Antarès 10/2015. Walt Disney. Il mago di Hollywood


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Antarès 10/2015. Walt Disney. Il mago di Hollywood

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PROSPETTIVE ANTIMODERNE N. 10/2015

Walt Disney

Il mago di Hollywood

Walt Disney

Il mago di Hollywood

pag. 2 Introduzione: perché Walt Disney? di Gianfranco de Turris pag. 3 Editoriale: il prezzo dell’arcobaleno

n. 10/2015 Antarès, Prospettive Antimoderne RIVISTA QUADRIMESTRALE GRATUITA Direttore responsabile: Gianfranco de Turris Direttore editoriale: Andrea Scarabelli Redazione: Max Gobbo, Gianpiero Mattanza, Luca Siniscalco Hanno scritto: Donato Altomare, Davide Balzano, Alessandro Barbera, Mattia Carbone, Ugo Ciaccio, Gianfranco de Turris, Ilaria Floreano, Sebastiano Fusco, Erica Gallesi, Giulio Giorello, Max Gobbo, Mitsuharu Hirose, Francesco Manetti, Gianpiero Mattanza, Chiara Nejrotti, Ivano Presotto, Andrea Scarabelli, Luca Siniscalco Illustrazioni di: Alessandro Colombo, Marzia Parini Progetto grafico: panaro design Esecutivo grafica: Alessandro Colombo Impaginazione: Studio Caio Robi Silvestro Edizioni Bietti - Società della Critica srl, Sede legale: C.so Venezia 50, Milano www.bietti.it In attesa di registrazione presso il Tribunale di Milano Stampa: ProntoStampa srl, Via Redipuglia 150, Fara Gera d’Adda (BG) [email protected] www.bietti.it

Saggi: pag. 5 In difesa di Walt: Disney e le fiabe di Chiara Nejrotti pag. 9 Il mondo magico di Walt Disney di Alessandro Barbera pag. 12 Walt Disney e la contemporaneità dell’arcaico di Erica Gallesi pag. 15 Disney e Dalí: una questione di «Destino» di Luca Siniscalco pag. 19 Su Disney, l’Alchimia e infine Apollo di Sebastiano Fusco pag. 23 Quando Bradbury se la prese con Dio di Andrea Scarabelli pag. 26 Cattive, irresistibili di Ilaria Floreano pag. 30 «Fantasia». Quando la musica si fa immagine di Ivano Presotto pag. 34 Disney e Mussolini di Francesco Manetti Documenti: pag. 38 Parla Walt Disney! a cura di Davide Balzano Interviste: pag. 43 Giulio Giorello: Topolino anarchico e libertario a cura di Andrea Scarabelli Narrativa: pag. 47 Le influenze letterarie di Walt Disney di Max Gobbo pag. 48 Io sono un creativo di Donato Altomare pag. 52 Sad Symphony di Gianpiero Mattanza pag. 54 Cenerentola di Ugo Ciaccio pag. 56 Segnalazioni pag. 58 Indice dei collaboratori

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Introduzione: perché Walt Disney? di Gianfranco de Turris

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erché mai Antarès si dovrebbe occupare del signor Walter Elias Disney da Chicago, un volgare fumettaro, un pupazzettaro, dopo aver dedicato i suoi fascicoli a nomi come Tolkien, Lovecraft ed Eliade, o a temi impegnativi come l’economia alternativa, l’America o l’Occidente “occulto”? Quello che durante il deprecato regime venne definito “il Raffaello del cattivo gusto”, che nel dopoguerra fu accusato dai pedagogisti di disabituare i ragazzini a leggere, scrivere e parlare con i suoi “fumetti” (mentre oggi, invece, grazie ai messaggini telefonici e ai cinguettii di centoquaranta caratteri, sanno parlare, scrivere e pensare assai meglio) e che addirittura, per lavare l’onta di bieche classificazioni politiche, esattamente dieci anni fa è stato recuperato e “redento” a sinistra? Proprio perché Mr. Disney non è affatto questo, è assai di più e lo si deve interpretare nei suoi molteplici aspetti e sfaccettature. Ecco l’idea di fondo di questo numero, messa in pratica con un manipolo di critici e narratori, proponendo, oltre a racconti di grande originalità, soprattutto saggi variegati e documentati che non si peritano d’imboccare strade inconsuete e perigliose agli occhi dei conformisti e degli ortodossi, esperti di fumetti o meno che siano (ovviamente i più intransigenti sono i primi, i quali non amano che si entri nel loro hortus conclusus). Dovranno farsene una ragione. Come sempre, sin dal suo numero zero, Antarès va controcorrente, cercando percorsi inusuali e per certi versi proibiti, ma che sollecitino curiosità e stuzzichino l’intelligenza. Anche stavolta lo fa. Walt Disney è noto per essere non solo l’inventore di una lunga e celeberrima serie di personaggi dei fumetti, animali parlanti – cani, gatti, topi, cavalli, mucche – come quelli delle favole classiche, per di più umanizzati e via via con sempre maggiori problemi “umani”, al punto che alcuni di essi, come Paperino, sono diventati emblematici di un certo tipo di carattere e personalità; non solo il creatore/ispiratore di cartoni animati entrati nella storia del cinema e dell’Immaginario Collettivo che resteranno immortali (a mio parere soprattutto Fantasia, un capolavoro assoluto, di cui il successivo Fantasia 2 è solo una pallida imitazione che pochi ricordano); non soltanto il creatore di luoghi come le varie Disneyland, dai più considerate il trionfo del kitsch capitalistico americano, ma in realtà qualcosa d’altro che qui ci si propone di indagare e che di certo sorprenderà e magari indignerà i luogocomunisti a destra e a manca. Antarès si è prefissata proprio questo compito, quello di occuparsi di temi e personaggi che sollevino domande, incredulità e indignazione in una cultura – alta, media e bassa – che ormai dell’ovvio, dello scontato e della banalità ha fatto la propria rego-

la. Guai a chi esce dai binari, sporge il capo dalla finestra, scavalca i recinti, sega le sbarre. Cioè osa guardare, e poi andare oltre, nei territori che vengono definiti “proibiti” dalla Psicopolizia. Antarès ha idee ben chiare su cosa ha intenzione di trattare e su come lo farà. Per osservare il mondo della cultura in maniera diversa dal conformismo generale ed esporre interpretazioni non sentite già mille e una volta, è necessario andare a vedere quel che c’è dietro e oltre i dati culturali intesi in senso lato: ciò è possibile soltanto con una interpretazione simbolica, simbolicotradizionale o al limite esoterica, quando ci siano buoni motivi ed appigli, e, perché no, anche ermetica e junghiana. Per quale motivo non sarebbe legittimo farlo? Chi lo impedisce? La Psicopolizia, appunto? Non per questo, però, a differenza di certi Gran Maestri Senzanome della Rete, escludiamo per principio altri tipi di analisi, come tutti i precedenti fascicoli della rivista e anche il presente dimostrano. Dal nostro punto di vista nessuna interpretazione esclude l’altra: se esposte seriamente e non in modo settario, possono risultare anche complementari. Pur credendo nella efficacia della analisi simbolica (ed esoterica) rispetto ad altre, non ne rifiutiamo alcuna a priori, non abbiano pregiudizi, mentre altri, altezzosamente e immotivatamente, a quanto pare sì. Buon pro gli faccia. I fumetti e i cartoni animati a firma Disney hanno allevato generazioni di lettori piccoli e grandi sin dagli anni Trenta, e negli anni Cinquanta e Sessanta sono stati la lettura quasi regolare di certe fasce di età. Dagli anni Sessanta in poi sono giunti i fumetti “adulti” e “intelligenti”, poi i manga giapponesi, quelli sperimentali e così via, come è naturale che accada. Ma i personaggi disneyani sono sopravvissuti, anche grazie al rinnovamento di molti e bravissimi disegnatori italiani. Quindi la “firma” di Walt rimarrà, pur se si è cercato di farlo diventare addirittura “impegnato”, con storie a fumetti (italiane) che si sono occupate di vari problemi cogenti della nostra società e con relativa eco sulla stampa quotidiana. A noi questo non importa. A noi interessa presentare un Walt Disney uomo, artista e imprenditore, diverso e inaspettato, che pochi conoscono perché poco se ne parla; anzi, spesso si cerca di nasconderlo, quasi si trattasse di peccati mortali della sua personalità, in cui certuni sono andati a frugare con morbosa e strumentale curiosità. Tutto dipende dal punto di vista in cui ci si pone e dai valori in cui si crede. Come al solito, soprattutto in questo ex Bel Paese, l’unico strumento di valutazione che conta è quello del “doppio standard”, ovvero del doppiopesismo, di cui la nostra intellighenzia culturale, politica e giornalistica è diventata maestra. Non ci stancheremo mai di ripeterlo.

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Editoriale: il prezzo dell’arcobaleno

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to un isolato in queste ricerche: le sue creazioni testimoniano un ritorno di fiamma, un’attenzione crescente rivolta a tematiche mitopoietiche, peculiare della seconda metà dell’Ottocento e della prima del Novecento. È in questo quadro che s’inseriscono anche le letture simboliche delle produzioni disneyane, «nel loro contenuto magico-esoterico» (Alessandro Barbera, Camerata Topolino, Stampa Alternativa, Viterbo 2011, p. 9). Con il padre di Topolino, il “mattino dei maghi” di Pauwels e Bergier splende su Hollywood. È forse così che va inquadrata la presenza di simbologie tradizionali nelle sue opere, non certo seguendo quelle ipotesi complottiste che vanno tanto di moda in Rete. Secondo un’ottica piuttosto laica, che caratterizza le pagine di questa rivista, giunta al suo decimo fascicolo, abbiamo sviluppato tali linee esegetiche, accanto ad altre, nella persuasione che la pluralità di punti di vista sia una ricchezza e non un male, secondo un punto di vista che molti definiscono liberale ma che noi preferiamo chiamare libertario, avverso a ogni tipo di Inquisizione, purtroppo ancora oggi molto di moda. Disney, insomma, reintrodusse mito e fiaba attraverso mezzi di comunicazione all’avanguardia, incidendo in modo indelebile sulla Settima Arte. In un’epoca nella quale i mass media spingevano in tutt’altra direzione, egli ne fece gli strumenti di una nuova pedagogia. Scelse di usarli perorando la propria causa. Ma non solo questa: vi è, ad esempio, chi continua a dipingerlo come un bieco capitalista. Ma come si può considerare così qualcuno che reinvestì tutto – leggasi tutto – per realizzare il proprio ambizioso progetto? Per permetterci di sognare Walt giunse a ipotecare proprietà, automobili, assicurazioni e case (tant’è che i suoi primi film furono realizzati con pesanti esborsi da parte sua e di suo fratello Roy). Valga come esempio questo aneddoto, raccontato da sua figlia Diane a Mariuccia Ciotta (Walt Disney. Prima stella a sinistra, Bompiani, Milano 2005, p. 242): quando ci fu l’asta per comprare il terreno che avrebbe poi ospitato Disneyland, per aggiudicarselo Walt prese in prestito il denaro di una delle sue assicurazioni sulla vita e vendette la casa per le vacanze a Palm Spring, appena acquistata. Un capitalista? Forse, il cui intento, però, era ben diverso dall’accumulare denaro e proprietà, e i cui antecedenti non furono Henry Ford o Frederick Winslow Taylor ma Perrault, Andersen e i Grimm. Ne riprese la carica formativa, aggiornandola e adattandola al pubblico del suo tempo. Edulcorandola? Fino a un certo punto, considerando, ad esempio, che la sua versione di Biancaneve e i sette nani del 1937 era ben più fedele all’originale di quella precedente, melensa e “rivista” dal Children Educational Theater. Walt la corresse, tornando alle fonti e non mancando di attirare su di sé polemiche e accuse da parte dei maitre-à-penser del politicamente corretto, come raccontò ad Oriana Fallaci: «I sofisticati, i superintellettuali mi rimproverano il lieto fine. Non è realista, sghignazzano. No, non lo è. La realtà è sudicia, il più delle volte, e il sudicio è ovunque […]. Ma credo che dopo una tempesta venga l’arcobaleno: che la tempesta sia il prezzo dell’arcobaleno. La gente ha bisogno dell’arcobaleno e ne ho bisogno anch’io, e perciò glielo do» (Oriana Fallaci, Ho speso miliardi per costruire il

n quello che Emil Cioran considerava il miglior libro su Baudelaire, Benjamin Fondane scrisse che le civiltà si aprono con filosofie della leggerezza e si chiudono con filosofie della crudeltà. Eppure, di tanto in tanto ci sono personaggi che si ribellano a questo meccanismo, cercando di ripristinare età dell’oro – non importa quali – e liberando l’uomo dal giogo infame di un mondo disumano e disumanizzante. Uno di questi – non sembri eccessivo o una boutade – fu Walt Disney, il cui messaggio è più vivo che mai, considerando il costante successo dei suoi film e fumetti, che superano le mode, continuando a stregare generazioni di bambini e adulti. Come realizzò questo miracolo? Semplice. Reintroducendo il mito e la fiaba nel XX secolo e insegnandoci a sognare. Non è un caso che quello che è stato definito il suo miglior biografo, Neal Gabler, abbia scelto come sottotitolo del suo libro The Triumph of American Imagination. Schiacciata dal realismo a tutti i costi, la fantasia risorge attraverso le opere artistiche di un autentico genio del secolo breve, che fa prendere nuovamente corpo a le donne, i cavalieri, l’arme e gli amori, aiutando gli uomini ad affrontare le sfide del presente. Nei capolavori di Walt assistiamo alla resurrezione della fiaba, con tutta la sua carica formativa: strisce e cartoons, scrisse il filosofo francofortese Walter Benjamin (cfr. Mickey Mouse, Il Melangolo, Genova 2014, che raccoglie tutti i suoi interventi dedicati a questo argomento), ci accompagnano in un viaggio il cui scopo è superare la paura (Who’s afraid of the big bad wolf, ricordate?), in un processo di crescita e catarsi che richiede la partecipazione di lettori e spettatori. Bambini come adulti: parola di Walt, che si rivolge a quei grandi che in cuor loro non hanno mai cessato di essere bambini. Una semplice sindrome di Peter Pan? Per nulla. Non è certo infantilismo o giovanilismo a tutti i costi, male del nostro tempo, controparte di una società sempre più vecchia in cui alla sempre più precoce maturazione in età adolescenziale segue un altrettanto precoce ritorno alla dimensione infantile, nella peggiore accezione del termine. Essere bambini, a giudizio del protagonista di questa nostra storia, non significa rifiutare le responsabilità o sognare ad occhi aperti, ma serbare uno sguardo che sappia meravigliarsi di fronte alle cose e alle persone. Platone (fra gli altri) diceva che è dallo stupore che nasce la filosofia. Potremmo estendere il suo giudizio a tutti i campi dello scibile umano, ricordandoci di quella lunghissima discendenza di pionieri i quali, non soddisfatti dalle tirannie del dato di fatto, scelsero di avventurarsi nell’ignoto, portandosi dietro gli immensi tesori di cui tuttora beneficiamo. Nelle parole di Walt, insomma, infanzia e maturità smettono di essere semplici fasi cronologiche e biologiche per diventare due contrapposte condizioni dello spirito, due modi di guardare il mondo. Lo stesso mondo. Spetta all’uomo ricordarsi che esistono occhi diversi da spalancare sulle cose: Disney si assunse il gravoso compito di rammentarci, di tanto in tanto, che è possibile conoscere, crescere ed evolversi non solo con la razionalità, ma anche con altri mezzi. D’altra parte, il “toparo” (mouser, come lo chiamò affettuosamente Ray Bradbury, che gli fu amico e consulente) non fu cer-

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od (Bompiani, Milano 1994), biografia disneyana che non ha mancato di generare scandali e polemiche. Un viaggio lungo un secolo… Le creature disneyane hanno accompagnato il Novecento americano, sin dal debutto di Mickey Mouse, all’indomani della Grande Depressione. Topolino, ha scritto di recente il già citato Giulio Giorello, non è affatto un personaggio così statico come si vorrebbe far credere, ma si colora delle diverse fasi attraversate dagli USA, in un grandioso «romanzo di formazione ove cresce e cambia al mutare del suo Paese». Il topo più famoso del mondo si cimenta di volta in volta con tutte le sfide della modernità, «dalla difesa della libertà del “quarto potere” (la stampa) agli ambigui prodigi di una scienza che è sempre a un passo dall’essere asservita alla guerra; dall’impossibilità della giustizia di fronte ai meccanismi spietati della burocrazia alla difficoltà, quasi insuperabile, di trattare con le culture “altre”, per non dire delle incursioni nella zona del crepuscolo illuminata solo da miti e folklore» (La filosofia di Topolino, Bompiani, Milano 2013, p. 15). Topolino, come Walt – «il suo autoritratto», disse una volta il fratello Roy – che spesso si riferiva a lui come se fosse un’entità reale. I due viaggiarono insieme tra le luci del sogno americano e tra le nebbie dei miti europei. A detta dello storico Franco Cardini, uno dei più evidenti meriti disneyani risiederebbe nell’aver instillato «idee, sensazioni e forme della cultura europea» altrimenti ignote al mondo americano, agganciandosi «a tradizioni archetipiche» («l’Avvenire», 25 novembre 1994). Critico degli Stati Uniti, era innamorato dell’Europa. Del Vecchio Mondo apprezzava soprattutto il Medioevo, tanto che scelse d’importarlo oltreoceano (come argomentato da Matteo Sanfilippo nel suo introvabile Il Medioevo secondo Walt Disney, uscito per Castelvecchi negli anni Novanta), per permettere al mondo a stelle e strisce «di crearsi un solido background folkloristico e di riaffermare le proprie origini europee, reinventando un periodo affascinante e oscuro» (Francesco Manetti, Iside a Topolinia, in «Il Giornale dei Misteri», agosto 1999, p. 6). Donando all’America un’immaginazione, come recita appunto il sottotitolo della biografia di Gabler. Questo fascicolo di «Antarès» non ha certo l’ambizione di affrontare tutti gli aspetti della vita e del genio di Disney, cui sono dedicate parecchie monografie. Né si occupa della Walt Disney Company, la quale, come tutte le creature dopo la morte dei loro creatori, ha percorso strade differenti, talvolta mantenendo il suo spirito originario, talvolta discostandovisi nettamente. Questo numero non è sulla Disney ma su Walt e intende offrire degli schizzi di una personalità curiosa, brillante e anticonformista. Ogni uomo ha bisogno di sognar più vero, scrisse Nietzsche: sembra di sentire il mago di Hollywood, in cerca non di una fuga dal mondo ma di una sua trasfigurazione fiabesca. Questo il suo segreto, attualissimo anche a decenni dalla scomparsa di quello che fu un genio: come chiamare in altro modo «chi si è servito delle macchine della scienza e della tecnologia per restituirci all’infanzia, all’illusione, al sogno? Come definire altrimenti colui che cantò divertendoci, istruendoci, commovendoci gli animali ed il vento, le montagne ed il fuoco, gli uomini ed il mare, la storia, la vita, e della fantasia fece una realtà?» (Oriana Fallaci, op. cit.). Un sogno che dura quasi un secolo, e che durerà ancora, finché vi sarà anche un solo adulto che si ricorderà di esser stato bambino. E di poterlo essere di nuovo.

Lincoln che parla e si muove, in «L’Europeo», giugno 1966). Con buona pace della critica e della cultura “ufficiali”… La compresenza di un’attenzione rivolta verso tematiche tradizionali e verso l’immaginario europeo (come sostiene, tra gli altri, il filosofo della scienza Giulio Giorello nella sua intervista contenuta in questo fascicolo) e la ricerca di nuove sintassi cinematografiche non è che una conseguenza della visione del mondo disneyana. Secondo Martin Sklaw (cit. in Mariuccia Ciotta, op. cit., p. 292), Disney «aveva un piede nel passato e un piede nel futuro […]. Amava il passato del mondo in cui era vissuto, ma allo stesso tempo era assolutamente affascinato dalle nuove tecnologie». Non ignorò il passato ma nemmeno lo idealizzò: fu una sorta di conservatore rivoluzionario, che vide una linea di continuità tra passato e futuro, protesa verso un avvenire diverso, e comprese come il dramma della modernità risiedesse nell’averla sprezzantemente recisa. Un Disney “antimoderno”, per così dire, nel cuore pulsante della modernità, gli USA, costanti interlocutori dei suoi Studios. Disney credeva nel suo Paese e non mancò di criticarlo, ma in un’ottica propositiva. Al pari del suo connazionale Ezra Pound, che sempre ne ammirò la figura e la produzione. C’è un aneddoto molto significativo, raccontato da Roberto Calasso: ad una cena organizzata a casa di Elémire Zolla in onore di Pound, una giovane chiese al poeta americano chi fosse la figura letteraria più influente del tempo. Risposta lapidaria: «Mickey Mouse» (Alessandro Barbera, op. cit., p. 69). Lo stesso giudizio, anche se di segno opposto, fu formulato da Charles Bukowski, intervistato da Arnold Kaye nel 1963 (ora in Charles Bukowski, Il sole bacia i belli, Feltrinelli, Milano 2014), a riprova dell’importanza rivestita dalla creatura disneyana. Tornando ad Ezra Pound, di Disney l’autore dei Cantos apprezzò il confucianesimo latente, come rivelò in un’intervista rilasciata a Donald Hall per il «Paris Review» (estate/autunno 1962), «l’avere assunto un punto di vista etico, essere riuscito ad asserire i valori del coraggio e della tenerezza in modo che chiunque potesse comprenderli». Come l’autore dei Cantos, Walt odiava i banchieri, dei quali offrì un sinistro ritratto in Mary Poppins, poi ridimensionato (secondo quel rovesciamento di prospettiva che lega capolavori come La bella addormentata nel bosco e il più recente Maleficent), con l’immagine di un Signor Banks più umano e altrettanto succube di un capitalismo spietato, nello splendido Saving Mr. Banks. Anche i vinti hanno le loro ragioni, d’altra parte… Disney seppe ascoltarle, a differenza di molti altri. E pensare che c’è ancora chi continua a considerarlo un bigotto… Mai Disney ragionò nei termini di un male o di un bene assoluti. Né si curò delle scomuniche emesse da certi suoi compatrioti, professionisti della carta stampata attaccati alla gonnella del potente di turno, secondo un meccanismo arcinoto e piuttosto diffuso anche da noi, ma giunse a frequentare Sergej Ejzenstejn e Leni Riefenstahl. Neppure risparmiò il politically correct (anche se allora non si chiamava ancora così), al pari di colui che sempre ritenne un modello ispiratore, Charlie Chaplin, per cui lavorò, quando questi dirigeva la United Artists con Douglas Fairbanks e Mary Pickford. Fu Charlot a consigliargli di rimanere indipendente. E Walt lo prese alla lettera, a prezzo di enormi sacrifici, attirandosi l’avversione delle grandi lobbies da un lato e di sindacati e crimine organizzato dall’altro – organi non di rado in combutta tra loro, come documentato da Marc Eliot nel suo Il principe nero di Hollywo-

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In difesa di Walt: Disney e le fiabe di Chiara Nejrotti

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e fiabe in versione Disney sono state oggetto di molte critiche, sia per i contenuti, spesso modificati rispetto alle versioni originali, sia per la grafica dei cartoons, che tende a snaturare i personaggi, come nel caso dei nani in Biancaneve. J. R. R. Tolkien, ad esempio, detestava le immagini disneyane perché riteneva che non comunicassero la magia ed il mistero che emanavano invece dalle illustrazioni fiabesche di Arthur Rackham. Pur apprezzandone in parte il talento, considerava il risultato finale “disgustoso”: le raffigurazioni toglievano ogni epicità al racconto ed ai personaggi, riducendo l’arcaicità e la profondità della fiaba ad uno spettacolo superficiale, di cui si ricordano solo canzoni e gags. Ne Il mondo incantato Bruno Bettelheim afferma che la moda contemporanea di eliminare dalle fiabe tradizionali gli elementi più perturbanti e orrorifici non permette ad esse di svolgere la loro autentica funzione. Elimina-

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lo aveva particolarmente colpito. La pellicola veniva proiettata contemporaneamente su quattro schermi, così da far sentire il pubblico “dentro lo spettacolo” e il giovane Walt pensò fosse una storia perfetta da mettere in scena. Ne era stata fatta anche una versione teatrale, rappresentata a Broadway seguendo i criteri del Children Educational Theater, che aveva preteso di eliminare dalla fiaba ogni accenno alla paura e alla morte. Quella che a noi sembra una versione zuccherosa ed impoverita fu all’epoca un avvenimento dirompente: secondo la storica del cinema Karen Merrit, Disney osò «di nuovo spaventare i bambini». La scena in cui Biancaneve fugge nella foresta esprime adeguatamente la proiezione all’esterno delle sue paure: la sequenza terrificante degli alberi mostruosi che allungano i rami adunchi come a voler divorare la principessa, mentre tronchi galleggianti si trasformano in coccodrilli spettrali, si scioglie nella serenità delle immagini del bosco alla luce del sole; gli occhi malefici e le strida che sembravano feroci perdono ogni tratto spaventevole quando gli animali si avvicinano alla fanciulla. La sequenza è perfetta da un punto di vista psicologico: gli orrori e i timori della notte cedono il passo alla luce del giorno, che fa rinascere la speranza e la determinazione della protagonista. Anche il castello e le scene in cui compare la regina assumono toni cupi e orrifici non così usuali nelle storie per bambini dell’epoca: il sotterraneo in cui la regina-strega prepara le sue malefiche pozioni e lo scheletro del cacciatore rinchiuso in una segreta e lasciato morire di fame e sete sono immagini che esprimono tutto il fascino sinistro del racconto. Mariuccia Ciotta ci ricorda che i disegnatori della scena nella foresta erano europei e si erano ispirati proprio alle illustrazioni di Arthur Rackham, che disegnava alberi antropomorfi e misteriosi dalle linee sinuose, mentre lo stile che tende alla verosimiglianza proprio dello studio disneyano rende ancora più coinvolgenti le scene e favorisce l’immedesimazione del pubblico. Secondo la Ciotta, all’origine della paurosa sequenza della foresta notturna vi sarebbero i film espressionisti tedeschi, che i disegnatori della Disney conoscevano bene: «Nelle lunghe ombre proiettate come fantasmi incombenti sui muri e nelle atmosfere tetre e nei soggetti deformati, anticipavano gli effetti visivi dell’horror»3. Anche l’accusa di aver addolcito il finale facendo sì che la strega muoia precipitando in un burrone e non costretta a danzare con scarpe infuocate è vera solo in parte: senza dubbio la scena originale sarebbe stata più tremenda e nel medesimo tempo più fedele allo spirito originario del racconto, ma, come già ricordato, bisogna calarsi nella mentalità di un’epoca in cui venivano stigmatizzate e addirittura censurate le scene particolarmente inquietanti. Se nella trasposizione teatrale la regina veniva perdonata, in un tripudio di buoni sentimenti, Disney ebbe il coraggio di farla morire in una scena che comunque mantiene una sua grandiosità: sono le stesse forze della natura a punirla nel momento del suo massimo trionfo, in una sorta di nemesi divina per cui il male reca in sé i germi della propria distruzione. Grimilde, la regina, è per certi versi il personaggio umano più caratterizzato e meglio riuscito del film, assai più di Biancaneve e del pressoché inesistente principe, molto più stereotipati. Secondo il professor Stefano Poggi i disegnatori avrebbero riprodotto l’immagine della statua gotica di Matilde di Naumburg, una sorta d’icona della bellezza nordica e nibelungica (il nome di Grimilde compare nella saga) spesso riprodotta nei testi di storia dell’arte europei. L’uso dell’immagine per rappresentare la mal-

re dal racconto ogni elemento terrificante impedisce ai bambini d’imparare ad affrontare le proprie paure e la propria aggressività inconscia1. Secondo Bettelheim le fiabe contengono infatti riferimenti nascosti allo sviluppo psicosessuale ed ai traumi che esso comporta; nascosti alla sfera cosciente, essi comunicano con l’inconscio del bambino attraverso un proprio linguaggio simbolico: pertanto, attribuire ad alcuni personaggi caratteristiche buffe e/o nomi propri per renderli più “umani”, come i sette nani, interferisce gravemente con il loro simbolismo. I film a cartoni animati presentano in effetti tutti i difetti che sono stati loro imputati: non sono fedeli all’originale ma ne costituiscono una versione edulcorata; rappresentano i protagonisti secondo l’immaginario hollywoodiano dell’epoca, spesso prendendo a prestito le sembianze di attori reali; inseriscono elementi comici e buffi rappresentati da animali (pensiamo ai topini ed al gatto Lucifero di Cenerentola) o da personaggi che assumono il ruolo dei caratteristi nei film dal vero (come i nani), i quali distolgono l’attenzione dalla vicenda principale… Tuttavia, nonostante queste innegabili mancanze, le fiabe Disney hanno saputo parlare a generazioni di bambini e farsi amare anche dagli adulti; cerchiamo di scoprirne il perché. Il mago dei cartoons si avvicinò per la prima volta alle fiabe quando era giovane e non ancora famoso attraverso un progetto ambizioso: scegliere sette fiabe celebri e “aggiornarle” rispetto al mondo contemporaneo, utilizzando uno stile ironico ed irriverente. Una di queste è Puss in Boots, Il gatto con gli stivali, che s’ispira alla fiaba di Perrault contaminandola con suggestioni alla Robin Hood e con film famosi dell’epoca, come Sangue e arena; Disney realizzò un cortometraggio del tutto infedele alla lettera del racconto originale, mantenendone tuttavia in qualche modo lo stile ironico, specie rispetto alla figura del Gatto. Successivamente nacque Alice’s wonderland, la prima delle Alice Comedies, un serial in cui una bambina in carne e ossa che interpreta Alice viene inserita nel paesaggio dei disegni animati. Non vi è però alcun effettivo riferimento al romanzo di Lewis Carroll, se non nel titolo. La serie riscosse un notevole successo e permise a Walt di iniziare a pensare in grande. Nel 1928 nacque la sua collaborazione con il musicista Carl Stalling, che portò alla realizzazione delle Silly Symphonies, cortometraggi dai temi spesso fiabeschi in cui musica ed immagini si fondono per creare effetti del tutto nuovi. In seguito Disney affermò: «Volevamo una serie che ci permettesse di usare più in profondità i temi del fantastico, del favolistico e del lirico»2. Quella che ebbe maggior successo fu la storia dei Tre porcellini, tratta da un racconto inglese per ragazzi; venne adattata anche la fiaba di Andersen Il Brutto anatroccolo e, secondo un’intervista rilasciata dalla figlia Diane alla giornalista Mariuccia Ciotta, pare fossero in programma anche dei cortometraggi ispirati a Il Soldatino di piombo e La Sirenetta. Il successo delle Silly Symphonies e, in particolare, dei Tre Porcellini convinse Walt ad impegnarsi in un lungometraggio. La scelta cadde sulla storia di Biancaneve, eminentemente per motivi di convenienza: la materia prima data dalle fiabe era già risultata vincente ed adeguata alla versione in cartoni animati. Inoltre, la versione dei fratelli Grimm (che Disney conosceva) poteva essere allungata senza problemi per costituire un film vero e proprio. La sfida consisteva nell’arricchire le caratterizzazioni dei personaggi senza distruggere la struttura della storia: la presenza dei nani si prestava particolarmente a questa operazione. Disney scelse Biancaneve anche per un altro motivo: da ragazzo aveva assistito alla proiezione di un film muto, tratto dal racconto, che

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vagia regina avrebbe causato la messa al bando di Biancaneve da parte del regime nazista, benché in principio non vi fosse stata alcuna preclusione rispetto alle opere di Walt Disney, che erano anzi molto amate nella Germania degli anni Trenta4. Nel cartone la regina incarna una bellezza gelida che si trasforma nella raccapricciante bruttezza della vecchia strega, in una scena dai toni horror che richiama lo sdoppiamento del Dottor Jekyll in Mr. Hyde, nella quale la maga abbandona volontariamente ciò a cui tiene di più, l’aspetto esteriore, per uccidere l’odiata rivale. Anche Grimilde ha una corte di animali conformi alle sue malvagie inclinazioni, opposta agli animaletti teneri, gentili e servizievoli che accompagnano Biancaneve. Secondo Oreste De Fornari «si stabilisce qui un principio cardine dell’iconografia disneyana: ogni personaggio umano ha gli alleati animali che si merita e che rivelano come un distintivo la sua indole morale»5. Sulla presenza di animali nelle fiabe Disney si possono fare alcune considerazioni: essi non soltanto rivelano il carattere dei personaggi cui si accompagnano, ma sono un elemento fondante dell’universo dei cartoons. Il creatore di Mickey Mouse non rinuncia mai alla loro presenza, che da un lato gli permette di alleggerire la tensione della narrazione con scene comiche, e dall’altro crea un doppio livello nella struttura della sceneggiatura, quasi una storia che si svolge in parallelo alla vicenda principale. Ciò appare particolarmente evidente in Cenerentola: gli affettuosi e furbi topini amici della fanciulla si contrappongono al gatto Lucifero, viziato e capriccioso come la matrigna e le sorellastre, ma le loro avventure con il terribile felino costituiscono a loro volta una sorta di rivincita dei piccoli sulla prepotenza dei più forti. Mentre il deus ex machina di Cenerentola è la fata Smemorina, quello di Gas e Jack, ma anche della stessa protagonista, è il cane Tobia, che fa precipitare il gatto dalla finestra quando questi impedisce ai due amici di liberare la fanciulla rinchiusa dalla matrigna, permettendo così il lieto fine. Se la presenza degli animali parlanti che aiutano i protagonisti rende la vicenda più “leggera” e divertente, e per questo è stato oggetto di critica, possiamo però ricordare che le fiabe stesse sono piene di animali che fungono da aiutanti magici; da questo punto di vista, Walt rimane insomma all’interno del Paese Incantato. Un altro elemento che caratterizza le fiabe targate Disney è la rappresentazione di un Medioevo di maniera, che ha condizionato l’immaginario collettivo del pubblico. Il Medioevo disneyano costituisce il culmine della riscoperta americana dell’Età di Mezzo da parte di romanzi come Un americano alla corte di re Artù di Mark Twain (che avrà una versione disneyana con protagonista Topolino). L’interesse per le ambientazioni medievali nasce con il cortometraggio Topolino e la pianta di fagioli del 1933, ispirato alla fiaba popolare inglese Jack e il fagiolo magico; anche se i riferimenti sono minimi, compare già uno degli elementi fondamentali dell’immaginario disneyano: il castello. Esso ci avverte che stiamo entrando in un’altra dimensione. Il castello della regina di Biancaneve è, come abbiamo visto, un luogo oscuro e spaventoso, nel più puro stile sword and sorcery, genere che nasce proprio negli anni Trenta; ma il Medioevo disneyano non è abitato soltanto dalla magia nera, poiché ad essa se ne contrappone sempre una bianca, rappresentata in questo caso dal bacio del principe. La bella addormentata nel bosco del 1959, che ebbe poco successo all’epoca ma che rientra a pieno titolo nei classici Disney, riassume tutti gli elementi di quest’immaginario: la magia nera incarnata da Malefica, sinistra e affascinante, contro

quella bianca delle tre fate, i cui nomi richiamano gli elementi della natura e che appaiono buffe e pasticcione; l’amore del principe, gli animaletti del bosco e, infine, la trasformazione di Malefica in drago, che il principe deve sconfiggere prima di liberare l’amata dal sonno mortale. In questo caso i castelli sono due: quello in stile neogotico della strega, tetro e tenebroso, e l’altro, luminoso e arioso, del re, padre della principessa. Ne La spada nella roccia vi è uno scontro analogo tra Merlino e Maga Magò, che assume però il tono della parodia e della risata. Il duello magico si conclude con la maga, divenuta drago, che si ammala di morbillo, perché Merlino si trasforma in un virus. Questi viene tra l’altro presentato più come uno studioso di scienze della natura, precursore dei tempi, che secondo l’immagine letteraria della tradizione. Le trasformazioni compiute dai due maghi durante il duello richiamano però, per chi sia in grado di accorgersene, le metamorfosi dei due protagonisti del Romanzo di Taliesin, saga celtica in cui si narra come la dea-maga Ceridwen insegua il giovane Gwion dopo che questi ha assaggiato il salmone della sapienza. Al di là del divertimento, nei film Disney c’è molto più di quanto non appaia a prima vista. L’abitudine di mescolare un Medioevo fantastico e riferimenti alla contemporaneità caratterizza il mondo disneyano: disgustato dalla mentalità che lo circonda, Merlino sparisce nel XX secolo, ma ritornato da Honolulu afferma che, se la sua epoca è «un bel guazzabuglio medievale», quella in cui si è rifugiato è un «guazzabuglio moderno». Secondo il critico Matteo Sanfilippo «l’Età di Mezzo narrata dalla Disney è dunque uno specchio fiabesco e deformante, che riflette il nostro presente per farci sorridere delle sue distorsioni»6. Nel medesimo tempo, il Medioevo disneyano è di per sé una fiaba, nella quale la volontà e la fantasia del narratore e dello spettatore possono ricreare un passato/ presente in cui tutto è possibile. Nei film successivi alla morte del fondatore quest’aspetto si accentua. Vi è un continuo botta e risposta tra contemporaneità e arcaicità e, affinché la magia si attualizzi senza disperdersi, occorre che lo spettatore venga aiutato a scendere gradualmente nel regno della fiaba: tra una canzone e una risata ci si abbandona pian piano alla suggestione del mondo fatato. In tal modo gli archetipi che giacciono nel nostro inconscio possono riattualizzarsi, senza quasi che ce ne accorgiamo. Uno di essi, forse il più importante, è il confronto con l’Ombra, la parte oscura e perturbante presente in ciascun individuo. È rappresentata dai villains, gli antagonisti degli eroi: oltre ai sentimenti di aggressività, invidia e gelosia che albergano nell’inconscio personale, le loro caratteristiche permettono di far emergere anche il rimosso che costituisce l’Ombra collettiva della società contemporanea: «Se un così ampio numero di spettatori appartenenti a numerosissime nazioni riesce ad immedesimarsi senza esitazioni all’interno dell’identificazione archetipica effettuata dal cinema del Rinascimento Disneyano, è perché esso mette in scena l’Ombra della civiltà occidentale. Grazie alla crescente uniformità che caratterizza l’immaginario audiovisivo, determinati archetipi risultano idonei a rappresentare, pure in contesti estremamente diversi, un’Ombra collettiva sempre più globalizzata» scrive Tommaso Ceruso7. Per Rinascimento Disneyano l’Autore intende la serie di film usciti tra la fine degli anni Ottanta e i Novanta, tra cui ricordiamo La Sirenetta e La Bella e la Bestia. A questo proposito, la tematica più significativa è il confronto con la diversità, che può sembrare mostruosa ma racchiude invece bontà e magia – elemento presente, tra l’altro,

