomo e non sono mai stato nessuno, effettivamente, aveva indovinato) trovammo un posto sulla riva del fiume dove gli portavamo da mangiare e la domenica lo portavo in gita a Trafaria a guardare le cornacchie sul pontile e una vecchia (la cugina Hortelinda non alle prese con la morte?) 265

che pelava patate di fronte al mare, qualcosa in mio fratello, non la voce, una molla nelle viscere che non aveva nulla a che vedere con lui – Siamo due uomini, vero? le dita mi si avvicinavano alla nuca (dita senza mani, sole) per ritrarsi subito, le cornacchie depongono le uova nella sabbia o alla base dei cactus, suppongo, e mi domando in quale punto della tenuta mia madre ci avesse covati, sarei stato qualcuno per la spagnola se avessi avuto del denaro, si faceva il bagno in una tinozza accanto alla tenda quando la fiera terminava e il vento, fattosi cane, giocava con bucce e pezzi di carta sul sagrato, abbandonandoli, correndogli dietro, mordicchiandoli e abbandonandoli di nuovo, i capelli della spagnola le cadevano sulla nuca e io senza futuro signori, ridotto a un presente di frammenti sparsi che non ero in grado di mettere insieme, il matrimonio, mia moglie, mio fratello, il ricordo della tenuta, se vi fossi entrato adesso canneti e i villaggi degli spaccapietre sulle pendici delle montagne, nessun lume sulle sepolture, di notte, nessuna eco, mi domando se mio fratello saprebbe il suo nome e il mio nome, io so il suo nome e il mio ma non so che cosa un nome significhi, se mi avvicino a mia moglie, anche senza mio fratello in casa, qualcuno dietro la porta e i cassetti ad aprirsi e chiudersi da soli, io – Non senti? e lei, che non sente, ad attendermi, muta, senza accorgersi di un’inquietudine nelle cose, non ho mai visto mio fratello sorridermi perché lontano da mia moglie non sono, così come anche per l’aiutante dell’amministratore non ero, mi incrociava senza vedermi o mi mandava via con una gomitata se per caso cercavo di raddrizzare da me un pezzo della recinzione, se avessi una frusta gli lascerei il segno – Se avessi una frusta ti lascerei il segno 266

e lui raddrizzava il palo per me, andai a prendere la frusta in ufficio, lo colpii sulla spalla e l’aiutante dell’amministratore continuò a martellare con la stessa cadenza malgrado la camicia stracciata (quali le macchie di sangue e quali le macchie di terra?) mi arrivava la sua indifferenza dal modo in cui la schiena si chinava ed ebbi il sospetto che l’indifferenza non per me, per mio padre o per mio nonno o per l’amministratore e dentro di me – Quale di loro? la porta del granaio chiusa, mia madre a piegare biancheria di sopra e l’aiutante dell’amministratore a strapparmi il frustino di mano e a pentirsene, sottomesso come tutti i contadini sottomessi – Vieni qui e vengono – Sparisci dalla mia vista e se ne vanno perché sono nati per obbedire, sono inferiori a noi e lo sanno, sempre – Signorino sempre – Dica, signorino sempre – Faccia di me quel che vuole, signorino mi domando se persone nel senso in cui noi persone, avranno il nostro stesso Dio o un Dio inferiore, anche lui povero, in un cielo quasi senza angeli e i rari che vi si trovano, spelacchiati, l’aiutante dell’amministratore a ridarmi la frusta e a martellare di nuovo (un Dio che non comanda, obbedisce – Signorino) graffi sulla pelle nemmeno rossi, bianchi (come quei mendicanti che vengono a chiedere l’elemosina in veranda 267