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avessero viaggiato, per caso o per una qualche magia nel passato. Si trattava tuttavia di un passato particolare, molto più sereno e ordinato di quanto sia mai stato il passato reale»10. Al di là delle sue straordinarie capacità imprenditoriali, era rimasto il ragazzino che sognava di trasfigurare un passato ed un presente faticosi, ricordandosi della sua infanzia trascorsa a consegnare i giornali per il padre nella neve e nel freddo. Disneyland, con il treno che Walt amava guidare personalmente e tutte le altre attrazioni, era il suo giocattolo personale, con il quale il bambino che aveva invidiato i balocchi visti di fronte alle case dei suoi compagni poteva finalmente riscattarsi. Egli disse più volte che un buon film dovrebbe far piangere e far ridere: nelle fiabe gli eroi e le eroine passano per innumerevoli traversie ma vi è sempre il lieto fine. Se questo a volte ha condotto la Disney a modificare pesantemente alcuni racconti (soprattutto nel periodo successivo alla morte di Walt, come nel caso de La Sirenetta), è pur vero che l’happy ending è connaturato alla fiaba stessa. È quella che Tolkien chiama eucatastrofe, l’improvviso capovolgimento gioioso della vicenda. Ci fa piangere e ridere contemporaneamente, commuovendoci nel profondo. Le versioni in cartoni animati non hanno probabilmente la profondità necessaria perché ciò avvenga sempre, ma tendono a questa stessa meta. Inoltre l’essere umano ha bisogno anche di leggerezza: il sogno che trasfigura la realtà può passare attraverso canzoni e risate, l’importante è che lasci una traccia di speranza. Nel recente Saving Mr. Banks la Disney celebra il proprio fondatore e la sua filosofia. La riottosa autrice di Mary Poppins (interpretata da una splendida Emma Thompson) non vuol vedere la propria creazione banalizzata attraverso l’animazione e il musical, ma Disney scopre che nasconde un passato di sofferenza legato alla figura dell’amato padre. Dopo averle raccontato dell’infanzia spesso ingrata e del rapporto con il proprio genitore, Walt (interpretato da Tom Hanks) la convince: attraverso il film la figura del padre dei ragazzi, con tutto ciò che rappresenta, sarà salvata e redenta. «Forse non nella vita, ma nell’immaginazione, perché è questo che facciamo noi narratori: ristabiliamo l’ordine con l’immaginazione, infondiamo speranza senza sosta.» Il cinema di Walt, con tutti i suoi limiti, intende trasfigurare la realtà e permettere a generazioni di bambini, ma anche adulti, di non smettere mai di sognare. Per volare all’Isola-che-non-c’è occorrono polvere di fata e pensieri felici: in fondo, le sue fiabe continuano a ricordarcelo.

già nei lungometraggi animati prodotti quando Walt era ancora in vita e di cui Dumbo costituisce l’esempio più importante. Quest’aspetto diverrà un Leitmotiv dei cartoni successivi: da La Bella e la Bestia, in cui il vero mostro è Gaston, bullo di paese che non a caso si vanta delle proprie imprese di cacciatore e considera follia ogni forma di pensiero originale, a Il gobbo di Notre Dame. È assai interessante vedere come le ultime versioni delle fiabe Disney, ormai prodotti per adulti, ci mostrino l’Ombra in quanto possibilità interna a ciascun personaggio, secondo il motto della serie Once upon a time, «cattivi non si nasce ma si diventa». La nuova versione della fiaba vuole spiegare anche le ragioni dei villains, come nel recente Maleficent. L’oscurità interiore si scatena a causa delle ferite provocate dalla realtà, a cui tuttavia si può reagire in modi diversi, secondo un principio di responsabilità personale; inoltre, essa può essere vinta grazie alla rinnovata capacità di amare, mai del tutto sopita anche nei “cattivi” apparentemente più irriducibili. Come sempre, le fiabe disneyane seguono lo Spirito dell’Epoca; se alla fine del secolo scorso il tema centrale era quello della ricerca dell’identità e dell’accettazione della diversità propria e altrui, in un periodo di crisi come l’attuale prevale forse l’esigenza di comprendere che la tentazione dell’odio e della violenza è in ciascuno di noi e di riscoprire come si possa rinascere anche dopo essere stati colpiti in ciò che si ha di più caro. Un altro elemento che accompagna il mondo fiabesco disneyano e che a volte ne diventa l’unico protagonista è la natura incontaminata, in cui l’uomo non è presente o è visto soltanto come possibile disturbatore: produzioni come Bambi e Il libro della Giungla, realizzate quando Walt era vivo, o Il Re Leone ci suggeriscono che «lo spazio del sogno non può che essere modellato sulla fuga dalla civilizzazione»8. Se la bellezza selvaggia della natura costituisce una possibile via di fuga dall’alienazione della società contemporanea, la via privilegiata resta quella della fantasia stessa, che costruisce mondi incantati. Uno dei classici Disney più conosciuti è Peter Pan. La storia del ragazzo che non vuole crescere era nella mente del mago dell’animazione da molto tempo: da giovane aveva assistito insieme a suo fratello ad uno spettacolo itinerante tratto dal racconto di James Barrie e ne era rimasto così colpito da voler interpretare Peter in una recita scolastica. Nel 1952, anno precedente l’uscita del film, aveva dichiarato alla stampa: «Lui è un ragazzo che può fare tante cose strane… ma la cosa più importante è che sa dov’è Neverland e sa come arrivarci»9. L’Isolache-non-c’è è la metafora perfetta del sogno disneyano: un luogo di gioco colmo di magia ed avventura, dove ritornare bambini e lasciarsi andare all’immaginazione più sfrenata. La scena finale del film, in cui si vede il galeone guidato da Peter volare nel cielo, è diventata per intere generazioni di spettatori il simbolo stesso della fantasia. Probabilmente non è un caso che proprio in quegli anni Walt fosse impegnato in quello che fu il suo progetto più ambizioso, tanto da trascurare perfino la supervisione del lavoro dei suoi disegnatori, cui non aveva mai rinunciato: la costruzione di Disneyland. Il parco giochi non fu soltanto un’operazione commerciale, ma la realizzazione del sogno del suo creatore: una città da Mille e una Notte, una metropoli del futuro e un luogo di sogni e speranze in cui «tutto era tranquillo e rilassato. I visitatori non erano incitati al divertimento; al contrario, sembrava quasi come se ci si fosse dimenticati che erano lì. Risultava che essi

1. Cfr. Bruno Bettelheim, Il mondo incantato, Feltrinelli, Milano 1982. 2. Michael Barrier, Walt Disney. Uomo, sognatore e genio, Tunué, Latina 2009, p. 116. 3. Mariuccia Ciotta, Walt Disney, prima stella a sinistra, Bompiani, Milano 2005, p. 100. 4. Cfr. Stefano Poggi, La vera storia della Regina di Biancaneve: dalla Selva Turingia a Hollywood, Cortina, Milano 2007. 5. Oreste De Fornari, Walt Disney, Il Castoro, Milano 1995, p. 49. 6. Matteo Sanfilippo, Il Medioevo secondo Walt Disney, Castelvecchi, Roma 2003, p. 97. 7. Tommaso Ceruso, Tra Disney e Pixar: la “maturazione” del cinema d’animazione americano, Sovera, Roma 2013, p. 62. 8. Ivi, p. 66. 9. Cit. in Mariuccia Ciotta, op. cit., p. 211. 10. Michael Barrier, op. cit., p. 375.

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Il mondo magico di Walt Disney di Alessandro Barbera

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della fiaba di Andersen, e il pessimo Aladdin, vero e proprio oltraggio al mondo arabo. Tutte le grandi fiabe a cui Disney si è ispirato contengono una pluralità di messaggi. Alcuni sono collegati alle vicissitudini storiche e naturali dei popoli interessati, mentre altri trasmettono elementi di una sapienza antica e tradizionale. Le fiabe, con riferimento al mondo nordico, ripetono due o tre motivi iniziatici fondamentali, sempre gli stessi. Disney li ha fatti propri e sviluppati. Le incursioni nella modernità che spesso caratterizzano le sue produzioni non mirano a svilirne il contenuto, ma al contrario a ribadire che non si tratta di temi e indicazioni del passato, bensì di verità perenni. In più, Disney non si è limitato a riprodurre passivamente i contenuti profondi di questa produzione narrativa. Ne ha compreso e accettato fino in fondo la portata: ne è stato, per così dire, un ripropositore. Il luogo privilegiato per le manifestazioni magico-esoteriche è in genere il Medioevo. Per lui l’età di mezzo non è una semplice epoca storica, ma una metafora della condizione umana. Dunque, il luogo privilegiato per la manifestazione dei conflitti e degli impulsi archetipici. Il suo è, come ha osservato

i può tentare di leggere l’opera di Walt Disney come magico-iniziatica, precisando prima di tutto che la sua produzione non è monotematica. In lui si riscontrano almeno tre filoni: il favolistico, quello connesso alla tradizione americana e quello naturalistico. Il primo e l’ultimo possono talvolta trovarsi in armonia, perché le fiabe rimandano in genere alla sapienza tradizionale e perché la natura è il luogo privilegiato di manifestazione del sacro. Il Disney iniziatico lo si trova soprattutto nei lungometraggi, ma non mancano spunti anche in qualche corto e in qualche fumetto, sebbene in questi ultimi sia preponderante l’intento umoristico e comico. Ciò che si nota in tutta la sua attività creativa è che i fenomeni magici non sono mai per lui superstizione. Può trattarli con serietà o con umorismo, ma non li svaluta mai. Ci sono solo differenze di tono. La nostra indagine riguarderà i prodotti realizzati finché Walt ebbe vita, escludendo quasi del tutto la produzione successiva. Di quest’ultima, in particolare, possiamo considerare lo sfortunato Taron e la pentola magica e l’ottimo La Bella e la Bestia. Escludiamo La Sirenetta, frutto di uno stravolgimento

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ci troviamo davanti a una trasmutazione sulla linea del satanismo. Non a caso, questa è la sequenza più seria del film ed è stata oggetto di aspre critiche da parte di psicologi come Fausto Antonini. In compenso, è stata apprezzata da alcuni cultori del genere “gotico”, a cominciare da Federico Fellini. Una variante fumettistica è l’Amelia della saga di Paperino creata da Carl Barks. La caratterizzazione geografica è alle pendici del Vesuvio. Insomma l’allusione è alle streghe di Benevento. La “numero uno” di Zio Paperone, bramata da Amelia, potrebbe essere un sostituto simbolico dell’anello magico di tante saghe, dai Nibelunghi al Signore degli Anelli. Tra le streghe ricordiamo la Nocciola del cortometraggio Trick or treat del 1952. Qui abbiamo una fusione tra magismo e tradizione americana. Si pensi alle streghe di Salem. Nella notte di Halloween Paperino dovrà cedere alle forze occulte. I valori nel film si capovolgono: Paperino rappresenta il male, la materialità (il possesso dei dolciumi), e la strega il bene. È come se Disney avesse voluto dirci che esistono due facce dell’occultismo, e quindi presentarci positivamente la strega e le forze che simboleggia. Questa distinzione è palese nella Bella Addormentata nel bosco, vera summa della sua arte. Nel film l’occultismo negativo è rappresentato dalla fata-drago Malefica e quello positivo dalle tre fate buone Flora, Serena e Fauna. Come per il conflitto tra Merlino e Magò (versione caricaturizzata di Morgana) de La Spada nella roccia, anche questo è uno scontro tra magia bianca e magia nera, tra angelismo e satanismo. Qui è evidente che bene e male non sono per Disney semplici categorie morali, ma rimandano a qualcosa d’altro, a forze sottili, meglio rappresentate dalla luce e dalle tenebre. Troviamo infine maghi come lo stregone di Fantasia, che riconduce nel loro alveo le forze occulte improvvidamente scatenate da Topolino. E il già citato Merlino, che guida il giovane Artù nel suo cammino iniziatico-sapienziale. Se streghe e draghi sono in genere espressione delle forze infere, telluriche, le forze luminose e solari sono invece espresse dai prìncipi. L’eroe disneyano lotta contro il drago, che personifica le forze oscure del caos, le stesse contro cui lotta e risorge il sole nel solstizio d’inverno. I fenomeni naturali sono simboli di significati superiori. Nel complesso, le figure dell’eroe solare e del principe decaduto rimandano all’idea di una restaurazione in opposizione a un ciclo di decadenza. Tra i prìncipi disneyani, il più riuscito è il Filippo della Bella Addormentata. Nel film si riprende il tema tradizionale della spada magica, come accade anche ne La Spada nella roccia. La spada è simbolo della potenza connessa alla saggezza. Ancora, il bacio, tema ricorrente nella favolistica dei Grimm, per Aurora come per Biancaneve segna il risveglio, la seconda nascita. Superare il sonno ha in tutte le tradizioni il significato della partecipazione ad una condizione trascendente. Simbolicamente il raggio del sole e il bacio hanno lo stesso significato. Entrambi alludono ad una rinascita. Disney valorizza al massimo le relative sequenze. Merlino è la guida spirituale del giovane Artù nel suo cammino iniziatico. Disney in genere affida a degli animali il ruolo di guida, anche sulla base delle fonti che utilizza e manipola. Nel caso de La Spada nella roccia, ad esempio, il ruolo del maestro è diviso tra il mago e il gufo Anacleto, che è l’alter ego di Merlino. Il gufo saggio si ritrova anche in Bambi. In Pinocchio, seguendo l’indicazione di Collodi, ci troviamo davanti a un grillo saggio.

Matteo Sanfilippo (Il Medioevo secondo Walt Disney, Castelvecchi, Roma 2003), un Medioevo da fiaba, appunto perché la fiaba rimanda ad alcune costanti profonde. Nei suoi film raramente allude alla religione rivelata. E, se lo fa, ne accenna sempre di sfuggita. La presenza più significativa è la processione di monache recanti ceri votivi che chiude Fantasia. L’elemento religioso-divino è per lo più trattato come magia. Lo scontro tra Bene e Male resta affidato a forze magiche antagoniste. Disney potrebbe aver evitato i riferimenti per una forma di timore reverenziale nei confronti della religione codificata, ma potrebbe anche essere stato animato da un consapevole atteggiamento esoterico. La vera svolta disneyana è quella che lo porta a passare da un generico conservatorismo ad un consapevole tradizionalismo; ovvero l’incontro con la fiaba nordica e la magia; per questo altrove abbiamo parlato di “nazismo magico” (nell’accezione data a questi termini dallo storico Giorgio Galli), almeno in relazione alla fine degli anni Trenta. Si è anche detto che in tutta probabilità Disney, come accadde per taluni ambienti conservatori inglesi di cultura esoterica, capovolse nel corso degli anni Quaranta il suo giudizio sull’esoterismo nazista, spingendosi a produrre, a guerra scoppiata, film e fumetti contro l’Asse. Il che non gli impedì, sul fronte interno, di continuare a combattere la sua personale guerra contro i comunisti. L’interesse di Disney per la fiaba non va visto come un fatto narrativo, affabulatorio. Al contrario, esprime una visione ideologica. Il mondo magico e/o mitico è per lui espressione di una doppia realtà. Da un lato rappresenta l’orizzonte mitico, il mondo alternativo a quello reale, ma non per questo meno vero; dall’altro, il mondo sottostante quello reale. L’esoterismo non è solo fuga in un diverso altrove; è anche individuazione di un nucleo occulto, segreto, parallelo al visibile. I mondi sono due: quello visibile e quello invisibile, ovvero quello sensibile e quello extra-sensibile. Ed è il secondo che dà significato al primo, interpretandolo ed orientandolo. Il male, che Disney simboleggia in vario modo, compreso quello politico, prende il sopravvento quando il mondo esterno dimentica e rompe i legami con quello segreto. Allora, come nella fiaba del fagiolo magico, la terra si inaridisce. Per Disney il segreto della felicità sulla Terra sta proprio nel cogliere la relazione, il legame tra mondo visibile e invisibile. Tutto questo non è neutrale; al contrario, ha una valenza culturale, politica, ideologica. E spiega lo scenario degli anni Trenta. Il nucleo ideologico della produzione di Walt Disney si dirada man mano che ci si sposta dalle grandi fiabe alle produzioni minori. Non c’è dubbio che una parte della sua attività, specie nei film con attori in carne ed ossa, risulti edulcorata. Nei suoi fumetti e cortometraggi, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, certi schemi finiscono per essere riprodotti in modo stucchevole e ripetitivo; insomma, di certi temi non resta che un pallido riflesso. Ciò nonostante chi vuol comprendere il fenomeno Disney non può limitarsi a considerare le realizzazioni secondarie come autonome. Si tratta invece di residui, scorie di una sostanza ben altrimenti attrezzata. Esaminiamo le presenze magiche nei suoi cartoni, ricordando che la magia suppone la rottura delle barriere tra l’uomo e la realtà a lui esterna. Rottura che implica una duplice possibilità. I suoi film sono una molto variegata rassegna di streghe, fate, maghi, maghe e spettri. Si comincia con la strega di Biancaneve. Nella fiaba originaria la Regina si traveste. Nel cartone, invece,

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un mezzo fiasco. Perché il pubblico si aspettava altro. E perché si trattava, nel suo genere, di un film particolarmente serio. Nel primo dei due brani citati la visione del demone e degli spettri nella notte di Valpurga è particolarmente intensa. Nel successivo la foresta con gli alberi a forma di arcate slanciate in alto coinvolge, con la stessa intensità, regista e spettatori. Ancora una volta, non si tratta di una banale raffigurazione del bene e del male moralisticamente intesi, ma si allude a una esperienza trascendente. Significativa in Fantasia è anche la sequenza de L’apprendista stregone. Topolino è il grande demiurgo, privo però di una adeguata qualificazione. Per una scelta specifica di Disney, finisce nel suo sogno per muovere l’intero universo. Le scope alludono con grande chiarezza a essenze infere che, una volta portate alla luce, si autonomizzano e diventano incontrollabili. Varianti iniziatiche sono presenti anche in Pinocchio, peraltro per volontà originaria di Collodi. Qui la discesa agli inferi, intesa sempre come passaggio, come prova, è trattata varie volte. Prima in riferimento al Paese dei Balocchi e poi come percorso nel ventre della balena. Non a caso Disney sostituisce la balena (il capodoglio) con l’originario pescecane del racconto, quasi a voler rendere più trasparente il messaggio. Un significato analogo hanno anche le acque, che Pinocchio deve attraversare per salvarsi. Si allude sempre alla seconda nascita. Si tratta di temi presenti anche in altri film, ad esempio il passaggio nella foresta di Biancaneve. Con sicura intuizione Disney, nelle sue raffigurazioni, va molto oltre la fiaba originaria. Infine, concludiamo con gli spettri. Per i cartoni, è da ricordare soprattutto il corto del 1937 Lonesome Ghost, dove Topolino, Pippo e Paperino devono disinfestare una casa dai fantasmi. Sono presenze autentiche e non mere apparenze, anche se viste in chiave umoristica. Della sequenza terribilmente seria di Fantasia si è già detto. Per i fumetti, nello storie del dopoguerra Floyd Gottfredson, grazie anche ai soggetti di Billy Walsh, ci offre fantasmi autentici. La più celebre è Topolino e lo spettro fallito del 1951, che ha per protagonista il fantasma di un vecchio pirata, Gasparone. Alla fine è Topolino stesso a diventare fantasma onorario. Sequenze con i fantasmi, sempre intesi come presenze reali, si trovano anche in altre storie di Gottfredson dell’epoca, ad esempio Topolino e il tesoro di Mook e Topolino tra le stelle. Al di là degli spunti offerti, gran parte dei film animati e talvolta dei fumetti di Disney è suscettibile di letture approfondite in questa direzione. Incontestabile è la collocazione tradizionale dell’opera di Walt Disney. Attraverso i testi e i mezzi usati egli è riuscito ad incantare masse di spettatori, ancorché inconsapevoli, alludendo chiaramente ad una sapienza perenne e originariamente segreta.

Ma le cose non cambiano molto. Ora, il gufo è l’equivalente della civetta, che in alcune tradizioni è simbolo della conoscenza e, simbolicamente, vede nelle tenebre. Un ruolo analogo è svolto dalle tre fate buone de La Bella Addormentata, che restano però entità intermedie. Ma il nesso fata-saggezza appare più chiaro in Pinocchio, dove la fata turchina dalle nette caratteristiche umane è colei che agevola il passaggio dalla condizione degradata e inferiore (il burattino) a quella superiore (il ragazzo). La fata turchina rimanda alle dame della letteratura iniziaticocavalleresca che consentono al cavaliere o al Re l’ascesi, ovvero la reintegrazione nello stato originario. Ruolo non dissimile ha la fata Madrina di Cenerentola, che si collega in qualche modo agli antenati. Ciò vale anche per Mary Poppins, la governante-maga dell’omonimo film con protagonisti umani. Come ha sostenuto Massimo Introvigne, l’autrice del ciclo, Pamela Lyndon Travers, scomparsa nel 1996, era seguace dell’esoterista Gurdjieff. E i suoi romanzi risentono degli insegnamenti del maestro. Nel film di Disney, sia pure edulcorati, aleggiano temi esoterici. Basti pensare alla danza (la grande catena) in onore di Mary Poppins e all’uscita dal mondo della sequenza animata. I temi iniziatico-cavallereschi sono trattati con evidenza nella produzione post-disneyana La Bella e la Bestia. Quella della Bestia è una situazione di caduta dallo stato primordiale. La Bella sarà la donna che consentirà al principe il superamento della condizione precedente (umana). Nel simbolismo tradizionale nella donna si raffigura una forza trasfigurante. D’altra parte, la rosa – simbolo rosicruciano per eccellenza – assume nel film un ruolo preponderante persino rispetto alla fiaba originaria. Al momento in cui la fiaba fu scritta esisteva già l’elemento rosicruciano. Gli artisti disneyani ne hanno significativamente accentuato la presenza. Il percorso iniziatico ha in Disney, come in tutta la letteratura del genere, due aspetti. Per un verso è la reintegrazione nello stato originario, dopo la caduta. Per un altro si presenta come discesa agli inferi, prova da superare per il compimento della seconda nascita, per la conquista dello stato superiore. Tra la caduta e la discesa c’è un evidente parallelismo. Si è già detto della Bella e la Bestia in relazione al primo tema. Il secondo è trattato in modo intensamente drammatico in Fantasia, particolarmente nelle sequenze della Notte sul Montecalvo di Mussorgskij e della Ave Maria di Schubert. Se Disney in molti casi si è limitato a far propri i contenuti tradizionali esoterici presenti nella favolistica europea, nel caso di Fantasia ha scelto autonomamente. L’accostamento degli ultimi due brani animati mostra un grado di consapevolezza esoterica sorprendente. Al suo apparire, nel 1940, Fantasia fu

“ In tutta l’attività creativa di Disney i fenomeni magici non sono mai TRATTATI COME SE FOSSERO MERE superstizioni ”

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Walt Disney e la contemporaneità dell’arcaico di Erica Gallesi

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uella di Walt Disney è una magia molto potente che ha permesso a questo geniale artista di accompagnare, tenendole per mano, intere generazioni dall’infanzia all’età adulta: Disney sapeva come incantare spettatori di tutte le età, e i suoi eredi non sono stati da meno. Uno degli ingredienti principali del suo successo è sicuramente l’abilità di giocare con gli archetipi della natura umana, che sono, allo stesso tempo, la struttura profonda delle favole, origine primaria di ispirazione per i lungometraggi di Disney e del suo team. Le fiabe tramandateci dai Grimm o da Andersen hanno ispirato molti grandi classici di animazione: da Biancaneve, primo film Disney proiettato in un cinema, al più recente Frozen, senza dimenticare Cenerentola, La Sirenetta e altri ancora. Anche le favole, a loro volta, fanno riferimento a fonti più antiche, ovvero i miti, e Disney, più o meno consapevolmente, ne ha beneficiato. Uno dei topos presenti nei racconti popolari, più di una volta trasportati sul grande schermo come cartoni animati, è quello che Vladimir Propp1 ha definito

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Diciannove anni dopo, fa la sua comparsa sugli schermi un altro grande capolavoro: La bella addormentata nel bosco (regia di Geronimi, Larson, Reitherman e Clark, 1959). Tratto liberamente dalla versione di Perrault9, pubblicata nel 1697, si discosta in più punti dalla fiaba originaria. Nella versione Disney la fata cattiva Malefica, recentemente tornata al cinema come protagonista di uno spin off in live action con Angelina Jolie intitolato Maleficent (regia di Stromberg, 2014), lancia una terribile maledizione sulla neonata principessa Aurora. La causa della sua rabbia è il mancato invito alla festa per la nascita della bambina da parte di re Stefano e sua moglie, e, nel momento in cui le tre fatine buone, Flora, Fauna e Serenella, stanno offrendo i loro doni ad Aurora, compare Malefica. Elegante, terribile e crudele, emette una spaventosa condanna nei confronti della piccina: a sedici anni la principessa toccherà il fuso di un arcolaio e morirà. Fortunatamente, Serenella non ha ancora offerto il suo dono alla bimba, e così riesce, almeno, a mitigare la durezza del maleficio: l’effetto della puntura non sarà la morte ma un sonno profondo, da cui Aurora si potrà svegliare solo ricevendo il bacio del suo vero amore. Nonostante tutti gli accorgimenti presi dal re e dalle fate, Aurora viene ingannata dalla strega, si punge e insieme a tutti gli altri abitanti del castello cade nel sonno maledetto, mentre il principe, l’unico che potrebbe salvarla, viene imprigionato da Malefica. Alla fine, l’intervento delle tre maghe fa sì che tutto si concluda nel migliore dei modi. Il critico cinematografico Alberto Pesce, nella sua recensione al film, ha affermato di non aver apprezzato molto la trasposizione disneyana della favola: la «facilità magica […] toglie molta tensione al racconto […] l’interesse narrativo è ben scarso»10. A mio parere, invece, l’elemento magico, che costituisce un asse portante della trama, è ben sviluppato e permette la realizzazione di simpatiche gag, come quella in cui Disney dà vita agli oggetti che si mettono al servizio di chi ne ha bisogno: le protagoniste sono le tre buffe fatine. Flora, Fauna e Serenella vogliono preparare un abito e una torta per il sedicesimo compleanno di Aurora; Serenella, che fin da subito si è dimostrata scettica sulla riuscita dell’impresa, convince le altre a sfruttare le loro bacchette per riuscire a preparare i regali prima che la principessa torni a casa. Grazie agli incantesimi, gli oggetti si animano e sembra proprio di assistere a una delle scene descritte dai commediografi dell’archaia: ago, filo e tessuto volteggiano in aria, realizzando un elegantissimo abito; le scope, animate come quelle de L’apprendista stregone ma senza quella nota minacciosa di fondo, danzano con Serenella che pulisce la stanza, gli ingredienti per il dolce si preparano da soli dopo aver letto le istruzioni sul libro di cucina. Dopo gli anni d’oro, la Disney attraversò un momento di crisi verso gli anni Ottanta, dovuto anche all’abbandono dell’azienda da parte di alcuni disegnatori che preferirono andare a lavorare altrove11. Alla fine degli anni Ottanta la casa di produzione si risollevò in parte grazie alla bravura e all’affiatamento di Alan Menken e Howard Ashman, che scrissero le canzoni de La sirenetta (regia di Clements e Musker, 1989) e de La bella e la bestia (regia di Trousdale e Wise, 1991). Nonostante le novità e i cambiamenti, il tema dell’automatos bios non viene dimenticato: anzi, proprio ne La bella e la bestia gli oggetti animati hanno un’importanza considerevole nello sviluppo della trama. Belle, figlia dello strampalato inventore Maurice, vive in un paesino della Francia, ma vorrebbe essere protagonista di qualcuna delle avventure che legge e rilegge nei

«oggetto-strumento», cioè quell’oggetto che consente al protagonista di non percepire la fatica nell’utilizzarlo, permettendo comunque di ottenere straordinari risultati. Propp sostiene che è stata questa sensazione, provata dal fortunato possessore del manufatto, a originare «l’idea dello strumento che lavora senza l’uomo, in sua vece. Lo strumento viene quindi divinizzato»2. L’idea di oggetti semoventi, o addirittura dotati di vita propria, è uno di quegli archetipi nati nella notte dei tempi, e la sua longevità probabilmente è legata all’utopico desiderio dell’uomo di evitare la fatica fisica. Gli antichi Greci definivano con il nome di automatos bios il fenomeno degli oggetti che prendono vita per sottostare agli ordini dell’uomo soddisfando ogni sua richiesta. La cultura greca è ricca di esempi di automatos bios sia nella letteratura che nel teatro: in particolare, l’archaia (cioè la commedia greca antica del V secolo a. C. caratterizzata da una forte satira politica, dalla completa libertà di parole e dal carattere utopico-sovversivo) fornisce molteplici immagini pittoresche proprio a questo riguardo, declinate soprattutto nel campo gastronomico3, ma non solo. Sono numerosi i frammenti di commedie ambientate in veri e propri Paesi della Cuccagna i cui dialoghi potrebbero essere tranquillamente riportati in un film Disney senza che nessuno possa sospettare la loro origine: «“Dove è la tazza? Va’ a lavarti da sola! Lievita, focaccia. La pentola dovrebbe scolare le bietole. Pesce, fatti avanti” / “Ma non sono ancora cotto dall’altra parte” / “E allora, che aspetti a rivoltarti e a spargerti di sale ungendoti d’olio”»4. O ancora: «Cada a fiocchi farina d’orzo, scendano a gocce pezzi di pane, piova purea, il brodo faccia rotolare per le strade ritagli di carne, la focaccia ordini che la si mangi»5. Scene simili, comuni nella commedia della Grecia antica, in cui gli ingredienti si cucinano da soli e il cibo quasi implora di farsi mangiare, non sono del tutto estranee ai classici Disney, anzi. Infatti, Disney non si è limitato a rappresentare gli oggetti fatati solo quando strettamente richiesto dalle fonti dei suoi film: ne ha fatto una vera e propria cifra stilistica. A tale proposito, Vincenzo Bonajuto ha giustamente osservato che questa è «la sua formula […] di creare cioè una gustosa trasfigurazione della realtà in una magica irrealtà che tutto anima e fa vivere»6. Secondo Bonajuto un ottimo esempio di ciò si trova nel cortometraggio L’apprendista stregone (in Fantasia, registi vari, 1940) in cui «una violenta corrente di vita» è liberata da Disney «dall’essenza stessa delle cose»7. La trama del corto è semplice: Topolino vuole imparare i segreti del suo maestro, un potente mago, che, però, si limita a fargli pulire il suo studio sotterraneo. Topolino, stanco di sistemare la grotta e assetato di conoscenza, approfitta dell’assenza dello stregone per usare il libro di incantesimi e ordinare alla scopa di continuare a faticare al posto suo, mentre lui si concede un sonno ristoratore. Al suo risveglio, la scopa si rifiuta di obbedirgli, e lui non riesce a fermarla, neanche distruggendola: da ogni scheggia ne nasce una nuova, e tutte insieme formano un esercito di scope stregate che solo l’intervento del mago riuscirà a domare. La possibilità di vivere nell’ozio è sicuramente allettante, e, come molti dei Greci protagonisti dell’archaia, anche Topolino si lascia tentare: ma Disney, dimostrando una grande capacità di saper cogliere e trasmettere agli spettatori «l’anima delle cose»8, in questo cortometraggio evidenzia l’aspetto forse più inquietante dell’automatos bios: la minacciosa marcia delle scope, mentre Topolino rischia di annegare, esprime una paura che appartiene forse più all’uomo contemporaneo che non agli autori del V secolo: il fatto che gli oggetti, resi automatici, e quindi vivi, possano rivoltarsi contro l’uomo stesso, tema caro alla letteratura e alla cinematografia fantascientifica.

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suoi libri preferiti. Gaston, arrogante e ignorante maschio alpha del paese, pur essendo desiderato da qualsiasi altra fanciulla, è deciso a sposare Belle, che però lo respinge, umiliandolo. Nel frattempo Maurice, mentre attraversa il bosco, finisce prigioniero della terribile Bestia, un essere mostruoso vittima di una maledizione: anni prima una fata, nascosta sotto le mentite spoglie di una vecchia donna, aveva chiesto ospitalità ad un bellissimo ma insensibile principe, il quale l’aveva scacciata malamente. La punizione della fata era stata crudele: il principe venne tramutato nella Bestia, tutti i suoi servitori furono trasformati in oggetti viventi e l’incantesimo sarebbe stato spezzato solo se, prima del ventunesimo compleanno del principe, egli si fosse innamorato e fosse stato ricambiato nel suo sentimento. Gli anni passavano e la Bestia era sempre più disperata e feroce. Belle, aiutata dal suo cavallo Philippe, riesce a trovare il luogo maledetto e a convincere la Bestia a imprigionare lei al posto del vecchio padre: la Bestia, sperando che lei possa innamorarsi, la ospita nelle stanze migliori, e dopo i primi scontri inizia a stringere un forte legame con la ragazza. Quando Gaston, pazzo di gelosia, aizza l’intero villaggio contro la Bestia, la ragazza, ormai innamorata, difende quello che tutti chiamano “il mostro”. L’immancabile lieto fine conclude la vicenda. La fiaba fu pubblicata la prima volta nel 1740, ad opera di un’autrice francese, Madame de Villeneuve12. Questa versione della favola, oltre ad essere quella in cui, per la prima volta, vengono fissati gli elementi della vicenda, era caratterizzata da una forte tensione erotica: infatti, ogni notte, la Bella si imbatteva in sogno nel doppio della Bestia, il Bello, che «è tutto ciò che di buono è la Bestia, senza nulla di ciò che nella Bestia è cattivo»13. La vicenda di Madame de Villeneuve non può non far tornare alla mente un’altra celebre storia: Amore e Psiche. Come la Bella, Psiche solo di notte incontra il suo bellissimo sposo, che non vuole mostrarsi alla luce, e per questo teme che sia in realtà un mostro. Quando con l’inganno riuscirà a vederlo, con dure prove dovrà pagare il prezzo della sua eccessiva curiosità. Nel 1756 Madame de Beaumont14 riscrive la fiaba, basandosi sull’edizione del 1740 ma eliminando la tensione erotica e sottolineando l’intento pedagogico, iniziando un percorso di “edulcorazione”15 che poi Disney porterà a termine. La storia della Bestia narrata dalla Disney ricorda, inoltre, un’altra vicenda classica16: il mito di Faone. Faone, anziano e tutt’altro che attraente, era stato premiato per il suo aiuto da Afrodite, che gli si era presentata sotto le mentite spoglie di una vecchia in difficoltà, con il dono dell’avvenenza e di una seconda giovinezza: sembra proprio il rovesciamento della figura dell’arrogante e avvenente principe, punito da una fata presentatasi a lui sotto false sembianze. Questa fiaba, dunque, è intrisa di reminiscenze classiche. I personaggi che Disney ha inventato e inserito, cioè quelli della servitù-oggetto, sono sicuramente annoverabili tra le più divertenti rappresentazioni di automatos bios degli ultimi anni. Il candelabro Lumière, l’orologio Tockins, la teiera Mrs. Brick e il figlioletto Chicco, una simpatica tazzina sbeccata, sono i servitori della Bestia più caratterizzati. In realtà, sono umani trasformati, che cercano di aiutare Belle a conoscere meglio il loro padrone, sperando che lei riesca ad andare oltre il suo mostruoso aspetto, innamorarsi di lui e permettere così a tutti di tornare finalmente umani. Una scena in particolare, però, mostra come nel castello tutto sia “automatizzato”: la prima sera Belle, dopo essersi rifiutata di mangiare in compagnia della Bestia, fa conoscenza con tutti gli altri abitanti della reg-

gia che improvvisano uno dei numeri da musical tipici dei film Disney mentre si premurano di servirle la cena. Lumière, sulle note di Be Our Guest, prospetta alla fanciulla un ricco elenco di delizie per il palato che ricorda le liste di vivande presenti in diversi frammenti di archaia. Nel frattempo tutta la cucina si impegna per far sentire la nuova arrivata a proprio agio: la poltrona la fa sedere, i piatti e i cucchiaini ballano sfrenati, le bottiglie di spumante si stappano da sole e i boccali traboccanti di bibite partecipano alle danze. Un tripudio gastronomico in piena regola che non ha nulla da invidiare alle descrizioni utopiche dei drammaturghi greci. La Disney, continuando il suo percorso di avanzamento tecnologico, non ha dimenticato di dare voce all’anima delle cose, anzi, la vitalità degli oggetti è stata al centro di film come Toy Story (regia di Lasseter, 1995), che «presenta un pupazzo dotato di punto di vista, sentimenti e affetti»17. E sulla stessa scia si sono inseriti altri lungometraggi come Cars – Motori ruggenti (regia di Lasseter, 2005) e Planes (regia di Hall, 2013). Però, in questi ultimi film di animazione la trattazione del “soffio vitale” è ancora più particolare; questi oggetti infatti, oltre ad essere dotati di una personalità ben definita, elemento che già era emerso ne La bella e la bestia, sono animati esclusivamente quando l’uomo non è presente. In Toy Story, ad esempio, i giocattoli si relazionano tra loro solo quando Andy, il loro proprietario, non può vederli, mentre invece in Cars gli unici abitanti della Terra sembrano essere quelli a motore: dunque negli ultimi lungometraggi la visione della Disney si è allontanata da quell’utopia dell’archaia in cui gli oggetti erano dotati di mobilità automatica solo nella misura in cui questo poteva essere utile all’uomo, per renderli assolutamente liberi e consapevoli padroni delle loro azioni. 1. Vladimir Propp, Morfologia della fiaba. Le radici storiche dei racconti di magia, Newton Compton, Roma 1992, p. 314. 2. Ibidem. 3. Cfr. Matteo Pellegrino, Utopie e immagini gastronomiche nei frammenti dell’archaia, in «Eikasmos. Quaderni Bolognesi di cultura classica», Studi 4, Pàtron Editore, Bologna 2000. 4. Cratete, Bestie, fr. 16 K. – A. 5. Nicofonte, Sirene, fr. 21 K. – A. 6. Vincenzo Bonajuto, “Gli uccelli” di Aristofane e Disney, in «Bianco e Nero», IV, n. 4, aprile 1940-XVIII, p. 75. 7. Ivi, p. 76. 8. Ivi, p. 75. 9. A. Pesce, Da Perrault a Disney. La bella addormentata nel bosco, in «L’Educatore Italiano», VII, n. 11, marzo 1960, Fabbri Editori, Milano, p. 12. 10. Ivi, p. 13. 11. Kristin Thompson, David Bordwell, Storia del cinema. Un’introduzione, a cura di Elena Mosconi e David Bruni, McGraw-Hill, Milano 2014, p. 523. 12. Cfr. Aa. Vv., La bella e la bestia, quindici metamorfosi di una fiaba, Donzelli, Roma 2002, p. VIII. 13. Ibidem. 14. Ivi, p. XII. 15. Ibidem. 16. Per le congetture sulla trama del Faone di Aristofane e il mito riguardante il traghettatore si veda Matteo Pellegrino, op. cit., pp. 238-239. 17. Thomas Elsaesser, Malte Hagener, Teoria del film. Un’introduzione, tr. di Fulvia De Colle e Rinaldo Censi, Einaudi, Torino 2007, p. 198.