– Non avrà un pochino di minestra da darmi? e si coricano nei fossati con una tela di sacco per coperta) negli squarci della camicia, mio fratello a smettere di sfasciare l’automobilina di legno che non so chi gli aveva regalato (il Dio dei contadini incapace di giocattoli come si deve – Prendi questi pezzi di legno e queste latte che di più non posso fare) il mare di Trafaria non blu né verde, giallo, mio fratello fuggiva dall’aiutante dell’amministratore più in fretta di quanto fuggisse da noi come se qualcosa in lui volesse e non volesse scappare, magari avrebbe preferito la sua compagnia a Trafaria per cercare, insieme, uova di cornacchia sui salici piangenti, al punto da figurarmi, incredulo, che anche mio fratello un contadino, indovinano la pioggia, indovinano l’ora anche con il cielo coperto, rimangono sulla soglia della chiesa meravigliati dalle immagini sacre, non si lamentano, accettano (dicono che anche i negri così, ma non ne conosco) e io a guardare dalla finestra di mia madre e a capire, alla fine, se fossi andato a prendere la doppietta il mondo di nuovo in ordine, e cioè il cavallo legato all’anello e mio nonno a mio padre non – Idiota zitto e forse la tenuta ci sarebbe ancora invece dell’abbandono dei campi, la spagnola del turbante spargeva conchiglie su un panno – Sono morti tutti finché il vento, che non insegue bucce né pezzi di carta, altrove, dove persone come noi continuano con i loro pollai e il loro grano e un amministratore conduce il padrone per la corda del mulo perché si conoscevano da bambini ed erano cresciuti insieme in paese rubando polli e cavoli finché i pri268

mi germogli di granoturco, i primi meli, la casa costruita con i resti del convento disertato dai frati dato che questa terra amara senza che il Signore si manifesti con la sua protezione e ausilio, i capelli dell’aiutante dell’amministratore e quelli di mio fratello identici, lo stesso mento, la stessa scoliosi, se dessero al malato un coltello e un pezzo di canna lo affilerebbe appoggiato al lavatoio con mio padre a guardarlo, perché mia madre, padre, una domestica, una capra di rupe che non conosce padrone e accetta qualunque maschio le giri un po’ di tempo in torno, paziente e stupido, avrei potuto ammazzarli entrambi con la doppietta di mio nonno senza che il loro Dio si indignasse, ossequioso, servile, desiderando compiacermi – Signorino e anche loro ossequiosi e servili, non ho mai detto – Mamma (non mi è mai passato per la testa di dire – Mamma così come non ho mai detto – Papà o – Nonno li trattavo come gli estranei che erano) non le ho mai risposto se mi chiamava (da chi sono nato io?) non sono mai salito in soffitta, la vedevo in cucina pranzare con le colleghe e alzarsi con loro con un tovagliolo fra le dita, è il nipote del padrone che non lavora nella tenuta e amen, forse nato da una creatura che non era mia madre come mio padre non era mio padre, io solo, mio nonno – Devi ereditare tutto questo con un gesto che comprendeva i nibbi, la palude, le montagne, vale a dire il nulla che chiamavano nibbi e palude e montagne quando l’unica cosa che mi interessava erano i riflessi del pozzo dove il mio volto si scomponeva senza ri269

comporsi mai, schegge che non mi appartenevano in grida senza suono, mi appartiene mia moglie che è morta da bambina (mi ricordo il padre al cimitero scavare più degli altri) e quindi non ho altro che una moglie inventata che respira dalla parte della mensola in un letto in stile, la cugina Hortelinda mostrandomi il libro – Qui non risulti e di conseguenza non vivo oltre alle grida senza suono, non trovo mio fratello quando gli porto da mangiare perché si nasconde all’estremo opposto della casa, lo sento gettare cose per terra e sento i pescherecci sul fiume, né donnole né grano a Lisbona che orrore, pavoni al castello e di colpo, senza aspettarmelo (sto cercando di scrivere la mia parte in fretta) nostalgia non tanto della tenuta, delle mattine in cui la mietitrice tagliava, a ogni rotazione, una fetta di luce, e l’odore delle pesche quando i tucani in direzione della palude dove esalazioni, vapori e il canto delle rane, avevo l’abitudine di accovacciarmi, presso la noria e le mimose, ad ascoltare gli scarabei (scarabei?) e a guardare le farfalle sui tigli (scrivere la mia parte, liberarmene, lasciarvi) non mi pento di aver sparato all’aiutante dell’amministratore dopo che mia madre aveva abbandonato il granaio e lui stava appoggiato al lavatoio con il coltello e la canna, le tortore della colombaia non piangevano, mi ordinavano – Ammazzalo non sul posatoio, sul tetto, non le ho mai viste sul posatoio, nel chiederle di controllare meglio, la cugina Hortelinda percorse pagine intere con l’unghia, minuziosa, servizievole – Qui non risulti 270