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Disney e Dalí: una questione di «Destino» di Luca Siniscalco

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ungo un paesaggio onirico, avvolto nel mistero, due tartarughe avanzano lentamente, sino a congiungersi. Gli animali trasportano due “ritratti molli”, forme svuotate di materia e sostenute da grucce che garantiscono supporto ai loro profili evanescenti. I due ritratti si avvicinano sino a formare l’immagine stilizzata di una ballerina. Nel processo metamorfico, un particolare non può sfuggire all’astante: la loro identità. Si tratta proprio di Walt Disney, riconoscibile dal cappello rosso indossato che rimanda a Biancaneve e i sette nani, e Salvador Dalí, con gli indimenticabili baffi “antinietzschiani” rivolti verso l’alto. I due personaggi appaiono così trasfigurati all’interno del cortometraggio Destino, frutto della collaborazione dei due geni novecenteschi ed emblema di una relazione amicale e progettuale le cui radici possono essere riscontrate su due binari eterogenei e insieme sovrapposti: da un lato il piano storico e biografico, dipanatosi in quegli incontri e coincidenze che li fecero conoscere

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spirito in cui la vita e la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il presente, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso, cessano di essere percepiti in modo contraddittorio»5. È per la medesima ragione che questo medium esercita un forte fascino su Dalí: si tratta, nella sua ottica, da un lato del supporto artistico per eccellenza della modernità, nonché del mezzo perfetto per diffondere la propria immagine di esibizionista compulsivo; d’altro canto, è uno spazio utopico, nel senso etimologico del termine, un non-luogo in cui la dimensione reale lascia varchi aperti sull’onirico e sull’immaginario, nella contraddizione ossimorica inscritta nell’essere. È nel 1928 che ha luogo l’esordio daliniano nel cinema, con la sua proposta all’amico Buñuel di concepire un film secondo il procedimento surrealista della scrittura automatica. Nasce Un chien andalou, sintesi roboante di paure, traumi e immagini archiviate nella memoria, ideato in poche settimane, secondo la testimonianza di Buñuel, a partire da due sogni sperimentati dagli autori6. Dalla medesima collaborazione scaturisce L’Âge d’or (1930), dedicato ai temi della violenza e del potere del desiderio, analizzati all’interno del rapporto fra due amanti la cui unione è impedita da limitazioni sociali, proprio quegli ostacoli piccolo borghesi contro cui si scaglia l’invettiva surrealista, in una dura critica rispetto all’ordinamento sociale e politico del mondo contemporaneo. Tematiche simili vengono discusse anche in Babaouo, film incompiuto – terminato soltanto nel 1998 da Manuel Cussó-Ferrer – la cui sceneggiatura, iniziata da Dalí intorno ai primi anni Trenta, narra la storia di due amanti accostando un linguaggio aspro e violento a un’iconografia potente e brutale. Sempre incompiuto è un progetto ideato in ambiente americano: si tratta di The Surrealist Mysteries of New York, dedicato alla violenza nelle metropoli urbane e influenzato dal filone gangster. Nel 1940 Dalí realizza alcuni disegni preparatori per una sequenza di Moontide, diretto dal celeberrimo Fritz Lang: le creazioni oniriche, giudicate troppo pessimistiche nel clima del secondo conflitto mondiale, verranno rifiutate, anche in seguito alla sostituzione di Lang con Archie Mayo. Sei anni dopo, il grande riscatto: il pittore crea sceneggiatura e scenografie per un flashback onirico del film Io ti salverò di Hitchcok. Era «un’alcova perfetta per la fantasia daliniana, basandosi interamente sull’idea che le esperienze di vita represse potessero causare nevrosi nell’individuo. […] Hitchcok si mostrò molto felice di collaborare con Dalí soprattutto perché credeva che l’incisività segnica del catalano potesse rendere molto meglio il mondo onirico rispetto agli escamotage solitamente utilizzati nel mondo del cinema. […] Anche Dalí fu molto impressionato dal regista, un uomo con una forte personalità e un’aura di mistero»7. Quel medesimo mistero che Dalí ravvisa in Disney, con il quale progetta Destino con serietà – lavorandovi quotidianamente per otto mesi – ma anche con lo scanzonato e paradossale stile del provocatore surrealista. Ne è prova un aneddoto riportato in una curiosa intervista da John Hench, grande talento creativo dello Studio Disney8. Dalí aveva bisogno delle immagini di un cigno per realizzare una scena del progetto, ispirata alla posa plastica dell’iconica figura di Leda e il cigno: per soddisfare le bizzarre esigenze del pittore di Figueres, Hench gli procura l’animale, trasportandolo in auto sino al suo studio di Carmel. Pittoresca la scena conclusiva: Hench guida la propria decappottabile con a bordo l’animale, il quale, appena liberatosi dal tetto della

e collaborare; dall’altro il livello sovrastorico e ideale, il tessuto di quel mondo immaginale cui le Weltanschauungen di Disney e Dalí si abbeverarono per crescere, secondo rispettive peculiarità, in profonda sintonia. Il primo contatto fra i due risale al 1936, quando le loro opere s’incontrano a una mostra presso il MoMA (Museum of Modern Art) di New York, “Fantastic Art, Dada and Surrealism”, che ospita i lavori di Dalí e alcune testimonianze della “Silly Symphony” Three Little Wolves (I tre porcellini e i tre lupetti). L’anno successivo, in una lettera ad André Breton, Dalí dichiara la propria affinità coll’ideatore di Mickey Mouse, asserendo: «Sono venuto a Hollywood e ho incontrato tre grandi surrealisti americani: i fratelli Marx, Cecil B. De Mille e Walt Disney»1. Giudizio avventato, semplice boutade nello stile tipico dell’estroso pittore spagnolo? Eppure, il temperamento surrealista di Disney non dovrebbe destare sorprese in uno spettatore avvertito. Bastano alcune celebri scene del film Dumbo a testimoniare come il mondo onirico e la dimensione inconscia costituiscano un elemento cardine della sua poetica. Il delirio alcolico vissuto dall’elefantino ripristina una visione caotica ed elementare entro cui diversi piani del reale si confondono e sovrappongono, evocando il perturbante e includendolo nel processo di crescita individuale del personaggio. Questi percepisce nelle proprie visioni un circo infernale di piccoli elefanti mutanti che, con Mariuccia Ciotta, si potrebbe indicare quale «pantheon di fantasmi rosa degno di Salvador Dalí»2, operante quale conditio sine qua non nella formazione e individuazione – in senso junghiano – dello stesso Dumbo: Walt, infatti, «nel processo di trasformazioni di forme e di caratteri in quel suo andare oltre la copia del reale produce un altro senso, un’altra specie vivente, un “mostro” composto di pezzi diversi. “È il ritorno della forma. E quando essa passa attraverso tutti i suoi stati, prende il bel nome di metamorfosi” (Daney)»3. Questo processo dai tratti alchemici presenta numerose analogie con la pittura daliniana, la cui sintonia con il lavoro di Disney diverrà chiara nel 1945, anno del primo incontro fra i due. Entrambi sono invitati a un party organizzato dal produttore Jack Warner: Disney gioca in casa, mentre Dalí si trova a Hollywood per disegnare l’insert di Io ti salverò di Hitchcock. I due si conoscono e scocca la scintilla: la progettualità di Disney vede nel genio immaginifico di Dalí una potenzialità eccezionale per rivoluzionare il mondo dell’animazione. Nasce così il progetto di Destiny. Differenti le interpretazioni del lavoro proposte alla stampa, eppure rivelatrici di due chiavi di lettura capaci di completarsi piuttosto che escludersi: «La semplice storia di una ragazza alla ricerca del suo amore» (Disney) viene presentata da Dalí come «una magica esposizione della vita nel labirinto del tempo»4. Se il ruolo di Disney nell’universo cinematografico è arcinoto, può risultare interessante introdurre le esperienze di Dalí nella “Settima Arte”, a testimonianza di come l’impegno del pittore nella creazione di Destino non sia casuale né eccezionale ma si inserisca in una linea di continuità che vede nella nuova tecnica comunicativa e artistica un mezzo straordinario per esprimere quel contenuto immaginifico, utopico e mitopoietico che proprio la modernità tende a espellere dai propri confini. In tale convinzione Dalí non è certo isolato: basti pensare al surrealista André Breton, che descrive il nuovo mezzo cinematografico come l’«unico mistero assolutamente moderno», sostenendo che «non solo ci presenta esseri in carne e ossa, ma anche i sogni di questi esseri trasformati in carne e ossa». Esso «raggiunge quel punto dello

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è un’eccellente trasposizione dello spirito surrealista, eclettico, del pittore Dalí, e dell’animo sognante, mistico e affabulatore del maturo Disney, non senza quella nota oscura tipica di entrambi i suoi creatori: della vena più cupa di Salvador, quella legata alla sfera magica e oscura dell’Es, e della cupa tristezza di certi personaggi disneyani»10. Quell’ambiguità, cifra del paradosso dell’esistenza e di quel “vivere contro l’evidenza” di cui noi umani siamo protagonisti, per impiegare un’espressione cara a Emil Cioran, si riverbera nell’opera proteiforme e magmatica dei due autori. La sua carica antimoderna traspare pertanto in numerose suggestioni da cui una visione del mondo comune, inattuale nella sua contraddittoria attualità, emerge con prepotenza. È ancora una volta quel mutevole crinale che nell’epoca della postmodernità pone i riflettori sulla crisi e sull’interregnum per aprire squarci di luce e aperture verso un possibile superamento mediante il ripresentarsi dell’originario. Si è già accennato alla rilevanza che la dimensione onirica riveste tanto nel surrealismo di Dalí quanto in quello di Disney: il metodo paranoico-critico teorizzato dal primo, benché ispirato al freudismo e soggiacente a tutti i suoi limiti, rivendica nei riguardi dell’essenza dell’uomo una lucidità interpretativa che si contrappone nettamente al paradigma scientista e quantitativo vigente. Nella prospettiva di una reintegrazione dell’uomo nella sua complessità pluridimensionale, i temi dell’immaginazione, della meraviglia e dell’utopia aprono così orizzonti affascinanti lungo la scia avanguardista del ripristino di elementi spirituali all’interno di quella cultura di massa che, secondo l’interpretazione materialista di Adorno e Lukàcs, avrebbe invece univocamente indotto il soggetto-massa a un’irrefutabile alienazione. I sogni, che per Disney “son desideri”, possono concedere l’epifania di quella meraviglia che secondo Platone e Aristotele segna il sorgere della filosofia occidentale. Lo stupore incide sulla realtà, la smembra e trasfigura, ne mostra i lati invisibili e le possibilità. «Il mio obiettivo?» annota Dalí, «sistematizzare la confusione e contribuire all’assoluto discredito del mondo reale»11. Se la realtà è «semplice amnesia di meditazione»12, il criterio squisitamente oggettivo e misurabile non può più spiegare la totalità dell’esperienza: interviene pertanto l’arte, «macchina da guerra al servizio del desiderio nella sua lotta contro la supremazia del principio di realtà»13. Ne consegue, profetizza Dalí, che «la realtà, in un prossimo futuro, sarà considerata unicamente come un semplice stato di depressione e di inattività del pensiero»14. Risuonano echi mistici e intuizioni schopenaueriane in veste postmoderna, secondo un’affinità col “realismo magico” teorizzato da Pauwels e Bergier nel Mattino dei maghi che si palesa in molteplici luoghi dell’opera daliniana e dineyana. La svelano tra l’altro i cartoons, nei quali la nostalgia verso un indefinito pas-

vettura, offre un’immagine perfetta per un dipinto di Dalí. E la storia non finisce qui! «Quando Dalí tornò in Spagna, si portò anche il cigno! E in seguito fu salvato da una brutta situazione proprio dal cigno: la casa reale lo adottò, diede un titolo a Dalí, e dei soldi, perché Gala, sua moglie, soffriva di Alzheimer, e tutto il denaro messo da parte e investito in banche svizzere era andato perso quando lei si era dimenticata il codice segreto. Il re di Spagna, Carlos, gli conferì delle cariche ufficiali, che gli procurarono soldi e lo salvarono. Perché Dalí aveva tante idee, ma nessuna per fare soldi. Walt era fatto allo stesso modo»9. Quest’attitudine così lontana dal materialismo capitalista si rivela in tutta la sua portata nella sorte del celeberrimo Fantasia (1940). Nonostante la pessima ricezione Disney non si scoraggia, fiero di un progetto che ancora una volta incorpora svariati elementi affini al surrealismo: dalla libera associazione d’idee e immagini prive di una precisa funzione narrativa al recupero di mitologemi tradizionali, dall’esasperazione della figura della metamorfosi alla ricerca sinestetica, in linea con la migliore lezione delle avanguardie, dal futurismo al dadaismo. Viene così superato il giogo del razionalismo: la musica di Stokowski chiama in essere, all’interno della potenza delle immagini, simboli onirici e numinosi. Si tratta del medesimo retroterra presupposto da Destino, cui Dalí e Disney lavorano intensamente: il primo, in particolare, realizza centinaia di disegni e bozzetti, supportato da Hench, con l’intenzione di sintetizzare il proprio stile e l’impronta disneyana. Il corto, che segue la musica del compositore messicano Armando Dominguez e riprende il tema dell’incontro amoroso caro a Dalí, non viene tuttavia terminato a causa dei problemi economici connessi agli esiti disastrosi della Seconda Guerra Mondiale. Lo scarso successo di Fantasia, che spinge per un certo tempo Disney a ridimensionare le proprie aspirazioni estetiche e ad avvicinarsi ai gusti del pubblico, non aiuta certo la promozione del progetto, che verrà portato a termine soltanto nel 2003 grazie alla passione di Hench. Quest’ultimo aveva infatti realizzato un breve test d’animazione di circa diciotto secondi, costituito da centotrentacinque schizzi, auspicando che potesse essere terminato successivamente. L’idea prende piede nel 1999, durante la realizzazione di Fantasia 2000, quando il nipote di Walt, Roy Edward, riscopre Destino. Grazie al supporto dell’ormai novantaduenne Hench, accompagnato da un team di circa venticinque animatori, le criptiche indicazioni di Dalí vengono decifrate sino a creare il capolavoro da cui oggi possiamo trarre diletto. Prodotto da Baker Bloodworth e diretto dall’animatore francese Dominique Monfrey, Destino colpisce il pubblico del nuovo millennio, che lo ammira per la prima volta il 2 giugno 2003, all’apertura del Festival internazionale del film d’animazione di Annecy. «Alla luce della nostra analisi possiamo dire che effettivamente il corto

“ SALVADOR Dalí, come Disney, aveva tante idee per la testa, ma nessuna per fare soldi ”

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incredibilmente si realizzavano23. Superficialità, escapismo o altro? Forse siamo di fronte a un’esperienza interiore che riecheggia il monito jüngeriano, secondo cui «l’ottimismo, in sé, è cosa grande. È un evidente sintomo di salute ed è tanto più meritorio quanto più distintamente vede il pericolo. In ogni caso, la speranza conduce più lontano della paura»24. Questa vicinanza teorica s’irradia negli sviluppi storici del rapporto fra i due, amicizia che il fallimento temporaneo di Destino non andò mai a inficiare. Se Disney decorò le pareti della propria dimora di Palm Springs con opere di Dalí, incontrato nuovamente durante una vacanza in California nel 1951, il genio di Figueres ospitò Walt e sua moglie a casa sua, durante un viaggio in Spagna del 1957. Un destino, il loro, che non smette di dare i suoi frutti: ne sono affascinanti emblemi la storia pubblicata su «Topolino» (n. 2861, settembre 2010)25, in cui la vicenda dei due viene illustrata in pura foggia “Mickey Mouse”, e una mostra, intitolata “Disney and Dalí: architects of the imagination”, a cura di Ted Nicolaou, che sino al 3 gennaio 2016 introdurrà il visitatore del Walt Disney Family Museum di San Francisco alla collaborazione tra i due geni. Una storia seducente, un intarsio di junghiane coincidenze significative, che, proprio nello stile di Disney e Dalí, dimostrano poco o nulla, eppure spalancano mondi sorretti dalla potenza del significato simbolico e dell’autoevidenza.

sato scuote lo spettatore con la rievocazione di simboli sempre vigenti, così come la provocazione surrealista – già incarnata dalla volontà duchampiana di riaffermare la centralità di un “originale inafferrabile” da cui possa scaturire un’arte ispirata all’armonia formale e non alla dimenticanza di ogni regola15 – evidente nell’“iperrealismo metafisico” coniato da Dalí per riattualizzare il misticismo spagnolo. L’approdo al sacro del pittore – che fu persino ricevuto da Pio XII, nel 1949, e da Giovanni XXIII, dieci anni dopo – in tutta la sua confusione dottrinaria colpisce per l’intensità contemplativa: «La visione binoculare è la trinità della percezione fisica trascendente. Il Padre, l’occhio destro, il Figlio, l’occhio sinistro, e lo spirito Santo, il cervello, il miracolo della lingua di fuoco, l’immagine luminosa virtuale divenuta incorruttibile, puro Spirito Santo»16. È una mitopoiesi strettamente connessa alla potenza cosmogonica. Tale «dono arcangelico»17, per usare un’espressione daliniana, si realizza nella spiritualizzazione della realtà, secondo un intervento attivo e creativo dell’uomo che si fa medium fra terra e cielo, giacché, quasi ermeticamente, «il cielo non si trova né in alto, né in basso, né a destra, né a sinistra, il cielo è esattamente al centro del petto dell’uomo che ha fede!»18. Questa funzione pontificale della persona, mediatrice per eccellenza fra immanenza e trascendenza, si radica in Dalí all’interno di una spiritualità corporale, che percorre erotismo e fisicità per unire microcosmo e macrocosmo, opponendosi al nichilismo trionfante dei pittori moderni, che «non credono a niente»19 e finiscono col dipingere il niente. Ecco perché i baffi daliniani, «affilati, imperialisti, ultrarazionalisti e puntati verso il cielo, come il misticismo verticale»20, invocano un’opposizione all’astrattismo novecentesco in nome di un ritorno a quell’arte figurativa, in principio rinascimentale, tramite cui il genio può imprimere senso e bellezza alla comunicazione estetica. Allo stesso modo le immagini di Disney rievocano miti e archetipi di una memoria collettiva ancestrale, immettendo lo spettatore in una fiaba che è rammemorazione di una storia ancora e sempre in metamorfosi. La plasmaticità delle figure disneyane, così simile a certe trovate daliniane, riprende l’archetipo classico di Proteo e mostra un principio inscritto nelle strutture cosmiche come nel fare poetico: la trasmutazione. Afferma Dalí, suscitando scompiglio fra i modernisti a oltranza: «La mia metamorfosi è tradizione, perché la tradizione è esattamente cambiamento e reinvenzione di un’altra pelle. Non si tratta di chirurgia estetica o di mutilazione, ma di rinascita»21. Questa metamorfosi perenne si rivela pienamente nel gioco, che secondo Disney è una necessità antropologica22, e attraversa la sfida avanguardistica di entrambi gli autori. La loro critica alla mediocrità borghese, al materialismo capitalista e al dogma del progresso va proprio letta quale conseguenza inevitabile di una mentalità ispirata alla passione verso l’alterità fantastica e alla tutela del rapporto magico fra individuo e collettività. Contro il conformismo e l’incapacitante accettazione del già dato, Dalí e Disney affrontano ogni evento con la saggia leggerezza del fanciullo, secondo un principio di ottimismo che assurge a trasfigurazione volontaristica del reale. Disney incita a non arrendersi al sudiciume del presente e a guardare con ottimismo al futuro, consapevole che la tempesta è il prezzo dell’arcobaleno. Ugualmente sappiamo, grazie alla testimonianza di John Hench, che Dalí era in grado di riprendersi da qualsiasi sventura nel giro di quarantacinque minuti e, considerando l’evento nelle sue possibili conseguenze positive, profetizzava esiti fausti che spesso

1. Cit. in Mariuccia Ciotta, Walt Disney. Prima stella a sinistra, Bompiani, Milano 2010, p. 62. 2. Ivi, p. 86. 3. Ibidem. 4. Cit. in ivi, pp. 279-281. 5. Cit. in Trent’anni di avanguardia spagnola. Da Ramón Gómez de la Serna a Juan-Eduardo Cirlot, a cura di Gabriele Morelli, Jaca Book, Milano 1988, p. 216. 6. Cfr. Luis Buñuel, Dei miei sospiri estremi, SE, Milano 1991, p. 113. 7. Francesca Adamo, Caterina Pennestrì, Il Destino di un incontro. Salvador Dalí e Walt Disney, introduzione di Matteo G. Brega, Mimesis, Milano 2010, p. 47. 8. Cfr. Mariuccia Ciotta, op. cit., pp. 280-283. 9. Ivi, pp. 282-283. 10. Francesca Adamo, Caterina Pennestrì, op. cit., p. 93. 11. Salvador Dalí, La droga sono io. Aforismi e pensieri di un artista eccentrico e geniale, Castelvecchi, Roma 2007, p. 40. 12. Ivi, p. 44. 13. Ivi, p. 57. 14. Ivi, p. 59. 15. Cfr. Francesca Adamo, Caterina Pennestrì, op. cit., p. 13. 16. Cit. in ivi, p. 49. 17. Salvador Dalí, op. cit., p. 26. 18. Ivi, p. 34. 19. Ivi, p. 77. 20. Ivi, p. 85. 21. Ivi, p. 68. 22. Cfr. Mariuccia Ciotta, op. cit., pp. 287-288. 23. Cfr. ivi, pp. 283-284. 24. Ernst Jünger, Al muro del tempo, tr. di Alvise La Rocca e Agnese Grieco, Adelphi, Milano 2012, p. 282. 25. Si tratta di una storia scritta da Roberto Gagnor e disegnata da Giorgio Cavazzano. Topolino, Paperino e Pluto spiano la collaborazione di Walt e Salvador finché non cadono in una delle tavole del pittore, perdendosi nel mondo daliniano.

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Su Disney, l’Alchimia e infine Apollo di Sebastiano Fusco

«S

pecchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?» chiede la perfida regina Grimilde al suo magico strumento. Lo specchio aveva sempre risposto: «Sei tu». Ma stavolta, con malcelata soddisfazione, inaspettatamente la gela: «È Biancaneve». Comincia così una delle più famose – se non la più famosa – tra le fiabe di tutti i tempi. Perché Biancaneve era diventata la più bella? Perché nel frattempo aveva incontrato il Principe Azzurro e se n’era innamorata. Trasfigurata dall’amore, aveva superato in bellezza la matrigna. A questo punto, per diventare la più bella, non le resta altra via che uccidere la figliastra. Gli eventi si susseguono rapidamente: chi è incaricato del crudele assassinio non se la sente e risparmia la fanciulla innocente. Biancaneve fugge e trova riparo presso i nani, sennonché la regina, trasformatasi in strega, la raggiunge e le offre una mela avvelenata. Biancaneve muore, ma un bacio del suo principe la fa rivivere. Se la fiaba di Biancaneve è così famosa, lo si deve

non tanto alla versione trascritta dai fratelli Grimm, quanto al fatto che nel 1937 Walt Disney, con la sua trasposizione in cartone animato a colori, ne fece la vera pietra d’angolo sulla quale costruì uno dei più grandi imperi mediatici e dell’entertainment contemporanei. Il riferimento alla “pietra d’angolo” non è casuale: da decenni circola la leggenda che Walt Disney fosse un massone d’alto grado, bene addentro nei risvolti esoterici delle dottrine circolanti presso i “figli della vedova”, e che nei suoi cartoni animati facesse opera di diffusione di simbolismi nascosti, atti a veicolare le giovani menti verso un tipo di conoscenza e di acquisizione del sapere ben diversi da quelli praticati dalla gioventù americana dei suoi tempi (per non parlare di quella di oggi). Internet pullula delle più strane teorie “cospirative” nei confronti di Disney, cui non si perdona di essere stato uno dei più fieri sostenitori e finanziatori della destra americana, ed esiste una folta saggistica in cui si arriva ad affermare che sia stato un satanista, intento a predisporre gli

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pare, Biancaneve è un’isola chiara in un mare di buio. Per gli alchimisti questa fase è detta Notte Nera dell’Anima o Opera al nero: la profonda disperazione che ci coglie quando ci rendiamo conto di esser vissuti, fino a quel momento, del tutto inutilmente, destinati soltanto a scomparire. Mutatis mutandis, è la disperazione che coglie Dante quando si scopre nella “selva oscura” e comprende di aver smarrito la “retta via” verso la trascendenza. Quella selva che Biancaneve è costretta ad attraversare, fuggendo alla cieca. Non ha un Virgilio a guidarla e scappa via, finché non cade a terra, esausta. Allora le si raccolgono intorno gli animaletti del bosco, che vegliano su di lei, la confortano e infine la conducono alla casetta dei sette nani. Anche qui, il simbolismo è palese. In questa seconda fase, che gli alchimisti chiamano Opera al bianco, si deve fare chiarezza dentro di sé. Bisogna portare alla luce (al bianco) tutte le istintualità positive, tutte le pulsioni verso l’alto, le indicazioni della “retta via” che, ignote a noi stessi, sono nascoste nel nostro profondo, nei recessi della “selva oscura”, vista come lo strato infimo del nostro inconscio, se vogliamo usare un’interpretazione di tipo junghiano. Non dobbiamo cercarle deliberatamente: come le creaturine del bosco, saranno loro a presentarsi a noi, con un moto spontaneo. Dobbiamo solo riconoscerle e accoglierle: ci guideranno verso un approdo sicuro. Quest’ultimo è la casetta dei nani, creature che scavano nelle gallerie di una miniera per estrarne diamanti, traendo la luce dal buio. Il senso di questa metafora è talmente ovvio che non vale la pena di dilungarvisi. Si può tuttavia sottolineare che i nani, per loro natura, sono forze ctonie, che dimorano e agiscono nel profondo. Sono ambivalenti: possono trascinarci verso il basso, in gallerie sempre più interne ed oscure, se non abbiamo fatto chiarezza entro noi stessi; oppure possono essere gli strumenti chiave della nostra elevazione, se sappiamo catturarne la benevolenza. I nani illuminano il buio delle gallerie con il fuoco rosso delle torce: saperli gestire è la terza fase, l’Opera al rosso. Essi sono le forze agenti che guidano il nostro psichismo profondo. L’alchimista deve prendere contatto con esse, comprenderne la natura e utilizzarle per emergere dalla miniera. Nel film Disney ogni nano ha una sua caratteristica: uno è saggio, l’altro è iracondo, un terzo è gioviale, un altro cupo e così via. Chi conosce il simbolismo magico non tarderà a vedere in ciascuno di essi l’aspetto di una delle sette forze cosmiche, rappresentate anche dalle sette divinità e dai sette pianeti, che secondo l’antica cosmologia tradizionale governano l’universo. Queste forze permeano l’Essere, tanto nella sua struttura generale quanto in ogni sua più piccola partizione. Si trovano anche, ovviamente, nell’uomo, Microcosmo in cui si stempera e sintetizza il Macrocosmo. L’alchimista, il mago, deve individuarle entro di sé grazie alla rossa luce del fuoco interiore e imparare a rapportarvisi. In altre parole, deve “ballare con loro”, come fa Biancaneve coi nani. A questo punto l’aspetta una prova. Biancaneve è sola nella casetta e si sente al sicuro, protetta dagli animali della foresta, tranquillizzata dal rapporto con i suoi nuovi amici (che peraltro le avevano raccomandato di “non aprire a nessuno”). Le si presenta Grimilde, trasformatasi in una vecchietta dall’aspetto non certo piacevole ma innocuo, offrendole un bel frutto profumato: una mela. La tentazione è forte (sul simbolismo della mela come metafora della tentazione non mi pare il caso

imberbi fruitori dei suoi film ad accogliere l’avvento dell’Anticristo. Tutte stupidaggini, ovviamente. L’unica cosa accertata è che, da adolescente, s’iscrisse a un’associazione studentesca di filiazione massonica intitolata a Gilles de Molay, l’ultimo Gran Maestro dei Templari, che morì martire sul rogo. In rete circola anche un cartoon in cui si vede Topolino inaugurare i lavori di una rusticana “loggia de Molay” in cui sono esibiti simboli massonici come la croce templare e l’acacia. Andare a cercare la verità in documenti di difficile reperimento e dubbia autenticità è, tutto sommato, inutile. A mio modo di vedere, per capire un artista (ed è indubbio che Disney, a suo modo, lo fosse) più che studiare il suo curriculum, palese o nascosto, è opportuno sviscerare i significati, palesi e nascosti, delle sue opere. Mi è parso significativo, in questo senso, andare a vedere quali conclusioni possano trarsi dall’esame, dal punto di vista del simbolismo tradizionale, dell’opera sulla quale costruì la sua fama e la cui lavorazione, secondo i biografi, seguì con maniacale attenzione, ovvero Snow White and the Seven Dwarfs, in italiano Biancaneve e i sette nani. Cominciamo dall’aspetto della protagonista, che è piuttosto anomalo rispetto alle altre eroine disneyane: contravvenendo alle convenzioni di Hollywood, infatti, ha i capelli neri. Nel cinema americano, specie nella prima metà del secolo scorso e in buona misura fino ad oggi, le eroine belle e virtuose erano bionde, mentre le maliarde perverse erano brune. La chioma dell’innocente e dolcissima Biancaneve è insolitamente corvina e rappresenta un unicum nella produzione disneyana: Cenerentola è bionda, la Bella addormentata nel bosco è bionda, Alice è bionda, la Wendy di Peter Pan è bionda, la Sirenetta ha i capelli rossi, la protagonista de La Bella e la Bestia è castana. Si è trattato di una scelta audace, che rischiava di suscitare un moto di antipatia nei piccoli spettatori, abituati ad associare il nero alla malvagità, tanto più che questo è anche il colore che connota la perfida Grimilde, annullando così il contrasto immediato e percepibile fra nero/male e biondo/bene. Per capire le ragioni della scelta, bisogna rifarsi all’antefatto della fiaba, per come narrato dai fratelli Grimm. La vera madre di Biancaneve, anche lei regina, mentre sta ricamando ai margini di una foresta innevata, si punge un dito. Vedendo la goccia di sangue sulla neve depositata fra i tronchi anneriti dall’inverno, esprime il desiderio di avere una figlia con i capelli neri come l’ebano, la pelle bianca come la neve e le labbra rosse come il sangue. Viene esaudita, ma muore nel darla alla luce. Su questo antefatto – che, se non esplicitato, non permette di capire molte cose, compreso il nome della protagonista – Disney non si dilunga, ma accoglie, a suo rischio, la versione dei Grimm. Decisione singolare, se si pensa che in altri casi non ha esitato a modificare, anche profondamente, la trama delle fiabe da cui aveva tratto ispirazione. Ma anche scelta obbligata, se ci riferiamo al simbolismo tradizionale: i tre colori che caratterizzano Biancaneve sono infatti basilari nell’operazione alchemica che mira alla trasmutazione del Sé: l’Opera al nero, l’Opera al bianco e l’Opera al rosso. Partendo da ciò, ci si rende conto che tutto il film, cioè la vicenda di Biancaneve, è la metafora di una trasmutazione alchemica. S’inizia con il presagio di morte, ovvero l’intenzione di uccidere Biancaneve da parte della regina. Se fate caso alle sequenze del film, le tonalità cromatiche (fattore al quale Disney prestava estrema attenzione) di questa sequenza sono tutte impostate sul cupo, sul tenebroso. Quando com-

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teressante notare come la conclusione sia del tutto difforme da quella della fiaba, nella versione dei Grimm. Nel loro testo il Principe Azzurro non compare all’inizio, ma soltanto alla fine, e il suo bacio non ha alcuna funzione salvifica: semplicemente, mentre viene trasportato il sarcofago di Biancaneve, uno dei portatori inciampa in una radice, la bara s’inclina e dalla bocca della fanciulla esce il morso della mela avvelenata, facendola rivivere. Il principe la vede bellissima, e la sposa. Punto. Questo mutamento cruciale della trama, che ne approfondisce sostanzialmente il significato, potrebbe essere un indizio a favore di quanti sostengono come Disney possedesse vaste conoscenze in campo esoterico. Ma potrebbe anche essere soltanto un inconsapevole colpo di genio degli sceneggiatori. D’altra parte, ci sono ulteriori indizi. Ne cito soltanto due, fra i molti che mi sono divertito a individuare, per non fare di questo modesto scritto un trattato sul simbolismo esoterico. Il primo è la descrizione dello specchio magico di Grimilde. Se nella fiaba è semplicemente uno specchio parlante, nel film è invece uno strumento per evocare, con un rito magico, uno spirito, di cui s’intravvedono le fattezze, che fornisce responsi al suo evocatore. Questa procedura, illustrata da diversi grimori come la Chiave di Salomone, consisteva nel richiamare dal suo remoto intermundio un’entità disincarnata per interrogarla, costringendola non in un cerchio magico ma in uno specchio o un cristallo. Non sono in molti a conoscere una simile procedura e mi sorprende che negli anni Trenta vi fosse qualcuno a Hollywood che ne sapesse qualcosa. Il secondo indizio è la palese identità tracciata fra Grimilde e Biancaneve. Le due figure, in realtà, sono facce opposte della stessa persona, la polarità positiva e quella negativa di un’unica individualità. Ognuno di noi è un mix di due identità diverse, e la personalità che si manifesta spesso varia a seconda che prevalga l’una o l’altra. Compito del mago che agisce su se stesso è valorizzare al massimo la polarità positiva, traendo

di spender parole, avendoci già pensato il Padreterno). Poiché la natura umana è debole, se le prove che ha superato non sono state sufficienti a rafforzarla adeguatamente, è fatale che ceda alla tentazione, ovvero al richiamo della vita terrena, simboleggiata dal gusto di un frutto delizioso (i frutti nascono dalla terra). Biancaneve apre la porta, spezzando il guscio protettivo creato intorno alla sua anima, e morde la mela, che è avvelenata. Muore. È il destino di chi s’incammina lungo la via della trascendenza senza essere ancora sufficientemente forte per sovrastare tutti gli ostacoli: si tratta di un iter impervio, come ben sa chi lo pratica. Molti sono i chiamati, pochi gli eletti. In Alchimia, la prova fallita da Biancaneve si chiama uccisione dell’Etiope. L’Etiope è l’Uomo Nero, simbolo della nostra metà oscura, che si ribella al tentativo d’annullamento e lotta per riottenere il predominio. Jung lo chiamava Ombra, il doppio oscuro di noi stessi: celato nel profondo dell’inconscio, manovra invisibili fili che determinano il nostro comportamento. In pochi, come s’è detto, sono in grado di fronteggiarlo: Biancaneve cede, senza neppure tentar di resistere alla lusinga della strega vestita di nero. A questo punto, però, la fiaba presenta una svolta improvvisa e straordinaria. La fanciulla è chiusa in una bara di cristallo, con intorno i nani e le creature del bosco, che la piangono. Si avvicina il Principe Azzurro, scomparso all’inizio del film, che la bacia, restituendola alla vita. Si chiude così un cerchio meraviglioso. La vicenda inizia con Biancaneve che, trasfigurata dall’amore per il principe, acquisisce la suprema bellezza, ovvero il principale attributo, come asserì Platone, anzi l’identificazione stessa, di Dio. Ed è quello stesso amore a ridarle la vita, superando anche la debolezza umana. Letto in questa chiave, cui ho appena accennato – ci sarebbero da scrivere centinaia di pagine a proposito – il film di Disney è una narrazione iniziatica che regge (e, a mio parere, supera) il confronto con le Nozze Chimiche. È abbastanza in-

“ Letto in questa chiave, cui ho appena accennato, «Biancaneve e i sette nani» di Disney è una narrazione iniziatica che regge (e, a mio parere, supera) il confronto con le Nozze Chimiche di Christian Rosenkreutz ” 21

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ti a una sala per conferenze a New York, vide con stupore che era in programma una dissertazione sul suo racconto, da parte di uno stimato professore di letteratura tedesco. Entrò senza farsi riconoscere e ascoltò la lunga esposizione dell’accademico, che illustrò una serie di significati, simbologie, metafore e conclusioni che si traevano dal testo. Alla fine Asimov si avvicinò al professore, gli rivelò di essere l’autore della storia e gli disse che la sua conferenza era tutta sbagliata. «E perché mai?» chiese. «Perché nessuna delle cose che ha detto mi sono mai sognato di pensarla, mentre scrivevo il racconto» ribatté lui. «Giovanotto» gli rispose il professore, «mi spieghi perché mai lei ritenga di conoscere tutti i significati inerenti a quel che ha scritto per il solo fatto di averlo scritto.» All’inizio Asimov prese la risposta come una battuta. Poi, ragionandoci su, si rese conto che lo stimato professore tedesco aveva ragione: buona parte dell’elaborazione letteraria avviene a livello inconscio. L’autore non sa da dove gli vengano le idee, sa soltanto che gli vengono. Lavorare sui simboli significa appunto portare alla luce associazioni di significati elaborate inconsapevolmente. E nelle profondità di noi stessi ci sono cose di cui non sospettiamo nemmeno l’esistenza. Nel corso di una delle mie lunghe conversazioni telefoniche transoceaniche con Asimov richiamai l’episodio e gli chiesi se fosse ancora dello stesso parere. Mi rispose che lo era più che mai, anche perché ogni volta che rileggeva un suo testo per inserirlo in un’antologia vi scopriva significati che lui stesso non sospettava. È proprio per questo motivo, gli dissi, che gli Antichi avevano preposto un dio alla creazione artistica: Apollo, che è anche il dio della rivelazione profetica, quello che parla attraversi i vati. Mi rispose che, a lui, del “vate” non glielo aveva mai dato nessuno, e ci facemmo una bella risata. Ovviamente, neanche Disney era un vate. Ma credo profondamente che dalla sua opera, come da quella di molti altri artisti, si possa cogliere una scintilla della luce di Apollo, con buona pace dei benpensanti.

da quella negativa soltanto i tratti che servono ai suoi scopi (o viceversa, se ci si sente più attratti dal male che dal bene). Ci sono molte procedure che indicano come far ciò, tutte piuttosto complesse, descritte nei trattati sullo psichismo magico. Sarà un caso, ma nel film non c’è alcuna scena nella quale si vedano insieme Grimilde e Biancaneve: quando compare l’una, l’altra svanisce. L’unica eccezione è la scena in cui Grimilde offre a Biancaneve la mela avvelenata: ebbene, in quel caso non è più la regina ma la strega cattiva, ovvero la quintessenza della polarità negativa, estrinsecatasi completamente grazie a un’operazione magica dal mix Grimilde-Biancaneve. Non so, francamente, se quanto ho scritto porti acqua al mulino di quanti sostengono la tesi del Disney esoterista. Per la verità, non era neanche mia intenzione andare ad accertarlo: che cosa fosse Disney non m’interessa per nulla, m’interessa soltanto ciò che si può leggere in filigrana nella sua opera. A questo proposito vorrei chiudere con una piccola osservazione personale. So benissimo, anche perché mi è stato rimproverato molte volte da parte di critici benpensanti, che questo mio modo di analizzare i testi, fondato su simbolismi arcaici come quelli dell’alchimia e della teurgia, dia l’impressione di un esercizio da acchiappanuvole, perché vuol trarre significati particolari da forme che si prestano a un’infinità d’interpretazioni, quasi tutti completamente estranei alle intenzioni e alla cultura degli autori. Risponderò citando uno fra i miei più cari e compianti amici, il grande scrittore e divulgatore Isaac Asimov, con il quale ho avuto un continuo rapporto epistolare e telefonico durato vent’anni e più, quando mi occupavo di varie riviste di divulgazione scientifica come «Test/Scienza 2000», «Teknos» e «Mysteri», per le quali lui scriveva in ogni numero un articolo originale. Nel primo volume della sua biografia, intitolato In Memory Yet Green, racconta un episodio. Ancora giovane, aveva acquisito una certa fama per aver scritto uno splendido racconto di fantascienza intitolato Nightfall. Un giorno, passando davan-

“ I nani illuminano il buio con le torce: saperli gestire è la terza fase, l’Opera al rosso. Essi sono le forze che guidano il nostro psichismo profondo. L’alchimista deve utilizzarle per riemergere dalle tenebre ”

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Quando Bradbury se la prese con Dio di Andrea Scarabelli