desiderosa di aiutarmi e impossibilitata ad aiutarmi – Purtroppo non dipende da me le domandai – Chi ti dà ordini? e uno sguardo al soffitto – Lui non sa più dare ordini perché perfino a Dio, con l’età, si era annebbiato il cervello, deperiva su una panca ripetendo perplesso, sfregandosi le mani sulle ginocchia – Che cosa strana è la vita dimentico di noi, la cugina Hortelinda con disprezzo – Interi pomeriggi così mio nonno sommava raccolti in ufficio sbagliando i numeri, gli cadeva la cenere del sigaro, scuoteva il quaderno e soffiava via la cenere scompigliando fatture, mai un sigaro completo, il mozzicone quasi dentro alle gengive per cui i baffi fumigavano vuoti, domandai a mio nonno – Mi presti la doppietta, per favore? le capre a riposo sulle rupi come pedine che si spostassero sulla scacchiera quando il re compiva gli anni, e un pubblico di nibbi in attesa, la doppietta appoggiata a una mensola con bottiglie e bicchieri, tutti impolverati, fra l’altro, perché Dio e mio nonno si stavano annebbiando insieme, le stesse parole tronche e la stessa severità astratta, l’aiutante dell’amministratore ad accorgersi della doppietta senza abbandonare il coltello né interrompere il lavoro vale a dire quel modo dei contadini di ricevere le cose senza discussioni o ribellioni come i buoi o i cavalli, uno sguardo in tralice che acconsente e il corpo tranquillo, si arrabbiano fra di loro, non si arrabbiano con noi, mia madre, che le tortore avevano avvisato, in piedi nella finestra della soffitta con una federa in mano (fra parentesi, che ne è di te mamma, pieghi ancora oggi la biancheria?) 271

le domestiche alle prese con le galline (dopo che un pollo era stato scelto, gli altri indifferenti) eccetto la figlia dell’amministratore sull’orlo di una frase senza proferire la frase, a volte la trovavo che mi seguiva, preoccupata per me, quando andavo a osservare le schegge di me stesso nel pozzo o se per caso mi avvicinavo alle trappole per le volpi con aculei che disfano le ossa e le lasciano non a gemere, non ad ansimare, a lamentarsi tutta la notte rompendosi i denti sul ferro con una sofferenza di persone finché un contadino, esasperato quanto loro, non le mette a tacere con un’ascia (– Hai anche una lista di volpi, cugina Hortelinda? e la cugina Hortelinda, offesa dal silenzio di Dio, interrompeva la concimazione delle violaciocche – Ragazzo) la figlia dell’amministratore, per paura che io le ossa disfatte e qualcuno mi facesse tacere per pietà con una falce, apriva la trappola, mi teneva appeso per la coda mostrandomi ai parenti con la lingua grande, viola – Una volpe maschio avvicinandosi a me – Non è una volpe, è il signorino l’unica persona nella tenuta che si preoccupasse per me, mi soppesava il corpo, impaurita – È smagrito no? mi lasciava in camera, di soppiatto, con goffe attenzioni, caramelle, gelatine, frittelle e io – Non mi seccare mentre qualcosa mi doleva e mi irritava che mi dolesse quando ordinavo – Non mi seccare l’unica madre che avessi avuto e a disprezzarla proprio per questo visto che nel profondo di me non mi sentivo in diritto di avere una madre e del resto a cosa serve una madre, 272