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a notte del 13 novembre 1940 va in scena la première di un film destinato a mutare per sempre la percezione della Settima Arte, ad opera di un artista il cui nome sfida le lobbies che tiranneggiano su Hollywood. Lui è Walt Disney, la pellicola Fantasia, realizzata insieme al geniale Leopold Stokowski, rimasto talmente impressionato dall’Apprendista stregone da volerlo inizialmente dirigere gratis et amore dei1. La ricezione è tiepida: troppa avanguardia, troppa musica, troppo poco intrattenimento… Quella wagneriana «opera d’arte totale» ( John Canemaker) sembra non generare molto entusiasmo nella platea del Colony Theatre di Broadway. Con una luminosa eccezione: Ray Bradbury, che manca alla prima ma il giorno dopo si vede tutto quel brillante «esercizio intellettuale»2, esperienza che ripeterà venti volte, nelle settimane successive. Sarà lui stesso a confessare, nel corso di un’intervi-

sta: «Ricordo ancora quella serata come, probabilmente, la più bella della mia vita»3. Se il carattere rivoluzionario di Fantasia coglie impreparati pubblico e critici, il momento storico non aiuta di certo. Sono gli anni della Seconda Guerra Mondiale: l’America è trascinata nel conflitto e il gelo di una realtà disumana violenta le atmosfere oniriche del film. Apprendisti stregoni ben più temibili di quello disneyano, matrimonio del Zauberlehling di Goethe4 e della sinfonia di Paul Dukas, si preparano a gettare il mondo in un carnaio. Ed è pure probabile che alla notte di Valpurga musicata da Musorgskij non segua un’aurora ristorata dal misticismo dell’Ave Maria schubertiana. Sentinella dei diritti dell’immaginazione su una realtà degradata e degradante, Bradbury è al settimo cielo. Non è la prima volta che il genio di Disney – «la cui influenza si farà sentire per secoli»5, come non avrà timore di dichiarare – lo strega. Sfidando

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ni, era convinto che fosse lo spazio il luogo naturale dell’uomo moderno. Nemico del disfattismo dei giornalisti nei confronti della NASA, auspicava la realizzazione di prodotti culturali che permettessero ai suoi connazionali di familiarizzare di più con quell’ente e con la frontiera – tutta interiore – dello spazio. E Disney, quasi come in un dialogo a distanza su frequenze diverse da quelle umane, l’aveva preso in parola ancor prima di conoscerlo, lavorando con Wernher von Braun e realizzando pellicole sul programma spaziale degli USA: Man in Space e Man and the Moon, del 1955, seguiti due anni dopo da Mars and Beyond. Tutti indizi che ci conducono a individuare una parentela spirituale tra i due narratori di storie, nemici del realismo a tutti costi e alfieri dell’immaginazione creatrice, il cui incontro, di cui abbiamo parlato, si conclude con un’ora di ritardo. Ray ha provato, invano, a ricordare a Walt il suo appuntamento fissato per le 14, ma il creatore di Topolino è un torrente di parole. Quando la segretaria lo trafigge con un’occhiataccia, l’autore delle Cronache addita il suo ospite: è colpa sua. Colpa di Walt Disney. I mesi successivi vedono Bradbury impegnato in una lunga serie di pranzi con i creatori dei film Disney e della stessa Disneyland: «Tutti loro sapevano che avevo scritto a innumerevoli periodici, difendendo il Regno Magico contro i gelidi, marmorei intellettuali di New York»11. Probabilmente avevano letto su «The Nation» la sua risposta indignata all’articolo di Julian Halevy del giugno 1958, dal titolo programmatico Disneyland and Las Vegas. Halevy li aveva accostati, vedendovi l’espressione della peggiore sottocultura americana. Bradbury, che aveva visitato con Charles Laughton il Magic Kingdom, «la fantasia personale di Walt Disney» ( John Landis)12, «un parco divertimenti, un’esposizione, una città da Mille e una Notte, una metropoli del futuro»13, «un luogo colmo di bellezza e magia»14 (qui è Disney stesso a parlare), aveva dato in escandescenze: accostare un regno fiabesco che libera la parte migliore dell’uomo, dominio di «fantastiche escursioni nei bisogni di una civiltà», a «un girone dell’Inferno di Dante»15! Non è con l’intelletto che si comprendono queste cose, ma con l’arte. Così la pensava Bradbury, che giunse addirittura a citare, in una delle sue poesie più belle, la massima nietzschiana che vede nell’arte un antidoto alla prigionia della razionalità: «Conosci il reale? Cadi morto. / Così parlò Nietzsche. / Abbiamo le nostre arti per non morire di verità»16. D’altra parte, professionisti della verità, accademici e giornalisti non sono mai andati molto a genio neppure a Walt, stando a quanto disse a Oriana Fallaci (che fu, tra l’altro, amica e ammiratrice anche di Bradbury) pochi mesi prima di morire: «Ah, io non posso soffrire gli intellettuali. Sono pericolosi; vivono fuori dalla natura o non ne tengono conto. Io, tutte le volte che parlo con un intellettuale, sento il bisogno irresistibile di scaraventarlo in mezzo alla giungla […] perché si tolga dal capo le sue stupide ideologie»17. Evidentemente, i progressisti non erano gli interlocutori prediletti da Ray e Walt. Dopo quell’incontro, ad ogni modo, la presenza di Bradbury negli Studios si fa costante. Contribuisce con idee, suggerimenti e proposte ai progetti legati a Disneyland e all’EPCOT. Walt gli è riconoscente, vorrebbe ricambiare: Bradbury coglie la palla al balzo e gli domanda la chiave d’accesso agli archivi Disney. Un azzardo imperdonabile. Eppure, Walt alza la cornetta e compone un numero: «Aprite l’archivio. Sto mandandovi

la diffidenza dei genitori, giovanissimo aveva visto «in un buio teatro di Waukegan» Steamboat Willie, il primo film sonoro della Disney (quello con Topolino che fischietta sul Ferryboat) e poi La danza degli scheletri, la prima delle Silly Symphonies, una modernissima danse macabre dai risvolti comici: «Fu un colpo di fulmine durato cinque minuti, che schiacciò l’anima del mio corpo di bambino di otto anni e me la restituì svuotata, brillante, pulita, ristrutturata, iperventilata, nuova»6. Vide e rivide danzare quegli scheletri – gli stessi che avrebbero popolato molti dei suoi racconti, come Skeleton, del 19457 – almeno una volta al giorno, nelle settimane successive. Nulla di strano, dato che vide Pinocchio otto volte e Biancaneve e i sette nani dodici, nei primi dieci giorni di proiezione (pagando solo due ingressi al cinema, tra l’altro, come confessò, con il candore di uno dei personaggi della sua Estate incantata), non perdendosi nessuna delle avventure di Topolino, né le altre Symphonies. Inutile dirlo, s’iscrisse anche al club di Topolino, come tanti suoi coetanei. Quando viene annunciato Fantasia, Ray non sta più nella pelle. Come ricorderà nello scritto senza data The mouser, tutto dedicato a Walt, un giorno si pianta in mezzo alla strada, brandendo un fascio di copie dell’«Herald’s», edizione pomeridiana, alza un pugno verso il cielo ed esclama, rivolto a Dio: «Se mi fai metter sotto da un’auto prima che al cinema esca Fantasia, bada che ti troverai in grossi guai»8. Dio sembra non avere nulla da eccepire e lo scrittore può assistere alle circonvoluzioni musicali di Beethoven, Bach e Dukas che accompagnano la danza di satiri, ninfe e altre creature del mito e dell’immaginario. Non è che la tappa di un lungo cammino, il cui obiettivo è un incontro con l’autore di quel capolavoro. Che avviene un ventennio dopo, precisamente nel 1963. Passeggiando per Beverly Hills, Bradbury intravede il padre di Topolino in persona, sommerso da una montagna di pacchi e fiocchi. Rompe gli indugi, correndogli incontro e chiedendogli se conosca i suoi libri. Alla risposta affermativa segue la proposta di un pranzo. Che viene accordato… l’indomani! Bradbury stenta a crederci. I due s’incontrano e, divorando zuppe e insalate, si pronunciano in filippiche contro chi costruisce fiere universali per poi abbandonarle l’anno successivo; le esposizioni, il cui scopo non è solo economico ma soprattutto etico: «Sbalordirvi col passato al punto di farvi aggirare nel presente alla ricerca di un nuovo futuro»9. D’altra parte, di esposizioni ne sanno qualcosa tutti e due: l’autore delle Cronache marziane ha appena concluso la progettazione degli interni del padiglione degli Stati Uniti all’Esposizione Universale di New York, che si terrà l’anno dopo. Disney, invece, sta cimentandosi col progetto ambizioso di una città del domani, che non farà in tempo a vedere e che aprirà i battenti nel 1982 a Bay Lake, in Florida. L’EPCOT (Experimental Prototype Community of Tomorrow) è pensato come una fiera permanente che coniughi i costumi americani con avanguardia e tecnologia, a immagine e somiglianza di Disney, Giano bifronte tra passato e futuro10. Il padre di una Disneyland avvolta da un’aura mitica e fiabesca è anche l’ideatore di luoghi come Innoventions East e Innoventions West, Universe of Energy e Mission: SPACE. Senza dimenticare la sfera geodetica Spaceship Earth, alla cui progettazione parteciperà… Bradbury. È una ricostruzione della storia dell’umanità, dai primordi al futuro, dai dinosauri ai viaggi spaziali. I viaggi spaziali, antica ossessione di Ray e Walt. Il primo, avido lettore delle avventure di John Carter di Marte di Edgar Rice Burroughs e autore di uno dei più importanti cicli marzia-

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assessori “illuminati”? La risposta di Bradbury è chiarissima: «Disney. E io»23. Un sogno ad occhi aperti purtroppo rimasto tale, soffocato dall’incompetenza e dalla mancanza di educazione di certi contemporanei. Fine dell’estate. Il giorno della morte di Walt, a casa Bradbury giunge una telefonata. È un giornalista della Cbs Radio, cerca lo scrittore, vuole chiedergli di Walt. Ma Ray non c’è, risponde sua moglie: è con le sue figlie a Disneyland. Perché è nelle corde di Bradbury preferire le opere alle parole – e non c’è opera senza immaginazione. Ma il discorso vale anche per Walt, cui potrebbero idealmente essere destinati questi versi dell’autore delle Cronache marziane, un mantra dal sapore poundiano e dannunziano: «Fare è essere. / Aver fatto non è abbastanza; / Riempirti di attività – questo è il gioco. / Chiamarti ogni ora con quello che hai fatto»24. Ray non celebrerà Walt alla radio ma nel luogo incantato che questi ha creato. Per non lasciare che la realtà vinca sulla fantasia, per strappare un’ultima disperata promessa a Dio, per obbedire alle parole che accolgono i visitatori del Magic Kingdom: «Finché c’è immaginazione nel mondo, Disneyland non sarà mai completata».

Ray. Lasciategli prendere tutto quello che vuole»18. Apriti Sesamo: lo scrittore si precipita in quei sotterranei colmi di tesori e ne esce carico di fotogrammi, schizzi, bozzetti e acquerelli. Nei mesi successivi, con il benestare dell’amico si aggiudicherà materiali rarissimi, che faranno gola a collezionisti e amanti del genere (basti pensare che un solo fotogramma, con i nani di Biancaneve che si lavano le mani in un mastello, verrà acquistato da Spielberg per duecentomila dollari!). Ogni volta che torna a casa, si aspetta una lavata di capo dall’archivista, a porre termine alla sua estate incantata. Ma quella telefonata sembra non giungere mai. Nei pochi anni che vanno dal loro incontro alla morte di Walt i due hanno modo di confrontarsi su molte passioni comuni, in special modo l’edilizia e l’urbanistica. Bradbury fu sempre molto attento a questi aspetti, tanto che si batté per la costruzione di città a misura d’uomo, ben differenti da quelle disumanizzanti dell’America del suo – e del nostro – tempo. Per smaltire il traffico di Los Angeles, ad esempio, propose di adottare il sistema delle “navette-passeggeri” di Disneyland: «Sarebbero davvero molto utili nelle grandi aree di moltissime delle nostre città»19. Congiuntamente, come ricorda il già citato John Landis, i due ingaggiarono una campagna pubblicistica «a favore di una monorotaia sopraelevata da costruire al centro del nostro immenso sistema di freeways»20, progetto che – naturalmente – non ebbe seguito, una volta giunto negli uffici del potere di Los Angeles. Cosa che non stupì Bradbury, né tantomeno, com’è facile supporre, lo stesso Disney. Eppure, piuttosto che i «buffoni» e gli «idioti» che riempiono i consigli comunali, tuona infuriato Bradbury, bisognerebbe seguire i consigli del creatore di Mickey Mouse, «il più grande, brillante e creativo urbanista del mondo», superiore a ogni Le Corbusier e Frank Lloyd Wright. Disney, «che ha iniziato a risolvere dei problemi a livello pratico, veniva deriso dalla gente soltanto perché era un famoso uomo di spettacolo invece che un grande artista; eppure, rifletteva in modo molto raffinato sugli esseri umani». La conclusione di Bradbury e l’aneddoto riportato (che questi riferì al biografo ufficiale di Disney, Richard Shickel, e che costituì la conclusione del suo The Disney version, del 1968) sono straordinari: «Mi piacerebbe che fosse Walt Disney il sindaco di Los Angeles. Una volta glielo domandai e mi rispose: “Perché dovrei diventare sindaco, se sono già re?”. Fu una risposta bellissima»21. Monarca illuminato di una Disneyland, che, come Bradbury dirà in un’altra intervista riprendendo quanto già scritto sulle colonne di «The Nation», è molto più di un centro ricreativo: «Disney è il mio eroe […]; ha creato un modello, costituito da Disneyland, Disney World ed EPCOT. Sono tutti ambienti sociali. […] Forniscono degli esempi di come vivere. Ci sono alberi, fiori, fontane e laghetti, posti dove sedersi e mangiare: in questo modo, è più facile uscire di casa»22. Questa nuova forma mentis, secondo il nostro «marziano», avrebbe inoltre il merito di valorizzare le ricchezze locali, non costruendo città omologate e tutte uguali, colate di cemento a uniformare il paesaggio, ma integrando natura e edilizia. Prima di affrontare questa rivoluzione copernicana dell’urbanistica, continua Bradbury, occorrerebbe però riorganizzare completamente tutti i consigli comunali, insediandovi persone provenienti dal luogo stesso, in grado di valorizzarne la ricchezza paesaggistica e l’estetica. A chi, tuttavia, affidare questa riforma politica? Chi dovrebbe occuparsi di selezionare questa casta di

1. Cfr. Marc Eliot, Il principe nero di Hollywood, Bompiani, Milano 1994, p. 157. 2. Ivi, p. 159. 3. Ray Bradbury, Siamo noi i marziani, Edizioni Bietti, Milano 2014, p. 61. 4. Tr. it.: L’apprendista stregone, in Johann Wolfgang Goethe, Cento poesie, Einaudi, Torino 2011. 5. Ray Bradbury, The Machine-Tooled Happyland, in «Holidays», ottobre 1965. 6. Ray Bradbury, Il toparo, in Troppo lontani dalle stelle, Mondadori, Milano 2008, p. 96. 7. Tr. it.: Lo scheletro, in Ray Bradbury, Paese d’ottobre, Mondadori, Milano 2001. 8. Ray Bradbury, Il toparo, cit., p. 97. 9. Ivi, p. 98. 10. Sul progetto di EPCOT cfr. Michael Barrier, The Animated Man. A life of Walt Disney, University of California Press, Berkeley 2008, pp. 307-312. 11. Ray Bradbury, Il toparo, cit., p. 99. 12. Cit. in Mariuccia Ciotta, Walt Disney. Prima stella a sinistra, Bompiani, Milano 2005, p. 130. 13. Cit. in Michael Barrier, op. cit., pp. 267-268. 14. Walt Disney Make-Believe Land Project Planned Here, in «Burbank Daily Review», 27 marzo 1952. 15. Ray Bradbury, The Machine-Tooled Happyland, cit. 16. Ray Bradbury, Abbiamo le nostre arti per non morire di verità, in Lo zen nell’arte della scrittura, DeriveApprodi, Roma 2000, p. 123. 17. Ho speso miliardi per costruire il Lincoln che parla e si muove. Oriana Fallaci interroga Walt Disney, in «L’Europeo», giugno 1966. 18. Ray Bradbury, Il toparo, cit., p. 100. 19. Ray Bradbury, Siamo noi i marziani, cit., p. 99. 20. John Landis, L’utopia di Disney, in Mariuccia Ciotta, op. cit., p. 9. 21. Ray Bradbury, Siamo noi i marziani, cit., p. 99. 22. Ivi, p. 188. 23. Ivi, p. 192. 24. Ray Bradbury, Fare è essere, in Lo zen nell’arte della scrittura, cit., p. 122.

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Cattive, irresistibili di Ilaria Floreano

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iancaneve che canta tutto il giorno, Cenerentola col suo corteo di topini adoranti, Aurora dai biondi capelli: le principesse del primo ventennio di fiabe Disney, si sa, sono stucchevoli (come le voci italiane scelte per doppiarle quando cantano). Al punto che, nel 2007, in Shrek 3 la Dreamworks le “vendica”, per contrappasso caricaturale, facendone irascibili guerriere ninja. Se quest’ultima rielaborazione assume sfumature femministe (le principesse sono indipendenti, fanno squadra, se ne fregano di Principe Azzurro, un irrimediabile cretino pure mammone), il trattamento disneyano potrebbe apparire – al netto delle considerazioni sulla struttura archetipica dei personaggi fiabeschi – piuttosto misogino: Biancaneve, Cenerentola e Aurora sono sottomesse e graziose, prede cedevoli di principi assertivi, inclini all’innamoramento fulmineo, buone. Nessuna sfumatura è loro concessa: non si

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crea pozioni magiche, semplicemente si maschera «da vecchia venditrice ambulante» e tenta di soffocare Biancaneve con un nastro, poi di avvelenarla con un pettine, infine con la mela. La fiaba condanna impietosamente la sua freddezza di cobra – «Il suo cuore invidioso ebbe pace, per quanto un cuore invidioso possa trovarne» – imponendole una morte tremenda: Grimilde deve assistere al matrimonio di Biancaneve col principe e camminare indossando scarpe di ferro roventi fino a creparne. Filologi dell’epica medievale e della saga, i Grimm avevano già intuito come «la fiaba fosse non solo l’espressione di un gusto del tutto remoto dal quotidiano, ma soprattutto incarnasse la figura di un mondo giusto e coerente; fosse esempio e modello etico»2, al punto che l’insegnamento, archetipico e non “morale”, le risulta connaturale. In quanto storia simbolica, la fiaba riflette una struttura psicologica umana basilare, dunque universale, e i suoi personaggi, più che astratti, sono «immagini di processi archetipici alle quali manca il contesto umano, la vita reale individuale e concreta», come scrisse Marie-Louise von Franz3. Nei suoi primi film d’animazione Disney osserva con rigore i princípi simbolici, tanto che, fino a La bella addormentata nel bosco (1959), le sue “cattive” non hanno nemmeno un nome: sono la “Regina Cattiva” e la “Matrigna”, punto. Cenerentola è una fiaba probabilmente originaria della Cina o addirittura dell’antico Egitto, di cui esistono centinaia di adattamenti. Per il suo dodicesimo classico Walt adotta la versione seicentesca di Charles Perrault, la meno sadica. Per l’autore francese le sorellastre «fecero tutto il possibile per far entrare il piede» nella scarpetta, «ma non vi riuscirono», riconoscono in Cenerentola la misteriosa gran dama del ballo, le si gettano ai piedi chiedendo perdono e vengono accolte a corte e maritate a nobiluomini (nella variante riportata dai Grimm una sorellastra si taglia la punta del piede e l’altra il tallone, entrambe ingannano il principe ma, lungo la strada verso il castello, vengono aggredite e accecate da due colombe). Ciò che più conta, però, è la scarsa pregnanza della Matrigna nella fiaba e l’assoluto dominio conferitole nel film. Se in Perrault, nella traduzione del 1910 di Verdinois qui considerata, della moglie si dice «che più superba non s’era mai vista» e che «non potea soffrire le doti della giovanetta, che rendevano ancor più odiose le sue figlie», per poi sparire a vantaggio delle sorellastre – avversarie invero assai blande –, per Disney la Matrigna diventa l’occasione di realizzare la prima, vera cattiva. Sebbene ancora priva di un nome (a differenza delle sorellastre, Anastasia e Genoveffa), è infatti una donna con precise caratteristiche fisiche e morali, calata in un contesto storico meno fiabesco di quello in cui si aggirava la Regina Cattiva. Per abbigliarla Disney s’ispira alla moda femminile fin de siècle (Perrault vestiva i suoi personaggi secondo quella francese del XVII secolo): la strizza in un corsetto che intuiamo essere di stecche di balena, le raccoglie i capelli in una pettinatura che risalta i ciuffi grigio più chiaro, anticipando di decenni il grey pride sdoganato dall’americana Anne Kreamer col best-seller Io non mi tingo. Di origini nobili, altéra e a tratti sarcastica come Maggie Smith in Downton Abbey, la Matrigna non alza volentieri la voce (le doppiatrici italiane delle cattive hanno sempre timbri bassi e suadenti), non perde mai la calma, con cinismo fa della figliastra una serva (Victor Hugo docet), ha intensi occhi verdi e si prodiga affinché le sue «bambine» quasi zitelle vengano impalmate. Alla sua prima apparizione è poco

arrabbiano, al massimo piangono, non si ribellano, tutt’al più dormono. Quanto alle antagoniste, Regina Cattiva, Matrigna e Malefica, sono puri concentrati dei peggiori vizi femminili – vanità, ambizione, gelosia – ma anche tra i personaggi più amati di sempre dai cultori di Disney, seconde solo, forse, alle spalle, come Brontolo/Cucciolo, Fata Madrina e Serenella. È Disney a renderle tali: tolta Grimilde, nelle fiabe originarie le cattive sono poco più che comparse, funzioni drammaturgiche ascrivibili al rango di pretesto, che scompaiono al secondo paragrafo per non tornare mai più. Qui però il dibattito sul sessismo delle opere Disney, acceso e feroce negli anni Settanta, estremista in un senso o nell’altro, non ci interessa. Prendiamo piuttosto in considerazione tre fiabe che hanno per protagonista una principessa e le loro rispettive traduzioni disneyane, per osservare la trasformazione che le controparti negative subiscono nel passaggio all’animazione (in termini di accrescimento o diminuzione di cattiveria) e, una volta di più, riflettere sull’adagio nel bene non c’è romanzo (nel nostro caso, film): le streghe di Disney sembrano essere molto più affascinanti delle principesse. La prima “buona” a fare la sua comparsa sul grande schermo è, nel 1937, Biancaneve in Biancaneve e i sette nani: caschetto cotonato nero corvino, bocca a cuore, semi-gorgiera inamidata e mantello sollevato con vezzosa leggiadrìa, è una principessa (anche del kitsch) che, perso il padre all’improvviso, accetta serafica le angherie della matrigna. La Regina Cattiva (il nome Grimilde mai viene pronunciato nella versione disneyana) è una strega in cui arde il demone della vanità, pronta a uccidere chi la superi in bellezza. Risparmiata dal cacciatore, Biancaneve trova rifugio presso i sette nani, che da freak perturbanti (nella fiaba la fanciulla si spaventa nel vederli, «ma essi si dimostrarono amichevoli») diventano, nelle mani degli animatori americani, buffi ometti – grandi lavoratori e pessimi casalinghi –, ciascuno dotato di una precisa connotazione. Ci sono il saggio, l’arrabbiato, il tenerone, il timido, e il loro nome coincide con le rispettive peculiarità “psicologiche”, secondo la regola della costruzione archetipica. Per realizzare il primo lungometraggio in cel animation della storia del cinema, il primo film d’animazione americano e il primo completamente a colori, Disney sceglie la settima versione di Schneewittchen, elaborata dai fratelli Grimm nel 1857: la più edulcorata e adatta ai bambini – anche se molto più cruenta di quella che spopolava al tempo a Broadway, cosa che gli procurò non poche critiche – in cui scompare la madre naturale afflitta da istinti infanticidi, è smorzato il desiderio cannibale di mangiare la bambina (tale è, nella fiaba, Biancaneve) e viene attenuata la tendenza necrofila del principe. Questi cambiamenti decisivi rendono conto della violenza della fiaba originale, che di fatto si mantiene ma in modo tale da non essere percepita: nel cartone animato la Regina Cattiva è prima molto bella ed è quasi incredibile possa nutrirsi del cuore di una ragazza, poi talmente brutta che non si vede l’ora scompaia1. Magra e sinuosa, fasciata da un abito viola e avvolta da un mantello nero cangiante (si immagina di velluto), ha sopracciglia perfette ad ala di gabbiano e occhi dimezzati: ricorda molto la Greta Garbo de La tentatrice (1926). Nella fiaba dei Grimm di lei si dice: «Ogni volta che incontrava Biancaneve il suo cuore si infiammava di rabbia […]. Orgoglio e invidia crebbero sempre più, come una gramigna nel cuore, finché non trovò più pace, né giorno, né notte». Non

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tradotta da Collodi4, le fate invitate al battesimo della figlia tanto cercata da Re e Regina sono sette (tredici per i Grimm), mentre sempre una è quella non invitata, che si vendica dell’affronto condannando la principessina a morire per la puntura d’un fuso5. Secondo Perrault questa fata è vecchia ed è stata dimenticata senza malizia «perché da cinquant’anni non usciva più dalla sua torre e tutti la credevano morta». Qual che sia il motivo della svista, la reazione resta la stessa: la fata si offende a morte e, pur essendosi sottratta alla compagnia degli altri per anni, non accetta che gli altri si siano dimenticati di lei. Scaglia una maledizione che solo l’intervento di una fata buona attenua, convertendo la condanna letale in sonno secolare. Nella fiaba, poi, l’intervento salvifico del principe non ha niente di eroico: dopo che, per anni, chiunque si sia avvicinato all’intrico di «arbusti, sterpi e pruneti» che proteggono il sonno della principessa è rimasto ineluttabilmente trafitto, trascorsi cent’anni al Principe (senza nome) basta infiammarsi al pensiero della bella dormiente e decidere di raggiungere il castello; lì giunto, «ecco che subito tutti […] i roveti si tirarono da parte, da se stessi, per lasciarlo passare». Tale risoluzione è apparsa così inconsistente a Perrault e compagni da suggerire l’aggiunta di una seconda conclusione: ormai sveglia, la Bella s’innamora del Principe, che decide di vivere con lei e farci due figli, senza dirlo ai genitori. Solo alla morte di suo padre il Principe esce allo scoperto: conduce la famiglia al cospetto della madre, discendente da una stirpe di orchi, e parte per la guerra. Presa da un impeto ancestrale, la suocera vorrebbe mangiare nuora e nipoti, che solo il buon cuore del cuoco salva. «Il tema classico della liberazione della principessa è seguito da quello, altrettanto tipico, della suocera crudele che perseguita la madre 6 e i figli» osserva la von Franz . Tutto questo in Disney non c’è: l’equilibrio narrativo viene raggiunto conferendo all’antagonista una presenza poderosa

più di un’ombra alla finestra che osserva minacciosa dall’alto, mentre accarezza voluttuosamente il gatto (la mente, per associazione anacronistica alla Petrolini, corre a Blofeld, l’arcinemico di James Bond: quando al cinema qualcuno accarezza un gatto difficilmente ha buone intenzioni, e infatti Disney fa del felino il contrappunto di ogni malazione della Matrigna, il suo servetto infame – e il perché i gatti al cinema siano tendenzialmente malvagi, con buona pace dei gattofili, sarebbe un altro interessante argomento di discussione). La madre di Anastasia e Genoveffa appartiene all’illustre galleria di arrampicatrici sociali, per sé e per procura, determinate fino alla spietatezza, espressioni ante litteram di sogni da media borghesia. È la progenitrice di tutte le ex reginette di bellezza o ex campionesse di pattinaggio che, a lustri o decenni di distanza, costringono le figlie a vincere nuovi concorsi e nuove gare, lasciando in eredità, deformata e deformante, la necessità di ricercare compulsivamente la perfezione estetica e il successo di pubblico (chimere postmoderne che in parte hanno sostituito il principe azzurro), con risultati che negli Stati Uniti sono spesso parossistici e più volte vengono messi a tema da Hollywood e dalla letteratura (vedi Sorella, mio unico amore di Joyce Carol Oates). A ogni azione di Cenerentola corrisponde una reazione della Matrigna: il confronto tra le due è serrato e costante come tra due pugili sul ring, con la differenza sostanziale che Cenerentola attua una strategia inconsapevole (la solita bontà, che si fa muro di gomma) e la Matrigna ai guantoni preferisce fazzolettini intrisi di essenze profumate. Nove anni dopo Cenerentola, Disney torna a saccheggiare Perrault per il suo sedicesimo lungometraggio, La bella addormentata nel bosco. Come nel precedente caso, assistiamo a una notevole metamorfosi dell’antagonista, che oltre a un nome acquista una propria carica seduttiva. Nella versione italiana,

“ La trasformazione che le controparti negative subiscono nel passaggio all’animazione in termini di accrescimento o diminuzione di cattiveria è fondamentale. Nel bene non c’è romanzo o film: le streghe Disney sembrano molto più affascinanti delle principesse ”

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Tale è il rilievo dei negativi (al cinema il fotogramma positivo è il complemento chimico del negativo) e tale l’evoluzione della tavola valoriale nell’epoca contemporanea che nei quattro film live action realizzati tra il 2012 e il 2015, ispirati alle tre fiabe qui considerate, le cattive Disney sono impersonate da dive che da anni accendono le fantasie degli spettatori, in un grandioso ribaltamento che vede le bellissime interpretare le cattive e le buone affidate ad attrici carine. Julia Roberts e Charlize Theron sono le Regine Cattive rispettivamente in Biancaneve e i sette nani di Tarsem Singh e Biancaneve e il cacciatore di Rupert Sanders. Cate Blanchett è stata scelta da Kenneth Branagh come Matrigna di Cenerentola. Nel caso della Bella Addormentata, tale è il carisma di Malefica che per la sua versione live action si è deciso di venire allo scoperto e manifestarne la superiorità con uno spin-off ad hoc: in Maleficent Angelina Jolie, alias Malefica, è la protagonista della storia (la strega offesa ha acquistato un titolo, dopo il nome). Roberts, Theron, Blanchett e Jolie sono ciascuna, singolarmente presa, archetipo di dolcezza, bellezza, fascino ed erotismo (sembrerebbero i doni delle fatine al battesimo di Aurora): il fatto che proprio loro incarnino le cattive non può essere questione meramente anagrafica. Nella bifronte Hollywood si perpetua insomma l’idea che la cattiva sia più intrigante della buona. Pazienza se farà sempre una brutta fine. Si consolerà dominando l’immaginario collettivo.

e facendo del Principe (Filippo) non più il salvatore arrivato casualmente al momento giusto, ma un personaggio con una propria dignità che si innamora di Aurora quando lei è ancora sveglia e, per salvarla, deve affrontare rovi tremebondi e un drago sputafiamme, armato solo di spada e coraggio. Nella Bella addormentata di Disney tutti i personaggi hanno un nome e precise caratteristiche psicologiche. Così Malefica non è una vecchia fata inacidita, bensì una strega magra e lunatica (una luciferina fata caduta). Ha la pelle verdognola ma liscia, lineamenti marcati ma belli, è truccata con cura. Coperta da un lungo mantello nero che ne esalta l’altezza, indossa un copricapo biforcuto dagli inquietanti echi satanici, è assistita da un corvaccio e uno stuolo di maiali su due zampe le cui feste ricordano sabba medievali e notti di Valpurga, vive arroccata in un castello che cade a pezzi, incede maestosa poggiandosi su un alto scettro magico, all’indice porta un anello grande e rotondo di ossidiana che Bette Davis avrebbe apprezzato. Rispetto a Biancaneve e Cenerentola, nel 1959 Disney non ha paura di spingere sui toni scuri: le sequenze al castello di Malefica, l’aggressione di Filippo nella capanna nel bosco, la salita lungo la scala a chiocciola di Aurora ipnotizzata (esempio di cinema in 4D: si sente il freddo quando il fuoco si trasforma nel malefico bagliore verdastro che la condurrà all’arcolaio) e la battaglia finale tra il principe e la strega-drago contengono accenti di tensione, violenza e pericolo inediti. Per la prima volta si accoglie nella narrazione anche l’aspetto oscuro intrinseco a tutte le fiabe che trattano di un complesso materno negativo7, prima dell’edulcorazione imposta dal marketing a metà del XIX secolo. La storia della ragazza benedetta da alcune figure materne e maledetta da una di loro richiama «il mito di Core, la cui scomparsa non è dovuta alla madre Demetra: costei è una figura dall’aspetto duplice e variabile, è la dea della fecondità, assiste le donne partorienti […] ma, dopo aver perduto sua figlia, diventa una divinità della vendetta e del dolore. […] Se prendiamo in considerazione il caso di queste antiche deemadri che odiavano le loro incarnazioni umane, notiamo che il conflitto può caratterizzarsi nel modo seguente: le dee […] non fanno che seguire le loro reazioni emotive elementari»8. Malefica asseconda una reazione elementare, e Disney asseconda Malefica dando spazio alla sua cattiveria, rendendola sublime in senso romantico: è la cattiveria della Madre (Natura). La calma con cui le buone – tutte orfane o con madri dal peso ininfluente (Aurora nasce «miracolosamente») – accolgono le vessazioni delle cattive (sostitute delle madri naturali che, in origine, danno la vita e vorrebbero toglierla) assume così un contorno diverso: chiosando ancora la von Franz, se la madre muore, la figlia prende simbolicamente coscienza dell’impossibilità di identificarsi con lei, nonostante la permanenza della relazione positiva essenziale. «La morte della madre è l’inizio del processo d’individuazione» di junghiana memoria: «La figlia desidera diventare un essere femminile positivo, ma in modo personale»9 e ciò implica l’obbligo di passare attraverso tutte le difficoltà di questo ritrovamento (le matrigne, le streghe, i sonni eterni). Per definirsi, la donna deve riconoscere la propria debolezza ed entrare in conflitto. È il grande problema della psicologia femminile: come la madre-mantide narrata da Irène Némirovsky in Jezabel nel 1936, Malefica, la Matrigna e la Regina Cattiva sono necessarie ad Aurora, Cenerentola e Biancaneve per esistere. La luce si staglia sul buio.

1. E la potente immagine del cuore mangiato riecheggia tra secoli e nazioni, fino a tornare nel film di Matteo Garrone Il racconto dei racconti (2015), ispirato alle opere di Giambattista Basile. 2. Alex Voglino, Alle radici della fiaba, in «Antarès», n. 9, Lune d’acciaio. I miti della fantascienza, Edizioni Bietti, Milano 2015, p. 24. 3. Marie-Louise von Franz, Il femminile nella fiaba, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 24. 4. Il nucleo narrativo della Bella addormentata è tra i più ricorrenti, sia in Oriente che in Occidente. In un episodio di Perceforest le donne che si chinano sulla culla della principessa portano i nomi delle dee Lucina, Temi e Venere. Ciò permette di far luce sulla Madre archetipica alla fine del Medioevo, poiché i nomi designano alcuni aspetti della Dea-madre che mancano nella figura cristiana di Maria, come nota Marie-Louise von Franz: «Lucina era uno degli appellativi di Diana e Giunone, protettrice dei parti; Temi era la dea della giustizia e della vendetta; Venere la dea della bellezza e dell’amore, madre di Eros» (ivi, p. 19). 5. Annota a proposito di tale scelta la von Franz: «Il fuso è l’analogo della spina o dell’ago che in molti racconti popolari maghi e streghe conficcano nella testa, nell’occhio o dietro l’orecchio o ancora nel dito della loro vittima, provocando il sonno o la morte. Psicologicamente, una parola pungente può effettivamente uccidere. L’osservazione tagliente è la forma abituale dell’aggressività femminile e dell’Anima. Le donne non sbattono generalmente la porta, non imprecano, ma lanciano qualche osservazione sottile; è la ferita della strega che colpisce precisamente il punto debole dell’altro» (ivi, p. 49). 6. Ivi, p. 21. 7. Sul tema del complesso materno negativo e sulle sue implicazioni psicologiche, storiche e culturali si veda il già citato libro di Marie-Louise von Franz, in particolare i capitoli dedicati a Rosaspina e Vassilissa la bella. 8. Ivi, pp. 29-30. 9. Ivi, p. 158.

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«Fantasia». Quando la musica si fa immagine

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di Ivano Presotto

a musica ha sempre rivestito un ruolo fondamentale nel successo dello Studio Disney, fin da quel lontano 18 novembre 1928, quando al Colony Theater di New York venne proiettato per la prima volta Steamboat Willie (Willie del vaporetto): la reazione del pubblico fu da subito travolgente. L’idea che stava alla base della fama di un piccolo topo chiamato Mickey Mouse era l’uso combinato della musica e delle immagini in movimento sullo schermo, non attraverso un semplice accompagnamento sonoro di sottofondo bensì con una sincronizzazione perfetta tra le immagini, la musica e i rumori prodotti dagli stessi personaggi del cortometraggio animato. La nascita di Mickey Mouse affonda in una leggenda creata soprattutto da Walt stesso, il quale amava raccontare di come avesse ideato Topolino durante un viaggio in treno con la moglie, di ritorno da New York, dopo esser stato depredato del suo personaggio più importante, Oswald the Lucky Rabbit, e di come fosse stata Lillian a battezzare col nome di Mickey quel topo che Walt inizialmente avrebbe voluto chiamare Mortimer.