che se ne fa uno di una madre, come si ringrazia, che cosa si dice, che stancante preoccuparsi, voler bene, la figlia dell’amministratore che le colleghe di cucina canzonavano (una seconda capra cambiò rupe neutralizzando la prima) per gli occhi da cane bastonato e per la sua agitazione quando si scannava il maiale mettendo il secchio sotto il sangue e l’animale con le zampe legate supplicava aiuto, lei con le mani sulle orecchie – Taci (sarò un maiale, io?) abitava insieme al padre oltre a qualche pollo rachitico e qualche ciuffo di insalata, non voglio una madre quasi grassa come la cugina Hortelinda che si teneva in equilibrio a fatica sul gonfiore delle gambe, l’infermiere esaminando le sue caviglie – La pressione e quella stupida della figlia dell’amministratore sotto la pioggia senza nemmeno uno scialle a controllare attraverso le persiane se avessi due coperte nel letto, non tosse, non febbre, io con una smorfia sul volto, irritato con lei – Esploderai per la pressione mentre si allontanava con i vestiti, le sopracciglia, la fronte sgocciolanti, lasciava le scarpe ad asciugare accanto al camino dalle quali si levavano bollicine che scoppiavano al fuoco, domandai a mio nonno che ricominciava i conti – Mi impresti un momento la doppietta? e l’aiutante dell’amministratore ad accorgersi dell’arma senza abbandonare il coltello né interrompere il lavoro come se mi aspettasse da anni, il suo atteggiamento, non la bocca – La stavo aspettando, signorino sapendo che lo avrei ammazzato e indifferente a me, la camicia senza panciotto, i pantaloni con toppe di un’altra stoffa sulle ginocchia, non tessuto da uomo, una vestaglia o una gonna, lui povero e io a pensare 273

– Non ha nulla nel momento in cui la sollevai, l’arma più pesante di quanto non fosse, più grande, e mia madre scomparve dalla finestra, non puoi immaginare quanto mi stregasse da piccolo il profumo dei tuoi bauli, madre, mi annusavo e me lo trovavo sulla pelle per cui io te per un attimo, e per un attimo tu sì mia madre, una specie di stavo per scrivere amore, che esagerazione, non amore, aumentava dentro di me e a pensarci bene forse davvero amore, chi mi assicura il contrario, siamo così complicati, cugina Hortelinda (– Lui ormai non comanda più su niente e mani avanti e indietro sulle ginocchia) così strani, se a questo punto incontrassi la figlia dell’amministratore sarei capace di abbracciarla, che cretino (finisci la tua parte più in fretta che puoi) colpii una spalla perché l’articolazione scese e ciononostante il coltello continuò ad affilare solo che i movimenti meno sicuri, incerti, uno sguardo rivolto a me e un abbandono uguale al mio con identica sorpresa e identica censura, mi ricordo dei frutti che cadevano nel frutteto e di una danza di foglie, non nel modo leggero con cui cadevano in autunno, una furia di rami, ricordo che entrai in ufficio e riposi la doppietta contro la mensola delle bottiglie mentre mio nonno – Hai da accendere? senza accorgersi che ero occupato a raccogliere le fatture che gli sfuggivano dalle dita, l’aiutante dell’amministratore scomparve nel granaio tenendosi il braccio che immaginavo posticcio e una macchia scura ad aumentargli sotto l’ascella, mio padre spronò il cavallo, fece mezzo giro come ringraziando e riprese il galoppo, il braccio dell’aiutante dell’amministratore impiegò un mese a tornare a essere braccio, mio nonno rinunciando alle fatture – Dovrai raddrizzare tutto questo 274

e non raddrizzai un fico secco, lo delusi, me la diedi a gambe, mio fratello a Trafaria inseguiva le cornacchie, se qualcuna sollevava le penne contro di lui, indietreggiava dicendo – Jaime e se ne andava vinto, l’aiutante dell’amministratore impiegava più tempo con le automobiline di legno perché al braccio cadevano i chiodi per terra, doveva cambiare mano per riuscire a raccoglierli e ciononostante – Signorino senza risentimento – Signorino tutto lì, perché io persona e lui no, era cresciuto in cucina obbedendo alle domestiche e mangiando i loro avanzi, rimaneva interdetto davanti alle fotografie – Non conosco un’anima i contadini tutti identici, signori, nati per avere fame e per essere nostri schiavi, a poco a poco mia madre ritornò alla finestra, la porta del granaio si chiudeva e io non li ascoltavo, ascoltavo l’orologio del salotto che sincronizzava i minuti con il passo del mulo e mio nonno attraverso il grano senza energia, senza volontà, perfino senza – Idiota o senza preoccuparsi per la recinzione, i tucani in un ampio circolo a fiutare sentieri con una femmina a capo dello stormo (come saranno i campi visti dall’alto?) una delle domestiche si lavava al rubinetto della cisterna dell’acqua formando una pozzanghera che eccitava le vespe e che i cani leccavano, mia madre una contadina che si scuoteva fili di paglia e mio nonno sconfitto che perdeva la forza del comando, il tetto cominciava a imbarcarsi, i mattoni affioravano sotto l’intonaco e la lanterna della veranda spenta, tagliarono le trecce a mia moglie per alleviarle il dolore concentrando sul cuore il sangue che i capelli richiede275

vano, la figlia dell’amministratore quasi impedita a camminare non più preoccupata per me, preoccupata per se stessa, le spiegai, per gentilezza – Stai per morire e le narici ad allargarsi riconoscenti, andai a cercare la cugina Hortelinda e la trovai che sistemava le violaciocche in modo da orientarle in direzione del sole – La sceglierai? più vecchia di mio nonno e senza invecchiare mai, estraeva gli occhiali dal grembiule per consultare il libro seguendo la lista con la punta delle forbici e muovendo le gengive mentre leggeva, si capiva quando pensava perché il pomo d’Adamo le sporgeva, staccava le foto dai chiodi a mano a mano che le persone morivano, nelle fotografie di gruppo le cancellava tirandovi una riga sopra e tutto questo all’oscuro di Dio che si è dimenticato di noi, dopo due o tre domeniche a Trafaria le cornacchie ormai indifferenti a mio fratello, magari fanno i nidi nella pineta invece che fra le agavi e i piccoli con il becco rivolto in alto, pelati, isole di spazzatura con la bassa marea e il granoturco a seccare, nel caso mi domandassero se voglio bene a mia madre non rispondo, quando ti tagliarono le trecce ti tolsero anche la frangia e tu sul cuscino con i lineamenti liquidi della febbre, avresti perso le guance che scorrevano sulla federa, il sacrestano spacchettò una santa e te la lasciò in camera a negoziare la tua cura con Dio, mio suocero appoggiato alla parete, muto, mia suocera litanie di chiesa, estrassero i proiettili all’aiutante dell’amministratore con una pinza e lui fra biglie di sudore e ciglia che gli passeggiavano sulla fronte – Non è nulla sfregandosi le caviglie – Non è nulla i proiettili non neri, marroni spruzzati di marrone, an276