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di Edvard Grieg. L’idea che stava alla base della nuova serie era dare vita e corpo a disegni animati affinché si adattassero a un motivo musicale preesistente, stravolgendo quindi l’operazione che veniva fatta con i Mickeys, in cui era invece la musica, creata appositamente per il film, a doversi adattare alle immagini in movimento. Se tra i distributori la prima delle Allegre Sinfonie non riscosse il successo sperato da Walt, la risposta del pubblico fu invece entusiasta. Nel 1930, nel pieno della crisi economica statunitense, Topolino era ormai diventato un idolo nazionale e sia i Mickeys sia le Silly Symphonies avevano dato fama e fortuna a Disney. La prosperità dello Studio, tuttavia, era solo apparente: Walt si preoccupava di migliorare sempre più la qualità dei suoi cortometraggi, ma ogni affinamento della tecnica gonfiava inesorabilmente i costi. L’animazione, per come concepita da lui, era un’impresa rischiosa, e tale sarebbe rimasta a lungo per lo Studio di Hyperion Avenue. All’inizio degli anni Trenta, Disney decise d’intraprendere una nuova sfida tecnologica: creare dei cartoons a colori. Chiese ai suoi tecnici di fare esperimenti con i nitrati e altre sostanze, ma i risultati furono insoddisfacenti. Non era nemmeno fattibile la tecnica primitiva dei bagni monocromatici delle pellicole in soluzioni colorate, a seconda della scena da filmare (ad esempio, blu per la notte, rosso per un incendio o verde per le scene bucoliche): bisognava trovare un metodo che consentisse il massimo realismo possibile. In quegli anni la Technicolor elaborò un sistema per combinare i tre negativi dei colori base – rosso, giallo e ciano – e formare così l’intera gamma cromatica, insieme al nero: era quel che Disney stava cercando. Riuscì a garantirsi l’esclusiva del procedimento tricromico per due anni. Flowers and Trees, prima Silly Symphony a colori, in cui delle piante prendono vita al ritmo delle musiche di Felix Mendelssohn e Franz Schubert, vide la luce nel luglio 1932, suscitando lo scalpore che Walt aveva tanto sperato. Le Silly Symphonies non dovevano più confrontarsi con i Mickeys: Flowers and Trees esercitò lo stesso richiamo di un cartoon di Topolino. Il 18 novembre 1932, l’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences attribuì a Walt un Oscar per Flowers and Trees e un Oscar Speciale per la creazione di Mickey Mouse. Nel 1933 giunse il successo strepitoso di The Three Little Pigs e del relativo motivetto Who’s afraid of the Big Bad Wolf ?, diventato inno ed emblema della voglia di ripresa dopo la Grande Depressione, e nel 1934 nacque un personaggio destinato a offuscare la fama di Mickey Mouse: Donald Duck, che esordì in una Silly Symphony dal titolo The Wise Little Hen (La gallinella saggia). La strada era ormai tracciata per lo Studio Disney: il legame tra musica, immagini e colore era divenuto inscindibile. Nel 1935 uscì nelle sale il primo Mickey’s cartoon a colori, The Band Concert, con Topolino nelle vesti di un direttore d’orchestra alle prese con un uragano e il simpatico disturbatore Paperino. Questo cartoon è da considerarsi come un punto cardine nella filmografia Disney: la banda diretta da Topolino cerca di suonare l’Ouverture del Guglielmo Tell, ma viene continuamente interrotta da un divertente e dispettoso Paperino, che con un piffero suona il motivetto folclorico Turkey in the Straw (Il tacchino nella paglia). Al suo esordio in Steamboat Willie, lo stesso Topolino si era impegnato in un concertino sulle note di questo brano, la cui ripresa in The Band Concert

Osvaldo il coniglio fortunato era stato concepito dalla coppia Walt Disney-Ub Iwerks dopo l’esperienza delle Alice’s Comedies (1923-1926), che raccontavano le avventure di una ragazzina in carne e ossa in un mondo disegnato. Tra il 1927 e il 1928 vennero prodotti ventisei cortometraggi muti con questo personaggio come protagonista, il quale deve essere considerato un antenato di Mickey Mouse soprattutto da un punto di vista grafico: le orecchie da coniglio di Oswald vennero infatti sostituite con due grandi orecchie tonde e la coda a pon-pon con un codino lungo e flessibile. Oswald riscosse un buon successo e cominciò a interessare per le sue potenzialità economiche Charlie Mintz, distributore dei cartoons dello Studio Disney. Questi riuscì a impossessarsi del personaggio e addirittura dei disegnatori in forza alla Disney per avviare autonomamente la produzione di cortometraggi: Walt non poté far altro che rinunciare al coniglio. Lo Studio necessitava quindi di un nuovo, valido personaggio. Se l’idea del topo venne a Walt, non bisogna dimenticare che la sua creazione grafica si dovette al talento di Ub Iwerks, sempre rimasto nell’ombra. La sua vera genesi fu quindi dovuta alla collaborazione tra Walt, che diede al topo personalità e voce, e Ub, che gli donò forma e movimento. All’inizio del 1928 viene completato il primo film di Mickey, Plane Crazy, che narra la vicenda di un Topolino emulo dell’eroe dell’aviazione Charles Lindbergh. A questo primo cortometraggio seguirà Gallopin’ Gaucho, che lo vedrà nei panni di un cavaliere della pampa. Frattanto era cominciata la rivoluzione del sonoro. Si era infatti agli albori del film parlato: il primo, The Jazz Singer, diretto da Alan Crosland e interpretato dal cantante Al Jolson, era apparso il 6 ottobre 1927 ed era passato sul mondo del cinema come un uragano. Nulla sarebbe stato più come prima. Nel sonoro Disney riconobbe subito l’inevitabile completamento dell’arte dell’animazione e, anche se i primi due film di Mickey non avevano trovato compratori, ne progettò un terzo, completamente sonorizzato. Alla ricerca di un metodo per poter sincronizzare musica e immagini, Walt trovò nel sistema Cinephone la soluzione ai suoi problemi. Ingaggiò quindi un’orchestra e due esperti rumoristi e presentò il già citato Steamboat Willie, primo cartone animato completamente sonorizzato dello Studio Disney. Il film non riscosse successo tra i distributori finché Harry Reichenbach, un pubblicitario in procinto di aprire una sala cinematografica a New York, propose a Disney di proiettarlo nel suo cinema. Pubblico e critica furono concordi, giudicandolo «un piccolo gioiello dell’animazione»: era la conferma che la strada del cinema era ormai inevitabilmente orientata verso il sonoro. Walt era enormemente soddisfatto del successo, ma aveva timore che lo Studio sarebbe stato costretto a creare un cortometraggio dopo l’altro, sempre con lo stesso protagonista: ne aveva fatto esperienza con Alice e Oswald, trovandolo controproducente. Dopo la post-sonorizzazione dei primi due film muti di Topolino decise di lanciare una nuova serie di cartoons, questa volta aventi come protagonista la musica stessa e non più le immagini, come accadeva invece per i film di Mickey. Nacque così The Skeleton Dance, la prima delle Silly Symphonies: i protagonisti erano scheletri che ballavano al ritmo di una marcetta composta per l’occasione da Carl Stalling, musicista dello Studio, prendendo spunto dalla Marcia dei Nani

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ottanta minuti. La risposta venne dalla Multiplane Camera, una cinepresa a piani multipli con un obiettivo rivolto su quattro o cinque strati di disegni, che avrebbe garantito alle scene filmate un’illusione di profondità e tridimensionalità. Ancora una volta fu scelta una Silly Symphony per collaudarla: The Old Mill (Il vecchio mulino) narra di un mulino che prende vita durante la notte. Priva di dialoghi e con il solo accompagnamento musicale, come disse Disney, «un vero brano di poesia visiva»1, vide l’utilizzo per la prima volta di questo complesso meccanismo e diede risultati eccellenti, vincendo addirittura un Oscar. Non bisogna inoltre dimenticare quanto la musica avesse rivestito un ruolo importante in Biancaneve. A Walt non piacquero le prime idee delle canzoni per il film: seguivano lo schema dei musical hollywoodiani, introducendo danze e canti a intervalli regolari, senza tener conto della progressione della storia. «Dovremmo stabilire un nuovo schema, un modo nuovo di usare la musica» osservò Walt, «la musica va intessuta nella storia per impedire che qualcuno sbotti a cantare di punto in bianco»2, cosa che invece accadeva nei musical cinematografici americani. La voce di Biancaneve venne affidata a Adriana Caselotti, un’italo-americana di diciott’anni con una voce da soprano brioso. Quelle canzoni sarebbero diventate dei successi intramontabili. Ci vollero tre anni di lavoro, due milioni di disegni e circa un milione e mezzo di dollari per ottantatré minuti di spettacolo: il 21 dicembre 1937 Snow White and the Seven Dwarfs venne proiettato per la prima volta in una sala piena di celebrità hollywoodiane; le vicende della povera principessa scatenarono risate e pianti tra il pubblico e ottennero una standing ovation finale. Il film venne premiato con un Oscar Speciale formato da una statuetta di normali dimensioni e sette più piccole, una per ciascun nano: Walt ricevette il premio dalle mani della piccola Shirley Temple. Visto il successo strepitoso, si buttò subito nell’impresa di tre nuovi lungometraggi animati, totalmente diversi tra loro per contenuto e stile: Pinocchio, Fantasia e Bambi. L’uso massiccio della Multiplane Camera in Pinocchio servì come allenamento in vista di una nuova idea di Disney: un

è quasi indicativa di un passaggio di testimone tra Mickey e Donald per la conquista della popolarità. Disney cominciava però a rendersi conto che a soddisfare le energie creative dei suoi collaboratori non bastavano più i cartoons, con i loro otto minuti di gags, né poteva continuare a riproporre all’infinito le solite situazioni con i soliti personaggi. Inoltre, malgrado la durevole popolarità di Topolino e Soci, gli introiti dei cortometraggi andavano scemando a causa della Grande Depressione, che aveva costretto i cinema a offrire sempre più spettacoli e adottare il doppio programma, ovvero due lungometraggi al prezzo di uno, con conseguente riduzione degli incassi e del tempo destinato ai corti. Walt aveva intuito l’inevitabilità del lungometraggio d’animazione e tutti i suoi sforzi puntarono in quella direzione, attraverso il miglioramento della qualità tecnica e artistica dei prodotti, la sperimentazione sul colore e le innovazioni filmiche, l’uso delle Silly Symphonies come terreno di collaudo per nuove tecniche e temi. Nel 1934 decise che era arrivato il momento di passare al lungometraggio e scelse per l’impresa un’antica favola europea: Biancaneve e i sette nani. Installò un piccolo gruppo di animatori e sceneggiatori in un ufficio attiguo al suo e, verso la fine del 1934, la storia cominciò a prendere forma. Leggenda narra che lo stesso Walt avesse mimato e recitato l’intera sceneggiatura per ben due ore di fronte allo staff al completo, interpretando tutte le parti dei personaggi e facendo persino commuovere i suoi dipendenti. Il creatore di Topolino cominciò inoltre a confrontarsi con i problemi tecnici del lungometraggio che aveva in mente. Nei cartoons Disney le figure umane erano fino ad allora comparse sotto forma caricaturale: dare credibilità ai personaggi di Biancaneve e del Principe avrebbe voluto dire ricorrere a un disegno più realistico. Un tentativo era stato fatto con The Goddess of Spring (La dea della primavera): la rappresentazione realistica di Persefone avrebbe dovuto fare da prototipo per Biancaneve, ma il risultato non fu del tutto soddisfacente. La soluzione fu quindi filmare una ragazza dal vivo e ricopiarne i movimenti nei disegni. Un altro problema era costituito dalla bidimensionalità dei cartoons, che mal si adattava a un lungometraggio di circa

“ Nel 1938 Topolino è protagonista de «L’Apprendista Stregone», una fiaba versificata da Goethe e musicata da Paul Dukas. Vi recita la parte dell’assistente di un mago, poi ribattezzato «Yen Sid» ”

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semplice motivo: i suoni di un’orchestra provengono da tante direzioni quanti sono gli strumenti, mentre in una sala cinematografica dell’epoca la musica veniva diffusa da un numero limitato di altoparlanti, per lo più disposti intorno allo schermo. La soluzione fu dislocare una serie di altoparlanti lungo tutta la sala e registrare le musiche utilizzando un maggior numero di tracce audio – per Fantasia ne vennero usate nove. Quel complesso apparato acustico prese il nome di Fantasound ed è considerato il precursore dei moderni sistemi di stereofonia usati nelle sale cinematografiche. Stokowski riprese a registrare i brani mancanti all’inizio del settembre 1938, nella cornice del prestigioso Teatro della Philadelphia Academy of Music. Con lui, in veste di supervisore e consigliere musicale, c’era Deems Taylor, musicista e compositore, che si sarebbe prestato a voce narrante del film. Le registrazioni furono avviate: gli artisti della Disney avrebbero poi tentato di rendere in immagini le suggestioni di Stokowski, traducendole, come nel caso del primo brano, in pura astrazione. L’idea era di «poter vedere la musica e sentire le immagini»3. Registrando separatamente ogni sezione strumentale dell’Orchestra Filarmonica di Philadelphia e ricomponendo il tutto in fase di mixaggio, così da poter ottenere il meglio da ogni singolo gruppo di strumenti, si arrivò a un equilibrio perfetto tra le parti: gli spettatori che ascoltarono la colonna sonora in Fantasound nelle poche sale attrezzate dalla Disney vennero sommersi da suoni provenienti da tre altoparlanti dietro lo schermo e dalle sessantacinque casse acustiche collocate strategicamente in tutto il locale. Fantasia voleva essere un’opera d’arte totale, capace di creare nello spettatore la sensazione di essere parte integrante del film, superare lo schermo, quasi come nell’Alice di Carrol, ed entrare nello spazio immaginario creato dai disegnatori. L’idea di coinvolgere totalmente gli spettatori attraversa tutta la pellicola. Ad esempio, era intenzione di Disney girare la sequenza tratta da Bach con una tecnica innovativa, vale a dire la stereoscopia a tre dimensioni su schermi di grandi dimensioni. Sarebbero stati dati agli spettatori degli occhialini che, grazie a una lente rossa e una blu, avrebbero permesso la visione a tre dimensioni del brano. Nell’intenzione di Disney gli spettatori sarebbero stati costretti a usare simultaneamente occhi e orecchie per percepire ciò che la musica faceva “vedere” e ciò che le immagini facevano “sentire”. Furono, tuttavia, i costi a rendere impossibile l’utilizzo di queste innovazioni tecniche. La realizzazione di Fantasia durò circa tre anni e l’ultima ripresa per completare la sequenza dell’Ave Maria (richiamata anche in conclusione del primo brano, a marcare l’andamento circolare dell’opera) venne spedita solamente a quattro ore dalla première mondiale, il 13 novembre 1940. Gli otto brani che compongono il film furono il risultato delle capacità e delle qualità di un numero enorme di persone, le quali s’impegnarono a creare quello che è considerato il capolavoro Disney. Ma, così come il sogno dell’apprendista stregone svanì a contatto con l’acqua, il successo di Fantasia naufragò nella tempesta della Seconda Guerra Mondiale.

film d’animazione che avrebbe dovuto costituire una sorta di riscatto per la carriera di Mickey Mouse, ormai in declino. Così nacque Fantasia. Nel 1938 Walt decide di fare di Topolino il protagonista di un cartoon intitolato The Sorcerer’s Apprentice (L’Apprendista Stregone), un’antica fiaba versificata da Goethe e musicata dal compositore Paul Dukas. Vi interpreta la parte dell’assistente pasticcione di un mago (quest’ultimo poi ribattezzato “Yen Sid”, Disney al contrario), il cui abuso dei poteri magici finisce per provocare una serie di disastri. L’intera azione fu adattata alla musica di Dukas. Walt contava di farne un mediometraggio di circa venti minuti, ma cambiò idea dopo aver incontrato a un pranzo di gala il direttore della Philadelphia Orchestra, Leopold Stokowski. I due si scambiarono parole di reciproca ammirazione e Walt invitò il grande direttore a visitare i suoi studi. Gli mostrò il lavoro sull’Apprendista Stregone e Stokowski, da sempre fan del piccolo topo, ne fu così colpito che si offerse di dirigere la colonna sonora del nuovo film. I costi cominciarono però a salire e sarebbe stato molto difficile rientrare nelle spese. Si decise quindi di creare un lungometraggio accostando all’Apprendista Stregone altre sequenze di musica filmata. Il nuovo progetto, il cui titolo provvisorio era The Concert Feature, avrebbe dovuto sbalordire il pubblico e la critica per la sua forza innovativa: sarebbe stato una specie di collage di Silly Symphonies, avente però come colonna sonora celebri brani di musica classica. Leggenda vuole fosse stato Stokowski a suggerire questo ampliamento, per creare un vero e proprio concerto di immagini, ma è più probabile che l’idea fosse venuta a Disney stesso, preoccupato per i costi. Nella notte tra il 9 e il 10 gennaio del 1938 fu registrata la composizione di Dukas presso gli studi di David O. Selznick, celebre produttore di Hollywood, poiché la sala di registrazione di Hyperion Avenue non era abbastanza grande da contenere tutti gli orchestrali. L’Apprendista Stregone costò quattro o cinque volte più di una normale Silly Symphony, rischiando di non riuscire a rientrare nelle spese. Si arrivò, infine, all’ideazione di un lungometraggio privo dei personaggi già collaudati, ma avente come unico protagonista la Musica. Furono ascoltate centinaia di composizioni musicali e ne vennero scelte sette, più adatte a essere sviluppate sotto forma di film d’animazione: la Toccata e fuga in re minore di Johann Sebastian Bach, la Suite dello Schiaccianoci di Piotr Ilyich Tchaikovsky, la Sagra della Primavera di Igor Stravinsky, la Sesta Sinfonia di Ludwig van Beethoven, detta La Pastorale, La danza delle ore tratta dalla Gioconda di Amilcare Ponchielli, Una notte sul Monte Calvo di Modest Mussorgsky e l’Ave Maria di Franz Schubert. Stokowski fu fra i direttori di orchestra che si dedicarono al perfezionamento delle tecniche di registrazione e riproduzione del suono e trovò uno spirito altrettanto pionieristico in Disney, il quale da sempre si era preoccupato della riuscita dei suoi film, anche a costo di sperimentare nuove tecnologie. E proprio sul miglioramento tecnico fu improntato il progetto di Fantasia. Ascoltando le prime registrazioni dei brani, entrambi si resero conto che il suono era ben lontano da quello ricco e intenso di un’orchestra in una sala da concerto. Disney incaricò quindi il Sound Department dello Studio di elaborare un sistema capace di ricreare l’illusione di una performance dal vivo. Stokowski sapeva bene che la colonna sonora di un film non può essere paragonata a un’esecuzione dal vivo, per un

1. Cfr. Bob Thomas, Walt Disney: an American Original, Simon & Schuster, New York 1976; tr. it.: Walt Disney, Mondadori, Milano 1980. 2. Cfr. ibidem. 3. Cfr. John Culhane, Fantasia. Il capolavoro di Walt Disney, The Walt Disney Company Italia, Milano 1992.

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Disney e Mussolini di Francesco Manetti

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el 1935 Walt Disney fece un viaggio turistico/commerciale in Europa, venendo anche in Italia, per diletto e per definire il passaggio dei diritti dei suoi personaggi dal fiorentino Nerbini al milanese Mondadori. Storici i suoi contatti con Edda e Galeazzo Ciano… Walt, tuttavia, incontrò anche il Duce? E perché, in caso di risposta affermativa, avrebbe dovuto farlo? Che interesse poteva infatti avere Benito Mussolini per la produzione disneyana? Inoltre, è vero che nel 1938, quando si trattò di favorire il fumetto italiano contro la preponderanza americana, il Duce si raccomandò personalmente con i vertici del MinCulPop di non toccare il celebre Topo disneyano?

ottobre 1995). Contiene numerose curiosità inedite e clamorose rivelazioni, a partire dal nome stesso di Guido Mussolini (figlio di Vittorio e primo nipote del Duce, nato nel 1937 e deceduto nel 2012): non deriverebbe, come dice l’ufficialità, da un omaggio alla memoria del generale Guidoni, ma sarebbe stato suggerito al fratello maggiore dal giovanissimo Romano, che pensava a Guido Ventura – ovvero al nome italiano di Brick Bradford, fumetto americano di fantascienza creato nel 1933 da William Ritt e Clarence Gray – le cui avventure venivano pubblicate sul periodico «L’Avventuroso», lanciato da Nerbini nel 1934. L’amore per il fumetto internazionale nutrito dalla famiglia Mussolini si sarebbe indirizzato soprattutto verso le avventure classiche e i prodotti disneyani. Come affermò infatti lo stesso Romano, fra i suoi fumetti preferiti c’erano al primo posto Mickey Mouse e i grandi eroi dell’azione e dell’umorismo – come Mandrake, Cino & Franco, L’Uomo Mascherato, Flash Gordon e Braccio di Ferro – con

1. Un Topolino a Villa Torlonia Il punto di partenza per far luce su questi “misteri” è un’intervista rilasciata da Romano Mussolini a Francesco De Giacomo per la rivista d’informazione fumettistica «If» (n. 4,

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Mussolini. Così il quotidiano «La Stampa» parlò dell’evento mondano del 19 luglio 1935: «Al cinema romano Barberini si è tenuta una serata di gala in onore di Walt. Gli onorevoli ospiti hanno riso di gusto assistendo a tre cortometraggi animati disneyani […] arrivati in volo da Londra proprio per l’occasione. Il pubblico cinematografico italiano ha dimostrato un grande sentimento di amicizia verso questo benefattore dell’umanità, come spesso viene definito».

una predilezione editoriale per i settimanali «L’Avventuroso» e «Topolino». Il giovane Mussolini richiese e ricevette nel 1936 la tessera “Amico di Topolino” e nel 1938 la sorella Anna Maria (nata nel 1929 e morta nel 1968) inviò un disegno a «Topolino», pubblicato sul numero 331 del 1939. Veniamo ora a un passo cruciale, che negli anni ha suscitato dibattiti e prese di posizione. Nel colloquio con De Giacomo, il figlio del Duce dice testualmente: «Walt Disney ha rappresentato un perfetto anello di congiunzione tra mondo cinematografico e mondo dei fumetti. Durante una sua visita in Italia venne ricevuto da mio padre e in quell’occasione regalò a me e ad Anna Maria un enorme Topolino di legno. […] Nel pomeriggio, dopo essere stato ricevuto a Palazzo Venezia, Disney venne anche a Villa Torlonia. Era l’estate del 1935. Si parlò naturalmente di Topolino, di Minnie e di Paperino, che cominciava ad affacciarsi e che sarebbe divenuto uno dei miei beniamini. Ci si informò dei film e delle prossime avventure. Fu un incontro simpaticissimo e cordialissimo». La visita di Walt nel Vecchio Continente ebbe gran risonanza su tutti i mezzi di comunicazione. Nel 2014 è uscito per Theme Park Press un prezioso libro di Didier Ghez, intitolato Disney’s Grand Tour – Walt and Roy’s European Vacation – Summer 1935: è da questo volume che abbiamo attinto molte delle notizie che seguono, integrandole con altre fonti (da alcune “classiche” fino al documentario Walt Disney e l’Italia – Una storia d’amore, scritto e diretto da Marco Spagnoli nel 2014). Apprendiamo così che Walt Disney viaggiò insieme alla moglie Lillian e al fratello Roy, accompagnato dalla consorte Edna. Il gruppo partì nel giugno del 1935 da New York, sul Normandie: i Disney toccarono il Regno Unito, la Francia, la Germania, l’Austria, la Svizzera e l’Italia; infine, salpando da Genova, tornarono in America il 1° agosto, a bordo del Rex. A Roma, presso il Cinema Barberini, si tenne una serata di gala in onore del prestigioso ospite, che era stato ricevuto alla stazione da Luigi Freddi, a capo della Direzione Generale della Cinematografia e futuro fondatore di Cinecittà. La sala del Barberini venne addobbata con i suoi celebri beniamini e sullo schermo passarono alcune opere targate Disney. Gli Archivi Storici dell’Istituto LUCE, fondato da Mussolini nel 1924, conservano un breve filmato dell’evento, in cui vediamo Walt e Lillian Disney accompagnati da Galeazzo Ciano (Ministro per la Stampa e la Propaganda) e dalla contessa Edda Ciano

2. La stretta di mano fra il Duce e Disney: realtà o fantasia? L’incontro fra Walt e Benito, in agenda da mesi, avvenne davvero? Ci sono prove e indizi a favore di questa ipotesi, e non solo il ricordo di Romano. Esiste uno scatto del Duce, conservato negli Archivi della WDC, autografato con dedica a Disney. Il ritratto fu eseguito a Roma dalla fotografa ungherese Ghitta Carell e la scritta vergata dal Duce recita: «A Walt Disney, with cordial regards and compliments. Roma, 21 luglio 1935-XIII. Mussolini». Anche Disney venne immortalato a Roma dalla Carell. Dopo quella di Romano, la testimonianza più forte e autorevole della realtà dell’incontro risale a quando Roy Disney ne parlò, in un’intervista concessa fra il 1967 e il 1968 a Richard Hubler, giornalista ed esperto in biografie scomparso nel 1981. Roy si espresse in questi termini: «Walt fu ricevuto da Mussolini durante quel viaggio. Mussolini conosceva Walt e fu molto, molto cordiale e conversammo a lungo sui nostri cartoni. Parlava un inglese corretto. Aveva un ufficio grande… davvero enorme. […] Ci parlò con vanto anche dei treni. “Ora potete viaggiare sicuri sui treni. Fino a un anno fa capitava che venissero fermati e assaliti dai rapinatori. Ora non lo fanno più”». Molti biografi parlano della permanenza di Disney a Roma nel ‘35, anche se solo alcuni si riferiscono direttamente all’incontro con il Duce, dandolo per certo; lo fa, per esempio, Bob Thomas, nel suo Walt Disney – An American Original, persino nell’ultima edizione (Hyperion, New York 1994). Anche Maria Scicolone (attrice, moglie di Romano e sorella di Sophia Loren) parlò della riunione tra i Disney e Benito Mussolini nel suo libro A tavola con il Duce (Gremese, Roma 2004). Il fondamentale volume Eccetto Topolino di Fabio Gadducci, Leonardo Gori e Sergio Lama (Nicola Pesce Editore, Battipaglia

“ La dedica sulla foto eseguita da Ghitta Carell recita: A Walt Disney, with cordial regards and compliments. Roma, 21 luglio 1935-XIII. Mussolini ”

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Disney era sì un americano, un capitalista, ma “a modo suo”, interessato più ai suoi personaggi che ai soldi che ne potevano derivare; negli anni rischiò più volte la bancarotta per inseguire i suoi sogni, prima e dopo il Topo; il film Fantasia, uscito negli USA nel 1940, assai visionario per l’epoca, fu un gigantesco flop che avrebbe gettato la WDC in crisi per un decennio; solo negli anni Cinquanta Disney riuscì a liberarsi dal patibolo che gli avevano apparecchiato le banche. Inoltre, nel luglio del 1935 le sanzioni economiche contro l’Italia erano ancora relativamente lontane e i rapporti fra Roma e Washington non avevano ancora cominciato a guastarsi, nemmeno per quanto riguarda lo spettacolo (nel 1937 Vittorio Mussolini, secondogenito del Duce, si recò addirittura a Hollywood, dove assistette alle riprese di una delle comiche di Hal Roach). In quella fatidica estate del 1935 Disney era andato anche in Germania, stazionando soprattutto a Monaco, per turismo termale e per discutere della distribuzione UFA dei suoi cortometraggi; qui, secondo le biografie, avrebbe incontrato solo le autorità politiche locali bavaresi; nel saggio Im Reiche der Micky Maus: Walt Disney in Deutschland 1927-1945 di Jorg-Peter Storm e Mario Dressler (Henschel Verlag, Berlin 1991) si afferma invece che sarebbe volato con un aereo di Stato fino a Berlino, invitato per colloqui ufficiali con le più alte cariche governative… Eppure, si corre il rischio di scivolare nella “leggenda nera”! Se leggiamo il saggio di Marc Eliot, Walt Disney – il Principe Nero di Hollywood (Bompiani, Milano 1994), il creatore di Topolino viene praticamente arruolato nel NSDAP! Il libro si basa sulle affermazioni di Art Babbitt, l’ideatore di Pippo, uno dei maggiori animatori Disney fino al 1940. Babbitt, sindacalista e socialista, appoggiò nel 1941 uno sciopero dei dipendenti degli Studios, passando poi serie grane, e da quel momento non perse mai un’occasione di attaccare l’ex-amico. Dal suo punto di vista il “fascismo” attribuito a Disney era una connotazione reale ed estremamente negativa.

2011) ripercorre la storia editoriale del fumetto durante l’Era Fascista; qui l’intervista a Romano Mussolini è riportata integralmente, dando dunque nuova autorevolezza alla veridicità del colloquio. Didier Ghez, nel suo libro, afferma invece che quell’incontro non ci fu, sottolineando che non esistono foto dell’evento, che Walt Disney non ha mai raccontato del colloquio (anzi, sul Rex, sollecitato da un giornalista americano, avrebbe negato di aver visto il Duce) e che non ne hanno mai parlato nemmeno Edna o Lillian; inoltre, secondo i documenti ufficiali conservati presso l’Archivio di Stato a Roma, il nome di Disney non compare nella lista delle persone ricevute da Mussolini in quei giorni di luglio.

“ Al cinema romano Barberini si è tenuta una serata di gala in onore di Walt. Il pubblico cinematografico italiano ha dimostrato un grande sentimento di amicizia verso questo benefattore dell’umanità, come spesso è definito ”

3. Oltre il Topo: Walt Disney tra verità e leggende L’incontro tra Mussolini e i Disney potrebbe però esserci stato, nonostante tutto. La circostanza dell’inesistenza di foto o riscontri “ufficiali” (e il fatto che Disney abbia anche negato che avvenne) potrebbe spiegarsi considerando che quell’incontro fu privato e famigliare (a Villa Torlonia, la residenza romana del Duce) e allo stesso tempo “delicato” (a Palazzo Venezia). Delicato perché si parlò sicuramente del passaggio dei diritti da Nerbini a Mondadori, questione economica non minima, che avrebbe avuto effetti sull’editoria italiana nei decenni a venire. Ci sembra lapalissiano immaginare Benito Mussolini, negli incontri con i grandi dell’industria e del commercio, mentre discute anche di questioni economiche e d’interessi italiani – come farebbe ogni serio Capo di Stato che avesse a cuore la situazione del suo Paese. Infine, un’altra considerazione: in quegli anni e almeno fino all’inizio del conflitto Walt Disney, politicamente, aveva una posizione non avversa ai socialismi nazionali europei, e dunque un incontro con il Duce, anche sotto questo aspetto, potrebbe essere più che plausibile. Il suo sentimento antibolscevico è ben noto, anche se molto spesso gli viene affibbiata più l’etichetta di “conservatore reazionario” che quella di “rivoluzionario”. Ma forse la verità sta nel mezzo.

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nostri prodotti rispetto a quelli stranieri. Pian piano i fumetti americani scomparvero dalle testate per ragazzi, anche grazie alla “prefazione-manifesto” del futurista Marinetti, presidente del Convegno Nazionale per la Letteratura Infantile e Giovanile, organizzato a Roma nel novembre del 1938. Ma le creazioni Disney poterono continuare a essere pubblicate fino al 3 febbraio 1942, con l’ultima puntata sul settimanale mondadoriano della storia Topolino e l’illusionista: l’Italia aveva dichiarato guerra agli Stati Uniti già da quasi due mesi! Da quel momento fu il conflitto a risolvere ogni questione, e anche il Topo tornò in America… Da dove derivò questo “trattamento di favore” nei confronti di Burbank dal 1938 al 1942? Nelle circolari e nelle lettere di risposta del Ministero della Cultura Popolare ai vari editori che avrebbero voluto continuare a pubblicare materiali fumettistici americani si escluse dai provvedimenti solo la produzione disneyana. Romano rammenta di essersi personalmente raccomandato più volte con Ferdinando Mezzasoma, Direttore Generale del MinCulPop, riguardo alla musica jazz e alla produzione Disney. Benito Mussolini, il cui gradimento nei riguardi dell’arte disneyana era noto, dovette aver recepito questi sentimenti, e, quando nel 1938 gli venne sottoposto un elenco di pubblicazioni non più adatte al pubblico giovanile, lo approvò… aggiungendo però una leggendaria postilla: «Eccetto Topolino!». Questo accadimento era stato dato per certo fin dal 1968: ne parlò per primo Ezio Ferraro sul mensile «Sgt. Kirk», in una serie di articoli intitolati La storia del giornalinismo italiano. Studi più approfonditi – culminati nel 2011 col fondamentale Eccetto Topolino – hanno tuttavia ridimensionato il fatto. A quanto pare non ci sarebbe stato un intervento personale del Duce ma una percezione, in ambito ministeriale, oltre che dell’apprezzamento dei Mussolini verso Mickey Mouse & Co., della scarsa o inesistente rilevanza «politica» delle avventure di Topolino e Paperino, e anzi di un certo «comune sentire» fra il Fascismo e la «filosofia sociale disneyana»… I provvedimenti coinvolsero anche il cinema d’animazione americano. Pinocchio, del 1940, fu proiettato per la prima volta in Italia solo nel 1946. Ma i disegni tratti dal film erano conosciuti da tutti, essendo stati distribuiti fin dalla fine degli anni Trenta; in un cinegiornale LUCE, girato a Firenze nel gennaio del 1942, in occasione dell’inaugurazione del Centro Didattico Nazionale, venne filmata una saletta dov’era stata allestita un’esposizione dedicata al personaggio di Collodi; in uno dei quadretti appesi al muro notiamo Pinocchio nel noto abbigliamento “tirolese” dell’interpretazione disneyana! Fantasia, pure del 1940, fu il terzo lungometraggio della WDC. Alcune sequenze, come quella dei vulcani preistorici, furono ispirate a Disney proprio dal viaggio italiano del 1935, durante il quale si recò anche sul Vesuvio. La pellicola fu un disastro assoluto al botteghino USA, ma fu un successo… a Roma! Come racconta Romano, quando le truppe italogermaniche riconquistarono la città di Tobruk, in Libia (che inglesi e australiani avevano invaso nel gennaio del 1941), fra il materiale abbandonato furono trovate anche numerose pellicole, tra cui Fantasia, che fu proiettata, in anteprima assoluta per l’Italia, a Villa Torlonia, per interessamento di Mezzasoma. Romano afferma testualmente: «Ne rimanemmo scioccati». Sipario.

Ma perché Disney sarebbe stato un “fascista”? L’etichetta gli venne affibbiata in virtù delle sue ben note idee antibolsceviche (tanto che si hanno tracce di una sua collaborazione con l’FBI in funzione anticomunista) e di certe sue frequentazioni – in particolare, l’amicizia e ammirazione dell’asso dell’aviazione Charles Lindbergh. Il trasvolatore oceanico, aperto simpatizzante dei socialismi nazionali, negli anni Trenta fu più volte in visita ufficiale in Germania, per studiare i progressi dell’aviazione tedesca e ricevette persino un’onorificenza da Göring in persona, una medaglia che non volle mai sconfessare: l’aviatore vedeva nella Germania di Hitler un baluardo dell’Occidente contro lo stalinismo. Appoggiò tutte le iniziative dell’America First Comittee, organizzazione fondata nel 1940 per sostenere la non belligeranza degli USA e contraria alla politica rooseveltiana; sua moglie fu più volte accusata dal governo di Washington di fare propaganda “nazista” con i suoi romanzi. Disney era entusiasta di Lindbergh e secondo Babbitt sosteneva a sua volta i progetti di America First. Il primo cartone animato della serie Mickey Mouse a essere prodotto, nel 1928 – anche se venne distribuito solo come quarto, nel 1929, dopo l’aggiunta della colonna sonora – fu Plane Crazy. Qui il nostro Topolino sogna di volare, rivivendo le imprese di Lindbergh; tale cartone – ribadiamolo, il primo della serie – ebbe successivamente una riduzione a fumetti; questa fu oggetto della sequenza di strisce della prima avventura in assoluto del Topo, pubblicata negli USA dal gennaio al marzo 1930. Lindbergh, che apparve anche nella trasposizione fumettistica, fu dunque il “nume ispiratore” sia del primo cartone animato, sia della primissima storia di Topolino! Nel caustico volume di Eliot spicca anche il caso di Gunther Lessing, famoso avvocato nato nel 1886 in Germania e morto nel 1965 in California. Dal 1929 al 1964 fu il rappresentante legale di Walt Disney, che lo nominò vice-presidente della Compagnia; fu con lui che Babbitt dovette scontrarsi a causa dello sciopero del 1941. Di Lessing (estendendo il giudizio allo stesso Disney) si sottolineano da più parti i presunti legami con la German American Bund, fondata da Fritz Gissibl nel 1936, e con la Silver Shirt Legion of America, nata nel 1933 per iniziativa di William Dudley Pelley, entrambe organizzazioni filo-germaniche agenti in sostegno dell’idea politico-sociale del Terzo Reich. 4. Eccetto Topolino: il fumetto e il cartone animato disneyano dal 1938 A Villa Torlonia c’era anche una saletta cinematografica. Qui Mussolini, con i suoi figli più giovani, visionava i cartoni animati licenziati dalla Disney, apprezzandone soprattutto le colonne sonore. Romano Mussolini rivela: «Il motivo musicale dei “Tre Porcellini” era diventato così popolare che alcune volte l’ho sentito canticchiare persino da mio padre». Il colloquio con De Giacomo fa luce anche su altri particolari. Innanzitutto si scopre che al Duce «piacque enormemente» il primo lungometraggio della Disney, Biancaneve e i Sette Nani (1937), presentato in Italia nel 1938 al Festival di Venezia, tanto che «volle anche» rivederlo almeno due volte. Dal novembre del 1935 (ovvero dall’inizio delle sanzioni economiche) fino al luglio del 1938 (anno delle proibizioni ministeriali vere e proprie) si tentò di favorire, per quanto riguardava le letture disegnate destinate a un pubblico giovanile, i

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Parla Walt Disney!

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a cura di Davide Balzano

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«Coi cartoni animati non ho fatto che ripetere la lezione di Esopo e di La Fontaine.» (Ho speso miliardi per costruire il Lincoln che parla e si muove. Oriana Fallaci interroga Walt Disney, in «L’Europeo», giugno 1966) «La mia ambizione era rendere la qualità dei cartoni pari a quella delle favole di Esopo.» (Michael Barrier, The Animated Man, cit., p. 67) «Il punto era tradurre i cartoni animati in fiaba vivente, portare la fiaba all’estrema tangibilità, trasformare il sogno in qualcosa che non solo si vede ma anche si tocca. Oltre il cinema, oltre il teatro […]. Bisognava dunque trascinare la gente nello spettacolo, nell’illusione: renderla protagonista della fiaba insieme alla fiaba.» (Ho speso miliardi…, cit.) «La fantasia non può essere cristallizzata e il sogno è movimento perenne.» (Ibidem) «Se puoi sognarlo, allora puoi farlo. […] Non posso credere che ci siano vette cui un uomo non possa arrivare se è in grado di rendere reali i sogni. Il segreto, secondo me, può essere sintetizzato dalle quattro C: Curiosità, Confidenza, Coraggio e Costanza.» (Conversation with Walt Disney) «Il primo dovere del cartoon non è descrivere o riprodurre il reale o le cose così come accadono nella realtà… ma di portare alla luce quei sogni e quelle fantasie che tutti abbiamo evocato nel corso della nostra vita.» (Mariuccia Ciotta, Walt Disney. Prima stella a sinistra, Bompiani, Milano 2005, p. 102) «A me interessava cercare il bambino che è dentro ciascuno di noi. Come Disneyland, Mickey Mouse non fu mai concepito per una mente infantile: fu sempre un discorso a coloro che io chiamo gli onesti adulti, cioè quelli che non si vergognano ad essere sostanzialmente bambini. Perché a quale età si smette d’essere bambini? A sei anni, a diciotto, a trenta, a sessanta? Se si è onesti, a nessuna: la curiosità, l’entusiasmo, la voglia di piangere e ridere sono virtù dei bambini. Un adulto incapace d’essere bambino non può trarre piacere dalla vita. Ma guardi quei sofisticati, quei superintellettuali: che gusto hanno a vivere? Non si meravigliano di nulla, non si divertono con nulla, sono sempre annoiati, noiosi. La loro è una vita da vecchi, una vita che è una frangia della vita. A meno che non abbiano una doppia esistenza e, di nascosto, quando fanno pipì, non leggano Mickey Mouse.» (Ho speso miliardi…, cit.)

ur avendo goduto di un incredibile successo nella sua incessante cavalcata verso la scoperta di nuove frontiere del divertimento e della fantasia, Walt Disney è stato un personaggio che ha fatto molto parlare di sé parlando poco, e del quale numerosi aspetti sono rimasti nascosti ad un pubblico più interessato alle creature che al creatore di quelle pellicole e invenzioni. Questa raccolta di citazioni disneyane vuole dare voce al personaggio, mostrandone i lati meno noti: la sua idea di cartone, i ricordi dell’infanzia, le disavventure, i sacrifici, i problemi imprenditoriali, insieme ovviamente alla sua visione del mondo. Molti dei testi inseriti in questa antologia sono reperibili solamente in lingua inglese, ma la tenacia e la creatività di questo eccezionale narratore di fiabe mantengono una forza e un’originalità che colpiscono al di là del linguaggio. Sono tutti tratti da volumi, eccetto quelli indicati con la dicitura Conversation with Walt Disney, reperibili all’indirizzo http://blog.iqmatrix.com/walt-disney e L’ultima intervista a Walt Disney, inserita nella settima sezione, disponibile in Rete all’indirizzo http://www.tuttodisneyland.com/forum/ index.php?topic=1853.0;wap2. D. B.