che da bambino, quando mio nonno lo aveva trovato nel cimitero, senza lamenti, né querimonie, senza dire il suo nome malgrado mio nonno – Come ti chiami? non disse mai il nome che forse ignorava o forse non aveva e quindi mia cugina Hortelinda non poteva scriverlo a meno che uno scarabocchio sostituisse le parole, arrivata all’altezza dello scarabocchio lei – L’aiutante dell’amministratore cercandolo con il dito accanto al lavatoio o nel granaio di fronte alle rovine della casa, addio veranda, nonno, addio magazzino delle sementi, arbusti che nascevano dalle crepe dell’aia, il pontile di Trafaria perdeva piloni e cime, se l’età non annebbiasse la mente di Dio, che deperisce su una panca sfregando le mani sulle ginocchia – Che strana cosa è la vita potrebbe prendersi la briga di migliorare mio fratello e lui vivrebbe insieme a noi senza molestarci con quegli occhi che cercano di dire e quei gesti che cercano di spiegare e non diceva né spiegava, fuggiva, lui dietro alla porta di camera nostra a chiedere non so cosa visto che nessun suono salvo lo schiocco delle falangi, mio fratello nella casa in riva al Tago con le persiane abbassate, colloco il mangiare davanti all’entrata e rimango qualche minuto a ricordarmi di noi e a sentirmi male con la mia vita di adesso, non era questo che volevo, era che facessimo conversazione in veranda, la casa intatta, il grano venduto, altre domestiche in cucina, mia madre insieme a noi e noi – Mamma mio padre insieme a noi e noi – Papà l’amministratore con il cappello sul petto – Padrone e le onde della palude, non di Trafaria, a cullarci tran277

quille mentre Dio si sfrega le mani sulle ginocchia meravigliandosi di quel che ha fatto – Che strana cosa è la vita se l’età non Lo avesse annebbiato e io conversassi con Lui, forse saremmo, per così dire, allegri invece di mio fratello che mi evita e io che me ne vado senza vederlo, che strana cosa è la vita cugina Hortelinda, metti i nostri nomi nel libro e indicali con il dito, è un favore che ti chiedo, mia moglie nel letto ad attendermi e dentro di me – Tu sei morta assistendo ai ceri su per la salita, come posso coricarmi accanto a te se sei morta, dimmi, nel toccare le tue trecce tocco capelli defunti, se per caso vado al cimitero trovo il tuo nome sulla pietra Maria Adelaide e ho paura di una bambina fredda come da piccolo avevo paura delle lucertole, dei rospi, mandavo un contadino ad ammazzarli al posto mio e rimanevo a guardare i corvi che li beccavano, nel scendere le scale la voce di mio fratello – Jaime e di colpo tanti pianerottoli e tanti gradini per arrivare alla strada, dove prima pochissimi, la certezza che non ci fosse una strada, ma altri pianerottoli, altri gradini, un viaggio senza fine cugina Hortelinda, tu che ti intendi con Dio, non è che per caso riesci a risolvermi questo? e la cugina Hortelinda a sollevarsi dalle violaciocche aprendo e chiudendo le forbici come se avesse voglia di tagliarmi (avevi voglia di tagliarmi?) – Abbi pazienza, ragazzo mio fratello, che avrebbe avuto voglia di tagliarmi – Jaime non solo sullo zerbino, anche nel mio udito, io continuando a scendere reggendomi al corrimano – Scusa, fratellino 278

(fratellino?) e la mia voce non a Lisbona, dentro al pozzo dove il mio volto ondeggiava, scusa ma non ho tempo per te, non ho mai avuto tempo per te e tu deluso sebbene mi sfuggissi, forse se ti avessi abbracciato saresti stato capace di forse saresti stato capace di rimanere, non mi avresti abbracciato a tua volta ma avresti ripetuto – Jaime e – Jaime e – Jaime con una specie di non tenerezza, perché mai tenerezza, che esagerazione tenerezza, con una specie per così dire di amicizia, di – Non andartene di – Rimani con me e io ad andarmene, scusa, tu malato, tu figlio dell’aiutante dell’amministratore, tu un contadino, tu malsano, stammi bene, lasciami andare, altri pianerottoli, altri gradini e io a scendere a luce spenta con le cornacchie di Trafaria che rompono le uova con i capini bagnati, la cugina Hortelinda sfilandosi gli occhiali – Abbi pazienza, ragazzo con il libro chiuso, in cerca dell’uncinetto nel cestino, chi avrebbe mai detto la morte una signora comprensiva, gentile, che ci indica con un dito riluttante e lavora ai suoi centrini lentamente, da piccolo avevano tentato di spiegarmi che la morte uno scheletro con la falce e bugia, una signora con il cappellino con la veletta dispiaciuta di portarci con sé, l’unica persona fino a oggi che mi ha chiamato – Figlio con una specie di dispiacere, penso io, di tenerezza 279