1. Un narratore di fiabe «Nei vent’anni spesi in questo lavoro ho affrontato molte tempeste. Non è stato facile salpare. Ha richiesto un’enorme quantità di lavoro ma anche sacrificio, determinazione, sicurezza, fede e, soprattutto, generosità. Forse la componente più importante è stata la nostra mancanza di egoismo. Ho sempre avuto una cieca e testarda fiducia nel mondo dei cartoni, ero determinato nel mostrare agli scettici che il cartone animato meritava un posto migliore: era più del semplice “riempitivo” di un programma o un gadget di scarso valore e avrebbe potuto essere uno dei più grandi mezzi della fantasia mai sviluppati. Fede, fiducia, determinazione e un atteggiamento generoso hanno fatto guadagnare ai cartoni il posto che occupano oggi nel mondo del divertimento.» (Michael Barrier, The Animated Man. A Life of Walt Disney, University of California Press, Berkeley 2008, p. 4)

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Eppure il nostro governo ha riconosciuto l’importanza dei film americani, tanto economica quanto politica, nei rapporti con le altre nazioni.» (Marc Eliot, Il principe nero di Hollywood, Bompiani, Milano 1994, p. 200) «Io sono per natura un democratico. Non voglio essere che uno dei tanti, e lo sono. Quando m’imbatto in qualcuno per i corridoi, voglio potergli parlare, e che lui parli a me, e salutarlo con un sorriso. Non me la sento di lavorare a nessun’altra condizione…» (Mariuccia Ciotta, Walt Disney, cit., p. 117)

«Vedevo tutte queste celebrità arrivare e avevo una strana sensazione. Speravo di vederli andare un giorno o l’altro alla prima di un cartoon. Perché la gente sottovalutava il cartoon. Lo guardava dall’alto in basso.» (Mariuccia Ciotta, Walt Disney, cit., p. 97) «Se sei curioso trovi un sacco di cose interessanti da fare […]. Continuiamo ad andare avanti, ad aprire nuove porte e a fare cose nuove perché siamo curiosi ed è la curiosità a portarci continuamente su nuovi sentieri.» (Conversation with Walt Disney)

3. Creatura e creatore «Quando lavoravo fino a notte fonda, i topi si davano appuntamento nel cestino della carta straccia […]. Ce n’era uno che era il mio preferito.» (Marc Eliot, Il principe nero di Hollywood, cit., p. 59) «La mattina mi capitava di trovarli [i topi] nel cestino della spazzatura. Ne tenevo diversi in una gabbia sul mio tavolo da disegno e mi divertivo a guardare le cose buffe che facevano.» (Michael Barrier, The Animated Man, cit., p. 56) «Sì, facevo il disegnatore di fumetti a Chicago… No, il personaggio del topo è una nuova creazione… L’ho chiamato Mickey Mouse… La voce è la mia… No, prima abbiamo registrato il sonoro, e poi abbiamo sincronizzato l’immagine al suono. Era stato proprio il sonoro che aveva reso possibile la magia. Quello che l’invenzione di Gutenberg aveva fatto per la parola scritta, il suono lo fece, nel ventesimo secolo, per la parola parlata.» (Frank Capra, Il nome sopra il titolo, Lucarini, Roma 1971, p. 135) «La vita e le avventure di Topolino sono sempre state strettamente connesse alla mia vita personale e professionale. È comprensibile che debba provare dell’affetto per questo piccolo personaggio che ha giocato una parte tanto importante nella storia del mio Studio e che con tanta gioia è stato accettato come amico in qualunque parte del mondo siano stati proiettati i suoi film. È sempre la mia voce, così come io sono la sua.» (Marc Eliot, Il principe nero di Hollywood, cit., p. 98) «Paperino è nato nel 1934 per dare corpo a una voce che aveva colpito la mia attenzione un paio di anni prima. Era un personaggio che semplicemente non potevamo trattenere, con le sue arrabbiature, la sua impotenza di fronte agli ostacoli, la sua ribellione di fronte a quelle che considerava ingiustizie.» (Ivi, p. 207)

2. Sul politicamente corretto «Non sono uno di quelli che dicono: le guerre finiranno nel mondo. Al contrario, sono convinto che, fino a quando il pianeta sarà popolato, le guerre esisteranno. Perché fanno parte della vita, sono esse stesse la vita. Bando alle utopie, cara mia. Ma come si può evitare le guerre con tutte queste ideologie, queste religioni, che non vanno e non possono andare d’accordo? Ciascuno la pensa diversamente, e chiunque la pensi in un certo modo vuol far trionfare il suo punto di vista: è normale ed anche giusto. Ma se, avendo un punto di vista, non vuoi essere conquistato da chi ha un altro punto di vista, come ti difendi, se non facendo la guerra? Quindi, che significa la pace? Deporre le armi per evitar guai? Rinunciare a difenderti se uno ti attacca, rinunciare a proteggerti, ad essere pronto? Dormire? Hitler non avrebbe mai conquistato l’Europa e ucciso milioni di creature innocenti se il mondo fosse stato sveglio coi fucili puntati. Ma il mondo aveva abbassato i fucili, dormiva sognando le utopie sulla pace, e il male venne, Hitler venne, si dovette fare la guerra per estirparlo. Se il gregge è lasciato senza pastore, mia cara, la volpe entra nel gregge e lo mangia; fare i pacifici è contro natura.» (Ho speso miliardi…, cit.) «Ah, io non posso soffrire gli intellettuali […]. Io, tutte le volte che parlo con un intellettuale, sento il bisogno irresistibile di scaraventarlo in mezzo alla giungla […], perché veda com’è fatta la vita e si tolga dal capo le sue stupide ideologie, i suoi ipocriti discorsi sulla pace.» (Ibidem) «Io ho fiducia nel futuro. E non mi spaventa per niente la polvere da sparo, usiamo la nitroglicerina, e la bomba e i missili, e tutto ciò che serve a muoverci, cambiare, andare dove ci riesce, dove ci portano i sogni, le illusioni, le fiabe! […] Certo che sono ottimista! Un ottimista abbastanza pratico da sapere che il progresso consiste in due passi avanti e un passo indietro: e quel passo indietro non nega che il progresso esista.» (Ibidem) «C’è chi pensa che qui [agli Studios] si facciano distinzioni di classe. Ci si chiede perché a teatro alcuni prendano posti migliori di altri. Ci si chiede perché alcuni riescano a trovare posto nei parcheggi, mentre altri no. Ho sempre pensato e sempre penserò che le persone che maggiormente contribuiscono all’organizzazione dovrebbero, per una questione di puro rispetto, godere di qualche privilegio in più. Non c’è alcun “circolo esclusivo”. Gli individui che hanno lavorato al mio fianco, cercando di organizzare e far funzionare lo studio, mantenendolo a galla, non dovrebbero essere invidiati. In realtà, i miei collaboratori si guadagnano un sacco di seccature, e molti possono ritenersi fortunati a non avere molti contatti col sottoscritto.» (Michael Barrier, The Animated Man, cit., p. 6) «L’industria cinematografica, in quanto industria, deve continuare a esistere secondo i principi americani della libera concorrenza o essere strozzata dalle restrizioni monopolistiche?

4. Istantanee di una vita «Non avrei mai potuto trovare un lavoro, così mi sono buttato nel mondo degli affari.» (Michael Barrier, The Animated Man, cit., p. 40) «È piuttosto divertente realizzare l’impossibile.» (Conversation with Walt Disney) «Non mi maledico per aver lavorato come ho lavorato […]. Non ricordo nemmeno di essermene mai preoccupato. Voglio dire, non ho memoria di essere mai stato infelice in vita mia. Mi guardo indietro: ho sempre lavorato e sono sempre stato felice.» (Michael Barrier, The Animated Man, cit., p. 23) «Io mi diverto meglio a pensarle, le cose; dopo averle tradotte in realtà mi angoscio e basta, nella preoccupazione che gli altri non si divertano. Come quando assisto alla prima di un film, per studiare le reazioni del pubblico […]. Oddio, perché non ridono, dico, perché non piangono? E se uno si alza per andare al gabinetto, lo seguo per controllare che vada davvero al

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«La gente non dà la giusta importanza al coordinamento di tutti i talenti che hanno a che fare con questo genere di cose [i cartoons dello studio Disney]. Il mio ruolo fondamentale è consistito nel coordinare questi talenti. E incoraggiarli… Ho creato un’organizzazione composta da veri specialisti. Non puoi farli incontrare in nessun modo, presi singolarmente, per quel che sanno fare. Vanno spinti a lavorare insieme.» (Ivi, p. 86)

gabinetto. E aspetto che esca dal gabinetto per accertarmi che rientri in sala. E di regola non presento mai un film la mattina, perché la mattina la gente va di più al gabinetto.» (Ho speso miliardi…, cit.) «Lavoravo per Charlie Chaplin […]. Ascoltavo sempre i suoi consigli, perché era il mio idolo, il mio protettore, e Charlie diceva: ricordati, Walt, che bisogna guardare ai bambini come a possibili adulti, agli adulti come a possibili bambini, e far discorsi chiari per l’intelligenza di entrambi. Farli ridere, poi riposare. Piangere, poi riposare. I greci lo chiamavano pathos […]. Pensavo a Charlot, a quell’omino buffo, coraggioso, indifeso, quando disegnai Mickey Mouse. Come Charlot, Mickey Mouse non fa mai carognate e ti dona sempre speranza: le sue storie hanno un lieto fine. I sofisticati, i superintellettuali mi rimproverano il lieto fine. Non è realista, sghignazzano. No, non lo è. La realtà è sudicia, il più delle volte, e il sudicio è ovunque, basta cercarlo, anzi lo trovi anche senza cercarlo. Ma io non voglio cercare, non lo voglio nemmeno trovare. Voglio credere, e credo, che dopo una tempesta venga l’arcobaleno: che la tempesta sia il prezzo dell’arcobaleno. La gente ha bisogno dell’arcobaleno e ne ho bisogno anch’io, e perciò glielo do. Che sia o non sia una illusione.» (Ibidem) «Volevo serbare la mia individualità. Avevo paura di rimanere invischiato nella politica delle major. Sapevo che, se comandava qualcun altro, avrei subito limitazioni e mi avrebbero imposto di produrre disegni animati a basso costo e di scarso valore.» (Marc Eliot, Il principe nero di Hollywood, cit., p. 77) «Sto attualmente radunando un numero selezionato di persone del mio vecchio staff, e a breve riprenderemo regolarmente la produzione. È mia intenzione spartire lo spazio di lavoro con uno degli Studios, per studiare meglio i dettagli tecnici e le situazioni comiche, combinandole con i miei cartoni. » (Michael Barrier, The Animated Man, cit., p. 40) «Ecco una domanda che mi viene fatta molto spesso, e sulla quale credo ci siano stati parecchi fraintendimenti… La domanda è: “Perché Walt non può più vedere nessuno dei suoi colleghi? Perché non possono esserci meno supervisori e più Walt?”.» (Ivi, p. 6)

5. Disney e lo sciopero agli Studios «Smith [H. A. Smith, investigatore della House Committee on Un-American Activities (HUAC)]: In questo momento, crede che nel suo Studio lavorino dei comunisti o dei fascisti? Disney: No. In questo momento credo che tutti i miei dipendenti siano americani al cento per cento. Smith: Secondo lei, nel suo Studio hanno mai lavorato dei comunisti? Disney: Sì. In passato ci furono alcuni che credo con certezza fossero comunisti. Smith: È vero che il suo Studio è stato colpito da uno sciopero? Disney: Sì. Smith: Lei ritiene che tale sciopero fosse organizzato da membri del partito comunista per raggiungere i loro obiettivi? Disney: Questo divenne chiaro col passare del tempo. Credo con certezza si trattasse di un gruppo comunista che cercava di assumere il controllo dei miei dipendenti: e fu quello che fece. Thomas [ John Parnell Thomas, allora presidente della HUAC]: Lei ha detto che assunsero il controllo? Disney: Ripeto, assunsero il controllo dei miei dipendenti. Smith: Può spiegarlo al Comitato, per favore? Disney: Lo capii quando una delegazione dei miei ragazzi – i miei animatori, intendo – venne a dirmi che Mr. Herbert Sorrell… Smith: Intende Herbert K. Sorrell? Disney: …Che Herbert K. Sorrell stava cercando di prendere il controllo su di loro. Spiegai loro che non era affar mio, che mi era stato proibito di avere alcun contatto con i miei ragazzi in materia sindacale. Mi dissero che non si trattava di sindacati: semplicemente non volevano stare con Sorrell, e avevano saputo che io stavo per firmare con lui. Nel qual caso, chiedevano

“ Mettete in ordine la vostra casa. Create ordine nella vostra mente… Non combinerete niente aspettando che vi dicano cosa fare. Troppi incolpano gli altri della propria stupidità ”

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sere buoni americani al cento per cento, e che non sosterrebbero mai le loro ideologie. Penso che sarebbe ora di smascherare questi comunisti per quello che sono, in modo tale che quanto c’è di buono e libero in questo Paese, la democrazia che sta a cuore agli americani, possa esprimersi senza la macchia del comunismo. In tutta sincerità, la penso così. Dobbiamo tenere puliti i sindacati americani. Dobbiamo combattere per loro.» (Marc Eliot, Il principe nero di Hollywood, cit., pp. 216-218) «Desidero sia chiaro che tutti i miei dipendenti sono liberi di iscriversi al sindacato di loro preferenza. Siamo stati sempre disposti, né abbiamo smesso di esserlo e sempre lo saremo, a negoziare collettivamente con qualsiasi organo rappresentativo legale, eletto dalla maggioranza dei dipendenti in seguito a scrutinio segreto.» (Ivi, p. 168) «Penso che tutto lo sciopero sia stato una catastrofe. Lo spirito che ha giocato una parte tanto importante nella crescita di questo mezzo espressivo è andato distrutto… Sono convinto che tutta questa confusione sia stata ispirata e orchestrata dai comunisti… Sono profondamente disgustato, e sarei lieto di lasciare il mio posto e trovarmi un altro impiego, se non fosse per i ragazzi leali che credono in me. Così, rimarrò, malgrado la mia sfiducia e il mio scoraggiamento.» (Ivi, p. 176)

elezioni per riprovare che Sorrell non era sostenuto dalla maggioranza. Risposi che questo era anche un mio diritto. Così, quando parlai con Sorrell, chiesi delle elezioni. Sorrell voleva che riconoscessi un mucchio di carte che, a suo dire, provavano che aveva con sé la maggioranza. Ma gli altri sostenevano il contrario. Dissi a Sorrell che l’unica via d’uscita era andare alle elezioni: e anche il Labor Board era d’accordo. Ma Sorrell mi rise in faccia e disse che si serviva del Labor Board quando gli faceva comodo, e che una volta era stato tanto stupido da andare al ballottaggio – non ricordo dove – e aveva perso per un voto. La sua arma, disse, era lo sciopero. “E ben affilata”, aggiunse. Secondo lui non ero in grado di affrontare il ridicolo e la cattiva pubblicità di uno sciopero. Gli dissi che per me si trattava di una questione di principio, che non potevo continuare a lavorare se i miei ragazzi pensavano che li avevo abbandonati. Sorrell mi disse che ero un ingenuo e mi minacciò: “Non potrà far nulla contro questo sciopero: farò a pezzi lei e il suo Studio”. Smith: Disse proprio così? Disney: Disse che, se voleva, avrebbe fatto a pezzi il mio Studio. Gli dissi che non potevo agire altrimenti, che poteva fare quello che voleva, ma io non avrei cambiato idea. La conseguenza fu che Sorrell dichiarò lo sciopero. Dopo tutto quello che avevo sentito sul suo conto e dopo aver visto il suo nome su un gran numero di pubblicazioni rosse, credevo che Mr. Sorrell fosse un comunista. Quando dichiarò lo sciopero, le prime ad attaccarmi furono tutte le organizzazioni comuniste. Non riesco a ricordarmele tutte, cambiano così spesso di nome: ma ricordo esattamente la League of Women Voters, il People’s World, il Daily Worker e la rivista PM [sic!] di New York. Si buttarono su di me, ma nessuno venne a verificare come stavano le cose. Fui vittima di un’analoga campagna di diffamazione in Sudamerica, tramite qualche periodico comunista locale; in tutto il mondo la mia persona e miei film furono vittime di un attacco organizzato da parte dei comunisti. Thomas: Mi scusi un momento. Vorrei domandarle questo, Mr. Disney: dunque i comunisti la attaccarono perché lei non voleva cedere? Disney: Non volevo accettare il loro modo di fare. Insistetti per chiedere la mediazione del Labor Board. Smith: All’epoca dello sciopero in questione, nel suo studio erano in atto proteste o qualche altro genere di agitazioni? Disney: No, l’unica vera protesta era quella dei ragazzi contro Sorrell; chiedevano delle elezioni regolari e non poterono mai averle. Smith: Si ricorda di aver mai parlato di comunismo con Sorrell? Disney: Sì. Smith: Ricorda altri soggetti, attivi al tempo dello sciopero, che crede siano comunisti? Disney: Ecco, c’era un disegnatore nel mio Studio, che era arrivato nel 1938. Non si era mai fatto notare, ma era la mente di queste agitazioni e credo sia un comunista. Si chiama Dave Hilberman. Smith: Come si scrive? Disney: H-I-L-B-E-R-M-A-N, credo. Guardai nel suo curriculum e vidi che non dichiarava alcuna religione e aveva passato un lungo periodo di studio al Teatro d’Arte di Mosca. […] Ciò che più mi irrita è la loro capacità di infiltrarsi nei sindacati, di assumerne il controllo e di sostenere davanti a tutti di avere in mano un gruppo di persone, come i miei dipendenti, che so es-

6. L’infanzia del padre di Topolino «Ricordo perfettamente il giorno in cui arrivammo in treno. Mr. Coffman ci venne incontro e ci accompagnò nella nostra casa, appena oltre i confini della città. Credo venisse chiamata la Tenuta della Gru. La mia prima impressione fu che aveva un bellissimo giardino, con un sacco di salici piangenti […]. Vivevo in una piccola città del Missouri, in cui c’erano solo due automobili. Era il 1908.» (Michael Barrier, The Animated Man, cit., pp. 11-12) «Sapeva esattamente [Elias Disney, padre di Walt] cosa voleva fare e si aspettava che anche gli altri lo sapessero… Avrei voluto dirgli: “Ma come faccio a leggerti nella mente?”. […] Avrebbe dato di matto… Mio padre era il tipo di persona in grado di raccogliere qualsiasi cosa attorno a lui […]. Aveva un modo particolare di parlare. Non avrei mai saputo spiegare alcune delle sue espressioni […]. Elias amava parlare alla gente. Credeva nelle persone. Era convinto che tutti fossero onesti come lui. Lo fregarono un sacco di volte per questo motivo […]. Incontrava spesso personaggi strani, con cui parlava di socialismo… Li avrebbe portati tutti a casa…! E anche chiunque sapesse suonare uno strumento… Erano vagabondi, sa? Non erano nemmeno puliti. Li avrebbe voluti portare perfino a tavola, per la cena, anche se poi mia madre non avrebbe mangiato niente. Lei li avrebbe sfamati fuori, sui gradini di casa.» (Ivi, pp. 14-15) «Mio padre era malato e decise di vendere la fattoria. Così dovette inventariare e mettere all’asta tutto. Ricordo che l’inverno era gelido; io e Roy… andavamo in giro per diverse piccole città ad attaccare i manifesti dell’asta. E ricordo mia madre scaldare nel forno i mattoni che noi mettevamo sul fondo del calesse e, con una vestaglia addosso, andavamo in giro, in giro ad attaccare manifesti […]. A soli nove anni io e mio fratello Roy eravamo uomini d’affari. Consegnavamo i giornali… Li portavamo in un’area residenziale ogni mattina e ogni pomeriggio, con la pioggia, il sole o la neve. Ci svegliavamo alle quattro e mezza del mattino, lavoravamo finché non suonava la campanella a scuola e ricominciavamo dalle quattro

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sprovveduto. Sono davvero felice di aver avuto qualcuno su cui poter contare, per avere dei consigli… Altrimenti sarei stato una pecora in mezzo ai lupi…» (Ivi, p. 64)

del pomeriggio fino all’ora di cena. Spesso mi addormentavo sul banco; la pagella ne era la prova.» (Ivi, pp. 17-19) «Ero tutto sommato un burlone… Amavo l’idea di disegnare, ma era comunque qualcosa destinato a finire. Se avessi messo su una recita, avrei potuto realizzare una mia scenografia… Facevo diversi spettacolini a scuola: ero sempre io a costruire la sceneggiatura, dirigere, recitare… Trovavo sempre qualcosa in comune con i ragazzini, che sono sempre pronti a ridere degli altri.» (Ivi, p. 21)

8. L’uomo dietro agli affari «Ero alla disperata ricerca di qualcosa che potesse prendere piede e affermarsi. Così pensai a un rovesciamento. I cartoni animati ideati da Max Fleischer avevano a che fare con uomini. Mi dissi: “Be’, forse si può provare a ribaltare tutto. Metterò l’umano dentro il cartone…”. I cartoni di Fleischer avrebbero potuto saltare fuori dalle tavole, correre in una stanza e lavorare con persone reali. Io, invece, presi le persone reali e le ficcai nei cartoni.» (Ivi, p. 36) «Avevo deciso che se questa strada doveva portare da qualche parte, se doveva avere possibilità di crescita, ciò non sarebbe dovuto accadere per gli interessi di qualcuno… ovvero il profitto… Ho sempre creduto che la politica della qualità, temprata dalla ragionevolezza e dal valore artistico, potesse vincere ogni previsione.» (Ivi, p. 6) «Una città al servizio della gente… In Epcot [Experimental Prototype Community of Tomorrow] non ci saranno slums perché non lasceremo che sorgano. Non ci saranno proprietari terrieri… la gente affitterà le case invece di comprarle e gli affitti saranno modesti. Non ci saranno pensionati. Tutti dovranno avere un’occupazione. Una delle nostre esigenze è che la gente dovrà dare una mano a tenerla viva… Non ho nulla contro l’automobile, ma credo che oggi abbia assunto un ruolo eccessivo nella nostra comunità… la gente deve anche poter andare a piedi.» (Mariuccia Ciotta, Walt Disney, cit., p. 217) «I lavoratori faticano una vita intera per realizzarsi e mettere da parte dei soldi, e quando finalmente ci riescono, le loro condizioni fisiche sono tali che non possono goderne. La mia ambizione… è di organizzare la mia azienda in modo tale che tutti coloro che lavorano con me possano godere la vita mentre faticano e risparmiano per i momenti brutti.» (Marc Eliot, Il principe nero di Hollywood, cit., pp. 137-138) «La cosa più difficile era fare in modo che le persone smettessero di perdere tempo lavorando individualmente ma cominciassero a pensare tutti insieme in gruppo alle immagini in azione. Quando si trovavano di fronte a un’immagine non potevano resistere e continuavano a improvvisare.» (Michael Barrier, The Animated Man, cit., p. 88) «Il bighellonare di gente priva di esperienza è costato a questo studio milioni di dollari… La prima raccomandazione che do alla maggior parte di voi è questa: “Mettete in ordine anzitutto la vostra casa. Create ordine nella vostra mente… Non combinerete niente stando seduti ad aspettare che vi dicano cosa fare”. Troppe persone sono disposte a incolpare gli altri della propria stupidità.» (Ivi, p. 7)

7. Una vita di sacrifici «Ho sempre guardato con ottimismo alla vita, pur essendo abbastanza realista da sapere che la vita stessa è qualcosa di complicato.» (Conversation with Walt Disney) «Il più grande problema di tutta la mia vita è stato il denaro. Ci vogliono un sacco di soldi per realizzare tutti questi sogni! Fin dall’inizio è stato un problema trovare il denaro per aprire Disneyland. Riguardo ai diciassette milioni di dollari che abbiamo ottenuto… abbiamo dovuto ipotecare tutto, compresi i beni di famiglia. Siamo riusciti a farlo e, dopo dieci o undici anni, molti soldi sono rientrati. In altre parole, come farebbe un vecchio contadino, bisogna coltivare e far crescere quello che si ha, se si vogliono ottenere i frutti. Ecco la mia filosofia di vita.» (L’ultima intervista a Walt Disney) «In questi ultimi vent’anni mi sono trovato completamente al verde due volte. Nel 1923, prima di venire a Hollywood, ero così povero che non ho mangiato per tre giorni e ho dormito tra vecchi stracci e cuscini di sedie in una topaia di studio di cui per mesi non avevo pagato l’affitto. Nel 1928 io e mio fratello Roy vedemmo ipotecato tutto ciò che era in nostro possesso. Non era molto, ma era tutto quel che avevamo. Le nostre macchine furono vendute per pagare gli stipendi. Spingemmo al limite le nostre assicurazioni personali per mantenere attivi gli affari… Solo un anno dopo il successo di Mickey Mouse ci siamo potuti permettere un’altra macchina: un furgone che usavamo per lavorare nei giorni della settimana e la domenica per rilassarci.» (Michael Barrier, The Animated Man, cit., p. 5) «Ebbi un terribile crollo mentale. Caddi a pezzi… Più andavamo avanti e più mi aspettavo grandi cose dagli artisti; quando mi deludevano, mi angosciavo. Soldi, soldi, soldi! […] Divenni molto irritabile. Giunsi al punto di non poter più parlare al telefono: sarei scoppiato a piangere.» (Ivi, p. 84) «Ho imparato come funziona questo gioco… È l’affare più dannatamente confuso di cui abbia mai sentito parlare… Richiede una mente scaltra e preparata, che sappia gestirlo in maniera appropriata. Sono così tante le sue dannatissime angolature che se non si ha esperienza si finisce sicuramente per perderne qualcuna. Fanno tutti parte di un gruppo di cospiratori e conoscono talmente tanti trucchetti da far uscire matto uno

“ Pensavo a Charlot, a quell’omino indifeso e coraggioso, quando disegnai Mickey Mouse ”

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Topolino libertario e anarchico A colloquio con Giulio Giorello a cura di Andrea Scarabelli

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Per fortuna sua… Soprattutto per fortuna sua. Comunque, quando Paperino comincia a dare risposte di puro buonsenso, come direbbe il Kit Carson di Tex Willer, i filosofi cominciano a esclamare: «Che banalità!», e lo cacciano fuori. Intanto, nell’altra sala il vero filosofo, con cui Paperino si è scambiato, tiene agli idraulici un lunghissimo bla bla bla sulla filosofia. Il pubblico dorme. L’abbiamo scritta insieme, Faraci e io. Gli ho dato alcuni spunti filosofici, mentre lui si è occupato della sceneggiatura vera e propria. Non solo, quindi, leggo i nuovi numeri ma ogni tanto vi contribuisco pure.

ocente di Filosofia della Scienza presso l’Università degli Studi di Milano, Giulio Giorello ha sempre spaziato, nei suoi studi, in svariate discipline, mosso da una grandissima curiosità e dalla convinzione che la verità non stia mai da una parte sola ma che sia molto più fruttuoso – e divertente – scoprirla nella continua contaminazione dei saperi. Nel corso degli anni si è occupato parecchio anche del mondo dei fumetti, da Tex Willer a Dylan Dog, sino a Ratman – indimenticabile la sua prefazione a Ratman. Superstorie di un supernessuno – e ovviamente Walt Disney. L’abbiamo intervistato proprio sulla figura di Walt, a partire da un suo libro scritto con Ilaria Cozzaglio, recentemente pubblicato da Guanda e intitolato La filosofia di Topolino. Cominciando, ovviamente, col chiedergli quando è entrato in contatto con il mondo di Mickey Mouse e Donald Duck e a quando risalgono la prima e l’ultima lettura di un Topolino. Posso dire che l’ultimo l’ho letto l’altro ieri. È quindi l’ultimo solo in ordine di progressione, dato che domani o dopo ce ne sarà un altro, anche perché tra Topolino e banda Disney ne esce quasi uno al giorno. Tra il fumetto vero e proprio, le raccolte, Topolino e Paperino… c’è solo l’imbarazzo della scelta!

Il suo primo Topolino, invece? L’ho letto quando avevo cinque o sei anni. Era l’inizio degli anni Cinquanta e andava molto una storia a puntate – affascinante ma un po’ angosciosa, a dire il vero – intitolata Topolino e il tesoro di Mook. La sceneggiatura era di Billy Walsh, i disegni ovviamente di Floyd Gottfredson. Affiancato da Eta Beta, Topolino va alla ricerca di un misterioso tesoro che poi si scopre essere sperduto tra le montagne del Tibet. Seguendo la traccia del tesoro, i due (in realtà solo Topolino mostra qualche interesse, perché Eta Beta, si sa, detesta il denaro) attraversano tutto il Vecchio Mondo: arrivano prima in Irlanda, dove baciano la Blarney stone (quella che è citata anche nei Cantos di Ezra Pound), poi vanno in Inghilterra, luogo di criminali e fantasmi, dove incontrano lo spettro di un famoso londinese che assassinava i suoi clienti, ma era stato catturato e squartato da alcuni cavalieri. La storia si sviluppa in diverse città europee – li troviamo al Grand Guignol di Parigi – ma anche fuori: i nostri eroi raggiungono l’Egitto, strappando una stele a un leone che si chiama «G. B.». Da bambino non avevo capito che stava per Great Britain. Erano gli anni in cui l’America aveva cacciato l’Inghilterra dal Medio Oriente… Giunti in Turchia, conoscono una donna bellissima ma pericolosissima, una femme fatale, che li porta in Unione Sovietica, oltre la Cortina di Ferro. Quando arrivano a Mosca, in una grande stanza del Cremlino vengono ricevuti da Stalin in persona. Che, naturalmente, ha le orecchie aguzze e pelose del gattaccio Pietro Gambadilegno… non le dico come va a finire!

Preferisce i nuovi o i vecchi numeri? Leggo anche i nuovi. Non sempre, devo dire, ma ci sono parecchie sceneggiature interessanti. Per esempio, non mi perdo nessuna di quelle di Tito Faraci. Nel 2014 ne abbiamo anche fatta una insieme, che è stata pubblicata sul «Topolino» di luglio, dedicato agli ottant’anni di Paperino. Si chiama La filosofia di Paperino, che va a un congresso di filosofia. In realtà, era stato mandato a un congresso d’idraulici, ma sbaglia la sala del grande albergo dove si tiene la conferenza e va dai filosofi. Che lo prendono per un grande filosofo. Alla domanda: «Maestro, ma a cosa serve la filosofia?», Paperino, convinto di parlare agli idraulici, risponde: «Certamente non ad aggiustare i rubinetti!». E tutti: «Che risposta meravigliosa! Che scetticismo, che senso pratico…!». Sembra Wittgenstein, quando era stufo della filosofia e voleva andare a fare l’operaio nell’Unione Sovietica di Stalin. Per fortuna ha rinunciato.

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A proposito di psicoanalisi, c’è una storia, di cui lei ha parlato nel suo libro su Mickey Mouse, vale a dire Topolino contro Topolino, del 1953… Da ragazzo la trovavo molto angosciosa. Questa storia prende in giro gli psicanalisti, in particolare quelli freudiani. Tutta l’idea del doppio contenuta in quelle vignette porta ovviamente alla psicoanalisi. Disney ha attinto insomma a diversi materiali europei, ma ha avuto l’immenso genio di reinventarli. Forse, da questo punto di vista, il film che gli è riuscito di meno è Pinocchio.

Una storia molto politica, insomma… Molto anticomunista, naturalmente. Gambadilegno-Stalin dice: «Il mio popolo è felice perché ogni giorno mangia caviale e beve champagne». Topolino ed Eta Beta rispondono: «Veramente, a noi sembrano mortadella e gazzosa!». E Gambadilegno ribatte: «No, no, è proprio caviale e champagne». Se lo dice lui… Una storia molto carina, ad ogni modo, anche se è stata criticata per la sua coloritura politica. In realtà, spesso Walt Disney evitava volutamente il discorso politico, anche se in molti gli hanno messo in bocca simpatie partitiche. Una vecchia polemica… D’altra parte, Disney nasce come uomo di sinistra e poi si sposta verso destra. Gli hanno attribuito di tutto: simpatie prima bolsceviche, poi filonaziste, poi esoteriche, qualcuno ha detto che era addirittura un satanista. Un satanista in senso vero e proprio? Un giudizio semplicemente ridicolo anche se, in realtà, dobbiamo dire che Walt Disney era comunque anticristiano, perché la dimensione del trascendente non è mai presente nelle sue storie. Forse solo in qualche sceneggiatura di Paperino, in cui si vedono chiesette simili a quelle del New England, anche se le vicende si svolgono grossomodo dalle parti della California…

“ Disney ha saputo reinventare in maniera geniale tutto l’immaginario europeo. Qui risiede forse la sua grandezza ”

Come mai? Forse perché un americano, secondo me, non coglie subito lo spirito toscanaccio di Collodi, denso di quell’anticlericalismo da taverna… Basta pensare al personaggio del Grillo Parlante: è terribilmente antipatico. Uno non vede l’ora che venga schiacciato da una pietra. Tornerà nei fumetti di Gottfredson e Walsh, a tampinare il giovane Davy Crockett, convincendolo ad andare a scuola invece che sparare agli orsi e guerreggiare con gli Indiani. Un grillo parlante più deamicisiano che collodiano… Sì, un Grillo Parlante molto, troppo borghese.

Secondo lei qual è la fiaba che Disney ha meglio reinterpretato? Forse Peter Pan. Il cartoon è bellissimo. La trovata del coccodrillo è meravigliosa e Capitan Uncino è un personaggio indimenticabile. Un altro romanzo che è stato interpretato benissimo graficamente è Alice nel paese delle meraviglie. Walt ha saputo attingere a questo universo, da Collodi a Kipling, ora in meglio ora in peggio, ma comunque realizzando un’operazione culturale di grande respiro. Non mi stupisce che sia stato ammirato da Ezra Pound. Sa che quando Pound, al manicomio St. Elizabeth’s, guardava Bambi, ogni volta che vedeva la morte della mamma del cerbiattino piangeva come una fontana? Ma Disney è stato esaltato anche da un regista di parte – apparentemente – opposta come Sergej Eisenstein. Non c’è dubbio: è stato uno dei protagonisti del Novecento. E ha avuto l’intelligenza di lasciare che tutto andasse per conto proprio, in mano a quel grande disegnatore che fu Gottfredson e a grandi sceneggiatori come Ted Osborne. Senza dimenticare Billy Walsh, ovviamente (che tra l’altro ha anche steso la sceneggiatura di Mary Poppins). Un personaggio molto interessante. Se poi pensiamo alla saga dei Paperi, perfezionata da Carl Barks…

Lei come la vede? Penso sinceramente che Disney se ne fregasse completamente di ogni coloritura politica e ideologica. In questo senso era un po’ come Joyce: prendeva quel che gli serviva per costruire le sue trame. Nell’Ulisse, ad esempio, c’è di tutto: da Giordano Bruno a Darwin, dall’esoterismo alla ricerca dei fantasmi, dalla rivisitazione dei grandi classici della letteratura inglese all’esaltazione della rivolta irlandese. In questo senso, il grande calderone di Disney è un po’ come quello di Joyce: prende un po’ qua e un po’ là. Eppure questi materiali vengono anche profondamente rielaborati. Walt Disney ha saputo reinventare in maniera geniale tutta la mitologia europea, da Biancaneve e i sette nani alla Bella Addormentata nel Bosco, per poi non parlare di quell’autentico capolavoro che è Cinderella, Cenerentola, dove la protagonista canta: «I sogni son desideri». Una battuta di un protagonista di un cartone animato compendia decenni di psicoanalisi freudiana…

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Il padre di Paperon de’ Paperoni… Paperino e i suoi nipotini c’erano già, ma Paperone è farina del sacco di Barks. Le lotte contro i bassotti, Paperopoli con il deposito in cima alla collina… Sono tutte risposte americane al Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels. Solo che, mentre Marx ha regalato un paradiso comunista che mai si è realizzato – a meno che non ci accontentiamo di Gambadilegno-Stalin – nel mondo reale ha vinto Paperone, Uncle Scrooge. Ne sono più contento, personalmente. Mi trovo meglio, come dire… Sono più tranquillo tra le strade di New York che non tra quelle di Mosca…

tra questo buffo personaggio e Mickey Mouse un esercizio di relativismo… Certo. Tengo a precisare, però, che il relativismo che mi piace è quello à la Levi-Strauss, non il pensiero debole, sullo stile di Gianni Vattimo. Quello a cui penso è il relativismo che è passato attraverso il grande dibattito tra Popper, Lakatos, Kuhn e Feyerabend. Un pensiero secondo cui ogni idea ha il diritto di essere difesa pubblicamente. Se poi non si è d’accordo, la si criticherà a sangue, ovviamente. È questa la ragione per cui certi ostracismi italiani – italioti – appaiono oggi veramente ridicoli.

Peraltro il modello di Paperone si contrappone a un’altra forma di capitalismo. A Paperopoli vive anche un certo Rockerduck, che incarna il modello di un capitale molto più aggressivo… Il capitalismo ha una sua dialettica interna. Talvolta degenera, come le varie bolle finanziarie (il cui equivalente fece indignare Thomas Jefferson, negli ultimi anni della sua vita) stanno a mostrare… Paperone, però, è un capitalista sano, a differenza di Rockerduck.

Anche Topolino si è cimentato nella difesa della libertà di stampa contro la censura. In più occasioni. Vede, io sono per la ragione calcolante, ma c’è anche un altro tipo di ragione: quella che sa scegliere tra parti opposte, che piaceva tanto al grande poeta puritano John Milton e sotto la cui stella io e Ilaria Cozzaglio mettiamo Topolino, a partire da quel capolavoro che è Topolino giornalista, del 1935. Si parla appunto della libertà di stampa: Topolino fa nell’America degli anni Trenta quello che faceva Milton nell’Inghilterra della Grande Ribellione, cercando di convincere i suoi – la fazione del Parlamento – a non mantenere quella censura che tanto piaceva ai monarchici. E guai se questa censura diventasse un’autocensura portata avanti dal basso, dai tipografi! È quanto accade anche oggi, come parecchi recenti fatti di cronaca sembrano dimostrare.

Cosa pensa delle versioni italiane delle storie disneyane? A proposito del rapporto tra Disney e l’Italia, saprà sicuramente che passò del tempo prima che Mussolini bloccasse la pubblicazione dei fumetti disneyani in Italia, poiché stranieri… Al figlio di Mussolini piaceva molto Topolino… Era addirittura tesserato al club degli Amici di Mickey Mouse! In quel periodo, molte delle storie disneyane venivano disegnate in Italia. Anche negli anni Cinquanta: ricordo che da bambino m’imbattei nella versione disneyana dell’Inferno, sceneggiata da Guido Martina e Angelo Bioletto tra il 1949 e il 1950. La grafica era molto diversa da quella americana: la storia, che “prendeva in giro” la Commedia, conteneva i fumetti, ovviamente, ma anche le terzine dantesche, sotto i disegni. Topolino faceva Dante e Pippo Virgilio. Quel fumetto teneva conto della povertà dell’Italia del dopoguerra, con tutte le devastazioni belliche, ma anche dei primi scandali calcistici: il conte Ugolino, ad esempio, è un famoso arbitro finito all’Inferno per tutte le maledizioni ricevute dai tifosi. Questo personaggio aveva una squadra che gli era molto cara, tanto che le aveva regalato un milione di lire di allora… In quel numero c’era già tutta l’Italia.

In quella storia Mickey si colloca al di là della legge, difendendo la libertà di espressione nel momento in cui il potere costituito si è venduto ai censori… A mio giudizio Topolino è un grande libertario. Non si faccia l’errore (anzi, questa è una piega che ha preso il popolino italiano) di pensare che sia sempre dalla parte delle forze dell’ordine. Certo, è amico di Manetta e Basettoni: ma uno si chiama Casey e l’altro O’Hara, e Topolino pare essere a sua volta un Irish american. È quindi più che altro una solidarietà tra irlandesi che non un’adesione di Topolino alla legge. Tra l’altro, in parecchie storie Topolino è contro le forze dell’ordine, che prende in giro (come in Topolino nella casa dei fantasmi, del 1936) o che critica poiché corrotte (Topolino giornalista), oppure contro la burocrazia (Topolino e la lampada di Aladino, del 1939-1940). D’altra parte, Eta Beta, che ama bruciare il denaro, è ancora peggio di Topolino, dal punto di vista di un individualismo anarchico.