quanto poteva essercene in paese, troppa povertà, troppa violenza, troppo freddo d’inverno e il pollame e gli orti troppo magri per alimentarlo e quindi non c’è da stupirsi che mia moglie sia morta da bambina e io con una defunta in casa, ci dev’essere una stazione ferroviaria che mi porti alla frontiera dove le persone non muoiono, la cugina Hortelinda senza lavoro a finire i suoi centrini in pace, a non dover viaggiare tanto con il conducente della corriera che le porta la valigia – È sicura di stare bene donna Hortelinda? a controllare che fosse in grado di camminare senza aiuto fra le pozzanghere dell’ultimo ottobre mentre io tanto lontano, anch’io diretto a casa, padrone di Lisbona, delle persone, del mondo perché mio nonno – Dovrai comandare su tutto questo e quel contadino di mio fratello a controllare la marmitta di cibo che gli ho lasciato (i platani dell’ospedale, la fontana) davanti all’entrata, non avrei mai immaginato che finissimo così, speravo che la cisterna dell’acqua e mia madre e il trattore (di mia madre non so nulla) durassero in eterno, io in grado di giurare – Duriamo in eterno e mi sono sbagliato, se tornassi nella tenuta (ti manca un pelo, non smettere) che cosa vedrei oggi, ci rimane Trafaria, una coppia di hindu con un cesto e l’ormeggio per le barche, così poco, in fondo, mio fratello a zonzo sulla sabbia, che esamina una latta vuota e la getta via, persone che spuntano via via dalle baracche fra le dune e ci vengono incontro, permettetemi di rimanere qui e dimenticatemi come ho dimenticato la mano di mia nonna, che alzava e abbassava il braccio convinta che tra le dita davvero una tazza, mio padre a mia madre sulla soglia della soffitta 280

– Non mi lasci entrare? stringendo la maniglia con troppa forza, le falangi bianche, come se stesse per avanzare e invece fermo, mia moglie a me – Noi rimanere insieme? e come rimanere insieme se malgrado adulta sono morta da bambina, non vedi le donne che abbracciano mia madre sorreggendole la tristezza noi che ignoriamo che cosa sia la tristezza e l’assenza di specchi affinché donna Hortelinda non ci rifletta lì dentro, non ci trattava come i ricchi, si tratteneva con noi, perdeva tempo, s’interessava, mio padre diminuendo dentro di sé – Non mi lasci entrare? attraversava la casa senza vedere nessuno battendosi il frustino da cavallo (non una frusta come mio nonno) contro la coscia, attraversava il salotto, la cucina, l’aiutante dell’amministratore estraeva il coltello e un pezzo di legno dalla tasca cominciando ad affilarlo, mio padre accanto alla porta aperta del granaio come se mia madre, invece di trovarsi in soffitta, spuntasse dall’ombra, lo chiamasse (non ho mai saputo distinguere le cicogne maschio dalle femmine, con le galline è facile, con i tacchini è facile, con i colombi li si osserva un secondo e anche con loro è facile) e mio padre obbedisse mentre il coltello dell’aiutante dell’amministratore intagliava il legno e la voce del grano senza voce dissertava su di noi, la cugina Hortelinda indicandolo con il labbro, costretta a scegliere vista l’assenza di Dio – Con una bronchite simile non dura molto tempo e non durò molto tempo, come sarà il cimitero oggi (i maschi più grossi?) giorno, le croci dei soldati di Francia, il cancello, i parenti – Com’è cambiato il bambino 281