Una storia che s’inscrive nel ciclo delle grandi parodie disneyane… Sono state tutte realizzate in Italia. Ma ce n’è anche qualcuna americana: Gottfredson, ad esempio, ha disegnato Il mostro bianco, in cui Topolino si confronta con Moby Dick. Ce n’è un’altra – molto strana, a dire il vero – in cui il nostro eroe si trova coinvolto nelle avventure di Robinson Crusoe. Un capolavoro, che però non è esattamente una parodia: Topolino va a Hollywood a fare un film e diventa coprotagonista di una resa cinematografica del romanzo di Defoe. È proprio lì che incontra una serie di simpatici selvaggi che gli spediscono a casa il famoso Giovedì…

Lo stesso Disney, come han detto negli anni molti dei suoi collaboratori, odiava banche e banchieri. Basta guardare Mary Poppins! Questa è una bella e antica tradizione americana, che risale agli antifederalisti, tra cui lo stesso Jefferson. Ad ogni modo, Topolino non è affatto un topo dell’ordine! Tra l’altro, in una storia, Topolino e il Terrore dei mari (1952-1953), il nostro eroe torna indietro nel tempo per difendere i pirati che combattono contro la Marina di Sua Maestà britannica. Più anarchico di così… E alla fine vince la gloriosa bandiera con il teschio e le tibie, il Jolly Roger! Anche Paperino si muove in questa direzione… È ancora più anarchico, soprattutto nelle reazioni individuali. Paperoga, poi, è un personaggio delizioso, con

È il coprotagonista della storia Topolino e il selvaggio Giovedì, del 1940. Nel suo studio lei ha visto nel rapporto

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so, per esempio, ad alcune storie di Romano Scarpa. Topolino e la fiamma eterna di Kalhoa (1961) era stata pensata con un certo finale, che poi non venne pubblicato. Topolino va alla ricerca di questa fiamma eterna e, a un certo punto, scopre che altro non è se non un fenomeno naturale. Kalhoa, insomma, non c’è. Eppure, in quella conclusione alternativa, pubblicata dagli amatori della Walt Disney Italia, compare la regina, in una dissolvenza finale, dicendo ai protagonisti: «Non avete cercato abbastanza bene». Ha presente quando Yuri Gagarin sbarcò dalla sua grande missione nello spazio, la prima grande missione sovietica? Disse: «Mi sono guardato intorno e non ho visto Dio…». Be’, è come se Dio avesse fatto capolino, commentando: «Non hai guardato abbastanza bene, in profondità».

quest’aria totalmente… ecco, come se si fosse fatto una decina di canne! Credo, d’altra parte, che ci sia una forte componente psichedelica nei cartoons Disney. Lei ha visto Dumbo, vero? Si riferisce alla scena in cui l’elefantino beve acqua e whisky? Esatto. Non ha bisogno di commenti…! Non credo ci fosse solo whisky in quella botte…! Scherzi a parte, anche sotto questo aspetto credo che una delle qualità di Walt risiedesse nel lasciar giocare liberamente i suoi sceneggiatori. Be’, non è nemmeno mancata qualche censura… Ad esempio, è stata censurata una storia in cui Paperone, quando fa il cercatore d’oro nel Klondike, incontra la bella del saloon, Doretta Doremi. Ebbene, nelle tavole cosa facessero i due è evidente… ma sono state tagliate. Le ha ripristinate Luca Boschi, nell’edizione che ha recentemente pubblicato. Prima non si capiva bene che relazione ci fosse tra i due: ora non ci sono più dubbi! Il puritanesimo americano e un certo bigottismo europeo han mietuto parecchie vittime. Sergio Bonelli mi raccontava che Tex Willer veniva classificato come per «adulti con riserva»… Non riusciva a capire… Mi disse: «Forse, considerando che è una storia western, si riferiscono alle riserve indiane!». Ma ogni cosa ha la sua nemesi: pensi a Jacovitti, grande disegnatore della stampa cattolica che ha finito coll’illustrare il Kamasutra e mettere su «Playmen» le sue vignette. Quando i cattolici l’hanno saputo… In Italia è nata una scuola di fumetti di altissimo livello. Anche quelli scollacciati, per adulti. Son sempre stato un grande ammiratore non tanto di Diabolik – che era in qualche modo piuttosto perbenista – ma di Satanik. Era la versione in gonnella di Dottor Jekyll e Mister Hyde di Stevenson. Ma stava dalla parte di Hyde – era questo aspetto a renderlo interessante.

Un dubbio talmente radicale da ammettere addirittura la propria negazione… Il topo antimetafisico alla fine lascia aperta una porta alla metafisica stessa. In fondo non è un male parlare di queste cose… purché ci si possa sempre divertire. Ha presente la famosa battuta di Pound, del Canto CXVI, «Disney against metaphysicals»? Topolino e i suoi hanno a che fare con piccolissimi brandelli di metafisica… Certo, Billy Walsh ha dato a Topolino un taglio esoterico, mettendo nelle sue storie qualche fantasma vero. Sono tematiche spesso importate da Disney assieme al Medioevo europeo… Ma non solo. Pensi ad Amelia, la strega che ammalia, che abita alle pendici del Vesuvio. Oltre a essere un omaggio a Sofia Loren… Sofia Loren?! Parola di Carl Barks. L’ha dichiarato lui stesso: Amelia è Sofia Loren. Ma è anche un grandioso omaggio alla Napoli dei misteri e dei fantasmi. Fantastico ed esoterico, se funzionali alla narrazione, sono del tutto ammissibili. Certo, a mio giudizio non si dovrebbe inferire la presenza di tematiche esoteriche a partire da figure come quella di Magica De Spell. Così come non si dovrebbe credere ai fantasmi, pur apprezzando le meravigliose storie di Henry James o James Montague. Ho appena dedicato un libretto a questa faccenda. Si chiama Il fantasma e il desiderio, è uscito per Mondadori. In uno dei racconti contenuti, peraltro, c’è anche Piergiorgio Odifreddi. Che però viene ucciso. È l’unico vero fatto di sangue in tutto il libro. Un angelo di pietra non ne può più di sentirlo parlare: gli tira un colpo di spada e lo accoppa.

Una domanda a bruciapelo. Topolinia o Paperopoli? Dobbiamo tenere presente che Topolinia originariamente non c’era. È stata creata da Disney Italia. Negli anni Trenta non c’era indicazione di città; se c’era, era unicamente Paperopoli. Tutti erano sostanzialmente nello stesso luogo. La divisione tra Topolinia e Paperopoli è arrivata successivamente, e ha spopolato negli ultimi venti o trent’anni soprattutto in Europa… Ma se dovesse scegliere tra i due universi? Devo dire che Paperopoli è molto più caratterizzata di Topolinia, con quell’enorme deposito sulla collina che sovrasta una città tipicamente californiana, della West Coast…

In conclusione: dove risiede, a suo giudizio, il genio di Walt? Nell’aver creato un universo. Disney fu un grandioso creatore di mitologie, in grado di americanizzare le grandi tradizioni dell’Occidente europeo. E non solo europeo: la Disney ha lavorato in Brasile, dove impazza José Carioca. In questo senso, non mi stupirei se un domani riuscisse a penetrare anche in Cina, nonostante la censura perpetrata dal governo della Repubblica Popolare. Forse è più difficile che metta radici nei Paesi arabi, con l’aria che tira… E poi quella è una cultura fortemente aniconica, iconoclasta, nemica delle immagini. Però, non si può nemmeno escludere del tutto… Mai dire mai.

Topolino e/o Paperino? Molti vedono nel primo una figura a una dimensione, priva di profondità psicologica, e nel secondo un personaggio più complesso e aderente alla realtà. Nel suo libro lei demolisce questo stereotipo… Topolino è un eroe del dubbio, soprattutto nelle narrazioni americane. È privo di certezze e molto sfaccettato. Certo, la scelta di Disney Italia di farne troppo spesso un collaboratore della polizia ha generato l’immagine di un topo che vince sempre. Ma non è così. Nelle grandi storie raccolte ne La filosofia di Topolino non vince sempre. E molte sue vittorie sono relative, non di certo assolute. Pen-

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Le influenze letterarie di Walt Disney di Max Gobbo

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u allora che la letteratura sussurrò all’orecchio del grande costruttore di sogni. L’universo disneyano immaginifico, variopinto e multidimensionale ha da sempre esercitato una malia irresistibile, grazie al suo grande vitalismo narrativo che si fa immagine ed azione, attraverso le sorprendenti suggestioni dei mezzi espressivi del fumetto, dei cartoons e del cinema. La tendenza – anzi, si potrebbe dire, la predilezione – per il soggetto letterario e fiabesco da parte del grande genio americano attraversa buona parte della sua vastissima e variegata produzione artistica. Valgano a titolo d’esempio le varie, riuscitissime e gustose riproposizioni, nonché gli adattamenti in chiave fumettistica di numerosi classici della letteratura. Solo nel nostro Paese, a partire dal 1957, per Arnoldo Mondadori Editore e, successivamente, per la Walt Disney Company Italia sono usciti capolavori come I Promessi Paperi, Paperodissea, L’Inferno di Topolino, Paperino e Don Chisciotte e Paperino e i Tre Moschettieri. A tal proposito non bisogna dimenticare, fra le altre, la celebre riduzione cinematografica de La spada nella roccia (1963), ultimo classico prodotto dagli Studios prima della scomparsa di Walt. In questo film d’animazione viene affrontato un tema leggendario attraverso l’incontro tra cartone animato e grande letteratura (il Ciclo Bretone e Arturiano). «Merlino: Vedi giovanotto, questa faccenda dell’amore... è una cosa potentissima! / Artù: Più forte della gravità? / Merlino: Be’, sì figliolo, in un certo senso... io direi che è la forza più grande sulla terra!» Sono battute come queste a reintrodurre tematiche letterarie (in questo caso, legate addirittura all’epica cavalleresca medievale!) all’interno dell’universo Disney, ovviamente rielaborate e reinterpretate in base allo spirito dei tempi. Ed è appunto la figura di Artù e la sua Excalibur (simbolo di regalità e di potere) a fornire a Disney motivo ispiratore e momento narrativo. I protagonisti della vicenda sono naturalmente Merlino e Artù, presentati in modo del tutto nuovo: il primo è un simpatico vecchietto occhialuto con tanto di barba matusalemmica, in discontinuità coll’immagine solenne e severa del potente mago; il secondo un giovinetto timido e maldestro che ha però in nuce i semi della nobiltà e dell’eroismo che farà germogliare una volta raggiunto il trono. In modo analogo l’opera del cineasta americano ruota attorno al mondo della fiaba, sia per costruzione narrativa che per suggestioni, trovandovi anzi ambientazione ideale per il suo modus operandi cinematografico. Nascono così capolavori come Biancaneve e i sette nani (1937), Pinocchio (1940), Fantasia (1940), Cenerentola (1950), Il libro della giungla (1967) e Il re leone (1994). «Dimenticali Wendy, dimenticali tutti, vieni con me dove non dovrai mai, mai pensare alle cose dei grandi…» A parlare è ovviamente Peter Pan, nel film Disney del 1953. Parole che potrebbero essere applicate al regno della letteratura, specie per come inteso dal protagonista di questa storia. Si potrebbe perciò affermare che

l’arte disneyana, nel suo insieme, sia stata grandemente influenzata (e forse nutrita) soprattutto dalla grande letteratura. Tuttavia, secondo quanto insegnano scienza e filosofia, come pure l’umana esperienza, in ogni rapporto dinamico d’interazione avviene sempre una mutua influenza tra le parti in causa. Così la redazione di «Antarès» si è posta il seguente quesito: se è vero, come è vero, quanto più sopra sostenuto, è allora ipotizzabile che la letteratura – o, in modo meno pretenzioso, la narrativa – possa trarre motivo ispiratore e parimenti suggere vigore dal cosmo disneyano? Per dare degna risposta a detta domanda abbiamo lasciato la parola, o meglio la tastiera (un tempo avremmo detto “carta bianca”), a tre scrittori, che hanno accettato di cimentarsi nella non facile impresa di stabilire se i sogni del grande costruttore americano potessero essere anche i loro. E ora, come di consueto, prima di lasciarvi alla lettura, un breve sguardo ai tre racconti proposti in questo numero di «Antarès». Dalle atmosfere sognanti tipiche della fiaba alle tetre suggestioni del gotico, dalle influenze letterarie del postmodernismo di matrice americana all’aroma umoristico e disincantato della commedia all’italiana: ecco dispiegarsi il variegato repertorio narrativo e stilistico messo in campo dai nostri autori. Tre risposte ad un’unica domanda, tre racconti di qualità in cui, nonostante le variazioni sul tema, si respira inalterata la magica atmosfera dell’opera disneyana. Una storia imprevedibile e inconsueta dal tratto alla Salce è quella tratteggiata con arguta ironia da Donato Altomare nel suo Io sono un creativo, racconto in cui un calciatore con ambizioni da pubblicista si presenta a una sorta di provino che però nulla c’entra con lo sport. La vicenda prende le mosse da dinamiche aziendali presupponenti un arrivismo e una competitività esasperati, logiche cui il protagonista tenta inutilmente di sottrarsi. Un mondo lontano anni luce dallo spirito originario di Walt Disney, che però viene coinvolto per il tramite della sede italiana della compagnia omonima. Altomare mette in scena un dramma tragicomico che restituisce intatto l’aroma inconfondibile della commedia all’italiana. Un’inedita versione di Cenerentola è invece quella proposta da Ugo Ciaccio, in cui grazie a un’immaginifica analessi politicamente scorretta si dipana una vicenda dal soma gotico, che rammenta le cupe atmosfere aleggianti sulla filmografia burtoniana. Una fiaba nera che sorprende e agghiaccia. Due narrazioni che s’incrociano, con in mezzo il dramma del Vietnam e trent’anni di storia statunitense. Una singolare coppia di fratelli immersi nei loro ricordi, tragici e melanconici, che si stanno recando per l’ultima volta al capezzale del padre. Questi gli elementi e lo sfondo della Sad Symphony di Gianpiero Mattanza, racconto che giunge a Walt Disney percorrendo le lacerazioni del secolo americano. Un dialogo, d’altra parte, mantenuto sempre ben vivo da quello che fu e che resta tuttora uno dei sommi geni del Novecento.

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Io sono un creativo di Donato Altomare

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lete idee? Ditemi a che ora e dove posso scaricare il camion». Equivoca la risposta: «Mercoledì alle ore 10:00 presso la sede a Milano in via...». Non specificando se si riferissero al camion o a un appuntamento. Optando per la seconda ipotesi, lasciai la mia città di provincia a sud dello Stivale e viaggiai tutta la notte per essere a Milano in orario. Ero in stazione alle 8:45. Mi ero accuratamente sbarbato la sera prima, ma già un’ombra oscurava il mio viso. Avevo gli occhi pesti, ovviamente non avevo riposato bene in treno, e gli abiti sgualciti. Mi scompigliai i capelli. Bene, sembravo un vero creativo. Alle 9:28 era seduto nella saletta d’aspetto. Mi ero portato la Settimana Enigmistica. Da tre giorni ero alle prese con un rebus che mi stava facendo impazzire. Divennero tre giorni e dieci minuti quando entrarono un altro paio di persone. Giacca e cravatta. Perfettamente pettinati e sbarbati, anche se forse di barba non dovevano averne, vista la loro giovanissima età. Mi salutarono con un leggero cenno del capo e si sedettero, continuando a chiacchierare tra loro, quasi non esistessi. Dopo cinque minuti ne arrivarono altri tre e poi due. E ancora. Eravamo una dozzina quando, alle dieci in punto, si aprì la porta degli uffici. Ne uscì una donna piuttosto in età. Capelli corti poco curati, occhiali sulla punta del naso e niente seno. Ci diede uno sguardo, soffermandosi con un’espressione di vago disgusto su di me, e lesse una serie di nomi, compreso il mio: «Seguitemi». Ci diede le spalle, piatto anche il sedere, e si mosse senza curarsi di controllare se la stessimo seguendo. Perplesso per la numerosa compagnia, cominciai a dubitare se-

he poi non significa nulla. Il mio campo è la pubblicità, magari quella per il lancio di una nuova autovettura. Sarebbe formidabile, lui seduto al posto di guida che recita: Lasciate stare, non è per voi. Sogghigna e accarezza i capelli della fata di turno. Poi parte con la nuova auto, lasciando nell’aria quel senso di equivoco che mi piace tanto. Già, l’auto o la fata… non è per voi? Dietro scorrono le caratteristiche della nuova autovettura e alla fine un numero di telefono, con scritto sotto, tra parentesi: Chiedete di Roberta. Oppure una pubblicità per le scarpe: Fantastiche!, non le lascerete mai più. E si vede lui in pigiama, a letto con due fate, sempre di turno, che dorme con le scarpe ancora ai piedi. Ma abbracciando le due ragazze. Equivoco: chi non lascerete mai più? Così si scatena la fantasia della gente che ha la solita utilitaria e le scarpe un po’ scomode perché a buon mercato. Senza poi parlare di con chi dorme. Ecco, spero abbiate capito cosa significhi per me essere creativi. In realtà sbarco il lunario facendo il centrale di difesa in una squadra di serie C2, quel difensore che si prende tutte le colpe se gli avversari segnano, quel difensore di cui difficilmente si parla sui giornali, che si becca un anonimo 6 quando va tutto bene. Insomma, un impiegato del calcio. Potete quindi ben capire la mia eccitazione quando ho ricevuto la risposta dalla Disney. Ovviamente, si tratta della The Walt Disney Company Italia, la prima filiale Disney nel mondo per data di fondazione. Avevo letto da qualche parte che stavano cercando idee per la loro produzione. Avevo risposto con una semplice frase: «Vo-

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emeroteca», e mi lanciò ancora uno sguardo blandamente divertito, «che contenga anche, com’è ormai consuetudine, scaffali con film, nelle loro forme più attuali ma anche arcaiche.» «Ma cosa c’entrano i film con il vino?» borbottò un altro giovane concorrente. «Quella si chiama enoteca. L’emeroteca contiene riviste, giornali e altro del genere. Come una grande edicola. Come si chiama lei?» Meno tre. «La mia domanda è semplice» ripeté, quasi a sottolineare che non lo era affatto: «Se voglio indirizzare l’attenzione dell’osservatore casuale su uno dei film, cosa devo fare?». Il primo ad alzare la mano per rispondere fu mio nipote, con la cravatta gialla a righe. «Creo una sovracopertina tutta bianca che si stacca nettamente da quelle colorate degli altri film.» «Qualche altra idea?» Si sprecarono in suggerimenti, dai più folli (illuminiamo la cassetta con luce propria) ai più banali (la tiriamo fuori e la mettiamo ben in vista). Io non risposi subito. Guardai attentamente lo scaffale. Aveva sopra i giornali, sotto riviste e sotto ancora, diciamo all’altezza del bacino, le cassette. Mi alzai. Fui l’unico a farlo. Mi accorsi che era difficile leggere i titoli dei film, mi sarei dovuto piegare e restare in quella posizione a lungo. Così sgombrai il primo ripiano, quello all’altezza degli occhi. Posai provvisoriamente i giornali sul tavolo e sistemai le cassette nello stesso ordine in quel primo ripiano, mettendo sotto i giornali. Soddisfatto, mi risedetti. «La quinta cassetta è al contrario» disse la voce del dirigente alle mie spalle. Mi girai, accennando un sorriso: «Ah, l’ha notato?». Non mi rispose. Distolse lo sguardo da me e raggelò un paio di candidati: «Lei e lei… potete andare. Non abbiamo bisogno di voi (meno cinque)». Puntò il suo indice su di me: «Lei… La sua non è certo un’idea originale». «Funziona. L’ha verificato lei stesso. Ho studiato da creativo.» Certo non capì che lo stavo prendendo in giro, perché non mi cacciò via. Sapevo di aver rischiato molto, ma cominciava a darmi sui nervi quel suo modo di fare. Da re che decreta vita o morte dei suoi sudditi. Eppure in quel frangente lo era. Qualcosa mi diceva che era tutta una farsa, che lì dentro c’era chi aveva già il suo nome sulla targhetta dell’ufficio del creativo, ma che forse dovevano dare una parvenza di legittimità alla sua assunzione. E il mio giovane nipote sembrava troppo tranquillo, mentre, da quando i primi due erano stati mandati via, molti avevano sbottonato il colletto sotto la cravatta e allargato il nodo. L’avrei fatto anch’io, ma non porto mai cravatte. «Vorrei adesso da voi un motto. Personale. Laggiù c’è una lavagna, andate e scrivetemelo. Lei per ultimo.» Riferendosi a me. Gli ultimi saranno… Attesi con pazienza che tutti lo facessero. Ce ne furono di carini (Il mio nome è Marco I. Lattanzi. I sta per Idea) e banali (Vi sommergerò di creatività). Il prescelto dalla cravatta gialla (avevo cominciato a pensare a lui in questo modo) scrisse: IO +++. Quando mi accorsi che mancavo soltanto io, mi alzai di scatto. Cancellai accuratamente la lavagna e cominciai a scrivere: COGITO, ERGO SUM. Il tono del dirigente evidenziava tutta la sua delusione: «Tutto qui? Devo averlo già letto da qualche parte» ironizzò mentre gli altri ridacchiavano, pregustando la mia imminente

riamente delle mie possibilità di successo. Oh, certo, spiccavo per il mio aspetto. Come definirlo… casual? Che poi significa che metti quello che ti capita la mattina quando la sveglia ti butta giù dal letto. Ma era adatto all’occasione? Bah! A meno che… pensai a quella pubblicità in cui l’aspirante si rasa i capelli e si veste come il titolare dell’azienda, fregando gli altri. La sala riunioni era mostruosa. Un tavolo in simil legno da trenta posti era circondato da una serie di scaffalature colme di libri che certo nessuno aveva mai letto, di vecchie cassette e DVD, tutti ovviamente con i film della Disney. Davanti a ogni poltroncina, sul tavolo, c’era un display inclinato ‘sì da permettere la lettura senza coprire chi fosse di fronte e, accanto, un banalissimo taccuino con relativa penna. «Prendete posto, per cortesia.» Alcuni l’avevano già fatto, beccandosi lo sguardo colmo di rimprovero della donna dagli occhi acquosi. Mi avvicinai alla poltroncina più vicina e la scostai. Uno stronzetto in camicia bianca e cravatta gialla a righe si sedette, approfittando del fatto che l’avevo spostata, dicendo: «Grazie, nonno». Nonno? A me? «Come ti chiami?» Lui mi fissò perplesso: «Come? Non conosci il nome di tuo nipote?». E ridacchiò. Fu uno sbaglio. Non feci quello che ogni uomo con le palle dovrebbe fare in simili situazioni. Mi sedetti su un’altra poltroncina. Purtroppo quella più lontana dal posto dirigenziale. Che fu occupato subito: entrò un uomo piuttosto giovane, ben pettinato, perfettamente sbarbato e con uno spezzato molto elegante. Istintivamente mi alzai. Fui l’unico. L’uomo mi lanciò uno sguardo che non riuscii a interpretare. Imperturbabile, attesi che si sedesse per tornare ad accucciarmi nella mia poltroncina. «Signori,» esordì il dirigente senza neanche presentarsi, forse ritenendosi così conosciuto da non doverlo fare, «siete qui perché abbiamo bisogno di un creativo. Non ho tenuto conto dei curricula di tutti voi perché non dicono mai la verità.» «Complimenti» mi lasciai sfuggire. Il dirigente mi fissò: «Per cosa?». «Curricula…» balbettai imbarazzato, «tutti oggi dicono curriculum anche al plurale.» Lui scosse il capo come si fa con un deficiente che dice banalità e continuò: «Oggi da questa sala dovrà uscire il creativo da assumere, quindi sarete sottoposti a una serie di quesiti che serviranno allo scopo». «Ma nessuno mi aveva informato di questo.» Scattarono quasi all’unisono due dei presenti. Il dirigente lanciò loro un’occhiataccia e chiese i nomi. Attese che li avessero pronunciati, si rivolse alla segretaria anziana dalle posticce unghie scarlatte e disse: «Natalie, li cancelli». Si girò verso i due: «Per cortesia, lasciate la sala, non abbiamo bisogno di voi». «Ma…» azzardò uno dei due, «cos’ho detto di male?» «Nulla di male, per carità, ma se vuole essere avvisato significa che non è pronto, e non può servirmi uno che non è pronto all’occorrenza. Buona giornata, signori.» Uscirono a capo chino sotto lo sguardo allegro degli altri. Meno due, pensammo tutti insieme. Il dirigente tornò a sfiorarmi con lo sguardo, quasi stesse decidendo se destinarmi la stessa sorte per aver osato parlare senza la sua autorizzazione, poi parve seguire altri pensieri. Difatti cominciò: «Signori, alle vostre spalle avete degli scaffali con vecchie cassette di film della Disney. La mia domanda è semplice. Immaginate di essere in una

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ste scene per intere generazioni? Nei miei incubi c’era sempre Crudelia De Mon de La carica dei 101. Mi terrorizzava. Ma vi sembra giusto basare una storia per bambini su una che scuoia i cani? E La bella e la bestia? Ci sommergete di pubblicità, convincendoci che dobbiamo essere belli, affascinanti e attraenti, per poi dare una splendida ragazza a una specie di mostro. Mi sembra strano che non abbiate ancora fatto un film su Hansel e Gretel. Horror puro. Pensate davvero che i ragazzini credano alla storia de Il libro della giungla? Un neonato abbandonato nella giungla è fortunato se sopravvive un paio di minuti. Latte di lupo? Che schifo! Ogni giorno chiedevo a mia madre di che animale fosse il latte della mia colazione. E, poi, non la definirei un’idea molto originale, a partire da Romolo e Remo. Ma finiamola con le storie a lieto fine, col buonismo a tutti i costi! Le maggiori disillusioni dei ragazzi nascono dallo scoprire che il mondo è tutt’altra cosa. Infinitamente peggiore e crudele. Ciò che bisogna davvero insegnare ai bambini è la differenza tra sogni e realtà.» Tacqui. Mi ero sfogato. Presi la penna col marchio Disney e la mostrai al dirigente: «Posso tenerla?». E mi alzai per andarmene. Mi squadrò dalla testa ai piedi e mi ordinò: «Stia seduto, non le ho dato il permesso di andare via». Stavo per rispondergli che non avevo certo bisogno del suo permesso, quando lui distolse lo sguardo da me: «Lei, lei e lei… (meno dieci), potete andare». Mentre la segretaria anzianotta prendeva nota, grattandosi i sette piercing all’orecchio sinistro, l’uomo tornò a guardare me e il prescelto: «Preparatemi una nota con cinque idee innovative. Avete un’ora a disposizione». Si alzò. «Un’ora esatta.» Senza neanche un cenno di saluto uscì, seguito dalla segretaria che cercava di sculettare. Senza riuscirci.

dipartita. «Non le sembra assolutamente poco… originale per un creativo?» Mi girai: «Non ho finito». Tornai a dare le spalle a tutti e con tranquilla indifferenza misi tra parentesi la G, mutando così il senso della frase. CO(G)ITO, ERGO SUM. Sentii alle mie spalle un secco «Ah!». Una risata monosillabica. «Lei e lei… (meno sette) potete andare» disse, segnalandoli alla segretaria che si stava umettando le labbra siliconate. Quando furono fuori, si girò verso i sopravvissuti, io, il prescelto e altri tre: «Abbiamo bisogno di una nuova interpretazione dei classici. Cosa pensate dei film Disney? Soltanto i cartoni animati, intendo». La domanda mi colse davvero impreparato. Che cazzo ne sapevo io dei cartoni Disney? Sì, li avevo visti tutti, ma da piccolo. Chi non ha visto Pinocchio… La bella addormentata… o Cenerentola, Il libro della giungla, ecc., da bambino? Ma mi ero stufato presto. Rammentavo che la grande casa cinematografica ne aveva sfornato un numero incredibile, tra cartoni e “normali”. Il guaio è che quelli che ricordavo un po’ meglio non erano certo i cartoni animati. I tre sopravvissuti si lasciarono andare a lodi sperticate, parlarono della loro valenza umana e culturale, del loro profondo insegnamento alla gioventù. In quel momento ebbi conferma che il prescelto era proprio lui, il mio nipote dalla cravatta orrenda. Sciorinò una sequela di critiche molto ben articolate. Non poteva averle pensate lì per lì. Conosceva certo la domanda e si era preparato. Rimasi in silenzio, rimuginando se mandare tutti al diavolo subito oppure continuare quel gioco idiota. Infine lo sguardo del dirigente si posò su di me. La voglia di spararla grossa c’era. Come pure l’idea da presentare; del resto, che creativo sarei stato senza un’idea in quel momento? Cacciato per cacciato… Così sbottai: «No, non sono d’accordo. I classici? Li butterei tutti nella spazzatura. Hanno fatto danni agli spettatori di tenera età». Per la prima volta vidi il dirigente spalancare gli occhi per la sorpresa e la segretaria fare lo stesso. Il movimento delle sue lunghe ciglia finte fu così repentino e ripetuto che smosse l’aria intorno. «Quando Dumbo è stato sottratto alla madre imprigionata, ho pianto per una settimana. I miei non riuscivano a consolarmi. E la storia della mela avvelenata? Sino a quindici anni non ho toccato una mela. Potete immaginare facilmente come sono rimasto. E Pinocchio? Ogni volta che facevo filone a scuola, di sera controllavo che le mie orecchie fossero normali. Senza poi dire che avevo impressa negli occhi la scena dell’impiccagione. Di notte, ogni ombra nella mia stanza mi sembrava il burattino appeso. Terribile! Vi rendete conto di che traumi sono state que-

“ Le maggiori disillusioni dei ragazzi nascono dallo scoprire che il mondo è infinitamente peggiore e crudele ”

«Ma pensi davvero quello che hai detto?» La domanda mi sorprese. Il prescelto mi stava guardando con malcelata ammirazione. La sua tracotanza era stata messa da parte, forse si stava rendendo conto che poteva esserci qualcuno migliore di lui. Benché la cosa paresse non preoccuparlo affatto. «E non ho detto tutto.» «Cos’altro?» chiese, interessato come un bambino. «Non ho parlato di Cenerentola. Da ragazzino mi sono sempre domandato come potesse una scarpetta di cristallo rotolare su una scala in pietra senza andarsene in frantumi. Ho provato con un bicchiere di casa, mandandolo in pezzi: il sedere mi fa ancora male per le sculacciate. Capii, ed è duro a otto anni, che le favole sono spesso panzane. Tant’è che non mi sorprenderebbe un’altra versione di Cenerentola.»

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Scagliai uno sguardo omicida verso il giovinastro in cravatta gialla a righe: «Come… come hai potuto?». Lui non batté ciglio e rispose a denti stretti: «Cosa dici? La storia è mia e tu me l’hai copiata». Mi girai verso il dirigente e chiesi: «Non è vero, gliel’ho raccontata io. Quella versione non è sua. Mi crede, vero?». «Bella idea» disse sommessamente. Poi mi guardò fisso negli occhi: «Signor Coppolecchia (sì, mi chiamo proprio Saverio Coppolecchia, non è colpa mia), può andare. Non abbiamo più bisogno di lei. Grazie per il tempo che ci ha dedicato». «Me l’aspettavo…» «Vede, non so a chi appartenga l’idea, ma ci sono due possibilità. Che lei stia mentendo e la storia l’abbia copiata sbirciando dal taccuino del suo collega. In questo caso, è giusto che la rispedisca a casa. La seconda possibilità è che lei gliel’abbia davvero raccontata. A maggior ragione non è adatto a questo posto. Qui si arriva allo spionaggio industriale per carpire qualche informazione segreta sulle prossime programmazioni. Uno che parla così tranquillamente e butta via un’idea tanto bella senza riflettere sulle conseguenze non dà alcuna garanzia d’indispensabile riservatezza.» Si avvicinò al prescelto, gli tese la mano e concluse: «Congratulazioni, il posto è suo».

«Davvero? Quale?» Non aspettavo altro: «Ecco, la scarpetta di vetro va in mille pezzi. Il principe s’incazza come non mai e ordina ai suoi sudditi di trovargli il migliore mastro vetraio del regno. Gli chiede di fare una scarpetta identica a quella ormai rotta. Il mastro vetrario guarda i pezzi e scuote il capo. Impossibile, nessuno è in grado di realizzare un cristallo così sottile e al contempo resistente. Ma al principe la storia non va giù e gli ordina di realizzarla a ogni costo. O gli taglierà la testa. Il poveraccio s’impegna al massimo riuscendo nell’impossibile e, basandosi sui pezzi della scarpetta rotta, ne realizza una identica. Felice, il principe convoca le fanciulle da marito del reame per far misurare la scarpetta. Ma è troppo piccola per tutte. Poi accade il dramma. Una ragazza giunonica tenta di infilarla nel suo piede taglia 45, senza riuscirci; per farlo si alza e spinge forte sul pavimento la scarpina delicata e anche questa va in pezzi. Il principe è furibondo. Sta per mandare al patibolo la poveretta, quando si ode una sorta di scampanellio. Proviene dalla cassetta rivestita di morbidissima stoffa imbottita di piume nella quale il principe ha serbato come reliquie i resti della scarpetta di cristallo persa dalla sua amata. Li guarda. Sbalordito, si accorge che tintinnano. E accade un prodigio: i pezzi di cristallo finissimo si librano in aria, abbandonano la cassetta ed escono dalla reggia. Il principe li segue con gli occhi spalancati e il cuore in subbuglio. Si dirigono verso una ricca casa, ma, invece che dalla porta principale, entrano dalla finestra della soffitta. Il principe si scaglia contro il portone per farsi aprire. Un servitore lo riconosce, sgrana gli occhi e si fa da parte. Il principe entra nella casa e, incurante delle sorelle e della matrigna che l’hanno seguito dalla reggia in quanto anche loro dovevano misurare la scarpetta, corre verso la soffitta. Quando entra, vede i frammenti sospesi in aria accanto a Cenerentola, che dorme esausta su un logoro pagliericcio gettato per terra. Mentre arrivano le donne della casa e alcuni servitori, si avvicina alla fanciulla e la sveglia delicatamente. Grande è la sorpresa della bellissima ragazza nel rivedere il principe che ama, tant’è che pensa sia tutto un sogno. Ma la sorpresa s’ingigantisce quando i frammenti avvolgono il suo piede nudo e pian piano si ricompongono, formando la scarpetta di cristallo. Che le calza perfettamente». Poi il consueto finale con le nozze, eccetera eccetera. Il prescelto era rimasto incantato ad ascoltarmi. In fondo era sempre un ragazzino fatto crescere a forza. «Non ho possibilità con te, sei troppo bravo.» Scossi il capo. Volevo credergli, ma sapevo che non era così: «Non è detto. Prova a dare il meglio di te». Poi mi concentrai sul mio taccuino e cominciai a scrivere.

L’annata calcistica 2015-2016 è stata forse la migliore per me. Non sono mai sceso sotto la sufficienza, e un paio di volte ho beccato un 7, tant’è che sembra che una squadra di serie B mi abbia richiesto. Spero non sia troppo distante dalla mia città, anche perché ho finalmente conosciuto una ragazza con la quale vado molto d’accordo. Sarebbe doloroso scegliere tra lei e una squadra settentrionale di B. Ma è meglio non fasciarsi la testa prima d’essersela rotta. È lunedì, ho acquistato la Gazzetta, come faccio ogni inizio settimana per leggere quello che dicono della mia partita. Il mio sguardo viene però catturato dai titoloni in prima pagina. Lo scandalo della scarpetta di Cenerentola. Pare che la Disney abbia in tutta segretezza iniziato la realizzazione di un cartone animato con una simpatica variazione della scarpetta che va in frantumi, senza però sapere che la Warner Bros aveva già quasi terminato la produzione di un film che si basava proprio su quella idea, un film tenuto segretissimo e, ovviamente, con un copyright altrettanto segreto. La Disney è cascata dalle nuvole quando è stata citata per plagio ed è stata costretta a sospendere la produzione, rimettendoci un’incredibile carrettata di soldi. C’è stato il solito scarica-barile sulle responsabilità, ma il giornalista sostiene che i veri colpevoli siano un creativo e il dirigente che l’ha selezionato. Le loro foto spiccano in prima pagina. Sono in bianco e nero, ma giurerei che la cravatta a strisce del creativo sia gialla. Ripenso all’esperienza di un anno fa. L’idea della scarpetta in frantumi l’avevo raccontata io al prescelto, ma mica gli avevo detto fosse mia… Era accaduto tutto per caso. Mi ero sentito con una cugina americana che aveva partecipato al casting del film della Warner e me ne aveva parlato in maniera entusiasta. Mi aveva raccontato a grandi linee quella storia, facendomi giurare che non ne avrei parlato con nessuno. E così avrei fatto, se non fosse stato per colpa di quei due. Questa piccola soddisfazione me la prendo volentieri. Col dirigente e col prescelto. È un pensiero apparso nella mia mente lì per lì. Una idea dall’amaro sapore di vendetta. E un’idea è pur sempre un’idea. Del resto, non sono forse un creativo?

Il dirigente guardò prima me, poi lui. Poi lui e di nuovo me. Infine fece un lungo sospiro e disse: «Ammetto che la scelta è molto difficile. Ma c’è una questione che mi aiuterà a chiarire le idee. Ho letto le cinque proposte di entrambi e devo convenire che un paio sono molto innovative, una per ciascuno. C’è però la questione di Cenerentola». Aggrottai la fronte: «Quale questione? Non le piace la nuova storia?». Lui strinse le labbra, imitato dalla segretaria, che aveva però serie difficoltà, a causa dei denti sporgenti. «Avete proposto entrambi la stessa variazione. Con la scarpetta di cristallo che va in frantumi.»

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Sad Symphony

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di Gianpiero Mattanza

«1

cappotto di pelle lungo fino alle ginocchia, blue jeans e stivaletti di pelle nera. È un uomo massiccio, quasi muscoloso, ma più basso dell’altro. Il tratto principale della sua persona è costituito da grandi orecchie a sventola. Il più giovane è allampanato e un po’ trasandato, la sua voce ha un suono nasale ed acuto. Porta abiti lisi e troppo larghi per la sua persona, in testa ha un basco blu di foggia militare. «Cazzo, Dee: non molli mai il berretto della marina?» «Lascia perdere, Mickey: questo cappello è tutto ciò che mi sta a cuore. Odio gli abiti civili, dovresti saperlo...» «Lo so, lo so. Ma con i vestiti di tutti i giorni e quel cappello in testa sembri un idiota!» «Definirti il più clamoroso stronzo di questa terra è un tiepido eufemismo, Mickey.» Rubando il berretto all’altro con un agile balzo, Michael risponde con un esagerato inchino di benevola presa in giro: «Molto obbligato, signore». «Vaffanculo, Michael. Da’ qua.» Strappandolo di mano all’altro, il giovane si calca alla meglio il berretto in testa. I suoi occhi indicano uno stato di agitazione e grande stanchezza, ma il sorriso sereno e spontaneo di chi incontra nuovamente un suo caro dopo molto tempo fa da contraltare all’aspetto nel complesso pensoso e serio. «Mi sono sistemato in un hotel non lontano da qui, almeno sono vicino al St. Joseph’s» dice Dee, facendo scorrere lo sguardo dalla punta delle sue scarpe alla cima d’un lampione non lontano, quasi evitando lo sguardo dell’altro.