ho osservato come le persone morendo cambino nelle fotografie, da vive non facevano molto caso a noi e adesso serie, attente, la cugina Hortelinda scusandosi per il libro – Non sono io che decido e non era davvero lei che decideva, non ti ho mai voluto male, cugina, che colpa ne avevi, di tanto in tanto Dio smetteva di sfregarsi le ginocchia, consultava la sua memoria e le sussurrava i nomi, in gran parte sbagliati, che lei doveva decifrare perché non trovava riscontro nel libro, se esistesse la tenuta e la doppietta di mio nonno in ufficio, la prenderei per andare a trovare mio fratello nella casa in riva al fiume e dormirei sonni tranquilli (i maschi impiegano più tempo o meno a covare le uova?) mio padre accanto alla porta e nessuno nel granaio a parte l’umidità e i pipistrelli, a quest’ora mia moglie in attesa della cena, forse un vestito nuovo, la piega dal parrucchiere, perle coltivate che le adornano le orecchie e io ad attardarmi apposta all’entrata dell’edificio, tirando fuori la chiave dalla tasca, rimettendo la chiave in tasca, diverse chiavi, fra l’altro, con una scimmietta di panno attaccata all’anello, scendo verso il molo, prendo il battello per Trafaria e l’acqua verde smeraldo e verde oliva e cioè la maggior parte verde smeraldo e verde oliva e qua e là a diventare lilla vicino allo scafo, un cieco che chiede l’elemosina in cui la gente inciampava impedendogli di appendersi la fisarmonica sul petto, dev’esserci riuscito perché salendo in barca ho notato l’inizio di un valzer, quale percentuale di verde smeraldo e quale di verde oliva dentro di me, quali altri colori avrò, una scia di schiuma gialla (quanto giallo?) che si trasforma in uccelli, non gabbiani, scuri, piccoli, con le zampe rosate, di cui ignoro il nome, un piroscafo inglese anch’esso con musica, probabilmente centinaia di fisarmoniche con centinaia di ciechi che suonano all’unisono solo 282

che questa volta non un valzer, qualcos’altro, gocce d’olio che cadevano da un tubo vicino alla mia panca e lastricavano il ponte (sto per finire cugina Hortelinda e sono vivo) un controllore chiedeva i biglietti con tre anelli al dito senza contare la fede nuziale, il motore portò mio nonno che scegliava a caso una domestica in cucina – Vieni qui e sebbene impacciato nei movimenti (come ti sei ridotto, nonno) si dileguava con lei in dispensa (i nibbi esattamente identici ai capretti) e abbandonava la dispensa qualche istante dopo asciugandosi la fronte con la manica, prima un quarto d’ora e adesso minuti, l’amministratore – È ancora un macho, padrone e mio nonno montando in groppa al mulo e sistemandosi il panciotto – Settantotto, amico, due mesi più di te Caparica in lontananza, Bico da Areia, Trafaria che cresceva, l’amministratore – Settantanove a marzo meno gocce d’olio dato che il motore diminuiva e l’attracco illuminato, mia moglie immagino che a togliersi le perle e a sedersi a tavola, con il fazzoletto in mano, davanti alla cena fredda (non so se ti amo Maria Adelaide, probabilmente no, era mio fratello che ti amava, guarda i gabbiani avanti e indietro e un piatto che si frantuma per terra, per quale motivo non siete rimasti voi due nella tenuta a calpestare il grano secco, felici?) Trafaria arbusti dune silenzio, quel che rimaneva del pontile più intuìto che visto, per i riflessi dell’acqua, la cugina Hortelinda che mi chiama 283

– Tu avvertendo – Guarda che non puoi annegarti perché non risulti sul libro mentre io oltrepassavo quello che mi sembrava un secchio, un viluppo di cime che evitai senza farci caso e siccome non risulto sul libro (la cugina Hortelinda – Quante volte ti devo dire che non risulti sul libro?) mi accovacciai con le guance sui palmi pensando – Fra poco è mattina e non sarà mai mattina.

FINIS LAUS DEO

(scritto da António Lobo Antunes nel 2006 e 2007)

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