9-12-1933. Oggi è nata mia figlia, una bambina di sei libbre e mezzo. I medici dicono che il peso è nella norma: non posso che essere felice, sollevato. Lillian ha avuto qualche complicazione durante il parto, ma ora sta bene: è soltanto molto stanca. Posso solo immaginare cosa significhi! La bimba si chiamerà Diane Marie: è un nome che piace ad entrambi e che, in realtà, avevamo già scelto nel caso fosse nata una femmina. Altrimenti, il nome sarebbe stato Michael: dovremo attendere, per darlo ad un altro piccolo Disney. Tuttavia, me lo sento: Diane Marie avrà presto un fratellino. Anzi, due!» [dal diario di Walter Elias Disney] Verso la fine del 1966. «Gesù Cristo, Michael! Che astronave guidi?» L’auto è ferma, il finestrino abbassato, l’espressione dell’uomo alla guida sorniona. Sfodera uno dei sorrisi più strafottenti di cui sia capace e, inclinando leggermente il capo in direzione dell’interlocutore, gli si rivolge prendendosi tutto il tempo per rispondere, con una voce baritonale ostentata e volutamente ridicola: «Pontiac GTO del ‘64, Dee». Poi, con un accento di rimprovero nella voce, aggiunge: «Rischio di tirare le cuoia ogni giorno. Permetti che mi tolga qualche soddisfazione, ogni tanto?». «Scendi, prima che mi venga voglia di farci un giro, alla faccia tua.» Sotto il cielo carico di pioggia di Burbank i due si scambiano un lungo abbraccio, ridendo: il più vecchio indossa un

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Donald è colpito da quelle parole, tanto da non riuscire a sostenere lo sguardo del fratello. Non è mai stato bravo a gestire le emozioni, tanto che non è in grado di rispondere: anche se lusinghiere, le parole di Michael, dopo tanto tempo, gli creano enorme disagio. Gli esce solo una domanda secca, dura, inappropriata: «Papà sa delle tue denunce? Voglio dire...». Questa volta è Donald ad aver toccato un tema difficile. «È tutto ok, Dee. Mamma dice che non è il caso di tirare fuori questo discorso. Con lui, del resto, non ho mai parlato direttamente di cosa comporti il mio lavoro. Pensa che il mondo si divida in buoni e cattivi, in bianco e nero. Non capirebbe.» «Non capirebbe cosa, Mickey?» «Non capirebbe perché uso la forza. Non capirebbe che un fottuto ispettore di Pasadena, per riuscire a sopravvivere al mestiere che fa, deve ogni tanto restituire la violenza che subisce. Dovresti averlo capito anche tu, Dee. Sei in guerra da quasi un anno, ormai. Te ne sei accorto?» Il tono di Michael è così tagliente che lui stesso, dopo un attimo, si rende conto della grave offesa, uscita dalle sue labbra come un proiettile. «Scusa, Dee, non intendevo...» «Forza, andiamo a trovare papà» taglia corto Donald.

«Vuoi andare a trovarlo subito?» L’espressione di Michael è cambiata, si è volta ad una serietà quasi impenetrabile: sembra che in un attimo si sia concretizzata sul volto di quell’uomo la stanchezza di giorni. «Non lo so, Mickey. Devi aiutarmi: sai che non sono mai pronto per questo genere di cose.» «Facciamo due passi allora, Dee.» «Com’è laggiù? Me lo chiedo spesso. Dai giornali si comprende poco quel che succede.» «Lascia stare i giornali, Michael. Mi sto convincendo che i media, in fondo, facciano finta: poco o nulla di quel che dicono sul Vietnam è vero. Spesso e volentieri sono stronzate, scritte con l’unico scopo di spostare l’attenzione della gente dalle, come dire...» Donald tituba, cercando le parole adatte. «Insomma, dalle vere cause di questa stupida guerra.» Un momento di silenzio imbarazzato, durante il quale Donald prende una lunga sorsata della sua birra scura. Mickey mette sul tavolo la domanda che da tempo vuole fare al fratello: «Ne sono morti molti, del tuo battaglione?». Donald fa un lungo sospiro, come se da tutta la serata si aspettasse quella domanda. «Dei miei, no. Non saprei quantificare un numero, ma non sono molti. Alcuni li conoscevo appena, di altri sapevo solo il nome.» Gli occhi di Donald osservano un punto oltre le spalle di Michael, dove due uomini stanno giocando a freccette. Il pub, anch’esso non lontano dall’ospedale St. Joseph’s, non è particolarmente affollato e permette ai due di parlare con sufficiente tranquillità. Lo sguardo del soldato è fisso, quasi inespressivo. «Ma durante le prime azioni nella foresta i nemici hanno fatto un massacro. Io mi sono salvato il culo perché sono stato assegnato a operazioni di controllo dei porti, con ogni probabilità anche grazie al nome che ho sulle spalle: essere un Disney rende le cose più facili. Ma chi deve operare nelle foreste... Santo Dio, spero non mi tocchi mai questa sorte.» L’attimo di silenzio diviene un mutismo catatonico, interrotto solo dopo un tempo indefinibile da un’altra domanda di Michael, che mantiene la stessa innocenza della precedente: «Perché ti sei arruolato, Dee? Perché sei entrato in marina?». Un ulteriore silenzio invade la discussione. «E tu perché sei diventato uno sbirro, Michael? Perché sei entrato nella polizia?» Michael comprende la frustrazione del fratello e lascia correre. Sa di non avere una risposta precisa: ce ne sono molte, ma da sole non hanno alcun significato. Tuttavia, ne azzarda una: «Entrambi per far contento nostro padre?». «Stronzate. Io non ho scelto la mia vita in base a quello che voleva papà. E il fatto che lui stia morendo non ti autorizza a tirare fuori questi discorsi assurdi.» «Tranquillo, Dee, si sta solo parlando. Ad ogni modo, volevo aggiungere una cosa. Ricordi quando eravamo piccoli e ti facevo sempre incazzare perché ero più forte in tutto?» dice Michael, guardando con un triste sorriso il fratello. «Be’, adesso sei tu il duro. Sei tu il vero uomo, e papà lo sa. Non importa che tu sia il secondo arrivato, non conta proprio nulla: il vero uomo di famiglia ora sei tu. Un vero soldato impegnato in una guerra vera! Nostro padre è molto fiero di te, ne sono certo, anche se non te l’ha mai detto, né può farlo ora. Io sono solo uno sbirro che fa il gradasso con puttane e ladruncoli.»

«16-2-1938. Oggi abbiamo finalmente accolto a casa nostra Sharon Mae, dopo mesi di lunghe pratiche per l’adozione: è una bimba molto sveglia e sono sicuro che sarà un’ottima sorellina per Diane Marie. Io e Lillian siamo davvero al settimo cielo. Ci siamo ormai rassegnati all’impossibilità di avere figli maschi, ma la nostra felicità è così grande che questi vecchi e sciocchi desideri passano in secondo piano.» [dal diario di Walter Elias Disney] 14-12-1966 In una silenziosa e buia stanza d’ospedale, tre donne osservano un uomo steso su un letto, addormentato. La più anziana è seduta su una piccola poltrona, le due giovani sono in piedi, una per lato. «Oggi papà non ha mai aperto gli occhi, mamma.» Dice una delle donne accanto al letto, cercando di utilizzare un tono di voce consono alla situazione. «Ha più volte borbottato qualcosa, senza mai svegliarsi. Si agitava nel sonno, stava probabilmente sognando» aggiunge l’altra, non meno in difficoltà. «Cos’è quel foglio che ha tra le mani?» La voce dell’anziana giunge cavernosa, sembra provenire da lontano. I suoi occhi sono persi nel vuoto. «È il disegno che Walter Jr. ha dedicato a suo nonno. È stato qui oggi. Vero, Sharon?» risponde la giovane, tentando un breve dialogo con la sorella, senza però riuscire a trattenere un tremito nella voce. «Proprio così, Diane. È proprio un bel bambino… vero, mamma?» Nelle mani del vecchio, mani ormai immobili, c’è in effetti un foglio bianco, a quadretti, con un disegno fatto chiaramente da un bambino. I tratti sono incerti e semplici, pochi i colori. Raffigura due personaggi dei cartoni animati: uno è quasi certamente un topo. Ha grandi orecchie, braghette rosse, grosse e buffe scarpe gialle. Tiene per mano una sorta di papero, vestito solo con un berretto blu ed una blusa simile a quella dei marinai di un tempo. Il topo e il papero sembrano felici: entrambi sorridono, tenendo una mano alzata in segno di saluto.

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Cenerentola

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di Ugo Ciaccio

M

varono il palo, gli spazzacamini portarono cento sacchi di cenere sui quali allestire il rogo e il fabbro forgiò lacci di ferro con i quali immobilizzare la strega. Tutto questo fu fatto in un sol giorno e alla sera iniziò il martirio. Tutto sembrava andare nel migliore dei modi quando avvenne qualcosa di miracoloso: prima che le fiamme lambissero i piedi della sarta, dal suo ventre sgusciò fuori una bambina che cadde sul letto di cenere, dando al sarto il tempo di prenderla e portarla in salvo. Fu per questo motivo che egli la chiamò Cenerentola. Un giorno il mercante conobbe una vedova con due figlie: avevano nobili origini ma erano successivamente cadute in disgrazia. Intravedendo in quella famiglia un futuro più sicuro per sé e per Cenerentola, la sposò. Le cose andarono bene finché il mercante non cadde da cavallo rimanendo gravemente menomato, incapace di parlare e di muoversi; fu allora che le tre donne presero il sopravvento su Cenerentola, con l’obiettivo di mandarla in convento per poi accaparrarsi la sua eredità. Fintanto che la giovane non avesse accettato di prendere i voti, sarebbe stata costretta a espiare i suoi peccati facendo la sguattera. Cenerentola sopportò le ingiustizie con rassegnazione per evitare al genitore ulteriori sofferenze e umiliazioni. La matrigna e le due figlie erano molto determinate nel volersi impossessare dell’eredità, ma la ragazza era più forte del previsto e il rischio che resistesse fino al momento di entrare in possesso dei beni del padre era reale. La soluzione si presentò quando un banditore si fermò nella piazza del paese per annunciare un evento

olto tempo fa, in una regione lontana che oggi non esiste più, viveva un mercante di stoffe preziose con sua moglie, una sarta talmente abile che, quando il re si maritò, le fu chiesto di confezionare gli abiti per il corredo della regina. I compaesani non videro di buon occhio la rapida ascesa della sarta e presto le malelingue cominciarono a chiamarla strega; secondo alcuni era dal demonio che aveva imparato l’arte di confezionare vestiti con tessuti intinti nella magia più spaventosa. Il vociare del popolino andò rafforzandosi quando la regina partorì una femmina al posto dell’atteso erede maschio. Fu l’anno successivo, alla nascita della seconda figlia, che le voci arrivarono alle orecchie del re. Quando la regina rimase incinta per la terza volta, il sovrano diede ordine di bruciare tutti gli abiti del corredo e d’imprigionare la sarta, promettendo che, se a seguito di questa decisione fosse nato un maschio, la donna sarebbe stata condotta al rogo come strega. Qualche settimana dopo, il mercante venne a sapere che anche sua moglie era incinta e chiese udienza a corte per implorare misericordia. «Tua moglie sarà liberata solo quando sarà provata la sua innocenza, ovvero se la regina partorirà ancora una femmina; in caso contrario, avremo la conferma che i vestiti imbastiti da tua moglie sono maledetti» fu la risposta del sovrano. Nove mesi dopo nacque l’erede maschio. Il giorno stesso fu allestita la pira. Ognuno fece la propria parte: i contadini dei dintorni pensarono alla legna, i carpentieri solle-

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ma lui aveva già scelto: era quella la donna con cui avrebbe diviso il regno. A mezzanotte il re scese dal trono e attraversò la sala: «Figliolo, hai scelto la donna da prendere in sposa?». «Sì, padre, è lei» disse, sollevando la mano di Cenerentola. Fu in quel momento che il re s’immobilizzò: «Questi vestiti» balbettò. «Conosco questo tessuto» disse il re, sfiorandola. Provò a parlare ancora ma la saliva gli si fermò in gola, soffocandolo; divenne blu e cadde a terra. Il principe tentò di aiutarlo ma era troppo tardi; quando si rialzò, lei era scomparsa tra la folla. Provò a rincorrerla: l’unica cosa che trovò fu una delle sue scarpette d’oro e broccato. Il giorno dopo fu dichiarato il lutto in tutto il reame; al fastoso funerale intervenne l’intera popolazione e i regnanti delle regioni circostanti. L’unico assente, almeno con la mente, fu il principe. Aveva trascorso la notte in adorazione della scarpetta. Ne aveva imparato alla perfezione le forme ma soprattutto l’odore; sembrava che il tessuto fosse stato fatto apposta per assorbire l’essenza della misteriosa dama. Un profumo inconfondibile, un misto di sapore animale, spezie e fiori; e la morbidezza era tale che baciandola gli sembrava di essere ancora in sua compagnia. Due giorni dopo decise che l’avrebbe trovata a qualsiasi costo e mandò in giro dei banditori ad annunciare che la proprietaria della scarpa sarebbe stata la prossima regina. Uno dei suoi consiglieri gli fece presente che l’odore è un elemento distintivo che i cani sanno distinguere meglio degli uomini; per questo fu addestrata una muta da caccia per cercare quel profumo in tutti i villaggi del regno. Molte ragazze si presentarono come proprietarie della scarpetta ma il fiuto degli animali era così fino che non fu possibile ingannarli. Giunsero infine nella casa di Cenerentola. Le sorellastre erano pronte ad accogliere i cani del principe con uno stratagemma suggerito dalla madre: una delle due figlie, quella con maggiori probabilità di successo, aveva cosparso le proprie estremità con un velo di strutto. I cani, golosi dell’alimento, si sarebbero soffermati entusiasti, indicando quella come la prescelta al trono. E così fecero: due grossi mastini annusarono i piedi della prima figlia, scartandola subito; quando passarono all’altra, l’odore di grasso li mandò in estasi e cominciarono a scodinzolare; tuttavia, addestrati a non mangiare né leccare nulla senza aver avuto l’ordine dal loro padrone, non la sfiorarono. Subito fu chiamato il principe, che arrivò alla villa qualche ora dopo, con la scarpa. «Maestà» disse il consigliere, soddisfatto del proprio lavoro, «ecco la ragazza.» Il giovane s’inginocchiò e le prese il piede; appena lo portò al naso e sentì l’orrendo odore di grasso, si allontanò, spostandolo verso i cani. Un segnale che le bestie interpretarono come un invito: vi si avventarono sopra, azzannandolo e sbranandolo fino alla caviglia. Quando ebbero finito di spolpare l’appetitoso boccone, uno di loro si voltò verso la porta della cantina, fiutando una nuova traccia: in pochi secondi furono tutti nella stanza di Cenerentola. Il principe capì subito chi fosse quella ragazzetta timida e scialba ma tanto seducente, lanciò via la scarpa e si gettò ai suoi piedi, rimanendovi per molto tempo. Qualche mese dopo, Cenerentola divenne la nuova regina e non passò un anno che prese in mano le redini del regno e di quel popolino che tanto male le aveva fatto. E iniziarono i roghi.

eccezionale: il re aveva concesso al principe di scegliere la ragazza da sposare; per questo motivo, aveva organizzato un ballo a corte al quale si sarebbero dovute presentare tutte le giovani spasimanti del reame. «È un’occasione che non dobbiamo perdere» disse la matrigna. «Il principe è mio» fece la prima figlia. «No!» urlò la sorella dando una spinta a Cenerentola, che cadde a terra; entrambe la presero a calci, come fosse lei la causa del litigio. Gli occhi del padre fissavano increduli la scena; fu in quel momento che decise di aiutarla. Nelle quattro settimane che mancavano al ballo Cenerentola fu dispensata da ogni dovere domestico: aveva diverse costole rotte, sputava sangue e non riusciva a stare in piedi. Non avevano più bisogno di lei: belle com’erano, le due sorellastre erano sicure che il principe avrebbe scelto una di loro. Dopo tre settimane, Cenerentola era in fin di vita, ma una notte il padre andò a farle visita. «Sei tu?» «Sono proprio io, tesoro mio, sono qui per aiutarti». Lei si mise a singhiozzare. «Non piangere» fece lui, asciugandole le lacrime con un soffio, «presto starai bene e sposerai il principe.» Lei tese una mano ma la abbassò subito per la stanchezza. «Ascoltami» fece il mercante, dandole un bacio sul petto e facendo svanire il suo dolore. «In un angolo della stalla c’è una botola ben nascosta: lì sotto troverai le stoffe che donai a tua madre quando me ne innamorai; sono di tre fatture differenti, una sottile e trasparente, l’altra morbida e calda, l’ultima rigida e inamidata. Usa la prima per fare un velo che copra il tuo volto: ti renderà invisibile e desiderabile. La seconda è per il vestito: basterà un solo ballo per accendere nel principe un fuoco inestinguibile. La terza, infine, è per le scarpe, che terranno vivo in lui il ricordo della passione provata per te. Sono venuto in questo paese perché amavo tua madre e ora lo lascio perché amo te.» Detta quest’ultima frase, voltò le spalle e uscì dalla stanza. L’indomani, la ragazza corse nella camera del padre: il corpo dell’uomo giaceva sul letto, senza vita. Dopo la sepoltura, si ricordò di quanto le aveva detto e andò a cercare la botola nella stalla. Quando arrivò la notte del ballo, Cenerentola non aveva ancora finito il suo abito. Il principe avrebbe dovuto necessariamente indicare la sua sposa entro la mezzanotte: se non lo avesse fatto, sarebbe stato il re a scegliere la moglie giusta per lui, destinata a regnare. Alle sei di sera il castello era già tutto illuminato; ogni torre e ogni merlo era attrezzato di torce contornate da specchi che diffondevano una luce magica visibile per chilometri. Il ballo iniziò alle sette; le sorellastre furono tra le prime ad arrivare, per attirare l’attenzione del principe. Le ore passarono velocemente e le danze interminabili stancarono il rampollo prima di quanto egli avesse immaginato. Cenerentola, recatasi a piedi al castello, arrivò alle undici passate. Fece il suo ingresso nella sala con il viso nascosto da un velo azzurro, ma il suo sguardo raggiunse il principe e lo scosse, benché di spalle; questi lasciò la ragazza con la quale stava ballando e si diresse verso la misteriosa giovane. Abbracciarsi e iniziare a ballare fu un’unica cosa: la prese per la vita, accarezzando la seta del corpetto; gli sembrò di sentire il calore della sua pelle. Rimaneva meno di un’ora alla fine del ballo,

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La crisi del mondo moderno, ieri e oggi

Sognatori di tutto il mondo, unitevi!

di Mattia Carbone

di Mitsuharu Hirose

Esce per Mediterranee la nuova edizione de La crisi del mondo moderno di René Guénon, opera tra le più interessanti del padre del pensiero tradizionale novecentesco. Ricognizione sul carattere apocalittico dell’evo moderno, il saggio propone una formulazione allora inedita della contrapposizione tra Oriente e Occidente: quest’ultimo è presentato come totalmente privo dei minimi residui della concezione tradizionale (unica Weltanschauung autentica e salvifica, secondo Guénon) laddove il primo ne conserverebbe vestigia abbastanza significative, così da presentarsi come un’esemplarità cui l’Occidente può ancora far riferimento per recuperare un suo proprio rapporto con la Tradizione originaria (non quindi un trapianto spirituale, o peggio ancora una commistione new age). L’intenzione dell’opera – solidissima e molto più esplicita rispetto ad altri lavori dello stesso autore – è di conseguenza squisitamente politica, perché mira a risvegliare nel lettore la coscienza della situazione presente e le possibilità di un’azione (per quanto limitata ed elitaria) che risolva positivamente la crisi identificata. Tutta l’opera di Guénon è politica nel senso più originario e ampio del termine, rinviando alla dimensione umana e alla possibilità dell’azione concreta dell’uomo su sé stesso e sul mondo; non certo come volontà di influenzare in qualunque modo gli organi politici europei del primo Novecento, simulacri sbiaditi delle antiche aristocrazie intellettuali, di cui Guénon – coerentemente – non si cura. Tale volontà è piuttosto propria all’altro grande protagonista di quest’edizione, il nostro Julius Evola, che nel 1937 ne realizza la prima traduzione ufficiale con l’obiettivo di avvicinare il pubblico italiano al quasi ignoto Guénon e soprattutto con la remota speranza di riportare il Regime fascista sulla strada di un tradizionalismo fondato e consapevole, che gli avrebbe restituito dignità storica e un significato metapolitico – speranza, com’è noto, più che mai disattesa. Il riferimento alla politica in senso stretto, invero, non è assente nel testo originale, il quale suggerisce esplicitamente la possibilità che la Chiesa Cattolica ricopra il ruolo di instrumentum regni per quell’élite intellettuale che potrebbe salvare l’Occidente. È comprensibile come, da tali premesse, l’opera si presti facilmente a una serie di fraintendimenti politici, nel senso più vieto del termine, che il lavoro critico dei curatori (Gianfranco de Turris, Andrea Scarabelli e Giovanni Sessa) riesce tuttavia a dissipare, inquadrando con obiettività e precisione il contesto culturale in cui venne alla luce l’opera di Guénon e le ragioni profonde della traduzione di Evola, ufficiale, secondo le parole stesse dell’autore, ma non pedissequa, perché pensata per un pubblico italiano completamente digiuno delle dottrine guénoniane, e quindi propenso al fraintendimento. La curatela storico-filologica dell’edizione è completata dalla pubblicazione delle tre introduzioni alle altrettante versioni del libro; da un ricco apparato di note e appendici bibliografiche; da una lettera di Guénon a Evola incentrata sulla traduzione e la ricezione della sua opera in Italia; vi compaiono, inoltre, una recensione di Girolamo Comi, sintomatica della difficoltà che il pubblico italiano dimostrò nella comprensione del contenuto dell’analisi guénoniana, e, infine, un saggio di Alberto Ventura che approfondisce ulteriormente – e, forse, definitivamente – i rapporti tra Evola e Guénon. René Guénon, La crisi del mondo moderno, nuova edizione a cura di Gianfranco de Turris, Andrea Scarabelli e Giovanni Sessa, tr. di Julius Evola, Edizioni Mediterranee, Roma 2015, pp. 251, € 14,50.

Tra i molteplici temi che Mircea Eliade fa emergere nei tre racconti polizieschi raccolti nel volumetto Dayan emerge con particolare evidenza la contrapposizione tra individuo, mito ed irrazionalità, da un lato, e, dall’altro, omologazione, realtà e logica. Composti in esilio tra il 1975 e il 1982, riflettono la condizione di un intellettuale del Vecchio Mondo negli Stati Uniti, ma costantemente immerso nel suo passato, come se l’anelito verso la terra d’origine e l’opprimente controllo del regime romeno non potessero abbandonarlo nemmeno oltreoceano. Pochi ambigui personaggi, coinvolti in eventi straordinari ed inaspettati, rincorrono una propria spiegazione ai misteri che via via si sviluppano, trovandosi sempre incalzati da un’entità tanto astratta quanto concreta nei suoi uomini e metodi: la Securitate, occhio del regime di Ceaușescu mosso dall’utopico scopo di asservire tutti ad un’unica ideologia, che dirige il proprio sguardo su ogni compagno, per individuare e stroncare sul nascere qualunque comportamento che minacci il potere costituito. I suoi agenti sono ovunque e non hanno paura di impiegare a fondo le proprie immense risorse, questionando chi, più vittima degli eventi che responsabile, si trova a vivere esperienze straordinarie rispetto all’alienante normalità di regime. Paranoici fino all’inverosimile, ossessionati da ogni potenziale minaccia alla sicurezza dello Stato, questi agenti sono imprigionati negli schemi della propria logica, nella perpetua convinzione che l’individuo ed il mondo si esauriscano all’interno delle dinamiche della razionalità. Questi racconti negano pertanto l’onnipotenza della polizia di Stato comunista, resa fallimentare da tale errore d’impostazione, mettendone in discussione la stessa ragion d’essere. Gli uomini dei servizi cercano ostinatamente un filo conduttore razionale dietro alle parole di Constantin Orobete, che sostiene di esser stato avvicinato da Ahasverus, il mitologico Ebreo Errante; interrogano Pantelimon, insospettiti dall’apparizione di copie contraffatte del giornale «Scînteia», organo ufficiale del partito, nei cui articoli vengono alterate alcune parole (Sognatori di tutto il mondo unitevi!) per scopi talmente oscuri da escludere addirittura l’idea di un complotto; sospettano che degli esiliati romeni in Francia possano essere coinvolti nelle misteriose sparizioni di alcuni camion, ma solo fintantoché gli interessi o le direttive dei superiori li spingono ad occuparsene. Dall’altra parte troviamo invece gli indagati: sorpresi dall’irrazionalità contro cui combatte la Securitate e abbandonati a loro stessi, l’unico apparato di cui possono disporre è la loro umanità, fatta di pensieri e sensazioni. Il protagonista di Dayan segue Ahasverus verso la comprensione della leggendaria Equazione ultima, in un percorso che per la polizia di regime è spiegabile solo in chiave psichiatrica. Ne La mantella Pantelimon non comprende il complotto che lo coinvolge e se ne interroga, quasi come se la Securitate fosse riuscita ad insinuarsi nella sua mente. Allo stesso modo, ne All’ombra di un giglio… Mărgărit non capisce come diversi eventi e persone possano essere collegati da una misteriosa frase, così potente da evocare la fine dell’esilio. Tanto la Securitate (o la polizia francese, in quest’ultimo racconto) quanto i personaggi ad essa contrapposti hanno limiti insormontabili, legati alla loro individualità; è proprio grazie a questi, ci insegna Eliade, che possono intuire come forse di ogni cosa possa esistere un’altra dimensione. Mircea Eliade, Dayan e altri racconti, a cura di Horia Corneliu Cicortaș, Edizioni Bietti, Milano 2015, pp. 200, € 16,00.

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Suite francese e naumachia

Praga nera

di Gianpiero Mattanza

di Andrea Scarabelli

Ci sono uomini il cui fascino storico precorre di molto la realtà cronachistica che ne descrive le gesta. Personalità così superiori ad ogni definizione da trascenderle tutte, non senza prima averle disintegrate. È il caso di Henry de Monfreid, avventuriero e scrittore francese vissuto tra Otto e Novecento, la biografia del quale, firmata dal poliedrico giornalista Stenio Solinas, è stata recentemente pubblicata da Neri Pozza. La vita del futuro “Diavolo del Mar Rosso” ha inizio in una cittadina costiera francese: figlio di Georges-Daniel, pittore che vorrebbe instradarlo ad una tiepida vita borghese, sin da giovanissimo mostra un carattere inquieto ed avventuroso, che lo conduce a scegliere il mare come palcoscenico della propria esistenza. Quale professione avrebbe mai preferito? «Marinaio. Il mare ha sempre esercitato su di me un effetto magico, come un serpente che mi affascina e mi attira» (p. 66). Le avventure di Henry de Monfreid iniziano ufficialmente nel 1911, quando s’improvvisa commerciante di caffè a Gibuti. In realtà, la vita del mercante “tradizionale”, così com’è, lo attrae poco. Già nel 1913, infatti, inizia a gestire un traffico di armi tra Gibuti, l’Etiopia ed il Corno d’Africa, che lo porta più di una volta a toccare con mano la dura vita del carcere. Ciò che lo muove, sottolinea Solinas, non è la sete di denaro – che vede come semplice mezzo per raggiungere l’indipendenza – quanto il desiderio di infrangere ogni convenzione borghese, di fuggire dalla schiavitù di qualche squallido lavoro “normale” che l’avrebbe portato a diventare un animale domestico. La vita del «cane sciolto» comporta «dei rischi, ma è diabolicamente appassionante e questa esistenza di imprevisti è assolutamente necessaria alla mia ragione di vivere. Se dovessi figurarmi di nuovo nel ruolo di un qualsiasi signore delle nostre città moderne, sarebbe la morte» (p. 77). Sorta di novello Rimbaud che, però, prima si rende protagonista d’infinite avventure e poi le racconta nei suoi (settanta) libri, de Monfreid vive gli anni più turbolenti del colonialismo occidentale in Africa. Anni che comprendono anche la creazione dell’“Impero” italiano, nutrito dalla retorica fascista e tenuto in piedi tra intrighi e faide tribali: tra commercio legale e contrabbando, il Nostro ha anche il tempo di fare da spia per gli italiani in funzione anti-inglese, venendo addirittura descritto come «commesso viaggiatore del fascismo». Attività che gli permette di fare il reporter di guerra, ma che nel 1942 gli procura l’ennesimo arresto, questa volta per mano inglese, con l’accusa – naturalmente – di spionaggio. Altra attività praticata in questo periodo è il traffico di hashish, venduto soprattutto agli egiziani, che oltre a vari altri arresti gli induce ponderosi introiti. Ammirato dagli italiani, disprezzato dai francesi – che lo vedono come un imboscato e un criminale – e odiato dagli inglesi, Henry non ha alleati a parte il mare, nei cui confronti «è fatalista, è l’unica entità che veramente rispetti, la sola cui riconosca quel diritto di vita e di morte che emana dalla sovrana indifferenza per il genere umano» (p. 70). Nel 1947 Abd el-Hay (cioè il Nostro con il suo nome islamico, assunto dopo la conversione in Africa) torna in Francia: qui, nel 1974, conclude la propria parabola esistenziale, all’età di novantacinque anni. Il corsaro nero è, in poche parole, una biografia scritta utilizzando gli stilemi della prosa narrativa, che tuttavia descrive una vita già di per sé stessa ben più che “romanzesca”. Da leggere. Stenio Solinas, Il corsaro nero. Henry de Monfreid l’ultimo avventuriero, Neri Pozza, Vicenza 2015, pp. 252, € 17,00.

Quando la cultura ufficiale si confronta con scrittori la cui produzione include qualcosa di più rispetto alla mera letteratura non è raro ch’essa cada in fraintendimenti. Ciò vale, in particolare, nel caso di romanzieri “occulti”, i quali, stando a certi accademici, avrebbero trattato tematiche esoteriche solo per dileggiarle. Emblematico il caso di Gustav Meyrink: alle tesi “riduzioniste” di certi germanisti si sono tuttavia opposte letture che ne hanno evidenziato la dimensione metafisica. Ai vari Alberto Spaini (autore nel 1932 di un articolo significativamente intitolato Meyrink, una favola), Claudio Magris (che lo definì un «ciarlatano mistico») e Margherita Cottone si sono opposti intellettuali come Julius Evola, Elémire Zolla, Massimo Scaligero e Gianfranco de Turris (in compagnia all’estero di giganti, quali Jung e Scholem). Due scuole equivalenti? Per nulla. Il 18 ottobre 1931 apparve sull’«Hannoverscher Anzeiger» una singolare intervista, firmata da un misterioso Francis. Meyrink parla della sua vita, dei suoi esercizi di Yoga, delle sue incursioni nello spiritismo (ben presto abbandonato) e della società teosofica, concludendo: «Giacché i miei racconti e i miei romanzi scaturiscono da tali visioni, essi non hanno niente a che fare con la cosiddetta costruzione letteraria o con la suspence artistica». Altro che boutade letterarie! Queste parole sono inserite nella nuova edizione del Golem, curata da Anna M. Baiocco, con le illustrazioni di Hugo Steiner-Prag e un apparato di note dedicato ai suoi retroscena esoterici. La vicenda mitica del Golem, ripercorsa nel suo lungo viaggio dal Sefer Yetzirah alle sue varie esegesi, sino alla letteratura contemporanea, si confonde con una Praga nera, desolata e malvagia: «La città degli strambi e dei visionari, questo cuore inquieto della Mitteleuropa» del poeta Oskar Wiener. Centrale nel romanzo (caso non raro nelle opere meyrinkiane) è la dottrina del Risveglio: chi non lo sperimenta non è né vivo né morto, è solo un’ombra che si muove sonnambulica tra ombre. Si fa necessario un passaggio di livello, per quanto doloroso possa essere: «Anche uno specchio d’argento – rivela l’archivista Schemajah Hillel ad Athanasius Pernath, fantasmatico protagonista – se potesse provare delle sensazioni, soffrirebbe durante la pulitura, ma una volta liscio e lucido rispecchierà tutte le immagini che vi si rifletteranno». Per poi aggiungere, sommessamente: «Sia lodato colui di cui si può dire: costui è stato levigato». Una dimensione null’affatto astratta ma intimamente realizzativa e soteriologica: «La lotta per acquisire l’immortalità è la lotta per l’acquisizione dello scettro contro quei suoni e fantasmi che ci dimorano dentro, e l’attesa affinché il proprio io diventi Re è l’attesa del Messia […]. E quando costui riceverà la corona, allora si spezzerà in due quella fune che per mezzo dei sensi e di quella ciminiera che è l’intelletto la tiene legata al mondo». L’iniziazione del protagonista si conclude solo nella Goldmachergasse, «là dove gli alchimisti del Medio Evo calcinavano la pietra filosofale e avvelenavano i raggi della luna», nella quale ha la visione del Muro all’ultima lanterna, cui è precluso l’accesso a chi non è naturalmente vocato all’iniziazione. Quella casa in cui Pernath andrà a vivere assieme a Mirjam, «convolando a nozze» (quelle chimiche, di Christian Rosenkreutz) e realizzando il rebis (res bina), l’androgine alchemico, e in cui si stabilirà lo stesso Meyrink, dato che sceglierà proprio questo nome per la sua residenza sulle rive del lago di Starnberg, a concludere un’esistenza votata al Risveglio. Gustav Meyrink, Il Golem, a cura di Anna M. Baiocco, Tre Editori, Roma 2015, pp. 364, € 21,00.

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Hanno collaborato a questo numero

Donato Altomare ha vinto due Premi Urania, otto Premi Italia e il Premio Vegetti. Molte sue opere sono state pubblicate in Italia e all’estero. Sono state tenute tesi di laurea su di lui. È Presidente della World SF Italia. Davide Balzano, laureato in Filosofia e Antropologia, ha collaborato con la cattedra di Storia della Filosofia dell’Università degli Studi di Milano. Studioso di Ernesto De Martino, ha partecipato e organizzato seminari e convegni. Alessandro Barbera ha insegnato materie giuridiche alle scuole superiori. Pubblicista, ha collaborato a varie testate. Ha pubblicato Nazione e Stato in Alfredo Rocco e curato i Carteggi editoriali Evola Croce Laterza. Su Walt Disney ha invece scritto Camerata Topolino. L’ideologia di Walt Disney. Mattia Carbone, laureato in Lettere con una tesi su Andrea Zanzotto, insegna italiano, storia e geografia nelle scuole medie e superiori. S’interessa in particolare di cultura giapponese, studi tradizionali e filosofia del Novecento. Ugo Ciaccio (1969) vive a Napoli, dove lavora per la casa editrice Homo Scrivens. Suoi racconti, umoristici e noir, sono usciti in riviste e antologie. Per Bietti ha pubblicato i romanzi Nekros e L’anima nera di Nostro Signore. Gianfranco de Turris, giornalista e scrittore, è stato tra i primi in Italia a parlare di Lovecraft e Tolkien. Direttore responsabile di «Antarès», ha curato l’edizione italiana di molte centinaia di volumi, di una dozzina di antologie, e ha pubblicato sedici libri, di cui due di narrativa. Ilaria Floreano lavora come editor e traduttrice per la collana “Heterotopia”, edita da Bietti, collabora con il settimanale «FilmTV» e ha scritto, sempre per Bietti, Concerto per macchina da presa. Musica e suono nel cinema di Krzysztof Kieslowski. Sebastiano Fusco, giornalista, scrittore e traduttore, ha diretto svariate collane dedicate al fantastico e alla fantascienza, curando e scrivendo molteplici volumi dagli argomenti assai tangenziali, dalla letteratura all’esoterismo, talvolta sotto pseudonimo. Erica Gallesi ha ventidue anni, una laurea in Lettere e tre gatti. Collabora con «Fogli» e «Studi Cattolici», ed è iscritta a Filologia Moderna presso l’Università Cattolica. Il tempo libero lo dedica allo studio e, talvolta, alla messa in scena del teatro antico.

Max Gobbo, insegnante, nel tempo libero si dedica alla scrittura. Tra i suoi interessi principali figurano la narrativa dell’immaginario, la letteratura e il cinema. Autore di romanzi di genere, collabora con riviste di critica letteraria e con un noto quotidiano on line. Mitsuharu Hirose ha studiato Lingue Scandinave presso la Statale di Milano, dedicandosi prevalentemente a letteratura e linguistica. Vicino ad «Antarès» fin dalla sua creazione, vi collabora dal 2013, quando il suo impiego nel settore dell’odontotecnica glielo permette. Francesco Manetti, fondatore della Dime Press e della Dime Web, ha sceneggiato storie a fumetti e scritto monografie. Curatore dal 1996 al 2003 della collana Paperino Carl Barks, dal 2011 si occupa delle serie Alan Ford Story, Alan Ford TNT Edition, Kriminal e Satanik. Gianpiero Mattanza, giornalista pubblicista, ha conseguito la laurea triennale in Lettere Moderne all’Università Statale di Milano, dove è attualmente studente magistrale. Si occupa, tra le altre cose, di fantascienza italiana. È redattore della rivista «Antarès». Chiara Nejrotti vive a Torino, con la sua famiglia. Docente di Filosofia e Scienze umane nei Licei, è autrice di numerosi saggi su mito e fantastico, tra cui Sotto il segno di Hermes (Il Cerchio, 1996) e Alla ricerca di Peter Pan, scritto con Paolo Gulisano (Cantagalli, 2010). Ivano Presotto si è laureato in Scienze dei Beni Culturali e lavora nella biblioteca di Seveso. Grandissimo ammiratore di Scarpa e Cavazzano, tra gli autori non-Disney stravede per i mitici Goscinny & Uderzo e Schulz, senza dimenticare un maestro dell’assurdo quale Jacovitti. Andrea Scarabelli ha collaborato con la cattedra di Storia della Filosofia (Unimi) e collabora con la Scuola Romana di Filosofia Politica e la Fondazione J. Evola. Oltre ad «Antarès», per Bietti dirige la collana “l’Archeometro”. Suoi saggi sono apparsi su varie testate e in diversi volumi. Luca Siniscalco, studente di Scienze filosofiche presso l’Università degli Studi di Milano, è redattore di «Antarès» e collaboratore di «Barbadillo». Suoi articoli e saggi sono apparsi su riviste, quotidiani e in diverse antologie. Sta attualmente studiando i retroscena culturali della rivista «Antaios».

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IN QUESTO NUMERO IN DIFESA DI WALT La lettura disneyana del patrimonio fiabesco occidentale CATTIVE, IRRESISTIBILI Archetipi del femminile, dalle fiabe ai cartoons IL MONDO MAGICO DI WALT DISNEY Gli elementi simbolici dell’immaginario disneyano SU DISNEY, L’ACHIMIA E INFINE APOLLO Una lettura ermetica di «Biancaneve e i sette nani» LA CONTEMPORANEITÀ DELL’ARCAICO La realizzazione cinematografica di un sogno plurisecolare DISNEY E MUSSOLINI Il padre di Topolino nell’Italia degli anni Trenta QUANDO LA MUSICA SI FA IMMAGINE «Fantasia», opera d’arte totale tra avanguardia e tradizione QUANDO BRADBURY SE LA PRESE CON DIO Seconda stella a destra: da Marte a Disneyland DISNEY E DALÍ: UNA QUESTIONE DI «DESTINO» Surrealismo e animazione: un binomio rivoluzionario DOSSIER Istantanee della vita di un genio del Novecento INTERVISTA Giulio Giorello: Topolino anarchico e libertario NARRATIVA Donato Altomare, Ugo Ciaccio, Gianpiero Mattanza

NEL PROSSIMO NUMERO Charles Bukowski contro tutti